Skip to main content

Full text of "Teatro : Andria, Mandragola, Clizia"

See other formats


J"     "^x!?.....,...-^ 


<QU3WS0ì=^        ^/S^MNflaVKV' 


^4cOFCAUF0ft(^      ^.OfCAllFOft<^ 


4^ 


^UONVSnì^        '^A^lAJMnMV' 


^tUBRARYQ^       ^vMUBRAHY(?/;^ 


^EUNIVfRii'A. 


^lOSANCElf/;> 


^.^OillVDJO^      %)inY3-J0^         "^^QNVSOÌ^       "^/SeMNflJWV' 


^OFCAlJFOftì^ 


^^Aavaan-^^"^ 


^OFCALIFO% 

oe 


.^WEUJJIVERI/A 


'<f5ia3HVS0V'^ 


^10SAHCEI% 


^ 


AWEUNIVERiyA 


^lOSAKCEl^^ 
o 


<ouaKYSOì'<^     "^/^ajAiNfl-aiw^ 


,5Ì\EllNIVERJ//v 


^10SA>ICEI% 
o 


-,^lUBRARYQr. 


^immYo/:^ 


'^<!/0JllY3JO^ 


^«i/OillVO-jO"^ 


^.OFCAllF0i?>^      ^OFCAUFOftj^ 


<riU'jNvsov<^     '^/^a3AiNni\^^       '^OAiivuani^^     '^(^^aviiani'^ 


%)inY3J0^ 


^^lUBRARYQ^^ 
§  1    ir^  ^ 


^<!/0JllV3dO^ 


oA^lOSANCElfj> 


AWEUNIVER%       ^ „^ 

5  L— 3n  S      -  f  h   Q         55 


4,Of-CAlJF0% 


AOFCAlIFOftjk. 


.^V\EUNIV£R^/A         vwlOSANCElfj^i, 


# 


%ÌI3AINIÌ3WV 


^«i/OdnVDJO^"       ^<!/0JllV3J0'^ 


^lOSANCElfx> 

o 


■^         %il3AINft-ì\\V' 


^OffAllF0%      ^.OfCAlIfO/?^ 


AWfUNIVBfi%       ^lOSANCflfx^ 


^dllYD-JO^"  ^TiUONVSOÌ^       "^/jadAINllil^V 


^^       ^^.OFCAIIFOft^ 


tT"       '3^    ,11-   -  p     »'    CL' 


AWE-UNIVERVa 


^TiUQNVSOÌ-'^       ^/Sa3AlNIÌ-3ftV 


4^ 


v<. 


^       ^lOSANCEUJv. 


^^tUB«ARYa<. 


^tUBRARYOr 


%aMINn3WV^         '^.àOJlìVDJO'^      '^«»OJI1V>JO'»^ 


1^ 


Ó        j§^     ^ —  '5' 

-V       o 

5     — 


^OFCAlIFOto 


^OFCALIFOft^ 


*^<:?AavaaiM^     "^^Aavaaiii^ 


è" 


(^      ^OFCALIFO/?^ 


^^MEUNIVHRSy^       ^lOSANCElfj-^ 


^TiUOKYSOl'^        %tì3AlNn3yiV^ 


AWEllfJIVER%       A>;lOSANCEUj^ 


Niccolò  Machiavelli 

Teatro 

Andria  Mandragola  Clizia 

A  cura  di  Guido  Davico  Bonino 
Nuova  edizione 


EINAUDI  TASCABILI 


Einaudi  Tascabili.  Letteratura 

825 


Teatro 

Andria  Mandragola  Clizia 

Dello  stesso  autore  nel  catalogo  Einaudi 

//  Principe 

Discorso  o  dialogo  intomo  alla  nostra  lingua 

Disconi  sopra  la  prima  deca  di  Tito  Livio 

Opere 


Niccolò  Machiavelli 
Teatro 

Andria    Mandragola    Clizia 


A  cura  di  Guido  Davico  Bonino 
Nuova  edizione 


Einaudi 


©  1979  e  2001  Giulio  Einaudi  editore  s.p.a.,  Torino 

Prima  edizione  «Nuova  Universale  Einaudi»  1979 

www.einaudi.it 

ISBN  88-06-15839-2 


PO 

Introduzione  ,     ^  „ 


La  produzione  teatrale  di  Niccolò  Machiavelli  com- 
prende -  allo  stato  delle  attuali  conoscenze  -  sei  copioni, 
di  cui  tre  soltanto,  sino  ad  oggi  almeno,  pervenutici*.  Tre 
sono  commedie  «originali»  (nella  particolare  accezione 
che  quest'aggettivo  aveva  nella  poetica  e  nella  pratica 
drammaturgica  cinquecentesca),  tre  dipendono,  in  ma- 
niera più  o  meno  diretta  e  marcata,  da  celebri  commedie 
latine. 

Di  questa  terna  di  testi,  per  cosi  dire,  di  riporto,  uno  è 
la  semplice  trascrizione  deW Eunuchus  di  Terenzio.  L'han- 
no rinvenuta,  alle  soglie  degli  anni  '60,  due  studiosi  del 
Segretario  fiorentino,  Sergio  Bertelli  e  Franco  Gaeta,  in 
un  codice  vaticano  (il  Rossiano  884,  dal  nome  del  pro- 
prietario, Gian  Francesco  Rossi,  scomparso  a  metà  Otto- 
cento) che  contiene,  anch'essa  di  pugno  del  nostro,  la  tra- 
scrizione del  De  rerum  natura  di  Lucrezio.  La  commedia 
terenziana,  a  giudicare  dalla  grafia,  potrebbe  essere  stata 
trascritta  nei  primi  anni  del  Cinquecento,  in  base  «a  per- 


'  Occorre  anche  ricordare  la  trascrizione  della  cosiddetta  Commedia  in  ver- 
si di  Lorenzo  di  Filippo  Strozzi.  Dobbiamo  al  prezioso  studio  d'insieme  di  A. 
GAREFFi,  La  scrittura  e  la  festa.  Teatro,  festa  e  letteratura  nella  Firenze  del  Rina- 
scimento, Bologna  1991  e  alla  sua  edizione  della  produzione  teatrale  dell'auto- 
re (l.  di  F.  STROZZI,  Commedie,  Ravenna  1980)  molte  utili  precisazioni.  Delle 
sue  tre  commedie,  la  cosiddetta  Commedia  in  versi.  La  Pisana  (o  La  Nutrice),  La 
Violante,  Machiavelli  trascrisse  la  prima  nel  codice  magliabechiano  «ora  segnato 
Banco  Rari  29».  Sino  al  1892  tale  copione  fu  stampato  tra  le  opere  minori  del 
Segretario  fiorentino.  La  Commedia  in  versi  e  la  Mandragola  sono  due  delle  fac- 
ce della  nascita  della  commedia  fiorentina:  «l'una  moralistica  e  l'altra  immora- 
listica, l'una  frutto  di  un'immagine  pubblica  e  l'altra  di  un'immagine  privata. . .  » 
(gareffi.  La  scrittura  e  la  festa  cit.,  p.  126,  ma  da  vedere  per  lo  Strozzi  sono  per 
intero  le  pp.  99-188). 


^1?!01 


*»/■/'» 


VI  GUIDO  DA  VICO  BONINO 

sonali  e  assai  diretti  interessi»:  ma,  altrettanto  plausibil- 
mente, potrebbe  risultare  un'esercitazione  giovanile,  in- 
trapresa liberamente  o  su  suggestione  del  maestro  Mar- 
cello Virgilio  di  Adriano  Berti\ 

Dobbiamo  col  Machiavelli  abituarci  a  questa  incertez- 
za di  datazione  come  ad  una  costante  nell'ambito  degli 
studi  sulla  sua  drammaturgia.  Il  secondo  testo  della  ter- 
na, ad  esempio,  non  solo  non  ci  è  giunto,  ma  potrebbe,  al 
limite,  non  essere  mai  stato  scritto.  Si  dovrebbe  trattare, 
ad  ogni  buon  conto,  di  una  sorta  di  riduzione  dell' Aulu- 
laria  di  Plauto,  di  cui  abbiamo  notizia  indiretta  attraver- 
so tre  passi  delle  Rime  di  Anton  Francesco  Grazzini  det- 
to il  Lasca.  Nel  primo,  si  accenna  ad  un  tale  «che  fé'  si 
gran  furto  al  Machiavello»;  nel  secondo,  si  taccia  il  lette- 
rato fiorentino  Giovan  Battista  Gelli  d'esser  stato  «in 
poesia  solenne  ladro»;  nel  terzo,  viene  messo  a  fuoco  il  le- 
game tra  le  due  allusioni:  Benedetto  Varchi,  nello  scrive- 
re la  sua  commedia  La  suocera,  pesantemente  debitrice 
àelVHecyra  di  Terenzio,  «in  questa  parte  ha  somigliato  il 
Gello  -  che  fece  anch'egli  una  commedia  nuova  -  ch'avea 
prima  composto  il  Machiavello». 

Cosa  c'è  di  vero  nelle  pesanti  allusioni  del  Lasca,  poe- 
ta assai  corrivo  alla  maldicenza  e  alla  polemica,  e  col  Gel- 
li  in  particolare,  da  cui  era  diviso  da  accese  diatribe  d'ac- 
cademia? E  qual  è,  poi,  l'oggetto  del  furto?  Ce  lo  dice  il 
nipote  del  nostro.  Giuliano  de'  Ricci,  figlio  dell'ultima  fi- 
glia di  Niccolò,  Bartolomea  o  Baccina,  nato  nel  1543  e 
morto  nel  1606:  lo  zio  ha  composto,  oltre  a  Mandragola  e 
Clizia,  «...pigliando  il  concepto  ddXV Aulularia  di  Plauto 
un'altra  commedia  detta  La  Sporta;  ma  perché  gli  frag- 
menti  di  essa  restarono  in  mano  di  Bernardino  di  Gior- 
dano, essendo  capitati  alle  mani  di  G.  B.  Gelli,  aggiunto- 
vi certe  poche  cose,  la  diede  fuori  per  sua...»  La  Sporta 
(una  delle  due  commedie  del  Gelli,  insieme  all'Errore)  sa- 
rebbe dunque  pesantemente  debitrice  di  una  scomparsa 


'  s.  BERTELLI  e  F.  GAETA,  Notcrelle  machiavelliane  Un  codice  di  Lucrezio  e  di 
Terenzio,  in  «Rivista  storica  italiana»,  lxxxiii,  1961,  pp.  544-55.  La  citazione 
è  dall'intervento  del  Gaeta. 


INTRODUZIONE  VII 

commedia  del  Machiavelli,  a  sua  volta  adattata  dall'/l«- 
lularia  di  Plauto\ 

L'ultima  della  terna  (e  qui  il  testo  ci  è  pervenuto)  è  la 
nota  traduzione  dcìl'Andria  di  Terenzio.  Almeno  in  que- 
sto caso,  con  le  date  siamo  un  poco  più  sul  solido.  Un  suo 
autorevole  editore,  Mario  Martelli,  nell'accostare  i  due 
autografi  della  versione,  che  contengono  «la  prima  stesu- 
ra» e  «la  copia  corretta»  del  lavoro,  ha  suggerito  come  da- 
ta probabile  della  prima  il  15 17  o  gli  inizi  del  15 18,  della 
seconda  il  1520:  e  gli  è  parso  plausibile  che  la  «prima  ste- 
sura» corrisponda  «ad  un  lavoro  condotto  in  fretta  e  fu- 
ria», forse  «su  ordinazione»,  ai  fini  «di  una  imminente 
rappresentazione»;  mentre  la  «bella  copia  corretta  e  va- 
stamente modificata  della  medesima»  sarebbe  stata  «re- 
datta a  qualche  anno  di  distanza»,  coll'intento  di  dare  al 
proprio  lavoro  «  finitezza  »^ 

Forse  per  un  (comprensibile)  rispetto  per  la  grande  sta- 
tura del  Machiavelli,  questa  sua  traduzione  è  stata,  in 
qualche  misura,  sopravvalutata  o  non  collocata  nella  giu- 
sta luce.  Si  tratta,  indubbiamente,  di  un  lavoro  di  note- 
vole dignità,  che  trova  i  suoi  accenti  più  suggestivi,  come 
ha  mostrato  il  Blasucci,  in  quei  rapidi  assaggi  di  «valoriz- 
zazione del  dialogo  latino  in  funzione  di  una  sua  resa  vi- 
vace nel  fiorentino  parlato»'.  Sono  un  mannello  di  battu- 
te che  ritroveremo,  briosamente  riatteggiate,  nell'in- 
confondibile parlata  di  Nicla  nella  Mandragola.  Altre  se 
ne  possono  aggiungere,  felici  di  per  sé,  anche  al  di  fuori 


'  A.  UGOLINI,  Le  opere  dì  Giambattista  Celli,  Pisa  1898,  pp.  80  sgg.;  i.  sane- 
si,  La  commedia,  I,  Milano  19542,  pp.  339-40  e  797.  L'«incriminata»  La  Spor- 
ta si  può  leggere  in  g.  b.  gelli.  Opere,  a  cura  di  I.  Sanesi,  Torino  1952,  nonché 
in  Commedie  del  Cinquecento,  a  cura  di  A.  Borlenghi,  I,  Milano  1959.  Per  i  rap- 
porti Lasca-Gelli,  si  veda  m.  plaisance.  Culture  et  politique  à  Florence  de  1^42 
à  135J  :  Lasca  et  les  Humidi  auxprises  avec  l'Académie  Fiorentine,  in  Les  écrivains 
et  le  pouvoir  en  Italie  à  l'epoque  de  la  Renaissance,  Paris  1974,  pp.  149-242.  Il 
manoscritto  di  Giuliano  de'  Ricci,  cui  facciamo  riferimento,  è  il  cosiddetto  Prio- 
rista.  La  citazione  è  tratta  da  F.  neri,  Sulle  prime  commedie  fiorentine.  Prato 
1915,  p.  18  (la  titolazione  in  maiuscolo  e  in  corsivo  è  nostra). 

*  M.  MARTELLI,  La  Versione  machiavelliana  dell' Andria,  in  «Rinascimento», 
XIX,  1968,  pp.  203-74. 

'  Citiamo,  per  quanto  concerne  gli  scritti  letterari,  da  N.  machiavelli,  Ope- 
re letterarie,  a  cura  di  L.  Blasucci,  Milano  1964,  pp.  329  e  326. 


vili  GUIDO  DAVICO  BONINO 

dell'area  municipale  e  popolaresca*.  E  c'è  poi  qualche 
«ampliamento»  azzeccato  per  le  occasioni  sceniche  che 
potrebbe  suggerire  ad  un  regista  sensibile'.  Ma,  in  com- 
penso, non  mancano  le  vere  e  proprie  sviste,  gli  indebiti 
raccorciamenti,  le  inversioni  -  all'interno  di  un  dialogo  - 
di  una  battuta  con  la  sua  replica  o  viceversa. 

Piuttosto,  viene  da  chiedersi  perché  una  traduzione- 
esercitazione  da  Terenzio,  perché  da  quella  commèdia  e 
non  da  altre,  e  sulla  base  di  quale  edizione  a  stampa.  Do- 
mande, tutt'e  tre,  alle  quali  non  si  può  che  rispondere  in- 
duttivamente. Alla  prima  si  può  trovar  sfogo  riflettendo 
sulle  notevoli  edizioni  terenziane  apparse  dopo  la  princi- 
pe di  Strasburgo  del  1470;  sulla  recita  da  parte  degli  al- 
lievi del  filologo  Giorgio  Antonio  Vespucci  prevosto  del 
Duomo  di  Firenze,  nel  1476,  prima  a  palazzo  Medici  in 
via  Larga,  e  poi  dinanzi  alla  Signoria,  proprio  dell' Andria; 
su  un  corso  dedicato  proprio  a  questa  commedia  dal  Poli- 
ziano nello  Studio  fiorentino  nel  1484-85*.  Col  che  si  sa- 
rebbe, almeno  intuitivamente,  risposto  anche  alla  secon- 
da domanda:  senza  dire  che  in  questa  commedia  s'ac- 
campa una  figura  di  servo.  Davo,  di  così  ingegnosa  dutti- 
lità nella  macchinazione  dell'intrigo,  di  cosi  callida  astu- 
zia nella  realizzazione  del  medesimo  da  non  poter  non 
pensare  allo  sviluppo  che  questo  tipo  di  personaggio  avrà 
nel  regista-motore  della  Mandragola,  il  non  più  servo,  ma 
parassita,  Ligurio.  Quanto  alla  terza  domanda,  un  filolo- 
go agguerrito  quale  Brian  Richardson,  circa  una  trentina 
d'anni  or  sono,  oscillava  tra  il  possibile  utilizzo  di  varie 
edizioni  -  molte  delle  quali  veneziane,  tra  il  1481  e  il  1494 
-  dalle  quali  Machiavelli  aveva,  involontariamente,  tra- 
vasato nella  sua  versione  varie  lezioni  corrotte.  Più  di  re- 
cente (1997)  Edoardo  Fumagalli  ci  sembra  abbia,  piutto- 


'  Cosi  il  «giugnere  al  sonno»  di  I,  2,  assai  pili  aggressivo  dell'«interoscitan- 
tis  opprimi»;  o  l'efficace  «ne  viene  pensativo  di  qualche  luogo  solitario»  di  II, 
4;  o  il  geniale  «Io  sono  in  su  la  fune»  per  «crucior»,  in  V,  2. 

'  Tipica,  in  questa  direzione,  I,  5,  ricca  di  effetti,  soprattutto  nel  concita- 
to resoconto  di  Panfilo  a  Miside  delle  angherie  del  padre. 

'  A.  POLIZIANO,  La  commedia  antica  e  l'«Andria»  di  Terenzio,  a  cura  di  R. 
Lattanzi  Roselli,  Firenze  1973. 


INTRODUZIONE  IX 

Sto  persuasivamente,  ipotizzato  che  l'edizione  utilizzata 
sia  quella  veneziana  del  15 15  di  Lazzaro  de'  Scardi  (il  dif- 
fusore a  Venezia  delle  opere  del  Savonarola),  ricca  del 
commento  di  Guido  Juvenalis,  cioè  Guy  Jouenneaux, 
francese  del  Maine,  nato  a  metà  del  Quattrocento  e  mor- 
to nel  1507,  monaco  benedettino'. 


Ma  veniamo  ai  tre  cosiddetti  «originali».  Di  uno  ci  è 
giunta  la  semplice  citazione,  e  sono  le  Maschere,  di  cui  di- 
scorre, ancora  una  volta,  il  già  evocato  nipote  Giuliano 
de'  Ricci:  «et  di  più  conpose  ad  instantia  di  M.  Marcello 
Vergilio  et  ad  imitatione  delle  Nebule  et  altre  commedie 
di  Aristofane  un  ragionamento  a  foggia  di  Commedia  et 
in  atto  recitabile  et  lo  intitolò  le  Maschere  che  l'originale 
si  ritruovò  appresso  di  me  fragmentato  et  non  perfetto  et 
tanto  mal  concio  che  io  non  l'ho  copiato  sì  come  ho  fatto 
molte  altre  cose  sue  discorsi  et  lettere  non  stampate  et  cre- 
do anche  non  lo  volere  copiare  perché  sotto  nomi  finti  va 
lavorando  et  mal  trattando  molti  di  quei  concittadini  che 
nel  1504  vivevano».  Non  sappiamo,  per  la  verità,  se  si 
tratta  di  una  vera  e  propria  commedia  (o  d'una  satira  in 
forma  di  dialogo,  epperciò  comunque  «recitabile»);  non 
sappiamo  se  quel  1504  (l'anno  della  delegazione  presso 
Luigi  XII  a  Lione  e  del  Decennale  primo,  tanto  per  rife- 
rirci al  lavoro  politico  e  agli  svaghi  letterari)  sia  l'anno  del- 
la composizione,  o  quello  in  cui  la  vicenda  è  fittiziamen- 
te  ambientata;  non  possiamo  neppure  dedurre  attraverso 
quali  «mediazioni»  Machiavelli  potesse  «imitare»  Ari- 
stotele. Un  successore  del  Poliziano  sulla  sua  cattedra  al- 
lo Studio,  Eufrosino  Bonini,  valente  umanista,  aveva  ap- 
prontato nel  15 15,  per  i  Giunti,  un'edizione  eccellente  di 


'  B.  RICHARDSON,  Evoluzione  stilistica  e  fortuna  della  tradizione  machiavellia- 
na dell' «Andria»,  in  «Lettere  Italiane»,  xxv  (1973),  pp-  319-38;  e.  Fumagal- 
li, Machiavelli  traduttore  di  Terenzio,  in  «Interpres»,  16  (1997),  s.  2,  n.i,  pp. 
204-39:  il  quale  rinvia  per  il  de'  Scardi  a  D.  E.  rmodes.  Annali  tipografici  di  Laz- 
zaro de'  Soardi,  Firenze  1978,  e  per  lo  Jouenneaux,  il  cui  commento  apparve 
per  la  prima  volta  a  Parigi  nel  1492,  all'ottocentesca  Histoire  littéraire  du  Maine 
di  Jean  Barthélémy  Hauréau. 


X  GUIDO  DA  VICO  BONINO 

Aristofane  (e  la  sua  Comedia  di  lustizia  s'ispirava  al  Fiu- 
to, con  i  Medici  nei  panni  di  medici  al  capezzale  di  Fi- 
renze, e  con  dedica  a  Jacopo  Salviati,  genero  del  Magni- 
fico): e  Jacopo  del  Bièntina  sempre  al  Fiuto  s'ispirò  per  la 
sua  Fortuna^".  Allo  stato  attuale  delle  ricerche  dobbiamo 
limitarci  ad  osservare  che  la  testimonianza  del  de'  Ricci  è 
suggestiva,  più  che  per  i  dati  che  fornisce,  per  quell'acco- 
stamento, criticamente  assai  plausibile,  tra  Machiavelli  e 
il  creatore  della  commedia  antica  come  tra  due  scrittori 
dell'aggressività  e  dello  scherno.  Il  legame,  o  l'affinità  elet- 
tiva, doveva  essere  evidente  agli  intellettuali  più  lucidi  del 
tempo  se  -  come  ha  dimostrato  il  Raimondi,  in  una  delle 
sue  affascinanti  quètes  tra  il  filologico  e  il  culturale  -  già 
sul  finire  degli  anni  '20,  a  breve  intervallo  dalla  scompar- 
sa del  Segretario,  Paolo  Giovio,  nell'intento  di  celebrar- 
ne la  memoria  negli  Elogia  virorum  illustrium,  osserva  a 
proposito  d^W^i  Mandragola:  «sed  comiter  aestimemus  eth- 
ruscos  sales  ad  exemplar  comoediae  veteris  Aristophanis, 
in  "Nicla"  praesertim  comoedia...»". 

Tramite  le  Maschere,  siamo  giunti  alla  Mandragola.  An- 
che di  questa  commedia  non  disponiamo  di  una  datazio- 
ne inoppugnabile:  ma  la  più  accreditata,  tutto  sommato, 
sembra  continui  ad  essere  quella  proposta  da  un  autore- 
vole biografo  del  Machiavelli,  Roberto  Ridolfi.  Sin  dalla 
prima  edizione  della  sua  Vita  di  Niccolò  Machiavelli  (1954) 
il  Ridolfi  ritenne  di  cogliere  nella  battuta  della  bigotta  a 
fra'  Timoteo  («Credete  voi  che  '1  Turco  passi  questo  an- 
no in  Italia»,  in  III,  3)  un  richiamo  di  stringente  attualità 
alla  grande  paura,  che,  sul  principio  del  15 18,  attanagliò 
molte  città  italiane:  la  paura,  per  l'appunto,  che  il  belli- 
coso Selim  («i  cui  pensieri»,  a  quanto  accenna  il  Guic- 
ciardini stesso  nella  Storia  d'Italia,  sembravano  in  quel 


'°  La  commedia  del  Bonini  si  può  ora  leggere  in  Tre  commedie  fiorentine  del 
primo  ^00,  a  cura  di  L.  Stefani,  Ferrara  1986;  quella  del  Bièntina  in  Le  farse 
morali  fiorentine,  a  cura  di  M.  Cataudella,  Salerno  1984. 

"  E.  RAIMONDI,  Machiavelli,  Giovio  e  Aristofane,  in  Politica  e  commedia,  Bo- 
logna 1972,  pp.  235-52.  Il  perspicuo  giudizio  del  Giovio  si  può  leggere  in  p. 
lOVll,  Nicholaus  Machiavellus,  in  Elogia  virorum  illustrium,  LXXXVII,  ora  in 
Opere,  a  cura  di  R.  Meregazzi,  Roma  1972,  Vili,  p.  in. 


INTRODUZIONE  XI 

frangente  «volti  tutti  a  Italia»)  si  muovesse  alla  volta  del- 
la cristianità.  L'ammicco  diretto,  senza  mezzi  termini,  del 
Machiavelli  al  suo  pubblico  collocherebbe  dunque  la  com- 
media nel  I5I8^^  Tornando  otto  anni  dopo  (1962)  sulla 
questione  in  un  suo  contributo  erudito",  il  Ridolfi  cre- 
dette opportuno  circoscrivere  ulteriormente  la  data  di 
composizione  della  commedia  tra  la  metà  di  gennaio  e  la 
metà  di  febbraio  del  15 18:  e  questo  in  base  a  particolari 
sia  interni  al  testo  (la  sua  ambientazione  in  inverno;  il 
computo  delle  ore  secondo  l'antica  usanza,  molto  ben  det- 
tagliato nel  copione)  che  esterni  (il  fatto  che  proprio  in 
quel  periodo  rincrudivano  le  notizie  sulla  minaccia  del 
Turco;  il  fatto  che,  di  norma,  le  «novità»  teatrali  veniva- 
no presentate  di  carnevale);  e  ne  ha  dedotto  infine  (cor- 
reggendo in  tal  senso  l'ipotesi  di  un  altro  studioso,  Ales- 
sandro Parronchi)'"*  che  la  commedia  venisse  rappresen- 
tata la  prima  volta  poco  prima  della  partenza  del  dedica- 
tario del  Principe,  il  cosidetto  duca  d'Urbino  Lorenzo  di 
Piero  il  Gottoso  de'  Medici  (per  via  del  padre,  nipote  di 
Lorenzo  il  Magnifico)  per  la  Francia,  dove  il  capitano  ge- 
nerale e  «padron  piccolo»  della  città  andava  a  prendere 
moglie  neUa  persona  di  Maddalena  de  la  Tour  d'Auver- 
gne,  e  di  nuovo  nel  settembre  dello  stesso  '18  al  ritorno  a 
Firenze  degli  sposi. 

Le  congetture  del  Ridolfi  non  sono  parse  a  tutti  inte- 
ramente persuasive:  alcuni  studiosi  si  sono  limitati  a  espri- 
mere le  loro  perplessità,  altri  hanno  avanzato  altre  pro- 
poste di  datazione". 

In  anni  recenti  (1992)  Giorgio  Inglese  -  cui  dobbiamo 


"  R.  RIDOLFI,  Vita  di  Niccolò  Machiavelli,  Roma  1954,  p.  444. 

"  ID.,  Composizione,  rappresentazione  e  prima  edizione  della  «Mandragola», 
in  «La  Bibliofilia»,  lxiv,  1962,  pp.  258-300,  poi  in  Studi  sulle  commedie  del 
Machiavelli,  Pisa  1968,  pp.  11-35. 

'*  A.  PARRONCHi,  La  prima  rappresentazione  della  «Mandragola» .  Il  modello  per 
l'apparato.  L'allegoria,  in  «La  Bibliofilia»,  lxvi,  1962,  pp.  37-86. 

"  F.  cuiAPPELLi,  Sulla  composizione  della  «Mandragola»,  in  «L'Approdo  let- 
terario», 1965,  pp.  84-97;  D.  DELLA  TERZA,  L' immagine  più  recente  di  Machia- 
velli, in  «Italian  Quarterly»,  xiv,  1970,  pp.  91-113  ed  ora  in  Forma  e  memoria, 
Roma  1979,  pp.  93-1 14;  s.  Bertelli,  When  did  Machiavelli  write  the  «Mandra- 
gola»?, in  «Renaissance  Quarterly»,  autunno  1971,  pp.  317-28. 


Xn  GUIDO  DAVICO  BONINO 

l'edizione  criticamente  accertata  di  questa  commedia 
(1997),  da  noi  adottata  nel  presente  volume  -  ha  osser- 
vato che  il  terrore  del  Turco  -  testimoniato,  ad  esempio, 
dal  Cerretani  nel  suo  Dialogo  della  mutazione  di  Firenze^'' 
per  il  15 18  -  può  aver  fornito  «materia  di  battuta  anche 
in  seguito»:  e  cita,  in  appoggio  a  quest'ipotesi,  una  lette- 
ra di  Filippo  de'  Nerli  a  Machiavelli  in  data  5  agosto  1520 
e  una  nota  da  l  diarii  del  veneziano  Marin  Sanudo  riferi- 
ta al  17  maggio  1520,  ambedue  relative  allo  stesso  incu- 
bo. D'altro  canto,  prosegue  l'Inglese,  «la  rubrica  dell'uni- 
co manoscritto  (della  Mandragola) ,  il  Rediano  129  della 
Biblioteca  Mediceo-Laurenziana  di  Firenze,  reca  la  data 

15 19,  ...  che  in  stile  fiorentino  corrisponde  al  periodo  25 
marzo  1519-24  marzo  1520»:  e  tale  data  è  da  considerar- 
si «come  dato  cronistico  che  registra  l'occasione  sociale 
del  testo:  forse  una  allusione  al  carnevale  del  15 19  (con- 
clusosi martedì  21  febbraio  1520)».  Non  è  allora  ~  sem- 
pre secondo  l'Inglese  -  del  tutto  da  escludersi  che  la  let- 
tera di  Battista  della  Palla  a  Machiavelli  in  data  26  aprile 

1520,  in  cui  si  preannunciava  all'autore  una  assai  diletto- 
sa messinscena  del  copione  dinanzi  a  papa  Leone  X,  pre- 
luda davvero  alla  «seconda»  replica  romana  del  testo:  cui 
si  riferisce  anche  il  Giovio,  nel  seguito  della  citazione  già 
riportata  («la  commedia  Nicia,  già  recitata  a  Firenze,  per 
la  sua  fama  di  straordinaria  comicità  papa  Leone  volle  ave- 
re a  Roma,  con  tutto  l'apparato  scenico  e  i  medesimi  at- 
tori, affinché,  rinnovata  la  festa,  di  quel  piacere  parteci- 
passe l'Urbe»  -  adottiamo  la  versione  dell'Inglese).  Lo 
studioso  non  lo  dice,  ma  lascia  ben  comprendere  che  un 
papa  non  avrebbe  aspettato  due  anni  per  concedersi  un 
COSI  ludico  privilegio".  L'ipotesi  dell'Inglese  è  suggestiva: 


"  B.  CERRETANI,  Dialogo  della  mutazione  di  Firenze,  a  cura  di  R.  Mordenti, 
Roma  1990,  pp.  123-24. 

"  Per  tutta  la  complessa  (e  forse  non  ancora  del  tutto  risolta  questione)  si 
legga  G.  INGLESE,  «Mandragola»  di  Niccolò  Machiavelli,  in  Letteratura  Italiana .  Le 
Opere,  dir.  da  A.  Asor  Rosa,  /.  Dalle  origini  al  Cinquecento,  Torino  1992,,  pp. 
1009-31.  Vorremmo  qui  osservare  che  uno  studioso  della  statura  di  Carlo  Dio- 
nisotti,  in  un  suo  affascinante  «periplo»  delle  due  commedie  machiavelliane  (e. 
DiONisoTTi,  Appunti  sulla  «Mandragola»,  in  «Belfagor»  xxix,  1984,  pp.  621-44) 


INTRODUZIONE  XIII 

ma,  per  scrupolo  di  verità,  preferiamo  in  questa  sede  la- 
sciare aperta  la  questione:  e,  più  riposatamente,  volgerci 
alla  genesi  «interna»  della  commedia,  che  -  qualunque  ne 
sia  stata  l'occasione  esterna  -  è  delle  più  affascinanti. 


A  voler  semplificare  (come  ci  accadrà  nel  corso  di  que- 
ste pagine,  che  hanno  la  funzione  di  un'essenziale  guida 
alla  lettura),  dovremmo  dire  che  il  Machiavelli  della  Man- 
dragola porta  a  livelli  di  raffinatezza  inconsueta  il  proce- 
dimento adottato  (non  senza  qualche  incertezza  e  di- 
scontinuità, e  certo  con  minore  eleganza)  dai  commedio- 
grafi che  l'hanno  appena  preceduto  (un  Ludovico  Ariosto 
nelle  sue  due  prime  commedie  in  prosa.  La  Cassarla  (1508) 
e  ISuppositi  (1509),  un  Bernardo  Dovizi  da  Bibbiena  nel- 
la sua  prima  e  ultima  commedia,  Calandra  (15 15))  cioè  la 
«contaminazione».  Non  solo  egli  dispone,  rispetto  a  co- 
storo, di  materiali  assai  più  vari  e  ricchi  di  suggestione: 
ma  li  manipola  con  una  volontà  di  travestimento  ben  al- 
trimenti scaltra. 

Lettore  onnivoro  (ora  soprattutto,  che  è  costretto 
all'inattività  politica)  e  prodigo  di  rinvìi.  Machiavelli  di- 
spone di  una  gamma  di  «fonti»  molto  estesa,  come  ha  di- 
mostrato, ancora  una  volta,  il  Raimondi,  che  per  primo 
ne  ha  ricostruito,  a  posteriori,  la  trama:  alcuni  Libri  Ve- 
terotestamentari, come  quello  di  Tobia;  il  prediletto  Li- 
vio; Orazio,  Catullo,  l'Ovidio  delle  Metamorfosi,  Lucre- 
zio, Tibullo  e  gli  elegiaci  latini;  il  teatro  plautino  e  teren- 
ziano  (filtrato,  quest'ultimo,  attraverso  la  versione 
àtVC Andria);  il  Boccaccio  del  Decameron  (per  almeno  tre 
luoghi  deputati:  III,  7;  VII,  7;  Vili,  9);  e  lo  stesso  Bib- 


ha  ritenuto  di  precisare:  «E  a  questo  punto  osservo  che  doveva  trattarsi  della 
prima  rappresentazione  a  Firenze,  non  a  Roma,  procurata  dalla  compagnia,  che 
il  Della  Palla  chiamava  "nostra",  ossia  dalla  appena  ridesta  e  postulante  Sacra 
Accademia,  non  dalla  semidefunta  e  privata  compagnia  degli  Orti  Oricellari. 
Perché  di  una  commedia  fiorentina,  di  Machiavelli  per  giunta,  che  fosse  sul  pun- 
to d'essere  rappresentata  a  Roma,  né  Leone  X  né  il  Bibbiena  avevano  bisogno 
d'essere  informati  dal  Della  Palla,  giunto  di  fresco  da  Firenze  e  buon  informa- 
tore delle  cose  di  là.  Insomma  è  probabile  che  la  Mandragola  fosse  composta  nel 
1519  e  rappresentata  la  prima  volta  a  Firenze  nel  1520». 


XIV  GUIDO  DAVICO  BONINO 

biena  della  Calandra.  E,  di  recente,  si  è  parlato  dello  Sve- 
tonio  del  De  vita  Caesarum  e  di  altro  Boccaccio,  quello  del 
De  mulieribus  claris:  nonché  dell'anonima  Novella  del  Gras- 
so legnaiuolo  e  delle  Porrettane  di  Sabadino  degli  Arienti. 

Ma  l'infaticabile  mimetismo  del  Segretario,  la  sua  ca- 
maleontica ironia,  smaniosa  di  prestiti,  di  ben  almanacca- 
ti intarsi,  si  sfoga  anche  per  «autocitazione»,  da  scritti  pro- 
pri e  dei  sodali:  uno,  in  particolare,  quel  Francesco  Vet- 
tori, alla  cui  intimità  e  comprensione  è  legata  la  fase  più 
dolente  del  suo  esilio.  In  un  gioco  fittissimo  di  rinvìi,  co- 
me se  stesse  caparbiamente  montando  un  vero  e  proprio 
puzzle,  Machiavelli  si  diverte  a  recuperare  dalle  sue  lette- 
re al  Vettori  e  dalle  responsive  dell'amico  stilemi,  clauso- 
le retoriche,  allusioni  grassocce,  motti  di  spirito,  oltrag- 
giose volgarità:  e,  con  bizzosa  indiscrezione,  si  spinge  a 
frugare  (magari  soltanto  con  l'arte  della  memoria)  in 
un'operetta  del  suo  Francesco,  il  prediletto  Viaggio  in  Ale- 
magna  (un  curioso  miscuglio  di  relazione  di  viaggio,  gior- 
nale privato  e  protoromanzo,  scritto  dopo  il  1509),  met- 
tendo a  profitto  notazioni  somatiche  e  caratteriali,  o,  addi- 
rittura, situazioni  esistenziali  tratte  da  casi  di  «cronaca  ero- 
tica», squadernati  con  distaccato  scetticismo  dal  Vettori 
con  la  tecnica  della  novella  e,  in  un  caso,  della  commedia'*. 

Di  tutto  questo  schedario  sempre  aperto  e  disponibile, 
di  questo  fondaco  di  scritti  propri  ed  altrui,  che  via  via 
vengono  riportati  alla  luce  e  rivivificati  con  opportuni  in- 
terventi di  una  letteratissima  «chirurgia  estetica»,  le  Let- 
tere del  Machiaveli  sono  certo  il  libro  che  più  ci  parla,  a 
vari  livelli,  della  commedia,  anche  se,  in  modo  esplicati- 
vo, vi  fa  cenno  soltanto  a  messinscena  avvenuta. 

Sarà  effetto  degli  andirivieni  da  scena  a  scena,  da  bat- 
tuta a  battuta,  cui  idi  Mandragola  irresistibilmente  costrin- 
ge anche  il  lettore  più  refrattario,  ma  capita,  intanto,  di 
imbattersi  in  queste  Lettere,  in  personaggi  colti  dal  vivo, 
che  rimandano  a  personaggi  ricreati  nella  finzione  sceni- 
ca. Cosi  quell'Antonio  Della  Valle,  zimbello  dei  colleghi 

"  R.  RAIMONDI,  il  segretario  a  teatro,  in  Politica  e  commedia  cit.,  in  part.  le 
pp.  173-97- 


INTRODUZIONE  XV 

di  cancelleria  -  con  una  moglie,  Costanza,  che  «è  pregna 
e  quelli  sua  figliuoli  dicono  non  esser  suo,  e  lui  se  ne  di- 
spera», sinché  non  rimette  la  questione  «ne'  frati  di  S.to 
Felice»,  e  il  solito  abate  «li  ha  voluto  toccare  il  corpo»  - 
fa  pensare  a  un  Nicla  post  factum^'^ .  E  quel  «frate  di  S. 
Francesco»,  «calamita  di  tutti  i  ciurmatori  del  mondo», 
che  predica  «multa  magna  et  mirabilia»  in  Santa  Croce, 
sembra  un  prototipo,  alla  lontana,  di  Timoteo^".  E  il  ridi- 
colo travestimento  notturno  di  un  amico  -  nella  fattispe- 
cie. Giuliano  Brancacci,  detto  il  Brancaccio,  spinto  fuori 
casa,  in  una  Firenze  tutta  scrosci  e  lampi,  dalle  proprie 
smanie  omosessuali  -  rinvia  alla  grottesca  «mascherata» 
di  un  altro  smanioso,  Callimaco^'. 

Ma  quand'anche  suggestioni  del  genere  fossero  troppo 
vaghe  o  labili,  le  Lettere  introducono  comunque  alla  Man- 
dragola perché  è  qui  che,  in  prima  istanza,  si  dispiega  - 
con  altra  snellezza  di  trapassi  che  nella  non  tutta  risolta 
versione  deWAndria  -  il  talento  di  commediografo  del  Ma- 
chiavelli. Basterebbero  a  dimostrarlo  tre  lettere,  scritte, 
in  varie  date,  nell'arco  di  cinque  anni,  come  quella  dell'av- 
ventura veronese  con  l'orribile  vecchia  (che  il  Machiavel- 
li spedisce  dalla  cittadina  veneta  al  Vettori  l'S  dicembre 
1509),  quella  degli  amori  di  Filippo  Casavecchia  e  del 


"  «Ser  Antonio  della  Valle  è  impacciato  perché  madonna  Gostanza  sua  è 
pregna  et  quelli  sua  figlioli  dicono  non  esser  suo,  et  lui  se  ne  dispera;  et  han- 
nola  rimessa  ne'  frati  di  S.to  Felice  et  hanno  sodo  amendua  le  parti  di  starne 
al  indicato;  et  l'abate  li  ha  voluto  toccare  il  corpo,  et  infino  ad  hora  le  cose  van- 
no assai  bene:  intenderete  il  successo»  (cito  da  una  lettera  di  Biagio  Buonac- 
corsi  a  Niccolò,  del  21  dicembre  1502,  compresa  in  n.  machiavelli.  Opere,  II, 
a  cura  di  C.  Vivanti,  Torino  1999,  p.  77). 

"  «E'  si  trova  in  questa  nostra  città,  calamita  di  tutti  i  ciurmatori  del  mon- 
do, un  frate  di  s.  Francesco,  che  è  mezzo  romito,  el  quale,  per  aver  più  credi- 
to nel  predicare,  fa  professione  di  profeta;  et  ier  mattina  in  Santa  Croce,  dove 
lui  predica,  disse  multa  magna  et  mirabilia»  (ibid.,  p.  299,  da  una  lettera  di  Nic- 
colò al  Vettori,  in  data  19  dicembre  1513). 

"  «Giuliano  Brancacci,  verbigrazia,  vago  di  andare  alla  macchia,  una  sera 
infra  l'altre  ne'  passati  giorni,  sonata  l'Ave  Maria  della  sera,  veggendo  il  tempo 
tinto,  trarre  vento,  et  piovegginare  un  poco  (tutti  segni  da  credere  che  ogni  uc- 
cello aspetti),  tornato  a  casa,  si  cacciò  in  piedi  un  paio  di  scarpette  grosse,  cin- 
sesi  un  carnaiuolo,  tolse  un  frugnuolo,  una  campanella  al  braccio,  e  una  buona 
ramata...»  (ibid.,  da  una  lettera  di  Niccolò  al  Vettori,  in  data  25  febbraio  15 14, 
P-  314)- 


XVI  GUIDO  DAVICO  BONINO 

Brancacci  (sempre  del  Segretario  all'amico,  da  Firenze, 
vergata  il  4  febbraio  15 14)  e  quella,  appena  ricordata,  dei 
turbamenti  del  Brancacci  omosessuale  (25  febbraio  15 14). 
Sono  tre  relazioni  epistolari,  d'accordo,  e  la  seconda  è, 
addirittura,  in  chiave  di  «ripresa»  di  un  racconto  del  Vet- 
tori: ma  il  loro  trattamento  è  squisitamente  drammatur- 
gico. L'avventura  veronese  -  se  ubbidisce  ad  una  precisa 
tradizione  nella  descrizione  della  donna  di  rara  bruttez- 
za, del  «mostro»:  una  descrizione  dettagliata  allo  spasi- 
mo, con  intenti  di  deliberato  ribrezzo"  -  è,  in  effetti,  uno 
sketch  teatrale  a  tre  personaggi:  una  «vecchia  ribalda»  in 
veste  di  mezzana,  l'orribile  prostituta  di  cui  si  è  detto,  e 
il  Machiavelli  stesso,  un  protagonista  a  metà  tra  il  timido 
e  il  minchione,  il  «peritoso»  e  il  «tutto  cazzo»,  investito 
dal  pesante  sarcasmo  del  Machiavelli  autore.  Colpisce, 
nello  sketch,  l'icasticità  delle  poche  battute  (lo  stupore,  ad 
esempio,  della  laida  femmina  nel  vedersi  rimirata:  «Che 
avete  voi,  messere?»),  la  rapidità  delle  soluzioni  comiche 
(«Omè!  Fu'  per  cadere  in  terra  morto,  tanta  era  brutta 
quella  femina»)". 

Machiavelli,  insomma,  si  rivela  già  per  quello  che  sarà, 
uno  stratega  teatrale  minuzioso,  e  assai  calcolato  negli  ef- 
fetti. La  lettera  sugli  ardori  incrociati  del  Casavecchia  e 
del  Brancacci  (innamorati  il  secondo  d'una  giovinetta,  il 
primo  di  un  garzoncello,  ambedue  figli  della  stessa  ospite 
del  Vettori)  ce  ne  offre  conferma.  E  una  perfetta  panto- 
mima, costruita  come  tale  con  piena  consapevolezza  (qua- 
si fosse  «così  degna  di  recitarla  ad  un  principe»).  Rotta 


"  M.  MARTELLI,  La  Semantica  di  Poliziano  e  la  «Centuria  secunda»  dei  «Mi- 
scellanea», in  «Rinascimento»,  1973,  pp-  21-84. 

"  «Io,  come  peritoso  che  io  sono,  mi  sbigotti  tutto;  pure,  rimasto  solo  con 
colei  e  al  buio  (perché  la  vecchia  si  usci  subito  di  casa  e  serrò  l'uscio),  per  ab- 
breviare, la  fotte'  un  colpo;  et  benché  io  le  trovassi  le  cosce  vize  e  la  fica  umi- 
da e  che  le  putissi  un  poco  el  fiato,  nondimeno,  tanta  era  la  disperata  foia  che 
io  avevo,  che  la  n'andò.  Et  fatto  che  io  l'ebbi,  venendomi  pure  voglia  di  vede- 
re questa  mercatanzia,  tolsi  un  tizone  di  fuoco  d'un  focolare  che  v'era  et  acce- 
si una  lucerna  che  vi  era  sopra;  né  prima  el  lume  fu  apreso,  che  '1  lume  fu  per 
cascarmi  di  mano.  Omè!  Fu'  per  cadere  in  terra  morto,  tanta  era  brutta  quel- 
la femina»  (da  Opere  cit.,  p.  205).  Sui  vari  modelli  del  topos,  oltre  al  saggio  del 
Martelli,  B.  basile,  Grotteschi  machiavelliani,  in  «Convivium»,  xxxiv,  1966, 
n.  6,  pp.  576-83. 


INTRODUZIONE  XVII 

da  una  sola,  nuda  battuta  del  Vettori,  che  -  si  badi  -  è 
l'autore  ad  affidare  al  personaggio  recitante  («Sedete,  sta- 
te saldi,  non  vi  movete,  seguite  i  vostri  ragionamenti...»), 
la  partitura  gestuale  è,  in  compenso,  scandita  in  tutti  i  suoi 
particolari,  riaccostati  poi,  dopo  quella  serrata  parcelliz- 
zazione, e  ricomposti  in  una  filata,  unitaria  sequenza".  La 
stessa  economia  di  parola,  la  stessa  frequenza  scenica  del 
gesto  sono  alla  base  della  terza  «lettera  in  commedia», 
quella  della  caccia  notturna  del  Brancacci  omosessuale: 
dove,  in  più,  si  fa  largo,  sul  piano  dell'ambientazione,  il 
gusto  della  precisa  toponomastica  fiorentina  e,  su  quello 
stilistico,  un  corposo  metaforismo  gergale,  allusivo  all'at- 
to sessuale:  due  elementi,  questi,  che  acquisteranno  pre- 
cisa funzione  nella  drammaturgia  della  M.andragola^\ 
E  intanto  -  per  testimoniare  di  come  il  talento  teatra- 


"  «E'  mi  pare  vedere  il  Brancaccio  raccolto  in  su  una  seggiola  a  seder  bas- 
so per  considerar  meglio  il  viso  della  Gostanza,  et  con  parole  e  con  cenni,  e  con 
atti  e  con  risi,  e  dimenamento  di  bocca  e  di  occhi  e  di  spurghi,  tutto  stillarsi, 
tutto  consumarsi,  e  tutto  pendere  dalle  parole,  dallo  anelito,  dallo  sguardo,  e 
dallo  odore,  et  da'  soavi  modi  et  donnesche  accoglienze  della  Gostanza.  "Vol- 
simi  da  man  destra,  e  viddi  il  Casa  I  Che  a  quel  garzone  era  più  presso  al  segno. 
I  In  gote  un  poco,  e  con  la  zucca  rasa".  Io  lo  veggo  gestire,  et  ora  recarsi  in  su 
un  fianco  e  ora  in  su  l'altro;  veggolo  qualche  volta  scuotere  il  capo  in  su  le  moz- 
ze e  vergognose  risposte  del  giovane;  veggolo,  parlando  seco,  ora  fare  l'uffizio 
di  padre,  ora  del  preceptore,  ora  dello  innamorato;  e  quel  povero  giovinetto  sta- 
re ambiguo  del  fine  a  che  lui  lo  voglia  condurre:  et  ora  dubita  dell'onore  suo, 
ora  confida  nella  gravità  dell'uomo,  ora  ha  in  reverenzia  la  venusta  e  matura 
presenzia  sua.  Veggo  voi,  signor  oratore,  essere  alle  mani  con  quella  vedova  e 
quel  suo  fratello  e  avere  uno  occhio  a  quel  garzone,  il  ritto  però,  et  l'altro  a 
quella  fanciulla,  e  uno  orecchio  alle  parole  della  vedova  e  l'altro  al  Casa  e  al 
Brancaccio;  veggovi  rispondere  generalmente  loro,  e  all'ultime  parole,  come 
Eco;  e  infine  tagliare  e  ragionamenti,  e  correre  al  fuoco  con  certi  passolini  pre- 
sti e  lunghi  un  dito,  un  poco  chinato  in  su  le  reni.  Veggo,  alla  giunta  vostra,  Fi- 
lippo, il  Brancaccio,  il  garzone,  la  fanciulla  rizzarsi;  et  voi  dite:  "Sedete,  state 
saldi,  non  vi  movete,  seguite  i  vostri  ragionamenti"...»  (da  Opere  c\t.,  p.  309). 

"  Nella  prima  direzione,  per  cui  si  pensa  all'accenno,  in  bocca  a  Ligurio,  al 
vagabondare  inquieto  di  Callimaco  (in  IV,  2);  «Passò  il  ponte  alla  Carraia,  e 
per  la  via  del  Canto  de'  Mozzi  ne  venne  a  Santa  Trinità,  et  entrato  in  Borgo 
Santo  Appostolo,  andò  un  pezzo  serpeggiando  per  quei  chiasci  che  lo  mettono 
in  mezzo...»;  nella  seconda,  che  della  commedia  diventa,  come  mostreremo, 
elemento  costitutivo:  «...  trovò  un  tordellino,  il  quale  con  la  ramata,  con  il  lu- 
me, e  con  la  campanella  fu  fermo  da  lui,  e  con  arte  fu  condotto  da  lui  nel  fon- 
do del  burrone  sotto  la  spelonca  dove  alloggiava  il  Panzano,  e  quello  intratte- 
nendo e  trovatogli  la  vena  larga  e  più  volte  baciatogliene,  gli  risquitti  dua  pen- 
ne della  coda  e  infine,  secondo  che  gli  più  dicono,  se  lo  messe  nel  carnaiuolo  di 
drieto...»  (da  Opere  cit.,  p.  314). 


XVIII  GUIDO  DA  VICO  BONINO 

le  del  Machiavelli  si  eserciti,  in  prima  istanza,  nelle  for- 
me improprie  di  un  epistolario  -  abbiamo  citato  tre  let- 
tere d'amore.  Anche  in  questa  precisa  scelta  tematica,  in 
questa  polemica  predilezione,  le  lettere  machiavelliane 
fanno  da  premessa  all'exploit  della  Mandragola. 

Si  discorre  molto  d'amore  nelle  Lettere,  con  varia  in- 
tensità e  vari  modi  di  approccio.  Nelle  missive  giovanili 
degli  anni  del  cancellierato,  se  ne  disquisisce  con  un'ag- 
gressività beffarda,  che  rasenta  di  continuo  il  turpiloquio: 
«L'asse  si  comincia  a  ritrovare  per  ser  Antonio  e  ogni  di 
lo  stomaco  lo  molesta;  credo  sia  per  non  aver  M^  Ago- 
stanza  sua  qui  da  riscaldarlo  o  farlo  esercitare  all'altale- 
na»". Una  fitta  trama  di  allusioni  oscene  -  con  abbon- 
danti citazioni  da  Pulci  o  da  Burchiello"  o  con  richiami  a 
cifrario  -  lega  l'uno  all'altro  questi  giovani,  accomunati 
da  una  simpatia  squisitamente  letteraria  per  la  comicità 
lubrica,  all'insegna  della  profanazione.  L'Eros  basso,  pro- 
fano è  ,  per  loro,  l'occasione  di  irridere,  degradando,  ciò 
che  altri  vagheggiano  al  più  alto  grado  di  sacralità  e  sti- 
lizzazione: «...  dubitando  ser  Antonio  della  Valle  che  al- 
la terza  io  mi  smarrissi,  e'  mi  dette  una  ricetta  di  uno  ar- 
gomento che  mi  menò  si  bene  che  madonna  Lessandra  mia 
se  ne  sta  di  buona  voglia  e  madonna  Gostanza  se  ne  di- 
spera che  ser  Antonio  publichi  le  sue  ricette;  pure  credo 
consolarla,  perché,  avendosi  a  mandare  a  Livorno  uno 
maestro  a  rimpennare  passatoi,  l'ò  messa  innanzi  e  detto 
che  la  rimpenna  si  bene  che  la  gittò  un  tratto  ser  Antonio 
dal  letto  con  una  rimpennatura...»^*. 

Molti  anni  dopo,  nella  solitudine  dell'esilio,  con  un'al- 
tra esperienza  alle  spalle,  Machiavelli  discorre  dell'esi- 
stenza, degli  ideali  sconfitti,  delle  passioni  vanamente  sof- 
ferte con  una  ben  diversa  serietà,  da  smagato  anatomista 


"  Ibid.,  p.  24,  in  data  23  agosto  1500. 

"  M.  puppo,  Machiavelli  e  gli  scrittori  italiani,  in  «Cultura  e  scuola»,  gennaio- 
giugno  1970,  n. 33-34,  pp.  148-59. 

"  La  lettera,  come  quella  sopra  citata,  è  una  «responsiva»  del  Buonaccorsi 
al  Machiavelli:  ma  la  reciprocità  stilistica,  in  questa  come  molte  altre  missive 
del  periodo,  tra  il  coadiutore  e  il  Segretario,  è  fuori  discussione  (da  Opere  cit., 
pp.  49-50  in  data  15-18  ottobre  1502). 


INTRODUZIONE  XIX 

del  cuore  umano.  E  il  divario  che  balza  evidente,  tra  lui 
e  i  suoi  pur  autorevoli  colleghi  a  distanza,  tra  lui  e  gli  al- 
tri due  illustri  «iniziatori»  del  teatro  comico  in  volgare 
(l'uno,  in  prima  persona,  a  Ferrara,  l'altro,  per  delega,  a 
Urbino)  alla  rabbrividente  lettura  del  profondamente  tra- 
gico prologo  della  Mandragola^^ . 

Non  troveremo  più,  sino  al  Candelaio  del  Bruno,  una 
confessione  così  angosciosa  d'una  condizione  esistenzia- 
le al  limite  della  disperazione  più  atroce  e  del  pessimismo 
più  nero.  L'uomo,  che  ha  concluso  il  più  rivoluzionario 
trattato  politico  italiano,  e  non  solo  del  suo  tempo,  sa  per- 
fettamente d'affrontare  -  nelle  otto  stanze  d'apertura  del- 
la commedia  -  un  argomento  indegno,  nella  sua  bassezza, 
della  severità  sapienziale  della  trascorsa  riflessione  ideo- 
logica: ma  proprio  rispetto  alla  superficialità  della  vicen- 
da, alla  tensione  dello  sforzo  immaginativo  che  intorno  a 
essa  s'appresta  a  compiere,  rappresenta  per  lui  un  esplici- 
to tentativo  d'evasione  dall'infelice  situazione  di  vita  in 
cui  è  costretto.  Ad  altra  occupazione,  ad  altro  investi- 
mento non  ha  modo  di  volgersi:  giacché  gli  è  stato  vieta- 


"  «Quando  Machiavelli  si  accinse  a  comporre  la  Mandragola,  poteva  sce- 
gliere per  quel  genere  di  composizione  la  poesia  o  la  prosa.  La  scelta  della  pro- 
sa, che  egli  certo  fece  per  una  sua  intima  inclinazione,  anche  gli  era  proposta 
da  recenti  esemplari  domestici  e  forestieri:  non  per  omaggio  gli  era  proposta, 
ma  per  sfida,  cosi  dalle  commedie  senza  sali  del  ferrarese  Ariosto,  come  da  quel- 
la troppo  salata  del  segretariuzzo  da  Bibbiena,  rivestito  di  panni  cardinalizi, 
quasi  fosse  un  Pucci,  un  Ridolfi,  un  Salviati.  Avendo  scelto  la  prosa.  Machia- 
velli poteva  concedersi  la  licenza  di  un  prologo  in  versi;  ma  licenza  era,  visto- 
sa, intesa  a  dare  maggior  risalto,  come  di  fatto  diede,  al  prologo.  Cosi  facendo, 
Machiavelli  poteva  scegliere  fra  i  due  metri  normali  allora  nella  poesia  dram- 
matica: la  terza  e  l'ottava  rima.  Poteva  anche,  trattandosi  di  un  prologo  di  com- 
media, servirsi  della  rimalmezzo.  Scelse  invece,  con  la  sola  spiegabile  omissio- 
ne del  commiato,  il  metro  lirico  per  eccellenza  della  canzone,  raro  allora  anche 
nella  poesia  lirica,  rimesso  ultimamente  in  onore,  nella  sua  misura  petrarche- 
sca, dai  maestri  del  nuovo  stile,  Sannazaro  e  Bembo,  e  dai  loro  seguaci.  E  scel- 
se, con  una  variante  minima  (un  settenario  al  posto  dell'endecasillabo  nel  v.8), 
il  metro  d'una  delle  più  famose  canzoni  petrarchesche,  la  prima  in  morte  di 
Laura,  Che  debb  'io  far?  che  mi  consigli,  Amore?.  E  difficile  provare,  ma  più  dif- 
ficile escludere  una  intenzione  parodica  nella  scelta  eccezionale  di  un  tal  metro 
per  un  prologo  di  commedia,  e  per  un  tale  prologo,  equamente  diviso  in  una 
parte  di  stile  narrativo,  umile,  e  in  altra  di  stile  satirico  e  polemico,  aspro,  en- 
trambe in  aperto  contrasto  collo  stile  del  modello  petrarchesco»  (dionisotti. 
Appunti  sulla  «Mandragola»  cit.,  p.  641). 


XX  GUIDO  DA  VICO  BONINO 

to  di  mostrare  altrimenti  (con  altra  disposizione  intellet- 
tuale, ma  soprattutto  con  altra  scelta  di  campo,  quella 
dell'operosa  prassi  politica  d'un  tempo)  il  proprio  valore 
(altezza  d'ingegno  e  rigore  morale),  rinnovando  cosi  i  me- 
ritati riconoscimenti  ottenuti  in  passato  per  la  propria  de- 
dizione civile.  Non  riusciamo,  ogni  volta,  a  rileggere  sen- 
za una  stretta  al  cuore  quel  «che  gli  è  stato  interciso»:  ci 
sembra,  ad  ogni  ripresa,  che  la  voce  della  Mandragola  pro- 
venga da  dietro  il  muro,  grigio,  spesso,  impenetrabile,  del 
divieto:  e  ciò  ne  denoti  il  particolarissimo  timbro,  come 
strozzato  e  roco,  che  cerca  a  stento  di  farsi  udire  attra- 
verso il  concitato  vocìo  dei  personaggi  all'intorno:  è  la  vo- 
ce di  un  intellettuale  «definitivamente  emarginato  dalla 
vita  pubblica,  di  cui  avverte  lucidamente  la  profonda  de- 
cadenza», e  che  s'appresta  a  scrivere  il  capolavoro  della 
commedia  italiana  proprio  «quando  gli  si  fa'  sempre  più 
chiara  la  coscienza  di  non  poter  più  in  alcun  modo  agire 
sulla  realtà  effettuale,  sul  corso  ormai  ruinoso  degli  even- 
ti», per  citare  dalle  tarde  note  di  letture  (i  981)  di  un  Lan- 
franco Garetti. 

Occorre  di  continuo  riflettere  a  codesto  «sfondo  di  do- 
lorose frustrazioni,  di  amara  chiaroveggenza,  di  irrepara- 
bili scacchi»'"  per  comprendere  come  la  Mandragola  si  fon- 
di su  un'accettazione  quasi  forzosamente  subita  e,  in  ogni 
caso,  pagata  a  caro  prezzo  sulla  propria  pelle:  quella  se- 
condo cui  non  esiste  un  alto  e  un  basso  nelle  cose  umane: 
l'universo  delle  passioni  umane,  e  del  sentimento  amoro- 
so al  loro  interno,  è  altrettanto  degradato  che  quello  del- 
l'ethos e  dell'impegno  politico:  i  comportamenti  profani, 
le  basse  voglie  dell'uomo  sono  altrettanto  vituperose  che 
le  corrotte  idealità  civili.  Amanti  infelici,  borghesi  stoli- 
di, pastori  d'anime  viziosi  e  turpi  animano  ormai,  come 
orribili  larve,  la  distorta  fantasia  dell'autore.  Alcuni  anni| 
prima,  spinto  forse  da  sfortunate  circostanze  affettive,  che 
lo  avevano  indotto  a  sgradevoli  verifiche  empiriche,  Ma- 


'°  L.  GARETTI,  Appunti  sulla  «Mandragola»,  in  «Esperienze  letterarie»,  i, 
(1981),  pp.  1 1-27,  poi  in  Antichi  e  moderni .  Studi  di  letteratura  italiana .  Seconda 
serie,  Roma  1996. 


INTRODUZIONE  XXI 

chiavelli  aveva  elaborato,  in  uno  scambio  di  lettere,  tra  il 
gennaio  del  '14  e  lo  stesso  mese  del  '15,  col  prediletto  Vet- 
tori, una  sua  disincantata,  benché  sommaria,  visione  del 
rapporto  tra  Eros  ed  esistenza.  In  ideale  contesa  col  suo 
Francesco,  che  ostentava  il  consueto  cinismo  dell'antico 
clan  dei  colleghi  di  cancelleria^^  Niccolò,  proprio  per  da- 
re al  proprio  assunto  il  massimo  di  incidenza,  si  era  pro- 
vocatoriamente professato  ormai  incapace  di  provar  di- 
letto nel  «leggere  le  cose  antiche,  né  ragionare  delle  mo- 
derne»", e  aveva  a  bella  posta  fatto  sfoggio  di  un  capzio- 
so puntiglio  nel  dimostrare  che,  nell'universo  erotico,  in- 
dividuo e  Fortuna  sono  a  confronto  diretto  come  nell'uni- 
verso della  socialità.  Anche  nei  conflitti  d'Amore,  come 
nello  scontro  con  la  Fortuna,  giova  all'uomo  mostrarsi  di- 
sponibile, se  vuol  sottrarsi  alle  sue  «frecce»  e  ben  «go- 
vernarsi seco»:  «In  effetto  io  l'ho  lasciato  fare  e  seguito- 
lo per  valli,  boschi,  balze  e  campagne,  e  ho  trovato  che  mi 
ha  fatto  più  vezzi  che  se  io  lo  avessi  straziato...»".  Come 
Fortuna,  Eros  è  capriccioso  e  imprevedibile:  perciò  con 
lui  conviene  variamente  atteggiarsi,  volta  a  volta,  a  se- 
conda dei  suoi  scarti  bizzosi:  con  lui  conviene,  insomma, 
mutare  di  continuo  strategia:  «...  io  vi  ricordo  che  quelli 
sono  straziati  dallo  Amore,  che  quando  e'  vola  loro  in 
grembo,  lo  vogliono  o  tarpare  o  legare.  A  costoro,  perché 
egli  è  fanciullo  e  instabile,  e'  cava  gli  occhi,  le  fegate  e  il 
cuore.  Ma  quelli  che  quando  e'  viene  godano  seco  e  lo  vez- 
zeggiano, e  quando  se  ne  va  lo  lasciano  ire,  e  quando  e' 
torna  lo  accettono  volentieri,  e  sempre  sono  da  lui  onora- 
ti e  carezzati,  e  sotto  il  suo  imperio  trionfano »'^ 

Ma  ormai  il  divertimento  tutto  cerebrale  della  prete- 
stuosa tenzone  con  l'amico  è  esperienza  trascorsa  e  con- 


"  «...e  di  necessità  bisogna  ridursi  a  pensare  a  cose  piacevole,  né  so  cosa 
che  diletti  più  a  pensarvi  e  a  farlo  che  il  fottere. . .  »  (dalla  lettera  del  1 6  gennaio 
15 15,  in  Opere  cit.,  p.  348). 

"  «HgJasciaLP  dunque. i-pensieri  delle  cose  grandi  e  gravi;  non  mi  diletta 
più  leggere  le  cose  antiche,  né  ragionare  delle  moderne;  tutte  si  sono  converse 
inTagionamgati.dolci;  di  che  ringrazio  Venere  e  tutta  Cipri»  {ibidem,  p.  329). 
E  la  già  citata  lettera,  in  data  4  febbraio  15 14,  sul  duplice  corteggiamen- 
to del  Casavecchia  e  del  Brancacci  {ibidem,  p.  309). 

"  Lettera  del  io  giugno  1514,  ibidem,  a  p.  326. 


XXII  GUIDO  DA  VICO  BONINO 

elusa.  Le  sboccate  variazioni  giovanili  sulla  «foia»,  come 
il  dandismo  lievemente  sportivo  della  contesa  d'Amore 
delle  epistole  più  tarde  sono  variamente  superati.  Se 
d'Amore  nella  Mandragola  occorre  trattare,  il  neodram- 
maturgo saprà  farlo  con  un'autonomia  inventiva  del  tut- 
to particolare. 


È  questa  l'originalità  che  informa  la  struttura  «prima» 
della  Mandragola,  la  struttura  d'amore  (dentro  la  quale  si 
sviluppa  la  struttura  «seconda»,  quella  della  beffa).  Sif- 
fatta struttura  era  -  com'è  a  tutti  noto  -  componente  ar- 
chitetturale primaria  della  commedia  latina  e,  in  quanto 
tale,  era  stata  rispettosamente  mutuata  dai  primi  ridutto- 
ri e  volgarizzatori  tra  Quattro  e  Cinquecento.  Nel  suo  di- 
panarsi con  calcolata  lentezza,  tra  una  ben  congegnata  se- 
rie di  ostacoli  che  ne  rinviavano,  di  scena  in  scena,  l'esi- 
to, la  struttura  d'amore  garantiva  alla  commedia  un  suo 
decoro  «medio»,  affidata  com'era  ai  modi  e  alle  cadenze 
dell'elegia. 

Il  Machiavelli  della  Mandragola  decide  di  forzare  la  me- 
dietà  della  struttura  erotica  e  di  portarla  a  livelli  di  in- 
consueta tensione  passionale;  e,  d'altro  canto,  vi  innesta, 
in  un  continuo  contrappunto  dal  «basso»,  tutta  una  serie 
di  inserzioni  oscene,  che  coesistono,  senza  interferire,  al 
vagheggiamento  di  un  amore  «alto»,  sublime. 

Riandiamo,  ma  più  da  vicino  stavolta,  a  Cassarla  e  Sup- 
positi,  come  al  primo  termine  di  confronto  con  un  dramma- 
turgo indubbiamente  dotato  alle  prese  con  l'innegabile,  e 
certo  impressiva,  «auctoritas»  dei  maestri  latini.  Il  rinvio 
non  ci  sembra  improprio,  giacché  -  priorità  a  parte  -  Ma- 
chiavelli, pur  avendo  vissuto  altre,  e  ben  diversamente 
traumatiche,  esperienze,  non  dovette  essere  indifferente 
agli  esperimenti  drammaturgici  del  ferrarese,  di  cui  aveva 
sinceramente  ammirato  il  Furioso,  rammaricandosi  solo  di 
non  esservi  stato  menzionato  tra  i  letterati  del  tempo". 


"  La  delusione  doveva  essere  stata  cocente,  a  giudicare  da  questa  missiva 
del  17  dicembre  15 17  a  Lodovico  Alamanni:  «Io  ho  letto  a  questi  di  Orlando 


INTRODUZIONE  XXIII 

Se  rileggiamo  dunque  Cassarla  e  Suppositi  badando  par- 
ticolarmente alla  struttura  d'amore,  e  ai  personaggi  che 
ne  sono  «portatori»,  se  prestiamo  attenzione  agli  Erofi- 
lo,  ai  Caridoro,  agli  Erostrato,  dobbiamo  prendere  atto, 
nonostante  il  meritorio  sforzo  innovativo  ariostesco, 
dell'alto  grado  di  convenzione  del  loro  comportamento. 
Sotto  il  sole  di  Metellino  o  nella  più  domestica  Ferrara, 
questi  giovani  si  limitano  a  recitare,  con  malinconica  ele- 
ganza, la  loro  impotenza  ad  agire,  modulano,  variamente 
declinata,  la  loro  «sensibile»  frustrazione.  Immobili  co- 
me Tantalo  nel  suo  specchio  d'acqua  (la  similitudine  è 
ariostesca),  non  fanno  che  iterare,  con  voce  querula,  la 
melopea  della  loro  inazione:  «Ch'io  non  li  dimostri  l'amo- 
re ch'io  li  porto?  Ch'io  patisca  che  stia  più  in  servitù? 
Non  bisogna  che  vadi  più  in  lungo  questa  trama...  Quan- 
do non  possa  venire  secretamente  al  mio  disegno,  ci  verrò 
alla  scoperta...  Sarei  bene  a  peggior  termini  che  Tantalo, 
se  in  mezzo  a  l'acqua  mi  lassassi  struggere  di  sete. . .  »'^  C'è 
qualcosa  di  altamente  formalizzato,  s'intende,  in  questo 
radicale  immobilismo,  che  si  esprime,  essenzialmente,  nel 
riflettere  sulla  propria  passività.  E  questo  il  codice  che  il 
pubblico  dei  primi  del  secolo  vuole  che  i  giovani  amorosi 
esprimano,  è  questa  la  struttura  d'amore  di  cui  li  vuole 
«portatori»". 

Anche  Machiavelli,  nei  disagiati  panni  di  traduttore 
delV Andria,  aveva  prestato  ossequio  ad  un  personaggio- 
struttura  vicino  a  quello  ariostesco.  Lo  «sgraziato»  e  «in- 
felice» Panfilo,  di  continuo  «stupefatto»  d'essere  «scher- 


Furioso  deUo  Ariosto,  e  veramente  il  poema  è  bello  tutto,  e  in  di  molti  luoghi 
è  mirabile.  Se  si  truova  costi,  raccomandatemi  a  lui,  e  ditegli  che  io  mi  dolgo 
solo  che,  avendo  ricordato  tanti  poeti,  che  m'habbi  lasciato  indreto  come  un 
cazo...»  (ibidem,  p.  357). 

"  Citiamo  dalla  Cassaria  prima  (I,  5),  in  i..  Ariosto,  Commedie,  a  cura  di  A. 
Casella,  G.  Ronchi  ed  E.  Varasi,  Milano  1974,  pp.  11-12. 

"  «Gli  innamorati  sin  dal  loro  primo  apparire  in  scena  (e  lungo  l'intero  ar- 
co deOa  commedia)  restano  materia  quasi  completamente  inerte,  mera  occasio- 
ne per  innescare  l'azione  che  intorno  a  loro  si  svolge»  (a.  bf.  luca.  La  prima  re- 
dazione della  «Cassaria»,  in  «La  Rassegna  della  Letteratura  Italiana»,  gennaio- 
agosto  1975,  pp.  218-19).  Nello  stesso  numero,  a  pp.  85-128,  leggemmo  allora 
un  profilo  d'insieme,  vivace  e  ricco  di  spunti,  dell'Ariosto  drammaturgo  di  G. 
FERRONi,  Per  una  storia  del  teatro  dell'Ariosto. 


XXIV  GUIDO  DAVICO  BONINO 

nito»  e  «vilipeso»  dalla  sorte,  è  uno  di  codesti  modelli  di 
amante  «maninconoso».  La  sua  cifra  è  «l'incertitudine»: 
vorrebbe  abbandonarsi  a  «confidenza»,  sfogare  il  proprio 
«ardire»:  e  non  fa  altro  che  fremere  d'incertezza,  «rin- 
volto» com'è  in  tanti  mali,  dinnanzi  ad  una  sventura  che 
di  continuo  «si  rinnuova». 

Con  Callimaco  -  il  personaggio  cui  è  affidata,  nella 
Mandragola,  la  struttura  d'amore  -  siamo  ben  distanti  da 
questo  figurino  inerme  e  passivo,  che  la  ventata  d'amore 
basta  a  rendere  «stracco  nei  pensieri»,  «stupido».  Egli  è 
davvero  l'eroe  d'amore  vagheggiato  nelle  lettere  più  pen- 
sose e  mature  dell'esilio,  in  cui  l'agire  e  il  gatire  si  me- 
scolano in  una  sconcertante  alternanza.  E  dalIF lettere 
viene  spontaneo  risalire  a  certi  protagonisti  della  più  ac- 
cesa poesia  erotica  latina:  più  che  ai  trepidi  innamorati  di 
Tibullo,  ai  tormentati  amanti  ovidiani,  divisi  tra  speran- 
za e  timore,  temerarietà  e  calcolo,  prudenza  e  sprezzo  del 
pericolo:  «Partitomi  dal  bosco,  io  me  ne  vo  a  una  fonte, 
e  di  quivi  in  un  mio  uccellare.  Ho  un  libro  sotto  -  leggia- 
mo in  un  passo  del  drammatico  bilancio  esistenziale  in  for- 
ma d'epistola,  indirizzata  al  Vettori  il  io  dicembre  15 13 
-  o  Dante,  o  Petrarca,  o  un  di  questi  poeti  minori,  come 
Tibullo,  Ovvidio  e  simili:  leggo  quelle  loro  amorose  pas- 
sioni e  quelli  loro  amori,  ricordomi  de'  mia,  godomi  un 
pezzo  in  questo  pensiero... »'^ 

Personaggio-struttura  radicalmente  nuovo,  Callimaco 
contrappone  allo  sgomento  degli  eroi  ariosteschi  una  di- 
versa perentorietà  e  determinazione:  «E'  non  è  mai  alcu- 
na cosa  si  disperata  che  non  vi  sia  qualche  via  da  potere 
sperare;  e  benché  la  fussi  debole  e  vana,  e  la  voglia  e  '1  de- 
siderio che  l'uomo  ha  di  condurre  la  cosa  non  la  fa  parer 
così»  (I,  i).  Siamo  appena  all'antefatto:  alla  ripresa,  da 
parte  di  Machiavelli,  in  chiave  di  corposo  realismo,  tutto 
precisione  e  concretezza  di  riferimenti,  del  tema  dell'in- 
namoramento per  fama,  cosi  finemente  declinato  dalla  li- 
rica provenzale  e  dalla  novellistica  volgare,  tra  Jaufré  Ru- 
del  e  Boccaccio.  Nelle  scene  in  cui  si  mette  in  moto  la  mac- 

"  Da  MACHIAVELLI,  Opere  cit.,  p.  295. 


INTRODUZIONE  XXV 

china,  le  scene  del  resoconto  (I,  i,  con  Siro)  e  della  pro- 
gettazione (I,  3,  con  Ligurio),  Callimaco  è  tutto  in  questo 
fremente  desiderio  d'azione:  nella  smania  di  entrare  «per 
qualche  altra  via»,  di  «pigliare  qualche  partito»:  né  gli  im- 
porta che  sia  «crudele,  bestiale  e  nefando». 

Poi,  quando  Machiavelli  delega  l'azione  ad  altri'^  (nel 
senso  che  altri  la  guidano  o  la  realizzano,  certo  col  suo 
consenso  e  la  sua  collaborazione)  il  personaggio  pare  mu- 
tare gradualmente  registro.  Anche  se  implicato  in  prima 
persona  nella  vicenda,  che  lui  stesso  ha  innescato,  Calli- 
maco sembra,  in  qualche  misura,  straniarsene,  assecon- 
dare l'intrigo  con  un  certo  distacco,  un  poco  in  disparte 
da  gli  altri,  che  pure  s'affaccendano  per  lui  e  con  lui  per- 
ché «l'inganno»  si  conduca  «al  fin...  inmaginato  e  caro». 
Al  vagheggiamento  dell'azione  subentra  in  lui  l'esaltazio- 
ne di  un  Eros  di  alta,  nobile  passionalità,  tra  gli  estremi 
di  un  esaltato  vitalismo  e,  all'opposto,  dell'annientamen- 
to nella  morte''". 

Un'esaltazione  del  corpo  come  tempio  del  demone  amo- 
roso, che  qui  si  fisicizza  e  sublima  («...E  cosi  mi  fo  di 
buon  cuore.  Ma  io  ci  sto  poco  su,  perché  da  ogni  parte  mi 
assalta  tanto  desio  d'essere  una  volta  con  costei,  che  io  mi 
sento,  dalle  piante  de'  pie  al  capo  tutto  alterare:  le  gam- 
be triemano,  le  viscere  si  commuovano,  il  cuore  mi  si  sbar- 
ba del  petto,  le  braccia  s'abandonono,  la  lingua  diventa 
muta,  gli  occhi  abarbagliano,  el  cervello  mi  gira...»,  in  IV, 
i)  si  alterna,  nelle  sue  perorazioni,  nei  tormentati  solilo- 
qui, ad  un  desiderio  di  annullarlo,  quel  corpo,  di  sveller- 
lo dalle  radici:  «Meglio  è  morire  che  vivere  cosi.  Se  io  po- 

"  G.  FERRONi  («Mutazione»  e  «riscontro»  nel  teatro  di  Machiavelli,  Roma  1972, 
p.  45)  parlò  per  questo  di  Callimaco  come  del  «protagonista  mancato»  della 
commedia,  soggetto  ad  una  «svalutazione  totale»:  ma  ci  parve,  e  ancora  ci  pa- 
re, una  lettura  troppo  cogente,  che  non  tiene  conto  della  funzione  «struttura- 
le» del  personaggio. 

*°  Molto  fini  le  osservazioni  formulate  a  suo  tempo  da  L.  Vanossi  (Situa- 
zione e  sviluppo  del  teatro  machiavelliano,  in  aa.  vv. ,  Lingua  e  strutture  del  tea- 
tro italiano  del  Rinascimento,  Padova  1970)  sulla  lingua  «altamente  artificiata» 
di  Callimaco  (alle  pp.  24-26).  Ora  sono  da  leggere  le  pagine  sul  «pluristilismo 
funzionale»  del  Nostro  dovute  a  \\  Trifone,  L  italiano  a  teatro,  in  aa.vv.,  Sto- 
ria della  lingua  italiana,  dir.  da  A.  Asor  Rosa,  II,  Scritto  e  parlato,  Torino  1994, 
pp.  101-5. 


XXVI  GUIDO  DAVICO  BONINO 

tessi  dormire  la  notte,  se  io  potessi  mangiare,  se  io  potes- 
si conversare,  se  io  potessi  pigliare  piacere  di  cosa  veru- 
na, io  sarei  più  paziente  ad  aspettare  el  tempo.  Ma  qui 
non  ci  è  rimedio.  E  se  io  non  sono  tenuto  in  speranza  da 
qualche  partito,  i'  mi  morrò  in  ogni  modo...»  (I,  3). 

Questa  inquietudine  viscerale,  che  ora  lo  fa  «morire  per 
l'alegrezza»,  ora  lo  fa  sentir  «spacciato»,  non  lo  abban- 
dona neppure  quando  la  trappola  sta  per  scattare  ed  ogni 
esitazione  dovrebbe  essere  bandita:  «Io  scemo  ad  ogni  ora 
dieci  libre,  pensando  dove  io  sono  ora,  dove  potrei  esse- 
re di  qui  a  due  ore,  temendo  che  non  nasca  qualche  caso, 
che  interrompa  el  mio  disegno:  che  se  fussi,  e'  fia  l'ulti- 
ma notte  della  vita  mia,  perché  o  io  mi  gitterò  in  Arno,  o 
io  m'impiccherò,  o  io  mi  gitterò  da  quelle  finestre,  o  io  mi 
darò  d'un  coltello  in  sull'uscio  suo»  (IV,  4).  Ma  persino 
nel  riepilogo  della  tanto  vagheggiata  conquista  Callimaco 
insinua  una  vena  d'angoscia:  «Io  fui,  udendo  queste  pa- 
role, per  morirmi  per  la  dolcezza.  Non  potetti  rispondere 
a  la  minima  parte  di  quello  che  io  arei  desiderato.  Tanto 
che  io  mi  truovo  el  più  felice  e  contento  uomo  che  fussi 
mai  nel  mondo;  e  se  questa  felicità  non  mi  mancassi,  o  per 
morte  o  per  tempo,  io  sarei  più  beato  che'  beati,  più  san- 
to che'  santi»  (V,  4).  Tra  uno  smarrimento  che  ha  qual- 
cosa di  mortale  e  l'incubo  di  un  lontano  trapasso  la  sago- 
ma di  Lucrezia  sembra  svanire  nel  nulla:  mentre  si  è  ten- 
tati di  dire  che  s'accampa  in  primo  piano  la  fondamenta- 
le solitudine  del  suo  amante"*'. 

Callimaco  è  solo,  del  resto,  come  ogni  personaggio 
«funzionale»,  che  -  al  di  là  della  partecipazione  alla  fa- 
bula -  si  risolve  tutto  nella  struttura.  Ma  nel  suo  caso, 
questa  impressione  di  estraneità  è  accresciuta  dal  fatto 


*'  Solo  in  un  punto,  secondo  il  Dionisotti  {Appunti  sulla  «Mandragola»  cit., 
pp.  635-36),  Callimaco  «rientra»  nel  vivo  deOa  tematica,  più  nobilmente  auto- 
biografica, della  commedia:  «Per  contro,  il  punto  moralmente  e  artisticamente 
più  alto  della  commedia,  vera  e  propria  morale  della  favola,  è  la  dove  Callima- 
co parla  della  notte  appena  trascorsa  con  Lucrezia:  "io  stetti  di  mala  voglia  in- 
fino alle  nove  ore,  e  benché  io  avessi  gran  piacere,  e'  non  mi  parve  buono".  La 
bontà,  ossia  la  vera  e  intiera  felicità  è  raggiunta  solo  nel  momento  in  cui  al  pia- 
cere fornito  dalla  donna  ignara,  che  pure  è  stato  piacere  grande,  quanto  era  sta- 
to grande  il  desiderio,  succede,  affatto  diverso,  l'amore  della  donna  consapevo- 


INTRODUZIONE  XXVII 

che,  come  abbiamo  detto,  Machiavelli,  con  calcolata  con- 
traddittorietà, mescola,  alla  celebrazione  liricheggiante 
dell'Eros  «alto»  che  egli  incarna,  tutta  una  trama  com- 
patta di  immagini,  similitudini,  metafore  -  congegnate 
con  sbalorditiva  minuzia  le  une  nelle  altre  ed  affidate  non 
più  ad  un  solo  personaggio,  ma  alla  coralità  dei  personag- 
gi -  le  quali,  invece,  celebrano,  in  modo  allusivo,  il  «bas- 
so» erotismo,  l'amore  carnale,  prosaicamente  evidenzia- 
to nella  sessualità  più  scoperta  e  volgare. 

Si  comincia  con  la  scena  dell'incontro-consulto  tra 
Nicla  e  Callimaco  (II,  2),  attraversata  dal  pastiche  maca- 
ronico  sulle  cause  della  sterilità,  quasi  un  prontuario  da 
scuola  medica  salernitana  ridicolizzato  («Nam  causae  ste- 
rilitatis  sunt  aut  in  semine...  »)  e  punteggiata  dal  sarcasmo 
sulla  impotenza  di  Nicla  («Oh  voi  mi  fare  ridere!  Io  non 
credo  che  sia  el  più  ferrigno  ed  il  più  rubizzo  uomo,  in  Fi- 
renze, di  me...»).  Compaiono  termini  diagnostici  («il  se- 
gno»), oggetti  sanitari  poco  eleganti  (l'orinale),  che  fan- 
no da  ponte  ad  una  scena  speculare  (II,  6),  quella  sull'uri- 
na di  Lucrezia,  dove  il  latino  macaronico  («Nam  mulieris 
urinae  sunt...»)  e  le  pesanti  allusività  sulla  impotenza  del 
dottore  («Io  ho  paura  che  costei  non  sia  la  notte  mal  co- 
perta...») ci  vengono  furbescamente  riproposti,  secondo 
una  lineare  tattica  di  interne  rispondenze. 

A  rendere  fosca,  vagamente  repellente,  la  trama  delle 
pulsioni  erotiche  che  attraversano  il  testo,  provvede  lo 
stesso  Nicla  là  dove  innesta  una  diversione  per  narrare  a 
ritroso  a  Ligurio  (III,  2)  il  tentativo  di  stupro  commesso, 
ai  danni  della  «dolce»  e  «facile»  Lucrezia,  da  parte  di  «un 
di  quei  fratacchioni»,  facili  «ad  dare  datorno»  alle  devo- 
te. E,  visto  che  si  sparla  di  frati  e  si  compiangono  le  pie 


le  e  consenziente.  Tutti  gli  interpreti  ormai  consentono,  qualcuno  a  denti  stret- 
ti, che  Ligurio,  artefice  della  beffa,  provvisto  di  un  tradizionale  e  irrilevante  tra- 
vestimento classico  di  parassita,  in  realtà  s'identifica  collo  stesso  Machiavelli, 
autore  della  commedia.  Ma  da  ultimo,  imprevedibilmente,  qualcosa  di  sé,  di  tut- 
to suo,  il  sugo  della  storia.  Machiavelli  anche  ha  dato  al  giovane  Callimaco:  qual- 
cosa della  sua  esperienza  di  uomo  cinquantenne,  ormai  vecchio,  deluso  e  ferito, 
ma  non  rassegnato,  ancora  mordace,  ancora  avido  e  capace  di  vivere,  e  tanto  pili 
esperto  di  quanto  fosse  il  giovane  e  fortunato  Callimaco  della  "mala  voglia"  che 
può  accompagnarsi  al  piacere,  della  differenza  fra  il  piacere  e  l'amore». 


XXVm  GUIDO  DAVICO  BONINO 

donne,  eccoci,  secondo  un  altro  perfetto  incastro,  a  quel- 
l'apparente «siparietto»  che  è  l'incontro  della  beghina  e 
di  Timoteo  (III,  3).  Apparente,  dico,  perché,  al  di  sotto 
della  trama  delle  pesanti  allusività,  l'incontro  è  sostanziale 
nel  dare  continuità  al  contrappunto  dell'amor  «basso»:  da 
quell'accenno  allo  sfogarsi  «ritta  ritta»  (alla  lettera,  ma 
anche  per  metafora,  cara  ai  burleschi)  al  rimpianto  delle 
imperiose  attenzioni  del  marito  («Ed  ancora  che  fussi  un 
omaccio,  pure  le  carni  tirono»);  dalla  confessione,  deci- 
samente compiaciuta,  della  sodomia  accettata  per  un  for- 
male ossequio  agli  obblighi  matrimoniali  («Io  me  ne  di- 
scostavo quanto  io  potevo,  ma  egli  era  si  importuno...») 
al  rinvio  ad  altri,  più  perversi,  strazianti,  atti  di  sodomia 
collettiva:  «Dio  ci  aiuti,  con  queste  diavolerie!  Io  ho  una 
gran  paura  di  quello  impalare... »■*^ 

La  celebrazione,  lievemente  sacrilega,  dell'atto  contro 
natura  sulle  porte  di  una  chiesa  prelude  -  ancora  una  ri- 
spondenza perfettamente  calcolata  -  alla  finzione  (chia- 
miamola, di  secondo  grado)  dell'aborto,  sulle  porte  della 
stessa  chiesa  (III,  4)  tra  Ligurio,  Nicla  e  Timoteo:  mano- 
vra «funzionale»  fin  che  si  vuole,  ai  fini  della  vicenda,  ma 
non  per  questo  meno  violenta  e  turpe:  con  quelle  mona- 
che «straccurate»  e  quella  fanciulla  «cervellina»  sullo 
sfondo  e,  in  primo  piano,  quel  «pezzo  di  carne  non  nata, 
senza  senso»,  di  cui  sembra  inevitabile  far  «sconciare»  la 
ragazza  «gravida  di  4  mesi»  (notiamo,  per  inciso,  che,  con 
un  ammicco  beffardo,  ma  da  scrittore  di  classe.  Machia- 
velli decide  che  sia  figlia  di  «CammiUo  Calfucci»,  il  fio- 


"  È  sempre  il  Dionisotti,  straordinariamente  ricco  di  precisazioni  e  di  ana- 
lisi interpretative,  che  dobbiamo  in  merito  ascoltare:  «Che  l'anonima  donna 
non  sia  una  popolana,  men  che  mai  una  fantesca,  che  non  sia  una  donnicciuo- 
la  ma  una  gran  donna,  risulta  chiaro...  da  due  inoppugnabili  argomenti  ogget- 
tivi: di  galateo  cinquecentesco  l'uno,  dal  titolo  che  il  frate  le  da'  di  Madonna; 
economico,  l'altro,  dall'elemosina,  che  solo  una  gran  donna  poteva  permetter- 
si, di  un  fiorino.  A  un  centinaio  di  fiorini  l'anno  ammontava  lo  stipendio  an- 
nuo di  MachiaveUi  segretario».  Quanto  alla  scena,  al  suo  «significato  proprio», 
alla  sua  «ragion  d'essere  nella  struttura  compatta  della  Mandragola»,  essa  sta 
«evidentemente,  nella  contrapposizione,  in  un  fulmineo  scorcio,  del  coito  o  stu- 
pro innaturale  e  sterile  all'accoppiamento  naturale  e  fecondo  che  avvia  e  sug- 
gella l'azione  della  commedia»  {Appunti  sulla  «Mandragola»  cit.,  pp.  632-33). 


INTRODUZIONE  XXIX 

Tentino  che,  in  tutt'altro  clima,  in  clima  casto  e  cortese, 
aveva  disputato  a  Parigi,  presente  Callimaco,  sulla  bel- 
lezza delle  donne). 

Ma  non  andiamo  verso  un  aborto:  andiamo,  invece  (an- 
cora una  rispondenza  e  contrario),  verso  una  nascita  per 
interposto  genitore.  Lasciato  solo,  come  è  inevitabile, 
mentre  quella  nascita  viene,  alla  lontana,  propiziata  (e  si 
sente,  guarda  caso,  in  base  ad  una  nota  metafora  sessua- 
le, «come  un  zugo,  a  piuolo»,  in  III,  7),  è  proprio  Nicla  a 
voler  verificare  che  tutto  vada  per  il  meglio.  Ed  ecco,  do- 
po la  sospirosa  attesa  che  «la  Pasquina»  entri  «in  Arez- 
zo» e  che  Mona  Ghinga  possa  vedere  e  toccare  con  mano 
(una  metafora  e  una  storia  salace,  in  sboccata  accozzaglia, 
in  IV,  8);  dopo  che  Timoteo  ha  preparato  gli  spettatori, 
in  dialogo  diretto,  a  quella  lunga  notte  vissuta  dagli  aman- 
ti allo  spasimo  («Callimaco  e  madonna  Lucrezia  non  dor- 
miranno: perché  io  so,  se  io  fussi  lui  e  se  voi  fussi  lei,  che 
noi  non  dormiremo...»,  in  IV,  io;  e  «Ben  si  sono  indu- 
giati alla  sgocciolatura...»,  in  V,  i),  eccoci  alla  gran  se- 
quenza (V,  2)  della  ispezione  corporale  di  Callimaco  nu- 
do da  parte  di  un  Nicla  puntigliosissimo  («Io  lo  feci  spo- 
gliare; e'nicchiava  ...  Ma  tu  non  vedesti  mai  le  più  belle 
carne:  bianco,  morbido,  pastoso...  e  dell'altre  cose  non  ne 
domandare...»);  alla  verifica  manuale  della  virilità  («..  ed 
innanzi  che  io  mi  partissi,  volli  toccare  con  mano  come  la 
cosa  andava...»);  alla  costatazione,  in  cui  vibra  un'ombra 
di  patetica  complicità  involontaria,  del  «piacer  dell'un- 
to»: «Che  direte  voi,  che  io  non  potevo  fare  levare  quel 
ribaldone?». 

Ed,  a  questo  punto,  la  partitura  a  contrappunto 
dell'Eros  profano  si  chiude  su  se  stessa,  in  cupa  circola- 
rità, in  quel  finale  senza  lieto  fine  (V,  6),  in  cui  ancora 
campeggiano  sparse  allusività  erotiche,  desolanti  ormai, 
tanto  sono  elementari:  «Lucrezia,  costui  è  quello  che  sarà 
cagione  che  noi  aremo  uno  bastone  che  sostenga  la  nostra 
vecchiezza...»;  «E  voi,  madonna  Sostrata,  avete,  secon- 
do che  mi  pare,  messo  un  tallo  in  sul  vecchio».  Mentre 
s'accampa  su  quell'unione,  che  due  maschi  hanno,  con  ben 
diversi  fini,  ostinatamente  voluto  e  che  una  femmina  ha 


XXX  GUIDO  DA  VICO  BONINO 

sino  all'ultimo  respinto,  ed  ora  esige  con  tutta  nuova  ca- 
parbietà, l'ombra  del  sacrilegio'*\ 


Se  ci  siamo  dilungati  a  ricostruire,  con  un  eccesso  for- 
se di  puntiglio,  la  compresenza  di  una  serie  di  riferimen- 
ti all'amor  «basso»  all'interno  di  una  fondamentale  strut- 
tura dell'amore  «alto»,  qual  è  quella  vagheggiata  e  im- 
personata da  Callimaco,  è  perché  riteniamo  che  questo  sia 
il  primo,  netto  segno  di  originalità  della  Mandragola  ri- 
spetto all'uniforme  trattamento  che  la  stessa  struttura  su- 
bisce da  parte  dei  commediografi  coevi,  primo,  in  tutti  i 
sensi,  come  s'è  visto,  l'Ariosto. 

Qualunque  fossero  le  sue  intenzioni,  è  indubbio  che  già 
al  livello  di  questa  prima  componente  architetturale  del- 
la commedia.  Machiavelli  innova.  Lo  stesso  accade  con  la 
struttura  della  beffa:  e  qui  il  personaggio-struttura  si  chia- 
ma Nicla,  ruolo  inventato  non  senza  tener  d'occhio,  con 
ogni  probabilità,  da  un  lato  il  Cleandro  dei  Suppositi  ario- 
steschi,  dall'altro  il  Calandro  del  Bibbiena. 

Il  dottore,  cioè  l'avvocato  (come  Nicla,  del  resto,  stan- 
do almeno  al  diploma  di  laurea),  che  l'Ariosto  introduce 
nella  sua  seconda  commedia,  riservandogli  nell'insieme 
tre  scene  (I,  2;  II,  3;  V,  5),  è  una  figurina  «ingenuamen- 
te» tratteggiata:  ha  si  l'ossessione  dell'età  (sessantaseien- 
ne,  dichiara  dieci  anni  di  meno:  «Ne  dice  dieci  manco!  »), 
ma  esibisce  i  propri  guadagni  con  un'ostentazione  platea- 
le: «leggendo,  avocando  e  consigliando,  in  spazio  di  ven- 
ti anni  ho  acquistato  il  valore  di  quindicimilia  ducati  o 
più...»  Basterebbe  questa  esibizione  vistosa  da  nouveau 
fiche  a  discostarlo  dall'ambiguità  «fiscale»  di  Nicla,  che 


"  «Il  comparatico  stabiliva,  secondo  le  consuetudini  e  le  credenze  del  Me- 
dioevo, un  legame  molto  stretto,  quasi  un  vincolo  di  sangue:  sposare  o  avere 
rapporti  con  una  comare  era  stimato  un  incesto».  Cosi  Vittore  Branca,  postil- 
lando la  novella  3  della  Giornata  VII  del  Decameron  (g.  boccaccio,  Decame- 
ron, a  cura  di  V.  Branca,  Torino  1980,  p.  808,  n.  8).  Ci  riferiamo  (e  varii  stu- 
diosi lo  hanno  fatto)  aUa  battuta  di  Lucrezia:  «..  e'  vuoisi  che  sia  nostro  com- 
pare», in  V,  6,  già  anticipata  dalla  donna  a  Callimaco,  nelle  ore  di  notturna  in- 
timità: «Fara'ti  adunque  suo  compare...»,  in  V,  4. 


INTRODUZIONE  XXXI 

ci  lascia  capire  (ma  con  qualche  nostro  sforzo)  d'essere  un 
ignavo  rentier:  uno  che  vive  di  rendita  sul  patrimonio  de- 
gli avi,  perché  -  se  proprio  dovesse  esercitare  l'avvocatu- 
ra -  non  troverebbe  clienti'*''. 

Ma  accennavamo  anche  al  protagonista  della  Calandra. 
Dovizi  aveva  saputo  per  primo  tradurre  per  intero  le  po- 
tenzialità del  tradizionale  rapporto  beffatore-beffato  (con- 
segnatogli dal  maestro  della  tradizione  novellistica,  dal 
Boccaccio,  al  più  alto  livello  di  sapienza  letteraria)  in  pu- 
ro, astratto  divertimento  teatrale.  Era  nata  così,  all'in- 
terno di  una  commedia  singolarmente  espansa,  debordan- 
te addirittura  (cinquantanove  scene  nei  consueti  cinque 
atti),  una  sorta  di  commedia  autonoma,  molto  contratta 
nell'ideazione  e,  all'opposto,  assai  feconda  di  occasioni  lu- 
diche: dieci  scene  in  tutto,  le  scene  di  Calandro. 

Sollecitato  da  una  «spalla»  d'eccezione,  il  febbrile  Fes- 
senio.  Calandro  era,  senza  saperlo,  attore  di  se  stesso,  del- 
la propria  sublime  imbecillità.  «Gentile  innamorato»  che 
subito  equivoca  tra  l'identità  di  Santilla  e  le  sue  attratti- 
ve fisiche  (I,  4);  «babuasso»  sino  a  persuadersi  che  la  se- 
duzione etotica  sia  una  questione  di  mangiare  e  di  bere  (I, 
7);«bufolaccio»  al  punto  di  imparare  a  «scommettersi», 
come  uno  snodato  contorsionista  (II,  6);  cosi  «gocciolo- 
ne» da  credere  che  si  possa  morire  «di  fora  eccellente- 
mente» per  subito  «rinvivere»  di  dentro  e  «vedere  l'altro 
mondo»  (II,  9),  Calandro  faceva,  imperterrito,  spettaco- 
lo a  sé,  protagonista  solitario  di  un  «teatro  nel  teatro»,  in 
cui  il  mimetismo  gestuale,  ai  confini  del  surreale,  dell'ap- 
pena  ricordata  sequenza  del  forziere  si  sposava  al  meta- 
morfismo della  parola:  come,  per  limitarci  ad  un  solo 
esempio,  nella  profferta  d'amore  incerta  tra  Lidio  maschio 
e  Lidio  femmina  (III,  23)"'. 


**  L.  ARIOSTO,  Suppositi,  I,  2,  in  Commedie  eh.,  pp.  202-3.  La  commedia  fu 
edita  (con  buona  probabilità)  a  Firenze  presso  Bernardo  Zucchetta  nel  1509 
contro  la  volontà  dell'autore  e  forse  su  commissione  dei  suoi  commedianti  {ibi- 
dem, p.  806):  e  Machiavelli  poteva  averla  letta. 

"  B.  DOVIZI  DA  BIBBIENA,  Calandra,  a  cura  di  G.  Padoan,  Padova  1985  (si 
vedano  anche  p.  d.  stp;wart.  Retorica  e  mimica  nel  «Decameron»  e  nella  com- 
media del  Cinquecento,  Firenze  1986,  pp.  103-40;  i..  bottoni.  Una  commedia 


XXXn  GUIDO  DA  VICO  BONINO 

Anche  Nicia  esibisce  e  fa  teatro  della  propria  «  sempli- 
cità», «sciocchezza»,  «pazzia»,  per  citare  i  tre  sinonimi 
con  cui  è  marchiato  dagli  ingannatori.  Ma,  al  contrario  di 
Calandro,  Nicia  non  recita  un  copione  «secondo»,  avul- 
so da  quello  principale  e  scritto  apposta  per  lui:  la  fissa- 
zione che  lo  attanaglia,  la  «briga»  d'aver  figli,  lo  coinvol- 
ge, insieme  ai  suoi  coagonisti,  in  un'unica,  compatta  vi- 
cenda: «Che  so  io?  Vo  cercando  duo  cose  ch'un  altro  per 
avventura  fuggirebbe:  questo  è  di  dare  briga  a  me  e  ad  al- 
tri. Io  non  ho  figliuoli  e  vorre'ne,  e  per  avere  questa  bri- 
ga vengo  a  dare  impaccio  a  voi»  (è  la  sua  presentazione  a 
Callimaco,  in  II,  2,  ed  è,  a  un  tempo,  un'indicazione  di 
strategia  teatrale  di  Machiavelli). 

A  differenza  di  Calandro,  poi,  tratteggiato  da  Dovizi 
secondo  il  modulo  dell'ingenuo  credulo,  Nicia  impersona 
una  più  raffinata  variante  della  sciocchezza,  quella  dello 
stolido  borioso  (se  il  primo  discende  da  Calandrino,  il  se- 
condo si  apparenta  semmai,  com'è  stato  osservato,  ad 
un'altra  creatura  boccacciana,  maestro  Simone  da  Villa)■'^ 
Il  che  comporta  una  notevole  diversità  nel  gioco  scenico 
dei  due  personaggi:  la  comicità  di  Calandro  è  di  riporto, 
o,  per  dir  meglio,  passiva,  nel  senso  che  recepisce  trovate 
che  altri  le  porgono;  quella  di  Nicia  è  attiva,  giacché  ela- 
bora da  se  stessa  le  occasioni  facete  o  schernevoli,  e,  tal- 
volta, le  propone,  come  straniandosi,  al  riso  del  pubblico: 
si  pensi,  per  fare  un  solo  esempio,  al  commento  sul  pro- 
prio ridicoloso  travestimento,  in  IV,  8:  «Chi  mi  conosce- 
rebbe? Io  paio  maggiore,  più  giovane,  più  scarzo:  e'  non 
sarebbe  donna  che  mi  togliessi  danari  di  letto»  (battuta 
nella  quale  ritorna  l'ossessione  della  giovinezza,  riflesso 
«per  positivo»  dell'ombra  negativa  dell'impotenza,  o  co- 
munque della  sterilità). 

Infine  -  ed  è  questo  il  divario  di  fondo  -  la  «pazzia»  di 
Nicia  non  è  fine  a  se  stessa,  è  il  riverbero  di  una  «pazzia» 


per  il mistaggio  parodico,  in  aa.vv.,  Tra  storia  e  simbolo.  Studi  dedicati  a  E.  Rai- 
mondi, Firenze  1994,  pp.  53-80).  La  commedia  era  (con  ogni  probabilità)  nota 
al  Machiavelli  prima  della  princeps  senese  del  152 1 . 
**  VANOSSi,  Situazione  e  sviluppo  cit.,  pp.  35-37. 


INTRODUZIONE  XXXIII 

collettiva.  Da  puro  supporto  al  gioco  scenico,  com'era  nel 
Dovizi,  la  struttura  della  beffa  include  ora  un'appassio- 
nata denuncia  etica  e  civile. 

Nel  tradurre  questa  denuncia  in  termini  di  pura  spet- 
tacolarità, senza  che  mai  possa  allentare  le  maglie  o  in  al- 
cun modo  nuocere  alla  finzione  teatrale,  Machiavelli  re- 
cupera e  porta  a  piena  maturazione  quella  «scrittura  ma- 
ledica» sperimentata,  con  esiti  non  del  tutto  felici,  nel- 
V Asino  d'oro*\  Ci  sono  nella  Mandragola  molte  eco  curio- 
se del  poemetto  autobiografico-allegorico,  avviato  con  im- 
peto dopo  il  15 12  e  rimasto  poi  incompiuto  all'ottavo 
capitolo.  Il  padre  del  «giovanetto»  smanioso  di  correre  a 
perdifiato  (di  cui  si  racconta  in  I,  31-87)  sembra  il  «dop- 
pio» di  Nicla  per  quella  fissazione  di  «intender  molte  opi- 
nioni/di molti  savi»  e  ritrarne  «molti  rimedi  di  nulle  ra- 
gioni»: e  l'asino,  nel  suo  sfinimento  d'amore,  ricorda  Cal- 
limaco dopo  la  desiata  notte:  «...  intorno  al  cor  sentii  tan- 
te alleggrezze  I  con  tanto  dolce,  ch'io  mi  venni  meno...» 
(IV,  139-40). 

Ma,  al  di  là  di  queste  e  altre  consonanze,  il  nesso  strin- 
gente tra  poemetto  e  commedia  è  nella  stessa  irosa  dispo- 
sizione verso  una  Firenze  spoglia  di  spiriti  magni  («Ben 
son  le  piagge  tue  fatte  deserte  I  e  prive  d'ogni  gloriosa 
fronda,  I  che  le  facea  men  sassose  e  meno  erte...»,  in  IV, 
58-60),  mentre  vi  si  affollano,  seduti  «alto  ne'  più  alti 
scranni»,  tanti  «Fabi  e  Catoni»  miseramente  riusciti  in 
«pecore  e  montoni»  (V,  100-5).  Si  pensa  subito  al  pessi- 
mismo del  prologo  d^lìdi Mandragola  («Di  qui  depende  san- 
za  dubbio  alcuno  I  che  per  tutto  traligna  I  da  l'antica  virtù 
el  secol  presente...»):  e,  tutt' altro  che  a  caso,  nella  stessa 
occasione.  Machiavelli  fa  esplicito  riferimento  ai  suoi  ten- 
tativi di  polemista:  «Pur  se  credessi  alcun  dicendo  male, 
I  tenerlo  pe'  capegli  I  ...  sbigottirlo  o  ritirarlo  in  parte,  I  io 
l'ammonisco  e  dico  a  questo  tale  I  che  sa  dir  male  anch'egli 
I  e  come  questa  fu  la  suo  prim'arte...» 

Ma  c'è  una  sproporzione  assai  evidente  tra  la  maldicenza 
d^W Asino  e  il  moralismo,  asciutto  e  fattuale,  della  Man- 

"  Dell' Asino  d'oro,  in  machiavelli,  Opere  letterarie  c\t.,  pp.  263-300. 


XXXIV  GUIDO  DAVICO  BONINO 

dragala.  Nel  poemetto  la  rabbia  e  la  delusione  si  addensa- 
no in  figurazioni  per  lo  più  astratte.  Lo  stile  è  risentito,  ma 
non  immune  da  qualche  lentezza:  Vindignatio,  la  furia  «di 
morder»  il  proprio  «tempo  dispettoso  e  tristo»,  non  vi  si 
libera  mai,  anzi  fa  groppo  di  continuo"**.  Nella  Mandragola 
l'irrisione  di  Machiavelli  si  concreta,  con  corposo  realismo, 
nella  figura  di  Nicla:  e  trova  nella  sua  parlata  (che  tutto  in- 
tesse, idiotismi  beceri  e  squisite  raffinatezze  formali,  il  la- 
tino delle  Pandette  e  il  più  trito  gergo  rionale)  un  tramite 
di  irresistibile  presa  per  lo  spettatore  coevo.  Nel perpetuum 
mobile  della  parlata  di  Nicla,  che  assume,  a  tratti,  le  ap- 
parenze di  un  vaniloquio  sublime  e  demente,  «passa»,  per 
accenni  furtivi,  per  allusioni  schermate,  la  polemica,  ri- 
sentita e  lucida,  di  Machiavelli  verso  i  contemporanei'*'. 

C'è,  dunque,  una  struttura  di  superficie  della  beffa,  e 
è  il  noto  raggiro  di  cui  Nicla  farà  le  spese:  e  c'è  una  strut- 
tura «profonda»  della  beffa,  di  cui  Nicla  è  il  mezzo.  Ma- 
chiavelli il  risoluto  mandante  e  il  pubblico  la  vittima  in- 
consapevole. Chiuso  nella  cerchia  dei  propri  angusti  in- 
teressi (il  triangolo  Prato-Pisa-Livorno  di  una  lontana  gio- 
vinezza molto  «randagia»,  in  I,  2),  Nicla  è  il  borghese 
inerte,  quasi  bloccato  da  una  segreta  inibizione  ad  agire 
(l'incubo  del  «travasare»,  dello  «sgominare  tutta  la  casa», 
nella  stessa  scena).  Disprezza  la  propria  classe  (quegli  «uc- 
cellacci»  dei  medici,  ad  esempio,  che  «non  sanno  quello 
che  si  pescano»,  ancora  in  I,  2).  Vive  appartato  in  gelosa 
solitudine  («...  io  non  ho  bisogno  di  persona:  così  stessi 
chi  sta  peggio  di  me»,  in  II,  3),  infatuato  del  proprio  pre- 
stigio (lui,  che  «ha  cacato  la  curatella  per  imparare  dua 
hac»,  come  sottolinea,  gonfio  di  presunzione,  nella  stes- 

**  N.  BORSELLINO,  L' esperienza  comica  in  Rozzi  e  Intronati,  Roma  I976^  pp. 
129-34. 

*'  «  La  società  fiorentina  ritratta  nella  commedia  è  la  società  borghese,  una 
società  che  ha  rinunciato  a  reggere,  com'era  suo  diritto  e  dovere,  la  città.  Ha 
accolto  come  suo  legittimo  spazio  vitale  il  fatto  privato  e,  nel  caso  della  Man- 
dragola, l'adulterio  da  parte  dei  due  amanti  -  protagonisti  attivi  -,  dietro  l'ini- 
ziativa dell'uno,  e  dietro  il  conseguente  consenso  dell'altra,  mentre,  tanto  più 
ridevolmente  quanto  più  è  aggressiva  la  petulanza  saccente  della  vittima,  si 
emargina  dentro  la  sua  nicchia  di  cuor  contento,  messer  Nicla».  Cosi,  persua- 
sivamente, Ettore  Mazzali,  nella  sua  intr.  a  n.  machiavelli,  Mandragola-Cli- 
zia, Milano  1995,  p.  47. 


INTRODUZIONE  XXXV 

sa  scena).  Ha,  in  compenso,  un  terrore  fisiologico  del  Po- 
tere, che  identifica  nelle  sue  istituzioni  punitive  («Ma  non 
vorrei  però  ch'elle  fussino  mia  parole,  che  io  arei  di  fatto 
qualche  balzello  o  qualche  porro  di  drieto  che  mi  fare'  su- 
dare», in  II,  3;  e  «Ma  sopr'a  tutto  che  non  si  sappia,  per 
amor  degli  Otto!  »,  in  II,  6).  E  la  sua  pavidità,  se  non  in- 
terpretiamo male  alcuni  suggerimenti  «cifrati»  del  Ma- 
chiavelli (il  «se  io  ne  avessi  vivere,  io  starei  fresco,  ti  so 
dire  !  »,  a  proposito  dei  modesti  guadagni  della  professio- 
ne, in  II,  3;  e  il  «io  farò  masserizia  altrove»  di  III,  2),  la- 
scia intravedere  una  certa  consuetudine  ai  loschi  traffici: 
in  una  parola,  un'immoralità  di  grosso  conio. 

Ma  provincialismo,  inerzia,  grettezza,  spocchia,  codar- 
dia sono,  nelle  «malediche»  intenzioni  di  Machiavelli,  i 
vizi  di  Nicla  come  di  chi  sta  ridendo  di  lui.  Ed  ecco  -  in 
una  scena  che  ha,  da  parte  di  Machiavelli,  tutta  l'aria  di 
un'aperta  provocazione,  quasi  un  cartello  di  sfida  -  ecco 
il  «dottore»  abbattere  la  parete  della  finzione,  riversare 
sul  pubblico  la  sua  stessa  mediocrità,  accomunarlo  nella 
sua  degradazione:  «...  in  questa  terra  non  ci  è  se  non  ca- 
castecchi, non  ci  si  apprezza  virtù  alcuna. . .  E  questo  è  che, 
chi  non  ha  lo  stato  in  questa  terra,  de'  nostri  pari,  non 
truova  can  che  gli  abbai;  e  non  siàn  buoni  ad  altro  che  an- 
dare a'  mortori  o  alle  ragunate  d'un  mogliazzo,  o  a  starci 
tuttodì  in  sulla  panca  del  Proconsolo  a  donzellarci...» 

E  l'invettiva  di  II,  3,  di  cui  solo  ai  nostri  tempi  si  è  co- 
minciato ad  apprezzare  la  sostanziale  drammaticità'".  I 
tratti  negativi  di  un  singolo  diventano  qui  i  limiti  di  una 
collettività  figlia  della  crisi:  figlia  -  a  tentare,  cosi  di  fret- 
ta, di  storicizzare  la  polemica  machiavelliana  (a  rischio, 
forse,  di  soffocarne  il  respiro)  -  di  quei  «grandi  spaven- 
ti», di  quelle  «subite  fughe»,  di  quelle  «miracolose  per- 
dite» successive  alla  memorabile  «passata  del  re  Carlo», 
come  leggiamo  neìì' Arte  delia  guerra^^ :  a  quello  stesso  1494, 
insomma,  cui  fa  riferimento,  con  tanto  cronologico  pun- 
tiglio, Callimaco  nella  scena  d'apertura. 


'"  F.  FIDO,  Le  metamorfosi  del  Centauro,  Roma  1977,  pp.  106-8. 
"  M.  BARATTO,  La  Commedia  del  Cinquecento,  Venezia  1975,  p.  66. 


XXXVI  GUIDO  DA  VICO  BONINO 

Ruolo  antico  di  commedia  modernamente  rivisitato, 
r«uccellaccio»  Nicia  è  il  «portatore»  della  struttura  del- 
la beffa  in  quanto  è  lo  schermo  di  una  corruzione,  etica  e 
civile,  che  è  la  corruzione  del  suo  pubblico.  Il  gusto  della 
profanazione,  sperimentato  da  Machiavelli  sulla  struttu- 
ra d'amore  come  su  un  codice  meramente  letterario,  qui 
si  esercita,  con  una  crudeltà  mista  ad  uno  strazio  sottil- 
mente intellettuale,  sul  materiale  umano.  Attraverso  Ni- 
cia Machiavelli  profana  e  dissacra,  nel  suo  sdegno  di  gran- 
de solitario  deluso,  la  società  del  suo  tempo.  Per  questo 
crediamo  abbia  ragione,  ancora  una  volta,  il  Dionisotti  a 
cedere,  dinnanzi  alla  calcolata  bassezza  del  personaggio, 
ad  un  sovrappiù  di  gobettiano  sdegno  morale:  «Emana  da 
lui  il  tanfo  della  bestialità,  ma  anche  della  tana  condegna, 
di  una  lunga  vita  inerte  e  chiusa.  La  sconfitta  di  messer 
Nicia  nella  Mandragola  non  è  soltanto  di  un  individuo:  è 
anche  di  un  modo  di  vivere  statico,  sterile,  iniquo,  inde- 
gnamente privilegiato,  degno  di  essere  messo  alla  berlina 
di  una  città  come  Firenze,  da  uomini  dello  stampo  di  lui. 
Machiavelli»". 


Tuttavia  non  è  solo  a  Callimaco,  non  è  soltanto  a  Ni- 
cia, ai  due  personaggi-struttura,  insomma,  pur  cosi  sugge- 
stivi e  rilevanti,  che  Machiavelli  affida,  per  intero,  il  pro- 
prio messaggio.  Per  coglierlo  a  fondo,  in  tutta  la  sua  tra- 
volgente ricchezza,  ed  anche  nella  sua  chiaroscurata  com- 
plessità, occorre  guardare  -  insieme  all'amante  e  al  beffa- 
to -  ai  tre  personaggi-tema:  a  Ligurio,  Timoteo,  Lucrezia. 

Demiurgo,  stratega  dell'azione,  direttore  di  scena,  co- 
reografo: queste  alcune  delle  formule  con  cui  Ligurio  è  ve- 
nuto acquistando,  nell'attenzione  dei  critici,  tutto  il  ri- 
lievo che  merita,  non  solo  nell'economia  teatrale  della 
Mandragola,  ma  nella  gamma  della  sua  tematica".  Si  trat- 
ta di  formule  senza  dubbio  persuasive.  Ma  forse  sarebbe 


"  DIONISOTTI,  Appunti  sulla  «Mandragola»  cit.,  p.  644. 
"  RAIMONDI,  Il  segretario  a  teatro  ck.,  pp.  210-12,  che  ha  sottolineato  lo  «spi- 
rito-aecco  e  nervoso,  tutto  di  testa»  del  personaggio. 


INTRODUZIONE  XXXVII 

meglio  dire,  più  esplicitamente,  che  attraverso  Ligurio 
Machiavelli  modula  un  tema  centrale  nella  sua  visione 
dell'esistenza:  quella  febbre  della  prassi,  con  cui  l'uomo 
non  solo  esprime  il  meglio  di  sé,  ma  costruisce  con  le  pro- 
prie mani  il  suo  destino,  in  tacito,  accanito  confronto  con 
la  Natura,  la  Fortuna,  la  Storia. 

Che  l'azione  della  Mandragola  nasca  dalla  mente  fervi- 
damente progettuale  di  Ligurio,  lo  comprendiamo  quan- 
do è  ancora  fuori  scena:  è  lui,  secondo  il  puntuale  reso- 
conto di  Callimaco  (I,  i),  che  «ha  promesso  di  persuade- 
re a  messer  Nicla  che  vada  con  la  sua  donna  al  bagno  in 
questo  maggio».  Sarà  lui,  di  lì  a  poco  (è,  nel  frattempo, 
entrato  in  scena,  in  I,  3)  a  decidere  di  «pigliare  qualche 
altro  partito. . .  più  corto,  più  certo,  più  riuscibile  che  '1  ba- 
gno»: ed  è  quello  della  pozione.  Ed  è  ancora  lui,  s'inten- 
de, «a  pensare  el  remedio»,  quando  anche  questo  secon- 
do progetto  rischia  di  incepparsi,  disponendo  i  due  cor- 
ruttori ad  entrare  nel  raggiro,  «el  confessoro»  da  una  par- 
te e  quella  «buona  compagna»  di  Sostrata  dall'altra. 

Quando  poi  il  progetto  definitivo  entra  nella  sua  at- 
tuazione e  i  diretti  interessati  diffidano  (Nicla)  od  oscil- 
lano tra  speranza  e  timore  (Callimaco),  Ligurio  lo  guida, 
all'opposto,  con  una  pacatezza  ed  un  equilibrio  ammire- 
voli. Basterebbe  a  mostrarlo  il  nitido  tempismo  con  cui 
gradua  la  strategia  dei  travestimenti.  Dopo  avere  imposto 
a  Callimaco  di  abbandonare  il  ruolo  dell'amante  per  as- 
sumere quello  del  falso  medico  («  Io  voglio  che  tu  faccia  a 
mio  modo,  e  questo  e'  tu  dica  di  avere  studiato  in  medi- 
cina e  che  abbi  fatto  a  Parigi  qualche  sperienzia...»,  in  I, 
3),  gli  ordina  -  proprio  quando  l'altro,  in  uno  dei  consueti 
cedimenti  passionali,  si  abbandona  allo  sconforto 
(«Ohimè,  ohimè,  i'  sono  spacciato...»)  -  di  calarsi  nei  pan- 
ni del  giovane  scioperato:  «Fo  conto  che  tu  ti  metta  un 
pitocchino  in  dosso,  e  con  u'  liuto  in  mano  te  ne  venga  co- 
sti, dal  canto  della  sua  casa,  cantando  un  canzonano»  (IV, 
2).  Intanto  ha  già  suggerito  a  Nicla  di  «travestirsi»  da  sor- 
do, per  meglio  reggere  al  primo  confronto  con  Timoteo: 
«Io  gli  dirò  che  voi  séte  assordato,  e  voi  non  rispondere- 
te e  non  direte  mai  cosa  alcuna,  se  noi  non  parliamo  for- 


XXXVIII  GUIDO  DA  VICO  BONINO 

te»  (III,  2).  E,  più  tardi,  persuaderà  il  frate  ad  un  trave- 
stimento di  secondo  grado,  quello  del  finto  medico,  sot- 
to cui  dovrebbe  celarsi  Callimaco:  «Io  farò  travestire  el 
frate:  contraffarà  la  voce,  el  viso,  l'abito;  e  dirò  al  dotto- 
re che  tu  sia  quello;  e'  se  '1  crederrà»  (IV,  2). 

Ma  è  poi  nei  minuti  particolari,  nelle  pieghe  sottili 
dell'azione  che  rifulgono  la  limpidezza  del  suo  sguardo  e 
la  tempestività  dell'intervento:  come  quando  supplisce  a 
una  improvvisa  carenza  altrui  («Sì,  sarà!  Io  vi  risponderò 
io:  Callimaco  è  tanto  respettivo  che  è  troppo»,  in  II,  2),  o 
impartisce,  con  secchezza,  ordini  a  questo  o  a  quello:  «Di 
là,  di  qua,  per  questa  via,  per  quell'altra.  E'  gli  è  sì  gran- 
de Firenze  !  »  (così  suona  la  perentoria  espulsione  di  scena 
~clil «cotto»  Callimaco,  in  chiusura  del  secondo  atto)'\ 

Quale  impulso  nutre  l'invidiabile  sicurezza  di  sé  di  Li- 
gurie ?  Cosa  lo  spinge  a  montare,  pezzo  su  pezzo,  la  vi- 
cenda, a  governarla  con  geloso  esclusivismo  («Tu  el  sa- 
prai, quando  e'  fia  tempo:  per  ora  non  occorre  che  io  te  '1 
dica,  perché  el  tempo  ci  mancherà  a  fare,  nonché  dire», 
in  I,  3)  e,  persino,  con  una  punta  d'orgoglio  per  la  propria 
superiorità,  come  potrebbe  suggerire  il  brusco  risenti- 
mento di  II,  2:  «Se  voi  volete  che  io  stia  qui  con  voi,  voi 
parlerete  in  modo  che  io  v'intenda:  altrimenti  noi  faren 
duo  fuochi»?  Una  ben  nota  battuta  (I,  3)  sembra  spie- 
garcelo: «Non  dubitare  della  fede  mia,  che,  quando  e'  non 
ci  fussi  l'utile  che  io  sento  e  che  io  spero,  e'  c'è  che  '1  tuo 
sangue  si  confà  col  mio,  e  desidero  che  tu  adempia  que- 
sto tuo  desiderio  presso  a  quanto  tu»  (il  corsivo  è  nostro). 

C'è,  dunque,  a  muovere  il  regista  Ligurio,  la  sete  di  gua- 
dagno. Lungo  tutta  la  Mandragola,  del  resto,  come  ha  os- 
servato il  Gibellini,  «la  legge  della  finzione,  insieme  a 


"  Sara  Mamone,  in  un  contributo  attento  all'allestimento  originario  della 
Mandragola,  ha  sottolineato  il  numero  di  indicazioni  scenografiche  che  Ligurio, 
di  continuo,  con  puntigliosa  solerzia,  «dissemina».  «Sta  in  questa  piazza,  in 
quello  uscio  che  voi  vedete  al  dirimpetto  a  noi»  (II,  i);  «Aspettian  che  gli  spun- 
ti questo  canto  e  subito  gli  saren  addosso»  (IV,  9);  «Io  sento  toccare  l'uscio 
suo.  Le  sono  esse,  che  escono  fuora,  ed  hanno  el  dottore  drieto»  (V,4).  (s.  ma- 
mone.  La  «Mandragola»  e  la  scena  di  città,  in  «Il  castello  di  Elsinore»,  xiv,  38, 
2001,  in  corso  di  stampa). 


INTRODUZIONE  XXXIX 

quella  dell'utile,  domina  incontrastata  la  scena».  Anzi  l'un 
movente  è  subordinato  all'altro:  «La  dissimulazione  è  fi- 
nalizzata... al  guadagno,  vero  motore  dell'azione:  cosi  Cal- 
limaco mira  alla  mercede  amorosa,  su  cui  è  imperniato  il 
plot  (anche  se  con  i  suoi  tratti  signorili  impersona  l'idea- 
le continuità  fra  civiltà  cortese  e  umanistica);  quando  pro- 
spetta all'amico  la  relazione  con  Lucrezia,  Ligurio  gioca 
col  suo  cognome  («Che  tu  te  la  guadagni  in  questa  notte»); 
Guadagni,  omen  ma  anche  nomen  vivo  in  Firenze,  men- 
tre Calfucci  era  estinto  da  tempo;  Ligurio  è  «pappatore» 
per  etimo,  anche  se  leale  con  l'amico  cui  presta  i  propri 
servigi  (come  obietta  Callimaco  alle  riserve  del  suo  servo 
Siro);  la  vera  vocazione  di  fra'  Timoteo  è  quella  di  un  ge- 
niale procacciatore  di  elemosine  (persino  quando  com- 
prende d'esser  stato  raggirato  da  Ligurio  con  la  falsa  pro- 
posta dell'aborto,  egli  lo  giustifica  e  si  allea  con  lui  in  no- 
me del  comune  credo  utilitario);  anche  il  modesto  Siro  esi- 
ge^ tramite  Ligurio,  la  sua  ricompensa»".  Eppure,  per  pa- 
radossale che  possa  sembrare,  tra  tutti  costoro  Ligurio 
sembra  il  più  «nobilmente»  disinteressato.  Si  direbbe,  per 
tornare  a  quella  confessione  a  mezza  voce  a  Callimaco, 
che  sia  piuttosto  una  smania  dell'azione  per  l'azione  che 
gli  rampolla  dentro,  che  lo  costringe  ad  instaurare  impe- 
riose affinità  elettive  col  suo  mandante  e  quasi  gli  detta 
di  sostituirsi  a  lui  nella  struggente  attesa  che  l'intrigo  si 
compia. 

Si  pensa  subito  a  certe  taglienti  massime  delle  Lettere 
sulla  necessità  dell'azione  come  pulsione  primaria  dell'in- 
dividuo («Priegovi  seguitiate  la  vostra  stella,  e  non  ne  la- 
sciate andare  un  iota  per  cosa  del  mondo,  perché  io  cre- 
do, credetti,  e  crederò  sempre  che  sia  vero  quello  che  di- 
ce il  Boccaccio:  che  egli  è  meglio  fare  e  pentirsi,  che  non 
_fare_£  pentir ai- v;  >>)'*:  ed  alla  costante  messa  in  luce  degli 
attributi  positivi  dell'attivismo  operante  (la  «prestezza», 
la  «destrezza»  dell'operare)  che  emergono  nel  Prìncipe, 


"  P.  GiBELLiNi,  Prefazione  a  N.  machiavelli,  Mandragola,  Milano  1997,  p. 

XXXI. 

"  E  la  lettera  al  Vettori  da  Firenze  del  25  febbraio  15 14  (in  Opere  cit.,  p.  316). 


XL  GUIDO  DA  VICO  BONINO 

giù  givi  sino  a  certi  scritti  minori,  successivi  anche  alla 
Mandragola,  come  l'emblematica  Vita  di  Castruccio  Ca- 
stracani: «Niuno  fu  mai  più  audace  a  entrare  ne'  pericoli, 
né  più  cauto  ad  uscirne;  e  usava  di  dire  che  gli  uomini 
debbono  tentare  ogni  cosa,  né  di  alcuna  sbigottire,  e  che 
Dio  è  amatore  degli  uomini  forti,  perché  si  vede  che  sem- 
pre gastiga  gli  impotenti  con  i  potenti...»". 

Coerente  alla  tematica  del  personaggio,  che  si  risolve 
tutto  nella  sua  operatività,  in  un'azione  perfettamente  pa- 
ga di  se  stessa,  Machiavelli  non  elogia  mai  Ligurio.  Addi- 
rittura, nella  scena  conclusiva  della  commedia,  che  pure 
deve  tutto  alla  sua  intraprendenza,  Ligurio  quasi  non  par- 
la, apre  bocca  -  come  s'è  appena  dettò  -  solo  per  ricor- 
dare che  c'è  un  povero  servo  da  compensare:  «Di  Siro  non 
è  uomo  che  si  ricordi?»  Ma  non  si  rischiano  le  secche 
"dell'autobiografismo  né  i  gorghi  della  psicologia  deT 
profondo  se  si  dice  che  nella  fervida  tensione  al  progetto 
e  all'azione  di  Ligurio  Machiavelli  «compensa»  la  propria 
alacrità  smaniosa,  frustrata  dall'isolamento  coatto:  «Quàn-"" 
to  a  me,  io  sono  diventato  inutile  a  me,  a'  parenti  et  alIP 
amici,  perché  ha  voluto  così  la  mia  dolorosa  sorte.  E  non 
..Hq^Oj^^J  dire  meglio,  non  mi  è  rimasto  altro  di  buono  se 
non  la  sanità  a  me  et  a  tutti  e  mia.  Vo  temporeggiando  per 
essere  a  tempo  a  potere  pigliare  la  buona  fortunà,~qùàl> 
do  la  venissi,  e  quando  la  non  venga,  avere  pazienza...» 
Ed  è  innegabile  che  da  questa  rifrazione  tra  lo  scrittore7 
quasi  stordito  nella  sua  abulia  («Ma  sendomi  io  ridutto  a 
stare  in  villa  per  le  avversità  che  io  ho  aute  et  ho,  sto  qual- 
che volta  uno  mese  che  io  non  mi  ricordo  di  me...»)'*  e  il 
personaggio,  sempre  lucido  e  scattante,  il  tema  che  Ligu- 
rio impersona  trae  una  sua  strana,  dolorosa  risonanza. 

Nella  sua  brama  di  agire  con  lucidità  e  speditezza,  Li- 
gurio si  concede  poche  pause  riflessive.  Dopo  averci  fat- 

"  N.  MACHIAVELLI,  La  vttd  di  Castruccto  Castracani  da  Lucca,  in  Tutte  le  ope- 
re, a  cura  di  M.  Martelli,  Firenze  1971,  p.  626. 

"  In  Opere  cit.,  pp.  353  e  354,  da  due  lettere  a  Giovanni  Vernacci,  in  data 
15  febbraio  1516  e  8  giugno  1517. 


INTRODUZIONE  XLI 

to  costatare  la  sciocchezza  di  Nicia,  medita  sullo  squili- 
brio di  tanti  matrimoni  infelici:  «E  parmi  che  rare  volte 
si  verifichi  quel  proverbio  ne'  matrimoni  che  dice:  "Dio 
fa  gli  uomini,  e'  s'appaiono".  Perché  spesso  si  vede  uno 
uomo  ben  qualificato  avere  una  bestia,  e  per  avverso  una 
prudente  donna  avere  un  pazzo...»  (I,  3).  A  Callimaco 
che,  nel  suo  trasporto  di  amante  «cortese»,  protesta  di 
dover  «morire  per  l'allegrezza»,  ribatte  con  ironia  molto 
pragmatica:  «Che  gente  è  questa?  Ora  per  l'allegrezza, 
ora  per  el  dolore,  costui  vuole  morire  in  ogni  modo...» 
(IV,  2).  E  poco  prima,  ha  rilasciato  alcune  massime  piut- 
tosto pungenti  sulla  malizia  dei  frati:  «Questi  frati  sono 
tmicati,  astudj  ed  è  ragionevole,  perché  sanno  e  peccati 
nostri  e'  loro...»  (Ili,  2):  non  senza  precisare  che  Dio  è 
più  astuto,  in  ogni  caso,  dei  medesimi:  «Come  se  Idio  fa- 
cessi le  grazie  del  male  come  del  bene!  »  (IV,  2). 

Sono,  nella  loro  pregnanza,  i  pochi  indugi  meditativi 
di  un  personaggio  affiso  alla  perfetta  funzionalità  del  rag- 
giro. Una  ben  più  ricca  riflessività,  una  ben  altrimenti 
fluente  espansività  di  parola  è  nell'altro  personaggio-te- 
ma, quello  di  fra'  Timoteo,  in  cui  Machiavelli  sembra  in- 
carnare quelle  astuzie  della  ragione,  che  sono  spesso  al  cen- 
tro della  sua  elaborazione  di  pensatore. 

La  riflessività  di  Timoteo  si  espande,  in  prima  istanza, 
sul  piano  drammaturgico.  A  differenza  degli  altri  perso- 
naggi che  non  calano  mai  la  maschera,  Timoteo  tende  di 
continuo  ad  uscire  dalla  finzione  per  instaurare  un  dialo- 
go diretto  col  pubblico.  Un  primo  tentativo  di  approccio 
è  già  in  quei  topoi  misogini,  che  Machiavelli  provocato- 
riamente gli  affida:  «Le  più  caritative  persone  che  sieno, 
sono  le  donne,  e  le  più  fastidiose.  Chi  le  scaccia,  fugge  e 
fastidi  e  l'utile;  chi  le  intrattiene,  ha  l'utile  et  e  fastidi  in- 
sieme. Ed  è  '1  vero,  che  non  è  mele  sanza  mosche»  (III, 
4)".  Ma  una  più  stretta  complicità  la  instaura  la  sua  tatti- 
ca di  precedere  le  attese  degli  spettatori,  quando  la  su- 


"  Eccone  un  altro  (III,  9):  «E  tutte  le  donne  hanno  alla  fine  poco  cervello; 
e,  come  ne  è  una  che  sappi  dire  dua  parole,  e'  se  ne  predica,  perché  in  terra  di 
ciechi  chi  vi  ha  un  occhio  è  signore». 


XLII  GUIDO  DAVICO  BONINO 

Spense  è  più  alta  («  Io  non  ho  potuto  questa  notte  chiude- 
re occhio,  tanto  è  el  desiderio  che  io  ho  d'intendere  come 
Callimaco  e  gli  altri  l'abino  fatta...»,  in  V,  i):  e,  soprat- 
tutto, le  sue  «chiamate  in  correo»  del  pubblico,  furbe- 
scamente coinvolto  nel  lubrico  finale,  come  per  una  im- 
maginaria sostituzione  di  persona:  «E  voi  spettatori  non 
ci  appuntate:  perché  in  questa  notte  non  ci  dormirà  per- 
sona... Callimaco  e  madonna  Lucrezia  non  dormiranno: 
perché  io  so,  se  io  fussi  lui  e  se  voi  fussi  lei,  che  noi  non 
dormiremo...»  (IV,  io). 

In  ogni  caso  la  sua  riflessività  si  esprime,  poi,  al  di  là  di 
questa  strategia  scenica,  nel  continuo  rimettere  in  di- 
scussione i  moventi  propri  e  degli  altri,  nel  calcolare  -  pre- 
ventivamente o  a  posteriori  -  le  mosse  che  gli  avversari 
compiranno  o  hanno  compiuto,  nel  vagliare  le  iniziative 
che,  di  conseguenza,  gli  conviene  prendere.  Cosciente 
d'«essere  nel  gagno»,  d'essere  cioè  immesso  in  una  gara 
d'inganno  senza  esclusione  di  colpi,  Timoteo  è  altrettan- 
to fermamente  deliberato  ad  ingannare  più  degli  altri,  a 
fare  «meglio  di  loro».  Il  monologo  di  III,  9,  che  si  po- 
trebbe definire  il  monologo  del  «giunto»,  dell'inganno,  è 
esemplare  di  questa  implacabile  attitudine  riflessiva,  per 
quella  disanima,  di  una  calcolata  lentezza,  di  un  eventua- 
le scontro  tra  sé  e  Ligurio  e  delle  possibilità  che  si  apri- 
rebbero per  «giuntatore»  e  «giuntato»^". 

La  stessa  corruzione  di  Lucrezia  (III,  11)  è  un  tour  de 
force  strettamente  specialistico,  tutto  e  soltanto  retorico. 
Le  capacità  suasorie  del  frate  non  si  traducono,  infatti,  in 
un'analisi  di  responsabilità  o  colpe,  non  nella  mozione  de- 
gli affetti,  ma  in  una  fredda  impostura  «formale».  Con  un 
paio  di  citazioni  bibliche  ad  effetto,  e  soprattutto  con  quel 
suo  fitto  altalenare  di  distinzioni  ed  antitesi  (il  «discosto» 
e  r« appresso»,  gli  «spaventi»  e  i  «mali»,  il  «bene  certo» 
e  il  «male  incerto»,  r«atto»  e  il  «fine»),  Timoteo  giugne 

"  La  stessa  forte  carica  di  riflessività  è  nel  celebre  monologo  d'apertura  del 
quinto  atto  (V,  i)  sui  frati  «di  poco  cerveOo»,  che  è  speculare  alla  tirata  di  Ni- 
cla sui  concittadini  «cacastecchi»,  di  cui  abbiamo  parlato.  E  già  il  fatto  di  di- 
sporre di  cinque  monologhi  (IH,  9;  IV,  6  e  io;  V,  i  e  3)  è  indicativo  del  per- 
sonaggio. 


INTRODUZIONE  XLIII 

«sulla  bontà»  Lucrezia  perché  traveste  la  casistica  mora- 
le, rende  menzognero  un  insieme  di  rigide  norme  codifi- 
cate da  secoli*'. 

C'è  una  indubbia  sproporzione,  c'è  uno  stridente  con- 
trasto tra  la  vertiginosa  finezza  dell'^  solo  con  Lucrezia  e 
la  monotonia  martellante  con  cui  il  frate  reclama,  lungo 
tutta  la  commedia,  senza  nessun  infingimento  e  senza 
troppa  varietà  di  clausole,  le  «limosine»  o  la  «limosina», 
i  «danari»,  «codesti  danari»,  «questa  parte  de'  denari», 
sino  alla  richiesta  finale  (V,  6)  avanzata  grossolanamente 
a  palcoscenico  gremito:  «Io  ho'  avere  e  danari  per  la  li- 
mosina» (e  si  pensa  subito  a  Ligurio,  li  presente,  che  ha 
governato  tutto  e  nulla  pretende). 

Ma  lo  squallore  delle  pretese  del  frate  non  deve  indur- 
ci a  pensare  che  ci  troviamo  dinnanzi  ad  una  ragione  che 
abbia  abdicato  alla  parte  migliore  di  sé.  Come  ha,  con 
grande  rigore,  colto  uno  studioso  machiavelliano  della  sta- 
tura di  Gennaro  Sasso  (1980),  Timoteo  «è  una  figura  im- 
ponente... e  guai  a  rappresentarla,  nella  propria  mente  o 
sulla  scena,  con  tratti  caricaturali.  Vi  è,  in  essa,  qualcosa 
di  così  grandiosamente  abietto  da  sfiorare  l'innocenza.  E 
il  personaggio  è,  in  effetti,  di  un  cinismo  assoluto,  tra- 
scendentale, verrebbe  voglia  di  dire,  e  cioè  di  tale  qualità 
che,  costituendo  la  condizione  di  manifestarsi  di  ogni  al- 
tra realtà,  tutte  le  colora  di  sé,  e  le  riduce  a  sé,  nel  suo  am- 
bito insuperabile»". 


Non  meno  grandioso  -  vorremmo  aggiungerlo  a  chiare 
lettere  -  ci  sembra,  ad  ogni  ritorno  al  testo,  il  terzo  per- 
sonaggio-tema, quello  di  Lucrezia. 

Il  fascino  di  Lucrezia  è,  per  oltre  due  atti,  quello  di  un 


"  L.  HUOviNEN,  Der  Einfluss  des  theologischen  Denkens  der  Renaissancezeit 
auf  Machiavelli  :  «Mandragola» ,  die  Scholastiker  und  Savonarola ,  Extrait  du  «  BuJ- 
letin  de  la  Société  Néophilologique  de  Helsinki»,  i.vii,  1956,  n.  1-2. 

"  L'ampio  saggio  introduttivo  dello  specialista  da  cui  citiamo  (n.  machia- 
velli, La  Mandragola,  intr.  e  note  di  G.  Sasso,  note  e  app.  di  G.  Inglese,  Mi- 
lano 1980)  e  a  cui  siamo  grati  d'aver  corretto  alcune  sviste  della  nostra  intro- 
duzione del  1979,  ha  il  limite  di  ritenere  inadeguati  tutti  (o  quasi)  gli  approcci 
al  capolavoro  dei  restanti  critici. 


XLIV  GUIDO  DA  VICO  BONINO 

personaggio  assente,  di  cui  si  paria,  tuttavia,  a  varie  ri- 
prese e  con  accenti  tali  da  sottolinearne,  di  continuo,  l'in- 
discussa superiorità  morale  e  la  separatezza  dal  civile  con- 
sorzio. Il  resoconto  di  Callimaco  in  I,  i  -  oltre  a  precisa- 
re che  le  «tanta  laude»  di  «bellezza»  tributate,  a  distan- 
za, dal  Calfucci  risultano,  da  vicino,  inadeguate  -  eviden- 
zia queste  due  componenti  del  ritratto  dell'amata:  Lucre- 
zia è  «onestissima  ed  al  tutto  aliena  dalle  cose  d'amore»; 
rifugge  da  svaghi  mondani  («non  avere  parenti  o  vicini, 
con  chi  ella  convenga'  alcuna  vegghia  o  festa,  o  ad  alcun 
altro  piacere  di  che  si  sogliono  dilettare  le  giovane»)  ed  è 
tutta  intenta  ad  esercitare,  con  autorità,  il  proprio  ruolo 
nel  chiuso  delle  mura  di  casa  («non  ha  fante  né  famiglio, 
che  non  triemi  di  lei»). 

Anche  Ligurio,  nell'indugio  che  si  concede  in  I,  3,  sot- 
tolinea, tra  l'ammirato  e  lo  stupito,  il  divario  tra  la  gof- 
faggine di  Nicla  e  la  superiorità  della  donna,  che  merite- 
rebbe altre  responsabilità  che  quelle  domestiche:  «Io  non 
credo  che  sia  nel  mondo  el  più  sciocco  uomo  di  costui;  e 
quanto  la  fortuna  lo  ha  favorito!  Lui  ricco,  lei  bella  don- 
na, savia,  costumata  ed  atta  al  governare  un  regno».  Ma 
è  poi  lo  stesso  Nicla  a  completarlo,  quel  ritratto,  per  pic- 
coli tocchi  aggiuntivi,  che  la  comicità  dei  suoi  interventi 
riesce  a  rendere  ancora  più  severi:  la  ponderatezza  («Io 
credo  che  e  tua  consigli  sien  buoni  e  parla' ne  iersera  alla 
donna:  disse  che  mi  risponderebbe  oggi...»,  in  I,  2),  la  ri- 
trosia («Perché  io  non  vorrei  quel  disagio,  e  la  donna  usci- 
rebbe di  Firenze  malvolentieri»,  in  II,  2),  la  diffidenza 
(«E  non  è  dire  che  la  non  abbi  caro  di  fare  figliuoli,  che 
la  ne  ha  più  pensiero  di  me.  Ma,  come  io  le  vo'  far  fare 
nulla,  e' gli  è  una  storia»,  in  II,  5). 

Ancora  Nicla  ci  riporterà  alla  radice  di  quel  carattere 
COSI  schivo  ed  umbratile.  C'è,  in  Lucrezia,  un  fondo  di  ri- 
gorisnio  devozionale  («Ella  tien  pure  a  dosso  un  buon  col- 
trone; ma  la  sta  quattro  ore  ginocchioni  ad  infilzar  pater- 
nostri, innanzi  che  la  se  venghi  al  letto:  ed  è  una  bestia,  a 
patir  freddo»,  in  II,  6),  che  neppure  le  sacrileghe  atten- 
zioni di  un  «fratacchione»  riescono  ad  intaccare.  Siamo  al- 
lo scandalo  della  «prima  messa  de'  Servi»,  che,  invece  di 


INTRODUZIONE  XLV 

scalfire  la  religiosità  della  donna,  ne  acuisce  semmai  la  so- 
spettosità, come  di  un  animale  offeso  dall'uomo:  «Da  quel 
tempo  in  qua,  ella  sta  in  orecchi  come  la  lepre,  e  come  se 
le  dice  nulla,  ella  vi  fa  dentro  mille  difficultà»  (III,  2). 

Una  religiosità  vissuta  con  asprezza  traspare,  del  resto, 
dall'ingresso  in  scena  della  giovane  e  dal  suo  diverbio,  che 
cogliamo  in  atto,  con  la  madre:  «Ma  di  tutte  le  cose  che 
si  son  trattate,  questa  mi  pare  la  più  strana,  di  avere  a  sot- 
tomettere el  corpo  mio  a  questo  vituperio,  ad  esser  ca- 
gione che  uno  muoia  per  vituperarmi.  Perché  io  non  cre- 
derrei,  se  io  fussi  sola  rimasa  nel  mondo  e  da  me  avessi  a 
resurgere  l'umana  natura,  che  mi  fussi  simile  partito  con- 
cesso» (III,  io).  La  tutela  del  corpo  come  sacrario  del- 
l'anima, la  responsabilità  della  propria  salute  spirituale 
connessa  alla  salvezza  fisica  di  un  proprio  simile,  lo  stes- 
so sentirsi  una  seconda  Eva  ad  un  passo  da  un  nuovo  pec- 
cato originale  infondono  a  Lucrezia  un  tono  di  singolare 
elevatezza,  la  stagliano  sotto  un  altro  cielo".  Ed  è  sotto 


"  Con  molta  determinazione  Roberto  Alonge  ha  di  recente  sottolineato  la 
religiosità  del  personaggio  :  «In  Lucrezia  c'è  una  percezione  nitida  del  vizio, 
del  male  antagonista  del  bene,  e  c'è  il  coraggio  eroico  di  contrapporsi  in  soli- 
tudine al  mondo,  di  far  valere  il  diritto  della  propria  coscienza  di  contro  all'in- 
teresse anche  dell'intero  universo  («se  io  fussi  sola  rimasa  nel  mondo»,  ecc.). 
D'altra  parte,  di  questa  forza  di  carattere,  di  questo  coraggio  della  solitudine, 
Lucrezia  ha  già  dato  prova  nella  sua  esistenza.  E  la  figlia  di  una  madre  che  «è 
stata  buona  compagna»,  e  che  forse  sarebbe  ancora  oggi  «buona  compagna», 
se  non  fosse  che  l'età  avanzata  la  rende  fatalmente  meno  appetibile  allo  sguar- 
do dei  maschi  fiorentini.  Lucrezia  è  riuscita  a  crescere  in  un  suo  profilo  di  du- 
ra religiosità,  pur  avendo  sotto  gli  occhi  il  modello  di  una  madre  assai  poco  vir- 
tuosa. Qualche  sua  battuta  si  carica  di  una  risonanza  scritturale  che  non  è  sta- 
ta sufficientemente  valorizzata  dagli  interpreti.  La  scena  IH,  io  ...  (la  scena  in 
cui  la  madre  tentatrice  prepara  la  figlia  al  dialogo  risolutivo  con  il  frate)  si  chiu- 
de su  una  sintetica  e  disperata  cadenza  («Io  sudo  per  la  passione»)  che  rinvia 
al  Vangelo  di  Luca,  22,  44  che  -  unico  evangelista,  ma  perché  Luca  era  medi- 
co, e  dunque  più  attento  al  dato  eziologico  -  riporta  l'informazione  che  Cristo, 
nella  solitudine  del  Getsemani,  suda  sangue  per  la  passione  che  incombe  su  di 
lui  e  che  pure  vorrebbe  stornare  dal  proprio  capo.  Anche  Lucrezia  vuole  che  il 
calice  sia  allontanato  da  lei.  L'angoscia  di  Lucrezia  per  ciò  che  deve  accadere  è 
la  stessa  angoscia  del  Cristo  alla  vigilia  del  Calvario.  La  posta  in  gioco  e  la  vio- 
lenza che  deve  essere  perpetrata  sul  corpo.  La  violenza  sessuale  è  sempre,  co- 
munque, una  forma  di  violenza  fisica.  E  la  violenza  dello  stupro  uccide  come 
la  violenza  della  crocifissione»,  (r.  alonge.  La  «Mandragola»,  in  aa.vv.,  Storia 
del  teatro  moderno  e  contemporaneo,  diretta  da  R.  Alonge  e  G.  Davico  Bonino, 
I,  La  nascita  del  teatro  moderno,  Cinque-Seicento,  Torino  2000,  p.  56). 


XLVI  GUIDO  DA  VICO  BONINO 

questo  cielo  che  le  si  fa  incontro  Timoteo  (III,ii),  in  un 
clima  da  elevata  disputa  teologica,  tra  il  capzioso  richia- 
mo ad  un  incesto  biblico  («Dice  la  Bibia  che  le  figliuole 
di  Lotto,  credendosi  essere  rimase  sole  nel  mondo,  uso- 
rono  con  el  padre:  e,  perché  la  loro  intenzione  fu  buona, 
non  peccorono»)  e  quello  al  casto  connubio  di  Sara  e  To- 
bia, adombrato  nell'accenno  air«orazione  dell'Angiolo 
Raffaello».  Dinnanzi  al  sillogizzare  inarrestabile  del  fra- 
te, Lucrezia  oscilla  tra  lo  sgomento  («Che  cosa  mi  per- 
suadete voi?»)  ed  un  presagio  di  morte,  che  è  ancora 
dell'anima  e  non  del  corpo:  «Io  sono  contenta,  ma  io  non 
credo  mai  essere  viva  domattina». 

Poi  c'è  Vaitra  Lucrezia,  quale  la  vediamo  stagliarsi,  co- 
me per  un  effetto  prospettico,  nel  centro  focale  del  rac- 
conto dell'estasiato  Callimaco.  C'è  la  Lucrezia  di  quella 
battuta  su  cui  si  sono  logorati  per  anni  detrattori  e  avvo- 
cati d'ufficio,  sdegnati  gli  uni  per  l'immoralità  della  don- 
na, propensi  gli  altri  a  riconoscerla  come  «onorevolmen- 
te cattiva»,  ad  assolverla,  insomma,  machiavellicamente: 
«Poi  che  l'astuzia  tua,  la  sciocchezza  del  mio  marito,  la 
semplicità  di  mia  madre  e  la  tristizia  del  mio  confessoro 
mi  hanno  condutto  a  fare  quello  che  mai  per  me  medesi- 
ma arei  fatto,  io  voglio  giudicare  ch'e'  venga  da  una  cele- 
ste disposizione,  che  abbi  voluto  cosi,  e  non  sono  suffi- 
ciente a  recusare  quello  che  '1  cielo  vuole  che  io  accetti» 
(V,  4).  C'è,  invece,  qualcosa  di  profondamente  machia- 
velliano (non,  si  badi,  di  machiavellico)  nella  scelta  di  Lu- 
crezia, COSI  netta,  lucida,  risoluta.  Lucrezia  passa  dal  ri- 
fiuto (il  «recusare»  di  sopra,  un  verbo  assai  frequente  nel 
lessico  politico  di  Machiavelli)  all'accettazione  della  For- 
tuna come  di  una  forza  troppo  impetuosa  perché  ci  si  pos- 
sa opporre.  La  sua  è  la  scelta  della  dutlilità  come  suprema 
formFdTsaggezza  (questo  è  il  tema  di  cui  è  «portatrice»). 

Che  la  sua  nuova  scelta  obbedisca  ad  una  determina- 
zione intransigente  ed  assoluta,  lo  dice  la  formula  di  accet- 
tazione di  Callimaco,  che  ha  qualcosa  di  ieratico,  ancora 
una  volta:  «Però  io  ti  prendo  per  signore,  padrone,  guida; 
tu  mio  padre,  tu  mio  defensore,  e  tu  voglio  che  sia  ogni  mio 
bene.  E  quel  che  mio  marito  ha  voluto  per  una  sera,  voglio 


INTRODUZIONE  XLVII 

gli  abbia  sempre».  La  Mandragola  finisce,  in  fondo,  qui: 
non  in  quell'altro  livido  finale  sul  sagrato,  tra  le  ultime  al- 
lusioni lubriche,  il  magro  compenso  al  corruttore,  la  gioia 
sinistra  del  beffato.  Qui,  in  questa  nuova  assunzione  di  re- 
sponsabilità, in  questo  attivo  confronto  con  l'esistenza. 


Passano  vari  anni  (sette,  se  ci  si  affida  alla  datazione 
Ridolfi,  cinque,  se  ci  si  riferisce  a  quella  Inglese)  tra  la 
Mandragola  e  l'altra  commedia  di  Machiavelli  in  volgare 
e  in  prosa,  cioè  la  Clizia. 

Sono  anni  -  innanzitutto  -  di  edizioni  multiple  della  Man- 
dragola, e  in  varie  città.  Fiorentina  era  stata  la  princeps,  in- 
titolata Comedia  di  Callimaco  et  di  Lucretia,  senza  indica- 
zione d'editore,  stampata  forse  da  un  modesto  tipografo. 
A  Venezia  uscì  la  seconda,  nel  1522,  presso  Alessandro 
Bindoni,  con  lo  stesso  titolo  della  prima.  A  Roma  vide  la 
luce  la  terza,  nel  1524,  presso  i  Calvo:  ora  il  titolo  suona- 
va Comedia  facetissima  intitolata  Mandragola  et  recitata  in 
Firenze:  e  tale  riapparve  sul  frontespizio  della  quarta  (e  ul- 
tima in  vita  dell'autore),  a  Cesena,  presso  Girolamo  Son- 
cino  nel  1526.  Il  Ruscelli  la  includerà  nelle  Commedie  elet- 
te affidate  al  Pietrasanta  nel  1554:  Giunti  che  l'aveva  già 
edita  nel  '50,  la  reimprimerà  nel  1556;  Venezia  vedrà  an- 
cora nascere  due  stampe,  senza  indicazione  d'editore,  nel 
1587  e  '88;  Roma  ne  ospiterà  una  del  1588.  Poi  le  «nuo- 
ve moralità»  della  Controriforma  la  condanneranno  al  si- 
lenzio: Carlo  Goldoni,  a  diciassette  anni,  la  rilesse  dieci 
volte,  postillandola,  non  senza  scandalo  del  padre  medi- 
co. Siamo  al  1724:  la  lettura  ha  qualcosa  del  «legato»,  poi 
cala  la  tela". 


"  e.  GOLDONI,  Tutte  le  opere,  a  cura  di  G.  Ortolani,  I,  Milano  1935,  p.  44: 
«Il  m'apporta,  quelques  jours  aprés,  une  vieille  comédie  reliée  en  parchemin 
[...]  C'etoit  la  Mandragore  de  Machiavelli.  Je  ne  la  connossois  pas;  mais  j'en 
avois  entendu  parler,  et  je  savois  bien  que  ce  n'etoit  pas  une  piece  tres-chaste. 
Je  la  deverai  à  la  premiere  lecture,  et  je  l'ai  relue  dix  fois.  Ma  mere  ne  faisoit 
pas  attention  au  livre  que  je  lisois,  car  c'etoit  un  Ecclésiastique  qui  me  l'avoit 
donne;  mais  mon  pere  me  surprit  un  jour  dans  ma  chambre,  pendant  que  je  fai- 
soit des  notes  et  des  remarques  sur  la  Mandragore.  Il  la  connossoit:  il  savoit  com- 
bien  cette  piece  étoit  dangereuse  pour  un  jeune  homme  de  dix-sept  ans;  il  vou- 


XLVIII  GUIDO  DAVICO  BONINO 

A  compensare  l'autore  erano  venute  molte,  e  belle,  mes- 
sinscena. Della  romana,  alla  corte  di  Leone  X,  abbiamo 
letto  le  avvisaglie  nella  lettera  di  Battista  della  Palla.  Nel 
convento  dei  Crosechieri  (Crociferi,  ora  Campo  dei  Ge- 
suiti, alle  Fondamenta  Nuove)  il  13  febbraio  1522  la  Man- 
dragola fu  recitata,  teste  quel  prezioso  diarista  di  Marin 
Sanudo:  «In  questa  sera  ali  Crosechieri  fo  recitata  una  al- 
tra comedia  improsa  per  Cherea  luchese  e  compagni,  di 
uno  certo  vechio  dotor  fiorentino  che  havea  una  moglie 
non  potea  far  fioli  etc.  Vi  fu  assaissima  zente,  con  inter- 
medii  di  Zan  Pollo  e  altri  buffoni,  e  la  scena  era  si  piena 
di  zente  che  non  fu  fato  il  quinto  atto  perché  non  si  potè 
farlo,  tanto  era  il  gran  numero  di  le  persone»;  tre  giorni 
dopo,  il  16,  «fu  di  novo  ali  Crosechieri  recitata  la  come- 
dia  dil  fiorentino  non  compita  l'altro  zorno.  Io  non  vi  fui 
per  esser  stato».  Un  esperto  di  cultura  veneta  quale  Gior- 
gio Padoan  aveva  precisato  sin  dal  1969  che  il  successo, 
se  ci  fu,  non  fu  dovuto  alla  rinomanza  dell'autore,  ignoto 
per  allora  al  pubblico  veneziano,  ma  al  prestigio  dei  due 
principali  interpreti:  degli  intermezzi  Zuan  Polo,  «da  an- 
ni il  più  famoso  attor  comico  in  Venezia»;  della  comme- 
dia, il  lucchese  Francesco  de'  Nobili  detto  Cherea,  un  in- 
tellettuale cui  furono  anche  affidati  incarichi  diplomatici. 
Il  Padoan  propende  tuttavia  per  un  esito  temperato:  e  ciò 
per  le  venature  antifrancesi,  di  cui  il  testo  era  tramato". 

Ma,  tra  Ferrara  e  Venezia,  la  Mandragola  s'era  fatta  sen- 


lut  savoir  de  qui  je  la  tenois,  je  le  lui  dis;  il  me  grounda  amerement,  et  se  brouil- 
la  avec  ce  pauvre  Chanoine  qui  n'avoit  peché  que  par  nonchalance.  J'avois  des 
raisons  tres-justes  et  tres-solides  pour  m'excuser  vis-à-vis  de  mon  pere;  mais  il 
ne  voulut  pas  m'écouter.  Ce  n'étoit  pas  le  style  libre  ni  l'intrigue  scandaleuse 
de  la  piece  qui  me  la  faisoient  trouver  bonne;  au  contraire,  su  lubricité  me  ré- 
voltoit,  et  je  voyois  par  moi-méme  que  l'abus  de  confession  étoit  un  crime  af- 
freux  devant  Dieu  et  devant  les  hommes;  mais  c'étoit  la  premiere  piece  de  ca- 
ractere  qui  m'étoit  tombe  sous  les  yeux,  et  j'en  étois  enchanté.  J'aurois  desiré 
que  les  Auteurs  Italiens  eussent  continue,  d'aprés  cette  Comédie,  à  en  donner 
d'honnètes  et  décentes,  et  que  les  caracteres  puisés  dans  la  Nature  eussent  rem- 
placé  les  intrigues  romanesque». 

"  «In  effetti  ncWa Mandragola  si  afferma  pari  pari  -  e  sia  pure  (naturalmente) 
in  chiave  comica,  in  modo  da  tingere  di  assurdo  le  proposizioni  -  che  anche  il 
re  di  Francia  per  aver  figli  era  ricorso  al  rimedio  della  mandragola  (impotente 
e  cornuto,  dunque)  e  con  lui  numerosissimi  altri  principi  francesi:  "e  se  non  era 


INTRODUZIONE  XLIX 

tire  anche  sui  drammaturghi  colleghi:  e  per  via  del  perso- 
naggio più  «forte»,  fra  Timoteo.  Ariosto  ne  aveva  tradi- 
ta l'eco  in  un  frate  della  sua  commedia  in  versi  /  Studenti 
da  lui  composta  fra  il  1520-24,  anche  se  in  una  stesura  in- 
completa (era  priva  del  prologo  e  s'arrestava  alla  quarta 
scena  del  quarto  atto).  In  III,  6,  ai  vv.  1 125-1233,  face- 
va la  sua  comparsa  un  Frate  predicatore,  che  si  vantava 
col  pater  fatnilias  Bartolo  di  possedere  una  certa  qual  bol- 
la: «Voi  potete  veder  la  bolla,  e  leggere  -  le  facultàdi  mie 
che  sono  amplissime,  -  e  come,  senza  che  pigliate,  Barto- 
lo, -  questo  peregr inaggio,  io  possa  assolvere  -  e  commu- 
tar gli  voti...»  (vv.  II 26-1 130),  sino  a  concludere  con  apo- 
dittica sentenziosità:  «Non  si  trova  al  mondo  si  fort'obli- 
go  -  che  non  si  possa  sciór  con  l'elemosina»  (vv.  1231- 
I232)*^  Dal  canto  suo,  a  Roma,  ai  primi  del  1525,  un  tren- 
taduenne Pietro  Aretino  stende  la  prima,  e  più  mordace, 
versione  della  Cortigiana  (la  cosidetta  «romana»),  sua  pri- 
ma commedia.  La  ruffiana  Aloigia,  in  III,  16,  si  reca  a  far 
una  pia  visita  d'ossequio  al  Guardiano  d'Araceli,  la  chie- 
sa nei  pressi  del  Campidoglio;  lo  trova  «più  bel  che  mai  e 
più  grasso»,  e  vuole  da  lui  chiarimenti  su  un  ricorrente 
terror  popolare:  «Il  Turco  dove  si  truova?»  Anche  lei,  co- 
me la  nobildonna  fiorentina,  ha  lo  stesso  incubo:  «Una 
mala  cosa  saria  e  una  gran  ribalderia,  che  'nsin  quello  im- 
palare non  mi  va  per  la  fantasia  in  niun  modo.  Impalare, 
ah?  ma  verrà  egli,  padre?»  Il  Guardiano  la  rassicura  e  se 


per  questo,  la  reina  di  Francia  sarebbe  sterile,  e  infinite  altre  principesse  di 
quello  Stato"  (si  osservi  come  sia  ac/^oc  la  precisazione  "di  quello  Stato",  e  non 
-  poniamo  -  "di  molti  Stati");  e  ciò  viene  poiiihadito  nel  rimprovero,  rivolto 
a  Nicla:  "Si  che  voi  dubitate  di  fare  quello  che  ha  fatto  il  re  di  Francia  e  tanti 
signori  quanti  sono  là?"  (II  6).  Come  non  bastasse,  la  medesima  ironia  ritorna 
a  proposito  di  "san  Cucù",  il  santo  dei  cornuti:  "E  el  più  onorato  santo  che  sia 
in  Francia"  (IV  9);  e  non  è  devozione  che  ai  francesi  risultasse  proprio  ad  ono- 
re. Nella  Firenze  medicea  del  1518-19  e  nella  Roma  leonina  del  1520,  entram- 
be volte  all'Impero,  quelle  battute  non  dovevano  spiacere  ai  governanti;  non 
cosi  nella  Venezia  del  1522,  alleata  della  Francia  in  una  guerra  riapertasi  da  po- 
co e  divenuta  subitamente  grave  per  la  pronta  occupazione  ispano-pontificia 
del  ducato  di  Milano»  (g.  padoan.  La  «Mandragola»  del  Machiavelli  nella  Ve- 
nezia cinquecentesca,  in  «Lettere  italiane»,  xxii,  1970,  pp.  161-86  (le  citazioni 
dal  Sanudo  a  p.  164,  dallo  studioso  a  p.  169). 
"  ARIOSTO,  Commedie  cit.,  pp,  684-85  e  688. 


L  GUIDO  DA  VICO  BONINO 

ne  andrà  contenta,  «perché  il  pane  mi  piace  in  palato  e 
non  essere  impalata  dal  Turco»". 

Per  tornare  alle  rappresentazioni,  la  commedia  di  Cal- 
limaco e  Lucrezia  trionfa  daccapo,  e  sempre  a  Venezia, 
l'anno  dopo  V exploit  provocatorio  (rimasto  per  allora  ma- 
noscritto) dell'Aretino.  Un  amico  dell'autore,  Giovanni 
Manetti,  lo  informa  in  data  28  febbraio  1526  che  il  5  feb- 
braio, in  casa  Morosini,  era  stata  allestita  in  volgare  i  Me- 
necmi  di  Plauto,  in  contemporanea  con  un  allestimento 
della  Comeàia  ài  Callimaco  da  parte  della  «nazione  fio- 
rentina», la  comunità  cioè  commerciale  e  diplomatica  dei 
suoi  concittadini:  «Per  adempire  el  desiderio  di  V.S.  de 
l'intendere  del  recitare  de  la  sua  Comeàia  àe  Calimaco,  fo 
intendere  a  V.S.  quella  eser  stata  recitata  con  tanto  ordi- 
ne e  buon  modo,  che  un'altra  compagnia  di  gentilomeni 
che  a  concorrenzia  de  la  vostra  in  quella  sera  medesima 
etiam  con  spesa  grande  ferno  recitar  li  Menecmi  di  Plau- 
to vulgari,  la  qual,  per  comedia  antica,  è  bella  e  fu  recita- 
ta da  asai  boni  recitanti,  niente  di  meno  fu  tenuta  una  co- 
sa morta  rispetto  alla  vostra;  di  modo  che,  visto  comen- 
darsi  tanto  questa  più  che  quella,  da  vergogna  spronati, 
con  istanzia  grandissima  richiesero  la  compagnia  di  que- 
sta che  di  grazia  gliela  volesino  recitar  in  casa  loro  dove 
era  recitata  la  loro.  E  cosi  come  persone  gentilissime  un'al- 
tra sera  poi  fu  di  nuovo  con  l'intermedi  propri  de  la  pri- 
ma volta  recitata  e  con  grandissima  satisf  azione  di  tutti  si 
fini;  donde  che  abondantemente  furon  date  le  benedizio- 
ni primamente  al  compositore  e  sucesive  al  resto,  che  se 
n'erono  impaciati,  de  le  quali  ne  dovea  participar  anche 
io  per  causa  di  aver  tenuta  la  comedia  in  mano  drieto  a  li 
casamenti  del  proscenio,  perché  la  andasse  più  a  ordine  e 
per  soccorere,  se  fusse  acaduto,  alcuno  de'  recitanti,  il  che 
non  bisognò.  E  questo  sia  a  consolazion  de  la  S.V..  E  sta- 


"  p.  ARETINO,  Cortigiana.  Opera  Nova.  Pronostico.  Testamento  dell'Elefante. 
Farza,  a  cura  di  A.  Romano,  intr.  di  G.  Aquelecchia,  Milano  1999,  p.  123.  Su 
questa  «ripresa»  ha  scritto  pagine  assai  puntuali  A.  guidotti.  Riscrittura  areti- 
niana  di  una  scena  della  «Mandragola»,  in  aa.vv.,  Studi  offerti  a  Luigi  Blasucci 
dai  colleghi  e  dagli  allievi  pisani,  a  cura  di  L.  Lugnani,  M.  Santagata,  A.  Stussi, 
Lucca  1996,  pp.  299-308. 


INTRODUZIONE  LI 

ta  tanto  acetta  che  questi  nostri  mercanti  de  la  nazione  se 
anno  dato  la  fede,  posendo  però  aver  qualcosa  di  vostro  e 
non  d'altri,  recitare,  se  posibil  fusse  de  averlo  a  tempo, 
questo  primo  magio  avenire;  si  che  sete  pregato  per  par- 
te di  tutti,  posibil  essendo  che  V.S.  si  degni  o  qual  cosa 
fatta,  o  vero  che  ne  la  m.ente  l'aveste  fabricata,  tal  che  la 
si  possi  avere:  e  non  pensate  che  le  composizioni  d'altri 
avesino  questa  richiesta,  perché  in  efetto  elle  anno  dolce- 
za  e  sapore,  de  le  quali  se  ne  può  cavare  dilettevol  con- 
strutto e  onesto  satisf amento »^^  Un  doppio  trionfo,  in- 
somma: la  Mandragola  che  «sbianca»  i  Menecmi,  e  Ma- 
chiavelli che  viene  richiesto,  addirittura  per  il  i°  maggio 
veniente,  d'un  nuovo  copione,  scritto  o  da  scrivere. 

Per  la  verità,  sin  dall'estate  dell'anno  prima,  s'era  fat- 
to sentire  presso  di  lui  un  impresario  ben  più  illustre  dei 
ricchi  mercanti,  Francesco  Guicciardini,  il  presidente  del- 
la Romagna  per  il  Pontefice.  Letta  la  Mandragola,  aveva 
deciso  di  allestirla  a  Faenza  per  il  carnevale  del  '26.  Co- 
municatolo all'autore,  con  cui  era  in  affettuosa  corri- 
spondenza, ne  aveva  ricevuto  da  Firenze,  in  data  16-20 
ottobre  1525,  una  lettera  assai  gustosa,  dove,  oltre  a  chia- 
rire alcuni  passi  oscuri  del  copione.  Machiavelli  lo  assicu- 
rava di  aver  già  provveduto  a  scrivere  le  canzoni  per  la 
nuova  messinscena  e  di  aver  già  pensato  a  un'interprete: 
«Mentre  che  voi  sollecitate  costi,  et  noi  qui  non  dormia- 
mo; perché  Lodovico  Alamanni  et  io  cenamo  a  queste  se- 
re con  la  Barbera  et  ragionamo  della  commedia,  in  modo 
che  lei  si  offerse  con  li  suoi  cantori  a  venire  a  fare  il  coro 
in  fra  li  atti;  et  io  mi  offersi  a  fare  le  canzonette  a  propo- 
sito delli  atti,  et  Lodovico  si  offerse  a  darli  costi  alloggia- 
mento, in  casa  i  Buosi,  a  lei  et  a'  cantori  suoi;  si  che  ve- 
dete se  noi  attendiamo  a  menare,  perché  questa  festa  hab- 
bia  tutti  i  suoi  compimenti...  »^'.  Quello  delle  canzoni  non 
era  la  sola  integrazione,  o  il  solo  restauro,  per  il  nuovo  al- 
lestimento. Da  Faenza,  il  26  dicembre  '25  il  Guicciardi- 
ni, di  sua  iniziativa,  ne  chiedeva  all'autore  un  altro,  più 


"  MACHIAVELLI,  Opere  cit.,  p.  417. 
''  Ibid.,p.  408. 


LH  GUIDO  DAVICO  BONINO 

delicato:  la  ristesura  del  prologo,  riscritto  provvisoria- 
mente dagli  attori,  non  convinti  che  gli  spettatori  faenti- 
ni sarebbero  riusciti  a  ben  comprendere  (nel  viluppo  del- 
le angosce  e  delle  frustrazioni)  quello  originario:  «...  e  per- 
ché non  si  accordano  allo  argumento,  quale  non  intende- 
rebbono,  ne  hanno  fatto  un  altro,  quale  non  ho  visto,  ma 
lo  vedrò  presto;  e  perché  desidero  non  sia  con  l'acqua  fred- 
da, non  credo  possiate  errare  a  ordinarne  uno  altro  confor- 
me al  poco  ingegno  delli  auditori,  e  nel  quale  siano  più 
presto  dipinti  loro  che  voi...»'". 

All'epoca  dei  preparativi  per  la  recita  faentina  o  (che  è 
lo  stesso,  quanto  alle  date)  dell'allestimento  veneziano, 
Machiavelli  aveva  però  già  scritto  un'altra  commedia,  la 
Clizia:  tant'è  vero  che  due  delle  canzoni  che  Machiavelli 
aveva  detto  al  Guicciardini  di  aver  scritto  ex  novo  per  la 
vagheggiata  serata  faentina  le  aveva,  invece,  già  composte 
per  l'altra  commedia.  La  testimonianza  di  uno  storico  del- 
l'arte e  dello  spettacolo  come  un  Vasari^'  e  altri  dati  desun- 
ti da  lettere  del  Machiavelli  hanno  permesso,  ancora  una 
volta,  al  Ridolfi  di  datare  la  stesura  e  l'allestimento  della 
commedia:  scritta  (forse  di  fretta  e  su  ordinazione)  ai  primi 
del  gennaio  1525  e  messa  in  scena  in  casa  di  Jacopo  di  Fi- 


'°7è/W.,p.  413. 

"  La  testimonianza  del  Vasari  è  nella  Vita  del  pittore  e  architetto  Bastiano 
da  Sangallo,  detto  per  la  sua  maestria  l'Aristotile:  «Intanto  avendo  fatto  Ari- 
stotile grande  amicizia  con  Andrea  del  Sarto  suo  vicino,  dal  quale  imparò  a  fa- 
re molte  cose  perfettamente,  attendendo  con  molto  studio  alla  prospettiva;  on- 
de poi  fu  adoperato  in  molte  feste  che  si  fecero  da  alcune  Compagnie  di  genti- 
luomini, che  in  quella  tranquillità  di  vivere  erano  allora  in  Firenze:  onde  aven- 
dosi a  fare  recitare  dalla  Compagnia  della  Cazzuola,  in  casa  di  Bernardino  di 
Giordano,  al  canto  a  Monteloro,  la  Mandragola  piacevolissima  comedia,  fecero 
la  prospettiva,  che  fu  bellissima,  Andrea  del  Sarto  ed  Aristotile;  e  non  molto 
dopo,  alla  porta  San  Friano,  fece  Aristotile  un'altra  prospettiva  in  casa  Jacopo 
Fornaciaio,  per  un'altra  comedia  del  medesimo  autore.  Nelle  quali  prospettive 
e  scene,  che  molto  piacquero  all'universale,  ed  in  particolare  al  signor  Ales- 
sandro ed  Ippolito  de'  Medici,  che  allora  erano  in  Fiorenza  sotto  la  cura  di  Sil- 
vio Passerini  cardinale  di  Cortona,  acquistò  di  maniera  nome  Aristotile,  che 
quella  fu  poi  sempre  la  sua  principale  professione;  anzi,  come  vogliono  alcuni, 
gli  fu  posto  quel  soprannome,  parendo  che  veramente  nella  prospettiva  fusse 
quello  che  Aristotile  nella  filosofia»  (da  Le  Vite,  a  cura  di  G.  Milanesi,  VI,  Fi- 
renze 1906,  pp.  437-38).  Allo  spettacolo  hanno  dunque  assistito  Ippolito  di 
Giuliano  de'  Medici,  Alessandro  di  Lorenzo  e  il  cardinal  Silvio  Passerini,  «go- 
vernatore» di  Firenze  per  papa  Clemente  Vili. 


INTRODUZIONE  LUI 

lippo  Falconetti  detto  il  Fornaciaio,  il  1 3  di  quel  mese.  Nel 
'20  il  Fornaciaio  era  stato  bandito  da  Firenze  per  cinque 
anni:  ma  gli  era  stato  concesso  di  risiedere  nella  sua  casa  a 
Santa  Maria  in  Verzaia  fuori  porta  a  San  Frediano,  arric- 
chita di  una  fornace,  un  vasto  podere  e  un  orto  (giardino), 
apprezzato  luogo  di  raduno  di  borghesi  fiorentini.  Il  13 
gennaio  1525  scadeva  appunto  il  bando:  per  festeggiare  la 
revoca,  il  Falconetti  ebbe  l'idea  di  far  rappresentare  nel- 
r«orto  rappianato»  una  commedia  e  di  chiederla  all'ami-' 
co  Machiavelli,  di  cui  di  recente  era  stata  replicata  (in  ca- 
sa di  Bernardino  di  Giordano  al  canto  a  Monteloro)  la  Man- 
dragola, con  scene  di  Andrea  del  Sarto  e  Bastiano  da  San- 
gallo.  Lo  stesso  Sangallo  (per  la  sua  maestria  di  decorato- 
re teatrale  soprannominato  l'Aristotile)  sarà  lo  scenografo 
della  Clizia.  Con  lui  e  col  Machiavelli  collaboreranno  per 
la  parte  musicale  il  madrigalista  Philippe  Verdelot  ed  una 
ammirata  cantatrice.  Barbara  Raffacani  Salutati. 


Il  nome  della  Barbara  (o  Barbera)  Raffacani  Salutati, 
meglio  nota  tra  i  melomani  dell'epoca  come  Barbara  Fio- 
rentina, ci  trasporta  d'un  tratto  dall'ambito  della  rico- 
struzione erudita  ai  preliminari  dell'interpretazione  del- 
la commedia".  Giacché,  come  le  Lettere,  ancora  una  vol- 


"  Non  possediamo  molte  notizie  sulla  bella  Barbara  Fiorentina,  la  «mera- 
vigliosa cantatrice»,  molto  attiva  e  celebrata  nella  Firenze  del  primo  trenten- 
nio del  Cinquecento.  In  occasione  della  mostra  (1975)  su  II  luogo  teatrale  a  Fi- 
renze (Brutte lleschi,  Vasari,  Buontalenti ,  Parigi)  svoltasi  a  Palazzo  Medici-Ric- 
cardi, i  curatori  dell'esposizione  hanno  esibito  il  ritratto  della  Barbara  di  mano 
di  Domenico  Puligo  (1492-1527),  dipinto  a  olio  su  tavola.  Eccone  il  commen- 
to di  Anna  Maria  Petrioli  Tofani,  che  trascriviamo  dal  catalogo  della  mostra 
(con  intr.  di  L.  Zorzi,  Milano  1975,  pp.  75-76):  «Scrive  Giorgio  Vasari  nella 
Vita  di  Domenico  Puligo  -  in  un  brano  in  cui  pone  in  rilievo  le  doti  ritrattisti- 
che di  questo  pittore  -  che  costui  ritrasse  anco  in  un  quadro  la  Barbara  Fio- 
rentina in  quel  tempo  famosa,  bellissima  cortigiana,  e  molto  amata  da  molti, 
non  meno  che  per  la  bellezza,  per  le  sue  buone  creanze,  e  particolarmente  per 
essere  bonissima  musica  e  cantare  divinamente»  {Le  Vitec'il.,  IV,  Firenze  1879, 
p.  4).  Che  questo  dipinto  rappresenti  il  ritratto  di  una  musicista  è  cosa  certa, 
come  pure  sicuro  è  il  fatto  che  esso  appartenga  alla  mano  di  un  buon  artista  fio- 
rentino di  estrazione  sartesca.  L'ipotesi  quindi  che  possa  qui  identificarsi  il  ri- 
tratto della  famosa  cantante  Barbara  Fiorentina  citato  dal  Vasari,  risulta  ap- 
pieno confermata  sul  piano  iconografico  e  attributivo». 


LIV  GUIDO  DAVICO  BONINO 

ta,  copiosamente  testimoniano,  la  beila  cantante  non  era 
solo  la  sensibile  interprete  degli  intermezzi,  ma  una  don- 
na affascinante,  di  cui  il  Segretario  (ormai  quasi  cin- 
quantaseienne,  coniugato  da  ventiquattro  anni,  padre  di 
molta  prole)  si  confessava,  contro  ogni  decoro,  innamo- 
rato. Il  Guicciardini  avrà  un  bel  rimproverargli,  sotto  le 
mentite  spoglie  della  «Madonna  Possessione  di  Finoc- 
chieto»  (in  una  lettera  del  7  agosto  '25  da  Faenza,  che  è 
un  capolavoro  di  understatement) ,  questa  passione  per  una 
donna  «allevata  con  costumi  inonesti»,  che  «si  sforza  pia- 
cere a  tutti  e  cerca  piuttosto  di  apparire  che  di  essere»". 
Machiavelli  non  sa  evidentemente  distaccarsi  da  quella 
«conversazione  meretricia»:  e  anche  se  è  costretto  ad 
ammettere  tra  i  denti  (come  gli  accadrà  il  3  gennaio  '26, 
in  una  missiva  da  Firenze  al  Guicciardini)  che  la  giovane 
«l'ha  certi  innamorati,  che  potrebbono  impedire»  la  sua 
venuta  a  Faenza  (il  che  equivale  a  dire  che  non  è  soltan- 
to sua)'^  le  sue  missive  si  chiudono  spesso  con  trepidan- 
ti richieste  di  protezione  per  la  donna:  «La  Barbera  si 
truova  cosi:  dove  voi  gli  possiate  far  piacere,  io  ve  la  rac- 
comando, perché  la  mi  dà  molto  più  da  pensare  che  lo  im- 
peradore»  (cosi,  in  una  lettera  al  Guicciardini  da  Firen- 
ze il  15  marzo  1526)". 

Quella  con  Barbara  è  qualcosa  di  più  di  un'avventura 
galante:  è  un  legame  che  impegna  Machiavelli,  anche  per- 
ché allo  scoperto,  a  conoscenza  di  amici  e  parenti  (tra  que- 
sti, il  cognato  Francesco  del  Nero)^'.  Ma  soprattutto  c'è 
il  divario  d'età  a  farlo  sentire,  a  tratti,  estraneo  alla  don- 
na. Questa  estraneità,  questa  lacerazione  di  un  vecchio 
acceso  d'una  giovane,  il  Machiavelli  intellettuale  e  scrit- 
tore poteva  rimirarla  (quasi  «straniandosi»)  come  un  to- 


"  MACHIAVELLI,  Opere  cit.,  pp.  398-400. 

"  Ibid.,  pp.  415. 

"  Ibid.,  pp.  421-22. 

"  Chi  volesse  approfondire  il  «romanzo  d'amore»  machiavelliano,  potrà  leg- 
gere la  lettera  di  Filippo  Strozzi  a  Machiavelli,  da  Roma,  il  31  marzo  1526  (Ope- 
re cit.,  pp.  422-24);  quella  di  Jacopo  Falconetti  allo  stesso,  «in  campo  de  la  Le- 
ga», da  Firenze  il  5  agosto  1526  (ibidem,  pp.  434-35);  e  quella,  assai  pettegola 
ma  rivelativa,  di  Filippo  de'  Nerli  appunto  a  Francesco  del  Nero,  del  i  marzo 
1525  [ibidem,  p.  161 8). 


INTRODUZIONE  LV 

pos  letterario  antico  di  secoli;  ma  era  pur  qualcosa  che  gli 
viveva  dentro,  una  passione  non  superficiale,  che  stenta- 
va, in  ogni  caso,  ad  attenuarsi. 

La  Clizia  nasce  anche  (non  voglio  dire,  soltanto)  da  que- 
sta condizione  di  feconda  ambiguità  del  Machiavelli  din- 
nanzi ad  una  situazione  -  quella  del  vecchio  innamorato 
fuori  tempo  e  contro  ragione  -  ad  un  tempo  autobiogra- 
fica e  letteraria,  privata  e  topica,  specialmente  nell'alveo 
della  tradizione  drammaturgica. 

Parlo  di  «ambiguità»  in  senso,  ovviamente,  positivo, 
per  definire  quello  svariare  di  toni,  dall'ironico  all'elegia- 
co, con  cui  Machiavelli,  tra  malizia  e  melanconia,  modu- 
la il  tema  dell'amor  senile,  sin  dalla  prima  scena  della  com- 
media: da  quel  paragone  in  bocca  a  Palamede  sulle  tre  spe- 
cie di  fastidiosi  («vecchi,  cantori  ed  innamorati»)  che  agli 
spettatori  della  prima  dovette  riuscire  carico  d'allusioni 
all'autore  e  all'oggetto  dei  suoi  ardori.  E  su  questo  dupli- 
ce registro,  dell'irrisione  che  si  smorza  in  una  tenerezza 
in  qualche  modo  disperata,  che  il  topos  viene  ripreso  più 
avanti:  dal  monologo  di  Cleandro  (I,  2),  tutto  scandito  sul 
raffronto  tra  innamorati  e  soldati  («Brutta  cosa  vedere  un 
vecchio  soldato:  bruttissima  è  vederlo  innamorato...»)" 
alla  canzona  di  chiusa  del  secondo  atto  («Quanto  in  cor 
giovinile  è  bello  amore  -  tanto  si  disconviene  -  in  chi  de- 
gli anni  suoi  passato  ha  il  fiore...»). 

Del  resto  Machiavelli  è  felicemente  «ambiguo»  anche 
nel  rapporto  con  il  modello  latino.  Il  testo  autorizzato  cui 
questa  volta  si  rifa  non  è  terenziano,  ma  plautino:  ed  è 
quello  della  Casina.  Allestita  molte  volte  sin  dai  primi  del 
secolo  -  una  rappresentazione  ferrarese  del  1502,  parti- 
colarmente fastosa,  aveva  fatto  scalpore  -  la  Casina  è  una 
delle  commedie  plautine  più  tradotte  nel  primo  Cinque- 
cento'*. Ma  Machiavelli  non  intende  realizzare  né  una  ver- 
sione né  un  adattamento.  La  sua  Clizia  è  «liberamente 


"  Nella  sua  polemica  «inchiesta»  sul  Dialogo  della  lingua,  Una  giarda  fioren- 
tina (Roma  1978),  M.  Martelli  scopri  che  questa  celebre  similitudine  è  tradot- 
ta da  OVIDIO, /4«ore5,  I,  9,  vv.  1-30  (alle  pp.  180-81,  nota  5). 

"  A.  d'ancona,  Le  origini  del  teatro  italiano,  Torino  1891,  II,  passim. 


LVI  GUIDO  DAVICO  BONINO 

ispirata»  (come  si  usa  dire  oggi,  nel  gergo  degli  sceneg- 
giatori di  professione)  al  modello.  La  libertà  è  tanta  che 
tutta  la  prima  parte  della  commedia,  salvo  qualche  eco 
smorzata,  è  originale,  sino  (se  vogliamo  essere  precisi)  al- 
la terza  scena  dell'atto  terzo".  Ed  è  diversa,  fin  dall'ini- 
zio, la  distribuzione  dei  ruoli  e  il  loro  reciproco  impiego, 
giacché  in  Plauto  il  conflitto  è  duplice  (un  marito  contro 
una  moglie,  e  i  due  servi  l'uno  contro  l'altro),  mentre  in 
Machiavelli  è  unico  (un  padre  contro  un  figlio,  arbitra  la 
moglie-madre,  restando  sullo  sfondo  la  rivalità  tra  il  ser- 
vo e  il  fattore).  Ma  anche  la  ventina  di  scene  in  cui  Ma- 
chiavelli fruisce  del  testo  plautino  sono,  a  loro  volta,  ri- 
pensate e  riatteggiate  per  intero.  Machiavelli  decodifica 
Plauto  spogliandolo  di  tutte  le  sue  peculiarità  stilistiche 
(il  gusto  dell'iperbole,  la  frenesia  parodistica,  la  trivialità 
spinta  sino  all'astrazione):  e  lo  riconduce  ad  una  misura 
di  realismo  nutrito  di  concretezza  e  di  quotidianità,  lo 
«educa»  ad  un  parlar  domestico  e  moderno:  e,  sul  piano 
drammaturgico,  tende  a  rendere  più  incalzante  la  parola 
teatrale,  badando  a  comprimere  due  sequenze  in  una  o  a 
dare  maggiore  concisione  al  dialogo  o  a  eliminare,  all'in- 
terno di  una  battuta,  amplificazioni  meramente  decorati- 
ve o,  addirittura,  divaganti. 


Pochi  anni  dopo  VAndria  seconda  (ancora  insoddisfa- 
cente, tutto  sommato)  Machiavelli  «tradisce»  davvero  il 
suo  modello:  e  dal  punto  di  vista  del  discorso  scenico 
(nell'ottica  di  un  regista  che  guardasse  più  all'efficacia  del 
copione  che  al  suo  «messaggio»),  la  Clizia  è  un  risultato 
molto  notevole:  commedia  non  minore  (né  maggiore,  cer- 
to) della  Mandragola,  e,  in  ogni  caso,  con  una  sua  resa  tea- 
trale molto  intensa. 

Purtroppo  è  il  messaggio  della  commedia  non  dico  a  de- 


"  «La  sola  scena  che  trova  riscontro  in  Plauto  è  il  contrasto  tra  i  due  servi, 
che  nella  Casina  inaugura  la  commedia  e  nella  Clizia  occupa  il  finale  del  secon- 
do atto  (ma  quasi  interamente  diversa  ne  è  T'secuzione)»:  cosi  ferroni,  «Mu- 
tazione» e  «riscontro»,  p.  62  (ma  molte  pagine,  assai  precise,  sono  in  quel  sem- 
pre solido  contributo  dedicate  al  particolare  rapporto  con  la  fonte). 


INTRODUZIONE  LVII 

ludere,  ma  a  lasciarci,  almeno  sulle  prime,  sconcertati.  Per 
intenderlo  chiaramente,  sin  dalle  premesse,  conviene  leg- 
gere attentamente  il  prologo.  E  intanto  in  prosa  e  non  in 
versi,  come  il  prologo  della  Mandragola:  già  questa  scelta 
suggerisce  una  più  distesa  volontà  ragionativa,  che  trova 
riscontro  nell'ampiezza  del  brano.  Ma  siamo  agli  antipo- 
di della  Mandragola  soprattutto  a  livello  dei  contenuti.  Là, 
in  otto  strofe  di  mirabile  pregnanza,  Machiavelli  delinea- 
va lo  spazio  scenico,  caratterizzava  la  tipologia  dei  perso- 
naggi: e  accampava,  con  aspro  polemismo,  le  proprie  an- 
gosce esistenziali:  l'esercizio  del  comico  come  labile  ri- 
sarcimento, in  un  «tristo  tempo»,  della  forzosa  inattività 
politica;  la  consapevolezza  dell'inutilità  d'ogni  creazione 
letteraria  dinnanzi  ad  una  società  neghittosa,  maledica  e 
corrotta;  la  rivendicazione  del  furor  satirico  e  del  di- 
sprezzo verso  i  propri  simili,  appena  mascherato  dal  ri- 
spetto delle  convenienze  sociali.  Era,  quello  della  Man- 
dragola, un  prologo  aggressivo  nei  confronti  del  pubblico 
e  spietato  verso  se  stesso:  un  prologo  che  lasciava  presa- 
gire che  il  «badalucco»  sarebbe  stato  poco  leggiadro  e  di- 
straente. 

Qua,  nella  Clizia,  il  tono  del  discorso  è  riposato  e  ac- 
cattivante: assente  o  quasi  il  personaggio-autore*",  il  com- 
mediografo si  esprime  per  pure  ragioni  teoriche,  osten- 
tando un  fermo  distacco  dalla  materia  narrata.  La  pre- 
messa, benché  enunciata  quasi  di  sfuggita,  illumina  l'in- 
tero discorso:  «Se  nel  mondo  tornassino  i  medesimi  uo- 
mini, come  tornano  i  medesimi  casi,  non  passerebbono 
mai  cento  anni  che  noi  non  ci  trovassimo  un'altra  volta 
insieme,  a  fare  le  medesime  cose  che  ora...»  E  una  battu- 
ta, in  apparenza,  funzionale  a  ciò  che  segue  (un  caso  ac- 
caduto nell'antica  Atene  è  identico  ad  altro  svoltosi  nella 
Firenze  contemporanea).  Ma  intanto  vi  traspare  (al  di  là 
dello  sfoggio  di  una  citazione  plutarchea)*'  tutta  una  vi- 


"°  Il  solo  accenno  polemico  verso  il  pubblico  è  in  III,  5:  «In  questa  terra, 
chi  ha  bella  moglie  non  può  essere  povero:  e  del  fuoco  e  della  moglie  si  può  es- 
sere liberale  con  ognuno,  perché  quanto  più  ne  dai,  più  te  ne  rimane». 

"'  E  una  citazione  dalla  Vita  di  Sertorio  di  Plutarco,  come  ebbe  a  osservare 
E.  RAIMONDI,  Il  segretario  a  teatro  cit.,  p.  216. 


LVIII  GUIDO  DA  VICO  BONINO 

sione  dell'esistere  («tanto  che  mi  pare  che  tutti  li  tempi 
tornino,  e  che  noi  siamo  sempre  quelli  medesimi...»,  leg- 
giamo in  una  lettera  dell'ottobre  '25):  una  visione  scetti- 
ca e  disincantata,  di  chi  sa  che  nulla  (tantomeno  il  teatro) 
vale  a  modificare  l'eternamente  circolare  destino  degli  uo- 
mini. Colui  che  sta  per  esibirsi  è  dunque  un  Machiavelli 
che  sembra  aver  conquistato  il  privilegio  dell'atarassia, 
non  l'esule  iroso  e  esacerbato  della  Mandragola.  Forse  per 
questo  ora  può  finalmente  aderire  all'ideale  (caro  a  «gli 
amici  di  meriggio»,  agli  ospiti  esclusivi  degli  Orti  Oricel- 
lari)*^  di  una  letteratura  dilettosa  e  moraleggiante. 

Su  una  trama  di  riferimenti  che  vanno  da  Terenzio  a 
Cicerone  a  Donato,  si  dispiega  infatti  nel  prologo  un'idea 
di  teatro  fatto  per  «giovare»  e  «dilettare».  Dell'autore  è 
proposta  un'immagine  di  «uomo  molto  costumato»,  alie- 
no da  qualunque  maldicenza  (« . . .  lo  autore,  per  fuggire  ca- 
rico, ha  convertito  i  nomi  veri  in  nomi  fitti...»):  l'oppo- 
sto, expressis  verbis,  di  quello  della  Mandragola:  «Volendo 
adunque  questo  nostro  autore  dilettare  e  fare  in  qualche 
parte  gli  spettatori  ridere,  non  inducendo  in  questa  sua 
commedia  persone  sciocche  ed  essendosi  rimasto  di  dire 
male,  è  stato  necessitato  ricorrere  alle  persone  innamora- 
te e  alli  accidenti  che  nello  amore  nascano».  Un'onesta  e 
istruttiva  commedia  d'amore  sta  per  essere  recitata:  e  i 
personaggi  stessi  sono  chiamati  in  scena  ad  una  presenta- 
zione a  metà  affettuosa,  a  metà  ironica  («Uscite  qua  fuo- 
ra  tutti,  che  '1  popolo  vi  vegga.  -  Eccogli.  Vedete  come  e' 
ne  vengono  suavi!  Ponetevi  costì  in  fila,  l'uno  propinquo 
all'altro...»)  Col  pubblico  della  Clizia  Machiavelli  instau- 
ra tutt' altro  rapporto  che  con  quello  della  Mandragola:  là 
un  altalenante  gioco  di  perorazione  e  scherno,  di  compli- 
cità e  dileggio;  qua  una  comunanza  di  intenti  e  affetti,  da- 
vanti ad  una  favola  esemplare,  da  consumarsi  nel  volgere 
di  qualche  ora,  nel  bel  giardino  di  una  casa  amica:  tra  spet- 
tatori che  consentono  e  comprendono  al  volo  persino  il 


"  Lo  stesso  Raimondi  (ibid.,  p.  217)  aveva  notato  una  precisa  affinità  tra  il 
prologo  della  Clizia  e  quello  della  Commedia  in  versi  di  Lorenzo  Strozzi,  ricor- 
data in  apertura  di  questo  nostro  scritto. 


INTRODUZIONE  LIX 

frizzo  di  un'allusione  autoironica  alle  proprie  pene  d'amo- 
re: «Non  aspettate  di  vederla  [la  fanciulla  Clizia],  perché 
Sofronia,  che  l'ha  allevata,  non  vuole  per  onestà  che  la 
venga  fuora.  Pertanto,  se  ci  fussi  alcuno  che  la  vagheg- 
giassi, ara  pazienza...» 


Diversa  dunque,  anzi  opposta  a  quella  del  prologo  del- 
la favola  di  Nicla,  la  temperie  del  prologo  della  Clizia:  e 
diverse  anche  la  tematica  e  la  struttura. 

A  differenza  della  Mandragola,  che  poggia  saldamente 
sopra  due  strutture  antitetiche,  quella  d'amore  e  quella  di 
beffa,  affidate  a  due  personaggi  distinti,  Callimaco  e  Ni- 
cia,  il  personaggio-struttura  della  Clizia  è  uno  solo:  è,  cal- 
colatamente,  un  amante  beffato,  che  assolve  e  assomma 
in  sé,  a  partire  addirittura  dal  nome,  Nicomaco,  le  due 
«funzioni».  L'idea  di  affidare  ad  un  vecchio  settantenne, 
per  di  più  ripugnante  (è  il  figlio,  Cleandro,  ad  accennare 
alla  «fetida  bocca»,  alle  «tremanti  mani»,  alle  «grinze  e 
puzzolente  membra»  del  genitore,  in  IV,  i)  il  ruolo  dell'in- 
namorato, non  è,  ovviamente,  di  Machiavelli,  ma  dei  co- 
mici latini.  La  novità,  nel  trattamento  del  personaggio,  è 
che  Nicomaco  ha  davvero  la  risolutezza  dell'amante  gio- 
vane: ma  questa  risolutezza  deve  fare  di  continuo  i  conti 
con  la  fiacchezza  senile.  E  il  contrasto,  delineato  con  mi- 
rabile economia  drammaturgica,  nel  monologo  (II,  i)  che 
segna  l'ingresso  in  scena  del  personaggio:  «Che  domine 
ho  io  stamani  intorno  agli  occhi?  E'  mi  pare  avere  e  ba- 
gliori, che  non  mi  lasciono  vedere  lume,  e  iersera  io  arei 
veduto  el  pelo  nell'uovo.  Are'  io  beuto  troppo?  Forse  che 
si.  O  Dio,  questa  vecchiaia  ne  viene  con  ogni  mal  mendo! 
Ma  io  non  sono  ancora  sì  vecchio,  ch'io  non  rompessi  una 
lancia  con  Clizia.  E  egli  però  possibile  che  io  mi  sia  inna- 
morato a  questo  modo?»  Lungo  tutto  il  secondo  atto  (e  il 
personaggio  ha  una  forte  presenza  nel  copione,  venti  su 
trentatre  scene  lo  vedono  impegnato)  Nicomaco  oscilla 
(con  effetti  di  una  comicità  intrisa  di  malinconia)  tra  fiac- 
chezza e  vigoria,  prudenza  ed  audacia:  «E'  bisogna  anche 


LX  GUIDO  DA  VICO  BONINO 

far  le  cose  in  modo  che  la  casa  non  vada  sotto  sopra.  Tu 
vedi:  mógliama  non  se  ne  contenta,  Eustachio  la  vuole  an- 
ch'egli,  parmi  che  Cleandro  lo  favorisca,  e'  ci  si  è  volto 
contro  Iddio  e  '1  diavolo.  Ma  sta'  tu  pur  forte  nella  fede 
di  volerla.  Non  dubitare,  ch'io  varrò  per  tutti  loro,  per- 
ché, al  peggio  fare,  io  te  la  darò  a  loro  dispetto;  e  chi  vuo- 
le ingrognare,  ingrogni»  (II,  2). 

Poi,  in  apertura  del  terzo  atto,  quel  vecchio  ha  come  un 
sovrassalto  di  aggressività,  acquisisce  d'un  tratto  la  bal- 
danza dell'amante  giovane:  deciso  a  «sgominare»  tutto  e  tut- 
ti («...  ma  te  e  lui  caccerò  io  nelle  Stinche;  a  Sofronia  ren- 
derò io  la  sua  dota  e  manderoUa  via,  perché  io  voglio  es- 
sere io  signore  di  casa  mia,  e  ognuno  se  ne  sturi  gli  orec- 
chi! »,  in  III,  i),  orgoglioso  sino  alla  bestemmia  della  pro- 
pria gagliardia:  «Sta  bene  con  Cristo  e  fatti  beffe  de'  san- 
ti.» (Ili,  6).  E  il  Nicomaco  proteso  a  soluzioni  estreme  (al 
«pigliare  verso»  di  III,  7),  animato  da  una  «furia...  estraor- 
dinaria»: in  tutto  e  per  tutto  un  perfetto  amante,  per  ener- 
gia e  determinazione.  Proprio  a  questo  punto,  con  sorve- 
gliato tempismo,  Machiavelli  innesta  sulla  struttura  eroti- 
ca quella  della  beffa:  proprio  adesso  sturba  r« allegrezza» 
dell'amante  ad  un  passo  da  soddisfare  i  propri  desideri 
(«Tutte  queste  cose  accrescono  la  mia  allegrezza.  Ma  mol- 
to più  sarò  allegro,  quando  io  terrò  in  braccio  Clizia,  quan- 
do io  la  toccherò,  bacerò,  strignerò...»,  in  IV,  2)  precipi- 
tandolo in  un  «giuoco»  (cosi  in  V,  3  i  due  protagonisti  de- 
finiranno, a  posteriori,  la  beffa)  sinistro  e  senza  scampo. 

È  la  gran  burla  di  V,  2,  di  cui,  per  colmo  di  crudeltà, 
Nicomaco  sarà  vittima  e  cronista:  dico  grande,  perché,  ac- 
costata a  quella  della  Mandragola,  questa  della  Clizia  ha 
un  sovrappiù  di  orchestrazione,  una  coralità  che  rende  ter- 
ribile lo  strazio  del  beffato:  «Io  sono  vituperato  in  eter- 
no, non  ho  più  rimedio,  né  potrò  mai  più  innanzi  a  mó- 
gliama, a'  figliuoli,  a'  parenti,  a'  servi  capitare».  Travol- 
to dalla  «gran  vergogna»,  Nicomaco  è  «spacciato».  Men- 
tre la  comunità  che  ha  montato  quel  lugubre  scherzo  è 
sommersa  dalla  marea  del  riso  («Io  non  risi  mai  più  tan- 
to, né  credo  mai  più  ridere  tanto,  né  in  casa  nostra  que- 
sta notte  si  è  fatto  altro  che  ridere.  Sofronia,  Sostrata, 


INTRODUZIONE  LXI 

Cleandro,  Eustachio,  ognuno  ride...»:  cosi  Doria  in  V,  i), 
Nicomaco  solo  piange  («E  cosi  ognuno  rida  e  Nicomaco 
pianga!  »,  in  V,  2).  Distrutto  nell'anima  «che  egli  è  una 
compassione  a  vederlo»  (V,  3),  pare  regredito  ad  uno  sta- 
dio infantile  («tutto  umile»,  come  un  fanciullino  remissi- 
vo, appunto),  inerte  ormai  nella  sua  passività  («Sofronia 
mia,  fa'  ciò  che  tu  vuoi...  Governala  come  tu  vuoi...»). 


Ma  cosa  ha  poi  commesso  di  tanto  grave,  il  vecchio  in- 
sano, nell' invaghirsi  assurdamente  di  una  ragazzina  ed  ave- 
re avuto,  in  contraccambio,  «nozze  maschie?».  Per  capir- 
lo, bisogna  guardare  al  personaggio-tema,  a  Sofronia.  So- 
fronia «porta»  in  sé  il  tema  del  culto  della  norma,  di  cui 
Nicomaco  rappresenta  la  trasgressione  in  atto.  Figura  or- 
ganica e  compatta,  Sofronia  si  presenta  (11,3)  salda  nella 
sua  devozione  religiosa:  «Io  credo  che  s'abbia  a  fare  bene 
d'ogni  tempo;  e  tanto  è  più  accetto  farlo  in  quelli  tempi 
che  gli  altri  fanno  male».  Ma  la  sua  è  una  religiosità  tutta 
fattuale,  come  molto  pragmatico  (e  scarsamente  sacrale)  è 
il  suo  concetto  della  nobiltà:  «Io  ti  ricordo  che  le  genti- 
lezze delli  uomini  consistono  in  avere  qualche  virtù,  sape- 
re fare  qualche  cosa,  come  sa  Eustachio,  che  è  uso  alle  fac- 
cende in  su'  mercati,  a  fare  masserizia,  ad  avere  cura  del- 
le cose  d'altri  e  delle  sua. . .  »  Nicomaco,  ai  suoi  occhi,  è  col- 
pevole perché  ha  abdicato  appunto  a  questa  religione  pro- 
fana della  concretezza.  Lo  dice  molto  chiaramente  lo  stu- 
pendo monologo  di  II,  4  («Chi  conobbe  Nicomaco  un  anno 
fa  e  lo  pratica  ora...»),  che,  nei  modi  distesi  del  ragguaglio 
diplomatico,  tesse  appunto  un  elogio  dell'onore  e  dell'or- 
dine (sono,  con  la  parola  casa,  i  termini-chiave,  ossessiva- 
mente iterati,  della  commedia)  come  dei  due  beni  concre- 
ti, empiricamente  tangibili,  di  ogni  equilibrata  esistenza, 
che  si  ponga  al  riparo  di  un  ben  saldo  codice  di  regole. 

Di  questo  equilibrio  e  del  rispetto  della  norma  che  es- 
so esige  Sofronia  è  una  custode  strenua  (lo  dice  già  Clean- 
dro, in  I,  I,  lodando  appunto  «l'astuzia»  e  «l'industria» 
di  sua  madre).  A  fronte  di  un  attimo  di  cedimento  (come 
in  III,  3:  «...  Io  non  ci  avevo  ancora  pensato,  ma  la  rab- 


LXII  GUIDO  DA  VICO  BONINO 

bia  di  questo  vecchio  mi  sbigottisce»),  c'è  in  lei  un  fer- 
vore di  progettazione  continuo  (« ...  non  di  meno,  e'  mi  si 
aggirano  tante  cose  per  il  capo...»),  che  sfocia,  nella  sce- 
na, centrale  a  tutti  gli  effetti,  delle  «sorti»  (III,  7),  in  una 
ferrea  determinazione:  «Io  guardo,  e  so  quel  ch'io  fo». 

E  una  battuta,  nella  sua  semplicità,  lapidaria,  degna  del 
tutto  di  un  eroe  machiavelliano.  Da  quel  momento  Sofro- 
nia non  cessa  di  «giostrare»  per  sottrarre  Nicomaco  «a  sì 
disonesta  e  vituperosa  impresa»,  per  «interrompere  le  di- 
sonestà» dei  suoi  «disegni».  E  quando  il  colpevole  è  esem- 
plarmente punito,  il  risarcimento  che  Sofronia  gli  chiede 
è,  appunto,  il  ritorno  all'ordine,  il  riacquisto  dell'onore,  il 
rientro,  insomma,  nella  norma:  «Ora  la  cosa  è  qui:  se  tu 
vorrai  ritornare  al  segno,  ed  essere  quel  Nicomaco  che  tu 
eri,  da  uno  anno  indrieto,  tutti  noi  vi  torneremo...  »  I  «tan- 
ti testimoni»  dello  scandalo,  dopo  essersi  concessi  la  va- 
canza del  «giuoco»,  si  ricompongono  ora,  ordinatamente 
e  onorevolmente,  nel  culto  della  norma. 


La  «contenzione»  tra  Nicomaco  e  Sofronia,  lo  scontro 
tra  personaggio-struttura  e  personaggio-tema,  occupa  va- 
sto spazio  della  Clizia.  Ci  sono,  s'intende,  altri  personag- 
gi, ma  nessuno  s'impone  con  altrettanta  perentorietà.  Non 
Cleandro,  che,  nonostante  il  continuo  sfoggio  di  termini 
militari,  da  lessico  propriamente  guerresco,  non  riesce  a 
sfogare  la  propria  combattività,  impedito  com'è,  stretto 
quasi  tra  la  «voglia»  che  fa  «spasimare»  il  padre  e  r« am- 
bizione» della  madre.  Non  i  due  vilains  Pirro  ed  Eusta- 
chio, due  sbozzate  macchiette,  l'una  della  furfanteria,  l'al- 
tra della  rozzezza  campagnola:  né  tantomeno  i  personag- 
gi puramente  referenziali  come  Palamede,  Damone,  Bo- 
ria. Anche  da  questo  punto  di  vista,  dal  punto  di  vista  del 
giuoco  delle  parti,  o,  se  si  preferisce,  della  distribuzione 
dei  ruoli,  misuriamo  lo  scarto  che  separa  Mandragola  da 
Clizia . 

Là  c'era  un  giovane  da  bene  e  di  valore  (il  «buon  com- 
pagno» del  prologo)  che  tentava  di  conquistare  una  gio- 
vane sposa  «al  tutto  aliena  dalle  cose  d'amore»,  sosti- 


INTRODUZIONE  LXIII 

tuendosi  ad  un  marito,  che  era  certo  «poco  astuto»,  ma 
anche  «ricchissimo»  (un  avversario,  sotto  questo  profilo) 
e  «non...  al  tutto  vecchio».  Ma  c'era,  per  di  più,  un  «pa- 
rassito», che  faceva  tutt'altro,  in  scena,  che  «mendicare 
cene  e  desinari»,  come  la  tipologia  del  suo  ruolo  avrebbe 
preteso:  e  assolveva  semmai  il  compito  di  «stratega» 
dell'azione,  spettante,  di  norma,  al  servo  operoso  e  astu- 
to. E  mentre  costui  era  degradato  a  pallido  testimone  del- 
la vicenda,  i  due  più  maliziosi  collaboratori  del  cosiddet- 
to regista  diventavano  un  «frate  mal  vissuto»,  e,  addirit- 
tura, la  materfamilias,  che  -  invece  di  stigmatizzare  l'in- 
ganno con  le  dovute,  vibranti  lamentazioni  -  vi  portava 
il  decisivo  contributo  di  una  malvagità  quasi  ferina,  da 
quella  «bestia»  che  era.  Eravamo,  dunque,  dinnanzi  a  un 
soggetto  «scandaloso»  non  tanto  per  la  materia  scottante 
affrontata,  quanto  perché,  al  suo  interno.  Machiavelli  pro- 
cedeva a  ridefinire  i  ruoli  e  a  invertirne  le  funzioni,  di- 
scostandosi di  molto  dai  moduli  precedenti.  Nulla  di  si- 
mile a  codesto  radicale  sovvertimento  di  codici  nella  Cli- 
zia, che  è  molto  più  schematica  nei  rapporti  tra  i  perso- 
naggi e  molto  più  lineare  nel  contrapporre  gli  ardori  di  un 
vecchio  per  un'adolescente  e  la  sua  pretesa  follia,  alla  lu- 
cida, fredda  ragione  della  consorte,  protesa  senza  soste  al- 
la tutela  dell'onore  e  al  ristabilimento  dell'ordine. 

Ma  è  poi  la  tensione  progettuale  sottesa  alla  Mandra- 
gola ad  essere  assente  nella  Clizia.  La  commedia  di  Nicla, 
come  scherzosamente  la  chiamavano  alcuni  amici  del  Ma- 
chiavelli", era  nata  da  una  condizione  di  scacco,  nello  sgo- 
mento di  un'esistenza  condannata  alla  passività,  nella  rab- 
bia impotente  del  vedersi  «botato»  a  «non  pensare  più  co- 
se di  stato  né  ragionarne».  Nel  reagire  ad  una  situazione 
politica  del  tutto  ostile  (nella  quale  i  «patroni»  sembra- 
vano rigidamente  determinati  a  «  lasciar /o  in  terra»)  Ma- 
chiavelli aveva  caricato  il  suo  «badalucco»  teatrale  di  un 
impeto  assolutamente  eccezionale.  Una  febbre  dell'agire 
smaniosa  sino  a  stordirsi  (Ligurie),  una  ragione  capace  del- 


*'  Lo  aveva  osservato,  per  inciso,  G.  aquilecchia  nel  suo  «La  favola  "Man- 
dragola" si  chiama»,  poi  in  Schede  di  italianistica,  Torino  1976,  p.  99. 


LXIV  GUIDO  DAVICO  BONINO 

le  più  riposte  astuzie  (Timoteo)  avevano  tramutato  una 
storia  d'amore  e  di  beffa  in  un'esemplare  lezione  di  vita: 
la  lezione  di  chi,  come  Lucrezia,  sapeva  riconoscersi  sag- 
vjpf  («Jgi^  nell'assecondare  i  disegni  della  Fortuna. 

La  lezione  della  Clizia  è  opposta.  In  un  misto  indefini- 
bile di  ironia  e  tenerezza,  di  scherno  e  malinconia,  Ma- 
chiavelli sembra  voler  ammonire  i  suoi  spettatori  che  chi 
voglia  sottrarsi  ad  un  insieme  di  regole  (nel  caso  di  Nico- 
maco,  alle  consuetudini  del  macrocosmo  famigliare)  è  de- 
stinato alla  sconfitta.  Potrà  forse  spezzare  momentanea- 
mente l'ordine  precostituito,  ma  sarà  ricondotto  dalla  col- 
lettività nei  binari  delle  proprie  ferree  norme.  La  ben  mu- 
nita struttura  domestica  e  borghese  avrà,  ad  ogni  buon 
conto,  ragione  del  solitario  «deviante». 

Commedia  di  una  sperata  (e,  forse,  ritrovata)  fiducia 
nell'esistere,  la  Mandragola;  commedia,  in  qualche  misu- 
ra, della  rassegnazione  e  della  rinuncia  la  Clizia,  che  si 
chiude  col  miserevole  spettacolo  di  un  uomo  travolto  dal- 
la vergogna,  esposto  al  ludibrio  della  collettività,  e  che 
proprio  per  questo  abdica  al  proprio  ruolo  e,  in  fondo,  a 
se  stesso.  Se  questa  è  la  corretta  lettura  della  commedia, 
resta  da  chiedersi,  per  concludere,  se  la  scelta  di  Nico- 
maco  corrisponda  nel  Machiavelli  (lui,  che,  al  tempo  dtì- 
\2i  Mandragola,  si  era  mostrato,  nonostante  l'inattività  for- 
zata, tutt'altro  che  arreso)  ad  una  analoga  scelta  esisten- 
ziale: se,  insomma,  anche  Niccolò,  come  il  suo  vecchio 
«insano»,  ha  deciso  in  cuor  suo  di  astenersi,  recedere,  de- 
sistere. 

Torniamo  allora  a  ritroso  al  Machiavelli,  che,  a  segui- 
to delle  pressioni  degli  amici,  è  riuscito  a  ritrovare,  dall'au- 
tunno del  '20,  un  mestiere:  quello  di  «scrivere  storie  a  fio- 
rini di  suggello»  (e  le  storie  saranno  quelle  «delle  cose  fat- 
te dallo  stato  et  città  di  Firenze»,  le  Istorie  fiorentine  in- 
somma). Di  quell'impiego  da  scrittore  a  pagamento,  anzi 
a  cottimo,  non  è  propriamente  entusiasta:  ma  è  pur  un 
modo  per  tentare  di  reinserirsi  nella  vita  pubblica  e  riac- 
quistarvi, un  giorno,  un  preciso  ruolo  politico.  Intanto  è 
stato  richiesto  dal  cardinale  Giulio  di  Giuliano  de'  Medi- 
ci (che,  a  nome  di  papa  Leone,  tiene  a  Firenze  funzioni  di 


INTRODUZIONE  LXV 

governatore)  di  un  parere  sull'assetto  politico  da  dare  al- 
la città:  e,  sul  finire  del  '20,  stende,  in  parallelo  all'avvio 
delle  Istorie,  il  Discursus  florentinarum  rerum  post  mortem 
iunioris  Laurentii  Medices. 

Il  Discursus  è  un  appello  appassionato  (anche  se  mac- 
chinoso nella  sua  realizzazione  pratica)  a  non  voler  «fare 
principato  dove  starebbe  bene  repubblica»:  sappiano  i 
Medici  farsi  moderatori  di  uno  stato  popolare  e  piùjn- 
nanzi  questo  stato  potrà  essere  agevolmente  gestito.  E  la 
tesi  che  ispira  i  primi  quattro  libri  delle  Istorie  fiorentine . 
Naturalmente  portato  a  vivisezionare  il  passato  in  fun- 
zione del  presente,  Machiavelli  rilegge  le  tormentate  vi- 
cissitudini della  dinastia  medicea  alla  luce  dei  problemi  at- 
tuali. Se  davvero  i  Medici  si  dimostrano  disposti  (come 
sembra,  nell'incertezza  dell'ora)  a  tutelare,  semplicemen- 
te, le  istituzioni  repubblicane,  allora  vale  la  pena  di  rinfor- 
zare questi  buoni  propositi  coll'esempio,  nefasto,  dei  gua- 
sti, cui,  in  passato,  condusse  l'ambizione  dei  tiranni.  Le 
Istorie  diventano  una  sorta  di  «grammatica  in  atto» 
dell'istituenda  repubblica  fiorentina:  e  gli  episodi  di  se- 
gno contrario  vengono  evocati  come  altrettanti  «exempla 
ad  deterrendum» ,  eccessi  e  nequizie  da  evitarsi  ad  ogni  co- 
sto se  si  vuole  garantire  la  libertà  cittadina.  Basti  ricor- 
dare il  rilievo  che  assume  nel  terzo  libro  la  rievocazione 
della  tirannia  di  Gualtieri  di  Brienne  (1342-43):  il  fosco 
ritratto  del  duca  d'Atene  obbedisce  ad  un'evidente  in- 
tenzione pedagogica,  è  proprio  l'esemplare  dell'uomo  po- 
litico che  i  Medici  dovranno  aborrire. 

Ma  -  com'è  stato  autorevolmente  osservato*''  -  si  av- 
verte poi  una  brusca  e  netta  frattura  tra  i  primi  quattro  li- 
bri delle  Istorie  e  i  quattro  seguenti  e  conclusivi.  Machia- 
velli non  solo  cambia  decisamente  tema  (dai  casi  di  Firenze 
trascorre,  senza  soluzione  di  continuità,  alle  guerre  in  cui 
l'Italia  è  stata  coinvolta  nel  corso  del  Quattrocento  ed  al- 
le congiure  ordite  verso  fine  secolo  contro  alcuni  signori 
italiani),  ma  muta  anche  stile.  Si  direbbe  che  la  sua  scrit- 


"  F.  GILBERT,  Nìccolò  Machiavelli  e  la  vita  culturale  del  suo  tempo,  Bologna 
1967,  pp.  230-40. 


LXVI  GUIDO  DA  VICO  BONINO 

tura  si  sia  «raffreddata»:  l'ardore  parenetico  che  animava 
la  rievocazione  della  Firenze  antica  è  ora  sostituito  da  un 
pacato  (a  tratti,  persino  sommesso)  ragionare.  Cosa  è  ac- 
caduto? Quale  mutamento  si  è  prodotto  nell'animo  del 
Machiavelli  ?  Qualcuno  ha  osservato  che  questo  atteggia- 
mento controllato  è  semplicemente  la  spia  dell'impaccio  a 
trattare  di  Firenze  dopo  il  ritorno  di  Cosimo  (1434):  ma- 
teria troppo  vicina  ed  ancora  «compromessa»  col  presen- 
te. Ma  c'è  dell'altro:  è  accaduto  qualcosa  che,  se  non  ha 
implicato  direttamente  la  responsabilità  del  Machiavelli, 
lo  ha  certo  profondamente  turbato.  Un  gruppo  di  intel- 
lettuali fiorentini,  amici  intimi  del  Machiavelli,  e  con  lui 
assidui  degli  Orti  Oricellari,  hanno  progettato  di  soppri- 
meremo cardinal  de'  Medici  il  giorno  del  Corpus  Domini 
(19  giugno  1522).  Si  chiamano  Zanobi  Buondelmonti,  Lui- 
gi Alamanni  il  poeta,  Jacopo  Diacceto,  Antonio  Brùcioli. 
La  congiura  è  sventata,  i  cospiratori  fuggono. 

Qualche  fiorentino  ha  fatto  il  nome  di  Machiavelli  co- 
me uno  dei  cittadini  da  cooptare  nella  trama.  La  delazio- 
ne non  ha  conseguenze.  Ma  è  chiaro  che  Niccolò  è  scos- 
so da  quella  esperienza.  Essa  gli  ha  dato,  purtroppo,  la 
chiara  consapevolezza  che  qualunque  progetto  di  repub- 
blica è  ormai  insostenibile  presso  i  Medici,  dopo  che  la 
minaccia  li  ha  sfiorati.  La  fallita  congiura,  cui  non  ha  mes- 
so mano,  lo  turba  perché  gli  toglie  l'ultimo  iricentivo  a  ri- 
prendere quel  lavoro  di  progettazione  politica,  di  utopia 
attiva,  che  è  la  ragione  stessa  della  sua  esistenza. 

Il  silenzio  con  cui  nell'epistolario  è  rimossa  non  solo 
una  possibile  analisi  post  factum  della  congiura  e  dei  suoi 
errori,  ma  qualunque  considerazione  generale  di  caratte- 
re politico  sembra  una  spia  non  solo  della  cautela,  ma  an- 
che della  prostrazione  del  Machiavelli.  Poche  lettere  sue 
ci  sono  pervenute,  scritte  tra  l'autunno  '22  e  l'estate  del 
'24:  alcune  trattano  di  questioni  minute  (l'uccisione  di  un 
famiglio,  l'invio  di  alcuni  beccafichi);  altre  rinviano  al- 
l'avanzata stesura  delle  Istorie.  Nell'ultima  Machiavelli 
vorrebbe  qualche  consiglio  dall'amico  Guicciardini:  «Ho 
atteso  e  attendo  in  villa  a  scrivere  la  istoria,  e  pagherei 
dieci  soldi,  non  voglio  dir  più,  che  voi  fosse  in  lato  che  io 


INTRODUZIONE  LXVII 

vi  potessi  mostrare  dove  io  sono,  perché,  avendo  a  veni- 
re a  certi  particulari,  arei  bisogno  di  intendere  da  voi  se 
offendo  troppo  o  con  lo  esaitare  o  con  lo  abbassare  le  co- 
se... »*'.  Il  completamento  della  sua  impresa  di  storiografo 
è  il  solo  impegno  che  lo  tiene  ormai  desto. 

Poi,  all'improvviso,  il  22  febbraio  '25,  Filippo  de'  Ner- 
li,  con  una  epistola  spedita  da  Modena,  non  nasconde  al 
Machiavelli  il  rammarico  d'essere  stato  privato  «delle  ma- 
gnificentie»  sue:  ed  è  la  prima  eco  del  successo  della  C/z- 
zia^'' .  La  quale  dunque  sembra  ragionevolmente  essere  na- 
ta dallo  stato  d'animo,  spossato  e  rinunciatario,  di  chi  ha 
in  qualche  modo  compreso  che  la  sua  personale  partita  con 
la  storia  si  è  già  conclusa.  Il  papa  poteva  festeggiarlo  e  do- 
narlo, come  fece  a  Roma,  nel  maggio  '25,  alla  consegna 
delle  Istorie;  il  de'  Nerli,  poteva,  il  6  settembre,  da  Fi- 
renze, rallegrarsi  con  lui  per  la  riabilitazione  ai  pubblici 
uffici  («Che  voi  siate  entrato  nello  squittino,  e  che  vi  sia- 
no stati  fatti  cenni,  e  chiuso  l'occhio  dalli  accoppiatori, 
ne  sono  molto  contento...»)*'.  La  verità  è  che  Machiavel- 


"  La  lettera  è  spedita  il  30  agosto  1524  da  Sant'Andrea  in  Percussina  al 
«commissario  in  Romagna»:  e  la  si  può  leggere  in  machiavelli,  Opere  cit., 

P-  389- 

"  «Or  va  poi  tu  e  non  ti  disperare.  Io  so  dell'orto  rappianato  per  farne  il 
parato  della  vostra  commedia;  io  so  de'  conviti  non  solo  alli  primi  e  più  nobili 
patrizii  della  città,  ma  ancora  a'  mezzani  e  dipoi  alle  plebe;  cose  solite  farsi  so- 
lo per  li  principi.  La  fama  della  vostra  commedia  è  volata  per  tutto;  et  non  cre- 
diate che  io  abbia  avuto  queste  cose  per  letere  di  amici,  ma  l'ho  havuto  da  vian- 
danti che  per  tutto  la  strada  vanno  predicando  "le  gloriose  pompe  e'  fieri  ludi" 
della  porta  a  San  Friano.  Son  certo,  che  cosi  come  non  è  stata  contenta  la  gran- 
dezza di  SI  gran  magnificentie  di  restare  drento  a'  termini  di  Toscana,  ch'è  vo- 
luta volare  ancora  in  qua,  che  passerà  anche  e  monti,  se  da  questi  eserciti  che 
aranno  il  capo  ad  altro  che  a  feste  non  è  ritenuta,  et  cosi  aranno  viso  di  non 
mondare  nespole.  Insomma,  Niccolò,  per  recare  le  mille  in  una,  et  per  dire  più 
tosto  zuppa  che  avere  a  dire  pane  et  vino,  e  per  abreviare  questa  materia,  io 
vorrei  che  voi  mi  mandassi,  quando  prima  potrete,  questa  comedia  che  ulti- 
mamente avete  fatta  recitare.  Fate  che  per  niente  voi  mi  manchiate,  per  quan- 
to voi  stimate  la  gratia  del  re  di  Tunisi,  e  raccomandatemi  a  tutta  la  borboge- 
ria»  {ibidem,  p.  390). 

"'  Per  una  di  quelle  «malizie»  del  Fato,  davvero  imperscrutabili,  nel  recu- 
pero del  Machiavelli  alla  vita  attiva  dovette  -  in  qualche  modo  -  aver  messo 
mano  la  Barbera,  se  subito  dopo  il  Nerli  postilla:  «Ho  bene  avuto  caro  di  in- 
tendere donde  tanto  favore  sia  proceduto;  e  poiché  dipende  da  Barberia,  e  da 
qualche  altra  vostra  gentilezza,  come  voi  medesimo  attestate  per  la  vostra,  voi 
mi  chiarite  più  l'un  di  che  l'altro»  {ibidem,  p.  404). 


LXVm  INTRODUZIONE 

li  aveva  netta  la  coscienza  d'essere  ormai  un  intellettuale 
tagliato  fuori  dalla  trama  attiva  della  politica.  Per  questo 
poteva  passarsi  il  lusso  di  sorridere  di  se  stesso:  e  ordire 
(sulle  assi  di  un  palcoscenico,  allestito  all'aperto  tra  ami- 
ci) la  vicenda  esemplare  del  fallimento  di  un  vecchio,  che 
tenta  disperatamente  di  affermare  la  propria  personalità 
ed  è  costretto  a  «ritornare  al  segno».  La  sua  vicenda,  in- 
somma: e  non  solo  per  i  risvolti  amorosi,  che  al  massimo 
potevano  stuzzicare  il  pettegolezzo  o  il  rimbrotto  dei  so- 
dali, ma  per  quell'ammissione  (pudicamente  rifratta  sullo 
schermo  di  una  querelle  piccolo-borghese  e  familiare)**  di 
una  ben  più  dolorosa  sconfitta  dell'esistenza. 

GUIDO  DA  VICO  BONINO 

Università  degli  Studi  di  Torino,  gennaio  2001. 


"  Sull'aspetto  «piccolo-borghese»  della  commedia  (cioè  proprio  della  «ricon- 
quista della  piena  onorabilità  del  casato»)  ha  scritto  pagine  fini,  di  recente,  una 
giovane  studiosa,  Francesca  Malara  (f.  malara.  Vizi  privati  e  pubbliche  virtù  nel- 
la «Clizia»  di  Machiavelli,  in  «Il  castello  di  Elsinore»,  XIII,  37,  2000,  pp.  5-28). 


Nota  biografica 


Niccolò  Machiavelli  nasce  a  Firenze  il  3  maggio  1469  da  Bernardo 
dottore  in  legge  e  da  Bartolomea  Nelli.  Dal  1481  studiò  grammatica 
con  Paolo  Sasso  da  Ronciglione,  nello  Studio  fiorentino.  Nella  giovi- 
nezza lesse  Lucrezio:  ce  lo  dice  il  ms.  Vaticano  Rossiano  884,  copia 
autografa  e  firmata  del  De  rerum  natura  (e,  di  seguito,  àcW.' Eunuchus 
terenziano).  Probabilmente,  dopo  il  '94,  frequentò  le  lezioni  di  Mar- 
cello Virgilio  allo  Studio.  Tra  il  '92  e  il  '94,  cercò  di  stringere  amici- 
zia con  Giuliano  de'  Medici.  Caduti  i  Medici  e  affermatosi  Savonaro- 
la, Machiavelli  si  avvicinò  a  quanti  nell'aristocrazia  contribuirono  al- 
la caduta  del  frate.  Di  fatto,  dopo  il  supplizio  del  Savonarola  (23  mag- 
gio 1498),  fu  nominato  (19  giugno)  segretario  della  seconda  cancelle- 
ria (dal  14  luglio,  anche  segretario  dei  Dieci),  dal  febbraio  1499  primo 
cancelliere.  Del  maggio  '99  è  la  prima  breve  prosa  politica,  il  Discorso 
sopra  Pisa;  del  luglio  il  primo  incarico  diplomatico,  una  missione  pres- 
so Caterina  Sforza,  a  Porli.  L'anno  dopo  fu  inviato,  con  Francesco  Del- 
la Casa,  in  Francia  (luglio  1500-gennaio  1501).  Nell'autunno  del  1501, 
sposò  Marietta  Corsini  (e  ne  ebbe  sette  figli:  Primerana,  Bernardo,  Lo- 
dovico, Guido,  Piero,  Baccina  e  Totto).  Nel  giugno  1502,  fu  con  Fran- 
cesco Soderini  in  una  ambasciata  a  Cesare  Borgia;  dall'ottobre  1502 
al  gennaio  1503,  seconda  ambasciata  al  Valentino;  dall'ottobre  al  di- 
cembre 1503,  prima  legazione  a  Roma  per  il  conclave;  del  gennaio- 
marzo  1504,  è  la  seconda  ambasciata  alla  corte  di  Luigi  XH,  a  Lione. 
Al  momento  della  elezione  di  Piero  Soderini,  nel  settembre  1502,  a 
gonfaloniere  perpetuo  della  repubblica  fiorentina.  Machiavelli  gi  tri- 
buta, pur  nel  dissenso,  fedele  amicizia.  E  di  questi  anni  l'intenso  im- 
pegno del  Machiavelli  al  progetto  di  una  milizia  «propria»  della  Re- 
pubblica. Soltanto  nel  dicembre  1505  potè  avviare  il  reclutamento  e 
addestramento  dei  primi  contingenti.  Tra  la  fine  di  agosto  e  l'ottobre 
1506,  Machiavelli  è  impegnato  in  un'ambasciata  di  grande  delicatez- 
za e  rilievo:  la  sua  seconda  al  seguito  di  Giulio  \\,  in  Umbria  e  Roma- 
gna: agli  eventi  di  quella  spedizione  si  riferisca  la  lettera  a  Giovan  Bat- 
tista Soderini,  nota  come  Ghiribizzi  {13-2-j  settembre).  Nominato  can- 
celliere dei  Nove  ufficiali  della  milizia  fiorentina  (12  gennaio  1507), 
Machiavelli  si  dedica  con  sempre  eguale  fervore  al  reclutamento  nel 
contado.  Nel  giugno,  fu  scelto  per  una  missione  all'imperatore  Massi- 


LXX  NOTA  BIOGRAFICA 

miliano,  ma  poi  fu  sostituito  da  Francesco  Vettori,  per  l'opposizione 
dei  «grandi».  Solo  alla  fine  dell'anno  Soderini  potè  inviare  in  Tirolo 
anche  Machiavelli,  con  funzioni  di  segretario.  Al  rientro  Machiavelli 
firmò  un  Rapporto  di  cose  della  Magna  (è  datato  17  giugno  1508;  se- 
guiranno il  Discorso  sopra  le  cose  della  Magna  [settembre  1509]  e  il  Ri- 
tracto  di  cose  della  Magna  [1509-12]).  Tornato  alle  sue  milizie,  ebbe  ruo- 
lo di  rilievo  nella  conclusione  della  guerra  contro  Pisa  (4  giugno  1509). 
Nel  novembre-dicembre  fu  a  Verona,  presso  l'imperatore.  Nel  giugno- 
ottobre  15 IO  tornò  in  Francia:  e,  in  seguito,  stese  un  Ritracto  di  cose 
di  Francia  (con  aggiunte  fino  al  15 12).  Fattasi  più  delicata  la  posizio- 
ne della  Repubblica  fiorentina,  a  Machiavelli  furono  affidati  altri  com- 
plessi incarichi  militari  e  diplomatici:  in  Francia,  settembre-ottobre 
151 1;  quindi  a  Pisa  (2-1 1  novembre),  presso  il  concilio  dei  cardinali 
contrari  a  Giulio  II.  Nell'agosto  15 12  contingenti  militari  spagnoli  agli 
ordini  del  cardinale  Giovanni  de'  Medici  entrarono  in  Toscana,  di- 
strussero le  fanterie  fiorentine,  saccheggiarono  Prato.  Il  31  agosto  So- 
derini fuggi  da  Firenze;  il  16  settembre  i  Medici  ripresero  il  potere. 
Machiavelli  fu  espulso  dall'ufficio  il  7  novembre  e  il  io  condannato  al 
confino  dentro  il  dominio  per  un  anno.  Il  12  febbraio  del  '13  fu  in- 
carcerato, sotto  il  sospetto  di  aver  partecipato  alla  congiura  organiz- 
zata dal  Capponi  e  dal  Boscoli  contro  il  cardinal  de'  Medici,  tortura- 
to e  di  nuovo  confinato  (7  marzo).  Quando,  l'i  i  marzo,  Giovanni  de' 
Medici  fu  eletto  papa  (Leone  X),  Machiavelli  beneficiò  dell'amnistia 
e  si  ritirò  nel  podere  detto  Albergaccio,  a  Sant'Andrea  in  Percussina. 
Qui  compose  un  perduto  trattato  sulle  repubbliche  (verrà  in  pratica 
inglobato  nel  Discorsi);  la  «memoria»  sul  Tradimento  del  Duca  Valen- 
tino al  Vitellozzo  Vitelli,  Oliverotto  da  Fermo  e  altri;  e,  soprattutto,  il 
De  principatibus  (noto  come  II  principe).  Concepito  nell'autunno  del 
1513,  ultimato  tra  il  gennaio  e  l'aprile  1514,  il  libro  fu  dedicato  a  Lo- 
renzo di  Piero  de'  Medici  (futuro  duca  di  Urbino),  dall'estate  del  '13 
«principe»  della  Signoria  medicea  in  Firenze.  Vi  fu  qualche  buona  rea- 
zione iniziale,  ma  poi  venne,  da  Roma,  un  secco  divieto  a  ogni  riabili-, 
tazione  (febbraio  15 15).  Fu  allora  che  Machiavelli  si  avvicinò  ai  gio- 
vani letterati  di  tendenza  repubblicana  che  si  riunivano  negli  Orti  di 
Cosimo  RuceUai.  A  questi  e  a  Zanobi  Buondelmonti  sono  dedicati  i 
Discorsi  sopra  la  prima  deca  di  Tito  Livio  (1515-1517/18),  riflessione 
storico-politica  in  forma  di  originale  commento  all'opera  del  grande 
storico  romano.  Gli  stessi  Buondelmonti  e  Rucellai,  con  Battista  del- 
la Palla  e  Luigi  Alamanni,  figurano  -  accanto  al  protagonista,  Fabri- 
zio Colonna  -  nei  dialoghi  De  re  militari  (noti  come  Arte  della  guerra  e 
compiuti  tra  la  fine  del  '19  e  l'estate  del  '20);  al  Buondelmonti  e  a  Lui- 
gi Alamanni  è  dedicata  la  Vita  di  Castruccio  Castracani  (estate  1520). 
Sono  dello  stesso  periodo  il  poemetto  satirico  in  terzine  L 'Asino  (in- 
compiuto; 1517  ex.-i5i8),  la  versione  deW Andria  terenziana  (due  ste- 
sure, ca.  1517-18  ca.  e  1519-20),  la  Favola  di  Belfagor  e  una  Serenata 
in  ottave.  Dopo  la  morte  di  Lorenzo  di  Piero  (4  maggio  15 19),  l'osti- 
lità nei  suoi  confronti  parve  attenuarsi:  forse  nella  primavera  del  1520 


NOTA  BIOGRAFICA  LXXI 

si  rappresentò  a  Firenze  la  Mandragola  (Comedia  di  Callimaco  et  di  Lu- 
cretia,  s.n.t.  [Firenze  1520?]),  messa  in  scena  a  Roma  (nel  maggio?) 
davanti  a  Leone  X.  All'estate  appartiene  una  piccola  missione  a  Luc- 
ca, da  cui  il  Sommano  delle  cose  di  Lucca.  L'8  novembre,  infine,  fu  in- 
vitato dallo  Studio  «ad  componendum  annalia  [...]  et  alia  faciendum»; 
e,  nell'occasione,  forse,  stese  un  progetto  di  riforma  costituzionale  fio- 
rentina, U  Discursus florentinarum  rerum  (1520  ex. -152 1  in.).  Nel  mag- 
gio 152 1,  fu  inviato  degli  Otto  al  capitolo  dei  Frati  minori  a  Carpi;  in 
occasione  di  questo  viaggio  prende  corpo  (e  la  testimoniano  bellissime 
lettere)  l'amicizia  con  Francesco  Guicciardini,  governatore  di  Mode- 
na. Nell'agosto  vede  la  luce  VArte  della  guerra  (Giunti,  Firenze),  con 
dedica  a  Lorenzo  Strozzi.  Mentre  continua  a  stendere  gli  «annali»  fio- 
rentini, è  lambito  da  sospetti  di  complicità  con  la  congiura  repubbli- 
cana antimedicea  di  Zanobi  Buondelmonti,  Luigi  Alamanni  e  Jacopo 
Diacceto,  soffocata  alla  fine  di  maggio.  Gli  otto  libri  delle  Istorie  fio- 
rentine, conclusi  nel  febbraio  1525,  vengono  presentati  a  Giulio  de' 
Medici  (papa  Clemente  VII);  intanto,  sin  dal  gennaio,  è  andata  in  sce- 
na a  Firenze  la  commedia  Clizia.  Dopo  la  sconfitta  dei  Francesi  a  Pa- 
via (24  febbraio  1525),  viene,  nel  giugno  di  quell'anno,  inviato  in  Ro- 
magna, presso  Guicciardini,  per  organizzarvi  la  milizia;  nell'aprile  del 
'26  è  nominato  cancelliere  dei  Procuratori  delle  Mura.  Dal  giugno  1526 
Machiavelli  è  al  campo  dei  collegati  (il  papa,  i  fiorentini,  i  francesi  e 
Venezia)  e  segue  le  vicende  belliche.  Dopo  la  sconfitta  generale  della 
Lega  (17  maggio  1527),  a  Firenze  fu  restaurata  la  Repubblica.  Non  ac- 
cetto ai  nuovi  governanti,  di  impronta  savonaroliana,  e  assai  debole 
nel  fisico.  Machiavelli  non  ricevette  incarichi:  mori  il  21  giugno  1527. 


Bibliografia  essenziale 


La  presente  bibliografia  raccoglie,  in  ordine  cronologico  d'appari- 
zione, i  principali  studi  apparsi  in  Italia  e  all'estero  relativi  al  teatro 
del  Machiavelli,  a  partire  dal  1979,  data  della  prima  edizione  della  pre- 
sente raccolta  nella  collezione  «Nuova  Universale  Einaudi». 

Per  comodità  di  consultazione  si  è  diviso  la  bibliografia  in  quattro 
sezioni:  I)  Rassegne  critiche  e  studi  d'insieme;  II)  Studi  sulì'Andria; 
III)  Studi  sulla  Mandragola;  IV)  Studi  sulla  Clizia. 


I.  Rassegne  critiche  e  studi  d'insieme. 

S.  Bertelli  -  P.  Innocenti,  Bibliografia  machiavelliana,  Valdonega,  Ve- 
rona 1979. 

AA.  VV.,  Il  teatro  italiano  del  Rinascimento,  a  cura  di  M.  De  Panizza 
Lorch,  Edizioni  di  Comunità,  Milano  1980. 

F.  Angelini,  Teatri  moderni,  in  AA.  VV.,  Letteratura  italiana,  diretta 
da  A.  Asor  Rosa,  VI,  Teatro,  musica,  tradizione  dei  classici,  Einau- 
di, Torino  1986. 

D.  Perocco,  Rassegna  di  studi  sulle  opere  letterarie  di  Machiavelli  (1969- 
86),  in  «Lettere  italiane»,  XXXIX  (1987),  pp.  559-69. 

AA.  VV.,  Il  teatro  italiano  nel  Rinascimento,  a  cura  di  F.  Cruciani  e  D. 
Seragnoli,  Il  Mulino,  Bologna  1987. 

AA.  VV.,  Testo  lingua  spettacolo  nel  teatro  italiano  del  Rinascimento,  a 
cura  di  P.  D.  Stewart,  («Yearbook  of  Italian  Studies»),  Firenze 
1987. 

S.  Mamone,  Il  teatro  nella  Firenze  medicea,  Mursia,  Milano  I99I^ 

P.  D.  Stewart,  Per  una  lettura  «teatrale»  delle  commedie  del  Cinque- 
cento, in  «Yearbook  of  Italian  Studies»,  IX,  1991,  pp.  80-95. 

A.  Calzavara,  Meccanismi  e  forme  di  «monna  Commedia».  Rassegna  di 
testi  e  studi  sulla  commedia  del  Cinquecento  (ic)62-ic)C)o),  in  «Let- 
tere Italiane»,  XLV,  1992,  pp.  638-74. 

R.  Andrews,  Scripts  and  scenarios.  The  performance  of  comedy  in  Re- 
naissance Italy,  Cambridge  University  Press,  Cambridge  1993. 

R.  Scrivano,  Comico  e  linguaggio  nella  commedia  del  Cinquecento,  in  II 
modello  e  l'esecuzione,  Liguori,  Napoli  1993. 


LXXIV  BIBLIOGRAFIA  ESSENZIALE 

J.  Jackson  Cope,  Secret  sharers  in  Italian  Comedy .  From  Machiavelli  to 
Goldoni,  Duke  University  Press,  Durham-London  1996. 

G.  Padoan,  L' avventura  della  commedia  rinascimentale,  Piccin,  Nuova 
Libraria,  Padova  -  Vallardi,  Milano  1996. 


II.  Studi  s\iW«Andria». 

E.  Mazzali,  Nota  su  Machiavelli  «umanista»,  in  AA.  VV.,  Il  Rinasci- 
mento. Aspetti  e  problemi  attuali,  Atti  del  X  Congresso  A.  I.  S.  L. 
L.  I,  Belgrado  17-21  aprile  1979,  a  cura  di  V.  Branca,  C.  Griggio, 
M.  ed  E.  Pecoraro,  G.  Pizzamiglio,  E.  Sequi,  Olschki,  Firenze 
1982,  pp.  525-29. 

E.  Fumagalli,  Machiavelli  traduttore  di  Terenzio,  in  «Interpres»,  16 
(1997),  s.  2,  n.  I,  pp.  204-39. 

III.  Studi  sulla  «Mandragola». 

P.  Baldan,  La  presenza  di  Svetonio  nel  Machiavelli  maggiore,  in  «Atti 
dell'Accademia  Nazionale  dei  Lincei.  Rendiconti.  Classe  di  scien- 
ze morali,  storiche  e  filologiche»,  serie  Vili,  XXXIII  (1979),  pp.  9- 
34,  ora  (con  altri  quattro  studi)  in  L 'intrigo  e  l'avventura.  Fra  Ligu- 
rio  e  Orlando,  Edizioni  dell'Orso,  Alessandria  1990. 

M.  De  Panizza  Lorch,  Confessore  e  Chiesa  in  tre  commedie  del  Rinasci- 
mento :  «Philogenia» ,  «Mandragola»,  e  «Cortigiana»,  in  II  teatro  ita- 
liano del  Rinascimento  cit.,  pp.  301-48,  in  part.  310-18. 

A.  Paolucci,  Livy's  Lucretia,  Shakespeare' s  «Lucrece»,  Machiavelli' s 
«Mandragola»,  in  II  teatro  italiano  del  Rinascimento  cit.,  pp.  619-35. 

L.  Caretti,  Appunti  sulla  «Mandragola»,  in  «Esperienze  letterarie»,  vi, 
1981 ,  ora  in  Antichi  e  moderni.  Studi  di  letteratura  italiana .  Seconda 
serie,  Roma,  Salerno  1996,  pp.  32-49. 

P.  Roselli,  Nota  sul  personaggio  Lucrezia  nella  «Mandragola»,  in  «Stu- 
di italiani  in  Finlandia»,  1981,  pp.  83-87. 

A.  Guidotti,  Su  alcune  soluzioni  tipologiche  ed  espressive  della  «Man- 
dragola», in  «Lettere  italiane»,  XXXI v,  1982,  pp.  157-75. 

C.  Dionisotti,  Appunti  sulla  «Mandragola»,  in  «Belfagor»,  XXXIX, 
1984,  pp.  621-44. 

J.  A.  Barber,  La  strategia  linguistica  di  Ligurio  nella  «Mandragola»  di  Ma- 
chiavelli, in  «Italianistica»,  Xlll,  1984,  pp.  387-95. 

J.  A.  Barber,  The  Irony  of  Lucrezia  :  Machiavelli'  s  «Donna  di  virtù»,  in 
«Studies  in  Philology»,  LXXXII,  1985,  pp.  450-59. 

J.  D'Amico,  Power  and  perspective  in  «La  Mandragola»,  in  «Machiavelli 
Studies»,  !  (1987),  pp.  5-16. 

G.  Sasso,  Introduzione  e  note  a  La  Mandragola,  nota  al  testo  di  G.  In- 
glese, Rizzoli,  Milano  1980. 

A.  Sorella,  Magia  lingua  e  commedia  nel  Machiavelli,  Olschki,  Firenze 
1990. 


BIBLIOGRAFIA  ESSENZIALE  LXXV 

A.  Gareffi,  La  scrittura  e  la  festa.  Teatro,  festa  e  letteratura  nella  Firenze 
del  Rinascimento ,  Il  Mulino,  Bologna  1991,  pp.  189-217. 

Alfred  A.  Triolo,  Machiavelli' s  «Mandragola»  and  the  sacred,  in  AA. 
VV.,  Metodologia  della  ricerca  :  orientamenti  attuali.  Congresso  In- 
ternazionale in  onore  di  E.  Battisti,  Milano,  27-31  maggio  1991, 
in  «Arte  Lombarda»,  n.  3-4,  1994,  pp.  173-79- 

G.  Inglese,  «Mandragola»  di  Nicolò  Machiavelli,  in  AA.  VV.,  Lettera- 
tura Italiana.  Le  Opere,  dir.  da  A.  Asor  Rosa,  /.  Dalle  Origini  al  Cin- 
quecento, Einaudi,  Torino  1992,  pp.  1009-31. 

M.  Sacco  Messineo,  Il  fiume  e  gli  argini.  Natura  ed  esperienza  nell'ope- 
ra di  Machiavelli,  Palumbo,  Palermo  1992. 

M.  Sacco  Messineo,  L'antieroe MesserNicia,  in  AA.  VV.,  Da Maleholge 
alla  Senna.  Studi  letterari  in  onore  di  G.Santangelo,  Palumbo,  Paler- 
mo 1993,  pp.  601-20. 

P.  Baldan,  Complimento  o  sberleffo  a  chiudere  la  «Mandragola»?,  in 
«Italica»,  XXIII  (1994),  pp.  71-80. 

A.  Cataldi,  Lucrezia,  in  Vendetta:  femminile  .singolare  .Passaggio  di  ruo- 
lo di  personaggi  femminili  nel  teatro  del  Cinquecento,  Congedo,  Lec- 
ce 1994,  PP-  35-73- 

I.  Francese,  La  meritocrazia  di  Machiavelli .  Dagli  scritti  politici  alla 
«Mandragola»,  in  «Italica»,  LXXI  (1994),  pp.  153-75- 

T.  Picquet,  Images  de  la  Femme  dans  les  de'buts  de  la  comédie  en  prose, 
in  «Cahiers  d'Etudes  Romanes»,  n.  18  (1994),  pp.  133-41. 

P.  Trifone,  L 'italiano  a  teatro,  in  AA.  VV. ,  Storia  della  lingua  italiana,  dir. 
da  A.  Asor  Rosa,  IL Scritto  e  parlato,  Einaudi,  Torino  1994,  pp.  101-5. 

E.  Mazzali,  Introduzione  e  cura  di  Mandragola,  Clizia,  pref .  di  R.  Bac- 
chelli,  Feltrinelli,  Milano  1995. 

P.  Trifone,  Una  maschera  diparole.  La  commedia  fra  grammatica  e  prag- 
matica, in  AA.  VV.,  La  sintassi  dell'italiano  letterario,  a  cura  di  M. 
Bardano  e  P.  Trifone,  Bulzoni,  Roma  1995,  pp.  193-238. 

A.  Guidotti,  Riscrittura  di  una  scena  della  «Mandragola»,  in  AA.  VV., 
Studi  offerti  a  Luigi  Blasucci  dai  colleghi  e  dagli  allievi  pisani,  a  cura 
di  L.  Lugnani,  M.  Santagata,  A.  Stussi,  Paccini  Pazzi,  Lucca  1996, 
pp.  299-308. 

A.  Petrini,  La  signoria  di  madonna  Finzione.  Teatro ,  attori  e  poetiche  nel 
Rinascimento  italiano.  Costa  e  Nolan,  Genova  1996. 

P.  Gibellini,  Prefazione  a  Mandragola,  note  di  T.  Piras,  Garzanti,  Mi- 
lano 1997. 

G.  Bàrberi  Squarotti,  L'uscita  in  scena,  in  Le  capricciose  ambagi  della 
letteratura,  Tirrenia  Stampatori,  Torino  1998. 

L.  Martines,  Séduction,  espace  familial  et  autorità  dans  la  Renaissance 
italienne,  in  «Annales.  Histoire,  sciences  sociales»,  53  (1998),  n.  2, 
pp.  255-90. 

V.  A.  Gareffi,  La  voce  della  storia  nella  «Mandragola»,  in  AA.  VV. ,  Re- 
gards  sur  la  Renassance  ita  Henne.  Mélanges  de  litte'rature  offerts  à  Paul 
Larivaille,  a  cura  di  M.-F.  Préjus,  Université  Paris  X-Nanterre,  Pa- 
ris 1998. 


LXXVI  BIBLIOGRAFIA  ESSENZIALE 

F.  Masciandaro,  Machiavelli  umorista  :  il  sentimento  del  contrario  nella 
«Mandragola»,  in  La  conoscenza  viva.  Letture  fenomenologiche  da 
Dante  a  Machiavelli,  Longo,  Ravenna  1998,  pp.  117-24. 

R.  Alonge,  La  riscoperta  rinascimentale  del  teatro,  in  AA.  VV.,  Storia 
del  teatro  moderno  e  contemporaneo,  dir.  da  R.  Alonge  e  G.  Davico 
Bonino,  voi.  I.,  La  nascita  del  teatro  moderno.  Cinquecento-Seicen- 
to, Einaudi,  Torino  2000,  pp.  51-68. 

P.  Larivaille,  La  «Mandragola»  e  le  regole  della  commedia  antica,  in  AA. 
VV.,  Hommage  à  la  memoire  de  Frangoise  Glenisson,  a  e.  di  B.  Top- 
pan,  Publications  de  l'Université  de  Nancy,  Nancy  2001  (in  corso 
di  stampa). 

S.  Mamone,  La  «Mandragola»  e  la  scena  di  città,  in  «Il  castello  di  Elsi- 
nore»,  anno  XIV,  38,  2001  (in  corso  di  stampa). 


IV.  Studi  sulla  «Clizia». 

C.  Boccuto,  La  «Casina»  di  Plauto  e  la  «Clizia»  di  Machiavelli .  Saggio 
di  letteratura  comparata,  Guerra,  Perugia  1981. 

G.  Padoan,  Il  tramonto  di  Machiavelli  :  la  «Clizia»,  in  «Lettere  italia- 
ne», XXXIII,  1981,  ora  in  Rinascimento  in  controluce  :  Poeti ,  pittori , 
cortigiane  e  teatranti  sul  palcoscenico  rinascimentale,  Longo,  Raven- 
na 1994,  pp.  65-87. 

C.  P.  Cupolo,  «La  Clizia»  come  meditazione  senile  di  Machiavelli,  in 
«Forum  Italicum»,  XXVlll  (1994),  pp.  252-68. 

E.  Mazzali,  Introduzione  e  cura  di  Mandragola ,  Clizia  cit. 

G.  Inglese,  Introduzione  e  cura  di  Clizia,  Andria,  Dialogo  intomo  alla 
nostra  lingua,  Rizzoli,  Milano  1997. 

F.  Malara,  Vizi  privati  e  pubbliche  virtù  nella  «Clizia»  di  Machiavelli,  in 
«Il  castello  di  Elsinore»,  anno  XIII,  37,  2000,  pp.  5-28. 


Noia  al  testo. 


Questa  nuova  edizione  del  Teatro  di  Nicolò  Machiavelli,  che  ri- 
prende e  rinnova,  a  distanza  di  ventidue  anni  (1979),  l'originaria  sil- 
loge apparsa  presso  questo  stesso  editore  nella  collezione  «Nuova  Uni- 
versale», si  fonda  per  il  testo  dell' Aridria,  della  Mandragola  e  della  Cli- 
zia su  quelli  approntati  da  Giorgio  Inglese;  il  primo  e  il  terzo  per  la  sua 
edizione  di  Clizia,  Andria,  Dialogo  intomo  alla  nostra  lingua  nella  Bur 
di  Rizzoli  (Milano  1997);  il  secondo  per  l'edizione,  criticamente  ac- 
certata, promossa  dall'Istituto  Italiano  di  Studi  Storici  di  Napoli  e  pub- 
blicata dalla  Società  Editrice  II  Mulino  (Bologna  1997).  Occorre  tut- 
tavia precisare  che  i  tre  testi  adottati  sono  ammodernati  nella  grafia 
secondo  le  consuetudini,  nell'edizione  dei  classici  italiani,  della  colla- 
na che  ospita  la  presente  silloge. 

Il  commento  riprende,  con  lievi  ritocchi,  quello  già  approntato  per 
la  Nuova  Universale  Einuadi  nel  1979.  Ciò  spiega  perché  vi  siano  ci- 
tati in  nota,  per  consenso  o  dissenso,  i  seguenti  commenti:  La  Man- 
dragola, a  cura  di  Santorre  Debenedetti,  Strasburgo  s.  d.,  ma  1910; 
Mandragola ,  Clizia,  a  cura  di  Domenico  Guerri,  Torino  1932;  Opere, 
a  cura  di  Mario  Bonfantini,  Milano-Napoli  1954;  Opere  letterarie,  a  cu- 
ra di  Luigi  Blasucci,  Milano  1964;  Il  teatro  e  tutti  gli  altri  scritti  lettera- 
ri, a  cura  di  Franco  Gaeta,  Milano  1965;  Opere,  a  cura  di  Ezio  Rai- 
mondi, Milano  1966;  Opere  scelte,  a  cura  di  Gian  Franco  Berardi,  Ro- 
ma 1969.  Per  brevità,  ho  citato  ogni  volta,  tra  parentesi,  il  cognome 
del  curatore. 

Allo  stesso  modo,  con  una  sigla,  sono  richiamati  autore  e  titolo  di 
alcuni  studi,  tuttora  fondamentali,  che  illuminano  sulla  fonte  o  sulla 
genesi  di  singoli  passi.  Ecco  le  abbreviazioni:  Martelli,  Vers.  =  M.  mar- 
telli. La  versione  machiavelliana  dell' «Andria.»,  in  «Rinascimento», 
XIX,  1968,  pp.  203-74;  Vanossi,  Sit.  =  L.  VANOSSi,  Situazione  e  svilup- 
po del  teatro  machiavelliano,  in  AA.  VV.,  Lingua  e  strutture  del  teatro 
italiano  del  Rinascimento ,  Padova  1970;  pp.  1-108;  Raimondi,  Poi.  = 
E.  RAIMONDI,  Politica  e  commedia.  Dal  Beroaldo  al  Machiavelli,  Bolo- 
gna 1972,  pp.  173-223;  Ferroni,  ^f«^  =  G.  ferroni,  «Mutazione»  e  «ri- 
scontro» nel  teatro  di  Machiavelli  e  altri  saggi  sulla  commedia  del  Cin- 
quecento, Roma  1972,  pp.  19-137;  Borsellino,  Roz.  =  n.  borsellino, 


LXXVm  NOTA  AL  TESTO 

Rozzi  e  Intronati.  Esperienze  e  forme  di  teatro  dal  Decameron  al  Cande- 
laio, Roma  1976,  pp.  121-60. 

L'introduzione  che  qui  si  propone  ai  nuovi  lettori  è  stata,  invece, 
profondamente  «rivisitata»  dal  suo  autore. 

G.  D.  B. 


Teatro 


Andria 


ATTO  PRIMO 


SCENA  PRIMA 

Simo,  Sosia. 


SIMO  Portate  voi  altri  drento  queste  cose,  spacciatevi  !  '. 
Tu,  Sosia,  fatti  in  qua:  io  ti  voglio  parlare  uno  poco. 

SOSIA  Fa'  conto  d'avermi  parlato;  tu  vuoi  che  queste  co- 
se s'acconcino  bene. 

SIMO     Io  voglio  pure  altro. 

SOSIA  Che  cosa  so  io  fare,  dove  io  ti  possa  servire  me- 
glio che  in  questo  ? 

SIMO  Io  non  ho  bisogno  di  cotesto  per  fare  quello  che  io 
voglio,  ma  di  quella  fede  e  di  quello  segreto^  che  io  ho 
conosciuto  sempre  essere  in  te. 

SOSIA     Io  aspetto  d'intendere  quello  che  tu  vuoi. 

SIMO  Tu  sai,  poi  che  io  ti  comperai  da  piccolo,  con  quanta 
clemenza  e  giustizia  io  mi  sono  governato  teco,  e  di  stia- 
vo  io  ti  feci  liberto,  perché  tu  mi  servivi  liberalmente,  e 
per  questo  io  ti  pagai  di  quella  moneta  che  io  potetti\ 

SOSIA     Io  me  ne  ricordo. 

SIMO     Io  non  mi  pento  di  quello  che  io  ho  fatto. 

SOSIA  Io  ho  gran  piacere,  se  io  ho  fatto  e  fo  cosa  che  ti 
piaccia:  e  ringrazioti  che  tu  mostri  di  conoscerlo:  ma 
questo  bene  mi  è  molesto,  che  mi  pare  che,  ricordando- 
lo"*  ora,  sia  quasi  un  rimproverarlo  ad  uno  che  non  se  ne 
ricordi.  Che  non  di'  tu  in  una  parola  quello  che  tu  vuoi  ? 


I.  I.  spacciatevi:  nel  testo  latino  si  legge  «abite»:  «andatevene».  2.  fede... 
segreto:  sono  i  due  termini,  in  Terenzio,  «fide  et  taciturnitate».  3.  per  que- 
sto... potetti:  più  sfumato  risulta  Terenzio:  «quod  habui  summum  pretium  per- 
solvi  tibi»:  «ho  pagato  per  te  il  prezzo  più  alto  che  potevo»  (e  Machiavelli,  nel- 
la prima  redazione,  aveva  tradotto  con  maggior  aderenza:  «...  di  quel  prezzo 
che  io  potetti  maggiore»).  4.  ricordandolo:  il  ricordarlo:  è  un  gerundio  con  va- 
lore di  infinito. 


6  ANDRIA 

SIMO  Così  farò.  E  innanzi  ad  ogni  cosa  io  t'ho  a  dire  que- 
sto: queste  nozze  non  sono,  come  tu  credi,  da  dovero. 

SOSIA     Perché  le  fingi  adunque  ? 

SIMO  Tu  intenderai  da  principio  ogni  cosa,  e  a  questo 
modo  conoscerai  la  vita  del  mio  figliuolo,  la  delibera- 
zione' mia  e  quello  che  io  voglia  che  tu  facci  in  questa 
cosa.  Poi  che  '1  mio  figliuolo  usci  di  fanciullo  e  che  ei 
cominciò  a  vivere  più  a  suo  modo  (imperò  che  chi  areb- 
be  prima  potuto  conoscere  la  natura  sua,  mentre  che  la 
età,  la  paura,  il  maestro,  lo  tenevono  a  freno? 

SOSIA     Cosi  è.) 

SIMO  ...  di  quelle  cose  che  fanno  la  maggior  parte  de'  gio- 
vanetti, di  volgere  l'animo  a  qualche  piacere,  come  è 
nutrire  cavagli,  cani,  andare  allo  Studio,  non  ne  segui- 
va più  una  che  un'altra,  ma  in  tutte  si  travagliava  me- 
diocremente'; di  che  io  mi  rallegravo. 

SOSIA  Tu  avevi  ragione,  perché  io  penso  nella  vita  no- 
stra essere  utilissimo  non  seguire  alcuna  cosa  troppo. 

SIMO  Così  era  la  sua  vita:  sopportare  facilmente  ognu- 
no; andare  a'  versi  a  coloro  con  chi  ei  conversava;  non 
essere  traverso;  non  si  stimare  più  che  gli  altri;  e  chi  fa 
così,  facilmente  sanza  invidia  si  acquista  laude  e  amici. 

SOSIA  Ei  si  governava  saviamente,  perché  in  questo  tem- 
po chi  sa  ire  a'  versi,  acquista  amici,  e  chi  dice  il  vero, 
acquista  odio'. 

SIMO  In  questo*  mezzo  una  certa  femmina,  giovane  e 
bella,  si  partì  da  Andro  per  la  povertà  e  per  la  negligen- 
za de'  parenti,  e  venne  ad  abitare  in  questa  vicinanza. 

SOSIA  Io  temo  che  questa  Andria  non  ci  arrechi  qualche 
male. 

SIMO  Costei  in  prima  viveva  onestamente,  guadagnan- 
dosi il  vivere  col  filare  e  con  il  tessere';  ma  poi  che  ven- 


5.  deliberazione:  decisione:  nel  testo  latino,  «consilium  meum».  6.  mediocre- 
mente: qui  vuol  dire:  con  giusta  moderazione  ed  equilibrio.  7.  chi...  odio:  sem- 
bra una  battuta  tipica  del  Machiavelli  maggiore:  ed  è  semplicemente  la  tradu- 
zione da  Terenzio  (la  celebre  massima  «veritas  odium  parit»  è  discussa  da  Ci- 
cerone, Laelius,  89).  8.  In  questo:  Terenzio  precisa  subito  dopo:  «abbine  trien- 
nium»:  «tre  anni  fa».  9.  con  il  tessere:  con  lavori  di  tessitura.  Terenzio  aveva 
scritto:  «lana  ac  tela». 


ATTO  PRIMO  7 

ne  ora  uno,  ora  un  altro  amante  promettendole  danari, 
come  egli  è  naturale  di  tutte  le  persone  sdrucciolare  fa- 
cilmente da  la  fatica  a  l'ozio,  l'accettò  lo  invito'";  e  a 
sorte,  come  accade,  coloro  che  allora  l'amavano,  co- 
minciorno  a  menarvi  il  mio  figliuolo;  onde  io  conti- 
nuamente dicevo  meco  medesimo:  -  Veramente  egli  è 
stato  sviato!  egli  ha  auto  la  sua"!  -  E  qualche  volta,  la 
mattina,  io  appostavo'^  i  loro  servi,  che  andavano  e  ve- 
nivono,  e  domandavogli:  -  Odi  qua,  per  tua  fé:  a  chi 
toccò  iarsera  Crisyde  ?  -  (perché  cosi  si  chiamava  quel- 
la donna. 

SOSIA     Io  intendo.) 

SIMO  Dicevano:  -  Fedria,  o  Clinia,  o  Nicerato  -  (perché 
questi  tre  l'amavano  insieme.)  -  Dimmi:  Panfilo  che  fe- 
ce ?  -  Che  ?  Pagò  la  parte  sua  e  cenò.  -  Di  che  io  mi  ral- 
legravo. Dipoi,  ancora  l'altro  di  io  ne  domandavo,  e 
non  trovavo  cosa  alcuna"  che  apartenessi  a  Panfilo.  E 
veramente  mi  pareva  un  grande  e  rado  esemplo  di  con- 
tinenza, perché  chi  usa  con  uomini  di  simil  natura,  e 
non  si  corrompe,  puoi  pensare  ch'egli  ha  fermo  il  suo 
modo  del  vivere.  Questo  mi  piaceva,  e  ciascuno  per  una 
bocca  mi  diceva  ogni  bene,  e  lodava  la  mia  buona  for- 
tuna, che  avevo  cosi  fatto  figliuolo.  Che  bisognano  più 
parole?  Cremete,  spinto  da  questa  buona  fama,  venne 
spontaneamente  a  trovarmi,  e  offerì  dare  al  mio  fi- 
gliuolo una  unica  sua  figliuola  con  una  gran  dote.  Piac- 
quemi,  promissigli,  e  questo  di  è  deputato  a  le  nozze. 

SOSIA     Che  manca,  dunque,  perché  le  non  sono  vere? 

SIMO  Tu  lo  intenderai.  Quasi  in  quegli  di  che  queste  co- 
se seguirono'^  questa  Crisyde  vicina  si  morì. 

SOSIA  Ho  !  io  l'ho  caro!  Tu  m'hai  tutto  ralegrato:  io  ave- 
vo paura  di  questa  Crisyde. 


IO.  lo  invito:  Terenzio  aggiunge  ancora:  «dehinc  quaestum  occipit»:  «e  di  qui 
cominciò  a  fare  guadagno».  Machiavelli  lascia  la  conseguenza  sottintesa.  1 1 . 
ha  auto  la  sua:  nel  testo  latino:  «habet  (sott.  vulnus)»:  «l'hanno  ferito».  Si  di- 
ceva dei  gladiatori:  il  pubblico  vedeva  la  ferita  prima  che  loro  la  sentissero.  1 2 . 
appostavo:  aspettavo  e  coglievo  al  varco.  13.  cosa  alcuna:  nessun  brutto  affa- 
re in  cui  Panfilo  fosse  implicato  {che  apartenessi  a  Panfilo).  14.  seguirono:  suc- 
cessero (i  giorni  sono  quelli  dell'offerta  di  matrimonio). 


8  ANDRIA 

SIMO  Quivi  il  mio  figliuolo,  insieme  con  quegli  che  ama- 
vono  Crisyde,  era  ad  ogni  ora:  ordinava  il  mortoro", 
malinconoso,  e  qualche  volta  lacrimava.  Questo  anche 
mi  piacque;  e  dicevo  cosi  meco  medesimo:  -  Costui  per 
un  poco  di  consuetudine  sopporta  nella  morte  di  costei 
tanto  dispiacere:  che  farebb'egli,  se  l'avessi  amata?  che 
farebb'egli,  s'io  morissi  io  ?  -  E  pensavo  queste  cose  es- 
sere indizio  d'una  umana  e  mansueta  natura.  Perché  ti 
ritardo'^  io  con  molte  parole  ?  Io  andai  ancora  io  per  suo 
amore  a  questo  mortoro,  non  pensando  per  ancora  al- 
cun male. 

SOSIA     Che  domin  sarà  questo  ? 

SIMO  Tu  il  saprai.  Il  corpo  fu  portato  fuora,  noi  gli  an- 
damo  dietro:  in  questo  mezzo,  tra  le  donne  ch'erano 
quivi  presenti,  io  veggo  una  fanciuUetta  d'una  forma... 

SOSIA     Buona,  per  avventura  ? 

SIMO  ...  e  d'un  volto,  o  Sosia,  in  modo  modesto  e  in  mo- 
do grazioso,  che  non  si  potrebbe  dire  più,  la  quale  mi 
pareva  che  si  dolessi  più  che  l'altre.  E  perché  la  era  più 
che  l'altre  di  forma  bella  e  liberale*^  m'accostai  a  quel- 
le che  le  erano  intorno,  e  domandai  chi  la  fussi.  Rispo- 
sono  essere  sorella  di  Crisyde.  Di  fatto,  io  mi  senti'  ra- 
viluppare  l'animo:  ha  !  ha  !  '*  questo  è  quello  !  "  di  qui  na- 
scevono  quelle  lacrime!  questa  è  quella  misericordia! 

SOSIA     Quanto  temo  io,  dove  tu  abbi  a  capitare! 

SIMO  Intanto  il  mortoro  andava  oltre:  noi  lo  seguitava- 
mo e  arrivamo  al  sepolcro;  la  fu  messa  nel  fuoco^°;  pian- 
gevasi.  In  questo  tanto,  questa  sua  sorella  che  io  dico, 
si  accostò  alle  fiamme  assai  imprudentemente  e  con  pe- 
riculo.  AUotta^^  Panfilo,  quasi  morto,  manifestando  il 
celato  e  dissimulato  amore,  corse  e  abbracciò  nel  mez- 
zo questa  fanciulla,  dicendo:  -  O  Glicerio  mia,  che  fai 


15.  ordinava  il  mortoro:  s'occupava  del  funerale  (in  Terenzio:  «curabat  una  fu- 
nu'»).  16.  tiritardo:  mi  dilungo  e  ti  faccio  perdere  tempo.  17.  liberale:  è  l'ag- 
gettivo stesso  usato  da  Terenzio:  «liberali»:  e  vuol  dire  «distinta»,  «nobi- 
le». 18.  ha!  ha!  :  è  il  terenziano  «  Attat»,  definito  dal  grammatico  Donato  (iv 
secolo)  -  prezioso  commentatore  di  Terenzio  -  «interiectio  admirantis».  19. 
questo  è  quello:  di  questo  si  tratta!  20.  la...  fuoco:  venne,  cioè,  issata  sulla  pi- 
ra.    21.  Allotta:  Allora  (è  l'wibi  tum»  di  Terenzio). 


ATTO  PRIMO  9 

tu?  perché  vai  tu  a  morire?  -  Allora  quella,  acciò  che 
si  potessi  vedere  il  loro  consueto  amore,  se  gli  lasciò  ire 
adosso,  piangendo  molto  familiarmente". 

SOSIA     Che  di'  tu  ? 

SIMO  Io  mi  diparti'  di  quivi  adirato  e  male  contento;  né 
mi  pareva  assai  giusta  cagione  di  dirgli  villania,  perché 
ci  direbbe:  -  Padre  mio,  che  ho  io  fatto  ?  che  ho  io  me- 
ritato ?  o  dove  ho  peccato  ?  Io  ho  proibito  che  una  non 
si  getti  nel  fuoco  e  la  ho  conservata".  -  La  cagione  è 
onesta. 

SOSIA  Tu  pensi  bene,  perché,  se  tu  di'  villania  a  chi  ha 
conservata  la  vita  ad  uno,  che  farai  tu  a  chi  gli  facessi 
danno  e  male  ? 

SIMO  L'altro  di  poi  venne  a  me  Cremete  gridando  ave- 
re udito  una  cosa  molto  trista,  che  Panfilo  aveva  tolto 
per  moglie  questa  forestiera;  io  dicevo  che  non  era  ve- 
ro; quello  affermava  eh'  egl'era  vero.  In  summa  io  mi 
parti'  da  lui  al  tutto  alieno  da  il  darci  la  sua  figliuola. 

SOSIA     Allora  non  riprehendesti  tu  il  tuo  figliuolo  ? 

SIMO  Né  ancora  questa  cagione  è  assai  potente  a  ri- 
prehenderlo. 

SOSIA     Perché  ?  dimmelo  ! 

SIMO  -  Tu  medesimo,  o  padre,  hai  posto  fine  a  queste 
cose:  e'  si  appressa  il  tempo  che  io  arò  a  vivere  a  modo 
d'altri;  lasciami  in  questo  mezzo  vivere  a  mio  modo!- 

sosiA     Quale  luogo  ci  è  rimaso  adunque  per  riprenderlo  ? 

SIMO  Se  per  amor  di  costei  ei  non  volessi  menare  don- 
na, questa  è  la  prima  colpa  che  debbe  essere  corretta. 
E  ora  io  attendo  che,  mediante  queste  falze  nozze  na- 
sca una  vera  cagione  di  riprehenderlo,  quando  ei  neghi 
di  menarla.  E  parte^*  quel  ribaldo  di  Davo  consumerà", 
s'egli  ha  fatto  disegno  alcuno,  ora  che  gl'inganni  nuo- 
cono  poco:  il  quale  so  che  si  sforza  con  le  mani  e  co'  pie 


22.  piangendo  molto  familiarmente:  è  l'intraducibile,  per  densità  e  tenerezza, 
«flens  quam  familiariter»  di  Terenzio.  23.  la  ho  conservata:  l'ho  salvata.  24. 
E  parte:  Machiavelli  non  si  cura  di  considerare  questa  frase  come  dipendente 
da  «operam  do»,  «attendo»:  com'è  nel  testo  latino.  25.  consumerà:  cercherà 
di  attuarlo:  ma  avrebbe  dovuto  tradurre  -  per  il  motivo  appena  esposto  -  «con- 
sumi». 


IO  ANDRIA 

fare  ogni  male",  più  per  fare  iniuria  a  me,  che  per  gio- 
vare al  mio  figliuolo. 

SOSIA     Per  che  cagione  ? 

SIMO  Domandine  tu  ?  Egli  è  uomo  di  cattiva  mente  e  di 
cattivo  animo,  il  quale  veramente,  se  io  me  n'avveg- 
go... Ma  che  bisognano  tante  parole?  Facciamo  di  tro- 
vare in  Panfilo  quel  ch'io  desidero,  che  per  lui  non  man- 
chi". Resterà  Cremete,  il  quale  dipoi  arò  a  placare,  e 
spero  farlo:  ora  l'ufizio  tuo  è  simulare  bene  queste  noz- 
ze e  sbigottire  Davo  e  osservare  quel  che  faccia  il  mio 
figliuolo  e  quali  consigli  sieno  i  loro. 

SOSIA  E'  basta;  io  arò  cura  ad  ogni  cosa.  Andiamone  ora 
drento. 

SIMO     Va'  innanzi;  io  ne  verrò. 


SCENA  SECONDA 

Simo,  Davo. 

SIMO  Sanza  dubbio  il  mio  figliuolo  non  vorrà  moglie,  in 
modo  ho  sentito  temere  Davo,  poi  ch'egli  intese  di  que- 
ste nozze\..  (Ma  egli  esce  fuora.) 

DAVO  Io  mi  maravigliavo  bene  che  la  cosa  procedessi  co- 
sì, e  sempre  ho  dubitato  del  fine  che  avessi'  avere  que- 
sta umanità  del  mio  patrone;  il  quale,  poi  ch'egli  inte- 
se che  Cremete  non  voleva  dare  moglie  al  suo  figliuo- 
lo, non  ha  detto  ad  alcuno  una  parola  e  non  ha  mostro^ 
d'averlo  per  male. 

SIMO  (Ei  lo  mosterrà  ora,  e,  come  io  penso,  non  sanza 
tuo  gran  danno.) 

26.  si  sforza...  male:  si  veda,  più  avanti,  la  prima  scena  del  quarto  atto:  «io  so- 
no obligato  in  tuo  servizio  sforzarmi  con  le  mani  e  co'  pie»  (e  anche  in  Man- 
dragola, I,  i).  27.  che...  manchi:  che  per  colpa  di  Davo  non  venga  meno  la  sua 
parola:  ma  Terenzio  aveva  per  la  verità  scritto:  «observes  filium  quid  agat»: 
«badi  a  ciò  che  mio  figlio  fa». 

II.  I.  poi  ch'egli...  nozze:  cosi  anche  in  Terenzio:  Davo  aveva  evidentemente 
avuto  un  colloquio  con  Simo  prima  dell'avvio  della  commedia.  2.  mostro:  mo- 
strato. 


ATTO  PRIMO  1 1 

DAVO  Egli  ha  voluto  che  noi,  credendoci  questo,  ci  stes- 
simo con  una  falsa  allegrezza,  sperando,  sendo  da  noi 
rimossa  la  paura,  di  poterci  come  negligenti  giugnere' 
al  sonno,  e  che  noi  non  avessimo  spazio  a  disturbare 
queste  nozze.  Guarda  che  astuzia! 

SIMO     (Che  dice  questo  manigoldo  ?) 

DAVO     (Egli  è  il  padrone,  e  non  lo  avevo  veduto.) 

SIMO     O  Davo  ! 

DAVO     O!  Hu!  Che  cosa  è? 

SIMO     Vieni  a  me  ! 

DAVO     (Che  vuole  questo  zugo"*  ?) 

SIMO     Che  di'  tu  ? 

DAVO     Per  che  cagione  ? 

SIMO  Domandine  tu  ?  Dicesi  egli  che  '1  mio  figliuolo  va- 
gheggia?'. 

DAVO     II  popolo  non  ha  altro  pensiero  che  cotesto. 

SIMO     Tiègli  tu  il  sacco  o  no? 

DAVO     Che!  Io  cotesto?'. 

SIMO  Ma  domandare  ora  di  queste  cose  non  sta  bene  ad 
uno  buono  padre,  perché  m'importa  poco  quello  ch'egli 
ha  fatto  innanzi  a  questo  tempo.  E  io,  mentre  che  '1  tem- 
po lo  pativa^  ne  sono  stato  contento,  ch'egli  abbi  sfo- 
gato l'animo  suo.  Ora,  per  lo  avvenire,  si  richiede  altra 
vita  e  altri  costumi:  però  io  voglio,  e,  se  lecito  è,  io  ti 
priego,  o  Davo,  che  ei  ritorni  qualche  volta  nella  via. 

DAVO     Io  non  so  che  cosa  si  sia  questa*. 

SIMO  Se  tu  ne  domandi,  io  tei  dirò:  tutti  coloro  che  so- 
no innamorati  hanno  per  male  che  sia  dato  loro  moglie. 


3.  giugnere:  Machiavelli  ha  qui  la  mano  felice:  coglierci  (letteralmente:  raggiun- 
gerci) come  se  fossimo  addormentati  (al sonno).  Nel  testo  latino:  «interoscitan- 
tis  opprimi»:  «sorprenderci  mentre  ce  ne  stavamo  a  sbadigliare».  4.  Che...  zu- 
go: Terenzio  scrive  semplicemente:  «Quid  hic  volt»:  MachiaveUi  colora  la  tra- 
duzione d'una  patina  di  popolaresco  (nella  prima  redazione,  addirittura  si  leg- 
ge: «questo  cazzo»).  Zugo  è  frittella  e,  per  traslato,  sciocco.  5.  Dicesi...  vagheg- 
gia?: nel  testo  latino  non  c'è  interrogazione  («Meum  gnatum  rumor  est  amare») 
e  non  c'era  anche  nella  prima  redazione  della  versione  machiavelliana  («E  si  di- 
ce che...»)  Vagheggia  sta  per  «ama».  6.  Tiègli...  cotesto?:  Machiavelli  frain- 
tende questo  scambio  di  battute.  Simone  dice  a  Davo:  «Hoccin  agis  an  non?» 
(«Lo  fai  o  no?»);  e  Davo  replica:  «Ego  vero  istuc»  («Proprio  questo  faccio»).  7. 
lo  pativa:  «lo  concesse»,  nella  prima  redazione.  8.  Io...  questa:  è  sempre  Simo 
che  parla,  in  Terenzio:  «Hoc  quid  sit?»:  «Cosa  intendo?». 


12  ANDRIA 

DAVO     Cosi  dicono. 

SIMO  Allora,  se  alcuno  piglia  a  quella  cosa  per  suo  mae- 
stro uno  tristo,  rivolge  il  più  delle  volte  l'animo  infer- 
mo alla  parte  più  cattiva. 

DAVO     Per  mia  fé,  io  non  ti  intendo. 

SIMO     No,  he  ? 

DAVO     Io  son  Davo,  non  profeta'. 

SIMO  Quelle  cose,  adunque,  che  mi  restono  a  dirti,  tu 
vuoi  che  io  te  le  dica  a  lettere  di  speziali'"  ? 

DAVO     Veramente  sì. 

SIMO  Se  io  sento  che  tu  ordini  oggi  alcuno  inganno  in 
queste  nozze,  perché  le  non  si  faccino,  o  che  tu  voglia 
mostrare  in  questa  cosa  quanto  tu  sia  astuto,  io  ti  man- 
derò carico  a  morte  di  mazzate  a  zappare  tutto  dì  in 
uno  campo":  con  questi  patti,  che,  se  io  te  ne  cavo,  che 
io  abbia  a  zappare  per  te!  Ha'  mi  tu  inteso  o  non  an- 
cora? 

DAVO  Anzi  ti  ho  inteso  appunto,  in  modo  hai  parlato  la 
cosa  aperta"  e  sanza  alcuna  circunlocuzione. 

SIMO  Io  sono  per  sopportarti"  ogni  altro  inganno  più  fa- 
cilmente che  questo. 

DAVO     Dammi,  io  ti  priego,  buone  parole. 

SIMO  Tu  mi  uccelli  ?  Tu  non  mi  inganni  di  nulla;  ma  io 
ti  dico  che  tu  non  facci  cosa  alcuna  inconsideratamen- 
te, e  che  tu  non  dica  anche,  poi:  -  E'  non  mi  fu  pre- 
detto! -  Abbiti  cura. 


9.  Io...  profeta:  scrive  Terenzio:  «non  Oedipus»:  e  Machiavelli,  qualcuno  ha 
detto,  allude  al  Savonarola  (nella  prima  redazione  esplicitando  addirittura  il  ri- 
ferimento: «vel  non  el  frate»),  io.  a  lettere  di  speziali:  a  lettere  cubitali,  da 
farmacista:  nel  testo  latino  si  legge  semplicemente:  «aperte»:  «chiaro  e  ton- 
do». 1 1 .  carico...  campo:  in  Terenzio  leggiamo:  «Verberibu'  caesum  te  in  pi- 
strinum,  Dave,  dedam  usque  ad  necem»:  «riempitoti  di  botte,  ti  caccio  alla  ma- 
cina fino  a  farti  fuori».  Machiavelli  adegua  all'oggi  la  canonica  allusione  alla 
macina  da  molino  (e,  ancor  meglio,  nella  prima  redazione,  Davo  dovrà  zappa- 
re «in  una  vigna»).  12.  aperta:  molto  chiaramente.  13.  Io  sono  per  soppor- 
tarti: Sono  disposto  a  tollerare:  è  la  traduzione  letterale  dell'*  Ubivis  faciliu' 
passu'  sim». 


ATTO  PRIMO  13 

SCENA  TERZA 

Davo,  solo. 


DAVO  Veramente,  Davo,  qui  non  bisogna  essere  pigro  né 
da  poco',  secondo  che  mi  pare  avere  ora  inteso  per  il 
parlare  di  questo  vecchio  circa  le  nozze:  le  quali,  se  con 
astuzia  non  ci  si  provede,  mineranno  me  o  il  padrone; 
né  so  bene  che  mi  fare,  se  io  aiuto  Panfilo  o  se  io  ub- 
bidisco al  vecchio.  Se  io  abbandono  quello,  io  temo  del- 
la sua  vita;  se  io  lo  aiuto,  io  temo  le  minacele  di  costui: 
ed  è  difficile  ingannarlo,  perché  sa  ogni  cosa  circa  il  suo 
amore  e  me  osserva^  perché  io  non  ci  facci  alcuno  in- 
ganno. S'egli  se  ne  avvede,  io  sono  morto;  e,  se  gli  verrà 
bene,  e'  troverrà  una  cagione  per  la  quale,  a  torto  o  a 
ragione,  mi  manderà  a  zappare.  A  questi  mali  questo 
ancora  mi  si  aggiugne,  che  questa  Andria,  o  amica  o 
moglie  che  la  si  sia,  è  gravida  di  Panfilo;  ed  è  cosa  ma- 
ravigliosa  udire  la  loro  audacia;  e  hanno  preso  partito, 
da  pazzi  o  da  innamorati\  di  nutrire  ciò  che  ne  nascerà, 
e  fingono  intra  loro  un  certo  inganno,  che  costei  è  cit- 
tadina ateniese,  e  come  fu  già  un  certo  vecchio  mer- 
cante che  ruppe  appresso  a  l'isola  d'Andro  e  quivi  mori; 
dipoi  il  padre  di  Crisyde  si  prese  costei  ributtata  dal 
mare,  piccola  e  sanza  padre.  Favole!  E  a  me,  per  mia 
fé,  non  pare  verisimile:  ma  a  loro  piace  questo  trovato. 
Ma  ecco  Miside  ch'esce  di  casa;  io  me  ne  voglio  anda- 
re in  mercato'',  acciò  che  il  padre  non  lo  giunga  sopra 
questa  cosa  improvisto. 

m.  I.  non...  poco:  Terenzio  è  qui  molto  preciso:  «nillocist  segnitiae  nequeso- 
cordiae»:  «non  c'è  posto  per  la  pigrizia  né  coi  fatti  né  con  le  idee».  2.  me  os- 
serva: nel  testo  latino  c'è  in  più  un  «infensus»,  «mal  disposto  (verso  di  me)».  3. 
da  pazzi  o  da  innamorati:  molto  elegante  la  paronomasia  in  Terenzjo  (ma  è  di 
stampo  plautino):  «Nam  inceptiost  amentium,  haud  amantium»:  «E  infatti  un 
progetto  da  dementi,  non  da  amanti»,  Machiavelli  non  sa  rendere  l'equivalen- 
te. 4.  io...  mercato:  in  Terenzio  è  una  frase  ellittica:  «  At  ego  hinc  me  ad  forum»: 
e  Donato  dice  che  è  da  recitar  «vultuose»,  cioè  «con  mimica  espressività». 


14  ANDRIA 

SCENA  QUARTA 

Miside,  anelila. 


MisiDE  Io  ti  ho  intesa,  Archilei  tu  vuoi  che  ti  sia  me- 
nata Lesbia.  Veramente  ella  è  una  donna  pazza  e  oblià- 
C2?  e  non  è  sufficiente  a  levare^  il  fanciullo  d'una  che 
non  abbi  mai  partorito;  nondimeno  io  la  merrò.  Pone- 
te mente  la  importunità  di  questa  vecchia!  solo  perché 
le  si  inobliacano  insieme.  O  Idio!  io  ti  priego  che  voi" 
diate  facultà  a  costei  di  partorire,  e  a  quella  vecchia  di 
fare  errore  altrove  e  non  in  questa.  Ma  perché  veggo  io 
Panfilo  mezzo  morto?  Io  non  so  quel  che  sia;  io  lo 
aspetterò  per  sapere  donde  nasca  ch'egli  è  cosi  turbato. 


SCENA  QUINTA 

Panfilo,  Miside. 


PANFILO  É  questo  cosa  umana  ?  É  questo  ofizio  d'un  pa- 
dre? 

MISIDE     (Che  cosa  è  questa  ?) 

PANFILO  Per  la  fede  di  Dio  e  degli  huomini,  questa  che 
è,  se  la  non  è  iniuria?'.  Egli  ha  deliberato  da  se  stesso 
di  darmi  oggi  moglie:  non  era  egli  necessario  che  io  lo 


IV.  I .  Archile:  dovrebbe  essere  « Archillide»  la  traduzione  di  « Archylis».  2. 
obliàca:  Mario  Martelli  sottolinea  la  validità  di  questa  lezione  anche  per  M., 
Ili,  7,  103  («Sono  io  obliàco,  e  non  ho  beuto  ancora  oggi...»).  3.  levare:  far 
da  levatrice.  4.  che  voi:  nella  prima  redazione,  Machiavelli  aveva  scritto:  «O 
Idii!  io  vi  prego»:  di  qui  la  mancata  concordatio. 

V.  I.  se...  iniuria?:  se  non  è  un  oltraggio?  (è  la  traduzione  corretta  di  «si  haec 
non  contumeliast  ?»). 


ATTO  PRIMO  15 

sapessi  innanzi  ?  Non  era  egli  di  bisogno  che  me  lo  aves- 
si comunicato  prima  ? 
MisiDE  (Misera  a  me  !  che  parole  odo  io  ?) 
PANFILO  Cremete,  il  quale  aveva  denegato^  di  darmi  la 
sua  figliuola,  perché  s'è  egli  mutato?  Perché  vede  mu- 
tato me?  Con  quanta  ostinatione  s'affatica  costui  per 
svegliermi'  da  Glicerio!  Per  la  fede  di  Dio,  se  questo 
avviene,  io  morrò  in  ogni  modo.  E  egli  uomo  alcuno 
che  sia  tanto  sgraziato  e  infelice  quanto  io  ?  E  egli  pos- 
sibile che  io  per  alcuna  via  non  possa  fuggire  il  paren- 
tado di  Cremete,  in  tanti  modi  schernito  e  vilipeso"*?  E 
non  mi  giova  cosa  alcuna'  !  Ecco  che  io  sono  rifiutato  e 
poi  ricerco;  il  che  non  può  nascere  da  altro,  se  non  che 
nutriscono  qualche  mostro^  il  quale  perché  non  posso- 
no gittare  adosso  ad  altri,  si  volgono  a  me. 
MisiDE  (Questo  parlare  mi  fa  per  la  paura  morire.) 
PANFILO  Che  dirò  io  ora  di  mio  padre  ?  Ha  !  doveva  egli 
fare  tanta  gran  cosa  con  tanta  negligenzia  che,  passan- 
domi egli  ora  presso  in  mercato,  mi  disse:  -  Tu  hai  og- 
gi a  menar  moglie:  aparéchiati,  vanne  a  casa.  -  E  pro- 
prio parve  che  e'  mi  dicessi:  -  Tira  via,  vanne  ratto^  e 
impiccati!  -  Io  rimasi  stupefatto.  Pensi  tu  che  io  po- 
tessi rispondere  una  parola  o  fare  qualche  scusa  alme- 
no inetta  o  falsa?  Io  ammutolai.  Che,  se  io  l'avessi  sa- 
puto prima...  che  arei  fatto?  Se  alcuno  me  ne  doman- 
dassi, arei  fatto  qualche  cosa  per  non  fare  questo.  Ma 
ora  che  debbo  io  fare  ?  Tanti  pensieri  m'impediscono  e 
traggono  l'animo  mio  in  diverse  parti:  l'amore,  la  mi- 
sericordia, il  pensare  a  queste  nozze*,  la  reverenza  di 

2.  aveva  denegato:  si  era  decisamente  rifiutato  (cosi,  letteralmente,  in  Terenzio: 
«denegarat»).  3.  svegliermi:  svellermi,  strapparmi:  è  la  traduzione  di  «ab- 
strahat».  4.  E...  vilipeso:  è  proprio  questo  il  nesso  in  Terenzio:  «Pro  deum  at- 
que  hominum  fidem!  Nullon  ego  Chremeti'  pacto  adfinitatem  effugere  pote- 
rò ?Quot  modiscontemptu'  spretu'!  »:  «In  nome  degli  dei  e  degli  uomini!  Non 
potrò  evitare  in  nessun  modo  la  parentela  con  Cremete?  In  quanti  modi  sono 
disprezzato  e  schernito!  ».  5.  E...  alcuna:  anche  qui  Machiavelli  fraintende  il 
proverbiale  «Facta  transacta  omnia»:  «Tutto  era  stato  fatto  e  sistemato».  6. 
qualche  mostro:  invece  Filomena  verrà  detta  bella  e  piacente.  7.  Tira  via,  van- 
ne ratto:  Tira  dritto,  e  veloce.  8.  il  pensare  a  queste  nozze:  Terenzio  è,  vera- 
mente, più  incisivo:  «nuptiarum  sollicitatio»:  «la  costante  preoccupazione  del- 
le nozze». 


l6  ANDRIA 

mio  padre,  il  quale  umanamente  mi  ha  infino  a  qui  con- 
ceduto che  io  viva  a  mio  modo...  Ho  io  ora  a  contrap- 
pormegli  ?  Heimè  !  che  io  sono  incerto  di  quello  abbi  a 
fare! 

MISIDE  (Miser'a  me!  che  io  non  so  dove  questa  incerti- 
tudine  abbi  a  condurre  costui  !  Ma  ora  è  necessariissi- 
mo  o  che  io  riconcilii  costui  con  quella  o  che  io  parli  di 
lei  qualche  cosa  che  lo  punga':  e  mentre  che  l'animo  è 
dubio,  si  dura  poca  fatica  a  farlo  inclinare  da  questa  o 
da  quella  parte.) 

PANFILO     Chi  parla  qui?  Dio  ti  salvi,  Miside! 

MISIDE     Dio  ti  salvi,  Panfilo! 

PANFILO     Che  si  fa  ? 

MISIDE  Domandine  tu  ?  La  muore  di  dolore'";  e  per  que- 
sto è  oggi  misera,  che  la  sa  come  in  questo  di  sono  or- 
dinate le  nozze;  e  però  teme  che  tu  non  la  abbandoni. 

PANFILO  Heimè  !  sono  io  per  fare  cotesto  ?  Sopporterò 
io  che  la  sia  ingannata  per  mio  conto  ?  che  mi  ha  con- 
fidato" l'animo  e  la  vita  sua?  la  quale  io  prenderei  vo- 
lentieri per  mia  donna  ?  Sopporterò  io  che  la  sua  buo- 
na educazione,  costretta  da  la  povertà,  si  rimuti  ?'^  Non 
lo  farò  mai. 

MISIDE  Io  non  ne  dubiterei,  s'egli  stessi  solo  a  te;  ma  io 
temo  che  tu  non  possa  resistere  alla  forza  che  ti  farà  tuo 
padre. 

PANFILO  Stimimi  tu  però  si  da  poco'^  si  ingrato,  si  inu- 
mano, sì  fiero,  che  la  consuetudine,  lo  amore,  la  ver- 
gogna non  mi  commuova  e  non  mi  amunisca  ad  osser- 
varle la  fede  ? 

MISIDE  Io  so  questo  solo,  che  la  merita  che  tu  ti  ricordi 
di  lei. 


9.  che  lo  punga:  nel  testo  latino  leggiamo:  «aut  de  illa  aliquid  me  advorsumhunc 
loqui»:  «o  di  lei  dire  a  lui  qualcosa»,  io.  La...  dolore:  nel  latino  di  Terenzio 
«laborat»  significa  semplicemente  «soffre  delle  doglie».  Machiavelli  amplia, 
ma  con  scelta  felice.  1 1.  confidato:  affidato  (è  il  latino  «credidit»).  12.  che... 
si  rimuti?:  ancora  una  volta,  Terenzio  è  più  ricco  e  più  sfumato:  «Bene  et  pu- 
dice  eius  doctum  atque  eductum  sinam  coactum  egestate  ingenium  inmuta- 
rier?»:  «Lascerei  che  la  sua  indole,  educata  e  allevata  bene  e  pudicamente,  mu- 
ti sotto  la  costrizione  della  povertà?».  13.  da  poco:  nella  prima  redazione,  ave- 
va tradotto,  ma  poi  sbarrato:  «gran  poltrone». 


ATTO  PRIMO  17 

PANFILO  Che  io  me  ne  ricordi?  O  Miside,  Miside,  an- 
cora mi  sono  scritte  nello  animo  le  parole  che  Crisyde 
mi  disse  di  Glicerio!  Ella  era  quasi  che  morta,  che  la 
mi  chiamò;  io  me  le  accostai;  voi  ve  ne  andasti,  e  noi 
rimanemo  soli.  Ella  cominciò  a  dire:  -  O  Panfilo  mio, 
tu  vedi  la  bellezza  e  la  età  di  costei;  né  ti  è  nascoso 
quanto  queste  dua  cose  sieno  contrarie  e  alla  onestà  e 
a  conservare  le  cose  sua.  Pertanto  io  ti  priego  per  que- 
sta mano  destra,  per  la  tua  buona  natura  e  per  la  tua  fe- 
de e  per  la  solitudine  in  la  quale  rimane  costei,  che  tu 
non  la  scacci  da  te  e  non  l'abandoni.  Se  io  t'ho  amato 
come  fratello;  se  costei  ti  ha  stimato  sempre  sopra  tut- 
te le  cose;  se  la  ti  ha  obedito  in  ogni  cosa;  io  ti  do  a  co- 
stei marito,  amico,  tutore,  padre'"*;  tutti  questi  nostri 
beni  io  commetto  in  te  e  a  la  tua  fede  gli  raccomando. 
-  E  allora  mi  messe  intro  le  mani  lei*',  e  di  sùbito  mori"^: 
io  la  presi  e  manterrolla. 

MISIDE     Io  lo  credo  certamente. 

PANFILO     Ma  tu  perché  ti  parti  da  lei  ? 

MISIDE     Io  vo  a  chiamare  la  levatrice. 

PANFILO  Va'  ratta...  Odi  una  parola:  guarda  di  non  ra- 
gionare di  nozze,  che  al  male  tu  non  agiugnessi  questo. 

MISIDE     Io  ti  ho  inteso. 


14.  io  ti  do...  padre:  forse  agiva  in  Terenzio  una  eco  dell'Iliade,  VI,  429:  «Tu 
padre  mio,  tu  madre,  tu  fratello  tu  fiorente  marito»  (e  si  veda  anche  M.,  V, 
4).  15.  mi...  lei:  Terenzio  aveva  scritto:  «hanc  mi  in  manum  dat»:  espressio- 
ne che  sta  a  dire  semplicemente:  «mi  affida  questa  giovane»  (che  poteva  be- 
nissimo essere  non  presente  alla  scena).  16.  e...  mori:  più  raffinata  e  consona 
al  patetismo  della  rievocazione,  la  scelta  stilistica  di  Terenzio:  «mors  continuo 
ipsam  occupat». 


ATTO  SECONDO 


SCENA  PRIMA 

Carino,  Birria,  Panfilo. 


CARINO     Che  di'  tu,  Birria  ?  maritasi  oggi  colei  a  Panfilo  ? 

BIRRIA     Cosi  è. 

CARINO     Che  ne  sai  tu  ? 

BIRRIA     Davo,  poco  fa,  me  lo  ha  detto  in  mercato\ 

CARINO  O  misero  a  me!  Come  l'animo  è  stato,  innanzi 
a  questo  tempo,  implicato  nella  speranza  e  nel  timore, 
così,  poi  che  mi  è  mancata  la  speranza,  stracco  ne'  pen- 
sieri, è  diventato  stupido. 

BIRRIA  Io  ti  priego,  o  Carino,  quando  e'  non  si  può  quel- 
lo che  tu  vuoi,  che  tu  voglia  quello  che  tu  puoi. 

CARINO     Io  non  voglio  altro  che  Filomena. 

BIRRIA  Ha!  quanto  sarebbe  meglio  dare  opera  che  que- 
sto amore  ti  si  rimovessi  da  lo  animo,  che  parlare  cose 
per  le  quali  ti  si  raccenda^  più  la  voglia. 

CARINO  Facilmente,  quando  uno  è  sano,  consiglia  bene 
chi  è  infermo:  se  tu  fussi  nel  grado  mio',  tu  la  intende- 
resti altrimenti. 

BIRRIA     Fa'  come  ti  pare. 

CARINO  Ma  io  veggo  Panfilo;  io  voglio  provare  ogni  co- 
sa prima  che  io  muoia. 

BIRRIA     (Che  vuole  fare  costui  ?) 

CARINO  Io  lo  pregherrò,  io  lo  suplicherò,  io  gli  narrerò  il 
mio  amore:  io  credo  che  io  impetrerrò  ch'egli  starà  qual- 
che dì  a  fare  le  nozze;  in  questo  mezzo  spero  che  qual- 
che cosa  fia. 

I.  I.  in  mercato:  in  Terenzio  «apud  forum»:  «nel  foro»,  «in  piazza».  2.  ti  si 
raccenda:  nel  testo  latino  c'è  un  avverbio  in  più:  «frustra»,  «invano».  3.  nel 
grado  mio:  Terenzio  fa  dire  a  Carino:  «tu  si  hic  sis»:  «se  tu  fossi  questo  qua». 
Donato  postilla:  «lo  dice  indicando  se  stesso,  ed  è  pronome». 


ATTO  SECONDO  19 

BiRRiA     (Cotesto  qualche  cosa  è  nonnulla^) 

CARINO     Che  ne  pare  egli  a  te,  Birria?  Vo  io  a  trovarlo? 

BiRRiA  Perché  no  ?  Se  tu  non  impetri  alcuna  cosa,  che  al- 
meno pensi  avere  uno  che  sia  parato  a  farlo  becco,  se 
la  mena. 

CARINO  Tira  via  in  mala  ora  con  questa  tua  sospizione, 
scelerato  ! 

PANFILO     Io  veggo  Carino.  Dio  ti  salvi! 

CARINO  O  Panfilo,  Dio  ti  aiuti!  Io  vengo  a  te  doman- 
dando salute',  aiuto  e  consiglio. 

PANFILO  Per  mia  fé,  che  io  non  ho  né  prudenza  da  con- 
sigliarti né  f acuità  da  aiutarti.  Ma  che  vuoi  tu? 

CARINO     Tu  meni  oggi  donna  ? 

PANFILO     E'  lo  dicono. 

CARINO  Panfilo,  se  tu  fai  questo,  e'  sarà  l'ultimo  dì  che 
tu  mi  vedrai. 

PANFILO     Perché  cotesto  ? 

CARINO  Heimè!  che  io  mi  vergogno  a  dirlo.  De!  diglie- 
ne tu,  io  te  ne  priego,  Birria. 

BIRRIA     Io  gliene  dirò. 

PANFILO     Che  cosa  è  ? 

BIRRIA     Costui  ama  la  tua  sposa. 

PANFILO  (Costui  non  è  della  opinione  mia.)  Ma  dimmi: 
hai  tu  auto  a  fare  con  lei  altro^  Carino? 

CARINO     Ha!  Panfilo,  niente. 

PANFILO     (Qanto  l'arei  io  caro!) 

CARINO  Io  ti  priego,  la  prima  cosa,  per  l'amicizia  e  amo- 
re nostro,  che  tu  non  la  meni. 

PANFILO     Io  ne  farò  ogni  cosa. 

CARINO  Ma  se  questo  non  si  può  e  se  queste  nozze  ti  so- 
no pure  a  cuore... 

PANFILO     A  cuore  ? 

CARINO  . . .  almeno  indugia  qualche  di,  tanto  che  io  ne  va- 
da in  qualche  luogo  per  non  le  vedere. 


4.  Cotesto...  è  nonnulla:  Birria  ironizza  sulle  vane  speranze  del  padroncino.  5. 
salute:  nel  testo  latino,  «salutem»  è  preceduto  da  «spem»,  «speranza».  6.  hai... 
altro:  più  sottile  e  malizioso  Terenzio:  «num  quid  nam  amplio'  tibi  cum  illa  fuit, 
Charine?»:  «forse  non  ci  fu  qualcosa  di  più,  Carino,  tra  te  e  lei?». 


20  ANDRIA 

PANFILO  Ascoltami  un  poco:  io  non  credo,  Carino,  che 
sia  ofizio  d'uno  uomo  da  bene  volere  essere  ringrazia- 
to d'una  cosa  che  altri  non  meriti:  io  desidero  più  di 
fuggire  queste  nozze  che  tu  di  farle. 

CARINO     Tu  m'hai  risucitato. 

PANFILO  Ora,  se  tu  e  qui  Birria  potete  alcuna  cosa,  fa- 
tela, fingete,  trovate,  concludete,  acciò  che  la  ti  sia  da- 
ta; e  io  farò  ogni  opera  perché  la  mi  sia  tolta. 

CARINO     E'  mi  basta. 

PANFILO  Io  veggo  appunto  Davo,  nel  consiglio  del  qua- 
le io  mi  confido. 

CARINO  E  anche  tu^  per  mia  fé,  non  mi  rechi  mai  innanzi 
cose,  se  non  quelle  che  non  bisogna  saperle.  Vatti  con 
Dio,  in  mala  ora*! 

BIRRLA     Molto  volentieri. 


SCENA  SECONDA 

Davo,  Carino,  Panfilo. 


DAVO  (O  Idio,  che  buone  novelle  porto  io'  !  Ma  dove  tro- 
verrò  io  Panfilo  per  liberarlo  da  quella  paura  nella  qua- 
le ora  si  truova  e  riempiergli  l'animo  d'alegrezza?) 

CARINO     Egli  è  allegro,  né  so  perché. 

PANFILO     Niente  è;  ei  non  sa  ancora  il  mio  male. 

DAVO  (Che  animo  credo  io  che  sia  il  suo,  s'egli  ha  udito 
di  avere  a  menar  moglie  ?) 

CARINO     Odi  tu  quello  che  dice  ? 

DAVO  (Di  fatto^  mi  correrebbe  dietro  tutto  fuora  di  sé. 
Ma  dove  ne  cercherò  io  o  dove  andrò  ?) 


7.  E  anche  tu:  nel  latino  leggiamo  «At  tu»:  «Ma  tu  (piuttosto)».  8.  Vatti... 
ora:  Terenzio  scrive:  «Fugin  hinc?»:  «Ti  togli  da  costi?» 

II.  1.0  Idio...  io:  Terenzio  gioca  sulla  paronomasia:  «Di  boni,  boni  quid 
porto!»:  «Buoni  dei,  che  buona  notizia  porto!»  Machiavelli  ricorre  invece 
alla  rima.  2.  Di  fatto:  Terenzio  è  più  ricco:  «Toto...  oppido»:  «Per  tutta  la 
città». 


ATTO  SECONDO  2 1 

CARINO     Che  non  parli  ? 

DAVO     (Io  so  dove  io  voglio  ire.) 

PANFILO     Davo,  se'  tu  qui?  Fermati! 

DAVO     Chi  è  che  mi  chiama?  O  Panfilo,  io  ti  cercavo!  o 

Carino^  voi  sete  apunto  insieme:  io  vi  volevo  tutti  a  dua. 

PANFILO     O  Davo,  io  sono  morto! 

DAVO     Che?  De!  stammi  più  tosto  ad  udire. 

PANFILO     Io  sono  spacciato. 

DAVO     Io  so  di  quello  che  tu  hai  paura. 

CARINO     La  mia  vita,  per  mia  fé,  è  in  dubio. 

DAVO     E  anche  tu  so  quello  vuoi. 

PANFILO     Io  ho  a  menar  moglie. 

DAVO     Io  me  lo  so'*. 

PANFILO      Oggi. 

DAVO  Tu  mi  togli  la  testa';  perché  io  so  che  tu  hai  pau- 
ra di  averla  a  menare,  e  tu  ch'e'  non  la  meni. 

CARINO     Tu  sai  la  cosa. 

PANFILO     Cotesto  è  proprio. 

DAVO     E  in  questo  non  è  alcun  periculo:  guardami  in  viso. 

PANFILO  Io  ti  priego  che,  il  più  presto  puoi,  mi  liberi  da 
questa  paura. 

DAVO     Ecco  che  io  ti  libero:  Cremete  non  te  la  vuole  dare. 

PANFILO     Che  ne  sai  tu  ? 

DAVO  SòUo.  Tuo  padre,  poco  fa,  mi  prese  e  mi  disse  che 
ti  voleva  dare  donna  oggi,  e  molte  altre  cose  che  non  è 
ora  tempo  a  dirle.  Di  fatto,  io  corsi  in  mercato  per  dir- 
telo, e,  non  ti  trovando  quivi,  me  n'andai  in  uno  luogo 
alto"^  e  guardai  atorno;  né  ti  vidi.  Ma  a  caso  trovai  Bir- 
ria  di  costui,  domanda'lo  di  te,  risposemi  non  ti  avere 
veduto:  il  che  mi  fu  molesto,  e  pensai  quello  che  fare 
dovevo.  In  questo  mezzo,  ritornandomi  io  a  casa,  mi 
nacque  della  cosa  in  sé'  qualche  sospizione,  perché  io 


3.  O  Carino:  c'è  nel  testo  di  Terenzio  un  «Eugae»:  «Bene».  4.  lo...  so:  Te- 
renzio fa  dire  a  Davo,  lievemente  impazientito:  «Etsi  scio?»:  Anche  se  lo  so 
(vai  avanti)?».  5.  Tu...  testa:  in  Terenzio  leggiamo:  «Obtundis»:  «Mi  rompi 
la  testa».  6.  in  uno  luogo  alto:  Terenzio  ironizza  sul  tono  enfatico  delle  paro- 
le del  servo  («in  quendam  excelsum  locum»).  Machiavelli  sembra  non  cogliere 
la  ridondanza  «comica»  dell'espressione.  7.  della  cosa  in  sé:  meglio  traduceva 
Machiavelli  nella  prima  redazione:  «ex  ipsa  re»  volto  in  «da  la  cosa  in  sé». 


22  ANDRIA 

vidi  comperate  poche  cose,  ed  esso  stare  maninconoso; 
e  subito  dissi  fra  me:  -  Queste  nozze  non  mi  riscon- 
trono*. 

PANFILO     A  che  fine  di'  tu  cotesto  ? 

DAVO  Io  me  n'andai  sùbito  a  casa  Cremete,  e  trovai  da- 
vanti a  l'uscio  una  solitudine  grande,  di  che  io  mi  ral- 
legrai. 

CARINO     Tu  di'  bene. 

PANFILO     Seguita. 

DAVO  Io  mi  fermai  quivi,  e  non  vidi  mai  entrare  né  usci- 
re persona';  io  entrai  drento,  riguardai'":  quivi  non  era 
alcuno  aparato  né  alcuno  tumulto. 

PANFILO     Cotesto  è  uno  gran  segno. 

DAVO     Queste  cose  non"  riscontrono  con  le  nozze. 

PANFILO     Non  pare  a  me. 

DAVO  Di'  tu  che  non  ti  pare?  La  cosa  è  certa'^  Oltre  a 
di  questo",  io  trovai  uno  servo  di  Cremete,  che  aveva 
comperato  certe  erbe  e  uno  grosso  di  pesciolini  per  la 
cena  del  vecchio. 

CARINO     Io  sono  oggi  contento'"',  mediante  l'opera  tua. 

DAVO     Io  non  dico  già  così  io. 

CARINO  Perché  ?  Non  è  egli  certo  che  non  gliene  vuol 
dare? 

DAVO  Uccellacelo!".  Come  se  fussi  necessario,  non  la 
dando  a  costui,  che  la  dia  a  te!  E'  bisogna  che  tu  ti  af- 
fatichi, che  tu  vadia  a  pregare  gl'amici  del  vecchio  e  che 
tu  non  ti  stia. 


8.  perché...  riscontrono:  in  Terenzio  leggiamo:  «hem!  paullulum  opsoni;  ipsu' 
tristis;  de  inproviso  nuptiae:  non  cohaerent»:  «ma!  poco  companatico;  lui  stes- 
so triste;  le  nozze  in  fretta  e  furia:  le  cose  non  quadrano».  Machiavelli  ha  tra- 
dotto un  poco  in  fretta  e  fuso  il  terzo  e  quarto  membro  della  frase.  9.  perso- 
na: Machiavelli  omette  di  tradurre:  «matronam  nuUam  in  aedibus»:  «(non  ve- 
do) nessuna  matrona  in  casa».  Le  matrone  erano  le  accompagnatrici  ufficiali 
delle  spose,  io.  entrai  drento,  riguardai:  il  testo  latino  è  diverso:  «accessi,  in- 
tro  aspexi»:  «entrai,  dentro  guardai».  1 1.  non:  in  Terenzio  si  legge  «num», 
«forse»,  e  la  frase  è  un'interrogativa.  12.  La  cosa  è  certa:  Machiavelli  omette 
di  tradurre:  «Non  recte  accipis»:  «Non  hai  capito  bene».  13.  Oltre  a  di  que- 
sto: ancora  una  omissione  di  Machiavelli:  «inde  abiens»,  «andandomene  di 
là».  14.  contento:  Terenzio  scrive:  «Liberatu'  sum»;  e  Machiavelli  nella  pri- 
ma redazione  traduceva:  «Io  sono  oggi  libero».  15.  Uccellaccio!  :  l'originale 
suona:  «Ridiculum  caput».  Cosi  anche  in  M.,  II,  4. 


ATTO  SECONDO  23 

CARINO     Tu  mi  amunisci  bene:  io  andrò,  benché,  per  mia 
fé,  questa  speranza  m'abbi  ingannato  spesso'^  A  Dio! 


SCENA  TERZA 

Panfilo,  Davo. 


PANFILO     Che  vuole  adunque  mio  padre  ?  Perché  finge  ? 

DAVO  Io  tei  dirò:  se  egli  t'incolpassi  ora  che  Cremete  non 
te  la  vuole  dare,  egli  si  adirerebbe  teco  a  torto',  non 
avendo  prima  inteso  che  animo  sia  il  tuo  circa  le  noz- 
ze. Ma  se  tu  negassi,  tutta  la  colpa  sarà  tua:  e  allora  an- 
drà sottosopra  ogni  cosa. 

PANFILO     Io  sono  per  sopportare  ogni  male. 

DAVO  O  Panfilo,  egli  è  tuo  padre  ed  è  difficile  opporse- 
gli.  Dipoi,  questa  donna  è  sola:  e'  troverrà  dal  detto  al 
fatto  qualche  cagione  per  la  quale  e'  la  farà  mandar  via^ 

PANFILO     Che  la  mandi  via  ? 

DAVO     Presto. 

PANFILO     Dimmi  adunque  quello  che  tu  vuoi  che  io  faccia. 

DAVO     Di'  di  volerla  menare. 

PANFILO     Heimè  ! 

DAVO     Che  cosa  è  ? 

PANFILO     Che  io  lo  dica. 

DAVO     Perché  no  ? 

PANFILO     Io  non  lo  farò  mai  ! 

DAVO     Non  lo  negare. 

PANFILO     Non  mi  dare  ad  intender  questo. 

DAVO     Vedi  di  questo  quello  che  ne  nascerà. 


16.  andrò...  spesso:  ci  andrò,  anche  se,  per  la  verità,  sono  stato  spesso  deluso  da 
questo  tipo  di  speranza. 

III.  I.  egli...  torto:  Terenzio  è  più  sottile  nel  gioco  di  parole:  «Ipsu'  sibi  esse 
iniuriu'  videatur,  ncque  id  iniuria»:  «gli  sembrerebbe  di  essere  ingiusto,  e  non 
ingiustamente».  2.  mandar via:  nel  testo  latino,  con  maggior  concretezza:  «ei- 
ciat  oppido»,  «la  scacci  dalla  città». 


24  ANDRIA 

PANFILO     Che  io  lasci  quella  e  pigli  questa! 

DAVO  E'  non  è  cosi,  perché  tuo  padre  dirà  in  questo  mo- 
do: -  Io  voglio  che  tu  meni  oggi  donna  -.  Tu  rispon- 
derai: -  Io  sono  contento  -.  Dimmi:  quale  cagione  ara 
egli  d'adirarsi  teco?  E  tutti  i  suoi  certi  consigli  gli  tor- 
neranno sanza  periculo  incerti:  perché,  questo  è  sanza 
dubio,  che  Cremete  non  ti  vuole  dare  la  figliuola:  né  tu 
per  questa  cagione  ti  rimuterai  di  non  fare  quel  che  tu 
fai,  acciò  che  quello  non  muti  la  sua  opinione.  Di'  a  tuo 
padre  di  volerla,  acciò  che,  volendosi  adirare  teco,  ra- 
gionevolmente non  possa.  E  facilmente  si  confuta  quel- 
lo che  tu  temi,  perché  nessuno  darà  mai  moglie  a  cote- 
sti costumi:  ei  la  darà  più  tosto  ad  uno  povero'.  E  farai 
ancora  tuo  padre  negligente  a  darti  moglie,  quando  ei 
vegga  che  tu  sia  parato  a  pigliarla;  e  a  bell'agio  cercherà 
d'un'altra:  in  questo  mezzo  qualcosa  nascerà  di  bene. 

PANFILO     Credi  tu  che  la  cosa  proceda  cosi  ? 

DAVO     Sanza  dubio  alcuno. 

PANFILO     Vedi  dove  tu  mi  metti. 

DAVO     De!  sta'  cheto. 

PANFILO  Io  lo  dirò;  ei  bisogna  guardarsi  che  non  sappia 
che  io  abbi  uno  fanciullo  di  lei,  perché  io  ho  promesso 
d'alevarlo\ 

DAVO     O  audacia  temeraria! 

PANFILO  La  volle  che  io  gli  dessi  la  fede,  che  sapeva  che 
io  ero  per  osservarliene. 

DAVO  E'  vi  si  ara  avvertenza'.  Ma  ecco  tuo  padre:  guar- 
da che  non  ti  vegga  maninconoso. 

PANFILO     Io  lo  farò. 


3.  E  facilmente...  povero:  Terenzio  aveva  scritto:  «Nam  quod  tu  speres:  "pro- 
pulsabo  facile  uxorem  his  moribus;  dabit  nemo":  inveniet  inopem  potiu'  quam 
te  corrumpi  sinat»:  «Infatti,  nel  caso  tu  sperassi:  -  con  la  mia  condotta  eviterò 
con  facilità  di  prendere  moglie;  nessuno  me  la  darà  -:  tuo  padre  te  ne  trove- 
rebbe una  senza  dote  piuttosto  che  lasciarti  andare  cosi  a  male».  Machiavelli 
ha  davvero  frainteso  e  raccorciato,  senza  grande  logica,  il  passo.  4.  d' alevar- 
lo: la  promessa  di  Panfilo  è  piuttosto  quella  di  riconoscerlo  («nam  pollicitus  sum 
suscepturum»).     5.  E' ...  avvertenza:  ci  staremo  attenti. 


ATTO  SECONDO  25 

SCENA  QUARTA 

Simo,  Davo,  Panfilo. 


SIMO  (Io  ritorno  a  vedere  quel  che  fanno  o  che  partiti 
pigliano.) 

DAVO  Costui  non  dubita  che  Panfilo  neghi  di  menarla, 
e  ne  viene  pensativo  di  qualche  luogo  solitario',  e  spe- 
ra avere  trovata  la  cagione  di  farti  ingiuria^;  pertanto 
fa'  di  stare  in  cervello. 

PANFILO     Pure  che  io  possa.  Davo. 

DAVO  Credimi  questo,  Panfilo,  che  non  farà  una  parola 
sola,  se  tu  di'  di  menarla. 


SCENA  QUINTA 

Birria,  Simo,  Davo,  Panfilo. 


BiRRiA  (Il  padrone  mi  ha  imposto,  che,  lasciata  ogni  al- 
tra cosa,  vadi  osservando  Panfilo,  per  intendere  quel- 
lo che  fa  di  queste  nozze;  per  questo  io  l'ho  seguitato, 
e  veggo  ch'egli  è  con  Davo:  io  ho  un  tratto  a  fare  que- 
sta faccenda'.) 

SIMO     (E'  sono  qua  l'uno  e  l'altro.) 

DAVO     Abbi  l'occhio! 

SIMO     O  Panfilo! 


IV.  I.  ne  viene...  solitario:  qui  Machiavelli  traduce  con  grande  efficacia  il  lati- 
no: «Venit  meditatus  alicunde  ex  solo  loco».  2.  di  farti  ingiuria:  Terenzio  ha 
scritto:  «qui  differat  te»,  «che  ti  ingarbugli». 

V.  I.  io...  faccenda:  più  sintetico  ed  efficace  il  testo  latino:  «hoc  agam»;  «mi 
metto  all'opera». 


26  ANDRIA 

DAVO     Voltati  ad  lui  quasi  che  allo  improviso. 

PANFILO     O  padre  ! 

DAVO     (Bene.) 

SIMO  Io  voglio  che  tu  meni  oggi  donna,  come  io  ti  ho 
detto. 

BiRRiA  (Io  temo  ora  del  caso  nostro,  secondo  che  costui 
risponde.) 

PANFILO  Né  in  questo  né  in  altro  mai  sono  per  mancare^ 
in  alcuna  cosa. 

BiRRiA     (Heimè!) 

DAVO     (Egli  è  ammutolato.) 

BiRRiA     (Che  ha  egli  detto  ?) 

SIMO  Tu  fai  quello  debbi  quando  io  impetro  amorevol- 
mente da  te  quel  che  io  voglio. 

DAVO     (Ho  io  detto  il  vero  ?) 

BiRRiA  (Il  padrone,  secondo  che  io  intendo,  farà  sanza 
moglie.) 

SIMO  Vattene  ora  in  casa,  acciò  che,  quando  bisogna, 
che  tu  sia  presto. 

PANFILO      lo  vo. 

BiRRiA  (E  egli  possibile  che  in  negli  uomini  non  sia  fede 
alcuna  ?  Vero  è  quel  proverbio  che  dice  che  ognuno  vuo- 
le meglio  a  sé  che  ad  altri.  Io  ho  veduta  quella  fanciul- 
la e,  se  bene  mi  ricordo,  è  bella;  per  la  quale  cosa  io  vo- 
glio men  male  a  Panfilo,  s'egli  ha  più  tosto  voluto  abrac- 
ciare  lei  che  il  mio  padrone.  Io  gliene  andrò  a  dire,  ac- 
ciò che  per  questa  mala  novella  mi  dia  qualche  male\) 


2.  mancare:  «Ncque...  erit  usquam  in  me  mora».  Cosi  scrive  Terenzio:  cioè, 
«non  ci  sarà  mai  in  me  indugio».  3.  acciò  che...  male:  nel  testo  terenziano  si 
legge:  «prò  hoc  malo  mihi  det  malum»:  «per  ricevere  da  questa  cattiva  notizia 
una  qualche  brutta  punizione»  [malum  è  la  punizione  corporale  dello  schiavo). 
Machiavelli  non  coglie,  o  comunque  non  vuole  rendere,  il  doppio  senso. 


ATTO  SECONDO  27 

SCENA  SESTA 

Simo,  Davo. 


DAVO  (Costui  crede  ora  che  io  gli  porti  qualche  inganno 
e  per  questa  cagione  sia  rimaso  qui.) 

SIMO     Che  dice  Davo? 

DAVO     Niente  veramente. 

SIMO     Niente,  he  ? 

DAVO     Niente,  per  mia  fé! 

SIMO     Veramente  io  aspettavo  qualche  cosa. 

DAVO  (Io  mi  avveggo  che  questo  gli  è  intervenuto  fuori 
d'ogni  sua  opinione.  Egli  è  rimaso  preso'.) 

SIMO     E  egli  possibile  che  tu  mi  dica  il  vero  ? 

DAVO     Niente  è  più  facile. 

SIMO  Queste  nozze  sono  a  costui  punto  moleste  per  la 
consuetudine  che  lui  ha  con  questa  forestiera  ? 

DAVO  Niente,  per  Dio;  e,  se  fia,  sarà  uno  pensiero  che 
durerà  dua  o  tre  di,  tu  sai?  perch'egli  ha  preso  questa 
cosa  per  il  verso^ 

SIMO     Io  lo  lodo. 

DAVO  Mentre  che  gli  fu  lecito  e  mentre  che  la  età  lo  pati, 
egli  amò;  e  allora  lo  fece  di  nascosto,  perché  quella  co- 
sa non  gli  dessi  carico,  come  debbe  fare  uno  giovane  da 
bene;  ora  ch'egli  è  tempo  di  menar  moglie,  egli  ha  di- 
ritto' l'animo  alla  moglie. 

SIMO     E'  mi  parve  pure  alquanto  maninconoso. 

DAVO  Non  è  per  questa  cagione;  ma  ei  ti  accusa  bene  in 
qualche  cosa. 

SIMO     Che  cosa  è  ? 

DAVO     Niente. 


VI.  I .  Egli  è  rimaso  preso:  Machiavelli  probabilmente  non  ha  ben  compreso  e 
traduce  in  modo  poco  chiaro.  «Hoc  male  habet  virum»,  scrive  Terenzio,  cioè: 
«tutto  questo  non  va  a  genio  all'amico».  2.  perch'egli...  verso:  Terenzio  vera- 
mente aveva  scritto:  «deinde  desinet»:  «poi  passa».  3.  ha  diritto:  nella  prima 
redazione,  Machiavelli  aveva  scritto:  «ha  volto». 


28  ANDRIA 

SIMO     Che  domine  è  ? 

DAVO     Una  cosa  da  giovani". 

SIMO     Orsù,  dimmi:  che  cosa  è? 

DAVO     Dice  che  tu  usi  troppa  miseria  in  queste  nozze. 

SIMO      Io  ? 

DAVO  Tu.  Dice  che  a  fatica  hai  speso  dieci  ducati:  e'  non 
pare  che  tu  dia  moglie  ad  uno  tuo  figliuolo.  Ei  non  sa 
chi  si  menare  de'  sua  compagni  a  cena.  E,  a  dire  il  ve- 
ro, che  tu  te  ne  governi  cosi  miseramente,  io  non  ti  lodo. 

SIMO     Sta'  cheto, 

DAVO     (Io  l'ho  aizzato.) 

SIMO  Io  provedrò  che  tutto  andrà  bene.  (Che  cosa  è  que- 
sta ?  Che  ha  voluto  dire  questo  ribaldo'  ?  E  se  ci  è  ma- 
le alcuno,  heimè,  che  questo  tristo  ne  è  guida.) 


4.  Che  cosa...  giovani:  In  questa  sequenza  di  quattro  battute,  la  prima  e  secon- 
da battuta  della  versione  sono  invertite  di  posizione  rispetto  alla  terza  e  quar- 
ta del  testo  latino.  5.  ribaldo:  bellissimo  il  «veterator»  di  Terenzio:  «vecchio 
in  astuzia,  vecchia  volpe». 


ATTO  TERZO 


SCENA  PRIMA 

Miside,  Simo,  Lesbia,  Davo,  Glicerio. 


MisiDE  Per  mia  fé,  Lesbia,  che  la  cosa  va  come  tu  hai 
detto:  e'  non  si  truova  quasi  mai  veruno  uomo  che  sia 
fedele  ad  una  donna. 

SIMO     (Questa  fantesca  è  da  Andro':  che  dice  ella? 

DAVO     Cosi  è.) 

MISIDE     Ma  questo  Panfilo... 

SIMO     (Che  dice  ella  ?) 

MISIDE     . . .  l'ha  dato  la  fede. . . 

SIMO     (Heimè  !  ) 

DAVO  (Dio  volessi  che  o  costui  diventassi  sordo  o  colei 
mutola!) 

MISIDE  ...  perché  gli  ha  comandato  che  quel  che  la  farà 
s'allievi^ 

SIMO  (O  Giove,  che  odo  io  ?  La  cosa  è  spacciata,  se  co- 
stei dice  il  vero  !  ) 

LESBIA     Tu  mi  narri'  una  buona  natura  di  giovane. 

MISIDE  Ottima;  ma  vienmi  dreto,  acciò  che  tu  sia  a  tem- 
po, se  l'avessi  bisogno  di  te. 

LESBIA     Io  vengo. 

DAVO     (Che  remedio  troverrò  io  ora  ad  questo  male  ?) 

SIMO  (Che  cosa  è  questa  ?  è  egli  si  pazzo  che  d'una  fore- 
stiera. . .  già  io  so. . .)  Ha  !  sciocco  !  io  me  ne  sono  avveduto  ! 


I.  I.  da  Andro:  Terenzio  aveva  scritto:  «ab  Andriast»,  «è  della  fanciulla  d'An- 
dro». Machiavelli  traduce  sbagliando.  2.  che...  s'allievi:  che  quel  bimbo  (o 
bimba)  che  verrà  da  lei  partorito,  venga  allevato  (dopo  che  l'avrà  riconosciu- 
to): queste  due  azioni  stanno  in  latino  in  un  solo  verbo,  tollere,  che  indicava 
l'atto  mediante  il  quale  il  padre,  sollevando  il  neonato,  ammetteva  di  ricono- 
scerlo. 3.  mi  narri:  è  il  latino  «narras»:  «mi  stai  descrivendo»  (nella  prima  re- 
dazione: «mi  ragioni»). 


30  ANDRIA 

DAVO     (Di  che  dice  costui  essersi  aveduto?) 

SIMO  (Questo  è  il  primo  inganno  che  costui  mi  fa:  ci  fan- 
no vista'*  che  colei  partorisca  per  sbigottire  Cremete.) 

GLiCERio     O  Giunone,  aiutami,  io  mi  ti  raccomando! 

SIMO  Bembè',  si  presto  ?  Cosa  da  ridere.  Poi  che  la  mi 
ha  veduto  stare  innanzi  all'uscio,  ella  sollecita*.  O  Da- 
vo, tu  non  hai  bene  compartiti  questi  tempi! 

DAVO      Io  ? 

SIMO     Tu  ti  ricordi  del  tuo  discepolo  ? 

DAVO     Io  non  so  quello  che  tu  di'. 

SIMO  (Come  mi  uccellerebbe  costui,  se  queste  nozze  fus- 
sino  vere  e  avessimi  trovato  impreparato!  Ma  ora  ogni 
cosa  si  fa  con  periculo  suo:  io  sono  al  sicuro.) 


SCENA  SECONDA 

Lesbia,  Simo,  Davo. 


LESBIA  Infino  a  qui,  o  Archile,  in  costei  si  veggono  tut- 
ti buoni  segni.  Fa'  lavare  queste  cose',  dipoi  gli  date  be- 
re quanto  vi  ordinai  e  non  più  punto  che  io  vi  dissi.  E 
io  di  qui  ad  un  poco  darò  volta  di  qua.  (Per  mia  fé,  che 
gli  è  nato  a  Panfilo  uno  gentil  figliuolo  !  Dio  lo  facci  sa- 
no, sendo  egli  di  sì  buona  natura  che  si  vergogni  di  ab- 
bandonare questa  fanciulla.) 

SIMO  E  chi  non  crederrebbe,  che  ti  conoscessi,  che  an- 
cor questo  fussi  ordinato  da  te  ? 

DAVO     Che  cosa  è  ? 


1^.  fanno  vista:  fanno  finta,  fingono,  traduzione  corretta  del  terenziano  «simu- 
lant».  5.  Bembè:  l'esclamazione  è  cara  al  Machiavelli.  La  usa  anche  inM.,  Ili, 
12,  109  («Bembè,  voi  sete  guarito  del  sordo?»),  e  Clizia,  III,  4,  169  («Bembè, 
tu  mi  riesci!»).  6.  ella  sollecita:  essa  si  affretta  (sott.  a  partorire):  Terenzio 
scrive  «adproperat». 

n.  I.  Fa'...  cose:  veramente  Terenzio  è  più  preciso:  «fac  ista  ut  lavet»;  «fa' 
che  costei  (la  puerpera)  si  lavi». 


ATTO  TERZO  3 1 

^IMO  Perché  non  ordinava  ella  in  casa  quello  che  era  di 
bisogno  alla  donna  di  parto"  ?  Ma,  poi  che  la  è  uscita 
fuora,  la  grida  della  via'  a  quegli  che  sono  drento!  O 
Davo,  tieni  tu  si  poco  conto  di  me,  o  paioti  io  atto  ad 
essere  ingannato  sì  apertamente?  Fa'  le  cose  almeno  in 
modo  che  paia  che  tu  abbia  paura  di  me,  quando  io  lo 
risapessi! 

DAVO  (Veramente  costui  s'inganna  da  sé,  non  lo  ingan- 
no io.) 

SEVio  Non  te  lo  ho  io  detto  ?  Non  ti  ho  io  minacciato  che 
tu  non  lo  faccia?  Che"*  giova?  Credi  tu  ch'io  ti  creda 
che  costei  abbi  partorito  di  Panfilo  ? 

DAVO     (Io  so  dove  ei  s'inganna;  e  so  quel  ch'io  ho  a  fare.) 

SIMO     Perché  non  rispondi  ? 

DAVO  Che  vuoi  tu  credere?  Come  se  non  ti  fussi  stato 
ridetto  ogni  cosa. 

SIMO     A  me  ? 

DAVO  He!  ho!  Ha'  ti  tu  inteso  da  te  che  questa  è  una 
finzione  ? 

SIMO     Io  sono  uccellato^  ! 

DAVO  E'  ti  è  stato  ridetto:  come  ti  sarebbe  entrato  que- 
sto sospetto  ? 

SIMO     Perch'io  ti  conoscevo. 

DAVO  Quasi  che  tu  dica  che  questo  è  fatto  per  mio  con- 
siglio. 

SIMO     Io  ne  sono  certo. 

DAVO     O  Simone,  tu  non  conosci  bene  chi  io  sono. 

SIMO     Io  non  ti  conosco? 

DAVO  Ma  come  io  ti  comincio  a  parlare,  tu  credi  che  io 
t'inganni... 

SIMO     Bugie'. 

DAVO  ...  in  modo  che  io  non  ho  più  ardire  d'aprire  la 
bocca. 


2.  alla...  parto:  alla  partoriente:  in  latino  «puerperae».  3.  della  via:  dalla  via. 
Simo  è  perplesso  per  le  esibizioni  di  Lesbia,  che  gli  paiono  «false».  4.  Che: 
Machiavelli  tralascia  qui  di  tradurre:  «Num  veritu's?»:  «E  tu  forse  te  ne  sei 
preoccupato?»  5.  /o50«o«cce//l3/o:  in  Terenzio  la  battuta  suona:  «Inrideor»: 
«vengo  schernito».     6.  Bugie:  nel  testo  latino:  «Falso!  ». 


32  ANDRIA 

SIMO  Io  SO  una  volta'  questo,  che  qui  non  ha  partorito 
persona*. 

DAVO  Tu  la  intendi;  ma  di  qui  a  poco  questo  fanciullo  ti 
sarà  portato  innanzi  all'uscio;  io  te  ne  avvertisco,  acciò 
che  tu  lo  sappia  e  che  tu  non  dica  poi  che  sia  fatto  per 
consiglio  di  Davo,  perché  io  vorrei  che  si  rimovessi  da 
te  questa  opinione  che  tu  hai  di  me. 

SIMO     Donde  sai  tu  questo  ? 

DAVO     Io  l'ho  udito  e  credolo. 

SIMO  Molte  cose  concorrono  per  le  quali  io  fo  questa  co- 
niettura:  in  prima,  costei  disse  essere  gravida  di  Panfi- 
lo, e  non  fu  vero;  ora  poi  che  la  vede  aparecchiarsi  le 
nozze,  ella  mandò  per  la  levatrice,  che  venissi  ad  lei  e 
portassi  seco  uno  fanciullo'. 

DAVO  Se  non  accadeva  che  tu  vedessi  il  fanciullo,  que- 
ste nozze  di  Panfilo  non  si  sarebbono  sturbate. 

SIMO  Che  di'  tu?  Quando  tu  intendesti  che  si  aveva  ad 
pigliare  questo  partito,  perché  non  me  lo  dicesti  tu?*". 

DAVO  Chi  l'ha  rimosso  da  lei,  se  non  io  ?  Perché,  non  sa 
ognuno  quanto  grandemente  colui  l'amava?  Ora  egli  è 
bene  che  tolga  moglie:  però  mi  darai  questa  faccenda" 
e  tu  nondimeno  seguita  di  fare  le  nozze.  E  io  ci  ho  buo- 
na speranza,  mediante  la  grazia  di  Dio. 

SIMO  Vanne  in  casa,  e  quivi  mi  aspetta  e  ordina  quello 
che  fa  bisogno.  -  Costui  non  mi  ha  al  tutto  constretto 
a  credergli,  e  non  so  s'egli  è  vero  ciò  che  mi  dice:  ma  lo 
stimo  poco,  perché  questa  è  la  importanza,  che  '1  mio 
figliuolo  me  lo  ha  promesso.  Ora  io  troverrò  Cremete 
e  lo  pregherrò  che  gliene  dia:  se  io  lo  impetro,  che  vo- 
glio io  altro,  se  non  che  oggi  si  faccino  queste  nozze? 


7.  una  volta:  una  volta  per  tutte:  in  Terenzio:  «Hoc  ego  scio  unum».  8.  per- 
sona: nessuno.  9.  Molte  cose  concorrono...  fanciullo:  nel  testo  di  Terenzio,  è 
Davo  che  pronuncia  questa  battuta:  il  Machiavelli  (che  in  questo  si  appoggia- 
va ad  una  parte  della  tradizione  del  testo)  dà  invece  la  parola  a  Simo.  io.  per- 
ché... tu?:  qui  Machiavelli  sbaglia.  Nel  testo  di  Terenzio  si  legge:  «quor  non 
dixti  extemplo  Pamphilo?»:  «perché  non  lo  hai  fatto  sapere  subito  a  Panfi- 
lo?» II.  mi...  faccenda:  cioè,  mi  darai  da  sistemare  questa  faccenda.  Teren- 
zio è  molto  più  netto  e  conclusivo:  «Postremo  id  mihi  da  negoti»:  «Per  finir- 
la, lascia  quest'affare  a  me». 


ATTO  TERZO  33 

Perché,  a  quello  che  '1  mio  figliuolo  mi  ha  promesso,  e' 
non  è  dubio  ch'io  lo  potrò  forzare,  quando  ei  non  vo- 
lessi. E  apunto  a  tempo  ecco  Cremete. 


SCENA  TERZA 

Simo,  Cremete. 


SIMO     A!  quel  Cremete! 

CREMETE     O!  io  ti  cercavo. 

SIMO     E  io  te. 

CREMETE  Io  ti  desideravo'  perché  molti  mi  hanno  tro- 
vato e  detto  avere  inteso  da  più  persone^  come  oggi  io 
do  la  mia  figliuola  al  tuo  figliuolo:  io  vengo  per  sapere 
se  tu  o  loro  impazzano\ 

SIMO  Odi  un  poco  e  saprai  per  quel  che  io  ti  voglio  e 
quello  che  tu  cerchi. 

CREMETE     Di'  ciò  che  tu  vuoi. 

SIMO  Per  Dio  io  ti  prego,  o  Cremete,  e  per  la  nostra  ami- 
cizia, la  quale,  cominciata  da  piccoli,  insieme  con  la  età 
crebbe;  per  la  unica  tua  figliuola  e  mio  figliuolo,  la  sa- 
lute del  quale  è  nella  tua  potestà;  che  tu  mi  aiuti  in  que- 
sta cosa  e  che  quelle  nozze,  che  si  dovevono  fare,  si  fac- 
cino. 

CREMETE  Ha!  non  mi  pregare,  come  se  ti  bisogni  prie- 
ghi  quando  tu  vogli  da  me  alcun  piacere.  Credi  tu  che 
io  sia  d'altra  fatta"  che  io  mi  sia  stato  per  lo  adietro, 
quando  io  te  la  davo?  S'egli  è  bene  per  l'una  parte  e 
per  l'altra,  facciamole;  ma  se  di  questa  cosa  a  l'uno  e 
l'altro  di  noi  ne  nascessi  più  male  che  commodo,  io  ti 


ni.  1.  Io...  desideravo:  è  Simo  che  dice  a  Cremete,  nel  testo  di  Terenzio:  «Op- 
tato advenis»:  «Arrivi  desiderato».  2.  da  piti  persone:  in  Terenzio,  «ex  te»: 
«da  te»:  questi  «molti»  riferiscono  a  Cremete  una  voce  udita  da  Simo  stes- 
so. 3.  impazzano:  sono  impazziti:  è  la  traduzione  letterale  del  latino  «insa- 
niant».  4.  che. ..fatta:  che  io  sia  mutato.  Molto  limpido  Terenzio:  «Alium  es- 
se censes». 


34  ANDRIA 

priego  che  tu  abbi  riguardo  al  comune  bene,  come  se 
quella  fussi  tua,  e  io  padre  di  Panfilo. 

SIMO  Io  non  voglio  altrimenti,  e  cosi  cerco  che  si  facci, 
o  Cremete;  né  te  ne  richiederei,  se  la  cosa  non  fussi  in 
termine  da  farlo'. 

CREMETE     Che  è  nato  ? 

SIMO     Glicerio  e  Panfilo  sono  adirati  insieme. 

CREMETE     Intendo. 

SIMO  E  di  qualità  che  io  credo  che  non  se  ne  abbi  a  fa- 
re pace. 

CREMETE     Favole  ! 

SIMO     Certo  la  cosa  è  cosi. 

CREMETE  E'  fia  come  io  ti  dirò^  che  l'ire  degli  amanti 
sono  una  reintegrazione  d'amore. 

SIMO  De  !  io  ti  priego  che  noi  avanziano  tempo  in  dar- 
gli moglie  mentre  che  ci  è  dato  questo  tempo^  mentre 
che  la  sua  libidine  è  ristucca*  Ho  l'^  ìnìnrip  innonTi"  r^V.^ 
-w  j.^i.Kj  e  ic  lacrime  piene  d  inganno  ridu- 
chino  l'animo  infermo  a  misericordia;  perché  spero,  co- 
me e'  fia  legato  da  la  consuetudine  e  dal  matrimonio, 
facilmente  si  libererà  da  tanti  mali. 

CREMETE  E'  pare  a  te  così,  ma  io  credo  che  non  potrà' 
lungamente  patire  me  né  lei. 

SIMO     Che  ne  sai  tu,  se  tu  non  ne  fai  esperienza? 

CREMETE     Farne  esperienza  in  una  sua'"  figliuola,  è  pazzia. 

SIMO  In  fine  tutto  il  male  che  ne  può  risultare  è  questo: 
se  non  si  corregge,  che  Dio  guardi!,  che  si  facci  il  di- 
vorzio; ma,  se  si  corregge,  guarda  quanti  beni":  in  pri- 
ma tu  restituirai  ad  uno  tuo  amico  uno  figliuolo^^  tu 
arai  uno  genero  fermo  e  la  tua  figliuola  marito. 


5.  in...  farlo:  in  condizioni  propizie.  Terenzio  veramente  scrive:  «ni  ipsa  res 
moneat»:  «se  la  cosa  stessa  non  me  lo  suggerisse».  6.  E...  dirò:  Andrà  a  fi- 
nire come  ti  dico  io:  cioè,  si  riappacificheranno.  7.  mentre...  tempo:  finché  go- 
diamo di  quest'occasione  favorevole.  E  traduzione  piatta  di  «dum  tempus  da- 
tur».  8.  ristucca:  rintuzzata  sino  ad  essere  placata.  Machiavelli  rende  felice- 
mente «occlusast».  9.  non  potrà:  il  soggetto  sottinteso  è  Panfilo,  io.  in  una 
sua:  nella  propria.  In  Terenzio,  a  rendere  ancor  più  evidente  il  timor  paterno, 
si  legge  semplicemente  «in  filia».  1 1 .  guarda  quanti  beni:  rifletti  a  quanti  van- 
taggi. 12.  restituirai...  figliuolo:  «restituirai»  nel  senso  di  «restituirai  all'af- 
fetto» (Machiavelli  traduce,  per  altro,  fedelmente  Terenzio). 


ATTO  TERZO  35 

CREMETE  Che  bisogna  altro?  Se  tu  ti  se'  persuaso  che 
questo  sia  utile,  io  non  voglio  che  per  me  si  guasti  al- 
cuno tuo  commodo. 

SIMO     Io  ti  ho  meritamente  sempre  amato  assai. 

CREMETE     Ma  dimmi... 

SIMO     Che  ? 

CREMETE     Onde  sai  tu  ch'egli  è  infra  loro  inimicizia  ? 

SIMO  Davo  me  lo  ha  detto,  che  è  il  primo  loro  consi- 
gliere; ed  egli  mi  persuade  che  io  faccia  queste  nozze  il 
più  presto  posso.  Credi  tu  che  lo  facessi,  se  non  sapes- 
si che  '1  mio  figliuolo  volessi?  Io  voglio  che  tu  stessi" 
oda  le  sua  parole  proprie.  Olà,  chiamate  qua  Davo!  Ma 
eccolo  che  viene  fuora. 


SCENA  QUARTA 

Davo,  Simo,  Cremete. 


DAVO     Io  venivo  a  trovarti. 

SIMO     Che  cosa  è? 

DAVO     Perché  non  mandate  per  la  sposa?  E'  si  fa  sera. 

SIMO  Odi  tu  quel  che  dice  ?  -  Per  lo  adietro  io  ho  dubi- 
tato assai,  o  Davo,  che  tu  non  facessi  quel  medesimo 
che  suole  fare  la  maggiore  parte  de'  servi,  d'ingannar- 
mi per  cagione  del  mio  figliuolo. 

DAVO     Che  io  facessi  cotesto  ? 

SIMO  Io  lo  credetti,  e  in  modo  ne  ebbi  paura,  che  io  vi 
ho  tenuto  segreto  quello  che  ora  vi  dirò. 

DAVO     Che  cosa  è  ? 

SIMO     Tu  lo  saprai,  perché  io  comincio  a  prestarti  fede. 

DAVO     Quanto  tu  hai  penato  a  conoscere  chi  io  sono  ! 

SIMO     Queste  nozze  non  erano  da  dovero'... 


I}.  tu  stessi:  tu  stesso:  è  il  latino  «tute». 

IV.     I.  Queste...  dovevo:  Queste  nozze  non  erano  vere.  Terenzio  scrive,  perla  ve- 
rità: «Non  fuerant  nuptiae  futurae»:  «Queste  nozze  non  erano  per  realizzarsi». 


36  ANDRIA 

DAVO     Perché  no  ? 

SIMO     Ma  io  le  finsi  per  tentarvi. 

DAVO     Che  di'  tu? 

SIMO     Così  sta  la  cosa. 

DAVO  Vedi  tu!  mai  me  ne  arei  saputo  avedere.  U!  Ha!, 
che  consiglio  astuto  ! 

SIMO  Odi  questo:  poi  che  io  ti  feci  entrare  in  casa,  io  ri- 
scontrai a  tempo  costui. 

DAVO     (Heimè!  noi  siam  morti.) 

SIMO     Di'^  a  costui  quello  che  tu  dicesti  a  me. 

DAVO     (Che  odo  io  ?) 

SIMO  Io  l'ho  pregato  che  ci  dia  la  sua  figliuola  e  con  fa- 
tica l'ho  ottenuto. 

DAVO     (Io  son  morto.) 

SIMO     Hem  ?  che  hai  tu  detto  ? 

DAVO     Ho  detto  ch'egli  è  molto  bene  fatto. 

SIMO     Ora  per  costui  non  resta. 

CREMETE  Io  me  n'andrò  a  casa  e  dirò  che  si  preparino; 
e,  se  bisognerà  cosa  alcuna,  lo  farò  intendere  a  costui. 

SIMO  Ora  io  ti  prego,  Davo,  perché  tu  solo  mi  hai  fatte 
queste  nozze... 

DAVO     Io  veramente  solo. 

SIMO     ...  sforzati  di  correggere  questo  mio  figliuolo. 

DAVO     Io  lo  farò  sanza  dubio  alcuno. 

SIMO     Tu  puoi  ora,  mentre  ch'egli  è  adirato. 

DAVO     Sta'  di  buona  voglia. 

SIMO     Dimmi,  dove  è  egli  ora  ? 

DAVO     Io  mi  maraviglio  se  non  è  in  casa. 

SIMO  Io  l'andrò  a  trovare  e  dirò  a  lui  quel  medesimo  che 
io  ho  detto  a  te. 

DAVO  Io  sono  diventato  pichino'.  Che  cosa  terrà"  che  io 
non  sia  per  la  più  corta  mandato  a  zappare  ?  Io  non  ho 
speranza  che  i  prieghi  mi  vaglino:  io  ho  mandato  sot- 
tosopra ogni  cosa;  io  ho  ingannato  il  padrone  e  ho 


2.  Di':  dissi  (traduce  il  terenziano:  «Narro»).  3.  lo . . .  pichino:  pichino  valep/c- 
cino,  in  forma  più  familiare.  Nella  prima  redazione:  «sono  spacciato  [sbarrato] 
diventato  nonnulla».  Il  latino  è:  «Nullu'  sum»:  «Sono  annientato».  4.  Che... 
terrà:  è  un  errore  di  scrittura  per  torrà.  In  latino:  «Quid  causaest  quin...». 


ATTO  TERZO  37 

fatto'  che  oggi  queste  nozze  si  faranno,  voglia  Panfilo 
o  no*.  O  astuzia!  Che  se  io  mi  fussi  stato  da  parte,  non 
ne  sarebbe  risultato  male  alcuno.  Ma  ecco,  io  lo  veg- 
go. Io  sono  spacciato!  Dio  volessi  che  fussi  qui  qual- 
che balza  dove  io  a  fiaccacollo  mi  potessi  gittare! 


SCENA  QUINTA 

Panfilo,  Davo. 


PANFILO     Dove  è  quello  scelerato  che  mi  ha  morto  ? 

DAVO     (Io  sto  male.) 

PANFILO  Ma  io  confesso  essermi  questo  intervenuto  ra- 
gionevolmente, quando  io  sono  sì  pazzo  e  sì  da  poco 
che  io  commetto  e  casi  mia  in  sì  disutile  servo'  !  Io  ne 
porto  le  pene  giustamente;  ma  io  ne  lo  pagherò^  in  ogni 
modo. 

DAVO  (Se  io  fuggo  ora  questo  male,  io  so  che  poi  tu  non 
me  ne  pagherai.) 

PANFILO  Che  dirò  io  ora  a  mio  padre?  Negherogli  io 
quello  che  io  gli  ho  promesso  ?  Con  che  confidenza  ar- 
dirò io  di  farlo  ?  Io  non  so  io  stesso  quello  che  mi  fare 
di  me  medesimo. 

DAVO  (Né  anch'io  di  me;  ma  io  penso  di  dire  di  avere 
trovato  qualche  bel  tratto^  per  differire  questo  male.) 

PANFILO      Ohe  ! 

DAVO     (E'  mi  ha  veduto.) 


5.  e  ho  fatto:  Machiavelli  omette  di  tradurre  la  frase:  «in  nuptias  conieci  erilem 
filium»:  «ho  accalappiato  con  le  nozze  il  padroncino».  6.  voglia...  no:  Ma- 
chiavelli semplifica,  mentre  Terenzio  è  più  sottile:  «insperante  hoc  atque  invi- 
to Pamphilo»:  «al  di  là  delle  speranze  di  costui  e  contro  il  volere  di  Panfilo». 

V.  I.  commetto...  servo:  affido  i  casi  miei  ad  un  servo  cosi  imbelle.  Ma  in  Te- 
renzio l'aggettivo  è  «futtili»,  «chiacchierone».  Futilis  deriva  da  fundere,  ver- 
sare; e,  per  traslato,  non  saper  conservare  nessun  segreto.  2.  ne...  pagherò: 
gliela  farò  pagare.  3.  qualche...  tratto:  qualche  bella  trovata.  Machiavelli  è  più 
inventivo  dell'originale,  che  propone  un  semplice  «aliquid». 


38  ANDRIA 

PANFILO  Olà,  uom  da  bene,  che  fai?  Vedi  tu  come  tu 
m'hai  aviluppato  co'  tuoi  consigli? 

DAVO     Io  ti  svilupperò. 

PANFILO     Sviluppera'mi?\ 

DAVO     Si  veramente,  Panfilo! 

PANFILO     Come  ora  ? 

DAVO     Spero  pure  di  fare  meglio. 

PANFILO  Vuoi  tu  che  io  ti  creda,  impiccato',  che  tu  ras- 
setti una  cosa  aviluppata  e  perduta  ?  O  !  di  chi  mi  sono 
io  fidato,  che  d'uno  stato  tranquillo  m'hai  rovesciato 
adosso  queste  nozze.  Ma  non  ti  dissi  io  che  m'inter- 
verrebbe questo  ? 

DAVO     Si,  dicesti. 

PANFILO     Che  ti  si  verrebbe  egli  ?^ 

DAVO  Le  forche!  Ma  lasciami  un  poco  poco  ritornare  in 
me:  io  penserò  a  qualcosa. 

PANFILO  Heimè!  perché  non  ho  io  spazio'  a  pigliare  di 
te  quel  suplizio  che  io  vorrei  ?  Perché  questo  tempo  ri- 
chiede che  io  pensi  a'  casi  mia  e  non  a  vendicarmi. 


4.  Svilupperà' mi?:  Mi  toglierai  d'impaccio?  È  la  traduzione  del  latino  «Expe- 
dies?».  5.  impiccato:  degno  d'essere  impiccato.  In  Terenzio  il  corrisponden- 
te è  «furcifer».  6.  Che...  egli?:  Che  cosa  ti  dovrebbe  toccare?  E  la  traduzio- 
ne di  «Quid  meritu's».  7.  spazio:  tempo  e  modo  (Machiavelli  traduce,  un  po' 
troppo  letteralmente,  lo  spatium  di  Terenzio). 


ATTO  QUARTO 


SCENA  PRIMA 

Carino,  Panfilo,  Davo. 


CARINO  (È  ella  cosa  degna  di  memoria  o  credibile  che  sia 
tanta  pazzia  nata  in  alcuno  che  si  rallegri  del  male  d'al- 
tri e  degli  incommodi  d'altri  cerchi'  i  commodi  suoi? 
Ah  !  non  è  questo  vero  ?  E  quella  sorte  d'huomini  è  pes- 
sima, che  si  vergognano  negare  una  cosa  quando  sono 
richiesti;  poi,  quando  ne  viene  il  tempo,  forzati  da  la 
necessità,  si  scuoprono^  e  temono  e  pure  la  cosa  gli  sfor- 
za a  negare.  Et  allora  usano  parole  sfacciate:  -  Chi  se' 
tu  ?  Che  hai  tu  a  fare  meco  ?  Perché  ti  ho  io  a  dare  le 
mia  cose?  Odi  tu:  io  ho  a  volere  meglio  a  me!\  -  E  se 
tu  gli  domandi:  dove  è  la  fedeV  -  e'  non  si  vergogno- 
no  di  niente;  e  prima,  quando  non  bisognava,  si  vergo- 
gnorno.  Ma  che  farò  io?  Androllo  io  a  trovare  per  do- 
lermi seco  di  questa  ingiuria?  Io  gli  dirò  villania.  E  se 
un  mi  dicessi:  -  Tu  non  farai  nulla!  -  io  gli  darò  pure 
questa  molestia  e  sfogherò  l'animo  mio.) 

PANFILO  Carino,  io  ho  rovinato  imprudentemente  te  e 
me,  se  Dio  non  ci  provede. 

CARINO  Così,  «imprudentemente»?  Egli  ha  trovata  la 
scusa!  Tu  m'hai  osservata  la  fede! 

PANFILO     O  perché  ? 

CARINO  Credimi  tu  ancora  ingannare  con  queste  tua  pa- 
role? 


I.  I.  cerchi:  cerchi  di  trarre,  di  far  nascere.  2.  si  scuoprono:  si  svelano  per 
quello  che  sono.  È  la  traduzione  letterale  di  «se  aperiunt».  3.  io  ho...  a  me!  : 
è  a  me,  semmai,  che  devo  usare  dei  riguardi!  Machiavelli  non  ha  saputo  ren- 
dere la  pregnanza  della  felice  espressione  terenziana:  «  Heus  proxumus  sum  ego- 
met  mihi»;  «Il  mio  primo  prossimo  sono  io  stesso».  4.  E...  la  fede:  in  Teren- 
zio, c'è  un  inserto  di  discorso  diretto:  «At  tamen  -  ubi  fides?  -  si  roges». 


40  ANDRIA 

PANFILO     Che  cosa  è  cotesta  ? 

CARINO  Poi  che  io  dissi  d'amarla,  ella  ti  è  piaciuta.  De! 
misero  a  me,  che  io  ho  misurato  l'animo  tuo  con  l'ani- 
mo mio'  ! 

PANFILO     Tu  t'inganni. 

CARINO  Questa  tua  allegrezza  non  ti  sarebbe  paruta  in- 
tera, se  tu  non  mi  avessi  nutrito  e  lattato*  d'una  falsa 
speranza:  abbitela. 

PANFILO  Che  io  l'abbia  ?  Tu  non  sai  in  quanti  mali  io  sia 
rinvolto  e  in  quanti  pensieri  questo  mio  manigoldo 
m'abbi  messo  con  i  suoi  consigli. 

CARINO     Maraviglitene  tu  ?  Egli  ha  imparato  da  te. 

PANFILO  Tu  non  diresti  cotesto,  se  tu  conoscessi  me  e  lo 
amore  mio. 

CARINO  Io  so  che  tu  disputasti  assai  con  tuo  padre:  e  per 
questo  ti  accusa,  che  non  ti  ha  potuto  oggi  disporre  a 
menarla. 

PANFILO  Anzi,  vedi  come  tu  sai^  i  mali  mia!  Queste  noz- 
ze non  si  facevano,  e  non  era  alcuno  che  mi  volessi  da- 
re moglie. 

CARINO     Io  so  che  tu  se'  stato  forzato  da  te  stesso. 

PANFILO     Sta'  un  poco  saldo:  tu  non  lo  sai  ancora. 

CARINO     Io  so  che  tu  l'hai  a  menare. 

PANFILO  Perché  mi  ammazzi  tu  ?  Intendi  questo:  costui 
non  cessò  mai  di  persuadere,  di  pregarmi,  che*  io  di- 
cessi a  mio  padre  di  essere  contento  di  menarla,  tanto 
che  mi  condusse  a  dirlo. 

CARINO     Chi  fu  cotesto  uomo  ? 

PANFILO     Davo. 

CARINO     Davo? 

PANFILO     Davo  manda  sozopra  ogni  cosa. 

CARINO     Per  che  cagione  ? 

PANFILO  Io  non  lo  so,  se  non  che  io  so  bene  che  Dio  è 
adirato  meco,  poi  che  io  feci  a  suo  modo. 

5.  ho...  mio:  il  senso  della  battuta,  tradotta  letteralmente,  è:  ti  ho  giudicato  a 
mia  misura.  6.  lattato:  allattato  (come  si  legge,  tra  l'altro,  nella  prima  redazio- 
ne). 7.  vedi  come  tu  sai:  vedi  come  sai  male.  In  Terenzio  la  frase  è  un  inciso  el- 
littico: «quo  tu  minu'  scis  aerumnas  meas».  8.  non...  che:  Terenzio  è  più  ric- 
co: «nunquam  destitit  instare  ut  dicerem  me  ducturum  patri;  suadere,  orare...». 


ATTO  QUARTO  4I 

CARINO     È  ita  COSI  la  cosa,  Davo  ? 

DAVO     Sì,  è. 

CARINO  Che  di'  tu,  scelerato  ?  Idio  ti  dia  quel  fine  che  tu 
meriti!  Dimmi  un  poco:  se  tutti  i  suoi  nimici  gli  aves- 
sino  voluto  dare  moglie,  arebbongli  loro  dato  altro  con- 
siglio ? 

DAVO     Io  sono  stracco,  ma  non  lasso'. 

CARINO      Io  lo  so. 

DAVO  E'  non  ci  è  riuscito  per  questa  via,  enterreno'"  per 
una  altra:  se  già  tu  non  pensi  che,  poi  che  la  prima  non 
riusci,  questo  male  non  si  possa  guarire. 

PANFILO  Anzi,  credo  che,  ogni  poco  che  tu  ci  pensi,  che 
d'un  paio  di  nozze  tu  me  ne  farai  dua. 

DAVO  O  Panfilo,  io  sono  obligato  in  tuo  servizio  sfor- 
zarmi con  le  mani  e  co'  pie,  di  e  notte,  e  mettermi  a  pe- 
riculo  della  vita  per  giovarti.  E'  s'appartiene  poi  a  te" 
perdonarmi,  se  nasce  alcuna  cosa  fuora  di  speranza,  e 
s'egli  occorre  cosa  poco  prospera,  perché  io  arò  fatto  il 
meglio  che  io  ho  saputo;  o  veramente  tu  ti  truovi  uno 
altro  che  ti  serva  meglio,  e  lascia  andare  me^^ 

PANFILO  Io  lo  desidero;  ma  rimettimi  nel  luogo  dove  tu 
mi  traesti. 

DAVO     Io  lo  farò. 

PANFILO     Ei  bisogna  ora". 

DAVO     Hem!  Ma  sta'  saldo,  io  sento  l'uscio  di  Glicerio. 

PANFILO     E'  non  importa  a  te. 

DAVO     Io  vo  pensando. 

PANFILO     Hem  ?  or  ci  pensi  ? 

DAVO     Io  l'ho  già  trovato'^ 


9.  Io...  lasso:  cioè,  sono  stanco  per  le  fatiche  dimostratesi  sin  qui  vane:  ma  non 
ancora  da  sentirmi  a  terra.  Ma  il  primo  aggettivo  in  Terenzio  è  «deceptus», 
«ingannato»,  io.  enterreno:  entreremo:  cioè,  tenteremo  un'altra  strada.  1 1 . 
È...  a  te:  Spetterà  poi  a  te:  traduce  letteralmente  il  latino  «tuomst».  12.  e  la- 
scia andare  me:  lascia  pure  che  me  ne  vada.  Terenzio  scrive:  «me  missum  fa- 
ce». 13.  Ei...  ora:  adesso  ce  n'è  bisogno.  14.  lo  l'ho  già  trovato:  il  modo  di 
«rimetter  nel  luogo  dove  lo  trasse»  Panfilo,  cioè  di  fargli  recuperare  le  posi- 
zioni perdute. 


42  ANDRIA 

SCENA  SECONDA 

Miside,  Panfilo,  Carino,  Davo. 


MisiDE  Come  io  l'arò  trovato,  io  procurerò  per  te  e  ne 
merrò  meco  il  tuo  Panfilo;  ma  tu,  anima  mia,  non  ti  vo- 
ler macerare. 

PANFILO     O  Miside! 

MISIDE     Che  è?  O  Panfilo,  io  t'ho  trovato  appunto. 

PANFILO     Che  cosa  è  ? 

MISIDE  La  mia  padrona  mi  ha  comandato  che  io  ti  prie- 
ghi  che,  se  tu  l'ami,  che  tu  la  vadia  a  vedere. 

PANFILO  U!  Ha!  ch'io  son  morto.  Questo  male  rinnuo- 
va'.  Tieni  tu  con  la  tua  opera  cosi  sospeso  me  e  lei?  La 
manda  per  me",  perché  la  sente  che  si  fanno  le  nozze. 

CARINO  Da  le  quali  facilmente  tu  ti  saresti  potuto  aste- 
nere, se  costui  se  ne  fussi  astenuto. 

DAVO     Se  costui  non  è  per  sé  medesimo  adirato,  aizzalo! 

MISIDE  Per  mia  fé,  cotesta  è  la  cagione;  e  però'  è  ella  ma- 
ninconosa. 

PANFILO  Io  ti  giuro,  o  Miside,  per  tutti  gl'Iddei,  che  io 
non  la  abandonerò  mai,  non  se  io  credessi  che  tutti  gli 
uomini  mi  avessino  a  diventare  nimici.  Io  me  la  ho  cer- 
ca, la  mi  è  tocca**;  i  costumi  s'affanno:  morir  possa  qua- 
lunque vuole  che  noi  ci  separiamo!  Costei  non  mi  fia 
tolta  se  non  da  la  morte. 

MISIDE     Io  risucito. 

PANFILO  L'oraculo  d'Apolline  non  è  più  vero  che  que- 
sto. Se  si  potrà  fare  che  mio  padre  creda  che  non  sia 

II.  I.  Questo...  rinnuova:  il  verbo  di  Terenzio  è  «integrascit»,  «rincrudisce». 
Machiavelli,  anche  se  non  escogita  una  soluzione  brillante,  rende  il  senso  del- 
la frase,  cioè:  sono  di  nuovo  in  preda  alla  sventura.  2.  La...  me:  mi  manda  a 
chiamare:  la  costruzione  è  diversa  in  Terenzio:  «Nam  idcirco  accersor».  3.  e 
però:  e  proprio  per  questo:  ancora  più  marcato  il  nesso  in  Terenzio:  «  Atque  ede- 
pol  ea  res  est»:  «E  proprio  questo  il  motivo».  4.  lo...  tocca:  Io  me  la  sono  cer- 
cata, mi  è  toccata.  Il  verbo  in  Terenzio  («contigit»)  ha  un  valore  assoluto:  qua- 
si Panfilo  l'avesse  avuta  in  sorte  per  volere  del  destino. 


ATTO  QUARTO  43 

mancato  per  me  che  queste  nozze  si  faccino,  io  l'arò  ca- 
ro; quanto  che  no,  io  farò  le  cose  alla  abandonata'  e 
vorrò  ch'egli  intenda  che  manchi  da  me.  Chi  ti  paio  io  ? 

CARINO     Infelice  come  me. 

DAVO     Io  cerco  d'un  partito^ 

CARINO     Tu  se'  valente  huomo. 

PANFILO     Io  so  quel  che  tu  cerchi. 

DAVO     Io  te  lo  darò  fatto  in  ogni  modo, 

PANFILO     E'  bisogna  ora. 

DAVO     Io  so  già  quello  che  io  ho  a  fare. 

CARINO     Che  cosa  è  ? 

DAVO  Io  l'ho  trovato  per  costui',  non  per  te,  acciò  che 
tu  non  ti  inganni. 

CARINO     E'  mi  basta. 

PANFILO     Dimmi  quello  che  tu  farai. 

DAVO  Io  ho  paura  che  questo  di  non  mi  basti  a  farlo,  non 
che  mi  avanzi  tempo  a  dirlo^  Orsù,  andatevi  con  Dio: 
voi  mi  date  noia. 

PANFILO     Io  andrò  a  vedere  costei. 

DAVO     Ma  tu  dove  n'andrai? 

CARINO     Vuoi  tu  ch'io  ti  dica  il  vero? 

DAVO     Tu  mi  cominci  una  istoria  da  capo. 

CARINO     Quel  che  sarà  di  me  ? 

DAVO  Eh!  o!  imprudente'!  Non  ti  basta  egli  che,  s'io 
differisco  queste  nozze  uno  dì,  che  io  lo  do  a  te  ? 

CARINO     Nondimeno . . . 

DAVO     Che  sarà? 

CARINO     Ch'io  la  meni. 

DAVO     Uccellacelo  ! 

CARINO     Se  tu  puoi  fare  nulla,  fa'  di  venire  qui. 

DAVO     Che  vuoi  tu  ch'io  venga?  Io  non  ho  nulla... 

CARINO     Pure,  se  tu  avessi  qualche  cosa... 

5.  alla  abandonata:  senza  ritegno.  Machiavelli  ha  ben  inteso?  Terenzio  scrive: 
«in  proclivi  quod  est»;  «in  pendio»  (letteralmente);  cioè:  «per  ciò  che  mi  rie- 
sce facile».  6.  Io ..  .partito:  Sto  cercando  una  qualche  soluzione  possibile  (Da- 
vo sta  riflettendo).  E  la  traduzione  letterale  di  «Consilium  quaero».  7.  perca- 
stui:  cioè,  in  favore  di  Panfilo.  8.  Io...  dirlo:  Temo  che  non  ce  la  farò  in  un 
giorno,  figurati  se  mi  resta  tempo  per  raccontartelo.  9.  imprudente:  Machia- 
velli ha  tradotto  distrattamente.  Infatti,  in  Terenzio  si  legge:  «impudens»,  «im- 
pudente, sfrontato». 


44  ANDRIA 

DAVO     Orsù,  io  verrò! 

CARINO     ...  Io  sarò  in  casa. 

DAVO     Tu,  Miside,  aspettami  un  poco  qui,  tanto  che  io 

peni  a  uscire  di  casa. 
MISIDE     Perché  ? 
DAVO     Cosi  bisogna  fare. 
MISIDE     Fa'presto! 
DAVO     Io  sarò  qui  ora. 


SCENA  TERZA 

Miside,  Davo. 


MISIDE  Veramente  e'  non  ci  è  boccone  del  netto.  O  Idii  ! 
io  vi  chiamo  in  testimonio  che  io  mi  pensavo  che  que- 
sto Panfilo  fussi  alla  padrona  mia  un  sommo  bene,  sen- 
do  amico,  amante  e  uom  parato  a  tutte  le  sua  voglie: 
ma  ella,  misera,  quanto  dolore  piglia  per  suo  amore!  In 
modo  che  io  ci  veggo  dentro  più  male  che  bene'.  Ma 
Davo  esce  fuora.  -  Oimè  !  che  cosa  è  questa  ?  dove  por- 
ti tu  il  fanciullo  ? 

DAVO  O  Miside,  ora  bisogna  che  la  tua  astuzia  e  auda- 
cia sia  pronta. 

MISIDE     Che  vuoi  tu  fare  ? 

DAVO  Piglia  questo  fanciullo,  presto,  e  pòllo^  innanzi 
all'uscio  nostro. 

MISIDE     Interra? 

DAVO  Raccogli  paglia  e  vinciglie*  della  via"*,  e  mettiglie- 
ne sotto. 

MISIDE     Perché  non  fai  tu  questo  da  te  ? 


in.  I.  In  modo...  bene:  un'eco  (anche  se  flebile)  è  forse  ìnM.,  IV,  i,  ni:  «la 
[fortuna  e  la  natura]  non  ti  fa  mai  un  bene,  che,  a  l'incontro,  non  surga  un  ma- 
le». 2.  póllo:  ponilo,  mettilo  (letteralmente,  dal  latino  «adpone»).  3.  vinci- 
glie:  vincigli,  giunchi,  cosi  da  formare,  con  la  paglia,  una  cuna  (è  il  latino  «ver- 
benas»).  4.  della  via:  Terenzio  scriveva:  «ex  ara»,  ma  Machiavelli  non  pote- 
va qui  limitarsi  a  tradurre  se  non  a  rischio  d'anacronismo. 


ATTO  QUARTO  45 

DAVO     Per  potere  giurare  al  padrone  di  non  lo  avere  posto. 

MISIDE  Intendo;  ma  dimmi:  come  se'  tu  diventato  sì  re- 
ligioso ? 

DAVO  Muoviti  presto,  acciò  che  tu  intenda  dipoi  quel 
ch'io  voglio  fare.  O  Giove! 

MISIDE     Che  cosa  è  ? 

DAVO  Ecco  il  padre  della  sposa:  io  voglio  lasciare  il  pri- 
mo partito. 

MISIDE     Io  non  so  che  tu  ti  di'. 

DAVO  Io  fingerò  di  venire  qua  da  man  dritta':  fa'  d'an- 
dare secondando  il  parlare  mio  dovunque  bisognerà*. 

MISIDE  Io  non  intendo  cosa  che  tu  ti  dica;  ma  io  starò 
qui,  acciò,  se  bisognassi  l'opera  mia,  io  non  disturbi  al- 
cuno vostro  commodo. 


SCENA  QUARTA 

Cremete,  Miside,  Davo. 


CREMETE  (Io  ritorno  per  comandare  che  mandino  per 
lei,  poi  che  io  ho  ordinato  tutte  le  cose  che  bisognano 
per  le  nozze...  Ma  questo  che  è?  Per  mia  fé,  ch'egli  è 
un  fanciullo!)  O  donna,  ha'lo  tu  posto  qui? 

MISIDE     (Ove  è  ito  colui  ?) 

CREMETE     Tu  non  mi  rispondi  ? 

MISIDE  (Hei,  misera  a  me!  che  non  è  in  alcun  luogo!  Ei 
mi  ha  lasciata  qui  sola  ed  èssene  ito'.) 

DAVO  O  Dii,  io  vi  chiamo  in  testimonio:  che  romore  è 
egli  in  mercato!  Quanta  gente  vi  piatisce!  E  anche  la 
ricolta  è  cara.  (Io  non  so  altro  che  mi  dire.) 

MISIDE     Perché  mi  hai  tu  lasciata  qui  cosi  sola  ? 


5.  da  man  dritta:  da  destra:  nel  testo  latino,  «ab  dextera».     G.  fa' ...  bisognerà: 
cerca  di  adeguarti  alle  mie  parole,  in  ogni  caso. 

IV.     I.  èssene  ito:  se  ne  è  andato:  letteralmente,  dal  latino  «abiit». 


46  ANDRIA 

DAVO  Hem?  che  favola  è  questa?  O  Miside,  che  fan- 
ciullo è  questo?  Chi  l'ha  recato  qui? 

MISIDE     Se'  tu  impazzato?  Di  che  mi  domandi  tu? 

DAVO     Chi  ne  ho  io  a  dimandare,  che  non  ci  veggo  altri? 

CREMETE     (Io  mi  maraviglio  che  fanciullo  sia  questo^) 

DAVO  Tu  m'hai  a  rispondere  ad  quel  ch'io  ti  domando\ 
Tirati  in  su  la  man  ritta. 

MISIDE     Tu  impazzi:  non  ce  lo  portasti  tu? 

DAVO  Guarda  di  non  mi  dire  una  parola  fuora  di  quello 
che  io  ti  domando. 

MISIDE     Tu  bestemmi^ 

DAVO     Di  chi  è  egli  ?  Di',  ch'ognuno  oda. 

MISIDE     De'  vostri. 

DAVO  Ha  !  ha  !  io  non  mi  maraviglio  se  una  meretrice  non 
ha  vergogna. 

CREMETE     (Questa  fantesca  è  da  Andro',  come  mi  pare.) 

DAVO     Paiamovi  noi  però  uomini  da  essere  cosi  uccellati  ? 

CREMETE     (Io  sono  venuto  a  tempo.) 

DAVO  Presto,  leva  questo  fanciullo  di  qui!  -  Sta'  salda; 
guarda  di  non  ti  partire  di  qui  ! 

MISIDE     Gl'Idii  ti  sprofondino^  in  modo  mi  spaventi! 

DAVO     Dico  io  a  te  o  no  ? 

MISIDE     Che  vuoi  ? 

DAVO  Domandimene  tu  ancora?  Dimmi:  di  chi  è  cote- 
sto bambino  ? 

MISIDE     Noi  sai  tu  ? 

DAVO  Lascia  ire  quel  ch'io  so:  rispondi  a  quello  che  io  ti 
domando. 

MISIDE     E  de'  vostri. 

DAVO     Di  chi  nostri  ? 


2.  mi  maraviglio...  questo:  mi  chiedo  stupito  chi  sia  questo  bimbo.  Ma  Teren- 
zio, con  precisione:  «Miror  onde  sit»:  «Mi  chiedo  stupito  donde  venga».  3. 
Tu...  domando:  Terenzio  era  più  ambiguo  e  divertito:  «Dicturaesquodrogo?»: 
«Risponderai  a  ciò  che  ti  chiedo?»  Eliminando  l'interrogazione,  Machiavelli 
smorza  l'effetto  teatrale.  4.  Tu  bestemmi:  in  Terenzio:  «male  dicis?»:  «mi  in- 
solentisci ?»  Ma  è  Davo,  che,  dopo  i  suggerimenti  a  bassa  voce,  riprende  a  fin- 
gere. Machiavelli,  nel  dare  la  battuta  a  Miside,  ha  frainteso  e  attenuato  il  gio- 
co teatrale.  5.  da  Andro:  ancora  una  volta  Machiavelli  sbaglia.  Nel  latino  c'è: 
«ab  Andriast»:  «della  ragazza  d'Andro».  6.  ti  sprofondino:  Terenzio  ha  scrit- 
to: «eradicent»:  e  neUa  prima  redazione  si  legge  giustamente;  «ti  sbarbino». 


ATTO  QUARTO  47 

MISIDE     Di  Panfilo. 

DAVO     Come  di  Panfilo  ? 

MISIDE     O  perché  no  ? 

CREMETE  (Io  ho  sempre  ragionevolmente'  fuggite  que- 
ste nozze.) 

DAVO     O  sceleratezza  notabile! 

MISIDE     Perché  gridi  tu  ? 

DAVO     Non  vidi  io  che  vi  fu  ieri  recato  in  casa  ? 

MISIDE     O  audacia  d'uomo! 

DAVO     Non  vidi  io  una  donna*  con  uno  involgime'  sotto  ? 

MISIDE  Io  ringrazio  Dio  che,  quando  ella  partorì,  v'in- 
tervennono  molte  donne  da  bene. 

DAVO  Non  so  io  per  che  cagione  si  è  fatto  questo?'".  - 
Se  Cremete  vedrà  il  fanciullo  innanzi  all'uscio,  non  gli 
darà  la  figliuola  !  -  Tanto  più  gliene  darà  egli  ! 

CREMETE     (Non  farà,  per  Dio!) 

DAVO  Se  tu  non  lievi  via  cotesto  fanciullo,  io  rinvolgerò 
te  e  lui  nel  fango". 

MISIDE     Per  Dio,  che  tu  se'  obliàco'^l 

DAVO  L'una  bugia  nasce  da  l'altra.  Io  sento  già  susurra- 
re  che  costei  è  cittadina  ateniese... 

CREMETE     (Heimè!) 

DAVO     ...  e  che,  forzato  da  le  leggi,  la  torrà  per  donna. 

MISIDE     A!  U!  per  tua  fé,  non  è  ella  cittadina? 

CREMETE  (Io  sono  Stato  per  incappare  in  uno  male  da 
farsi  beffe  di  me.) 

DAVO     Chi  parla  qui  ?  O  Cremete,  tu  vieni  a  tempo.  Odi  ! 

CREMETE     Io  ho  udito  Ogni  cosa. 

DAVO     Hai  udito  ogni  cosa? 

CREMETE     Io  ho  udito  Certamente  il  tutto  da  principio. 


7.  ragionevolmente:  in  tutta  ragionevolezza:  è  il  latino  «recte».  8.  una  donna: 
Terenzio  la  nomina  espressamente:  «Cantharam».  Donato  precisa  che  è  nome 
di  vecchia  dalla  bevuta  facile  (l'etimo  greco  vale  bicchiere).  9.  involgime:  in- 
volto sotto  braccio  (sotto),  io.  Non...  questo.^:  Machiavelli  qui  fraintende.  In 
Terenzio  si  legge:  «Ne  illa  illum  haud  novit»:  «E  lei  (Glicerio)  non  sapeva  nul- 
la di  costui  (Cremete)».  1 1.  io...  fango:  Terenzio  gioca  sulle  parole  e  Machia- 
velli non  lo  asseconda:  «Provolvam  teque  ibidem  pervolvam  in  luto»:  «Lo  farò 
rotolare  per  la  via  e  anche  te  avvoltolerò  nel  fango».  12.  ohliacò:  ubriaco:  Te- 
renzio lo  dice  per  negazione:  «Tu  poi  homo  non  es  sobrius». 


48  ANDRIA 

DAVO     Hai  udito,  per  tua  fé?  Ve'  che  sceleratezza!  Egli 

è  necessario  mandare  costei  al  bargello!  -  Questo  è 

quello.  -  Non  credi"  di  uccellare  Davo! 
MisiDE     O  miser'a  me!  O  vecchio  mio,  io  non  ho  detto 

bugia  alcuna. 
CREMETE     Io  SO  Ogni  cosa.  Ma  Simone  è  drento? 
DAVO      È. 
MisiDE     Non  mi  toccare,  ribaldo  !  io  dirò  bene  a  Glicerio 

ogni  cosa. 
DAVO     O  pazzerella!  tu  non  sai  quello  che  si  è  fatto. 
MisiDE     Che  vuoi  tu  che  io  sappia  ? 
DAVO     Costui  è  il  suocero  e  in  altro  modo  non  si  poteva 

fare  che  sapessi  quello  che  noi  volavamo. 
MISIDE     Tu  me  lo  dovevi  dire  innanzi. 
DAVO     Credi  tu  che  vi  sia  differenza,  o  parlare  da  cuore^'*, 

secondo  che  ti  detta  la  natura,  o  parlare  con  arte? 


SCENA  QUINTA 

Crito,  Miside,  Davo. 


CRITO  (E'  si  dice  che  Criside  abitava  in  su  questa  piaz- 
za, la  quale  ha  voluto  più  tosto  aricchire  qui  inonesta- 
mente, che  vivere  povera  onestamente  nella  sua  patria. 
Per  la  sua  morte  i  suoi  beni  ricaggiono'  a  me...  Ma  io 
veggo  chi  io  ne  potrò  domandare.)  Dio  vi  salvi! 

MISIDE  Chi  veggo  io?  È  questo  Crito,  consobrino^  di 
Criside?  Egli  è  esso. 


13.  Non  credi:  preciso,  come  sempre  Terenzio:  «non  te  credas»:  «Non  ti  cre- 
derai...». 14.  da  cuore:  col  cuore,  istintivamente  (secondo  che  ti  detta  la  na- 
tura) o  coll'astuzia,  calcolatamente  {con  arte).  In  Terenzio  la  contrapposizione 
è  tra  «natura»  e  «industria».  Donato  precisa  che  la  sentenza  è  menandrea. 

V.  I.  ricaggiono:  ricadono,  per  via  ereditaria:  è  il  latino  «redierunt».  2.  con- 
sobrino:  cugino,  per  la  precisione  da  parte  di  madre  (da  cum  e  sobrinus,  a  sua 
volta  da  soror,  sorella).  In  Terenzio  la  parola  è  appunto  «sobrinus». 


ATTO  QUARTO  49 

CRITO     O  Miside,  Dio  ti  salvi! 

MisiDE     E  Crito  sia  salvo! 

CRITO     Cosi  Criside,  he? 

MISIDE     Ella  ci  ha  veramente  rovinate. 

CRITO  Voi  che  fate?  In  che  modo  state  qui?  Fate  voi 
bene? 

MISIDE  Oimè!  Noi?  Come  disse  colui:  -  Come  si  può, 
poiché,  come  si  vorrebbe,  non  possiamo. 

CRITO  Glicerio  che  fa  ?  Ha  ella  ancora  trovato  qui  i  suoi 
parenti  ? 

MISIDE     Dio  il  volessi  ! 

CRITO  O  !  non  ancora  ?  Io  ci  sono  venuto  in  male  punto, 
che,  per  mia  fé,  se  io  lo  avessi  saputo,  io  non  ci  arei  mai 
messo  un  piede.  Costei  è  stata  sempre  mai  tenuta*  so- 
rella di  Criside,  e  possiede  le  cose  sua:  ora,  sendo  io  fo- 
restiero, quanto  mi  sia  utile''  muovere  una  lite,  mi  am- 
muniscono  gli  esempli  degli  altri.  Credo  ancora  che  co- 
stei ara  qualche  amico  e  difensore,  perché  la  si  parti  di 
là  grandicella,  che  griderranno  che  io  sia  uno  spione'  e 
che  io  voglia  con  bugie  aquistare  questa  eredità;  oltra 
di  questo,  non  mi  è  lecito  spogliarla. 

MISIDE  Tu  se'  uno  uom  da  bene,  Crito,  e  ritieni'  il  tuo 
costume  antico. 

CRITO  Menami  a  lei,  che  io  la  voglio  vedere,  poiché  io 
sono  qui. 

MISIDE     Volentieri. 

DAVO  (Io  andrò  drieto  a  costoro,  perch'io  non  voglio  che 
in  questo  tempo  il  vecchio  mi  vegga.) 


3.  è  stata...  tenuta:  nell'autografo  (seconda  versione)  c'è  ripetizione  (che  non  c'è 
nel  testo  latino  ed  è  forse  dovuta  ad  una  distrazione  del  Machiavelli).  4.  quan- 
to mi  sia  utile:  è  detto  con  ironia.  In  Terenzio  c'è  un  aggettivo  in  più:  «quam  id 
mihi  sit  facile  atque  utile».  5.  spione:  nella  prima  redazione,  si  legge  questa 
parola  nell'interlinea:  ma  la  prima  scelta  lessicale  del  Machiavelli  era  stata  pap- 
pa, scroccone.  Terenzio  ha  scritto  «sycophantam».  6.  ritieni:  conservi,  man- 
tieni: è  la  traduzione  di  «obtines».  Come  osserva  Donato,  Crito  è  persona  gra- 
ve, modesta,  giusta,  come  si  conviene  alla  persona  ad  catastropham  machinata. 


ATTO  QUINTO 


SCENA  PRIMA 

Cremete,  Simo. 


CREMETE  Tu  hai,  o  Simone,  assai  conosciuta  l'amicitia 
mia  verso  di  te;  io  ho  corsi  assai  pericuH:  fa'  fine'  di 
pregarmi.  Mentre  che  io  pensavo  di  compiacerti,  io  so- 
no stato  per  affogare  questa  mia  figliuola. 

SIMO  Anzi,  ora  ti  priego  io  e  suplico,  o  Cremete,  che  ap- 
pruovi  coi  fatti  questo  benefizio  cominciato  con  le  pa- 
role. 

CREMETE  Guarda  quanto  tu  sia,  per  questo  tuo  deside- 
rio, ingiusto!  E  pure  che  tu  faccia  quello  desideri^  non 
osservi  alcuno  termine  di  benignità  né  pensi  quello  che 
tu  prieghi':  che  se  tu  lo  pensassi,  tu  cesseresti  di  agra- 
varmi'* con  queste  ingiurie. 

SIMO     Con  quali  ? 

CREMETE  Ha  !  domandine  tu  ?  Non  mi  hai  tu  forzato  che 
io  dia  per  donna'  una  mia  figliuola  ad  uno  giovane  oc- 
cupato nello  amore  d'altri  e  alieno  al  tutto  dal  tórre  mo- 
glie ?  E  hai  voluto  con  lo  affanno  e  dolore  della  mia  fi- 
gliuola medicare  il  tuo  figliuolo.  Io  volli,  quando  egli 
era  bene;  ora  non  è  bene;  abbi  pazienza.  Costoro  dico- 
no che  colei  è  cittadina  ateniese  e  ne  ha  auto  uno  fi- 
gliuolo: lascia  stare  noi*. 


I.  1.  fa'  fine:  smettila,  cessa.  Machiavelli  sta  alla  lettera  del  testo  latino:  «fi- 
nem  face».  2.  Epure...  desideri:  Pur  di  far  quello  che  desideri.  3.  non...prìe- 
ghi:  in  Terenzio  leggiamo:  «neque  modum  benignitati'  neque  quid  me  ores  co- 
gitas»:  «non  badi  né  fino  a  che  punto  possa  giungere  la  condiscendenza  né  a 
quel  che  mi  chiedi».  4.  agravarmi:  darmi  peso,  affanno:  è  il  latino  «onera- 
re». 5.  dia  per  donna:  molto  più  ricco  il  latino  di  Terenzio:  «filiam  ut  darem 
in  seditionem  atque  in  incertas  nuptias»:  «a  dare  la  mano  di  mia  figlia  a  rischio 
di  un  matrimonio  scombinato  e  insicuro».  6.  lascia  stare  noi:  lasciaci  in  pace, 
da  parte  (in  latino,  «nos  missos  face»). 


ATTO  QUINTO  5I 

SIMO  Io  ti  priego,  per  lo  amore  di  Dio,  clie  tu  non  cre- 
da a  costoro':  tutte  queste  cose  sono  finte  e  trovate  per 
amore  di  queste  nozze.  Come  fia  tolta  la  cagione  per 
che  fanno  queste  cose,  e'  non  ci  fia  più  scandolo  alcuno. 

CREMETE  Tu  erri:  io  vidi  una  fantesca  e  Davo,  che  si  di- 
cevano villania. 

SIMO     Io  lo  so. 

CREMETE  E  da  dovero*,  perché  nessuno  sapeva  che  io 
fussi  presente. 

SIMO  Io  lo  credo;  ed  è  un  pezzo  che  Davo  mi  disse  che 
volevono  fare  questo,  e  oggi  te  lo  volli  dire,  e  dimenti- 
ca'melo. 


SCENA  SECONDA 

Davo,  Cremete,  Simo,  Dromo. 

DAVO     Ora  voglio  io  stare  con  l'animo  riposato... 

CREMETE     Ecco  Davo  a  te. 

SIMO     Onde  esce  egli  ? 

DAVO  . . .  parte  per  mia  cagione,  parte  per  cagione  di  que- 
sto forestiero. 

SIMO     (Che  ribalderia  è  questa  ?) 

DAVO     Io  non  vidi  mai  uomo  venuto  più  a  tempo  di  questo. 

SIMO     (Chi  loda  questo  scelerato  ?) 

DAVO     Ogni  cosa  è  a  buon  porto. 

SIMO     (Tardo  io  di  parlargli  ?) 

DAVO     (Egli  è  il  padrone:  che  farò  io?) 

SIMO     Dio  ti  salvi,  uom  da  bene! 

DAVO  O  Simone,  o  Cremete  nostro,  ogni  cosa  è  ad  or- 
dine. 


7.  non...  costoro:  qui  Machiavelli  tralascia  di  tradurre  tutto  un  verso:  «quibus 
id  maxume  utilest  illum  esse  quam  deterrumum»:  «cui  è  di  somma  utilità  che 
colui  (Panfilo)  faccia  la  figura  peggiore  possibile».  8.  E  da  dovero:  E  (parla- 
vano) sul  serio,  dicendo  cose  vere:  l'espressione  in  Terenzio  è  particolarmente 
efficace  («vero  voltu»)  e,  nella  sua  pregnanza,  difficilmente  traducibile:  «di 
buzzo  buono». 


52  ANDRIA 

SIMO  Tu  hai  fatto  bene. 

DAVO  Manda  per  lei  a  tua  posta. 

SIMO  Bene  veramente!  e'  ci  mancava  questo!  Ma  ri- 
spondimi: che  faccenda  avevi  tu  quivi? 

DAVO  Io  ? 

SIMO  Sì. 

DAVO  Di'  tu  a  me? 

SIMO  A  te  dich'io. 

DAVO  Io  vi  entrai  ora... 

SIMO  Come  s'io  domandassi  quanto  è  ch'e'  vi  entrò! 

DAVO       ...  col  tuo  figliuolo. 

SIMO     Ho  !  Panfilo  è  dentro  ? 

DAVO     Io  sono  in  su  la  fune*. 

SIMO  Ho!  non  dicesti  tu  ch'egli  avieno  quistione  insie- 
me? 

DAVO     E  hanno. 

SIMO     Come  è  egli  cosi  in  casa  ? 

CREMETE     Che  pensi  tu  che  faccino?  E'  si  azzuffano. 

DAVO  Anzi,  voglio,  o  Cremete,  che  tu  intenda  da  me  una 
cosa  indegna:  egli  è  venuto  ora  uno  certo  vecchio,  che 
pare  uom  cauto  ed  è  di  buona  presenza,  con  uno  volto 
grave  da  prestargli  fede^ 

SIMO     Che  di'  tu  di  nuovo? 

DAVO  Niente  veramente,  se  non  quello  che  io  ho  senti- 
to dire  da  lui:  che  costei*  è  cittadina  ateniese. 

SIMO     O!  Dromo!  Dromo! 

DAVO     Che  cosa  è? 

SIMO     Dromo  ! 

DAVO     Odi  un  poco. 

SIMO     Se  tu  mi  di'  più  una  parola...  Dromo! 

DAVO     Odi,  io  te  ne  priego. 

DROMO     Che  vuoi  ? 


n.  I.  lo...  fune:  È  Simo  che  pronuncia  in  Terenzio  questa  battuta  («Crucior 
miser»),  che  per  altro  Machiavelli  volge  genialmente.  2.  ed  è...  fede:  più  ric- 
co, e  più  poetico,  il  testo  di  Terenzio:  «quom  faciem  videas,  videtur  esse  quan- 
tivis  preti;  tristi'  severitas  inest  in  voltu  atque  in  verbis  fides»:  «Quando  lo  si 
guarda  in  faccia,  sembra  un  galantuomo:  l'aria  è  di  una  verità  malinconica  e  le 
sue  parole  ispirano  fiducia».  3.  che  costei:  questa  risposta  di  Davo  in  Teren- 
zio è  preceduta  e  provocata  da  una  domanda  di  Simo:  «Quid  ait  tandem?». 


ATTO  QUINTO  53 

SIMO     Porta  costui  di  peso  in  casa. 

DROMO      Chi  ? 

SIMO     Davo. 

DROMO     Perché  ? 

SIMO     Perché  mi  piace:  portalo  via! 

DAVO     Che  ho  io  fatto  ? 

SIMO     Portalo  via  ! 

DAVO  Se  tu  truovi  che  io  ti  abbia  dette  le  bugie,  am- 
mazzami. 

SIMO     Io  non  ti  odo.  Io  ti  farò  diventare  destro\ 

DAVO     Egli  è  pure  vero. 

SIMO  Tu  lo  legherai  e  guardera'lo.  Odi  qua,  mettigli  un 
paio  di  ferri:  fallo  ora;  e,  se  io  vivo,  io  ti  mosterrò,  Da- 
vo, innanzi  che  sia  sera,  quello  che  importa'  a  te  in- 
gannare il  padrone,  e  a  colui  il  padre. 

CREMETE     Ha!  non  essere  sì  crudele. 

SIMO  O  Cremete,  non  ti  incresce  egli  di  me  per  la  ribal- 
deria di  costui,  che  ho  tanto  dispiacere  per  questo  fi- 
gliuolo? Orsù,  Panfilo!  Esci,  Panfilo!  Di  che  ti  vergo- 
gni tu  ? 


SCENA  TERZA 

Panfilo,  Simo,  Cremete. 


PANFILO     Chi  mi  vuole?  Oimè!  egli  è  mio  padre. 

SIMO     Che  di'  tu,  ribaldo? 

CREMETE     Digli  come  sta  la  cosa,  sanza  villania. 

SIMO     E'  non  se  gli  può  dire  cosa  che  non  meriti.  Dimmi 

un  poco:  Glicerio  è  cittadina? 
PANFILO     Così  dicono. 


4.  ti...  destro:  lesto,  agile.  Nel  latino  si  legge:  «commotum»:  «ti  metterò  sotto- 
sopra». La  battuta  è  di  Dromo,  in  Terenzio.  5.  quello...  importa:  ciò  che  com- 
porta. Terenzio  è  più  esplicito:  «quid  sit  perieli»,  «quale  rischio  implichi». 


54  ANDRIA 

SIMO  O  gran  confidenza^  !  Forze  che  pensa  quel  che  ri- 
sponde ?  Forse  che  si  vergogna  di  quel  ch'egli  ha  fatto  ? 
Guardalo  in  viso,  e'  non  vi  si  vede  alcuno  segno  di  ver- 
gogna. E  egli  possibile  che  sia  di  sì  corrotto  animo,  che 
voglia  costei  fuora  delle  leggi  e  del  costume  de'  citta- 
dini, con  tanto  obbrobrio  ? 

PANFILO     Misero  a  me  ! 

SIMO  Tu  te  ne  se'  aveduto  ora  ?  Cotesta  parola  dovevi 
tu  dire  già  quando  tu  inducesti  l'animo  tuo  a  fare  in 
qualunque  modo  quello  che  ti  aggradava^:  pure  alla  fi- 
ne ti  è  venuto  detto  quello  che  tu  se'.  Ma  perché  mi 
macero  e  perché  mi  crucio  io  ?  Perché  afliggo  io  la  mia 
vecchiaia  per  la  pazzia  di  costui  ?  Voglio  io  portare  le 
pene  de'  peccati  suoi?  Abbisela,  tengasela,  viva  con 
quella  ! 

PANFILO     O  padre  mio  ! 

SIMO  Che  padre!  Come  che'  tu  babbi  bisogno  di  padre, 
che  hai  trovato'',  a  dispetto  di  tuo  padre,  casa,  moglie, 
figliuoli  e  chi  dice  ch'ella  è  cittadina  ateniese.  Abbi  no- 
me Vinciguerra'. 

PANFILO     Possoti  io  dire  dua  parole,  padre  ? 

SIMO     Che  mi  dirai  tu?'. 

CREMETE     Lascialo  dire. 

SIMO     Io  lo  lascio:  dica! 

PANFILO  Io  confesso  che  io  amo  costei  e,  s'egli  è  male,  io 
confesso  fare  male,  e  mi  ti  getto,  o  padre,  nelle  braccia; 
impommi  che  carico  tu  vuoi:  se  tu  vuoi  che  io  meni  mo- 
glie e  lasci  costei,  io  lo  sopporterò  il  meglio  che  io  po- 
trò. Solo  ti  priego  di  questo,  che  tu  non  creda  che  io  ci 


ni.  1.0  gran  confidenza:  Prima  di  queste  parole,  Simo,  nel  testo  latino,  ripe- 
te iJ  «Cosi  dicono?»  («Ita  praedicant  ?»),  prendendo  in  giro  Panfilo.  2.  quel- 
lo che  ti  aggradava:  nella  prima  redazione  Machiavelli  aveva  tradotto  «quello 
che  tu  desideravi»  (restando  timidamente  aderente  al  latino  «quod  cupe- 
res»).  3.  Come  che:  Qui  vuol  dire:  quasi  che,  come  se  (è  il  latino  «quasi 
tu»).  4.  che  hai  trovato:  tu  che  (già  per  conto  tuo)  hai  trovato.  5.  Abbi...  Vin- 
ciguerra: in  Terenzio  c'è  semplicemente  «viceris»:  «hai  vinto».  Machiavelli  s'ab- 
bandona ad  una  estrosa  (e  lievemente  manieristica)  trovata  traduttoria.  6. 
Che...  tu:  Machiavelli  sopprime  (forse  non  del  tutto  a  torto,  dal  punto  di  vista 
drammaturgico)  due  battute,  che  rallentano  nel  testo  latino  l'azione:  «chre- 
MES     At  tamen,  Simo,  audi.  SIMO     Ego  audiam?  Quid  audiam,  Chreme?» 


ATTO  QUINTO  55 

abbi  fatto  venire  questo  vecchio,  e  sia  contento  ch'io  mi 
iustifichi  e  che  io  lo  meni  qui  alla  tua  presenza. 

SIMO     Che  tu  lo  meni  ? 

PANFILO     Sia  contento,  padre. 

CREMETE     Ei  domanda  il  giusto:  contentalo. 

PANFILO     Compiacimi  di  questo. 

SIMO  Io  sono  contento,  pure  che  io  non  mi  truovi  in- 
gannato da  costui. 

CREMETE  Per  uno  gran  peccato  ogni  poco  di  suplicio  ba- 
sta ad  uno  padre. 


SCENA  QUARTA 

Crito,  Cremete,  Simo,  Panfilo. 

CRITO  Non  mi  pregare;  una  di  queste  cagioni  basta  a  far- 
mi fare  ciò  che  tu  vuoi:  tu,  il  vero  e  il  bene  che  voglio 
a  Glicerio. 

CREMETE     Io  veggo  Critone  Andrio?  Certo  egli  è  desso. 

CRITO     Dio  ti  salvi,  Cremete! 

CREMETE  Che  fai  tu  COSI  oggi,  fuora  di  tua  consuetudi- 
ne, in  Atene? 

CRITO     Io  ci  sono  a  caso.  Ma  è  questo  Simone? 

CREMETE     Questo  è. 

SIMO  Domandi  tu  me  ?'.  Dimmi  un  poco:  di'  tu  che  Gli- 
cerio è  cittadina  ? 

CRITO     Neghilo  tu  ? 

SIMO     Se'  tu  cosi  qua  venuto  preparato  ? 

CRITO     Perché  ? 

SIMO  Domandine  tu  ?  Credi  tu  fare  queste  cose  sanza  es- 
serne gastigato  ?  Vieni  tu  qui  ad  ingannare  i  giovanet- 
ti imprudenti  e  bene  allevati  e  andare  con  promesse  pa- 
scendo l'animo  loro? 

CRITO     Se'  tu  in  te? 


IV.      I.  Domandi  tu  me?:  E  me  lo  chiedi?  (è  il  latino  «Men  quaeris?»):  Simone 
è  convinto  che  Crito  menta  ad  arte. 


56  ANDRIA 

SIMO  E  vai  raccozzando  insieme  amori  di  meretrici  e 
nozze? 

PANFILO  (Heimè  !  io  ho  paura  che  questo  forestiero  non 
si  pisci  sotto^) 

CREMETE  Se  tu  conoscessi  costui,  o  Simone,  tu  non  pen- 
seresti cotesto:  costui  è  uno  buono  huomo. 

SIMO  Sia  buono  a  suo  modo:  debbesegli  credere  ch'egli 
è  appunto'  venuto  oggi  nel  di  delle  nozze  e  non  è  ve- 
nuto prima  mai  ? 

PANFILO  (Se  io  non  avessi  paura  di  mio  padre,  io  gl'in- 
segnerei  la  risposta.) 

SIMO     Spione  ! 

CRiTO     Heimè  ! 

CREMETE     Cosi  è  fatto  costui,  Crito;  lascia  ire. 

CRITO  Sia  fatto  come  e'  vuole,  se  seguita  di  dirmi  ciò  che 
vuole,  egli  udirà  ciò  che  non  vuole:  io  non  prezzo  e  non 
curo  coteste  cose'',  imperò  che  si  può  intendere  se  quel- 
le cose  che  io  ho  dette  sono  false  o  vere,  perché  uno 
ateniese,  per  lo  adrieto,  avendo  rotto  la  sua  nave,  ri- 
mase con  una  sua  figlioletta  in  casa  il  padre'  di  Criside, 
povero  e  mendico. 

SIMO     Egli  ha  ordito  una  favola  da  capo. 

CREMETE     Lascialo  dire. 

CRITO     Impediscemi  egli  cosf  ? 

CREMETE      Seguita. 

CRITO  Colui  che  lo  ricevette  era  mio  parente;  quivi  io 
udi'  dire  da  lui  come  egli  era  cittadino  ateniese;  e  qui- 
vi si  mori. 

CREMETE     Come  aveva  egli  nome  ? 

CRITO     Ch'  io  ti  dica  il  nome  sì  presto?  Fania. 

CREMETE      O!  Hu! 


2.  non  si  pisci  sotto:  nella  prima  redazione,  con  scelta  ancora  più  rude,  «non  si 
cachi  sotto».  Terenzio  aveva  semplicemente  scritto:  «metuo  ut  substet»:  «te- 
mo che  non  resista».  Machiavelli  innesta  una  gag  di  tipo  plautino  nel  tessuto 
terenziano.  3.  appunto:  proprio  a  tempo  (Machiavelli  vorrebbe  così  tradurre 
r«adtemperate»  di  Terenzio).  4.  io  non...  cose:  molto  più  ricco,  nei  passaggi 
intermedi,  Terenzio:  «Ego  istaec  moveo  aut  curo?  Non  tu  tuom  malum  aequo 
animo  feras?»:  «Sono  io  forse  che  animo  e  seguo  questo  affare?  Non  sai  sop- 
portare equamente  la  tua  sfortuna?».  5.  in  casa  il  padre:  in  casa  del  padre.  In 
Terenzio:  «ad  Chrysidis  patrem».     6.  egli  cosi:  sott.:  di  parlare. 


ATTO  QUINTO  57 

CRITO  Veramente  io  credo  ch'egli  avessi  nome  Pania:  ma 
io  so  questo  certo,  eh'  e'  si  faceva  chiamare  Ramnusio^ 

CREMETE     O  Giove  ! 

CRITO  Queste  medesime  cose,  o  Cremete,  sono  state  udi- 
te da  molti  altri  in  Andro. 

CREMETE  (Dio  voglia  che  sia  quello  che  io  credo  !  )  Dim- 
mi un  poco:  diceva  egli  che  quella  fanciulla  fussi  sua? 

CRITO      No. 

CREMETE     Di  chi  dunque  ? 

CRITO     Figliuola  del  fratello, 

CREMETE     Certo,  ella  è  mia. 

CRITO     Che  di'  tu? 

SIMO     Che  di'  tu? 

PANFILO     (Rizza  gli  orecchi,  Panfilo!*). 

SIMO     Che  credi  tu  ? 

CREMETE     Quel  Pania  fu  mio  fratello. 

SIMO     Io  lo  conobbi  e  sòUo. 

CREMETE  Costui,  fuggendo  la  guerra  mi  venne  in  Asia 
drieto,  e,  dubitando  di  lasciare  qui  la  mia  figliuola,  la 
menò  seco;  dipoi  non  ne  ho  mai  inteso  nulla,  se  non  ora. 

PANFILO  L'animo  mio  è  sì  alterato  che  io  non  sono  in  me 
per  la  speranza,  per  il  timore,  per  la  allegrezza,  veg- 
gendo  uno  bene  si  repentino. 

SIMO  Io  mi  rallegro  in  molti  modi  che  questa  tua  si  sia 
ritrovata. 

PANFILO     Io  lo  credo,  padre. 

SIMO  Ma  e'  mi  resta  uno  scrupolo  che  mi  fa  stare  di  ma- 
la voglia. 

PANFILO  Tu  meriti  di  essere  odiato  con  questa  tua  reli- 
gione'. 

CRITO     Tu  cerchi  cinque  pie  al  montone'"! 


7.  Ramnusio:  veramente  Terenzio  scrive:  «Rhamnusium  se  aiebat  esse»:  «di- 
ceva d'essere  del  demo  di  Ramnunte»,  un  demo  dell'Attica.  8.  Rizza...  Pan- 
filo! :  si  pensa  subito  al  «Rizza  gli  orecchi,  Cleandro!  »  della  C,  IV,  2.  9.  Tu... 
religione:  il  senso  è:  meriteresti  d'essere  odiato  per  questi  tuoi  scrupoli  (Ma- 
chiavelli trascrive  quasi,  senza  troppo  ingegnarsi  Terenzio:  «cum  tua  religio- 
ne»). IO.  Tu  cerchi...  montone:  era  modo  di  dire  popolare,  per  significare  la 
pignoleria  spinta  all'assurdo  (in  Terenzio:  «Nodum  in  scirpo  quaeris»:  «cerchi 
il  nodo  nel  giunco»,  cioè  «cerchi  il  pelo  nell'uovo»).  Ma  il  proverbio  era  già  in 
Plauto  ed  Ennio. 


58  ANDRIA 

CREMETE     Che  cosa  è? 

SIMO     II  nome  non  mi  riscontra". 

CRITO     Veramente  da  piccola  la  si  chiamò  altrimenti. 

CREMETE     Come,  Crito?  Ricorditene  tu? 

CRITO     Io  ne  cerco. 

PANFILO  (Patirò  io  che  la  svemorataggine  di  costui  mi 
nuoca,  potendo  io  per  me  medesimo  giovarmi?)  O 
Cremete,  che  cerchi  tu?  La  si  chiamava  Passibula, 

CRITO     La  è  essa! 

CREMETE     La  è  quella  ! 

PANFILO     Io  gliene  ho  sentito  dire  mille  volte. 

SIMO  Io  credo  che  tu,  o  Cremete,  creda  che  noi  siamo 
tutti  allegri". 

CREMETE     Cosi  mi  aiuti  Idio,  come  io  lo  credo. 

PANFILO     Che  manca,  o  padre?". 

SIMO     Già  questa  cosa  mi  ha  fatto  ritornare  nella  tua  grazia. 

PANFILO  O  piacevole  padre!  Cremete  vuole  che  la  sia 
mia  moglie,  come  la  è! 

CREMETE     Tu  di'  bene,  se  già  tuo  padre  non  vuole  altro". 

PANFILO     Certamente. 

SIMO     Cotesto. 

CREMETE     La  dota  di  Panfilo  voglio  che  sia  dieci  talenti. 

PANFILO     Io  l'accetto. 

CREMETE  Io  vo  a  trovare  la  figliuola.  O  Crito  mio,  vie- 
ni meco,  perché  io  non  credo  che  la  mi  riconosca. 

SIMO     Perché  non  la  fai  tu  venire  qua  ? 

PANFILO  Tu  di'  bene:  io  commetterò  a  Davo  questa  fac- 
cenda. 

SIMO     Ei  non  può. 

PANFILO     Perché  non  può  ? 

SIMO     Egli  ha  uno  male  di  più  importanza". 


1 1 .  non  mi  riscontra:  le  ultime  tre  battute,  quest'ultima  compresa,  sono  affida- 
te da  Terenzio,  nell'ordine,  a  Panfilo,  Crito,  Cremete.  12.  lo  credo...  allegri: 
Cremete,  ora  puoi  essere  convinto  che  noi  siamo  tutti  allegri.  Questo  il  senso 
della  costruzione,  tipicamente  machiavelliana.  13.  Che...  padre?:  Qui  Ma- 
chiavelli propriamente  fraintende  il  testo  di  Terenzio:  «Quod  restat,  pater...»: 
«Quanto  al  rimanente,  o  padre...».  14.  non  vuole  altro:  il  senso  è:  non  ha  al- 
tre intenzioni.  In  Terenzio:  «nisi  quid  pater  ait  aliud».  15.  Egli...  importan- 
za: Machiavelli  semplifica  di  molto  questa  battuta  e  la  involgarisce.  In  Teren- 


ATTO  QUINTO  59 

PANFILO     Che  cosa  ha  ? 

SIMO     Egli  è  legato. 

PANFILO     O  padre,  ei  non  è  legato  a  ragione. 

SIMO     Io  volli  cosi". 

PANFILO     Io  ti  priego  che  tu  faccia  che  sia  sciolto. 

SIMO     Che  si  sciolga! 

PANFILO     Fa' presto! 

SIMO     Io  vo  in  casa. 

PANFILO     O  allegro  e  felice  questo  di! 


SCENA  QUINTA 

Carino,  Panfilo. 


CARINO  (Io  torno  a  vedere  quel  che  fa  Panfilo...  Ma  ec- 
colo !  ) 

PANFILO  Alcuno  forse  penserà  che  io  pensi  che  questo 
non  sia  vero,  ma  e'  mi  pare  pure  che  sia  vero\  Però  cre- 
do io  che  la  vita  degli  Iddei  sia  sempiterna,  perché  i  pia- 
ceri loro  non  sono  mai  loro  tolti:  perché  io  sarei,  sanza 
dubio,  immortale,  se  cosa  alcuna  non  sturbassi  questa 
mia  allegrezza.  Ma  chi  vorrei  sopra  ogni  altro  riscon- 
trare^ per  narrargli  questo  ? 

CARINO     (Che  allegrezza  è  questa  di  costui  ?) 

PANFILO  Io  veggo  Davo;  non  è  alcuno  che  io  desideri  ve- 
dere più  di  lui,  perché  io  so  che  solo  costui  si  ha  a  ral- 
legrare da  dovero  della  allegrezza  mia. 


zio  leggiamo:  «Quia  habet  aliud  magis  ex  sese  et  maiu'»:  «Perché  ha  altro  che 
gli  preme,  e  che  lo  occupa  ancora  di  più,  dal  suo  punto  di  vista».  i6.  Io  volli 
cosi:  Simo  dice  veramente,  in  risposta  al  «recte»  di  Panfilo:  «Haud  ita  lussi»: 
«Non  comandai  cosi».  Terenzio  gioca  su  quel  «recte»,  che  può  voler  dire  «be- 
ne, a  regola  d'arte»  ed  anche  «bene,  secondo  giustizia». 

V.  I.  e'  mi  pare...  vero:  nel  testo  latino  leggiamo:  «at  mihi  nunc  sic  esse  ve- 
rum  lubet»:  «ma  a  me  piace  che  sia  vero».  Ed  è  una  sfumatura,  questa  della 
gioia  interiore  e  per  ora  solitaria  di  Panfilo,  che  ÌVIachiavelli  non  si  preoccupa 
di  rendere.  2.  riscontrare:  incontrare.  Terenzio  è  più  sottile:  «mihi...  dari»: 
«avere  qui...  per  me». 


6o  ANDRIA 

SCENA  SESTA 

Davo,  Panfilo,  Carino. 


DAVO     Panfilo  dove  è  ? 
PANFILO     O  Davo  ! 
DAVO     Chi  è  ? 

PANFILO       Io  sono. 

DAVO     O  Panfilo  ! 

PANFILO     Ha!  tu  non  sai  quello  mi  è  accaduto. 

DAVO  Veramente  no:  ma  io  so  bene  quello  che  è  acadu- 
to a  me. 

PANFILO     Io  lo  so  anch'io. 

DAVO  Egli  è  usanza  degli  uomini'  che  tu  abbi  prima  sa- 
puto il  male  mio  che  io  il  tuo  bene. 

PANFILO     La  mia  Glicerio  ha  ritrovato  suo  padre. 

DAVO     O!  la  va  bene. 

CARINO     (Hem  ?) 

PANFILO     II  padre  è  grande  amico  nostro. 

DAVO     Chi  ? 

PANFILO     Cremete. 

DAVO     Di'  tu  il  vero? 

PANFILO     Né  ci  è  più  dificultà  di  averla  io  per  donna^ 

CARINO  (Sogna  costui  quelle  cose  ch'egli  ha  vegghiando 
volute  ?) 

PANFILO     Ma  del  fanciullo,  o  Davo? 

DAVO     Ha!  sta'  saldo:  tu  se'  solo  amato  dagl'  Idii. 

CARINO  (Io  sono  franco',  se  costui  dice  il  vero.  Io  gli  vo- 
glio parlare.) 

PANFILO  Chi  è  questo?  O  Carino!  Tu  ci  se'  arrivato  a 
tempo. 


VI.  I.  Egli...  uomini:  cioè,  è  consuetudine  tra  gli  uomini,  succede  spesso.  Do- 
nato spiega  la  battuta  malinconica  di  Davo:  «perché  la  fama  del  male  corre  più 
veloce  di  queUa  del  bene».  2.  per  donna:  per  moglie.  3.  Io  sono  franco:  Sono 
salvo  (il  latino  è  «Salvo'  sum»):  nel  senso  che  può  godere  anche  lui  delle  nozze. 


ATTO  QUINTO  6l 

PANFILO     Olla  va  bene. 

PANFILO     O  !  hai  tu  udito  ? 

CARINO  Ogni  cosa.  Or  fa'  di  ricordarti  di  me  in  queste 
tua  prosperità.  Cremete  è  ora  tutto  tuo,  e  so  che  farà 
quello  che  tu  vorrai. 

PANFILO  Io  lo  so;  e  perché  sarebbe  troppo  aspettare 
ch'egli  uscissi  fuora,  seguitami,  perch'egli  è  in  casa  con 
Glicerio.  Tu,  Davo,  vanne  in  casa  e  sùbito  manda  qua 
chi  la  meni  via.  Perché  stai?  perché  non  vai?\ 

DAVO  O  voi,  non  aspettate  che  costoro  eschino  fuora'. 
Drento  si  sposerà^  e  drento  si  farà  ogni  altra  cosa  che 
mancassi.  Andate,  al  nome  di  Dio,  e  godete! 


4.  Perché...  vai?:  È  un  topos  del  teatro  latino  quello  di  incitare  il  compagno  ad 
uscire  di  scena,  mentre  questi  si  appresta  a  recitare  le  battute  di  congedo.  5. 
o  voi...  fuora:  Era  costume  latino,  in  chiusura,  rompere  le  barriere  della  fin- 
zione per  rivolgersi,  da  pari  a  pari,  agli  spettatori.  6.  Drento  si  sposerà:  viene 
spontaneo  pensare  a  C,  V,  6,  199:  «...  sanza  uscir  più  fuora,  si  ordineranno  le 
nuove  nozze...». 


Mandragola 


Canzone 

da  dirsi  innanzi  alla  commedia,  cantata  da  ninfe  e  pastori 

insieme 

Perché  la  vita  è  brieve 
e  molte  son  le  pene 
che  vivendo  e  stentando  ognun  sostiene, 

dietro  alle  nostre  voglie, 
andiam  passando  e  consumando  gli  anni; 
che,  chi  il  piacer  si  toglie 
per  viver  con  angosce  e  con  affanni, 
non  conosce  gli  inganni 
del  mondo;  o  da  quai  mali 
e  da  che  strani  casi 
oppressi  quasi  sian  tutti  i  mortali. 

Per  fuggir  questa  noia, 
eletta  solitaria  vita  abbiamo', 
e  sempre  in  festa  e  in  gioia, 
giovin  leggiadri^  e  liete  ninfe,  stiamo. 
Or  qui  venuti  siamo, 
con  la  nostra  armonia^ 
sol  per  onorar  questa 
sì  lieta  festa  e  dolce  compagnia. 

Ancor  ci  ha  qui  condotti 
il  nome  di  colui  che  vi  governa'*, 
in  cui  si  veggon  tutti 


CANZONE.  Per  questa  canzone,  e  per  i  quattro  intermezzi  successivi,  rimandia- 
mo il  lettore  a  quanto  detto  nell'introduzione  (p.  XLiv). 

I.  eletta...  abbiamo:  abbiamo  scelto  di  vivere  non  tanto  in  solitudine,  quanto 
lontano  daOe  angosce  e  dagli  affanni  del  mondo.  2 .  giovin  '  leggiadri:  sono  i  pa- 
stori del  coro.  3.  con  la  nostra  armonia:  con  la  nostra  musica  coralmente  e  ar- 
moniosamente eseguita.  4.  ilnome...  governa:  è  Francesco  Guicciardini,  allo- 
ra presidente  delle  Romagne. 


66  MANDRAGOLA 

i  beni  accolti  in  la  sembianza  eterna'. 

Per  tal  grazia  superna, 

per  SI  felice  stato, 

potete  lieti  stare, 

godere  e  ringraziare  chi  ve  lo  ha  dato^. 


PROLOGO 

Idio  vi  salvi,  benigni  auditori, 
quando  e'  par  che  dependa 
questa  benignità  da  lo  esser  grato*. 
Se  voi  seguite  di  non  far  romori, 
noi  vogliàn  che  s'intenda 
un  nuovo  caso  in  questa  terra  nato^ 
Vedete  l'apparato^ 
qual  or  vi  si  dimostra: 
quest'è  Firenze  vostra, 
un'altra  volta  sarà  Roma  o  Pisa, 
cosa  da  smascellarsi  delle  risa. 

Quello  uscio  che  mi  è  qui  in  sulla  man  ritta'' 
la  casa  è  d'un  dottore 
che  imparò  in  sul  Buezio'  legge  assai; 
quella  via  che  è  colà  in  quel  canto  fitta^ 


5.  in  cui...  etema:  nel  quale  si  ravvisano  tutte  le  virtù  adunate  in  Dio.  É  un'iper- 
bole poco  «machiavellica»,  ribadita  da  quel  superna  che  segue.  6.  chi  ve  lo  ha 
dato:  papa  Clemente  VII  (Giulio  de'  Medici),  che  nel  '23  aveva  nominato  il 
Guicciardini  alla  presidenza  (o  governatorato)  delle  Romagne,  con  l'incarico  di 
tenere  a  freno  i  potentati  locali. 

PROLOGO.  I.  quando  e'  par...  grato:  dal  momento  che  il  vostro  benigno  at- 
teggiamento sembra  dimostrare  che  lo  spettacolo  vi  è  gradito.  2.  in  questa 
terra  nato:  accaduto  in  questa  città.  3.  l'apparato:  la  scenografia.  4.  in  sul- 
la man  ritta:  sulla  destra.  L'attore  che  recitava  il  prologo  indicava  e  spiegava 
ai  benigni  auditori,  com'era  allora  consuetudine,  secondo  il  modello  della  com- 
media latina,  ogni  particolare  della  scena.  5.  Buezio:  Anicio  Manlio  Severi- 
no Boezio  (480  ca.  -  524),  il  filosofo  e  letterato  consigliere  di  Teodorico  e  da 
lui  messo  a  morte:  qui  evocato,  in  apparenza,  come  maestro  di  diritto,  forse 
per  il  folto  lavoro  di  commentatore  e  traduttore  di  vari  classici  greci;  ma,  in 
sostanza,  per  l'evidente  associazione  fonica  con  hue,  secondo  la  più  schietta 
tradizione  burchiellesca.  6.  che...  fitta:  «che  è  figurata  in  quell'angolo  della 
scena»  (Gaeta). 


PROLOGO  67 

è  la  via  dello  Amore, 

dove  chi  casca  non  si  rizza  mai'. 

Conoscer  poi  potrai 

a  l'abito  d'un  frate 

qual  priore  o  abate 

abita  el  tempio  che  all'incontro  è  posto^ 

se  di  qui  non  ti  parti  troppo  tosto. 

Un  giovane,  Callimaco  Guadagno, 
venuto  or  da  Parigi 
abita  là,  in  quella  sinistra'  porta; 
costui,  fra  tutti  gli  altri  buon  compagno'*^, 
a'  segni  ed  a'  vestigi" 
l'onor  di  gentilezza  e  pregio  porta. 
Una  giovane  accorta 
fu  da  lui  molto  amata 
e  per  questo  ingannata 
fu,  come  intenderete,  ed  io  vorrei 
che  voi  fussi  ingannate  come  lei'\ 

La  favola  «Mandragola»*'  si  chiama: 
la  cagion  voi  vedrete 
nel  recitarla,  com'i'  m'indovino'''. 
Non  è  il  componitor  di  molta  fama: 
pur  se  vo'  non  ridete 
egli  è  contento  di  pagarvi  il  vino. 


7.  dove...  mai:  mi  sembra  evidente  l'allusione  erotica  di  quel  cascare  e  rizzare, 
che  non  vedo  per  altro  còlta  da  nessun  editore  moderno.  8.  el  tempio...  posto: 
la  chiesa  che  sorge  sull'angolo  opposto.  «Il  tempio  è  indeterminato;  ma  l'abito 
è  molto  probabilmente  quello  dei  Servi,  coi  quali  il  Machiavelli  ce  l'aveva  più 
fitta»  (Guerri).  9.  sinistra:  della  casa  posta  a  sinistra,  io.  buon  compagno: 
come  ha  suggerito  Raimondi,  Poi,  185,  Machiavelli  stesso,  in  una  sua  lettera 
(5  gennaio  1514),  glossa  indirettamente  questo  termine  in  tutta  la  sua  pre- 
gnanza: «...  chi  è  stimato  uomo  da  bene  e  che  vaglia,  ciò  che  e'  fa  per  allarga- 
re l'animo  e  vivere  lieto,  gli  arreca  onore  e  non  carico,  e  in  cambio  di  essere 
chiamato  buggerone  o  puttaniere,  si  dice  che  è  universale,  alla  mano  e  buon 
compagno  ...».  11.  a'  segni  ed  a'  vestigi:  «a  giudicarlo  dall'immagine  e  dalla 
prima  impressione»  (Berardi).  12.  che  voi...  come  lei:  quel  voi  è  rivolto  alle 
spettatrici,  con  una  nuova  allusione  erotica  (AV inganno  di  Lucrezia).  13.  «Man- 
dragola»: mandragola  (o  mandragora)  è  un'erba  delle  solanacee  alle  cui  bacche 
si  attribuivano  capacità  erotizzanti.  -  Quanto  alla  formula,  il  Martelli  {Vers., 
211)  ricorda  giustamente  VHccyra  di  Terenzio  (Prologo):  «Hecyra  est  huic  no- 
men  fabulae».      14.  comi'  m' indovino:  a  quanto  credo  di  prevedere. 


68  MANDRAGOLA 

Un  amante  meschino, 

un  dottor  poco  astuto, 

un  frate  mal  vissuto, 

un  parassito  di  malizia  il  cucco" 

fie  questo  giorno  el  vostro  badalucco". 

E  se  questa  materia  non  è  degna, 
per  esser  pur  leggieri, 
d'un  uom  che  voglia  parer  saggio  e  grave, 
scusatelo  con  questo,  che  s'ingegna 
con  questi  van'  pensieri 
fare  el  suo  tristo  tempo^'  più  suave, 
perché  altrove  non  havè 
dove  voltare  el  viso, 
che  gli  è  stato  interciso'* 
mostrar  con  altre  imprese  altra  virtue, 
non  sendo  premio  alle  fatiche  sue. 

El  premio  che  si  spera''  è  che  ciascuno 
si  sta  da  canto  e  ghigna, 
dicendo  mal  di  ciò  che  vede  o  sente. 
Di  qui  depende  sanza  dubbio  alcuno 
che  per  tutto  traligna 
da  l'antica  virtù  el  secol  presente: 
imperò  che  la  gente 
vedendo  ch'ognun  biasima 
non  s'affatica  e  spasima^" 
per  far  con  mille  sua  disagi  un'opra 
che  '1  vento  guasti  o  la  nebbia  ricuopra^'. 

Pur  se  credessi  alcun  dicendo  male 
tenerlo  pe'  capegli 
e  sbigottirlo  o  ritirarlo  in  parte, 
io  l'ammonisco  e  dico  a  questo  tale 


15.  di  malizia  il  cucco:  il  cocco,  il  prediletto  della  malizia.  16.  badalucco:  sva- 
go («tenere  a  badalucco,  tenere  a  bada,  trattenere,  da  cui  trattenimento,  ecc.» 
[Berardi]).  17.  el  suo  tristo  tempo:  la  sua  dolorosa  condizione  di  vita  attuale. 
Si  pensa  a  quel  verso  òé[V Asino  d'oro,  I,  7-8:  «...  si  perché  questa  grazia  non 
s'impetra  I  in  questi  tempi...».  18.  interciso:  bruscamente  vietato,  precluso 
(dal  latino  intercidere,  troncare).  19.  El  premio  che  si  spera:  ancora  un'autoci- 
tazione  àzW Asino  d'oro,  I,  io:  «Né  cerco  averne  prezzo,  premio  o  mer- 
to...».  20.  spasmo:  s'impegna  sino  allo  spasimo.  21.  Che...  ricuopra:  «che  il 
vento  e  la  nebbia  della  maldicenza  non  avvolgano»  (Raimondi). 


PROLOGO  69 

che  sa  dir  male  anch'egli 

e  come  questa  fu  la  suo  prim'arte; 

e  come  in  ogni  parte 

del  mondo,  ove  el  sì  sona", 

non  istima  persona, 

ancor  che  facci  sergieri"  a  colui 

che  può  portar  miglior  mantel  che  lui. 

Ma  lasciam  pur  dir  male  a  chiunque  vòle: 
torniamo  al  caso  nostro, 
acciò  che  non  trapassi  troppo  l'ora; 
far  conto  non  si  de'  delle  parole 
né  stimar  qualche  mostro^'' 
che  non  sa  forse  s'  e'  s'è  vivo  ancora. 
Callimaco  esce  fuor  a" 
e  Siro  con  seco  ha, 
suo  famiglio,  e  dirà 
l'ordin  di  tutto:  stia  ciascuno  attento, 
né  per  ora  aspettate  altro  argumento. 


22.  in  ogni  parte...  sona:  in  tutte  le  città  d'Italia  (Dante,  Inf.,  XXXIII,  80-81: 
«le  genti  I  del  bel  paese  là  dove  '1  si  suona»).  23.  ancor...  sergieri:  l'interpre- 
tazione corrente  era:  «anche  se  si  dice  servo».  Il  Martelli,  Vers.,  210,  legge  ser- 
gieri nel  senso  di  «inchini,  salamelecchi»:  la  frase  suonerebbe  perciò:  «anche  se 
ostenti  i  propri  inchini...».  24.  mostro:  scioccone.  «Anche  questa  è  una  face- 
zia dei  rimatori  burleschi»  (Guerri).  25.  Callimaco  escefuora:  di  qui  alla  chiu- 
sa -  lo  ha  osservato  il  Martelli,  Vers.,  211  -  Machiavelli  ebbe  probabilmente 
presente  un  analogo  passo  dagli  Adelphoe  (Prologo,  22-24):  «Dehinc  ne  expec- 
tetis  argumentum  fabulae:  I  senes  qui  primi  venient,  ii  partem  aperient,  I  in 
agendo  partem  ostendent». 


ATTO  PRIMO 


SCENA  PRIMA 

Callimaco,  Siro. 


CALLIMACO     Siro,  non  ti  partire.  Io  ti  voglio'  un  poco. 

SIRO     Eccomi. 

CALLIMACO  Io  credo  che  tu  ti  maravigliassi  assai  della 
mia  sùbita^  partita  da  Parigi,  ed  ora  ti  maraviglierai, 
sendo  io  stato  qui  già  un  mese  sanza  fare  alcuna  cosa. 

SIRO     Voi  dite  el  vero. 

CALLIMACO  Se  io  non  ti  ho  detto  infino  a  qui  quello  che 
io  ti  dirò  ora,  non  è  stato  per  non  mi  fidare  di  te,  ma 
per  iudicare'  che  le  cose  che  l'uomo  vuole  non  si  sap- 
pino  sia  bene  non  le  dire  se  non  forzato.  Pertanto,  pen- 
sando io  di  potere  avere  bisogno  della  opera  tua,  ti  vo- 
glio dire  el  tutto. 

SIRO  Io  vi  sono  servidore:  e'  servi  non  debbono  mai  do- 
mandare e  padroni  d'alcuna  cosa  né  cercare"  alcuno  lo- 
ro fatto,  ma  quando  per  loro  medesimi  la  dicano  debbo- 
no servirgli  con  fede;  e  così  ho  fatto  e  sono  per  fare  io. 

CALLIMACO  Già  lo  SO.  lo  credo  che  tu  mi  abbi  sentito  di- 
re mille  volte,  -  ma  e'  non  importa  che  tu  lo  intenda 
mille  una,  -  come  io  avevo  dieci  anni  quando  da  e  mia 
tutori,  sendo  mio  padre  e  mia  madre  morti,  io  fui  man- 
dato a  Parigi,  dove  io  sono  stato  venti  anni.  E  perché 
in  capo  de'  dieci'  cominciorono,  per  la  passata  del  re 
Carlo',  le  guerre  in  Italia,  le  quali  ruinorono  questa  pro- 
vincia^  delibera'mi  di  vivermi  a  Parigi  e  non  mi  ripa- 


I.  I.  ti  voglio:  sott.:  qui  con  me.  Il  Borsellino,  Roz-,  127,  collega,  giustamen- 
te, questa  battuta  ad  analoga  nell'/l.,  1,5:  «Tu,  Sosia,  fatti  in  qua,  io  ti  voglio 
parlare  uno  poco».  2.  sì^bita:  improvvisa.  ^.  per iudicare:  perché  ritengo.  4. 
cercare:  indagare  su.  5.  in  capo  de'  dieci:  di  li  a  dieci  anni.  6.  del  re  Carlo:  di 
Carlo  Vili,  sceso  in  Italia  nel  1494.     7.  provincia:  qui  sta  per  paese,  nazione. 


72  MANDRAGOLA 

triare  mai,  giudicando  potere  in  quello  luogo  vivere  più 
sicuro  che  qui. 

SIRO     E'  gli  è  cosi. 

CALLIMACO  E  commesso  di  qua  che*  fussino  venduti  tut- 
ti e  mia  beni,  fuora  che  la  casa,  mi  'ndussi  a  vivere  qui- 
vi, dove  sono  stato  dieci  altri  anni  con  una  felicità  gran- 
dissima... 

SIRO     Io  lo  so. 

CALLIMACO  ...  avendo  compartito'  el  tempo  parte  alli 
studii,  parte  a'  piaceri  e  parte  alle  faccende,  ed  in  mo- 
do mi  travagliavo'"  in  ciascuna  di  queste  cose,  che  l'una 
non  mi  impediva  la  via  dell'altra,  e  per  questo,  come  tu 
sai,  vivevo  giustissimamente,  giovando  a  ciascuno  ed 
ingegnandomi  di  non  offendere  persona.  Talché  mi  pa- 
reva essere  grato  a'  borghesi,  a'  gentiluomini,  al  fore- 
stiero, al  terrazzano",  al  povero  ed  al  ricco. 

SIRO     E'  gli  è  la  verità. 

CALLIMACO  Ma,  parendo  alla  Fortuna  che  io  avessi  trop- 
po bel  tempo,  fece  che  e'  capitò  a  Parigi  uno  Cammil- 
lo  Calfucci. 

SIRO     Io  comincio  a  'ndovinarmi  del  mal  vostro. 

CALLIMACO  Costui,  come  li  altri  fiorentini,  era  spesso 
convitato  da  me,  e  nel  ragionare  insieme'^  accadde  un 
giorno  che  noi  venimo  in  disputa  dove  erano  più  belle 

8.  E  commesso  di  qua  che:  «essendo  stato  imposto»  (Raimondi);  ma  mi  sembra 
sia  da  interpretare:  «e  avendo  affidato  (ad  altri  di  qua,  cioè  rimasti  in  Italia,  a 
Firenze)  l'incarico  di...».  Del  resto,  nella  stessa  accezione  il  verbo  è  usato  alla 
fine  di  quest'atto  (ni,  80):  El  dottore  mi  ha  commesso  che  io  truovi  un  medi- 
co... 9.  compartito:  diviso,  io.  mi  travagliavo:  mi  impegnavo  (non  c'è,  nel 
verbo,  sfumatura  negativa).  C'è  più  di  un'eco,  nel  racconto  autobiografico  di 
Callimaco,  di  quello  di  Simo  a  Sosia,  relativo  ai  trascorsi  del  figlio,  nell'/l.,  I, 
i:  «...  di  quelle  cose  che  fanno  la  maggior  parte  de'  giovanetti,  di  volgere  l'ani- 
mo a  qualche  piacere,  come  è  nutrire  cavagli,  cani,  andare  allo  Studio,  non  ne 
seguiva  più  una  che  un'altra,  ma  in  tutte  si  travagliava  mediocremente;  di  che 
io  mi  rallegravo...».  Lo  ha  osservato  il  Borsellino,  Roz,  127.  11.  al  terrazza- 
no: paesano,  nativo  del  paese,  contrapposto  z  forestiero.  12.  e,  nel  ragionare 
insieme:  come  era  già  stato  osservato,  e  come  ha  ribadito  a  suo  tempo  il  Rai- 
mondi, Poi,  179-81,  il  racconto  di  Callimaco  echeggia  un  passo  della  boccac- 
ciana  novella  di  Lodovico,  madonna  Beatrice,  Egano  de'  Galluzzi  (Decameron, 
VII,  7):  «E  quivi  dimorando,  avvenne  che  certi  cavalieri  li  quali  tornati  erano 
dal  Sepolcro,  sopravvenendo  ad  un  ragionamento  di  giovani,  nel  quale  Lodo- 
vico era,  e  udendo  fra  sé  ragionare  delle  belle  donne  di  Francia  e  d'Inghilterra 


ATTO  PRIMO  73 

donne,  o  in  Italia  o  in  Francia.  E  perché  io  non  pote- 
vo ragionare  delle  italiane,  sendo  si  piccolo"  quando  mi 
parti',  alcun  altro  fiorentino  che  era  in  presenzia,  pre- 
se la  parte  franzese'",  e  Cammillo  la  italiana.  E  dopo 
molte  ragione  assegnate  da  ogni  parte,  disse  Cammil- 
lo, quasi  che  irato,  che,  se"  tutte  le  donne  italiane  fus- 
sino  monstri,  che  una  sua  parente  era  per  riavere" 
l'onore  loro. 

SIRO     Io  sono  or  chiaro  di  quello  che  voi  volete  dire. 

CALLIMACO  E  nominò  madonna  Lucrezia,  moglie  di  mes- 
ser  Nicla  Calfucci,  alla  quale  e'  détte  tante  laude  e  di 
bellezza  e  di  costumi,  che  fece  restare  stupidi  qualun- 
que di  noi;  ed  in  me  destò  tanto  desiderio  di  vederla 
che  io,  lasciato  ogni  altra  deliberazione^'  né  pensando 
più  alle  guerre  o  alle  pace  d'Italia,  mi  mossi  a  venire 
qui**:  dove  arrivato  ho  trovato  la  fama  di  madonna  Lu- 
crezia essere  minore  assai  che  la  verità''  -  il  che  occor- 
re^" rarissime  volte  -,  e  sommi  acceso  in  tanto  deside- 
rio d'esser  seco  che  io  non  truovo  loco. 

SIRO  Se  voi  me  n'avessi  parlato  a  Parigi,  io  saprei  che 
consigliarvi;  ma  ora  non  so  io  che  mi  dire. 

CALLIMACO  Io  non  ti  ho  detto  questo  per  volere  tua  con- 
sigli, ma  per  sfogarmi  in  parte,  e  perché  tu  prepari  l'ani- 
mo '  adiutarmi  dove  el  bisogno  lo  ricerchi^'. 

e  d'altre  parti  del  mondo,  cominciò  l'uno  di  loro  a  dire  che  per  certo  di  quan- 
to mondo  egli  aveva  cerco  e  di  quante  donne  vedute  aveva  mai,  una  simiglian- 
te  alla  moglie  d'Egano  de'  Galluzzi  di  Bologna,  madonna  Beatrice  chiamata, 
veduta  non  avea  di  bellezza...».  13.  piccolo:  in  tenera  età.  Aveva,  come  ha 
precisato,  dieci  anni.  14.  Za  parte  franzese:  la  difesa  delle  belle  donne  di  Fran- 
cia. 15.  se:  anche  se.  16.  riavere:  riscattare.  17.  ed  in  me...  deliberazione: 
anche  Lodovico,  nella  citata  novella  decameroniana,  «s'accese  in  tanto  deside- 
rio di  doverla  vedere,  che  ad  altro  non  poteva  tenere  il  suo  pensiero...».  18. 
mi  messi  a  venire  qui:  mi  disposi  a  venir  qui  e,  nell'atto  stesso  di  deciderlo,  qua- 
si mi  misi  in  viaggio.  C'è,  nell'espressione,  una  mirabile  «economia».  19.  ho 
trovato...  verità:  troviamo  ancora  una  rispondenza,  abbastanza  puntuale,  nel  te- 
sto boccacciano  appena  citato:  «...  e  troppo  più  bella  gli  parve  assai  che  stima- 
to non  avea...».  20.  occorre:  accade.  21.  Io  non...  ricerchi:  Raimondi,  Poi., 
183,  ha  riscontrato  una  notevole  analogia  tra  questa  battuta  di  Callimaco  ed 
una  del  Machiavelli,  in  una  lettera  al  Vettori  (io  giugno  1514):  «Io  non  vi  scri- 
vo questo,  perché  io  voglia  che  voi  pigliate  per  me  o  disagio  o  briga,  ma  solo 
per  sfogarmene,  e  per  non  vi  scrivere  di  più  di  questa  materia,  come  odiosa 
quanto  ella  può...»  -  L'espressione  dove  el  bisogno  lo  ricerchi  vale  «dove  la  ne- 
cessità lo  esiga». 


74  MANDRAGOLA 

SIRO  A  cotesto  son  io  paratissimo".  Ma  che  speranza  ci 
avete  voi  ? 

CALLIMACO     Eimè!  nessuna. 

SIRO     O  perché  ? 

CALLIMACO  Dirotti.  In  prima  mi  fa  guerra"  la  natura  di 
lei,  che  è  onestissima  ed  al  tutto  aliena  dalle  cose  d'amo- 
re^'*; l'avere  el  marito  ricchissimo,  e  che  al  tutto  si  la- 
scia governare  da  lei,  e,  se  non  è  giovane  non  è  al  tut- 
to vecchio,  come  pare";  non  avere  parenti  o  vicini,  con 
chi  ella  convenga  'alcuna  vegghia"  o  festa,  o  ad  alcun 
altro  piacere  di  che  si  sogliono  dilettare  le  giovane;  del- 
le persone  meccaniche^'  non  gliene  capita  a  casa  nessu- 
na; non  ha  fante  né  famiglio  che  non  triemi  di  lei,  in 
modo  che  non  c'è  luogo^*  ad  alcuna  corruzione. 

SIRO     Che  pensate,  adunque,  di  poter  fare  ? 

CALLIMACO  E'  non  è  mai  alcuna  cosa  si  disperata  che  non 
vi  sia  qualche  via  da  potere  sperare";  e  benché  la  fussi 
debole  e  vana,  la  voglia  e  '1  desiderio  che  l'uomo  ha  di 
condurre  la  cosa  non  la  fa  parer  cosi. 

SIRO     Infine,  che  vi  fa  sperare  ? 

CALLIMACO  Dua  cose:  l'una,  la  semplicità"*  di  messer  Ni- 
cla, che,  benché  sia  dottore",  e'  gli  è  el  più  semplice  ed 
el  più  sciocco  uomo  di  Firenze;  l'altra,  la  voglia  che  lui 
e  lei  hanno  d'aver  figliuoli,  che,  sendo  stata  sei  anni  a 
marito  e  non  avendo  ancora  fatti,  ne  hanno,  sendo  ric- 
chissimi, un  desiderio  che  muoiono.  Un'altra  c'è,  che 
la  sua  madre  è  suta  buona  compagna":  ma  la  è  ricca,  ta- 
le che  io  non  so  come  governarmene. 


22.  paratissimo:  prontissimo.  23.  mi  fa  guerra:  mi  combatte:  mi  è,  in  sostan- 
za, contraria.  24.  ed  al...  d'amore:  Raimondi,  Poi,  174,  ha  accostato  questa 
clausola  ad  analoga  già  nell'/l.,  V,  i:  «alieno  al  tutto  dal  tórre  moglie».  25. 
come  pare:  a  quanto  sembra.  Di  questa  precisazione  anagrafica,  non  hanno  te- 
nuto molto  conto  vari  moderni  registi.  26.  vegghia:  veglia.  27.  meccaniche: 
letteralmente,  tutte  le  persone  che  si  prestavano  a  lavori  manuali  o  servili:  ar- 
tigiani, lavoranti.  28.  «o«  c'è /«o^o:  non  c'è  possibilità.  29.  E'  none  mai... 
sperare:  è  assai  probabile  -  come  il  Martelli,  Vers.,  211,  suggerisce  -  che  agi- 
sca sul  Machiavelli  un'eco  terenziana  (Heautontimorumenos,  675):  «Nihil  tam 
difficile  est  quin  quaereundo  investigari  possiet».  30.  semplicità:  semplicio- 
neria. 3r.  dottore:  come  ha  già  accennato  nel  prologo,  in  legge.  32.  buona 
compagna:  qui,  con  connotazione  spregiativa,  donna  di  allegra  vita,  e  facili  co- 
stumi. 


ATTO  PRIMO  75 

SIRO  Avete  voi,  per  questo,  tentato  per  altra  via"  cosa 
alcuna  ? 

CALLIMACO     Si  ho,  ma  piccola  cosa'^ 

SIRO     Come  ? 

CALLIMACO  Tu  conosci  Ligurio,  che  viene  continua- 
mente a  mangiar  meco.  Costui  fu  già  sensale  di  matri- 
moni; dipoi  s'è  dato  a  mendicare  cene  e  desinari.  E 
perché  gli  è  piacevol  uomo,  messer  Nicla  tiene  con  lui 
una  stretta  dimestichezza  e  Ligurio  l'uccella";  e  ben- 
ché non  lo  meni  a  mangiare  seco,  li  presta^^  alle  volte 
danari.  Io  me  lo  son  fatto  amico  e  gli  ho  comunicato 
el  mio  amore:  lui  m'ha  promesso  d'aiutarmi  colle  ma- 
ni e  co'  pie". 

SIRO  Guardate  e'  non  v'inganni:  questi  pappatori'*  non 
sogliono  avere  molta  fede. 

CALLIMACO  E'  gli  è  vero.  Nondimeno,  quando  una  cosa 
fa  per  uno",  si  ha  a  credere,  quando  tu  gliene  commetti, 
che  ti  serva  con  fede.  Io  gli  ho  promesso,  quando  e'  rie- 
sca, donarli  buona  somma  di  danari;  quando  e'  non  rie- 
sca, ne  spicca"*"  un  desinare  ed  una  cena,  che  ad  ogni 
modo  i'  non  mangerei  solo. 

SIRO     Che  ha  egli  promesso,  insino  a  qui,  di  fare  ? 

CALLIMACO  Ha  promesso  di  persuadere  a  messer  Nicla 
che  vada  con  la  sua  donna  al  bagno"**  in  questo  maggio. 

SIRO     Che  è  a  voi  cotesto  ?■*^ 

CALLIMACO  Che  è  a  me?  Potrebbe  quel  luogo  farla  di- 
ventare d'un'altra  natura,  perché  in  simili  lati"*'  non  si 
fa  se  non  festeggiare.  Ed  io  me  n'andrei  là  e  vi  con- 


33.  per  altra  via:  con  altri  espedienti.  34.  ma  piccola  cosa:  ma  si  è  trattato  di 
un  modesto  tentativo.  35.  l'uccella:  lo  beffa  (di  continuo).  36.  li  presta:  gli 
presta.  Il  soggetto  è  Nicia.  37.  con  le  mane  e  co'  pie:  «in  tutte  le  maniere,  in- 
somma, con  tutte  le  sue  forze»  (Raimondi).  Già  in  /!.:  «so  che  si  sforza  con  le 
mani  e  co'  pie  fare  ogni  male»  (I,  i)  e  «io  sono  obligato  in  tuo  servizio  sfor- 
zarmi con  le  mani  e  co'  pie»  (IV,  i).  Lo  ha  osservato  il  Raimondi,  Poi., 
11},.  38.  pflppd^orr:  parassiti  (letteralmente:  mangioni  a  sbafo).  },C).  quando... 
per  uno:  quando  un  affare,  una  pratica  fa  al  caso  di  qualcuno,  gli  giova  sul  se- 
rio (il /a  è  qui  pregnante).  40.  ne  spicca:  ne  tira  fuori,  come  guadagno.  41. 
al  bagno:  alle  cure  termali,  in  qualche  località  rinomata.  42.  Che  è  a  voi  cote- 
sto?: «di  quale  vantaggio  è  per  voi  questo?»  (Blasucci).  43.  in  simili  lati:  m 
ambienti  del  genere,  in  posti  simili. 


76  MANDRAGOLA 

durrei  di  tutte  quelle  ragion  piaceri  che  io  potessi,  né 
lascerei  indrieto  alcuna  parte  di  magnificenzia;  fare'mi 
familiar  suo,  del  marito...  Che  so  io?  Di  cosa  nasce  co- 
sa, e  '1  tempo  la  governa. 

SIRO     E'  non  mi  dispiace. 

CALLIMACO  Ligurio  si  parti  questa  mattina  da  me  e  dis- 
se che  sarebbe  con  messer  Nicla  sopra  questa  cosa'"',  e 
me  ne  risponderebbe. 

SIRO     Eccogli  di  qua  insieme. 

CALLIMACO  Io  mi  vo'  tirare  da  parte  per  essere  a  tempo 
a  parlar  con  Ligurio  quando  si  parte'*'  dal  dottore.  Tu 
intanto,  ne  va'  in  casa  alle  tue  faccende,  e,  se  io  vorrò 
che  tu  faccia  cosa  alcuna,  io  te  '1  dirò. 

SIRO     Io  vo"*'. 


SCENA  SECONDA 

Messer  Nicla,  Ligurio. 


NiciA  Io  credo  che  e  tua  consigli  sien  buoni,  e  parla'ne 
iersera  alla  donna':  disse  che  mi  risponderebbe  oggi. 
Ma,  a  dirti  el  vero,  io  non  ci  vo  di  buone  gambe^ 

LIGURIO     Perché  ? 

NiciA  Perché  io  mi  spicco  mal  volentieri  da  bomba\  Di- 
poi, l'avere  a  travasare  moglie,  fante,  masserizia,  ella 
non  mi  quadra^  Oltre  a  questo,  io  parlai  iersera  a  pa- 


44.  sopra  questa  cosa:  per  parlar  di  questo.  45.  si  parte:  si  stacca.  46.  Io  vo: 
Raimondi,  Poi,,  177-78,  ha  notato  come  «il  dialogo  d'informazione  tra  Calli- 
maco e  Siro,  oltre  ad  assorbire  i  nuclei  di  materia  terenziana...,  ritrascrive  nel- 
la sua  parte  centrale  la  partitura,  la  segmentazione  ritmica  di  quello  tra  Simo  e 
Sosia»,  in  A.,  I,  i. 

II.  I.  alla  donna:  a  mia  moglie.  2.  di  buone  gambe:  volentieri.  3.  mi  spic- 
co... da  bomba:  mi  stacco  mal  volentieri  da  casa  mia.  «Bomba  era  detto  il  luo- 
go da  cui  si  partiva  e  dove  si  ritornava  nel  gioco  del  pomo,  simile  all'odierno 
gioco  di  guardie  e  ladri»  (Blasucci).  Ritorna  il  verbo  spiccare  per  la  terza  volta, 
nel  giro  di  poche  battute.  4.  non  mi  quadra:  si  diceva  anche:  «mi  va  storta»: 
non  mi  piace. 


ATTO  PRIMO  77 

recchi  medici.  L'uno  dice  che  io  vadia  a  San  Filippo; 
l'altro  alla  Torretta;  e  l'altro  alla  Villa'.  E'  mi  paiono 
parecchi  uccellacci*!  E  a  dirti  el  vero,  questi  dottori  di 
medicina  non  sanno  quello  che  si  pescano'. 

LiGURio  E'vi  debbe  dar  briga^  quello  che  vo'  dicesti  pri- 
ma, perché  voi  non  séte  uso  a  perdere  la  Cupola  di  ve- 
duta'. 

NiciA  Tu  erri.  Quando  io  ero  più  giovane,  io  sono  stato 
molto  randagio:  e'  non  si  fece  mai  la  fiera  a  Prato  che 
io  non  vi  andassi;  ed  e'  non  c'è  Castel  veruno  all'intor- 
no, dove  io  non  sia  stato.  E  ti  vo'  dir  più  là:  io  sono  sta- 
to a  Pisa  ed  a  Livorno,  o  va'  ! 

LiGURio     Voi  dovete  avere  veduto  la  carrucola  di  Pisa. 

NiciA     Tu  vói  dire  la  Verucola'". 

LiGURio  Ah!  SI,  la  Verucola.  A  Livorno  vedesti  voi  el 
mare? 

NiciA     Ben  sai  che  io  lo  vidi! 

LiGURio     Quanto  è  egli  maggior  che  Arno  ? 

NiciA  Che  Arno?  egli  é  per  quattro  volte...  per  più  di 
sei,  per  più  di  sette...  mi  farai  dire.  E'  non  si  vede  se 
non  acqua,  acqua,  acqua,  acqua. 

LiGURio  Io  mi  maraviglio  adunque,  avendo  voi  pisciato 
in  tante  neve'\  che  voi  facciate  tanta  difficultà  d'an- 
dare ad  uno  bagno. 


5.  San  Filippo...  Porretta...  Villa:  sono  alcuni  luoghi  termali,  frequentati  dalla 
buona  borghesia  fiorentina.  6.  uccellacci:  stupidoni  (era  frequente  anche  la 
forma  uccellone).  7.  non  sanno...  Pescano:  non  sanno  spiegarsi  nulla:  come  il 
pescatore  che  non  sa  neppure  cos'ha  pescato.  8.  dar  briga:  dar  fastidio,  esser- 
vi di  impaccio.  9.  a  perdere...  veduta:  a  perder  di  vista  la  Cupola  di  Santa  Ma- 
ria del  Fiore:  ad  allontanarvi  da  Firenze,  io.  la  Verucola:  «il  monte  Verruca, 
a  est  della  città,  sulla  cui  cima  nel  Duecento  fu  costruita  una  rocca;  cosi  deno- 
minato per  la  sua  forma  caratteristica»  (Blasucci).  -  Il  Vanossi,  Sit.,  35,  ricor- 
da un  analogo  scambio  di  battute  tra  Bruno  e  il  maestro  Simone  da  Villa  (De- 
cameron, Vili,  9):  «O  maestro  mio  -  diceva  Bruno  -  io  non  me  ne  meraviglio, 
che  io  ho  bene  udito  dire  che  Porcograsso  e  Vannacenna  non  ne  dicon  nulla. 
Disse  il  maestro:  -  Tu  vuoi  dire  Ipocrasso  e  Avicenna».  1 1.  pisciato...  neve: 
«lasciato  il  segno  su  tanti  luoghi»  (Guerri):  fuor  di  metafora:  visitato  tanti  pae- 
si. -  Il  Vanossi,  Sit.,  37,  suggerisce  un  accostamento  alla  sessantaquattresima 
novella  del  Trecentonovelle  del  Sacchetti:  «Va'  va',  che  ora  sarai  tu  messo  nel 
sacco  de'  priori,  che  n'ha'  pisciato  cotanti  maceroni». 


78  MANDRAGOLA 

NiciA  Tu  hai  la  bocca  piena  di  latte'^  e'  ti  pare  a  te  una 
favola,  avendo  a  sgominare"  tutta  la  casa?  Pure,  io  ho 
tanta  voglia  d'aver  figliuoli  che  io  son  per  fare  ogni  co- 
sa. Ma  parla  un  po'  tu  con  questi  babuassi'^  vedi  dove 
e'  mi  consigliassino  che  io  andassi;  ed  io  sarò  intanto 
con  la  donna,  e  ritroverrenci. 

LiGURio     Voi  dite  bene. 


SCENA  TERZA 

Ligurio,  Callimaco. 


LiGURio  Io  non  credo  che  sia  nel  mondo  el  più  sciocco 
uomo  di  costui;  e  quanto'  la  fortuna  lo  ha  favorito!  lui 
ricco,  lei  bella  donna,  savia,  costumata,  ed  atta  al  go- 
vernare un  regno.  E  parmi  che  rare  volte  si  verifichi 
quel  proverbio  ne'  matrimoni  che  dice:  «Dio  fa  gli  uo- 
mini, e'  s'appaionoS>.  Perché  spesso  si  vede  uno  uomo 
ben  qualificato^  avere  una  bestia"*,  e  per  avverso  una 
prudente  donna  avere  un  pazzo.  Ma  della  pazzia  di  co- 
stui se  ne  cava  questo  bene,  che  Callimaco  ha  che  spe- 
rare. Ma  eccolo.  Che  vai  tu  appostando',  Callimaco? 

CALLIMACO  Io  t'avevo  veduto  col  dottore  ed  aspettavo 
che  tu  ti  spiccassi  da  lui  per  intendere  quello  avevi  fatto. 

LIGURIO  Egli  è  uno  uomo  della  qualità  che  tu  sai,  di  po- 
ca prudenzia,  di  meno  animo,  e  partesi  malvolentieri 
da  Firenze.  Pure,  io  ce  l'ho  riscaldato  e  mi  ha  detto  in- 


12.  hai...  latte:  Nicla  parla  per  proverbi,  frasi  fatte,  luoghi  comuni.  Qui  vuol 
dire:  «Sei  ingenuo  come  un  bambino»  (Gaeta).  13.  sgominare:  mettere  sotto- 
sopra: prima  ha  parlato  di  travasare,  cioè  traslocare,  con  tutto  il  disordine  che 
ciò  comporta.      14.  babuassi:  babbei. 

ni.  I.  e  quanto:  in  quell'e  è  celata  un'avversativa:  eppure  quanto...  2.  e'  s'ap- 
paiono: essi  si  accoppiano  fra  loro.  «Dio  li  fa,  poi  li  accoppia»,  si  dice  ancor  og- 
gi. 3.  ben  qualificato:  dotato  di  molte  qualità,  contrapposto  a  bestia;  cosi  co- 
me prudente  si  contrappone  a  pazzo.  4.  avere  una  bestia:  avere  in  sorte,  dalla 
fortuna,  appunto.     5.  appostando:  spiando  di  nascosto  alla  posta. 


ATTO  PRIMO  79 

fine  che  farà  ogni  cosa:  e  credo  che,  quando  e'  ci  piac- 
cia questo  partito^  che  noi  ve  lo  condurreno.  Ma  io  non 
so  se  noi  ci  f areno  el  bisogno  nostro. 

CALLIMACO     Perché  ? 

LiGURio  Che  so  io?  Tu  sai  che  a  questi  bagni  va  d'ogni 
qualità  gente,  e  potrebbe  venirvi  uomo  a  chi  madonna 
Lucrezia  piacessi  come  a  te,  che  fussi  ricco  più  di  te,  che 
avessi  più  grazia  di  te:  in  modo'  che  si  porta  pericolo  di 
non  durare*  questa  fatica  per  altri,  e  che  c'intervenga 
che  la  copia  de'  concorrenti  la  faccino  più  dura',  o  che, 
dimesticandosi'",  la  si  volga  ad  un  altro  e  non  a  te. 

CALLIMACO  Io  conosco  che  tu  di'  el  vero:  ma  come  ho  a 
fare  ?  che  partito"  ho  a  pigliare  ?  dove  mi  ho  a  volgere  ? 
A  me  bisogna  tentare  qualche  cosa:  sia  grande,  sia  pe- 
ricolosa, sia  dannosa,  sia  infame.  Meglio  è  morire  che 
vivere  così.  Se  io  potessi  dormire  la  notte,  se  io  potes- 
si mangiare,  se  io  potessi  conversare,  se  io  potessi  pi- 
gliare piacere  di  cosa  veruna,  io  sarei  più  paziente  ad 
aspettare  el  tempo.  Ma  qui  non  c'è  rimedio.  E,  se  io 
non  sono  tenuto  in  speranza  da  qualche  partito,  i'  mi 
morrò  in  ogni  modo.  E,  veggendo  d'avere  a  morire,  non 
sono  per  temere  cosa  alcuna,  ma  per  pigliare  qualche 
partito  bestiale,  crudele,  nefando. 

LiGURio  Non  dire  cosi.  Raffrena  cotesto  impeto  dello 
animo. 

CALLIMACO  Tu  vedi  bene  che,  per  raffrenarlo,  io  mi  pa- 
sco di  simili  pensieri:  e  però  è  necessario  o  che  noi  se- 
guitiamo'^ di  mandare  costui  al  bagno,  o  che  noi  entra- 
no per  qualche  altra  via,  che  mi  pasca  d'una  speranza, 
se  non  vera,  falsa  almeno,  per  la  quale  io  nutrisca  un 
pensiero  che  mitighi  in  parte  tanti  mia  affanni. 


6.  ti  piaccia  questo  partito:  ti  piaccia  prendere  questa  strada,  imboccare  questa 
via.  7.  epotrebbe...  in  modo...  :  Raimondi,  Poi.,  185,  ha  accostato  questo  pas- 
saggio ad  analogo  in  una  lettera  del  Vettori  (9  febbraio  15 14)  al  Machiavelli: 
«...  avevo  a  pensare  che,  come  piaceva  a  me,  piacerebbe  ancora  a  altri  e  d'al- 
tra qualità  non  sono  io,  in  modo...».  8.  si  porta...  di  non  durare:  si  corre  il  ri- 
schio di  sopportare  (la  costruzione  è  alla  latina).  9.  piti  dura:  è  Lucrezia:  inac- 
cessibile, e  perciò  più  aspra  da  conquistare,  io.  dimesticandosi:  divenendo  do- 
mestica, affabile,  trattabile.  11.  partito:  risoluzione.  12.  seguitiamo:  persi- 
stiamo (come  abbiamo  già  cominciato)  nel  progetto  di... 


8o  MANDRAGOLA 

LiGURio     Tu  hai  ragione,  ed  io  sono  per  farlo. 

CALLIMACO  Io  lo  credo,  ancora  che  io  sappia  che  e  pari 
tuoi  vivino  di  uccellare''  li  uomini.  Nondimanco  io  non 
credo  essere  in  quel  numero,  perché,  quando  tu  el  fa- 
cessi, ed  io  me  ne  avvedessi,  cercherei  valermene"*:  e 
perderesti  per  ora  l'uso  della  casa  mia,  e  la  speranza  di 
avere  quello  che  per  lo  avvenire  t'ho  promesso. 

LiGURio  Non  dubitare  della  fede  mia,  che,  quando  e'  non 
ci  fussi  l'utile  che  io  sento  e  che  io  spero,  e'  c'è  che  '1 
tuo  sangue  si  confà  col  mio'',  e  desidero  che  tu  adem- 
pia questo  tuo  desiderio  presso  a  quanto''  tu.  Ma  la- 
sciamo ir  questo.  El  dottore  mi  ha  commesso  che  io 
truovi  un  medico,  e  intenda  a  quale  bagno  sia  bene  an- 
dare. Io  voglio  che  tu  faccia  a  mio  modo,  e  questo  è  che 
tu  dica  di  avere  studiato  in  medicina  e  che  abbi  fatto  a 
Parigi  qualche  sperienzia:  lui  è  per  crederlo  facilmen- 
te, per  la  semplicità  sua  e  per  essere  tu  litterato  e  po- 
terli dire  qualche  cosa  in  gramatica'\ 

CALLIMACO     A  che  ci  ha  a  servire  cotesto  ? 

LiGURio  Serviracci  a  mandarlo  a  qual  bagno  vorreno'*,  ed 
a  pigliare  qualche  altro  partito  che  io  ho  pensato,  che 
sarà  più  corto,  più  certo,  più  riuscibile  che  '1  bagno. 

CALLIMACO     Che  di' tu? 

LiGURio  Dico  che,  se  tu  arai  animo  e  se  tu  confiderai  in 
me,  io  ti  do  questa  cosa  fatta  innanzi  che  sia  domani 
questa  otta".  E  quando  e'  fussi  uomo,  che  non  è,  da  ri- 
cercare se  tu  se'  o  non  se'  medico,  la  brevità  del  tem- 
po, la  cosa  in  sé  farà  o  che  non  ne  ragionerà  o  che  non 
sarà  a  tempo  a  guastare  el  disegno  quando  bene  e'  ne 
ragionassi. 


13.  uccellare:  qui,  più  clie  «beffare»  ,  vale  propriamente  «ingannare».  14.  valer- 
mene: rivaiermene:  in  altri  termini,  vendicarmi.  15.  che  7...  mio:  che  corre 
tra  me  e  te  una  misteriosa,  profonda  affinità  (e  complicità).  Raimondi,  Poi,  175, 
accosta  questa  battuta  alla  formula  «i  costumi  s'affanno»  dell'/l.,  IV,  2.  16. 
presso  a  guanto:  quasi  quanto.  17.  in  gramatica:  cioè,  in  latino.  18.  vorreno: 
vorremo.  19.  innanzi--,  otta:  prima  della  stessa  ora  di  domani.  La  comedia  si 
svolge  in  una  giornata,  come  ribadisce  Timoteo  nella  chiusa  del  quarto  atto  (IV, 
X,  126). 


ATTO  PRIMO  8l 

CALLIMACO  Tu  mi  risuciti^°:  questa  è  troppa  gran  pro- 
messa, e  pascimi  di  troppa  gran  speranza.  Come  farai? 

LiGURio  Tu  el  saprai  quando  e'  fia  tempo:  per  ora  non 
occorre  che  io  te  '1  dica,  perché  el  tempo  ci  mancherà 
a  fare,  non  che  dire^'.  Tu  vanne  in  casa  e  quivi  m'aspet- 
ta", ed  io  andrò  a  trovare  el  dottore:  e  se  io  lo  condu- 
co a  te,  andrai  seguitando  el  mio  parlare  ed  accomo- 
dandoti a  quello. 

CALLIMACO  Così  farò,  ancora  che  tu  mi  riempia  d'una 
speranza  che  io  temo  non  se  ne  vadia  in  fumo. 


Canzone 
dopo  il  primo  atto 

Chi  non  fa  pruova,  Amore, 
della  tua  gran  possanza,  indarno  spera 
di  far  mai  fede  vera' 
qual  sia  del  cielo  il  più  alto  valore; 
ne  sa  come  si  vive,  insieme,  e  muore, 
come  si  segue^  il  danno  e  '1  ben  si  fugge, 
come  s'ama  se  stesso 
men  d'altrui,  come  spesso 
timore  e  speme  i  cori  agghiaccia  e  strugge'; 
né  sa  come  ugualmente  uomini  e  dei 
paventan"*  l'arme  di  che  armato  sei. 


20.  Tu  mi  risuciti:  Raimondi,  Poi.,  174,  ricorda  il  «Tu  m'hai  risucitato»  dell'/I., 
II,  1 .  21.  perché...  dire:  meno  conciso  e  teatralmente  efficace,  era  stato  il  Ma- 
chiavelli in  /!.,  IV,  2:  «Io  ho  paura  che  questo  di  non  mi  basti  a  farlo,  non  che 
mi  avanzi  tempo  adirlo».  Lo  ha  notato  il  Raimondi,  Poi,  175.  22.  Tu...  aspet- 
ta: ancora  un'eco  dairi4.,  Ili,  2:  «Vanne  in  casa  e  quivi  mi  aspetta...»,  evi- 
denziata dal  Raimondi,  Poi,  174. 

CANZONE.  I.  di  far...  vera:  di  poter  sperimentare  sul  serio.  2.  segue:  con  valo- 
re intensivo:  si  insegue.  3.  agghiaccia  e  strugge:  agghiaccia  ed  arde  (sono  i  ver- 
bi del  timore  e  della  speme).     4.  paventati:  temono. 


ATTO  SECONDO 


SCENA  PRIMA 

Ligurie,  messer  Nicia,  Siro. 


LiGURio  Come  io  vi  ho  detto,  io  credo  che  Iddio  ci  ab- 
bia mandato  costui'  perché  voi  adempiate  el  desiderio 
vostro.  Egli  ha  fatto  a  Parigi  esperienzie  grandissime, 
e  non  vi  maravigliate  se  a  Firenze  e'  non  ha  fatto  pro- 
fessione dell'arte^  che  n'è  suto  cagione,  prima,  per  es- 
sere ricco;  secondo,  perché  egli  è  ad  ogni  ora  per  tor- 
narsi a  Parigi. 

NICIA  Ormai,  frate  sì,  cotesto'  bene  importa,  perché  io 
non  vorrei  che  mi  mettessi  in  qualche  lecceto'*  e  poi  mi 
lasciassi  in  sulle  secche. 

LiGURio  Non  dubitate  di  cotesto.  Abbiate  solo  paura  che 
non  voglia  pigliare  questa  noia';  ma,  e'  la  piglia,  e'  non 
è  per  lasciarvi  infino  che  non  ne  veda  la  fine. 

NICIA  In  cotesta  parte  io  mi  vo'  fidare  di  te;  ma  della 
scienzia  io  ti  dirò  bene  io,  come  io  gli  parlo,  se  gli  è  uo- 
mo di  dottrina,  perché  a  me  non  venderà  egli  vesciche^ 

LiGURio  E  perché  io  vi  conosco,  vi  meno  io  a  lui  acciò  li 
parliate.  E  se,  parlato  li  avete,  e'  non  vi  pare  per  pre- 
senzia, per  dottrina,  per  lingua  uno  uomo  da  metterli 
il  capo  in  grembo',  dite  che  io  non  sia  desso. 


I.  I .  costui:  è,  come  si  capisce  subito,  Callimaco.  La  scena  si  apre  a  dialogo  già 
avviato.  2.  dell'arte:  dell'arte  sua,  quella  di  medico.  3.  cotesto:  è  proprio  que- 
sto, cioè  il  fatto  che  possa  partirsene  da  un  momento  all'altro  (ad  ogni  ora)  per 
Parigi,  che  è  molto  importante  [bene  importa).  4.  mi...  lecceto:  mi  cacciasse  in 
qualche  pasticcio  (da  lecceto,  bosco  basso  e  folto  di  lecci,  da  cui  ci  si  districa  a 
fatica).  La  metafora  ritorna  in  C,  V,  2:  «...  e  di  me,  che  sono,  per  tuo  amore, 
entrato  in  questo  lecceto».  5.  pigliare  questa  noia:  occuparsi  di  questo  «ca- 
so». 6.  non...  vesciche:  non  venderà  egli  fumo  (le  vesciche  sono  enfiate 
d'aria).  7.  da...  grembo:  da  affidarglisi  con  piena  fiducia;  come  il  fanciullo  fa 
con  la  madre,  riponendole,  appunto,  il  capo  in  grembo.  Raimondi,  Poi,  183, 


ATTO  SECONDO  83 

NiciA  Or  sia,  col  nome  dell'Agnol  santo,  andiamo.  Ma 
dove  sta  egli  ? 

LiGURio  Sta  in  su  questa  piazza,  in  quello  uscio  che  voi 
vedete  al  dirimpetto  a  noi. 

NiciA     Sia  con  buona  ora:  picchia. 

LiGURio     Ecco  fatto. 

SIRO     Ghie? 

LiGURio     Evi  Callimaco? 

SIRO     Si,  è. 

NiciA     Che  non  di'  tu:  maestro  Callimaco*? 

LiGURio     E'  non  si  cura  di  simil  boria. 

NICIA  Non  dir  cosi;  fa'  '1  tuo  debito',  e,  s'è'  l'ha  per  ma- 
le, scingasi^". 


SCENA  SECONDA 

Callimaco,  messer  Nicla  e  Ligurio. 


CALLIMACO     Chi  è  quel  che  mi  vuole  ? 

NICIA     Bona  dies,  domine  magister. 

CALLIMACO     Et  vobis  bona,  domine  doctor. 

LIGURIO     (Che  vi  pare? 

NICIA     Bene,  alle  guagneleM) 

LIGURIO  Se  voi  volete  che  io  stia  qui  con  voi,  voi  parle- 
rete in  modo  che  io  v'intenda:  altrimenti  noi  faren  duo 
fuochi^ 


ricorda  una  clausola  analoga  in  una  lettera  del  29  aprile  15 13:  «...  se  li  abbi  a 
gettare  tutto  in  grembo».  8.  maestro  Callimaco:  maestro  o  magister  era  l'attri- 
buto professionale  che  spettava  al  medico;  dottore  o  doctor  all'avvocato:  come 
conferma  lo  scambio  di  ossequi  in  latino  che  segue.  9.  /^  '  'Ituo  debito:  fa'  ciò 
che  devi:  cioè,  rispetta  i  doveri  sociali,  le  convenienze,  io.  scingasi:  sott.:  le 
brache:  si  cali  pur  le  brache,  peggio  per  lui.  In  chiusa  del  primo  capitolo  de0'/l5/- 
no  d'oro  (I,  121),  leggiamo:  «...  e  chi  lo  vuol  aver  per  mal,  si  scinga». 

n.  I.  alle  guagnele:  per  i  vangeli  (è  corruzione  di  propter  Evangilia,  assai  fre- 
quente anche  nel  Decameron).  2.  /areno  duo  fuochi:  faremo  due  focolari,  che 
bruciano  ciascuno  per  suo  conto:  «due  parti  separate  che  non  s'intendono»  (Bla- 
succi). 


84  MANDRAGOLA 

CALLIMACO     Che  buona  faccenda  ?\ 

NiciA  Che  so  io?  Vo  cercando  duo  cose  ch'un  altro  per 
avventura  fuggirebbe:  questo  è  di  dare  briga"*  a  me  e  ad 
altri.  Io  non  ho  figliuoli  e  vorre'ne,  e  per  avere  questa 
briga  vengo  a  dare  impaccio  a  voi. 

CALLIMACO  A  me  non  fia  mai  discaro  fare  piacere  a  voi 
ed  a  tutti  li  uomini  virtuosi  e  da  bene  come  voi;  e  non 
mi  sono  a  Parigi  affaticato  tanti  anni,  per  imparare,  per 
altro  se  non  per  potere  servire  a'  pari  vostri'. 

NiciA  Gran  mercé';  e  quando  voi  avessi  bisogno  dell'ar- 
te mia,  io  vi  servirei  volentieri.  Ma  torniamo  ad  rem 
nostram\  Avete  voi  pensato  che  bagno*  fussi  buono  a 
disporre  la  donna  mia  ad  impregnare  ?  Che  io  so  che  qui 
Ligurio  vi  ha  detto  quel  che  vi  s'abbi  detto'. 

CALLIMACO  E'  gli  è  la  verità.  Ma,  a  volere  adempiere'" 
el  desiderio  vostro  è  necessario  sapere  la  cagione  della 
sterilità  della  donna  vostra,  perché  le  possono  essere 
più  cagione.  Nam  cause  sterilitatis  sunt  aut  in  semine, 
aut  in  matrice,  aut  in  instrumentis  seminariis,  aut  in 
virga,  aut  in  causa  extrinseca''. 

NiciA     (Costui  è  il  più  valente'^  uomo  che  viva!) 

CALLIMACO  Potrebbe  oltre  di  questo  causarsi  questa  ste- 
rilità da  voi,  per  impotenzia;  che,  quando  questo  fussi, 
non  ci  sarebbe  rimedio  alcuno. 

NiciA  Impotente  io  ?  Oh  voi  mi  farete  ridere  !  Io  non  cre- 
do che  sia  el  più  ferrigno'*  ed  il  più  rubizzo"  uomo,  in 
Firenze,  di  me. 

CALLIMACO  Se  cotesto  non  è,  state  di  buona  voglia,  che 
noi  vi  tro verremo  qualche  rimedio. 


3.  Che...  faccenda?:  sott.:  vi  mena  qui.  4.  dare  briga:  procurare  fastidii.  5. 
a'  pari...  vostri:  a  uomini  della  vostra  condizione  sociale.  6.  Gran  mercé:  Ve 
ne  sono  molto  grato.  7.  ad  rem  nostram:  al  nostro  problema.  Nicla  è  un  giuri- 
sta, e  predilige  le  clausole  del  mestiere.  8.  che  bagno:  quale  tipo  di  cure  ter- 
mali. 9.  quel...  detto:  tutto  quello  che  era  necessario  riferirvi,  io.  adempie- 
re: soddisfare.  11.  nam...  extrinseca:  «infatti,  le  cause  della  sterilità  sono:  o 
nel  seme  o  nella  vagina  o  nei  testicoli  o  nel  membro  o  in  qualche  fattore  ester- 
no». 12.  valente:  in  quanto  esperto  nella  sua  arte.  13.  ferrigno:  di  tempra 
quasi  ferrea.     14.  rubizzo:  rubicondo,  come  chi  è  di  buon  sangue. 


ATTO  SECONDO  85 

NICIA  Sarebbeci  egli  altro  rimedio  che  bagni  ?  Perché  io 
non  vorrei  quel  disagio'',  e  la  donna  uscirebbe  di  Fi- 
renze malvolentieri. 

LiGURio  Si,  sarà  !  '*.  Io  vi  risponderò  io:  Callimaco  è  tan- 
to respettivo  che  è  troppo.  Non  m'avete  voi  detto'^  di 
sapere  ordinare  certe  pozione  che  indubitatamente  fan- 
no ingravidare  ? 

CALLIMACO  Sì,  ho.  Ma  io  vo  rattenuto"  con  gli  uomini 
che  io  non  conosco,  perché  io  non  vorrei  mi  tenessino 
un  cerretano". 

NICIA  Non  dubitate  di  me,  perché  voi  mi  avete  fatto  ma- 
ravigliare di  qualità  che  non  è  cosa  io  non  credessi  o  fa- 
cessi per  le  vostre  mani^°. 

LiGURio     Io  credo  che  bisogni  che  voi  veggiate  el  segno^^ 

CALLIMACO     Sanza  dubbio,  e'  non  si  può  fare  di  meno". 

LiGURio  (Chiama  Siro,  che  vadia  con  el  dottore  a  casa, 
per  esso,  e  torni  qui;  e  noi  l'aspetteremo  in  casa.) 

CALLIMACO  Siro,  va'  con  lui.  E  se  vi  pare,  messere,  tor- 
nate qui  sùbito,  e  pensereno  a  qualche  cosa  di  buono. 

NICIA  Come,  se  mi  pare  ?  Io  tornerò  qui  in  uno  stante, 
che  ho  più  fede  in  voi  che  gli  Ungheri  nello  Spano". 


15.  quel  disagio:  come  ha  spiegato  prima  (I,  2),  il  disagio  del  travasare  moglie, 
fante,  masserizie,  à^W avere  a  sgominare  tutta  la  casa.  16.  SI,  sarà!  :  Sì,  ci  sarà, 
lo  troveremo  di  certo!  Ligurio  finge  di  voler  parlar  al  posto  di  Callimaco  che  è 
troppo  respettivo,  cioè  rispettoso,  troppo  cauto  e  riservato.  17.  Non...  detto: 
Ligurio  lascia  intendere  che  Callimaco  gli  abbia  parlato  più  liberamente  a  tu 
per  tu.  r8.  vo  rattenuta:  mi  trattengo,  procedo  con  cautela.  19.  mi...  cerre- 
tano: mi  ritenessero  un  ciarlatano;  da  Cerreto,  il  paese  da  cui  con  maggior  fre- 
quenza prendevano  le  mosse  codesti  venditori  d'ogni  rimedio.  20.  per  le  vo- 
stre mani:  dietro  vostro  consiglio.  21.  el  segno:  il  segnale,  la  prova  diagnosti- 
ca; in  questo  caso,  l'urina.  22.  fare  di  meno:  farne  a  meno.  23.  che  gli  Un- 
gheri nello  Spano:  degli  Ungheresi,  noti  per  la  loro  bellicosità,  nel  condottiero 
fiorentino  Pippo  Spano,  al  servizio  di  re  Sigismondo  d'Ungheria. 


86  MANDRAGOLA 

SCENA  TERZA 

Messer  Nicia,  Siro. 


NiciA     Questo  tuo  padrone  è  un  gran  valente  uomo. 

SIRO     Più  che  voi  non  dite. 

NICIA     El  re  di  Francia  ne  de'  far  conto'. 

SIRO     Assai. 

NICIA  E  per  questa  ragione  e'  debbe  stare  volentieri  in 
Francia. 

SIRO     Cosi  credo. 

NICIA  E'  fa  molto  bene.  In  questa  terra  non  ci  è  se  non 
cacastecchi^  non  ci  si  apprezza  virtù  alcuna.  S'è'  stes- 
si qua,  non  ci  sarebbe  uomo  che  lo  guardassi  in  viso\ 
Io  ne  so  ragionare,  che  ho  cacato  la  curatella  per  impa- 
rare dua  hac"*,  e  se  io  ne  avessi  a  vivere,  io  starei  fresco, 
ti  so  dire! 

SIRO     Guadagnate  voi,  l'anno,  cento  ducati? 

NICIA  Non  cento  lire,  non  cento  grossi',  o  va'  !  E  questo 
è  che,  chi  non  ha  lo  stato^  in  questa  terra,  de'  nostri  pa- 
ri, non  truova  can  che  gli  abbai;  e  non  siàn  buoni  ad  al- 
tro che  andare  a'  mortori  o  alle  ragunate  d'un  mo- 
gliazzo',  o  a  starci  tuttodì  in  sulla  panca  del  Procon- 


III.  I.  me...  conto:  deve  avere  per  lui  molta  stima.  2.  cacastecchi:  letteral- 
mente, stitici:  ma,  metaforicamente,  nella  parola  c'è  spilorceria  e,  ad  un  tem- 
po, mediocrità.  La  stessa  pregnanza  hanno  composti  come  cacastracci,  cacace- 
na,  cacavincigli.  3.  che...  in  viso:  che  lo  stimasse,  da  uomo  a  uomo,  per  quello 
che  vale.  Ma  si  pensa  subito,  per  un'analogia  a  contrario,  al  perché  altrove  non 
have  I  dove  voltare  el  viso,  nel  Prologo  (qui  a  p.  68).  4.  che...  dua  hac:  che  ho 
cacato  tutte  le  mie  frattaglie  (cioè,  faticato  a  morte)  per  imparar  queste  due  ac- 
ca, queste  due  formulette  in  latino.  C'è,  evidentemente,  in  Machiavelli,  l'in- 
tenzione di  accostare,  nella  stessa  battuta,  a  fini  di  sarcasmo,  quel  cacastecchi 
a  questo  ho  cacato.  5.  grossi:  si  «scende»  dal  ducato  alla  lira  al  grosso,  una  mo- 
netina d'argento  che  valeva  circa  cinque  soldi.  In  A.,  II,  2  un  servo  di  Creme- 
te  compra  «uno  grosso  di  pesciolini  per  la  cena  del  vecchio».  6.  chi  non  ha  lo 
stato:  chi  non  abbia  uno  status  riconosciuto,  una  precisa  posizione  ufficiale  tra 
quanti  governano  la  cosa  pubblica.  7.  mortori...  mogliazzo:  i  funerali  sono  con- 
trapposti alle  feste  di  matrimonio:  ed  un  terzo  inutile  svago  è  in  quel  donzel- 
larci, trastullarsi  a  vuoto  come  ragazzine. 


ATTO  SECONDO  87 

solo*  a  donzellarci.  Ma  io  ne  li  disgrazio',  io  non  ho  bi- 
sogna di  persona*":  così  stessi  chi  sta  peggio  di  me!  Ma 
non  vorrei  però  ch'elle  fussino  mia  parole",  che  io  arei 
di  fatto  qualche  balzello  o  qualche  porro  di  drieto  che 
mi  fare'  sudare'^ 

SIRO     Non  dubitate. 

NiciA     Noi  siamo  a  casa.  Aspettami  qui:  io  tornerò  ora. 

SIRO     Andate. 


SCENA  QUARTA 

Siro  solo. 


SIRO  Se  gli  altri  dottori  fussin  fatti  come  costui,  noi  fa- 
remo a'  sassi  pe'  forni':  che  si,  che  questo  tristo  di  Li- 
gurio  e  questo  impazzato^  di  questo  mio  padrone  lo 
conducono  in  qualche  loco,  che  gli  faranno  vergogna. 
E  veramente  io  lo  desiderrei,  quando  io  credessi  che 
non  si  risapessi^:  perché,  risapendosi,  io  porto  perico- 
lo della  vita;  el  padrone,  della  vita  e  della  roba.  Egli  è 
già  diventato  medico.  Non  so  io  che  disegno  si  sia  el 


8.  in...  Proconsolo:  era  la  panca  di  via  del  Proconsolo,  abituale  ritrovo  di  vec- 
chi e  sfaccendati,  come  ricordano  varii  poeti  burleschi,  dal  Burchiello  al  La- 
sca. 9.  ne  li  disgrazio:  non  concedo  loro  le  mie  attenzioni,  non  bado  loro.  io. 
di  persona:  di  nessuno.  11.  non...  parole:  Non  vorrei  però  che  queste  parole 
fossero  riferite  come  mie  (l'ellissi  del  verbo  conferisce  alla  battuta  una  forte  al- 
lusività). 12.  qualche...  sudare:  qualche  multa  (interpreterei  cosi  il  termine,  di 
per  sé  generico,  piuttosto  che  con  «tassa»)  o  qualche  fregatura,  comunque  (il 
porro  di  drieto  allude  alla  sodomia  per  beffa,  punizione  o  violenza)  che  mi  fa- 
rebbe soffrire. 

IV.  I.  noi...  forni:  il  Machiavelli  stesso  spiega  l'espressione,  in  una  lettera 
dell'ottobre  1525  al  Guicciardini:  «Fare  a'  sassi  pe'  forni  nonvuoì  dìrz  Alvo  cht 
fare  una  cosa  da  pazzi,  et  però  disse  quel  mio,  che  se  tutti  fossimo  come  mes- 
ser  Nicla,  noi  faremmo  a'  sassi  pe'  forni,  cioè  noi  faremmo  tutti  cose  da  paz- 
zi...». 2.  impazzato:  Callimaco  è  pazzo  per  amore,  la  pazzia  di  Nicla  (il  smo  fa- 
re a  '  sassi  pe'  forni)  è  stupidità.  3 .  quando.. .  risapessi:  Siro  ha  la  stessa  paura  di 
Nicla,  poco  sopra  [Non  vorrei  però  eh'  elle  fussino  mia  parole...  ). 


88  MANDRAGOLA 

SUO,  e  dove  si  tenda''  questo  loro  inganno.  Ma  ecco  el 
dottore,  che  ha  uno  orinale  in  mano:  chi  non  ridereb- 
be di  questo  uccellacelo'  ? 


SCENA  QUINTA 

Messer  Nicia,  Siro. 


NiciA  Io  ho  fatto  d'ogni  cosa  a  tuo  modo,  di  questo  vo' 
io  che  tu  facci  a  mio.  Se  io  credevo  non  avere  figliuo- 
li, io  arei  preso  più  tosto  per  moglie  una  contadina  che 
te'.  -  To'  costì,  Siro;  viemmi  drieto.  Quanta  fatica  ho 
io  durata  a  fare  che^  questa  mia  mona'  sciocca  mi  dia 
questo  segno!  E  non  è  dire  che  la  non  abbi  caro  di  fa- 
re figliuoli,  che  la  ne  ha  più  pensiero  di  me.  Ma,  come* 
io  le  vo'  far  fare  nulla,  e'  gli  è  una  storia'. 

SIRO  Abbiate  pazienzia:  le  donne  si  sogliono  con  le  buo- 
ne parole  condurre  dove  altri  vuole. 

NICIA  Che''  buone  parole!  che  mi  ha  fracido^  Va',  ratto, 
di'  al  Maestro  ed  a  Ligurio  che  io  son  qui. 

SIRO     Eccogli  che  vengon  fuori. 


4.  dove  si  tenda:  a  quale  meta  tenda.  5.  uccellacelo:  è  una  rispondenza  inter- 
na: Nicia  è  definito  spregiativamente,  usando  le  sue  stesse  parole  (e'  miparvo- 
no parecchi  uccellacci...  in  I,  2). 

V.  I.  Io...  che  te:  Rientrando  in  scena,  Nicia  pronuncia  questa  battuta  rivol- 
to ancora  alla  moglie,  che  si  trova  in  casa.  2.  a  che  fare:  a  fare  in  modo  che.  3. 
mona:  o  monna,  per  madonna,  moglie  (da  mea  domina).  4.  come:  non  appe- 
na. 5.  e'  gli  è  una  storia:  è  una  gran  fatica.  6.  Che:  Altro  che.  7.  mi  ha  fra- 
cido:  oggi,  con  metafora  di  segno  opposto,  diciamo  «mi  ha  seccato». 


ATTO  SECONDO  89 

SCENA  SESTA 

Ligurie,  Callimaco,  messer  Nicla. 

LiGURio  (El  dottore  fia  facile  a  persuadere.  La  difficultà 
fia  la  donna',  ed  a  questo  non  ci  mancherà  modi.) 

CALLIMACO     Avete  voi  el  segno  ? 

NiciA     E'  l'ha  Siro...  sottoM 

CALLIMACO  Dallo  qua.  Oh!  questo  segno  mostra  debi- 
lità di  rene. 

NiciA     E'  mi  par  torbidiccio,  e  pure  l'ha  fatto  ora  ora. 

CALLIMACO  Non  ve  ne  maravigliate.  Nam  mulieris  uri- 
nae  sunt  semper  maioris  grossitiei  et  albedinis,  et  mi- 
noris  pulchritudinis  quam  virorum.  Huius  autem  Inter 
cetera  causa  est  amplitudo  canalium,  mixtio  eorum 
quae  ex  matrice  exeunt  cum  urina\ 

NiciA  (Oh !  potta  di  san  Puccio l\  Costui  mi  raf finisce  in 
tra  le  mani':  guarda  come  ragiona  bene  di  questa  cosa.) 

CALLIMACO  Io  ho  paura  che  costei  non  sia  la  notte  mal 
coperta^,  e  per  questo  fa  l'orina  cruda. 

NiciA  Ella  tien  pure  a  dosso  un  buon  coltrone;  ma  la  sta 
quattro  ore  ginocchioni  ad  infilzar  paternostri,  innanzi 
che  la  se  ne  venghi  a  letto:  ed  è  una  bestia',  a  patir  freddo. 

CALLIMACO  Infine,  dottore,  o  voi  avete  fede  in  me,  o  no. 
O  io  vi  ho  ad  insegnare  un  rimedio  certo,  o  no.  Io,  per 

VI.  1.  la  difficultà  fia  la  donna:  il  difficile  sarà  convincere  la  donna.  E  teatral- 
mente un  «a  parte»  tra  Ligurie  e  Callimaco,  che  stanno  rimettendo  piede  in 
scena.  2.  sotto:  forse:  sotto  le  vesti.  Nicia  glielo  ha  passato  durante  la  quinta 
scena,  a  quanto  si  deduce.  3 .  Nam.. .  urina:  «  Infatti  l'urina  della  donna  è  sem- 
pre di  maggior  densità  e  bianchezza  e  di  minor  bellezza  di  quella  degli  uomini. 
Causa  di  ciò,  fra  l'altro,  è  l'ampiezza  dei  canali  e  la  mistura  di  ciò  che  esce  dal- 
la vagina  con  l'urina».  4.  potta  di  san  Puccio!  :  era  esclamazione  volgare,  ma 
corrente  (potta  è  la  vagina:  ed  è  tanto  più  assurdo,  e  perciò  comico,  attribuirla 
ad  un  personaggio  maschile  di  quanto  non  lo  fossero  esclamazioni  altrettanto 
correnti,  come  «porta  di  santa  Bella!  »).  Quanto  a  Puccio  vien  da  pensare  su- 
bito alla  novella  decameroniana  di  frate  Puccio  e  monna  Isabctta  (III,  4).  5. 
Costui...  mani:  Costui  mi  si  dimostra  sempre  più  raffinato  (cioè,  esperto  e  sot- 
tile) via  via  che  lo  frequento.  6.  mal  coperta:  Callimaco  gioca  sul  doppio  sen- 
so: mal  riparata  dal  freddo  (e  cosi,  letteralmente,  intenderà  Nicia)  e  mal  coperta 
dal  marito,  in  copula.     7.  è  una  bestia:  è  ostinata  come  certi  animali. 


90  MANDRAGOLA 

me,  el  rimedio  vi  darò:  se  voi  arete  fede  in  me,  voi  lo 
piglierete;  e  se,  oggi  ad  uno  anno*,  la  vostra  donna  non 
ha  un  suo  figliolo  in  braccio,  io  voglio  avervi  a  donare' 
dumilia  ducati. 

NiciA  Dite  pure,  che  io  son  per  farvi  onore  di  tutto,  e 
per  credervi  più  che  al  mio  confessoro. 

CALLIMACO  Voi  avete  ad  intender  questo,  che  non  è  co- 
sa più  certa'",  ad  ingravidare  una  donna,  che  dargli  be- 
re una  pozione  fatta  di  mandragola.  Questa  è  una  cosa 
esperimentata  da  me  dua  paia  di  volte"  e  trovata  sem- 
pre vera;  e  se  non  era  quest,  la  reina  di  Francia  sareb- 
be sterile  ed  infinite  altre  principesse  di  questo  stato. 

NiciA     È  egli  possibile  ? 

CALLIMACO  E'  gli  è  come  io  vi  dico.  E  la  fortuna  vi  ha 
in  tanto  voluto  bene  che  io  ho  condutto  qui  meco  tut- 
te quelle  cose^^  che  in  quella  pozione  si  mettono,  e  po- 
tete averla  a  vostra  posta'\ 

NiciA     Quando  l'arebbe  ella  a  pigliare? 

CALLIMACO  Questa  sera  dopo  cena,  perché  la  luna  è  ben 
disposta  ed  el  tempo  non  può  essere  più  a  proposito. 

NICIA  Cotesto  non  fia  molto  gran  cosa'\  Ordinatela  in 
ogni  modo:  io  gliene  farò  pigliare. 

CALLIMACO  E'  bisogna  ora  pensare  a  questo,  che  quello 
uomo  che  ha  prima  a  fare  seco'^  presa  che  l'ha,  cotesta 
pozione,  muore  infra  otto  giorni,  e  non  lo  camperebbe 
el  mondo. 

NICIA  Cacasangue  !  '*  io  non  voglio  cotesta  suzzacchera'^• 
a  me  non  l'apiccherai,  tu!  Voi  mi  avete  concio  bene'*! 

CALLIMACO     State  saldo!  e'  ci  è  rimedio. 


8.  oggi  ad  uno  anno:  ad  un  anno  da  oggi.  9.  voglio  avervi  a  donare:  voglio  do- 
vervi regalare,  a  pegno  della  scommessa  perduta,  io.  piti  certa:  di  più  sicuro 
effetto.  1 1 .  dua  paia  di  volte:  cioè,  in  quattro  casi,  alla  lettera.  Ma,  come  nel- 
la tradizione  orale,  «due  volte  due»  vale  «moltissime»:  infatti,  nella  stessa  bat- 
tuta, le  guarite  risultano  essere  infinite.  12.  tutte  quelle  cose:  tutti  gli  ingre- 
dienti. 13.  a  vostra  posta:  a  vostra  disposizione.  14.  non...  cosa:  non  rappre- 
senterà una  grossa  difficoltà.  Nicla  sembra  già  temere  le  reazioni  della  mo- 
glie. 15.  a  fare  seco:  ad  avere  contatti  carnali  con  lei.  16.  Cacasangue!  :  let- 
teralmente, vuol  dire  «dissenteria».  C'è  ancora  un  richiamo  alla  fecalità,  in  que- 
sto (altrimenti  banale)  «accidenti!»  di  messer  Nicla.  17.  suzzacchera: 
porcheria,  mistura  ributtante  (era,  letteralmente,  una  bevanda  mista  d'aceto  e 
zucchero).      18.  concio  bene:  ben  ridotto:  è  detto  sarcasticamente. 


ATTO  SECONDO  91 

NiciA     Quale  ? 

CALLIMACO  Fare  dormire  subito  con  lei  un  altro,  che  ti- 
ri, standosi  seco  una  notte,  a  sé  tutta  quella  infezione 
della  mandragola:  di  poi  vi  iacerete  voi  sanza  pericolo. 

NiciA     Io  non  vo'  fare  cotesto. 

CALLIMACO     Perché  ? 

NiciA  Perché  io  non  vo'  fare  la  donna  mia  femmina''  e 
me  becco. 

CALLIMACO  Che  dite  voi,  dottore  ?  Oh  !  io  non  vi  ho  per 
savio  come  io  credetti.  Si  che  voi  dubitate^"  di  fare  quel- 
lo che  ha  fatto  el  re  di  Francia  e  tanti  signori  quanti  so- 
no là? 

NiciA  Chi  volete  voi  che  io  truovi,  che  facci  cotesta  paz- 
zia? Se  io  gliene  dico,  e'  non  vorrà.  Se  io  non  gliene  di- 
co, io  lo  tradisco,  ed  è  caso  da  Otto^':  io  non  ci  vo'  ca- 
pitare sotto  male. 

CALLIMACO  Se  non  vi  dà  briga"  altro  che  cotesto,  la- 
sciatene la  cura  a  me. 

NiciA     Come  si  farà  ? 

CALLIMACO  Diròvelo.  Io  vi  darò  la  pozione  questa  sera 
dopo  cena,  voi  gliene  darete  bere,  e  subito,  la  mettere- 
te nel  letto,  che  fieno  circa  a  quattro  ore  di  notte.  Di- 
poi ci  travestiremo,  -  voi,  Ligurio,  Siro  ed  io  -,  e  an- 
drencene  cercando  in  Mercato  Nuovo,  in  Mercato  Vec- 
chio, per  questi  canti;  ed  el  primo  giovanaccio"  che  noi 
troverremo  scioperato,  lo  imbavagliereno,  ed  a  suon  di 
mazzate  lo  condurreno  in  casa  ed  in  camera  vostra  al 
buio.  Quivi  lo  mettereno  nel  letto,  direngli  quel  che  gli 
abbia  a  fare:  non  ci  fia  difficultà  veruna.  Dipoi,  la  mat- 
tina, ne  manderete  colui^'*  innanzi  di;  farete  lavare  la 
vostra  donna;  starete"  con  lei  a  vostro  piacere  e  sanza 
pericolo. 

Il) .  femmina:  sta  ^cv  femmina  del  popolo,  cioè  donna  che  si  concede  a  chiunque 
la  richieda,  puttana.  20.  dubitate:  siete  incerto,  dubbioso.  21.  ed  è  caso  da 
Otto:  ed  è  un  crimine  da  esser  giudicato  dagli  Otto  di  giustizia,  la  magistratu- 
ra che  presiedeva  il  tribunale  penale.  22.  dà  briga:  preoccupa,  infastidisce.  Ri- 
torna l'espressione  con  cui  Nicia  si  è  presentato:  ...  questo  è  di  dare  briga  a  me 
ed  a  altri  (II,  2).  23.  giovanaccio:  giovinastro:  che,  per  di  più,  è  un  inetto  bi- 
ghellone (scioperato).  24.  ne  manderete  colui:  lo  spedirete  via  di  qui.  25.  sta- 
rete: qui  proprio  nel  senso  di  «giacerete»  (come  quc\  fare  di  poco  sopra). 


92  MANDRAGOLA 

NiciA  Io  sono  contento,  poiché  tu  di'  che  e  re,  e  princi- 
pi, e  signori  hanno  tenuto  questo  modo.  Ma  sopr'a  tut- 
to, che  non  si  sappia,  per  amor  degli  Otto! 

CALLIMACO     Chi  volete  voi  che  lo  dica  ? 

NiciA     Una  fatica  ci  resta,  e  d'inportanza. 

CALLIMACO     Quale  ? 

NICIA  Farne  contenta  mogliama":  a  che  io  non  credo 
ch'ella  si  disponga  mai. 

CALLIMACO  Voi  dite  el  vero.  Ma  io  non  vorrei  innanzi 
essere  marito,  se  io  non  la  disponessi  a  fare  a  mio  mo- 
do. 

LiGURio     Io  ho  pensato  el  rimedio. 

NICIA     Come  ? 

LiGURio     Per  via  del  confessoro. 

CALLIMACO     Chi  disporrà  el  confessoro.  Tu? 

LiGURio     Io,  e  danari,  la  cattiva  natura"  loro. 

NICIA  Io  dubito,  non  che  altro,  che  per  mio  detto"  la  non 
voglia  ire  a  parlare  al  confessoro. 

LiGURio     Ed  anche  a  questo  è  rimedio. 

CALLIMACO     Dimmi. 

LiGURio     Farvela  condurre  alla  madre. 

NICIA     La  le  presta  fede". 

LiGURio  Ed  io  so  che  la  madre  è  della  opinione  nostra. 
Orsù:  avanziam  tempo,  che  si  fa  sera^°.  (Vatti,  Calli- 
maco, a  spasso,  e  fa'  che  alle  ventitré  ore  noi  ti  ritro- 
viamo con  la  pozione  ad  ordine.  Noi  n'andereno  a  ca- 
sa la  madre",  el  dottore  ed  io,  a  disporla,  perché  è  mia 
nota":  poi  ne  andereno  al  frate,  e  vi  raguagliereno  di 
quello  che  noi  areno  fatto. 

CALLIMACO     Deh!  non  mi  lasciar  solo. 

LiGURio     Tu  mi  par'  cotto. 


26.  mogliama:  forma  contratta,  assai  corrente,  per  «mia  moglie».  27.  cattiva 
natura:  malvagità  naturale.  A  proposito  della  cadenza  di  questa  frase,  Raimon- 
di, Poi,  176,  ricorda,  in  A.,  V,  4:  «tu,  il  vero  e  il  bene  che  voglio  a  Glice- 
rio».  28.  per  mio  detto:  a  seguito  delle  mie  parole.  29.  La...  fede:  si  fida  di 
lei.  30.  Orsù...  sera:  Raimondi,  Poi,  175,  ricorda  due  battute  distinte  in  A.: 
«...  io  ti  priego  che  noi  avanziano  tempo. ..^>  (III,  3)  e  «E'  si  fa  sera»  (III, 
4).  31.  a  casa  la  madre:  a  casa  della  madre.  32.  perché...  nota:  perché  è  una 
mia  conoscenza. 


ATTO  SECONDO  93 

CALLIMACO     Dove  vòi  tu  ch'io  vadia  ora? 

LIGURIO     Di  là,  di  qua;  per  questa  via,  per  quell'altra.  E' 

gli  è  SI  grande  Firenze  ! 
CALLIMACO     Io  son  morto"). 


Canzone 

dopo  il  secondo  atto 

Quanto  felice  sia  ciascun  sei  vede 
chi  nasce  sciocco  ed  ogni  cosa  crede! 
Ambizione  noi  premei 
non  lo  muove  il  timore, 
che  sogliono  esser  seme^ 
di  noia  e  di  dolore. 
Questo  vostro  dottore\ 
bramando  aver  figlioli, 
crederria  ch'un  asin  voli"*; 
e  qualunque  altro  ben  posto  ha  in  oblio, 
e  solo  in  questo  ha  posto  il  suo  disio. 


33.  Vatti...  morto:  il  Martelli,  Vers.,  211,  ha  accostato  questo  dialogo  ad  ana- 
logo in  Heautontimorumenos,  585-89:  «syrus  lube  hunc  I  abire  hinc  aliquo. 
CLITIPHO  Quo  ego  hinc  abeam  ?  SYRUS  Quolubet;  daillislocum;  I  abi  deam- 
bulatum.  clitipho  Deambulatum  ?  Quo  ?  syrus  Vah  !  quasi  desit  locus;  I  abi 
sane  istac,  istorsum,  quovis».  E  il  Ferroni,  Mut.,  54,  ha,  dal  canto  suo,  osser- 
vato: «L'ultima  battuta  di  Ligurie  ha  anche  un  valore  di  indicazione  scenogra- 
fica, facendo  pensare  alla  possibilità  che  sulla  prospettiva  della  Mandragola  sia- 
no tracciate  almeno  due  vie  (una  delle  quali  sarà  la  "Via  dello  Amore"  di  cui 
parla  il  prologo)». 

CANZONE.  I .  noi  preme:  non  lo  incalza,  non  lo  tormenta.  2 .  essere  seme:  e  per- 
ciò generare.  3.  Questo...  dottore:  È  Nicla,  dottore  utroque  iure;  vostro,  poi- 
ché gli  spettatori  hanno  familiarizzato  con  lui.  4.  credema...  voli:  sarebbe  di- 
sposto a  credere  persino  che  un  asino  voli.  E  un  adunatoti,  cioè  «figura  di  im- 
possibile», passata  a  modo  di  dire  corrente. 


ATTO  TERZO 


SCENA  PRIMA 

C(i.».\c^Sostrata,  messer  Nicla,  Ligurie. 

SOSTRATA  Io  ho  Sempre  mai^  sentito  dire  ch'e'  gli  è  ufi- 
zio  d'uom  prudente  pigliare  de'  cattivi  partiti  el  mi- 
gliore^  Se  ad  avere  figliuoli  voi  non  avete  altro  rime- 
dio che  questo,  si  vòle*  pigliarlo,  quando"*  e'  non  si  gra- 
vi la  coscienzia. 

NiciA     E'  gli  è  così. 

LiGURio  Voi  ve  ne  andrete  a  trovare  la  vostra  figliuola, 
e  Messere  ed  io  andreno  a  trovare  fra  Timoteo,  suo  con- 
fessore, e  narrerégli  el  caso,  acciò  che  non  abbiate  a  dir- 
lo voi.  Vedrete  quello  che  vi  dirà. 

SOSTRATA  Così  Sarà  fatto.  La  via  vostra  è  di  costà,  ed  io 
vo  a  trovare  la  Lucrezia,  e  la  merrò'  a  parlare  al  frate 
in  ogni  modo. 


I.  I .  sempre  mai:  è  rafforzativo  di  sempre.  2.  gli  è  ufizio...  el  migliore:  è  do- 
vere di  un  uomo  prudente  scegliere  il  partito  meno  cattivo  tra  tutti  queUi  cat- 
tivi. «Rammenta  una  battuta  dello  stesso  Machiavelli,  nella  lettera  al  Vettori 
del  20  dicembre  1514,  sull'abitudine  degli  "uomini  savii',  di  "considerare  nel 
male  dove  è  manco  male"»  (Raimondi).  E  il  Berardi  ricorda  un  passo  dei  Di- 
scorsi, I,  VI:  «E  però  in  ogni  nostra  deliberazione  si  debbe  considerare  dove  so- 
no meno  inconvenienti,  e  pigliare  quello  per  miglior  partito,  perché  tutto  net- 
to, tutto  senza  sospetto  non  si  truova  mai».  3.  si  vàie:  si  deve.  4.  quando: 
purché.     5.  la  merrò:  la  menerò,  la  condurrò. 


ATTO  TERZO  95 

SCENA  SECONDA 

Messer  Nicla,  Ligurie. 


NiciA  Tu  ti  maravigli  forse,  Ligurie,  che  bisogni  fare  tan- 
te storie  a  disporre  mogliama\  Ma,  se  tu  sapessi  ogni 
cosa,  tu  non  te  ne  maraviglieresti. 

LiGURio  Io  credo  che  sia  perché  tutte  le  donne  sono  so- 
spettose. 

NiciA  Non  è  cotesto:  ella  era  la  più  dolce  persona  del 
mondo  e  la  più  facile^  Ma,  sendole  detto  da  una  sua  vi- 
cina che,  s'ella  si  botava'  d'udire  quaranta  mattine  la 
prima  messa  de'  Servi"*,  ch'ella  impregnerebbe,  la  si 
botò,  ed  andòvi  forse  venti  mattine.  Ben  sapete'  che 
un  di  que'  fratacchioni  le  cominciò  a  dare  datorno,  in 
modo  che  la  non  vi  volle  più  tornare.  E'  gli  è  pur  ma- 
le, però,  che  quegli  che  ci  arebbono  a  dare  buoni  es- 
sempli,  sien  fatti  cosi.  Non  dich'io  el  vero? 

LiGURio     Come  diavol  se  gli  è  vero  ! 

NiciA  Da  quel  tempo  in  qua',  ella  sta  in  orecchi^  come  la 
lepre,  e  come  se  le  dice  nulla*,  ella  vi  fa  dentro  mille  dif- 
ficultà. 

LiGURio  Io  non  mi  maraviglio  più.  Ma  quel  boto  come 
si  adempiè  ? 

NiciA     Fecesi  dispensare'. 

LiGURio  Sta  bene.  Ma  datemi,  se  voi  avete,  venticinque 
ducati,  che  bisogna  in  questi  casi  spendere,  e  farselo, 
el  frate,  amico  presto,  e  darli  speranza  di  meglio. 


n.  1.  a  disporre  mogliama:  sott.  :  a  recarsi  dal  confessore.  2 .  la  piti  facile:  la  più 
docile,  arrendevole.  3.  s'ella  si  botava:  Lucrezia  è,  o  almeno  era,  una  di  quelle 
zelanti  fedeli  d'un  tempo  di  cui  parlerà  Timoteo,  in  V,  i.  Ecco  un  tipico  «rin- 
vio» del  Machiavelli  ad  altra  sequenza  del  testo.  4.  la  prima  messa  de'  Servi:  è, 
probabilmente,  o  potrebbe  essere  (nelle  intenzioni  di  Machiavelli)  l'ordine  di 
Timoteo.  5.  Ben  sapete:  Qui  vuol  dire:  «Dovete  sapere...».  6.  Da  quel  tem- 
po in  qua:  Da  quell'episodio  in  poi.  7.  sta  in  orecchi  :  ha  le  orecchie  dritte:  è 
all'erta,  sospettosa.  8.  come. . .  nulla:  non  appena  le  si  dice  un  nonnulla.  9.  di- 
spensare: occorreva  una  dispensa  per  sciogliere  un  voto  non  adempiuto. 


96  MANDRAGOLA 

NiciA  Pigliagli  pure,  questo  non  mi  dà  briga:  io  farò  mas- 
serizia altrove'". 

LiGURio  Questi  frati  sono  trincati",  astuti:  ed  è  ragio- 
nevole, perché  sanno  e  peccati  nostri  e'  loro:  e  chi  non 
è  pratico  con  essi  potrebbe  ingannarsi  e  non  li  sapere 
condurre  a  suo  proposito'^  Pertanto  io  non  vorrei  che 
voi  nel  parlare  guastassi  ogni  cosa,  perché  un  vostro  pa- 
ri, che  sta  tutto  dì  nello  studio,  intende  que'  libri,  e  del- 
le cose  del  mondo  non  sa  ragionare.  (Costui  è  si  scioc- 
co, che  io  ho  paura  non  guasti  ogni  cosa"). 

NiciA     Dimmi  quel  che  tu  vuoi  ch'io  faccia. 

LiGURio  Che  voi  lasciate  parlare  a  me,  e  non  parliate  mai 
s'io  non  vi  accenno". 

NiciA     Io  sono  contento.  Che  cenno  farai  tu? 

LiGURio  Chiuderò  un  occhio;  morderommi  el  labro... 
Deh!  no:  facciano"  altrimenti.  Quanto  è  egli  che  voi 
non  parlasti  al  frate  ? 

NiciA     E  più  di  dieci  anni. 

LiGURio  Sta  bene.  Io  gli  dirò  che  voi  séte  assordato",  e 
voi  non  risponderete  e  non  direte  mai  cosa  alcuna,  se 
noi  non  parliamo  forte. 

NiciA     Così  farò. 

LiGURio  Oltre  a  questo,  non  vi  dia  briga''  che  io  dica 
qualche  cosa  che  e'  vi  paia  disforme  a  quel  che  noi  vo- 
gliamo, perché  tutto  tornerà  a  proposito. 

NiciA     In  buon'ora'*! 

LiGURio  Ma  io  veggo  el  frate  che  parla  con  una  donna. 
Aspettian  che  l'abbi  spacciata. 


IO.  io...  altrove:  recupererò  la  cifra  in  altro  modo,  con  un  altro  guadagno.  Far 
masserizia  è,  letteralmente,  ammassare,  risparmiare.  Il  Bonfantini  suggerisce: 
«Avrò  per  altra  via  il  mio  compenso».  Ma  è  probabile,  invece,  che  la  battuta 
sia  da  interpretare  come  un'allusione  a  guadagni  illeciti  di  Nicla,  con  cui  inte- 
grare i  magri  redditi  della  professione:  Guadagnate  voi  l'anno  cento  ducati.^  - 
gli  ha  chiesto  Siro,  in  II,  3,  e  ha  ammesso  -  Non  cento  lire,  non  cento  grossi,  o 
va'!  II.  trincati:  molto  furbi.  12.  a  suo  proposito:  secondo  le  proprie  inten- 
zioni. 13.  Costui...  ogni  cosa:  E  un  «a  parte»  di  Ligurie  rivolto  agli  spettato- 
ri. 14.  5'io...  (2CCt'««o:  se  non  vi  faccio  cenno.  15. /acciàwo:  facciamo.  16. 
voi  siete  assordato:  che  voi  siete,  nel  frattempo,  diventato  sordo.  1 7 .  non  vi  dia 
briga:  non  vi  preoccupi.     18.  In  buon'ora:  Sta  bene,  d'accordo. 


ATTO  TERZO  97 

SCENA  TERZA 

Fra  Timoteo  e  la  donna. 


FRATE  Se  voi  vi  volessi  confessare,  io  farò  ciò  che  voi 
volete. 

DONNA  Non  oggi;  io  sono  aspettata.  E'  mi  basta  essermi 
sfogata  un  poco  cosi,  ritta  ritta'.  Avete  voi  dette  quel- 
le messe  della  Nostra  Donna? 

FRATE     Madonna  si. 

DONNA  Togliete^  ora  questo  fiorino,  e  direte  dua  mesi 
ogni  lunedi  la  messa  de'  morti  per  l'anima  del  mio  ma- 
rito. Ed  ancora  che  fussi  un  omaccio',  pure  le  carni  ti- 
rono":  io  non  posso  fare  non  mi  risenta,  quando  io  me 
ne  ricordo.  Ma  credete  voi  che  sia  in  purgatorio? 

FRATE     Sanza  dubio. 

DONNA  Io  non  so  già  cotesto'.  Voi  sapete  pure  quel  che 
mi  faceva*^  qualche  volta.  Oh,  quanto  me  ne  dolfi  io  con 
esso  voi!  Io  me  ne  discostavo^  quanto  io  potevo;  ma 
egli  era  si  importuno:  uh!  Nostro  Signore! 

FRATE  Non  dubitate:  la  clemenzia  di  Dio  è  grande.  Se 
non  manca  a  l'uomo  la  voglia^  non  gli  manca  mai  el 
tempo  a  pentersi. 


ni.  I.  e' ...  ritta  ritta:  mi  basta  essermi  sfogata  a  parole  un  poco,  cosi,  stando- 
mene in  piedi.  Ma  c'è  un  accenno  di  allusività  erotica  in  questa  battuta,  giac- 
ché sfogarsi  ritto  poteva  alludere  anche  al  «consumare  l'atto  sessuale  in  pie- 
di». 2.  Togliete:  Prendete.  3.  un  omaccio:  un  uomo  violento,  brutale.  4. 
pure  le  carne  tirono:  eppure  sono  ancora  carnalmente  legata  a  lui.  C'è,  in  tutta 
la  parlata  della  donna,  una  trama  di  ambiguità  erotiche  (subito  sotto,  il  non  mi 
risenta).  Non  mi  sembra  la  battuta  vada  interpretata  «in  attenuazione»:  come 
suggeriscono  il  Blasucci  («tuttavia  gli  sono  ancora  attaccata»)  o  il  Berardi  («gli 
sono  tuttavia  ancora  affezionata»).  5.  lo...  cotesto:  Di  questo  io  non  sono  si- 
cura. 6.  quel  che  mi  faceva:  sembra  questa  un'allusione,  abbastanza  scoperta, 
all'atto  contro  natura,  -j.  lome  ne  discostavo:  Io  mi  scostavo  da  lui:  perché  vo- 
leva sottrarsi  ai  desideri  di  quel  marito  cosi  insistente  {importuno).  8.  la  vo- 
glia: la  precisa  intenzione,  la  ferma  volontà. 


98  MANDRAGOLA 

DONNA     Credete  voi  che  '1  Turco  passi  questo  anno  in 

Italia?'. 
FRATE     Se  voi  non  fate  orazione,  sì. 
DONNA     Naffe'°,  Dio  ci  aiuti,  con  queste  diavolerie  !  Io  ho 

una  gran  paura  di  quello  impalare".  Ma  io  veggo  qua  in 

chiesa  una  donna  che  ha  certa  accia^^  di  mio:  io  vo'  ire 

a  trovarla.  Fate  col  buon  dì". 
FRATE     Andate  sana. 


SCENA  QUARTA 

Fra  Timoteo,  Ligurio,  messer  Nicia. 


FRATE  Le  più  caritative  persone  che  sieno,  sono  le  don- 
ne, e  le  più  fastidiose.  Chi  le  scaccia,  fugge  e  fastidi  e 
l'utile;  chi  le  intrattiene',  ha  l'utile  ed  e  fastidi  insie- 
me. Ed  è  '1  vero,  che  non  è  mèle  sanza  mosche.  -  Che 
andate  voi  facendo,  uomini  da  bene  ?  Non  riconosco  io 
messer  Nicia  ? 

LIGURIO  Dite  forte,  che  gli  è  in  modo  assordato,  che  non 
ode  quasi  nulla. 

FRATE     Voi  séte  el  ben  venuto,  messere. 

LIGURIO     Più  forte. 

FRATE     El  ben  venuto  ! 


9.  Credete  voi...  Italia?:  per  questa  battuta  e  la  datazione  che  ne  può  consegui- 
re, rinvio  il  lettore  all'introduzione  (p.  x).  -  il  Raimondi,  Poi.,  184,  ha  ricor- 
dato un  paio  almeno  di  lettere  del  Vettori  al  Machiavelli,  del  27  giugno  1517 
e  del  5  agosto  dello  stesso  anno,  in  cui  si  discorre  del  Turco.  Nella  seconda  si 
affaccia,  tra  l'altro,  l'ipotesi  «che  questo  nuovo  Signore  Turco  non  ci  esca  ad- 
dosso e  per  terra  e  per  mare,  e  faccia  uscire  questi  preti  di  lezii...»  (il  corsivo  è 
nostro).  IO.  Na/fe!:  o  Gnaffe,  popolarmente  per  «in  mia  fé».  11.  lo...  im- 
palare: ecco  la  chiusa  della  trama  di  riferimenti  erotici.  La  donna  teme  del  Tur- 
co soprattutto  l'impalare,  cioè  il  supplizio  del  palo  infilato  nell'ano  ai  prigio- 
nieri, che  morivano  dissanguati,  in  preda  a  sofferenze  atroci.  E  per  lei  la  vi- 
sione del  tormento  si  collega  al  ricordo  degli  atti  di  sodomia  subiti  controvo- 
glia dal  matito.  12.  accia:  era  misura  di  filo  o  di  lino.  13.  Fate  col  buon  di': 
significa,  come  la  risposta  di  Timoteo:  «Statemi  bene». 

IV.      I .  chi  le  intrattiene:  chi  ha  rapporti  con  loro,  le  frequenta. 


ATTO  TERZO  99 

NiciA     El  ben  trovato,  padre. 

FRATE     Che  andate  voi  f  accendo  ? 

NiciA     Tutto  bene. 

LiGURio  Volgete  el  parlare  a  me^  padre,  perché  voi,  a 
volere  che  v'intendessi^  aresti  a  mettere  a  romore  que- 
sta piazza. 

FRATE     Che  volete  voi  da  me  ? 

LIGURIO  Qui  messer  Nicla  ed  uno  altro  uomo  da  bene, 
che  voi  intenderete  poi,  hanno  a  fare  distribuire"  in  li- 
mosine  parecchi  centinaia  di  ducati... 

NiciA     Cacasangue! 

LIGURIO  (Tacete,  in  malora'!  E'  non  fien  molti.)  Non  vi 
maravigliate,  padre,  di  cosa  che  dica*,  che  non  ode  e 
pargli  qualche  volta  udire,  e  non  risponde  a  proposito. 

FRATE     Seguita  pure,  e  lasciagli  dire  ciò  che  vuole. 

LIGURIO  ...  de'  quali  danari,  io  ne  ho  una  parte  meco.  Ed 
hanno  disegnato^  che  voi  siate  quello  che  li  distribuiate. 

FRATE     Molto  volentieri. 

LIGURIO  Ma  e'  gli  è  necessario,  prima  che  questa  limosi- 
na si  faccia,  che  voi  ci  aiutiate  d'un  caso*  strano  inter- 
venuto a  Messere,  che  solo  voi  ci  potete  aiutare,  dove 
ne  va  al  tutto  l'onore  di  casa  sua'. 

FRATE     Che  cosa  è  ? 

LIGURIO  Io  non  so  se  voi  conosceste  Cammillo  Calfucci, 
nipote  qui  di  Messere. 

FRATE      Sì,  conosco. 

LIGURIO  Costui  n'andò  per  certe  sua  faccende,  uno  an- 
no fa,  in  Francia,  e  non  avendo  donna'",  che  era  mor- 
ta, lasciò  una  sua  figliuola  da  marito  in  serbanza"  in 
uno  monistero,  del  quale  non  accade  dirvi  ora  el  nome. 

FRATE     Che  è  seguito  ? 


2.  Volgete...  a  me:  Parlate  rivolto  a  me.  3.  a  volere  che  v'intendessi:  se  voleste 
davvero  farvi  sentire.  4.  hanno  a  fare  distribuire:  dispongono,  e  intendono  di- 
stribuirli, di...  5.  in  malora:  per  la  malora.  6.  di  cosa  che  dica:  di  qualunque 
cosa  sentirete  dirgli.  7.  hanno  disegnato:  e  hanno  deciso  tra  loro.  8.  d'un  ca- 
so: in  merito  ad  un  caso.  9.  dove...  sua:  caso,  da  cui  dipende  interamente  l'ono- 
re della  sua  famiglia,  io.  donna:  moglie.  11.  in  serbanza:  in  custodia,  sotto 
tutela. 


lOO  MANDRAGOLA 

LiGURio  E  seguito  che,  o  per  straccurataggine  delle  mo- 
nache o  per  cervellinaggine'^  della  fanciulla,  la  si  truo- 
va  gravida  di  quattro  mesi:  di  modo  che,  se  non  ci  si  ri- 
para con  prudenzia,  el  dottore,  le  monache,  la  fanciul- 
la, Cammillo,  la  casa  de'  Calfucci  è  vituperata.  E  il  dot- 
tore stima  tanto  questa  vergogna  che  s'è  botato,  quan- 
do la  non  si  palesi,  dare  trecento  ducati  per  l'amore  di 
Dio... 

NiciA     Che  chiacchiera  !  " . 

LiGURio  (State  cheto  !  ) . . .  e  daragli  per  le  vostre  mani.  E 
voi  solo  e  la  badessa  ci  potete  rimediare. 

FRATE     Come  ? 

LiGURio  Persuadere  alla  badessa  che  dia  una  pozione  al- 
la fanciulla,  per  farla  sconciare'^ 

FRATE     Cotesta  è  cosa  da  pensarla". 

LiGURio  Come,  cosa  da  pensarla  ?  Guardate,  nel  far  que- 
sto, quanti  beni  ne  resulta.  Voi  mantenete  l'onore  al 
munistero,  alla  fanciulla,  a'  parenti'*;  rendete  al  padre 
una  figliuola;  satisfate  qui  a  Messere,  a  tanti  sua  pa- 
renti; fate  tante  elemosine,  quante  con  questi  trecento 
ducati  potete  fare.  E  da  altro  canto,  voi  non  offendete 
altro  che  un  pezzo  di  carne  non  nata,  senza  senso'^  che 
in  mille  modi  si  può  perdere.  Ed  io  credo  che  quel  sia 
bene  che  facci  bene  a'  più  e  che  e  più  se  ne  contentino'^ 

FRATE  Sia,  col  nome  di  Dio.  Faccisi  ciò  che  voi  volete, 
e  per  Dio  e  per  carità  sia  fatto  ogni  cosa.  Ditemi  el  mu- 
nistero, datemi  la  pozione,  e,  se  vi  pare,  cotesti  dana- 
ri, da  potere  cominciare  a  fare  qualche  bene. 

LiGURio  Or  mi  parete  voi"  quel  religioso  che  io  credevo 
che  voi  fussi.  Togliete  questa  parte  de'  danari.  El  mu- 


12.  per cervellinaggme:  per  poco  cervello;  per  leggerezza  (si  diceva  cervellina  una 
ragazza  sventata).  13.  Che  chiacchiera!  :  Che  bella  storia!  14.  per  farla  scon- 
ciare: per  farla  abortire,  i^.  da  pensarla:  da  pensarci  bene  sopra,  da  rifletter- 
ci su.  16.  Guardate...  parenti:  il  Martelli,  Vers.,  247,  e  il  Raimondi,  Poi.,  175, 
hanno  messo  in  rilievo  l'accostamento  di  questo  passo  con  quello  dell'/l.,  Ili, 
3:  «...  ma,  se  si  corregge,  guarda  quanti  beni:  in  prima  tu  restituirai  ad  uno  tuo 
amico  uno  figliuolo,  tu  arai  uno  genero  fermo  e  la  tua  figliuola  marito».  17. 
sanza  senso:  priva  ancora  della  minima  sensibilità.  18.  che  quel...  contentino: 
che  il  vero  bene  sia  il  bene  di  pili  persone,  il  bene  che  più  persone  soddisfa.  19. 
Or...  voi:  Ora  si  che  mi  sembrate... 


ATTO  TERZO  I O I 

nistero  è. . .  Ma  aspettate.  E'  gli  è  qui  in  chiesa  una  don- 
na che  mi  accenna^".  Io  torno  ora  ora:  non  vi  partite  da 
messer  Nicia.  Io  le  vo'  dire  dua  parole. 


SCENA  QUINTA 

Frate,  messer  Nicia. 


FRATE     Questa  fanciulla,  che  tempo  ha'  ? 

NICIA     Io  strabilio. 

FRATE     Dico:  quanto  tempo  ha  questa  fanciulla? 

NICIA     Mal  che  Dio  gli  dia  !  ^ 

FRATE     Perché  ? 

NICIA     Perché  se  rabbia\ 

FRATE  (E'  mi  pare  essere  nel  gagno\  Io  ho  a  fare  con  uno 
pazzo  e  con  un  sordo:  l'un  si  fugge,  l'altro  non  ode.  Ma 
se  questi  non  sono  quarteruoli',  io  ne  farò  meglio  di  lo- 
ro. Ecco  Ligurio  che  torna  in  qua). 


SCENA  SESTA 

Ligurio,  frate,  messer  Nicia. 


LIGURIO     (State  cheto,  messere).  Oh!  io  ho  la  gran  nuo- 
va, frate. 


20.  che  mi  accenna:  che  mi  fa  cenno.  Il  verbo,  non  più  per  allontanare,  ma  per 
avvicinare  e  riunire  i  personaggi,  ritorna  in  V,  6:  Accennategli. 

V.  I .  che  tempo  ha:  quanti  anni  ha.  2.  Mal  che  Dio  gli  dia!  :  Che  Dio  lo  ma- 
ledica! La  «sordità»  di  Nicia  è  dovuta  all'ira  verso  Ligurio  di  cui  non  riesce  ad 
apprezzare  la  strategia.  Lo  ammetterà  di  qui  a  poco  (III,  7)  in  un  vibrante  mo- 
nologo: ...  e  Dio  Usa  con  che  proposito!  3.  Perché  se  l'abbia!  :  Perché  se  la  ten- 
ga, la  mia  maledizione.  4.  E' ...  gagno:  Mi  sembra  d'essere  in  un  bel  pasticcio. 
Cagno  vale,  letteralmente,  tana,  buca,  giaciglio  di  bestie  selvatiche.  5.  se... 
quarteruoli:  se  queste  monete  (già  versate  da  Ligurio)  non  sono  false.  Il  quarte- 
ruolo  era  un  gettone  d'ottone  con  cui  era  facile  falsificare  un  fiorino. 


I02  MANDRAGOLA 

FRATE     Quale  ? 

LiGURio  Quella  donna  con  chi  io  ho  parlato,  mi  ha  det- 
to che  quella  fanciulla  si  è  sconcia  per  se  stessa'. 

FRATE     Bene!  (Questa  limosina  andrà  alla  grascia^). 

LiGURio     Che  dite  voi  ? 

FRATE  Dico  che  voi  tanto  più  doverrete  fare  questa  li- 
mosina. 

LiGURio  La  limosina  si  farà,  quando  voi  vogliate.  Ma  e' 
bisogna  che  voi  facciate  un'altra  cosa  in  benefizio  qui 
del  dottore. 

FRATE     Che  cosa  è? 

LiGURio  Cosa  di  minor  carico,  di  minor  scandolo,  più  ac- 
cetta a  noi  e  più  utile  a  voi. 

FRATE  Che  è  ?  Io  sono  in  termine  con  voi^  e  parmi  ave- 
re contratta  tale  dimestichezza,  che  non  è  cosa  che  io 
non  facessi. 

LiGURio  Io  ve  lo  vo'  dire  in  chiesa,  da  me  a  voi^  ed  el 
dottore  fia  contento  d'aspettare  qui  e  prestarmi  dua  pa- 
role. Aspettate  qui:  noi  torniamo  ora. 

NiciA     Come  disse  la  botta  a  l'erpice'. 

FRATE     Andiamo. 


VI.  I .  sì. . .  stessa:  ha  abortito  da  sola.  2 .  questa.. .  grascia:  letteralmente:  que- 
sta elemosina  andrà  al  fisco  (la  Grascia  era  la  magistratura  delle  gabelle).  Ma 
vuol  dire:  «queste  monete  me  le  tengo  e  godo  io».  3.  Io...  con  voi:  Ho  preso 
impegno  con  voi  {essere  in  termine  era  espressione  legata  alla  transazione  com- 
merciale). 4.  da  me  a  voi:  a  tu  per  tu,  senza  testimoni.  5.  Come  disse  la  bot- 
ta all'  erpice:  Come  disse  il  rospo  all'erpice.  Nella  lettera  del  16-20  ottobre  1525 
al  Guicciardini,  Machiavelli  spiegò  cht  la  frase  veniva  usata  «quando  si  vuole 
che  uno  non  torni».  Il  rospo,  infatti,  era  stato  grattato  sulla  schiena  dai  denti 
dell'erpice  (un  arnese  in  legno,  che  serviva  a  spianare  il  terreno  prima  della  se- 
minagione): e,  secondo  un'antica  tradizione  contadina  toscana,  aveva  urlato: 
«Senza  tornata!  » 


ATTO  TERZO  103 

SCENA  SETTIMA 

Messer  Nicia  solo. 


NICIA  E  egli  di  di  o  di  notte  ?  Sono  io  desto  o  sogno  ?  So- 
no io  obliàco\  e  non  ho  beuto^  ancora  oggi,  per  ire  drie- 
to  a  questa  chiacchiera  ?  Noi  rimangnàn^  di  dire  al  fra- 
te una  cosa:  e'  ne  dice  un'altra.  Poi  volle  che  io  faces- 
si el  sordo,  e  bisognava  m'impeciassi  gli  orecchi,  come 
el  Danese^  a  volere  che  io  non  avessi  udite  le  pazzie 
che  gli  ha  dette,  e  Dio  il  sa  con  che  proposito.  Io  mi 
truovo  meno'  venticinque  ducati  e  del  fatto  mio  non  si 
è  ancora  ragionato.  Ed  ora  m'hanno  qui  posto,  come 
un  zugo,  a  piuolo^  Ma  eccogli  che  tornano:  in  mala  ora 
per  loro^  se  non  hanno  ragionato  del  fatto  mio. 


VII.  I.  obliàco:  ubriaco  (il  Martelli  adotta  questa  forma,  mentre  altri  editori 
preferiscono  la  forma  imbriaco).  2.  e  non  ho  beuta:  e  dire  che  non  ho  bevu- 
to. 3.  Noi  rimagnàn:  Noi  restiamo  intesi.  4.  bisognava...  come  el  Danese:  sa- 
rebbe stato  necessario  che  mi  turassi  le  orecchie  con  la  pece,  come  Uggeri  il  Da- 
nese. -  Uggeri,  principe  di  Danimarca,  su  consiglio  di  una  fata,  impeciò  le  orec- 
chie sue  e  del  proprio  cavallo  per  non  udire  le  urla  di  Bravieri,  assistito  dal  de- 
monio. E  leggenda  ripresa  in  vari  poemi  cavallereschi.  5.  Io  mi  truovo  meno: 
Io  mi  trovo  alleggerito,  ho  in  meno.  6.  come  un  zugo ,  a  piuolo:  letteralmente: 
come  una  frittella  infilata  nel  suo  stecco.  Metaforicamente:  come  un  idiota  che 
se  ne  sta  impalato  ad  aspettate.  Non  dimentichiamo  che,  per  la  sua  forma,  quel- 
la frittella  di  pasta  su  uno  stecchino  stava  anche  a  suggerire  il  membro,  nel  lin- 
guaggio popolaresco,  ripreso  da  molta  poesia  burlesca.  7.  in  mala  ora  per  loro: 
una  rapida  ripresa  del  Mal  che  Dio  gli  dia!  di  III,  5. 


I 04  MANDRAGOLA 

SCENA  OTTAVA 

Frate,  Ligurie,  messer  Nicia. 


FRATE  Fate  che'  le  donne  venghino:  io  so  quello  ch'i'  ho 
a  dire,  e,  se  l'autorità  mia  varrà,  noi  concluderemo  que- 
sto parentado  questa  sera. 

LiGURio  Messer  Nicia,  fra  Timoteo  è  per  fare  ogni  cosa. 
Bisogna  vedere  che  le  donne  venghino. 

NICIA     Tu  mi  ricrii^  tutto  quanto.  Fia  egli  maschio? 

LiGURio     Maschio. 

NICIA     Io  lacrimo  per  la  tenerezza. 

FRATE  Andatevene  in  chiesa.  Io  aspetterò  qui  le  donne. 
State  in  lato  che  le  non  vi  vegghino;  e,  partite  che  le 
fieno,  vi  dirò  quello  che  io  arò  fatto. 


SCENA  NONA 

Frate  Timoteo  solo. 


FRATE  Io  non  so  chi  si  abbi  giuntato  l'uno  l'altro'.  Que- 
sto tristo  di  Ligurie  ne  venne  a  me  con  quella  prima  no- 
vella per  tentarmi,  acciò,  se  io  li  consentivo  quella^ 
m'inducessi  più  facilmente  a  questa;  se  io  non  gliene 
consentivo,  non  mi  arebbe  detta  questa  per  non  palesa- 
re e  disegni  loro  sanza  utile:  e  di  quella*  che  era  falsa  non 


vm.  I.  Fate  che:  Fate  in  modo  che:  come,  qui  sotto,  Bisogna  vedere  che:  «É 
necessario  essere  sicuri  che...  ».  2.  Tu  mi  ricrii:  Tu  mi  ricrei:  mi  infondi  nuo- 
va vita. 

IX.  I.  lo...  l'altro:  Io  non  so  chi  di  noi  due,  Ligurio  ed  io,  abbia  truffato  l'al- 
tro. 2.  se...  quella:  se  io  ero  disposto  ad  acconsentire  (cioè  ad  accordarmi  e  a 
collaborare)  circa  quella  prima  faccenda.  3.  e  di  quella:  e  delle  possibili  con- 
seguenze di  quella  prima  storia... 


ATTO  TERZO  IO5 

si  curavano.  E'  gli  è  vero  che  io  ci  sono  suto  giuntato: 
nondimeno,  questo  giunto'*  è  con  mio  utile.  Messer  Ni- 
cia  e  Callimaco  sono  ricchi,  e  da  ciascuno,  per  diversi 
rispetti,  sono  per  trarre  assai'.  La  cosa  convien  stia  se- 
creta, perché  l'importa  cosi  a  loro,  a  dirla,  come  a  me*. 
Sia  come  si  voglia,  io  non  me  ne  pento.  E  ben  vero  che 
io  dubito  non  ci  avere  difficultà',  perché  madonna  Lu- 
crezia è  savia  e  buona.  Ma  io  la  giugnerò  in  sulla  bontà*. 
E  tutte  le  donne  hanno  alla  fine  poco  cervello,  e,  come 
ne  è  una  sappi  dire  dua  parole,  e'  se  ne  predica',  perché 
in  terra  di  ciechi  chi  vi  ha  un  occhio  è  signore'".  Ed  ec- 
cola con  la  madre,  la  quale  è  bene  una  bestia'',  e  sarammi 
uno  grande  adiuto  a  condurla  alle  mia  voglie. 


SCENA  DECIMA 

Sostrata,  Lucrezia. 


SOSTRATA  Io  credo  che  tu  creda,  figliuola  mia,  che  io  sti- 
mi l'onore  ed  el  bene  tuo  quanto  persona  del  mondo', 
e  che  io  non  ti  consiglierei^  di  cosa  che  non  stessi  bene. 
Io  ti  ho  detto  e  ridicoli,  che  se  fra  Timoteo  ti  dice  che 
non  ti  sia  carico  di  conscienzia,  che  tu  lo  faccia  sanza 
pensarvi. 

LUCREZIA  Io  ho  sempre  mai  dubitato  che  la  voglia  che 
messer  Nicla  ha  d'avere  figliuoli,  non  ci  facci  fare  qual- 


4.  questo  giunto:  la  beffa  che  (apparentemente)  ho  patito.  5.  per  trarre  assai: 
sott.:  in  denari.  6.  l'importa...  me:  sia  loro  che  io,  non  abbiamo  nessun  inte- 
resse che  la  cosa  si  sappia.  7.  dubito...  difficultà:  temo  che  incontrerò  degli 
ostacoli.  ?>.  la...  bontà:  la  coglierò  sulla  bontà:  puntando  sulla  sua  bontà  d'ani- 
mo. 9.  e'  se  ne  predica:  se  ne  parla  in  giro  e  con  molta  lode.  io.  in...  signore: 
è  il  motto  del  latino  medievale:  «Monoculus  in  regno  caecorum».  11.  la  qua- 
le... bestia:  che  ha  una  malvagità  d'animo  quasi  ferina. 

X.  I.  lo  credo...  mondo:  il  Martelli,  Vers.,  i-jiyt  Raimondi,  Poi,  174,  hanno 
accostato  questo  incipit  di  Sostrata  ad  analogo  nell'/l.,  V,  4:  Martelli  ha  anche 
ricordato  in  C,  V,  2:  «Io  credo  che  tu  creda  che  m'incresca  di  te  e  di  me».  2. 
non  ti  consiglierei:  e  non  ti  suggerirei  di  fare... 


I06  MANDRAGOLA 

che  errore.  E  per  questo,  sempre  che  lui  mi  ha  parlato  di 
alcuna  cosa,  io  ne  sono  stata  in  gelosia^  e  sospesa'*,  mas- 
sime poi  che  m'intervenne  quello  che  vi  sapete,  per  an- 
dare a'  Servi'.  Ma  di  tutte  le  cose  che  si  sono  tentate, 
questa  mi  pare  la  più  strana,  di  avere  a  sottomettere  el 
corpo  mio  a  questo  vituperio^  ad  esser  cagione  che  uno 
uomo  muoia  per  vituperarmi.  Perché  io  non  crederrei, 
se  io  fussi  sola  rimasa  nel  mondo  e  da  me  avessi  a  risurge- 
re  l'umana  natura^  che  mi  fussi  simile  partito  concesso. 

sosTRATA  Io  non  ti  so  dire  tante  cose,  figliuola  mia.  Tu 
parlerai  al  frate,  vedrai  quello  che  ti  dirà,  e  farai  quel- 
lo che  tu  dipoi  sarai  consigliata  da  lui,  da  noi,  da  chi  ti 
vòle  bene. 

LUCREZIA     Io  sudo  per  la  passione. 


SCENA  UNDECIMA 

Frate,  Lucrezia,  Sostrata. 

FRATE  Voi  siate  le  benvenute.  Io  so  quello  che  voi  vo- 
lete intendere  da  me,  perché  messer  Nicia  mi  ha  par- 
lato. Veramente  io  sono  stato  in  su'  libri  più  di  dua  ore 
a  studiare  questo  caso,  e  dopo  molte  essamina'  io  truo- 
vo  di  molte  cose  che  in  particulare  ed  in  generale,  fan- 
no per  noi. 

LUCREZIA     Parlate  voi  da  vero,  o  motteggiate^  ? 

FRATE  Ah!,  madonna  Lucrezia,  sono  queste  cose  da 
motteggiare  ?  Avetemi  voi  a  conoscere  ora  ? 


3.  in  gelosia:  con  un'ombra  di  sospetto.  4.  sospesa:  tutta  in  apprensione.  Ni- 
cia ha  già  anticipato  che  ella  sia  in  orecchi  come  la  lepre,  in  III,  2.  5.  per  anda- 
re a'  Servi:  è  lo  sgradevole  incidente  di  cui  è  stata  vittima,  dopo  aver  seguito, 
forse  venti  mattine .. .  la  prima  messa  de'  Servi:  come  ha  spiegato  Nicia  (III,  2).  6. 
a  questo  vituperio:  alla  vergogna  d'essere  posseduta  da  uno  sconosciuto.  7.  e 
da  me...  natura:  ed  io  fossi,  per  assurdo,  una  nuova  Eva,  la  progenitrice  degli 
uomini. 

XI.     I .  dopo. . .  essamina:  dopo  molte  verifiche.     2 .  motteggiate:  scherzate  [mot- 
to era  battuta  spiritosa,  detta  per  ridere). 


ATTO  TERZO  IO7 

LUCREZIA  Padre,  no.  Ma  questa  mi  pare  la  più  strana  co- 
sa che  mai  si  udissi. 

FRATE  Madonna,  io  ve  lo  credo\  Ma  io  non  voglio  che 
voi  diciate  più  cosi.  E'  sono  molte  cose  che  discosto 
paiano  terribili,  insopportabili,  strane,  che,  quando  tu 
ti  appressi  loro,  le  riescono  umane,  sopportabili,  do- 
mestiche'': e  però  si  dice  che  sono  maggiori  li  spaventi 
che  e  mali;  e  questa  è  una  di  quelle, 

LUCREZIA     Dio  el  voglia. 

FRATE  Io  voglio  tornare  a  quello  ch'io  dicevo  prima.  Voi 
avete,  quanto  alla  conscienzia,  a  pigliare  questa  gene- 
ralità': che  dove  è  un  bene  certo  ed  un  male  incerto, 
non  si  debbe  mai  lasciare  quel  bene  per  paura  di  quel 
male^  Qui  è  un  bene  certo,  che  voi  ingraviderete,  ac- 
quisterete una  anima  a  messer  Domenedio.  El  male  in- 
certo è  che  colui  che  lacera  con  voi  dopo  la  pozione,  si 
muoia;  e'  si  truova  anche  di  quelli  che  non  muoiano^ 
ma,  perché  la  cosa  è  dubia,  però  è  bene  che  messer  Ni- 
cla non  corra  quel  periculo.  Quanto  allo  atto,  che  sia 
peccato,  questo  è  una  favola:  perché  la  volontà  è  quel- 
la che  pecca,  non  el  corpo;  e  la  cagion  del  peccato  è  di- 
spiacere al  marito,  e  voi  li  compiacete;  pigliarne  piace- 
re, e  voi  ne  avete  dispiacere.  Oltra  di  questo,  el  fine  si 
ha  a  riguardare  in  tutte  le  cose:  e  '1  fine  vostro  è  riem- 
piere una  sedia  in  paradiso  e  contentare  el  marito  vo- 
stro. Dice  la  Bibia  che  le  figliuole  di  Lotto,  credendo- 
si essere  rimase  sole  nel  mondo,  usorono  con  el  padre; 
e  perché  la  loro  intenzione  fu  buona,  non  peccorono*. 


3.  io  ve  lo  credo:  posso  credervi.  4.  dimestiche:  consuete,  normali:  contrappo- 
sto all'ultimo  nella  terna  di  aggettivi  precedenti,  strane,  cioè  inconsuete,  anor- 
mali. 5.  a  pigliare  questa  generalità:  ad  attenervi  a  questa  regola  d'ordine  gene- 
rale. 6.  che,  dove...  male:  il  Raimondi,  Poi.  183,  ha  richiamato,  in  proposito,  il 
passo  di  una  lettera  del  20  dicembre  15 14  al  Vettori:  «e  se...  io  vegga  che  acco- 
standomi con  l'altro  glie  ne  dia  dubbia,  credo  che  sarà  da  pigliare  la  certa. . .  ».  7. 
ma...  non  muoiono:  Timoteo,  per  persuadere  la  donna,  ha,  per  cosi  dire,  attenuato 
le  statistiche.  Per  impressionare  Nicia,  Callimaco  era  stato  altrimenti  rigido:  ... 
che  quello  uomo  che  ha  prima  a  fare  seco,  presa  che  l'ha.cotesta  pozione,  muore  in- 
fra otto  giorni,  e  non  lo  camperebbe  el  mondo  (II,  6).  8.  Dice...  non  peccarono: 
l'episodio  delle  figlie  di  Lot  che  si  giacciono  col  padre  perché  convinte  che  non 
vivesse  più  altro  uomo  sulla  faccia  della  terra  è  narrato  in  Genesi,  19.  30-37. 


Io8  MANDRAGOLA 

LUCREZIA     Che  cosa'  mi  persuadete  voi  ? 

SOSTRATA  Lasciati  persuadere,  figliuola  mia.  Non  vedi 
tu  che  una  donna  che  non  ha  figliuoli  non  ha  casa? 
muorsi  el  marito,  resta  come  una  bestia,  abandonata  da 
ognuno. 

FRATE  Io  vi  giuro,  Madonna,  per  questo  petto  sacro'", 
che  tanta  conscienzia"  vi  è  ottemperare  in  questo  caso 
al  marito  vostro,  quanto  vi  è  mangiare  carne  el  merco- 
ledì, che  è  un  peccato  che  se  ne  va  con  l'acqua  bene- 
detta''. 

LUCREZIA     A  che  mi  conducete  voi,  padre  ? 

FRATE  Conducovi  a  cose,  che"  voi  sempre  arete  cagio- 
ne''* di  pregare  Dio  per  me,  e  più  vi  satisfarà  questo  al- 
tro anno"  che  ora. 

SOSTRATA  Ella  farà  ciò  che  voi  volete.  Io  la  voglio  met- 
tere stasera  al  letto  io.  Di  che  hai  tu  paura,  moccico- 
na'^?  E'  ci  è  cinquanta  donne,  in  questa  terra,  che  ne 
alzerebbono  le  mani  al  cielo". 

LUCREZIA  Io  sono  Contenta:  ma  io  non  credo  mai  essere 
viva  domattina. 

FRATE  Non  dubitare,  figliuola  mia,  io  pregherrò  Iddio 
per  te;  io  dirò  l'orazione  dell'Angiolo  Raffaello'*,  che 
ti  accompagni.  Andate  in  buona  ora  e  preparatevi  a  que- 
sto misterio,  che  si  fa  sera. 


9.  Che  cosa:  A  quale  atto.  io.  per...  sacro:  su  questo  petto  consacrato.  11. 
tanta  conscienzia:  tanto  carico  di  coscienza,  tanta  responsabilità  morale.  Anco- 
ra una  connessione  all'interno  del  testo:  è  qui  che  Timoteo  scioglie  il  dubbio, 
calcolatamente  sollevato  da  Sostrata  in  apertura  della  scena  precedente  (III, 
io):  Io  ti  ho  detto  e  ridico  ti,  che  se  fra  '  Timoteo  ti  dice  che  non  ti  sia  carico  di  con- 
scienzia... 12.  che...  benedetta:  cioè,  veniale.  13.  che:  a  seguito  delle  quali, 
una  volta  che  siano  accadute.  14.  arete  cagione:  avrete  motivo.  15.  questo 
altro  anno:  l'anno  prossimo.  16.  moccicona:  bambinona.  17.  che...  alcielo: 
che  ringrazierebbero  Dio  a  palme  levate.  18.  l'orazione  dell'  Angiolo  Raffael- 
lo: il  Raimondi,  Poi.,  203-4,  ha  additato  in  un  passo  del  libro  di  Tobia  (6,  14-22) 
il  brano  cui  intende  riferirsi,  parodicamente,  Timoteo.  È  un  brano  di  dialogo 
tra  Tobia  e  l'arcangelo  Raffaele,  in  cui  questi  detta  a  Tobia  le  disposizioni  di- 
vine che  regoleranno  i  suoi  rapporti  con  la  casta  Sara.  Egli  potrà  accostarsi  al- 
la donna  (i  cui  sette  mariti,  per  intervento  del  demonio  Asmodeo,  sono  morti 
nell'appressarsi  alla  copula)  solo  «transacta  autem  tertia  nocte»  e,  naturalmen- 
te, «amore  filiorum  magis  quam  libidine  ductus».  Nella  Mandragola  chi  do- 
vrebbe morire  non  muore  (Callimaco)  e  la  libidine  non  fa  difetto. 


ATTO  TERZO  109 

SOSTRATA     Rimanete  in  pace,  padre. 
LUCREZIA     Dio  m'aiuti  e  la  Nostra  Donna,  che  io  non  ca- 
piti male. 


SCENA  DUODECIMA 

Frate,  Ligurie,  messer  Nicla. 


FRATE     O  Ligurlo,  uscite  qua! 

LiGURio     Come  va  ? 

FRATE  Bene.  Le  ne  sono  ite  a  casa  disposte  a  fare  ogni 
cosa,  e  non  ci  fia  difficultà'  perché  la  madre  s'andrà  a 
stare  seco  e  vuoila  mettere  al  letto  lei^ 

NiciA     Dite  voi  el  vero  ? 

FRATE     Benbè',  voi  séte  guarito  del  sordo  ? 

LiGURio     Santo  Chimenti''  gli  ha  fatto  grazia. 

FRATE  E'  si  vuol  porvi  uua  immagine'  per  rizzarci  un  po- 
co di  baccanella^  acciò  che  io  abbia  fatto  quest'altro 
guadagno  con  voi. 

NICLA  No'  entriano  in  cetere^  Farà  difficultà  la  donna, 
di  fare  quel  ch'io  voglio  ? 


xn.  I .  e  non  ci  fia  difficultà:  Timoteo  ha  superato  le  perplessità  di  III,  9:  È  ben 
vero  che  io  dubito  non  ci  avere  difficultà...  2.  vuoila  mettere  al  letto  lei:  per  la 
verità,  di  questa  ferma  intenzione  materna  [lo  la  voglio  mettere  stasera  al  letto 
io,  ha  detto  Sostrata  in  III,  11)  non  troveremo  traccia  nel  resoconto  «a  poste- 
riori» di  Nicla:  Mogliama  era  nel  letto  al  buio.  Sostrata  m'aspettava  al  fuoco.  Lo 
spettatore,  attento  alla  rievocazione  di  ciò  ch'era  accaduto  fuori  scena,  si  do- 
vrà contentare  di  immaginare  Nicla  e  la  suocera  alle  man'  seco,  cioè  alle  prese 
con  Lucrezia,  senz'altra  specificazione  (vedi  V,  2).  3.  Bembè:  Embè,  ebbe- 
ne. 4.  Santo  Chimenti:  San  Clemente.  5.  E...  una  immagine:  circolarmente, 
mediante  questa  battuta,  la  scena  finale  del  terzo  si  collega  al  monologo  inizia- 
le del  quinto  atto:  lo  mi  ricordo  esservi  cinquecento  immagine,  e  non  ve  ne  sono 
oggi  venti...  (V,  i).  6.  per...  baccanella:  per  farci  un  po'  di  chiasso  intorno  (bac- 
canella  è  diminutivo  di  baccano)  e  trarci  altro  lucro,  come  da  un  culto  rinvigo- 
rito {acciò  che  io  abbia  fatto  quest  'altro  guadagno),  grazie  alla  vostra  inattesa  gua- 
rigione [con  voi).  7.  Non...  in  cetere:  Non  entriamo  in  altri  argomenti,  non  di- 
vaghiamo (è  sempre  il  piccolo  formulario  delle  pandette;  lo  stesso  richiamo  al- 
la pertinenza  del  discorso  giuridico  -  parodizzato,  s'intende  -  è  nel  Ma  tornia- 
mo ad  rem  nostram  di  II,  2). 


no  MANDRAGOLA 

FRATE      No,  vi  dico. 

NiciA     Io  sono  el  più  contento  uomo  del  mondo. 

FRATE  Credolo.  Voi  vi  beccherete  un  fanciul  mastio,  e 
chi  non  ha  non  abbia*. 

LiGURio  Andate,  frate,  a  le  vostre  orazioni,  e  se  biso- 
gnerà altro  vi  verreno  a  trovare.  Voi,  messere,  andate 
a  la  donna,  per  tenerla  ferma  in  questa  oppinione',  ed 
io  andrò  a  trovare  maestro  Callimaco,  che  vi  mandi  la 
pozione;  ed  a  l'un'ora  fate  che  io  vi  rivegga  per  ordi- 
nare quello  che  si  de'  fare  alle  quattro. 

NiciA     Tu  di'  bene.  Addio! 

FRATE     Andate  sani. 


Canzone 
dopo  il  terzo  atto 

Si  suave  è  lo  inganno 
al  fin  condotto  imaginato  e  caro', 
ch'altrui  spoglia  d'affanno, 
e  dolce  face^  ogni  gustato  amaro\ 
O  rimedio  alto  e  raro, 
tu  mostri  il  dritto  calle"*  all'alme  erranti; 
tu,  col  tuo  gran  valore, 
nel  far  beato  altrui,  fai  ricco  Amore; 
tu  vinci,  sol  co'  tuoi  consigli  santi, 
pietre,  veneni'  e  incanti. 


8.  e  chi  non  ha  non  abbia:  e  chi  non  può  averne,  peggio  per  lui.  Ma  è  evidente 
l'ironia  di  questo  proverbio,  almeno  nel  dettato,  assurdamente  tautologico.  9. 
per...  opinione:  perché  non  muti  parere. 

CANZONIE.  I.  al  fin...  caro:  condotto  a  quegli  esiti  che  si  erano  vagheggiati  e 
ci  son  cari.  2. face:  è  verbo:  fa,  rende.  3.  ogni  gustato  amaro:  ogni  sapore  ama- 
ro; cioè,  ogni  amarezza  che  siamo  stati  costretti  ad  assaporare.  4.  il  dritto  cal- 
le: la  diritta  via.  Le  quattro  canzoni  oscillano,  per  lessico  ed  immagini,  tra  dan- 
tismo e  petrarchismo.  5.  veneni:  viene  da  pensare  (ancora  una  volta  a  contra- 
rio) alla  pozione,  e  alla  mandragola. 


ATTO  QUARTO 


SCENA  PRIMA 

Callimaco  solo. 


CALLIMACO  Io  vorrei  pure  intendere  quello  che  costoro 
hanno  fatto  -  Può  egli  essere  che  io  non  rivegga  Ligu- 
rio?  e,  non  che  le  ventitré,  le  sono  le  ventiquattro  ore. 
In  quanta  ansietà  d'animo'  sono  io  stato  e  sto!  Ed  è  ve- 
ro che  la  fortuna  e  la  natura  tiene  el  conto  per  bilan- 
cio^  la  non  ti  fa  mai  un  bene  che  a  l'incontro  non  sur- 
ga  un  male'.  Quanto  più  mi  è  cresciuta  la  speranza,  tan- 
to mi  è  cresciuto  el  timore.  Misero  a  me!  sarà  egli  mai 
possibile  che  io  viva  in  tanti  affanni  e  perturbato  da 
questi  timori  e  queste  speranze  ?  Io  sono  una  nave  ves- 
sata da  dua  diversi  venti,  che  tanto  più  teme,  quanto 
ella  è  più  presso  al  porto\  La  simplicità  di  messer  Ni- 
cla mi  fa  sperare;  la  prudenzia  e  durezza'  di  Lucrezia 
mi  fa  temere.  Ohimè,  che  io  non  truovo  requie*  in  al- 
cun loco!  Talvolta  io  cerco  di  vincere  me  stesso,  ri- 
prendomi'  di  questo  mio  furore,  e  dico  meco:  «Che  fai 


I.  I.  ansietà  d'animo:  angoscia.  2.  Ed  è  vero...  bilancio:  Ed  è  vero  che  la  for- 
tuna e  la  natura  scrivono  il  dare  accanto  aU'avere  (tenere  il  conto  per  bilancio  è 
verbo  del  computo  mercantile  medievale:  designa  l'atto  di  trascrivere,  nel  li- 
bro di  bilancio,  i  crediti  a  fianco  dei  debiti).  3.  la...  un  male:  esse  non  ti  elar- 
giscono mai  un  bene  senza  che  poi,  a  contrasto,  non  ne  nasca  un  male.  «Sull'al- 
ternanza fatale  di  bene  e  di  male,  si  è  ricondotti  alle  massime  dei  Discorsi,  I,  vi 
e  III,  xxxvii»  (Raimondi).  4.  lo  sono  una  nave...  porto:  Io  sono  come  una  na- 
ve che  patisce  la  furia  di  due  venti  opposti  e  che  teme  tanto  più  quanto  pili  è 
prossima  al  porto.  C'è  un  indubbio  riscontro,  suggerito  dal  Raimondi,  Poi., 
183,  con  una  lettera  del  31  gennaio  151 5:  «...  unici  miei  porti  e  miei  refugi  al 
mio  legno  già  rimaso  per  la  continova  tempesta  sanza  timone  e  sanza  ve- 
le...». 5.  la  prudenzia  e  durezza:  «la  saggezza  e  l'intransigenza»  (Berardi).  In 
I,  I,  Callimaco  aveva  sottolineato  la  natura  di  lei,  che  è  onestissima  ed  al  tutto 
aliena  dalle  cose  d'amore.  6.  non  truovo  requie:  non  trovo  quiete,  non  mi  rac- 
quieto.    7.  riprendomi:  mi  rimprovero. 


112  MANDRAGOLA 

tu  ?  se'  tu  impazzato  ?  quando  tu  l'ottenga,  che  fia  ?  Co- 
noscerai el  tuo  errore,  pentira'ti  delle  fatiche  e  de'  pen- 
sieri che  hai  auti.  Non  sai  tu  quanto  poco  bene  si  truo- 
va  nelle  cose  che  l'uomo  desidera,  rispetto  a  quello  che 
l'uomo  ha  presupposto  trovarvi?  Dall'altro  canto*,  el 
peggio  che  te  ne  va  è  morire  ed  andare  in  inferno:  e' 
son  morti  tanti  degli  altri,  e'  sono  in  inferno  tanti  uo- 
mini da  bene'!  Ha'ti  tu  da  vergognare  d'andarvi  tu? 
Volgi  el  viso  alla  sorte'",  fuggi  el  male,  o,  non  lo  po- 
tendo fuggire,  sopportalo  come  uomo".  Non  ti  pro- 
sternere,  non  ti  invilire'^  come  una  donna».  E  così  mi 
fo  di  buon  cuore".  Ma  io  ci  sto  poco  su,  perché  da  ogni 
parte  mi  assalta  tanto  disio  d'essere  una  volta  con  co- 
stei''', che  io  mi  sento  dalle  piante  de'  pie  al  capo  tutto 
alterare:  le  gambe  triemano,  le  viscere  si  commuovano, 
el  cuore  mi  si  sbarba  del  petto,  le  braccia  s'abandono- 
no,  la  lingua  diventa  muta,  gli  occhi  abarbagliano,  el 
cervello  mi  gira''.  Pure,  se  io  trovassi  Ligurio,  io  arei 
con  chi  sfogarmi'^  Ma  ecco  che  ne  viene  verso  me  rat- 
to: el  rapporto  di  costui''  mi  farà  o  vivere  allegro  qual- 
che poco  o  morire  affatto. 


8.  Da  l'altro  canto:  sott.:  «Mi  dico...».  9.  e'  sono...  bene:  vien  da  pensare 
all'epigramma  machiavelliano  La  notte  che  mori' Pier Soderini,  con  «l'anima  scioc- 
ca» del  gonfaloniere,  che  all'ingresso  dell'Inferno  è  ricacciata  da  Plutone  «su 
nel  limbo  fra  gli  altri  bambini»,  io.  Volgi...  sorte:  Guarda  in  faccia  la  Fortu- 
na, non  temerla.  «La  locuzione...  appartiene  al  lessico  politico-eroico  del  Ma- 
chiavelli, a  indicare  uno  dei  gesti  essenziali  dell'uomo  "virtuoso"»  (Raimon- 
di). II.  come  uomo:  da  vero  uomo.  12.  non  ti...  invilire:  non  piegarti,  non 
avvilirti.  13.  mi  fo  di  buon  cuore:  riprendo  coraggio.  14.  d'essere  una  volta 
con  costei:  di  giacere  una  volta  con  costei.  Ha  la  stessa  pregnanza  del  «fare  se- 
co» di  II,  6.  15.  che...  mi  gira:  il  Raimondi,  Poi.,  201,  ha  situato  questo  au- 
toritratto amoroso  di  Callimaco  «nell'area  dell'elegia  erotica,  da  Catullo  a  Ti- 
bullo»; ed  ha  aggiunto  che  «può  poi  accostarsi...  agli  esametri  del  De  rerum  na- 
tura (III,  152-58),  in  cui  il  canto  di  Saffo  diventa  analisi  fisiologica,  semeioti- 
ca clinica...»  -  Mi  si  sbarba  sta  per:  mi  si  svelle  (le  barbe  sono  le  radici:  «Di  poi, 
li  stati  che  vengano  subito,  come  tutte  le  altre  cose  della  natura  che  nascono  e 
crescono  presto,  non  possono  avere  le  barbe  e  corrispondenzie  loro...»,  leggia- 
mo nel  settimo  capitolo  del  Principe).  16.  arei  con  chi  sfogarmi:  si  pensa  a  III, 
3  :  ...  e'  mi  basta  essermi  sfogata  un  poco.. .  ij.  el  rapporto  di  costui:  quanto  co- 
stui mi  riferirà,  -  Il  Martelli,  Vers.,  211,  ha  ricordato,  per  questa  battuta,  una 
analoga  di  Terenzio  [Phormio,  483):  «Nam  per  eius  unam,  ut  audio,  aut  vivam 
aut  moriar  sententiam...». 


ATTO  QUARTO  I  1 3 

SCENA  SECONDA 

Ligurie,  Callimaco. 


LiGURio  Io  non  desiderai  mai  più  tanto  di  trovare  Calli- 
maco e  non  penai  mai  più  tanto'  a  trovarlo.  Se  io  li  por- 
tassi triste  novelle,  io  l'arei  riscontro^  al  primo.  Io  so- 
no stato  a  casa,  in  Piazza,  in  Mercato,  al  Pancone  del- 
li  Spini,  alla  Loggia  de'  Tornaquinci',  e  non  l'ho  tro- 
vato: questi  innamorati  hanno  l'ariento  vivo  sotto  e  pie- 
di" e  non  si  possono  fermare. 

CALLIMACO  (Che  sto  io'  ch'io  non  lo  chiamo  ?  E'  mi  par 
pure  allegro)  Oh,  Ligurio,  Ligurio! 

LiGURio     Oh  Callimaco,  dove  sei  tu  stato? 

CALLIMACO     Che  novelle  ? 

LIGURIO     Buone. 

CALLIMACO     Buone  in  verità  ? 

LIGURIO     Ottime. 

CALLIMACO     El  frate  fece  el  bisogno*  ? 

LIGURIO     Fece. 

CALLIMACO     E  Lucrezia  contenta  ? 

LIGURIO      Sì. 

CALLIMACO  Oh,  benedetto  frate,  io  pregherrò  sempre 
Dio  per  lui'. 

LIGURIO  (Buono!  Come  se  Idio  facessi  le  grazie  del  ma- 
le, come  del  bene!)  El  frate  vorrà  altro  che  prieghi^ 

CALLIMACO     Che  vorrà  ? 


II.  I .  mai  più  tanto:  nessuna  altra  volta  tanto  quanto  questa.  2 .  l'arei  riscon- 
tro: l'avrei  incontrato  di  primo  acchito  {al  primo).  3.  al  Pancone  delli  Spini  .al- 
la Loggia  de'  Tomaquinci:  gli  Spini  e  i  Tornaquinci  sono  due  nobili  casati  fio- 
rentini. 4.  hanno  l'ariento...  piedi:  è  come  se  avessero  del  mercurio,  di  conti- 
nuo mobile,  sotto  i  piedi.  5.  Che  sto  io:  «Perché  indugio?»  (Gaeta).  6.  fece 
el  bisogno:  fece  quant'era  necessario.  7.  Io...  lui:  viene  spontaneo  accostare 
questa  battuta  a  quella  di  Timoteo  a  Lucrezia  (in  III,  1 1):  io  pregherrò  Iddioper 
te...  :  ed  è  fuor  di  dubbio  che  Machiavelli  puntasse  sull'effetto  comico  di  que- 
ste preci  reciproche,  in  ambiente  tutt'altro  che  caritativo:  come  subito  replica 
Ligurio.     8.  altro  che  prieghi:  cioè,  denari. 


114  MANDRAGOLA 

LiGURio     Danari. 

CALLIMACO     Darégliene'.  Quanti  ne  gii  hai  tu  promessi? 

LiGURio     Trecento  ducati. 

CALLIMACO     Hai  fatto  bene. 

LIGURIO     El  dottore  ne  ha  sborsati  venticinque. 

CALLIMACO     Come  ? 

LIGURIO     Bastiti  che  gli  ha  sborsati. 

CALLIMACO     La  madre  di  Lucrezia  che  ha  fatto  ? 

LIGURIO  Quasi  el  tutto.  Come  la  'ntese  che  la  sua  fi- 
gliuola doveva  avere  questa  buona  notte  sanza  pecca- 
to'", la  non  restò  mai  di  pregare,  comandare,  infestare" 
Lucrezia,  tanto  che  ella  la  condusse  al  frate,  e  quivi 
operò  in  modo  che  la  li  consenti. 

CALLIMACO  Oh  Iddio,  per  quali  mia  meriti  debbo  io  ave- 
re tanti  beni!  Io  ho  a  morire  per  l'alegrezza. 

LIGURIO  (Che  gente  è  questa?  Ora  per  l'alegrezza,  ora 
pel  dolore,  costui  vuole  morire  in  ogni  modo'^).  Hai  tu 
ad  ordine'^  la  pozione  ? 

CALLIMACO      Si,  ho. 

LIGURIO     Che  li  manderai  ? 

CALLIMACO  Un  bicchiere  d'ipocrasso''',  che  è  a  proposi- 
to: e'  netta  lo  stomaco,  rallegra  el  cuore...  -  Ohimè, 
ohimè,  ohimè,  i'  sono  spacciato! 

LIGURIO     Che  è  ?  che  sarà  ? 

CALLIMACO     E'  non  ci  è  remedio. 

LIGURIO     Che  diavol  fia  ? 

CALLIMACO  E'  non  si  è  fatto  nulla".  F  mi  son  murato  in 
un  forno'^! 


9.  Darégliene:  E  glieli  daremo,  io.  sanza  peccato:  se  non,  al  massimo,  un  pec- 
cato che  se  ne  va  con  l'acqua  benedetta  (III,  11).  11.  pregare,  comandare,  infe- 
stare: non  sono,  come  qualcuno  ha  scritto,  «tre  verbi  in  disordine»:  Sostrata 
prima  prega,  poi  ordina,  e  infine  la  opprime  con  le  sue  insistenze.  12.  costui... 
modo:  ancora  un  gioco  di  incastri,  giustamente  per  bocca  di  Ligurio:  giacché  è 
partendosi  da  lui  che  Callimaco  (II,  6)  aveva  pronunciato  il  fatidico  lo  son  mor- 
to. 13.  Hai...  ordine:  Hai  tu  preparata,  e  l'hai  pronta...  14.  ipocrasso:  l'hy- 
pocras  era  un  vin  brulé,  un  vino  bollito  con  zucchero  e  spezie.  Aveva  proprietà 
digestive  (è  a  proposito  a  racconciare  lo  stomaco)  e  blandamente  energetiche  (ral- 
legra el  cervello).  15.  E' ...  nulla:  si  può  leggere  la  battuta  secondo  un'intona- 
zione autoironica:  «Non  è  successo  niente,  non  è  niente»;  o,  più  semplicemente, 
in  tono  di  sconforto:  «Non  abbiamo  concluso  nulla».  16.  /'  mi...  forno:  «mi 
sono  precluso  ogni  via  d'uscita»  (Gaeta). 


ATTO  QUARTO  1 1 5 

LiGURio  Perché?  che  non  lo  di'^'?  Levati  le  mani  dal 
viso. 

CALLIMACO  O  non  sai  tu  che  io  ho  detto  a  messer  Nicla 
che  tu,  lui,  Siro  ed  io  piglieremo  uno  per  metterlo  a  la- 
to a  la  moglie'*  ? 

LiGURio     Che  importa  ? 

CALLIMACO  Come,  che  importa  ?  Se  io  sono  con  voi,  non 
potrò  essere  quel  che  sia  preso;  s'io  non  sono'',  e'  s'av- 
vedrà dello  inganno. 

LiGURio     Tu  di'  el  vero.  Ma  non  c'è  egli  rimedio? 

CALLLMACO     Non  credo  io. 

LiGURio     Si,  sarà  bene. 

CALLIMACO     Quale  ? 

LiGURio     Io  voglio  un  po'  pensallo^". 

CALLIMACO  Tu  m'ha'  chiaro^'!  io  sto  fresco,  se  tu  l'hai 
a  pensare  ora  ! 

LiGURio     Io  l'ho  trovato". 

CALLIMACO     Che  cosa? 

LiGURio  Farò  che  '1  frate,  che  ci  ha  aiutato  in  fino  a  qui, 
farà  questo  resto. 

CALLIMACO     In  che  modo  ? 

LiGURio  Noi  abbiamo  tutti  a  travestirci.  Io  farò  trave- 
stire el  frate,  contraffarà  la  voce,  el  viso,  l'abito,  e  dirò 
al  dottore  che  tu  sia  quello;  e'  se  '1  crederrà. 

CALLIMACO     Piacemi;  ma  io  che  farò  ? 

LiGURio  Fo  conto  che  tu  ti  metta  un  pitocchino"  in  dos- 
so, e  con  u'  liuto  in  mano  te  ne  venga  costi,  dal  canto 
della  sua  casa,  cantando  un  canzoncino. 

CALLIMACO     A  viso  scoperto  ? 


17.  Che  non  lo  di' P:  Perché  non  lo  dici,  non  parli  esplicitamente?  i8.  Per... 
moglie:  quando  aveva  delineato  a  Nicla  il  progetto,  Callimaco  aveva  detto:  non 
ci  fia  difficultà  veruna...  (II,  6).  Ora  non  vede  alcun  rimedio  a  quella  specie  di 
trappola.  19.  s' io  non  sono:  se  non  sarò  con  voi,  susciterò  i  suoi  sospetti.  20. 
Io...  pensallo:  Un  altro  rinvio  interno  alla  battuta  di  Timoteo  (III,  4):  Cotesta  è 
cosa  da  pensarla.  2 1 .  Tu  m 'ha  '  chiaro:  Mi  hai  spiegato  tutto.  È  detto  ironica- 
mente, come  un  «Ho  bell'e  capito».  22.  lo  l  ho  trovato:  Per  lo  scambio  che 
precede,  il  Raimondi,  Poi,  175,  ha  richiamato  analogo  passo  dell'/I.,  IV,  i:  «Io 
vo  pensando»  «Hem  Por  ci  pensi?»  «Io  l'ho  già  trovato».  2  j,.  pitocchino:  man- 
telletta  corta. 


Il6  MANDRAGOLA 

LiGURio  Si,  che,  se  tu  portassi  una  maschera,  egli  li  en- 
terrebbe  sospetto. 

CALLIMACO     E'  mi  conoscerà. 

LiGURio  Non  farà,  perché  io  voglio  che  tu  ti  storca  el  vi- 
so, che  tu  apra,  aguzzi  o  digrigni  la  bocca^'*,  chiugga  un 
occhio...  Pruova  un  poco. 

CALLIMACO      Fo  io  cosi? 
LIGURIO      No. 
CALLIMACO      Cosi? 

LIGURIO     Non  basta. 

CALLIMACO     A  questo  modo  ? 

LIGURIO  Sì,  si!  tieni  a  mente  cotesto".  Io  ho  un  naso" 
in  casa:  i'  voglio  che  tu  te  l'appicchi. 

CALLIMACO     Or  bé,  che  sarà  poi? 

LIGURIO  Come  tu  sarai  comparso  in  sul  canto,  noi  saren 
quivi,  torrènti"  el  liuto,  piglierenti,  aggirerenti,  con- 
durrenti  in  casa,  metterenti  al  letto.  El  resto  doverrai 
fare  tu  da  te  ! 

CALLIMACO     Fatto  Sta  condursi  costi". 

LIGURIO  Qui  ti  condurrai  tu",  ma  a  fare  che*"  tu  vi  pos- 
sa ritornare,  sta  a  te,  e  non  a  noi. 

CALLIMACO     Come? 

LIGURIO  Che  tu  te  la  guadagni  in  questa  notte:  che,  in- 
nanzi che  tu  ti  parta,  te  le  dia  a  conoscere,  scuoprale  lo 
'nganno,  mostrile  l'amore  li  porti,  dicale  el  bene  le  vói; 
e  come  sanza  sua  infamia  la  può  esser  tua  amica,  e  con 
sua  grande  infamia  tua  nimica.  E  impossibile  che  la  non 
convenga  teco  e  che  la  voglia  che  questa  notte  sia  sola. 

CALLIMACO     Credi  tu  cotesto  ? 


24-  io...  bocca:  sono,  a  ben  guardare,  i  quattro  movimenti-base  della  mimica 
buccale:  bocca  storta,  bocca  aperta,  bocca  a  punta,  bocca  tesa,  cioè  dilatata  al 
massimo  verso  i  due  zigomi,  con  effetto  di  ghigno  (0  digrigni  la  bocca).  -  Come 
ha  suggerito  il  Martelli,  Vers.,  211,  la  fonte  è  ancora  terenziana  (Phormio, 
210-12).  25.  tieni  a  mente  cotesto:  ricordati  questa  smorfia.  26.  un  naso:  un 
naso  posticcio.  27.  torrenti:  ti  toglieremo  il  liuto.  28.  Fatto...  costi:  L'im- 
portante è  arrivare  fin  qui.  Callimaco  pensa,  probabilmente,  alla  notturna  tra- 
versata di  Firenze,  in  mantellina,  liuto,  e  naso  finto.  29.  Qui...  tu:  Arrivare 
qui  sono  fatti  tuoi;  te  la  devi  veder  tu.  30.  Ma  a  fare  che:  In  quel  ma  c'è  una 
specie  di  «Ed  ancor  più...»,  una  sfumatura  accrescitiva. 


ATTO  QUARTO  II7 

LiGURio  Io  ne  son  certo.  Ma  non  perdiam  più  tempo:  e' 
son  già  dua  ore.  Chiama  Siro,  manda  la  pozione  a  Mes- 
sere e  me  aspetta  in  casa.  Io  andrò  per  il  frate,  farollo 
travestire  e  condurrollo  qui,  e  troverreno  el  dottore  e 
f areno  quello  manca. 

CALLIMACO     Tu  di'  bene.  Va'  via. 


SCENA  TERZA 

Callimaco,  Siro. 


CALLIMACO     O  Siro! 
SIRO     Messere... 

CALLIMACO      Fatti  costì. 

SIRO     Eccomi. 

CALLIMACO  Piglia  qucl  bicchiere  d'argento  che  è  drento 
allo  armario  di  camera,  e,  coperto  con  un  poco  di  drap- 
po, portamelo,  e  guarda  a  non  lo  versare  per  la  via. 

SIRO     Sarà  fatto. 

CALLIMACO  Costui  è  Stato  dieci  anni  meco  e  sempre  m'ha 
servito  fedelmente'.  Io  credo  trovare  anche  in  questo 
caso  fede  in  lui;  e,  benché  io  non  gli  abbi  comunicato 
questo  inganno,  e'  se  lo  indovina,  che  gli  è  cattivo  be- 
ne^  e  veggo  che  si  va  accomodando\ 

SIRO     Eccolo. 

CALLIMACO  Sta  bene.  Tira^  va'  a  casa  messer  Nicla  e  di- 
gli che  questa  è  la  medicina  che  ha  a  pigliare  la  donna 
di  po'  cena  subito;  e  quanto  prima  cena  tanto  sarà  me- 
glio; e  come  noi  sareno  in  sul  canto  ad  ordine  al  tem- 
po, che  facci  d'esservi.  Va'  ratto. 

SIRO     Io  vo. 


IH.  I.  e  sempre...  fedelmente:  in  I,  i,  71,  è  stato  Siro  stesso  a  proclamare  chef 
servi...  debbono  servirgli  (i  padroni)  con  fede.  2.  gli...  bene:  molto  malizioso; 
quasi;  maligno.  3.  che...  accomodando:  che  si  va  adeguando  a  quanto  sta  per 
succedere.  4.  Tira:  Callimaco  verrà  apostrofato  nello  stesso  modo  da  Ligurio, 
in  V,  2:  Via,  ribaldo,  tira  via! 


1 1 8  MANDRAGOLA 

CALLIMACO  Odi  qua.  Se  vòle  che  tu  l'aspetti,  aspettalo 
e  vientene  quivi  con  lui;  se  non  vuole,  torna  qui  a  me, 
dato  che  tu  glien'hai'  e  fatto  che  tu  gli  hai  l'ambascia- 
ta. Intendi? 

SIRO     Messer  si. 


SCENA  QUARTA 

Callimaco  solo. 


CALLIMACO  Io  aspetto  che  Liguri©  torni  col  frate;  e  chi 
dice  che  gli  è  dura  cosa  l'aspettare,  dice  el  vero.  Io  sce- 
mo' ad  ogni  ora  dieci  libre,  pensando  dove  io  sono  ora, 
dove  io  potrei  essere  di  qui  a  due  ore,  temendo  che  non 
nasca  qualche  caso  che  interrompa  el  mio  disegno:  che 
se  fussi^  e'  fia  l'utima  notte  della  vita  mia,  perché  o  io 
mi  gitterò  in  Arno,  o  io  m'impiccherò,  o  io  mi  gitterò 
da  quelle  finestre,  o  io  mi  darò  d'un  coltello^  in  sul- 
l'uscio suo.  Qualche  cosa  farò  io,  perché  io  non  viva 
più.  Ma  veggo  io  Ligurio  ?  Egli  è  desso,  egli  ha  seco  uno 
che  pare  scrignuto",  zoppo:  e'  fia  certo  el  frate  trave- 
stito. Oh,  frati!  conoscine  uno  e  conoscigli  tutti'.  Chi 
è  quell'altro  che  si  è  accostato  a  loro?  E'  mi  pare  Siro, 
che  ara  già  fatto  l'ambasciata  al  dottore.  Egli  è  esso.  Io 
gli  voglio  aspettare  qui,  per  convenire  con  loro^ 


5.  dato...  hai:  una  volta  che  tu  gli  avrai  consegnato  la  pozione. 

IV.  I.  scemo:  perdo  (e  quindi  dimagro).  2.  Che...  fussi:  Perché  se  ciò  doves- 
se accadere.  3.  mi  darò  d'un  coltello:  mi  prenderò  a  coltellate.  4.  scrignuto: 
gobbo.  5.  Oh...  tutti:  E  un  probabile  ricalco  terenziano,  come  ha  suggerito  il 
Martelli,  Ven.,  211  («Unum  cognoris:  omnis  noris»,  dal  Phormio,  265).  Ma  c'è 
anche  una  possibile  eco  virgiliana  (Aeneis,  II,  65-66:  «...  et  crimine  ab  uno  I  di- 
sce  ommis»).     6.  per  convenire  con  loro:  per  unirmi  a  loro. 


ATTO  QUARTO  II9 

SCENA  QUINTA 

Siro,  Ligurie,  Frate  travestito,  Callimaco. 

SIRO     Chi  è  teco,  Ligurio? 

LiGURio     Un  uom  da  bene. 

SIRO     E'  gli  è  zoppo,  o  fa  le  vista'  ? 

LIGURIO     Bada  ad  altro. 

SIRO     Oh!  gli  ha  '1  viso  del  gran  ribaldo. 

LIGURIO  Deh!  sta'  cheto,  che  ci  hai  fracido^  Ove  è  Cal- 
limaco ? 

CALLIMACO     Io  son  qui.  Voi  séte  e  benvenuti! 

LIGURIO  O  Callimaco,  avvertisci  questo  pazzerello  di  Si- 
ro; egli  ha  detto  già  mille  pazzie. 

CALLIMACO  Siro,  odi  qua.  Tu  hai  questa  sera  a  fare  tut- 
to quello  che  ti  dirà  Ligurio,  e  fa  conto,  quando  e'  ti 
comanda,  che  sia  io;  e  ciò  che  tu  vedi,  senti  o  odi,  hai 
a  tenere  segretissimo,  per  quanto  tu  stimi  la  roba,  l'ono- 
re, la  vita  mia  ed  il  bene  tuo. 

SIRO     Così  si  farà. 

CALLIMACO     Desti  tu  el  bicchiere  al  dottore  ? 

SIRO     Messer  si. 

CALLIMACO     Che  disse  ? 

SIRO     Che  sarà  ora  ad  ordine  di  tutto. 

FRATE     E  questo  Callimaco? 

CALLIMACO  Sono  a'  comandi  vostri.  Le  proferte  tra  noi 
sien  fatte':  voi  avete  a  disporre  di  me  e  di  tutte  le  for- 
tune mia'*,  come  di  voi. 

FRATE  Io  l'ho  inteso  e  credolo;  e  sommi  mosso  a  fare 
quel,  per  te,  che  io  non  arei  fatto  per  uom  del  mondo. 

CALLIMACO     Voi  non  perderete  la  fatica. 

V.  \.  fa  le  vista:  fa  finta,  simula.  2.  Che  ci...  fracido:  in  II,  5,  Nicia  usa  la 
stessa  espressione  {Che  buone  parole!  che  mi  ha  fracido)  a  proposito  della  mo- 
glie. 3.  Le...  fatte:  Facciamoci  subito  le  nostre  promesse  reciproche.  In  quel 
proferte  c'è  un  richiamo  implicito,  ma  per  Timoteo  molto  chiaro,  al  Quanti  ne 
gli  hai  tu  promessi?  di  poco  prima  (IV,  2).  4.  di  tutte  le  fortune  mia:  Callimaco 
ribadisce  l'allusione  alle  sue  disponibilità  finanziarie. 


120  MANDRAGOLA 

FRATE     E'  basta  che  tu  mi  voglia  bene. 

LiGURio  Lasciamo  stare  le  cirimonie'.  Noi  andreno  a  tra- 
vestirci, Siro  ed  io;  tu,  Callimaco,  vien  con  noi,  per  po- 
tere ire  a  fare  e  fatti  tua.  El  frate  ci  aspetterà  qui:  noi 
torneren  subito  ed  andreno  a  trovare  messer  Nicla. 

CALLIMACO     Tu  di'  bene:  andiamo. 

FRATE     Io  vi  aspetto. 


SCENA  SESTA 

Frate  travestito  solo. 


FRATE  E'  dicono  el  vero  quelli  che  dicono  che  le  cattive 
compagnie  conducono  li  uomini  alle  forche'.  E  molte 
volte  uno  capita  male  cosi  per  essere  troppo  facile^  e 
troppo  buono,  come  per  essere  troppo  tristo.  Dio  sa  che 
io  non  pensava  ad  iniuriare  persona^:  stavomi  nella  mia 
cella,  dicevo  el  mio  ufizio,  intrattenevo  e  mia  devoti. 
Capitòmmi  innanzi  questo  diavol  di  Ligurio^  che  mi 
fece  intignere  el  dito  in  uno  errore'  donde  io  vi  ho  mes- 
so el  braccio  e  tutta  la  persona,  e  non  so  ancora  dove 
io  mi  abbia  a  capitare.  Pure  mi  conforto  che,  quando 
una  cosa  importa  a  molti,  molti  ne  hanno  '  aver  cura*. 
Ma  ecco  Ligurio  e  quel  servo  che  tornano. 

5.  le  cirimonie:  cerimoniosità.  Ligurio,  che  sa  che  Timoteo  vuole  altro  che  prie- 
ghi  (IV,  2),  lo  richiama  ad  una  maggior  praticità. 

VI.  I.  alle  forche:  al  patibolo,  come  i  criminali:  cioè,  alia  rovina  morale  e  fisi- 
ca. 2.  troppo  facile:  troppo  arrendevole.  E  lo  stesso  aggettivo  con  cui  Nicia 
aveva  connotato  la  Lucrezia  «prima  maniera»;  Ella  era  la  più  dolce  persona  del 
mondo  e  la  più  facile  (III,  2).  Machiavelli  lo  replica  apposta,  con  intento  ironi- 
co. 3.  ad  iniuriare  persona:  a  recare  offesa  ad  alcuno.  4.  capitòmmi...  Ligu- 
rio: nel  suo  precedente  monologo  (III,  9),  Timoteo  aveva  detto:  Questo  tristo  di 
Ligurio^  ne  venne  a  me. ..  5 .  intignere. . .  errore:  intingere  il  dito,  cioè  lambire  ap- 
pena. E,  in  ogni  caso,  metafora  scelta  (col  consueto  rigore  del  Machiavelli)  nel- 
la sfera  della  «professionalità»  di  Timoteo;  e  si  pensa  subito  a  III,  11  (...  che  è 
un  peccato  che  se  ne  va  con  l'acqua  benedetta).  6.  Pure...  cura:  Timoteo  modi- 
fica e  ribalta  a  parte  suhiecti  la  massima  di  Ligurio  (III,  4),  che  era  concepita  a 
parte  obiecti:  ...ed  io  credo  che  quel  sia  bene ,  che  facci  bene  a  '  più ,  e  che  e  più  se 
ne  contentino . 


ATTO  QUARTO  121 

SCENA  SETTIMA 

Frate,  Ligurie,  Siro. 


FRATE     Voi  sete  e  ben  tornati. 

LiGURio     Stiàn  noi  bene  ?\ 

FRATE     Benissimo. 

LiGURio  E'  ci  manca  el  dottore.  Andian  verso  casa  sua: 
e'  son  più  di  tre  ore,  andian  via! 

SIRO     Chi  apre  l'uscio  suo  ?  E  egli  el  famiglio  ?^ 

LiGURio     No:  gli  è  lui.  Ah,  ah,  ah,  uh! 

SIRO     Tu  ridi  ? 

LiGURio  Chi  non  riderebbe  ?  Egli  ha  un  guarnacchino^ 
indosso,  che  non  gli  cuopre  el  culo.  Che  diavolo  ha  egli 
in  capo  ?  E'  mi  pare  un  di  questi  gufi  de'  canonici'*,  ed 
uno  spadaccin  sotto:  ah,  ah!  e'  borbotta  non  so  che. 
Tirianci  da  parte,  ed  udireno  qualche  sciagura  della 
moglie\ 


SCENA  OTTAVA 

Messer  Nicia. 


NiciA  Quanti  lezzi'  ha  fatto  questa  mia  pazza!  Ella  ha 
mandato  la  fante^  a  casa  la  madre  e  '1  famiglio  in  villa: 
di  questa  io  la  laudo,  ma  io  non  la  laudo  già  che,  innanzi 


VII.  I.  Stiàn  noi  bene?:  Stiamo  bene?  È  la  domanda  d'obbligo  dei  maschera- 
ti. 2.  E  egli  el  famiglio?:  E  forse  il  servo  (di  Nicia)?  3.  un  guamacchino:  la 
guarnacca  (o  guarnaccia)  era,  di  norma,  un  mantello  lungo  talvolta  foderato  (le 
donne  lo  indossavano  sopra  la  gonnella).  Quello  di  Nicia,  all'opposto,  non  gli 
cuopre  el  culo .  4.  un...  canonici:  «peUicce  portate  dai  canonici»  (Blasucci).  5. 
qualche  sciagura:  qualche  sventurata  (è  detto  ironicamente)  reazione. 

vili.      I.  lezzi:  leziosaggini,  capricci.     2.  la  fante:  la  fantesca,  la  serva. 


12  2  MANDRAGOLA 

che  la  ne  sia  voluta  ire  al  letto,  ell'abbi  fatto  tante  schi- 
filtà': «Io  non  voglio!  Come  farò  io?  Che  mi  fate  voi 
fare ?■*  Ohimè,  mamma  mia!  ».  E  se  non  che  la  madre  le 
disse  el  padre  del  porro',  la  non  entrava  in  quel  letto: 
che  le  venga  la  contina*!  Io  vorrei  ben  vedere  le  donne 
schizzinose,  ma  non  tanto:  ci  ha  tolto  la  testa,  cerve!  di 
gatto^!  Poi,  chi  dicessi:  «Che  impiccata  sia  la  più  savia 
donna  di  Firenze»,  la  direbbe:  «Che  t'ho  io  fatto?*», 
Io  so  che  la  Pasquina  enterrà  in  Arezzo,  ed,  innanzi  che 
io  mi  parta  da  giuoco,  io  potrò  dire,  come  mona  Ghin- 
ga:  «Di  veduta,  con  queste  mani'».  Io  sto  pur  bene^": 
chi  mi  conoscerebbe?  Io  paio  maggiore",  più  giovane, 
più  scarzo'^  e'  non  sarebbe  donna,  che  mi  togliessi  da- 
nari di  letto".  Ma  dove  troverrò  io  costoro? 


SCENA  NONA 

Ligurio,  messer  Nicla,  frate,  Siro. 


LiGURio     Buona  sera,  messere. 

NiciA     Oh!  uh!  eh! 

LIGURIO     Non  abbiate  paura:  noi  sian  noi! 


3.  schifiltà:  schifiltosità:  riprende  e  aggrava  i  lezzi.  4.  Che...  fare?:  È  la  versio- 
ne, più  enfatica,  di:  A  che  mi  conducete  voi...  (Ili,  11).  'j.  se...  porro:  e  se  non 
fosse  stato  perché  la  madre  la  riprese  con  asprezza.  Nell'espressione  (chiarita, 
tra  gli  altri,  dal  Varchi)  è  evidente  l'allusione  oscena:  si  pensa,  intanto,  a  che  io 
arei...  qualche  porro  di  drieto  dello  stesso  Nicla  (II,  3).  6.  b  contina:  la  febbre 
continua,  cronica.  7.  cerve l di  gatto:  si  pensa  alla  cerve llinaggine  della  fanciulla 
gravida  (III,  4)  e  al  tutte  le  donne  hanno...  poco  cervello  di  Timoteo  (III,  9).  8. 
Poi...  fatto?:  E  se  qualcuno  la  mandasse  al  diavolo,  sarebbe  capace  di  cascare 
dalle  nuvole.  9.  lo...  con  queste  mani:  Io  sono  certo  che  la  nostra  faccenda  an- 
drà a  buon  fine,  e  prima  che  io  mi  stacchi  dall'impresa,  potrò  dire,  come  mon- 
na Ghinga:  «L'ho  visto  coi  miei  occhi,  l'ho  toccato  con  mano».  -  L'entrata  del- 
la Pasquina  in  Arezzo  era  l'ovvio  «lieto  fine»  d'ogni  conquista  amorosa:  quella 
di  monna  Ghinga  era  una  «storiella  salace»  (Bonfantini),  probabilmente  assai 
corrente,  io.  lo  sto  pur  bene!  :  Nicla,  che  è  solo,  se  lo  dice  da  sé  (gli  altri  se  lo 
sono  chiesto  reciprocamente:  «Stiàn  noi  bene?»).  11.  maggiore:  interpreterei 
«più  alto».  12.  più  scarzo:  più  snello.  13.  che...  letto:  che  si  farebbe  pagare, 
dopo  essersi  giaciuta  con  me  (tanto  sto  bene). 


ATTO  QUARTO  123 

NiciA  Oh  !  voi  séte  tutti  qui  ?  S 'io  non  vi  conoscevo  pre- 
sto, io  vi  davo  con  questo  stocco'  el  più  diritto^  che  io 
sapevo!  Tu,  se'  Ligurio  e  tu  Siro;  e  quell'altro  è  '1  mae- 
stro\  eh? 

LIGURIO     Messer  sì. 

NICIA  Togli,  oh!  e'  si  è  contraffatto  bene:  e'  non  lo  co- 
noscerebbe Va'-qua-tu''! 

LIGURIO  Io  gli  ho  fatto  mettere  dua  noce  in  bocca  per- 
ché non  sia  conosciuto  alla  boce. 

NICIA     Tu  se'  ignorante! 

LIGURIO     Perché  ? 

NICIA  Che  non  me  '1  dicevi  tu  prima?  ed  are'mene  mes- 
so anch'io  dua.  E  sai  s'è'  gli  importa'  non  essere  cono- 
sciuto alla  favella  ! 

LIGURIO     Togliete,  mettetevi  in  bocca  questo. 

NICIA     Che  è  ella  ? 

LIGURIO     Una  palla  di  cera. 

NICIA  Dàlia  qua...  Ca!  pu!  ca!  co!  che!  cu!  cu!  spu!  Che 
ti  venga  la  seccaggine,  pezzo  di  manigoldo! 

LIGURIO  Perdonatemi:  io  ve  ne  ho  data  una  in  scambio, 
che  io  non  me  ne  sono  avveduto. 

NICIA     Ca!  ca!  pu!  Di  che...  che...  che  era? 

LIGURIO     D'aloe^ 

NICIA  Sia  in  malora!  Spu!  pu!  Maestro,  voi  non  dite 
nulla  ? 

FRATE     Ligurio  m'ha  fatto  adirare'. 

NICIA     Oh!  voi  contraffate  bene  la  voce! 

LIGURIO  Non  perdiam  più  tempo  qui.  Io  voglio  essere  el 
capitano  ed  ordinare  l'essercito  per  la  giornata.  Al  de- 


IX.  I .  con  questo  stocco:  è  lo  spadaccin  che  gli  altri  hanno  intravisto  appena  si 
è  fatto  sull'uscio.  Un  altro  stocco,  non  propriamente  da  schermidore,  fa  la  sua 
comparsa  nel  resoconto  di  Nicomaco  in  C,  V,  2:  «Ben  sai  che,  ad  un  tratto,  io 
mi  sento  stoccheggiare  un  fianco...».  2.  el  piti  diritto:  menando  il  colpo  più  di- 
retto. 3.  e l  maestro:  cioè,  Callimaco,  il  magister  in  medicina.  4.  Va-qua-tu: 
un  leggendario  carceriere  fiorentino,  capace  d'ogni  impresa,  di  cui  si  discorre 
anche  nella  Novella  del  Grasso  legnaiuolo.  5.  se  gli  importa:  quanto  sia  impor- 
tante. 6.  Togliete...  D'aloe:  Com'è  stato  più  volte  osservato,  tutta  questa  se- 
quenza farsesca  è  ispirata  alla  scena  analoga  nella  novella  di  Calandrino  e  il  por- 
co imbolato  (Decameron,  Vili,  6).  7.  Ligurio...  adirare:  Timoteo,  nel  «ruolo» 
di  Callimaco,  dirà  in  tutto  due  battute:  questa  è  la  prima. 


124  MANDRAGOLA 

stro  corno  sia  preposto  Callimaco,  al  sinistro  io:  intra 
le  dua  corna  starà  qui  el  dottore;  Siro  fia  retroguardo, 
per  dar  sussidio  a  quella  banda  che  inclinassi*.  El  nome 
sia:  san  Cuccù. 

NiciA     Chi  è  san  Cuccù? 

LiGURio  E  el  più  onorato  santo  che  sia  in  Francia'.  An- 
dian  via:  mettian  l'aguato  a  questo  canto.  State  a  udi- 
re: io  sento  un  liuto. 

NiciA     Egli  è  esso.  Che  vogliàn  fare? 

LiGURio  Vuoisi  mandare  innanzi  uno  esploratore  a  sco- 
prire chi  egli  è,  e  secondo  ci  riferirà,  secondo  fareno. 

NiciA     Chi  v'andrà? 

LiGURio  Va'  via,  Siro:  tu  sai  quello  hai  a  fare.  Conside- 
ra, essamina,  torna  presto,  referisci. 

SIRO      Io  vo. 

NiciA  Io  non  vorrei  che  noi  pigliassimo  un  granchio,  che 
fussi  qualche  vecchio'"  debole  o  infermiccio,  e  che  que- 
sto giuoco  si  avessi  a  rifare  doman  da  sera. 

LiGURio  Non  dubitate,  Siro  è  valent'uomo.  Eccolo,  e' 
torna.  Che  truovi,  Siro? 

SIRO  Egli  è  el  più  bello  garzonaccio  che  voi  vedessi  mai. 
Non  ha  venticinque  anni  e  viensene  solo  in  pitocchino, 
sonando  el  liuto. 

NiciA  E'  gli  è  el  caso",  se  tu  di'  el  vero.  Ma  guarda'^  che 
questa  broda  sarebbe  tutta  gittata  addosso  a  te"! 

SIRO     E'  gli  è  quel  ch'io  vi  ho  detto. 

LiGURio  Aspettian  ch'egli  spunti  questo  canto  e  subito 
gli  sareno  addosso. 


8.  Io  voglio  essere...  inclinassi:  il  Raimondi  ha  ricordato,  «a  proposito  di  que- 
ste immagini  belliche...  il  monologo  di  Cleandro  nella  Clizia»  (è  a  I,  2).  -  II 
Martelli,  Vers.,  211,  ha  individuato  il  probabile  «modello»  del  brano  in  Te- 
renzio, Eunuchus,  774-81.  La  giornata  è  la  battaglia  campale;  le  dua  coma  so- 
no le  due  ali  dell'esercito,  ma  anche  le  corna  (imminenti)  di  Nicla;  Siro,  che 
rappresenta  la  retroguardia,  dovrà  aiutare  quell'ala  che  arretrasse  (dar  sussidio 
a  quella  banda  che  inclinassi).  9.  che  sia  in  Francia:  è  in  francese,  infatti,  che 
cornuto  si  dice  cocu.  io.  qualche  vecchio:  la  premessa,  perché  l'impresa  an- 
dasse in  porto,  era  di  trovare  un  garzonaccio  (II,  6):  e  questo  per  ovvi  moti- 
vi. II.  Egli  è  el  caso:  Costui  fa  il  caso  nostro.  12.  Ma  guarda:  sott.:  Che  se 
non  e  cosi,  se  hai  visto  male.  13.  che...  te:  la  vergogna  e  la  colpa  cadrebbero 
su  di  te. 


ATTO  QUARTO  I25 

NiciA  Tiratevi  in  qua,  maestro.  Voi  mi  parete  uno  uom 
di  legno.  Eccolo. 

CALLIMACO  «Venir  vi  possa  el  diavolo  allo  letto,  da  poi 
ch'i'  non  vi  posso  venir'io!  »". 

LiGURio     Sta'  forte!  Da'  qua  questo  liuto. 

CALLIMACO     Ohimè,  che  ho  io  fatto  ? 

NiciA     Tu  '1  vedrai.  Cuoprigli  el  capo,  imbavaglialo! 

LiGURio     Aggiralo. 

NiciA  Dagli  un'altra  volta!  dagliene  un'altra!  Mettete- 
lo in  casa''! 

FRATE  Messer  Nicla,  io  m'andrò  a  riposare,  che  mi  duo- 
le la  testa  che  io  muoio;  e,  se  non  bisogna'^  io  non  tor- 
nerò domattina. 

NiciA     Si,  maestro,  non  tornate:  noi  potren  far  da  noi. 


SCENA  DECIMA 

Frate  travestito  solo. 


FRATE  E'  sono  intanati  in  casa,  ed  io  me  n'andrò  al  con- 
vento. E  voi  spettatori  non  ci  appuntate:  perché'  que- 
sta notte  non  ci  dormirà  persona,  sì  che  gli  atti  non  so- 
no interrotti  dal  tempo^  Io  dirò  l'uffizio,  Ligurio  e  Si- 
ro ceneranno,  che  non  hanno  mangiato  oggi.  El  dotto- 


14.  «Venir...  io!  »:  L'attacco  deUa  canzone  allude  a  Nicla.  Il  testo  seguita:  «... 
e  rompieti  due  costole  del  petto  I  e  l'altre  membra  che  t'ha  fatto  Iddio  I  e  tiri- 
ti per  monti  e  per  valli,  I  e  spiccati  il  capo  dalle  spalle...»  (Debenedetti).  Agli 
spettatori  bastava  sentire  i  primissimi  versi,  perché  era  piuttosto  nota.  15. 
Da'  qua...  in  casa:  Quest'insieme  di  battute,  che  si  traduce  in  una  serie  ben  pre- 
cisa di  gesti,  era  racchiuso  nel  minuzioso  progetto  di  Ligurio  (IV,  2):  Come  tu 
sarai  comparso  in  sul  canto,  noi  saren  quivi,  torrènti  el  liuto ,  piglieren  ti ,  aggireren- 
ti,  condurrenti  in  casa...  -  Dagli  un'altra  volta!  vuol  dire:  «Dagli  un'altra  gira- 
ta! »  (per  intontirlo).      16.  se  non  bisogna:  se  non  c'è  bisogno  di  me. 

X.  1.  non  ci  appuntate,  perché...  :  non  ci  biasimate  per  il  fatto  che...  2. siche... 
dal  tempo:  in  modo  che,  tra  l'altro,  tra  il  quarto  e  il  quinto  atto  non  ci  sarà  nep- 
pure intervallo.  Timoteo  «attraverso  questa  difesa  di  "regolarità"  teatrale,  ri- 
chiama maliziosamente  il  pensiero  degli  spettatori  ai  ludi  notturni  di  Callima- 
co e  Lucrezia»  (Blasucci). 


120  MANDRAGOLA 

re  andrà  di  camera  in  sala,  perché  la  cucina  vadia  net- 
ta. Callimaco  e  madonna  Lucrezia  non  dormiranno: 
perché  io  so,  se  io  fussi  lui  e  se  voi  fussi  lei,  che  noi  non 
dormiremo. 


Canzone 
dopo  il  quarto  atto 

Oh  dolce  notte,  oh  sante 
ore  notturne  e  quete, 
ch'i  disiosi'  amanti  accompagnate; 
in  voi  s'adunan  tante 
letizie,  onde  voi  siete 
sole  cagion  di  far  l'alme  beate. 
Voi  giusti  premii  date 
all'amorose  schiere^ 
delle  lunghe  fatiche; 
voi  fate,  o  felici  ore, 
ogni  gelato  petto  arder  di  amore. 


CANZONE.  1.  disiosi:  desiderosi.  2.  schiere:  come,  nel  leggere  la  canzone  do- 
po il  terzo  atto,  a  quel  venetii  si  pensa  alla  pozione  di  mandragola,  qui  si  pensa 
zìi' esercito  guidato  da  Ligurio. 


ATTO  QUINTO 


SCENA  PRIMA 

Frate. 


FRATE  Io  non  ho  potuto  questa  notte  chiudere  occhio, 
tanto  è  el  desiderio  che  io  ho  d'intendere  come  Calli- 
maco e  gli  altri  l'abbino  fatta'.  Ed  ho  atteso  a  consu- 
mare el  tempo  in  varie  cose:  io  dissi  mattutino,  lessi 
una  vita  de'  Santi  Padri,  andai  in  chiesa  ed  accesi  una 
lampana^  che  era  spenta,  mutai  un  velo  ad  una  Nostra 
Donna  che  fa  miracoli'.  Quante  volte  ho  io  detto  a  que- 
sti frati  che  la  tenghino  pulita!  E'  si  maravigliono  poi 
se  la  divozione  manca!  Io  mi  ricordo  esservi  cinque- 
cento immagine:  e'  non  ve  ne  sono  oggi  venti.  Questo 
nasce  da  noi,  che  non  le  abbiamo  saputa  mantenere  la 
reputazione\  Noi  vi  solavamo'  ogni  sera,  doppo  la  com- 
pieta, andare  a  procissione,  facevànvi  cantare  ogni  sa- 
bato le  laude,  botavànci  noi^  sempre  quivi,  perché  vi  si 
vedessi  delle  immagine  fresche;  confortavamo'  nelle 
confessioni  gli  uomini  e  le  donne  a  botarvisi.  Ora  non 
si  fa  nulla  di  queste  cose,  e  poi  ci  maravigliamo  che  le 


I.  I.  r abbino  fatta:  siano  riusciti  nell'impresa.  2.  hxmpana:  lampada.  Era, 
probabilmente,  «il  vaso  con  il  lume  d'olio  per  il  sacramento»  (Raimondi).  3. 
mutai...  miracoli:  una  statua  della  Madonna,  in  una  nicchia  dell'altare,  con  un 
velo  «vero»  sul  capo  (come  in  molte  chiese  di  campagna,  or  oggi).  4.  lo...  re- 
putazione: Ricordo  che  (un  tempo)  c'erano  cinquecento  quadri  votivi  (lasciati 
da  miracolati  o  da  fedeli  che  avevano  esaudito  il  loro  voto)  e  oggi  non  ce  ne  so- 
no venti:  la  colpa  è  nostra,  che  non  abbiamo  saputo  mantenere  alto  il  prestigio 
delle  immagini  sacre  (e  viva  la  pratica  di  donarle  alla  chiesa).  5.  solavamo:  era- 
vamo soliti.  6.  Botavànci  noi:  Noi  stessi  (per  dare  il  buon  esempio  ai  fedeli) 
facevamo  voti  nella  nostra  chiesa  (quivi),  in  modo  che  si  vedessero  appesi  qua- 
dri votivi  sempre  nuovi  (fresche).  7.  confortavamo:  esortavamo,  con  parole  di 
pio  conforto. 


128  MANDRAGOLA 

cose  vadin  fredde*.  Oh  quanto  poco  cervello  è  in  que- 
sti mia  frati!  Ma  io  sento  un  gran  romore  da  casa  mes- 
ser  Nicla'.  Eccogli,  per  mia  fé:  e'  cavon  fuora  el  pri- 
gione*". Io  sarò  giunto  a  tempo.  Ben  si  sono  indugiati 
alla  sgocciolatura":  e'  si  fa  appunto  l'alba.  Io  voglio  sta- 
re ad  udire  quel  che  dicono,  sanza  scoprirmi. 


SCENA  SECONDA 

Messer  Nicla,  Ligurio,  Siro,  Callimaco  travestito. 


NiciA     Piglialo  di  costà  ed  io  di  qua,  e  tu  Siro  lo  tieni  per 

il  pitocco'  di  drieto. 
CALLIMACO     Non  mi  fate  male! 
LIGURIO     Non  aver  paura,  va'  pur  via. 
NiciA     Non  andiam  più  là^ 
LIGURIO     Voi  dite  bene:  lasciànl'ir  qui.  Diàngli  dua  vol- 

te^  che  non  sappi  dond'e'  si  sia  venuto.  Giralo,  Siro\ 
SIRO     Ecco. 
NICLA.     Giralo  un'altra  volta. 


8.  che ...  fredde:  che  ci  sia  dell'apatia  tra  i  fedeli.  È  la  ripresa  di  se  la  divozione 
manca  di  poco  sopra.  Non  mi  sembra  si  possa  interpretare:  «gli  affari  vanno 
lenti,  e  con  difficoltà»  (Raimondi).  -  Il  Borsellino,  Roz-,  136,  evoca,  per  que- 
sto monologo  di  Timoteo,  alcuni  versi  ò&ÌV Asino  d'oro  (V,  1 19-21):  «E'  son 
ben  necessarie  l'orazioni:  I  e  matto  al  tutto  è  quel  ch'ai  popol  vieta  I  le  cerimo- 
nie e  le  sue  divozioni... ».  9.  da  casa  messer  Nicia:  provenire  dalla  casa  di  mes- 
ser Nicla.  IO.  el  prigione:  dovrebbe  essere  (e  cosi  crede  Nicia)  il  garzonaccio 
scioperato,  imbavagliato  alla  fine  del  quarto  atto:  mentre  è,  ovviamente,  Cal- 
limaco. II.  alla  sgocciolatura:  sino  all'ultimo;  come  quando  si  attende  che  il 
mozzicone  di  candela  lasci  cadere  l'ultima  goccia  e  si  spenga.  «Forse  non  è  da 
escludere  il  doppio  senso  osceno»  (Gaeta):  a  me  pare  evidente  che  Machiavel- 
li intendesse  sottolinearlo:  Timoteo  può  ragionevolmente  prevedere  che  Calli- 
maco sia  riuscito  nel  suo  incontro  d'amore. 

n.  I.  per  il  pitocco:  per  il  lembo  del  corto  mantello  che  Ligurio  gli  aveva  in- 
giunto di  indossare:  Fo  conto  che  tu  li  metta  un  pitocchino  indosso...  (IV,  il, 
115).  2.  Non  andian  più  là:  Non  dilunghiamoci.  E'  si  fa  appunto  l'alba:  e  Ni- 
cia teme  li  possano  sorprendere.  3.  diàngli  dua  volte:  facciamogli  fare  due  gi- 
ri su  se  stesso.  Le  stesse  parole  di  IV,  9:  Dagli  un'altra  volta!  Dagliene  un'al- 
tra!    4.  Giralo,  Siro:  la  stessa  tecnica  di  IV,  9:  Aggiralo! 


ATTO  QUINTO  129 

SIRO     Ecco  fatto. 

CALLIMACO     El  mio  liuto'  ! 

LiGURio  Via,  ribaldo,  tira  via:  s'io  ti  sento  favellare,  io 
ti  tagliere  el  collo  ! 

NiciA  E'  si  è  fuggito.  Andianci  a  sbisacciare^:  e'  vuoisi' 
che  noi  usciàn  fuori  tutti  a  buona  ora  acciò  che  non  si 
paia  che  noi  abbiam  questa  notte  vegghiato^ 

LiGURio     Voi  dite  el  vero. 

NiciA  Andate,  Ligurio  e  Siro,  a  trovar  maestro  Callima- 
co, e  li  dite  che  la  cosa  è  proceduta  bene. 

LIGURIO  Che  li  possiamo  noi  dire  ?  noi  non  sappiamo  nul- 
la. Voi  sapete  che,  arrivati  in  casa,  noi  ce  n'andamo  nel- 
la volta'  a  bere.  Voi  e  la  suocera  rimanesti  alle  man  se- 
co, e  non  vi  rivedemo  mai  se  non  ora,  quando  voi  ci 
chiamasti  per  mandarlo  fuor  a. 

NiciA  Voi  dite  el  vero.  Oh!  io  vi  ho  da  dire  le  belle  co- 
se! Mogliama  era  nel  letto  al  buio.  Sostrata  m'aspetta- 
va al  fuoco"*.  Io  giunsi  su  con  questo  garzonaccio:  e, 
perché  non  andassi  nulla  in  capperuccia",  io  lo  menai 
in  una  dispensa  che  io  ho  in  sulla  sala,  dove  era  un  cer- 
to lume  annacquato'^  che  gittava  un  poco  d'albore'^  in 
modo  che  non  mi  poteva  vedere  in  viso. 

LIGURIO     Saviamente. 

NiciA  Io  lo  feci  spogliare:  e'  nicchiava.  Io  me  li  volsi 
com'un  cane'^  di  modo  che  gli  parve  mille  anni  di  ave- 
re fuora  e  panni,  e  rimase  ignudo.  Egli  è  brutto  di  vi- 
so: egli  aveva  un  nasaccio,  una  bocca  torta...''.  Ma  tu 
non  vedesti  mai  le  più  belle  carne:  bianco,  morbido,  pa- 
stoso... e  de  l'altre  cose  non  ne  domandare. 


5.  Elmio  liuto:  battuta  che  risponde,  in  perfetta  circolarità,  aJ  sopruso  di  Ligu- 
rio, in  IV,  9;  Da'  qua  questo  liuto.  6.  a  sbisacciare:  a  toglierci  di  dosso  questi 
travestimenti  pesanti.  7.  vuoisi:  è  necessario.  8.  abbiam...  vegghiato:  siamo 
stati  tutta  la  notte  svegli.  9.  nella  volta:  nel  cantinato,  che  fungeva  da  cucina  e 
dispensa,  io.  al  fuoco:  presso  il  caminetto.  11.  non...  capperuccia:  andar  in 
capperuccia  valeva  «rimaner  nascosto»  (la  capperuccia  è  il  cappuccio  del  mantel- 
lo). Nicla  vuole,  insomma,  aver  tutto  chiaro.  12.  annacquato:  pallido  come  il 
vino  che  si  mescola  coll'acqua.  13.  un  poco  d'albore:  una  tenue  chiarità.  14. 
come  un  cane:  ringhioso,  furibondo.  15.  Egli...  torta...  :  C'è  stata  dunque  una 
perfetta  rispondenza,  nel  travestimento  e  nella  mimica  di  Callimaco,  alle  istru- 
zioni di  Ligurio:  lo  ho  un  naso  in  casa.i'  voglio  che  tu  te  l'appicchi  e  ...  io  voglio 
che  tu  ti  storca  elviso,  che  tu  apra,  aguzzi  o  digrigni  la  bocca...  (IV,  2). 


130  MANDRAGOLA 

LiGURio  E'  non  è  bene  ragionarne.  Che  bisognava"  ve- 
derlo tutto  ? 

NiciA  Tu  vói  el  giambo  !  ".  Poi  che  io  avevo  messo  mano 
in  pasta,  io  ne  volli  toccare  el  fondo'*:  poi,  volli  vede- 
re se  gli  era  sano:  s'egli  avessi  auto  le  bolle",  dove  mi 
trovavo  io?  Tu  ci  metti  parole!^". 

LiGURio     Avevi  ragion  voi. 

NiciA  Come  io  ebbi  veduto  che  gli  era  sano,  io  me  lo  ti- 
rai drieto  ed  al  buio  lo  menai  in  camera,  messilo^'  al  let- 
to; ed  innanzi  che  io  mi  partissi,  volli  toccare  con  ma- 
no come  la  cosa  andava,  che  io  non  sono  uso"  ad  es- 
sermi dato  ad  intendere  lucciole  per  lanterne. 

LiGURio  Con  quanta  prudenzia  avete  voi  governata  que- 
sta cosa! 

NiciA  Tocco  e  sentito  che  io  ebbi  ogni  cosa,  mi  usci'  di 
camera  e  serrai  l'uscio,  e  me  n'andai  dalla  suocera,  che 
era  al  fuoco,  e  tutta  notte  abbiamo  atteso  a  ragionare. 

LiGURio     Che  ragionamenti  son  suti  e'  vostri? 

NiciA  Della  sciocchezza  di  Lucrezia,  e  quanto  e'  gli  era 
meglio  che  sanza  tanti  andirivieni  ella  avessi  ceduto  al 
primo".  Dipoi  ragionamo  del  bambino,  che  me  lo  pare 
tuttavia^'*  avere  in  braccio,  el  naccherino"!  Tanto  che 
io  senti'  sonare  le  tredici  ore,  e,  dubitando"  che  il  di 
non  sopragiugnessi,  me  n'andai  in  camera.  Che  direte 
voi,  che  io  non  potevo  fare  levare"  quel  ribaldone^*  ? 

LiGURio     Credolo. 


i6.  Che  bisognava:  Che  bisogno  c'era...  17.  Tu  vuoi  el  giambo!  :  Tu  vuoi  scher- 
zare! Giambo  era  una  battuta  beffarda,  scherno  a  parole.  18.  toccare  el  fon- 
do: andare  fino  in  fondo:  e  tastare  gli  organi  sessuali  di  Callimaco,  le  altre  co- 
se cui  ha  maliziosamente  alluso.  -  Tutta  la  battuta  è  la  messa  in  pratica  del  pro- 
posito espresso  in  IV,  8:  ed  innanzi  che  io  mi  parta  da  giuoco,  io  potrò  dire,  come 
mona  Ghinga.  -  Di  veduta,  con  queste  mani.  19.  le  bolle:  le  vesciche  a  fior  di 
pelle,  che  sono  primo  indizio  della  sifilide.  20.  Tu  ci  metti  parole!  :  Tu  fai  in 
fretta  a  parlare!  21.  messilo:  lo  misi.  22.  non  sono  uso:  non  sono  abitua- 
to. 23.  avessi  ceduto  al  primo:  avesse  acconsentito  subito  al  nostro  proget- 
to. 24.  che...  tuttavia:  che  mi  sembra  già.  25.  el  naccherino:  il  bambinello. 
Letteralmente,  naccherino  vale  «festoso,  chiassoso  (da  nacchere)»  (Guer- 
ri).  26.  dubitando:  temendo.  27.  levare:  alzare  dal  letto.  28.  quel  ribalda- 
ne: qui,  nel  senso  di:  quello  sfrontato,  spudorato. 


ATTO  QUINTO  1 3  I 

NiciA  E'  gli  era  piaciuto  l'unto"!  Pure,  e'  si  levò,  io  vi 
chiamai,  e  lo  abbiamo  condutto  fuora. 

LiGURio     La  cosa  è  ita  bene. 

NiciA     Che  dirai  tu,  che  me  ne  incresce^V 

LiGURio     Di  che  ? 

NiciA  Di  quel  povero  giovane,  che  gli  abbia  a  morire  si 
presto",  e  che  questa  notte  gli  abbia  a  costar  si  cara. 

LiGURio  Oh!  voi  avete  e  pochi  pensieri"!  Lasciatene  la 
cura  a  lui. 

NiciA  Tu  di'  el  vero.  Ma  e'  mi  par  ben  mille  anni  di  tro- 
vare maestro  Callimaco  e  rallegrarmi  seco. 

LiGURio  E'  sarà  fra  una  ora  fuora.  Ma  e'  gli  è  già  chiaro 
el  giorno.  Noi  ci  andreno  a  spogliare.  Voi  che  farete? 

NICIA  Andronne  anch'io  in  casa  a  mettermi  e  panni  buo- 
ni. Farò  levare  e  lavare  la  donna",  farolla  venire  alla 
chiesa  ad  entrare  in  santo^\  Io  vorrei  che  voi  e  Calli- 
maco fussi  là  e  che  noi  parlassimo  al  frate  per  ringra- 
ziarlo e  ristorarlo"  del  bene  che  ci  ha  fatto. 

LiGURio     Voi  dite  bene;  così  si  farà.  A  Dio. 


29.  l'unto:  letteralmente:  il  grasso  (di  carni  o  intingoli).  Ma  qui  (e  dal  Decame- 
ron in  poi,  come  in  VII,  i)  l'allusione  è  all'atto  sessuale.  30.  Che  dirai...  in- 
cresce: Come  sopra:  Che  direte  voi,  che  io.. .  Incresce,  mi  dispiace.  31.  si  presto: 
c'è  in  Nicla  l'eco  enfatizzata  delle  previsioni  di  Callimaco  (II,  6):  che  quello  uo- 
mo che  ha  prima  a  fare  seco,  presa  che  l'ha,  co  testa  pozione,  muore  infra  otto  gior- 
ni, e  non  lo  camperebbe  el  mondo.  3  2 .  avete  e  pochi  pensieri:  ne  avete  pochi  di 
fastidi.  33.  Farò...  e  lavare  la  donna:  Ancora  una  rispondenza  interna:  Calli- 
maco gli  aveva  raccomandato  (II,  6):  farete  lavare  la  vostra  donna.  34.  entrare 
in  santo:  andar  in  santo  era  il  verbo  con  cui  si  indicava  la  cerimonia  della  puri- 
ficazione delle  puerpere.  Costoro,  la  prima  volta  che  mettevano  piede  in  chie- 
sa dopo  il  parto,  dovevano  infatti  essere  benedette.  35.  ristorarlo:  dargli,  a  ri- 
storo, un  compenso,  ricompensarlo. 


132  MANDRAGOLA 

SCENA  TERZA 

Frate  solo. 


FRATE  Io  ho  udito'  qucsto  ragionamento  e  mi  è  piaciu- 
to tutto,  considerando  quanta  scioccheria^  sia  in  que- 
sto dottore,  ma  la  conclusione  utima^  mi  ha  sopra  mo- 
do dilettato.  E  poi  che  debbono  venire  a  trovarmi  a  ca- 
sa, io  non  voglio  stare  più  qui,  ma  aspettargli  alla  chie- 
sa, dove  la  mia  mercatanzia  varrà  più.  Ma  chi  esce  di 
quella  casa?  E'  mi  pare  Ligurio  e  con  lui  debb'essere 
Callimaco.  Io  non  voglio  che  mi  vegghino,  per  le  ra- 
gioni dette;  pur,  quando  e'  non  venissino  a  trovarmi, 
sempre  sarò  a  tempo  ad  andare  a  trovare  loro. 


SCENA  QUARTA 

Callimaco,  Ligurio. 


CALLIMACO  Come  io  ti  ho  detto,  Ligurio  mio,  io  stetti 
di  malavoglia  infino  alle  nove  ore;  e  benché  io  avessi 
gran  piacere',  e'  non  mi  parve  buono.  Ma  poi  che  io  me 
le  fu'  dato  a  conoscere,  e  ch'io  l'ebbi  dato  ad  intende- 
re l'amore  che  io  le  portavo^  e  quanto  facilmente,  per 


in.  I.  io  ho  udito:  Secondo  una  consuetudine  scenica,  che  data  da  Plauto  e 
Terenzio,  Timoteo,  come  decine  di  personaggi  di  commedia,  ha  udito  non  vi- 
sto. 2.  quanta  scioccheria:  c'è  forse  un  malizioso  richiamo  alla  battuta  di  Ni- 
cla di  poco  prima:  Che  ragionamenti  son  suti  e  vostri?  -  Della  sciocchezza  di  Lu- 
crezia... (IV,  2).  },.  la  conclusione  utima:  cioè,  l'accenno  al  ristoro  che  Nicla 
vuol  dargli. 

IV.  I .  gran  piacere:  dal  possedere  l'amata:  piacere  che,  tuttavia,  non  mi  parve 
onesto  [buono).  2.  Ma,  poi ...  portavo:  Callimaco  ha  attuato  i  suggerimenti  avu- 
ti da  Ligurio  (IV,  2):  ...  e  che,  innanzi  che  tu  ti  parta,  te  le  dia  a  conoscere,  scuo- 
prale  lo  'nganno,  mostrile  l'amore  le  porti,  dicale  elbene  le  vuoi. 


ATTO  QUINTO  133 

la  semplicità*  del  marito,  noi  potavamo  viver  felici  san- 
za  infamia  alcuna'*,  promettendole  che,  qualunque  vol- 
ta Dio  facessi  altro  di  lui',  di  prenderla  per  donna"^;  ed 
avendo  ella,  oltre  alle  vere  ragioni,  gustato  che  diffe- 
renzia è  dalla  ghiacitura  mia  a  quella  di  Nicla,  e  da  e 
baci  d'uno  amante  giovane  a  quelli  d'uno  marito  vec- 
chio^  doppo  qualche  sospiro  disse:  «Poiché  l'astuzia 
tua,  la  sciocchezza  del  mio  marito,  la  semplicità  di  mia 
madre  e  la  tristizia^  del  mio  confessoro  mi  hanno  con- 
dutto  a  fare  quello  che  mai,  per  me  medesima',  arei  fat- 
to, io  voglio  giudicare'"  ch'e'  venga  da  una  celeste  di- 
sposizione che  abbi  voluto  cosi,  e  non  sono  sufficien- 
te" a  recusare  quello  che  '1  Cielo  vuole  che  io  accetti. 
Però  io  ti  prendo  per  signore,  patrone,  guida:  tu  mio 
padre,  tu  mio  defensore,  e  tu  voglio  che  sia  ogni  mio 
bene'^  E  quel  che  mio  marito  ha  voluto  per  una  sera, 
voglio  che  gli  abbia  sempre".  Fara' ti  adunque  suo  com- 
pare''', e  verrai  questa  mattina  a  la  chiesa;  e  di  quivi  ne 
verrai  a  desinare  con  esso  noi;  e  l'andare  e  lo  stare  starà 
a  te",  e  potereno  ad  ogni  ora  e  senza  sospetto  conve- 
nire insieme'S>.  Io  fui,  udendo  queste  parole,  per  mo- 


3.  semplicità:  ritorna  la  parola-chiave  per  definire  Nicla  (e  si  ripensa  subito  a  I, 
i:  Bua  cose:  l'una,  lasemplicità  di  messerNicia...).  4.  sanza  infamia  alcuna:  sen- 
za nostro  disonore.  È  una  ripresa  da  Ligurie,  IV,  2:  ...  e  come  sanza  sua  infamia 
la  può  esser  tua  amica,  e  con  sua  grande  infamia  tua  nimica.  5 .  qualunque. . .  lui: 
se  per  caso  ed  in  qualsiasi  momento  Dio  avesse  disposto  altrimenti  di  lui:  se, 
cioè,  lo  avesse  chiamato  a  sé.  6.  per  donna:  per  moglie.  7.  ed  avendo...  vec- 
chio: avendo  lei  potuto  apprezzate  la  differenza  che  c'è  tra  il  mio  modo  di  fare 
l'amore  e  quello  di  Nicla.  -  Raimondi,  Poi,  181,  richiama  qui  un  passo  della 
sesta  novella  della  giornata  terza  del  Decameron:  «E  conoscendo  allora  la  don- 
na quanto  più  saporiti  fossero  i  basci  dello  amante  che  quegli  del  marito. . .  ».  8. 
tristizia:  malvagità  (tristo  è  cattivo  moralmente).  9.  per  me  medesima:  se  fosse 
dipeso  da  me  sola.  io.  giudicare:  ritenere.  1 1 .  non  sono  sufficiente:  non  ho  la 
forza,  non  sono  in  grado.  C'è  una  contrapposizione,  in  quel  sufficiente,  tra  in- 
dividuo e  destino  (celeste  disposizione).  12.  e...  bene:  e  voglio  che  tu  rappre- 
senti per  me  tutta  la  mia  felicità.  -  Raimondi,  Poi.,  176,  ha  accostato  la  battu- 
ta a  quella  di  /!.,  I,  5:  «io  ti  do  a  costei  marito,  amico,  tutore,  padre;  tutti  que- 
sti nostri  beni  io  commetto  in  te  e  a  la  tua  fede  gli  raccomando».  13.  e  quel- 
lo... sempre:  Lucrezia  assume  a  programma,  con  preciso  ricalco  di  parole,  quel- 
la che  con  Ligurie  era,  tutto  sommato,  una  speranza:  E  impossibile  ...  che  la  vo- 
glia che  questa  notte  sia  sola  (IV,  2).  14.  suo  compare:  come  grado  di  intimità, 
il  compare  era  molto  più  dell'amico  e  poco  meno  del  parente.  1 5 .  starà  a  te:  di- 
penderà da  te.      16.  convenire  insieme:  trovare  l'uno  con  l'altra. 


134  MANDRAGOLA 

rirmi  per  la  dolcezza.  Non  potetti  rispondere  a  la  mi- 
nima parte  di  quello  che  io  arei  desiderato.  Tanto  che 
io  mi  truovo  el  più  felice  e  contento  uomo  che  fussi  mai 
nel  mondo;  e  se  questa  felicità  non  mi  mancassi*',  o  per 
morte  o  per  tempo,  io  sarei  più  beato  che'  beati,  più 
santo  che'  santi. 

LiGURio  Io  ho  gran  piacere  d'ogni  tuo  bene,  ed  ètti  in- 
tervenuto quello  che  io  ti  dissi  appunto'*.  Ma  che  fac- 
ciàn  noi  ora  ? 

CALLIMACO  Andian  verso  la  chiesa,  perché  io  le  promis- 
si  d'essere  là,  dove  la  verrà  lei,  la  madre  ed  il  dottore. 

LiGURio  Io  sento  toccare  l'uscio  suo:  le  sono  esse,  che 
escono  fuora,  ed  hanno  el  dottore  drieto. 

CALLIMACO     Avviànci  in  chiesa  e  là  aspetteremole. 


SCENA  QUINTA 

Messer  Nicla,  Lucrezia,  Sostrata. 


NiciA  Lucrezia,  io  credo  che  sia  bene  fare  le  cose  con  ti- 
more di  Dio  e  non  alla  pazzeresca'. 

LUCREZIA     Che  s'ha  egli  a  fare^  ora? 

NICIA     Guarda,  come  la  risponde!  La  pare  un  gallo'. 

SOSTRATA  Non  ve  ne  maravigliate:  ella  è  un  poco  alte- 
rata'. 

LUCREZIA     Che  volete  voi  dire  ? 


17.  non  mi  mancassi:  non  venisse  mai  meno,  come  invece  accadrà,  o  per  lo  scor- 
rere del  tempo  o  per  il  sopravvenire  della  morte  (o  per  morte  o  per  tempo).  18. 
quello...  appunto:  esattamente  quello  che  ti  avevo  promesso. 

V.  I.  non  alla  pazzeresca:  non  all'impazzata,  come  fossimo  ammattiti.  2. 
Che...  fare:  Cosa  dobbiamo  fare.  3.  La...  gallo:  E  tutta  ringalluzzita.  Oggi  di- 
remmo: «Ha  alzato  la  cresta».  4.  un  poco  alterata:  un  poco  fuori  di  sé,  come 
chi  è  reduce  da  uno  choc:  in  questo  caso,  la  notte  con  Callimaco.  E  si  pensa 
proprio  a  lui  quando,  al  termine  del  suo  ardente  monologo  (IV,  i),  aveva  con- 
fessato di  sentirsi  tutto  alterare. 


ATTO  QUINTO  135 

NiciA  Dico  che  gli  è  bene  che  io  vadia  innanzi  a  parlate 
al  frate  e  dirli  che  ti  si  facci  incontro  in  sull'uscio  del- 
la chiesa  per  menarti  in  santo,  perché  gli  è  proprio,  sta- 
mani, come  se  tu  rinascessi. 

LUCREZIA     Che  non  andate  ? 

NiciA  Tu  se'  stamani  molto  ardita:  ella  pareva  iersera 
mezza  morta'  ! 

LUCREZIA     E'  gli  è  la  grazia  vostra! 

SOSTRATA  Andate  a  trovare  el  frate.  Ma  e'  non  bisogna': 
egli  è  fuora  di  chiesa. 

NiciA     Voi  dite  el  vero. 


SCENA  SESTA 

Frate,  Nicla,  Lucrezia,  Callimaco,  Ligurie,  Sostrata. 


FRATE  Io  vengo  fuora,  perché  Callimaco  e  Ligurio 
m'hanno  detto  che  el  dottore  e  le  donne  vengono  alla 
chiesa'.  Eccole. 

NiciA     Bona  dies^  padre! 

FRATE  Voi  séte  le  benvenute'  e  buon  prò  vi  faccia,  ma- 
donna, che  Dio  vi  dia  a  fare  un  bel  fanciul  mastio. 

LUCREZIA     Dio  el  voglia. 

FRATE     E'  lo  vorrà  in  ogni  modo. 

NiciA     Veggh'io  in  chiesa  Ligurio  e  maestro  Callimaco? 

FRATE     Messer  sì. 

NiciA     Accennategli^ 

5.  Ella...  mezzamorta:  Raimondi,  Poi,  174,  ricorda,  in/4.,  I,  4:  «veggo  io  Pan- 
filo mezzo  morto».  Ma,  ancora  una  volta,  colpisce  la  perfetta  rispondenza  in- 
terna: Lucrezia,  in  III,  1 1,  aveva  proclamato:  ...  ma  io  non  credo  mai  essere  vi- 
va domattina.     6.  e'  non  bisogna:  non  ce  n'è  più  bisogno. 

VI.  i.  Io...  chiesa:  La  frase  è  pronunciata  tra  sé  e  sé.  2 .  Bona  dies:  Ancora  un 
rinvio  interno,  in  funzione  parodica,  al  saluto  dello  stesso  Nicla  a  Callimaco  in 
II,  2.  3.  Voi  sete  le  ben  venute:  Voi  sete  e  ben  venuti,  in  IV,  5,  aveva  detto  Cal- 
limaco ai  beffatori  riuniti,  prima  di  mettersi  in  azione.  Timoteo  replica  il  salu- 
to agli  stessi,  oltreché  al  beffato,  a  beffa  conclusa.  4.  Accennategli:  Fate  loro 
cenno  che  vengano  qui. 


136  MANDRAGOLA 

FRATE     Venite  ! 

CALLIMACO     Dio  vi  salvi  ! 

NiciA     Maestro,  toccate  la  mano  qui  alla  donna  mia. 

CALLIMACO     Volentieri. 

NiciA  Lucrezia,  costui  è  quello  che  sarà  cagione  che  noi 
aremo  uno  bastone  che  sostenga  la  nostra  vecchiezza. 

LUCREZIA  Io  l'ho  molto  caro;  e'  vuoisi  che  sia  nostro 
compare. 

NiciA  Or  benedetta  sia  tu!  E  voglio  che  lui  e  Ligurie 
venghino  stamani  a  desinare  con  esso  noi. 

LUCREZIA     In  ogni  modo. 

NiciA  E  vo'  dar  loro  la  chiave  della  camera  terrena,  d'in 
su  la  loggia,  perché  possino  tornarsi  quivi  a  loro  como- 
dità': ch'e'  non  hanno  donne  in  casa  e  stanno  come  be- 
stie'. 

CALLIMACO     Io  l'accetto,  per  usarla  quando  mi  accaggia'. 

FRATE     Io  ho'  avere*  e  danari  per  la  limosina. 

NiciA     Ben  sapete  come,  domine,  oggi  vi  si  manderanno. 

LiGURio     Di  Siro  non  è  uomo'  che  si  ricordi  ? 

NiciA  Chiegga!  ciò  ch'i'  ho  è  suo.  Tu,  Lucrezia,  quanti 
grossi  ha'  a  dare  al  frate  per  entrare  in  santo  ? 

LUCREZIA     Io  non  me  ne  ricordo. 

NICIA     Pure,  quanti? 

LUCREZIA     Dategliene  dieci. 

NICIA     Af  f  ogaggine  !  '" . 

FRATE  E  voi,  madonna  Sostrata,  avete,  secondo  che  mi 
pare,  messo  un  tallo  in  sul  vecchio". 

SOSTRATA     Chi  non  sarebbe  allegra  ? 

FRATE  Andianne  tutti  in  chiesa,  e  quivi  direno  l'orazio- 
ne ordinaria'^  Dipoi,  doppo  l'ufizio,  ne  andrete  a  de- 


5.  a  loro  comodità:  secondo  il  comodo  loro.  6.  stanno  come  bestie:  vivono,  da 
scapoli,  in  condizioni  di  grande  trascuratezza.  Anche  la  vedova,  una  volta  che 
muorsi  el marito,  resta  come  una  bestia, ahandonata  da  ognuno:  cosi  almeno  ha  ar- 
gomentato Sostrata,  quando  si  è  trattato  di  persuadere  Lucrezia  (III,  1 1).  7. 
quando  mi  accaggia:  quando  mi  capiti  (d'averne  bisogno).  8.  lo  ho  avere:  Io  de- 
vo ricevere.  9.  non  è  uomo:  non  c'è  nessuno,  io.  Affogaggine!  :  Letteral- 
mente, affogamento:  ma  sta  per:  «Accipicchia!  ».  11.  avete...  messo...  vecchio: 
avete  innestato  un  pollone  nuovo  su  un  vecchio  tronco:  cioè,  sembrate  ringio- 
vanita. Ma  in  tallo  c'è  anche  un'evidente  allusione  erotica.  12.  l'orazione  or- 
dinaria: la  preghiera  che  è  di  rito  (per  purificare  la  puerpera). 


ATTO  QUINTO  137 

sinare  a  vostra  posta.  -  Voi,  spettatori,  non  aspettate 
che  noi  usciam  più  fuora:  l'ufizio  è  lungo,  io  mi  rimarrò 
in  chiesa  e  loro  per  l'uscio  del  fianco  se  n'andranno  a 
casa.  Valete'\ 


13.  Valete:  State  bene!  -  Il  Martelli,  Vers.,  274,  ricorda  la  chiusa  in  A.,  V,  6: 
«o  voi  non  aspettate  che  costoro  eschino  fuora.  Drento  si  sposerà  e  drento  si 
farà  ogni  altra  cosa  che  mancassi.  Andate,  al  nome  di  Dio,  e  godete!  »:  e  rinvia 
poi  a  quella  di  C,  V,  6:  «E  voi,  spettatori,  ve  ne  potrete  andare  a  casa,  perché, 
sanza  uscir  più  fuora,  si  ordineranno  le  nuove  nozze...». 


Clizia 


Canzone 

Quanto  sia  lieto  el  giorno, 
che  le  memorie  antiche 
fa  ch'or  per  voi  sien  mostre  e  celebrate^ 
si  vede,  perché  intorno 
tutte  le  gente  amiche 
si  sono  in  questa  parte^  ragunate. 
Noi,  che  la  nostra  etate 
ne'  boschi  e  nelle  selve  consumiamo, 
venuti  ancor  qui  siamo, 
io  Ninfa  e  noi  pastori, 
e  giàm^  cantando  insieme  e  nostri  amori. 

Chiari  giorni  e  quieti! 
Felice  e  bel  paese, 

dove  del  nostro  canto  el  suon  s'udìa! 
Pertanto,  allegri  e  lieti, 
a  queste  vostre  imprese 
faren  col  cantar  nostro  compagnia, 
con  si  dolce  armonia 
qual  mai  sentita  più  non  fu  da  voi: 
e  partirenci  poi, 
io  Ninfa  e  noi  pastori, 
e  tornerenci  a'  nostri  antichi  amori. 


CANZONE.  I .  che...  celebrate:  che  concede  che  per  mezzo  nostro  vengano  mes- 
se in  scena  e  celebrate  vicende  del  tempo  antico.  2.  in  questa  parte:  qui,  nella 
villa  di  un  ospite,  attrezzata  a  teatro.  3.  giàm:  andiamo.  Chi  canta,  come  già 
nell'avvio  della  M. ,  sono  una  ninfa  e  tre  pastori. 


142  CLIZIA 


PROLOGO 

PROLOGO  Se  nel  mondo  tornassino  i  medesimi  uomini, 
come  tornano  i  medesimi  casi,  non  passerebbono  mai 
cento  anni  che  noi  non  ci  trovassimo  un'altra  volta  in- 
sieme, a  fare  le  medesime  cose  che  ora.  Questo  si  dice 
perché  già  in  Atene,  nobile  ed  antichissima  città  in  Gre- 
cia, fu  un  gentile  uomo  al  quale,  non  avendo  altri  fi- 
gliuoli che  uno  maschio,  capitò  a  sorte  una  picciola  fan- 
ciulla in  casa,  la  quale  da  lui  infino  alla  età  di  dicias- 
sette anni  fu  onestissimamente  allevata.  Occorse  di  poi 
che  in  uno  tratto'  egli  ed  il  figliuolo  se  ne  innamoror- 
no,  nella  concorrenzia^  del  quale  amore  assai  casi  e  stra- 
ni accidenti  nacqueno;  i  quali  trapassati^  il  figliuolo  la 
prese  per  donna'*,  e  con  quella  gran  tempo  felicissima- 
mente visse.  Che  direte  voi  che  questo  medesimo  caso, 
pochi  anni  sono,  seguì  ancora  in  Firenze?  E  volendo 
questo  nostro  autore  l'uno  delli  dui  rappresentarvi,  ha 
eletto'  el  fiorentino,  indicando  che  voi  siate  per  pren- 
dere maggiore  piacere  di  questo  che  di  quello:  perché 
Atene  è  rovinata,  le  vie  le  piazze  i  luoghi  non  vi  si  ri- 
cognoscono;  di  poi  quelli  cittadini  parlavano  in  greco, 
e  voi  quella  lingua  non  intenderesti.  Prendete  pertan- 
to el  caso  seguito  in  Firenze,  e  non  aspettate  di  rico- 
noscere o  il  casato  o  gli  uomini,  perché  lo  autore,  per 
fuggire  carico^  ha  convertiti  i  nomi  veri  in  nomi  fitti'. 
Vuol  bene,  avanti  che  la  comedia  cominci,  voi  veggia- 
te  le  persone*,  acciò  che  meglio  nel  recitarla  le  cogno- 
sciate.  -  Uscite  qua  fuora  tutti,  che  '1  popolo  vi  vegga. 
-  Eccogli.  Vedete  come  e'  ne  vengono  suavi'!  Ponete- 
vi costi  in  fila,  l'uno  propinquo  all'altro.  -  Voi  vedete. 
Quel  primo  è  Nicomaco,  un  vecchio  tutto  pieno  d'amo- 


PROLOGO.  I.  z«  uno  tratto:  nello  stesso  momento.  2.  nella  concorrenzia:  nel- 
la coincidenza.  3. /mp(K5d//:  trascorsi.  4.  per  ^o««a:  per  moglie.  ^.  ha  elet- 
to: ha  scelto  (lat.:  eligere).  6.  per  fuggire  carico:  ad  evitare  responsabilità.  7. 
////::  finti,  fittizi.  8.  le  persone:  i  vari  personaggi.  9.  suavi:  mansueti  e  genti- 
li d'aspetto. 


PROLOGO  143 

re.  Quello  che  gli  è  a  lato  è  Cleandro,  suo  figliuolo  e 
suo  rivale.  L'altro  si  chiama  Palamede,  amico  a  Clean- 
dro. Quelli  dua  che  segueno,  l'uno  è  Pirro,  servo;  l'al- 
tro Eustachio,  fattore:  de'  quali  ciascuno  vorrebbe  es- 
sere marito  della  dama*"  del  suo  padrone.  Quella  don- 
na che  vien  poi  è  Sofronia,  moglie  di  Nicomaco;  quel- 
la appresso  è  Doria,  sua  servente.  Di  quegli  ultimi  duoi 
che  restano,  l'uno  è  Damone,  l'altra  è  Sostrata,  sua  don- 
na. Ecci"  un'altra  persona,  la  quale,  per  avere  a  venire 
ancora  da  Napoli,  non  vi  si  monstrerrà.  Io  credo  che 
basti,  e  che  voi  gli  abbiate  veduti  assai.  -  Il  popolo  vi 
licenzia:  tornate  dentro.  - 

Questa  favola  si  chiama  «Clizia»,  perché  così  ha  nome 
la  fanciulla  che  si  combatte*^  Non  aspettate  di  veder- 
la, perché  Sofronia,  che  l'ha  allevata,  non  vuole  per 
onestà  che  la  venga  fuora.  Pertanto,  se  ci  fussi  alcuno 
che  la  vagheggiassi",  ara  pazienza.  E'  mi  resta  a  dirvi 
come  lo  autore  di  questa  commedia  è  uomo  molto  co- 
stumato, e  saprebbegli  male'"*  se  vi  paressi,  nel  vederla 
recitare,  che  ci  fussi  qualche  disonestà.  Egli  non  crede 
che  la  ci  sia;  pure,  quando  e'  paressi  a  voi,  si  escusa  in 
questo  modo.  Sono  trovate''  le  commedie  per  giovare 
e  per  dilettare  alli  spettatori.  Giova  veramente  assai  a 
qualunque  uomo,  e  massimamente  a'  giovanetti,  co- 
gnoscere  la  avarizia  d'un  vecchio,  il  furore  d'uno  inna- 
morato, l'inganni  d'un  servo,  la  gola'*  d'un  parassito, 
la  miseria  d'un  povero,  l'ambizione  d'un  ricco,  le  lu- 
singhe d'una  meretrice,  la  poca  fede  di  tutti  gli  uomi- 
ni -  de'  quali  essempli  le  commedie  sono  piene.  E  pos- 
sonsi  tutte  queste  cose  con  onestà  grandissima  rappre- 
sentare: ma  volendo  dilettare  è  necessario  muovere  gli 
spettatori  a  riso,  il  che  non  si  può  fare  mantenendo  il 
parlare  grave  e  severo,  perché  le  parole  che  fanno  ri- 
dere sono  o  sciocche  o  iniuriose  o  amorose;  è  necessa- 


10.  della  dama:  dell'amante;  «ganza»  (Gaeta)  mi  pare  eccessivo.  11.  Ecci: 
C'è.  12.  che  si  combatte:  che  è  al  centro  della  contesa.  13.  che  la  vagheggiassi: 
che  desiderasse  corteggiarla.  14.  saprebbegli  male:  gli  riuscirebbe  sgradito  (gli 
sarebbe  amaro,  letteralmente).  15.  Sono  trovate:  S'inventano  (e  vengono  scrit- 
te).     1 6.  ^^o/Ìj:  l'ingordigia. 


144  CLIZIA 

rio  per  tanto  rappresentare  persone  sciocche,  maledi- 
che^'  o  innamorate.  E  perciò  quelle  commedie  che  so- 
no piene  di  queste  tre  qualità  di  parole  sono  piene  di 
risa;  quelle  che  ne  mancano  non  truovano  chi  con  il  ri- 
dere le  accompagni. 

Volendo  adunque  questo  nostro  autore  dilettare  e  fare 
in  qualche  parte  gli  spettatori  ridere,  non  inducendo'^ 
in  questa  sua  commedia  persone  sciocche  ed  essendosi 
rimasto^'  di  dire  male,  è  stato  necessitato  ricorrere  alle 
persone  innamorate  ed  alli  accidenti  che  nello  amore 
nascano.  Dove  se  fia  alcuna  cosa  non  onesta,  sarà  in 
modo  detta  che  queste  donne  potranno  sanza  arrossire 
ascoltarla.  Siate  contenti  adunque  prestarci  gli  orecchi 
benigni;  e  se  voi  ci  satisfarete  ascoltando^",  noi  ci  sfor- 
zeremo recitando  di  satisfare  a  voi. 


17.  malediche:  maldicenti.  18.  non  inducendo:  non  introducendo,  non  met- 
tendo in  scena.  19.  essendosi  rimasto:  avendo  deciso  di  trattenersi.  20.  ascol- 
tando: prestandoci  intera  la  vostra  attenzione  nell'ascoltare. 


ATTO  PRIMO 


SCENA  PRIMA 

Palamede,  Cleandro. 


PALAMEDE     Tu  esci  SI  a  buonora  di  casa  ? 

CLEANDRO     Tu  donde  vieni  si  a  buonora  ? 

PALAMEDE     Da  fare  una  mia  faccenda. 

CLEANDRO  Ed  io  vo  a  farne  un'altra,  o,  a  dir  meglio,  a 
cercarla  di  fare,  perché,  s'io  la  farò,  non  ne  ho  certez- 
za alcuna.  ^ 

PALAMEDE     E  ella  cosa  che  si  possa  dire  ? 

CLEANDRO  Non  so;  ma  io  so  bene  che  la  è  cosa  che  con 
difficultà  si  può  fare. 

PALAMEDE  Orsù,  io  me  ne  voglio  ire,  che  io  veggo  come 
lo  stare  accompagnato  t'infastidisce;  e  per  questo  io  ho 
sempre  fuggito  la  pratica  tua',  perché  sempre  ti  ho  tro- 
vato mal  disposto  e  fantastico^ 

CLEANDRO     Fantastico  no,  ma  innamorato  sì. 

PALAMEDE     Togli  !  tu  mi  racconci  la  cappellina  in  capo  !  '. 

CLEANDRO  Palamede  mio,  tu  non  sai  mezze  le  messe*.  Io 
sono  sempre  vivuto  disperato  ed  ora  vivo  più  che  mai. 

PALAMEDE      Come  COSI? 

CLEANDRO  Quello  ch'io  t'ho  celato  per  lo  addrieto',  io  ti 
voglio  manifestare  ora,  poiché  mi  sono  redutto  al  ter- 
mine che  mi  bisogna  soccorso  da  ciascuno. 

PALAMEDE  Se  io  stavo  mal  volentieri  teco  in  prima,  io 
starò  peggio  ora,  perché  io  ho  sempre  inteso,  che  tre 
sorte  di  uomini  si  debbono  fuggire:  cantori,  vecchi  ed 


I.  1.  ho  sempre...  tua:  ho  sempre  evitato  di  frequentarti.  2.  fantastico:  lu- 
natico, capriccioso.  3.  mi  racconci  .  in  capo:  mi  assesti  il  berrettino  in  capo: 
cioè,  rimetti  le  cose  al  loro  posto,  con  questa  precisazione.  4.  tu  non  sai...  le 
messe:  non  sai  nemmeno  la  metà  di  quanto  dovresti  sapere.  5.  per  lo  adrieto: 
in  passato. 


146  CLIZIA 

innamorati.  Perché,  se  usi  con  uno  cantore  e  narrigli 
uno  tuo  fatto,  quando  tu  credi  che  e'  t'oda,  e'  ti  spic- 
ca uno  «ut  re  mi  fa  sol  la»,  e  gorgogliasi  una  canzonet- 
ta in  gola.  Se  tu  sei  con  uno  vecchio,  e'  ficca  el  capo  in 
quante  chiese  e'  truova  e  va  a  tutti  gli  altari  a  borbot- 
tare uno  paternostro.  Ma  di  questi  duoi  lo  innamorato 
è  peggio,  perché  non  basta  che,  se  tu  gli  parli,  e'  pone 
una  vignai  che  e'  t'empie  gli  orecchi  di  rammarichìi  e 
di  tanti  suo'  affanni  che  tu  sei  sforzato  a  moverti  a  com- 
passione; perché'  s'egli  usa  con  una  cantoniera^  o  ella 
lo  assassina  troppo,  o  ella  lo  ha  cacciato  di  casa,  sem- 
pre vi  è  qualcosa  che  dire;  s'egli  ama  una  donna  da  be- 
ne, mille  invidie,  mille  gelosie,  mille  dispetti  lo  pertur- 
bano: mai  non  vi  manca  cagione  di  dolersi.  Pertanto, 
Cleandro  mio,  io  userò  tanto  teco'  quanto  tu  arai  biso- 
gno di  me;  altrimenti  io  fuggirò  questi  tuoi  dolori. 

CLEANDRO  lo  ho  tenute  occulte  queste  mie  passioni  infi- 
no ad  ora,  per  coteste  cagioni,  per  non  essere  fuggito  co- 
me fastidioso  o  uccellato'"  come  ridiculo;  perché  io  so 
che  molti,  sotto  spezie  di  carità'',  ti  fanno  parlare  e  poi 
ti  ghignano  drieto.  Ma,  poiché  ora  la  fortuna  m'ha  con- 
dotto in  lato'^  che  mi  pare  avere  pochi  rimedii,  io  te  lo 
voglio  conferire",  per  sfogarmi  in  parte  e  anche  perché, 
se  mi  bisognassi  il  tuo  aiuto,  che  tu  me  lo  presti. 

PALAMEDE  lo  sono  parato,  poi  che  tu  vuoi,  ad  ascoltar 
tutto  e  cosi  a  non  fuggire  né  disagi  né  pericoli  per  aiu- 
tarti. 

CLEANDRO  lo  lo  SO.  lo  crcdo  che  tu  abbia  notizia  di  quel- 
la fanciulla  che  noi  ci  abbiamo  allevata. 

PALAMEDE     I'  l'ho  veduta.  Donde  venne? 

CLEANDRO  Dirottelo.  Quando,  dodici  anni  sono,  nel  mil- 
le quattrocento  novantaquattro,  passò  il  re  Carlo'''  per 


6.  e'  pone  una  vigna:  è  occupato  in  tutt'altri  pensieri,  che  sono  d'amore,  e  non 
ti  presta  la  minima  attenzione,  j.  perché:  il  peggio  è  ch'egli  (contrapposto,  per 
sottinteso,  al  non  basta  di  poco  sopra).  8.  cantoniera:  donna  da  strada.  9. 
userò...  teco:  ti  frequenterò,  io.  uccellato:  messo  alla  berlina.  1 1 .  sotto  spe- 
zie di  carità:  col  pretesto  di  compassionarti.  12.  in  lato:  ad  un  tale  frangen- 
te. 13.  conferire:  riferire,  raccontate  per  filo  e  per  segno.  14.  ilre  Carlo:  Car- 
lo Vili  (1470-98),  re  di  Francia,  successe  al  padre.  Luigi  XI,  nel  1483. 


ATTO  PRIMO  147 

Firenze,  che  andava  con  uno  grande  essercito  alla  im- 
presa del  Regno'^  alloggiò  in  casa  nostra  uno  gentile 
uomo  della  compagnia  di  monsignor  di  Fois^^  chiama- 
to Beltramo  di  Guascogna.  Fu  costui  da  mio  padre  ono- 
rato ed  egli,  perché  uomo  da  bene  era,  riguardò^^  ed 
onorò  la  casa  nostra;  e  dove  molti  feciono  una  inimici- 
zia con  quelli  francesi'^  avevano  in  casa,  mio  padre  e 
costui  contrassono  una  amicizia  grandissima. 

PALAMEDE  Voi  avesti  una  gran  ventura  più  che  gli  altri, 
perché  quelli  che  furono  messi  in  casa  nostra  ci  fecio- 
no infiniti  mali. 

CLEANDRO  Credolo,  ma  a  noi  non  intervenne  cosi.  Que- 
sto Beltramo  ne  andò  con  il  suo  re  a  Napoli,  e  come  tu 
sai,  vinto  che  Carlo  ebbe  quel  regno,  fu  constretto  a 
partirsi  perché  '1  papa,  imperadore,  viniziani  e  duca  di 
Milano  se  gli  erano  conlegati  contro''.  Lasciate  per  tan- 
to parte  delle  sue  gente  a  Napoli,  con  il  resto  se  ne  ven- 
ne verso  Toscana;  e,  giunto  a  Siena,  perch'egli  intese 
la  lega  avere  uno  grossissimo  essercito  sopra  il  Taro,  per 
combatterlo  allo  scendere  de'  monti,  gli  parve  da  non 
perdere  tempo  in  Toscana;  e  perciò,  non  per  Firenze, 


15.  del  Regno:  sollecitato  da  fuorusciti  napoletani,  sfuggiti  alle  feroci  repres- 
sioni ordinate  da  Ferdinando  I  d'Aragona  dopo  la  «congiura  dei  baroni»,  Car- 
lo Vili  pensò  di  rivendicare  l'eredità  angioina  sul  regno  di  Napoli.  Assicurata- 
si la  neutralità  dell'imperatore  e  dei  re  d'Inghilterra  e  d'Aragona,  mediante  gli 
onerosi  trattati  di  Senlis,  di  Etaples  e  di  Barcellona  (1493),  e  procacciatosi  l'ap- 
poggio del  duca  di  Milano,  Ludovico  Sforza,  Carlo  scese  in  Italia  conquistan- 
do il  regno  di  Napoli  con  facilità  divenuta  proverbiale.  16.  monsignor  di  Pois: 
Jean  de  Foix,  conte  di  Narbonne  e  di  Etampes,  comandava  cinquanta  lance  al 
seguito  di  Carlo  VIII  nella  sua  spedizione  in  Italia.  Aveva  sposato  Maria,  so- 
rella maggiore  di  Luigi,  duca  d'Orleans  e  poi  re  di  Francia  col  nome  di  Luigi 
XII.  Da  questo  matrimonio  nacque  il  celebre  Gaston,  duca  di  Nemours.  Mori 
intorno  al  1500.  17.  riguardò:  usò  ogni  riguardo,  rispetto.  18.  francesi:  sott.: 
che.  19.  se  gli  erano  conlegati  contro:  il  31  marzo  1495  venne  conclusa  a  Ve- 
rona una  lega  contro  il  re  di  Francia,  ormai  padrone  del  regno  di  Napoli:  ad  es- 
sa aderirono,  oltre  a  quella  repubblica,  il  papa,  il  duca  di  Milano,  l'imperatore 
e  il  re  d'Aragona,  mentre  Ferrara  e  Firenze  rifiutavano  ogni  appoggio.  I  con- 
federati misero  insieme  un  esercito,  al  comando  di  Francesco  Gonzaga,  mar- 
chese di  Mantova,  costringendo  Carlo  VIII  a  ritirarsi  da  Napoli.  A  Fornovo  il 
6  luglio  1495  ebbe  luogo  uno  scontro  fra  i  due  eserciti  assai  impari  per  forze  e, 
sebbene  le  sorti  della  battaglia  non  fossero  affatto  decise,  Carlo  Vili  abban- 
donò nottetempo  il  campo,  ritirandosi  verso  il  Piemonte.  Rientrato  in  Francia, 
si  preparava  a  un'altra  spedizione,  quando  mori  di  apoplessia  il  7  aprile  1498. 


148  CLIZIA 

ma  per  la  via  di  Pisa  e  di  Pontremoli  passò  in  Lombar- 
dia^". Beltramo,  sentito  il  romore  de'  nimici  e  dubitan- 
do, come  intervenne,  non  avere  a  fare  la  giornata^'  con 
quelli,  avendo  in  tra  la  preda  fatta  a  Napoli  questa  fan- 
ciulla, che  allora  doveva  avere  cinque  anni,  d'una  bel- 
la aria"  e  tutta  gentile,  deliberò  di  tòrla  d'inanzi  a'  pe- 
ricoli; e  per  uno  suo  servidore  la  mandò  a  mio  padre, 
pregandolo  che  per  suo  amore  dovessi  tanto  tenerla  che 
a  più  commodo  tempo  mandassi  per  lei;  né  mandò  a  di- 
re se  la  era  nobile  o  ignobile":  solo  ci  significò  che  la  si 
chiamava  Clizia.  Mio  padre  e  mia  madre,  perché  non 
avevano  altri  figliuoli  che  me,  subito  se  ne  innamoro- 
rono... 

PALAMEDE     Innamorato  te  ne  Sarai  tu! 

OLEANDRO  Lasciami  dire,  -...e  come  loro  cara  figliuola 
la  trattorono.  Io,  che  allora  avevo  dieci  anni,  mi  co- 
minciai, come  fanno  e  fanciulli,  a  trastullare  seco,  e  le 
posi  uno  amore  estraordinario,  il  quale  sempre  con  la 
età  crebbe;  di  modo  che,  quando  ella  arrivò  alla  età  di 
dodici  anni,  mio  padre  e  mia  madre  cominciorono  ad 
avermi  gli  occhi  alle  mani^'',  in  modo  che,  se  io  solo  gli 
parlavo,  andava  sotto  sopra  la  casa.  Questa  strettezza", 
perché  sempre  si  desidera  più  ciò  che  si  può  avere  me- 
no, raddoppiò  lo  amore  ed  hammi  fatto  e  fa  tanta  guer- 
ra ch'io  vivo  con  più  affanni  che  s'io  fussi  in  inferno. 

PALAMEDE     Beltramo  mandò  mai  per  lei  ? 

CLEANDRO  Di  cotestui  non  si  intese  mai  nulla:  crediamo 
che  morissi  nella  giornata  del  Taro". 

PALAMEDE  Cosi  dovette  essere.  Ma  dimmi:  che  vuoi  tu 
fare  ?  a  che  termine  sei  ?  vuo'la  tu  tòr  per  moglie  o  vor- 
restila  per  amica?  che  t'impedisce,  avendola  in  casa? 
può  essere  che  tu  non  ci  abbia  rimedio  ? 

20.  ma  per  la  via...  passò  in  ^  ombardia:  Carlo  Vili  risali  da  Pisa  a  Sarzana  e  va- 
licò l'Appennino  al  passo  della  Cisa,  ritrovando  gli  avversari  in  campo  ad  una 
trentina  di  chilometri,  a  Fornovo,  cui  si  accenna  sotto  (cfr.  nota  26).  2 1 .  a  fa- 
re la  giornata:  a  scontrarsi  in  battaglia  campale.  22.  d'una  bella  aria:  bella 
d'aspetto.  23.  ignobile:  di  natali  bassi.  24.  ad  avermi  gli  occhi  alle  mani:  a 
controllarmi  a  vista:  come  si  fa  con  un  ladro,  che  non  s'ha  da  perder  d'oc- 
chio. 25.  Questa  strettezza:  L'impaccio  che  mi  veniva  da  questa  rigida  sorve- 
glianza.    26.  nella  giornata  del  Taro:  nella  battaglia  campale  di  Fornovo. 


ATTO  PRIMO  149 

OLEANDRO  lo  t'ho  a  dire  dell'altre  cose,  che  saranno  con 
mia  vergogna,  per  ciò  ch'io  voglio  che  tu  sappi  ogni 
cosa. 

PALAMEDE     DÌ'  pure. 

OLEANDRO  «E'  mi  vien  voglia  -  disse  colei  -  di  ridere, 
ed  ho  male!  »  Mio  padre  se  n'è  innamorato  anch'egli. 

PALAMEDE     Chi,  Nicomaco? 

OLEANDRO     Nicomaco,  sì. 

PALAMEDE     Puollo  fare  Iddio  ? 

OLEANDRO     E'  lo  può  fare  Iddio  e  'santi! 

PALAMEDE  Oh  !  questo  è  il  più  bel  caso  ch'io  sentissi  mai: 
e'  non  se  ne  guasta  se  non  una  casa".  Come  vivete  in- 
sieme ?  Che  fate  ?  A  che  pensate  ?  Tua  madre  sa  queste 
cose? 

OLEANDRO  E'  lo  sa  mia  madre,  le  fante,  e  famigli.  E'  gli 
è  una  tresca  el  fatto  nostro^*! 

PALAMEDE     Dimmi,  infine:  dove  è  ridotta  la  cosa? 

OLEANDRO  Dirottelo.  Mio  padre  per  moglie,  quando  be- 
ne e'  non  ne  fussi  innamorato,  non  me  la  concedereb- 
be mai,  perché  è  avaro  ed  ella  è  senza  dota.  Dubita  an- 
che che  la  non  sia  ignobile.  Io  per  me  la  torrei  per  mo- 
glie, per  amica,  ed  in  tutti  quelli  modi  ch'io  la  potessi 
avere.  Ma  di  questo  non  accade  ragionare  ora;  solo  ti 
dirò  dove  noi  ci  troviamo. 

PALAMEDE     lo  l'arò  caro. 

OLEANDRO  Tosto  che  mio  padre  si  innamorò  di  costei, 
che  debbe  essere  circa  uno  anno,  e  desiderando  di  ca- 
varsi questa  voglia  che  lo  fa  proprio  spasimare,  pensò 
che  non  c'era  altro  rimedio  che  maritarla  ad  uno  che 
poi  gliene  accomunassi":  perché  tentare  d'averla  prima 
che  maritata  gli  debbe  parere  cosa  impia  e  brutta;  e, 
non  sapendo  dove  si  gittate,  ha  eletto,  per  il  più  fida- 
to a  questa  cosa,  Pirro,  nostro  servo;  e  menò  tanta  se- 
greta questa  sua  fantasia,  che  ad  uno  pelo  la  fu  per  con- 


27.  e'  non...  una  casa:  credo  che  il  senso  di  questa  battuta  sia,  ironicamente:  «Il 
minimo  che  può  succedere  è  che  vada  in  rovina  tutta  una  famiglia,  un  casa- 
to». 28.  egli  è...  nostro:  le  nostre  faccende  sono  di  dominio  pubblico:  come 
pubblica  è  una  tresca,  danza  popolare  collettiva.  29.  gliene  accomunassi:  glie- 
ne facesse  parte,  come  di  un  bene  comune. 


150  CLIZIA 

dursP",  prima  che  altri  se  ne  accorgessi.  Ma  Sofronia, 
mia  madre,  che  prima  un  pezzo''  dello  innamoramento 
si  era  avveduta,  scoperse  questo  agguato  e  con  ogni  in- 
dustria, mossa  da  gelosia  ed  invidia,  attende  a  guasta- 
re". Il  che  non  ha  potuto  far  meglio,  che  mettere  in 
campo  un  altro  marito  e  biasimare  quello";  e  dice  vo- 
lerla dare  ad  Eustachio,  nostro  fattore.  E  benché  Ni- 
comaco  sia  di  più  autorità,  non  di  meno  l'astuzia  di  mia 
madre,  gli  aiuti  di  noi  altri,  che  senza  molto  scoprirci 
gli  facciamo,  ha  tenuta  la  cosa  in  ponte''*  più  settima- 
ne. Tuttavia  Nicomaco  ci  serra  forte"  ed  ha  delibera- 
to, a  dispetto  di  mare  e  di  vento,  fare  oggi  questo  pa- 
rentado, e  vuol  ch'e'  la  meni  questa  sera;  ed  ha  tolto  a 
pigione  quella  casetta  dove  abita  Damone,  vicino  a  noi, 
e  dice  che  gliene  vuole  comperare,  fornirla  di  masseri- 
zie, aprirgli  una  bottega  e  farlo  ricco. 

PALAMEDE  A  te  che  importa  che  l'abbia  più  Pirro  che 
Eustachio  ? 

CLEANDRO  Come,  che  m'importa  ?  Questo  Pirro  è  il  mag- 
giore ribaldello'*  che  sia  in  Firenze,  perché,  oltre  ad 
averla  pattuita  con  mio  padre,  è  uomo  che  mi  ebbe  sem- 
pre in  odio,  di  modo  ch'io  vorrei  che  l'avessi  più  tosto 
el  diavol  dell'inferno.  Io  scrissi  ieri  al  fattore  che  ve- 
nissi a  Firenze:  maravigliomi  che  non  venne  iersera.  Io 
voglio  star  qui  a  vedere  s'io  lo  vedessi  comparire.  Tu 
che  farai  ? 

PALAMEDE     Andrò  a  fare  una  mia  faccenda. 

CLEANDRO     Va'  in  buonora. 

PALAMEDE  Addio.  Temporeggiati"  al  meglio  puoi,  e,  se 
vuoi  cosa  alcuna,  parla. 


30.  per  condursi:  per  concludersi,  per  andare  in  porto.  3 1 .  prima  un  pezzo:  già 
da  un  bel  po'  di  tempo.  32.  attende  a  guastare:  si  impegna  con  ogni  forza  a 
mandar  all'aria  il  disegno  del  consorte.  33.  quello:  l'altro  candidato  alle  noz- 
ze, cioè  Pirro.  34.  in  ponte:  in  sospeso.  35.  ci  serra  forte:  ci  mette  alle  stret- 
te, con  la  sua  ostinazione.  36.  ribaldello:  briccone,  truffatore.  37.  Tem- 
poreggiati: Guadagna  tempo. 


ATTO  PRIMO  151 

SCENA  SECONDA 

Cleandro. 


CLEANDRO  Veramente  chi  ha  detto  che  lo  innamorato  ed 
il  soldato  si  somigliono,  ha  detto  il  vero.  El  capitano 
vuole  che  i  suo'  soldati  sien  giovani;  le  donne  vogliono 
che  i  loro  amanti  non  siano  vecchi.  Brutta  cosa  vedere 
un  vecchio  soldato^  bruttissima  è  vederlo  innamorato. 
I  soldati  temono  lo  sdegno  del  capitano;  gli  amanti,  non 
meno,  quello  delle  lor  donne.  I  soldati  dormono  in  ter- 
ra allo  scoperto;  gli  amanti,  su  per  muricciuoli^  I  sol- 
dati perseguano  infino  a  morte  i  lor  nimici;  gli  amanti, 
i  lor  rivali.  I  soldati,  per  la  oscura  notte,  nel  più  gelato 
verno  vanno  per  il  fango,  esposti  alle  acque  ed  a'  ven- 
ti, per  vincere  una  impresa  che  faccia  loro  acquistare  la 
vittoria;  gli  amanti,  per  simil'  vie  e  con  simili  e  mag- 
gior' disagi,  di  acquistare*  la  loro  amata  cercano.  Ugual- 
mente nella  milizia  e  nello  amore  è  necessario  il  secre- 
to, la  fede  e  l'animo.  Sono  e  pericoli  uguali  ed  il  fine  il 
più  delle  volte  è  simile:  il  soldato  more  in  una  fossa,  lo 
amante  more  disperato.  Così  dubito  io  che  non  inter- 
venga a  me:  ed  ho  la  dama  in  casa,  veggola  quanto  io 
voglio,  mangio  sempre  seco;  il  che  credo  che  mi  sia  mag- 
gior dolore,  perché  quanto  è  più  propinquo  l'uomo  ad 
uno  suo  desiderio,  più  lo  desidera,  e,  non  lo  avendo, 
maggior  dolore  sente.  A  me  bisogna  pensare  per  ora  di 
sturbare  queste  nozze;  di  poi  nuovi  accidenti  mi  arre- 
cheranno nuovi  consigli  e  nuova  fortuna''.  -  E  egli  pos- 
sibile che  Eustachio  non  venga  di  villa  ?  E  scrissigli  che 
ci  fussi  infino  iersera'  !  Ma  io  lo  veggo  spuntare  là,  da 
quel  canto.  Eustachio!  o  Eustachio! 

II.  I.  soldato:  nei  panni  di  un  soldato.  2.  su  per  muricciuoli:  sui  quali  s'iner- 
picano per  approssimarsi  all'amata.  3.  acquistare:  conquistare,  a,,  fortuna: 
come  precisa  il  Martelli,  il  monologo  è  esemplato  su  Ovidio,  Amores,  I,  9,  i- 
30.     5.  infino  iersera:  fino  da  ieri  sera. 


152  CLIZIA 

SCENA  TERZA 

Eustachio,  Cleandro. 


EUSTACHIO     Chi  mi  chiama?  O  Cleandro! 

CLEANDRO     Tu  hai  penato  tanto  a  comparire. 

EUSTACHIO  Io  venni  infino  iersera,  ma  io  non  mi  sono 
appalesato'  perché  poco  innanzi  che  io  avessi  la  tua  let- 
tera ne  avevo  avuta  una  da  Nicomaco,  che  mi  impone- 
va uno  monte  di  faccende.  E  perciò  io  non  volevo  ca- 
pitargli innanzi  se  prima  io  non  ti  vedevo. 

CLEANDRO  Hai  ben  fatto.  Io  ho  mandato  per  te,  perché 
Nicomaco  sollecita  queste  nozze  di  Pirro;  le  quale  tu 
sai  non  piacciano  a  mia  madre,  perché,  poi  che  di  que- 
sta fanciulla  si  ha  a  fare  bene  ad  uno  uomo  nostro,  vor- 
rebbe che  la  si  dessi  a  chi  la  merita  più.  Ed  in  vero  le 
tue  condizioni  sono  altrimenti  fatte^  che  quelle  di  Pir- 
ro, che,  a  dirlo  qui  fra  noi,  e'  gli  è  uno  sciagurato. 

EUSTACHIO  Io  ti  ringrazio;  e  veramente  io  non  avevo  il 
capo  a  tòr  donna,  ma,  poi  che  tu  e  madonna  volete,  io 
voglio  ancora  io.  Vero  è  ch'io  non  vorrei  anche  arre- 
carmi nimico'  Nicomaco,  perché  poi  alla  fine  el  padro- 
ne è  egli. 

CLEANDRO  Non  dubitare,  perché  mia  madre  ed  io  non 
siamo  per  mancarti,  e  ti  trarremo'*  d'ogni  pericolo.  Io 
vorrei  bene  che  tu  ti  rassettassi  un  poco.  Tu  hai  cote- 
sto gabbano  che  ti  cade  di  dosso,  hai  el  tocco'  polvero- 
so, una  barbacela.  Va'  al  barbieri,  lavati  el  viso,  seto- 
lati' cotesti  panni,  acciò  che  Clizia  non  ti  abbia  a  refu- 
tare  per  porco'. 

EUSTACHIO     Io  non  sono  atto  a  rimbiondirmi*. 


III.  I.  appalesato:  fatto  vedere.  2.  altrimenti  fatte:  di  un'altra  levatura.  3. 
arrecarmi  nimico:  rendermi  nemico.  4.  //  trarremo:  ti  toglieremo.  5.  tocco: 
berretto.  6.  setolati:  spazzolati.  7.  per  porco:  perché  sei  sporco.  8.  rim- 
biondirmi:  farmi  bello. 


ATTO  PRIMO  153 

CLEANDRO  Va',  fa'  quel  ch'io  ti  dico,  e  poi  te  ne  vai  in 
quella  chiesa  vicina  e  quivi  mi  aspetta.  Io  me  ne  andrò 
in  casa,  per  vedere  a  quel  che  pensa  el  vecchio. 


Canzone 

Chi  non  fa  prova,  Amore, 
della  tua  gran  possanza,  indarno  spera 
di  far  mai  fede  vera 
qual  sia  del  Cielo  il  più  alto  valore; 
né  sa  come  si  vive  insieme  e  more, 
come  si  segue  el  danno\  il  ben  si  fugge, 
come  s'ama  se  stesso 
men  d'altrui,  come  spesso 
paura  e  speme  i  cori  adiaccia^  e  strugge: 
né  sa  come  ugualmente  uomini  e  dèi 
paventan*  l'arme  di  che  armato  sei. 


CANZONE.     I.  si  segue  el  danno:  si  persegue  la  propria  rovina.     2.  adiaccia:  ag- 
ghiaccia.    3.  paventan:  temono  fortemente. 


ATTO  SECONDO 


SCENA  PRIMA 

Nicomaco. 


NICOMACO  Che  domine'  ho  io  stamani  intorno  agli  oc- 
chi? E'  mi  pare  avere  e  bagliori,  che  non  mi  lasciono 
vedere  lume,  e  iersera  io  arei  veduto  el  pelo  nell'uovo. 
Are'  io  beuto  troppo?  Forse  che  si.  O  Dio,  questa  vec- 
chiaia ne  viene  con  ogni  mal  mendo^  !  Ma  io  non  sono 
ancora  sì  vecchio,  ch'io  non  rompessi  una  lancia  con 
Clizia.  E  egli  però  possibile  che  io  mi  sia  innamorato  a 
questo  modo?  E  quello  che  è  peggio,  mógliama^  se  ne 
è  accorta  ed  indovinasi  perch'io  voglia  dare  questa  fan- 
ciulla a  Pirro.  Infine,  e'  non  mi  va  solco  diritto\  Pure, 
io  ho  a  cercare  di  vincere  la  mia.  -  Pirro!  o  Pirro!  vien 
giù,  esci  fuora! 


SCENA  SECONDA 

Pirro,  Nicomaco. 


PIRRO     Eccomi  ! 

NICOMACO     Pirro,  io  voglio  che  tu  meni'  questa  sera  mo- 
glie in  ogni  modo. 


I.  I.  Che  domine:  Che  diamine,  che  cosa  mai.  2.  con  ogni  mal  mendo:  con 
ogni  cattivo  difetto  (menda  viene  dall'omonimo  latino,  d'etimo  incerto).  3. 
mogliama:  mia  moglie.     4.  non  mi  va  solco  diritto:  non  me  ne  va  una  dritta. 

n.      I.  meni:  prenda. 


ATTO  SECONDO  155 

PIRRO     Io  la  merrò  ora. 

NICOMACO  Adagio  un  poco.  A  cosa  a  cosa,  disse  '1  Mir- 
ra^  E'  bisogna  anche  far  le  cose  in  modo  che  la  casa 
non  vada  sotto  sopra.  Tu  vedi:  mógliama  non  se  ne  con- 
tenta, Eustachio  la  vuole  anch'egli,  parmi  che  Clean- 
dro  lo  favorisca,  e'  ci  si  è  volto  contro'  Iddio  e  '1  dia- 
volo. Ma  sta'  tu  pur  forte  nella  fede  di  volerla.  Non  du- 
bitare, ch'io  varrò  per  tutti  loro'*,  perché,  al  peggio  fa- 
re, io  te  la  darò  a  loro  dispetto;  e  chi  vuole  ingrognare, 
ingrogni'. 

PIRRO  Al  nome  di  Dio,  ditemi  quel  che  voi  volete  che  io 
facci. 

NICOMACO  Che  tu  non  ti  parta  di  quinci  oltre,  acciò  che 
s'io  ti  voglio,  che  tu  sia  presto^ 

PIRRO     Così  farò;  ma  mi  era  scordato  dirvi  una  cosa. 

NICOMACO     Quale  ? 

PIRRO     Eustachio  è  in  Firenze. 

NICOMACO     Come,  in  Firenze?  Chi  te  l'ha  detto? 

PIRRO  Ser  Ambruogio,  nostro  vicino  in  villa;  e'  mi  dice 
che  entrò  dentro  alla  porta  iersera  con  lui. 

NICOMACO     Come,  iersera?  Dove  è  egli  stato  stanotte? 

PIRRO     Chi  lo  sa  ? 

NICOMACO  Sia,  in  buonora;  va'  via,  fa'  quello  ch'io  t'ho 
detto.  -  Sofronia  ara  mandato  per  Eustachio  e  questo 
ribaldo  ha  stimato  più  le  lettere  sue  che  le  mie,  che  gli 
scrissi  che  facessi  mille  cose  che  mi  rovinano,  se  le  non 
si  fanno.  Al  nome  di  Dio,  io  ne  lo  pagherò^  Almeno  sa- 
pessi io  dove  e'  gli  è  e  quel  che  fa.  Ma  ecco  Sofronia 
che  esce  di  casa. 


2.  A  cosa...  'l Mirra:  È  un  wellerismo:  «Ogni  cosa  al  momento  giusto».  3.  e' 
ci  si  è  vòlto  contro:  si  sono  messi  contro  di  noi.  4.  varrò  per  tutti  loro:  saprò 
fronteggiarli  validamente,  saprò  tenere  loro  testa.  ^.  echi  vuole...  ingrogni:  e 
chi  vuole  mettere  il  muso,  lo  metta  (ingrugnare  vale  fare  il  grugno).  6.  che... 
presto:  che  tu  sia  pronto  e  celere.     7.  ne  lo  pagherò:  gliela  farò  pagar  cara. 


156  CLIZIA 

SCENA  TERZA 

Sofronia,  Nicomaco. 


SOFRONIA  (Io  ho  rinchiusa  Clizia  e  Doria  in  camera.  E' 
mi  bisogna  guardare  questa  povera  fanciulla  dal  fi- 
gliuolo, dal  marito,  da'  famigli:  ognuno  l'ha  posto  il 
campo  intorno'.) 

NICOMACO     Ove  si  va? 

SOFRONIA     Alla  messa. 

NICOMACO  Ed  è  per  carnesciale^  !  pensa  quel  che  tu  farai 
di  quaresima. 

SOFRONIA  Io  credo  che  s'abbia  a  fare  bene  d'ogni  tem- 
po; e  tanto  è  più  accetto  farlo  in  quelli  tempi  che  gli  al- 
tri fanno  male.  Ma  e'  mi  pare  che  a  fare  bene  noi  ci  fac- 
ciamo da  cattivo  lato\ 

NICOMACO     Come  ?  che  vorrestu  che  si  facessi? 

SOFRONIA  Che  non  si  pensassi  a  chiacchiere,  e  poi  che 
noi  abbiamo  in  casa  una  fanciulla  buona,  d'assai  e  bel- 
la, abbiamo  durato  fatica  ad  allevalla,  che  si  pensi  di 
nolla  gittare  or  via;  e,  dove  prima  ogni  uomo  ci  lodava, 
ogni  uomo  ora  ci  biasimerà,  veggendo  che  noi  la  diano 
ad  uno  ghiotto"*  senza  cervello  che  non  sa  far  altro  che 
un  poco  radere,  che  è  un'arte  che  non  ne  viverebbe  una 
mosca'. 

NICOMACO  Sofronia  mia,  tu  erri.  Costui  è  giovane,  di 
buono  aspetto  e,  se  non  sa,  è  atto  ad  imparare;  vuol  be- 
ne a  costei.  Che  son  tre  gran  parte^  in  uno  marito:  gio- 
ventù, bellezza  ed  amore.  A  me  non  pare  che  si  possa 
ire  più  là,  né  che  di  questi  partiti  se  ne  truovi  ad  ogni 
uscio.  S'è'  non  ha  roba,  tu  sai  che  la  roba  viene  e  va;  e 


in.  I.  /'  ha  posto...  intomo:  «le  ha  posto  l'assedio»  (Gaeta).  2.  Edè  percar- 
nesciale:  E  siamo  solo  a  carnevale.  3.  ci  facciamo...  lato:  incominciamo  dalla 
parte  sbagliata,  incominciamo  male.  4.  ghiotto:  scioperato  e  poco  di  buo- 
no. 5.  che...  mosca:  i  proventi  del  mestiere  (arte)  di  barbiere  non  gli  baste- 
rebbero certo  per  vivere.     6.  tre  gran  parte:  tre  grandi  qualità. 


ATTO  SECONDO  157 

costui  è  uno  di  quegli  che  è  atto  a  farne  venire.  Ed  io 
non  lo  abbandonerò,  perch'io  fo  pensiero,  a  dirti  il  ve- 
ro, di  comperarli  quella  casa,  che  per  ora  ho  tolta  a  pi- 
gione da  Damone  nostro  vicino:  ed  empierolla  di  mas- 
serizie, e  di  più,  quando  mi  costassi  quattrocento  fio- 
rini, per  metterliene... 

SOFRONIA     Ah,  ah,  ah! 

NicoMACO     Tu  ridi  ? 

SOFRONIA  Chi  non  riderebbe  ?  dove  liene  vuoi  tu  met- 
tere? 

NICOMACO  Sì,  che  vuoi  tu  dire  ?  -  . . .  per  metterliene  in 
su  una  bottega^  non  sono  per  guardarvi*. 

SOFRONIA  E  egli  possibile  però  che  tu  voglia  con  questo 
partito  strano'  tórre  al  tuo  figliuolo  più  ch'e'  non  si  con- 
viene, e  dare  a  costui  più  ch'e'  non  merita?  Io  non  so 
che  mi  dire.  Io  dubito  che  non  ci  sia  altro  sotto. 

NICOMACO     Che  vuoi  tu  che  ci  sia  ? 

SOFRONIA  Se  ci  fussi  chi  non  lo  sapessi,  io  glielo  direi; 
ma,  perché  tu  lo  sai,  io  non  te  lo  dirò. 

NICOMACO     Che  so  io  ? 

SOFRONIA  Lasciamo  ire.  Che  ti  muove  a  darla  a  costui? 
Non  si  potrebbe,  con  questa  dote  o  con  minore'",  ma- 
ritarla meglio  ? 

NICOMACO  Sì,  credo.  Non  di  meno,  e'  mi  muove  l'amo- 
re ch'io  porto  all'una  ed  all'altro,  che,  avendoceli  alle- 
vati tutti  a  duoi,  mi  pare  da  benificarli  tutti  a  duoi. 

SOFRONIA  Se  cotesto  ti  muove,  non  ti  hai  tu  ancora  al- 
levato Eustachio,  tuo  fattore  ? 

NICOMACO  Sì,  ho.  Ma  che  vuoi  tu  che  la  faccia  di  cote- 
stui",  che  non  ha  gentilezza  veruna,  ed  è  uso  a  stare  in 
villa  fra'  buoi  e  tra  le  pecore  ?  O  !  se  noi  gliene  dessi- 
mo, la  si  morrebbe  di  dolore. 

SOFRONIA  E  con  Pirro  si  morrà  di  fame.  Io  ti  ricordo  che 
le  gentilezze  delli  uomini  consistono  in  avere  qualche 


7.  per  metterliene  in  su  «  una  bottega:  tutto  questo  scambio  di  battute  è  basato 
sull'ambiguità  di  quel  mettere,  che  in  uno  dei  due  usi  ha  valore  di  metafora  ero- 
tica. 8.  non  sono  per  guardarvi:  sono  disposto  a  non  badare  a  spese.  9.  partito 
strano:  proposito  inconsueto,  fuori  della  norma,  io.  o  con  minore:  o  anche  con 
una  dote  minore.     11.  che  la  faccia  di  cotestui:  che  la  dia  in  moglie  a  costui. 


158  CLIZIA 

virtù,  sapere  fare  qualche  cosa,  come  sa  Eustachio,  che 
è  uso  alle  faccende  in  su'  mercati,  a  fare  masserizia,  ad 
avere  cura  delle  cose  d'altri  e  delle  sua;  ed  è  uno  uomo 
che  viverebbe  in  su  l'acqua'^:  tanto  che  tu  sai  che  gì'  ha 
un  buono  capitale.  Pirro,  dall'altra  parte,  non  è  mai  se 
non  in  sulle  taverne,  su  pe'  giuochi,  un  cagapensieri'' 
che  morrebbe  di  fame  nello  Altopascio'\ 

NICOMACO  Non  ti  ho  io  detto  quello  che  io  li  voglio 
dare? 

SOFRONIA  Non  ti  ho  io  risposto,  che  tu  lo  getti  via?  Io 
ti  concludo  questo,  Nicomaco,  che  tu  hai  speso  in  nu- 
trire costei  ed  io  ho  durato  fatica  in  allevarla;  e  per  que- 
sto avendoci  io  parte,  io  voglio  ancora  io  intendere  co- 
me queste  cose  hanno  ad  andare,  o  io  dirò  tanto  male 
e  commetterò  tanti  scandoli  che  ti  parrà  essere  in  mal 
termine,  che  non  so  come  tu  ti  alzi  el  viso.  Va',  ragio- 
na di  queste  cose  con  la  maschera''. 

NICOMACO  Che  mi  di'  tu  ?  se'  tu  impazata  ?  Or  mi  fa'  tu 
venir  voglia  di  dargliene**  in  ogni  modo;  e,  per  cotesto 
amore,  voglio  io  che  la  meni  stasera:  e  merralla,  se  ti 
schizzassino  gli  occhi. 

SOFRONIA     O  e'  la  merrà,  o  e'  non  la  merrà. 

NICOMACO  Tu  mi  minacci  di  chiacchiere:  fa'  ch'io  non 
dica''.  Tu  credi  forse  che  io  sia  cieco,  e  che  io  non  co- 
nosca e  giuochi  di  queste  tua  bagatelle  ?  Io  sapevo  be- 
ne che  le  madre  volevano  bene  a'  figliuoli,  ma  non  cre- 
devo che  le  volessino  tenere  le  mani'*  alle  loro  disonestà. 

SOFRONIA     Che  di'  tu  ?  che  cosa  è  disonesta  ? 

NICOMACO  Deh  !  non  mi  far  dire.  Tu  m'intendi  ed  io  t'in- 
tendo. Ognuno  di  noi  sa  a  quanti  di  è  san  Biagio".  Fac- 


12.  viverebbe  in  su  l'acqua:  saprebbe  cavarsela  anche  in  situazioni  dispera- 
te. 13.  cacapensieri:  vanerello,  buono  a  nulla.  14.  nello  Altopascio:  le  terre 
d'Altopascio,  nel  Lucchese,  erano  note  per  essere  particolarmente  uberto- 
se. 15.  ragiona...  con  la  maschera:  il  senso  è:  «Abbi  il  pudore  di  coprirti  il  vi- 
so nel  dire  simili  scempiaggini».  16.  dargliene:  di  dar  Clizia  in  moglie  a  Pir- 
ro, ij.  fa'  ch'io  non  dica:  non  farmi  parlare.  18.  le  volessino  tenere  le  mani: 
volessero  prestar  loro  mano,  farsi  loro  complici.  19.  Ognuno...  san  Biagio:  Mo- 
do di  dire  corrente  per:  «Sappiamo  tutti  come  stanno  le  cose».  La  festa  di  San 
Biagio  (3  febbraio)  era  popolarissima. 


ATTO  SECONDO  159 

damo,  per  tuo  fé',  le  cose  d'accordo,  che  se  noi  en- 
triamo in  cetere^",  noi  sareno  la  favola  del  popolo. 

SOFRONIA  Entra  in  che  cetere  tu  vuoi:  questa  fanciulla 
non  s'ha  a  gittar  via,  o  io  manderò  sotto  sopra,  non  che 
la  casa,  Firenze. 

NICOMACO  Sofronia,  Sofronia,  chi  ti  pose  questo  nome 
non  sognava:  tu  se'  una  soffiona^'  e  se'  piena  di  vento. 

SOFRONIA  Al  nome  d'Iddio,  io  voglio  ire  alla  messa.  Noi 
ci  rivedreno. 

NICOMACO  Odi  un  poco.  Sarebbeci  modo  a  raccapezzare" 
questa  cosa,  e  che  noi  non  ci  facessimo  tenere  pazzi  ? 

SOFRONIA     Pazzi  no,  ma  tristi"  si. 

NICOMACO  Ei  ci  sono  in  questa  terra  tanti  uomini  dab- 
bene, noi  abbiamo  tanti  parenti,  e'  ci  sono  tanti  buoni 
religiosi!  Di  quello  che  noi  non  siamo  d'accordo  noi, 
domandianne  loro,  e  per  questa  via  o  tu  o  io  ci  sgare- 
reno". 

SOFRONIA  Che  ?  vogliamo  noi  cominciare  a  bandire"  que- 
ste nostre  pazzie  ? 

NICOMACO  Se  noi  non  vogliamo  tórre  amici  o  parenti, 
togliamo  uno  religioso,  e  non  si  bandiranno;  e  rimet- 
tiamo in  lui  questa  cosa  in  confessione". 

SOFRONIA     A  chi  andremo  ? 

NICOMACO  E'  non  si  può  andare  ad  altri  che  a  fra'  Ti- 
moteo, che  è  nostro  confesserò  di  casa  ed  è  uno  sante- 
rello"  ed  ha  fatto  già  qualche  miracolo. 

SOFRONIA     Quale  ? 

NICOMACO  Come  quale  ?  Non  sai  tu  che  per  le  sue  ora- 
zioni mona  Lucrezia  di  messer  Nicia  Calfucci,  che  era 
sterile,  ingravidò^*? 


20.  entriamo  in  cetere:  caschiamo  a  parlare  di  cose  inutili  [cetere  è  il  lat.  coetera, 
gli  altri  e  minori  argomenti,  che  di  solito  er^no praeterita,  passati  sotto  silenzio, 
tralasciati).  2 1 .  soffiona:  presuntuosa,  boriosa  (soffione  è  la  canna  di  ferro  per 
ravvivare  il  fuoco  col  soffio:  qui  la  forma  aggettivale  è  assunta  in  senso  figura- 
to). 22.  raccapezzare:  rappezzate,  riaccomodare.  23.  tristi:  d'animo  malva- 
gio, pieni  di  cattive  intenzioni.  24.  ci  sgarereno:  ci  caveremo  d'inganno,  ci 
smagheremo.  25.  bandire:  rendere  di  dominio  pubblico,  come  se  le  annun- 
ciassimo per  bando.  26.  in  confessione:  sotto  il  segreto  confessionale.  27. 
santerello:  un  mezzo  santo.  28.  Non  sai  tu...  ingravidò:  Il  riferimento  è  alla  Al.: 
una  sorta  di  ammicco  d'intesa  tra  due  diverse  occasioni  teatrali. 


l6o  CLIZIA 

SOFRONIA  Gran  miracolo,  un  frate  fare  ingravidare  una 
donna!  Miracolo  sarebbe  se  una  monaca  la  facessi  in- 
gravidare ella  ! 

NICOMACO  E  egli  possibile  che  tu  non  mi  attraversi  sem- 
pre la  via  con  queste  novelle  ? 

SOFRONIA  Io  voglio  ire  alla  messa,  e  non  voglio  rimette- 
re le  cose  mia  in  persona". 

NICOMACO  Orsù,  va'  e  torna:  io  ti  aspetterò  in  casa.  (Io 
credo  che  sia  bene  non  si  discostare  molto,  perché  non 
trafugassino  Clizia  in  qualche  lato.) 


SCENA  QUARTA 

Sofronia. 


SOFRONIA  Chi  conobbe  Nicomaco  uno  anno  fa  e  lo  pra- 
tica ora\  ne  debbe  restare  maravigliato,  considerando 
la  gran  mutazione  che  gì'  ha  fatta,  perch'e'  soleva  es- 
sere uno  uomo  grave,  resoluto,  respettivo^  dispensava 
il  tempo  suo  onorevolmente:  e'  si  levava  la  mattina  di 
buonora,  udiva  la  sua  messa,  provedeva  al  vitto  del  gior- 
no; dipoi,  s'egli  aveva  faccenda  in  piazza,  in  mercato, 
o  a'  magistrati,  e'  le  faceva;  quanto  che  no,  o  e'  si  ridu- 
ceva' con  qualche  cittadini  tra  ragionamenti  onorevoli, 
o  e'  si  ritirava  in  casa  nello  scrittoio'',  dove  raguagliava 
suo  scritture',  riordinava  suoi  conti;  di  poi  piacevol- 
mente con  la  sua  brigata  desinava;  e,  desinato,  ragio- 
nava con  il  figliuolo,  ammunivalo,  davagli  a  conoscere 
gì'  uomini,  e  con  qualche  essemplo  antico  e  moderno 
gl'insegnava  vivere.  Andava  di  poi  fuora,  consumava 

29.  rimettere...  in  persona:  affidate  a  nessuno  il  compito  di  curare  i  miei  inte- 
ressi. Voglio,  cioè,  riprendere  io  stessa  il  discorso  su  questo  matrimonio. 

IV.  I.  lo  pratica  ora:  lo  frequenta  ora.  2.  respettivo:  rispettoso  delle  circo- 
stanze, prudente:  l'opposto  di  impetuoso.  3.  si  riduceva:  si  conduceva,  si  in- 
tratteneva con.  4.  scrittoio:  studio.  5.  raguagliava  sue  scritture:  riordinava, 
aggiornava  le  sue  carte,  i  suoi  conti. 


ATTO  SECONDO  l6l 

tutto  il  giorno  o  in  faccende  o  in  diporti  gravi  ed  one- 
sti. Venuta  la  sera,  sempre  l'Avemaria  lo  trovava  in  ca- 
sa: stavasi  un  poco  con  esso  noi  al  fuoco,  s'è'  gli  era  di 
verno;  di  poi  se  n'entrava  nello  scrittoio  a  rivedere  le 
faccende  sue;  alle  tre  ore  si  cenava  allegramente.  Que- 
sto ordine*  della  sua  vita  era  uno  essemplo  a  tutti  gli  al- 
tri di  casa,  e  ciascuno  si  vergognava  non  lo  imitare.  E 
così  andavano  le  cose  ordinate  e  liete.  Ma  di  poi  che  gli 
entrò  questa  fantasia  di  costei,  le  faccende  sue  si  strac- 
curano';  e  poderi  si  guastono;  e  trafichi  rovinano.  Gri- 
da sempre,  e  non  sa  di  che;  entra  ed  esce  di  casa  ogni 
dì  mille  volte,  sanza  sapere  quello  che  si  vada  f accen- 
do. Non  torna  mai  ad  ora  che  si  possa  cenare  o  desina- 
re a  tempo;  se  tu  gli  parli,  o  e'  non  ti  risponde,  o  e'  ti 
risponde  non  a  proposito.  I  servi,  vedendo  questo,  si 
fanno  beffe  di  lui;  il  figliuolo  ha  posto  giù  la  reveren- 
zia*;  ognuno  fa  a  suo  modo,  ed  infine  niuno  dubita  di 
fare'  quello  che  vede  fare  a  lui.  In  modo  che  io  dubito, 
se  Iddio  non  ci  remedia,  che  questa  povera  casa  non  ro- 
vini. Io  voglio  pure  andare  alla  messa  e  raccomandarmi 
a  Dio  quanto  io  posso.  Io  veggo  Eustachio  e  Pirro  che 
si  bisticciano.  Be'  mariti  che  si  apparecchiano  a  Clizia! 


SCENA  QUINTA 

Pirro,  Eustachio. 

PIRRO     Che  fa'  tu  in  Firenze,  trista  cosa'  ? 
EUSTACHIO     Io  non  l'ho  a  dire  a  te. 
PIRRO     Tu  se'  così  razzimatoM  tu  mi  pari  un  cesso  ripu- 
lito. 


6.  Questo  ordine:  Questo  ordinato  svolgimento.  7.  si  straccurano:  trascura- 
no. 8.  ha  posto  giù  la  rcvcrenzia:  ha  messo  da  parte  il  dovuto  rispetto  filia- 
le.    9.  niuno  dubita  di  fare:  nessuno  esita  a  fare. 

V.  I.  trista  cosa:  si  diceva  anche:  trista  persona:  sciagurato.  Ma  quel  cosa  è  an- 
cor più  dispregiativo.  E  questa  la  prima  scena  della  C.  che  risente  di  echi  plau- 
tini, dalla  Casina,  dove  leggiamo  (I,  i,  98):  «Quid  in  urbe  reptas,  vilice  haud 
magni  preti?».     2.  razzimato:  azzimato. 


,/^  CLIZIA 

I02 

EUSTACHIO  Tu  hai  sì  poco  cervello  che  io  mi  maraviglio 
che'  fanciulli  non  ti  gettino  drieto'  e  sassi. 

PIRRO     Presto  ci  avvedremo  chi  ara  più  cervello,  o  tu  o  io. 

EUSTACHIO  Prega  Iddio  che  '1  padron  non  muoia,  che  tu 
andrai  un  dì  accattando^ 

PIRRO     Hai  tu  veduto  Nicomaco  ? 

EUSTACHIO     Che  ne  vuoi  tu  sapere  se  io  l'ho  veduto  o  no  ? 

PIRRO  E'  toccherà  bene  a  te  a  saperlo,  che,  se  e'  non  si 
rimuta',  se  tu  non  torni  in  villa  da  te,  e'  vi  ti  farà  por- 
tare a'  birri. 

EUSTACHIO     E'  ti  dà  una  gran  briga  questo  mio  essere  in 

Firenze  ! 

PIRRO     E'  dà  più  briga  ad  altri  che  a  me. 

EUSTACHIO     E  però  ne  lascia  el  pensiero  ad  altri. 

PIRRO     Pure  le  carne  tirano^ 

EUSTACHIO     Tu  guardi  e  ghigni. 

PIRRO     Guardo,  che  tu  saresti  el  bel  marito. 

EUSTACHIO  Orbe,  sai  quello  ch'io  ti  voglio  dire  ?  «  Ed  an- 
che il  duca  murava!  »'.  Ma  se  la  prende  te,  la  sarà  sah- 
ta  in  su'  muricciuoli*.  Quanto  sarebbe  meglio  che  Ni- 
comaco la  affogassi  in  quel  suo  pozzo!  Almeno  la  po- 
verina morrebbe  ad  uno  tratto'. 

PIRRO  Do!  villan  poltrone  profumato  nel  litame!  Par- 
t'egli  avere  carni  da  dormire  allato  a  sì  dilicata  figlia? 

EUSTACHIO  EU'arà  bene  carni  teco,  che  se  la  sua  trista 
sorte  te  la  dà,  o  ella  in  uno  anno  diventerà  puttana,  o  el- 
la si  morrà  di  dolore:  ma  del  primo'"  ne  sarai  tu  d'accor- 
do seco,  che  per  uno  becco  pappataci"  tu  sarai  desso! 

}  drieto:  dietro,  aUe  terga.  4-  accattando:  chiedendo  l'elemosina  come  un  ac- 
cattone. 5-  se...  rimuta:  se  egli  non  cambia  parere.  6.  Pure...  tirano:  la  be- 
ahina  di  M  III,  3,  si  dice  con  queste  parole  attaccata  alla  memoria  del  marito, 
«ancora  che  fussi  un  omaccio».  Qui  vorrebbe  dire,  con  iroma  insolente  e  ama^ 
ra-  «Eppure  la  carne  ha  i  suoi  diritti».  i.«Ed  anche  il  duca  murava'.  ..Detto 
proverbiale  d'area  toscana,  che  vale:  «Lavorano  anche  i  nobih  e  i  potenti;  nes- 
suno si  è  mai  sottratto  al  lavoro».  8.  la  sarà...  muncctuolr.com,  rivenduglio- 
li e  mendicanti,  che  in  cambio  di  una  elemosina  esponevano  a  loro  povera  mer- 
ce su  bassi  muretti  (muncciolaw  era  detto  U  rivenditore  di  libri  usati).  9.  ac 
uno  tratto:  d'un  colpo,  io.  ma  del  primo:  ma  se  la  sua  sorte  sarà  la  prima,  d 
farsi  cioè  prostituta.  11.  per  uno  becco  pappataci:  se  ci  sarà  un  cornuto  con 
tento  (che  pappa  e  tace),  quello  sarai  tu. 


ATTO  SECONDO  163 

PIRRO  Lasciamo  andare!  Ognuno  aguzzi  e  sua  ferruzzi'^; 
vedreno  a  chi  e'  dirà  meglio.  Io  me  ne  voglio  ire  in  ca- 
sa, ch'io  t'arei  a  rompere  la  testa. 

EUSTACHIO     Ed  io  mi  tornerò  in  chiesa. 

PIRRO     Tu  fai  bene  a  non  uscire  di  franchigia". 


Canzona 

Quanto  in  cor  giovinile  è  bello  amore, 
tanto  si  disconviene 
in  chi  degli  anni  suoi  passato  ha  il  fiore. 

Amore  ha  sua  virtute  agli  anni  uguale* 
e  nelle  fresche  etati  assai  s'onora 
e  nelle  antiche  poco  o  nulla  vale. 
Si  che,  oh  vecchi  amorosi,  el  meglio  fora 
lasciar  la  impresa  a  giovinetti  ardenti, 
ch'a  più  fort'opra  intenti, 
far  ponno  al  suo  signor^  più  largo  onore. 


12.  Ognuno...  ferruzzi:  espressione  equivalente  a:  «Ognuno  aguzzi  il  proprio  in- 
gegno, i  ferri  del  proprio  acume».  13.  a  non  uscire  di  franchigia:  «In  chiesa  i 
malfattori  non  potevano  esser  perseguiti:  vigeva  il  diritto  d'asilo»  (Gaeta). 

CANZONA  I.  ha...  uguale:  possiede  una  forza  d'attrazione  proporzionata  agli 
anni  di  chi  ne  è  soggetto.     2.  al  suo  signor:  al  loro  signore,  ad  Amore. 


ATTO  TERZO 


SCENA  PRIMA 

Nicomaco,  Cleandro. 


NicoMACO     Cleandro,  o  Cleandro! 

OLEANDRO     Messere! 

NICOMACO  Esci  giù,  esci  giù,  dico  io!  Che  fai  tu,  tanto 
el  di',  in  casa?  Non  te  ne  vergogni  tu,  che  dai  carico^  a 
cotesta  fanciulla?  Sogliano  a  simili  di  di  carnasciale  e 
giovani  tuoi  pari  andarsi  a  spasso  veggendo  le  masche- 
re, o  ire  a  fare  al  calcio'.  Tu  se'  uno  di  quelli  uomini  che 
non  sai  far  nulla  e  non  mi  pari  né  morto  né  vivo. 

CLEANDRO  lo  non  mi  diletto  di  coteste  cose,  e  non  me 
ne  dilettai  mai,  e  piacemi  più  il  star  solo  che  con  cote- 
ste compagnie;  e  tanto  più  stavo  ora  volentieri  in  casa, 
veggendovi  stare  voi,  per  potere,  se  voi  volevi  cosa  al- 
cuna, farla. 

NICOMACO  Deh!  guarda  dove  l'aveva !^  Tu  se'  el  buon 
figliuolo!  Io  non  ho  bisogno  di  averti  tutto  di  drieto; 
io  tengo  dua  famigli  ed  uno  fattore,  per  non  avere'  a 
comandare  a  te. 

CLEANDRO  Al  nome  d'Iddio,  e'  non  è  però  che  quello 
ch'io  fo  no  '1  faccia  per  bene. 

NICOMACO  Io  non  so  per  quel  che  tu  tei  fai,  ma  io  so  be- 
ne che  tua  madre  è  una  pazza  e  rovinerà  questa  casa. 
Tu  faresti  el  meglio  a  ripararci. 


I.  I.  tanto  el  di:  tutto  il  giorno,  tanto  è  lungo  il  di.  2.  dai  carico:  puoi  offri- 
re, col  tuo  comportamento,  «motivo  di  biasimo  per  la  reputazione»  (Blasucci) 
della  fanciulla.  3 .  ire  a  fare  al  calcio:  andare  a  giocare  al  calcio.  Il  gioco  del  cal- 
cio era  sport  assai  praticato  nella  Firenze  medicea:  e  celebrato  da  letterati  e  poe- 
ti. 4.  dove  l'aveva!  :  dove  teneva  in  serbo  la  risposta!  5.  per  non  avere:  per 
poter  fare  a  meno. 


ATTO  TERZO  165 

CLEANDRO     O  lei,  o  altri*. 
NICOMACO     Chi  altri  ? 

CLEANDRO      lo  non  SO. 

NICOMACO  E'  mi  pare  bene  che  tu  noi  sappi.  Ma  che  di' 
tu  di  questi  casi  di  Clizia? 

CLEANDRO     (Vedi  che  vi  capitamo^  !  ) 

NICOMACO     Che  di'  tu?  Di'  forte,  ch'io  t'intenda. 

CLEANDRO     Dico  ch'io  non  so  che  me  ne  dire. 

NICOMACO  Non  ti  par'egli  che  questa  tua  madre  pigli  un 
granchio  a  non  volere  che  Clizia  sia  moglie  di  Pirro  ? 

CLEANDRO     lo  non  me  ne  intendo. 

NICOMACO  Io  son  chiaro*:  tu  hai  preso  la  parte  sua.  E'  ci 
cova  sotto  altro  che  favole'.  Parrebbet'egli  però  che  la 
stessi  bene  con  Eustachio  ? 

CLEANDRO     lo  non  lo  so,  e  non  me  ne  intendo. 

NICOMACO     Di  che  diavolo  t'intendi  tu  ? 

CLEANDRO     Non  di  cotesto. 

NICOMACO  Tu  ti  sei  pur  inteso  di  far  venire  in  Firenze 
Eustachio,  e  trafugarlo'"  perché  io  non  lo  vegga,  e  ten- 
dermi lacciuoli  per  guastare  queste  nozze:  ma  te  e  lui 
caccerò  io  nelle  Stinche";  a  Sofronia  renderò  io  la  sua 
dota  e  manderolla  via,  perché  io  voglio  essere  io  signo- 
re di  casa  mia,  e  ognuno  se  ne  sturi  gli  orecchi'^  E  vo- 
glio che  questa  sera  queste  nozze  si  faccino,  o  io,  quan- 
do non  arò  altro  rimedio,  caccerò  fuoco  in  questa  casa. 
Io  aspetterò  qui  tuo  madre,  per  vedere  s'io  posso  esse- 
re d'accordo  con  lei;  ma  quando  io  non  possa,  ad  ogni 
modo  io  ci  voglio  l'onor  mio,  che  io  non  intendo  che' 
paperi  menino  a  bere  l'oche"!  Va',  per  tanto,  se  tu  de- 
sideri el  bene  tuo  e  la  pace  di  casa,  a  pregarla  che  facci 
a  mio  modo.  Tu  la  troverrai  in  chiesa,  ed  io  aspetterò 


6.  O  lei,  0  altri:  Sarà  lei  o  saranno  altri  a  condurci  alla  rovina.  7.  vi  capita- 
mo:  ci  caschiamo  sopra,  ci  imbattiamo  nel  tema  che  gli  sta  a  cuore.  8.  lo  son 
chiaro:  Ora  capisco  tutto,  ora  vedo  chiaro  nella  faccenda.  9.  altro  che  favo- 
le: altro  che  storie,  vani  pretesti  o  scuse,  io.  trafugarlo:  sottrarmelo  alla  vi- 
sta. 1 1 .  nelle  Stinche:  erano  le  carceri  di  Firenze.  12.  sene  sturi  gli  orecchi: 
apra  ben  gli  orecchi.  13.  eh' e  paperi...  l'oche:  che  i  più  sciocchi  comandino 
ai  più  saggi. 


l66  CLIZIA 

te  e  lei  qui  in  casa.  E  se  tu  vedi  quel  ribaldo  di  Eusta- 
chio, digli  che  venghi  a  me:  altrimenti  non  farà  bene  e 
casi  suoi'^ 

CLEANDRO   lo  VO. 


SCENA  SECONDA 

Cleandro. 


CLEANDRO  O  miseria  di  chi  ama  !  Con  quanti  affanni  pas- 
so io  il  mio  tempo!  Io  so  bene  che  qualunque'  ama  una 
cosa  bella,  come  è  Clizia,  ha  di  molti  rivali  che  gli  dan- 
no infiniti  dolori.  Ma  io  non  intesi  mai  che  ad  alcuno 
avvenissi^  di  avere  per  rivale  il  padre;  e  dove  molti  gio- 
vani hanno  trovato  appresso  al  padre  qualche  remedio, 
io  vi  truovo  el  fondamento  e  la  cagione  del  male  mio. 
E  se  mia  madre  mi  favorisce,  la  non  fa  per  favorire  me, 
ma  per  disfavorire  la  impresa  del  marito:  e  perciò  io 
non  posso  scoprirmi  in  questa  cosa  gagliardamente\ 
perché  subito  la  crederrebbe  che  io  avessi  fatti  quelli 
patti,  con  Eustachio,  che  mio  padre  ha  fatti  con  Pirro; 
e  come  la  credesse  questo,  mossa  dalla  conscienzia,  la- 
scerebbe ire  l'acqua  alla  china^  e  non  se  ne  travaglie- 
rebbe  più',  e  io  al  tutto  sarei  spacciato  e  ne  piglierei  tan- 
to dispiacere  ch'io  non  crederrei  più  vivere.  Io  veggio 
mia  madre  che  esce  di  chiesa:  io  voglio  parlar  seco  ed 
intendere  la  fantasia  sua  e  vedere  quali  rimedii  ella  ap- 
parecchi contro  a'  disegni  del  vecchio. 


14.  non...  e  casi  suoi:  non  farà  il  proprio  bene,  la  propria  felicità. 

n.  i.  qualunque:  chiunque.  2.  avvenissi:  accadesse.  }.  gagliardamente:  con. 
ardire  e  bella  franchezza.  4.  ire  l'acqua  alla  china:  si  dice  anche:  andare  le  co- 
se per  il  loro  verso.  5.  non  se  ne  travaglierebbe  più:  non  soffrirebbe  più  e  per- 
ciò non  vi  si  impegnerebbe  più. 


ATTO  TERZO  167 

SCENA  TERZA 

Cleandro,  Sofronia. 


OLEANDRO  Dio  vi  salvi,  madre  mia! 

SOFRONIA  O  Cleandro,  vieni  tu  di  casa? 

OLEANDRO  Madonna  si. 

SOFRONIA  Sevvi  tu  stato  tuttavia',  poi  ch'io  vi  ti  lasciai  ? 

OLEANDRO   SonO. 

SOFRONIA     Nicomaco  dove  è  ? 

OLEANDRO  E  in  casa,  e  per  cosa  che  sia  accaduta  no'n'è 
uscito. 

SOFRONIA  Lascialo  fare,  al  nome  d'Iddio.  Una  ne  pensa 
el  ghiotto  e  l'altra  el  tavernaio^  Hatt'egli  detto  cosa  al- 
cuna? 

OLEANDRO  Un  monte  di  villanie;  e  parmi  che  gli  sia  en- 
trato el  diavolo  addosso:  e'  vuole  mettere  nelle  Stinche 
Eustachio  e  me,  a  voi  vuole  rendere  la  dota  e  cacciarvi 
via,  e  minaccia,  nonché  altro,  di  mettere  fuoco  in  casa. 
E  mi  ha  imposto  ch'io  vi  truovi  e  vi  persuada  a  con- 
sentire a  queste  nozze:  altrimenti  non  si  farà  per  voì\ 

SOFRONIA     Tu  che  ne  di'  ? 

OLEANDRO  Dicone  quello  che  voi,  perché  io  amo  Clizia 
come  sorella,  e  dorrebbemi  infino  all'anima  che  la  ca- 
pitassi in  mano  di  Pirro. 

SOFRONIA  Io  non  so  come  tu  te  la  ami'',  ma  io  ti  dico  be- 
ne questo,  che  s'io  credessi  trarla  delle  mani  di  Nico- 
maco e  metterla  nelle  tua,  che  io  non  me  ne  impacce- 
rei'. Ma  io  penso  che  Eustachio  la  vorrebbe  per  sé  e  che 


III.  I.  tuttavia:  per  tutto  questo  tempo.  2.  Una...  el  tavernaio:  È  proverbio 
e  vale:  «Gli  uomirìi  vanno  a  gara  a  chi  sa  imbrogliare  con  più  malizia  altro». 
Applicato  a  Nicomaco  e  Cleandro:  «Gareggiate  a  far  peggio  l'uno  dell'al- 
tro». 3.  non  si  farà  per  voi:  le  cose  non  andranno  nel  vostro  verso,  andranno 
male  per  voi.  4.  lo  non...  la  ami:  Ironicamente:  io  non  ho  ben  chiaro  come  tu 
l'ami,  se  da  fratello  o  da  spasimante.  5.  non  me  ne  impaccerei:  non  me  ne  im- 
piccerei. 


l68  CLIZIA 

il  tuo  amore,  per  la  sposa  tua,  che  siamo  per  dartela  pre- 
sto, si  potessi  cancellare*. 

CLEANDRO  Voi  pensate  bene  e  però  io  vi  prego  che  voi 
facciate  ogni  cosa  perché  queste  nozze  non  si  faccino. 
E  quando  non  si  possa  fare  altrimenti  che  darla  ad  Eu- 
stachio, diesili^;  ma,  quando  si  possa,  sarebbe  meglio, 
secondo  me,  lasciarla  stare  così,  perché  l'è  ancora  gio- 
vinetta e  non  le  fugge  il  tempo.  Potrebbono  e  cieli  far- 
le trovare  e  sua  parenti,  e,  quando  e'  fussino  nobili, 
arebbono  un  poco  obligo*  con  voi,  trovando  che  voi 
l'avessi  maritata  o  ad  uno  famiglio  o  ad  uno  contadino. 

SOFRONIA  Tu  di'  bene.  Io  ancora  ci  avevo  pensato,  ma 
la  rabbia  di  questo  vecchio  mi  sbigottisce;  non  di  me- 
no, e'  mi  si  aggirano  tante  cose  per  il  capo  che  io  credo 
che  qualcuna  gli  guasterà  ogni  suo  disegno.  Io  me  ne 
voglio  ire  in  casa  perché  io  veggo  Nicomaco  aliare'  in- 
torno all'uscio.  Tu  va'  in  chiesa  e  di'  ad  Eustachio  che 
venga  a  casa  e  non  abbia  paura  di  cosa  alcuna. 

CLEANDRO     Cosi  farò. 


SCENA  QUARTA 

Nicomaco,  Sofronia. 


NICOMACO  (Io  veggo  mógliama,  che  torna;  io  la  voglio 
un  poco  berteggiare'  per  vedere  se  le  buone  parole  mi 
giovano.)  O  fanciulla  mia,  ha'  tu  però  a  stare  si  malin- 
conosa^  quando  tu  vedi  la  tua  speranza?  Sta'  un  poco 


meco 


6.  lituo  amore...  cancellare:  giustamente  Blasucci:  «il  tuo  amore  [per  Clizia]  pos- 
sa [ma,  meglio:  potrebbe]  essere  cancellato  da  parte  della  tua  sposa».  (Il  per  in 
sostanza  è  ablativale).  7.  diesili:  gliela  si  dia.  8.  arebbono  un  poco  obligo: 
avrebbero  motivo  di  un  qualche  risentimento.  9.  aliare:  letteralmente:  aggi- 
rarsi a  volo. 

IV.  I.  berteggiare:  come  dar  la  berta  0  sbertare:  prendere  in  giro.  2.  malinco- 
nosa:  malinconica.  Nella  Casina  (II,  3,  228):  «Tristem  astare  aspicio». 


ATTO  TERZO 


169 


SOFRONIA     Lasciami  ire. 

NICOMACO     Fermati,  dico. 

SOFRONIA     Io  non  voglio:  tu  mi  par'  cotto'. 

NICOMACO     Io  ti  verrò  drieto. 

SOFRONIA     Se'  tu  impazzato? 

NICOMACO     Pazzo?  perch'io  ti  voglio  troppo  bene. 

SOFRONIA     Io  non  voglio  che  tu  me  ne  voglia. 

NICOMACO     Questo  non  può  essere. 

SOFRONIA     Tu  m'uccidi'':  hu,  fastidioso! 

NICOMACO     (Io  vorrei  che  tu  dicessi  il  vero.) 

SOFRONIA     (Credotelo.) 

NICOMACO     Eh!  guatami  un  poco,  amor  mio. 

SOFRONIA  Io  ti  guato,  ed  odoroti  anche:  tu  sai  sì  di  buo- 
no! Bembè,  tu  mi  riesci'! 

NICOMACO  (Ohimè,  che  la  se  ne  è  avveduta!  Che  mala- 
detto  sia  quel  poltrone,  che  me  l'arrecò  dinanzi.) 

SOFRONIA  Onde  son  venuti  questi  odori"*  di  che  sai  tu, 
vecchio  impazzato  ? 

NICOMACO  E'  passò  dianzi  uno  di  qui,  che  ne  vendeva: 
io  gli  trassinai,  e  mi  rimase  di  quello  odore  addosso. 

SOFRONIA  (E'  gli  ha  già  trovato  la  bugia:  non  dissi  io?) 
E  ti  vergogni  tu  di  quello  che  tu  fai  da  uno  anno  in  qua  ? 
Usi  sempre  con  sei  giovanetti,  vai  alla  taverna,  ripariti 
in  casa  femmine'  e  dove  si  giuoca,  spendi  sanza  modo: 
begli  essempli  che  tu  dai  al  tuo  figliuolo!  Date  moglie 
a  questi  valenti  uomini! 

NICOMACO  Ah!  moglie  mia,  non  mi  dir  tutti  e  mali  ad  un 
tratto:  serba  qualche  cosa  a  domani.  Ma  non  è  egli  ragio- 
nevole che  tu  faccia  più  tosto  a  mio  modo,  che  io  a  tuo  ? 

SOFRONIA     Sì,  delle  cose  oneste. 

NICOMACO     Non  è  egli  onesto  maritare  una  fanciulla  ? 

SOFRONIA     Sì,  quando  ella  si  marita  bene. 

NICOMACO     Non  starà  ella  bene  con  Pirro  ? 

SOFRONIA      No. 


3.  cotto:  instupidito  dall'ubriachezza  (cottura).  4.  m'uccìdi:  mi  farai  morire, 
tanto  m'infastidisci.  5.  mi  riesci:  quasi  quasi  mi  persuadi,  riesci  a  convincer- 
mi (è  detto  con  ironia).  6.  odori:  sono  profumi.  7.  ripariti  in  casa  femmine: 
vai  a  cercare  asilo  in  casa  di  donne  di  malaffare. 


lyo  CLIZIA 

NICOMACO     Perché  ? 

SOFRONIA     Per  quelle  cagioni  ch'io  t'ho  dette  altre  volte. 

NICOMACO  Io  m'intendo  di  queste  cose  più  di  te.  Ma,  se 
io  facessi  tanto  con  Eustachio  ch'e'  non  la  volessi? 

SOFRONIA  E  se  io  facessi  con  Pirro  tanto  che  non  la  vo- 
lessi anch'egli? 

NICOMACO  Da  ora  innanzi  ciascuno  di  noi  si  pruovi^  e 
chi  di  noi  dispone  el  suo',  abbi  vinto. 

SOFRONIA  Io  son  Contenta.  Io  vo  in  casa  a  parlare  a  Pir- 
ro e  tu  parlerai  con  Eustachio,  che  io  lo  veggo  uscir  di 
chiesa. 

NICOMACO     Sia  fatto. 


SCENA  QUINTA 

Eustachio,  Nicomaco. 


EUSTACHIO  (Poiché  Cleandro  mi  ha  detto  che  io  vadia  a 
casa  e  non  dubiti,  io  voglio  fare  buon  cuore'  ed  an- 
darvi.) 

NICOMACO  (Io  volevo  dire  a  questo  ribaldo  una  carta^  di 
villanie,  e  non  potrò,  poiché  io  l'ho  a  pregare.)  Eustachio! 

EUSTACHIO     O  padrone  ? 

NICOMACO     Quando  fustù  in  Firenze  ? 

EUSTACHIO     lersera. 

NICOMACO  Tu  hai  penato  tanto  a  lasciarti  rivedere!  Do- 
ve se'  tu  stato  tanto? 

EUSTACHIO  Io  vi  dirò.  Io  mi  cominciai  iermattina  a  sen- 
tir male:  e'  mi  doleva  el  capo,  avevo  una  anguinaia^  e 
parevami  avere  la  febre.  Ed  essendo  questi  tempi  so- 


8.  s:  pruovi:  faccia  prova  di  sé,  si  cimenti.  9.  dispone  el  suo:  riesce  a  convin- 
cere il  suo  uomo,  cioè  il  candidato  dell'avversario.  Questa  scena  risente,  con 
sufficiente  aderenza,  della  scena  3  dell'atto  II  della  Casina. 

V.  i .  fare  buono  cuore:  farmi  coraggio.  2.  una  carta:  «una  pagina  intera,  una 
gran  quantità»  (Blasucci).     3.  anguinaia:  o  inguinaglia:  dolore  all'inguine. 


ATTO  TERZO  1 7 1 

Spetti  di  peste,  io  ne  dubitai  forte  e  iersera  venni  a  Fi- 
renze e  mi  stetti  all'osteria,  né  mi  volli  rappresentare*, 
per  non  fare  male  a  voi  o  a  la  famiglia  vostra,  se  pure 
e'  fussi  stato  desso'.  Ma,  grazia  di  Dio,  ogni  cosa  è  pas- 
sata via  e  sentomi  bene. 

NICOMACO  (E'  mi  bisogna  fare  vista  di  crederlo.)  Ben  fa- 
cesti tu:  se'  orbene  guarito? 

EUSTACHIO     Messer  sì. 

NICOMACO  (Non  del  tristo^)  Io  ho  caro  che  tu  ci  sia.  Tu 
sai  la  contenzione^  che  è  tra  me  e  mógliama,  circa  al  dar 
marito  a  Clizia.  Ella  la  vuole  dare  a  te  ed  io  la  vorrei 
dare  a  Pirro. 

EUSTACHIO     E  dunque  volete  meglio  a  Pirro  che  a  me. 

NICOMACO  Anzi,  voglio  meglio  a  te  che  a  lui.  Ascolta  un 
poco.  Che  vuoi  tu  fare  di  moglie  ?  Tu  hai  oggimai  tren- 
totto anni,  ed  una  fanciulla  non  ti  sta  bene;  ed  è  ragio- 
nevole* che,  come  la  fussi  stata  teco  qualche  mese,  che 
la  cercassi  un  più  giovane  di  te,  e  viveresti  disperato. 
Di  poi,  io  non  mi  potrei  più  fidare  di  te;  perderesti  lo 
aviamento';  diventeresti  povero,  ed  andresti  tu  ed  ella 
accattando. 

EUSTACHIO  In  questa  terra  chi  ha  bella  moglie  non  può 
essere  povero:  e  del  fuoco  e  della  moglie  si  può  essere 
liberale  con  ognuno,  perché  quanto  più  ne  dai,  più  te 
ne  rimane. 

NICOMACO  Dunque  vuoi  tu  fare  questo  parentado  per 
farmi  dispiacere  ? 

EUSTACHIO     Anzi,  lo  vo'  fare  per  fare  piacere  a  me. 

NICOMACO  Or  tira'",  vanne  in  casa.  (Io  ero  pazzo  s'io  cre- 
devo avere  da  questo  villano  una  risposta  piacevole.)  Io 
muterò  teco  verso".  Ordina  di  rimettermi  e  conti  e  di 
andarti  con  Dio,  e  fa'  stima  d'essere  il  maggior  nimico 
ch'io  abbia  e  ch'io  ti  abbia  a  fare  il  peggio,  che  io  posso. 


4.  rappresentare:  presentare.  5.  se...  desso:  nel  caso  che  quel  malessere  fosse 
stato  realmente  (pure)  il  segno  della  peste.  6.  Non  del  tristo:  «Ma  non  sei  gua- 
rito dalla  tua  tristizia»  (Blasucci).  7.  contenzione:  contesa.  8.  è  ragionevole: 
sott.:  supporre,  prevedere.  9.  perderesti  lo  aviamento:  perderesti  i  benefici  di 
un  lavoro  già  avviato,  io.  Or  tira:  Or  tira  via,  vattene,  t  i.  lo...  verso:  «Cam- 
bierò  con  te  il  mio  modo  di  fare»  (Gaeta). 


172  CLIZIA 

EUSTACHIO     A  me  non  dà  briga  nulla'^  pur  ch'io  abbia 

Clizia. 
NICOMACO     Tu  arai  le  forche. 


SCENA  SESTA 

Pirro,  Nicomaco. 


PIRRO  Prima  ch'io  facessi  ciò  che  voi  volete,  io  mi  la- 
scerei scorticare'. 

NICOMACO  (La  cosa  va  bene!  Pirro  sta  nella  fede^)  Che 
hai  tu?  Con  chi  combatti  tu,  Pirro? 

PIRRO     Combatto  ora  con  chi  voi  combattete  sempre. 

NICOMACO     Che  dic'ella?  Che  vuol  ella? 

PIRRO     Pregami  che  io  non  tolga  Clizia  per  donna. 

NICOMACO     Che  l'hai  tu  detto  ? 

PIRRO  Che  io  mi  lascerei  prima  ammazzare,  che  io  la  ri- 
fiutassi. 

NICOMACO     Ben  dicesti. 

PIRRO  Se  i'  ho  ben  detto,  io  dubito  non  avere  mal  fat- 
to\  perché  io  mi  sono  fatto  nimico  la  vostra  donna  ed 
il  vostro  figliuolo  e  tutti  gli  altri  di  casa. 

NICOMACO  Che  importa  ?  Sta  bene  con  Cristo  e  fatti  bef- 
fe de'  santi"*. 

PIRRO  Si,  ma,  se  voi  morissi,  i  santi  mi  tratterebbono  as- 
sai male. 

NICOMACO  Non  dubitare.  Io  ti  farò  tal  parte'  che'  santi 
ti  potranno  dare  poca  briga,  e,  se  pur  e'  volessino,  e  ma- 
gistrati e  le  legge  ti  difenderanno,  -  pure  ch'io  abbia 
f acuità  per  tuo  mezzo  di  dormire  con  Clizia. 

12.  non...  nulla:  niente  mi  preoccupa.  Si  veda,  per  questa  scena,  Casina,  II,  4 

VI.  I.  Prima...  scorticare:  La  frase  è  rivolta  a  Sofronia,  rimasta  all'interno  di 
casa.  2.  sta  nella  fede:  sta  saldo,  non  demorde  dalla  parola  data.  3.  dubito., 
malfatto:  temo  di  aver  fatto  male.  E  la  costruzione  alla  latina.  4.  Sta  '  bene., 
santi:  Sii  in  buoni  rapporti  col  capofamiglia  e  non  curarti  degli  altri  «numi».  5 
ti  farò  tal  parte:  ti  sistemerò  in  modo  tale. 


ATTO  TERZO  173 

PIRRO  Io  dubito  che  voi  non  possiate,  tanta  infiammata 
vi  veggio  contro  la  donna^. 

NICOMACO  Io  ho  pensato  che  sarà  bene,  per  uscire  una 
volta  di  questo  farnetico',  che  si  getti  per  sorte*  di  chi 
sia  Clizia:  da  che  la  donna  non  si  potrà  discostare. 

PIRRO     Se  la  sorte  vi  venissi  contro  ? 

NICOMACO     Io  ho  speranza  in  Dio,  che  la  non  verrà. 

PIRRO  (O  vecchio  impazzato  !  vuol  che  Dio  tenga  le  ma- 
ni' a  queste  sua  disonestà!)  Io  credo,  che  se  Dio  s'im- 
paccia di  simil'  cose,  che  Sofronia  ancora'"  speri  in  Dio. 

NICOMACO  EUa  si  speri  !  E,  se  pur  la  sorte  mi  venissi  con- 
tro, io  ho  pensato  al  rimedio.  Va',  chiamala,  e  dilli  che 
venga  fuora  con  Eustachio. 

PIRRO     O  Sofronia,  venite,  voi  ed  Eustachio,  al  padrone. 


SCENA  SETTIMA 

Sofronia,  Nicomaco,  Eustachio,  Pirro. 


SOFRONIA     Eccomi.  Che  sarà  di  nuovo? 

NICOMACO     E'  bisogna  pure  pigliare  verso'  a  questa  cosa. 

Tu  vedi,  poi  che  costoro  non  si  accordano,  e'  conviene 

che  noi  ci  accordiano. 
SOFRONIA     Questa  tua  furia  è  estraordinaria.  Quel  che 

non  si  farà  oggi,  si  farà  domani. 
NICOMACO     Io  voglio  farla  oggi. 
SOFRONIA     Faccisi,  in  buonora.  Ecco  qui  tutti  a  duoi  e 

competitori^  Ma  come  vuoi  tu  fare? 
NICOMACO     Io  ho  pensato,  poiché  noi  non  consentiàno 

l'uno  all'altro,  che  la  si  rimetta  nella  fortuna\ 

6.  la  donna:  Sofronia,  irata  contro  Nicomaco.  -j .  farnetico:  grande  agitazione 
e  confusione  generale.  8.  si  getti  per  sorte:  si  tiri  a  sorte.  9.  tenga  le  mani:  gli 
sia  complice,  io.  Sofronia  ancora:  anche  Sofronia  per  parte  sua.  Anche  que- 
sta scena  riecheggia  una  scena  della  Casina,  e  precisamente  la  5  dell'atto  II. 

VII.  Echi,  in  questa  scena,  da  Casina,  11,6.  i .  pigliare  verso:  pigliare  una  de- 
cisione risolutiva.  2.  competitori:  contendenti.  3.  la...  nella  Fortuna:  la  si  af- 
fidi alla  sorte. 


174  CLIZIA 

SOFRONIA     Come,  nella  fortuna? 

NicoMACO  Che  si  ponga  in  una  borsa  e  nomi  loro  ed  in 
un'altra  el  nome  di  Clizia  ed  una  polizza'*  bianca;  e  che 
si  tragga  prima  el  nome  d'uno  di  loro,  e  che  a  chi  toc- 
ca Clizia,  se  l'abbia,  e  l'altro  abbi  pazienza.  Che  pensi 
tu  ?  Non  rispondi  ? 

SOFRONIA     Orsù:  io  son  contenta. 

EUSTACHIO     Guardate  quel  che  voi  fate. 

SOFRONIA  Io  guardo,  e  so  quel  ch'io  fo.  Va'  'n  casa,  scri- 
vi le  polizze  e  reca  duo  borse,  ch^io  voglio  uscire  di  que- 
sto travaglio,  -  o  io  enterrò'  in  uno  maggiore. 

EUSTACHIO      Io  VO. 

NicoMACO  A  questo  modo  ci  accordereno  noi.  Prega 
Dio,  Pirro,  per  te. 

PIRRO     Per  voi  ! 

NicoMACO  Tu  di'  bene  a  dire  per  me:  io  arò  una  gran 
consolazione  che  tu  l'abbia. 

EUSTACHIO     Ecco  le  borse  e  le  sorte^ 

NicoMACO  Da'  qua;  questa  che  dice  ?  Clizia.  E  quest'al- 
tra ?  è  bianca.  Sta  bene.  Mettile  in  questa  borsa  di  qua. 
Questa  che  dice?  Eustachio.  E  quest'altra?  Pirro.  Ri- 
piegale e  mettile  in  quest'altra.  Serrale;  tienvi  su  gli  oc- 
chi, Pirro,  che  non  ci  andassi  nulla  in  capperuccia^:  e' 
ci  è  chi  sa  giucare  di  magatelle*! 

SOFRONIA     Gli  uomini  sfiducciati  non  son  buoni. 

NicoMACO  Son  parole  coteste.  Tu  sai  che  non  è  ingan- 
nato, se  non  chi  si  fida.  Chi  vogliàn  noi  che  tragga? 

SOFRONIA     Tragga  chi  ti  pare. 

NICOMACO     Vien  qua,  fanciullo. 

SOFRONIA     E'  bisognerebbe  che  fussi  vergine. 

NICOMACO  O  vergine,  o  no,  io  non  v'ho  tenute  le  mani. 
Tra'  di  questa  borsa  una  polizza,  detto  che  io  ho  certe 
orazioni.  O  santa  Apollonia',  io  prego  te  e  tutti  e  santi 

4.  polizza:  scheda.  5.  e«/errò:  entrerò.  6. /e  sor^e:  le  polizze,  le  schede.  7. 
che...  in  capperuccia:  si  pensa  aAf.,  V,  2:  «Io  giunsi  su  con  questo  garzonaccio, 
e,  perché  e'  non  andassi  nulla  in  capperuccia,  io  lo  menai...»  La  frase  vuol  di- 
re: «in  modo  che  nulla  ci  possa  sfuggire».  8.  giucare  di  magatelle:  giocare  di 
astuzia  {magatella  stava  per  magagna,  marachella).  9.  O  santa  Apollonia:  «Per 
capire  quest'invocazione,  bisogna  tener  presente  che  ApoUonia  era  considera- 
to proverbialmente  un  nome  di  ruffiane  (forse  per  un  gioco  di  parole  con  "poi- 


ATTO  TERZO  175 

e  le  sante  avvocate  de'  matrimonii,  che  concediate  a  Cli- 
zia tanta  grazia,  che  di  questa  borsa  esca  la  polizza  di 
colui,  che  sia  per  essere  più  a  piacere  nostro.  -  Trai,  col 
nome  di  Dio.  Dàlia  qua.  Ohimè,  io  son  morto!  Eustachio. 

SOFRONIA  Che  avesti  ?  O  Dio,  fa'  questo  miracolo,  acciò 
che  costui  si  disperi. 

NICOMACO  Tra'  di  quell'altra;  dàlia  qua.  Bianca!  Oh,  io 
sono  risucitato!  Noi  abbiam  vinto,  Pirro:  buon  prò  ti 
faccia!  Eustachio  è  caduto  morto.  Sofronia,  poiché  Dio 
ha  voluto  che  Clizia  sia  di  Pirro,  vogli  anche  tu. 

SOFRONIA       Io  voglio. 

NICOMACO     Ordina  le  nozze. 

SOFRONIA  Tu  hai  sì  gran  fretta.  Non  si  potrebb'egli  in- 
dugiare a  domane  ? 

NICOMACO  No,  no,  no!  Non  odi  tu  che  no?  Che?  vuoi 
tu  pensare  a  qualche  trappola  ? 

SOFRONIA  Vogliàn  noi  fare  le  cose  da  bestie  ?  non  ha  el- 
la a  udir  la  messa  del  congiunto'"  ? 

NICOMACO  La  messa  della  fava!  ".  La  la  può  udire  un  al- 
tro dì.  Non  sai  tu  che  si  dà  le  perdonanze'^  a  chi  si  con- 
fessa poi,  come  a  chi  s'è  confessato  prima? 

SOFRONIA  Io  dubito  che  la  non  abbia  l'ordinario'^  delle 
donne. 

NICOMACO  Adoperi  lo  strasordinario''*  delli  uomini!  Io 
voglio  ch'e'  la  meni  stasera:  e'  par  che  tu  non  mi  in- 
tenda. 

SOFRONIA  Menila,  in  malora.  Andianne  in  casa  e  fa'  que- 
sta imbasciata  tu  a  questa  povera  fanciulla,  che  non  fia 
da  calze''. 

NICOMACO     La  fia  da  calzoni.  Andiàn  dentro. 

SOFRONIA  Io  non  voglio  già  venire,  perché  io  vo'  trova- 
re Cleandro,  perch'e'  pensi  se  a  questo  male  è  rimedio 
alcuno. 

Io",  in  quanto  delle  ruffiane  si  diceva  che  "portano  i  polli")»  (Blasucci).  io. 
la  messa  del  congiunto:  la  messa  che  propiziava,  qualche  giorno  prima,  le  noz- 
ze. II.  La  messa  della  fava!  :  Nicomaco  risponde  tre  volte,  a  controcanto,  con 
tre  pesanti  allusioni  sessuali  alle  eccezioni  sollevate  da  Sofronia,  ha  fava  è  l'or- 
gano sessuale  maschile.  12.  perdonanze:  perdono,  assoluzione.  13.  l'ordina- 
rio: il  ciclo  mestruale.  14.  lo  strasordinario:  il  membro  virile.  15.  non  fia  da 
calze:  non  le  farà  piacere;  si  donavano  calze  a  chi  recava  buone  notizie. 


176  CLIZIA 


Canzone 

Chi  già  mai  donna  offende, 
a  torto  o  a  ragion,  folle  è  se  crede 
trovar  per  prieghi  o  pianti  in  lei  merzede' 

Come  la  scende  in  questa  mortai  vita, 
con  l'alma  insieme  porta 
superbia,  ingengno  e  di  perdono  oblio; 
inganno  e  crudeltà  le  sono  scorta, 
e  tal  le  danno  aita^ 

che  d'ogni  impresa  appaga  el  suo  desio^; 
e,  se  sdengno  aspro  e  rio 
la  muove,  o  gelosia,  addopra  e  vede^, 
e  la  sua  forza  immortai  forza  eccede'. 


CANZONE,  i.  merzede:  mercé,  perdono.  2.  le  danno  aita:  le  sono  dì  appoggio, 
e  di  conforto.  3.  appaga  elsuo  desio:  trae  appagamento  secondo  il  proprio  de- 
siderio. 4.  addopra  e  vede:  «agisce  e  provvede»  (Gaeta).  5.  e...  eccede:  e  la 
propria  forza  supera  quella  degli  dèi. 


ATTO  QUARTO 


SCENA  PRIMA 

Cleandro,  Eustachio. 


CLEANDRO  Come  è  egli  possibile  che  mia  madre  sia  sta- 
ta si  poco  avveduta,  che  la  si  sia  rimessa  a  questo  mo- 
do alla  sorta'  d'una  cosa  che  ne  vadi  in  tutto  l'onore  di 
casa  nostra? 

EUSTACHIO     E'  gli  è  come  io  t'ho  detto. 

CLEANDRO  Ben  sono  io  sventurato  !  ben  sono  io  infelice  ! 
Vedi  s'i'  trovai^  appunto  uno  che  mi  tenne  tanto  a  ba- 
da, che  si  è,  senza  mia  saputa,  concluso  el  parentado  e 
deliberate  le  nozze:  ed  ogni  cosa  è  seguita  secondo  el 
desiderio  del  vecchio.  O  fortuna!  tu  suoi'  pure,  sendo 
donna,  essere  amica  de'  giovani,  ma  a  questa  volta  tu 
se'  stata  amica  de'  vecchi.  Come  non  ti  vergogni  tu  ad 
avere  ordinato  che  sì  dilicato  viso  sia  da  si  fetida  boc- 
ca scombavato'',  si  dilicate  carne  da  sì  tremanti  mani, 
da  sì  grinze  e  puzzolente  membra  tocche  ?  perché  non 
Pirro,  ma  Nicomaco,  come  io  mi  stimo,  la  possederà. 
Tu  non  mi  possevi  fare  la  maggior  ingiuria,  avendomi 
con  questo  colpo  tolto  ad  un  tratto  l'amata  e  la  roba, 
perché  Nicomaco,  se  questo  amore  dura,  è  per  lascia- 
re' delle  sue  sustanze  più  a  Pirro  che  a  me.  E'  mi  par 
mille  anni^  di  vedere  mia  madre,  per  dolermi  e  sfogar- 
mi con  lei  di  questo  partito^ 


I.  I.  alla  sorta:  «circa»  (Blasucci):  ma  a  me  sembra  piuttosto:  «in  balia».  2. 
Vedi  s'i'  trovai:  Guarda  un  po'  se  mi  doveva  accadere  di  trovare...  3.  suoi: 
suoli,  sei  solita.  Si  legge  nel  Principe,  XXV;  «E  però  sempre,  come  donna,  è 
amica  de'  giovani,  perché  sono  meno  respettivi,  più  feroci,  e  con  più  audacia 
la  comandano».  4.  scombavato:  sbavato  in  tutto  e  per  tutto.  5.  è  per  lascia- 
re: finirà  per  lasciare.  6.  E...  anni:  Non  vedo  l'ora...  7.  di  questo  partito:  di 
questo  piano  deliberatamente  accettato. 


lyS  CLIZIA 

EUSTACHIO  Confortati,  Cleandro,  che  mi  parve  che  la  ne 
andassi  in  casa  ghignando,  in  modo  che  mi  pare  essere 
certo  che  '1  vecchio  non  abbia  ad  avere  questa  pera 
monda,  come  e'  crede.  Ma  ecco  che  vien  fuora,  egli  e 
Pirro,  e  son  tutti  allegri. 

CLEANDRO  Vanne,  Eustachio,  in  casa.  Io  voglio  stare  da 
parte  per  intendere  qualche  loro  consiglio*,  che  facessi 
per  me. 

EUSTACHIO       Io  VO. 


SCENA  SECONDA 

Nicomaco,  Cleandro,  Pirro. 


NICOMACO  O  !  come  è  ella  ita  bene  !  Hai  tu  veduto  come 
la  brigata  sta  malinconosa,  come  mógliama  sta  dispe- 
rata? Tutte  queste  cose  accrescono  la  mia  allegrezza. 
Ma  molto  più  sarò  allegro  quando  io  terrò  in  braccio 
Clizia,  quando  io  la  toccherò,  bacerò,  strignerò...  O 
dolce  notte,  giugnerovv'io  mai?  E  questo  obligo,  che 
io  ho  teco,  io  sono  per  pagarlo  a  doppio. 

CLEANDRO     (O  vecchio  impazzato!) 

PIRRO  Io  lo  credo,  ma  io  non  credo  già  che  voi  possiate 
fare  cosa  nessuna  questa  sera,  né  ci  veggo  commodità 
alcuna. 

NICOMACO  Come  ?  Io  ti  vo'  dire  come  io  ho  pensato  di 
governare^  la  cosa. 

PIRRO     Io  l'arò  caro. 

CLEANDRO  (Ed  io  molto  più,  che  potrei  udir  cosa  che  gua- 
sterebbe e  fatti  d'altri  e  racconcerebbe^  e  mia.) 

NICOMACO  Tu  cognosci  Damone,  nostro  vicino,  da  chi 
io  ho  tolto  la  casa  a  pigione  per  tuo  conto  ? 


8.  consiglio:  deliberazione.  Questa  scena  della  C.  e  la  i  dell'atto  II  della  Casi- 
na sono  legate  da  molteplici  rinvìi. 

II.      I.  governare:  guidare.     2.  racconcerebbe:  sistemerebbe. 


ATTO  QUARTO  I79 

PIRRO     Si,  cognosco. 

NicoMACO  Io  fo  pensiero  che  tu  la  meni  stasera  in  quel- 
la casa,  ancora  ch'egli  vi  abiti  e  che  non  l'abbia  sgom- 
bra, perch'io  dirò  ch'io  voglio  che  tu  la  meni  in  casa  do- 
ve l'ha  a  stare. 

PIRRO     Che  sarà  poi  ? 

CLEANDRO     (Rizza  gli  orecchi,  Cleandro!) 

NICOMACO  Io  ho  imposto  a  mógliama  che  chiami  So- 
strata,  moglie  di  Damone,  perché  gli  aiuti  ad  ordinare 
queste  nozze  ed  acconciare  la  nuova  sposa;  ed  a  Da- 
mone dirò  che  solleciti  che  la  donna  vi  vada.  Fatto  que- 
sto e  cenato  che  si  sarà,  la  sposa  sarà  menata  da  queste 
donne  in  casa  di  Damone,  e  messa  teco  in  camera  e  nel 
letto;  ed  io  dirò  di  volere  restare  con  Damone  ad  ab- 
bergo,  e  Sostrata  ne  verrà  con  Sofronia  qui  in  casa.  Tu, 
rimaso  solo  in  camera,  spegnerai  il  lume,  e  ti  balocche- 
rai' per  camera  faccendo  vista  di  spogliarti;  intanto  io 
pian  piano  me  ne  verrò  in  camera,  e  mi  spoglierò  ed  en- 
trerrò  allato  a  Clizia.  Tu  ti  potrai  stare  pianamente  in 
sul  lettuccio.  La  mattina  avanti  giorno  io  mi  uscirò  del 
letto,  mostrando  di  volere  ire  ad  orinare;  rivestirommi; 
e  tu  entrerrai  nel  letto. 

CLEANDRO  (O  vecchio  poltrone!  Quanta  è  stata  la  mia 
felicità,  intendere  questo  tuo  disegno!  Quanta  la  tua 
disgrazia  ch'io  l'intenda!) 

PIRRO  E'  mi  pare  che  voi  abbiate  divisata"*  bene  questa 
faccenda.  Ma  e'  conviene  che  voi  vi  armiate  in  modo 
che  voi  paiate  giovane,  perché  io  dubito  che  la  vecchiaia 
non'  si  riconosca  al  buio. 

CLEANDRO  (E'  mi  basta  quel  che  io  ho  inteso.  Io  voglio 
ire  a  raguagliare  mia  madre.) 

NICOMACO  Io  ho  pensato  a  tutto  e  fo  conto,  a  dirti  il  ve- 
ro, di  cenare  con  Damone;  ed  ho  ordinato  una  cena  a 
mio  modo:  io  piglierò  prima  una  presa  d'uno  lattovaro, 
che  si  chiama  satirion^ 

3.  baloccherai:  indugerai,  fingendoti  impegnato  in  banali  operazioni.  4.  abbia- 
te divisata:  abbiate  immaginata  e  architettata.  5.  dubito...  non:  è  la  costruzione 
latina,  che  vale:  temo  che...  6.  d'uno  lattovaro...  satirion:  d'un  elettuario,  uno 
sciroppo  energetico,  a  base  di  satirio,  estratto  afrodisiaco  dal  fiore  di  orchidea. 


1 50  CLIZIA 

PIRRO     Che  nome  bizzarro  è  cotesto! 

NicoMACO  E'  gl'ha  più  bizzarri  e  fatti,  perché  e'  gli  è  un 
lattovaro  che  farebbe,  quanto  a  quella  faccenda,  rin- 
giovanire uno  uomo  di  novanta  anni,  non  che  di  set- 
tanta, come  ho  io.  Preso  questo  lattovaro,  io  cenerò  po- 
che cose,  ma  tutte  sustanzievole':  in  prima,  una  insala- 
ta di  cipolle  cotte,  di  poi  una  mistura  di  fave  e  spezie- 
rie... 

PIRRO     Che  fa  cotesto  ? 

NICOMACO  Che  fa  ?  Queste  cipolle,  fave  e  spezierie,  per- 
ché sono  cose  calde  e  ventose,  farebbono  far  vela  ad 
una  caracca**  genovese!  Sopra  queste  cose,  si  vuole  uno 
pippione  grosso  arrosto,  cosi  verdemezzo',  che  sangui- 
ni un  poco... 

PIRRO  Guardate  ch'e'  non  vi  guasti  lo  stomaco,  perché 
bisognerà  o  ch'e'  vi  sia  masticato  o  che  voi  lo  'ngoiate 
intero.  Io  non  vi  vegg'io  tanti  o  si  gagliardi  denti  in 
bocca. 

NICOMACO  Io  non  dubito  di  cotesto,  che,  bench'io  non 
abbia  molti  denti,  io  ho  le  mascella  che  paiono  d'ac- 
ciaio. 

PIRRO  Io  penso  che,  poi  che  voi  ne  sarete  ito  ed  io  entra- 
to nel  letto,  che  io  potrò  fare  senza  toccarla,  perché  io 
ho  viso'**  di  trovare  quella  povera  fanciulla  fracassata. 

NICOMACO  Bastiti  ch'io  arò  fatto  l'ufficio  tuo  e  quel  d'un 
compagno. 

PIRRO  Io  ringrazio  Dio,  poiché  mi  ha  dato  una  moglie  in 
modo  fatta  ch'io  non  arò  a  durare  fatica  né  a  'mpre- 
gnarla,  né  a  darli  le  spese. 

NICOMACO  Vanne  in  casa,  sollecita  le  nozze,  ed  io  par- 
lerò un  poco  con  Damone,  ch'io  lo  veggo  uscire  di  ca- 
sa sua. 

PIRRO     Così  farò. 


7.  sustanzievole:  sostanziose,  nutrienti.  8.  caracca:  dall'arabo  harrdqa,  desi- 
gnava una  grossa  nave  da  carico  o  da  guerra  di  alto  bordo,  con  due  castelli.  9. 
uno  pippione...  verdemezzo:  un  grosso  piccione  arrosto,  ma  non  cotto  dei  tut- 
to.    IO.  ho  viso:  mi  aspetto  e  ne  sono  già  certo. 


ATTO  QUARTO  ibi 

SCENA  TERZA 

Nicomaco,  Damone. 


NICOMACO  E'  gli  è  venuto  quel  tempo\  o  Damone,  che 
tu  mi  hai  a  mostrare  se  tu  mi  ami.  E'  bisogna  che  tu 
sgomberi  la  casa,  e  non  vi  rimanga  né  la  tua  donna  né 
altra  persona,  perché  io  vo'  governare  questa  cosa  co- 
me io  t'ho  già  detto. 

DAMONE  Io  son  parato  a  fare  ogni  cosa  pur  che  io  ti  con- 
tenti. 

NICOMACO  Io  ho  detto  a  mógliama  che  chiami  Sostrata 
tua  che  vadia  ad  aiutarla  ordinare  le  nozze.  Fa'  che  la 
vadia  subito,  come  la  chiama,  e  che  vadia  con  lei  la  ser- 
va sopra  tutto. 

DAMONE     Ogni  cosa  è  ordinato.  Chiamala  a  tua  posta. 

NICOMACO  Io  voglio  ire  infino  allo  speziale  a  fare  una 
faccenda,  e  tornerò  ora.  Tu  aspetta  qui  che  mógliama 
eschi  fuora  e  chiami  la  tua.  Ecco  che  la  viene:  sta'  pa- 
rato^  Addio. 


m.  I.  Egli...  tempo:  È  giunto  il  momento.  È  da  qui  sino  a  IV,  vii,  che  si  arti- 
cola il  nucleo  più  consistente  di  scene  che  abbiano  concreta  rispondenza,  in  va- 
ria misura  e  a  vario  titolo,  con  un  analogo  nucleo  di  scene  della  Casina  {atto  III, 
1-5).  Sparse  analogie  (come  diversi  studiosi  hanno  già  osservato)  si  trovano  fra 
i  due  testi:  per  comodità  di  chi  volesse  verificare  nel  vivo  del  raffronto  testua- 
le queste  «riprese»,  riassumiamo  le  possibili  equivalenze:  Casina,  I,  i  =  Clizia, 
II,  5;  Casina,  II,  3  =  Clizia,  III,  4;  Casina,  II,  6  =  Clizia,  III,  7;  Casina,  II,  5  = 
Clizia,  IV,  2;  Casina,  III,  i  =  Clizia,  IV,  3;  Casina,  III,  2  =  Clizia,  IV,  4;  Casi- 
na, IH,  3  =  Clizia,  IV,  5;  Casina,  III,  4  =  Clizia  IV,  6;  Casina,  III,  5  =  Clizia, 
IV,  7;  Casina,  V,  i  =  Clizia,  V,  i;  Casina,  V,  2  =  Clizia,  V,  2;  Casina,  V,  3  = 
Clizia,  V,  4.     2.  parato:  pronto. 


102  CLIZIA 

SCENA  QUARTA 

Sofronia,  Damone. 


SOFRONIA  (Non  maraviglia  che  '1  mio  marito  mi  solleci- 
tava ch'io  chiamassi  Sostrata'  di  Damone.  E'  voleva  la 
casa  libera,  per  potere  giostrare  a  suo  modo!  Ecco  Da- 
mone di  qua.  O  specchio  di  questa  città!  o  colonna  del 
suo  quartieri!  che  accomoda  la  casa  sua  a  si  disonesta 
e  vituperosa  impresa.  Ma  io  gli  tratterò  in  modo  che  si 
vergogneranno  sempre  di  loro  medesimi.  E  voglio  or 
cominciare  ad  uccellare^  costui.) 

DAMONE  (Io  mi  maraviglio  che  Sofronia  si  sia  ferma^  e 
non  venga  avanti  a  chiamare  la  mia  donna.  Ma  ecco  che 
la  viene.)  Dio  ti  salvi,  Sofronia. 

SOFRONIA     E  te,  Damone.  Ove  è  la  tua  donna? 

DAMONE  La  è  in  casa  ed  è  parata  a  venire,  se  tu  la  chia- 
mi, perché  el  tuo  marito  me  ne  ha  pregato.  Vo  io  a 
chiamarla  ? 

SOFRONIA     No,  no.  La  debbe  avere  faccenda\ 

DAMONE     Non  ha  faccenda  alcuna. 

SOFRONIA  Lasciala  stare,  io  non  le  voglio  dare  briga.  Io 
la  chiamerò  quando  fia  tempo. 

DAMONE     Non  ordinate' voi  le  nozze? 

SOFRONIA     Si,  ordiniamo. 

DAMONE     Non  hai  tu  necessità  di  chi  ti  aiuti? 

SOFRONIA     E'  vi  è  brigata  un  mondo^  per  ora. 

DAMONE  (Che  farò  ora  ?  Io  ho  fatto  uno  errore  grandis- 
simo, a  cagione  di  questo  vecchio  impazzato,  bavoso, 
cisposo  e  senza  denti.  E'  mi  ha  fatto  offerire  la  donna 
per  aiuto  a  costei,  che  non  la  vuole,  in  modo  che  la  cre- 


IV.  I.  Sostrata:  sott.:  consorte.  2.  uccellare:  beffare.  3.  si  sia  ferma:  si  sia 
fermata.  4.  la  debbe ...  faccenda:  deve  essere  occupata.  5.  Non  ordinate:  Non 
state  allestendo...     6.  E' ...  mondo:  C'è  un  sacco  di  gente. 


ATTO  QUARTO  183 

derrà  ch'io  vadia  mendicando  un  pasto,  e  terràmmi' 
uno  sciagurato.) 
SOFRONIA  (Io  ne  rimando  costui  tutto  inviluppato*:  guar- 
da come  ne  va  ristretto  nel  mantello!  E'  mi  resta  ora 
ad  uccellare  un  poco  el  mio  vecchio.  Eccolo  che  viene 
dal  mercato.  Io  voglio  morire  s'è'  non  ha  comperato 
qualche  cosa,  per  parere  gagliardo  o  odorifero.) 


SCENA  QUINTA 

Nicomaco,  Sofronia. 


NICOMACO  Io  ho  comperato  el  lattovaro  e  certa  unzione 
appropriata  a  fare  risentire'  le  brigate.  Quando  si  va  ar- 
mato alla  guerra,  si  va  con  più  animo  la  metà.  (Io  ho  ve- 
duta la  donna:  ohimè,  che  la  m'ara  sentito!) 

SOFRONIA  (Sì,  ch'io  t'ho  sentito,  e  con  tuo  danno  e  ver- 
gogna, s'io  vivo  insino  a  domattina.) 

NICOMACO  Sono  ad  ordine  le  cose  ?  Hai  tu  chiamata  que- 
sta tua  vicina  che  ti  aiuti  ? 

SOFRONIA  Io  la  chiamai,  come  tu  mi  dicesti,  ma  questo 
tuo  caro  amico  le  favellò  non  so  che  nell'orecchio,  in 
modo  che  la  mi  rispose  che  non  poteva  venire. 

NICOMACO  Io  non  me  ne  maraviglio,  perché  tu  se'  un  po- 
co rozza^  e  non  sai  accomodarti'  con  le  persone,  quan- 
do tu  vuoi  alcuna  cosa  da  loro. 

SOFRONIA  Che  volevi  tu  ?  ch'io  lo  toccassi  sotto  '1  men- 
to? Io  non  son  usa  a  fare  carezze  a'  mariti  d'altri.  Va', 
chiamala  tu,  poiché  ti  giova  andare  drieto''  alle  moglie 
d'altri;  ed  io  andrò  in  casa  ad  ordinare  il  resto. 


7.  terrammi:  mi  riterrà.     8.  tutto  inviluppato:  tutto  confuso. 

V.  I.  mentire:  risvegliare:  è  il  verbo  di  chi  torna  alla  vita  dal  coma  o  dalla  ca- 
talessi. 2.  rozza:  qui  vuol  dire:  ruvida,  nel  comportamento.  3.  accomodarti: 
non  direi:  «comportarti  a  proposito»  (Gaeta);  ma:  metterti  d'accordo.  4.  Poi- 
ché... drieto:  dal  momento  che  ti  piace  andar  dietro. 


184  CLIZIA 

SCENA  SESTA 

Damone,  Nicomaco, 


DAMONE  (Io  vengo  a  vedere  se  questo  amante  è  tornato 
dal  mercato.  Ma  eccolo  davanti  all'uscio.)  Io  venivo  ap- 
punto a  te. 

NICOMACO  Ed  io  a  te,  uomo  da  farne  poco  conto  !  Di  che 
t'ho  io  pregato  ?  Di  che  t'ho  io  richiesto  ?  Tu  m'hai  ser- 
vito cosi  bene! 

DAMONE     Che  cosa  è? 

NICOMACO  Tu  mandasti  mógliata,  tu  hai  vota  la  casa  di 
brigata'  che  fu  un  sollazzo!  In  modo  che,  alle  tua  ca- 
gione, io  son  morto  e  disfatto. 

DAMONE  Va',  t'impicca!  non  mi  dicestù,  che  mógliata 
chiamerebbe  la  mia  ? 

NICOMACO     La  l'ha  chiamata  e  non  è  voluta  venire. 

DAMONE  Anzi,  che^  gliene  offersi  e  la  non  volle  che  la 
venissi:  e  cosi  mi  fai  uccellare  e  poi  ti  duoli  di  me.  Ch' 
el  diavol  ne  '1  porti  te  e  le  nozze  ed  ognuno! 

NICOMACO     In  fine:  vuoi  tu  che  la  venga? 

DAMONE  Si,  voglio,  in  malora^  ed  ella  e  la  fante  e  la  gat- 
ta e  chiunque  vi  è.  Va',  se  tu  hai  a  fare  altro:  io  andrò 
in  casa,  e,  per  l'orto,  la  farò  venire  or  ora. 

NICOMACO  Ora  m'è  costui  amico!  Ora  andranno  le  cose 
bene.  Ohimè  !  ohimè  !  Che  romore  è  quel  che  è  in  casa  ? 


VI.      I.  Tu  hai  ...  brigata:  È  detto  ironicamente:  «Me  ne  hai  mandato  di  gente 
da  casa  tua  ...».     2.  Anzi,  che:  Al  contrario.     3.  in  mal' ora:  per  la  malora. 


ATTO  QUARTO  185 

SCENA  SETTIMA 

Doria,  Nicomaco. 


BORIA  Io  son  morta,  io  son  morta!  Fuggite,  fuggite!  To- 
glietele quel  coltello  di  mano  !  Fuggitevi  !  Sofronia  ! 

NICOMACO     Che  hai  tu,  Doria  ?  Che  ci  è  ? 

BORIA     Io  son  morta. 

NICOMACO     Perché  se'  tu  morta? 

BORIA     Io  son  morta  e  voi  spacciato. 

NICOMACO     Dimmi  quel  che  tu  hai. 

BORIA  Io  non  posso  per  lo  affanno.  Io  sudo.  Fatemi  un 
poco  di  vento  col  mantello. 

NICOMACO  Deh  !  dimmi  quel  che  tu  hai,  ch'io  ti  romperò 
la  testa. 

BORIA     Ah!  padron  mio,  voi  siate  troppo  crudele! 

NICOMACO     Dimmi  quel  che  tu  hai  e  qual  rimore^  è  in  casa  ! 

BORIA  Pirro  aveva  dato  l'anello  a  Clizia,  ed  era  ito  ad  ac- 
compagnare el  notaio  infino  all'uscio  di  drieto.  Ben  sai 
che^  Clizia,  non  so  da  che  furore  mossa,  prese  uno  pu- 
gnale e  tutta  scapigliata,  tutta  furiosa,  grida:  ove  è  Ni- 
comaco ?  ove  è  Pirro  ?  io  gli  voglio  ammazzare  -  Clean- 
dro,  Sofronia,  tutte  noi  la  volemo  pigliare  e  non  pote- 
mo.  La  si  è  arrecata  in  uno  canto  di  camera  e  grida  che 
vi  vuole  ammazzare  in  ogni  modo,  e  per  paura  chi  fug- 
ge di  qua  e  chi  di  là.  Pirro  si  è  fuggito  in  cucina  e  si  è 
nascosto  drieto  alla  cesta  de'  capponi.  Io  son  mandata 
gui  per  avvertirvi  che  voi  non  entriate  in  casa. 

NICOMACO  Io  son  el  più  misero  di  tutti  gli  uomini.  Non 
si  può  egli  trarle  di  mano  il  pugnale  ? 

BORIA     Non,  per  ancora'. 

NICOMACO     Chi  minacc'ella? 

BORIA     Voi  e  Pirro. 


vn.     I.  qual  rimore:  che  razza  di  baccano.     2.  Ben  sai  che':  Ebbene,  devi  sape- 
re che.     3.  Non,  per  ancora:  No,  per  ora. 


l86  CLIZIA 

NICOMACO  Oh!  che  disgrazia  è  questa.  Deh!  figliuola 
mia,  io  ti  prego  che  tu  torni  in  casa  e  con  buone  paro- 
le vegga  che  se  le  cavi  questa  pazzia  del  capo  e  che  la 
ponga  giù  il  pugnale;  ed  io  ti  prometto  ch'io  ti  compe- 
rerò'' un  paio  di  pianelle  ed  uno  fazzoletto.  Deh!  va', 
amor  mio. 

DORIA     Io  vo,  ma  non  venite  in  casa  se  io  non  vi  chiamo. 

NICOMACO  Oh  miseria!  oh  infelicità  mia!  Quante  cose 
mi  si  intraversano',  per  fare  infelice  questa  notte  ch'io 
aspettavo  felicissima  -  Ha  ella  posto  giù  il  coltello? 
Vengo  io  ? 

BORIA     Non  ancora,  non  venite. 

NICOMACO     O  Iddio,  che  sarà  poi?  Poss'io  venire? 

BORIA  Venite,  ma  non  entrate  in  camera,  dove  ella  è.  Fa- 
te che  la  non  vi  vegga,  andatene  in  cucina  da  Pirro. 

NICOMACO      Io  vo. 


SCENA  OTTAVA 

Doria. 


BORIA  In  quanti  modi  uccelliamo  noi  questo  vecchio! 
Che  festa'  è  egli,  vedere  e  travagli  di  questa  casa!  Il 
vecchio  e  Pirro  sono  paurosi  in  cucina;  in  sala  son  quel- 
li che  apparecchiano  la  cena,  ed  in  camera  sono  le  don- 
ne, Cleandro,  ed  il  resto  della  famiglia;  ed  hanno  spo- 
gliato Siro,  nostro  servo,  e  de'  sua  panni  vestita  Clizia, 
e  de'  panni  di  Clizia  vestito  Siro,  e  vogliono  che  Siro 
ne  vadia  a  marito^  in  scambio  di  Clizia;  e,  perché  il  vec- 
chio e  Pirro  non  scuoprino  questa  fraude,  gli  hanno, 
sotto  ombra'  che  Clizia  sia  cruciata^  confinati  in  cuci- 
na. Che  belle  risa!  Che  bello  inganno!  Ma  ecco  fuora 
Nicomaco  e  Pirro. 

4.  compererò:  comprerò.     5.  mi  si  intraversano:  mi  si  parano  di  traverso. 

vm.     I.  Che  festa:  Che  divertimento.     2.  ne  vadia  a  marito:  vada  a  nozze,  nei 
panni  della  sposa.     3.  sotto  ombra:  fingendo.     4.  cruciata:  corrucciata. 


ATTO  QUARTO  187 

SCENA  NONA 

Nicomaco,  Doria,  Pirro. 


NICOMACO     Che  fai  tu  costi,  Doria?  Clizia  è  quietata? 

DORIA  Messersi,  ed  ha  promesso  a  Sofronia  di  volete  fa- 
re ciò  che  voi  volete.  E'  gli  è  ben  vero^  che  Sofronia 
giudica  che  sia  bene  che  voi  e  Pirro  non  li  capitiate  in- 
nanzi, acciò  che  non  se  li  riaccendessi  la  collera.  Poi, 
messa  che  la  fia  a  letto,  se  Pirro  non  la  saprà  dimesti- 
care, suo  danno^ 

NICOMACO  Sofronia  ci  consiglia  bene  e  cosi  faremo.  Ora 
vattene  in  casa;  e,  perché  gli  è  cotto  ogni  cosa,  sollecita 
che  si  ceni;  Pirro  ed  io  ceneremo  a  casa  Damone\  E  co- 
me gì'  hanno  cenato,  fa  che  la  menino  fuora.  Sollecita, 
Doria,  per  l'amor  d'Iddio,  che  sono  già  sonate  le  tre  ore 
e  non  è  bene  stare  tutta  notte  in  queste  pratiche. 

DORIA     Voi  dite  el  vero.  Io  vo. 

NICOMACO  Tu,  Pirro,  riman'  qui.  Io  andrò  a  bere  un  trat- 
to"*  con  Damone.  Non  andare  in  casa,  acciò  che  Clizia 
non  si  infuriassi  di  nuovo;  e  se  cosa  alcuna  accade,  cor- 
ri a  dirmelo. 

PIRRO  Andate,  io  farò  quanto  mi  imponete.  -  Poi  che 
questo  mio  padrone  vuole  ch'io  stia  senza  moglie  e  sen- 
za cena,  io  son  contento;  né  credo  che  in  uno  anno  in- 
tervenghino'  tante  cose  quante  sono  intervenute  oggi. 
E  dubito  non^  ne  intervenghino  dell'altre,  perché  io  ho 
sentito  per  casa  certi  sghignazzamenti,  che  non  mi  piac- 
ciano. Ma  ecco  ch'io  veggo  apparire  un  torchio':  e'  deb- 
be  uscir  fuora  la  pompa^  la  sposa  ne  debbe  venire.  Io 
voglio  correre  per  il  vecchio.  Ò  Nicomaco,  o  Damone! 
venite  da  basso.  La  sposa  ne  viene. 

IX.  1.  Egli  è  ben  vero:  E  per  altro  vero...  2.  suo  danno!  :  peggio  per  lui!  3. 
a  casa  Damone:  a  casa  di  Damone.  4.  bere  un  tratto:  bere  un  sorso.  5.  inter- 
venghino: accadano.  6.  dubito  non:  temo  che.  7.  un  torchio:  una  torcia.  8. 
la  pompa:  il  corteo  nuziale. 


CLIZIA 


SCENA  DECIMA 

Nicomaco,  Sofronia,  Sostrata,  Damone. 


NicoMACO  Eccoci.  Vanne,  Pirro,  in  casa,  perché  io  cre- 
do che  sia  bene  che  la  non  ti  vegga,  Tu,  Damone,  pà- 
ramiti'  innanzi  e  parla  tu  con  queste  donne.  Eccole  tut- 
te fuora. 

SOFRONIA  O  povera  fanciulla!  La  ne  va  piangendo.  Ve- 
di che  la  non  si  lieva  el  fazzoletto  da  gli  occhi. 

SOSTRATA  Ella  riderà  domattina.  Cosi  usano  di  fare  le 
fanciulle.  Dio  vi  dia  la  buona  sera,  Nicomaco  e  Damone. 

DAMONE  Voi  siate  le  benvenute.  Andatene  su,  voi  don- 
ne, mettete  al  letto  la  fanciulla  e  tornate  giù.  Intanto 
Pirro  sarà  ad  ordine^  anche  egli. 

SOSTRATA     Andiamo,  col  nome  d'Iddio. 


SCENA  UNDECIMA 

Nicomaco,  Damone. 


NICOMACO  Ella  ne  va  molto  malinconosa.  Ma  hai  tu  ve- 
duto come  l'è  grande  ?  La  si  debbe  essere  aiutata  con  le 
pianelle'. 

DAMONE  La  pare  anche  a  me  maggiore^  che  la  non  suo- 
le. O  Nicomaco,  tu  se'  pur  felice!  La  cosa  è  condotta 
dove  tu  vuoi.  Pòrtati  bene,  altrimenti  tu  non  vi  potrai 
tornare  più. 


X.  I .  pàramiti:  fatti  avanti  e  fammi  da  schermo.     2.  sarà  ad  ordine:  sarà  pron- 
to e  vestito. 

XI.  I .  co« /e pw«e//i?:  con  le  scarpine  a  tacco.     2.  maggiore: 'pìu  aìiz. 


ATTO  QUARTO  189 

NICOMACO  Non  dubitare.  Io  sono  per  fare  el  debito',  che 
poi  ch'io  presi  il  cibo,  io  mi  sento  gagliardo  come  una 
spada.  Ma  ecco  le  donne  che  tornano. 


SCENA  DUODECIMA 

Nicomaco,  Sostrata,  Damone,  Sofronia. 


NICOMACO     Avetela  voi  messa  al  letto  ? 

SOSTRATA     Sì,  abbiamo. 

DAMONE  Bene  sta.  Noi  fareno  questo  resto:  tu,  Sostra- 
ta, vanne  con  Sofronia  a  dormire,  e  Nicomaco  rimarrà 
qui  meco. 

SOFRONIA  Andiànne,  che  pare  lor  mille  anni  di  avercisi 
levate  dinanzi. 

DAMONE     Ed  a  voi  il  simile'.  Guardate  a  non  vi  far  male. 

SOSTRATA  Guardatevi  pur  voi,  che  avete  l'arme:  noi  sia- 
mo disarmate. 

DAMONE     Andiamone  in  casa. 

SOFRONIA  E  noi  ancora.  Va'  pur  là,  Nicomaco:  tu  tro- 
verrai  riscontro^  perché  questa  tua  dama  sarà  come  le 
mezzine  da  Santa  Maria  Impruneta'. 

3.  e l debito:  il  mio  dovere. 

XII.  I .  Ed. . .  simile:  E  voi  provate  le  stesse  reazioni.  2 .  troverrai  riscontro:  non 
direi:  intoppo,  impedimento,  ma:  «avrai  il  corrispettivo,  la  controparte  di  quel- 
lo che  stai  per  fare».  3.  sarà...  Impruneta:  sarà  un  giovine  gagliardo:  le  broc- 
che di  terracotta,  da  mezzo  boccale  (mezzine),  dell'Impruneta  avevano  il  can- 
nello che  si  ergeva  diritto  sulla  pancia. 


190  CLIZIA 


Canzone' 

Sì  suave  è  lo  inganno, 
al  fin  condotto  immaginato  e  caro, 
ch'altri  spoglia  d'affanno, 
e  dolce  face  ogni  gustato  amaro. 
O  remedio  alto  e  raro  ! 
Tu  monstri  el  dritto  calle  all'alme  erranti; 
tu  col  tuo  gran  valore 
nel  far  beato  altrui,  fai  ricco  amore; 
tu  vinci,  sol  co'  tua  consigli  santi, 
pietre,  veneni  e  incanti. 


CANZONE.      I.  Questa  canzonetta  è  la  stessa  impiegata  alla  fine  del  terzo  atto 
della  M.  (qui  a  p.  no).  Non  abbiamo,  ovviamente,  reiterato  le  note. 


ATTO  QUINTO 


SCENA  PRIMA 

Doria. 


BORIA  Io  non  risi  mai  più  tanto,  né  credo  mai  più  ride- 
re tanto,  né  in  casa  nostra  questa  notte  si  è  fatto  altro 
che  ridere.  Sofronia,  Sostrata,  Cleandro,  Eustachio, 
ognuno  ride;  e  si  è  consumata  la  notte  in  misurare  el 
tempo,  e  dicevano':  ora  entra  in  camera  Nicomaco;  or 
si  spoglia;  or  si  corica  allato  alla  sposa;  or  le  dà  la  bat- 
taglia; ora  è  combattuto^  gagliardamente.  E  mentre  noi 
stavamo  in  su  questi  pensieri,  giunsono  in  casa  Siro  e 
Pirro  e  ci  raddoppiorno  le  risa;  e  quel  che  era  più  bel 
vedere,  era  Pirro,  che  rideva  più  di  Siro.  Tanto  che  io 
non  credo  che  ad  alcuno  sia  tocco'  questo  anno  ad  ave- 
re il  più  bello  né  il  maggiore  piacere.  Quelle  donne  mi 
hanno  mandata  fuora,  sendo  già  giorno,  per  vedere  quel 
che  fa  il  vecchio  e  come  egli  comporta'*  questa  sciagu- 
ra. Ma  ecco  fuora  egli  e  Damone.  Io  mi  voglio  tirare  da 
parte,  per  vedergli  ed  avere  materia  di  ridere  di  nuovo. 


I.      I .  dicevano:  dicevamo.     2.  è  combattuto:  dall'avversario,  che  lo  contrasterà 
da  par  suo.     }.  5M /occo:  sia  toccato.     4.  cowportó:  sopporta. 


192  CLIZIA 

SCENA  SECONDA 

Damone,  Nicomaco,  Doria. 


DAMONE  Che  cosa  è  stata  questa,  tutta  notte?  Come  è 
ella  ita?  Tu  stai  cheto.  Che  rovigliamenti'  di  vestirsi, 
di  aprire  uscia^  di  scender  e  salire  in  sul  letto  sono  sta- 
ti questi?  che  mai  vi  siate  fermi.  Ed  io,  che  nella  ca- 
mera terrena  vi'  dormivo  sotto,  non  ho  mai  potuto  dor- 
mire; tanto  che,  per  dispetto,  mi  levai,  e  truovoti  che 
tu  esci  fuori  tutto  turbato.  Tu  non  parli?  Tu  mi  par' 
morto.  Che  diavolo  hai  tu? 

NICOMACO  Fratel  mio,  io  non  so  dove  io  mi  fugga,  dove 
io  mi  nasconda,  o  dove  io  occulti''  la  gran  vergogna  nel- 
la quale  io  sono  incorso.  Io  sono  vituperato'  in  eterno, 
non  ho  più  rimedio,  né  potrò  mai  più  innanzi  a  mó- 
gliama,  a'  figliuoli,  a'  parenti,  a'  servi  capitare.  Io  ho 
cerco^  il  vituperio  mio  e  la  mia  donna  me  lo  ha  aiutato 
a  trovare,  tanto  che  io  sono  spacciato.  E  tanto  più  mi 
duole,  quanto  di  questo  carico  tu  anche  ne  participi, 
perché  ciascuno  sa  che  tu  ci  tenevi  le  mani^ 

DAMONE     Che  cosa  è  stata?  Hai  tu  rotto  nulla? 

NICOMACO  Che  vuoi  tu  ch'io  abbia  rotto?  Che  rotto 
avess'io  el  collo! 

DAMONE     Che  è  stato,  adunque  ?  perché  non  me  lo  di'  ? 

NICOMACO  Hu!  hu!  hu!  Io  ho  tanto  dolore,  ch'io  non 
credo  poterlo  dire. 

DAMONE  Deh!  tu  mi  pari  un  bambino!  Che  domin*  può 
egli  essere  ? 

NICOMACO  Tu  sai  l'ordine  dato',  ed  io  secondo  quell'or- 
dine entrai  in  camera,  e  chetamente  mi  spogliai;  ed  in 


II.  I.  rovigliamenti:  tramesti!.  2.  uscia:  usci.  3.  vi:  a  voi  due  amanti.  4. 
occulti:  nasconda.  5.  vituperato:  disonorato.  6.  ho  cerco:  ho  cercato.  7.  Che 
tu...  mani:  che  tu  eri  mio  complice.  8.  Che  domin:  Che  diavolo.  9.  l'ordine 
dato:  il  piano  che  si  era  tramato. 


ATTO  QUINTO  193 

cambio  di  Pirro,  che  sopra  el  lettuccio  s'era  posto  a  dor- 
mire, non  vi  essendo  lume  allato  alla  sposa  mi  coricai. 

DAMONE     Horbè,  che  fu  poi? 

NicoMACO  Hu!  hu!  hu!  Accostamigli  secondo  l'usanza 
de'  nuovi  mariti:  vollile  porre  le  mani  sopra  il  petto,  ed 
ella  con  la  sua  me  le*"  prese  e  non  mi  lasciò.  Vollila  ba- 
ciare, ed  ella  con  l'altra  mano  mi  spinse  el  viso  indrie- 
to.  Io  me  li  volli  gittare  tutto  addosso:  ella  mi  porse  un 
ginocchio,  di  qualità  che  la  m'ha  infranto  una  costola. 
Quando  io  viddi  che  la  forza  non  bastava,  io  mi  volsi 
a'  prieghi  e  con  dolce  parole  ed  amorevole  -  pur  sotto 
voce,  che  la  non  mi  cognoscessi  -  la  pregavo  fussi  con- 
tenta fare  e  piacer'  miei,  dicendoli:  Deh!  anima  mia 
dolce,  perché  mi  strazii  tu?  Deh!  ben  mio,  perché  non 
mi  concedi  tu  volentieri  quello  che  l'altre  donne  a'  lo- 
ro mariti  volentieri  concedano?  Hu!  hu!  hu! 

DAMONE     Rasciugati  un  poco  gli  occhi. 

NICOMACO  Io  ho  tanto  dolore,  ch'io  non  truovo  luogo, 
né  posso  tenere"  le  lacrime.  Io  potetti  cicalare:  mai  fe- 
ce segno  di  volerme,  nonché  altro,  parlare.  Ora,  vedu- 
to questo,  io  mi  volsi  alle  minacce,  e  cominciai  a  dirli 
villania,  e  che  le  farei  e  che  le  direi.  Ben  sai  che  ad  un 
tratto  ella  raccolse  le  gambe,  e  tirommi  una  coppia  di 
calci,  che,  se  la  coperta  del  letto  non  mi  teneva,  io  sbal- 
savo  nel  mezzo  dello  spazzo*^ 

DAMONE     Può  egli  essere  ? 

NICOMACO  E  ben  che  può  essere  !  Fatto  questo  ella  si  vol- 
se bocconi  e  stiacciossi  col  petto  in  su  la  coltrice,  che 
tutte  le  manovelle  dell'Opera"  non  l'arebbono  rivolta. 
Io,  veduto  che  forza,  preghi  e  minacci  non  mi  valeva- 
no, per  disperato  le  volsi  le  stiene'^  e  deliberai  di  la- 
sciarla stare,  pensando  che  verso  el  dì  la  fussi  per''  mu- 
tare proposito. 

DAMONE  O,  come  facesti  bene.  Tu  dovevi  el  primo  trat- 
to pigliar  cotesto  partito,  e  chi  non  voleva  te,  non  vo- 
ler lui. 

IO.  me  le:  ha  detto  sopra:  le  mani.  11.  tenere:  trattenere.  12.  spazzo:  pavi- 
mento. 13.  tutte  le  manovelle  dell'Opera:  tutte  le  leve  usate  dagli  operai 
dell'Opera  del  Duomo.     14.  le  stiene:  la  schiena.     15.  lafussiper:  stesse  per. 


194  CLIZIA 

NICOMACO  Sta'  saldo"^:  la  non  è  finita  qui.  Or  ne  viene 
el  bello.  Stando  cosi  tutto  smarrito,  cominciai,  fra  per 
il  dolore  e  per  lo  affanno  avuto,  un  poco  a  sonniferare. 
Ben  sai  che  ad  un  tratto  io  mi  sento  stoccheggiare"  un 
fianco,  e  darmi  qua,  sotto  el  codrione'*,  cinque  o  sei  col- 
pi de'  maladetti.  Io  cosi  fra  il  somno  vi  corsi  sùbito  con 
la  mano  e  trovai  una  cosa  soda  ed  acuta,  di  modo  che 
tutto  spaventato  mi  gittai  fuora  del  letto,  ricordando- 
mi di  quello  pugnale  che  Clizia  aveva  il  dì  preso  per  dar- 
mi con  esso.  A  questo  romore  Pirro,  che  dormiva,  si  ri- 
senti: al  quale  io  dissi,  cacciato  più  dalla  paura  che  dal- 
la ragione,  che  corressi"  per  uno  lume,  che  costei  era 
armata  per  ammazzarci  tutti  a  dui.  Pirro  corse,  e,  tor- 
nato con  il  lume,  in  scambio  di  Clizia  vedemo  Siro,  mio 
famiglio,  ritto  sopra  il  letto,  tutto  ignudo,  che  per  di- 
spregio -  hu!  hu!  hu!  -  e'  mi  faceva  bocchi^"  -  hu!  hu! 
hu!  -  e  manichetto  dietro^'. 

DAMONE     Ha!  ha!  ha! 

NICOMACO     Ah!  Damone,  tu  te  ne  ridi? 

DAMONE  E'  m'incresce  assai  di  questo  caso;  non  di  me- 
no e'  gli  è  impossibile  non  ridere. 

DORIA  (Io  voglio  andare  a  raguagliare,  di  quello  che  io  ho 
udito,  la  padrona,  acciò  che  se  le  raddoppino  le  risa.) 

NICOMACO  Questo  è  il  mal  mio,  che  toccherà  a  riderse- 
ne a  ciascuno  ed  a  me  a  piangnerne.  E  Pirro  e  Siro,  al- 
la mia  presenzia,  or  si  dicevano  villania,  or  ridevano; 
di  poi  COSI  vestiti  a  bardosso^^  se  n'andorno,  e  credo  che 
sieno  iti  a  trovare  le  donne:  e  tutti  debbono  ridere.  E 
COSI  ognuno  rida  e  Nicomaco  pianga! 

DAMONE  Io  credo  che  tu  creda  che  m'incresca  di  te  e  di 
me,  che  sono  per  tuo  amore  entrato  in  questo  leccete". 


i6.  Sta'  saldo:  Aspetta,  aspetta.  17.  stoccheggiare:  letteralmente:  colpire  da 
uno  stocco,  un  pugnale.  18.  qua,  sotto  el  codrione:  qui  sotto  il  coccige  (viene 
da  coda).  1^.  che  corressi:  che  corresse.  20.  hocchi:  boccacce.  21.  mani- 
chetto dietro:  piegando  un  braccio,  con  il  pugno  chiuso,  e  facendo  leva  con  for- 
za coll'altro  nell'articolazione  del  primo.  È  atto  di  scherno.  22.  vestiti  a  bar- 
dosso: andare  a  bardosso  vuol  dire  andare  a  cavallo,  ma  senza  sella;  qui  vuol  di- 
re: «vestitisi  alla  rinfusa».  23.  entrato...  lecceto:  come  cacciarsi  in  un  ginepraio: 
mi  sono  cacciato  in  questo  imbroglio. 


ATTO  QUINTO  195 

NICOMACO  Che  mi  consigli  ch'io  faccia  ?  Non  mi  abban- 
donare, per  lo  amor  d'Iddio! 

DAMONE  A  me  pare,  che,  se  altro  di  meglio  non  nasce, 
che  tu  ti  rimetta  tutto  nelle  mani  di  Sofronia  tua,  e  di- 
cale che  da  ora  innanzi  e  di  Clizia  e  di  te  faccia  ciò  che 
la  vuole.  La  do  verrebbe  anch' ella  pensare  all'onore  tuo, 
perché  sendo  suo  marito  tu  non  puoi  avere  vergogna, 
che  quella  non  ne  participi.  Ecco  che  la  vien  fuora.  Va', 
parlale:  ed  io  n'andrò  intanto  in  piazza  ed  in  mercato 
ad  ascoltare  s'io  sento  cosa  alcuna  di  questo  caso,  e  ti 
verrò  ricoprendo^^  el  più  ch'io  potrò. 

NICOMACO     Io  te  ne  priego. 


SCENA  TERZA 

Sofronia,  Nicomaco. 


SOFRONIA  (Doria,  mia  serva,  mi  ha  detto  che  Nicomaco 
è  fuora  e  ch'e'  gli  è  una  compassione  a  vederlo.  Io  vor- 
rei parlargli,  per  vedere  quel  ch'e'  dice  a  me  di  questo 
nuovo  caso.  Eccolo  di  qua.)  O  Nicomaco! 

NICOMACO     Che  vuoi  ? 

SOFRONIA  Dove  va'  tu  si  a  buonora?  esci  tu  di  casa  sen- 
za fare  motto'  alla  sposa?  Hai  tu  saputo  come  l'abbia 
f  atto^  questa  notte  con  Pirro  ? 

NICOMACO      Non  so. 

SOFRONIA  Chi  lo  sa,  se  tu  non  lo  sai  ?  che  hai  messo  sot- 
tosopra Firenze  per  fare  questo  parentado.  Ora  ch'e'  è 
fatto,  tu  te  ne  mostri  nuovo'  e  malcontento. 

NICOMACO     Deh,  lasciami  stare.  Non  mi  straziare. 

SOFRONIA  Tu  se'  quello  che  mi  strazii,  che  dove  tu  do- 
vresti racconsolarmi,  io  ho  da  racconsolare  te;  e  quan- 

24.  ricoprendo:  proteggendo  (dalle  maldicenze). 

ni.     I.  sanza  fare  motto:  senza  dire  neppure  una  parola.     2.  Come...  fatto:  come 
siano  andate  le  cose.     3.  nuovo:  non  direi  «meravigliato»  (Gaeta):  ma,  ignaro. 


196  CLIZIA 

do  tu  gli  aresti  a  provedere\  e'  tocca  a  me,  che  vedi 
ch'io  porto  loro  queste  uova. 

NicoMACO  Io  crederei  che  fussi  bene  che  tu  non  volessi 
il  giuoco  di  me'  affatto.  Bastiti  averlo  avuto  tutto  que- 
sto anno  e  ieri  e  stanotte  più  che  mai. 

SOFRONIA  Io  non  lo  volli  mai  el  giuoco  di  te;  ma  tu  sei 
quello  che  lo  hai  voluto  di  tutti  noi  altri,  ed  alla  fine  di 
te  medesimo.  Come  non  ti  vergognavi  tu  ad  avere  al- 
levata in  casa  tua  una  fanciulla  con  tanta  onestade,  ed 
in  quel  modo  che  si  allevano  le  fanciulle  da  bene,  di' 
volerla  maritare  poi  ad  uno  famiglio  cattivo  e  disutile, 
perch'e'  fussi  contento  che  tu  ti  giacessi  con  lei?  Cre- 
devi tu  però  avere  a  fare  con  ciechi  o  con  gente  che  non 
sapessi  interrompere  le  disonestà  di  questi  tuoi  dise- 
gni ?  Io  confesso  avere  condotti'  tutti  quelli  inganni  che 
ti  sono  stati  fatti,  perché  a  volerti  fare  ravvedere  non 
ci  era  altro  modo,  se  non  giugnerti  in  sul  furto*  con  tan- 
ti testimonii  che  tu  te  ne  vergognassi,  e  di  poi  la  ver- 
gogna ti  facessi  fare  quello  che  non  ti  arebbe  potuto  fa- 
re fare  ninna  altra  cosa.  Ora  la  cosa  è  qui:  se  tu  vorrai 
ritornare  al  segno',  ed  essere  quel  Nicomaco  che  tu  eri, 
da  uno  anno  indrieto,  tutti  noi  vi  tornereno  e  la  cosa 
non  si  risaprà;  e  quando  la  si  risapessi,  e'  gli  è  usanza 
errare  ed  emendarsi. 

NICOMACO  Sofronia  mia,  fa'  ciò  che  tu  vuoi:  io  sono  pa- 
rato a  non  uscire  fuora  de'  tua  ordini,  pure  che  la  cosa 
non  si  risappia. 

SOFRONIA     Se  tu  vuoi  fare  cotesto,  ogni  cosa  è  acconcio. 

NICOMACO     Clizia  dove  è  ? 

SOFRONIA  Manda'la'",  subito  che  si  fu  cenato  iersera,  ve- 
stita co'  panni  di  Siro,  in  uno  monistero. 

NICOMACO     Che  dice  Cleandro  ? 

SOFRONIA  E  allegro  che  queste  nozze  sien  guaste,  ma  e' 
gli  è  ben  doloroso  che  non  vede  come  e'  si  possa  avere 
Clizia. 

4.  e  quando...  provedere:  e  mentre  dovresti  tu  provvedere  loro.  5.  lo...  di  me: 
Penso  sarebbe  bene  che  la  smettessi  di  burlarti  di  me.  6.  di:  per,  al  fine  di.  7. 
condotti:  guidati.  8.  giugnerti  in  sul  furto:  coglierti  sul  fatto.  9.  al  segno:  al 
punto  di  partenza,     io.  Manda  'la:  L'ho  mandata. 


ATTO  QUINTO  197 

NICOMACO  Io  lascio  avere  ora  a  te  il  pensiero  delle  cose 
di  Cleandro.  Non  di  meno,  se  non  si  sa  chi  costei  è,  non 
mi  parrebbe  da  dargliene. 

SOFRONIA  E'  non  pare  anche  a  me.  Ma  e'  conviene  dif- 
ferire il  maritarla  tanto  che"  si  sappia  di  costei  qualco- 
sa, o  che  gli  sia  uscita  questa  fantasia.  Ed  intanto  si  farà 
annullare  il  parentado  di  Pirro. 

NICOMACO  Governala  come  tu  vuoi.  Io  voglio  andare  in 
casa  a  riposarmi,  che  per  la  mala  notte  ch'io  ho  avuta 
io  non  mi  reggo  diritto,  ed  anche  perché  io  veggo 
Cleandro  ed  Eustachio  uscir  fuora,  con  i  quali  io  non 
mi  voglio  abboccare'^  Parla  con  loro  tu:  di'  la  conclu- 
sione fatta  da  noi,  e  che  basti  loro  avere  vinto  e  di  que- 
sto caso  più  non  me  ne  ragionino. 


SCENA  QUARTA 

Cleandro,  Sofronia,  Eustachio. 


CLEANDRO  Tu  hai  udito  come  el  vecchio  n'è  ito  chiuso 
in  casa.  E'  debbe  averne  tocco  una  rimesta'  da  Sofro- 
nia: e'  par  tutto  umile.  Accostianci  a  lei  per  intendere 
la  cosa.  Dio  vi  salvi,  mia  madre!  Che  dice  Nicomaco? 

SOFRONIA  È  tutto  scorbacchiato^  il  pover  uomo!  Pargli 
essere  vituperato.  Hammi  dato  il  foglio  bianco'  e  vole 
ch'io  governi  per  lo  avvenire  a  mio  senno  ogni  cosa. 

EUSTACHIO     Ell'andrà  bene!  Io  doverrò  avere  Clizia. 

CLEANDRO     Adagio  un  poco!  e'  non  è  boccone  da  te. 

EUSTACHIO  O  questa  è  bella  ora!  io  credetti  aver  vinto, 
ed  io  arò  perduto,  come  Pirro. 

SOFRONIA  Né  tu,  né  Pirro  l'avete  avere"*;  né  tu,  Clean- 
dro, perché  io  voglio  che  la  stia  cosi. 

II.  tanto  che:  fintantoché.      12.  abboccare:  scambiar  parola. 

IV.  I .  rimesta:  rimenata:  una  strapazzata.  2.  scorbacchiato:  svergognato  [cor- 
bacchioh,  letteralmente,  un  grosso  corvo).  3.  hammi... bianco:  mi  ha  dato  car- 
ta bianca.     4.  l' avete  avere:  la  dovete  avere. 


198  CLIZIA 

CLEANDRO  Fate  almeno  che  la  torni  a  casa,  acciò  ch'io 
non  sia  privo  di  vederla. 

SOFRONIA  La  vi  tornerà  o  non  vi  tornerà,  come  mi  parrà. 
Andianne  noi  a  rassettare  la  casa  e  tu,  Cleandro,  guar- 
da se  tu  vedi  Damone,  perché  gli  è  bene  parlargli,  per 
rimanere'  come  s'abbia  a  ricoprire''  il  caso  seguito. 

CLEANDRO     lo  sono  malcontento. 

SOFRONIA     Tu  ti  contenterai  un'altra  volta. 


SCENA  QUINTA 

Oleandro. 


CLEANDRO  Quando  io  credo  essere  navigato^  e  la  fortu- 
na mi  ripigne  nel  mezzo  al  mare  e  tra  più  turbide  e  tem- 
pestose onde  !  Io  combattevo  prima  con  lo  amore  di  mio 
padre;  ora  combatto  con  la  ambizione  di  mia  madre.  A 
quello^  io  ebbi  per  aiuto  lei;  a  questo  sono  solo,  tanto 
che  io  veggo  meno  lume^  in  questo,  che  io  non  vedevo 
in  quello.  Duolmi  della  mia  malasorte,  poiché  io  nac- 
qui per  non  avere  mai  bene.  E  posso  dire,  da  che  que- 
sta fanciulla  ci  venne  in  casa,  non  avere  cognosciuti  al- 
tri diletti  che  di  pensare  a  lei;  dove  sono  si  radi  stati  e 
piaceri,  che  i  giorni  di  quegli  si  annoverrebbono'*  facil- 
mente. -  Ma  chi  veggo  io  venire  verso  me?  è  egli  Da- 
mone? E'  gli  è  esso  ed  è  tutto  allegro.  Che  ci  è,  Da- 
mone? che  novelle  portate?  donde  viene  tanta  alle- 
grezza ? 


5.  rimanere:  restare  intesi.     6.  ricoprire:  celare  agli  occhi  altrui. 

V.  i.  essere  navigato:  avcv  imito  dì  nzvxgzrc.  2.  i4^«e//o:  Contro  quello.  3. 
veggo  meno  lume:  vedo  meno  chiaramente  come  uscirne.  4.  si  annoverrebbo- 
no: si  potrebbero  contare. 


ATTO  QUINTO  199 

SCENA  SESTA 

Damone,  Cleandro. 


D AMONE  Né  migliori  novelle,  né  più  felice,  né  che  io  por- 
tassi più  volentieri,  potevo  sentire! 

OLEANDRO     Che  cosa  è  ? 

DAMONE  II  padre  di  Clizia  vostra  è  venuto  in  questa  ter- 
ra, e  chiamasi  Ramondo  ed  è  gentiluomo  napolitano, 
ed  è  ricchissimo  ed  è  solamente  venuto'  per  ritrovare 
questa  sua  figliuola. 

OLEANDRO     Che  ne  sai  ? 

DAMONE  SòUo^  ch'io  gì'  ho  parlato  ed  ho  inteso  il  tutto 
e  non  c'è  dubbio  alcuno. 

OLEANDRO  Come  sta  la  cosa?  Io  impazzo'  per  la  alle- 
grezza. 

DAMONE  Io  voglio  che  voi  la  intendiate  da  lui.  Chiama 
fuora  Nicomaco  e  Sofronia  tua  madre. 

OLEANDRO  Sofronia!  O  Nicomaco!  venite  da  basso  a 
Damone. 


SCENA  SETTIMA 

Nicomaco,  Damone,  Ramondo,  Sofronia. 

NICOMACO     Eccoci!  Che  buone  novelle? 

DAMONE  Dico  che  '1  padre  di  Clizia,  chiamato  Ramon- 
do, gentiluomo  napolitano,  è  in  Firenze  per  ritrovare 
quella;  ed  hogli  parlato  e  già  l'ho  disposto  di  darla  per 
moglie  a  Cleandro,  quando  tu  voglia. 

VI.      i.  è  solamente  venuto:  è  venuto  soltanto  ed  espressamente.     2.  Sòllo:  Lo 
so.     3.  impazzo:  impazzisco. 


2  00  CLIZIA 

NicoMACO  Quando  e'  fia  cotesto'  io  sono  contentissimo. 
Ma  dove  è  egli  ? 

DAMONE  Alla  Corona^;  e  gli  ho  detto  che  venga  in  qua. 
Eccolo  che  viene.  E'  gli  è  quello  che  ha  dirieto'  quelli 
servidori.  Facciànceli  incontro. 

NICOMACO     Eccoci.  Dio  vi  salvi,  uomo  da  bene. 

DAMONE  Ramondo,  questo  è  Nicomaco  e  questa  è  la  sua 
donna,  che  hanno  con  tanto  onore  allevato  la  figliuola 
tua,  e  questo  è  il  loro  figliuolo  e  sarà  tuo  genero,  quan- 
do'* ti  piaccia. 

RAMONDO  Voi  siate  tutti  e  ben  trovati;  e  ringrazio  Iddio 
che  mi  ha  fatto  tanta  grazia,  che,  avanti  ch'io  muoia', 
rivegga  la  figliuola  mia,  e  possa  ristorare*  questi  genti- 
luomini, che  l'hanno  onorata.  Quanto  al  parentado,  a 
me  non  può  essere  più  grato,  acciò  che  questa  amicizia 
fra  noi,  per  i  meriti  vostri  cominciata,  per  il  parentado' 
si  mantenga. 

DAMONE  Andiamo  dentro,  dove  da  Ramondo  tutto  il  ca- 
so intenderete  appunto,  e  queste  felice  nozze  ordine- 
rete. 

SOFRONIA  Andiamo.  E  voi,  spettatori,  ve  ne  potrete  an- 
dare a  casa,  perché  senza  uscir  più  fuora  si  ordineran- 
no le  nuove  nozze,  -  le  quali  fieno  femmine,  e  non  ma- 
schie -  come  quelle  di  Nicomaco. 


Canzone 

Voi,  che  SI  intente  e  quete, 
anime  belle,  essemplo  onesto,  umile, 
mastro  saggio  e  gentile' 


VII.  I.  Quando...  cotesto:  Se  le  cose  stanno  cosi.  2.  Alla  «Corona»:  Alla  lo- 
canda della  Corona.  3.  dirieto:  dietro.  4.  quando:  se  e  quando.  5.  avanti 
ch'io  muoia:  prima  di  morire.  6.  ristorare:  ricambiare  i  favori.  7.  per  il  pa- 
rentado: attraverso  il  vincolo  parentale. 

CANZONE.  I.  Mastro  saggio  e  gentile:  ammaestramento  savio  e  nobile,  eletto:  è 
apposizione  di  essemplo. 


ATTO  QUINTO  201 

di  nostra  umana  vita  udito  avete; 

e  per  lui  conoscete 

qual  cosa  schifar  dèsi^  e  qual  seguire 

per  salir  dritti  al  cielo, 

e  sotto  rado  velo' 

più  altre  assai,  ch'or  fora  lungo  a  dire: 

di  lui  preghiàn  tal  frutto  appo  voi  sia, 

qual  merta  tanta  vostra  cortesia. 


2.  schifar  desi:  evitare  debbasi.     3.  sotto  rado  velo:  sotto  il  velo  trasparente  del- 
la favola. 


Indice 


p.  VII     Introduzione  di  Guido  Davico  Bonino 

LXix     Nota  biografica 
Lxxm    Bibliografia  essenziale 

Teatro 

Andria 


5  Atto  primo 

i8  Atto  secondo 

29  Atto  terzo 

39  Atto  quarto 

50  Atto  quinto 

Mandragola 

65  Canzone  e  Prologo 

71  Atto  primo 

82  Atto  secondo 

94  Atto  terzo 

1 1 1  Atto  quarto 

127  Atto  quinto 

Clizia 

141  Canzone  e  Prologo 

145  Atto  primo 

154  Atto  secondo 


204  INDICE 

164  Atto  terzo 

177  Atto  quarto 

191  Atto  quinto 


Stampato  per  conto  della  Casa  editrice  Einaudi 

presso  Mondadori  Printing  S.p.A.,  Stabilimento  N.S.M.,  Cles  (Trento) 

nel  mese  di  marzo  2001 


Edizione 


c.L.  15839 


Anno 


2001       2002      2003       2004 


AUFORNlALOSANCjELES 


C3 

CD 


825.  Einaudi  Tascabili.  Classici 


Audria,  Mandragola,  Clizia:  tre  momenti  di  approccio  al  teatro 
in  tre  diverse  fasi  della  travagliata  esistenza  del  segretario 
fiorentino. 

Anche  se  limitata  a  tre  copioni,  la  produzione  drammaturgica 
di  Machiavelli  è  di  assoluto  rilievo  nel  vasto  e  articolato  orizzonte 
teatrale  del  Cinquecento  italiano.  Allo  stato  attuale  delle  ricerche, 
essa  si  articola  in  una  traduzione-rifacimento  deìVAfjdria 
di  Terenzio,  animata  vicenda  di  un  amore  contrastato  fra  due 
giovani,  poi  felicemente  approdati  alle  nozze;  nel  capolavoro 
della  Mandragola,  dove  un  piccante  adulterio  si  tramuta  in  una 
dolente  metafora  sulla  corruzione  dei  costumi  nella  Firenze 
medicea;  e,  infine,  nell'altrettanto  suggestiva  e  malinconica 
Clizia,  storia,  in  questo  caso,  di  un  fallito  tentativo  di  adulterio 
da  parte  di  un  marito  vecchio  e  intemperante. 
11  testo  curato  da  Guido  Davico  Bonino  è  filologicamente 
aggiornato  ed  è  arricchito  da  un  dettagliato  commento  a  pie 
di  pagina.  L'ampio  saggio  introduttivo  è  seguito  da  una  nota 
biografica  e  da  una  bibliografia  degli  studi  più  recenti  sul  teatro 
di  Machiavelli. 

Di  Niccolò  Machiavelli  (1469-1527)  Einaudi  ha  pubblicato 
//  Principe,  Discorso  o  dialogo  intorno  alla  nostra  lingua.  Discorsi 
sopra  la  prima  deca  di  Tito  Livio  e  il  volume  Opere. 

Guido  Davico  Bonino,  professore  ordinario  di  Storia  del  teatro 
all'Università  di  Torino,  collabora  con  «La  Stampa»  e  con  la  Rai. 
Dirige  con  Roberto  Alonge  la  Storia  del  teatro  moderno 
e  contemporaneo  nelle  Grandi  Opere  Einaudi. 

In  copertina:  Pittore  fiorentino,  decorazione  di  spalliera  nota  come  Tavola  prospettica 
di  Urbino,  seconda  metà  del  secolo  XV.  Foto  Archivi  Alinari,  Firenze. 


I. ile  20  000 
€  l(),.ì.^ 


ISBN  88-06-15839-2 


788806"1  58392' 


jcìzs 


^<5Aavaaiv^^      >'r/AHvall^•ì^^'^ 


^VLlbKA!iT6 


^^OFCAlIFOfi 


>OAavaanì 


^^WEUNIVER; 


^^^l•UBRARY 


\omyi 


^OFCAliFO 


University  of  California  Library 
Los  Angeles 

This  book  is  DUE  on  the  last  date  stamped  below. 


Phone 
310/^ 


ftL/^n 


AcQ'D  YRL  'A?i 


■ULt'?«»* 


Renewaìs 


^70^ 


^iDVRL^'^^OrQ^^ 


)  5  2C03 


^oAiivaajH^    ^<?Anvaaiv# 


=3  ^  q    ]«—>■.  so 

'  > 

so 

-< 


rfi  IBn'l  1551 1^. 


>r  iinnAnv/i. 


.if.imoAUV/i/ 


•SOÌ^ 


p 


^/saJAiNnìvW^ 


\^'^'w/^     <^\\mmo/^ 


y\<ò^      "^tìOJlìVDJO^ 


\WE  UNIVERy/A 


'^i'iUQKVSOl^ 


o 


"^/^ajMNnjwv 


AWfUHIVERr/A 


<rjijoNvsoì^ 


o 


%a3AIN(l-3WV 


4?" 


^. 


/ERI//, 


o 


%a3AINa-3V\V 


^lUBRARYa<^       ^>SUIBRARYa^^ 


^JIIVO-JO"^        ^<!/0JllV3JO'^ 


/ERS/^        ^lOSANCElfj^ 


"^AiUAINn  3UV 


^OFCALIFOftji^       ^OFCAIIFO/?^ 


vr 


>- 


^WEl 


A 


OJO^       ^OJITVDJO-^ 


^w^•UNlvtRiy^. 


o 


v>;lOSANCflfj> 
o 


■^Aa3AiNn-3\yv 


IFOff^       ^OFCAlIFOMi^ 


,^WEUNIVERy/A 


^lOSANCElfj;^ 


<rii]m'Soi^      "^AiiìAiNa  3\\v 


6> 


VT/ 


/FP9/P 


.vim-AUrflfr, 


.v\f.llKDADV/ì. 


..vC.llllUADV/i,