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Niccolò Machiavelli
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A cura di Guido Davico Bonino
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© 1979 e 2001 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino
Prima edizione «Nuova Universale Einaudi» 1979
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ISBN 88-06-15839-2
PO
Introduzione , ^ „
La produzione teatrale di Niccolò Machiavelli com-
prende - allo stato delle attuali conoscenze - sei copioni,
di cui tre soltanto, sino ad oggi almeno, pervenutici*. Tre
sono commedie «originali» (nella particolare accezione
che quest'aggettivo aveva nella poetica e nella pratica
drammaturgica cinquecentesca), tre dipendono, in ma-
niera più o meno diretta e marcata, da celebri commedie
latine.
Di questa terna di testi, per cosi dire, di riporto, uno è
la semplice trascrizione deW Eunuchus di Terenzio. L'han-
no rinvenuta, alle soglie degli anni '60, due studiosi del
Segretario fiorentino, Sergio Bertelli e Franco Gaeta, in
un codice vaticano (il Rossiano 884, dal nome del pro-
prietario, Gian Francesco Rossi, scomparso a metà Otto-
cento) che contiene, anch'essa di pugno del nostro, la tra-
scrizione del De rerum natura di Lucrezio. La commedia
terenziana, a giudicare dalla grafia, potrebbe essere stata
trascritta nei primi anni del Cinquecento, in base «a per-
' Occorre anche ricordare la trascrizione della cosiddetta Commedia in ver-
si di Lorenzo di Filippo Strozzi. Dobbiamo al prezioso studio d'insieme di A.
GAREFFi, La scrittura e la festa. Teatro, festa e letteratura nella Firenze del Rina-
scimento, Bologna 1991 e alla sua edizione della produzione teatrale dell'auto-
re (l. di F. STROZZI, Commedie, Ravenna 1980) molte utili precisazioni. Delle
sue tre commedie, la cosiddetta Commedia in versi. La Pisana (o La Nutrice), La
Violante, Machiavelli trascrisse la prima nel codice magliabechiano «ora segnato
Banco Rari 29». Sino al 1892 tale copione fu stampato tra le opere minori del
Segretario fiorentino. La Commedia in versi e la Mandragola sono due delle fac-
ce della nascita della commedia fiorentina: «l'una moralistica e l'altra immora-
listica, l'una frutto di un'immagine pubblica e l'altra di un'immagine privata. . . »
(gareffi. La scrittura e la festa cit., p. 126, ma da vedere per lo Strozzi sono per
intero le pp. 99-188).
^1?!01
*»/■/'»
VI GUIDO DA VICO BONINO
sonali e assai diretti interessi»: ma, altrettanto plausibil-
mente, potrebbe risultare un'esercitazione giovanile, in-
trapresa liberamente o su suggestione del maestro Mar-
cello Virgilio di Adriano Berti\
Dobbiamo col Machiavelli abituarci a questa incertez-
za di datazione come ad una costante nell'ambito degli
studi sulla sua drammaturgia. Il secondo testo della ter-
na, ad esempio, non solo non ci è giunto, ma potrebbe, al
limite, non essere mai stato scritto. Si dovrebbe trattare,
ad ogni buon conto, di una sorta di riduzione dell' Aulu-
laria di Plauto, di cui abbiamo notizia indiretta attraver-
so tre passi delle Rime di Anton Francesco Grazzini det-
to il Lasca. Nel primo, si accenna ad un tale «che fé' si
gran furto al Machiavello»; nel secondo, si taccia il lette-
rato fiorentino Giovan Battista Gelli d'esser stato «in
poesia solenne ladro»; nel terzo, viene messo a fuoco il le-
game tra le due allusioni: Benedetto Varchi, nello scrive-
re la sua commedia La suocera, pesantemente debitrice
àelVHecyra di Terenzio, «in questa parte ha somigliato il
Gello - che fece anch'egli una commedia nuova - ch'avea
prima composto il Machiavello».
Cosa c'è di vero nelle pesanti allusioni del Lasca, poe-
ta assai corrivo alla maldicenza e alla polemica, e col Gel-
li in particolare, da cui era diviso da accese diatribe d'ac-
cademia? E qual è, poi, l'oggetto del furto? Ce lo dice il
nipote del nostro. Giuliano de' Ricci, figlio dell'ultima fi-
glia di Niccolò, Bartolomea o Baccina, nato nel 1543 e
morto nel 1606: lo zio ha composto, oltre a Mandragola e
Clizia, «...pigliando il concepto ddXV Aulularia di Plauto
un'altra commedia detta La Sporta; ma perché gli frag-
menti di essa restarono in mano di Bernardino di Gior-
dano, essendo capitati alle mani di G. B. Gelli, aggiunto-
vi certe poche cose, la diede fuori per sua...» La Sporta
(una delle due commedie del Gelli, insieme all'Errore) sa-
rebbe dunque pesantemente debitrice di una scomparsa
' s. BERTELLI e F. GAETA, Notcrelle machiavelliane Un codice di Lucrezio e di
Terenzio, in «Rivista storica italiana», lxxxiii, 1961, pp. 544-55. La citazione
è dall'intervento del Gaeta.
INTRODUZIONE VII
commedia del Machiavelli, a sua volta adattata dall'/l«-
lularia di Plauto\
L'ultima della terna (e qui il testo ci è pervenuto) è la
nota traduzione dcìl'Andria di Terenzio. Almeno in que-
sto caso, con le date siamo un poco più sul solido. Un suo
autorevole editore, Mario Martelli, nell'accostare i due
autografi della versione, che contengono «la prima stesu-
ra» e «la copia corretta» del lavoro, ha suggerito come da-
ta probabile della prima il 15 17 o gli inizi del 15 18, della
seconda il 1520: e gli è parso plausibile che la «prima ste-
sura» corrisponda «ad un lavoro condotto in fretta e fu-
ria», forse «su ordinazione», ai fini «di una imminente
rappresentazione»; mentre la «bella copia corretta e va-
stamente modificata della medesima» sarebbe stata «re-
datta a qualche anno di distanza», coll'intento di dare al
proprio lavoro « finitezza »^
Forse per un (comprensibile) rispetto per la grande sta-
tura del Machiavelli, questa sua traduzione è stata, in
qualche misura, sopravvalutata o non collocata nella giu-
sta luce. Si tratta, indubbiamente, di un lavoro di note-
vole dignità, che trova i suoi accenti più suggestivi, come
ha mostrato il Blasucci, in quei rapidi assaggi di «valoriz-
zazione del dialogo latino in funzione di una sua resa vi-
vace nel fiorentino parlato»'. Sono un mannello di battu-
te che ritroveremo, briosamente riatteggiate, nell'in-
confondibile parlata di Nicla nella Mandragola. Altre se
ne possono aggiungere, felici di per sé, anche al di fuori
' A. UGOLINI, Le opere dì Giambattista Celli, Pisa 1898, pp. 80 sgg.; i. sane-
si, La commedia, I, Milano 19542, pp. 339-40 e 797. L'«incriminata» La Spor-
ta si può leggere in g. b. gelli. Opere, a cura di I. Sanesi, Torino 1952, nonché
in Commedie del Cinquecento, a cura di A. Borlenghi, I, Milano 1959. Per i rap-
porti Lasca-Gelli, si veda m. plaisance. Culture et politique à Florence de 1^42
à 135J : Lasca et les Humidi auxprises avec l'Académie Fiorentine, in Les écrivains
et le pouvoir en Italie à l'epoque de la Renaissance, Paris 1974, pp. 149-242. Il
manoscritto di Giuliano de' Ricci, cui facciamo riferimento, è il cosiddetto Prio-
rista. La citazione è tratta da F. neri, Sulle prime commedie fiorentine. Prato
1915, p. 18 (la titolazione in maiuscolo e in corsivo è nostra).
* M. MARTELLI, La Versione machiavelliana dell' Andria, in «Rinascimento»,
XIX, 1968, pp. 203-74.
' Citiamo, per quanto concerne gli scritti letterari, da N. machiavelli, Ope-
re letterarie, a cura di L. Blasucci, Milano 1964, pp. 329 e 326.
vili GUIDO DAVICO BONINO
dell'area municipale e popolaresca*. E c'è poi qualche
«ampliamento» azzeccato per le occasioni sceniche che
potrebbe suggerire ad un regista sensibile'. Ma, in com-
penso, non mancano le vere e proprie sviste, gli indebiti
raccorciamenti, le inversioni - all'interno di un dialogo -
di una battuta con la sua replica o viceversa.
Piuttosto, viene da chiedersi perché una traduzione-
esercitazione da Terenzio, perché da quella commèdia e
non da altre, e sulla base di quale edizione a stampa. Do-
mande, tutt'e tre, alle quali non si può che rispondere in-
duttivamente. Alla prima si può trovar sfogo riflettendo
sulle notevoli edizioni terenziane apparse dopo la princi-
pe di Strasburgo del 1470; sulla recita da parte degli al-
lievi del filologo Giorgio Antonio Vespucci prevosto del
Duomo di Firenze, nel 1476, prima a palazzo Medici in
via Larga, e poi dinanzi alla Signoria, proprio dell' Andria;
su un corso dedicato proprio a questa commedia dal Poli-
ziano nello Studio fiorentino nel 1484-85*. Col che si sa-
rebbe, almeno intuitivamente, risposto anche alla secon-
da domanda: senza dire che in questa commedia s'ac-
campa una figura di servo. Davo, di così ingegnosa dutti-
lità nella macchinazione dell'intrigo, di cosi callida astu-
zia nella realizzazione del medesimo da non poter non
pensare allo sviluppo che questo tipo di personaggio avrà
nel regista-motore della Mandragola, il non più servo, ma
parassita, Ligurio. Quanto alla terza domanda, un filolo-
go agguerrito quale Brian Richardson, circa una trentina
d'anni or sono, oscillava tra il possibile utilizzo di varie
edizioni - molte delle quali veneziane, tra il 1481 e il 1494
- dalle quali Machiavelli aveva, involontariamente, tra-
vasato nella sua versione varie lezioni corrotte. Più di re-
cente (1997) Edoardo Fumagalli ci sembra abbia, piutto-
' Cosi il «giugnere al sonno» di I, 2, assai pili aggressivo dell'«interoscitan-
tis opprimi»; o l'efficace «ne viene pensativo di qualche luogo solitario» di II,
4; o il geniale «Io sono in su la fune» per «crucior», in V, 2.
' Tipica, in questa direzione, I, 5, ricca di effetti, soprattutto nel concita-
to resoconto di Panfilo a Miside delle angherie del padre.
' A. POLIZIANO, La commedia antica e l'«Andria» di Terenzio, a cura di R.
Lattanzi Roselli, Firenze 1973.
INTRODUZIONE IX
Sto persuasivamente, ipotizzato che l'edizione utilizzata
sia quella veneziana del 15 15 di Lazzaro de' Scardi (il dif-
fusore a Venezia delle opere del Savonarola), ricca del
commento di Guido Juvenalis, cioè Guy Jouenneaux,
francese del Maine, nato a metà del Quattrocento e mor-
to nel 1507, monaco benedettino'.
Ma veniamo ai tre cosiddetti «originali». Di uno ci è
giunta la semplice citazione, e sono le Maschere, di cui di-
scorre, ancora una volta, il già evocato nipote Giuliano
de' Ricci: «et di più conpose ad instantia di M. Marcello
Vergilio et ad imitatione delle Nebule et altre commedie
di Aristofane un ragionamento a foggia di Commedia et
in atto recitabile et lo intitolò le Maschere che l'originale
si ritruovò appresso di me fragmentato et non perfetto et
tanto mal concio che io non l'ho copiato sì come ho fatto
molte altre cose sue discorsi et lettere non stampate et cre-
do anche non lo volere copiare perché sotto nomi finti va
lavorando et mal trattando molti di quei concittadini che
nel 1504 vivevano». Non sappiamo, per la verità, se si
tratta di una vera e propria commedia (o d'una satira in
forma di dialogo, epperciò comunque «recitabile»); non
sappiamo se quel 1504 (l'anno della delegazione presso
Luigi XII a Lione e del Decennale primo, tanto per rife-
rirci al lavoro politico e agli svaghi letterari) sia l'anno del-
la composizione, o quello in cui la vicenda è fittiziamen-
te ambientata; non possiamo neppure dedurre attraverso
quali «mediazioni» Machiavelli potesse «imitare» Ari-
stotele. Un successore del Poliziano sulla sua cattedra al-
lo Studio, Eufrosino Bonini, valente umanista, aveva ap-
prontato nel 15 15, per i Giunti, un'edizione eccellente di
' B. RICHARDSON, Evoluzione stilistica e fortuna della tradizione machiavellia-
na dell' «Andria», in «Lettere Italiane», xxv (1973), pp- 319-38; e. Fumagal-
li, Machiavelli traduttore di Terenzio, in «Interpres», 16 (1997), s. 2, n.i, pp.
204-39: il quale rinvia per il de' Scardi a D. E. rmodes. Annali tipografici di Laz-
zaro de' Soardi, Firenze 1978, e per lo Jouenneaux, il cui commento apparve
per la prima volta a Parigi nel 1492, all'ottocentesca Histoire littéraire du Maine
di Jean Barthélémy Hauréau.
X GUIDO DA VICO BONINO
Aristofane (e la sua Comedia di lustizia s'ispirava al Fiu-
to, con i Medici nei panni di medici al capezzale di Fi-
renze, e con dedica a Jacopo Salviati, genero del Magni-
fico): e Jacopo del Bièntina sempre al Fiuto s'ispirò per la
sua Fortuna^". Allo stato attuale delle ricerche dobbiamo
limitarci ad osservare che la testimonianza del de' Ricci è
suggestiva, più che per i dati che fornisce, per quell'acco-
stamento, criticamente assai plausibile, tra Machiavelli e
il creatore della commedia antica come tra due scrittori
dell'aggressività e dello scherno. Il legame, o l'affinità elet-
tiva, doveva essere evidente agli intellettuali più lucidi del
tempo se - come ha dimostrato il Raimondi, in una delle
sue affascinanti quètes tra il filologico e il culturale - già
sul finire degli anni '20, a breve intervallo dalla scompar-
sa del Segretario, Paolo Giovio, nell'intento di celebrar-
ne la memoria negli Elogia virorum illustrium, osserva a
proposito d^W^i Mandragola: «sed comiter aestimemus eth-
ruscos sales ad exemplar comoediae veteris Aristophanis,
in "Nicla" praesertim comoedia...»".
Tramite le Maschere, siamo giunti alla Mandragola. An-
che di questa commedia non disponiamo di una datazio-
ne inoppugnabile: ma la più accreditata, tutto sommato,
sembra continui ad essere quella proposta da un autore-
vole biografo del Machiavelli, Roberto Ridolfi. Sin dalla
prima edizione della sua Vita di Niccolò Machiavelli (1954)
il Ridolfi ritenne di cogliere nella battuta della bigotta a
fra' Timoteo («Credete voi che '1 Turco passi questo an-
no in Italia», in III, 3) un richiamo di stringente attualità
alla grande paura, che, sul principio del 15 18, attanagliò
molte città italiane: la paura, per l'appunto, che il belli-
coso Selim («i cui pensieri», a quanto accenna il Guic-
ciardini stesso nella Storia d'Italia, sembravano in quel
'° La commedia del Bonini si può ora leggere in Tre commedie fiorentine del
primo ^00, a cura di L. Stefani, Ferrara 1986; quella del Bièntina in Le farse
morali fiorentine, a cura di M. Cataudella, Salerno 1984.
" E. RAIMONDI, Machiavelli, Giovio e Aristofane, in Politica e commedia, Bo-
logna 1972, pp. 235-52. Il perspicuo giudizio del Giovio si può leggere in p.
lOVll, Nicholaus Machiavellus, in Elogia virorum illustrium, LXXXVII, ora in
Opere, a cura di R. Meregazzi, Roma 1972, Vili, p. in.
INTRODUZIONE XI
frangente «volti tutti a Italia») si muovesse alla volta del-
la cristianità. L'ammicco diretto, senza mezzi termini, del
Machiavelli al suo pubblico collocherebbe dunque la com-
media nel I5I8^^ Tornando otto anni dopo (1962) sulla
questione in un suo contributo erudito", il Ridolfi cre-
dette opportuno circoscrivere ulteriormente la data di
composizione della commedia tra la metà di gennaio e la
metà di febbraio del 15 18: e questo in base a particolari
sia interni al testo (la sua ambientazione in inverno; il
computo delle ore secondo l'antica usanza, molto ben det-
tagliato nel copione) che esterni (il fatto che proprio in
quel periodo rincrudivano le notizie sulla minaccia del
Turco; il fatto che, di norma, le «novità» teatrali veniva-
no presentate di carnevale); e ne ha dedotto infine (cor-
reggendo in tal senso l'ipotesi di un altro studioso, Ales-
sandro Parronchi)'"* che la commedia venisse rappresen-
tata la prima volta poco prima della partenza del dedica-
tario del Principe, il cosidetto duca d'Urbino Lorenzo di
Piero il Gottoso de' Medici (per via del padre, nipote di
Lorenzo il Magnifico) per la Francia, dove il capitano ge-
nerale e «padron piccolo» della città andava a prendere
moglie neUa persona di Maddalena de la Tour d'Auver-
gne, e di nuovo nel settembre dello stesso '18 al ritorno a
Firenze degli sposi.
Le congetture del Ridolfi non sono parse a tutti inte-
ramente persuasive: alcuni studiosi si sono limitati a espri-
mere le loro perplessità, altri hanno avanzato altre pro-
poste di datazione".
In anni recenti (1992) Giorgio Inglese - cui dobbiamo
" R. RIDOLFI, Vita di Niccolò Machiavelli, Roma 1954, p. 444.
" ID., Composizione, rappresentazione e prima edizione della «Mandragola»,
in «La Bibliofilia», lxiv, 1962, pp. 258-300, poi in Studi sulle commedie del
Machiavelli, Pisa 1968, pp. 11-35.
'* A. PARRONCHi, La prima rappresentazione della «Mandragola» . Il modello per
l'apparato. L'allegoria, in «La Bibliofilia», lxvi, 1962, pp. 37-86.
" F. cuiAPPELLi, Sulla composizione della «Mandragola», in «L'Approdo let-
terario», 1965, pp. 84-97; D. DELLA TERZA, L' immagine più recente di Machia-
velli, in «Italian Quarterly», xiv, 1970, pp. 91-113 ed ora in Forma e memoria,
Roma 1979, pp. 93-1 14; s. Bertelli, When did Machiavelli write the «Mandra-
gola»?, in «Renaissance Quarterly», autunno 1971, pp. 317-28.
Xn GUIDO DAVICO BONINO
l'edizione criticamente accertata di questa commedia
(1997), da noi adottata nel presente volume - ha osser-
vato che il terrore del Turco - testimoniato, ad esempio,
dal Cerretani nel suo Dialogo della mutazione di Firenze^''
per il 15 18 - può aver fornito «materia di battuta anche
in seguito»: e cita, in appoggio a quest'ipotesi, una lette-
ra di Filippo de' Nerli a Machiavelli in data 5 agosto 1520
e una nota da l diarii del veneziano Marin Sanudo riferi-
ta al 17 maggio 1520, ambedue relative allo stesso incu-
bo. D'altro canto, prosegue l'Inglese, «la rubrica dell'uni-
co manoscritto (della Mandragola) , il Rediano 129 della
Biblioteca Mediceo-Laurenziana di Firenze, reca la data
15 19, ... che in stile fiorentino corrisponde al periodo 25
marzo 1519-24 marzo 1520»: e tale data è da considerar-
si «come dato cronistico che registra l'occasione sociale
del testo: forse una allusione al carnevale del 15 19 (con-
clusosi martedì 21 febbraio 1520)». Non è allora ~ sem-
pre secondo l'Inglese - del tutto da escludersi che la let-
tera di Battista della Palla a Machiavelli in data 26 aprile
1520, in cui si preannunciava all'autore una assai diletto-
sa messinscena del copione dinanzi a papa Leone X, pre-
luda davvero alla «seconda» replica romana del testo: cui
si riferisce anche il Giovio, nel seguito della citazione già
riportata («la commedia Nicia, già recitata a Firenze, per
la sua fama di straordinaria comicità papa Leone volle ave-
re a Roma, con tutto l'apparato scenico e i medesimi at-
tori, affinché, rinnovata la festa, di quel piacere parteci-
passe l'Urbe» - adottiamo la versione dell'Inglese). Lo
studioso non lo dice, ma lascia ben comprendere che un
papa non avrebbe aspettato due anni per concedersi un
COSI ludico privilegio". L'ipotesi dell'Inglese è suggestiva:
" B. CERRETANI, Dialogo della mutazione di Firenze, a cura di R. Mordenti,
Roma 1990, pp. 123-24.
" Per tutta la complessa (e forse non ancora del tutto risolta questione) si
legga G. INGLESE, «Mandragola» di Niccolò Machiavelli, in Letteratura Italiana . Le
Opere, dir. da A. Asor Rosa, /. Dalle origini al Cinquecento, Torino 1992,, pp.
1009-31. Vorremmo qui osservare che uno studioso della statura di Carlo Dio-
nisotti, in un suo affascinante «periplo» delle due commedie machiavelliane (e.
DiONisoTTi, Appunti sulla «Mandragola», in «Belfagor» xxix, 1984, pp. 621-44)
INTRODUZIONE XIII
ma, per scrupolo di verità, preferiamo in questa sede la-
sciare aperta la questione: e, più riposatamente, volgerci
alla genesi «interna» della commedia, che - qualunque ne
sia stata l'occasione esterna - è delle più affascinanti.
A voler semplificare (come ci accadrà nel corso di que-
ste pagine, che hanno la funzione di un'essenziale guida
alla lettura), dovremmo dire che il Machiavelli della Man-
dragola porta a livelli di raffinatezza inconsueta il proce-
dimento adottato (non senza qualche incertezza e di-
scontinuità, e certo con minore eleganza) dai commedio-
grafi che l'hanno appena preceduto (un Ludovico Ariosto
nelle sue due prime commedie in prosa. La Cassarla (1508)
e ISuppositi (1509), un Bernardo Dovizi da Bibbiena nel-
la sua prima e ultima commedia, Calandra (15 15)) cioè la
«contaminazione». Non solo egli dispone, rispetto a co-
storo, di materiali assai più vari e ricchi di suggestione:
ma li manipola con una volontà di travestimento ben al-
trimenti scaltra.
Lettore onnivoro (ora soprattutto, che è costretto
all'inattività politica) e prodigo di rinvìi. Machiavelli di-
spone di una gamma di «fonti» molto estesa, come ha di-
mostrato, ancora una volta, il Raimondi, che per primo
ne ha ricostruito, a posteriori, la trama: alcuni Libri Ve-
terotestamentari, come quello di Tobia; il prediletto Li-
vio; Orazio, Catullo, l'Ovidio delle Metamorfosi, Lucre-
zio, Tibullo e gli elegiaci latini; il teatro plautino e teren-
ziano (filtrato, quest'ultimo, attraverso la versione
àtVC Andria); il Boccaccio del Decameron (per almeno tre
luoghi deputati: III, 7; VII, 7; Vili, 9); e lo stesso Bib-
ha ritenuto di precisare: «E a questo punto osservo che doveva trattarsi della
prima rappresentazione a Firenze, non a Roma, procurata dalla compagnia, che
il Della Palla chiamava "nostra", ossia dalla appena ridesta e postulante Sacra
Accademia, non dalla semidefunta e privata compagnia degli Orti Oricellari.
Perché di una commedia fiorentina, di Machiavelli per giunta, che fosse sul pun-
to d'essere rappresentata a Roma, né Leone X né il Bibbiena avevano bisogno
d'essere informati dal Della Palla, giunto di fresco da Firenze e buon informa-
tore delle cose di là. Insomma è probabile che la Mandragola fosse composta nel
1519 e rappresentata la prima volta a Firenze nel 1520».
XIV GUIDO DAVICO BONINO
biena della Calandra. E, di recente, si è parlato dello Sve-
tonio del De vita Caesarum e di altro Boccaccio, quello del
De mulieribus claris: nonché dell'anonima Novella del Gras-
so legnaiuolo e delle Porrettane di Sabadino degli Arienti.
Ma l'infaticabile mimetismo del Segretario, la sua ca-
maleontica ironia, smaniosa di prestiti, di ben almanacca-
ti intarsi, si sfoga anche per «autocitazione», da scritti pro-
pri e dei sodali: uno, in particolare, quel Francesco Vet-
tori, alla cui intimità e comprensione è legata la fase più
dolente del suo esilio. In un gioco fittissimo di rinvìi, co-
me se stesse caparbiamente montando un vero e proprio
puzzle, Machiavelli si diverte a recuperare dalle sue lette-
re al Vettori e dalle responsive dell'amico stilemi, clauso-
le retoriche, allusioni grassocce, motti di spirito, oltrag-
giose volgarità: e, con bizzosa indiscrezione, si spinge a
frugare (magari soltanto con l'arte della memoria) in
un'operetta del suo Francesco, il prediletto Viaggio in Ale-
magna (un curioso miscuglio di relazione di viaggio, gior-
nale privato e protoromanzo, scritto dopo il 1509), met-
tendo a profitto notazioni somatiche e caratteriali, o, addi-
rittura, situazioni esistenziali tratte da casi di «cronaca ero-
tica», squadernati con distaccato scetticismo dal Vettori
con la tecnica della novella e, in un caso, della commedia'*.
Di tutto questo schedario sempre aperto e disponibile,
di questo fondaco di scritti propri ed altrui, che via via
vengono riportati alla luce e rivivificati con opportuni in-
terventi di una letteratissima «chirurgia estetica», le Let-
tere del Machiaveli sono certo il libro che più ci parla, a
vari livelli, della commedia, anche se, in modo esplicati-
vo, vi fa cenno soltanto a messinscena avvenuta.
Sarà effetto degli andirivieni da scena a scena, da bat-
tuta a battuta, cui idi Mandragola irresistibilmente costrin-
ge anche il lettore più refrattario, ma capita, intanto, di
imbattersi in queste Lettere, in personaggi colti dal vivo,
che rimandano a personaggi ricreati nella finzione sceni-
ca. Cosi quell'Antonio Della Valle, zimbello dei colleghi
" R. RAIMONDI, il segretario a teatro, in Politica e commedia cit., in part. le
pp. 173-97-
INTRODUZIONE XV
di cancelleria - con una moglie, Costanza, che «è pregna
e quelli sua figliuoli dicono non esser suo, e lui se ne di-
spera», sinché non rimette la questione «ne' frati di S.to
Felice», e il solito abate «li ha voluto toccare il corpo» -
fa pensare a un Nicla post factum^'^ . E quel «frate di S.
Francesco», «calamita di tutti i ciurmatori del mondo»,
che predica «multa magna et mirabilia» in Santa Croce,
sembra un prototipo, alla lontana, di Timoteo^". E il ridi-
colo travestimento notturno di un amico - nella fattispe-
cie. Giuliano Brancacci, detto il Brancaccio, spinto fuori
casa, in una Firenze tutta scrosci e lampi, dalle proprie
smanie omosessuali - rinvia alla grottesca «mascherata»
di un altro smanioso, Callimaco^'.
Ma quand'anche suggestioni del genere fossero troppo
vaghe o labili, le Lettere introducono comunque alla Man-
dragola perché è qui che, in prima istanza, si dispiega -
con altra snellezza di trapassi che nella non tutta risolta
versione deWAndria - il talento di commediografo del Ma-
chiavelli. Basterebbero a dimostrarlo tre lettere, scritte,
in varie date, nell'arco di cinque anni, come quella dell'av-
ventura veronese con l'orribile vecchia (che il Machiavel-
li spedisce dalla cittadina veneta al Vettori l'S dicembre
1509), quella degli amori di Filippo Casavecchia e del
" «Ser Antonio della Valle è impacciato perché madonna Gostanza sua è
pregna et quelli sua figlioli dicono non esser suo, et lui se ne dispera; et han-
nola rimessa ne' frati di S.to Felice et hanno sodo amendua le parti di starne
al indicato; et l'abate li ha voluto toccare il corpo, et infino ad hora le cose van-
no assai bene: intenderete il successo» (cito da una lettera di Biagio Buonac-
corsi a Niccolò, del 21 dicembre 1502, compresa in n. machiavelli. Opere, II,
a cura di C. Vivanti, Torino 1999, p. 77).
" «E' si trova in questa nostra città, calamita di tutti i ciurmatori del mon-
do, un frate di s. Francesco, che è mezzo romito, el quale, per aver più credi-
to nel predicare, fa professione di profeta; et ier mattina in Santa Croce, dove
lui predica, disse multa magna et mirabilia» (ibid., p. 299, da una lettera di Nic-
colò al Vettori, in data 19 dicembre 1513).
" «Giuliano Brancacci, verbigrazia, vago di andare alla macchia, una sera
infra l'altre ne' passati giorni, sonata l'Ave Maria della sera, veggendo il tempo
tinto, trarre vento, et piovegginare un poco (tutti segni da credere che ogni uc-
cello aspetti), tornato a casa, si cacciò in piedi un paio di scarpette grosse, cin-
sesi un carnaiuolo, tolse un frugnuolo, una campanella al braccio, e una buona
ramata...» (ibid., da una lettera di Niccolò al Vettori, in data 25 febbraio 15 14,
P- 314)-
XVI GUIDO DAVICO BONINO
Brancacci (sempre del Segretario all'amico, da Firenze,
vergata il 4 febbraio 15 14) e quella, appena ricordata, dei
turbamenti del Brancacci omosessuale (25 febbraio 15 14).
Sono tre relazioni epistolari, d'accordo, e la seconda è,
addirittura, in chiave di «ripresa» di un racconto del Vet-
tori: ma il loro trattamento è squisitamente drammatur-
gico. L'avventura veronese - se ubbidisce ad una precisa
tradizione nella descrizione della donna di rara bruttez-
za, del «mostro»: una descrizione dettagliata allo spasi-
mo, con intenti di deliberato ribrezzo" - è, in effetti, uno
sketch teatrale a tre personaggi: una «vecchia ribalda» in
veste di mezzana, l'orribile prostituta di cui si è detto, e
il Machiavelli stesso, un protagonista a metà tra il timido
e il minchione, il «peritoso» e il «tutto cazzo», investito
dal pesante sarcasmo del Machiavelli autore. Colpisce,
nello sketch, l'icasticità delle poche battute (lo stupore, ad
esempio, della laida femmina nel vedersi rimirata: «Che
avete voi, messere?»), la rapidità delle soluzioni comiche
(«Omè! Fu' per cadere in terra morto, tanta era brutta
quella femina»)".
Machiavelli, insomma, si rivela già per quello che sarà,
uno stratega teatrale minuzioso, e assai calcolato negli ef-
fetti. La lettera sugli ardori incrociati del Casavecchia e
del Brancacci (innamorati il secondo d'una giovinetta, il
primo di un garzoncello, ambedue figli della stessa ospite
del Vettori) ce ne offre conferma. E una perfetta panto-
mima, costruita come tale con piena consapevolezza (qua-
si fosse «così degna di recitarla ad un principe»). Rotta
" M. MARTELLI, La Semantica di Poliziano e la «Centuria secunda» dei «Mi-
scellanea», in «Rinascimento», 1973, pp- 21-84.
" «Io, come peritoso che io sono, mi sbigotti tutto; pure, rimasto solo con
colei e al buio (perché la vecchia si usci subito di casa e serrò l'uscio), per ab-
breviare, la fotte' un colpo; et benché io le trovassi le cosce vize e la fica umi-
da e che le putissi un poco el fiato, nondimeno, tanta era la disperata foia che
io avevo, che la n'andò. Et fatto che io l'ebbi, venendomi pure voglia di vede-
re questa mercatanzia, tolsi un tizone di fuoco d'un focolare che v'era et acce-
si una lucerna che vi era sopra; né prima el lume fu apreso, che '1 lume fu per
cascarmi di mano. Omè! Fu' per cadere in terra morto, tanta era brutta quel-
la femina» (da Opere cit., p. 205). Sui vari modelli del topos, oltre al saggio del
Martelli, B. basile, Grotteschi machiavelliani, in «Convivium», xxxiv, 1966,
n. 6, pp. 576-83.
INTRODUZIONE XVII
da una sola, nuda battuta del Vettori, che - si badi - è
l'autore ad affidare al personaggio recitante («Sedete, sta-
te saldi, non vi movete, seguite i vostri ragionamenti...»),
la partitura gestuale è, in compenso, scandita in tutti i suoi
particolari, riaccostati poi, dopo quella serrata parcelliz-
zazione, e ricomposti in una filata, unitaria sequenza". La
stessa economia di parola, la stessa frequenza scenica del
gesto sono alla base della terza «lettera in commedia»,
quella della caccia notturna del Brancacci omosessuale:
dove, in più, si fa largo, sul piano dell'ambientazione, il
gusto della precisa toponomastica fiorentina e, su quello
stilistico, un corposo metaforismo gergale, allusivo all'at-
to sessuale: due elementi, questi, che acquisteranno pre-
cisa funzione nella drammaturgia della M.andragola^\
E intanto - per testimoniare di come il talento teatra-
" «E' mi pare vedere il Brancaccio raccolto in su una seggiola a seder bas-
so per considerar meglio il viso della Gostanza, et con parole e con cenni, e con
atti e con risi, e dimenamento di bocca e di occhi e di spurghi, tutto stillarsi,
tutto consumarsi, e tutto pendere dalle parole, dallo anelito, dallo sguardo, e
dallo odore, et da' soavi modi et donnesche accoglienze della Gostanza. "Vol-
simi da man destra, e viddi il Casa I Che a quel garzone era più presso al segno.
I In gote un poco, e con la zucca rasa". Io lo veggo gestire, et ora recarsi in su
un fianco e ora in su l'altro; veggolo qualche volta scuotere il capo in su le moz-
ze e vergognose risposte del giovane; veggolo, parlando seco, ora fare l'uffizio
di padre, ora del preceptore, ora dello innamorato; e quel povero giovinetto sta-
re ambiguo del fine a che lui lo voglia condurre: et ora dubita dell'onore suo,
ora confida nella gravità dell'uomo, ora ha in reverenzia la venusta e matura
presenzia sua. Veggo voi, signor oratore, essere alle mani con quella vedova e
quel suo fratello e avere uno occhio a quel garzone, il ritto però, et l'altro a
quella fanciulla, e uno orecchio alle parole della vedova e l'altro al Casa e al
Brancaccio; veggovi rispondere generalmente loro, e all'ultime parole, come
Eco; e infine tagliare e ragionamenti, e correre al fuoco con certi passolini pre-
sti e lunghi un dito, un poco chinato in su le reni. Veggo, alla giunta vostra, Fi-
lippo, il Brancaccio, il garzone, la fanciulla rizzarsi; et voi dite: "Sedete, state
saldi, non vi movete, seguite i vostri ragionamenti"...» (da Opere c\t., p. 309).
" Nella prima direzione, per cui si pensa all'accenno, in bocca a Ligurio, al
vagabondare inquieto di Callimaco (in IV, 2); «Passò il ponte alla Carraia, e
per la via del Canto de' Mozzi ne venne a Santa Trinità, et entrato in Borgo
Santo Appostolo, andò un pezzo serpeggiando per quei chiasci che lo mettono
in mezzo...»; nella seconda, che della commedia diventa, come mostreremo,
elemento costitutivo: «... trovò un tordellino, il quale con la ramata, con il lu-
me, e con la campanella fu fermo da lui, e con arte fu condotto da lui nel fon-
do del burrone sotto la spelonca dove alloggiava il Panzano, e quello intratte-
nendo e trovatogli la vena larga e più volte baciatogliene, gli risquitti dua pen-
ne della coda e infine, secondo che gli più dicono, se lo messe nel carnaiuolo di
drieto...» (da Opere cit., p. 314).
XVIII GUIDO DA VICO BONINO
le del Machiavelli si eserciti, in prima istanza, nelle for-
me improprie di un epistolario - abbiamo citato tre let-
tere d'amore. Anche in questa precisa scelta tematica, in
questa polemica predilezione, le lettere machiavelliane
fanno da premessa all'exploit della Mandragola.
Si discorre molto d'amore nelle Lettere, con varia in-
tensità e vari modi di approccio. Nelle missive giovanili
degli anni del cancellierato, se ne disquisisce con un'ag-
gressività beffarda, che rasenta di continuo il turpiloquio:
«L'asse si comincia a ritrovare per ser Antonio e ogni di
lo stomaco lo molesta; credo sia per non aver M^ Ago-
stanza sua qui da riscaldarlo o farlo esercitare all'altale-
na»". Una fitta trama di allusioni oscene - con abbon-
danti citazioni da Pulci o da Burchiello" o con richiami a
cifrario - lega l'uno all'altro questi giovani, accomunati
da una simpatia squisitamente letteraria per la comicità
lubrica, all'insegna della profanazione. L'Eros basso, pro-
fano è , per loro, l'occasione di irridere, degradando, ciò
che altri vagheggiano al più alto grado di sacralità e sti-
lizzazione: «... dubitando ser Antonio della Valle che al-
la terza io mi smarrissi, e' mi dette una ricetta di uno ar-
gomento che mi menò si bene che madonna Lessandra mia
se ne sta di buona voglia e madonna Gostanza se ne di-
spera che ser Antonio publichi le sue ricette; pure credo
consolarla, perché, avendosi a mandare a Livorno uno
maestro a rimpennare passatoi, l'ò messa innanzi e detto
che la rimpenna si bene che la gittò un tratto ser Antonio
dal letto con una rimpennatura...»^*.
Molti anni dopo, nella solitudine dell'esilio, con un'al-
tra esperienza alle spalle, Machiavelli discorre dell'esi-
stenza, degli ideali sconfitti, delle passioni vanamente sof-
ferte con una ben diversa serietà, da smagato anatomista
" Ibid., p. 24, in data 23 agosto 1500.
" M. puppo, Machiavelli e gli scrittori italiani, in «Cultura e scuola», gennaio-
giugno 1970, n. 33-34, pp. 148-59.
" La lettera, come quella sopra citata, è una «responsiva» del Buonaccorsi
al Machiavelli: ma la reciprocità stilistica, in questa come molte altre missive
del periodo, tra il coadiutore e il Segretario, è fuori discussione (da Opere cit.,
pp. 49-50 in data 15-18 ottobre 1502).
INTRODUZIONE XIX
del cuore umano. E il divario che balza evidente, tra lui
e i suoi pur autorevoli colleghi a distanza, tra lui e gli al-
tri due illustri «iniziatori» del teatro comico in volgare
(l'uno, in prima persona, a Ferrara, l'altro, per delega, a
Urbino) alla rabbrividente lettura del profondamente tra-
gico prologo della Mandragola^^ .
Non troveremo più, sino al Candelaio del Bruno, una
confessione così angosciosa d'una condizione esistenzia-
le al limite della disperazione più atroce e del pessimismo
più nero. L'uomo, che ha concluso il più rivoluzionario
trattato politico italiano, e non solo del suo tempo, sa per-
fettamente d'affrontare - nelle otto stanze d'apertura del-
la commedia - un argomento indegno, nella sua bassezza,
della severità sapienziale della trascorsa riflessione ideo-
logica: ma proprio rispetto alla superficialità della vicen-
da, alla tensione dello sforzo immaginativo che intorno a
essa s'appresta a compiere, rappresenta per lui un esplici-
to tentativo d'evasione dall'infelice situazione di vita in
cui è costretto. Ad altra occupazione, ad altro investi-
mento non ha modo di volgersi: giacché gli è stato vieta-
" «Quando Machiavelli si accinse a comporre la Mandragola, poteva sce-
gliere per quel genere di composizione la poesia o la prosa. La scelta della pro-
sa, che egli certo fece per una sua intima inclinazione, anche gli era proposta
da recenti esemplari domestici e forestieri: non per omaggio gli era proposta,
ma per sfida, cosi dalle commedie senza sali del ferrarese Ariosto, come da quel-
la troppo salata del segretariuzzo da Bibbiena, rivestito di panni cardinalizi,
quasi fosse un Pucci, un Ridolfi, un Salviati. Avendo scelto la prosa. Machia-
velli poteva concedersi la licenza di un prologo in versi; ma licenza era, visto-
sa, intesa a dare maggior risalto, come di fatto diede, al prologo. Cosi facendo,
Machiavelli poteva scegliere fra i due metri normali allora nella poesia dram-
matica: la terza e l'ottava rima. Poteva anche, trattandosi di un prologo di com-
media, servirsi della rimalmezzo. Scelse invece, con la sola spiegabile omissio-
ne del commiato, il metro lirico per eccellenza della canzone, raro allora anche
nella poesia lirica, rimesso ultimamente in onore, nella sua misura petrarche-
sca, dai maestri del nuovo stile, Sannazaro e Bembo, e dai loro seguaci. E scel-
se, con una variante minima (un settenario al posto dell'endecasillabo nel v.8),
il metro d'una delle più famose canzoni petrarchesche, la prima in morte di
Laura, Che debb 'io far? che mi consigli, Amore?. E difficile provare, ma più dif-
ficile escludere una intenzione parodica nella scelta eccezionale di un tal metro
per un prologo di commedia, e per un tale prologo, equamente diviso in una
parte di stile narrativo, umile, e in altra di stile satirico e polemico, aspro, en-
trambe in aperto contrasto collo stile del modello petrarchesco» (dionisotti.
Appunti sulla «Mandragola» cit., p. 641).
XX GUIDO DA VICO BONINO
to di mostrare altrimenti (con altra disposizione intellet-
tuale, ma soprattutto con altra scelta di campo, quella
dell'operosa prassi politica d'un tempo) il proprio valore
(altezza d'ingegno e rigore morale), rinnovando cosi i me-
ritati riconoscimenti ottenuti in passato per la propria de-
dizione civile. Non riusciamo, ogni volta, a rileggere sen-
za una stretta al cuore quel «che gli è stato interciso»: ci
sembra, ad ogni ripresa, che la voce della Mandragola pro-
venga da dietro il muro, grigio, spesso, impenetrabile, del
divieto: e ciò ne denoti il particolarissimo timbro, come
strozzato e roco, che cerca a stento di farsi udire attra-
verso il concitato vocìo dei personaggi all'intorno: è la vo-
ce di un intellettuale «definitivamente emarginato dalla
vita pubblica, di cui avverte lucidamente la profonda de-
cadenza», e che s'appresta a scrivere il capolavoro della
commedia italiana proprio «quando gli si fa' sempre più
chiara la coscienza di non poter più in alcun modo agire
sulla realtà effettuale, sul corso ormai ruinoso degli even-
ti», per citare dalle tarde note di letture (i 981) di un Lan-
franco Garetti.
Occorre di continuo riflettere a codesto «sfondo di do-
lorose frustrazioni, di amara chiaroveggenza, di irrepara-
bili scacchi»'" per comprendere come la Mandragola si fon-
di su un'accettazione quasi forzosamente subita e, in ogni
caso, pagata a caro prezzo sulla propria pelle: quella se-
condo cui non esiste un alto e un basso nelle cose umane:
l'universo delle passioni umane, e del sentimento amoro-
so al loro interno, è altrettanto degradato che quello del-
l'ethos e dell'impegno politico: i comportamenti profani,
le basse voglie dell'uomo sono altrettanto vituperose che
le corrotte idealità civili. Amanti infelici, borghesi stoli-
di, pastori d'anime viziosi e turpi animano ormai, come
orribili larve, la distorta fantasia dell'autore. Alcuni anni|
prima, spinto forse da sfortunate circostanze affettive, che
lo avevano indotto a sgradevoli verifiche empiriche, Ma-
'° L. GARETTI, Appunti sulla «Mandragola», in «Esperienze letterarie», i,
(1981), pp. 1 1-27, poi in Antichi e moderni . Studi di letteratura italiana . Seconda
serie, Roma 1996.
INTRODUZIONE XXI
chiavelli aveva elaborato, in uno scambio di lettere, tra il
gennaio del '14 e lo stesso mese del '15, col prediletto Vet-
tori, una sua disincantata, benché sommaria, visione del
rapporto tra Eros ed esistenza. In ideale contesa col suo
Francesco, che ostentava il consueto cinismo dell'antico
clan dei colleghi di cancelleria^^ Niccolò, proprio per da-
re al proprio assunto il massimo di incidenza, si era pro-
vocatoriamente professato ormai incapace di provar di-
letto nel «leggere le cose antiche, né ragionare delle mo-
derne»", e aveva a bella posta fatto sfoggio di un capzio-
so puntiglio nel dimostrare che, nell'universo erotico, in-
dividuo e Fortuna sono a confronto diretto come nell'uni-
verso della socialità. Anche nei conflitti d'Amore, come
nello scontro con la Fortuna, giova all'uomo mostrarsi di-
sponibile, se vuol sottrarsi alle sue «frecce» e ben «go-
vernarsi seco»: «In effetto io l'ho lasciato fare e seguito-
lo per valli, boschi, balze e campagne, e ho trovato che mi
ha fatto più vezzi che se io lo avessi straziato...»". Come
Fortuna, Eros è capriccioso e imprevedibile: perciò con
lui conviene variamente atteggiarsi, volta a volta, a se-
conda dei suoi scarti bizzosi: con lui conviene, insomma,
mutare di continuo strategia: «... io vi ricordo che quelli
sono straziati dallo Amore, che quando e' vola loro in
grembo, lo vogliono o tarpare o legare. A costoro, perché
egli è fanciullo e instabile, e' cava gli occhi, le fegate e il
cuore. Ma quelli che quando e' viene godano seco e lo vez-
zeggiano, e quando se ne va lo lasciano ire, e quando e'
torna lo accettono volentieri, e sempre sono da lui onora-
ti e carezzati, e sotto il suo imperio trionfano »'^
Ma ormai il divertimento tutto cerebrale della prete-
stuosa tenzone con l'amico è esperienza trascorsa e con-
" «...e di necessità bisogna ridursi a pensare a cose piacevole, né so cosa
che diletti più a pensarvi e a farlo che il fottere. . . » (dalla lettera del 1 6 gennaio
15 15, in Opere cit., p. 348).
" «HgJasciaLP dunque. i-pensieri delle cose grandi e gravi; non mi diletta
più leggere le cose antiche, né ragionare delle moderne; tutte si sono converse
inTagionamgati.dolci; di che ringrazio Venere e tutta Cipri» {ibidem, p. 329).
E la già citata lettera, in data 4 febbraio 15 14, sul duplice corteggiamen-
to del Casavecchia e del Brancacci {ibidem, p. 309).
" Lettera del io giugno 1514, ibidem, a p. 326.
XXII GUIDO DA VICO BONINO
elusa. Le sboccate variazioni giovanili sulla «foia», come
il dandismo lievemente sportivo della contesa d'Amore
delle epistole più tarde sono variamente superati. Se
d'Amore nella Mandragola occorre trattare, il neodram-
maturgo saprà farlo con un'autonomia inventiva del tut-
to particolare.
È questa l'originalità che informa la struttura «prima»
della Mandragola, la struttura d'amore (dentro la quale si
sviluppa la struttura «seconda», quella della beffa). Sif-
fatta struttura era - com'è a tutti noto - componente ar-
chitetturale primaria della commedia latina e, in quanto
tale, era stata rispettosamente mutuata dai primi ridutto-
ri e volgarizzatori tra Quattro e Cinquecento. Nel suo di-
panarsi con calcolata lentezza, tra una ben congegnata se-
rie di ostacoli che ne rinviavano, di scena in scena, l'esi-
to, la struttura d'amore garantiva alla commedia un suo
decoro «medio», affidata com'era ai modi e alle cadenze
dell'elegia.
Il Machiavelli della Mandragola decide di forzare la me-
dietà della struttura erotica e di portarla a livelli di in-
consueta tensione passionale; e, d'altro canto, vi innesta,
in un continuo contrappunto dal «basso», tutta una serie
di inserzioni oscene, che coesistono, senza interferire, al
vagheggiamento di un amore «alto», sublime.
Riandiamo, ma più da vicino stavolta, a Cassarla e Sup-
positi, come al primo termine di confronto con un dramma-
turgo indubbiamente dotato alle prese con l'innegabile, e
certo impressiva, «auctoritas» dei maestri latini. Il rinvio
non ci sembra improprio, giacché - priorità a parte - Ma-
chiavelli, pur avendo vissuto altre, e ben diversamente
traumatiche, esperienze, non dovette essere indifferente
agli esperimenti drammaturgici del ferrarese, di cui aveva
sinceramente ammirato il Furioso, rammaricandosi solo di
non esservi stato menzionato tra i letterati del tempo".
" La delusione doveva essere stata cocente, a giudicare da questa missiva
del 17 dicembre 15 17 a Lodovico Alamanni: «Io ho letto a questi di Orlando
INTRODUZIONE XXIII
Se rileggiamo dunque Cassarla e Suppositi badando par-
ticolarmente alla struttura d'amore, e ai personaggi che
ne sono «portatori», se prestiamo attenzione agli Erofi-
lo, ai Caridoro, agli Erostrato, dobbiamo prendere atto,
nonostante il meritorio sforzo innovativo ariostesco,
dell'alto grado di convenzione del loro comportamento.
Sotto il sole di Metellino o nella più domestica Ferrara,
questi giovani si limitano a recitare, con malinconica ele-
ganza, la loro impotenza ad agire, modulano, variamente
declinata, la loro «sensibile» frustrazione. Immobili co-
me Tantalo nel suo specchio d'acqua (la similitudine è
ariostesca), non fanno che iterare, con voce querula, la
melopea della loro inazione: «Ch'io non li dimostri l'amo-
re ch'io li porto? Ch'io patisca che stia più in servitù?
Non bisogna che vadi più in lungo questa trama... Quan-
do non possa venire secretamente al mio disegno, ci verrò
alla scoperta... Sarei bene a peggior termini che Tantalo,
se in mezzo a l'acqua mi lassassi struggere di sete. . . »'^ C'è
qualcosa di altamente formalizzato, s'intende, in questo
radicale immobilismo, che si esprime, essenzialmente, nel
riflettere sulla propria passività. E questo il codice che il
pubblico dei primi del secolo vuole che i giovani amorosi
esprimano, è questa la struttura d'amore di cui li vuole
«portatori»".
Anche Machiavelli, nei disagiati panni di traduttore
delV Andria, aveva prestato ossequio ad un personaggio-
struttura vicino a quello ariostesco. Lo «sgraziato» e «in-
felice» Panfilo, di continuo «stupefatto» d'essere «scher-
Furioso deUo Ariosto, e veramente il poema è bello tutto, e in di molti luoghi
è mirabile. Se si truova costi, raccomandatemi a lui, e ditegli che io mi dolgo
solo che, avendo ricordato tanti poeti, che m'habbi lasciato indreto come un
cazo...» (ibidem, p. 357).
" Citiamo dalla Cassaria prima (I, 5), in i.. Ariosto, Commedie, a cura di A.
Casella, G. Ronchi ed E. Varasi, Milano 1974, pp. 11-12.
" «Gli innamorati sin dal loro primo apparire in scena (e lungo l'intero ar-
co deOa commedia) restano materia quasi completamente inerte, mera occasio-
ne per innescare l'azione che intorno a loro si svolge» (a. bf. luca. La prima re-
dazione della «Cassaria», in «La Rassegna della Letteratura Italiana», gennaio-
agosto 1975, pp. 218-19). Nello stesso numero, a pp. 85-128, leggemmo allora
un profilo d'insieme, vivace e ricco di spunti, dell'Ariosto drammaturgo di G.
FERRONi, Per una storia del teatro dell'Ariosto.
XXIV GUIDO DAVICO BONINO
nito» e «vilipeso» dalla sorte, è uno di codesti modelli di
amante «maninconoso». La sua cifra è «l'incertitudine»:
vorrebbe abbandonarsi a «confidenza», sfogare il proprio
«ardire»: e non fa altro che fremere d'incertezza, «rin-
volto» com'è in tanti mali, dinnanzi ad una sventura che
di continuo «si rinnuova».
Con Callimaco - il personaggio cui è affidata, nella
Mandragola, la struttura d'amore - siamo ben distanti da
questo figurino inerme e passivo, che la ventata d'amore
basta a rendere «stracco nei pensieri», «stupido». Egli è
davvero l'eroe d'amore vagheggiato nelle lettere più pen-
sose e mature dell'esilio, in cui l'agire e il gatire si me-
scolano in una sconcertante alternanza. E dalIF lettere
viene spontaneo risalire a certi protagonisti della più ac-
cesa poesia erotica latina: più che ai trepidi innamorati di
Tibullo, ai tormentati amanti ovidiani, divisi tra speran-
za e timore, temerarietà e calcolo, prudenza e sprezzo del
pericolo: «Partitomi dal bosco, io me ne vo a una fonte,
e di quivi in un mio uccellare. Ho un libro sotto - leggia-
mo in un passo del drammatico bilancio esistenziale in for-
ma d'epistola, indirizzata al Vettori il io dicembre 15 13
- o Dante, o Petrarca, o un di questi poeti minori, come
Tibullo, Ovvidio e simili: leggo quelle loro amorose pas-
sioni e quelli loro amori, ricordomi de' mia, godomi un
pezzo in questo pensiero... »'^
Personaggio-struttura radicalmente nuovo, Callimaco
contrappone allo sgomento degli eroi ariosteschi una di-
versa perentorietà e determinazione: «E' non è mai alcu-
na cosa si disperata che non vi sia qualche via da potere
sperare; e benché la fussi debole e vana, e la voglia e '1 de-
siderio che l'uomo ha di condurre la cosa non la fa parer
così» (I, i). Siamo appena all'antefatto: alla ripresa, da
parte di Machiavelli, in chiave di corposo realismo, tutto
precisione e concretezza di riferimenti, del tema dell'in-
namoramento per fama, cosi finemente declinato dalla li-
rica provenzale e dalla novellistica volgare, tra Jaufré Ru-
del e Boccaccio. Nelle scene in cui si mette in moto la mac-
" Da MACHIAVELLI, Opere cit., p. 295.
INTRODUZIONE XXV
china, le scene del resoconto (I, i, con Siro) e della pro-
gettazione (I, 3, con Ligurio), Callimaco è tutto in questo
fremente desiderio d'azione: nella smania di entrare «per
qualche altra via», di «pigliare qualche partito»: né gli im-
porta che sia «crudele, bestiale e nefando».
Poi, quando Machiavelli delega l'azione ad altri'^ (nel
senso che altri la guidano o la realizzano, certo col suo
consenso e la sua collaborazione) il personaggio pare mu-
tare gradualmente registro. Anche se implicato in prima
persona nella vicenda, che lui stesso ha innescato, Calli-
maco sembra, in qualche misura, straniarsene, assecon-
dare l'intrigo con un certo distacco, un poco in disparte
da gli altri, che pure s'affaccendano per lui e con lui per-
ché «l'inganno» si conduca «al fin... inmaginato e caro».
Al vagheggiamento dell'azione subentra in lui l'esaltazio-
ne di un Eros di alta, nobile passionalità, tra gli estremi
di un esaltato vitalismo e, all'opposto, dell'annientamen-
to nella morte''".
Un'esaltazione del corpo come tempio del demone amo-
roso, che qui si fisicizza e sublima («...E cosi mi fo di
buon cuore. Ma io ci sto poco su, perché da ogni parte mi
assalta tanto desio d'essere una volta con costei, che io mi
sento, dalle piante de' pie al capo tutto alterare: le gam-
be triemano, le viscere si commuovano, il cuore mi si sbar-
ba del petto, le braccia s'abandonono, la lingua diventa
muta, gli occhi abarbagliano, el cervello mi gira...», in IV,
i) si alterna, nelle sue perorazioni, nei tormentati solilo-
qui, ad un desiderio di annullarlo, quel corpo, di sveller-
lo dalle radici: «Meglio è morire che vivere cosi. Se io po-
" G. FERRONi («Mutazione» e «riscontro» nel teatro di Machiavelli, Roma 1972,
p. 45) parlò per questo di Callimaco come del «protagonista mancato» della
commedia, soggetto ad una «svalutazione totale»: ma ci parve, e ancora ci pa-
re, una lettura troppo cogente, che non tiene conto della funzione «struttura-
le» del personaggio.
*° Molto fini le osservazioni formulate a suo tempo da L. Vanossi (Situa-
zione e sviluppo del teatro machiavelliano, in aa. vv. , Lingua e strutture del tea-
tro italiano del Rinascimento, Padova 1970) sulla lingua «altamente artificiata»
di Callimaco (alle pp. 24-26). Ora sono da leggere le pagine sul «pluristilismo
funzionale» del Nostro dovute a \\ Trifone, L italiano a teatro, in aa.vv., Sto-
ria della lingua italiana, dir. da A. Asor Rosa, II, Scritto e parlato, Torino 1994,
pp. 101-5.
XXVI GUIDO DAVICO BONINO
tessi dormire la notte, se io potessi mangiare, se io potes-
si conversare, se io potessi pigliare piacere di cosa veru-
na, io sarei più paziente ad aspettare el tempo. Ma qui
non ci è rimedio. E se io non sono tenuto in speranza da
qualche partito, i' mi morrò in ogni modo...» (I, 3).
Questa inquietudine viscerale, che ora lo fa «morire per
l'alegrezza», ora lo fa sentir «spacciato», non lo abban-
dona neppure quando la trappola sta per scattare ed ogni
esitazione dovrebbe essere bandita: «Io scemo ad ogni ora
dieci libre, pensando dove io sono ora, dove potrei esse-
re di qui a due ore, temendo che non nasca qualche caso,
che interrompa el mio disegno: che se fussi, e' fia l'ulti-
ma notte della vita mia, perché o io mi gitterò in Arno, o
io m'impiccherò, o io mi gitterò da quelle finestre, o io mi
darò d'un coltello in sull'uscio suo» (IV, 4). Ma persino
nel riepilogo della tanto vagheggiata conquista Callimaco
insinua una vena d'angoscia: «Io fui, udendo queste pa-
role, per morirmi per la dolcezza. Non potetti rispondere
a la minima parte di quello che io arei desiderato. Tanto
che io mi truovo el più felice e contento uomo che fussi
mai nel mondo; e se questa felicità non mi mancassi, o per
morte o per tempo, io sarei più beato che' beati, più san-
to che' santi» (V, 4). Tra uno smarrimento che ha qual-
cosa di mortale e l'incubo di un lontano trapasso la sago-
ma di Lucrezia sembra svanire nel nulla: mentre si è ten-
tati di dire che s'accampa in primo piano la fondamenta-
le solitudine del suo amante"*'.
Callimaco è solo, del resto, come ogni personaggio
«funzionale», che - al di là della partecipazione alla fa-
bula - si risolve tutto nella struttura. Ma nel suo caso,
questa impressione di estraneità è accresciuta dal fatto
*' Solo in un punto, secondo il Dionisotti {Appunti sulla «Mandragola» cit.,
pp. 635-36), Callimaco «rientra» nel vivo deOa tematica, più nobilmente auto-
biografica, della commedia: «Per contro, il punto moralmente e artisticamente
più alto della commedia, vera e propria morale della favola, è la dove Callima-
co parla della notte appena trascorsa con Lucrezia: "io stetti di mala voglia in-
fino alle nove ore, e benché io avessi gran piacere, e' non mi parve buono". La
bontà, ossia la vera e intiera felicità è raggiunta solo nel momento in cui al pia-
cere fornito dalla donna ignara, che pure è stato piacere grande, quanto era sta-
to grande il desiderio, succede, affatto diverso, l'amore della donna consapevo-
INTRODUZIONE XXVII
che, come abbiamo detto, Machiavelli, con calcolata con-
traddittorietà, mescola, alla celebrazione liricheggiante
dell'Eros «alto» che egli incarna, tutta una trama com-
patta di immagini, similitudini, metafore - congegnate
con sbalorditiva minuzia le une nelle altre ed affidate non
più ad un solo personaggio, ma alla coralità dei personag-
gi - le quali, invece, celebrano, in modo allusivo, il «bas-
so» erotismo, l'amore carnale, prosaicamente evidenzia-
to nella sessualità più scoperta e volgare.
Si comincia con la scena dell'incontro-consulto tra
Nicla e Callimaco (II, 2), attraversata dal pastiche maca-
ronico sulle cause della sterilità, quasi un prontuario da
scuola medica salernitana ridicolizzato («Nam causae ste-
rilitatis sunt aut in semine... ») e punteggiata dal sarcasmo
sulla impotenza di Nicla («Oh voi mi fare ridere! Io non
credo che sia el più ferrigno ed il più rubizzo uomo, in Fi-
renze, di me...»). Compaiono termini diagnostici («il se-
gno»), oggetti sanitari poco eleganti (l'orinale), che fan-
no da ponte ad una scena speculare (II, 6), quella sull'uri-
na di Lucrezia, dove il latino macaronico («Nam mulieris
urinae sunt...») e le pesanti allusività sulla impotenza del
dottore («Io ho paura che costei non sia la notte mal co-
perta...») ci vengono furbescamente riproposti, secondo
una lineare tattica di interne rispondenze.
A rendere fosca, vagamente repellente, la trama delle
pulsioni erotiche che attraversano il testo, provvede lo
stesso Nicla là dove innesta una diversione per narrare a
ritroso a Ligurio (III, 2) il tentativo di stupro commesso,
ai danni della «dolce» e «facile» Lucrezia, da parte di «un
di quei fratacchioni», facili «ad dare datorno» alle devo-
te. E, visto che si sparla di frati e si compiangono le pie
le e consenziente. Tutti gli interpreti ormai consentono, qualcuno a denti stret-
ti, che Ligurio, artefice della beffa, provvisto di un tradizionale e irrilevante tra-
vestimento classico di parassita, in realtà s'identifica collo stesso Machiavelli,
autore della commedia. Ma da ultimo, imprevedibilmente, qualcosa di sé, di tut-
to suo, il sugo della storia. Machiavelli anche ha dato al giovane Callimaco: qual-
cosa della sua esperienza di uomo cinquantenne, ormai vecchio, deluso e ferito,
ma non rassegnato, ancora mordace, ancora avido e capace di vivere, e tanto pili
esperto di quanto fosse il giovane e fortunato Callimaco della "mala voglia" che
può accompagnarsi al piacere, della differenza fra il piacere e l'amore».
XXVm GUIDO DAVICO BONINO
donne, eccoci, secondo un altro perfetto incastro, a quel-
l'apparente «siparietto» che è l'incontro della beghina e
di Timoteo (III, 3). Apparente, dico, perché, al di sotto
della trama delle pesanti allusività, l'incontro è sostanziale
nel dare continuità al contrappunto dell'amor «basso»: da
quell'accenno allo sfogarsi «ritta ritta» (alla lettera, ma
anche per metafora, cara ai burleschi) al rimpianto delle
imperiose attenzioni del marito («Ed ancora che fussi un
omaccio, pure le carni tirono»); dalla confessione, deci-
samente compiaciuta, della sodomia accettata per un for-
male ossequio agli obblighi matrimoniali («Io me ne di-
scostavo quanto io potevo, ma egli era si importuno...»)
al rinvio ad altri, più perversi, strazianti, atti di sodomia
collettiva: «Dio ci aiuti, con queste diavolerie! Io ho una
gran paura di quello impalare... »■*^
La celebrazione, lievemente sacrilega, dell'atto contro
natura sulle porte di una chiesa prelude - ancora una ri-
spondenza perfettamente calcolata - alla finzione (chia-
miamola, di secondo grado) dell'aborto, sulle porte della
stessa chiesa (III, 4) tra Ligurio, Nicla e Timoteo: mano-
vra «funzionale» fin che si vuole, ai fini della vicenda, ma
non per questo meno violenta e turpe: con quelle mona-
che «straccurate» e quella fanciulla «cervellina» sullo
sfondo e, in primo piano, quel «pezzo di carne non nata,
senza senso», di cui sembra inevitabile far «sconciare» la
ragazza «gravida di 4 mesi» (notiamo, per inciso, che, con
un ammicco beffardo, ma da scrittore di classe. Machia-
velli decide che sia figlia di «CammiUo Calfucci», il fio-
" È sempre il Dionisotti, straordinariamente ricco di precisazioni e di ana-
lisi interpretative, che dobbiamo in merito ascoltare: «Che l'anonima donna
non sia una popolana, men che mai una fantesca, che non sia una donnicciuo-
la ma una gran donna, risulta chiaro... da due inoppugnabili argomenti ogget-
tivi: di galateo cinquecentesco l'uno, dal titolo che il frate le da' di Madonna;
economico, l'altro, dall'elemosina, che solo una gran donna poteva permetter-
si, di un fiorino. A un centinaio di fiorini l'anno ammontava lo stipendio an-
nuo di MachiaveUi segretario». Quanto alla scena, al suo «significato proprio»,
alla sua «ragion d'essere nella struttura compatta della Mandragola», essa sta
«evidentemente, nella contrapposizione, in un fulmineo scorcio, del coito o stu-
pro innaturale e sterile all'accoppiamento naturale e fecondo che avvia e sug-
gella l'azione della commedia» {Appunti sulla «Mandragola» cit., pp. 632-33).
INTRODUZIONE XXIX
Tentino che, in tutt'altro clima, in clima casto e cortese,
aveva disputato a Parigi, presente Callimaco, sulla bel-
lezza delle donne).
Ma non andiamo verso un aborto: andiamo, invece (an-
cora una rispondenza e contrario), verso una nascita per
interposto genitore. Lasciato solo, come è inevitabile,
mentre quella nascita viene, alla lontana, propiziata (e si
sente, guarda caso, in base ad una nota metafora sessua-
le, «come un zugo, a piuolo», in III, 7), è proprio Nicla a
voler verificare che tutto vada per il meglio. Ed ecco, do-
po la sospirosa attesa che «la Pasquina» entri «in Arez-
zo» e che Mona Ghinga possa vedere e toccare con mano
(una metafora e una storia salace, in sboccata accozzaglia,
in IV, 8); dopo che Timoteo ha preparato gli spettatori,
in dialogo diretto, a quella lunga notte vissuta dagli aman-
ti allo spasimo («Callimaco e madonna Lucrezia non dor-
miranno: perché io so, se io fussi lui e se voi fussi lei, che
noi non dormiremo...», in IV, io; e «Ben si sono indu-
giati alla sgocciolatura...», in V, i), eccoci alla gran se-
quenza (V, 2) della ispezione corporale di Callimaco nu-
do da parte di un Nicla puntigliosissimo («Io lo feci spo-
gliare; e'nicchiava ... Ma tu non vedesti mai le più belle
carne: bianco, morbido, pastoso... e dell'altre cose non ne
domandare...»); alla verifica manuale della virilità («.. ed
innanzi che io mi partissi, volli toccare con mano come la
cosa andava...»); alla costatazione, in cui vibra un'ombra
di patetica complicità involontaria, del «piacer dell'un-
to»: «Che direte voi, che io non potevo fare levare quel
ribaldone?».
Ed, a questo punto, la partitura a contrappunto
dell'Eros profano si chiude su se stessa, in cupa circola-
rità, in quel finale senza lieto fine (V, 6), in cui ancora
campeggiano sparse allusività erotiche, desolanti ormai,
tanto sono elementari: «Lucrezia, costui è quello che sarà
cagione che noi aremo uno bastone che sostenga la nostra
vecchiezza...»; «E voi, madonna Sostrata, avete, secon-
do che mi pare, messo un tallo in sul vecchio». Mentre
s'accampa su quell'unione, che due maschi hanno, con ben
diversi fini, ostinatamente voluto e che una femmina ha
XXX GUIDO DA VICO BONINO
sino all'ultimo respinto, ed ora esige con tutta nuova ca-
parbietà, l'ombra del sacrilegio'*\
Se ci siamo dilungati a ricostruire, con un eccesso for-
se di puntiglio, la compresenza di una serie di riferimen-
ti all'amor «basso» all'interno di una fondamentale strut-
tura dell'amore «alto», qual è quella vagheggiata e im-
personata da Callimaco, è perché riteniamo che questo sia
il primo, netto segno di originalità della Mandragola ri-
spetto all'uniforme trattamento che la stessa struttura su-
bisce da parte dei commediografi coevi, primo, in tutti i
sensi, come s'è visto, l'Ariosto.
Qualunque fossero le sue intenzioni, è indubbio che già
al livello di questa prima componente architetturale del-
la commedia. Machiavelli innova. Lo stesso accade con la
struttura della beffa: e qui il personaggio-struttura si chia-
ma Nicla, ruolo inventato non senza tener d'occhio, con
ogni probabilità, da un lato il Cleandro dei Suppositi ario-
steschi, dall'altro il Calandro del Bibbiena.
Il dottore, cioè l'avvocato (come Nicla, del resto, stan-
do almeno al diploma di laurea), che l'Ariosto introduce
nella sua seconda commedia, riservandogli nell'insieme
tre scene (I, 2; II, 3; V, 5), è una figurina «ingenuamen-
te» tratteggiata: ha si l'ossessione dell'età (sessantaseien-
ne, dichiara dieci anni di meno: «Ne dice dieci manco! »),
ma esibisce i propri guadagni con un'ostentazione platea-
le: «leggendo, avocando e consigliando, in spazio di ven-
ti anni ho acquistato il valore di quindicimilia ducati o
più...» Basterebbe questa esibizione vistosa da nouveau
fiche a discostarlo dall'ambiguità «fiscale» di Nicla, che
" «Il comparatico stabiliva, secondo le consuetudini e le credenze del Me-
dioevo, un legame molto stretto, quasi un vincolo di sangue: sposare o avere
rapporti con una comare era stimato un incesto». Cosi Vittore Branca, postil-
lando la novella 3 della Giornata VII del Decameron (g. boccaccio, Decame-
ron, a cura di V. Branca, Torino 1980, p. 808, n. 8). Ci riferiamo (e varii stu-
diosi lo hanno fatto) aUa battuta di Lucrezia: «.. e' vuoisi che sia nostro com-
pare», in V, 6, già anticipata dalla donna a Callimaco, nelle ore di notturna in-
timità: «Fara'ti adunque suo compare...», in V, 4.
INTRODUZIONE XXXI
ci lascia capire (ma con qualche nostro sforzo) d'essere un
ignavo rentier: uno che vive di rendita sul patrimonio de-
gli avi, perché - se proprio dovesse esercitare l'avvocatu-
ra - non troverebbe clienti'*''.
Ma accennavamo anche al protagonista della Calandra.
Dovizi aveva saputo per primo tradurre per intero le po-
tenzialità del tradizionale rapporto beffatore-beffato (con-
segnatogli dal maestro della tradizione novellistica, dal
Boccaccio, al più alto livello di sapienza letteraria) in pu-
ro, astratto divertimento teatrale. Era nata così, all'in-
terno di una commedia singolarmente espansa, debordan-
te addirittura (cinquantanove scene nei consueti cinque
atti), una sorta di commedia autonoma, molto contratta
nell'ideazione e, all'opposto, assai feconda di occasioni lu-
diche: dieci scene in tutto, le scene di Calandro.
Sollecitato da una «spalla» d'eccezione, il febbrile Fes-
senio. Calandro era, senza saperlo, attore di se stesso, del-
la propria sublime imbecillità. «Gentile innamorato» che
subito equivoca tra l'identità di Santilla e le sue attratti-
ve fisiche (I, 4); «babuasso» sino a persuadersi che la se-
duzione etotica sia una questione di mangiare e di bere (I,
7);«bufolaccio» al punto di imparare a «scommettersi»,
come uno snodato contorsionista (II, 6); cosi «gocciolo-
ne» da credere che si possa morire «di fora eccellente-
mente» per subito «rinvivere» di dentro e «vedere l'altro
mondo» (II, 9), Calandro faceva, imperterrito, spettaco-
lo a sé, protagonista solitario di un «teatro nel teatro», in
cui il mimetismo gestuale, ai confini del surreale, dell'ap-
pena ricordata sequenza del forziere si sposava al meta-
morfismo della parola: come, per limitarci ad un solo
esempio, nella profferta d'amore incerta tra Lidio maschio
e Lidio femmina (III, 23)"'.
** L. ARIOSTO, Suppositi, I, 2, in Commedie eh., pp. 202-3. La commedia fu
edita (con buona probabilità) a Firenze presso Bernardo Zucchetta nel 1509
contro la volontà dell'autore e forse su commissione dei suoi commedianti {ibi-
dem, p. 806): e Machiavelli poteva averla letta.
" B. DOVIZI DA BIBBIENA, Calandra, a cura di G. Padoan, Padova 1985 (si
vedano anche p. d. stp;wart. Retorica e mimica nel «Decameron» e nella com-
media del Cinquecento, Firenze 1986, pp. 103-40; i.. bottoni. Una commedia
XXXn GUIDO DA VICO BONINO
Anche Nicia esibisce e fa teatro della propria « sempli-
cità», «sciocchezza», «pazzia», per citare i tre sinonimi
con cui è marchiato dagli ingannatori. Ma, al contrario di
Calandro, Nicia non recita un copione «secondo», avul-
so da quello principale e scritto apposta per lui: la fissa-
zione che lo attanaglia, la «briga» d'aver figli, lo coinvol-
ge, insieme ai suoi coagonisti, in un'unica, compatta vi-
cenda: «Che so io? Vo cercando duo cose ch'un altro per
avventura fuggirebbe: questo è di dare briga a me e ad al-
tri. Io non ho figliuoli e vorre'ne, e per avere questa bri-
ga vengo a dare impaccio a voi» (è la sua presentazione a
Callimaco, in II, 2, ed è, a un tempo, un'indicazione di
strategia teatrale di Machiavelli).
A differenza di Calandro, poi, tratteggiato da Dovizi
secondo il modulo dell'ingenuo credulo, Nicia impersona
una più raffinata variante della sciocchezza, quella dello
stolido borioso (se il primo discende da Calandrino, il se-
condo si apparenta semmai, com'è stato osservato, ad
un'altra creatura boccacciana, maestro Simone da Villa)■'^
Il che comporta una notevole diversità nel gioco scenico
dei due personaggi: la comicità di Calandro è di riporto,
o, per dir meglio, passiva, nel senso che recepisce trovate
che altri le porgono; quella di Nicia è attiva, giacché ela-
bora da se stessa le occasioni facete o schernevoli, e, tal-
volta, le propone, come straniandosi, al riso del pubblico:
si pensi, per fare un solo esempio, al commento sul pro-
prio ridicoloso travestimento, in IV, 8: «Chi mi conosce-
rebbe? Io paio maggiore, più giovane, più scarzo: e' non
sarebbe donna che mi togliessi danari di letto» (battuta
nella quale ritorna l'ossessione della giovinezza, riflesso
«per positivo» dell'ombra negativa dell'impotenza, o co-
munque della sterilità).
Infine - ed è questo il divario di fondo - la «pazzia» di
Nicia non è fine a se stessa, è il riverbero di una «pazzia»
per il mistaggio parodico, in aa.vv., Tra storia e simbolo. Studi dedicati a E. Rai-
mondi, Firenze 1994, pp. 53-80). La commedia era (con ogni probabilità) nota
al Machiavelli prima della princeps senese del 152 1 .
** VANOSSi, Situazione e sviluppo cit., pp. 35-37.
INTRODUZIONE XXXIII
collettiva. Da puro supporto al gioco scenico, com'era nel
Dovizi, la struttura della beffa include ora un'appassio-
nata denuncia etica e civile.
Nel tradurre questa denuncia in termini di pura spet-
tacolarità, senza che mai possa allentare le maglie o in al-
cun modo nuocere alla finzione teatrale, Machiavelli re-
cupera e porta a piena maturazione quella «scrittura ma-
ledica» sperimentata, con esiti non del tutto felici, nel-
V Asino d'oro*\ Ci sono nella Mandragola molte eco curio-
se del poemetto autobiografico-allegorico, avviato con im-
peto dopo il 15 12 e rimasto poi incompiuto all'ottavo
capitolo. Il padre del «giovanetto» smanioso di correre a
perdifiato (di cui si racconta in I, 31-87) sembra il «dop-
pio» di Nicla per quella fissazione di «intender molte opi-
nioni/di molti savi» e ritrarne «molti rimedi di nulle ra-
gioni»: e l'asino, nel suo sfinimento d'amore, ricorda Cal-
limaco dopo la desiata notte: «... intorno al cor sentii tan-
te alleggrezze I con tanto dolce, ch'io mi venni meno...»
(IV, 139-40).
Ma, al di là di queste e altre consonanze, il nesso strin-
gente tra poemetto e commedia è nella stessa irosa dispo-
sizione verso una Firenze spoglia di spiriti magni («Ben
son le piagge tue fatte deserte I e prive d'ogni gloriosa
fronda, I che le facea men sassose e meno erte...», in IV,
58-60), mentre vi si affollano, seduti «alto ne' più alti
scranni», tanti «Fabi e Catoni» miseramente riusciti in
«pecore e montoni» (V, 100-5). Si pensa subito al pessi-
mismo del prologo d^lìdi Mandragola («Di qui depende san-
za dubbio alcuno I che per tutto traligna I da l'antica virtù
el secol presente...»): e, tutt' altro che a caso, nella stessa
occasione. Machiavelli fa esplicito riferimento ai suoi ten-
tativi di polemista: «Pur se credessi alcun dicendo male,
I tenerlo pe' capegli I ... sbigottirlo o ritirarlo in parte, I io
l'ammonisco e dico a questo tale I che sa dir male anch'egli
I e come questa fu la suo prim'arte...»
Ma c'è una sproporzione assai evidente tra la maldicenza
d^W Asino e il moralismo, asciutto e fattuale, della Man-
" Dell' Asino d'oro, in machiavelli, Opere letterarie c\t., pp. 263-300.
XXXIV GUIDO DAVICO BONINO
dragala. Nel poemetto la rabbia e la delusione si addensa-
no in figurazioni per lo più astratte. Lo stile è risentito, ma
non immune da qualche lentezza: Vindignatio, la furia «di
morder» il proprio «tempo dispettoso e tristo», non vi si
libera mai, anzi fa groppo di continuo"**. Nella Mandragola
l'irrisione di Machiavelli si concreta, con corposo realismo,
nella figura di Nicla: e trova nella sua parlata (che tutto in-
tesse, idiotismi beceri e squisite raffinatezze formali, il la-
tino delle Pandette e il più trito gergo rionale) un tramite
di irresistibile presa per lo spettatore coevo. Nel perpetuum
mobile della parlata di Nicla, che assume, a tratti, le ap-
parenze di un vaniloquio sublime e demente, «passa», per
accenni furtivi, per allusioni schermate, la polemica, ri-
sentita e lucida, di Machiavelli verso i contemporanei'*'.
C'è, dunque, una struttura di superficie della beffa, e
è il noto raggiro di cui Nicla farà le spese: e c'è una strut-
tura «profonda» della beffa, di cui Nicla è il mezzo. Ma-
chiavelli il risoluto mandante e il pubblico la vittima in-
consapevole. Chiuso nella cerchia dei propri angusti in-
teressi (il triangolo Prato-Pisa-Livorno di una lontana gio-
vinezza molto «randagia», in I, 2), Nicla è il borghese
inerte, quasi bloccato da una segreta inibizione ad agire
(l'incubo del «travasare», dello «sgominare tutta la casa»,
nella stessa scena). Disprezza la propria classe (quegli «uc-
cellacci» dei medici, ad esempio, che «non sanno quello
che si pescano», ancora in I, 2). Vive appartato in gelosa
solitudine («... io non ho bisogno di persona: così stessi
chi sta peggio di me», in II, 3), infatuato del proprio pre-
stigio (lui, che «ha cacato la curatella per imparare dua
hac», come sottolinea, gonfio di presunzione, nella stes-
** N. BORSELLINO, L' esperienza comica in Rozzi e Intronati, Roma I976^ pp.
129-34.
*' « La società fiorentina ritratta nella commedia è la società borghese, una
società che ha rinunciato a reggere, com'era suo diritto e dovere, la città. Ha
accolto come suo legittimo spazio vitale il fatto privato e, nel caso della Man-
dragola, l'adulterio da parte dei due amanti - protagonisti attivi -, dietro l'ini-
ziativa dell'uno, e dietro il conseguente consenso dell'altra, mentre, tanto più
ridevolmente quanto più è aggressiva la petulanza saccente della vittima, si
emargina dentro la sua nicchia di cuor contento, messer Nicla». Cosi, persua-
sivamente, Ettore Mazzali, nella sua intr. a n. machiavelli, Mandragola-Cli-
zia, Milano 1995, p. 47.
INTRODUZIONE XXXV
sa scena). Ha, in compenso, un terrore fisiologico del Po-
tere, che identifica nelle sue istituzioni punitive («Ma non
vorrei però ch'elle fussino mia parole, che io arei di fatto
qualche balzello o qualche porro di drieto che mi fare' su-
dare», in II, 3; e «Ma sopr'a tutto che non si sappia, per
amor degli Otto! », in II, 6). E la sua pavidità, se non in-
terpretiamo male alcuni suggerimenti «cifrati» del Ma-
chiavelli (il «se io ne avessi vivere, io starei fresco, ti so
dire ! », a proposito dei modesti guadagni della professio-
ne, in II, 3; e il «io farò masserizia altrove» di III, 2), la-
scia intravedere una certa consuetudine ai loschi traffici:
in una parola, un'immoralità di grosso conio.
Ma provincialismo, inerzia, grettezza, spocchia, codar-
dia sono, nelle «malediche» intenzioni di Machiavelli, i
vizi di Nicla come di chi sta ridendo di lui. Ed ecco - in
una scena che ha, da parte di Machiavelli, tutta l'aria di
un'aperta provocazione, quasi un cartello di sfida - ecco
il «dottore» abbattere la parete della finzione, riversare
sul pubblico la sua stessa mediocrità, accomunarlo nella
sua degradazione: «... in questa terra non ci è se non ca-
castecchi, non ci si apprezza virtù alcuna. . . E questo è che,
chi non ha lo stato in questa terra, de' nostri pari, non
truova can che gli abbai; e non siàn buoni ad altro che an-
dare a' mortori o alle ragunate d'un mogliazzo, o a starci
tuttodì in sulla panca del Proconsolo a donzellarci...»
E l'invettiva di II, 3, di cui solo ai nostri tempi si è co-
minciato ad apprezzare la sostanziale drammaticità'". I
tratti negativi di un singolo diventano qui i limiti di una
collettività figlia della crisi: figlia - a tentare, cosi di fret-
ta, di storicizzare la polemica machiavelliana (a rischio,
forse, di soffocarne il respiro) - di quei «grandi spaven-
ti», di quelle «subite fughe», di quelle «miracolose per-
dite» successive alla memorabile «passata del re Carlo»,
come leggiamo neìì' Arte delia guerra^^ : a quello stesso 1494,
insomma, cui fa riferimento, con tanto cronologico pun-
tiglio, Callimaco nella scena d'apertura.
'" F. FIDO, Le metamorfosi del Centauro, Roma 1977, pp. 106-8.
" M. BARATTO, La Commedia del Cinquecento, Venezia 1975, p. 66.
XXXVI GUIDO DA VICO BONINO
Ruolo antico di commedia modernamente rivisitato,
r«uccellaccio» Nicia è il «portatore» della struttura del-
la beffa in quanto è lo schermo di una corruzione, etica e
civile, che è la corruzione del suo pubblico. Il gusto della
profanazione, sperimentato da Machiavelli sulla struttu-
ra d'amore come su un codice meramente letterario, qui
si esercita, con una crudeltà mista ad uno strazio sottil-
mente intellettuale, sul materiale umano. Attraverso Ni-
cia Machiavelli profana e dissacra, nel suo sdegno di gran-
de solitario deluso, la società del suo tempo. Per questo
crediamo abbia ragione, ancora una volta, il Dionisotti a
cedere, dinnanzi alla calcolata bassezza del personaggio,
ad un sovrappiù di gobettiano sdegno morale: «Emana da
lui il tanfo della bestialità, ma anche della tana condegna,
di una lunga vita inerte e chiusa. La sconfitta di messer
Nicia nella Mandragola non è soltanto di un individuo: è
anche di un modo di vivere statico, sterile, iniquo, inde-
gnamente privilegiato, degno di essere messo alla berlina
di una città come Firenze, da uomini dello stampo di lui.
Machiavelli»".
Tuttavia non è solo a Callimaco, non è soltanto a Ni-
cia, ai due personaggi-struttura, insomma, pur cosi sugge-
stivi e rilevanti, che Machiavelli affida, per intero, il pro-
prio messaggio. Per coglierlo a fondo, in tutta la sua tra-
volgente ricchezza, ed anche nella sua chiaroscurata com-
plessità, occorre guardare - insieme all'amante e al beffa-
to - ai tre personaggi-tema: a Ligurio, Timoteo, Lucrezia.
Demiurgo, stratega dell'azione, direttore di scena, co-
reografo: queste alcune delle formule con cui Ligurio è ve-
nuto acquistando, nell'attenzione dei critici, tutto il ri-
lievo che merita, non solo nell'economia teatrale della
Mandragola, ma nella gamma della sua tematica". Si trat-
ta di formule senza dubbio persuasive. Ma forse sarebbe
" DIONISOTTI, Appunti sulla «Mandragola» cit., p. 644.
" RAIMONDI, Il segretario a teatro ck., pp. 210-12, che ha sottolineato lo «spi-
rito-aecco e nervoso, tutto di testa» del personaggio.
INTRODUZIONE XXXVII
meglio dire, più esplicitamente, che attraverso Ligurio
Machiavelli modula un tema centrale nella sua visione
dell'esistenza: quella febbre della prassi, con cui l'uomo
non solo esprime il meglio di sé, ma costruisce con le pro-
prie mani il suo destino, in tacito, accanito confronto con
la Natura, la Fortuna, la Storia.
Che l'azione della Mandragola nasca dalla mente fervi-
damente progettuale di Ligurio, lo comprendiamo quan-
do è ancora fuori scena: è lui, secondo il puntuale reso-
conto di Callimaco (I, i), che «ha promesso di persuade-
re a messer Nicla che vada con la sua donna al bagno in
questo maggio». Sarà lui, di lì a poco (è, nel frattempo,
entrato in scena, in I, 3) a decidere di «pigliare qualche
altro partito. . . più corto, più certo, più riuscibile che '1 ba-
gno»: ed è quello della pozione. Ed è ancora lui, s'inten-
de, «a pensare el remedio», quando anche questo secon-
do progetto rischia di incepparsi, disponendo i due cor-
ruttori ad entrare nel raggiro, «el confessoro» da una par-
te e quella «buona compagna» di Sostrata dall'altra.
Quando poi il progetto definitivo entra nella sua at-
tuazione e i diretti interessati diffidano (Nicla) od oscil-
lano tra speranza e timore (Callimaco), Ligurio lo guida,
all'opposto, con una pacatezza ed un equilibrio ammire-
voli. Basterebbe a mostrarlo il nitido tempismo con cui
gradua la strategia dei travestimenti. Dopo avere imposto
a Callimaco di abbandonare il ruolo dell'amante per as-
sumere quello del falso medico (« Io voglio che tu faccia a
mio modo, e questo e' tu dica di avere studiato in medi-
cina e che abbi fatto a Parigi qualche sperienzia...», in I,
3), gli ordina - proprio quando l'altro, in uno dei consueti
cedimenti passionali, si abbandona allo sconforto
(«Ohimè, ohimè, i' sono spacciato...») - di calarsi nei pan-
ni del giovane scioperato: «Fo conto che tu ti metta un
pitocchino in dosso, e con u' liuto in mano te ne venga co-
sti, dal canto della sua casa, cantando un canzonano» (IV,
2). Intanto ha già suggerito a Nicla di «travestirsi» da sor-
do, per meglio reggere al primo confronto con Timoteo:
«Io gli dirò che voi séte assordato, e voi non rispondere-
te e non direte mai cosa alcuna, se noi non parliamo for-
XXXVIII GUIDO DA VICO BONINO
te» (III, 2). E, più tardi, persuaderà il frate ad un trave-
stimento di secondo grado, quello del finto medico, sot-
to cui dovrebbe celarsi Callimaco: «Io farò travestire el
frate: contraffarà la voce, el viso, l'abito; e dirò al dotto-
re che tu sia quello; e' se '1 crederrà» (IV, 2).
Ma è poi nei minuti particolari, nelle pieghe sottili
dell'azione che rifulgono la limpidezza del suo sguardo e
la tempestività dell'intervento: come quando supplisce a
una improvvisa carenza altrui («Sì, sarà! Io vi risponderò
io: Callimaco è tanto respettivo che è troppo», in II, 2), o
impartisce, con secchezza, ordini a questo o a quello: «Di
là, di qua, per questa via, per quell'altra. E' gli è sì gran-
de Firenze ! » (così suona la perentoria espulsione di scena
~clil «cotto» Callimaco, in chiusura del secondo atto)'\
Quale impulso nutre l'invidiabile sicurezza di sé di Li-
gurie ? Cosa lo spinge a montare, pezzo su pezzo, la vi-
cenda, a governarla con geloso esclusivismo («Tu el sa-
prai, quando e' fia tempo: per ora non occorre che io te '1
dica, perché el tempo ci mancherà a fare, nonché dire»,
in I, 3) e, persino, con una punta d'orgoglio per la propria
superiorità, come potrebbe suggerire il brusco risenti-
mento di II, 2: «Se voi volete che io stia qui con voi, voi
parlerete in modo che io v'intenda: altrimenti noi faren
duo fuochi»? Una ben nota battuta (I, 3) sembra spie-
garcelo: «Non dubitare della fede mia, che, quando e' non
ci fussi l'utile che io sento e che io spero, e' c'è che '1 tuo
sangue si confà col mio, e desidero che tu adempia que-
sto tuo desiderio presso a quanto tu» (il corsivo è nostro).
C'è, dunque, a muovere il regista Ligurio, la sete di gua-
dagno. Lungo tutta la Mandragola, del resto, come ha os-
servato il Gibellini, «la legge della finzione, insieme a
" Sara Mamone, in un contributo attento all'allestimento originario della
Mandragola, ha sottolineato il numero di indicazioni scenografiche che Ligurio,
di continuo, con puntigliosa solerzia, «dissemina». «Sta in questa piazza, in
quello uscio che voi vedete al dirimpetto a noi» (II, i); «Aspettian che gli spun-
ti questo canto e subito gli saren addosso» (IV, 9); «Io sento toccare l'uscio
suo. Le sono esse, che escono fuora, ed hanno el dottore drieto» (V,4). (s. ma-
mone. La «Mandragola» e la scena di città, in «Il castello di Elsinore», xiv, 38,
2001, in corso di stampa).
INTRODUZIONE XXXIX
quella dell'utile, domina incontrastata la scena». Anzi l'un
movente è subordinato all'altro: «La dissimulazione è fi-
nalizzata... al guadagno, vero motore dell'azione: cosi Cal-
limaco mira alla mercede amorosa, su cui è imperniato il
plot (anche se con i suoi tratti signorili impersona l'idea-
le continuità fra civiltà cortese e umanistica); quando pro-
spetta all'amico la relazione con Lucrezia, Ligurio gioca
col suo cognome («Che tu te la guadagni in questa notte»);
Guadagni, omen ma anche nomen vivo in Firenze, men-
tre Calfucci era estinto da tempo; Ligurio è «pappatore»
per etimo, anche se leale con l'amico cui presta i propri
servigi (come obietta Callimaco alle riserve del suo servo
Siro); la vera vocazione di fra' Timoteo è quella di un ge-
niale procacciatore di elemosine (persino quando com-
prende d'esser stato raggirato da Ligurio con la falsa pro-
posta dell'aborto, egli lo giustifica e si allea con lui in no-
me del comune credo utilitario); anche il modesto Siro esi-
ge^ tramite Ligurio, la sua ricompensa»". Eppure, per pa-
radossale che possa sembrare, tra tutti costoro Ligurio
sembra il più «nobilmente» disinteressato. Si direbbe, per
tornare a quella confessione a mezza voce a Callimaco,
che sia piuttosto una smania dell'azione per l'azione che
gli rampolla dentro, che lo costringe ad instaurare impe-
riose affinità elettive col suo mandante e quasi gli detta
di sostituirsi a lui nella struggente attesa che l'intrigo si
compia.
Si pensa subito a certe taglienti massime delle Lettere
sulla necessità dell'azione come pulsione primaria dell'in-
dividuo («Priegovi seguitiate la vostra stella, e non ne la-
sciate andare un iota per cosa del mondo, perché io cre-
do, credetti, e crederò sempre che sia vero quello che di-
ce il Boccaccio: che egli è meglio fare e pentirsi, che non
_fare_£ pentir ai- v; >>)'*: ed alla costante messa in luce degli
attributi positivi dell'attivismo operante (la «prestezza»,
la «destrezza» dell'operare) che emergono nel Prìncipe,
" P. GiBELLiNi, Prefazione a N. machiavelli, Mandragola, Milano 1997, p.
XXXI.
" E la lettera al Vettori da Firenze del 25 febbraio 15 14 (in Opere cit., p. 316).
XL GUIDO DA VICO BONINO
giù givi sino a certi scritti minori, successivi anche alla
Mandragola, come l'emblematica Vita di Castruccio Ca-
stracani: «Niuno fu mai più audace a entrare ne' pericoli,
né più cauto ad uscirne; e usava di dire che gli uomini
debbono tentare ogni cosa, né di alcuna sbigottire, e che
Dio è amatore degli uomini forti, perché si vede che sem-
pre gastiga gli impotenti con i potenti...»".
Coerente alla tematica del personaggio, che si risolve
tutto nella sua operatività, in un'azione perfettamente pa-
ga di se stessa, Machiavelli non elogia mai Ligurio. Addi-
rittura, nella scena conclusiva della commedia, che pure
deve tutto alla sua intraprendenza, Ligurio quasi non par-
la, apre bocca - come s'è appena dettò - solo per ricor-
dare che c'è un povero servo da compensare: «Di Siro non
è uomo che si ricordi?» Ma non si rischiano le secche
"dell'autobiografismo né i gorghi della psicologia deT
profondo se si dice che nella fervida tensione al progetto
e all'azione di Ligurio Machiavelli «compensa» la propria
alacrità smaniosa, frustrata dall'isolamento coatto: «Quàn-""
to a me, io sono diventato inutile a me, a' parenti et alIP
amici, perché ha voluto così la mia dolorosa sorte. E non
..Hq^Oj^^J dire meglio, non mi è rimasto altro di buono se
non la sanità a me et a tutti e mia. Vo temporeggiando per
essere a tempo a potere pigliare la buona fortunà,~qùàl>
do la venissi, e quando la non venga, avere pazienza...»
Ed è innegabile che da questa rifrazione tra lo scrittore7
quasi stordito nella sua abulia («Ma sendomi io ridutto a
stare in villa per le avversità che io ho aute et ho, sto qual-
che volta uno mese che io non mi ricordo di me...»)'* e il
personaggio, sempre lucido e scattante, il tema che Ligu-
rio impersona trae una sua strana, dolorosa risonanza.
Nella sua brama di agire con lucidità e speditezza, Li-
gurio si concede poche pause riflessive. Dopo averci fat-
" N. MACHIAVELLI, La vttd di Castruccto Castracani da Lucca, in Tutte le ope-
re, a cura di M. Martelli, Firenze 1971, p. 626.
" In Opere cit., pp. 353 e 354, da due lettere a Giovanni Vernacci, in data
15 febbraio 1516 e 8 giugno 1517.
INTRODUZIONE XLI
to costatare la sciocchezza di Nicia, medita sullo squili-
brio di tanti matrimoni infelici: «E parmi che rare volte
si verifichi quel proverbio ne' matrimoni che dice: "Dio
fa gli uomini, e' s'appaiono". Perché spesso si vede uno
uomo ben qualificato avere una bestia, e per avverso una
prudente donna avere un pazzo...» (I, 3). A Callimaco
che, nel suo trasporto di amante «cortese», protesta di
dover «morire per l'allegrezza», ribatte con ironia molto
pragmatica: «Che gente è questa? Ora per l'allegrezza,
ora per el dolore, costui vuole morire in ogni modo...»
(IV, 2). E poco prima, ha rilasciato alcune massime piut-
tosto pungenti sulla malizia dei frati: «Questi frati sono
tmicati, astudj ed è ragionevole, perché sanno e peccati
nostri e' loro...» (Ili, 2): non senza precisare che Dio è
più astuto, in ogni caso, dei medesimi: «Come se Idio fa-
cessi le grazie del male come del bene! » (IV, 2).
Sono, nella loro pregnanza, i pochi indugi meditativi
di un personaggio affiso alla perfetta funzionalità del rag-
giro. Una ben più ricca riflessività, una ben altrimenti
fluente espansività di parola è nell'altro personaggio-te-
ma, quello di fra' Timoteo, in cui Machiavelli sembra in-
carnare quelle astuzie della ragione, che sono spesso al cen-
tro della sua elaborazione di pensatore.
La riflessività di Timoteo si espande, in prima istanza,
sul piano drammaturgico. A differenza degli altri perso-
naggi che non calano mai la maschera, Timoteo tende di
continuo ad uscire dalla finzione per instaurare un dialo-
go diretto col pubblico. Un primo tentativo di approccio
è già in quei topoi misogini, che Machiavelli provocato-
riamente gli affida: «Le più caritative persone che sieno,
sono le donne, e le più fastidiose. Chi le scaccia, fugge e
fastidi e l'utile; chi le intrattiene, ha l'utile et e fastidi in-
sieme. Ed è '1 vero, che non è mele sanza mosche» (III,
4)". Ma una più stretta complicità la instaura la sua tatti-
ca di precedere le attese degli spettatori, quando la su-
" Eccone un altro (III, 9): «E tutte le donne hanno alla fine poco cervello;
e, come ne è una che sappi dire dua parole, e' se ne predica, perché in terra di
ciechi chi vi ha un occhio è signore».
XLII GUIDO DAVICO BONINO
Spense è più alta (« Io non ho potuto questa notte chiude-
re occhio, tanto è el desiderio che io ho d'intendere come
Callimaco e gli altri l'abino fatta...», in V, i): e, soprat-
tutto, le sue «chiamate in correo» del pubblico, furbe-
scamente coinvolto nel lubrico finale, come per una im-
maginaria sostituzione di persona: «E voi spettatori non
ci appuntate: perché in questa notte non ci dormirà per-
sona... Callimaco e madonna Lucrezia non dormiranno:
perché io so, se io fussi lui e se voi fussi lei, che noi non
dormiremo...» (IV, io).
In ogni caso la sua riflessività si esprime, poi, al di là di
questa strategia scenica, nel continuo rimettere in di-
scussione i moventi propri e degli altri, nel calcolare - pre-
ventivamente o a posteriori - le mosse che gli avversari
compiranno o hanno compiuto, nel vagliare le iniziative
che, di conseguenza, gli conviene prendere. Cosciente
d'«essere nel gagno», d'essere cioè immesso in una gara
d'inganno senza esclusione di colpi, Timoteo è altrettan-
to fermamente deliberato ad ingannare più degli altri, a
fare «meglio di loro». Il monologo di III, 9, che si po-
trebbe definire il monologo del «giunto», dell'inganno, è
esemplare di questa implacabile attitudine riflessiva, per
quella disanima, di una calcolata lentezza, di un eventua-
le scontro tra sé e Ligurio e delle possibilità che si apri-
rebbero per «giuntatore» e «giuntato»^".
La stessa corruzione di Lucrezia (III, 11) è un tour de
force strettamente specialistico, tutto e soltanto retorico.
Le capacità suasorie del frate non si traducono, infatti, in
un'analisi di responsabilità o colpe, non nella mozione de-
gli affetti, ma in una fredda impostura «formale». Con un
paio di citazioni bibliche ad effetto, e soprattutto con quel
suo fitto altalenare di distinzioni ed antitesi (il «discosto»
e r« appresso», gli «spaventi» e i «mali», il «bene certo»
e il «male incerto», r«atto» e il «fine»), Timoteo giugne
" La stessa forte carica di riflessività è nel celebre monologo d'apertura del
quinto atto (V, i) sui frati «di poco cerveOo», che è speculare alla tirata di Ni-
cla sui concittadini «cacastecchi», di cui abbiamo parlato. E già il fatto di di-
sporre di cinque monologhi (IH, 9; IV, 6 e io; V, i e 3) è indicativo del per-
sonaggio.
INTRODUZIONE XLIII
«sulla bontà» Lucrezia perché traveste la casistica mora-
le, rende menzognero un insieme di rigide norme codifi-
cate da secoli*'.
C'è una indubbia sproporzione, c'è uno stridente con-
trasto tra la vertiginosa finezza dell'^ solo con Lucrezia e
la monotonia martellante con cui il frate reclama, lungo
tutta la commedia, senza nessun infingimento e senza
troppa varietà di clausole, le «limosine» o la «limosina»,
i «danari», «codesti danari», «questa parte de' denari»,
sino alla richiesta finale (V, 6) avanzata grossolanamente
a palcoscenico gremito: «Io ho' avere e danari per la li-
mosina» (e si pensa subito a Ligurio, li presente, che ha
governato tutto e nulla pretende).
Ma lo squallore delle pretese del frate non deve indur-
ci a pensare che ci troviamo dinnanzi ad una ragione che
abbia abdicato alla parte migliore di sé. Come ha, con
grande rigore, colto uno studioso machiavelliano della sta-
tura di Gennaro Sasso (1980), Timoteo «è una figura im-
ponente... e guai a rappresentarla, nella propria mente o
sulla scena, con tratti caricaturali. Vi è, in essa, qualcosa
di così grandiosamente abietto da sfiorare l'innocenza. E
il personaggio è, in effetti, di un cinismo assoluto, tra-
scendentale, verrebbe voglia di dire, e cioè di tale qualità
che, costituendo la condizione di manifestarsi di ogni al-
tra realtà, tutte le colora di sé, e le riduce a sé, nel suo am-
bito insuperabile»".
Non meno grandioso - vorremmo aggiungerlo a chiare
lettere - ci sembra, ad ogni ritorno al testo, il terzo per-
sonaggio-tema, quello di Lucrezia.
Il fascino di Lucrezia è, per oltre due atti, quello di un
" L. HUOviNEN, Der Einfluss des theologischen Denkens der Renaissancezeit
auf Machiavelli : «Mandragola» , die Scholastiker und Savonarola , Extrait du « BuJ-
letin de la Société Néophilologique de Helsinki», i.vii, 1956, n. 1-2.
" L'ampio saggio introduttivo dello specialista da cui citiamo (n. machia-
velli, La Mandragola, intr. e note di G. Sasso, note e app. di G. Inglese, Mi-
lano 1980) e a cui siamo grati d'aver corretto alcune sviste della nostra intro-
duzione del 1979, ha il limite di ritenere inadeguati tutti (o quasi) gli approcci
al capolavoro dei restanti critici.
XLIV GUIDO DA VICO BONINO
personaggio assente, di cui si paria, tuttavia, a varie ri-
prese e con accenti tali da sottolinearne, di continuo, l'in-
discussa superiorità morale e la separatezza dal civile con-
sorzio. Il resoconto di Callimaco in I, i - oltre a precisa-
re che le «tanta laude» di «bellezza» tributate, a distan-
za, dal Calfucci risultano, da vicino, inadeguate - eviden-
zia queste due componenti del ritratto dell'amata: Lucre-
zia è «onestissima ed al tutto aliena dalle cose d'amore»;
rifugge da svaghi mondani («non avere parenti o vicini,
con chi ella convenga' alcuna vegghia o festa, o ad alcun
altro piacere di che si sogliono dilettare le giovane») ed è
tutta intenta ad esercitare, con autorità, il proprio ruolo
nel chiuso delle mura di casa («non ha fante né famiglio,
che non triemi di lei»).
Anche Ligurio, nell'indugio che si concede in I, 3, sot-
tolinea, tra l'ammirato e lo stupito, il divario tra la gof-
faggine di Nicla e la superiorità della donna, che merite-
rebbe altre responsabilità che quelle domestiche: «Io non
credo che sia nel mondo el più sciocco uomo di costui; e
quanto la fortuna lo ha favorito! Lui ricco, lei bella don-
na, savia, costumata ed atta al governare un regno». Ma
è poi lo stesso Nicla a completarlo, quel ritratto, per pic-
coli tocchi aggiuntivi, che la comicità dei suoi interventi
riesce a rendere ancora più severi: la ponderatezza («Io
credo che e tua consigli sien buoni e parla' ne iersera alla
donna: disse che mi risponderebbe oggi...», in I, 2), la ri-
trosia («Perché io non vorrei quel disagio, e la donna usci-
rebbe di Firenze malvolentieri», in II, 2), la diffidenza
(«E non è dire che la non abbi caro di fare figliuoli, che
la ne ha più pensiero di me. Ma, come io le vo' far fare
nulla, e' gli è una storia», in II, 5).
Ancora Nicla ci riporterà alla radice di quel carattere
COSI schivo ed umbratile. C'è, in Lucrezia, un fondo di ri-
gorisnio devozionale («Ella tien pure a dosso un buon col-
trone; ma la sta quattro ore ginocchioni ad infilzar pater-
nostri, innanzi che la se venghi al letto: ed è una bestia, a
patir freddo», in II, 6), che neppure le sacrileghe atten-
zioni di un «fratacchione» riescono ad intaccare. Siamo al-
lo scandalo della «prima messa de' Servi», che, invece di
INTRODUZIONE XLV
scalfire la religiosità della donna, ne acuisce semmai la so-
spettosità, come di un animale offeso dall'uomo: «Da quel
tempo in qua, ella sta in orecchi come la lepre, e come se
le dice nulla, ella vi fa dentro mille difficultà» (III, 2).
Una religiosità vissuta con asprezza traspare, del resto,
dall'ingresso in scena della giovane e dal suo diverbio, che
cogliamo in atto, con la madre: «Ma di tutte le cose che
si son trattate, questa mi pare la più strana, di avere a sot-
tomettere el corpo mio a questo vituperio, ad esser ca-
gione che uno muoia per vituperarmi. Perché io non cre-
derrei, se io fussi sola rimasa nel mondo e da me avessi a
resurgere l'umana natura, che mi fussi simile partito con-
cesso» (III, io). La tutela del corpo come sacrario del-
l'anima, la responsabilità della propria salute spirituale
connessa alla salvezza fisica di un proprio simile, lo stes-
so sentirsi una seconda Eva ad un passo da un nuovo pec-
cato originale infondono a Lucrezia un tono di singolare
elevatezza, la stagliano sotto un altro cielo". Ed è sotto
" Con molta determinazione Roberto Alonge ha di recente sottolineato la
religiosità del personaggio : «In Lucrezia c'è una percezione nitida del vizio,
del male antagonista del bene, e c'è il coraggio eroico di contrapporsi in soli-
tudine al mondo, di far valere il diritto della propria coscienza di contro all'in-
teresse anche dell'intero universo («se io fussi sola rimasa nel mondo», ecc.).
D'altra parte, di questa forza di carattere, di questo coraggio della solitudine,
Lucrezia ha già dato prova nella sua esistenza. E la figlia di una madre che «è
stata buona compagna», e che forse sarebbe ancora oggi «buona compagna»,
se non fosse che l'età avanzata la rende fatalmente meno appetibile allo sguar-
do dei maschi fiorentini. Lucrezia è riuscita a crescere in un suo profilo di du-
ra religiosità, pur avendo sotto gli occhi il modello di una madre assai poco vir-
tuosa. Qualche sua battuta si carica di una risonanza scritturale che non è sta-
ta sufficientemente valorizzata dagli interpreti. La scena IH, io ... (la scena in
cui la madre tentatrice prepara la figlia al dialogo risolutivo con il frate) si chiu-
de su una sintetica e disperata cadenza («Io sudo per la passione») che rinvia
al Vangelo di Luca, 22, 44 che - unico evangelista, ma perché Luca era medi-
co, e dunque più attento al dato eziologico - riporta l'informazione che Cristo,
nella solitudine del Getsemani, suda sangue per la passione che incombe su di
lui e che pure vorrebbe stornare dal proprio capo. Anche Lucrezia vuole che il
calice sia allontanato da lei. L'angoscia di Lucrezia per ciò che deve accadere è
la stessa angoscia del Cristo alla vigilia del Calvario. La posta in gioco e la vio-
lenza che deve essere perpetrata sul corpo. La violenza sessuale è sempre, co-
munque, una forma di violenza fisica. E la violenza dello stupro uccide come
la violenza della crocifissione», (r. alonge. La «Mandragola», in aa.vv., Storia
del teatro moderno e contemporaneo, diretta da R. Alonge e G. Davico Bonino,
I, La nascita del teatro moderno, Cinque-Seicento, Torino 2000, p. 56).
XLVI GUIDO DA VICO BONINO
questo cielo che le si fa incontro Timoteo (III,ii), in un
clima da elevata disputa teologica, tra il capzioso richia-
mo ad un incesto biblico («Dice la Bibia che le figliuole
di Lotto, credendosi essere rimase sole nel mondo, uso-
rono con el padre: e, perché la loro intenzione fu buona,
non peccorono») e quello al casto connubio di Sara e To-
bia, adombrato nell'accenno air«orazione dell'Angiolo
Raffaello». Dinnanzi al sillogizzare inarrestabile del fra-
te, Lucrezia oscilla tra lo sgomento («Che cosa mi per-
suadete voi?») ed un presagio di morte, che è ancora
dell'anima e non del corpo: «Io sono contenta, ma io non
credo mai essere viva domattina».
Poi c'è Vaitra Lucrezia, quale la vediamo stagliarsi, co-
me per un effetto prospettico, nel centro focale del rac-
conto dell'estasiato Callimaco. C'è la Lucrezia di quella
battuta su cui si sono logorati per anni detrattori e avvo-
cati d'ufficio, sdegnati gli uni per l'immoralità della don-
na, propensi gli altri a riconoscerla come «onorevolmen-
te cattiva», ad assolverla, insomma, machiavellicamente:
«Poi che l'astuzia tua, la sciocchezza del mio marito, la
semplicità di mia madre e la tristizia del mio confessoro
mi hanno condutto a fare quello che mai per me medesi-
ma arei fatto, io voglio giudicare ch'e' venga da una cele-
ste disposizione, che abbi voluto cosi, e non sono suffi-
ciente a recusare quello che '1 cielo vuole che io accetti»
(V, 4). C'è, invece, qualcosa di profondamente machia-
velliano (non, si badi, di machiavellico) nella scelta di Lu-
crezia, COSI netta, lucida, risoluta. Lucrezia passa dal ri-
fiuto (il «recusare» di sopra, un verbo assai frequente nel
lessico politico di Machiavelli) all'accettazione della For-
tuna come di una forza troppo impetuosa perché ci si pos-
sa opporre. La sua è la scelta della dutlilità come suprema
formFdTsaggezza (questo è il tema di cui è «portatrice»).
Che la sua nuova scelta obbedisca ad una determina-
zione intransigente ed assoluta, lo dice la formula di accet-
tazione di Callimaco, che ha qualcosa di ieratico, ancora
una volta: «Però io ti prendo per signore, padrone, guida;
tu mio padre, tu mio defensore, e tu voglio che sia ogni mio
bene. E quel che mio marito ha voluto per una sera, voglio
INTRODUZIONE XLVII
gli abbia sempre». La Mandragola finisce, in fondo, qui:
non in quell'altro livido finale sul sagrato, tra le ultime al-
lusioni lubriche, il magro compenso al corruttore, la gioia
sinistra del beffato. Qui, in questa nuova assunzione di re-
sponsabilità, in questo attivo confronto con l'esistenza.
Passano vari anni (sette, se ci si affida alla datazione
Ridolfi, cinque, se ci si riferisce a quella Inglese) tra la
Mandragola e l'altra commedia di Machiavelli in volgare
e in prosa, cioè la Clizia.
Sono anni - innanzitutto - di edizioni multiple della Man-
dragola, e in varie città. Fiorentina era stata la princeps, in-
titolata Comedia di Callimaco et di Lucretia, senza indica-
zione d'editore, stampata forse da un modesto tipografo.
A Venezia uscì la seconda, nel 1522, presso Alessandro
Bindoni, con lo stesso titolo della prima. A Roma vide la
luce la terza, nel 1524, presso i Calvo: ora il titolo suona-
va Comedia facetissima intitolata Mandragola et recitata in
Firenze: e tale riapparve sul frontespizio della quarta (e ul-
tima in vita dell'autore), a Cesena, presso Girolamo Son-
cino nel 1526. Il Ruscelli la includerà nelle Commedie elet-
te affidate al Pietrasanta nel 1554: Giunti che l'aveva già
edita nel '50, la reimprimerà nel 1556; Venezia vedrà an-
cora nascere due stampe, senza indicazione d'editore, nel
1587 e '88; Roma ne ospiterà una del 1588. Poi le «nuo-
ve moralità» della Controriforma la condanneranno al si-
lenzio: Carlo Goldoni, a diciassette anni, la rilesse dieci
volte, postillandola, non senza scandalo del padre medi-
co. Siamo al 1724: la lettura ha qualcosa del «legato», poi
cala la tela".
" e. GOLDONI, Tutte le opere, a cura di G. Ortolani, I, Milano 1935, p. 44:
«Il m'apporta, quelques jours aprés, une vieille comédie reliée en parchemin
[...] C'etoit la Mandragore de Machiavelli. Je ne la connossois pas; mais j'en
avois entendu parler, et je savois bien que ce n'etoit pas une piece tres-chaste.
Je la deverai à la premiere lecture, et je l'ai relue dix fois. Ma mere ne faisoit
pas attention au livre que je lisois, car c'etoit un Ecclésiastique qui me l'avoit
donne; mais mon pere me surprit un jour dans ma chambre, pendant que je fai-
soit des notes et des remarques sur la Mandragore. Il la connossoit: il savoit com-
bien cette piece étoit dangereuse pour un jeune homme de dix-sept ans; il vou-
XLVIII GUIDO DAVICO BONINO
A compensare l'autore erano venute molte, e belle, mes-
sinscena. Della romana, alla corte di Leone X, abbiamo
letto le avvisaglie nella lettera di Battista della Palla. Nel
convento dei Crosechieri (Crociferi, ora Campo dei Ge-
suiti, alle Fondamenta Nuove) il 13 febbraio 1522 la Man-
dragola fu recitata, teste quel prezioso diarista di Marin
Sanudo: «In questa sera ali Crosechieri fo recitata una al-
tra comedia improsa per Cherea luchese e compagni, di
uno certo vechio dotor fiorentino che havea una moglie
non potea far fioli etc. Vi fu assaissima zente, con inter-
medii di Zan Pollo e altri buffoni, e la scena era si piena
di zente che non fu fato il quinto atto perché non si potè
farlo, tanto era il gran numero di le persone»; tre giorni
dopo, il 16, «fu di novo ali Crosechieri recitata la come-
dia dil fiorentino non compita l'altro zorno. Io non vi fui
per esser stato». Un esperto di cultura veneta quale Gior-
gio Padoan aveva precisato sin dal 1969 che il successo,
se ci fu, non fu dovuto alla rinomanza dell'autore, ignoto
per allora al pubblico veneziano, ma al prestigio dei due
principali interpreti: degli intermezzi Zuan Polo, «da an-
ni il più famoso attor comico in Venezia»; della comme-
dia, il lucchese Francesco de' Nobili detto Cherea, un in-
tellettuale cui furono anche affidati incarichi diplomatici.
Il Padoan propende tuttavia per un esito temperato: e ciò
per le venature antifrancesi, di cui il testo era tramato".
Ma, tra Ferrara e Venezia, la Mandragola s'era fatta sen-
lut savoir de qui je la tenois, je le lui dis; il me grounda amerement, et se brouil-
la avec ce pauvre Chanoine qui n'avoit peché que par nonchalance. J'avois des
raisons tres-justes et tres-solides pour m'excuser vis-à-vis de mon pere; mais il
ne voulut pas m'écouter. Ce n'étoit pas le style libre ni l'intrigue scandaleuse
de la piece qui me la faisoient trouver bonne; au contraire, su lubricité me ré-
voltoit, et je voyois par moi-méme que l'abus de confession étoit un crime af-
freux devant Dieu et devant les hommes; mais c'étoit la premiere piece de ca-
ractere qui m'étoit tombe sous les yeux, et j'en étois enchanté. J'aurois desiré
que les Auteurs Italiens eussent continue, d'aprés cette Comédie, à en donner
d'honnètes et décentes, et que les caracteres puisés dans la Nature eussent rem-
placé les intrigues romanesque».
" «In effetti ncWa Mandragola si afferma pari pari - e sia pure (naturalmente)
in chiave comica, in modo da tingere di assurdo le proposizioni - che anche il
re di Francia per aver figli era ricorso al rimedio della mandragola (impotente
e cornuto, dunque) e con lui numerosissimi altri principi francesi: "e se non era
INTRODUZIONE XLIX
tire anche sui drammaturghi colleghi: e per via del perso-
naggio più «forte», fra Timoteo. Ariosto ne aveva tradi-
ta l'eco in un frate della sua commedia in versi / Studenti
da lui composta fra il 1520-24, anche se in una stesura in-
completa (era priva del prologo e s'arrestava alla quarta
scena del quarto atto). In III, 6, ai vv. 1 125-1233, face-
va la sua comparsa un Frate predicatore, che si vantava
col pater fatnilias Bartolo di possedere una certa qual bol-
la: «Voi potete veder la bolla, e leggere - le facultàdi mie
che sono amplissime, - e come, senza che pigliate, Barto-
lo, - questo peregr inaggio, io possa assolvere - e commu-
tar gli voti...» (vv. II 26-1 130), sino a concludere con apo-
dittica sentenziosità: «Non si trova al mondo si fort'obli-
go - che non si possa sciór con l'elemosina» (vv. 1231-
I232)*^ Dal canto suo, a Roma, ai primi del 1525, un tren-
taduenne Pietro Aretino stende la prima, e più mordace,
versione della Cortigiana (la cosidetta «romana»), sua pri-
ma commedia. La ruffiana Aloigia, in III, 16, si reca a far
una pia visita d'ossequio al Guardiano d'Araceli, la chie-
sa nei pressi del Campidoglio; lo trova «più bel che mai e
più grasso», e vuole da lui chiarimenti su un ricorrente
terror popolare: «Il Turco dove si truova?» Anche lei, co-
me la nobildonna fiorentina, ha lo stesso incubo: «Una
mala cosa saria e una gran ribalderia, che 'nsin quello im-
palare non mi va per la fantasia in niun modo. Impalare,
ah? ma verrà egli, padre?» Il Guardiano la rassicura e se
per questo, la reina di Francia sarebbe sterile, e infinite altre principesse di
quello Stato" (si osservi come sia ac/^oc la precisazione "di quello Stato", e non
- poniamo - "di molti Stati"); e ciò viene poiiihadito nel rimprovero, rivolto
a Nicla: "Si che voi dubitate di fare quello che ha fatto il re di Francia e tanti
signori quanti sono là?" (II 6). Come non bastasse, la medesima ironia ritorna
a proposito di "san Cucù", il santo dei cornuti: "E el più onorato santo che sia
in Francia" (IV 9); e non è devozione che ai francesi risultasse proprio ad ono-
re. Nella Firenze medicea del 1518-19 e nella Roma leonina del 1520, entram-
be volte all'Impero, quelle battute non dovevano spiacere ai governanti; non
cosi nella Venezia del 1522, alleata della Francia in una guerra riapertasi da po-
co e divenuta subitamente grave per la pronta occupazione ispano-pontificia
del ducato di Milano» (g. padoan. La «Mandragola» del Machiavelli nella Ve-
nezia cinquecentesca, in «Lettere italiane», xxii, 1970, pp. 161-86 (le citazioni
dal Sanudo a p. 164, dallo studioso a p. 169).
" ARIOSTO, Commedie cit., pp, 684-85 e 688.
L GUIDO DA VICO BONINO
ne andrà contenta, «perché il pane mi piace in palato e
non essere impalata dal Turco»".
Per tornare alle rappresentazioni, la commedia di Cal-
limaco e Lucrezia trionfa daccapo, e sempre a Venezia,
l'anno dopo V exploit provocatorio (rimasto per allora ma-
noscritto) dell'Aretino. Un amico dell'autore, Giovanni
Manetti, lo informa in data 28 febbraio 1526 che il 5 feb-
braio, in casa Morosini, era stata allestita in volgare i Me-
necmi di Plauto, in contemporanea con un allestimento
della Comeàia ài Callimaco da parte della «nazione fio-
rentina», la comunità cioè commerciale e diplomatica dei
suoi concittadini: «Per adempire el desiderio di V.S. de
l'intendere del recitare de la sua Comeàia àe Calimaco, fo
intendere a V.S. quella eser stata recitata con tanto ordi-
ne e buon modo, che un'altra compagnia di gentilomeni
che a concorrenzia de la vostra in quella sera medesima
etiam con spesa grande ferno recitar li Menecmi di Plau-
to vulgari, la qual, per comedia antica, è bella e fu recita-
ta da asai boni recitanti, niente di meno fu tenuta una co-
sa morta rispetto alla vostra; di modo che, visto comen-
darsi tanto questa più che quella, da vergogna spronati,
con istanzia grandissima richiesero la compagnia di que-
sta che di grazia gliela volesino recitar in casa loro dove
era recitata la loro. E cosi come persone gentilissime un'al-
tra sera poi fu di nuovo con l'intermedi propri de la pri-
ma volta recitata e con grandissima satisf azione di tutti si
fini; donde che abondantemente furon date le benedizio-
ni primamente al compositore e sucesive al resto, che se
n'erono impaciati, de le quali ne dovea participar anche
io per causa di aver tenuta la comedia in mano drieto a li
casamenti del proscenio, perché la andasse più a ordine e
per soccorere, se fusse acaduto, alcuno de' recitanti, il che
non bisognò. E questo sia a consolazion de la S.V.. E sta-
" p. ARETINO, Cortigiana. Opera Nova. Pronostico. Testamento dell'Elefante.
Farza, a cura di A. Romano, intr. di G. Aquelecchia, Milano 1999, p. 123. Su
questa «ripresa» ha scritto pagine assai puntuali A. guidotti. Riscrittura areti-
niana di una scena della «Mandragola», in aa.vv., Studi offerti a Luigi Blasucci
dai colleghi e dagli allievi pisani, a cura di L. Lugnani, M. Santagata, A. Stussi,
Lucca 1996, pp. 299-308.
INTRODUZIONE LI
ta tanto acetta che questi nostri mercanti de la nazione se
anno dato la fede, posendo però aver qualcosa di vostro e
non d'altri, recitare, se posibil fusse de averlo a tempo,
questo primo magio avenire; si che sete pregato per par-
te di tutti, posibil essendo che V.S. si degni o qual cosa
fatta, o vero che ne la m.ente l'aveste fabricata, tal che la
si possi avere: e non pensate che le composizioni d'altri
avesino questa richiesta, perché in efetto elle anno dolce-
za e sapore, de le quali se ne può cavare dilettevol con-
strutto e onesto satisf amento »^^ Un doppio trionfo, in-
somma: la Mandragola che «sbianca» i Menecmi, e Ma-
chiavelli che viene richiesto, addirittura per il i° maggio
veniente, d'un nuovo copione, scritto o da scrivere.
Per la verità, sin dall'estate dell'anno prima, s'era fat-
to sentire presso di lui un impresario ben più illustre dei
ricchi mercanti, Francesco Guicciardini, il presidente del-
la Romagna per il Pontefice. Letta la Mandragola, aveva
deciso di allestirla a Faenza per il carnevale del '26. Co-
municatolo all'autore, con cui era in affettuosa corri-
spondenza, ne aveva ricevuto da Firenze, in data 16-20
ottobre 1525, una lettera assai gustosa, dove, oltre a chia-
rire alcuni passi oscuri del copione. Machiavelli lo assicu-
rava di aver già provveduto a scrivere le canzoni per la
nuova messinscena e di aver già pensato a un'interprete:
«Mentre che voi sollecitate costi, et noi qui non dormia-
mo; perché Lodovico Alamanni et io cenamo a queste se-
re con la Barbera et ragionamo della commedia, in modo
che lei si offerse con li suoi cantori a venire a fare il coro
in fra li atti; et io mi offersi a fare le canzonette a propo-
sito delli atti, et Lodovico si offerse a darli costi alloggia-
mento, in casa i Buosi, a lei et a' cantori suoi; si che ve-
dete se noi attendiamo a menare, perché questa festa hab-
bia tutti i suoi compimenti... »^'. Quello delle canzoni non
era la sola integrazione, o il solo restauro, per il nuovo al-
lestimento. Da Faenza, il 26 dicembre '25 il Guicciardi-
ni, di sua iniziativa, ne chiedeva all'autore un altro, più
" MACHIAVELLI, Opere cit., p. 417.
'' Ibid.,p. 408.
LH GUIDO DAVICO BONINO
delicato: la ristesura del prologo, riscritto provvisoria-
mente dagli attori, non convinti che gli spettatori faenti-
ni sarebbero riusciti a ben comprendere (nel viluppo del-
le angosce e delle frustrazioni) quello originario: «... e per-
ché non si accordano allo argumento, quale non intende-
rebbono, ne hanno fatto un altro, quale non ho visto, ma
lo vedrò presto; e perché desidero non sia con l'acqua fred-
da, non credo possiate errare a ordinarne uno altro confor-
me al poco ingegno delli auditori, e nel quale siano più
presto dipinti loro che voi...»'".
All'epoca dei preparativi per la recita faentina o (che è
lo stesso, quanto alle date) dell'allestimento veneziano,
Machiavelli aveva però già scritto un'altra commedia, la
Clizia: tant'è vero che due delle canzoni che Machiavelli
aveva detto al Guicciardini di aver scritto ex novo per la
vagheggiata serata faentina le aveva, invece, già composte
per l'altra commedia. La testimonianza di uno storico del-
l'arte e dello spettacolo come un Vasari^' e altri dati desun-
ti da lettere del Machiavelli hanno permesso, ancora una
volta, al Ridolfi di datare la stesura e l'allestimento della
commedia: scritta (forse di fretta e su ordinazione) ai primi
del gennaio 1525 e messa in scena in casa di Jacopo di Fi-
'°7è/W.,p. 413.
" La testimonianza del Vasari è nella Vita del pittore e architetto Bastiano
da Sangallo, detto per la sua maestria l'Aristotile: «Intanto avendo fatto Ari-
stotile grande amicizia con Andrea del Sarto suo vicino, dal quale imparò a fa-
re molte cose perfettamente, attendendo con molto studio alla prospettiva; on-
de poi fu adoperato in molte feste che si fecero da alcune Compagnie di genti-
luomini, che in quella tranquillità di vivere erano allora in Firenze: onde aven-
dosi a fare recitare dalla Compagnia della Cazzuola, in casa di Bernardino di
Giordano, al canto a Monteloro, la Mandragola piacevolissima comedia, fecero
la prospettiva, che fu bellissima, Andrea del Sarto ed Aristotile; e non molto
dopo, alla porta San Friano, fece Aristotile un'altra prospettiva in casa Jacopo
Fornaciaio, per un'altra comedia del medesimo autore. Nelle quali prospettive
e scene, che molto piacquero all'universale, ed in particolare al signor Ales-
sandro ed Ippolito de' Medici, che allora erano in Fiorenza sotto la cura di Sil-
vio Passerini cardinale di Cortona, acquistò di maniera nome Aristotile, che
quella fu poi sempre la sua principale professione; anzi, come vogliono alcuni,
gli fu posto quel soprannome, parendo che veramente nella prospettiva fusse
quello che Aristotile nella filosofia» (da Le Vite, a cura di G. Milanesi, VI, Fi-
renze 1906, pp. 437-38). Allo spettacolo hanno dunque assistito Ippolito di
Giuliano de' Medici, Alessandro di Lorenzo e il cardinal Silvio Passerini, «go-
vernatore» di Firenze per papa Clemente Vili.
INTRODUZIONE LUI
lippo Falconetti detto il Fornaciaio, il 1 3 di quel mese. Nel
'20 il Fornaciaio era stato bandito da Firenze per cinque
anni: ma gli era stato concesso di risiedere nella sua casa a
Santa Maria in Verzaia fuori porta a San Frediano, arric-
chita di una fornace, un vasto podere e un orto (giardino),
apprezzato luogo di raduno di borghesi fiorentini. Il 13
gennaio 1525 scadeva appunto il bando: per festeggiare la
revoca, il Falconetti ebbe l'idea di far rappresentare nel-
r«orto rappianato» una commedia e di chiederla all'ami-'
co Machiavelli, di cui di recente era stata replicata (in ca-
sa di Bernardino di Giordano al canto a Monteloro) la Man-
dragola, con scene di Andrea del Sarto e Bastiano da San-
gallo. Lo stesso Sangallo (per la sua maestria di decorato-
re teatrale soprannominato l'Aristotile) sarà lo scenografo
della Clizia. Con lui e col Machiavelli collaboreranno per
la parte musicale il madrigalista Philippe Verdelot ed una
ammirata cantatrice. Barbara Raffacani Salutati.
Il nome della Barbara (o Barbera) Raffacani Salutati,
meglio nota tra i melomani dell'epoca come Barbara Fio-
rentina, ci trasporta d'un tratto dall'ambito della rico-
struzione erudita ai preliminari dell'interpretazione del-
la commedia". Giacché, come le Lettere, ancora una vol-
" Non possediamo molte notizie sulla bella Barbara Fiorentina, la «mera-
vigliosa cantatrice», molto attiva e celebrata nella Firenze del primo trenten-
nio del Cinquecento. In occasione della mostra (1975) su II luogo teatrale a Fi-
renze (Brutte lleschi, Vasari, Buontalenti , Parigi) svoltasi a Palazzo Medici-Ric-
cardi, i curatori dell'esposizione hanno esibito il ritratto della Barbara di mano
di Domenico Puligo (1492-1527), dipinto a olio su tavola. Eccone il commen-
to di Anna Maria Petrioli Tofani, che trascriviamo dal catalogo della mostra
(con intr. di L. Zorzi, Milano 1975, pp. 75-76): «Scrive Giorgio Vasari nella
Vita di Domenico Puligo - in un brano in cui pone in rilievo le doti ritrattisti-
che di questo pittore - che costui ritrasse anco in un quadro la Barbara Fio-
rentina in quel tempo famosa, bellissima cortigiana, e molto amata da molti,
non meno che per la bellezza, per le sue buone creanze, e particolarmente per
essere bonissima musica e cantare divinamente» {Le Vitec'il., IV, Firenze 1879,
p. 4). Che questo dipinto rappresenti il ritratto di una musicista è cosa certa,
come pure sicuro è il fatto che esso appartenga alla mano di un buon artista fio-
rentino di estrazione sartesca. L'ipotesi quindi che possa qui identificarsi il ri-
tratto della famosa cantante Barbara Fiorentina citato dal Vasari, risulta ap-
pieno confermata sul piano iconografico e attributivo».
LIV GUIDO DAVICO BONINO
ta, copiosamente testimoniano, la beila cantante non era
solo la sensibile interprete degli intermezzi, ma una don-
na affascinante, di cui il Segretario (ormai quasi cin-
quantaseienne, coniugato da ventiquattro anni, padre di
molta prole) si confessava, contro ogni decoro, innamo-
rato. Il Guicciardini avrà un bel rimproverargli, sotto le
mentite spoglie della «Madonna Possessione di Finoc-
chieto» (in una lettera del 7 agosto '25 da Faenza, che è
un capolavoro di understatement) , questa passione per una
donna «allevata con costumi inonesti», che «si sforza pia-
cere a tutti e cerca piuttosto di apparire che di essere»".
Machiavelli non sa evidentemente distaccarsi da quella
«conversazione meretricia»: e anche se è costretto ad
ammettere tra i denti (come gli accadrà il 3 gennaio '26,
in una missiva da Firenze al Guicciardini) che la giovane
«l'ha certi innamorati, che potrebbono impedire» la sua
venuta a Faenza (il che equivale a dire che non è soltan-
to sua)'^ le sue missive si chiudono spesso con trepidan-
ti richieste di protezione per la donna: «La Barbera si
truova cosi: dove voi gli possiate far piacere, io ve la rac-
comando, perché la mi dà molto più da pensare che lo im-
peradore» (cosi, in una lettera al Guicciardini da Firen-
ze il 15 marzo 1526)".
Quella con Barbara è qualcosa di più di un'avventura
galante: è un legame che impegna Machiavelli, anche per-
ché allo scoperto, a conoscenza di amici e parenti (tra que-
sti, il cognato Francesco del Nero)^'. Ma soprattutto c'è
il divario d'età a farlo sentire, a tratti, estraneo alla don-
na. Questa estraneità, questa lacerazione di un vecchio
acceso d'una giovane, il Machiavelli intellettuale e scrit-
tore poteva rimirarla (quasi «straniandosi») come un to-
" MACHIAVELLI, Opere cit., pp. 398-400.
" Ibid., pp. 415.
" Ibid., pp. 421-22.
" Chi volesse approfondire il «romanzo d'amore» machiavelliano, potrà leg-
gere la lettera di Filippo Strozzi a Machiavelli, da Roma, il 31 marzo 1526 (Ope-
re cit., pp. 422-24); quella di Jacopo Falconetti allo stesso, «in campo de la Le-
ga», da Firenze il 5 agosto 1526 (ibidem, pp. 434-35); e quella, assai pettegola
ma rivelativa, di Filippo de' Nerli appunto a Francesco del Nero, del i marzo
1525 [ibidem, p. 161 8).
INTRODUZIONE LV
pos letterario antico di secoli; ma era pur qualcosa che gli
viveva dentro, una passione non superficiale, che stenta-
va, in ogni caso, ad attenuarsi.
La Clizia nasce anche (non voglio dire, soltanto) da que-
sta condizione di feconda ambiguità del Machiavelli din-
nanzi ad una situazione - quella del vecchio innamorato
fuori tempo e contro ragione - ad un tempo autobiogra-
fica e letteraria, privata e topica, specialmente nell'alveo
della tradizione drammaturgica.
Parlo di «ambiguità» in senso, ovviamente, positivo,
per definire quello svariare di toni, dall'ironico all'elegia-
co, con cui Machiavelli, tra malizia e melanconia, modu-
la il tema dell'amor senile, sin dalla prima scena della com-
media: da quel paragone in bocca a Palamede sulle tre spe-
cie di fastidiosi («vecchi, cantori ed innamorati») che agli
spettatori della prima dovette riuscire carico d'allusioni
all'autore e all'oggetto dei suoi ardori. E su questo dupli-
ce registro, dell'irrisione che si smorza in una tenerezza
in qualche modo disperata, che il topos viene ripreso più
avanti: dal monologo di Cleandro (I, 2), tutto scandito sul
raffronto tra innamorati e soldati («Brutta cosa vedere un
vecchio soldato: bruttissima è vederlo innamorato...»)"
alla canzona di chiusa del secondo atto («Quanto in cor
giovinile è bello amore - tanto si disconviene - in chi de-
gli anni suoi passato ha il fiore...»).
Del resto Machiavelli è felicemente «ambiguo» anche
nel rapporto con il modello latino. Il testo autorizzato cui
questa volta si rifa non è terenziano, ma plautino: ed è
quello della Casina. Allestita molte volte sin dai primi del
secolo - una rappresentazione ferrarese del 1502, parti-
colarmente fastosa, aveva fatto scalpore - la Casina è una
delle commedie plautine più tradotte nel primo Cinque-
cento'*. Ma Machiavelli non intende realizzare né una ver-
sione né un adattamento. La sua Clizia è «liberamente
" Nella sua polemica «inchiesta» sul Dialogo della lingua, Una giarda fioren-
tina (Roma 1978), M. Martelli scopri che questa celebre similitudine è tradot-
ta da OVIDIO, /4«ore5, I, 9, vv. 1-30 (alle pp. 180-81, nota 5).
" A. d'ancona, Le origini del teatro italiano, Torino 1891, II, passim.
LVI GUIDO DAVICO BONINO
ispirata» (come si usa dire oggi, nel gergo degli sceneg-
giatori di professione) al modello. La libertà è tanta che
tutta la prima parte della commedia, salvo qualche eco
smorzata, è originale, sino (se vogliamo essere precisi) al-
la terza scena dell'atto terzo". Ed è diversa, fin dall'ini-
zio, la distribuzione dei ruoli e il loro reciproco impiego,
giacché in Plauto il conflitto è duplice (un marito contro
una moglie, e i due servi l'uno contro l'altro), mentre in
Machiavelli è unico (un padre contro un figlio, arbitra la
moglie-madre, restando sullo sfondo la rivalità tra il ser-
vo e il fattore). Ma anche la ventina di scene in cui Ma-
chiavelli fruisce del testo plautino sono, a loro volta, ri-
pensate e riatteggiate per intero. Machiavelli decodifica
Plauto spogliandolo di tutte le sue peculiarità stilistiche
(il gusto dell'iperbole, la frenesia parodistica, la trivialità
spinta sino all'astrazione): e lo riconduce ad una misura
di realismo nutrito di concretezza e di quotidianità, lo
«educa» ad un parlar domestico e moderno: e, sul piano
drammaturgico, tende a rendere più incalzante la parola
teatrale, badando a comprimere due sequenze in una o a
dare maggiore concisione al dialogo o a eliminare, all'in-
terno di una battuta, amplificazioni meramente decorati-
ve o, addirittura, divaganti.
Pochi anni dopo VAndria seconda (ancora insoddisfa-
cente, tutto sommato) Machiavelli «tradisce» davvero il
suo modello: e dal punto di vista del discorso scenico
(nell'ottica di un regista che guardasse più all'efficacia del
copione che al suo «messaggio»), la Clizia è un risultato
molto notevole: commedia non minore (né maggiore, cer-
to) della Mandragola, e, in ogni caso, con una sua resa tea-
trale molto intensa.
Purtroppo è il messaggio della commedia non dico a de-
" «La sola scena che trova riscontro in Plauto è il contrasto tra i due servi,
che nella Casina inaugura la commedia e nella Clizia occupa il finale del secon-
do atto (ma quasi interamente diversa ne è T'secuzione)»: cosi ferroni, «Mu-
tazione» e «riscontro», p. 62 (ma molte pagine, assai precise, sono in quel sem-
pre solido contributo dedicate al particolare rapporto con la fonte).
INTRODUZIONE LVII
ludere, ma a lasciarci, almeno sulle prime, sconcertati. Per
intenderlo chiaramente, sin dalle premesse, conviene leg-
gere attentamente il prologo. E intanto in prosa e non in
versi, come il prologo della Mandragola: già questa scelta
suggerisce una più distesa volontà ragionativa, che trova
riscontro nell'ampiezza del brano. Ma siamo agli antipo-
di della Mandragola soprattutto a livello dei contenuti. Là,
in otto strofe di mirabile pregnanza, Machiavelli delinea-
va lo spazio scenico, caratterizzava la tipologia dei perso-
naggi: e accampava, con aspro polemismo, le proprie an-
gosce esistenziali: l'esercizio del comico come labile ri-
sarcimento, in un «tristo tempo», della forzosa inattività
politica; la consapevolezza dell'inutilità d'ogni creazione
letteraria dinnanzi ad una società neghittosa, maledica e
corrotta; la rivendicazione del furor satirico e del di-
sprezzo verso i propri simili, appena mascherato dal ri-
spetto delle convenienze sociali. Era, quello della Man-
dragola, un prologo aggressivo nei confronti del pubblico
e spietato verso se stesso: un prologo che lasciava presa-
gire che il «badalucco» sarebbe stato poco leggiadro e di-
straente.
Qua, nella Clizia, il tono del discorso è riposato e ac-
cattivante: assente o quasi il personaggio-autore*", il com-
mediografo si esprime per pure ragioni teoriche, osten-
tando un fermo distacco dalla materia narrata. La pre-
messa, benché enunciata quasi di sfuggita, illumina l'in-
tero discorso: «Se nel mondo tornassino i medesimi uo-
mini, come tornano i medesimi casi, non passerebbono
mai cento anni che noi non ci trovassimo un'altra volta
insieme, a fare le medesime cose che ora...» E una battu-
ta, in apparenza, funzionale a ciò che segue (un caso ac-
caduto nell'antica Atene è identico ad altro svoltosi nella
Firenze contemporanea). Ma intanto vi traspare (al di là
dello sfoggio di una citazione plutarchea)*' tutta una vi-
"° Il solo accenno polemico verso il pubblico è in III, 5: «In questa terra,
chi ha bella moglie non può essere povero: e del fuoco e della moglie si può es-
sere liberale con ognuno, perché quanto più ne dai, più te ne rimane».
"' E una citazione dalla Vita di Sertorio di Plutarco, come ebbe a osservare
E. RAIMONDI, Il segretario a teatro cit., p. 216.
LVIII GUIDO DA VICO BONINO
sione dell'esistere («tanto che mi pare che tutti li tempi
tornino, e che noi siamo sempre quelli medesimi...», leg-
giamo in una lettera dell'ottobre '25): una visione scetti-
ca e disincantata, di chi sa che nulla (tantomeno il teatro)
vale a modificare l'eternamente circolare destino degli uo-
mini. Colui che sta per esibirsi è dunque un Machiavelli
che sembra aver conquistato il privilegio dell'atarassia,
non l'esule iroso e esacerbato della Mandragola. Forse per
questo ora può finalmente aderire all'ideale (caro a «gli
amici di meriggio», agli ospiti esclusivi degli Orti Oricel-
lari)*^ di una letteratura dilettosa e moraleggiante.
Su una trama di riferimenti che vanno da Terenzio a
Cicerone a Donato, si dispiega infatti nel prologo un'idea
di teatro fatto per «giovare» e «dilettare». Dell'autore è
proposta un'immagine di «uomo molto costumato», alie-
no da qualunque maldicenza (« . . . lo autore, per fuggire ca-
rico, ha convertito i nomi veri in nomi fitti...»): l'oppo-
sto, expressis verbis, di quello della Mandragola: «Volendo
adunque questo nostro autore dilettare e fare in qualche
parte gli spettatori ridere, non inducendo in questa sua
commedia persone sciocche ed essendosi rimasto di dire
male, è stato necessitato ricorrere alle persone innamora-
te e alli accidenti che nello amore nascano». Un'onesta e
istruttiva commedia d'amore sta per essere recitata: e i
personaggi stessi sono chiamati in scena ad una presenta-
zione a metà affettuosa, a metà ironica («Uscite qua fuo-
ra tutti, che '1 popolo vi vegga. - Eccogli. Vedete come e'
ne vengono suavi! Ponetevi costì in fila, l'uno propinquo
all'altro...») Col pubblico della Clizia Machiavelli instau-
ra tutt' altro rapporto che con quello della Mandragola: là
un altalenante gioco di perorazione e scherno, di compli-
cità e dileggio; qua una comunanza di intenti e affetti, da-
vanti ad una favola esemplare, da consumarsi nel volgere
di qualche ora, nel bel giardino di una casa amica: tra spet-
tatori che consentono e comprendono al volo persino il
" Lo stesso Raimondi (ibid., p. 217) aveva notato una precisa affinità tra il
prologo della Clizia e quello della Commedia in versi di Lorenzo Strozzi, ricor-
data in apertura di questo nostro scritto.
INTRODUZIONE LIX
frizzo di un'allusione autoironica alle proprie pene d'amo-
re: «Non aspettate di vederla [la fanciulla Clizia], perché
Sofronia, che l'ha allevata, non vuole per onestà che la
venga fuora. Pertanto, se ci fussi alcuno che la vagheg-
giassi, ara pazienza...»
Diversa dunque, anzi opposta a quella del prologo del-
la favola di Nicla, la temperie del prologo della Clizia: e
diverse anche la tematica e la struttura.
A differenza della Mandragola, che poggia saldamente
sopra due strutture antitetiche, quella d'amore e quella di
beffa, affidate a due personaggi distinti, Callimaco e Ni-
cia, il personaggio-struttura della Clizia è uno solo: è, cal-
colatamente, un amante beffato, che assolve e assomma
in sé, a partire addirittura dal nome, Nicomaco, le due
«funzioni». L'idea di affidare ad un vecchio settantenne,
per di più ripugnante (è il figlio, Cleandro, ad accennare
alla «fetida bocca», alle «tremanti mani», alle «grinze e
puzzolente membra» del genitore, in IV, i) il ruolo dell'in-
namorato, non è, ovviamente, di Machiavelli, ma dei co-
mici latini. La novità, nel trattamento del personaggio, è
che Nicomaco ha davvero la risolutezza dell'amante gio-
vane: ma questa risolutezza deve fare di continuo i conti
con la fiacchezza senile. E il contrasto, delineato con mi-
rabile economia drammaturgica, nel monologo (II, i) che
segna l'ingresso in scena del personaggio: «Che domine
ho io stamani intorno agli occhi? E' mi pare avere e ba-
gliori, che non mi lasciono vedere lume, e iersera io arei
veduto el pelo nell'uovo. Are' io beuto troppo? Forse che
si. O Dio, questa vecchiaia ne viene con ogni mal mendo!
Ma io non sono ancora sì vecchio, ch'io non rompessi una
lancia con Clizia. E egli però possibile che io mi sia inna-
morato a questo modo?» Lungo tutto il secondo atto (e il
personaggio ha una forte presenza nel copione, venti su
trentatre scene lo vedono impegnato) Nicomaco oscilla
(con effetti di una comicità intrisa di malinconia) tra fiac-
chezza e vigoria, prudenza ed audacia: «E' bisogna anche
LX GUIDO DA VICO BONINO
far le cose in modo che la casa non vada sotto sopra. Tu
vedi: mógliama non se ne contenta, Eustachio la vuole an-
ch'egli, parmi che Cleandro lo favorisca, e' ci si è volto
contro Iddio e '1 diavolo. Ma sta' tu pur forte nella fede
di volerla. Non dubitare, ch'io varrò per tutti loro, per-
ché, al peggio fare, io te la darò a loro dispetto; e chi vuo-
le ingrognare, ingrogni» (II, 2).
Poi, in apertura del terzo atto, quel vecchio ha come un
sovrassalto di aggressività, acquisisce d'un tratto la bal-
danza dell'amante giovane: deciso a «sgominare» tutto e tut-
ti («... ma te e lui caccerò io nelle Stinche; a Sofronia ren-
derò io la sua dota e manderoUa via, perché io voglio es-
sere io signore di casa mia, e ognuno se ne sturi gli orec-
chi! », in III, i), orgoglioso sino alla bestemmia della pro-
pria gagliardia: «Sta bene con Cristo e fatti beffe de' san-
ti.» (Ili, 6). E il Nicomaco proteso a soluzioni estreme (al
«pigliare verso» di III, 7), animato da una «furia... estraor-
dinaria»: in tutto e per tutto un perfetto amante, per ener-
gia e determinazione. Proprio a questo punto, con sorve-
gliato tempismo, Machiavelli innesta sulla struttura eroti-
ca quella della beffa: proprio adesso sturba r« allegrezza»
dell'amante ad un passo da soddisfare i propri desideri
(«Tutte queste cose accrescono la mia allegrezza. Ma mol-
to più sarò allegro, quando io terrò in braccio Clizia, quan-
do io la toccherò, bacerò, strignerò...», in IV, 2) precipi-
tandolo in un «giuoco» (cosi in V, 3 i due protagonisti de-
finiranno, a posteriori, la beffa) sinistro e senza scampo.
È la gran burla di V, 2, di cui, per colmo di crudeltà,
Nicomaco sarà vittima e cronista: dico grande, perché, ac-
costata a quella della Mandragola, questa della Clizia ha
un sovrappiù di orchestrazione, una coralità che rende ter-
ribile lo strazio del beffato: «Io sono vituperato in eter-
no, non ho più rimedio, né potrò mai più innanzi a mó-
gliama, a' figliuoli, a' parenti, a' servi capitare». Travol-
to dalla «gran vergogna», Nicomaco è «spacciato». Men-
tre la comunità che ha montato quel lugubre scherzo è
sommersa dalla marea del riso («Io non risi mai più tan-
to, né credo mai più ridere tanto, né in casa nostra que-
sta notte si è fatto altro che ridere. Sofronia, Sostrata,
INTRODUZIONE LXI
Cleandro, Eustachio, ognuno ride...»: cosi Doria in V, i),
Nicomaco solo piange («E cosi ognuno rida e Nicomaco
pianga! », in V, 2). Distrutto nell'anima «che egli è una
compassione a vederlo» (V, 3), pare regredito ad uno sta-
dio infantile («tutto umile», come un fanciullino remissi-
vo, appunto), inerte ormai nella sua passività («Sofronia
mia, fa' ciò che tu vuoi... Governala come tu vuoi...»).
Ma cosa ha poi commesso di tanto grave, il vecchio in-
sano, nell' invaghirsi assurdamente di una ragazzina ed ave-
re avuto, in contraccambio, «nozze maschie?». Per capir-
lo, bisogna guardare al personaggio-tema, a Sofronia. So-
fronia «porta» in sé il tema del culto della norma, di cui
Nicomaco rappresenta la trasgressione in atto. Figura or-
ganica e compatta, Sofronia si presenta (11,3) salda nella
sua devozione religiosa: «Io credo che s'abbia a fare bene
d'ogni tempo; e tanto è più accetto farlo in quelli tempi
che gli altri fanno male». Ma la sua è una religiosità tutta
fattuale, come molto pragmatico (e scarsamente sacrale) è
il suo concetto della nobiltà: «Io ti ricordo che le genti-
lezze delli uomini consistono in avere qualche virtù, sape-
re fare qualche cosa, come sa Eustachio, che è uso alle fac-
cende in su' mercati, a fare masserizia, ad avere cura del-
le cose d'altri e delle sua. . . » Nicomaco, ai suoi occhi, è col-
pevole perché ha abdicato appunto a questa religione pro-
fana della concretezza. Lo dice molto chiaramente lo stu-
pendo monologo di II, 4 («Chi conobbe Nicomaco un anno
fa e lo pratica ora...»), che, nei modi distesi del ragguaglio
diplomatico, tesse appunto un elogio dell'onore e dell'or-
dine (sono, con la parola casa, i termini-chiave, ossessiva-
mente iterati, della commedia) come dei due beni concre-
ti, empiricamente tangibili, di ogni equilibrata esistenza,
che si ponga al riparo di un ben saldo codice di regole.
Di questo equilibrio e del rispetto della norma che es-
so esige Sofronia è una custode strenua (lo dice già Clean-
dro, in I, I, lodando appunto «l'astuzia» e «l'industria»
di sua madre). A fronte di un attimo di cedimento (come
in III, 3: «... Io non ci avevo ancora pensato, ma la rab-
LXII GUIDO DA VICO BONINO
bia di questo vecchio mi sbigottisce»), c'è in lei un fer-
vore di progettazione continuo (« ... non di meno, e' mi si
aggirano tante cose per il capo...»), che sfocia, nella sce-
na, centrale a tutti gli effetti, delle «sorti» (III, 7), in una
ferrea determinazione: «Io guardo, e so quel ch'io fo».
E una battuta, nella sua semplicità, lapidaria, degna del
tutto di un eroe machiavelliano. Da quel momento Sofro-
nia non cessa di «giostrare» per sottrarre Nicomaco «a sì
disonesta e vituperosa impresa», per «interrompere le di-
sonestà» dei suoi «disegni». E quando il colpevole è esem-
plarmente punito, il risarcimento che Sofronia gli chiede
è, appunto, il ritorno all'ordine, il riacquisto dell'onore, il
rientro, insomma, nella norma: «Ora la cosa è qui: se tu
vorrai ritornare al segno, ed essere quel Nicomaco che tu
eri, da uno anno indrieto, tutti noi vi torneremo... » I «tan-
ti testimoni» dello scandalo, dopo essersi concessi la va-
canza del «giuoco», si ricompongono ora, ordinatamente
e onorevolmente, nel culto della norma.
La «contenzione» tra Nicomaco e Sofronia, lo scontro
tra personaggio-struttura e personaggio-tema, occupa va-
sto spazio della Clizia. Ci sono, s'intende, altri personag-
gi, ma nessuno s'impone con altrettanta perentorietà. Non
Cleandro, che, nonostante il continuo sfoggio di termini
militari, da lessico propriamente guerresco, non riesce a
sfogare la propria combattività, impedito com'è, stretto
quasi tra la «voglia» che fa «spasimare» il padre e r« am-
bizione» della madre. Non i due vilains Pirro ed Eusta-
chio, due sbozzate macchiette, l'una della furfanteria, l'al-
tra della rozzezza campagnola: né tantomeno i personag-
gi puramente referenziali come Palamede, Damone, Bo-
ria. Anche da questo punto di vista, dal punto di vista del
giuoco delle parti, o, se si preferisce, della distribuzione
dei ruoli, misuriamo lo scarto che separa Mandragola da
Clizia .
Là c'era un giovane da bene e di valore (il «buon com-
pagno» del prologo) che tentava di conquistare una gio-
vane sposa «al tutto aliena dalle cose d'amore», sosti-
INTRODUZIONE LXIII
tuendosi ad un marito, che era certo «poco astuto», ma
anche «ricchissimo» (un avversario, sotto questo profilo)
e «non... al tutto vecchio». Ma c'era, per di più, un «pa-
rassito», che faceva tutt'altro, in scena, che «mendicare
cene e desinari», come la tipologia del suo ruolo avrebbe
preteso: e assolveva semmai il compito di «stratega»
dell'azione, spettante, di norma, al servo operoso e astu-
to. E mentre costui era degradato a pallido testimone del-
la vicenda, i due più maliziosi collaboratori del cosiddet-
to regista diventavano un «frate mal vissuto», e, addirit-
tura, la materfamilias, che - invece di stigmatizzare l'in-
ganno con le dovute, vibranti lamentazioni - vi portava
il decisivo contributo di una malvagità quasi ferina, da
quella «bestia» che era. Eravamo, dunque, dinnanzi a un
soggetto «scandaloso» non tanto per la materia scottante
affrontata, quanto perché, al suo interno. Machiavelli pro-
cedeva a ridefinire i ruoli e a invertirne le funzioni, di-
scostandosi di molto dai moduli precedenti. Nulla di si-
mile a codesto radicale sovvertimento di codici nella Cli-
zia, che è molto più schematica nei rapporti tra i perso-
naggi e molto più lineare nel contrapporre gli ardori di un
vecchio per un'adolescente e la sua pretesa follia, alla lu-
cida, fredda ragione della consorte, protesa senza soste al-
la tutela dell'onore e al ristabilimento dell'ordine.
Ma è poi la tensione progettuale sottesa alla Mandra-
gola ad essere assente nella Clizia. La commedia di Nicla,
come scherzosamente la chiamavano alcuni amici del Ma-
chiavelli", era nata da una condizione di scacco, nello sgo-
mento di un'esistenza condannata alla passività, nella rab-
bia impotente del vedersi «botato» a «non pensare più co-
se di stato né ragionarne». Nel reagire ad una situazione
politica del tutto ostile (nella quale i «patroni» sembra-
vano rigidamente determinati a « lasciar /o in terra») Ma-
chiavelli aveva caricato il suo «badalucco» teatrale di un
impeto assolutamente eccezionale. Una febbre dell'agire
smaniosa sino a stordirsi (Ligurie), una ragione capace del-
*' Lo aveva osservato, per inciso, G. aquilecchia nel suo «La favola "Man-
dragola" si chiama», poi in Schede di italianistica, Torino 1976, p. 99.
LXIV GUIDO DAVICO BONINO
le più riposte astuzie (Timoteo) avevano tramutato una
storia d'amore e di beffa in un'esemplare lezione di vita:
la lezione di chi, come Lucrezia, sapeva riconoscersi sag-
vjpf («Jgi^ nell'assecondare i disegni della Fortuna.
La lezione della Clizia è opposta. In un misto indefini-
bile di ironia e tenerezza, di scherno e malinconia, Ma-
chiavelli sembra voler ammonire i suoi spettatori che chi
voglia sottrarsi ad un insieme di regole (nel caso di Nico-
maco, alle consuetudini del macrocosmo famigliare) è de-
stinato alla sconfitta. Potrà forse spezzare momentanea-
mente l'ordine precostituito, ma sarà ricondotto dalla col-
lettività nei binari delle proprie ferree norme. La ben mu-
nita struttura domestica e borghese avrà, ad ogni buon
conto, ragione del solitario «deviante».
Commedia di una sperata (e, forse, ritrovata) fiducia
nell'esistere, la Mandragola; commedia, in qualche misu-
ra, della rassegnazione e della rinuncia la Clizia, che si
chiude col miserevole spettacolo di un uomo travolto dal-
la vergogna, esposto al ludibrio della collettività, e che
proprio per questo abdica al proprio ruolo e, in fondo, a
se stesso. Se questa è la corretta lettura della commedia,
resta da chiedersi, per concludere, se la scelta di Nico-
maco corrisponda nel Machiavelli (lui, che, al tempo dtì-
\2i Mandragola, si era mostrato, nonostante l'inattività for-
zata, tutt'altro che arreso) ad una analoga scelta esisten-
ziale: se, insomma, anche Niccolò, come il suo vecchio
«insano», ha deciso in cuor suo di astenersi, recedere, de-
sistere.
Torniamo allora a ritroso al Machiavelli, che, a segui-
to delle pressioni degli amici, è riuscito a ritrovare, dall'au-
tunno del '20, un mestiere: quello di «scrivere storie a fio-
rini di suggello» (e le storie saranno quelle «delle cose fat-
te dallo stato et città di Firenze», le Istorie fiorentine in-
somma). Di quell'impiego da scrittore a pagamento, anzi
a cottimo, non è propriamente entusiasta: ma è pur un
modo per tentare di reinserirsi nella vita pubblica e riac-
quistarvi, un giorno, un preciso ruolo politico. Intanto è
stato richiesto dal cardinale Giulio di Giuliano de' Medi-
ci (che, a nome di papa Leone, tiene a Firenze funzioni di
INTRODUZIONE LXV
governatore) di un parere sull'assetto politico da dare al-
la città: e, sul finire del '20, stende, in parallelo all'avvio
delle Istorie, il Discursus florentinarum rerum post mortem
iunioris Laurentii Medices.
Il Discursus è un appello appassionato (anche se mac-
chinoso nella sua realizzazione pratica) a non voler «fare
principato dove starebbe bene repubblica»: sappiano i
Medici farsi moderatori di uno stato popolare e piùjn-
nanzi questo stato potrà essere agevolmente gestito. E la
tesi che ispira i primi quattro libri delle Istorie fiorentine .
Naturalmente portato a vivisezionare il passato in fun-
zione del presente, Machiavelli rilegge le tormentate vi-
cissitudini della dinastia medicea alla luce dei problemi at-
tuali. Se davvero i Medici si dimostrano disposti (come
sembra, nell'incertezza dell'ora) a tutelare, semplicemen-
te, le istituzioni repubblicane, allora vale la pena di rinfor-
zare questi buoni propositi coll'esempio, nefasto, dei gua-
sti, cui, in passato, condusse l'ambizione dei tiranni. Le
Istorie diventano una sorta di «grammatica in atto»
dell'istituenda repubblica fiorentina: e gli episodi di se-
gno contrario vengono evocati come altrettanti «exempla
ad deterrendum» , eccessi e nequizie da evitarsi ad ogni co-
sto se si vuole garantire la libertà cittadina. Basti ricor-
dare il rilievo che assume nel terzo libro la rievocazione
della tirannia di Gualtieri di Brienne (1342-43): il fosco
ritratto del duca d'Atene obbedisce ad un'evidente in-
tenzione pedagogica, è proprio l'esemplare dell'uomo po-
litico che i Medici dovranno aborrire.
Ma - com'è stato autorevolmente osservato*'' - si av-
verte poi una brusca e netta frattura tra i primi quattro li-
bri delle Istorie e i quattro seguenti e conclusivi. Machia-
velli non solo cambia decisamente tema (dai casi di Firenze
trascorre, senza soluzione di continuità, alle guerre in cui
l'Italia è stata coinvolta nel corso del Quattrocento ed al-
le congiure ordite verso fine secolo contro alcuni signori
italiani), ma muta anche stile. Si direbbe che la sua scrit-
" F. GILBERT, Nìccolò Machiavelli e la vita culturale del suo tempo, Bologna
1967, pp. 230-40.
LXVI GUIDO DA VICO BONINO
tura si sia «raffreddata»: l'ardore parenetico che animava
la rievocazione della Firenze antica è ora sostituito da un
pacato (a tratti, persino sommesso) ragionare. Cosa è ac-
caduto? Quale mutamento si è prodotto nell'animo del
Machiavelli ? Qualcuno ha osservato che questo atteggia-
mento controllato è semplicemente la spia dell'impaccio a
trattare di Firenze dopo il ritorno di Cosimo (1434): ma-
teria troppo vicina ed ancora «compromessa» col presen-
te. Ma c'è dell'altro: è accaduto qualcosa che, se non ha
implicato direttamente la responsabilità del Machiavelli,
lo ha certo profondamente turbato. Un gruppo di intel-
lettuali fiorentini, amici intimi del Machiavelli, e con lui
assidui degli Orti Oricellari, hanno progettato di soppri-
meremo cardinal de' Medici il giorno del Corpus Domini
(19 giugno 1522). Si chiamano Zanobi Buondelmonti, Lui-
gi Alamanni il poeta, Jacopo Diacceto, Antonio Brùcioli.
La congiura è sventata, i cospiratori fuggono.
Qualche fiorentino ha fatto il nome di Machiavelli co-
me uno dei cittadini da cooptare nella trama. La delazio-
ne non ha conseguenze. Ma è chiaro che Niccolò è scos-
so da quella esperienza. Essa gli ha dato, purtroppo, la
chiara consapevolezza che qualunque progetto di repub-
blica è ormai insostenibile presso i Medici, dopo che la
minaccia li ha sfiorati. La fallita congiura, cui non ha mes-
so mano, lo turba perché gli toglie l'ultimo iricentivo a ri-
prendere quel lavoro di progettazione politica, di utopia
attiva, che è la ragione stessa della sua esistenza.
Il silenzio con cui nell'epistolario è rimossa non solo
una possibile analisi post factum della congiura e dei suoi
errori, ma qualunque considerazione generale di caratte-
re politico sembra una spia non solo della cautela, ma an-
che della prostrazione del Machiavelli. Poche lettere sue
ci sono pervenute, scritte tra l'autunno '22 e l'estate del
'24: alcune trattano di questioni minute (l'uccisione di un
famiglio, l'invio di alcuni beccafichi); altre rinviano al-
l'avanzata stesura delle Istorie. Nell'ultima Machiavelli
vorrebbe qualche consiglio dall'amico Guicciardini: «Ho
atteso e attendo in villa a scrivere la istoria, e pagherei
dieci soldi, non voglio dir più, che voi fosse in lato che io
INTRODUZIONE LXVII
vi potessi mostrare dove io sono, perché, avendo a veni-
re a certi particulari, arei bisogno di intendere da voi se
offendo troppo o con lo esaitare o con lo abbassare le co-
se... »*'. Il completamento della sua impresa di storiografo
è il solo impegno che lo tiene ormai desto.
Poi, all'improvviso, il 22 febbraio '25, Filippo de' Ner-
li, con una epistola spedita da Modena, non nasconde al
Machiavelli il rammarico d'essere stato privato «delle ma-
gnificentie» sue: ed è la prima eco del successo della C/z-
zia^'' . La quale dunque sembra ragionevolmente essere na-
ta dallo stato d'animo, spossato e rinunciatario, di chi ha
in qualche modo compreso che la sua personale partita con
la storia si è già conclusa. Il papa poteva festeggiarlo e do-
narlo, come fece a Roma, nel maggio '25, alla consegna
delle Istorie; il de' Nerli, poteva, il 6 settembre, da Fi-
renze, rallegrarsi con lui per la riabilitazione ai pubblici
uffici («Che voi siate entrato nello squittino, e che vi sia-
no stati fatti cenni, e chiuso l'occhio dalli accoppiatori,
ne sono molto contento...»)*'. La verità è che Machiavel-
" La lettera è spedita il 30 agosto 1524 da Sant'Andrea in Percussina al
«commissario in Romagna»: e la si può leggere in machiavelli, Opere cit.,
P- 389-
" «Or va poi tu e non ti disperare. Io so dell'orto rappianato per farne il
parato della vostra commedia; io so de' conviti non solo alli primi e più nobili
patrizii della città, ma ancora a' mezzani e dipoi alle plebe; cose solite farsi so-
lo per li principi. La fama della vostra commedia è volata per tutto; et non cre-
diate che io abbia avuto queste cose per letere di amici, ma l'ho havuto da vian-
danti che per tutto la strada vanno predicando "le gloriose pompe e' fieri ludi"
della porta a San Friano. Son certo, che cosi come non è stata contenta la gran-
dezza di SI gran magnificentie di restare drento a' termini di Toscana, ch'è vo-
luta volare ancora in qua, che passerà anche e monti, se da questi eserciti che
aranno il capo ad altro che a feste non è ritenuta, et cosi aranno viso di non
mondare nespole. Insomma, Niccolò, per recare le mille in una, et per dire più
tosto zuppa che avere a dire pane et vino, e per abreviare questa materia, io
vorrei che voi mi mandassi, quando prima potrete, questa comedia che ulti-
mamente avete fatta recitare. Fate che per niente voi mi manchiate, per quan-
to voi stimate la gratia del re di Tunisi, e raccomandatemi a tutta la borboge-
ria» {ibidem, p. 390).
"' Per una di quelle «malizie» del Fato, davvero imperscrutabili, nel recu-
pero del Machiavelli alla vita attiva dovette - in qualche modo - aver messo
mano la Barbera, se subito dopo il Nerli postilla: «Ho bene avuto caro di in-
tendere donde tanto favore sia proceduto; e poiché dipende da Barberia, e da
qualche altra vostra gentilezza, come voi medesimo attestate per la vostra, voi
mi chiarite più l'un di che l'altro» {ibidem, p. 404).
LXVm INTRODUZIONE
li aveva netta la coscienza d'essere ormai un intellettuale
tagliato fuori dalla trama attiva della politica. Per questo
poteva passarsi il lusso di sorridere di se stesso: e ordire
(sulle assi di un palcoscenico, allestito all'aperto tra ami-
ci) la vicenda esemplare del fallimento di un vecchio, che
tenta disperatamente di affermare la propria personalità
ed è costretto a «ritornare al segno». La sua vicenda, in-
somma: e non solo per i risvolti amorosi, che al massimo
potevano stuzzicare il pettegolezzo o il rimbrotto dei so-
dali, ma per quell'ammissione (pudicamente rifratta sullo
schermo di una querelle piccolo-borghese e familiare)** di
una ben più dolorosa sconfitta dell'esistenza.
GUIDO DA VICO BONINO
Università degli Studi di Torino, gennaio 2001.
" Sull'aspetto «piccolo-borghese» della commedia (cioè proprio della «ricon-
quista della piena onorabilità del casato») ha scritto pagine fini, di recente, una
giovane studiosa, Francesca Malara (f. malara. Vizi privati e pubbliche virtù nel-
la «Clizia» di Machiavelli, in «Il castello di Elsinore», XIII, 37, 2000, pp. 5-28).
Nota biografica
Niccolò Machiavelli nasce a Firenze il 3 maggio 1469 da Bernardo
dottore in legge e da Bartolomea Nelli. Dal 1481 studiò grammatica
con Paolo Sasso da Ronciglione, nello Studio fiorentino. Nella giovi-
nezza lesse Lucrezio: ce lo dice il ms. Vaticano Rossiano 884, copia
autografa e firmata del De rerum natura (e, di seguito, àcW.' Eunuchus
terenziano). Probabilmente, dopo il '94, frequentò le lezioni di Mar-
cello Virgilio allo Studio. Tra il '92 e il '94, cercò di stringere amici-
zia con Giuliano de' Medici. Caduti i Medici e affermatosi Savonaro-
la, Machiavelli si avvicinò a quanti nell'aristocrazia contribuirono al-
la caduta del frate. Di fatto, dopo il supplizio del Savonarola (23 mag-
gio 1498), fu nominato (19 giugno) segretario della seconda cancelle-
ria (dal 14 luglio, anche segretario dei Dieci), dal febbraio 1499 primo
cancelliere. Del maggio '99 è la prima breve prosa politica, il Discorso
sopra Pisa; del luglio il primo incarico diplomatico, una missione pres-
so Caterina Sforza, a Porli. L'anno dopo fu inviato, con Francesco Del-
la Casa, in Francia (luglio 1500-gennaio 1501). Nell'autunno del 1501,
sposò Marietta Corsini (e ne ebbe sette figli: Primerana, Bernardo, Lo-
dovico, Guido, Piero, Baccina e Totto). Nel giugno 1502, fu con Fran-
cesco Soderini in una ambasciata a Cesare Borgia; dall'ottobre 1502
al gennaio 1503, seconda ambasciata al Valentino; dall'ottobre al di-
cembre 1503, prima legazione a Roma per il conclave; del gennaio-
marzo 1504, è la seconda ambasciata alla corte di Luigi XH, a Lione.
Al momento della elezione di Piero Soderini, nel settembre 1502, a
gonfaloniere perpetuo della repubblica fiorentina. Machiavelli gi tri-
buta, pur nel dissenso, fedele amicizia. E di questi anni l'intenso im-
pegno del Machiavelli al progetto di una milizia «propria» della Re-
pubblica. Soltanto nel dicembre 1505 potè avviare il reclutamento e
addestramento dei primi contingenti. Tra la fine di agosto e l'ottobre
1506, Machiavelli è impegnato in un'ambasciata di grande delicatez-
za e rilievo: la sua seconda al seguito di Giulio \\, in Umbria e Roma-
gna: agli eventi di quella spedizione si riferisca la lettera a Giovan Bat-
tista Soderini, nota come Ghiribizzi {13-2-j settembre). Nominato can-
celliere dei Nove ufficiali della milizia fiorentina (12 gennaio 1507),
Machiavelli si dedica con sempre eguale fervore al reclutamento nel
contado. Nel giugno, fu scelto per una missione all'imperatore Massi-
LXX NOTA BIOGRAFICA
miliano, ma poi fu sostituito da Francesco Vettori, per l'opposizione
dei «grandi». Solo alla fine dell'anno Soderini potè inviare in Tirolo
anche Machiavelli, con funzioni di segretario. Al rientro Machiavelli
firmò un Rapporto di cose della Magna (è datato 17 giugno 1508; se-
guiranno il Discorso sopra le cose della Magna [settembre 1509] e il Ri-
tracto di cose della Magna [1509-12]). Tornato alle sue milizie, ebbe ruo-
lo di rilievo nella conclusione della guerra contro Pisa (4 giugno 1509).
Nel novembre-dicembre fu a Verona, presso l'imperatore. Nel giugno-
ottobre 15 IO tornò in Francia: e, in seguito, stese un Ritracto di cose
di Francia (con aggiunte fino al 15 12). Fattasi più delicata la posizio-
ne della Repubblica fiorentina, a Machiavelli furono affidati altri com-
plessi incarichi militari e diplomatici: in Francia, settembre-ottobre
151 1; quindi a Pisa (2-1 1 novembre), presso il concilio dei cardinali
contrari a Giulio II. Nell'agosto 15 12 contingenti militari spagnoli agli
ordini del cardinale Giovanni de' Medici entrarono in Toscana, di-
strussero le fanterie fiorentine, saccheggiarono Prato. Il 31 agosto So-
derini fuggi da Firenze; il 16 settembre i Medici ripresero il potere.
Machiavelli fu espulso dall'ufficio il 7 novembre e il io condannato al
confino dentro il dominio per un anno. Il 12 febbraio del '13 fu in-
carcerato, sotto il sospetto di aver partecipato alla congiura organiz-
zata dal Capponi e dal Boscoli contro il cardinal de' Medici, tortura-
to e di nuovo confinato (7 marzo). Quando, l'i i marzo, Giovanni de'
Medici fu eletto papa (Leone X), Machiavelli beneficiò dell'amnistia
e si ritirò nel podere detto Albergaccio, a Sant'Andrea in Percussina.
Qui compose un perduto trattato sulle repubbliche (verrà in pratica
inglobato nel Discorsi); la «memoria» sul Tradimento del Duca Valen-
tino al Vitellozzo Vitelli, Oliverotto da Fermo e altri; e, soprattutto, il
De principatibus (noto come II principe). Concepito nell'autunno del
1513, ultimato tra il gennaio e l'aprile 1514, il libro fu dedicato a Lo-
renzo di Piero de' Medici (futuro duca di Urbino), dall'estate del '13
«principe» della Signoria medicea in Firenze. Vi fu qualche buona rea-
zione iniziale, ma poi venne, da Roma, un secco divieto a ogni riabili-,
tazione (febbraio 15 15). Fu allora che Machiavelli si avvicinò ai gio-
vani letterati di tendenza repubblicana che si riunivano negli Orti di
Cosimo RuceUai. A questi e a Zanobi Buondelmonti sono dedicati i
Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio (1515-1517/18), riflessione
storico-politica in forma di originale commento all'opera del grande
storico romano. Gli stessi Buondelmonti e Rucellai, con Battista del-
la Palla e Luigi Alamanni, figurano - accanto al protagonista, Fabri-
zio Colonna - nei dialoghi De re militari (noti come Arte della guerra e
compiuti tra la fine del '19 e l'estate del '20); al Buondelmonti e a Lui-
gi Alamanni è dedicata la Vita di Castruccio Castracani (estate 1520).
Sono dello stesso periodo il poemetto satirico in terzine L 'Asino (in-
compiuto; 1517 ex.-i5i8), la versione deW Andria terenziana (due ste-
sure, ca. 1517-18 ca. e 1519-20), la Favola di Belfagor e una Serenata
in ottave. Dopo la morte di Lorenzo di Piero (4 maggio 15 19), l'osti-
lità nei suoi confronti parve attenuarsi: forse nella primavera del 1520
NOTA BIOGRAFICA LXXI
si rappresentò a Firenze la Mandragola (Comedia di Callimaco et di Lu-
cretia, s.n.t. [Firenze 1520?]), messa in scena a Roma (nel maggio?)
davanti a Leone X. All'estate appartiene una piccola missione a Luc-
ca, da cui il Sommano delle cose di Lucca. L'8 novembre, infine, fu in-
vitato dallo Studio «ad componendum annalia [...] et alia faciendum»;
e, nell'occasione, forse, stese un progetto di riforma costituzionale fio-
rentina, U Discursus florentinarum rerum (1520 ex. -152 1 in.). Nel mag-
gio 152 1, fu inviato degli Otto al capitolo dei Frati minori a Carpi; in
occasione di questo viaggio prende corpo (e la testimoniano bellissime
lettere) l'amicizia con Francesco Guicciardini, governatore di Mode-
na. Nell'agosto vede la luce VArte della guerra (Giunti, Firenze), con
dedica a Lorenzo Strozzi. Mentre continua a stendere gli «annali» fio-
rentini, è lambito da sospetti di complicità con la congiura repubbli-
cana antimedicea di Zanobi Buondelmonti, Luigi Alamanni e Jacopo
Diacceto, soffocata alla fine di maggio. Gli otto libri delle Istorie fio-
rentine, conclusi nel febbraio 1525, vengono presentati a Giulio de'
Medici (papa Clemente VII); intanto, sin dal gennaio, è andata in sce-
na a Firenze la commedia Clizia. Dopo la sconfitta dei Francesi a Pa-
via (24 febbraio 1525), viene, nel giugno di quell'anno, inviato in Ro-
magna, presso Guicciardini, per organizzarvi la milizia; nell'aprile del
'26 è nominato cancelliere dei Procuratori delle Mura. Dal giugno 1526
Machiavelli è al campo dei collegati (il papa, i fiorentini, i francesi e
Venezia) e segue le vicende belliche. Dopo la sconfitta generale della
Lega (17 maggio 1527), a Firenze fu restaurata la Repubblica. Non ac-
cetto ai nuovi governanti, di impronta savonaroliana, e assai debole
nel fisico. Machiavelli non ricevette incarichi: mori il 21 giugno 1527.
Bibliografia essenziale
La presente bibliografia raccoglie, in ordine cronologico d'appari-
zione, i principali studi apparsi in Italia e all'estero relativi al teatro
del Machiavelli, a partire dal 1979, data della prima edizione della pre-
sente raccolta nella collezione «Nuova Universale Einaudi».
Per comodità di consultazione si è diviso la bibliografia in quattro
sezioni: I) Rassegne critiche e studi d'insieme; II) Studi sulì'Andria;
III) Studi sulla Mandragola; IV) Studi sulla Clizia.
I. Rassegne critiche e studi d'insieme.
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da A. Asor Rosa, VI, Teatro, musica, tradizione dei classici, Einau-
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cura di P. D. Stewart, («Yearbook of Italian Studies»), Firenze
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testi e studi sulla commedia del Cinquecento (ic)62-ic)C)o), in «Let-
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M. ed E. Pecoraro, G. Pizzamiglio, E. Sequi, Olschki, Firenze
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III. Studi sulla «Mandragola».
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ze morali, storiche e filologiche», serie Vili, XXXIII (1979), pp. 9-
34, ora (con altri quattro studi) in L 'intrigo e l'avventura. Fra Ligu-
rio e Orlando, Edizioni dell'Orso, Alessandria 1990.
M. De Panizza Lorch, Confessore e Chiesa in tre commedie del Rinasci-
mento : «Philogenia» , «Mandragola», e «Cortigiana», in II teatro ita-
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di letteratura comparata, Guerra, Perugia 1981.
G. Padoan, Il tramonto di Machiavelli : la «Clizia», in «Lettere italia-
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cortigiane e teatranti sul palcoscenico rinascimentale, Longo, Raven-
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C. P. Cupolo, «La Clizia» come meditazione senile di Machiavelli, in
«Forum Italicum», XXVlll (1994), pp. 252-68.
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G. Inglese, Introduzione e cura di Clizia, Andria, Dialogo intomo alla
nostra lingua, Rizzoli, Milano 1997.
F. Malara, Vizi privati e pubbliche virtù nella «Clizia» di Machiavelli, in
«Il castello di Elsinore», anno XIII, 37, 2000, pp. 5-28.
Noia al testo.
Questa nuova edizione del Teatro di Nicolò Machiavelli, che ri-
prende e rinnova, a distanza di ventidue anni (1979), l'originaria sil-
loge apparsa presso questo stesso editore nella collezione «Nuova Uni-
versale», si fonda per il testo dell' Aridria, della Mandragola e della Cli-
zia su quelli approntati da Giorgio Inglese; il primo e il terzo per la sua
edizione di Clizia, Andria, Dialogo intomo alla nostra lingua nella Bur
di Rizzoli (Milano 1997); il secondo per l'edizione, criticamente ac-
certata, promossa dall'Istituto Italiano di Studi Storici di Napoli e pub-
blicata dalla Società Editrice II Mulino (Bologna 1997). Occorre tut-
tavia precisare che i tre testi adottati sono ammodernati nella grafia
secondo le consuetudini, nell'edizione dei classici italiani, della colla-
na che ospita la presente silloge.
Il commento riprende, con lievi ritocchi, quello già approntato per
la Nuova Universale Einuadi nel 1979. Ciò spiega perché vi siano ci-
tati in nota, per consenso o dissenso, i seguenti commenti: La Man-
dragola, a cura di Santorre Debenedetti, Strasburgo s. d., ma 1910;
Mandragola , Clizia, a cura di Domenico Guerri, Torino 1932; Opere,
a cura di Mario Bonfantini, Milano-Napoli 1954; Opere letterarie, a cu-
ra di Luigi Blasucci, Milano 1964; Il teatro e tutti gli altri scritti lettera-
ri, a cura di Franco Gaeta, Milano 1965; Opere, a cura di Ezio Rai-
mondi, Milano 1966; Opere scelte, a cura di Gian Franco Berardi, Ro-
ma 1969. Per brevità, ho citato ogni volta, tra parentesi, il cognome
del curatore.
Allo stesso modo, con una sigla, sono richiamati autore e titolo di
alcuni studi, tuttora fondamentali, che illuminano sulla fonte o sulla
genesi di singoli passi. Ecco le abbreviazioni: Martelli, Vers. = M. mar-
telli. La versione machiavelliana dell' «Andria.», in «Rinascimento»,
XIX, 1968, pp. 203-74; Vanossi, Sit. = L. VANOSSi, Situazione e svilup-
po del teatro machiavelliano, in AA. VV., Lingua e strutture del teatro
italiano del Rinascimento , Padova 1970; pp. 1-108; Raimondi, Poi. =
E. RAIMONDI, Politica e commedia. Dal Beroaldo al Machiavelli, Bolo-
gna 1972, pp. 173-223; Ferroni, ^f«^ = G. ferroni, «Mutazione» e «ri-
scontro» nel teatro di Machiavelli e altri saggi sulla commedia del Cin-
quecento, Roma 1972, pp. 19-137; Borsellino, Roz. = n. borsellino,
LXXVm NOTA AL TESTO
Rozzi e Intronati. Esperienze e forme di teatro dal Decameron al Cande-
laio, Roma 1976, pp. 121-60.
L'introduzione che qui si propone ai nuovi lettori è stata, invece,
profondamente «rivisitata» dal suo autore.
G. D. B.
Teatro
Andria
ATTO PRIMO
SCENA PRIMA
Simo, Sosia.
SIMO Portate voi altri drento queste cose, spacciatevi ! '.
Tu, Sosia, fatti in qua: io ti voglio parlare uno poco.
SOSIA Fa' conto d'avermi parlato; tu vuoi che queste co-
se s'acconcino bene.
SIMO Io voglio pure altro.
SOSIA Che cosa so io fare, dove io ti possa servire me-
glio che in questo ?
SIMO Io non ho bisogno di cotesto per fare quello che io
voglio, ma di quella fede e di quello segreto^ che io ho
conosciuto sempre essere in te.
SOSIA Io aspetto d'intendere quello che tu vuoi.
SIMO Tu sai, poi che io ti comperai da piccolo, con quanta
clemenza e giustizia io mi sono governato teco, e di stia-
vo io ti feci liberto, perché tu mi servivi liberalmente, e
per questo io ti pagai di quella moneta che io potetti\
SOSIA Io me ne ricordo.
SIMO Io non mi pento di quello che io ho fatto.
SOSIA Io ho gran piacere, se io ho fatto e fo cosa che ti
piaccia: e ringrazioti che tu mostri di conoscerlo: ma
questo bene mi è molesto, che mi pare che, ricordando-
lo"* ora, sia quasi un rimproverarlo ad uno che non se ne
ricordi. Che non di' tu in una parola quello che tu vuoi ?
I. I. spacciatevi: nel testo latino si legge «abite»: «andatevene». 2. fede...
segreto: sono i due termini, in Terenzio, «fide et taciturnitate». 3. per que-
sto... potetti: più sfumato risulta Terenzio: «quod habui summum pretium per-
solvi tibi»: «ho pagato per te il prezzo più alto che potevo» (e Machiavelli, nel-
la prima redazione, aveva tradotto con maggior aderenza: «... di quel prezzo
che io potetti maggiore»). 4. ricordandolo: il ricordarlo: è un gerundio con va-
lore di infinito.
6 ANDRIA
SIMO Così farò. E innanzi ad ogni cosa io t'ho a dire que-
sto: queste nozze non sono, come tu credi, da dovero.
SOSIA Perché le fingi adunque ?
SIMO Tu intenderai da principio ogni cosa, e a questo
modo conoscerai la vita del mio figliuolo, la delibera-
zione' mia e quello che io voglia che tu facci in questa
cosa. Poi che '1 mio figliuolo usci di fanciullo e che ei
cominciò a vivere più a suo modo (imperò che chi areb-
be prima potuto conoscere la natura sua, mentre che la
età, la paura, il maestro, lo tenevono a freno?
SOSIA Cosi è.)
SIMO ... di quelle cose che fanno la maggior parte de' gio-
vanetti, di volgere l'animo a qualche piacere, come è
nutrire cavagli, cani, andare allo Studio, non ne segui-
va più una che un'altra, ma in tutte si travagliava me-
diocremente'; di che io mi rallegravo.
SOSIA Tu avevi ragione, perché io penso nella vita no-
stra essere utilissimo non seguire alcuna cosa troppo.
SIMO Così era la sua vita: sopportare facilmente ognu-
no; andare a' versi a coloro con chi ei conversava; non
essere traverso; non si stimare più che gli altri; e chi fa
così, facilmente sanza invidia si acquista laude e amici.
SOSIA Ei si governava saviamente, perché in questo tem-
po chi sa ire a' versi, acquista amici, e chi dice il vero,
acquista odio'.
SIMO In questo* mezzo una certa femmina, giovane e
bella, si partì da Andro per la povertà e per la negligen-
za de' parenti, e venne ad abitare in questa vicinanza.
SOSIA Io temo che questa Andria non ci arrechi qualche
male.
SIMO Costei in prima viveva onestamente, guadagnan-
dosi il vivere col filare e con il tessere'; ma poi che ven-
5. deliberazione: decisione: nel testo latino, «consilium meum». 6. mediocre-
mente: qui vuol dire: con giusta moderazione ed equilibrio. 7. chi... odio: sem-
bra una battuta tipica del Machiavelli maggiore: ed è semplicemente la tradu-
zione da Terenzio (la celebre massima «veritas odium parit» è discussa da Ci-
cerone, Laelius, 89). 8. In questo: Terenzio precisa subito dopo: «abbine trien-
nium»: «tre anni fa». 9. con il tessere: con lavori di tessitura. Terenzio aveva
scritto: «lana ac tela».
ATTO PRIMO 7
ne ora uno, ora un altro amante promettendole danari,
come egli è naturale di tutte le persone sdrucciolare fa-
cilmente da la fatica a l'ozio, l'accettò lo invito'"; e a
sorte, come accade, coloro che allora l'amavano, co-
minciorno a menarvi il mio figliuolo; onde io conti-
nuamente dicevo meco medesimo: - Veramente egli è
stato sviato! egli ha auto la sua"! - E qualche volta, la
mattina, io appostavo'^ i loro servi, che andavano e ve-
nivono, e domandavogli: - Odi qua, per tua fé: a chi
toccò iarsera Crisyde ? - (perché cosi si chiamava quel-
la donna.
SOSIA Io intendo.)
SIMO Dicevano: - Fedria, o Clinia, o Nicerato - (perché
questi tre l'amavano insieme.) - Dimmi: Panfilo che fe-
ce ? - Che ? Pagò la parte sua e cenò. - Di che io mi ral-
legravo. Dipoi, ancora l'altro di io ne domandavo, e
non trovavo cosa alcuna" che apartenessi a Panfilo. E
veramente mi pareva un grande e rado esemplo di con-
tinenza, perché chi usa con uomini di simil natura, e
non si corrompe, puoi pensare ch'egli ha fermo il suo
modo del vivere. Questo mi piaceva, e ciascuno per una
bocca mi diceva ogni bene, e lodava la mia buona for-
tuna, che avevo cosi fatto figliuolo. Che bisognano più
parole? Cremete, spinto da questa buona fama, venne
spontaneamente a trovarmi, e offerì dare al mio fi-
gliuolo una unica sua figliuola con una gran dote. Piac-
quemi, promissigli, e questo di è deputato a le nozze.
SOSIA Che manca, dunque, perché le non sono vere?
SIMO Tu lo intenderai. Quasi in quegli di che queste co-
se seguirono'^ questa Crisyde vicina si morì.
SOSIA Ho ! io l'ho caro! Tu m'hai tutto ralegrato: io ave-
vo paura di questa Crisyde.
IO. lo invito: Terenzio aggiunge ancora: «dehinc quaestum occipit»: «e di qui
cominciò a fare guadagno». Machiavelli lascia la conseguenza sottintesa. 1 1 .
ha auto la sua: nel testo latino: «habet (sott. vulnus)»: «l'hanno ferito». Si di-
ceva dei gladiatori: il pubblico vedeva la ferita prima che loro la sentissero. 1 2 .
appostavo: aspettavo e coglievo al varco. 13. cosa alcuna: nessun brutto affa-
re in cui Panfilo fosse implicato {che apartenessi a Panfilo). 14. seguirono: suc-
cessero (i giorni sono quelli dell'offerta di matrimonio).
8 ANDRIA
SIMO Quivi il mio figliuolo, insieme con quegli che ama-
vono Crisyde, era ad ogni ora: ordinava il mortoro",
malinconoso, e qualche volta lacrimava. Questo anche
mi piacque; e dicevo cosi meco medesimo: - Costui per
un poco di consuetudine sopporta nella morte di costei
tanto dispiacere: che farebb'egli, se l'avessi amata? che
farebb'egli, s'io morissi io ? - E pensavo queste cose es-
sere indizio d'una umana e mansueta natura. Perché ti
ritardo'^ io con molte parole ? Io andai ancora io per suo
amore a questo mortoro, non pensando per ancora al-
cun male.
SOSIA Che domin sarà questo ?
SIMO Tu il saprai. Il corpo fu portato fuora, noi gli an-
damo dietro: in questo mezzo, tra le donne ch'erano
quivi presenti, io veggo una fanciuUetta d'una forma...
SOSIA Buona, per avventura ?
SIMO ... e d'un volto, o Sosia, in modo modesto e in mo-
do grazioso, che non si potrebbe dire più, la quale mi
pareva che si dolessi più che l'altre. E perché la era più
che l'altre di forma bella e liberale*^ m'accostai a quel-
le che le erano intorno, e domandai chi la fussi. Rispo-
sono essere sorella di Crisyde. Di fatto, io mi senti' ra-
viluppare l'animo: ha ! ha ! '* questo è quello ! " di qui na-
scevono quelle lacrime! questa è quella misericordia!
SOSIA Quanto temo io, dove tu abbi a capitare!
SIMO Intanto il mortoro andava oltre: noi lo seguitava-
mo e arrivamo al sepolcro; la fu messa nel fuoco^°; pian-
gevasi. In questo tanto, questa sua sorella che io dico,
si accostò alle fiamme assai imprudentemente e con pe-
riculo. AUotta^^ Panfilo, quasi morto, manifestando il
celato e dissimulato amore, corse e abbracciò nel mez-
zo questa fanciulla, dicendo: - O Glicerio mia, che fai
15. ordinava il mortoro: s'occupava del funerale (in Terenzio: «curabat una fu-
nu'»). 16. tiritardo: mi dilungo e ti faccio perdere tempo. 17. liberale: è l'ag-
gettivo stesso usato da Terenzio: «liberali»: e vuol dire «distinta», «nobi-
le». 18. ha! ha! : è il terenziano « Attat», definito dal grammatico Donato (iv
secolo) - prezioso commentatore di Terenzio - «interiectio admirantis». 19.
questo è quello: di questo si tratta! 20. la... fuoco: venne, cioè, issata sulla pi-
ra. 21. Allotta: Allora (è l'wibi tum» di Terenzio).
ATTO PRIMO 9
tu? perché vai tu a morire? - Allora quella, acciò che
si potessi vedere il loro consueto amore, se gli lasciò ire
adosso, piangendo molto familiarmente".
SOSIA Che di' tu ?
SIMO Io mi diparti' di quivi adirato e male contento; né
mi pareva assai giusta cagione di dirgli villania, perché
ci direbbe: - Padre mio, che ho io fatto ? che ho io me-
ritato ? o dove ho peccato ? Io ho proibito che una non
si getti nel fuoco e la ho conservata". - La cagione è
onesta.
SOSIA Tu pensi bene, perché, se tu di' villania a chi ha
conservata la vita ad uno, che farai tu a chi gli facessi
danno e male ?
SIMO L'altro di poi venne a me Cremete gridando ave-
re udito una cosa molto trista, che Panfilo aveva tolto
per moglie questa forestiera; io dicevo che non era ve-
ro; quello affermava eh' egl'era vero. In summa io mi
parti' da lui al tutto alieno da il darci la sua figliuola.
SOSIA Allora non riprehendesti tu il tuo figliuolo ?
SIMO Né ancora questa cagione è assai potente a ri-
prehenderlo.
SOSIA Perché ? dimmelo !
SIMO - Tu medesimo, o padre, hai posto fine a queste
cose: e' si appressa il tempo che io arò a vivere a modo
d'altri; lasciami in questo mezzo vivere a mio modo!-
sosiA Quale luogo ci è rimaso adunque per riprenderlo ?
SIMO Se per amor di costei ei non volessi menare don-
na, questa è la prima colpa che debbe essere corretta.
E ora io attendo che, mediante queste falze nozze na-
sca una vera cagione di riprehenderlo, quando ei neghi
di menarla. E parte^* quel ribaldo di Davo consumerà",
s'egli ha fatto disegno alcuno, ora che gl'inganni nuo-
cono poco: il quale so che si sforza con le mani e co' pie
22. piangendo molto familiarmente: è l'intraducibile, per densità e tenerezza,
«flens quam familiariter» di Terenzio. 23. la ho conservata: l'ho salvata. 24.
E parte: Machiavelli non si cura di considerare questa frase come dipendente
da «operam do», «attendo»: com'è nel testo latino. 25. consumerà: cercherà
di attuarlo: ma avrebbe dovuto tradurre - per il motivo appena esposto - «con-
sumi».
IO ANDRIA
fare ogni male", più per fare iniuria a me, che per gio-
vare al mio figliuolo.
SOSIA Per che cagione ?
SIMO Domandine tu ? Egli è uomo di cattiva mente e di
cattivo animo, il quale veramente, se io me n'avveg-
go... Ma che bisognano tante parole? Facciamo di tro-
vare in Panfilo quel ch'io desidero, che per lui non man-
chi". Resterà Cremete, il quale dipoi arò a placare, e
spero farlo: ora l'ufizio tuo è simulare bene queste noz-
ze e sbigottire Davo e osservare quel che faccia il mio
figliuolo e quali consigli sieno i loro.
SOSIA E' basta; io arò cura ad ogni cosa. Andiamone ora
drento.
SIMO Va' innanzi; io ne verrò.
SCENA SECONDA
Simo, Davo.
SIMO Sanza dubbio il mio figliuolo non vorrà moglie, in
modo ho sentito temere Davo, poi ch'egli intese di que-
ste nozze\.. (Ma egli esce fuora.)
DAVO Io mi maravigliavo bene che la cosa procedessi co-
sì, e sempre ho dubitato del fine che avessi' avere que-
sta umanità del mio patrone; il quale, poi ch'egli inte-
se che Cremete non voleva dare moglie al suo figliuo-
lo, non ha detto ad alcuno una parola e non ha mostro^
d'averlo per male.
SIMO (Ei lo mosterrà ora, e, come io penso, non sanza
tuo gran danno.)
26. si sforza... male: si veda, più avanti, la prima scena del quarto atto: «io so-
no obligato in tuo servizio sforzarmi con le mani e co' pie» (e anche in Man-
dragola, I, i). 27. che... manchi: che per colpa di Davo non venga meno la sua
parola: ma Terenzio aveva per la verità scritto: «observes filium quid agat»:
«badi a ciò che mio figlio fa».
II. I. poi ch'egli... nozze: cosi anche in Terenzio: Davo aveva evidentemente
avuto un colloquio con Simo prima dell'avvio della commedia. 2. mostro: mo-
strato.
ATTO PRIMO 1 1
DAVO Egli ha voluto che noi, credendoci questo, ci stes-
simo con una falsa allegrezza, sperando, sendo da noi
rimossa la paura, di poterci come negligenti giugnere'
al sonno, e che noi non avessimo spazio a disturbare
queste nozze. Guarda che astuzia!
SIMO (Che dice questo manigoldo ?)
DAVO (Egli è il padrone, e non lo avevo veduto.)
SIMO O Davo !
DAVO O! Hu! Che cosa è?
SIMO Vieni a me !
DAVO (Che vuole questo zugo"* ?)
SIMO Che di' tu ?
DAVO Per che cagione ?
SIMO Domandine tu ? Dicesi egli che '1 mio figliuolo va-
gheggia?'.
DAVO II popolo non ha altro pensiero che cotesto.
SIMO Tiègli tu il sacco o no?
DAVO Che! Io cotesto?'.
SIMO Ma domandare ora di queste cose non sta bene ad
uno buono padre, perché m'importa poco quello ch'egli
ha fatto innanzi a questo tempo. E io, mentre che '1 tem-
po lo pativa^ ne sono stato contento, ch'egli abbi sfo-
gato l'animo suo. Ora, per lo avvenire, si richiede altra
vita e altri costumi: però io voglio, e, se lecito è, io ti
priego, o Davo, che ei ritorni qualche volta nella via.
DAVO Io non so che cosa si sia questa*.
SIMO Se tu ne domandi, io tei dirò: tutti coloro che so-
no innamorati hanno per male che sia dato loro moglie.
3. giugnere: Machiavelli ha qui la mano felice: coglierci (letteralmente: raggiun-
gerci) come se fossimo addormentati (al sonno). Nel testo latino: «interoscitan-
tis opprimi»: «sorprenderci mentre ce ne stavamo a sbadigliare». 4. Che... zu-
go: Terenzio scrive semplicemente: «Quid hic volt»: MachiaveUi colora la tra-
duzione d'una patina di popolaresco (nella prima redazione, addirittura si leg-
ge: «questo cazzo»). Zugo è frittella e, per traslato, sciocco. 5. Dicesi... vagheg-
gia?: nel testo latino non c'è interrogazione («Meum gnatum rumor est amare»)
e non c'era anche nella prima redazione della versione machiavelliana («E si di-
ce che...») Vagheggia sta per «ama». 6. Tiègli... cotesto?: Machiavelli frain-
tende questo scambio di battute. Simone dice a Davo: «Hoccin agis an non?»
(«Lo fai o no?»); e Davo replica: «Ego vero istuc» («Proprio questo faccio»). 7.
lo pativa: «lo concesse», nella prima redazione. 8. Io... questa: è sempre Simo
che parla, in Terenzio: «Hoc quid sit?»: «Cosa intendo?».
12 ANDRIA
DAVO Cosi dicono.
SIMO Allora, se alcuno piglia a quella cosa per suo mae-
stro uno tristo, rivolge il più delle volte l'animo infer-
mo alla parte più cattiva.
DAVO Per mia fé, io non ti intendo.
SIMO No, he ?
DAVO Io son Davo, non profeta'.
SIMO Quelle cose, adunque, che mi restono a dirti, tu
vuoi che io te le dica a lettere di speziali'" ?
DAVO Veramente sì.
SIMO Se io sento che tu ordini oggi alcuno inganno in
queste nozze, perché le non si faccino, o che tu voglia
mostrare in questa cosa quanto tu sia astuto, io ti man-
derò carico a morte di mazzate a zappare tutto dì in
uno campo": con questi patti, che, se io te ne cavo, che
io abbia a zappare per te! Ha' mi tu inteso o non an-
cora?
DAVO Anzi ti ho inteso appunto, in modo hai parlato la
cosa aperta" e sanza alcuna circunlocuzione.
SIMO Io sono per sopportarti" ogni altro inganno più fa-
cilmente che questo.
DAVO Dammi, io ti priego, buone parole.
SIMO Tu mi uccelli ? Tu non mi inganni di nulla; ma io
ti dico che tu non facci cosa alcuna inconsideratamen-
te, e che tu non dica anche, poi: - E' non mi fu pre-
detto! - Abbiti cura.
9. Io... profeta: scrive Terenzio: «non Oedipus»: e Machiavelli, qualcuno ha
detto, allude al Savonarola (nella prima redazione esplicitando addirittura il ri-
ferimento: «vel non el frate»), io. a lettere di speziali: a lettere cubitali, da
farmacista: nel testo latino si legge semplicemente: «aperte»: «chiaro e ton-
do». 1 1 . carico... campo: in Terenzio leggiamo: «Verberibu' caesum te in pi-
strinum, Dave, dedam usque ad necem»: «riempitoti di botte, ti caccio alla ma-
cina fino a farti fuori». Machiavelli adegua all'oggi la canonica allusione alla
macina da molino (e, ancor meglio, nella prima redazione, Davo dovrà zappa-
re «in una vigna»). 12. aperta: molto chiaramente. 13. Io sono per soppor-
tarti: Sono disposto a tollerare: è la traduzione letterale dell'* Ubivis faciliu'
passu' sim».
ATTO PRIMO 13
SCENA TERZA
Davo, solo.
DAVO Veramente, Davo, qui non bisogna essere pigro né
da poco', secondo che mi pare avere ora inteso per il
parlare di questo vecchio circa le nozze: le quali, se con
astuzia non ci si provede, mineranno me o il padrone;
né so bene che mi fare, se io aiuto Panfilo o se io ub-
bidisco al vecchio. Se io abbandono quello, io temo del-
la sua vita; se io lo aiuto, io temo le minacele di costui:
ed è difficile ingannarlo, perché sa ogni cosa circa il suo
amore e me osserva^ perché io non ci facci alcuno in-
ganno. S'egli se ne avvede, io sono morto; e, se gli verrà
bene, e' troverrà una cagione per la quale, a torto o a
ragione, mi manderà a zappare. A questi mali questo
ancora mi si aggiugne, che questa Andria, o amica o
moglie che la si sia, è gravida di Panfilo; ed è cosa ma-
ravigliosa udire la loro audacia; e hanno preso partito,
da pazzi o da innamorati\ di nutrire ciò che ne nascerà,
e fingono intra loro un certo inganno, che costei è cit-
tadina ateniese, e come fu già un certo vecchio mer-
cante che ruppe appresso a l'isola d'Andro e quivi mori;
dipoi il padre di Crisyde si prese costei ributtata dal
mare, piccola e sanza padre. Favole! E a me, per mia
fé, non pare verisimile: ma a loro piace questo trovato.
Ma ecco Miside ch'esce di casa; io me ne voglio anda-
re in mercato'', acciò che il padre non lo giunga sopra
questa cosa improvisto.
m. I. non... poco: Terenzio è qui molto preciso: «nillocist segnitiae nequeso-
cordiae»: «non c'è posto per la pigrizia né coi fatti né con le idee». 2. me os-
serva: nel testo latino c'è in più un «infensus», «mal disposto (verso di me)». 3.
da pazzi o da innamorati: molto elegante la paronomasia in Terenzjo (ma è di
stampo plautino): «Nam inceptiost amentium, haud amantium»: «E infatti un
progetto da dementi, non da amanti», Machiavelli non sa rendere l'equivalen-
te. 4. io... mercato: in Terenzio è una frase ellittica: « At ego hinc me ad forum»:
e Donato dice che è da recitar «vultuose», cioè «con mimica espressività».
14 ANDRIA
SCENA QUARTA
Miside, anelila.
MisiDE Io ti ho intesa, Archilei tu vuoi che ti sia me-
nata Lesbia. Veramente ella è una donna pazza e oblià-
C2? e non è sufficiente a levare^ il fanciullo d'una che
non abbi mai partorito; nondimeno io la merrò. Pone-
te mente la importunità di questa vecchia! solo perché
le si inobliacano insieme. O Idio! io ti priego che voi"
diate facultà a costei di partorire, e a quella vecchia di
fare errore altrove e non in questa. Ma perché veggo io
Panfilo mezzo morto? Io non so quel che sia; io lo
aspetterò per sapere donde nasca ch'egli è cosi turbato.
SCENA QUINTA
Panfilo, Miside.
PANFILO É questo cosa umana ? É questo ofizio d'un pa-
dre?
MISIDE (Che cosa è questa ?)
PANFILO Per la fede di Dio e degli huomini, questa che
è, se la non è iniuria?'. Egli ha deliberato da se stesso
di darmi oggi moglie: non era egli necessario che io lo
IV. I . Archile: dovrebbe essere « Archillide» la traduzione di « Archylis». 2.
obliàca: Mario Martelli sottolinea la validità di questa lezione anche per M.,
Ili, 7, 103 («Sono io obliàco, e non ho beuto ancora oggi...»). 3. levare: far
da levatrice. 4. che voi: nella prima redazione, Machiavelli aveva scritto: «O
Idii! io vi prego»: di qui la mancata concordatio.
V. I. se... iniuria?: se non è un oltraggio? (è la traduzione corretta di «si haec
non contumeliast ?»).
ATTO PRIMO 15
sapessi innanzi ? Non era egli di bisogno che me lo aves-
si comunicato prima ?
MisiDE (Misera a me ! che parole odo io ?)
PANFILO Cremete, il quale aveva denegato^ di darmi la
sua figliuola, perché s'è egli mutato? Perché vede mu-
tato me? Con quanta ostinatione s'affatica costui per
svegliermi' da Glicerio! Per la fede di Dio, se questo
avviene, io morrò in ogni modo. E egli uomo alcuno
che sia tanto sgraziato e infelice quanto io ? E egli pos-
sibile che io per alcuna via non possa fuggire il paren-
tado di Cremete, in tanti modi schernito e vilipeso"*? E
non mi giova cosa alcuna' ! Ecco che io sono rifiutato e
poi ricerco; il che non può nascere da altro, se non che
nutriscono qualche mostro^ il quale perché non posso-
no gittare adosso ad altri, si volgono a me.
MisiDE (Questo parlare mi fa per la paura morire.)
PANFILO Che dirò io ora di mio padre ? Ha ! doveva egli
fare tanta gran cosa con tanta negligenzia che, passan-
domi egli ora presso in mercato, mi disse: - Tu hai og-
gi a menar moglie: aparéchiati, vanne a casa. - E pro-
prio parve che e' mi dicessi: - Tira via, vanne ratto^ e
impiccati! - Io rimasi stupefatto. Pensi tu che io po-
tessi rispondere una parola o fare qualche scusa alme-
no inetta o falsa? Io ammutolai. Che, se io l'avessi sa-
puto prima... che arei fatto? Se alcuno me ne doman-
dassi, arei fatto qualche cosa per non fare questo. Ma
ora che debbo io fare ? Tanti pensieri m'impediscono e
traggono l'animo mio in diverse parti: l'amore, la mi-
sericordia, il pensare a queste nozze*, la reverenza di
2. aveva denegato: si era decisamente rifiutato (cosi, letteralmente, in Terenzio:
«denegarat»). 3. svegliermi: svellermi, strapparmi: è la traduzione di «ab-
strahat». 4. E... vilipeso: è proprio questo il nesso in Terenzio: «Pro deum at-
que hominum fidem! Nullon ego Chremeti' pacto adfinitatem effugere pote-
rò ?Quot modiscontemptu' spretu'! »: «In nome degli dei e degli uomini! Non
potrò evitare in nessun modo la parentela con Cremete? In quanti modi sono
disprezzato e schernito! ». 5. E... alcuna: anche qui Machiavelli fraintende il
proverbiale «Facta transacta omnia»: «Tutto era stato fatto e sistemato». 6.
qualche mostro: invece Filomena verrà detta bella e piacente. 7. Tira via, van-
ne ratto: Tira dritto, e veloce. 8. il pensare a queste nozze: Terenzio è, vera-
mente, più incisivo: «nuptiarum sollicitatio»: «la costante preoccupazione del-
le nozze».
l6 ANDRIA
mio padre, il quale umanamente mi ha infino a qui con-
ceduto che io viva a mio modo... Ho io ora a contrap-
pormegli ? Heimè ! che io sono incerto di quello abbi a
fare!
MISIDE (Miser'a me! che io non so dove questa incerti-
tudine abbi a condurre costui ! Ma ora è necessariissi-
mo o che io riconcilii costui con quella o che io parli di
lei qualche cosa che lo punga': e mentre che l'animo è
dubio, si dura poca fatica a farlo inclinare da questa o
da quella parte.)
PANFILO Chi parla qui? Dio ti salvi, Miside!
MISIDE Dio ti salvi, Panfilo!
PANFILO Che si fa ?
MISIDE Domandine tu ? La muore di dolore'"; e per que-
sto è oggi misera, che la sa come in questo di sono or-
dinate le nozze; e però teme che tu non la abbandoni.
PANFILO Heimè ! sono io per fare cotesto ? Sopporterò
io che la sia ingannata per mio conto ? che mi ha con-
fidato" l'animo e la vita sua? la quale io prenderei vo-
lentieri per mia donna ? Sopporterò io che la sua buo-
na educazione, costretta da la povertà, si rimuti ?'^ Non
lo farò mai.
MISIDE Io non ne dubiterei, s'egli stessi solo a te; ma io
temo che tu non possa resistere alla forza che ti farà tuo
padre.
PANFILO Stimimi tu però si da poco'^ si ingrato, si inu-
mano, sì fiero, che la consuetudine, lo amore, la ver-
gogna non mi commuova e non mi amunisca ad osser-
varle la fede ?
MISIDE Io so questo solo, che la merita che tu ti ricordi
di lei.
9. che lo punga: nel testo latino leggiamo: «aut de illa aliquid me advorsumhunc
loqui»: «o di lei dire a lui qualcosa», io. La... dolore: nel latino di Terenzio
«laborat» significa semplicemente «soffre delle doglie». Machiavelli amplia,
ma con scelta felice. 1 1. confidato: affidato (è il latino «credidit»). 12. che...
si rimuti?: ancora una volta, Terenzio è più ricco e più sfumato: «Bene et pu-
dice eius doctum atque eductum sinam coactum egestate ingenium inmuta-
rier?»: «Lascerei che la sua indole, educata e allevata bene e pudicamente, mu-
ti sotto la costrizione della povertà?». 13. da poco: nella prima redazione, ave-
va tradotto, ma poi sbarrato: «gran poltrone».
ATTO PRIMO 17
PANFILO Che io me ne ricordi? O Miside, Miside, an-
cora mi sono scritte nello animo le parole che Crisyde
mi disse di Glicerio! Ella era quasi che morta, che la
mi chiamò; io me le accostai; voi ve ne andasti, e noi
rimanemo soli. Ella cominciò a dire: - O Panfilo mio,
tu vedi la bellezza e la età di costei; né ti è nascoso
quanto queste dua cose sieno contrarie e alla onestà e
a conservare le cose sua. Pertanto io ti priego per que-
sta mano destra, per la tua buona natura e per la tua fe-
de e per la solitudine in la quale rimane costei, che tu
non la scacci da te e non l'abandoni. Se io t'ho amato
come fratello; se costei ti ha stimato sempre sopra tut-
te le cose; se la ti ha obedito in ogni cosa; io ti do a co-
stei marito, amico, tutore, padre'"*; tutti questi nostri
beni io commetto in te e a la tua fede gli raccomando.
- E allora mi messe intro le mani lei*', e di sùbito mori"^:
io la presi e manterrolla.
MISIDE Io lo credo certamente.
PANFILO Ma tu perché ti parti da lei ?
MISIDE Io vo a chiamare la levatrice.
PANFILO Va' ratta... Odi una parola: guarda di non ra-
gionare di nozze, che al male tu non agiugnessi questo.
MISIDE Io ti ho inteso.
14. io ti do... padre: forse agiva in Terenzio una eco dell'Iliade, VI, 429: «Tu
padre mio, tu madre, tu fratello tu fiorente marito» (e si veda anche M., V,
4). 15. mi... lei: Terenzio aveva scritto: «hanc mi in manum dat»: espressio-
ne che sta a dire semplicemente: «mi affida questa giovane» (che poteva be-
nissimo essere non presente alla scena). 16. e... mori: più raffinata e consona
al patetismo della rievocazione, la scelta stilistica di Terenzio: «mors continuo
ipsam occupat».
ATTO SECONDO
SCENA PRIMA
Carino, Birria, Panfilo.
CARINO Che di' tu, Birria ? maritasi oggi colei a Panfilo ?
BIRRIA Cosi è.
CARINO Che ne sai tu ?
BIRRIA Davo, poco fa, me lo ha detto in mercato\
CARINO O misero a me! Come l'animo è stato, innanzi
a questo tempo, implicato nella speranza e nel timore,
così, poi che mi è mancata la speranza, stracco ne' pen-
sieri, è diventato stupido.
BIRRIA Io ti priego, o Carino, quando e' non si può quel-
lo che tu vuoi, che tu voglia quello che tu puoi.
CARINO Io non voglio altro che Filomena.
BIRRIA Ha! quanto sarebbe meglio dare opera che que-
sto amore ti si rimovessi da lo animo, che parlare cose
per le quali ti si raccenda^ più la voglia.
CARINO Facilmente, quando uno è sano, consiglia bene
chi è infermo: se tu fussi nel grado mio', tu la intende-
resti altrimenti.
BIRRIA Fa' come ti pare.
CARINO Ma io veggo Panfilo; io voglio provare ogni co-
sa prima che io muoia.
BIRRIA (Che vuole fare costui ?)
CARINO Io lo pregherrò, io lo suplicherò, io gli narrerò il
mio amore: io credo che io impetrerrò ch'egli starà qual-
che dì a fare le nozze; in questo mezzo spero che qual-
che cosa fia.
I. I. in mercato: in Terenzio «apud forum»: «nel foro», «in piazza». 2. ti si
raccenda: nel testo latino c'è un avverbio in più: «frustra», «invano». 3. nel
grado mio: Terenzio fa dire a Carino: «tu si hic sis»: «se tu fossi questo qua».
Donato postilla: «lo dice indicando se stesso, ed è pronome».
ATTO SECONDO 19
BiRRiA (Cotesto qualche cosa è nonnulla^)
CARINO Che ne pare egli a te, Birria? Vo io a trovarlo?
BiRRiA Perché no ? Se tu non impetri alcuna cosa, che al-
meno pensi avere uno che sia parato a farlo becco, se
la mena.
CARINO Tira via in mala ora con questa tua sospizione,
scelerato !
PANFILO Io veggo Carino. Dio ti salvi!
CARINO O Panfilo, Dio ti aiuti! Io vengo a te doman-
dando salute', aiuto e consiglio.
PANFILO Per mia fé, che io non ho né prudenza da con-
sigliarti né f acuità da aiutarti. Ma che vuoi tu?
CARINO Tu meni oggi donna ?
PANFILO E' lo dicono.
CARINO Panfilo, se tu fai questo, e' sarà l'ultimo dì che
tu mi vedrai.
PANFILO Perché cotesto ?
CARINO Heimè! che io mi vergogno a dirlo. De! diglie-
ne tu, io te ne priego, Birria.
BIRRIA Io gliene dirò.
PANFILO Che cosa è ?
BIRRIA Costui ama la tua sposa.
PANFILO (Costui non è della opinione mia.) Ma dimmi:
hai tu auto a fare con lei altro^ Carino?
CARINO Ha! Panfilo, niente.
PANFILO (Qanto l'arei io caro!)
CARINO Io ti priego, la prima cosa, per l'amicizia e amo-
re nostro, che tu non la meni.
PANFILO Io ne farò ogni cosa.
CARINO Ma se questo non si può e se queste nozze ti so-
no pure a cuore...
PANFILO A cuore ?
CARINO . . . almeno indugia qualche di, tanto che io ne va-
da in qualche luogo per non le vedere.
4. Cotesto... è nonnulla: Birria ironizza sulle vane speranze del padroncino. 5.
salute: nel testo latino, «salutem» è preceduto da «spem», «speranza». 6. hai...
altro: più sottile e malizioso Terenzio: «num quid nam amplio' tibi cum illa fuit,
Charine?»: «forse non ci fu qualcosa di più, Carino, tra te e lei?».
20 ANDRIA
PANFILO Ascoltami un poco: io non credo, Carino, che
sia ofizio d'uno uomo da bene volere essere ringrazia-
to d'una cosa che altri non meriti: io desidero più di
fuggire queste nozze che tu di farle.
CARINO Tu m'hai risucitato.
PANFILO Ora, se tu e qui Birria potete alcuna cosa, fa-
tela, fingete, trovate, concludete, acciò che la ti sia da-
ta; e io farò ogni opera perché la mi sia tolta.
CARINO E' mi basta.
PANFILO Io veggo appunto Davo, nel consiglio del qua-
le io mi confido.
CARINO E anche tu^ per mia fé, non mi rechi mai innanzi
cose, se non quelle che non bisogna saperle. Vatti con
Dio, in mala ora*!
BIRRLA Molto volentieri.
SCENA SECONDA
Davo, Carino, Panfilo.
DAVO (O Idio, che buone novelle porto io' ! Ma dove tro-
verrò io Panfilo per liberarlo da quella paura nella qua-
le ora si truova e riempiergli l'animo d'alegrezza?)
CARINO Egli è allegro, né so perché.
PANFILO Niente è; ei non sa ancora il mio male.
DAVO (Che animo credo io che sia il suo, s'egli ha udito
di avere a menar moglie ?)
CARINO Odi tu quello che dice ?
DAVO (Di fatto^ mi correrebbe dietro tutto fuora di sé.
Ma dove ne cercherò io o dove andrò ?)
7. E anche tu: nel latino leggiamo «At tu»: «Ma tu (piuttosto)». 8. Vatti...
ora: Terenzio scrive: «Fugin hinc?»: «Ti togli da costi?»
II. 1.0 Idio... io: Terenzio gioca sulla paronomasia: «Di boni, boni quid
porto!»: «Buoni dei, che buona notizia porto!» Machiavelli ricorre invece
alla rima. 2. Di fatto: Terenzio è più ricco: «Toto... oppido»: «Per tutta la
città».
ATTO SECONDO 2 1
CARINO Che non parli ?
DAVO (Io so dove io voglio ire.)
PANFILO Davo, se' tu qui? Fermati!
DAVO Chi è che mi chiama? O Panfilo, io ti cercavo! o
Carino^ voi sete apunto insieme: io vi volevo tutti a dua.
PANFILO O Davo, io sono morto!
DAVO Che? De! stammi più tosto ad udire.
PANFILO Io sono spacciato.
DAVO Io so di quello che tu hai paura.
CARINO La mia vita, per mia fé, è in dubio.
DAVO E anche tu so quello vuoi.
PANFILO Io ho a menar moglie.
DAVO Io me lo so'*.
PANFILO Oggi.
DAVO Tu mi togli la testa'; perché io so che tu hai pau-
ra di averla a menare, e tu ch'e' non la meni.
CARINO Tu sai la cosa.
PANFILO Cotesto è proprio.
DAVO E in questo non è alcun periculo: guardami in viso.
PANFILO Io ti priego che, il più presto puoi, mi liberi da
questa paura.
DAVO Ecco che io ti libero: Cremete non te la vuole dare.
PANFILO Che ne sai tu ?
DAVO SòUo. Tuo padre, poco fa, mi prese e mi disse che
ti voleva dare donna oggi, e molte altre cose che non è
ora tempo a dirle. Di fatto, io corsi in mercato per dir-
telo, e, non ti trovando quivi, me n'andai in uno luogo
alto"^ e guardai atorno; né ti vidi. Ma a caso trovai Bir-
ria di costui, domanda'lo di te, risposemi non ti avere
veduto: il che mi fu molesto, e pensai quello che fare
dovevo. In questo mezzo, ritornandomi io a casa, mi
nacque della cosa in sé' qualche sospizione, perché io
3. O Carino: c'è nel testo di Terenzio un «Eugae»: «Bene». 4. lo... so: Te-
renzio fa dire a Davo, lievemente impazientito: «Etsi scio?»: Anche se lo so
(vai avanti)?». 5. Tu... testa: in Terenzio leggiamo: «Obtundis»: «Mi rompi
la testa». 6. in uno luogo alto: Terenzio ironizza sul tono enfatico delle paro-
le del servo («in quendam excelsum locum»). Machiavelli sembra non cogliere
la ridondanza «comica» dell'espressione. 7. della cosa in sé: meglio traduceva
Machiavelli nella prima redazione: «ex ipsa re» volto in «da la cosa in sé».
22 ANDRIA
vidi comperate poche cose, ed esso stare maninconoso;
e subito dissi fra me: - Queste nozze non mi riscon-
trono*.
PANFILO A che fine di' tu cotesto ?
DAVO Io me n'andai sùbito a casa Cremete, e trovai da-
vanti a l'uscio una solitudine grande, di che io mi ral-
legrai.
CARINO Tu di' bene.
PANFILO Seguita.
DAVO Io mi fermai quivi, e non vidi mai entrare né usci-
re persona'; io entrai drento, riguardai'": quivi non era
alcuno aparato né alcuno tumulto.
PANFILO Cotesto è uno gran segno.
DAVO Queste cose non" riscontrono con le nozze.
PANFILO Non pare a me.
DAVO Di' tu che non ti pare? La cosa è certa'^ Oltre a
di questo", io trovai uno servo di Cremete, che aveva
comperato certe erbe e uno grosso di pesciolini per la
cena del vecchio.
CARINO Io sono oggi contento'"', mediante l'opera tua.
DAVO Io non dico già così io.
CARINO Perché ? Non è egli certo che non gliene vuol
dare?
DAVO Uccellacelo!". Come se fussi necessario, non la
dando a costui, che la dia a te! E' bisogna che tu ti af-
fatichi, che tu vadia a pregare gl'amici del vecchio e che
tu non ti stia.
8. perché... riscontrono: in Terenzio leggiamo: «hem! paullulum opsoni; ipsu'
tristis; de inproviso nuptiae: non cohaerent»: «ma! poco companatico; lui stes-
so triste; le nozze in fretta e furia: le cose non quadrano». Machiavelli ha tra-
dotto un poco in fretta e fuso il terzo e quarto membro della frase. 9. perso-
na: Machiavelli omette di tradurre: «matronam nuUam in aedibus»: «(non ve-
do) nessuna matrona in casa». Le matrone erano le accompagnatrici ufficiali
delle spose, io. entrai drento, riguardai: il testo latino è diverso: «accessi, in-
tro aspexi»: «entrai, dentro guardai». 1 1. non: in Terenzio si legge «num»,
«forse», e la frase è un'interrogativa. 12. La cosa è certa: Machiavelli omette
di tradurre: «Non recte accipis»: «Non hai capito bene». 13. Oltre a di que-
sto: ancora una omissione di Machiavelli: «inde abiens», «andandomene di
là». 14. contento: Terenzio scrive: «Liberatu' sum»; e Machiavelli nella pri-
ma redazione traduceva: «Io sono oggi libero». 15. Uccellaccio! : l'originale
suona: «Ridiculum caput». Cosi anche in M., II, 4.
ATTO SECONDO 23
CARINO Tu mi amunisci bene: io andrò, benché, per mia
fé, questa speranza m'abbi ingannato spesso'^ A Dio!
SCENA TERZA
Panfilo, Davo.
PANFILO Che vuole adunque mio padre ? Perché finge ?
DAVO Io tei dirò: se egli t'incolpassi ora che Cremete non
te la vuole dare, egli si adirerebbe teco a torto', non
avendo prima inteso che animo sia il tuo circa le noz-
ze. Ma se tu negassi, tutta la colpa sarà tua: e allora an-
drà sottosopra ogni cosa.
PANFILO Io sono per sopportare ogni male.
DAVO O Panfilo, egli è tuo padre ed è difficile opporse-
gli. Dipoi, questa donna è sola: e' troverrà dal detto al
fatto qualche cagione per la quale e' la farà mandar via^
PANFILO Che la mandi via ?
DAVO Presto.
PANFILO Dimmi adunque quello che tu vuoi che io faccia.
DAVO Di' di volerla menare.
PANFILO Heimè !
DAVO Che cosa è ?
PANFILO Che io lo dica.
DAVO Perché no ?
PANFILO Io non lo farò mai !
DAVO Non lo negare.
PANFILO Non mi dare ad intender questo.
DAVO Vedi di questo quello che ne nascerà.
16. andrò... spesso: ci andrò, anche se, per la verità, sono stato spesso deluso da
questo tipo di speranza.
III. I. egli... torto: Terenzio è più sottile nel gioco di parole: «Ipsu' sibi esse
iniuriu' videatur, ncque id iniuria»: «gli sembrerebbe di essere ingiusto, e non
ingiustamente». 2. mandar via: nel testo latino, con maggior concretezza: «ei-
ciat oppido», «la scacci dalla città».
24 ANDRIA
PANFILO Che io lasci quella e pigli questa!
DAVO E' non è cosi, perché tuo padre dirà in questo mo-
do: - Io voglio che tu meni oggi donna -. Tu rispon-
derai: - Io sono contento -. Dimmi: quale cagione ara
egli d'adirarsi teco? E tutti i suoi certi consigli gli tor-
neranno sanza periculo incerti: perché, questo è sanza
dubio, che Cremete non ti vuole dare la figliuola: né tu
per questa cagione ti rimuterai di non fare quel che tu
fai, acciò che quello non muti la sua opinione. Di' a tuo
padre di volerla, acciò che, volendosi adirare teco, ra-
gionevolmente non possa. E facilmente si confuta quel-
lo che tu temi, perché nessuno darà mai moglie a cote-
sti costumi: ei la darà più tosto ad uno povero'. E farai
ancora tuo padre negligente a darti moglie, quando ei
vegga che tu sia parato a pigliarla; e a bell'agio cercherà
d'un'altra: in questo mezzo qualcosa nascerà di bene.
PANFILO Credi tu che la cosa proceda cosi ?
DAVO Sanza dubio alcuno.
PANFILO Vedi dove tu mi metti.
DAVO De! sta' cheto.
PANFILO Io lo dirò; ei bisogna guardarsi che non sappia
che io abbi uno fanciullo di lei, perché io ho promesso
d'alevarlo\
DAVO O audacia temeraria!
PANFILO La volle che io gli dessi la fede, che sapeva che
io ero per osservarliene.
DAVO E' vi si ara avvertenza'. Ma ecco tuo padre: guar-
da che non ti vegga maninconoso.
PANFILO Io lo farò.
3. E facilmente... povero: Terenzio aveva scritto: «Nam quod tu speres: "pro-
pulsabo facile uxorem his moribus; dabit nemo": inveniet inopem potiu' quam
te corrumpi sinat»: «Infatti, nel caso tu sperassi: - con la mia condotta eviterò
con facilità di prendere moglie; nessuno me la darà -: tuo padre te ne trove-
rebbe una senza dote piuttosto che lasciarti andare cosi a male». Machiavelli
ha davvero frainteso e raccorciato, senza grande logica, il passo. 4. d' alevar-
lo: la promessa di Panfilo è piuttosto quella di riconoscerlo («nam pollicitus sum
suscepturum»). 5. E' ... avvertenza: ci staremo attenti.
ATTO SECONDO 25
SCENA QUARTA
Simo, Davo, Panfilo.
SIMO (Io ritorno a vedere quel che fanno o che partiti
pigliano.)
DAVO Costui non dubita che Panfilo neghi di menarla,
e ne viene pensativo di qualche luogo solitario', e spe-
ra avere trovata la cagione di farti ingiuria^; pertanto
fa' di stare in cervello.
PANFILO Pure che io possa. Davo.
DAVO Credimi questo, Panfilo, che non farà una parola
sola, se tu di' di menarla.
SCENA QUINTA
Birria, Simo, Davo, Panfilo.
BiRRiA (Il padrone mi ha imposto, che, lasciata ogni al-
tra cosa, vadi osservando Panfilo, per intendere quel-
lo che fa di queste nozze; per questo io l'ho seguitato,
e veggo ch'egli è con Davo: io ho un tratto a fare que-
sta faccenda'.)
SIMO (E' sono qua l'uno e l'altro.)
DAVO Abbi l'occhio!
SIMO O Panfilo!
IV. I. ne viene... solitario: qui Machiavelli traduce con grande efficacia il lati-
no: «Venit meditatus alicunde ex solo loco». 2. di farti ingiuria: Terenzio ha
scritto: «qui differat te», «che ti ingarbugli».
V. I. io... faccenda: più sintetico ed efficace il testo latino: «hoc agam»; «mi
metto all'opera».
26 ANDRIA
DAVO Voltati ad lui quasi che allo improviso.
PANFILO O padre !
DAVO (Bene.)
SIMO Io voglio che tu meni oggi donna, come io ti ho
detto.
BiRRiA (Io temo ora del caso nostro, secondo che costui
risponde.)
PANFILO Né in questo né in altro mai sono per mancare^
in alcuna cosa.
BiRRiA (Heimè!)
DAVO (Egli è ammutolato.)
BiRRiA (Che ha egli detto ?)
SIMO Tu fai quello debbi quando io impetro amorevol-
mente da te quel che io voglio.
DAVO (Ho io detto il vero ?)
BiRRiA (Il padrone, secondo che io intendo, farà sanza
moglie.)
SIMO Vattene ora in casa, acciò che, quando bisogna,
che tu sia presto.
PANFILO lo vo.
BiRRiA (E egli possibile che in negli uomini non sia fede
alcuna ? Vero è quel proverbio che dice che ognuno vuo-
le meglio a sé che ad altri. Io ho veduta quella fanciul-
la e, se bene mi ricordo, è bella; per la quale cosa io vo-
glio men male a Panfilo, s'egli ha più tosto voluto abrac-
ciare lei che il mio padrone. Io gliene andrò a dire, ac-
ciò che per questa mala novella mi dia qualche male\)
2. mancare: «Ncque... erit usquam in me mora». Cosi scrive Terenzio: cioè,
«non ci sarà mai in me indugio». 3. acciò che... male: nel testo terenziano si
legge: «prò hoc malo mihi det malum»: «per ricevere da questa cattiva notizia
una qualche brutta punizione» [malum è la punizione corporale dello schiavo).
Machiavelli non coglie, o comunque non vuole rendere, il doppio senso.
ATTO SECONDO 27
SCENA SESTA
Simo, Davo.
DAVO (Costui crede ora che io gli porti qualche inganno
e per questa cagione sia rimaso qui.)
SIMO Che dice Davo?
DAVO Niente veramente.
SIMO Niente, he ?
DAVO Niente, per mia fé!
SIMO Veramente io aspettavo qualche cosa.
DAVO (Io mi avveggo che questo gli è intervenuto fuori
d'ogni sua opinione. Egli è rimaso preso'.)
SIMO E egli possibile che tu mi dica il vero ?
DAVO Niente è più facile.
SIMO Queste nozze sono a costui punto moleste per la
consuetudine che lui ha con questa forestiera ?
DAVO Niente, per Dio; e, se fia, sarà uno pensiero che
durerà dua o tre di, tu sai? perch'egli ha preso questa
cosa per il verso^
SIMO Io lo lodo.
DAVO Mentre che gli fu lecito e mentre che la età lo pati,
egli amò; e allora lo fece di nascosto, perché quella co-
sa non gli dessi carico, come debbe fare uno giovane da
bene; ora ch'egli è tempo di menar moglie, egli ha di-
ritto' l'animo alla moglie.
SIMO E' mi parve pure alquanto maninconoso.
DAVO Non è per questa cagione; ma ei ti accusa bene in
qualche cosa.
SIMO Che cosa è ?
DAVO Niente.
VI. I . Egli è rimaso preso: Machiavelli probabilmente non ha ben compreso e
traduce in modo poco chiaro. «Hoc male habet virum», scrive Terenzio, cioè:
«tutto questo non va a genio all'amico». 2. perch'egli... verso: Terenzio vera-
mente aveva scritto: «deinde desinet»: «poi passa». 3. ha diritto: nella prima
redazione, Machiavelli aveva scritto: «ha volto».
28 ANDRIA
SIMO Che domine è ?
DAVO Una cosa da giovani".
SIMO Orsù, dimmi: che cosa è?
DAVO Dice che tu usi troppa miseria in queste nozze.
SIMO Io ?
DAVO Tu. Dice che a fatica hai speso dieci ducati: e' non
pare che tu dia moglie ad uno tuo figliuolo. Ei non sa
chi si menare de' sua compagni a cena. E, a dire il ve-
ro, che tu te ne governi cosi miseramente, io non ti lodo.
SIMO Sta' cheto,
DAVO (Io l'ho aizzato.)
SIMO Io provedrò che tutto andrà bene. (Che cosa è que-
sta ? Che ha voluto dire questo ribaldo' ? E se ci è ma-
le alcuno, heimè, che questo tristo ne è guida.)
4. Che cosa... giovani: In questa sequenza di quattro battute, la prima e secon-
da battuta della versione sono invertite di posizione rispetto alla terza e quar-
ta del testo latino. 5. ribaldo: bellissimo il «veterator» di Terenzio: «vecchio
in astuzia, vecchia volpe».
ATTO TERZO
SCENA PRIMA
Miside, Simo, Lesbia, Davo, Glicerio.
MisiDE Per mia fé, Lesbia, che la cosa va come tu hai
detto: e' non si truova quasi mai veruno uomo che sia
fedele ad una donna.
SIMO (Questa fantesca è da Andro': che dice ella?
DAVO Cosi è.)
MISIDE Ma questo Panfilo...
SIMO (Che dice ella ?)
MISIDE . . . l'ha dato la fede. . .
SIMO (Heimè ! )
DAVO (Dio volessi che o costui diventassi sordo o colei
mutola!)
MISIDE ... perché gli ha comandato che quel che la farà
s'allievi^
SIMO (O Giove, che odo io ? La cosa è spacciata, se co-
stei dice il vero ! )
LESBIA Tu mi narri' una buona natura di giovane.
MISIDE Ottima; ma vienmi dreto, acciò che tu sia a tem-
po, se l'avessi bisogno di te.
LESBIA Io vengo.
DAVO (Che remedio troverrò io ora ad questo male ?)
SIMO (Che cosa è questa ? è egli si pazzo che d'una fore-
stiera. . . già io so. . .) Ha ! sciocco ! io me ne sono avveduto !
I. I. da Andro: Terenzio aveva scritto: «ab Andriast», «è della fanciulla d'An-
dro». Machiavelli traduce sbagliando. 2. che... s'allievi: che quel bimbo (o
bimba) che verrà da lei partorito, venga allevato (dopo che l'avrà riconosciu-
to): queste due azioni stanno in latino in un solo verbo, tollere, che indicava
l'atto mediante il quale il padre, sollevando il neonato, ammetteva di ricono-
scerlo. 3. mi narri: è il latino «narras»: «mi stai descrivendo» (nella prima re-
dazione: «mi ragioni»).
30 ANDRIA
DAVO (Di che dice costui essersi aveduto?)
SIMO (Questo è il primo inganno che costui mi fa: ci fan-
no vista'* che colei partorisca per sbigottire Cremete.)
GLiCERio O Giunone, aiutami, io mi ti raccomando!
SIMO Bembè', si presto ? Cosa da ridere. Poi che la mi
ha veduto stare innanzi all'uscio, ella sollecita*. O Da-
vo, tu non hai bene compartiti questi tempi!
DAVO Io ?
SIMO Tu ti ricordi del tuo discepolo ?
DAVO Io non so quello che tu di'.
SIMO (Come mi uccellerebbe costui, se queste nozze fus-
sino vere e avessimi trovato impreparato! Ma ora ogni
cosa si fa con periculo suo: io sono al sicuro.)
SCENA SECONDA
Lesbia, Simo, Davo.
LESBIA Infino a qui, o Archile, in costei si veggono tut-
ti buoni segni. Fa' lavare queste cose', dipoi gli date be-
re quanto vi ordinai e non più punto che io vi dissi. E
io di qui ad un poco darò volta di qua. (Per mia fé, che
gli è nato a Panfilo uno gentil figliuolo ! Dio lo facci sa-
no, sendo egli di sì buona natura che si vergogni di ab-
bandonare questa fanciulla.)
SIMO E chi non crederrebbe, che ti conoscessi, che an-
cor questo fussi ordinato da te ?
DAVO Che cosa è ?
1^. fanno vista: fanno finta, fingono, traduzione corretta del terenziano «simu-
lant». 5. Bembè: l'esclamazione è cara al Machiavelli. La usa anche inM., Ili,
12, 109 («Bembè, voi sete guarito del sordo?»), e Clizia, III, 4, 169 («Bembè,
tu mi riesci!»). 6. ella sollecita: essa si affretta (sott. a partorire): Terenzio
scrive «adproperat».
n. I. Fa'... cose: veramente Terenzio è più preciso: «fac ista ut lavet»; «fa'
che costei (la puerpera) si lavi».
ATTO TERZO 3 1
^IMO Perché non ordinava ella in casa quello che era di
bisogno alla donna di parto" ? Ma, poi che la è uscita
fuora, la grida della via' a quegli che sono drento! O
Davo, tieni tu si poco conto di me, o paioti io atto ad
essere ingannato sì apertamente? Fa' le cose almeno in
modo che paia che tu abbia paura di me, quando io lo
risapessi!
DAVO (Veramente costui s'inganna da sé, non lo ingan-
no io.)
SEVio Non te lo ho io detto ? Non ti ho io minacciato che
tu non lo faccia? Che"* giova? Credi tu ch'io ti creda
che costei abbi partorito di Panfilo ?
DAVO (Io so dove ei s'inganna; e so quel ch'io ho a fare.)
SIMO Perché non rispondi ?
DAVO Che vuoi tu credere? Come se non ti fussi stato
ridetto ogni cosa.
SIMO A me ?
DAVO He! ho! Ha' ti tu inteso da te che questa è una
finzione ?
SIMO Io sono uccellato^ !
DAVO E' ti è stato ridetto: come ti sarebbe entrato que-
sto sospetto ?
SIMO Perch'io ti conoscevo.
DAVO Quasi che tu dica che questo è fatto per mio con-
siglio.
SIMO Io ne sono certo.
DAVO O Simone, tu non conosci bene chi io sono.
SIMO Io non ti conosco?
DAVO Ma come io ti comincio a parlare, tu credi che io
t'inganni...
SIMO Bugie'.
DAVO ... in modo che io non ho più ardire d'aprire la
bocca.
2. alla... parto: alla partoriente: in latino «puerperae». 3. della via: dalla via.
Simo è perplesso per le esibizioni di Lesbia, che gli paiono «false». 4. Che:
Machiavelli tralascia qui di tradurre: «Num veritu's?»: «E tu forse te ne sei
preoccupato?» 5. /o50«o«cce//l3/o: in Terenzio la battuta suona: «Inrideor»:
«vengo schernito». 6. Bugie: nel testo latino: «Falso! ».
32 ANDRIA
SIMO Io SO una volta' questo, che qui non ha partorito
persona*.
DAVO Tu la intendi; ma di qui a poco questo fanciullo ti
sarà portato innanzi all'uscio; io te ne avvertisco, acciò
che tu lo sappia e che tu non dica poi che sia fatto per
consiglio di Davo, perché io vorrei che si rimovessi da
te questa opinione che tu hai di me.
SIMO Donde sai tu questo ?
DAVO Io l'ho udito e credolo.
SIMO Molte cose concorrono per le quali io fo questa co-
niettura: in prima, costei disse essere gravida di Panfi-
lo, e non fu vero; ora poi che la vede aparecchiarsi le
nozze, ella mandò per la levatrice, che venissi ad lei e
portassi seco uno fanciullo'.
DAVO Se non accadeva che tu vedessi il fanciullo, que-
ste nozze di Panfilo non si sarebbono sturbate.
SIMO Che di' tu? Quando tu intendesti che si aveva ad
pigliare questo partito, perché non me lo dicesti tu?*".
DAVO Chi l'ha rimosso da lei, se non io ? Perché, non sa
ognuno quanto grandemente colui l'amava? Ora egli è
bene che tolga moglie: però mi darai questa faccenda"
e tu nondimeno seguita di fare le nozze. E io ci ho buo-
na speranza, mediante la grazia di Dio.
SIMO Vanne in casa, e quivi mi aspetta e ordina quello
che fa bisogno. - Costui non mi ha al tutto constretto
a credergli, e non so s'egli è vero ciò che mi dice: ma lo
stimo poco, perché questa è la importanza, che '1 mio
figliuolo me lo ha promesso. Ora io troverrò Cremete
e lo pregherrò che gliene dia: se io lo impetro, che vo-
glio io altro, se non che oggi si faccino queste nozze?
7. una volta: una volta per tutte: in Terenzio: «Hoc ego scio unum». 8. per-
sona: nessuno. 9. Molte cose concorrono... fanciullo: nel testo di Terenzio, è
Davo che pronuncia questa battuta: il Machiavelli (che in questo si appoggia-
va ad una parte della tradizione del testo) dà invece la parola a Simo. io. per-
ché... tu?: qui Machiavelli sbaglia. Nel testo di Terenzio si legge: «quor non
dixti extemplo Pamphilo?»: «perché non lo hai fatto sapere subito a Panfi-
lo?» II. mi... faccenda: cioè, mi darai da sistemare questa faccenda. Teren-
zio è molto più netto e conclusivo: «Postremo id mihi da negoti»: «Per finir-
la, lascia quest'affare a me».
ATTO TERZO 33
Perché, a quello che '1 mio figliuolo mi ha promesso, e'
non è dubio ch'io lo potrò forzare, quando ei non vo-
lessi. E apunto a tempo ecco Cremete.
SCENA TERZA
Simo, Cremete.
SIMO A! quel Cremete!
CREMETE O! io ti cercavo.
SIMO E io te.
CREMETE Io ti desideravo' perché molti mi hanno tro-
vato e detto avere inteso da più persone^ come oggi io
do la mia figliuola al tuo figliuolo: io vengo per sapere
se tu o loro impazzano\
SIMO Odi un poco e saprai per quel che io ti voglio e
quello che tu cerchi.
CREMETE Di' ciò che tu vuoi.
SIMO Per Dio io ti prego, o Cremete, e per la nostra ami-
cizia, la quale, cominciata da piccoli, insieme con la età
crebbe; per la unica tua figliuola e mio figliuolo, la sa-
lute del quale è nella tua potestà; che tu mi aiuti in que-
sta cosa e che quelle nozze, che si dovevono fare, si fac-
cino.
CREMETE Ha! non mi pregare, come se ti bisogni prie-
ghi quando tu vogli da me alcun piacere. Credi tu che
io sia d'altra fatta" che io mi sia stato per lo adietro,
quando io te la davo? S'egli è bene per l'una parte e
per l'altra, facciamole; ma se di questa cosa a l'uno e
l'altro di noi ne nascessi più male che commodo, io ti
ni. 1. Io... desideravo: è Simo che dice a Cremete, nel testo di Terenzio: «Op-
tato advenis»: «Arrivi desiderato». 2. da piti persone: in Terenzio, «ex te»:
«da te»: questi «molti» riferiscono a Cremete una voce udita da Simo stes-
so. 3. impazzano: sono impazziti: è la traduzione letterale del latino «insa-
niant». 4. che. ..fatta: che io sia mutato. Molto limpido Terenzio: «Alium es-
se censes».
34 ANDRIA
priego che tu abbi riguardo al comune bene, come se
quella fussi tua, e io padre di Panfilo.
SIMO Io non voglio altrimenti, e cosi cerco che si facci,
o Cremete; né te ne richiederei, se la cosa non fussi in
termine da farlo'.
CREMETE Che è nato ?
SIMO Glicerio e Panfilo sono adirati insieme.
CREMETE Intendo.
SIMO E di qualità che io credo che non se ne abbi a fa-
re pace.
CREMETE Favole !
SIMO Certo la cosa è cosi.
CREMETE E' fia come io ti dirò^ che l'ire degli amanti
sono una reintegrazione d'amore.
SIMO De ! io ti priego che noi avanziano tempo in dar-
gli moglie mentre che ci è dato questo tempo^ mentre
che la sua libidine è ristucca* Ho l'^ ìnìnrip innonTi" r^V.^
-w j.^i.Kj e ic lacrime piene d inganno ridu-
chino l'animo infermo a misericordia; perché spero, co-
me e' fia legato da la consuetudine e dal matrimonio,
facilmente si libererà da tanti mali.
CREMETE E' pare a te così, ma io credo che non potrà'
lungamente patire me né lei.
SIMO Che ne sai tu, se tu non ne fai esperienza?
CREMETE Farne esperienza in una sua'" figliuola, è pazzia.
SIMO In fine tutto il male che ne può risultare è questo:
se non si corregge, che Dio guardi!, che si facci il di-
vorzio; ma, se si corregge, guarda quanti beni": in pri-
ma tu restituirai ad uno tuo amico uno figliuolo^^ tu
arai uno genero fermo e la tua figliuola marito.
5. in... farlo: in condizioni propizie. Terenzio veramente scrive: «ni ipsa res
moneat»: «se la cosa stessa non me lo suggerisse». 6. E... dirò: Andrà a fi-
nire come ti dico io: cioè, si riappacificheranno. 7. mentre... tempo: finché go-
diamo di quest'occasione favorevole. E traduzione piatta di «dum tempus da-
tur». 8. ristucca: rintuzzata sino ad essere placata. Machiavelli rende felice-
mente «occlusast». 9. non potrà: il soggetto sottinteso è Panfilo, io. in una
sua: nella propria. In Terenzio, a rendere ancor più evidente il timor paterno,
si legge semplicemente «in filia». 1 1 . guarda quanti beni: rifletti a quanti van-
taggi. 12. restituirai... figliuolo: «restituirai» nel senso di «restituirai all'af-
fetto» (Machiavelli traduce, per altro, fedelmente Terenzio).
ATTO TERZO 35
CREMETE Che bisogna altro? Se tu ti se' persuaso che
questo sia utile, io non voglio che per me si guasti al-
cuno tuo commodo.
SIMO Io ti ho meritamente sempre amato assai.
CREMETE Ma dimmi...
SIMO Che ?
CREMETE Onde sai tu ch'egli è infra loro inimicizia ?
SIMO Davo me lo ha detto, che è il primo loro consi-
gliere; ed egli mi persuade che io faccia queste nozze il
più presto posso. Credi tu che lo facessi, se non sapes-
si che '1 mio figliuolo volessi? Io voglio che tu stessi"
oda le sua parole proprie. Olà, chiamate qua Davo! Ma
eccolo che viene fuora.
SCENA QUARTA
Davo, Simo, Cremete.
DAVO Io venivo a trovarti.
SIMO Che cosa è?
DAVO Perché non mandate per la sposa? E' si fa sera.
SIMO Odi tu quel che dice ? - Per lo adietro io ho dubi-
tato assai, o Davo, che tu non facessi quel medesimo
che suole fare la maggiore parte de' servi, d'ingannar-
mi per cagione del mio figliuolo.
DAVO Che io facessi cotesto ?
SIMO Io lo credetti, e in modo ne ebbi paura, che io vi
ho tenuto segreto quello che ora vi dirò.
DAVO Che cosa è ?
SIMO Tu lo saprai, perché io comincio a prestarti fede.
DAVO Quanto tu hai penato a conoscere chi io sono !
SIMO Queste nozze non erano da dovero'...
I}. tu stessi: tu stesso: è il latino «tute».
IV. I. Queste... dovevo: Queste nozze non erano vere. Terenzio scrive, perla ve-
rità: «Non fuerant nuptiae futurae»: «Queste nozze non erano per realizzarsi».
36 ANDRIA
DAVO Perché no ?
SIMO Ma io le finsi per tentarvi.
DAVO Che di' tu?
SIMO Così sta la cosa.
DAVO Vedi tu! mai me ne arei saputo avedere. U! Ha!,
che consiglio astuto !
SIMO Odi questo: poi che io ti feci entrare in casa, io ri-
scontrai a tempo costui.
DAVO (Heimè! noi siam morti.)
SIMO Di'^ a costui quello che tu dicesti a me.
DAVO (Che odo io ?)
SIMO Io l'ho pregato che ci dia la sua figliuola e con fa-
tica l'ho ottenuto.
DAVO (Io son morto.)
SIMO Hem ? che hai tu detto ?
DAVO Ho detto ch'egli è molto bene fatto.
SIMO Ora per costui non resta.
CREMETE Io me n'andrò a casa e dirò che si preparino;
e, se bisognerà cosa alcuna, lo farò intendere a costui.
SIMO Ora io ti prego, Davo, perché tu solo mi hai fatte
queste nozze...
DAVO Io veramente solo.
SIMO ... sforzati di correggere questo mio figliuolo.
DAVO Io lo farò sanza dubio alcuno.
SIMO Tu puoi ora, mentre ch'egli è adirato.
DAVO Sta' di buona voglia.
SIMO Dimmi, dove è egli ora ?
DAVO Io mi maraviglio se non è in casa.
SIMO Io l'andrò a trovare e dirò a lui quel medesimo che
io ho detto a te.
DAVO Io sono diventato pichino'. Che cosa terrà" che io
non sia per la più corta mandato a zappare ? Io non ho
speranza che i prieghi mi vaglino: io ho mandato sot-
tosopra ogni cosa; io ho ingannato il padrone e ho
2. Di': dissi (traduce il terenziano: «Narro»). 3. lo . . . pichino: pichino valep/c-
cino, in forma più familiare. Nella prima redazione: «sono spacciato [sbarrato]
diventato nonnulla». Il latino è: «Nullu' sum»: «Sono annientato». 4. Che...
terrà: è un errore di scrittura per torrà. In latino: «Quid causaest quin...».
ATTO TERZO 37
fatto' che oggi queste nozze si faranno, voglia Panfilo
o no*. O astuzia! Che se io mi fussi stato da parte, non
ne sarebbe risultato male alcuno. Ma ecco, io lo veg-
go. Io sono spacciato! Dio volessi che fussi qui qual-
che balza dove io a fiaccacollo mi potessi gittare!
SCENA QUINTA
Panfilo, Davo.
PANFILO Dove è quello scelerato che mi ha morto ?
DAVO (Io sto male.)
PANFILO Ma io confesso essermi questo intervenuto ra-
gionevolmente, quando io sono sì pazzo e sì da poco
che io commetto e casi mia in sì disutile servo' ! Io ne
porto le pene giustamente; ma io ne lo pagherò^ in ogni
modo.
DAVO (Se io fuggo ora questo male, io so che poi tu non
me ne pagherai.)
PANFILO Che dirò io ora a mio padre? Negherogli io
quello che io gli ho promesso ? Con che confidenza ar-
dirò io di farlo ? Io non so io stesso quello che mi fare
di me medesimo.
DAVO (Né anch'io di me; ma io penso di dire di avere
trovato qualche bel tratto^ per differire questo male.)
PANFILO Ohe !
DAVO (E' mi ha veduto.)
5. e ho fatto: Machiavelli omette di tradurre la frase: «in nuptias conieci erilem
filium»: «ho accalappiato con le nozze il padroncino». 6. voglia... no: Ma-
chiavelli semplifica, mentre Terenzio è più sottile: «insperante hoc atque invi-
to Pamphilo»: «al di là delle speranze di costui e contro il volere di Panfilo».
V. I. commetto... servo: affido i casi miei ad un servo cosi imbelle. Ma in Te-
renzio l'aggettivo è «futtili», «chiacchierone». Futilis deriva da fundere, ver-
sare; e, per traslato, non saper conservare nessun segreto. 2. ne... pagherò:
gliela farò pagare. 3. qualche... tratto: qualche bella trovata. Machiavelli è più
inventivo dell'originale, che propone un semplice «aliquid».
38 ANDRIA
PANFILO Olà, uom da bene, che fai? Vedi tu come tu
m'hai aviluppato co' tuoi consigli?
DAVO Io ti svilupperò.
PANFILO Sviluppera'mi?\
DAVO Si veramente, Panfilo!
PANFILO Come ora ?
DAVO Spero pure di fare meglio.
PANFILO Vuoi tu che io ti creda, impiccato', che tu ras-
setti una cosa aviluppata e perduta ? O ! di chi mi sono
io fidato, che d'uno stato tranquillo m'hai rovesciato
adosso queste nozze. Ma non ti dissi io che m'inter-
verrebbe questo ?
DAVO Si, dicesti.
PANFILO Che ti si verrebbe egli ?^
DAVO Le forche! Ma lasciami un poco poco ritornare in
me: io penserò a qualcosa.
PANFILO Heimè! perché non ho io spazio' a pigliare di
te quel suplizio che io vorrei ? Perché questo tempo ri-
chiede che io pensi a' casi mia e non a vendicarmi.
4. Svilupperà' mi?: Mi toglierai d'impaccio? È la traduzione del latino «Expe-
dies?». 5. impiccato: degno d'essere impiccato. In Terenzio il corrisponden-
te è «furcifer». 6. Che... egli?: Che cosa ti dovrebbe toccare? E la traduzio-
ne di «Quid meritu's». 7. spazio: tempo e modo (Machiavelli traduce, un po'
troppo letteralmente, lo spatium di Terenzio).
ATTO QUARTO
SCENA PRIMA
Carino, Panfilo, Davo.
CARINO (È ella cosa degna di memoria o credibile che sia
tanta pazzia nata in alcuno che si rallegri del male d'al-
tri e degli incommodi d'altri cerchi' i commodi suoi?
Ah ! non è questo vero ? E quella sorte d'huomini è pes-
sima, che si vergognano negare una cosa quando sono
richiesti; poi, quando ne viene il tempo, forzati da la
necessità, si scuoprono^ e temono e pure la cosa gli sfor-
za a negare. Et allora usano parole sfacciate: - Chi se'
tu ? Che hai tu a fare meco ? Perché ti ho io a dare le
mia cose? Odi tu: io ho a volere meglio a me!\ - E se
tu gli domandi: dove è la fedeV - e' non si vergogno-
no di niente; e prima, quando non bisognava, si vergo-
gnorno. Ma che farò io? Androllo io a trovare per do-
lermi seco di questa ingiuria? Io gli dirò villania. E se
un mi dicessi: - Tu non farai nulla! - io gli darò pure
questa molestia e sfogherò l'animo mio.)
PANFILO Carino, io ho rovinato imprudentemente te e
me, se Dio non ci provede.
CARINO Così, «imprudentemente»? Egli ha trovata la
scusa! Tu m'hai osservata la fede!
PANFILO O perché ?
CARINO Credimi tu ancora ingannare con queste tua pa-
role?
I. I. cerchi: cerchi di trarre, di far nascere. 2. si scuoprono: si svelano per
quello che sono. È la traduzione letterale di «se aperiunt». 3. io ho... a me! :
è a me, semmai, che devo usare dei riguardi! Machiavelli non ha saputo ren-
dere la pregnanza della felice espressione terenziana: « Heus proxumus sum ego-
met mihi»; «Il mio primo prossimo sono io stesso». 4. E... la fede: in Teren-
zio, c'è un inserto di discorso diretto: «At tamen - ubi fides? - si roges».
40 ANDRIA
PANFILO Che cosa è cotesta ?
CARINO Poi che io dissi d'amarla, ella ti è piaciuta. De!
misero a me, che io ho misurato l'animo tuo con l'ani-
mo mio' !
PANFILO Tu t'inganni.
CARINO Questa tua allegrezza non ti sarebbe paruta in-
tera, se tu non mi avessi nutrito e lattato* d'una falsa
speranza: abbitela.
PANFILO Che io l'abbia ? Tu non sai in quanti mali io sia
rinvolto e in quanti pensieri questo mio manigoldo
m'abbi messo con i suoi consigli.
CARINO Maraviglitene tu ? Egli ha imparato da te.
PANFILO Tu non diresti cotesto, se tu conoscessi me e lo
amore mio.
CARINO Io so che tu disputasti assai con tuo padre: e per
questo ti accusa, che non ti ha potuto oggi disporre a
menarla.
PANFILO Anzi, vedi come tu sai^ i mali mia! Queste noz-
ze non si facevano, e non era alcuno che mi volessi da-
re moglie.
CARINO Io so che tu se' stato forzato da te stesso.
PANFILO Sta' un poco saldo: tu non lo sai ancora.
CARINO Io so che tu l'hai a menare.
PANFILO Perché mi ammazzi tu ? Intendi questo: costui
non cessò mai di persuadere, di pregarmi, che* io di-
cessi a mio padre di essere contento di menarla, tanto
che mi condusse a dirlo.
CARINO Chi fu cotesto uomo ?
PANFILO Davo.
CARINO Davo?
PANFILO Davo manda sozopra ogni cosa.
CARINO Per che cagione ?
PANFILO Io non lo so, se non che io so bene che Dio è
adirato meco, poi che io feci a suo modo.
5. ho... mio: il senso della battuta, tradotta letteralmente, è: ti ho giudicato a
mia misura. 6. lattato: allattato (come si legge, tra l'altro, nella prima redazio-
ne). 7. vedi come tu sai: vedi come sai male. In Terenzio la frase è un inciso el-
littico: «quo tu minu' scis aerumnas meas». 8. non... che: Terenzio è più ric-
co: «nunquam destitit instare ut dicerem me ducturum patri; suadere, orare...».
ATTO QUARTO 4I
CARINO È ita COSI la cosa, Davo ?
DAVO Sì, è.
CARINO Che di' tu, scelerato ? Idio ti dia quel fine che tu
meriti! Dimmi un poco: se tutti i suoi nimici gli aves-
sino voluto dare moglie, arebbongli loro dato altro con-
siglio ?
DAVO Io sono stracco, ma non lasso'.
CARINO Io lo so.
DAVO E' non ci è riuscito per questa via, enterreno'" per
una altra: se già tu non pensi che, poi che la prima non
riusci, questo male non si possa guarire.
PANFILO Anzi, credo che, ogni poco che tu ci pensi, che
d'un paio di nozze tu me ne farai dua.
DAVO O Panfilo, io sono obligato in tuo servizio sfor-
zarmi con le mani e co' pie, di e notte, e mettermi a pe-
riculo della vita per giovarti. E' s'appartiene poi a te"
perdonarmi, se nasce alcuna cosa fuora di speranza, e
s'egli occorre cosa poco prospera, perché io arò fatto il
meglio che io ho saputo; o veramente tu ti truovi uno
altro che ti serva meglio, e lascia andare me^^
PANFILO Io lo desidero; ma rimettimi nel luogo dove tu
mi traesti.
DAVO Io lo farò.
PANFILO Ei bisogna ora".
DAVO Hem! Ma sta' saldo, io sento l'uscio di Glicerio.
PANFILO E' non importa a te.
DAVO Io vo pensando.
PANFILO Hem ? or ci pensi ?
DAVO Io l'ho già trovato'^
9. Io... lasso: cioè, sono stanco per le fatiche dimostratesi sin qui vane: ma non
ancora da sentirmi a terra. Ma il primo aggettivo in Terenzio è «deceptus»,
«ingannato», io. enterreno: entreremo: cioè, tenteremo un'altra strada. 1 1 .
È... a te: Spetterà poi a te: traduce letteralmente il latino «tuomst». 12. e la-
scia andare me: lascia pure che me ne vada. Terenzio scrive: «me missum fa-
ce». 13. Ei... ora: adesso ce n'è bisogno. 14. lo l'ho già trovato: il modo di
«rimetter nel luogo dove lo trasse» Panfilo, cioè di fargli recuperare le posi-
zioni perdute.
42 ANDRIA
SCENA SECONDA
Miside, Panfilo, Carino, Davo.
MisiDE Come io l'arò trovato, io procurerò per te e ne
merrò meco il tuo Panfilo; ma tu, anima mia, non ti vo-
ler macerare.
PANFILO O Miside!
MISIDE Che è? O Panfilo, io t'ho trovato appunto.
PANFILO Che cosa è ?
MISIDE La mia padrona mi ha comandato che io ti prie-
ghi che, se tu l'ami, che tu la vadia a vedere.
PANFILO U! Ha! ch'io son morto. Questo male rinnuo-
va'. Tieni tu con la tua opera cosi sospeso me e lei? La
manda per me", perché la sente che si fanno le nozze.
CARINO Da le quali facilmente tu ti saresti potuto aste-
nere, se costui se ne fussi astenuto.
DAVO Se costui non è per sé medesimo adirato, aizzalo!
MISIDE Per mia fé, cotesta è la cagione; e però' è ella ma-
ninconosa.
PANFILO Io ti giuro, o Miside, per tutti gl'Iddei, che io
non la abandonerò mai, non se io credessi che tutti gli
uomini mi avessino a diventare nimici. Io me la ho cer-
ca, la mi è tocca**; i costumi s'affanno: morir possa qua-
lunque vuole che noi ci separiamo! Costei non mi fia
tolta se non da la morte.
MISIDE Io risucito.
PANFILO L'oraculo d'Apolline non è più vero che que-
sto. Se si potrà fare che mio padre creda che non sia
II. I. Questo... rinnuova: il verbo di Terenzio è «integrascit», «rincrudisce».
Machiavelli, anche se non escogita una soluzione brillante, rende il senso del-
la frase, cioè: sono di nuovo in preda alla sventura. 2. La... me: mi manda a
chiamare: la costruzione è diversa in Terenzio: «Nam idcirco accersor». 3. e
però: e proprio per questo: ancora più marcato il nesso in Terenzio: « Atque ede-
pol ea res est»: «E proprio questo il motivo». 4. lo... tocca: Io me la sono cer-
cata, mi è toccata. Il verbo in Terenzio («contigit») ha un valore assoluto: qua-
si Panfilo l'avesse avuta in sorte per volere del destino.
ATTO QUARTO 43
mancato per me che queste nozze si faccino, io l'arò ca-
ro; quanto che no, io farò le cose alla abandonata' e
vorrò ch'egli intenda che manchi da me. Chi ti paio io ?
CARINO Infelice come me.
DAVO Io cerco d'un partito^
CARINO Tu se' valente huomo.
PANFILO Io so quel che tu cerchi.
DAVO Io te lo darò fatto in ogni modo,
PANFILO E' bisogna ora.
DAVO Io so già quello che io ho a fare.
CARINO Che cosa è ?
DAVO Io l'ho trovato per costui', non per te, acciò che
tu non ti inganni.
CARINO E' mi basta.
PANFILO Dimmi quello che tu farai.
DAVO Io ho paura che questo di non mi basti a farlo, non
che mi avanzi tempo a dirlo^ Orsù, andatevi con Dio:
voi mi date noia.
PANFILO Io andrò a vedere costei.
DAVO Ma tu dove n'andrai?
CARINO Vuoi tu ch'io ti dica il vero?
DAVO Tu mi cominci una istoria da capo.
CARINO Quel che sarà di me ?
DAVO Eh! o! imprudente'! Non ti basta egli che, s'io
differisco queste nozze uno dì, che io lo do a te ?
CARINO Nondimeno . . .
DAVO Che sarà?
CARINO Ch'io la meni.
DAVO Uccellacelo !
CARINO Se tu puoi fare nulla, fa' di venire qui.
DAVO Che vuoi tu ch'io venga? Io non ho nulla...
CARINO Pure, se tu avessi qualche cosa...
5. alla abandonata: senza ritegno. Machiavelli ha ben inteso? Terenzio scrive:
«in proclivi quod est»; «in pendio» (letteralmente); cioè: «per ciò che mi rie-
sce facile». 6. Io .. .partito: Sto cercando una qualche soluzione possibile (Da-
vo sta riflettendo). E la traduzione letterale di «Consilium quaero». 7. perca-
stui: cioè, in favore di Panfilo. 8. Io... dirlo: Temo che non ce la farò in un
giorno, figurati se mi resta tempo per raccontartelo. 9. imprudente: Machia-
velli ha tradotto distrattamente. Infatti, in Terenzio si legge: «impudens», «im-
pudente, sfrontato».
44 ANDRIA
DAVO Orsù, io verrò!
CARINO ... Io sarò in casa.
DAVO Tu, Miside, aspettami un poco qui, tanto che io
peni a uscire di casa.
MISIDE Perché ?
DAVO Cosi bisogna fare.
MISIDE Fa'presto!
DAVO Io sarò qui ora.
SCENA TERZA
Miside, Davo.
MISIDE Veramente e' non ci è boccone del netto. O Idii !
io vi chiamo in testimonio che io mi pensavo che que-
sto Panfilo fussi alla padrona mia un sommo bene, sen-
do amico, amante e uom parato a tutte le sua voglie:
ma ella, misera, quanto dolore piglia per suo amore! In
modo che io ci veggo dentro più male che bene'. Ma
Davo esce fuora. - Oimè ! che cosa è questa ? dove por-
ti tu il fanciullo ?
DAVO O Miside, ora bisogna che la tua astuzia e auda-
cia sia pronta.
MISIDE Che vuoi tu fare ?
DAVO Piglia questo fanciullo, presto, e pòllo^ innanzi
all'uscio nostro.
MISIDE Interra?
DAVO Raccogli paglia e vinciglie* della via"*, e mettiglie-
ne sotto.
MISIDE Perché non fai tu questo da te ?
in. I. In modo... bene: un'eco (anche se flebile) è forse ìnM., IV, i, ni: «la
[fortuna e la natura] non ti fa mai un bene, che, a l'incontro, non surga un ma-
le». 2. póllo: ponilo, mettilo (letteralmente, dal latino «adpone»). 3. vinci-
glie: vincigli, giunchi, cosi da formare, con la paglia, una cuna (è il latino «ver-
benas»). 4. della via: Terenzio scriveva: «ex ara», ma Machiavelli non pote-
va qui limitarsi a tradurre se non a rischio d'anacronismo.
ATTO QUARTO 45
DAVO Per potere giurare al padrone di non lo avere posto.
MISIDE Intendo; ma dimmi: come se' tu diventato sì re-
ligioso ?
DAVO Muoviti presto, acciò che tu intenda dipoi quel
ch'io voglio fare. O Giove!
MISIDE Che cosa è ?
DAVO Ecco il padre della sposa: io voglio lasciare il pri-
mo partito.
MISIDE Io non so che tu ti di'.
DAVO Io fingerò di venire qua da man dritta': fa' d'an-
dare secondando il parlare mio dovunque bisognerà*.
MISIDE Io non intendo cosa che tu ti dica; ma io starò
qui, acciò, se bisognassi l'opera mia, io non disturbi al-
cuno vostro commodo.
SCENA QUARTA
Cremete, Miside, Davo.
CREMETE (Io ritorno per comandare che mandino per
lei, poi che io ho ordinato tutte le cose che bisognano
per le nozze... Ma questo che è? Per mia fé, ch'egli è
un fanciullo!) O donna, ha'lo tu posto qui?
MISIDE (Ove è ito colui ?)
CREMETE Tu non mi rispondi ?
MISIDE (Hei, misera a me! che non è in alcun luogo! Ei
mi ha lasciata qui sola ed èssene ito'.)
DAVO O Dii, io vi chiamo in testimonio: che romore è
egli in mercato! Quanta gente vi piatisce! E anche la
ricolta è cara. (Io non so altro che mi dire.)
MISIDE Perché mi hai tu lasciata qui cosi sola ?
5. da man dritta: da destra: nel testo latino, «ab dextera». G. fa' ... bisognerà:
cerca di adeguarti alle mie parole, in ogni caso.
IV. I. èssene ito: se ne è andato: letteralmente, dal latino «abiit».
46 ANDRIA
DAVO Hem? che favola è questa? O Miside, che fan-
ciullo è questo? Chi l'ha recato qui?
MISIDE Se' tu impazzato? Di che mi domandi tu?
DAVO Chi ne ho io a dimandare, che non ci veggo altri?
CREMETE (Io mi maraviglio che fanciullo sia questo^)
DAVO Tu m'hai a rispondere ad quel ch'io ti domando\
Tirati in su la man ritta.
MISIDE Tu impazzi: non ce lo portasti tu?
DAVO Guarda di non mi dire una parola fuora di quello
che io ti domando.
MISIDE Tu bestemmi^
DAVO Di chi è egli ? Di', ch'ognuno oda.
MISIDE De' vostri.
DAVO Ha ! ha ! io non mi maraviglio se una meretrice non
ha vergogna.
CREMETE (Questa fantesca è da Andro', come mi pare.)
DAVO Paiamovi noi però uomini da essere cosi uccellati ?
CREMETE (Io sono venuto a tempo.)
DAVO Presto, leva questo fanciullo di qui! - Sta' salda;
guarda di non ti partire di qui !
MISIDE Gl'Idii ti sprofondino^ in modo mi spaventi!
DAVO Dico io a te o no ?
MISIDE Che vuoi ?
DAVO Domandimene tu ancora? Dimmi: di chi è cote-
sto bambino ?
MISIDE Noi sai tu ?
DAVO Lascia ire quel ch'io so: rispondi a quello che io ti
domando.
MISIDE E de' vostri.
DAVO Di chi nostri ?
2. mi maraviglio... questo: mi chiedo stupito chi sia questo bimbo. Ma Teren-
zio, con precisione: «Miror onde sit»: «Mi chiedo stupito donde venga». 3.
Tu... domando: Terenzio era più ambiguo e divertito: «Dicturaesquodrogo?»:
«Risponderai a ciò che ti chiedo?» Eliminando l'interrogazione, Machiavelli
smorza l'effetto teatrale. 4. Tu bestemmi: in Terenzio: «male dicis?»: «mi in-
solentisci ?» Ma è Davo, che, dopo i suggerimenti a bassa voce, riprende a fin-
gere. Machiavelli, nel dare la battuta a Miside, ha frainteso e attenuato il gio-
co teatrale. 5. da Andro: ancora una volta Machiavelli sbaglia. Nel latino c'è:
«ab Andriast»: «della ragazza d'Andro». 6. ti sprofondino: Terenzio ha scrit-
to: «eradicent»: e neUa prima redazione si legge giustamente; «ti sbarbino».
ATTO QUARTO 47
MISIDE Di Panfilo.
DAVO Come di Panfilo ?
MISIDE O perché no ?
CREMETE (Io ho sempre ragionevolmente' fuggite que-
ste nozze.)
DAVO O sceleratezza notabile!
MISIDE Perché gridi tu ?
DAVO Non vidi io che vi fu ieri recato in casa ?
MISIDE O audacia d'uomo!
DAVO Non vidi io una donna* con uno involgime' sotto ?
MISIDE Io ringrazio Dio che, quando ella partorì, v'in-
tervennono molte donne da bene.
DAVO Non so io per che cagione si è fatto questo?'". -
Se Cremete vedrà il fanciullo innanzi all'uscio, non gli
darà la figliuola ! - Tanto più gliene darà egli !
CREMETE (Non farà, per Dio!)
DAVO Se tu non lievi via cotesto fanciullo, io rinvolgerò
te e lui nel fango".
MISIDE Per Dio, che tu se' obliàco'^l
DAVO L'una bugia nasce da l'altra. Io sento già susurra-
re che costei è cittadina ateniese...
CREMETE (Heimè!)
DAVO ... e che, forzato da le leggi, la torrà per donna.
MISIDE A! U! per tua fé, non è ella cittadina?
CREMETE (Io sono Stato per incappare in uno male da
farsi beffe di me.)
DAVO Chi parla qui ? O Cremete, tu vieni a tempo. Odi !
CREMETE Io ho udito Ogni cosa.
DAVO Hai udito ogni cosa?
CREMETE Io ho udito Certamente il tutto da principio.
7. ragionevolmente: in tutta ragionevolezza: è il latino «recte». 8. una donna:
Terenzio la nomina espressamente: «Cantharam». Donato precisa che è nome
di vecchia dalla bevuta facile (l'etimo greco vale bicchiere). 9. involgime: in-
volto sotto braccio (sotto), io. Non... questo.^: Machiavelli qui fraintende. In
Terenzio si legge: «Ne illa illum haud novit»: «E lei (Glicerio) non sapeva nul-
la di costui (Cremete)». 1 1. io... fango: Terenzio gioca sulle parole e Machia-
velli non lo asseconda: «Provolvam teque ibidem pervolvam in luto»: «Lo farò
rotolare per la via e anche te avvoltolerò nel fango». 12. ohliacò: ubriaco: Te-
renzio lo dice per negazione: «Tu poi homo non es sobrius».
48 ANDRIA
DAVO Hai udito, per tua fé? Ve' che sceleratezza! Egli
è necessario mandare costei al bargello! - Questo è
quello. - Non credi" di uccellare Davo!
MisiDE O miser'a me! O vecchio mio, io non ho detto
bugia alcuna.
CREMETE Io SO Ogni cosa. Ma Simone è drento?
DAVO È.
MisiDE Non mi toccare, ribaldo ! io dirò bene a Glicerio
ogni cosa.
DAVO O pazzerella! tu non sai quello che si è fatto.
MisiDE Che vuoi tu che io sappia ?
DAVO Costui è il suocero e in altro modo non si poteva
fare che sapessi quello che noi volavamo.
MISIDE Tu me lo dovevi dire innanzi.
DAVO Credi tu che vi sia differenza, o parlare da cuore^'*,
secondo che ti detta la natura, o parlare con arte?
SCENA QUINTA
Crito, Miside, Davo.
CRITO (E' si dice che Criside abitava in su questa piaz-
za, la quale ha voluto più tosto aricchire qui inonesta-
mente, che vivere povera onestamente nella sua patria.
Per la sua morte i suoi beni ricaggiono' a me... Ma io
veggo chi io ne potrò domandare.) Dio vi salvi!
MISIDE Chi veggo io? È questo Crito, consobrino^ di
Criside? Egli è esso.
13. Non credi: preciso, come sempre Terenzio: «non te credas»: «Non ti cre-
derai...». 14. da cuore: col cuore, istintivamente (secondo che ti detta la na-
tura) o coll'astuzia, calcolatamente {con arte). In Terenzio la contrapposizione
è tra «natura» e «industria». Donato precisa che la sentenza è menandrea.
V. I. ricaggiono: ricadono, per via ereditaria: è il latino «redierunt». 2. con-
sobrino: cugino, per la precisione da parte di madre (da cum e sobrinus, a sua
volta da soror, sorella). In Terenzio la parola è appunto «sobrinus».
ATTO QUARTO 49
CRITO O Miside, Dio ti salvi!
MisiDE E Crito sia salvo!
CRITO Cosi Criside, he?
MISIDE Ella ci ha veramente rovinate.
CRITO Voi che fate? In che modo state qui? Fate voi
bene?
MISIDE Oimè! Noi? Come disse colui: - Come si può,
poiché, come si vorrebbe, non possiamo.
CRITO Glicerio che fa ? Ha ella ancora trovato qui i suoi
parenti ?
MISIDE Dio il volessi !
CRITO O ! non ancora ? Io ci sono venuto in male punto,
che, per mia fé, se io lo avessi saputo, io non ci arei mai
messo un piede. Costei è stata sempre mai tenuta* so-
rella di Criside, e possiede le cose sua: ora, sendo io fo-
restiero, quanto mi sia utile'' muovere una lite, mi am-
muniscono gli esempli degli altri. Credo ancora che co-
stei ara qualche amico e difensore, perché la si parti di
là grandicella, che griderranno che io sia uno spione' e
che io voglia con bugie aquistare questa eredità; oltra
di questo, non mi è lecito spogliarla.
MISIDE Tu se' uno uom da bene, Crito, e ritieni' il tuo
costume antico.
CRITO Menami a lei, che io la voglio vedere, poiché io
sono qui.
MISIDE Volentieri.
DAVO (Io andrò drieto a costoro, perch'io non voglio che
in questo tempo il vecchio mi vegga.)
3. è stata... tenuta: nell'autografo (seconda versione) c'è ripetizione (che non c'è
nel testo latino ed è forse dovuta ad una distrazione del Machiavelli). 4. quan-
to mi sia utile: è detto con ironia. In Terenzio c'è un aggettivo in più: «quam id
mihi sit facile atque utile». 5. spione: nella prima redazione, si legge questa
parola nell'interlinea: ma la prima scelta lessicale del Machiavelli era stata pap-
pa, scroccone. Terenzio ha scritto «sycophantam». 6. ritieni: conservi, man-
tieni: è la traduzione di «obtines». Come osserva Donato, Crito è persona gra-
ve, modesta, giusta, come si conviene alla persona ad catastropham machinata.
ATTO QUINTO
SCENA PRIMA
Cremete, Simo.
CREMETE Tu hai, o Simone, assai conosciuta l'amicitia
mia verso di te; io ho corsi assai pericuH: fa' fine' di
pregarmi. Mentre che io pensavo di compiacerti, io so-
no stato per affogare questa mia figliuola.
SIMO Anzi, ora ti priego io e suplico, o Cremete, che ap-
pruovi coi fatti questo benefizio cominciato con le pa-
role.
CREMETE Guarda quanto tu sia, per questo tuo deside-
rio, ingiusto! E pure che tu faccia quello desideri^ non
osservi alcuno termine di benignità né pensi quello che
tu prieghi': che se tu lo pensassi, tu cesseresti di agra-
varmi'* con queste ingiurie.
SIMO Con quali ?
CREMETE Ha ! domandine tu ? Non mi hai tu forzato che
io dia per donna' una mia figliuola ad uno giovane oc-
cupato nello amore d'altri e alieno al tutto dal tórre mo-
glie ? E hai voluto con lo affanno e dolore della mia fi-
gliuola medicare il tuo figliuolo. Io volli, quando egli
era bene; ora non è bene; abbi pazienza. Costoro dico-
no che colei è cittadina ateniese e ne ha auto uno fi-
gliuolo: lascia stare noi*.
I. 1. fa' fine: smettila, cessa. Machiavelli sta alla lettera del testo latino: «fi-
nem face». 2. Epure... desideri: Pur di far quello che desideri. 3. non...prìe-
ghi: in Terenzio leggiamo: «neque modum benignitati' neque quid me ores co-
gitas»: «non badi né fino a che punto possa giungere la condiscendenza né a
quel che mi chiedi». 4. agravarmi: darmi peso, affanno: è il latino «onera-
re». 5. dia per donna: molto più ricco il latino di Terenzio: «filiam ut darem
in seditionem atque in incertas nuptias»: «a dare la mano di mia figlia a rischio
di un matrimonio scombinato e insicuro». 6. lascia stare noi: lasciaci in pace,
da parte (in latino, «nos missos face»).
ATTO QUINTO 5I
SIMO Io ti priego, per lo amore di Dio, clie tu non cre-
da a costoro': tutte queste cose sono finte e trovate per
amore di queste nozze. Come fia tolta la cagione per
che fanno queste cose, e' non ci fia più scandolo alcuno.
CREMETE Tu erri: io vidi una fantesca e Davo, che si di-
cevano villania.
SIMO Io lo so.
CREMETE E da dovero*, perché nessuno sapeva che io
fussi presente.
SIMO Io lo credo; ed è un pezzo che Davo mi disse che
volevono fare questo, e oggi te lo volli dire, e dimenti-
ca'melo.
SCENA SECONDA
Davo, Cremete, Simo, Dromo.
DAVO Ora voglio io stare con l'animo riposato...
CREMETE Ecco Davo a te.
SIMO Onde esce egli ?
DAVO . . . parte per mia cagione, parte per cagione di que-
sto forestiero.
SIMO (Che ribalderia è questa ?)
DAVO Io non vidi mai uomo venuto più a tempo di questo.
SIMO (Chi loda questo scelerato ?)
DAVO Ogni cosa è a buon porto.
SIMO (Tardo io di parlargli ?)
DAVO (Egli è il padrone: che farò io?)
SIMO Dio ti salvi, uom da bene!
DAVO O Simone, o Cremete nostro, ogni cosa è ad or-
dine.
7. non... costoro: qui Machiavelli tralascia di tradurre tutto un verso: «quibus
id maxume utilest illum esse quam deterrumum»: «cui è di somma utilità che
colui (Panfilo) faccia la figura peggiore possibile». 8. E da dovero: E (parla-
vano) sul serio, dicendo cose vere: l'espressione in Terenzio è particolarmente
efficace («vero voltu») e, nella sua pregnanza, difficilmente traducibile: «di
buzzo buono».
52 ANDRIA
SIMO Tu hai fatto bene.
DAVO Manda per lei a tua posta.
SIMO Bene veramente! e' ci mancava questo! Ma ri-
spondimi: che faccenda avevi tu quivi?
DAVO Io ?
SIMO Sì.
DAVO Di' tu a me?
SIMO A te dich'io.
DAVO Io vi entrai ora...
SIMO Come s'io domandassi quanto è ch'e' vi entrò!
DAVO ... col tuo figliuolo.
SIMO Ho ! Panfilo è dentro ?
DAVO Io sono in su la fune*.
SIMO Ho! non dicesti tu ch'egli avieno quistione insie-
me?
DAVO E hanno.
SIMO Come è egli cosi in casa ?
CREMETE Che pensi tu che faccino? E' si azzuffano.
DAVO Anzi, voglio, o Cremete, che tu intenda da me una
cosa indegna: egli è venuto ora uno certo vecchio, che
pare uom cauto ed è di buona presenza, con uno volto
grave da prestargli fede^
SIMO Che di' tu di nuovo?
DAVO Niente veramente, se non quello che io ho senti-
to dire da lui: che costei* è cittadina ateniese.
SIMO O! Dromo! Dromo!
DAVO Che cosa è?
SIMO Dromo !
DAVO Odi un poco.
SIMO Se tu mi di' più una parola... Dromo!
DAVO Odi, io te ne priego.
DROMO Che vuoi ?
n. I. lo... fune: È Simo che pronuncia in Terenzio questa battuta («Crucior
miser»), che per altro Machiavelli volge genialmente. 2. ed è... fede: più ric-
co, e più poetico, il testo di Terenzio: «quom faciem videas, videtur esse quan-
tivis preti; tristi' severitas inest in voltu atque in verbis fides»: «Quando lo si
guarda in faccia, sembra un galantuomo: l'aria è di una verità malinconica e le
sue parole ispirano fiducia». 3. che costei: questa risposta di Davo in Teren-
zio è preceduta e provocata da una domanda di Simo: «Quid ait tandem?».
ATTO QUINTO 53
SIMO Porta costui di peso in casa.
DROMO Chi ?
SIMO Davo.
DROMO Perché ?
SIMO Perché mi piace: portalo via!
DAVO Che ho io fatto ?
SIMO Portalo via !
DAVO Se tu truovi che io ti abbia dette le bugie, am-
mazzami.
SIMO Io non ti odo. Io ti farò diventare destro\
DAVO Egli è pure vero.
SIMO Tu lo legherai e guardera'lo. Odi qua, mettigli un
paio di ferri: fallo ora; e, se io vivo, io ti mosterrò, Da-
vo, innanzi che sia sera, quello che importa' a te in-
gannare il padrone, e a colui il padre.
CREMETE Ha! non essere sì crudele.
SIMO O Cremete, non ti incresce egli di me per la ribal-
deria di costui, che ho tanto dispiacere per questo fi-
gliuolo? Orsù, Panfilo! Esci, Panfilo! Di che ti vergo-
gni tu ?
SCENA TERZA
Panfilo, Simo, Cremete.
PANFILO Chi mi vuole? Oimè! egli è mio padre.
SIMO Che di' tu, ribaldo?
CREMETE Digli come sta la cosa, sanza villania.
SIMO E' non se gli può dire cosa che non meriti. Dimmi
un poco: Glicerio è cittadina?
PANFILO Così dicono.
4. ti... destro: lesto, agile. Nel latino si legge: «commotum»: «ti metterò sotto-
sopra». La battuta è di Dromo, in Terenzio. 5. quello... importa: ciò che com-
porta. Terenzio è più esplicito: «quid sit perieli», «quale rischio implichi».
54 ANDRIA
SIMO O gran confidenza^ ! Forze che pensa quel che ri-
sponde ? Forse che si vergogna di quel ch'egli ha fatto ?
Guardalo in viso, e' non vi si vede alcuno segno di ver-
gogna. E egli possibile che sia di sì corrotto animo, che
voglia costei fuora delle leggi e del costume de' citta-
dini, con tanto obbrobrio ?
PANFILO Misero a me !
SIMO Tu te ne se' aveduto ora ? Cotesta parola dovevi
tu dire già quando tu inducesti l'animo tuo a fare in
qualunque modo quello che ti aggradava^: pure alla fi-
ne ti è venuto detto quello che tu se'. Ma perché mi
macero e perché mi crucio io ? Perché afliggo io la mia
vecchiaia per la pazzia di costui ? Voglio io portare le
pene de' peccati suoi? Abbisela, tengasela, viva con
quella !
PANFILO O padre mio !
SIMO Che padre! Come che' tu babbi bisogno di padre,
che hai trovato'', a dispetto di tuo padre, casa, moglie,
figliuoli e chi dice ch'ella è cittadina ateniese. Abbi no-
me Vinciguerra'.
PANFILO Possoti io dire dua parole, padre ?
SIMO Che mi dirai tu?'.
CREMETE Lascialo dire.
SIMO Io lo lascio: dica!
PANFILO Io confesso che io amo costei e, s'egli è male, io
confesso fare male, e mi ti getto, o padre, nelle braccia;
impommi che carico tu vuoi: se tu vuoi che io meni mo-
glie e lasci costei, io lo sopporterò il meglio che io po-
trò. Solo ti priego di questo, che tu non creda che io ci
ni. 1.0 gran confidenza: Prima di queste parole, Simo, nel testo latino, ripe-
te iJ «Cosi dicono?» («Ita praedicant ?»), prendendo in giro Panfilo. 2. quel-
lo che ti aggradava: nella prima redazione Machiavelli aveva tradotto «quello
che tu desideravi» (restando timidamente aderente al latino «quod cupe-
res»). 3. Come che: Qui vuol dire: quasi che, come se (è il latino «quasi
tu»). 4. che hai trovato: tu che (già per conto tuo) hai trovato. 5. Abbi... Vin-
ciguerra: in Terenzio c'è semplicemente «viceris»: «hai vinto». Machiavelli s'ab-
bandona ad una estrosa (e lievemente manieristica) trovata traduttoria. 6.
Che... tu: Machiavelli sopprime (forse non del tutto a torto, dal punto di vista
drammaturgico) due battute, che rallentano nel testo latino l'azione: «chre-
MES At tamen, Simo, audi. SIMO Ego audiam? Quid audiam, Chreme?»
ATTO QUINTO 55
abbi fatto venire questo vecchio, e sia contento ch'io mi
iustifichi e che io lo meni qui alla tua presenza.
SIMO Che tu lo meni ?
PANFILO Sia contento, padre.
CREMETE Ei domanda il giusto: contentalo.
PANFILO Compiacimi di questo.
SIMO Io sono contento, pure che io non mi truovi in-
gannato da costui.
CREMETE Per uno gran peccato ogni poco di suplicio ba-
sta ad uno padre.
SCENA QUARTA
Crito, Cremete, Simo, Panfilo.
CRITO Non mi pregare; una di queste cagioni basta a far-
mi fare ciò che tu vuoi: tu, il vero e il bene che voglio
a Glicerio.
CREMETE Io veggo Critone Andrio? Certo egli è desso.
CRITO Dio ti salvi, Cremete!
CREMETE Che fai tu COSI oggi, fuora di tua consuetudi-
ne, in Atene?
CRITO Io ci sono a caso. Ma è questo Simone?
CREMETE Questo è.
SIMO Domandi tu me ?'. Dimmi un poco: di' tu che Gli-
cerio è cittadina ?
CRITO Neghilo tu ?
SIMO Se' tu cosi qua venuto preparato ?
CRITO Perché ?
SIMO Domandine tu ? Credi tu fare queste cose sanza es-
serne gastigato ? Vieni tu qui ad ingannare i giovanet-
ti imprudenti e bene allevati e andare con promesse pa-
scendo l'animo loro?
CRITO Se' tu in te?
IV. I. Domandi tu me?: E me lo chiedi? (è il latino «Men quaeris?»): Simone
è convinto che Crito menta ad arte.
56 ANDRIA
SIMO E vai raccozzando insieme amori di meretrici e
nozze?
PANFILO (Heimè ! io ho paura che questo forestiero non
si pisci sotto^)
CREMETE Se tu conoscessi costui, o Simone, tu non pen-
seresti cotesto: costui è uno buono huomo.
SIMO Sia buono a suo modo: debbesegli credere ch'egli
è appunto' venuto oggi nel di delle nozze e non è ve-
nuto prima mai ?
PANFILO (Se io non avessi paura di mio padre, io gl'in-
segnerei la risposta.)
SIMO Spione !
CRiTO Heimè !
CREMETE Cosi è fatto costui, Crito; lascia ire.
CRITO Sia fatto come e' vuole, se seguita di dirmi ciò che
vuole, egli udirà ciò che non vuole: io non prezzo e non
curo coteste cose'', imperò che si può intendere se quel-
le cose che io ho dette sono false o vere, perché uno
ateniese, per lo adrieto, avendo rotto la sua nave, ri-
mase con una sua figlioletta in casa il padre' di Criside,
povero e mendico.
SIMO Egli ha ordito una favola da capo.
CREMETE Lascialo dire.
CRITO Impediscemi egli cosf ?
CREMETE Seguita.
CRITO Colui che lo ricevette era mio parente; quivi io
udi' dire da lui come egli era cittadino ateniese; e qui-
vi si mori.
CREMETE Come aveva egli nome ?
CRITO Ch' io ti dica il nome sì presto? Fania.
CREMETE O! Hu!
2. non si pisci sotto: nella prima redazione, con scelta ancora più rude, «non si
cachi sotto». Terenzio aveva semplicemente scritto: «metuo ut substet»: «te-
mo che non resista». Machiavelli innesta una gag di tipo plautino nel tessuto
terenziano. 3. appunto: proprio a tempo (Machiavelli vorrebbe così tradurre
r«adtemperate» di Terenzio). 4. io non... cose: molto più ricco, nei passaggi
intermedi, Terenzio: «Ego istaec moveo aut curo? Non tu tuom malum aequo
animo feras?»: «Sono io forse che animo e seguo questo affare? Non sai sop-
portare equamente la tua sfortuna?». 5. in casa il padre: in casa del padre. In
Terenzio: «ad Chrysidis patrem». 6. egli cosi: sott.: di parlare.
ATTO QUINTO 57
CRITO Veramente io credo ch'egli avessi nome Pania: ma
io so questo certo, eh' e' si faceva chiamare Ramnusio^
CREMETE O Giove !
CRITO Queste medesime cose, o Cremete, sono state udi-
te da molti altri in Andro.
CREMETE (Dio voglia che sia quello che io credo ! ) Dim-
mi un poco: diceva egli che quella fanciulla fussi sua?
CRITO No.
CREMETE Di chi dunque ?
CRITO Figliuola del fratello,
CREMETE Certo, ella è mia.
CRITO Che di' tu?
SIMO Che di' tu?
PANFILO (Rizza gli orecchi, Panfilo!*).
SIMO Che credi tu ?
CREMETE Quel Pania fu mio fratello.
SIMO Io lo conobbi e sòUo.
CREMETE Costui, fuggendo la guerra mi venne in Asia
drieto, e, dubitando di lasciare qui la mia figliuola, la
menò seco; dipoi non ne ho mai inteso nulla, se non ora.
PANFILO L'animo mio è sì alterato che io non sono in me
per la speranza, per il timore, per la allegrezza, veg-
gendo uno bene si repentino.
SIMO Io mi rallegro in molti modi che questa tua si sia
ritrovata.
PANFILO Io lo credo, padre.
SIMO Ma e' mi resta uno scrupolo che mi fa stare di ma-
la voglia.
PANFILO Tu meriti di essere odiato con questa tua reli-
gione'.
CRITO Tu cerchi cinque pie al montone'"!
7. Ramnusio: veramente Terenzio scrive: «Rhamnusium se aiebat esse»: «di-
ceva d'essere del demo di Ramnunte», un demo dell'Attica. 8. Rizza... Pan-
filo! : si pensa subito al «Rizza gli orecchi, Cleandro! » della C, IV, 2. 9. Tu...
religione: il senso è: meriteresti d'essere odiato per questi tuoi scrupoli (Ma-
chiavelli trascrive quasi, senza troppo ingegnarsi Terenzio: «cum tua religio-
ne»). IO. Tu cerchi... montone: era modo di dire popolare, per significare la
pignoleria spinta all'assurdo (in Terenzio: «Nodum in scirpo quaeris»: «cerchi
il nodo nel giunco», cioè «cerchi il pelo nell'uovo»). Ma il proverbio era già in
Plauto ed Ennio.
58 ANDRIA
CREMETE Che cosa è?
SIMO II nome non mi riscontra".
CRITO Veramente da piccola la si chiamò altrimenti.
CREMETE Come, Crito? Ricorditene tu?
CRITO Io ne cerco.
PANFILO (Patirò io che la svemorataggine di costui mi
nuoca, potendo io per me medesimo giovarmi?) O
Cremete, che cerchi tu? La si chiamava Passibula,
CRITO La è essa!
CREMETE La è quella !
PANFILO Io gliene ho sentito dire mille volte.
SIMO Io credo che tu, o Cremete, creda che noi siamo
tutti allegri".
CREMETE Cosi mi aiuti Idio, come io lo credo.
PANFILO Che manca, o padre?".
SIMO Già questa cosa mi ha fatto ritornare nella tua grazia.
PANFILO O piacevole padre! Cremete vuole che la sia
mia moglie, come la è!
CREMETE Tu di' bene, se già tuo padre non vuole altro".
PANFILO Certamente.
SIMO Cotesto.
CREMETE La dota di Panfilo voglio che sia dieci talenti.
PANFILO Io l'accetto.
CREMETE Io vo a trovare la figliuola. O Crito mio, vie-
ni meco, perché io non credo che la mi riconosca.
SIMO Perché non la fai tu venire qua ?
PANFILO Tu di' bene: io commetterò a Davo questa fac-
cenda.
SIMO Ei non può.
PANFILO Perché non può ?
SIMO Egli ha uno male di più importanza".
1 1 . non mi riscontra: le ultime tre battute, quest'ultima compresa, sono affida-
te da Terenzio, nell'ordine, a Panfilo, Crito, Cremete. 12. lo credo... allegri:
Cremete, ora puoi essere convinto che noi siamo tutti allegri. Questo il senso
della costruzione, tipicamente machiavelliana. 13. Che... padre?: Qui Ma-
chiavelli propriamente fraintende il testo di Terenzio: «Quod restat, pater...»:
«Quanto al rimanente, o padre...». 14. non vuole altro: il senso è: non ha al-
tre intenzioni. In Terenzio: «nisi quid pater ait aliud». 15. Egli... importan-
za: Machiavelli semplifica di molto questa battuta e la involgarisce. In Teren-
ATTO QUINTO 59
PANFILO Che cosa ha ?
SIMO Egli è legato.
PANFILO O padre, ei non è legato a ragione.
SIMO Io volli cosi".
PANFILO Io ti priego che tu faccia che sia sciolto.
SIMO Che si sciolga!
PANFILO Fa' presto!
SIMO Io vo in casa.
PANFILO O allegro e felice questo di!
SCENA QUINTA
Carino, Panfilo.
CARINO (Io torno a vedere quel che fa Panfilo... Ma ec-
colo ! )
PANFILO Alcuno forse penserà che io pensi che questo
non sia vero, ma e' mi pare pure che sia vero\ Però cre-
do io che la vita degli Iddei sia sempiterna, perché i pia-
ceri loro non sono mai loro tolti: perché io sarei, sanza
dubio, immortale, se cosa alcuna non sturbassi questa
mia allegrezza. Ma chi vorrei sopra ogni altro riscon-
trare^ per narrargli questo ?
CARINO (Che allegrezza è questa di costui ?)
PANFILO Io veggo Davo; non è alcuno che io desideri ve-
dere più di lui, perché io so che solo costui si ha a ral-
legrare da dovero della allegrezza mia.
zio leggiamo: «Quia habet aliud magis ex sese et maiu'»: «Perché ha altro che
gli preme, e che lo occupa ancora di più, dal suo punto di vista». i6. Io volli
cosi: Simo dice veramente, in risposta al «recte» di Panfilo: «Haud ita lussi»:
«Non comandai cosi». Terenzio gioca su quel «recte», che può voler dire «be-
ne, a regola d'arte» ed anche «bene, secondo giustizia».
V. I. e' mi pare... vero: nel testo latino leggiamo: «at mihi nunc sic esse ve-
rum lubet»: «ma a me piace che sia vero». Ed è una sfumatura, questa della
gioia interiore e per ora solitaria di Panfilo, che ÌVIachiavelli non si preoccupa
di rendere. 2. riscontrare: incontrare. Terenzio è più sottile: «mihi... dari»:
«avere qui... per me».
6o ANDRIA
SCENA SESTA
Davo, Panfilo, Carino.
DAVO Panfilo dove è ?
PANFILO O Davo !
DAVO Chi è ?
PANFILO Io sono.
DAVO O Panfilo !
PANFILO Ha! tu non sai quello mi è accaduto.
DAVO Veramente no: ma io so bene quello che è acadu-
to a me.
PANFILO Io lo so anch'io.
DAVO Egli è usanza degli uomini' che tu abbi prima sa-
puto il male mio che io il tuo bene.
PANFILO La mia Glicerio ha ritrovato suo padre.
DAVO O! la va bene.
CARINO (Hem ?)
PANFILO II padre è grande amico nostro.
DAVO Chi ?
PANFILO Cremete.
DAVO Di' tu il vero?
PANFILO Né ci è più dificultà di averla io per donna^
CARINO (Sogna costui quelle cose ch'egli ha vegghiando
volute ?)
PANFILO Ma del fanciullo, o Davo?
DAVO Ha! sta' saldo: tu se' solo amato dagl' Idii.
CARINO (Io sono franco', se costui dice il vero. Io gli vo-
glio parlare.)
PANFILO Chi è questo? O Carino! Tu ci se' arrivato a
tempo.
VI. I. Egli... uomini: cioè, è consuetudine tra gli uomini, succede spesso. Do-
nato spiega la battuta malinconica di Davo: «perché la fama del male corre più
veloce di queUa del bene». 2. per donna: per moglie. 3. Io sono franco: Sono
salvo (il latino è «Salvo' sum»): nel senso che può godere anche lui delle nozze.
ATTO QUINTO 6l
PANFILO Olla va bene.
PANFILO O ! hai tu udito ?
CARINO Ogni cosa. Or fa' di ricordarti di me in queste
tua prosperità. Cremete è ora tutto tuo, e so che farà
quello che tu vorrai.
PANFILO Io lo so; e perché sarebbe troppo aspettare
ch'egli uscissi fuora, seguitami, perch'egli è in casa con
Glicerio. Tu, Davo, vanne in casa e sùbito manda qua
chi la meni via. Perché stai? perché non vai?\
DAVO O voi, non aspettate che costoro eschino fuora'.
Drento si sposerà^ e drento si farà ogni altra cosa che
mancassi. Andate, al nome di Dio, e godete!
4. Perché... vai?: È un topos del teatro latino quello di incitare il compagno ad
uscire di scena, mentre questi si appresta a recitare le battute di congedo. 5.
o voi... fuora: Era costume latino, in chiusura, rompere le barriere della fin-
zione per rivolgersi, da pari a pari, agli spettatori. 6. Drento si sposerà: viene
spontaneo pensare a C, V, 6, 199: «... sanza uscir più fuora, si ordineranno le
nuove nozze...».
Mandragola
Canzone
da dirsi innanzi alla commedia, cantata da ninfe e pastori
insieme
Perché la vita è brieve
e molte son le pene
che vivendo e stentando ognun sostiene,
dietro alle nostre voglie,
andiam passando e consumando gli anni;
che, chi il piacer si toglie
per viver con angosce e con affanni,
non conosce gli inganni
del mondo; o da quai mali
e da che strani casi
oppressi quasi sian tutti i mortali.
Per fuggir questa noia,
eletta solitaria vita abbiamo',
e sempre in festa e in gioia,
giovin leggiadri^ e liete ninfe, stiamo.
Or qui venuti siamo,
con la nostra armonia^
sol per onorar questa
sì lieta festa e dolce compagnia.
Ancor ci ha qui condotti
il nome di colui che vi governa'*,
in cui si veggon tutti
CANZONE. Per questa canzone, e per i quattro intermezzi successivi, rimandia-
mo il lettore a quanto detto nell'introduzione (p. XLiv).
I. eletta... abbiamo: abbiamo scelto di vivere non tanto in solitudine, quanto
lontano daOe angosce e dagli affanni del mondo. 2 . giovin ' leggiadri: sono i pa-
stori del coro. 3. con la nostra armonia: con la nostra musica coralmente e ar-
moniosamente eseguita. 4. ilnome... governa: è Francesco Guicciardini, allo-
ra presidente delle Romagne.
66 MANDRAGOLA
i beni accolti in la sembianza eterna'.
Per tal grazia superna,
per SI felice stato,
potete lieti stare,
godere e ringraziare chi ve lo ha dato^.
PROLOGO
Idio vi salvi, benigni auditori,
quando e' par che dependa
questa benignità da lo esser grato*.
Se voi seguite di non far romori,
noi vogliàn che s'intenda
un nuovo caso in questa terra nato^
Vedete l'apparato^
qual or vi si dimostra:
quest'è Firenze vostra,
un'altra volta sarà Roma o Pisa,
cosa da smascellarsi delle risa.
Quello uscio che mi è qui in sulla man ritta''
la casa è d'un dottore
che imparò in sul Buezio' legge assai;
quella via che è colà in quel canto fitta^
5. in cui... etema: nel quale si ravvisano tutte le virtù adunate in Dio. É un'iper-
bole poco «machiavellica», ribadita da quel superna che segue. 6. chi ve lo ha
dato: papa Clemente VII (Giulio de' Medici), che nel '23 aveva nominato il
Guicciardini alla presidenza (o governatorato) delle Romagne, con l'incarico di
tenere a freno i potentati locali.
PROLOGO. I. quando e' par... grato: dal momento che il vostro benigno at-
teggiamento sembra dimostrare che lo spettacolo vi è gradito. 2. in questa
terra nato: accaduto in questa città. 3. l'apparato: la scenografia. 4. in sul-
la man ritta: sulla destra. L'attore che recitava il prologo indicava e spiegava
ai benigni auditori, com'era allora consuetudine, secondo il modello della com-
media latina, ogni particolare della scena. 5. Buezio: Anicio Manlio Severi-
no Boezio (480 ca. - 524), il filosofo e letterato consigliere di Teodorico e da
lui messo a morte: qui evocato, in apparenza, come maestro di diritto, forse
per il folto lavoro di commentatore e traduttore di vari classici greci; ma, in
sostanza, per l'evidente associazione fonica con hue, secondo la più schietta
tradizione burchiellesca. 6. che... fitta: «che è figurata in quell'angolo della
scena» (Gaeta).
PROLOGO 67
è la via dello Amore,
dove chi casca non si rizza mai'.
Conoscer poi potrai
a l'abito d'un frate
qual priore o abate
abita el tempio che all'incontro è posto^
se di qui non ti parti troppo tosto.
Un giovane, Callimaco Guadagno,
venuto or da Parigi
abita là, in quella sinistra' porta;
costui, fra tutti gli altri buon compagno'*^,
a' segni ed a' vestigi"
l'onor di gentilezza e pregio porta.
Una giovane accorta
fu da lui molto amata
e per questo ingannata
fu, come intenderete, ed io vorrei
che voi fussi ingannate come lei'\
La favola «Mandragola»*' si chiama:
la cagion voi vedrete
nel recitarla, com'i' m'indovino'''.
Non è il componitor di molta fama:
pur se vo' non ridete
egli è contento di pagarvi il vino.
7. dove... mai: mi sembra evidente l'allusione erotica di quel cascare e rizzare,
che non vedo per altro còlta da nessun editore moderno. 8. el tempio... posto:
la chiesa che sorge sull'angolo opposto. «Il tempio è indeterminato; ma l'abito
è molto probabilmente quello dei Servi, coi quali il Machiavelli ce l'aveva più
fitta» (Guerri). 9. sinistra: della casa posta a sinistra, io. buon compagno:
come ha suggerito Raimondi, Poi, 185, Machiavelli stesso, in una sua lettera
(5 gennaio 1514), glossa indirettamente questo termine in tutta la sua pre-
gnanza: «... chi è stimato uomo da bene e che vaglia, ciò che e' fa per allarga-
re l'animo e vivere lieto, gli arreca onore e non carico, e in cambio di essere
chiamato buggerone o puttaniere, si dice che è universale, alla mano e buon
compagno ...». 11. a' segni ed a' vestigi: «a giudicarlo dall'immagine e dalla
prima impressione» (Berardi). 12. che voi... come lei: quel voi è rivolto alle
spettatrici, con una nuova allusione erotica (AV inganno di Lucrezia). 13. «Man-
dragola»: mandragola (o mandragora) è un'erba delle solanacee alle cui bacche
si attribuivano capacità erotizzanti. - Quanto alla formula, il Martelli {Vers.,
211) ricorda giustamente VHccyra di Terenzio (Prologo): «Hecyra est huic no-
men fabulae». 14. comi' m' indovino: a quanto credo di prevedere.
68 MANDRAGOLA
Un amante meschino,
un dottor poco astuto,
un frate mal vissuto,
un parassito di malizia il cucco"
fie questo giorno el vostro badalucco".
E se questa materia non è degna,
per esser pur leggieri,
d'un uom che voglia parer saggio e grave,
scusatelo con questo, che s'ingegna
con questi van' pensieri
fare el suo tristo tempo^' più suave,
perché altrove non havè
dove voltare el viso,
che gli è stato interciso'*
mostrar con altre imprese altra virtue,
non sendo premio alle fatiche sue.
El premio che si spera'' è che ciascuno
si sta da canto e ghigna,
dicendo mal di ciò che vede o sente.
Di qui depende sanza dubbio alcuno
che per tutto traligna
da l'antica virtù el secol presente:
imperò che la gente
vedendo ch'ognun biasima
non s'affatica e spasima^"
per far con mille sua disagi un'opra
che '1 vento guasti o la nebbia ricuopra^'.
Pur se credessi alcun dicendo male
tenerlo pe' capegli
e sbigottirlo o ritirarlo in parte,
io l'ammonisco e dico a questo tale
15. di malizia il cucco: il cocco, il prediletto della malizia. 16. badalucco: sva-
go («tenere a badalucco, tenere a bada, trattenere, da cui trattenimento, ecc.»
[Berardi]). 17. el suo tristo tempo: la sua dolorosa condizione di vita attuale.
Si pensa a quel verso òé[V Asino d'oro, I, 7-8: «... si perché questa grazia non
s'impetra I in questi tempi...». 18. interciso: bruscamente vietato, precluso
(dal latino intercidere, troncare). 19. El premio che si spera: ancora un'autoci-
tazione àzW Asino d'oro, I, io: «Né cerco averne prezzo, premio o mer-
to...». 20. spasmo: s'impegna sino allo spasimo. 21. Che... ricuopra: «che il
vento e la nebbia della maldicenza non avvolgano» (Raimondi).
PROLOGO 69
che sa dir male anch'egli
e come questa fu la suo prim'arte;
e come in ogni parte
del mondo, ove el sì sona",
non istima persona,
ancor che facci sergieri" a colui
che può portar miglior mantel che lui.
Ma lasciam pur dir male a chiunque vòle:
torniamo al caso nostro,
acciò che non trapassi troppo l'ora;
far conto non si de' delle parole
né stimar qualche mostro^''
che non sa forse s' e' s'è vivo ancora.
Callimaco esce fuor a"
e Siro con seco ha,
suo famiglio, e dirà
l'ordin di tutto: stia ciascuno attento,
né per ora aspettate altro argumento.
22. in ogni parte... sona: in tutte le città d'Italia (Dante, Inf., XXXIII, 80-81:
«le genti I del bel paese là dove '1 si suona»). 23. ancor... sergieri: l'interpre-
tazione corrente era: «anche se si dice servo». Il Martelli, Vers., 210, legge ser-
gieri nel senso di «inchini, salamelecchi»: la frase suonerebbe perciò: «anche se
ostenti i propri inchini...». 24. mostro: scioccone. «Anche questa è una face-
zia dei rimatori burleschi» (Guerri). 25. Callimaco escefuora: di qui alla chiu-
sa - lo ha osservato il Martelli, Vers., 211 - Machiavelli ebbe probabilmente
presente un analogo passo dagli Adelphoe (Prologo, 22-24): «Dehinc ne expec-
tetis argumentum fabulae: I senes qui primi venient, ii partem aperient, I in
agendo partem ostendent».
ATTO PRIMO
SCENA PRIMA
Callimaco, Siro.
CALLIMACO Siro, non ti partire. Io ti voglio' un poco.
SIRO Eccomi.
CALLIMACO Io credo che tu ti maravigliassi assai della
mia sùbita^ partita da Parigi, ed ora ti maraviglierai,
sendo io stato qui già un mese sanza fare alcuna cosa.
SIRO Voi dite el vero.
CALLIMACO Se io non ti ho detto infino a qui quello che
io ti dirò ora, non è stato per non mi fidare di te, ma
per iudicare' che le cose che l'uomo vuole non si sap-
pino sia bene non le dire se non forzato. Pertanto, pen-
sando io di potere avere bisogno della opera tua, ti vo-
glio dire el tutto.
SIRO Io vi sono servidore: e' servi non debbono mai do-
mandare e padroni d'alcuna cosa né cercare" alcuno lo-
ro fatto, ma quando per loro medesimi la dicano debbo-
no servirgli con fede; e così ho fatto e sono per fare io.
CALLIMACO Già lo SO. lo credo che tu mi abbi sentito di-
re mille volte, - ma e' non importa che tu lo intenda
mille una, - come io avevo dieci anni quando da e mia
tutori, sendo mio padre e mia madre morti, io fui man-
dato a Parigi, dove io sono stato venti anni. E perché
in capo de' dieci' cominciorono, per la passata del re
Carlo', le guerre in Italia, le quali ruinorono questa pro-
vincia^ delibera'mi di vivermi a Parigi e non mi ripa-
I. I. ti voglio: sott.: qui con me. Il Borsellino, Roz-, 127, collega, giustamen-
te, questa battuta ad analoga nell'/l., 1,5: «Tu, Sosia, fatti in qua, io ti voglio
parlare uno poco». 2. sì^bita: improvvisa. ^. per iudicare: perché ritengo. 4.
cercare: indagare su. 5. in capo de' dieci: di li a dieci anni. 6. del re Carlo: di
Carlo Vili, sceso in Italia nel 1494. 7. provincia: qui sta per paese, nazione.
72 MANDRAGOLA
triare mai, giudicando potere in quello luogo vivere più
sicuro che qui.
SIRO E' gli è cosi.
CALLIMACO E commesso di qua che* fussino venduti tut-
ti e mia beni, fuora che la casa, mi 'ndussi a vivere qui-
vi, dove sono stato dieci altri anni con una felicità gran-
dissima...
SIRO Io lo so.
CALLIMACO ... avendo compartito' el tempo parte alli
studii, parte a' piaceri e parte alle faccende, ed in mo-
do mi travagliavo'" in ciascuna di queste cose, che l'una
non mi impediva la via dell'altra, e per questo, come tu
sai, vivevo giustissimamente, giovando a ciascuno ed
ingegnandomi di non offendere persona. Talché mi pa-
reva essere grato a' borghesi, a' gentiluomini, al fore-
stiero, al terrazzano", al povero ed al ricco.
SIRO E' gli è la verità.
CALLIMACO Ma, parendo alla Fortuna che io avessi trop-
po bel tempo, fece che e' capitò a Parigi uno Cammil-
lo Calfucci.
SIRO Io comincio a 'ndovinarmi del mal vostro.
CALLIMACO Costui, come li altri fiorentini, era spesso
convitato da me, e nel ragionare insieme'^ accadde un
giorno che noi venimo in disputa dove erano più belle
8. E commesso di qua che: «essendo stato imposto» (Raimondi); ma mi sembra
sia da interpretare: «e avendo affidato (ad altri di qua, cioè rimasti in Italia, a
Firenze) l'incarico di...». Del resto, nella stessa accezione il verbo è usato alla
fine di quest'atto (ni, 80): El dottore mi ha commesso che io truovi un medi-
co... 9. compartito: diviso, io. mi travagliavo: mi impegnavo (non c'è, nel
verbo, sfumatura negativa). C'è più di un'eco, nel racconto autobiografico di
Callimaco, di quello di Simo a Sosia, relativo ai trascorsi del figlio, nell'/l., I,
i: «... di quelle cose che fanno la maggior parte de' giovanetti, di volgere l'ani-
mo a qualche piacere, come è nutrire cavagli, cani, andare allo Studio, non ne
seguiva più una che un'altra, ma in tutte si travagliava mediocremente; di che
io mi rallegravo...». Lo ha osservato il Borsellino, Roz, 127. 11. al terrazza-
no: paesano, nativo del paese, contrapposto z forestiero. 12. e, nel ragionare
insieme: come era già stato osservato, e come ha ribadito a suo tempo il Rai-
mondi, Poi, 179-81, il racconto di Callimaco echeggia un passo della boccac-
ciana novella di Lodovico, madonna Beatrice, Egano de' Galluzzi (Decameron,
VII, 7): «E quivi dimorando, avvenne che certi cavalieri li quali tornati erano
dal Sepolcro, sopravvenendo ad un ragionamento di giovani, nel quale Lodo-
vico era, e udendo fra sé ragionare delle belle donne di Francia e d'Inghilterra
ATTO PRIMO 73
donne, o in Italia o in Francia. E perché io non pote-
vo ragionare delle italiane, sendo si piccolo" quando mi
parti', alcun altro fiorentino che era in presenzia, pre-
se la parte franzese'", e Cammillo la italiana. E dopo
molte ragione assegnate da ogni parte, disse Cammil-
lo, quasi che irato, che, se" tutte le donne italiane fus-
sino monstri, che una sua parente era per riavere"
l'onore loro.
SIRO Io sono or chiaro di quello che voi volete dire.
CALLIMACO E nominò madonna Lucrezia, moglie di mes-
ser Nicla Calfucci, alla quale e' détte tante laude e di
bellezza e di costumi, che fece restare stupidi qualun-
que di noi; ed in me destò tanto desiderio di vederla
che io, lasciato ogni altra deliberazione^' né pensando
più alle guerre o alle pace d'Italia, mi mossi a venire
qui**: dove arrivato ho trovato la fama di madonna Lu-
crezia essere minore assai che la verità'' - il che occor-
re^" rarissime volte -, e sommi acceso in tanto deside-
rio d'esser seco che io non truovo loco.
SIRO Se voi me n'avessi parlato a Parigi, io saprei che
consigliarvi; ma ora non so io che mi dire.
CALLIMACO Io non ti ho detto questo per volere tua con-
sigli, ma per sfogarmi in parte, e perché tu prepari l'ani-
mo ' adiutarmi dove el bisogno lo ricerchi^'.
e d'altre parti del mondo, cominciò l'uno di loro a dire che per certo di quan-
to mondo egli aveva cerco e di quante donne vedute aveva mai, una simiglian-
te alla moglie d'Egano de' Galluzzi di Bologna, madonna Beatrice chiamata,
veduta non avea di bellezza...». 13. piccolo: in tenera età. Aveva, come ha
precisato, dieci anni. 14. Za parte franzese: la difesa delle belle donne di Fran-
cia. 15. se: anche se. 16. riavere: riscattare. 17. ed in me... deliberazione:
anche Lodovico, nella citata novella decameroniana, «s'accese in tanto deside-
rio di doverla vedere, che ad altro non poteva tenere il suo pensiero...». 18.
mi messi a venire qui: mi disposi a venir qui e, nell'atto stesso di deciderlo, qua-
si mi misi in viaggio. C'è, nell'espressione, una mirabile «economia». 19. ho
trovato... verità: troviamo ancora una rispondenza, abbastanza puntuale, nel te-
sto boccacciano appena citato: «... e troppo più bella gli parve assai che stima-
to non avea...». 20. occorre: accade. 21. Io non... ricerchi: Raimondi, Poi.,
183, ha riscontrato una notevole analogia tra questa battuta di Callimaco ed
una del Machiavelli, in una lettera al Vettori (io giugno 1514): «Io non vi scri-
vo questo, perché io voglia che voi pigliate per me o disagio o briga, ma solo
per sfogarmene, e per non vi scrivere di più di questa materia, come odiosa
quanto ella può...» - L'espressione dove el bisogno lo ricerchi vale «dove la ne-
cessità lo esiga».
74 MANDRAGOLA
SIRO A cotesto son io paratissimo". Ma che speranza ci
avete voi ?
CALLIMACO Eimè! nessuna.
SIRO O perché ?
CALLIMACO Dirotti. In prima mi fa guerra" la natura di
lei, che è onestissima ed al tutto aliena dalle cose d'amo-
re^'*; l'avere el marito ricchissimo, e che al tutto si la-
scia governare da lei, e, se non è giovane non è al tut-
to vecchio, come pare"; non avere parenti o vicini, con
chi ella convenga 'alcuna vegghia" o festa, o ad alcun
altro piacere di che si sogliono dilettare le giovane; del-
le persone meccaniche^' non gliene capita a casa nessu-
na; non ha fante né famiglio che non triemi di lei, in
modo che non c'è luogo^* ad alcuna corruzione.
SIRO Che pensate, adunque, di poter fare ?
CALLIMACO E' non è mai alcuna cosa si disperata che non
vi sia qualche via da potere sperare"; e benché la fussi
debole e vana, la voglia e '1 desiderio che l'uomo ha di
condurre la cosa non la fa parer cosi.
SIRO Infine, che vi fa sperare ?
CALLIMACO Dua cose: l'una, la semplicità"* di messer Ni-
cla, che, benché sia dottore", e' gli è el più semplice ed
el più sciocco uomo di Firenze; l'altra, la voglia che lui
e lei hanno d'aver figliuoli, che, sendo stata sei anni a
marito e non avendo ancora fatti, ne hanno, sendo ric-
chissimi, un desiderio che muoiono. Un'altra c'è, che
la sua madre è suta buona compagna": ma la è ricca, ta-
le che io non so come governarmene.
22. paratissimo: prontissimo. 23. mi fa guerra: mi combatte: mi è, in sostan-
za, contraria. 24. ed al... d'amore: Raimondi, Poi, 174, ha accostato questa
clausola ad analoga già nell'/l., V, i: «alieno al tutto dal tórre moglie». 25.
come pare: a quanto sembra. Di questa precisazione anagrafica, non hanno te-
nuto molto conto vari moderni registi. 26. vegghia: veglia. 27. meccaniche:
letteralmente, tutte le persone che si prestavano a lavori manuali o servili: ar-
tigiani, lavoranti. 28. «o« c'è /«o^o: non c'è possibilità. 29. E' none mai...
sperare: è assai probabile - come il Martelli, Vers., 211, suggerisce - che agi-
sca sul Machiavelli un'eco terenziana (Heautontimorumenos, 675): «Nihil tam
difficile est quin quaereundo investigari possiet». 30. semplicità: semplicio-
neria. 3r. dottore: come ha già accennato nel prologo, in legge. 32. buona
compagna: qui, con connotazione spregiativa, donna di allegra vita, e facili co-
stumi.
ATTO PRIMO 75
SIRO Avete voi, per questo, tentato per altra via" cosa
alcuna ?
CALLIMACO Si ho, ma piccola cosa'^
SIRO Come ?
CALLIMACO Tu conosci Ligurio, che viene continua-
mente a mangiar meco. Costui fu già sensale di matri-
moni; dipoi s'è dato a mendicare cene e desinari. E
perché gli è piacevol uomo, messer Nicla tiene con lui
una stretta dimestichezza e Ligurio l'uccella"; e ben-
ché non lo meni a mangiare seco, li presta^^ alle volte
danari. Io me lo son fatto amico e gli ho comunicato
el mio amore: lui m'ha promesso d'aiutarmi colle ma-
ni e co' pie".
SIRO Guardate e' non v'inganni: questi pappatori'* non
sogliono avere molta fede.
CALLIMACO E' gli è vero. Nondimeno, quando una cosa
fa per uno", si ha a credere, quando tu gliene commetti,
che ti serva con fede. Io gli ho promesso, quando e' rie-
sca, donarli buona somma di danari; quando e' non rie-
sca, ne spicca"*" un desinare ed una cena, che ad ogni
modo i' non mangerei solo.
SIRO Che ha egli promesso, insino a qui, di fare ?
CALLIMACO Ha promesso di persuadere a messer Nicla
che vada con la sua donna al bagno"** in questo maggio.
SIRO Che è a voi cotesto ?■*^
CALLIMACO Che è a me? Potrebbe quel luogo farla di-
ventare d'un'altra natura, perché in simili lati"*' non si
fa se non festeggiare. Ed io me n'andrei là e vi con-
33. per altra via: con altri espedienti. 34. ma piccola cosa: ma si è trattato di
un modesto tentativo. 35. l'uccella: lo beffa (di continuo). 36. li presta: gli
presta. Il soggetto è Nicia. 37. con le mane e co' pie: «in tutte le maniere, in-
somma, con tutte le sue forze» (Raimondi). Già in /!.: «so che si sforza con le
mani e co' pie fare ogni male» (I, i) e «io sono obligato in tuo servizio sfor-
zarmi con le mani e co' pie» (IV, i). Lo ha osservato il Raimondi, Poi.,
11},. 38. pflppd^orr: parassiti (letteralmente: mangioni a sbafo). },C). quando...
per uno: quando un affare, una pratica fa al caso di qualcuno, gli giova sul se-
rio (il /a è qui pregnante). 40. ne spicca: ne tira fuori, come guadagno. 41.
al bagno: alle cure termali, in qualche località rinomata. 42. Che è a voi cote-
sto?: «di quale vantaggio è per voi questo?» (Blasucci). 43. in simili lati: m
ambienti del genere, in posti simili.
76 MANDRAGOLA
durrei di tutte quelle ragion piaceri che io potessi, né
lascerei indrieto alcuna parte di magnificenzia; fare'mi
familiar suo, del marito... Che so io? Di cosa nasce co-
sa, e '1 tempo la governa.
SIRO E' non mi dispiace.
CALLIMACO Ligurio si parti questa mattina da me e dis-
se che sarebbe con messer Nicla sopra questa cosa'"', e
me ne risponderebbe.
SIRO Eccogli di qua insieme.
CALLIMACO Io mi vo' tirare da parte per essere a tempo
a parlar con Ligurio quando si parte'*' dal dottore. Tu
intanto, ne va' in casa alle tue faccende, e, se io vorrò
che tu faccia cosa alcuna, io te '1 dirò.
SIRO Io vo"*'.
SCENA SECONDA
Messer Nicla, Ligurio.
NiciA Io credo che e tua consigli sien buoni, e parla'ne
iersera alla donna': disse che mi risponderebbe oggi.
Ma, a dirti el vero, io non ci vo di buone gambe^
LIGURIO Perché ?
NiciA Perché io mi spicco mal volentieri da bomba\ Di-
poi, l'avere a travasare moglie, fante, masserizia, ella
non mi quadra^ Oltre a questo, io parlai iersera a pa-
44. sopra questa cosa: per parlar di questo. 45. si parte: si stacca. 46. Io vo:
Raimondi, Poi,, 177-78, ha notato come «il dialogo d'informazione tra Calli-
maco e Siro, oltre ad assorbire i nuclei di materia terenziana..., ritrascrive nel-
la sua parte centrale la partitura, la segmentazione ritmica di quello tra Simo e
Sosia», in A., I, i.
II. I. alla donna: a mia moglie. 2. di buone gambe: volentieri. 3. mi spic-
co... da bomba: mi stacco mal volentieri da casa mia. «Bomba era detto il luo-
go da cui si partiva e dove si ritornava nel gioco del pomo, simile all'odierno
gioco di guardie e ladri» (Blasucci). Ritorna il verbo spiccare per la terza volta,
nel giro di poche battute. 4. non mi quadra: si diceva anche: «mi va storta»:
non mi piace.
ATTO PRIMO 77
recchi medici. L'uno dice che io vadia a San Filippo;
l'altro alla Torretta; e l'altro alla Villa'. E' mi paiono
parecchi uccellacci*! E a dirti el vero, questi dottori di
medicina non sanno quello che si pescano'.
LiGURio E'vi debbe dar briga^ quello che vo' dicesti pri-
ma, perché voi non séte uso a perdere la Cupola di ve-
duta'.
NiciA Tu erri. Quando io ero più giovane, io sono stato
molto randagio: e' non si fece mai la fiera a Prato che
io non vi andassi; ed e' non c'è Castel veruno all'intor-
no, dove io non sia stato. E ti vo' dir più là: io sono sta-
to a Pisa ed a Livorno, o va' !
LiGURio Voi dovete avere veduto la carrucola di Pisa.
NiciA Tu vói dire la Verucola'".
LiGURio Ah! SI, la Verucola. A Livorno vedesti voi el
mare?
NiciA Ben sai che io lo vidi!
LiGURio Quanto è egli maggior che Arno ?
NiciA Che Arno? egli é per quattro volte... per più di
sei, per più di sette... mi farai dire. E' non si vede se
non acqua, acqua, acqua, acqua.
LiGURio Io mi maraviglio adunque, avendo voi pisciato
in tante neve'\ che voi facciate tanta difficultà d'an-
dare ad uno bagno.
5. San Filippo... Porretta... Villa: sono alcuni luoghi termali, frequentati dalla
buona borghesia fiorentina. 6. uccellacci: stupidoni (era frequente anche la
forma uccellone). 7. non sanno... Pescano: non sanno spiegarsi nulla: come il
pescatore che non sa neppure cos'ha pescato. 8. dar briga: dar fastidio, esser-
vi di impaccio. 9. a perdere... veduta: a perder di vista la Cupola di Santa Ma-
ria del Fiore: ad allontanarvi da Firenze, io. la Verucola: «il monte Verruca,
a est della città, sulla cui cima nel Duecento fu costruita una rocca; cosi deno-
minato per la sua forma caratteristica» (Blasucci). - Il Vanossi, Sit., 35, ricor-
da un analogo scambio di battute tra Bruno e il maestro Simone da Villa (De-
cameron, Vili, 9): «O maestro mio - diceva Bruno - io non me ne meraviglio,
che io ho bene udito dire che Porcograsso e Vannacenna non ne dicon nulla.
Disse il maestro: - Tu vuoi dire Ipocrasso e Avicenna». 1 1. pisciato... neve:
«lasciato il segno su tanti luoghi» (Guerri): fuor di metafora: visitato tanti pae-
si. - Il Vanossi, Sit., 37, suggerisce un accostamento alla sessantaquattresima
novella del Trecentonovelle del Sacchetti: «Va' va', che ora sarai tu messo nel
sacco de' priori, che n'ha' pisciato cotanti maceroni».
78 MANDRAGOLA
NiciA Tu hai la bocca piena di latte'^ e' ti pare a te una
favola, avendo a sgominare" tutta la casa? Pure, io ho
tanta voglia d'aver figliuoli che io son per fare ogni co-
sa. Ma parla un po' tu con questi babuassi'^ vedi dove
e' mi consigliassino che io andassi; ed io sarò intanto
con la donna, e ritroverrenci.
LiGURio Voi dite bene.
SCENA TERZA
Ligurio, Callimaco.
LiGURio Io non credo che sia nel mondo el più sciocco
uomo di costui; e quanto' la fortuna lo ha favorito! lui
ricco, lei bella donna, savia, costumata, ed atta al go-
vernare un regno. E parmi che rare volte si verifichi
quel proverbio ne' matrimoni che dice: «Dio fa gli uo-
mini, e' s'appaionoS>. Perché spesso si vede uno uomo
ben qualificato^ avere una bestia"*, e per avverso una
prudente donna avere un pazzo. Ma della pazzia di co-
stui se ne cava questo bene, che Callimaco ha che spe-
rare. Ma eccolo. Che vai tu appostando', Callimaco?
CALLIMACO Io t'avevo veduto col dottore ed aspettavo
che tu ti spiccassi da lui per intendere quello avevi fatto.
LIGURIO Egli è uno uomo della qualità che tu sai, di po-
ca prudenzia, di meno animo, e partesi malvolentieri
da Firenze. Pure, io ce l'ho riscaldato e mi ha detto in-
12. hai... latte: Nicla parla per proverbi, frasi fatte, luoghi comuni. Qui vuol
dire: «Sei ingenuo come un bambino» (Gaeta). 13. sgominare: mettere sotto-
sopra: prima ha parlato di travasare, cioè traslocare, con tutto il disordine che
ciò comporta. 14. babuassi: babbei.
ni. I. e quanto: in quell'e è celata un'avversativa: eppure quanto... 2. e' s'ap-
paiono: essi si accoppiano fra loro. «Dio li fa, poi li accoppia», si dice ancor og-
gi. 3. ben qualificato: dotato di molte qualità, contrapposto a bestia; cosi co-
me prudente si contrappone a pazzo. 4. avere una bestia: avere in sorte, dalla
fortuna, appunto. 5. appostando: spiando di nascosto alla posta.
ATTO PRIMO 79
fine che farà ogni cosa: e credo che, quando e' ci piac-
cia questo partito^ che noi ve lo condurreno. Ma io non
so se noi ci f areno el bisogno nostro.
CALLIMACO Perché ?
LiGURio Che so io? Tu sai che a questi bagni va d'ogni
qualità gente, e potrebbe venirvi uomo a chi madonna
Lucrezia piacessi come a te, che fussi ricco più di te, che
avessi più grazia di te: in modo' che si porta pericolo di
non durare* questa fatica per altri, e che c'intervenga
che la copia de' concorrenti la faccino più dura', o che,
dimesticandosi'", la si volga ad un altro e non a te.
CALLIMACO Io conosco che tu di' el vero: ma come ho a
fare ? che partito" ho a pigliare ? dove mi ho a volgere ?
A me bisogna tentare qualche cosa: sia grande, sia pe-
ricolosa, sia dannosa, sia infame. Meglio è morire che
vivere così. Se io potessi dormire la notte, se io potes-
si mangiare, se io potessi conversare, se io potessi pi-
gliare piacere di cosa veruna, io sarei più paziente ad
aspettare el tempo. Ma qui non c'è rimedio. E, se io
non sono tenuto in speranza da qualche partito, i' mi
morrò in ogni modo. E, veggendo d'avere a morire, non
sono per temere cosa alcuna, ma per pigliare qualche
partito bestiale, crudele, nefando.
LiGURio Non dire cosi. Raffrena cotesto impeto dello
animo.
CALLIMACO Tu vedi bene che, per raffrenarlo, io mi pa-
sco di simili pensieri: e però è necessario o che noi se-
guitiamo'^ di mandare costui al bagno, o che noi entra-
no per qualche altra via, che mi pasca d'una speranza,
se non vera, falsa almeno, per la quale io nutrisca un
pensiero che mitighi in parte tanti mia affanni.
6. ti piaccia questo partito: ti piaccia prendere questa strada, imboccare questa
via. 7. epotrebbe... in modo... : Raimondi, Poi., 185, ha accostato questo pas-
saggio ad analogo in una lettera del Vettori (9 febbraio 15 14) al Machiavelli:
«... avevo a pensare che, come piaceva a me, piacerebbe ancora a altri e d'al-
tra qualità non sono io, in modo...». 8. si porta... di non durare: si corre il ri-
schio di sopportare (la costruzione è alla latina). 9. piti dura: è Lucrezia: inac-
cessibile, e perciò più aspra da conquistare, io. dimesticandosi: divenendo do-
mestica, affabile, trattabile. 11. partito: risoluzione. 12. seguitiamo: persi-
stiamo (come abbiamo già cominciato) nel progetto di...
8o MANDRAGOLA
LiGURio Tu hai ragione, ed io sono per farlo.
CALLIMACO Io lo credo, ancora che io sappia che e pari
tuoi vivino di uccellare'' li uomini. Nondimanco io non
credo essere in quel numero, perché, quando tu el fa-
cessi, ed io me ne avvedessi, cercherei valermene"*: e
perderesti per ora l'uso della casa mia, e la speranza di
avere quello che per lo avvenire t'ho promesso.
LiGURio Non dubitare della fede mia, che, quando e' non
ci fussi l'utile che io sento e che io spero, e' c'è che '1
tuo sangue si confà col mio'', e desidero che tu adem-
pia questo tuo desiderio presso a quanto'' tu. Ma la-
sciamo ir questo. El dottore mi ha commesso che io
truovi un medico, e intenda a quale bagno sia bene an-
dare. Io voglio che tu faccia a mio modo, e questo è che
tu dica di avere studiato in medicina e che abbi fatto a
Parigi qualche sperienzia: lui è per crederlo facilmen-
te, per la semplicità sua e per essere tu litterato e po-
terli dire qualche cosa in gramatica'\
CALLIMACO A che ci ha a servire cotesto ?
LiGURio Serviracci a mandarlo a qual bagno vorreno'*, ed
a pigliare qualche altro partito che io ho pensato, che
sarà più corto, più certo, più riuscibile che '1 bagno.
CALLIMACO Che di' tu?
LiGURio Dico che, se tu arai animo e se tu confiderai in
me, io ti do questa cosa fatta innanzi che sia domani
questa otta". E quando e' fussi uomo, che non è, da ri-
cercare se tu se' o non se' medico, la brevità del tem-
po, la cosa in sé farà o che non ne ragionerà o che non
sarà a tempo a guastare el disegno quando bene e' ne
ragionassi.
13. uccellare: qui, più clie «beffare» , vale propriamente «ingannare». 14. valer-
mene: rivaiermene: in altri termini, vendicarmi. 15. che 7... mio: che corre
tra me e te una misteriosa, profonda affinità (e complicità). Raimondi, Poi, 175,
accosta questa battuta alla formula «i costumi s'affanno» dell'/l., IV, 2. 16.
presso a guanto: quasi quanto. 17. in gramatica: cioè, in latino. 18. vorreno:
vorremo. 19. innanzi--, otta: prima della stessa ora di domani. La comedia si
svolge in una giornata, come ribadisce Timoteo nella chiusa del quarto atto (IV,
X, 126).
ATTO PRIMO 8l
CALLIMACO Tu mi risuciti^°: questa è troppa gran pro-
messa, e pascimi di troppa gran speranza. Come farai?
LiGURio Tu el saprai quando e' fia tempo: per ora non
occorre che io te '1 dica, perché el tempo ci mancherà
a fare, non che dire^'. Tu vanne in casa e quivi m'aspet-
ta", ed io andrò a trovare el dottore: e se io lo condu-
co a te, andrai seguitando el mio parlare ed accomo-
dandoti a quello.
CALLIMACO Così farò, ancora che tu mi riempia d'una
speranza che io temo non se ne vadia in fumo.
Canzone
dopo il primo atto
Chi non fa pruova, Amore,
della tua gran possanza, indarno spera
di far mai fede vera'
qual sia del cielo il più alto valore;
ne sa come si vive, insieme, e muore,
come si segue^ il danno e '1 ben si fugge,
come s'ama se stesso
men d'altrui, come spesso
timore e speme i cori agghiaccia e strugge';
né sa come ugualmente uomini e dei
paventan"* l'arme di che armato sei.
20. Tu mi risuciti: Raimondi, Poi., 174, ricorda il «Tu m'hai risucitato» dell'/I.,
II, 1 . 21. perché... dire: meno conciso e teatralmente efficace, era stato il Ma-
chiavelli in /!., IV, 2: «Io ho paura che questo di non mi basti a farlo, non che
mi avanzi tempo adirlo». Lo ha notato il Raimondi, Poi, 175. 22. Tu... aspet-
ta: ancora un'eco dairi4., Ili, 2: «Vanne in casa e quivi mi aspetta...», evi-
denziata dal Raimondi, Poi, 174.
CANZONE. I. di far... vera: di poter sperimentare sul serio. 2. segue: con valo-
re intensivo: si insegue. 3. agghiaccia e strugge: agghiaccia ed arde (sono i ver-
bi del timore e della speme). 4. paventati: temono.
ATTO SECONDO
SCENA PRIMA
Ligurie, messer Nicia, Siro.
LiGURio Come io vi ho detto, io credo che Iddio ci ab-
bia mandato costui' perché voi adempiate el desiderio
vostro. Egli ha fatto a Parigi esperienzie grandissime,
e non vi maravigliate se a Firenze e' non ha fatto pro-
fessione dell'arte^ che n'è suto cagione, prima, per es-
sere ricco; secondo, perché egli è ad ogni ora per tor-
narsi a Parigi.
NICIA Ormai, frate sì, cotesto' bene importa, perché io
non vorrei che mi mettessi in qualche lecceto'* e poi mi
lasciassi in sulle secche.
LiGURio Non dubitate di cotesto. Abbiate solo paura che
non voglia pigliare questa noia'; ma, e' la piglia, e' non
è per lasciarvi infino che non ne veda la fine.
NICIA In cotesta parte io mi vo' fidare di te; ma della
scienzia io ti dirò bene io, come io gli parlo, se gli è uo-
mo di dottrina, perché a me non venderà egli vesciche^
LiGURio E perché io vi conosco, vi meno io a lui acciò li
parliate. E se, parlato li avete, e' non vi pare per pre-
senzia, per dottrina, per lingua uno uomo da metterli
il capo in grembo', dite che io non sia desso.
I. I . costui: è, come si capisce subito, Callimaco. La scena si apre a dialogo già
avviato. 2. dell'arte: dell'arte sua, quella di medico. 3. cotesto: è proprio que-
sto, cioè il fatto che possa partirsene da un momento all'altro (ad ogni ora) per
Parigi, che è molto importante [bene importa). 4. mi... lecceto: mi cacciasse in
qualche pasticcio (da lecceto, bosco basso e folto di lecci, da cui ci si districa a
fatica). La metafora ritorna in C, V, 2: «... e di me, che sono, per tuo amore,
entrato in questo lecceto». 5. pigliare questa noia: occuparsi di questo «ca-
so». 6. non... vesciche: non venderà egli fumo (le vesciche sono enfiate
d'aria). 7. da... grembo: da affidarglisi con piena fiducia; come il fanciullo fa
con la madre, riponendole, appunto, il capo in grembo. Raimondi, Poi, 183,
ATTO SECONDO 83
NiciA Or sia, col nome dell'Agnol santo, andiamo. Ma
dove sta egli ?
LiGURio Sta in su questa piazza, in quello uscio che voi
vedete al dirimpetto a noi.
NiciA Sia con buona ora: picchia.
LiGURio Ecco fatto.
SIRO Ghie?
LiGURio Evi Callimaco?
SIRO Si, è.
NiciA Che non di' tu: maestro Callimaco*?
LiGURio E' non si cura di simil boria.
NICIA Non dir cosi; fa' '1 tuo debito', e, s'è' l'ha per ma-
le, scingasi^".
SCENA SECONDA
Callimaco, messer Nicla e Ligurio.
CALLIMACO Chi è quel che mi vuole ?
NICIA Bona dies, domine magister.
CALLIMACO Et vobis bona, domine doctor.
LIGURIO (Che vi pare?
NICIA Bene, alle guagneleM)
LIGURIO Se voi volete che io stia qui con voi, voi parle-
rete in modo che io v'intenda: altrimenti noi faren duo
fuochi^
ricorda una clausola analoga in una lettera del 29 aprile 15 13: «... se li abbi a
gettare tutto in grembo». 8. maestro Callimaco: maestro o magister era l'attri-
buto professionale che spettava al medico; dottore o doctor all'avvocato: come
conferma lo scambio di ossequi in latino che segue. 9. /^ ' 'Ituo debito: fa' ciò
che devi: cioè, rispetta i doveri sociali, le convenienze, io. scingasi: sott.: le
brache: si cali pur le brache, peggio per lui. In chiusa del primo capitolo de0'/l5/-
no d'oro (I, 121), leggiamo: «... e chi lo vuol aver per mal, si scinga».
n. I. alle guagnele: per i vangeli (è corruzione di propter Evangilia, assai fre-
quente anche nel Decameron). 2. /areno duo fuochi: faremo due focolari, che
bruciano ciascuno per suo conto: «due parti separate che non s'intendono» (Bla-
succi).
84 MANDRAGOLA
CALLIMACO Che buona faccenda ?\
NiciA Che so io? Vo cercando duo cose ch'un altro per
avventura fuggirebbe: questo è di dare briga"* a me e ad
altri. Io non ho figliuoli e vorre'ne, e per avere questa
briga vengo a dare impaccio a voi.
CALLIMACO A me non fia mai discaro fare piacere a voi
ed a tutti li uomini virtuosi e da bene come voi; e non
mi sono a Parigi affaticato tanti anni, per imparare, per
altro se non per potere servire a' pari vostri'.
NiciA Gran mercé'; e quando voi avessi bisogno dell'ar-
te mia, io vi servirei volentieri. Ma torniamo ad rem
nostram\ Avete voi pensato che bagno* fussi buono a
disporre la donna mia ad impregnare ? Che io so che qui
Ligurio vi ha detto quel che vi s'abbi detto'.
CALLIMACO E' gli è la verità. Ma, a volere adempiere'"
el desiderio vostro è necessario sapere la cagione della
sterilità della donna vostra, perché le possono essere
più cagione. Nam cause sterilitatis sunt aut in semine,
aut in matrice, aut in instrumentis seminariis, aut in
virga, aut in causa extrinseca''.
NiciA (Costui è il più valente'^ uomo che viva!)
CALLIMACO Potrebbe oltre di questo causarsi questa ste-
rilità da voi, per impotenzia; che, quando questo fussi,
non ci sarebbe rimedio alcuno.
NiciA Impotente io ? Oh voi mi farete ridere ! Io non cre-
do che sia el più ferrigno'* ed il più rubizzo" uomo, in
Firenze, di me.
CALLIMACO Se cotesto non è, state di buona voglia, che
noi vi tro verremo qualche rimedio.
3. Che... faccenda?: sott.: vi mena qui. 4. dare briga: procurare fastidii. 5.
a' pari... vostri: a uomini della vostra condizione sociale. 6. Gran mercé: Ve
ne sono molto grato. 7. ad rem nostram: al nostro problema. Nicla è un giuri-
sta, e predilige le clausole del mestiere. 8. che bagno: quale tipo di cure ter-
mali. 9. quel... detto: tutto quello che era necessario riferirvi, io. adempie-
re: soddisfare. 11. nam... extrinseca: «infatti, le cause della sterilità sono: o
nel seme o nella vagina o nei testicoli o nel membro o in qualche fattore ester-
no». 12. valente: in quanto esperto nella sua arte. 13. ferrigno: di tempra
quasi ferrea. 14. rubizzo: rubicondo, come chi è di buon sangue.
ATTO SECONDO 85
NICIA Sarebbeci egli altro rimedio che bagni ? Perché io
non vorrei quel disagio'', e la donna uscirebbe di Fi-
renze malvolentieri.
LiGURio Si, sarà ! '*. Io vi risponderò io: Callimaco è tan-
to respettivo che è troppo. Non m'avete voi detto'^ di
sapere ordinare certe pozione che indubitatamente fan-
no ingravidare ?
CALLIMACO Sì, ho. Ma io vo rattenuto" con gli uomini
che io non conosco, perché io non vorrei mi tenessino
un cerretano".
NICIA Non dubitate di me, perché voi mi avete fatto ma-
ravigliare di qualità che non è cosa io non credessi o fa-
cessi per le vostre mani^°.
LiGURio Io credo che bisogni che voi veggiate el segno^^
CALLIMACO Sanza dubbio, e' non si può fare di meno".
LiGURio (Chiama Siro, che vadia con el dottore a casa,
per esso, e torni qui; e noi l'aspetteremo in casa.)
CALLIMACO Siro, va' con lui. E se vi pare, messere, tor-
nate qui sùbito, e pensereno a qualche cosa di buono.
NICIA Come, se mi pare ? Io tornerò qui in uno stante,
che ho più fede in voi che gli Ungheri nello Spano".
15. quel disagio: come ha spiegato prima (I, 2), il disagio del travasare moglie,
fante, masserizie, à^W avere a sgominare tutta la casa. 16. SI, sarà! : Sì, ci sarà,
lo troveremo di certo! Ligurio finge di voler parlar al posto di Callimaco che è
troppo respettivo, cioè rispettoso, troppo cauto e riservato. 17. Non... detto:
Ligurio lascia intendere che Callimaco gli abbia parlato più liberamente a tu
per tu. r8. vo rattenuta: mi trattengo, procedo con cautela. 19. mi... cerre-
tano: mi ritenessero un ciarlatano; da Cerreto, il paese da cui con maggior fre-
quenza prendevano le mosse codesti venditori d'ogni rimedio. 20. per le vo-
stre mani: dietro vostro consiglio. 21. el segno: il segnale, la prova diagnosti-
ca; in questo caso, l'urina. 22. fare di meno: farne a meno. 23. che gli Un-
gheri nello Spano: degli Ungheresi, noti per la loro bellicosità, nel condottiero
fiorentino Pippo Spano, al servizio di re Sigismondo d'Ungheria.
86 MANDRAGOLA
SCENA TERZA
Messer Nicia, Siro.
NiciA Questo tuo padrone è un gran valente uomo.
SIRO Più che voi non dite.
NICIA El re di Francia ne de' far conto'.
SIRO Assai.
NICIA E per questa ragione e' debbe stare volentieri in
Francia.
SIRO Cosi credo.
NICIA E' fa molto bene. In questa terra non ci è se non
cacastecchi^ non ci si apprezza virtù alcuna. S'è' stes-
si qua, non ci sarebbe uomo che lo guardassi in viso\
Io ne so ragionare, che ho cacato la curatella per impa-
rare dua hac"*, e se io ne avessi a vivere, io starei fresco,
ti so dire!
SIRO Guadagnate voi, l'anno, cento ducati?
NICIA Non cento lire, non cento grossi', o va' ! E questo
è che, chi non ha lo stato^ in questa terra, de' nostri pa-
ri, non truova can che gli abbai; e non siàn buoni ad al-
tro che andare a' mortori o alle ragunate d'un mo-
gliazzo', o a starci tuttodì in sulla panca del Procon-
III. I. me... conto: deve avere per lui molta stima. 2. cacastecchi: letteral-
mente, stitici: ma, metaforicamente, nella parola c'è spilorceria e, ad un tem-
po, mediocrità. La stessa pregnanza hanno composti come cacastracci, cacace-
na, cacavincigli. 3. che... in viso: che lo stimasse, da uomo a uomo, per quello
che vale. Ma si pensa subito, per un'analogia a contrario, al perché altrove non
have I dove voltare el viso, nel Prologo (qui a p. 68). 4. che... dua hac: che ho
cacato tutte le mie frattaglie (cioè, faticato a morte) per imparar queste due ac-
ca, queste due formulette in latino. C'è, evidentemente, in Machiavelli, l'in-
tenzione di accostare, nella stessa battuta, a fini di sarcasmo, quel cacastecchi
a questo ho cacato. 5. grossi: si «scende» dal ducato alla lira al grosso, una mo-
netina d'argento che valeva circa cinque soldi. In A., II, 2 un servo di Creme-
te compra «uno grosso di pesciolini per la cena del vecchio». 6. chi non ha lo
stato: chi non abbia uno status riconosciuto, una precisa posizione ufficiale tra
quanti governano la cosa pubblica. 7. mortori... mogliazzo: i funerali sono con-
trapposti alle feste di matrimonio: ed un terzo inutile svago è in quel donzel-
larci, trastullarsi a vuoto come ragazzine.
ATTO SECONDO 87
solo* a donzellarci. Ma io ne li disgrazio', io non ho bi-
sogna di persona*": così stessi chi sta peggio di me! Ma
non vorrei però ch'elle fussino mia parole", che io arei
di fatto qualche balzello o qualche porro di drieto che
mi fare' sudare'^
SIRO Non dubitate.
NiciA Noi siamo a casa. Aspettami qui: io tornerò ora.
SIRO Andate.
SCENA QUARTA
Siro solo.
SIRO Se gli altri dottori fussin fatti come costui, noi fa-
remo a' sassi pe' forni': che si, che questo tristo di Li-
gurio e questo impazzato^ di questo mio padrone lo
conducono in qualche loco, che gli faranno vergogna.
E veramente io lo desiderrei, quando io credessi che
non si risapessi^: perché, risapendosi, io porto perico-
lo della vita; el padrone, della vita e della roba. Egli è
già diventato medico. Non so io che disegno si sia el
8. in... Proconsolo: era la panca di via del Proconsolo, abituale ritrovo di vec-
chi e sfaccendati, come ricordano varii poeti burleschi, dal Burchiello al La-
sca. 9. ne li disgrazio: non concedo loro le mie attenzioni, non bado loro. io.
di persona: di nessuno. 11. non... parole: Non vorrei però che queste parole
fossero riferite come mie (l'ellissi del verbo conferisce alla battuta una forte al-
lusività). 12. qualche... sudare: qualche multa (interpreterei cosi il termine, di
per sé generico, piuttosto che con «tassa») o qualche fregatura, comunque (il
porro di drieto allude alla sodomia per beffa, punizione o violenza) che mi fa-
rebbe soffrire.
IV. I. noi... forni: il Machiavelli stesso spiega l'espressione, in una lettera
dell'ottobre 1525 al Guicciardini: «Fare a' sassi pe' forni nonvuoì dìrz Alvo cht
fare una cosa da pazzi, et però disse quel mio, che se tutti fossimo come mes-
ser Nicla, noi faremmo a' sassi pe' forni, cioè noi faremmo tutti cose da paz-
zi...». 2. impazzato: Callimaco è pazzo per amore, la pazzia di Nicla (il smo fa-
re a ' sassi pe' forni) è stupidità. 3 . quando.. . risapessi: Siro ha la stessa paura di
Nicla, poco sopra [Non vorrei però eh' elle fussino mia parole... ).
88 MANDRAGOLA
SUO, e dove si tenda'' questo loro inganno. Ma ecco el
dottore, che ha uno orinale in mano: chi non ridereb-
be di questo uccellacelo' ?
SCENA QUINTA
Messer Nicia, Siro.
NiciA Io ho fatto d'ogni cosa a tuo modo, di questo vo'
io che tu facci a mio. Se io credevo non avere figliuo-
li, io arei preso più tosto per moglie una contadina che
te'. - To' costì, Siro; viemmi drieto. Quanta fatica ho
io durata a fare che^ questa mia mona' sciocca mi dia
questo segno! E non è dire che la non abbi caro di fa-
re figliuoli, che la ne ha più pensiero di me. Ma, come*
io le vo' far fare nulla, e' gli è una storia'.
SIRO Abbiate pazienzia: le donne si sogliono con le buo-
ne parole condurre dove altri vuole.
NICIA Che'' buone parole! che mi ha fracido^ Va', ratto,
di' al Maestro ed a Ligurio che io son qui.
SIRO Eccogli che vengon fuori.
4. dove si tenda: a quale meta tenda. 5. uccellacelo: è una rispondenza inter-
na: Nicia è definito spregiativamente, usando le sue stesse parole (e' miparvo-
no parecchi uccellacci... in I, 2).
V. I. Io... che te: Rientrando in scena, Nicia pronuncia questa battuta rivol-
to ancora alla moglie, che si trova in casa. 2. a che fare: a fare in modo che. 3.
mona: o monna, per madonna, moglie (da mea domina). 4. come: non appe-
na. 5. e' gli è una storia: è una gran fatica. 6. Che: Altro che. 7. mi ha fra-
cido: oggi, con metafora di segno opposto, diciamo «mi ha seccato».
ATTO SECONDO 89
SCENA SESTA
Ligurie, Callimaco, messer Nicla.
LiGURio (El dottore fia facile a persuadere. La difficultà
fia la donna', ed a questo non ci mancherà modi.)
CALLIMACO Avete voi el segno ?
NiciA E' l'ha Siro... sottoM
CALLIMACO Dallo qua. Oh! questo segno mostra debi-
lità di rene.
NiciA E' mi par torbidiccio, e pure l'ha fatto ora ora.
CALLIMACO Non ve ne maravigliate. Nam mulieris uri-
nae sunt semper maioris grossitiei et albedinis, et mi-
noris pulchritudinis quam virorum. Huius autem Inter
cetera causa est amplitudo canalium, mixtio eorum
quae ex matrice exeunt cum urina\
NiciA (Oh ! potta di san Puccio l\ Costui mi raf finisce in
tra le mani': guarda come ragiona bene di questa cosa.)
CALLIMACO Io ho paura che costei non sia la notte mal
coperta^, e per questo fa l'orina cruda.
NiciA Ella tien pure a dosso un buon coltrone; ma la sta
quattro ore ginocchioni ad infilzar paternostri, innanzi
che la se ne venghi a letto: ed è una bestia', a patir freddo.
CALLIMACO Infine, dottore, o voi avete fede in me, o no.
O io vi ho ad insegnare un rimedio certo, o no. Io, per
VI. 1. la difficultà fia la donna: il difficile sarà convincere la donna. E teatral-
mente un «a parte» tra Ligurie e Callimaco, che stanno rimettendo piede in
scena. 2. sotto: forse: sotto le vesti. Nicia glielo ha passato durante la quinta
scena, a quanto si deduce. 3 . Nam.. . urina: « Infatti l'urina della donna è sem-
pre di maggior densità e bianchezza e di minor bellezza di quella degli uomini.
Causa di ciò, fra l'altro, è l'ampiezza dei canali e la mistura di ciò che esce dal-
la vagina con l'urina». 4. potta di san Puccio! : era esclamazione volgare, ma
corrente (potta è la vagina: ed è tanto più assurdo, e perciò comico, attribuirla
ad un personaggio maschile di quanto non lo fossero esclamazioni altrettanto
correnti, come «porta di santa Bella! »). Quanto a Puccio vien da pensare su-
bito alla novella decameroniana di frate Puccio e monna Isabctta (III, 4). 5.
Costui... mani: Costui mi si dimostra sempre più raffinato (cioè, esperto e sot-
tile) via via che lo frequento. 6. mal coperta: Callimaco gioca sul doppio sen-
so: mal riparata dal freddo (e cosi, letteralmente, intenderà Nicia) e mal coperta
dal marito, in copula. 7. è una bestia: è ostinata come certi animali.
90 MANDRAGOLA
me, el rimedio vi darò: se voi arete fede in me, voi lo
piglierete; e se, oggi ad uno anno*, la vostra donna non
ha un suo figliolo in braccio, io voglio avervi a donare'
dumilia ducati.
NiciA Dite pure, che io son per farvi onore di tutto, e
per credervi più che al mio confessoro.
CALLIMACO Voi avete ad intender questo, che non è co-
sa più certa'", ad ingravidare una donna, che dargli be-
re una pozione fatta di mandragola. Questa è una cosa
esperimentata da me dua paia di volte" e trovata sem-
pre vera; e se non era quest, la reina di Francia sareb-
be sterile ed infinite altre principesse di questo stato.
NiciA È egli possibile ?
CALLIMACO E' gli è come io vi dico. E la fortuna vi ha
in tanto voluto bene che io ho condutto qui meco tut-
te quelle cose^^ che in quella pozione si mettono, e po-
tete averla a vostra posta'\
NiciA Quando l'arebbe ella a pigliare?
CALLIMACO Questa sera dopo cena, perché la luna è ben
disposta ed el tempo non può essere più a proposito.
NICIA Cotesto non fia molto gran cosa'\ Ordinatela in
ogni modo: io gliene farò pigliare.
CALLIMACO E' bisogna ora pensare a questo, che quello
uomo che ha prima a fare seco'^ presa che l'ha, cotesta
pozione, muore infra otto giorni, e non lo camperebbe
el mondo.
NICIA Cacasangue ! '* io non voglio cotesta suzzacchera'^•
a me non l'apiccherai, tu! Voi mi avete concio bene'*!
CALLIMACO State saldo! e' ci è rimedio.
8. oggi ad uno anno: ad un anno da oggi. 9. voglio avervi a donare: voglio do-
vervi regalare, a pegno della scommessa perduta, io. piti certa: di più sicuro
effetto. 1 1 . dua paia di volte: cioè, in quattro casi, alla lettera. Ma, come nel-
la tradizione orale, «due volte due» vale «moltissime»: infatti, nella stessa bat-
tuta, le guarite risultano essere infinite. 12. tutte quelle cose: tutti gli ingre-
dienti. 13. a vostra posta: a vostra disposizione. 14. non... cosa: non rappre-
senterà una grossa difficoltà. Nicla sembra già temere le reazioni della mo-
glie. 15. a fare seco: ad avere contatti carnali con lei. 16. Cacasangue! : let-
teralmente, vuol dire «dissenteria». C'è ancora un richiamo alla fecalità, in que-
sto (altrimenti banale) «accidenti!» di messer Nicla. 17. suzzacchera:
porcheria, mistura ributtante (era, letteralmente, una bevanda mista d'aceto e
zucchero). 18. concio bene: ben ridotto: è detto sarcasticamente.
ATTO SECONDO 91
NiciA Quale ?
CALLIMACO Fare dormire subito con lei un altro, che ti-
ri, standosi seco una notte, a sé tutta quella infezione
della mandragola: di poi vi iacerete voi sanza pericolo.
NiciA Io non vo' fare cotesto.
CALLIMACO Perché ?
NiciA Perché io non vo' fare la donna mia femmina'' e
me becco.
CALLIMACO Che dite voi, dottore ? Oh ! io non vi ho per
savio come io credetti. Si che voi dubitate^" di fare quel-
lo che ha fatto el re di Francia e tanti signori quanti so-
no là?
NiciA Chi volete voi che io truovi, che facci cotesta paz-
zia? Se io gliene dico, e' non vorrà. Se io non gliene di-
co, io lo tradisco, ed è caso da Otto^': io non ci vo' ca-
pitare sotto male.
CALLIMACO Se non vi dà briga" altro che cotesto, la-
sciatene la cura a me.
NiciA Come si farà ?
CALLIMACO Diròvelo. Io vi darò la pozione questa sera
dopo cena, voi gliene darete bere, e subito, la mettere-
te nel letto, che fieno circa a quattro ore di notte. Di-
poi ci travestiremo, - voi, Ligurio, Siro ed io -, e an-
drencene cercando in Mercato Nuovo, in Mercato Vec-
chio, per questi canti; ed el primo giovanaccio" che noi
troverremo scioperato, lo imbavagliereno, ed a suon di
mazzate lo condurreno in casa ed in camera vostra al
buio. Quivi lo mettereno nel letto, direngli quel che gli
abbia a fare: non ci fia difficultà veruna. Dipoi, la mat-
tina, ne manderete colui^'* innanzi di; farete lavare la
vostra donna; starete" con lei a vostro piacere e sanza
pericolo.
Il) . femmina: sta ^cv femmina del popolo, cioè donna che si concede a chiunque
la richieda, puttana. 20. dubitate: siete incerto, dubbioso. 21. ed è caso da
Otto: ed è un crimine da esser giudicato dagli Otto di giustizia, la magistratu-
ra che presiedeva il tribunale penale. 22. dà briga: preoccupa, infastidisce. Ri-
torna l'espressione con cui Nicia si è presentato: ... questo è di dare briga a me
ed a altri (II, 2). 23. giovanaccio: giovinastro: che, per di più, è un inetto bi-
ghellone (scioperato). 24. ne manderete colui: lo spedirete via di qui. 25. sta-
rete: qui proprio nel senso di «giacerete» (come quc\ fare di poco sopra).
92 MANDRAGOLA
NiciA Io sono contento, poiché tu di' che e re, e princi-
pi, e signori hanno tenuto questo modo. Ma sopr'a tut-
to, che non si sappia, per amor degli Otto!
CALLIMACO Chi volete voi che lo dica ?
NiciA Una fatica ci resta, e d'inportanza.
CALLIMACO Quale ?
NICIA Farne contenta mogliama": a che io non credo
ch'ella si disponga mai.
CALLIMACO Voi dite el vero. Ma io non vorrei innanzi
essere marito, se io non la disponessi a fare a mio mo-
do.
LiGURio Io ho pensato el rimedio.
NICIA Come ?
LiGURio Per via del confessoro.
CALLIMACO Chi disporrà el confessoro. Tu?
LiGURio Io, e danari, la cattiva natura" loro.
NICIA Io dubito, non che altro, che per mio detto" la non
voglia ire a parlare al confessoro.
LiGURio Ed anche a questo è rimedio.
CALLIMACO Dimmi.
LiGURio Farvela condurre alla madre.
NICIA La le presta fede".
LiGURio Ed io so che la madre è della opinione nostra.
Orsù: avanziam tempo, che si fa sera^°. (Vatti, Calli-
maco, a spasso, e fa' che alle ventitré ore noi ti ritro-
viamo con la pozione ad ordine. Noi n'andereno a ca-
sa la madre", el dottore ed io, a disporla, perché è mia
nota": poi ne andereno al frate, e vi raguagliereno di
quello che noi areno fatto.
CALLIMACO Deh! non mi lasciar solo.
LiGURio Tu mi par' cotto.
26. mogliama: forma contratta, assai corrente, per «mia moglie». 27. cattiva
natura: malvagità naturale. A proposito della cadenza di questa frase, Raimon-
di, Poi, 176, ricorda, in A., V, 4: «tu, il vero e il bene che voglio a Glice-
rio». 28. per mio detto: a seguito delle mie parole. 29. La... fede: si fida di
lei. 30. Orsù... sera: Raimondi, Poi, 175, ricorda due battute distinte in A.:
«... io ti priego che noi avanziano tempo. ..^> (III, 3) e «E' si fa sera» (III,
4). 31. a casa la madre: a casa della madre. 32. perché... nota: perché è una
mia conoscenza.
ATTO SECONDO 93
CALLIMACO Dove vòi tu ch'io vadia ora?
LIGURIO Di là, di qua; per questa via, per quell'altra. E'
gli è SI grande Firenze !
CALLIMACO Io son morto").
Canzone
dopo il secondo atto
Quanto felice sia ciascun sei vede
chi nasce sciocco ed ogni cosa crede!
Ambizione noi premei
non lo muove il timore,
che sogliono esser seme^
di noia e di dolore.
Questo vostro dottore\
bramando aver figlioli,
crederria ch'un asin voli"*;
e qualunque altro ben posto ha in oblio,
e solo in questo ha posto il suo disio.
33. Vatti... morto: il Martelli, Vers., 211, ha accostato questo dialogo ad ana-
logo in Heautontimorumenos, 585-89: «syrus lube hunc I abire hinc aliquo.
CLITIPHO Quo ego hinc abeam ? SYRUS Quolubet; daillislocum; I abi deam-
bulatum. clitipho Deambulatum ? Quo ? syrus Vah ! quasi desit locus; I abi
sane istac, istorsum, quovis». E il Ferroni, Mut., 54, ha, dal canto suo, osser-
vato: «L'ultima battuta di Ligurie ha anche un valore di indicazione scenogra-
fica, facendo pensare alla possibilità che sulla prospettiva della Mandragola sia-
no tracciate almeno due vie (una delle quali sarà la "Via dello Amore" di cui
parla il prologo)».
CANZONE. I . noi preme: non lo incalza, non lo tormenta. 2 . essere seme: e per-
ciò generare. 3. Questo... dottore: È Nicla, dottore utroque iure; vostro, poi-
ché gli spettatori hanno familiarizzato con lui. 4. credema... voli: sarebbe di-
sposto a credere persino che un asino voli. E un adunatoti, cioè «figura di im-
possibile», passata a modo di dire corrente.
ATTO TERZO
SCENA PRIMA
C(i.».\c^Sostrata, messer Nicla, Ligurie.
SOSTRATA Io ho Sempre mai^ sentito dire ch'e' gli è ufi-
zio d'uom prudente pigliare de' cattivi partiti el mi-
gliore^ Se ad avere figliuoli voi non avete altro rime-
dio che questo, si vòle* pigliarlo, quando"* e' non si gra-
vi la coscienzia.
NiciA E' gli è così.
LiGURio Voi ve ne andrete a trovare la vostra figliuola,
e Messere ed io andreno a trovare fra Timoteo, suo con-
fessore, e narrerégli el caso, acciò che non abbiate a dir-
lo voi. Vedrete quello che vi dirà.
SOSTRATA Così Sarà fatto. La via vostra è di costà, ed io
vo a trovare la Lucrezia, e la merrò' a parlare al frate
in ogni modo.
I. I . sempre mai: è rafforzativo di sempre. 2. gli è ufizio... el migliore: è do-
vere di un uomo prudente scegliere il partito meno cattivo tra tutti queUi cat-
tivi. «Rammenta una battuta dello stesso Machiavelli, nella lettera al Vettori
del 20 dicembre 1514, sull'abitudine degli "uomini savii', di "considerare nel
male dove è manco male"» (Raimondi). E il Berardi ricorda un passo dei Di-
scorsi, I, VI: «E però in ogni nostra deliberazione si debbe considerare dove so-
no meno inconvenienti, e pigliare quello per miglior partito, perché tutto net-
to, tutto senza sospetto non si truova mai». 3. si vàie: si deve. 4. quando:
purché. 5. la merrò: la menerò, la condurrò.
ATTO TERZO 95
SCENA SECONDA
Messer Nicla, Ligurie.
NiciA Tu ti maravigli forse, Ligurie, che bisogni fare tan-
te storie a disporre mogliama\ Ma, se tu sapessi ogni
cosa, tu non te ne maraviglieresti.
LiGURio Io credo che sia perché tutte le donne sono so-
spettose.
NiciA Non è cotesto: ella era la più dolce persona del
mondo e la più facile^ Ma, sendole detto da una sua vi-
cina che, s'ella si botava' d'udire quaranta mattine la
prima messa de' Servi"*, ch'ella impregnerebbe, la si
botò, ed andòvi forse venti mattine. Ben sapete' che
un di que' fratacchioni le cominciò a dare datorno, in
modo che la non vi volle più tornare. E' gli è pur ma-
le, però, che quegli che ci arebbono a dare buoni es-
sempli, sien fatti cosi. Non dich'io el vero?
LiGURio Come diavol se gli è vero !
NiciA Da quel tempo in qua', ella sta in orecchi^ come la
lepre, e come se le dice nulla*, ella vi fa dentro mille dif-
ficultà.
LiGURio Io non mi maraviglio più. Ma quel boto come
si adempiè ?
NiciA Fecesi dispensare'.
LiGURio Sta bene. Ma datemi, se voi avete, venticinque
ducati, che bisogna in questi casi spendere, e farselo,
el frate, amico presto, e darli speranza di meglio.
n. 1. a disporre mogliama: sott. : a recarsi dal confessore. 2 . la piti facile: la più
docile, arrendevole. 3. s'ella si botava: Lucrezia è, o almeno era, una di quelle
zelanti fedeli d'un tempo di cui parlerà Timoteo, in V, i. Ecco un tipico «rin-
vio» del Machiavelli ad altra sequenza del testo. 4. la prima messa de' Servi: è,
probabilmente, o potrebbe essere (nelle intenzioni di Machiavelli) l'ordine di
Timoteo. 5. Ben sapete: Qui vuol dire: «Dovete sapere...». 6. Da quel tem-
po in qua: Da quell'episodio in poi. 7. sta in orecchi : ha le orecchie dritte: è
all'erta, sospettosa. 8. come. . . nulla: non appena le si dice un nonnulla. 9. di-
spensare: occorreva una dispensa per sciogliere un voto non adempiuto.
96 MANDRAGOLA
NiciA Pigliagli pure, questo non mi dà briga: io farò mas-
serizia altrove'".
LiGURio Questi frati sono trincati", astuti: ed è ragio-
nevole, perché sanno e peccati nostri e' loro: e chi non
è pratico con essi potrebbe ingannarsi e non li sapere
condurre a suo proposito'^ Pertanto io non vorrei che
voi nel parlare guastassi ogni cosa, perché un vostro pa-
ri, che sta tutto dì nello studio, intende que' libri, e del-
le cose del mondo non sa ragionare. (Costui è si scioc-
co, che io ho paura non guasti ogni cosa").
NiciA Dimmi quel che tu vuoi ch'io faccia.
LiGURio Che voi lasciate parlare a me, e non parliate mai
s'io non vi accenno".
NiciA Io sono contento. Che cenno farai tu?
LiGURio Chiuderò un occhio; morderommi el labro...
Deh! no: facciano" altrimenti. Quanto è egli che voi
non parlasti al frate ?
NiciA E più di dieci anni.
LiGURio Sta bene. Io gli dirò che voi séte assordato", e
voi non risponderete e non direte mai cosa alcuna, se
noi non parliamo forte.
NiciA Così farò.
LiGURio Oltre a questo, non vi dia briga'' che io dica
qualche cosa che e' vi paia disforme a quel che noi vo-
gliamo, perché tutto tornerà a proposito.
NiciA In buon'ora'*!
LiGURio Ma io veggo el frate che parla con una donna.
Aspettian che l'abbi spacciata.
IO. io... altrove: recupererò la cifra in altro modo, con un altro guadagno. Far
masserizia è, letteralmente, ammassare, risparmiare. Il Bonfantini suggerisce:
«Avrò per altra via il mio compenso». Ma è probabile, invece, che la battuta
sia da interpretare come un'allusione a guadagni illeciti di Nicla, con cui inte-
grare i magri redditi della professione: Guadagnate voi l'anno cento ducati.^ -
gli ha chiesto Siro, in II, 3, e ha ammesso - Non cento lire, non cento grossi, o
va'! II. trincati: molto furbi. 12. a suo proposito: secondo le proprie inten-
zioni. 13. Costui... ogni cosa: E un «a parte» di Ligurie rivolto agli spettato-
ri. 14. 5'io... (2CCt'««o: se non vi faccio cenno. 15. /acciàwo: facciamo. 16.
voi siete assordato: che voi siete, nel frattempo, diventato sordo. 1 7 . non vi dia
briga: non vi preoccupi. 18. In buon'ora: Sta bene, d'accordo.
ATTO TERZO 97
SCENA TERZA
Fra Timoteo e la donna.
FRATE Se voi vi volessi confessare, io farò ciò che voi
volete.
DONNA Non oggi; io sono aspettata. E' mi basta essermi
sfogata un poco cosi, ritta ritta'. Avete voi dette quel-
le messe della Nostra Donna?
FRATE Madonna si.
DONNA Togliete^ ora questo fiorino, e direte dua mesi
ogni lunedi la messa de' morti per l'anima del mio ma-
rito. Ed ancora che fussi un omaccio', pure le carni ti-
rono": io non posso fare non mi risenta, quando io me
ne ricordo. Ma credete voi che sia in purgatorio?
FRATE Sanza dubio.
DONNA Io non so già cotesto'. Voi sapete pure quel che
mi faceva*^ qualche volta. Oh, quanto me ne dolfi io con
esso voi! Io me ne discostavo^ quanto io potevo; ma
egli era si importuno: uh! Nostro Signore!
FRATE Non dubitate: la clemenzia di Dio è grande. Se
non manca a l'uomo la voglia^ non gli manca mai el
tempo a pentersi.
ni. I. e' ... ritta ritta: mi basta essermi sfogata a parole un poco, cosi, stando-
mene in piedi. Ma c'è un accenno di allusività erotica in questa battuta, giac-
ché sfogarsi ritto poteva alludere anche al «consumare l'atto sessuale in pie-
di». 2. Togliete: Prendete. 3. un omaccio: un uomo violento, brutale. 4.
pure le carne tirono: eppure sono ancora carnalmente legata a lui. C'è, in tutta
la parlata della donna, una trama di ambiguità erotiche (subito sotto, il non mi
risenta). Non mi sembra la battuta vada interpretata «in attenuazione»: come
suggeriscono il Blasucci («tuttavia gli sono ancora attaccata») o il Berardi («gli
sono tuttavia ancora affezionata»). 5. lo... cotesto: Di questo io non sono si-
cura. 6. quel che mi faceva: sembra questa un'allusione, abbastanza scoperta,
all'atto contro natura, -j. lome ne discostavo: Io mi scostavo da lui: perché vo-
leva sottrarsi ai desideri di quel marito cosi insistente {importuno). 8. la vo-
glia: la precisa intenzione, la ferma volontà.
98 MANDRAGOLA
DONNA Credete voi che '1 Turco passi questo anno in
Italia?'.
FRATE Se voi non fate orazione, sì.
DONNA Naffe'°, Dio ci aiuti, con queste diavolerie ! Io ho
una gran paura di quello impalare". Ma io veggo qua in
chiesa una donna che ha certa accia^^ di mio: io vo' ire
a trovarla. Fate col buon dì".
FRATE Andate sana.
SCENA QUARTA
Fra Timoteo, Ligurio, messer Nicia.
FRATE Le più caritative persone che sieno, sono le don-
ne, e le più fastidiose. Chi le scaccia, fugge e fastidi e
l'utile; chi le intrattiene', ha l'utile ed e fastidi insie-
me. Ed è '1 vero, che non è mèle sanza mosche. - Che
andate voi facendo, uomini da bene ? Non riconosco io
messer Nicia ?
LIGURIO Dite forte, che gli è in modo assordato, che non
ode quasi nulla.
FRATE Voi séte el ben venuto, messere.
LIGURIO Più forte.
FRATE El ben venuto !
9. Credete voi... Italia?: per questa battuta e la datazione che ne può consegui-
re, rinvio il lettore all'introduzione (p. x). - il Raimondi, Poi., 184, ha ricor-
dato un paio almeno di lettere del Vettori al Machiavelli, del 27 giugno 1517
e del 5 agosto dello stesso anno, in cui si discorre del Turco. Nella seconda si
affaccia, tra l'altro, l'ipotesi «che questo nuovo Signore Turco non ci esca ad-
dosso e per terra e per mare, e faccia uscire questi preti di lezii...» (il corsivo è
nostro). IO. Na/fe!: o Gnaffe, popolarmente per «in mia fé». 11. lo... im-
palare: ecco la chiusa della trama di riferimenti erotici. La donna teme del Tur-
co soprattutto l'impalare, cioè il supplizio del palo infilato nell'ano ai prigio-
nieri, che morivano dissanguati, in preda a sofferenze atroci. E per lei la vi-
sione del tormento si collega al ricordo degli atti di sodomia subiti controvo-
glia dal matito. 12. accia: era misura di filo o di lino. 13. Fate col buon di':
significa, come la risposta di Timoteo: «Statemi bene».
IV. I . chi le intrattiene: chi ha rapporti con loro, le frequenta.
ATTO TERZO 99
NiciA El ben trovato, padre.
FRATE Che andate voi f accendo ?
NiciA Tutto bene.
LiGURio Volgete el parlare a me^ padre, perché voi, a
volere che v'intendessi^ aresti a mettere a romore que-
sta piazza.
FRATE Che volete voi da me ?
LIGURIO Qui messer Nicla ed uno altro uomo da bene,
che voi intenderete poi, hanno a fare distribuire" in li-
mosine parecchi centinaia di ducati...
NiciA Cacasangue!
LIGURIO (Tacete, in malora'! E' non fien molti.) Non vi
maravigliate, padre, di cosa che dica*, che non ode e
pargli qualche volta udire, e non risponde a proposito.
FRATE Seguita pure, e lasciagli dire ciò che vuole.
LIGURIO ... de' quali danari, io ne ho una parte meco. Ed
hanno disegnato^ che voi siate quello che li distribuiate.
FRATE Molto volentieri.
LIGURIO Ma e' gli è necessario, prima che questa limosi-
na si faccia, che voi ci aiutiate d'un caso* strano inter-
venuto a Messere, che solo voi ci potete aiutare, dove
ne va al tutto l'onore di casa sua'.
FRATE Che cosa è ?
LIGURIO Io non so se voi conosceste Cammillo Calfucci,
nipote qui di Messere.
FRATE Sì, conosco.
LIGURIO Costui n'andò per certe sua faccende, uno an-
no fa, in Francia, e non avendo donna'", che era mor-
ta, lasciò una sua figliuola da marito in serbanza" in
uno monistero, del quale non accade dirvi ora el nome.
FRATE Che è seguito ?
2. Volgete... a me: Parlate rivolto a me. 3. a volere che v'intendessi: se voleste
davvero farvi sentire. 4. hanno a fare distribuire: dispongono, e intendono di-
stribuirli, di... 5. in malora: per la malora. 6. di cosa che dica: di qualunque
cosa sentirete dirgli. 7. hanno disegnato: e hanno deciso tra loro. 8. d'un ca-
so: in merito ad un caso. 9. dove... sua: caso, da cui dipende interamente l'ono-
re della sua famiglia, io. donna: moglie. 11. in serbanza: in custodia, sotto
tutela.
lOO MANDRAGOLA
LiGURio E seguito che, o per straccurataggine delle mo-
nache o per cervellinaggine'^ della fanciulla, la si truo-
va gravida di quattro mesi: di modo che, se non ci si ri-
para con prudenzia, el dottore, le monache, la fanciul-
la, Cammillo, la casa de' Calfucci è vituperata. E il dot-
tore stima tanto questa vergogna che s'è botato, quan-
do la non si palesi, dare trecento ducati per l'amore di
Dio...
NiciA Che chiacchiera ! " .
LiGURio (State cheto ! ) . . . e daragli per le vostre mani. E
voi solo e la badessa ci potete rimediare.
FRATE Come ?
LiGURio Persuadere alla badessa che dia una pozione al-
la fanciulla, per farla sconciare'^
FRATE Cotesta è cosa da pensarla".
LiGURio Come, cosa da pensarla ? Guardate, nel far que-
sto, quanti beni ne resulta. Voi mantenete l'onore al
munistero, alla fanciulla, a' parenti'*; rendete al padre
una figliuola; satisfate qui a Messere, a tanti sua pa-
renti; fate tante elemosine, quante con questi trecento
ducati potete fare. E da altro canto, voi non offendete
altro che un pezzo di carne non nata, senza senso'^ che
in mille modi si può perdere. Ed io credo che quel sia
bene che facci bene a' più e che e più se ne contentino'^
FRATE Sia, col nome di Dio. Faccisi ciò che voi volete,
e per Dio e per carità sia fatto ogni cosa. Ditemi el mu-
nistero, datemi la pozione, e, se vi pare, cotesti dana-
ri, da potere cominciare a fare qualche bene.
LiGURio Or mi parete voi" quel religioso che io credevo
che voi fussi. Togliete questa parte de' danari. El mu-
12. per cervellinaggme: per poco cervello; per leggerezza (si diceva cervellina una
ragazza sventata). 13. Che chiacchiera! : Che bella storia! 14. per farla scon-
ciare: per farla abortire, i^. da pensarla: da pensarci bene sopra, da rifletter-
ci su. 16. Guardate... parenti: il Martelli, Vers., 247, e il Raimondi, Poi., 175,
hanno messo in rilievo l'accostamento di questo passo con quello dell'/l., Ili,
3: «... ma, se si corregge, guarda quanti beni: in prima tu restituirai ad uno tuo
amico uno figliuolo, tu arai uno genero fermo e la tua figliuola marito». 17.
sanza senso: priva ancora della minima sensibilità. 18. che quel... contentino:
che il vero bene sia il bene di pili persone, il bene che più persone soddisfa. 19.
Or... voi: Ora si che mi sembrate...
ATTO TERZO I O I
nistero è. . . Ma aspettate. E' gli è qui in chiesa una don-
na che mi accenna^". Io torno ora ora: non vi partite da
messer Nicia. Io le vo' dire dua parole.
SCENA QUINTA
Frate, messer Nicia.
FRATE Questa fanciulla, che tempo ha' ?
NICIA Io strabilio.
FRATE Dico: quanto tempo ha questa fanciulla?
NICIA Mal che Dio gli dia ! ^
FRATE Perché ?
NICIA Perché se rabbia\
FRATE (E' mi pare essere nel gagno\ Io ho a fare con uno
pazzo e con un sordo: l'un si fugge, l'altro non ode. Ma
se questi non sono quarteruoli', io ne farò meglio di lo-
ro. Ecco Ligurio che torna in qua).
SCENA SESTA
Ligurio, frate, messer Nicia.
LIGURIO (State cheto, messere). Oh! io ho la gran nuo-
va, frate.
20. che mi accenna: che mi fa cenno. Il verbo, non più per allontanare, ma per
avvicinare e riunire i personaggi, ritorna in V, 6: Accennategli.
V. I . che tempo ha: quanti anni ha. 2. Mal che Dio gli dia! : Che Dio lo ma-
ledica! La «sordità» di Nicia è dovuta all'ira verso Ligurio di cui non riesce ad
apprezzare la strategia. Lo ammetterà di qui a poco (III, 7) in un vibrante mo-
nologo: ... e Dio Usa con che proposito! 3. Perché se l'abbia! : Perché se la ten-
ga, la mia maledizione. 4. E' ... gagno: Mi sembra d'essere in un bel pasticcio.
Cagno vale, letteralmente, tana, buca, giaciglio di bestie selvatiche. 5. se...
quarteruoli: se queste monete (già versate da Ligurio) non sono false. Il quarte-
ruolo era un gettone d'ottone con cui era facile falsificare un fiorino.
I02 MANDRAGOLA
FRATE Quale ?
LiGURio Quella donna con chi io ho parlato, mi ha det-
to che quella fanciulla si è sconcia per se stessa'.
FRATE Bene! (Questa limosina andrà alla grascia^).
LiGURio Che dite voi ?
FRATE Dico che voi tanto più doverrete fare questa li-
mosina.
LiGURio La limosina si farà, quando voi vogliate. Ma e'
bisogna che voi facciate un'altra cosa in benefizio qui
del dottore.
FRATE Che cosa è?
LiGURio Cosa di minor carico, di minor scandolo, più ac-
cetta a noi e più utile a voi.
FRATE Che è ? Io sono in termine con voi^ e parmi ave-
re contratta tale dimestichezza, che non è cosa che io
non facessi.
LiGURio Io ve lo vo' dire in chiesa, da me a voi^ ed el
dottore fia contento d'aspettare qui e prestarmi dua pa-
role. Aspettate qui: noi torniamo ora.
NiciA Come disse la botta a l'erpice'.
FRATE Andiamo.
VI. I . sì. . . stessa: ha abortito da sola. 2 . questa.. . grascia: letteralmente: que-
sta elemosina andrà al fisco (la Grascia era la magistratura delle gabelle). Ma
vuol dire: «queste monete me le tengo e godo io». 3. Io... con voi: Ho preso
impegno con voi {essere in termine era espressione legata alla transazione com-
merciale). 4. da me a voi: a tu per tu, senza testimoni. 5. Come disse la bot-
ta all' erpice: Come disse il rospo all'erpice. Nella lettera del 16-20 ottobre 1525
al Guicciardini, Machiavelli spiegò cht la frase veniva usata «quando si vuole
che uno non torni». Il rospo, infatti, era stato grattato sulla schiena dai denti
dell'erpice (un arnese in legno, che serviva a spianare il terreno prima della se-
minagione): e, secondo un'antica tradizione contadina toscana, aveva urlato:
«Senza tornata! »
ATTO TERZO 103
SCENA SETTIMA
Messer Nicia solo.
NICIA E egli di di o di notte ? Sono io desto o sogno ? So-
no io obliàco\ e non ho beuto^ ancora oggi, per ire drie-
to a questa chiacchiera ? Noi rimangnàn^ di dire al fra-
te una cosa: e' ne dice un'altra. Poi volle che io faces-
si el sordo, e bisognava m'impeciassi gli orecchi, come
el Danese^ a volere che io non avessi udite le pazzie
che gli ha dette, e Dio il sa con che proposito. Io mi
truovo meno' venticinque ducati e del fatto mio non si
è ancora ragionato. Ed ora m'hanno qui posto, come
un zugo, a piuolo^ Ma eccogli che tornano: in mala ora
per loro^ se non hanno ragionato del fatto mio.
VII. I. obliàco: ubriaco (il Martelli adotta questa forma, mentre altri editori
preferiscono la forma imbriaco). 2. e non ho beuta: e dire che non ho bevu-
to. 3. Noi rimagnàn: Noi restiamo intesi. 4. bisognava... come el Danese: sa-
rebbe stato necessario che mi turassi le orecchie con la pece, come Uggeri il Da-
nese. - Uggeri, principe di Danimarca, su consiglio di una fata, impeciò le orec-
chie sue e del proprio cavallo per non udire le urla di Bravieri, assistito dal de-
monio. E leggenda ripresa in vari poemi cavallereschi. 5. Io mi truovo meno:
Io mi trovo alleggerito, ho in meno. 6. come un zugo , a piuolo: letteralmente:
come una frittella infilata nel suo stecco. Metaforicamente: come un idiota che
se ne sta impalato ad aspettate. Non dimentichiamo che, per la sua forma, quel-
la frittella di pasta su uno stecchino stava anche a suggerire il membro, nel lin-
guaggio popolaresco, ripreso da molta poesia burlesca. 7. in mala ora per loro:
una rapida ripresa del Mal che Dio gli dia! di III, 5.
I 04 MANDRAGOLA
SCENA OTTAVA
Frate, Ligurie, messer Nicia.
FRATE Fate che' le donne venghino: io so quello ch'i' ho
a dire, e, se l'autorità mia varrà, noi concluderemo que-
sto parentado questa sera.
LiGURio Messer Nicia, fra Timoteo è per fare ogni cosa.
Bisogna vedere che le donne venghino.
NICIA Tu mi ricrii^ tutto quanto. Fia egli maschio?
LiGURio Maschio.
NICIA Io lacrimo per la tenerezza.
FRATE Andatevene in chiesa. Io aspetterò qui le donne.
State in lato che le non vi vegghino; e, partite che le
fieno, vi dirò quello che io arò fatto.
SCENA NONA
Frate Timoteo solo.
FRATE Io non so chi si abbi giuntato l'uno l'altro'. Que-
sto tristo di Ligurie ne venne a me con quella prima no-
vella per tentarmi, acciò, se io li consentivo quella^
m'inducessi più facilmente a questa; se io non gliene
consentivo, non mi arebbe detta questa per non palesa-
re e disegni loro sanza utile: e di quella* che era falsa non
vm. I. Fate che: Fate in modo che: come, qui sotto, Bisogna vedere che: «É
necessario essere sicuri che... ». 2. Tu mi ricrii: Tu mi ricrei: mi infondi nuo-
va vita.
IX. I. lo... l'altro: Io non so chi di noi due, Ligurio ed io, abbia truffato l'al-
tro. 2. se... quella: se io ero disposto ad acconsentire (cioè ad accordarmi e a
collaborare) circa quella prima faccenda. 3. e di quella: e delle possibili con-
seguenze di quella prima storia...
ATTO TERZO IO5
si curavano. E' gli è vero che io ci sono suto giuntato:
nondimeno, questo giunto'* è con mio utile. Messer Ni-
cia e Callimaco sono ricchi, e da ciascuno, per diversi
rispetti, sono per trarre assai'. La cosa convien stia se-
creta, perché l'importa cosi a loro, a dirla, come a me*.
Sia come si voglia, io non me ne pento. E ben vero che
io dubito non ci avere difficultà', perché madonna Lu-
crezia è savia e buona. Ma io la giugnerò in sulla bontà*.
E tutte le donne hanno alla fine poco cervello, e, come
ne è una sappi dire dua parole, e' se ne predica', perché
in terra di ciechi chi vi ha un occhio è signore'". Ed ec-
cola con la madre, la quale è bene una bestia'', e sarammi
uno grande adiuto a condurla alle mia voglie.
SCENA DECIMA
Sostrata, Lucrezia.
SOSTRATA Io credo che tu creda, figliuola mia, che io sti-
mi l'onore ed el bene tuo quanto persona del mondo',
e che io non ti consiglierei^ di cosa che non stessi bene.
Io ti ho detto e ridicoli, che se fra Timoteo ti dice che
non ti sia carico di conscienzia, che tu lo faccia sanza
pensarvi.
LUCREZIA Io ho sempre mai dubitato che la voglia che
messer Nicla ha d'avere figliuoli, non ci facci fare qual-
4. questo giunto: la beffa che (apparentemente) ho patito. 5. per trarre assai:
sott.: in denari. 6. l'importa... me: sia loro che io, non abbiamo nessun inte-
resse che la cosa si sappia. 7. dubito... difficultà: temo che incontrerò degli
ostacoli. ?>. la... bontà: la coglierò sulla bontà: puntando sulla sua bontà d'ani-
mo. 9. e' se ne predica: se ne parla in giro e con molta lode. io. in... signore:
è il motto del latino medievale: «Monoculus in regno caecorum». 11. la qua-
le... bestia: che ha una malvagità d'animo quasi ferina.
X. I. lo credo... mondo: il Martelli, Vers., i-jiyt Raimondi, Poi, 174, hanno
accostato questo incipit di Sostrata ad analogo nell'/l., V, 4: Martelli ha anche
ricordato in C, V, 2: «Io credo che tu creda che m'incresca di te e di me». 2.
non ti consiglierei: e non ti suggerirei di fare...
I06 MANDRAGOLA
che errore. E per questo, sempre che lui mi ha parlato di
alcuna cosa, io ne sono stata in gelosia^ e sospesa'*, mas-
sime poi che m'intervenne quello che vi sapete, per an-
dare a' Servi'. Ma di tutte le cose che si sono tentate,
questa mi pare la più strana, di avere a sottomettere el
corpo mio a questo vituperio^ ad esser cagione che uno
uomo muoia per vituperarmi. Perché io non crederrei,
se io fussi sola rimasa nel mondo e da me avessi a risurge-
re l'umana natura^ che mi fussi simile partito concesso.
sosTRATA Io non ti so dire tante cose, figliuola mia. Tu
parlerai al frate, vedrai quello che ti dirà, e farai quel-
lo che tu dipoi sarai consigliata da lui, da noi, da chi ti
vòle bene.
LUCREZIA Io sudo per la passione.
SCENA UNDECIMA
Frate, Lucrezia, Sostrata.
FRATE Voi siate le benvenute. Io so quello che voi vo-
lete intendere da me, perché messer Nicia mi ha par-
lato. Veramente io sono stato in su' libri più di dua ore
a studiare questo caso, e dopo molte essamina' io truo-
vo di molte cose che in particulare ed in generale, fan-
no per noi.
LUCREZIA Parlate voi da vero, o motteggiate^ ?
FRATE Ah!, madonna Lucrezia, sono queste cose da
motteggiare ? Avetemi voi a conoscere ora ?
3. in gelosia: con un'ombra di sospetto. 4. sospesa: tutta in apprensione. Ni-
cia ha già anticipato che ella sia in orecchi come la lepre, in III, 2. 5. per anda-
re a' Servi: è lo sgradevole incidente di cui è stata vittima, dopo aver seguito,
forse venti mattine .. . la prima messa de' Servi: come ha spiegato Nicia (III, 2). 6.
a questo vituperio: alla vergogna d'essere posseduta da uno sconosciuto. 7. e
da me... natura: ed io fossi, per assurdo, una nuova Eva, la progenitrice degli
uomini.
XI. I . dopo. . . essamina: dopo molte verifiche. 2 . motteggiate: scherzate [mot-
to era battuta spiritosa, detta per ridere).
ATTO TERZO IO7
LUCREZIA Padre, no. Ma questa mi pare la più strana co-
sa che mai si udissi.
FRATE Madonna, io ve lo credo\ Ma io non voglio che
voi diciate più cosi. E' sono molte cose che discosto
paiano terribili, insopportabili, strane, che, quando tu
ti appressi loro, le riescono umane, sopportabili, do-
mestiche'': e però si dice che sono maggiori li spaventi
che e mali; e questa è una di quelle,
LUCREZIA Dio el voglia.
FRATE Io voglio tornare a quello ch'io dicevo prima. Voi
avete, quanto alla conscienzia, a pigliare questa gene-
ralità': che dove è un bene certo ed un male incerto,
non si debbe mai lasciare quel bene per paura di quel
male^ Qui è un bene certo, che voi ingraviderete, ac-
quisterete una anima a messer Domenedio. El male in-
certo è che colui che lacera con voi dopo la pozione, si
muoia; e' si truova anche di quelli che non muoiano^
ma, perché la cosa è dubia, però è bene che messer Ni-
cla non corra quel periculo. Quanto allo atto, che sia
peccato, questo è una favola: perché la volontà è quel-
la che pecca, non el corpo; e la cagion del peccato è di-
spiacere al marito, e voi li compiacete; pigliarne piace-
re, e voi ne avete dispiacere. Oltra di questo, el fine si
ha a riguardare in tutte le cose: e '1 fine vostro è riem-
piere una sedia in paradiso e contentare el marito vo-
stro. Dice la Bibia che le figliuole di Lotto, credendo-
si essere rimase sole nel mondo, usorono con el padre;
e perché la loro intenzione fu buona, non peccorono*.
3. io ve lo credo: posso credervi. 4. dimestiche: consuete, normali: contrappo-
sto all'ultimo nella terna di aggettivi precedenti, strane, cioè inconsuete, anor-
mali. 5. a pigliare questa generalità: ad attenervi a questa regola d'ordine gene-
rale. 6. che, dove... male: il Raimondi, Poi. 183, ha richiamato, in proposito, il
passo di una lettera del 20 dicembre 15 14 al Vettori: «e se... io vegga che acco-
standomi con l'altro glie ne dia dubbia, credo che sarà da pigliare la certa. . . ». 7.
ma... non muoiono: Timoteo, per persuadere la donna, ha, per cosi dire, attenuato
le statistiche. Per impressionare Nicia, Callimaco era stato altrimenti rigido: ...
che quello uomo che ha prima a fare seco, presa che l'ha.cotesta pozione, muore in-
fra otto giorni, e non lo camperebbe el mondo (II, 6). 8. Dice... non peccarono:
l'episodio delle figlie di Lot che si giacciono col padre perché convinte che non
vivesse più altro uomo sulla faccia della terra è narrato in Genesi, 19. 30-37.
Io8 MANDRAGOLA
LUCREZIA Che cosa' mi persuadete voi ?
SOSTRATA Lasciati persuadere, figliuola mia. Non vedi
tu che una donna che non ha figliuoli non ha casa?
muorsi el marito, resta come una bestia, abandonata da
ognuno.
FRATE Io vi giuro, Madonna, per questo petto sacro'",
che tanta conscienzia" vi è ottemperare in questo caso
al marito vostro, quanto vi è mangiare carne el merco-
ledì, che è un peccato che se ne va con l'acqua bene-
detta''.
LUCREZIA A che mi conducete voi, padre ?
FRATE Conducovi a cose, che" voi sempre arete cagio-
ne''* di pregare Dio per me, e più vi satisfarà questo al-
tro anno" che ora.
SOSTRATA Ella farà ciò che voi volete. Io la voglio met-
tere stasera al letto io. Di che hai tu paura, moccico-
na'^? E' ci è cinquanta donne, in questa terra, che ne
alzerebbono le mani al cielo".
LUCREZIA Io sono Contenta: ma io non credo mai essere
viva domattina.
FRATE Non dubitare, figliuola mia, io pregherrò Iddio
per te; io dirò l'orazione dell'Angiolo Raffaello'*, che
ti accompagni. Andate in buona ora e preparatevi a que-
sto misterio, che si fa sera.
9. Che cosa: A quale atto. io. per... sacro: su questo petto consacrato. 11.
tanta conscienzia: tanto carico di coscienza, tanta responsabilità morale. Anco-
ra una connessione all'interno del testo: è qui che Timoteo scioglie il dubbio,
calcolatamente sollevato da Sostrata in apertura della scena precedente (III,
io): Io ti ho detto e ridico ti, che se fra ' Timoteo ti dice che non ti sia carico di con-
scienzia... 12. che... benedetta: cioè, veniale. 13. che: a seguito delle quali,
una volta che siano accadute. 14. arete cagione: avrete motivo. 15. questo
altro anno: l'anno prossimo. 16. moccicona: bambinona. 17. che... alcielo:
che ringrazierebbero Dio a palme levate. 18. l'orazione dell' Angiolo Raffael-
lo: il Raimondi, Poi., 203-4, ha additato in un passo del libro di Tobia (6, 14-22)
il brano cui intende riferirsi, parodicamente, Timoteo. È un brano di dialogo
tra Tobia e l'arcangelo Raffaele, in cui questi detta a Tobia le disposizioni di-
vine che regoleranno i suoi rapporti con la casta Sara. Egli potrà accostarsi al-
la donna (i cui sette mariti, per intervento del demonio Asmodeo, sono morti
nell'appressarsi alla copula) solo «transacta autem tertia nocte» e, naturalmen-
te, «amore filiorum magis quam libidine ductus». Nella Mandragola chi do-
vrebbe morire non muore (Callimaco) e la libidine non fa difetto.
ATTO TERZO 109
SOSTRATA Rimanete in pace, padre.
LUCREZIA Dio m'aiuti e la Nostra Donna, che io non ca-
piti male.
SCENA DUODECIMA
Frate, Ligurie, messer Nicla.
FRATE O Ligurlo, uscite qua!
LiGURio Come va ?
FRATE Bene. Le ne sono ite a casa disposte a fare ogni
cosa, e non ci fia difficultà' perché la madre s'andrà a
stare seco e vuoila mettere al letto lei^
NiciA Dite voi el vero ?
FRATE Benbè', voi séte guarito del sordo ?
LiGURio Santo Chimenti'' gli ha fatto grazia.
FRATE E' si vuol porvi uua immagine' per rizzarci un po-
co di baccanella^ acciò che io abbia fatto quest'altro
guadagno con voi.
NICLA No' entriano in cetere^ Farà difficultà la donna,
di fare quel ch'io voglio ?
xn. I . e non ci fia difficultà: Timoteo ha superato le perplessità di III, 9: È ben
vero che io dubito non ci avere difficultà... 2. vuoila mettere al letto lei: per la
verità, di questa ferma intenzione materna [lo la voglio mettere stasera al letto
io, ha detto Sostrata in III, 11) non troveremo traccia nel resoconto «a poste-
riori» di Nicla: Mogliama era nel letto al buio. Sostrata m'aspettava al fuoco. Lo
spettatore, attento alla rievocazione di ciò ch'era accaduto fuori scena, si do-
vrà contentare di immaginare Nicla e la suocera alle man' seco, cioè alle prese
con Lucrezia, senz'altra specificazione (vedi V, 2). 3. Bembè: Embè, ebbe-
ne. 4. Santo Chimenti: San Clemente. 5. E... una immagine: circolarmente,
mediante questa battuta, la scena finale del terzo si collega al monologo inizia-
le del quinto atto: lo mi ricordo esservi cinquecento immagine, e non ve ne sono
oggi venti... (V, i). 6. per... baccanella: per farci un po' di chiasso intorno (bac-
canella è diminutivo di baccano) e trarci altro lucro, come da un culto rinvigo-
rito {acciò che io abbia fatto quest 'altro guadagno), grazie alla vostra inattesa gua-
rigione [con voi). 7. Non... in cetere: Non entriamo in altri argomenti, non di-
vaghiamo (è sempre il piccolo formulario delle pandette; lo stesso richiamo al-
la pertinenza del discorso giuridico - parodizzato, s'intende - è nel Ma tornia-
mo ad rem nostram di II, 2).
no MANDRAGOLA
FRATE No, vi dico.
NiciA Io sono el più contento uomo del mondo.
FRATE Credolo. Voi vi beccherete un fanciul mastio, e
chi non ha non abbia*.
LiGURio Andate, frate, a le vostre orazioni, e se biso-
gnerà altro vi verreno a trovare. Voi, messere, andate
a la donna, per tenerla ferma in questa oppinione', ed
io andrò a trovare maestro Callimaco, che vi mandi la
pozione; ed a l'un'ora fate che io vi rivegga per ordi-
nare quello che si de' fare alle quattro.
NiciA Tu di' bene. Addio!
FRATE Andate sani.
Canzone
dopo il terzo atto
Si suave è lo inganno
al fin condotto imaginato e caro',
ch'altrui spoglia d'affanno,
e dolce face^ ogni gustato amaro\
O rimedio alto e raro,
tu mostri il dritto calle"* all'alme erranti;
tu, col tuo gran valore,
nel far beato altrui, fai ricco Amore;
tu vinci, sol co' tuoi consigli santi,
pietre, veneni' e incanti.
8. e chi non ha non abbia: e chi non può averne, peggio per lui. Ma è evidente
l'ironia di questo proverbio, almeno nel dettato, assurdamente tautologico. 9.
per... opinione: perché non muti parere.
CANZONIE. I. al fin... caro: condotto a quegli esiti che si erano vagheggiati e
ci son cari. 2. face: è verbo: fa, rende. 3. ogni gustato amaro: ogni sapore ama-
ro; cioè, ogni amarezza che siamo stati costretti ad assaporare. 4. il dritto cal-
le: la diritta via. Le quattro canzoni oscillano, per lessico ed immagini, tra dan-
tismo e petrarchismo. 5. veneni: viene da pensare (ancora una volta a contra-
rio) alla pozione, e alla mandragola.
ATTO QUARTO
SCENA PRIMA
Callimaco solo.
CALLIMACO Io vorrei pure intendere quello che costoro
hanno fatto - Può egli essere che io non rivegga Ligu-
rio? e, non che le ventitré, le sono le ventiquattro ore.
In quanta ansietà d'animo' sono io stato e sto! Ed è ve-
ro che la fortuna e la natura tiene el conto per bilan-
cio^ la non ti fa mai un bene che a l'incontro non sur-
ga un male'. Quanto più mi è cresciuta la speranza, tan-
to mi è cresciuto el timore. Misero a me! sarà egli mai
possibile che io viva in tanti affanni e perturbato da
questi timori e queste speranze ? Io sono una nave ves-
sata da dua diversi venti, che tanto più teme, quanto
ella è più presso al porto\ La simplicità di messer Ni-
cla mi fa sperare; la prudenzia e durezza' di Lucrezia
mi fa temere. Ohimè, che io non truovo requie* in al-
cun loco! Talvolta io cerco di vincere me stesso, ri-
prendomi' di questo mio furore, e dico meco: «Che fai
I. I. ansietà d'animo: angoscia. 2. Ed è vero... bilancio: Ed è vero che la for-
tuna e la natura scrivono il dare accanto aU'avere (tenere il conto per bilancio è
verbo del computo mercantile medievale: designa l'atto di trascrivere, nel li-
bro di bilancio, i crediti a fianco dei debiti). 3. la... un male: esse non ti elar-
giscono mai un bene senza che poi, a contrasto, non ne nasca un male. «Sull'al-
ternanza fatale di bene e di male, si è ricondotti alle massime dei Discorsi, I, vi
e III, xxxvii» (Raimondi). 4. lo sono una nave... porto: Io sono come una na-
ve che patisce la furia di due venti opposti e che teme tanto più quanto pili è
prossima al porto. C'è un indubbio riscontro, suggerito dal Raimondi, Poi.,
183, con una lettera del 31 gennaio 151 5: «... unici miei porti e miei refugi al
mio legno già rimaso per la continova tempesta sanza timone e sanza ve-
le...». 5. la prudenzia e durezza: «la saggezza e l'intransigenza» (Berardi). In
I, I, Callimaco aveva sottolineato la natura di lei, che è onestissima ed al tutto
aliena dalle cose d'amore. 6. non truovo requie: non trovo quiete, non mi rac-
quieto. 7. riprendomi: mi rimprovero.
112 MANDRAGOLA
tu ? se' tu impazzato ? quando tu l'ottenga, che fia ? Co-
noscerai el tuo errore, pentira'ti delle fatiche e de' pen-
sieri che hai auti. Non sai tu quanto poco bene si truo-
va nelle cose che l'uomo desidera, rispetto a quello che
l'uomo ha presupposto trovarvi? Dall'altro canto*, el
peggio che te ne va è morire ed andare in inferno: e'
son morti tanti degli altri, e' sono in inferno tanti uo-
mini da bene'! Ha'ti tu da vergognare d'andarvi tu?
Volgi el viso alla sorte'", fuggi el male, o, non lo po-
tendo fuggire, sopportalo come uomo". Non ti pro-
sternere, non ti invilire'^ come una donna». E così mi
fo di buon cuore". Ma io ci sto poco su, perché da ogni
parte mi assalta tanto disio d'essere una volta con co-
stei''', che io mi sento dalle piante de' pie al capo tutto
alterare: le gambe triemano, le viscere si commuovano,
el cuore mi si sbarba del petto, le braccia s'abandono-
no, la lingua diventa muta, gli occhi abarbagliano, el
cervello mi gira''. Pure, se io trovassi Ligurio, io arei
con chi sfogarmi'^ Ma ecco che ne viene verso me rat-
to: el rapporto di costui'' mi farà o vivere allegro qual-
che poco o morire affatto.
8. Da l'altro canto: sott.: «Mi dico...». 9. e' sono... bene: vien da pensare
all'epigramma machiavelliano La notte che mori' Pier Soderini, con «l'anima scioc-
ca» del gonfaloniere, che all'ingresso dell'Inferno è ricacciata da Plutone «su
nel limbo fra gli altri bambini», io. Volgi... sorte: Guarda in faccia la Fortu-
na, non temerla. «La locuzione... appartiene al lessico politico-eroico del Ma-
chiavelli, a indicare uno dei gesti essenziali dell'uomo "virtuoso"» (Raimon-
di). II. come uomo: da vero uomo. 12. non ti... invilire: non piegarti, non
avvilirti. 13. mi fo di buon cuore: riprendo coraggio. 14. d'essere una volta
con costei: di giacere una volta con costei. Ha la stessa pregnanza del «fare se-
co» di II, 6. 15. che... mi gira: il Raimondi, Poi., 201, ha situato questo au-
toritratto amoroso di Callimaco «nell'area dell'elegia erotica, da Catullo a Ti-
bullo»; ed ha aggiunto che «può poi accostarsi... agli esametri del De rerum na-
tura (III, 152-58), in cui il canto di Saffo diventa analisi fisiologica, semeioti-
ca clinica...» - Mi si sbarba sta per: mi si svelle (le barbe sono le radici: «Di poi,
li stati che vengano subito, come tutte le altre cose della natura che nascono e
crescono presto, non possono avere le barbe e corrispondenzie loro...», leggia-
mo nel settimo capitolo del Principe). 16. arei con chi sfogarmi: si pensa a III,
3 : ... e' mi basta essermi sfogata un poco.. . ij. el rapporto di costui: quanto co-
stui mi riferirà, - Il Martelli, Vers., 211, ha ricordato, per questa battuta, una
analoga di Terenzio [Phormio, 483): «Nam per eius unam, ut audio, aut vivam
aut moriar sententiam...».
ATTO QUARTO I 1 3
SCENA SECONDA
Ligurie, Callimaco.
LiGURio Io non desiderai mai più tanto di trovare Calli-
maco e non penai mai più tanto' a trovarlo. Se io li por-
tassi triste novelle, io l'arei riscontro^ al primo. Io so-
no stato a casa, in Piazza, in Mercato, al Pancone del-
li Spini, alla Loggia de' Tornaquinci', e non l'ho tro-
vato: questi innamorati hanno l'ariento vivo sotto e pie-
di" e non si possono fermare.
CALLIMACO (Che sto io' ch'io non lo chiamo ? E' mi par
pure allegro) Oh, Ligurio, Ligurio!
LiGURio Oh Callimaco, dove sei tu stato?
CALLIMACO Che novelle ?
LIGURIO Buone.
CALLIMACO Buone in verità ?
LIGURIO Ottime.
CALLIMACO El frate fece el bisogno* ?
LIGURIO Fece.
CALLIMACO E Lucrezia contenta ?
LIGURIO Sì.
CALLIMACO Oh, benedetto frate, io pregherrò sempre
Dio per lui'.
LIGURIO (Buono! Come se Idio facessi le grazie del ma-
le, come del bene!) El frate vorrà altro che prieghi^
CALLIMACO Che vorrà ?
II. I . mai più tanto: nessuna altra volta tanto quanto questa. 2 . l'arei riscon-
tro: l'avrei incontrato di primo acchito {al primo). 3. al Pancone delli Spini .al-
la Loggia de' Tomaquinci: gli Spini e i Tornaquinci sono due nobili casati fio-
rentini. 4. hanno l'ariento... piedi: è come se avessero del mercurio, di conti-
nuo mobile, sotto i piedi. 5. Che sto io: «Perché indugio?» (Gaeta). 6. fece
el bisogno: fece quant'era necessario. 7. Io... lui: viene spontaneo accostare
questa battuta a quella di Timoteo a Lucrezia (in III, 1 1): io pregherrò Iddioper
te... : ed è fuor di dubbio che Machiavelli puntasse sull'effetto comico di que-
ste preci reciproche, in ambiente tutt'altro che caritativo: come subito replica
Ligurio. 8. altro che prieghi: cioè, denari.
114 MANDRAGOLA
LiGURio Danari.
CALLIMACO Darégliene'. Quanti ne gii hai tu promessi?
LiGURio Trecento ducati.
CALLIMACO Hai fatto bene.
LIGURIO El dottore ne ha sborsati venticinque.
CALLIMACO Come ?
LIGURIO Bastiti che gli ha sborsati.
CALLIMACO La madre di Lucrezia che ha fatto ?
LIGURIO Quasi el tutto. Come la 'ntese che la sua fi-
gliuola doveva avere questa buona notte sanza pecca-
to'", la non restò mai di pregare, comandare, infestare"
Lucrezia, tanto che ella la condusse al frate, e quivi
operò in modo che la li consenti.
CALLIMACO Oh Iddio, per quali mia meriti debbo io ave-
re tanti beni! Io ho a morire per l'alegrezza.
LIGURIO (Che gente è questa? Ora per l'alegrezza, ora
pel dolore, costui vuole morire in ogni modo'^). Hai tu
ad ordine'^ la pozione ?
CALLIMACO Si, ho.
LIGURIO Che li manderai ?
CALLIMACO Un bicchiere d'ipocrasso''', che è a proposi-
to: e' netta lo stomaco, rallegra el cuore... - Ohimè,
ohimè, ohimè, i' sono spacciato!
LIGURIO Che è ? che sarà ?
CALLIMACO E' non ci è remedio.
LIGURIO Che diavol fia ?
CALLIMACO E' non si è fatto nulla". F mi son murato in
un forno'^!
9. Darégliene: E glieli daremo, io. sanza peccato: se non, al massimo, un pec-
cato che se ne va con l'acqua benedetta (III, 11). 11. pregare, comandare, infe-
stare: non sono, come qualcuno ha scritto, «tre verbi in disordine»: Sostrata
prima prega, poi ordina, e infine la opprime con le sue insistenze. 12. costui...
modo: ancora un gioco di incastri, giustamente per bocca di Ligurio: giacché è
partendosi da lui che Callimaco (II, 6) aveva pronunciato il fatidico lo son mor-
to. 13. Hai... ordine: Hai tu preparata, e l'hai pronta... 14. ipocrasso: l'hy-
pocras era un vin brulé, un vino bollito con zucchero e spezie. Aveva proprietà
digestive (è a proposito a racconciare lo stomaco) e blandamente energetiche (ral-
legra el cervello). 15. E' ... nulla: si può leggere la battuta secondo un'intona-
zione autoironica: «Non è successo niente, non è niente»; o, più semplicemente,
in tono di sconforto: «Non abbiamo concluso nulla». 16. /' mi... forno: «mi
sono precluso ogni via d'uscita» (Gaeta).
ATTO QUARTO 1 1 5
LiGURio Perché? che non lo di'^'? Levati le mani dal
viso.
CALLIMACO O non sai tu che io ho detto a messer Nicla
che tu, lui, Siro ed io piglieremo uno per metterlo a la-
to a la moglie'* ?
LiGURio Che importa ?
CALLIMACO Come, che importa ? Se io sono con voi, non
potrò essere quel che sia preso; s'io non sono'', e' s'av-
vedrà dello inganno.
LiGURio Tu di' el vero. Ma non c'è egli rimedio?
CALLLMACO Non credo io.
LiGURio Si, sarà bene.
CALLIMACO Quale ?
LiGURio Io voglio un po' pensallo^".
CALLIMACO Tu m'ha' chiaro^'! io sto fresco, se tu l'hai
a pensare ora !
LiGURio Io l'ho trovato".
CALLIMACO Che cosa?
LiGURio Farò che '1 frate, che ci ha aiutato in fino a qui,
farà questo resto.
CALLIMACO In che modo ?
LiGURio Noi abbiamo tutti a travestirci. Io farò trave-
stire el frate, contraffarà la voce, el viso, l'abito, e dirò
al dottore che tu sia quello; e' se '1 crederrà.
CALLIMACO Piacemi; ma io che farò ?
LiGURio Fo conto che tu ti metta un pitocchino" in dos-
so, e con u' liuto in mano te ne venga costi, dal canto
della sua casa, cantando un canzoncino.
CALLIMACO A viso scoperto ?
17. Che non lo di' P: Perché non lo dici, non parli esplicitamente? i8. Per...
moglie: quando aveva delineato a Nicla il progetto, Callimaco aveva detto: non
ci fia difficultà veruna... (II, 6). Ora non vede alcun rimedio a quella specie di
trappola. 19. s' io non sono: se non sarò con voi, susciterò i suoi sospetti. 20.
Io... pensallo: Un altro rinvio interno alla battuta di Timoteo (III, 4): Cotesta è
cosa da pensarla. 2 1 . Tu m 'ha ' chiaro: Mi hai spiegato tutto. È detto ironica-
mente, come un «Ho bell'e capito». 22. lo l ho trovato: Per lo scambio che
precede, il Raimondi, Poi, 175, ha richiamato analogo passo dell'/I., IV, i: «Io
vo pensando» «Hem Por ci pensi?» «Io l'ho già trovato». 2 j,. pitocchino: man-
telletta corta.
Il6 MANDRAGOLA
LiGURio Si, che, se tu portassi una maschera, egli li en-
terrebbe sospetto.
CALLIMACO E' mi conoscerà.
LiGURio Non farà, perché io voglio che tu ti storca el vi-
so, che tu apra, aguzzi o digrigni la bocca^'*, chiugga un
occhio... Pruova un poco.
CALLIMACO Fo io cosi?
LIGURIO No.
CALLIMACO Cosi?
LIGURIO Non basta.
CALLIMACO A questo modo ?
LIGURIO Sì, si! tieni a mente cotesto". Io ho un naso"
in casa: i' voglio che tu te l'appicchi.
CALLIMACO Or bé, che sarà poi?
LIGURIO Come tu sarai comparso in sul canto, noi saren
quivi, torrènti" el liuto, piglierenti, aggirerenti, con-
durrenti in casa, metterenti al letto. El resto doverrai
fare tu da te !
CALLIMACO Fatto Sta condursi costi".
LIGURIO Qui ti condurrai tu", ma a fare che*" tu vi pos-
sa ritornare, sta a te, e non a noi.
CALLIMACO Come?
LIGURIO Che tu te la guadagni in questa notte: che, in-
nanzi che tu ti parta, te le dia a conoscere, scuoprale lo
'nganno, mostrile l'amore li porti, dicale el bene le vói;
e come sanza sua infamia la può esser tua amica, e con
sua grande infamia tua nimica. E impossibile che la non
convenga teco e che la voglia che questa notte sia sola.
CALLIMACO Credi tu cotesto ?
24- io... bocca: sono, a ben guardare, i quattro movimenti-base della mimica
buccale: bocca storta, bocca aperta, bocca a punta, bocca tesa, cioè dilatata al
massimo verso i due zigomi, con effetto di ghigno (0 digrigni la bocca). - Come
ha suggerito il Martelli, Vers., 211, la fonte è ancora terenziana (Phormio,
210-12). 25. tieni a mente cotesto: ricordati questa smorfia. 26. un naso: un
naso posticcio. 27. torrenti: ti toglieremo il liuto. 28. Fatto... costi: L'im-
portante è arrivare fin qui. Callimaco pensa, probabilmente, alla notturna tra-
versata di Firenze, in mantellina, liuto, e naso finto. 29. Qui... tu: Arrivare
qui sono fatti tuoi; te la devi veder tu. 30. Ma a fare che: In quel ma c'è una
specie di «Ed ancor più...», una sfumatura accrescitiva.
ATTO QUARTO II7
LiGURio Io ne son certo. Ma non perdiam più tempo: e'
son già dua ore. Chiama Siro, manda la pozione a Mes-
sere e me aspetta in casa. Io andrò per il frate, farollo
travestire e condurrollo qui, e troverreno el dottore e
f areno quello manca.
CALLIMACO Tu di' bene. Va' via.
SCENA TERZA
Callimaco, Siro.
CALLIMACO O Siro!
SIRO Messere...
CALLIMACO Fatti costì.
SIRO Eccomi.
CALLIMACO Piglia qucl bicchiere d'argento che è drento
allo armario di camera, e, coperto con un poco di drap-
po, portamelo, e guarda a non lo versare per la via.
SIRO Sarà fatto.
CALLIMACO Costui è Stato dieci anni meco e sempre m'ha
servito fedelmente'. Io credo trovare anche in questo
caso fede in lui; e, benché io non gli abbi comunicato
questo inganno, e' se lo indovina, che gli è cattivo be-
ne^ e veggo che si va accomodando\
SIRO Eccolo.
CALLIMACO Sta bene. Tira^ va' a casa messer Nicla e di-
gli che questa è la medicina che ha a pigliare la donna
di po' cena subito; e quanto prima cena tanto sarà me-
glio; e come noi sareno in sul canto ad ordine al tem-
po, che facci d'esservi. Va' ratto.
SIRO Io vo.
IH. I. e sempre... fedelmente: in I, i, 71, è stato Siro stesso a proclamare chef
servi... debbono servirgli (i padroni) con fede. 2. gli... bene: molto malizioso;
quasi; maligno. 3. che... accomodando: che si va adeguando a quanto sta per
succedere. 4. Tira: Callimaco verrà apostrofato nello stesso modo da Ligurio,
in V, 2: Via, ribaldo, tira via!
1 1 8 MANDRAGOLA
CALLIMACO Odi qua. Se vòle che tu l'aspetti, aspettalo
e vientene quivi con lui; se non vuole, torna qui a me,
dato che tu glien'hai' e fatto che tu gli hai l'ambascia-
ta. Intendi?
SIRO Messer si.
SCENA QUARTA
Callimaco solo.
CALLIMACO Io aspetto che Liguri© torni col frate; e chi
dice che gli è dura cosa l'aspettare, dice el vero. Io sce-
mo' ad ogni ora dieci libre, pensando dove io sono ora,
dove io potrei essere di qui a due ore, temendo che non
nasca qualche caso che interrompa el mio disegno: che
se fussi^ e' fia l'utima notte della vita mia, perché o io
mi gitterò in Arno, o io m'impiccherò, o io mi gitterò
da quelle finestre, o io mi darò d'un coltello^ in sul-
l'uscio suo. Qualche cosa farò io, perché io non viva
più. Ma veggo io Ligurio ? Egli è desso, egli ha seco uno
che pare scrignuto", zoppo: e' fia certo el frate trave-
stito. Oh, frati! conoscine uno e conoscigli tutti'. Chi
è quell'altro che si è accostato a loro? E' mi pare Siro,
che ara già fatto l'ambasciata al dottore. Egli è esso. Io
gli voglio aspettare qui, per convenire con loro^
5. dato... hai: una volta che tu gli avrai consegnato la pozione.
IV. I. scemo: perdo (e quindi dimagro). 2. Che... fussi: Perché se ciò doves-
se accadere. 3. mi darò d'un coltello: mi prenderò a coltellate. 4. scrignuto:
gobbo. 5. Oh... tutti: E un probabile ricalco terenziano, come ha suggerito il
Martelli, Ven., 211 («Unum cognoris: omnis noris», dal Phormio, 265). Ma c'è
anche una possibile eco virgiliana (Aeneis, II, 65-66: «... et crimine ab uno I di-
sce ommis»). 6. per convenire con loro: per unirmi a loro.
ATTO QUARTO II9
SCENA QUINTA
Siro, Ligurie, Frate travestito, Callimaco.
SIRO Chi è teco, Ligurio?
LiGURio Un uom da bene.
SIRO E' gli è zoppo, o fa le vista' ?
LIGURIO Bada ad altro.
SIRO Oh! gli ha '1 viso del gran ribaldo.
LIGURIO Deh! sta' cheto, che ci hai fracido^ Ove è Cal-
limaco ?
CALLIMACO Io son qui. Voi séte e benvenuti!
LIGURIO O Callimaco, avvertisci questo pazzerello di Si-
ro; egli ha detto già mille pazzie.
CALLIMACO Siro, odi qua. Tu hai questa sera a fare tut-
to quello che ti dirà Ligurio, e fa conto, quando e' ti
comanda, che sia io; e ciò che tu vedi, senti o odi, hai
a tenere segretissimo, per quanto tu stimi la roba, l'ono-
re, la vita mia ed il bene tuo.
SIRO Così si farà.
CALLIMACO Desti tu el bicchiere al dottore ?
SIRO Messer si.
CALLIMACO Che disse ?
SIRO Che sarà ora ad ordine di tutto.
FRATE E questo Callimaco?
CALLIMACO Sono a' comandi vostri. Le proferte tra noi
sien fatte': voi avete a disporre di me e di tutte le for-
tune mia'*, come di voi.
FRATE Io l'ho inteso e credolo; e sommi mosso a fare
quel, per te, che io non arei fatto per uom del mondo.
CALLIMACO Voi non perderete la fatica.
V. \. fa le vista: fa finta, simula. 2. Che ci... fracido: in II, 5, Nicia usa la
stessa espressione {Che buone parole! che mi ha fracido) a proposito della mo-
glie. 3. Le... fatte: Facciamoci subito le nostre promesse reciproche. In quel
proferte c'è un richiamo implicito, ma per Timoteo molto chiaro, al Quanti ne
gli hai tu promessi? di poco prima (IV, 2). 4. di tutte le fortune mia: Callimaco
ribadisce l'allusione alle sue disponibilità finanziarie.
120 MANDRAGOLA
FRATE E' basta che tu mi voglia bene.
LiGURio Lasciamo stare le cirimonie'. Noi andreno a tra-
vestirci, Siro ed io; tu, Callimaco, vien con noi, per po-
tere ire a fare e fatti tua. El frate ci aspetterà qui: noi
torneren subito ed andreno a trovare messer Nicla.
CALLIMACO Tu di' bene: andiamo.
FRATE Io vi aspetto.
SCENA SESTA
Frate travestito solo.
FRATE E' dicono el vero quelli che dicono che le cattive
compagnie conducono li uomini alle forche'. E molte
volte uno capita male cosi per essere troppo facile^ e
troppo buono, come per essere troppo tristo. Dio sa che
io non pensava ad iniuriare persona^: stavomi nella mia
cella, dicevo el mio ufizio, intrattenevo e mia devoti.
Capitòmmi innanzi questo diavol di Ligurio^ che mi
fece intignere el dito in uno errore' donde io vi ho mes-
so el braccio e tutta la persona, e non so ancora dove
io mi abbia a capitare. Pure mi conforto che, quando
una cosa importa a molti, molti ne hanno ' aver cura*.
Ma ecco Ligurio e quel servo che tornano.
5. le cirimonie: cerimoniosità. Ligurio, che sa che Timoteo vuole altro che prie-
ghi (IV, 2), lo richiama ad una maggior praticità.
VI. I. alle forche: al patibolo, come i criminali: cioè, alia rovina morale e fisi-
ca. 2. troppo facile: troppo arrendevole. E lo stesso aggettivo con cui Nicia
aveva connotato la Lucrezia «prima maniera»; Ella era la più dolce persona del
mondo e la più facile (III, 2). Machiavelli lo replica apposta, con intento ironi-
co. 3. ad iniuriare persona: a recare offesa ad alcuno. 4. capitòmmi... Ligu-
rio: nel suo precedente monologo (III, 9), Timoteo aveva detto: Questo tristo di
Ligurio^ ne venne a me. .. 5 . intignere. . . errore: intingere il dito, cioè lambire ap-
pena. E, in ogni caso, metafora scelta (col consueto rigore del Machiavelli) nel-
la sfera della «professionalità» di Timoteo; e si pensa subito a III, 11 (... che è
un peccato che se ne va con l'acqua benedetta). 6. Pure... cura: Timoteo modi-
fica e ribalta a parte suhiecti la massima di Ligurio (III, 4), che era concepita a
parte obiecti: ...ed io credo che quel sia bene , che facci bene a ' più , e che e più se
ne contentino .
ATTO QUARTO 121
SCENA SETTIMA
Frate, Ligurie, Siro.
FRATE Voi sete e ben tornati.
LiGURio Stiàn noi bene ?\
FRATE Benissimo.
LiGURio E' ci manca el dottore. Andian verso casa sua:
e' son più di tre ore, andian via!
SIRO Chi apre l'uscio suo ? E egli el famiglio ?^
LiGURio No: gli è lui. Ah, ah, ah, uh!
SIRO Tu ridi ?
LiGURio Chi non riderebbe ? Egli ha un guarnacchino^
indosso, che non gli cuopre el culo. Che diavolo ha egli
in capo ? E' mi pare un di questi gufi de' canonici'*, ed
uno spadaccin sotto: ah, ah! e' borbotta non so che.
Tirianci da parte, ed udireno qualche sciagura della
moglie\
SCENA OTTAVA
Messer Nicia.
NiciA Quanti lezzi' ha fatto questa mia pazza! Ella ha
mandato la fante^ a casa la madre e '1 famiglio in villa:
di questa io la laudo, ma io non la laudo già che, innanzi
VII. I. Stiàn noi bene?: Stiamo bene? È la domanda d'obbligo dei maschera-
ti. 2. E egli el famiglio?: E forse il servo (di Nicia)? 3. un guamacchino: la
guarnacca (o guarnaccia) era, di norma, un mantello lungo talvolta foderato (le
donne lo indossavano sopra la gonnella). Quello di Nicia, all'opposto, non gli
cuopre el culo . 4. un... canonici: «peUicce portate dai canonici» (Blasucci). 5.
qualche sciagura: qualche sventurata (è detto ironicamente) reazione.
vili. I. lezzi: leziosaggini, capricci. 2. la fante: la fantesca, la serva.
12 2 MANDRAGOLA
che la ne sia voluta ire al letto, ell'abbi fatto tante schi-
filtà': «Io non voglio! Come farò io? Che mi fate voi
fare ?■* Ohimè, mamma mia! ». E se non che la madre le
disse el padre del porro', la non entrava in quel letto:
che le venga la contina*! Io vorrei ben vedere le donne
schizzinose, ma non tanto: ci ha tolto la testa, cerve! di
gatto^! Poi, chi dicessi: «Che impiccata sia la più savia
donna di Firenze», la direbbe: «Che t'ho io fatto?*»,
Io so che la Pasquina enterrà in Arezzo, ed, innanzi che
io mi parta da giuoco, io potrò dire, come mona Ghin-
ga: «Di veduta, con queste mani'». Io sto pur bene^":
chi mi conoscerebbe? Io paio maggiore", più giovane,
più scarzo'^ e' non sarebbe donna, che mi togliessi da-
nari di letto". Ma dove troverrò io costoro?
SCENA NONA
Ligurio, messer Nicla, frate, Siro.
LiGURio Buona sera, messere.
NiciA Oh! uh! eh!
LIGURIO Non abbiate paura: noi sian noi!
3. schifiltà: schifiltosità: riprende e aggrava i lezzi. 4. Che... fare?: È la versio-
ne, più enfatica, di: A che mi conducete voi... (Ili, 11). 'j. se... porro: e se non
fosse stato perché la madre la riprese con asprezza. Nell'espressione (chiarita,
tra gli altri, dal Varchi) è evidente l'allusione oscena: si pensa, intanto, a che io
arei... qualche porro di drieto dello stesso Nicla (II, 3). 6. b contina: la febbre
continua, cronica. 7. cerve l di gatto: si pensa alla cerve llinaggine della fanciulla
gravida (III, 4) e al tutte le donne hanno... poco cervello di Timoteo (III, 9). 8.
Poi... fatto?: E se qualcuno la mandasse al diavolo, sarebbe capace di cascare
dalle nuvole. 9. lo... con queste mani: Io sono certo che la nostra faccenda an-
drà a buon fine, e prima che io mi stacchi dall'impresa, potrò dire, come mon-
na Ghinga: «L'ho visto coi miei occhi, l'ho toccato con mano». - L'entrata del-
la Pasquina in Arezzo era l'ovvio «lieto fine» d'ogni conquista amorosa: quella
di monna Ghinga era una «storiella salace» (Bonfantini), probabilmente assai
corrente, io. lo sto pur bene! : Nicla, che è solo, se lo dice da sé (gli altri se lo
sono chiesto reciprocamente: «Stiàn noi bene?»). 11. maggiore: interpreterei
«più alto». 12. più scarzo: più snello. 13. che... letto: che si farebbe pagare,
dopo essersi giaciuta con me (tanto sto bene).
ATTO QUARTO 123
NiciA Oh ! voi séte tutti qui ? S 'io non vi conoscevo pre-
sto, io vi davo con questo stocco' el più diritto^ che io
sapevo! Tu, se' Ligurio e tu Siro; e quell'altro è '1 mae-
stro\ eh?
LIGURIO Messer sì.
NICIA Togli, oh! e' si è contraffatto bene: e' non lo co-
noscerebbe Va'-qua-tu''!
LIGURIO Io gli ho fatto mettere dua noce in bocca per-
ché non sia conosciuto alla boce.
NICIA Tu se' ignorante!
LIGURIO Perché ?
NICIA Che non me '1 dicevi tu prima? ed are'mene mes-
so anch'io dua. E sai s'è' gli importa' non essere cono-
sciuto alla favella !
LIGURIO Togliete, mettetevi in bocca questo.
NICIA Che è ella ?
LIGURIO Una palla di cera.
NICIA Dàlia qua... Ca! pu! ca! co! che! cu! cu! spu! Che
ti venga la seccaggine, pezzo di manigoldo!
LIGURIO Perdonatemi: io ve ne ho data una in scambio,
che io non me ne sono avveduto.
NICIA Ca! ca! pu! Di che... che... che era?
LIGURIO D'aloe^
NICIA Sia in malora! Spu! pu! Maestro, voi non dite
nulla ?
FRATE Ligurio m'ha fatto adirare'.
NICIA Oh! voi contraffate bene la voce!
LIGURIO Non perdiam più tempo qui. Io voglio essere el
capitano ed ordinare l'essercito per la giornata. Al de-
IX. I . con questo stocco: è lo spadaccin che gli altri hanno intravisto appena si
è fatto sull'uscio. Un altro stocco, non propriamente da schermidore, fa la sua
comparsa nel resoconto di Nicomaco in C, V, 2: «Ben sai che, ad un tratto, io
mi sento stoccheggiare un fianco...». 2. el piti diritto: menando il colpo più di-
retto. 3. e l maestro: cioè, Callimaco, il magister in medicina. 4. Va-qua-tu:
un leggendario carceriere fiorentino, capace d'ogni impresa, di cui si discorre
anche nella Novella del Grasso legnaiuolo. 5. se gli importa: quanto sia impor-
tante. 6. Togliete... D'aloe: Com'è stato più volte osservato, tutta questa se-
quenza farsesca è ispirata alla scena analoga nella novella di Calandrino e il por-
co imbolato (Decameron, Vili, 6). 7. Ligurio... adirare: Timoteo, nel «ruolo»
di Callimaco, dirà in tutto due battute: questa è la prima.
124 MANDRAGOLA
stro corno sia preposto Callimaco, al sinistro io: intra
le dua corna starà qui el dottore; Siro fia retroguardo,
per dar sussidio a quella banda che inclinassi*. El nome
sia: san Cuccù.
NiciA Chi è san Cuccù?
LiGURio E el più onorato santo che sia in Francia'. An-
dian via: mettian l'aguato a questo canto. State a udi-
re: io sento un liuto.
NiciA Egli è esso. Che vogliàn fare?
LiGURio Vuoisi mandare innanzi uno esploratore a sco-
prire chi egli è, e secondo ci riferirà, secondo fareno.
NiciA Chi v'andrà?
LiGURio Va' via, Siro: tu sai quello hai a fare. Conside-
ra, essamina, torna presto, referisci.
SIRO Io vo.
NiciA Io non vorrei che noi pigliassimo un granchio, che
fussi qualche vecchio'" debole o infermiccio, e che que-
sto giuoco si avessi a rifare doman da sera.
LiGURio Non dubitate, Siro è valent'uomo. Eccolo, e'
torna. Che truovi, Siro?
SIRO Egli è el più bello garzonaccio che voi vedessi mai.
Non ha venticinque anni e viensene solo in pitocchino,
sonando el liuto.
NiciA E' gli è el caso", se tu di' el vero. Ma guarda'^ che
questa broda sarebbe tutta gittata addosso a te"!
SIRO E' gli è quel ch'io vi ho detto.
LiGURio Aspettian ch'egli spunti questo canto e subito
gli sareno addosso.
8. Io voglio essere... inclinassi: il Raimondi ha ricordato, «a proposito di que-
ste immagini belliche... il monologo di Cleandro nella Clizia» (è a I, 2). - II
Martelli, Vers., 211, ha individuato il probabile «modello» del brano in Te-
renzio, Eunuchus, 774-81. La giornata è la battaglia campale; le dua coma so-
no le due ali dell'esercito, ma anche le corna (imminenti) di Nicla; Siro, che
rappresenta la retroguardia, dovrà aiutare quell'ala che arretrasse (dar sussidio
a quella banda che inclinassi). 9. che sia in Francia: è in francese, infatti, che
cornuto si dice cocu. io. qualche vecchio: la premessa, perché l'impresa an-
dasse in porto, era di trovare un garzonaccio (II, 6): e questo per ovvi moti-
vi. II. Egli è el caso: Costui fa il caso nostro. 12. Ma guarda: sott.: Che se
non e cosi, se hai visto male. 13. che... te: la vergogna e la colpa cadrebbero
su di te.
ATTO QUARTO I25
NiciA Tiratevi in qua, maestro. Voi mi parete uno uom
di legno. Eccolo.
CALLIMACO «Venir vi possa el diavolo allo letto, da poi
ch'i' non vi posso venir'io! »".
LiGURio Sta' forte! Da' qua questo liuto.
CALLIMACO Ohimè, che ho io fatto ?
NiciA Tu '1 vedrai. Cuoprigli el capo, imbavaglialo!
LiGURio Aggiralo.
NiciA Dagli un'altra volta! dagliene un'altra! Mettete-
lo in casa''!
FRATE Messer Nicla, io m'andrò a riposare, che mi duo-
le la testa che io muoio; e, se non bisogna'^ io non tor-
nerò domattina.
NiciA Si, maestro, non tornate: noi potren far da noi.
SCENA DECIMA
Frate travestito solo.
FRATE E' sono intanati in casa, ed io me n'andrò al con-
vento. E voi spettatori non ci appuntate: perché' que-
sta notte non ci dormirà persona, sì che gli atti non so-
no interrotti dal tempo^ Io dirò l'uffizio, Ligurio e Si-
ro ceneranno, che non hanno mangiato oggi. El dotto-
14. «Venir... io! »: L'attacco deUa canzone allude a Nicla. Il testo seguita: «...
e rompieti due costole del petto I e l'altre membra che t'ha fatto Iddio I e tiri-
ti per monti e per valli, I e spiccati il capo dalle spalle...» (Debenedetti). Agli
spettatori bastava sentire i primissimi versi, perché era piuttosto nota. 15.
Da' qua... in casa: Quest'insieme di battute, che si traduce in una serie ben pre-
cisa di gesti, era racchiuso nel minuzioso progetto di Ligurio (IV, 2): Come tu
sarai comparso in sul canto, noi saren quivi, torrènti el liuto , piglieren ti , aggireren-
ti, condurrenti in casa... - Dagli un'altra volta! vuol dire: «Dagli un'altra gira-
ta! » (per intontirlo). 16. se non bisogna: se non c'è bisogno di me.
X. 1. non ci appuntate, perché... : non ci biasimate per il fatto che... 2. siche...
dal tempo: in modo che, tra l'altro, tra il quarto e il quinto atto non ci sarà nep-
pure intervallo. Timoteo «attraverso questa difesa di "regolarità" teatrale, ri-
chiama maliziosamente il pensiero degli spettatori ai ludi notturni di Callima-
co e Lucrezia» (Blasucci).
120 MANDRAGOLA
re andrà di camera in sala, perché la cucina vadia net-
ta. Callimaco e madonna Lucrezia non dormiranno:
perché io so, se io fussi lui e se voi fussi lei, che noi non
dormiremo.
Canzone
dopo il quarto atto
Oh dolce notte, oh sante
ore notturne e quete,
ch'i disiosi' amanti accompagnate;
in voi s'adunan tante
letizie, onde voi siete
sole cagion di far l'alme beate.
Voi giusti premii date
all'amorose schiere^
delle lunghe fatiche;
voi fate, o felici ore,
ogni gelato petto arder di amore.
CANZONE. 1. disiosi: desiderosi. 2. schiere: come, nel leggere la canzone do-
po il terzo atto, a quel venetii si pensa alla pozione di mandragola, qui si pensa
zìi' esercito guidato da Ligurio.
ATTO QUINTO
SCENA PRIMA
Frate.
FRATE Io non ho potuto questa notte chiudere occhio,
tanto è el desiderio che io ho d'intendere come Calli-
maco e gli altri l'abbino fatta'. Ed ho atteso a consu-
mare el tempo in varie cose: io dissi mattutino, lessi
una vita de' Santi Padri, andai in chiesa ed accesi una
lampana^ che era spenta, mutai un velo ad una Nostra
Donna che fa miracoli'. Quante volte ho io detto a que-
sti frati che la tenghino pulita! E' si maravigliono poi
se la divozione manca! Io mi ricordo esservi cinque-
cento immagine: e' non ve ne sono oggi venti. Questo
nasce da noi, che non le abbiamo saputa mantenere la
reputazione\ Noi vi solavamo' ogni sera, doppo la com-
pieta, andare a procissione, facevànvi cantare ogni sa-
bato le laude, botavànci noi^ sempre quivi, perché vi si
vedessi delle immagine fresche; confortavamo' nelle
confessioni gli uomini e le donne a botarvisi. Ora non
si fa nulla di queste cose, e poi ci maravigliamo che le
I. I. r abbino fatta: siano riusciti nell'impresa. 2. hxmpana: lampada. Era,
probabilmente, «il vaso con il lume d'olio per il sacramento» (Raimondi). 3.
mutai... miracoli: una statua della Madonna, in una nicchia dell'altare, con un
velo «vero» sul capo (come in molte chiese di campagna, or oggi). 4. lo... re-
putazione: Ricordo che (un tempo) c'erano cinquecento quadri votivi (lasciati
da miracolati o da fedeli che avevano esaudito il loro voto) e oggi non ce ne so-
no venti: la colpa è nostra, che non abbiamo saputo mantenere alto il prestigio
delle immagini sacre (e viva la pratica di donarle alla chiesa). 5. solavamo: era-
vamo soliti. 6. Botavànci noi: Noi stessi (per dare il buon esempio ai fedeli)
facevamo voti nella nostra chiesa (quivi), in modo che si vedessero appesi qua-
dri votivi sempre nuovi (fresche). 7. confortavamo: esortavamo, con parole di
pio conforto.
128 MANDRAGOLA
cose vadin fredde*. Oh quanto poco cervello è in que-
sti mia frati! Ma io sento un gran romore da casa mes-
ser Nicla'. Eccogli, per mia fé: e' cavon fuora el pri-
gione*". Io sarò giunto a tempo. Ben si sono indugiati
alla sgocciolatura": e' si fa appunto l'alba. Io voglio sta-
re ad udire quel che dicono, sanza scoprirmi.
SCENA SECONDA
Messer Nicla, Ligurio, Siro, Callimaco travestito.
NiciA Piglialo di costà ed io di qua, e tu Siro lo tieni per
il pitocco' di drieto.
CALLIMACO Non mi fate male!
LIGURIO Non aver paura, va' pur via.
NiciA Non andiam più là^
LIGURIO Voi dite bene: lasciànl'ir qui. Diàngli dua vol-
te^ che non sappi dond'e' si sia venuto. Giralo, Siro\
SIRO Ecco.
NICLA. Giralo un'altra volta.
8. che ... fredde: che ci sia dell'apatia tra i fedeli. È la ripresa di se la divozione
manca di poco sopra. Non mi sembra si possa interpretare: «gli affari vanno
lenti, e con difficoltà» (Raimondi). - Il Borsellino, Roz-, 136, evoca, per que-
sto monologo di Timoteo, alcuni versi ò&ÌV Asino d'oro (V, 1 19-21): «E' son
ben necessarie l'orazioni: I e matto al tutto è quel ch'ai popol vieta I le cerimo-
nie e le sue divozioni... ». 9. da casa messer Nicia: provenire dalla casa di mes-
ser Nicla. IO. el prigione: dovrebbe essere (e cosi crede Nicia) il garzonaccio
scioperato, imbavagliato alla fine del quarto atto: mentre è, ovviamente, Cal-
limaco. II. alla sgocciolatura: sino all'ultimo; come quando si attende che il
mozzicone di candela lasci cadere l'ultima goccia e si spenga. «Forse non è da
escludere il doppio senso osceno» (Gaeta): a me pare evidente che Machiavel-
li intendesse sottolinearlo: Timoteo può ragionevolmente prevedere che Calli-
maco sia riuscito nel suo incontro d'amore.
n. I. per il pitocco: per il lembo del corto mantello che Ligurio gli aveva in-
giunto di indossare: Fo conto che tu li metta un pitocchino indosso... (IV, il,
115). 2. Non andian più là: Non dilunghiamoci. E' si fa appunto l'alba: e Ni-
cia teme li possano sorprendere. 3. diàngli dua volte: facciamogli fare due gi-
ri su se stesso. Le stesse parole di IV, 9: Dagli un'altra volta! Dagliene un'al-
tra! 4. Giralo, Siro: la stessa tecnica di IV, 9: Aggiralo!
ATTO QUINTO 129
SIRO Ecco fatto.
CALLIMACO El mio liuto' !
LiGURio Via, ribaldo, tira via: s'io ti sento favellare, io
ti tagliere el collo !
NiciA E' si è fuggito. Andianci a sbisacciare^: e' vuoisi'
che noi usciàn fuori tutti a buona ora acciò che non si
paia che noi abbiam questa notte vegghiato^
LiGURio Voi dite el vero.
NiciA Andate, Ligurio e Siro, a trovar maestro Callima-
co, e li dite che la cosa è proceduta bene.
LIGURIO Che li possiamo noi dire ? noi non sappiamo nul-
la. Voi sapete che, arrivati in casa, noi ce n'andamo nel-
la volta' a bere. Voi e la suocera rimanesti alle man se-
co, e non vi rivedemo mai se non ora, quando voi ci
chiamasti per mandarlo fuor a.
NiciA Voi dite el vero. Oh! io vi ho da dire le belle co-
se! Mogliama era nel letto al buio. Sostrata m'aspetta-
va al fuoco"*. Io giunsi su con questo garzonaccio: e,
perché non andassi nulla in capperuccia", io lo menai
in una dispensa che io ho in sulla sala, dove era un cer-
to lume annacquato'^ che gittava un poco d'albore'^ in
modo che non mi poteva vedere in viso.
LIGURIO Saviamente.
NiciA Io lo feci spogliare: e' nicchiava. Io me li volsi
com'un cane'^ di modo che gli parve mille anni di ave-
re fuora e panni, e rimase ignudo. Egli è brutto di vi-
so: egli aveva un nasaccio, una bocca torta...''. Ma tu
non vedesti mai le più belle carne: bianco, morbido, pa-
stoso... e de l'altre cose non ne domandare.
5. Elmio liuto: battuta che risponde, in perfetta circolarità, aJ sopruso di Ligu-
rio, in IV, 9; Da' qua questo liuto. 6. a sbisacciare: a toglierci di dosso questi
travestimenti pesanti. 7. vuoisi: è necessario. 8. abbiam... vegghiato: siamo
stati tutta la notte svegli. 9. nella volta: nel cantinato, che fungeva da cucina e
dispensa, io. al fuoco: presso il caminetto. 11. non... capperuccia: andar in
capperuccia valeva «rimaner nascosto» (la capperuccia è il cappuccio del mantel-
lo). Nicla vuole, insomma, aver tutto chiaro. 12. annacquato: pallido come il
vino che si mescola coll'acqua. 13. un poco d'albore: una tenue chiarità. 14.
come un cane: ringhioso, furibondo. 15. Egli... torta... : C'è stata dunque una
perfetta rispondenza, nel travestimento e nella mimica di Callimaco, alle istru-
zioni di Ligurio: lo ho un naso in casa.i' voglio che tu te l'appicchi e ... io voglio
che tu ti storca elviso, che tu apra, aguzzi o digrigni la bocca... (IV, 2).
130 MANDRAGOLA
LiGURio E' non è bene ragionarne. Che bisognava" ve-
derlo tutto ?
NiciA Tu vói el giambo ! ". Poi che io avevo messo mano
in pasta, io ne volli toccare el fondo'*: poi, volli vede-
re se gli era sano: s'egli avessi auto le bolle", dove mi
trovavo io? Tu ci metti parole!^".
LiGURio Avevi ragion voi.
NiciA Come io ebbi veduto che gli era sano, io me lo ti-
rai drieto ed al buio lo menai in camera, messilo^' al let-
to; ed innanzi che io mi partissi, volli toccare con ma-
no come la cosa andava, che io non sono uso" ad es-
sermi dato ad intendere lucciole per lanterne.
LiGURio Con quanta prudenzia avete voi governata que-
sta cosa!
NiciA Tocco e sentito che io ebbi ogni cosa, mi usci' di
camera e serrai l'uscio, e me n'andai dalla suocera, che
era al fuoco, e tutta notte abbiamo atteso a ragionare.
LiGURio Che ragionamenti son suti e' vostri?
NiciA Della sciocchezza di Lucrezia, e quanto e' gli era
meglio che sanza tanti andirivieni ella avessi ceduto al
primo". Dipoi ragionamo del bambino, che me lo pare
tuttavia^'* avere in braccio, el naccherino"! Tanto che
io senti' sonare le tredici ore, e, dubitando" che il di
non sopragiugnessi, me n'andai in camera. Che direte
voi, che io non potevo fare levare" quel ribaldone^* ?
LiGURio Credolo.
i6. Che bisognava: Che bisogno c'era... 17. Tu vuoi el giambo! : Tu vuoi scher-
zare! Giambo era una battuta beffarda, scherno a parole. 18. toccare el fon-
do: andare fino in fondo: e tastare gli organi sessuali di Callimaco, le altre co-
se cui ha maliziosamente alluso. - Tutta la battuta è la messa in pratica del pro-
posito espresso in IV, 8: ed innanzi che io mi parta da giuoco, io potrò dire, come
mona Ghinga. - Di veduta, con queste mani. 19. le bolle: le vesciche a fior di
pelle, che sono primo indizio della sifilide. 20. Tu ci metti parole! : Tu fai in
fretta a parlare! 21. messilo: lo misi. 22. non sono uso: non sono abitua-
to. 23. avessi ceduto al primo: avesse acconsentito subito al nostro proget-
to. 24. che... tuttavia: che mi sembra già. 25. el naccherino: il bambinello.
Letteralmente, naccherino vale «festoso, chiassoso (da nacchere)» (Guer-
ri). 26. dubitando: temendo. 27. levare: alzare dal letto. 28. quel ribalda-
ne: qui, nel senso di: quello sfrontato, spudorato.
ATTO QUINTO 1 3 I
NiciA E' gli era piaciuto l'unto"! Pure, e' si levò, io vi
chiamai, e lo abbiamo condutto fuora.
LiGURio La cosa è ita bene.
NiciA Che dirai tu, che me ne incresce^V
LiGURio Di che ?
NiciA Di quel povero giovane, che gli abbia a morire si
presto", e che questa notte gli abbia a costar si cara.
LiGURio Oh! voi avete e pochi pensieri"! Lasciatene la
cura a lui.
NiciA Tu di' el vero. Ma e' mi par ben mille anni di tro-
vare maestro Callimaco e rallegrarmi seco.
LiGURio E' sarà fra una ora fuora. Ma e' gli è già chiaro
el giorno. Noi ci andreno a spogliare. Voi che farete?
NICIA Andronne anch'io in casa a mettermi e panni buo-
ni. Farò levare e lavare la donna", farolla venire alla
chiesa ad entrare in santo^\ Io vorrei che voi e Calli-
maco fussi là e che noi parlassimo al frate per ringra-
ziarlo e ristorarlo" del bene che ci ha fatto.
LiGURio Voi dite bene; così si farà. A Dio.
29. l'unto: letteralmente: il grasso (di carni o intingoli). Ma qui (e dal Decame-
ron in poi, come in VII, i) l'allusione è all'atto sessuale. 30. Che dirai... in-
cresce: Come sopra: Che direte voi, che io.. . Incresce, mi dispiace. 31. si presto:
c'è in Nicla l'eco enfatizzata delle previsioni di Callimaco (II, 6): che quello uo-
mo che ha prima a fare seco, presa che l'ha, co testa pozione, muore infra otto gior-
ni, e non lo camperebbe el mondo. 3 2 . avete e pochi pensieri: ne avete pochi di
fastidi. 33. Farò... e lavare la donna: Ancora una rispondenza interna: Calli-
maco gli aveva raccomandato (II, 6): farete lavare la vostra donna. 34. entrare
in santo: andar in santo era il verbo con cui si indicava la cerimonia della puri-
ficazione delle puerpere. Costoro, la prima volta che mettevano piede in chie-
sa dopo il parto, dovevano infatti essere benedette. 35. ristorarlo: dargli, a ri-
storo, un compenso, ricompensarlo.
132 MANDRAGOLA
SCENA TERZA
Frate solo.
FRATE Io ho udito' qucsto ragionamento e mi è piaciu-
to tutto, considerando quanta scioccheria^ sia in que-
sto dottore, ma la conclusione utima^ mi ha sopra mo-
do dilettato. E poi che debbono venire a trovarmi a ca-
sa, io non voglio stare più qui, ma aspettargli alla chie-
sa, dove la mia mercatanzia varrà più. Ma chi esce di
quella casa? E' mi pare Ligurio e con lui debb'essere
Callimaco. Io non voglio che mi vegghino, per le ra-
gioni dette; pur, quando e' non venissino a trovarmi,
sempre sarò a tempo ad andare a trovare loro.
SCENA QUARTA
Callimaco, Ligurio.
CALLIMACO Come io ti ho detto, Ligurio mio, io stetti
di malavoglia infino alle nove ore; e benché io avessi
gran piacere', e' non mi parve buono. Ma poi che io me
le fu' dato a conoscere, e ch'io l'ebbi dato ad intende-
re l'amore che io le portavo^ e quanto facilmente, per
in. I. io ho udito: Secondo una consuetudine scenica, che data da Plauto e
Terenzio, Timoteo, come decine di personaggi di commedia, ha udito non vi-
sto. 2. quanta scioccheria: c'è forse un malizioso richiamo alla battuta di Ni-
cla di poco prima: Che ragionamenti son suti e vostri? - Della sciocchezza di Lu-
crezia... (IV, 2). },. la conclusione utima: cioè, l'accenno al ristoro che Nicla
vuol dargli.
IV. I . gran piacere: dal possedere l'amata: piacere che, tuttavia, non mi parve
onesto [buono). 2. Ma, poi ... portavo: Callimaco ha attuato i suggerimenti avu-
ti da Ligurio (IV, 2): ... e che, innanzi che tu ti parta, te le dia a conoscere, scuo-
prale lo 'nganno, mostrile l'amore le porti, dicale elbene le vuoi.
ATTO QUINTO 133
la semplicità* del marito, noi potavamo viver felici san-
za infamia alcuna'*, promettendole che, qualunque vol-
ta Dio facessi altro di lui', di prenderla per donna"^; ed
avendo ella, oltre alle vere ragioni, gustato che diffe-
renzia è dalla ghiacitura mia a quella di Nicla, e da e
baci d'uno amante giovane a quelli d'uno marito vec-
chio^ doppo qualche sospiro disse: «Poiché l'astuzia
tua, la sciocchezza del mio marito, la semplicità di mia
madre e la tristizia^ del mio confessoro mi hanno con-
dutto a fare quello che mai, per me medesima', arei fat-
to, io voglio giudicare'" ch'e' venga da una celeste di-
sposizione che abbi voluto cosi, e non sono sufficien-
te" a recusare quello che '1 Cielo vuole che io accetti.
Però io ti prendo per signore, patrone, guida: tu mio
padre, tu mio defensore, e tu voglio che sia ogni mio
bene'^ E quel che mio marito ha voluto per una sera,
voglio che gli abbia sempre". Fara' ti adunque suo com-
pare''', e verrai questa mattina a la chiesa; e di quivi ne
verrai a desinare con esso noi; e l'andare e lo stare starà
a te", e potereno ad ogni ora e senza sospetto conve-
nire insieme'S>. Io fui, udendo queste parole, per mo-
3. semplicità: ritorna la parola-chiave per definire Nicla (e si ripensa subito a I,
i: Bua cose: l'una, lasemplicità di messerNicia...). 4. sanza infamia alcuna: sen-
za nostro disonore. È una ripresa da Ligurie, IV, 2: ... e come sanza sua infamia
la può esser tua amica, e con sua grande infamia tua nimica. 5 . qualunque. . . lui:
se per caso ed in qualsiasi momento Dio avesse disposto altrimenti di lui: se,
cioè, lo avesse chiamato a sé. 6. per donna: per moglie. 7. ed avendo... vec-
chio: avendo lei potuto apprezzate la differenza che c'è tra il mio modo di fare
l'amore e quello di Nicla. - Raimondi, Poi, 181, richiama qui un passo della
sesta novella della giornata terza del Decameron: «E conoscendo allora la don-
na quanto più saporiti fossero i basci dello amante che quegli del marito. . . ». 8.
tristizia: malvagità (tristo è cattivo moralmente). 9. per me medesima: se fosse
dipeso da me sola. io. giudicare: ritenere. 1 1 . non sono sufficiente: non ho la
forza, non sono in grado. C'è una contrapposizione, in quel sufficiente, tra in-
dividuo e destino (celeste disposizione). 12. e... bene: e voglio che tu rappre-
senti per me tutta la mia felicità. - Raimondi, Poi., 176, ha accostato la battu-
ta a quella di /!., I, 5: «io ti do a costei marito, amico, tutore, padre; tutti que-
sti nostri beni io commetto in te e a la tua fede gli raccomando». 13. e quel-
lo... sempre: Lucrezia assume a programma, con preciso ricalco di parole, quel-
la che con Ligurie era, tutto sommato, una speranza: E impossibile ... che la vo-
glia che questa notte sia sola (IV, 2). 14. suo compare: come grado di intimità,
il compare era molto più dell'amico e poco meno del parente. 1 5 . starà a te: di-
penderà da te. 16. convenire insieme: trovare l'uno con l'altra.
134 MANDRAGOLA
rirmi per la dolcezza. Non potetti rispondere a la mi-
nima parte di quello che io arei desiderato. Tanto che
io mi truovo el più felice e contento uomo che fussi mai
nel mondo; e se questa felicità non mi mancassi*', o per
morte o per tempo, io sarei più beato che' beati, più
santo che' santi.
LiGURio Io ho gran piacere d'ogni tuo bene, ed ètti in-
tervenuto quello che io ti dissi appunto'*. Ma che fac-
ciàn noi ora ?
CALLIMACO Andian verso la chiesa, perché io le promis-
si d'essere là, dove la verrà lei, la madre ed il dottore.
LiGURio Io sento toccare l'uscio suo: le sono esse, che
escono fuora, ed hanno el dottore drieto.
CALLIMACO Avviànci in chiesa e là aspetteremole.
SCENA QUINTA
Messer Nicla, Lucrezia, Sostrata.
NiciA Lucrezia, io credo che sia bene fare le cose con ti-
more di Dio e non alla pazzeresca'.
LUCREZIA Che s'ha egli a fare^ ora?
NICIA Guarda, come la risponde! La pare un gallo'.
SOSTRATA Non ve ne maravigliate: ella è un poco alte-
rata'.
LUCREZIA Che volete voi dire ?
17. non mi mancassi: non venisse mai meno, come invece accadrà, o per lo scor-
rere del tempo o per il sopravvenire della morte (o per morte o per tempo). 18.
quello... appunto: esattamente quello che ti avevo promesso.
V. I. non alla pazzeresca: non all'impazzata, come fossimo ammattiti. 2.
Che... fare: Cosa dobbiamo fare. 3. La... gallo: E tutta ringalluzzita. Oggi di-
remmo: «Ha alzato la cresta». 4. un poco alterata: un poco fuori di sé, come
chi è reduce da uno choc: in questo caso, la notte con Callimaco. E si pensa
proprio a lui quando, al termine del suo ardente monologo (IV, i), aveva con-
fessato di sentirsi tutto alterare.
ATTO QUINTO 135
NiciA Dico che gli è bene che io vadia innanzi a parlate
al frate e dirli che ti si facci incontro in sull'uscio del-
la chiesa per menarti in santo, perché gli è proprio, sta-
mani, come se tu rinascessi.
LUCREZIA Che non andate ?
NiciA Tu se' stamani molto ardita: ella pareva iersera
mezza morta' !
LUCREZIA E' gli è la grazia vostra!
SOSTRATA Andate a trovare el frate. Ma e' non bisogna':
egli è fuora di chiesa.
NiciA Voi dite el vero.
SCENA SESTA
Frate, Nicla, Lucrezia, Callimaco, Ligurie, Sostrata.
FRATE Io vengo fuora, perché Callimaco e Ligurio
m'hanno detto che el dottore e le donne vengono alla
chiesa'. Eccole.
NiciA Bona dies^ padre!
FRATE Voi séte le benvenute' e buon prò vi faccia, ma-
donna, che Dio vi dia a fare un bel fanciul mastio.
LUCREZIA Dio el voglia.
FRATE E' lo vorrà in ogni modo.
NiciA Veggh'io in chiesa Ligurio e maestro Callimaco?
FRATE Messer sì.
NiciA Accennategli^
5. Ella... mezzamorta: Raimondi, Poi, 174, ricorda, in/4., I, 4: «veggo io Pan-
filo mezzo morto». Ma, ancora una volta, colpisce la perfetta rispondenza in-
terna: Lucrezia, in III, 1 1, aveva proclamato: ... ma io non credo mai essere vi-
va domattina. 6. e' non bisogna: non ce n'è più bisogno.
VI. i. Io... chiesa: La frase è pronunciata tra sé e sé. 2 . Bona dies: Ancora un
rinvio interno, in funzione parodica, al saluto dello stesso Nicla a Callimaco in
II, 2. 3. Voi sete le ben venute: Voi sete e ben venuti, in IV, 5, aveva detto Cal-
limaco ai beffatori riuniti, prima di mettersi in azione. Timoteo replica il salu-
to agli stessi, oltreché al beffato, a beffa conclusa. 4. Accennategli: Fate loro
cenno che vengano qui.
136 MANDRAGOLA
FRATE Venite !
CALLIMACO Dio vi salvi !
NiciA Maestro, toccate la mano qui alla donna mia.
CALLIMACO Volentieri.
NiciA Lucrezia, costui è quello che sarà cagione che noi
aremo uno bastone che sostenga la nostra vecchiezza.
LUCREZIA Io l'ho molto caro; e' vuoisi che sia nostro
compare.
NiciA Or benedetta sia tu! E voglio che lui e Ligurie
venghino stamani a desinare con esso noi.
LUCREZIA In ogni modo.
NiciA E vo' dar loro la chiave della camera terrena, d'in
su la loggia, perché possino tornarsi quivi a loro como-
dità': ch'e' non hanno donne in casa e stanno come be-
stie'.
CALLIMACO Io l'accetto, per usarla quando mi accaggia'.
FRATE Io ho' avere* e danari per la limosina.
NiciA Ben sapete come, domine, oggi vi si manderanno.
LiGURio Di Siro non è uomo' che si ricordi ?
NiciA Chiegga! ciò ch'i' ho è suo. Tu, Lucrezia, quanti
grossi ha' a dare al frate per entrare in santo ?
LUCREZIA Io non me ne ricordo.
NICIA Pure, quanti?
LUCREZIA Dategliene dieci.
NICIA Af f ogaggine ! '" .
FRATE E voi, madonna Sostrata, avete, secondo che mi
pare, messo un tallo in sul vecchio".
SOSTRATA Chi non sarebbe allegra ?
FRATE Andianne tutti in chiesa, e quivi direno l'orazio-
ne ordinaria'^ Dipoi, doppo l'ufizio, ne andrete a de-
5. a loro comodità: secondo il comodo loro. 6. stanno come bestie: vivono, da
scapoli, in condizioni di grande trascuratezza. Anche la vedova, una volta che
muorsi el marito, resta come una bestia, ahandonata da ognuno: cosi almeno ha ar-
gomentato Sostrata, quando si è trattato di persuadere Lucrezia (III, 1 1). 7.
quando mi accaggia: quando mi capiti (d'averne bisogno). 8. lo ho avere: Io de-
vo ricevere. 9. non è uomo: non c'è nessuno, io. Affogaggine! : Letteral-
mente, affogamento: ma sta per: «Accipicchia! ». 11. avete... messo... vecchio:
avete innestato un pollone nuovo su un vecchio tronco: cioè, sembrate ringio-
vanita. Ma in tallo c'è anche un'evidente allusione erotica. 12. l'orazione or-
dinaria: la preghiera che è di rito (per purificare la puerpera).
ATTO QUINTO 137
sinare a vostra posta. - Voi, spettatori, non aspettate
che noi usciam più fuora: l'ufizio è lungo, io mi rimarrò
in chiesa e loro per l'uscio del fianco se n'andranno a
casa. Valete'\
13. Valete: State bene! - Il Martelli, Vers., 274, ricorda la chiusa in A., V, 6:
«o voi non aspettate che costoro eschino fuora. Drento si sposerà e drento si
farà ogni altra cosa che mancassi. Andate, al nome di Dio, e godete! »: e rinvia
poi a quella di C, V, 6: «E voi, spettatori, ve ne potrete andare a casa, perché,
sanza uscir più fuora, si ordineranno le nuove nozze...».
Clizia
Canzone
Quanto sia lieto el giorno,
che le memorie antiche
fa ch'or per voi sien mostre e celebrate^
si vede, perché intorno
tutte le gente amiche
si sono in questa parte^ ragunate.
Noi, che la nostra etate
ne' boschi e nelle selve consumiamo,
venuti ancor qui siamo,
io Ninfa e noi pastori,
e giàm^ cantando insieme e nostri amori.
Chiari giorni e quieti!
Felice e bel paese,
dove del nostro canto el suon s'udìa!
Pertanto, allegri e lieti,
a queste vostre imprese
faren col cantar nostro compagnia,
con si dolce armonia
qual mai sentita più non fu da voi:
e partirenci poi,
io Ninfa e noi pastori,
e tornerenci a' nostri antichi amori.
CANZONE. I . che... celebrate: che concede che per mezzo nostro vengano mes-
se in scena e celebrate vicende del tempo antico. 2. in questa parte: qui, nella
villa di un ospite, attrezzata a teatro. 3. giàm: andiamo. Chi canta, come già
nell'avvio della M. , sono una ninfa e tre pastori.
142 CLIZIA
PROLOGO
PROLOGO Se nel mondo tornassino i medesimi uomini,
come tornano i medesimi casi, non passerebbono mai
cento anni che noi non ci trovassimo un'altra volta in-
sieme, a fare le medesime cose che ora. Questo si dice
perché già in Atene, nobile ed antichissima città in Gre-
cia, fu un gentile uomo al quale, non avendo altri fi-
gliuoli che uno maschio, capitò a sorte una picciola fan-
ciulla in casa, la quale da lui infino alla età di dicias-
sette anni fu onestissimamente allevata. Occorse di poi
che in uno tratto' egli ed il figliuolo se ne innamoror-
no, nella concorrenzia^ del quale amore assai casi e stra-
ni accidenti nacqueno; i quali trapassati^ il figliuolo la
prese per donna'*, e con quella gran tempo felicissima-
mente visse. Che direte voi che questo medesimo caso,
pochi anni sono, seguì ancora in Firenze? E volendo
questo nostro autore l'uno delli dui rappresentarvi, ha
eletto' el fiorentino, indicando che voi siate per pren-
dere maggiore piacere di questo che di quello: perché
Atene è rovinata, le vie le piazze i luoghi non vi si ri-
cognoscono; di poi quelli cittadini parlavano in greco,
e voi quella lingua non intenderesti. Prendete pertan-
to el caso seguito in Firenze, e non aspettate di rico-
noscere o il casato o gli uomini, perché lo autore, per
fuggire carico^ ha convertiti i nomi veri in nomi fitti'.
Vuol bene, avanti che la comedia cominci, voi veggia-
te le persone*, acciò che meglio nel recitarla le cogno-
sciate. - Uscite qua fuora tutti, che '1 popolo vi vegga.
- Eccogli. Vedete come e' ne vengono suavi'! Ponete-
vi costi in fila, l'uno propinquo all'altro. - Voi vedete.
Quel primo è Nicomaco, un vecchio tutto pieno d'amo-
PROLOGO. I. z« uno tratto: nello stesso momento. 2. nella concorrenzia: nel-
la coincidenza. 3. /mp(K5d//: trascorsi. 4. per ^o««a: per moglie. ^. ha elet-
to: ha scelto (lat.: eligere). 6. per fuggire carico: ad evitare responsabilità. 7.
////:: finti, fittizi. 8. le persone: i vari personaggi. 9. suavi: mansueti e genti-
li d'aspetto.
PROLOGO 143
re. Quello che gli è a lato è Cleandro, suo figliuolo e
suo rivale. L'altro si chiama Palamede, amico a Clean-
dro. Quelli dua che segueno, l'uno è Pirro, servo; l'al-
tro Eustachio, fattore: de' quali ciascuno vorrebbe es-
sere marito della dama*" del suo padrone. Quella don-
na che vien poi è Sofronia, moglie di Nicomaco; quel-
la appresso è Doria, sua servente. Di quegli ultimi duoi
che restano, l'uno è Damone, l'altra è Sostrata, sua don-
na. Ecci" un'altra persona, la quale, per avere a venire
ancora da Napoli, non vi si monstrerrà. Io credo che
basti, e che voi gli abbiate veduti assai. - Il popolo vi
licenzia: tornate dentro. -
Questa favola si chiama «Clizia», perché così ha nome
la fanciulla che si combatte*^ Non aspettate di veder-
la, perché Sofronia, che l'ha allevata, non vuole per
onestà che la venga fuora. Pertanto, se ci fussi alcuno
che la vagheggiassi", ara pazienza. E' mi resta a dirvi
come lo autore di questa commedia è uomo molto co-
stumato, e saprebbegli male'"* se vi paressi, nel vederla
recitare, che ci fussi qualche disonestà. Egli non crede
che la ci sia; pure, quando e' paressi a voi, si escusa in
questo modo. Sono trovate'' le commedie per giovare
e per dilettare alli spettatori. Giova veramente assai a
qualunque uomo, e massimamente a' giovanetti, co-
gnoscere la avarizia d'un vecchio, il furore d'uno inna-
morato, l'inganni d'un servo, la gola'* d'un parassito,
la miseria d'un povero, l'ambizione d'un ricco, le lu-
singhe d'una meretrice, la poca fede di tutti gli uomi-
ni - de' quali essempli le commedie sono piene. E pos-
sonsi tutte queste cose con onestà grandissima rappre-
sentare: ma volendo dilettare è necessario muovere gli
spettatori a riso, il che non si può fare mantenendo il
parlare grave e severo, perché le parole che fanno ri-
dere sono o sciocche o iniuriose o amorose; è necessa-
10. della dama: dell'amante; «ganza» (Gaeta) mi pare eccessivo. 11. Ecci:
C'è. 12. che si combatte: che è al centro della contesa. 13. che la vagheggiassi:
che desiderasse corteggiarla. 14. saprebbegli male: gli riuscirebbe sgradito (gli
sarebbe amaro, letteralmente). 15. Sono trovate: S'inventano (e vengono scrit-
te). 1 6. ^^o/Ìj: l'ingordigia.
144 CLIZIA
rio per tanto rappresentare persone sciocche, maledi-
che^' o innamorate. E perciò quelle commedie che so-
no piene di queste tre qualità di parole sono piene di
risa; quelle che ne mancano non truovano chi con il ri-
dere le accompagni.
Volendo adunque questo nostro autore dilettare e fare
in qualche parte gli spettatori ridere, non inducendo'^
in questa sua commedia persone sciocche ed essendosi
rimasto^' di dire male, è stato necessitato ricorrere alle
persone innamorate ed alli accidenti che nello amore
nascano. Dove se fia alcuna cosa non onesta, sarà in
modo detta che queste donne potranno sanza arrossire
ascoltarla. Siate contenti adunque prestarci gli orecchi
benigni; e se voi ci satisfarete ascoltando^", noi ci sfor-
zeremo recitando di satisfare a voi.
17. malediche: maldicenti. 18. non inducendo: non introducendo, non met-
tendo in scena. 19. essendosi rimasto: avendo deciso di trattenersi. 20. ascol-
tando: prestandoci intera la vostra attenzione nell'ascoltare.
ATTO PRIMO
SCENA PRIMA
Palamede, Cleandro.
PALAMEDE Tu esci SI a buonora di casa ?
CLEANDRO Tu donde vieni si a buonora ?
PALAMEDE Da fare una mia faccenda.
CLEANDRO Ed io vo a farne un'altra, o, a dir meglio, a
cercarla di fare, perché, s'io la farò, non ne ho certez-
za alcuna. ^
PALAMEDE E ella cosa che si possa dire ?
CLEANDRO Non so; ma io so bene che la è cosa che con
difficultà si può fare.
PALAMEDE Orsù, io me ne voglio ire, che io veggo come
lo stare accompagnato t'infastidisce; e per questo io ho
sempre fuggito la pratica tua', perché sempre ti ho tro-
vato mal disposto e fantastico^
CLEANDRO Fantastico no, ma innamorato sì.
PALAMEDE Togli ! tu mi racconci la cappellina in capo ! '.
CLEANDRO Palamede mio, tu non sai mezze le messe*. Io
sono sempre vivuto disperato ed ora vivo più che mai.
PALAMEDE Come COSI?
CLEANDRO Quello ch'io t'ho celato per lo addrieto', io ti
voglio manifestare ora, poiché mi sono redutto al ter-
mine che mi bisogna soccorso da ciascuno.
PALAMEDE Se io stavo mal volentieri teco in prima, io
starò peggio ora, perché io ho sempre inteso, che tre
sorte di uomini si debbono fuggire: cantori, vecchi ed
I. 1. ho sempre... tua: ho sempre evitato di frequentarti. 2. fantastico: lu-
natico, capriccioso. 3. mi racconci . in capo: mi assesti il berrettino in capo:
cioè, rimetti le cose al loro posto, con questa precisazione. 4. tu non sai... le
messe: non sai nemmeno la metà di quanto dovresti sapere. 5. per lo adrieto:
in passato.
146 CLIZIA
innamorati. Perché, se usi con uno cantore e narrigli
uno tuo fatto, quando tu credi che e' t'oda, e' ti spic-
ca uno «ut re mi fa sol la», e gorgogliasi una canzonet-
ta in gola. Se tu sei con uno vecchio, e' ficca el capo in
quante chiese e' truova e va a tutti gli altari a borbot-
tare uno paternostro. Ma di questi duoi lo innamorato
è peggio, perché non basta che, se tu gli parli, e' pone
una vignai che e' t'empie gli orecchi di rammarichìi e
di tanti suo' affanni che tu sei sforzato a moverti a com-
passione; perché' s'egli usa con una cantoniera^ o ella
lo assassina troppo, o ella lo ha cacciato di casa, sem-
pre vi è qualcosa che dire; s'egli ama una donna da be-
ne, mille invidie, mille gelosie, mille dispetti lo pertur-
bano: mai non vi manca cagione di dolersi. Pertanto,
Cleandro mio, io userò tanto teco' quanto tu arai biso-
gno di me; altrimenti io fuggirò questi tuoi dolori.
CLEANDRO lo ho tenute occulte queste mie passioni infi-
no ad ora, per coteste cagioni, per non essere fuggito co-
me fastidioso o uccellato'" come ridiculo; perché io so
che molti, sotto spezie di carità'', ti fanno parlare e poi
ti ghignano drieto. Ma, poiché ora la fortuna m'ha con-
dotto in lato'^ che mi pare avere pochi rimedii, io te lo
voglio conferire", per sfogarmi in parte e anche perché,
se mi bisognassi il tuo aiuto, che tu me lo presti.
PALAMEDE lo sono parato, poi che tu vuoi, ad ascoltar
tutto e cosi a non fuggire né disagi né pericoli per aiu-
tarti.
CLEANDRO lo lo SO. lo crcdo che tu abbia notizia di quel-
la fanciulla che noi ci abbiamo allevata.
PALAMEDE I' l'ho veduta. Donde venne?
CLEANDRO Dirottelo. Quando, dodici anni sono, nel mil-
le quattrocento novantaquattro, passò il re Carlo''' per
6. e' pone una vigna: è occupato in tutt'altri pensieri, che sono d'amore, e non
ti presta la minima attenzione, j. perché: il peggio è ch'egli (contrapposto, per
sottinteso, al non basta di poco sopra). 8. cantoniera: donna da strada. 9.
userò... teco: ti frequenterò, io. uccellato: messo alla berlina. 1 1 . sotto spe-
zie di carità: col pretesto di compassionarti. 12. in lato: ad un tale frangen-
te. 13. conferire: riferire, raccontate per filo e per segno. 14. ilre Carlo: Car-
lo Vili (1470-98), re di Francia, successe al padre. Luigi XI, nel 1483.
ATTO PRIMO 147
Firenze, che andava con uno grande essercito alla im-
presa del Regno'^ alloggiò in casa nostra uno gentile
uomo della compagnia di monsignor di Fois^^ chiama-
to Beltramo di Guascogna. Fu costui da mio padre ono-
rato ed egli, perché uomo da bene era, riguardò^^ ed
onorò la casa nostra; e dove molti feciono una inimici-
zia con quelli francesi'^ avevano in casa, mio padre e
costui contrassono una amicizia grandissima.
PALAMEDE Voi avesti una gran ventura più che gli altri,
perché quelli che furono messi in casa nostra ci fecio-
no infiniti mali.
CLEANDRO Credolo, ma a noi non intervenne cosi. Que-
sto Beltramo ne andò con il suo re a Napoli, e come tu
sai, vinto che Carlo ebbe quel regno, fu constretto a
partirsi perché '1 papa, imperadore, viniziani e duca di
Milano se gli erano conlegati contro''. Lasciate per tan-
to parte delle sue gente a Napoli, con il resto se ne ven-
ne verso Toscana; e, giunto a Siena, perch'egli intese
la lega avere uno grossissimo essercito sopra il Taro, per
combatterlo allo scendere de' monti, gli parve da non
perdere tempo in Toscana; e perciò, non per Firenze,
15. del Regno: sollecitato da fuorusciti napoletani, sfuggiti alle feroci repres-
sioni ordinate da Ferdinando I d'Aragona dopo la «congiura dei baroni», Car-
lo Vili pensò di rivendicare l'eredità angioina sul regno di Napoli. Assicurata-
si la neutralità dell'imperatore e dei re d'Inghilterra e d'Aragona, mediante gli
onerosi trattati di Senlis, di Etaples e di Barcellona (1493), e procacciatosi l'ap-
poggio del duca di Milano, Ludovico Sforza, Carlo scese in Italia conquistan-
do il regno di Napoli con facilità divenuta proverbiale. 16. monsignor di Pois:
Jean de Foix, conte di Narbonne e di Etampes, comandava cinquanta lance al
seguito di Carlo VIII nella sua spedizione in Italia. Aveva sposato Maria, so-
rella maggiore di Luigi, duca d'Orleans e poi re di Francia col nome di Luigi
XII. Da questo matrimonio nacque il celebre Gaston, duca di Nemours. Mori
intorno al 1500. 17. riguardò: usò ogni riguardo, rispetto. 18. francesi: sott.:
che. 19. se gli erano conlegati contro: il 31 marzo 1495 venne conclusa a Ve-
rona una lega contro il re di Francia, ormai padrone del regno di Napoli: ad es-
sa aderirono, oltre a quella repubblica, il papa, il duca di Milano, l'imperatore
e il re d'Aragona, mentre Ferrara e Firenze rifiutavano ogni appoggio. I con-
federati misero insieme un esercito, al comando di Francesco Gonzaga, mar-
chese di Mantova, costringendo Carlo VIII a ritirarsi da Napoli. A Fornovo il
6 luglio 1495 ebbe luogo uno scontro fra i due eserciti assai impari per forze e,
sebbene le sorti della battaglia non fossero affatto decise, Carlo Vili abban-
donò nottetempo il campo, ritirandosi verso il Piemonte. Rientrato in Francia,
si preparava a un'altra spedizione, quando mori di apoplessia il 7 aprile 1498.
148 CLIZIA
ma per la via di Pisa e di Pontremoli passò in Lombar-
dia^". Beltramo, sentito il romore de' nimici e dubitan-
do, come intervenne, non avere a fare la giornata^' con
quelli, avendo in tra la preda fatta a Napoli questa fan-
ciulla, che allora doveva avere cinque anni, d'una bel-
la aria" e tutta gentile, deliberò di tòrla d'inanzi a' pe-
ricoli; e per uno suo servidore la mandò a mio padre,
pregandolo che per suo amore dovessi tanto tenerla che
a più commodo tempo mandassi per lei; né mandò a di-
re se la era nobile o ignobile": solo ci significò che la si
chiamava Clizia. Mio padre e mia madre, perché non
avevano altri figliuoli che me, subito se ne innamoro-
rono...
PALAMEDE Innamorato te ne Sarai tu!
OLEANDRO Lasciami dire, -...e come loro cara figliuola
la trattorono. Io, che allora avevo dieci anni, mi co-
minciai, come fanno e fanciulli, a trastullare seco, e le
posi uno amore estraordinario, il quale sempre con la
età crebbe; di modo che, quando ella arrivò alla età di
dodici anni, mio padre e mia madre cominciorono ad
avermi gli occhi alle mani^'', in modo che, se io solo gli
parlavo, andava sotto sopra la casa. Questa strettezza",
perché sempre si desidera più ciò che si può avere me-
no, raddoppiò lo amore ed hammi fatto e fa tanta guer-
ra ch'io vivo con più affanni che s'io fussi in inferno.
PALAMEDE Beltramo mandò mai per lei ?
CLEANDRO Di cotestui non si intese mai nulla: crediamo
che morissi nella giornata del Taro".
PALAMEDE Cosi dovette essere. Ma dimmi: che vuoi tu
fare ? a che termine sei ? vuo'la tu tòr per moglie o vor-
restila per amica? che t'impedisce, avendola in casa?
può essere che tu non ci abbia rimedio ?
20. ma per la via... passò in ^ ombardia: Carlo Vili risali da Pisa a Sarzana e va-
licò l'Appennino al passo della Cisa, ritrovando gli avversari in campo ad una
trentina di chilometri, a Fornovo, cui si accenna sotto (cfr. nota 26). 2 1 . a fa-
re la giornata: a scontrarsi in battaglia campale. 22. d'una bella aria: bella
d'aspetto. 23. ignobile: di natali bassi. 24. ad avermi gli occhi alle mani: a
controllarmi a vista: come si fa con un ladro, che non s'ha da perder d'oc-
chio. 25. Questa strettezza: L'impaccio che mi veniva da questa rigida sorve-
glianza. 26. nella giornata del Taro: nella battaglia campale di Fornovo.
ATTO PRIMO 149
OLEANDRO lo t'ho a dire dell'altre cose, che saranno con
mia vergogna, per ciò ch'io voglio che tu sappi ogni
cosa.
PALAMEDE DÌ' pure.
OLEANDRO «E' mi vien voglia - disse colei - di ridere,
ed ho male! » Mio padre se n'è innamorato anch'egli.
PALAMEDE Chi, Nicomaco?
OLEANDRO Nicomaco, sì.
PALAMEDE Puollo fare Iddio ?
OLEANDRO E' lo può fare Iddio e 'santi!
PALAMEDE Oh ! questo è il più bel caso ch'io sentissi mai:
e' non se ne guasta se non una casa". Come vivete in-
sieme ? Che fate ? A che pensate ? Tua madre sa queste
cose?
OLEANDRO E' lo sa mia madre, le fante, e famigli. E' gli
è una tresca el fatto nostro^*!
PALAMEDE Dimmi, infine: dove è ridotta la cosa?
OLEANDRO Dirottelo. Mio padre per moglie, quando be-
ne e' non ne fussi innamorato, non me la concedereb-
be mai, perché è avaro ed ella è senza dota. Dubita an-
che che la non sia ignobile. Io per me la torrei per mo-
glie, per amica, ed in tutti quelli modi ch'io la potessi
avere. Ma di questo non accade ragionare ora; solo ti
dirò dove noi ci troviamo.
PALAMEDE lo l'arò caro.
OLEANDRO Tosto che mio padre si innamorò di costei,
che debbe essere circa uno anno, e desiderando di ca-
varsi questa voglia che lo fa proprio spasimare, pensò
che non c'era altro rimedio che maritarla ad uno che
poi gliene accomunassi": perché tentare d'averla prima
che maritata gli debbe parere cosa impia e brutta; e,
non sapendo dove si gittate, ha eletto, per il più fida-
to a questa cosa, Pirro, nostro servo; e menò tanta se-
greta questa sua fantasia, che ad uno pelo la fu per con-
27. e' non... una casa: credo che il senso di questa battuta sia, ironicamente: «Il
minimo che può succedere è che vada in rovina tutta una famiglia, un casa-
to». 28. egli è... nostro: le nostre faccende sono di dominio pubblico: come
pubblica è una tresca, danza popolare collettiva. 29. gliene accomunassi: glie-
ne facesse parte, come di un bene comune.
150 CLIZIA
dursP", prima che altri se ne accorgessi. Ma Sofronia,
mia madre, che prima un pezzo'' dello innamoramento
si era avveduta, scoperse questo agguato e con ogni in-
dustria, mossa da gelosia ed invidia, attende a guasta-
re". Il che non ha potuto far meglio, che mettere in
campo un altro marito e biasimare quello"; e dice vo-
lerla dare ad Eustachio, nostro fattore. E benché Ni-
comaco sia di più autorità, non di meno l'astuzia di mia
madre, gli aiuti di noi altri, che senza molto scoprirci
gli facciamo, ha tenuta la cosa in ponte''* più settima-
ne. Tuttavia Nicomaco ci serra forte" ed ha delibera-
to, a dispetto di mare e di vento, fare oggi questo pa-
rentado, e vuol ch'e' la meni questa sera; ed ha tolto a
pigione quella casetta dove abita Damone, vicino a noi,
e dice che gliene vuole comperare, fornirla di masseri-
zie, aprirgli una bottega e farlo ricco.
PALAMEDE A te che importa che l'abbia più Pirro che
Eustachio ?
CLEANDRO Come, che m'importa ? Questo Pirro è il mag-
giore ribaldello'* che sia in Firenze, perché, oltre ad
averla pattuita con mio padre, è uomo che mi ebbe sem-
pre in odio, di modo ch'io vorrei che l'avessi più tosto
el diavol dell'inferno. Io scrissi ieri al fattore che ve-
nissi a Firenze: maravigliomi che non venne iersera. Io
voglio star qui a vedere s'io lo vedessi comparire. Tu
che farai ?
PALAMEDE Andrò a fare una mia faccenda.
CLEANDRO Va' in buonora.
PALAMEDE Addio. Temporeggiati" al meglio puoi, e, se
vuoi cosa alcuna, parla.
30. per condursi: per concludersi, per andare in porto. 3 1 . prima un pezzo: già
da un bel po' di tempo. 32. attende a guastare: si impegna con ogni forza a
mandar all'aria il disegno del consorte. 33. quello: l'altro candidato alle noz-
ze, cioè Pirro. 34. in ponte: in sospeso. 35. ci serra forte: ci mette alle stret-
te, con la sua ostinazione. 36. ribaldello: briccone, truffatore. 37. Tem-
poreggiati: Guadagna tempo.
ATTO PRIMO 151
SCENA SECONDA
Cleandro.
CLEANDRO Veramente chi ha detto che lo innamorato ed
il soldato si somigliono, ha detto il vero. El capitano
vuole che i suo' soldati sien giovani; le donne vogliono
che i loro amanti non siano vecchi. Brutta cosa vedere
un vecchio soldato^ bruttissima è vederlo innamorato.
I soldati temono lo sdegno del capitano; gli amanti, non
meno, quello delle lor donne. I soldati dormono in ter-
ra allo scoperto; gli amanti, su per muricciuoli^ I sol-
dati perseguano infino a morte i lor nimici; gli amanti,
i lor rivali. I soldati, per la oscura notte, nel più gelato
verno vanno per il fango, esposti alle acque ed a' ven-
ti, per vincere una impresa che faccia loro acquistare la
vittoria; gli amanti, per simil' vie e con simili e mag-
gior' disagi, di acquistare* la loro amata cercano. Ugual-
mente nella milizia e nello amore è necessario il secre-
to, la fede e l'animo. Sono e pericoli uguali ed il fine il
più delle volte è simile: il soldato more in una fossa, lo
amante more disperato. Così dubito io che non inter-
venga a me: ed ho la dama in casa, veggola quanto io
voglio, mangio sempre seco; il che credo che mi sia mag-
gior dolore, perché quanto è più propinquo l'uomo ad
uno suo desiderio, più lo desidera, e, non lo avendo,
maggior dolore sente. A me bisogna pensare per ora di
sturbare queste nozze; di poi nuovi accidenti mi arre-
cheranno nuovi consigli e nuova fortuna''. - E egli pos-
sibile che Eustachio non venga di villa ? E scrissigli che
ci fussi infino iersera' ! Ma io lo veggo spuntare là, da
quel canto. Eustachio! o Eustachio!
II. I. soldato: nei panni di un soldato. 2. su per muricciuoli: sui quali s'iner-
picano per approssimarsi all'amata. 3. acquistare: conquistare, a,, fortuna:
come precisa il Martelli, il monologo è esemplato su Ovidio, Amores, I, 9, i-
30. 5. infino iersera: fino da ieri sera.
152 CLIZIA
SCENA TERZA
Eustachio, Cleandro.
EUSTACHIO Chi mi chiama? O Cleandro!
CLEANDRO Tu hai penato tanto a comparire.
EUSTACHIO Io venni infino iersera, ma io non mi sono
appalesato' perché poco innanzi che io avessi la tua let-
tera ne avevo avuta una da Nicomaco, che mi impone-
va uno monte di faccende. E perciò io non volevo ca-
pitargli innanzi se prima io non ti vedevo.
CLEANDRO Hai ben fatto. Io ho mandato per te, perché
Nicomaco sollecita queste nozze di Pirro; le quale tu
sai non piacciano a mia madre, perché, poi che di que-
sta fanciulla si ha a fare bene ad uno uomo nostro, vor-
rebbe che la si dessi a chi la merita più. Ed in vero le
tue condizioni sono altrimenti fatte^ che quelle di Pir-
ro, che, a dirlo qui fra noi, e' gli è uno sciagurato.
EUSTACHIO Io ti ringrazio; e veramente io non avevo il
capo a tòr donna, ma, poi che tu e madonna volete, io
voglio ancora io. Vero è ch'io non vorrei anche arre-
carmi nimico' Nicomaco, perché poi alla fine el padro-
ne è egli.
CLEANDRO Non dubitare, perché mia madre ed io non
siamo per mancarti, e ti trarremo'* d'ogni pericolo. Io
vorrei bene che tu ti rassettassi un poco. Tu hai cote-
sto gabbano che ti cade di dosso, hai el tocco' polvero-
so, una barbacela. Va' al barbieri, lavati el viso, seto-
lati' cotesti panni, acciò che Clizia non ti abbia a refu-
tare per porco'.
EUSTACHIO Io non sono atto a rimbiondirmi*.
III. I. appalesato: fatto vedere. 2. altrimenti fatte: di un'altra levatura. 3.
arrecarmi nimico: rendermi nemico. 4. // trarremo: ti toglieremo. 5. tocco:
berretto. 6. setolati: spazzolati. 7. per porco: perché sei sporco. 8. rim-
biondirmi: farmi bello.
ATTO PRIMO 153
CLEANDRO Va', fa' quel ch'io ti dico, e poi te ne vai in
quella chiesa vicina e quivi mi aspetta. Io me ne andrò
in casa, per vedere a quel che pensa el vecchio.
Canzone
Chi non fa prova, Amore,
della tua gran possanza, indarno spera
di far mai fede vera
qual sia del Cielo il più alto valore;
né sa come si vive insieme e more,
come si segue el danno\ il ben si fugge,
come s'ama se stesso
men d'altrui, come spesso
paura e speme i cori adiaccia^ e strugge:
né sa come ugualmente uomini e dèi
paventan* l'arme di che armato sei.
CANZONE. I. si segue el danno: si persegue la propria rovina. 2. adiaccia: ag-
ghiaccia. 3. paventan: temono fortemente.
ATTO SECONDO
SCENA PRIMA
Nicomaco.
NICOMACO Che domine' ho io stamani intorno agli oc-
chi? E' mi pare avere e bagliori, che non mi lasciono
vedere lume, e iersera io arei veduto el pelo nell'uovo.
Are' io beuto troppo? Forse che si. O Dio, questa vec-
chiaia ne viene con ogni mal mendo^ ! Ma io non sono
ancora sì vecchio, ch'io non rompessi una lancia con
Clizia. E egli però possibile che io mi sia innamorato a
questo modo? E quello che è peggio, mógliama^ se ne
è accorta ed indovinasi perch'io voglia dare questa fan-
ciulla a Pirro. Infine, e' non mi va solco diritto\ Pure,
io ho a cercare di vincere la mia. - Pirro! o Pirro! vien
giù, esci fuora!
SCENA SECONDA
Pirro, Nicomaco.
PIRRO Eccomi !
NICOMACO Pirro, io voglio che tu meni' questa sera mo-
glie in ogni modo.
I. I. Che domine: Che diamine, che cosa mai. 2. con ogni mal mendo: con
ogni cattivo difetto (menda viene dall'omonimo latino, d'etimo incerto). 3.
mogliama: mia moglie. 4. non mi va solco diritto: non me ne va una dritta.
n. I. meni: prenda.
ATTO SECONDO 155
PIRRO Io la merrò ora.
NICOMACO Adagio un poco. A cosa a cosa, disse '1 Mir-
ra^ E' bisogna anche far le cose in modo che la casa
non vada sotto sopra. Tu vedi: mógliama non se ne con-
tenta, Eustachio la vuole anch'egli, parmi che Clean-
dro lo favorisca, e' ci si è volto contro' Iddio e '1 dia-
volo. Ma sta' tu pur forte nella fede di volerla. Non du-
bitare, ch'io varrò per tutti loro'*, perché, al peggio fa-
re, io te la darò a loro dispetto; e chi vuole ingrognare,
ingrogni'.
PIRRO Al nome di Dio, ditemi quel che voi volete che io
facci.
NICOMACO Che tu non ti parta di quinci oltre, acciò che
s'io ti voglio, che tu sia presto^
PIRRO Così farò; ma mi era scordato dirvi una cosa.
NICOMACO Quale ?
PIRRO Eustachio è in Firenze.
NICOMACO Come, in Firenze? Chi te l'ha detto?
PIRRO Ser Ambruogio, nostro vicino in villa; e' mi dice
che entrò dentro alla porta iersera con lui.
NICOMACO Come, iersera? Dove è egli stato stanotte?
PIRRO Chi lo sa ?
NICOMACO Sia, in buonora; va' via, fa' quello ch'io t'ho
detto. - Sofronia ara mandato per Eustachio e questo
ribaldo ha stimato più le lettere sue che le mie, che gli
scrissi che facessi mille cose che mi rovinano, se le non
si fanno. Al nome di Dio, io ne lo pagherò^ Almeno sa-
pessi io dove e' gli è e quel che fa. Ma ecco Sofronia
che esce di casa.
2. A cosa... 'l Mirra: È un wellerismo: «Ogni cosa al momento giusto». 3. e'
ci si è vòlto contro: si sono messi contro di noi. 4. varrò per tutti loro: saprò
fronteggiarli validamente, saprò tenere loro testa. ^. echi vuole... ingrogni: e
chi vuole mettere il muso, lo metta (ingrugnare vale fare il grugno). 6. che...
presto: che tu sia pronto e celere. 7. ne lo pagherò: gliela farò pagar cara.
156 CLIZIA
SCENA TERZA
Sofronia, Nicomaco.
SOFRONIA (Io ho rinchiusa Clizia e Doria in camera. E'
mi bisogna guardare questa povera fanciulla dal fi-
gliuolo, dal marito, da' famigli: ognuno l'ha posto il
campo intorno'.)
NICOMACO Ove si va?
SOFRONIA Alla messa.
NICOMACO Ed è per carnesciale^ ! pensa quel che tu farai
di quaresima.
SOFRONIA Io credo che s'abbia a fare bene d'ogni tem-
po; e tanto è più accetto farlo in quelli tempi che gli al-
tri fanno male. Ma e' mi pare che a fare bene noi ci fac-
ciamo da cattivo lato\
NICOMACO Come ? che vorrestu che si facessi?
SOFRONIA Che non si pensassi a chiacchiere, e poi che
noi abbiamo in casa una fanciulla buona, d'assai e bel-
la, abbiamo durato fatica ad allevalla, che si pensi di
nolla gittare or via; e, dove prima ogni uomo ci lodava,
ogni uomo ora ci biasimerà, veggendo che noi la diano
ad uno ghiotto"* senza cervello che non sa far altro che
un poco radere, che è un'arte che non ne viverebbe una
mosca'.
NICOMACO Sofronia mia, tu erri. Costui è giovane, di
buono aspetto e, se non sa, è atto ad imparare; vuol be-
ne a costei. Che son tre gran parte^ in uno marito: gio-
ventù, bellezza ed amore. A me non pare che si possa
ire più là, né che di questi partiti se ne truovi ad ogni
uscio. S'è' non ha roba, tu sai che la roba viene e va; e
in. I. /' ha posto... intomo: «le ha posto l'assedio» (Gaeta). 2. Edè percar-
nesciale: E siamo solo a carnevale. 3. ci facciamo... lato: incominciamo dalla
parte sbagliata, incominciamo male. 4. ghiotto: scioperato e poco di buo-
no. 5. che... mosca: i proventi del mestiere (arte) di barbiere non gli baste-
rebbero certo per vivere. 6. tre gran parte: tre grandi qualità.
ATTO SECONDO 157
costui è uno di quegli che è atto a farne venire. Ed io
non lo abbandonerò, perch'io fo pensiero, a dirti il ve-
ro, di comperarli quella casa, che per ora ho tolta a pi-
gione da Damone nostro vicino: ed empierolla di mas-
serizie, e di più, quando mi costassi quattrocento fio-
rini, per metterliene...
SOFRONIA Ah, ah, ah!
NicoMACO Tu ridi ?
SOFRONIA Chi non riderebbe ? dove liene vuoi tu met-
tere?
NICOMACO Sì, che vuoi tu dire ? - . . . per metterliene in
su una bottega^ non sono per guardarvi*.
SOFRONIA E egli possibile però che tu voglia con questo
partito strano' tórre al tuo figliuolo più ch'e' non si con-
viene, e dare a costui più ch'e' non merita? Io non so
che mi dire. Io dubito che non ci sia altro sotto.
NICOMACO Che vuoi tu che ci sia ?
SOFRONIA Se ci fussi chi non lo sapessi, io glielo direi;
ma, perché tu lo sai, io non te lo dirò.
NICOMACO Che so io ?
SOFRONIA Lasciamo ire. Che ti muove a darla a costui?
Non si potrebbe, con questa dote o con minore'", ma-
ritarla meglio ?
NICOMACO Sì, credo. Non di meno, e' mi muove l'amo-
re ch'io porto all'una ed all'altro, che, avendoceli alle-
vati tutti a duoi, mi pare da benificarli tutti a duoi.
SOFRONIA Se cotesto ti muove, non ti hai tu ancora al-
levato Eustachio, tuo fattore ?
NICOMACO Sì, ho. Ma che vuoi tu che la faccia di cote-
stui", che non ha gentilezza veruna, ed è uso a stare in
villa fra' buoi e tra le pecore ? O ! se noi gliene dessi-
mo, la si morrebbe di dolore.
SOFRONIA E con Pirro si morrà di fame. Io ti ricordo che
le gentilezze delli uomini consistono in avere qualche
7. per metterliene in su « una bottega: tutto questo scambio di battute è basato
sull'ambiguità di quel mettere, che in uno dei due usi ha valore di metafora ero-
tica. 8. non sono per guardarvi: sono disposto a non badare a spese. 9. partito
strano: proposito inconsueto, fuori della norma, io. o con minore: o anche con
una dote minore. 11. che la faccia di cotestui: che la dia in moglie a costui.
158 CLIZIA
virtù, sapere fare qualche cosa, come sa Eustachio, che
è uso alle faccende in su' mercati, a fare masserizia, ad
avere cura delle cose d'altri e delle sua; ed è uno uomo
che viverebbe in su l'acqua'^: tanto che tu sai che gì' ha
un buono capitale. Pirro, dall'altra parte, non è mai se
non in sulle taverne, su pe' giuochi, un cagapensieri''
che morrebbe di fame nello Altopascio'\
NICOMACO Non ti ho io detto quello che io li voglio
dare?
SOFRONIA Non ti ho io risposto, che tu lo getti via? Io
ti concludo questo, Nicomaco, che tu hai speso in nu-
trire costei ed io ho durato fatica in allevarla; e per que-
sto avendoci io parte, io voglio ancora io intendere co-
me queste cose hanno ad andare, o io dirò tanto male
e commetterò tanti scandoli che ti parrà essere in mal
termine, che non so come tu ti alzi el viso. Va', ragio-
na di queste cose con la maschera''.
NICOMACO Che mi di' tu ? se' tu impazata ? Or mi fa' tu
venir voglia di dargliene** in ogni modo; e, per cotesto
amore, voglio io che la meni stasera: e merralla, se ti
schizzassino gli occhi.
SOFRONIA O e' la merrà, o e' non la merrà.
NICOMACO Tu mi minacci di chiacchiere: fa' ch'io non
dica''. Tu credi forse che io sia cieco, e che io non co-
nosca e giuochi di queste tua bagatelle ? Io sapevo be-
ne che le madre volevano bene a' figliuoli, ma non cre-
devo che le volessino tenere le mani'* alle loro disonestà.
SOFRONIA Che di' tu ? che cosa è disonesta ?
NICOMACO Deh ! non mi far dire. Tu m'intendi ed io t'in-
tendo. Ognuno di noi sa a quanti di è san Biagio". Fac-
12. viverebbe in su l'acqua: saprebbe cavarsela anche in situazioni dispera-
te. 13. cacapensieri: vanerello, buono a nulla. 14. nello Altopascio: le terre
d'Altopascio, nel Lucchese, erano note per essere particolarmente uberto-
se. 15. ragiona... con la maschera: il senso è: «Abbi il pudore di coprirti il vi-
so nel dire simili scempiaggini». 16. dargliene: di dar Clizia in moglie a Pir-
ro, ij. fa' ch'io non dica: non farmi parlare. 18. le volessino tenere le mani:
volessero prestar loro mano, farsi loro complici. 19. Ognuno... san Biagio: Mo-
do di dire corrente per: «Sappiamo tutti come stanno le cose». La festa di San
Biagio (3 febbraio) era popolarissima.
ATTO SECONDO 159
damo, per tuo fé', le cose d'accordo, che se noi en-
triamo in cetere^", noi sareno la favola del popolo.
SOFRONIA Entra in che cetere tu vuoi: questa fanciulla
non s'ha a gittar via, o io manderò sotto sopra, non che
la casa, Firenze.
NICOMACO Sofronia, Sofronia, chi ti pose questo nome
non sognava: tu se' una soffiona^' e se' piena di vento.
SOFRONIA Al nome d'Iddio, io voglio ire alla messa. Noi
ci rivedreno.
NICOMACO Odi un poco. Sarebbeci modo a raccapezzare"
questa cosa, e che noi non ci facessimo tenere pazzi ?
SOFRONIA Pazzi no, ma tristi" si.
NICOMACO Ei ci sono in questa terra tanti uomini dab-
bene, noi abbiamo tanti parenti, e' ci sono tanti buoni
religiosi! Di quello che noi non siamo d'accordo noi,
domandianne loro, e per questa via o tu o io ci sgare-
reno".
SOFRONIA Che ? vogliamo noi cominciare a bandire" que-
ste nostre pazzie ?
NICOMACO Se noi non vogliamo tórre amici o parenti,
togliamo uno religioso, e non si bandiranno; e rimet-
tiamo in lui questa cosa in confessione".
SOFRONIA A chi andremo ?
NICOMACO E' non si può andare ad altri che a fra' Ti-
moteo, che è nostro confesserò di casa ed è uno sante-
rello" ed ha fatto già qualche miracolo.
SOFRONIA Quale ?
NICOMACO Come quale ? Non sai tu che per le sue ora-
zioni mona Lucrezia di messer Nicia Calfucci, che era
sterile, ingravidò^*?
20. entriamo in cetere: caschiamo a parlare di cose inutili [cetere è il lat. coetera,
gli altri e minori argomenti, che di solito er^no praeterita, passati sotto silenzio,
tralasciati). 2 1 . soffiona: presuntuosa, boriosa (soffione è la canna di ferro per
ravvivare il fuoco col soffio: qui la forma aggettivale è assunta in senso figura-
to). 22. raccapezzare: rappezzate, riaccomodare. 23. tristi: d'animo malva-
gio, pieni di cattive intenzioni. 24. ci sgarereno: ci caveremo d'inganno, ci
smagheremo. 25. bandire: rendere di dominio pubblico, come se le annun-
ciassimo per bando. 26. in confessione: sotto il segreto confessionale. 27.
santerello: un mezzo santo. 28. Non sai tu... ingravidò: Il riferimento è alla Al.:
una sorta di ammicco d'intesa tra due diverse occasioni teatrali.
l6o CLIZIA
SOFRONIA Gran miracolo, un frate fare ingravidare una
donna! Miracolo sarebbe se una monaca la facessi in-
gravidare ella !
NICOMACO E egli possibile che tu non mi attraversi sem-
pre la via con queste novelle ?
SOFRONIA Io voglio ire alla messa, e non voglio rimette-
re le cose mia in persona".
NICOMACO Orsù, va' e torna: io ti aspetterò in casa. (Io
credo che sia bene non si discostare molto, perché non
trafugassino Clizia in qualche lato.)
SCENA QUARTA
Sofronia.
SOFRONIA Chi conobbe Nicomaco uno anno fa e lo pra-
tica ora\ ne debbe restare maravigliato, considerando
la gran mutazione che gì' ha fatta, perch'e' soleva es-
sere uno uomo grave, resoluto, respettivo^ dispensava
il tempo suo onorevolmente: e' si levava la mattina di
buonora, udiva la sua messa, provedeva al vitto del gior-
no; dipoi, s'egli aveva faccenda in piazza, in mercato,
o a' magistrati, e' le faceva; quanto che no, o e' si ridu-
ceva' con qualche cittadini tra ragionamenti onorevoli,
o e' si ritirava in casa nello scrittoio'', dove raguagliava
suo scritture', riordinava suoi conti; di poi piacevol-
mente con la sua brigata desinava; e, desinato, ragio-
nava con il figliuolo, ammunivalo, davagli a conoscere
gì' uomini, e con qualche essemplo antico e moderno
gl'insegnava vivere. Andava di poi fuora, consumava
29. rimettere... in persona: affidate a nessuno il compito di curare i miei inte-
ressi. Voglio, cioè, riprendere io stessa il discorso su questo matrimonio.
IV. I. lo pratica ora: lo frequenta ora. 2. respettivo: rispettoso delle circo-
stanze, prudente: l'opposto di impetuoso. 3. si riduceva: si conduceva, si in-
tratteneva con. 4. scrittoio: studio. 5. raguagliava sue scritture: riordinava,
aggiornava le sue carte, i suoi conti.
ATTO SECONDO l6l
tutto il giorno o in faccende o in diporti gravi ed one-
sti. Venuta la sera, sempre l'Avemaria lo trovava in ca-
sa: stavasi un poco con esso noi al fuoco, s'è' gli era di
verno; di poi se n'entrava nello scrittoio a rivedere le
faccende sue; alle tre ore si cenava allegramente. Que-
sto ordine* della sua vita era uno essemplo a tutti gli al-
tri di casa, e ciascuno si vergognava non lo imitare. E
così andavano le cose ordinate e liete. Ma di poi che gli
entrò questa fantasia di costei, le faccende sue si strac-
curano'; e poderi si guastono; e trafichi rovinano. Gri-
da sempre, e non sa di che; entra ed esce di casa ogni
dì mille volte, sanza sapere quello che si vada f accen-
do. Non torna mai ad ora che si possa cenare o desina-
re a tempo; se tu gli parli, o e' non ti risponde, o e' ti
risponde non a proposito. I servi, vedendo questo, si
fanno beffe di lui; il figliuolo ha posto giù la reveren-
zia*; ognuno fa a suo modo, ed infine niuno dubita di
fare' quello che vede fare a lui. In modo che io dubito,
se Iddio non ci remedia, che questa povera casa non ro-
vini. Io voglio pure andare alla messa e raccomandarmi
a Dio quanto io posso. Io veggo Eustachio e Pirro che
si bisticciano. Be' mariti che si apparecchiano a Clizia!
SCENA QUINTA
Pirro, Eustachio.
PIRRO Che fa' tu in Firenze, trista cosa' ?
EUSTACHIO Io non l'ho a dire a te.
PIRRO Tu se' così razzimatoM tu mi pari un cesso ripu-
lito.
6. Questo ordine: Questo ordinato svolgimento. 7. si straccurano: trascura-
no. 8. ha posto giù la rcvcrenzia: ha messo da parte il dovuto rispetto filia-
le. 9. niuno dubita di fare: nessuno esita a fare.
V. I. trista cosa: si diceva anche: trista persona: sciagurato. Ma quel cosa è an-
cor più dispregiativo. E questa la prima scena della C. che risente di echi plau-
tini, dalla Casina, dove leggiamo (I, i, 98): «Quid in urbe reptas, vilice haud
magni preti?». 2. razzimato: azzimato.
,/^ CLIZIA
I02
EUSTACHIO Tu hai sì poco cervello che io mi maraviglio
che' fanciulli non ti gettino drieto' e sassi.
PIRRO Presto ci avvedremo chi ara più cervello, o tu o io.
EUSTACHIO Prega Iddio che '1 padron non muoia, che tu
andrai un dì accattando^
PIRRO Hai tu veduto Nicomaco ?
EUSTACHIO Che ne vuoi tu sapere se io l'ho veduto o no ?
PIRRO E' toccherà bene a te a saperlo, che, se e' non si
rimuta', se tu non torni in villa da te, e' vi ti farà por-
tare a' birri.
EUSTACHIO E' ti dà una gran briga questo mio essere in
Firenze !
PIRRO E' dà più briga ad altri che a me.
EUSTACHIO E però ne lascia el pensiero ad altri.
PIRRO Pure le carne tirano^
EUSTACHIO Tu guardi e ghigni.
PIRRO Guardo, che tu saresti el bel marito.
EUSTACHIO Orbe, sai quello ch'io ti voglio dire ? « Ed an-
che il duca murava! »'. Ma se la prende te, la sarà sah-
ta in su' muricciuoli*. Quanto sarebbe meglio che Ni-
comaco la affogassi in quel suo pozzo! Almeno la po-
verina morrebbe ad uno tratto'.
PIRRO Do! villan poltrone profumato nel litame! Par-
t'egli avere carni da dormire allato a sì dilicata figlia?
EUSTACHIO EU'arà bene carni teco, che se la sua trista
sorte te la dà, o ella in uno anno diventerà puttana, o el-
la si morrà di dolore: ma del primo'" ne sarai tu d'accor-
do seco, che per uno becco pappataci" tu sarai desso!
} drieto: dietro, aUe terga. 4- accattando: chiedendo l'elemosina come un ac-
cattone. 5- se... rimuta: se egli non cambia parere. 6. Pure... tirano: la be-
ahina di M III, 3, si dice con queste parole attaccata alla memoria del marito,
«ancora che fussi un omaccio». Qui vorrebbe dire, con iroma insolente e ama^
ra- «Eppure la carne ha i suoi diritti». i.«Ed anche il duca murava'. ..Detto
proverbiale d'area toscana, che vale: «Lavorano anche i nobih e i potenti; nes-
suno si è mai sottratto al lavoro». 8. la sarà... muncctuolr.com, rivenduglio-
li e mendicanti, che in cambio di una elemosina esponevano a loro povera mer-
ce su bassi muretti (muncciolaw era detto U rivenditore di libri usati). 9. ac
uno tratto: d'un colpo, io. ma del primo: ma se la sua sorte sarà la prima, d
farsi cioè prostituta. 11. per uno becco pappataci: se ci sarà un cornuto con
tento (che pappa e tace), quello sarai tu.
ATTO SECONDO 163
PIRRO Lasciamo andare! Ognuno aguzzi e sua ferruzzi'^;
vedreno a chi e' dirà meglio. Io me ne voglio ire in ca-
sa, ch'io t'arei a rompere la testa.
EUSTACHIO Ed io mi tornerò in chiesa.
PIRRO Tu fai bene a non uscire di franchigia".
Canzona
Quanto in cor giovinile è bello amore,
tanto si disconviene
in chi degli anni suoi passato ha il fiore.
Amore ha sua virtute agli anni uguale*
e nelle fresche etati assai s'onora
e nelle antiche poco o nulla vale.
Si che, oh vecchi amorosi, el meglio fora
lasciar la impresa a giovinetti ardenti,
ch'a più fort'opra intenti,
far ponno al suo signor^ più largo onore.
12. Ognuno... ferruzzi: espressione equivalente a: «Ognuno aguzzi il proprio in-
gegno, i ferri del proprio acume». 13. a non uscire di franchigia: «In chiesa i
malfattori non potevano esser perseguiti: vigeva il diritto d'asilo» (Gaeta).
CANZONA I. ha... uguale: possiede una forza d'attrazione proporzionata agli
anni di chi ne è soggetto. 2. al suo signor: al loro signore, ad Amore.
ATTO TERZO
SCENA PRIMA
Nicomaco, Cleandro.
NicoMACO Cleandro, o Cleandro!
OLEANDRO Messere!
NICOMACO Esci giù, esci giù, dico io! Che fai tu, tanto
el di', in casa? Non te ne vergogni tu, che dai carico^ a
cotesta fanciulla? Sogliano a simili di di carnasciale e
giovani tuoi pari andarsi a spasso veggendo le masche-
re, o ire a fare al calcio'. Tu se' uno di quelli uomini che
non sai far nulla e non mi pari né morto né vivo.
CLEANDRO lo non mi diletto di coteste cose, e non me
ne dilettai mai, e piacemi più il star solo che con cote-
ste compagnie; e tanto più stavo ora volentieri in casa,
veggendovi stare voi, per potere, se voi volevi cosa al-
cuna, farla.
NICOMACO Deh! guarda dove l'aveva !^ Tu se' el buon
figliuolo! Io non ho bisogno di averti tutto di drieto;
io tengo dua famigli ed uno fattore, per non avere' a
comandare a te.
CLEANDRO Al nome d'Iddio, e' non è però che quello
ch'io fo no '1 faccia per bene.
NICOMACO Io non so per quel che tu tei fai, ma io so be-
ne che tua madre è una pazza e rovinerà questa casa.
Tu faresti el meglio a ripararci.
I. I. tanto el di: tutto il giorno, tanto è lungo il di. 2. dai carico: puoi offri-
re, col tuo comportamento, «motivo di biasimo per la reputazione» (Blasucci)
della fanciulla. 3 . ire a fare al calcio: andare a giocare al calcio. Il gioco del cal-
cio era sport assai praticato nella Firenze medicea: e celebrato da letterati e poe-
ti. 4. dove l'aveva! : dove teneva in serbo la risposta! 5. per non avere: per
poter fare a meno.
ATTO TERZO 165
CLEANDRO O lei, o altri*.
NICOMACO Chi altri ?
CLEANDRO lo non SO.
NICOMACO E' mi pare bene che tu noi sappi. Ma che di'
tu di questi casi di Clizia?
CLEANDRO (Vedi che vi capitamo^ ! )
NICOMACO Che di' tu? Di' forte, ch'io t'intenda.
CLEANDRO Dico ch'io non so che me ne dire.
NICOMACO Non ti par'egli che questa tua madre pigli un
granchio a non volere che Clizia sia moglie di Pirro ?
CLEANDRO lo non me ne intendo.
NICOMACO Io son chiaro*: tu hai preso la parte sua. E' ci
cova sotto altro che favole'. Parrebbet'egli però che la
stessi bene con Eustachio ?
CLEANDRO lo non lo so, e non me ne intendo.
NICOMACO Di che diavolo t'intendi tu ?
CLEANDRO Non di cotesto.
NICOMACO Tu ti sei pur inteso di far venire in Firenze
Eustachio, e trafugarlo'" perché io non lo vegga, e ten-
dermi lacciuoli per guastare queste nozze: ma te e lui
caccerò io nelle Stinche"; a Sofronia renderò io la sua
dota e manderolla via, perché io voglio essere io signo-
re di casa mia, e ognuno se ne sturi gli orecchi'^ E vo-
glio che questa sera queste nozze si faccino, o io, quan-
do non arò altro rimedio, caccerò fuoco in questa casa.
Io aspetterò qui tuo madre, per vedere s'io posso esse-
re d'accordo con lei; ma quando io non possa, ad ogni
modo io ci voglio l'onor mio, che io non intendo che'
paperi menino a bere l'oche"! Va', per tanto, se tu de-
sideri el bene tuo e la pace di casa, a pregarla che facci
a mio modo. Tu la troverrai in chiesa, ed io aspetterò
6. O lei, 0 altri: Sarà lei o saranno altri a condurci alla rovina. 7. vi capita-
mo: ci caschiamo sopra, ci imbattiamo nel tema che gli sta a cuore. 8. lo son
chiaro: Ora capisco tutto, ora vedo chiaro nella faccenda. 9. altro che favo-
le: altro che storie, vani pretesti o scuse, io. trafugarlo: sottrarmelo alla vi-
sta. 1 1 . nelle Stinche: erano le carceri di Firenze. 12. sene sturi gli orecchi:
apra ben gli orecchi. 13. eh' e paperi... l'oche: che i più sciocchi comandino
ai più saggi.
l66 CLIZIA
te e lei qui in casa. E se tu vedi quel ribaldo di Eusta-
chio, digli che venghi a me: altrimenti non farà bene e
casi suoi'^
CLEANDRO lo VO.
SCENA SECONDA
Cleandro.
CLEANDRO O miseria di chi ama ! Con quanti affanni pas-
so io il mio tempo! Io so bene che qualunque' ama una
cosa bella, come è Clizia, ha di molti rivali che gli dan-
no infiniti dolori. Ma io non intesi mai che ad alcuno
avvenissi^ di avere per rivale il padre; e dove molti gio-
vani hanno trovato appresso al padre qualche remedio,
io vi truovo el fondamento e la cagione del male mio.
E se mia madre mi favorisce, la non fa per favorire me,
ma per disfavorire la impresa del marito: e perciò io
non posso scoprirmi in questa cosa gagliardamente\
perché subito la crederrebbe che io avessi fatti quelli
patti, con Eustachio, che mio padre ha fatti con Pirro;
e come la credesse questo, mossa dalla conscienzia, la-
scerebbe ire l'acqua alla china^ e non se ne travaglie-
rebbe più', e io al tutto sarei spacciato e ne piglierei tan-
to dispiacere ch'io non crederrei più vivere. Io veggio
mia madre che esce di chiesa: io voglio parlar seco ed
intendere la fantasia sua e vedere quali rimedii ella ap-
parecchi contro a' disegni del vecchio.
14. non... e casi suoi: non farà il proprio bene, la propria felicità.
n. i. qualunque: chiunque. 2. avvenissi: accadesse. }. gagliardamente: con.
ardire e bella franchezza. 4. ire l'acqua alla china: si dice anche: andare le co-
se per il loro verso. 5. non se ne travaglierebbe più: non soffrirebbe più e per-
ciò non vi si impegnerebbe più.
ATTO TERZO 167
SCENA TERZA
Cleandro, Sofronia.
OLEANDRO Dio vi salvi, madre mia!
SOFRONIA O Cleandro, vieni tu di casa?
OLEANDRO Madonna si.
SOFRONIA Sevvi tu stato tuttavia', poi ch'io vi ti lasciai ?
OLEANDRO SonO.
SOFRONIA Nicomaco dove è ?
OLEANDRO E in casa, e per cosa che sia accaduta no'n'è
uscito.
SOFRONIA Lascialo fare, al nome d'Iddio. Una ne pensa
el ghiotto e l'altra el tavernaio^ Hatt'egli detto cosa al-
cuna?
OLEANDRO Un monte di villanie; e parmi che gli sia en-
trato el diavolo addosso: e' vuole mettere nelle Stinche
Eustachio e me, a voi vuole rendere la dota e cacciarvi
via, e minaccia, nonché altro, di mettere fuoco in casa.
E mi ha imposto ch'io vi truovi e vi persuada a con-
sentire a queste nozze: altrimenti non si farà per voì\
SOFRONIA Tu che ne di' ?
OLEANDRO Dicone quello che voi, perché io amo Clizia
come sorella, e dorrebbemi infino all'anima che la ca-
pitassi in mano di Pirro.
SOFRONIA Io non so come tu te la ami'', ma io ti dico be-
ne questo, che s'io credessi trarla delle mani di Nico-
maco e metterla nelle tua, che io non me ne impacce-
rei'. Ma io penso che Eustachio la vorrebbe per sé e che
III. I. tuttavia: per tutto questo tempo. 2. Una... el tavernaio: È proverbio
e vale: «Gli uomirìi vanno a gara a chi sa imbrogliare con più malizia altro».
Applicato a Nicomaco e Cleandro: «Gareggiate a far peggio l'uno dell'al-
tro». 3. non si farà per voi: le cose non andranno nel vostro verso, andranno
male per voi. 4. lo non... la ami: Ironicamente: io non ho ben chiaro come tu
l'ami, se da fratello o da spasimante. 5. non me ne impaccerei: non me ne im-
piccerei.
l68 CLIZIA
il tuo amore, per la sposa tua, che siamo per dartela pre-
sto, si potessi cancellare*.
CLEANDRO Voi pensate bene e però io vi prego che voi
facciate ogni cosa perché queste nozze non si faccino.
E quando non si possa fare altrimenti che darla ad Eu-
stachio, diesili^; ma, quando si possa, sarebbe meglio,
secondo me, lasciarla stare così, perché l'è ancora gio-
vinetta e non le fugge il tempo. Potrebbono e cieli far-
le trovare e sua parenti, e, quando e' fussino nobili,
arebbono un poco obligo* con voi, trovando che voi
l'avessi maritata o ad uno famiglio o ad uno contadino.
SOFRONIA Tu di' bene. Io ancora ci avevo pensato, ma
la rabbia di questo vecchio mi sbigottisce; non di me-
no, e' mi si aggirano tante cose per il capo che io credo
che qualcuna gli guasterà ogni suo disegno. Io me ne
voglio ire in casa perché io veggo Nicomaco aliare' in-
torno all'uscio. Tu va' in chiesa e di' ad Eustachio che
venga a casa e non abbia paura di cosa alcuna.
CLEANDRO Cosi farò.
SCENA QUARTA
Nicomaco, Sofronia.
NICOMACO (Io veggo mógliama, che torna; io la voglio
un poco berteggiare' per vedere se le buone parole mi
giovano.) O fanciulla mia, ha' tu però a stare si malin-
conosa^ quando tu vedi la tua speranza? Sta' un poco
meco
6. lituo amore... cancellare: giustamente Blasucci: «il tuo amore [per Clizia] pos-
sa [ma, meglio: potrebbe] essere cancellato da parte della tua sposa». (Il per in
sostanza è ablativale). 7. diesili: gliela si dia. 8. arebbono un poco obligo:
avrebbero motivo di un qualche risentimento. 9. aliare: letteralmente: aggi-
rarsi a volo.
IV. I. berteggiare: come dar la berta 0 sbertare: prendere in giro. 2. malinco-
nosa: malinconica. Nella Casina (II, 3, 228): «Tristem astare aspicio».
ATTO TERZO
169
SOFRONIA Lasciami ire.
NICOMACO Fermati, dico.
SOFRONIA Io non voglio: tu mi par' cotto'.
NICOMACO Io ti verrò drieto.
SOFRONIA Se' tu impazzato?
NICOMACO Pazzo? perch'io ti voglio troppo bene.
SOFRONIA Io non voglio che tu me ne voglia.
NICOMACO Questo non può essere.
SOFRONIA Tu m'uccidi'': hu, fastidioso!
NICOMACO (Io vorrei che tu dicessi il vero.)
SOFRONIA (Credotelo.)
NICOMACO Eh! guatami un poco, amor mio.
SOFRONIA Io ti guato, ed odoroti anche: tu sai sì di buo-
no! Bembè, tu mi riesci'!
NICOMACO (Ohimè, che la se ne è avveduta! Che mala-
detto sia quel poltrone, che me l'arrecò dinanzi.)
SOFRONIA Onde son venuti questi odori"* di che sai tu,
vecchio impazzato ?
NICOMACO E' passò dianzi uno di qui, che ne vendeva:
io gli trassinai, e mi rimase di quello odore addosso.
SOFRONIA (E' gli ha già trovato la bugia: non dissi io?)
E ti vergogni tu di quello che tu fai da uno anno in qua ?
Usi sempre con sei giovanetti, vai alla taverna, ripariti
in casa femmine' e dove si giuoca, spendi sanza modo:
begli essempli che tu dai al tuo figliuolo! Date moglie
a questi valenti uomini!
NICOMACO Ah! moglie mia, non mi dir tutti e mali ad un
tratto: serba qualche cosa a domani. Ma non è egli ragio-
nevole che tu faccia più tosto a mio modo, che io a tuo ?
SOFRONIA Sì, delle cose oneste.
NICOMACO Non è egli onesto maritare una fanciulla ?
SOFRONIA Sì, quando ella si marita bene.
NICOMACO Non starà ella bene con Pirro ?
SOFRONIA No.
3. cotto: instupidito dall'ubriachezza (cottura). 4. m'uccìdi: mi farai morire,
tanto m'infastidisci. 5. mi riesci: quasi quasi mi persuadi, riesci a convincer-
mi (è detto con ironia). 6. odori: sono profumi. 7. ripariti in casa femmine:
vai a cercare asilo in casa di donne di malaffare.
lyo CLIZIA
NICOMACO Perché ?
SOFRONIA Per quelle cagioni ch'io t'ho dette altre volte.
NICOMACO Io m'intendo di queste cose più di te. Ma, se
io facessi tanto con Eustachio ch'e' non la volessi?
SOFRONIA E se io facessi con Pirro tanto che non la vo-
lessi anch'egli?
NICOMACO Da ora innanzi ciascuno di noi si pruovi^ e
chi di noi dispone el suo', abbi vinto.
SOFRONIA Io son Contenta. Io vo in casa a parlare a Pir-
ro e tu parlerai con Eustachio, che io lo veggo uscir di
chiesa.
NICOMACO Sia fatto.
SCENA QUINTA
Eustachio, Nicomaco.
EUSTACHIO (Poiché Cleandro mi ha detto che io vadia a
casa e non dubiti, io voglio fare buon cuore' ed an-
darvi.)
NICOMACO (Io volevo dire a questo ribaldo una carta^ di
villanie, e non potrò, poiché io l'ho a pregare.) Eustachio!
EUSTACHIO O padrone ?
NICOMACO Quando fustù in Firenze ?
EUSTACHIO lersera.
NICOMACO Tu hai penato tanto a lasciarti rivedere! Do-
ve se' tu stato tanto?
EUSTACHIO Io vi dirò. Io mi cominciai iermattina a sen-
tir male: e' mi doleva el capo, avevo una anguinaia^ e
parevami avere la febre. Ed essendo questi tempi so-
8. s: pruovi: faccia prova di sé, si cimenti. 9. dispone el suo: riesce a convin-
cere il suo uomo, cioè il candidato dell'avversario. Questa scena risente, con
sufficiente aderenza, della scena 3 dell'atto II della Casina.
V. i . fare buono cuore: farmi coraggio. 2. una carta: «una pagina intera, una
gran quantità» (Blasucci). 3. anguinaia: o inguinaglia: dolore all'inguine.
ATTO TERZO 1 7 1
Spetti di peste, io ne dubitai forte e iersera venni a Fi-
renze e mi stetti all'osteria, né mi volli rappresentare*,
per non fare male a voi o a la famiglia vostra, se pure
e' fussi stato desso'. Ma, grazia di Dio, ogni cosa è pas-
sata via e sentomi bene.
NICOMACO (E' mi bisogna fare vista di crederlo.) Ben fa-
cesti tu: se' orbene guarito?
EUSTACHIO Messer sì.
NICOMACO (Non del tristo^) Io ho caro che tu ci sia. Tu
sai la contenzione^ che è tra me e mógliama, circa al dar
marito a Clizia. Ella la vuole dare a te ed io la vorrei
dare a Pirro.
EUSTACHIO E dunque volete meglio a Pirro che a me.
NICOMACO Anzi, voglio meglio a te che a lui. Ascolta un
poco. Che vuoi tu fare di moglie ? Tu hai oggimai tren-
totto anni, ed una fanciulla non ti sta bene; ed è ragio-
nevole* che, come la fussi stata teco qualche mese, che
la cercassi un più giovane di te, e viveresti disperato.
Di poi, io non mi potrei più fidare di te; perderesti lo
aviamento'; diventeresti povero, ed andresti tu ed ella
accattando.
EUSTACHIO In questa terra chi ha bella moglie non può
essere povero: e del fuoco e della moglie si può essere
liberale con ognuno, perché quanto più ne dai, più te
ne rimane.
NICOMACO Dunque vuoi tu fare questo parentado per
farmi dispiacere ?
EUSTACHIO Anzi, lo vo' fare per fare piacere a me.
NICOMACO Or tira'", vanne in casa. (Io ero pazzo s'io cre-
devo avere da questo villano una risposta piacevole.) Io
muterò teco verso". Ordina di rimettermi e conti e di
andarti con Dio, e fa' stima d'essere il maggior nimico
ch'io abbia e ch'io ti abbia a fare il peggio, che io posso.
4. rappresentare: presentare. 5. se... desso: nel caso che quel malessere fosse
stato realmente (pure) il segno della peste. 6. Non del tristo: «Ma non sei gua-
rito dalla tua tristizia» (Blasucci). 7. contenzione: contesa. 8. è ragionevole:
sott.: supporre, prevedere. 9. perderesti lo aviamento: perderesti i benefici di
un lavoro già avviato, io. Or tira: Or tira via, vattene, t i. lo... verso: «Cam-
bierò con te il mio modo di fare» (Gaeta).
172 CLIZIA
EUSTACHIO A me non dà briga nulla'^ pur ch'io abbia
Clizia.
NICOMACO Tu arai le forche.
SCENA SESTA
Pirro, Nicomaco.
PIRRO Prima ch'io facessi ciò che voi volete, io mi la-
scerei scorticare'.
NICOMACO (La cosa va bene! Pirro sta nella fede^) Che
hai tu? Con chi combatti tu, Pirro?
PIRRO Combatto ora con chi voi combattete sempre.
NICOMACO Che dic'ella? Che vuol ella?
PIRRO Pregami che io non tolga Clizia per donna.
NICOMACO Che l'hai tu detto ?
PIRRO Che io mi lascerei prima ammazzare, che io la ri-
fiutassi.
NICOMACO Ben dicesti.
PIRRO Se i' ho ben detto, io dubito non avere mal fat-
to\ perché io mi sono fatto nimico la vostra donna ed
il vostro figliuolo e tutti gli altri di casa.
NICOMACO Che importa ? Sta bene con Cristo e fatti bef-
fe de' santi"*.
PIRRO Si, ma, se voi morissi, i santi mi tratterebbono as-
sai male.
NICOMACO Non dubitare. Io ti farò tal parte' che' santi
ti potranno dare poca briga, e, se pur e' volessino, e ma-
gistrati e le legge ti difenderanno, - pure ch'io abbia
f acuità per tuo mezzo di dormire con Clizia.
12. non... nulla: niente mi preoccupa. Si veda, per questa scena, Casina, II, 4
VI. I. Prima... scorticare: La frase è rivolta a Sofronia, rimasta all'interno di
casa. 2. sta nella fede: sta saldo, non demorde dalla parola data. 3. dubito.,
malfatto: temo di aver fatto male. E la costruzione alla latina. 4. Sta ' bene.,
santi: Sii in buoni rapporti col capofamiglia e non curarti degli altri «numi». 5
ti farò tal parte: ti sistemerò in modo tale.
ATTO TERZO 173
PIRRO Io dubito che voi non possiate, tanta infiammata
vi veggio contro la donna^.
NICOMACO Io ho pensato che sarà bene, per uscire una
volta di questo farnetico', che si getti per sorte* di chi
sia Clizia: da che la donna non si potrà discostare.
PIRRO Se la sorte vi venissi contro ?
NICOMACO Io ho speranza in Dio, che la non verrà.
PIRRO (O vecchio impazzato ! vuol che Dio tenga le ma-
ni' a queste sua disonestà!) Io credo, che se Dio s'im-
paccia di simil' cose, che Sofronia ancora'" speri in Dio.
NICOMACO EUa si speri ! E, se pur la sorte mi venissi con-
tro, io ho pensato al rimedio. Va', chiamala, e dilli che
venga fuora con Eustachio.
PIRRO O Sofronia, venite, voi ed Eustachio, al padrone.
SCENA SETTIMA
Sofronia, Nicomaco, Eustachio, Pirro.
SOFRONIA Eccomi. Che sarà di nuovo?
NICOMACO E' bisogna pure pigliare verso' a questa cosa.
Tu vedi, poi che costoro non si accordano, e' conviene
che noi ci accordiano.
SOFRONIA Questa tua furia è estraordinaria. Quel che
non si farà oggi, si farà domani.
NICOMACO Io voglio farla oggi.
SOFRONIA Faccisi, in buonora. Ecco qui tutti a duoi e
competitori^ Ma come vuoi tu fare?
NICOMACO Io ho pensato, poiché noi non consentiàno
l'uno all'altro, che la si rimetta nella fortuna\
6. la donna: Sofronia, irata contro Nicomaco. -j . farnetico: grande agitazione
e confusione generale. 8. si getti per sorte: si tiri a sorte. 9. tenga le mani: gli
sia complice, io. Sofronia ancora: anche Sofronia per parte sua. Anche que-
sta scena riecheggia una scena della Casina, e precisamente la 5 dell'atto II.
VII. Echi, in questa scena, da Casina, 11,6. i . pigliare verso: pigliare una de-
cisione risolutiva. 2. competitori: contendenti. 3. la... nella Fortuna: la si af-
fidi alla sorte.
174 CLIZIA
SOFRONIA Come, nella fortuna?
NicoMACO Che si ponga in una borsa e nomi loro ed in
un'altra el nome di Clizia ed una polizza'* bianca; e che
si tragga prima el nome d'uno di loro, e che a chi toc-
ca Clizia, se l'abbia, e l'altro abbi pazienza. Che pensi
tu ? Non rispondi ?
SOFRONIA Orsù: io son contenta.
EUSTACHIO Guardate quel che voi fate.
SOFRONIA Io guardo, e so quel ch'io fo. Va' 'n casa, scri-
vi le polizze e reca duo borse, ch^io voglio uscire di que-
sto travaglio, - o io enterrò' in uno maggiore.
EUSTACHIO Io VO.
NicoMACO A questo modo ci accordereno noi. Prega
Dio, Pirro, per te.
PIRRO Per voi !
NicoMACO Tu di' bene a dire per me: io arò una gran
consolazione che tu l'abbia.
EUSTACHIO Ecco le borse e le sorte^
NicoMACO Da' qua; questa che dice ? Clizia. E quest'al-
tra ? è bianca. Sta bene. Mettile in questa borsa di qua.
Questa che dice? Eustachio. E quest'altra? Pirro. Ri-
piegale e mettile in quest'altra. Serrale; tienvi su gli oc-
chi, Pirro, che non ci andassi nulla in capperuccia^: e'
ci è chi sa giucare di magatelle*!
SOFRONIA Gli uomini sfiducciati non son buoni.
NicoMACO Son parole coteste. Tu sai che non è ingan-
nato, se non chi si fida. Chi vogliàn noi che tragga?
SOFRONIA Tragga chi ti pare.
NICOMACO Vien qua, fanciullo.
SOFRONIA E' bisognerebbe che fussi vergine.
NICOMACO O vergine, o no, io non v'ho tenute le mani.
Tra' di questa borsa una polizza, detto che io ho certe
orazioni. O santa Apollonia', io prego te e tutti e santi
4. polizza: scheda. 5. e«/errò: entrerò. 6. /e sor^e: le polizze, le schede. 7.
che... in capperuccia: si pensa aAf., V, 2: «Io giunsi su con questo garzonaccio,
e, perché e' non andassi nulla in capperuccia, io lo menai...» La frase vuol di-
re: «in modo che nulla ci possa sfuggire». 8. giucare di magatelle: giocare di
astuzia {magatella stava per magagna, marachella). 9. O santa Apollonia: «Per
capire quest'invocazione, bisogna tener presente che ApoUonia era considera-
to proverbialmente un nome di ruffiane (forse per un gioco di parole con "poi-
ATTO TERZO 175
e le sante avvocate de' matrimonii, che concediate a Cli-
zia tanta grazia, che di questa borsa esca la polizza di
colui, che sia per essere più a piacere nostro. - Trai, col
nome di Dio. Dàlia qua. Ohimè, io son morto! Eustachio.
SOFRONIA Che avesti ? O Dio, fa' questo miracolo, acciò
che costui si disperi.
NICOMACO Tra' di quell'altra; dàlia qua. Bianca! Oh, io
sono risucitato! Noi abbiam vinto, Pirro: buon prò ti
faccia! Eustachio è caduto morto. Sofronia, poiché Dio
ha voluto che Clizia sia di Pirro, vogli anche tu.
SOFRONIA Io voglio.
NICOMACO Ordina le nozze.
SOFRONIA Tu hai sì gran fretta. Non si potrebb'egli in-
dugiare a domane ?
NICOMACO No, no, no! Non odi tu che no? Che? vuoi
tu pensare a qualche trappola ?
SOFRONIA Vogliàn noi fare le cose da bestie ? non ha el-
la a udir la messa del congiunto'" ?
NICOMACO La messa della fava! ". La la può udire un al-
tro dì. Non sai tu che si dà le perdonanze'^ a chi si con-
fessa poi, come a chi s'è confessato prima?
SOFRONIA Io dubito che la non abbia l'ordinario'^ delle
donne.
NICOMACO Adoperi lo strasordinario''* delli uomini! Io
voglio ch'e' la meni stasera: e' par che tu non mi in-
tenda.
SOFRONIA Menila, in malora. Andianne in casa e fa' que-
sta imbasciata tu a questa povera fanciulla, che non fia
da calze''.
NICOMACO La fia da calzoni. Andiàn dentro.
SOFRONIA Io non voglio già venire, perché io vo' trova-
re Cleandro, perch'e' pensi se a questo male è rimedio
alcuno.
Io", in quanto delle ruffiane si diceva che "portano i polli")» (Blasucci). io.
la messa del congiunto: la messa che propiziava, qualche giorno prima, le noz-
ze. II. La messa della fava! : Nicomaco risponde tre volte, a controcanto, con
tre pesanti allusioni sessuali alle eccezioni sollevate da Sofronia, ha fava è l'or-
gano sessuale maschile. 12. perdonanze: perdono, assoluzione. 13. l'ordina-
rio: il ciclo mestruale. 14. lo strasordinario: il membro virile. 15. non fia da
calze: non le farà piacere; si donavano calze a chi recava buone notizie.
176 CLIZIA
Canzone
Chi già mai donna offende,
a torto o a ragion, folle è se crede
trovar per prieghi o pianti in lei merzede'
Come la scende in questa mortai vita,
con l'alma insieme porta
superbia, ingengno e di perdono oblio;
inganno e crudeltà le sono scorta,
e tal le danno aita^
che d'ogni impresa appaga el suo desio^;
e, se sdengno aspro e rio
la muove, o gelosia, addopra e vede^,
e la sua forza immortai forza eccede'.
CANZONE, i. merzede: mercé, perdono. 2. le danno aita: le sono dì appoggio,
e di conforto. 3. appaga elsuo desio: trae appagamento secondo il proprio de-
siderio. 4. addopra e vede: «agisce e provvede» (Gaeta). 5. e... eccede: e la
propria forza supera quella degli dèi.
ATTO QUARTO
SCENA PRIMA
Cleandro, Eustachio.
CLEANDRO Come è egli possibile che mia madre sia sta-
ta si poco avveduta, che la si sia rimessa a questo mo-
do alla sorta' d'una cosa che ne vadi in tutto l'onore di
casa nostra?
EUSTACHIO E' gli è come io t'ho detto.
CLEANDRO Ben sono io sventurato ! ben sono io infelice !
Vedi s'i' trovai^ appunto uno che mi tenne tanto a ba-
da, che si è, senza mia saputa, concluso el parentado e
deliberate le nozze: ed ogni cosa è seguita secondo el
desiderio del vecchio. O fortuna! tu suoi' pure, sendo
donna, essere amica de' giovani, ma a questa volta tu
se' stata amica de' vecchi. Come non ti vergogni tu ad
avere ordinato che sì dilicato viso sia da si fetida boc-
ca scombavato'', si dilicate carne da sì tremanti mani,
da sì grinze e puzzolente membra tocche ? perché non
Pirro, ma Nicomaco, come io mi stimo, la possederà.
Tu non mi possevi fare la maggior ingiuria, avendomi
con questo colpo tolto ad un tratto l'amata e la roba,
perché Nicomaco, se questo amore dura, è per lascia-
re' delle sue sustanze più a Pirro che a me. E' mi par
mille anni^ di vedere mia madre, per dolermi e sfogar-
mi con lei di questo partito^
I. I. alla sorta: «circa» (Blasucci): ma a me sembra piuttosto: «in balia». 2.
Vedi s'i' trovai: Guarda un po' se mi doveva accadere di trovare... 3. suoi:
suoli, sei solita. Si legge nel Principe, XXV; «E però sempre, come donna, è
amica de' giovani, perché sono meno respettivi, più feroci, e con più audacia
la comandano». 4. scombavato: sbavato in tutto e per tutto. 5. è per lascia-
re: finirà per lasciare. 6. E... anni: Non vedo l'ora... 7. di questo partito: di
questo piano deliberatamente accettato.
lyS CLIZIA
EUSTACHIO Confortati, Cleandro, che mi parve che la ne
andassi in casa ghignando, in modo che mi pare essere
certo che '1 vecchio non abbia ad avere questa pera
monda, come e' crede. Ma ecco che vien fuora, egli e
Pirro, e son tutti allegri.
CLEANDRO Vanne, Eustachio, in casa. Io voglio stare da
parte per intendere qualche loro consiglio*, che facessi
per me.
EUSTACHIO Io VO.
SCENA SECONDA
Nicomaco, Cleandro, Pirro.
NICOMACO O ! come è ella ita bene ! Hai tu veduto come
la brigata sta malinconosa, come mógliama sta dispe-
rata? Tutte queste cose accrescono la mia allegrezza.
Ma molto più sarò allegro quando io terrò in braccio
Clizia, quando io la toccherò, bacerò, strignerò... O
dolce notte, giugnerovv'io mai? E questo obligo, che
io ho teco, io sono per pagarlo a doppio.
CLEANDRO (O vecchio impazzato!)
PIRRO Io lo credo, ma io non credo già che voi possiate
fare cosa nessuna questa sera, né ci veggo commodità
alcuna.
NICOMACO Come ? Io ti vo' dire come io ho pensato di
governare^ la cosa.
PIRRO Io l'arò caro.
CLEANDRO (Ed io molto più, che potrei udir cosa che gua-
sterebbe e fatti d'altri e racconcerebbe^ e mia.)
NICOMACO Tu cognosci Damone, nostro vicino, da chi
io ho tolto la casa a pigione per tuo conto ?
8. consiglio: deliberazione. Questa scena della C. e la i dell'atto II della Casi-
na sono legate da molteplici rinvìi.
II. I. governare: guidare. 2. racconcerebbe: sistemerebbe.
ATTO QUARTO I79
PIRRO Si, cognosco.
NicoMACO Io fo pensiero che tu la meni stasera in quel-
la casa, ancora ch'egli vi abiti e che non l'abbia sgom-
bra, perch'io dirò ch'io voglio che tu la meni in casa do-
ve l'ha a stare.
PIRRO Che sarà poi ?
CLEANDRO (Rizza gli orecchi, Cleandro!)
NICOMACO Io ho imposto a mógliama che chiami So-
strata, moglie di Damone, perché gli aiuti ad ordinare
queste nozze ed acconciare la nuova sposa; ed a Da-
mone dirò che solleciti che la donna vi vada. Fatto que-
sto e cenato che si sarà, la sposa sarà menata da queste
donne in casa di Damone, e messa teco in camera e nel
letto; ed io dirò di volere restare con Damone ad ab-
bergo, e Sostrata ne verrà con Sofronia qui in casa. Tu,
rimaso solo in camera, spegnerai il lume, e ti balocche-
rai' per camera faccendo vista di spogliarti; intanto io
pian piano me ne verrò in camera, e mi spoglierò ed en-
trerrò allato a Clizia. Tu ti potrai stare pianamente in
sul lettuccio. La mattina avanti giorno io mi uscirò del
letto, mostrando di volere ire ad orinare; rivestirommi;
e tu entrerrai nel letto.
CLEANDRO (O vecchio poltrone! Quanta è stata la mia
felicità, intendere questo tuo disegno! Quanta la tua
disgrazia ch'io l'intenda!)
PIRRO E' mi pare che voi abbiate divisata"* bene questa
faccenda. Ma e' conviene che voi vi armiate in modo
che voi paiate giovane, perché io dubito che la vecchiaia
non' si riconosca al buio.
CLEANDRO (E' mi basta quel che io ho inteso. Io voglio
ire a raguagliare mia madre.)
NICOMACO Io ho pensato a tutto e fo conto, a dirti il ve-
ro, di cenare con Damone; ed ho ordinato una cena a
mio modo: io piglierò prima una presa d'uno lattovaro,
che si chiama satirion^
3. baloccherai: indugerai, fingendoti impegnato in banali operazioni. 4. abbia-
te divisata: abbiate immaginata e architettata. 5. dubito... non: è la costruzione
latina, che vale: temo che... 6. d'uno lattovaro... satirion: d'un elettuario, uno
sciroppo energetico, a base di satirio, estratto afrodisiaco dal fiore di orchidea.
1 50 CLIZIA
PIRRO Che nome bizzarro è cotesto!
NicoMACO E' gl'ha più bizzarri e fatti, perché e' gli è un
lattovaro che farebbe, quanto a quella faccenda, rin-
giovanire uno uomo di novanta anni, non che di set-
tanta, come ho io. Preso questo lattovaro, io cenerò po-
che cose, ma tutte sustanzievole': in prima, una insala-
ta di cipolle cotte, di poi una mistura di fave e spezie-
rie...
PIRRO Che fa cotesto ?
NICOMACO Che fa ? Queste cipolle, fave e spezierie, per-
ché sono cose calde e ventose, farebbono far vela ad
una caracca** genovese! Sopra queste cose, si vuole uno
pippione grosso arrosto, cosi verdemezzo', che sangui-
ni un poco...
PIRRO Guardate ch'e' non vi guasti lo stomaco, perché
bisognerà o ch'e' vi sia masticato o che voi lo 'ngoiate
intero. Io non vi vegg'io tanti o si gagliardi denti in
bocca.
NICOMACO Io non dubito di cotesto, che, bench'io non
abbia molti denti, io ho le mascella che paiono d'ac-
ciaio.
PIRRO Io penso che, poi che voi ne sarete ito ed io entra-
to nel letto, che io potrò fare senza toccarla, perché io
ho viso'** di trovare quella povera fanciulla fracassata.
NICOMACO Bastiti ch'io arò fatto l'ufficio tuo e quel d'un
compagno.
PIRRO Io ringrazio Dio, poiché mi ha dato una moglie in
modo fatta ch'io non arò a durare fatica né a 'mpre-
gnarla, né a darli le spese.
NICOMACO Vanne in casa, sollecita le nozze, ed io par-
lerò un poco con Damone, ch'io lo veggo uscire di ca-
sa sua.
PIRRO Così farò.
7. sustanzievole: sostanziose, nutrienti. 8. caracca: dall'arabo harrdqa, desi-
gnava una grossa nave da carico o da guerra di alto bordo, con due castelli. 9.
uno pippione... verdemezzo: un grosso piccione arrosto, ma non cotto dei tut-
to. IO. ho viso: mi aspetto e ne sono già certo.
ATTO QUARTO ibi
SCENA TERZA
Nicomaco, Damone.
NICOMACO E' gli è venuto quel tempo\ o Damone, che
tu mi hai a mostrare se tu mi ami. E' bisogna che tu
sgomberi la casa, e non vi rimanga né la tua donna né
altra persona, perché io vo' governare questa cosa co-
me io t'ho già detto.
DAMONE Io son parato a fare ogni cosa pur che io ti con-
tenti.
NICOMACO Io ho detto a mógliama che chiami Sostrata
tua che vadia ad aiutarla ordinare le nozze. Fa' che la
vadia subito, come la chiama, e che vadia con lei la ser-
va sopra tutto.
DAMONE Ogni cosa è ordinato. Chiamala a tua posta.
NICOMACO Io voglio ire infino allo speziale a fare una
faccenda, e tornerò ora. Tu aspetta qui che mógliama
eschi fuora e chiami la tua. Ecco che la viene: sta' pa-
rato^ Addio.
m. I. Egli... tempo: È giunto il momento. È da qui sino a IV, vii, che si arti-
cola il nucleo più consistente di scene che abbiano concreta rispondenza, in va-
ria misura e a vario titolo, con un analogo nucleo di scene della Casina {atto III,
1-5). Sparse analogie (come diversi studiosi hanno già osservato) si trovano fra
i due testi: per comodità di chi volesse verificare nel vivo del raffronto testua-
le queste «riprese», riassumiamo le possibili equivalenze: Casina, I, i = Clizia,
II, 5; Casina, II, 3 = Clizia, III, 4; Casina, II, 6 = Clizia, III, 7; Casina, II, 5 =
Clizia, IV, 2; Casina, III, i = Clizia, IV, 3; Casina, III, 2 = Clizia, IV, 4; Casi-
na, IH, 3 = Clizia, IV, 5; Casina, III, 4 = Clizia IV, 6; Casina, III, 5 = Clizia,
IV, 7; Casina, V, i = Clizia, V, i; Casina, V, 2 = Clizia, V, 2; Casina, V, 3 =
Clizia, V, 4. 2. parato: pronto.
102 CLIZIA
SCENA QUARTA
Sofronia, Damone.
SOFRONIA (Non maraviglia che '1 mio marito mi solleci-
tava ch'io chiamassi Sostrata' di Damone. E' voleva la
casa libera, per potere giostrare a suo modo! Ecco Da-
mone di qua. O specchio di questa città! o colonna del
suo quartieri! che accomoda la casa sua a si disonesta
e vituperosa impresa. Ma io gli tratterò in modo che si
vergogneranno sempre di loro medesimi. E voglio or
cominciare ad uccellare^ costui.)
DAMONE (Io mi maraviglio che Sofronia si sia ferma^ e
non venga avanti a chiamare la mia donna. Ma ecco che
la viene.) Dio ti salvi, Sofronia.
SOFRONIA E te, Damone. Ove è la tua donna?
DAMONE La è in casa ed è parata a venire, se tu la chia-
mi, perché el tuo marito me ne ha pregato. Vo io a
chiamarla ?
SOFRONIA No, no. La debbe avere faccenda\
DAMONE Non ha faccenda alcuna.
SOFRONIA Lasciala stare, io non le voglio dare briga. Io
la chiamerò quando fia tempo.
DAMONE Non ordinate' voi le nozze?
SOFRONIA Si, ordiniamo.
DAMONE Non hai tu necessità di chi ti aiuti?
SOFRONIA E' vi è brigata un mondo^ per ora.
DAMONE (Che farò ora ? Io ho fatto uno errore grandis-
simo, a cagione di questo vecchio impazzato, bavoso,
cisposo e senza denti. E' mi ha fatto offerire la donna
per aiuto a costei, che non la vuole, in modo che la cre-
IV. I. Sostrata: sott.: consorte. 2. uccellare: beffare. 3. si sia ferma: si sia
fermata. 4. la debbe ... faccenda: deve essere occupata. 5. Non ordinate: Non
state allestendo... 6. E' ... mondo: C'è un sacco di gente.
ATTO QUARTO 183
derrà ch'io vadia mendicando un pasto, e terràmmi'
uno sciagurato.)
SOFRONIA (Io ne rimando costui tutto inviluppato*: guar-
da come ne va ristretto nel mantello! E' mi resta ora
ad uccellare un poco el mio vecchio. Eccolo che viene
dal mercato. Io voglio morire s'è' non ha comperato
qualche cosa, per parere gagliardo o odorifero.)
SCENA QUINTA
Nicomaco, Sofronia.
NICOMACO Io ho comperato el lattovaro e certa unzione
appropriata a fare risentire' le brigate. Quando si va ar-
mato alla guerra, si va con più animo la metà. (Io ho ve-
duta la donna: ohimè, che la m'ara sentito!)
SOFRONIA (Sì, ch'io t'ho sentito, e con tuo danno e ver-
gogna, s'io vivo insino a domattina.)
NICOMACO Sono ad ordine le cose ? Hai tu chiamata que-
sta tua vicina che ti aiuti ?
SOFRONIA Io la chiamai, come tu mi dicesti, ma questo
tuo caro amico le favellò non so che nell'orecchio, in
modo che la mi rispose che non poteva venire.
NICOMACO Io non me ne maraviglio, perché tu se' un po-
co rozza^ e non sai accomodarti' con le persone, quan-
do tu vuoi alcuna cosa da loro.
SOFRONIA Che volevi tu ? ch'io lo toccassi sotto '1 men-
to? Io non son usa a fare carezze a' mariti d'altri. Va',
chiamala tu, poiché ti giova andare drieto'' alle moglie
d'altri; ed io andrò in casa ad ordinare il resto.
7. terrammi: mi riterrà. 8. tutto inviluppato: tutto confuso.
V. I. mentire: risvegliare: è il verbo di chi torna alla vita dal coma o dalla ca-
talessi. 2. rozza: qui vuol dire: ruvida, nel comportamento. 3. accomodarti:
non direi: «comportarti a proposito» (Gaeta); ma: metterti d'accordo. 4. Poi-
ché... drieto: dal momento che ti piace andar dietro.
184 CLIZIA
SCENA SESTA
Damone, Nicomaco,
DAMONE (Io vengo a vedere se questo amante è tornato
dal mercato. Ma eccolo davanti all'uscio.) Io venivo ap-
punto a te.
NICOMACO Ed io a te, uomo da farne poco conto ! Di che
t'ho io pregato ? Di che t'ho io richiesto ? Tu m'hai ser-
vito cosi bene!
DAMONE Che cosa è?
NICOMACO Tu mandasti mógliata, tu hai vota la casa di
brigata' che fu un sollazzo! In modo che, alle tua ca-
gione, io son morto e disfatto.
DAMONE Va', t'impicca! non mi dicestù, che mógliata
chiamerebbe la mia ?
NICOMACO La l'ha chiamata e non è voluta venire.
DAMONE Anzi, che^ gliene offersi e la non volle che la
venissi: e cosi mi fai uccellare e poi ti duoli di me. Ch'
el diavol ne '1 porti te e le nozze ed ognuno!
NICOMACO In fine: vuoi tu che la venga?
DAMONE Si, voglio, in malora^ ed ella e la fante e la gat-
ta e chiunque vi è. Va', se tu hai a fare altro: io andrò
in casa, e, per l'orto, la farò venire or ora.
NICOMACO Ora m'è costui amico! Ora andranno le cose
bene. Ohimè ! ohimè ! Che romore è quel che è in casa ?
VI. I. Tu hai ... brigata: È detto ironicamente: «Me ne hai mandato di gente
da casa tua ...». 2. Anzi, che: Al contrario. 3. in mal' ora: per la malora.
ATTO QUARTO 185
SCENA SETTIMA
Doria, Nicomaco.
BORIA Io son morta, io son morta! Fuggite, fuggite! To-
glietele quel coltello di mano ! Fuggitevi ! Sofronia !
NICOMACO Che hai tu, Doria ? Che ci è ?
BORIA Io son morta.
NICOMACO Perché se' tu morta?
BORIA Io son morta e voi spacciato.
NICOMACO Dimmi quel che tu hai.
BORIA Io non posso per lo affanno. Io sudo. Fatemi un
poco di vento col mantello.
NICOMACO Deh ! dimmi quel che tu hai, ch'io ti romperò
la testa.
BORIA Ah! padron mio, voi siate troppo crudele!
NICOMACO Dimmi quel che tu hai e qual rimore^ è in casa !
BORIA Pirro aveva dato l'anello a Clizia, ed era ito ad ac-
compagnare el notaio infino all'uscio di drieto. Ben sai
che^ Clizia, non so da che furore mossa, prese uno pu-
gnale e tutta scapigliata, tutta furiosa, grida: ove è Ni-
comaco ? ove è Pirro ? io gli voglio ammazzare - Clean-
dro, Sofronia, tutte noi la volemo pigliare e non pote-
mo. La si è arrecata in uno canto di camera e grida che
vi vuole ammazzare in ogni modo, e per paura chi fug-
ge di qua e chi di là. Pirro si è fuggito in cucina e si è
nascosto drieto alla cesta de' capponi. Io son mandata
gui per avvertirvi che voi non entriate in casa.
NICOMACO Io son el più misero di tutti gli uomini. Non
si può egli trarle di mano il pugnale ?
BORIA Non, per ancora'.
NICOMACO Chi minacc'ella?
BORIA Voi e Pirro.
vn. I. qual rimore: che razza di baccano. 2. Ben sai che': Ebbene, devi sape-
re che. 3. Non, per ancora: No, per ora.
l86 CLIZIA
NICOMACO Oh! che disgrazia è questa. Deh! figliuola
mia, io ti prego che tu torni in casa e con buone paro-
le vegga che se le cavi questa pazzia del capo e che la
ponga giù il pugnale; ed io ti prometto ch'io ti compe-
rerò'' un paio di pianelle ed uno fazzoletto. Deh! va',
amor mio.
DORIA Io vo, ma non venite in casa se io non vi chiamo.
NICOMACO Oh miseria! oh infelicità mia! Quante cose
mi si intraversano', per fare infelice questa notte ch'io
aspettavo felicissima - Ha ella posto giù il coltello?
Vengo io ?
BORIA Non ancora, non venite.
NICOMACO O Iddio, che sarà poi? Poss'io venire?
BORIA Venite, ma non entrate in camera, dove ella è. Fa-
te che la non vi vegga, andatene in cucina da Pirro.
NICOMACO Io vo.
SCENA OTTAVA
Doria.
BORIA In quanti modi uccelliamo noi questo vecchio!
Che festa' è egli, vedere e travagli di questa casa! Il
vecchio e Pirro sono paurosi in cucina; in sala son quel-
li che apparecchiano la cena, ed in camera sono le don-
ne, Cleandro, ed il resto della famiglia; ed hanno spo-
gliato Siro, nostro servo, e de' sua panni vestita Clizia,
e de' panni di Clizia vestito Siro, e vogliono che Siro
ne vadia a marito^ in scambio di Clizia; e, perché il vec-
chio e Pirro non scuoprino questa fraude, gli hanno,
sotto ombra' che Clizia sia cruciata^ confinati in cuci-
na. Che belle risa! Che bello inganno! Ma ecco fuora
Nicomaco e Pirro.
4. compererò: comprerò. 5. mi si intraversano: mi si parano di traverso.
vm. I. Che festa: Che divertimento. 2. ne vadia a marito: vada a nozze, nei
panni della sposa. 3. sotto ombra: fingendo. 4. cruciata: corrucciata.
ATTO QUARTO 187
SCENA NONA
Nicomaco, Doria, Pirro.
NICOMACO Che fai tu costi, Doria? Clizia è quietata?
DORIA Messersi, ed ha promesso a Sofronia di volete fa-
re ciò che voi volete. E' gli è ben vero^ che Sofronia
giudica che sia bene che voi e Pirro non li capitiate in-
nanzi, acciò che non se li riaccendessi la collera. Poi,
messa che la fia a letto, se Pirro non la saprà dimesti-
care, suo danno^
NICOMACO Sofronia ci consiglia bene e cosi faremo. Ora
vattene in casa; e, perché gli è cotto ogni cosa, sollecita
che si ceni; Pirro ed io ceneremo a casa Damone\ E co-
me gì' hanno cenato, fa che la menino fuora. Sollecita,
Doria, per l'amor d'Iddio, che sono già sonate le tre ore
e non è bene stare tutta notte in queste pratiche.
DORIA Voi dite el vero. Io vo.
NICOMACO Tu, Pirro, riman' qui. Io andrò a bere un trat-
to"* con Damone. Non andare in casa, acciò che Clizia
non si infuriassi di nuovo; e se cosa alcuna accade, cor-
ri a dirmelo.
PIRRO Andate, io farò quanto mi imponete. - Poi che
questo mio padrone vuole ch'io stia senza moglie e sen-
za cena, io son contento; né credo che in uno anno in-
tervenghino' tante cose quante sono intervenute oggi.
E dubito non^ ne intervenghino dell'altre, perché io ho
sentito per casa certi sghignazzamenti, che non mi piac-
ciano. Ma ecco ch'io veggo apparire un torchio': e' deb-
be uscir fuora la pompa^ la sposa ne debbe venire. Io
voglio correre per il vecchio. Ò Nicomaco, o Damone!
venite da basso. La sposa ne viene.
IX. 1. Egli è ben vero: E per altro vero... 2. suo danno! : peggio per lui! 3.
a casa Damone: a casa di Damone. 4. bere un tratto: bere un sorso. 5. inter-
venghino: accadano. 6. dubito non: temo che. 7. un torchio: una torcia. 8.
la pompa: il corteo nuziale.
CLIZIA
SCENA DECIMA
Nicomaco, Sofronia, Sostrata, Damone.
NicoMACO Eccoci. Vanne, Pirro, in casa, perché io cre-
do che sia bene che la non ti vegga, Tu, Damone, pà-
ramiti' innanzi e parla tu con queste donne. Eccole tut-
te fuora.
SOFRONIA O povera fanciulla! La ne va piangendo. Ve-
di che la non si lieva el fazzoletto da gli occhi.
SOSTRATA Ella riderà domattina. Cosi usano di fare le
fanciulle. Dio vi dia la buona sera, Nicomaco e Damone.
DAMONE Voi siate le benvenute. Andatene su, voi don-
ne, mettete al letto la fanciulla e tornate giù. Intanto
Pirro sarà ad ordine^ anche egli.
SOSTRATA Andiamo, col nome d'Iddio.
SCENA UNDECIMA
Nicomaco, Damone.
NICOMACO Ella ne va molto malinconosa. Ma hai tu ve-
duto come l'è grande ? La si debbe essere aiutata con le
pianelle'.
DAMONE La pare anche a me maggiore^ che la non suo-
le. O Nicomaco, tu se' pur felice! La cosa è condotta
dove tu vuoi. Pòrtati bene, altrimenti tu non vi potrai
tornare più.
X. I . pàramiti: fatti avanti e fammi da schermo. 2. sarà ad ordine: sarà pron-
to e vestito.
XI. I . co« /e pw«e//i?: con le scarpine a tacco. 2. maggiore: 'pìu aìiz.
ATTO QUARTO 189
NICOMACO Non dubitare. Io sono per fare el debito', che
poi ch'io presi il cibo, io mi sento gagliardo come una
spada. Ma ecco le donne che tornano.
SCENA DUODECIMA
Nicomaco, Sostrata, Damone, Sofronia.
NICOMACO Avetela voi messa al letto ?
SOSTRATA Sì, abbiamo.
DAMONE Bene sta. Noi fareno questo resto: tu, Sostra-
ta, vanne con Sofronia a dormire, e Nicomaco rimarrà
qui meco.
SOFRONIA Andiànne, che pare lor mille anni di avercisi
levate dinanzi.
DAMONE Ed a voi il simile'. Guardate a non vi far male.
SOSTRATA Guardatevi pur voi, che avete l'arme: noi sia-
mo disarmate.
DAMONE Andiamone in casa.
SOFRONIA E noi ancora. Va' pur là, Nicomaco: tu tro-
verrai riscontro^ perché questa tua dama sarà come le
mezzine da Santa Maria Impruneta'.
3. e l debito: il mio dovere.
XII. I . Ed. . . simile: E voi provate le stesse reazioni. 2 . troverrai riscontro: non
direi: intoppo, impedimento, ma: «avrai il corrispettivo, la controparte di quel-
lo che stai per fare». 3. sarà... Impruneta: sarà un giovine gagliardo: le broc-
che di terracotta, da mezzo boccale (mezzine), dell'Impruneta avevano il can-
nello che si ergeva diritto sulla pancia.
190 CLIZIA
Canzone'
Sì suave è lo inganno,
al fin condotto immaginato e caro,
ch'altri spoglia d'affanno,
e dolce face ogni gustato amaro.
O remedio alto e raro !
Tu monstri el dritto calle all'alme erranti;
tu col tuo gran valore
nel far beato altrui, fai ricco amore;
tu vinci, sol co' tua consigli santi,
pietre, veneni e incanti.
CANZONE. I. Questa canzonetta è la stessa impiegata alla fine del terzo atto
della M. (qui a p. no). Non abbiamo, ovviamente, reiterato le note.
ATTO QUINTO
SCENA PRIMA
Doria.
BORIA Io non risi mai più tanto, né credo mai più ride-
re tanto, né in casa nostra questa notte si è fatto altro
che ridere. Sofronia, Sostrata, Cleandro, Eustachio,
ognuno ride; e si è consumata la notte in misurare el
tempo, e dicevano': ora entra in camera Nicomaco; or
si spoglia; or si corica allato alla sposa; or le dà la bat-
taglia; ora è combattuto^ gagliardamente. E mentre noi
stavamo in su questi pensieri, giunsono in casa Siro e
Pirro e ci raddoppiorno le risa; e quel che era più bel
vedere, era Pirro, che rideva più di Siro. Tanto che io
non credo che ad alcuno sia tocco' questo anno ad ave-
re il più bello né il maggiore piacere. Quelle donne mi
hanno mandata fuora, sendo già giorno, per vedere quel
che fa il vecchio e come egli comporta'* questa sciagu-
ra. Ma ecco fuora egli e Damone. Io mi voglio tirare da
parte, per vedergli ed avere materia di ridere di nuovo.
I. I . dicevano: dicevamo. 2. è combattuto: dall'avversario, che lo contrasterà
da par suo. }. 5M /occo: sia toccato. 4. cowportó: sopporta.
192 CLIZIA
SCENA SECONDA
Damone, Nicomaco, Doria.
DAMONE Che cosa è stata questa, tutta notte? Come è
ella ita? Tu stai cheto. Che rovigliamenti' di vestirsi,
di aprire uscia^ di scender e salire in sul letto sono sta-
ti questi? che mai vi siate fermi. Ed io, che nella ca-
mera terrena vi' dormivo sotto, non ho mai potuto dor-
mire; tanto che, per dispetto, mi levai, e truovoti che
tu esci fuori tutto turbato. Tu non parli? Tu mi par'
morto. Che diavolo hai tu?
NICOMACO Fratel mio, io non so dove io mi fugga, dove
io mi nasconda, o dove io occulti'' la gran vergogna nel-
la quale io sono incorso. Io sono vituperato' in eterno,
non ho più rimedio, né potrò mai più innanzi a mó-
gliama, a' figliuoli, a' parenti, a' servi capitare. Io ho
cerco^ il vituperio mio e la mia donna me lo ha aiutato
a trovare, tanto che io sono spacciato. E tanto più mi
duole, quanto di questo carico tu anche ne participi,
perché ciascuno sa che tu ci tenevi le mani^
DAMONE Che cosa è stata? Hai tu rotto nulla?
NICOMACO Che vuoi tu ch'io abbia rotto? Che rotto
avess'io el collo!
DAMONE Che è stato, adunque ? perché non me lo di' ?
NICOMACO Hu! hu! hu! Io ho tanto dolore, ch'io non
credo poterlo dire.
DAMONE Deh! tu mi pari un bambino! Che domin* può
egli essere ?
NICOMACO Tu sai l'ordine dato', ed io secondo quell'or-
dine entrai in camera, e chetamente mi spogliai; ed in
II. I. rovigliamenti: tramesti!. 2. uscia: usci. 3. vi: a voi due amanti. 4.
occulti: nasconda. 5. vituperato: disonorato. 6. ho cerco: ho cercato. 7. Che
tu... mani: che tu eri mio complice. 8. Che domin: Che diavolo. 9. l'ordine
dato: il piano che si era tramato.
ATTO QUINTO 193
cambio di Pirro, che sopra el lettuccio s'era posto a dor-
mire, non vi essendo lume allato alla sposa mi coricai.
DAMONE Horbè, che fu poi?
NicoMACO Hu! hu! hu! Accostamigli secondo l'usanza
de' nuovi mariti: vollile porre le mani sopra il petto, ed
ella con la sua me le*" prese e non mi lasciò. Vollila ba-
ciare, ed ella con l'altra mano mi spinse el viso indrie-
to. Io me li volli gittare tutto addosso: ella mi porse un
ginocchio, di qualità che la m'ha infranto una costola.
Quando io viddi che la forza non bastava, io mi volsi
a' prieghi e con dolce parole ed amorevole - pur sotto
voce, che la non mi cognoscessi - la pregavo fussi con-
tenta fare e piacer' miei, dicendoli: Deh! anima mia
dolce, perché mi strazii tu? Deh! ben mio, perché non
mi concedi tu volentieri quello che l'altre donne a' lo-
ro mariti volentieri concedano? Hu! hu! hu!
DAMONE Rasciugati un poco gli occhi.
NICOMACO Io ho tanto dolore, ch'io non truovo luogo,
né posso tenere" le lacrime. Io potetti cicalare: mai fe-
ce segno di volerme, nonché altro, parlare. Ora, vedu-
to questo, io mi volsi alle minacce, e cominciai a dirli
villania, e che le farei e che le direi. Ben sai che ad un
tratto ella raccolse le gambe, e tirommi una coppia di
calci, che, se la coperta del letto non mi teneva, io sbal-
savo nel mezzo dello spazzo*^
DAMONE Può egli essere ?
NICOMACO E ben che può essere ! Fatto questo ella si vol-
se bocconi e stiacciossi col petto in su la coltrice, che
tutte le manovelle dell'Opera" non l'arebbono rivolta.
Io, veduto che forza, preghi e minacci non mi valeva-
no, per disperato le volsi le stiene'^ e deliberai di la-
sciarla stare, pensando che verso el dì la fussi per'' mu-
tare proposito.
DAMONE O, come facesti bene. Tu dovevi el primo trat-
to pigliar cotesto partito, e chi non voleva te, non vo-
ler lui.
IO. me le: ha detto sopra: le mani. 11. tenere: trattenere. 12. spazzo: pavi-
mento. 13. tutte le manovelle dell'Opera: tutte le leve usate dagli operai
dell'Opera del Duomo. 14. le stiene: la schiena. 15. lafussiper: stesse per.
194 CLIZIA
NICOMACO Sta' saldo"^: la non è finita qui. Or ne viene
el bello. Stando cosi tutto smarrito, cominciai, fra per
il dolore e per lo affanno avuto, un poco a sonniferare.
Ben sai che ad un tratto io mi sento stoccheggiare" un
fianco, e darmi qua, sotto el codrione'*, cinque o sei col-
pi de' maladetti. Io cosi fra il somno vi corsi sùbito con
la mano e trovai una cosa soda ed acuta, di modo che
tutto spaventato mi gittai fuora del letto, ricordando-
mi di quello pugnale che Clizia aveva il dì preso per dar-
mi con esso. A questo romore Pirro, che dormiva, si ri-
senti: al quale io dissi, cacciato più dalla paura che dal-
la ragione, che corressi" per uno lume, che costei era
armata per ammazzarci tutti a dui. Pirro corse, e, tor-
nato con il lume, in scambio di Clizia vedemo Siro, mio
famiglio, ritto sopra il letto, tutto ignudo, che per di-
spregio - hu! hu! hu! - e' mi faceva bocchi^" - hu! hu!
hu! - e manichetto dietro^'.
DAMONE Ha! ha! ha!
NICOMACO Ah! Damone, tu te ne ridi?
DAMONE E' m'incresce assai di questo caso; non di me-
no e' gli è impossibile non ridere.
DORIA (Io voglio andare a raguagliare, di quello che io ho
udito, la padrona, acciò che se le raddoppino le risa.)
NICOMACO Questo è il mal mio, che toccherà a riderse-
ne a ciascuno ed a me a piangnerne. E Pirro e Siro, al-
la mia presenzia, or si dicevano villania, or ridevano;
di poi COSI vestiti a bardosso^^ se n'andorno, e credo che
sieno iti a trovare le donne: e tutti debbono ridere. E
COSI ognuno rida e Nicomaco pianga!
DAMONE Io credo che tu creda che m'incresca di te e di
me, che sono per tuo amore entrato in questo leccete".
i6. Sta' saldo: Aspetta, aspetta. 17. stoccheggiare: letteralmente: colpire da
uno stocco, un pugnale. 18. qua, sotto el codrione: qui sotto il coccige (viene
da coda). 1^. che corressi: che corresse. 20. hocchi: boccacce. 21. mani-
chetto dietro: piegando un braccio, con il pugno chiuso, e facendo leva con for-
za coll'altro nell'articolazione del primo. È atto di scherno. 22. vestiti a bar-
dosso: andare a bardosso vuol dire andare a cavallo, ma senza sella; qui vuol di-
re: «vestitisi alla rinfusa». 23. entrato... lecceto: come cacciarsi in un ginepraio:
mi sono cacciato in questo imbroglio.
ATTO QUINTO 195
NICOMACO Che mi consigli ch'io faccia ? Non mi abban-
donare, per lo amor d'Iddio!
DAMONE A me pare, che, se altro di meglio non nasce,
che tu ti rimetta tutto nelle mani di Sofronia tua, e di-
cale che da ora innanzi e di Clizia e di te faccia ciò che
la vuole. La do verrebbe anch' ella pensare all'onore tuo,
perché sendo suo marito tu non puoi avere vergogna,
che quella non ne participi. Ecco che la vien fuora. Va',
parlale: ed io n'andrò intanto in piazza ed in mercato
ad ascoltare s'io sento cosa alcuna di questo caso, e ti
verrò ricoprendo^^ el più ch'io potrò.
NICOMACO Io te ne priego.
SCENA TERZA
Sofronia, Nicomaco.
SOFRONIA (Doria, mia serva, mi ha detto che Nicomaco
è fuora e ch'e' gli è una compassione a vederlo. Io vor-
rei parlargli, per vedere quel ch'e' dice a me di questo
nuovo caso. Eccolo di qua.) O Nicomaco!
NICOMACO Che vuoi ?
SOFRONIA Dove va' tu si a buonora? esci tu di casa sen-
za fare motto' alla sposa? Hai tu saputo come l'abbia
f atto^ questa notte con Pirro ?
NICOMACO Non so.
SOFRONIA Chi lo sa, se tu non lo sai ? che hai messo sot-
tosopra Firenze per fare questo parentado. Ora ch'e' è
fatto, tu te ne mostri nuovo' e malcontento.
NICOMACO Deh, lasciami stare. Non mi straziare.
SOFRONIA Tu se' quello che mi strazii, che dove tu do-
vresti racconsolarmi, io ho da racconsolare te; e quan-
24. ricoprendo: proteggendo (dalle maldicenze).
ni. I. sanza fare motto: senza dire neppure una parola. 2. Come... fatto: come
siano andate le cose. 3. nuovo: non direi «meravigliato» (Gaeta): ma, ignaro.
196 CLIZIA
do tu gli aresti a provedere\ e' tocca a me, che vedi
ch'io porto loro queste uova.
NicoMACO Io crederei che fussi bene che tu non volessi
il giuoco di me' affatto. Bastiti averlo avuto tutto que-
sto anno e ieri e stanotte più che mai.
SOFRONIA Io non lo volli mai el giuoco di te; ma tu sei
quello che lo hai voluto di tutti noi altri, ed alla fine di
te medesimo. Come non ti vergognavi tu ad avere al-
levata in casa tua una fanciulla con tanta onestade, ed
in quel modo che si allevano le fanciulle da bene, di'
volerla maritare poi ad uno famiglio cattivo e disutile,
perch'e' fussi contento che tu ti giacessi con lei? Cre-
devi tu però avere a fare con ciechi o con gente che non
sapessi interrompere le disonestà di questi tuoi dise-
gni ? Io confesso avere condotti' tutti quelli inganni che
ti sono stati fatti, perché a volerti fare ravvedere non
ci era altro modo, se non giugnerti in sul furto* con tan-
ti testimonii che tu te ne vergognassi, e di poi la ver-
gogna ti facessi fare quello che non ti arebbe potuto fa-
re fare ninna altra cosa. Ora la cosa è qui: se tu vorrai
ritornare al segno', ed essere quel Nicomaco che tu eri,
da uno anno indrieto, tutti noi vi tornereno e la cosa
non si risaprà; e quando la si risapessi, e' gli è usanza
errare ed emendarsi.
NICOMACO Sofronia mia, fa' ciò che tu vuoi: io sono pa-
rato a non uscire fuora de' tua ordini, pure che la cosa
non si risappia.
SOFRONIA Se tu vuoi fare cotesto, ogni cosa è acconcio.
NICOMACO Clizia dove è ?
SOFRONIA Manda'la'", subito che si fu cenato iersera, ve-
stita co' panni di Siro, in uno monistero.
NICOMACO Che dice Cleandro ?
SOFRONIA E allegro che queste nozze sien guaste, ma e'
gli è ben doloroso che non vede come e' si possa avere
Clizia.
4. e quando... provedere: e mentre dovresti tu provvedere loro. 5. lo... di me:
Penso sarebbe bene che la smettessi di burlarti di me. 6. di: per, al fine di. 7.
condotti: guidati. 8. giugnerti in sul furto: coglierti sul fatto. 9. al segno: al
punto di partenza, io. Manda 'la: L'ho mandata.
ATTO QUINTO 197
NICOMACO Io lascio avere ora a te il pensiero delle cose
di Cleandro. Non di meno, se non si sa chi costei è, non
mi parrebbe da dargliene.
SOFRONIA E' non pare anche a me. Ma e' conviene dif-
ferire il maritarla tanto che" si sappia di costei qualco-
sa, o che gli sia uscita questa fantasia. Ed intanto si farà
annullare il parentado di Pirro.
NICOMACO Governala come tu vuoi. Io voglio andare in
casa a riposarmi, che per la mala notte ch'io ho avuta
io non mi reggo diritto, ed anche perché io veggo
Cleandro ed Eustachio uscir fuora, con i quali io non
mi voglio abboccare'^ Parla con loro tu: di' la conclu-
sione fatta da noi, e che basti loro avere vinto e di que-
sto caso più non me ne ragionino.
SCENA QUARTA
Cleandro, Sofronia, Eustachio.
CLEANDRO Tu hai udito come el vecchio n'è ito chiuso
in casa. E' debbe averne tocco una rimesta' da Sofro-
nia: e' par tutto umile. Accostianci a lei per intendere
la cosa. Dio vi salvi, mia madre! Che dice Nicomaco?
SOFRONIA È tutto scorbacchiato^ il pover uomo! Pargli
essere vituperato. Hammi dato il foglio bianco' e vole
ch'io governi per lo avvenire a mio senno ogni cosa.
EUSTACHIO Ell'andrà bene! Io doverrò avere Clizia.
CLEANDRO Adagio un poco! e' non è boccone da te.
EUSTACHIO O questa è bella ora! io credetti aver vinto,
ed io arò perduto, come Pirro.
SOFRONIA Né tu, né Pirro l'avete avere"*; né tu, Clean-
dro, perché io voglio che la stia cosi.
II. tanto che: fintantoché. 12. abboccare: scambiar parola.
IV. I . rimesta: rimenata: una strapazzata. 2. scorbacchiato: svergognato [cor-
bacchioh, letteralmente, un grosso corvo). 3. hammi... bianco: mi ha dato car-
ta bianca. 4. l' avete avere: la dovete avere.
198 CLIZIA
CLEANDRO Fate almeno che la torni a casa, acciò ch'io
non sia privo di vederla.
SOFRONIA La vi tornerà o non vi tornerà, come mi parrà.
Andianne noi a rassettare la casa e tu, Cleandro, guar-
da se tu vedi Damone, perché gli è bene parlargli, per
rimanere' come s'abbia a ricoprire'' il caso seguito.
CLEANDRO lo sono malcontento.
SOFRONIA Tu ti contenterai un'altra volta.
SCENA QUINTA
Oleandro.
CLEANDRO Quando io credo essere navigato^ e la fortu-
na mi ripigne nel mezzo al mare e tra più turbide e tem-
pestose onde ! Io combattevo prima con lo amore di mio
padre; ora combatto con la ambizione di mia madre. A
quello^ io ebbi per aiuto lei; a questo sono solo, tanto
che io veggo meno lume^ in questo, che io non vedevo
in quello. Duolmi della mia malasorte, poiché io nac-
qui per non avere mai bene. E posso dire, da che que-
sta fanciulla ci venne in casa, non avere cognosciuti al-
tri diletti che di pensare a lei; dove sono si radi stati e
piaceri, che i giorni di quegli si annoverrebbono'* facil-
mente. - Ma chi veggo io venire verso me? è egli Da-
mone? E' gli è esso ed è tutto allegro. Che ci è, Da-
mone? che novelle portate? donde viene tanta alle-
grezza ?
5. rimanere: restare intesi. 6. ricoprire: celare agli occhi altrui.
V. i. essere navigato: avcv imito dì nzvxgzrc. 2. i4^«e//o: Contro quello. 3.
veggo meno lume: vedo meno chiaramente come uscirne. 4. si annoverrebbo-
no: si potrebbero contare.
ATTO QUINTO 199
SCENA SESTA
Damone, Cleandro.
D AMONE Né migliori novelle, né più felice, né che io por-
tassi più volentieri, potevo sentire!
OLEANDRO Che cosa è ?
DAMONE II padre di Clizia vostra è venuto in questa ter-
ra, e chiamasi Ramondo ed è gentiluomo napolitano,
ed è ricchissimo ed è solamente venuto' per ritrovare
questa sua figliuola.
OLEANDRO Che ne sai ?
DAMONE SòUo^ ch'io gì' ho parlato ed ho inteso il tutto
e non c'è dubbio alcuno.
OLEANDRO Come sta la cosa? Io impazzo' per la alle-
grezza.
DAMONE Io voglio che voi la intendiate da lui. Chiama
fuora Nicomaco e Sofronia tua madre.
OLEANDRO Sofronia! O Nicomaco! venite da basso a
Damone.
SCENA SETTIMA
Nicomaco, Damone, Ramondo, Sofronia.
NICOMACO Eccoci! Che buone novelle?
DAMONE Dico che '1 padre di Clizia, chiamato Ramon-
do, gentiluomo napolitano, è in Firenze per ritrovare
quella; ed hogli parlato e già l'ho disposto di darla per
moglie a Cleandro, quando tu voglia.
VI. i. è solamente venuto: è venuto soltanto ed espressamente. 2. Sòllo: Lo
so. 3. impazzo: impazzisco.
2 00 CLIZIA
NicoMACO Quando e' fia cotesto' io sono contentissimo.
Ma dove è egli ?
DAMONE Alla Corona^; e gli ho detto che venga in qua.
Eccolo che viene. E' gli è quello che ha dirieto' quelli
servidori. Facciànceli incontro.
NICOMACO Eccoci. Dio vi salvi, uomo da bene.
DAMONE Ramondo, questo è Nicomaco e questa è la sua
donna, che hanno con tanto onore allevato la figliuola
tua, e questo è il loro figliuolo e sarà tuo genero, quan-
do'* ti piaccia.
RAMONDO Voi siate tutti e ben trovati; e ringrazio Iddio
che mi ha fatto tanta grazia, che, avanti ch'io muoia',
rivegga la figliuola mia, e possa ristorare* questi genti-
luomini, che l'hanno onorata. Quanto al parentado, a
me non può essere più grato, acciò che questa amicizia
fra noi, per i meriti vostri cominciata, per il parentado'
si mantenga.
DAMONE Andiamo dentro, dove da Ramondo tutto il ca-
so intenderete appunto, e queste felice nozze ordine-
rete.
SOFRONIA Andiamo. E voi, spettatori, ve ne potrete an-
dare a casa, perché senza uscir più fuora si ordineran-
no le nuove nozze, - le quali fieno femmine, e non ma-
schie - come quelle di Nicomaco.
Canzone
Voi, che SI intente e quete,
anime belle, essemplo onesto, umile,
mastro saggio e gentile'
VII. I. Quando... cotesto: Se le cose stanno cosi. 2. Alla «Corona»: Alla lo-
canda della Corona. 3. dirieto: dietro. 4. quando: se e quando. 5. avanti
ch'io muoia: prima di morire. 6. ristorare: ricambiare i favori. 7. per il pa-
rentado: attraverso il vincolo parentale.
CANZONE. I. Mastro saggio e gentile: ammaestramento savio e nobile, eletto: è
apposizione di essemplo.
ATTO QUINTO 201
di nostra umana vita udito avete;
e per lui conoscete
qual cosa schifar dèsi^ e qual seguire
per salir dritti al cielo,
e sotto rado velo'
più altre assai, ch'or fora lungo a dire:
di lui preghiàn tal frutto appo voi sia,
qual merta tanta vostra cortesia.
2. schifar desi: evitare debbasi. 3. sotto rado velo: sotto il velo trasparente del-
la favola.
Indice
p. VII Introduzione di Guido Davico Bonino
LXix Nota biografica
Lxxm Bibliografia essenziale
Teatro
Andria
5 Atto primo
i8 Atto secondo
29 Atto terzo
39 Atto quarto
50 Atto quinto
Mandragola
65 Canzone e Prologo
71 Atto primo
82 Atto secondo
94 Atto terzo
1 1 1 Atto quarto
127 Atto quinto
Clizia
141 Canzone e Prologo
145 Atto primo
154 Atto secondo
204 INDICE
164 Atto terzo
177 Atto quarto
191 Atto quinto
Stampato per conto della Casa editrice Einaudi
presso Mondadori Printing S.p.A., Stabilimento N.S.M., Cles (Trento)
nel mese di marzo 2001
Edizione
c.L. 15839
Anno
2001 2002 2003 2004
AUFORNlALOSANCjELES
C3
CD
825. Einaudi Tascabili. Classici
Audria, Mandragola, Clizia: tre momenti di approccio al teatro
in tre diverse fasi della travagliata esistenza del segretario
fiorentino.
Anche se limitata a tre copioni, la produzione drammaturgica
di Machiavelli è di assoluto rilievo nel vasto e articolato orizzonte
teatrale del Cinquecento italiano. Allo stato attuale delle ricerche,
essa si articola in una traduzione-rifacimento deìVAfjdria
di Terenzio, animata vicenda di un amore contrastato fra due
giovani, poi felicemente approdati alle nozze; nel capolavoro
della Mandragola, dove un piccante adulterio si tramuta in una
dolente metafora sulla corruzione dei costumi nella Firenze
medicea; e, infine, nell'altrettanto suggestiva e malinconica
Clizia, storia, in questo caso, di un fallito tentativo di adulterio
da parte di un marito vecchio e intemperante.
11 testo curato da Guido Davico Bonino è filologicamente
aggiornato ed è arricchito da un dettagliato commento a pie
di pagina. L'ampio saggio introduttivo è seguito da una nota
biografica e da una bibliografia degli studi più recenti sul teatro
di Machiavelli.
Di Niccolò Machiavelli (1469-1527) Einaudi ha pubblicato
// Principe, Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua. Discorsi
sopra la prima deca di Tito Livio e il volume Opere.
Guido Davico Bonino, professore ordinario di Storia del teatro
all'Università di Torino, collabora con «La Stampa» e con la Rai.
Dirige con Roberto Alonge la Storia del teatro moderno
e contemporaneo nelle Grandi Opere Einaudi.
In copertina: Pittore fiorentino, decorazione di spalliera nota come Tavola prospettica
di Urbino, seconda metà del secolo XV. Foto Archivi Alinari, Firenze.
I. ile 20 000
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ISBN 88-06-15839-2
788806"1 58392'
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University of California Library
Los Angeles
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