il
PROPERTYOFTHE Shelf No.
\)^
'V::;
'j:^€^-^ìréy y^4^ '-yf/^^k) 'J^^r/^ .
J MR 30
m -
TEOSOFIA
DI
ANTONIO ROSMINI-SERBATI
PRETE ROVERETANO
(OPERE POSTUME)
VOLUME I.
TORINO
PRESSO LA SOCIETÀ EDITRICE DI MBRI DI FILOSOFIA
1859.
^iM:
AGLI
AMICI DELLA VERITÀ
FRANCESCO PAOLI
La verità è l' essere conosciuto e conoscibile per sé
stesso. Gli scrutatori dunque della natura dell'Essere, i
ricercatori dell'ordine intrinseco di esso, sono gli amanti
della verità; e coloro, che, conosciuto l'Essere, nell'amo-
rosa contemplazione di lui si riposano, a lui con tutto l'af-
fetto aderiscono, e da lui prendono la misura de' loro giu-
dizi , dei loro affetti, e delle loro operazioni, sono gli
amici della verità. E la verità, amata, di questo loro amore
li ricompensa , rivelando ad essi novi e più maravigiiosi
arcani dell'Essere , e sollevandoli ad una condizione di vita
troppo migliore, nell'ordine della moralità e della felicità.
Perocché, se l'Essere conoscibile per sé é la verità, l'es-
sere per la verità conosciuto è il vero , e il vero amato
è il bene , e il bene posseduto genera gaudio e perfezione.
Agli amici dunque della verità è di sua natura conse-
■crata quest'opera, nella quale il grande ricercatore dell'or-
dine dell' Essere e amico fedele della verità , Antonio
Rosmini, più che in altra qualunque tenta di rimo-
vere alquanto più il velo, ond'è alla moltitudine coperta la
natura dell' Essere. In essa con irrepugnabili argomenta-
zioni, e a chi vuol intenderne il linguaggio evidenti, dimo-
stra, che l'Essere è necessariamente uno e trino, princi-
pio, inizio, virtù e causa di quella moltitudine di enti e
di entità, che senza esser V Essere pur sono, perchè par-
tecipano dell' Essere sotto l'una o l'altra, o tutt' e tre le
forme, reale, ideale, morale, nelle quali esso è tutto in-
tero, uno, perfetto, assoluto. E in che stia, cosa sia
questa partecipazione, dichiara per forma, che le più gravi
e terribili antinomie, che si affacciano al pensiero dello
speculatore , sono rimosse ; tutti gli erramenti fdosofici in
un solo conflitto battuti, il possesso della verità assicurato
agli uomini di bon volere, e la veduta allargata agl'in-
telletti sani e più vigorosi. Con che è pur data l'ultima
risposta alle molte e contrarie accuse — dal nullismo al
panteismo — che furono mosse a quello , che il Rosmini
chiama il Sistema della Verità.
E guardimi il Cielo che per amici della verità io in-
tenda quei soli , ai quali il Rosmini volge il discorso nella
Introduzione alla Filosofìa, tra quali dipinge il Manzoni;
né quelli soltanto, che della dottrina di lui si sono alta-
mente persuasi per inconcusse ragioni — numero cresciuto
di molto — tra' quali la stima e l'affetto non mi permet-
tono di tacere il caro nome di Pagano Paganini , splendore
dello Studio Pisano ; ma eziandio tutti quelli, che per amore
di verità le dottrine rosminiane con leale coraggio com-
battono. Leggano questi spregiudicati e coscienziosi la
Teoisofla, e vi troveranno sciolte le difficoltà, riempiute
le lacune , e recato a compimento il sistema. Quest' era il
convincimento e la speranza di A. Rosmini, per modo che
egh diceva di non avere mai scritta altra Opera con mag-
giore soddisfazione dell'animo suo. Della quale io credo di
dover qui narrare a siffatti amici la storia : piccolo cenno
di grande avvenimento.
Come apparisce dalla Prefazione di quest'Opera il Jlosmini
volse fino da giovine la mente alle speculazioni ontolo-
giche. Di quanto scrisse in quella verde età non ci resta
nulla , se si eccettuano alcuni pensieri staccati, suoi propri
e d'altrui, su questo argomento. Nella prefazione alle Opere
Metafisiche stampata nel 4846 lascia vedere una prima
traccia di quest'Opera grandiosa, che trovai essere, secondo
il disegno di allora, la seguente senza ulteriore sviluppo:
TEOSOFIA
Parte I. — Ontologia.
I.
Il Problema dell' Ontologia.
II.
L'Ente uno.
III.
L'Ente trino. — Categorie. — Le Forme
ridotte in Categorie.
IV.
L'Ideale.
A). L'Idea.
B). La Dialettica.
V.
Il Reale.
VI.
Il Morale. — La Bellezza ecc.
VII. L'Ordine dell'Essere.
Parte II. — Tb-ologia.
I. L'Assoluto soggettivo.
II. L'Assoluto oggettivo.
III. L'Assoluto morale e perfettivo.
IV. L'Unità dell'Assoluto nelle tre forme,
Parte III. — Cosmologia.
I, Il iMondo metafisico. — L'Ente finito
oggettivo.
II.
Le condizioni dell'Ente finito. —
finito.
m.
L'Ente trino finito. — - Creazione
IV.
L'Universo. — L'Ente principio.
Angeli.
V.
La prima intelligenza creata.
VI.
L'Anima del Mondo,
VII.
L'Uomo.
vili.
Il Tempo.
IX.
Lo Spazio.
X.
La Materia.
XI.
I Numeri.
XII.
Le Forme.
XIII.
Le Leggi, le Ragioni ultime.—
monia. — La Bellezza.
XIV.
Il Fine.
XV.
La Realizzazione de! Fine.
L'Uno
Gli
L'Ar-
Su questo disegno lavorò fin quasi al termine del Reale^
Parte I. Ontologia^ che doWIdea, e la Dialettica dettò in
Verona nel 1847 dove da qualche tempo si occupava pure
per l'affidamento della parocchia di S.Zeno all'Istituto da
lui fondato. Negli anni che immediatamente seguirono, so-
prassedette, occupato d'altri studi e lavori a più immediato
vantaggio della patria Italia. Pare però che abbia poi ritoc-
cato , e non poco modificato il lavoro già eseguito, perchè
trovo, che distribuì diversamente la prima parte della
Teosofìa come segue :
Parte I. — Ontologia.
Il problema Ontologico.
I. Ontologia universale.
A). L'Ente uno.
B). L'Ente trino.
II. Ontologia categorica.
A). L'Ideale.
XI
i. L'Idea. — Ideologia ontologica.
2. La Dialettica. — Dialettica ontologica.
B), Il Reale.
C). Il Morale.
\. Il Morale come Categoria.
2. Come ordine e perfezione dell'Essere.
II 21 Agosto 1852 fece la Prefazione, e prese a rifor-
mare il lavoro, levando la distinzione dell'Ontologia in Uni-
versale e Categorica, e riducendo tutta la prima parte della
Teosofìa a tre libri nel modo seguente:
Parte I. — Ontologia. — Prefazione.
// Problema Ontologico. — Libro unico.
I. Le Categorie.
II. L'Essere uno.
III. L'Essere trino.
Questa riforma non fu parziale, ma piena, poiché del
primo lavoro rispondente ai tre libri suddetti soltanto 'po-
che pagine sopravanzarono al fuoco, e pare che abbia dato
al novo lavoro una estensione molto maggiore di quella che
aveva prima della rifusione. Sopravvissero però gli altri
tre libri V Idea, la Dialettica, e il Reale, al primo de' quali
fece in questo medesimo anno qualche modificazione. Fu
in questa contingenza , che trovò necessario di convertire
una piccola parte del lavoro ontologico in un grosso vo-
lume, l'Aristotele esposto ed esaminato. Il libro delle Ca-
tegorie doveva essere diviso in due parti , l'una teoretica ,
e l'altra storica. Ma poi si risolse di ritenere la sola Teoria,
e di separare la Storia, che resta col titolo di Saggio sto-
rico-critico stille Categorie. Lavoro di non piccol volume
anche questo , il quale , argomentando dalla qualità della
carta e del carattere , giudico essere più antico di tutto il
resto. In questo medesimo tempo scrisse e pubblicò la
Logica , scrisse e rivide l' Aristotele , sicché rimase inter-
XII
rotta la rifusione dell'Ontologia, ripresa sul finire del
i853. Ne rifece circa due mila pagine, scritte quasi tutte
nel 1854 di sua mano. In quest'anno scrisse e rivide anche
// Divino nella Natura, diretto a Alessandro Manzoni, per
non lasciarsi , come diceva , vincere in cortesia dal gene-
roso amico, già autore del mirabile Dialogo sull'Invenzione:
dettati l'uno e l'altro che mostrano quanta cognazione vi
abbia tra la Poesia e la Filosofìa. I primi mesi del 1855
lavorò pochissimo , perchè già molto aggravato dal male
che lo travagliava assai fin dall'ottobre del 1854; e negli
ultimi di, pregandolo noi di sospendere, ci disse, che gli
restava soltanto qualche capitolo a compiere il trattato on-
tologico deW Essere Trino. Ma non gli fu al tutto possi-
bile, e il 1 luglio 1855 dovette soccombere, portando
seco tanti peregrini pensieri, che ci avrebbero più da vicino
levati al trono della Verità sussistente, che è Dio stesso.
Noi quindi ci trovammo a un tempo e troppo poveri
di lavoro teosofico, e troppo ricchi dell'ontologico. Di Teo-
logia razionale e di Cosmologia non e' era dunque nulla
da stampare? E dove collocare Videa, la Dialettica, il
Reale'! in tutto circa due mila pagine anche queste di ma-
noscritto. E // Divino nella Natura non sarebbe forse un
nobile frammento della seconda parte, la Teologia ?
Io mi trovavo molto perplesso sul modo di classificare
questi lavori, che pur mi parevano degni d'esser messi in
luce. Mi sembrava che la Dialettica dovesse essere pub-
blicata unitamente al Saggio storico-critico sulle Categorie
per apparecchiare il lettore allo studio della Teosofìa. Pe-
rocché il Saggio dimostra gli errori ne'quali caddero gli an-
tichi e i recenti Ontologi; la Dialettica poi fa vedere la
via da tenersi per non cadervi , prestando al ragionamento
fede non ceca , ma illuminata. Tra // Divino nella Natura
e L Idea trovavo non poca analogia. Poiché in quello si fa
vedere che l'elemento divino nella natura é VEssere ideale,
del quale gli uomini abusarono , o chiamandolo Dio , o
XIII
confondendolo colla natura stessa , onde trassero origine
tutte le Idolatrie scientifiche e volgari. In questo poi si di-
mostra come VEssere ideale sia non Dio ma un' apparte-
nenza divina, e fin dove per esso si possa giungere a co-
noscere delle divine cose e delle create. Mi pareva dun-
que che potessero far parte, almeno come preamboli,
della Teologia razionale. Il Reale poi appare manifestamente
essere, se non un lavoro compito, un frammento consi-
derevole di Cosmologia.
Mentre ero in questi pensieri, il mio amico e compagno
Vincenzo De-Vit, che aveva avuto l'ufficio di Assistente agli
studi di Antonio Ro.smini, mi tolse giù da ogni dubitazione.
Egli mi assicura che era intenzione dell'Autore di collo-
care il Divino nella Natura nella seconda parte di quest'
Opera, che è la Teologia razionale, e il trattato del Reale
nella terza che è la Cosmologia. Per tal modo tutta la Teo-
sofia sarà pubblicata in cinque volumi, dei quali tre com-
prenderanno l'Ontologia , secondo l'ultimo disegno , e due
quelle parti della Teologia razionale, e della Cosmologia,
che ci sono rimaste come frammenti di maggior lavoro,
e che basterebbero per se sole a dimostrare la grandezza
dell'ingegno e dell'animo di Antonio Rosmini.
Spero, che gli amici della Verità non vorranno disappro-
vare questo mio divisamento, per il quale vien dato alla
Teosofia di Antonio Rosmini quella interezza che maggiore
non è oramai più possibile. Il Rosmini era solito dire che
la Teosofia avrebbe dato compimento al Sistema, e che
chi la leggesse con animo libero e intelligente troverebbe
in essa l'appagamento mentale; quell'appagamento che si
può ragionevolmente cercare, che da alcuni si dispera di
poter mai trovare, e che il Rosmini co' precedenti suoi
scritti aveva dimostrato possibile e necessario, e fattone
quasi indovinare il come e l'oggetto. Credo, che a questo
scopo basti quant'egli ci ha lasciato, e che noi ora pub-
blichiamo. E parmi pure che con quest'Opera il Rosmini
XIV
abbia toccato il termine de' suoi desideri a prò della scienza
e dell'umanità; combattuti gli errori, ridotta la verità a
sistema, data una solida base alle scienze, prestato mira-
bile servizio alla Teologia , mostrato anche meglio agli amici
della Verità la divina faccia di lei, dove abiti, come si
possa conquistare, come essere sapienti (1). Che se restasse
ancora, come deve naturalmente restare, il desiderio di
qualcos' altro, che apporti maggior chiarezza, e dia sod-
disfazione maggiore, quegli amici della Verità che hanno
gli omeri da ciò subentrino alla fatica, e col metodo in-
segnato loro da questo maestro provino essi pure di le-
vare un po' più il lembo del sacro velo che copre il mi-
stero della natura, gli altri poi si contentino di seriamente
meditare sulle dimostrazioni già fatte ; che nulla s'impara,
se per propria riflessione non si giunga a fissare le luci
della mente nel lume della verità , che come reina e sola
maestra siede nelle menti di tutti, e piìi si rivela a chi più
amorosamente la cerca (2).
Il difetto della parte Teologica e della Cosmologica è
veramente cosa grave, ma sarebbe da lamentare ancora
più, se, come pare, un presentimento di non lontano mo-
rire non avesse fatto ristare il Rosmini con una specie di
arcano diletto nelle questioni Teologiche e Cosmologiche,
che la ragione del metodo gli veniva mettendo tra mani
svolgendo l'Ontologia, nella quale si può dire che di
(I Quanto per occhio e per mente si gira »
ha sommariamente e ontologicamente toccato. Sicché Egli
avrebbe potuto dire come il Poeta filosofo :
« Or ti riman, lettor, sovra il tuo banco
Dietro pensando a ciò che si preliba
S'esser vuoi lieto assai prima che stanco.
Messo l'ho innanzi; omai per te ti ciba (3) u.
(1) Rosm. Introd. I. Degli Studi dell'Autore.
(2) S. Aiigust. De Magistro 36-ftO.
(3) Dante Alig. Par. X, 4 e 22-24.
XV
Il manoscritto fu trovato in bon ordine e nella massima
parte riveduto dall'Autore e corretto. Io lo feci trascrivere
per custodire religiosamente l'originale, specialmente che
delle Opere pubblicate vivente l'Autore furono da lui stesso
annullati gli autografi. Mi assunsi di correggere le bozze
di stampa, collazionandole diligentemente col manoscritto.
Volli rivedere per quanto mi fu possibile le citazioni, e do-
vetti aggiungere quelle dell'Opera in discorso secondo la nu-
merata da me apposta, e dall'Autore semplicemente indicate
con una parentesi vuota. Dove mi parve utile o necessario
un leggiero emendamento, aggiunsi qualche parola segnan-=
dola cogli asterischi, affinchè il lettore possa vedere genuino
qual è il manoscritto. Mi determinai a questo partito per
consiglio di gravi persone, e confidando nell' indulgente giu-
dizio dei lettori benevoli. Le citazioni del Rinnovamento
erano fatte per numero di pagine, alle quali io da principio
sostituii quello dei Libri e dei Capi, essendovi più edizioni,
ma poi al numero della pagina, che è della prima edizione,
aggiunsi quello nei capiversi, avendo rilevato che l'Autore
gh aveva posti a una copia apparecchiata con molti emen-
damenti per una nova edizione, nella quale è pur cam-
biata la divisione dei Libri, e che spero di poter presto
eseguire. Dove mi occorra di trovare qualche piccola la-
cuna e degli appunti fatti dall' Autore in margine al ma-
noscritto , ne farò cenno in nota coli' asterisco. E poiché
noi feci di due noterelle che appartengono alle prime pa-
gine, credo che non sarà discaro al lettore di averle qui
sott' occhio.
Sul frontispizio della Prefazione sta scritto : « Nella Teo-
» sofia i principi ideologici, che sono evidenti da sé, hanno
» una spiegazione ulteriore vedendoli fondati nell' essere
» sussistente ».
In due cartoline volanti e appartenenti al libro che ha
per titolo // Problema Ontologico, sta parimenti scritto di
mano dell'Autore quel che segue: « Aggiunte da farsi:
XVI
<(; 1 . C'è un'altra forma, oltre le cinque addotte, del Pro-
» blema Ontologico, ed è: Perchè l'uomo non creda di
» conoscere, se non conoscete cause (Arist. Melaf. l.).
» Questa si può forse ridurre ad una delle cinque ».
« 2. Toccare le questioni che Aristotele propone nella
» Metafìsica , che sono quelle appunto che si riputarono fin
» qui Ontologiche , e ridurle a quelle date da noi in un
)) modo più universale ».
Noto questi propositi, specialmente perchè mi paiono
restati inadempiti; altri simili, ch'ebbero in qualche modo
esecuzione, li lascio. Quelli che ammirano il core e la
mente di Antonio Rosmini spero che non mi biasi-
meranno nemmeno di queste minute diligenze, che la
grandezza dell'affetto mi persuase dovessero essere gra-
devoli agli Amici della Verità.
.<'^>tìi*?|f*£k ^r^-j
PREFAZIONE
ì. Gaspare Contarini, uno de' grandi uomini italiani dimenti-
cali dalla sua patria, e pur de' migliori, in mezzo a' civili ne-
gozi , trovava tempo e agio di scrivere selle libri Della prima
Filosofìa, in sulla fine esortando altri a dar dopo lui compi-
mento al generoso principio (1). Parole di lanl'aulorità se le
portò il venlo^ e piacesse a Dio, che la sapienza de'nostri con-
nazionali ora , per virtìi del progresso, giugnesse fino a quelle
prime linee, e a que' rudimenti, che il veneto porporato, avanti
tre secoli, pensava e pubblicava, acciocché si colorissero in ap-
presso, e si conducessero a perfezione dagli avvenire. Se troppo
maggiori e più alti motivi non vi c'inducessero, anche solo il
dolore, per non dire lo sdegno, di tant' indifferenza e apatia,
che da gran tempo mostrò l'Italia per quelli tra suoi savi, che
le additano il vero cammino della sua gloria, ci dovea moverò
a raccogliere e seguire l'esortazione di quell'uomo , che con-
giungendo l'operosità e la prudenza ne' più gravi negozi della
patria alle virtù cristiane e allo zelo infaticabile ne' più impor-
(t) Le parole, colle quali concliiude quell'opera, sono: Alii doctiores ac
minus occupati civilibus negoiiis rem perficiant: nostrum namqne institii-
tum fuil-, ut potius allis pnescriberemus quoìiam pacto disciplinarnm om-
nium facile princeps philosophia, scilicet luec prima, seu sapientiam appel-
lare malucris, tractari debeat, quam ut nostro labore id fieret, cui impares
nos esse sentimus , maiusque otium poscit, quam nobis inter tot bellorum
procellas, atque publicas occupationes, hinc indeque occursantes in hoc le-
gationis munere, quo fungimur, prcestari possit.
Rosmini. Teosofìa. 1
tanti affari (lolla Chiesa, ebbe nondimeno e tempo libero e sere-
nili! di mente da consacrare alle più astratte ed ardue specu-
lazioni filosofiche. Quello dunque, che noi abbiamo incominciato
in verde età , vogliamo continuare in questa già canuta , e se
piace a Colui, in cui mano sono le nostre sorti, e a cui dob-
biamo lutti noi slessi, in suo onore intendiamo d'aggiungere ai
trattali iìlosofici preccdenli anche questo, che più divisalamente
ragiona di quelle materie , che il Contarini con x\rislolele al-
IrJbuisce ad una Prima Filosofìa, e che a noi parve intitolare
Teosofìa .
I.
Bue parli della Metafìsica, la Psicologia e la Teosofìa.
2. La ragione di questa denominazione fu già da noi data
nella Prefazione alle Scienze metafisiche (21-29). Ivi abbiamo
pure dimostrato , che la Metafisica , disciplina che s'aggira
intorno all'ente considerato nella sua interezza {Pref. alle Opp.
Mdaff. 8-15), si riduce convenevolmente a due scienze, la Psi-
cologia, e la Teosofia; la qual divisione non si diparte mollo
da quello che ebbero detto gli antichi , e s'accorda colla ma-
niera di concepire di S. Agostino, che riduce tutte le ricerche
della filosofica disciplina ultimamente a due , una dell'Anima ,
l'altra di Dio: « La prima — soggiunge — fa che conosciamo noi
« stessi , l'altra che conosciamo la nostra origine : quella ci è
« più dolce, questa più preziosa : quella ci fa degni della vila
« beata, questa ci fa beati : la prima è per chi ancora impara,
« la seconda per quelli che sono già dotti. Quest'è l'ordine de-
ce gli studi della sapienza, pel quale ognuno si rende idoneo ad
« intendere l'ordine delle cose , cioè a riconoscere due mondi
« {il sensibile e r intelligibile ['[)) , e lo stesso padre dell'universo,
« di cui non c'è altra scienza nell'anima, se non quella di sa-
ie pere, come essa noi sappia » (2).
(1) Cf. Retract. I, 3.
(2) De Ord. II, 18. — Cf. Sol. T, 1 ; De C. D. Vili, 4; De F. R. 29, 35.
Quando S. Agoslino dice, che « la cognizione di noi slessi ci fa degni di es-
II.
La Teosofìa è pura scienza, non pratica.
ò. Ma noi crediamo nostro dovere di non promettere, o far
mostra di promettere piii di quello che possiamo dare. Che
avendo noi già pubblicata la prima parte della Metafisica, cioè
la Psicologia , ed ora accingendoci a dare la seconda , sotto il
titolo, forse troppo mag^nifico, (ma non ne abbiamo trovato un
altro che meno male le s'appropriasse) di Teosofia , non vor-
remmo che i nostri lettori ci giudicassero arroganti, quasi che
con questa vasta disciplina filosofica confidassimo di poter dare
ai nostri simili quello che non può dare la scienza^ lasciando
anche da parte che la scienza slessa rimarrà accorciata e im-
poverita dalla nostra insufficienza. E prenderemo occasione a
rimovere questo pregiudizio dalle stesse citate parole d'Agostino.
Quando Agostino dice che « la cognizione di noi stessi ci fa
degni della vita beata, e la cognizione di Dio ci fa beati « parla
evidentemente d'una cognizione pratica , che è la sola compiuta
e ultimata, parla di quella cognizione di noi stessi, onde deri-
viamo l'umile sommessione alla suprema causa e ultimo fine
delle cose; di quella cognizione di Dio, nella quale non soltanto
la mente specula, ma l'animo e con esso lutt' intero l'uomo ade-
risce appieno alla causa e al fine , oltre al quale e fuori del
quale non è alcun altro bene in cui si riposi appagato,
4. Di questa cognizione due gradi principali si distinguono, il
primo de' quali fu insegnato agli uomini prima del Cristo, quando
l'autore del libro della Sapienza scrivea: « Il conoscerli è con-
ce sumata giustizia » (i) ; il secondo fu manifestato dal mede-
simo Cristo, quando con concetto assai pii^i elevato, disse : » E
« questa è la vita eterna, che conoscano te, solo Dio vero , e
sere beati, e la cognizione di Dio ci fa beali » dee intendersi di una cogni-
zione completa, e soprannaturale, non d'una semplice speculazione filosofica,
e le due cognizioni non s' intendono prese esclusivamente , quasi che l'una
potesse stare divisa totalmente dall'altra.
(1) Sap. XV, 3.
(( quello che lu hai mandato^ GESÙ' Cristo >: (1). E qui con-
tenuto non solamente la scienza, ma l'intero della sapienza; e
l'uomo essendo semplice ed uno, e creato da Dio — per usare
la frase d'un'eroina cristiana — « con un certo istinto beatifico
verso di sé » (2), aspira e tende all'intero: laonde una parte
separata da questo intero noi può acquetare.
5. Ma quali sono queste parti dell'intero corpo della sapienza?
— C'è una cognizione pratica soprannaturale , che è gratuito e
immediato dono dell'infinito autore dell'uomo^ e questa è sempre
intera sapienza, non è mai parte; c'è una cognizione pratica
naturale formata a sé dall'uomo coll'attività sua propria , con
quell'attivilcà che insieme colla natura ha ricevuto dal medesimo
suo autore, e anche questa è un colale intero, benché d'ordine
inferiore infinitamente al primo. Onde anche questo, consideralo
in sé stesso (lasciando ora da parte la questione se l'uomo da
sé solo possa effettuarlo o no), non ha ragione di parie ma di
lutto. Sarebbe nulladimeno difficile l'assegnare con distinzione
tutti que'caratteri, pe' quali quest'intero della sapienza, secondo
natura, si differenzia dal primo, e quanto da esso sia deficiente;
ma non abbiamo noi bisogno di entrare al presente in questa
ricerca, che appartiene ad una piìi alta disciplina (3), null'allro
importandoci per intanto, se non di sapere quali sieno le parti
della sapienza.
Queste dunque sono la speculativa e la pratica , le quali si
possono distinguere ugualmente nella sapienza soprannaturale
e nella naturale; e per ispeculativa qui intendiamo tutto ciò
che riguarda il pretto intendimento, comprendendovi anche la
cognizione diretta e spontanea, benché il vocabolo si soglia re-
stringere a significare la scientifica. Conviene ora considerare
il vincolo , che lega insieme queste due che chiamavamo parli
della sapienza.
La pratica non islà mai priva di una speculativa, a cui s'ap-
poggia. Quindi apparisce, che, se si considera qual é nel fatto,
la pratica non può dirsi che sia mera parie della sapienza, per-
(i) Io. XVII, 3.
(2) Caterina Fieschi, la santa, nel suo Trattato del Purgatorio.
(3) AÌV Antropologia soprannaturale.
s
che n'è veramente il tutto , non dividendosi dalla speculativa
e in essa innestandosi: solo può dirsi parte per astrazione,
quando si riguarda senza tener conto della speculativa a cui
s'accoppia.
La speculativa all'incontro sta veramente da sé; e però a lei
sola s'aspetta la ragione di parte. 11 che meglio si scorge os-
servando che di lei sola si compongono tutte le scienze umane
e le teorie filosofiche, quando all'incontro la pratica non si
scrive punto, ma solamente si fa, e non si conserva nelle più
copiose biblioteche , con grandissime cure e dispendi da ogni
parte raccolte, ma negli animi degli uomini e d'ogni altro es-
sere intelligente perpetuamente dimora, senza che ella possa mai,
per qualunque sia cagione, dipartirsi dal suo naturale domicilio.
Laonde il fine dell'uomo è uno , nel quale sono fuse scienza e
virtù così intimamente, che già non sono più due, ma un bene
solo ^ il quale soddisfa pienamente alla natura intelligente; e
quando da questo intero, per un'operazione che non è di tutto
l'uomo ma d'una speciale sua potenza, si segrega la scienza che,
divenuta speculativa, tutta da sé sola si riguarda e si consegna
alle lettere, allora la scienza non è oggimai più quel fine e quel
bene che l'uomo desidera, ma è altro, e ha ragione di mezzo.
6. La soddisfazione dunque dell' umana natura trovasi nella
sua miglior parte fuori di tutto quello che è stato scritto dagli
scienziati, o che si scriverà al mondo giammai; il che nondi-
meno ha bisogno di qualche maggiore dichiarazione; che facil-
mente verrà altrui in pensiero: « E non si può scrivere anche
la virtù nell'Etica, e Iddio nella Teologia ?» A cui è facile il
rispondere di no, e che non si scrive altro in quelle scienze se
non Videa della virtù, e Videa di Dio, le quali non sono né la
virtù, né Dio, né appartengono alla pratica, ma alia speculativa;
ma intenderne pienamente la ragione non é facile: procuriamo
di dichiararla.
Si consideri , che la pratica appartiene all' ordine del reale ,
laddove la speculativa, all'ordine éoWidcale. Ora, tale é la natura
di tutti i segni, una classe de' quali sono i vocaboli , che non
si riferiscono che all'ideale, poiché quando si usino per condurre
la mente a pensare un reale, non la conducono ad esso se non
per mezzo dell'idea del medesimo. Onde la qualità di segno ap-
6
parliene unicamente all' ordine intelligibile , e non al reale e
sensibile, bencbè ciò cbe si prende per segno sia un sensibile;
che il segno^ come segno^ non è altro che una relazione, e le
relazioni sono nell' intendimento e per l' intendimento. Altro è
dunque un reale , ed altro che questa? reale acquisti qualità e
condizione di segno: il reale, come pretto reale, non segna nulla,
non uscendo di sé, e non esprimendo che sé stesso , se così si
vuol dire; l'intendimento poi è quello, che lo assume a significare
un'altra cosa. Ma non lo potrebbe assumere all'ufficio di segno,
se prima non l'avesse concepito, e se la cosa, che vuol segnata
con esso, pure non l'avesse prima concepita; onde il segno e il
segnato sono due termini concepiti dalla mente, e non due pretti
reali. Laonde si ha dall'Ideologia, che i reali non sono para-
gonabili tra loro se non per mezzo d'un'idea , a cui si rappor-
tino {Ideol. 482-187); e lo stesso è a dire del segno e del se-
gnato. Il perchè l'artificio de' segni è unicamente fondato nelle
idee, e appartiene al mondo della cognizione, e però co' segni,
co' vocaboli, colle lettere scritte, altro non s'ottiene mai se nor
di porgere alla mente le notizie delle cose, e non di dare al
l'uomo le cose stesse. Tutto ciò dunque, che é pratico, la virtù,
l'affetto , l'opera , in una parola, il reale, eccede l'efficacia de
segni naturali, e sta intieramente fuori d'ogni parlata, per quan
tunque eloquente , e d'ogni scrittura , per quantunque dotta
elegante, sublime possa parere.
7. Di che s'intendono alcuni limiti essenziali della dottrina
che intendiamo esporre , cioè che le conviene lasciar da part(
tutto quello a cui non giunge il naturale raziocinio, benché s
conosca per divina rivelazione, benché della rivelazione il ra
ziocinio stesso si giovi per avvigorirsi e ingrandirsi; e che, de
pari , essendo pura scienza , non presume e non può presumei
di esser pratica attività.
IH.
Dell' intemperan:;a della speculazione.
8. Si raccoglie ancora dalle cose delle in che consista l'in-
temperanza della speculazione , dico 1' intemperanza assoluta e
non quella che è relativa all'individuo, di cui fu parlato nella
Logica (1179-il8^). Ogni qualvolta si vuol ridurre tutto l'uomo
alla speculazione, e scambiandosi la parte pel tutto, si presume
che nella sola speculativa si deva comprendere tutto il bene
umano, e si fa di conseguente ogni sforzo colla mente per ri-
cacciare il reale nell'idea, e per fare, che da questa sola rie-
sca fuori la materia di cui consta il Mondo sensibile, e lo Spirito,
e finalmente Dio stesso, c'è evidentemente intemperanza di spe-
culazione, e quella specie di sofisma, che si chiama della parte
{Logic. 727-730). Se potesse essere che nell'idea ci fosse tutto
ciò, certo allora il bene dell'uomo si conterrebbe tutto intero
nella scienza , e ciascuno potrebbe ricavarlo dalle parole d' un
uomo 0 dalla lettura d'un libro; che qui troverebbe ogni cosa,
e però non abbisognerebbe d' altro , molto meno della cosa più
tenue di tutte l'altre, qual è il pane quotidiano. Ma quantunque
lo Schelling e l'Hegel abbiano asserito d'essere pervenuti ad una
scienza così compiuta, ebbero tuttavia bisogno d'insegnarla pub-
blicamente , non dico per procacciarsi la pratica della virtù ,
che sarebbe assai , ma pure per vivere cogli stipendi annessi
alle loro cattedre: prova evidente che nella loro idea assoluta
non c'era tutto: che se ci fosse stato dentro, com'essi dicevano,
il Mondo , ci avrebbe dovuto essere anche del frumento e del
pane e del vino.
9. La nostra Teosofia non può certo dare al pubblico pro-
messe tanto magnifiche, tanto maravigliose: ma essa spiegherà
come la mente umana che s'inoltra nella speculazione sia pro-
clive a trovare ogni cosa in se stessa : dimostrerà cioè doverci
essere un oggetto, che contiene elfettivamente in se l'università
delle cose , e come quest'oggetto non è 1' idea , che splende
alle menti umane, la quale idea nondimeno partecipa da
queU'oggelto la forma d'oggetto; onde l'idea essendo anch'essa
8
per sé oggetto, colui che specola facilmente la confonde coU'og-
getto compiuto e sussistente, nascendo in lui un grandissimo de-
siderio d'attribuire a quella, che sola intuisce, gli attributi di
questo che non intuisce, e pur intende che non può mancare:
è un'aberrazione della tendenza all'unità , essenziale ad ogni
intelligenza , e quest'aberrazione trascina l'uomo anche sopra
un abisso d'assurdi, sicché piìi non vede, sperando per mezzo
a questi di pervenire al suo disperato proposito.
10. Riconosciamo dunque — e dimostrerà anche questo la no-
stra Teosofia — che l'essere stesso, se ha un'esistenza oggettiva,
è per sé intelligibile , e contenendo l'essere tutte le cose ( poi-
ché quello, che non è essere, é nulla ) conviene , che l'intelli-
gibile contenga tutte le cose ; e dimostrerà di più che l'essere
deve avere effettivamente per necessità questa forma primitiva :
ma nello stesso tempo farà ancora vedere con tutta evidenza ,
che l'iNTELLiGiBiLE CONTENENTE TUTTO nou é dato all'intuito della na-
tura umana, potendo questa soltanto trovarlo per argomentazione
atta a darne solamente un concetto negativo e formale. Di che
conseguita, che l'uomo non possa avere né l'assolato conoscimento
che lo Schelling gli attribuì per immediata intuizione, né Videa
assoluta che gli promise il suo discepolo Giorgio Hegel , nemico
d'ogni immediatezza, per via d'un mediato raziocinio, il quale alla
guisa d'un ragno industrioso col lavoro di molti anni andò tessendo
e ritessendo una tela, che non involse che lui solo, confessando
moriente egli medesimo che nessuno l'aveva inteso, eccetto uno,
il quale ne pure l'aveva inteso pienamente. Onde per sentenza del
maestro ci non lasciò eredità ne' discepoli, benché alcuni dal nome
dei maestro ora si denominino. Ma se la scopa del buon senso
rinellò così presto e facilmente da questa sottilissima ragna la
casa della filosofia, non sarà punto inutile, che subentrando la
Teosofia, ella anche additi come a quell'errore dotto ed inge-
gnoso sottostia una gran verità , che pur vollero , ma non
poterono cogliere que' coraggiosi speculatori; e questa verità è
quella necessità appunto , che dicevamo , « di un intelligibile
eterno contenente le cose tutte « , a cui arbitrariamente e del
tutto falsamente essi applicarono la parola idea , che indica il
lume, vóto di contenuto, della natura umana, quand'esso non
ebbe mai e non può avere altro nome, che quel nome che gli
impose il Cristianesimo, che lo fece conoscere all'uomo che per
natura l'ignora, di verbo di dio.
IV.
La Filosofia teosofica insisle in se stessùj non prende nulla
dalle altre scienze^ ed esclude ogni ipotesi.
il. Purespl'rtssohUo conoscere è proprio di Dio e non dcH'uomo,
anche l'uomo ha nondimeno un conoscere assoluto rispetto alla
forma, quantunque non cosi rispetto alla materia [Ideol. .^"iS, sgg.;
474, sgg.); e questa maniera d'assolutezza del conoscere umano
anch'essa divenne occasione agli erramenti delia scola germa-
nica , di cui parlavamo. La Teosofia dovrà parlare lungamente
dell'assoluto conoscere umano: anzi essa stessa dovrà usarlo; e
più ancora dovrà esserlo. E veramente non essendo ella altro
che la TEORIA dell'ente ( né parrà poco , henchè in due sole
parole si compia la sua definizione), e l'ente essendo infinito
ed assoluto, innanzi che racchiuso tra limili e tra questi esi-
stente come finito , niun pensiero potrchhe raggiungerlo , se
non si rendesse egli stesso da qualche parte assoluto ; che as-
soluto, in qualunque modo, si rende quel pensiero che è infor-
mato da un oggetto, in qualunque modo, assoluto. E anche a
bona ragione Platone chiama il discorso del massimo, quello che
tratta delTente, nspi ^è tov ixayìsrov re xa.ì à.^yrìyQv tt/joStoi; (1).
12. E poiché non c'è cosa alcuna, che possa antecedere nell'Uni-
verso e nella mente alFenle o all'essere, che , tolto l'essere ,
rimane il nulla nell'ordine nelle cose e il buio in quello delle
cognizioni, perciò la dottrina dell'ente, che noi intitolammo Teo-
sofia , risponde al concetto che gli antichi s'erano formati della
Filosofia, i quali dicevano ch'essa si distingue dall'altre scienze
in questo, che mentre tutte le altre scienze suppongono dei prin-
cipi che non dimostrano, la filosofia all'incontro non mutua cosa
alcuna altronde, ma S'edifica co' materiali suoi propri, non parte
da alcuna ipotesi o supposizione gratuita, ma anzi cerca e sta-
(1) So/)/*, p. 243. C
10
bilisce tò àvutt'o^stov [{) , ond'ha una base inconcussa, e non
ammette che il necessario (^).
V.
Come si distingua la Teosofia dall' altre scietize.
13. Ma per la stessa ragione che non rimane nulla Cuori
dell'essere , parrà che la Teosofia , proponendosi quest'oggetto ,
deva assorbire e riassumere in se stessa tutte Tallre scienze, e
però che si prometta con essa cosa impossibile e temeraria ,
quasi ella prendesse a discacciare dal mondo tutte l'altre disci-
pline. Laonde è necessario che noi vediamo come la Teosofia
dall'altre scienze si distingua ed abbia suoi certi confini. Sebbene
dunque sia vero, che non si dà scienza che non riguardi cose
che appartengono aliente, tuttavia altro è trattare d'alcuni enti
e di ciò che loro appartiene, ed altro trattare dell'Ente e del-
l'Essere come Ente ed Essere : questo fa la Teosofia , quello le
altre scienze. Il che s'intenderà pienamente mediante le seguenti
considerazioni.
ih. Il pensiero dell'uomo e l'attenzione che n'è la sua inlima
attività ha tale indole che spezza l'ente , e si posa sopra una
parte o un lato di esso, non badando punto al resto, quasi non
ci fosse, e quella parte o lato di ente in cui si raccoglie l'at-
tenzione segna colle parole . e molte cose ne va ragionando e
dicendo. Di poi viene un tempo , nel quale riscuotendosi da
questa specie di sogno, riconosce eh" egli non s'è occupato che
d'una parte o d'un lato solo dell'ente, e allora s'industria di
risalire al tutto e di considerare anche la parte o il lato speciale,
in cui prima s' era indugiato , nel tutto a cui appartiene. Se-
gnando con due vocaboli questo doppio modo di operare della
(1) Sen. Ep. 88. — Cf. Van Heusde, Initia Philos. plat. II, 12.
(2) Esclude dunque la Filosofia gli argomenti, che conchiudono a probabi-
lità? ■ — Questi non sono propri della filosofia, e mostrano imperfezione della
scienza : né si possono dire filosofici se non in quanto che hanno un ele-
mento necessario, cioè in quanto è necessario che quell'argomento conchiuda
a probabilità.
Il
mente umana, dicemmo che il primo è un pensiero parziale e il
secondo un pensiero totale {Psicol. 1294, sgg.; 1407, sgg.). Ora, il
primo di questi due modi del pensare e del conoscere è il fonte
delle varie scienze: il secondo è il fonte della Teosofia, che conside-
rando l'ente come ente, considera per conseguenza l'ente nella sua
totalità. È vero dunque, che tutte le scienze trattano, e non pos-
sono trattare che di qualche cosa che appartiene all'ente; ma poi-
ché esse riguardano l'ente solo in quanto è diviso o dalle limita-
zioni naturali o dallo sguardo della mente, perciò stesso prescindono
e astraggono al tutto dalla sua natura totale ed intera, e questa
rimanendo dimentica ed esclusa da esse, viene raccolta dalla Teo-
sofia che ne fa sua materia ed argomento.
13. E di qui non solamente apparisce la distinzione della Teosofìa
dalle altre scienze, ma ancora l'eccellenza di quella, che si eleva
di lunga mano su tutte queste , e le unifica e compie tutte in
se medesima. Poiché, quantunque l'umano pensiero s'eserciti nel
detto modo parziale e unilaterale, tuttavia l'intelligenza non trova
la sua quiete nella cognizione delle parti e de'Iati , ma vi sta
come in sul viaggio, o facendovi delle dimore provvisorie (ben-
ché anche a' viaggiatori incontri di morire in qualche albergo,
prima d'avere il loro viaggio fornito) , o solamente trapassando
più 0 meno celeremente. Che la mente é sempre volta per sua
propria natura a raggiungere le ragioni ultime, e le parti e i
lati diversi delle cose hanno le loro ragioni nel tulto e nel su-
bietto, e lutto ciò che in qualunque modo appartiene all'ente è
per l'ente ed ha la sua ragione d'esistere nell'ente. Onde quella
sola disciplina che considera l'ente come tale, né più né meno,
e però nella sua interezza e pienezza, é il termine di quel de-
siderio di scienza che fruga incessantemente ed urge tutte le
finite intelligenze.
l'i
VI.
Come la Teosofia si distingua dalle altre scienze filosofiche.
— Filosofìa regressiva e progressiva.
16. Potrà qui parere, che se la Teosofia non assorbe in sé
le altre scienze, s'appropri però, e a se sola pretenda riserbare
la qualità di scienza filosofica. Poiché incaricandosi essa d'asse-
gnare le ragioni supreme che si trovano nel tutto dell'ente, e
non essendo la Filosofia che « la scienza delle ragioni ultime » ;
pjre che tutta la Filosofia si riduca in quest'unica scienza della
Teosofia , non rimanendo fuori di lei altra scienza , che meriti
questo nome. Pure si consideri , che la Filosofia ha bensì per
iscopo le ultime ragioni, ma per arrivare a coglierle, definirle,
ordinarle, condurle all'unità, l'uomo, che ama e cerca la vera
scienza , ha uopo di fare co' suoi pensieri e ragionamenti assai
lungo cammino e prima di raggiungerle ci adopera molte inve-
stigazioni. Poiché se alcune tra l'ultime ragioni sono prime nella
intuizione della mente umana , non si rifondono però nella ri-
flessione che dopo tutte l'altre, e ogni scienza é di sua natura
cognizione riflessa [Ideol. ÌM^.; Logic. 69-71). Tutto quei
lavoro dunque che fa la mente del filosofo per avanzarsi fino
agli ultimi perchè, e ha questi per intento, é filosofico; e questo
é così copioso ed involto che , quando s'esprime ordinatamente
in parole o in iscrilture, si riparte in più scienze, quasi stazioni
del lungo viaggio , ultima delle quali e compimento di tutte le
altre è la Teosofia.
Oltre di ciò, dovendosi ordinare questa per modo, che abbia
un capo e principio, donde tutte l'altre membra e conseguenze
si derivino (che tanto esige la cognizione scientifica, acciocché
appaghi la più nobile riflessione dell'uomo), come arrivare d'un
tratto a quella sommità onde discende tutta la scienza.? Noi ab-
biamo dunque riconosciuto doversi ammettere la distinzione tra
la Filosofia regressiva , che é quella che sulla via della rifles-
sione riconduce la mente a trovare il principio da cui si deriva
la scienza dell'ente, e la Filosofia progressiva, che è la stessa scienza
i3
dell'Ente dal suo principio derivata. {Prelim. alle Scienze Ideol.
li, 3Ì-34), cioè la Teosofia; e oltracciò una Filosofia media, che
è quella che somministra le condizioni tanto formali — Logica — ,
quanto materiali — Psicologia — del passaggio della mente spe-
culativa dalla filosofia regressiva — Ideologia — alla progressiva
e teosofica. La Teosofia dunque, benché meriti essa sola l'ap-
pellazione di teoria, non è la sola scienza filosofica, ma è pre-
ceduta necessariamente da altre.
vn.
Tre principi dello scibile umano : lideale, il materiale, l'assolato.
\7 . Il lavoro della mente filosofica e tutto il sistema del sa-
pere umano ha tre principi, l'obiettivo formale, il subiettivo,
l'obiettivo essenziale, ossia Videa, Vanima, Venie; e però lo sci-
bile conceduto agli uomini può essere ordinato in tre modi :
1° Movendo dall' idea che è il lume con cui si conosce
lutto ciò che si conosce, e però ò un primo anteriore a tutti gli
altri noti;
2° Movendo àaWanima intelligente , che tutto ciò che si
pensa o si specula, quantunque abbia natura di oggetto, veste
la forma di cognizione anche subiettiva in questo solo senso, che
sono gli atti del subietto intelligente quelli che danno le cogni-
zioni all' uomo, onde queste suppongono il subielto intelligente
come nn primo, antecedente ad esse, da cui derivano nella forma
di cognizioni umane;
3° Finalmente movendo dall'enfi, come quello che è tutto ciò
che si pensa — e lo stesso subietto intelligente non è se non per
la partecipazione dell'ente — onde si suppone come anteriore a
lui Venie, il quale così è anch'esso un primo , da cui partendo
quasi da capo si possono ordinare tutte le membra, cioè le en-
tità alle quali lo scibile si riferisce.
L'idea dunque è un primo neWordine delle cognizioni assolu-
tamente considerate ; il subietto intelligente è un primo neh' or-
dine di rapporto tra le cognizioni e il subielto umano a cui sono
comunicate; l'ente ò un primo XieWordine assoluto degli oggetti
conoscibili. Quindi tre scienze, cioè l'Ideologia, la Psicologia e la
Teosofia, diesi possono considerare come tre centri, intorno ai
quali fu già radunala dalle diverse scole in tre modi diversi la
Filosofia, e da' quali ricevette un diverso carattere.
18. Ma questi tre melodi sono essi ugualmente logici? Sod-
disfano ugualmente alla legge essenziale della filosofia , di non
prendere altrove il suo oggetto , di non cominciare da alcuna
ipotesi , di non prosupporre davanti di sé nulla di gratuito su
cui fondare i suoi ragionamenti? — La necessità di rispondere
a queste interrogazioni ci obbliga ad esaminare con più diligenza
la questione assai grave e difficile: « da che cosa deva inco-
minciare la Filosofia ».
Vili.
Errore metodico (ìeWHegcl nel cominciare dal principio materiale,
che rifonde poi gratuitamente nel princijjio assoluto.
19. L'Hegel sentì l'importanza di questa questione e rispose,
che « qualunque cosa sia quella da cui si cominci, ella è sempre
una supposizione, poiché ogni sapere immediato è puramente ipo-
tetico )). Questa sentenza gli fu suggerita dal sensismo, di cui
non si potè mai ripurgare la scola germanica , benché pren-
desse titolo ^'Idealismo trascendentale. Infatti egli non riconosce
per immediato altro che l'esperienza sensibile, e questa dice es-
sere il punto di partenza della Filosofìa (i); egli accetta il detto
aristotelico: niìiil est in intcllectu quod prius non faerit in sensu; e
il suo sistema consiste in aggiungere che nihil est in sensu quod
prius non fuerit in intellectu , di maniera che ammette per vera
reciprocamente l'una e l'altra sentenza , e compendia sé stesso
in queste parole: Was vernilnflig ist, das ist wirklich, und was
ivirklich isl, das ist verniinftig (2). Ora è ben chiaro che se la
Filosofia non ha altro punto di partenza che l'esperienza del senso
(1) Encijclopédie, $ 1-12.
(2) Philosoph. des Rechts, Vorrede Encyclop, Einleitung,^Q.
15
esterno ed interno, essendo il puro senso un non conoscere, e
la cognizione delle cose sensibili presentandosi alla monte del
filosofo come cognizioni soggettive, egli dovrà riguardarle quali
supposizioni^ quai dati non ancora pienamente giustificati. Ma è
egli vero ciò che gratuitamente asserisce questo filosofo, che il
punto di partenza della Filosofia sia l'esperienza ? Qucsl'c da vero
una sua supposi zinne , e nel tempo stesso ch'egli ricusa d' am
meltere cosa alcuna non dimostrata , e nega valor filosofico a
qualunque immediato conoscimento , fa pur maraviglia a ve-
dere con che sicurezza mova il cammino da una tale asserzione,
supponendo infallibile che l'esperienza sia il punto di partenza
della Filosofia, e non solo trascurando di provarlo, ma dispen-
sandosi dal sottoporlo a qualunque esame. Questo punto di par-
lenza della Filosofia posto nell'esperienza sensibile , è proprio al
genere di que'fìlosofi che movono dal soggetto, ossia dall'anima.
Ma confessando l'Hegel , che incominciandosi dall'esperienza si
comincia da una pura supposizione, egli viene a confessare ad
un tempo che qui non comincia ancora veramente la Filosofia ,
la quale non è una supposizione, ed anzi ella non è, come di-
cevamo , che una dottrina necessaria , e però dove comincia il
necessario, ivi solo può cominciare la teoria filosofica.
20 Che poi l'Hegel, avendo creduto, che la Filosofia avesse il suo
punto di partenza dall'esperienza, pronunciasse in universale che
« da qualunque cosa incominci la Filosofia, questa cosa è sempre
una supposizione d, non è che un salto dal particolare all'uni-
versale , una di quelle conclusioni illogiche tanto frequenti nel
nostro filosofo, che si persuade non poterci essere altro se non
quello, ed è ben poco, che si presenta alla sua immaginazione.
Ma se egli avesse consideralo che il senso esterno ed interno ,
fonti dell'esperienza , e l'altre facoltà del subietto umano , e lo
stesso subietto umano , non sono altro che condizioni materiali ,
necessarie non all'esistenza della verità, ma a far s'i che questa
si comunichi all'uomo (poiché ella non si potrebbe comunicare
a un subietto, che non esistesse o che non avesse la potenza di
riceverne la comunicazione), avrebbe facilmente compreso, che
queste condizioni materiali non possono costituire pur il prin-
cipio di quella teoria della verità che si cerca , benché la ri-
cerca della verità le supponga, appunto come l'armatura d'una
\6
fabbrica, benché necessaria a costruirla, non è ancora il princi-
pio, né una menoma parte della fabbrica. Come poi l'esperienza,
e il soggetto che l'esercita, rientri più tardi nella teoria del tutto
che l'assorbe in sé, benché non possa esserne il principio, dalla
teoria stessa si verrà a conoscere.
IX.
La Filosofìa , e il sistema dello scibile , deve cominciare
dal principio ideale.
21. È dunque manifesto, che quelli, che pretendono incomin-
ciare il sistema delio scibile umano dall'anima, movono dalla condi-
zione materiale dello scibile, e però da un principio che non prin-
cipia punto il sistema. Conviene dunque appigliarsi ad uno dei due
altri capi che si presentano alla mente colla pretensione di poter
esserne principio, cioè Videa o Venie che collidea si conosce. Ma
se l'ente si conosce coll'idea, l'idea logicamente precede; e co-
minciando dall'ente si lascerebbe indietro l'idea, che rimarrebbe
sottintesa e supposta : si principierebbe dunque ancora da una
supposizione^ e una supposizione non somministra il comincia-
menlo del sistema; che il sistema ha per suo essenziale carattere
la necessità , che se non fosse necessario non sarebbe sistema.
Vediamo dunque se si possa cominciare il sistema dall'idea.
22. G'é egli qualche cosa nella mente, che abbia priorità in
confronto dell'idea? C'è un noto che sia anteriore all'idea, col
quale si conosca l'idea stessa? Poiché se c'è qualche cosa di più
noto dell'idea , dal quale 1' idea mutui la sua luce intellettiva ,
converrà trovare in quel primo noto il principio che si cerca. —
Per rispondere a questa domanda conviene passare a rassegna tutte
le diverse classi d'idee, le quali si possono ridurre a due: « idee
più comprensive e idee meno comprensive «; e confrontarle tra
loro. Dal quale confronto risulta , che le idee più comprensive
hanno bisogno, per essere note ossia ricevute dalla mente umana,
delle idee meno comprensive , le quali hanno maggiore esten-
sione, di maniera che ogni idea più comprensiva suppone da-
vanti a sé tutte le meno comprensive. Allorché dunque si voglia
47
cominciare il sistema da qualche idea, che abbia una certa com-
prensione , il conijnciamento involge una supposizione , cioè ri-
mangono sottintese e supposte le idee che hanno priorità a quella
da cui si comincia, che sono, come dicevamo, quelle dotate di
una maggior estensione. Ma se trascorrendo le idee dalle più
comprensive alle meno si può arrivare ad una che non abbia
alcuna comprensione , questa non supporrà davanti a sé altra
idea di sorta; e come sarà l'estesissima di tutte, così anche sarà
nota la prima , e quindi nota per sé : e quindi sarà trovato il
vero principio di tutto il sistema , scevro da ogni supposizione,
ma per sé stante davanti alla mente. E questo é appunto quello
che fa rideologia , la quale dimostra che V idea della massima
estensione e priva d'ogni comprensione e' è davanti alla mente
— e se non ci fosse, né pur ci potrebbero essere l'altre idee più
0 meno comprensive come pur ci sono, — ed è V idea dell'essere
del tutto indeterminato. Laonde dicevamo {Prelim. alle Opp. Ideol.
31), che l'Ideologia è quella scienza che costituisce la Filosofia
regressiva, avendo ella per iscopo di ricondurci colla riflessione
fino al principio di tutto ciò che sappiamo, trovato il qual prin-
cipio semplicissimo, e nuU'altro esigente per essere pensato che
se stesso, da esso si mova e si produca il sistema della verità,
ossia la Teosofia, che è la Filosofia progressiva.
23. Questo principio non è una supposizione, perchè, ridotta
r idea a giudizio, con esso non si dice altro se non che « l'essere
è Tessere » ; il che è vero anche se non ci fosse il soggetto
umano che intuisce l'essere e lo pronuncia.
X.
Lo stato deiruomo prima dell' invenzione della Filosofia
non è il dubbio, ma la cognizione comune, e T igno-
ranza melodica.
24. Qui ci si dirà: « Quando voi siete in sul cercare colla
vostra riflessione quell'essere e non l'avete ancora raggiunto,
dovete trovarvi in uno stato di dubbio, e partite almeno dalla
supposizione di poterlo trovare ». Rispondiamo che questa sup-
llosMiNi. Teosofia. 2
18
posizione non è il principio della filosofia, il quale non c'è se
non quando s'è trovato: di poi la supposizione di poter trovare
il punto fermo delle umane cognizioni non è una supposizione
logica che involga alcun dubbio, ma una persuasione spontanea
che equivale a certezza di doverlo trovare , perchè l' uomo
prima ancora di filosofare si sente fatto per la verità , e sa
di possederla in un qualsiasi modo; onde quella supposizione,
se così si vuol chiamare, none esitazione: il dubbio nasce più
tardi nella mente e nell'animo umano, e lo scetticismo è l'ultimo
de' sistemi, che comparisce sempre al mondo dopo la Filosofìa,
quando questa si va perdendo e corrompendo. Quello dunque, che
precede nell' uomo la filosofia, non è propriamente il dubbio, ma
uno stato di cognizione diretta e spontanea, pieno di persuasione,
e che si mantiene in possesso della certezza. Quindi la nostra
filosofia regressiva non parte dal dubbio metodico, ma parte dalla
ignoranza metodica [Prelim. ìì) e la parola « metodica » di-
chiara di qual ignoranza si parli. Ella fa conoscere che non
s'intende un'ignoranza, che esista di fatto nel filosofo che inco-
mincia ad esporre « la filosofia regressiva «^ che anzi egli può
e deve essere già dotto, ma s'intende un'ignoranza relativa al-
l'ordine e all'esposizione delle verità che egli prende a fare, in
quanto che, prima d' esporle ordinatamente , esse non vi sono
nell'esposizione, e dopo esposta una prima, o alcune di esse,
rimane l'assenza dell'altre nell'esposizione, perchè non sono an-
cora dedotte ed esposte , e quindi si suppone che il discepolo
ancora non le sappia, perchè non le sa come discepolo, benché
possa saperle altronde: quest'assenza dunque ipotetica delle ve-
rità che si prendono a esporre è quella che chiamasi « igno-
ranza metodica ».
Essendo dunque l'ignoranza metodica relativa all'esposizione
ordinata e filosofica delle verità, è un' ignoranza, che si riferisce
alla riflessione , e non alla cognizione diretta o alla popolare,
questa rimanendo con quella ignoranza. Colla cognizione diretta
e colla popolare l' uomo sa, benché molte cose le sappia in una
forma più o meno implicita, e c'è in lui la certezza: l'idiota
non dubita, o dubita meno del dotto, ma non essendo queste
cognizioni riflesse, o almeno non riflesse quanto basta ad esser
filosofiche , l'assenza di queste cognizioni in forma filosofica e
19
sislemalica è l'ignoranza metodica da cui comincia la filosofia,
e che nella scola si suppone.
XI.
La Filosofia non comincia col raziocinio, ma colla riflessione
osservatrice, e però con un conoscere immediato, senza
supposizione di sorta.
25. La filosofia dunque non comincia da alcuna proposizione
supposta , ma da un punto luminoso , che ha l'evidenza della
necessità , riconosciuto bensì nell' uomo dalla riflessione , ma
dalla riflessione osservatrice, e non punto argomentatrice. Ora
ogni osservazione anche riflessa è un conoscere diretto ed im-
mediato, e però incomincia da una notizia immediata, sì perchè
questa notizia è presente all'intuizione senza niun mediatore, si
perchè è riconosciuta dalla riflessione con un'osservazione imme-
diata senza argomentazione di sorta, e perciò senza alcun bisogno
di mezzo termine.
2G. Né si ipnò o\)\)ovve, che essendo V intuizione e l'osservazione
riflessa facoltà dello spirito , colle quali si coglie quel punto di
evidenza, e non essendone ancor provata la veracità, c'è la
supposizione che non ingannino. Questa obiezione avrebbe luogo,
se fosse vero , che l' evidenza di quel punto , cioè dell'essere
obiettivo, si argomentasse dalla veracità delle potenze dell'uomo
che r apprendono ; ma non è e non può esser questo il fonda-
mento di quella evidenza. L'ideologia non dice mica: « L'essere
è essenzialmente obiettivo , perchè tale mi è presentato dall' in-
tuizione e dall'osservazione, potenze che sono dotate di veracità));
ma dice: «l'essere è essenzialmente obiettivo, perchè non può
essere diversamente )>. È nella natura stessa dell'essere che si
trova la sua necessità , e non s' argomenta già dalla veracità
delle potenze ; anzi la veracità di queste si conchiude posterior-
mente dall' intrinseca necessità dell'essere che esclude qualunque
contraria possibilità ; onde le potenze rimangono escluse da ciò
che si conosce evidente e necessario , il quale sta e vince per
20
la propria luce; esse non sono, come dicevamo, se non condi-
zioni materiali del conoscere.
XII.
L'Ideologia è la scienza che stabilisce il punto di partenza; la
Psicologia e la Logica danno le condizioni maleriali, e le
condizioni formali della Teosofia.
27. L'essere dunque è quel solo che non ha bisogno d'altro
che di sé stesso per essere pensato ed ammesso come evidente
e necessario; e quando la riflessione filosofica l'ha per tale ri-
conosciuto, ell'è venula in possesso dell' istrumento o mezzo di
andare avanti a riconoscer l'altre cose, a riconoscer la veracità
delle percezioni^ delle idee, spiegandone l'origine, e de' principi
del ragionamento, il che fa l'Ideologia e la Logica; e in appresso
riconosce pure, come conseguenza indeclinabile, la veracità delle
facoltà intellettive, e massimamente dalla riflessione^ dall'evidenza
delle cognizioni sempre argomentando alle facoltà, e dagli atti
venendo a conoscere la natura delle potenze e non viceversa,
come fanno, e pretendono illogicamente che si faccia, i sensisti
e tutti i sogetlivisti; e finalmente viene a trovare la dottrina
del subietto umano, che è l'intento della Psicologia. Questa è
una scienza, che non ha bisogno d'altro che dell'Ideologia e
della Logica, e presupposte queste, può stare da sé, perchè si
fonda sulla percezione [Sistem. fìl. 75, 76) che da una parte è
certa, dall'altra circoscrive all'uomo un lutto conoscitivo, né lo
necessita ad uscirne. Così dopo che la riflessione trovò l'evidente
nel necessario, ella discopre la dottrina delle condizioni formali
del ragionamento, scopo principalmente della Logica, e quella
deWe condizioni materiali, argomento della Psicologia {Prelim,. 52).
21
XIII.
Le scienze filosofiche anteriori procedono con un ragiona-
mento diretto , la Teosofìa usa d'un ragionamento circolare,
ma non vizioso.
28. Fin qui la niente speculatrice fa un cammino in direzione
retta. Ma quando con altre riflessioni , uscendo dalle angustie
della percezione , si solleva a considerare l'ente in se stesso nella
sua universalità e nella sua totalità, e s'accorge che esso è uno
ed identico in tre forme, e cerca come queste sieno nell'infinito,
e poi come ne partecipi il finito ; allora viene spinta in circolo ,
che ben s'avvede non potersi parlare d'alcuna di quelle forme a
parte , senza contemporaneamente supporre le altre due, tali es-
sendo le tre forme che, rimanendo inconfusibili, pure reciproca-
mente si chiamano e si compenetrano. Onde non potendo, per la
successione dei pensieri e delle parole, abbracciare in un solo
atto istantaneo quella triplice dottrina, lo speculatore si vede
stretto a dover dividere quello che è indivisibile , ed usare, vo-
lendo parlare d'una di esse, un ragionamento deficiente per
l'astrazione che si obbliga a fare dall'altre due. Ma come e fino a
qual termine possa di poi emendarsi questo inevitabile difetto di
ragionamento, e in che modo ci abbia un circolo non vizioso, non
solo fu detto nella Logica, ma si mostrerà in quel libro, che ab-
biamo consacrato a dichiarare « il problema dell'Ontologia ». Poi-
ché l'Ontologia e tutta la Teosofia ha per suo proprio modo di
ragionare il circolo , quello cioè che abbiamo chiamato solido , in
cui si contiene anche l'argomento che gli Scolastici chiamarono
di regresso {Logic. 701, 702).
29. E questo stesso circolo, in cui non viziosamente s' involge
di continuo il pensare e il sapere teosofico, e che risulta non solo
dal sintesismo delle tre forme dell'essere, ma ancora da molt'altri
sintesismi che per tutto , nell'ordine intrinseco dell'essere, si
riscontrano, dà una nova ragione dell'avere noi considerata come
una sola scienza quella dottrina che s'usò fin qui partire in tre ,
e l'averne il loro complesso denominato Teosofia.
XIV.
Continuazione. — Tre parti della Teosofia :
l'Ontologia, la Teologia e la Cosmologia.
30. L'Ontologia, la Teologia (razionale) e la Cosmologia sono
tre parti d'una sola scienza, a ciascuna delle quali manca il lutto
e l'esistenza propria : rientrando di contìnuo l'una nell'altra, esse
confondono, quasi direi, le loro acque nel mare dell'essere. In
l'atti, come parlare, a ragion d'esempio, dell'essere nella sua es-
senza universale, e in tutta la sua possibilitcà, ciò che appartiene
all'Ontologia , senza avere alcun riguardo all' infinitcà e all'assolu-
tezza dell'essere, argomento della Teologia? 0 come dare una
dottrina filosofica del Mondo, intento della Cosmologia, senza risa-
lire a considerare la causa che gli ha dato l'esistenza, e il modo
d'operare di questa causa , il che riconduce il ragionamento sul
suolo teologico ? Laonde il centro e la sostanza di tutta la tratta-
zione è sempre la dottrina di Dio, senza il quale né si conosce a
pieno la dottrina dell'essere, né si spiega il mondo. Quindi la de-
nominazione di Teosofia data all'unica scienza che , dividendosi
nelle indicate tre parti, riesce una e trina,
31 . Questa assume, come dicevamo, di ragionar dell'ente nella
sua piena estensione e comprensione — quanto può andare la ra-
gione umana — sotto tutte le forme, nel suo ordine organico, in
tutti que'suoi intimi nessi che dall'immensa moltiplicità, in cui si
diffonde e s'allarga , lo fanno mirabilmente rientrare nell'unità
semplicissima ed assoluta. Se dunque l'argomento delle scienze
ideologiche e psicologiche è di sua natura analitico, e la divisione
0 analisi si può dire la funzione ed operazione caratteristica colla
quale procede l'Ideologo e lo Psicologo; l'argomento all'incontro
delle scienze teosofiche è di natura sintetica, che queste scienze
si propongono di meditare ed esplorare la gran sintesi ossia la
grande unità di tutte le cose pensabili; né dividono in parti l'ente
se non affine di poi dimostrare in che modo mirabile tutte quelle
parti sì raggiungono ed unificano. Di che conseguita manifesta-
mente che le scienze teosofiche non possono in alcun modo essere
più, ma debbono essere una che abbracci il tutto. Laonde la Teo-
23
sofia ha questo suo proprio carattere di essere sommamente orga-
nica. Che a quella guisa, che le membra ossia organi d'un vivo
animale cospirano a formare un solo ente , né alcuna delle mem-
bra separate dal lutto può far conoscere quell'indivisibile che da
tutte risulta; così riesce impossibile squarciare le membra della
Teosofia, senza che incontanente ci sfugga di mano e ci svanisca
la stessa scienza vivente che noi cerchiamo; come appunto ac-
cade nell'anatomico che divide le fibre d'un cadavere col coltello
per considerarle a parte, a cui non si presenta mai l'organico vi-
vente, che nella unione armonica e animata di tutte insieme con-
sisteva. 11 perchè il Teosofo obbligato dall'imperfezione del pen-
siero umano e della parola a trattare delle singole parti e speciali
conformazioni dell'ente, noi fa però se non considerandole in un
continuo rispetto al tutto e nel tutto, e siccome partecipanti l'es-
sere loro dallo stesso tutto; e se facesse altramente, cesserebbe
con ciò dall'esser Teosofo, trattando forse altra scienza, non punto
la Teosofia. Il che mi par singolare che non abbiano fin qui ve-
duto quelli che hanno preso a filosofare ; i quali hanno pure
squarciate le membra di quella scienza, che ha per iscopo ed in-
tendimento l'unirle.
32. Di che, se noi cerchiam la ragione, ci verrà trovata nella
somma difficoltà della Teosofia e de' pericoli che ella involge.
Poiché la scienza che tratta dell'essere nella sua magnifica ed
immensa complessità, risica d'urtare nell'uno o nell'altro de' due
scogli ojìposti; 0 di frangere l'essere per modo che ne perisca
l'unità , il che ruba alla Teosofia il suo proprio scopo che è di
mostrare di quest'unità la vera ed arcana natura ; o d'accozzare
mostruosamente e identificare l'essere in modo alieno dal vero,
con che il Teosofo si rende maestro di panteismo. Quindi gli er-
ranti nelle dottrine teosofiche si dividono in due ampie classi :
nella prima stanno quelli che non diedero all'essere la debita
unità , nella seconda quelli che glie ne diedero una indebita :
quelli peccarono per difetto, questi per eccesso: i primi disconob-
bero i vincoli e nessi, pei quali gli enti relativamente diversi si
attengono e si congiungono assolutamente in un bellissimo tutto
organico; i secondi, vinti anch'essi dall'immensa difficoltà di
trovare la natura di questi nessi , sostituirono ai veri de' nessi
falsi, dati loro dall'imaginazione, ed anzi, per far più presto, ne-
garono a dirittura la verità de' nessi che dovunque appariscono^ e
che suppongono a un tempo e l'unità e la distinzione, sognando
un cotai essere uniforme assorbente tutto nel proprio seno quasi
in una voragine profonda, ove ogni distinzione scompare. I quali
errori devono a noi fruttare non piccolo ammaestramento di pro-
ceder cauti e temperati nel pronunciare. Che ninno, a nostro
avviso , si può mettere , senza certissimo rischio di naufragio ,
nelle teosofiche investigazioni , il quale prima di tutlo non sappia
che la scienza a cui egli pone la mente , di sua natura vince
l'intelligenza della specie umana, di che niun savio che vi si
applica può sperare, o mettersi in animo di far più che d'in-
nalzare qualche lembo del velo che ricopre sì immenso corpo
di verità. Laonde a prima dote richiesta nel Teosofo noi ponia-
mo quella che egli non si vergogni di confessare essere immen-
samente più le cose che gli rimangono ignote, di quelle che
. egli sa ed insegna , e conosca il confine che non lice ad uomo
di trapassare; e qui, come davanti ad un'ara sacra si fermi ed
adori , e sacrifichi con purità a Dio onnisciente. Laonde sappia
chi ci leggerà , che noi gli porgiamo questo lavoro , che per
tanti anni ci ha affaticati , non come scienza compiuta o pros-
sima alla perfezione , ma come un imperfettissimo e poverissi-
mo saggio, e domandiamo da' savi, che abbiamo esperimentato
tanto benevoli ai nostri precedenti scritti, un'indulgenza e un
compatimento ancor maggiore per questo.
XV.
Le scienze anteriori si possono chiamare scienze comuni ,
la Teosofia scienza arcana.
33. Le difficoltà intrinseche alla scienza teosofica : quella di
trovar una maniera d'esprimere concetti così ardui senza equi-
voci; l'indole di certe questioni che anche risolute con verità ed
espresse con proprietà non sono accessibili che a poche intelligenze;
il pericolo che le intelligenze mediocri, che di solito sono le più te-
merarie , mettendosi per entro ad esse smarrissero la via girova-
gando in un fatale labirinto di sottigliezze e di vanilogic; la defi-
25
ficienza del sentimento morale e religioso , che rende questa età
nostra così aperta all'errore, e con essa la deficienza dell'arte lo-
gica, che la fa così le«[gera al sofisma ; il vedere che altre dottrine
di minore difficoltà e di grande importanza rimangono siccome cibo
a|)pena abboccalo e non digesto: tutte queste considerazioni ten-
nero lungamente sospeso l'animo mio, se mi fosse lecito di co-
municare a tutti colle stampe queste speculazioni teosofiche , o
non convenisse meglio discuterle con amici sceltissimi ne' pri-
vati colloqui. Non lieve molestia mi dava il timore che quello
che io con molte cure avevo radunato ad intento di giovare ai
miei simili , dovesse in quel cambio tornar loro disutile o an-
che dannoso. Mi spiegavo in questa esitazione il perchè tutti i
savi dell' antichità , Sacerdoti o Filosofi , avessero avuto una
scienza esoterica e comune , e un'altra acroamatica e riserbata ,
cominciando da Sciakia Munì fino a' Druidi (1): l'avesse avuta
lo stesso Cristianesimo ne' primi secoli : e perchè tutti avessero
opinato non istar bene di propalare al volgo certe altissime ve-
rità , da Pitagora a Francesco Bacone che ancora parla d' un
velo da tenersi calalo davanti agli occhi della plebe. Cicerone
scrivea, la Filosofia cansare la moltitudine, contenta di pochi
giudici (2): Seneca si contentava d'un solo amico (3): e Pla-
tone vuol rimossi i profani , e profani dice coloro che non isti-
mano esserci altro che quello che toccano colle mani (4). E di
vero la Filosofìa non è utile se non è partecipata da sani in-
telletti e da animi ben disposti : la scienza giova se nella so-
cietà a cui ella si comunica trova l'altra parte che ella non
ha e non può dare , voglio dire la pratica , l' efficacia d' un
morale sentimento :, al quale copulandosi si feconda e diventa un
tutto novo mirabilmente contemperato, un sapere vivente e ope-
rante della vita della virtù. Tutta l'antica sapienza risona que-
(1) Della scienza arcana de'Druidi, V. Ces. DeBel. Grt/.V1,5, e P. Mela III, 2.
(2) Est enim philosophia paucis contenta judicibus , miiltitudinem con-
sulto ipsa fugiens, eique ipsi et suspecta et invisa. Tuscul. II, i.
(3) HcBC ego non multis sed tibi ; satis enim magmim alter alteri iheatrum
siimus. Sen.
(4) 'ASpii 5vj ■7rspt(T;^0TtwVj nò Ttg Twv à//u*ÌTwv é-rea/ouv)' £Ìul Sk oÙTot, oi ohSìv a.i.Xo
oió/xsvoi stvKi ^ oZ «V 5uvwvT«t aTTjslI rxiv x^po'v ).«j3iij&flcf npó.^s.ii Si x«l ysvéffstj xat
Trxv TÒ «ópaTov ovx òcTvoSzx^f^-^oi, wj sv ovsCk^ iJ-épii, Thoet. p. 155, E,
26
sto gran vero, mentre pure in tutti i tempi animi illanguiditi
e agghiacciati l'hanno negato; che il vìzio brigò sempre d'av-
volgere la propria deformità nel mantello della filosofia, insu-
perbendone. E in una lettera attribuita a Liside discepolo di
Pitagora si dice così : « A quella guisa , che i tintori spre-
« mondo ripurgano quelle vesti , che devono tingere , acciocché
« imbevano una tinta incancellabile , e che non perdano mai
« più, così l'uomo divino {Pitagora) preparava quelli, che an-
« davano presi dell'amore della Filosofia, onde non gli fallisse
« d'averli buoni ed onesti. Ch'ei non trattava un'erudizione
(( adulterina, o que' lacci ne' quali il volgo de' sofisti avvinoola
(( i giovanetti senza insegnar loro mai nulla di buono e di vero,
« ma possedeva la scienza delle cose divine ed umane. Quelli
« poi, abusando a pretesto la dottrina di lui, fanno maraviglie
« co' giovani tortamente e temerariamente allacciali. Il che è
(c cagione che rendano i loro uditori difficili ed imprudenti. Poi-
« che tra costumi confusi e torbidi inculcano teoremi e ragio-
« namenti liberi. Come se taluno infondesse acqua pura e lim-
« pida in un pozzo profondo pieno d'immondezza e (ìi fango,
« altro non farebbe se non sconvolgere quel sudiciume e gua-
« star l'acqua; allo stesso modo accade a coloro, che a quella
« guisa ammaestrano e sono ammaestrati. Poiché intorno alla
« mente e al core di coloro che non s' iniziano con purità ,
« ingombrano per natura folti cespugli con tenaci radici , che
« impediscono ogni modestia e mansuetudine , e inombrano il
« ragionare , in apparenza e solo da fuori accresciuto ; e in
« quel prunaio cacciansi malizie d'ogni genere, che con ri-
« goglio fanno impedimento , e non permettono veder la ra-
ce gione » (4).
Ma poi meco stesso considerai, che se alcuni poteano abu-
sare delle teosofiche meditazioni , altri se ne poteano giovare ,
e a questi , ancorché pochissimi , conveniva aver più rispetto
che a quelli : da pochi il profitto potersi estendere a molti ; e
non potersi celare una parte di naturai verità ad un mondo a
cui già fu predicato il Vangelo : in una età in cui non si può
più dire quello che disse Platone : « È difficile trovare l' Opifice e
(1) Ep. ad Hipparch,
27
il Padre del mondo; e trovatolo, illecito predicarlo al volgo « (1):
dopo la luce venuta di cielo rivelatrice degli arcani della fede
essere passato già il tempo degli arcani della scienza , e i mi-
steri divini aver tolto ogni luogo agli umani. Se la pienezza
della cristiana sapienza avvalorò gl'ingegni umani, e gli in-
camminò a più alte speculazioni , sarebbe sconvenevole non con-
fidare che la stessa luce le renda agli uomini non solo innocue ,
ma vantaggiose: rimanere ciò non ostante molte cose arcane da
sé medesime, e comparire alle umane menti soltanto circondale
da un tabernacolo impenetrabile ed augusto dì nubi. Finalmente
alcune intime e segrete della divinità, sebbene accessibili per
grazia e in quella misura nella quale , secondo il voler di Dio,
sono comunicate, avere tal natura , che né chi n' é in possesso
prova alcuna voglia di propalarle, né gli altri, dico i buoni,
non sentono in sé stessi curiosità di conoscerle d' alcuna sorta,
anzi ripugnando al cenno che loro ne venisse fatto , e anche
lamentandosene, per un certo riverenzial timore e misterioso
turbamento da cui sono assaliti , come da inusitata e molesta
luce si sottraggono e ritirano in se medesimi , amanti e soddis-
fatti pienamente di quella verità proporzionata al loro sguardo
che già possedono. Onde sia pe' misteri, da'quali necessariamente
è circondata quella natura che abita una luce inaccessibile , sia
perchè l' indole e l' essenza della verità tiene colla sua stessa
maestà a convenevole e varia distanza da sé le diverse classi
degli uomini, rimarrà sempre, checché possa investigare colla
mente e scrivere il filosofo, una porzione di verità del tutto
inarrivabile , ed un' altra naturalmente segretissima alla molti-
tudine : e questo solamente é queir arcano che conviene ai
tempi cristiani (').
(1) Tim. p. 28, D.
(*) Ci sia permesso di riferire qui le parole, onde S. Agostino esprimeva
questo stesso sentimento dell'illustre Autore: Vereor ne hoc aliquando a
tardioribus non possit intelligi: veruntamen dicam; sequatur qui potest ,
ne, non dicto, non sequatur et qui potest. — Enar. in Ps. XLIV, n. 5.
TEOSOFIA
PARTE PRIMA
ONTOLOGIA
'EffTiv Imszriy.-/) Tt5j ?i &£Ci)pst TÒ Sv ^ èv^ xal
tà TOUTw ÙTcdtp^^ovra xotS'aÙTÓ. Autvj Sé iartv
ARiST. Metaph, m (IV), 1.
IL
PROBLEMA DELL' ONTOLOGIA
LIBRO UNICO
che serve d^ Introduzione all'Ontolog^ia
11e.pì toùtwv «TtaKTWv oh jj-Óvov y^a.y.inòv tò eùitop^aat
T/)5 à),/i&£Ì5<5 , ccì/. oùok TÒ tìtaTtop/juat Tw ióyw
ARiST. Mctaph. II (III), I.
PROEMIO
34. La natura dà a gustare all'uomo un primo sorso di ve-
rità nell'essere ideale che lo informa; e in quel primo assaggio
egli s'innamora del dolcissimo sapore di cibo divino. Di che
scaturisce, come da prima sua fonte, l'amore della sapienza, che
si vuol per sé stessa , e quell' ardentissima bramosia di cono-
scere, che fa irrequieto il genere umano per cibarsi più copio-
samente del vital nutrimento assaporato a principio. Poiché se
quel nativo' sperimento del dolce della verità gliene mette il
gusto vivace, e, dirò cosi, l'appetito, non glielo sazia però.
Laonde tosto che conoscendo si sviluppa e si rende conscio di
sé medesimo , non solo quasi seco ricorda , che squisito e so-
stanzioso alimento di sua natura sia il vero, ma ancora s'ac-
corge del sommo difetto che ne patisce, e del sommo bisogno
che n'ha. E sente in pari tempo d'essere una potenza di co-
32
noscere e di poter conoscere quanto cade in quella forma di
verità che attualmente intuisce, ma che nulla ancora comprende,
e a tutto si estende.
3S. Ma l'uomo non aspira a puramente conoscere: vuole
amare ciò che conosce. Anzi non v'ha compiuta cognizione che
non sia affettuosa; l'amore perfeziona il conoscimento, e l'uo-
mo che conoscendo ama, trova nell'ente amato il bene, ter-
mine pieno di quell'atto di cui egli è potenza. Laonde si può
convenientemente definir l'uomo « Una potenza, l'ultimo atto
« della quale è congiungersi all'Essere senza limiti per conosci-
« mento amativo ». Questa tendenza, quest'istinto razionale e
morale, detto da S. Agostino il peso dell'uomo (1), move e
guida tutto il suo sviluppamento. Di che la ragione è , perchè
l'uomo, ne' primi suoi tentativi d'acquistare un conoscimento
scientifico, non si volge ad astratte speculazioni, né se n'ap-
paga, ov'allri gliele presenti , giudicandole vane ricerche e quasi
un sapere formato a tela di ragno. Che le astrazioni si possono
desiderare per la luce che danno a conoscere la realità , ma
sole non sono amabili né può acquietarvisi 1' umano desiderio.
L' uomo è realità , e vuol accrescere la realità propria , e non
può accrescerla colle pure astrazioni. Non é dunque maraviglia,
se tutte le prime filosofie , se le prime questioni che si propo-
sero gli uomini in tutte le nazioni, quando cominciarono a fi-
losofare, tendessero sempre a discoprire e conoscere la natura
degli enti reali; i quali si riducono principalmente e finalmente
a due: Dio, e l'uomo. Per questo fu sempre definita la Filo-
sofia (( la scienza delle cose divine ed umane » , ^èBÌav rf xtà
av^pconivcov 7rpxy[/.xrG3v s7TiaTÓ(.fjLcov (^). Né la scienza delle sole
umane bastava a sé stessa , che essendo l' uomo accidentale e
quasi effimero, non si può intendere senza ricorrere a un altro
ente, che contenga la sua ragione. Onde, secondo Aristotele,
la sapienza è « la cognizione delle prime ed altissime cause » (5).
(1) Pondiis meum, amor niem, eo feror quocumque feror. Conf. XIII, 9.
— Animus quippe, velut pondere , amore fertur quocumque fertur. Ep.
CLVII , 9.
(2) Lysid. Ep. ad Hipp. — Cf. Cic. QQ. Tuscul
(3) Metaph. 1, 2, 3.
33
Pure venne un tempo ^ nel quale i Filosofi, abbandonando
per un poco le realità , si sollevarono , quasi volessero abbrac-
ciare le nubi, alle pure idee^ e per gli ambigui e tortuosi calli
delle astrazioni si aggirarono; e non fu senza ragione e senza
necessità. Poiché propostisi sulle prime d'investigare: « che
(( cosa sia l' uomo , che l' anima , che questa scena dell' uni-
« verso su cui l' uomo apparisce e scompare , ond' abbia avuto
« origine tutto ciò, ove sia la causa, quale abbia natura, come
« tante cause seconde s'incatenino così ordinate tra loro alla pri-
« ma , e quale di tutto questo spettacolo sia il fine ultimo , e
u quale il fine dell'ente umano dotato d'intelletto e d'amore,
tt se questo fine lo tolga e frustri la morte , o ad esso conduca , »
tutte questioni che prossimamente riguardano le realità ; pro-
postisi, dico, d'investigar lutto questo, senz' ancor conoscerne
la difficoltà, quando confidavano di doverne trovare col pen-
siero il chiaro, si trovarono al buio e s'accorsero che per giun-
gere allo scioglimento di .queste questioni importantissime , do-
veano dare una giravolta, e prendere una via troppo più lunga,
che non aveano credulo a principio. Allora inventarono la Dia *
lettica e l'Ontologia, quasi macchine potenti a espugnare la ve-
rità d'ogni parte munita e come chiusa in una rocca; e ricor-
sero a molle astrazioni , quai potenti ausiliari e di diversi ordini,
che annodarono e formolarono in principi e teoremi , e ne tras-
sero una nova specie di cognizione formale e vota per sé stessa,
di cui il comune degli uomini non vede l'utilità e la necessità,
e però la dispregia. Ma a torto ; che i più astratti principi sono
l'unica via, benché lunga, che conduca la ragione umana al
più intimo conoscimento possibile delle nature reali , e princi-
palmente di quelle a cui tutte si riducono per importanza, Iddio
e l'uomo. Il che mi convenne dire, non solo per giustificare
i filosofi dalle volgari accuse , quasi senza ragione divagassero
a bel diletto nel campo degli astratti e ambiziosamente vi an-
dasser giostrando , ma per giustificare altresì me medesimo, che
prima d'arrestarmi all'esposizione della Metafisica, che é la scienza
de' sommi reali , ho dimorato gran tempo nelle ricerche ideolo-
giche e logiche, e tuttavia al discorso di Dio e del Mondo mi
trovo obbligato di premettere un'altra scienza piena d'astra-
zioni e di concetti formali, qual'è l'Ontologia.
Rosmini. Teosofia. ;}
3«i
CAPITOLO I.
Relazioni dell' Ontologia colla Teologia razionale ,
colla Cosmologia e coW Ideologia.
Articolo I.
L' Ontologia si dee distinguere dalla Teologia razionale
e a questa premettere.
36. La ragione per la quale l'Omologia si deve distinguere
dalla Teologia , benché l'una e l'altra traili dell'essere, e si deve
premettere a questa come pure alla Cosmologia , risulterà dal-
l'Ontologia stessa; e, a dir vero, non si può a pieno inten-
dere prima e in separato al tutto da questa scienza. Poiché è
appunto l'Ontologia quella che insegna e dimostra, che cosi
esige la natura della mente umana e la limitazione del suo pen-
siero: dimostra che, essendo l'Essere assoluto al di là della
natura finita, l'uomo, che appartiene a questa natura finita,
e che non ha altro mezzo che la percezione sua propria per
mettersi in comunicazione co' reali e direttamente conoscerli (la
quale non uscendo dalla natura non può apprendere l' essere
divino), l'uomo, dico, limitato a così scarso mezzo d'apprendere
il reale, non può, per una via diretta e positiva, arrivare alla
cognizione di Dio , nel quale solo si mantiene tutto 1' essere e
nella cognizione del quale e' è l' intera cognizione dell' essere.
Di che procede, che volendo l'uomo speculare intorno all'es-
sere infinito , qual' è nella sua verità , non può direttamente
fiirlo, ma è obbligato d'inferirlo, ascendendo per una scala di
logici e vóti concetti. E il somigliante deve fare ogni qualvolta
non gli è dato d'arrivare alla cognizione d'un altro reale qua-
lunque colla percezione ; convien che s' aiuti allora colle dedu-
zioni , 0 colle induzioni , o colle analogie , e così ne venga rac-
cogliendo queir imperfetta notizia , che gliene possono fornire
mezzi così indiretti. A procacciarsi dunque una dottrina scien-
tifica , qualunque sia , inforno nll' Essere infinito sussistente. Tuo-
3S
mo si vede di necessità obbligalo , di venir osservando a parte
a parte e raccozzando i caratteri , le proprietà , e le relazioni
interne e necessarie dell'essere, cavandole dagli enti reali finiti,
cbe percepisce , per via di astrazione e di altre operazioni appar-
tenenti ad un pensare formale e negativo, e di poi d'applicare
cosi molli{)lici principi ed astratte nozioni al concetto, pure
ideale , dell' essere infinito sussistente , uno e semplicissimo.
Certo se quest'ente infinito cadesse nell'umana percezione, sa-
rebbe immediatamente conosciuto per sé stesso , e però non sa- •
rebbe più necessario, a conoscerlo, darsi attorno per procac-
ciarsi prima cotante nozioni e principi astratti, e la « Teoria
dell'Essere in universale », che è l'Ontologia, potrebbe la-
sciarsi da banda , occupandosi unicamente e direttamente della
Teologia, cioè dell'Essere nella sua assolutezza e pienezza, che
darebbe ella sola una cognizione assai compiuta dell'Essere.
Ma poiché la sussistenza infinita , come dicevamo , è impercet-
tibile alla natura finita , qual è l' umana , accade , che come
coloro che sopprimendo l'Ontologia, pretendono che stia per
sé sola la Teologia, cadono in un falso mislicismo, essendo ob-
bligati di surrogare alle cognizioni percettive che loro mancano,
i sogni d' un' immaginazione fanatica ; così gli altri , che sop-
primendo la Teologia, come scienza separata, pretendono ridurla
all'Ontologia, cadono nel razionalismo (1): e per due opposte
vie gli uni e gli altri si ritrovano riuscire allo stesso punto,
nel Panteismo. Benché dunque queste due scienze, come né
pure la Cosmologia , non si possano trattare compiutamente senza
che le dottrine dell'una vengano in soccorso dell'altre due re-
ciprocamente e prestino alla mente inferenze, che alle dottrine
dell'altre due appartengono, onde non sono scienze indipendenti,
nondimeno l'intento dell'una non è quello dell'altra, e quelle dot-
trine, che si trovano ricomparire in ciascuna di esse, sebbene
comuni, diventano proprie di ciascuna delle tre scienze, perché
(1) Vittore Cousin divide la filosofìa in 1° Dottrina del Metodo, 2° Psico-
logia e H» Oatologia. (Fragments — Introduci, à l'histoire de la Pliilosophie
— Hisioìre de la Pliilosophie du XVIII'^^ siede). Una cosi fatta distribu-
zione delle scienze filosofiche, dove la Teologia è ridotta all'Ontologia, svela
il nizionalismo di questo filosofo: il suo Dio in tal modo di concepire, non
può essere, che un'astrazione, o un complesso d'astrazioni.
30
a ciascuna appartengono ad un titolo diverso, e per un intento
diverso.
Articolo II.
L'Ontologia è necessaria alla cognizione perfetta delVente finito,
onde si dee premettere alla Cosmologia.
37. Ma l'Ontologia non è solamente come una grande prefazione
alla Teologia razionale, è altresì necessaria per conoscere l' intima
natura, quant'è conoscibile all'uomo, dell'ente finito, benché que-
sto sia in parte percettibile. E questa necessità nasce da ragioni
assai diverse da quella, per la quale la mostrammo necessaria al-
l'umano pensiero per giungere a qualche scientifica notizia del-
l'Ente infinito. Primieramente l'ente finito i- percettibile solo in
parte , non avendo l'uomo altra percezione che dell'anima e della
materia, e la percezione della materia non è pura, ma involta ella
stessa nelle condizioni della materia, che i corpi esteriori non si
percepiscono dalla pura mente, ma col mezzo del senso e di stru-
menti viventi e organizzati in modo determinato e loro proprio ,
quali sono i sensori del corpo umano; e finalmente il reale finito
non è conoscibile per sé stesso , come lo è il reale infinito.
Laonde per tre ragioni la Teoria universale dell' Essere rendesi
necessaria a conoscere l'ente finito sussistente :
i.» Perché volendosi conoscere l'ente finito e sussistente nelle
sue condizioni essenziali, e non ne' puri suoi fenomeni, e perciò
nelle condizioni comuni a tutti gli enti finiti , e di più volendosi
conoscere la sua fecondità, ossia la moltiplicità de'modi e de' li-
miti entro a' quali può trovarsi : la percezione e l'esperienza, limi-
tata a pochissimi enti finiti singolari, ci abbandona ben presto in
questo cammino, e non ci resta che ricorrere a principi universali
e formali, da cui si argomenti quel che m.inca alla stessa espe-
rienza ;
2," Perché volendosi conoscere qual è l'ente finito in sé stesso,
e non quale ci vien dato, rispetto a' corpi esteriori, dalle perce-
zioni che abbiamo per mezzo degli organi sensori, che avendo una
determinata tessitura o forma ne compongono il fenomeno secondo
la propria forma : siamo obbligati a ricorrere al raziocinio per
37
isveslirlo di quella veste fenomenale che gli è posta attorno dagli
stessi sensori, strumenti della percezione sensitiva: e questo pure
ha bisogno di principi e nozioni universali ;
3." Perchè non essendo l'ente finito intelligibile per sé stesso,
non ha la stessa condizione, per riguardo alla mente che lo pensa,
dell'ente infinito^ il quale se si percepisse, si percepirebbe con lui
slesso senza bisogno d'altro lume, quando la percezione intellet-
tiva dell'ente finito e sensibile non si fa che coll'aiuto d'un lume
che non è lui, cioè coli' idea, il qual lume a lui congiungendosi lo
rende intelligibile per partecipazione. Essendo dunque la perce-
zione del reale finito mescolata con qualcos'altro, è uopo ricorrere
a principi e nozioni e raziocini per separare da esso quello che
non è suo, e così arrivare finalmente a conoscerlo in un modo in-
diretto qual è distinto, se non separato, da tutto il resto.
L'Ontologia dunque, cioè la teoria astratta dell'ente, è ugual-
mente necessaria alla Teologia che tratta del sussistente infinito, e
alla Cosmologia che tratta del sussistente finito : da quella e da
questa si distingue , e all'una e all'altra precede. Quest' è quello
che deve risultare con tutta evidenza nella stessa Ontologia, che si
difende e stabilisce da sé, poiché questo è proprio della scienza
teosofica, insistere in sé stessa e giustificarsi da sé medesima.
,^ Articolo III.
Differenza caratteristica tra l'Ideologia e r Ontologia,
riguardata la materia di queste due scienze.
38. Ciò non di meno essendo necessario a chi prende ad esporre
l'Ontologia , 0 a studiarla esposta , d'avere ben chiaro prima nella
mente il concetto della scienza e le determinazioni e i limiti , entro
i quali ella si contiene, crediamo dover accennare in che consista
la differenza specifica tra l'Ontologia e l'Ideologia, per riguardo
alla materia intorno a cui lavorano. Poiché anche l'Ideologia tutta
all'essere, come a suo principe e lume universale, si riferisce.
È dunque da considerare, che l' Ideologia tratta dell'origine e
della natura delle idee , e però dell'essere come pura ed assoluta
idea, nella quale tutte le altre si contengono. Ma ogni idea ci pre-
38
senta una duplicità, poiché in ogni idea si può considerare il con-
tenente e il contenuto : il contenente è quello che fa conoscere , e
che ritiene propriamente il nome d'idea o di concetto; il contenuto
nell'idea è la cosa conosciuta, e acquista il nome àU'ssenzn, omle
abbiamo definito l'essenza « ciò che si contiene in una idea »
{Ideol. G4C). Questa è dunque la differenza, che per riguardo alla
materia loro divide l'Ideologia dall'Ontologia, che quella versa
intorno alle idee, questa intorno alle essenze contenute nelle idee:
quella riconduce tutte le idee all'essere come o loro comune ri-
trovo e formale principio, questa riconduce pure tulle le essenze
all'essere come all'essenza prima in cui tutte sono e da cui contì-
nuamente derivano: quella descrive l'origine e la natura delle co-
gnizioni come cognizioni, e questa l'origine e la natura delle cose
conosciute.
Ora è ben manifesto, che la duplicità dell' idea ritorna alle due
forme dell'essere stesso , l'oggettiva e ideale , e la subiettiva e
reale; giacché anche nell'idea vola ed universale quell'essenza
indeterminala, che si conosce, non si dice per verità reale sempli-
cemente, perchè il reale non è nel suo allo, ma dicesi reale ^urtanlej
perchè in quell'essenza c'è virtualmente il reale; e il reale virtuale
appartiene al reale, non in se stesso, ma in quanto è puramente
contenuto nell'idea.
Pure dicendo, che l'Ontologia tratta delle essenze che nelle idee
si conoscono, non si vuol dire ch'ella tratti •drllrssore nella sola
forma reale. È l'Ontologia stessa quella che dimostrerà , che l'es-
sere, in quant'è reale, è così fattamente il principio dell'altre due
sue forme, che queste stesse sono per l'alto della realità, onde a
tutt'e tre le forme necessariamente la teoria dell'essere reale si di-
stende. Per questo le essenze, che sono il contenuto delle idee, al-
l'essere e a tulle le forme si estendono, di maniera che abbrac-
ciano la stessa idea contenente, la quale come contenuta diviene
anch'essa un'essenza. Né si potrebbe intendere a pieno la teoria
dell'essere reale, senza considerare altresì com'egli si virlualizzi
davanti alla mente e, da virtuale, che prima apparisce, poscia si
attualizzi. Ma tutto questo, come dicevamo, non può essere a pieno
dichiarato, se non nel corso stesso dell'esposizione della scienza
ontologica. B.isterà dunque ritenere per intanto, che la differenza
caralterislica tra l' Ideologia e l'Ontologia è questa , che l'una
59
tratta delle idee , l'altra poi delle essenze contenute nelle idee , e
per le idee conosciute.
Articolo IV.
Differenza caratteristica tra l'Ontologia e la Teologia razionale,
riguardata la materia di queste due scienze.
39. L'Ontologia poi e la Teologia hanno per loro comune ma-
teria l'essere, di maniera che si possono l'una e l'altra definire :
« Teoria dell'essere ». Qual è dunque la loro diCFerenza caratteri-
stica? 0 non ce n'è forse per riguardo alla loro materia?
La differenza caratteristica sta in questo, che l'Ontologia è la
« Teoria dell'essere comune », quando la Teologia è la « Teoria
dell'essere proprio » che è Dio stesso.
La (( teoria dell'essere comune » è quella che precede nel-
l'ordine della ment-e umana, la quale non può pensare il singo-
lare se non per mezzo dell'universale (4). L'Ontologo riceve dalla
ideologia l'essere indeterminato come luce della mente, e trova
nella sua essenza una specie di lacuna, cioè la virtualità. Questo
è come un punto oscuro, ch'egli vuole rischiarare, perchè ben
vede, che la teoria dell'essere non è compiuta , se rimane nel
concello dell' essere tanto vóto , che può rassomigliarsi a una
macchia lunare o solare cagionata da valle immensa , dove non
è luce ma ombra. E da principio lo speculatore non sa né pur
egli, se a lui sia possibile di diradare affatto quest'ombra: di ma-
niera che non islà in sua mano altro mezzo per farlo, o per ten-
tarlo, se non quello di rivolgersi agli enti finiti e in questi cer-
care quel pieno di realità , di cui difetta l' essere datogli a in-
tuire dalla natura Si mette dunque in via, e coU'opera del-
l'astrazione trae dagli enti finiti i concelti e le essenze più
(1) Questa priorità dell'essere comune , e posterità dell'essere proprio e
singolare fu riconosciuta generalmente anche da' filosofi Scolastici. S. Tom-
maso scrive : Communia absolute dieta, secundum ordinem intellectns nostri,
sunt priora quam propria, quia includuntur in intellectu propriorum, sed
non e converso. — S. I, XXXIII, III ad 1.
40
universali eh' egli possa trovare. Esamina queste essenze e i
loro nessi, e^ facendoli rientrare gli uni negli altri, lenta di per-
venire all'unità, cioè ad una prima essenza, in cui tulli si de-
vano ritrovare ed unificare, e discopre, che questo è l'essere
stesso che viene cosi arricchito , e il cui vóto viene empito.
Tulio questo lungo ragionamento conduce l'Ontologo a vedere,
come l'Essere possa manifestarsi in due modi, o sparso e legalo
in qualche modo al finito, o unito e unificalo nell'infinito; ma
questa possibilità di apparire ora legato col finito e distribuito
nella moltiplicilà di questo , ora indiviso nell'infinito e seco slesso
uno, il getta in una perplessità per l'apparente contraddizione.
Si dibalte dunque seco stesso per conciliare questa colai lotta,
che l'essere gli dimostra in sé slesso, e non arriva a conciliarla
se non uscendo dall'ordine del possibile, e riconoscendo, che se
le essenze finite possono essere mere possibilità di reale, l'es-
senza prima, in cui tutte le altre s'unificano, deve essere sus-
sistente, e così perviene a discopire Iddio fonte e ricettacolo di
tutte le essenze.
Egli è obbligato certamente per non lasciare il suo discorso
imperfetto di meditare sulle relazioni tra le essenze possibili e
l'essenza sussistente , e dimostrare la processione di quelle da
questa; ma con un tale argomento già è incominciata la Teo-
logia, che come abbiam detto non può dividersi con un taglio del
tutto reciso e netto da una compiuta Ontologia. Sebbene dunque
r Omologo abbia per iscopo suo proprio di dare la teoria del-
l'essere universale , in quant' è comune all' ente tanto finito
quanto infinito, e però consideri l'ente nella sua possibilità, ciò
non ostante egli s'avvede in ultimo, che la teoria dell'essere
comune dipende da un'altra teoria, cioè da quella dell'Essere
sussistente ed assoluto. Parla dunque anche di questo, usurpando
e a sé traendo una parte della Teologia , ma lo fa in servigio
deWessere comune, che non può essere altramente spiegato né
illustrato pienamente.
Lo scopo all' incontro e 1' unico oggetto della Teologia é di
dare, per quanto è possibile alla mente umana , la teoria del-
l'essere proprio ed assoluto cioè di Dio; e a tal fine le bisogna
necessariamente far uso di quegli stessi concelti ed essenze, che
nell'Ontologia furono illustrati , giovandosi della teoria dell' essere
kì
universale e comune per intendere la natura dell'Essere pieno,
proprio e compiuto, sussistente nelle sue tre forme.
Trovato dunque che l'Essere deve sussistere infinito ed asso-
luto , benché così non si percepisca dall' uomo , si cerca dal
Teologo come tutti que' concetti ed essenze universalissime, che
rOntologo ha discoperte ed illustrate, si riscontrino in Dio. Ed
allora quelle essenze contemplate dal Teologo in Dio , dove
hanno il loro fondamento e la loro vita , gli si mutano in
mano, quasi direi, divenendo tutte una sola con una mirabile
reciproca identificazione, e quest'unica essenza cessa d'esser
comune, universale, astratta, ma rimane propria, singolare,
sussistente. Da quest'una nondimeno , per una maniera teoso-
fica d'astrazione , la mente può avere di ritorno quelle es-
senze separate com'erano prima, rappresentanti, così divise,
le possibilità de' finiti, le quali nella suprema essenza non son
divise se non virtualmente e in un modo relativo alla mente e
ai finiti, dove si considerano Di quest'Essere dunque sussistente
tratta il Teologo come suo proprio ed unico scopo: a questo
essere ricorre 1' Ontologo per illustrare l'essere nella sua uni-
versalità, come comune a tulli gli enti che esister possono. Ma
ripetiamo, che la chiara e piena notizia di queste differenze tra
l'Ontologia e le scienze affini non si può raccogliere che dalla
esposizione della stessa scienza ontologica, come quella, nello
scopo della quale entra anco lo stabilire la differenza tra l' es-
sere oggetto suo, e l'essere oggetto sia dell'Ideologia, sia della
Teologia.
40. Vasto 0 piuttosto immenso è il campo , in cui s'esercita
rOntologo. Ma egli ha uno scopo unico, come dicevamo, ed è
quello di dare una teoria dell' essere nella sua universalità ,
senza fare ancora distinzione , se sia finito o infinito , di dare
cioè quelle proprietà e leggi dell' essere , che si avverano in
ogni ente tanto finito quanto infinito. Questo è il problema, ma
enunciato in un modo ancora astratto. Non si può accingersi
prudentemente a risolverlo, se non dopo averlo considerato nelle
diverse forme ch'egli va prendendo nella mente umana. Poiché
questa, considerandolo da diversi lati, s'avvisa facilmente di aver
incontrati più problemi distinti, quando essi non sono che pro-
blemi parziali, i quali si rifondono in un solo problema più ampio.
42
Convien dunque, prima d'entrare in un lavoro così complicalo,
che noi ripassiamo queste diverse forme, e confrontandole e ridu-
cendole ad una sola, stabiliamo così colla maggior chiarezza pos-
sibile lo stato della questione, e in pari tempo ne esploriamo l'in-
tima natura e la difficoltà.
CAPITOLO II.
A qual grado di sviluppo si presenti alla mente umana il problema :
« Conciliare i modi apparenti dell'ente col concetto dell'essere »;
prima forma del problema ontologico.
kì. Sapendo noi già, benché in un modo imperfetto ed im-
plicito, che cosa sia l'Ontologia per la definizione: « la teoria
dell'ente nella sua possibilità w ; possiamo e ci giova primiera-
mente cercare « in che modo lo spirito umano nel suo progresso
intellettu;ile, e a quale stadio di questo progresso, s'abbatta nel
problema dell'Ontologia ». Con questa ricerca il detto problema
ci si offrirà da sé stesso nella sua forma primitiva.
Oltre di ciò il conoscere per qual bisogno intellettuale l'uomo
lo propose a sé stesso farà conoscere l'importanza d'un tale pro-
blema, apparendo necessario ad appagare quelle esigenze, che
successivamente si svolgono nell'intendimento {Sistem. 2-8); e
di più porgerà la ragione per la quale nelle diverse età del
genere umano s'andò cangiando lo stato della questione, e ri
comparve vestito di diverse forme ed espressioni, per le quali,
essendo sostanzialmente il medesimo, pareva sempre un altro.
42. Convien dunque, che noi percorriamo, giovandoci delle
notizie che ci somministrano l'Ideologia e la Psicologia, le di-
verse condizioni dell'ingegno umano nel suo progressivo sviluppo,
I. Prima d' ogni sviluppo è l'uomo avente in sé tutti i
germi del suo futuro sviluppamento, i quali sono:
A. La notizia dell'essere, onde sa abitualmente, che cosa
sia essere {Ideal. 598-472);
B 11 termine sentito dello spazio immisurato {Antropol.
161-174; Psicol. 554-559), primo elemento del sentimento fon-
damentale;
43
C. II termine sentito della materia del proprio corpo sita
nello spazio , secondo elemento del sentimento fondamentale
(Psicol. 534, 53o).
D. Il termine sentito dell' eccitamento medinnte i moti
intestini nella detta materia, terzo elemento del sentimento fon-
damentale ( Psicol. 536-540) ;
E. Il termine sentito dell'armonia organica del detto ec-
citamento , quarto elemento del sentimento fondamentale ( Psi-
col. 541-555);
F. Il sentimento proprio indiviso dai cinque accennati
termini, il primo ideale, gli altri quattro reali {Psicol. 656-
646), i quali da esso ricevono l'unità soggettiva;
G La percezione intellettiva fondamentale del sentimento
animale, die è il nesso dell'anima intellettiva col corpo ani-
malo, pel quale è costituito V Uomo come « ente razionale »
{Psicol. 264, 265).
II. Primo grado di sviluppo — la percezione acquisita de-
gli enti da sé diversi.
La nntura della percezione è quella di una operazione dello
spirito., che si limita ad un ente esterno più o meno complesso.
Quindi le percezioni distinguono i loro oggetti per forma , che
non può confondersi l'oggetto d'una percezione coli' oggetto di
un'altra percezione.
III. Secondo grado di sviluppo — il primo ordine di rifles-
sione.
Questo si rivolge sopra gli oggetti delle percezioni , e para-
gonandoli tende a stabilirne le diflerenze : la natura di questa
prima riflessione è dunque analitica.
Questa riflessione differenziatrice conduce l'uomo anche alla
percezione di sé stesso ; ma con ciò noi trasporta ad un grado
di sviluppo superiore a quello delle percezioni e del primo or-
dine delle riflessioni,
A questo grado pure possiamo riferire la separazione delle
idee dalle percezioni.
IV. Terzo grado di sviluppo — il secondo ordine di rifles-
sione.
44
Distinti gli oggetti percepiti e intuiti, l'uomo sente il biso-
gno di spiegarsene l'esistenza, non trovando in essi la loro ra-
gione sufficiente , e indi usando dell' integrazione giugno a una
causa prima. Fin qui perviene la cognizione popolare , l' indole
della quale fu da noi già descritta , e giova che il lettore ne
abbia presente la data descrizione {ì).
A questo grado pure appartiene la formazione di molti esseri
mentali.
V. Quarto grado di sviluppo — il terzo ordine di riflessione.
Quando 1' uomo ha conosciuto gli esseri finiti , e differenziati ,
e ha conosciuto altresì 1' esistenza della prima causa ; allora
egli incomincia a filosofare , mediante nove riflessioni , colle
quali considera ciò che già conosce in relazione coli' ente a
lui noto per natura, e quindi rileva le limitazioni delle cose, e
le loro similitudini ed analogie: egli allora distribuisce in classi
gli oggetti conosciuti ; e , attesoché si serve a far ciò dell' uso
de' segni — del linguaggio — che diventano per lui come vicari
delle cose stesse, egli facilmente confonde il reale col mentale;
gli esseri prodotti dalla propria mente e dalla propria fantasia
cogli esseri sussistenti.
VI. Quinto grado di sviluppo — il quarto ordine di rifles-
sione e gli ordini superiori.
Conosciuti e classificati in qualche modo gli enti , si sviluppa
nella mente umana il bisogno di ritrovare una ragione sufficiente
di tutto quello che egli sa. Quando egli non conosceva che il
finito ed il contingente, (e per conoscere il finito ed il contin-
gente doveva aver presente l'infinito e il necessario, e l'avea
neir idea dell' essere) gli si fece sentire il bisogno d' una ra-
gione , che ne spiegasse 1' esistenza reale , e così salì alla pri-
ma causa reale. Ma egli non cercava ancora che una causa
efficiente , da cui pendesse 1' universo esteriore e che gliene spie-
gasse la sussistenza. Ora poi non si contenta più di una ragione,
che ne spieghi la sussistenza , domanda una ragione , che gli
spieghi tutti i diversi modi, ne' quali l'ente gli apparisce, ossia
« come questi si conciliino col concetto dell'essere », questo è
(i) N. Saggio, n. 1264-1273.
45
appunto il problema ontologico che la mente incontra , come
chi cammina incontra un sasso, in cui urtando è obbligato di
alzare il piede, per usare un'espressione del Manzoni.
ha. (( Conciliare i diversi modi {\) , ne'qunli l' ente apparisce
all'uomo, col concetto dell'essere » è dunque la prima forma
del problema ontologico.
La conciliazione de' modi, nei quali l'ente apparisce all' uomo,
col concetto dell' essere , è voluta dall' intendimento per questo
che il concetto dell'essere da una parte è il punto evidente, e
dall'altra implica due cose:
1° Che niente ci sia d'intelligibile fuori dell'essere;
2° Che tutto ci sia nell'essere.
Ma da una parte l'essere è uno e semplicissimo, d'altra parte
i modi, ne'quali apparisce all'uomo, sono molliplici : nasce dun-
que una difficoltà a spiegare come questi modi vari e molli-
plici possano giacere tutti nell'essere uno e semplicissimo, e iden-
tificarsi con questo.
Ma se si perviene a superare questa difficoltà e a mostrare ,
come que'modi, che appariscono, benché molti e vari, siano lo
slesso essere , allora ogni esitazione dell' intendimento è rimossa,
e questo si riposa soddisfatto nella verità, perchè i modi appa-
renti dell'essere sono ridotti aW e{>idenza , oltre alla quale non
può andare e desiderare T intendimento. Devesi dunque dall' On-
tologo dimostrare , che lutti i modi hanno la loro ragione nel
concetto dell'essere stesso, il qual concetto non ha bisogno di
altra ragione , perchè è evidentemente necessario.
Ridurre dunque tulli i modi dell'essere all'essere slesso è
la slessa cosa che trovare VuUima ragione di questi modi, il
che è l'ufficio e l'intento della Filosofia.
(1) Prendiamo qui la parola modi in senso larghissimo : non intendiamo
esclusivamente per essa le limitazioni, che l'ente si presenta ora illimitato or
limitalo alla mente, e si dee conciliare l'uno e l'altro modo col concetto del-
l'ente : né pure intendiamo per modi i soggettivi, che ce n'hanno di sogget-
tivi, ossia relativi alla limitata natura dell'uomo, e di oggettivi. Molto meno
si creda che il concetto di « modi apparenti all'uomo » tragga seco necessa-
riamente qualche cosa di falso , essendovi de' modi veraci , ne'quali l'ente
apparisce all'uomo , ed ogni errore viene dall'uomo stesso e non dalla na-
tura, come dimostra la Logica (244. sgg.).
46
CAPITOLO III.
Seconda forma del problema dell' Ontologia :
a Trovare la ragione sufficiente delle diverse manifestazioni deWente » .
Articolo I.
Perchè V intendimento esiga una ragione sufficiente
delle diverse manifestazioni dell' ente.
Uh. Perchè dunque rintcndimento sente il bisogno di « conci-
liare i diversi modi apparenti , ossia le diverse manifestazioni
dell'ente col concetto dell'essere? » ossia sott' altra forma:
perchè sente il bisogno di « trovare una ragione sufficiente ul-
tima ed evidente che gli spieghi le diverse manifestazioni del-
l'ente? ».
Due sono le esigenze dell'intendimento umano, l'una è quella
di sapere, l'altra quella che in ciò, che egli sa, non cada al-
cuna contraddizione. Da queste due esigenze risulta quella d'a-
vere una ragione sufficiente di tutto ciò , che l' uomo conosce.
kli. E in quanto alla prima esigenza— che è quella di sapere —
siccome ogni potenza inclina al proprio atto, che la perfeziona,
così appare manifesto che anche l'intendimento umano tende a
sapere, essendo questo il suo atto e la sua perfezione.
46. Quanto poi all'esigenza che, in ciò che sa^ non cada con-
traddizione, questa nasce dalla natura dell'oggetto proprio dell'in-
tendimento, il quale è l'essere — principio di cognizione — . Ora
l'essere è per sua propria essenza immune da ogni contraddizione;
tutto ciò dunque, che avesse in sé una contraddizione, non sa-
rebbe più essere; e per ciò non potrebbe essere oggetto della
intelligenza, non costituirebbe un sapere, che è la brama es-
senziale dell'essere intellettivo, e però sua assoluta esigenza.
47. Ora quando si presenta un oggetto, che non ha in so
la ragione sufficiente di sé stesso , non si può concepire che
una di queste tre disposizioni dell'intendimento:
ì' 0 che l'intendimento si contenti di dire, che quella ra-
47
gione non esiste; e in tal caso gli rimane un oggetto viziato
di contraddizione , perchè esistere e non esserci la ragione di
esistere é contraddizione: il che si oppone alla seconda delle ac-
cennate supreme esigenze;
2° 0 che l'intendimento si contenti di dire , che la ragione
ci sarà , ma non gli cale conoscerla : il che si oppone alla prima
di quelle esigenze;
3" 0 finalmente, ch'egli si mostri bramoso e sollecito di rin-
venire quella ragione, credendo fermamente che ci deva essere ;
ed allora con ciò stesso egli s'è già proposto il problema del-
l' Ontologia.
48. L'esperienza dimostra, che l' intendimento umano appa-
lesa sempre questa terza disposizione; dunque egli ha il biso-
gno di rendersi una ragione sufficiente di tutto ciò che conosce
e che non ha la ragione in se slesso. Il bisogno dunque, che
ha l'intendimento di aver sempre delle cose da lui conosciute
una ragione sufficiente che gliele spieghi , è un risultato delle
due esigenze sopra indicate.
Articolo II.
La ragione sufficiente delle manifestazioni dell'ente non può
appagare l' intendimento , se non è una , necessaria ,
oggettiva.
h9. Già abbiamo accennato, che la ragione sufficiente delle
diverse manifestazioni dell'ente non può essere che il concetto
stesso dell'essere, sede della necessità e dell'evidenza ( 'iS ).
Ma prescindendo ora da questo, consideriamo in astratto, come
convenga che sia una ragion sufficiente , acciocché pienamente
appaghi r intendimento nella sua esigenza. Poiché questa ri-
cerca conduccndoci a conoscere le condizioni della ragion suffi-
ciente, che cerca l'Ontologia, ne renderà più chiaro il problema.
E facciamo questo gradatamente, proponendoci alcune questioni:
50. l' Questione. — La ragion sufficiente può ella essere con-
tingente, 0 deve esser necessaria?
Risposta. — Diverse ragioni sufficienti si possono distinguere,
/48
le quali formino una serie , che s'eleva dal basso all'alto , delle
quali ciascuna più elevata è ragione rispetto all'altre inferiori ,
e l'ultima è l'unica ragione di tutte.
Ora la domanda non può riguardare che la ragione eleva-
tissima, ultima di tutte, che non ne ha altra sopra di sé,
l'unica per ciò sufficiente per sé a sé stessa. Laonde è mani-
festo, che le ragioni non ultime possono essere contingenti,
come d'un effetto contingente la ragion prossima è nella causa
pure contingente. Ma l" ultima e assoluta ragione, in cui si
queli r intendimento , conviene che sia necessaria, non contin-
gente ; poiché se fosse contingente, potendo essere e non es-
sere, richiederebbe un'altra ragione che spiegasse alla mente,
perché ella sia, altramente resterebbe un'entità indeterminata
tra l'esistere e il non esistere: nulla poi esiste d' indeterminato ,
essendo esclusa dal concetto dell'ente sussistente l' indetermi-
nazione.
Se dunque le ragioni sono molte, e la prima e prossima
é contingente , l' intendimento ricorre alla seconda , e se trova
contingente anche questa, l'esclude collo stesso ragionamento,
e ne cerca un'altra; e così conviene, che o si perda in una
progressione di ragioni all'infinito senza trovare l'ultima, o che
si fermi in un' ultima necessaria.
51. Questa sembra dimostrazione evidente, che l'ultima ra-
gion delle cose deve essere necessaria. Ma si oppone una grave
difficoltà: « L'ultima ragione del mondo, si dice, non può essere
r essenza divina , perocché se fosse la divina essenza , il mondo
sarebbe eterno com' essa e necessario. Dunque la ragione suf-
ficiente ultima delle cose non può essere che 1' atto libero del
divino volere. E se è libero , deve essere contingente , cioè tale
che potea farsi e non farsi ».
Ma noi rispondiamo, che l'atto del divino volere, quan-
tunque libero, non è distinto realmente dalla divina essenza,
la quale é un atto solo e semplicissimo , e che non viene punto
da ciò, che il mondo debba essere eterno, benché l'atto che
lo crea sia eterno; giacché il mondo non ha già la natura di
quell'atto, ma riceve quella natura temporanea, che dall'atto
della volontà divina gli viene determinata.
E quantunque l'atto divino sia libero , non ne viene già che
49
egli si possa chiamare contingente; poiché non è necessario,
che la libertà di quell'atto consista nella perfetla indifferenza, e
sia in tal modo bilaterale, come è necessario che sia nel pre-
sente stato dell'uomo l'atto della sua volontà per meritare o de-
meritare. Giacché l'jitto creativo non appartiene punto alla
classe degli atli meritori. L'alto creativo è libero di quella li-
bertà, che è definita da S. Giovanni Damasceno, cujus prmcipium
et causam coiUinet is qui agii (1), di maniera che egli non ha
alcuna causa, o ragione, o motivo fuori di Dio stesso, il quale
per ciò si determina da sé liberissimamente. Dico si determina
per esprimere l'attività sua immanente, non per indicare al-
cun alto transeunte , che abbia cominciato , di maniera che pas-
sasse Iddio dal non essere all'essere determinalo a creare. Così
dicono i Teologi , che Iddio vuole la propria bontà, ed ama se
stesso con un allo di libera volontà , perchè quest'atto non ha
né la causa nò la ragione fuori di lui slesso (2). Ma la libertà
dell'atto creativo è diversa da quella , con cui Iddio vuole ed
ama sé stesso, benché sia simile ed appartenga, siccome quella,
all'ordine morale. Perocché l'atto, con cui Dio ama se stesso,
ha per oggetto la sua propria essenziale amabilità, la quale non
sarebbe se non fosse l'atto dell'amore , che è il suo correlativo.
Onde non si può intendere Iddio , senza intendere che ama se
stesso. All'incontro non appartenendo le creature alla natura di-
vina, non v'ha in queste alcuna ragione, perche debbano essere
da Dio amate e volute; e però quando le vuole, la causa o il
motivo che lo determina non è l'oggetto immediato di questa
sua volizione , sicché il concetto di creatura non presenta alcuna
necessità di esistere , nò alcuna necessità che determini Iddio
a fiirla esistere. l'ila vi ha una ragione in Dio stesso , per la
quale ei si determina a creare; e questa ragione é di novo
l'amore di se stesso , il quale si ama anche nelle creature. Quindi
(1) L. II, de Orlodoxa fide, C. XXIV. Tutto il luogo è cosi : Spante id fieri
dicitur, cuius principium et causam coniinei is qui agit, ma il contesto di-
mostra, che il Santo Dottore intende definire il libero, e in questo senso ci-
tano questo passo i teologi.
(2) S. Th. De Potenlia, Q. X, a. II ad 5. Deus sua voluntate libere amai
seipsum , licet de necessitate amet seipsum. — Scotus, Quodlib. VI. Vo-
luntas divina necessario vuU bonitatem suam, et tamen in volendo est libera.
Rosmini. Teosofia. 4
50
la divina sapienza , come meglio altrove esporremo , trova esser
cosa conveniente la creazione, e questa semplice convenienza
basta a far sì, che l'Essere perfettissimo vi si determini. Ma
non si deve confondere questa necessità di convenienza con
quella necessità che nasce dalla forma reale dell' Essere ,
e che necessità fisica si suol chiamare. La necessità di conve-
nienza è una necessità morale : cioè veniente dall' Essere sotto
la sua forma morale : e la necessità morale non sempre in-
duce r effetto che ella prescrive; ma lo induce solo nell'Essere
perfettissimo, e non negli esseri imperfetti (a molli de' quali
rimane perciò la libertà bilaterale), perchè l'Essere perfettis-
simo è insieme moralissimo, cioè ha compiuta in sé ogni esi-
genza morale.
52. il.'"' Questione. — La ragion sufficiente deve essere un ideale
0 un reale?
Risposta. — Egli è chiaro prima di lutto, che non può essere un
mero reale , perchè la parola ragione indica qualche cosa che
appartiene all'intendimento; e all' intendimento non appartengono
i puri reali, ma vi appartengono i reali associati alle loro idee,
che li fanno conoscere.
Ciò premesso, diciamo che la ragion sufficiente è sempre una
notizia. Ma dovrà ella essere una notizia meramente ideale, o
potrà essere anche una notizia di cosa reale, o potrebb'essere
reale la stessa notizia? Ben inteso che trattandosi di ragione ul-
tima (a cui solo spelta la denominazione di ragione per sé),
sì parla di notizia d'un reale necessario — Iddio.
A prima giunta sembrerebbe, che la ragione ultima talora
fosse un'idea, e talora fosse anco la notizia del reale necessa-
rio. Perocché si può cercare la ragione ultima tanto di ciò che
si conosce nell'ordine ideale, quanto di ciò che si conosce nel-
l'ordine reale; e nel primo caso la ragione ultima è certamente
un'idea , nel secondo egli pare che non possa essere una sem-
plice idea, ma anzi debba essere la notizia del reale necessario.
Noi scioglieremo questa questione così:
Vi ha un ordine d'idee, e un ordine di cose reali, di cui si
può cercare la ragione ultima.
Che v'abbiano dell'idee, di cui si possa cercare la ragione,
apparisce da questo che quantunque le idee, prese nel loro fondo.
51
siano necessarie ed eterne; ciò non ostante ove si tratti di idee li-
mitate, come sono le specifiche e le generiche, rimane a spiegare
la loro limitazione, la quale procede sempre, se ben si consi-
dera, dalla relazione che hanno con un reale contingente (i).
Quindi nel concetto di un' idea limitala non si contiene la ra-
gione della possibilità della sua limitazione, e questa possibilità
bassi a cercare altrove. Or egli è chiaro , che la ragione delle
possibili limitazioni delle idee si deve trovare nella natura
dell'idea prima, universale, che si lascia così limitare relativa-
mente allo spirilo che la intuisce. Quindi l'ultima ragione suf-
ficiente nell'ordine ideale è sempre l'idea prima.
Venendo alT ordine delle cose reali, queste hanno manifesta-
mente la ragione della loro realità nella causa reale che le pro-
dusse, e per ciò la notizia di un reale — d'Iddio creante — si è la
loro causa sufficiente. Ma questa causa è ella ultima? Se si dice,
che Iddio è la causa sufficiente del mondo, certamente si no-
mina la causa ultima: poiché nominandosi l'Essere supremo; si
nomina 'Ente assoluto, che è ad un tempo pienamente reale,
ideale e morale. Ma ciò non toglie che si possa poi domandare
qual sia la ragion sufficiente nell'Essere divino. Questa ragione
non può certo essere fuori di Dio : ma ella può bensì trovarsi
nella divina oggettività, come quella che , essendo l'intelligibi-
lità di Dio stesso, ne mostra all'intendimento la sua necessità,
e, più addentro investigando, come altresì egli debba essere per
sua costituzione uno e trino. Onde in questo senso l'idea — ma
l'idea nella sua perfezione qual è in Dio — torna di novo ad
essere la ragione prima universale di ogni reale non meno che
di ogni ideale, come del pari di ogni morale.
Apparisce dunque chiaro, come il principio della ragion suf-
ficiente si manifesti nell'uomo, e come una delle supreme esi-
genze dell' umano intendimento sia quella di cercare una ra-
gione sufficiente di tutte le cose, che egli conosce per via di
predicazione: il che è quanto dire, di giungere ad intuire colla
mente una qualche essenza , che contenga in sé tutto ciò che
egli predica degli enti, e questa non possa essere per l'uomo
che l'essere ideale.
(1) Fu dimostrato nel Rinnovamento, Uh. Ili, C. LII, IJII.
52
CAPITOLO IV.
Terza forma del problema dell'Ontologia : a Tromre un' equazione
tra la cognizione inluitiva e quella di predicazione ».
53. Ma di novo che cosa vuol dire: « avere una ragione suf-
ficiente 0 non averla? )> Che quantunque tulli gli uomini arrivati
al competente grado di sviluppo sentano il bisogno della ragion
sufficienle , nondimeno pochi ne hanno una cognizione riflessa,
e sanno ben definirla.
Conviene dunque avvertire , che la cognizione umana delle
cose è duplice, l'unaòla notizia deWesscnza , l'altra è quella,
che si ha per via di predicazione: alle quali due cognizioni ri-
spondono le due forme dell'essere ideale od oggettiva, e reale;
perocché nell'idea o nell'oggettività si conoscono gli enti nella
loro essenza, e colla cognizione di predicazione si conoscono gli
enti nella loro forma reale e nelle loro limitazioni ed apparte-
nenze. iMa la cognizione di predicazione dell'ente non può mai
starsene tutta sola , che esige l'ideale ed essenziale ; perocché
non si può asserire, che un ente sia nella sua forma reale, né si
può predicare di lui qualche cosa, se non si sappia in qualche
modo che enle egli è , o che cosa sia il predicato che gli si
attribuisce; il che è quanto dire, se non si abbia l'idea di lui,
0 del suo predicato, non si abbia notizia della sua essenza o di
quella del suo predicalo.
54. Ma l'ente reale, e lutto ciò che si predica di un ente
qualunque, vicn egli sempre conosciuto lotalraenle nella sua es-
senza? Voglio dire: il tipo ideale dell'ente abbraccia egli tutta
intera l'intelligibilità dell'ente reale .«^ Se nell'essenza non si con-
tiene tulio ciò che si riscontra nel detto ente , in tal caso l'es-
senza non è sufficienle a farcelo pienamente conoscere. Ora
accade ben sovente appunto così, che nell'ente conosciuto per
via di predicazione siano più cose che non sono nell'essenza di
lui conosciuta da noi nella sua idea. Or viene il tempo, in cui
l'intendimento colla rifiossione si accorge di ciò; e allora, con-
scio che la sua cognizione essenziale dell'ente è manchevole e
non adegua l'ente stesso e quanto di lui si predicò , sente il
55
bisogno di perfezionarla, per l'esigenza di sapere compiutamente
che abbiamo sopra indicata. La ragione di ciò si è, che la cogni-
zione di predicazione è soggettiva e relativa a noi ; e la sola
cognizione ideale od essenziale è oggettiva ed assoluta. La co-
gnizione soggettiva consiste in una cotale disposizione di noi
stessi affermanti o neganti, che non illumina l'oggetto affermato
0 negato, il quale ritiene quella luce che ha dall'idea né più
né meno, sì sotto l'affermazione nostra, che sotto la negazione.
Per ciò, se noi per via di predicazione conosciamo qualche cosa
di più che non si contiene nell'essenza della cosa che conosciamo
nell'idea, ci accorgiamo che la nostra cognizione ideale od es-
senziale è imperfetta, perchè non adegua la nostra cognizione di
predicazione.
Quindi si manifesta l'esigenza dell'intendimento, che gli sia
completata la cognizione ideale ed essenziale, e pareggiata a
quella di predicazione , sicché egli possa trovare nelle essenze
conosciute tutto ciò che si predica di un ente. Poiché senza di
questo, ciò che si predica gli rimane oscuro, ed è come predi-
care un quid ignoto. Dove appunto si manifesta il bisogno che
l'uomo sente di cercare di tutte le cose la ragione sufficiente (1).
(1) Le diverse forme del problema dell'Ontologia si sono sempre presentate
alle meni! de'lilosoli , ma non nettamente. A ragion d'esempio , quando lo
Schelling diceva, che « bisognava fare col pensiero rinascere , per cosi dire,
la natura e seguirla dalla sua origine in lutto il suo svolgimento »_, e defi-
niva la Filosofia « l'arte di conformare tutte le nostre rappresentazioni a
un'idea assoluta, e di produrre a priori, dalle profondità del nostro spirito,
il sistema universale » (Michelet, Geschichtc der letztenSy steme, t. II, p. dlQ),
egli travedeva il prohloma dell' Ontologia sotto la forma d'equazione tra la
scienza d' intuizione e quella d'alTermazione , ma non l'esprimeva retta-
mente.
S4
CAPITOLO V.
Quarta forma del problema dcW Ontologia: « Conciliare le antinomie
che appariscono nel pensiero umano, n
Articolo I.
Come ogni guai volta non si trova l'equazione tra la cognizione
intuitiva e quella di predicazione, rimane un antinomia nella
scienza.
55. Abbiamo dello che il bisogno di Irovare una ragione suf-
ficiente dei modi apparenti dell'ente nasce da questo, che, fino a
tanto che una tale ragione non s'è trovata, c'è uno squilibrio tra
la scienza intuitiva delie essenze e quella di predicazione; il quale
squilibrio è per sua natura molesto all'intelligenza. E !e è mo-
lesto, perchè l'intelligenza ripugna alla contraddizione, onde fino
a tanto che le pare di trovare un'antinomia nel suo sapere, le
manca la quiete. Ora che in quello squilibrio rimanga un'anti-
nomia, si può raccogliere considerando la cosa da più lati.
Primieramente è un'antinomia il porre che una cosa sussista
senza una ragion sufficiente^ poiché la ragion sufficiente è il
principio d'ogni esistenza: onde dove non c'è il principio suo,
non ci può essere resistenza; negando il principio a cui un'esi-
stenza s'appoggia come a sua condizione, si nega lei stessa; e
però ammettere un'esistenza senza una ragion sufficiente è lo
slesso che alTermare e negare nello stesso tempo l'esistenza me-
desima. La ragione poi delTesistenza non è sufficiente, come di-
cevamo, se non e necessaria o almeno eterna; e ciò che è ne-
cessario od eterno non può appartenere che a qualche essenza,
che le sole essenze sono tali.
In secondo luogo l'essenza e la sussistenza sono forme primi-
tive dell'ente, non essendo la sussistenza altro che la realizza-
zione dell'essenza. Essendo dunque Tente identico e diverse le
forme, vi avrebbe un'antinomia tra il concello dell'essere e il
porre una realiti^ priva di essenza; che il concetto dell'essere
importa appunto che" quella formi non sia, non possa essere
ss
senza questa. Ma molte altre antinomie s'incontrano Ira l'es-
sere e le sue manifestazioni ; e l'Ontologia dee raccoglierle
tutte con diligenza, e dimostrare che esse non sono che appa-
renti, che tutte si conciliano. Tale è l'oggetto della speculazione
ontologica.
oC. Una di questo, antinomie apparenti, a ragion d'esempio, è
quella che viene dal numero. Il concetto dell'ente è d'una cosa
unica^ e i sembianti dell'ente sono molti. Come si concilia l'unità
dell'ente co' molti suoi sembianti, i quali presentano alla mente
non soltanto attualità accidentali, ma innumerevoli enti distinti
tra loio?
Quest'antinomia tra l'ente uno e i molti enti apparisce ancora
più chiara , considerando quelle che noi chiameremo passioni
dialetliche dell'ente.
57. Gli antichi hanno parlalo delle passioni dell'ente, ma in
questa espressione avvi un equivoco dannoso, perchè sembra che
l'ente possa patire, o che. egli sia un unico suhietto reale di
tutte le sue manifestazioni o sembianti. Per evitare questo equi-
voco adopereremo l'espressione di passioni diaìeltiche per indi-
care che, quantunque sembri che l'ente sia il subietto di tutte
le entità che in vari modi si presentano al nostro intendimento,
tuttavia l'ente, che è subietto di tutto ciò, altro non è che
quello che nella mente si concepisco come inizio o ragione di
tutte le cose, e che precede le cose stesse, né punto né poco
fei cangia ne' subietti particolari, o siano questi reali contingenti
0 dialettici anch'essi.
58. Dichiariamo dunque che cosa siano le passioni dialettiche
dell'ente, e come anche la loro considerazione somministri alla
mente di novo il problema dell'Ontologia.
Il più grande tra' filosofi della nostra nazione, sono già sei
secoli, scriveva così :
« Come nelle dimostrazioni , così pure nel ricercare la quid-
« dita di checchessia, è necessario ridursi ad alcuni principi noti
« all' intelletto per sé stessi: altramente nell'una e nell'altra
« operazione ce n'andremmo all'infinito, e così perirebbe ogni
« scienza e cognizione delle cose « -- non trovandosi mai l'ultimo
termine da cui penderebbero lutti gli altri. — «Ora ciò che per
«PRIMO l'intelletto concepisce QUA.SI NOTISSIMO, e in cui
56
« risolve TUTTE LE CONCEZIONI, è l'ENTE, come dice Avi-
« cenna in principio della Mclafmra (I). Quindi è d'uopo che
«tulle le altre concezioni dell' intelletto si abbiano per via di
« addizione all'ente » (i).
Secondo questa evidentissima dottrina di S. Tommaso, tutte
le concezioni della umana mente altro non sono che la conce-
zione dell'ente puro con qualche addizione : di che |)rocede la
manifesta conseguenza che ninna cosa può cadere nella mente
umana, se prima questa non ha la notizia dell'ente; poiché ogni
altra notizia è questa notizia medesima dell'ente con qualche
aggiunta, né si può fare aggiunta a ciò che non é. E qual è di
ciò la ragione? La natura degli stessi oggetti della mente. Pe-
rocché non vi hanno altri oggetti possibili che l'ente^ e le giunte
che può ricevere l'ente.
L'ente dunque si presenta all'umana mente, o nella sui sem-
plicità e purezza, o con varie giunte od appendici.
Ora, queste varie giunte od apiTfndici, colle quali l'ente si fa
oggetto dell'intelligenza, sono appunto quelle che da noi si chia-
mano passioni dialettiche dell'ente.
59. Ma per aver ben chiaro il concetto che noi vogliamo signi-
ficare con questa locuzione, dobbiamo distinguere primieramente
ciò che si comprende nell'essenza dell'ente, da ciò che in quella
essenza non si comprende (3).
(1) Avicenna morì nel 1037. Onesta grande verità cosi chiara noi secolo
più barbaro di tutto il medio evo non sembra ella oscura ad alcune nienti
del nostro secolo?
(-2) S. Th. De Verii. Q. I, a. 1.
{'A) Noi escludiamo qui qualche cosa dall'essenza dell'ente, il die sembra
direttamente opposto a ciò che dico S. Tommaso in queste parole: Nnlla
cnim res natinw est , qua; sit extra csscntiam enlis uìiivcrsaUs. QQ. De
Verit. XXI, 1. — L'opposizione non è che apparente. S. Tommaso non
vuol dire, che ogni cosa sia nell'essenza dell'ente, ma che ogni cosa parte-
cipa di quell'essenza, perocché altrimenti non sarebbe ente, il che dichiara
altrove così: Enti non potest addi, aliqnid quasi extranea natura per ma-
dum, quo differcntia additur generi, vel accidens subiccto, quia QU/ELIBET
NATURA ESSENTIALtTER EST ENS. QO. De Verit. I, t. Che ogni na-
tura sia essenzialmente ente, vuol dire che l'essenza di ogni natura è l'ente;
ora Vcssenza è ciò che s'intuisce ncW idea, e quindi appartiene all'ente^ che
57
A ciò che entra nell'essenza dell'ente non ispelta il nome di
passione, poiché lutto ciò che entra in quell'esscnzi è l'ente
stesso^ e non una sua passione; ma la nostra mente colla rifles-
sione può nell'essenza stessa distinguere e separare più elementi;
il che ella fa per due modi :
1^ Naturalmente, come accade nclT intuito naturale, il quale
si limita all'essenza dell'ente sotto la sola forma ideale indeter-
minata, restando segregate le altre due forme di quella essenza
— la reale e la morale ;
2° Per mezzo d'atti del ragionamento, come quando considera
l'ente sotto singole relazioni speciali^ p. es., il considera come
verità e come bontà. — Ora, in queste distinzioni e separazioni
che nascono unicamente per via delio sguardo della mente, e che
nell'ente stesso non hanno luogo come vere s<^parazioni , si dee
distinguere la parie positiva . che s'immedesima coU'ente e che
non è sua passione, e la parie negatiut , cioè le limitazioni poste
all'ente, in quant'è veduto dalla mente ; e queste limitazioni sono
passioni dialelliche negative dell'ente.
A ciò poi che non entra nell'essenza dell'ente, come sono tutti i
reali contingenti, appartiene la denominazione di passioni dialet-
tiche positive dell'ente, perchè la mente considera queste aggiunte,
come atti ovvero termini degli alti dello stesso ente, da lui real-
menle separabili.
Ma ripetiamo che , qunndo noi chiamiamo i reali contingenti
passioni dell'ente, non vogliamo mica dire che l'ente in se slesso
patisca , quando anzi l'ente essenziale nel suo esser proprio non
soggiace a passione né mutazione alcuna. Noi dunque parliamo
dell'ente in quant'è nella mente nostra concepito ed unito da essa
colle sue giunte, come sono appunto gli enti contingenti, in
quella guisa che a suo luogo vedremo.
è l'oggetto intuilo nell'idea. Ma altro è l'essenza delle cose conlingenti, allro
la loro realità o sussistenza; questa non essendo la loro essenza, è fuori
dell'ente essenziale ; e non diconsi enti die f>er partecipazione , in quanto
che la mente concependole le unisce colla loro essenza e così le rende com-
pletamente enti. Laonde negli oggetti concepiti dalla mente umana niente è
fuori dell'essenza dell'ente , perchè altrimenti non si potrebbero concepire ,
ma le cose continge.nli in sé stesse, non come concepite , sono fuori dell'es-
senza dell'ente.
88
Tanto le passioìii dialettiche negative dell'ente, come le passioni
dialettiche positive hanno luogo in virtù dell'azione della mente, la
quale rispetto alle passioni negative considera separato quello che
non è separato nell'ente ; e rispetto alle passioni positive consi-
dera come inerente all'essenza dell'ente quello che realmente a
lui non è inerente. Ma come ciò avvenga ed avvenire possa senza
inganno lo vedremo fra poco,
CO. Qui conviene aggiungere ancora un'altra avvertenza. La
ricerca delle passioni dell'ente si può prendere in due sensi ; pe-
rocché alcuni hanno inleso con essa d' investigare, che cosa in
ogni ente determinato si esiga, acciocché egli abbia la natura di
ente ; e però dissero a ragion d'esempio, che Vìinità é una passione
dell'ente — pigliando pasmne [)er proprielà, — perché non si può
dare alcun ente, se non a condizione che sia uno. Non é in questo
senso, che noi prendiamo ad investigare le passioni dell'ente. Ma
noi cerchiamo le passioni dell'ente essenziale, cioè di quell'ente
che è concepito dalla mente a principio. Come dice l'Angelico nel
testo citato, tutte le nostre concezioni sono sempre; 1.° l'ente, e
2 » l'ente con qualche aggiunta. In tulle le nostre concezioni
adunque vi ha un elemento uguale, ed è l'ente; ma quest'ente
ricevendo diverse aggiunte si cangia in tutte le cose venendo va-
riamente determinato, e queste determinazioni del concetto primo
dell'ente, a cui appartiene in proprio la denominazione d' IDEA,
sono quelle che chiamiamo sue passioni dialettiche.
CI. Ora tanto quelle che abbiamo dette passioni dialettiche ne-
gative, quanto, e molto più , quelle che abbiamo dette passioni
dialettiche positive dell'ente presentano l'aspetto d'una contraddi-
zione col concetto dell'ente stesso.
Poiché se l'ente é così semplice per sua essenza, che non am-
mette in se medesimo distinzioni, come poi nascono le passioni
negative, cioè le distinzioni, che fa in esso la mente umana?
E in quanto alle passioni dialettiche positive, che abbiamo detto
essere le roalitù contingenti, se queste non entrano nell'essenza
dell'ente, che cosa sono d-unque? 0 si dovranno negare, o, se si
ammettono, si dovrà dire che sono enti; e se sono enti , hanno
dunque l'essenza di enti, e non sono fuori di questa essenza.
È sempre lo stesso problema, togliere via la contraddizione tra
i sembianti dell'ente e il concetto dell'ente.
b9
Articolo II.
Il problema ontologico si manifesta tanto riguartb al mondo ideale,
quanto riguardo al mondo reale, e al morale.
C2. Dappertullo il concetto dell'ente è circondato d'antinomie.
Infatti egli sembra, che l'ente soggiaccia alle passioni dialettiche
le più contrarie. Poiché egli è uno, ed è anche più; egli è neces-
sario, ed è anche contingente; egli è infinito, ed è anche finito;
egli è immutabile, e pure è anche mutabile ; e^Ii è eterno ed è
anche temporaneo; egli è semplice, ed egli è anche composto:
egli è massimo ed è anche minimo ecc. Ora come tutte queste
cose così contrarie possono essere egualmente passioni dell'ente?
Se Tenie non ha in sé contraddizione^ come dunque si spiega
l'antagonismo, che si combatte dovunque nella sfera del mondo
reale? Onde traggono origine le antinomie, a cui sembra obbe-
dire il pensiero e i concelti lutti?
65. 'Ma restringendoci vediamo brevemente come il problema
ontologico s'incontri egualmente nel mondo ideale, nel mondo
reale, e nel mondo morale.
L'uomo percepisce diversi enti , di cui si compone l'universo.
La percezione si fa per via di predicazione, Qual è la scienza ideale
ed essenziale^ che risponde nell'uomo a questa scienza di predica-
zione, che egli raccolse percependo gli enti sensibili? Ella giace
tutta nella essenza di questi enti. Ora in questa essenza trova forse
l'uomo tutto ciò che conobbe per via di predicazione, in modo che
tale cognizione essenziale comprenda adeguatamente tutto ciò che
egli predicò degli enti.? No certamente. In prima nelle semplici
essenze degli enti egli non trova la loro sussistenza, di maniera
che colle sole idee non potrebbe conoscere giammai se sussistes-
sero 0 non sussistessero; l'essenza, che egli intuisce, è la mede-
sima, sia che gli enti sussistano o non sussistano. Quindi sente il
bisogno che gli venga completala quella sua cognizione delle es-
senze così manchevole, trovando un'altra cognizione pure di es-
senze, la quale sia atta a largii conoscere anche la sussistenza di
quegli enti che sussistono, e la non sussistenza di quelli che non
sussistono. Questo è quanto dire in altre parole, che gli oggetti da
lui conosciuti sono contingenti, cioè che la loro essenza è tale che
co
può essere intuita dalla mente, senza che gli oggetti sussistano, (Ji
maniera che la mente, guardando tale essenza, vede che possono
sussistere e possono non sussistere. Quindi la mente, pel bisogno che
ha di una cognizione assoluta, tende a procacciarsi la cognizione di
qualche altra essenza , dall' intuizione della quale ella rilevi , se
quegli enti sussistono o non sussistono: e questa seconda essenza
dicesi la ragione sufficiente di quegli enti. Dove si vede qual sia
la natura della ragione sulficiente, la quale si è « una data es-
senza, nella quale s'intuisca ciò che contiene la cognizione acqui-
stata per via di predicazione ».
64. Quello che abbiamo detto rispetto alla sussistenza degli enti
visibili, noi dobbiam dirlo egualmente rispetto a tutto ciò che ve-
niamo a conoscere insieme colla sussistenza, per esempio la quan-
tit<à della materia, il numero degli enti, la loro situazione nello
spazio e nel tempo, le loro qualità accidentali e relazioni tra loro.
Nella semjdice idea di tali enti nulla di tutto ciò si contiene. Nel-
l'idea del cavallo, e cosi dicasi di ogni altro ente, non si contiene
mica ne il numero dei cavalli esistenti, né il luogo e il tempo dove
i cavalli esistenti Irovansi collocati, né le qualità e relazioni acci-
dentali tra loro: l'idea del cavallo non ci fa conoscere nulla di
tutto ciò, e però tutte queste appartenenze e attinenze del cavallo
diconsi contingenti. L'intendmiento adunque sente d'abbisognare
d'una ragione sufficiente che gli spieghi tutte queste cose, che
egli riscontra nella sua cognizione di predicazione , ma che gli
mancano affatto nella sua cognizione ideale delle essenze.
63. Riguardo al mondo delle idee si presenta il problema stesso.
Le idee o piuttosto i concetti dell'umana mente sono moltis-
simi e variatissimi ; eppure l' idea dell'essere è unica. Non si
vede il perché, essendo unica l'essenza dell'essere, ci si devano
presentare tante altre essenze; onde questa moltiplicità? qual é
il principio che le moltiplica e che le differenzia?
Oltre di ciò sopra le idee specifiche piene delle cose la ri-
flessione ci fa tanti lavori, e ne trae tanti enti mentali, i quali
|)ure producono all'intelligenza il bisogno di domandare, come
nel concetto dell'ente si possa rinvenire alcuna ragion suffi-
ciente di essi.
66. Nel mondo morale, nel quale l'essere prende la forma di
bene, ritornano le stesse antinomie sotl'altro aspetto, e T Intel-
61
ligenza addomanda assolulamcnte una conciliazione. Si presenta
infatti come un'antinomia , che v'abbia un bene assoluto ed
unico, e conlemporancamenlfì molli beni finiti; cbe v'abbia un
solo principio di tutte le cose , e questo ottimo, e insieme con
questo esista il male; cbe il principio del bene sia onnipotente,
e cbe ciò non ostante si scorga da per tutto una costantissima
lolla tra il bene e il male; cbe l'essenza del bene morale sia
una, e tuttavia sieno innunìerevoli le sue forme ed apparizioni, ecc.
Anche riguardo al mondo morale adunque la ragione sente il
bisogno di trovare nella slessa essenza dell'essere la ragione e
la conciliazione di queste apparenti contraddizioni.
CAPITOLO VI.
Quinta forma del problema ontologico: a Che cosa sia ente
e che cosa sia non ente ».
07. Se noi cerchiamo le Iraccie storiche del problema on Io-
logico, sembra cbe l'umana mente toccasse questo termine, prim.i
cbe altrove, in Italia. Nella Storia della FilosoMa , la più an-
tica data certa di questo problema espresso scientiricamenle è
(piella della Scola d'Elea; e il più gran monumento, cbe ci ri-
manga di questa dotlrina, è il Parmenide di Platone. In parie
almeno si sa, in che modo questa scola sciogliesse un tal pro-
blema. Ma ora resta a noi d'accennare il sommo merito filoso-
fico dell'averlo proposto, e la formola, nella quale lo ha proposto.
Questa formola può enunciarsi così :
a Che cosa sia, che si possa dire veramente ente »; ovvero:
« quali sono i caratteri e le condizioni indispensabili dell'enle ».
08. Proposta da Parmenide una cosi ardua questione , essa
travagliò in vano tutta l'antica filosofia.
E veramente tutta la filosofia antica , qualora si voglia par-
tirla secondo la soluzione data a questo gran problema , pre-
senta tre sistemi esclusivi, che si uniscono poi in un quarto, i
quali comprendono tutte le soluzioni possibili , benché indicate
in un modo generale.
I." Classe dì sislcmi. Quelli che, non trovando il modo di
62
conciliare Vimilà degli enti colla loro moltiplicilà, esclusero que-
sla seconda, e ammisero l'ente uno, il tò h di Parmenide.
li." Quelli che , disperati ugualmente della conciliazione ,
esclusero affatto l'uno, e posero i molti, ttoIXcì, come Leucippo
e Democrito.
III.'' Quelli che tentarono di conciliare l'uno coi molti ,
benché noi crediamo che non ci sieno riusciti , i quali ammi-
sero V ìv xal TToXXk; nel qual numero io credo si possa collo-
care Anassagora.
IV. " Finalmente quelli che ammettevano ad un lempo 1' h
xcti ~av, l'uno e lutto, i noXXx, i molti, e V bv xxl ttoXKcc, l'uno
e i molli, sotto diversi rispetti Sembra, che tra questi devano
collocarsi i miggiori filosofi, Platone e Aristotele.
69. Gli Alessandrini fecero di queste tre cose tre ipostasi e
quasi persone divine , appropriandosi il linguaggio del Cristia-
nesimo , e prelesero di trovare fondamento a questa dottrina
ne' più antichi. Cosi Plotino pretende di trovare le tracce di
quei tre principi ineguali , da riconoscersi nella divinità , nel
dialogo che Platone inscrisse il Parmenide (1), e ad alcuni de'
filosofi moderni, come a Rodolfo Cudworth, parve, che questa
sia veramente la chiave di quel dialogo (2).
CAPITOLO VII.
Si riassumono le formole, nelle quali fu presentato
il problema ontologico.
70. Riassumendo dunque le diverse formole nelle quali ab-
biamo posto sempre lo stesso problema dell'Ontologia, esse furono
le cinque seguenti :
(\) 0 -nxpx II),aT6)vi Ua.py.iviSii, àxpt^zazipov It/uv oioapii ktt «Xi-ó),wv tò ttjSwtov
sv, o y.xìpiùtipov iv y.yX ^tù-zipov ev -KoWy. iéywv, x«i rplrov tv xjcl Ttol^x' xaX aù/j.—
ftùvoi ouTw x«ì «ÙTós àcTt TaTs f'jaiat TKtj -rpiiìv , cioè , « Parmenide appresso
« Platone parlando più esattamente distingue il primo uno, che è più princi-
« palmento uno, il secondo uno, che chiama molti, finahnento il terzo, wno
(f e molti ». Plot. Ennead. V, 490, a.
(i) liane minime admonitionem Plotini sjireverim; quin ad obscarum
63
1° Trovare la conciliazione delle manifestazioni dell'enlc col
concetto dell'ente;
2° Trovare una ragione sufficiente delle diverse manifesta-
zioni dell'ente;
5° Trovare l'equazione tra la cognizione intuitiva e quella
di predicazione ;
4° Conciliare le antinomie che appariscono nel pensiero
umano;
l)° Che cosa sia ente e che cosa sia non ente.
7ì Queste cinque diverse forme esprimono lo stesso problema
sotto diversi aspetti, e l'una implica l'altra. Colla prima si pro-
pone di conciliar le manifestazioni dell'ente col concetto dell'ente,
cioè di mostrare che quelle non ripugnano al concetto semplice di
questo. Ora questo concetto, essendo universale, egli mostra di
dover abbracciare tutto ciò che è. Non si può dunque dimostrare
che le manifestazioni dell'ente non ripugnino al concetto semplice
e universale dell'ente, se non dimostrando che i diversi modi,
nei quali l'ente si manifesta , si contengono nell'unico concetto
dell'ente stesso. .Ma dimostrato che vi si contengono, è dimostrato
altresì che sono necessariamente possibili , perchè il concctlo
dell'ente è evidentemente necessario, e per ciò, tutto ciò che è in
esso, è necessario.
Trovata questa possibilità necessaria di que' modi nel concetto
dell'ente, è trovata di conseguente la loro ragione, cioè la ragione
ultima, necessaria ed evidente per la quale sono possibili. Il
proporsi dunque di cercare questa ragione, che è la seconda
forma del problema, è una stessa questione con quella di con-
ciliare i modi dell'ente col concetto dell'ente, prima forma del
problema; se non che la seconda forma è più avanzala, perchè
indica qual deva essere il risultato del problema.
I diversi modi poi , ne' quali l'ente si manifesta , hanno per
loro fondamento il sentimento e la percezione de' reali, e quindi
una cognizione di predicazione. Il concetto dell'ente all'opposto
costituisce la cognizione intuitiva. Se dunque si dimostra che i
et diffìcilem Platonis Dialogum, quem Parmenidem imcripsit, reserandvm
vix aliquid opporlunius hoc inveniri posse arbitror. — li. Cudworth Syst.
intellect. T. I, e. IV, § XXI.
64
diversi modi dell'ente a noi manifesti per le realità che perce-
piamo, hanno la raj^ione della loro possibilità nello stesso con-
cello dell'ente, con ciò quello che si conosce per predicazione si
soggioga alla teoria, si rannoda all'idea e all'oggetto dell'intui-
zione, e non e" è più dissidio tra il reale e l'ideale, e tra la
cognizione di predicazione che riguarda il primo, e la cognizione
d'intuizione che riguarda il secondo; ma le due cognizioni s'ag-
guagliano ed equilibrano, e l'intendimento s'acqueta, trovando
che quello, che è, ha la sua ragione necessaria in quello, che può
essere. La terza forma dunque del problema ontologico è ancora
la prima nel suo fondo , ma è più avanzata delle due prime
nell'espressione , perchè indica un risultato ulteriore del pro-
blema , che è la quiete dell' intendimento , che ha trovato la
concordia e l'ordine tra quelle due maniere di conoscere, che si
riducono ad un medesimo principio necessario.
Che se si considera che tutta la difficoltà di tali conciliazioni
è riposta in certe apparenti contraddizioni o antinomie tra i modi
dell'ente e l'ente : tra il contingente, che non ha la sua ragione
in se slesso e il necessario: tra la cognizione per predicazione
e quella per intuizione; ne uscirà tosto la quarta formola, e il
problema si ridurrà, senza mutare di natura, a cercare come si
concilino le antinomie che appariscono nel pensiero umano. Colle
tre prime forme s'esprime il problema definendolo e determinan-
dolo dallo scopo a cui intende; la quarta dalla difficoltà che deve
vincere per raggiungere lo scopo.
La quinta formola poi, che domanda : « Che cosa sia ente,
quali sieno le sue essenziali condizioni w: esprime lo stesso pro-
blema definendolo dal mezzo a cui si deve ricorrere per tro-
varne la soluzione. Poiché ove ben si conosca qual sia la natura
dell'ente, e quale di conseguente quella del non ente^ con faci-
lità si compone quel quadruplice dissidio.
7^. Ora cercare qual sia la natura e i caratteri essenziali
dell'ente, è quanto un procurarsi la Teoria universale dell'ente,
e per ciò così appunto si definisce TOnlologia.
65
CAPITOLO Vili.
Della possibilità di dare un cominciamento logico all'Ontologia.
73. Abbiamo già notalo che que' filosofi, che ridussero tutta
la filosofia all'Ontologia, si trovarono impacciati alla prima pa-
rola che vollero pronunciare, e furono obbligati di dire che qua-
lunque fosse il cominciamento, non poteva essere che un'ipotesi,
quasi che ciò che si fonda sopra un'ipotesi potesse divenire in
progresso una verità senza l'antecedenza di qualche principio
logico necessario, che ne giustifichi il passaggio: nel qual caso
questo principio logico, sottinteso, avrebbe dovuto essere il vero
cominciamento: e lo sbaglio per verità consisteva nell'averlo
sottinteso, collo stesso negarlo, anzi che esprimerlo.
Non vedendo poi alcun modo di cominciare l' Ontologia da
cosa certa , dissero che nessuna notizia immediata era vera , e
gran rumore levarono contro quello che essi chiamarono l'm-
mediato {ì) , quasi che potesse esser certo il mediato, che di-
pende logicamente dall' immediato, se questo stesso non è certo,
0 l'unione de' molli incerti potesse dare un tutto certo.
74. Ma noi non abbiamo questa specie d' impedimenti , non
avendo cominciata la filosofia dalle scienze ontologiche , ma ad
esse fatto precedere le ideologiche.
In queste si fece chiaro, che ogni umano sapere dipende da
due elementi primitivi e immediati , che sono Vesscre ideale in-
tuito per natura dall'umana intelligenza, e il sentimento (2).
V essere ideale è l'immediato evidente, non di quella evidenza,
che Cartesio poneva neWidea chiara, ma di quella che consiste
nella necessità logica, onde la mente, che l' intuisce, vede essere
impossibile che egli sia diverso da quello che apparisce (5).
Il sentimento non è noto per sé stesso , ma per l'atto della
percezione, la quale non ammette errore (4).
(i) Introduzione alla Filosofia, n. 84.
(2) Antropologia, n. 10-17; Logica, n. 309; 1045; 1092-1097.
(3) Rinnovamento, 1. IH, e. XLVII.
(4) Nuovo Saggio, sez. VI, p. Ili, n. 1158-1244.
Rosmini. Teosofia. 5
co
7S. Vero è, cìie la percezione non dà che una cognizione li-
mitata, ma questo non toglie, che dentro la sua limitazione non
possa esser vera. Onde i filosofi tedeschi dal Fichte all'Hegel
caddero in un grave errore^ quando confusero la imitazione colla
fahità del conoscere ; e dissero falsa la percezione, perchè non
ci trovarono dentro quello che non ci polca essere, e che pure
vi cercavano. Che colesti filosofi cercano da per tulio l'essere
assoluto per quella ragione che dicevo, che impreparali si but-
tarono nell'Ontologia^ e omisero le scienze ideologiche, volendo
subito trovare la dottrina compiuta dell'essere, e per questo ri-
putando falsa la percezione, perchè loro non la somministrava,
che anzi della percezione stessa non seppero formarsi un giusto
concetto, dandole arbitrariamente un'estensione che ella non ha,
e poi condannandola come falsa, perchè non l'ha (1).
70. Sui due elementi primitivi del sapere si ripiega la rifles-
sione, e trovandone i limili, e rimovendoii con lungo e faticoso
lavoro, riesce finalmente ad una teoria soddisfacente dell'essere,
a conoscere il problema dell'Onlologia, a scioglierlo e a dimo-
strare i limili necessari di questa risoluzione umana.
77. Ma di qual mezzo si serve la riflessione per ripiegarsi
sopra que' due elementi, cioè sull'essere ideale e sul sentimento,
e conoscere ciò che hanno di limitato, rimovendo altresì questi
limili? — Dello stesso essere, che è la forma d'ogni conosci-
mento, il mezzo universale e necessario degli atti dell' intelli-
genza. E come questo si applichi a sé medesimo, come pure ai
percepiti, apparisce chiaramente dall'Ideologia.
78. Vero è;, che la mente umana procede per gradi , e che
n(m arriva alla compiuta teoria dell'essere con un solo allo di
riflessione, ma con molli, e quindi ha bisogno di rompere il pen-
siero in una serie di moltissime proposizioni particolari e uni-
versali connesse tra loro, prima d'arrivare a quello che noi chia-
miamo pensare assoluto, dove sta l'apice dell'Ontologia. Ma anche
qui si deve escludere l'errore dell'Hegel — simile a quello mento-
valo di sopra — il quale dichiarò false tutte le proposizioni e lutti
i giudizi , unicamente perchè ciascuna non abbraccia tulio ,
quand'egli pretende che solamente nel tutto stia la verità. E in
(1) Introduzione alla Filosofia. — Sistema filosofico n. 75-77.
67
qual tutto ? In quello che egli chiama idea assoluta, nella quale,
secondo lui, lo stesso soggetto umano, dico il soggetto reale, come
pure il mondo materiale si perde intieramente ; di che nasce
questa strana dottrina, che « quando fosse trovata a questo modo
la verità, l'uomo, che ne dovrebbe fruire, non ci sarebbe più ».
Ma nella Logica furono già in parte dileguate queste tenebre (1).
79. Onde dobbiamo conchiudere, che noi e abbiamo un punto
fermo, da cui cominciare l'Ontologia (l' idea dell'essere e il sen
timento); e abbiamo un mezzo, pel quale da questo punto fermo
possiamo movere spingendoci a sempre nove cognizioni (l'essere
ideale, l'essenza dell'essere) ; e finalmente sappiamo^ che ci è le-
cito di procedere da una di queste cognizioni ad altre per via
di proposizioni connesse tra loro , con sicurezza che ciascuna ,
quando risponda alle leggi dell'antica e eterna logica, è vera, e
tutte insieme mediante le accennate connessioni possono darci
quel sistema della verità che cerchiamo.
Questo solo vogliamo aggiungere a encomio della scienza on-
tologica , che , appunto perchè tutti i giudizi e le proposizioni
particolari hanno qualche cosa di negativo, ninna di esse fa-
cendo conoscere interamente l'essere , l'Ontologia , che si pro-
pone di congiungere insieme una serie di proposizioni da farne
riuscire la teoria dell'essere , è quella che perfeziona lo stesso
sapere umano , e però ella si può chiamare ad un tempo « la
teoria del sapere ».
CAPITOLO IX.
Meccanismo dell'argomentare che adopera l'Ontologo.
80. Ma poiché sommamente giova, che ben si conosca fin da
principio il meccanismo dell'argomentare, con cui l'Ontologo pro-
cede alla soluzione del difficile problema che gli è proposto ,
giova che qui lo rimettiamo, nudo di ogni accessorio, sotto gli
occhi de' lettori.
81. i.° La mente intuisce l'essere indeterminato: l'essere in-
(1) Lo^ic. n. 41-53; 1181-1184.
G8
determinalo è il primo oggetto, che s'affaccia all'Ontologo, e il
suo punto di partenza,
82. 2.° Applicando quest'essere ai sentiti si formano le per-
cezioni, e le idee: in tal modo la mente ha la cognizione degli
enti finiti.
83. 3.° La cognizione di un ente finito qualunque non fa so-
lamente conoscere l'ente finito nella sua realità, ma anche nella
sua possibil'tà, anzi quella si conosce per questa che logicamente
precede. Che cosa è conoscere l'ente finito nella sua possibilità?
« Conoscerlo in quanto è necessariamente nell'essere ». Da que-
sta formola, che sarà meglio illustrata in appresso, si vede che
la cognizione dell'ente finito discopre una nova cosa in quell'ente
indeterminato che si vedeva prima : lo si vede ora ugualmente,
ma ci si vede anche qualche cosa di più, perchè s'impara che
egli può essere attuato e terminato in quell'ente finito che si è
conosciuto Prima di conoscersi questo , si vedeva nell'essere
indeterminalo una potenzialità, senza sapere a che cosa essa si
riferisse. Ora si sa almeno uno de' termini a cui si riferiva quella
potenzialità. Dunque con ciò s'è accresciuta la cognizione dello
stesso essere, avendosi uno de' punti ai quali l'indeterminazione
sua s'estende. Noi consideriamo qui il termine come possibile:
la cognizione del termine come possibile ci fa sapere , come
l'essere può essere terminato : se considerassimo il termine
come reale , avremmo l'essere da qursta parte determinato ,
e sarebbe la stessa cognizione dell' ente finito sussistente.
Il ragionamento , che noi facciamo d'un ente finito qualun-
que , s'estenda ora a lutti gli enti che noi percepiamo : tulli
li conosciamo non solo come reali , ma anche come possibili :
lasciando, per un poco, da parte la cognizione del reale come
reale, consideriamo la cognizione di questo come possibile. Gli
enti finiti possibili presenti alla mente nostra crescono la nostra
cognizione in due modi, secondo i due modi ne'quali la mente
li considera. Poicbè la mente li può considerare fermandosi in
ciascuno di essi, e questo costituisce la cognizione de' singoli ;
e li può considerare in relazione all'essere indeterminalo , cioè
come suoi termini possibili, e questo aumenta la cognizione del-
l'essere indeterminato, facendo conoscere i termini ai quali esso
può determinarsi.
69
84. Quindi si vede la ragione, perchè molli trovino tanta dif-
ficoltà ad ammettere, che lo spirito umano intuisca l'essere an-
teriormente alla percezione d'un ente finito. Un tal essere si
trova davanti alla mente non solamente privo d'ogni sua determi-
nazione e d'ogni suo termine, ma ben anco in tale stato iniziale
che non dà alla mente alcuna notizia delle sue determinazioni
possibili, ma soltanto mostra di poter essere determinato, non si
sa come né a che. Onde facilmente pare, che sia un bel nulla.
E pure quando la riflessione cade sopra un ente finito e lo ana-
lizza, distingue l'atto, pel quale è questo ente finito, dallo stesso
ente finito, e lo distingue a tal segno che conchiude, l'atto pel
quale è, accomunarsi a tutti gli altri enti finiti , laddove cia-
scuno di questi esser proprio, distinto, e non potersi accomunare
agli altri. E andando avanti col pensiero filosofico riesce a questa
conclusione importantissima, che l'atto dell'essere comune a tutti
gli enti finiti è intelligibile per sé stesso, e per lui si rendono
intelligibili gli enti finiti. Di che seguita, che il puro atto del-
l'essere può benissimo intuirsi senza gli enti finiti, e avanti che
questi si percepiscano^ benché in questo tempo non possa esser
parlato, perchè è ancora tutto solo, e per questa sua perfetta so-
litudine non ammette discorso né della mente, né della lingua.
La stessa riflessione poi sopra gli enti finiti già percepiti ci fa
intendere , che l' intuizione dell'essere contiene la notizia della
possibilità di maniera che, se l'esseie è solo, presenta alla mente il
possibile solo, senza che questo possibile si possa riferire a cosa
alcuna determinata : se poi la mente ha già percepito un ente
finito, allora l'essere indeterminato presenta alla mente non sol-
tanto il possibile in universale, ma il possibile di quel dato ente
percepito: di che s'aggiunge luce all' indeterminazione e alla pos-
sibilità, perché hanno un punto a cui riferirsi.
85. E qui attentamente si consideri, che qualunque cosa si
pensi, la quale non involga contraddizione, si pensa come possi-
bile, e non si può a meno di pensarla così; e questa possibilità /o-
gf/ca consiste certamente nel non involgere contraddizione; e non
in questo solo, ma ben anco nell' intendere, che la cosa è assoluta-
mente possibile: il che implica, che c'è necessariamente una po-
tenza incognita, per la quale quella cosa potrebbe esistere, po-
tenza virtualmente contenuta nel concetto stesso di essere.
70
86. Vessere dunque per se stesso è, e la possibilità non è che
una relazione alla reaìilà, cioè a.i suoi termini, i quali non si su
ancora di che natura sieno, sino a tanto che non si siano percepiti.
Cogli enti finiti poi s'incominciano a percepire. Percependo dun-
que la realità, cioè i finiti reali^ non solo si aumenta la nostra co-
gnizione per aver appresa questa realità^ ma si aumenta anche la
nostra cognizione della possibilità, perchè s'incomincia a cono-
scere di che natura sia il termine di questa possihililà, e così si
conosce più di pi ima l'essere indeterminato, perchè si conosce in
qualche parte la natura delle sue determina/joni.
Dalla percezione dunque degli enti finiti riceve una prima illu-
strazione l'essere indeterminato , che sta presente naturalmente
alla mente umana, e allora solo può incominciare il discorso della
mente, che esige pluralità di notizie; poiché non si conosce più il
solo essere colla possibilità delle sue determinazioni e de' suoi ter-
mini in universale, ma oltre a ciò si conosce qualcheduno di questi
termini, e però si conosce in parie la natura di quello, a cui la
possibilità si riferisce, ossia la natura di qualche determinazione
dell'essere.
87. 4" Quest'è W primo passo, che fa l'Ontologo verso la co-
gnizione piena dell'essere. Il secondo passo consiste in nove ri-
flessioni che egli fa sulle realità finite da lui conosciute. Quali
sono queste riflessioni? Primieramente egli confronta le realità
conosciute come termini possibili dell'essere colla possibilità uni-
versale, che presenta l'essere stesso. Da questo confronto egli
rileva :
a) Che le realità finite considerate come termini possi-
bili dell'essere non esauriscono la possibilità universale dell'essere,
la quale non ammette limite alcuno ;
b) E di più rileva, che Tessere con tutta la sua possi-
bilità infinita sarebbe, ancorché non esistessero quelle realità:
perciò queste realità non costituiscono l'essenza dell'essere, non
sono necessarie all'essere, onde le chiama contingenti;
e) Vede nondimeno, che la loro possibilità è inchiusa nella
possibilità universale, la quiile appartiene all'essenza dell'essere.
88. ì)^ Dopo di ciò la riflessione ontologica s'eleva ancor più
verso la piena cognizione dell'essere con un terzo passo. Ella
possiede un saggio benché assai povero dei termini e delle de-
74
terminazioni dell'essere nella realità degli enti finiti sommini-
strali dalla percezione. Deduce da questo , che que' termini e
quelle determinazioni dell'essere, ch'ella ancora non conosce,
devano avere qualche similitudine o analogia coi termini, cioè
colle realità finite ch'ella ha percepite e conosce. E ciò perchè
tulli i termini dell'essere hanno egualmente per principio l'essere
e dalla natura dell'essere dipendono, di che conviene che neces-
sariamente abbiano qualche cosa di comune, almeno per cinalo-
gia. Deduce lo stesso analizzando i termini finiti ch'ella conosce,
e scoprendo che alcuni elementi di questi termini finiti devono ne-
cessariamente trovarsi anche in tulli gli altri termini possibili
dell'essere; e ciò perchè, se non vi si trovassero, l'essere non
potrebbe averli senza distruggersi. Con queste e simili riflessioni
giunge la riflessione ontologica a formarsi una dntlrina intorno
alle determinazioni ed ai termini in universale dell'essere. A ra-
gion d'esempio la detta riflessione negli enti finiti trova attività,
sentimento V intelligenza, moralità, e cose simili, e intende, che
sarebbe impossibile che l'essere avesse dei termini i quali fos-
sero privi al tulio di esse, o almeno fossero privi al tulio di
relazioni con esse; il che dà già un risultalo importante per
la dottrina universale delle determinazioni e de' termini, di cui
l'essere è suscettivo.
89. 6® Questa dottrina fa poi un quarto passo di grandissima
importanza, quando meditando l'essere indeterminato trova:
a) Che l'essere, che s'intuisce dalla mente, quantunque
indeterminato, non può non essere in se stesso;
b) Che l'essere non può essere in sé stesso se non è pie-
namente determinalo, e quindi che egli deve avere delle deter-
minazioni e de' termini propri e necessari, ai quali applica la
dottrina universale intorno alla natura de' termini cavata da'
termini finiti per analogia;
e) Che i termini propri e necessari dell'essere non pos-
sono avere limitazione alcuna, perchè l'essere non ne ha, e de-
vono entrare anch'essi a costituire l'essenza dell'essere, altri-
menti si cadrebbe in contradizione, cioè l'essere sarebbe ne
gaio, quando la sua natura importa che non possa non essere.
Quindi un quinto passo della riflessione ontologica è quello, che
stabilisce la necessità de' termini propri dell'essere; e un sesto,
72
quello che rimove da questi termini tutto ciò che non può loro
convenire, come sarebbe appunto la limitazione. In questo modo
la mente perviene alla teoria dell'essere assoluto, che ha i ca-
ratteri della divinità, i quali mancavano ancora all'essere inde-
terminato,
90. Tale è il meccanismo dell'argomentare, che adopera l'On-
tologo; egli consiste lutto in un continuo confronto, che la ri-
flessione fa tra gli enti finiti percepiti, e l'essere che sta pre-
sente alla mente, benché in un modo indeterminato Questo la-
voro tende a determinare l'essere, nelle quali parole si ha una
sesta forma del Problema ontologico.
È importantissimo il ben intendere questo meccanismo logico,
pel quale il pensiero dell'uomo si avanza sino alle ultime ricer-
che concedute alla mente umana , e perviene ad unti teoria che
gli dà il pieno riposo a cui aspira; e vi perviene di un passo si-
curo procedendo sempre in un modo necessario coH'uso conti-
nuo del principio di contradizione, d'identità, e di cognizione,
dal quale ultimo i due primi dipendono.
Questa è la via, che noi terremo in tutta quest'Opera.
CAPITOLO X.
Del circolo in cui si volge il ragionamento ontologico,
e come non sia vizioso.
91. Da questo si conferma, che il ragionamento ontologico
si volge necessariamente in circolo.
Poiché l'oggetto dell'Ontologia è tutto l'ente, e il ragiona-
mento non può ascendere alla cognizione del tulio senza ricor-
rere alle dottrine delle parli che lo compongono, e non può co-
noscere le parti che lo compongono se non ricorrendo alla co-
gnizione del tulio. Il tutto eie parti sono correlative; ei cor-
relativi s' intendono dalla mente con un solo allo. Ma il ragio-
namento abbisogna d'esaminare i termini della correlazione, e
non li può esaminare amendue in uno slesso tempo. Chi volesse
parlare del lutto senza analizzarlo, avrebbe finito il discorso in
73
una sola parola; poiché dopo aver pronunciato la parola tutto,
non potrebbe più dir altro.
0:1. Nel capitolo precedente abbiamo veduto, che la rifl*'s-
sione ontologica propria della mente umana move dalla perce-
zione degli enti finiti per conoscere :
lo La fecondità dell'ente indeterminalo;
2" La necessità e la ricchezza dell'ente assoluto.
Si suppone dunque di conoscere l'ente finito. Ma l'ente finito non
si può investigare e conoscere profondamente senza la teoria del-
l'essere in universale, e quella altresì dell'essere assoluto. Onde
il Teosofo è obbligato a collocare la teoria dell'ente finito^ che è
la Cosmologia, nell'ultimo luogo. Vi è dunque in quest'ordine di
ragionare un circolo inevitabile, essendovi bisogno della teoria
dell'ente finito per istabilire la teoria dell'essere in universale e
dell'essere assoluto, ed essendovi bisogno di queste due teorie per
dare quella dell'ente finito.
93. Lo stesso circolo s incontra , se invece della materia cioè
degli oggetti del pensare , si considera la forma cioè il mezzo
del pensare ragionativo. Poiché la forma del pensare è l'essere
indeterminato e i principi universali che da* esso derivano
{Ideol. 55G-572), le idee elementari dell'essere (iVi t)73-580),
e tutte universalmente le astrazioni. Ora queste nozioni formali
sono necessarie a ogni ragionamento e intervengono in lutti ,
0 si presuppongono. Ma esse slesse si derivano dall'essere di
cui sono altrettante applicazioni , o si lavorano dalla mente col-
l'astrazione o colla finzione dialettica , esercitate queste opera-
zioni sugli enti percepiti. Onde da una parte non si può ragio-
nare dell'essere e degli enti percepiti senza tali nozioni ; e dal-
l'altra non si possono avere in forma scientifica tali nozioni
senza istituirsi qualche ragionamento sull'essere stesso e sugli
enti. Onde già osservammo, che l'essere dalla mente nostra s'ap-
plica a sé slesso, e fa ad un tempo i due uffici di oggetto e
di mezzo del conoscere {Psicol. S70), e lo stesso si deve dire
di tulle le nozioni e proposizioni formali. Vi è dunque qui di
novo un circolo. E però é a concliiudersi , che tulli i ragiona-
menti dell'Ontologia e della Teosofia si volgono necessariamente
in un circolo.
0^». Ma questo circolo è egli vizioso? Non punto, poiché
74
quando si ragiona delle parti per conoscere il tutto, allora sta
presente alia mente il lutto , il quale già si conosce in un modo
imperfetto e complessivo; onde lo studio, che si fa delle parti,
non produce la cognizione del tulio, ma soltanto la rende più per-
fetta, la illustra, la fa più riflessa e divisata a modo di scienza.
Questo dunque non pecca di quel vizio, che i Greci chiamavano
vTTEpov Tponh e gli scolastici pìsiilli versatio. Ma quella prima co-
gnizione del tutto che dirige l'uomo nello studio delle parli, ri-
mane fuori della scienza: il perchè la cognizione scientifica,
ondccchessia incominci , ha bisogno d'una cognizione non scien-
tifica presupposta; il che è un difetto della scienza, non pro-
priamente della cognizione umana: della scienza che sembra in-
volgere un circolo, perchè si propone di dir tutto ordinatamente
e dimostrativamente, e però deve incominciare dal dire alcune
cose che ne presuppongono alcune altre che dirà o anche di-
mostrerà in appresso, il che ha l'apparenza di un circolo. Ma
nella cognizione umana il circolo non v'è, perchè non ha bi-
sogno di successioni e di parti , ma ha il tutto presente senza
presupporre altra cosa.
Così riguard'o alla materia , quando la mente considera gli
enti finiti per cavare da questi delle notizie che le accrescono
la cognizione e la dottrina dell'essere, ella ha presente l'essere
stesso; e sebbene non conosca tutto, circa l'essere, quanto viene
a conoscere di poi, ciò non ostante conosce abbastanza l'essere,
perchè gli serva di lume e di norma nello studio delle parti.
Laonde gli stessi Scolastici seguendo Aristotele riconobbero, che
doveva precedere una cognizione confusa alla cognizione distinta j
e scientifica {Psicol. 451^»),
Lo stesso è da dirsi riguardo alla forma del pensare. Pe-
rocché, quantunque la scienza non possa fare alcun ragiona-
mento senza l'uso de' principi formali, e abbia bisogno di questi
anche quando ragiona intorno ad essi, tuttavia prima d'ogni
ragionamento c'è davanti all'inttUigenza l'essere ideale, cheli
contiene in sé tutti virtualmente e indivisi. Onde ogni qual-
volta si dividono da lui , riducendoli in proposizioni separale
r una dall'altra, e poi s'adoperano a ragionare intorno allo
slesso essere, da cui derivarono, per conoscerlo meglio, o per
la stessa ragione intorno ai medesimi principi formali ; allora
75
si f<i bensì un circolo apparente, ma non vizioso, perchè essi
s'adoperano non f»ià ad acquistare quella cognizione, che già
si possiede, perchè la si presuppone: ma ad accresci re una
tale cognizione e a renderla più viva, esplicita, distinta, con-
sapevole.
93. E tant'è lungi, che si cada con ciò nel vizio del circolo,
che anzi questa slessa necessità d'applicar l'essere a sé stesso,
e i princi[)ì formali a sé slessi, dimostra la certezza e neces-
saria verità della cognizione di cui si traila. Poiché è una prova
•della sua ecidenza questo appunto, il non potersi illustrare e
intimamente conoscere, che per sé stessa. Nella quale evidenza
appurilo termina ogni dimostrazione , che avanti la dimostra-
zione c'è l'evidenza dell' intuito , da cui la forza della dimostra-
zione dipende {Logic. 59G). Onde i principi formali, a cui dob-
biamo necessariamente assentire per l' evidenza dell' essere in
cui si osservano giacere, sono sicuri mezzi per conoscere la
verità, e però si possono applicare anche all'essere stesso; e
se ci fanno conoscere in noi delle cose che prima non cono-
scevamo , 0 in altro modo da quello in cui le conoscevamo,
di necessità ci bisogna conchiudere, che le nove notizie così
avute sono vere; perché già conosciamo precedentemente abba-
stanza dell'essere per accertarci, quando ci si presentano quelle
notizie, che sono vere: il qual modo di ragionare fu chiamalo
da' logici non circolo, ma regresso {\).
(1) Per regresso noi inteodiamo «due dimostrazioni, o più generalmente,
due operazioni conoscitive connesse insieme in questo modo, che colla prima
partiamo da una cosa conosciuta, e arriviamo a conoscerne un'altra che non
conoscevamo : colla seconda ricominciamo il movimento da questa stessa
cosa, che siamo arrivati a conoscere, e meditandovi sopra scopriamo in essa
nove cose che ci servono a conoscerne delle altre intorno alla prima da cui
eravamo partiti. » Questa definizione é più generale di quella che danno i
logici del regresso, pel quale intendono due dimostrazioni, colla prima delle
quali si move dall'effetto a conoscere Vesistenza della causa {demonstratio
quod): conosciuta questa, e rilevatane per istudio la natura, da questa na-
tura move poi la seconda dimostrazione , colla quale conosciamo meglio di
prima l'effetto {demonstratio propter quid), la qual definizione non abbrac-
cia, pare a noi , tutti i modi e i casi del regresso. Giacopo Zabarella, nobile
filosofo italiano, dimenticato da noi Italiani al solito, ottimamente osserva
che ne! regresso non basta aver trovato dall'effetto Vesistenza deWa causa.
76
96. Il nostro ragionare dunque nell' esposizione della Teosofia
sarà simile al procedere di quelli che navigano in uno stagno,
i quali quantunque solchino lo stagno colla loro navicella in
una sola linea, tuttavia, o vadano o vengano o si movano per
una retta o per linee curve serpeggiando, non escono mai dallo
stagno , e se non ci fosse tutto lo stagno non potrebbero punto
solcarlo per lungo e per largo nelle diverse direzioni, benché trac-
cino sempre delle strisce angustissime in quell' acqua. Così noi
qualunque cosa veniam ragionando per le diverse parti di questa
opera, non potremo uscire giammai dal mare dell'essere che
esploriamo, e quantunque ristretto sia il sentiero che ci apria-
mo in esso colla nostra carena , ci converrà aver sempre lutto
l'essere presente non alla lingua ma alla mente, che ogni no-
stra parola, ogni parziale trattazione lo domanda necessaria-
mente come un presupposto , acciocché o possa essere da noi
delta , 0 dagli altri intesa.
CAPITOLO XI.
Divisione dell' Ontologia.
97. Da questo apparisce, che non fu assegnato compiutamente
r oggetto della Metafìsica, e neppur quello della sola Ontologia
da coloro, che il restrinsero all'" essere comunissimo » (I). Al-
l'« essere comunissimo » in senso composto precede « l'essere
ideale », di cui l'esser comune non è che una relazione coi
contingenti (2) , che la mente discopre quando colla riflessione
ma conviene, trovala questa, scoprirne la natura, o comecchessia scoprire
in essa qualche cosa di novo più delia sola esistenza, acciocché da questa
si possa ritornare all'effetto ed illustrarlo. Vedi il libro che questo logico
scrisse col titolo De Regressu, e la Logica nostra, n. 701-708.
(t) Così lo Suarez: Ens communissime sumptwn, ut est transcendens et
ohiectum Methaphysicce vel intellectus, abstrahit a completo et incompleto.
DD. MiM., D. II. S.' V, 14.
(2) Quantunque e l'essere » sia la sola qualità che si possa dire comune a
Dio e agli enti finiti (Introd. VII, Lett. ad Aless. Pestalozza), tuttavia co-
mune non si potrebbe dire, se non esistesse la pluralità di questi, e però
una tale appellazione esprime una relazione ai contingenti.
77
astrae l' essere dai reali percepiti e conosciuti. Ma prima di
questa riflessione e astrazione c'è davanti alla mente « l'essere
indeterminato » , dove si deve cercare la ragione necessaria
degli altri enti: onde piuttosto questo è l' oggetto dell'Ontologia
Ma non basta.
98. La Teosofia tratta di tutto 1' essere. Ma come l' essere
può pensarsi nella sua possibilità, e nella sua sussistpuza , per
ciò ella si divide primieramente in due parti: « Teoria del-
l'essere considerato nella sua possibilità » cbe è l'Ontologia,
e « Teoria dell'essere considerato nella sua sussistenza »,
99. L'essere poi nella sua sussistenza è o infinito, cioè Dio,
0 finito , cioè il Mondo : onde la « Teoria dell' essere conside-
rato nella sua sussistenza » si assolve nelle due parti o scienze
della Teologia e della Cosmologia.
100. Ma l'Ontologia, quantunque consideri l'Essere nella sua
possibilità, e però nella sua astrazione dal sussistente, ciò non
ostante abbraccia anch'essa la totalità dell'essere, e perciò non
considera solamente l'essere nella sua determinazione, o as-
traendo dalle sue forme, o dall'essere infinito e finito, ma consi-
dera l'essere indeterminato in sé, e nella possibilità e quindi
anche nella necessità delle sue forme, e delle sue condizioni,
tra le quali ci ha quella di poter essere infinito e finito , e di
poter come finito ricevere diverse limitazioni.
101. Dicendo poi, che l'Ontologia considera la totalità dell'es-
sere nella sua possibilità, è da avvertire, che la possibilità non
esclude la necessità, anzi la involge, perchè ogni possibile è ne-
cessario come possibile, e rispetto all'essere infinito col dimostrarlo
possibile, cioè che può esistere, lo si dimostra ad un tempo stesso
necessariamente esistente; poiché in cercando se sia possibile,
cioè se possa esistere, si perviene ad una singoiar conclusione ,
cioè a trovare, che « possibile non può essere se non è necessario,
ma è necessario che sia possibile, dunque è necessario che esista ».
102. L'Ontologia dunque non tratta solamente dell'essere inde-
terminato, benché parta da questo ; e non prescinde dalFessere
completo 0 incompleto, ma anche di queste condizioni dell'essere
ragiona in relazione a quello,
103. Mettendosi dunque in cammino il pensiero dell'Ontologo .
affine di pervenire ad una <c Teoria dell'essere in tutta l'ampiezza
78
della sua possibilità » , egli discopre , che l'essere ha essenzial-
mente tre atti, che sono l'oggettivila, la subiellivilà , e la mora-
lità, a cui pone il nome di forme e di categorie; e che in ciascuna
di queste l'essere è identico. Di qui s'accorge, che gli bisogna di-
videre il suo lavoro in due parti, investigando prima la natura
dell'essere come uno, e poi la natura dell'essere come trino.
104. Ma poiché quello che prima si presenta all'umano pensiero
è la moltiplicità degli enti sensibili, egli è necessario di movere il
ragionamento da questa moltitudine di sensibili, investigando un
ordine in essa ; la qual ricerca ci reca a rinvenire le ultime classi
delle differenze, che hanno i moltiplici enti ed entità tra di loro, e
queste differenze classificate ci recano alle tre categorie, e queste
alle tre supreme forme dell'essere, e queste all'essere stesso.
Laonde potremo dividere acconciamente tutto il lavoro ne' tre
seguenti libri :
Libro \. — Le Calcgorie.
» IL ~ L Essere uno.
» IH. — U Essere trino.
^*-fl««3^&-*-
LIBRO I
LE CATEGORIE
PROEMIO
105. Se il pensiero si restringe a considerare il puro essere uno,
lulta la scienza che ne ha si dice con una sola parola: Essere.
Quando adunque si voglia dar movimento al pensiero speculando
più avanti, conviene ritrovare una qualche varietà e moltiplicità
nell'essere stesso. Ma questa varietà, e questa molliplicilà dell'es-
sere non si manifesta all'uomo, se non per l'efiFelto che nel suo
pensiero produce lo spettacolo dell'universo, il quale di tanti va
riati e variabili enti si compone. Conviene dunque che l'uomo sia
pervenuto a un certo grado di sviluppo, e che dall'esperienza abbia
attinte le nozioni comuni delle cose sensibili a quel modo che lun-
gamente dichiara l'Ideologia, prima che egli proponga a se stesso
la domanda: « qual è la natura dell'essere w; e nella fatica as-
sunta per rispondervi trovi il veicolo, che Io conduca a concepire
e lavorare a sé stesso una Teoria dell'essere, l'Ontologia.
i06. Ora il pensiero speculativo, che si mette per questo cam-
mino, scosso dalla moltiplicità degli enti finiti che gli sono appa-
riti, ne' quali tutti vede un atto di essere, non fa e non può far
altro da prima che risalire da questa moltiplicità misteriosa a quel-
l'unità dell'essere più misteriosa ancora. La moltiplicità j)oi, che
sta nella sua mente, quando da prima incomincia a così speculare,
è, come dicevamo, confusa e somigliante a un caos. Innumerevoli
oggetti, innumerevoli entità si trovano nella sua mente, ed altri
se ne possono trovare, e questi d'ogni sorta e natura, reali, com-
pleti e incompleti, ideali, astratti, razionali, relativi e assoluti.
80
Noi li chiameremo tutti col nome d'entità. E, acciocché il pensiero
speculativo risalga da una così fatta moltitudine d'entità disparate,
opposte e contrarie, all'unità dell'essere, egli è evidente che con-
viene avanti ogni altra cosa studiarsi di dare un qualche ordine a
quell'ammasso di disunite e discontinue entità.
Per far questo è indispensabile considerare le loro differenze e
varietà, e ridurre queste varietà alle ultime classi. Poiché, se si
comincia a ridurre in classi le dette varietà, è facile accorgersi,
che le prime classi si possono generalizzando ridurre a un numero
di classi minori, n così ascendendo coll'astrazione e colla genera-
lizzazione si può finalmente pervenire alle ultime classi di varietà,
le universalissime di tutte, le quali non si possono ridurre a mi-
nor numero. Tali classi ultime delle varietà che dimostrano le
innumerevoli entità alla mente nostra, si dicono CATEGORIE, e
la ricerca di esse : il problema delle Categorie.
107. Egli è chiaro, che qualora la mente pervenga a scio-
gliere questo problema, ella ha in mano il principio dell' orcf/we
di tutto r essere e di tutte le entità , nelle quali l' essere si
mostra trasfuso all'intelligenza. Perocché dalle prime varietà,
che diremo categoriche, dipendono tutte le altre in modo ana-
logo , non uguale , a quello in cui da' generi dipendono le
specie. E come i generi contengono virtualmente le specie
nel loro seno , così le varietà categoriche contengono nel loro
seno le classi inferiori di varietà , di maniera che quelle sono
i principi di queste, da' quali queste si derivano. All'incontro,
se la mente speculativa del filosofo fosse bensì arrivata a tro-
vare certe classi di varietà dell'essere, ma non le ultime che
non si possono ridurre a numero minore, non essendoci al di
là di esse altro che unità dell' essere stesso ; in tal caso essa
non avrebbe ancora nelle mani il principio ordinatore di tutto
quel caos d'entità, che le sta presente. Poiché le classi, che
non sono le ultime o supreme, danno bensì un ordine alle classi
inferiori, ma esse stesse, e tutte le altre, che stanno sopra ad
esse, non sono ordinale, ma rimangono confuse rispetto alla
mente. Ancora le classi , che non sono ultime , senza queste
mancano della loro ragione, poiché le classi inferiori hanno la
loro ragione e il perché della loro distinzione nelle superiori.
Le supreme adunque sono le ragioni ultime di tutte le altre , e
81
non hanno la ragion loro in altre classi che ad esse antece-
dano, ma l'hanno nell'essere stesso, che solamente di concetto
ad esse precede.
i08. L'arduità del problema delle Categorie apparisce dalla
stessa storia della filosofia. A tutti quelli che tolsero a filosofare,
si è offerto in vari modi quel problema. Ma quantunque s'ac-
cingessero con grand' animo alla prova di scioglierlo, e molte e
preziose verità abbiano trovato per via , pure noi non osiamo
asserire che alcuno di essi sia riuscito a risolverlo compiutamente:
anzi l'esame di alcuni sistemi che noi facciamo in questo libro,
e più ampiamente la storia critica che n'abbiamo fatta {'), chia-
risce il contrario.
E veramente le condizioni del problema sono diffìcili ad adem-
pirsi, poiché sono queste :
1." Che si propongano certo varietà dell'essere;
2.° Che si dimostri, che non si possono ridurre a un nu-
mero minore;
«3.® Che si dimostri, che tutte le altre varietà possibili tro-
vano la loro sede in una di quelle: e quando si dice tutte le
altre varietà possibili , non si dice soltanto quelle varietà , di
cui il filosofo ha esperienza e attuai cognizione, ma quelle stesse
che non conosce. Il che è quanto dire, che si deve dare di ciò
una dimostrazione a priori, dalla quale risulti, che sarebbe as-
surdo pensare il contrario.
Ognuno sente quanto dure condizioni sieno queste. Ma ve ne
hanno dell'altre estrinseche al problema, che derivano dalle
maniere equivoche, colle quali esso fu bene spesso proposto,
dalla facilità di confonderlo con questioni alTini , e in una pa-
rola v'ha la difficoltà di determinar bene il problema e d'in-
tenderne il senso. Converrà dunque, che noi cominciamo dal
rimovere quelle difficoltà , che più ci potrebbero impedire il
passo.
(*) Il Saggio Storico e Critico sulle Categorie.
Rosmini. Teosofìa.
82
CAPITOLO I.
Difficoltà di trovare una classificazione, che abbracci
tutte le varietà dell' essere.
109. Se si considerano le leggi prescritte dalla Logica alle
comuni classificazioni delle cose [Logic. 979-982), tosto si co-
nosce che esse sono difficilmente applicabili alla classificazione
di tutte le entità. Poiché una di queste leggi si è, che tutte le
classi abbiano un subietto unico e una qualità comune, che è il
fondamento della classificazione e della divisione; e il subietto
unico , che si divide , e la qualità , secondo cui si divide e
classifica, danno il nome generico e specifico agli individui con-
tenuti in ciascuna classe. Così se si classificassero gli uomini in
dotti ed ignoranti , il subielto unico, che si divide e classifica,
sarebbe l'uomo (1), che terrebbe luogo del genere ; e la dottrina
sarebbe la qualità , secondo cui si divide , che costituirebbe le
specie 0 classi de' dotti e degli ignoranti.
dio. Ma affinchè la classificazione non pecchi contro questa re-
gola, il subietto che si divide deve essere veramente e non appa-
rentemente unico; ed è tale, quando il nome che lo esprime, e che
s'applica a tutti gl'individui classificati , conserva sempre rispetto
ai singoli il medesimo significato ; e la qualità o il concetto, se-
condo cui si divide, deve esser comune e divisibile, cioè partecipa-
bile variamente dallo stesso subietto , senza di che non potrebbe
somministrare divisione e classificazione alcuna. Laonde chi clas-
sificasse gli uomini in t'eri e dipinti, peccherebbe contro la detta
legge; e a propriamente parlare non opererebbe alcuna classifi-
cazione, perchè gli uommi rimarrebbero tutti da una parte senza
essere distribuiti in classi, e dall'altra parte s'avrebbero delle di-
pinture , che non sono uomini , benché si applicasse loro questo
nome ma in tutt'altro significato. La qualità d'esser veri e d'esser di-
(1) La classificazione è propriamente degli nomini , anziché deH'Momo;
ma l'uomo in questo caso essendo la specie comune degli uomini, e quindi
il fondamento della classi fli'azioìie , si prende pel subielto della divisione,
perchè gli umani individui sono virtualmeote compresi nella specie : uomo.
83
pinti sono due quiilità e non una sola, né questa seconda è la pri-
vazione della prima in modo che ad essa si possa ridurre: per-
chè la privazione non introduce altro concetto nella mente fuor di
quello di cui è privazione, onde con questo solo concetto, varia-
mente partecipato o negato del tutto, si può fare una classificazione.
All'incontro la privazione del vero è il non vero, e la privazione
del dipinto è il non dipinto, e ci potrebbero essere uomini veri di-
pinti, e non dipinti. Oltre a ciò la prima di queste due qualità, cioè
il vero, non è divisibile in più, cioè non può esser variamente par-
tecipato, perchè ogni uomo è ugualmente vero uomo, se è uomo;
e però non è una di quelle qualità, su cui si possa fondare una
classificazione degli uomini.
111. Ora quando si prende l'essere a subietto della classifica-
zione, la difficoltà è ancor maggiore, perchè non si trova una qua-
lità sola, secondo la quale si possa dividere, ma egli stesso è il su-
biello che si divide, e la qualità secondo cui si deve dividere. Poi-
ché si tratta di divider l'essere in una classificazione compiuta e
suprema. Ora l'ente ammette molte diverse e opposte qualità, tra
le quali ninna può scegliersi a fondamento della classificazione, per-
chè ninna abbraccia tutto l'essere e non è da ogni ente partecipata.
Eppure una retta classificazione, deve avere per fondamento una
qualità unica del subietto che si divide. Se dunque si cerca una
qualità unica comune ad ogni entità, altro non si trova che l'essere
stesso , 0 qualche cosa che essenzialmente gli appartiene. Posto
dunque l'essere per subietlo della classificazione ed anche per qua-
lità secondo cui si deve dividere e classificare, la questione si rende
oltremodo perplessa presentando una contraddizione in sé medesima.
Poiché il subielto che si divide, deve rimaner identico, e ricevere
un nome d'eguale significazione in tutti i membri della divisione ;
e all'incontro la qualità, secondo cui si classifica, deve variare, ed
essere variamente partecipata: altramente come potrebbe dar luogo
a divisione e classificazione? Da una parte dunque si esige che l'es-
sere sia uno ed identico come subietlo che si divide, e dall'altra che
cangi e si molti|)lichi come qualità, secondo cui si divide. L'essere
uno e l'essere piij sono contradditori che si escludono. Se dunque
si pretende d'avere una classificazione dell'essere, si pretende l'im-
possibile, perchè converrebbe che l'essere fosse ad un tempo ed il
subielto unico che si divide, e la qualità moltiplice secondo cui si
84
divide, come se si volesse divider l'uomo secondo l'uomo, cioè se-
condo l'umanità, qualità costitutiva di ogni uomo,
112. L 'essere dunque non può per se stesso divenire il subietto
d'una divisione che lo riduca in classi, stantechè per sé solo con-
siderato ò uno e uguale a sé medesimo.
Convicn dunque dire che il problema propostoci se ha una solu-
zione possibile, deve essere inteso in un altro modo; e quest'altro
modo ci si renderà manifesto, se porremo mente, che alla stessa
parola essere la mente nostra attribuisce diversi valori. Ma prima
dobbiamo penetrare ancora più a fondo la difficoltà della nostra
impresa.
Ripensiam dunque: che cosa si tratta di fare? Di classificare tutte
le entità, che possono presentarsi al pensiero umano. Se dunque
tutte queste entità devono ridursi in alcune classi, queste classi de-
vono avere : 1° qualche differenza tra loro; 2" qualche cosa di co-
mune, elio è il tutto che si divide, o, come dicevamo poco fa, il su-
bietto della divisione. Ma se quelle classi devono avere tra loro
qualche dilTerenza, questa stessa differenza non è ella un'entità? e
però non deve ella entrare nella divisione, non deve anch' ella es-
ser classificata? Ma come la dilTerenza, che dislingue una classe da
un'altra, può entrare nelle stesse classi? Ecco un altro imbarazzo.
Un simile discorso possiam fare del subielto della divisione e con-
seguente classificazione. Se le classi devono avere qualche cosa
di comune, questo elemento comune, qualunque sia, non sarà an-
ch'esso un'entità davanti al pensiero umano.? E in tal caso non do-
vrà essere anch'esso riposto in alcune delle dette classi? E se ap-
partiene ad una delle dette classi, come sarà comune alle altre?
Ciò che è comune alla divisione e alla classificazione , rimane di
necessità escluso da queste, ed è a queste anteriore. GÌ' imbarazzi
dunque ci stanno da tutte le parti.
Pure, le diverse entità non hanno esse qualche cosa di comune?
Il clìiamarsi appunto con un medesimo nome dimostra, che questo
appunto hanno di comune d'esser entità. Che cosa vuol dire entità?
Un'entità non si può concepire se non come un qualche atto di
essere. C'è dunque un alto di essere comune a tulle le cnliià. Se
si astrae colla riflessione della mente quest'atto di essere comune a
tutte le entità di qualsivoglia natura, noi abbiamo il primo signifi-
cato di essere ; ed è qucll' essere che noi diciamo iniziale, perchè
85
comunissimo e iniziamento di tutte ugualmente le entità, prima
loro condizione, senza cui né sono, né s'intendono. L'essere dun-
que preso in questo senso , reciso da tutte le entità , comune
inizio di esse, è così solitario ed uno che non ammette certa-
mente compagnia o pluralità, e quindi né anco divisione, o clas-
sificazione.
Ma se quest'essere iniziale non ammette compagnia ed é uno
e solitario, per ciò stesso si divide e separa da tutte l'altre en-
tità, ed é egli stesso un'entità che può essere classificata. Da
questo risulta, che l'essere in questo senso astratto si considera
dalla mente in due aspetti diversi ; o come comune a tutte le
entità, 0 non in relazione a queste ma in sé stesso. In quanl'é
comune a tutte le entità egli sfugge dalla loro classificazione, e
costituisce il subìetto della loro divisione e classificazione ; in
quanto poi si considera preciso da esse, e come un'entità egli
stesso, ninna difficoltà ad ammettere ch'egli rientri in qualcuna
delle classi che delle entità si fanno.
L'essere dunque nel primo senso, che gli abbiam assegnato
per una diversa veduta della mente, s'addoppia, e veste nell'or-
dine del pensiero umano due caratteri distinti: poiché o il pen-
siero lo vede in relazione alle entità come comunissimo, ed è il
subietto 0 fondamento della loro partizione e classificazione ; o
lo vede in se stesso, in quant'è uno, preciso da tutte le entità,
e così é egli stesso un'entità classificabile come le altre. Conviene
in fatti considerare, che la classificazione è l'opera della mente, e
che non si può rinvenire fuori di questa e senza l'opera di
questa.
Se dunque noi consideriamo Vessere come comunissimo a tutte
le entità, egli è evidente, che questi due vocaboli essere, ed entità
hanno un diverso significato, e che il primo significa l'atto comune
di queste.
Se poi noi consideriamo quest' essere iniziale come un' etilità
egli stesso, recidendolo dall' altra entità ; in tal caso l'essere è
un'entità, ma non è già l'entità. La differenza tra questa entità,
che si chiama essere puro, e le altre entità, si é questa. L'es-
sere é condizione comune a tulle le entità , ma in se stesso è
tale entità che non c'è dentro altro che lui stesso; quando nelle
altre enlità, oltre esserci lui in tutte, c'è qualche altra cosa, la
86
quale non è senza di lui, ma con esso lui, e non è tuttavia lui,
ma da lui diversa. Nel qual fallo organico dell'essere giace la
legge del sintesismo Ira V essere puro , e quelle enlilà che non
sono l'essere puro.
Il concello dunque di essere e quello di entità s'immedesimano,
quando si parla del puro allo dell'essere, reciso da ogni altra
cosa, ma ogni qual volta si traila d'altro, si distinguono.
113. Colla distinzione dunque del doppio valore, che riceve
la parola essere, quando si prende come puro allo di esistenza,
e quando si prende come comunissimo a tulle le entità^ si può
vincere, almeno in parte, quella difficoltà che sembrava a primo
aspello rendere insolubile il problema delle Categorie. Poiché
risulla, che lo stesso essere, in quanl'è comunissimo, somministra
il sa6ie<fo itm'co della classificazione delle entità, ch'esso contiene
virtualmente nel suo seno, come il genere contiene le specie,
0 un'idea più eslesa le meno estese; e che lo stesso essere in
quanto è consideralo in se stesso, segregalo per astrazione dalle
altre entità , può essere classificalo come una di queste (1).
114. Ma onde si prenderà la qualità comune, che essendo in
(1) Appunto per questo Parmenide non potè uscire dall'unità dell'ente,
perchè io considerò come puro atto segregalo da ogni suo termine. Questo
incaglio mosse Platone a dimostrare clie la stessa natura dell'essere invol-
geva una molliplicità nell'unità : all'incontro Aristotele, non fermandosi
qui, diede nell'altro estremo, cioè di riconoscere bensì l'essere come una
natura comune , prestandosi , come tale , alla divisione in categorie, ma ne-
gando che potesse essere qualche cosa di compiuto in se slesso, fuori di
tutte le entità limitate, o: Ma se — dice — sarà qualche cosa, rì, lo stesso ente,
« e lo slesso uno, sorgerà un gran dubbio, come ci sarà qualche altra cosa
« oltre essi? E dico, come gli enti saranno più di uno? Poiché quello che è
« altro dall'ente, non è. Laonde, secondo il ragionamento di Parmenide, ver-
« rebbe necessariamente che tutti gli enti sieno uno, e questo esser l'ente»,
{Metajìh. II (IH), 4). — L'argomenlaziono di Parmenide era giusta, qualora
s'intenda per ente Tessere iniziale separalo colla mente da tulli i suoi ter-
mini, come un'entità unica, o semplicemente Tessere puro. Ma non valeva
punto, se all'ente si dà il significato di essere iniziale unibile co' suoi
termini che lo finiscono e completano, ossia di essere comunissimo. Aristo-
tele in vece di riconoscere l'una e l'altra significazione del vocabolo ente, o
meglio essere, ritenne soltanto la seconda, come Parmenide aveva ritenuta
solamente la prima ; e considerò l'essere come l'alto di ciascuna cosa, non
come un allo o iniziale o compiuto in sé stesso.
87
pari lempo variabile somministri la differenza delle classi? —
Questa non è iinj)ossibile a rinvenirsi dopo che abbiamo distinto
il concello di essire paro, e quello di entità; e così siamo usciti
dall'iissoluta e sterile unità, e pervenuti a una dualità di prin-
cipi. La qualità comune e variabile dovrà trovarsi neWentità
stessa. Poiché se Vessere si segrega dalle entità, che non sieno
lui stesso, dunque anche le entità mentalmente si possono pensare
come segregate dall'essere, o per dir meglio tutte le varie en-
tità si possono distinguere per quello che hanno d'identico e di
diverso dall'essere, per modo che questa stessa aggiunta all'es-
sere iniziale — o maggiore, o minore, o nulla, o comecchessia
diversa — può essere la qualià variabile che somministri le dif-
ferenze delle classi.
US. Se noi dunque vogliamo fissare con un vocabolo tulio
quello che s'aggiunge nel nostro pensiero all'essere comunissimo,
lo chiameremo termine dell' essere. La varia natura dunque di
questi termini dell'essere, sarà quella che somministrerà le dif-
ferenze costitutive delle classi delle entità: e di conseguente le
somme classi de'termini dell'essere comunissimo saranno le ca-
tegorie, che noi ricerchiamo.
CAPITOLO II.
Gli antichi conobbero in qualche parte la difficoltà sovra esposta,
scontrandola per via nelle loro speculazioni.
Articolo I.
Primo aspetto in cui la difficoltà apparì aqli antichi :
sfugge ai generi degli enti la distinzione del reale e
dell' ideale
iI6. Gli antichi, che i primi poser mano a ridurre l'ente in
classi, e trovarono le Categorie, sentirono l'esposta difficoltà. Si
rileva da questo, che essi medesimi confessarono, che l'ente nei
diversi generi , in cui lo distinsero , non è univoco , cioè non
88
ammette lo stesso significato (1) ; il che è quanto dire , che
quella loro classificazione difetta contro la prima legge logica ,
che prescrive dover esser unici — e però prendersi nello stesso
significato — tanto il subietto che si classifica, quanto la qualità
secondo cui si classifica. Sagacemente Plotino fa loro questa
stessa censura; e per mostrare, che nei dieci generi essi pren-
dono equivocamente il vocabolo ente, « prima — dice — si deve
« domandare , se quelle dieci cose ci sieno tanto negl'intelligi-
(( bili^ quanto ne'sensibili, o piuttosto tutte ne'sensibili. In quelle
« poi, che spettano all'intelligenza, altre ci siano ed altre non
« ci siano « {il). S'accorge qui Plotino della immensa diversitcà
che passa tra l'essere ideale e l'essere reale, e ritiene che quelli
che hanno inventate le Categorie si sono dimenticati al tutto
dell'essere ideale, e però non hanno diviso tutti gli enti ( ou
TTccvroc rk ovtcx.), ma omisero quelli che sono massimamente enti
(rà ixaXiOTcn ovra), cioè gl'ideali.
il 7. A malgrado di questo, neppur Plotino vide ciò che e' è
di comune nell' ideale e nel reale , e però non ammette che i
medesimi generi degli enti possano trovarsi nell'uno e nell'altro
(ov ykp B» àymaXiv), e trova assurdo che 1' essenza significhi il
medesimo nelle idee che sono anteriori , e ne'sensibili che sono
posteriori ; e però vuole , che non costituisca lo slesso genere,
ma generi diversi, altri negl'intelligibili, ed altri ne'sensibili.
Mostrava così di non aver veduta 1' intima unione che nasce
nella mente umana tra 1' intelligibile ed il sensibile , e come
(1) Plot. Enn. Vi, L. I, 1.
(2) Ivi. — Aristotele stesso s'accorse che qui c'era una questione da farsi,
e tra le questioni die si propone nel terzo (al. II) ùq Metafisici {e. 1),
accenna questa: « Posto che i generi sieno principi: sono principi que' ge-
neri che ultimi si predicano degli individui , o i primi? come sarebhe: è
principio l'animale o l'uomo? ed è più principio che i singolari?;) dove, per
que' generi che si predicano gli ultimi , intende manifestamente i reali , e
per quelli che si predicano anteriormente, gli ideali. Ma non ammettendo
Aristotele idee o specie separale dalle cose, perchè non giunse a cogliere
l'oggettivila delle idee, e opinando per ciò, che col separarle altro non si
facesse che accrescere inutilmente il numero degli enti {Metaph. I, 9), e
così considerando le idee come pure forme, siano estrasoggettive siano sog-
gettive cioè del principio intelligente^ non poteva farne de' generi a parte,
come vuole Plotino.
89
quello presta I' essenza a questo , senza che l'essenza perda la
sua identità, e come quest'individua unione tra il reale e l'in-
telligibile , prima ancora che nella mente umana , si trovi ab
eterno. Di che avviene, che dell'essenza e del reale non se ne
possano fare due generi.
Articolo II.
Secondo aspetto in cai apparì agli antichi la stessa difficoltà , e
dubbio se le Categorie classificavano i principi degli enti , o gli
enti stessi.
118. Quando i primi s'accinsero a classificare gli enti , non
conoscendo le difficoltà del problema^ come accade sempre ai
primi nelle questioni metafisiche, vi si accinsero confidenti, cre-
dendolo men difficile di quel che è. Ma sopra l'opera, le diffi-
coltà si manifestalo, e abbiamo veduto come Parmenide s'arenò
nell'unità dell'ente, ii che scosse Platone e Aristotele a cercare
un'uscita. Non vedendole però in faccia, per così dire, ma sem-
pre di profilo e da qualche Iato , si credettero superarle con
qualche distinzione dialettica : non tornarono da capo, ma con-
vertirono le difficoltà , trovate in sulla via, in questioni acces-
sorie , che non dovessero rompere , come speravano , la loro
classificazione già beli' e fatta. Tale è la questione accennata:
se l'ente, che si doveva dividere in classi, si dovesse intendere
univocamente, o equivocamente; e si rassegnarono a confessare
che in quest'ultimo modo, senz'accorgersi che questo guastava
nelle midolla la loro classificazione (i),
119. Un'altra di queste questioni nascenti dalla stessa diffi-
coltà intrinseca, che abbiamo esposta, si è quella che tocca lo
(t) .Aristotele nega che la sostanza e Vaccidente sieno enti univocamente
delti ; ma soltanto la sostanza è vero ente, e gli accidenti solo sue apparte-
nenze, TosauTa^ws òk iiyo/^évo-J t&O Svtoì yavapòv, ori tovtwv itpStTov sv, tò ri
£(JTtv, omo <:r,ij.a.Oj&i Tr,v où^t'av — Tà S a).Xa iiysrzt óvra, Tw ToD outwj ovtos, tx fj.'tv
TTiuÓT/^Ta; tt-jxi^ rà ò= TTotÓT/jTzj, Tà Sì TtaS"/;, rà Si xl}.o xt -zeiot-zo-j. Mstoph. VI
(VII), 1. — D'onde chiaramente s'intende che le Categorie Aristoteliche non
sono una classificazione delle entità, ma sono altrettanti modi, ne' quali si
può dire , ossia predicare l'ente.
90
slesso Aristotele , « se i generi dogli enti sieno principi degli
enti, 0 sieno gli enti sl<essi che si dividono w (1), e gli uni so-
stennero una sentenza , gli altri l'altra (2). Pareva dovesse es-
ser chiarissimo , che altro è dividere in classi gli enti stessi,
altro è dividere in classi i principi degli enti: come dunque si
presentò una tale questione e parve importante? Appunto perchè,
quando toglievano a classificare gli enti, i filosofi s'accorsero che
la classificazione, che ne facevano, non riusciva ad essere una
classificazione degli enti , ma de' principi da cui risultavano gli
enti. Così Aristotele riducendo la classificazione degli enti alla
sostanza e aWaccidente, invece di classificare gli enti, avea di-
sciolto l'ente finito in due principi , cioè nella sostanza e nel-
l'accidente^ che uniti insieme compongono la maggior parte degli
enti finiti. E dico la maggior parte, perchè come osservò Plo-
tino , impacciati quelli , che avevano voluto dare i sommi ge-
neri degli enti, confessarono che la loro classificazione non ab-
bracciava tutti i generi , ma alcuni (5). Perchè dunque quei
filosofi si trovarono mutato in mano il problema , e accinti a
fare una cosa, e credendo d'averla fatta, s'accorsero nella fine
averne fatta un'altra? Appunto perchè l'ente, come ente, non
si prestava a quella classificazione che si voleva da lui, che,
dividendolo, non poteva che spezzarsi negli elementi o ne'prin-
cipi , rimanendo così ciascun di essi a parte non-ente. Invece
dunque di domandarsi « se i generi erano principi dell'ente w,
conveniva riconoscere che l'ente, come ente, non ammetteva
generi, e che la questione così presa era assurda, che era as-
surdo il cercare de' veri generi in cui si dividesse l'ente; ma do-
veano contentarsi piuttosto della sola questione : « quali sono gli
elementi dell'ente», o a quali i principi degli enti», che è la
questione originale de' Pitagorici. Ma questa stessa con un'Onto-
logia più avanzata sarebbe sparita dalle mani : poiché quando si.
fosse venuto a trattare della congiunzione di quegli elementi o
principi , s' avrebbe dovuto finir di conoscere che se alcuni degli
enti si compongono di quegli elementi in modo da restare nel-
(1) Arisi. Metaph. II (III), i.
(2) Così avverte IMotino, Enn. VI, L. I, 1 .
(3) Tivn Si Ttva oZrol tipr,^a9iv. Plot. Emi. VI, L. I, 1.
91
l'ente composto una distinzione tra essi elementi , in un ente
massimo e d'ogni parte assoluto i principi non ci sono più, e gli
elementi stessi spariscono in una semplicità ed unità perfetlis-
sims, di modo che mutano natura, e cessano del tutto d'essere
elementi. Onde qurlla non è più una classificazione degli ele-
menti di tutti gli enti; ma degli elementi d'alcuni, sfuggendo
ad essa il maggior ente, siccome quello che è privo d'elementi.
Di che in qualche modo s'era accorto Platone, che lasciò l'ente
per sé compiuto da parte, e parlò degli elementi, o delle passioni
dell'ente limitato, e se ne accorse pure Plotino, benché imper-
fettamente , quando disse che si dovea cercare a parte i generi
del mondo intelligibile ed eterno, e i generi del sensibile (1).
120. La questione dunque , se i sommi generi sieno principi
degli enti, è proposta e dispulata da Aristotele, la cui sentenza
sembra questa : Che se per principi si intendono gli elementari,
che sono insiti negli enti, e de' quali insiti si costituiscono gli
esistenti, é^ a>v saTi tu ovra, kvvTzcK.p'/oyTcov (2) , questi sono prin-
cijìì 0 elementi, ma non generi. Se poi invece di classificar gli
enti dalla materia, si classificano dalla forma, s' hanno dei ge-
neri che sono principi razionali non fisici , principi delle defini-
zioni, e conseguentemente de'ragionamenli. Poiché « i singolari
si conoscono per le definizioni , e i principi delle definizioni sono
i generi, onde conviene che anche delle cose definite sieno prin-
cipi i generi. Così pure, avere scienza degli enti é avere scienza
delle specie: ora i principi delle specie sono i generi » (3).
121. Questa doppia classificazione degli enti, accennata da
Aristotele, l'una dalla materia, l'altra dalla forma, ritorna in
qualche modo alla questione di Plotino , se i generi degli enti
reali e i generi degli ideali sieno i medesimi, o se il reale e lo
ideale non si devano confondere nello stesso genere, ma distin-
guersi come generi diversi, senza che si possano ridurre ad un
g'nere superiore e comune (^). Ma mentre il filosofo platonico
(lì ì^eWEnneida VI occupa i cine primi libri intorno ai generi del mondo
inlelligil)ile, e il terzo inlorno ai generi del niomlo sensibile.
(2) Metaph. Ili, 3.
(3) Ivi.
(4) Anche Platone, Tim. p. 52, dice ctie i reali sono omonimi alle specie,
92
riconosceva le idee come separate, e però enli per se sempi-
lerni, Arislotele le disconosceva per tali , e le considerava solo
come mezzi di conoscere, e forme secondo le quali, essendo prin-
cipi di conoscere, si classificassero gli enli, senza che esse stesse
potessero aver luogo tra gli enti classificali. L'uno e l'altro fi-
losofo errava, e la verità si doveva trovare tra tali estremi. Er-
rava Plotino, dandosi a credere che i generi degli enli ideali fos-
sero al lutto diversi dai generi degli enti reali, per non accor-
gersi che l'ente stesso era identico negli uni e negli altri, e che
le qualità generiche, appartenenti all'ente, erano pure identiche.
Errava Aristotele, escludendo le idee o specie dal novero degli
enti e dalla loro classificazione, opinando che i generi si riferis-
sero solo ai reali, e in questi, ne' quali comprendeva le idee come
qualità formali, la classificazione trovasse il suo solo fondamento.
Aristotele ben vide, che non si potevano nominare e definire le
cose , se non dalle loro idee , e che perciò l' universale , cioè
l'idea, non doveva essere equivoco ììWsl cosa, mm èfxcK>vv[jLov (1);
ma non s'accorse , che era impossibile di trovare 1' universale
ne' singolari , e che però era necessario ammetterlo anche da
essi diviso : onde errò persuadendosi , che l'uno universale fosse
ne' molli singolari, cosa assurdissima { Ideol. 234-274).
cioè si chiamano enti in significato totalmente diverso : e pure da tutto il
suo modo di speculare risulta che, separati dalle idee^ non meritano punto
il nome di enti. Che se egli avesse mantenuto costantemente questa seconda
maniera di parlare, avrebbe evitato il rimprovero che gli fa Aristotele
d'avere colle idee separate più che raddoppiato inutilmente il numero degli
enti, di cui si voleva dare spiegazione. E forse con quest'osservazione si può
spiegare e conciliare quel passo di Alessandro Afrodisio, dove, secondo la
traduzione del Sepulveda , dice: Secundum Platonem, formae non sunt
aequivocae iis, quae ad sui exemplar efficiuntur. Ap. Trendlenburg. Plat.
De ideis et numeris doctrina, ecc. p. 34,
(1) Poster. I, 11.
93
Articolo III.
Terzo aspetto e più diretto , in cui fu veduta la difficoltà :
l'ente è fuori d'ogni genere.
. 122. Ma Aristotele s'accorse più direttamente della difficoltà
in occasione d'esaminare la sentenza di Platone^ che ammettea
per elementi dell'ente lo stesso uno e V essenza, cioè il grande e
e il piccolo, l'indeterminato e il determinato, perfezionando la
dottrina de' Pitagorici. Ora dice Aristotele che « quelli che di-
ce cono elementi degli enti lo stesso uno e l'ente (l'essenza), o
« il grande e il piccolo, semhra che ne facciano uso come di gc-
« neri» (I). Ma osserva che i principi degli enti non si possono
prendere ad un tempo per clementi, di cui come d'ingredienti
si compongano gii enli^ e per generi. Poiché dice: «il concetto
dell'ente, cioè dell'essenza {Xóyog rriq ovciug aìg) è uno:» ma'
egli riceve due definizioni , altra essendo la definizione dell'ente,
che si fa per mezzo dei generi, altra quella che si fa per mezzo
degli elementi insiti, cioè che dice di quali ingredienti si com-
ponga (ò Xiycov et, &v ksTiv iy^7rcic/3p(;(jvTa?v). Dunque, se lessenza
ossia l'ente si prende per elemento, non ammette più la defini-
zione di genere : non può dunque essere ad un tempo elemento e
genere.
Prova poi che i generi non possono essere elementi. Po-
niamo, dice, che gli stessi generi, come si pretende, siano ele-
menti: rimane a cercare se si voglia questo de' sommi generi,
0 degli ultimi che si predicano degl'individui. Si dice che ap-
partiene più ai generi Tattribuzione di elemento, perchè sono
universali : secondo questo principio, tanti saranno gli elementi
(1) Mi sembra indubitato, che si riferisca a Platone e ai Pitagorici e ai
Platonici quet luogo de' Metafisici (III, 3) dove scrive : ^atvovrat H veni x«l
Tójv /i/óvTwv aTov/iix Tdiv óvTwv Tò £v r, TÒ óv T, TÒ [j-i'joi. xsà TÒ /j.iy.pòv. Il Tò óv è in-
dubitatamente l'essenza, chiamata anche da Platone ora tò óv ora tò /j-éy»
■/.xì TÒ /xiy.pòv ora oùaCx come abbia veduto neìV Aristotele. — Si noti il costume
d'Aristotele di confutare i sistemi fondandosi nelle sue proprie interpreta-
zioni e illazioni, di cui non sì mostra al tutto sicuro, onde anche qui dice
♦«ìvovTat.
n
degli enti, quanti i sommi e primi de' generi — i principi de' ge-
neri— , i quali si predicano di tulle le cose ; e perciò anche lo
stesso uno e lo stesso ente saranno elementi e sostanze. Ma è
egli possibile che lo stesso uno e lo slesso ente siano generi di
enti? In nessun modo: poiché l'essere e l'uno si predicano an-
che delle differenze, dicendosi che la differenza è e che è una,
onde in tal caso il genere si predicherebbe delle differenze , il
che è impossibile. Se poi l'essere e l'uno non si predicassero
delle differenze, le differenze non sarebbero, e ciascuna non sa-
rebbe una : e, se non ci fossero differenze , non ci sarebbero
neppure sotto il genere le specie che risultano dal genere e
dalla differenza. Dunque l'ente e l'uno non possono esser generi,
di cui è proprio l'avere sotto di sé specie formate dalle diffe-
renze. E poiché si vuole che i principi degli enti sieno i ge-
neri, non potendo esser genere l'ente e l'uno, né pure potranno
esser principi (1). E seguita a dimostrare gli assurdi, che pro-
verrebbero dall' ammettere l'ente e l'uno come principi ad un
tempo e come generi, perchè e le specie e le differenze e gl'in-
dividui, e tutte le cose che sono e sono une, sarebbero generi
e principi, e così sarebbe perturbato lutto l'ordine, in che Tuni-
versilà delle cose si distingue e risplende.
L'aver dunque conosciuto Aristotele, che l'ente è fuori di
tulli i generi, e che dal concetto di ente non si può cavare
alcuna differenza che dislingua gli enti in generi, é un aver
veduta la difficoltà che involge quel problema che noi abbiamo
chiamato delle Categorie. Ma come dunque chiama poi egli le
(1) Metaph. Ili, 3. — E ciò non ostante Aristotele chiama generi uni-
versalissimi l'ente e l'uno, come nel X de' Metafisici , e. i, e altrove.
Onde questa specie d'antilogia? — 'Aristotele non ammette, che l'ente e
l'uno, siccome nò pure gli altri universali, aljbiano un esistenza propria,
ma vuole che esistano soltanto nelle cose. Partendo da questa maniera di
concepire non si può intendere, che l'ente e l'uno sieno generi separati, poi-
ché di tutte le cose, anche delle differenze, si predicano. Tuttavia è ob-
bligato Aristotele stesso a convenire, che almeno davanti alla mente con-
templatrice, l'ente e l'uno separali da lutto il resto, e perciò anteriormente
alla loro relazione di predicati, sono qualche cosa. È dunque obbligato ad
ammettere, che sieno àe generi scientifici, oggetto della I*rima Filosolia. E
uno sdrucciolo che dà involontariumcnle, ma necessariamente, verso il si-
stema di riatone.
95
categorie generi dell'ente? Appunto perchè aWente egli dà sola-
mente un'unità analogica, e non ammette veramente un ente fuori
delle cose finite che sia puramente e per essenza ente. Ma doven-
dosi l'analogia stessa fondare in un concetto comunissimo del-
l'ente, ricade di necessità a prendere per subietto della divi-
sione quello stesso^ che abbiamo noi posto e chiamalo 1' essere
iniziale. Lasciando dunque da parte il vocabolo d'ente, e ado-
perando quello di essere nel primo suo significato di atto senza
alcun termine determinato j, l'essere così preso può sommini-
strare il subielto di una ripartizione, perchè può prendere dal
suo termine le differenze necessarie a distinguere le varie classi.
CAPITOLO III.
Della denominazione di Categorie.
1*53. Categoria, xuTtiyopix, viene a dire, nel senso filosofico,
predicazione, da xATtiyopéa, accuso, predico.
124 Noi abbiamo creduto bene di conservare questa parola
antica, restringendola a significare le ultime diversità, che si
possono notare entro l'essere (I), e quindi le ultime classi delle
entità. Il bisogno d'avere un vocabolo atto a significare questo
concetto vi c'indusse, e non ci pare senza ragione.
In fatti, abbiamo veduto, che qualunque classificazione esige
due cose :
i° Un subietto unico, che è quello che si divide e classifica;
2° Una qualità, che è il fondamento, secondo cui si divide e
classifica.
(t) Anche Aristotele restrinse' il significato di Categoria — che secondo l'ori-
gine della parola indicliereblje qualunque predicazione,' — a significare quelli
che egli chiama i sonimi generi degli en(i, e che più propriamente si do-
vreljbero dire i sommi predicati. Ma noi repiitiamo, come apparirà in pro-
gresso, che i sommi predicali o predicabili non sieno propiiamenle i sommi
generi degli enli , e mollo meno sieno quelli che classificarono Arislolele
e Porfirio, ma siano le forme originali e primitive dell'esseri.', in quanl'esse
servono poi di fondamento alle somme classi , e poi ai generi degli enli ,
il die s'intenderà in progresso.
96
Ora una qualità, presa in senso universalissimo , come qui la
prendiamo, è sempre un predicabile che s'atlribuisce in un modo
0 in un altro — o più o meno, o anche si nega del tutto — al su-
bietto unico della divisione e classificazione. Perciò gli antichi,
che dopo Socrate s' applicarono specialmenie alla Dialettica , e
propriamente Aristotele, trovarono convenire ai sommi generi,
in cui divisero l'ente, com'essi dicevano, la denominazione di
Categoria, o di predicamento.
423. Questa parola spezza veramente l'ente in due parli ,
cioè in un subietto e nei predicati , che gli si attribuiscono, e
classifica questi secondi, ma per mezzo di questi divide il su-
bietto stesso, come abbiamo veduto, non potendo il subietto, che
è unico e comunissimo, diventare differente, e diventar molti ,
se non in quanto si considera unito a diversi suoi termini, i
quali di lui predicandosi aquistano il nome e l'essere di /predicati.
12G. Che, se per predicamento s'intende \o slesso modo di pre-
dicare {Logica, i02, sgg.), il nome di predicamenli esprime i di-
versi modi di predicare. Ma questi stessi modi, quando si predica
attualmente e con verità, dipendono dalla natura de' predicabili,
e si convertono in predicabili essi stessi. Poiché, se si dice, a
ragion d'esempio, che si predica l'uomo d'una statua in un modo
analogico, questo modo d'analogia entra nel predicato e lo mo-
difica, predicandosi della statua non altro se non « ciò che è
analogo all'uomo ». Ai predicabili dunque (nona quelli di Por-
firio, ma ai predicabili quali sono in verità) si può sempre ri-
durre ogni classificazione delle entità.
427. Uessere comunissimo dunque conviene che prenda il fon-
damento della sua classificazione in un altro — cioè in cosa, che
dialetticamente sia altro, — nel suo termine, ossia in qualche cosa
che gli si possa attribuire come predicalo. Qual sia la natura
di (\yiQsV altro, di questo termine, in cui si fondi la divisione o
distinzione dell'essere, lo cercheremo in appresso. Qui ci basta
di far intendere come la parola Categoria possa ricevere suffi-
ciente estensione per abbracciare ogni distinzione, o divisione,
0 classificazione, che si possa mai fare delle entità.
428. Veramente la parola Categoria parrà piuttosto dialettica
che ontologica. Ma è appunto la dialettica l'unico fonte, onde si
può attingere il linguaggio dell'Ontologia, come c'insegna Pia-
97
Ione. l'oichè, essendo anche questa una scienza, non può parlare
JcH'esserc che in quanto si fa conoscere e come si la cono-
scere : appartenendo questa stessa virtù di farsi conoscere , come
vedremo, alla natura dell'essere.
i"21). La qual parola di Categoria, perciò appunto che è tolta
dal modo di conoscere , ha il vantaggio di non pregiudicare
le diverse questioni affini, non distinte sufficientemente dalTan-
tichità, per e-empio la questione: se lo idee ahhiano un'esistenza
separata dalle cose: e l" altre che diremo in appresso. Poiché
prima conviene dare un qualche ordine a tutti gli oggetti, che
cader possono nella mente, e poscia vedere quali di essi ahhiano
un'esistenza propria anche fuori della mente, quali no. Che se
si classificassero od ordinassero solamente i primi, i secondi
esclusi dalla classificazione impaccierebbero la scienza.
150. Vero è, che la parola Caletjorui rappresenta le cose
conosciute analiticamente, perchè divide il subielto ed il predi-
cato; tuttavia ella stessa ha in sé la virti!i emendatrice di questo
difetto, poiché la scienza di predicazione (Psicol. ^lASri-l'iOl*), che
per sé e col suo primo atto suppone gli enti divisi , é quella
stessa che negando poi questa divisione, e predicando la perfetta
unità, risarcisce lo squarcio ch'ella avea fatto da prima nell'ente.
15J. Ma quello, che é più diluito necessario d'aver presente
in questa ricerca delle Categorie, si è che il subielto della di-
visione, essendo V essere iniziale e comunissimo, non è altro dì
conseguente che un subietto dialellico, il primo e il più remoto
de' subietti dialettici. Sarebbe dunque un errore confonderlo
con un subielto reale, quand' é astrattissimo e tale che riceve
la natura di subielto primo ed universale unicamente dalia ma-
niera di concepire dell'umana mente.
Egli é tanto più necessario por mente a questo, che la nvàn-
canza di una cosi fatta avvertenza fu la causa del Panteismo, che
guastò la filosofia specialmente in Germania, e in fine la con-
sunse. Poiché, chi scambiasse per avventura V essere iniziale di
tulle le entità, e comunissimo, coH'c.^.srr^ cnniplelo nella sua na-
tura. ossia coH'essere assoluto e realissimo, che é Dio stesso,
questi arriverebbe all'errore enorme e grossolano di fare che
tutte le entità fossero predicali e però qualità di Dio , e c.o^ì ne
comporrebbe il mostro de' Panteisti.
Rosmini. Teosofìa. 7
98
Quando dunque si considerano por noi tutte le entità come
termini e come predicati dell'essere, si parla allora d'un essere,
che non ha una esistenza propria in sé, ma che esiste soltanto
davanti alla mente come una specie d'ente di ragione. Che anzi
per questo appunto noi distinguiamo queste tre cose, Vesserò ini-
ziale, Venlità, e Venie. Poiché chiamiamo essere iniziale quel-
l'atto d'esistenza, che é comune a tutte le entità concepibili;
entità ogni oggetto che si pensa in qualunque modo, come uno,
dalla mente umana: ente finalmente quelle tra le entità, che hanno
tutto ciò che si richiede, acciocché possano esistere in sé slesse,
e non soltanto alla mente , o possano come esistenti in sé stesse
essere pensate. Laonde ente è ciò, che ha un termine in
qualche modo compiuto e da sé stante; entità è ciò che
ha un termine sia compiuto o no; essere iniziale è ciò, che
non ha termine alcuno, ma è puramente atto iniziale d'ogni
esistente.
Vessere dunque veduto dalla mente in quest' astrattezza è im-
perfettissimo, perchè separato per opera della mente da ogni
suo termine e finimento, ed è quello , che chiamiamo anche es-
sere ideale indeterminato.
45'2. Riassumendo dunque noi ora il problema delle Categorie
fin qui dichiarato ;
1° V essere iniziale preciso da tutti i suoi termini in modo,
che non si consideri pili la congiunzione che può avere con
questi, è un puro oggetto dialettico. Come tale è uno e sempli-
cissimo, non ammette nel suo seno varietali sorta, e però ninna
divisione, né classificazione; ma egli slesso piuttosto è una delle
entità classificabili.
2° Se quest'essere iniziale si considera nella relazione e nella
congiunzione co' suoi termini, in tal caso egli acquista il nome
universalissimo di entità.
Ora poiché quando un termine é congiunto coll'essere iniziale
diventa una cosa non lui, cioè un'entità unica, possiamo inferire,
che è proprietà dell'essere iniziale di divenire davanti alla menle
nostra tutte le entità dalia mente concepibili.
Dire che Vessere iniziale può divenire le entità — cessando cosi
d'essere iniziale, almeno puramente iniziale — é il medesimo che
dire ch'egli è in potenza tulle le entità, ossia che ha virlual-
99
mente tutte le enlitcà nel suo seno : di qui egli acquista il li-
,tolo di essere possibile.
Queste entilù, che sono nel seno dell'essere iniziale virtual-
mente, si j)ossono acconciamente chiamare varietà inesistenti
virtualmente nell' essere.
ù" V essere iniziale dunque, che per se solo è uno e indi-
visibile, congiunto con questi diversi termini, che sono sue at-
tuazioni ulteriori, diventa vario, e cosi ammette una divisione
e una pluralità, altro divenendo congiunto con un termine, ed
altro ed aitnì congiunto e proteso in altri termini.
4" Questi termini si possono predicare sempre del medesimo
essere, avendo l'essere per inizio loro comune, potendosi sempre
dire «l'essere è dotato del tale e del tal termine». Onde la
varietà e la divisione dell'essere risponde alla varietà e divisione
de'predicati di lui, possibili a concepirsi.
5° Se questi predicati si ordinano in classi, e queste in
classi più ristrette, e con questo lavoro s'arriva alle classi prime
e fondamenlali, queste danno di conseguente la prima e fonda-
mentale classificazione delle entità: e queste ultime classi sono
quelle, a cui diamo il nome di Categorie e che or dobbiamo
ricercare.
CAPITOLO IV.
Dì alcune questioni affini non distinte bastevolmente
dagli antichi filosofi.
133. Dobbiamo dunque classificare i termini dell'essere iniziale.
Ma questi termini possono esser classificati in molte maniere, e
si tratta di rilevare quale sia, come dicevamo, la prima e fon-
damentale, di maniera che abbracci tutte le altre.
Le entità sono legate tra I(»ro in molle maniere, ed è certa-
mente da questi legami, che conviene derivare la loro classi-
ficazione. Appunto, perchè questi legami sono vari, furono pro-
poste classificfizioni diverse, e nacquero di quelle questioni affini
a quella delle Categorie^ che abbiamo superiormente accennate.
Queste questioni affini sono cinque principali, cioè;
I. Quali sono i principi, ossia le cause delle entità : primo
100
modo di classificare le entità aggruppandole ai loro principi o
cause,
II. Quali sono gli elementi costitutivi delle entità: secondo
modo di classificare le entità, dagli elementi di cui si com-
pongono.
III. Quali sono i generi delle entità: terzo modo di classi-
ficarle, secondo le idee più universali ossia comuni (i).
IV. Quali sono le forme dell'essere: quarto modo di classi-
ficare le entità, secondo che appartengono piuttosto a una forma
primitiva, che ad un'altra.
V. Quali sono le somme classi degli enti: qui non si tratta
più di entità, parola , come vedemmo , che abhraccia tutto ciò
che si distingue col pensiero; ma degli enti, cioè di quelle en-
tità compite , che possono non soltanto esistere nella relazione
colla mente, ma anche sussistere in sé.
ÌZU. Non è diffìcile accorgersi die tutti questi cinque concetti,
i principi, gli elementi, i generi, le forme dell'essere e le somme
classi degli enti, possono acquistare la condizione di predicati,
come quelli che sono lutti atti ad essere predicati dell'essere.
E veramente i principi e le cause si predicano dell' entità ,
quando si dice: « queste entità sono causate dai tali principi w.
Gli elementi si predicano dell'enlilà, quando si dice: « l'entità
è composta di tali elementi ». I generi si predicano dell'entità,
quando si dice: « quest'entità ha la tale qualità generica », o
« è compresa in questo genere «. Le forme si predicano delle
entità, dicendosi: « l'entità ha la tale forma », ovvero « è sotto
questa forma ». Le somme classi si predicano dell' ente allo
stesso modo dei generi, e dirò in appresso in che dai generi si
distinguano.
Dalle quali cose risulta , che si possono distinguere cinque
specie di predicati , in ciascuna delle quali si può cercare i
sommi ossia ultimi predicali , e quindi in questo senso cinque
specie di Categorie. Non è dunque maraviglia che gli antichi ,
(t) Che altra fosso la questione dcprincipì, aìlvaqnGÌÌà de sommi generi
ì'a notalo da Plotino , dove rimprovera ai Cinici , clie nelle loro Categorie
oj Tìt 5VT« j5ap(&,uoOvTKt, uXy '■'■p'A^i Twv óvToiv ^r,x<j\><si,, — Emi. vi, 1, 25. Cf.
Enn. VI, I, 1.
40(
cercando le Categorie, abbiano confuso quelle cinque questioni;
né i filosofi moderni hanno certamente pensalo a distinguerle.
CAPITOLO V.
Questione dei principi o cause delle entità.
i55. Che queste cinque questioni abbiano affinità tra loro
risulta da questo appunto, che ciascuno de' cinque concelti , a
cui si riferiscono , abbraccia una specie di predicabili, e che i
predicabili sommi in detta specie si possono chiamare Categorie
relative a quella specie.
Ma se per Categoria s'intende, come abbiam detto, un predi-
cato che sia primo e fondamentale relativamente a tutte le specie
delle entità, rimarrà a domandare quale tra quelle cinque specie
sia anteriore e primitiva rispetto alle altre. Quali i sommi
predicali non ristretti entro una specie , che già suppor-
rebbe una classificazione anteriore j ma rispetto a tutte affatto
le entità?
Ora egli è chiaro prima di tutto , che tali categorie non si
possono dedurre da' principi, ossia dalie cause degli enti (1),
perocché non tutte le entità hanno cause o principi; e però ri-
marrebbe esclusa da questa classificazione la prima causa, e in
generale tutte le cause, come cause, altro non facendosi che di-
stinguere i causati. Né varrebbe il dire , in quanto alla prima
causa, che ella si potrebbe classificare appunto dalla mancanza
di causa, come dal contrario della qualità con cui si classifica;
primieramente perchè rimarrebbe sempre esclusa dalla classifi-
cazione la causa come causa, di poi perchè la prima classifica-
ci) Principio ò più universale di causa (Cf. S. Tti. S. I. xxxm. I.ad i.),
bencliè Aristotele (Metaph. IV (V), 1) e i greci prendano l'una parola per
rah.ra. La distinzione fu introdotta da'teologi greci, come osserva S. Tom-
maso — bencliè ci abbia forse qualche esempio anche appresso i latini , in
cui il Padre è detto causa, rispetto al Figlio, come in S. Agost. de Trinit.
VII, 4, — e conviene ritenersi, perchè sono due i concetti diversi, che hanno
bisogno di diverse espressioni.
102
rione non può fondarsi sopra una qualità negativa, essendo an-
teriore sempre quella che si fonda sopra una qualità positiva.
In secondo luogo, uno stesso causato si dovrebbe riferire a
più cause, giacché diversi generi di cause concorrono a produrre
un medesimo ente., poniamo la causa esemplare, refficiente e la
finale. Non potrebbero dunque le cause dare un sufficiente fon-
damento alla classificazione delle diverse entità.
In terzo luogo, la classificazione delle entiià, per via della
loro cj.usa , non sarebbe fondata in alcuna determinala qualità
inesistente o inerente alle entità classificate , ma in una rela-
zione con altro, cioè colle loro cause.
E nuove ragioni sono queste, che dimostrano, che le Cate-
gorie aristoteliche non possono tenere il luogo di quelle, che noi
cerchiamo. Poiché Aristotele colle sue Categorie altro non fa ,
che dividere la causa formale: essendo quelle sue categorie dieci
generi di forme e non altro, la prima il genere delle forme es-
senziali, le altre nove generi di forme accidentali. Le altre cause,
che Aristotele stesso distingue, la materiale, la motrice, la finale,
Bono entità che, come cause, rimangono escluse da quella clas-
sificazione.
In quarto luogo, la divisione delle Categorie sarebbe poste-
riore alla divisione delle cause, e però non sarebbe più la prima
classificazione dell'essere.
In quinto luogo, dovendosi classificar prima le cause, e queste
distribuendosi in serie (poiché ci sono cause più o meno pros-
sime e rimote all'effetto) . converrebbe investigare quali sieno
le primissime cause. Ora quando il filosofo sia obbligato a mei-
tersi in questa investigazione delle primissime cause, è giuoco -
forza ch'egli pervenga a conoscere, che di cause primissime non
ce ne sono, e non ce ne può essere che una sola, cioè Dio (I),
(i) Aristotele non è perveniilo a scoprire l'unità della causa. Poicliè seb-
bene riduca in un ultimo principio le tre cause, formale, finale, e motrice,
e anche questo non peifetiamente, gli sfugge però la causa materiale, che
è la quarta delle cause da lui ammesse, poiché non giunse alia creazione,
e si trovò in mano quella materia eterna, che lo inipaccia da tulli i lati.
Laonde sebbene riponga la sapienza nella cognizione delle cause ullime
{Metaph, I. 1, e 2.), e quindi nella cognizione di Dio », tì yyp Sìòs òo-aiX tò
«'ttov Tiv.w zr.v'xt y.xi upxó'^ii ('"f. Metaph. XI (XII), 4.; De Coel I. 9.); tuttavia
403
e in tal modo si vedrebbe di novo ricondotto alla perfetta unità
dell'essere, e quindi ritoltasi di mano ogni possibilità di classi-
ficazione; elle ciò cbe si riduce ad una perfetta unità , non si
divide più né classifica. Come Vessere puro in quanl'è iniziale,
come unità segregala colla mente dal resto , non si presta ad
esser subielto d'alcuna classificazione, cosi né pure , anzi molto
meno, l'essere puro e assoluto, cbe per se stesso è da ogni altro
ente finito sogregatissimo di natura. Ma ridotto il filosofo per
la seconda volta in quest'angustia dell'essere uno , qui appunto
trova dove allargarsi. Poicbé può domandare a sé stesso , se
l'essere sia in più forme o in una sola: e dove gli venga tro-
valo che egli , secondo la sua natura di essere , è necessaria-
mente identico in più forme, già con questo ha sciolto il pro-
blema, poiché queste forme sono altrettanti principi, in ciascuno
de'quali lutto l'essere si contiene: ond'essi e abbracciano tulto^
e però ad essi tutte le entità si possono riferire, e non dividono
tuttavia l'essere in quanto è indivisibile ed uno.
CAPITOLO VI.
Questione degli elementi.
iù(S. Se dalla diversità delle cause non si può trarre una clas-
sificazione delle entità, molto meno dalla diversità degli elementi
di cui gli enti si compongono.
Primieramente , perchè la parola elemento indica qualche
cosa di meno universale della causa (1) , perchè indica so-
rimane sempre la materia come un altro principio, e Iddio non è il prin-
cipio assolutamente , ma àp//, tc?. Tuttavia nell'ordine della scienza anche
per Aristotele c'è una sola causa ultima^ e quest'è Dio, che riunisce in se
il triplice concetto di causa formale, finale e motrice, sehbone incompiu-
tamente perchè inattivo al di fuori di sé.
{{) Principimn communius est quam causa, sicut causa communior quam
elementum. S. Th. S. I. xxxui. 1. ad 1. —Quindi .Aristotele, che alle so-
stanze sensibili assegna quattro cause, la materia, la forma, la privazione, e
il movente, dice: le tre prime essere elementi inesistenti e componenti la
sostanza sensibile, l'ultima esser causa, non elemento {Metaph. XI (XII) 4).
lamenle ciò che è insilo nell' entità , e di cui Tentila si
compone.
Di poi , perchè non tulle le entità sono composte, e io stesso
essere puro non è composto d'elementi , ma è semplicissimo.
In terzo luogo, se si dovesse stabilire la classificazione delle
entità sugli elementi , si dovrebbe prima di tulio classificare
gli elementi slessi. Ma quesla classilicazione condurrebbe la mente
a trovare un primo elemento unico , il quale sebbene non è
proprio di ciascuna entità (onde gli fu negata da qualche filosofo
la denominazione d'elemento), tuttavia è ad ogni modo un ele-
mento comunissimo; e quesl'è appunto l'atto iniziale dell'essere,
senza il quale nessuna entità si può concepire, e pure è distinto
dal suo termine , e però non è tutta 1' entità , eccetto allora
quando esso stesso si considera a parte , preciso da ogni ter-
mine; sotto il quale aspetto esso non è più elemento, ma l'en-
tità stessa. Se dunque gli elementi ultimi delle entità si ridu-
cono ad uno, egli è evidente che le supreme classificazioni non
si possono prendere dalle ultime classi d'elementi, perchè queste
non ci sono, svanendo nell'uno. Ci rimane piuttosto in mano il
subietto stesso della classilicazione, quando quest'uno si consi-
dera come essere iniziale suscettivo di vari termini.
E ben chiaro, ciie quando s'incominciò a filosofare, e in ge-
nerale nell'antica filosofia, non s'erano potute fare tante distin-
zioni. Si cercarono piuttosto i sommi generi degli enti, che non
sia di tutte le entità. E per far questo si spezzò l'ente ne' suoi
elementi (1).
J37. E questa è la via ehe, seguendo i Pitagorici, tenne lo slesso
Platone. Poiché analizzò la nati;ra dell'ente con un'osservazione
sottilissima, e conobbe che l'ente non poteva essere ente, senza
che constasse di alcuni suoi elementi. Ma , così dicendo , egli
parlò dell' ente che avesse possibilità di sussistere , e non del-
(1) PJatonti nella prima parte del Panneiiide consiilerò l'ente senza i suoi
termini, rpiello clic noi chiamiamo « essere iniziale preciso colla mente
da'suoi termini j ; e lo annullò, cioè dimostrò, che così solo non poteva
avere alcuna esistenza in sé; nella seconda parte Io rivestì de'suoi termini,
e così mostrò, che nell'unità dell'essere c'era la pluralità, e conchiusc, che
senza di questo l'essere uno non poteva stare, sciogliendo così il nodo di
Parmenide per bocca dello stesso Parmenide.
l'essere iniziale , quale il può considerare la mente distinto dai
8Uoi termini. Trovali i coneelti elementari dell'ente insiti nella
sua essenza, vide ancora ch'egli poteva assumerne di acciden-
tali , e quindi dedusse che il concetto dell'ente si trasformava
nel concetto di molli enti, secondo che abbracciava l'uno o
l'altro gruppo di questi ultimi, trovando così la maniera d'uscire
dalla sterile unità dell'ente. Con questo ragionare scoverse un
fondamento, sul quale classificare in generi questa moltitudine di
enti così derivali, che non abbracciavano però tutte le entità.
Quando Aristotele, come vedemmo {Aristotele ,56, sgg.; 149, sgg.*),
tolse a confutare Platone e i Platonici, dicendo che gli elementi
non potevano essere generi, sebbene dicesse una cosa vera, non
dicea però nulla che potesse confutare eflicacemente la sentenza
di Platone, che egli materializzò e dimozzò. Poiché è certamente
vero che gli elementi per sé stessi non sono generi, ma diven-
tano indicazioni e caratteri del genere, se si prendono come
predicati dell'ente. Certo, che non possono esser tali, se si ma-
terializzano, cioè si considerano come reali, il che sembra fare
appunto Aristotele. Ma Platone ammette elementi non solo delle
cose reali, ma anche delle idee, ed Aristotele stesso poco coe-
rente lo confessa, e di più gli ammette egli medesimo (1). Ora
se si moltiplicano le idee per la varia composizione degli ele-
menti, qual difficoltà ci può essere che queste varie idee siano
fondamento di vari generi? Starà solo a vedere, se questa sia
una partizione suprema e che abbracci ogni entità. Intanto lo
slesso Aristotele non fa, e non può fare altro col novero delle
sue categorie ; che la sostanza e gli accidenti sono elementi ,
ed egli pure confessa, che i generi sono universali, e che dagli
universali tutte le cose si nomano e si classificano e si dimo-
strano, conoscendosi per essi {'2).
(1) Jy. i/.iijbti i-:'jv/y.'j. rAt-.wt wr^r^ twv Óvtwv Cvì'jx tr'ji/v.x. Metdpìl. I, 6. —
Cf. Metaph. I, 5; XIII, 7.; V, 8. De An. I, 3.
(2) Aristotele, dice Poster. \, 11. « È necessario , elio veramente si dica
« esser uno ne" molli, perchè senza di ciò non ci sareiilie nviversalc. Che
« s« non ci fosse universale , non ci sarebbe il mozzo, e por ciò né manco
ff la dimostrazione. È (liiui|uc mestieri , ciie ci sia qnalclie uno , e il
9 medesimo nei più, non omonimo (/'v; òu'j'ivuao-j) » Quesl" ultima parola
indica la differenza caratteristica, che vuol porre .\ristoteIe tra il suo si-
i06
CAPITOLO VII.
Questione de' generi degli enti.
158. Dalla questione degli elementi, dunque, si doveva pas-
sare, e si passò a quella de'generi. Ma questo passaggio dopo
essersi fatto doveva suscitare delle difficolt.à, perchè gli elennenti
non s'erano classiticati a principio con bastevole avvedimento e
sagacità, il che se si fosse fatto, s'avrebbe veduto, coma abbiamo
detto, che per questa via non si polea pervenire ad una prima
partizione o distinzione dell'essere. E oltre le cose dette, si trova
anche questo impedimento, che gli elementi stessi hanno due
forme, l'ideale e la reale; e gli elementi di cui coosta il reale,
essendo di natura individua e singolare, non possono mai co-
stituire de'generi. Di che tolse Aristotele a censurare quelli, che
gli elementi dicevano generi, o i generi elementi, prendendo
questi per ingredienti delle cose reali.
139. Un'altra difficoltà nasceva da questo che essendo gli
elementi parte essenziali all'ente, parte accidentali, i primi non
potevano servire di fondamento alla distinzione de' generi, perchè
dovevano trovarsi in ogni ente, e però non ammettevano dif-
ferenze necessarie, acciocché l'ente si moltiplicasse in più generi,
sulla quale ragione fondato Aristotele nega costantemente, che
l'essere sia un elemento degli enti. Ma quando nega questo,
egli prende l'essere in tutta l'estensione della parola, e non
s'accorge, che questa parola essere ha un altro significato nel-
l'uso, quello d'essere iniziale. Poiché la mente umana ha una
facoltà di considerare anche ciascuno degli elementi essenziali
dell'ente da sé, separato dagli altri. S'aggiunga che, prendendo
per base della classificazione gli elementi essenziali dell' ente,
sfcma e quello di Platone ; percliè questi aveva detto, che le specie sono
omonime alle cose (Tini. p. 52, A.)^ dal che Aristotele traeva, che non
potevano essere fondamento di cognizione delle cose e delle dimostrazioni
intorno ad esse. Ma egli dimenticava, che Platone considera le idee sotto
due relazioni; come separate dalle cose e così le vuole omonime; e come
partecipate dalle cose, e così le fa sinonime, poiché da esse si chiamano
e si conoscono le cose. Di questo più altrove.
107
rimangono esclusi dalia classificazione gli elementi accidentali;
e se prendonsi questi per base, rimangono esclusi gli elementi
essenziali : e prendendosi gli uni e gli altri, la classificazione
difetta, perchè muta di base, e sono due le classificazioni, non
una sola.
ìliO. E quesl'è una nova ragione, che prova difclloso il
novero delle Categorie aristoteliche. Poiché ridncondosi tutte a
sostanza e ad accidente, ad ogni modo non ha una base unica,
ma ne ha due.
\M. Di più: qual'è il subietlo di tale classificazione? L'essere
comunissimo, si dirà. Ma questo non si divide già prima di tulio
in sostanza e in accidente. Ciò, che prima di ogni altra cosa esso
contiene virluahnenle in sé, sono gli enti, e in questi si divide:
e solo di poi questi, e anzi solamente alcuni di questi, si possono
spezzare nelledue entità elementari, sostanza e accidente. Laonde
la sostanza e l'accidente non appartengono propriamente par-
lando né agli elementi essenziali, né agli elementi accidentali del-
l'essere; ma sono agli uni e agli altri posteriori. È dunque più vi-
cina al vero, che si cerca, la distinzione platonica fondala sugli
elementi propri dell'essere {Aristotele .4S5 sgg.*), che non sia l'ari-
stotelica tratta dagli elementi propri ddV individuo vago {Ivi ,63
sgg.*) che è posteriore all'essere nell'ordine delle idee.
142. Ma conviene, che noi dimostriamo di più, che i generi,
qualunque siano, non possono mai costituire la prima distinzione
che si trovi nell'essere.
Primieramente egli è chiaro, che nessuno de'generi in cui
si pretenda distinguere l'essere, può contenere da sé solo l'essere
intero, sia che questo si prenda virtuale, sia che si prenda at-
tuale. Di qui consegue, che l'essere intero rimane escluso dalla
distinzione e classificazione delle entità. Questa dunque non è
completa, escludendo la principalissima.
Di poi, l'essere virtuale e l'essere attuale differisce da ciascun
genere. Ora questa differenza è anteriore alla distinzione e alla
differenza, che hanno i generi 4ra loro: e però i generi non
possono inai rappresentare che prime (iifi'erenzc e varietà del
l'essere stesso. Si dirà forse, che questi stessi saranno i due
primi generi, cioè l'essere universale e l'essere generico, o
fornito delle prime sue determinazioni. Ma si risponde, che l'essere
^08
universale non può cosliluire per sé un genere , perchè esso è
unico e senza specie o generi minori: dunque quelli non costi -
tuiscono due generi.
In terzo luogo, i generi hanno un elemento comune, che è
l'essere iniziale^ e un elemento proprio. Per questo secondo dif-
feriscono tra loro. Ora queste differenze de' generi, la loro
esclusività perla quale dicendosi l'uno si negano tutti gli altri ,
sono anch'esse entità, che non possono esser contenute ne' generi
slessi. Si risponderà di raccoglierle esse stesse in un altrogenere.
Ma in tal caso questo sarebbe un genere inferiore ai primitivi,
e rimarrebbe sempre vero che i generi primitivi non abbrac-
ciano tutto l'essere.
In quarto luogo, i generi hanno per proprio loro carattere il
contenere virtualmente delle specie o generi minori, i quali,
toslochè attualmente appariscono, si dicono divider l' essere: e
così pure i generi medesimi devono essere contenuti virtualmente
nell'essere universale, iniziale, indeterminato. Ma se si considera
quest'essere universale, si trova che egli contiene virtualmente
— secondo la veduta della mente — un essere assoluto, sempli-
cissimo, in una parola Dio, il quale non ammette in sé alcuna di-
stinzione né generica né specifica. Ciò posto, l' essere universale
e astrattissimo non s' esaurisce co' soli generi, che in esso
si distinguono; ma oltre i generi egli contiene assai più,
cioè l'assoluto essere. Dunque i generine esauriscono l'essere,
né sono la prima distinzione che in esso trovi la mente ; poiché
la mente trova in esso virtualmente compreso da una parte
r essere attualissimo, non suscettivo di divisione generica, dal-
l'altra un altro suo termine, che si lascia dividere in generi.
1^3. Le quali ragioni, e specialmente la prima e la quarta,
dimostrano:
{" Che la partizione in generi non può darci la prima
varietà e partizione, che nell'essere trovi la mente;
2° Che questa prima partizione non può essere altra che
quella delle forme primitive, in cui l'essere sia: poiché in tal
caso essendo tutto l'essere in ciascuna, questo è abbracciato
tutto intero da ciascuna di quelle forme, e però si distingue senza
spezzarsi e distruggersi.
409
CAPITOLO Vili.
Questione delle Classi degli enti.
ìkk. Abbiamo veduto^ che nell' essere iniziale non si trova
nessuna difTerenza : è perfettamente uno ; e che per ciò Tunica
differenza e varietà che possa indicare una sua partizione o
distinzione quahmque, deva prendersi dalla congiunzione ch'egli
ha co' suoi termini (J45, 422, 127, 132*).
Di pili, abbiamo veduto, che il detto essere iniziale ammette
un termine che non è suscettivo di alcuna partizione generica,
e ne ammette un altro che è suscettivo di partizione
generica (,138-143*).
Finalmente abbiamo veduto, che questa partizione, che è quella
ddVeaserc assoluto e dt^Wessere relativo — secondo che il termine
dell'essere iniziale ò assoluto o relativo, — non costituisce punto
de' generi; poiché è proprio del genere l'avere specie o generi
minori sotto di sé, e l'essere assoluto non ne ammette nessuno.
Di qui procede, che non tulle le distinzioni o partizioni del-
l'essere sieno generiche; ma, anteriormente alla distribuzione in
generi, s'incontra una partizione che noi, per usare una deno-
minazione più estesa, abbiam chiamata Classi dell'ente. Ogni genere
dunque é certamente una classe, o per una classe si può pren-
dere, in quanto ne costituisce il fondamento; ma non tutte le
classi degli enti sono generiche: e tale é quella, che dicevamo
dell'essere assoluto, e del relativo o suscettivo di generi: tale
pure è la classificazione nelle ultime specie, le quali perdono
la natura di generi, perchè non hanno altre specie minori sotto
di sé.
145, Ora, che queste due prime classi degli enti, cioè l'Ente
assoluto, e Vente limitalo e relativo , non siano due generi , si vede
ancora dalle seguenti ragioni.
I generi hanno necessariamente per loro subietto comune ,
che è il subietto della divisione, l'essere limitabile. E veramente
ogni genere suppone una limitazione del subietto comune a tutti
i generi; e però ciascun genere esclude lutti gli altri. Ora l'essere
limitabile non è l'Essere assoluto, che non può subire limitazioni
440
senza cessare d'essere assoluto. Questo dunque non è un genere,
né ìi subielto de' generi.
In secondo luogo, l'essere limitabile, subielto comune de'generi,
è Tessere iniziale suscettivo di termini limitati. All'incontro l'Essere
assoluto è l'essere iniziale già ultimato con un termine illimitalo,
e compiutamente ultimato.
In terzo luogo, il genere è un' (Milita incompiuta, alla quale
manca l'atto ulteriore della specie e della realità. All'incontro
l'essere assoluto, essendo l'Essere d'ogni parie atlualo, ultimato
e compiuto, non può più proceder oltre, e non può di conse-
guente ultimarsi in alcuna specie o altro individuo. Di conseguenza
è lutt'altro che un genere.
In quarto luogo, i generi indicano altrettante attualità dei su-
bietto loro comune, che per essi si divide. Di conseguente ogni
genere e costituito da una^«a//7à positiva; cliè tutte virtualmente
giacciono nel subielto. Ma oltre questa divisione, che si fa per
mezzo di qualità diverse, c'è una divisione, che si fa per qualità
contrarie, cioè ponendo da una parte la qualità positiva, e dal-
l'altra la negazione di questa. Questa parlizione non costituisce
de' generi. E tale è appunto la prima classificazione dell'ente
in Ente Assoluto, e Ente relativo; poiché la qualità di quello,
l'assolutezza, è la positiva, e la qualità di questo, la limitazione
a quella contraria, è la negativa. (4)
4/i6. A malgrado di tulio ciò questa classificazione anteriore ai
generi ste.ssi non è ancora quella prima distinzione o varietà
dell'essere, di cui noi andiamo in cerca.
Primieramente, essa manca al bisogno del problema, che ci
siamo proposti, per questo che abbraccia bensì tutto l'ente, ma
non tulle le entità: perchè l'idea generica e specifica, a ragione
(1) Aristotele fece, a imitazione de'Pitagorici, le Categorie doppie riducendo
a uno stesso genere la forma e la privazione ; il ctie dimostra che egli rico-
nosceva la conrmr/V/à non poter essere il fondamento de'generi. Se non che
egli non s'avvide che il contrario , cioè il negativo , poteva riferirsi a qualche
cosa d'anteriore ai generi , come nel caso nostro Vassoliitezza , nel qual
caso la classilicazione che ne deriva è anteriore a' generi ; o riferirsi a qualche
genere, nel qual caso è posteriore a' generi, perchè divide il genere stesso;
0 finalmente a qualche qualità de'generi inferiori, o delle specie, nel qual
paso la classificazione è posteriore a quel genere o specie che biparte.
\iì
d'esempio, non è un ente conìpiulo ; e non si potrebbe ridurre
né all'ente assoluto, a cui per un verso appartiene, né all'ente
relativo, perché non é contingente ne so;zgelta al tempo.
In secondo luogo, l'Ente assoluto, e l'Ente relativo e limitato,
hanno de' vincoli che tra loro gii uniscono, e questi vincoli sono
pure entità che rimangono escluse da quelle due prime classi.
In terzo luogo, o si considera l'Ente relativo nella sua pos-
sibilità, e in tal caso esso è coevo all'Ente assoluto; o si considera
come reale, e in tal caso è a lui posteriore. Una parte dunque
della seconda classe è posteriore alla prima classificazione, e
però a questa non appartiene. M;i, se l'ente finito reale non
appartiene alla classificazione prima, in tal caso questa non ab-
braccia né pure tutto l'ente, cioè lutti quelli enti a cui noi
diamo un tal nome: e però rimane, che ella non sia neppure
una piena e prima classificazione dell'ente.
In quarto luogo, se la prima classe, cioè l'Ente assoluto, è
anteriore all'ente finito reale, qualora si trovi nello stesso ente
ass(*luto qualche distinzione a farsi, questa di conseguente sarà
anteriore alla distinzione dell'Ente illimitato e del limitato. Ora
la distinzione neirEnte assoluto si trova, e questa è quella delle
primitive forme dell'essere. Queste dunque sono anteriori non
solo alla distinzione in generi, ma ben anco alla distinzione che
produce la prima classificazione anteriore ai generi. Se dunque
quelle forme sono tali, che possano costituire de' predicati, questi
saranno i primi, e così costituiranno le Categorie dell'essere, che
noi ricerchiamo.
CAPITOLO IX.
Questione delle (orme primitive deW Essere.
147. Da tutto ciò che abbiamo veduto fin qui risulta che né
la distinzione dell'essere in principi o cause ed efletli, né quella
in elementi, né quella in generi, né quella in classi può essere
la prima e fondamentale diistinzione che la mente possa notare
nell'essere.
Risulta ancora, che la prima distinzione osservabile nell'ente
415
non può essere quella, che in qualsivoglia modo spezzi l'ente
sia in principi, sia in elementi, sia in generi, perchè spezzan-
dulo lo distrugge, cioè distrugge quel che era prima, per averne
solo delle cnliti\ che neppur tulle insieme abhracciano l'ente pri-
mo gi<i diverso da ciascuna di esse.
Risulta, che sebbene le prime classi dell'ente sfuggano a que-
sta obbiezione perchè non ispezzano l'ente, tuttavia questa di-
stinzione non può essere la prima, poiché abbraccia l'ente con-
tingente reale, che è posteriore all'Ente assoluto, onde le di-
stinzioni che si possono trovare in questo, che non può ridursi
in classi , sono anteriori alle classi ; oltre il non poter queste
raccogliere in sé ed ordinare tutte le entità.
Consegue da questo, che se nell'Essere slesso senza limita-
zione si trovano più forme o modalità, queste certamente de-
vono costituire le prime e fondamentali distinzioni dell'ente, e,
in quanto si predicano dell'essere, le categorie, e, in quanto
poi ad esse si riducono tutte le entità, devono dare origine alla
classificazione prima di tutte le entità.
\hS. Vediamo dunque, se queste forme o modalità originarie
ci sono veramente: e prima che cosa sono.
Chiamiamo forme dell'essere « l'essere stesso, che, sebbene
tuli' intero, è in modi diversi a lui essenziali».
Ci sono dunque queste forme ? l'essere , per la propria natura
di essere, è egli in un modo solo, o in più? e se è in più modi,
è egli in ciascun modo tutto l'essere? — Questa è la questione,
e non si può risolvere , so non per via della contemplazione della
mente, che sola può conoscere come l'ente è fatto, e inlima-
mente costituito. Ora noi diciamo, che queste forme ci sono, e
sono tre, cioè che l'essere come tale è identico in tre modi di-
versi a lui essenziali. Noi denominiamo queste forme subiettiva,
obiettiva, e morale. Che poi ci siano le due prime, risulla dall'Ideo-
logia (,iY. Sag. MGG, 1178, 1170, l'tOO*) e dalle osservazioni,
che pur ora facevamo sugli clementi : giacché è evidente, che si
possono concepire alcuni di tali clementi , ugualmente come esi-
stenti in sé realmente, quanto nella loro essenza, senza che
realmente esistano ; e qucsl' cssoiza è la forma obiettiva , come
la sussiste7iza ò la forma subiettiva . a cui si riduce pure , come
vedremo, quella che si dice (]i\ noi estrasubiettiva. Ma se l'essere
il5
è identico nella forma obieUiva e nella subielliva, queste due
forme sono congiunte nell' identità dell'estere. Se dunque sono
congiunte, e" è tra di esse un vincolo. Ma questo vincolo non
risulta dalla considerazione di ciascuna delle due forme presa
runa in separato dall'altra. Dunque questo vincolo costituisce
una terza forma, nella quale l'essere è. Poiché questo vincolo
non è nulla; dunque è egli stesso l'essere. E poiché in ciascuna
delle due forme e' è Tessere intero, l'unione di esse deve abbrac-
ciare lutto Tessere sotto una forma unitamente a tutto Tessere
sotto l'altra forma: dunque c'è tutto Tessere sotto la forma di
unione, poiché non e' è nessuna particella dell'essere che ne
vada immune, e però non si dà distinzione tra il subietto che
ammette l'unione, e ciò che rimane unito, ma luti" è unito, e
tuli' è unione. Riceverà tulio ciò maggior chiarezza da quello
che diremo nel libro seguente, bastandoci (\n\ d'avere provalo
la necessaria esistenza delle tre forme.
1A9. Ora, che queste tre forme non sieno né semplicemente
principi, né elementi , nò generi, rilevasi da quello che abbiam
detto, che Tessere luti" intero è in ciascuna delle tre forme Se
c'è luti' intero, dup.que n(m è ancora diviso !)è in principi ne
in elementi, nò in generi: ma e i principi, e gli elemenli , e i
generi si troveranno anch'essi nelle Ire forme , e scilo ad esse
si ridurranno.
CAPITOLO X.
Come alle tre (orme si riducono le prime Classi dell'ente,
i primi princiiìi , i primi elemmìli , e i primi generi.
150. Se si considera Tessere nella sua cosliluzione intima,
senza limitazione alcuna, vedesi ch'egli è, e che è essenzial-
mente, e necessariamente, e che egli è tutto nelle Ire forme.
Nulla dunque potrebbe essere, se Tessere non fosse così co-
stiluilo.
Ma posto ch'egli sia cosi cosliluilo, rimane a cercare s'egli
possa esistere anche limitalo; e non c'è, a pensarlo, ripu-
gnanza alcuna. L'esperienza poi ce lo mostra tale in noi stessi,
Rosmini. Teosofìa. 8
e in tiilti ;.'li crili rrK.ndi.ili. f)i più <{^li (• indubilfito , coiìw uh
l»i;im(» mostralo nella Psirolr»f^ia (137'2 i7ì\ìli ) , elio VeH.Hrrr, Hit
mitalo V. V rnaero limil'ito non possono essere, mni un mednsirno
ente, ma due enti. Tuttavia, se rx-l primo si (lislin;^uono le Ire
forme, anche il secondo deve parlecipnrnc , perchè anch'esso è
in qualche modo enlc. Ma essendo questo un ente posteriore al
primo, conviene clu- anche la partecipazione delle forme sia po-
steriore alle, forme, f. aonde la parti/ione dell'essere in due enti ,
l'uno illimitato e l'altro limitato, è la prima vnriet;'i che si trova
nell'essere, ma posteriore a (juclla delle forme.
Questa |)arti/ione o (;lassific;i/.if>ne dell' essere è anteriore a
lutti i generi, perchè l'Kssere illimitato, come ahhiamo veduto,
non ammette generi di sorla, essendo semplicissimo; l'essere
poi limitato è un concetto, rdje li racchiude tutti in sé mede-
simo virtualmente ed ancora indistinti.
\l)\. E però è evid(!nle, che la prima divisione e clapsifiea-
zione dell'ente sarà appunto (piella che lo divide in due, cioè:
!■'. li' Ente illiniiliilo clu^ dunora essenzialmente nelle sue
tre forme.
II". 1/ Ente limitalo, che partecipa in diversi modi e gradi
di (pielle forme.
M^)""!. Da questa classificazione prende appunto la sua divisione
la Teosofìa.
Ui.l. (]ho, se si doto inda (pitie sia la relazione de' principi
e delle c.-.use colle siipr<;rne forme dell'essere, si troverà pure
che (piesle. forme, in rpianto sono nell'essere illimitato ed as-
soluto, ricevono anche il eoncello di principi nrdle relazioni d(d-
l'una all'altra, e dì prime cau.se nella loro rela^fione all'ess(>re
limitalo. Laonde né i |)rinci|)l ne le cause ultime si po.ssono tro-
vare, se non avendo prima distinte le forme originali dell'es-
sere ( ì ) .
(I) Lu (lislinziono sovrarccnnala tra '\ principi e le rame è cosi slaliilifa
da S. Tommaso: Principium nihil aliad significai quam id, a quo nliquid
procedil. Omne cninia quo nliquid procedit, quocumquemodo, dicimusesse
principium {Sum. I.xxxm, 1), e (fri ad 1). Principium communius est quam
causa: siculi causa cnmmunior quam clcmentum. Primus enim termimis,
vcl cliam prima pars rei dicilnr principium scd non causa. — linde hoc
nomen, causa, videlur importare diversitatem substantiae, et dependentiam
\f)ft fili dlenn'nli poi M \ g«mri , f\t,\\ f" chìnm pft f\uci cUfi
,'iM»i;»fn (l*'iio. (Un non «»i pfmvino ìrnyurn a<? non tìfW't'uU' Mmi^
t/ito , r p<'r6 «tono (»o<«('*rif»f I nim ^^^\() nWc fmifì!' , m« ftn^of» ai
priOfip) , »<I ;il|r t;.,rrifrir r|;K<( rh'H>M^r^
«ACriOI,') X(
h- in fhrrnt: iJiUl e>txr,re adianiimaiian'i ^iramcnU
lf> C/ilffforif itc.Wi'.ntfirf.,
{ì'y.'ì. I,»- r|itfiiil/i, eli»' (Jivfiiio I ,ìr>ì\\t't\if.f\\r \r i .,)ìfyhrtf , ■;óf>r>:
che fn<if *i«no prfT<Jir;ih //r/w/ flfrll 'c«<*f r'* , rii nr»rtnl^f;» rhc uott
r\c ^ii()[)<»ri;i;;»rif. «Uri iUvittitì a nei Mftfitt itrcAwnìt fmdnmmtati ,
Hifflic lulli j^li filtri ;i(l l'm <*i t'u\nc^nn e (\\ cm romf. piit nut
vfTHJili e finN-riori ni predichino ;<h «Uri,' jti«no prrdical» rj/mpktt ,
<U niofjo rho* nbhrancinn IiiUr le entitii^ frb« (w>«»ono ^«M^f d»l
l'tim.'Min mente pendale,- f f»n;ilrfi/nle ntnnn prediC/ifi perfed;»-
mfni't 'i/pj'^i! , n lej/no che l'entif,'! df ll'tino di '^^i non enfrii »
eo^liluirr VfjiUìh dfirfiMro.
Ora fpjf-Hli (|u;jtlro r-arntleri w rijicòfilfano dppfinf/> nelle fr«
orij.'iri;jli fornrif fj*ir*-««(^'re eli»- nhhffìffKi wfiwfilf. JViehA, ehe
niuri' rillr-1 dmiin/.iorie precf d'i alif* for rn'* lUW ('.=s^*:rf . e per/» ebc
queste n'muo predie?ih ffrimi, è chiaro anehe da que»!!/» solo, che
niente precede all' e?t^ere , f però ni'^nle p«»6 \H'fCf'óerf, fiUf, hf
me , nelle quali Vc^M-Tf. h.
Che queste siglino distinzioni ff/n/lnmmtali , di modo che lotte
le altre distinzioni po«i<»»MII «enx'cjwr non »i (k»««wi»io eoneepirer,
si deduce da questa» che ^jfn' altra di<»llnzione deve ca ' ' "^
sfera del subielto , o in quella dell'ohielfo, o in f\ »
virlu f;h'- li unisce; e se non cadefwe in una di qncAte tre sf<fT«
alkuinn ah aiterò^ ipi.'im Wia unportril n/rni^.n [inor.'fn.i fn t/minihiiA ^rnìM
cavAoe ffeMfihun ^empT intumtur dat/tnlia inter rmnnm H id t.vtvx «»l
r.auM., nf.cnwtum aiu/u/im perffirjioMm ani rArtut^m. H^d nr/mm^ prinr.tyii
utimur eiiam in ha, ffuae nuthm hmmmodt difff.rtalvtm k/fM»t . n^d
lolnm iecufiflum 'iHcnuUim ordir^rra. Hicf*t cvim dUirnux j^tnrAum «m#
principxnm linme, tei etvim rum duimm, frrmtmk Uiuae tue ftttuifmm
tineae
H6
rimarrebbe equivoca, e però non sarebbe una dislinzione deler-
minata. Poiebè si ponga , che per qualunque distinzione fuori di
quella delle forme si separassero due entità, ciascuna di queste
entità potrà essere o ideale o reale, cioè appartenere all'una o
all' altra delle due prime forme e quindi rimarrà una distinzione
indeterminata, che non è vera distinzione^ se non si supponga
fatta prima la dislinzione delle forme ed applicata alla distin-
zione di cui si tratta.
Conseguentemente le forme sono predicati completi . non solo
perchè ciascuno abbraccia l'ente nella sua totalità, ma ben anco
perchè non c'è nessuna entità che ad esse non si subordini : ap-
punto perchè ogni entità conviene che necessariamente sia qual-
che cosa d'ideale, di obiettivo, o qualche cosa di reale, o final-
mente qualche cosa d'appartenente alla loro unione. Dove si
ponga ben mente, che non si può applicare alle nostre forme
l'obiezione che vale per entità altramente distinte;, cioè che le
relazioni, tra le dette forme, sieno entità non comprese nelle
forme; poiché anche queste relazioni o sono entità ideali, e si
riducono alla forma obiettiva : o sono relazioni sussistenti, e si
riducono alla forma reale — subiettiva ed estrasubietliva, — oalla
morale. La mente può riflettere e astrarre, ma qualunque entità
ritragga da tali riflessioni o astrazioni, sempre all'una delle tre
forme si riduce. Così quaiìtunque ci sia , per noi, entità ideali
d'entità ideali indefinitamente , tutte però appartengono alla
forma ideale, che ha virtù d'applicarsi a sé medesimo, quasi in
perpetuo circolo rivolgendosi.
Che poi tali forme sieno perfettamente divise apparisce da
questo, che per nessun verso ciò che è ideale, come tale, può
divenire un'altra delle due forme; eia stessa inaiti rabilità è ap-
plicabile a ciascuna. Di che avviene, che esse non si possono
ridurre a minor numero: se non che tutte e Ire si consumano
nell'unità dell'essere, che in ciascuna d'esse identico sussiste.
di7
CAPITOLO XII.
Confutazione degli Unitari e conferma
delle cose dette.
156. Ora dalla duUrina fin qui esposta esce quel vero, che
abbaile gli errori degli Unitari , cioè di que' filosofi che non
trovano altro nell'essere che l'unità. E a dir vero le tre forme
dell'essere, vedute da tulli gli uomini e nel comune ragiona-
mento adoperate, sfuggono al pensiero de' filosofi, il quale si
esercita ncH' ordine più elevalo della riflessione filosofica. Nel
qual ordine il filosofo suole anzi a prima giunta lalmenlc inva-
ghirsi dell'unità dell'essere, che ne combatte la pluralità delle
forme, le quali s' inlrommettono quasi da se stesse ne' volgari
discorsi; e per questa lotta appunto la dottrina filosofica acquista
quel non so che di paradossale, pel quale s'invanisce e si crede
di lunga mano superiore al senso comune degli uomini. Il che
spicca nell'Uno di Plotino, e di Proclo (1), di Damaselo da Da-
masco (2), e d'altri neoplatonici.
157. Plotino considera l'Uno come superiore all'ente, e ciò
perchè nell'ente trova sempre qualche moltiplicità; il che a
vero dire è una confessione indiretta contro il sistema degli
Unitari (3). Ma noi domandiamo se l'uno di Plotino è, o non è;
(1) Questo filosofo nella sua Theologia Platonis (I. 25) tenta di mostrare
non avervi ctie un solo principio reale delle cose , e questo essere l'uno ,
il quale produce ogni cosa per triadi (Ttxpayetv, ttpóoooi). Guglielmo Tenne-
man giustamente osserva, che la prova che adduce Proclo di tale sentenza
« si fonda sulla confusione de'principì astratti e logici co'principì attivi e
« reali ». {Manuale, § 220). Questa osservazione deriva dalla distinzione
delle due forme dell'essere ideale e reale.
(2) Wolf nei suoi Aneddoti greci (t. III.) publicò i frammenti d'un trat-
tato di Damaselo, che avea per titolo : \\.nopixi /.cà lùaui mpi 7.pxS>v.
(3j Profecto si ens uniuscuiusque multitudo quaedam est, ipsum vero
unum esse multitudo non potest, procnl dnbio diversum Inter se erit utrum-
que. Homo igitur est et animai et rationale, partesque multae, multaeque
in eo uno quodam conglntinantur. Aliud ijitur homo est, aliud unum :
siquidem homo quidem dividuus est, unum vero penitus indivìduum.
Atquì et totum ens cuncta in se omnia continens magis etiam cxistit multa
US
poiché se non è, non rimane che il nulla ; ma se è, egli fuor
d' ogni dubbio è ente, poiché enle é ciò che è. È dunque ira-
possibile ammetlere l'uno anteriore all'enle.
Nel che si osservi la differenza, che v' ha tra il considerar
l'uno come una semplice astrazione dall'ente, e i! considerarlo
come prmcipio di tutte le cose, e dell'ente stesso, a quel modo che
fanno gli Unitari , poiché nel primo caso l'uno astratto è po-
steriore all'ente, e quando la mente pensa in quosto modo l'uno,
allora l'ente non è già distrutto, ma egli si resta davanti alla
mente, ed è anzi il mezzo, pel quale conosciamo l'uno , poiché
l'uno astratto si conosce nell'ente, che è il principio del cono-
scere come abbiam detto più volte; onde, acciocché possiamo
pensare l'uno astratto prescindendo affatto dall'ente, è necessario
che non solo l'ente ci sia, ma ci sia davanti alla mente, benché
la mente consideri l'ente da una parte e l'uno dall'altra, come
mentalmente separati, ma pure relativi, quasi l'Uno fosse un ri-
flesso dell'ente. All'incontro gli Unitari, che fanno dell'uno il prin •
cipio da cui viene l'ente e lutti gli enti, suppongono che l'uno pre-
ceda l'ente anche davanti alla mente, il che involge contraddizione.
Egli pare evidente , che, se gli Unitari procedessero a fil di
logica, non arriverebbero mai a mostrare, come il loro Uno
fosso fecondo di cosa alcuna; poiché ciò, che è perfettamente
uno, come essi vogliono, non può esser fecondo, non potendo
fecondare se stesso senza esser due, né essere fecondalo da altro
senza ammettere una dualità: e anche prescindendo da ogni fe-
condazione, non può pensarsi che abbia nel suo seno il germe di
qualche cosa diversa da sé, senza riconoscere con questo stesso
in esso lui qualche pluralità, Ma che cosa fanno gli Unitari?
Plotino fa quello stesso che fa Hegel. Invece di dedurre le cose
da quell'Uno, che coH'astrazione hanno spogliato di tutto, mo-
strando veramente come gli enti escano da lui : colia maggior
comodità del mondo, cioè a pieno loro arbitrio, aggiungono a
quel loro Uno lutto ciò che gli hanno tolto, e più ancora; e
poi vi dicono: Ecco, tutto viene fuori dall'Uno, ed applaudono a
et ab uno diversum, participatione tamen possidet unum. Praeterea em
vitam habet et mentem. Nefas enim est, vita vacuum id opinavi. Ens i'jitur
est et multa. Ennead, VI. i, 2. — .Tradus:. di M. Ficino*.
\Ì9
sé slessi per avervi fatto vedere proprio cogli occhi vostri il
parlo dell'universo.
iì)8. Ma se si lieii dietro alla traccia del pensiero degli
Unitari, si riconosce quanto segue:
4" Che v'ha un principio vero da cui partono, ed è questo,
che le cose relative non possono avere la loro ragione se non
in qualche cosa di assoluto, e la molliplicità in qualche cosa
che sia perfettamente una. Questa è una necessità logica che
viene iminedialamenle dalla natura dell' essere, da quell' essere
che sta sempre davanti alla mente, e che serve di regola su-
prema a tutti i giudizi, poiché l'unità dell'essere è così evidente
che è assurdo pensare il contrario, poiché due esseri non sareb-
bero più l'essere , che é un'essenza semplice. Trovandosi dunque
molli enti, la mente non trova in nessuno d'essi l'essere semplice
ed uno ; e pur vede che l'essere semplice ed uno è la ragione di
essi per modo, che senza questo non sarebbero; quindi la m^-
cessità alla mente di cercare l'essere puro ed essenziale ed as-
soluto, ossia la necessità di sciogliere il problema dell'Ontologia.
2" Che dopo di ciò prendono il concetto dell'ente dagli enti
particolari e finiti, i quali li trovano lutti molliplici^ e in qualche
modo composti, come fa Plotino volendo mostrare che l'uno non
può essere l'ente, prendendo ad analizzare l'uomo, e mostrando
ch'egli si compone di molte parli, onde non è uno (1). Il che
è vero dell'uomo e d'ogni altro ente finito, ma ciò non toglie
che non v'abbia l'ente assoluto, il quale sia perfellamente uno:
onde non e' é bisogno di cercare ciò che è perfettamente uno
fuori dell'essere, per soddisfare al bisogno dialettico della mente
di trovare in una prima unilà la ragione dialettica delle cose.
3" Che per mancanza d'una bona Ideologia non vedono, che
l'uno non si può pensare da colui che non pensasse nello stesso tempo
l'ente, onde s'immaginarono che l'Uno possa stare senza l'ente.
h'^ Nò pur videro per difetto d'analisi , che la parola uno
0 si sostantiva, e in tal caso si sottintende l'ente uno: ovvero
altro non significa che una qualità di relazione, che da sé sola
senza alcun subielto non può stare in alcun modo, poiché se c'è
uno, conviene che ci sia qualcosa che sia uno; e se c'è qualche
(1) Vedi la nota al n. 157.
cosiì, c'è l'eiìte, che è quello che è uno. Ma l'uso neutro, che
in latino e in greco si fa della parola uno (éV, unum), può
avere occasionata rillusione di tali scrittori, die non esprimendosi
l'ente si giudicasse che neppure ci fosse sottinteso.
5" Finalmente non avvertirono, che l'ente essenzialmente
uno poteva henissimo essere in più modi primitivi, identico in
ciascuno, senza che ne patisse l'unità perfettissima: il che dal
comune degli uomini si suppone nei loro discorsi, quantunque
non si osservi direllamenle: del che noi parleremo in appresso.
159. Che se noi investighiafno dove sia condotto il pensiero,
a ragion d'esempio di Plotino, quando gli bisogna maneggiare
quell'astrazione dell'unità pura, da cui egli dice prendere il prin-
cipio tutte quante le cose, noi vedremo che egli è costretto di
dare all'unità i caratteri dell'essere indeterminato, e che questo
appunto è quell'Uno che egli dice anteriore all'ente, perchè
per ente egli intende un ente finito, e non arriva a capire che
l'essere j)uro deve essere egli slesso ente: non arriva a capirlo,
perchè neiressere rimangono occulti i termini propri, e quindi
occulto anche il subielto, che nella parola ente è significalo.
K nel vero Plotino dice chiaramente, che l'uno è pienamente
ili forme , e questa è la ragione, perchè non si comprende (1),
E dall'essere l'uno appunto del tutto informe deduce che non
è ente , poiché l'ente , dice , ha almeno la forma di ente ,
è un quid, un quale , un quanto (2) ; il che tutto conviene
(1) Quando vero ad informe aliquid fcrtiir animus, ami comprehendere
neqneat, proplera quod non determinetur, m'que velut fìguretur vario quo-
piam figurante, prolinas inde prolabitur, meluens ne forte nihil ibi re-
portet. Ennead. Vi. ix, 3.
(2) Quamobrem quodintellectu superius est, non est intclledus, sedante in-
tellectum extat. Tntellectus enim est aliquid entium: illiid vero (unum) non
aliquid, sed uno quoque superius. Nequeest ens: nani ens velut formam ipsam
entis habet. Sed illud est prorsus informe, et ab intelligibili eliom forma
secretum. Unius namque natura cum sit genitrix omnium, merito nuUum
existit illorum: igitur ncque quid existit, neqne quale, neque quantum.
Praeterea non est intellectns , non anima, non movetur, non quiescit,
non est in loco, non est in tempore: sed ipsum secundum se uniforme,
imo vero INFORME super oninem existens formam, super molum, super
statum. Haec eaim circa ens versantnr, quae quidem ipsum multa confìciunt.
EnneaJ. VI. ix, R.
i21
benissimo a quello . che noi diciamo essere iniziale o inde-
lerminalo.
Dice ancora , che rune u ò il massimo di tulle le cose, non
di grandezza ma di potenza » (I). Ora se s'intendesse d'una
potenza in atto , già con ciò 1' uno sarebhe determinalo. Vuol
dunque Plotino assegnare al suo Uno il carattere d' una poten-
zialità infinita ; il che ancora risponde all'essere in potenza, o
all'essere possibile, che è l'essere al lutto indeterminalo.
Aggiunge che « non lo conosciamo come le altre cose, che
« si dicono intelligibili, per una qualche scienza^ o per alcuna
(( intelligenza , ma per una cotale presenza {ncLpovcioì) migliore
« della scienza » ('2) ; e quest' è appunto la presenzialità del-
l'essere indeterminalo , onde anche noi diciamo, che egli si co-
nosce per pura intuizione (5).
Plotino oltre a ciò dice del suo Uno quello appunto, che noi
diciamo dell'essere puro, che sta presente alla mcnle nostra.
Noi diciamo che tulli gli enti finiti sono e si conoscono, perchè
hanno l'alto dell'essere per se conoscibile. Ora questa e sentenza
di Plotino : Omnia entia IPSO UNO mnt entia , Imi quw primo
entia sunt , lum eliam quce quoquomodo in rerum ordine nume-
vantar {l\).
160. Dopo avere Plotino dati questi attributi all'Uno, egli dice
(1) Enn. VI. IX, 6.
(2; Ivi 4. Cf. Ennead. V. in, 8; v, 7 e sgg.
(3) Lo stesso ancora Plotino: Sin autem ipsum esse inde auferens illud
apprefienderis, protiìws obstupesces, et dirijens te in illud, et assequens,
atque in ipsius sedibus conquiescens UNO POTISSIMUM SIMPUCIQUE
INTUITI! iam compicias. Enn. III. viii, 9.
(4) Ennead. VI. ix, 1. — Il signor Giulio Simon nella sua Storia della
Scuola d'Alessandria dice die l'unità assoluta di Plotino non è altro che
l'Essere degli Eleati. Io ho mostrato che quest'Essere degli Eleati è appunto
l'essere indeterminalo (Psicologia ,1337-1371*). Dice ancora che è il Bene
della dialetlica platonica; e questo è vero, non quando Plotino parla della
sua unità pura, ma quando s'accinge a renderla feconda, poiché allora è ob-
bligato a scambiarne il concetto per farla produrre qualche cosa. Questi due
momenti, quello in cui conduce il lettore al concetto dell'uno, e quello in
cui vuol derivare dall'uno l'altre cose, sono da aversi presenti, da chi logge
questo filosofo. — Vedi Ennead. IV. ]. 8, dove lo stesso Plotino cita
Parmenide.
122
che quest'Uno è Dio slesso, e così ricade nella classe di quelli
che noi chiamiamo Realisti ideologici, i quali trasformano in Dio
l'essere indeterminalo ed informe, quale si manifesta per natura
al subiello umano. Cosi anche si divinizza il Razionalismo, e il
razionalismo divinizzalo è lo Pseudomisticismo, conseguenza im-
mediala del Realismo ideologico.
101. Dopo di ciò egli si accinge a fare, che il suolino di-
venti prolifico, e qui cessa il ragionamento, narra al modo di
Hegel , come si narrerebbe un mito , sempre colla pretensione
di speculare rigorosamente. Plotino almeno sente di non poter
dar ragione di ciò che dice , e ricorre alla preghiera e ad un
lume soprannaturale {Ennead. V. i, C) Egli non dice, e non
può dire, come quello , che è per essenza unità , diventi du<-
e più, ma si contenta di accertarci che avviene così: non dice,
come quello che è Uno senza essere ente, il nulla di Hegel, dia
a sé stesso l'essere; ma dice però, come Hegel, che dà a se stesso
l'essere, che è ciò che vuol essere, ciò che ama d'essere, onde
diviene sussistente, perchè ama di essere tale, e, perchè ama di
essere iiitelletlo , è intelletto, e, perchè ama di essere amore, è
amore , onde egli slesso è V opera di sé , egli forma se slesso ,
non a caso, ma perchè egli slesso lo vuole, né questa volontà
è temeraria o vana , perchè è volontà di ciò che è ottimo (I).
Dice che V essere ciò , che attualmente è , è un' azione a se
stesso ; che egli slesso dà a sé la propria sussistenza , che
quest'azione non è fatta ma esiste sempre quasi una colai vi-
gilanza al di sopra dellessenza dell' intellello e della vita sa
piente, e che tutto ciò è egli stesso ; onde conchiude, che il suo
essere si produce da lui e di lui, e ciò non a caso, ma per la
pura sua volontà liberissima (2), onde la libertà perfetta fa essere
(1 ) Ille autem intra se aeque per totum quasi perfertur , Icmquam sei-
psum amans, puram lucem, IPSE HOC IPSUM QUOD AMAI EXISTENS,
idest autem in SUBSISTENTIAM SE PRODUCENS- siquidem actus est
permanens, et qtiod ibi amabilissimum est velut intellectus existit. Intel-
lectus autem ipsius est opiftcium: quapropter opificium ipse est. Cum vero
non sit opus alterius, SEQUITUR UT SUI IPSIUS IPSE SIT OPUS. Quam
oh rem non ita est ut contigit, sed potius ut ipse agii. (Ennead. VI, vni, 16).
Ma nel periodo susseguente tituba dicendo, che quasi effìcit semetipsum.
(2) Non igitur est ut contigit, sed ut ipse vult: neque voluntas ibi teme-
123
il primo principio di tulio (1) , pensiero di cui si sono impos-
sessali alcuni filosofi moderni (2), Ora che si trovi pre^s'a poco
lutto ciò nell'uno preso come sostantivo, che è quanto dire nel-
l'essere semplicissimo , nella cui essenza non cade alcuna reale
distinzione , questo passi per ora ; ma in lai caso non è più
l'uno astratto e preciso da ogni altra cosa fuori dell'unità, non
raria est et vana, neque sic accidit. Cum enini optimi sit voluntas, non est
inanis atque fortuita. — Esse igitur hoc ipsum quod existit , est actio ad
seipsum: hoc autem atque ipse est unum. lite igitur sibimet exhibet sub-
sistentiam, una cum ipso eius actione collata. Si eri/o facta non est eius
actio, sed semper extitit quasi rigilantia quaedam, nec aliud ibi vig Hans est ,
aliud vigilantia, quae quidem super intelligentia quaedam est semper vi-
gens, profecto sic est, sicut et vigilavit. Vigilantia vero super essentiam
intellectumque et vitam sapientem extat: id autem ipse est. Ille igitur actus
est super intellectum et sapientiam atque vitam: ex eo autem haec sunt,
nec ab alio quopiam. Ab ilio igitur et ex ilio suum esse producitur. Non
ergo sicut contigit, sed ut ipse voluit, sic prorsus existit. Enn. VI. viii, 16.
(1) Quod si ita se habel, constai iterum Deum seipsum efficere, suique
existere dominum, neque sic esse factum , ut aliud quidquam voluerit .
SED QUEMADMODUAf IPSE VULT. Proinde ubi Beum dicimus nec quid-
quam in se accipere, nec ab alio capi, hac quoque ratione eum ab ea con-
ditionelongius segregamus, per quam sorte quadam talis evasisse dicatur,
non solum ex eo quod agat, seu reddat se unicum, et (ut ita dixerim) soli-
tarium, purumque conservet ab omnibus, verum etiam quoniam si quando
et nos in nobis naturam eiusmodi quandam inspiciamus, aliorum nihil
habentem, quotcumqne nobis adhaerent per quae nobis accidere solet quicquid
contiqerit perpeti , casuque vivere , LIBE UT ATEM prorsus experiemur.
Alia enim quaecumque nostra dicuntur, serviunt, fortunaeque exposita
sunt, et quasi fortuito nobis accidunt. In hoc autem solo consistit SUI
IPSIUS DOMINIUM LIBERUMQUE EXISTERE, per actum videlicet
quemdam luminis boniformis, et boni exuperantis menlem, actum, inquam,
vim non adventitiam in se habentem, quae omnem excedat intelligentiam.
— E conctiiude: Est enim radix quaedam rationis snapte natura-- atque
huc tandem omnia desinunt. Est et tamquam ingentis cuiusdam arboris
ratione viventis principium atque fundamentum in se ipso quidem per-
manens,tradens vero esse arbori per rationem inde susceptam. Ennead. VI.
vili, 15. — Ammette dunque nell'uno una radice della ragione, in cui ter-
minano tutte le cose e questa è la libertà, ^ così rimotte nell'uno la moltipli-
cita che gli ha tolta. Che anzi la libertà stessa fa venire dall'amore di sé, e
questo dalla ragione con una perpetua contraddizione.
(2) Vedasi l'opera di Carlo Secretan, La Phdosophie de la libertà.
Genève 1849.
124
è quell'uno che prescinde dall'essere e dall'ente, ma anzi è l'ente
uno ; di maniera che se l'uno può considerarsi nell'ordine del-
l'astrazione nostra, cioè del nostro pensiero parziale, come ante-
riore all'ente, nell'ordine però del nostro pensiero complesso (che
è quello che ahhraccia tutto ciò , che sta attualmente davanti
alla mente), l'essere e l'ente è anteriore all'uno, traendosi l'uno
per astrazione dall'ente. L'uno dunque, preso precisamente come
uno, non essendo che la forma dell'unità, è perfettamente vuoto,
e non gli si può dare nessuna azione ; che l' azione o è ella
stessa l'essere, o consegue all'essere; non si può dare né vo-
lontà, né libertà, né amore, né tutta quella moltiplicità di cose,
che gli dà Plotino , dopo avergli negata ogni qualunque molti-
plicità e distinzione mentale, a tal segno che si nega allo stesso
ente che sia l'uno , perchè in esso si trova una qualche molti-
plicità di questa m.aniera Laonde questi filosofi non possono esa-
gerare a tal segno il concetto dell'unità, come primo ed origine
di tulle le cose, senza involgersi in innumerevoli contradizioni.
162. Dovendosi dunque dare all'essere una fecondità, e questo
essendo impossibile senza qualche sorta di moltiplicità , il pro-
blema che riguarda l'essere primo si può annunziare così: « Come
si concini la perfetta unità dell'essere primo con quella sorte di
moltiplicità che gli é necessaria acciocché sia pieno, altivo, e
causa delle cose ».
463. Noi certamente non intendiamo d'accingerci qui alla so-
luzione d'un problema, di cui si dovrebbe prima cercare se sia
solubile dall' umana ragione ; e trovatolo in qualche modo so-
lubile apparterrebbe alla Teologia e alla Cosmologia. Ma vogliamo
escludere alcune sentenze che impedirebbero la soluzione di
quel problema, e condurrebbero all'assurdo, le quali, poste sotto
l'esame della ragione , si convincono gratuite ed erronee. Tale
a ragion d'esempio è la maniera colla quale Plotino — e degli
altri Unitari si può dire press'a poco il simile — fa emanare le
cose tutte dal suo Uno.
Poiché dopo di aver detto fin da principio , che il bene è
l' uno e non più (4) — mutando con questo stesso il concetto
(i) Cosi si riassume nel libro IX della II Ennead. Gap, I: Qiwniam ex
aliis disputationibus nobis constai ipsius boni naturam esse simpiicem
^2S
puro di uno col concelto del bene, — vuole che questo conosca
sé stesso, e così emani rinleiletlo {vovg), e ciò senza alcun allo
di volontà, cadendo in una nova contraddizione con quel che
aveva detto altrove, che la libertà era il primo principio, onde
l'uno operava, e dava a sé stesso l'essere, perchè lo voleva.
Ora esclude la volontà, e ogni movimento dell'uno, perchè dice:
se l'uno generasse l'intelletto per via di qualche movimento,
questo non sarebbe secondo, ma terzo, tenendo il secondo luogo
il movimento (1). Finalmente dall'intelletto procede la ragione,
0 anima intellettuale del mondo, principio del movimento (4'^%»'
ToO TTAVTÓs, Tcòv oXoov) . CoTtìG la mcute o T intelletto è chiamato
da Plotino verbo di Dio, cioè del suo uno, cosi l'anima è chia-
mata verbo o atto della mente, ossia deirintelletto (2).
Non si trova altra ragione di queste emanazioni ploliniane,
se non questa, che l'Uno dovendo essere perfetto deve produrre,
giacché il produrre si contiene nel concetto della perfezione (3).
atque primam: nisi enim prima esset, simplex esse non posset: constitit et
IN SE IPSA NIHIL HABERE, SED UNUM ESSE UUMTAXAT, atque
etiam ipsius quod dicitur unum, eamdem esse naturam: etiam haec non
prius quideni aliiid quiddam est, deinde insuper unum: neque ipsum bonum
aliud quiddam est et pr aeterea bonum.
(t) Qaod igitur inde gignitur dicendam est, superiore non agitato gigni:
alioquin si moto ilio aliqaid generetur, certe id quod gignitur, non se-
cundum, sed tertiam eritab ilio post motum. Quamobrem necessarium est,
cum illud sit prorsus immobile, si quid secundum post ipsum nascitur, id
profecto ilio NEQUE ANNUENTE, NEQUE VOLUNTATE DECER-
NENTE, neque allo pacto commoto subsistere. — Numquid nihil prodit
ab eo, an potius ab eo prodeunt quae omnium maxima sunt post ipsum ?
Maximum vero post ipsum est intellectus atque secundum. Inspicit enim
intellectus illud soloque ilio indigel: illud vero primuni hoc minime indiget.
Oportet profecto quod fit ab eo, quod est mente inelius, esse mentem: melius
vero omnium quae ftunt est intellectus, qwmiam alia sunt post ipsum.
Ennead. V. i, ti.
(2) lam vero et anima mentis est verbum et actus quidam, sicut mens
est Dei verbum. (Ennead. V. i, 6). — Est enim sicut est intellectus eodem
modo , semper in actn stabili constitutus : motus autem vel ad ipsum ,
vel circa ipsum iam animae est offtcium. Atqui et ratio ab intellectu in
animun usque procedens animam reddil intellectualem: neque aliam quam-
dam adducit naturam intellectus et animae mediam. Ennead 11. ix, 1.
(3) Atqui quaecumque per feda iam sunt, aliquid generant. Quod autem
semper est perfeclum, semper gignit et sempiternum , MINUS AUTEM
126
Ma concedutogli anche quello die gratuitamente afferma , che
l'uno, come egli Io (h^scrive, possa essere qualcosa di perfetto,
quando pure gli nt^ga 1" essere slesso : vedesi tuttavia la fiac-
chezza del ragioDiunenlo , poiché ragionando da quel principio a
rigore conveniva argomentnre cosi: « il perfetto deve produrre,
ma di più deve produrre in modo perfetto , e però deve pro-
durre il perfetto ». Secondo dunque il concetto d'una perfetta
produzione , quale conviene a un perfetto producente , si deve
necessariamente conchiudere, che anche il prodotto deva essere
GENITUM GENITORE. Quidnam igitur de perfectissimo est dicendumf
Numquid nihil prodit ab eo, an potius ab eo prodeunt , quae omnium
maxima sunt post ipsum? Maximum vero post ipsum est intellectus
atque secundiim. Inspicit enim intellectus illud , soloque ilio indi-jet :
illud vero primum hoc minime indigef. Oportet profecto quod sit ab
eo quod est mente melius , esse mentem : melius vero omniun quae
fiunt est intellectus, quoniam alia sunt post ipsum. lam vero et anima
mentis est verburn, et actus quidam, sicut mens est Dei verbum. Ennead.
V, ij 6. — Le emanazioni dei neoplatonici nacquero dalla mala intelli-
genza della dottrina circa le imagini. Si credeva che il conoscimento si
facesse sempre per via d'imagine, di maniera che l'oggetto prossimo della co-
noscenza fosse l'imagine della cosa, e non la cosa stessa. Plotino dunque
dedusse a questo modo il suo pensiero: L'uno intende se stesso, e cosi pro-
duce l'imngine di so stesso (necessaria alla cognizione di se stesso) : questa
imagine è il verbo dell'uno, il primo intelletto. Ma quest'imagine , questo
intelletto anch'egli conosce se stesso, epperò produce l'imagine di sé, in cui
si conosce, un verbo, e questa è la prima anima, l'anima del tutto. Questi
sono i tre principi e il secondo è minore del primo, il terzo è minore del
secondo, a cagione che l'imagine è minore della cosa che rappresenta. Ve-
desi facilmente la fallacia di questo ragionamento; la parola, imagine, o rap-
presentazione, come quelle che cadono sotto i sensi, certo sono minori
della cosa che segnano e rappresentano, anzi l'imagine pura non tiene nulla
affatto della realità della cosa a cui si riferisce. Ora questo non si avvera nel
fatto della cognizione umana, perchè: 1" l'oggetto immediato della cognizione
è propriamente la cosa in sé stessa, e, qualora esso si chiami un'imaginc,
altro ciò non significa se non la relazione che ha coll'intellclto, cioè d'es-
sere non puramente la cosa, ma la cosa cognita, onde è più che le imagini
sensibili, le quali, non essendo la cosa, sono certamente meno di essa; 2» che
se coH'astrazione si divide la cosa dalla sua conoscibilità, l'idea della cosa,
in tal caso questa è ancora la cosa essenziale, ed è maggiore della pura rea-
lità; ma questa distinzione è impossibile a farsi in Dio, dove la realità stessa
è per sé conoscibile, onde Iddio non conosce già per via di un' imagine che
sia minore di se stesso, ma per la propria essenza; 3" finalmente Plotino è
1^27
egualmente perfetto come il producente, quanto alla natura , e
non già necessariamenle inferiore a questo (ì).
Vero è che s'incontra così ragionando un'antinomìa, poiché,
che due nature siano perfette, è contradizione, richiedendo la
nozione del perfetto che egli sia un solo essere , e che non possa
trovarsi nulla di perfetto fuori di lui. Ma quest' antinomìa è
quella appunto, che ha trovato la sua conciliazione nel mistero
della Religione ("ristiana , il quale mantenne l'unità perfettissima
della natura divina e insieme tre relazioni opposte, onde quella
stessa divina natura sussiste in tre maniere relative , realmente
distinte, le quali diconsi e sono persone.
164. 11 pensiero dunque degli unitari da Plotino ad Hegel fa
due lavori: va dal moltiplice all'uno, edalTuno torna al mol-
tiplice. Va di\l moltiplice all' uno jaer via d'astrazione, e per
questa via giunge al concetto della pura unità , che, come dice
Plotino, non ha nulla in se stesso altro che l'esser uno(i);
ond' è appunto il nulla di Hegel; e va dall'uno al moltiplice per
via d' aggiunzione: due vie impotenti a distruggere e a creare,
ma alte solo a diminuire o a distruggere gli oggetti davanti
alla mente del filosofo.
costi etto a dar vita e operazione all' imaqine, il che (trattandosi d'imagine
pura) ha dell'assurdo. Quatenus enim, dice, (anima) est IMAGO MENTIS,
hoc ipso ei aspieiendum est in mentem: eadem ratione Deum suspicit
MENS IMAGO DEI, ut ita sit intellectus. ( Ennead. V, i, 6 ). — Dal-
l'anima poi del mondo Piotino fa emanare colla slessa facilità, cioè per
via d'imagini sempre inferiori, gli enti tutti dell'universo fino alla materia
che non è piìi atta ad avere un'imagine di se stessa. Un altro errore da cui
procedette il sistema plotiniano, si è quello di confondere l'intelletto come
potenza coll'oggetto, dando il nome d'intelletto a quest'ultimo; un altro
ancora di confondere Yoggetto pronunziato, che è il verbo , coll'oggetto
semplice, che è l'idea. Da questa genesi dell'erroneo sistema di Plotino ve-
desi l'importanza dell'Ideologia: poiché sono errori d'Ideologia quelli che
produssero il sistema delle emanazioni e tutti i sistemi unitari.
(1) Questa osservazione fu già fatta da altri : S'il est trai, dice il sig. Se-
cretane qnétre signifte prodvire son image , la perfeclion de l'ètre réside
dans la production parfaite , rimage de l'etile parfait est une parfaite
image , c'est-à-dire une image ègide au modèle, ce qui nous conduit non
point à la sèrie dècroissante des èmanations de Plotin, mais à la frinite
dWthanase. La Philosophie de la liberlé, le?. IV,
(2) Enn. \\, ix, 1 .
128
165. Ora se noi vogliamo tener dietro all'una e all'altra di
queste due vie , vedremo che esse non si possono percorrere se
non dalla mente che sottintende una certa duaiilà annessa al-
l'essere stesso.
P. E per vero dire, abbiamo già osservato, che nulla si
può astrarre dall'essere, epperciò neppur l'unità, senza che si
abbia presente l'essere, da cui si astragga, onde nella mente è
sempre supposta una dualità (,1S7, 161*). Di più l'uno, che
si pretende d'astrarre dall" essere, in qual modo si pensa? Cer-
tamente col dargli un qualche atto di essere, poiché, se gli si
negasse ogni atto di essere, col negarglielo stesso non sarebbe
più Uno, ma niente. E lo slesso Plotino, altrettanto quanto He-
gel ed ogn'altro unitario, dicendo che l'uno È superiore all'ente,
0 che ha solamente questo di esser uno; unum ESSE dumtaxnl;
gli dà r essere. Di novo dunque nel pensiero di questi filosofi
unitari c'è sempre a lor malgrado una certa dualità.
IP. Ma lo slesso si vede, se si considera l'altra via, quella
di aggiunzione , per la quale pensano di fare emanare dall'uno
tutte le cose.
In primo luogo a quest'uno convien dare una potenza, ac-
ciocché emanino le cose, e quest'aggiunta, totalmente arbitra-
ria, la sì che nell'uno non ci sia già più solo il concello del-
l'uno, ma che si cangi il cuncello di uno nel concetto di po-
tenza e di potenza infinita, quando Tunilà pura non racchiude,
come tale, potenza alcuna né grande nò piccola. E pure dopo
aver dello, che Tuno non è neppure ente, poiché in tal caso
sarebbe multiplice — confessandosi con ciò che nel concello dei-
Tenie s'involge una molliplicilà, — dicono tuttavia che è la po-
tenza univcrséile. Quid ergo est? dice Plotino. Profvcto poteshs
omnium: quw quideni nisi esset, ncque cu'tera forent (ì) .
(1) Eìin. Ili, vai, 9. — Diceudo che l'uno ò poleslas omnium si usa
una maniera equivoca , poiché ci sono due maniere di potenze : l'una ri-
cettiva, qual è quella dell'essere indeterminato, che può ricevere tutti i
reali come suoi termini; e l'altra attiva, qual è quella dell'essere reale e
assoluto, che può produrre ogni cosa. L'una potenza si scamhia nell'altra
dagli Unitari , e , dopo d'aver parlato dell'essere indeterminato ed informe ,
si dice che è la potenza di tutte le cose; il che è vero, se s'intende d'una
potenza ricettiva di tutti i termini. Ma abusando della parola potenza e
120
Ancora , se l'Uno è il principio della vita molliplice e di tutte
le cose(l), quasi fonte ond'escono i fiumi, o radice end' esce
l'albero ('i) , o fuoco ond'esce il calore (3) , egli è evidente che
non è più Uno nel senso astratto, che in esso non si distingua
nulla neppur colla mente, di maniera che gli si deva negare lo
stesso essere, l'essenza e la vita, come vuol Plotino ('4) per ti-
more di non introdurre in esso una moltiplicità mentale, ma
prendendola in senso attivo, gli si dà una realità potentissima, e cosi si
cade nel sistema dei realisti ideologici . come fa pure Plotino e tutta quella
Scola.
(1) Multiplicis citce principium. Eun. Ili, vili, 9.
(2) Plotino adopera queste similitudini di spesso. Enn. HI, vili, 9.
(.3) Lumen undique circumfusum ex ipso dependeus, ex ipso, inquam, pe-
nitus quiescente, ceu fulgorem circa solem, quasi circurncurrentem, ex ipso
semper manente progenitum. Jam vero res omnes quatenus naluraliter
perseverant, ex ipsa sui essentia prcesenteque virtute necessarium circa se
foras naturam producunt , ab ipsis dependentem , qucs quidem imago sic
velut exemplaris scilicet virtutis illius unde manavit. Ignis quidem ex se
foras emittit calorem, nix quoque frigus non intrinsecus tantum cohibet ,
sed et aliis exhibet: prcecipue vero id res odoratce testantur. Quamdiv
enim sunt, nnnnihil ab eis circmneffunditur : cuius inde pt particeps qiiod
est propinquum. Enn. V, 1, 6.
(4) Certe (Unum) nihil horum est, quorum est principium: est et tale, ut
de ipso nihil prwdicari queat, non ens, non essentia, non vita: propterea
quod super haec omnia sit. Sin autcm. ipsiim esse inde auferens illud ap-
prehenderis , protinus obstupesces, et dirigens te in illud, et assequens ,
atque in ipsius sedibus ronquiescens uno potissimum simplicique ìntuitit
iam conspicias ; conspicatus outem , magnitndinem eius auspicaberis per
Illa qua e post ipsum sunt, ulque per ipsum. Enn. HI, viii, 9.
In questo passo di Plotino si osservi : 1" che egli protesta non doversi
punto credere che il suo Ino sia il nulla, pretendendo anzi clie egli sia
qualche cosa d" intinitanìente grande; 2" dice che nulla si può predicare di
lui, né lente, lu' l'essenza, né la vita; 3" che si trova quell'uno spoglian-
dolo dell'essere: ipsum esse inde auferens; il che indica la via dell'astra-
zione che toglie all'uno l'essere. Ma se conviene togliere l'essere all'uno per
formarsi il concetto di questo, dunque l'Uno ha l'essere, altramente noi col
pensiero noi potremmo togliere, e se dobbiamo toglierlo per formarci il
concetto puro dell'uno , questo concetto non istà dunque solo nella nostra
mente, ma ci sta in compagnia dell'essere da cui lo prendiamo e in cui lo
vediamo. Onde rimane che l'Uno di Plotino da sé solo né è, né può essere
pensato. Non è dunque il primo principio indipendente delle cose che da lui
emanano.
UOSMINI. Teosofia. 9
130
nel concclto di principio -— diverso da quello di uno — già s'ac-
chiude una relazione reale colle cose molliplici, di cui è principio.
E poi si consideri come Plotino non solo si vede obbligalo a
dare al suo Uno le proprietà di bono e di perfetto , che non
entrano nel concetto della semplice Unità , e che suppongono
l'Essere, che egli nega all'Uno , giacché il solo essere è il su-
bietto della bontà e delia perfezione , non solo è obbligalo di
attribuirgli la proprietà di principio ; ma di più è obbligato a
fare , ch'egli produca l'essere di sé stesso , e la sussistenza di
se stesso, il che è un confessare, che quel concetto del-
l'Uno è così inquieto, che non può star solo; che se fosse solo,
sarebbe perduto nel nulla. Né questo slesso trovò bastargli, poi-
ché non solamente fece che egli producesse l'essere di se stesso,
ma il fece produttore del primo intelletto^ e questo intelletto della
prima ragione, o anima , e queste tre cose volle che rimanessero
inseparabili dall'Uno, che anzi formassero il perfetto Uno (1),
Onde pare, che quest'intelletto, e quest'anima sia appunto nel
sistema di Piotino quell'essere che l'Uno dà a sé stesso; poiché
in un luogo dice che l'Uno dà a sé stesso l'essere, e nell'altro
che la prima cosa che emana é l'intelletto, e da questo l'anima,
e prima di queste due cose nuU'altro. Ma se l' intelletto e l'a-
nima prima costituiscono l'essere dell'Uno, che per sé non l'ha ,
e formano l'Uno semplicissimo , non s'intende più come essi
sieno minori dell'Uno, da cui emanano (2). Ad ogni modo da
tutto questo si vede come alla mente del filosofo riuscì impos-
sibile lasciare l'Uno solo, senza nulla aggiungergli che lo ren-
desse fecondo; perocché veramente un sistema a rigore unitario
è impossibile e incapace di spiegar cosa alcuna.
(1) Quatenus enim (anima) est imago mentis, hoc ipso ei aspiciendtcm
est in mentem : eadem ratione Deum suspicit mens imago Dei, ut ita sit
inlelledus: videi vero Deum MINIME INDE SEPARATA: sed quoniam
est post ipsum, nihitque est medium, quemadmodum nihil medium est in-
ter animam atque mentem. Omne vero genitum appetit genitorem, in cuius
consecutione sit contentum, praecipue autem quando soli sunt genitor atque
genitus. At ubi quod genuit est omnium optimum, necessario genitum ipsi
cohaeret usque adeo, ut ALTERITATE {ut ita dixerim) quadam solum
videuiur inde secretum. Enn. V,i, 6.
(2) Enn. V, i, G.
131
166. Escluso dunque il sistema degli unitari, come impossibile,
rimane che ci sia qualche molliplicilà coeterna all' essere. Ma
questa non deve togliere la perfetta unità e semplicità dell'es-
sere ; e quindi la difficoltù di quell'antinomia, che ha fatto
delirare, se mi si permette di così esprimermi, la filosofia in
tutti i secoli, a cui Cristo ha soddisfatto, ma rivelando il mi-
stero. Dal qual mistero però venne un rinforzo di luce alla stessa
intelligenza umana, che si mise all'opera di rispondere in qual-
che modo a quel problema più istrutta e cautelata contro gli
errori. Ed ecco in quali investigazioni ella può mettersi con
buon successo.
La meditazione attenta sulla natura dell'essere puro, quale sta
presente essenzialmente all'inlelligenza, conduce a quel risultato,
che abbiamo spesso toccato, cioè ch'egli abbia una relazione es-
senziale con una mente ; e questa relazione essenziale è l'oggel-
lività. Quest'oggetlivit.à ha natura d" imagine . qualora si voglia
adoperare questa parola alquanto traslata : onde gli errori di Plo-
tino, come vedemmo, avendo egli ragionato dell'imagine, come
si ragionerebbe delFimagine sensibile, che è inferiore alla cosa
di cui è imagine; n»a l' oggettività dell'essere (si chiami ima-
gine o no) è l'essere stesso né più né meno, come per so nolo,
ed è questa la relazione essenziale, che dicevamo, colia mente.
L'essere dunque oggetto . ossia per .sé noto , non è, né più né
meno, che l'essere stesso, lutto intiero, bensì in questa forma
d'essere per sé noto. Ma se l'essere è di sua natura per sé noto,
deve esserci in lui il principio conoscente , che è appunto la
niente , non però diversa dalle.ssere per se noto , giacché nel
concetto ste.eso dell'essere per sé conosciuto si contiene essen-
zialmente il subiclto conoscente ; che non sarebbe per sé noto
ma per altri so il subietto conoscente fosse fuori di lui , o di-
verso da lui. xMa dell'essere per sé noto si distinguono due rela-
zioni , poiché ogni cogni/jone è cognizione in quanto fa co-
noscere l'essere com; assolutamente essente. Onde c'è ì" V essere
assolntamenle essente, e e' é 2° la conoscibilità ossia l'oggettività di
quest'essere. Ma l'essere é il medesimo, e però non perde nulla
«iella sua essenziale unità e semplicità. Tuttavia quesl' unico
essere é tutto identico in queste due forme : è tutto assoluta-
mente essente, ed é tutto assolutamente noto. Cosi una dualità
ÌZÌÌ
è necessaria all'essere, senza che punto lo moltiplichi, o scemi
la perfettissima uniti\ della sua essenza.
Ma non basta , poiché se s' investiga più avanti vedesi che
l'essere deve avere necessariamente una terza forma, che punto
non lo moltiplica. Poiché 1' essere , come apparisce alla mento
umana indeterminato, fa vedere da una parte che non può stare,
come assolutamente essente, separato dalla mente umana, se non
abbia quelle determinazioni e quei termini, che alla mente umana
non appariscono ; dall'altra, che è assolutamente essente e però
può stare in sé , e però deve avere quei termini. Ma in terzo
luogo vedesi anche , che i suoi termini propri devono essere
quali convengono ad un essere infinito, poiché l'essere è di sua
natura universale, necessario ed infinito. Se dunque trattasi d'un
essere infinito, conviene che questo, sotto qualunque forma sia,
sia infinito ; altrimenti non sarebbe più identico , non sarebbe
più lui. Per essere infinito deve avere tutto ciò che si conce-
pisce sotto il concetto di essere, e però la vita e l'intelligenza.
L'essere dunque nella forma di assolutamente essente é vita ed
intelligenza, e così pure nella forma di assolutamente per sé nolo.
Ora l'essere non sarebbe perfetto, se nelle due forme egli fosse
in modo che , in quanto è sotto 1' una , non avesse comunica-
zione con sé, in quanto è sotto l'altra, anzi la deve aver mas-
sima , e senza questa neppure sarebbe identico. Le due forme
dunque , l' una 'delle quali non è l'altra , ma ciascuna é lutto
l'essere, devono avere una comunicazione tra loro senza con-
fondersi. Questa comunicazione suppone, che l'essere sia per sé
amato, cioè a dire che quell'essere che è assolutamente essente,
e che è anche per se noto , sia anche per sé amato. Ma in
quanto è per sé amato, non è per sé assolutamente essente,
né per sé noto : dunque Vessere per sé amato è una terza forma
in cui è lo stesso essere. E, appunto perchè l'essere per sé amato
è lo slesso essere, che è nelle due prime forme, né pure questa
terza forma toglie l'unità perfettissima dell'essere.
V'ha dunque nell'essere necessariamente un'unità perfettissima
d'essenza e una trinità di forme.
433
CAPITOLO XIII.
Della falsa cm presa da alcuni filosofi per giungere a sciorre
il problema dell'Ontologia.
167. Le accennale (lategorie sono dunque perfettamenle divise
Ira loro. Infatti le parole ideale , reale e morale esprimono una
reciproca opposizione , per la quale quelle entità s'escludono a
vicenda.
E certo sarebbe un controsenso manifesto l'asserire, come fece
non ha molto un eloquente nostro avversario, che l'ideale è reale,
e che il reale è ideale. Questo strano parlare non mostrerebbe
che uno sforzo di confondere 1 concetti più opposti tra loro. Si
può appellare senza timore al senso comune per decidere , se
quando si dice un essere ideale, poniamo un gelsomino ideale,
si dica lo stesso che quando si dice : il gelsomino che ora io
piglio colle mie dita accostato alle nari mi dà odore soave.
Viceversa non pare che ci voglia una grande intelligenza a per-
suadersi^ che questo gelsomino reale che io al presente odoro ,
non è la pura idea del gelsomino che mi rimane immutabile
nella mente, anche allorquando ho sciupato e trito in minuzzoli
il gelsomino reale.
Qui dunque si scorge la mala via che hanno preso gli On-
tologi moderni della Germania ^ i quali vanamente si sforzano,
per amore d'una soverchia unità , di distruggere e confondere
insieme le forme immutabili e incomunicabili dell' Essere , che
costituiscono le nostre categorie ; sicché alcuni di essi vogliono ri-
dur lutto al reale, anche ciò che è ideale; come quelli che
credono poter ricacciare ogni cosa nell'io; alcuni altri poi si
persuadono di poter ridurre tutto all'idea , anche il reale, come
gli Hegeliani. Così guastarono interamente la filosofìa, o piuttosto
la distrussero, in Germania.
168. E qui sembrami degno d'osservare che nessun filosofo,
che io sappia, si provò di ridur tutto al morale, perocché questo
tentativo non potevasi fare senza ricorrere alla trinità delle forme
e cosi restituire la distinzione che si voleva abolire. Conciossiachè
niuna entità morale può essere se non in virtù dell'armonia che
134
hanno insieme le due forme del reale e dell'ideale , e non può
essere tra esse armonia se non si distinguono (1). Laonde vedcsi
altra funestissima conseguenza, che nasce dall'intento di ridurre
le tre forme ad una sola ; la qual conseguenza si è l'abolizione
della morale. Di che non deve fare alcuna maraviglia, se l'Hege-
lianismo sia terminato in una compiulissima empietà, che toglie
Dio e la moralità ad un tempo con ogni obbligazione e dignità.
109. Colle quali osservazioni il problema dell'Ontologia, che
abbiam proposto , già fa un passo verso il suo scioglimento.
Perocché siamo resi certi di [questo , che 1' Essere, uno in sé
stesso e semplicissimo, non può tuttavia ridursi ad unità di forma,
ed il tentarlo è un distruggerlo. Ma quella massima semplicità
di forme , a cui si può e si deve ridurre , é finalmente e non
può essere altro, che quella trinità che abbiamo accennata, di
modo che egli sia sotto la forma obbiettiva, e sotto la reale, e
scilo la morale, né possa essere sotto alcun' altra, che a queste
non si riduca.
CAPITOLO XIV.
Ddìa ragione sufficiente delle Ire categorie e forme dell'Essere.
170. Le tre categorie si dicono anche forme dell'Essere, perché
l'Essere non si può concepire se non in alcuna di esse, almeno
con un pensiero compiuto. Ora queste forme si possono esse
chiamare passioni dell'Essere , di maniera che l'essere in esse o
per esse sofl'ra qualche modificazione ? — No certo , ma le tre
forme sono superiori alle passioni dell'Essere : poiché queste sup-
pongono concepito nella mente umana l'Essere , che prende dei
modi che non gli sono necessari ; laddove le forme dell'essere
noi suppongono concepito innanzi, ma in esse e per esse si con-
(1) Veramente C. Secréfan nella sua Opera : La Philosophie de la Li-
berté, Cours de Philosophie morale, etc. Genève, 1849, Voi. 2, intende di
ridurre ogni cosa alla libertà, come a un sommo principio dell'essere; ma
la libertà riposta in un primo atto solitario, a cui tutti gli altri siano poste-
riori, non è la forma morale, e non è tampoco libertà morale, come pare
che egli si persuada.
435
cepisce : di maniera che le passioni danno un concetto poste-
riore a quello dell'Essere , laddove le forme supreme danno un
concetto che, quantunque possa essere per alcuna di esse poste-
riore di tempo nella nostra mente a quello dell'essere, tuttavia non
è posteriore logicamente : che ciascuna forma è l'Essere stesso,
benché in altro modo. Vero è che in tutte e tre le forme si distin-
gue l'Essere identico, ma quest'Essere è un astratto che la mente
slessa vede non potere stare da sé solo, né potersi concepire da
sé solo con un pensiero compiuto e intero; e però la mente noi
concepisce cosi separato dalle sue forme, se non posteriormente
anche di tempo, e sottintendendo la condizione che egli sia nelle
sue forme, benché prescinda dal considerare la distinzione di que-
ste. E veramente se io penso l'essere senza più, astenendomi dalla
distinzione delle forme, come accade nell'intuizione primitiva,
che cosa penso io con ciò se non l'essere ideale , benché non
consideri l'idealità separata dall'Essere ? Non si dà dunque vera-
mente l'Essere nella mente nostra svestito delle sue forme se
non per un' astrazione posteriore , e il non considerare le sue
forme è appunto un non distìnguerlo da esse. Che anzi , anche
quando l'uomo per via d'astrazione distingue le forme tra loro,
crede distinguere altresì l'essere dalle forme ; ma veramente col-
l'essere svestito dalle forme — non accorgendosene il pensatore —
rimane sempre la forma ideale, senza la quale non potrebbesi in
alcun modo concepire ; e solo quella forma che l'uomo ha nella
mente, e non può non avere, egli esclude dirò così dal suo calcolo,
benché non possa escluderla veramente dal suo pensiero. Sicché
l'essere deve concepirsi almeno nella forma ideale anche quando
r uomo prescinde da questa forma per una specie d' ipotesi ,
e non la considera. Perocché veramente altro è ciò che l'uomo
concepisce, altro ciò che considera in ciò che concepisce.
171. E qui ben si dislingua ciò che s'intende per essere oggetto
dcU'inluizione naturale dell'uomo. Quest'essere è l'essere ideale in-
determinalo, ma l'umano subielto col primo intuito non considera
punto in esso né Videalità, né Y indeterminatezza ; laonde queste
sono denominazioni posteriori dell'oggetto dell'intuito, le quali in
lui si trovano per analisi che ne fa il filosofo , e non già l'anima
in quant'é per natura intuente. Ma una qualità posteriore ancor
più è quella che si esprime, quando si dice: essere iniziale. L'ini-
136
zialilà dell' essere può prendersi in due modi ; o considerando
Tessere come inizio delle realità fiiiilc, e questa inizialità è pro-
pria dell'essere ideale, e però si trova nell'oggetto della prima
intuizione coll'analisi, come l'altre due d'ideale e d'indeterminato;
ovvero considerando l'essere come inizio delle forme, spoglio di
questi suoi termini essenziali ; e Vesserò iniziale in questo senso
non è un concetto compiuto, ma una parte di concetto, che si
considera ne' concetti compiuti , quali sono le forme, mediante
quella maniera di pensare parziale, di cui abbiamo descritto l'ufficio
nella Psicologia (1319-13~21).
172. Essendo dunque tale la condizione dell'essere, eh' egli
non si possa pensare, e però non sia essere , se non nelle tre
forme o in alcuna di esse; egli è chiaro che questa trinità delle
forme devesi considerare come un fatto primitivo coesistente al-
l'essere stesso ; e che non si può dare altra ragione sufficiente
se non questa, che «l'essere è così fallo, così appunto ordinato»;
più là dell'essere non si può andare. Perocché niente può essere
in modo contrario alle leggi o alla natura dell'essere stesso:
ora la natura dell'essere è questa d'esser trino: egli è dunque
trino.
173. Ma se di questo fatto non si dà ragione anteriore , perchè
il fatto stesso è la prima necessità di tutte le cose; e non si
può dimandare, perchè ciò che e necessario sia ncessario;
quand'anzi il necessario è sempre la ragione del contingente, di
cui solo si domanda una ragione; tuttavia non è assurdo il pro-
porre questa questione: « se tutto questo fatto sia la ragione di
sé, 0 se la ragione di quel fallo, che in esso, e non fuori di
esso, si deve trovare, sia una sua parte».
Alla quale questione noi rispondiamo, che la ragione perchè
l'essere è in tre forme, né più né meno, sta nell'essenza del-
l'essere conosciuto. Ma ressenza dell' essere conosciuto è l'es-
sere ideale. Laonde la forma ideale dell'essere si può acconcia-
mente dire essere la ragione della trinità delle forme dell' essere.
Il che, acciocché si veda meglio, si consideri (juanto segue.
L'essere conosciuto nell' idea è necessario {Ideol. 307 n, 380,
429, 575, llOG, H58, I'jCO): dunque quell'essere essenziale è.
Ma se quell'essere essenziale è, egli non può esser solo, cioè
nella pura idea, ma deve avere un altro, cioè un reale. Dunque
157
l'essere ideale esige l'essere reale. Abbiamo dunque qui di ne-
cessità due forme dell'essere, l'ideale e la reale. Vediamo ora
su che s'appoggi questo ragionamento.
Esso move dal princii)io che « l'essere, se fosse soltanto in-
telligibile e nulla più, non sarebbe essere, perchè involgerebbe
una contraddizione ». Quando diciamo « essere intelligibile »,
altro non diciamo che essere ideale ossia oggettivo. Proviamo
l'accennato principio.
Un essere non può dirsi intelligibile, se nulla ci fosse chele
potesse intendere. Perocché « intelligibile » esprime appunto la
possibilità d'essere inteso. Affermando dunque che l'essere è
intelligibile, affermo nello stesso tempo che c'è qualche cosa
alta ad intenderlo. Qualora dunque io dicessi che « c'è neces-
sariamente un essere intelligibile, e non e' è nulla che sia capace
d'intenderlo », io affermerei e negherei nello stesso tempo la
slessa cosa, cioè direi una proposizione contraddittoria. Ma se
oltre l'intelligibile c'è chi lo può intendere, dunque, oltre l'essere
ideale, c'è l'essere reale> perchè chi può intendere è un subìetlo
intelligente, e 1' essere subiettivo è reale, per la slessa defini-
zione. Dunque la forma ideale dell' essere esige la forma reale:
e l'ultima ragione di questa esigenza è la necessità del principio
di contraddizione. INIa il principio di contraddizione non è altro
che lo stesso essere ideale applicato {Ideol. 559 — 566, 60^, 605,
1460 n). Dunque la ragione di queste due forme è nella prima
di esse, ossia nell'essere ideale.
\7k. Si può dimostrare lo stesso anche partendo da un'altra
proposizione, cioè che l'essere puramente ideale non può sussistere
da sé solo, perchè ciò che si conosce suppone una realità an-
teriore alla conoscibilità , essendo la conoscibilità sempre di
qualche cosa e non di nulla. La quale argomentazione abbiamo
già usata nell'Ideologia (608 — 6H, i457 — 1460).
Osserveremo soltanto, che non si potrebbe rilevare, che l'es-
sere ideale abbia quest'attitudine di servirci di principio a co-
noscere la necessità, che l'essere sia anche reale, se non dopo
che noi abbiamo acquistato coll'esperienza il concetto di qualche
realità, e quindi d'una realità in generale. Vi ha dunque nel-
l'essere ideale la ragione della necessità, che l'essere sia anco
reale ; benché questa ragione a noi non si manifesti nel prinjo
i58
intuito di esso, ma solamente dopo che, avendo già il concetto di
realità in genere, ce ne vagliamo a interrogare e decifrare ciò
che nell'essere ideale sta scritto quasi in iscrittura abbreviata
ed arcana.
Che se poi noi abbiamo di j)iù imparato a conoscere, che
la realità importa sentimento ed intelligenza , non potendosi
fermare il pensiero ad un'entità puramente estrasubietliva; noi
veniamo tosto a conoscere, che l'ultimo e perfettivo atto del-
l'essere è il morale. Ora, che il concetto della realità non sia
compiuto senza il sentimento, scorgesi da questo, che fuori del
sentimento — e l' intendimento stesso è sentimento — altro non si
conosce che i termini del sentimento che da sé non possono
stare, e ne perisce il concetto se dal sentimento mentalmente
si dividano, poiché il concetto di cosa sentita o di termine al
sentimento involge la correlazione col sentimento medesimo. Ma
né pure il sentimento da per sé solo, senza intelligenza, é un
concetto completo e possibile. Perocché niuna cosa è ente, se
non partecipi dell'essenza dell'ente. Ora l'essenza dell'ente è
primieramente obiettiva: e però suppone d'avere sua sede in
una intelligenza. Di più, le cose che non sono l'essenza dell'ente,
ma ne partecipano, non ne possono partecipare se non in virtù
di quella intelligenza, nella quale abbia sua sede l'essenza og-
gettiva dell'ente. Questa intelligenza é quella che unisce 1' es-
senza dell'ente al sentimento che per sé non l'ha. Questo dunque
per sé solo sarebbe non-ente ; il che viene a dire: non sarebbe se
non fosse qualche intelligenza (i). Ora, posto che l'essenza del-
l'essere esiga che vi abbia anche un sentimento, e questo in-
telligente, s'intende essere conseguenza di ciò che Tessere sog-
gettivo, sentimento (affetto) ed intelligenza, possa amare l'essere
reale — sé stesso od altro — in quanl'é conosciuto, cioè percepito
nell'essere ideale od oggettivo; e quesl'é l'atto morale: il rapporto
morale è dunque essenziale all'ente. L'essenza dunque oggettiva
(1) Data r intelligenza che concepisce il sentimento cieco come ente, que-
sto sentimento si considera coH'astrazione come non-ente; e in tal caso la
parola non-ente ha valore diverso dal nulla. Ma se il sentimento non si di-
videsse dall'essenza oggettiva dell'ente per astrazione, ma in sé, egli rimar-
rebbe un nulla, un assurdo.
439
dell'ente imporla che l'ente sia non solo ideale, ma reale ancora,
e morale : di modo che mancando l'una di queste Ire forme
Tenie diverrebbe assurdo.
ilo. Ecco le tre tesi, che colle cose dette si possono rigo-
rosamente dimostrare:
Tesi i. — Supponendo , che ci avesse Tessere ideale , ma che
non ci avesse nell'università delle cose niente affatto di reale, si
farebbe il supposto d'un assurdo, cioè d'un concetto contraddittorio.
Tesili. — Supponendo, che ci avesse l'ente reale, ma che
nelTuniversilà delle cose non si trovasse affatto Tessere ideale,
il supposto sarebbe ugualmente assurdo.
Tesi in. — Supponendo, che ci avesse Tenie ideale e reale,
e che non ci avesse quel rapporto tra loro che costituisce la
forma morale , ancora il supposto sarebbe assurdo.
Dalle quali tesi deriva una tesi più generale , ma ugualmente
dimostrabile , cioè che « l'essenza dell'essere suppone le tre for
«me né più, né meno, e niuna di esse può stare senza l'altre
«due, nò due senza la terza».
476. Ma come, per dirlo di novo, l'essenza ideale dell'es-
sere, che non contiene né la forma reale né la morale, ci dà
un punto d' appoggio per argomentare alla necessità di queste
altre due forme? Ecco come rispondo in altre espressioni: «nel-
l'essenza ideale dell'essere vi hanno anche le altre due forme ,
non nel modo loro proprio, ma nel modo ideale: perchè l'es-
senza ideale dell'essere comprende tutto Tessere , ma sempre al
suo proprio modo; che consiste nel farlo conoscere idealmente,
e non nel comunicarlo realmente, o moralmente', il che meglio
s'intenderà , quando parleremo dell'inesistenza reciproca dell'una
forma nell'altre due. Se dunque anche la forma reale e la for-
ma morale si contengono idealmente nella forma ideale , niuna
maraviglia che da questa, che rappresenta la necessità delT es-
sere, si possa dedurre la necessità delT altre due forme: e la
necessità loro è la "loro ragione. Solamente è da avvertire , che
la forma reale e la morale sono nelTessere ideale indistinte ,
fino a tanto che , come abbiamo detto, comunicandosi a noi
almeno la forma reale, ce ne formiamo il concetto; e quindi
paragonandole alla forma ideale, da quella le distinguiamo. La
forma ideale dunque diventa allora eloquente per noi , ci rivela
140
nove cose. Ma il conoscere per via di percezione il reale è con-
dizione necessaria alla nostra speculazione , non è già condizione
all'esistenza delle dette forme.
Così è dunque , che l'essere ideale contiene la ragione , che
spiega le tre categorie e forme dell'essere.
CAPITOLO XV.
Obiezioni.
Articolo I.
Obiezione prima. — L'uomo non può trovare le distinzioni,
se non ncWessere ch'egli conosce.
477. Alla impresa tolta da noi di trovare le categorie del-
l'ente si possono fare più obiezioni , a tre delle quali stimiamo
prezzo dell'opera il rispondere.
La prima è di quelli , che così ragionano : « Quando l'uomo
si propone di ridurre l'Essere , considerato in tutti i suoi modi
e passioni, al minor numero possibile di classi o distinzioni su-
preme, allora egli non può intendere che di voler distinguere
0 classificare quell'essere che riconosce , poiché di ciò che non
conosce, non può pensare nò favellare né trovare una classe,
in cui collocarlo. Ora conosce egli l'uomo lutto l'essere? Lo co-
nosce tutto pienamente? Acciocché l' uomo conoscesse tutto
l'Essere , e pienamente , dovrebbe essere infinito , perchè l'Es-
sere é infinito, non trovandosi nella pura nozione di essere li-
mite alcuno; quand'anzi ogni limite altro non é che una dimi-
nuzione , un mancamento di essere ; e però limitazione ed essere
sono cose opposte. L'umana intelligenza è siccome piccolissimo
specchio : di fronte a questo specchio sta l'essere, oggetto luminoso
sì, ma infinito, perciò eccede infinitamente la dimensione dello
specchio, che lo deve riflettere. La qual simihtudine, benché oltre
modo imperfetta, dimostra che, prima di por mano a classifi-
care l'Essere, si deve cercare, se l'uomo il possa fare, e come
il possa fare » .
A sì speciosa obiezione rispondiamo: egli è cerio che si pos-
sono conoscere le classi di certe cose , senza bisogno di cono-
scere tutto ciò die nelle stesse classi si contiene. Per esempio,
non è cosa assurda il pensare che l'uomo, conoscendo clic tutta
la materia, di cui il mondo si compone, sia divisa in cento specie
d'elementi, ignorasse nondimeno il numero degli atomi individuali,
la forma, gli aggregati infiniti che essi formano insieme. Di più ,
l'uomo ha tanto meno bisogno di conoscere ciò che sia nelle
classi contenuto, quanto le classi stesse sono più estese, di ma-
niera che per conoscere a ragion, d'esempio le classi specifiche
delle cose mi è bisogno sapere assai più che per conoscere so-
lamente le classi generiche. K tra le classi generiche , quelle
che sono più estese, cioè i generi più ampi, si conoscono con
più facilità 0 certo con bisogno di minor sapere, che i generi
meno ampi e più prossimi alla specie. Così egli non è difficile
intendere che l'universo si compone di enti corporei e incor-
porei ; e sarebbe lontano dal vero chi credesse non aversi no-
tizia di questi due grandi generi, senza conoscere lutti gli spi-
rili e lutti i corpi che contengono, o la loro natura con tutte
le leggi che la governano Laonde molto più facilmente di tulle
le altre classi e distinzioni si devono poter conoscere le supreme,
che sono le categorie, le quali per la loro eslensione massima
si riscontrano in tutte le cose conoscibili, sieno poche od assai.
Ma acciocché si veda meglio la ragione , onde accade , che le
classi e le distinzioni degli es.seri esigano meno notizie a cono-
scersi quanto sono più ampie . vuoisi osservare la natura del-
l'essere ideale, dalla quale un lai fatto procede.
Coir Essere ideale .^i conosce l'essenza oggettiva dell'Essere.
Ora egli è evidente, che l'essenza oggettiva dell'Essere deve ab-
bracciare al suo modo lutto l'essere, ogni essere. Poiché niun
essere sarebbe , se gli mancasse l'essenza dell'essere. Onde la
natura dà già a conosct-re all'uomo fin da principio lutto l'es-
sere, in quanto è oggettivo e ideale. Quindi mostrammo altrove,
che da parte dell'oggetto che illumina la mente umana, l'umano
conoscere è infinito , contro il supposto dell'obiezione { Idcol.
428, 4106). Di che avviene, che vi si possa risponder cosi:
« Voi dite, che 1' Essere è infinito , e per distinguerlo o classi-
ficarlo convien conoscerlo tulio, e che l'uomo ali" incontro ha
U2
una cognizione finila. Noi dislinguiaino nella cognizione umana
l'oggetto dall'alto del soggetto . e vi neghiamo che da parte
deiroggello la cognizione umana sia finita; anzi ella è infinita,
perchè l'oggetto è infinito ». La prima categoria dunque, che è
quella dell'essere ideale, ci è data dalla natura, e la difficoltà
non può cadere che sulla seconda e sulla terza. Ma queste due
sono contenute anch'esse implicatamente nell'ideale (,170-176*);
ed altro non s'esige che la condizione delTesperieiiza, acciocché si
manifestino all'uomo. È duncpic a tenere hen fermo ciò che ab
biam detto , che l'essere ideale, quando viene al confronto del
reale, mette fuori una sua nova altitudine, che è quella di far
conoscere il reale; che se a colui, che ha l'essere ideale, non
fosse dato d'aver alcun sentimento, l'essere ideale gli rimarrebbe
pienamente vuoto ed ozioso. \a\ cosa avviene appunto come
d'ogni idea astratta , d'ogni genere. Chi ha l'idea del genere,
ha bisogno d'avere presente qualche specie, acciocché egli co-
nosca la fecondità dell'idea generica; e chi ha l'idea della
specie, ha bisogno della percezione di qualche individuo, che gli
renda viva e parlante l'idea drlla specie. Ma toslochè un sog-
getto, che ha l' idea delia specie . percepisce qualche individuo
di essa , non gli bisogna di più a poter pensare altri individui
infiniti contenuti virtualmente in (juelia specie. E così a colui
che avendo l'idea generica conosce altresì qualche specie su-
bordinata , non bisogna di più a pensare la possibilità d'altre
specie : e ciò |)erchè ogni idea generica comprende già in sé
virtualmente tutte le specie , si-bhene indistinte. Il che tutto è
dato dall'osservazione immediata. Se applichiamo dunque questo
fallo, che spiega e determina il valore dell'idee universali, al-
l'idea universalissima^ che è rK.ssere ideale, noi intendiamo fa-
cilmente: 1" Che ella abbraccia in sé lutto l'Essere nel modo
ideale, e che perciò cosliluisce una suprcuìa categoria; '2'^ Che
confrontando noi ad esso Essere i-h'ale qualche sentimento tro-
viamo un esempio di ciò, che non è meramente ideale , e per
segnarlo con una parola , il ehiamiamo rmle. Ma perciocché
questo esempio ci basta a pensare lutto il reale, ogni reale,
— benché indistintamente — attesoché possiamo universalizzare
quell'esempio, la quale universalità ci vien data dallo stesso essere
ideale; quindi noi possiamo pensare il reale come categoria o
forma suprema dell'Essere. Pensare il reale con questa univer-
salità è lo slesso che pensare un reale, che può adeguare ed
esaurire tutto l'essere ideale: e però, come nell'idea abhiamo
tutto l'essere in un modo proprio, cio'è nel modo ideale; così in
questo r^ale abbiamo pure tutto l'essere, ma in un altro modo,
cioè nel modo reale, e però abbiamo pure una vera categoria. E
conosciute così queste due prime categorie, scorgesi manifesta-
mente la possibilitù di conoscere la terza, che altro non è che la
congiunzione intima delle due prime, onde procede il perfeziona-
mento e finimento di lutto l'essere. Poiché dovendo l'essere reale
avere intelligenza, di modo che, abolita ogni intelligenza, l'essere
reale rimarrebbe un assurdo, come abbiam detto, egli può co-
noscer sé stesso in virtù dell'essere ideale, che è la forma dell'in-
telligenza, e quindi amarsi. E appunto in quest'amore come novo
ed ultimo alto dell'essere, l'essere si nobilita e bea, e in una pa-
rola si perfeziona, il che è appunto ciò che dicesi essere morale.
Il quale del pari abbraccia tutto l'E.-sere, non altro essendo che
il congiungimento dell'essere ne' due primi modi, onde giusta-
mente gli si applica il nome di categoria, per la ragione detta che
non si può dare una forma più estesa di quella che abbraccia tutto
l'essere (1).
(1) Non posso a meno di notare come i migliori ingegni, pei' l'influenza
delle (ìlosotie sensiste o soggettiviste invalse fin qui , provano una somma
difficoltà ad intendere la vera dottrina dell'oggetto e la dimostrazione d'un
diverso da noi. La stima mi fa nominare qui il conte Maniiani , il quale
scrive cosi in una sua dotta ed elegante operetta : « Vero è che in Italia
« l'Ideologia dell'abate Rosmini s'infonde e s'incarna, per così dire, nel-
4 l'Ontologia più di tutte le altre comparse fino a' di nostri. Pure non riesce
if a quella sua trattazione lunghissima, e tanto sottile, d'uscire dal cerchio
« delle forme intellettuali e delle nozioni ipotetiche » {Dell" Ontologia e del
Metodo, Discorso di Terenzio Mamiani, seconda edizione, ecc., Cap. I). Ora
io ho dimostrato: 1" Che dall'analisi della stessa sensazione risulla, che c'è
un diverso da noi , e un corpo fuori del nostro corpo. 2° Che « l'essere
ideale » non è noi stessi, ne alcuna nostra modificazione. Che se l'ho anche
chiamato forma del nostro spirito, ho spiegato in che senso, cioè perchè
informa lo spirito nostro senza confondersi con esso , anzi avendo ad esso
un'opposizione di natura, come quello che è d'una natura infinitamente di-
versa dal nostro spirito, un vero oggetto, e tutto ciò risulta ad evidenza
dall'analisi dello stesso essere ideale , e del nostro spirito , e della loro
unione {Ideolog. 384, 1010}. H^Che l'essere possibile non è ipotetico {Psicol.
44
Articolo II.
Obiezione seconda. — Gli enti razioihili non sembrano
compresi nelle Categorie assegnate.
Ì7S. A quest'obiezione rispondliuiio , che non formandosi gli
enti di ragione se non per mezzo dell'astrazione , e questa eser-
citandosi sulle idee, essi appartengono tutti alla t'orma ideale,
alla categoria delle entità ideali.
Che anzi una riprova delta verità e necessità delle nostre ca-
tegorie ò questa appunto^ che esse sono le uniche, nelle quali
trovino il loro luogo tutti gli enti di ragione , i quali sono infi-
niti, e per infiniti modi gli uni nascono dagli altri, e si raddos-
sano e intralciano tra loro. Ora in quale altra classe si potrebbe
mai raccogliere tutti questi enti di ragione , se si escludesse
l'idealità dalle somme categorie V
Ahticolo in.
Obiezione terza. — Le ire forme dell'essere
sembra che non possano essere calegorie dell'essere slesso.
Ì79. Finalmente altri ci moveià forse questa difficoltà: « L'es
sere ideale, reale, e morale non è più che un essere solo, e
però quelle Ire saranno bensì furme o modi (I) dell'essere, ma
11, n.)y il che verrebbe a dire coudizioniito , siipposilizio, ecc., die anzi
(^gli è necessario, incondizionalo, sempre uguale, eterno, ecc. Vi ha bensì
anche per me un possibile ipotetico, ma ipieslo è tiitl'altra cosa diversa dal-
Vessere ideale. 11 possibile ipotetico risponde ai pos/(/irt// de' Matematici, *^
all'individuo vago degli Scolastici {Aristot. . 03-60, 128*). Per esempio, se un
filosofo dicesse : « io supftongo che qui esista una colonna reale : ora voglio
vedere quali conseguenze avverrebbero da tale supposizione » : questo è un
possibile ipotetico; perchè non è la mera idea della colonna, ma sì la sup-
posizione d'un reale che veramente non è.
(1) L'essere ideale e l'essere reale si chiamano anche da S. Tommaso modi
di essere, come si può vedere C. (i. I, \\\\i, dove il Santo dice, che la casa
nell'arte, e la casa nella materia convengono nella specie, ma che «on seciin-
diiiii F.l'MDEM MODUM K^SENDI eoniilem upeciem vpl formam svsripiunt.
Ì4K
non categorie delle entità. Voi stesso, c'incalzerà, affermate,
che le tre forme sono legate insieme per un ammirabile sinle-
sismo sifTaltamente , che nò una né due possono stare da sé sole,
ma ciascuna può stare quando non manchino l'altre due m.
In questa obiezione c"è di vero questo, che l'esser forme del-
l'essere e l'esser categorie sono concetti diversi, E perciò noi ab-
biamo già di sopra dichiarato , che le forme sono la base delle
categorie, perchè somministrano quelle qualità comuni , secondo
le quali tutte le entità si p()ssono distinguere.
Ma quanto al dire che non si danno entità, che non abbiano
in sé tutte e tre le forme, questo non procede dalla dottrina
del sintesismo delle forme.
Dalla dottrina del sintesismo delle tre forme procedono
certamente le tre tesi mentovate di sopra (,175*), ma non
più. Ella dice bensì che nella università delle cose non po-
trebbero stare degli esseri ideali , se non vi avessero anche
degli esseri reali, e de' morali; ma questo non significa già,
che ogni entità deva avere quelle tre forme ad un tempo; tanto
più se si considera che per entità intendiamo ogni oggetto qua-
lunque pensato dalla mente umana, tra le quali ci sono certa-
mente delle entità puramente ideali e delle entità puramente dia-
lettiche.
Che anzi, se si vuole applicare la dottrina del sintesismo delle
forme a conoscere qual sia la natura degli enti, si trova il con-
trario, cioè si trova che il solo Essere assoluto è nelle tre forme,
laddove gli enti finiti non sono che nella forma reale , e del-
l'ideale e della morale partecipano in tutt'altra guisa. Infatti una
pietra ovvero un bruto è un ente reale, ma in nessuna maniera
può dirsi un ente morale o ideale . L'uomo è un ente reale : ma
non è già un ente ideale , benché questo gli sia presente ; e
non é un ente morale se non a condizione di questa presenza
dell'idea. L' uomo ideale in fatti non è alcuno degli uomini
reali che compongono il genere umano, ma il suo subiettc an-
tecedente {Logic, ^hid-f^'ì^').
Rosmini. Teosofìa. 10
146
CAPITOLO XVI.
Deir errore di quei filosofi, che fanno entrare nelle Categorie
lo spazio e il tempo.
480. Quasi tutti i filosofi vedono a quando a quando che l'ente,
come tale , è indipendente dallo spazio e dal tempo. Ma ben
presto questo vero, che balenò alla loro mente per un istante
sfuggevole, rimane da loro interamente dimenticato, e il loro
pensiero ricade nella limitazione dello spazio e del tempo sif-
fattamente, che non hanno più coscienza di concepir nulla, che
non soggiaccia a tali modi e modificazioni. Costoro si vanno
facilmente persuadendo, che deva esserci uno spazio eterno, e
che Iddio stesso abbisogni dello spazio, quasi di un sensorio
costituente la sua immensità (i). La ragione, onde questi filo-
sofi, benché forniti di forte intendimento, non possono dispac-
ciarsi da cotale illusione, si è perchè invece d'adoperare il puro
pensiero nelle speculazioni filosofiche, vi adoperano l'immagina-
zione, e invece di contentarsi di conoscere le cose, vogliono
imaginarle quasi figurale: e ciò per la prevalenza che lasciano
nello spirito le cose corporee, tra le quali l'uomo continuamente
s'avvolgo, e tanto pena a dislaccarne 1' animo. Ora tulli quelli
che non possono pervenire a contemplare l'ente nella sua natura,
scevro affatto dalle condizioni dello spazio e del tempo, sono
(1) Nella questione disputata tra il Mamiani e il Galuppi sulla natura
dello spazio , io sto col Mamiani nel liconoscere lo spazio come reale ed
infinito. Noi chiamo tuttavia un oggettivo se non in relazione delia mente,
che lo contempla; ma bensì un estrasoggettivo. Prendo la parola infinito
nel vero suo significalo, non per indefinito, come dichiara voler fare il Ma-
miani; né per essere inlìnita estensione lo spazio s'innalza già al disopra
della nobiltà degli esseri intelligenti, anzi come privo al tutto d'intelligenza,
ha natura incompleta , e di lunga mano inferiore a quella degl' intelligenti
lutti , e di lutti i sensitivi. Molto mono è da confondersi l' infinità d'esten-
sione coir infinità di Dio, che è infinità assoluta di natura compiuta e per
sé sussistente. Onde giustamente S. Tommaso insegna che nihil prohibet
idiquam creaturam esse secundum quid infìnitam (S. I, L, ii, ad 4.). Vedi
Dell" Ontologia e del Metodo — Discorso di Terenzio Mamiani. — Firenze,
1843, pag. 283 e sgg.
447
inetti allo studio dell'Ontologia ; ed ogni qualvolta si danno alle
speculazioni ontologiche colla mente ofTuscata da tal pregiudizio,
abbiano ingegno anche sommo, lungi da trarne profitto, s' av-
volgono per una via di tenebre e d'errori.
Laonde uno de'segni, che fanno conoscere l'imperfetta divisione
delle loro Categorie^ si è il vedere, che vi fanno entrare il tempo,
lo spazio, il luogo ecc., come (a lo stesso Aristotele, coerente
almeno in questo^ che pone il tempo e il molo e la materia
eterni. Egli è evidente per noi che entità così speciali, alcune
delle quali, come lo spazio e il luogo, spettano solamente all'uni-
verso materiale, non possono annoverarsi tra le supreme di-
stinzioni dell'essere stesso.
Conviene dunque , che il filosofo si guardi dal cadere in
un'Ontologia materiale, la quale invece di raccogliere le qualità
e condizioni dell'essere, presa la parola in tutta l'estensione del
significato, si limita ed impiccolisce a considerare i soli corpi e
le corporee leggi e qualità, ed appresso si dà a credere, che
tutti gli enti debbano esser fatti a lai foggia, e sottostare a
tali condizioni, e niente possa avvenir di novo, che non abbia
il suo esempio in ciò che avviene tra' corpi, di maniera che
l'essere e l'operar de' corpi, universalizzato ed astratto, sia ap-
punto l'essere e 1' operare di ogni ente.
Ma noi abbiamo già dimostrato, e ci verrà occasione di di-
mostrarlo ancora, come lo spazio ed il tempo, e le nozioni che
ne dipendono, siano tutte particolarissime e proprie della infe-
rior classe degli enti, quali sono gli enti estesi , materiali, e
i contingenti ; e come però non si possano annoverare tra le
nozioni ontologiche, ma appartengano al mondo creato, e quindi
sieno puramente aozioni cosmologiche.
CAPITOLO XVII.
Della maniera di disli7iguere ima forma dell'essere dall' allra,
e dell' insessione reciproca delle tre forme.
181. Finalmente dobbiamo avvertire, che le tre forme del-
l'essere, insiedendo reciprocamente l'una nell'altra, si potrebbero
1^8
facilmenle confondere, da chi non avesse una regola per
discernerle. Ora la regola è questa, che « la forma contenente è
quella che dà il nome a ciò che contiene, henchè ciò che con-
tiene sia d'un' altra forma».
Per intendere questa regola conviene, che diciamo qualche
cosa deU'insessione reciproca delle tre forme e la dichiareremo
prendendo un esempio dall'ente intelligente finito, dal solo ente
intelligente che a noi sia noto, cioè dall'uomo stesso, dal quale
dobbiamo per via di raziocinio salire alla teoria universale del-
l'essere {Psicol. 741 — 744).
L'uomo conosce se stesso. In questo fatto l'IO entra due volle :
poiché rio è il conoscente , e l'IO è il conosciuto. L'IO cono-
scente è l'ente IO nella forma subiettiva; FIO conosciuto è lo
stesso ente 10 nella forma obiettiva (1). Ora se si parla del-
l'IO conoscente se stesso, che è l'ente nella forma subiet-
tiva , egli è ben chiaro che 1' IO conosciuto, che è l'ente nella
forma obiettiva , inesiste nel primo. L' 10 conoscente dunque ,
quest'ente nella forma subiettiva, abbraccia in sé l'IO conosciuto,
quest'ente nella forma obiettiva ; e tanto l'abbraccia che, se non
r abbracciasse , non potrebbe essere 10 conoscente , ente nella
forma subiettiva. Ci sono dunque le due forme l'una nell'altra.
Ma quando si parla dell' IO conoscente sé stesso, in qual delle
due forme è l'ente? Nella forma subiettiva, perchè è la conte-
nente.
Consideriamo ora 1*10 conosciuto, non come contenuto nel co-
noscente, ma in sé stesso. Che cos'è l'IO conosciuto? L'IO è un
subietto che opera, sente, intende, vuole. Pure questo, che per la
sua stessa natura, essendo subiello, è ente nella forma subiettiva,
è conosciuto; e in quanto è conosciuto, in tanto è obietto del co-
noscere, e però è ente nella forma obiettiva. Quest'ente dunque
nella forma obiettiva contiene se slesso nella forma subiettiva.
Ma quest'obietto, che contiene il subietto, sarà egli ente nella
forma obiettiva, o nella forma subiettiva ? È ente in quella forma
che contiene l'altra: perciò è ente nella forma obiettiva, benché
nel suo seno insieda lo stesso ente subiettivo.
(1) Vedremo a suo luogo, clie quesl'lO non è propriamente obietto , ma
obiettivato; ma questo ci basta per fare intendere ciò clic qui vogliamo.
U9
II medesimo discorso si deve fare dell'ente nella sua forma
morale. E benché l'uomo non sia questa forma , ma di questa
forma partecipi, come partecipa dell'oggetto; tuttavia ciò che
diciamo basterà a far conoscere l'insessione reciproca delle tre
forme.
L'uomo comincia ad essere attualmente morale, quando ade-
risce colla sua propria attività volontaria all' essere in tutta
l'estensione del suo ordine. Da questa adesione nasce in lui un
atto novo eccellentissimo: quest'atto deve tenere nel nostro
discorso luogo dell'ente nella sua forma morale.
Ora rio vede l'essere sia finito sia infinito (iniziale) : così
rio, ente nella forma subiettiva, ha in sé stesso e gli altri enti
e l'essere nella forma obiettiva. Ma quest'IO medesimo aderisce
colla sua volontà a quest'oggetto , che ha in se stesso, in tutta
l'estensione del suo ordine, e così acquista l'atto morale. Quest'alto
novo morale é, come dicevamo, l'ente — o se si vuole un'entità
— nella forma morale. L'ente dunque nella forma morale è nel-
l'ente nella forma subiettiva, dov'è anco l'ente nella forma obiet-
tiva. Ora quest'ente , che dicesi IO, in quale delle tre forme si
trova ? Nella forma che contiene le altre in lui contenute. L'IO
dunque intelligente e volente ordinatamente è un ente nella
subiettiva, quantunque contenga nel suo seno l'ente nella forma
obiettiva, e l'ente nella forma morale.
Ora questo subietto IO intelligente e morale si consideri come
conosciuto. Come tale è oggetto dell'intelligenza. iMa in quest'og-
getto che cosa si trova ? Si trova ad un tempo l'IO intelligente
e rio morale, cioè nell'ente in forma oggettiva si trova conte-
nuto l'ente nella sua forma subiettiva e l'ente medesimo nella
sua forma morale.
Prendiamo finalmente a considerare l'atto , con cui l' IO su-
bietto aderisce volontariamente a tutto il suo obietto. Quest'atto,
che è l'unione perfetta dell'ente nella forma subiettiva coll'ente
nella forma obiettiva, è l'ente — o entità — nella forma morale.
Ma nel combaciamento dell'ente nella forma subiettiva e dell'ente
nella forma obiettiva ci sono necessariamente queste due forme
che si combaciano, e ogni cosa che sia nell'una aderisce a ogni
cosa che sia nell'altra. Nell'ente dunque nella forma morale sono
contenute l'altre due forme, cioè nell'ente nella forma morale c'è
450
l'cnlc nella forma subietliva e l'ente nella forma obiettiva. E
però quest'entità attuale d'intima unione e adesione a qual forma
appartiene? Ancora , secondo la regola da noi data, appartiene
alla forma contenente e non alle forme contenute: e così do-
vremo conchiudere che qui abbiamo 1' ente nella forma morale.
È dunque importantissimo d' aver presente questa proprietà
delle tre forme d'insiedere l'una nell'altra per non confonderle,
e distinguere con accuratezza quale sia la contenente quali le con-
tenute, perchè quella costituisce l'ente sotto la sua forma. Di che
si deduce, che le forme dell'essere hanno tutte e tre questa qua-
lità di essere conlenenti massimi dell'essere slesso, e in quanto
non sono tali, non sono forme dell'essere.
CAPITOLO XVIII.
Della dottrina del contenente e del contenuto in universale.
182. Da questa considerazione si vede , come nella specula-
zione intorno all' essere si presenta sempre al pensiero qualche
cosa di contenente e qualche cosa di contenuto.
Platone e tutti gli antichi hanno parlato di queste due rela-
zioni intrinseche all'essere, specialmente all'occasione di parlare
della materia, e della forma che la contiene; ma non le hanno
mai spiegate. La dottrina delle tre forme le spiega.
Oltracciò l'insidenza reciproca delle tre forme è il principio d'o-
gni contenibilità e d'ogni contenenza, perchè ogni qual volta queste
in modi diversi si presentano al pensiero, si riducono sempre, in
fine del conto, alla natura delle tre forme, alle quali è essenziale
di essere contenenti l'essere, e contenenti se stesse reciprocamente.
Faremo di questa dottrina fecondissima frequenti applicazioni in
progresso.
Un altro vantaggio parziale essa presta alla scienza , ed è
quello di distruggere il pregiudizio de'sensisti e de' materialisti,
che un'entità non possa inesistere nell'altra. La confutazione da
noi arrecata di questo volgare e pernicioso pregiudizio {Rinnov.
Jll, XLvii Dial. in fin.') riceve colla dottrina delle tre forme il
suo fondamento ontologico e la perfezione.
183. Dobbiamo dunque definire accuratamente queste due no-
zioni. Che cosa vuol dire entità contenente ? Che cosa vuol dire
entità contenuta? prese queste nozioni in universale.
Contenente esprime un' abitudine attiva ; contenuto esprime
un'abitudine passiva. Ora l'attivo ha una priorità di concetto al
passivo, e però \à prima nota de' conlenenti è quella di essere lo-
gicamente antecedenti ai contenuti.
Se dunque il concetto di contenente è anteriore, consegue che
non si possa conoscere l'entità contenuta, come contenuta, senza
aver prima conosciuto 1' entità contenente. L' entità contenente
dunque è quella che fa conoscere la contenuta: quesl'è la se-
conda nota delle entità contenenti.
Se l'entità contenente è tale, che logicamente precede la conte-
nuta, seguita che la contenente deva esser determinata prima della
contenuta. Infatti si può conoscere uxCentità, che sia contenente,
senza sapere ancora determinatamente, che cosa ella contenga,
bastando che questo si sappia con certa indeterminazione. E
quesl'è la terza noia, che distingue il contenente dal contenuto.
Da questo poi, che l'entità contenente può conoscersi determinata-
mente, e tuttavia il contenuto può rimanere indeterminato , con-
segue che pel contenente si può conoscere il contenuto virtual-
mente. All'incontro l'entità contenente non si può conoscere vir-
tualmente nella contenuta , perchè in tal caso la contenuta la
conterrebbe , e cosi sarebbe contenente e cesserebbe in questo
rispetto d'essere entità contenuta.
Ogniqualvolta dunque si concepiscono dalla mente due entità
congiunte insieme, delle quali l'una sia 1° logicamente precedente
all'altra, ^'^ necessaria al conoscimento dell'altra, e 3° tale che
può essere determinata , senza che sia determinata 1' altra , nel
qual caso si conosce virtualmente per la cognizione della prima,
la prima di queste due entità dicesi entità contenente, e la seconda
entità contenuta. Quindi :
184. 1." Ciò che in un ente reale costituisce il subietto è con-
tenente di tutto il resto, che si concepisce nell'ente, perchè la
prima cosa, che si conosce in un ente reale, è il subietto o ciò
che si considera come subietto, e per la cognizione di questo si
passa poi a conoscere virtualmente od attualmente tutto il resto,
che si possa pensare in quel dato ente.
152
A questa contenenza subiettiva si riduce, come vedremo nei
libri seguenti, la contenenza della base dell'ente, cbe contiene
le appendici ; la contenenza della potenza , che contiene gli
atti ; la contenenza dell'alto primo , che contiene gli atti ul-
teriori ; la contenenza dell'ente principio, che contiene gli enti
termini, ecc.
185. 2° Tutto ciò che si conosce in un oggetto della mente,
l'essere in sé, con tutte le sue determinazioni, è contenuto nel-
l'oggetto, e perù Voggetto è contenente, perchè l'oggetto essendo
il mezzo del conoscere tutte quelle entità, egli è logicamente an-
teriore a queste in quanto son conosciute, e |)er lui si conoscono
0 attualmente o anche solo virtualmente. — Si opporrà a questo,
che nell'intuito si vede l'essere in sé, ma non l'oggeilo, e che
solo mediante la riflessione si rileva, che l'essere in sé è cono-
sciuto come oggetto della mente, onde pare che V essere in se,
che è il contenuto, sia anteriore di concetto ììW oggetto. Ma si
risponde, che nell'intuito l'essere in sé non si conosce come con-
tenuto , ma puramente in sé. Quando poi sopravviene la rifles-
sione, allora si conosce come contenuto, perchè si avverte che
è conosciuto, e però che è necessariamente oggetto.
E però noi dicevamo, che le entità si dicono contenenti e con-
tenute , quando si presentano alla mente insieme congiunte , e
non quando si considerano singolarmente , 1' una separata dal-
l'altra. Si può anche rispondere, che l'essere in sé nell'intuito
si conosce indiviso coli' oggetto slesso, ma che l'oggetto ossia
l'oggettività non è ancora astratta, il che fa la riflessione. In altre
parole, nell'intuito l'essere è in sé, ma assolutamente oggetto:
ma, poiché la condizione d'oggetto è doppia, l'una assoluta, e
come tale è condizione dell' essere , l'altra relativa alla mente
umana; questa seconda è quella che discopre la riflessione, la
prima essendo costitutiva di quell'essere slesso in sé che appare
all'intuito umano.
A questa contenenza deWoggetlo appartiene la contenenza as-
soluta dell' essere, o attuale o virtuale ; quella delle idee più
estese, di cui le meno estese sono un contenuto attuale o virtuale;
la contenenza de' principi, che contengono o attualmente o vir-
tualmente le conseguenze, ecc.
186. 5° Il nesso morale tra il subielto compilo e l'oggetto è
conlenenle, perchè è di essenza di questo nesso di rendere con-
corde tatto il subietto con tutto V obietto e non una sola parie
con una parie. Ora il nesso tra più cose è un concetto ante-
riore alle cose connesse, in quanto sono connesse, come causa
della loro connessione , ed è pel nesso che esse s'intendono o
attualmente o virtualmente connesse. Onde il nesso ha natura di
contenente, e le cose connesse, in quanto connesse, hanno condi-
zione di contenute.
A questa terza calegoria di contenenza si riducono tutte le
contenenze che si ravvisano in un nesso qualunque, che tiene
unite più cose ; e qui chiaramente s'avvera la forza etimologica
della parola contenere, che è quella di tenere insieme.
Laonde a questa contenenza spetta pure la contenenza ma-
teriale d'un vaso qualunque che tiene insieme le cose o liquide
0 solide, che sono poste dentro di lui.
187. Ora se si considerano queste tre maniere di contenenza
si vedrà facilmente , che sono reciproche ; poiché si concepisce
che il subietlo compiuto contenga anche l'oggetto con tutto il
suo contenuto, e il nesso morale col suo contenuto ; e del pari
si concepisce , che l'oggetto compiuto può contenere il subietlo
con tutto il suo contenuto, e il nesso morale col suo contenuto ;
e si concepisce ancora, che il nesso morale tenga ins'euie e così
contenga tutto il subielto e tutto robiello co' loro contenuti. E
questa è appunto la reciproca contenenza delle tre forme del-
l'essere, onde dicevamo, che l'Essere in ciascuna delle sue tre
forme è un contenente massimo, che ogni cosa contiene.
CAPITOLO XIX.
Della ragione per la quale la trinità delle forme supreme
non toglie l'unità dell'essere.
188. Il più importante corollario che deriva da quest' insi-
denza reciproca delle tre forme, si è la conciliazione dell' an-
tinomìa fra il tre e l'uno che si trova neh' essere.
Perocché se ciascuna delle Ire forme non contenesse recipro-
camente le altre due, esse non si potrebbero concepire se non
come tre enti. Ma essendo l'une nell'altra recìprocamente ine-
sistenti, si vedono inseparabili, e tutte e tre sempre costituenti
il medesimo essere e il medesimo ente.
L'insidenza dunque reciproca delle tre forme è la ragione,
per la quale la trinità delle forme non pregiudica punto alla
perfetta unità dell'essere, il quale nella sua assoluta perfezione
è sempre, né più né meno, le tre forme quasi direi organate in
un trino ordine.
489. Innumerevoli altri e importantissimi corollari derivano
dalla slessa dottrina, come, a ragion d'esempio, quello dell'ugual
dignità e pienezza delle tre forme, i quali saranno da noi de-
dotti, quando 1' esigerà la connessione del nostro ragionamento.
CAPITOLO XX.
Rannodamento del libro presente co' susseguenti: la Trinità
sta nel fondo della Teosofìa, come misterioso fondamento.
Articolo I.
Nesso co' libri che seguono.
\00. Abbiamo dunque trovalo le supreme varietà dell'essere,
le Categorie; abbiamo dimostrato, che non si possono ridurre
a minor numero di queste tre: subiellività, obiettività, santità:
0 per dirlo altramente: realità, idealità e moralità.
Abbiamo dimostralo che queste sono le tre supreme forme
dell'essere e che non si possono ridurre ad un numero minore.
Abbiamo del pari dimostralo, che sarebbe assurdo il concepire
un' entità che non trovasse il suo luogo in una di quelle tre
varietà universalissime come nella propria classe, e che fuori
di quelle altro non si può pensare che l'essere astratto come
loro iniziamento; e nulla fuori di questo. E così crediamo d'aver
sodisfatto al problema delle Categorie; e d'aver trovato il prm-
cipio ordinatore dell'essere in tutta la sua estensione. Così la
moltiplicilà delle entità, che come un caos indistinto s'affaccia
155
alla mente dell'uomo che comincia a speculare sulla natura del-
l'essere, già comincia a ricevere distinzione e luce. Ma noi
dobbiamo continuare questo lavoro ordinativo nel libro seguente,
nel quale tratteremo dell' essere uno in relazione alle Categorie,
e incominceremo ad illustrare la relazione e la concordia, che
tiene la moltiplicità coli' unità deiresscre: lavoro che continue-
remo ne' susseguenti.
Articolo II.
Le tre forme deWessere non sono la divina Trinità, ma qualche
cosa che ad essa analogicamente si riferisce.
191. Prima però d'entrare in questo gran campo, di due cose
dobbiamo avvertire i lettori.
La prima si è, che il mistero dell'augustissima Trinità, che
rivelalo da Dio agli uomini noi cristiani professiamo di credere
sulla parola di Dio rivelante, è cosa infinitamente diversa dalle
nostre tre forme dell'essere, benché in queste risplenda una
certa analogia con quell'altissimo dogma.
La seconda, che quantunque il mistero della Triade non si
sarebbe giammai rinvenuto dall'umana intelligenza, se lo stesso
Dio non l'avesse rivelato agli uomini positivamente, tuttavia,
dopo che fu rivelalo, esso rimane bensì incomprensibile nella
sua propria natura ( e Dìo stesso è. incomprensibile e, come
meglio dimostreremo nella Teologia, tale^ di cui non si può avere
da noi per natura che una cognizione iniziale e negativa), ma
nondimeno non solo si può dimostrare col raziocinio l'esistenza
di Dio, ma ben anche si può conoscere quella d'una Trinità in
Dio in un modo almeno congetturale con ragioni positive e
dirette, e dimostrativamente con ragioni negative e indirette ;
e che, mediante queste prove puramente speculative della esi-
stenza d'un' augustissima Triade, questa misteriosa dottrina ri-
entra nel campo della Filcsolìa, intendendo nui sotto questa voce
lutto ciò che per filo di raziocinio ci conduce all' invenzione e
al conoscimento delle ultime ragioni delle cose.
192. Ora, che la dottrina delle tre forme dell'essere sia cosa
infinilamente diversa da quella divina Trinità, assai facilmente
si può conoscere, quando si considera, che in questa si professa
l'esistenza in Dio di tre \)ersorìe perfette , assolute, intere (1).
Ma le nostre tre forme non sono tali. E per convincersene
basta considerare la forma oggettiva, la quale non presentando
nessuna subiettività in se vivente, non può essere ancora una
persona , ma è unicamente l'essere impersonale in quanto di-
mora semplicemente come oggetto davanti alla nostra mente.
In secondo luogo. Vesserò privo delle forme si distingue da
noi dalle forme stesse. Ora questo non avviene nella divina
Trinità, nella quale l'essere divino sussiste in ciascuna delle
divine persone indistinto dal suo termine personale. Vero è che
per astrazione noi dividiamo col pensiero la natura divina dalle
l)crsone; ma se questa astrazione rimanesse in noi, senza che
fosse emendata con un altro pensiero sopravvegnenle , non si
potrebbe dire che conosceremmo in tal caso quel gran dogma,
esigendosi alla retta cognizione di esso, che noi sappiamo altresì,
non trovarsi alcuna dilTerenza reale tra la natura divina e le
persone.
In terzo luogo, la prima forma è bensì subiettiva, anzi èia
forma della subieltività stessa, ma perciò appunto non è un
subietto per sé determinato, ma è una forma universale, sotto
alla quale si classificano tutti i subielti determinati, increati o
creati, E lo stesso si può dire delle altre due. Le tre forme
dunque non costituiscono le tre persone divine, ma tre concetti
appartenenti alla dottrina universale dell'essere, che è TOnto-
ogia, tre forme universali, e come dice S. Tommaso, universalia
non subsistimt per se, sed solam in singiilaribus (2). Le dette
tre forme dunque non possono essere le tre divine persone.
(1) S. Athanas. Jn hoc dictum : Omnia mihi tradita sunt a Patre' etc.
(2) C. G. Ili, 75, 9.
157
Articolo III.
La dottrina della divina Trinità può e deve essere
ricevuta nella Filosofìa.
i93. Potrei dimoslrare molto più ampiamente lo stesso vero:
ma le differenze indicale sono suftlcienli ad intendere, che la
dottrina ontologica delle tre forme dell'essere non si può con-
fondere con quella infinitamente più augusta e sublime di Dio
uno e trino.
Ma, come dicevo, ora che ci è stato annuncialo da Dio slesso
questo gran vero dell'unità della natura divina sussistente in tre
persone, non è impossibile rinvenirne una prova di raziocinio.
Questo è quello che dovremo discutere nella Teologia. Ma per
queir incatenamenlo e sinlesismo , che hanno tra sé tutte le ri-
cerche teosofiche, onde si volgono in circolo, non punto vizioso,
tua perfettissimo , noi non potremmo inoltrarci in queste con passo
libero, e pervenire a una scienza, quant' è dato all' uomo,
compiuta, se non ricorressimo sovente all'essere assoluto sussi-
slente in Ire persone , come già si vedrà nel libro seguente ,
che tratta dell'essere uno. È dunque indispensabile, che fin d'a-
desso giustifichiamo questo nostro sdruscire , colle nostre ricer-
che intorno all'essere, nella sfera teologica, ed anzi toccarne
le cime. Il che ad alcuni potrebbe parere contrario al metodo
filosofico, al quale è prescritto camminar sempre per una via
di raziocinio, senza che nulla possa in questa sfera l'autorità,
se non fosse per accidente , cioè per confermare con essa e ren-
dere più persuasiva la rettitudine dello stesso raziocinio, veden-,
dolo formato egualmente da più menti , o da più menti confer-
matone il risultato.
Ora non è punto introdurre nella scienza filosofica l'autorità
della rivelazione, quando non ci serviamo del peso di questa per
dimoslrare le proposizioni che dimostriamo. Dondechesia noi pren-
diamo queste proposizioni , la scienza non risale alla storia della
loro origine, cioè del modo come ci sono apparite alla mente,
che s'ella entrasse in questa investigazione non sarebbe più scien-
za ma storia. La scienza razionale d'altro non si cura, se non
d58
di comporsi e tessersi lulta di proposizioni dimostrate col razio-
cinio. Qualora dunque arrecar si possano dell'esistenza d'una tri-
nila in Dio prove razionali, quesl' esistenza diventa una propo-
sizione scienlifica come le altre, quantunque la scienza deva sto-
ricamente questo suo aumento e questa sua perfezione a un fonte
da sé diverso , come nel nostro caso a Dio rivelante sé stesso
agli uomini come autorevol maestro.
d94 Óra la dimostrazione che noi daremo della proposizione
che, « Dio sussiste in una Trinità di persone » sarà questa — e
qui non possiamo che accennarla : — « qualora si negasse quella
trinità, ne verrebbero da tutte le parli conseguenze assurde
apertamente, e la dottrina dell'essere portata a' suoi ulti-
mi risultati diverrebbe un caos di contraddizioni manifestis-
sime». Questa prova verrà illuminata gradatamente da tuttala
teoria dell'essere, che andremo svolgendo, e nella Teologia ri-
ceverà la sua compiuta forma. Ivi non avremo che a ricapito-
lare quello che sarà stato detto avanti, e dimostrare che non
rimane uscita alcuna: o conviene ammettere la divina Triade, o
lasciare la dottrina teosofica di pura ragione incompleta non solo
ma pugnante d'ogni parte seco medesima, e dagli assurdi ine-
vitabili straziata e del tutto annullala.
Questa é certamente una dimostrazione indiretta, come indi-
rette sono le dimostrazioni che i matematici conducono dall'as-
surdo , e non sono meno efficaci per questo {Logic. ,b26'): è
una dimostrazione deontologica , perchè dimostra , non che la
cosa sia così, ma che deva esser così; e questo modo pure, se
è in regola, dà una certezza irrefragabile.
' Articolo IV.
Postulati necessari alle ricerche filosofiche
de' libri seguenti.
i95. Sarebbe dunque impossibile inoltrarci nelle ricerche ,
che ci restano a fare intorno alla natura dell'essere, e molto
più condurre la della dottrina a quella perfezione di cui ella é
suscettiva (limitata solo dal limite delle nostre facoltà indivi-
459
duali), se non assumessimo per conceduti due postulati, che
dalle stesse dottrine , che con essi si rinvengono , ricevono poi
compiuta dimostrazione ; e questi due postulati sono :
V Che l'Essere assoluto, il quale dicesi Dio, sussista;
2° Che l'Essere assoluto sussista identico in tre persone di-
stinte, ciascuna assoluta ed infinita,
196. I quali postulati, dicevamo , riceveranno dimostrazione
dall'evidenza delle slesse dottrine che, dati quelli, si deducono:
stantechè apparirà , che altre non ce ne potrebbero essere, a
quelle contrarie, immuni da intrinseca lotta e contraddizione.
E per verità le stesse forme dell'essere per un raziocinio ana
logico conducono il pensiero a quelle stesse proposizioni che noi
a principio ci contentiamo di chiamare « postulati » necessari
alla scienza , che vogliam trattare. Perocché l'essere nelle tre
forme è identico. Se dunque quest'essere si concepisca infinito
e assoluto , ci dà il concetto di Dio uno : e ben si può dimo-
strare, che ove non ci fosse quest'essere assoluto e infinito sus-
sistente e intelligente , né pure ci potrebbe avere Tessere uni-
versale, che é la verità che collustra le umane menti : la quale
è quella dimostrazione della divina esistenza che noi già espo-
nemmo nell'Ideologia (1^57- Fj60, 1055 n.) Onde questa prima
proposizione, che noi chiamiamo « postulato » , rispetto all'Ontolo-
gia, é ad un tempo così dimostrata che non ci può essere punto
negata , specialmente se si avverte che 1' Ideologia nostra non
si deve dividere dall'Ontologia , e la si considera come una parte
della medesima scienza, la Filosofia.
Le tre forme poi dell'essere , ove si trasportino nell'Essere as-
soluto, non si possono più concepire in altro modo, che come
persone sussistenti e viventi. Essendo dunque quelle tre forme
inconfusibili, perchè hanno una cotal relazione d'opposizione tra
loro , e non potendo cadere nell' essere assoluto nessuna divi-
sione reale, non c"è altra via d' intendere , come l'essere sus-
sista in quelle tre forme, se non supponendo che egli sus-
sista tutto intero in ciascuna. Ma se sussiste tutto intero in
ciascuna, egli deve sussistere in ciascuna come vivente, come
intelligente , come alto primo e puro , il che è quanto dire
con que' caratteri appunto che sono i distintivi essenziali della
personalità. Ed ecco già una forma della dimostrazione deonlo-
logica, la quale da sé stessa ci si manifesta. Anche al Filosofo
dunque, se a quest'altezza voglia elevarsi , convengono quelle no-
bilissime e verissime parole, che diceva Gregorio della Triade
augustissima : « Mi sforzo di comprendere l'unità , e già i raggi
« ternari risplendono intorno a me : tento di distinguerli , e già
« mi hanno ricacciato nell'unità » (1).
Questo sublime mistero dunque è il profondo e immobile fon-
damento, su cui si possa innalzare l'edificio non solo della dot-
trina soprannaturale, ma anche della Teosofia razionale, ond'è
veramente rfìs KpiaTicv&v eupops GsosofUg, come fu chiamato da
un padre della Chiesa (2). Dal che, essendo dimostrato, se ne
avrà questa conseguenza importante, che alla divina rivelazione
la slessa Filosofia dovrà la sua perfezione , l'inconcussa sua base ,
e il suo inarrivabile fastigio.
x«i tii rò ìv à.vc(fipoiJ.a.i. — Ap. Henrlc. Slt'ph. in *9«vw.
(2) Dall'autore dell'Opera r^ipi uvcti/.ò^ Gco/o/tas, e. I.
LIBRO II.
L' E S S E R E UNO
PROEMIO
■197. L'essere, concepito come l'atto dell'esislenza, è semplice ed
uno. Laonde, se lo speculatore si fermasse a questo concetto, non
potrebbe dare movimento al suo pensiero, e tutta la scienza fini-
rebbe in una parola, nella parola : essere. Il movimento dunque del
pensiero, e quella copia di dottrina che ne deriva, abbisogna d'una
moltiplicità. E questa si trova nell'essere, quando non lo si arresta
col pensier nostro al principio della sua attivila, ma lo si lascia
andare fino al termine. L'essere uno adunque non è l'oggetto
d'una scienza, se non quando si considera in relazione alla molti-
plicità. L'Ontologia dunque non può trattare dell'essere uno se
non in questa relazione.
198. Ma come colui che s'accosta a filosolare trova la moltipli-
cità? — Questa è quella che gli è data dallo sviluppo naturale
dell'uomo ; una farraggine di variati senlimenli e di concetti, di
cui ciascun uomo adulto è provveduto , e che gli si fa avanti
dal primo momento, nel quale si dà allo speculare, e colla pro-
pria moltitudine l'opprime, e quasi l'atterrisce, o — per trasportar
a questo una frase adoperata in un senso molto più sublime da
Platone — lo rende stupido, come quelli che sono tocchi dalla tor-
pedine. Poiché r uomo , che vuole intendere speculativamente,
vedendosi d'un tratto davanti tante differenti entità, non sa più
che si dire, e si persuade di non intender nulla. Alla mente
speculativa non par d'intendere, se non intende la ragiono delle
cose , e della moltitudine delle cose individue non intende da
Rosmini. Teosofia. li
iG2
principio rogionc alcuna : questa dunque è per essa un arcano
e come un tenebroso caos. Quando poi rinviene dal suo stupore
e si fa cuore a tentare di scoprire quella ragione, che le serva
di luce, che cosa vuole allora, che cosa si propone con cotesto
tentativo? Non altro che di risalire dalla moltitudine all'unità,
che la contenga e le dia ordine, dimostrandolo consentaneo alla
natura dell'essere, come fu mostrato nel libro del problema del-
l'Ontologia {5(3-52).
Così il bisogno ed il desiderio della scienza non consente al-
l'uomo d'acquetarsi all'essere uno, ma da questo è spinto verso
la moltiplicità: e lo stesso bisogno o desiderio è quello, che
dalla moltiplicità lo respinge e lo fa risalire all' essere uno ,
nel quale vede già contenersi quella moltiplicità.
Questo dimostra, che né l'uno preso in separalo da' molli,
nò i molti presi in separato dall' uno sono sufficienti a sod-
disfare a quel doppio bisogno dell'umana mente, od a costituire
qualche scienza. All'incontro, quando la mente speculativa può
dall'uno, senzi alcup. salto, discendere ai molti, trovando nel-
l'uno stesso la ragione e la causa di questo passaggio; e quando
del pari le è dato d'ascendere dai molli fino all'uno, che li con-
tiene e li spiega ; allora ella s'ncquieta soddisfatta, e crede sa-
pere. In questo doppio movimento dunque , o se così meglio
piace chiamarlo, in questa doppia azione del pensiero, che va
incessantemente da' molli all'uno, e dall'uno ai molti, senza ar-
bitrio, ma per una continua necessità di ragione, consiste la vita
intellettiva dello speculatore : la scienza poi consiste nel vedere
i molli nell'uno, e l'uno ne'molli senza contraddizione nò confu-
sione, nò distruzione de'due termini.
499. In questo sta il sinlesismo scientifico {Psicol. oU-kh, 1537-
1559); al quale deve rispondere di necessità un sinlesismo ontologico.
Poiché, ammesso W principio di cognizione, che è il piìi evidente
di lutti {Ideol. ì>59-57^; Psicol. 1294-1502), cioè ammesso, che
l'essere sia l'oggetto del pensiero; come e perché la mente non
s'acquieta nell'uno? Come e perché la mente non s'acquieta nei
molli. ^ Ogni potenza, quando é pervenuta ad unirsi pienamente
col suo oggetto, trova la sua quiete e piena soddisfazione, non
rimanendole altra attività da spiegare {Ideol. 515). Se dunque la
mente, che ha per suo oggetto l'essere, non s'acqueta nell'uno,
1C3
convien dire, che l'essere, in quant'è uno, non è a pieno l'essere;
e se non s'aquela ne' molli senza unilà, convien dire, che i molli
senza nnità non sono a pieno l'essere. Ma se s'acqueta nell'uno —
molli, tostochè ella conosca che in quesl'anlimonia non giace
alcuna contraddizione, conviene conchiudere, che l'essere sia uno
— molli; cioè che sia essenziale all'essere tanto l'unilcà, quanto la
moltiplicilà, coesistenti in esso senza discordia. L'uno dunque e
i molti formano nell'essere un sintesismo ontologico, sono entrambi
condizioni necessarie all'essere, oggetto d'ogni intelligenza.
E questo riceve uirirrecusabile conferma dal libro precedente
nel quale abbiamo fatto ricerca delle Categorie. Poicliè movendo
noi dalla moltitudine delle entità, che come una nebulosa s'af-
faccia al primo sguardo dello speculalore, e alTaticandoci per ri-
durle al minor numero possibile : infine siamo pervenuti a co-
noscere che non si possono raccogliere in un numero di classi
più piccolo di quello di tre, aventi per loro fondamento i Ire
concetti dell' obbiettività , della subiellivilà , e della santità. Ma
esaminando poi i contenuti di questi tre concedi abbiamo co-
nosciuto, che essi costituiscono tre forme primitive dell'essere
e non tre parti di essere. Perocché in ciascuna di esse tutto
l'essere intero si può contenere, ma in modo che Tessere non
può dimorare intero in una di quelle forme, senza che il pensiero sia
obbligato a pensare, ch'egli dimori pure intero nelle altre due.
E così abbiamo rinvenuto il primo ed essenziale sinlesismo del-
r essere .
200. Mediante poi questa riduzione della sterminata moltiplicilà
alle tre forme, si è scoperto da sé un primo principio di concilia-
zione tra l'unità e la moltiplicilà dell'essere. Poiché qualunque
altra divisione dell'essere, o classificazione de'molti^ avrebbe di-
strutta irreparabilmente l'unità, scindendo l'essere in più parli.
Ma nelle tre forme l'essere mantiene la sua unità ed integrità,
poiché in ciascuna di esse dimora tulio: e nello stesso tempo è
moltiplice nelle forme. Una tale moltiplicilà dunque, che riguarda
le sole forme, non toglie la sua unità essenziale, e l'unità es-
senziale dell'essere non toglie la trinità delle sue forme, in cia-
scuna delle quali uno e identico sussiste. Così andando noi in
cerca delle ultime classi delle entità, abbiamo trovato meglio
che delle semplici classi , essendoci abbattuti alle forme, i cui
concelli ci danno poi un fondamento inconcusso alle ullime classi
medesime (I).
Così il problema dell'Ontologia ricevette già una sua prima
soluzione, poiché è trovata la via di spiegare l'antinomìa del-
l'uno e de' molti ; mostrando che non involge contraddizione: il
quale è uno degli aspetti , in cui noi abbiamo posto quel pro-
blema (,53-06").
201. Ma questa soluzione, come ancor troppo generale, non può
assolvere tutta la Teoria dell'essere. Essa però ci dh il bandolo
per uscire dal labirinto. Sia a noi ora ad usarne. E per farne
l'uso cbe ci bisogna, dobbiamo ricercare tutte le altre moltipli-
cilà inferiori che nell'essere si riscontrano, e ricondurlc tutte sì
all'unicilà dell'essere, e sì alla trinità delle forme: il che è quanto
dire dobbiamo aprire il seno profondo dell'essere e diligente-
mente riguardare tulio ciò che nei suoi più riposti visceri si
nasconde, per quaiito è dato all'inferme nostre pupille: questo
solo potendoci dare quella notizia e teoria , che noi cerchiamo,
dell'intima costituzione e primordiale ordine dell'essere stesso.
Ora posciachè abbiamo distinto ['essere e le sue forme, dobbiamo
prima anatomizzare l'essere e poscia le forme. Poiché tentando
e spiando l'uno e l'altre, noi troveremo una raoltiplicità, che al-
l'essere si riduce, consideralo in quell'as'razione che il divide
per virtù del pensiero nostro dalle forme; e un'altra moltiplicità
che dalle forme immediatamente dipende e a ciascuna di queste
é subordinata. Ne qui rechi incaglio al pensiero del lettore, che
ci accompagna in queste speculazioni, l'obiezione che, se l'essere,
astrazione fatta dalle forme, ha una sua propria moltiplicità,
questa moltiplicità sia anteriore alle forme , e però queste non
siano le ullime varietà dell'essere, perocché svanirà da sé l'obie-
zione sulla slessa via che percorreremo speculando.
20^2. La moltiplicità dunque, che esce immediatamente dalla na-
tura dell'essere, e la moltiplicità, che esce dalla nalura delle forme,
snranno da noi poste in esame, e ridotte a teoria in due libri
distinti: il primo de'quali , che è il presente, abbiamo intito-
lato : L'essere uno , perchè in questo si considera e si riduce
(1) Abbiamo già distinte le ullime classi delle entilà e le n\i\me classi degli
enti : quelle sono tre, queste due, Tenie infinito e l'ente finito.
iOa
,a unità la prima delle* dette molliplicità • al seguente abbiamo
posto per titolo : L'essere trino, perchè parla di quella molliplicità
che dalle forme discende e ad esse sì richiama e si unifica nel-
Viinico ordine, nel quale esse sono reciprocamente avvincolate.
Avvertiremo soltanto i lettori , che proponendoci di trattare
dell'essere uno, non possiamo già parlando prescindere al tutto
dalle sue forme ; e parlando delle tre forme non potremo par-
larlarne prescindendo interamente dall' essere uno ; il che sa-
rebbe impossibile per l'accennato sintesismo tra l'essere e le
forme, il quale fa che tutta l'Ontologia si volga in quel circolo
logico , di cui abbiamo parlato nella prefazione. Considereremo
dunque in questo librò 1' essere uno non senza riferirlo alle sue
forme ; nel seguente poi tratteremo delle forme non senza ri-
ferirle e riscontrarle coll'essere uno.
-^«8«3ft»^-
SEZIONE I.
Bici E&ugiB»ggèo outologico
CAPITOLO I.
Della necessità di distinguere accuratamente il significato
di alcuni vocaboli che s'adoperano nell'Ontologia.
205. Chi osserva attcntamenle i ragionamenti de'più solenni On-
lologi scorge, che sono impacciati nel linguaggio che adoperano,
e sarebbe inclinato a credere che dall'imperfezione e dalla po-
vertà del linguaggio provenisse l'imperfezione, la povertà, e spesso
anche l'erroneità della dottrina. Ed è certo, che quando uscirono
dal volgo i primi a speculare^ essi non avevano altra lingua
che la volgare e la comune. E come la lingua non è solo il
mezzo di comunicare altrui i pensieri , ma anche lo strumento
del pensare [hleol. 4o8 n; Psicol. y21-o5!7), s'accostavano alle
speculazioni ontologiche mal armati, cioè d'una lingua che non
era fatta per la speculazione. Di che non avvedendosi a principio
(poiché l'uno crede naturalmente di poter esprimere colla lingua
nativa tutto ciò che pensa, se l'esperienza noi fa accorto del
contrario), si sforzarono invano di formolare delle chiare sen-
tenze, e il loro pensiero ontologico rimase impacciato nelle parole.
Per liberarsene era necessario, che il pensiero, lasciata la solita
compagnia della lingua, se n'andasse avanti da sé quanto poteva e
poi di mano in mano si vestisse d'una nova lingua proporzionata
alla sua grandezza ; non dico d'una lingua nova del tutto, che
sarebbe stato impossibile e disutile : ma dove gli mancava quella,
che la società gli porgeva. Al che nondimeno il pensiero non
potea risolversi , se non dopo molti tentativi ed esperienze riu-
scitegli male colla lingua comune; e vediamo nel fatto, che i
filosofi più maturi, quali furono Platone ed Aristotele, comincia-
167
rono a farlo, e gradatamente si continuò a fare con più o meno
di felicità fino a noi. Su questa via anche noi ci trovammo ne-
cessitali di camminare introducendo qualche novo vocabolo
— meno però che ci fosse possibile — obbedendo alla sola ne-
cessità di fare intendere il pensar nostro e d'evitare gli equivoci
{Logic. 572).
A evitare i quali — se alcuna volta è mestieri chiedere licenza
agli orecchi del pubblico d'introdurre qualche nova ed insolita
parola — giova per lo piìi anche solamente ricorrere ad accura-
tissime definizioni^ colle quali si stabilisca e si dichiari il signi-
ficato preciso di certe parole comuni, senza bisogno d'abbando-
nare la proprietà della favella, anzi ad essa strettamente atte-
nendosi; e quando questo significato fosse o paresse moltiplice,
si faccia intendere in quale de' diversi significati s'adoperi ogni
parola ne' vari luoghi, ne' quali essa ricorre. Ciò non ostante non
ogni scienza esige nella stessa misura questo sottilissimo lavoro
della distinzione de' significati, e noi abbiamo procuralo di farlo
nell'Ideologia e nelle altre scienze solo quanto ci bisognava e
non più, che avrebbe gravato inutilmente il lettore. Ma l'Onto-
logia è tale scienza, che richiede assolutamente una diligenza e
una sottigliezza mollo maggiore nel distinguere e notare le dif-
ferenze de' significali d'alcune solenni parole, che contengono lo
slesso oggetto di questa scienza.
CAPITOLO II.
Delle cause dialettiche della moltiplicità de' sìgnifìcali del vocabolo
essere, e d'altri che all'essere si riferiscono.
204. La ragione, per la quale l'Ontologia non può far a meno di
così sottili distinzioni, si è che, trattando essa dell'essere in tutta
la sua possibilità, comprende nel suo àmbito anche tulli i diversi
aspetti^ ne' quali l'essere si presenta alia mente umana. Quando
il discorso non cade sull'essere sotto questi diversi aspelli , ma
puramente sull'essere, qualunque sia l'aspetto da cui si consi-
dera, non c'è bisogno di distinguerli, ma questi non si possono
trascurare ogni qual volta diventano l'argomento slesso del ra-
gionare {Logic. 394).
168
Egli è chiaro che i vocaboli, essendo de' meri segni, non
hanno per sé la virlù d'essere applicati alle entità, che si vo-
gliono per essi significare, in maniere diverse secondo le diverse
nature delle entità stesse, ma qualunque natura abbiano, sono
significale tutte allo stesso modo, cioè coU'imposizione d'un suono
che dicesi vocabolo o nom(^. Sieno dunque le entità reali, od
ideali, 0 mentali, o di qualunque altra natura, se ce n'ha delle
altre, tutte egualmente sono significate da suoni. Questo fa sì
che ne' vocaboli co' quali si ragiona, la moUiplicità nell'essere è
rappresentata, senza che appariscano le diverse origini della me-
desima, dalle quali dipendono le diverse nature delle entità stesse.
Conviene dunque che il filosofo, definendo accuralissimamenle
il valore de' vocaboli, si spieghi in modo che si conosca queste
nature diverse delie entità che significano, per non esporsi al
pericolo di scambiare le entità d'una natura colle entità d'un'allra
natura,
205. Sino dal principio dunque avvertiamo, che, sebbene l'essere
stesso sia semplicissimo , tuttavia esso si moltiplica davanti alla
mente non solo per le diverse sue forme categoriche , di cui
abbiamo parlato nel libro precedente, ma anche prescindendo
da queste:
l** Pei diversi modi del nostro concepire ;
2" Pei diversi modi, ne' quali egli stesso si presenta nella
nostra mente; e
3" Pel diverso numero delle riflessioni, che noi facciamo
sopra di lui {Logic. 350,^02).
20G. Le diversità che presenta l'essere a cagione dedkersi modi
co' qiiftli noi lo concepiamo e lo riguardiamo, eleggendo di riguar-
darlo piuttosto sotto un aspetto che sotto un altro, si riducono
a tre classi.
1° Quelle diversità , che procedono dalla facoltà d'astrarre
(pensiero parziale), come quando noi consideriamo l essere as-
tratto preciso da ogni relazione co' suoi termini, o quando ci
formiamo il concetto d'entità :
2°. Quelle diversità, che nascono dalla facoltà di conside-
rar l'essere in relazione co' suoi termini, onde ci vengono i con-
cetti, come si dirà, d'essere virtuale, d'essere iniziale e diente:
3°. Quelle diversità , che nascono dalle due prime cause in-
169
sieme unite, come quando noi ci formiamo il concello di essenza,
che suppone da una parie l'astrazione, e dall'altra la relazione
con un suhietto o Icrmine, come vedremo.
207. Le diversità clie presenta l'essere a cagione del dmrso modo
coni' egli si presenta alla nostra mente, si riducono a due, cioè
•à\V implicito e aW esplicito [Logic. 3^i8), Ma se si considera le
cause di queste diversità , si trovano facilmente da notare le tre
seguenti :
i.° 0 la natura dell'essere stesso, a cui si riducono le tre
forme, in cui egli è, che più o meno esplicitamente, o impli-
citamente, si manifestano ;
2." 0 la niolliplicità delle facoltà nostre — che è una prima
loro limitazione — come allora che concepiamo 1' essere come
atto visibile, medìanle V intuito {nome) , e lo concepiamo come
atto che si fa, mcilìanic W giudizio (verbo);
5." 0 la limita zione di ciascuna delle primitive facoltà,
come intuendo l'essere virtuale, e Tessere ideale, invece del-
l'essere oggettivo assoluto.
208. La diversità de'concetli, che presenta l'essere a cagione
delle varie riflessioni^ parrebbe ridursi alla diversità proveniente
dai modi di concepire, tra' quali lo spirito umano sceglie di riguar-
darlo; ma ci parve di distinguere questa causa di diversità di
concetti, perchè i diversi ordini di riflessioni non sono propriamente
un diverso modo di concepire , e non è intieramente libera in noi
la riflessione , colla quale riguardiamo un oggetto, ma siamo
obbligali a riguardarlo colla riflessione prossima alla precedente,
e non con alcun'altra. Vero è che qualche nova relazione s'ag-
giunge sempre in qualunque nova riflessione; ma se questo è
conseguente alla riflessione , non è ciò che costituisce la rifles-
sione medesima [Logic. 5ii9).
209. Tutte queste diverse maniere, secondo le quali divariano le
concezioni nostre d'una entità, che ritiene sempre lo stesso vo-
cabolo, si devono aver presenti ne' discorsi ontologici, non
perchè ne ricorra di continuo il bisogno, ma perchè questo bi-
sogno talora si manifesta , or dell'una or dell'altra , ora di più
di esse, secondo che la distinzione è involta nell'argomento
stesso di cui si tratta.
E in pari tempo conviene avvertire, che tali differenze nelle
170
concezioni delle slesse entità si mescolano e s'involgono per
modo , che in due proposizioni la slessa entità può comparire
diversa ad un tempo per tutte quelle differenze o più di esse ,
e che una produce o suppone l'altra ^ e l'analisi deve, al biso-
gno , accorrere a sceverarle. Poniamo , che la mente consideri
una entità in relazione con un'altra, dalla quale nella prece-
dente concezione era divisa. Questa differenza appartiene al
primo de" quattro fonti di differenze sopra indicate , u il diverso
modo di concepire » , e alla seconda polla di questo fonte :
« concepire l'entità stessa con diverse relazioni «. Ma se l'entità,
di cui si tratta , era implìcita . e la relazione , in cui si considera ,
fosse quella de' termini che racchiude in sé, e che, se fossero
sviluppati , si renderebbe esplicita , questa differenza di relazione
apparterrebbe al terzo fonte delle differenze, o certo suppor-
rebbe questo terzo fonte che abbiam detto: « un modo diverso
dell'essere rispetto alla mente » . Converrebbe dunque al bisogno
sapere riferire la diversità a tutt' e due que' fonti, e distinguere
quanto e come appartenga all' uno , e quanto e come all' altro.
Certo che, se si dovesse procedere di continuo con distin-
zioni così sottili, l'Ontologia diverrebbe una scienza difficilis-
sima; ma ella non ha bisogno di tanto: anzi è dovere dell'Onlo-
logo farne uso colla maggiore sobrietà possibile; e questa è
determinata da quel tanto che si trova indispensabilmente neces-
sario alla chiarezza dei pensieri che si devono esprimere, e alla
remozione di tutti gli equivoci, i quali soli, dando appiglio al
sofisma , rendono la scienza un prunaio in cui non si può più
camminare senza pungersi, né si può più trarne il piede.
210. E qui ben sentiamo, che ci si domanderà ragione delle
stesse distinzioni dialettiche, cioè ci si domanderà l'origine loro. Ma
dobbiamo rispondere che questa non può essere da noi chiarita, che
nel libro seguente. Poiché le distinzioni dialettiche si fondano nella
forma ideale dell'essere, e nella relazione di questo col soggetto
umano. Dovendo noi dunque qui favellare del puro essere ante-
riore alle forme, dobbiamo prenderlo come ci si presenta, e in
appresso poi , trattando delle forme , dare la ragione per la quale
ci si presenta al pensiero così. Il che è nova prova che la dot-
trina ontologica apparisce in forma di circolo , di modo che le
cose che vengono in appresso sono necessarie alla chiara intelli-
^7i
genza di quelle venute prima, e queste alla chiara intelligenza
di quelle. II qual circolo non è vizioso: ed altro non viene a
dire, se non chela scienza ontologica è perfettamente una, e
allora s' intende, quando con un solo pensiero se n'abbracciano
insieme tutte le parti.
CAPITOLO ili.
Dei significali del vocabolo essere, e d'altri ,
die s' adoperano nell' Ontologia.
Articolo I.
Definizioni.
2H. Richiamando qui le definizioni di alcuni vocaboli dati nel
libro antecedente, aggiungeremo quelle di qualche altro, e sog-
giungeremo le necessarie spiegazioni.
Definizioni :
i° L'essere è l'atto d'ogni ente e d'ogni entità.
2° L'ente ammette due definizioni :
a) Un subietto avente l'essere;
b) L'essere con qualche suo termine.
5o L'cMf/fà è quell'oggetto del pensiero^ qualunque sia , che
dal pensiero è riguardato come uno.
h" L'essenza è l'essere avuto da un subietto, astratto dal
subietto che lo ha.
a" Il subietto in universale è ciò che in un ente , o in un
gruppo d'entità si concepisce come primo contenente e causa
dell'unità {Psicol. 85()).
212. Dichiariamo queste definizioni.
Esse dimostrano in primo luogo , che le parole essere, enle^
entità, essenza, hanno un significato largo e indeterminato, e
j)erò che esse possono essere applicate ad oggetti diversi. È dun-
que necessario, che noi vediamo quali siano questi oggetti, e
come ciascuna di quelle parole, mantenendoli significato inde-
172
lerminalo che ha, possa ricevere qualche aggiunto^ che segni
l'oggelto preciso, a significare il quale s'adopera. Cominciamo
dall'essere.
Articolo II.
Essere deW intuito , essere nrtuale , essere iniziale,
astratto , ideale.
'ìiù. L'Ideologia dimostra, che l'essere è presente all'inlelligenza
umana, e che colla sola presenza la forma. Quest'essere ammette
certamente la definizione da noi data : « l'atto d'ogni ente e di
ogni entità». Ma dov'è l'ente, dove sono le entità in questo
essere intuito per natura? Niun ente, ninna entità è distinta e
visibile in questo intùito, anzi l'uomo anteriormente ad ogni
esperienza non rivolge alcun pensiero a tali entità in qualche
modo determinate. Egli intuisce l'essere senza affermare ancor
nulla , e senza negar nulla di esso , senza conoscere esplicita-
mente la relazione di lui co' suoi termini , o con altra cosa qua-
lunque. Questo è l'essere dell' intuito, essere indeterminato, che
informa la facoltà conoscitiva {Logic. 334).
Ma quest'essere ha una virtù nascosta, che si manifesta in ap-
presso nei successivi atti di conoscere. Se la riflessione dell'uomo
considera questa virtù^ ella trova che neWessere dell'intuito giac-
ciono nascosti tutti i suoi termini , unito ai quali presenta al
pensiero i concetti degli enti. Se dunque si adopera la parola essere
a significare l'oggetto naturale dell'intuito, e la sua virtù scoperta
colla riflessione, le parole ente ed entità che si trovano nella sua
definizione, devono intendersi per enti ed entità virtuali. Volendo
noi dunque determinare questo significato dell'essere con un ag-
giunto, lo chiameremo Tessere virtuale.
214. Questo è l'essere considerato in relazione alla sua virtualità.
Che se noi lo consideriamo in relazione agli enti e alle entità at-
tuali, egli ammette ancora la definizione: « l'atto dell'ente e
delle entità » ; ma la relazione , nella quale la riflessione della
mente lo considera, è diversa; poiché, non esistendo alfatto alcun
ente né alcuna entità senz'alio di essere, rimane che l'essere
i75
acquisti la nozione d'inizio d'ogni ente e d'ogni entità. Per si-
gnificare l'essere in questa relazione si adopera l'aggiunto d'ini-
ziale, chiamandosi essere iniziale.
215. Ma la mente umana può coll'astrazione precidere l'essere
dall'intuito e anche dai termini dell'essere, siano virtuali, siano at-
tuali, e considerare l'essere in se slesso. Né anche in questo caso
egli perde la sua definizione « l'atto dell'ente e delle entità ».
Soltanto, che la mente eoi pensiero parziale {Psicol. 1319-1521) si
ferma alla prima parola della definizione, alto, e considera questa
precisa dalle seguenti. E ancora l'essere iniziale, ma non più con-
siderato come iniziale, ma come qualche cosa da sé. Quest'è una
pura entità di ragione , e per significarla con degli aggiunti la
chiameremo : essere astratto preciso.
21G, L'essere virtuale dunque, Tessere iniziale e Vessere astratto
preciso sono tre significali , che riceve il vocaholo essere , il quale ,
essendo parola che animelle una definizione indeterminata, gli
ahhraccia tulli e tre secondo che la mente lo riguarda in varie
relazioni.
E sono appunto queste diverse vcdule della mente secondo di-
verse relazioni, che, senza dar adito all'errore, si possono trascu-
rare in varie scienze, ma non così nelle definizioni che devono
servire alKOntologia, perchè queste slesse vedute entrano a for-
mar parte del suo oggetto, come si vedrà meglio in appresso. Onde
è necessario, che sulle tre vedute e relazioni accennate, che am
mette la parola essere, un poco ancora ci tratteniamo.
217. E dunque a considerarsi, che il primo intuito dell'essere
nulla distingue in esso e neanco ninna relazione , benché tulio
virtualmente vi si comprenda. Diche procede:
1° Che il solo intuito, non facendo altro che intuire, non
possa neppur dare un nome all'essere che intuisce: onde la slessa
denominazione, data a un tale oggetto, di essere, è l'opera della
riflessione , che a suo tempo succede al taciturno intuito :
2° Che molto meno appartiene all'intuito la denominazione
di essere virtuale, la quale distingue la virtualità, che è nel
seno dell'essere, dall'essere slesso, atteso i due distinti vocaboli
con cui si chiama (Ideol. 458 n, 29o n, 1410.) onde a escogi-
tare quella denominazione non solo si richiede la riflessione , ma
una riflessione analitica, che suppone un'astrazione, benché que-
Ì7li
sta venga riunita poi a ciò che prima si astrasse, di maniera che
quell'espressione essere virluale , significa due astraili riuniti, per
la quale riunione il senso complessivo non è più astrailo, perchè
l'analisi astrattiva rimane distrutta imm.edialamente dalla sintesi.
ù" Che ncW essere virtuale, oggetto dell' intuito, ci sono im-
plicite anche le tre forme dell'essere, ma anche queste, ap-
punto perchè del tulio implicite , sono nascoste nella virtù an-
cora occulta dell'essere, e non si manifestano che in appresso
coU'applicazione , che fa l'anima, dell'essere stesso ai sentimenti.
Ma V essere Virtuale appartiene egli slesso alla forma ideale, nella
quale sono implicite l'altre due; pure la mente non considera
quesV idealità, come appunto non considera la virtualità, hen-
chè runa e l'altra siano qualit;\ dell'essere intuito: queste qua-
lità dunque sono inerenti all'essere intu'ito senza che la mente
le distingua dall'essere stesso , né dall'altre forme. Onde l'intuito
propriamente termina semplicemente nell'essere ; e solamente di
poi, per una riflessione già svolta, l'uomo s'avvede che quell'essere
è ideale, e contiene virtualmente l'altre forme {Logic. oOh ).
Ciononostante noi non abhiamo posta la denominazione d'essere
ideale come un quarto significato della parola essere, perchè non
le appartiene in tutta la sua estensione la definizione: a l'atto
degli enti e delle entità » , significando solo l'alto degli enti e
delle entità ideali. E ciò per due ragioni : l'una, perchè le for-
me dell'essere piuttostochè il suo alto (si parla di atto iniziale,
come lo dà l'astrazione umana) sono i primi e propri termini
di quest'atto che si dice essere; l'altra perchè V idealità non è
una forma completa , come a suo tempo diremo , riducendosi alla
forma completa óqW oggettività, ma è questa forma in quella parte
limitata che all'uomo si mostra per natura. In quanto poi l'es-
sere ideale si considera come inizio di tutti gli enti e di tutte le
entità, è già contenuto nell^i denominazione di essere iniziale; e
tale è veramente l'essere ideale secondo la maniera del conce-
pire umano {Ideol. 1180, 1181, 1425).
4° Che nella denominazione d'essere iniziale c'entra un' ana-
lisi e una sintesi simile a quella , che abbiamo detto contenersi
nella denominazione d'essere virtuale , la quale non appartiene al-
l' intùito; però l'essere non si può considerare dalla mente come
inizio di tutti gli enti e di tutte le entità se non dopo aver que-
i75
sle — cioè molle di queste — conosciute e trovato in tutte l'atto
dell'esistenza ad esse comune. Laonde ùWessere iniziale conviene
la denominazione di essere comunissimo, in quant' appunto così
consideralo si vede comune a lutti gli oggetti del pensiero.
5" Finalmente V essere aslralto preciso, ossia consideralo
dalla ragione astraente come preciso da ogni relazione co' suoi
termini, è di molto posteriore ai precedenti; poiché conviene
aver prima conosciuto, in qualche modo, l'essere come iniziale
e come virtuale, acciocché si possa recidere da esso per astra-
zione e metter da banda queste due relazioni di virtualità e di
inizialità.
Articolo III.
Signi^cati del vocabolo: ente.
218. Venendo ora aircnle, noi Tabbiamo definilo «l'essere col
suo termine)). Ala come possiamo discernere «l'essere termi-
nalo « ovunque si trovi? Trovandosi in varie entità, accade che
anche il vocabolo ente riceva diversi valori, perchè avviene che
nell'uso s'applichi a tutte le entità che hanno i caratteri essen
ziali dell'ente, benché questi siano mescolati con altro.
Attenendoci alla forma della parola enle , se n'ha l'altra de-
finizione: «l'ente ò ciò che è « , ossia «è un subietto avente
l'essere ».
Intendo per subielto : « ciò di cui si predica qualche cosa » ,
ovvero : « ciò che si considera come un che avente un atto » ,
sia poi quest'atto attivo, o passivo, o ricettivo: di maniera che
quesV attuai Uà sia da esso operala, o sostenuta, o, in qualun-
que sia modo , avuta.
La formola : u l'ente è ciò che è « , se si analizza, vediamo,
che ha due parli « ciò che •» , ed « E » . Il « ciò che » è di que-
sto g\ud\z\o i\ subielto , l'È, W predicato ; del subielto « ciò che »
si predica l'atto dell'essere, È. Di qui si trae un carattere di-
stintivo tra il valore della parola essere, e quello della parola
ente. Poiché essere esprime puramente V atto , pel quale l'ente
è; laddove Venie esprime il subietto avente quest'atto [Logic. 554j,
d70
!219. Essere dunque, per sé solo, non esprime alcun subietto, ma
puramente V alto (I): laddove l'ente esprime il subietlo avente
quest'atto. Ma conviene , che paragoniamo le due definizioni
clic Abbiamo fin qui date dell'ente. Poiché abbiamo detto: i° che
« l'ente è l'essere col suo termine >> : '2° che è « ciò che è ». In
qucsl' ultima abbiamo osservato che a ciò che )) esprime un su-
bietto, e l'È esprime l'atto dell'es.sere, predicato. Ora dov'è
nella prima definizione il subietto? Dicendo che l'ente è «l'es-
sere col suo termine » , ossia « l'essere terminalo » , noi venia-
mo a porre l'essere stesso come subietlo^ e il termine come pre-
dicato: il contrario di quanto risulta dalla seconda definizione.
Quesl'antinomìa dialettica o apparente contraddizione si discio-
giie facilmente, quando si considera che Vesscre è un concello
anteriore aWente: perchè questo suppone quello nell'ordine de'
concetti, e non quello questo. Ciò posto, la natura deW ente
si può definire in due modi; nell'uno considerando l'essere come
suo antecedente ed esprimente la via, per la quale l'essere — nel-
l'ordine mentale — si fa ente; nell'altro, non considerando punto
il suo antecedente, nò la via per la quale questo nel pensiero
diviene ente, ma considerando l'ente in sé stesso già divenuto.
Se considero l'ente nella sua relazione al concetto essere, suo
antecedente , allora questo prende luogo di subietto nella pro-
posizione, come dicendo: l'ente è «l'essere col suo termine)),
dove l'essere è il suo subietto antecedente {Logic. ,4^4, h[7"),
che per mezzo del termine diviene ente, e cessa d'essere quel-
l'indeterminato di prima. Se poi considero l'ente qual è in sé
stesso, senza risalire al suo antecedente, allora non posso più
far entrare l'essere indeterminato nella proposizione e poi deter-
minarlo coU'aggiungergli il termine; ma devo fermarmi all'ente
dicendo solo ciò che già ha^ come nella definizione: l'ente è « ciò
che è )) . Considerato l'ente nella prima relazione, Vessere lien
luogo nella proposizione di principale ossia di suhielto , e il kr-
mine di predicato: nella seconda il termine stesso è il suhielto,
e l'essere non si considera più come antecedente , ma già come
predicato del termine, e però a questo limitato {Logic. 397),
Egli è chiaro, che l'essere nella prima definizione non è che
(4) E quell'atto è espresso nella sua forma obiettiva. Cf. Logica. 320-327.
177
un subieilo dialeltico, cioè die ha natura di subielto nell'ordine
de' concelli della mcnle umana, laddove il termine, che nella
seconda definizione ò subielto, può essere anche un subielto reale.
220. Si deve considerare inoltre, che l'essere che può diventare
un subielto dialctlico , è Vessere iniziale, perche questo solo è
consideralo in relazione co' suoi termini : non può essere tale
Vessere astratto, perchè questo è dalla mente diviso da'suoi ter-
mini, e però non si può dire di lui che^ terminalo, sia l'ente,
per r ipolesi astrattiva della mente che gli nega il termine (1).
Venie dunque ammettendo due definizioni si concepisce in due
modi dialettici, o come avente in sé il subielto antecedente, o
come essente subielto e avente in sé l'alto dell'essere come pre-
dicalo. Questi due modi puramente concettuali e dialettici appar-
tengono all'ente in qualunque sua applicazione, purché s'adoperi
con quella proprietà che lo dislingue dall'essere (2).
221 . Ma l'ente viene appunto applicalo diversamente e allora
cangia di significalo. Poiché l'ente essendo «l'essere terminalo»,
accade che si concepisca l'essere più o meno terminalo. Noi dob-
biam dare la teoria de' termini dell'essere. Ma qui ci basta av-
vertire, che i termini dell'essere potendo concepirsi piij o meno
ullimali, e dislribuirsi in una lunga serie secondo i gradi della
loro ultimazione, procede che l'ente, in quanto si distingue dal
puro essere ancor senza termini, acquisti una serie di valori del
pari lunghissima , e che gli enti così schierali ammettano più
pienamenle la nozione di ente, quanto il termine è più pieno e
completo.
I primi termini dell'essere sono le forme categoriche, in eia-
(1) Vessere astratto, come qualsivoglia altra entità, può occupare il luogo
di subietto in altre proposizioni , ma non nella definizione deWente. Così
egli è subietlo della propria definizione, e in tant'altre , potendo la mente
umana considerare come sostantivo una qualunque entità anche negativa
{Logic. 396).
(2) Dove non c'era bisogno di questa proprietà, abbiamo anche noi nelle
opere precedenti , al modo degli antichi , usato essere ed ente promiscua-
mente. Nondimeno conviene por mente , che alcune cose si possono dire
ugualmente dell'essere e dell'enee, e in questi luoghi il discorso non s'allon-
tana dalla proprietà usando l'uno o l'altro indifferentemente di quei due
vocaboli.
Rosmini. Teosofia. IS
i78
scuna delle quali può essere l'ente pieno. Ma parlando noi dia-
lellicamenle devesi distinguere l'ente puramente dialettico dal-
l'ente in sé.
222, L'ente puramente dialettico è quello che non è che un sti-
hietlo (lialellko; di maniera che, se l'ente sussistesse, quello che
si esprime non sarebbe un subietto reale , ma qualche cosa del
subietto.
225. Uente in sé all'opposto è un subietlo, che, se sussistesse,
sarebbe un vero subietlo reale, di cui si predicherebbe il resto.
A ragion d'esempio la qualiià, è un ente dialettico, perchè si
può dialetticamente predicare di lei l'essere, p. e. dicendo:
« questa qualità de' corpi esiste » ; ma supposto che sussista la
qualità di cui si parla, non sussisterebbe che nel corpo, che sa-
rebbe suo subietlo , e non sussisterebbe ella slessa , come su-
bietto del resto. All'incontro il corpo è un ente in sé, o tale
almeno si pensa essere , e però un corpo sussistente é subietto
delle sue qualità.
Venie poi in sé può esser pensato come un concello aslrallo
di enle, p. e. il corpo, e anche come un concello pieno di enle;
e questo ancora in due modi , cioè come individuo vago , nel
quale si pensa, che abbia la sua piena determinazione, ma non
si pensa qual sia questa determinazione ; ovvero come individuo
specifico , cioè si pensa che sia determinalo ed anche si pensa
qual sia la sua determinazione slessa, p. e. un corpo fornito di
tulle le sue determinazioni, ossia colla specie piena {Ideol. 509,
507, G/i8 G50).
Articolo IV.
Significati de' vocaboli : entità, e cosa.
224. Riserviamo alla parola entità un significato più universale
di essere e di ente, come appare dalla data definizione: « quel-
l'oggetto , qualunque sia , che dal pensiero è riguardato come
uno )). Laonde anche l'essere, anche l'ente è un'entità, ma en-
tità abbraccia di più tutti gli oggetti dialettici e di pura ra-
gione, che l'astrazione possa proporre alla mente.
179
Una parola così universale è indispensabile al linguaggio del-
rOntologia.
225. Alla parola cosa — dal Ialino causa (1) — si dà parimenli
un significalo ugualmente esleso; ma quando cosa si conlrappone
a idea, allora la parola si rcslringe a significare un'cnlilà colla
forma della realilà , e riceve il significato proprio della parola
latina reSj della quale non è rimasto il derivalo sostantivo nella
nostra lingua.
220. Ma è necessario osservare, che quantunque le parole enlità
e cosa abbiano un senso più universale di essere e di enle^ non
sono tuttavia a queste anteriori nò nell'ordine delia loro forma-
zione, né tampoco in quello del pensiero.
Non nvWoì'dine della loro formazione, perchè non si può l'are
una così estesa astrazione, se non dopo che la mente umana è
provveduta già de' conceUi dell'essere , deirente , e di qualche
oggetto dialettico; l'astrazione non polendo mai essere la prima
operazione delia menle, perchè ha bisogno della materia su cui
s'eseguisce {Ideol. ^98-^99, 510, ìhU, ìho'ó).
Non neir ordine del pensiero , perchè uiia tale astrazione non
si fa che col pensiero parziale [Psicol. 1518-1521), il qual pen-
siero non può agire se non colln presenza dell'oggetto lolaie ,
del quale sceglie una parte.
Laonde , se si sbandisce dalla menle il concetto espresso
dalla parola entilà, non scompare con ciò anche l'essere e l'ente;
laddove, viceversa, tolti via questi, il concello d'entità rimane
del pari annientalo.
Articolo V.
Significato della parola: essenza.
227. Nell'Ideologia (646-6/i8) abbiamo definita l'essenza « ciò
(1) L'essersi tanto universalizzato il significato della parola latina causa ,
dimostra la maniera di concepire della mente umana, ctie inclina a ricono-
scere come causa ciò che è universalissinio : cosi vedremo in appresso , che
l'essere preso nella sua massima indeterminazione e universalità è, ne' modi
che diremo, causa di tutte le cose contingenti.
^80
che si conliene nell'idea » (Def. 1). Questa definizione ha il van-
taggio, che dà in mano il modo di classificare le essenze: poi-
ché apparisce , che la loro classificazione segue quella delle
idee, e questa classificazione si può vedere nell'Ideologia slessa
(646-656, n, 1145, H81, 1^221, 193 n, 104 n, 1416, 1234,
1095 71.).
228. E tuttavia questa definizione non basta all'Ontologia, che
di più richiede che si consideri il significato della parola essenza
colle sue relazioni dialettiche e così si determini il senso pre-
ciso e composto della parola {Logic. ,373*).
È dunque a considerarsi, che essenza significa « ciò che una
cosa è )> {Dcf. 2) (1), e ciò, che una cosa è, è sempre veduto
dagli uomini nell' idea della cosa : onde questa definizione con -
viene colla prima.
Ma confrontiamo questa definizione con quella dell'ente.
L'ente è ciò che è.
L'essenza è ciò che una cosa è.
Ciò che è, equivale a dire « ciò che ha l'alto d'essere )>: ciò
che una cosa è, equivale a dire: k quel tanto di atto d'essere
che ha una cosa » {Def. 3.). Nella espressione dunque: « ciò
che è », il subietto è del tutto indeterminato e non involge
alcun concetto di determinazione, e però anche il predicato es-
sere, ovvero atto d'essere, rimane del tutto indeterminato. Nel-
l'espressione all'incontro: « ciò che una cosa è » , il subictto
(( una cosa » è ancora indeterminato , ma involge il concetto
d'una determinazione, senza che punto si dica qual sia questa
determinazione , onde trattasi d'una determinazione generica,
ossia d'una determinazione indeterminata.
Sotto questo rispetto dunque c'è un concetto di più espresso
nella parola essenza , che non sia nella parola ente: poiché in
quella si conliene il pensiero d'una determinazione e limitazione,
qualunque poi sia ; il che non si specifica punto.
Ma sotto un altro rispetto nella parola essenza c'è un con-
cetto di meno che nella parola ente. Poiché l'ente esprime un
(1) Nani sicut ab co qnocl est, verbi gratia sapere et intelligere, sapien-
tiam et intelligentiam nomiìiamus: regnlariter et AB EO QUOD EST, es-
sentiam non taceniìis. Sidon. Ep. praefixa carm. 14 ad fin.
18i
subietto essente come indica la definizione: « ciò che è ». Ma
nella parola essenza il subictto è sottinteso come il fondamento,
su cui si è operata l'astrazione: poiché definendosi l'essenza:
« ciò che una cosa è » , il subietto cosa non è introdotto come
subiello della definizione, ma come il fondamento da cui col-
lastrazione si è cavata la definizione^ onde l'essenza non è già
la cosa , ma a ciò che ella è », rimanendo la cosa fuor della
definizione dell'essenza. Per aver questa dunque la mente si pro-
pone avanti la cosa, e così non ha ancora l'essenza — nel senso
preciso della parola, — ma per avere l'essenza astrae dalla cosa
« ciò che è )), e questo a ciò che è la cosa », è l'essenza della
cosa. L'essenza dunque è ciò, che dà l'astrazione che s'esercita
su una cosa , quando , lasciando la cosa , s'estrae da essa ciò
che è, cioè Tatto di essere a lei proprio. Considerandosi quest'alto
di essere proprio della cosa, in separato dalla cosa, s'ha Vessenza.
L'essenza dunque non contiene il concetto del subietto, né del-
l'atto del subielto , ma ha una relazione ad un subietto possi-
bile, da cui fu estratta, e di cui si può predicare.
229. E quindi ancorasi vede la differenza dialettica, che passa
Ira il valore della parola essenza e quello della parola essere. Anche
la parola essere non involge in sé alcun concetto di subietto, ma
il puro concetto di atto, e questo senza relazione a un subietto;
onde, quand'osso é ancora tutto solo davanti alla mente, non
costituisce una cognizione compiuta, né un giudizio {Logic. 354,
354). Ma la parola essenza, sebbene non involga in sé il concetto
d'un subietto, involge però la relazione con un subietto, da cui fu
cavata per via d'astrazione. La differenza dunque tra essere e es-
senza è questa, che « l'essenza è l'essere astratto da un subietto
qualunque » : il che conferma e spiega quello che abbiamo detto
nell'Ideologia, che Tessere non é un'astrazione, e Vessenza sì.
{Ideol. 43, ìliU, 1455).
E da questa differenza si può ricavare anche un altro carattere,
che distingue il valore della parola essenza dal valore delle parole
essere ed ente: e questo si é, che essere non inchiude una distin-
zione tra sé e il subietto, perché non implica alcuna relazione con
questo, laddove essenza implica una distinzione di sé dal subictto
e però esclude e caccia da sé questo, da cui fu tratta: ente poi rac-
chiude manifestamente un subietto.
i8i
230. Implicando dunque l'essenza la relazione col subietto, da cui
si dislingue , questa relazione si può anche esprimere dicendosi :
(c l'essenza della tal cosa », laddove non si potrebbe dire: « l'ente
della tal cosa », perchè il subietto, cioè la cosa, è già nell'ente.
All'incontro non contenendo la parola essere il subietto, come
l'ente, e nò pure escludendolo come l'essenza — perchè non involge
alcuna relazione co! subietlo, — si può benissimo aggiungere all'es-
sere la delta relazione dicendo : « Tessere della tal cosa » ; e con
quest'aggiunta l'essere diventa sinonimo d'essenza, la quale si può
ancora dcfmire : « l'essere considerato in relazione col subietto,
che lo possiede » {Def. h).
53i. Nella definizione, che abbiamo data di sopra dell'essenza:
« ciò che una cosa è », quello^ che ha un valore indelerrainalo, è ap-
punto il subietlo, a cui l'essenza si riferisce, cioè a dire il vocabolo
cosa. Questo dunque ammetle diverse determinazioni , attesoché
cosa ha un significato allreltanto largo, quanlo entità {Jììlh.sgg.*).
Se dunque al vocabolo cosa, che cade nell'accennata definizione,
noi sostituiamo un valore più determinato, come i matematici
fanno, quando ne! calcolo una delle incognite rimane indetermi-
nata, noi avremo una serie d'essenze, che è quanto dire avremo il
modo di dedurre tutte le diversi classi d'essenze concepibili dalla
mente umana (Weo/. 6/i6, Gy5-Co9, ìhìQ , 1234, 1221), che
variano appunto secondo i subietti a cui si riferiscono, e da cui
sono tratte coll'astrazione.
Possiamo dunque sostituire alla parola cosa l'essere, o un'al-
tra entità. Se sostituiamo un'allra entità diversa da quella che
si esprime colla semplice parola essere , Vessenza rimane distinta
dal subietlo a cui si riferisce ; ma se soslituiamo a cosa la parola
essere, ella allora s'immedesima col suo subietlo. Poiché questa
definizione indeterminata: « ciò che una cosa è », si cangia
in quest'altra « ciò che V essere è » ; e poiché l'essere non è che
Tessere, quindi: «ciò che l'essere è » è appunto Tessere. Così
Tessere esprime l'essenza sua propria, che si può anche dire
l'essenza universalissima {Ideol. (V(7).
232. E veramente, cavandosi l'essenza per astrazione dal su-
bietto, se noi prendiamo Tessere per subietto, e caviamo da esso
ciò che è, conviene che lo caviamo lutto, non restandoci altro
di rimanenza , come ce ne rimane quando caviamo dall'altre
185
cose ciò chi; sono. L'aslrazione dunque ^ con cui si vuol ca-
vare dall'essere ciò che è, viene al medesimo che a un pren-
dere tulio Tessere. E lullavia tra V essere e l'essenza deW essere
rimane una diversità dialettica, poiché questa seconda involge
una relazione colla facoltà e coU'atto dell'astrazione, che manca
interamente nel primo. L'astrazione in questo caso non produce
alla mente niente di novo, ma si trova aver ottenuto quello
slesso suhietto, che s'aveva prima. E non di meno la forma della
parola essenza indica quest'operazione astrattiva della mente,
che non viene indicata dalla parola essere, il quale non è che
oggetto dell" intuito {Logic. 320 sgg.òOliJ.
Ogniqualvolta un concetto mostra in sé d' essere un prodotto
dell'astrazione, acquista un'espressione nova come essere, che
si dice : essenza dell'essere. Così nascono quelle forme de' con-
celli e de' vocaboli , che si dicono aslralte. Nel caso dell'essere
adunque la forma astratta non aggiunge nulla, eccello che la
stessa forma di concepin.' , limanendo l'oggetto slesso identico.
Dove s'ha un esempio della variazione del concetto unicamente
pel vario modo di concepire (.205, 206*).
235. Lo stesso risultalo abbiamo prendendo la terza definizione:
«l'essenza è quel tanto di atto d'essere che ha una cosa «. Poiché
se questa cosa è l'essere slesso, quella definizione ci si cangia
in quest'altra: «quel tanto di essere, che ha l'essere», dove
la misura dell'essere, espressa in quel tanto, scomparisce, cioè
adire rimane l'essere senza misura; come nel calcolo, quando,
facendo uguali a nulla i differenziali , ci rimane 1' incognita con
un valore massimo. Quel tanto di essere, che ha l'essere, non
è dunque che l'essere stesso: onde l'essenza dell'essere e l'es-
sere è il medesimo, salvo la forma astratta della prima espres-
sione. L'essere dunque esprime l'essere come oggetto ùeW intuito
senza l'intuito (Logic. 504): l'essenza dell'essere esprime l'es-
sere stesso come oggetto dell'astrazione e coll'astrazione.
234. Ma consideriamo di novo questa espressione: « essenza
dell'essere », equivalente alla definizione: « ciò che l'essere è ».
In quesla es{)ressione cadono le due forme essere, ed e. Nella
Logica noi abbiamo veduto che la prima forma espi ime Vatto vi-
sibile alla mente , considerato senza il concetto di questa visibi-
lità relativa alla menle che intuisce, ma come puro oggetto
{Logic. 504): la seconda forma, È, esprime l'atto che si fa,
non come visibile alla mente ( Logic. 5^0 sgg. ). Il concetto dun-
que, che viere espresso dalla parola essenza, esprime «l'alto
che si fa», ma in forma astratta e divisa dal subiello , e in-
sieme visibile alla mente astrattiva. Nell'essenza dunque concor-
rono quo' due modi di concepire, di maniera che: i° l'essere si-
gnifica Tatto come si vede farsi, preciso da ogni concetto di vi-
sione; 2** VE significa l'atto come si fa, e non come si vede;
3° Vessenzn significa «l'atto come si fa, in quanto si vede colla
vista astrattiva deliamente» ( Def. 5).
Abbiamo detto che « l'essere della tal cosa », e « l'essenza
della tal cosa » sono espressioni che significano il medesimo. Se
dunque a talcosa sostituiamo l'essere, ne viene, che «l'essenza
dell'essere» significhi il medesimo che «l'essere dell'essere»;
dove si ripete il medesimo , con solamente una riflessione del
l'essere sopra se stesso {Logic. 349), e l'ordine delle riflessioni è
un'altra di quelle quattro cause, che abbiamo accennate come
modificatrici del significalo dialettico de' concetti e delle parole
(^203, 208*). Qual è dunque la differenza dialettica tra l'e-
spressione semplice di « essere » , e quella di « essere dell'es-
sere » ? In quest'ultima espressione il secondo essere tien luogo
del subictto , a cui si riferisce l'essenza, e il primo essere espri-
me l'essenza medesima. In tutte le altre essenze il subiello è di-
stinto dall'essenza diluì, ma quando per subielto dell'essenza
si prende lo stesso essere, allora s'identifica il subietto coH'es-
senza, come vedemmo. Ma la mente conserva le forme logiche
distinte , cioè la forma di suhietto e la forma d'essenza , che a
lui si riferisce. In che differiscono queste forme.'*
235. Il subiello significa « ciò che fa l'atto »: l'essenza significa
Vallo nella sua forma astratta dal subielto, ma ad esso relativa.
L'essere dunque è consideralo in due modi dalla mente , come
subiello dialettico, e come atto. Questa dualità dunque nasce uni-
camente dai modi di concepire: ma a questi modi di concepire
nel caso presente non risponde alcuna distinzione nell'oggetto
stesso concepito, che è identico e né pure suscettivo di quei due
modi. Poiché l'essere è puro alto e non subielto, quale sta da-
vanti, cosi puro, alla mente umana. C'è dunque qui una limi-
tazione della mente, che moltiplica quello, che non può essere
i85
moltiplicato. Laonde se non ripugna il dire « l'essenza dell'es-
sere )), perchè la replicazione dell'essere non è così subito palese;
offende però gli orecchi l'altra espressione identica: « l'essere
dell'essere » : e ognuno qui s'accorge, che con ciò non si dice
jillro che semplicemente l'essere.
Questa espressione dunque: « l'essenza dell'essere « non si
tollera, se non perchè siamo avvezzali a dire: « l'essenza della
tale e tal cosa », onde anche per l'essere conserviamo la stessa
forma verbale: che dicendosi semplicemente « l'essenza », aspet-
tiamo, che segua: « della tal cosa ». Pure vincendo questa abi-
tudine di forma, ben intendiamo, che invece di « l'essenza del-
l'essere », possiamo dire assolutamente: « l'essenza »^ e inten-
diamo altresì che « l'essenza » senza aggiunger altro esprime
meglio e più semplicemente quello che si suol dire : « l'essenza
dell'essere » : e così appunto Platone adoperò ovaia mollo spesso.
236. La terminazione poi diversa della parola esmìza da quella
della parola essere, ben dimostra che quella è l'essere nella sua
forma astratta, cioè l'essere che si astrae da un subietto qua-
lunque, e però che involge una relazione con un subietto; e per-
chè questo suhietlo è indeterminato, perciò la parola essenza
senza più porta in sé l'impronta della massima universalilù ,
laddove la parola essere non l'ha per se , se non presa nel senso
d'essenza , o coll'aggiunta d'essere iniziale o virtuale.
Che anzi, se noi consideriamo la parola essenza nella sua eti-
mologia , troveremo forse in questa stessa una relazione col suo
subielto, poiché sembra che ella inchiuda due volte l'essere,
come nella espressione « l'essere dell'essere »• E veramente come
sapiente, cioè sapiente, è un ente che sa, pot-ente un ente che
può, ecc ; così ess ente viene a dire un ente che è, e nella forma
astratta sapienza, potenza, ess-enza , viene a dire Tenlità di
ciò che sa, di ciò che può, di ciò che è.
Articolo VL
Significali delle parole: subielto e predicato.
257. Riprendendo la definizione : « il suhictto è ciò che in un
ente, o in un gruppo di entità, si concepise come primo, contenente.
18G
e causa dell'unità « , vedesi che in essa si dislingue il subielto in
un ente, e in un gruppo d'enlilà, che costituiscono qualche cosa,
che non è una in sé, ma soltanto rispetto alla mente. Quindi:
un subietlo in ,sè*, cioè ncWente, e un subietto dialettico cioè
relativo alla mente.
238. L'ente potendo essere reale, ideale, e morale, in ciascuna
di queste tre forme si concepisce il subictto dell'ente.
Il subietto unito alle entità che egli contiene, e di cui è la
prima — il che vuol dire, che l'altre senza di lui non sarebbero —
è quello che costituisce l'ente stesso completo: così la definizione
dell'ente appartiene al subietto in unione coll'altre entità è non
alle entità in unione col subietlo.
Dovendo dunque in ogni ente compiuto e reale esservi il su-
bielto , questo è della stessa natura dell'ente, cioè è anch' egli
principio negli enti, che sono principi; o termine negli enti,
che sono termini; ne' misti poi egli non è che principio, per-
chè altramente non potrebbe essere primo in tutto l'ente.
259. Se in ogni ente compiuto deve necessariamente esservi il
subietto, ne viene, che ogni qualvolta la mente fa un gruppo
d'entità, delle quali una di esse sia un ente compiuto, in questo
gruppo sono due suhietli , cioè il subietlo del gruppo, e questo è
puramente dialettico, e il subielto dell'ente, il quale è reale.
Così , se si considera l'essere indeterminato come subietto degli
enti reali e completi , egli è un subietto dialettico, e ognuno degli
enti ha il suo subielto reale.
Ma negli enti termini il subielto reale è supposto dalla mente
come un incognito, aftìne dì poterlo pensare: e si può dire un
subietlo cogitativo , o un subietlo surrogato.
240. Essendo primo il subietto in ogni Uno , che si concepisce
come ente, e contenendo tutte le altre cose, che la mente in quel-
l'uno può distinguere: quell'altre cose tutte si predicano del su-
bietlo, e si dicono predicali (*).
(*) Sospetto che qui ci sia una piccola lacuna, perchè queste poche pa-
role sul predicato furono fatte trascrivere dall'Autore verso il fine della sua
vita in un foglio a parte coli' intenzione, a quanto p;ire, di svilupparne più
ampiamente il concetto, ma, qualunque uè sia stata la cagione, il rima-
nente del foglio rimase in bianco. Fr. Paoli.
SEZIONE II.
Sisieiua dciriiuitù e idculitìi dialettica
CAPÌTOLO 1.
DdVunilà diakltica. ~ Bisogno, che ha l intelliijenza umana di ri-
durre tulio io scibile ad un principio, e come da lenlalivi di sod-
disfarvi nacquero molti sistemi erronei pi r non essersi definito a
sufficienza il significalo dei vocaboli.
AUTICOLO 1.
L'anlinomhi dell'unità e della pluralilà delTessere non si scioglie
se non per una dialettica distinzione di concetti.
2^1. Dalle dislinzioni , che abbiamo esposte nell'antecedente
Sezione apparisce, come uno stesso oggetto della mente si molti-
plica e divien molti nelle quattro maniere indicate, senza perdere
la sua prima unicità. Queste maniere, per ripeterlo, non dipen-
dono tutte dalla limitazione dell'umana mente, ma parte dalla
natura dell'essere, come la trinità delle forme; parte dalla mol-
tiplicilà delle facoltà umane colle qu.ili s'apprende l'essere — e
qucst'è una prima limitazione, — ond'aceade che l'essere presenti
ad una facoltà un'aspetto altro da quello che esso presenta ad
un'altra, p. e. alla facoltà dell'intuizione l'essere si presenta
come un atto visibile , a quella del giudizio come un atto che
si fa: parte da' diversi modi e dalle diverse relazioni, nella nuali
la stessa facoltà concepisce l'essere : cosi l'astrazione concepisce
l'essere variamente astratto; parte finalmente dal diverso nu-
mero delle riflessioni, con cui si considera l'essere stesso. Quindi
accade che lo stesso vocabolo riceva diversi usi e significali.
188
Ora quanto siano necessarie tali distinzioni all'Ontologo s'in-
tenderà faciinìente considerando la natura del Problema dell'On-
tologia, che abbiamo dichiarato nel libro intorno al medesimo;
e da' tentativi mal riusciti fin qui per dargli una soddisfacente
soluzione. Poiché alcuni Filosofi né pure posero direttamente il
problema, o certo non si trattennero a studiarne diligentemente
la natura; altri lo posero più o men bene, ma poi restarono
schiacciati sotto il suo peso. Fra questi ultimi, sono gli specula-
tori tedeschi dal Kant in poi; e l'averlo essi posto in forma più
esplicita di tutti i filosofi precedenti, è un merito scientifico, che
loro non potrà mai esser tolto.
Articolo II.
Il problema dell'unità e della plurali là deW essere
presso gli antichi Filoso f.
242. Giace nell'intelligenza umana il bisogno di ridurre ogni cosa
ad unità. Se si considera onde nasca questo bisogno^ si vedrà
facilmente , che la sua origine viene da questo , che l'umana
mente intende tutto ciò che intende coWessere, e che « ciò che
non è essere non può intenderlo » , il qual fu da noi detto
« principio di cognizione » (Ideol. 559, 560 : Logic. 540-545 ;
Psicol. 1294 sgg.). Ora Vessere è una natura semplice ed una:
e perciò la natura umana non può persuadersi, che ci sia qualche
cosa fuori dell'essere, il che sarebbe un'aperta contraddizione :
tende dunque incessantemente ed aspira a ridurre tutte le cose
all'essere, come ad unica e semplice natura. Ella non tende già
solamente a coseguire quest'unità nell'ordine delle cognizioni ,
ma anco in quello delle cose reali, perchè anche in queste non
vede finalmente altro che essere (^62-66*).
243. Forse la prima volta che questo bisogno dell'intelligenza si
trasformò in un esplicito problema filosofico fu presso di noi per
mezzo di Parmenide. Questo filosofo sembra averlo sciolto con
un grande coraggio speculativo, ma senza coglier nel vero,
poiché dichiarando che sono uno tutte le cose, non indicò come
la pluralità de' concetti e de' reali a quest'uno si riducesse. Il
189
suo errore nondimeno va immune dalla ignobiltà e dalla bas-
sezza di que' filosofi , che sentendo il problema superiore alle
proprie forze e schifi di confessarsi incapaci di scioglierlo , la-
sciarono da un canto il bisogno indubitabile dell'intelligenza di
trovare un principio d'unilà di tutte le cose, come se non esi-
stesse, e s'adagiarono nella molliplicità disgregata de' sensibili e
de' concetti, come se di quella unità, a cui l'uomo aspira, si
potesse far senza, quasi d'una vana e superflua stravaganza.
2^44. Platone il primo e il solo — poiché Aristotele non è che un
suo discepolo, il quale in parte perfezionò, in parte guastò l'opera
del maestro {Arisi. ^429-130; 2G4; pass.*), — tentò di conservare
la molliplicità e l'unità ad un tempo, ben vedendo, che nò l'una
né l'altra si poteva negare, collegandole insieme e dimostrando,
che la molliplicità era nell'unità stessa dell'essere, e che questo
non si poteva concepire essente, se non uno ad un tempo stesso
e moltiplice. Il pensiero era sublime e tale che non poteva più
perire nella scienza. Ma l'esecuzione di questo pensiero non po-
teva esser condotta alla sua peifczione da un solo uomo, perché
nascondeva difficoltà imprevedute; come accade sempre a' dif-
ficili problemi la prima volta che si presentano , e che una
mente, robusta ed acre quanto si voglia, tenta di scioglierli. A
ragion d'esempio, Platone non conobbe distintamente nò cercò
qual fosse la prima varietà che cade nell'essere , non conobbe
cioè la distinzione e la natura delle tre forme , che sola è es-
senziale all'essere stesso , e da cui ricominciano tutte le altre
varietà e diversità. A cagione de' difelli che rimasero nella so-
luzione platonica del gran problema, ella fu messa in dubbio,
combattuta, da molli fu abbandonalo il problema stesso, o di-
chiarandolo una vana speculazione e insolubile come la quadra-
tura del circolo, o affallo dimenticandolo, dormendoci sopra il
pigro sonno dell' ignoranza.
Articolo III.
Il problema delV unità e della pluralità dell'essere
perchè non potuto sciogliere dal Fichte.
24o.Ma esso è pur uno di que'problemi, che non si dimenticano
per sempre, e che ritornano a certi determinali tempi a sturbar
190
la quiete delle intelligenze, fino che non sono sciolti del tutto.
Questo problema ricomparve con una forza da gigante, ne' tempi
moderni, allo spirito del Fichte e de' suoi due illustri successori.
Ma sgraziatamente il Fichte, a cui dalla filosofia del Kant era
slato inoculalo il soggellivismo, fissò il suo pensiero all'/O umano,
e credette in questo — o in un altro IO imaginato alla foggia di
questo — di poter unificare tulle le cose. Quelli che più favore-
volmente credono d' inlerpretarlo, come il Chaliboeo (1), dicono
che egli credeva alla realità del mondo, ma al di fuori del suo
sistema, soltanto per la fede nella legge morale. Ma questa slessa
distinzione tra la scienza e la fede, già introdolla dal Kant colla
sua distinzione della ragione in teoretica e pratica [Teod. 101),
toglie quell'unilà che si volea stabilire, e introduce una dualità.
Era una protesta della natura contro il sofisma: poiché quella
fede di Giovanni Teofilo Fichte in opposizione alla scienza è un
riconoscimento della forma morale dell'essere con altre parole ,
e nel fondo si riduce a un argomenlo di convenienza mclajìsical
di cui nella logica {Logic. J 12^-1120*). Ma due cose capitali sfug-
girono alla mente di quel filosofo; l'una d'ascendere all'essere,
anteriore di concetto alle forme, loro vincolo e principio d'iden-
tificazione , il qual difetto tolse Vimilà; lallro il non aver in-
teso la distinzione categorica e irreducibile della forma ideale
od obiettiva, e della forma reale o subiettiva. Poiché il Fichte
fn, che la forma obiettiva (il sapere obicttivo) sia anch'ella un
puro allo di pensare, un allo reale del subietto 10, e da questo
prodotto ; il che fa che il sistema sia manchevole anche dal
lato della pluralità, in cui è l'essere , essenziale anch'essa alla
sua intima costituzione.
(t) Historische Entivickelung, etc. 3* ed., p. 178.
d91
Articolo IV.
// problema deliimità e della pluralità dell'essere
nelle mani dello Schelling.
S I.
Lo Schelling pone male lo stato del problema.
ikO. Come il Fichte avca incominciato a cercare l'unità nell'or-
dine della scienza col suo \ivo'^v<\mma: Sul concetto della dottrina
della scienza, publicato a Jena nel 1794 (1); cosi fece pure il suo
discepolo, lo Schelling, che nello stesso anno pubblicò a Tubinga
il suo scritto; Sulla possibilità e sulla forma della filosofia in ge-
nerale (2), Il problema dell'Ontologia così posto non compariva
che da un lato solo, cioè da quello dello scibile, non da quello
dell'essere reale. Volendo dunque quei pensatori risolverlo, cam-
minando su questa via laterale , riuscirono , specialmente lo
Schelling, a violentare la natura delle cose, ricacciando nello
stesso scibile, per diritto o per traverso , anche il mondo reale:
storpiatura raccolta poi dall'Hegel e magnificata come una gran
verità. Ma lo Schelling mal contento del dualismo del Fichte ,
si sforzò di pervenire a un sistema di perfetto unitarismo , ri-
ducendo ad un solo principio la scienza e la fede del Fichte:
all'Hegel poi parendo, che l'opera non fosse ancora com-
piuta, per un'atto d'intuizione soggettiva, che rimaneva nel
Sistema dello Schelling distinto dall'oggetto di essa intuizione ,
si vantò d'avere col suo Sistema dell' idea assoluta trovato il
vero Sistema unitario (3), invano cercato da' suoi predecessori
[Logic. ^45, sgg.*). E questo vanto medesimo è la confessione che
(1) « Ueber den Begriff der Wissenschaftslehre ».
(2) « Ueber die Móglichkeit iind Forme der Philosophie iiberhaiipt j>. —
11 Fictite avea allora 32 anni, lo Sclielling 19.
(3) Per Sistema unitario intendo quello — qualunque ne sia la forma, —
che nella soluzione del problema ontologico, sollecito della sola ^(nità dell'es-
sere, 0 non conosce, o abolisce la moltiplicità sua propria, cioè le tre forme
categoriche, senza le quali l'essere stesso diventa assurdo.
495
lo condanna: che un sistema di puro unitarismo è contrario alla
natura dell'essere , la dottrina del quale è l'Ontologia. Laonde
a questo Filosofo sfuggì in fatti di mano l'essere stesso, e fu
cacciato dal primo errore tanto avanti nell'assurdo, che si vide
obbligato a fare l'essere stesso uguale al nulla e a ripararsi nel
concetto oscuro e volgare del dmnlare , di molto posteriore a
quello dell'essere {Logic. 51).
Ihl . Ma chi vuole sottomettere alla critica qualche sistema fi-
losofico, deve prenderlo da suoi principi, e vedere se i passi del
pensatore vadano diritti, fissando, in caso che no, quel primo
punto, nel quale il suo raziocinio travia. Riprendiamo adunque
l'opuscolo di sopra citato del maestro dell' Hegel , il primo da
lui pubblicalo, che contiene il germe di tutto il Sistema Schel-
linghiano, e analizzandolo cerchiamo di sorprendere il ragiona-
mento, che vi si adopera nel luogo preciso, dove incomincia a
sviare (1) .
In quest'opuscolo si proponeva lo Schelling di cercare « il prin-
cipio universale della filosofia».
Incomincia dicendo , che si devono risolvere due questioni :
« qual sia il principio formale, quale il principio materiale di
ogni sapere ».
2^48. Sulle quali due questioni, ch'egli propone ex abrupto, dob-
biamo già osservare ch'esse non possono essere le prime nella
Filosofia : poiché importando esse una riflessione sulla Filosofia
slessa, suppongono la Filosofia già formata.
Di poi tali questioni, prese come prime , ne pregiudicano molte
altre; p. e., esse suppongono certo, che ci sìa un principio for-
(1) Lo Sclielling andò bensì ne'suoi posteriori scritti sviluppando sempre
più il suo sistema, ma non cangiandone i principi, che sono quelli clie più
importa siano accuratamente esaminati. I^a stessa nova Filosofia, ch'egli im-
prese d'insegnare a Berlino, è proposta da lui come una continuazione del
primo suo sistema, 0, com'egli dice, un'altra pagina della Filosofia. « Erste
Vorlesung in Berlin 15 Novembr. 1841 ». La differenza, che lo parte dal
Fichte, è forse più di parole che d'altro: poiché l'un e l'altro traggono lo
spirito e il mondo esteriore dall'Io: nel Fichte il mondo esteriore pare
anch'egli un'idea: lo Schelling volle provarlo una. realità. Ma il mondo e
ogni cosa riman sempre un effetto dell'Io, e l'Io stesso è un effetto di sé
stesso: onde poi il nullismo dell'Hegel.
193
male, e un principio materiale di tulio lo scibile, il che non
è stalo ancora provato. Sarebbe stalo almeno necessario definir
prima, con una definizione propria, la stessa Filosofia, definire
la forma e la materia della medesima , definire che cosa s' in-
tenda per principio, e [ìgv principio [urinale, e \ìer principio ma-
teriale. Lasciando tulio questo sottinteso, si viaggia necessaria-
menle alla cieca.
249. Viene in appresso una definizione generica della Filosofia :
(( La Filosofia — si dice - è una scienza, cioè un contenuto deter-
minato sotto una forma determinata)). Con questa definizione
non si fa conoscere della Filosofia , se non ciò ch"ella ha di co-
mune con tulle r altre scienze: che anzi restringendosi a dire
un contenuto dclerminalo sotto una forma determinala, non si
sa perciò né di qual conlenuto , nò di qual formasi parli, cioè
se d'un contenuto e d'una forma nell'ordine delle cognizioni, o
in quello delle realità. E se in quello delle cognizioni , conve-
niva dire chiaramente, che cosa sia il contenuto nell'ordine delle
cognizioni, che cosa la forma in quest'ordine medesimo. La forma
nell'ordine delle cognizioni non è anch'essa una cognizione? e se
è una cognizione, non è anch'essa o non può essere un conte-
nuto? e se non è una cognizione che cosa è dunque? — Egli è certo
d'altra parte, che non ogni contenuto e ogni forma è una scienza,
non ogni contenuto e ogni forma è la Filosofìa. La parola slessa
di conleuìito (quand'anco non si voglia chiamarla una metafora)
ha un significalo assai diverso applicala al mondo delle cogni-
zioni e a quello delle realità: e rispetto a queste ancora riceve
un senso diversissimo, quando s'applica alle cose corporee, e
quando s'applica alle cose spirituali; che uno spirito contiene
ciò che contiene in un modo tuiraHalto differente da quello di
un vaso pieno, che contiene del liquore. Se lo Schelling avesse
chiariti precedentemente tutti questi significali , e dimostrato
in che consiste la differenza del contenuto dalla forma , e se
sia una difterenza assoluta o relativa, se una differenza in
sé 0 puramente dialettica , non sarebbe sopravvenuto poi
l'Hegel a negare tra contenuto e forma ogni differenza , gio-
cando anch' egli d'equivoci. Che anzi investigando più avanti
la natura del contenuto e della forma nell'ordine scientifico,
sarebbe pervenuto a discoprire, probabilmente, la differenza
Rosmini. Teosofa. i3
494
categorica dell'essere ideale e del reale, da cui quella dualità
scientifica procede, e in cui ultimamente si fonda, come ve-
dremo nel libro seguente.
250. Domanda in appresso^ se il contenuto e la forma della Fi-
losofia sicno arbitrari o determinati necessariamente, di maniera
elle il contenuto vesta necessariamente questa forma, e la forma
tragga seco questo contenuto : nel qual caso , dice , sono fondali
sopra un principio comune. Questa questione partecipa di tutta
l'indeterminazione, in cui furono lasciali i termini, ne' quali
ella è posta per mancanza di definizioni. Per forma s' intende
quella, cbe la mente umana può dare allo scibile, concependolo, o
esprimendolo in parole? e in questo caso c'è una forma sola o
più? ovvero s'intende per forma quella, che esige lo scibile stesso?
Ma lo scibile, come contenuto, esige egli una forma diversa da se
slesso? E di quale scibile si parla? d'uno scibile che può cadere
nella mente umana , o d'uno scibile infinito, alla mente umana
inaccessibile? E se si parla delio scibile , qual può cadere nella
mente umana, d'uno scibile finito e imperfetlo, comesi può di-
mostrare ch'egli esiga una sola forma? Se poi si parla dello sci-
bile infinito, qual è in Dio, è egli provato che deva avere una
forma, o che questa sia la forma della Filosofia? Poiché la parola
Filosofia sembra accennare a una scienza umana, altrimenti ten-
teremmo il volo d' Icaro. Laonde quand'anco fosse provato, che
lo scibile compiuto ed infinito, quale è in Dio, dovesse avere
un'unica forma ; non sarebbe ancor provato , che quello scibile
imperfetto, e conformato alle limilozioni della mente umana, cioè
la Filosofia, fosse suscettivo di quella forma unica, e non do-
vesse anzi dalla sua slessa imj)erfezione e limitazione, corri-
spondente a quella delle facoltà umane, poter ricevere più forme,
0, se una sola, anche questa imperfetla com'è imperfetto il con-
tenuto. Se poi si dice, che anche nella mente umana lo scibile
tiene qualche cosa dell' infinito e dell'assoluto, in tal caso non
si doveva parlare di tulio lo scibile , o della Filosofia , senza
distinzione ; ma era necessario cominciare il discorso dal dimo-
strare : \° che una parte dello scibile umano è necessaria e
assoluta; 2° separare questa parte necessaria e assoluta da tutto
il rimanente; 3."" domandare se questa parte aveva i due elementi
del contevuto e della fornid , e se forse questa appunto si riducesse
495
in fine a essere la forma, per l'uomo, d'ogni scientifico contenuto
{Teod. ÌU; Ideol. 506-509; 'HOi-1109.).
La queslioiie dunque : « se la forma , e il contenuto , della
Filosofia è arbitraria o necessaria », rimane troppo indeterminata
nella maniera in cui se la pose lo Schelling. Vediamo come si
faccia a risolverla.
I 2.
Lo Schelling pone male le condizioni della soluzione
del problema.
251. Comincia ancora da una definizione impropria e soverchia-
mente generale di ciò che è una scienza. « Una scienza — dice —
è un tutto sotto la forma d'unità». Non ogni tutto sotto la forma
d'unità è una scienza: il corpo umano, a ragion d'esempio, è
un tutto sotto la forma d'unità, e non è una scienza. E non si
dice né pure di quale uhità si [larli , essendovi molte nianiere
d'unità. D'altra parte si cercava , se la forma della Filosofia sia
necessaria : e qui nella definizione d'una scienza qualunque si pre-
scrive, che per essere scienza abbia h forma d'unità. La forma
d'unità è certamente unica : quindi con una tale definizione par-
rebbe già sciolto il problema. Che se poi qui la parola forma si
prende in altro significato , perchè non dirlo? La medesima pa-
rola in più significati confonde il pensiero. Ma udiamo tutto il
ragionamento.
« L'unità non è possibile, se non quando tutte le parti d'una
scienza dipendono da un'unica condizione, e una delle sue parli
non determina un'altra se non in tanto che ella stessa è determi-
nata da quella superior (Condizione. Dunque una scienza non è
possibile, se non sia fondata sopra un principio unico e assoluto
rispetto ad essa ».
« Ma affinchè questo principio possa essere la condizione di
tutta la scienza , conviene che sia nello stesso tempo principio
del suo contenuto e della sua forma. Se dunque la filosofia è
una scienza d'una forma determinala, e d'un contenuto pure
determinato, il principio unico e supremo non dee solamente dare
il fondamento a tutto il contenuto e a tutta la forma , ma avere
^96
ancora egli stesso un centennio necessariamente unito a una forma
determinata ».
S'avverta bene, che qui si parla sempre dell'unità d'una
scienza, e che però non siamo nel mondo reale, ma nel mondo
scientifico: questi due mondi, cioè questi due ordini di esseri,
sono distinti costantemente dal senso comune : e il pensatore non
può confonderli in un solo, se prima non prova, che il senso
comune s'inganna. Quest'avvertenza è necessaria per quello che
si dirà in appresso.
252. Dice dunque in prima, che una scienza per avere unità deve
derivarsi da un unico principio, che chiama anche condizione di
tutte le sue parti : ma non definisce in specie , che cosa intenda
per principio. Intende egli una proposizione? Egli pare; stantechè
le scienze essendo un sapere riflesso si compongono di proposi-
zioni connesse tra loro , la prima delle quali , da cui tulle le altre
derivano, dicesi il loro principio. iMa si badi: in tal caso il prin-
cipio, che si cerca, non è né un principio delle realilà, né un
principio di tutto lo scibile umano, poiché lo scibile umano,
come pure l'ordine logico delle notizie, non incomincia da una
proposizione, ma da una idea. E veramente le proposizioni si
risolvono in idee come ne' loro elementi , e nella copula delle
idee, che é il verbo, che da sé solo non costituisce né un giu-
dizio né una proposizione [Logic. o3^), e che si riduce al-
l' idea, da cui si origina [Logic. 520-327,). Ora gli elementi sono
anteriori logicamente al loro tutto (1), e perciò sono i principi
del tutto: le idee dunque sono logicamente i principi dello sci-
bile , anteriori alla scienza che comincia dalla proposizione
[Logic. 302, ,83o, sgg.'). E veramente si può dimostrare, e cre-
diamo d'aver dimostrato, che anlcccdentcmente ad ogni giudizio,
e mollo più ad ogni proposizione, l'uomo possiede, e deve di ne-
cessità possedere, il lume d'una prima idea. Il principio della
scienza dunque non è il principio assolutamente primo: ma è
principio rispetto alla scienza. Anche questa avvertenza è da noi
posta qui, affinchè il lellon- possa vigilare, e quasi direi con-
trollare, i passi del nostro pensatore.
E già fin da qui quest'avvertenza ci giova di tanto , che pos-
(1) Arisi. Metaph. ^\ (V) 3'.
197
siamo riconoscere , quanto difelti di metodo la filosolìa che esa-
miniamo , cominciando dalia questione come deve esser fatta la
Filosofia e disposta la scienza , quando egfi è evidente che biso-
gna prima di tutto cercare , che cosa ci sia nella mente umana
d'anteriore ad una scienza ed alla Filosofia: il che è quanto dire
conviene incominciare dalle ricerche ideologiche, i cui risultati
si devono aver alla mano ad ogni passo nell'altre questioni , e
in quella stessa cosi complessa della forma e del contenuto della
Filosofia [Logic. 1-9). 11 cercare dunque il principio della Filo-
sofia di colpo non è incominciare dal principio, ma buttarsi in
mezzo al sapere umano quasi a caso, per afferrarlo dove la mano
incontra.
255. Già incominciando dal Kant la filosofia tedesca era entrata
in questa falsa via : quegli speculatori si trovavano nella cogni-
zione filosofica : credendo d' essere nel lutto dello scibile , non
s'accorsero che erano in una parie, cioè nel sapere scienlifico,
e non seppero uscire da quella cerchia. Cercando il principio
di questo si persuasero di cercar quello d'ogni sapere, quello
almeno, a cui ogni sapere fosse subordinato. Perchè, dunque,
è la ragione quella che produce la filosofia, il Kanl rovesciò l'or-
dine delle facoltà e descrisse la ragione come una facoltà su-
periore a quella dell' intelletto {Idcolog. ^32a-364*). Il Fichte
medesimamente dispregia la coscienza immediata dell'uomo vol-
gare, e dice, che soltanto la ragione, che s'eleva al disopra della
semplice coscienza di fatto, dà il suo oggetto alla Filosofia (1);
pure lasciava alla ragione il suo oggetto immediato, onde venne
l'intuizione dello Schelling. Ma l'Hegel s'accorse, che se s'am-
mette il principio della Filosofia come principio di tutto lo sci-
bile , e se il principio della Filosofia è l'opera della ragione , che
è quanto dire il risultato del ragionamento, non si polca accet-
tare per principio alcun oggetto immediato {Introd. I. Degli studi
deW Autore, 8^), quasi che il mediato sapere, che dee ad ogni
modo dall'immediato derivarsi, potesse avere in sé verità e cer-
tezza, se non l'ha quello, da cui ragionando si deriva {Prelimi-
nare alle Opp. Ideol. 12 sgg.) Noi abbiamo riconciliata la Fi-
li) « Die Staatslehre , oder das Verlidltniss des Urstaats zum Vernun-
ftreiche », nella collezione delle sue opere, t. IV, p. 369 sgg.
198
losofia coir intelligenza umana, che pure esiste nell'uoino prima
della Filosofia, dimostiaiido che il principio, da cui parte la
mente del filosofo , è di necessità quello stesso da cui parte la
mente dell'uomo, trasportato solnmente questo unico principio
dell'intelligenza nell'ordine della riflessione filosofica.
Quesl' errore dunque di metodo, pel quale lo Schelling prese
a investigare qual doveva essere il principio della Filosofìa, prima
di conoscere che cosa sia sapere umano, nella sua propria es-
senza, travolse il corso del pensiero de' filosofi di questa scola
in innumerevoli errori , atti , per la loro sottigliezza e complica-
tezza. a stancare ed esaurire invano ogni potente intelligenza.
^2j'(. Dopo aver dunque supposto lo Schelling, che la Filosofia
deva avere una forma e un contenuto, e che tuttavia deva avere
una perfetta tinilà: non c'era altra via che di ridurre a un principio
stesso tanto la forma, quanto il contenuto. Da questo conchiude
lo Schelling, che il principio cercato « deve avere egli stesso un
contenuto necessariamente unito a una forma determinala ».
Che cammino abhiam fatto con questo? Eccolo: se la dualità
delli) forma e del contenuto non toglie l'unità che si cerca della
Filosofia , la stessa dualità non lorrà l'unità neppure al principio
della medesima. Ma se questa dualità non toglie l'unità della
Filosofia, perchè né pur la toglie al principio , quando si tras-
porta in questo : dunque la slessa dualità non può essere quella
che ci obblighi a cercare un principio della filosofia, che dia a
questa unità, ma il principio lo cercheremo per qualsivoglia altra
sagione. 0 dunque il principio della Filosofia ha in sé questa
dualità, 0 non Vìva. Se non l'ha, cessa d'esser vero che in esso
sia tanto la forma quanto il conlcnulo ; se l'ha, la dualità si con-
serva e il principio, che si cerca, non la rimove: per questo
fine dunque esso è inutile.
2bo. Ma, continua lo Schelling, acciocché l'unità non si sciolga,
conviene, che i due elementi, da cui risulta, forma e contenuto,
sieno legati necessariamente tra loro, di maniera che si deter-
minino reciprocamente. Ammesso questo per la Filosofia intera,
come s'ammise non per una dimostrazione , ma per un' ipotesi
da cui si parte, la conclusione non è una conclusione, ma è la
stessa ipotesi trasportata dalla Filosofia intera al principio della
medesima. Con quella ipolesi ,si dice* che « se la forma e il con-
199
temilo sono legati necess;iriamenle in modo, che l'uno determini
l'ijltro reciprocamente, non ,si* toglie l'unità della filosofia ,e* non
^si* toglie né pure l'unità del suo principio ». Questo principio
dunque consta di due elementi, e del loro nesso, che costituisce
un terzo elemento. Per quanto sia tutto questo avanzato gra-
tuitamente, potea però fare accorto il pensatore che, a malgrado
di tutti gli sforzi del pensiero per giungere alla perfetta unità,
il pensiero slesso da una ineluttabile necessità, senza pur accor-
gersi , è ricacciato fuori dalla stessa unità ad una misteriosa e
indeclinabile trinità.
Di poi suj)ponendo un principio il quale abbia una forma
ed un contenuto necessariamente congiunti e determinali ,
conviene che la forma sia necessaria , e necessario il conte-
nuto : senza di questo non sarebbe necessario il loro vincolo.
Di qui procede , che o conviene negare l'esistenza delle cose
contingenti, o conviene riconoscere che il principio della filosofia
che si cerca , non può esser lo slesso che il principio di tutto
lo scibile : perocché lo scibile si stende anche alle cose contin-
genti ; si sa, a ragion d'esempio, che esiste il mondo, e che po-
trebbe non esistere, senza che ciò involga contraddizione. Dunque
il principio che si cerca non e né pure un principio di tutto lo
scibile, ma solo un principio della cognizione de' necessari: che il
suo contenuto è necessario , e non ha nulla di contingente. In
falli si capisce benissimo come la forma anche della cognizione
de' contingenti possa essere necessaria ; ma non si capisce come
il contenuto di quesla cognizione possa esser necessario, perchè
questo contenuto è anzi il contingente medesimo. Dalla quale
osservazione procede quesla ineluttahile conseguenza, « che non è
assurdo che un principio d'una cognizione, che riguarda 1 soli
necessari, abbracci forma e contenuto, e sia necessario, ma che
non si dà e non si può dare un principio necessario avente
in sé forma e contenuto della cognizione in universale, cioè di una
cognizione che abbracci tanto i necessari quanto i contingenti,
e che un tale principio per conscguente non può essere che for-
male, cioè deve essere pura forma, ma non contenuto ». E di
vero il contenuto contingente non può esser legato in un modo
necessario con una forma necessaria.
Vero è , che la forma contiene sempre in sé virtualmente il
200
conlenulo ; e questo è quello elio abhiamo ehiamalo Vessere vir-
tuale. Ma questo appunto s'cselude dallo Schelling dal momento
che egli distingue li forma dal contenuto, che il contenuto vir-
tuale non si dislingue dalla forma stessa, ed è a questa essen-
ziale; dal momento altresì che dice, non bastare che il principio
cercato « dia il fondamento a tutta la forma e a tutto il con-
tenuto, ma essere uopo, che abbia un contenuto egli stesso unito
a una forma determinala )).
250. Una così fatta maniera di parlare, noi osserveremo di più,
è sommamente impropria : « avere un contenuto e una forma de-
terminata ». Il principio cercato, secondo la medesima, è il su-
bietlo del contenuto e della forma; egli non è dunque nò forma
né contenuto. Ma se c'è qualche cosa che non sia né forma né
contenuto, ma solo che abbia qucsÌQ due cose, ugualmente si potrà
dire che la Filosofia non sia nò la sua forma né il suo contenute,
ma una terza cosa che ha questi due predicati. Se questo prin-
cipio, che non é nò forma né contenuto, ma subietto dell'una e
dell'altro, si può concepire, questo per fermo non può essere che
un aslrallo; poiché da ciò che ha forma e contenuto e che è indi-
visibile da questi, senza i quali nulla sarebbe, si trae colla ragione
astraente un iniziamento della forma e del contenuto che non è né
runa né l'altro ancora Dal che procedono due conseguenze :
1.° che essendo la r^tgione astraente un pensiero parziale
(Psìcol. 1519-1521) e sempre posteriore per conseguenza al pen-
siero completo e totale, immanente nella mente, essa non può dare
un risultato che sia logicamente primo, ma soltanto un risul-
tato dedotto. Onde giustamente diremo noi di novo: il Fichte (1)
e l'Hegel confessarono con ingenuità , che il principio del loro
sistema non era un lume immedialo, ma un sapere mediato: il
che equivale a confessarne l'imperfezione, che ogni medialo di-
pende dall'immediato, e però non è né primo, né incondizionalo;
2.° che un principio astratto non è né l'essere, né un ente,
(1) [•'il il l'iclite il primo a dire : clie all'uomo naturale l'essere assoluto è
flato dalia coscienza immediata , ma al I^'ilosofo è dato dalla ragione che si
leva al di sopra della semplice coscienza di fatto. Vedi « Die Slaatstehre ,
oder das Verhdltniss des Urstaats ziim Vermimftr ciche » nella collezione
delle sue opere, t. IV.
20!
ma è una pura cnlilà clemcnlarc { Idcolog. JiSS' ) , che non può
avere esistenza fuorché nella mente e non in sé, e nasce da
uno sguardo limitato della mente stessa, che considera l'ente o
l'essere da un solo lato sotto qualche sua relazione, e non nelU
sua integrità.
Dalle quali considerazioni si deduce, che se si dà un principio
della (ìlosolìa^ che abbia una sua forma e un suo contenuto, e
che non sia egli stesso nò forma ne contenuto, questo né è un
principio logicamente primo, né indipendente né assoluto, ma é
un puro astratto . elTetto d'un'operazione limitata della mente
umana, avente un'esistenza soltanto relativa alla medesima. Dal
che consegue , che il principio , che per questa via cercò lo
Schelling, non può avere in nessun modo i caratteri ch'egli as-
segna al vero principio della Filosofia, i quali sono che sia as-
soluto ed incondizionato , e condizione egli stesso d'ogni forma
e d'ogni contenuto.
207. Ma forse lo Schelling ci dirà , che noi prendiamo troppo a
rigore la parola avere, e che egli intende che il principio slesso
sia ad un tempo forma e contenuto; e non già un subietlo da
questi due elementi per astrazione distinto. Quando piaccia al fi-
losofo di Leonberga di correggere in questo modo le sue maniere
d'esprimersi, non vedo che possa guadagnarne gran fatto. Se il
detto principio è la forma , non può essere il contenuto nella for-
ma , a meno che la forma stessa mediante una riflessione non si
faccia divenire contenuto d'un' altra forma o contenuto della
slessa forma veduta riflessamente; e se quel principio é egli
slesso il contenuto, non può essere la forma, a meno che di novo,
mediante un'altra riflessione , egli non si faccia divenire forma
d'un altro contenuto o del contenuto medesimo veduto rifles-
samente: perchè forma e contenuto . dati una volta che sieno,
s'escludono reciprocamente, benché anche si chiamino come cose
relative. La relazione di due termini involge sempre una nega-
zione, per la quale la mente dice : k l'uno non è l'altro » . 0 con-
viene dunque dire , che il principio che si cerca sia da prima
forma, e solo posteriormente contenuto, o convien dire che sia
prima contenuto, e posteriormente forma : non può essere l'una
e l'altro colla slessa primitività di relazione, benché, suj)posto
che sia prima forma, questa involga una relazione con un con-
202
tenuto, e supposto che sia prima contenuto, questo involga
una relazione con una forma. I concetti insomma di forma e di
contenuto hanno una correlazione, o, come noi diciamo, sinte-
sizzano; ma restano sempre distinti, l'uno non è mai l'altro:
è una dualità prima , che non si può abolire per sostituire
ad essa l'unità.
Se dunque si cerca « un principio della forma e del conte-
nulo M , di modo che quello sia subietto dell'una e dell'altro , e
non sia nò l'una nò l'altro , s'avrà ; ma come un puro astratto
dipendente dall'intero , e però posteriore e condizionato. Se si
cerca un principio che sia egli stosso forma , ed egli stesso conte-
nuto, s'avrà ancora; ma in quant'è forma non sarà contenuto.,
e in quant'è contenuto non sarà forma; e però non si potrà dire
che colla stessa primitività di relazione sia l'una e l' altro , nò
che la relazione della forma e del contenuto sia qualche cosa di
diverso e d'anteriore ad entrambi. E che non possa essere ante-
riore è palese, perchè la relazione non è mai anteriore ai termini
tra cui ella passa ; che anzi nell'ordine logico, e secondo il conce-
pire della mente umana, è posteriore ai medesimi.
258. Ma 0 che si concepisca il principio cercato della Filosofìa
come un subietlo avente essenzialmente una primitiva forma e un
primitivo contenuto; o che si concepisca il detto principio come
esso stesso forma, e contenuto di questa forma ad un tempo; risulta
sempre necessaria che nel principio detto cadano tre elementi di-
stinti : 1.' la forma; 2." il contenuto; 5,° o il subietto, o la re-
lazione qualunque sia che unisce in uno la forma e il contenuto;
e tutt'e tre questi elementi devono sinlesizzare, onde ninno di
essi può essere assolutamente prima. L'unità assoluta non si può
dunque trovare nel principio della Filosofìa alle condizioni poste
dallo Schelling.
La soluzione del problema data dal Fichte e dallo Schelling
non può soddisfare.
259. Stabilite dunque dallo Schelling queste condizioni e que-
sti caratteri , che dovea avere il principio della Filosofia , si mise
in traccia del medesimo.
203
Sulla stessa traccia dobbiamo metterci anche noi , e, se-
guendolo , vedere dove ci conduce , e se il principio che giunge
ad afferrare sia il principio vero della Filosofia, ch'egli prende
per un medesimo col principio dello scibile universale , benché a
torto , come abbiamo osservalo.
È dunque da collocarsi al tempo , in cui lo Schelling co-
minciò in Germania a speculare, e vedere in quale stato vi si tro-
vava allora la Filosofìa.
260. 11 Kant dalla varietà dc'giudizi aveva dedotti i concetti puri
dell' intendimento; ma della varietà stessa de' giudizi non avea
dato nessuna ragione , l'avea presa come un fallo. Il Reinholt
credette di trovare un principio unico , a cui si riducessero le
forme de' giudizi : e questo disse esserla coscienza (1). Ma non
s'accorse , che la coscienza poteva bensì abbracciare tutti i giu-
dizi , ma non mai rendere una ragione della loro diversità :
molto meno s'accorse che la coscienza era qualche cosa di ri-
flesso, che esigeva una cognizione precedente immediata ed
ancora inconsapevole. Tuttavia la coscienza del Reinholt parve
un progresso , specialmente dopo che il Fichte le tolse dattorno
({uel vago e quell'indeterminato che la parola presenta, riducen-
dola all' IO.
Lo Schelling sopraggiunto in questo momento, da una parie
prese il pensiero del Reinholt e del Fichte come giusto e fecondo,
dall'altra vide, che l'IO e la coscienza non poteva determinare e
spiegare la varietà de' giudizi e de' concelli , onde disse che oltre
rio ci doveva essere una forma, per cstmpio, il principio di con-
traddizione. Ma quest'era una dualità : ed una tale dualità l'avea
posta lo stesso Kant, quando avea insegnata la doppia forma de'
giudizi, l'analitica e la sintetica [Ideal. 3^^-360). Il Fichte avea
riconosciuto questa dualità , e sforzatosi di levarla. Avea comin-
ciato dal principio d'identità , cioè dalla forma . da lui espresso
(1) Già lo stesso Kant avea detto: n V io penso » ■ — ossia la coscienza del
mìo pensiero — a deve poter accompagnare tutte le mie rappresentazioni,
« poicliè altrimenti qualclie cosa sarebbe rappresentata in me senza poter
« esser pensata ». Critica della ragion pura, § XVI. Laonde il Reinholt non
fece in fine altro che dar maggiore importanza ed anclie esagerata ad una
sentenza del Kant. V. Rinnov. Lib. Ili, Gap. XXIV, p. 336. n; e Ideol.
i390, sgg.*
20^»
così A— A, ed avea dello, che queslo non può esislere assolu-
tamente che nella coscienza, nelP IO, come in un primo fallo.
Avea ditto A=A è un princijìio condizionato, e vuol dire « se
A ò, è A»; all'incontro il principio: «lo sono io « , è un
principio assoluto d' identità , perchè esprime un atto che pone
sé stesso, un atto che è nello stesso tempo un fatto {Thathan-
dluiig). Neil' Io c'è dunque il principio d'identità assolutamente
posto, perchè «l'Io suppone la coscienza di sé stesso », quindi
c'è essenzialmente la replicazione di sé stesso, c'è: «Io sono
io ». È questa forse la più tenace e sottile illusione della filosofia
{j;ermanica : noi crediamo d'aveila esposta con tutta la forza di
cui è suscettiva, e interamenle disciolla nella Psicologia (01-81).
Il discepolo, cioè lo Schelling, credette che questa fosse vera-
mente la maniera di porre un principio unico che contenesse in
se la furma e W contenuto: e quindi ahbracciò il principio fich-
liano: Io = Io.
201, Vediamo dunque se questo {ìiincipio corrisponde alle con-
dizioni del problema.
In primo luogo che cosa si cercava ? —Un principio dello sci-
bile — e non di tutto lo scibile ma della Filosofia — cioè dello sci-
bile sotto la forma rifiessa e filosofica (,247-249, 251, 2o2*).
Oral'/Oèegli una cosa che appartenga all'ordine dello sci-
bile, 0 all'ordine delle realità? — Tre risposte sono possibili: o
che 170 appartiene unicamente allo scibile; o che appartiene uni-
camente all'ordine delle realità: o all'uno e all'altro ordine ugual-
mente: l'averlo lasciato indubbio è già un gran difetto.
La prima risposta rovinerebbe il sistema, poiché se appar-
tenesse unicamente allo scibile , sarebbe una pura idea , o se
meglio piace chiamarlo una prima forma, senz'altro conlenulo,
da poiché le sole idee appartengono puramente allo scibile. E la
pura idea dell' IO non è certamente lo slesso che V IO reale [Rin-
novamento, p. 284-295.).
Pure sembra , che l' IO del Fichte e dello Schelling si prenda
da questi filosofi per un' idea. Poiché se si discende alla realità e
quindi all'esperienza, ci sono altrettanti IO quanti uomini reali;
e sembra che l' IO d'un uomo reale qualunque, che è quanto dire
un IO reale , non possa esser venuto né pure nella mente de'
nostri speculatori. Dunque il loro IO è ideale, separalo ed astratto
205
da tulli gli IO reali e sussislenli. Ma l' 10 aslralto è un' idea , e
qiicsla posteriore, nell'ordine logico, appunto percliè astratta.
Conveniva dunque provare che questa fosse la prima delle idee,
quella da cui tulle le altre procedono : il che è impossibile. Non
essendo dunque l'idea astratta dell' IO la prima delle idee , ma-
dre di tutte l'altre , non può essere il principio della Filosofia o
dello scibile umano: e poi l'idea non è quella che dice IO, e che
pone se stessa.
20:2. Che se l'IO appartiene unicamente aWordine reale, ancor
meno può essere il principio cercalo , quando neppure apparter-
rebbe all'ordine scientifico. E pure il Fichte e lo Schelling indubi
latamente parlano, e descrivono l'IO, come se appartenesse al-
l'ordine delle cose reali : dicono che è un'azione , e un fallo; e l'a-
zione è il carattere proprio della forma reale dell'essere , e non
dell'ideale: che anzi, secondo questi filosofi, l'IO è l'azione as-
soluta creatrice di sé stesso, onde il Fjchte lo definisce: k ciò, la
«cui essenza consiste puramente in questo che si pone da sé
«stesso come esistente, è l'IO, come subietto assoluto « (J).
Quesl' IO dunque é un suhielto : nova prova che s'intende d'un 10
reale , poiché il snbielto come lale non é l'obietto; e soltanto
l'obietto è ciò che costituisce lo scibile, e nel caso nostro, la
Filosofia. Nella Filosofia, e in generale nella scienza, si può
beii.sì introdurre V idea del subiello , come ogni altra idea, perché
viS'à è oggetto conoscibile; ma un subiello reale e vivente non
può in nessuna maniera esserci portato; che altramente la Filo-
sofia sarebbe un aggregato di cose reali, per esempio, di persone
reali, sarebbe una persona, o un popolo e non una scienza.
Diremo piuttosto che questi filosofi nel risolvere il problema,
che si sono proposti, lo scambiano del tutto, e mentre cercano
il principio della Filosofia, cioè d'una scienza, essi poi aCferrano
in fallo il principio del mondo reale; se pur è lale FIO, questione
che tratteremo a suo luogo. Nessuna realità può essere — ella slessa
e non la sua idea — il principio d'una teoria, e molto meno della
tt teoria della scienza » , come il Fichte intitola il suo libro.
(1) Das jenige dessert seyn blos dar in besleht , dass es sich selbst als
seyend setzt, ist das Jch als absolutes subject. Grunrllage der gpsammten
Wissensctiaftslelire, (1794), p. 9.
206
2G3. Restii la terza ipotesi , che l'IO si<i ad un tempo e un reale ,
e qualche cosa d'appartenente all'ordine dello scibile : e questo
è quello che sembra pretendere il Fichte quando dice che « l'IO
suppone la coscienza di so, e non diventa oggetto, se non in
quanto è subicUo » (1); quello che sembra pretendere il suo
discepolo lo Schelling, quando crede di trovare nell'Io — lo il con-
tenuto ad un tempo e la forma. Ma le cose dette di sopra mo-
strano anche Timpossibilità di questa terza ipotesi. Poiché in qual
maniera ciò che è l'idea dell'lO sarebbe anche un IO reale , deter-
minato, vivente? L'Io determinato e vivente qualunque sia esclude
da sé tutti gli altri IO determinati e viventi: Videa dell Io all'incon-
tro essendo una forma vota , non contiene in sé alcun Io determi-
nato e vivente, benché li faccia conoscer tutti. L'Io detcrminato
e vivente e V idea deW Io non possono mai essere la medesima
cosa, escludendosi per la loro opposizione: onde il primo può
bensì essere un principio reale d' azione , ma come tale non può
essere un principio scientifico , e il secondo può ben essere un
principio scientifico, per esempio, della Psicologia {PsicoL 107 —
\{h), non mai però il primo della Filosofia o dello scibile uma-
no, né quello che i nostri filosofi vanno cercando. E ciò perchè
le due forme dell'essere, la subiettiva e V obiettila, non si pos-
sono mai confondere e unificare , il che sfuggì ai nostri filosofi.
E non vale l'asserire col Fichte , che all'IO è essenziale la co-
scienza di sé stesso, dovendosi distinguere il sentimento proprio,
che gli è essenziale , dalla sua coscienza , che non é altro che il
conoscimento del proprio senlinienlo, il quale non gli è essenziale,
come abbiamo già distinto e provalo nella Psicologia. 11 credere
il contrario provenne a' filosofi tedeschi dal non aver essi consi-
derato r Io puro ma 1' Io involto nella riflessione. Ma quand' anco
supponessimo che l' Io avesse essenzialmente la coscienza di sé
stesso, e che perciò? Sarebbe sempre o un Io reale, com'è l'Io
riflettente sopra di sé, e quindi non mai un principio scientifico;
ovvero Videa dell' Io , e non mai il primo noto, non mai il
(1) Ivi. — Quel giorno^ nel quale il Fichte salita la cattedra , promise ai
suoi discepoli: «f di creare Dio » {Ideol. 1389 e sgg.), intendeva certamente
no principio della sua Filosofia, non FIO divino, perocché quest' IO divino
era creato dall' IO umano, che parlava dalla cattedra.
207
principio di tutto lo scibile, o anche solo della Filosofia, per-
chè altre idee egli suppone avanti di sé , idee che hi scienza
deve esaminare e non supporre. E poi quest' IO reale vestilo
della propria riflessione sarà egli reale e ideale ad un tempo ,
a cagione che ha la coscienza di sé? Non mai. L'idea di so
slesso starà a lui presente, ma non si confonderà mai con esso.
L'Io reale sarà puramente un Io, e non sarà mai anche Videa
dell'Io : ma questa idea sarà un obietto a lui contrapposto come
intelligibile, non mai egli stesso che è essenzialmente subielto.
Le speculazioni de' nostri filosofi altro non sono dunque che un
viluppo di concetti, mancante d'analisi, e quindi un viluppo di
paralogismi e d'illusioni.
264. Ma tentando di avvocare la loro causa, affine che si veda
la queslione da ogni lato, prendiamo la cosa sotto un altro aspetto.
NellVrfea s'intuisce Vessenza: nell'idea dell'Io s'intuisce l'es-
senza dell'Io. Se quest'essenza dell'Io noi la spogliamo d'ogni
difetto e limitazione , e gli aggiungiamo ogni pregio , avremo
un'essenza perfetta dell" Io. Ora sia dimostrato , che l'essenza
perfetta dell' Io deva sussistere : questa sarà un Dio persona ,
condizione di tutte le cose e di tutto lo scibile. Quest' è dunque
il principio dello scibile, che si cerca: ed è reale ad un tempo
ed oggettivo cioè intelligibile. A questo infatti sembra che vo-
glia condurci lo Schelling: non è così sciolto il problema?
A questo , che è quanto di meglio si può dire a favore dei
nostri speculatori, dobbiamo di novo rispondere, che con tutto
ciò non sarebbe punto trovalo il principio dello scibile o della
Filosofia, come abbiamo già mostrato nel Preliminare alle opere
ideologiche, ed ecco perchè:
1.° Per arrivare al pensiero d'un Io assoluto, la mente
umana non può movere che dall'esperienza dell'Io umano. Deve
prima universalizzarlo ed aslrarlo, formando l'idea astratta del-
l'Io umano, poi levargli d'attorno le limitazioni umane, aggiun-
gendogli tutti i pregi. Formatasi in questo modo l'idea dell'Io
assoluto, argomentare, che quest'Io assoluto, che intuisce nel-
l'idea e di cui non percepisce la realità, deve esistere neces-
sariamente. La persuasione dunque che quest' IO assoluto sussìsta
è il prodotto di molte facoltà e operazioni dello spinto umano,
dovendo concorrere all'opera : 1." il sentimento proprio; 2." la
208
percezione inlelleltiva di questo senlitnenlo; 3.° l'univcrsalizza-
zionc; ti." l'aslrazione; S." la facoltà di conoscere ciò che è
difettoso e limitato nell'Io umano astratto, il che suppone una
nonna preesistente nel pensiero, e una norma illimilala; G.° la
facoltà d'aggiungere i pregi sovrumani, il che ancora suppone
una norma per trovarli; 7.° la facoltà d'argomentare, che rac-
chiude quel giudizio e quel raziocinio, e suppone precedenti
i principi di cognizione, d'idcntilà, di contraddizione, ecc., e parti-
colarmente \\ principio di assolutila. Da questo si vede che non
si può in alcun modo pervenire a trovare con certezza l'esi-
stenza d'un IO assoluto , se prima non sia ammesso per vero
che le facoltà umane ben adoperate non conducono in errore,
e sopratulto se non precedano i principi universali del ragiona-
mento. Quell'io assoluto adunque, che non si percepisce, ma
s' induce ragionando , non è il primo nell'ordine dello scibile
umano , e della Filosofia : ma è piuttosto l'ultimo risultalo di
questa.
2." L' IO assoluto, argomentato così e non percepito, non è
già svelato positivamente all'uomo, ma determinalo con altre
idee a quella guisa che nella matematica un' ;7; incognita ancora
si possiede in una formola , di cui non si può calcolare il valore
[Logic. ,080, !igg.') : non può dunque una notizia negativa costi-
tuire il principio di tutto Io scibile positivo; perocché sarebbe
come se si pretendesse che il valore dell' j? incognita fosse il prin-
cipio della cognizione della formola in cui è involto e da cui è
determinato, forma composta di valori noti singolarmente presi.
3.° A questo s'aggiunge che l' IO assoluto di questi filosofi
non è che Via umano preso per assoluto. E una delle prove
che essi non giunsero né pure all'idea indicativa {'Log. 476-^i85*)
si è questa che, dopo d'aver ammesso per primo principio
l'Io "Io — sforzandosi d' introdurvi un principio d'identità {Ide-
ol. 438. n.) — dissero, che da questo principio ne veniva quest'
altro: «Il Non-Io é diverso dall'Io», introducendo un Non- io,
e pretendendo che questa opposizione del Non-io all' Io fosse es-
senziale all'Io. Ora l'IO assoluto non può certamente avere ninna
opposizione e limitazione a sé essenziale , perchè non ha limile
alcuno: e l' Io che ha, nell'esperienza, opposizione e limitazione
è soltanto l'umano; senza che perciò sia punto dimostrato, che
-209
l'opposizione e la limitazione empirica sia punto essenziale. Che
anzi i nostri filosofi qui precipitano del tutto. Peroccliè questo
Nonio, che oppongono all' IO assoluto, è il Mondo esteriore, il
quale è manifestamente un contingente , che con franche asser-
zioni destituite d'ogni prova cangiano in un necessario. Poiché
se no assoluto, coni' essi dicono, è necessario, e se quest'Io
non può stare senza un Non-io che contrappone a sé medesimo,
e questo Non-io é il mondo , dunque il Mondo è necessario : ed
è necessario il legame del Mondo con Dio, che é il terzo prin-
cipio dello Schelling. Ora qui pervenuta la speculazione si trova
in un fatalismo e in un panteismo senz'uscita [Ideal. 1588-1407).
Ma come ci é pervenuta? Per mezzo di asserzioni gratuite, di
concetti avviluppati e confusi , di salii, di paralogismi , di con-
traddizioni.
Se dunque si fossero data la pena questi filosofi d' attenersi
più religiosamente alle regole dell'antica logica, se avessero de-
finito, e distinto: se sopratutto avessero distinti i concetti se-
condo le loro relazioni e aspetti dialettici, non avrehhero riem-
pila la filosofia di tanti paradossi, ed assurdi.
Articolo V.
Come si possa soddisfare al bisogno
che ha la mente umana d' unità.
263. E veramente il bisogno della mente di ridurre ogni cosa
ad una certa unità, c'è sicuramente. Ma la difficoltà consiste:
1.° Nel determinare qual sia quest'«n?ìà , quale ne sia la
natura;
2.° Nel determinare di qual riduzione si parli, nel descri-
vere accuratamente questa riduzione.
Questo non si può fare , come dicevamo , senza le più accu-
rate definizioni e distinzioni dialetliclie. Approfittiamoci di quelle
che abbiamo accennale per risolvere una tale importante
questione.
206. Egli è chiaro, dopo quello che abbiam detto, che runiti\
che si cerca , non può trovarsi nei termini dell'essere , perchè i
RosMLXi. Teosofia. U
210
primi suoi termini sono le forme categoriche, e queste sono tre
e non una, e sono irreducibili; i termini poi posteriori alle cate-
gorie sono assai più numerosi. Convien dunque cercare V unità
nell'essere stesso.
267. Ma l'essere si concepisce in più maniere come abbiam
dello, le quali si riducono a tre. Perocché:
i.° 0 si concepisce l'essere unito a' suoi termini, e in tal
caso non è più uno, ma non si hanno che più enti o più entità ;
2.° 0 si concepisce Vessere astrailo preciso da ogni relazione
co' suoi termini, e quest'essere astratto non è principio di cosa
alcuna , per la stessa ipolesi dell' astrazione , e però non si può
ridurre a lui come ad unità la molliplicità delle cose;
5.° 0 finalmente si concepisce l'essere bensì in separato da'
suoi termini, ma in relazione con essi: e in questo aspello egli può
essere riguardalo dalla mente in due relazioni diverse, o come
quello che contiene virluaìmente i suoi termini , e così lo chia-
mammo essere virtuale, o come iniziamento e attualità prima de'
termini stessi antecedente ad essi , e così lo chiamammo essere
iniziale.
2C8. Col primo di questi due concelli si pensa la virtù o pos-
sibilità che ha la natura dell'essere di terminarsi in tutti i modi
che non involgano contraddizione: si pensa Vessere senz' altra
considerazione se non quella della suscellività ch'egli ha di ulti-
marsi comecchesia. In quest'essere dunque si pensano tutti i ter-
mini, ma in potenza e non distinti. E questa è una prima unifica-
zione delle entità nell'essenza, un'unificazione delle entità tutte,
ma nella prima loro ed unica potenzialità, non delle entità in allo.
Col secondo di questi due concetti dell'essere, cioè coWessere
iniziale , si pensa Vessere come inizio di tutti i suoi termini in
allo. L'essere è diviso per astrazione da' suoi termini, ma
non si prescinde dalla sua relazione con questi , anzi è
appunto questa relazione , che si considera in quel concetto.
Questa relazione è appunto quella d' inizio e di ultimazione.
Essendo i termini innumerevoli, l'essere si può ultimare in tutti
questi, ma egli è sempre uno, semplice, il medesimo: non
è i suoi termini, ma è il comune loro principio. Quesl'è dunque
una seconda tmifìcazione o per dir meglio una seconda ridu-
zione all'unità di tutti i termini in atto.
211
I concetti dunque di essere virhuile e di essere iniziale prestano
alla mente la via di soddisfare al bisogno ch'ella sente dell'unitii:
il primo le somministra il modo di ridurre ad unità tutti i mol-
tiplici termini dell'essere considerati nella loro potenzialità ; il se-
condo le somministra il modo di ridurre ad unità tutti i nioltiplici
termini dell'essere considerali nella loro attualità.
!2G9. Se si considera dunque Vessere ^Hrlitale, egli costituisce la
materict luìii'ersale di tutte le cose: se si considera Vessere ini-
ziale, egli costituisce la forma tiìmersnle di tutte le cose (l).
Tutte le cose dunque sono essere come maleria , in quanto di-
venta al pensiero tutte le cose per la sua virtualità : tutte le
cose sono essere come forma, in quanto ogni loro alto è essere
per la sua inizialità. Ma si consideri bene che valore abbia que-
sta sentenza, e non si prenda alla grossa. L'essere virtuale e
l'essere iniziale sono due concetti dialettici della mente umana.
Deve dunque intendersi unicamente che resscre virtuale è la
materia dialeUica di tutte le cose, e che l'essere iniziale i^ \i\
forma dialeUica di tutte le cose; e non altramente.
Ora che cosa vuol dire maleria e forma dialettica? — Materia
dialettica vuol dire quella che risponde a un dato cancello dialettico,
col quale la materia delle cose si conosce: forma dialettica vuol
dire quella che corrisponde a un dato concetto dialettico, col quale
la forma delle cose si conosce, il concetto dialettico è quello che
non fa conoscere già un ente pieno , ma qualche cosa dell'ente
diviso per astrazione dal resto sotto qualche relazione. Quando
dunque si dice che Vessere virtuale è la maleria universale di
tutte le cose, altro non si dice , se non che ciò che il concetto
dell'essere virtuale fa conoscere è la materia di tulle le cose,
ma ciò che il concetto dell'essere virtuale fa conoscere , non è
già un ente pieno, o l'essere terminato, e mollo meno tra gli
esseri terminali il più terminato di lutti che è l'ente assoluto,
(1) Nella Psicologia (776-815) abbiamo ristretto l'uso de' vocaboli materia
e forma alla natura corporea. Aggiungenùo gli epiteti di universale e, di
dialettica, ricevono qui un altro significato, clic rispctlo al primo ha del tras-
lato. .\vrcmmo voluto potere evitare questo varietà nell'uso delle parole,
rna non l'altbiamo potuto fare per servire alla cliiarezza, e non dipartirci
troppo bruscamente dall'uso comune. Più avanti sostituiremo a queste parole
di materia e di forma de' vocaboli più propri.
212
Iddio. Laonde quantunque si predichi di tutte le cose l'essere
virtuale come loro materia, non è già vero che si predichi con
questo Dio; poiché Iddio none l'essere virtuale, ma l'essere
attUcilissimo: ma si predica quella natura di essere che è con-
tenuta nel concetto dell'essere virtuale, il quale non fa cono-
scere Iddio, ma l'essere senza termini attuali che ha virtù d'at-
tuarsi, i! quale non è un ente pieno, ma solo qualche cosa del-
l'ente, diviso dal resto dell'ente e considerato da sé.
Lo stesso si dica dell'essere iniziale considerato come forma
dialetUcii uiìiversale di tutte le cose. 11 concetto dialettico di forma
non fa conoscere già una forma che sia un ente , e molto meno
fa conoscere Iddio che è ente pienissimo; ma altro non fa co-
noscere che qualche cosa d'appartenente all'ente, diviso dal resto
di esso, cosa che in tal modo separata non esiste che nella mente,
cioè nello stesso concetto dialettico intuito dalla mente umana.
Quando dunque si dice, che V essere v'jr/(ta/f è la materia dia-
lettica, e Vessere iniziale è la forma dialettica di tutte le cose,
non si dice altro se non che la mente umana ha un concetto che
si può predicare come materia di tutte le cose, ed ha un altro
concetto che si può predicare come forma di tutte le cose; ma
non si dice mica che quel concetto rappresenti un ente , e molto
meno che rappresenti Dio; ma altro non rappresenta che qual-
che cosa dell'ente , che separato dall'ente non è ente, e non può
sussistere altro che nella mente; altro non rappresenta in una
parola che l'essere precisamente come virtuale , e l'essere pre-
cisamente come inizio di tutte le cose.
270. Il Panteismo nacque appunto dal non essersi distinti questi
concetti dialettici della mente da que' concetti, che rappresen-
tano un ente pieno Si vide dunque che l' essere dovea essere
la materia di tutte le cose, ma non si vide che quest'essere
non rappresentava punto Dio , nò rappresentava un ente , ma
un oggetto ideale ed astratto, non esistente che davanti alla
mente; benché questo oggetto ideale ed astratto non fosse già
nulla, né fosse punto la mente stessa che è subiettiva, né fosse
tale a cui nulla rispondesse nella realità , perché nella realità vi
corrispondeva non l'ente, ma qualche cosa dell'ente. Il dirsi
dunque che tutto é essere, o che l'essere si può predicare di
tulio, non é panteismo; e non è un ridurre tutti gli enti ad un solo
2i5
ente, benché l'essere sia semplice e non abbia moltiplicità ; ma
questo nasce perchè ogni moltiplicità trac la sua origine dai ter-
mini dell'essere, e però non si può trovare nell'essere in quanto
si concepisce dalla mente come anteriore a' suoi termini e del
lutto interminato.
Che anzi di questa entità astratta si potrebbe movere que-
stione, se le convenga il predicato di unoj e se non fosse più
esalto favellare il dire, ch'ella non ha ancora né moltiplicilà né
unità , ma che è nell'ordine logico dell'astrazione anteriore al-
l'una ed all'altra. In fatti, se nel concetto di uno si fa entrare
l'esclusione àdV altro , non si potrebbe dare all'essere iniziale e
virtuale l'epiteto di uno , perchè niente esclude , niente ha da
escludere: ma de' diversi concelti dell'uno diremo altrove.
271 . Mediante questi due concetti dell'essere, cioè Vessere virtuale
e Vessere iniziale, si spiega, come l'essere possa ugualmente fare
l'ufficio di subietto e di predicalo {Logic. 597). Quando l'essere
fa l'ufficio di predicato, come dicendo: « questo fiore è essere «.
allora se non è un giudizio d'identità perfetta [Logic. ^Oh) , il
subietlo è costituito dal termine dell'essere o dall'essere termi-
nato, e il predicato essere si considera come virtuale, quasi si
dicesse : « questo fiore è cosa che sta contenuta virtualmente
nell'essere ». Quando l'essere fa l'ufficio di subietlo , e non si
tratta d'un giudizio d'identità perfetta, allora l'essere si consi-
dera come iniziale, ed è uno di quei subielli che abbiamo chia-
mati antecedenti [Logic. ^OG). Cosi dicendosi: k L'essere, che è
qui, è un fiore », equivale a dire: « Vessere iniziale si termina
così che se ne ha un fiore ».
Che se prendiamo la formola de' giudizi perfettamente iden-
tici: « l'essere è l'essere », l'un essere prende il concelto di ma-
teria (essere virtuale), l'altro di forma (essere iniziale); ma può
ugualmente il subietto considerarsi come materia, nel qual caso
il predicato è forma, o considerarsi come forma, nel qual caso
il predicalo tiene il poslo della materia.
214
AnxicoLo VI.
Ragione deijli errori, in cui caddero lo Schelling
e l'Hegel suo discepolo.
27:2. Polendosi dunque [)rendcre Vcssere sotto i! doppio nspelto di
materia e di forma universale, si soddisfa all;\ condizionii posta
dallo Sehclling »! jìrincipio da lui cercato della filosofia , che
deva esser ad un tempo e contenuto o forma di lutto Io scibile.
Dicendo (juesto il nostro filosofo travide una verità ; ni:i né la
espresse con esittezza filosofica , né potè attuarla soddisfacendo
alla condizione che s'era imposta : indi i suoi errori.
Non espresse quella condizione con esaltezza , perchè omise
le analisi e le definizioni dialettiche, sulle quali si regge il pro-
blema : non potè soddisfarvi, perché, invece di mantenersi alla
sfera del problema, che riguardava lo scibilo e quindi esigeva
che si ascendesse alla prima idea , all'essere ancor senza ter-
mini considerato nella sua virtualità e inizialilà, precipitò senza
alcuna logica derivazione a un ente determinatissimo , (jual è
l'io, e questo slesso, non distinguendo le forme categoriche, Io
lasciò ambiguo, ora prendendolo come un IO ideale , ora come
un IO reale, con perpetua equivocazione. In fatti, dopo aver
detto che il principio della filosofia , di cui andava in cerca ,
dovea essere « assoluto ed indipendente », soggiunge: « II suo
« contenuto sarà indipendente da ogni altro contenuto , s'egli
« SI PORRÀ' egli slesso, per la sua propria potenza d'azione «:
dimenticandosi che « un principio dello scibile non ha potenza,
né azione , né può porre sé stesso », perché tulle queste cose
appartengono a un principio o>sia causa reale, onde siamo già
usciti con questo dalla sfera delle idee e della scienza. Sog-
giunge francamente , e senz'alcuna j>rova : « questo carattere
non appartiene che all'Io ». Ma se si parla d'un Io reale, come
abbiamo già osservalo , gli IO reali sono innumerevoli , quanti
sono gli uomini , e però vi avranno allrcltanti principi di filo-
sofia! Se si parla d'un IO astrailo, questa é mV idea che, al
pari di tulle le altre, è uno scibile, ina non ha azione, e non
pone sé slessa; e converrebbe provare che fosse la prima di
24 S
tutte le idee, per collocarla in capo alla filosofìa e allo scibile.
Se poi si parla d'un IO assoluto, dell'Io di Dio, è una futilil;"»
entusiastica il dire, che l'uomo vede immediatamente Iddio: che
se lo vedesse veramente, vedrebbe ch'egli è tre persone, e non
una sola, com'è cotesl'IO filosofico de* nostri speculatori. Se poi
non si vede quest'Io assoluto, convien dedurle, e ricorrere
perciò a' principi logici, a lui anteriori nella mente umana. Ma
poniamo che l'uomo vedesse il preteso Io unico ed assoluto dello
Schelling: anche l'uomo che lo vede è un Io. Ora l'Io veduto
non sarebbe l'Io vedente: si avrebbero dunque due Io: qual
sarebbe il principio della filosofia, e dello scibile? Probabilmente,
anzi certamente si risponderà l'Io veduto, perchè si dichiara
veduto appunto per questo, perchè s'abbia il principio dello scì-
bile. Ora , io che vedo quest'Io assoluto avrò la coscienza di
me stesso , ma avrò per questo ancora la coscienza di queir lo
assoluto ch'Io vedo? Pare di no; altrimenle io, umano indi-
viduo, avrei la coscienza dell' IO infinito. Se vedo dunque quest'
Io assoluto , vedo bensì la necessità che esso abbia la sua co-
scienza, ma non avendo io slesso questa coscienza, non ho quel-
l'Io che si richiede, acciocché sia principio della filosofia e dello
scibile: poiché si dichiara che a quest'Io è essenziale la co-
scienza di se stesso. V Io veduto dunque da un altro Io, non è
precisamente lo stesso dell'Io che sente e vive in se stesso: ma
è una semplice notizia di questo. Lo Schelling dunque non move
la sua Filosofia dall'Io stesso, ma da una notizia che l'uomo che
filosofa ha dell'Io assoluto. Ma una pura notizia non ha po-
tenza , non pone sé stessa colla propria sua attività : non è
dunque quel principio , che richiede lo Schelling a cui faccia
capo la filosofia.
273. Pure a quell'Io, ch'egli costituisce principio della filosofia
e dello scibile, lo Schelling discepolo del Fichte attribuisce la co-
scienza, e dice che il principio della Filosofia — imitando qui il
Cartesio — è quella prima parola con cui pone se stesso, ponendo
la sua coscienza, e dicendo: « Io sono lo «. Lascio da parte
che questa formola suppone che l'Io esista prima d'esistere; ma
invece osservo, che se questo pronunciato dell'Io è il principio
della filosofia, s'avranno tanti principi realmente diversi di filo-
sofia, quanti saranno gli Io: giacché ogni Io dice essenzialmente:
216
« Io sono Io », e queslo principio non si potrà insegnare, perchè
ciascun IO lo pronuncia per se solo, e non si può pronunciare
in due o in più : e quel che pronuncia un Io, non è quel che
pronuncia un altro Io. Che se si dice che si potrà raccogliere
questi pronunciati, e formarne un pronunciato universale; questo
non sarà più il principio della filosofia , perchè queslo pronun-
ciato universale non è un Io che pronunci se stesso, ma un'altra
cosa pronunciata da quanti Io sì voglia, ciascun de' quali pro-
nunciandola non pronuncia se stesso, ben siipcndo di non essere
essi stessi, individuale come sono, un pronuncialo universale.
Ma come poi un lo può dire: « lo sono Io »? Dicendo così
non dice solamente: IO; ma anche dice col pensiero SONO. Che
cosa è questo sono, se non la prima persona del tempo pre-
sente del verbo essere? Quest'Io dunque conosce anche il verbo
essere se lo pronuncia: e lo conosce prima di conoscere se stesso,
anzi prima d'esistere, perchè solo dopo aver detto « sono Io »,
egli ha posto sé stesso e incomincia la sua esistenza. L'Io con-
sapevole dunque del Fichte e dello Schelling ha una cognizione
anteriore a se stesso, quella dcW'essere. E in tal caso, non con-
vien riconoscere che l'Io non è né il primo, né l'incondizio-
nato? perchè più primo di lui, e sua condizione è l'essere stesso?
E quest'essere, lo stesso Schelling, senz'avvedersi, lo ammette
come cognito all'Io, in universale. Perocché dopo aver detto,
die il principio della filosofia è Io=;:Io, tosto soggiunge : « In
(( questo principio è data la forma di orjni posizione assoluta ,
(( e questa forma può divenire il contenuto d'un principio che
K naturalmente non può avere che questa medesima forma, di
<( guisa che l'espressione di lui sarà A=A », che è il principio
universale d'Identità. Nell'Io^rlo c'è già dunque bell'e dato il
principio dell'essere identico a sé stesso : c'è dunque nell'Io non
solo la cognizione deWessere suo proprio , ma anche la forma
universale dell'essere. E cosi si fa presto a andare avanti, non
certo a passo di logica, ma a volo d'imaginazione,
"111 li. Andò a sangue all'Hegel quest'espressione de' suoi maestri :
L'Io pone se stesso dicendo: Io sono Io. Ne inferì, e giusta-
mente, che se l'Io pone se stesso dicendo: io sono io; l'Io do-
veva esistere prima d'esistere: poiché in quanto si poneva
non era ancora, perchè non s'era ancora posto; e pur era,
217
perchè si poneva. La scoperta era sorprendente. L'Hegel disse:
è vero il principio perchè me l'hanno insegnato i miei maestri ,
dunque è vera la conseguenza. Su questa conseguenza fab-
bricherò io un sistema , che farà sbalordire il. mondo : negherò
come un'anticaglia il principio di contraddizione. ! miei maestri
Dell' Io = Io vedono il principio d'identità, come forma univer-
sale del sapere: io andrò più avanti, e ci troverò la contraddi-
zione, e l'essere ~- zero ; e in questa contraddizione che fa cose
uguali l'essere e il nulla , riporrò la forma universale del vero
sapere. Vera era la conseguenza, assun'o il conseguente (Lo-
^k. 11 ù).
E tuttavia la mente umana, la cui essenza è d'intendere, non
sragiona mai tanto, che nello stesso tempo di sbieco non ri-
guardi in qualche verità. L'cs.^e/T iniziale non esiste separato
da' suoi termini, se non nella mente che restringe il suo sguardo,
e invece di fissarsi in tutto il suo oggetto, non ne considera che
un elemento. L'essere iniziale dunque non è ancora nessun ente :
.'.mmette dunque la denominazione di non-ente. Ora, nel linguaggio
esagerato d'un filosofo che ama di sorprendere i suoi uditori col
paradosso , alla denominazione di non-ente si poteva sostituire
quella di nulla, senza scrupolo: come a quella (['essere iniziale
si potea sostituire quella più semplice di essere, e con queste so-
stituzioni e scambi si otteneva elfetlivamente la formola dell' es-
sere uguale al nulla.
273. I maestri dell'Hegel aveano anche detto che l'Io si con-
trappone al Non-io; e noi osservammo, che se questo ha qualche
senso, non può averlo che supponendosi un lo finito, e un Non-
io pure finito. E infatti per questo Non-io lo Schelling intese la
natura, il mondo, onde una parte della sua Filosofia dell'identità
assoluta fu quella che egli intitolò: Filosofia della natura. S'era
dunque questa scola, a malgrado della magnifica parola d'assoluto
di cui faceva sciupìo, racchiusa da se medesima nella sfera del
finito, prendendo da questo, che cade sotto l'umana esperienza,
le nozioni ontologiche , e con queste componendo , quasi con
materiali fradici, la teoria dell'infinito. Ora poiché nella sfera
del finito le cose finiscono e incominciano, e fanno l'una e l'al-
tra cosa con una gradazione fenomenale , di maniera che pare
che il finir dell'una sia l' incominciar dell'altra — benché questo
2i8
avvenga solo delle forme specifiche , e non della stessa materia
corporea, — perciò l'Hegel raccolse il concetto volgare, fenome-
nale, e che solo apparisce nel finito, del dmntare {Logic. 51:
^Psicol. 1365') e lo trasportò senz'analisi nell'Ontologia, asserendo
che « l'essere slesso dmnta » — quando pure, come dicevamo,
non solo l'essere non diventa , ma né pure diventa la materia
corporea, ma solo la forma — e credette d'aver trovato quel punto
medio, nel quale l'essere non è ancora, ma pure incomincia, e
quindi è, riponendo così il principio dell'essere nello stesso di-
ventare , che insieme accoppia in bona pace , essere e nulla !
A un tale risultato ammutolì la Filosofia.
CAPITOLO II.
Sislema dell' identità dialettica.
Articolo I.
Breve esposizione del Sistema.
276. Si dà dunque un sislema d'unità assoluta dialettica. (Ihe
cosa vuol dire unità assoluta dialettica?
Non altro se non che tutte le cose , per quantunque si spez-
zino e si dividano materialmente o formalmente, e però lutti i
loro elementi, convengono in una certa essenza concepita dalla
mente , di maniera che questa essenza si può predicare di tutte
e per essa tutte affermare con verità, e questo è Vessere: ma
Tessere sotto 1 due concetti di virtuale e d'iniziale. Essendoci
nell'uno e nell'allro concetto l'essere, l'unità è perfetta, e anche
r identità, rispetto a questa forma mentale.
277. Ora come questa maniera d'unità e d' identità di tutte le
entità — qualunque sieno — si concilia colla loro molliplicilà?
Questo s' intende, qualora si ponga attenzione alla natura del-
l'essere virtuale e dell'essere iniziale. Nelle stesse appellazioni di
virtuale e d'iniziale si contiene la variabilità ed estensibilità di co-
tesl'essere mentale. Poiché virtuale vuol dire, che ha in sé virtual-
219
mente e indislinli tulli i termini, ma nessuno ancora in allo; ed
iniziale vuol dire che senza lui non si concepiscono termini, ma
ch'egli è il subiello antecedente di tulli i termini attuali qualunque
siano. Ciò posto, avviene di uecessilà che, se si predica l'essere
di due 0 più termini diversi, egli dalla slessa predicazione riceve
un valore diverso, rimanendo, come virtuale, unico. Si predichi,
a ragion d'esempin, d'una pietra e d'un uomo, dicendosi : « que-
sta [ìietra è essere >: , « (luesf uomo è essere « : che cosa si viene
a dire con queste predicazioni'^ Nienl'altro, se non: u questa pie-
tra è uno di quei termini che l'essere virtuale contiene imphci-
laracnte nel suo seno: quest'uomo è uno di que' termini che l'es-
sere virtuale contiene implicitamente nel suo seno^). Nella prima
predicazione si prende l'essere virtuale in relazione col termine
pietra, nella seconda si prende l'essere virtuale in relazione col
termine uomo. È lo stesso essere virtuale che racchiude tutti i
termini, ma non èia sfossa relazione in cui si considera: l'es-
sere virtuale dunque nelle diverse predicazioni cangia di valor
relativo, perchè s'applica ora a un termine ora a un altro: e
questo non toglie, ma stabilisce la differenza e la moltiplicilà de
termini stessi.
Ma quest' essere virtuale non è già un'ente , ma un'entità
mentale, l'elemento d'un ente. Quando dunque si dice: « questa
pietra è essere, quest'uomo è essere, ecc. », allora non si dice mica
che questa pietra sia Tenie che si dice essere, né che quest'uomo
sia l'ente che si dice essere, ma si dice solamente, che l'ente uomo
e l'enle pietra tiene in se questa entità elementare che si dice es-
sere, e che ogni parte della pietra e dell'uomo e d'ogni altra cosa
la tiene parimente, senza che mai quest'entità elementare — che
è in ogni entità ~ sia l'entità stessa, a meno che si parli di quel-
l'cnliià che è Tessere stesso virtuale. Così, a ragion d'esempio,
d'un corpo e di qualunque parte d'un corpo si dice che è esteso,
ma non si dice mica che esleso significhi un dato corpo , ma
solo una qualità elementare comune a tutti i corpi : nell'esten-
sione dunque i corpi sono identici, benché variino nel quanto
dell'estensione. Ma la ditTerenza tra Teslensione od altra qualità
comune e Vcssere sia in questo , che quelle non sono entità prime,
su|)ponendo tulle Tessere: laddove Tessere è Tentila prima, a
cui sono tutte le altre entità posteriori , onde non si può conce-
220
p're le onlilà elementari posteriori se non a condizione di conce-
pire la prima e a questa raggiungerle. Se dunque noi prendiamo
un ente pieno qualunque e lo dividiamo materialmente , come si
può fare de' corpi ^ abbiamo altrettanti enti pieni sebbene meno
estesi e in essi tutti la prima entità è l'essere; se poi li dividiamo
formalmente per opera dell'astrazione noi troviamo delle entità
mentali le une legate alle altre con un cert' ordine, e l'ultima a
cui r altre tutte sono essenzialmente legate è l'essere. Senza
quest'ultima dunque niuna delle precedenti è, e quindi avviene
che quest'ultima si predichi di tutti, perchè, rimossa questa ^ le
precedenti si annullano , cioè non si possono concepire senza ca-
dere in contraddizione, che, concependosi, già si pone che
sieno in qualche modo; e rimovendo al tutto l'essere, si pone
clic non sieno: il che è contraddizione.
Non è dunque assurdo il dire , che tutte le entità sono es-
sere , e da questa identificazione di tutte le entità coU'essere ,
non vien punto né poco, che le dette entità non sieno diverse
tra loro, perchè trattasi qui d'essere virtuale che ha un diverso
rapporto d'identità, sebbene sempre d'identità con ciascuna
di esse.
278. Col lume della qual dottrina rimane sciolta l'antinomìa
che presenta al pensiero il problema dell'unità e della pluralità
sotto questa forma :
Tesi: « Più cose uguali ad una terza sono uguali tra di loro »;
Antilesi: « Più cose uguali ad una terza sono diverse tra
di loro » ; perchè tutte le cose sono uguali all'essere , e pure
sono diverse tra di loro.
L'antinomìa svanisce tostochè si considera che le varie cose
ed entità sono uguali all'essere , ma che quest'uguaglianza n
identità nasce per una relazione diversa che ciascuna ha col-
l'essere , relazione determinata dalla natura della slessa cosa ,
perchè la pietra è uguale i\\V essere in quanto questo contiene
virtualmente la pietra, non in quanto contiene virtualmente l'altre
cose; l'uomo è uguale all'essere in quanto questo contiene vir-
tualmente l'uomo, e cosi si dica dell'altre entità: onde questa
identità risulta dalla virtualità dell'essere, che è la virtù ch'egli
ha in sé di ricevere diversi termini , e per questi diverse re-
lazioni, sotto le quali viene considerato limitatamente.
221
279. Ora qui si domanderà se questa sia una identità perfetta. —
Per rispondere alla qiial domanda , conviene bene intendere il
valore della parola virtualità applicata all'essere. Questa parola
non significa altro s^j non che Vesscre ha la suscetlibità di rice-
vere diversi termini. Ma questa suscettività o virtù non importa
nessun termine attuale: è una pura potenza. Ora come potenza,
( ci si permetta per ora questa parola , che poi sarà chiarita ),
che non ha ancora nessun alto , non è già moUiplice j ma è
unico e indivisibile. Di più questa universale potenzialità non
si può separare daircssere, separata dal quale, si annulla. Ves-
serò virtuale dunque può bensì essere considerato in relazione
con qualcuno de' suoi termini, ma rimane semplice e indivisi-
bile; e perciò si predica tutto di ciascuno de' suoi termini, ma
non totalmente: egli è necessario che la mente lo veda lutto
— perchè non potrebbe esser veduto altramente per la sua sem
plicità e indivisibilità, — acciocché ella possa conoscere un'entità
qualunque, ma non ne viene per questo, ch'egli si leghi e li-
miti a quell'entità singolare, perchè resta quel di prima, sem-
plice ed uno^ ma colla virtualità sua a tutti i diversi termini.
Se dunque per uguaglianza o identità perfetta s'intende, che l'es-
sere che si predica di qualche altra entità è tutto l'essere vir-
tuale, conviene dire che ci sia identità perfetta tra l'essere e
ciascuna dell'altre entità ; se poi per identità perfetta s'intende,
che l'essere virtuale sia predicato d'ogni cosa e tutto e total-
mente, non c'è identità perfetta; perchè l'essere virtuale che
non ha alcun termine, non si predica totalmente d'ogni entità,
ma in quella maniera che è de'erminata dal termine stesso del-
l'entità di cui si predica.
280. Perchè dunque si dice assolutamente: « la pietra è essere,
l'uomo è essere, ecc. ? Perchè io non posso in alcuna maniera
trovare nella pietra o nell'uomo qualche cosa che non sia es-
sere^ per quantunque e in qualunque modo io la scomponga col
pensiero: anche tutte le differenze delle cose sono essere: perciò
si dice che le cose sono essere. Ma che cosa si viene a dire con
questo.? NuH'allro, se non che l'essere virtuale e senza termini è
la prima e la più semplice delle entità, per cosi fatto modo che
qualunque altra entità è composta, e tra i suoi componenti c'è
l'essere virtuale sempre, e necessariamente. Supponiamo dunque
252
che sia composta di due elcmcnli; e che l'uno di questi sia
l'csscie virtuale: che cosa sarà l'altro? L'altro avrà natura di
termine attuale, e perciò avrà bensì il suo correspetlivo nell'es-
sere virtuale, ma col suo atto esce dall'essere virtuale. Ma dunque
c'è una cosa, di cui non si predica l'essere virtuale, e questo è il
termine dell'essere preciso dall'essere? Se si potesse precidere, così
sarebbe ; ma questa precisione è impossibile, perchè il termine si
annullerebbe se non fosse congiunto coU'esscre. Ed ecco la neces-
sità che ogni termine sia congiunto coU'f'Sscrc <,'irlaali', suo primo
e fondamentale elemento. In virtù di questa /ìt'C('5'si/à assoluta che
il termine non sia se non per la sua unione coll'essere, avviene
che d'ogni entità, qualunque sia, e perciò anche d'ogni ditTerenza,
si possa e si deva necessariamente predicar l'essere, e quindi che
s'instituisca una equazione dialettica tra ogni cosa e l'essere.
E in fatti, che involga contraddizione separare estramenlal-
mente Vcssere da' suoi termini , si vede non solo dalla conside-
razione della parola termine, che involge una relazione essen-
ziale col suo subiello , di cui è termine , ma ben anco dalla
prova, che non riesce se non ad un assurdo. In fatti provia-
moci: ecco io penso coll'astrazionc un termine dell'essere se-
parato dall'essere. Ma se io lo [)enso , egli è davanti al mio
pensiero: se è davanti al mio pensiero, egli ha già (\UQ\Vcs^ere
mentale , senza il quale non sarebbe presente al mio pensiero ;
io dunque ho creduto di separarlo, ma senz'accorgermi glieriio
lasciato unito, che non avrei potuto altramente j)ensarlo, e non
ho separato da lui l'essere nella sua purezza che è superiore ad
ogni maniera di essere , ma sulo una maniera di essere , Tes-
sere estramentale. U essere dunque è necessario ad ogni entità
pensabile e possibile. I termini dell'essere dunque non si pos-
sono dividere da lui nò pure per astrazione : benché l'essere si
possa dividere col pensiero da'suoi termini, e così appunto s'ha
il concetto dell'essere virtuale.
281. Da questo conchiudiamo, che l'essere virtuale è bensì di-
verso da'suoi termini, qualunque questi sieno, ma ad essi neces-
sario: necessario a tutte le entità. Quando dunque si dice che tutte
le entità sono essere, si esprime un'identità, che altro non si-
gnifica, se non che a ogni entità è necessario Vessere virtuale,
senza il quale ella cessa di essere. Si potrebbe dunque dire ,
223
ohe « l'essere virtuale è parie essenziale di lulte affatto le en-
lilù, per quantunque col pensiero si dividano », benché non sia
compiutamente nessuna di esse: e perciò non si dà identità
perfetta.
Di qui procede, che se Vesserò è predicato necessario ed es-
senziale di tutte le entità, che non sieno l'essere stesso, e come
tale si chiami virtuale; egli sia anche ugualmente subielto dia-
lettico antecedente di tutte le enlii.à stesse, e così si chiami ini-
ziale. Poiché da una parie abbiam veduto, che l'essere si può
concepire colla mente diviso da" suoi termini, e che perciò questi
hanno una distinzione logica da lui : abbiam veduto che l'essere
è elemento primo, essenziale d'ogni entità, p^r modo, che i ter-
mini, tolto via lui, s'annullano davanti al pensiero o diventano
assurdi: e che questi altro non sono che un finimento e quasi
«ina continuazione di allo dell'essere stesso. Di qui procede che
l'essere si concepisca come l'inizio d'ogni entità, e il subictlo di
tutti i termini che finiscono le entità, di cui si tratta: e quindi che
dell'essere stesso si possano [)redicare i termini, dicendosi a ragion
d'esempio: « L'essere qui è questa pietra, quest'uomo ecc. », le
quali maniere esprimono un'altra forma dialellica della slessa iden-
tità Ira l'essere e i suoi termini.
Akticolo li.
Come l'easere sia il primo determinabile, il comune determinante,
e l'ultima determinazione (iogni entità.
282. Per rendere questa dottrina in un linguaggio più proprio,
definiremo la materia universale e dialettica coH'espressione di
primo deierminahile, e la forma universale dialettica per comune
determinante. Dal che si trae, che l'essere, nel suo concetto di
essere virtuale, è il primo determinabile, come quello che essendo
al lutto privo d'ogni delerminaziono, è nondimeno suscettivo di
tutte, nel che sta la sua virtualità; e che l'essere stesso, nel suo
concetto d'essere iniziale, è il comune determinante d'ogni entità,
perchè è l'atto, pel quale ogni entità è. ì quali due concelli del-
224
l'essere rispondono a' due elemonli pitagorici tò oiTreipov, e tò né-
poCivoy (1).
285. Quesli due eleinenli dunque di luUe le cntilà all'essere
posteriori, si riducono ad uno, cioè all'essere intiùlo dall'uomo per
natura, ma accresciuto di due relazioni diverse , per un doppio
sguardo della riflessione, culle entità posteriori nella mente umana
a quell'essere.
E che Vessere virtuale sia il primo determinabile apparisce ba-
stevolmente dalla ragion detta. Ma come Vessere iniziale sia il
comune determinante, non è ancor dichiarato abbastanza. .
Abbiamo detto, che l'essere comparisce come determinante,
quando nelle definizioni delle entità tiene il posto di suhielto ante-
cedente, per esempio: k L'essere qui è questa entità ». Ma questa
proposizione si può prendere tutta insieme, o nelle sue parti. Se
si prende tutta insieme, significa, che l'essere è attuato a quel
modo che indica l'entità alla quale si agguaglia : l'essere attuato
ò lo stesso che l'alto dell'essere che ha quell'entità, e quest'atto
dell'essere è il determinante quell'entità, perchè se ella non avesse
quell'atto dell'essere non sarebbe quella che è.
iMa se quella proposizione non sì prende nel suo valore totale,
ma si considera il valore delle sue singole parli, cioè delle sue
tre parli principali : 1" l'essere subietto, 2" l'è copula, 3° l'entità
predicato; trovasi che l'essere subielto è ancora l'essere virtuale
ossia il primo determinabile, che l'È copula è l'essere stesso dcter-
minanle, il quale determinando Vessere virtuale, gli fa prendere il
concetto iVessere iniziale, e che l'entità esprime il modo o il limite
di questa determinazione. Poiché dunque l'È come copula , è il
determinante, ma tuttavia non esprime ancora la determinazione,
perchè questa non c'è senza il suo modo, perciò all'È copula con-
viene la denominazione di determinante tò TtipoCivov; laddove l'en-
lità stessa, considerata in relazione all'essere, meglio si denominerà
determinazione, rò Trspccq, benché questi due elementi si confondes-
sero dagli antichi.
Pure si avverta , che quando diciamo Ventila essere la de-
terminazione slessa , cosi la chiamiamo in relazione all'essere
come subielto antecedente. Poiché in se stessa può essere un
(1) Filolao, apud Proci, in Timaeum I, p. 26. — Cf. Boeckhii Philol.
228
ente da tult'i lati determinato, e quindi meritare il nome plato-
nico TÒ ^viJi,iJ,iayó[jt,£voy. Ma niente vieta, che nell'ordine dialettico,
in cui sta il nostro ragionamento, si consideri come una deter-
minazione deiressere stesso virtuale , e quindi che deva chia-
marsi TÒ 7TÌpO(.g.
Dal che si vede, che questi concetti di determinabile , de-
terminante , determinazione e delcrminato esprimono soltanto
relazioni dialettiche, che possono convenire a vari oggetti, e
più di esse ad un oggetto solo , secondo le vedute dialettiche
della mente.
Vessere virtuale dunque, che è Velemenlo determinabile, che la
mente conosce in tutte le entità, diventa essere iniziale, quand'è
posto in congiunzione coU'atto dell'essere espresso nel monosil-
labo È, determinante, e riceve la determinazione dell'entità pre-
dicata ; onde Vessere virluale per questi tre passi àeWinizialità,
ùeW alio determinante e del ricevimento della determinazione, di-
viene determinato più o meno, secondo che è più o mcn compiuta
la determinazione stessa, ossia l'entità predicala di lui.
284. Colle quali distinzioni, ove si volessero ritenere le deno-
minazioni di materia e di forma dialettica universale^ si dovrebbero
emendare le proposizioni sopra poste distinguendo la forma dal-
Valto determinante, e dicendo, che:
i." Materia universale dialettica è l'essere nel suo concetto
di virtuale (1) ;
2.° Alto universale è lo slesso essere virtuale, quando acquista
il concello d'iniziale {^), dal considerarsi in relazione coU'atto
posteriore, che s'esprime nel monosillabo È;
3.° Forìna universale è lo stesso essere iniziale, quando si
considera in relazione coU'atto posteriore determinato dall'ag-
(1) Questo travidero que' primi filosofi^, che dicevano tutte le cose essere
una sola natura, óì;?i Si rive; oì mpl xm TtavTòs w? àv px^z ovTf,i yuffsws kii&tfr,-
vavTo (Arist. Met. I, 5), ma poi si dividevano e confondevano, perchè non
erano giunti all'astrazione dell'essere virtuale, e però non s'erano accorti,
che quella sentenza non avea valore che nell'ordine dialettico dell'a-
strazione.
(2) Omne ens in quantum est ens, est in actu, et quodammodo perfectum,
quìa omnis actus perfectio qucedam est, S. Th. S. I. v. 3.
Rosmini. Teosofia, 15
226
giunta all'È dell'enlità predicata (i), che aggiunge appunto al-
l'atto posteriore la sua determinazione (2).
Questi tre concetti dell'essere ricevono dunque acconciamente
le denominazioni di primo e universale determinabile, di universale
determinnnte e di ultima e universale determinazione, secondo che
l'essere si considera o come suscettivo di lutti i termini, o in re-
lazione coH'alto che gli dà un termine, o in relazione col termine
stesso, che senza di lui non è possihile.
La ragione poi perchè questo determinabile si dice primo è
(1) S. Tommaso : llliid autem quod est maxime formale omnium est
ipsum esse. S. I. vii. 1.
(2) Platone ripose nell'wno la causa dell'essenze o idee, secondo Aristo-
tele, che dice : t^^ yàp s'ò/j toO tì èinv, «r-rta Tots a).Àotj, Tot{ 5 iiòiai tò Ìv.
Metaph. I, 6.
Uuno dunque era causa della quiddilcà delle idee, o essenze, le essenze
erano causa della quiddità delle cose. In queste cose Platone considerava
Tessere, onde nel Parmenide dice, che l'essere è « l'essenza che partecipa
del tempo presente ». Platone non raggiungeva dunque Vessere se non come
sussistente nelle cose mondiali , e non come sussistente in sé e separato
da queste, il che appartiene alla luce cristiana. In vece di ciò si sollevava
per una scala di vote astrazioni. Poiché dall'essere, di cui sono fornite le
cose temporanee, saliva all'astratta essenza, ossia alle idee, e dall'essenza
per un'altra astrazione aW'nno. Così gli sfuggiva di mano Vesseì^e. Ma ar-
rivato coll'aslrazione della mente all'uno, s'accorgeva che l'uno avea bisogno
dell'essenza per esser qualche cosa, di maniera che diviso da questo s'an-
nullava, come prova nella prima parte del Parmenide. L'uno poi coll'es-
senza avea bisogno del tempo, dello spazio^ e dell'altre condizioni delle
cose mondiali , come prova nella seconda ipotesi dello stesso Parmenide.
Vedesi come Platone con questo offeriva debole il fianco alla critica del
suo discepolo indomito, Aristotele. — Quando Aristotele dice, che Platone
faceva l'uno causa della quiddità delle idce^ intende causa formale. Perciò
altrove dice, che Platune seguendo i Pitagorici, dichiarava l'uno essere
essenza , e vuol dire subietto delle cose , onde si fa a provare , che non
può essere, e che l'uno deve aver subietta un'altra natura (i? //SUov ùrtó-
xEtTat tU yJut,-. Metaph. IX (X), 2). Tutti questi sono equivoci di parole,
che nascono per non essersi distinto il subietto dialettico dal subietto reale.
L\mo astratto può essere anch'egli un subietto dialettico e cosi oùui'a, ma
non il subietto reale delle cose, che varia secondo che variano le cose. E
c'è sempre il difetto della parola ohsix adoperata come subietto, quand'ella
stessa significa per la sua forma un'astrazione da ogni subietto. Del rima-
nente tutte queste disputazìoni s'aggirano intorno all'essere, senza coglierlo
mai in pieno lume.
227
chicara dall'istante, che si considera che la mente — la quale è
costituita già dall' intuito — suol concepire ogni entità, avanti
lutto, come un determinabile; e la ragione perchè questo deter-
minante si dice universale è pur chiara dall'istante, che se all'es-
sere virtunlo s'aggiungono determinazioni, conviene che ve le
aggiunga un atto di essere , altramente quella virtualità non
uscirebbe a qucll'allo; e la ragione finalmente perchè la deter-
minazione delTessere si dice ultima è perchè le altre determina-
zioni non sarebbero, se esse non avessero già ricevuto l'alto di
essere.
Così l'essere, preso secondo i concelti dialettici che abbiamo
esi^oslo, è anteriore e posteriore, primo e ultimo di tutte le entità
che non sono lui: e non è ninna di esse singolarmente ed esclu-
sivamente considerata; ma è subietlo dialettico anteriore ad esse,
ed è predicato dialettico posteriore ad esse , ed è copula ossia
atto di congiunzione e di continuazione tra esse e l'essere virtuale,
e quindi per tre maniere è causa di tutte, cioè causa determina-
bile come essere virtuale, causa effirJente come determinante, e
causa terminativa come comune determinazione di tutte le deter-
minazioni.
Laonde gli Scolastici ben vedendo, che niuna delle cose crea-
te era Tessere, e che tuttavia l'essere si predicava di tutte,
gh diedero il nome di predicato trascendente o trascendentale ,
e questo stesso nome diedero a tutti i concetti elementari del-
l'essere (1).
Articolo III.
L'essere iniziale è principio dello scibile ,
e inizio dialettico delle cose tutte.
285. Le quali cose tutte spiegano perchè i sopranominati filosofi
tedeschi, mentre si proponevano di trovare il principio dello sci-
bile, ed anzi della Filosofìa, poi, quasi non accorgendosi che
(I) Tom. Campanella: Transcendens est terminus universalissimam com^
mimitatiim omnium rerum communitatem significans; proptereaqiie in
oratione praedicabilis immediate de omnibus generibus in quid analogum,
ut ens, veì'um, bonum, et unum. Dial, I, 4. p. 32. Dialecticor, I.
228
il risultato eccedeva la ricerca , dicevano d'aver trovato il prin-
cipio di tutte le cose.
C'è in falli un principio dialettico di tutte le cose; ma quelli
non avvertivano punto , né. clic, se c'è un principio che sia ad
un tempo principio dello scibile e principio delle cose, non può
esser altro, che un'entità dialettica ed astratta; né questo ve-
ramente cercavano , ma cercavano e credevano di trovare un
principio assoluto e sussistente , che pareva loro esser V IO, so-
spinti sempre da queir insistente bisogno dell'umana intelligenza
d'arrivar pure all'unità.
28G. Ora, se si considera il concetto dell'essere inizinle., che
come abbiam veduto è quello dell'essere virtuale considerato in
relazione co' termini attuali, facilmente conosceremo, che questo
comparisce alla mente come inizio non meno dello scibile, che
di tulle le cose reali: e quest'è chiaro dall'istante che si riflette,
che quell'essere iniziale è anteriore a' suoi termini, e quindi alle
forme categoriche, che sono i primi termini dell'essere, da cui
vengono tulli gli altri. Ora l'ordine scientifico proviene dalla for-
ma obiettiva dell' idealità, e Vordine delle cose reali appartiene alla
forma subiettiva della realità ; come l'ordine morale a quella su-
bieltivo-obieltiva della moralità: onde quel concetto non solo è
inizio della scienza e d' ogni sussistenza , ma ancora dell'atto
perfettivo e morale che accoppia in uno scienza e realità : il
,che* non videro il Kant e il Fichte, che relegarono la loro ra-
gione pratica (morale) in un luogo a parte , sequestrandola dalla
teoretica, e con questo dissidio rendendo impossibile l'unità on-
tologica, unità che invano poi lo Schelling e l'Hegel tentarono
di ristabilire.
Si dirà forse, che noi facciamo dell'essere iniziale un'idea, e
quindi poniamo per iniziamento dialettico delle cose tutte la
forma ideale. Ma l' obiezione mostrerebbe una falsa intelligenza
dell'esposta teoria. Poiché è ben vero, che l'essere iniziale,
com' ogni altra essenza, si vede in un' idea, che è lui stesso
come essenzialmente intelligibile. Ma quando parliamo dell'es-
sere come inizio delle cose, allora facciamo astrazione dall'idea,
in cui e per cui lo vediamo — dalla sua propria intelligibilità, —
parliamo della stessa essenza , cioè dello stesso essere puro , che
nell'idea si vede, e però d'un essere che, appunto perchè ini-
229
ziale, è anteriore dialetticamente ad ogni forma ideale da noi intesa,
che è uno de' suoi termini, dal quale per astrazione si prescinde (1).
287. L'essere iniziale dunque è inizio tanto dello scibile, quanto
del sussistente (lasciando il morale che è per noi conseguente);
ma con questa differenza però^ che 1' essere iniziale rispetto allo
scibile si può dire anche principio, quando si considera nella sua
virtualità, cioè perchè contiene implicitamente tutte le intelligibili
cose (2). Già abbiamo detto, che quest'essi^re si vede nell'idea,
benché lo si consideri astraendo dall'idea, onde quand'egli poi si
prende come inizio dell'ordine ideale, si trova che lutto quest'
ordine è in lui stesso ingenerato, e di lui si trae, come il filo dal
bozzolo , purché ci sieno le condizioni ; laddove quando si con-
sidera come inizio dell'essere reale, quest' inizio è puro inizio
antecedente a questa forma dell'essere, e il reale non si può
trarre da lui, se non gli s'aggiunge un atto, che esce dalla
sfera dell'idea, in cui l'essere ideale si contempla. L'essere ini-
ziale dunque si conosce come inizio dell'ordine ideale , conside-
randolo solo in relazione colla forma ideale , perchè è quella che
abbiamo insieme con lui, e nella quale lo vediamo; ma per co-
noscerlo altresì, come inizio della realità, non basta che lo con-
sideriamo in relazione coli' idea che ci é data insieme con lui,
ma dobbiamo paragonarlo al reale sentimento , il quale esige un
principio 0 causa reale, da aversi al di fuori di quella prima idea.
Ma ciò non ostante quando abbiamo l'esperienza di qualche
realità, lo riconosciamo anche per inizio dialettico di questa, e
(1) S. Tommaso distingue le idee e le idee intes<j {ideas intellectas) :
queste seconde esigono una riflessione, per la quale l'uomo dà loro esclu-
siva attenzione (S. I. XV. ii ad 2™).
(2) Si ascolti S. Tommaso: Primwn — quod cadit in imaginatione intel-
ledus est ens, SINE QUO NIHIL POTEST APPREHENDI AB INTEL-
LECTU (ecco la notizia dell'essere riconosciuta come primordiale e ne-
cessaria ad ogni Jiltra cognizione, perciò non originata da queste), sictit
primurn quod cadit in credulilate intellectas sicnt dignitates et pi'aecipiie
ista: « contradictoria non esse simul vera t. Unde OMNIA ALIA INCLU-
DUNTUR QUODAMMODO IN ENTE UNITE ET INDISTINCTE sicut
in PRINCIPIO (ecco Vessere virtuale che tutto in sé virtualmente contiene
come in un principio o inizio delle cose ) , ex quo etiam habet quandam
decentiam , ut sit propriissimwn divinum nomen. In I. Sent. D. Vili,
q. I, art. 3.
230
non solo delle cose contingenti , ma inizio dialettico di Dio stesso :
il che ha bisogno di qualche dichiarazione.
288. Quella slessa diflerenza che passa tra essenza ed esistenza,
passa pure tra essere ed esistere. La parola esistenza, secondo
noi, esprime appunto l'essere iniziale, quando la parola essenza
indica assai di più (,211, 227-256*): tutte le cose concepibili
hanno in questo senso ugualmente esistenza, essendo manifesta-
bili alla mente (1) : ma le loro essenze sono molte e difTerenlis-
sime. Laonde la semplice esistenza si predica di Dio e delle
creature, come ho altrove dimostrato {Introd. VIL Lelt. ad
Aless. Pestalozza ). Ninna ripugnanza dunque , che l'essere
concepito nella sua iniziahtà, senza alcun termine , il che è
quanto dire come pura esistenza, sia ugualmente inizio di Dio,
come da noi si concepisce, e delle creature; il che è quanto
dire, che si predica comunemente ed univocamente dell'uno
e dell'altre. In falli se l'uomo non sapesse che cosa è esistenza,
non potrebbe conoscere né che esista Iddio, né che esista qualche
altra cosa.
Egli é chiaro, che la pura esistenza, altro non essendo che
l'inizialità dell'essere, il dire comune l'inizio dell'essere a Dio
e alle creature, non pregiudica la questione della loro essenza,
e però Iddio rimane, rispetto alla sua essenza, totalmente diverso
dalle creature, e non c'è punto pericolo di confondere l'uno col-
l'altre, scivolando in dottrine panteistiche. Ad evitare le quali
basta che nessun altro predicato, eccetto questo primo della
pura esistenza, s'accomuni a Dio ed alle creature. Il che non
è possibile farsi ne' sistemi dello Schelling e dell' Hegel e di tutti
quelli che ammettono l'IO per principio dello scibile e delle cose:
poiché l'Io non é un'entità dialettica elementarissima e antece-
dente alle cose, ma è anzi un ente compiutissimo fino all'altis
sima attualità cioè alla personalità. Onde se l' Io é il principio
comune a Dio e alle creature, il panteismo é inevitabile, qua-
lunque sieno gli schermi de' Filosofi.
(1) Il Caluso tentò di stabilire una differenza tra esseì^e ed esistere, che
non s'acconcia colla costanza dell'uso comune, e fu seguito dal suo con-
cittadino, il Gioberti. Si vedano le note da me apposte al Caluso, Principi
di Filosofia per gì' iniziati nelle Matematiche, e. i. Trad. di P. Corte,
531
289. Né osla, che qualche teologo neghi, che l'essere si possa
predicare univocamenle di Dio e degli enti contingenti. Primiera-
mente essi non parlano propriamente dell'essere iniziale, ma so-
gliono parlare dell'essere senza piìi : restando dunque indefinita
la parola essere, e ammettendo più significati, non fa maravi-
glia, che intorno a questa questione si dividano d'opinione. Rie-
sce piuttosto una discrepanza di parole che di fatto; un non in-
tendersi, piuttosto che professare veramente opinioni contrarie.
Se si va al fondo, tutti convengono nella nostra sentenza;
il che proveremo così.
Senza qualche cosa di comune tra Iddio e gli enti finiti , man-
cherebbe la base dell'analogia tra il Mondo e Dio. Vanalogia si
fonda sulla comunanza àeWessere iniziale e la proprietà di tutte
l'altre cose. Poiché Vessere iniziale è il menomo possibile, che ci
possa essere di comune tra due enti ; e se né pur questo fosse co-
mune, niente più rimarrebbe di comune , e quindi non ci sarebbe
più alcun passaggio dialettico, alcuna argomentazione dall'uno
all'altro, E nel vero se ^er analogia s'intende proporzione, come
comunemente si prende ( e noi analizzeremo poi questo con-
cetto a suo luogo) , la proporzione suppone comunanza di nu-
meri e di certe relazioni : per esempio quando si dice : « come
nell'uomo c'è intelletto e volontà, così in Dio c'è qualche cosa
che corrisponde all'intelletto umano e qualche cosa che corri-
sponde alla volontà umana, benché questa cosa sia di differente
natura da quella dell'intelletto umano e da quella della volontà
umana » , allora si riferisce una virtù che é nell' uomo a una
virtù che è in Dio , e un'altra virtù che é nell'uomo a un'altra
virtù che é in Dio; l'uno dunque si riferisce all'uno, e ancora
l'uno all'uno , il che é comunanza di numero e di certa rela-
zione. Ma il numero e qualunque relazione suppone la comu-
nanza dell'essere iniziale, di cui il numero e la relazione, di cui
si tratta, non sono che astratti elementari. L'argomento dunque
d'analogia non sarebbe possibile, se non ci fosse di comune tra
Dio e i contingenti l'essere iniziale e gì' intrinseci elementi di
questo.
Ma tutta la Teologia argomenta sempre per analogia dalle crea-
ture al Creatore, e così si forma una dottrina intorno a Dio :
quest'è riconosciuto da tutti i teologi. Qualora dunque si ne-
232
gasse la comunanza dell'essere iniziale a Dìo e ai contingenti, si
negherebbe Vanalogia, e quindi si distruggerebbe tutta la Teologia:
non sarebbe più possibile alcuna dottrina intorno a Dio : non se ne
potrebbe né pure più conoscere l' esistenza, se l'esistenza appli-
cata non ha quel valore semplicissimo che le dà l'uomo, quando
la predica delle creature : perchè l' uomo altra esistenza non
conosce^ e non può averne due concetti , perchè due concetti
dell' esistenza sono assolutamente impossibili; che se l'uno fosse
il concetto d'esistenza, l'altro non sarebbe più il concetto d'esi-
stenza, ma di un'altra cosa.
E perchè apparisca la cosa in qualche particolare, i teologi
dicono, che « Iddio conosce se slesso non solo in quanto è in
sé , ma anche in quanto è imitahUe o partecipabile dalle crea-
ture w(l). Ma se non ci avesse tra le creature e Dio nulla af-
fatto di comune, come sarebbe imitabile , o, come più piace,
partecipabile, non essendovi di comune né pure l'esistere? Se
dunque si distrugge V imitabilità ò\ Dio da parte delle creature,
è tolto il principio della dottrina di Dio.
E come potremmo avere, tolta affatto l'analogia tra Dio e le
creature, una notizia qualunque del Divin Verbo ? Non solo non
si potrebbe speculare nulla intorno ad esso , ma la stessa rive-
lazione sarebbe del tutto e in ogni sua parte inintelligibile, non si
avrebbe né pure la notizia di ciò che s'avesse da credere (2).
Essendo dunque ammessa da tutti i teologi l'analogia, e que-
sta supponendo qualche cosa di comune tra Dio e le creature ,
conviene che di comune ci sia almeno l' essere iniziale, perchè
se non ci fosse questo, nulla affatto ci potrebbe essere.
(1) Così S. Tommaso per tutti: Potest autem cognosci (Deus) non solum
secundum quod in se est, sed secundum quod est participabilis secundum
aliquem modum similitudinis a creaturis. — Sic igitur in quantum Deus
cognoscit suam essentiam, ut sic iniitabilem a tali creatura, cognoscit eam,
ut propriam rationem et ideam hujus creaturae. S. I. xv. 2.
(2) Cosi ancora S. Tommaso: Unde ad hujus notitiam sciendum est, quod
verbum intellectus nostri , secundum cujus similitudinem loqui possumus
de Verbo in Divinis etc. De Verit. IV. De Verb. II.
253
Articolo IV.
Qual parte dell' Ente risponda «//'essere iniziale.
290. Ora avendo noi dello che l' essere iniziale^ quale per
aslrazione si pensa, non è Tenie, ma qualche cosa dell'ente, ri-
mane a cercare che cosa sia questo qualche cosa.
291. E qui noi facilmente vediamo che quest'essere iniziale non
ha la stessa connessione con tutti gli enti da noi pensabili. Poiché
noi pensiamo l'ente contingente, e l'ente necessario.
Si risolve la questione rispetto all'ente contingente.
292. Ora se noi cerchiamo, che cosa sia l'essere iniziale rispello
all'ente contingente, troviamo eh' egli non si concepisce punto
da noi come vero elemento di quest'ente, ma soltanto come una
condizione necessaria all'esistenza del medesimo.
E veramente noi abbiam dello in universale che l'essere vir-
tuale è il primo determinabile , l'essere iniziale poi è il comune
determinante j e V ultima determinazione. Ora nessuno di questi
tre concetti esprime cosa che sia un elemento intrinseco d' un
ente, o d'un'enlità contingente, ma sollanlo esprimono condizioni
necessarie, senza le quali tali enti o entità non sarebbero pur
concepibili.
Quando diciamo: «L'essere è qui una pietra », V essere non è
ancora la pietra, ma è un subietlo antecedente alla pietra : esso
è ì\ primo determinabile; e come primo determinabile non è pie-
Ira , poiché una data pietra è anzi un determinato. Determina-
bile e determinalo sono concelti opposti, a cui risponde nell'ente
qualche cosa d' opposto. Se prendiamo le due prime parole di
quella proposizione: «l'essere è », abbiamo il primo determinabile
— l'essere — e il comune determinante — è; — ma non avendo
ancora alcuna determinazione, il determinante è tale per tutte
le determinazioni possibili. Ora la pietra è una determinazione
234
dell' essere : V essere dunque come determinante , cioè conside-
ralo nel suo alto espresso col monosillibo e , none la pietra,
ma è ancora antecedente alla pietra. E se Tessere virtuale è un
primo inizio, quando gli s'aggiunge col pensiero quell'alto che
esprime l'È, egli incomincia ad uscire ad un atto, ma questo
alto è ancora iniziale,, perchè non è compito da alcuna determi-
nazione, e però non si sa ancora dove vada quest'alto a parare.
Dunque coU'aggiunta dell' È, s' ha nel pensiero la virtù deter-
minante, ma ancora anteriore alla cosa determinala : non è dun-
que quella virtù determinante qualche cosa d' intrinseco alla
pietra, ma qualche cosa d' antecedente, causa necessaria della
pietra , causa dico determinante e creante. Nella nostra conce-
zione dunque dell'ente contingente colla riflessione si distinguono
tre gradi indivisibilmente connessi: 1.° l'essere determinabile,
è il primo grado; 2.° l'è, cioè l'atto con cui si determina , il
determinante, è il secondo grado; 3.° la pietra determinata, è
il terzo. Questi tre gradi sono così connessi , come dicevamo ,
che il secondo non si può concepire senza il primo, e il terzo
non si può concepire senza i due primi. Alla concezione
della pietra dunque — e lo stesso si dica d'ogni altro contin-
gente — è assolutamente necessario, che preceda la concezione
dell'essere, sia come nome, sia come verbo — se si esprime la con-
cezione in forma di proposizione, — cioè sia come determinabile,
sia come determinante, sia come virtuale (inizialissimo) , sia
come iniziale. La quale analisi conferma il principio della nostra
Ideologia. Ma sebbene ci abbia questo intimo e indispensabil nesso
tra que' tre gradi, di maniera che la concezione della pietra è
radicala ne' due precedenti concelli dell'essere , tuttavia chiara-
mente si vede, che questi precedono nella concezione, e non co-
stituiscono punto la pietra stessa, onde l'essere così concepito si
può chiamare, a doppio titolo, causa della pietra.
Se poi noi analizziamo quest'altra proposizione: « La pietra
è », noi vediamo che la pietra ha bisogno dell'è per essere, e
così l'essere prende il concello di ultima determinazione poste-
riore a tulle le determinazioni della pietra stessa, ciascuna delle
quali s'annullerebbe anche nel concetto, se non si potesse pre-
dicare di essa l'essere. Questo predicato dunque, comune a tutte
le entità, è l'alto che le determina ad essere, e perciò appunto
25»
si chiama determinazione xUtima. E la connessione tra la pietra
e questo comune predicato è talmente intima , che il solo yo-
càhoìo pietra nulla potrebbe significare, se non vi si sottinten-
desse è, anche quand'egli non si pronuncia: di maniera che lo
stesso essere intuito ha implicito quell'atto che poi si esprime
colla forma verbale è {Logic. 520-3!27). Se dunque si paragonano
le due proposizioni : « L'essere qui È questa pietra », e « questa
pietra È » , nella prima l'È è determinante l'essere , nella se-
conda, che ha per subietto la stessa pietra determinala, l'È è
Vullima determinazione comune a tutte le entità, senza la quale
queste tutte svanirebbero nel nulla. Onde, se l'ente contingente
pietra nella prima proposizione si concepisce come quella che
ha la sua radice nell'essere , ma che non è l'essere ; nella
seconda proposizione si concepisce come quella che finisce la
sua essenza nell'essere, senza il quale non essendo quell'essenza
finita, non sarebbe; e così l'essere si può dire, causa finale del-
l'essenza dei contingenti.
'293. Tutta la qual dottrina è di tanta importanza, che noi cre-
diamo prezzo dell'opera ricapitolarla e ripeterne i risultati nei
seguenti punti:
1.° Ucssere non è un elemento propriamente intrinseco degli
enti contingenti, ma è antecedente e raccogliente i medesimi.
2.° L'essere è causa creante , determinante e finale dell'es-
senza degli enti contingenti.
5.° Se un solo momento cessasse questa triplice causa ,
cioè l'essere , gli enti contingenti non sarebbero più né manco
concepibili.
U.° Quindi non solo l'essenza de' contingenti dipende come da
causa dall'essere virtuale e iniziale , ma ne dipende in modo
che la loro stessa essenza consiste in questa continua dipendenza.
5.° Dunque l'essenza de' contingenti, in quanto dura, im-
porta un atto continuo di creazione, ed ella stessa non è altro
che un continuo esser fatta, un continuo ricever l'essere.
6,** L'essere virtuale e iniziale dunque è indipendente dagli
enti contingenti , e si concepisce anche senza questi : onde
dev'essere qualche cosa dell'ente assoluto, e non degli enti con-
tingenti.
7." Gli enti contingenti sono termini dell'essere iniziale, ma
236
termini non necessari ad esso, che rimane davanti alla mente,
senza di essi; termini perciò che noi chiameremo impropri.
8.° Gli enti contingenti dunque non sono nulla , ma un
qualche cosa ; ma questo qualche cosa non può esister solo^ ma
congiunto continuamente aWessere iniziale e virtuale , come a
causa creante , determinante, e finiente della sua essenza. Non
hanno dunque niente di indipendente , ma tutto ciò che hanno
è da essi ricevuto ogni momento.
9.° La relazione degli enti contingenti coU'essere virtuale
e iniziale è una relazione di sintesismo , perchè quelli non si
possono concepire senza concepir questo ; laddove la rela-
zione dell'essere virtuale e iniziale cogli enti contingenti non è
una relazione di sintesismo, ma di assoluta indipendenza; perchè
si può concepir quello senza nessun bisogno di concepire anche
questi: il che dimostra la falsità della formola « L'ente crea
le esistenze » (1).
I 2.
Si risolve la questione rispetto all'Ente necessario.
294. Se dunque l'essere virtuale e iniziale non è qualche cosa
dell'ente contingente, conviene che sia qualche cosa d'un ente
necessario: poiché non può esser nulla, essendo una contradi-
zione che l'essere non sia.
295. E qui si consideri la differenza che passa tra tutte le cose
contingenti , e l'essere. Di quelle non si può fare lo stesso ra-
gionamento che di questo. Prendiamo ancora l'esempio d'una
(1) Prescindendo dall'improprietà della parola esistenze , qiiesta formola,
dove non è espressa punto né poco la libertà e la contingenza della crea-
zione, farebbe credere che non solo le esistenze, cioè gli enti contingenti,
non potessero concepirsi od esistere senza l'ente ; ma che neppur l'ente si
potesse concepire senza concepirete esistenze. Altramente le esistenze, ap-
punto perchè contingenti, non potrebbero aver luogo nel primo principio,
che vuol essere necessario. In fatto gli enti, se contingenti, non si possono
ammettere esistenti a priori, ma conviene ricorrere all'esperienza per cono-
scerne l'esistenza. E come cominciare la lìlosoiìa da un dato dell'esperienza ,
se non è ancor provata la veracità di questa? Anzi questa stessa c'è forse
necessità che esista, se anch'essa dipende da enti contingenti?
239'
pietra. Se io considero che cosa penso nell'essenza d'una pietra,
trovo che penso in essa una natura corporea che occupa spazio,
che ha la qualità della durezza, e tutte le altre che sono proprie
d'una pietra. Ora non sarebbe per certo un diritto ragionamento
cotesto : « Nel concetto della pietra e' è la corporeità , e tutte
l'altre /jualità*: dunque la pietra esiste ». La ragione per cui un
tale ragionamento non tiene è evidente: Vesislenza, che io tento
dedurre dalla corporeità e dall'altre qualità che costituiscono l'es-
senza della pietra, non è contenuta in questa, non c'è contenuto
l'essere virtuale e iniziale , che è soltanto la condizione neces-
saria e la causa dell'essenza: dunque, ragionando a quel modo,
aggiungo io l'esistenza ad arbitrio (i). Ma cosi non va la cosa,
se io fiiccio un simile argomento dell'essere. Poiché io posso
dire benissimo: « Nel concetto dell'essere c'è l'essere; dunque
l'essere è ». In questo argomento , io non aggiungo nulla di
novo ad arbitrio nella conclusione , ma con un giudizio per-
fettamente analitico {Ideal. 542, 343), conchiudo quello stesso
che è nelle premesse; che, il dire è, equivale a dire, è essere,
ed ho già detto che l'essere è nel suo concetto: il che equivale
a dire, che l'essenza dell'essere è di essere. L'identità della qual
proposizione: « l'essere è » trae la sua rigorosa esattezza da
questo che si parla dell'essere concepito anteriormente alle sue
forme primordiali, onde non s'inchiude la modalità, non si dice
in che modo l'essere sia, se reale o ideale, ma anzi si dice che,
prescindendo da ogni modo e però in un qualche modo, qua-
lunque, « l'essere è ». Onde si avvera il carattere delle propo-
sizioni per sé evidenti , che è quello che il predicato sia con-
tenuto nel subietlo (2), e s'avvera nel caso nostro al maggior
segno, perchè predicato e subietto sono identici, salvo il diverso
sguardo, con cui la mente li concepisce {Logic. 521).
0 convien dunque negare che qualche cosa ci sia, o ammet-
tere che c'è l'essere iniziale, condizione e inizio di lutto il resto.
(1) Vedremo in altro luogo che questo vale non solo per la pietra reale,
ma anche per la sua cssenza_, qual si vede nelFidea. Anche quest'essenza,
sebbene eterna, dipende dall'essere, determinabile, determinante, e determi-
nazione. Vedasi per intanto il Rinnovamento JÀh. Ili, C. LII'.
(2) Aliqua propositio est per se nota, quod prcedicatum includitur in ra-
tione subiecti. S. Th. S. I, ii, 1.
538
Ma tra il dire che tutto è nulla — proposizione d'altra parte con-
tradilloria, — e l'ammettere che ci sia l'essere, non è ambigua
lo scelta. Poiché questo è il punto in cui conviene il testimonio
dell'esperienza coU'evidenza razionale a costituire una sola e
medesima necessità logica. Poiché dall'istante che noi pensiamo
l'essere (e lo stesso si può dire del pensiero d'ogni altra cosa,
sia anche apparente e illusorio questo pensiero) , l'essere non
può mancare, abbracciando esso lutto, anche l'illusorio e l'ap-
parente, appunto perchè l'essere di cui si parla è l'essere vir-
tuale ed iniziale; e non si dice ancora in che modo sia , e però
non si disputa ancora della sua apparenza o della sua illusorietà ,
ma solo si dice , che è. Non può dunque accadere apparenza
alcuna o inganno, nel dire che {'essere, o apparente o in altro
modo, è (i): c'è dunque qui un punto fermo, sicuro da ogni
contradizione, evidente.
Se dunque Tessere iniziale evidentemente è, e non è ente ,
(1) Uno de' più dotti e sottili filosofi d'Italia, dirò anzi del mondo, è certa-
mente Tomaso De Vio da Gaeta. Questi, coiracume di cui va fornito, accennò
la vera distinzione tra il nome e il verbo, quale fu da noi dichiarata nella
Logica (320 sgg.). Nominibus, dice, res significantur ut conceptce, verbis
autem ut exercitw. Ma egli non vide punto che anche nelle cose puramente
concepite c'è un atto che può essere espresso benissimo con un verbo, seb-
bene quest'atto esercitato non sia nella forma della realità , ma solo nella
forma della idealità; onde in ogni definizione, benché si tratti d'un'essenza
ideale, s'adopera il verbo È, come dicendo : « la pietra è un corpo, ecc. >. Poi-
ché la pietra di cui si parla nella definizione non è una pietra reale, ma l'es-
senza della pietra che si vede puramente nell'idea. Laonde o conviene esten-
dere l'espressione à'atto esercitato anche all'atto col quale sono le essenze
ideali , 0 modificare quella definizione del verbo e del nome per modo, che
apparisca, che la cosa concepita significata nel nome e l'atto della sua esi-
stenza significato dal verbo, non sono che il medesimo atto, variando solo il
modo col quale la mente nostra lo vede ed esprime. Onde le parole che se-
guono dell'acuto filosofo: Unde ista enunciatio a existentia non est-», non
implicai contradictoria : ista autem: « quod existit, non est », implicat con-
tradictoria (In S. S. Th. L ii, 3), se devono essere vere, vanno intese
così : a existentia non est », non implica contradizione, se pel verbo non est
s'intenda un'esistenza nella forma della realità, ma se pel verbo non est s'in-
tende che assolutamente non sia, la contradizione è patente, giacché il dire
« non è » é lo stesso che il dire « non è cosa alcuna, e però neppure è esi-
stenza », e il dire che l'esistenza non è esistenza è indubitatamente contra-
dizione.
239
ma qualche cosa dell'ente, e non può essere qualche cosa del-
l'ente contingente, perchè è pura causa dell'essenza di questo,
causa creante , determinante e finiente , ma non elemento in-
ìntrinseco della stessa; rimane che sia qualche cosa dell'Ente
necessario.
E questo si conferma appunto dal vedere che l'essere virtuale
e iniziale è assolutamente necessario, di maniera che non si può
pensare che non sia : perocché il pensare che non sia è già un
ammetterlo {IdeoL d0o9-1089; lììnnov. ,Lib. III. C. i. sgg.* Logic.
1044 sgg.): se dunque Tessere virtuale e iniziale è necessario
non può esser parte iilcuna del contingente , ma deve essere
un' appartenenza di un enie necessario (I).
290. Alla Teologia cerlamcnìe spetta il dimostr<ire, che non si
può dare che un solo essere necessario, come pure dichiarare il
modo nel quale s'intendn, che l'essere virtuale e iniziale è qualche
cosa dell'unico essere necessario., cioè di Dio. Ma, come ho detto
nella prefazione alla Teosofìa, è impossibile separare le tre dot-
trine dell'essere , di Dio e del mondo , essendo veramente una
dottrina sola che da per tutto s'intreccia. Laonde anche qui,
senza alcuno scrupolo di non ollrepnssarc de' confini posti ad
(1) S. Tomaso scrive: Nihil habet esse, nisi in quantum participat divi-
num esse, quia ipsum est primum ens, QVARE CAUSA OMNIS ENTIS ;
sed omne quod est participatum in aliquo, est in eo per modum partici-
pantis , quia nihil potest recipere ultra mensuram suam : cum igitur
modus cvjuslibet rei creatce sit finitus , quaelibet res creata recipit esse fi-
nitimi et inferius divino esse, quod est perfectissimum. Ergo constai quod
esse creaturce, quo est formaliter, non est divinum esse (In I. Sent. D. Vili,
q. I, a. 3, contr. 2). In queste parole 1.° si chiama divino Tessere di cui le
creature partecipano, il che viene a dire che Tessere virtuale e iniziale ap-
partiene a Dio; 2." si distingue il partecipante, cioè la cosa creata, dall'es-
sere partecipato, il che è quanto dire, che l'essenza della creatura non è
Tessere di cui partecipa; 3.° si dice che Tessere quo creatura formaliter est
non è Tessere divino. Ora questo essere, con cui la creatura esiste formal-
mente , è Tatto dell'essere che la forma ha già ottenuto : e quest'essere già
partecipato dalla forma speciale è limitato ad essa e non comune a tutte
l'altre forme, e perciò considerato cosi limitato non è e non può essere lo
stesso che Tessere di Dio, il quale è essenzialmente illimitato ; ma se questo
atto si considera come ultima determinazione comune a tutte le forme
limitate, in tal caso esso è causa finale di queste, che per esso vengono al-
l'esistenza ; e così di novo è un'appartenenza di Dio, causa omnis entis,
240
arbitrio, accenneremo che l'unità assoluta dell'Essere necessario
è già provata dall'unità propria di qualunque essenza. Poiché
ogni essenza è così fattamente una e semplice , ciie qualunque
minimo cangiamento si facesse in essa, perderebbe la sua identità
[Rinnov. Lib. III. C. xxxix, xlv). Se dunque quest'unità perfetta
è propria d'ogni essenza, lo sarà anche della prima che è quella
dell'essere. Se l'essere dunque come essenza esiste in sé , egli
non può essere che uno e semplicissimo , e quest' è appunto
l'Essere necessario in se essente , del quale l'essere iniziale è
un'appartenenza.
297. E come l'essere iniziale possa essere chiamato un'appar-
tenenza dell'assoluto senza inconveniente fu da noi mostrato al-
trove ( Vedi DifficoUà che l'Ab. Gioberti move alla filosofìa di
A. R., ecc. in fine all'opusc. Vinc. Gioberli e il Panteismo, Lucca
■1853, p. 279 sgg ). Ma poiché V Essere assoluto è quello che è in
tre modi, cioè nelle tre forme primordiali, perciò rimane a ve-
dere, se Vessere iniziale sia un'appartenenza delTEssere assoluto
nella forma subiettiva, o nell'obiettiva, o nella forma perfettiva
e morale. Ora egli è certo che l'essere- iniziale si concepisce
dalla mente umana come anteriore alle forme , e loro comune
iniziamento. Ma così apparisce come essenza veduta neWidea, non
come idea. Poiché nell'essere, come in ogni altro oggetto della
mente, si distingue l'essenza veduta dal lume inerente all'essenza,
pel qual lume essa è visibile {Rinnov. ,111. XLvn. lii. Diali.*):
in quanto é lume dicesi idea; in quant'è ciò che si vede, di-
cesi essenza. L'essere iniziale dunque come essenza è anteriore
alle forme e loro iniziamento. Ma in quanto quest'essenza é lu-
minosa alla mente , intanto partecipa della forma obiettiva e
intelligibile dell'essere. Ora poiché l'essere assoluto nella sua
forma obiettiva dicesi Verbo divino, perciò l'essere iniziale con-
siderato nella sua obiettività è qualche cosa dell'Essere assoluto
nella forma obiettiva, ossia del Verbo divino (4).
(1) Tutti i padri della Chiesa insegnarono sempre che il lume deirintelletto
umano è qualche cosa del Verbo divino. Cf. S. Giustino Apol. I, n. 3.
S. Athan. De incarn. Verbi — Tertull. De testimon. animce — IdeologAk-ìl;
Bianov amento Lib. III. G. xlii.
244
Articolo V.
COROLLARI IMPORTANTI.
Dall'esposta dottrina si raccolgono Ire importanti corollari.
ì.
Primo Corollario: dimostrazione a priori dell'esistenza di Dio
(Cf. Ideol. 1 450-1460; Sistema 178).
298. Uessere virtuale e iniziale, ossia l'essere intuito per na-
tura, di cui la riflessione scoperse le relazioni di virtualità e ini-
ziatila, è necessario come abbiam vedulo, perchè l'essere non può
non essere. Ma egli non è un ente ; è dunque qualche cosa d'un
ente. Ma quest'ente di cui quell'essere è qualche cosa, non può
essere un ente contingente, perchè il contingente è l'opposto del
necessario. Dunque 1' essere intuito dall' uomo deve necessaria-
mente essere qualche cosa d'un ente necessario ed eterno, causa
creante, determinante e fìniente di lutti gli enti contingenti: e
questo è Dio.
299. 11 dimostrarsi poi a priori l'esistenza di Dio non risolve
l'altra questione: « Se sia per sé noto che Dio esiste «. La riso-
luzione di quest'ultima questione dipende dal definire accurata-
mente che cosa s'intenda per quelle parole per sé noto.
Se per sé noto s'intende che Dio sia intuito dall'uomo imme-
diatamente per natura, conviene rispondere negativamente: il
dire che 1' uomo vede Iddio per natura, non è altro , che il
pronunciato d'una filosofia entusiasta e declamatoria.
Se poi per sé noto s'intende una proposizione, il cui predicato
sia contenuto nel concetto medesimo del subietlo, la proposizione
« Dio esiste » è certamente per sé nota. Ma non ne viene da
questo che quella proposizione sia per sé nota all'uomo , perchè
può essere che l' uomo non conosca abbastanza il subietto o il
predicato di cui si tratta , per potersi accorgere che il predicato
Rosmini. Teosofia, 16
242
sia contenuto nel concetto del subietto medesimo (1); e infatti
nella proposizione «Dio esistei il subietto Dio è ignoto, non
avendo l'uomo nell'ordine naturale altra cognizione dell'essenza
divina, che negativa (2).
300. Se dunque in terzo \uogo per sé noia si prende a significare
una proposizione, nella quale non solo il predicato è contenuto
nel concetto del subietto , ma di più il subietto e il predicato
sono noti abbastanza , da potersi conoscere che questo è rac-
chiuso già in quello, in tale accettazione dell'espressione per sé
nota si danno tre casi :
i.'' 0 il subietto e il predicato è tale che si conoscono, a quel
grado, immediatamente da tutti gli uomini ; e allora la proposi-
sizione è per sé noia tanto in sé stessa, quanto a tutti gli uomini,
e lutti l'ammettono come evidente , e così avviene dei primi prin-
cipi del ragionamento, i quali sono tutti composti dal puro es-
sere indeterminato, che è a lutti palese [Ideol. 559 570, 145:2,
1455; Logic. 557-5G3), Ora in questo senso la proposizione
.« Dio esiste » , non è per sé nota , perchè non lutti gli uomini
conoscono tanto distintamente il subietlo Dio, da intendere che in
esso si contenga necessariamente il suo esistere; e però alcuni lo
(1) Se si considera questa sentenza de' logici : Illa dicuntur esseper se nota,
quce statim cognitis terminis cognoscuntnr (S. Th. S. I. ii. i, 2) si ricono-
scerà in essa una testimonianza che danno in favore della sentenza ctie
« l'essere è noto per sé stesso j, perchè suppongono sempre che la copula
È, 0 NON È, de'due termini sia già nota senz'altro (Lop'ic. 1059). Il principio
dunque della nostra Ideologia è ammesso e indirettamente confessato da
tutti, anche da quelli che espressamente il negano. Ter questa stessa ragione
nelle antiche lingue la copula È per lo più non s'esprimeva con un vocabolo,
lasciandola pensare alla mente degli uditori, come a quella che l'aveva pre-
sente e da sé la suppliva. E quest'è pure una testimonianza del genere
umano a favore della nostra Ideologia.
(2) Quia nos non scimus de Ueo quid est, non est nobis per se nota (pro-
positio: Deus existit)^ sed iudiget demonstrari per ea quce sunt magis
nota quoad nos, et minus nota quoad naturam, scilicet per effectus (S. Tli.
S. I. II. i). Sebbene poi qui S. Tommaso ricorra per dimostrare l'esistenza
di Dio agli effetti , tuttavia la nostra dimostrazione a piiori non ripugna ai
suoi principi generali: e in (ine la sostanza della sua dottrina sta in questo,
che l'esistenza di Dio non è nota all'uomo per sé, cioè senza alcun' altra
proposizione media , da cui si dimostri , sia poi questa proposizione media
conosciuta da noi imraediatamonte o per esperienza.
243
negano come gli Atei, altri si vanno facendo di Dio concelti
erronei, come gli idolatri, ecc.
2.'» 0 il subietlo e il predicato sono noti ad alcuni uomini
dotti, che vi hanno adoperato intorno la meditazione: ma que-
sta notizia può essere da essi acquistata anteriormente o poste-
riormente alla proposizione di cui si tratta. Se l'hanno acquistala
anteriormente alla proposizione, questa allora è per sé nota tanto
in sé, quanto rispetto non a lutti gli nomini, ma a quei dotti; e
così accade a ragion d'esempio delle proposizioni : « il principio
senziente non è esteso », « il principio pensante non è esteso »,
ed altre simili, che in questo senso si possono dire per sé note
ai dotti.
Z.'^ Se poi la cognizione de' termini della proposizione, ba-
stevole a conoscere che l'uno è inchiuso nell'altro, fu acquistata
posteriormente alla notizia della proposizione , in tal caso la pro-
posizione non è per sé nota neppure ai dotti, ma solo in sé stessa.
E qui appunto viene in esempio la proposizione: «Dio esiste»;
perchè quantunque si possa conoscere, che nel concello di Dio
DEVE esser contenuta la sua esistenza; tuttavia questo non si sa, se
non dopo essersi saputo, che Dio veramente esiste, come vedremo
in appresso; e però non ci serve quella notizia a renderci nota
questa proposizione, ma solamente a confermarcene la verità.
301. Finalmente in quarto luogo se si voglia intendere che una
proposizione sia per sé nota, quand'ella è implicitamente contenuta
in un' altra per sé nota (1) , si potrà in questo solo senso im-
propriamente dire , che la proposizione « Dio esiste » sia per sé
(1) Cf. Logic. 533, 199-206. — L'acuto filosofo sopra citato, Tommaso
De-Vio, osservò, clie il dire « le proposizioni il cui predicato è contenuto
nella ragione del subietto sono per sé note » è vero, ma clie non è una defi-
nizione delle proposizioni per sé note, avendovene altre che sono perse noto,
benché il predicato non sia della ragione del subietto. Ecco l'importante os-
servazione che conferma quanto noi ab])iamo insegnato nella Logica (1. e):
Bene veruni est apud Sanctnm Thomam quod omnis propositio, aijus prw-
dicatum cadit in ratione subiecti, est per se nota, sed non e converso. Quo-
niam cum unum generalissimum negatur de alio , et cum prima imssio
prcedicatur de primo subiecto, fiunt propositiones immediatce secundum se,
et consequenter secundum se per se notce. Si tamen alicubi sic difinita re-
peritur,glossetur]y esse in ratione subiecti f or maliter, vel VIRTVALITER
proxime (In S. S. Th. \. ii, 1).
244
nota. Perciocché nella dimostrazione a priori da noi data ,
abbiamo una proposizione nota per sé anche rispetto a tutti gli
uomini, la quale ò « l'essere esiste », e in questa si trova colla
meditazione implicitamente contenuta quest'altra « Dio esiste »,
non contenuta come il più contiene il meno, ma come « il con-
cetto del condizionato contiene implicitamente la sua condizione»,
la quale si trae da esso per deduzione in viriti della sua cor-
relatività. E veramente, se V essere indeterminato necessaria-
mente esiste, e se per esistere ha bisogno dtW Ente assoluto a
cui appartenga , anche questo necessariamente esiste.
Nel qual processo d'idee si vede che la proposizione : « Dio
esiste » é una conseguenza dell' altra : « l' essere esiste » , e che
solamente dopo aver tirata questa conseguenza s'intende, che nel
concetto di Dio si contiene quello dell'esistere. Si sa dunque que-
sto , dopo che si sa che Dio esiste , e però la notizia che nel
concetto di Dio si contenga l'esistenza , non è quella che ci possa
dimostrare l'esistenza di Dio , perchè quella suppone già questa.
Ma secondo la maniera propria di favellare, che noi costante-
mente seguiamo, la proposizione : « Dio esiste » si dee dire di-
mostrabile a priori, ma non per sé nota , perchè ha bisogno di
un'altra proposizione precedente nella mente nostra, dalla quale
e colla quale si argomenti ; benché non abbia bisogno di esser
dedotta a posteriori dalle notizie ricevute da' sensi esterni (4).
E questa medesima è la ragione per la quale S. Tommaso, pur
concedendo all'uomo una naturale cognizione dell'essere in uni-
versale ("2), gli nega quella della divina esistenza, cioè dell'Es-
sere assoluto.
(1) Il carattere assegnato alle proposizioni per sé note dal De-Vio è ap-
punto questo , che non abbiano bisogno, per rendersi note , d'un mezzo a
priori. « Si enim omnis propositio per se nota est habens prcedicalum in ra-
tione subiedi, oportet ut semper ly per se excludat medium a priori. Sed
qnoniam contingil, quod interca inter qucs nullum est secundum se medium,
ut sunt cognita nobis, sit medium, ideo non semper excludit medium a po-
steriori ». In S. S. Th. I. II. 1.
(2) Cosi concede S. Tommaso :
1.0 Che la verità in comwne sia per sé nota; ma nega che Dio sia la ve-
rità in comune, essendo egli la prima e sussistente verità : veritatem esse in
communi, est per se notum: sed primam veritatem esse, hoc non est per se
notum quoad nos. Ora la verità non è altro che l'essere nella sua forma obiet-
248
S 2.
Secondo Corollario: la dimostrazione a priori della Creazione.
502. Noi abbiamo veduto cbe nessuna delle cose contingenti è
l'essere virtuale e iniziale ; perchè quest'essere è necessario e non
contingente (1). Questo vero si può confermare con altri argo-
menti: 1.° L'essere virtuale contiene nel suo seno virtualmente
tutte le idee e le realità. Ora niuna drlle cose , che compon-
gono il mondo , contiene in sé tutte le idee e tutte le rea-
lità. Dunque l' essere virtuale è cosa diversa da taU realità!
tiva, dalla quale non nega l'Aquinale che si possa argomentare l'esistenza
della prima verità, ma nega solo che questa sia per se nota.
2." Che l'uomo conosca naturalmente la beatitudine in comune; e però
dice : Deum esse in aliquo communi, sub quadam confusione est nobis ìiU'
turaliter insertum , in quantum scilicet Deus est hominis beatitudo. Ma
questo, dice, non è conoscere Dio semplicemente , come conoscere uno che
viene, non è conoscer Pietro. Ora la beatitudine è infine l'essere nella sua
piena forma morale: jiella cognizione di quell'essere in comune c'è dunque
implicita come condizione l'essenza divina: onde non nega che si possa col
ragionamento dedurre.
3." Che l'uomo intenda naturalmente che cosa voglia dire : « ciò di cui
non si può pensare cosa maggiore ». Ma dice che coH'aversi questo concetto
universale e negativo non s'ha però la certezza che « ciò di cui non si può
pensare cosa maggiore » sussista veramente; altro non contenendo quel
concetto che la possibilità logica. Ora il concetto di « ciò di cui non si può
pensare cosa maggiore » riducesi all'essere nella sua forma reale.
L'argomentare dunque da ciascuna delle tre forme all'esistenza di Dio
{Sistema 179-181), non s'oppone al pensiero di S. Tommaso. Ma è poi con-
formissimo al suo pensiero il concedere come noto all'uomo per natura
quello che è cognizione universalissima e indeterminata, e il riconoscere che
l'oggetto di questa cognizione non è Dio stesso , che è un essere determi-
natissimo.
(t) Contingente vuol dire che si può pensare tanto che sia quanto che non
sia , senza cader in una logica contradizione. Questo si può fare di tutti gli
enti finiti, i quali però sono contingenti : non si può fare dell'essere, il quale
perciò è necessario. Questo dimostra erroneo il sistema di que' filosofi, che
tentano di dare alle nature di cui si compone il mondo la necessità; i quali
furono da noi più ampiamente confutati nel Rinnovamento Lib. IH. C. xxxv.
246
2.<> Ciascuna di queste realità sussistenti è così chiusa in sé stessa,
che tutto ciò che è , è proprio di essa, non comune ad altro.
Ma tutte hanno eguahnenle l'essere: quest'essere comune non
può dunque essere ninna di esse, perchè il proprio ed il comune
sono cose opposte, che s'escludono reciprocamente. Quest'essere
comune è V essere iniziale: l'essere iniziale dunque è cosa intiera-
mente diversa dalle realità componenti l'universo. S.** L'essere ini-
ziale è lo stesso essere virtuale in quanto si considera come comune
alle cose. Ma per l'aggiunta di questa relazione l'essere virtuale
rimane tale qual era prima, contenente ancora in virtù tutte le
idee e tutte le cose. Dall' esistere dunque o dal non esistere le
cose mondiali , l'essere virtuale non soffre modificazione alcuna,
rimane identico. L'essere virtuale dunque è diverso e indipen-
dente dall'esistenza delle cose mondiali, e quindi non si può
confondere menomamente con queste.
303. Fermata bene questa diff"erenza, si procede a quest'altra
proposizione pure evidente : « tutte le realità che compongono l'u-
niverso non sarebbero, se non avessero l'essere » : la proposizione
non si può negare, perchè il dire « questa cosa contingente è », e
il dire « questa cosa contingente ha l' essere » sono proposi-
zioni identiche. Di qui la dilTerenza tra i due copulativi, acni
si riducono tutti gli altri, essere^ e avere {Logic. 427-439). Con-
chiudasi dunque : « la realità contingente non è l'essere (1* propo-
sizione), ma ha l'essere »: il che esprime, che l'essenza della cosa
contingente e l'essenza dell'essere sono due essenze diff'erenli,
ma che quella è per questa, acquista questa, è unita necessa-
riamente a questa , partecipa di questa , che è il ixéÒ£x£iy di
Platone (1).
304. Da queste due proposizioni procede una terza, che è quella
che si volea dimostrare: « tutte le realità che compongono l'uni-
verso sono create ». ~ E che questa sia un corollario delle due
prime proposizioni si vede dalla definizione della creazione, poiché
questa si può acconciamente definire « quell'atto, pel quale ciò che
non ha l'essere — e che perciò è ancor nulla — acquista l'essere ».
Noi abbiamo veduto altrove (Psicol. 1228), che è essenziale al con-
cetto di creazione: i.°che il termine dell'atto creante resti fuori del-
(1) Arisi. Metaph. I, 6.
247
l'alto medesimo, cioè costituisca un'altra essenza diversa da quella
dello slesso atto creante: e nel caso nostro s'avvera appunto,
che r essenza della cosa contingente sia diversa da quella del-
l'essere virtuale e iniziale, per la prima proposizione; 2." che
l'essenza dell'alto creante non si muti punto per cagione della
cosa nova che acquista l'esistenza , ma rimanga immutabile ed
identico; e così avviene pure rispetto all'essere virtuale ed ini-
ziale , che non soffre mutazione in sé slesso coli' essere parteci-
pato da' contingenti , come abbiamo detto nelle prove arrecate
della prima proposizione medesima (1). Poiché dunque le cose
contingenti non sono l'essere, ma hanno l'essere fin che sussi-
stono — per la seconda proposizione — ne viene ineluttabilmente
che sono create, cioè che esistono per un atto che dà loro l'es-
sere, e che non è niuna di esse (2).
(1) Quindi dalla sola considerazione d'un atto immanente e immutabile
necessario per ispiegare gli atti transeunti, e gli atti immanenti terminati da
questi, s'arriva facilmente a una rigorosa dimostrazione dell'esistenza di Dio,
e della creazione, il che abbiam fatlo nella Psicologia (1224-1228).
(2) Questa dimostrazione è sostanzialmente la medesima di quella che dà
S. Tommaso, salvochè noi la deduciamo dall'essere iniziale , laddove egli la
deduce dell'essere assoluto che è Dio, cosi dicendo : Deus est ipsum esse per
se subsistens. Et ostensiim est, qiiocl esse subsistens non potest esse nisi
unum, sicut si albedo esset subsistens, non posset esse nisi una, cum albe-
dines multiplicentur secundum recipientia. Relinquitur ergo, quod omnia
alia a Beo non sint siium esse , sed participent esse. Necesse est igitur ,
omnia qua; dioersificantur secundum diversam participationem essendi, ut
sint perfectius vel minus perfecle, causari ab uno primo ente, quod perfe-
ctissime èst. (S. I, XLIV, 1). Avendo di questo argomento abusato i Panteisti,
era necessario cercare, onde prendessero l'appiglio a dedurne il loro erroneo
sistema. Questa ricerca ci condusse a distinguere l'essere iniziale dall'essere
assoluto , mostrando che Dio è bensì questo, ma non il primo benché sia
una divina appartenenza. Ora quello di cui partecipano le creature è del-
l'essere iniziale, e non dell'essere stesso di Dio. Questo è ipsum esse per se
subsistens, come egregiamente lo definisce S, Tommaso , e però è l'essere
nelle sue forme e sopratutto nella forma della sussistenza. Ora egli è in-
dubitato che le cose create non partecipano punto dell'essere in quanto è
per sé sussistente, cioè in quanto é Dio : ma partecipano solo dell'essere
come si concepisce anteriormente a quella sussistenza per sé che ha come
Dio. E che questo fosse anche il vero sentimento di S. Tommaso — benché
gli mancasse ancora il linguaggio filosofico necessario ad esprimerlo diretta-
mente— è indubitato non solo da tutti que' luoghi ne' quali ripudia affatto
248
305. E qui si avverta, che questa dimostrazione della creazione
non prova solamente che le cose contingenti sono create al loro
cominciamenlo, ma di più che la conservazione loro è una continua
creazione; perchè per tutto il tempo che durano devono continua-
mente ricevere ossia aver l' essere , dacché se un istante solo
perdessero l'essere, non sarebbero più, s'annullerebbero.
E dico che devono di continuo ricevere, ossia aver l'essere, per in-
dicare che il ricevimento dell'essere è in un istante, in ogni istante
di maniera che il riceverlo non è successivo, ma è lo stesso che
averlo; il che soddisfa ad un'altra condizione del concetto di
creazione che è appunto questa', che non si faccia per alcuna
successione, ma per un istantaneo passaggio dal non essere al-
l'essere, sicché tra il momento in cui d'una cosa contingente si
può dire non è, e il momento in cui si può dire è , non ci sia
nulla di mezzo {Psicol. 1228).
506. Ora una tale condizione fa sì, che questi non sieno due
istanti ma il medesimo istante; il quale istante è certamente quello
ogni ombra di panteismo, ma si rileva anche qui dal vedere, che prende ad
esempio la bianchezza, che non è un'entità sussistente, ma un'entità astratta.
Il che ben vide l'acutissimo Commentatore, il Card. De-Vio, che cosi scrive
a questo luogo dell'Angelico : Quia esse secundum suiim ordinem est recepii-
bile in alio {et similiter, sapientia, bonitas, etc, et apud Platonem quid-
ditates sensibiles receptibiles erant in materia); ideo , quodcumque horum
SI SUBSISTAT, est tale per essenliam ; et SI NON SUBSISTAT, per
participationem. Et propterea in litera daiur exemplum de albedine, qiiam
constai esse formam receptibilem in alio. Et quoniam naturaliter SUSSI-
STERE INCLUDIT IRRECEPTIBILITATEM , et NON SUBSISTERE
RECEPTIONEM IN ALIO, propterea in litera a siibsistentia ad recipi
declinatur , dum dicitur, quod albedo non miiltiplicatur nisi secundum re-
cipientia: parole sapientissime, le quali dimostrano che questo grand'uomo
del De-Vio })en conobbe che bisognava levare dall'essere la sussistenza,
acciocché s'avesse un essere partecipabile. Ora levando dall'essere la sus-
sistenza, s' ha appunto quello che noi chiamiamo l'essere iniziale, il quale
non è più Dio, poiché Dio è Tessere per se sussistente. Così ridotto dunque
quell'argomento in favore della creazione diventa più netto e filosofico , e
non abbisogna che AeìY essere intuito na.turn\menle , ed osservato ne' per-
cepiti; e in pari tempo non tiene più in sé quel qualche cosa d'inutile alla
sua efficacia che serve di presa a' Panteisti. Così ancora esso va immune
dalle obiezioni, colle quali da Giovanni Duns veniva assalito (In I. Dist.
D. II. Q. Ili ad S™ princip.).
249
che ha traveduto l'Hegel, quando ha detto che il diventare è il
momento in cui l'essere e il non essere s' identificano. Ma egli
ha espresso male questo vero, e n'ha abusato. L'ha espresso
male , perchè la parola diventare suppone un subietto che di-
venta , e un subietto che diventa non è ancor diventalo ^ e
però non esiste : il diventare dunque è un concetto diverso
dall'essere creato : la parola diventare non ha dunque senso se
non per que' subietti gicà esistenti che si modificano o anche che
si cangiano in altri, ma non per ciò che si crea, il quale prima
non è^ e poi è senza alcun passaggio del medesimo subietlo da
uno stato ad un altro, venendo creato il subietto stesso.
Ma quello che può avere ingannato l' Hegel si è l' identità
dialettica , poiché nella maniera del concepir nostro 1' essere è
subietto dialettico antecedente d' ogni cosa : egli non capì che
era un antecedente alla cosa , e non la cosa stessa contingente :
era una condizione necessaria tanto all'essenza quanto all'idea
della cosa, ma di novo non era la cosa.
Abusò poi di quella parola impropria, volendone dedurre che
l'essere s'identifica col nulla nell'atto del diventare; e così ef-
fettivamente sarebbe , se l' essere creato fosse un diventare. Ma
appunto perchè s'incorrerebbe, se ciò fosse, in una contraddi-
zione, perciò il diventare dev'essere escluso, e ritenuto l'essere
creato. Ora in questo punto dell'essere creato ^concedo* che si
concepisca ad un tempo non essere ed essere, ma non già che
formino un'equazione, o che l'essere s'immedesimi col non essere.
Il concetto dell'essere rimane sempre distintissimo dal concetto
del non essere , che altro non è se non il primo, negato. Ora
altro non risulta da ciò se non questo, che la mente ha bisogno
di due concetti, cioè del concetto dell'essere e del non essere ;
per intendere che cosa sia la cosa creata : il raffrontare e col-
legare que' due concetti non è un confonderli in un solo o identi-
ficarli. Ma la mente considerando la cosa creata intende con-
temporaneamente due cose : 1° che essa non è l'essere ; e cosi
la nega , nascendole il concetto di non essente : T che ella ha
l'essere; e così l'afferma nascendole il concetto della cosa essente.
Il concetto adunque dell' essere rimane anteriore alla cosa , e
condizione necessaria per conoscere ad un tempo la cosa essente
e la cosa non essente. Che cosa è il concetto della cosa essente?
250
— È il concetto della cosa che è per l'essere. Che cosa è il con-
cetto della cosa non essente ? — È il concetto della cosa che
s'annulla per mancanza dell'essere. Sono due concetti perfetta-
mente diversi, e diversi e posteriori al concetto dell'essere. Non
c'è dunque un momento in cui la cosa sia essere e non sia essere :
ma ella non è mai l'essere : non e' è quel momento supposto in cui
la cosa passi all'esistenza, e pure ancora non esista, perchè quel
momento in cui passa all' esistenza è quello in cui già è : è il
primo momento della sua esistenza, e non un momento in cui non
abbia ancora esistenza.
307. Laonde, secondo due rispetti diversi in cui si considera la
cosa contingente, si può dire che essa non è, cioè non è per sé
slessa, e si può dire che essa è, cioè per l'essere ricevuto che già
ella ha, e però si può dire che ci sia nella cosa l'ente e il non ente:
ma questi sono due rispetti, e due diversi rispetti, in cui si consi-
dera dalla mente la stessa cosa, sono una distinzione e non una iden-
tificazione di concetti. E a questi due concetti appunto riguardava
S. Agostino, quando diceva delle cose inferiori a Dio : nec omnino
esse, nec omnino non esse; e rivolgendo il discorso a Dio stesso : Esse
quidem, qiioniam abs te sunt: noìi esse autem, quoniam id, quod es,
non sunt. Id enim vere est, quod incommutabiliter mcinet (1). La quale
è voce ripetuta in tanti modi diversi da'Padri (2), non meno che
da' filosofi (3). Ora una dottrina così perseverante nella Chiesa,
non meno che nelle scole filosofiche , riceve la sua spiegazione
immediata dalla dottrina esposta dell'essere virtuale e iniziale;
e questa spiegazione svelle gli errori che , non avendola inlesa,
vi aggraticciò il filosofo tedesco di cui parlavamo.
(1) Confess. VII. 11.
(2) Cf. S. Anselm. Monolog. e. 28. — Il Fénélon nel trattato deW Esistenza
di Dio ripete spesso questo sentimento. Je ne suis pas, ó man Dieu; dice in
un luogo , ce qui est : helas! je suis presque ce qui ri est pas. Je me vois
camme un milieu incompréhensible entre le néant et V étre etc. II, P.
a. Ili, n. 9.5.
(3) Cf. Plutarco, DeW iscrizione delfica et n. 17.
2S1
Terzo Corollario : V apprensione imperfetta dell'atto creativo
all'occasione della percezione intellettiva.
508. Dalle cose dette sorge un altro corollario, ed è, che l'uomo
nella percezione intellettiva de' reali contingenti ha un'appren-
sione dell'alto creativo, ma imperfetta: e ciò perchè vede l'essere
unito col reale contingente, e nello stesso tempo vede che questo
non sarebbe senza quello, e che è per quello — benché la sola
riflessione e meditazione filosofica distingua tutto ciò nella per-
cezione e lo sappia dire. — E perchè è per quello continuamente,
vede che il reale contingente che percepisce riceve continua-
mente l'essere, di maniera che è continuamente creato. E l'in-
tendere tutto ciò, è un intendere che nella percezione s'apprende
l'alto creativo, e per mezzo di questo è che s'apprende la realità
contingente.
Noi dunque apprendiamo il reale nell'alto stesso in cui egli
diventa ente, ossia in quell'atto che lo fa ente, lo crea.
309. Ma quanto sia imperfetta quest'apprensione dell'alio
creativo, facilmente si conosce dalle seguenti considerazioni :
ì ." Noi vediamo l'atto creativo nel suo termine, ma non nel suo
principio. E qui si rammenti che la mente umana può apprendere
Vatto staccato dal suo suhietto. Questo è appunto quello che av-
viene, come abbiamo osservato altrove {Logic. 334), nell'intuizione
naturale dell'assire: noi vediamo l'essere, ma non come subietto
d'un allo, come aito semplicemente. Il concetto di subiello e il con-
cetto d'alio sono distinti nella mente umana, e sebbene possono in
fallo convenire in uno, di modo che il subielto sia sempre necessaria-
mente un alto; tuttavìa non ogni atto è subietto. La mente nostra
dunque può avere ed ha il concetto universale di atto, senza che
sia necessitala a riconoscere quest'alto per un subietto, né ad ag-
giungergli un subielto nel primo intùito dell'atto, benché posterior-
mente trovi col ragionamento la necessità di dare all' alto un
qualche subielto — senza pur averne una positiva e determinala
cognizione — e ciò per quel principio che abbiamo chiamalo
« principio di subiello » {Logic. 362).
252
Nella percezione dunque de' contingenti reali noi apprendiamo
Tatto creativo, come atto che fa ente il reale, senza sapere ancora
chi faccia o chi mova quest'atto, senza apprendere in una parola
Iddio creante, subielto di quest'atto.
Quest'apprensione dell'atto creativo è dunque imperfetta, perchè
noi non vediamo punto che quest'atto deva ridursi alla divina es-
senza, ma questa ci rimane nascosta, e solo possiamo argomentarlo.
Né vale il dire , che l' atto creativo non si può dividere
dalla divina essenza, come quello che è una cosa medesima con
questa, rispondendosi a tale istanza, che certamente non si può
dividere, né distinguere realmente ; ma che può apparire diviso
alla mente nostra, perchè questa è limitata, alla quale si comu-
nicano delle appartenenze della divinità , senza che così divise
esse possano meritare il nome di Dio; e ciò appunto per questo
che Iddio è essenzialmente indivisibile, onde quando un'apparte-
nenza di lui si concepisce da sé, non presenta più il concetto
di Dio, ma un altro, per quel principio, che « se ad una essenza
colla facoltà del concepire si toglie qualche cosa, non si pensa
più dessa, ma un'altra » {Logic. ,971-978. Cf. Ideol. C46-65G*)
2." L' atto creativo, che noi apprendiamo in occasione delle
percezioni intellettive, è limitato, perchè in ciascuna percezione
noi non apprendiamo altro atto creativo se non quello che fa
ente la realità singolare da noi percepita, per l'esclusiva natura
della percezione {Sistema 74-79). Ora se noi potessimo appren-
dere l'atto creativo pienamente, vedremmo la sua perfetta unità;
e come egli, essendo uno e semplice, fa esistere tutti gli enti che
compongono il mondo e tutti i loro diversi stati, ed anzi tutto
ciò che fu, ed è, e sarà mai di contingente. Non l'iipprendiamo
noi dunque se non in quanto fa ente quel reale singolare che
noi percepiamo intellettivamente; lo apprendiamo come essere
inizio di quel reale, che non è lui, e senza lui non è; onde ha
tal natura che sta tra l'essere e il nulla : non , che ci sia una
tal natura separata, ma c'è, per la mente astraente nel senso
detto, unita all'essere e per l'essere.
3.° L'atto creativo, che noi apprendiamo nella percezione dei
contingenti, ha una terza e massima limitazione in questo, che
s'apprende bensì come una continua comunicazione o congiun-
zione dell'essere ai detti reali, ma non s'apprende come produ-
585
cenle le realità slesse : si vede che queste ricevono l'essere che
le fa enti, ma dicendosi queste, si suppongono concepite queste
realità come distinte dall' essere per astrazione. Ora di queste
realità che rispondono a quest'astrazione non si vede già in
quell'atto l'origine, né tampoco la natura. Laonde l'atto creativo
s'apprende per così dire dimezzato: si vede che le realità ri-
cevono e non sono l'essere, ma non sì vede come lo ricevano ,
né si vede come si possa pensare una cosa che riceva l'essere, e
non sia l'essere; nel che si riduce il mistero della creazione;
e di questo parleremo a suo luogo,
310. Stabilite le quali cose, facilmente possiam discornere quale
sia quella particella di verità che ingannò poco fa il facondo
scrittore degli Errori di Antonio Rosmini, e possiamo sceverare
questa particella dal resto di falso, che si contiene nel sistema
giobertiano.
La particella di vero dunque si è, che l'uomo nell'immediata
cognizione de' reali contmgenti ha una qualche, sebbene imper-
fettissima, visione dell'atto creativo.
La parte poi di falso j)uò raccogliersi ne' punti seguenti :
ì.° È falso che ci s\a. \ia naturale intatto dell'atto creativo,
sicché l'uomo l'intuisca sempre per natura, come intuisce l'essere
indeterminalo: quando in quella vece l'apprende solo, entro le
tre limitazioni indicate, all'atto della percezione-,
2.° È falso che quest'atto creativo si veda unito al suo su-
bietto, cioè a Dio, quand'egli s'apprende solo come atto imper-
sonale, e non come subietto personale ;
S.** È falso che quest'atto s'intuisca naturalmente colle esi-
stenze, cioè colle cose create, quasi che anche queste, e perciò
tutte, fossero oggetto del primo intùito: quando niuno de' reali
contingenti è oggetto dell'intuito, ma solo i singoli sono termini
che si fanno oggetti nella percezione e per la percezione intel-
lettiva;
4.° È frilso che ci sia un naturale intùito deWEnte, cioè di
Dio, quando l'umano soggetto non ha altro che l'intuito deì-
Vessere indeterminato , cioè dell' essere come atto universale ,
privo de' suoi termini, il quale non è alcun ente, e molto meno
Dio, ma inizio di tutti ;
5." È falso che nelle cose percepitesi veda Dio stesso {Cf.
234
V. Gioberti e il Panleismo ; Saggio dilezioni filosofiche. Lucca, 4853,
Lez. VII), il quale è 1' essere terminato sussistente, e assoluto :
quando in esse altro non s'apprende, che Tessere non ideale, non
reale ^ ma indifferente, cioè anteriore alle sue forme e a tutti i
suoi termini, il quale così unito alla realità sensibile costituisce
l'ente contingente reale da noi percepito, che ha l'essere come
materia dialettica e antecedente , e come forma pure dialettica
e ultima, non sua propria, mi comune a tutti ugualmente i reali
/miti;
G.** Finalmente è falso, che iddio non sia un oggetto atto
ad essere pensato dalla mente senza le esistenze o cose contin-
genti da lui create; poiché sebbene sia vero che queste non
siano per sé oggetto , come non sono per sé ente; ma hanno
bisogno per esser tali che la mente le veda nell' essere e però
insieme coli' essere, (non per questo in Dio e insieme con Dio) ;
tuttavia non è già vero il contrario, come abbiamo detto, che
Tessere non sia oggetto della mente per sé stesso, e molto meno
è vero che tale non sia Dio stesso {Cf. Lezioni citate, Lez. Vili).
Articolo VI.
Dialettica di Platone.
31 i. Da tutto quello che abbiamo esposto in questo capitolo
apparisce, che Vessere indeterminato, quale apparisce all'inlùilo
naturale dell'uomo^ è queirà/3x« àwnó^eToq, dal quale Platone
diceva dover principiare la scienza (1).
Ora quest'essere riceve poi dall' uomo , posteriormente alle
percezioni, e mediante la riflessione filosofica e l'astrazione, il
titolo d'iniziale ; e quindi con un'altra riflessione ancora, quello
di virtuale : considerato poi come mezzo della cognizione delle
singole realità, si chiama l'essenza di ciascuna di esse, il cui
carattere d'intelligibilità si denomina idea. Quest'essenze, avendo
l'immutabilità dell'essere che costituisce il loro fondo comune,
sono quelle cose veramente essenti rà óVrcag ovra, a cui voleva che
(l) DeRep.yi, pag. 511.
28S
la mente del filosofo lungaoienlesi applicasse, per arrivare in ultimo
a quello che egli chiama il fine dell'intelligibile, tov votìTov riXog,
cioè il bene, Iddio, l'idea del quale pone come sommo apice del
sapere, ultima e massima disciplina, « tov àya^ov ì^éa. ixiyiCTov
fjkx^tilJLx (1). La qual idea non è ancora Iddio stesso, ma un co-
tal raggio di lui, ed è quel più forse, secondo Platone , che è
dato all'uomo saperne {Cf. Degli studi dell'autore, 72, 75).
Ora a quest'ultimo fine dell' intelligìbile Platone s'accosta sempre
con riverenza e somma diffidenza dell' idoneità, a perscrutarlo,
della propria intelligenza e delle altrui ; appena lo addita, e mentre
ne' suoi dialoghi tutto tende e dispone ad esso, esso stesso ri-
mane sempre quasi occultato da una sacra cortina. GÌ' ingegni
al presente avvalorali dalla nova luce del cristianesimo, possono
certo favellarne con più di coraggio; ma coloro che, lasciata la
cristiana luce , audacemente e da sé soli e quasi vivessero nel
tempo anticristiano , affrontano un tale argomento, rimangono
dalla sua stessa luce oppressi (2).
Platone dunque s'avvide, che Videa è quel solo spiraglio, da
cui si può contemplare qualche cosa di divino. E poiché il ra-
gionamento , espressione della riflessione, è quello che fa cono-
scere la natura delle idee e i loro nessi e le loro condizioni, e
che conduce a contemplare l'elemento divino che é in esse (3),
disse che la dialettica, che per lui è l'arte di maneggiare e lo
(1) De Rep., sub fin. VI et initio VII.
(2) Carlo Kuehn nel suo opuscolo « De dialectica Platonis j> (Berolini
t843) p. 30, 31, osserva parlando del metodo di Platone che in generale «r gli
antichi da'singolari elevandosi tendono all'unità, e la difficoltà consistere nel-
l'intendere come arrivino a conseguire quest'unità; i moderni — allude a' te-
deschi — incominciano con tutta sicurezza dallo slahilire una prima unità, e
la difficoltà consistere come da questa loro unità si possa trapassare alla
pluralità ».
(3) Arriva Platone a dire, che Iddio stesso è divino, perchè alle idee ade-
risce, TTfòs oT(77csp ó &£òs wv, Sctós £sTt. Pìicedv . p. 249.
È certamente il contrario, venendo le idee da Dio e non Iddio dalle idee;
ma pure quell'arditissima frase dimostra due cose : 1." Che Platone dislingue
Iddio dalle Idee, e la natura divina dalla personalità divina; 2.° che il primo
elemento divino da noi conosciuto sono le idee, e che questo elemento ci si
mostra cosi assolutamente divino, che Iddio stesso non avrebbe la natura
divina, se non avesse in sé l' intelligibile.
2S6
stesso maneggio delle idee {Cf. Logic. 847), doveva essere la
più eccellente di tutte le scienze, la filosofia (1).
Sotto la qual parola di dialettica egli riuniva certamente due
cose molto distinte , 1' arte cioè di ragionare che è la vìa che
conduce, e l'oggetto divino che è il fine ultimo e più sublime
a cui conduce ; e l'accoppiamento di queste due scienze sotto la
sola denominazione di dialettica , veniva dal vedere che quelle
idee stesse di cui fa uso il ragionamento, partecipano della na-
tura dell'oggetto a cui conoscere tende il filosofo, cioè parteci-
pano del divino (2).
312. Tutto quello che abbiam detto in questo capitolo dimostra
quanta profondità ci fosse in questa veduta di Platone, dacché
noi abbiamo dovuto incominciare da distinzioni dialettiche, ed
alTerrare un'entità dialettica, quella dell'essere virtuale e iniziale,
colla quale i sistemi d' identità assoluta rimangono esclusi , e
sorge sulle loro rovine quello dell'identità dialettica , che sod-
disfa al bisogno d'unità, che si manifesta a certo tempo po-
tentissimo nella mente umana, vi soddisfa dico senza assurdi,
senza strani ed erronei conseguenti, che contrariano altri bisogni
non meno potenti della intelligenza.
La scola tedesca divenne maestra di que' mostruosi errori,
ne' quali trovò il suo sepolcro appunto per questo, che volle
trattare la seconda parte della dialettica platonica — dalla cui
maestà quasi impaurito Platone s'astenne, contento d'averla indi-
cata e salutala da lontano — senza applicarsi sufficientemente alla
prima, intorno alla quale infaticabilmente lavorò il filosofo ate-
niese, ben avvedendosi, che questa sola era opera vasta ed im-
plicata di somme difficoltà e pericoli , e che quando questa fosse
ridotta a perfezione, la via sicura era spianata e bene ammatto-
nata per giungere , quanto permetteva l'umana limitazione, alla
seconda.
(1) Soph. p. 153; Phwdr. p. 265, 266, 273; Rep. VII, 334.
(2) Platonem ipsum dialecticce duo genera , quorum alterum formam ,
alterum argumentum summce scientice exponeret, distinxisse, è ampiamente
mostrato nel citato opuscolo del Kuelin.
SEZIONE III.
Della reiaziosic dell' essere «no co^ suoi
termiui in generale.
CAPITOLO I.
Di ciò che appartiene alla ricerca che si fa in questo libro ,
e di ciò che appartiene alla ricerca che rimane a farsi nel
libro seguente intorno alla molti plicità delV essere.
Articolo I.
Definizione dell'essere in sé contrapposto all'essere dinlettico.
515. Arrivali qua, noi siamo in grado di definire con maggior
precisione, che cosa appartenga alia ricerca, a cui abbiamo desti-
nato questo libro intitolalo: Dell'essere uno; e che cosa appar-
tenga a quella che deve esser fatta nel seguente intitolalo : Del-
l'essere trino. Noi potevamo prima, perchè volendo noi qui ri-
cercare come la molliplicità si trovi nell'essere uno, e colà come
la molliplicità si trovi in ciascuna delle tre forme , era neces-
sario prima conoscere come l' essere uno , anteriore alle sue
forme, si presenti al pensiero umano : conosciuto poi quale sia
quest'unità dell'essere presente al pensiero, potevamo pure de-
terminare quale molliplicità ad esso appartenesse, e quale si do-
vesse per intanto lasciar da parte , da svolgersi nel libro che
segue.
In fatti la parola essere ha due fondamentali significali, poi-
ché si dice essere tanto quello che si concepisce , aslrazion fatta
dalle sue forme, quanto quello che si concepisce essente nelle tre
sue forme o termini essenziali : ed è uno sì nel primo signi-
RosMiNi. Teosofia. 17
2S8
ficaio, come nell'altro. Ma in questo secondo significato non
è solamente uno, ma anche trino: nel primo, all'incontro, è so-
lamente uno: ed è di questo che deve parlare il lihro presente.
Conveniva dunque hen intendere questa diversità di senso in
cui si prende la parola essere, acciocché si potesse del pari in-
tendere come l'unità e la moltiplicità, che noi cerchiamo in que-
sto lihro, siano puramente entità dialettiche, e non un'unità ed
una moltiplicità ueWeasere in sé.
314. Questa denominazione di essere, o di ente in se richiede qui
d'essere definita. Chiamo essere o ente in sé quello, che si può
concepire esistente , prescindendo da una mente a lui straniera
che lo pensa. Quando dunque l'essere o l'ente che si pensa, si
vede esser tale che non può esistere da sé solo, senza una mente
a lui straniera che lo pensa , ma solo in questa mente si con-
cepisce essente, allora non si dice: «essere o ente in sé», ma
« essere o ente dialettico », o con altre appellazioni. L'analisi
di questa definizione sarà da noi data , quando ci sarà ne-
cessaria.
L'essere dunque concepito come anteriore alle sue forme , non
è che un'ente dialettico, perchè egli non può esistere in sé, ma
soltanto in una mente qualunque che lo pensi, sia col naturale
intùito^ sia colla riflessione, o in qualunque altro modo. E tut-
tavia, come vedemmo, egli non è già nulla , ma è qualche cosa
nella mente ; e di più, l'essenza sua è qualche cosa dell'ente in
sé, ma non é l'ente in sé, perchè non è tutto, quando l'ente in
sé è sempre tutto, e non può esistere in sé una sola parte di lui
{Psicol. 1319-1321, 1362).
Articolo IL
Principio della teoria dell'essere uno.
315. Ciò posto, noi possiamo cercare quale sia il principio della
teoria dell'ente uno , che è la teoria appunto , che stiamo svol-
gendo in questo libro : ed ecco come questo principio , da cui
tutte sì derivano le dottrine , che in questo libro si raccolgono ,
si possa facilmente da noi rinvenire.
Primieramente si affaccia la difficoltà : se l'essere di cui par-
259
liamo, è anteriore pel concelto alle sue forme e però a lutti i
suoi termini, come si potrà Irovare in esso molti plicità alcuna?
Non rimarrà egli uno, solitario, sterile? — A questo si risponde,
che la moltiplicità cercata, appunto per ciò non si può trovare
neW essere astratto e preciso da' suoi termini, ma si può trovare.,
come ahbiam fatto, considerando le relazioni, ch'egli ha co' suoi
termini. E quest'è appunto il principio della teoria, di cui s' oc-
cupa questo libro : « La relazione che l'essere, concepito come
anteriore a' suoi termini, ha co' suoi termini )>.
Il qual principio ci ha somministrati i tre concetti di essere in-
determinato, di essere virtuale, e di essere inizile: il primo, che è
l'oggetto dell'intùito, è considerato unicamente come privo de'
termini, il secondo è consideralo come suscettivo di tutti i termini,
il terzo è considerato come inizio di tutte le entità aventi o in-
volgenti qualche termine : sempre dunque in relazione co' suoi
termini. Così l'essere uno anteriore a' suoi termini ci si molti-
plicò in mano, e ci si moltiplicherà maggiormente, quanto più
svolgeremo il principio accennalo dì questa teoria.
Articolo III.
Principio della teoria delV essere trino.
51G. Se dunque l'essere consideralo in relazione co' suoi termini
è il principio della teoria dell'essere uno, quale sarà il principio
della teoria dell'essere trino?
Non è difficile riconoscerlo dalle cose delle. Quando si consi-
sidera l'essere in relazione co' suoi termini, da una parte si pone
l'essere, dall'altra i suoi termini. Senza questa divisione di con-
cetti, la mente non potrebbe concepire alcuna relazione tra l'uno
e gli altri, dappoiché ogni relazione suppone due opposti tra' quali
ella si considera. All'incontro, quando si considera l'essere ul-
timato 0 progredito a' suoi termini, allora non si separa più colla
mente l'essere da questi, ma a questi si unisce, e unito si con-
sidera. Ora i primi termini dell'essere sono le tre forme. L'es-
sere unito ai termini, non può dunque più godere d'una unità
così fatta, che escluda qualunque pluralità. Se il primo termine
260
fosse un solo, l'essere con questo suo termine sarebbe ancora
assolutamente uno; ma poiché tutti e tre i detti termini sono
primi egualmente, la mente non può concepirlo unito a' suoi ter-
mini se non molteplice, cioè trino. Ma in ciascuno di questi suoi
primi termini è uno: e tuttavia quest'uno in ciascuna specie
trova una moltiplicità. Rimane a vedere in che modo: e tosto
s'avrà il principio della teoria, che si cerca. Ora come V essere
uno anteriore a tutti i suoi termini riceve una pluralità lostochè
si considera la relazione eh' egli ha co' suoi termini ; cosi l' es-
sere uno in ciascuno de' suoi primi termini, cioè delle sue forme,
riceve una moltiplicità tostochè si considera in relazione con al-
tri termini posteriori e subordinati al priuìo. La relazione dun-
que dell' essere in ciascuna delle sue tre forme primordiali coi
termini a ciascuna posteriori e subordinali è di conseguente il
principio della teoria ontologica dell'essere trino, che dobbiamo
svolgere nel libro seguente.
Articolo IV.
Di ciò che ci resta a imitare per compire le ricerche
abbracciate da questo libro.
317. Or dunque, se noi dobbiamo in questo libro svolgere « la
relazione dell'essere coi suoi termini, » rimane a cercare quali
parti abbia questo argomento. SI troveremo che due. Poiché pos-
siamo cercare :
i.° Qual sia questa relazione dell'essere con tulli i suoi ter-
mini in universale rispetto all'essere;
2.° E qual sia questa relazione dell'essere co' suoi termini
in universale rispetto a' suoi termini.
Queste due ricerche costituiscono le due parli di questo libro.
318. La prima fu traila la fin qui, cioè nelle due precedenti
Sezioni : e i risultati che n'abbiamo avuto furono :
1.*' Che l'essere indeterminato non è qualche cosa dell'ente
contingente, ma qualche cosa dell'ente necessario ed assoluto;
2.° Ch'egli è la materia dialettica, cioè W primo determinabile
di tutti gli enti contingenti; ma appunto perchè dialellico e
261
perchè universale, cioè comune a tulli, non costituisce Yessenza
d'alcuno di essi, ma è soltanto causa e condizione, che precede
l'essenza di tutti, per modo che questa esiste per quello, e non
è concepibile senza di quello;
5.0 Che r essere essendo atto primissimo e universale è
anche il primo determinante, cioè l'atto che fa sì che l'essenza
sia piuttosto questa che un'altra, e né pur questo determinante
è essenza d' alcuna cosa contingente , ma causa determinante
universale che determina all'essenza il suo modo di essere ;
4.0 Che finalmente, date alla mente le essenze determinate
de' contingenti, l'essere è l'atto pel quale ogni essenza è, e quindi
è ultima determinazione di tutte , e così è forma universale di
tutte le forme.
319. Ma se noi consideriamo la relazione dell'essere co' suoi
termini, rispetto ai termini stessi, la ricerca che ne nasce si riduce
a questa: « che cosa l'essere conferisca a' suoi termini ».
Ridotta a questa forma precisa la questione, che ci rimane a
trattare in questo libro^ noi possiamo facilmente risolverla con una
risposta universale , la quale ci serva di principio fecondo per
ritrovare, mediante l'analisi di essa medesima, tutto quello che
i termini dell'essere devono all'essere stesso. Questa risposta uni-
versale , che ci dee valere di filo conduttore nello svolgere la
seconda parte di questo libro, è la seguente :
« Tutto ciò che negli enti noi potremo trovare d'universale, e
atto ad essere ugualmente ne' tre modi o forme proprie dell'essere,
viene conferito all'ente dall'essere iniziale anteriore ai termini ».
Nel qual principio e regola questo solo giova osservare, che
risultando la terza forma dal combaciamento delle due prime,
sarà sufficiente, il più delle volte, l'avverare che l'elemento, di cui
si tratta, possa essere pensato ugualmente nelle due prime forme
per potere affermare ch'egli appartiene all'essere anteriore a' suoi
termini, senza più. E dico il più delle volte, perchè, come vedremo
nella Teologia, questo scorciatolo di ragionamento vale rispetto a
tutti gli enti finiti; ma nell'essere assoluto e infinito non regge
a pieno.
262
Articolo V.
Osservazione sul metodo onlologico.
320. E qui cade un'osservazione^ fatta già sagacemente da'filosofi
tedeschi, cioè che il metodo dell'Ontologia si confonde coU'Onlolo-
gia slessa : sicché la scienza qui è il proprio metodo , o per dir
meglio involge il suo metodo in sé medesima. Infatti non essendo
altro i principi del metodo, se non l'ordine intrinseco dell'essere
consideralo in relazione colla mente umana, o da questo traendosi
come norme da seguirsi nell'esposizione delle scienze, egli è chiaro
che quella scienza che tratta appunto dell'essere stesso in tutta la
sua universalità, e del suo ordine, qual è l'Ontologia, non può avere
un metodo anteriore a se stessa; ma nello stesso tempo che narra
l'essere e il suo ordine, dee trovare con questo il metodo con cui
cammina. C'è dunque tra le altre scienze e l'Ontologia questa no-
tabile differenza, che prima dell'altre scienze si può, in qualche
modo , prescriver loro il metodo che hanno a seguitare , perchè i
principi del loro metodo sono dati da una scienza anteriore ad
esse ; ma trattandosi dell'Ontologia, che è appunto la scienza che
contiene i detti principi in universale, se le si prescrive antece-
dentemente un metodo, altro non si farebbe se non distaccare
dalla scienza un brano, e anteporlo a se stessa, il che riuscirebbe
un guasto e un dilaceramento della scienza stessa. Oltre di che
il metodo così prescritto in antecedenza all'Ontologia o rimarrebbe
una prescrizione arbitraria, o, volendosi giustificare, si dovreb-
bero aggiungere tali ragioni, che costituirebbero l'intera scienza:
onde invece di dare in antecedenza il metodo, si tenterebbe l' im-
possibile, cioè di trasportare l'intera scienza avanti a se stessa.
Simile dunque a quel mollusco, che chiamarono l'argonauta,
il quale si fa e vascello e pilota e vela e remo e timone a sé
stesso , e così trascorre leggermente la superfìcie del mare ,
r Ontologia compone di se stessa il suo proprio metodo , col
quale viaggia sicura per l'immensa regione dell'essere ; e però
non rimane altra via a tenersi in essa, se non quella di con-
templare direttamente e descrivere l'essere e l'ente quale si pre-
senta alla mente , e di mano in mano che si discopre qualche
265
porzione dell'ordine che l'essere ha in seno, fermandosi, divisarne
le parti, siccome traccia del metodo ad un tempo, ed esposizione
della scienza. E cosi pure abbiamo dovuto noi fare : dopo distinto
l'essere da' suoi termini, ci siamo soffermati a indicare che ci
rimaneva a considerare la relazione di quello con questi, tanto
in riguardo all'essere, quanto in riguardo a' termini slessi.
CAPITOLO II.
Della ricerca di ciò che V essere conferisce a' suoi termini
riguardo aWente assoluto ed intuito.
321. Dovendo noi dunque ora ricercare, che cosa Vessere con-
ferisce a' suoi termini, conviene che prima consideriamo questa
ricerca, proposta in universale riguardo all'Ente infinito, e poi
che la consideriamo riguardo agli enti finiti.
Ora non è difficile vedere primieramente , che la ricerca
cangia di natura secondo che i tre termini, a cui si riferisce
l'essere, sono infiniti, come avviene nell'ente assoluto ed infinito,
0 sono finiti, quali sono negli enti finiti.
Apparisce dalle cose dette, che l'ente infinito e l'ente finito
e mondiale si possono definire nel modo seguente , che ne fa
risaltare la differenza.
« L'Ente infinito è Vessere clie sussiste nelle sue tre forme ».
« L'ente finito è la forma del reale finito, che ha l'essere ».
322. Dal confronto di queste due definizioni si scorge :
ì.° Che il subietto nell'Ente infinito è l'essere stesso; laddove
il subietto nell'ente finito non è l'essere, ma è la forma reale (1);
2.° Che quindi l'ente infinito essendo l'essere, è per sé;
laddove l'ente finito essendo puramente la forma, non è per sé,
ma per l'essere ad essa aggiunto :
3.° Che l'Ente infinito essendo lo stesso essere sussistente
nelle sue tre forme , non può esservi nessuna reale distinzione
tra lui e le sue forme, perchè le forme altro non sono che il
triplice atto del suo stesso sussistere. All'opposto l'ente finito
non essendo l'essere, ma una forma finita, e questa forma avendo
(1) Nulla forma vel natura creata est suum esse. S. Th. De Pot. II, 1.
264
bisogno di partecipare l'essere, che è un altro diverso da essa, per
esistere, c'è una diversità reale nell'ente finito tra la forma reale
che lo costituisce quel subietto che è, e l'essere che Io fa esistere.
3^5. Da questo nasce la denominazione di termini propri ed im-
propri dell'essere: essendo termini propri dell'Essere le forme
nell'Ente infinito, e termine improprio la forma reale che costi-
tuisce l'ente finito partecipando l'essere.
Di qui procede la conseguenza, che la ricerca che ci pro-
ponevamo: « che cosa l'essere conferisca a' suoi termini: •» nel-
l'Ente infinito non può aver luogo, perchè non c'è una dualità
dell'essere e delle singole forme, di maniera, che l'essere possa
dare qualche cosa a queste, essendovi anzi perfetta identificazione.
L'essere dunque nell'Ente infinito non dà nulla alla forma, o le
dà tutto : perchè ogni forma non è altro che lo stesso essere
tutto intero sussistente in quella forma.
Quindi non rimane rispetto a quest'essere altra domanda pos-
sibile a farsi se non questa: « cosa l'essere, tutto intero sussi-
stente in una o nell'altra forma, dia a se stesso )> , cioè quali
sieno le relazioni attive delle forme dell'essere assoluto : e questa
è la dottrina delle processioni delle Divine Persone , la cui
esposizione non ispelta al presente libro.
324. Questa dottrina dell'Essere assoluto, che non sì dislingue
dalla sua forma, è quella che mancò a Platone, e che rese deficiente
la sua Ontologia. Infatti da per tutto, ma specialmente nel Par-
menide^ egli non sa concepire altro ente, se non quello che egli
chiama ente uno, ov év, e che fa composto di due elementi, cioè
dell'essenza ovaia., forma astratta dell'essere, e dell'uno £v (1). Non
potendo dunque Platone concepire nessun ente, che non sia com-
posto e che non abbia la pluralità in se stesso , ne fa uscire
tutte quelle antinomìe , che espone brevemente nel Sofista , e
lungamente nel Parmenide, e che rimangono di necessità incon-
ciliabili. Lo stesso essere aivai per lui diviene un composto, cioè
diviene la partecipazione deW essenza e del tempo presente (2). Di
puro dunque e di semplice non gli rimase in mano altro che
(t) Parm. p. 142.
(2) Ti Si ùva.1 v.llò ri S'j'riv /j /xi^t'iii ovalxi y.e.zx xpàvou ro'J -riupòvroi] PaVììl.
\). tSl. Di qui si vede, come il suo discepolo Aristotele non potesse poi con-
265
elementi di enti, ma nessun vero ente : tali elementi sono Vimo
e Vessenza, due astraili , senza avvedersi che Vcssenza esprime
un alto mancante di subietto, con una relazione però a questo
subietlo (,211, 227-236*); onde il concetto dell'essenza suppone
qualche altra cosa, non d'astratto, ma di reale, il che nel fondo
è la censura che gli fece Aristotele.
Dal principio dunque universale, che l'ente uno si compone
ihWuno e dell' essenza (1) , ne viene che ogni ente si fa , di-
venta, sistema riprodotto dairiiegel , come una novità ne'nostri
tempi! Ecco questo sistema nelle espressissime parole di Platone.
« Ora, ricevere l'essenza noi chiami tu un l'arsi."^
« Certo.
« Ed esser |>rivato dell'essenza un perire ?
« Più elle mai.
(( L'uno dunque assumendo o deponendo l' essenza si fa
e perisce V
« Di necessità.
« E poiché egli è uno e molti, e si fa e perisce , non
deve egli accadere, che quando si fa uno cessi d'esser molli, e
quando si fa molti cessi d'esser uno ?
« Per fermo (2).
cepire l'essere come qualche cosa di sussistente in sé , ma lo considerasse
sempre come un atto d'altra cosa, e però non lo facesse conoscibile che per
via d'astrazione : sebbene ricadesse poi involontariamente e per necessità
dialettica nel vero (Aristotele ,139 ; passim*).
(1) Platone deduce la moltiplicità dalla dualità prima, che è l'unione di
ciò, che cliiama uno, coWesseiiza., dualità che si trova in ogni ente uno. Que-
sta unione non si può sciogliere colla mente, perchè non si può concepire
l'uno se non essente (altramente s'annullerebbe), e per la stessa ragione non
si può concepire l'essenza senza l'uno. Se dunque la mente tenta di dividere
questi due elementi, quando pensa il solo uno , il concetto dell'essenza non
l'abbandona, ma, suo malgrado, segue il concetto dell'uno^ e quando pensa
la sola essenza, la pensa di novo coll'uno ; e quindi ognuno de' due elementi
nel pensiero rimane duplice^ e potendosi replicare quest'operazione all'infi-
nito, il pensiero trova il numero all'indefinito , ogni numero. Da questo de-
duce che Vessenza si distribuisce secondo il numero, e l'uno si plurifica se-
condo l'essenza distribuita (Parmen. p. 142, sgg.). L'uno dunque e l'essenza
in questo sistema sono i due ultimi elementi degli enti; ma l'ente uno è
sempre necessariamente composto di tutt'e due.
(2) Parmen. p. 156.
266
32S. Platone non essendo pervenuto ad intendere come Ves-
sere sussista in sé medesimo semplicissimo , non potè conce-
pire una vera Ontologia , mancandogli la dottrina dell'essere
sussistente, e gli convenne restringersi a parlare dell'ente com-
posto , che è l'ente finito , il che non è più che un Ontologia
cosmologica. Più maraviglia ci deve recare , che un filosofo al
dì d'oggi non abbia saputo approfittarsi dello splendido lume ,
che apportò alla dottrina dell'essere il Cristianesimo, e che,
come fece l'Hegel, abbia amato meglio d'arretrarsi cotanto, e
sperato di parere un filosofo originale col ricantare quanto ave-
vano balbettato, in un modo ammirabile in quel silenzio della
verità, i filosofi del gentilesimo.
CAPITOLO III.
Della ricerca di ciò che l'essere conferisce a' suoi termini
riguardo agli enti finiti — Analisi di questa ricerca.
326. Rimane dunque, che la ricerca, da noi proposta « di ciò
che l'essere conferisca a' suoi termini, » s'intraprenda riguardo
agli enti finiti.
La quale investigazione non si può condurre ordinatamente,
riguardo a questi, se ella non si analizza e si divide nelle sue
parti. Poiché egli è chiaro che per condurla a fine , si dee
mettersi in queste ricerche speciali , ch'essa racchiude nel suo
seno :
1.** Che cosa ci abbia nell'essere d'incomunicabile agli
enti finiti ;
2.** Quale sia la natura della comunicazione dell'essere , e
partecipazione delle proprietà dell'essere dalla parte de' reali
finiti ;
Z.^ Se l'essere riceva nulla dalla sua comunicazione coi
reali finiti;
U.° Quali sieno le proprietà dell'essere comunicabili ai reali
finiti, e che in questi si trovano.
267
CAPITOLO IV.
Che cosa ci abbia neW essere d'incomunicabile
ai reali finiti.
Articolo I.
Onde nasca che alcune proprielà dell'essere
sieno incomunicabili ai reali finiti.
527. Che ci sia neWessere impersonale, come risplende nulural-
mente alla nostra intelligenza, qualche cosa d'incomunicabile,
questo non viene dalla natura dell'essere stesso, ma dalla limi-
tazione del reale che costituisce il subielto dell'ente finito, ossia
l'ente stesso finito, a cui si riferisce la definizione.
Ora nel reale dell'ente finito, quello che osta alla piena co-
municazione dell'essere , si è appunto la sua finitezza, o limita-
zione (1). Questo è il principio universale che ci deve condurre
a rinvenire tutto ciò che nell'essere c'è d'incomunicabile al
reale finito,
Afiticolo li.
Sei prime proprietà dell'essere incomunicabili.
528. Quello dunque che primieramente c'è d'incomunicabile
nell't'ss^rd indeterminato, si è la sua illimitazione j perchè questa
conlradice alla condizione già posta, che il reale di cui si traila
sia limitalo. L'essere dunque, che fa esistere « un reale limitato »,
non può fare che egli abbia un'esistenza illimitata, com'è quella
dell'essere stesso.
La limitazione poi de' reali è minore o maggiore, e però l'esi-
stenza del pari che ricevono dall'essere è maggiore o minore.
(1) S. Tommaso : Forma autem non perficitur per materiam, sed magis
per eam cine amplitudo contrahitur. S. I, vii, 1.
268
Ora la parola « illimilazione dell'essere » può essere analiz-
zala, e trovarsi in essa molte proprietà ; le quali tutte sono in-
comunicabili , perchè appartengono all' illimitazione dell'essere.
La limitazione dunque del reale è la prima ragione del perchè
ci abbiano nell'essere alcune proprietà incomunicabili al mede-
simo reale.
La seconda ragione — ed è una limitazione anche questa —
si è che l'ente finito, essendo costituito da una delle tre forme
dell'essere, e questa finita , e perciò non essendo l'essere egli
stesso, ma una forma , e la forma essendo incomunicabile al-
l'altre forme, l'ente finito non può comunicare se stesso, come
Vessere, che può esistere nelle tre forme. La proprietà dunque
dell'essere, di comunicarsi, manca aWente finilo, a cui non re-
. sta che l'azione d'un ente sull'altro , la quale è propria della
forma e non dell'essere , di cui è propria la comunicazione.
} 529. Di qui vengono tre principali proprietà incomunicabili
dell'essere, che sono :
4.° L'essere non riceve l'essere da altro: quest' asse/7à è
una sua proprietà incomunicabile;
2." L'essere comunica l'essere alla forma reale finita: questa
comunicabililà dell'essere è una seconda proprietà incomunicabile;
3." L'essere è essere: questa identità con sé stesso è una
terza proprietà incomunicabile.
L'ente finito all'incontro ha necessariamente le proprietà op-
poste: 1.° di esistere non da sé, ma da altro; 2° di avere
virtù di agire sopra altri enti , ma non di comunicare loro
l'essere stesso; 3.° di essere duplice, uguale a se stesso e disu-
guale, e non uno e semplice e uguale a se stesso come l'essere.
La limitazione dunque dell'ente finito , e l'essere egli , come
reale, mancante deW essere , sono le due ragioni, per le quali
nell'essere ci sono proprietà incomunicabili , che si possono ri-
durre a quattro universali: 1.° Villimilazio?ie ; 2." Vasseità;
ò.° la comunicabilità: e 4,° Videntità.
Al qual discorso non può fare ostacolo la definizione dell'ente
finito , dal quale esso move. Poiché la definizione è questa :
« l'ente finito è un reale finito unito coU'essere ». Onde sva-
nisce ben tosto l'obiezione che si presenta al pensiero: a L'ente
è nelle Ire forme: ma anche l'ente finilo è ente: dunque anche
269
egli deve essere nelle tre forme». Poiché si risponde, che
l'ente finito dicesi ente in un significato al tutto diverso da
quello, in cui si dice ente l'Ente infinito, e però anche l'ente
finito ha le sue tre forine , ma in una maniera totalmente di-
versa da quella , in cui è nelle sue tre forme l'Ente infinito.
L'Ente infinito dicesi ente, perchè è egli stesso « l'Essere in sé
terminato »; ma l'ente finito dicesi ente, non perché sia anche
egli (( r Essere in sé terminato » , ma perché è « un reale
che partecipa dell'essere, e che non è l'essere ». L'ente finito
dunque è un ente relativo, e non un ente assoluto : e propria-
mente parlando altro non è, come dicevamo, che un termine o
forma impropria dell'essere stesso, quasi sospesa all'essere.
530. Ma (|unli poi, si replicherà, sono l'altre due forme, cioè
l'oggettiva e la morale, che rispondano a questa forma reale, che
dicesi, unita all'essere suo inizio, ente finito? — Rispondiamo
quello che risulta dalle cose dette e che meglio apparirà da
quelle che diremo in appresso :
i." Che la forma obiettiva dell'ente finito non è l'ente fi-
nito, ma sono le idee delerminale, e queste altro non sono che
l'essere stesso in quanto serve a far conoscere l'ente finito come
possibile, e come sussistente ; e di questa forma finita parteci-
pano le intelligenze finite , non in modo che costituisca l'esi-
stenza subiettiva e reale loro propria, ma come oggetto da esse
diverso ;
2." Che la forma morale nasce con quell'atto , col quale
i detti enti finiti dotati d'intelligenza s'uniformano nel loro ope-
rare iìW essere obiettivo rappresentante ossia facente conoscere
tutte le cose, onde la forma morale dell'ente finito è una co-
municazione dell'essere stesso morale , cioè dell'essere come
amabile. Questa forma dunque è ricevuta nell'essere subiettivo
finito che ne trae la sua perfezione , ma è un altro da lui ,
perchè e l'amabilità e l'amore dell'essere ordinatissimo in sé,
che si mostra all'ente finito senza confondersi , contribuendo
l'attività di questo a ricevere in sé quell'amabilità e così per-
fezionarsi.
551. Come dunque l'ente finito non è il proprio essere, ma é una
forma finita dell'essere (la reale), cosi egli non esiste in sé stesso
nelle tre forme, ma nella sola forma reale. Come poi l'ente fi-
270
nito ha una congiunzione intima coH'essere, senza il quale non
sarebbe, cosi pure ha una congiunzione intima colle altre due
forme dell'essere (l'obiettiva e la morale), e in quanto queste due
forme si riferiscono a lui ed egli ne partecipa^ in tanto dicesi
che sono anch'esse sue forme , ma in altro modo da quello in
cui è sua forma la reale, perchè questa gli appartiene col co-
pulativo dell'essere, e l'altre con quello dell'attere o del parteci-
pare {Logic. 429), che all'avere si riduce.
Rimane dunque fermo che l'ente finito non si può definire
se non come « un reale che ha l'essere, e che può avere co-
municazione, ma non confondersi, colla forma oggettiva e colla
forma morale dell'essere stesso ». Di che consegue, che se tra
le cose, che l'essere non può comunicare nella costituzione del-
l'ente finito, si vuole comprendere anche le forme, due altre
proprietà incomunicabili si dovranno aggiungere alle quattro no-
minate, e saranno: 5.** la forma obiettiva; G.' la forma morale;
delle quali però partecipa gl'ente finito*.
Articolo III.
i4//re sei proprietà dell'essere incomunicabili ai reali finiti: ì.° l'u-
niversalità; 2.° la necessità; "5.° l'immutabilità; h." l'eternità;
5." /a semplicità assolata; G.** la primalità assoluta.
332. Da queste sei prime proprietà molte altre se ne derivano,
che non possono essere comunicate ai reali finiti.
L'alto dell'essere si trova ugualmente in tutte le entità: poiché
è l'atto, pel quale sono. L'alto che si dice essere è dunque uni-
versale e comune a tutte le entità possibili.
E qui si noti in che consista il concetto deW universalità :
« essere universale vuol dire trovarsi identico in tutte le entità ».
Questo carattere non si ravvisa che nell'essere iniziale : distin-
guendosi questo colla mente da tutti i suoi termini, è suscettivo
di lutti : rimane dunque identico , s' abbia o non s' abbia i
termini: ogni cangiamento possibile cade solo ne' suoi termini.
L'essere dunque è la sede, e il fonte, la ragione unica d'ogni
universalità.
271
Ma se r essere è un alto universale, le entità, avendo quel-
l'atto , avranno esse un alto universale? No , ma l'atto proprio
di ciascuna. L'universalità dell'essere iniziale non è un atto che
passi nelle entità (1) : si unisce ai singoli termini l'atto che si
dice essere, ma non V ìiniversalità di quest'atto: poiché questa
consiste nel potere che ha l' essere iniziale d' unirsi a tutti i
termini possibili, e non nell'atto dell'unione con ciascuno. Laonde
già prima vedemmo, che l'essere iniziale è lo stesso essere vir-
tuale, in quanto si considera unito a' singoli suoi termini : l'uni-
versalità sua consiste all'opiiosto nella sua virtualità o suscetti-
vità de' termini, rimanendo identico.
Quesl'è nuova prova che Vessere si dislingue da tutte le entità
conlingenli, che hanno di lui bisogno per esistere; poiché quello
conserva una universalità, che non può essere a queste comu-
nicata.
353. Altra proprietà dell'essere è la necessità e l'immutabilità.
Che l'essere sia necessario ed immutabile fu da noi veduto : ma
se le entità anche contingenti hanno quest'atto, saranno anche
esse necessarie e immutabili, e non contingenti, — È dunque
da rispondersi anche qui in un modo simile al precedente, che
la necessità e immutabilità appartiene all'essere fjVfMaie: che in
questo non accade cangiamento alcuno, quando a lui s'uniscono
de' termini contingenti, se non che acquista l'appellazione d'ini-
ziale dalla mente , che lo riguarda in unione co' suoi termini.
Tutta la mutazione nasce ne' termini: questi sono uniti a quello,
e slaccandoli da quello non sono più: ma l'essere a cui s'uni-
scono 0 da cui si distaccano rimane lì uguale, identico perfetta-
mente. Ricevono dunque l'atto dell'esistere, ma quest'atto è cosa
diversa da essi. Altra prova dell'importante proposizione, che:
« altro è l'essere , ed altro i suoi termini contingenti » : questi
non sono se non uniti a quello , ma quello è quello che è per
se stesso, s'uniscano a lui questi o da lui si distacchino.
334. Una terza proprietà incomunicabile dell'atto dell'essere è
la semplicità perfetta. — Essendo l'atto dell'essere di una sempli-
(1) Nel libro seguente vedremo come dell'universalità dell'essere parte-
cipino le essenze de' contingenti, ma non la ricevano mai tutta, quale è nel-
l'essere stesso.
272 ^
cita perfetta, non può esserci in esso successione : quindi è im-
mune dal tempo, è eterno.
Non ha gradazione per modo che sia più o meno.
Quindi due corollari:
a) In questa semplicità dell'atto dell'essere, ossia dell'esistere,
in cui non si può pensare né successione , né gradazione , si
scorge la ragione del principio di contraddizione. Non potendoci
essere niente di mezzo tra l'essere e il non essere, ogni cosa o
è 0 non è {Logic, o^l, 'òhi, 542, 345, 34G): se non ci avesse
questa assoluta ed evidente semplicità dell'atto dell' essere , il
principio di contraddizione non sarebbe vero, perchè ci potrebbe
essere qualche cosa di mezzo tra un assoluto sì^ e un assoluto no,
h) Non si può applicare all'alto dell'essere il concetto del
divenlarej che involge quello di molo, e quindi di mutabilità e
di successione. Laonde l'Hegel che volle applicare questo con-
cetto all'essere, si trovò obbligato di negare il principio di con-
traddizione, di ricevere anzi la contraddizione stessa come prin-
cipio di un sistema, che con ciò si annulla da sé medesimo.
Questa semplicità dell' atto dell' essere è partecipata da tulle
le entità che partecipano l'atto dell'essere, o sia l'esistenza:
poiché anche di esse si può dire: « sono o non sono ». Onde
il principio di contraddizione vale ugualmente applicato a tulli
gli oggetti del pensiero.
535. Altra proprietà (\c\Ve?<seve è \iì primnlità assoluta ; il che
è quanto dire, che l'atto dell'essere, è l'alto d'ogni alto contin-
gente. Reincide questo carattere dell'essere colla proprietà che gli
abbiamo attribuita di essere qualcosa di dialetticamente ante-
riore e posteriore a tutte le cose contingenti.
Il qual carattere di primalilà non può essere partecipato dai
contingenti, poiché niuno di essi può dirsi che sia anteriore a
se medesimo.
Gli enti finiti dunque non possono ricevere in sé V universalità,
la necessità, e con essa V immutabilità, e Veternità , la semplicità
assoluta, la primalità assoluta dell'essere, appunto perché tali pre-
rogative appartengono all'essere considerato in sé stesso e nella
sua virtualità, e non all'essere in quanto é precisamente inizio
delle singole entità : benché quello slesso essere che è virtuale
sia il medesimo con quello che è inizio, ma in quant'è inizio è
273
veduto dalla mente sotto una relazione più ristretta , ristretta
cioè a' singoli termini che a lui, come a loro inizio, si congiungono.
E non di meno le entità contingenti hanno per loro condi-
zione necessaria d'essere unite siccome termini all'essere neces-
sario dotato di tutte quelle altre prerogative che ad osse non
possono essere comunicate.
Articolo IV.
Doppia relazione dell'essere alle cose contingenti, l'ima nascente
dalle proprietà comunicabili, l'altra dalle proprietà incomuni-
cahili dell'essere.
336. Dalle quali cose tutte si deve trarre questa importante
conseguenza che « la relazione delle cose contingenti coH'essere
virtuale ed iniziale e duplice : l' una consiste in questo , che
Tessere deve trovarsi in esse con alcune sue prerogative, ac-
ciocché esse sieno, e, come tale, egli è causa formale, universale,
antecedente, e susseguente nell'ordine dialettico; l'altra consiste
in questo, che l'essere deve avere altre prerogative, colle quali
egli non si trovi nelle cose, prerogative tuttavia necessarie e
proprie di lui, e, come tale, egli è causa condizionale, ossia con-
dizione assolutamente necessaria , acciocché sieno le cose con-
tingenti ».
Nel discorrere le diverse prerogative dell'essere, noi dovremo
avere di continuo presente questo principio, e definire quale
delle prerogative, che ripasseremo, sia partecipata a' contingenti,
e quale si rimanga nell'essere , come semplice condizione dei
medesimi. Per discernerle abbiamo già posto il criterio, giacché
« le prerogative che appartengono all'essere nella sua precisa
relazione d'iniziale di ciascuna, sono partecipabili; quelle che gli
appartengono soltanto nella sua relazione di virtuale, sono im-
partecipabili >: .
Rosmini. Teosofìa. 18
274
Articolo V.
Delle proprietà incomunicabili e comunicabili dell'essere
rispello alle essenze de' finiti.
557. Ma parlando noi qui di entità contingenti, ci si presentano
altre entità che a queste si riferiscono, e sono le loro essenze
vedute nell'idea. Noi abbiamo già detto, che le essenze delle cose
contingenti vedute nell'idea sono universali, necessarie, immuta-
bili, eterne, ecc. e però che partecipano delle più nobili preroga-
tive dell'essere stesso {IdeoL ^2, 213 w, hìh-Wòl; Rinnov. Lib. HI.
Gap. XL segg ). Dobbiamo qui osservare che le essenze delle cose
contingenti vedute nelle idee non partecipano neppur esse della
primalilà dell'essere virtuale ed iniziale: delle altre qualità divine
poi partecipano limitatamente, perocché ì.° Vuniversaiità delle
idee delle cose contingenti, non è universalità se non rispetto a
quelle cose di cui rappresentano l'essenza, e non a tulle le cose
ed essenze, qual è l'universalità dell'essere iniziale ; 2,° la ne-
cessità non è l'assoluta, ma presupposto un atto dell'essere asso-
luto, come altrove ho accennato {Rina. ,111. xlii in fin. lu*), e
meglio si dichiarerà altrove; 5,° e lo stesso è a dirsi della loro eter-
nità; U.° l'immutabililà che consegue dalla loro semplicità, per la
quale non cade in esse la distinzione di sostanza e d'accidente,
è anch'essa condizionala alla loro esistenza.
La ragione poi per la quale le idee e le essenze in esse ve-
dute partecipano di così eccelse doti si è, che esse sono l'essere
stesso, ma considerato come inlelligibilità delle cose contingenti
(forma ideale dell'essere) , e come tale nella relazione esclusiva
che egli ha con ciascuna di esse, veduta la quale dalla mente,
questa trasferisce nell' essere la limitazione enlitativa di essa
cosa , e cosi intuisce l'essere stesso ristretto al bisogno che ha
la cosa d'essere da lui illustrala.
358. Dobbiamo dunque distinguere due gradi di partecipazione
delle prerogative dell'essere alle entità in generale :
1." Un grado maggiore di partecipazione delle dette pre-
rogative, che è quello delle essenze e delle idee (entità ideali) ;
2.° Un grado molto minore della detta partecipazione, che
è quello di cui godono i reali contingenti (entità contingenti).
27S
CAPITOLO V.
Quale sia la natura della comunicazione e congiunzione
dell'essere co' reali.
Articolo I.
Triplice relazione dell'essere col reale.
339. L'essere iniziale col suo termine reale ha Ire relazioni :
i.° La relazione d'identità, la quale non si trova che nel-
l'Essere infinito per sé sussistente.
2." La relazione di causa alto immediata, la quale si trova
in certi reali finiti, che per ciò si dicono sostanze.
3.° La relazione di causa atto mediata, la quale si trova in
certi reali finiti, che perciò si dicono accidenti, perchè non ri-
cevono l'essere se non per mezzo d'altri reali (sostanze), che
hanno giù partecipato immediatamente l'essere.
Articolo II.
Relazioni d'identità.
ùUO. In quanto alla relazione d'identità tra {'essere e il reale infi-r
nito, essa è puramente mentale, e relativa al modo del conoscere
astratto. Poiché l'essere assoluto è perfettamente identico e uno
in sé stesso, e però non ammette intrinseche relazioni, non po-
tendo queste concepirsi se non tra due. Ma poiché noi conce-
piamo prima Vessere privo della sussistenza, e poi congiungendo
ad esso i reali che cadono nel nostro sentimento , concepiamo
gli enti finiti ; quando vogliamo ascendere al pensiero dell' Ente
infinito, che non cade nel nostro naturai sentimento , siamo co-
stretti a tenere la via dell'analogia dell'ente finito — la sola cosa
reale che conosciamo positivamente, — e però concepiamo l'Ente
infinito, mediante la congiunzione de' due elementi che abbiamo
27C
prima nel nostro pensiero in uno stalo di divisione, cioè: 1." l'es-
sere, 2.' il reale. Aumentiamo, è vero, questo secondo col pen-
siero air infinito , ma così che ci resta sempre nel concetto il
puro reale senza l'attualità dell'essere. Questa dunque noi gliela
aggiungiamo, e così ci formiamo il concetto dell' Ente assoluto
ed infinito. Ma dopo aver fatta quest'operazione, torniamo colla
riflessione sopra un tale concetto , e vediamo che sebbene noi
abbiamo prima concepiti que' due elementi separati, tuttavia non
possono rimanere due, né rimanere clementi nell'Essere infinito,
ma devono essere un solo e semplicissimo essere senza alcuna
vera distinzione. E ciò perchè: \.° l'essere stesso è il subietto
che sussiste, e però la sussistenza o realità, non può essere altro
che l'alto pel quale è, e quindi non punto cosa differente, il che
si prova anche così : k U vero subietto è sempre il reale. Ma
l'essere in Dio ,è il vero subietto, dunque ecc.*; 2.'' Perchè il
reale non potrebbe essere infinito, se non fosse lo slesso essere,
non essendoci d' infinito che 1' essere. Per esprimere dunque
questa congiunzione che noi facciamo dell' essere e del reale infi-
nito in modo che non involga assurdo — come l'involgerebbe se si
trattasse d'una semplice unione e congiunzione, — la chiamiamo
identificazione, e l'unione stessa la chiamiamo identità o relazione
d'identità, emendando con questa espressione ed abolendo quel di-
fetto che il nostro concello di Dio traeva seco dalla sua origine
cioè dalla maniera indiretta e analogica, con cui la nostra mente
era stata costretta di formarselo.
Zhì. E questo spiega in universale l'origine del concetto A' iden-
tità, 0 quella che si chiama relazione d'identità. L'origine è questa :
« Ogni qual volta la nostra mente concepisce un' entità come
fos.'^ie duplice, o molteplice, ma poi s'accorge che ciascuno di
que' più è luUa l'entità che si presentò al pensiero sotto vari
concelti, ella dice allora che que' più hanno tra loro la rela-
zione d'identità^) {Logic, 'ùhh, sgg.).
La relazione dunque d'identità è un pensiero, che abolisce la
pluralità introdotta indebitamente nella concezione d'una qual-
che entità da un altro pensiero precedente, e così l'emenda.
277
Articolo III.
Relazione immediata e mediata di causa atto.
342, Abbiamo dello di poi, che la relazione dell'essere rispelto
al reale finilo è quella di catisa atto , e, questa causa alto, o me-
diata 0 immediata.
Il lettore già intende da quello che abbiamo detto , che noi
distinguiamo la causa atto dalla causa subietto. Abbiamo già av-
vertilo che l'essere iniziale , qual è quello che noi concepiamo ,
è a noi manifesto come allo, non come subiello di quest'atto {Lo-
gic. 334); laonde quando noi in favellando prendiamo l'essere
come subietto delle cose, non è che una finzione del pensar no-
stro che cangia l'alto in subiello, il quale per ciò viene da noi
chiamalo subietto puramente dialetlico, E cosi anche V essere ài-
cesi materia dialettica universale, per la stessa finzione per la
quale lo chiamiamo subietlo dialetlico.
Ma quando lo consideriamo come puro allo, qual è, non su-
bietto, allora lo chiamiamo forma universalissima e non pro-
pria delle cose , ovvero forma universale e unica di tutte le
forme finite. E così egli si distingue dalla causa suprema, Iddio.
Poiché Iddio è la causa subietto delle cose, e l'essere è puramente
la causa atto delle cose.
Questo medesimamente dimostra come Y essere possa essere ai
reali finiti congiuntissimo, e costituire l'atto pel quale sono,
senza che ne seguili il panteismo. Poiché come Vessere obiettivo
da cui, per un'astrazione dell'intelligenza libera di Dio, è stato
astratto il subietto , costituisce il lume conceduto alla mente
umana ; così Vessere subiettivo, da cui é stato da Dio pure astratto
il subiello (e vedremo meglio nel libro seguente come quest'a-
strazione possa aver luogo) , é puro atto comune a tulli i reali
finiti, e quest'atto senza subietto non è Dio, perchè Dio è essen-
zialmente Essere subietto. Quest'atto poi che rimane senza su-
biello proprio , trova il suo subietto nella realità finita , di cui
egli è atto. E tutto questo avviene, perchè l'astrazione divina,
come diremo in appresso, è il fondamento della creazione.
Abbiamo poi aggiunto che questa causa atto si unisce a' reali
278
0 immediatamente, e intanto i reali divengono sostanze; o
mediante i reali sostanze, e intanto i reali si dicono accidenti.
Questo ci obbliga a determinare il carattere della sostanza e del-
l'accidente in universale, distinzione che non si trova che nel-
l'ente finito, e però tale, che apparterrebbe alla scienza cosmo-
logica ; ma pel tenersi di tutte queste dottrine teosofiche insieme,
non possiamo a meno che ricorrere alle une o alle altre, secondo
il bisogno, senza riguardo alla divisione delle tre parti, ontolo-
gica, teologica, cosmologica, che per ciò appunto abbiamo chia-
mate parti d'una sola scienza, la Teosofia.
343. Che cosa è dunque quel reale finito che si chiama da noi
sostanza? Che cosa è quello che si chiama da noi accidente?
Il carattere distintivo della sostanza reale è quello di essere
una e indivisibile, e di poter come una e indivisibile ricevere
l'essere, che la faccia sussistere in se (i).
Conviene che della sostanza, come d'ogni altra proprietà del-
l'ente finito, ci formiamo il concetto a posteriori, perchè del solo
Ente infinito vale il ragionamento a priori. Come dunque ci for-
miamo noi il concetto della sostanza ?
Prima di tutto dalla coscienza di noi stessi. Ciascuno di noi
è consapevole d'esser uno e di sussistere fPsicol. 124 sgg; ìkO
sgg.; 180 sgg; 431 sgg; bCO sgg ; 626 sgg; 676 sgg.) : e però
d'aver i caratteri accennali della sostanza. Si ritenga, che seb-
bene il nostro proprio sentimento non sia sempre coscienza, tut-
tavia la coscienza è sempre lo stesso nostro proprio sentimento
consapevole, l'IO; onde ciò, che dice la coscienza dell' IO, è: poi-
ché il conosciuto qui è la cosa stessa: e per questa identificazione
la coscienza non può errare. In noi stessi dunque abbiamo il
primo concetto e il primo esempio della sostanza.
L'abbiamo pure dell'accidente, perchè noi ci sentiamo uni ed
identici a malgrado di tutti gli atti nostri passivi ed attivi, e
delle modificazioni abituali che ce ne rimangono. Questi atti e
modificazioni raoltiplici e continuamente mutabili, non si possono
concepire esistenti senza l'anima, cioè senza l'IO che li subisca.
Non avendo dunque né unità né sussistenza immediata , non sono
sostanza, ma accidente.
(1) Cf. Aristotele esp. ed esam.
279
Ora lo stesso accade d' un principio sensitivo ancorché privo
d'intelligenza : nel suo concetto s'acchiude quello d'unità, e che
possa sussistere il vediamo negli animali bruti , i quali hanno
pure i loro accidenti.
Se noi ci rivolgiamo agli enti estrasoggettivi, corporei (4) , la
loro natura è relativa al sentimento. Ma che sussistano è mani-
festo da questo che agiscono sul soggetto sensitivo, e l'agire
non è che del sussistente. In quanto poi alla loro unità, ella è
giudicata dall' intendimento secondo 1' unità del sentimento che
suscitano^ e di cui sono termini. Di che natura sia questa unità
e quanto deficiente dall'unità perfetta noi lo cercheremo nella
(Cosmologia. Basta per adesso che il sentimento assegni loro qual-
che unità, sia qualitativa, sia figurativa ; per intendere che allo
stesso modo che hanno sussistenza ed unità, allo stesso modo
sono sostanze.
344. Tutto ciò dunque che si concepisce come uno, e che nella
sua unità può sussistere, ed è soggetto a modificazione senza per-
dere la sua unità e sussistenza, è una sostanza ; e l'idea che ad
essa corrisponde è quella che abbiamo chiamata specifica astratta,
e che abbiamo dedotta dalla sua capacità di ricevere immediata-
mente l'essere, e così di sussistere (Idcol. G49-652J. Ma qui
osserviamo di più, che questa capacità di ricevere immediata-
mente l'essere è nella natura del reale , che serve, quasi direi,
di materia alla forma dell'essere , e non nella natura dell'essere ,
che da parte sua è sempre comunicabile.
E per la stessa ragione vi ha qualche reale, cioè l' accidente,
che non è suscettivo di ricevere l'essere se non in un altro reale,
cioè in quel reale che ricevendo immediatamente l' essere è
sostanza reale : anche questo dipende dunque dalla natura del
reale, che è più o men limitato , e questa limitazione determina
il modo e il quanto della partecipazione dell'essere.
Consideriamo dunque qual sia l'indole della congiunzione del-
l'essere col reale sostanziale, e poi qual sia»!' indole caratteri-
stica della congiunzione dell'essere col reale accidentale.
(1) Lo spazio puro non si può chiamare sostanza, perchè non ha per se
accidenti, racchiudendo il concetto di sostanza una relazione co' corpi. Egli
è dunque un ente estrasoggettivo semplicissimo.
280
Articolo IV.
Relazione immediata di causa atto , o enlificazionc.
345. La congiunzione e comunicazione dell'essere col reale so-
stanziale primieramente non è identificazione, la quale si riscontra
solo nell'Essere assoluto ed infinito, come abbiamo già dimostrato.
Di poi, ella è la più intima di tutte le congiunzioni possibili,
a cui, per distinguerla dall'altre, noi daremo il nome di entiftca.
Questa tuttavia non è un'identificazione, la qual si fa solo
nel concepimento dell'ente infinito; ma è un unione sintetiz-
zante, non di quelle che sono tali da amendue i lati , ma da
un solo , onde le chiamiamo sintetizzanti imilaterali. Le quali
hanno questa natura , che sebbene uno de' due elementi noi\
perisce col perir dell'altro , tuttavia l'altro perisce col perire,
0 collo slaccarsi da lui, del primo. Così Vessore non perisce
quand'anche s'annulli il reale , ma il reale s'annulla e non è
più concepibile, quando si pensasse che non ci fosse l'essere, o
quando l'essere da lui si dividesse. Perendo poi il reale, perisce
l'ente che risulta da tal unione.
Articolo V.
Antinomìe che trovò Platone meditando sull'entilìcazione,
e critica delle medesime.
346. Ora tale essendo la costituzione dell'ente finito , egli com-
parisce al pensiero come non fosse uno, ma due, ammettendo due
definizioni, l'una dialettica, come abbiam veduto, nella quale si
pone un subietto dialettico, e l'altra propria, nella quale si pone
il suo vero subietto. Di qui gli antichi dissero, che l'ente reale
non è identico ma diverso da sé stesso. Anzi in questo princi-
palmente si fondano le antinomìe che Platone espone nel Par-
menide. Sulle quali crediamo utile aggiunger qui qualche altra
osservazione a quelle fatte altrove, bramando noi che la nostra
filosofia si rannodi alla tradizione filosofica e a questa si con-
tinui , acciocché apparisca che il genere umano non ebbe che
281
una filosofìa sola, a cui sempre fa ritorno, non essendo filosofia
gli errori, o gli equivoci che vi si possono essere intramessi
dalla limitazione dell'umano ragionamento.
Nella prima parte dunque del Parmenide, Platone prende a
dimostrare che Vuno da se solo senza alcuna moltiplicità non
può esistere (p. 137-142), Ma che cosa è quest'uno? — La
parola uno, è'v, di genere neutro, significa: « tutto ciò che
si concepisce come uno » , e però vale tanto a significare
l'uno astratto , quanto l'uno reale. Lasciò questa indetermina-
zione nella parola appunto per avere il modo di cavarne pro-
posizioni conlradittorie , prendendo la slessa parola ora in uno
ora in altro senso. Pure nella prima parte della disputa il vo-
cabolo uno è conservato nella sua indeterminazione sempre, e
però non ha luogo alcuna fallacio, e quindi ne riusci una vera
e seria dimostrazione che « il solo e puro uno , sia astratto o
sia reale, non può esistere » ; il che è quanto dire, che l'essere
involge di necessità ad un tempo coll'unilà una moltiplicità.
Nella seconda parte [p. 142-lo7) non pone più per ipolesi
che l'uno rimanga solo, ma pone in vece quest'altra che « l'uno
esista )), rimanga poi solo o no , e cerca le condizioni neces-
saria della sua esistenza. Ora, egli è evidente che una di queste
condizioni , acciocché l'uno possa esistere, si è che l'uno sia
qualche cosa di reale e di determinato, qualunque poi sia que-
sto determinato e questo reale. E infatti ponendo Platone da
una parte Vuno , che deve aver l'esistenza , dall'altra Vessenza
(per la quale intende l'essenza dell'essere, non un'essenza deter-
minata), è chiaro che nell'uno subietto dell'esistenza deve rima-
nere lutto il resto necessario a costituir l'ente, che consta del-
l'essenza e dell'uno , e però l'uno non può più essere che un
reale determinato.
347. Comincia dunque dal dire, come vedemmo, che, posto che
Vuno sia, deve partecipar Vcssenzch e che questa e un elemento
diverso dall'uno, perchè all'uno si riferisce, essendo ella essenza
dell'uno , e perchè la parola È, quando si dice « l'uno È »,
esprime un'altra cosa diversa dalla parola UNO. E quindi Irova
una dualità nell'uno esistente. Ora noi abbiamo già osservato,
che questa dualità non esiste nell'Essere infinito, e che non è che
una semplice distinzione del pensiero umano imperfetto. Quindi
282
lulto il ragionamento dialellico di Platone non può aver luogo,
che riguardo all'ente finito, il quale è veramente composto dei
due clementi. Intendiamo dunque il ragionar di Platone di questo
solo^ a cui può essere applicato , e vediamo che ne risulti a
lume di questo importantissimo argomento dell'intima costitu-
zione òeWente finito.
Deduce dunque Platone che l'uno esìstente ha parti , cioè
{." l'uno, 2." l'essenza. Ma prosegue: se noi predichiamo dell'uno
essente, l'essenza, e dell'essente uno, l'uno, concepiamo dunque
queste due parti separatamente : ma possiamo noi concepire
l'essenza senza l'uno, o l'uno senza l'essenza? In nessuna ma-
niera: di che deduce il sintesismo di questi due elementi, cioè
che l'uno non abbandona mai l'essenza, e l'essenza non abban-
dona mai l'uno, quando si trovano nell'uno esistente come un tutto
risultante da quelle due parti. E questo certamente dimostra
l'insolubilità di quella che noi abbiamo chiamata congiunzione
entifica, posto che esista l'ente finito.
Ma da questo, che il pensiero di chi pensa l'uno essente, ossia
l'uno ente , non può fermarsi sull'essenza senza che si trascini
dietro V uno , né può pensare l'uno senza che si trascini dietro
l'essenza, inferisce che anche ciascuna delle due parti è duplice
e così all' infinito, potendosi fare lo stesso discorso sui due ele-
menti delle parti, poiché « l'uno abbraccia sempre l'ente, e l'ente
abbraccia sempre l'uno con reciproci nessi { tó ts ykp k'v r'ó h
àei *iax£iy>(.cà TÒ ovtò h), e di qui conchiude, che « l'ente ha un'in-
finita moltitudine [knsipov rh ■n'kri^og) »» Ora questo non prova
già che l'ente reale sia un'infinita moltitudine, ma solo indica
una legge dell'umana astrazione, la quale volendo fermarsi sul-
l'uno de' due elementi che compongono l'ente finito — il reale, e
l'essere — non può a meno di pensare l'uno senza tener di fronte,
per così dire, l'altro, come abbiamo dichiarato nella Psicologia
(131 9 sgg.). E poiché l'astrazione astraente si può replicare al-
l'infinito senza riuscir mai a staccare intieramente l'uno elemento
astratto dall'altro , per la necessità del pensiero complesso , da
cui si astrae, perciò le entità di ragione si moltiplicano senza
fine. Il che però non pone alcuna nova moltiplicità nell'ente,
ma dimostra solo viemmeglio l'indissolubilità della congiunzione
entifica, senza la quale non si può più concepir l'ente.
285
Di j)oi considera Plalonc che l'uno e l'essenza si possono con-
cepire in (lue modi, ciascuno come qualche cosa in sè^ e ciascuno
in relazione all'altro, come quando si dice che l'essenza è« essenza
dell' uno » , o dell'uno si dice che « è uno dell' essenza «.
Ciascuno dunque, inferisce, è due, ma questi due non formano che
uno. Se non formano che uno, ce anche il nesso tra loro, e però
sono Ire. Se dunque prendiamo l'essenza e l'uno e il loro nesso,
abbiamo ancora il tre: se l'essenza stessa, e poi Tuno li conside-
riamo {." in sé, 2.° relativi all'altro, 3.° formanti tanto in
sé come relativi una sola essenza, o un solo uno , avremo il
numero pari , e il dispari , e due volte il pari e tre volte il
dispari , e due volte il dispari e tre volte il pari : insomma
avremo e gli elementi de' numeri (pari e dispari) e tutti i
numeri che da questi Vengono. « Se dunque l'uno esiste ,
conchiude, è d'uopo che ci sia il numero » {sì àpa, eanv h ,
ccvàyxw XCI.Ì ó.pi6fu.òv sivAi). Il qual discorso non appartiene esclu-
sivamente alla dialettica , come il precedente : ma c'è qualche
cosa di vero ontologico. Appartiene alla pura dialettica in quanto
suppone che l'essenza e l'uno possano essere in sé , quando la
prima, cioè l'essenza (l'esistenza) non può essere che nella mente
che la pensa, l'uno (ciò che nell'ente è diverso dall'esistenza)
non può esistere neppure nella mente, se non a condizione che
esista nella realità. Ma il pensiero può considerarli in sé per
una doppia astrazione , cioè l ° per un'astrazione, colla quale li
considera l'uno separalo dall'altro; 2.° per un'altra astrazione,
per la quale rimove da essi la relazione che l'uno ha all'altro.
Quello dunque, che Platone dice esser due, altro non sono che
due maniere astratte di considerare l'essenza, e di considerar
l'uno. Quando poi dice, che questi due devono avere un nesso,
acciocché costituiscano uno (cioè o l'uno o l'essenza), questo non
è che un altro pensiero riflesso , pel quale noi intendiamo che
è lo stesso oggetto che si considera in sé, e in relazione con un
altro. Tutto questo appartiene alla pura dialettica del pensiero
umano, e ninna distinzione o pluralità mette nell'ente in sé.
348. Rimane dunque solo che si dimandi, se i due elementi che
realmente si distinguono nell'ente finito (uno, o reale, ed essenza),
abbiano un nesso che costituisca un terzo elemento. Ora o si
considera questo nesso come potenziale, o come attuale. Come
284
potenziale è l'attitudine che ha l'essere iniziale di divenire l'atto
ullimo del reale finito , e 1' attitudine che ha il reale finito di
ricevere quest'alto e così esistere. Ma questa doppia attitudine
rispetto all'essere iniziale è qualche cosa di positivo, cioè è quella
proprietà che noi dicemmo virtualità; ma rispetto al reale, non
essendo altro che la possibilità d'esistere, il fondamento vero di
questa possibilità non c'è che nella potenza creatrice di Dio, e
non può essere qualche cosa del reale finito che ancor non esiste.
Se i)oi si parla del nesso attuale , questo non è altro che lo
slesso ente finito, il cui atto, pel quale sussiste, è appunto quel
nesso. Non c'è dunque tra l'essere e il reale nulla di mezzo, ma
copulali imraediatameute, il loro toccamento ultimato e perma-
nente è l'ente finito; in quanto poi quel toccamento si consi-
dera nell'istante in cui avviene dicesi congiunzione entifica.
Trovato adunque il numero infinito nell'ente uno, Platone con-
tinua dicendo che l'essenza deve di conseguente esser distribuita
a tulio il numero e alle parli del numero. « È dunque divisa, per
« quanl'è possibile, nelle minime e nelle massime, ed intuitele cose
« che in qualunque modo sono, e si divide più di tutte le cose, e
« infinite sono le parli dell'essenza «. Ma poiché abbiamo dello che
l'uno non può abbandonare nessuna parie dell'essenza, « lo slesso
« uno distribuito dall'essenza è un'infinita moltitudine » (p. ìkU).
Abbiamo veduto che il numero infinito o piuttosto indefinito —
dacché l'infinito non si trova mai per successione — è composto
d'entità parte reali, come sono i due elementi dell'essere e del
reale e la virtualità del primo, e l'ente finito che ne risulta; e
parte puramente dialettiche, come la partizione che fa la mente
di quegli elementi in due , e poi ancora in due , e così via.
Laonde l'essenza — noi diremo l'essere iniziale — che si distri-
buisce non produce altre entità che della stessa natura, e l'uno
che segue l'essenza nella sua distribuzione è d'egual genere.
349. Ma ,se* invece di prendere l'uno astratto per elemento (che
è piuttosto elemento d'elemento), prendiamo l'elemento vero che è
il reale; noi troveremo che l'altro elemento cioè l'essenza — noi
diremo l'essere — si distribuisce al reale finito per cagione di
questo e non per sé: di maniera che non si distribuisce allo
stesso modo l'essere, e il reale finito. Ma questo si distribuisce e
si parte per la sua finitezza, e quello non si parte in sé stesso,
28")
ma dà a questo l'atto che può ricevere, rimanendo egli indiviso.
Onde vedemmo che per conoscere come un ente qualunque sia una
particella di reale, è bisogno che la mente adoperi tutto l'essere
(,28r), sgg.; 50-2, sgg.') semplice come è ed indiviso, benché il reale
finito non sia suscettivo di ricevere tutto l'alto dell'essere, onde
pare che l'essere stesso si divida : ma ella è questa una specie d'il-
lusione trascendentale, che con una riflessione supcriore si di-
legua. V'ha dunque questo difetto nel raziocinio di IMatone, che
attribuisce la moltiplicità all'essenza stessa , e 1' attribuisce del
pari all'uno, q^jando il vero fondamento della moltiplicità è nel
reale per la sua limitazione : onde, scambiando il significato del-
l'uno, quest'uno gli diviene in mano Vuno reale, potendo « ciò
che è uno » ricevere anche (juesto significato, mi non solo.
Trovato cbe l'uno h:\ parti e le parli essendo sempre parti
d'un tutto e comprese nel tutto, e il comprendente essendo il
termine (róyf 7:£pie-x,oy, ttÌ/j»? àv f j») , l'uno è anche terminalo
ossia finito. Conchiude dunque che <c l'uno ente è in qualche modo
uno e molli, tutto e parti, finito, e per nioliiludinc indefinito ».
ti che ben dimo.stra che quesl'«/io di IMatone cangia, come di-
cevamo, di significalo, o certo cangiano di significato le entità
di cui si parla, prendendosi in fascio le entità reali e le dialet-
tiche. Cos'i l'uno ente {h cv) — poieliè di questo si parla — in
se stesso è uno , costituito da due elementi reali inseparabili ,
ma il pensiero astraente può trovare in esso indefinite entità
puramente dialettiche , che non sono propriamente sue, ma del
pensiero stesso.
In quanto Venie imo è un lutto terminato, ha princijiio, mezzo
e fine, e il mezzo essendo ugualmente distante dagli estremi ,
deduce che l'uno essente ha figura. Se la parola disianza e la
parola figura non si prendessero in senso metaforico, il filosofo qui
sarebbe caduto dall'altezza della speculazione dell'ente in univer-
sale nel basso d'un ente speciale corporeo. Che poi ogni ente esi-
stente abbia un principio, un mezzo e un fine, è una proposizione
che ha più significati. In un tutto corporeo è facile distinguere i
due estremi e un punto di mezzo equidistante. Nell'ente spirituale
e semplice è più difficile, e .se si trattasse dell'ente infinito, per
|)rincipio, mezzo e fine altro non si potrebbe intendere che le tre
ipostasi, di cui Platone non possedeva cerlamenle un'accurata dot-
28G
Irina. Nell'ente finito poi come principio si può prendere Vessere,
come mezzo la realità, come fine i limili di questa realità che le
danno la forma propria.
Posto dunque che l'uno essente abbia parli e ciascuna sia uno
indiviso dal resto, egli dice , che deve essere in sé stesso e in
altro. Poiché le parti sono nel tutto, e le parli sono uno, e il
tulio è uno ; dunque l'uno é in sé slesso. Ma il tutto non è
nelle parli, né nelle singole, né in alcune, nò in tulle; dunque
l'uno è in altro, poiché, dice, se non fosse in qualche altro,
sarebbe niente [ovxovv fX}iha,iJ.ov fj.svov, ov^èv àv eh). Di che con-
chiude che l'uno, posto che esista , è in sé stesso, e in altro.
550. Come abbiam detto, se si fa l'uno ente composto di due
elementi, il discorso non può essere più che intorno all'ente finito.
Ora l'ente finito é certamente tulle le sue parli {ssn ^é ra
rs TravTot rò h) in un senso, e queste parti sono nel tulio, onde
egli è in se slesso. Ma questa sentenza in che si fonda? In una
doppia maniera di concepire Tenie reale, e in una doppia ma-
niera di esprimerlo. Poiché si concepisce l' ente reale partendo
dalla sua materia come da subiello, a cui si attribuisce la pro-
pria forma, e partendo dalla sua propria forma, a cui si attri-
buisce la sua materia : due maniere di concepir l'ente che da
Platone sono passate in Aristotele , dove giocano mollo. Onde
l'ente reale si può definire : « tutte le parti insieme prese » , e
anche « il lutto che comprende le parli ». Così si dice che l'ente
preso come parli é nell'ente preso come lutto. Ma se ben si
considera, la prima definizione non regge: perocché le parti non
sono l'ente, ma l'ente é l'unione stessa delle parli, ossia il tutto
che formano le parli. Onde la proposizione che l'ente é nel-
l'ente, non è vera rigorosamente; ma soltanto questa é vera:
«la materia propria dell'ente é nella forma deirente».
L'altra proposizione poi di Platone che l'uno essente sia in
un altro, perchè altramente sarebbe nulla, è data come evidente
da Platone, e non sorretta da prove, quasi che l'esempio del
corpo che è sempre in qualche luogo si potesse applicare al-
l'ente in universale. Ma esaminata quella proposizione con ac-
curatezza, si trova non esser vera universalmente, perché se ciò
fosse, quest' a/<ro dovrebbe essere in un altro ancora, e cosi
all'infinito. Si trova non esser vera né manco dell'essere infi-
287
nito, il quale non è che in sé slesso. Ma ella vale pel finito;
giacche l'ente finito reale, tutto, materia e forma , è nell'essere
sua forma ultima, e quest'essere è in Dio, come abbiam detto.
Supposto dunque da Platone che l'uno ente sia in sé slesso
ed in altro, deduce che in quanto é sempre in sé stesso in tanto
continuamente sta fermo; e in quanto è sempre in un altro non
è mai nel medesimo (àvayxw (Xìi^énor' év tó3 avrcò ehcx.i'^, e
però continuamente si move, e di più conviene che sia sempre
il medesimo a se stesso, e anche sempre altro da sé; e del pari
rispetto all'altre cose, in quanto è a se il medesimo, sia altro da
esse, e in quanto è altro da sé, sia il medesimo con esse.
Anche qui la parola quiete e moto si prende figuratamente:
ogni mutalo aspetto in cui si considera l'uno ente dicesi moto ,
ogni medesimo aspello si dice quiete : il movimento e la quiete
del pensiero s'attribuisce all'uno enle. Ma oltre questo senso
dialettico c'è qualche verità in questo pensiero di Platone ?
351. Abbiamo veduto che l'uno ente si dice essere in sé in quanto
si considera come il complesso delle parti (materia) che sono
nel tulio (forma propria), e questo é il concello della quiete,
perchè sta in se medesimo; e che l'uno ente si dice essere in
altro in quanto si considera come il lutto (forma propria) uni-
ficante le parti, e questo è il concetto del moto. Se dunque noi
applichiamo questo concello all'ente finito, intenderemo che fino
ch'egli si considera come subiello reale (materia) esistente nella
sua forma propria, noi lo concepiamo come qualche cosa di sla-
bile in sé slesso; ma se consideriamo il tutto dell'ente (forma
propria e materia) come esistente in altro cioè nell'essere che
lo fa esistere, noi vediamo che continuamente riceve l'esistenza,
e cosi fluisce quasi movimento continuo dal non esistere all'esi-
stere. Quindi si dice che l' ente finito ne del tutto è , né del
tutto non é, secondo i due aspelli in cui si riguarda dal pensiero.
Ma Platone aggiunge ch'egli è il medesimo e l'altro, anche ri-
spetto alle altre cose. Ora che cosa sono quest'altre cose diverse
dall'uno enle? Sono, secondo Platone, non ente. Ora questo si
avvera dell'ente finito così. L'ente finito é considerato come su-
bietto essente nella sua propria forma, e, se è, egli é altro
dalle cose che sono non ente. L'ente finito non è, ma si fa di con-
tìnuo , consideralo come un lutto che esiste nell' essere, e in
288
questo senso potendosi chiamare non ente , egli è il medesimo
coiraltre cose che sono non ente. In quanto dunque è non ente, sta
fermo rispetto alle cose non ente; e in quanlo è ente, egli con-
tinuamente si move, cioè si parte dal non ente e viene all'ente.
Dall'avere mostralo che l'uno ente è il medesimo a sé e il di-
verso da sé, e il medesimo e il diverso rispetto alle altre cose^
ne deduco che del pari è simile e dissimile, sia rispetto a sé,
sia rispetto alle altre cose che sr-no non ente. Poiché simile é
ciò che patisce la stessa passione (tò ^è -nov tclvtòv Trsnoyóòg, o{j.ovov
p. 1^8 a). Ma l'ente uno partecipa dell'idea del medesimo e
dei diverso. Se dunque si confrontano queste due partecipazioni
0 passioni, l'ente uno, che partecipa il medesimo o il diverso, è
dissimile a se che partecipa il diverso o il medesimo, e al con-
trario é simile. E lo stesso rispetto all'altre cose (non ente), che
con esso lui partecijìano le slesse idee del medesimo e del di-
verso: è simile o dissimile a queste, secondo che si confronta
l'ente partecipante o della stessa idea o dell'altra.
33"2. Passa a dimostrare, che l'uno essente tocca e non tocca sé
stesso, tocca e non tocca l'altre cose che non sono ente. Anche
qui la parola toccare vuol prendersi in senso metaforico per con-
tinuarsi per mezzo almeno d'una relazione dialettica, per la quale
non si possa pensar l'uno senza l'altro. Prova la sua tesi così.
Abhiamo veduto che l'uno ente preso per l'insieme delle parti
è nell'uno ente preso pel tutto. L'uno dunque è in sé stesso, e
però si tocca, è a sé continuo. Ma se l'ente uno come insieme delle
parti, è nel tutto; l'ente uno preso come tutto, non é nelle parti,
e così non tocca se stesso; le parti, astrazion fatta dal tutto,
sono l'altre cose, non ente. Ora ogni parte non si può conce-
pire che come una; dunque l'ente uno tocca l'altre cose, per-
ché ciascuna d'esse è in lui. Ma se le parti si concepiscono
come molte, non come uno, ma come non uno, in tal caso l'ente
uno non tocca l' altre cose diverse da sé , cioè le parti molte
senza unità. Ancora , o l'ente uno si pensa solamente in quant'è
uno, e in tal caso non si tocca, perchè ogni toccamento nasce
tra due. Ma se l'ente uno si concepisce sotto diversi aspetti,
come molteplice, si tocca, perchè è continuo ne' suoi diversi
aspetti nell'umano pensiero, essendo uno sotto tutti.
In altre parole. 8e si considerano le parti come pura mate-
289
ria , prive della loro forma propria che le rende une , la qual
materia è chiamata da Platone rk àXXa, queste altre né sono uno,
né due, nò determinate da alcun numero (òW ocpa. h ian rk
kXKx Svre ^vo, ovrs àXXou kpiòfMv ay^ona. ovoua. évdiv), e però non
c'è più il contatto coU'uno. Ma se si considera la materia unifi-
cata dalla sua propria forma, allora benché questa sia altra cosa
dalla forma che l'unifica, tuttavia è con questa congiunta e per
l'uno la tocca. Si prende dunque l'uno in due sensi : ora però
materia unificata, ora per forma unificante, perchè infatti « ciò
che è uno », ossia che esiste come uno, non può esser altro che
l'ente reale finito in cui si distingue materia e forma : e su que-
st'uno esistente si dialettizza. Qui poi è dimenticato l'altro ele-
mento, cioè l'essenza: noi diciamo l'essere.
Il contatto dunque di cui parla Platone, è l'unione della forma
propria colla materia, e della materia colla forma propria: e la
mancanza di quel conlatto è la forma propria considerata con
astrazione dalla materia, e la materia considerata con astra-
zione dalia forma. La materia unificata si considera nel suo
tutto , 0 nelle sue parti maggiori e minori ; la materia poi che
non è unificata, non è né una, né altro numero determinato.
553. Prova poi che l'uno ente è uguale a sé e all'altre cose
(le parli), e che è anche maggiore e minore di sé e dell'altre
cose cosi. Nel puro concello dell'uno non c'è nò quello di più
grande, né quello di più piccolo, e questi concetti non ci sono
né pure in quello dell'altre cose , cioè delle parli. Se dunque
nell'uno non c'è il più grande né il più piccolo, e né pure non
c'è negli altri: rimane che l'uno sia uguale a sé stesso e uguale
alle parli. Questa uguaglianza è negativa, come si vede, è una
assoluta mancanza della grandezza relativa , che non si trova
ne' due concelli.
Se poi si considera che le parti sono nel tutto , e le parti
insieme sono l'ente uno anch'esse , e anche il tutto è l'ente
uno , dunque l'ente uno è maggior di se stesso, perché il con-
tenente è maggiore del contenuto , cioè l'ente come forma è
maggiore dell'ente come materia. "Viceversa l'ente come materia
è minore dell'ente considerato come forma, e però è minore di
se stesso.
E poiché anche gli altri , cioè le parli o singole o più , si
Rosmini. Teosofia. 19
290
possono concepire come uno , l'uno è maggiore degl'altri cioè
delle parli, se si considera come l'uno totale contenente l'uno
le singole parti, o un numero di parti; ed è minore, se si con-
sidera l'uno delle singole parti o di più parti rispetto a tutte le
parti. Di che deduce che sotto questi diversi aspetti l'uno e gli
altri (le parli) hanno piìi o meno , o ugual numero di misure
e di parli. Qui gioca sempre la doppia definizione dell'uno con-
siderato dalla parte della sua forma propria, o dalla parte della
sua materia , e il variare dell'ente uno di cui si tratta , non
trattandosi d'un ente uno determinato, ma d'un individuo vago.
354. Dopo aver dette queste cose dell'uno ente, considerato
come uno, passa a dire altre cose dell'uno ente considerato come
ente, cioè come partecipe dell'essenza, [p. \M sgg.).
Dice che se l'uno è , gli compete l'essere (fWt ij^év ttou olvtò
v7TÓ,p^£i, £Ì7t£p i'v sotì) . L'csscrc ò consIdcralo da Platone come
l'atto dell'essenza partecipata, ed è questo il significato d'Ù7ra/3-
%f<v tanto poi anche da Aristotele usato. Di che deduce che
Vessere è la partecipazione dell'essenza col tempo presente (rè
da ehoLi xXXó ti kariy » ixéòe^it^ ovsiccs iJ.£Ta "^p'ovov rov -apó^Tog).
Dove se si considera che lo stesso Platone nel Timeo dice es-
sere il tempo nato col Mondo , vcdesi che l'uno ente di cui
parla, altro non può essere che Vente finilo, benché poi nel di-
scorso passi qualche volta per astrazione all'ente in universale.
Deduce dunque da questo che l'uno ente partecipando del tempo
e del tempo fluente, come spiega, {nopsvoixiyov rov xpóvov),
è presente, passalo e futuro, e quindi è più vecchio e più gio-
vane e coevo a se slesso, ed anche all'altre cose; e non solo
è, ma anche si fa tale. Se l'ente percorre il tempo diventa più
vecchio di quel che era , ma si fa anche più giovane , ed es-
sendo identico , è a se coevo. Ma quando ha toccato il tempo
presente non più si fa tale, ma è tale. Dove queste parole, che
« il presente è sempre appresso all'uno per lutto l'essere ( ró ys
IMìy vOv ó.e\ TTapEGTi Toi hi ^la navròg tov slvat p. 45^ e) » dimostrano
l'elernilà dell'essenza , ma a questo non si ferma qui Platone.
Venendo poi a dimostrare che l'uno ente anche all'altre cose
è, e si fa più giovane , e più vecchio e coevo, avverte prima
che parla dell'altre cose, erspa., e non dell'altro, hepov, perchè
questo singolare indicherebbe l'altre cose partecipi d'unità, lad-
291
dove quel plurale indica l'altre cose senz'unità, le parti, la pura
materia : avvertenza che è una chiave per intendere la maniera
di parlare di questo filosofo.
L'altre cose dunque così prese sono più , ma a l'uno è fatto
prima del più (Travi cov h.^a. 10 h Trpcòrov yéyove tóov &.ptòfji.òy £%óv-
Tojv) » Dunque l'uno è più vecchio dell'altre cose. Ma l'uno ha
parli, cioè principio, mezzo e fine, e non c'è l'uno ente prima che
ci sia il fine , ond'cgli è l'ultimo a farsi , e però più giovane
delle sue parti, che sono l'altre cose. Ma né il principio, né il
mezzo, né il fine può stare senza l'uno ; dunque è coevo a cia-
scuna dell'altre cose. E poi mostra che non solo l'ente uno è
tale, ma tale anche si fa.
555. Ora poiché l'uno ente era, ed è, e sarà, conchiude che di
lui c'è la scienza, e poiché si faceva, e si fa, e si farà, che di
lui e' è Vopinionj ed il senso, dove apertamente si vede che
vuol comprendere nel ragionamento anche Vente uno eterno — del
quale solo è la scienza, secondo Platone — ma senz'accorgersi at-
Irihuiscc all'Ente eterno le proj)rietà dell'c/iig finilo , pel quale
solo , preso come individuo vago , vale il suo ragionamento.
Di che apparisce , che Platone non giunse a formarsi un ac-
curato concetto di Dio, attribuendogli la composizione dell'es-
senza (come forma ultima) e dell'uno (materia e forma propria)
a similitudine dell'ente finito. Onde tantosto appresso parlando
della continua congiunzione che si fa dell'essenza coll'uno, cade
nel sistema copiato poi dall'Hegel, del diventare, come ahbiam
detto (324).
Articolo VI.
Relazione mediata di causa atto, o azione.
356. Quando un reale è enlificato , esiste.
Ora qual è la natura del reale?
Il reale finito esistente o è principio , o termine , o misto
{Psicol. 842-845). La sostanza termine non ha azione, come
lo spazio , e la pura materia considerata astrattamente dalle
sue forme proprie , e però non ha pluralità di modi suol prò-
292
prì , e però né pure accidenti. Di questi reali dunque non
possiamo qui parlare.
Il reale finito principio — e tali si possono chiamare i misti
di principio e di termine, quando il termine non costituisce il
subietlo , ma .soltanto una condizione sintesizzante co! subielto
come nell'anima umana — ha questo di proprio d'essere attivo,
e di modificare colla sua attività se stesso, od altri reali con-
tinui ad esso, in cui passa l'attività.
Conviene dunque che consideriamo l'attività propria del reale
finito , e che ne vediamo la natura. Quest'attività si riduce a
dare a se stesso un'attualità nova , un modo novo ; e quando
diciamo dare a se stesso un'attualità nova , intendiamo anche
ammettere in sé stesso un'attualità nova: perchè il fare, il patire
0 il ricevere, suppone sempre un'attività in chi fa, patisce, o ri-
ceve: onde l'azione del reale esistente a tutto questo si estende.
357. Qualora si volessero classificare le modificazioni che prende
il reale da questa sua azione — che comprende sotto di se la pas-
sione e la recezione — troveremmo che si riducono tutte in tre
classi .
I." Modificazioni che aggiungono al reale finito qualche at-
tualità senza distruggere le precedenti , o qualche attualità mag-
giore e più importante di quella che va perduta, e quest'è cosa
propria degli enti perfetlihili , anzi in questo consiste la loro p^r-
fellibilità;
]].-' Modificazioni che aggiungono qualche nova attualità,
ma nello slesso tempo ne fanno cessare qualche altra d'ugual
valore ;
III.* Modificazioni che fanno cessare ne' reali qualche at-
tualità senza aggiungerne di nove , o aggiungendone di minor
valore, e questo costituisce il deterioramento dell'ente reale.
Ora qualunque sieno queste modificazioni: I." o perficienti ;
2.° 0 indiCferenti; 3." o deterioranti, fino che il medesimo ente
reale esiste , egli è il subielto di esse che si dice sostanza , e le
modificazioni che ad esso si riferiscono e che non ledono la sua
identità, si dicono accidenti.
358. Dobbiamo dunque vedere come l'essere si comunichi a
queste entità accidentali, giacché egli si deve comunicare, che
altramente non sarebbero.
293
Conviene dunque riflettere che per V enti fica zione l'essere si
congiunge a tutto il reale con istabile nesso, di maniera che non
più l'abbandona Ora il reale esistente avendo in sé la delta
attività, anche a questa è unito l'essere, e però operando quel-
l'attività, l'essere accompagna l'azione fino al suo termine, quasi
al reale stesso servendo ne' suoi movimenti. Quindi i novi ac-
cidenti che ne nascono e che sono i termini delle azioni del reale
identico , ricevono anch'essi l'essere.
L'azione dunque propria del reale, che produce e cangia gli ac-
cidenti, è in qualche modo un'imitazione della creazione stessa,
perchè è una comunicazione dell'essere a certe attualità reali.
Ma dilTerisce dalla creazione e dall'enlificazione in questo, che la
creazione produce l'ente finito (il reale ad un tempo e l'essere),
r entificazione è quella per la quale l'essere al reale si congiungc
(considerata astrattamente dal subietto creante, come si offre
all'osservazione ontologica della natura); V azione finalmente
produce modificazioni nell'ente reale finito, già esistente, ed è
azione di questo.
E come Iddio creatore producendo l'ente finito produce neces-
sariamente un ente diverso da sé, perchè l'ente finito non può
essere infinito, avendovi repugnanza; così il reale finito produce
qualche cosa di sé , non avendovi repugnanza che ciò che pro-
duce, essendo termine finito della sua azione, sia qualche cosa
di sé medesimo.
Parleremo poi altrove di quell'azione dell'ente finito, per la
quale egli perde la sua identità e diviene un altro — detta dagli
antichi corruzione e generazione — bastando per intanto avvertire
che l'ente reale anche in quest'azione comunica bensì l'essere
che ha in sé, ma non fa che sviluppare ciò che tiene in sé po-
tenzialmente, acuì pure, come a tutto il resto del reale, è già
unito l'essere con vincoli indissolubili,
3S9, Tre dunque sono le relazioni tra l'essere ed il reale:
I. Relazione d'identità;
II. Relazione d' entificazione;
III. Relazione d'azione.
294
Articolo VII.
Relazione di causa subielto.
oGO. Se poi il reale si considera non in relazione all'essere come
puro allo, conoscibile senza il subielto che sta nascosto, ma al-
l'essere come subietto di quest'atto e in quest'alto; in tal caso
si esce dall'ente reale finito, e si considera queslo, rispetto al-
l'ente reale infinito cioè a Dio che lo crea. Perocché 1' essere
come subietto in se sussistente è Dio come abbiamo veduto , e
questa appunto è la relazione di creazione.
CAPITOLO VI.
Se l'essere riceva nulla dalla sua congiunzione co' reali finiti,
561. L'essere puro che sussiste in sé, cioè Dio, in creando Tenie
finito fa che in sé sia l'atto della creazione , e nella sua intel-
ligenza creatrice il creato come oggetto veduto e afTermato
nel Verbo realmente sussistente e per sé intelligibile ed inteso.
Ma in quanto all'ente finito subiettivamente esistente, questo nulla
aggiunge all'Essere assoluto, e però non è necessario alla sua
natura, ma liberamente voluto. L'atto creativo poi, e l'oggetto
finito atfermato nel Verbo e col Verbo, non è una mutazione in
Dio {{) , ma un'eterna sua perfezione, il che come sia spieghe-
remo meglio a suo luogo.
Quanto poi all'essere da noi intuito come semplice atto — sce-
vro dal subietto — oltre vedersi in noi come atto puro, si vede
come attuante i reali, e da questo intimo nesso co' reali, av-
viene ch'egli si renda al nostro pensiero subielto dialettico di tutti
universalmente i reali , e di ciascuno di essi , e che, come d'un
(1) Mutari, dice S. Tommaso, proprie dicitur per remotionem a termino
a quo: fieri autem per accessum ad terminum. E soggiunge: sicut etiam
sciens, quando considerai, non mutatur, proprie loquendo, sed perficitur ,
ut dicit Philosopìms in II (tex. e. 57, 58) de Anima. In IH Ss. II a. 1, ad 1."'
i>9ì>
subietlo dialetlico , di lui si predichi ogni realità che sia nel-
l'enle reale. Ma l'essere si presenta anche a noi come contratto
ai singoli reali. Questi specie di contrazione non toglie l'univer-
sale sua virtualità , ed ceco in che modo.
362. Nell'essere intuito dalla mente c'è: ì." l'essenza; 2." e l'og-
gettività 0 intelligibilità. Come essenza nella sua virtualità è e
rimane universale, ma in quanto è atto ultimo e comune de' sin-
goli reali, contrae questo suo atto veramente ai reali che lo rice-
vono, ma quest'atto dell'essere non è quello che costituisce la
sua essenza necessaria, ma un atto che corrisponde all'atto li-
bero dell' essere sussistente , il quale di ragione si dislingue dal-
l'alto necessario.
Come dunque in Dio, benché in se stesso sia un atto unico,
purissimo ed eterno, si distingue da noi (per la maniera del no-
stro concepire) un allo necessario pel quale è , ed un allo li-
bero^ cioè l'atto creativo, pel quale è il mondo; così anche nel-
l'essere a noi naturalmente conosciuto (che è alto senza subielto),
si dislingue un atto che risponde aWallo necessario di Dio, e
quesl'è V essere viriuale ; e un alto che risponde a\V allo libero ài
Dio e quesl'è quello col quale egli fa sussistere i singoli reali
finiti , che abbiamo chiamato enlificazione immediata o mediala.
E come Iddio creante fa che sia in sé nella sua propria es-
senza l'alto creativo, così l'atto deU'entificazione rimane nel seno
dell'essere virtuale , e il subietto intelligente lo congiunge al reale
da lui sentito per mezzo dell' affermazione percettiva degli enti
reali.
Inquanto poi lo slesso essere è oggetto, intanto avviene che
gli enti reali per lo slesso atto con cui si enlificano a noi slessi,
anche si conoscano. Ma poiché abbiamo distinto l'alto libero nel-
r Essere subielto sussistente e l'atto dell'essere puramente at-
tuante il reale finito che a quello corrisponde ; conviene che con-
sideriamo prima la relazione del reale finito coli' alto libero
dell'Essere subielto , cioè coH'allo creativo , poi la relazione che
ha il reale coll'essere attuante che è l'entificazione stessa nel
suo effetto a noi visibile.
L'ente finito o è intelligente, o relativo all' intelligente: è
dunque necessario parlare di quello, e poi di questo.
3G5. Noi abbiamo veduto che l'alto creativo rimane in Dio e che
296
ha per suo termine il Verbo divino ^ nel quale il Padre vede ed
afferma ad un tempo l'essere iniziale e il reale del mondo nella sua
forma obiettiva. Ma veduto ed affermato il Mondo come oggetto,
esso acquista, senza più, un'esistenza subiettiva, che non può es-
sere in Dio, perchè totalmente relativa all'ente slesso finito: que-
sta é quella esistenza propria del mondo che emerge per così dire
dal mondo obiettivo in Dio mediante l'energia dell'affermazione
divina. Ora a certo reale finito Iddio fa apparire, come oggetto,
l'essere iniziale, che diciamo anche essere allo, e con questo lo
entifica ad un tempo e lo fa intelligente. Questo reale è, perchè
ha presente l'essere : indi a lui procede il sentimento proprio in-
tellettivo che è il suo principio {Psicol. 71 sgg.), e conseguente-
mente la coscienza di sé, vedendo il principio proprio nell'essere
che gli è manifesto.
In questa congiunzione sintesizzanle dell'essere col reale esi-
ste l'anima intellettiva, essendole dato l'essere obiettivo indivisa-
mente con essa connesso. L'anima intellettiva risulta dunque da
due elementi, l'uno il principio intellettivo ed è il reale costituente
il subietlo — a cui si riferisce la definizione dell'anima intellet-
tiva — l'altro l'essere oggettivo, nel quale, contemplando, è. Il
primo è inferiore in dignità al secondo : il secondo è divino ,
come è da noi dimostrato in libro apposito ( Del divino nella
natura). È divino, perchè è lo stesso essere iniziale che sta come
termine nella mente creatrice, non però veduto come termine di
questa mente, ma puramente come alto; non veduto nel su-
bietto che lo fa, o nell'obietto in cui riguarda in facendolo, ma
solo da sé medesimo.
Ma questa prima costituzione dell'anima intellettiva formala
dall'unione d'un reale principio intuente, e dall'essere oggetto,
viene, quando che sia, seguita da un atto dell'anima stessa, pel
quale atto ella applica a se stessa cioè al suo sentimento pro-
prio, e predica di se stessa quell'essere che prima vedeva come
puro oggetto , e con quell'atto dice « sono )>. Quindi quella
espressione che «l'anima o l'Io (impropriamente) pone se slessa »,
divenuta tanto celebre, per averci fabbricata sopra il Fichte e
tutta quella scola tedesca la filosofia intera. Il dire che « l'a-
nima pone se slessa )> ha della verità, inleso come un secondo
atto: ma inleso come l'alto primo che costituisce l'anima e la
297
fa esistere e le dà la propria reale essenza , è un errore , e
un assurdo, come abbiamo già altrove dimostrato.
Conviene tuttavia convenire die quest'atto dell'anima con
cui ella diventa, mediante la coscienza, un Io alluale , è di
somma importanza, ed è quasi un compimento della sua propria
costituzione. Poiché se prima l'essere gli era congiunto come
oggetto e così la rendeva un subielto intuente l'essere , dopo
quest'affermazione che è compresa nel pronunciamento dell' /o^
0 nella parola sono, l'essere gli è congiunto come una sua qua-
lità subiettiva, come l'atto pel quale ella è a se stessa.
Prima di quest'alto ella non è a se slessa, ma è a Dio che
l'ha affermala e unita all'essere obiettivo.
Ora quest'alto dell'anima che dice lo, è il primo atto che l'intelli-
genza creata esercita come causa subietto d'enlificazione relativa.
364. Ma veniamo agli altri enti finiti ohe non sono intellettivi.
Iddio gì' intuisce e afferma nel Verbo come vuole che sieno,
cioè relativi non a sé , ma agli enti intellettivi: gì' intuisce e
gli afferma unitamente con questi, perocché a Dio il mondo è
un oggello solo e lo fa con un alto solo. Così gli enti finiti
acquistano rispetto a Dio un'esistenza indipendente dalla propria
azione.
Ma non avrebbero, con questo solo, un'esistenza subiettiva e
personale, se tra essi non ci fossero degli enti intellettivi , che
riferissero se stessi all'essere da essi intuito, e in se stessi non
ricevessero l'altre cose, o le loro azioni, riferendo poi quest'altre
cose e le loro azioni all'essere slesso ; e così non li enlifìcassero
a se stessi.
Quando dico l'altre cose o la loro azione , non voglio punto
decidere la questione che cosa siano le cose prive d' intelligenza;
poiché questa difficile questione appartiene alla Cosmologia , e
però dissi l'altre cose o le loro azioni , per non pregiudicare
innanzi tempo una questione sì grave { Gf. Psicol. Ihl , 758 ,
773, 777).
36b. Da lutto questo dunque apparisce che ci hanno due cause
subielto dell'entificazione. Che l'essere sussistente , Iddio , dà
primieramente al mondo l'esistenza obiettiva che rimane in
lui. Che in questo mondo obiettivo, che in quant' é obiettivo
non si distingue dal Verbo se non secondo la ragione divina
298
che ne lo dislingue, insiede il reale finito per l'energia dell'affer-
mazione divina distinto da Dio , ma solo relativamente a Dio
slesso , non ancora a se slesso. Che a questo reale finito , cioè
ad alcuna parte di esso, Iddio manifesta V essere atto come og-
gello , e così rendendolo intelligente, gli dà un'esistenza pro-
pria. Che questo reale intelligente avendo presente V essere alto,
come oggetto identico a quello che è nella mente divina, di-
venta causa subietto d'entificazione relativa, acquistando cosi
una similitudine con Dio. Che questo reale finito intellettivo eser-
citando la sua potenza entificalrice , che è quella di predicar
l'essere del reale, nell'atto di sentire o percepir questo sensiti-
vamente , completa la propria esistenza subiettiva e personale ,
ed enlifica gli altri reali da lui sentili dell' entificazione rela-
tiva a se slesso , non polendo gli enti privi di ragione averne
alcun'altra se non dialettica (1).
Ci hanno dunque due cause subielto d'entificazione, l'Essere
sussistente, e il principio intellettivo crealo dall'Essere sussi-
stente.
366. I reali finiti nella loro esistenza propria e subiettiva non
pongono nulla nell'Essere sussistente, nulla gli danno. Ma l'Essere
sussistente stesso dà a se stesso ab eterno l'ente finito obiettivo
intuendolo nel proprio Verbo , dove è indistinto, e distinguendolo
coU'atto dell'affermazione creatrice; atto che pure rimane in Dio,
indistinto dall'atto con cui Iddio è l'essere.
Il principio intellettivo creato come causa subielto di entifi-
cazione, non può già esercitare quest'atto attribuendo ai reali qual-
che cosa di se stesso , perchè egli non è l'essere. Iddio solo af-
ferma qualche cosa di se stesso, cioè il reale finito obielltivo cre-
ando il mondo, perchè Iddio è l'Essere slesso. L'uomo dunque
— e dicasi il simile d'ogni altra intelligenza finita — attribuisce al
reale l'essere, come diverso da sé, l'essere che intuisce, l'essere
puramente atto e non subietto. La ragione poi per la quale l'es-
sere si vede come attuante il reale finito , si è perchè quest'es-
(1) Per esistenza dialettica àegVi enti non intellettivi intendo la maniera con
cui l'uomo intende tali enti in un modo assoluto , come se esistessero a se
slessi ; quando veramente esistono solo agli enti intellettivi, de' quali il primo
è il loro Creatore.
200
sere puro altiiante il reale finito è termine d'.-ll' affermazione di-
vina , e però ritiene dell' efficacia di questa affermazione rea-
lissima. Ma non ne viene da questo che lai essere si veda in
unione coli' affermazione divina, ma solo in relazione co' reali
finiti che pure sono ad un tempo termini della stessa aflerma-
zione : e la prova di questo si è, che l'essere si vede puramente
come atto, e non come subietto creante (1). E dunque adirsi,
che nella percezione o enlificazione che l'uomo fa de' reali, l'es-
sere che prima intuiva come virtuale , manifesta a lui certi suoi
alti relativi ai reali stessi che sono nell'affermazione divina , ben-
ché questa non si veda interamente e non se ne veda il princi-
cipio che la fa, ossia il subietto; e così accade che i reali finiti
sieno veri termini di quesl' essere ntluante (508, sgg.).
CAPITOLO VII.
Qmli sieno le proprietà dell'essere comunicabili ai reali finiti
e di questi predicabili.
367. Se si considera l'ordine logico dell'atto creativo, si troverà
che in esso prima dee comparire nella mente divina Vessere virtuale;
di poi il reale finito, disegnato dalla stessa mente nel reale in-
finito come in obietto che eminentcnente lo contiene, quasi come
se, essendo presente agli occhi nostri un circolo, la mente nostra
immagini in esso una figura poligona ; e questo disegno o circo-
scrizione del reale deve esser fatto colla norma dell'essere vir-
tuale ; e finalmente l'affermazione divina che entifica questo reale
formato e determinato nel suo proprio ordine.
Infatti il reale finito non potrebbe esistere in sé, se non fosse
determinato , e però fornito delle sue proprie forme e dell'ordine
di queste forme, dal quale deriva l'unità e l'armonia dell'universo
{PsicoL 15o7 sgg ; 1572 sgg.). Quando il reale finito si spoglia di
tutte le sue forme che lo determinano, allora egli non è più che una
(1) Quindi l'essere intuito dalla mente umana non si vede in Dio , percliè
se si vedesse in Dio, si vedrebbe Dio , come prova S. Tommaso II, II.
q. CLXXIIt, i; e in tal casosi vedrebbe come Essere subielto.
300
entità dialettica , che non può ricevere l'esistenza in sé, e che
fu chiamata da alcuni tnateria prima (Cf. Psicol. 779-815), e
si potrebbe chiamare , per evitare il pericolo di restringere il
concetto alla materia corporea , realità astratta. Ora è indubi-
tato, che una realità pura senza nessuna forma o determina-
zione, ed anzi di più un reale che non sia determinalo da tutti
i lati , non può esistere in sé, non può ricever l'essere che la
enlifichi (Psicol. 770 sgg.).
Convien dunque stabilire quest'ordine logico nell'entificazione
del reale finito: che venga prima nella mente il reale puro o in-
detcrminato; di poi a questo siano date le forme che lo deter-
minano; e finalmente riceva l'essere che lo fa esistere iii sé,
lo entifica.
Ma nell'entificazione del reale finito che fa l'uomo relativa-
mente a se stesso, egli non aggiunge che Tessere, e non punlo
la determinazione e la forma propria del reale : poiché il reale,
che è il suo sentimento, o l'azione sentila nel suo sentimento
(Psicol. 778 j, gli è dato già in natura pienamente determinato
e formalo. Conviene dunque dire , che Iddio, comunicando al-
l'uomo in qualche modo una similitudine della sua potenza en-
tifica, non gli comunica che la similitudine dell'ultimo atto, che
è quello che rende enti i reali già determinali , ma non la simi-
litudine di quell'atto divino che produce i reali finiti né in quanto
alla materia, né in quanto alla forma : salvo che il più de' reali
hanno, come dicevamo, una potenza di modificare sé slessi e di
modificarsi reciprocamente.
368. Stabilito dunque che la forma del reale finito dee precedere
la comunicazione a lui dell'essere che lo fa esistere in sé, rimane
a cercare se questa forma imposta al reale venga dall' essere
stesso, 0 sia diversa dall'essere, come è certamente cosa diversa
dalla materia. Ora è indubitato che quella forma viene dall'es-
sere: ma non dall'essere come attuante i reali, ma dall'essere
come intelligibilità delle cose, come idea. Poiché non si potrebbero
determinare i limiti al reale, e dargli così una forma propria,
e un ordine a più reali connessi insieme, se non per un dato fine,
l'assegnare il quale appartiene all'intelligenza pratica di Dio,
che non é mai disgiunta in Dio dalla speculativa. Avendo dun-
que Dio, per essenza amabile ed amalo, per fine sé slesso, e
a questo fine per istinto d'un tale amore dirigendo tutte le cose
ch'egli produce; posto questo fine, conveniva che egli concepisse
il Mondo ad esso ordinato, e per trovarlo dovea applicare (secondo
l'analisi umana che spezza l'operar divino) l'essere virtuale, come
idea prima e universale che il fa conoscere, a inventare tutte
quelle forme ordinale di cui doveva essere rivestilo, acciocché
ottenesse nel modo più confacente il suo fino. Quindi le forme
e la serie e l'ordine delle cose mondiali dovevano essere con-
cepite da Dio anteriormente all'esistenza in sé del reale finito,
e però dovevano in lui esistere allo stalo d'idee, insieme però
col reale ohieltivo finito veduto nel Verbo , il quale reale finito
costituiva il fondamento della relazione coU'essere iniziale , e
col vederlo si pronunciava da Dio e si creava.
Da questo procede che l'essere, secondo l'ordine logico, co-
munica ai reali finiti alcuna cosa di sé nella mente divina prima
che esistano , e alcuna cosa di sé comunica per farli poi esi-
stere in se slessi. Prima che esistano, l'essere, come determi-
nante, comunica loro nella mente divina la forma ideale (e-
scmplare del mondo), e secondo la norma di questa forma, e
propriamente ad un tempo con questa, Iddio dà loro l'essere at-
tuante, l'essere come ulliina determinazione, per la quale esi-
stono in sé subiettivamente (o estrasubietlivamente) ; esistenza
che non potrebbero ricevere, se prima non avessero quella forma
determinante. Poiché l' essere essendo i." l'intelligibile ossia l'i-
dea, 2/' e in pari tempo l'essenza; in quanto é intelligibile fa
conoscere alla divina mente quali siano le determinazioni che
debbono avere i reali finiti, acciocché ottengano il fine loro pre-
stabilito dalla essenziale bojità, e per lui come essenza attuante
— nello slesso tempo — ricevono l'esistenza propria dalla
divina affermazione. Del che parleremo più lungamente in ap-
presso.
5G9. Dall'essere dumpio deriva l'esemplare nella divina mente, il
quale esem[)lare è il complesso ordinato delle idee specifiche piene,
e questo esemjìlare è veduto nel Verbo, dove eminentemente esi-
ste e dove la mente per propria energia lo distingue, e la po-
tenza rfftttrice di Dio dirige poi i! suo proprio atto creativo per
modo che il reale finito che crea , risponda a qucU' esemplare.
Ma in che consiste questa corrispondenza? In questo , che le li-
302
mitazioni che la mente creatrice esemplante pone al suo alto
creatore, risultano le stesse neiresistenza propria, subiettiva ed
estrasubieltiva del mondo. Infatti nel reale infinito obietto affer-
mato, cioè nel Verbo, c'è già tutto , e il reale finito risulla in
esso dalle limitazioni in lui descritte dal pensiero di Dio, entro
alle quali limitazioni cadendo l'affermazione divina, produce il
reale finito , il Mondo.
Tutto ciò infatti che c'è nel mondo c'è in Dio, ma illimitato
e in un modo eminente. Tostochè 1' Essere assoluto non solo af-
ferma il detto reale come illimitalo, il che è generare il Verbo
eterno, ma anche il dello reale come coli' intelligenza sua limi-
tato , il mondo temporale esiste. C'è nel reale infinito l'alti vita,
il sentimento, l'intelligenza, tulio in una parola quello che c'è
nel reale finito , ma c'è assai più e in un modo assai più eccel-
lente : ciò che s'aggiunge dunque per determinare questo , non
sono che i limili; determinato poi, nello stesso tempo l'afferma-
zione divina lo fa esistere.
Esistono dunque le forme nel reale finito come limitazioni che
lo determinano. Queste forme reali o determinazioni subiettive
ed estrasubietlive sono certamente diverse dalle idee divine, poi-
ché queste idee divine esprimono ad un tempo il reale e le li-
mitazioni entro le quali rimane inchiuso il reale in un modo
obiettivo ; ma il reale finito non ha per sua forma reale subiet-
tiva od estrasubieltiva se non i limili che lo determinano , lo
dividono , lo distinguono. Quindi le idee specifiche non sono già
imposte alle cose come loro forme reali; il che non vide Ari-
stotele, che confuse queste con quelle, e però credette che queste
si potessero dividere dalla loro materia che è ciò che si com-
prende entro i limiti, e così si cangiassero in idee. Che se l'es-
sere ideale è dato all'intelligenze finite, non cloro dato come
forma reale subiettiva , ma è loro mostrato come oggetto inde-
terminato e non più: da questa vista poi viene al principio in-
tuente la sua forma reale, come da causa.
370. Ma come Iddio colla sua mente determinò e disegnò i li-
mili del reale finito, nell'alto stesso di crearlo, deducendoli dal-
l'essere iniziale quasi conseguenze dal principio; così l'uomo che
ha presente l'essere iniziale e universale, riporta ad esso il
reale sentito e con questo rapportamento i limili di questo ri-
303
mangono disegnali nell'essere, formandosi egli così le idee speci-
fiche piene (che tutte l'altre gli vengono poi per astrazione); ma
egli non può trasportare nell'essere ideale il reale stesso, perchè
relativamente a lui non ha che un'esistenza subiettiva od estra-
subietliva e non un'esistenza obiettiva, come l'ha in Dio per
eminenza; onde non rimane un oggetto reale nella mente in-
tuente, ma solo un'idea.
Conosce dunque il reale finito con quell'atto slesso , ed unico
— per l'unità del prijicipio intelligente e senziente — con cui ad
un tempo intuisce l'idea e sente ed afferma il reale sentito cor-
rispondente (i).
Poiché afferma il reale nell'idea quasi dicendo: «questo
sentilo è compreso entro questi limili di essere)). Quest'è la
parte che fa l'uomo applicando il reale all'essere nell'unico pro-
prio sentimento , considerando 1' essere come inlclligibile ossia
come idea, con che restituisce per così dire all'essere que' li-
mili, forme ed ordine, che dall'essere perla mente divina pro-
vennero al reale. Ma onde nasce questo riportamento? e cos'è
egli? L'essere non è solo intelligibile, idea, ma è ancora essenza.
L'essere come essenza è , come dicevamo , attuante il reale :
questo è il nesso fisico, per così dire, dell'essere col reale : e in
questo sta il dello rapporlamenlo: sta cioè nel vedere, che il reale
è attuato dall'essere (e questo si vede nella percezione, non nell'in-
tuizione semplice), e che però il reale è un tèrmine d'un'azione del-
l'essere, di un'azione all'essere non necessaria, ma solo di fatto esi-
stente : di maniera chf l'essere si può pensare intero senza questo
(1) Quindi S. Tommaso dice : « La scienza è duplice. Nel primo e principal
« modo è delle ragioni universali, su cui si fonda » delle idee. « In un altro
« modo secondario e quasi per una certa riflessione è di quelle cose, di cui
« sono quelle ragioni, in quanto applica quelle ragioni anche alle cose parlico-
« lari di cui sono, coll'aiuto delle forze inferiori ». Questa è la scienza che
noi chiamiamo di predicazione o d'afférmazione, che si fa adminiculo in-
feriorum viriuni, cioè coll'aiuto del sentimento. Continua : « Della ragione
a universale, colui che sa, fa uso come di cosa saputa e come di mezzo di
< sapere. Poiché per mezzo della ragione universale dell'uomo, posso GIU-
« UICARE di questo, o di quello ». Ecco la scienza che si fa col giudizio
ossia coiraffermazione, e che riguarda anche i particolari sentiti. — Cf. S.
Th. Super. Boet. De Trinit. q. V, 2.
304
suo termine, che pur ha. Se non ci fosse questa connessione fìsica
tra l'essere, come essenza attuante, e il reale finito, e non s'ap-
prendesse, non potrebbe l'uomo intuire nell'essere come intelli-
gibile il reale sentito, cioè a lui riportarlo, perchè il principio e il
termine non avrebbero unione alcuna. Ma poiché l'essere nella
percezione si vede attuante il reale, e attuante il reale in ogni
sua menoma parte e alto suo proprio — che l'essere è l'atto
di tulli gli atti — nella percezione s'apprende l'essere ed il
reale unito intimamente senza che sfugga alcuna attualità di
questo, e così s'inlende tutto il reale nell'essere, che perciò si
chiama reale non oggetto , ma oggettivato ; perchè in questo
reale oggettivato rimane sempre discernibile dalla mente l'inizio
dell'ente cioè l'essere ;, dal termine cioè il reale sentilo, che
non è l'essere stesso.
371. Dichiarate queste cose, ritorniamo alla nostra questione:
u quali sieno le proprietà dell'essere comunicabili ai reali finiti e
di questi predicabili » ?
Abbiamo detto , che l'essere si presenta nella sua relazione coi
reali finiti: l.°come intelligibile o idea; 2.° come essenza at-
tuante il reale.
La questione dunque si parte in due altre subordinate :
\.° Quali siano le proprietà che l'essere comunica ai reali
finiti a cagione della sua essenziale intelligibilità ;
2." Quali sieno le proprietà che l'essere comunica ai reali
finiti come essenza attuante i medesimi.
Ma prima ancora di risolvere tali questioni, dobbiamo avver-
tire, che in queste questioni non si parla più dell'essere preciso
interamente dalle sue forme, ma dell'essere che ritiene qualche
cosa delle sue forme eterne e proprie ; perocché se si prendesse
l'essere rigorosamente preciso dalle sue forme, sarebbe tolta ogni
relazione tra lui e il reale finito che appartiene ad una delle sue
forme. Infatti quando si considera l'essere come essenzialmente
intelligibile, rispetto a noi come idea , già lo si considera nella
sua forma oggettiva e divina; e quando lo si considera come
attuante il reale finito , lo si considera come ritenente della sua
forma reale e subiettiva, poiché l'agire è proprio carattere di questa
forma, come della prima il far conoscere; ond'anco dicemmo,
che una tale attività comunicativa dell'esistenza a' reali finiti ap-
.IO",
partiene all'alto creativo , benché rimanga nascosto di quest'atto
il divino subielto.
di'!. Venendo dunque a rispondere alia prima delle due que-
stioni in cui abbiamo spezzata la questione generale che ci siamo
proposta , dalle cose dette risulta :
i .° Che dall'essere come virtuale ed intelligibile vengono le
idee divine del mondo ;
'il." Che queste idee hanno per loro fondamento in Dio il
reale infinito nella sua forma obiettiva cioè il Verbo, e che però
hanno un fondamento reale, ma in quanto sono reali non si di-
stinguono dal Verbo stesso, se non di ragione, per un atto in-
tuitivo della mente divina , onde la distinzione rimane nella di-
vina mente ;
5,° Che queste idee prescrivono al reale finito, oggetto del-
l'affermazione creatrice, i Imiti, i quali limiti costituiscono le
forme reali degli enti finiti , che devono esser creati ;
h.° Che questi limiti reali o forme non sono le idee divine,
ma sono l'effetto dell'atto creativo, diretto e circoscritto da quelle
idee divine;
ri." Che perciò le forme reali del mondo nella loro esistenza
propria subiettiva ed estrasubietliva non sono Vesserò attuante
partecipato, ma sono limitazioni del reale impostegli anterior-
mente dalla Mente divina ;
0." Che questi limili sono condizioni e predisposizioni del
reale finito a poter ricevere l'esistenza , perchè sono quelli che
lo determinano , non potendo esso ricevere resistenza in sé qua-
lora rimanesse indeterminato ;
7." Che il reale finito, mediante queste forme, limiti e
determinazioni, sebbene egli non abbia in sé altro che un'esi-
stenza subiettiva ed estrasubiettiva , acquista una speciale rela-
zione coU'essere iniziale intelligibile , e così diventa intelligibile,
perchè que' limiti e forme vengono dall'essere non in quanto è
essere attuante , ma in quanto è essenza inlelligihile , dove la
mente divina le tracciò prendendo la norma dal fine ultimo a sé
proposto nel creare il mondo.
E veramente il reale finito , in quanto esiste subiettivamenle
ed estrasubietlivamente^ none conoscibile per sé, perché non
è obietto ; e in Dio come obietto non esiste se non eminente-
tiosMiNi. Teosofia. 20
5or>
mente nel Verbo , e come idea nella mente intuente di Dio. Onde
non potrebbe esser conosciuto se non avesse i detti limiti e le
delle forme reali. Ma queste essendo limitazioni dello stesso es-
sere altuantc e dante l'esistenza al reale ^ sono conoscibili come
limitazioni e determinazioni dello stesso essere iniziale.
575. Dal cbe procede che Platone e Aristotele e tutti i più ce-
lebri filosofi hanno sempre insegnato che « la sola forma degli enti
mondiali abbia natura d'intelligibile » separata dalla materia, e
non la materia stessa (1). Ma non compresero essi il vero perchè
di questa intelligibilità della forma ^ e della non intelligibilità
della materia : ragione che noi possiamo riassumere così : « la
materia pura e indeterminata non può ricevere l'essere: ma il
solo essere è intelligibile ; dunque quella rimane inintelligibile ».
All'opposto « la forma della materia, e più generalmente della
realità, è ciò chela determina, e determinata è suscettiva del-
l'essere attuante che la fa esistere. Essendo dunque suscettiva
dell'essere, è suscettiva dell'intelligibilità per l'essere che può rice-
vere (idea), 0 che ie è aggiunto di fatto (cognizione d'atl'erma-
zionc) ». Essa dunque, la realità determinata^ è intelligibile non
come realità subiettiva ed eslrasubietliva , ma per la sua deter-
minazione 0 limitazione. Di più la limitazione o determinazione
de' reali finiti, è fatta, j)rima che sieno in sé, nell'essere dalla
mente di Dio, e però è ancor, prima limitazione e determinazione
dell'essere intelligibile , poi limitazione e determinazione dell'ef-
ficienza creatrice, e finalmente del reale fiiìito in sé esistente.
Questa limitazione e determinazione è dunque: ì.° nell'essere
ideale j 2.° poi nell'efficienza creatrice; 3.° finalmente nel reale
finito in sé. Essendo dunque prima nell'essere^ è conoscibile
rome cosa dell'essere: nel reale finito poi non è conoscibile se
non in quanto partecipa l'essere aUiianle che lo fa esistere, e che
restringe il suo alto entro alla detta limitazione e determinazione.
Ora quest'csiv'n! alluante non è il reale determinato: perciò que-
sto reale, benché determinato, non si conosce in sé, non essendo
(!) Plat. Thcaet. p. 185, ISG — Arht. De An. Ili, 4, 6, 8 ; Metaph. I,
7; VII, 10; 13; 1G; IX, 7; XI, 1; ;2 ; WW — Soph. 22, § 17. — E, seguendo
Aristotele, S.Tommaso: Omni» m coanosdtnr per suam formam. Sup.
Ito e 111. De Trinit. q. V, 2.
507
egli stesso l'essere; ma si conosce per la relazione sua coli' es-
sere, stabilita prima dalla mente divina, poi manifestata all'u-
mana nell'atto della percezione.
E di qui si può trarre una spiegazione filosofica della frase me-
taforica d'Aristotele e d'altri filosc-fì, che « la forma si conosce
separandola dalla materia (1) w. Che cosa è questa separazione
dalla materia? Come può la forma d'un reale rimanere separata
dallo stesso reale? Quesl' è quello che rimane presso di essi nel-
l'oscuro, quello che i filosofi non hanno forse mai detto. Ricono-
scono però che qucsl' è l'opera dell'intelligenza. Ma l'intelligenza
ha ella una forza da operare sul reale stesso e dividerne i due
elementi di cui consta, e che sono indivisibili? Qui dunque non
si va più avanti. Ma lutto rimane chiaro nella teoria esposta.
( limiti , prima che nel reale, sono neWessere attuante il reale.
Ma questo è conoscibile per se stesso. I limiti dunque che
si trovano nel reale da noi sentito, si vedono nello stesso essere
obiettivo ideale, e in questo sono scevri dal reale slesso , e così
sono separati dalla materia.
37^1. Ma come possono questi limili esser comuni al reale ed
all'ideale? — La ragione si t% perchè sono propri dell'ente: e ciò
che è proprio dell'ente, e non delle forme dell'ente, è comune alle
tre forme. Noi abbiamo veduto che gli enti si dividono in due
supreme classi ( l'i 4-15^ ) , che non sono forme, e non sono
generi : e queste sono l'Ente assoluto, e l'ente limitalo e relativo.
L'uno e l'altro di questi enti hanno le loro Ire forme, benché
in altro nìodo: dunque anche nell'ente limitato si devono di-
stinguere le tre forme ^ e ciò che è a queste comune appartiene
all'ente slesso, e non alla forma, secondo il principio da noi
posto di sopra. I limiti dunque che costituiscono le determina-
zioni dell'ente limilato, sono anteriori per loro natura alle forme
di questo, e però devono ridursi all'essere slesso e non alla
forma propria.
Possiamo dunque conchiudere, rispondendo alla prima delle
due questioni parziali che ci siamo proposte, che l'ente reale
finito ^riceve* dall'essere come intelligibile la sua forma pro-
pria, che si riduce alle limitazioni de! reale. E questa imposizione
(1) De An. Ili, 4.
50.S
della forma la riceve prima di esistere in sé, nella mente divina;
e r intelligenza finita non partecipa punto di questa potenza di
imporre al reale finito la forma : salvo che può conoscere questa
forma gifi imposta , e servirsi di queste forme conosciute per
cangiar le forme de' reali fino a un certo segno , come accade
nell'opere dell'arte,
375. Veniamo ora alla seconda questione parziale: «quali sieno
le proprietà che l'essere comunica ai reali finiti come essenza
attuante i medesimi».
Questa è questione più facile, poiché è manifesto che l'essere
attuante comunica ai reali finiti e determinati l'esistenza in sé
(subiettiva od estrasubiettiva) , per la quale diventano enti fi-
niti. L'esistenza poi è l'atto di tutto ciò che d'attualo può essere
pensato nel reale determinato. Infatti é proprio di questo Vagire:
ma Vagire non ha luogo se non dopo l'esistere. Prima di questo
dunque non c'è che il concetto d'un agire potenziale, che non è
punto vero agire. Finalmente l'essere attuante comunica all'ente
finito l'intelligibilità di percezione ossia d'affermazione, perchè
l'essere in qualsivoglia suo atto è sempre per sé intelligibile.
Dovendo noi dunque ora parlare divisatamente di tutto ciò
che r essere comunica ai reali .finiti* , prima considereremo
queste tre ultime proprietà, cioè l'esistenza, l'atto e l' intelligibi-
lità di predicazione che procedono al reale dall'essere come es-
senza attuante ; e dipoi considereremo la forma, in quanto è co-
mune a tutti gli enti finiti, e che proviene loro dall'essere
come intuitivamente intelligibile.
» -S~'QX9X&'»^
SEZIONE IV.
Di ciò che Tessere snbiettlTo comunica
ai reali finiti.
CAPITOLO I.
Della prima proprietà che l'essere iniziale ed attuante
comunica di se ai reali finiti, resistenza .
Articolo I.
Esistenza .
376. L'esistenza dunque, eome risulla da quello che ahbiam
dello, in ogni ente qualunque apparliene all'essere.
Se l'esistenza ò essenziale all'ente slesso di cui si predica ,
quest'ente è necessario. In tal caso quest'ente è l'essere stesso,
e quest'essere non è già solamente iniziale , ma è terminalo in
se stesso. E l'essere essendo infinito , quest'ente, che non è
altro che l'essere terminato in se stesso , è Dio. Il processo
della mente umana per arrivare a Dio è appunto questo. Con-
sideriamolo nell'ordine della riflessione. Dopo che la mente si
è formato il concetto dialettico dell'essere iniziale, l'applica ad
un ente, a cui pensa che gli sia essenziale. Ora se l'essere è
essenziale ad un tal ente, quest'ente è l'essere. Ma l'ente è sem-
pre terminato: l'essere dunque in tal caso deve essere termi-
nato, e non più iniziale. Tale è il concelto dell'essere compiuto
ed assoluto. I termini in questo caso sono propri dell'essere, e
non a lui stranieri, perchè egli termina se stesso.
Ma l'esistenza si concepisce anche come accidentale in un
dato ente. In tal caso l'ente non è l'essere stesso: tali sono
510
gli eiili finiti , 0 contingenti. In questo caso quesl/cnte in sé
considerato non essendo Tessere, altro non può essere in sé che
termine iìeWessere , giacché tutto è o essere , o termine dei-
Tessere (L. I ,Lc Caleijorie) . Ma questo termine non è proprio
à&Wessere, ma a hii straniero e improprio: poiché Tessere si
concepisce perfetlo senza di lui : né Tessere si trova nelTes-
senza di un tal ente , nò quest'ente nell'essenza dell'essere , se
non virtualmente.
L'essere dunque che si ravvisa in un tal ente , spogliato
del termine che non appartiene alla sua essenza, si rimane da-
vanti alla mente come essére iniziale ed attuante, ma nulla più.
QuesTenle poi si riconosce di conseguente come composto:
1.° di termine, e '2.° di essere iniziale: ossia di reale finito e
di essere.
E nondimeno Vessere puro e iniziale é comune all'essere asso-
luto, e però é divino; nia nell'ente assoluto é ?Vimf?'co, nell'ente
finito e diverso da questo (Vedi il Lib. Del Dimio ucc ) .
Articolo li.
Durata.
377. Indivisiliile dall'esistenza é la durata [Psicol. 1365 sgg.):
perocché un en!e che non durasse niente, non esisterebbe.
Insieme allesislenza dunque il reale finito riceve la durala
propria dell'essere. IJi che il fondamento del tempo, ma Udii
ancora il tempo: poiché la durala non é la successione, ma
questa si fa in (|ue!!a. La successione non viene al reale finito
dall'essere, ma è propria del reale, il tempo poi é la relazion«>
della successione colla durata {Psicol. 1159 sgg.).
Laonde i due clementi che costituiscono la natura del temp(\
hanno la loro ragione e spiegazione nella dualità dell'ente fi-
nito , jìoiché tìclTuno dei due elementi , cioè nell'essere, è la
durata: nell'altro elemento, cioè nel reale, giace la mutabilità
e la consesuenìe successione nella durata.
5H
CAPITOLO 11.
Della seconda proprietà clic, l'essere iniziale attuante comunica
di sé ai reali finiti, Vallo dei loro atti.
378. Consideriamo ora l'esistere sotto il concetto di alto. In fatti
l'esistere d'un ente è l'alto di lutti i suoi alti , come abbiamo
già dello. Ma per illustrare il concetto di atto dobbiamo con-
frontarlo a quello di potenza.
Articolo I.
Concetto di potenza e di atto.
.579. !i concetto dunijuc di atto involge una relazione con
quello di potenza.
E un latto primitivo somministrato dall'osservazione degli
enti contingenti;, che questi si trovano in isfali diversi , senza
perdere la loro identità ; e però che quando cangiano passando
da uno stalo ad un altro, questo secondo stato a cui passano,
esisteva in essi implicito, siccome in germe. Questi stali che
non esistono ancora, ma di cui non di meno esiste il principio
attivo che li produce, sotto certe condizioni , si chiamano stati
in potenza.
(( La potenza duiupie è una causa che ad un tempo è su-
hietto del proprio effetto » (1).
(1) Noi ci dipartiamo da Aristotele clie definisce ia potenza *( Un principio
di moto 0 di trasmutazione in un altro, o in quanto è un altro » òj-jx/mì )A-
•/2Ts:t, -7 //kv àpxvj ztvvjffsws o //.cTapoXi)? -/i ì-J iripM ri 'irspov (Metiiph. IV (V), 12).
Primieramente in questa definizione la potenza manca dell'atto immanente.
Di poi con essa si definisce piuttosto una causa clic la potenza: non si defini-
sce quella potenza clie è l'opposto di atto. Laonde Aristotele stesso quando
viene a considerare l'ente ne' suoi due concetti di ente in potenza e di ente in
atto, s'accorge che non gli serve la definizione data della potenza : xal Ttpw-
Tov liept 5uvà;Ui£W5, ìv y.iyzrxi /J.ÌV ixAìicry. /"-jpiws, oh u-y,-j ■/pr\iip:r,-i' lart Tipa; o SouJió-
/xeS« vuy {Metaph. vili (IX), 1) ; poiché, dice « la potenza e l'atto si estende al
« di là di quelle cose, che si dicono soltanto secondo il moto » Ini nUo^ ykp
512
In quanto qtieslo effetto è già prodotto, la causa considerala
conio subietlo del medesimo, dicesi in atto, e l'effetto slesso di-
cesi alto di queslo subietlo. In quanto poi questo subielto è
considerato come causa d'un tale effetto, diccsi potenza; e se
questo effetto non è ancora prodotto, dicesi che il detto subietto
è in potenza.
Considerando la natura d'una tal causa d'esser subietlo del
proprio effetto , e questa natura dell'effetto d'essere uno stato
diverso della propria causa, la mente umana forma a se slessa
i concetti di atto e di potenza: i quali dipendono da quelli an-
teriori e più generali di causa ed effetto.
Anche questi ultimi traggono la loro origine da ciò che l'uomo
osserva avvenire nelle entità contingenti , che compongono il
mondo , oggetto immediato della sua percezione. Se nulla si
mutasse , mai non nascerebbero i detti concetti di causa e di
effetto : questi suppongono che qualche cosa avvenga di novo ,
ed ogni novità, ogni novo avvenimento, suppone la natura con-
ia-ztv ri 5-Jvxfj.ii /ai vj ivipyiioc Tòiv /jióviv ).eyo,aÉvwv zktì xtV/isiv (Ivi\ Ma appicci-
cato al parlar comune, clie fa i vocaboli adattati ad esprimere le cose finito
e contingenti, e non le nielafisiclie, Aristotele tien fermo ctie il proprio si-
gnificato di potenza è quello « d'un principio del moto in un altro, o in
quanto è un altro », e vuole che per traslato s'usi questa parola potenza
quando si dice: (f Quest'è possibile, quest'è impossibile; come fanno i geome-
tri: J) évtat yàp Òimìcixotì xvn J.iyovrxi^ xa&aTiep ev yioìy.trpia.- xat òuvarà xal àòuvara
Uyoixiv ró} V.-ÌVX iruc, ?; p-r, iivai. (Metapk. Vili (IX), 1 ; IV (V), 12). Ma non con-
viene ricorrere nelle scienze alle metafore, quando si può stabilire un lin-
guaggio proprio. D'altra parte , che l'elfetto della potenza si deva sempre
produrre in un altro , è falso , perchè chi opera , prima ancora di produrre
in altro un effetto, Io produce in se stesso , che si mette in atto : né vale
l'aggiunta « in quanto è altro »; perchè può essere identico il soggetto che
operando si modifica, e soltanto riman diversa la relazione di passivo ed at-
tivo che ha io slesso alto, come osserva Aristotele stesso : yscvipòv oZv ozi
iczi 'j.i-j 6>i y.icx Sùvay.ti xùu nrjtùv /ai iratr/stv (Metapìì. Vili (IX), 1). A questO
s'aggiunge essere un pregiudizio, che non si dia azione senza passione; noi
abbiam dimostrato darsi il caso del contrario {Rinnov. L. 111. C. XLIV.
ultini. net.). Finalmente essendo necessario alla scienza distinguere la po-
tenzialità che è in un ente, la quale non esce da lui, dalla causa che si può
riferire a un effetto prodotto fuori di sé ; senza confondere questo secondo
concetto che è il genere, col primo che è la specie ; noi abbiamo preferito
di assegnare alla potenza la sua propria definizione.
313
tingente. Di qui dunque l'Ideologia spiega l'origine de' concelti
di causa e di effello {Ideol. G15-6Ì8; 637, 038).
Posti dunque questi concetti di causa e di effetto , nascono
quelli di potenza e di atto. La potenza è una specie di causa ,
ma non ogni causa è potenza nel senso della data definizione.
Quella sola causa dicesi potenza che è in pari tempo il su-
bietto del proprio effetto: e l'atto è una specie di effetto, ma
non ogni effetto è atto che rimane nella causa che l'ha prodotto
come in suo subictto.
Articolo li.
Concetto di virtualità.
380. Mollo diverso dal concetto della potenza — secondo la
data definizione — è il concetto della virtualità.
Questo si definisce da noi così: « Virtuale è ciò che il pen-
siero vede contenuto in un altro , dal quale per sé non si di-
stingue, ma che può esservi distinto dallo stesso pensiero , n
anche ricevere un'esistenza da sé, separata da quella dell'altro
in cui indistinto si trova ».
A ragion d'esempio, in un numero maggiore il pensiero ve
deci contenuto un numero minore , il quale non si distingue
da! numero maggiore in cui è contenuto , perchè in tal caso
i! numero maggiore non sarebbe più quel numero; e pure il
pensiero può vederlo in esso, e può vederlo anche separato da
esso come un altro numero, senza che perciò il numero mag-
giore soffra alterazione. Del pari nel circolo col pensiero si
[)Ossono vedere contenuti molti poligoni: ma ci sono indistinti:
che se ci fossero distinti in sé , già non s'avrebbe più la sem-
j)lice figura del circolo : pure possono anche esser pensati da
sé , senza il circolo , e senza che ci abbia bisogno di recare
a! circolo alcuna alterazione. Allo stesso modo nell'estensione
iilimitata dello spazio si possono pensare comprese tutte le
figure geometriche di qualunque grandezza e l'orma si voglia,
benché in essa non sieno distinte: e queste figure stesse si
jmssono anche pensare senza Testensione illimitata.
Tale è dunque il concetto di ciò che é virtuale. Se si prende
51 /i
l'astratto, abbiamo la virlualità. Ora la virtualità si predica tanto
di ciò che è virtuale, quanto di ciò che contiene in sé ciò che
è virtuale, vale a dire l'entità che il pensiero distingue in esso,
benché in esso non sia per sé distinta Ma nel primo caso si dice;
«questo è virtualmente in quello «, nel secondo caso: «que-
sto contiene virtualmente quello» : la virtualità del primo riguarda
la sua propria esistenza; la virlualità del secondo riguarda l'esi-
stenza di quello che Ita in sé, e che in sé non ha un'esistenza di-
stinta, ma può averla fuori di se almeno come oggetto del pensiero.
Di qui apparisce che non sempre l'avere la virtualità é un' im-
perfezione nel contenente , ma riguardo al contenuto, l'esistenza
virtuale, e relativamente al pensiero che la pone in un altro, ò
un'esistenza imperfetta, e in sé poi non é neppure esistenza.
381. Ma conviene che vediamo le diverse specie di virlualità, e
così troviamo quando indichi imperfezione, o non esistenza, e
quando no.
Abbiamo distinto due specie di causa: 1." la causa potenza,
2." e la causa non potenza.
Ora l'effetto esiste sempre virtualmente nella causa.
I. Ma l'cffetìo della causa potenza rimane in essa, perchè ella
è il subietto di cui l'effetto è l'atto inerente. Quest'atto perfeziona
la causa, perché le dà un atto suo proprio che forma parte di
sé subjetto. Dunque la virtualità della causa potenza è un'imper-
fezione, è mancanza d'un'altualità che la detta causa deve avere
per essere subietlo in atto. Rispetto poi a quest'atto la sua vir-
tualità è non esistenza , perchè fino che è virtuale non esiste , se
non puramente nel pensiero che lo vede possibile. Spogliando la
causa potenza di tutti allatto i suoi atti, se n'ha il concetto che
si sono formato gli antichi della pura materia, cioè della mera
potenzialità Ora V imperfezione di (piesta causa potenza qui é spinta
tanto avanti, che è divenuta non esistenza; poiché Va causa po-
tenza senz'atto alcuno non può avere alcuna esistenza in sé, né
è subietto, a cui si possano attribuire degli atti, se non dialet-
tico; rimane duìKpie una pura r-ntità di ragione prodotta dall'//
sirazione ipotetica {Psicol. 787 j (1).
(1) Questo concetto pertanto è divei'so da quello della materia primri
corporea, che si fa colV astrazione tetica, di cui abbiamo parlato nella Psi-
545
II. Altramente è da dirsi della causa non potenza.
L'effetto che questa produce avendo un'esistenza propria e da
sé, separata al tutto dall'esistenza e dall'essenza della causa,
non perfeziona la causa. Così un uomo è perfettamente uomo
tanto nel caso che abbia un figlio, quanto che non labbia: per-
chè l'alto dell'esistenza del figlio non è parte dell'alto con cui
esiste il padre. Se si concepisce dunque che in un uomo sia vir-
lualmente un figlio, questa virtualità che si dà a quell'uomo
non è una sua imperfezione, non avendo egli bisogno del figlio
per essere perfetto uomo. All'incontro se si considera la virtua-
lità nel figlio che è reffetto. il figlio virtuale non ha esistenza
in sé, e il solo pensiero lo distingue nella causa: il figlio vir-
tuale dunque non é altro che un'entità di ragione.
In questo secondo genere di cause efficienti , 1' efTetto delle
quali ha un'esistenza distinta da quella della causa, e non è egli
slesso l'alto di questa, conviene distinguere dall" efletto l'atto
con cui l'effetto è prodotto. Quest'atto e della causa producentc
e ad essa inerente. Rispetto dunque a quest'alto è ella causa po-
tenza prima di produrlo.
Ma si consideri che quest'atto che produce l'effetto è tran-
fieunle o permanente.
Se è transeunte . perfeziona la causa solo in quel momento ne!
quale egli dura, e in quel momento la perfeziona solamente in
quant' é causa relativa a quell'effetto ; dal che non ne viene che.
col cessare quell'atto, il subietlo di quella caus-i rimanga perfe-
zionalo: che anzi può il subietto stesso di poi rimanere indebo-
lito e deteriorato, come se l'atto che produsse l'effetto fosse m;il-
vngio (deterioramento morale), o fosse uno sforzo soverchio dei
subietto che lo fa (deterioramento fisico).
rologia (788, 789), dove abbiamo proposto di riservare a questa sola il noiiit'
(ti materia prima, chiamando potenzialità, o con altro simil nome, il con-
cetto d'una causa potenza priva al tutto de'suoi atti. La materia prima ne!
senso di forza corporea, spoglia colla mente d'ogni altra sua qualità e de-
terminazione, rappresenta un elemento reale, e però un reale subielto delle
altre qualità e determinazioni, sia ne' corpi esistenti, sia nel pensiero che
gliele aggiunge; perciò l'astrazione che produce quel concetto è tetica ; lad-
dove una semplice e assoluta potenzialità senz'alto alcuno non presenta al-
cun elemento reale^ e però è un prodotto dell'astrazione ipotetica.
516
Se poi trattasi di un alto permanente , questo può esser buono
0 cattivo , e così perfezionare o guastare il subietto della causa ;
ma la causa considerata astrattamente come causa relativa al-
l'effetto, rimarrebbe perfezionata; il cbe accade in lutti gli abiti.
Finalmente noi abbiamo supposto che l'atto che produce un
elFetto , la cui esistenza è diversa da quella della causa, inco-
minci; e abbiamo detto che prima che un tal atto sia fatto, la
causa è potenza ad esso. Ora se l'atto fosse eterno, come accade
in Dio dell'atto creativo^ la causa non sarebbe mai stata po-
tenza , e solo si potrebbe concepire tale dialetticamente per astra-
zione ipotetica.
III. Fin qui abbiamo considerata la causa potenza, e là causa
non potenza , e considerate le due specie di virtualità loro pro-
prie. Queste cause appartengono alla forma reale subiettiva ed
estrasubieltiva dell'essere, essendo cause efficienti , ed ogni effi-
cienza, ogni azione appartiene all'ente reale.
382. Ora se noi consideriamo l'essere nella sua forma obiettiva,
troveremo una terza specie di virtualità. Questa terza maniera di
virtualità consiste in questo, che l'intelligenza contemplando un
oggetto , può distinguere in esso più entità, e considerare ciascuna
di esse a parte, come fosse un oggetto da sé.
L'oggetto, in cui ella distingue tali entità moltiplici , è uno ;
che altramente non sarebbe un oggetto solo , ma più. Essendo
dunque uno l'oggetto, e le entità distinte in esso dalla mente
molte , la mente che considerando ciascuna a parte dell' altra
le separa , ci mette del suo questa separazione che spezza l'unità
dell'oggetto. Si dice dunque che tutte queste entità moltiplici, quasi
parti, sono contenute virtualmente nell'oggetto uno contemplato
dalla mente. Questa virtualità non suppone necessariamente nel-
l'oggetto alcun'imperfezione, non essendo l'oggetto rispetto a que-
ste entità separale dalla mente una potenza : che esse non esistono
separate come un atto dell'oggetto stesso, ma come un effetto
dello sguardo della mente nell'oggetto, cioè della limitazione che
il subietto pensante pone al suo proprio sguardo. E bensì vero, che
la mente per limitare così il suo sguardo ha bisogno d'aver pre-
sente l'oggetto intero, e che quelle entità le distingue in questo,
ma la separazione ce la pone la mente stessa, è un effetto di que-
sta sola. È dunque necessario distinguere l'oggetto in sé dalla rela-
517
zione che l'oggetto ha colla mente, quasi una doppia esistenza del-
l'oggetto, l'una propria, e l'altra relativa alla mente. L'oggetto in sé,
in quant'ha un'esistenza propria, è uno e indivisibile, e anche come
tale e continuamente presente alla mente (Psicol. 1319 sgg.j ;
che altramente non sarebbe oggetto. 1/ oggetto stesso poi , in
quant'ha un'esistenza relativa alla mente, si spezza dalla mente,
che vede in esso molte cose , separando le une dalle altre, senza
che però cessi , come dicevamo, di rimanere l'oggetto in sé tutto
intero davanti alla mente.
Tale è la virtualità oggettivo-mentale.
583. Ma questa si suddivide in molte classi, e l'averle accurata-
mente distinte è di grand'uso nella Teosofia. Ecco qual è il prin-
cipio di questa sottociassifìcazione. Abbiamo detto che V oggetto
in cui la mente dislingue più cose è uno. Ma l'unità di cui gode
quest'oggetto può esser di varie sorti : la diversa natura dunque
d'unità di cui gode il detto oggetto è il principio della sotto-
classificazione di cui parliamo , poiché la virtualità non é altro
che « quel modo d'esistenza che hanno i più nell'uno ». Appli-
chiamo questo principio
A), h" oggetto uno, che contiene virtualmente i più, può es-
sere un oggetto la cui unità sia dialetiica . cioè opera della nostra
mente o in tutto o in parte. In tal caso le parti che lo compon-
gono hanno in sé, l'una separata dall'altra, un'esistenza vera
ed attu;ile; e la virtualità, cioè il modo con cui esse esistono
unificate nell'oggetto, é dialettica.
Se a un ammasso di varie cose noi imponiamo il nome di
«congerie», abbiamo creata a nostro arbitrio un'unità che non
hanno punto quelle cose disparate: la parola «congerie» esprime
in tal caso un oggetto puramente dialettico, stante che la sua
unità è del tutto opera della nostra mente. Distinguendo ella e
separando questa molliplicità di cose nell' unico oggetto detto
« congerie » , con questa separazione non fa che distruggere l'o-
pera sua propria. La «congerie)) dunque, come oggetto dialettico,
comprende virtualmente tutte quelle singole cose che esistono
in sé attualmente; e l'oggetto, in cui sono, esiste solo in modo
relativo all'atto arbitrario della mente che lo finse.
Ma talora l'oggetto dialettico non é intieramente dialettico, cioè
un prodotto arbitrario delle operazioni mentali, ma la sua unità
518
nasce da un misto di vincoli reali , ideali, e morali, i quali non-
dimeno non basterebbero a costituirla pienamente una tale unilìi,
se non intervenisse la mente con un'operazione dialettica ad ul-
timarla, e cosi costituire l'oggetto uno. Questo accade ogni qual
volta l'oggelto uno è composto di più enti che esistono da sé
singolarmente presi, come avviene in una società di persone, e
in qualunque organismo di più enti, per esempio una macchina.
In questi organismi ci possono essere de' vincoli reali : in una
macchina, per esempio, ci sono le forze che agiscono reciproca-
mente, in una società ci sono gli atti reali de' singoli mefnbri
co' quali si trattano socialmente: ci sono de' vincoli ideali, tale
è il fine imposto alla società o alla macchina : e nella società ci
sono anche de' vincoli morali , quali sono le scambievoli obbli-
gazioni. Ma se tali oggetti si concepiscono come aventi unità,
deve intervenir la mente, la quale aggiunga un'operazione dia-
lettica , cioè l'astrazione. Perocché l'unità dell'oggetto macchina
non si concepisce , se non a condizione di considerare le parti
di cui si compone astrattamente, cioè solo in ordiìie al fine della
macchina stessa : e cosi nella società la mente deve considerare
le persone che la compongono non semplicemente come uomini,
ma anche aslratlanjente come uomini membri dì qudh società,
come cittadini per esempio , se la società di cui si tratta è la
civile. Quando dunque la mente considera le parti di questi or-
ganismi dialeltiri , ella considera de' veri enti, e questi esistono
virlualmentc nel!' oggetto unico , ma in questo non esistono se
non come entità astratte; e però qui abbiamo una virtualità non
puramente dialettica, ma astratta; e ciò che ha un'esistenza vir-
tuale astratta nell'oggetto uno, ha un'esistenza in sé reale ed
attuale (-1).
B). C'è un'unità dell'oggetto puramente ideale. Di que-
st'unità gode l'idea dell'essere universale. Quando la mente di-
stingue in esso più proprietà o concetti elementari (Ideol. o7b
e sgg.) come l'unità, l'universalità, ecc., e considera ciascuno
(1) Si ponga mente che l'intelligenza non avrebbe il potere eli costituire
unità del tutto o in parte dialettiche e arbitrarie , se non avesse presente
Vessere virtuale che è il fondamento di ogni unità, e di ogni unificazione,
anche puramente mentale.
TAi)
a parte, ella forma de' concctli dialettici relativi ad essa, e che
separatamente dall'oggello, in cui li distingue, non esistono: si
dice dunque che essi hanno un'esistenza virtuale nell'oggetto, e
un'esistenza attuale puramente dialettica. Questa maniera di vir-
tualità non involge alcuna imperfezione nell'oggetto in cui si
trova, ed anzi è una sua perfezione; perchè l'esistenza vir-
tuale di tali enti è un'esistenza unita e semplice: e la virtua-
lità non è che relativa alla divisione dialettica della niente. Ora
Vanità è proprietà di perfezione, e la divisione — e separazione
correlativa — è una proprietà d'imperfezione.
Laonde si può stabilire il principio universale che « ogni qnal
volta la parola virtualità non è che relativa alla separazione,
di maniera che altro non esprime che una separazione virtuale,
ella non importa imperfezione, ma perfezione dell'oggetto.
C). C'è un'unità dell'oggetto ideale e reale. Intendo per
oggetto ideale e reale quello che è un ente che può sussistere
in sé, e che può pensarsi anche nell'idea. Tali sono quelli cui
appartengono le specie piene, le quali essendo pienamente deter-
minate, possono servire d'esemplare, su cui si produca un ente
realmente sussistente. Ora l'unità di quest'ente si può concepire
come proprietà deW idea piena, o come proprietà óeWente reale.
Laonde del pari si può concepire la virtualità nell'oggetto
uno come idea, e nell'oggetto uno come ente reale.
Consideriamo Tuna e l'altra virtualità.
584. 1. Virtù ililà nell'oggetto che ha per sede la sua realità. —
L'ente reale ha un'unità reale più o meno perfetta, che noi qui
al nostro uopo divideremo in due gradi.
Primo grado d'unità. — Alcuni enti reali, benché ah!)i;!no
un unità reale, pure si possono dividere; e questa divisione la-
scia sussistere degli altri enti anecra pienamente determinati e
reali.
Secondo grado d'unità. — Alcuni enli reali hanno un'unità
così perfetta, che non ammettono alcuna divisione, non avendo
parti che possano sussistere da sé stesse come enti reati an-
ch'esse.
"B ") Enli che hanno un'unità reale, ma che ammettono divi-
sione, d.ìlla quide n.iscono altri enti reali.
Non intendiamo , che a questi enti appartenga la pura ma-
520
teria corporea, benché determinala da una misura e da una fi-
gura, perchè la misura e la figura non danno alhi materia cor-
porea se non un'unità relativa al principio senziente che la
contiene dentro a quell'unità [Antropol. Oh sgg.) : l'unità è pro-
pria del principio senziente non della materia corporea, che non
è altro che un suo termine. È soltanto la mente quella che at-
tribuisce a un corpo inorganico — o considerato come tale — una
certa unità , prendendola dalla relazione che egli ha col prin-
cipio senziente. Ma questa unità è dialettica :> ed appartiene a
quegli oggetti formati dalle operazioni dialettiche della mente
di cui abbiamo parlato. Quindi la divisione d'un tal corpo dà
degli enti reali, d'ugual natura a quella del corpo che si divide,
e se prima di dividerli questi si considerano come virtualmente
contenuti nel corpo totale, questa non è più che una virtnaUtà
dialettica del secondo genere , quando si prescinda , come qui
noi facciamo, da ogni virtù organica intrinseca al corpo, nel
qual caso il corpo apparterrebbe agli organici , contro la pre-
sente supposizione E dico del secondo genere , perchè l'unità
dialettica non è interamente arbitraria , ma trova un legame
reale nella relazione del detto corpo col principio senziente. —
Si dirà forse , che il corpo acquista una certa unità dall'unità
dello spazio che occupa; ma dell'unità dell'estensione parleremo
tra poco, e basta qui il dire che anche una tale unità è unità
di termine, rèhiliva cioè al principio senziente che lo contiene.
Gli enti dunque composti , che hanno un'unità reale e che
ammettono divisione, dalla quale nascono altri enti reali, sono:
a). Quelli che essendo un'unico principio subiettivo hanno
tuttavia de" termini divisibili, come sarebbe l'uomo, il quale
colla morte si divide in anima intellettiva e corpo. — Questi
due elementi separati hanno un'esistenza virtuale nell'uomo.
Ora questa virtualitàj con cui esistono questi elementi nel-
l'uomo, è ella un'imperfezione dell'uomo? 0 l'esistenza virtuale
è ella un'imperfezione di questi elementi che si trovano nel-
l'uomo? — Per rispondere a queste domande, conviene esami-
nare se i due enti separati vengano per mezzo della separa-
zione ad acquistare uno stalo migliore e più eccellente di quello
che avevano nella loro esistenza virtuale. Ora egli è manifesto
die il corpo sej)<irato è un ente di gran lunga inferiore al
5-21
corpo unito all'iinima inlelletliva , e che l'anima stessa rima-
nendo priva del suo naturale istromento , ha diminuita la sua
naturai perfezione. Quindi quosta virimlilà non è punto imper-
fezione, ma anzi è una perfezione, riguardo agli enti separali;
riguardo poi all'uomo che nella sua unità virtualmente li con-
tiene, ella è più che semplice perfezione, perchè è ciò che co-
stituisce la sua natura, senza la quale non esiste.
Di qui si trae questo principio universale: « Ogni qual volta
dalla divisione d'un ente si hanno altri enti che separati hanno
un grado inferiore d'esistenza a quello che virtualmente ave-
vano uniti, questa virtualità non è un'imperfezione né di essi né
dell'ente che virtualmente li contiene ».
h). Quelli che avendo un unico principio subiettivo,
questo però si molliplica dividendosi il termine , come negli
animali {Antropolog. 52^» sgg. Psicol. Itoli sgg.). Questa divi-
sione si fa in più modi, secondo i quali ['esistenza ^urluale degli
enti separati cangia di natura.
i." Si fa senza sciogliersi il primo ente, come per generazione
e produzione. — In tal caso Tente generalo o prodotta, prima
non ha nessuna esistenza nel generante o producente , e in sua
vece non c'è che la causa efficiente di produrlo o di generarlo.
Tale efficienza è un pregio dclli natura dell'ente che la pos-
siede: l'effetto poi non é un alto di quella causa, onde rispetto
a questo effetto non si può dir potenza nel senso da noi definito.
È però potenza dell'atto della generazione o produzione , ma
transeunte, e che momentaneamente perfeziona la causa come
causa, ma non però il subielto della causa, che da questa è di-
stinto. Il generato poi , quando esiste, esiste attualmente con di-
versi gradi di perfezione successiva , ma né pur allora la sua
esistenza è virtuale , esistendo d'esistenza propria.
Ogni qual volta dunque da un ente reale ne nasce un altro,
senza che si sciolga il primo, non si dà virtualità, ma solo po-
tenza , nella quale lutt'al più si può concepire una virtualità dia-
lettica ideale.
2.** Si fa sciogliendosi il primo. — Se, sciogliendosi in parie
un corpo, animato da un solo princii)io, ne nascono più, ciascuno
animato dal suo principio , questi esistevano virtnalmente nel
primo; ma nel primo esistevano in un modo jììù perfetto ed emi-
UosMiNi. Teosofia. 21
32-2
nente; e però la mlaalilà era una perfezione per riguardo all' in-
tero corpo animalo: quanto poi ai corpi animati parziali, essi anche
uniti al tutto possono avere una certa individualità imperfetti ,
ma non sono lilicri di sciogliersi per conto proprio. Ed essendo
varie le condizioni loro, sarebbe al nostro scopo supeifluo entrare
nella ricerca della loro classificazione e determinare i gradi di
perfezione o d'imperfezione che hanno vivendo nell'organismo
maggiore. Divisi poi , essi possono in appresso acquistare cia-
scuno la perfezione del primo ; ma questa perfezione soprag-
giunta non appartiene al confronto che noi facciamo tra l'esi-
stenza virtuale delle parti , coH'esistenza propria di ciascuna
di queste.
2,") Enti reali che hanno un'unità reale, ma che non am-
mettono divisione reale.
Questi enti semplici non essendo suscettivi di alcuna divisione
reale , non contengono in sé virlualmenle altri enti reali. Non
ammettono dunque altro che una virtualità ideale; cioè a dire la
sola mente è quella che può trovare in essi più cose virtualmente
comprese, in quanto esistono non solo in sé, ma anche relativa-
mente alla mente. Passiamo dunque a considerare la virtualità
nell'oggetto uno come idea, cioè come idea specifica piena a cui
(jnell'ente reale che abbiamo detto in se slesso indivisibile (1)
corrisponde; poiché della virtualità appartenente airoggetto pura-
mente ideale, cioè all'essere, abbiamo parlalo B).
o8J>. 11. Virlualilà nell'ocjgcllo, che ha per sede la sìia idea-
lità.— L'idea specifica piena non è un ente dialeltico, perchè
ha bensì esistenza solo nella mente, ma non è formata dalle ope-
razioni e dall'arbitrio della mente, ma ha una certa necessità ed
un'unità sua propria. Si domanda dunque qual è la sua virtua-
lità? quali entità ella virtualmente contiene?
Si risponde ch'ella virtualmente contiene : I.o delle entità dia-
(1) fi'idea specifica piena d'un ente reale, divisibile realmenfe, rappresenta
anclie la divisiliilità , riducendosi in più idee specilìclie piene che trovansi
nel reale. I^a virtualità dunque clie si scorge in queste idee composte di più
specie piene risiede nel reale, di cui abbiamo parlato, e nell'idea si riflette.
Ma le specie piene che rappresentano un reale indivisibile hanno quella
doppia divisibilità e virtualità menlale di cui noi qui ora trattiamo.
lelticlie, 2.° delle altre idee specifiche ' piene informi. Ella ha
dunque una duplice virtualità. Ma come quelle entità si trovano
in essa e si separano dalla mente?
Mediante due operazioni', che chiameremo Vaslrazione e Vìdea-
-ione: V nalrazione trova le entità dialettiche che virtualmente
si contengono nella detta specie piena; V ideazione vi trova vir-
tualmente contenute delle specie piene informi^ ch'ella slessa poi
forma nel modo che diremo.
380. {/astrazione o analisi formale (Logic. aUì-aì7) produce
tutti gli astratti che sono virtualmente compresi nella specie piena,
cioè la specie astratta, e tutti i generi tanto sostanziali, quanto
accidentali , o di relazione, che sieno puramente astratti e non
specie piene anch'essi [Ideol. ùoù , QoQ): questi sono virtual-
mente couìpresi nella specie piena , e una tale virluaìilà della
specie piena non è un' imperfezione , ma una sua perfezione, e
l'esistenza virtuale di questi astratti, anche rispetto ad essi, è
più perfetta , che non sia la loro esistenza separata davanti alla
mente, come abbiamo detto dell'essere B).
I puri astratti sono entità dialettiche , perchè non possono es-
sere realizzate, e non possono esistere neppure nella mente,
senza che questa tenga presente quel tutto che li contenga e in
cui li veda, appartenendo essi al pensare parziale ( Psicol.
1319 sggj.
Ma se noi consideriamo questo lavoro d'astrazione nell'ordine
suo naturale progressivo , che consiste nel levare prima le de-
terminazioni meno comuni della specie piena e poi di mano in
mano le più comuni , noi possiamo distinguere ciò che si leva
da essa, e ciò che resta. Tutto ciò che si leva appartiene cer-
tamente alle entità puramente dialettiche. Ma quando dividendo
abbiamo levato tutto coU'astrazione , in maniera che non ci resta
più nulla da dividere e da levare, ma ci resta solo l'ultimo sem-
plicissimo fondamento della detta specie, che non ammette in
sé divisione, togliendo il quale, non c'è più rimanenza di sorte ;
quando in una parola siamo rimasti colla pura idea dell'essere,
allora quest'ultima rimanenza non è più un'entità puramente dia-
lettica, appimto perchè è l'essere slesso, ma è la pura idea della
cui virtualità abbiamo già fatto cenno B). Poiché l'essere non è
già una specie che non possa esistere da sé, ma anzi è tale che
324
necessariamente da sé snlo e senza aggiunla , che non abbia nei
suoi visceri, siissisle.
Né punto si può dire che l'essere esista virtualmente nella
specie piena , ma è vero il contrario che la specie piena è vir-
tualmente neiressere : porche l'essere è l'atto stesso pel quale la
specie piena ed ogni altra entità è.
CoW astrazione dunque si trovano nelle specie piene, che rap-
presentano enti reali indivisibili , le entità dialettiche in esso vir-
tualmente contenute : ma la rimanenza che lascia nel fondo que-
sto lavoro, non è un'entità dialettica, ma l'idea pura, l'essere
387. Veniamo al lavoro dell'ideazione.
Ideazione chiamiamo quella funzione della mente, per mezzo
della quale nella specie piena d'un ente indivisibile, o conside-
rato come indivisibile (\), ella trova altre specie piene, non
perchè si comprendano in essa belle e formate, ma perché si
contengono in essa i loro rudimenti , de' quali la mente ser-
vendosi , poi le forma.
Questo avviene quando la mente riguardando in un ente, con-
cepisce un altro ente contenuto implicitamente nel primo. A ren-
der più chiaro questo fatto ontologico si consideri primieramente
ehe non !u!te le specie piene hanno necessariamente delle specie
astratte, perche non tutti gli enti sono composti di sostanza e
d'accidente : di questi due elementi non è composto lo spazio, non
è composto Iddio. Tuttavia molte di esse rappresentano una so-
stanza a cui risponde la specie astratta, e degli accidenti. L'idea-
zione dunque talora s'esercita rispetto a' soli accidenti, talora ri-
spetto all'ente intero : chiameremo l'una ideazione accidentale,
l'altra ideazione enti fica.
L'ideazione, qualunque sia, non s'esercita mai sugli enti reali
come tali , ma sulle loro specie e più generalmente sull'oggetto,
come oggetto relativo alla mente.
Conviene adunque segregare quella virtualità che appartiene
all'ente reale, come reale subiettivo od estrasubiettivo, la quale
(1) Diciamo « d'un ente indivisibilo o considerato come indivisibile » ,
perchè anctie sopra un ente composto e divisibile, la menie può esercitare
V ideazione; ma in tal caso l'ente non si divide, e però si considera come un
lutto indivisibile.
525
non appartiene aW ideazione, e della quale abbiamo già parlato.
A ragione d'esempio, non è la funzione dell'ideazione che trova
quella virtualità che giace nell'ente reale come in causa potenza.
Il bambino contiene certo virtualmente quegli accidenti quanti-
tativi 0 qualificativi che acquisterà facendosi uonio^ e medesima-
mente contiene virtualmente la mancanza di tutti quelli che perde
nella sua vita: tutti questi sono in lui virtualmente come in causa
potenza. L'esistenza virtuale di questi atti effetti , se sono per-
fettivi della causa potenza, è un' imperfezione di questa causa,
come abbiam dello , e riguardo ad essi , ella è una non esistenza.
A questi non riguarda l'ideazione. Vediamo dunque qual è l'og-
getto dell'ideazione accidentale.
388. Essa riguarda quegli accidenti che non esistono nell'ente
reale come in causa potenza , ma che si trovano dalla mente ri-
guardando nella specie piena del medesimo, il che accade appunto
ogni qualvolta neW ente reale rappresentato dalla specie non c'è
la causa potenza di essi o da questa si prescinde. Onde conce-
piti tali accidenti dalla mente, affinchè sieno posti in atto e fatti
esistere in sé , ci vuole un'altra causa ; vedesi questo ne' corpi
inorganici, che non hanno virtù come tali di modificarsi , o ne-
gli organici , rispetto a tutti quelli accidenti a cui non si estende
la loro potenza. Così quando lo scultore riproduce la stessa statua
sopra una scala maggiore o minore, nella nova statua c'è il tipo
della prima , ma con diverse dimensioni. La statua in sé stessa
non aveva virtù d'impicciolirsi o d'ingrandirsi, non esisteva dun-
que la nova statua in essa come in causa potenza. L'appiccioli-
mento o l'ingrandimento della statua fu dunque fatto dallo scul-
tore sulla^s/;6'c/t; piena, e non sulla statua reale. Modellata poi
così la statua idealmente , ci volle un' altra causa efficiente per
farla sussistere, cioè la mano dell'artista, e un'altra causa ma-
teriale cioè un altro ceppo di marmo (1). Nella specie piena dun-
que della prima statua esisteva virtualmente la specie piena della
(1) Se lo stesso marmo della prima statua si fa servire alla seconda , for-
mandosi' la seconda colla distruzione delia prima , non si può più dire che
l'una esista nell'altra virtualmente, ma solo che la specie dell'una esiste vir-
tualmente nella specie dell'altra , perchè la prima statua è distrutta quando
esiste la seconda, ma le specie non si distruggono.
526
statua prima, diversa solo nelle dimensioni ^ ma in lutto il re-
sto uguale; e per questo solo si dice che «la statua seconda»
esiste virtualmente nella prima.
389. Ora consideriamo questo lavoro nella mente dell'artista, e
vediamo quali accidenti della specie piena della prima statua
abbia trasportalo nella seconda , e quali no. Supponiamo la
prima statua di dimensioni maggiori , la seconda di dimensioni
minori.
Egli e chinro che tulli gli accidenti della forma che sono
nella prima statua, sono identici nella seconda: rispello a que-
sti nessuna ideazione è stala falla. Questa dunque si riduce
tutta all'accidente della grandezza: questa sola è stala variala.
Ora, come la figura di uìinor grandezza, qual si vede nella se-
conda statua, si contiene virtualmente nella figura di grandezza
maggiore, qual si vede nella prima statua? Non si contiene
certamente bell'e formata. Che cosa dunque c'è nella statua
maggiore , j)er cui si possa dire che la figura minore ci sia
implicita? Ci sono tulli gli elementi necessari alla mente per
formarla, vale a dire: 1.° c'è l'estensione, di cui si possono colla
mente diminuire i limili; 2." c'è la i\'gola direttiva della mente
a poter ideare nell'estensione la figura minore, e questa regola
è la proporzione delle parti. Per questo dicevamo che nella
specie piena maggiore c'è h specie piena minore, ma informe:
e per inforinc intendiamo, che non c'è in quella propriamente
questa specie , ma ci sono gli elementi necessari alla mente
per formarla, tanto l'elemento maleiiale ricettivo, quanto la
regola, secondo cui trovare la forma che si vuol dare a questo
elemento (1).
(1) Nella sola materia non c'è né pur virtualmente la forma, perchè non
c'è alcuna regola che conduca la mente a trovarla. Di qui la necossilà che
la mente riceva o abbia ogni forma in un ente reale formato, sia che questo
abbia già la forma che si cerca, sia che n'abbia un'altra che somministri
le regole per trovarla. Quando dunque Leibnizio disse che in un ceppo di
marmo esiste virtualmente la statua, non s'accorse che la forma della statua
era nel marmo a condizione che ci avesse una mente, la quale possedendo
ella stessa la forma, la imponesse al marmo; il che non è essere né attual-
mente ne virtualmente la statua nel marmo. Né pure nello spazio puro < i
sono virlualuicnte gli spazi limitati, per esempio, le ligure geometriche che
527
Noi abbiamo fin qui dfscrilta Videazione accidentale per ri-
guardo ad un solo accidente quantitativo , cioè quello della
grandezza.
Ora dobbiamo osservare di più in generale, che l'id.fazione
cade sopra un solo genere d'accidrntì alla volta, perchè gli ac-
cidenti separati dalla sostanza non hanno unità tra loro, e l'uno
non è virtualmente contenuto nell'altro, benché tutti sieno vir-
tualmente contenuti nella sostanza: solamente dunque uno stesso
genere prossimo d'accidenti può contenere virtualmente più
specie piene d'accidenti, dall'una delle quali la mente coH'idea-
zione passa all'altra. Quindi nclia grandezza della statua , non
si contiene virtualmente il colore, o le qualità della materia ecc.
Conviene dunque in generale stabilire questa regola che « una
specie piena accidentale si contiene virtualmente in un'altra ,
quando in quella la mente trova una regola per formarsi questa »,
e ciò accade quando le specie i)iene accidentali appartengono
allo stesso genere jìrossimo.
390. Dicevamo che gli accidenti, se si dividono per astrazione
dalla sostanza , rimangono slegati tra loro, e quindi Videazione
non si può laro, se non sopra un genere jìrossimo d'accidenti alla
volta, quando si considerino divisi dalla loro sostanza. Ma se
si considerano esistenti in questa, si può fare su molli e su tutti
insieme: ed ecco come.
La cognizione perfetta d'una sostanza imporla che si conoscano
tutti i possibili accidenti, di cui ella è suscettiva, sieno perfet-
tivi 0 deteriorativi di essa o indifferenti. Quindi nella cognizione
perfetta della sostanza la mente ha la regola — che è lo stesso
concetto perfetto della sostanza — per ideare tutti gli accidenti
di cui ad essa piaccia rivestirla: e però « tutti gli accidenti si
contengono virtualmente nel concetto perfetto della sostanza ».
si disegnano in esso col pensiero : ma ogni limitazione e figura disegnata
nello spazio procede da un reale attivo, sia ctie questo reale occupi una por-
zione dello spazio ed abbia egli stesso la figura come i corpi , sia che esso
sia la monte la quale o abbia già le ligure presenti alla sua i'maginativa, o
abbia le regole per formarle. Ma poiché data la mente così disposta , lo
spazio e la materia corporea è suscettiva di tali figure, si può dir-; che essi
n'abbiano non la vii'tualità, ma la recettività o la suscettività.
528
Ora questa esistenza degli accidenti, nel concetlo astratto della
sostanza, è un'imperfezione della sostanza stessa, perchè gli ac-
cidenti così considerali hanno quella virtualità, che giace nella
causa potenza , tale essendo la soslanza relalivamente agli ac-
cidenti ch'ella non ha in atto.
Ma questa cognizione perfetta della sostanza non è data al-
l'uomo. L'uomo conosce solo imperfellamente la sostanza , e
quest'imperfezione della cognizione della sostanza, che è una
specie astratta, mette un limile a queW ideazione dell'uomo,
per la quale la mente passa dal concetto della sostanza a ideare
quegli accidenti che le aggradano.
Or prima di passare ad esporre la dottrina intorno all' idea-
zione entica, dobhiamo far cenno di due questioni intimamente
connesse colle cose delle.
59i. Abbiamo supposto che la statua, in cui la mente ne vede
un'altra per mezzo dell'ideazione, fosse più grande, e quest'altra
più piccola; e abbiamo spiegato come questa più piccola sia
virtualmente contenuta nella più grande. Facciamo ora la sup-
posizione contraria: la statua più grande può ella dirsi virtual-
mente contenuta nella più piccola?
Rispondiamo affermativamente, ed ecco il perchè. La regola
per trovare la figura più piccola, è la proporzione delle parti:
questa regola vale tanto per trovare una figura più piccola ,
quanto per trovare una figura più grande, — Ma non manca
la materia? che l'estensione minore sia virtualmente compresa
nella maggiore s'intende, ma non viceversa. — Rispondiamo a
questa obiezione, che nell'estensione continua, e illimitata, non
c'è virtualmente compreso alcun limite, perchè non appar-
tiene il limite all'estensione come estensione, ma a qualche
cosa di diverso dairestensione , al corpo sensibile o all'imagi-
nazione della mente. L'estensione limitata altro non è dunque
se non una relazione tra il sensibile e Teslensione illimitata.
Ora nella statua piccola c'è l'estensione e il limite , e quindi
c'è l'eslensione limitata. In un'estensione limitata poi c'è vir-
tualmente compresa ogni altra estensione più o meno limitata:
ed ecco perchè. Nessuna estensione limitata è concepibile se
non a condizione che sia concepita l'estensione illimitata (4w
tropol. 1'j9, ÌM>-I7k): questo nasce dalla natura dell'estensione,
529
che essendo il siibietto de' limiti, deve precedere nel pensiero
qualunque limile che la circoscriva. Data dunque l'estensione
illimitata nella mente e insieme con essa data anche una
estensione limitata, è chiaro che la mente può prender questa o
una parie di questa , piccola quanto si voglia , come un'unità
di misura: trovata quest'unità di misura, che le abbisogna, ella
può misurare con essa qualunque porzione dell'estensione illi-
mitata , che ha presente, e così formarsi davanti all'imagina-
zione intellettiva qualunque grandezza le piaccia, o piccola o
grande. Affine dunque di spiegare come la mente da un'esten-
sione |)iecola possa passare a un'estensione grande, basta spiegare
com'ella possa replicare , quanto basta , quell'unità di misura.
Ma questo è spiegato coli' idea del possibile , che è la forma
dell'intelligenza {Ideol. 821, 823). La differenza dunque che
passa tra l'operazione, colla quale la mente va da un'estensione
grande a un'estensione piccola, e quella colla (juale va da una
|iiccola ad una grande, si è che nel primo caso deve levare,
ne! secondo aggiungere.
Si dirà che nell'operazione del levare, quello che resta, cieè
restensi{»ne piccola, c'era già; ma in quella dell'aggiungere, l'e-
stensione aggiunta non c'era, ma la mente dovea prenderla al-
trove. — Vero, ma vediamo dove la mente prenda questa quantità
d'estensione che aggiunge. Non ha già bisogno di prenderla da
qualche altra estensione limitata, che a lei sia data dal senso.
Le basta , a trovarla , quella misura che ha trovato nell'esten-
sione minore; poiché ella ha la facoltà di replicare indefinita-
mente quella misura , o prendere per misura una parte di
questa , e replicarla quanto le aggrada. E ciò perchè a far
questo non s'esige se non i due elementi: 1.° dell'estensione
interminata ; 2." e di limiti atti a circoscriverla. Dati questi
elementi, l'intelligenza può col concetto de' limiti circoscrivere
l'estensione interminata a sua volontà. Ora l'estensione inter-
minata è data al principio sensitivo qual primo suo termine o
forma terminativa , come abbiamo dimostrato nell'Antropologia
e nella Psicologia {Psicol. 554-5.^9). Il concetto del limite poi
è dato nella statua, qualunque questa sia, piccola o grande, o
da qualunque altro corpo limitato. La mente dunque ingran-
disce 0 impiccolisce l'estensione limitata a suo piacimento ,
530
senza aver bisogno di prender la quantità di questo ingrandi-
mento 0 impiccolimento da alcuna cosa esterna. Come dunque
la statua piccola era virtualmente nella grande , così la statua
grande era virtualmente nella piccola ; poiché questa virtualità
non consiste nell'essere l'estensione piccola nella grande , che
questa non è virtualità , non essendovi punto il piccolo nel
grande continuo , appunto perchè è continuo , e non ha in sé
divisione né distinzione; ma consiste nel somministrare alla
mente il concetto di limite atto a circoscrivere l'estensione , e
quello d'una figura determinala; e, il passaggio, è la mente che
lo fa da specie a specie, trovando in una specie j)iena l'altra
specie piena ancora informe, intendendo noi per specie informe
gli elementi da comporre la specie, i quali sono, come dicevamo,
il limite e la figura. La virtualità dunque di cui parliamo sta
propriamente nella specie della statua, e non nella statua ma-
teriale; ma questa virtualità si predica posteriormente anche
della statua , ptTchè la statua somministra alla mente gli ele-
menti co' quali ella si compone l'altra specie con quella opera
zione che abbiamo chiamata ideazione.
592. E qui ci si presenta la seconda questione di cui dicevamo
dover noi far menzione, ed è « se la i>irtualilà e quindi Videa-
zione ci sia anche rispetto alle specie astratte e in generale
rispetto alle idee che hanno un'estensione maggiore di quella
della specie piena ».
Rispondiamo che per ideazione intendiamo quella funzione, per
la quale la mente si forma una specie piena che non le è data
dalla percezione intellettiva.
Ora per costituire una nova specie piena (sia che la novità
della stessa cada sui soli accidenti , sia che cada sull'ente
slesso), è necessario che la mente n'abbia lutti gii elementi, e
ninna mente può creare questi elementi , ma deve trovarli in
qualche ente reale ^ che percepito o comechessia avuto nella
sua intelligenza , dia a questa la specie piena di sé. Poiché
questi elementi sono : 4 .° la realità i)ensata , cioè quel dato
genere di realità di cui la nova specie piena si deve comporn :
2 ° una regola, secondo la quale la mente possa trovare le de-
terminazioni 0 limiti di questa realità. Né l'uno né l'altro di
questi due elemenli possono esser creati, ma devono esser tolti
55 i
da un reale, esislcnle alla mente , che è quello di cui si dice
che contiene virtualmente la nova specie informe , perchè ne
somministra appunto alla mente gli elementi con cui ella poi
forma la nova specie. Ma l'uno e l'altro di questi elementi non
sono altro che concetti astratti , che la mente toglie dall'ente
reale da lei conosciuto. In questi concetti astratti insieme presi
esiste dunque virtualmente la specie j)iena , che poi la mente
si forma con essi. E veramente non è egli un astratto il cor.
cotto 0 illimitato o generica di realità? non è astratto il con-
cetto d'un dato genere di limili o di determinazioni di cui è
suscettiva quella realità generica di cui si tratta? Nell'ideazione
dunque ci ha questo processo che: 1." ci sia la specie piena o
l'ente reale percepito o comechessia avuto dalla mente; 2." che
la mente astragga da essa gli elementi necessari per comporre
la nova sjjccie, nel complesso de' quali elementi la nova specie
è contenuta virtualmente; 3." che la mente componendo tali
elementi idei la nova specie.
Dal qual processo si scorge:
\ .° Che r idea astratta non si può concej)irc se non sia pre-
ceduta dall'idea specifica piena, onde la mente l'astrae, per cui
l'idea astratta esiste virtualmente nella specie piena;
2.0 Che in una sola idea astraila non può esistere virtual-
mente nessuna specie piena, ma questa può esistere in più id(!e
astratte insieme prese, cioè in quel complesso d' idee astratte,
che somministra alla mente tutti gli eletnenti, sebbene ancor se-
parati , co' quali ella si può comporre un'altra idea piena ;
5." Che la nova idea piena si forma sempre dalla mente tra-
endola prossimamente da questo complesso d'idee astratte, nel
quale è virtualmente compresa.
393. Ma si tornerà a dimandare, «se in una sola idea astratta
possano esser comprese virtualmente altre idee?
Hispondiamo di sì , e diremo tosto in quai casi; ma il trovare
h idee che virtualmente sono comprese in altre idee non si fa
con quella funzione che abbiamo chiamato ideazione, ma colla
senijìlice analisi, o colla sintesi: eccone i casi.
\ ,° CoH'anaìisi furmale , ossia coll'astrazione si spezzano le
idee; e le parli clic se ne fanno, sono altrettanti concetti astraiti
che erano viitualmonle contenuti nell'idea che per astrazione si
532
è spezzata. Quindi, a) nell'idee di maggior comprensione si pos-
sono trovare colla mente le idee di minor comprensione e di più
estensione: queste erano virtualmente contenute in quelle; h) le
differenze di queste idee S'mo anch'esse concetti astratti , sono
il contenuto dell'idea prima diviso per astrazione : onde le idee
semplici sono virtualmente contenute nelle idee composte, ecc.
'■2.° Il concetto d'una misura determinata è un'astratto, ben-
ché la misura sia determinata, perchè è divisa dal misurato.
Ma quest'idea suppone sempre nella mente un misurabile il quale
non sia astratto, ma bensì infinito; perocché se fosse finito,- già
sarebbe misuralo . e si suppone solo misurabile. Stante dunque
questo rapporto del concetto astratto d'una misura determinata ,
con un concetto non astratto del misurabile infinito, avviene che
questa misura si possa replicare quante volte si voglia applican-
dola al detto misurabile, e la replicazione somministra del-
l'altre misure determinate che sono pure concetti astratti conte-
nuti nella prima misura. Atteso dunque questo misurabile injinilo
sempre presente alla mente, una misura determinata qualunque
contiene virtualmente qualunque altra misura. Ma questa virtua-
lità di una misura in ogni misura concepita dalla mente non giace
nella misura, precisa dal misurabile, ma , dipende' dalla coesi-
stenza nella mente della misura e del misurabile, e dal sintesismo
di queste due idee, l'una astratta l'altra no, per così fatto modo
che non si può intender l'una separata affatto dall'altra. Il qual
sintesismo fu almeno traveduto da' Pitagorici, quando facevano
del finito (misura determinata), e dell'indefinito (misurabile in-
finito) i due primi elementi di tutte le cose.
In questa dottrina si vede la ragione della natura de' nu-
meri , cioè perchè dato l'uno, che è la misura determinala
della quantità discreta, quest'uno si possa replicare dalla mente,
e così formare il due, il tre e tutti i numeri successivi. Ciascun
numero, come osservò Aristotele, è distinto dall'altro come le
specie. Colla sola specie dell'uno dunque — la qual si trae dal-
l'individuo reale, e prossimamente dall'individuo vago — e colla
replicazione del medesimo si fermano dalla mente tutte l'altre spe-
cie numeriche. Ma questo non potrebbe far la mente, se ella
n(m avesse simultaneamente davanti a sé un misurabile infinitn.
guardando nel quale la mente potesse replicare la misura del-
l'uno. Ora questo misurabile infinito è ognuna di quelle specie
piene, i cui individui realizzati possono essere infiniti, delle quali
specie piene molle ne ha sempre la mente d' un uomo adulto ,
e basta che n'avesse una sola, per applicare ad essa l'uno in-
dividuo, poi il due, ecc. Questa infinità poi della specie , viene
ad essa dall'essere , che è il supremo misurabile infinito , o come
l'abbiamo chiamato sopra, con appellazione più ampia , W primo
determinabile.
Quindi nell'amo c'è virtualmente, non solo lutti i numeri^ ma
ben anco tutta 1' aritmetica , supposto presente alla mente il
primo determinabile , che contiene virtualmente anche tutte le
regole del raziocinio (1).
In questa stessa dottrina si vede la ragione della natura
della quantità continua , cioè perchè data una misura deter-
minata , come ahbiam detto di sopra, si possa dalla mente,
spezzandola o replicando essa o i suoi spezzati , trovare tulle le
misure e grandezze possibili. Questo non avviene , perchè nella
detta misura determinata, precisa dal misurabile infinito, ci sieno
le dette misure, ma perchè ogni misura grande o piccola suppone
e sintesizza con un misurabile infinito, che sta sempre davanti
alla mente ; e questo misurabile è Io spazio infinito o immisu-
rato, che è forma terminativa, come abbiam detto, de! principio
sensitivo animale.
Quindi mediante la presenza e il sintesismo con questo misu-
rabile, in ogni qualunque misura c'è virtualmente compresa
ogni altra misura e figura qualunque, e medesimamente c'è vir-
tualmente compresa tutta la geometria: di maniera che un'in-
t*'lligenza che altro non avesse veduto che un corpo d'una gran-
dezza qualunque, e astratta da esso la grandezza determinata
0 figurata , n'avrebbe abbastanza per inventare tutta la scienza
geometrica (2).
594. Dobbiamo ora descrivere V ideazione enti fica, che è quel la-
(1) Clii avrà pienamente intesa questa dottrina , vedrà in essa una nova
dimostrazione del principio della nostra filosofia, che l'essere è sempre pre-
sente alla mente.
(2) Di qui una nova dimostrazione della necessità clie lo spazio immensu-
rato informi il principio sensitivo animale ; altramente sarebbe inesplicabile
il raziocinio de' geometri.
534
voro della mente, col quale in un oggetto reale e indivisibile — che
conosce cioè nella specie piena del medesimo — vede la specie in-
forme di un altro oggetto reale. 11 che è quanto dire trova in
esso tulli gli elementi co' quali ella sa formarsi un'altra specie
piena , non già diversa accidentalmente dalla prima, ma rappre-
sentante un ente che non apparliene a quella prima specie. Poiché
questa è un'altra maniera di virtmlilà, per la quale si dice che
un oggetto reale indivisibile contiene un altro oggetto reale.
Noi siamo obligati a cominciar sempre queste speculazioni on-
tologiche dall'osservazione degli enti finiti , di cui solo possiamo
avere naturalmente specie piene positive, relative anche queste
alla capacità de' nostri sensi.
Abbiamo dunque veduto che in ogni ente finito si trova la
prima dualità, cioè 1.° {'essere, che non è lui, 2." e il reale for-
mato, che è lui. Dobbiamo qui lasciar da parte Vesscre, appunto
perché egli non è l'ente fìnilo, di cui cerchiamo la virtualità
ideale , ossia relativa alla mente , e perchè l'essere è comune
ad ogni ente finito, onde non ci dà le differenti nature, nelle
quali vogliamo trovare la detta realità.
Nel reale formato dell'ente finito si distingue la realità pura e
la forma che riceve. Così se io considero la realità corporea ,
posso spogliarla di tulle quelle forme, o si dicano sostanziali
0 si dicano accidentali, che fanno sì che ci sieno tante di-
verse maniere di corpi e tanti corpi individui nell'universo.
Mi resta dunque davanti alla mente la realità suscettiva di
tulle quelle forme , che si dice realità corporea. Questa non
presenta al pensiero alcuna differenza né moltiplicità , perchè
tulle le differenze sono slate tolte colle sue forme: è dunque
un concetto semplicissimo , sul quale non si può più esercitare
un'analisi formale., ma si può solo o pensarlo o non pensarlo.
Ma questa realità corporea, priva delle sue forme, è diversa da
altre realità, per esempio, dalla realità dell' (/«/m^/^?. L'animale
è un principio sensitivo e attivo, il quale termina il suo primo
atto nell'estensione e in un sentito organico. Dalla diversità dei
sentili organici nascono le diverse specie degli animali , da quelli
che per la loro piccolezza sfuggono al microscopio fino a quelli
che colla loro robusta mole cagionano all'uomo maraviglia e
spavento. Se dunque noi leviamo da quel principio sensitivo ed
555
attivo tutti i sentiti organici, non lasciandogli per termine che
lo spazio immensurato comune a tulli, non abbiamo più chela
realità animale, spoglia di tutte le sue forme; realità una e
semplice, che non si può più spogliare d'altra forma senza an-
nullarla. Abbiimo dunque qui due realità semplici, la corporea
e l'animale. In che cosa differiscono Ira loro? Differiscono in
lutto, differiscono con tutto sé slesse: nulla hanno o aver pos
sono di comune (facendo noi astrazione dnW essere , come ab-
biamo detto). Lo stesso potremmo dire d'altre realità. Ora queste
realità prive delle loro forme rispettive sono il vero fondamento
de' generi, cioè de' generi reali [Ideol. 634, 655 J.
Vide questo vero Aristotele quando disse che c'erano diverse
maniere di materia, e che ciò che differiva di materia, differiva di
genere (l).Ma nelloslesso tempo che così sagacemente investigava
la natura e costituzione de' reali finiti, gli sfuggiva di mano la
dottrina dell'essere, a cagione che gli mancava quella gran chiave
data dal cristianesimo alla filosofia, cioè questa verità che: « l'es-
sere da sé solo senza altra giunta sussisto ».
Ci sono dunque delle realità totalmente diverse tra loro, e
queste sono il fondamento di. tutti gli enti finiti che compongono
l'universo, i quali riescono così classificati in un certo numero di
generi , dall' uno de' quali non e' è alcun passaggio all' allro ,
perchè non hanno nulla di comune, se non l'essere che non è
il reale finito, ma altro.
595. Di qui procede che ninno degli enti finiti che compon-
gono il mondo può dare una specie piena che contenga virtual-
■mente lutte le altre, ma la specie piena, che ciascun somministra,
può solo conlcnero virtualmente quelle specie piene che non ec-
cedono il genere a cui quell'ente reale appartiene. Ma le specie
piene spettanti allo stesso genere reale sono esse di tal natura
da contenere virtualmente tutte le specie entro lo stesso genere?
Rispondiamo che se la specie piena fosse perfetta, ogtii spe-
cie piena conterrebbe virtualmente tulle le specie piene dello
stesso genere; cioè l'intelligenza, che la possedesse, troverebbe
in essa gli elementi per comporsi un'altra specie piena dello
stesso genere. E veramente, in una specie piena perfetta si eo-
(t) Metaph. VII (V1II\ 5; Vili (IX;, 2; IX (X\ 2, 3; XIV, 1.
336
nosce la realità prima e si conosce altresì un limile, nel quale
è contenuta , cioè una sua forma : ora le altre forme della
stessa realità risultano dagli slessi elementi che in ciascuna
specie si contengono, variamente uniti e con intensità e misure
diverse. Risultando dunque ogni specie piena 4.° da una realità
prima , i2 " da elementi limitanti che in ogni specie piena si
contengono, la mente può variamente vestire di questi elementi
questa specie piena , e così formarsi altre specie piene , cioè
tutte quelle, nelle quali può essere rappresentata quella realità,
se pur queste sono più.
Di che si vede , che il numero delle forme è determinato
dalla natura della realità prima , che ne è la causa potenza : e
però queste forme non possono difTerirc ne' loro elementi costi-
tutivi , ma solo nel loro accoppiamento e quanlitj intensiva e
grandezza.
390. Fin qui ahhiamo supposto che la specie piena d'un ente
finito sia perfetta, e che sia posseduta da un'intelligenza perfetta.
Ma sono elle perfette le specie piene, che ha l'uomo degli enti
mondiali ? — Se si parla de' corpi esterni , le specie piene
che r uomo n' ha, sono imperfettissime. Esse non rappresen-
tano dell'ente se non l'azione che esercita nel senso. E il senso
slesso è diviso in più: e ciascun sensorio dà la sua specie piena
alla menle. Questa poi delle specie piene somministrate da più
sensori compone una sola specie piena del corpo. Ora i senti-
menti propri de' diversi sensori sono così divisi tra loro come
i generi delle realità, di maniera che il colore — spoglialo di
tulle le sue varietà, — è un genere sensibile diverso da quello
dell'odore, del suono, del sapore ecc. — sjìogliati anche questi
delle loro varietà — come la realità corporea è diversa dalla
realità animale. Quindi la menle non può andare dall'uno al-
l'altro, e l'uno non è virtualmente contenuto nell'altro. E la
ragione di questo si è la semplicità del sentimento proprio di
ciascun sensorio; poiché « ogni entità, la quale sia così semplice
che non ammetta più elementi reperibili in essa coll'analisi for-
male, è con tutta se stessa, e non con una sua parte, differente
da un'altra entità ugualmenle semplice ».
Anzi di più, lo stesso sensorio ha sensazioni così semplici che
differiscono tra loro totalmente e però costituiscono de' geìwi
357
sensibili diversi. A ragion d'esempio i sette colori e i sette suoni.
Sarebbe impossibile che la mente passasse dal verde al rosso o
al turchino, se non avesse mai avuto altra sensazione che quella
del verde. E lo stesso si dica de' suoni. Onde in una sensazione
non si può trovare altra virtualità che quella dell'intensione di
ossa 0 della durata più o meno lunga — la qual durata pro-
priamente non appartiene a lei ma all'essere — e la mente di
conseguenza non può passare dal concetto d'una sensazione a
quello d'un'altra, ma solamente da un grado della sensazione
stessa a un grado più forte e anche questo fino a un certo \\-
mììc {Ideol. 887, 888). Onde i generi sensibili sono molti e spez
zano la realità corporea, in se stessa d'un solo genere, in molti
generi , i quali limitano la virtualità di lei relativamente all'u-
mana intelligenza, dentro a ciascun genere sensibile.
Supposto poi che d' un dato corpo la mente si sia formata
una specie piena, composta delle sensazioni di vari sensori ,
questa specie piena ha una virtualità maggiore, e tanto maggiore,
quanto sono più i sensori, e la varietà delle sensazioni de' me-
desimi, di cui consta quella specie piena; e ciò non solo perchè
s'uniscono le virtualità di ciascun sentimento generico, ma ben
anco perchè la mente potendo variare la disposizione e il me-
scuglio di tali sentimenti, può comporre di essi molle più spe
eie piene: il che fa di continuo l'immaginazione.
Che se la specie piena d'un corpo, oltre risultare da sensazioni,
risulti ancora da qualità seconde del detto corpo [Ideol. G93 G97,
880), la specie piena si rende più perfetta, e somministra nuovi
elementi della realità corporea, co' quali ella può formarsi un
numero maggiore di specie piene.
Se invece della specie piena de' corpi estrasoggeltivi , noi
consideriamo la specie piena del nostro proprio corpo, quale ce
la dà il sentimento fondamentale, è da distinguersi tra la spe-
cie piena del sentito fondamentale e quelle specie piene del
corpo soggettivo che si vestono de' sentimenti che proviamo
dentro di noi , cioè dentro quel sentito fondamentale. La
prima specie essendo semplice ed uniforme non contiene alcuna
virtualità, e solo possiamo — dato che potessimo volerlo — passare
dal nostro individuai sentimento a pensare altri sentimenti
uguali , la quale non è una virtualità veniente dal reale , ma
Rosmini. Teosofia. 22
338
veniente dalla specie che contiene potenzialmente gli individui a
cagion dell'essere di cui partecipa.
Se il sentimento soggettivo supponiamo essersi arricchito di
vari sentimenti passeggeri a noi interni e da noi avvertiti, in
tal caso la specie piena somministra degli elemonli che possono
dalla mente essere variamente composti, e diversificati di grado;
e però ella può formarsi altro specie pione d'altri viventi. E
questo tanto più estesamente, quante più sono le cognizioni di
cui potè arricchire il sentimento animale, anche intorno all'ef-
ficacia ed alle leggi dell'organismo, mediante esterne osservazioni
e induzioni ecc.
397. Finalmente l'uomo ha nell'IO la specie piena dell'umano
soggetto, e questa è la più perfetta specie piena che egli abbia
0 aver possa : quindi è anche quella che contiene più di virlua-
litcà. Ella è quella che somministra alla mente la materia per la
dottrina filosofica delle anime e dolle intelligenze separate, e di
Dio stesso. Ma c'è questo da osservare, che la spec'e piena che
ci somministra il sentimento dell'IO conlienc un ente principio
{Psicol. 857-846) , e quest'ente principio si riferisce ad un
termine. Ora l'ente principio ci serve di tipo per concepire tutti
gli enti spirituali possibili, ma il termine che è quello che spe-
cifica e determina il [irincipio, non è nell'IO se non limitato
all'essere ideale e al corpo animale e sue modificazioni. Ora
questo termine non ci somministra elementi bastevoli per for-
marci una specie piena di enti superiori all'uomo, ma solo uguali
od inferiori. Dalla parte dunque del principio noi troviamo nel-
l'Io un elemento delle specie piene di altre intelligenze separate
maggiori dell'uomo, e della specie di Dio: ma dalla parte del ter-
mine, nell'Io non troviamo che elementi deficienti e imperfetti.
Noi possiamo dunque sapere che, supposta l'esistenza d'in-
telligenze separate maggiori dell'uomo , queste sono tutte enti-
principio; ma non potendo elevarci ad una cognizione positiva
del termine a cui que' principi sono congiunti ;, non ci è pos-
sibile di formarci la specie piena , ma solo una specie che ha
in sé una ragione oscura, per dir così, e per noi senza luce.
Mollo maggiore è l' imperfezione della specie piena di Dio ,
poiché essendo in quest'essere il principio identico col termine,
non po.ssiamo neppure formaici una chiara idea del principio.
030
stante che W Wpo ùì principio che c\ somministra l'Io, è un prin-
cipio che ha una differenza reale dal termine che gli è dato e che
non è desso, non è l'Io {Teod. b9-67).
Quantunque dunque la specie piena dell' IO somministri alla
mente materia alle più nobili e alte dottrine, a cui l'uomo possa
arrivare, tuttavia queste dottrine non pervengono a tanto di per-
fezione da porgere all'uomo alcuna specie piena d'intelligenza
d'una natura alla sua superiore ; e però rispetto a queste la virtua-
lità della specie piena dell'Io non è che dialettica, e la mente non
può cavare da essa Videa di tali enti superiori, ma solo delle
specie astratte e negative.
r»98, Fin qui abbiamo parlato della virtualità che giace nella spe-
cie piena degli enti finiti , considerando prima questa specie piena
nella sua [)erfezione, e poi considerando 1' imperfezione e quindi
r imperfetta virtualità delle specie piene che può aver l'uomo de'
medesimi enti finiti.
Conviene ora che ci solleviamo a considerare la virtualità nel-
l'Ente infinito.
L'ente finito abbiamo veduto esser diviso in generi reali in-
comunicabili e inconfusibili , e per l' uomo anche in generi sensi-
bili a. \u\ relativi. Lasciando questi e non parlando che di quelli
che sono per così dire le fondamenta dell'universo, è manifesto
che Tente infinito essendo puro essere, come dicemmo, non am-
mette in sé generi di sorta, ma dev'essere perfettamente uno.
Nondimeno abbracciando tutto l'essere, nulla gli deve mancare
di ciò che neir immensità dell'essere si contiene, e non essendo
puramente essere ideale , ma essere nelle tre forme, e queste
perfette , di conseguente deve contenere tutta la realità che
è ne' generi , non divisa da' generi ma unificata nell' essere.
Quindi nell'Ente infinito e realissimo non può mancare nulla, né
di reale né di formale, di ciò che faccia bisogno alla mente per
formarsi la specie piena dell'ente finito in tutta la sua possibile
estensione e moltiplicità. La specie piena dunque dell'ente finito,
cioè di ogni e di tutti gli enti finiti , esiste virtualmente nell'Ente
infinito: e questo vuol dire che la mente, che conosce pienamente
l'Ente infinito, può prendere da esso tutti gli elementi necessari
a formare ogni specie piena d'ente finito. Diciamo poi che que-
ste specie piene esistono solo virtualmente nell'Ente infinito, per-
540
che questo è uno e semplice e senza reali distinzioni di sorta ;
ma la mente ha il potere, in quanto esiste in un modo relativo
ad essa , di limitarlo e spezzarlo. Cosi la mente di Dio potè ri-
guardando nel Verho, suo oggetto, trarne l'esemplare del mondo;
e questo lo trasse nell'atto stesso, e collo stesso allo, col quale
per la sua propria virtù lo produsse.
399. Ora questa virtualità dell'Ente infinito è duplice , perchè
si può considerare sotto due aspetti :
i.° Come virtualità delle specie piene degli enti finiti, in
quanto l'Ente infinito è oggetto conoscibile;
2.** Come virtualità degli slessi enti finiti reali , in quanto
l'Ente infinito è reale assoluto.
Né l'una né l'altra di queste virtualità è cosa che rechi ira-
perfezione all'Ente infinito, dove esiste come in causa non })o-
tenza; ma anzi è conseguente alla sua somma perfezione.
In quanto poi aWente finito, prima che la mente divina lo
tragga all'esistenza ideale o reale, la sua virtualità non è im-
perfezione, ma non esistenza.
Egli non esiste dunque in Dio prima che sia creato, come in
causa potenza, ma si dice che esiste in un modo eminente. Con-
viene dichiarare questa friso tanto usata nelle scuole.
L'esistenza eminente non è esistenza dell'ente finito, ma è
l'esistenza dell'infinito a cui la mente paragona il finito, dopo
che n'è stato tratto dalla mente divina. Considerandosi, che ogni
perfezione e ogni elemento dell'ente finito trovasi dalla mente
nell'infinito, perchè la mente spezza e limita questo a sé me-
desima, dicesi che l'ente finito è nell'infinito in un modo emi-
nente. Con questa frase dunque si esprime un rapporto che la
mente istituisce tra il finito e l'infinito; e la mente può isti-
tuire questo rapporto, perchè l'oggetto infinito, oltre esistere in
sé, avendo un'esistenza relativa alla mente — che è la « cogni-
zione del medesimo » — la mente che il limita può altresì vedere
il rapporto del limitato da lei prodotto coli' illimitato, sulla no-
tizia del quale esercitò la limitazione.
400. Atteso questo rapporto mentale, accade:
ì.^ Che molte idee si possono predicare di Dio (come av-
viene quando si predicano di lui molti attributi), con che si
viene a dire , che « a Dio unico oggetto molte idee di perfe-
541
zione rispondono , senza che questo rnella alcuna moltiplicilà in
Dio, perchè tutte quelle idee non rispondono a Dio unico og-
getto in quanto sono separate l'una dall'altra, ma in quanto la
mente le ha separate nella notizia dell'oggetto » il che sta nel
poter della mente che ha la facoltà limitante;
2." Che molti reali, lutti i generi de' reali, si considerano
esistere nell'essere realissimo, anche qui non come sono, sepa-
rali, ma senza la separazione posta dalla mente.
A cagione dunque che la mente divina ha il potere di limi-
tare idealmente l'Essere infinito, cioè in quanto questo è pu-
ramente sua cognizione , e non in quanto in sé sussiste , e a
cagione che essa lo ha limitato creando il mondo : accade che,
viceversa, la mente possa restituire a Dio quegli elementi che essa
ha in lui distinti ; e quindi che anche ogni intelligenza possa
dallo spettacolo dell'universo, come da un vestigio di Dio, sa-
lire a formarsi una certa negativa e imperfetta cognizione di Dio
medesimo.
Articolo 111.
Classificazione delle potenze — Potenze in senso proprio
e in senso dialettico.
hOÌ. Ritorniamo ora al concetto di potenza, e cerchiamo una
prima classificazione secondo la maniera di concepire della mente
umana. Poiché questo ci bisogna a dichiarare quell'atto che l'es
sere comunica ai reali finiti , e a discoprire se nell'essere stesso
si acchiuda qualche potenzialità.
Essendo la potenza , secondo la definizione da noi data , « una
causa che rimane subiello del proprio atto » , egli è chiaro che
secondo il valore che si darà alla parola causa e snbietto , questa
definizione cangerà di valore , e così determinerà un diverso ge-
nere di potenza.
Infatti polendosi prendere quelle parole in diversi significati ,
si ha qui « il principio d'ogni classificazione delle potenze ».
Restringendoci a quella che noi cerchiamo e che ci bisogna ,
noi abbiamo distinto un subietto antecedente e dialettico , e un
subietto proprio di ciascun ente finito. Consegue dunque che se vi
342
ha una causa che si possa considerare come un subietto dialet-
tico del suo atto, ella si potrà denominare una potenza dialet-
tica; e se v'ha una causa che sia subietto proprio del suo allo,
ella sarà una potenza in senso proprio.
Questa è la prima bipartizione delle potenze a cui noi ora dob-
biamo ricorrere per dichiarare la questione della potenzialità del-
l'essere.
Articolo IV.
Dell' essere consideralo come potenza dialettica.
40^. Abbiamo veduto che l'essere è il subielto universale dia-
lettico di tulli gli enti lìnili. Ma questo subietlo antecedente e uni-
versale è anche loro causa. Come dunque è ad un tempo causa
e subietto di tulli gli enti finiti , così gli si applica il concetto di
potenza. Or egli non è che subietto dialettico; non gli può dun-
que competere il concetto di potenza se non in un modo soltanto
relativo al concepire della mente, in un senso dunque pura-
mente dialettico.
iMa rimane a cercarsi se questa denominazione di potenza dia
lettica gli convenga in lutti que' modi ne' quali gli conviene
quella di causa. Poiché abbiamo veduto che egli è causa dia-
lettica di tutte le entità in un triplice modo :
I.° Come primo ed universale determinabile.
"2.° (^ome universale determinante.
5." Come ultima posteriore ed universale determinazione.
È egli dunque anche subietto dialettico de' suoi atti relativa-
mente a ciascuno di questi tre modi di causa?
Se e come l'essere considerato come primo determinabile
sia potenza dialettica. — Dottrina del possibile.
405. Se l'esspre si considera come primo determinabile , egli
diventa quella specie di potenza dialetlica che si dice essere
possibile, quando si riff^risce dalla mente a' suoi termini.
543
Ma questa espressione di possibile riceve due significati ben
distinti , che non si possono confondere senza dar luogo a molti
errori e fallacie. Poiché si può prendere il possibile come una
qualità deW essere virimle , ed altro non esprime che la sua stessa
virlunlilà; e così per essere possibile s'intende ((l'essere inter-
minato che ha la suscettività di ricevere i termini ».
Ovvero si può prendere il possibile come una qualità de' ter-
mini slessi e allora (c un'entità possibile » significa un termine
di cui l'essere è suscettivo.
Questi due significati hanno impacciato mollo i filosofi che non
gli hanno distinti, e turbato il campo della filosofia.
Noi non dobbiamo qui parlare di questo secondo concetto del
possibile, ma del primo.
E dobbiamo prima avvertire che l'essere determinabile e i ter-
mini suoi sono concetti che sintesizzano esprimendo una relazione
tra l'uno e gli altri ; onde se si abolissero i termini nel nostro
pensiero, perirebbe anche il concetto stesso dell' essere deter-
minabile.
40i. Posli dunque questi due concetti e volendo noi indagare
la relazione dell'essere determinabile co' suoi termini, ricordiamo
che tali termini secondo la suprema loro classificazione si ridu-
cono alle tre forme categoriche. Perciò questa suscettività de'
termini, per la quale l'essere si chiama possibile, è di tre Cate-
gorie, Nell'essere dunque così considerato si ravvisano tre modi
categorici di possibilità, cioè:
a) Possibilità de' concetti o degli obietti.
b) Possibilità de' reali.
e) Possibilità de' morali.
A) La possibilità de concetti o degli obietti è quella per
la quale l'essere indeterminato è suscettivo di tutti i suoi ter-
mini nella forma ideale od obiettiva. Questi si estendono altret-
tanto quanto la sfera dell' intelligibile, che non ha altro confine
se non la contraddizione — poiché questa sola é esclusa dall'intel-
ligenza, — e propriamente non é confine, se non relativamente
alla mente umana che può opinare di trapassarlo {Logic. .Hi*).
B) La possibilità de reali è quella per la quale l'essere è
suscettivo di tutti i suoi termini nella forma reale. Questa s'e-
stende evidentemente altrettanto, quanto la possibilità de' con-
celli pienamente determinati (specie piene): questa possibilità
de' reali e anch'essa una potenza puramente logica, cioè non
conosciamo altro se non che non involge contradizione che ad
un concetto pienamente determinato risponda un reale. Del resto
ci rimane incognito del tutto il modo, nel quale l'essere trova
un termine reale finito , a cui congiungersi , come abbiamo
detto. Gol raziocinio possiamo venire a conoscere solamente
questo :
1." Che l'essere indcterniinato non potendo non esistere,
e nello slesso tempo non potendo esistere come indeterminato ,
deve di necessità avere un suo termine proprio, nascosto al no-
stro inluilo, che lo completi, unito al qual termine sia ente ed
ente necessario ; e che dovendosi questo termine identificare col
detto essere {,321, sgg.*), concepito quest'essere così con-
giunto al suo termine e immedesimalo non ritiene più la re-
lazione di essere possibile, né di virtuale rispetto a questi suoi
propri termini. Niente vieta però che questa relazione continui
ad essere opinata dalla nostra mente per una cotale astrazione
puramente ipotetica. E tale è il concetto della possibilità di Dio:
possibilità che non c'è propriamente , non essendoci di Dio se
non l'esistenza identificala coll'essenza; ma pure la nostra mente
per l'abito che ha di concepire i contingenti , ne' quali altro è
l'esistenza ed altro l'essenza, applica la stessa forma di conce
pire anche a Dio, e così opina di pensarne la possibilità.
^.° Che non c'è conlradizione nel pensiero che l'essere in-
determinato assuma de' termini reali conlingenli e finiti, qua-
lunque sieno^ entro il limite accennato delle specie piene: ma
nello stesso tempo in esso non apparisce alcuna forza capace
di fare che questi termini reali esistano; e ciò perchè è a noi
velato il subietto creante (^508-510*) che ha la forza di rendere
esistenti i detti termini reali contingenti.
405. Quindi è necessario che noi distinguiamo questa causa
relativa ai termini fisici in due specie:
a) Quella a cui conviene la denominazione di possibilità
de' reali;
b) E quella che è una causa reale e non una mera pos-
sibilità.
Questa seconda non si scopre a noi nell'intùito né nell'ana-
345
lisi dell'essere intuito, ma soltanto la prima; ed ella non è il
subietto neppur dialettico degli enti finiti, ma pura causa.
e) La possibilità de' morali è quella, per la quale l'essere
è suscettivo di tutti i suoi termini nella forma morale.
Essendo la forma morale l'ultimazione e la perfezione del-
l'ente, e involgendo in sé il reale e l'ideale, a cui ella mette
l'ultimo allo di perfezione, vedesi cbe l'essere indeterminato ed
iniziale è suscettivo di questi termini morali per la stessa ra-
gione che è suscettivo ^dei termini* delle due prime classi ,
cioè perchè il pensarlo prodotto fino a questi estremi termini
.morali* non involge contradizione.
406. Ma anche qui dobbiamo distinguere \a possibililà de'moraii
òiìWefficienza morale; quella sola si scorge colla mente nell'es-
sere indeterminato, non questa seconda che suppone un subietto
reale intelligente che l'abbia veramente.
Laonde anche questa possibilità de' morali non si vede nel-
l'essere indeterminato se non logicamente, come una pura pos-
sibilità.
La possibilità de'concetti abbraccia tutte le entità ideali e dia-
lelliche che sono innumerabili.
La possibilità de' reali abbraccia una sfera minore, poiché non
s'estende se non quanto si può estendere il numero di quelle
entità, che sono enti ideali pienamente determinati.
La possibilità de' morali abbraccia una sfera ancora più ri-
stretta, e si concepisce dalla mente umana in due modi:
A) In un modo analitico ed imperfetto, quando la mente
considera la possibilità de' singoli enti morali; e questa possi-
bilità analitica de'morali s'estende a quegli enti i quali sono do-
tali d'intelligenza e quindi capaci dell'essenza del Bene.
B) In un modo sintetico ed assoluto , quando la mente
considera la possibilità del bene totale creato , e questa possi-
bilità sintetica e assoluta ha per oggetto solo quel tutto di santità
nell'universo che è conforme agli attributi e alla volontà e
santità del Creatore.
L'essere dunque considerato come primo determinabile pre-
senta in sé alla mente questi tre modi di possibilità.
407. Non si confonda dunque la possibililà né colla potenza attiva,
ì\ò colla potenza pissiva — le quali si trovano soltanto nell'ordine
346
della realità — né colla potenza recettim: ma si avverta che qui
non si tratta d'altro che d'un concetto dialettico di potenza che
si può chiamare: « potenza dialettica di determinabilità ».
E questa stessa è dialettica in un modo diverso se si consi-
dera riguardo a' suoi termini propri e infiniti, o a' suoi termini
finiti. Perchè nell'Ente assoluto che è l'Essere co' suoi termini
propri, non c'è vera distinzione, come abbiamo detto ^ tra l'i-
nizio e il termine dell'essere, e solo il nostro pensiero imper-
fetto imagina l'essere come una potenza che emetta i suoi
termini propri e che così con questi suoi effetti, de' quali egli
rimane il subietto , si perfezioni e da indeterminato d'mnli de
terminato; ma questo diventare esprime il progresso del nostro
pensiero, e non quello dell'essere che è sempre per sua essenza
terminato ed assoluto.
Riguardo poi ai termini impropri e non necessari all'essere
la potenza dialeltica di determinahìUtà è qualcosa dell' Essere
assoluto, non distinto dallo stesso Essere assoluto, ma sì distinto
veramente da' termini impropri: e però non è Io stesso la pos-
sibilità de' concetti, e i concetti attuali, né la possibilità de reali
e i reali stessi; né la possibilità de morali e gli stessi morali:
ma c'è quella distinzione che abbiamo descritta tra l'Essere ini-
ziale unico e comune, e i suoi termini moltiplici e singolari.
i 2.
Se, e come l'essere considerato come causa determinante
sia potenza.
408. L'essere consideralo come primo e universale determinabile
mostra dunque in sé stesso le tre indicate possibilità , per una
relazione coi termini che lo possono determinare. Ma quando
lo pensiamo come determinante universale e come ultima deter
minazione , allora il possiamo considerare sotto due aspetti
diversi :
a) Nelle entità stesse di cui è subietto dialettico , e così
viene considerato nell'atto in cui egli è determinante o ultima
determinazione. Allora esso non si dimostra come potenza ma
come alto.
547
b) Anterìormenle alle enlilà, come avente quella virtù, per
la quale può rendersi determinante e ultima determinazione.
Considf rato sotto questo secondo aspetto ci si affaccia a prima
j^Munta un concetto che abbraccia una doppia potenza, la potenza
di determinare ciascuna entità ad essere quella che è piuttosto
ohe un'altra, eia potenza d'aggiungersi come alto ultimo e co-
mune alle entità determinale
409. Consideriamo dunque se l'essere ammetta veramente il
concetto di potenza determinante, o non sia questa piuttosto
una nostra illusione dialettica.
A noi pare di poterci formare un tal concetto risalendo col pen-
siero dall'atto che percepiamo alla potenza che non percepiamo ;
e ciò per l'abitudine che abbiamo di riferire universalmente gii
atti degli enti finiti a certe loro potenze. Così anche qui ci
sforziamo di distinguere una potenza determinante, che conside-
riamo come unica, dagli alti determinanti le singole entità che
vediamo essere moltiplici.
M;i qual può essere questa potenza? Quando noi sotlomcl-
liamo un tal concetto alla critica, ella ci sfugge di mano, poi-
ché noi: i.° in tutte le entità vediamo sempre l'essere come
puro alto; '2.° se le entità sono diverse, la diversità è tutta ne'
termini, a cui l'essere si unisce culla sua presenza, rimanendo
egli uno, e il medesimo (essere iniziale); 3.° quesl' unirsi
dell'essere alle entità non altera la natura del puro essere, ma
solo è un concepirsi de' vari termini a cui l'essere assiste. Se
dunque l'essere determinante rimane puro alto uno e identico ,
qualora togliamo via quest'alto semplicissimo , non ci rimane
lìiù alcun concetto di potenza, ma solo il nulla.
Atteso dunque che la ragione della diversità degli enti reali
finiti giace nella realità, e non in quell'allo di essere pel quale
sono , egli è manifesto che la causa della determinazione di
questa ci rimane nascosta, e che il concepire questa causa come
l'essere slesso in potenza è un distruggere lo slesso concetto
dell'essere. Non rimane dunque altro concetto deWessere deter-
minante che quello di atto, e il concetto di potenza è un con-
cetto opinativo e falso , che altro non fa se non distruggere
Tessere stesso senza darci nulla da sostituire al medesimo.
Ma se noi investighiamo qual possa essere la ragione per la
348
quale i reali finiti sono determinati cosi e non in altro modo ,
niuna ragione possiamo trovare né in essi né nell'essere che
unito ad essi ci apparisce: ma ci é forza ricorrere ad una vo
Ionia potentissima che, essendo essi indifferenti , ha fissale li-
beramente e sapientemente le loro determinazioni. Coli' inoltrarci
nella speculazione troveremo altresì che questa volontà deve es-
sere l'Essere stesso in quanto da sé sussiste , che ci rimane
nascosto. Ora in quest'Essere vivente ci è facile concepire una
causa, ma non una causa potenza, appunto perché sussiste da sé,
senza che le realità finite formino alcuna parte del suo sussistere.
410. Conchiudiamo dunque:
a) Che noi argomentiamo con sicurezza che ci deve essere
un subielto determinanle le varie entità:
b) Che noi non conosciamo né intuitivamente né per un'ana-
lisi dell'oggetto dell'intùito, né per un'analisi delle entità da noi
percepite, la natura di questo subielto determinanle, e però non
ne possiamo avere che una cognizione negativa;
e) Che la causa determinante non è causa potenza ma causa
creante, ed essendo essa il detto subietto, noi non vediamo né
conosciamo neppur questa causa positivamente ma solo negati-
vamente per argomenti deontologici ;
d) Che nella percezione e nella concezione degli enti finiti
vediamo solo Vatto determinanle l'ente finito che percepiamo.
E quest'atto lo vediamo sempre compilo e intendiamo che
non lo possiamo vedere altramente, perchè l'alto dell'essere non
ha successione , né gradazione: è, o non é (^334*). Laonde
due sole cose possiamo pensare circa l'essere determinante; o
che quest'atto non sia, o che sia, e allora pensiamo l'atto stesso
semplicissimo e però sempre compiuto.
411. Ma non possiamo noi pensare l'istante stesso in cui l'atto
si fa? E se possiamo pensare quest'istante non possiamo noi appli-
care a ciò che pensiamo farsi in quell'istante l'adagio degli scola-
stici: in actu actus nondum est aclus? Quest'adagio appunto, am-
messo alla grossa, è quello che ha ingannalo l'Hegel. Un tale
adagio non vale per lutti gli atti ma solo per un certo genere. Ci
hanno degli alti che ammettono successione e sono tutti puramente
fenomenali [Ideal. 779-799) che si compiono nel tempo: di questi
è vero, che nel mentre si fanno non sono ancora falli. Ma ci sono
3Zi9
degli atti , che per la loro assoluta semplicità non ammettono
successione né gradazione , e questi propriamente non si fanno
ma sono: e tale è quello dell'essere, come determinante, e anche
come ultima determinazione Ma, poiché noi siamo ahituati a
considerare gli atti fenomenali- e temporanei e non l'atto puro
dell'essere, il linguaggio che fu trovato per quelli, noi lo
trasportiamo e applichiamo, con troppa confidenza, a questo; e
così facilmente c'inganniamo. Di quelli noi diciamo: « si fanno
e intanto che si fanno non sono ancora «, ed è vero. Di questo
vogliamo dire il medesimo, ed è falso, è una contradizione nei
termini. Se dunque di quest'atto determinante dell'essere vo-
gliamo dire che «si fa «, ricordiamoci dell'improprietà della
locuzione , e consideriamo che il « si fa » altro non può qui
significare se non « è ». Il che si prova rigorosamente anche
in questo modo. Il verbo , terza persona , tempo presente ,
esprime l'atto che si fa {Logic. 520 sgg.). Così, dell'azione di
parlare, l'atto che si fa s'esprime dicendo parla; dell'azione di
mangiare, l'alto s'esprime dicendo mangia. Lo stesso si dica di
tulli gli altri verbi. Prendiamo dunque il verbo essere, e vediamo
come si esprime l'atto che si fa, proprio di questo verbo. S'esprime
appunto dicendo: È. Se dunque il monosillabo È esprime l'atto
che si fa dell'essere , consegue che l' È in questo caso ha
egual valore di si fa. IVla l' È dice un atto compiuto , non
solo cominciato, non un atto ancor in fieri; dunque rispello
all'essere non accade che si possa dire: in actu aclus non-
dum est aclus. Nel qual adagio sono supposti due atti , poiché
si dice : « nell'atto dell'atto », ma l'atto dell'essere è il primo
di lutti gli atti e però non si può pensnre, senza assurdo,
« l'atto di questo atto », poiché egli stesso é l'atto d'ogni atto
(,578 sgg.*). Laonde giustamente i teologi negano che alla
creazione convenga il concetto di mutazione (1).
/il2. Pure la mente umana, abituata agli atti temporanei, deve
fare uno sforzo a concepire un atto che propriamente parlando
non si fa mai, ma che unicamente o é o non é, e che è tale
che non si può veramente concepire altro che o fatto o non fatto,
non nell'atto di farsi , che quest'atto del farsi per lui non
(1) Cf. S. Th. S. I, XLV, 2.
c'è, non ci può essere, come escluso dalla sua slessa natura. Chi
non coglie, sarà presto a replicare: « ma dunque Iddio creando
non fa ? » A cui noi rispondiamo che quello che fa Iddio è uni-
camcnle di porre tulio intero l'alio dell'essere delle creature ;
dunque quest'alto non è propriamente fatto ma è posto.
Essendo posto tulio intero, perchè semplicissimo ed indivisi
hile, non c'è alcun istante in cui egli si faccia e non sia ancora;
ma l'atto eterno di Dio [ one l'atto dell'essere delle creature in
quell'istante in cui vuole che sia, ed in quest'istante un tale allo
è compiulamenle: prima di questo istante non è neppure incipiente.
Concludiamo dunque che nelle entità noi osserviamo Tessere
come atto che determina ciascuna di esse, ma ci rimane nascosta
la potenza di lutti questi atti, la potenza universalmente determi-
nalrice; perchè questa è il subiello slesso di quell'alto dell'essere,
cioè Dio, di cui noi aver non possiamo che una cognizione
negativa, come fu detto; ndi vediamo Tessere determinante solo
in ciascuno de' determinati , nell'atto in cui ad un tempo li de-
termina e li fa esistere.
Se r essere considerato come ultima determinazione sia potenza.
— Conclusione della questione.
filo. E in quanto li fa esistere, in tanto abbiamo detto che l'es-
sere è determinazione ultima e comune a tulle le entità. — Qui
dunque scomparisce interamente anche la potenza illusoria, di cui
parlavamo, perchè l'ulliìna e comune determinazione, quella del-
l'esistenza, apparisce per ciascuna entità atto purissimo.
Possiamo ora noi rispondere alla questione che ci eravamo pro-
posta : « se l'essere possa considerarsi come potenza , sia come
primo determinabile, sia come determinante, sia come ultima
e posteriore determinazione «.
Richiamiamo a tal uopo la definizione dilla potenza: « la po-
tenza è una causa che ad un tempo è subiello del proprio ef-
fetto ». Ora:
L'essere come primo determinabile è certamente suhietto dialet-
tico ed antecedente di tutti gli enti determinali, ed egli è anche
ÒOÌ
causa materiale di questi : indi a lui può convenire la denomina-
zione di potenza , in quel modo speciale che abbiam veduto, e
di potenza triplice secondo le categorie de' determinati: ma que-
sta potenza ha per suo proprio nome quello di possibililà. Que-
sta triplice potenza è dunque la possibilità de' concetti, la pos-
sibilità de' reali e la possibilià de' morali.
L'essere come dekrminanto è causa certamente della determi-
nazione propria della singola entità in cui si vede come deter-
minante, ma essa non è il suhiello del suo effetto cioè della de-
terminazione propria della singola entità, ma il subietto di questa
determinazione è l'entità stessa : perciò l'essere come determi-
nante è causa ma non potenza. Questa causa è in allo nelle sin-
gole entità e suppone un' altra causa libera , non potenza , in
cui solo può trovarsi la ragione delle determinazioni.
L'essere come determinazione ultima di ciascuna entità è pure
causa, causa formalissima, perche causa per la quale il reale è
ente. Ma que&V effetto , cioè l'esistenza di ciascuna entità , non
ha per subietlo lo stesso essere che colla sua potenza lo cagiona,
ma la stessa entità , poiché è l'entità quella che esiste. L'essere
dunque come determinazione ultima e posteriore non è potenza
ma puramente causa dell'atto di essa entità , visibile nel suo
leimine. Quest'atto poi puro e semplice non suppone avanti di sé
altra potenza, ma solo l'essere assoluto, a cui quell'atto del-
l'essere dell'entità si possa ridurre.
Nelle entità dunque da noi concepite l'essere ci si manifesta
i.° come potenza, propriamente possibilità; 2.° come alto che
suppone prima di sé una causa determinante , non causa po-
tenza; 5.° come alto che suppone prima di sé un'atto completo
di §è, cioè V essere assoluto (creatore).
Articolo V.
Se la virtualità dell' essere iniziale sia una limitazione.
hì'i. Dalle quali cose tutte possiamo dedurre la soluzione della
questione: «se la virtualità dell'essere sia una limitazione».
Poiché apparisce che la virtualità dell'essere, se si considera
055
come virtualità de' termini suoi propri , non limita l'essere , ma
solo gli toglie mentalmente i termini — davanti alla mente umana
che lo considera — lasciandoglieli impliciti : onde rispetto all'es-
sere non è iimilazione , rispetto poi alle forme non è limitazione
ma totale astrazione di esse, e questa è solo relativa alla mente
che così lo contempla.
La virtualità poi dell'essere rispetto ai termini impropri e fi-
niti non è una sua limitazione, perchè questi non sono necessari
a far che Tessere sussista nella sua perfezione assoluta, ed è una
perfezione poi l'averli tutti eminentemente compresi ne' suoi ter-
mini propri ed assoluti { Cf. Psicol. 1373 sgg. ).
CAPÌTOLO IH.
Continuazione — DoHrina dell'essere possibile.
Articolo L
Stalo della questione: iicome V essere, in quanto è primo
determinabile , possa esser potenza ».
/|15. Le cose dette fin qui devono sollevare molli pensieri nella
mente , e la questione pur ora sciolta ingenerarne altre di non
meno diffìcile soluzione. Poiché come si può attribuire all'essere,
concepite come primo determinabile, il concetto di potenza?
Primieramente l'essere si presenta come atto purissimo, e fu
da noi riconosciuto come atto di tutti gli atti.
Di poi, essendo semplice ed uno, come potrebbe egli essere
alto ad un tempo e potenza, quale il dichiaravamo pur ora.<^
Articolo IL
Soluzione della questione in generale.
416. La soluzione di questa difficoltà dipende interamente dal
giusto concetto della potenza dialettica. Quando una cosa si chiama
353
potenza dialettica, non si dice con questo che ella abbia alcuna
vera potenzialittà in sé stessa , ma solo una potenzialità che in
essa pone la mente colla sua maniera di concepirla in relazione
con altre cose.
Ora egli è chiaro che Vessere, quando si considera da sé stesso
e però senza la relazione co' reali finiti, altro non ci dà che un
atto purissimo senza meschianza di potenzialità di sorta alcuna.
Anzi esso é propriamente l'origine del concetto di atto , per-
chè è esso Vattoper essenza. E non si sarebbero pur trovale que-
ste due parole essere e atto, se l'essere solo noi avessimo co-
nosciuto, poiché questa seconda parola nacque dal bisogno di
distinguere la potenzialità daWessere stesso.
417. Il concetto di potenzialità é dunque sorto nella mente,
perché all'essere si aggiunse qualche restringimento o limitazione
straniera alla sua propria natura. Conviene perciò vedere quali
siano tali limitazioni e di quante specie.
Primieramente la nostra natura finita, la nostra mente , con-
cepisce l'essere separato da tutti i suoi termini. Non è già che
l'essere sia in sé stesso così separato , che anzi la mente umana
stessa, con una argomentazione sopraveniente e riflessa, dimostra
a sé medesima , che l'essere concepito con una tale separazione
non è tale in sé slesso , e che in sé stesso deve Irovarsi unito co'
suoi propri termini. Che cosa importa dunque « l'essere conce-
pito senza i suoi termini?» Importa che l'essere non avendo, per
un' ipotesi naturale della mente, i suoi termini, può averli. Così
la mente umana col suo modo di concepire ha posto nell'essere
una potenzialità che egli non ha in sé stesso, cioè la potenzia-
lità di avere i termini.. La potenzialità dunque, che nasce mediante
questa limitazione dialettica, non è una potenzialità dell'essere in
sé, ma dell'essere veduto in un modo limitalo dalla mente umana,
la quale non ne vede tutto il fondo , ne vede l'iniziamento e non
il finimento, e però lo vede suscettivo di finimento ( Cf. Ideol.
4143 w.). 11 qual finimento essendo triplice, triplice è pure que-
sta suscetlività, 0 potenzialità dialettica e propriamente possi-
bilità.
Oltre di ciò, i termini di cui l'essere indeterminalo é suscettivo
sono 0 infiniti o finiti. Riguardo ai termini infiniti si considera
come potenza dialettica, perché è causa e subietto dialettico. Ri-
RosMiNi. Teosofia, 23
354
guardo ai termini finiti si considera come potenza , perchè è su-
bietto dialettico , essendo causa vera.
Articolo III.
Possibilità deWente. — Dieci generi di potenze.
UìS. Di pili noi abbiamo veduto che la parola possibile riceve
due significati fondamentali, l'uno quando si predica àeWessere in-
determinato e vuol dire che « l'essere può estendere il suo alto ai
termini » , l'altro quando si predica dei termini e vuol dire che
« il termine può ricevere l'atto dell'essere •».
Ma quando un ente esiste, allora entrambe quelle possibilità
hanno trovato il loro atto , e l' una di esse non può trovarlo
cbe non lo trovi in pari tempo l'altra , di maniera che l'ente è
l'atto unico di quelle due possibilità. La possibilità dunque del-
l'ente abbraccia quelle due possibilità ad un tempo. Né fa ma-
raviglia che V ente essendo necessariamente uno, ma scioglien-
dosi dalla mente in due elementi sintesizzanti , la mente altresì
concepisca la sua possibilità in relazione con que' due elementi ,
e si formi così due concetti relativi di possibilità.
419. Se noi dunque parliamo della possibilità di un ente, conviene
che consideriamo che questa è una potenzialità che si distingue
da ogni altra, perchè si riferisce all'atto puro dell'essere espri-
mendo « che può essere » , non che può fare o esser fatto , non
che può patire , non che può avere od essere avuto , non che
può dare od esser dato , non che può ricevere od esser ricevuto.
Questi nove copulativi posteriori aìVessere {Logic. 427-459) co-
stituiscono nove specie di potenze relative tutte ad atti posteriori
al primissimo dell'essere. All'incontro la possibilità dell'ente
esprime una potenza relativa puramente all'atto primissimo del-
l'essere, e però è una potenza peculiare, tutta differente
i.° Dalla potenza di fare.
2.° Dalla potenza d'esser fatto.
3.° Dalla potenza di patire.
4." Dalla potenza di avere.
5." Dalla potenza d'essere avuto.
6.** Dalla potenza di dare.
7.0 Dalla potenza d'esser dato.
8.° Dalla potenza di ricevere.
9.** Dalla potenza d'essere ricevuto (1).
355
Articolo 1Y.
Possibile, predicato deW essere indeterminato relativo
a' suoi termini propri e impropri.
420. La possibilità poi che nell'essere iniziale da noi si pensa,
cioè « la suscettività de' suoi termini » , si riferisce , come ab-
biamo già accennato, o a' suoi termini propri, o a' suoi termini
impropri.
In quanto si riferisce a' suoi termini propri, ell'è k la possibilità
di Dio )) che la mente umana opina di pensare , come abbiamo
detto : e questa possibilità è simultanea di tutti e tre i termini su-
premi : poiché l'essere iniziale non si potrebbe ultimare in uno
di essi, senza che si ultimasse parimenti negli altri due: e se
la mente distingue l'ultimarsi in una delle tre forme dall'ulti-
marsi in un'altra, è anche questo un opinamento e illusione dia-
lettica , di cui in appresso la stessa mente può dimostrare a sé
stessa l'assurdità.
Rispetto poi alla possibilità che nell'essere iniziale si vede de'
suoi termini limitati, questa è certo assoluta, e non ha bisogno
di nulla per essere concepita (2).
(1) Di qui apparisce che la divisione della potenza in attiva e passiva è
troppo povera al bisogno dell'Ontologia. iNè pure la maniera, con cui Aristo-
tele {Metaph. IV (V), 12) classifica le potenze, è completa. Tra le censure
che gli furono fatte intorno a ciò dagli Scolastici (Cf. Suarez Index in Me-
taph. Arist. V, 12) una fu quella che tra le specie di potenze da lui anno-
verate manca quella di creare. Ora creare è porre l'essere delle cose. Ma
l'essere si pensa, come noi abbiamo osservato , in due modi , come iniziale
e come assoluto. La potenza di creare appartiene all'essere assoluto. All'es-
sere iniziale poi appartiene quella che abbiamo detta possibilità de'suoì ter-
mini, che, come vedemmo, è triplice per la trinità delle Categorie: di questa
pure non trattano bastevolmente né Aristotele, né gli Scolastici.
(2) Si distinguano due maniere di concepire la possibilità di checchessia :
1."» la prima è quella in cui si concepisce la semplice ed assoluta possi-
356
421. Ma la riflessione sopravveniente trova in appresso che ella
ha un ordine , il quale è il seguente :
In primo luogo , acciocché possano darsi de' termini limitati
dell'essere , è necessario che l'essere sia ultimato co' suoi termini
propri e illimitali. L'essere assoluto e illimitato è dunque la
prima condizione , non a che si possa p'ìnsare la suscettività de'
termini limitali , la quale si può pensare da sé e senz'altro pen-
siero , come dicevamo , ma a che questa suscettività o possibi-
lità ci sia veramente- Poiché se non ci fosse prima l'essere as-
soluto, non ci sarebbe il subietto determinante e limitante.
In secondo luogo , dato precedentemente questo subietto de-
terminante e limitante , la riflessione ontologica trova un ordine
tra le tre possibilità relative ai termini limitati dell'essere. Pe-
rocché non si possono concepire de' termini reali , se non a con-
dizione che prima ci siano de' termini corrispondenti ideali —
giacché il concepire non è altro che intuire l'ideale — e non si
può concepire che ci siano de' termini morali , se non si pensa
prima che ci siano già de' termini ideali e reali.
Quindi i termini ideali dell'essere, primi, e condizione degli
altri , sono stati considerati come le possibilità delle cose finite.
Le essenze delle cose finite, che s'intuiscono nelle idee, non ma-
lamente furono anche dette da Giovanni Duns Scoto potenze obiet-
tive (1); ma a noi pare più schietto chiamarle le possibilità de'
reali finiti , o i possibili, o semplicemente le loro essenze,
422. Da quest'ordine si deduce una serie subordinata di possibi-
lità, ossia una serie di concetti subordinati di possibilità riguardo
bilità , senza che il pensiero s'incarichi di determinare a quali condizioni
la cosa possiliile possa veramente passare all'esistenza attuale : il pensiero
né nega né afferma tali condizioni , ma implicitamente sa che ci possono
essere , appunto perchè sa che la tal cosa è assolutamente possibile , il
qual concetto implicitamente contiene Vassoluta possibilità di tutte le con-
dizioni, senza le quali q\ie\V assoluta possibilità non sarebbe; 2." la seconda
maniera di concepire la possibilità è quella di concepire non solo che la
cosa è assolutamente possibile, ma di concepire e pensare ad un tempo
Vesistenza delle condizioni e sopra tutto della causa atta a produrla. Quindi
gli Scolastici distinsero i possibili in negativi definendoli : « quelli che non
involgono contraddizione » e in positivi « quelli che possono esser prodotti
da una causa che si conosce esistente ».
(1) in li, Dist. XII. q. i.
357
ai termini finiti dell'essere, gli anelli principali della qual serie
sono i seguenti :
A. Possibilità suprema — \a possibilità dell' essetize ideali
piene, la quale risiede, cioè si vede dalla mente, nell'essere inde-
terminato e iniziale (essendo l'essere assoluto condizione neces-
saria alla medesima).
B. Possibilità media — la possibilità de' reali finiti , la
quale risiede nelle essenze ideali determinate.
C. Possibilità ullima — là possibilità de' morali finiti, la
quale , come si dirà appresso , risiede nell'ordine perfetto delle
essenze ideali determinate , ordine che risulta dalla relazione di
queste coW'essere iniziale e coU'assoluto (essendo una condizione
necessaria l'esistenza dei reali finiti intelligenti).
Questa triplice possibilità subordinata relativa ai termini fi-
niti dell'essere riceverà la necessaria sua spiegazione da quello
che diremo appresso.
Articolo V.
Possibile, predicato de' termini dell'essere. — Se i finiti possibili
siano qualche cosa di positivo : possibilità logica, possibilità
metafisica de' medesimi : necessità duplice dell' essere assoluto
e de' finiti possibili.
423. Fu disputato se gli enti finiti possibili sieno qualche cosa
di positivo, alcuni negandolo, altri affermandolo (1). Il P, Par-
chetli movendo da una viziosa definizione delle idee , quale era
invalsa nelle scole sensistiche del suo tempo, dalla definizione
(1) Fra quelli che negarono acremente i possibili ne' tempi moderni è
degno d'esser letto il P. Ercolano Oberrauch nel primo trattato della sua
Morale, opera che dimostra un rarissimo ingegno. Un altro forte ingegno,
il P. Tarchetti, diede arditamente nell'estremo opposto, sostenendo ne'suoi
Fragmenta CosniologicB (Lucani, ex Officina F. Veladini, ìSàà, e. I) che i
primi possibili sono cose, sostanze, enti eterni e indipendenti dall'intel-
letto divino. È pieno d'interesse il mettere a confronto gli argomenti di
questi due acuti pensatori, e vedere con quanta sottigliezza, e con uguale
intendimento pio e cattolico, sostengano sentenze estreme , allontanandosi
per opposte vie dal comune pensare.
358
cioè che le idee « sieno rappresentazioni delle cose o esistenti o
possibili )) (1) ; ne dedusse che dunque le cose possibili sono og-
getti distinti dalle idee, eterni, indipendenti dall'intelletto di-
vino, enti in cui termina l'alto creativo^ il quale non fa altro
che aggiungere a quegli enti possibili Vesistcnza (la realità), di
maniera che gli enti componenti il mondo siano gli stessi enti
possibili passati all'esistenza che è un altro modo di essere. Ma
la nova Ideologia da noi introdotta rovescia quella definizione:
poiché vi si dimostra che l'idee non sono rappresentazioni de'
possibili, ma sono i possibili stessi; tutt'al più le idee possono
dirsi, e impropriamente ancora, rappresentazioni de' reali {Ideol.
77, n, 91 , 97, 107 n, 177 w, 994 n.). L'idea è lo stesso es-
sere iniziale (Ideol. 417) , il quale o si pensa senza determi-
nazioni e senza limiti, e si dice idea dell'essere; o si pensa più o
meno determinato con limiti, e si dice idea di qualche altra en-
tità. Ora quel che può aver ingannato il P. Parchetli ed altri
sono appunto queste espressioni : « idea dell'essere , idea della
tale entità, ecc. », nelle quali sembra distinguersi l'idea dal suo
oggetto. E che questo si distingua, non sta qui il male: e,
noi stessi n'abbiamo parlato come fosse distinto in alcuni luoghi
del Rinnovamento ; ma tutto sta a stabilire di qual distinzione si
tratti. L'essere iniziale, sia che si consideri illimitato, sia che
si consideri limitato, ha più rispetti, sebbene rimanga sempre
uno e il medesimo : poiché o si pensa assolutamente senza rela-
zioni , e allora si dice essere , o si pensa in quanto è intelligi-
bile per sé stesso, e si dice oggetto, o si astrae da lui questa
intelligibilità come una proprietà intrinseca all'essere nella sua
forma obiettiva, e si dice idea. Ma questi sono rispetti, in cui
si considera il medesimo essere , che ancora sott'altri si può
considerare: come, se si considera come atto d'un subietto ,
astrazion fatta dal subietto , esso si chiama essenza ; e se si con-
sidera come quello che fa conoscere, si chiama lume; e se si
considera come causa prossima, immediata e immanente dell'in-
(1) Fragmenta Cosmologia, e. I, p. 12, ove dice: Quid sunt idece? Re-
spondetur, esse repraesentationes rerum aut extantium aut possibilium ;
onde tosto inferisce : Ergo ideis divinis possibilium dchet respondere
obiectum: aliter omnino chimericae forent; imo forent zero, seu nihil.
359
telligenza , si chiama forma dell'inlelletto. Così dunque quando
si dice « oggetto dell'idea » , altro non si vuol dire se non quel-
l'essere, che è conosciuto per la sua propria intelligibilità: poiché
r intelligibilità , se si astrae , diventa comune a lutti gli oggetti
intelligibili e quindi Videa, che è questa slessa intelligibilità: qua-
lora dunque si vuol indicare a qual essere appartenga questa
proprietà dell'intelligibilità di cui si parla, dicesi che quest'es-
sere è oggetto d'un'idea; e del pari vanno dichiarale le espressioni
« idea dell'essere , idea della tale e tale entità « che altro non vo-
glion dire se non «l'intelligibilità inerente all'essere, l'intelli-
gibilità inerente alla tale entità », senza che per questo si mol-
tiplichino le entità stesse.
Rimane a considerarsi l'altra proposizione del citalo filosofo ,
cioè che « r atto creativo non cavi le cose dall'assoluto nulla ,
ma altro non faccia che rendere esistenti quegli enti che già esi-
stono ab eterno come possibili , senza dipendenza dal divino in-
telletto ». Noi non possiamo assentire a una tale proposizione ,
riprovata da tutti forse i filosofi e i teologi cattolici : ma vogliamo
indicare la via, per la quale la mente del P. Parchelti possa es-
sere stata condotta a un tale errore. Faremo questo poi col ri-
spondere alla questione che ci eravamo proposta : « se i possi-
bili sieno qualche cosa di positivo ».
424. Gonvien dunque considerare, che questa locuzione « i pos-
sibili » ha due significati, perchè è un predicalo che può riferirsi
a due subielti : ad un subietto ideale e comune , e a un subielto
individuo imaginato. Se si riferisce a un subietto ideale, per
esempio a un cavallo ideale, il significato è questo: «quest'ente
ideale (cavallo j PUÒ' essere realizzalo in un individuo». Se si
riferisce ad un subietto individuo che ancor non esiste , ma che
s' imagina , il significalo è questo : « quest'ente individuo che
iraagino , può essere realizzato». La possibilità in questo secondo
caso, cioè come predicato d'un subietto individuo, reale o ima-
ginato come reale, è quella slessa che anche si predica degli in-
dividui reali , onde si dice , che dalla realità si dà passaggio di
inferenza alla possibilità, come argomentandosi: «questo cavallo
sussiste, dunque è possibile ». I due subielti dunque a cui si ri-
ferisce il predicato possibile sono oggetti di due facoltà diverse
nell'uomo, della facoltà intuitiva delle idee, e della imagina-
360
zione intellettiva, che risponde alla percezione sensitiva. Nel-
l'uno e nell'altro caso il concetto di possibilità contiene la rela-
zione tra Videa e un rea/e percepito o imaginato; e, potendosi
una relazione considerare dalla parte di ciascuna delle due
entità tra cui ella passa , questo dà luogo al doppio significato
della parola possibile.
42o. La questione propostaci dunque si divide in due, poiché
si può dimandare:
i." Il possibile, considerato come predicato dell'essenza che
s'intuisce nella idea , è egli qualche cosa in essa essenza di po-
sitivo ?
2." Il possibile, considerato come predicato d'un reale ò per-
cepito 0 imaginato , è egli in questo reale qualche cosa di po-
sitivo?
Affine di rispondere a queste questioni conviene che investi-
ghiamo la natura delle relazioni , non a pieno , il che tenteremo
di fare nel libro seguente, ma quanto ci è necessario al bisogno.
La relazione corre sempre tra due entità : ma l'origine onde
ella nasce, talora è in una sola di esse, la quale si suol chia-
mare il fondamento o il principio della relazione; l'altra poi a cui
la relazione è ordinata si suol chiamare semplicemente il termine
della relazione stessa (4). Il subietto poi in cui esiste il fonda-
(1) Filippo Melantone troppo universalmente scrisse ne' suoi libri De Dia-
lectica (Wiitemberg \%'òi) così: Omne relativum ver satiir Inter duo, quo-
rum alternm vocatur fundamentum a quo oritur relatio. Terminus est
res, ad quam ordinata est relatio. Inter ha;c relatio est ipsa applicatio
seu ordo fundamenti ad terminum (Lib. I, p. 55). Nella relazione per
esempio della distanza tra due corpi , qual di essi è il fondamento , quale
è il termine? 0 né l'uno né l'altro, o amendue sono ad un tempo il fonda-
mento e il termine della relazione , secondo che la mente va dall'uno al-
l'altro, movendo da quello che le piace. Onde qui il fondamento o principio
della relazione è puramente dialettico e nasce dal modo di vedere della
mente stessa. Ma in sé il principio di quella relazione di distanza non é né
nell'uno, né nell'altro de' due termini della relazione, ma é nella natura
dello spazio (Gf. Logic. ,421*); e ciò perchè la distanza de' due corpi è
« una relazione conseguente ad un'altra » cioè alla relazione della materia
collo spazio. Conviene dunque tra l'altre distinzioni che sono a farsi , di-
stinguere « le relazioni immediate tra due unità », dalle mediate che na-
scono da relazioni precedenti, nelle quali si deve cercare il principio o fon-
damento delle medesime.
56i
mento, dicesi subietto della relazione. In questo caso ì\ principio
della relazione è qualità essenziale o accidentale , positiva o ne-
gativa, d'una sola delle predette entità. Così il principio della re-
lazione tra la causa e l'effetto è nella causa; la causalità slessa
è la qualità essenziale o accidentale d'una entità, che da essa si
denomina causa; l'effetto all'incontro, quand' ha un'esistenza di-
versa da quella della causa propria e indipendente , non è che
il termine della relazione. La pura condizione d'essere effetto o
non è una qualità ovvero è una qualità dipendente dalla causa-
lità propria dell'entità che ha virtù di produrlo.
426. Riprendiamo ora la prima questione: « il possibile — la
relazione che concepisce la mente tra l'essenza ideale e il reale —
considerato come predicato dell'essenza, è egli in questa qualche
cosa di positivo?» Il possibile così preso significa che non in-
volge contraddizione che quella essenza sia realizzata. Ma que-
st'assenza di contraddizione è ella l'ultima ragione, per la quale
un'essenza si dica possibile a realizzarsi? o si può domandare an-
cora: per qual cagione tostochè la mente intuisce un'essenza (e
se involgesse contraddizione non sarebbe un'essenza, né sarebbe
intuibile) intende e dice che è possibile? Quest'ulteriore domanda
si può certamente fare, e la ragione domandata sta nella natura
stessa dell'essere, il quale è per sé pensabile ossia intelligibile,
e l'essere intelligibile involge la possibilità assoluta: l'assenza
della contraddizione è una proprietà essenziale dell'essere, e però
è una condizione, acciocché sia essere e acciocché sia pensabile
come tale. — Ma dopo che l'ho pensato, non sembra egli che io
aggiunga qualche cosa, che io aggiunga qualche altra sua pro-
prietà, quando incontanente dico che può essere realizzato? —
La prima risposta che s'affaccia alla mente é questa, che quando
io* dico (c la tal essenza può essere realizzata « , intendo di dire
unicamente che «se per ipotesi si supponesse esistere il reale cor-
rispondente a quella essenza , questo reale sarebbe anch'egli
pensabile , senza difficoltà , come quello che non si opporrebbe
alle leggi del pensiero, che nulla ricusa fuor solo il contrad-
ditorio ». E la risposta é giusta in sé stessa. Ma con questa ri-
sposta non si stabilisce che la possibilità logica, che é appunto
un sinonimo dì pensabilità (Ideal. 543, 1070). Ma questa possi-
bilità logica e negativa ha ella un fondamento metafisico? Tutto
362
ciò che è negativo non deriva egli da qualche antecedente po-
sitivo?
Indubitatamente, e questo antecedente positivo è appunto,
come dicevamo, la natura delV essere , che noi dobbiamo qui
novamenle considerare. Abbiamo già detto che l'essere, per
quanto s'intuisca imperfettamente dall'uomo, mostra sempre in
sé stesso una necessità assoluta , perchè l'essere non può non es-
sere. Di qui la riflessione deduce, che l'essere dovendo essere,
egli deve aver lutto ciò che è condizione indispensabile accioc-
ché sia , quantunque questa condizione di sua esistenza non si
intuisca da noi. Questa stessa riflessione ontologica , o piut-
tosto deontologica , avanzandosi a ricercare che cosa sia con-
dizione all'esistenza dell'essere, trova che é la determinazione
completa nelle sue tre forme categoriche , col quale argomento
viene ad intendere dover esister l'essere assoluto. Questo triplice
termine è condizione essenziale all'essere, acciocché sia, e nulla
più si richiede, accioché l'essere abbia un'esistenza in sé. Ma
assicurata così la sua esistenza in sé, richiesta dall'intima neces-
sità del medesimo , la riflessione vede oltre ciò che il concetto
di essere è così esteso che abbraccia anche i modi limitati di
essere. Pure questi non sono necessari alla sua esistenza in sé.
Ora queste due proprietà dell'essere: i." di contenere nel suo
concetto tutti i modi limitati di esistenza; 2." e di non essere essi
necessari, acciocché l'essere sia veramente in sé e non si an-
nulli — come si annullerebbe in sé stesso se gli mancassero le con-
dizioni del suo esistere in sé — sono quelle da cui si compone il
concetto della possibililà metafisica ossia ontologica degli enti
finiti.
427. Questa possibilità dunque involge due cose , la prima che
l'essere non sia intelligibile in tutta la sua estensione se nel suo
concetto non abbraccia i detti modi limitati; e che questi modi non
abbiano punto bisogno d'esistere in sé, acciocché l'essere sia in
sé, bastando che esistano nel concetto. Ma nel concetto dell'es-
sere é necessario che essi esistano ; altramente non sarebbe più il
concetto dell'essere, che ha un'estensione illimitata. Ci sono dun-
que due necessità provenienti entrambi della natura dell'essere :
i ° La necessità , che 1' essere esista in sé , e perciò che
abbia i suoi termini propri , senza i quali mancherebbe la sua esi-
363
stenza in sé, e però in sé stesso si annullerebbe, e questa è la
necessità dell'essere assoluto.
2.° La necessità che l'essere esista come intelligibile, per-
chè se non fosse intelligibile , mancherebbe il concetto stesso del-
l'essere, e però molto meno potrebbe avere un'esistenza in sé;
la necessità poi del concetto dell'essere importa , che in questo
concetto ci sieno anche tutti i modi limitali di essere^ senza i
quali quel concetto sarebbe un altro, e non più quello dell'es-
sere : e questa è la necessità de' possibili ossia dell'essenze delle
cose limitate {Ideal. 507 n, 373 «, 380, 1106, 1158, 1460).
Di qui viene il concetto della contingenza. Perocché ogni ne-
cessità viene dalla natura dell'essere come da suo fonte , e si
riduce a questa formola : « la necessità é la proprietà che ha l'es-
sere di esistere in sé ». Le condizioni poi acciocché l'essere esi-
sta in sé sono due: 1." che esista co' suoi termini propri;
2.° che esista il suo concetto , che abbraccia tutti i termini im-
propri. Ma non è punto condizione, acciocché l'essere esista in
sé, che esista in sé co' suoi termini finiti. La reale esistenza di
questi non é dunque necessaria : la mancanza di questa neces-
sità dicesi contingenza. « La contingenza é dunque quella pro-
prietà negativa degli enti finiti , per la quale non é punto ne-
cessario che esistano in sé , ossia nella loro forma reale o mo-
rale » .
Mediante questa analisi si rileva , che la possibilità de' con-
tingenti , sebbene logicamente altro non significhi che un'assenza
di contraddizione , tuttavia ha il suo fondamento in una proprietà
essenziale dell'essere, che è quella d'avere un concetto affatto illi-
mitato, la quale vedesi appunto nell'essere iniziale e indeter-
minato.
In questo senso e secondo queste dichiarazioni si dee conchiu-
dere , che la possibilità attribuita alle essenze , benché logica-
mente sia un concetto negativo, pure ha per sua base e prin-
cipio una proprietà positiva dell'essenze medesime, proprietà
nondimeno che deriva dalla natura dell'essere , onde possibili si
dicono « in quanto partecipano di quell'essere che contiene nella
sua intelligibilità tutti i modi limitati di essere )>.
428. Venendo ora all'altra quistione : « se, quando si attribuisce
ai reali, o percepiti o imaginati, la possibilità, si predichi di essi
564
qualche cosa di positivo », sarà facile il rispondere che essi non
sono il principio ma solo il termine della relazione di possibilità
di cui parliamo. Laonde « un reale possibile » non vuol dir al-
tro se non che questo reale ha come sua condizione necessaria
un'essenza ideale e necessaria^ nella quale giace la sua possibi-
lità logica e altresì metafisica, nel senso di sopra spiegato. Di che
è a conchiudersi che la possibilità come predicalo degli enti reali
finiti, non è nulla di positivo che ad essi appartenga, ma so-
lamente una condizione antecedente ad essi , condizione che è
quella stessa qualità che abbiamo riconosciuta positiva nella sua
essenza ideale, in quanto questa giace nel concetto dell'es-
sere (1).
La doppia locuzione dunque, per la quale ora si fa la possi-
bilità un predicato dell'essenza ideale , ora un predicato del sus-
sistente reale, non esprime una doppia possibilità, ma la stessa
possibilità considerata rispetto alle due entità a cui s'estende per
esser essa una relazione : soltanto che quando si predica dell'es-
(1) La maniera di parlare d'Aristotele che gl'intelligibili sieno in potenza
negli enti aventi materia èv Sì toTs ty^oMaiv u),/]v, S-jvuixti Ixkstóv Ioti twv vovitwv
{De An. Ili, i) è piena di equivoci pel vario significato della parola Wva//.t{,
potenza, che, come abbiam veduto, si parte in tanti generi e specie. Se-
condo quella maniera di dire, l'intelligibile in potenza sembrerebbe qualche
cosa di positivo negli enti materiali e sensibili. Aristotele fu condotto a
quell'espressione dall'aver considerato gli enti reali come stanno concepiti
dalla mente_, la quale concependoli compone la parte reale (materia) col-
r ideale che è in sé. E lo stesso filosofo travide almeno questa verità quando
definì la mente a la potenza delle entità prive di materia avsu yip uì-oi Sù-
vafj.ii b volli T&iv TotouTwv » e fece che « di questa potenza si componessero
tutti gli intelligibili » (Ivi). Ora se la potenza (Wva/;.t?) degl'intelligibili è la
mente, come possono essere in potenza (5uvà/;.si), fuor della mente, se «on
prendendo la parola ^uvayts in tutt'altro senso? — Che se la mente è come
una materia intelligibile che diviene tutti gl'intelligibili, come egli dice,
conviene che questa mente sia lo stesso essere indeterminato. Acciocché
dunque quella sentenza aristotelica riceva un significalo ragionevole, è ne-
cessario che « aver l'intelligibile in potenza » altro non significhi, se non
potere i reali essere concepiti dalla mente, ossia essere veduti in relazione
colle loro essenze ideali. Ma lo Stagirita distrugge sgraziatamente questa re-
lazione , cangiandola in una vera identificazione ; cosi identifica la mente
reale coli' idea, e questo è il suo error capitale ètiI /xìv yxp twv avsu uX/js, rè
leUTÓ éffTì TÒ voovj^ xal tò vooii/icvov {De An. III, A).
365
senza, allora si attribuisce all'entità che è principio della rela-
zione, nella quale giace come qualche cosa di positivo: quando
si predica del sussistente finito si considera dalla parte dell'en-
tità in cui termina la relazione , e in cui non costituisce alcuna
qualità positiva
'i29. Si dirà forse, che negli individui reali finiti si possono ri-
conoscere la potenza d' esser [alto e impotenza di ricevere l'essere e
la potenza di aver l'essere , che sono tre de' novi generi più sopra
indicati di potenza. Ma se si può attribuire alla realità finita questi
tre generi di potenza, essi in ogni caso altro non sarebbero che
certi concetti dialettici che non darebbero niuna qualità positiva
all'ente reale sussistente , sebbene né pure sono tutti e tre modi
dialettici di concepire, ma piuttoso modi illusori.
E infatti sotto l'espressione potenza d'esser fatto o s'intende la
stessa possibilità logica e metafisica di cui abbiamo parlato, o
s' intende la potenza creativa, che ha l'essere assoluto , di deter-
minare l'essenza e di realizzarla. In quest'ultimo caso una tale
potenza indica una qualità positiva nell'essere assoluto, princi-
pio della relazione , ma niuna qualità positiva nel termine della
relazione, il quale non esiste se non posteriormente all'atto crea-
tivo stesso: e se si concepisce anteriormente, questo non è che
un atto dell'imaginazione intellettiva, dalla riflessione poi cono-
sciuto come illusorio; non potendo avere altra determinazione,
che l'essenza ideale contenuta nell'essere obiettivo o nel con-
cetto dell'essere.
In quanto poi alla potenza di ricevere l'essere conviene riflettere
che 0 il subielto di questa potenza è di novo l'essenza ideale ,
e in tal caso sotto l'espressione ricevere l'essere altro non si viene
a dire che poter quell'essenza essere realizzata, o poter ricevere
la forma reale dell'essere , onde si rifonde nel concetto di quella
possibilità che si predica delle essenze finite e determinate. Ov-
vero si vuole che il subietto della potenza di ricevere l'essere
sia la realità stessa, e in tal caso si fa subietto cosa che non
è e non può essere concepita come subielto, separata che sia
dall'essere, perchè non è al tutto. Non si può dunque pensare
come potenza di ricevere l'essere , ma solo come avente già rice-
vuto l'essere , poiché soltanto dopo averlo ricevuto si concepisce
esistente e si può poi per astrazione dividere dall'essere. Come
366
potenza dunque di ricevere l'essere la realità finita altro non è
che un concetto illusorio.
Finalmente dato il reale esistente , e dividendo coU'astrazione
la realità dall'essere, si può in qualche modo concepire la rea-
lità come potenza d'aver l'essere, come si può dire che chi ha
una cosa la può avere ; ma anche qui non è solamente una
maniera dialettica di concepire , essa ha pure del falso e dell'illu-
sorio ; perchè infatti la realità o ha l'essere attualmente o non
l'ha; e perciò si può concepire come nell'atto dell'essere, ma
non come in potenza all'essere : che concepita in quesl' ultimo
modo è essenza ideale e non reale.
Conviene dunque conchiudere che la realità finita è sempre
in atto — perchè è un termine dell'essere; — ma non è mai in
potenza all'essere.
CAPITOLO IV.
Continuazione. — Dell'atto considerato nell'essere
indeterminato.
Articolo I.
Ricapitolazione e nesso colla trattazione che segue.
liZO. Da tutto il ragionato fin qui risulta :
d." Che l'essere come primo determinabile si concepisce come
una potenza d'avere i suoi termini.
2.° Che questa potenza è puramente dialettica.
3.° Che questa potenza dialettica non ha le stesse condi-
zioni rispetto ai termini propri e ai termini impropri dell'essere;
poiché rispetto ai termini propri l'essere indeterminato si con-
cepisce come potenza d'essere V essere determinato , laddove ri-
spetto a' termini impropri si concepisce come potenza di aver tali
termini.
4.° Che la potenza che s'attribuisce all'essere indeterminato
d'essere l'essere determinato è potenza dialettica opinativn ; il
che è quanto dire , che non è più che un' illusione dialettica ;
567
laddove la potenza d'aver i termini finiti è veramente una po-
tenza dialettica.
Poiché, che l'essere sia determinato da' suoi termini propri,
questo non è possibile, ma sempre attualmente necessario. E
veramente il concetto dell'essere non dà altra necessità se non
questa che l'essere sia. Ma l'essere non è se non è in sé: ma in
sé non può essere se non ha i suoi termini propri, dunque questi
sono necessari.
All'incontro i termini impropri dell'essere non sono dimo-
strali necessari dal concetto dell'essere : ma da questo concetto
è solo dimostrata necessaria la loro possibilità in quanto che tale
è l'estensione di questo concetto, che abbraccia tutti i modi pos-
sibili dell'essere: dunque anche i finiti. È dunque necessario che
nell'essere si concepisca la potenza dialettica de' suoi termini finiti
ma non l'alto di questi.
5.° (Ihe essendo la causa potenza quella che è subietto de'
suoi atti e però essendo dialellica ogni qual volta il subietlo é dia-
lettico , la potenza dialellica si divide in più specie secondo la
specie della causa. Ora nel caso nostro l'essere indeterminato
non é causa efficiente de' suoi termini , ma come primo determi-
nabile— concepito separato da' suoi termini — è puramente cawsa
logica 0 ideale, e però l'essere come potenza d'avere i suoi ter-
mini finiti dee chiamarsi «una potenza dialettico-ideale».
Ma come l'essere che è semplicissimo può ad un tempo, come
primo determinabile, ricevere il nome di potenza dialettico-ideale,
quand'egli stesso come primo determinante e ultima determina-
zione dà un concetto di puro alto? Ecco quello che ci resta ad
indagare.
Articolo II.
Come la potenza dialettica opinatila si concilii coli' attualità
propria dell'essere.
hZi. E in prima, se l'essere atto appartiene all'essenza stessa
dell'essere, in qualunque maniera anche imperfetta si concepisca,
egli deve apparire come atto dall'istante che si concepisce.
A questo rispondiamo che cosi è appunto: poiché l'essere ini-
368
ziale, abbia o non abbia i suoi termini, è sempre atto e alto di
ogni atto. Questo s'intenderà considerando meglio come l'essere
iniziale si unisca a' suoi termini. Egli si unisce propriamente
colla sua presenza senza soffrire modificazione di sorte, tanto se-
parato quanto unito ad essi egli è uguale: l'atto di unirsi appar-
tiene dunque al copulativo dare, ma è più speciale cbe il dare
preso in tutta la sua universalità. Egli dà ossia pone sé stesso ,
e non altra cosa: o per parlare con più proprietà (non essendo
egli propriamente, come abbiamo veduto, il subietlo dante ma
sì l'essere assoluto) è dato, è posto tale qual è, cioè come
atto. Ora che un atto sia qui o qua, in più o meno subielli ,
questo non gli fa perdere né acquistare la sua propna natura
e essenza di allo : ma rimane sempre quello cbe è, cioè atto. Si
prenda un allo qualunque anche posteriore a quello dell'essere,
e si potrà fare lo stesso discorso. L'alio del vedere, a ragione di
esempio, non è un atto necessario, ma contingente: pure, se
c'è, c'è necessariamente come atto e non può esserci come po-
tenza perchè la sua natura ed essenza è quella di allo. L'atto
dell'essere all'incontro è un allo necessario, non può non essere:
è dunque come atto. Ma quest'atto che è necessariamente , tro-
vasi unito a più 0 meno o a diversi suoi termini: la sua natura è
la medesima: è sempre alto. Ciò che per essenza è atto, non
può essere altramente.
Quando dunque si dice dell'essere indeterminato e iniziale, che è
la potenza di essere, questa maniera non va intesa allo stesso modo
come s'intendono gli altri generi di potenza. Non si deve inten-
dere , quasi che Ventità di cui si predica una tale potenza , abbia
ella stessa la natura di potenza : ma si deve intendere che avendo
ella e rilenendo immutata la natura di allo, c'è la possibilità
che quest'atto si trovi unito a' suoi termini. Questa è una po-
tenza relativa a' suoi termini: .sono questi che acquistano l'atto:
l'atto già e' è come alto : ma i termini non sono : possono dun-
que essere.
Ora questo parrebbe a prima giunta il contrario di quanto ab-
biamo detto di sopra , cioè che la possibilità non è qualche cosa
di positivo che si predica de' termini , ma qualche cosa di po-
sitivo che si predica dell'essere o dell'essenza. Ma chi attenta-
mente consideri la cosa, vedrà che non c'è contraddizione nelle
369
due (lollrìne. Perocché quello che c'è di positivo nell'essere, e
nelle essenze costituenti la possibilità de termini , è appunto que-
sto che l'essere è aito ; e perchè è atto , perciò dove si trova dà
l'atto di esistere a' termini. Onde non ci potrebbe essere la po-
tenza di essere ossia la possibilità de' termini se l'essere non fosse
atto purissimo. L'attribuzione dunque di potenza conviene all'es-
sere iniziale appunto per questo che egli non è potenza ma atto;
ed essendo atto, può fare che l'altre cose tutte acquistino l'atto.
Tale dunque è la natura di questa prima e singolare potenza
dell'essere, che è una potenza che consegue necessariamente alla
natura di atto purissimo. L'essere cioè, appunto perchè è puro
atto rispetto a sé, ha là potenza di fare che abbiano l'atto i suoi
termini a cui s'unisce. Questa maniera di potenza dunque , non
è tale , che, come l'altre, supponga un difetto di atto in chi la
possiede, ma è tale che non può trovarsi in altro, se non in
ciò che è puro atto.
^ù'^. A questo si opporrà che quando così sia la cosa, alla po-
tenza propria dell'essere iniziale non conviene più la definizione
data della potenza: «una causa che ad un tempo è subietto del
proprio effetto» (^579*). Poiché l'essere iniziale rimane ugual-
mente atto, sia diviso o riunito col suo termine, e l'effetto che
consegue da quest'unione non è un atto novo di lui subietto. —
A questo rispondiamo che per ciò appunto la potenzialità univer-
sale, di cui parlifuiio, è puramente dialettica, come l'essere ini-
ziale è il subietto dialettico antecedente di tutti universalmente
gli enti. La sola mente è (juelia che dice, a cagion d'esempio;
(i l'essere che ha l'entità che dicesi animale razionale, è l'uomo»,
ma non è in sé stesso vero che l'essere stesso sia l'uomo, ma
è soltanto vero che a l'uomo ha l'essere ossia partecipa dell'es-
sere»: onde la prima espressione indica soltanto l'o/dme di con-
cepire, quando la seconda indica « l'ordine dell'esistere dell'ente
uomo ».
Si replicherà che la risposta vale pei termini finiti dell'es-
sere, ma non per gli infiniti a lui essenziali.— Rispondiamo che i
termini infiniti sono essenziali all'essere acciocché esista in sé;
ma che egli esiste davanti alla mente nostra senza che i mede-
simi appariscano : laonde noi nell'ordine dialettico , che è quello
del nostro concepire, consideriamo l'essere iniziale come su-
RosMiNi. Teosofia. 24
370
bietlo anche de' suoi termini infiniti, e come atto della loro esi
stenza, benché questo sia un modo dialettico opinalivo ed illuso-
rio di cui poscia ci spogliamo. Poiché quando sopravviene la ri-
flessione, un così fatto concello dialettico si risolve, venendosi
a conoscere che l'essere co' suoi termini é dei pari puro atto, in
quanlo che i termini stessi sono atti indistinguibili, ciascuno, dal loro
principio, di maniera cbe nell'essere assoluto non c"é più vera-
mente distinzione alcuna tra principio e termine , ma c'è solo atto
semplicissimo. Se dunque non c'è più l'essere iniziale , precisa-
mente come iniziale, consegue che questo non abbia alcuna po-
tenza rispetto a' termini essenziali, perchè rispetto a questi non
c'è come miziale, e se non c'è , né pure può avere potenziahtà di
sorte.
La potenzialità dunque universale dell' essere rispetto a' suoi
termini è puramente dialettica, salvo die rispetto a' suoi termini
finiii questa potenzialità dialettica viene risolta dalla riflessione
ontologica con un'assoluta distinzione tra l'essere iniziale e il ter-
mine; e rispetto a" suoi termini infiniti viene risolta con una per-
fetta identificazione , per modo che scomparisce l'essere iniziale ,
e non rimane che l'assoluto.
Articolo III.
Come la potenza dialettica ideale si concilii
coli' attualità dell'essere.
435. Abbiamo veduto che i soli termini propri ed infiniti del-
l'essere gli sono necessari, acciocché possa essere in sé e non
solamente rispetto a una mente che lo contempla.
Ora che questi termini essenziali all'essere devano essere infiniti
facilmente s'intende, solo che si consideri l'estensione dell'essere.
Essendo questa estensione infinita, egli non sarebbe tutto in sé,
se i suoi termini fossero finiii ; e d'altra parte essendo l'essere
semplice e indivisibile, non potrebbe esistere in sé con una sua
parte, e non esistere in sé con un altra. Oltre di che quella parte
dell'essere che rimanesse priva di termini , non solo non potrebbe
esistere in sé, ma non potrebbe essere neppure pensala, perchè
371
è una condizion necessaria a potersi pensare l'essere, che egli
sia, né sarebbe s'egli non fosse in sé, benché non è necessa-
rio quando si pensa che si pensi colle condizioni dell' essere in
sé. Per la stessa ragione i soli termini infiniti sono termini suoi
propri, perchè i termini finiti possono bensì convenire ad un'es-
senza finita, ma non ad un'essenza infinita. Di che si raccoglie,
che «la mente non può pensare che l'essere sia in sé stesso,
se non supposto che egli sia ultimato ne' suoi termini infiniti che
sono le tre forme categoriche»; ogni altro pensiero dell'essere
essente in sé contiene un assurdo.
L'essere dunque in sé deve avere i suoi termini propri e infi-
niti, ma non è necessario che abbia ì suoi termini impropri e
finiti : perchè non sono condizione della sua piena esistenza in
sé. Tuttavia stante che non può esistere in sé , come abbiamo
veduto, se non esiste anche come oggetto intelligibile della
mente, e poiché il concetto dell'essere — e il concetto non è che
l'oggetto inteso dalla mente umana — contiene la possibilità di
tutti i modi finiti, cioè contiene anche il concetto di questi modi;
perciò una tale possibilità è anch'essa condizione all'esistenza
dell'essere in sé , e perciò è una possibilità non dialettica sem-
plicemente, ma dialettico-ideale; e in quant'è ideale può anche
dirsi ontologica.
Questa possibilità nondimeno de' termini finiti dell'essere non
pone neir essere assoluto alcuna potenzialilà. Il che apparisce
dalla definizione che noi abbiamo data della potenza. Richiamia-
mola di novo: « la potenza é una causa che è ad un tempo su-
bietto del proprio effetto» (^579'). Oragli enti finiti esistendo
sono effetto dell'ente assoluto. Ma essi non hanno già verso di
lui la relazione di predicato e di subietlo : l'essere assoluto non
è in alcun modo il loro subietto. E dico in nessun modo, perchè
non è loro subietlo ontologicamente: che essi stessi sono subietti;
e non è neppure loro subietto dialetticamente. Poiché il solo subietto
dialettico ed antecedente degli enti finiti è l'essere iniziale e non
l'assoluto. Dunque all'essere assoluto conviene il concetto di causa
degli enti finiti, ma non il concetto di potenza. L'esistere dunque,
nell'essere assoluto, la possibilità degli enti finiti , non pone in
esso alcuna potenzialità , e non toglie di conseguenza che egli
non sia puro atto.
372
hZh. Veduto che l'esistenza reale degli enti finiti nulla aggiunge
di perfezione o di atto all'Essere assoluto, s'intende come in
esso possa esistere la virtualità di questi. Poiché abhiamo già
detto che in tutte quelle cause che non sono potenza, i cui ef-
fetti non hanno per subielto la causa stessa, accade che seb-
bene questi effetti in atto non appartengano alla natura della
causa , tullavia alla nalura della causa appartiene la virtualità
di tali effetti (,380 sgg.'). Gli effetti dunque che costitui-
scono enti diversi dalla causa non hanno la propria virlualittà
in sé stessi, ma nella loro causa; il che s' avvera pienamente
quando trattasi della virtualità di essere, alla quale risponde una
causa pienissima ed assoluta, nella quale tutto intero l'effetto
esiste in istato virtuale, e non nel suo proprio atto. Infatti se
si trattasse soltanto della causa dell'accidente o della causa della
forma sostanziale da imporsi ad una materia precedente, la causa
non sarebbe piena, perchè avrebbe bisogno per produrre il suo
effetto della materia, e così la virtualilà dell'effetto rimarrebbe
divisa tra le due cause, la efficiente, e la materiale, e altre che
vi concorressero a produrlo. Ma essendo nel caso nostro unica
e pienissima la causa , perchè trattasi di causa creativa ossia
di causa di essere, in questa solo giace tutta la virtualità del-
l'effetto.
Ora la parola virtualità esprime una relazione , come abbiam
detto, della possibilità : e il fondamento ossia il principio di que-
sta relazione è nell'Essere assoluto. Questo principio della rela-
zione è una proprietà positiva dell'Essere assoluto, e perciò in
sé stessa è atto, e solo considerato quest'atto in rispetto all'ef-
fetto dicesi virtualità. Si separi dunque la virtualità dell'ente
finito dall'ente finito stesso; questo, esista attualmente o no, nul-
l'aggiunge all'Essere assoluto , perchè non gli appartiene, non è
né sua parte né sua proprietà o qualità , di lui in una parola non
si può predicare: la virtualità all'incontro dell'ente finito ossia
r ente finito virtuale non è qualche cosa che aj)partenga all'ente
finito in sé stesso, la cui esistenza è solamente attuale, ma è qualche
cosa che appartiene all'Ente assoluto e infinito, e questo qualche
cosa é l'intelligibilità essenziale e infinita dell'essere. In quanto
poi questa intelligibilità serve di principio della relazione, di cui
l'enic finito è termine, dicesi virtunlità. Ma ogìi è evidente che
375
questo concetto di virtualità, presa come relazione all'ente finito,
è posteriore all' intelligibilità stessa , che è base o principio
della medesima, poiché suppone l'ente finito esistente in sé e
determinato, termine della relazione medesima. Laonde qualora
per ipotesi non fossero mai esistiti enti finiti , né mai ce ne
dovessero essere , non si concepirebbe nell'Essere assoluto altro
che un essere finito intelligibile virtuale indeterminato , e la
virtù 0 causa atta a determinare in esso i finiti singolari e a
crearli. Quando poi si supponga che questa causa li abbia creati,
allora nasce tra questi enti finiti determinati ed esistenti in
sé quella relazione colla detta possibilità e virtualità univer-
sale, proprietà dell'assoluto intelligibile, che fa vedere in questa
le loro essenze, cioè le possibilità de' reali determinati, in quel
modo che abbiamo dichiarato nel Dialogo intitolato De possibili
{Rinov. in, XLvii), senza che l'Essere assoluto acquisti nulla di
più, su di che dobbiamo ritornare nella Teologia.
455. E non faccia ombra la doppia maniera colla quale noi
esprimiamo questa possibilità universale dell'ente finito considerata
nell'Essere assoluto , chiamandola noi ugualmente ora virtualità
delV ente [mito, ora ente finito virtuale. La prima di queste due
forme di dire esprime la relazione tra la virtualità e l'ente fi-
nito, e perciò é posteriore alla creazione di questo, cioè sup-
pone questo esistente, perchè indica i due termini della rela-
zione. Quando si volesse emendare una tal forma in modo che
altro non esprimesse che una semplice proprietà dell'Essere in-
finito, la sua denominazione propria sarebbe : virtualità assoluta.
Questa espressione ci sembra preziosa ed esatta. In essa non
si dice a che cosa si riferisca la detta virtualità , perché non
c'è ancora alcun termine, a cui si riferisca: si riferisce a tutto:
è il possibile stesso sussistente in Dio : Dio é quello che colla
sua libera volontà può darvi un termine e così costituire una re-
lazione. Questo termine si concepisce posteriore all' atto della
volontà di Dio. Avanti di questo termine c'è la proprietà che di-
verrà in appresso — quando ci sarà il termine — principio o
fondamento della relazione; questa proprietà é quella che si può
significare acconciamente colla denominazione di virtualità asso-
luta. Così è stabilita l'origine vera di tutte le virtualità poste-
riori e relative: queste in fatti non si potrebbero concepire col
374
pensiero ontologico ed assoluto , se non si supponga prima di
tutto una virtualilà prima, essenziale, assoluta, che non ha al-
cun termine determinato, e li può aver tutti.
Ora questa virtualità assoluta è atto e non potenza , ed ap-
partiene a quello stesso atto che costituisce l' Essere assoluto
medesimo.
436. Venendo ora all'altra espressione che abbiamo adoperata
come equivalente, cioè che nell'essere assoluto c'è « l'ente finito
indeterminato e virtuale », questa non presenta in sé una rela-
zione tra due entità e perciò equivale sotto questo aspetto al-
l'espressione di virtualità assoluta. Ma offre in quella vece al
pensiero un'altra difficoltà, perchè parla d'un ente finito nell'in-
finito. Se nell'infinito c"è il finito, sembra dunque che nell'infi-
nito ci sia una dualità, il che ripugna. Conviene dunque dichia-
rare e darsi cura di ben intendere quella forma di dire,
E per ben dichiararla ed intenderla, prima di tutto conviene
considerare, in che modo colla mente nostra noi distinguiamo
l'ente finito virtuale ossia intelligibile dall'Ente infinito, e quello
riponiamo in questo come sua proprietà, perocché ben intesa la
natura di questa distinzione scomparisce ogni dualità in Dio,
In primo luogo si consideri che l'ente finito, di cui si parla, non
è l'ente finito esistente in sé, ossia avente esistenza subiettiva,
ma avente soltanto un'esistenza obiettiva. Già dicemmo prima
che l'essere indeterminato, in quant'é obietto, è qualche cosa che
si riduce al Verbo divino, che é l'Essere assoluto nella sua
forma obiettiva. Che cosa è dunque l'Essere nella sua forma
obiettiva? È l'Essere in quanto è essenzialmente intelligibile
ed inteso. Ora l'Essere, come tale senza restrizione di sorte
alcuna, è semplice ed unico ed è tutto intelligibile in tutta
la sua estensione , in tutta la sua profondità , in tutti i suoi
modi. L'Essere adunque nella forma d'intelligibile è un solo ed
unico essere essenzialmente inteso, è un atto solo. Se si potesse
separare l'essere essenzialmente inteso dall'essere nella forma
subiettiva di sussistenza, in esso non si distinguerebbe punto il
finito dall'infinito. Ma non si può separare, perchè l'essenza
dell'essere, come abbiam detto, é comune alle tre forme: onde
neir essere stesso obiettivo in un modo puramente dialettico e
mentale si distingue V essenza dalla sua obiettività. Ora questa
375
stessa essenza dell'essere, che in quanto è obiettiva costituisce
l'Essere assoluto come inteso, è anche nella forma subiettiva di
sussistenza, ed anzi di più ciò che c'è nell'Essere obiettivo come
inteso è appunto l'essenza in questa forma subiettiva di sussi-
slenza ; perocché se l'oggetto inteso non fosse quest'essenza
sussistente, esso oggetto inteso non sarebbe che l'essere iniziale
e indeterminato, il che involgerebbe due assurdi: 1" l'uno che
non sarebbe inteso tutto l'essere, ma solo l'iniziamento dell'es-
sere; 2" l'altro che non ci potrebbe più essere l'essere in sé:
non potendoci essere l'essere in sé, se non é concepibile, ossia
intelligibile, come abbiam detto. Se dunque l'Essere nella forma
oggettiva , r Essere essenzialmente inteso é la stessa essenza
sussistente, convien vedere come questa sussista. Egli è chiaro
che non avendo limiti l'essenza, convien che ella esista in una
forma di sussistenza infinita. Se sussiste in una forma infinita,
non può esistere del pari sotto forme di sussistenza finite, perchè
il finito e l'infinilo ripugnano: onde è una legge ontologica
che «il termine del pensiero complesso sia un finito o un in-
finito senza che l'uno possa cangiarsi nell'altro » [Psicol. 1381
sgg.). Infatti se l'essenza dell'essere potesse sussistere come finita,
non sarebbe più l'essenza dell'essere che sussiste, perch'ella è in-
finita. Sussistendo poi come finita, il sussistere come finita — ancor
che potesse essere — niente le aggiungerebbe, perchè è già infinita;
gli aggiungerebbe anzi un difetto, perché la limitazione è un difetto
relativamente ad un ente che di natura sua è illimitato. Ma come
dunque si diceva che l'essenza dell'essere nella sua forma obiet-
tiva, cioè come essenzialmente inlesa, contiene anche tutti i
modi dell "essere, e però anche l'essere in quant'è limitabile? —
In prima si consideri che l'essere in sé stesso, nella sua essenza,
non è punto limitabile; la limitazione non istà nell'essere ma nel
suo termine reale, e se pare che stia nell'essere è per la rela-
zione di Ini a questo termine , in quanto facendo esso che questo
termina finito reale sia, si considera dalla mente l'essere in
questo termine del suo alto creativo e non in sé stesso. Ora que-
sto termine finito dell'atto creativo dipende dalla libera volontà
dell'Essere sussistente. Neil' Essere obiettivo c'è anche come es-
senzialmente intesa questa libera volontà dell'Essere sussistente,
poiché l'Essere sussistente è necessariamente vivente , intelligente
376
e causa. Questa causa si riferisce alla Imìtabilità del reale com-
presa nell'essenza dell'essere per sé intesa, ed è appunto quella
a cui conviene la denominazione di virtaalità assolata.
437. Quindi si trae la differenza di valore tra le due parole di
possibilità assoluta, e di virtualità assoluta: questa differenza nasce
daila nostra maniera di concepire Vesserò oggettivo come distinto
in due modi, cioè come essere possibile o ideale (iniziale), e
come essere reale oggettivo. Concependo l'essere oggettivo solo come
possibile 0 ideale, noi vediamo in esso l'essere reale possibile e
questo infinito e limitabile. Questa iimitabilità dell'essere reale
concepito come possibile , noi la chiamiamo possibilità assoluta.
Ma se prendiamo poi l'essere oggettivo come reale inteso, in tal
caso concepiamo l'Essere assoluto sussistente in sé e come avente
un principio volitivo d'azione o una virtù causante, cioè limi-
tante la realità dell'essere, ossia creante, e questa causa essenziale
e libera la chiamiamo virtualità assoluta.
Questa seconda maniera di concepire è ontologica , la prima
è dialettica. E nondimeno entrambe sono necessarie alle onto-
logiche ricerche , perchè queste non possono né farsi né espri-
mersi se non adattandosi alle leggi della mente umana. Conviene
solamente in appresso ridurre la maniera dialettica all' ontolo-
gica : unica maniera di pervenire alla verità assoluta , ossia
a una notizia che sia assolutamente e pienamente vera. E per
continuare a farlo osserviamo di novo , che se noi ci restrin-
gessimo a considerare soltanto V esseìiza dell'essere senza i suoi
termini (essere indeterminato) e supponessimo che quest'essenza
fosse per sé intesa , in quest'oggetto inteso non si potrebbe tro-
vare quella che abbiamo chiamata la Iimitabilità dell'essere, ap-
punto perchè, come abbiam detto. Tessere o la sua essenza non
è in sé stesso limitabile. Quindi il concetto di possibilità è po-
steriore alle nostre percezioni de'rcali finiti, è trovato risalendo
da questi alla loro intelligibilità. Ma in questo risalimento della
mente nostra , il pensiero è partito dalla realità finita cioè dalla
forma reale dell'essere già limitata , e quindi non abbiamo cavato
quel concetto dalla pura essenza dell'essere, separata da ogni
forma. Quindi abbiamo già prima mostrato che il concetto di
possibilità e di virtualità involgono una relazione tra l' ideale o
r oggettivo e il reale. Come dunque noi troviamo nell' essere
377
una limitazione puramente dialettica, e non esistente nell'essere
slesso , confrontando V ente finito coW essere indeterminato; cosi
so vogliamo istituire la ricerca ontologica d' onde ^sia* questa
limitabilità dell'essere che ci apparisce posteriormente all'ente fi-
nito reale, dobbiamo risalire all'origine di questo stesso. E l'o-
rigine di questo non possiamo rinvenirla se non nel prificipio at-
tivo volitivo e libero dell'Essere Assoluto nella sua forma reale;
il quale ha virtù di limitare la forma reale e darle l'essere: il
che è creare. Supposto adunque quest'atto creativo, il quale
riguardando nell'essere intelligibile e oggettivo limita, seguendo
le indicazioni dell'amabililà dell'essere stesso , l'oggetto d'un tale
sguardo creativo , si rileva come la realità oggettiva possa ri-
cevere le limitazioni che appariscono negli enti finiti. L'origine
dunque delle limitazioni dell'essere reale giace nell'attività in-
telligente, volitiva e libera dell'Essere assoluto, guidata dall'A-
mabilità dell'essere stesso reale, pel quale vuole che l'essere reale
sia attuato anche ne' modi finiti. Nella suprema causa dunque
libera sta la limitabilitù della forma reale dell'essere e V ente finito
virtuale è determinato in essa unicamente dal suo amore perfetto
dell'essere , ossia di se stessa , veniente dall' Amabilità essenziale
allo stesso Essere reale oggettivo. Laonde tra le due espressioni di
virtualità assoluta, e dì ente virtuale finito, alla prima spetta la
proprietà logica perchè indica semplicemente la causa, laddove
V ente virtuale finito suppone la causa in atto, perchè è ciò in
cui termina appunto l'atto causante.
438. Se dunque si considera l'ente finito nel suo atto pel quale
esiste in sé stesso, l'attività libera ed amorosa dell'Essere assoluto
reale non è potenza , perchè questo suo effetto non è qualche
cosa che appartenga alla natura del medesimo Essere assoluto, e
però questo non è subietto del suo effetto : ma è pura e asso-
luta causa, che compisce l'attualità e la personalità del me-
desimo Essere assoluto.
Ma se si considera l'ente finito come ancora virtuale , torna in
campo la difficoltà che ci facevamo di sopra e con maggior forza,
la quale noi proporremo ora con altre parole così. Quella causa che
è mera potenza non produce altro effetto che quello di cui ella stessa
rimane il subietto. Quella causa che produce un effetto di cui ella
stessa non sia il subietto dicesi causa non potenza. Ma è da consi-
378
derarsi, che anche le cause di questo secondo genere, acciocché ar-
rivino a produrre un efTello di cui esse non sono il subietto, con-
viene che emeltnno un atto, del qual atto — che è come un primo
ed immediato effetto — esse sono pure il subietto. Onde è a dirsi
che sebbene una causa di questo secondo genere non sia potenza
relativamente al suo secondo effetto, di cui non è subietto, tut-
tavia è anch'ella potenza rispetto al primo effetto, cioè rispetto
all'atto con cui ella ha prodotto quel secondo effetto. Laonde
non s'intende come la causa creatrice non sia anche potenza con-
siderata prima dell'emissione dell'alto creatore.
Questa difficoltà è più stringente di quella che ci siamo prima
proposta, quando considerammo la possibilità de' finiti in rela-
zione coir essere indeterminato ed iniziale. Allora dicemmo che
una tale possibilità non pone nell'essere iniziale alcuna poten-
zialità, perchè egli stesso non fa nulla, non soffre nulla coU'esser
presente alle realità finite: essendo per essenza alto^ egli è alto
tanto se ci comparisce annesso a queste, quanto se non ci com-
parisce e può solo comparirci. Questa risposta era possibile allora
perchè l'essere iniziale di cui parlavamo è puramente alto e non
subietto dell'atto, rimanendo al nostro intuito nascosto l'essere
essenziale come subietto. Ma ora che colla riflessione ontologica
siamo pervenuti a trovare il subietto reale ^ il quale limita il ter-
mine reale dell'essere, non possiamo a meno di considerare questo
subiello — l'Essere assoluto reale come volontà che si compiace
nel reale finito — in due condizioni diverse^ cioè come potenza prima
di emettere l'atto creativo, e come atto dopo emesso questo atto.
AUii quale difficoltà dobbiamo rispondere quello che nella Teo-
logia, a Dio piacendo, più estesamente sporremo sciogliendo ogni
difficoltà, cioè che nell'essere infinito non c'è un prima e un poi,
che egli dall'eternità ha sempre amato tanto l'essere col suo ter-
mine reale infinito , quanto l'essere col suo termine reale finito,
secondo l'amabilità dello stesso essere, e quindi che l'alto stesso
creativo è eterno ; e non essendo mancalo mai , perchè non è
mancato mai un tale amore, né poteva mancare, né pur mai
cadde in Dio potenzialità di sorte alcuna. Che se noi la pensiamo
ipoteticamente , è questo un concetto puramente dialettico non
avente verità , un concetto che nasce dalla imperfezione della
nostra intelligenza.
379
Articolo IV.
In qual senso abbiamo chiamato l'essere materia ìiniversale
ossia primo determinabile.
159. Tulio quello che abbiamo detto fin qui dà una nova luco
alla sentenza che «l'essere sia materia universale ossia primo
determinabile ».
Noi abbiamo pronunciata questa proposizione considerandola
solo dialetticamente, parlando « dell' essere indeterminalo oggetto
del nostro naturale intuito» e abbiamo detto che quest'essere
rimane sempre il medesimo , ma a cagione che si cangiano i suoi
termini, egli come presente a lutti, si dice materia di tutte
le entità, non perchè egli si modifichi come si modificherebbe un
corpo che prende diverse forme, ma perchè ciascuno de' vari
termini unito intimamente con esso prende da esso il nome di
entità e di ente, e senza lui non sarebbe. Laonde egli si considera
come determinabile per l'apposizione a lui de' termini , e non in
sé stesso: la determinabilità dunque altro non è che la relazione
sua co' diversi suoi termini : il principio o fondamento della qual
relazione sta ne' termini stessi.
E quanto pur ora abbiamo detto è un passo ulteriore di questa
teoria; perocché abbiamo trovalo quale sia \\ termine che varia
ne' diversi enti, cioè abbiamo trovato che è il termine reale.
11 principio volitivo e amoroso dell'Essere Assoluto subiettivo è
quello che crea un reale finito, guardandolo nel reale infinito
obiettivo , designandolo in esso e volendolo , secondo la regola
dell'Amabilità dell'essere obiettivo, e questo reale finito nella sua
esistenza subiettiva è l'universo.
fihO. Laonde il processo dialettico e l'ordine di priorità e po-
steriorità di concetti nel raziocinio scientifico [Logic. UkO sgg.)
è il seguente :
1.° Deve precedere il concetto della volontà divina che si porta
in tutta l'amabilità dell'essere obiettivo.
2.° Viene in secondo luogo il concetto della realità finita
determinata e creata dall'atto di quella volontà divina,
3." Viene in terzo luogo la relazione tra questa realità fi,-
380
nita già esistente coli' essere indeterminato, pel quale avviene
che quest'essere indeterminato mostri alla mente nostra varie de-
terminazioni finite rispondenti agli enti finiti, di cui egli^ l'es-
sere indeterminato, rimane il subietto antecedente. Gli enti in
quanto sono reali, diversi tra loro, hanno una moltiplicità di re-
lazioni coir unico e identico essere iniziale indeterminato il quale
perciò si considera come determinabile diversamente, e in quanto
riceve queste determinazioni diverse dicesi materia universale dia-
lettica.
II principio di questa relazione dialettica giace dunque ne'
termini reali finiti diversi, e l'essere non costituisce che iWer-
mine della relazione, onde la relazione noi modifica. Ma poiché
egli è per sé antecedente ai delti termini ed é comune a tutti ,
perciò si dice, dialetticamente, il primo determinabile.
La qualità dunque di essere determinabile, benché apparisca
subito alla nostra mente, supposta la percezione degli enti finiti,
pure non trova la sua ragione ontologica se non quando una spe-
culazione di più alta riflessione ascende allo stesso alto creativo
di Dio. Ma appunto perchè questa ragione ontologica non è data
dall'intuito né dall'essere intuito, la detta speculazione é quella
che la investiga, e perciò ella non è necessaria affinché noi ab-
biamo semplicemente la notizia che l'essere indeterminalo sia il
primo determinabile , benché in questa notizia non apparisca il
perchè egli sia tale.
hkì. Qui nondimeno potrà parere che noi diciamo cose contrad-
dittorie, perocché in un luogo abbiamo detto, che la possibilità è
una relazione che ha il suo principio o fondamento nelle essenze,
e il suo termine ne' reali percepiti o imaginati, e però che in quelle
è una proprietà positiva , non in questi ; per lo contrario ora di-
ciamo che il principio della relazione di determinabilità , che si
attribuisce all' essere, sta ne' suoi termini stessi , i quali sono
quelli che restringono l'essere medesimo , e perciò è determina-
bile per essi e non essi per lui : è determinabile per la relazione
ch'essi hanno con lui , e non viceversa. E veramente la stessa
parola determinabilità — in quanto alla forma dialettica — indica
una potenza piuttosto di ricevere che di dare.
Ma l'apparenza di contraddizione svanirà quando si avrà bene
considerato che altro è la possibilità delie cose reali da noi per-
381
cepile che si contempla nelle loro immediate essenze , e che ab-
biamo chiamata possibilità media ; ed altro è la determinabilità del-
l'essere stesso anteriore alle essenze che abbiamo chiamata pos-
sibilità suprema e che è la possibilità delle stesse essenze {^h'ilT).
Ora riguardo a questa seconda noi abbiamo detto cosi. « L'Es-
senza dell'essere in sé — come pure l'essere iniziale — non ammette
modificazioni , ma è semplice ed immutabile, tale è l'essere nella
sua forma obiettiva. Ma l'Essere stesso nella sua forma subiet-
tiva adeguato all'Essere nella forma obiettiva è vivente, intel-
ligente, volente, e la volontà sua è la sua intelligenza operante
0 pratica. Questa intelligenza operante ha per suo oggetto l'Es-
sere nella sua forma obiettiva in quanto è essenzialmente Ama-
bile e Amato. Amandolo ella in tutti i modi, l'ama e lo vuole
nel suo tutto, e poi, intelligenza come è , ne restringe la realità
e l'ama ancora così ristretto. Questo restringimento della realità
obiettiva non è già cosa che afTetti o che modifichi lo stesso es-»
sere obiettivo, ma il restringimento rimane nello sguardo amo-
roso della delta intelligenza operante, la quale non contenta,
per così dire, di vederlo e di amarlo nell'intera e piena sua realità,
l'ama anche ristretto in tutti que' modi di realità, ne' quali ella
lo guarda e guardandolo lo percepisce , e ne' quali lo trova ama-
bile quanto più può essere nella limitazione. Quesl' atto del-
l'intelligenza operante dell'Essere assoluto subiettivo, col quale
resli'inge il suo sguardo amoroso a una realità obiettiva da sé
definita secondo l'amabilità, é l'atto creativo. Il termine reale
così circoscritto dallo sguardo volontario e amoroso di Dio, non
sarebbe oggetto pieno e vero se non avesse V esistenza subiettiva ,
perché non ci sarebbe tutto nell'oggetto se non ci fosse questa.
Onde per un tale sguardo, l'esistenza obiettiva del finito involge
necessariamente la subiettiva, e questa é lUniverso in se stesso. Il
reale finito dunque acquista così un'esistenza obiettiva e un'esistenza
subiettiva ed in sé Quindi da una parte si hanno le essenze, dal-
l'altra si hanno i reali sussistenti finiti. Il mondo, come dice-
vamo , in sé stesso non é che il reale finito avente l'esistenza su-
biettiva, e l'uomo del pari, essendo uno de' reali che esistono nel
mondo. Ma l'esistenza subiettiva si compone di due elementi:
1.° del reale, 2.° e dell'essere; che senza Vessere il reale non
avrebbe esistenza non istando il termine senza il suo principio.
382
Ora l'essere non si modifica per trovarsi presente a' suoi termini
reali finiti, come vedemmo, ma egli non sia loro presente se
non in quel tanlo che hanno di realità, colla quale presenza
gli fa enti. L'uomo, uno di questi enti, è dotato d'intelligenza.
Che cosa vuol dire dotalo d'intelligenza? Non altro che avere
la facoltà di apprendere l'intelligibilità degli enti. L'essere è es-
senzialmente intelligibile e non si può apprendere senza che sia
inteso e esso fa conoscere il suo termine reale finito. Quindi
l'uomo come intelligente intuisce l'essere. Ma l'essere in tulli
i reali finiti non è che iniziale , perchè il reale finito non è suo
termine proprio, essendo il suo termine proprio essenzialmente
infinito. L'uomo dunque ha l'intuito dell'essere iniziale. Ma an-
teriormenle a' suoi termini l'essere iniziale è indeterminalo. L'in-
tuito di quest'essere indeterminato è quello che costituisce l'in-
telligenza dell'uomo , e con esso vede ne' reali finiti lo stesso es-
sere come loro inizio. Si consideri che quest'essere indeterminato
non può essere ristretto ad alcun termine, sia perchè non ne
ha ancora nessuno , sia perchè è necessario veder tulto^ se non
totalmente, l'essere, per intendere poi ciascun termine, essendo
anche l'essere indivisibile.
442. Stabilito bene lutto ciò, si scorge subito che i termini
finiti si possono considerare in tre relazioni coU'esscre, cioè:
1.° 0 in relazione coW essere indeterminato e ideale che è og-
getto del naturale intuito dell'uomo ;
2.° 0 in relazione coll'Essere assoluto nella sua forma su-
biettiva; quale si ritrova dover esistere colla riflessione;
3.° 0 in relazione coll'Essere assoluto nella sua forma obiet-
tiva , che pure colla riflessione si discopre.
Se si considera la relazione che i termini finiti dell'essere hanno
coir essere indeterminato informante secondo natura le menti crea-
te , non è possibile concepire che quell'essere sia limitato, de-
terminalo , finito , se non riportando ad esso i termini finiti ,
quasi come quando s'applica ad una tela bianca un merletto a
traforo di qualche colore , che la tela nulla ne soffre o si altera
punto, ma sovr'essa tuttavia appaiono gli occhi colorili e le maglie
del merletto , e tulle le ripiegature, intrecci e gruppi de' fili , e
ciò perchè la vista di chi riguarda unisce quelle due cose ri-
portando l'una sull'altra. In nessun altro modo che per questo colai
583
confronto, che la mente fa , si potrebbe concepire alcuna dif-
ferenza in quell'essere indeterminato, uniforme e del tutto sem-
plicissimo, ed è per questo che egli, anche dopo essersi conce-
pito determinato con questo sguardo, apparisce all'altro sguardo
dellintuito indeterminato come prima. In questa relazione per-
tanto che fa la mente tra il reale finito e l'essere, essa trova
J'ente finito*. Ma il principio e fondamento della relazione sta tutto
nel reale finito; poiché è questo che colla intelligenza si riporta e
riferisce all'essere che così diviene nella mente suo principio, e
l'ente finito è costituito. Dopo dunque che noi abbiamo percepiti i
reali finiti come enti, all'essere congiungendoli — come prima gli
ha congiunti Iddio colla sua intelligenza creatrice — noi possiamo
esercitare l'astrazione dividendo con questa di novo da' reali l'es-
sere intuito , e in tal modo considerare l'essere indeterminalo
come atto a ricevere per suo termine i detti reali finiti ed altri
quanti ne possiamo a nostra voglia imaginare , porche vediamo
che egli nulla patendo a rendersi inizio, ed essendo illimitato,
può riceverne di tali termini senza fine. L'essere considerato così
astratto da' termini reali finiti, percepiti da noi od imaginati,
dà luogo al pensiero ch'egli abbia quest'altitudine di servir d'ini-
zio a tali termini , e quest'attitudine è quella che chiamiamo pos-
sibilità. Ma appunto perchè tutto questo è un lavoro d'astrazione,
e l'astrazione non è mai una prima concezione, ma posteriore,
e appartenente al pensar parziale fPsicol. 1519 sgg.J, perciò
il concetto di possibilità suprema — cioè quella che si attribuisce
all'essere e non alle essenze determinate — non appartiene pro-
priamente all'essere intuito, ma si scopre e forma di poi colla menie
quando colla riflessione astraente, che succede alle percezioni de'
reali , si pensa alla sua suscettività d'avere nel modo detto i reali
finiti per termine. Apparisce dunque da lutto questo la verità di
quello che noi abbiamo detto , cioè che se si parla della possi-
bililà suprema, questa è una relazione de' termini finiti coll'es-
sere indeterminato che ba il suo principio e fondamento negli
stessi esseri finiti, e il suo termine nell'essere indeterminato,
poiché una tale relazione non esiste se non supponendo che i
termini finiti o percepiti o imaginati già esistano ed esistendo si
possa da loro astrarre, e così astratti, e non però annullati , ve-
dere la loro possibilità nell'essere indeterminato.
584
Uh'5. Ma tuU'allro discorso convien fare quando si parli della
possibiUlà media, che abbiamo detto essere quella che risiede
nelle essenze determinale e piene (1) degli enti finiti. Perocché in
questo caso la relazione che costituisce questa possibilità passa
non già Ira i termini finiti e l'essere indeterminalo, ma tra i
reali finiti e le loro essenze determinate: che è quanto dire tra
i termini slessi dell'essere. Perocché tanto le essenze determinate
quanto i reali ad esse corrispondenti sono termini dell'essere.
Abbiamo già indicato come per l'atto creativo il reale finito ac-
quista un'esistenza obiettiva, e ad un tempo un'esistenza subiet-
tiva che è richiesta da quella, perché l'obietto non è che il su-
bietto nella forma d'oggetto (oggettivato). L'esistenza obiettiva
é l'essenza determinala, quella per la quale il reale nella sua
forma subiettiva si conosce: è l' intelligibilità di questa. Quando
dunque la nostra mente riporta il reale — esistente subietliva-
mente — alla sua essenza (sua intelligibilità), allora già esistono
i due termini della relazione : esistono questi due termini non solo
assolutamente per l'atto creativo che li fa esistere, ma anche ri-
guardo all'intelligenza dell'uomo. Come esistono assolutamente
per l'atto creativo? Nel modo che abbiamo detto, cioè l'Essere
Assoluto nella forma subiettiva col suo sguardo amoroso si portò
nell'essere obiettivo e non considerò ed amò soltanto tutta la realità
che egli gli mostrava, ma amò anche in esso una realità finita, de-
finendola egli slesso. Come esiste riguardo all' intelligenza dell'uo-
mo V Riportando il reale finito percepito all'essere indeterminato a
sé manifesto e vedendo in esso il suo essere iniziale, cioè l'essere
al reale proporzionato. Quest'essere iniziale de'singoli, in quant'è
intelligibile, è limitato a' singoli reali che fa conoscere , ed è
quello che mostra in sé la loro essenza determinata e piena co'
limiti de' reali stessi percepiti. Poiché abbiamo veduto che nell'og-
getto dell'intuito si distingue Vessenza^ o l'essere che è il conosciuto,
e la sua conoscibilità, che è conseguente e inerente alla sua og-
gettività, la quale conoscibilità se si astrae dicesi idea. Essendo
dunque per sé conoscibile l'essere, l'essere iniziale d'un dato rea-
(1) Parliamo di queste sole che sono le prime , perchè le altre, cioè le
specifiche astratte e le generiche, non sono che astrazioni di queste e si
può proporzionalmente fare un simile discorso di queste.
3gS
le fa conoscere questo, ed in tanto cliiamasi or l'essenza or l'i-
dea di questo. L'essenza dunque intelligibile d'un reale finito
non è l'essere indeterminato ancora, ma è qucU' essere a cui è
stato già soprapposto dalla nostra mente — per non uscire dalla si-
militudine usata di sopra — quel lavoro a traforo o a maglia di
altro colore, segnando in esso colla mente que' punti che a que-
sto si avvengono, e quasi dirci si combaciano. Fatto questo, noi
possiamo usare l'astrazione in due modi, poiché possiamo astrarre
tanto dal reale , che è come il merletto sovra indicato , quanto
da quel disegno di lui, che mentalmente trasportiamo nell'essere,
e che è la sua obiettività e intelligibilità — a noi relativa — e
facendo questa astrazione perveniamo al concetto di quella che ab-
biamo chiamata possibilità suprema come residente nell'essere;
ovvero ])ossiamo asti'arre dal solo reale, conservando e riguar-
dando il disegno del reale nell'essere stesso, e allora noi in questo
disegno, che è l' intelligibilità e l'essenzi, ci formiamo il concetto
della possibilità media che appunto nelle essenze risiede. Per co-
noscere dunque qual sia il principio o fondamento di questa re-
lazione, noi dobbiamo vedere qual sia l'ordine de' due termini:
4.° l'essenza, 2.° e il reale. Ora noi vediamo che nell'essenza
del reale giace l'essere iniziale, pel quale il reale esiste, essendo
impossibile che il reale o sia o si concepisca senza l'essere. Peroc-
ché nell'essenza, sebbene sia oggettiva e come tale intelligibile, si
contiene come veduto l'essere che acquista forma subiettiva dalla
sua unione col reale. Vediamo in secondo luogo che il termine
reale soggiace al tempo , di maniera che non è necessario che
sempre esista , ma purché esista una volta, sia in un tempo pas-
sato, presente, o futuro, l'essenza a lui relativa é sempre conce-
pibile, e concepibile come eterna, e immutabile, partecipando
queste qualità dall'essere stesso in cui si vede. Può dunque esi-
stere l'essenza determinata in una mente prima e dopo che esista
il reale nella sua forma subiettiva, benché a questo si riferisca e
però questo deva una volta esistere. Laonde quantunque l'es-
senza determinata e il reale abbiano un'intima connessione tra
loro di maniera che entrambi formano un solo termine dell'atto
creativo , tuttavia se si sopprime o coU'astrazione o colla distru-
zione 0 col ritardo della sua esistenza subiettiva il reale, l'es-
senza esiste nella mente: ma non viceversa, perocché è impossi-
llosMLM. Teosofia. 25
386
bile pur concepire l'esistenza subiettiva del reale, senza la sua es-
senza. E appunto perchè il reale, dentro i delti limili, si può sop-
primere— sopprimendosi o per astrazione o pel fallo — nell'essenza
si vede la possibilità del medesimo. Questa possibilità dunque, in
quanto si distingue dal medesimo reale , ha il suo principio e
fondamento e la sua propria sede nell'essenza medesima. Poiché
dopo che la mente acquistò l'essenza, questa le basta a vedere
un reale possibile, e anche ad imaginarlo esistente, che è una
specie di creazione imaginaliva : il che è quanto noi abbiam detto
parlando della possibililà media considerala come relazione.
4^4. E a conferma di questo si consideri, che a una medesima
essenza alcuna volta possono corrispondere infiniti reali, ed ella
contenere la possibililà di ciascuno, non più dell'uno che dell'al-
tro. Sia pure dunque che un reale si richieda, acciocché sia pen-
sata e così sia la sua essenza — di che parleremo in appresso, —
ma basta un solo, e, dato questo solo, già si pensa un'essenza
che può aver per suo termine innumerabili reali. Laonde la possi-
bilità de' reali non si può contenere in nessuno di essi , per-
chè ella é universale e abbraccia tulli ugualmente. Onde anche
posto che un reale sia necessario all'essenza, tutti gli altri
uguali non sono necessari, e pure in essa sono possibili. E
quel reale che si ammette per necessario non è necessario che
sia uno piuttosto che l'altro degli innumerabili. Laonde que-
sta eccedenza dell'essenza dal reale , uno di numero e non
fisso, è quella che si dice possibililà di tutti. Questa possibililà
dunque è una relazione che ha il suo fondamento nell'essenza,
fondamento che sta nella proprietà dell'essenza determinata «di
contenere l'essere iniziale in quel tanlo che a quel reale così li-
inilalo, e ad ognuno qualunque, è necessario per esistere e quindi
di contenere la conoscibilità di questi enli». Laonde l'essenza è
l'elemento principale degli enti reali, perchè essa è l'essere pro-
prio di questi , e l'altro elemento non è che il termine reale che
da se solo non è ente né concepibile, e ad essa unito può mol-
tiplicarsi senza numero , rimanendo ella la medesima , una e sem-
plicissima. Nello slesso tempo si vede , come data una volta l'es-
senza come oggetto dello sguardo della mente, ella non si altera
né può alterarsi, sia che i reali ad essa corrispondenti sieno molti
0 pochi , 0 che si distruggano lutti, e poi sieno riprodotti. Pe-
38^
rocche l'essere, come abbiamo veduto, non fa esistere i reali
che colla sua presenza , e l'esser presente non mula l' essere ,
e l'essenza non è che l'essere dalla mente divina circoscritto al
bisogno del termine reale finito. Poiché dovendo Vesserò esser
presente ad ogni minima parte e attualità del reale (,502 sgg.,
57C, 58b sgg.*) è necessario che egli stesso apparisca davanti
al veder della mente definito e limitato dal reale e dal complesso
maggiore o minore de'suoi clementi anche formali ed astratti ren-
dendo così una rappresentazione del reale stesso , che è quella
che fu detta idea esemplare , o tipo degli enti contingenti. Ma
poiché è la mente divina che cosilo determina, mediante l'atto
creativo, perciò questa determinazione intellettiva dell'essere è al
lutto indipendente e impassibile dai reali medesimi.
Dalle quali cose tulle possiamo conchiudere, che se l'essere
oggetlivo indeterminato per sé non ha nessun limite, ma quando
ha di fronte l'ente finito allora prende dei limili relativi alla mente
clic in esso riguarda , ne viene che quella relazione che abbiamo
chiamata possibilità suprema, benché si contempli nell'essere og-
gettivo indeterminato, abbia il suo fondamento nell'ente finito,
senza il quale non è concepibile quella relazione, e il suo termine
nell'ente oggettivo infinito. Ma poiché l'ente finito si compone
di due elementi cioè xìeW essenza che è suo principio e del reale
che è suo termine, se noi confrontiamo questi due elementi l'uno
all'altro — e non si può fare il confronto se non supposto che sia
già dato Tenie finilo — scorgiamo che \i\ possibilità media, dimo-
rante nell'essenza , é una relazione che ha il suo fondamento e
principio nell'essenza stessa , e il suo termine soltanto ne' reali.
Ma questo non é tutto. Conviene che abbracciamo nella nostra
considerazione un altro elemento che compisca questa dottrina.
445. Consideriamo a tale scopo l'origine di tutte queste nozioni
nell'uomo. Si trova in esse questo progresso :
4.° L'uomo percepisce prima gli enti finiti.
2.° Di poi colla riflessione vede che gli enti finiti da lui
percepiti sono composti di due elementi: a) l'essenza , b) il reale:
e coll'aslrazione divide l'uno dall'altro,
5." Confronta l'elemento reale coU'essenza , e da questo
confronto vede che senza l'essenza l'elemento reale non sarebbe
ente perchè non sarebbe al tutto : e che l' essenza può essere da
388
lui pensala anche annullandosi il suo reale corrispondente : pone
dunque nell'essenza la possibilità del reale.
h.° Con un'altra riflessione s'accorge che egli non avrebbe
comincialo a pensare l'essenza, se non avesse percepito una qual-
che volta l'ente reale lutto intero: questo gli prova che i due
elementi hanno tra loro un sintesismo , cioè che devono es-
ser comparsi insieme davanti alia mente. Ma nello stesso tempo
vede che questo non prova la necessità che il termine reale fi-
nito sussista ossia esista in sé, acciocché ci sia l'essenza; ma
prova solo la necessità che ci sia una mente che in qualunque
modo abbia avuto la j)otenza di pensare ad un tempo l'essenza
e il reale. Data questa mente, c'è l'uno e l'altro elemento da-
vanti ad essa, e c'è la relazione tra l'uno e l'altro. Questa mente,
qualunque sia, umana o divina, è un reale ella stessa. Dunque
acciocché ci sia l'essenza è bensì necessario che ci sia un reale
in sé esistente , ma basta che questo reale sia una mente reale
che pensi simultaneamente i due elementi, e non è necessario che
esista in sé quel reale finito che corrisponde all'essenza.
5.° Veduto questo e presupposta questa mente atta a pen-
sare ad un tempo — in qualunque modo — l'essenza e il reale cor-
rispondente^ benché questo secondo non esista in sé, è data una
relazione tra i due elementi pensati da quella mente reale, cioè
Vessenza e il reale pensato, non ancora esistente in sé. E que-
sto reale pensato è il terzo elemento che dicevamo necessario a
compire la dottrina della possibilità di cui parliamo, poiché altro
è la relazione tra l'essenza e il reale pensato, e altro è la rela-
zione tra Vessenza e il reale esistente in sé per l'unione sua
coll'essenza. È questa seconda relazione che costituisce la pos-
sibilità media ed ideale di cui parliamo, la quale ha nell'essenza
il suo principio e fondamento, e nel reale in sé ha solamente
il suo termine.
Ma se consideriamo l'altra relazione, cioè quella che passa tra
Vessenza e il reale pensato, noi non abbiamo più il concello della
possibilità media di cui parlavamo: ma abbiamo un'altra relazione
che é condizione ontologica della relazione che costituisce la/)os-
sihilità media. La qual altra relazione appunto perché é una con-
dizione ontologica di questa, non si scopre che con un razioci-
nio mollo avanzalo e laborioso , laddove questa è presentala al-
389
l'uomo dall'intuito delle essenze quasi direi immediatamente.
Laonde i filosofi trattarono di questa seconda relazione e non della
prima o certo assai poco.
Se si considera dunque la relazione tra V essenza e il reale
pensato, vedesi che questi due estremi hanno un perfetto sinte-
sismo tra loro , di modo che ciascuno di essi è ugualmente prin-
cipio e termine della relazione che costituiscono insieme, di ma-
niera che non è concepibile un'essenza senza che ci sia di con-
tro il pensiero d'un reale , né è possibile il pensiero del reale senza
che ci sia di contro l'essenza, formando tult'e due insieme que-
ste cose l'ente finito, in quant'è l'essenza nella forma oggettiva,
in quanl'è il reale nella forma subiettiva, e questa in quella.
Noi lasciamo ora questo discorso per riprenderlo tra poco.
6." La speculazione qua pervenuta considera a parte le es-
senze d'una moltitudine di enti finiti, e vede che tutt'esse non
sono altro che l'essere variamente limitalo e conformato ai reali
finiti pensati, de' quali così diviene l'iniziamento, l'essere loro
proprio. E questa limitazione e quasi configurazione óeWessere è
spiegata da quello che abbiam detto e che qui giova ripetere,
cioè che ad ogni minimo che di reale è uopo l'essere acciocché
sia; onde l'essere seguendo colla sua presenza il reale in ogni
minima sua parte, e non più, è dalla mente veduto così al reale
adattato e configuralo e da esso limitato. Quello sguardo dunque
della mente che pensa il reale limitalo è quello stesso che vede
l'essere limitato ugualmente, che per questa limitazione prende
il nome d'essenza.
Veduto questo, conchiude che dunque l'essere non è limitato
per sé slesso, o in sé stesso ; ma é limitato dal guardo della mente
che pensando il reale finito, con questo slesso, bisognoso dell'es-
sere, lo limita a sé stessa e così limitato lo vede. Vede dunque
che la limitazione viene dallo sguardo della mente e non dall'es-
sere stesso e che é posta da quella ; benché la mente non potrebbe
limitare così il suo sguardo se l'essere slesso suo oggetto essen-
ziale non fosse. Confrontando dunque le essenze prodotte dalla
mente , per la limitazione imposta al suo proprio sguardo, col-
l'essere^ si considera l'essere come la possibilità delle essenze,
ma venendo queste costituite nella loro limitazione dalla mente
e non subendo l'essere stesso alcuna modificazione se non rela-
390
tiva alla mente , e da dire che il principio e il fondamento di que-
sta relazione sia nelle essenze slesse dalla mente prodotte, e nel-
l'essere soltanto il termine della medesima. Ed è bensì vero che
il fondo delle essenze stesse e l'essere, ma non si chiama essenza
del finito se non per la limitazione, ed è questa appunto il prin-
cipio e fondamento della relazione medesima.
!tU6. Abbiamo in tutto questo discorso supposta la necessità
d'una mente qualunque, come condizione e causa delle essenze.
Ma ora conviene che vediamo qual sia la mente, che si richiede,
acciocché le essenze finite esistano. Se noi consideriamo la mente
umana e il modo pel quale ella viene gradatamente a queste spe-
culazioni mediante i sei passi del raziocinio ontologico da noi testò
distinti , vediamo che ella incomincia il suo lavoro dalla perce-
zione degli enti finiti. Prima dunque che la mente umana s'ac-
cinga a questo lavoro, i reali finiti esistono. Questi dunque sono
da essa indipendenti; l'uomo, avuta l'azione di questi reali finiti
nel suo sentimento , colla sua mente riporta questa azione sen-
tita all'essere che intuisce, e questo sguardo limitandosi all'esten-
sione de' reali , vede l'essere a questi acccomodato , cioè vede
l'essenze: così ha la percezione intellettiva degli enti finiti, che
è il pensiero simultaneo dell'essenza e del reale : ossia è l'unione
deWessenza e del reale pensato in un solo ente. Ma i reali finiti
esistendo prima che faccia tutto ciò la mente umana, e non po-
tendo esistere il reale senza la sua essenza, convien dire che a-
vanti che l'uomo veda le loro essenze, queste pure esistevano
come necessarie all'esistenza de' reali stessi. Non potendo dun-
que queste esistere se non per una mente , e in una mente, è ne-
cessario conchiudere che prima della mente dell'uomo esista una
mente che pensa ad un tempo l'essenza ed il reale finito , e che
con questo pensiero abbia fatto esistere simultaneamente l'uno
e r altro elemento , e questa è la mente creatrice di Dio. Nova
prova è questa e luculentissima della divina esistenza tratta dal-
l'esistenza de' reali finiti {Sistema 103, 180).
447, Quindi la (.[uc&iìone deWd possibilità suprema e media che
si riferisce all'Essere indeterminato, ci conduce ad un'altra, cidc
alla questione della causa efficiente , origine di tutta questa pos-
sibilità , la quale causa efficiente abbiam detto non poter esser
altro che la mente pratica e creatrice di Dio.
391
Ritorna adunque qui la domanda « se in questa causa cffìcienle
ci possa esser potenza » , prendendo la parola potenza secondo la
definizione data da noi.
E dunque a considerare, che concependo noi negli enti finiti,
— die sono l'oggetto positivo del nostro sapere — sem\)re potenza
ed atto, perchè gli enti finiti per lo più hanno appunto questo di
proprio di non esistere con tutta la loro attività , ma parte di
questa tenerla involta e jnesplicata, e poi esplicarla mediante
certi stimoli ed occasioni, e ciò perchè non sono mai cause piene;
noi applichiamo le stesse forme dialettiche di potenza ed atto a
tutte" le cause, e anche alla Causa prima ; benché riflettendoci
meglio in appresso vediamo di aver corso in questa applicazione,
non essendoci in essa che puro atto.
Secondo dunque questo modo imperfetto del nostro conce-
pire, noi consideriamo anche la Mente o Intelligenza operativa
di Dio come in due stati successivi, l'uno di potenza, l'altro
di atto.
Considerandola nello stato di potenza noi ci formiamo il con-
cetto di potenza creatrice , e in questa vediamo l' origine ontolo-
gica della possibilità suprema. Perocché questa non ci potrebbe
essere se non ci fosse la potenza creatrice , cioè quella potenza
che pone la realità finita e con essa le essenze ad essa corri-
spondenti.
Considerandola nello stato di atto, noi abbiamo già l'Universo
creato, e in quest'atto noi vediamo V origine oìitologica deWa pos-
sibilità media; perchè abbiamo il reale finito pensato come pos-
sibile nell'essenze attualmente esistenti i\ella divina mente.
Ma si osservi bene, che considerandosi l'Intelligenza pratica
e creatrice di Dio ancora in potenza a creare — nel quale stato
non fu mai — non ci sono ancora le essenze finite perchè essa non
ha fatto ancora quell'atto con cui le circoscrive e distingue. Che
cosa dunque ci rimane? La sola possibilità di queste essenze che
è .quella che abbiamo chiamata possibilità suprema. Ma questa
possibilità si può considerare da due lati, o dal Iato dell'Intel-
ligenza divina che ha la potenza del -suo atto, e questa si chiama
acconciamente potenzialità delle essenze, o dal lato dell'essere
oggettivo, nel quale riguardando quella Intelligenza le forma, e
questa propriamente si chiama possibilità.
392
448. Richiamiamo dunque alla mente le tre relazioni determini
finiti coU'essere , che abbiamo distinte a principio.
i.° La loro relazione coli' essere indeterminato, e di questa
abbiamo parlalo e veduto che ella ha il suo principio e fonda-
mento ne' termini finiti e il suo termine nell' essere indetermi-
nato, possibililà suprema ideologica.
!2.° La loro relazione coli' Essere assoluto nella sua forma
subiettiva , e questa è la potenzialità suprema delle essenze , la
quale ha il suo principio e fondamento nella Intelligenza pratica
dell'Essere assoluto, e però nella realità, e il suo termine nell'Es-
sere assoluto obiettivo.
5." La loro relazione coli' Essere assoluto obiettivo, e que-
sta è la possibilità suprema ontologica. Ora questa relazione altro
non significa se non che « l'Essere assoluto obiettivo ha l'attitu-
dine d'essere riguardato dalla mente non solo nel suo tutto ma
anche ristretto, non però in modo che egli stesso soffra questa
restrizione , ma ristretto d'una restrizione relativa unicamente al
modo d'operare della mente stessa. E però se si paragonano le
essenze finite con quest' Essere assoluto , si può dire che prima
della esistenza di queste egli ne contenga la possibilità e che
« in lui sia il principio e fondamento di questa relazione, e nelle
essenze che ancor non sono il termine ». Ma egli è evidente che
questa è una relazione dialettica ; perche nò ancora sono le es-
senze, né l'attitudine dell'Essere assoluto obiettivo, ad essere così
veduto, è qualche cosa propria di lui, ma della mente e della rela-
zione di questa con esso. Onde la potenzialità delle essenze è la
causa della relazione dialettica che chiamammo possibilità su-
prema ontologica.
449. Per significare dunque in altre parole la natura di queste
possibilità supreme, l'ontologica e l'ideologica, si distingua tra l'o-
rigine d'una relazione e la natura d'una relazione esistente.
Quando una relazione già esiste , allora si può determinarne la
natura e trovare a quale delle due entità, tra cui essa corre, ap-
partenga la proprietà di principio, a quale appartenga la pro-
prietà di termine della slessa; posto che trattisi d'una relazione le
cui entità abbiano queste distinte proprietà. Ma prima che le due
entità esistano, l'una a fronte dell'altra, e però prima che esi-
sta la relazione che passa tra esse, può esistere il principio o
393
fondamento della relazione — che è una qualiUi positiva, — o per
dir meglio, può esistere i[i\e\\à proprietà che in appresso, quando
l'altra entità acquista l'esistenza , diviene principio o fondamento
di quella relazione , di cui questa seconda entità , tosto che esi-
ste, è termine. E cosi appunto accade della possibilità suprema
ontologica: prima che la volontà divina sia uscita al suo atto crea-
tivo, quella non esiste ancora come relazione, perchè nell'Es-
sere obiettivo solo non si vede alcun finito, e affinchè si pensi
la sua attitudine di somministrarlo a una Mentii, convien ri-
correre alla potenza della mente di restringere il suo sguardo.
Dunque queW attitudine si concepisce dopo aver concepito la re-
lazione della Mente con esso, cioè la possibilità suprema onto-
logica è come una conseguenza di questa potenzialità. La possi-
bilità suprema ontologica è dunque un conseguente alla relazione
che passa tra l'Essere Assoluto nella forma subielliva, e l'Essere
assoluto nella forma obiettiva, conseguente che ne trae il pen-
siero.
Ma il pensiero non può dedurre questo conseguente AeWalti-
tiidine deir Essere obiettivo ad essere in tal modo riguardato dalla
mente, se non conosce prima l'atto di questa mente, il quale atto
solo gli fa conoscere la potenza. E però nell'ordine logico la pos-
sibilità suprema ontologica è un concetto posteriore a quello della
potenzialità suprema , come questo è un concetto posteriore a
quello dell' attualità deWatto creativo.
La possibilità suprema ideologica poi se si considera ontologi-
camente e rispetto alla Mente suprema, che ne conosce l'origine,
è un concetto posteriore a lutti i precedenti, perchè suppone già
avvenuta la creazione. Ma rispetto alla mente umana , le è data
immediatamente, perchè le è dato ad intuire l'essere indetermi-
nato in cui la trova. E veramente questo stesso essere indeter-
minato, in cui riguarda di continuo lo spirito umano, è egli stesso
conseguente alla creazione dell'uomo e dell'altre finite intelli-
genze. E che cos'è altro se non l'Essere oggettivo, ma ristretto
al suo inizio rimanendo occulto il termine? È dunque questo — dia-
letticamente parlando — il primo restringimento che la Mente crea-
trice pose al suo sguardo quando volle creare il Mondo. Poiché
l'Essere oggettivo per sé è tutta luce senza distinzione di prin-
cipio e di termine. Ma solo per l'atto creativo della divina mente
594
apparisce all'uomo come inizio. L'essere iniziale dunque e inde-
terminato è così limitalo dall'Atto creatore.
Or come trova in esso l'uomo la possibilità ideologica delle es-
senze? Col riferire a lui i reali percepiti e vedere in esso l'ini-
zio di questi. Col confronto di questi reali la mente umana lo
determina. Ella dopo di ciò, trasportandosi colla riflessione ad-
dietro, lo chiama il primo determinabile ossia la possibilità su-
prema ideologica.
CAPITOLO V.
Corollari '^importanti dell'esposta dottrina.
^50. Prima di procedere avanti nell'esposizione della dottrina
dell'atto e della potenza, conviene che ci tratteniamo a dedurre
dalle cose dette fin qui degli importantissimi corollari che esse
ci somministrano.
Articolo I.
Primo Corollario. — Ragione ontologica del principio, che non
può esistere se non ciò che è concepibile.
451. Questa proposizione ci è somministrata già dall'Ideologia
come evidente e perciò non ha bisogno di prova.
Può però essere anche questa evidenza ideologica analizzata dalla
riflessione e ridotta ad un argomento così : È concepibile tutto
ciò che non involge contraddizione; ma ciò che involge contrad-
dizione implica annullamento di sé, perchè un estremo defla con-
traddizione annienta l'altro, di modo che ogni contraddizione si può
rappresentare con questa forraola : a — a = o. Ora il nulla non
può essere, perchè è appunto non essere. Dunque ciò che non
si può concepire non può esistere.
Questa prova è fondata sulla latitudine del pensiero e deU'in-
telligenza, essa nasce dall'aver questa per sua propria forma obiet-
tiva l'essere , e parlando dell' intelligenza umana l' essere inde-
terminato il quale non ha limiti , e questa essenziale illimitazione
dell'essere, e dell'essere indeterminato, è evidente per sé.
39S
La ragione ontologica non è dunque necessaria , acciocché
l'uomo conosca questa verità come evidente. Ma anche le cose alla
mente evidenti hanno una causa della loro evidenza nell'Essere
assoluto, e questa si dice ragione ontologica. Questa ragione non
serve dunque a formare o ad accrescere l'evidenza della verità ,
ma è utile a compire la scienza , e di [ìiù , a sciogliere i sofismi
che la riflessione talora accampa contro l'evidenza stessa.
Avendo noi dunque veduto che l'Essere ha tre forme essen-
ziali , la seconda delle quali è l' obiettiva , e dovendo l'Essere
assoluto sussistere compiuto in tutte tre quelle forme, è evidente
che egli non solo è concepibile e intelligibile a sé stesso ma an-
che attualmente inteso, tale essendo la natura della forma o-
biettiva.
i52. Venendo poi all'ente limitato e creato, noi abbiamo dimo-
strato che questo é un termine non necessario all'Essere assoluto,
e però che egli non può esistere se non per l'opera d'una libera
volontà, ossia dell'intelligenza amorosa dell'Essere supremo nella
sua forma subiettiva. Ma se il Mondo é l'opera dell'Intelligenza
operativa e libera, conviene che egli sia stato creato coll'atto stesso
con cui fu inteso , e però che egli sia concepibile e concepito.
Non può dunque nulla esistere senz'essere concepibile.
Quest'è pure la ragione ontologica per la quale s'intende subilo
non solo « non essere possibile ciò che non è concepibile « , ma
ancora il contrario , giacché « ogni concepibile si dichiara pos-
sibile )). Questo avviene perchè ciò che è concepibile, in quant'ò
concepibile, si vede eterno (essenza), e tale non potrebbe essere
se non fosse concepito da una mente eterna. Se dunque c'è una
mente eterna che ebbe potere di concepirlo la prima, e così farlo
essere, è consentaneo che ella abbia anche il potere di dargli
la realità, essendo cosa minore la realità che non l'essenza, e
la causa potente a produrre questa , molto più deve essere po-
tente a produrre quella. L'eternità e l'immutabilità essendo dun-
que d'immediata evidenza, quasi per un istinto intellettivo l'uomo
è pronto a conchiudere che esse contengono la possibilità anche
ontologica de' reali loro corrispondenti.
396
Articolo li.
Secondo Corollario. — Non può esistere realmenlo cosa alcuna
che non sia, non solo concepibile , ma concepita da qualche mente.
455. L'Ideologo prova questa proposizione quasi per una divi-
nazione deontologica facendo uso di questa serie di proposizioni:
i.° Ogni cosa reale non potrebbe essere e non sarebbe, se non
fosse concepibile. 2.° Essendo concepibile ha la sua essenza
ideale o intelligibilità. 5.° Questa è immutabile ed eterna. 4." Ma
non potrebbe essere eterna se non ci fosse una mente eterna
che la concepisse. 5.° Dunque niuna cosa può realmente esi-
stere , se non è ab eterno attualmente concepita.
L'Ontologia conferma e spiega questo ragionamento. Poiché a-
vendo dimostrato che l'Essere assoluto è essenzialmente obiettivo,
è dimostrato pure ch'egli è per sua essenza inteso. Avendo poi
dimostrato che gli enti reali finiti non possono esistere se non
per un alto della libera volontà della divina intelligenza, rimane
che non possono esistere se non sieno concepiti e intesi dalla
mente creatrice. Niente dunque può esistere realmente non solo
che non sia intelligibile, ma che non sia inteso attualmente da
qualche intendimento.
Articolo III.
Terzo Corollario. — La creazione non può esser fatta da altri
che da Dio.
454. Questo corollario viene, dalle cose esposte, per più vie,
e così trova in esse altrettante dimostrazioni.
La prima è questa. Gli enti finiti che compongono il mondo
risultano da due elementi , cioè dal termine reale finito , e dal-
l'essere iniziale che dà a questo termine la forma di ente. Ma
l'essere iniziale è qualche cosa dell'Essere assoluto (,292, sgg.
294, sgg.*), e l'Essere assoluto è il solo che può disporre di ciò
397
che a sé appartiene , epperò il solo essere assoluto , Iddio, può
essere il creatore del moodo (4).
La seconda è questa. Gli enti finiti che compongono il mondo
non sono necessari logicamente, perchè possono esser negati
senza cadere in contraddizione. Se non sono necessari logicamente,
non sono né pure necessari ontologicamente, perchè abhiam ve-
duto che il possibile è il concepibile (,4ol, li^T). Ma è conce-
pibile ugualmente che il mondo esista e che il mondo non esi-
sta. È possibile dunque ugualmente l'esistenza e la non esistenza
del mondo. Acciocché dunque si verifichi piuttosto l' esistenza
che la non esistenza ci vuole una causa reale che determini
quella a preferenza di questa. Ma una tal causa non è determi-
nata dall'oggetto, pendile la esistenza e la non esistenza di questo
è indifferente, dunque questa causa ragione sufficiente dell'esistenza
del mondo non può essere che una causa libera e straniera al
mondo stesso: fuori del quale — che è il complesso degli enti fi-
niti — non c'è che l'essere infinito, Dio. Dunque Dio solo é la
causa creatrice del mondo.
La terza, che rinforza e rischiara anche la seconda, è questa. Non
c'è di necessario altro che l'Essere, questo è semplice, indivisibile,
infinito. Laonde è nelle sue tre forme infinite la subiettiva, l'obiet-
tiva e la sanlilativa o morale. Non può dunque entrare nella sua
natura ninna limitazione. Non essendo dunque necessario al com-
pimento dellEssere stesso niun ente finito, e la natura di quello
non potendo essere il subietto di alcuna limitazione, rimane
che l'ente finito non possa esser altro che l'effetto della sua libera
volontà ossia Intelligenza amorosa e pratica. Se Y essere finito
fosse una conseguenza della natura divina , farebbe parte di que-
sta: il che abbiamo mostrato impossibile e ripugnante a quella na-
tura essenzialmente illimitata. Se dunque non fa parte, e non è
un'appendice della sua natura, é un' opera libera che va oltre la
sua natura : la causa del mondo non può esser dunque che la
libera attività , la libertà divina.
(1) Perciò S. Tommaso distingue con grande acutezza l'operare della
causa prima dall'operare delle cause seconde, ,alla prima compete dar l'es-
sere, alle seconde la determinaziune* . Cf. In II. Sent. D. I. q. i. a. i. —
Teodicea 522, 547, 556-562, dove si mostra che Dio opera sempre per modo
di creazione.
398
Articolo IV.
Quarto Corollario. — Concetto ed esistenza necessaria
della libertà divina.
hìili. Che anzi di qui appunto si trae il concetto della libertà
divina, e se ne prova l'esistenza necessaria.
Poiché siccome il concetto di contingenza, come abbiamo ve-
duto , è quello pel quale d'un'entilà si concepisce ugualmente
che può essere e non essere ^ perchè non forma parte dell'es-
scre stesso — che è necessario tutto, per modo che non si può
concepire che non sia, — così il concetto della libertà divina è
« il potere che ha l'Essere assoluto di far cose che non fanno
parte deUa sua propria natura » e però cose contingenti, delle
quali si può ugualmente concepire che sieno e che non sieno ,
di maniera che l'Essere assoluto non è obbligato e determinato
a farle , perchè senz'esse egli nella sua propria natura è
compiuto.
Ora che questo potere esista nell'Essere assoluto si prova ar-
gomentando dal reale finito del mondo nel modo che abbiam fatto,
e che si riassume in queste proposizioni: 1 ." Il reale finito e
contingente esiste; 2.° Se esiste, c'è unita l'esistenza ossia l'es-
sere iniziale, che lo fa esistere ossia essere ente; 3.° L'essere ini-
ziale è un'appartenenza dell'Essere assoluto; 4-." Dunque l'Essere
assoluto è la causa creatrice degli enti finiti e contingenti ; 5." Ma
quella causa creatrice ossia quel potere dell'Essere assoluto, che
fa esistere i contingenti, dicesi causa libera, o libertà di Dio;
G." Dunque esiste necessariamente in Dio la libertà , secondo
l'indicalo concetto.
Articolo V.
Quinto Corollario. — V Emanantismo è un sistema erroneo.
456. L'Emanantismo è quel sistema che fa uscire il contingente
dalla sostanza dell'Essere assoluto.
399
Ma noi abbiamo veduto che il contingente non appartiene
punto alla sostanza dell'Essere assoluto.
Dunque l'Emanantismo è un sistema erroneo.
Articolo VI.
Sesto Corollario. — // Panteismo è un sistema erroneo.
Ul}7. Il Panteismo è quel sistema, cbe confonde in una sola
natura il conlingenle e l'Essere assoluto.
Ma noi abbiamo veduto: 1.° Che il contingente non forma
alcuna parte della natura dell'Essere assoluto; 2.° (Ihe egli non
è essere, ma che partecipa nel modo detto dell'essere , e così
acquistala condizione di ente; 3.° Che partecipando dell'essere
non si confonde con esso, perchè l'essere rimane unico per lutti i
contingenti — di che la sua relazione mentale d'universale, — lad-
dove ogni contingente ò prefinifo in se stesso e diviso dagli altri.
Dunque il Panteismo è un sistema erroneo.
Articolo VII.
Settimo Corollario. — Descrizione della Creazione.
^S8. Ora, avendo noi detto che gli enti finiti, che compongono
l'Universo, constano di due elementi, cioè Vessere iniziale e ìi
reale, dedurremo dall'esposta dottrina prima i corollari che tendono
a far conoscere la natura del primo elemento, poi quelli, che
tendono a far conoscere la natura del secondo elemento, e poi
quelli che liguardano la loro unione.
E quanto al primo elemento, noi dicemmo, che l'essere ini-
ziale accompagna ogni minimo che di reale, perocché nes-
suna particella di questo sarebbe, se non avesse l'essere iniziale.
Di che abbiamo conchiuso che esso diventa Vessenza di ogni
ente reale , ricevendo da questo la misura e per così dire la
configurazione. Ma poiché tutti gli enti reali — che furono, sono
e saranno — ordinatissimamente congiunti compongono il Mondo,
AOO
così tulle le loro essenze ordinatissimamente pure congiunte
costituiscono quello che fu detto l'Esemplare del mondo. Par-
lando dunque della natura di questo dichiariamo la natura di
tulle le essenze specifiche piene, e dell'essere iniziale in tulla
la sua estensione.
È soltanto a distinguere il complesso di queste essenze quale è
j)resenle airinlelligcnza divina, da queste , medesime* essenze quali
sono vedute da noi uomini, perocché queste noi non le vediamo
che in un modo imperfettissimo e relativo, e il come l'abbiamo
spiegato altrove (R'innov. ììhS, sgg. pag. 597) L'Esemplare adun-
que del Mondo non significa il complesso delle essenze delie cose
finite, quali le vediamo noi; ma il complesso delle essenze quale
sta presente alla divinn mente. Dobbiamo dunque parlare in se-
paralo delle essenze che costituiscono l'esemplare del mondo, e
delle essenze che costituiscono l'oggetto della nostra cognizione
ideale. Cominciamo dall'Esemplare.
439. Riguardo dunque alla natura delTEsemplare del Mondo,
procede dalle cose dette il corollario che egli non è il Verbo
divino, pel quale intendiamo 1' Essere assoluto nella sua forma
obiettiva per sé attualmente inlesa.
E veramente noi abbiamo detto che Vessere è uno e sempli-
cissimOj e che non ammette in sé limitazioni di sorla, di modo
che non può essere subiello di queste. Quest'essere uno, sem-
plicissimo e infinito, repugnante ad ogni limitazione, è l'essere
in sé in tulle le sue tre forme, compiuto, e perciò anche nella
sua forma obiettiva. Ma le essenze degli enti finiti sono l'essere sì,
ma limitato, subiello di limitazioni, onde l'abbiamo chiamato il
primo determinabile. Consegue da questo che quest'essere che é
il subiello di tulle le limitazioni colle quali diventa tulle le es-
senze delle cose finite non può essere l'Essere assoluto obieltivo,
cioè il Verbo divino: dico essere subiello di tulle le limita-
zioni, sia che si concepisca come suscettivo di esse (essere inde-
terminato e determinabile), sia che si concepisca come già de-
terminalo e così divenuto tutte le essenze piene degli enti finiti.
^00. Rimane dunque a vedere che cosa noi abbiam dello dover
essere cotesto Esemplare del mondo.
Abbiam detto che é l'opera della Jiberlà creatrice di Dio. La
libertà creatrice è una virtù, un potere dell'Essere assoluto nella
sua forma subiettiva. L'Essere assoluto nella sua forma subiet-
tiva ama infinitamente se stesso inteso nella sua forma obiettiva:
l'Essere ama infinitamente l'Essere. Quest'amore lo porta ad
amar l'essere in tutti i modi ne' quali e amabile, ne' quali può
essere amato. Per amarlo in tutti i modi egli l'ama non solo
come Essere assoluto ed infinito, ma ancbe come essere relativo
e finito: quest'amore è l'atto creativo. Crea dunque a sé stesso
un oggetto finito amabile, per l'espansione dell'amore e questo
è il Mondo. Per crearlo deve: 1.° concepirlo, sì percbè questo
principio creativo è intelligenza, si perchè non si può amare
quello che non s'intende; 2.° realizzarlo , perchè se non
fosse realmente in se l'oggetto dell'amore non esisterebbe, ma
solo sarebbe possibile, e ciò che si ama, visto nella sua possi-
bilità, si vuole che esista. Quindi i due clementi ài^W essenza e
del reale nati ad un parto e formanti gli enti mondiali.
L'essenza nella mente divina è come l'Esemplare. Come po-
teva dunque la divina intelligenza concepirlo se esso non era
nell'Essere assoluto obiettivo? Preavvertendo che nel divino ope-
rare non cade successione di sorta, ma lutto e sempre è fallo
nell'istante, se così lice parlare dell'eternità, noi esporremo
l'ordine logico delle divine operazioni come fossero dislinle e
successive, così richiedendo il bisogio della nostra limitata in-
telligenza: il che non produrrà errore, perchè la riHessione,
avvertita, detrarrà poi ciò che fu messo nel discorso d'imperfetto
e d'umano , pel bisogno che ha un uomo di parlare a uomini
con una lingua umana.
461. 1." Dico — ciò bene avvertito — che la prima operazione
della suprema Intelligenza per riguiirdo all'essere finito fu quella
che chiamerò Vaslrazione divina. Mediante questa operazione l'In-
telligenza dell'Essere assoluto liberamente astrasse dall'Assoluto
suo oggetto Vessere iniziale, cioè, oltre intendere Tessere assoluto
oggettivo, ella fece un'altro atto d' intelligenza col quale neWessere
assoluto distinse Vinizio dal termine e vide quello separato da
questo , non perchè nell'essere assoluto obiettivo fosse vera-
mente separato , ma perchè ella lo separava per astrazione
mentale. In fatti, se questo è il potere anche della mente umana
di dividere un oggetto unico e indivisibile, e di fissarsi in uno
degli elementi da essa creati — il che si dice astrazione, — perchè
Rosmini. Teosofia. 26
402
sarà questo conteso alla mente divina? L'uomo n'ha talora bi-
sogno per acquistare il sapere; Iddio no, perchè non gli manca
mai l'intelligenza dell'essere infinito. Laonde se nell'uomo l'a-
strazione è sovente un'imperfezione, in Dio non è altro ^ che
quasi direi un soprappiù di peifezione. In questo essere iniziale
vide dunque Iddio in sé stesso ab eterno l'essere finito, tutto
virtualmente in esso compreso. Questa astrazione o visione del-
l'essere finito nell'infinito non è ancora l'atto libero della crea-
zione, ma appartiene all'atto necessario della divina intelligenza
con cui conosce l'essere finito possibile.
Ora quQsV essere iniziale , veduto dall'Essere assoluto subiettivo
nell'Essire assoluto obiettivo , non poteva essere questo stesso
essere assoluto obiettivo, essendo un astratto. L'astratto è un
concetto mentale, un termine che la mente ha dato a sé stessa
colla limitazione del proprio sguardo; non esiste in sé stesso,
ma nella mente e per la mente, e non può esistere in sé in
quello stato nel quale la mente lo vuol vedere, perocché non è
un ente compiuto, ma é solo l'inizio d"un ente privo del suo
termine, che fa conoscere l'ente finito possibile. L'Essere asso-
luto obiettivo all'incontro é un ente in sé: è di tal natura che
il termine infinito gli é necessario, altramente non sarebbe
desso. L'essere iniziale dunque presente alla mente divina non è
identico all'essere assoluto obiettivo, ma é un altro, un pro-
dotto dell'atto della mente stessa , la creazione dun proprio
obietto. Vero è che la Mente divina astraente ha trovato e pro-
dotto quest'oggetto, che dicemmo essere iniziale, tenendo fisso lo
sguardo nell'Essere assoluto obiettivo , laonde si può dire in
questo senso che lo vede in esso ; ma questa espressione « veder
l'essere iniziale nell'essere assoluto obiettivo», altro non vuol
dire se non « giovarsi dell'essere assoluto obiettivo come di fon-
damento dell'astrazione », il che non toglie che il prodotto del-
l'astrazione non sia un diverso dal fondamento in cui l'astrazione
fu operata.
Considerando questo fondamento in relazione all'astrazione,
egli acquista la ragione di più o di lutto, e il prodotto dell'a-
strazione acquista la ragione di meno o di parte. Ma questo non
è vero npl senso che nel fondamento dell'astrazione ci sia il piìi
e il meno distinto, o le parti distinte, e se non ci sono le parli
403
distinte per nessun verso, dunque non ci sono parli. La parte
dunque, e il meno, è essa stessa dovuta all'astrazione che appar-
tiene all'intelligenza divina essenziale, senza che il fondamento
della medesima divenga punto né poco il subietlo del più o del
meno o delle parti. Sono dunque, il meno e la parte, essi stessi
effetti e prodotti dell'astrazione che appartengono all'atto astra-
ente della mente: e non ricevono questi nomi se non per una
relazione tra due facoltà mentali, quella di pensare il fondamento
deiraslrazione, che nel caso nostro è l' Essere assoluto obiettivo
— ed è il pensiero necessario e naturale di Dio, — e quella di
pensare l'astratto che nel caso nostro è l'Essere iniziale.
La proposizione dunque « l'essere iniziale è contenuto nell'Es-
sere assoluto obiettivo e in esso veduto » , non vuol dire che
l'essere iniziale sia qualche cosa in sé contenuto nell'Essere asso-
luto in sé, ma vuol dire solamente che l'Essere iniziale, che è
nulla in sé, ma é qualche cosa alla mente, è nato da uno
sguardo della mente nell'Essere assoluto mediante la limitazione
dello sguardo stesso, sicché questa limitazione non passò nell'Es-
sere assoluto, ma rimase nello sguardo.
A chiarire maggiormente questa difficile relazione tra l'essere
iniziale e l'oggettivo assoluto, si consideri che la Mente e l'Og-
getto in cui termina il suo atto sono entità distinte, come si
rileva dalle loro definizioni [Cf. Lezioni filos. \, sgg.). Tuttavia
tale è la natura della Mente e del suo Oggetto essenziale che
sintesizzano per modo che la Mente deve aver l'Oggetto per es-
ser Mente, e l'Oggetto deve essere presente alla Mente per es-
ser Oggetto. Dati poi questi due estremi simultanei , l'oggetto ha
ragione di luce, la mente poi somiglia all'occhio che la riceve.
Ma come la luce si può considerare in sé stessa, econsiderare come
ricevuta e veduta dall'occhio ricevente, così l'Oggetto può avere
una doppia esistenza; l'una in sé, l'altra relativa alla mente e
.come* tale prodotta dall'alto della Mente. Così l'Essere assoluto
dovendo essere ente completo anche nella forma obiettiva, é uopo
che anche in questa forma esista in sé, cioè subiettivamente ,
e sia per ciò un subietto per sua essenza obielto. Questo esiste dun-
que in sé ed anche rclalivamenle alla Mente assoluta, dalla quale
è essenzialmente inteso. Mi questa Mente ha un'attività propria,
V astrazione divina, per la quale all'atto di conoscere l'oggetto in
sé unisce un allr'atto, col quale lo considera nel suo inizio, e
così dà a quest'essere iniziale Y esistenza relativa ad essa, senza
che quest'essere iniziale, oggetto dello sguardo libero^ abbia Ve-
sistenza in sé, sia un subietto. — Si dirà: « che cos'è quest'oggetto
prodotto a sé dalla Mente con uno sguardo d'astrazione, se da una
parte non é la mente stessa, dall'altra non è l'Oggetto assoluto »?
Rispondo, che è la prima produzione, la cognizione divina del
l'essere finito possibile , il fondamentale elemento della creatura
(Cf. Rimiov. .565-570, ;)flgi. 0^5-634*), la luce, che in quanto
si comunica alle inlelhgenze creale si può dir creata, si può dir
quella creatura, di cui si trova scritto «Sia la luce, e la luce
fu fatta » (1). Questa prima creatura dunque, l'essere iniziale, non
ha una sussistenza subiettiva, ma ha soltanto un'esistnza obiettiva
e relativa alla Mente creatrice, e quindi appresso, come diremo,
a tutte le menti create: esiste per l'atlo della Mente, e davanti
ad essa, senz'essere la Mente stessa. L'atto della Mente la creò
riguardando nell'Oggetto assoluto e in sé sussistente , ma non é
l'Oggetto assoluto e in sé sussistente. Niente vieta di dire , che
sia in questo virtualmente, ma l'esservi virtualmente none un
avere un'esistenza propria, ed esistere virtualmente altro non
viene a dire , se non che la mente la produce riguardando in
quell'Oggetto, il che non potrebbe fare se non riguardasse in esso.
Per questo, e secondo tutte queste spiegazioni, si dice , che
« l'essere iniziale é qualche cosa del Verbo divino , che è una
sua partenenza , che è un lume increato ecc. « (^). Infatti la
Mente col suo sguardo astrae Vessere iniziale dall'Essere assoluto
obiettivo, trova quello come qualche cosa di questo, ma questo
qualche cosa, losloché dallo sguardo della mente si considera
a parte, si considera come un qualche cosa, non è più lui,
non potendosegli applicare la stessa definizione. Tale é la sempli-
cità e l'assolulità dell'Oggetto assoluto , che diminuito di chec-
chessia perde la sua identità , è un altro. Questo appunto è ciò
(t) Niente impedisce, che con queste stesse parole s'esprima ad un tempo
la creazione della luce sensibile, simbolo della intelligibile.
(2) Per questo i primi principi, quorum cognitio est nobis innata, — e
tutti s'hanno nell'intuito dell'essere — sono acconciamente chiamati da
S. Tommaso , e da molt'aUri Padri e scrittori ecclesiastici, « Similitudine
dell'increata Verità » ~ Cf. Th. De Verìtate Q. X, vi ad 6."'
/»05
che (là luoj^o ;illa creazione, cioè a fare che dalla non esistenza
vengano all'esistenza altri enti, l'ente finito. Pure il prodotto del-
l'Astrazione divina, esercitandosi questa sull'Oggetto assoluto che
è Dio, ritiene alcune delle jjroprietà divine, l'oggettività^ l'intelli-
gibilità ecc. onde nasce la distinzione tra il dmno e Dio, che noi
dichiarammo in un libro apposito (*). Poiché avendo l'Oggetto asso-
luto— Dio, il Verbo — un'esistenza in sé, ed un'esisteuza relativa
alla Mente divina, questa seconda può esser contralta dalla mente
ed astratta, rimanendole presente il lutto, come accade sempre
nelle astrazioni anche umane [Psicol. irvl9,sgg.), e non la prima:
e però quello, che l'Astrazione ne prende, rimane ancora divino,
sebbene non esistendo in sé , e perciò non avendo la persona-
lità divina^ non può essere il Verho, ma un'appartenenza della
divina essenza. E noi già dicemmo, che la Mente coU'astrazione
ha virtù di concepire a parte la natura divina dalla personalità
divina: quella è il divino, e non esiste distinto se non davanti
alla mente, questa é Dio.
^i6'2. 2.° Così dumpie si può concepire il primo atto di Dio
che riguarda il finito, e costituisce ad un tempo la cognizione di-
vina dell'ente finito e il lume comunicabile alla natura intelli-
gente: veniamo al secondo.
L'inlelligenza operativa e libera di Dio si porta nell'Amahi-
lità dell'Essere oggettivo, ossia essenzialmente inteso , e in que-
st'Amabilità si porta con tutta l'infinita l'orza del suo amore.
Si porta dunque in esso tanto col potere necessario, quanto col
suo potere liner(ì. Col potere necessario si porla nell'Essere og-
gettivo assoluto, semplice e indivisibile, col potere libero si porta
in tutte quelle liuìitazioni dell'Essere assoluto, ch'Ella vuol creare
guidata (lall'anìabilità dell'essere limitato. L'istinto dell'Amore
nel. mare luminoso dell'Essere assoluto trova tulio ciò che é a-
mabile anche limitato, e a questo si limita Io sguardo della
Mente operante libera. Se noi vogliamo dare un nome anche a
questa o])erazione, l.i potremmo chiamare imaginaziune ilivina.
V imiì(j inazione divina è diversa ó-aW astrazione divina. Poiché
questa separa nell'Oggetto assoluto — in quanto ha l'esistenza uni-
C) Del Diritto nella Natura ad Alessandro Manzoni, che si pubblicherà
nella seconda parte di quest'Opera.
406
camenle relativa ad essa e non in sé — il principio dal termine ,
contiene lo sguardo dal termine, e non pensa che l'inizio del-
l'essere: quella limila ossia imagina limitato il termine reale. Il
termine reale , imaginato limitatamente dalla Mente operante e
libera di Dio, è la realità dell'universo. La Mente divina non
j)olrebbe liberamente contemplare il termine reale dell'Essere
limitalo da lei, se non creandolo, cioè facendolo esistere non
solo relativamente a sé, ma ancora in sé stesso. La ragione di
ciò si è , cbe il termine reale è la forma subiettiva dell'essere ,
e la forma subiettiva é quella per la quale l'ente esiste in sé,
non solo relativamente a una mente. Se dunque il termine reale
limitato fosse veduto dalla Mente , e non sussistesse in sé , ella
vedrebbe il falso, prenderebbe un'illusione. Il che è assurdo pen-
sare della divina intelligenza. Conviene dunque scegliere tra
queste due proposizioni^ o dire che la Mente divina non può
pensare il termine reale limitato, o dire che ella può farlo sus-
sistere in sé, il che è crearlo. Ma il dire la prima cosa è ini
possibile, perché in lai caso ella non conoscerebbe l'Universo
reale , e alla sua intelligenza mancherebbe quella virtù che ha
la mente umana di pensare l'essere fiiìitb. Non rimane dunque
allra proposizione immune da assurdi se non questa , che la
« Mente divina operante può far sussistere in sé col suo sguardo
libero il reale, ch'essa stessa imagina limitato».
In questa proposizione sta il mistero della creazione , come
abbiamo detto di sopra , ma la ragione umana é tuttavia co
stretta ad ammetterla per vera , sebbene non possa compiuta-
mente intenderla , perchè la sua contraddittoria involge assurdo
{Logic. 492 sgg.), essendo ben diversa cosa la qualità^ che può
avere una proposizione, di misteriosa e d'inesplicabile, e la qua
Illa d'indimostrabile e di falsa: può esser tale, la cui verità sia
dimostrabile, e tuttavia non vedersene la spiegazione {Logic.
802-805), onde il mistero.
Non pretendiamo dunque d'alzare il velo misterioso che copre
l'atto creativo, ma solo descriverlo fin dove è .concepibile all'uomo,
e così concepito dimostrare, che non involge in sé stesso contrad-
dizione, e che, in qualunque altro modo se ne pensi, la contrad
dizione è inevitabile, il che è una dimostrazione della sua verità.
Noi abbiamo dato a questa virtù divina il nome d' imagina-
407
zione, perchè essendo necessitati di applicare a Dio i vocaboli
togliendoli dall'analogia delle creature — le sole cose che cono-
sciamo positivamente — niun'altra facoltà dell'uomo ha più d'a-
nalogia coll'azione creatrice del reale che quella óeW hnagina-
zione inlelletli^^a. E in fatti l'imaginazione intellettiva dell'uomo
ha anch'essa il suo verbo, e in qualche modo crea [Ideol. 531-
553 n.). Ma la dilTerenza tra V imaginazione umana e la dinna
è infinita. Vediamo prima brevemente in che consista l'analogia,
e poi in che consista la differenza.
L'analogia consiste principalmente in due cose: ì° chetante
r imaginazione umana , quanto quella che abbiamo delta imagi-
nazione divina è mossa , e guidala da un istinto di amoroso di-
letto; '2.° che tanto l'una quanto l'altra dà l'esistenza ad un og-
getto voluto dall'istinto motore.
Ecco poi in che consiste la differenza. L'imaginazione umana è
una facoltà, che consegue a quelle del senso e dell' inlellello coo-
peranti alla percezione, e più prossimamente consegue alle per-
cezioni stesse Poiché le percezioni intellettive de' sensibili sono
come la radice di quel movimento ulteriore che dicesi imagina-
zione intellettiva, per la quale l'uomo non solo richiama i ve-
stigi delle percezioni ricevute, e le loro imagini [Cf. Ideol. 519
sgg.) , ma ancora le compone diversamente , e così fa esistere
novi oggetti , quali vuole ed ama , alla sua contemplazione. Ma
la percezione non dà all'uomo tutto l'ente, esso non ne riceve che
un effetto limitato dallo stesso modo dell'agente e della sua azione,
e dalla natura dell'organo corporeo, e da quella dell'umano senti-
mento fondamentale {Ideol. 1213 sgg.; Rimiov. 407 sgg.,pag. 419
502 sgg. pag 542), onde ciò che l'uomo apprende dell'ente, non
è tutta la sua entità, ma un effetto che l'ente produce in lui e che
gli serve di segno per rappresentarsi gli enti. Essendo dunque così
limitalo l'oggetto della percezione, e l'imaginazione umana pren-
dendo da questa gli elementi di ciò che produce, questi oggetti
creati dall'imaginazione umana non possono esser enti, ma uni-
cainenle sensibili segni di enti da essa variamente richiamati , e
in novo modo composti.
All'incontro V imaginazione divina non viene da alcuna fa-
coltà 0 potenza precedente che sia in Dio, quasi un'attività u-
scente da una passione , nò ella stessa è una facoltà o potenza.
408
che in Dio non cadono facoltà o potenze distinte dalla sua stessa
essenza. Che cosa dunque è ella? Indubitatamente la stessa es-
senza di Dio. Ma l'Essenza di Dio e l'Essere, e non altro che l'Essere.
L' imaginazione divina dunque è lo stesso Essere assoluto nella sua
forma subiettiva e realissima. Supponendo dunque che l'Essere
slesso sussistente e realissimo imagini un ente finito, conviene
che questo novo oggetto sia un vero ente in sé, ed abbia per-
ciò anch'egli la sua esistenza subiettiva e reale. Poiché l'essere
essenziale imaginanle non può già imaginare un accidente, che
non ha accidenti, né una modificazione di sé, che non ha mo-
dificazioni, né una passione ricevuta, che non ha passioni e
niente riceve. Ciò che dunque imagina non può essere che es-
sere nel suo termine reale. Benché di questo imaginare non ci
sia esempio nella natura [Te.od. S9, 60, 62-74), pure s'intende
che in Dio la cosa DEVE esser così, perchè ogni altro modo di
pensare il finito applicato a Dio involge assurdo; come involge
pure assurdo l'ammetlcrc ch'egli noi pensi, e noi conosca. Tutto
questo riceverà maggior luce da lutto quello che diremo piìi sotto.
403. ù.^ i^oW astrazione divina abbiamo veduto come sia stato
prodotto V essere iniziale primo elemento degli enti finiti: coH'ma-
ginazione divina, abbiamo pure veduto come sia stato prodotto il
reale finito — tutte le realità di cui consta l'universo. — La terza
operazione dell'Essere assoluto creante il Mondo é la sintesi divina
cioè l'unione de' due clementi , l'essere iniziale inizio comune di
tutti gli enti finiti, e il reale finito, o per <lir meglio i diversi reali
finiti , termini diversi dello stesso essere iniziale. Colla quale u-
nione sono creati gli enti finiti. Anche qui quello che chiamiamo
terza operazione non è che una distinzione di ragione che fac-
ciamo noi uomini, secondo il modo del pensar nostro. Nel fatto
questa terza operazione è compresa in quelle che abbiamo de-
scritte come fossero le due prime , poiché facendosi esse con un
solo atto divino , sono unitissime nell'atto divino , onde produce
Dio ad un corpo l'essere iniziale con tulli i suoi termini reali finiti
congiunti cnn esso. xMa [)oiché l'effetto di questa operazione unica
è trino, niente vieta, che noi consideriamo quest'unica operazione,
come fosse tre operazioni diverse, avvertendo solo che con ciò non
si vuol esprimere altro se non la relazione, che quell'unica opera
zione ha coi tre effetti, distinguibili dalla mente, ch'essa produce.
^09
Consideriamo dunque attentamenle ciò, che consegue alla
Sinlesi divina .
Primieramente abbiam dello che Vessere iniziale in quanto si
considera come essenza dell'essere è anteriore alle forme. In
quanto poi è essenzialmente intelligibile è nella forma obiettiva.
Di i)oi abbiam dello che l'essere iniziale deve essere presente ad
ogni sua minima parte o materiale o formale dell'essere, co-
stituendo così Culla sua presenza tutti i diversi enti finiti. Se dun-
que Vessere iniziiile si considera presente ad ogni reale, in ogni
parte del medesimo egli produce Venie finito nella forma subiettiva
— a cui l'estra-subietliva si riduce, come vedremo a suo luogo. —
Ma se l'essere iniziale si considera nella sua forma obiettiva in
quant'è intelligibile, egli estendendosi a tutto intero il reale,
nelle sue minime parti, lo rende intelligibile tulio, e questa in-
telligibililà de' reali finiti sono le loro essenze , che in quanto si
contemplano dalla mente si dicono idee.
La sinlesi divina dunque fa due cose , produce ad un tetnpo
le essenze o idee, e gli enti fìniti nella loro forma subiettiva e
reale, nel modo che tosto diremo (i).
(1) Con questa dottrina si spiega e si concilia la lolla incessante e non
mal finila in tulli i secoli passali tra due scuole di tìlosolì, a distinguere e
rappresentare le quali si adoperano i duo solenni nomi di Platone e di Ari-
stotele. Platone — sotto il qual nome più che l'uomo intendiamo la scuola
perpetua di cui si fa rappresentante — (isso nella contemplazione delle idee
e delle sublimi loro prerogative, le dichiara eterne, indipendenti dalle cose
finite , sole veri enti , delle quali le cose finite e sensibili del mondo non
sono che un' imitazione. Aristotele trova tra gli enti reali e sensibili e le
idee un nesso cosi intimo, così necessario, che vuole esister queste poten-
zialmente negli enti reali e sensibili, e la sola mente separarle e renderle a
sé oggetto di conosciraeglo, senza che cosi separate esistano in sé stesse.
S. Tommaso trova, che Aristotele ha ragione in questo, nel non volere un
assoluta separazione tra le idee e i reali, quasiché questi fossero accidenti
dell'ente, e quelle sole fossero il vero ente. Plato in hoc reprehenditur ,
quod posuit formas naturales secvndnm propriam rationem esse prteter
materiarn, ac si materia accidentaliter se haberet ad species naturales {De
Verit. 0. IV^ a. VI, conlr. ad 2.">). Ora dalla dottrina della creazione da noi
esposta (a cui risponde la dottrina dell'intendere umano , come vedremo)
risultano queste due proposizioni :
1." Che le essenze degli enti finiti non sarebbero, se non fossero slati
tratti all'esistenza i reali, perchè quelle essenze risultano da una relazione
410
4C^j. Ma prima ricapitolando tutta questa descrizione della crea-
zione doU'universo, risulta dalle cose fin qui ragionate:
1." Che Vessere iniziale è tratto per via d'astrazione , che
fa r Intelli.^enza divina liberamente operante, dall'Essere asso-
luto nella l'orma obiettiva, che dicesi il Verbo.
2." Che i reali finiti che formano il termine reale finito
dell'essere iniziale sono fatti esistere dalla forza deW immagina-
zione dell'Essere assoluto nella sua forma subiettiva , che se-
condo la cristiana rivelazione dicesi il Padre.
5." Che i termini reali riferiti, per mezzo della sintesi di-
vina, dall'intelligenza all't'ssere /«ù/a/?^ consideralo questo come
oggetto intelligibile , fanno che si vedano in esso le essenze o
idee degli enti finiti.
4." Che riferito dall'intelligenza , per mezzo della sintesi
divina , l'essere iniziale , non come intelligibile ma puramente
come essenza , ai termini reali finiti , fa che esistano gli enti
finiti subietti vamente e realmente.
Le quali cose ben ritenute, possiamo in qualche modo inten-
dere come la sintesi divina possa ottenere questi due ultimi ef-
fetti. Poiché coWessere iniziale ella informa quel reale ^finito* che
diviene così intelligenza e persona. Gli enti intellettivi hanno il
reale come subietto proprio e l'essere iniziale come oggetto.
Da questo quello riceve l'esistenza , e perciò sono enti subiet-
tivi perfetti, benché finiti. Gli enti all'incontro a cui manca
intellettiva tra il reale e il suo principio, l'essere iniziale ; e questo spiega e
giustifica la ripugnanza dWristotele e di S. Tommaso d'ammettere idee o
essenze indipendenti al tutto dall'esistenza de' reali loro corrispondenti;
2.° Che le idee e le essenze, essendo Vessere iniziale ctie riceve certe
determinazioni dalla mente che a lui riporta i reali finiti, e l'essere iniziale
essendo un'appartenenza di Dio stesso^ anche le essenze o idee hanno una
eccellenza di natura infinitamente superiore ai reali finiti , e certe qualitcà
divine da Dio stesso immediatamente partecipate, tra le quali l'eternità ; il
che spiega e giustifica tutto ciò che Platone dice dell'eccellente natura delle
idee. Ma come Platone semhra non aver bastevolmente meditato sulla ne-
cessaria connessione tra le idee e i reali ; cosi Aristotele sembra non aver
chiaramente inteso la sublime natura delle idee, e invece di stabilire una
relazione necessaria tra le idee e i reali, cadde nell'errore d'immergere
queste nella stessa natura de' reali , quasi la realità come realità ne conte-
nesse il germe o fosser un atto di questa.
411
l'inlelligenza sono de' puri reali, ossia termini, ma gli inlellellivi
percipiendoli o concependoli li apprendono nell'essere iniziale
obiettivo ossia nelle essenze, e così quei termini acquistano Ves-
sere iniziale, il primo elemento pel quale sono e si dicono enti, ed
è di questi che scMiiprc si parla nò si può parlare d'altri: essendo
impossibile parlare d'enti non concepiti, se non per via d'astra-
zione {Binnov. 573 sgg. pag. G37). Onde si può dire in qualche
modo, che la creazione degli enti privi d'intelligenza si continua e
si compie non solo coU'atto dell'intelligenza divina, che veramente
li crea, ma anche coll'atto dell'intelligenza umana e d'ogni
altra intelligenza : ciascuna di queste intelligenze compie la
creazione di tali enti relativa a se stessa. E così la creatura
imita il Creatore (I) Né si può già opporre, che se la mente
(1) A fjiiosto concetto s'avvicina il concetto d'Aristotele, clie dice la mente
essere in qualche modo tutte le cose, e di più ad essa attribuisce l'atto degli
enti : miX rà Sovìijìh Svra ivipyiicc. Glie cosa sono « gli enti in potenza » SuvifiEi
svra? I reali. Ora quelli che gli fa enti in atto hipyda. è la mente, secondo
Aristotele. Dove si osservi che Aristotele non vuole che si dia il nome di
enti alle idee separate dalle cose^ come volea Platone. Dicendo dunque che
gli enti sono resi enti in atto dalla mente, intende àaWente composto di
reale e d'ideale: almeno supponendo coerente il suo discorso. Così pure
dice espressamente che la mentu è l'atto /«i oJtos ó voi? xw/st^Tò», /«i à,u£y/,;,
xaì àTtaS^òs tvj ohsix wv hzp-/ii% {De AH. li), 5). Dice ancora che la mente in
atto — e intende cerlomente la mente obiettiva, che risponde all'essere ini-
ziale— è «il principio della materia» zal -ó àp'/ri t;^; uìrn (Ivi), parole signiii-
cantissime, perchè significano che la mente dà alla materia il suo principio,
che noi diciamo inizio, o atto di essere ; la materia dunque, non potendo es-
sere senza il suo principio, non può essere senza la mente che glielo sommi-
nistra e cosi la fa ente in alto. Laonde anco dice che « la scienza in atto è
lo stesso die la cosa » tò avrò Si iinv -h /.«Tsvépysiav ÈTtiir/i/^/ì Tìi irpay/zaTt (Ivi),
dove per la cosa s'intende certamente l'ente reale informato dalla mente
che lo conosce. Nella mente non entra certamente la materia, né ella dà la
materia, ma alla materia dà il suo atto di essere, e però l'oggetto proprio
della mente è l'essere della cosa senza materia èttì //.sv yàp twv àvsu C//]; tò
alfzà £(7T( TÒ vociuv, xat rè vooùij.vìtj (Ivi, 4). Onde disting\ie la grandezza reale,
TÒ iJ.iyt?ioi, dall'essere della grandezza tò //syi&t slva;, Vacqua reale vòup dal-
l'essere delVacqua tò OS^Tt sìvat, la carne reale s^p?, dall'essere della carne
T^ ff«pxi tlvM, e cos'i dell'altre cose; e l'essere di tutte l'attribuisce alla mente
riconoscendo che l'essere di tutte queste cose è senza materia , e dicendo
xal o).Ms ap% &J5 x^pi<s-z% Tà -Kpi.-njsjxa. rrii '\)'kr\i^ oOtw /.ai tk -rtipl tòv vsuv (Ivi).
L'essere iniziale dunque -h àpx_yì rY,i ùlni è l'atto che viene dato alle cose
H^2
creata fosse quella che aggiunge l'essere ai reali sensibili, questi
non sarebbero quando le intelligenze creale non li conoscessero;
poiché dalla dottrina esposta procede solo, che non sarebbero
relativamente a tali intelligenze , ma sarebbero però relati-
vamente air intelligenza divina che li pose e li creò intenden-
doli; e così creandoli lì rose atti a ricevere anche dallo stesse
intelligenze create quell'essere che possono avere relativamente
ad esse. Quest'essere poi che hanno i reali, relativo a ciascuna
specie delle creale intelligenze e diverso tra loro, è molto più
imperfetto di quello che hanno rispetto all'inlelligen/.a divina,
perchè questa li conosce e penetra interamente, e ogni creata
mente li conosce in una maniera ristretta al nesso fisico che tali
cose reali hanno con ossa, come abbiam detto ( Idcol. 1213 sgg. ;
Rinnov. ^07 sgg. p. 419, b02 sgg. p. 545). Ma nascendo la diffe-
renza dalla realità, che comunica co' diversi sentimenti delle varie
specie d'intelligenze create, cangia bensì Vessenza conoschila della
cosa, poiché questa è la realità disegnata e circoscritta nell'es-
sere; ma non cangia punto Vcssere iniziale^, il quale rimane uguale
dalla mente , e gli vien dato nel momento che questa le concepisce ed in-
tende, onde dice lo stesso Aristotele, che la mente prima d'intendere le cose
non è ninna di esse: ov§iv kcrtv lvip-/dcf. twv Svtwv npìv voiXv (Ivi, 4). Quando
poi le intende, allora l'essere iniziale dato dalla niente si congiunge talmente
colla materia, cioè col reale, che costituisce un unico ente, di maniera che
i due elementi non si possono separare se non per via d'astrazione , onde
rassomiglia questo congiunto al naso rincagnato, da cui non è separabile il
curvo se non per via d'astrazione, che distrugge l'ente ct.ll''Sì(s%tp rò at/^àv
Tùòi h TWÒ5 (Ivi); e di questi astratti appunto che si riferiscono a' reali tratta
la matematica. Per questo nega a Platone, che le essenze delle cose sensibili
siano da queste separate, non avendole la mente che nell'atto nel quale le
congiunge a' reali, e prima di quest'atto essa non avendo che l'essere inde-
terminato, che è tutte quelle essenze ma solo virtualmente; onde la mente
prima d'uscire all'atto della percezione ò tóttov tlo&v ma otri ivzzltyzia. kllà
Suvó.iJ.ii rà ziSv) (Ivi). Ma quantunque i reali, dopo che la mente li ha perce-
piti, sieno enti ne' quali non si possono separare i due elementi di cui ri-
sultano, Vessere e la materia cioè la realità, tuttavia questi due elementi ap-
partengono a due potenze distinte dell'anima kzipM ipx, v) hipMi £xovci /.pìvu
(Ivi). Questa mi sembra la maniera d'intendere Aristotele più inerente alle
sue espressioni. S. Tommaso dice pure, riferendosi a questa dottrina, che
similitiulo creatura est quodammodo ipsa creatura per modani illum, quo
dicitur, quod anima est quodammodo omnia. De Ver. q. IV, a. Vili.
413
per tutte le intelligenze , attesa la sua semplicissima e divina
natura.
Articolo Vili.
Oliavo Corollario — L'Esemplare del Mondo non è il Verbo diùno,
benché i Esemplare si Iron in questo in due modi: \" per
eminenza; 2.° per conseguenza.
405, Dalle cose dette possiamo intendere che cosa sia l'Esem-
plare del Mondo, e come egli si distingua dall'Essere assoluto nella
sua forma obiettiva, a cui la divina rivelazione dà il nome di
Verbo divino.
L'Essere assoluto nella sua forma obiettiva è l'Essere essenzial-
mente inteso per sé slesso. L'essere non ammette divisioni nò.
limitazioni di nessuna sorte : è infinito e perfetto in sé stesso.
Ma l'Essere assoluto nella sua forma subiettiva onde intendere
essenzialmente sé stesso — divenulo così obietto essenzialmente
inleso — ed amare sé stesso, inteso, infinitamente — divenuto cosi
amato — tende ad amare l'essere anche ne' modi finiti. Quindi
egli coW astrazione divina fissa lo sguardo amoroso, e anche libero,
nell'oggetto infinito limitando il suo sguardo all' inizialità del-
l'essere^ e contemporaneamente coW imaginazione divina crea il
reale in quel modo che più gli piace: unendo poi questo reale
colla sintesi divina r\V essere iniziale, vede ad un tempo e crea
tutta la serie e l'ordine degli esseri mondiali. Quando dico: « in
quel modo che più gli piace >:, vengo a dire che l'istinto amo-
roso lo guida a trovare immediatamente (^la quantità, e la specie
e l'ordine dell'ente finito che Mondo ?<ì chiama, appunto per la
sua bellezza. Ora in quanto questa realità così ordinata è ve-
duta WiAVessere iniziale oggettivo, ella é il complesso delle essenze
intelligibili di tutte le cose finite, e questo complesso, che pel
suo ordine è dotato d'armonia e d'unità, dicesi Esemplare del
mondo.
106. Da questo si ricava:
ì." Che l'Esemplare del mondo è creato dall'intelligenza
amorosa e libera di Dio;
2." Che nell'ordine logico di formazione precede la crea-
Uh
zinne dell'essere iniziale , sussegue quella della realità finita ,
viene in terzo luogo V Esemplare , che risulla dalla relazione che
la realità finita ha coWessere iniziale, in quanlo questo è obiel-
livo , e per se intelligibile ; e in quarto luogo viene il Mondo
ossia il complesso degli enti finiti risultanti dalla sintesi del
reale coH'esemplare per mezzo della mente.
5." Che quest'ordine logico non indica punto un ordine di
lempo — essendo tutti atti che Iddio fa nella sua eternità, e tutti
essendo un alto solo, che contiene relativamente a noi le tre
operazioni^ che noi distinguiamo per la necessità che viene dalla
natura del nostro intendere, — di maniera che l'Esemplare fosse
posteriore di tempo alla creazione dell' Essere iniziale , e del
reale. Perocché quando l'istinto amoroso condusse l'Intelligenza
divina a limitare l'obietto infinito a lei essenziale, operava nella
luce , essendo obietto e luce il medesimo, ma esso era scorto
da una luce precedente, logicamente, a quella dell'Esemplare che
trovava in un modo simile a quello che un Artista, usando dei
precetti dell'arte sua come di altrettanti principij ne cava come
conseguenze le belle forme d'una figura , che intende esprimere
nel marmo o sulla tela, o la bella composizione de's'.ioni e dei
sentimenti di cui concreta una musica od un poema. ('oU'alto
stesso dunque, con cui l'Intelligenza creatrice guidata dall'istinto
amoroso trovava e trovando produceva il reale nell'oggetto in-
finito, trovava pure VEsemplare, perchè trovava quel reale come
oggetto cioè unito all'essere iniziale oggettivo. Le tre operazioni
divine , che noi abbiamo distinte, non si possono disgiungere ,
che sono in Dio un solo atto.
4." Che sebbene la realità del mondo sia il fondamento e
il subietto di quella relazione, che dicesi da noi possibilità su-
prema, il termine della quale è l'es.^ere iniziale (I), di maniera
(1) Questa dottrina circa la natura delle relazioni è insegnata da S. Tom-
maso: e da essa deduce che la relazione di creatura al Creatore lia il suo su-
bielto nella creatura, e non viceversa: Quandocumque, dice, aliqua duo sic
se habent ad invicem, quod unum dependet ab altero sed non e converso^
in eo quod dependet ab altero est realis relatio, sed in eo, a quo dependet ,
non est relatio nisi rationis tantum ; prò ut scilicet non potest intelligi
aliquid referri ad alterum, quin intelligatur etiam respectus oppositus ex
parte alterius , ut patet in scientia quce dependet a scibili , et non e con-
4i5
che questa possibilità non si può intendere se non posteriormenle
alla realità stessa; tuttavia dopo conosciuta questa realità, e con
essa designale nell'essere iniziale le essenze delle cose ; queste
essenze (l'Esemplare) hanno una priorità logica, cioè relativa
all'intelligenza, in paragone delle realità stesse; perchè con
quelle essenze queste si conoscono e si fanno enti.
5.0 Che dunque si deve distinguere l'ordine logico noll'allo
della ereazione, e l'ordine logico che risulla dopo la creazione
0 in conseguenza della creazione. Nell'atto della creazione l'or-
dine logico a noi concepibile degli oggetti è, come dicevamo:
ì." il Verbo divino; 2." Vessere iniziale; 3.° i reali finiti; h." le
essenze di questi reali ossia V Esemplare del mondo designato
nell'essere iniziale; o.° il Mondo. Dopo la creazione l'ordine,
che ne risulta relativo all'intelligenza, è all'opposto: ì.° il Verbo:
'^.^ l'essere iniziale; 3.° l'essenze; h.° i reali finiti; 5." il Mondo.
Abbiamo distinto la creazione divina da quella specie di crea-
zione completiva che fa l' intelligenza umana relativamente ai
reali del mondo *privi d'intelligenza. Ora questi due ordini lo-
gici si ravvisano non solo rispetto all'alto creativo di Dio , ma
anche rispetto all'atto creativo che fa l'uomo colla sua intelli-
genza. Quest'atto creativo dell'uomo, col quale fa che alla sua
intelligenza diventino e si possano chiamar enti i reali privi
d'intelligenza come i corpi, si fa ncWa percezione, che risponde
analogicamente all' imaginazione creativa di Dio. Si consideri
dunque la relazione tra le essenze e i reali nell'alto della per-
cezione e dopo la percezione. L'uomo prima della percezione in-
tuisce l'essere iniziale , ma le essenze specifiche delle cose non
esistono ancora per lui. Che cosa accade nella percezione? Ac-
cade , che egli percepisca sensibilmente il reale , e nello stesso
tempo riportandolo colla sua intelligenza all'essere iniziale, che
intuisce , lo oggetlivizzi , e se ne formi l'idea , ossia l'essenza
{Ideol. 55-d7, 63 n., 120 »i., 298 n., 9G1-978, 417, 418,
verso. Unde cimi creatura; omnes a Deo dependeant, sed non e converso, in
creaturis sunt relationes realcs, quibus referuntur ad Deiim, sed in Deo
sunt relationes oppositce secundtim rationem tantum {De Verit. q. IV, V). —
E lo stosso per conseguenza è a dirsi della relazione tra gli enti mondiali e
l'essere iniziale.
U6
4b3 «., 985 n., 337-339. 506, 495, 518, 510, 357, 358,
359, 530, 12"20-1222. — SuWEssenza del conoscere, Inlrod. IV),
e poi unendo le due cose percepisca il reale intellelliv amente, cioè
come ente formato. Vedesi dunque , che anche nella percezione
inlelleltim dell'uomo si riseonlra quest'ordine logico: i.° essere
ideale; 2.° reale sentito; 3.° essenza, o esemplare, come al)
biamo dello appunto dell'alto creativo divino ; 4." ente crealo,
ossia percepito.
Ma qui si ponga attenzione: quest'ordine che abbiamo con-
siderato è assoluto: ma se il pcnsier noslro si restringe a con-
siderare l'ordine relativo alla pura intelligenza , in tal caso il
secondo anello di quest'ordine , cioè il reale sentito, non esiste
più, perchè non è ancora inteso, e però non esiste per l'intel-
ligenza : invece poi di esso se ne soggiunge un terzo , cioè il
reale senti lo -inteso, l'ente formalo. Onde l'ordine logico relativo
all'intelligenza diviene quest'altro: 1." essere iniziale; 2." es-
senza del reale; 3." reale senlilo-inteso. E questo viene a dire
S. Tommaso quando insegna , che intellectus liumani propriam
obieclum est quidditas rei malcrialis , quae sub sensii et imagi-
natione cadil (1); il quidditas non è la cosa stessa materiale, che
cade solo sotto il senso e l' imaginazione , ma è la sua es-
senza, la sua idea, per mezzo della quale la stessa cosa mate-
riale si conosce.
E tale essendo l'ordine della intelligenza — non quello asso
luto della formazione dell'ente — avviene, che se l'ordine lo-
gico di cui parliamo si considera dopo la percezione, quand'è
già fatto l'ente relativamente alla mente nostra, si ritrovi ap-
punto, che Vcssenza precede il reale divenuto ente. Onde questo
per quella si conosce, e non si può né pure intendere , che il
solo reale esista senza di quella, sebbene per astrazione si con-
cepisca essere in via di diventar ente , avendo condizione di
sentito 0 d'imaginalo, nel quale stato si dichiara giustamente
da Platone non-ente.
Il che spiega la vera origine dell'errore de'Sensisti : pongono
essi mente all'ordine di formazione dell'ente, male intendendo que-
st'ordine, e però credono, che il reale sia anteriore, e che dal reale
(1) Swn. I, Lxxxv, v, ad S.""
417
poi si traggano per via d'astrazione le idee. L'errore consiste in
questo, che non vedono che il redo, prima che sia percepito, non
è ente per l'intelligenza umana, e però non esiste per questa ;
ma esso stesso è un concetto astratto dalla percezione intellettiva,
dalla quale togliendosi via l'idea , rimane il puro reale. Da
questo puro reale dunque non si può astrarre l'idea, ma bensì
aggiungergliela, e con quest'aggiunta nasce h percezione inlcllet-
tira, onde poi per mozzo dell'analisi astrattiva si divide l'idea dal
reale, e il reale dall' idea.
E da questo ancora si vede come nell'ordine di tormazione
y essenza determinata, dipendendo dal reale finito, può essere con-
siderata come il subietto della relazione col reale, siccome abbiam
detto prima; ma nell'ordine d'intelligenza il reale già conosciuto
(ente) dipendendo dall'essenza diventa esso stesso il siibietto della
relazione, e l'essenza il termine della stessa. Tutto sta dunque
nella relazione tra il reale puro, e il reale ente.
6.° Vedesi dunque, che l'Esemplare precede al Mondo, ma
che nell'ordine della sua formazione, logicamente parlando, non
precede al puro reale, non-ente, che è un elemento del mondo,
e che il Mondo non è che la sintesi del reale puro colle essenze,
che sono nell'esemplare, fatta prima dalla mente divina, e poi
dall'umana.
467. Può rimanere qualche oscurità su quello che abbiamo
detto, che l'istinto amoroso dell'Essere assoluto nella sua forma
subiettiva trovi nell'Oggetto assoluto il reale colla sua misura,
specie ed ordine, giacché questi pregi appartengono all' intelli-
genza ed alla sapienza, che nel reale cosi preciso, come noi lo
consideriamo, non esiste. — Vero, e per ciò appunto dobbiamo
prima di procedere avanti dichiarare questo punto. Si rammenti
dunque, che l'Oggetto assoluto è il Reale infinito nella sua forma
obiettiva, e, in quanl'è in questa forma, è essenzialmente inteso.
Tutto ciò dunque che l'Assoluto nella forma subiettiva vede in
quest'obietto , sia con uno^ sguardo necessario , che tutto l'ab-
braccia , sia con uno sguardo liberamente limitato , che limita
a se stesso l'Oggetto assoluto , non può esser altro che un
reale nella forma obiettiva e per ciò stesso inteso. Ma essere
inteso vuol dire che il reale è unito coH'essere iniziale : noi
dunque abbiamo separati i due elementi per un'analisi astrattiva,
Rosmini. Teosofia. 27
418
come già abbiamo avvertito, quando nella divina mente furono
sempre uniti, e formanti un solo ente. Ma si domanda, — e que-
sl'è la difficoltà cbe dobbiamo chiarire, — « secondo qual regola
l'Essere subiettivo limita il suo sguardo in modo , che trovi la
realità di misura e di specie e d'ordine fornita, e non una rea-
lità scomposta ed informe », come quella che descrive Platone
nel Timeo? Ahbiam detto coll'istinto amoroso di quell'Intelli-
genza pratica. Ma l'amore, si risponde, cbe cerca e non ha
ancora il suo oggetto , è cieco. Certamente , e perciò aggiun-
giamo cbe l'amore divino era guidato nella ricerca del reale,
ossia nello stabilire i limiti entro a cui conteneva lo sguardo
creativo, òàWessere iniziale stesso. Perocché l'astrazione divina
di questo non avea bisogno d'altro lume , le bastava il desi-
derio di creare Tente finito, essendo Y essere iniziale V inizio de-
terminato da sé d'ogni creazione e d'ogni ente finito, onde non
c'erano piìi ogg(^lli possibili tra cui scegliere rispetto a questo,
essendo comunissimo, unico, e identico inizio di tutte le cose.
Questo poi era il principio direttivo dell'Amore nel trovare il
reale misur;ito, specificato, ordinato. Perocché neWesscre ideale
si contengono tutti i principi della sapienza applicabili al finito,
non essendo i principi di cognizione, d'identità, di contraddizione,
e gli altri tutti a questi subordinati, e i principi stessi dell'or-
dine dell'essere, se non Tessere iniziale applicato [Ideol. 559-574,
1452, 1455). Laonde ricorrendo all'analogia di sopra adoperata,
siccome la mente d'un artista da principi dell'arte sua è guidata
a trovare i più bei tipi de'suoi lavori; così la divina mente
coi principi sapienziali , che sono nell'essere iniziale lutti con-
tenuti come conseguenze d'applicazione, applicando la detta re-
gola dell'essere ideale al Reale assoluto trova e determina quel
reale finito, cbe nella sua finitezza sia ottimo e perfetto tanto
per riguardo al numero , peso e misura , quanto per riguardo
alle specie e al loro ordine acciocché ottengano il fine pro-
[)rio dello stesso amore. Se non che l'artista concepisce prima
il tipo nella mente e poi l'esprime nella materia reale; quando
la Mente divina concepisce il reale stesso come dev'essere ,
a quel modo , che accade all'uomo nella percezione intellet-
tiva. Ma come nell'ordine puramente intellettivo precede logi-
camente l'essenza, o tipo — anche nella percezione — e rimane
419
escluso il puro reale, susseguendo poi come reale ente; così
neH'ordine intellettivo divino precede del pari il mondo de' prin-
cipi e delle conseguenze, e le essenze quindi che compongono
l'esemplare, e a ques!o sussegue il reale ente, cioè il mondo,
restando escluso il reale puro. Questo però sì concepisce da noi
come antecedente nell'ordine di formazione e di naturazione, ed
è così che si spiega l'origine del concetto che ebbero gli anti-
chi della materia informo anteriore alle forme stesse, quale ap-
punto alatone nel Timeo la descrive, benché nel descriverla egli
stesso, senza accorgersi, le dia alcune forme, non però quella
dell'ordine universale, a cui pose quasi esclusiva attenzione quel
gran filosofo.
4C8. Chiarita dunque in questo modo la natura del divino Esem-
plare , accostiamoci a provare la nostra tesi. Questa ha due parti,
la prima, che l'Esemplare none il Verbo divino, la seconda
che è contenuto nel Verbo divino in un modo eminente ed im-
plicito, e in un modo conseguente ed esplicito.
Ora che l'Esemplare non sia il Verbo divino, oltre risultare
da altre prove già toccate, si dimostra così.
Il Verbo divino non è suscettivo di limitazioni , di divisioni
in ispecie, di quantità o di misura, laddove l'Esemplare è un
complesso d'idee divise come sono divisi gli enti mondiali, a-
vente il numero e la misura di questi. Il che basta per inten-
dere che non può essere il Verbo divino. Chi è che dà e de-
termina le limitazioni a tutto questo complesso di essenze e a
ciascuna di esse? L'intelligenza pratica di Dio, che opera libe-
ramente. Queste limitazioni dunque, come pure le molte es-
senze specifiche da quelle circoscritte diverse dal Verbo divino,
non possono essere enti in sé , e però rimangono puri enti di
ragione j che hanno un'esistenza vera, ma relativa alla mente,
che producendole le contempla. Lo stesso convien dire delle es-
senze 0 idee generiche sino alle più universali , che in quelle
sono implicitamente contenute e per un'astrazione su quelle si
trovano, l'ultima delle quali è la stessa idea dell'essere, o es-
sere iniziale, che nelle sue più universali applicazioni si trasforma
in tutti i principi della ragione. E lutto questo mondo di entità di
pura ragione, che in sé non sono ma soltanto nella mente di-
vina, costituiscono insieme coll'arte d'usarne la Sfipienza creata.
alla quale convenientemente si applicano quelle parole : « Dal
principio e prima de' secoli sono stata creata)) (1); e quell'al-
tre « Ab eterno sono stata ordinata, e in antico prima che fosse
fatta la terra — Ero con lui, quando componeva tutte le cose (2).
In secondo luogo abbiam veduto , che le limitazioni , che cir-
coscrivono le essenze o idee delle cose mondiali dipendono nel-
l'atto della loro formazione dal reale (3) , che piace a Dio di
creare, cioè dal reale finito, il quale viene circoscritto e ordi-
nato secondo la guida dell'essere iniziale che contiene i supremi
principi della ragione. Ora il Verbo non ha dipendenza di sorta
alcuna nò dalla libera volontà di Dio, né dall'essere Ì7iiziale,
che da lui si astrae, né dal reale finito determinato da quest'es-
sere iniziale medesimo , in quant'é oggetto intelligibile. Dunque
l'Esemplare del mondo non é il Verbo divino, ma è la Sapienza
creata ab eterno relativa all'ente creato.
Ora primo di procedere oltre a dimostrare la seconda parte
della nostra tesi gioverà che confrontiamo questa dottrina con
quella del maggior filosofo d'Italia , e forse del mondo , che il
pensiero dell'individuo rimane non poco avvalorato ^ e rassicu-
rato di sé, quando si trova d'accordo col pensiero d'altri indi-
vidui dei |)iù sapienti.
AG9. Il filosofo d'Aquino dunque distingue : 1.° l'alio con cui
Iddio intonde le cose; 2." la specie con cui le intende; o.° le
cose intese; '}.° le ragioni specifiche ossia le idee o ragioni delle
cose intese.
(1) Ecclesiast. XXIV, U.
(2) Prov. Vili, 23, 30.
(3) Quando S. Tommnso dice dell'essenza divina : Potest autem cognosci
non solum secundum quod in se est, sed secimdum quod est participa-
bilis secundum aliquem modam simililudinis A CREATI] MS (Sum. I,
XV, li), ricorre anch'egli per ispiegare i possibili ossia le idee divine alla
relazione colle creature. Oneste dunque nell'ordine logico si suppongono
in qualche modo preesistenti, come il fondamento della relazione coll'es-
senza divina, dalla quale nascono le idee, ossia plures rationcs proprias
PLURIUM RERUM. Convien dunque per concepire le idee specifiche delle
cose mondiali in Dio presupporre non già, che le cose esistano nel tenqio,
ma che ab eterno esista l'atto creativo, Viniaginazione divina del reale,
con cui il reale ab eterno si crea nel tempo.
421
L'atto dell'intelligenza divin.i è unico, onde dice, che uno
intellectii infelligit multa (1),
La specie concai l' intelligenza divina intende le cose finite è
pure una , benché le cose intese , e di conseguente le idee, siano
molte. Definisce la specie: Forma faciens intelleclum in actu , e
soggiunge; Non est autem con tra simplicilatem divini inlellectiis
quod multa inleUicjat , sed cantra simplicilatem eius esset , si per
plures speeies eius intellcctus formuretur (2). Ora che cosa è que-
sta specie unica che S. Tommaso distingue, secondo la ragione,
dal divino intelletto, dicendo, che da essa il divino intelletto
è informato , cioè posto in atto a conoscere tutti gli enti finiti?
Che cos'è questa specie, colla quale s'intendono tutti i finiti?
Dice lo stesso S. Tommaso altrove, che la /orma che perfeziona
una potenza deve estendersi a tutte le cose, a cui la potenza si
estende (5). Ora questa forma , che rispetto all'intelligenza è la
specie, per estendersi a tutti i finiti , per contenerli tutti sotto
di sé, non può esser altro che V essere iniziale e yìvluaìe , onde
ninna sentenza più comune in S. Tommaso di questa, che ob-
jcctum intellcctus est ens vel veruni commune (4). L'essere iniziale
dunque è quella specie unica che informa il divino intelletto alla
cognizione de' finiti , e nella quale , e per la quale tutti li co-
nosce.
Le cose intese sono gli enti finiti, i quali nella loro esistenza
propria ed in sé sono fuori di Dio, e però la loro moltiplicità
niente detrae alla divina semplicità.
Le idee poi ossia le ragioni specifiche di questi enti finiti , sono
la relazione che l'elemento reale determinato ha coU'essenza di-
vina , riferito alla quale ella acquista la ragione di loro similitu-
dine. Tommaso De Vio, « che il gran commento feo », osserva,
che il concetto dell'idea specifica importa una relazione alla cosa,
di cui è idea, e che nell'essenza divina, essendo sem|)licissima,
non può esserci che il fondamento , appunto come abbiamo di
(1) Sum. \. XV, li.
(2) S. I. XV, II.
(3) Oportet autem ad hoc quod potentia perfecte compleatur per formam,
quod omnia contineantur sub forma ad qwe potentia se extendit. Sum. I,
Lv, i; Cf. Rinnovamento 575 sgg. pag. 640,
(l) Sum. I. LV, 1.
422
sopra detto del Verbo divino. Le sue parole meritano d'esser qui
riportate: Cum ìllud (fandamenlum imilabililalis) sit omnino unum
in omnibus ideis , quia est ipsa simplicissima essentia divina^ in qua
non polest distingui ahsolutam imitabile a lapide ab absoluto imita-
bili a leone, non posset sustineri pluralitas idearum in Beo. Pkires
enim ideas inlelHgere est impossibile nisi signifìcalum idem plurifica-
tum intelligatur (i). E quindi deduce che le idee non si possono
concepire col solo concetto dell' imitabilità dell'essenza divina,
ma che le idee sono 1' essenza divina solo in questo senso che
l'essenza divina è imitabile dalle creature, ma questo altro non
significa, se non che l'essenza divina è il fondamento delle idee,
non ancora le idee, e quindi per aver queste conviene aggiun-
gere i rispetti diversi dell' essenza divina alle diverse crea-
ture, 0 per dir meglio i rispetti di queste, che sono diverse,
a quella , e questi respectus rispondono agli sguardi liberamente
limitati dell'intelletto divino, di cui dicevamo più sopra. Ora
questi rispetti — dice questo celeberrimo e perspicacissimo inter-
prete di S. Tommaso — sono quelli, che costituiscono le idee di-
vine e sono falli (.lai divino intelletto: « Respectus isti, dice,
distinguenles ideas, cum sint etiam constitutivi earum, non con-
sequuntar actum intellectus divini intelligentis ideas, sed fiunt per
actum intellectus divini intelligentis essentiani suam comparative (2).
(1) In Sum. I. XV, II ad 2.™ et 3."^
(2) In Sum. I. XV, li ad 2.™ et S.™ — Il De Vio soggiunge, che « questi
rispetti idetili non sono necessari in Dio, acciocché intenda distintamente le
creature , perchè la perfezione delhi divina intellezione nulla mendica dai
rispetti di ragione, ma sono necessariamente costituiti in conseguenza delia
perfezione della stessa intellezione divina ». Questo luogo ci sembra difficile
ad intendere, perchè: 1." Se si riconoscono necessari tali rispetti alla per-
fezione della divina intellezione, niente vieta , che si riconoscano necessari
anche alla distinta cognizione delle cose: nulla questo detrae alla divina intel-
ligenza e scienza ; 2." S. Tommaso li considera come necessari alla cognizione
divina dell'ordine dell'universo dicendo: Ratio antem alicuins totius haberì
non potcst, nisi habeantur proprice rationes eorum ex quibus totum consti-
tuitiir {Sum. 1, XV, ii); 3." Lo stesso De Vio osserva, che essendo l'essenza
divina semplicissima, iu essa non si potrebbe dintinguere le idee, se dall' in-
telletto divino non fosse considerata come imitahile sotto diversi rispelli
cioè da diverse creature.: l'intelletto divino le intenderebbe bensì tutte in
un modo implicito, ma non distinte. Farmi dunque, che il sentimento del
De Vio devasi spiegare così, acciocché sia vero: « Iddio crea le cose facendo
423
470. Un'apparente diversità si troverà forse tra questa dottrina
dell'Angelico e quella che abbiamo esposta, avendo noi detto del
Verbo divino quello che S. Tommaso dice della divina essenza.
Cioè noi dicevamo, che l'Essere assoluto nella sua forma subiettiva
riguarda nell'Essere assoluto nella forma obiettiva con uno sguardo
liberamente limitato e che con questo sguardo, vedendo, crea gli
enti finiti, cioè le loro idee e il reale che li costituisce subietli-
vamente : il che l'Angelico sembra dire deWessenza divina imita-
bile dalle creature. iMa la diversità è solo apparente, perocché
l'essenza divina è anche nel Verbo, e l'intelligenza subiettiva
di Dio la vede nel Verbo, a cui è comunicata nella forma obiet-
tiva, né senza il Verbo può stare la divina essenza (i).
Pure, dacché *la divina essenza nel Verbo è semplicissima ed
infinita e non ammette limitazioni, queste vengono costituite dal-
l'intelligenza subiettiva e libera. Ma poiché l'oggetto ha due
modi di essere, l'uno in sé, e in tanto l'Essere assoluto oggetto
dicesi Verbo, l'altro nell'intelletto conoscente, e intanto l'og-
getto dicesi idea, gli oggetti limitati, cioè l'essenze limitate de-
gli enti finiti sono primieramente soltanto nell'intelletto subiet-
tivo divino, dal quale vengono costituiti (2). E dico, che « pri-
collo stesso atto nascere le idee o essenze loro e la realità di cui si com-
pongono ». Non Ila dunque Insogno d'aver prima respectus rationis cioè le
idee astratte e separate dalle cose. E quest'è quello clie noi appunto di-
cevamo.
(1) Il De Vio riconosce, che l'idea conviene alla divina essenza in qnant'è
oggetto , e elle : Hoc palei non convenire divina; essentice secundum quod
est mere naturaliter , sed secundum quod est obiecta divince nienti , e
contro lo Scoto aggiunge che Vessere obiettivo in Dio è reale: licci esse
ohiectivum in communi non sii reale : esse tamen obiectivum apud intellec-
tmn divinum est reale {In Sum. 1, xv, i). Ora per quanto io vedo, se Vessere
obiettivo in Dio è reale deve essere distinto realmente daWessere subiettivo,
e non essendovi altre distinzioni reali in Dio che quelle delle divine per-
sone, convien dire , che Vessere obiettivo reale in Dio, in qnant'è dal Padre
pronunciato e così generato, sia il divin Vcii)o, e così venga ogni oliiettività
all'intelletto, ossia all'Essere subiettivo.
(2) S. Tommaso prova doversi ammettere le idee nella mente divina in
questo modo. 1." Definisce l'idee fornice alia rum rerum pr(8ter ipsas res
existentes. 2.° Dice che la forma ha due uffici : di servir d'esemplare, ed è
la guida della ragione pratica, e d'esser principio di cognizione in quanto
si dice essere nel conoscente , e cosi è principio della ragione speculativa.
424
mieramente sono soltanto nell' intelletto divino dal quale ven-
gono costiluili » per questo, che essi sono costituiti dalle linìita-
zioni nel loro esser proprio d'idee specitìche diverse relative ai
diversi enti finiti : non potendo essere il Verbo subielto di limi-
tazioni (1). Ora sebbene il principio dell'intelletto divino — come
d'ogni altra cosa, che si concepisce nel divino essere — sia quello
che noi linguaggio della cristiana sapienza dicesi Padre, tutta-
via l'intelletto appartiene alla divina essenza, che il Padre co-
munica al Figliuolo, e allo Spirito Santo: e però le idee divine
giustamente si dicono essere nella divina essenza. E ciononostante,
come in priYicipio , appartengono al Padre, di cui S. Tommaso
dice , che Pater scicntia sua continet omnem creaturam velut cxem-
plar creaturcB tolius {"2).
471. Veniamo ora aila seconda parte della nostra tesi, la quale
diceva, che l'Esemplare divino del mondo è nel Verbo in un
modo eminente e in un modo conseguente.
Forma autem alkuius rei proìter ipsam existens ad duo esse potest, vel ut
sit exemplar eius, cuius dicitur forma, vel ut sit principium cognitionis ipsius
secundum quod fornice coynoscibiUum dicuntur esse in cognoscente. 3." Dice
che nell'uno e nell'altro modo si devono arametlere in Dio, et quantum ad
ntrumque necesse est ponere ideas; e qui osservo, clie S. Tommaso am-
mette le idee in Dio anche come principio di cognizione, ben inteso com'è
principio di cognizione l'oggetto inteso. 4.° Di che conchiude^ che avendo
Iddio fatto il mondo come un artefice con intelligenza, dovea avere in sé
la forma a cui similitudine il mondo fu fatto; et in hoc consistit ratio idem
{Sum. ], XV, lì. Questo però non vuol dire, che l'Esemplare già formato ed
esplicito sia anteriore all'atto creativo del reale. Secondo che pare a noi ,
logicauientc non è anteriore che l'Essere iniziale, che è Vesemplare impli-
cito. E veramente il principium cognitionis è solo l'essere iniziale, essendo
le idee lui stesso applicato a conoscer le cose che lo determinano.
(1) Da questo indotto Giovanni Duns Scoto negò, che le idee diverse sieno
in Dio l'essenza divina {In I. D. XXXV). Ma la questione sembra più di parole
che d'altro. Poiché il fondo delle idee non può essere altro che l'es-
senza divina ohiettiva, dove l'intelletto divino quasi le sogna, le circoscrive,
e le moltiplica. Ora queste segnature e circoscrizioni rimangono nell'intel-
letto divino subiettivo, ma ci rimangono colla forma obicttiva^ che vien loro
dalla divina essenza obiettiva, in cui sono dal divino pensiero segnate. Ma lo
stesso intelletto divino è l'essenza divina nella forma subiettiva. Non si può
dunque negare, ch'esse sieno tutte l'essenza divina in quanto hanno il loro
fondo reale in Dio.
(2) De Verit. q. IV, a. IV ad l.™
428
In un modo eminente : avendo noi veduto che il Verbo divino
è l'Essere assoluto obiettivo in quant'è pronunciato e così gene-
ralo dall' Essere assoluto subiettivo — il Padre, — e che l'intelli-
genza subiettiva e libera del Padre vede in esso l'essere iniziale
e le essenze delle cose, che circoscrive e moltiplica secondo il
principio della sapienza creatrice, che è lo stesso essere iniziale;
egli è manifesto, che tanto l'essere iniziale quanto le idee o es-
senze determinate, delle quali consta l'Esemplare del mondo,
sono tutte nel Verbo divino in un modo eminente, cioè come
il meno sta nel più, come il limitato sta nell'illimitato, come
nel circolo sono contenuti lutti i poligoni
In un modo conseguente: in quanto, che il Pndre pronun-
ciando se stesso , oggettivandosi , e così generando il suoVerbo,
dice con ciò tutto ciò che egli ha, e quindi anche il suo allo crea-
tivo e libero^ anche il suo alto intellettivo, e quell'alto (che è
sempre un solo allo) con cui intende d'intendere (1), e quindi an-
(1) S. Tommaso dislingue l'intonrlere che fa Iddio l'idea unita al reale, e
l'intendere la stessa idea astratta dal reale, attribuendo questa seconda co-
gnizione ad una riflessione che astrae l'idea, e lascia il reale. Arlifex, dice,
dum inielligii formam domus in materia, dicitur intelligere dotmim: dum
tanien iììteUigit formam domus vt a se speculatam, ex eo quod intelligit se
intelligere eam , intelUf/it ideam, tei rationem domus. Ora che cos'è « la
forma della casa nella materia »? È la casa stessa, risponde S. Tommaso, e
però intelligere formam. domus in materia è intelligere domum. L' inten-
dere dunque la forma o idea insieme colla materia corrisponde a quelle fun-
zioni, che nell'uomo si dicono percezione e imaginazione. Ora una funzione
analoga ripone S. Tommaso in IJio nell'intelletto divino, alla quale fa sus-
seguir l'altra, che considera Videa separala dalla materia. E che questa sia
logicamente posteriore, vedesi da questo, che esige l'intendere d'intendere,
cioè una riflessione sulla prima (ex eo quod intelligit se intellijere). Con-
tinua dunque l'Angelico ad applicare l'analogia dell'artefice a Dio cosi : Deus
autem non solum intelligit multas RES per essentiam suam sed etiam in-
telligit se intelligere multa per essentiam suam. Sed hoc est intelligere
plures rationes rerum, vel plures ideas esse in intellectu eius,utiniellectas.
(Smn. I, XV. Il ad 2."'). Secondo S. Tommaso dunque Iddio prima conosce le
cose, che crea, la loro forma nella materia, e poi per una riflessione astraente
conosce le idee pure , cioè le forme separate dalla materia. E quest'è pure
il processo da noi descritto nell'intelligenza divina. Se dunque per esem-
plare s'intende il complesso delle idee pure separate dalla materia, che noi
chiamiamo l'Esemplare esplicito ; questo sussegue all'alio della creazione e
Iddio non ha bisogno di esso per creare, e in questo senso abbracciamo l'o-
426
che le cose da lui intese e create, onde la celebre sentenza di
S. Anselmo , che uno eodemque Verbo dicit seipsum et oinnem crea-
tiiram (1). E questa è la dottrina di S. Tommaso, seguita da
lutti, credo, i teologi : « in Dio — dice — a ciò che il Verbo di
« lui sia perfetto, è necessario, che il Verbo di lui esprima tutto
«ciò, che si contiene in quello da cui nasce, massimamente
« che Iddio con uno intuito vede tutte le cose non in un modo di-
« viso. Così dunque è d'uopo , che tutto ciò che si contiene nella
« scienza del Padre , tutto questo s'esprima per un solo suo verbo
«e s'esprima in quel modo, nel quale è nella scienza contenuto,
« acciocché sia vero Verbo corrispondente per lascicnza alsuoprin-
tt cipio, e che il suo Verbo esprima principalmente (principaliter)
« lo stesso Padre, e j)er conseguente (coìisequenler) tutte l'altre
« cose, che il Padre conosce conoscendo se slesso, e così il Fi-
« gliuolo, per ciò stesso che è Verbo esprimente perfettamente il
« Padre, esprime ogni creatura; e quest'ordine si mostra nelle pa-
ce role d'Anselmo, ilqualdice: che dicendo sé dice ogni creatura)) (2).
472. E qui conviene attentamente considerare le due differenze,
che S. Tommaso assegna tra Videa e il Verbo di Dio. La prima
consiste in questo, che le idee sono prima nel Padre, la cui li-
pinione del Gaetano, che Iddio non !ia bisogno di queste idee per conoscere
e creare le cose^ ma conseguono come perfezione dell'intelletto divino: Ex
hoc autem habes quod respectus idealdS non ponuntur ìiecessarii ad hoc ut
Deus distincte intelligat creaturas — sed ponuntur necessarii ut necessario
constituti ex perfectione intellectionis divinaedn l. e). Ma se per Esemplare
s'intende l'esempkn'e implicito ììeWessere iniziale, e le idee che Iddio creante
forma nell'atto stesso che imngina i reali sussistenti , e cosi insieme con
questi le crea; in tal caso l'Esemplare logicamente precede l'alto creativo.
E che questo sia il vero sentimento di S. Tommaso — henchè da alcuni altri
luoghi possa parere il contrario, — parmi potersi chiaramente inferire da ciò,
che costantemente insegna i diversi rispetti dell'intelligenza divina esser
quelli, che moltiplicano le idee, ma questi non esser reali, ma di pura ra-
gione: Non tnmen sìint reales respectus sicut ilU quibits distinguuntur per-
sona, sed respectus inteìlecti a Deo. {Sum. I. XV. II ad 4-.™;. Questi rispetti
0 sguardi esigono un oggetto : questo oggetto non possono esser le idee
molteplici , perchè sono essi che le producono : dunque non possono essere
che i reali finiti, i quali essendo molti costituiscono molte relazioni colla
divina essenza, e queste riguardate da Dio sono le idee determinate.
(1) Monol. C. XXXII.
(2) De Vent. IV, iv.
427
bera intelligenza creando il mondo ab eterno le costituisce come
altrettanti respeclus rationis e però appartengono all'essenza di-
vina , die poi dal Padre viene comunicata al Verbo , onde al
Verbo appartengono le idee come un esemplare dedotto da un
altro. Ecco le sue parole : « DifTerisce il Verbo dall'idea. Poiché
« l'idea nomina una forma esemplare assolutamente, ma il Verbo
« del creato in Dio nomina la forma esemplare dedotta da un al-
(( tro , e però l'idea in Dio appartiene all'essenza , ma il Verbo
« alla persona » (i).
Il che rimane spiegalo da quello che abbiamo detto , che l'og-
getto in Dio, parlando in universale, si concepisce secondo due
modi d'esistere, cioè in sé, e come tale è persona. Verbo divino
generato dal Padre, e nell'intelletto divino, e come tale é idea.
iMa le idee diverse delle cose hanno solamente esistenza nell'in-
telletto divino, e non in sé — che sarebbe un ammettere le
idee separate in sé esistenti, come altrettanti Iddii — perché
sono enti mentali, respectus ralionis. L'intelletto divino poi ap-
partiene prima al Padre — prima forma subiettiva dell'Essere
assoluto — e il Padre lo comunica coU'essenza all'altre due per-
sone, e così l'idea appartiene, come forma esemplare assoluta-
mente presa, all'essenza, in quanto questa è il Padre che libe-
ramente intende e crea, e poi come comunicata al Verbo.
La seconda differenza che pone S. Tommaso tra le idee di-
vine e il Verbo si è, che quelle riguardano direttamente le crea-
ture, ed essendo queste molte , molte sono le idee, perché ogni
crealu-a ha una diversa relazione coU'essenza divina, ma il
Verbo riguarda dinMIamcnte Dio, e però è un solo (2). Dove si
vede, che propriamente parlando non si dà in Dio idea del Verbo,
se non in quanto anche le idee negative, che le intelligenze fì-
(1) Verhum differì ab idea. Idea enim nominai fonnam exemplarem ab-
solute, sed Verbum crealurac in Beo nominai formani exemplarem ab alio
dedmiam. Et ideo idea in Beo ad essentiam pertinel; sed Verbum ad per-
sonam. — De Verit. IV, iv ad 'i.™
(2) Apparet alia differentia inter ideam et verbum, quia idea directe
respicit creaturam, et ideo plurium creaturarum sunt plures ideae; sed
Verbum respicit directe Deum., qui primo per Verbum exprimitur, et ex
consequenti crealuram, et quia crealurae, seeundum quod in Beo sunt,
unum stint, creaturarum omnium est unum verbum. De Verit. IV, iv ad 5.^
428
nite hanno del Verbo, sono conosciute da Dio; ma la slessa esi-
stenza in sé del Verbo è anche l'esistenza sua nell'intelligenza
divina, e però non si danno in questo oggetto assoluto due modi,
ma un solo modo di essere, come pure m'W idea, che si riferi-
sce alla creatura , non si danno due modi di essere , ma un solo ,
quello pel quale è nell'intelligenza (1).
(1) Noi abbiamo detto, clie « il Verbo è l'Essere assoluto per sé inteso
come atto sussistente del Padre, che dice o aflerma sé stesso ». Questo ha
bisogno di spiegazione. Nell'uomo la cosa intesa, l'oggetto, può stare sempre
davanti alla mente in due modi : 1." come puro oggetto (idea); 2." come og-
getto affermato (verbo) [Ideal. 531-534., 495 w., 1328 n.). Quindi una doppia
cognizione nell'uomo d'intuizione, e d'affermazione , ossia di predicazione.
Ma in Dio relativamente a se stesso non ci può essere una distinzione reale
tra queste due maniere di cognizione, sicché importino due atti. La ragione
per la quale è nell'uomo questa duplicità di cognizione si é, che l'uomo col
suo atto non può creare né generare l'oggetto, ma questo gli è dato dal di
fuori, essendo esso Yessere iniziale, e l'uomo non fa che riceverlo. Non ri-
mane dunque all'attività umana, che di congiungere l'oggetto essenziale ,
che gli è dato, ai sensibili e così percepirli intellettivamente, e la percezione
intellettiva é il primo verbo, che l'uomo pronuncia. Ma Iddio costituisce egli
stesso colla propria attività sé stesso come oggetto coli'atto stesso con cui si
afferma, e questo è il Verbo divino uscente dal Padre.
In secondo luogo. Vallo dell'uomo, con cui afferma l'oggetto intuito, rimane
necessariamente distinto dall'affermante, perché è un atto accidentale, e dal-
Voggetto affermato, perchè l'oggetto non uscendo dall'uomo stesso, ma es-
sendo ricevuto dall'uomo dal di fuori, esso non può esser l'atto stesso del-
l'uomo. Ma in Dio la cosa non va così quando il Padre afferma sé stesso,
perchè, uscendo l'oggetto dal subietto intelligente per un atto necessario e
non accidentale, è il medesimo l'atto uscito e l'oggetto del Padre dicente
lutto sé stesso. Onde non c'è Voperazione distinta realmente dal dicente e
dal detto , e quasi media tra essi, ma non c'è altro di così distinto , che il
dicente o generante e il detto o generato, che é l'oggetto e l'alto ultimato in
se stesso.
Qui si dirà forse, che non differendo in Dio l'operazione dall'essenza di-
vina pare con questo che sia l'essenza che genera e non il Padre, e si con-
fermerà l'obiezione con S. Tommaso che dice: Hoc nomen operatio , quae
procul dubio importai aliquid procedens ab operante, tamen ('in Deo) iste
processus non est nisi secundnm rationem tantum : unde operatio in di-
vinis non personaliter sed essentialiter dicitur, quia in Deo non differì
essentia, virlus, et operatio {De Verit. IV, ii). Ma rispondiamo, che Vessenza
divina in quanl'é generante è appunto il Padre.
In terzo luogo, l'alto intellettivo dell'uomo si può concepire in due mo-
menti : nell'atto stesso del farsi, e quand'egli è già fatto. Ma questo nasce
429
Articolo IX.
Nono Corollario. — Il reale creato non è il reale divino.
473. Avendo noi veduto, che il reale divino è infinito e in-
divisibile, e che non animelle nissuna distinzione reale, mn è
tutto intero in ciascuna delle tre forme primordiali dell'essere,
consegue ch'esso non possa essere il reale finito.
In secondo luogo, il reale finito è la forma subiettiva finita del-
l'essere. iMa la forma subiettiva dell' essere acciocché sia com-
piuta importa un sentimento proprio, che per mezzo dell'intelli-
genza diventa consapevolezza, come accade nell'uomo. Ora l'uomo
è consapevole d'essere un sentimento finito, e d'avere un istinto
e una potenza finita, e questa consapevolezza *non può non
averla* essendo lui stesso : quindi egli non è il reale infinito ,
appunto perchè quest'atto nell'uomo è accidentale, e però si concepisce un
momento nel qiiale passa dal non essei'e all'essere , nel quale non è ancora
del tutto secondo il detto scolastico, in aciu actus nondum est actus. A cui
si risponde, ctie questo stato di mezzo tra il non essere e l'essere compiu-
tamente non si può veramente concepire, se non in quegli alti , che occu-
pano qualche tempo a ultimarsi, e non in quelli che si fanno fuori del tempo,
come sono i divini {Logic. 51). Ma anche senza di questo, l'alto della ge-
nerazione del Verbo è sempre compiuto ab eterno e non mai incipiente, e
né tampoco si può concepire come incipiente, senza falsarne il concetto.
Onde il Verbo non passa mai dal non essere all'essere , ma è sempre og-
getto inteso e affermato in atto, e com'è Verbo del Padre, così è atto sus-
sistente in sé, ed oggetto eterno del Padre (a), ed è anche atto compiuto in
sé, perchè è per sé e in sé essenzialmente inteso e affermato, e come tale per-
sona sussistente.
[a) L'atto intellettivo, con cui (quo) il Padre genera il Figlio appartiene alla natura divina e
però è comune al Padre e al Figlio; ma questa natura d.vina attualmente intelligente, non
presa in astratto ma in quanto è generante, è il Padre, e questa natura divina stessa e identica
di numero, in quanto è notizia espressa e attuale, cioè è oggetto afiermato e in sé sussistente,
è il Figlio. Onde S. Tommaso (5Mm. L XLI, vj: /D (/«o PATER generatesi natura divina,
in qua sibi Filius assimilatur, et sccundum hoc Damascenìts dicit (L. I. De fld. ori. 8) quod
<i generano est opus naturce non sicut gencrantis, sed sicut eins, quo generans general a.
E ad 1." Id guo generans general est comune genito et generanti. — Cf. Jo. Lamy. De recla
Niccenorum fide C. XXXUL 12 dove mostra che il Concilio, che definì che essentia non est
generans, intese dell'essenza assolutamente presa con astrazione dalle persone, non come sus-
sistente nella persona del Padre, e fornita di proprietà peculiare.
430
perchè reale finito e sentimento consapevole finito sono termini
identici.
In terzo luogo, l'uomo sa per la propria consapevolezza di
non essere quell'oggetto, colla intuizione del quale conosce sé
stesso, il quale oggetto è l'essere {Ideol. 439-442, 980-
98:2. 11.) (1), poiché sa di non essere Tessere stesso. Ora il reale
divino esiste necessariamente anche nella forma obiettiva per sé,
dunque l'ente reale finito non ha la realità infinita e divina.
Un quarto argomento si può cavare dalla consapevolezza, che
ha la creatura reale finita dotata d'intelligenza di non essere nella
forma morale per sé, ma solo riferendo se stessa all'infinito.
Che se il reale della creatura intelligente non é il reale di-
vino, molto meno può esser tale il reale proprio di quegli enti,
che non hanno intelligenza, il quale è troppo inferiore e troppo
più limitato.
Articolo X.
Decimo Corollario. — // reale degli enti finiti, in quanf è pro-
prio di questi ed appartiene alla loro esistenza subiettiva, o e-
strasoggettiva , è fuori di Dio ; ma neW Essere assoluto obiet-
tivo , come obietto deWalto intellettivo creature, esiste eminente-
mente.
474. Dopo aver noi parlato dell'essere iniziale e delle essenze
finite, che costituiscono l'Esemplare del Mondo, e veduto come si
formi , e come esista in Dio , dobbiamo parlare del secondo
elemento degli enti finiti, che è il reale.
La tesi che ci siamo proposta da dimostrare ha due parti, la
prima delle quali si è che « il reale degli enti finiti in quanto
è proprio di questi ed appartiene alla loro esistenza subiettiva,
od estrasoggettiva, è fuori di Dio».
Ora coll'espressione « è fuori di Dio « altro non si vuol dire ,
se non che « il reale finito in quanto appartiene all'esistenza su-
(1) Quando mens intelligit seipsam, dice anclie S. Tommaso, eius con-
ceptio non est ipsa mens, sed aliquid expressum a notitia mentis {De
Verit. IV, 11).
431
bietliva degli enti finiti , non costituisce l'essenza divina , o al-
cuna parte di questa essenza «.
Si prova in primo luogo da questo , che all'essere finito è es-
senziale la finità , e all'essere infinito l'infinità, e l'unii di que-
ste due proprietà essenziali, come contradditorie, esclude l'altra.
Onde ne tiasce la legge ontologica del pensiero : « Il ter-
mine del pensiero è un finito o un infinito « [Psicol. 4381 sgg.).
La ragione intima di questo si è, che « la finità e l'infinità sono
proprietà dell'essere! , e l'essere diventa un'entità diversa per
qualsivoglia differenza che in esso si concepisca , giacché ogni
differenza è differenza di essere e non di accidente )>.
La seconda jirova si trae dalla coscienza, come sopra. La co-
scienza non può ingannare intorno al sentimento proprio [Ideol.
4246) , e facendoci conoscere il nostro proprio sentimento ci fa
conoscere noi stessi {Psicol. 79 sgg.). Ora noi sappiamo per la
coscienza di non essere l'altre cose, che da noi distinguiamo,
e sappiamo essercene molte che neppur conosciamo : sappiamo
dunque, che la nostra non è la natura divina, di cui è proprio
conoscer tutte le cose ed esser causa intelligente di tutte : siamo
dunque enti subiettivi fuori di Dio. iMolto più dobbiamo dir lo
stesso delle cose puramente sensibili e inanimate , che noi con-
cepiamo mediante le loro limitazioni , e limitazioni più anguste
delle nostre proprie.
La terza prova si fa così. Noi sappiamo e sentiamo d'esser
persone. Ora la personalità è incomunicabile {Antropol. 856). Non
può dunque la nostra personalità esser quella stessa di Dio, e
perciò non può esser in Dio , come tale , cioè come persona-
lità nostra.
In questo senso tutti i teologi convengono, che gli enti finiti
sono in Dio come in causa e in esemplare , ma non per la loro
materia, o forma subiettiva (4) : il reale dunque, che appartiene
all'esistenza subiettiva degli enti finiti, è fuori di Dio.
475. Obiezione. — A Dio dunque mancherà qualche cosa, se
gli manca la realità finita in quanto esiste subiettivamenle.
Risposta. — L'esistenza subiettiva della realità finita è relativa
a questa. Iddio è Tessere assoluto, che esclude l'esistenza re-
(1) Cf. S Tli. Sum. I, III, vili.
452
lativa. Questa esclusione non è difetto^ ma perfezione, perchè
la relatività dell'esistenza è una limitazione. Il mancare dunque
in Dio questa è il mancargli una mancanza : e il mancare una
mancanza è avere, non è mancare.
Si dirà che cos'è questa relatività d'esistenza ? in che consi-
ste questa relazione? Rispondiamo, che i due termini di questa
relazione sono V essere iniziale e W reale finito. L'eseere iniziale,
cioè l'esistenza, è relativo a questo suo termine finito e non si
estende più oltre. Se l'essere iniziale non esistesse colla sua pre-
senza al reale finito, questo non sarebbe. Il reale finito unito
aWessere iniziale è l'ente finito : l'ente finito dunque ha una esi-
stenza relativa alla sua propria realità ; e questa esistenza rela-
tiva è ciò che lo costituisce quello che è. Egli è dunqne un re-
lativo, e niente di assoluto, perchè è mediante la relazione,
che l'essere ^iniziale* ha con esso lui : e posto che è, in esso si
scorge la detta relatività della sua natura reale , la quale è lui
stesso; giacché l'essere iniziale non è punto lui, ma altro.
hlQ. La seconda parte della nostra tesi si è: « Neil' Esssere
assoluto obiettivo, come oggetto dell'atto creativo, ,il reale degli
enti finiti* esiste eminentemente».
Nell'ordine logico del nostro concepire Vatto creativo è poste-
riore all'atto deWà generazione del Verbo, col quale il Padre og-
gettivizza se stesso alFermandosi e pronunciandosi. Questo è am-
messo da' Teologi. Poiché, appartenendo l'atto creativo anche al
Verbo ugualmente come comunicatogli dal Padre insieme col-
l'essenza, conviene che esso esista acciocché crei.
Questo stesso si prova col raziocinio così. Il Padre crea gli
enti finiti con un atto della sua intelligenza pratica e libera. I\la
quest'atto lo fa guardando in se stesso oggettivato, che è quanto
dire nel Verbo, perchè si oggettiva affermandosi e pronunciandosi:
lo fa guardando dunque nell' Essere assoluto oggettivo , e re-
stringendo volontariamente quel suo sguardo dentro i confini ,
che gli piace assegnare all'ente che crea. Dunque conviene
supporre che logicamente preceda l'Essere assoluto oggettivo in
cui si porta quello sguardo, ossia che esista il Verbo.
Ma con questo sguardo nell'Essere assoluto obiettivo non pone
nessuna limitazione , o distinzione reale in esso, perché l'Essere
assoluto non ammette limitazione, divisione, o distinzione reale.
A 33
La limitazione dunque rimane nel termine di quello sguardo, cioè
ha un'esistenza non in sé, ma nella mente divina. Il termine
di questo sguardo creatore è il Mondo. Ora il Mondo come ab-
biamo veduto risulta da due , o se si vuol meglio, da tre ele-
menti : i.° dall'essere iniziale^ che si comunica come essenziale
oggetto alle intelligenze create; 2.° dal reale ^ che costituisce
unito al primo l'esistenza subiettiva e propria del Mondo; 5." dal
riferimento, che fa la mente, del reale all'essere iniziale, che
fa vedere in esso le essenze o idee specifiche piene delle cose
col loro ordine , e costituisce l'esemplare.
Ora noi abbiamo detto, che l'essere iniziale, e in esso l'e-
semplare, esiste primieramente nella intelligenza creatrice e non
in sé slesso , e che eminentemente e conseguentemente esiste
nell'Essere assoluto obiettivo, cioè nel Verbo divino.
Abbiamo detto ;, che l'esistenza realee subiettiva del Mondo,
come propria di questo, esiste fuori di Dio, e non forma alcuna
parte della natura divina.
Ora rimane a vedere , se a questa realità esterna corrisponda
nulla in Dio , e diciamo che corrisponde alla medesima la rea-
lità stessa dell' Essere assoluto obiettivo , ossia del Verbo, nel
quale esiste eminentemente la realità creata , perché è in que-
sta realità, che la mente divina del Padre la vede, e atTerman-
dola la crea.
477. Dì qui si scorge, che noi poniamo una certa differenza tra
la maniera nella quale esiste l'esemplare nel Verbo divino, e la
maniera nella quale esiste in esso la realità finita. Poiché ab-
biamo detto , che l'esemplare esiste nel Verbo non solo eminen-
temente, ma anche consegiientenienle : laddove della realità finita
abbiamo detto, che esiste solo eminentcmenle.
La ragione di questa diversità si è, che l'Esemplare, cioè l'es-
sere iniziale colle sue determinazioni, ha la forma oggettiva e però
può esistere in una intelligenza: esiste dunque nell'intelligenza
del Padre, che crea. Se dunque esiste nell'intelligenza del Pa-
dre che crea, quando il Padre dice sé stesso, e così genera
il Verbo, è uopo, perché dica e affermi lutto se stesso , che dica
anche il suo allo d' intelligenza creatrice , e lutto ciò che e' è
nel suo allo, e però anche l'Esemplare suo termine interiore;
e così conseguentemente deve comunicare al Verbo insieme col-
RosMiNi. Teosofìa. »28
434
l'essenza divina questo esemplare che era già eminentemente nel
Verbo, dove l'aveva miralo col suo libero sguardo.
All'incontro il reale finito non può esistere in una mente,
perchè la sua natura è essenzialmente e unicamente subiettiva;
onde sarebbe assurdo , come osserva Aristotele , il pensare che
la slessa pietra fosse nella mente. E per ciò il reale finito può
esistere bensì nell'Essere assoluto obiettivo eminentemente, cioè
come il meno nel più, perchè l'Essere assoluto obiettivo è puro
essere , e l' essere è anche per se obiettivo , ma non può esi-
stere conseguentemente perchè come reale finito e subiettivo non
si trova nella mente del Padre , che solo lo vede nel Verbo col
suo sguardo libero, senza che possa essere staccato da lui per
astrazione, giacché il reale non soggiace in se stesso all'astra-
zione, ma solamente l'idea del reale, che è nella mente, al-
l'astrazione soggiace.
La qual dottrina presenta certamente delle apparenti difficoltà,
e noi dobbiamo esjwrre e dissipare le principali.
li7S. Obiezione i." — Voi avete detto, che nell'ordine logico
e' è prima il Verbo generato, poi l'atto della creazione, pel quale
esiste V esemplare nella mente divina , e il reale finito avente esi-
stenza propria fuori di Dio, poiché l'esemplare è comunicato al
Verbo nell'atto stesso in cui il Verbo è generalo. Questo ha l'a-
spetto di contradizione. Poiché se l'esemplare è comunicato dal
Padre al Verbo nell'atto in cui è generato, l'esemplare si sup
pone anteriore allo slesso Verbo.
Si risponde, che quest'antinomia, o apparente conlradizione si
dissipa , quando si considera attenlamenle la differenza che passa
tra V ordine logico e V ordine cronologico. Nelle operazioni divine
non c'è alcun ordine cronologico , percbè tutte sono eterne.
Nella slessa eternità dunque , e non prima e poi, fu generatoli
Verbo e crealo il Mondo ^ e comunicato al Verbo insieme coU'es-
senza divina l'esemplare del Mondo in quest'essenza intelligente
racchiuso. Il concepirsi dunque da noi prima il Verbo, e poi il
Mondo in esso contenuto eminentemente, e poi l'esemplare di-
stinto a lui comunicato, non viene già a dire, che l'atto crea-
tivo sia posteriore di tempo alla generazione del Verbo, né che
il Verbo dopo essere generato fosse perfezionato col ricevere l'e-
semplare distinto del Mondo dalla mente del Padre ; poiché fu
435
sempre generato, e sempre fu l'atto creativo , e sempre fu l'e-
semplare comunicalo al Verbo. Ma, come dicevamo, non indica
se non un ordine relativo alla mente, che concepisce quest'atto
unico del Padre, con cui dice se stesso — Verbo — e il Mondo nel
Verbo, e pel Verbo.
/i79. Obiezione 2.^ — Se il reale subiettivo del Mondo è fuori
di Dio, e non è termine dell'intelligenza creatrice, non si può
intendere come sia creato.
Risposta. — Ciò che abbiamo detto non importa già, che il
reale subiettivo del Mondo non sia. termine dell'intelligenza crea-
trice , che, se non fosse termine , non potrebbe esser creato:
ma solo importa , che sia termine esterno, a cui corrisponde per
termine interno l'Essere assoluto oggettivo, ossia il Verbo , nel
quale il reale finito esiste eminentemente.
480. Obiezione 3." — S'intende che nell'Essere assoluto obiettivo,
cioè nel Verbo, ci sia eminentemente la realità finita , cioè come
nel più c'è il meno, ma l'esistenza eminente non importa una
distinzione e una limitazione, e questa è necessaria, acciocché
si conosca la realità finita. Il Padre dunque non conoscerà la
realità finita distintamente, ma solo in confuso.
Risposta. — È vero, che l'esistenza d'una cosa in un'altra in
un modo eminente non trae seco la distinzione della cosa con-
tenuta dalla cosa contenente; ma questa distinzione si fa dalla
mente del Padre mediante l'essere iniziale e l'esemplare, che
avendo in sé le distinzioni tutte , e le limitazioni delle essenze
finite , vengono queste dall'affermazione creatrice applicate alla
realità infinita oggettiva del Verbo , e per mezzo di questa ap-
plicazione la mente vede la realità oggettiva limitata entro i li-
miti di quelle idee , e così conosce la realità finita distinta , e
non confusa nel Verbo.
^81. Obiezione 4.'' — La realità finita così limitata veduta nel
Verbo dall'intelligenza creante del Padre non è la realità finita
del Mondo, perchè questa è subiettiva e propria del Mondo, fuori
di Dio , e quella ha un'esistenza oggettiva , né certo la realità
del Verbo può esser la realità del Mondo.
Risposta. — Si deve considerare, che qui si tratta di cono-
scere. Ora per conoscere la realità non è già necessario che il
conoscente sia la realità stessa subiettiva che vuol conoscere.
436
ma basta che questa realità subiettiva gli sia presente nella forma
obiettiva, perchè la forma obiettiva è l'intelligibilità della su-
biettiva. Ora tutta la realità subiettiva, e propria del Mondo con
tutte le sue parli , distinzioni e limitazioni , ha la sua forma o-
biettiva nel Verbo , ed è veduta in esso distintamente dal Padre
per l'applicazione dell'eseniphire, chela determina e limila, di-
slingue ed ordina, e questo basta affinchè l'intelligenza divina
conosca la realità subiettiva e propria del Mondo, benché que-
sta nella sua forma subiettiva sia fuori di Dio, e però non sia
Dio. E qui si consideri attentamente , che la forma obiettiva
abbraccia la subiettiva in sé, perchè tutto riceve la forma
obiettiva, anche il subiettivo, ma in quanto è solo subiettivo
ha un'esistenza in sé, in quanto poi questo é vestito e con-
tenuto dalla forma obiettiva ha la sua esistenza nel Verbo ,
ed é un altro modo di essere che fa conoscere l'altro, cioè il
subiettivo.
/i82. Obiezione 5. a — Se c'è nel Verbo l'ente reale finito di-
stinto dalla mente divina^ e l'ente reale finito esiste anche in
sé stesso fuori di Dio, dunque ci sono due enti reali finiti e non
un solo.
Risposta, — Nego la conseguenza, perché abbiamo veduto,
che l'essere è unico in tre forme, e però il medesimo ente fi-
nito può esistere in sé stesso, cioè subieltivamente, e in Dio
obiettivamente, senza che da questo nasca duplicità di enti , per-
ché non nasce duplicità di essere, ma solo nasce duplicità di
forme in cui esiste il medesimo ente, l'una delle quali è l'intelli-
gibilità dell'ente e non un altro ente.
485. Obiezione 6." — L'avversnrio può instare e dire, che ci
ha non due forme dello stesso essere, ma la stessa forma repli-
cala, perchè nel Verbo c'è la realità finita, e in sé c'è pure la
realità finita fuori di Dio.
Risposta. — ha realità finita quando è oggettiva non è più
nella sua forma reale subiettiva, ma è nella forma obiettiva;
e però non è vero , che ci sia la stessa forma replicala del-
l'ente, ma le due forme, la subiettiva in sé, e l'obiettiva nel
Verbo divino.
kSU. Obiezione 7.* — Altra istanza: l'essere iniziale che
appartiene alla realità finita subiellivamenle esistente non può
437
essere la stessa ,cosa* di quell'essere iniziale che è nella mente
divina, e però essendoci due esseri iniziali, l'uno reale e l'altro
ideale nella divina mente, ci sono due enti finiti corrispondenti.
Si nega che l'essere iniziale, che informa gli enti finiti per
modo che di essi si predica l'esistenza , sia diverso da quello
che è contemplato dalla mente divina: ma l'identico essere ini-
ziale è nella mente divino, nella monte umana, e negli enti
finiti in quanto sono creati dall'intelligenza divina e percepiti
dall'umana. Né ciò involge alcun assurdo, perchè l'essere ini-
ziale ò immune da ogni spazio , e da per tutto si vede iden-
tico, benché i corpi a cui s'api)lica sieno nello spazio; ma egli
non è i corpi, come neppure è alcun ente finito, ma un ante-
cedente, e subietto dialettico di lutti, come é stiito detto.
485. Obiezione 8' — Non rimane tuttavia, da quello che avete
detto, spiegata sufficientemente la cognizione divina del reale
finito, poiché coW esemplare , che produce in sé stessa l'intelli-
genza divina, non si può conoscere che il Mondo possibile, ma
non il Mondo sussistente.
Risposta. — Col solo esemplare non si conosce che il Mondo
possibile, si concede. Ma conviene avvertire, che questo esem-
plare è trovato dalla mente divina nel modo detto coH'applicare
{'essere iniziale all'Oggetto assoluto, che contiene la realità in-
finita. Ora la Mente divina applicando l'essere iniziale all'Og-
getto assoluto , non solo disegna in questo quella realità del
Mondo che vuol creare, ma la imagina come abbiamo detto,
e la |)ronuneia. Questa imaginazione, pronunciazione o aflferma-
zione, é nello stesso tempo e cognizione e creazione del Mondo.
Ma perciò appunto abbiamo detto, che questo esemplare è ap-
plicato dall'intelligenza divina all'essere assoluto oggettivo. Se
dunque vogliamo distinguere logicamente tre gradi nella cogni-
zione divina del Mondo, avremo: {° l'essere iniziale, che fa
conoscere la possibilità in universale dell'ente finito ; 2." l'intui-
zione dell'esemplare nel Verbo, che fi vedere la realità possi-
bile ma distinta e ordinata del Mondo; 5" l'affermazione di
questa realità , colla quale Dio conosce e fa sussistere ossia
crea il Mondo stesso reale.
Ora il reale finito non si conosce se non nell'oggetto e per
\\a òì affermazione , come abbiamo mostrato altrove estesamente
458
{Ideol. Prelim. 15; 65 n., 405, 407, 479, 1254; Sistem. fil.
44 sgg; Saggio di lezioni fìlos. 45 sgg. ). Dunque Iddio coU'af-
fermare il Mondo esemplato nel Verbo lo conosce pienamente
nella sua slessa realità e sussistenza.
486. Obiezione 9. — L'esistenza propria del Mondo è un'esi-
stenza relativa alla sua realità. Ma l'oggetto, essendo un'essenza
0 idea, è sempre assoluto. Dunque nell'oggetto non si può cono-
scere l'esistenza puramente relativa.
Si risponde, che la forma oggettiva dell'essere appartiene sem-
pre all'assoluto., ma in quella forma si può contener tutto, an-
che l'esistenza relativa, la quale rimane bensì relativa in sé
stessa, ma rimane assoluto l'oggetto, che la contiene e la fa
conoscere.
487, Obiezione 10.^ — Se l'esemplare, e le idee che lo com-
pongono, è limitato e distinto , come deve essere acciocché sia
esemplare del Mondo , e se esso esiste nella mente divina e
conseguentemente nel Verbo; dunque nella mente divina si pon-
gono le distinzioni e le limitazioni.
Si risponde , che le essenze o idee , che si trovano nell'esem-
plare, sono limitate e distinte tra loro, ma non in Dio, perchè
la distinzione e limitazione non riguarda Dio stesso , ma è una
distinzione e limitazione delle idee ed essenze da Dio conosciute:
colui che pensa la limitazione di qualche ente non è già egli
stesso il subietto di questa (1), ma il suo subietto è la cosa li-
mitata. Qui si dirà forse , che le idee, che sono in Dio , sono
la stessa essenza divina, onde questa stessa o conviene che
sia vaneggiata e quasi screziata come l'esemplare , o che que-
sto non ci può essere in essa ed esser essa. Ma si replica ,
che il subietto reale e il fondamento delle varietà e limitazioni
sono le cose reali aventi l'esistenza subiettiva fuori della di-
vina natura, onde l'essenza divina non è che il termine di que-
sta relazione, che costituisce quelle che si dicono idee o esem-
(1) S. Tommaso : Non est antem cantra simplicitatem divini intellectus
quod multa inteUigat, sed cantra simplicitatem eius esset, si per plures
species eius iìitellectus formaretur. Sum. \, xv, ii. Ora noi vedemmo, che il
divino intelletto vede tutte le cose finite per un'unica specie, che è Vessere
ideale, e questa stessa è da lui veduta in sé stesso, cioè nel Verbo, per quella
operazione, che abbiamo chiamata Y Astrazione divina.
^39
plari. Ora il termine della relazione non è reale ma solo un'en-
tità di ragione risultante dal modo di concepire , come abbiam
detto avanti.
^88. Obiezione 11." — A questo modo sembra incorrersi un altro
inconveniente. Poiché se le idee limitate in Dio provengono da
uno sguardo che Iddio volge a se stesso così limitato^ che con
esso invece di veder tutto l'essere vede questo in parte, cioè
vede l'ente finito che vuol creare e affermandolo lo crea, e que-
st'essere veduto così limitato è l'esemplare , e insieme affermalo
è il Mondo, con ciò si toglie bensì la difficoltà, che nasce dalla
limitazione e moltiplicità delle idee, ma si trasporta poi la limita-
zione nell'atto dell'intelligenza divina, e però si trasporta in
Dio stesso.
Risposta. — L'alto dell'affermazione divina ha due termini:
l'uno infinito e necessario con cui afferma se stesso e genera il
Verbo, l'altro finito e libero con cui affermali Mondo da lui
disegnato in se stesso e crea il Mondo. Mediante il primo ter-
mine ha la notizia attuale di tutto l'essere nella sua assolutezza,
e quest'è infinita Sapienza. Che se oltre a ciò afferma il finito,
questo non toglie né limita la sua infinita sapienza, ma la per-
feziona, se così si può dire, in quanto così conosce il conosci-
bile in tutti i modi possibili.
L'obiezione può riguardare la Imitazione indeterminata , e la
limitazione determinata a una misura. Consideriamo l'una e l'al-
tra , e così rispondiamo alle due parti implicite nell'obiezione.
1.° Quanto a.\h limitazione indeterminatamente considerata,
il finito non si può conoscere che come finito , altramente non
si conoscerebbe lui, ma l'infinito. Ora la necessità logica, come
pure la metafisica , non mette nissun limitene all'essere, né
all'intelligenza, sebbene a chi male la intenda possa parere un
limite: non mette nissun limite, perchè quello che é logica-
mente 0 metafìsicamente impossibile è nulla. Ora conoscere il
finito appartiene anche questo alla Sapienza , che sarebbe un
difetto l'ignorarlo. Ma per conoscersi il finito è metafisicamente
necessario non allargare lo sguardo dell'intelligenza fuori di lui,
il che abbiam detto — per farci intendere — un contenerlo o re-
stringerlo, ma veramente non è altro, che un guidarlo a trovare il
suo oggetto. Però questo restringere al finito lo sguardo della
440
mente per conoscere il finito non è un' imperfezione o una limi-
tazione del conoscente, ma una sua perfezione. Ora che questo
modo di riguardare della mente divina non sia in senso proprio
un restringere l'alto dell'intelligenza risulta dalle dottrine da
noi in vari luoghi esposte: a) il finito non si può conoscere
dalla mente se collo stesso atto non si conosce tutto l'essere
iniziale, il quale è virtualmente infinito (,213, 580-400*); b)
Vesserò iniziale non si può conoscere dalla mente divina, se collo
stesso atto non conosce tutta se stessa, cioè l'essere assoluto in-
finito, per la legge dell'astrazione, che ha bisogno di formarsi
sull'oggetto intero {Psicol. 1519 sgg.). Non convien dunque di-
stinguere in Dio più atti d'intelligenza; ma un solo il quale,
abbracciando l'infinito ed il finito ad un tempo, è di conseguente
egli stesso compiuto ed infinito e però perfettissimo. L'obiezione
dunque circa il restringimento dello sguardo divino nasce dal-
l'erronea supposizione che questo sguardo ristretto sia egli da sé
un atto della divina intelligenza, mentre egli non è che una
parte, per così dire, dell'unico atto infinito, che si separa da
noi per astrazione. Se dunque Iddio con quest'atto infinito d'in-
telligenza non conoscesse anche tutto il finito, sarebbe manche-
vole la sua sapienza, e nò pur conoscerebbe, come osserva S.
Tommaso , perfettamente la propria essenza , perchè non cono-
scerebbe come ella sia atta ad esser imitata o partecipata in un
modo finito. Ipse cnim essenliam suamperfecte cognoscit : linde co -
gnoscit eam secundnm omnem modum quo cognoscihiiis est. Potesl
miteni cognosci non solimi secundnm quod in so est, sed etiani
secundum quod est parli cipahilis, secundum aliquem modum si-
militudinis a creaturis (1).
2.° Quanto poi alla limitazione determinata a una mi-
sura che è nel Mondo e nell'Esemplare divino; che una misura
ci dovesse avere, quesl'è di necessità logica e metafisica,
come altrove abbiamo veduto ( Teod. 480 sgg. ) , e però si
risponde, come s'è risposto all'obiezione tratta dalla limitazione
indeterminata.
Che poi Dio abbia voluto affermare e creare piuttosto questa
misura d'ente limitato, che un'altra, questo non pone alcuna li-
(1) Sum. I, XV, n.
milazione in Dio, perchè chi opera liheramente e pone all'opera
sua quo' limiti che sono prescritti dalla sapienza e dalla bontà
essenziale , non limita già sé stesso : che la sua potenza rimane
quella di prima: la limitazione imposta nel modo detto dalla
libera volontà e non da alcuna necessità straniera non è
un limite dell'operante, ma puramente un limite imposto alla
cosa operata. Oltre di che l'atto, come dicevamo, con cui Iddio
afferma e crea Venie finito, non è un atto da sé; ma é quello
stesso atto infinito con cui afferma se slesso e genera il Verbo,
come insegnano tutti i teologi (1) , e però atto infinito.
^189. Obiezione 1^.^ — Sembra che da tutta la teoria esposta ne
dovesse venire che la scienza divina sussegua alla generazione del
Verbo, ed esista solo per questo ed in questo; il che s'oppone
alla dottrina comune, che la scienza divina appartiene alla di-
vina essenza , e il Padre la comunica al Verbo insieme colla di-
vina natura.
Risposta. — Questo può sembrare adii non distingue l'ordine
logico dal cronologico, e attribuisce a questo — che in Dio non
esiste punto — ciò che si dice unicamente di quello. E dunque
a considerarsi che la divina essenza non esiste in sé separala
dalle divine persone : ma la divina essenza sussiste solo nelle
tre divine persone identica in ciascuna. Non convien dunque par-
lare della divina essenza separata dalle persone, nel qual caso
si parlerebbe d'un aslralto-e d'un astrailo indefinibile appunto
perché mancante di personalità. Ma conviene aver presente la
Triade perfetta, e parlare dell'essenza che in essa sussiste (5).
Le tre divine persone si devono dunque ammettere come pre-
cedenti al concetto della divina essenza. Ciò posto, l'atto dell'in-
telligenza appartiene all'essenza primieramente in quanto questa
(1) Sic igitur oportet quod quidquid in scientia Palris continetur, totum
hoc per wmm ipsius verbum exprimatur et hoc modo, quo in Scientia con-
tinetur, ut sit veruni Verbum suo principio correspondens per scientiam;
et Verbum ipsius expriniat ipsum Patrem principalitcr, et consequenter
omnia alia, quae cognoscit Pater cognoscendo se ipsum, et sic Fiiius, ex
hoc ipso quod est Verbum perfecte cxprimens Patrem, exprimit omnem
creaturam, et hic ordo ostenditur in verbis Anselmi qui dicit, (Monol, 32)
quod dicendo se dicit omnem creaturam. De Verit. IV, iv.
(2) Vedi S. Tommaso, Jn 111, d. i, q. II, a. 3, q. 1.
4^2
è nel Padre come nel principio fontale delle altre due persone.
Ora l'alto d'intelligenza che emette il Padre è unico, ma ha
tre termini: 1." sé stesso; 2.° l'essere iniziale e virtuale, che
contiene tutto l'ente finito possibile ancora indeterminato;
3.° il Mondo.
L'atto d'intelligenza del Padre, con cui conosce sé stesso,
é quello con cui afferma sé stesso , e così genera il Verbo.
Ora il Verbo risponde, come dice S. Tommaso, a quello
che in noi è « la notizia attuale « (1). Qualora dunque per
via d'un' astrazione si volesse cercare che cosa si concepisca
nel Padre anteriormente alla generazione del Verbo , non ci
rimarrebbe che una « notizia potenziale » , non espressa e at-
tuale; ma quest'astrazione é assurda e impossibile , che prima
della generazione del Verbo né c'è il Padre, né l'essenza di-
vina che non si distingue realmente da ciascuna delle persone.
Per conoscer dunque ciò che appartiene all'essenza, e ciò
che alle persone , è necessario procedere non per una sirail
via di astrazione, ma per quest'altro principio: «vedere ciò
che il Padre comunica di sé alle altre due persone; e tutto ciò
che comunica alle altre due persone appartiene all'essenza «,
che é comune a tutt'e tre. Ora la cognizione infinita é comune
alle tre persone e però appartiene all'essenza. Ma dalla cogni-
zione 0 scienza si deve distinguere l' intellezione che è quella che
produce la cognizione nell'intelligente. Ora l'intellezione del
Padre, com' abbiam detto, è un atto unico, ma ha tre termini.
In quanto essa ha per termine il Verbo, é quel!' affermazione
con cui il Padre affermandosi oggettivizza sé stesso , e pone se
stesso come l'Essere essenzialmente inteso. Ma quest'Essere es-
senzialmente inteso essendo in sé stesso nella mente del Padre,
fa si che il Padre intelligente ne abbia la coscienza, ne abbia la
cognizione e la persuasione. Ora questa cognizione e persuasione
pienissima del Padre, conseguente alla presenza del Verbo nella
mente, è scienza infinita di Dio comune a tutt'e tre le persone.
Ma è loro comune però in diverso modo. Perchè é nel Padre come
generatore del Figlio , essendo il Figlio , eternamente generato,
(1) Notitia, qune ponitur in deftnitione Verbi, est intelligenda notitia
expressa ab alio, quae est in nobis notitia actualis. De Verit. IV, ii, ad 2.™
445
eternamente nella mente del Pcidre, notizia sussistente ed at-
tuale: ènei Figlio come l'Essere inteso per sua essenza e però
come notizia sussistente, vivente, personale: è nello Spirilo Santo
come l'Essere essenzialmente amato, in questa notizia sussistente
e vivente, cioè nell'essere essenzialmente inteso, nel Verbo.
Sicché, essendo il Verbo l'Essere assoluto oggettivo per sé in-
teso, se si sottrae il Verbo perisce la divinità, e non è più con-
cepibile un'essenza divina sapientissima; ma lasciando il Verbo
e considerando la Trinità com'ella è, c'è l'infinita sapienza e
scienza in ciascuna delle tre divine persone.
Venendo ora al secondo termine dell' intellezione divina , cioè
r essere iniziale o la cognizione virtuale dell' ente finito : questo
termine, non sussistendo in sé, ma solo nella mente, che l'astrae
dal Verbo col suo sguardo astrattivo , è evidentemente scienza
che appartiene all'essenza divina , e che viene comunicata dal
Padre all'altre due persone, cioè al Figlio affermando sé stesso con
ciò che ha, e perciò anche con questo termine dell'essere iniziale,
e allo Spirito Santo amando sé stesso nel Verbo con quell'atto
pel quale l'Essere assoluto diventa essenzialmente amato. E di
più la stessa intellezione che astrae dal Verbo quesl' esemplare
viene comunicata , perchè con essa non si genera il Verbo, onde
si dee dire colla lingua dei Teologi essenziale , non nozionale.
Quanto al terzo termine della scienza divina, che è il Mondo,
e che in quanto è in Dio contiene Vesemplare affermato e cosi
creato, convien dire lo stesso : cioè che non solo viene comu-
nicata all'altre persone la scienza del Mondo, ma ancora l'in-
tellezione con cui è prodotto per affermazione il Mondo, il reale
ad un tempo e l'esemplare: e ciò per la stessa ragione. E però
la creazione del Mondo è comune alla Trinità tutta. Né questo
impedisce, che l'intellezione affermativa e astrattiva che ha que'
tre termini sia un atto solo, e che con una sola affermazione
il Padre abbia generato il Verbo e prodotto il Mondo , e che
tuttavia abbia comunicato quest'atto all'altre due persone non in
quanto è generativo del Verbo, ma in quanto è astrattivo del-
l'essere iniziale e creativo del Mondo (1).
(1) Cf. Caro). Witasse. De Ss. Trinit. Qiiaest. V, Art. IV, dove dice olie,
tolto Enrico da Gand, e il Durando, Caeteri vero cxistimant essentiales et
444
Articolo XI.
Corollario undecimo. — L'essere ideale, lume della niente umana,
non e il Verbo divino, né la divina essenza , ma una apparte-
nenza di questa.
Ii90. Abbiamo veduto che^Vessere iniziale non è il Verbo divino,
ma appartiene alla divina essenza, o alla divina mente come
notionales non distintili ut aetus a se piane diversos ; sed nolionales actus
niliil aliud esse quam ipsosmet essentialrs, quatenus connotant relationes
sibi proprias. Ituque generationem esse ipsammet divinam intellectionem
quatenus adiunctam habet paternitatem, adeo ut intellectio notionalis ab
essentiali se tota non differat, sed tantum ut includens ab inclusa : quia
scilicet notionalis est ipsamet essentialis, et praeterea aliud quidpiam coni-
plectitur, nempe relationeni. Onde in appresso difende la tosi: Intellectio et
volitio notionales ab essentialibus non discrepant, ut actus ab actibus, sed
dumtaxat nt includens et inclusum. E lo prova dagli assurdi che ne vor-
rebbero se si sostenesse, che Yintendere e Yaffermare {dicere) fossero due
atti distinti del divino intelletto. Si fa poi l'obiezione che, se Yintendere e il
dire fossero un solo atto, anche il Verbo e lo Spirito Santo, che hanno
l'atto dell'intendere, direbbero e genererebbero. E risponde; Si idem est
ex omni parte, concedo: si idem est tantum in ratione actus, nego. Porro
dicere et intelUgere, sunt quidem unus et idem intellectus actus : sed dicere
relationcm habel adiunctam, nempe paternitatis , quae impedit quominus
dicere Filio conveniat aiit Spirititi Sancto. La maniera da noi usata di dire,
se non isbaglio, parmi renda più chiara la risposta. La relazione anterior-
mente alla generazione non si può concepire che come potenziale : essa è
insieme colla generazione ultimata. Dicendo dunque, che nel Padre c'è un
unico atto d'intelligenza ma con tre termini, il primo de'quali , fon-
damento degli altri, è se stesso; è chiaro che in quanto un tal atto del
Padre ha per termine sé stesso affermato, è nozionale cioè generativo del
Verbo e costitutivo delle relazioni di paternità e di figliazione. Ora in quanto
quell'atto è generativo del Verbo non può essere comunicato , perchè il
Verbo è il termine di quell'atto , e principio e termine si oppongono. Né
pure può essere comunicato allo Spirito Santo, perchè questo esce dal Padre
pel Verbo, e però è termine della spirazione dell'uno e dell'altro, e ciò non
può essere per la stessa ragione. Che poi intendere e affermare sia un
atto solo in Dio è indubitato, ma un atto che ha più termini, rispetto ad uno
de'quali cioè all'essere iniziale manca l'affermazione, e non e' è che inten-
dere : la differenza è dalla parte del termine e non dell'atto, che unico pro-
duce più termini connessi insieme nel Verbo.
suo termine. Esistendo soltanto nella divina mente e non sus-
sistendo in sé stesso personalmente, egli non è punto il Verbo,
benché il Padre riguardando nel Verbo cioè in sé stesso affer-
mato lo conosca, cognizione che comunica all'altre persone.
Ma l'intelligenza divina è diversa dall'umana. Nell'uomo c'è
prima la persona, che è l'essenza umana individua e sussistente,
la quale ha l'intelligenza essenziale, cioè l' intuito dell'essere, e
poi ha r intelligenza come potenza colla quale applica l'essere e
conosce l'altre cose. Sono dunque tre cose realmente distinte
nell'uomo, d ° il subietto ; 2." l'oggetto o l'essere iniziale; 3." la
potenza di applicare l'oggetto. L'oggetto cioè l'essere iniziale è
totalmente diverso dal subielto uomo, benché questo riceva da
lui la sua forma. La potenza di conoscere è del pari distinta
dal soggetto e dall'oggetto. In Dio all'incontro non ci sono po-
tenze, ma tutto è atto essenziale. L'oggetto poi non è distinto
dall'essenza divina , che sussiste tanto subiettivamente quanto
obiettivamente. Quando dunque la mente del Padre conosce,
per quella che abbiamo chiamala Vaslrazione divina, Vessere ini-
ziale , ella non vede già qualche cosa che abbia una natura
ditferente dalla propria, ma vede la propria natura sussistente
oggettivamente nel suo Verbo; vede qualche cosa del Verbo,
che ella distingue non realmente, ma secondo la ragione , dal
Verbo, Questo distinguere, puramente secondo ragione, appar-
tiene a quella maniera di conoscere che noi chiamiamo affer-
mare, e che nell'uomo si distingue ò-àW intaire. Il distinguere,
secondo ragione, come pure il semplice affermare distinto dall' in-
tuire, non produce un oggetto novo, ma dà una nova cognizione
dell'oggetto su cui cade la distinzione di ragione e l'afferma-
zione {Lezz. Filos. d9-22). La distinzione di ragione dunque
che la mente divina fa dell'essere iniziale (ÌaW assoluto oggetto
non produce in Dio un oggetto in sé stesso novo, ma produce
una nova cognizione ( nova per esprimere sempre l'ordine lo-
gico , essendo tutto in Dio eterno e niente novo secondo il
tempo) propria della divina essenza, e un oggetto novo di ra-
gione, non novo in sé stesso. Quest'oggetto di ragione è dalla
cognizione, e dall'atto del distinguere sopradescrilto, in Dio in-
separabile, di maniera che atto di ragione e oggetto di ragione
hanno una continuità e costituiscono una sola entità, essendo
hk6
questo il proprio finimento di quello. Ma il dello allo del di-
stin^uiere secondo ragione nel Verbo divino l' inizio dell'essere
è proprio di Dio, perchè ogni allo è subiettivo e non può esser
comune alle creature. Ma l'oggetto di ragione, che è il fini-
mento di quell'atto . appunto nella sua condizione di oggetto e
non in quella di atto, può essere comunicalo alle creature,
non in questo senso che le creature possano anch'esse essere
quell'oggetto, il che è proprio di Dio solo, ma nel senso che
può essere da esse intuito, come cosa da sé diversa. E questo
è possibile, perchè la natura dell'oggello è quella d'essere ma-
nifesto, d'essere luce intellettiva (1). Onde l'ente subiettivo, an-
che finito, può essere da esso illuminalo, sebbene non possa
essere con esso confuso, perchè la luce che illumina non si con-
fonde mai coir illuminato , per l'opposizione intrinseca tra la
forma subiettiva e l'obiettiva.
Essendo dunque l'essere iniziale in Dio nello stesso tempo un
alto che è subiello — perchè l'atto di Dio è Dio stesso, — e un
obietto, e non potendo essere comunicato nella sua condizione
di alto siihielto, perchè i subielti sono incomunicabili, rimane
che egli sia comunicato solamente come obietto, e però Vessere
iniziale esiste nella mente umana in un altro modo da quello
che esiste nella mente divina, dalla quale è indistinto.
Se l'atto della stessa distinzione di ragione, che abbiamo de-
scritto , e che è identico col subietto che lo fa , potesse essere
accomunato alla creatura, la creatura sarebbe ella stessa Dio ,
il che e assurdo.
Se {'obietto assoluto fosse comunicato alla creatura , la crea-
tura vedrebbe il Verbo divino: il che non può essere, secondo
natura, ma solo per grazia in un ordine soprannaturale.
Essendo dunque comunicato ossia mostrato al subietto umano
(1) Quanto erroneamente sia inteso S. Tommaso da quelli, che gli attri-
buiscono, che tutte intere le nostre cognizioni vengano da'sensi, potrà ve-
dersi tra gli altri molti da quel luogo ove dice: « Le similitudini delle cose»
(le idee) « come nel Verbo sono alle cose causa d'esistere, cosi sono alle
« cose causa di conoscere, in quanto cioè vengono impresse alle menti in-
« tellettive, acciocché cosi possano conoscere le cose, e perciò come si di-
ce cono vita in quanto sono principi di esistere, cosi si dicono LUCE in
« quanto sono principi di conoscere ». De Verit. IV, viii ad 4.""'
447
un obietto di ragione qual è Vessere iniziale, senza l'atto divino
che Io produce e quindi senza il subietto divino con cui quel-
l'atto s'identifica , ne procede che l'uomo vedendo quell'essere
iniziale non vede Dio , sebbene vede in esso un' apparlenenza
della divina essenza (F. Giob. e il Pant. Lezz. G3 sgg., e D«/^-
colta in Ap.).
Articolo XII.
Duodecimo corollario. — Differenza tra i due elementi del
Mondo, l'essere iniziale e il reale.
hdl . Noi abbiamo veduto che Vesemplare e il reale del Mondo
dovettero esser fatti con un medesimo atto creatore di Dio. Poiché
non cadendo nessuna distinzione reale nel Verbo o nell'essenza
divina, le idee determinate e distinte, di cui l'esemplare si com-
pone , non risultano se non da una relazione del reale creato
all'essere iniziale, e il fondamento di questa relazione è nella
stessa creatura , cioè nel reale finito. Questo dunque deve esi-
stere nell'affermazione creativa, acciocché ci sia quella relazione.
Né giova il dire, che c'era il reale finito nella sua possibilità,
poiché 0 si parla d'una possibililà remota e implicita e in tal
caso ella é lo stesso Verbo divino senza distinzioni , o d'una
possibililà prossima, e questa o è universale e indistinta, e que-
sl'è l'essere iniziale, o é possibilità distinta, qual é nell'esem-
plare, e quest'appunto é quella che nasce dall'affermazione crea-
tiva, cioè dal reale finito per essa esistente, e di conseguente
suppone quest'affermazione.
Quantunque però il reale affermato sia il fondamento della
relazione coU'essere iniziale che distingue in questo le idee delle
cose, e però questo reale affermato logicamente preceda, non
consegue però che preceda all'esemplare il reale finito nella sua
esistenza subiettiva, la quale è nel tempo, ma solo ['affermazione
creativa che è nell'eternità.
In secondo luogo, precede sempre aW affermazione creativa V ì-
slinto amoroso che la conduce, e l'essere iniziale che col suo
lume lo guida.
in terzo luogo, quando diciamo che precede logicamente l'af-
fermazione creativa all'esemplare, intendiamo neWordine logico
delle entità , e non neWordine logico della cognizione. Poiché
neirordine logico della cognizione avviene il contrario, non po-
tendosi conoscere i reali distinti senza che ci siano prima le
idee dislifite. Come appunto s'osserva nella percezione nostra,
nella cpiale si distinguono appuntino gli stessi due oidini: \ .° ror-
dine delle entità ossia di formazione, nelle quali il sentilo |)re-
cede Videa specifica; 2.° lordine di cognizione, nel quale precede
Videa specijica al sentilo, perchè questo non è oggetto di cogni-
zione fino che non e è quella. Ma in Dio, invece del sentito
esterno, c'è lo slesso atto che lo pone, e che si compie col-
r idea specifica, dalla quale comincia l'ordine della cognizione
distinta.
492. 1 quali ordini logici non tolgono jìunto, che l'atto crea-
tivo, sì per rispetto al reale che all'esemplare, sia uno ed eterno,
ne si possa riconoscere in esso né più atti, né successione al-
cuna di tempo, o durata successiva.
Ma e' è questa differenza tra l' esemplare e il reale , che
l'esemplare non costituisce l'esistenza suhietliva e propria del
Mondo, quando il reale all'incontro la costituisce: e però 1' e-
semplare rimane in Dio eternamente e appartiene alla divina
natura: su di che nascono due questioni;
i.* Se rimanendo in Dio 1' eseinplare , questo non venga
comunicalo punto ai reali finiti; e se viene comunicato, come
ciò sia.
2." Se il reale finito è ciò che costituisce 1' esistenza su-
hietliva e propria del Mondo, fuori di Dio, non ce in Dio
nulla che a questo corrisponda?
Alla prima rispondiamo , che risulta dalle cose dette , che
iddio ad alcuni reali fuiili comunica la vista dell'essere iniziale
e così li rende perfetti enti ed intelligenti. Essi poi ad un tal
essere, come ad oggetto universale ed indeterminato, riferiscono
i sensihili , e così si formano da se slessi il loro mondo delle
idee. Il qual mondo ideale non è l'esemplare divino, come ah-
biamo detto altrove [Rinov. 502 sgg. pag. 542), ma qualche cosa
d'analogo ad esso, e proporzionato all'umano sentimento che è
il fondamento della relazione.
Alla seconda domanda poi rispondiamo, che il reale finito in
449
quanto costituisce l'esistenza subiettiva e propria del mondo non
è , e non può essere in Dio, perchè è un modo d' essere rela-
tivo al mondo , come vedemmo ; ma che in Dio a questo cor-
risponde l'esemplare unito indivisibilmente all'affermazione di-
vina deil'ente finito che nell'esemplare si manifesta. In questo
esemplare aflcrmato c'è il reale finito, ma in forma obiettiva,
analogamente a (luello che accade nella nostra percezione in-
tellettiva , per la quale vediamo il reale nell'essere obiettivo
(Logic. 307; Inlrod. IV. Sall'Ess. del Conosc). Lo stesso reale
finito in forma subiettiva è quello che appartiene al mondo
fuori di Dio, la cui esistenza è relativa ad esso reale. Questo
ente finito nell'affermazione divina dell'esemplare è il termine
interno dell'affermazione slessa, che dall'affermazione non si di-
versifica, per la ragione detta che l'affermazione in Dio non si
fa per via di [ìrogresso, per modo che per arrivare al suo ter-
mine deva fare dc'passi, ma il suo termine è trovato immedia-
tamente. Questo termine dunque è la stessa affermazione divina
eternamente ultimata nell'esemplare veduto nel Verbo , dove il
Padre con uno stesso allo lo distingue e lo dice (1). Nel Verbo
dunque c'è l'ente finito in modo eminente, nelle operazioni poi
dell'intelligenza divina (astrazione dell'essere iniziale, imagi-
nazione e affermazione) c'è la distinzione dell'ente finito dall'in-
finito e ad un temi)o la forza per la quale sussiste,
495. Obiezione 1.=" — Se in Dio non c'è che il reale finito
nella forma obicttiva in un modo eminente nel Verbo divino, e
questo è poi distinto per un att<» d'intelligenza e con quest'atto
efficaCiP è nello stesso tempo fatto sussistere nella sua forma
subiettiva e propria fuori di Dio, dunque la cognizione e l'a-
zione di Dio non perviene a conoscere il mondo nella forma
subiettiva, e il mondo nella sua forma subiettiva non è il ter-
mine dell'azione divina, e per conseguente è indipendente da
Dio.
Risposta. — Conseguenze erronee, che non procedono dalle
premesse. La forma subiettiva e propria del mondo, e la rela-
tività dell'esistenza di questa , è compresa nell'obiettiva ; e in
(1) Laonde S. Aml^rogio dice, quod voluntas ejus'fundamentiim sit uni'
versorum, et propter eum adhuc mundns hic manoat. Hexnem. I, vi.
Rosmini. Teosofia. 29 .
450
quanto è compresa nell'obiettiva , ella si dice obielliva, come
appunto accade nella percezione intellettiva dell' uomo , nella
quale il reale e il subiettivo è compreso nell' essere obiettivo e
in tanto si dice obiettivo (Loijk. 507; Lezioni 58 sgg.). Di qui
avviene: 1° cbe il mondo subiettivo possa essere conosciuto per
l'oggettività di cui è vestilo, nella qual forma si trova in Dio;
2° che da un subielto potente a ciò, quale è Dio, conoscendolo
come obietto, possa esser prodotto. Quindi l'uomo stesso pro-
duce nella realità subiettiva, a cui si riduce l'estrasoggettiva ,
quelle opere cbe egli oggettivamente ha presenti alTintelligenza.
494. Obiezione 2.^ — L'uomo produce nella realità subiettiva
quelle modificazioni e fitrmc , che egli oggettivamente ha pre-
senti all'intelligenza, perchè oltre l'intelligenza ha una forza
subiettiva colla quale opera sulla realità subiettiva e eslrasog-
gettiva che gli è data. Ma , secondo Voi, la potenza divina non
opera sulla realità subiettiva o cstrasubietliva del mondo, ma
soltanto produce la realità obicttiva in sé stessa, e quindi non
è spiegato come esista il mondo subiettivo e come sia continua-
mente dipendente dall'azione divina.
A questa obiezione non possiamo rispondere senza qualche
prenozione, che terremo anch'essa dalle cose dette.
Conviene dunque ben intendere, onde nasca la diversità del-
l'operare di Dio e degli enti finiti: e quindi spiegare perchè gli
enti finiti operando abbisognino d' avere una materia preesi-
stente in cui operino, e non possano produrre che nove forme
in enti esistenti su cui operano; laddove Iddio non ha bisogno
di materia o d' altro che preesista alla sua immediata ^opera-
zione, e produce gli enti stessi.
Questo accade perchè la natura dell'operazione e quella del-
l'effetto è simile alla natura della causa operante. Qual è dun-
que la natura di Dio? quale la natura dell'ente finito?
Iddio è puro essere , l' essere stesso assoluto : ecco la sua
natura.
L'ente finito, come abbiamo dimostrato di sopra non è l' es-
sere , benché l'essere gli sia necessario, che altramente nulla
sarebbe: egli ne partecipa, l'essere gli è presente. Se l'ente fi-
nito non è l'essere, ma solo dipende continuamente dall'essere,
il che si dice anche partecipar l'essere, che cos'è dunque? Noi
abbiamo distinto l'essere dalle sue forme, e abbiamo detto che
il reale dell'universo è una forma, ossia un termine dell'essere,
la forma della realità. Questa è la forma subiettiva, e l'universo
in sé non è che questa forma subiettiva. L'essere le sta ag-
giunto acciocché sussista , ma non è dessa né si confonde con
essa, essendo essa individua e l'essere universale e uguale per
tutti gli individui finiti. Quindi quando si prende l' essere come
subietto di tutte le cose mondiali, esso è un subietto puramente
dialettico; laddove quando si prende l'individuo reale come su-
bietto e di lui si predica l'essere , si parla d'un subietto reale
[Logic. 55^-550 , ^OG). Gli enti mondiali sono dunque subietti
reali , e come subie'lti reali operano , e non come essere , il
quale non é dessi , ma solo il loro comune subietto dialettico.
Conosciute le due nature de' due subietti operanti , cioè del
subietto infinito che è di esser essere, e del subielto finito che
è di non esser essere , ma pura forma reale finita dell'essere,
ne vengono le seguenti conseguenze , intorno al loro diverso
modo di operare, ed alla diversa natura de'loro efletti.
^95. 1.° Ogni alto dell'essere divino é essere: l'intelligenza, e
la volontà non sono in Dio potenze distinte dall' essere , ma
sono r essere stesso operante. Per conseguenza se questa ope-
razione divina, che è essa stessa essere attuale, produce qual-
che cosa, deve produrre essere, acciocché la natura dell'effetto
sia conforme alla natura della sua causa immediata e piena.
Dato dunque, che Tessere stesso, l'essere che é puro essere
e non può esser altro che essere in tutte le sue attività e che
essendo essere assoluto è ente compiutissimo , intenda e voglia
qualche cosa , egli non può intendere e volere altro che
ente. Il primo suo atto (distinguiamo gli atti soltanto secondo
la ragione dell'effetto , ma come abbiam detto in Dio non c'è
che un atto solo, che è lui stesso) dunque si ritorcerà in sé
stesso: intenderà, vorrà, affermerà se stesso: e quest'è la ge-
nerazione del Verbo, ponendo sé slesso come oggetto della pro-
pria affermazione e intellezione compiuta. Il termine di quest'atto
del puro ed assoluto essere è dunque puro ed assoluto essere; dal-
l'essere procede essere: né può proceder altro. Si consideri bene
che si tratta qui non già di essere in astratto , ma di essere asso-
luto , però necessariamente intellettivo e volitivo , essendo chiaro
452
che l'essere non sarebbe assoluto, se gli mancasse intelligenza e
volontà che sono pure gradi di essere. 11 secondo alto di quell' es-
sere assoluto è di vedere in se stesso cioè nel Verbo l'ente finito ,
volerlo e alTcrmario. È chiaro che l'effetto di quest'atto deve essere
l'ente finito , perchè l'ente , essere assoluto , non può aver per
termine che l'ente. Voler dunque e affermar 1' ente finito è pro-
durlo , perchè questo volere e questo affermare è alto dell' essere
ed ente essenziale ed assoluto , il cui termine d' operazione altro
non può essere che essere ed ente. Da una parte dunque sarebbe
assurdo negare che l' essere essenziale ed assoluto non potesse in-
tendere e volere l'ente finito , perchè in tal caso 1' essere non sa-
rebbe più essenziale ed assoluto, contro la definizione, ma sarebbe
manchevole d'una parte di essere, e all'essenza nulla può mancare
di ciò che contiene, senza annullarsi; dall'altra se si pone che l'es-
sere stesso intenda e voglia, essendo intendere e volere atti pro-
duttivi di essere, deve produrre un termine che sia ente.
Rimane a cercare perchè questo termine dell' essere assoluto ,
deva avere una esistenza subiettiva e propria fuori di Dio.
È provalo che l'essere assoluto intelligente e volente può inten-
dere e volere l'essere assoluto, senza di che l'essere assoluto non
sarebbe tale come si suppone. E provato del pari , che il termine
della volontà di quell'essere, non può essere altro cheente^ perchè
quella volizione è ella slessa 1' essere per essenza, e rimane tale
anche giunta al suo termine. Da ciò consegue che una tale voli-
zione— diversa dall'umana — deve essere produttiva, e non può
essere sterile, o dare nel falso, o nel solo possibile : perchè il suo
stesso termine non può essere altro che enlQ. Ritenuto bene
questo, come cosa provata, ecco la serie dell'altre proposizioni.
Ogni ente — che non sia meramente possibile e non ancora
in sé attuato — deve essere un subietto o ad un subietto rife-
rirsi, come accade del reale estrasoggcttivo.
Se dunque l'Essere essenziale ed assoluto intende , vuole , e
produce l'ente finito, anche questo deve essere un subietto , o
ciò che ad esso subietto si riferisce.
Ma il subielto divino , 1' Essere essenziale ed assoluto, è su-
bietto essenzialmente infinito, il quale può bensì avere per suo
oggetto l'ente finito, nel modo che abbiam detto, ma in nessuna
maniera può essere subielto finito , perchè ogni subielto con-
455
viene che sia infinito n firiilo, non polendoci essere nell'essere
conlradizione di sorte [Psicol. 1581 sgg.).
Vesscre finito dunque, termine dell' intelligente e volente Essere
assoluto, deve essere un subietto diverso dal subielto divino;
benché sia oggetto (lelTatlo divino, e per questo atto sussista.
Ma l'essere un subietlo diverso dal subictlo divino equivale
a dire che è fuori di Dio. L'ente subiettivo dunque del mondo,
benché prodotto da Dio , dicesi giustamente fuori di Dio , ed
egualmente l'onte estrasubictlivo che a questo ente subiettivo
finito si riferisce.
496. 2° Veniamo all'operare di quest'ente subiettivo finito e agli
effetti che esso può produrre. Quest'ente come subietto non è l'es-
sere, ma è soltanto una forma reale finita sostenuta da un altro,
cioè dall'essere che non è lui. Esso dunque non opera come
essere, ma unicamente come realità subiettiva. Se l'effetto dun-
que non può eccedere la natura della causa, gli effetti che può
produrre un tale agente non possono essere enti. Questa è la
prima conseguenza , che viene evidentemente dal principio da
noi posto. L'ente finito dunque come subietto agente non può
creare cosa alcuna di novo.
Che cosa dunque potrà fare.? Rimangono due generi di ef-
fetti da esaminarsi, l'uno quello di produrre la forma reale senza
l'essere , l'altro di modificare la forma reale degli enti finiti
esistenti.
Ma il primo di questi efi"etti è impossibile , perchè la forma
reale non può esistere senza l'essere che la fa esistere: sarebbe
una forma non esistente, cioè sarebbe nulla. Solo dunque chi
può produrre l'ente finito è in caso di produrre anche la rea-
lità finita che lo costituisce.
Non resta dunque altro potere al subietto reale finito se non
di modificare la realità degli enti finiti esistenti, secondo la pro-
pria virtù dell'agente e secondo la natura e le leggi a cui questa
realità stessa è per la volontà creatrice subordinata.
Dunque:
i." Il subietto finito operante, non come essere ma come
reale, non può far esistere da sé la materia che sia termine della
sua operazione, ma può solamente esercitare la sua attività so-
pra una materia che già preesisla.
I
2." Non può produrre che modificazioni in questa materia
limitata e condizionala alla sua propria finita virtù ed alla su-
scettività della materia su cui opera.
Così lo spirito finito cogli alti della sua intelligenza, della sua
volontà, e delle altre sue interiori potenze modifica sé stesso, e
colla sua potenza esterna modifica gli altri enti finiti che lo
circondano : così gli altri enti , secondo le reciproche forze di
cui sono dotati, agiscono e reagiscono e reciprocamente si mo-
dificano.
497. Premesse queste nozioni, risolvo l'obiezione così:
L'uomo e gli enti finiti hanno una forza subiettiva colla quale
operano sulla realità subiettiva od eslrasubieltiva che loro è
data; perchè il subietto agente qui non è l'essere ma la forma
reale e limitala dell'essere. La potenza divina è anch'essa una
forza subiettiva, ma questa forza subiettiva è l'essere stesso as-
soluto, e però l'effetto di questa forza è l'ente stesso finito.
Quest'ente finito è Yobietto di questa operazione dell'Essere as-
soluto, ma quest'obietto prodotto ha un'esistenza subiettiva in
sé, esistenza relativa alla realità che lo costituisce come subietto.
Da questo procede che Iddio coH'atlo creativo non opera sulla
realità subiellivamente considerata, quasi questa preesistessc alla
sua operazione, come accade nelle operazioni dell'uomo; ma
procede che la produce, e che mentre prima non era, di poi è.
Dato poi che sia, in virtù di quest'alto creativo , ella è a sé
stessa, cioè ha un'esistenza relativa a sé slessa e però diversa
dall'esistenza subiettiva di Dio, per la ragione detta. Ora questo
non vuol già dire che l'esistenza subiettiva della creatura non
esista per Iddio e non dipenda da Dio : prova anzi che ella è
il termine dell'atto creativo continuo che di continuo la fa sus-
sistere. Nell'ente finito come oggetto dell'atto creativo si con-
tiene adunque Vesistenza subiettiva dello stesso ente finito, ma
si contiene come oggetto : e però quando Iddio fa sussistere
l'ente finito come suo oggetto, il fa sussistere anche in sé slesso
come subietlo : solamente che questo subiello, che fa sussistere,
non è il subietlo divino, ma un altro la cui esistenza è relativa
a sé stesso. L'esistenza subiettiva dunque del mondo dipende ed
è fondata nell'esistenza obiettiva in Dio, e per questa sola ella è.
Il che a pieno s' intenderà quando si abbia presente la dif-
485
ferenza dialettica — e rispetto all'ente finito anche reale — tra
l'essere e le sue forme. L'essere è unico nelle sue forme. Nell'ente
finito l'essere pure è unico nella forma obiettiva, e nella forma
subielliva in sé slesso. Ma l'essere, in quest'ultima forma, non è
ciò che costituisce il suhietto reale dell'ente finito: ma il su-
bicllo reale dell'ente finito è la stessa forma reale e l'essere
non fa che darle esistenza. Quest'è dunque la difftrenza tra Dio
e l'ente finito in sé considerato. Quando si parla di Dio come
ente subiettivo, si parla d'un ente che si definisce: l'essere.
Quando si parla dell'ente finito come subietto , si parla d'un
ente che non si può definire: l'essere; ma conviene definirlo:
({ forma finita dell'essere «^ di che gli viene il nome datogli dagli
antichi filosofi di a non ente ■». Non si prende dunque la parola
ente nello stesso significato quando ella si applica a Dio , e
quando s'applica all'ente finito.
Dal non considerarsi questa diversitcà di significato , nasce
tutta la difficoltà. È dunque da dire che l'ente finito reale esiste
in sé subiettivamente in conseguenza dell'esser fatto da Dio og-
getto della propria intelligenza pratica , e che in quest'oggetto
assoluto esso ha la sua esistenza relativa.
498. Obiezione 3.* — Quando la cosa sia così, voi identificale il
Mondo con Dio, perchè fate un solo e medesimo ente del finito
come oggetto dell'atto creativo, e del finito come subiello in sé
esistente.
Risposta. — Niente di tutto questo, dome ho stabilito l'unità
dell'essere nelle Ire forme^ così ho distinte le forme. E come l'u-
nità dell'essere è massima, così è pure massima la diversità delle
forme. La diversità di forma costituisce dunque la massima di-
versità possibile che si possa assegnare tra tulle le varietà e di-
versità assegnabili.
Ciò posto , ho detto che Tessere oggettivo del Mondo è quello
che dà al Mondo la sua forma soggettiva. Ma ho detto che l'essere
non è il mondo, ma la causa prossima e immediata del mondo.
Il Mondo dunque in sé considerato non è che la forma subiettiva
finita dell'essere, e non l'essere. Se questa forma subiettiva finita
dell'essere si chiama un ente, questa denominazione gli si dà, non
perchè ella stessa sia l'essere ma perdio ha l'essere , è sostenuta
dall'essere : gli si dà dunque la denominazione di ente per la re-
4S6
lazione intima e indispensabile ch'ella ha coH'essere. All'incontro
il mondo obiettivo in Dio e Dio stesso, come abbiamo già mo-
strato, e Iddio — e così pure, per una distinzione di ragione, il
mondo obiettivo — si chiama ente non per una relazione coU'cs-
sere, ma perchè è essere egli stesso. Onde la parola ente, applicata
al mondo obiettivo e all'esistenza subiettiva di questo mondo, ha
tutt'altro significato, valendo nel primo caso ente assolutamente e
causa assoluta, e nel secondo non-ente ossia ente relativo all'es-
sere che gli assiste e di continuo lo produce. Vi ha dunque un'in-
finita distanza tra il Mondo reale e subiettivo, e il mondo obiet-
tivo in Dio, ed un'assoluta dipendenza di quello da questo (1).
CAPITOLO VI.
Della terza proprietà, che l'essere comunica a'reali finiti,
V intelligibilità d'affermazione.
499. Di questa terza proprietà, che l'essere comunica al reale
finito costituendolo ente, noi abbiamo già parlato così ampiamente
in questo libro e in quelli che abbiamo precedentemente pubblicati,
che appena ci rimane a dir più nulla di novo Ci restringeremo
dunque quasi solo a ricapitolare il già detto.
L'intelligibiMtà è una proprietà del solo essere e a lui essen-
ziale: da per tutto dove c'è l'essere, c'è questa luce, da per tutto
dove l'essere si toglie via, rimane buio.
Perciò l'essere sussistente, Iddio, sussiste come per sé inteso
(1) De'due modi di essere clie hanno gli enti finiti, in Dio (obiettivo) ed
in sé stessi (subiettivo) vedi S. Tomaso , De Veritate , dove tra l'altre
cose dice: Cum ergo quaeritur utrnm res veriiis sint in se ipsis (esi-
stenza subiettiva) quam in Verbo (esistenza obiettiva^ distinguendum est,
quia !y « verius » polest designare vel veritatem rei, vel veritatem praedica-
tionis. Si designet veritatem rei (la verità dell'ente) sic procul dubio maior
est veritas rerum in Verbo, quam in se ipsis (si dicono più veramente ente).
Si autem designetur veritas praedicationis (in cui si prende per snbietto il
reale esistente in sé), sic est e converso. Verius enim praedicatur homo de
re prout est in propria natura, quam de ea secundum quod est in Verbo.
Q. IV, VI. Cf. a. vili.
457
assolutamente: ma dobbiamo considerare questa luce negli enti
relativi.
Essi non sono questa luce, perchè non sono l'essere, ma hanno
questa luce, perchè hanno l'essere, e la hanno a quel modo slesso
che hanno Tessere.
L'essere è obiettivo e subiettivo: in questi due modi s'unisce
al reale finito per enlificarlo. Non parlo della terza forma del-
l'essere, perchè ella non costituisce l'ente finito, ma solo lo per-
feziona.
Essendo dunque l'essere per sé intelligibile, e avendo le due
delle forme l'obiettiva e la subiettiva, in due modi deve essere
conoscibile. Questa è la ragione ontologica de' due modi di cono-
scere che nell'uomo si manifestano, il conoscere l'essenza e il
conoscere la sussistenza, il conoscere per idea e il conoscere per
affermazione {Sistema kì sgg.; Lezioni fil. 51 sgg.).
Ma non in tutt'e due le forme l'essere si comunica a tulli
gli enti finiti. Nella forma obietliva si comunica a que'reali che
hanno natura di principio e che diventano con tale comunica-
zione enti intelligenti. Con questa maniera di comunicazione
l'essere non mescola e confonde sé slesso co' delti principi, ma
sta loro presente e manifesto, onde ne rimangono illuminali, e
ad un tempo creali.
Ma l'essere , che a questo modo si comunica al principio
umano, manifesta a questo di sé la sola forma obiettiva, senza
conlener nulla manifestamente di subiellivo , ma lutto virtual-
mente, onde apparendo esso vólo d'ogni contenuto reale e su-
biellivo che sia manifesto, acquista il nome d'idea.
L'ente intellettivo, così costituito, considerato anteriormente
ad ogni suo allo secondo d'intelligenza, e prescindendo dal sen-
timento attualo da un termine corporeo proprio dell'uomo, per-
chè l'uomo non è puramente intellettivo ma anche animale, non
ha altro sentimento che quello che nasce dall'intuizione dell'es-
sere e che è di conseguente intellellivo anch'esso, perchè intuire è
senlire [Introd. VII, i, in fin. Heol. 5S3 sgg.). Quindi i due modi
in cui noi abbiamo dello potersi considerare esistente l'oggetto,
in sé, e in relazione delia mente come cognizione di questa. In
sé l'oggello è indivisibile; come cognizione (itila mente, può es-
ser da questa diviso per via d'astrazione o d'altre operazioni.
458
Se dunque l'ente puramente intellettivo non ha altro sentimento
che quello dell'essere, e se nel sentimento si riduce la forma
subiettiva dell' essere ; l' ente dunque puramente intellettivo
esiste non solo per l'essere, ma ancora nell'essere cioè nell'og-
getto. L'esistenza subiettiva dunque del principio intellettivo
dimora nell'essere oggettivo sentito.
Quest'intima unione del jìrincipio intellettivo coll'essere og-
gettivo, dalla quale sorge la sua esistenza subiettiva, fu quella,
io credo, che ingannò gli antichi che insegnarono, l'anima esser
conosciuta per sé stessa , e ingannò sopra tutto Aristotele che
dichiarò: « ogni forma separata dalla materia è intelligibile e
intelligente per sèi). All'incontro la forma degli enti finiti, se
è presa in un senso obiettivo è intelligibile, ma non perciò
intelligente; se è presa in senso subiettivo, è intelligente, ma
non intelligibile per sé , ma per l'oggetto nel quale prende la
sua propria esistenza: due significati che Aristotele, e non egli
solo, confonde in uno.
Il vero si è , che un principio intelligente non può esistere
senza aver l'essere come oggetto, e avendolo la sua subiettiva
esistenza è essenzialmente in quest'oggetto come nel suo ne-
cessario contenente, bencbé con quest'oggetto non si confonda.
Ma tutto ciò che è nell'oggetto é intelligibile: dunque anche
l'intelligente é intelligibile. Si può dir anche intelligibile per
sua natura, ma non per sé, poiché egli stesso é un reale e un
subietto , e la ragione della sua intelligibilità non è l'essere
reale e subietto, ma é riposta in un diverso da sé, cioè nel
l'essere obiettivo con cui sintesizza , e in cui è come nell'og-
getto veduto.
Ma se l'intelligente è inlelligibile , non ne viene perciò, che
medesimamente sia inteso a sé stesso : ma conviene che egli
faccia un altro atto, oltre quello dell'esistere, acciocché attual-
mente s'intenda.
500. Ripigliamo dunque, e diciamo: 1' intelligente finito è un
reale, che non esiste se non unito all'essere oggettivo e in virtù
di questa unione: la sua natura è sentimento dell'essere og-
getto. Ma a ogni sentimento è essenziale un principio e un ter-
mine. Il subietto reale di quell'ente è il principio. Sentimento
dell'essere equivale a dire essere sentito. Ma l'essere è intel-
489
ligibile: dunque anche l'essere sentilo: dunque per la stessa
ragione anche questo sentimento nel suo principio.
Ma coU'atto con cui esiste non sente che l'oggetto. Convien
dunque gli sia data una potenza d'emettere un secondo atto con
cui intenda se stesso già intelligibile. Questa potenza di rifles-
sione gli è data da chi lo crea come principio reale. Con essa
applica l'essere intuito al proprio principio intuente — già intel-
ligihile, perchè unito all'essere intuito, — e per l' identità del
principio dell'atto secondo e dell'atto primo dice : « io sono »
(Psicol. 61 sgg ). Così egli dà a sé slesso l'esistenza subiettiva
consapevole.
Per tal modo Vessere comunica V intelligibilità sua propria ai
reali finiti intellettivi nell'atto di costituirli. Il Creatore con uno
stesso atto^ e simultaneo effetto 1.° crea il principio finito reale,
e 2.° gli manifesta l'essere indeterminato; l'uno di questi due
effetti non può esser né posteriore né anteriore all'altro, non po-
tendosi concepir Tuno senza l'altro. Per la stessa ragione dun-
que, per la quale l'ente finito si crea intellettivo, si crea anche
intelligibile, ma non ancora inteso a sé stesso; c'è in lui l'intel-
ligibiliià, ma manca lo sguardo intellettuale che finisca in questa
intelligibilità, poicbc niuna cosa é intesa ad un dato intelligente
se non a queste due condizioni: ì.° che ella sia intelligibile,
2.0 che l'intelligente faccia l'atto d'intenderla, con cui ammette
in sé quella cosa come intelligibile.
501. Passiamo a vedere come si comunichi dall'essere l'intelligi-
bilità all'altre cose non intellettive; l'intelligibilità, dico, rispetto
all'uomo intelligente, stanteché rispetto all' intelligenza divina
già vedemmo che Iddio le crea intendendole e pronunciandole.
Siene principi o termini questi enti , ad essi non é comuni-
cato l'essere oggettivo. Perciò essi né sono intelligibili per sé
come è il solo essere, né sono intelligibili per la propria costi-
tuzione : come dunque vien loro comunicato l'essere e l'intelli-
gibilità relativa all'uomo?
Non altramente che per via di effetti che essi producono nel
sentimento dell'uomo , il quale come abbiam veduto è intelli-
gibile nel modo dello {Teod. 155). Questi effetti tengono luogo
del reale che li produsse quasi altrettanti segni vicari. L'uomo
in questi supplisce l'essere che conosce per natura , vedendoli
460
in sé stesso, e sé stesso nell'essere. L'essere conosciuto l'attri-
buisce loro nella forma subiettiva, appunto perché ne sente Va-
zione, la quale non può appartenere che a questa forma.
Riguardo dunque a sé stesso come reale finito , l'uomo per
intendersi non ha da far altro che da riguardarsi, perchè egli
è intolligibile già per la sua costituzione; riguardo agli altri
reali non intelligenti i." convien che gli si rendano intelligibili
acquistando un'esistenza nel sentimento umano mediante le
azioni che in esso esercitano e le modificazioni che vi produ-
cono; 2.° e che di poi coll'atto dell'intelligenza, resi intelligi-
bili, gli apprenda.
c:-.^irSì9(0>''èN~:>
SEZIONE V.
Di ciò che l'essere ot>iettÌTO coinnnica
ai reali fìuiti.
CAPITOLO I.
Della forma finita, che l'essere comuìiica al reale nella mente,
prima che esista, d'una esistenza sua propria. Venie finito.
Articolo i.
Il reale finito non può ricevere
l'esistenza , se non è pienamente determinato.
\
502. Nell'ente finito le quattro proprietà annoverate^ cioè 1" l'e-
sistenza, '2° la durata, 3° l'atto, 4° e l'intelligibilità come su-
biello esistente, sono da riferirsi all'essere che è 1' uno dei due
elementi che lo costituisce; e non al reale che è 1' altro ele-
mento , che di quelle proprietà informato esiste. L'essere dun-
que comunica al reale finito queste sue quattro proprietà col
trovarsi a lui presente come ultima sua determinazione.
Ma il reale finito non potrebbe ricever l'essere, ultima deter-
minazione, se non avesse le determinazioni precedenti supposte
da quest'ultima. Conviene dunque che quelle determinazioni
precedenti, che lo rendono abile a ricever poi 1' esistenza pro-
pria , gli sieno date quando ancora non esiste in sé , ma sol-
tanto nella mente.
Con queste determinazioni egli esiste nella mente divina che
lo produce, e nella mente umana. Nella mente umana il reale
così determinalo esiste come specie piena imperfetta, nella mente
462
divina come specie piena perfetta ed esemplare. La mente divina
colla sua propria virtù cava questa specie piena perfetta riguar-
dando nel proprio Verbo reale obiettivo ed assoluto : la mente
umana cava la sua specie piena imperfetta riguardando sé stessa,
sentimento Imito, reale finito, e le proprie modificazioni nell'essere
indetermiiialo scevro di sussistenza. La mente divina collo stesso
alto, con che vede nel Verbo la specie piena esemplare, lo pro-
nuncia, e, pronunciandolo, il mondo esiste: l'ultima e comune
determinazione dell'esistenza è data agli enti mondiali coli' alto
stesso con cui gli sono dale le determinazioni precedenti.
La mente divina è l'Essere da sé sussistente nella sua forma
subiettiva, il Verbo è pure l'essere da sé sussistente nella sua
forma obiettiva pronunciata da essa Mente. Ma l'oggetto divino,
in quanto é cognizione della Mente, viene dalla Mente limitato;
e questo oggetto limitalo è l'idea del mondo, e in quanto é unito
all'alto creativo é causa del mondo sussistente.
503. La determinazione dunque dell'idea del nìondo è fatta dalla
Mente, la quale in tal modo è V essere determinante e attuante
il mondo , come causa subietto. Ma lasciando il mondo reale e
considerandone l'idea, che logicamente é anteriore a questo , e
in cui anteriormente, sempre nell'ordine logico, dee trovarsi la
determinazione , consideriamo come la divina Mente trovi ap-
punto questa determinazione.
Non a caso certamente, e non curandosi d'alcun ordine: ma
con sapienza. Se dunque con sapienza , queste determinazioni
devono contenersi virtualmente nell'essere obiettivo, che é l'as-
soluto intelligibile e l'assoluto inteso. Ma se queste determina-
zioni dell'idea sono in questo solo virtualmente comprese , per-
chè l'assoluto inteso non ha in se distinzioni reali , dunque la
mente divina per ridurle dalla virtualità all' atto, deve seguire
certe norme fisse astratte dalla slessa essenza obiettiva. Per
questo descrivendo la creazione dicemmo che nell'ordine logico
il primo elemento del processo mentale divino dovette essere
Vessere iniziale, come un astratto che tenesse luogo di regola o
norma per trovare tulio il resto della determinazione da darsi
all'idea o esemplare del mondo. Laonde sebbene la Mente di-
vina sia Vessere determinante e attuante come causa subietto,,
tuttavia non male abbiamo chiamato essere determinante e al-
463
tiianle come causa alto Vessere iniziale a noi visibile, nel senso
ch'egli, preso da sé, è la regola, secondo cui si opera la de-
terminazione dell' idea e di conseguente poi del reale creato :
preso poi come unito al reale finito, è l'alto dell' esistenza di
questo. Ma egli stesso riguardato sotto un' altra relazione è
anche primo determinabile ; perocché la mente applica lui a lui
stesso {Logic. 701 sgg.) , e determina lui con lui, cioè con regole
ch'egli le somministra. Ma questo non si spiega se non si ascende
colla mente ad un primo ed assoluto determinato. L'essere come
essere è per sé determinato, e non ha bisogno d'altra determi-
nazione per sussistere ; ma dicesi indeterminato quando si con-
sidera come causa attuante i reali finiti , perché non e' é nel solo
suo concetto una ragione sufficiente per asserire ch'egli li attui,
0 che attui questi piuttosto che quelli. L'essere dunque in sé stesso
è essenzialmente determinato, com' è essenzialmente semplice, e
però anche l'Ente assoluto é per sé determinalo, e determinalo in
tulle e tre le forme. L'Ente assoluto poi è la stessa essenza del-
l'essere sussistenle. Ciò che é di essenza ad una cosa , non può
mancargli se la cosa è; poiché, se gli mancasse, non sarebbe. È
dunque dell'essenza dell' ente di essere da tutte le parli determi-
nato: se da una sola parte rimanesse indeterminato, non sarebbe
ente {Psicol. i37!2-i395).
504. Si risponderà che questa maniera di argomentare prove-
rebbe troppo, perchè con essa si potrebbe dimostrare , che ogni
ente deve essere infinito, attesoché l'Ente assoluto, che é l'essenza
sussistente dell' essere , è infinilo. — Rispondiamo , che non ne
viene questa conseguenza: poiché altro é l'essere, altro le forme o
termini dell'essere. Da quella maniera d'argomentare viene sol-
tanto questo che « l'essere deva sempre avere l'infinità » , ma non
che devano averla tulle le sue forme. Ora la limitazione dell'ente
finito non risiede nell'essere, ma nel reale che é una forma. Noi
abbiamo veduto che tulio l'essere si richiede per conoscere qua-
lunque ente finito (,213, 380-400*), perchè l'essere è semplice e
^indivisibile, e ricevendo il reale finito la natura di ente dall'essere
che gli dà la mente — sia la mente divina, sia la mente umana
che lo rende ente a sé stessa — ne procede, che tutto l'essere
infinito concorra a dare la natura di ente al reale finito. Vero è
che nell'ente finito apparisce l'essere come fosse egli slesso li-
mitato, ma questa limitazione non è che una relazione del rea-
le finito all'essere , non potendo il reale finito esistere altro che
come finito, e il fondamento di questa relazione è nel reale (,^G6,
U7l), hS7'). Non è dunque 1' essere che, sia limitato , ma l'es-
sere illimiliito fa sussistere colla sua presenza il reale limitato,
e in quanto lo fa sussistere diccsi essere allnanle. Il più può fare
il meno senza divenir meno egli stesso: in (;iò non v' è alcun
assurdo.
SOri. Che se si riassume l'ordine logico dell'alto creativo, questa
dottrina riceverà nuovo lume. La divina Mente astrae dall'es-
sere assoluto V essere iniziale: questo non è una limitazione del-
l'essere , come ahbiam detto, perchè rimangono in esso virtual-
mente tutti i suoi termini: solamente che la mente ne prescinde
e prescindendone l'essere rimaiu; davanti alla mente astraente
come pura idea, ossia puro oggetto.
Di poi la stessa mente divina, volendo dare a quest'essere
virtuale de' termini fmiti, domanda a sé stessa: a quale condi-
zione potrò darglieli? — L'essere iniziale, relativamente a' suoi
termini infiniti, è pienamente determinato. Onde se la Mente
divina volesse restituire all'essere iniziale i suoi termini infiniti,
non avrebbe da far altro che cessare da quest'atto d'aslrozione.
Ma non va cosi la cosa relativamente ai terjnini finiti, poiché
questi non esistono,, e Tessere iniziale non è determinato ad cs
sere inizio j)iullosto di questi che di quelli. Conviene dunque
che la Mente divina concepisca le specie de' reali finiti che vuol
far sussistere. Ma ella s'accorge che questi reali devono esser d'ogni
parte determinati, acciocché possano ricevere l'èssere. Ella vede
in sé stessa , che l'essere non può ricevere altro termine reale,
che deterniinato da tutti i lati, perchè l'essere sussistente è de-
terminalo. L'ente finito e relativo, in quanto e ente, non ])uò
esser tale chea similitudine dell'ente assoluto, alle slesse con-
dizioni in quanto è ente , benché ad altre condizioni in quant'è
reale e termine, e questo finito. Se dunque l'ente assoluto, in
quant'è ente, è a pieno determinato, a pieno determinato deve es-^
sere anche l'ente finito. Quindi si scorge una ripugnanza tra l'es-
sere virtuale, e un reale indeterminato: poiché l'essere virtuale
è appunto l' essere assoluto in quant'è ente, astrazion fatta dai
termini. E per vero un reale indeterminato, non è più questo
465
che quel reale : se adunque la mente volesse farlo sussistere ,
non saprebbe che cosa volesse fare, perchè questa cosa rimane
incerta. La mente non può applicare l'essere virtuale senza sa-
pere a che Io applichi. Ripugna adunque che l'essere virtuale
riceva un termine reale indeterminato. La mente divina dunque
volendo dare all'essere virtuale un reale finito })er termine,
intende la necessiti^ di determinarlo a pieno.
500. Ora in questi ragionamenti che suj)poniamo — per inten-
derci noi uomini — andar facendo seco stessa la mente creatrice,
non solo apparisce la necessità, che il reale finito ch'ella vuole
lare esistere sia determinato, ma si trova altresì W principio della
determinazione.
Questo priìiiiipio, secondo il quale la divina mente può deter-
minare il reale finito, consiste nella relazione, che la stessa
mente vede correre tra l'essere virtuale da lei astratto, e il
reale infinilo, per la quale relazione quest'essere virtuale cessa
d'essere virtuale, ed è Dio sussistente e vivente. Poiché «tutte
le condizioni che ha il reale infinilo all'essere iniziale deve averle
anche il reale finito, acciocché possa ricevere l'essere e così di-
venire ente, eccetto solo l' illimitazione e tutto ciò che conse-
gue a questa ».
La mente divina dunque, distinguendo mentalmente nell'essere
divino V essere dalla forma reale e sussisterne , trova nella rela-
zione mentale tra quello e questa il principio ossia la legge,
secondo cui deve esser concepito il reale finito, acciocché sia
suscettivo di ricevere l'essere che lo fa ente.
507. Ma qui si presenta un'altra questione: «L'uomo non vede la
sussistenza divina, non vede, per sua natura, jiiuno de'termini del-
l'essere divino : perciò non vede nò pure la relazione tra l'essere
iniziale e i termini infiniti : non sa come sieno questi termini. Ora
a malgrado di ciò non intende anch'egli, che il reale, fino che
resta indeterminato davanti alla mente, rron può acquistare l'esi-
stenza in sé ? Certamente. E se lo vedo onde dunque s'accorge
di questa necessità? Non dev' egli dedurla dalla luce che gli
viene dall'essere iniziale»? Rispondiamo, che argomentarlo a
priori dal solo essere iniziale non può, perchè gli mancherebbe
il concetto del reale finito, che non può esser dato dal solo es-
sere puro {Ideol. 1458, sgg ), ma supposto questo concetto che
Rosmini. Teosofia. 30
/»66
egli acquista in un tempo posteriore alla percezione quando me-
diante la riflessione e l'analisi divide l'ente finito ne' suoi due
elementi dell'essere e del reale, lo può certamente, con argo-
mento a priori, benché non a priori puro.
E in prima quando una volta l'umana ragione è arrivata a
conoscere che l'esistenza del reale è opera d'un' intelligenza,
ella s'accorge., come abbiamo accennato, che c'è assurdo nella
supposizione, che l'intelligenza dia l'essere a un reale che non
può accertare e dislinguere da ogn'allro. Ora un reale fino che
resta indeterminato appartiene a più reali determinali. Conviene
dunque , che là mente scelga tra questi , e non resti incerta
tra l'uno e l'altro, non potendo operare fino che resta incerta
che cosa voglia operare. Questo argomento nasce dal concetto
del reale indeterminato, in relazione col concetto della mente
operante, e tribuentc l'essere, poiché nel concetto indeterminato
s'acchiude la pluralilcà e diversità delle determinazioni che esso
può ricevere; onde non è uno, ma è più , senza che la mente
umana sappia qual sia de'più.
Di poi l'essere che si dà al reale è l'ultima sua determina-
zione, l'ultimo suo atto: questa determinazione non gli può dun-
que esser data, se non a condizione ch'egli abbia tutte le deter-
minazioni precedenti di cui è suscettivo. Ma se il reale è da
qualche parte indeterminato, non ha ancora tutte le determina-
zioni precedenti all'ultima, e perciò non può esistere. Anche
questa ragione nasce dal concetto del reale in relazione alla na-
tura dell'essere come suo ultimo atto. 11 reale è concepito dalla
mente come un involuto, che si spiega gradatamente davanti a lei,
e percorrendo tutti i- gradi dello sviluppo, arriva all'ultimo, dopo
il quale non gli resta che a ricevere l'essere come sua ultima-
zione. Fino dunque che il reale come concetto non ha percorso
nella mente tutti quegli anelli sucessivi , egli non è ancora pro-
priamente il reale, gli manca qualche cosa d'essenziale al reale,
e però non può esistere. Poiché nulla può esistere se non ha tutto
ciò che richiede la sua propria essenza.
Di qui si vede, che anche l'uomo arriva ad intendere, che
« il reale non può ricevere l'essere se non è pienamente determi-
nalo », mediante la relazione che egli osserva tra il concetto del
reale e V essere puro, sia che questa relazione la consideri ri-
^67
spello alla mente che è la causa subietto che dà l'essere al reale
finito , sia che la consideri rispello allo slesso essere puro , che
è la causa allo.
Articolo II.
Come r essere ideale contenga il principio
della determinazione del reale finito.
o08. Ma come abbiamo detto, che Vessere ideale è il principio
della determinazione, la regola secondo la quale la divina mente
forma in sé slessa il reale finito?
Risponderemo alla questione , considerando l' essere ideale
come principio di determinazione prima rispetto alla mente di-
vina, e poi rispetto alla mente umana.
La Mente divina avendo per proprio ed essenziale oggetto
l'essere assoluto, dove è una semplicità perfettissima, non po-
trebbe vedere in esso l'ente finito se con un atto suo proprio
noi distinguesse in esso : e questa distinzione non essendo reale,
conviene che sia una distinziOTie ideale nell;i Mente stessa. Ma
quest'idea in cui la Mente divina vede l'ente finito distinto dal-
l'infinito abbraccia il reale ad un tempo e l'essere, onde quell'i-
dea è insieme verbo e causa efficiente delle cose {Rinnov. 559,
sgg. p. 61 G), non essendoci il reale se non è pronunciato, e non
meramente intuito. Ora è necessario che la divina Mente, in
questo pensiero dell'ente finito che essa fa, dislingua i due ele-
menti chele compongono, cioè l'essere e il reale , perchè effet-
tivamente il reale finito non è l'essere , come l'essere non è il
reale finito. Se dunque la Mente divina li distingue, eUa dislingue
con ciò l'essere iniziale dal reale finito suo termine; e così è ne-
cessario che l'essere iniziale , puro essere , e questo ideale , sia
presente alla mente divina con tulle le sue proprietà e in tutta
la sua infinita estensione, per la quale dal reale finito si separa
di natura.
L'essere così pensato dalla divina mente in relazione co'suoi
termini finiti possibili è quello che fa conoscere questi stessi
termini, i quali separati da lui non hanno essere, e quindi né
pure intelligibilità. Ma se l'essere ideale é quello che fa cono-
468
score alla mente i propri termini finiti, conviene che egli sia
altresì quello che le faccia conoscere quai reali possono essere
suoi termini, e quali no. Egli dunque è quello che fa conoscere,
i suoi termini non potere esser altri reali che quelli che sieno
a pieno e da ogni lato determinati. Egli è dunque alla mente
divina il principio e la regola della determinazione di questi.
Quando noi dunque dicevamo nell'articolo precedente , che nel
concetto stesso del reale indeterminato si contiene la sua ina-
bilità a ricever l'essere , noi parlavamo d'un reale indetermi-
nalo che lo slesso essere ideale ci faceva conoscer tale cioè
avente quella inabilità. E veramente parlavamo del concetto del
reale indeterminato , e non dei reale stesso. Se dunque parla-
vamo del concello , ò chiaro che parlavamo del reale indeter-
minato unito coll'essere ideale, da cui viene ogni concetto. Cosi
il primo principio o regola, da cui intendiamo la necessità della
determinazione , acciocché il reale finito sussista , non sia nel
concetto di questo , ma nell'essere ideale che produce questo
concetto , quando la niente vede il reale indeterminato nel-
l'essere ideale. Nell'essere ideale dunque e per l'essere ideale
noi conosciamo il reale indeterrninato e ne parliamo: questa
conoscenza poi ci mostra che egli non può sussistere in sé. Il
reale indeterminato dunque non ha che un'esistenza ideale nella
mente, ed esclude l'esistenza propria in sé.
Questo stesso processo si fa nella mente umana ; e però an-
che nella mente umana l'essere ideale è il primo principio della
determinazione del reale finito: cioè il principio che ne mostra
la necessità e le condizioni.
L'essere dunque, la natura deH'essere — se raccogliamo tutto
quello che abbiam detto — fa due cose : 4.° come intelligibile,
ossia idea (forma oggettiva) ci fa conoscere il termine determi-
nalo e l'indeterminato, dandocene i concelli; e in questi ci fa
conoscere, che quello può ricevere l'esistenza propria, e questo
no: 2." l'essere, come avente la virtù d'attuare (forma subiet-
tiva), ricusa i termini indeterminati , e ammette solo i deter-
minati.
L'essere come intelligibile o idea fa conoscer dunque che l'es-
sere come avente la virtù d'attuare ricusa i termini indetermi-
nati e ammette solo i termini determinali.
469
Perchè dunque li ricusa?
Perchè l'essere che ha la virtù d'attuare è essenzialmente e
puramente allo, e la sua virtìi entiOca consiste nel rendere atto
il reale. Ma il reale indeterminato non può ricevere ciò che è
puro e semplicissimo atto, che il puro e semplicissimo atto dee
aflcltare ciò che è uno, allritnenti egli stesso si dividerebbe in
più, e così non sarebbe più alto semplicissimo , contro la sua
natura, e cadrebbe perciò in conlradizione con sé stesso.
509. Qui altri dirà: « voi ammettete che l'indeterminato possa
esistere m'Ha mente, ma non in sé: ora l'esistenza dell'indeter-
minato nella mente non involge le stesse difficoltà che l'esi-
stenza in sé? « — No, ed ecco per qual ragione.
L'esistenza dell' indeterminato nella mente appartiene ad un
ente determinato, cioè all'i mente: questa come ente determi-
nato può sussistere e sussistere con tutto ciò che le appartiene.
Ciò che ripugna si è dunque che l'indeterminato esista come
un subietto reale : poiché il subielto reale deve essere uno per
la ragione delta. Ma nella mente egli non ha natura di subielto
reale: in ([uesta dunque esiste soltanto come obietto, come cosa
alla stessa mente appartenente. La mente non è già il subietto
della indeterminazione del suo oggetto , di maniera che ella
stessa rimanga perciò indeterminata; ma l'indeterminazione ri-
mane nel solo obietto.
Ciò posto, rimane a vedere come l'indeterminazione possa ri-
maner nell'obietto. Ora questo non s'avvera se non ipotetica-
mente, e non di fatto. Perocché la mente non potrebbe avere
presente il reale indeterminato , se non avesse presente anche
il determinato {Psicol. 1572 sgg. 1557 sgg.); e in questo vede
quello, perchè limita a quello il proprio sguardo — limitazione
che si dice astrazione, — senza che ne soffra il vero oggetto tutto
intero determinato. È dunque l'atto della mente che costituisce
l'indeterminato, e quest'atto, benché limitato, è al tutto deter-
minato , ma non cade se non sopra una parte delLoggelto , e
cadendo sopra una parte, ben conosce la mente che è parte,
e non tutto; e appunto perchè la conosce per parte, conosce
insieme che non può essere un ente, perchè una parte di ente
non è ente. Ma la mente per una ipotesi, considerandola da sé,
come l'osse un oggetto, le dà a prestito la forma dell'ente, senza
470
però ingannarsi. Dunque nò pure l'oggello propriamente esiste
nella mente come indeterminato, ma solo come visibile in parte,
e in parte non visibile, per volontà della mente stessa riguar-
dante, e questo stesso oggetto — parte non lascia incerto l'atto
della mente, ma a sé soltanto lo limita e determina.
E veramente , se si tratta della mente divina , ella vede il
reale finito nel reale infinito, che è oggetto compiutissimo ed as-
soluto, e se si tratta della mente umana, ella astrae l' indetermi-
nato dalla specie piena che è pure un oggetto determinato (1).
510. Ma come dite dunque che la mente divide l'essere dal
reale finito, quando il reale finito senza l'essere non si può co-
noscere né prendere ad argomento di discorso?
Conviene ritenere la distinzione dell'essere nelle sue forme.
La mente divide dal reale finito l'essere nella sua forma su-
biettiva ed attuante , ma non divide da lui l'essere nella sua
forma obiettiva puramente o ideale. Se al reale finito ella to-
gliesse anche l'essere ideale, gli sfuggirebbe totalmente dal pen-
siero : ma egli ci rimane come concetto del reale , ossia come
reale possibile. La forma qui è ancora obiettiva , perché il
contenente é l'idea ( J82-187'). Il contenuto cioè il reale
non si può mai dividere colla mente (se non per quell'astra-
zione che abbiamo chiamata ipotetica) dal contenente , di ma-
niera che quando ci proviamo a dividere il contenuto, cioè il
reale, ci rimane ancora investito dall'idea, — non potendosi al-
tramente pensare, — che é quel nesso indissolubile che Platone
ha osservato tra l'uno e l'essenza, ond' ha dedotto, come ve-
demmo, che nell'uno ci sono necessariamente tutti i numeri
(^346-555*), perchè dividendo l'uno dall'essenza, coll'uno a no-
stra insaputa rimane l'essenza , e coU'essenza a nostra insa-
(1) Aristotele ben s'accorse che l'indeterminato, l'universale, non aveva
esistenza che nel singolare, a cui S. Tomaso consentendo dice : Universalia
non simt res subsistentes, sed habent esse solum m singiilaribiis, ut proba-
tur VII Metafisicorum. C. G. 1 , 65. Ma quello di cui non s'accorse si fu
che Vessere lia due aspetti diversi, secondo clie si considera in sé stesso, o
relativamente agli enti finiti. Solo relativamente a questi è indeterminato ed
universale : in sé stesso è uno, determinato e sussistente. Si può anche con-
siderare, coufe abbiam veduto, astraendo da lui tutti i termini finiti e infi-
niti : cosi considerato e preciso esiste virtualmente nell'essere assoluto.
471
pula rimane l'uno; onde gli atti analitici della mente non fanno
che moltiplicare que'due primi elementi all'infinito, senza che
le sia possibile di far altro.
olì. Ma qui ci si discopre una difficoltà molto maggiore, che
ci condurrà a discoprire una verità di pari importanza. Poiché
si dirà : « Se noi prendiamo il reale del tutto indeterminato ,
l'idea di questo reale pienamente indeterminato in che differisce
dall'idea dell'essere? E se dall'idea dell'essere noi caviamo ogni
reale , quantunque del tutto indeterminato , che cosa rimane
quest'idea dell'essere? Non ci svanisce ella del tutto? Poiché lo
stesso essere ideale, se è atto , deve essere alto reale, o esser
nulla. Chi dicesse che è l'idea dell'alto, non avrebbe inleso la
domanda^ poiché si domanda se quell'idea dell'atto é veramente
un alto ella slessa o no. Se é intelligibile, deve far conoscere
qualche cosa, o sé stesso o un'altra cosa diversa. Se fa cono-
scere sé slesso , questo sé slesso conosciuto sarà un reale o
un'idea egli medesimo, se fosse un'idea noi andremmo d'idea
in idea all'infinito. Se fa conoscere un'altra cosa, come la farà
conoscere se non per questo ch'egli fa conoscer sé stesso ? Se
non facesse conoscer sé stesso, non potrebbe far conoscere un
altra cosa, ma quest'altra cosa essendo la prima conosciuta, sa-
rebbe quella sola che è intelligibile per sé. E su quest' altra
cosa intelligibile per sé, si dovrebbe ripetere il discorso che
facevamo sull'essere intelligibile. (Conviene dunque confessare,
che Videa deiressere e Videa d'un reale pienamente indeterminalo
sono l'identica idea, e che l'essere ideale non é altro, che il reale
pensato come pienamente indeterminato » ( Prelimin. alle Opp.
Idecdl. IG. ,Cf. Ideùl. mi) sgg. 1177-1181*').
Non siamo già noi quelli che neghino questa conclusione;
siamo anzi quelli che la stabiliscono. In falli, quando noi abbiamo
dello che l'essere é il primo determinabile, e la materia univer-
sale — presa la parola materia in significato estesissimo, — altro
non dicevamo che quello con cui il nostro obiellatore conchiude
la sua obiezione.
Conviene dunque distinguere il reale finito, che si parte in
vari generi, dal reale infinito, che é unico e superiore a tulli
quei generi. 11 reale iìifinito non é che 1' essere slesso nella
sua forma infinita reale, perché, come abbiamo detto più volle,
472
tra l'essere e il termine infinito non c'è distinzione in sé, ma
soltanto mentale, onde lo stesso reale infinito è essere.
Quando dunque la Mente divina astrae l'essere virtuale dal-
l'essere assoluto, come abbiam detto, quest'essere virtuale è per
ugual modo virtualmente reale e subiettivo, e virtualmente reale
obiettivo, e virtualmente reale santo. Ha implicite in sé le forme
infinite. Ora, se noi consideriamo che valore abbia « l'idea del
reale pienamente indeterminato», troviamo che una tal' idea
altro non esprime che « il reale infinito virtuale ». Dico il reale
infinito, perchè l'indeterminazione essendo massima , non ha
confini, e però abbraccia virtualmente tutte le determinazioni
possibili indistinte, e però non limitate. L'idea dunque del reale
pienamente indeterminato è la stessa idea dell'essere iniziale in
quanto contiene virtualmente la realità infinita, ossia in quanto
è suscettiva d'avere un termine infinito reale, il quale ammette
posteriormente limitazioni per un lavoro mentale, e già con
queste limitazioni non rimane più a pieno indeterminato , per-
chè le limitazioni stesse sono altrettante determinazioni,
bl2. Di qui si ricava, che aWessere iniziale corrispondono tre
concelti che con lui s'identificano: il concetto d'oggetto o A' intel-
ligibile pienamente indeterminato, e quest'è quello che si chiama
assolutamente idea; il concetto di reale o di sussistente piena-
mente indetermiìiato; e il concetto di amato o di perfezione e
fine pienamente indeterminato. Sono i tre termini virtualmente
compresi nell'essere iniziale, ciascuno de' quali s'identifica con
lui. E gli antichi dicevano lo slesso in altre parole, quando
asserivano, che Vente (reale), il vero (l'idea), e il bene erano
tre concetti trascendentali, che si convertivano 1' uno nell'altro.
Deriva ancora da questa dottrina un altro corollario impor-
tante , cioè che l'essere divino o sussistente non ha alcuna
forma distinta da sé stesso che lo determini. Perocché il reale
infinito, esistendo per sé stesso, è per sé determinato, e l'obietto
infinito e l'amato infinito del pari: la sua slessa infinità ossia
mancanza d'ogni forma o determinazione ristrettiva è la sua pro-
pria determinazione. Perciò dividendo mentalmente l'essere ini-
ziale da questi suoi Ire termini, abbiamo questi stessi chiamati
forme. Ma ciascuno di quesli termini infiniti non ha veruna
distinzione in sé dall'essere ; dunque l'essere in Dio è forma di
/j73
sé stesso; ossia, come dicono i teologi, non si dà in Dio alcuna
reale distinzione Ira materia e forma. Nondimeno separandosi
mentalmente i termini dall'essere iniziale, questi acquistano il
concetto — per un'astrazione ipotetica — di materia, e l'essere
di l'orma loro comune.
E quindi nasce la distinzione tra ['essere iniziale, e i tre altri
concetti che con lui s'identificano: è una distinzione puramente
dialettica. L'essere iniziale relativamente a' quei tre concetti, di
reale indeterminato, d'oggetto indeterminato, di amato indeter-
lìiinato, veste la condizione di forma, e questi tre concelli di
sua materia; ma, questi essendo l'essere, è sempre l'essere iden-
tico che è materia e forma ad un tempo, pel modo di concepire pro-
jìrio della mente umana.
i\ia la cosa procede molto diversamente se si parla d'un reale
che non sia pienamente indeterminato e perciò stesso non sia
virtualmente infinito. In fatti que'reali tutti che cadono nella perce-
zione umana sono tali, che si possono bensì s[)ogliare delle loro
determinazioni fino che ci rimangono nella mente come essenze
sem[)lici, che nulla più ritengono di cui si possano spogliare,
per modo che non si potrebbe più toglier via da essi altro che
essi stessi restando allora del lutto annullati; ma questi reali ,
spogliati così d' ogni loro determinazione removibile da essi
per astrazione senza che si annullino, non sono ancora il reale
pienamente indeterminato, ma sono de'sowm? generi di reali. Ora
appunto perchè .sono de' sommi generi di reali essi ritengono
una determinazione generica, cioè tale che li costituisce quel
genere e li distingue da ogni altro: e però quella determinazione
che ritengono è una determinazione ristrettiva paragonata al
reale indeterminalissimo. Ma quella determinazione ristretliva
essendo semplice, e tale che tolta via, niente più rimarebbe di
que'reali, vedesi che quella determinazione slessa li costituisce
quello che sono. La loro propria essenza dunque consiste in una
limitazione. Ninno dunque di questi reali generici è il reale
indeterminatissimo, e questo essendo essere — come primo dialet-
ticamente determinabile, — siccome abbiam veduto, ne viene
una nova e manifesta dimostrazione , che il reale finito è cosa
veramente distinta in sé àaWessere di cui è essenziale non avere
limitazione di sorte alcuna.
h7h
515. La mente umana dunque: o considera la natura dell'es-
sere dell'intuito, dov'è il reale illimitato virtualmente, e restando
questo nascosto, perchè virtuale , non ne può discernere 1' atto
— il che darebbe una cognizione positiva, — ma altro non vede
che essere semplicissimo; o, ricevendo le percezioni de' reali finiti,
da queste, e dalle specie piene che le somministrano, sale per
astrazione ai sommi generi de'reali, che sono reali indeterminali
ma non del tutto; o finalmente da questi sommi generi de'reali,
vedendoli tutti esclusivi l'uno dell'altro, e di conseguente limi-
tati, e lasciandoli da parte, ascende al pensieì'o d'un reale inde-
terminatissimo e infinito, di cui non ha alcuna esperienza, e però
non ne conosce l'alto : e così si forma una cognizione di lui
tutta negaliva , cioè composta di logiche ed astratte nozioni e
nulla più.
Quando dunque ell'è arrivata, partendo dalla percezione de-
gli enti finiti, a trovare i sommi generi dei reali, s'accorge che
questi non sono l'essere, perchè Tessei e è illimitalo, ed essi
hanno limitazione, l'essere è uno ed essi sono più, l'essere è
necessario ed essi sono contingenti, l'essere abbraccia ogni cosa
che è, ed essi no, e così via. S'accorge in secondo luogo, che non
essendo essi l'essere, da questo però dipendono come da causa che
li attua e li fa esistere. S'accorge in terzo luogo, che l'essere
dà loro primieramente un'esistenza ideale nella mente, senza la
quale non potrebbero essere concepiti e molto meno passare
alla sussistenza o esistenza in sé, e che con quest'esistenza ideale,
essi sono essenze semplici , incapaci d'altra astrazione o scom-
posizione formale. S'accorge in quarto luogo che la mente umana
trae queste essenze semplici per astrazione dagli enti reali per-
cepiti, e che senza questi, in cui sono, la mente umana non sa-
prebbe pensarle : esse sono parli formali d' una specie piena :
queste parti formali, qualora anche l'uomo avesse la potenza
creatrice, non potrebbe crearle se non creando l' ente di tutta
la specie piena, in cui esse dimorano e per mezzo di cui le in-
tuisce. L'uomo non vede mai esistenti in sé — prescindendo dal
solo spazio — questi sommi generi di materia ; ma appunto per-
ché li vede come generi e però come universali, li vede solo
atti ad esistere nelle specie astratte come in loro contenente, e
queste nelle specie piene, nelle quali trova il subielto, che come
l'abbiam definito, è ciò che è « primo, contenente e causa del-
l'unità in un ente ». Ora l'ente senza subietto non può esistere
in sé, perchè non può esistere in sé il secondo senza il primo,
il contenuto senza il contenente, il più senza Tuno. I sommi generi
del reale dunque hanno nella mente umana la condizione di
secondo ossia posteriore, di contenuto, e di cosa priva di cir-
coscrizione.
S'aggiunge a questo che l'uomo non conosce positivamente
e in sé altro reale che il proprio sentimento fondamentale^ e
il proprio sentimento intellettivo — l'IO — e questo non solo lo
vede a pieno determinato, ma vede di più che l'IO , se non
fosse da tutti i lati determinato , se non fosse un principio
unico e semplice avente un termine sentito e inteso, certo non
sarebbe l'IO. Rispetto dunque a questo reale la determinazione
e limitazione sua è ciò che essenzialmente lo costituisce e forma
in ogni istante Riguardo poi ngli altri reali esfrasoggettivi , non
li conosce se non per l'azione che essi esercitano in lui, e que-
sta azione è determinata, e vede, che se non foss*^ determinata,
non sarebbe nessun' azione. L'agente dunque deve esser deter-
minalo da tutti i lati : altrimenti non potrebbe esser agente.
M.ì se non fosse agente non sarebbe reale in sé esistente. È
dunque necessario che il reale finito, acciocché possa esistere,
sia pienamente determinalo-c circoscritto da certi confini i quali
soli lo rendono piuttosto questo che quello.
514. I sommi generi dei reali dunque non possono esistere in sé
né come enti finiti, perchè manca loro il subietto e i limiti che
li costituiscono piuttosto questo che quell'ente, né possono esistere
come ente infinito , perché hanno una prima limitazione loro
naturale, la qual fa sì che 1' uno escluda l'altro (1). Laonde
essi si chiamano materia dell'ente; la determinazione poi che
loro manca per poter esser enti e per potere agire, che é il
carattere della forma reale, é ciò che si chiama forma.
(t) La questione scolastica e se il genere si possa individuare immediata-
mente da parte della cosa », qui non c'entra. — Poicliè posto, che un dato
genere potesse divenire per creazione un individuo reale, esso in quant'è
tale perderebbe la natura di genere, che è un concetto che involge relazione
colle sue specie. Cosi la stessa idea che è generica rispetto a una specie,
476
Come materia essi non sono l'essere e non hanno la forma
loro necessaria per sussistere. Onde viene loro questa forma?
Come abbiamo gicà detto , daW essere nella sua forma obiettiva
ideale. Abbiamo gicà veduto, ch'essi non potrebbero esser con-
cepiti né pure come generi di reale, se non ricevessero l'essere
ideale, se non si vedessero in questo come essenze generiche
virtualmente in esso contenute. Ma di più abbiamo veduto, che
le idee generiche non sono che nelle idee specifiche , dove le
vede la mente^ e queste nelle idee specifiche piene. Queste poi
r uomo le toglie dalla percezione degli enti sussistenti , e la
mente divina dall'essere obiettivo assoluto che virtualmente ed
eminentemente le contiene: e le toglie con quell'atto stesso con
cui pronuncia e crea l'ente finito. Il reale dunque è da prima
determinato e poi indeterminato, è prima essere ideale limitalo
e determinato, nella divina mente avanti la creazione secondo
l'ordine logico e simultaneamente nell'ordine di fatto , nella
mente umana dopo la creazione e per la percezione degli enti
creati.
La mente divina determina il reale che vuol creare , perchè
ella vede « nell'essenza dell'essere reale sussistente » la neces-
sità di questa determinazione, acciocché sussista come ente fi,-
nito. L'essenza dell' essere reale sussistente é lo stesso come
dire: « l'idea del reale illimitato » e quest'idea è la stessa che
l'idea dell'essere, come abbiam detto, o l'essere ideale, o l'essere
indelerminatissimo. Dunque l'idea dell' essere è quella che im-
pone la necessità al reale finito d'essere a pieno determinato
per potere esistere, in quanto quell'idea contiene virtualmente
il reale infinito.
può essere specilìca rispetto a certi individui, per esempio « l'idea dell'a-
nimale !> come abitiamo osservato neWIdeologia (655, not.). E come di-
remo in appresso, lo spazio è appunto un individuo oslrasoggeltivo ctie non
lia genere né specie, ma che perciò stesso sotto un qualche aspetto, si può
considerare come un genere individuato. Ma di queste quistioni parleremo
più ampiamente nei libri cosmologici.
477
Articolo III.
NeW Universo c'è qualche cosa che appartiene all'elezione del creatore^
e qualche cosa che è un conseguente necessario.
515. Il creare o il non ere. ire il mondo e il fine della crea-
zione sono cose d'assoliila elezione di Dio, perchè anteriori al
mondo slesso.
IVla considerando il mondo già crealo, e il legame ontologico
di tulle le entità che lo compongono, noi vediamo che i sommi
generi di materia rimangono determinali dalla sola elezione del
creatore, non essendovi alcuna ragione nella realità del mondo
che fosser creati quelli piuttosto che altri. Se ce ne possano
essere degli altri, questa sarà questione da trattarsi nella Cosmo-
logia; e così pure se o come la elezione di qiie' generi fosse
determinata dalla divina sapienza. Egli è certo intanto che i
sommi generi di materia, che costituiscono i primi stami di
questo universo , non sono punto necessari, ma si può da noi
pensare che non fosser creati , o che fossero creati in minor
numero.
Ma presupposto che que' sommi generi di materia fossero già
da Dio eletti a costituire le prime fila della sua grand'opera ,
egli è chiaro, dalle cose dette, che le determinazioni dei mede-
simi, richieste affinchè possano ricevere l'esistenza propria come
enti finiti, costituiscono un conseguente necessario, stantechè quei
sommi generi fino che non ricevessero le ulteriori determina-
zioni che li rendessero specie piene , non avrebbero potuto es-
sere realizzati.
I sommi generi dunque del reale creato sono di pura ele-
zione del creatore; le determinazioni ulteriori a far sì che quelli
venissero all'esistenza propria, costituiscono la parte del mondo
di necessità conseguente.
478
Articolo IV.
Quali sieno i sommi generi di materia ossia di realità ,
di cui consta il mondo.
516. E perchè il considerar le cose in individuo dà maggior
lume alle teorie astratte , accenniamo qui la questione cosmo-
logica: « quali sieno i sommi generi di realità di cui consta il
mondo ».
Per sommo genere di realità intendiamo, come abbiamo detto,
« un'essenza semplice astratta dal reale degli enti mondiali da
noi percepiti, da cui non si può astrarre più nulla senza uscire
da ciò che è in quel reale su cui s'esercita l'astrazione ».
Laonde sommo genere di realità è « quell'elemento reale che in
tutto il genere si concepisce come il primo determinabile ».
Da questa definizione apparisce , che noi lasciamo da parie
la materia dialettica o ideale, che non appartiene al reale , se
non in quanto virtualmente lo contiene: ma parliamo di materia
appartenente a un subiello reale.
I sommi generi di realità dunque, che noi cerchiamo, parte
appartengono al mondo subiettivo, parte all'estrasubiettivo, e in
altre parole, parte sono realità degli enti-principio, parte sono
realità degli enti-termine.
Parlando de' sommi generi di realità in universale si fa avanti
la questione: « se genere assolutamente primo e sommo sia un
solo, l'ente finito ». Di questa questione altrove.
Restringendo per ora il discorso ai sommi generi della rea-
lità dogli enti-principio , diremo , che sembrano essere due :
1." il sentimento puro; 2.° e il sentimento intellettivo.
I sommi generi della realità degli enti-termine pure sembrano
esser due: 1." la materia o forza corporea, 2.° l'estensione.
Ma riguardo a quest'ultimo è da osservarsi ch'esso non è
propriamente genere, perchè non ammette astrazione, né deter-
minazione , né limitazione propria. E dunque puramente un
reale semplice non compreso negli altri generi, e per sola questa
esclusione si considera come un genere egli stesso, benché non
abbia le condizioni degli altri generi. Si considera come genere
479
in relazione coi limiti che gli può porre la mente, onde Platone
lo considerò come materia matemalìca {Arist. ,158-100, 449 n.
È opin.*). Noi lo chiameremo un genere ibrido , perchè le sue
specie cioè le figure matematiche sono un'opera mentale , ed
egli stesso è un reale che somministra ad esse la loro materia,
il loro fondo.
Articolo V.
Come la mente divina potè trovare nel reale illimitato i sommi generi
delle realità di cui consta il mondo.
517. Per rispondere a questa questione conviene prima di tutto
escludere i sommi generi della realità estrasoggettiva. Poiché
tutta la loro natura consiste nell'essere puramente termini del
principio sensitivo: onde non hanno altra esistenza che relativa
a questa natura, e per questa sola noi li conosciamo e li nomi-
niamo. Che se avessero una natura nascosta^ questa non sarebbe
mai ciò di cui parla l'uomo, e che intende significare co' vocaboli
di spazio 0 di materia corporea {Ideal. C67, 749, sgg., 855 sgg.).
Questi non sono dunque generi assolutamente primi se non
per un'operazione astratta della mente che li considera in sé,
e non nella loro connessione essenziale al principio senziente:
onde si possono chiamare « generi di realità relativi agli enti-
principio )).
E da considerarsi di più che se tali generi si considerano
"come termini, e non in sé, in tal caso si moltiplicano: essi si
cangiano ne' « generi de' sentiti » , di cui abbiamo già fatto
cenno. Anche questi « generi di realità sentita )>, che son molti,
altro non sono che « generi relativi all'uomo ».
Ora tutti i generi relativi agli enti-principio si dicono generi,
quando si considerano colla mente o come « realità sensifere »
0 come « realità sentite ■» ; ma se si considerano dalla mente
in un modo più compiuto, uniti cioè all'ente-principio essi altro
non- sono che « generi determinanti l'ente-principio «.
Supposta dunque l'idea perfetta dell'ente-principio, le idee di
tutti que' generi relativi a quest'ente si contengono virtualmente
in essa, poiché l'idea specifica piena di un ente-principio con-
tiene necessariamente le correlative, cioè 1°. i generi dei termini
/i80
0 dei sentili determinanti, 2°. i generi degli enti estrasoggetlivi,
(forza e spazio).
Altro dunque non si richiede per rispondere alla nostra que-
stione se non dire « come la divina mente potè trovare nel
reale assoluto l'idea dei generi della realità dell'enle-principio)).
Ora questo non ha difficoltà se si considera che Iddio è senti-
mento infinito , ed è sentimento infinito intellettivo ad un tempo,
senza distinzione alcuna reale. La divina mente dunque |)oleva
dividere in sé stessa que' due sentimenti l'uno dall'altro, e li-
mitarli : cosi trovava i sommi generi (idee generiche) di tutte le
realità finite di cui consta il Mondo.
Li potea dividere coli' astrazione , li potea del j)nri limitare
— come esigeva il proposito di creare uiì ente limitato^ — poiché
per limitare non fa bisogno aggiungere, ma detrarre; e per de-
trarre la mente non ha bisogno d'aver nova materia, ma lo fa colle
sue sole operazioni mentali. Queste limitazioni poi erano del-
l'elezione della mente, ed elette quelle che poi creò, in queste
s'aveano le idee de' termini , cioè deiresleso e del sentilo, e delle
cause di questi termini e delle loro azioni: cioè di que' generi
di realità, che abbiamo detta estrasoggetliva. Onde la mente
non aveva bisogno per queste idee, relative a quelle due prime
e fondamentali de' generi appartenenti agli enti-principio, di ri-
correre ad altro, perchè le si potea formar tulle colle sol»^ men-
tali operazioni su tali due generi.
Articolo VI.
Di quanti elementi si componga la forma del reale finito.
K18. Noi abbiamo distinto nel reale finito la materia dalla
forma.
Abbiamo definita la materia a ciò che è il primo delermina-
bile in ciascun genere •» : abbiamo anche accennato quali sieno
i diversi generi sommi del reale finito , ossia i diversi generi di
materia di cui consta il Mondo.
Nella materia c'è il reale positivo di cui il mondo è composto :
ora dobbiamo passare alla forma propria del reale finito.
usi
Questa forma propria del reale finito , per la quale intendiamo
qui tutto il complesso delle sue determinazioni^ parte procede,
abbiamo detto, dalla libera volontà divina , parte da una neces-
sità conseguente.
Per libera volontà divina intendiamo qui una volontà che
non è determinata a tare o non fare, e a fare piuttosto in un
modo cbe in un altro , da ninna entità finita reale , e né pure
dalle idee di tali entità.
Da questa volontà dipende il decreto di creare l'ente finito,
e il crearlo per quel fine che tale volontà si propone.
Presupposto questo decreto, è di necessità conseguente che
l'ente, che la divina volontà vuol creare, sia finito. La limitazione
dunque è la prima condizione di quest'opera, e però si può con-
siderare come il primo elemento della forma del reale finito.
Ma la limitazione non è imposta all'ente finito dalla natura
dell'essere obiettivo, il quale è infinito, ma solamente dal libero
decreto della volontà di Dio : la prima limitazione infatti appar-
tiene a quella maniera di conoscere che abbiamo chiamata di
affermazione nascendo dal limite che si impone l'alto affermativo
della mente , dal quale poi solo per astrazione si ha il concetto
obiettivo di limitazione. Non è dunque questa una di quelle qua-
lità che il reale come concetto riceve dall'essere obiettivo de-
terminante. Dobbiamo dunque considerare la qualità universale
di limitato come una condizione preliminare delle determinazioni
che dee ricevere dall'essere oggettivo il reale finito, acciocché
sia reso suscettivo dell'essere attuante.
Fissala in universale la limilazione dal decreto della crea-
zione, ne viene, che l'ente, che Iddio vuol creare, dovrà avere
per fondamento uno o più reali generici, esseiìdo \a limitazioìie
propria de' sommi generi la prima e la minore di tutte le limi-
tazioni, e un subielto dialettico di tutte le altre posteriori.
Laonde le supreme qualità, che sono le somme generiche, costi-
tuiranno il secondo elemento del reale finito; ed il primo di
quelli che vengono imposti al reale finito dall'essere ideale, ac-
ciocché possa essere detcrminato all' esistenza.
Ora poiché i sommi generi non possono esistere altrove che
nella mente, perciò l'essere ideale dà a questa prima materia
generica V intelligibilità oggettiva, e così la fa esistere. Quest'è
Rosmini. Teosofia. 31
482
dunque il secondo elemento di quelli che costituiscono la forma
del reale finito , veniente dall'essere ideale. Ma questo secondo
elemento non è già posteriore , né cronologicamente né logica-
mente, ai generi; ma non è altro che i generi stessi, i quali
hanno due aspetti sotto cui si possono considerare, l'aspetto di
essenze e così sono supreme qualità, e l'aspetto à' idee e così sono
intelligibili. Il che nasce perché il reale nella mente , come ab-
biamo detto, deve sempre partecipare dell' idea, che altramente
non sarebbe, non potendo essere nella mente se non in forma
obiettiva come contenente di esso reale.
Il terzo elemento é la quantità determinala di reale di ciascuno
de' generi supremi. Ma questa quantità determinala in ciascuno
de' sommi generi di reale si può intendere in due sensi ; I." o si
intende , che il reale finito deva avere una quantità determi-
nata senza dir quale; 2.° o s'intende, che deva avere questa quan-
tità detcrminata, fissandosene la precisa misura. In questo se-
condo senso , cioè quale deva essere precisamente il quanto della
realità di cui consti il Mondo, quest'è un secreto che giace nel-
l'abisso del fine che s'è proposto Iddio, e non é qui il luogo
d'esaminare, se nulla si possa ragionare su di ciò dall'uomo,
ma ne' libri cosmologici. All' incontro il dire in universale, che
il reale finito, supposto che deva esser creato, conviene che abbia
una determinata quantità, qualunque poi ella sia, questo vedesi
necessario , ed è certamente un elemento imposto al reale fi-
nito dall'essere ideale , nella divina mente, prima che sia creato.
Dati dunque i sommi generi di cui consta il Mondo e la loro
essenziale intelligibilità, e data una quantità determinata di essi,
restano a considerare le altre condizioni che dee avere questo
reale, acciocché riceva l'essere attuante e diventi ente reale. Ora
quella condizione, che abbraccia tutte le altre inferiori, si è ch'egli
sia uno. Questo risulta da quello che abbiam dello , e per ri-
chiamarne alla mente una prova atta ad essere ristretta in po-
che parole diremo così: « Il reale non può acquistare un'esi-
stenza subiettiva se non diventi un subietto. Ma il subielto è « ciò
che v'ha di primo , e di contenente tutto il resto che si trovi
nell'ente e che è causa dell'unità dell'ente » , dunque ogni ente
che abbia un'esistenza subiettiva o gliela si attribuisca , deve es-
sere uno in sé, o deve avere quell'unità che gli si attribuisce ».
485
L'essere uno dunque è il quarto degli elementi che entrano a
costituire la forma del reale finito.
Articolo VII.
Determinazioni cornimi ad ogni ente finito , e determinazioni
non comuni.
519. Le quattro determinazioni della qualità generica, éeW intelli-
gibilità obiettiva, della quantità determinata, e deWnnità sono uni-
versali ; cioè niun reale finito potrebbe ricevere Tessere attuante,
e così divenire un ente reale finito, se gli mancasse nella mente
creatrice una sola di quelle quattro determinazioni.
Laonde in ogni ente finito quelle determinazioni si devono
ugualmente riscontrare a cagione che le esige il nesso tra il
reale e l'essere , di maniera che sono condizioni indispensabili
a questo nesso medesimo.
Esse si possono chiamare ugualmente determinazioni del reale
finito, ovvero determinazioni deliente finito, perchè, come abbiamo
veduto, l'ente finito «è il reale finito coU'essere », e non è già
(( l'essere col reale finito». Esse appariscono dunque come ca-
ratteri e predicati comuni di ogni ente finito possibile.
Ma esse non sono già proprietà ugualmente dell'Ente infinito.
Poiché l'Ente infinito non ha punto né la qualità generica , né
la quantità determinata, che derivano dalla limitazione del reale.
E però queste due non sono elementi ontologici, ossia proprietà
del puro ente, perchè l'ente può concepirsi senz'esse, ma sono
proprietà dell'ente finito e però elementi cosmologici.
L'intelligibilità obiettiva e Vunità si trovano nell' Ente infinito,
ma non in quel modo che nel finito.
Poiché il reale finito sotto la forma di reale non è intelligi-
bile, se non posteriormente, non come obietto ma solo per via
d'affermazione nell'obietto : all'incontro il reale infinito è l'es-
sere stesso nella forma di reale , e però è intelligibile per sé
come affermato ad un tempo e come obietto. Il reale finito
dunque non ha l' intelligibilità in sé, ma ne partecipa, e ne
partecipa per la forma obiettiva che precede nella mente divina,
kSk
e questa forma obiettiva non esiste per sé, ma per opera della
divina mente che la trae dall'oggetto reale infinito dove vir-
tualmente si contiene.
Del pari Vunilà non è propria del reale finito , il quale si
concepisce come genere indeterminalo , senza unità subiettiva :
ma quella gli viene aggiunta come sua determinnzione e forma
dalla stessa mente divina. Onde il reale finito non ha di novo
l'unità , che per partecipazione , e per una partecipazione che
non dipende da lui, ma dalla mente divina che gliela impone,
acciocché possa essere suscettivo dell'esistenza in sé.
Ora queste quattro determinazioni universali ossia comuni
aìVente finito, e nascenti dal nesso del suo elemento reale col-
i'altro suo elemento l'essere attuante , ne contengono sotto di
sé altre di generiche, di specifiche^ di proprie, di accidentjili :
tutte quelle in una parola che sono necessarie a ciascuna spe-
cie acciocché divenga sprcie piena, la qual sola può essere esem-
plare ad un ente reale, che esista in sé. Ma di queste deve trat-
tare principalmente la Cosmologia.
A noi resta di ragionare di ciascuna di quelle quattro deter-
minazioni universali del reale finito , che gli vengono imposte
dall'essere ideale, acciocché possa poi esistere come ente.
CAPITOLO II.
Continuazione. — Del primo elemento della forma finita comune
ad ogni ente finito, la somma qualità generica.
520. Fu già fatta la questione se il concetto di qualità nell'ordine
logico preceda quello di quantità o questo preceda quello. Ari-
stotele nel libro delle Categorie colloca la quantità prima della
qualità, benché in altri luoghi nomini la quantità dopo la qua-
lità. Questa é questione puramente dialettica a cagione dell'a-
strazione con cui si concepiscono que' concetti , cioè a cagione
che si sono separati quelli che si chiamarono predicabili , da
quelli che si chiamarono predicamenti. Noi che qui facciamo
l'ufficio d'Ontologi dobbiamo riunirli, e però consideriamo la qua-
lità nel sommo genere, e non la qualità senza definire se sia ge-
nerica e di qual genere, specifica e di quale specie.
Parlando dunque di quella qualità che appartiene ai generi
supremi del reale , non è più dubbio , ch'ella sia un concetto
che precede a quello di quantità : perchè niente nell'universo
si potrebbe concepire , se prima non si concepisse qualche
sommo genere di realità. Per questo abbiam detto i sommi ge-
neri della realità essere le fondamenta dell'universo.
Ora i sommi generi della realità non esistono distinti che
nella mente: e però le fondamenta dell'universo giacciono nelle
menti.
La Mente divina vede i sommi generi nell'Oggetto reale as-
soluto, dove esistono virtualmente, e per astrazione li distingue :
li vede dunque nell'essere obiettivo ideale ossia astratto dal
reale assoluto.
La mente umana li vede nel reale finito percepito, cioè ve-
stito dell'essere obicttivo ideale, li vede dunque per astrazione
in quell'essere obiettivo ideale.
La mente divina li vede coU'atto stesso con cui li determina
e determinati li pronuncia enti finiti, e li crea.
La mente umana ritorna indietro, e da questi enti finiti reali
già esistenti viene, universalizzando e astraendo, a intuire i
sommi generi nello stesso essere ideale.
CAPITOLO IH.
Continuazione. — Del secondo elemento della forma finita
comune ad ogni ente finito, l' intelligibilità obiettiva.
521 . Noi abbiamo distinte le proprietà sue proprie che l'essere
comunica ai reali finiti nell'atto d'attuarli come enti, da quelle
proprietà che 1' essere comunica ai reali finiti prima di essere
attuati ad un'esistenza in sé, cioè ohe loro comunica quando
ancora sono nella forma obiettiva d'idea.
Tra quelle prime proprietà abbiamo collocata l'intelligibilità,
{h99-^OÌ), e questa stessa intelligibilità la troviamo anche
tra le seconde.
486
Ma è assai differente il modo nel quale l'essere comunica l' in-
telligibilità ai reali mentre si trovano ancora nella forma ideale,
dal modo nel quale comunica l'intelligibilità ad essi nell'atto
in cui li fa sussistere con esistenza propria. Le differenze tra
queste due maniere d' intelligibilità del reale finito sono le se-
guenti :
Prima differenza. — L'essere comunica un* intelligihilità obiet-
tiva 0 d' intuizione ai reali prima che sussistano, mentre ancora
sono puri termini della mente. — L'essere attuante, cioè nell'atto
in cui li fa sussistere , comunica ai reali un' intelligibilità subiet-
tiva 0 d' affermazione.
Seconda differenza. — L'intelligibilità obiettiva o d'intuizione
non fa conoscere il reale come sussistente , ma come possibile
a sussistere. — h' intelligibilità subiettiva o d'affermazione fa cono-
scere il reale come sussistente.
Terza differenza. — L' intelligibilità obiettiva per Io più è
universale, perchè molti e anzi indefiniti individui sussistenti
hanno quell'identica essenza che s'intuisce nella loro intelli-
gibilità obiettiva. — h' intelligibilità subiettiva o d'affermazione è
singolare, cioè non fa conoscere mai altro che un solo indivi-
duo sussistente.
Quarta differenza. — U intelligibilità obiettiva e d'intuizione
d'un reale nella sua forma idealo si riferisce ad una mente stra-
niera al reale stesso conosciuto, perchè questo è ancora puro og-
getto, e una mente è soggetto : ora il reale finito come obietto
non può essere un reale subietto e però non può essere la mente
a cui il reale oggetto si riferisca. — L' intelligibilità subiettiva o di
affermazione si può riferire ad una mente che sia lo stesso reale
finito, come accade quando la mente umana afferma sé stessa.
Quinta differenza. — L'intelligibilità subiettiva del reale finito
è logicamente posteriore all' intelligibilità obiettiva e da quella
dipendente, come l'essere subiettivo e attuante è un concetto lo-
gicamente posteriore all'essere obiettivo e intelligibile. La di-
pendenza e posteriorità logica tra V intelligibilità subiettiva e Vo-
biettiva è quella stessa che si ravvisa tra l'affermazione e l'in-
tuizione. Non si può affermare ciò che prima non si conosce :
la cognizione dunque che viene dall' affermazione suppone una
cognizione precedente e questa è l'oggettiva.
487
522. L'affermazione è divina ed umana. Coll'affermazione divina
è dato al reale finito l'esistenza subiettiva e simultaneamente l'in-
telligibilità subiettiva rispetto a Dio; coli' umana viene dato al
reale finito, già creato, l'esistenza subiettiva e simultaneamente
rintelligibilità subiettiva rispetto all'uomo affermante.
L'affermazione divina è efficace, perchè è un atto dell' essere
che produce ente: l'affermazione umana è affermazione d'una
mente che non è l'essere, ma solo mente (reale finito), e quindi
produce soltanto cognizione e persuasione.
L'affermazione divina efficace produce il reale finito insieme
coll'essere, affermandolo. Il termine di quest'affermazione sono le
menti finite con tutto il resto dell'universo che si riferisce a que-
ste menti. Le menti coll'affermazione divina sono costituite in
modo che loro è dato ad intuire l'essere oggettivo : onde l'alto
subiettivo dell'affermazione divina nella costituzione delle menti
finite non ha per termine solamente il reale finito, ma ancora
la manifestazione a questo dell'essere obiettivo ideale, la quale
manifestazione è affermata insieme col principio subiettivo e
reale della mente.
Di che apparisce che l'Essere nella forma subiettiva ed af-
fermante 0 pronunciante dispone anche dell' essere obiettivo a
favore degli enti che crea, a questi manifestandolo, e comuni-
candolo come forma loro obiettiva causante la loro slessa su-
bietlività.
Ma ritornando ora indietro, abbiamo posta la prima intelligibi-
lità obiettiva de' reali finiti nei sommi generi di questi. Infatti
se questi non fossero prima di tutto intelligibili, né potrebbero
essere nella mente dove solamente possono concepirsi esistenti ,
né sarebbe più possibile spiegare l'intelligibilità delle altre cose
mondiali che ne' sommi generi hanno il loro primo fondamento
e il primo subietto dialettico proprio delle cose finite. Perocché
l'essere é subietto dialettico trascendente tutte le cose finite.
Risiedendo dunque la prima intelligibilità obiettiva propria
dell' Universo ne' sommi generi delle realità di cui questo
consta ; procede che questa stessa intelligibilità de' sommi
generi si propaghi ai generi minori , e alle specie astraile , e
finalmente alle specie piene , e così tutto l' universo ideale sia
intelligibile d' intelligibilità obiettiva , rimanendo solo l' ultimo
/I88
alto che è quello dell'essere attuante; il quale non è intelligi-
bile per sé stesso, se è diviso dall'essere oggettivo. Ma acquista
r intelligibilità subiettiva come abbiamo detto dall' affermazione
della mente ., affermazione però che non può concepirsi senza che
preceda, in chi la fa, l'intuizione o come che sia il possesso deì-
V inteliigibilità obiettwa; perocché é questa che viene applicata
a quell'ultimo atto del reale dalla mente affermante colla sua
affermazione.
CAPITOLO IV.
Continuazione. — Del terzo elemento della forma finita comune
ad ogni ente finito, la quantità determinata.
Articolo I.
Origine delV infinità e dell'universalità delle idee.
523. I sommi generi della realità hanno essi qualche quantità ?
non sono infiniti riguardo alla propria essenza ?
Ciascuno di essi non ha altra limitazione che la prima di tutte,
che è appunto quella che consiste nell'essere sommi generi , e
però nel distinguersi reciprocamente, l'uno non esser l'altro, né
potersi mutare nell'altro.
E veramente se prendiamo per sommo genere il sentimento
puro , egli è evidente, che nel concetto di sentimento puro non
c'è limitazione di quantità, ma solamente di qualità generica, e
però niente ripugna che esistano degli enti puramente sensitivi
fino a qualunque numero indefinitamente: il genere del senti-
mento non si esaurirà mai nella mente, né si diminuirà per
questo.
Ne' sommi generi dunque risiede prima che in ogni altro ele-
mento del reale finito l'universalità , che è un'infinità unilate-
rale che esclude qualunque quantità determinata. Quest'infinità
de' sommi generi com'è la prima, così è la massima infinità
che si scorga negli elementi del reale finito, e ciò perchè i som-
mi generi sono più vicini, nell'ordine di logica processione, al
489
reale infinito, dove esistono virtualmente, e donde la mente di-
vina li trae coll'aslrazione prima d'ogni altro elemento, prima
cioè logicamente.
Poiché esiste veramente una processione e successiva evolu-
zione logica 0 mentale, per la quale un elemento esce dall'al-
tro, dove virtualmente si contiene, sempre per opera della mente,
la qual successione non è già nell' atto della mente infinita ,
unico che tutto abbraccia, ma è una relazione che passa tra gli
anelli della serie ideale ch'ella abbraccia. Laonde si può stabi-
lire questo principio , che « ogni entità che emani e proceda ,
per opera della mente , dal reale infinito , conserva tanto più
dell'infìnilà di questo, quant' è pii!i prossima al fonte dell'emana-
zione 0 processione •».
Il procedere è il passare per opera della mente dalla virtua-
lità all'esistenza propria e distinta. Laonde se noi concepiamo
una serie, della quale il primo termine sia il reale infinito che
virtualmente contiene ogni reale finito, e l'ultimo termine sia
l'ente reale finito singolare avente un'esistenza propria , trove-
remo che le prime entità che mentalmente emanano sono i
sommi generi, e ciascuno di questi ritiene una virtualità mas-
sima relativamente alle altre entità mondiali. Se da questi sommi
generi la mente, apponendo loro certe differenze , cava de' ge-
neri sempre meno estesi, e poi le specie astratte, e poi le spe-
cie piene, e finalmente i reali singolari mediante l'essere che
attua e realizza quelle specie piene , noi vediamo che la vir-
tualità, r universalità e l' infinità si va sempre più diminuendo
fino a tanto che rimane del tutto esaurita noli' ultimo anello,
cioè nel reale che avendo ricevuto l'ultimo atto dell'essere è di-
venuto un ente singolare avente una propria e subiettiva esistenza.
E quest' è quello che rende ragione dell'infinità o universa-
lità delle idee : la quale a' sommi generi viene dal reale infi-
nito, alle idee meno estese fino alle idee specifiche piene viene
partecipata di mano in mano da' sommi generi , dove risiede
come in propria e prima sede, parlando di lutto il mondo delle
idee. Come dunque da' sommi generi discende tutta l'intelligi-
bilità obiettiva del mondo , così dagli stessi sommi generi di-
scende pure ogni infinità e universalità che la mente concepisca
quando considera le entità mondiali.
490
Ora egli è evidente che in tulle queste entilà^ cioè in queste
idee degli elementi del reale finito, non c'è la quantità da quel
lato dal quale sono infinite, perchè l'infinito esclude la quantità.
Sotto questo rispetto dunque le idee non hanno quantità.
Ma posciachè i sommi generi, e mollo più le idee meno estese,
hanno dei liFiiiti, non si potrà concepire in essi rispetto a questi
qualche quantità ? Per poter dare una risposta a questa do-
manda, conviene che prima di tutto investighiamo che cosa sia la
quantità.
Articolo II.
Definizione della quantità.
524. La quantità è « la relazione d'un'entità co' suoi limiti ».
Questa definizione è universalissima e abbraccia ogni maniera
di quantità.
Conviene dunque osservare, che la quantità risolvesi nel con-
cello d'una relazione tra 1' entità e i limiti di cui è vestita. Ora
l'entità di cui si considera la relazione colimiti entro a' quali esi-
ste può variare, cioè può essere questa o quella entità che si
prende a considerare. Quindi secondo che varia l'entità, riceve un
diverso valore la definizione, e s'ha in essa una diversa maniera
di quantità.
Articolo III.
Della quantità ontologica.
525. A ragion d'esempio, se l'entità di cui si cerca la quantità
è il reale infinito in quanl'è nella mente, ne' sommi generi del
reale finito , noi vediamo « il reale infinito dalla mente rac-
chiuso entro limitazioni sommamente generiche ». In ciascun ge-
nere sommo si può considerare dunque una quantità : ma di qual
natura? Una quantità che è tale solo relativamente al reale infi-
nito , in quanto esiste nella mente divina che lo limita , ossia
una quantità che è tale solo relativamente all'essere indetermi-
nato oggetto dell'intuizione umana che virtualmente comprende
491
il reale infinito. Noi chiameremo questa maniera di quantità
« quantità ontologica ».
La quantità ontologica è dunque quella nella quale si considera
r essere limitato, ossia l'essere in quant'è racchiuso da' limiti :
e questa si può anche dire « quantità di essere ».
Ma poiché l' essere indeterminato contiene virtualmente tutt'e
tre le sue forme , perciò la quantità ontologica sarà triplice ,
ossia ci saranno tre quantità categoriche , ciascuna ontologica ,
secondo che si considererà 1' essere dentro a confini ideali , o
dentro a confini reali, o dentro a confini morali: quantità ideale,
quantità reale, quantità morale , e ciascuna di queste categorie
di quantità di essere sarà convenientemente chiamata onto-
logica.
In ciascuna di queste tre categorie di quantità è 1' essere che
da noi si considera come limitato , ma nella prima è 1' essere
in quanto virtualmente contiene la forma obiettiva , nella se-
conda è r essere in quanto virtualmente contiene la forma
subiettiva, nella terza è l'essere in quanto virtualmente contiene
la forma morale.
La quaìitità ontologica dunque c'è anche ne' sommi generi del
reale finito , e da questi si comunica a tutte le entità inferiori
ad essi; poiché in ciascuna di queste si può considerare l'essere
reale come limitato, e stabilire una serie Ai gradi di essere reale,
secondo che crescendo la limitazione diminuisce il reale stesso
racchiuso da esse.
Ma poiché i sommi generi de' reali finiti contengono il reale
sotto la forma obiettiva, che altramente non potrebbero essere
né concepirsi, perciò ne' sommi generi , come pure in tutte le
entità inferiori fino alla specie piena, si pensa l'essere ideale ,
— che è l'oggettivo virtuale — e l'essere reale insidente in esso.
Perciò le idee sommamente generiche come pure tutte le altre
idee inferiori possono essere considerate in relazione alle due
forme dell'essere, cioè all'essere obiettivo ideale contenente , e
all' essere subiettivo e reale contenuto. Possono essere conside-
rate in relazione al primo in quanto sono idee , possono essere
considerale in relazione al secondo in quanto la natura che in-
siede in esse è realità: nel primo modo sono « l'essere ideale
limitato », nel secondo sono « l'essere reale limitato ».
un
Quesl'è l'origine delle due quantità ontologiche, che si osser-
vano nelle idee e che si chiamano l'estensione e la comprensione
{Logic. 317, 318, 380, ^»0C, 414, 416). La prima è la quan-
tità dell'idea considerata come « essere ideale limitato «^ la se-
conda è la quantità dell'idea considerata « come reale limitalo »
in quant'essa contiene il reale.
52G. Ora può sorprendere il vedere che l'una di queste quantità
va in ragione inversa dell'altra; può quindi domandarsi: « per-
chè r essere ideale quant'è più ampio contiene meno di reale?
e perchè quanto contiene più di reale , rimane più limitato ?
Nell'Essere infinito non è egli in perfetto accordo la forma obiet-
tiva colla subiettiva e reale.? non è l'una e l'altra ugualmente
infinita ? Per qual ragione dunque dee tenere un' altra legge il
reale e l'ideale nella sfera dell'ente finito « ?
La domanda stessa suggerisce anche la risposta , trovandosi
appunto la differenza tra l'ente infinito e il finito. Come abbiamo
già veduto, il reale finito non è essere, ma puro termine dell'es-
sere : all'incontro il reale infinito è egli stesso essere» Essendo
dunque essere per sé tanto l'oggetto infinito quanto il reale in-
finito, l'uno adegua all'altro, e ninno dei due può essere o mag-
giore 0 minore dell'altro. All'incontro che cosa è il reale finito?
È appunto quello che limita l'essere: poiché l'essere in sé non
può a meno d' essere infinito , ma dal reale finito riceve una
limitazione relativa a questo reale, in quanto attua questo solo
tanto quanto questo é, e non più. Il limite, abbiamo detto, del-
l'ente finito non viene dall'essere, ma dal reale. Quanto dunque
un reale finito è più ultimato, e progredito verso la sua esistenza
propria e subiettiva, tant'è più completa e di conseguenza mag-
giore la Umilazione che adduce nell' ideale, perchè quanto un
reale finito è più completo ed ultimato , tanto altresì è più
reale.
Ogni reale finito dunque ha una limitazione sua propria indi-
pendente dall' essere obiettivo , e veniente dalla libera volontà
di colui che creandolo gliela impose. Ma fissata questa limitazione,
ella si divide in più elementi cioè negli elementi generici , e spe-
cifici e in quelli della specie piena, dopo la quale il reale finito
uscendo dall'involucro dell'obiettivo ideale quasi dall'evo, e rice-
vendo così l'alto dell'essere subiettivo, con questo riceve l'ultimo
/i95
elemento della sua determinazione ed è costituito ente reale esistente
in sé, ente subiettivamente considerato. Quest'ultima limitazione
essendo, come dicevamo, l'esistenza subiettiva, esce interamente
dall'essere oggettivo — non è più idea, — e accioccbò sia cono-
sciuto conviene che una mente all' essere obiettivo ideale lo rap-
porti e ricongiunga. Ma gli elementi anteriori della realità finita
rimangono insidenti nell' oggettività ideale dell'essere, e quindi
restringono l'ampiezza dell'essere ideale, conservando però sem-
pre qualche cosa della sua infinità.
5:27. Proprietà della qu;intità ontologica è di non aver misura
altra che proporzionale. La ragione si è che essendo ella quantità
dell'essere, e l'essere essendo infinito, non può darsi una mimra
alta a misurar l'essere.
Rimane dunque che si conosca soltanto « il più e il meno»,
ma non il quanto di più o di meno. Per esempio, conosciamo che
la realità generica è minore della realità assoluta infinitamente,
cioè senza quanto. Chiameremo questa quantità trascendente, e
la definiremo « quella in cui si conosco il più e il meno , ma non
il quanto di questo più o di questo meno, perchè infinito ». Una
tale quantità diviene « quantità trascendente di proporzione )>,
quando con essa si determina con qual proporzione stiano al-
l'essere due 0 più entità finite. A ragion d'esempio, se si parla
d'una quantità categorica, « della quantità di essere obiettivo, » si
potrà dire che la specie ha meno d'essere obiettivo d'un qenere.
Se si parla « della quantità dell'essere reale » si potrà dire che un
ente intellettivo finito ha più di reale che non sia un ente finito
solamente sensitivo )>.
La quantità infinitiva di proporzione è dunque « quella che
commisura più entità finite tra loro rispetto a ciò che partecipano
d' una terza, senza poterne rilevare un quanto determinato, ma
solo riconoscendo che una ne partecipa più, un'altra meno ».
Questa quantità ontologica riesce nondimeno di somma im-
portanza per istabilire il prezzo morale delle cose {Princip. della
Scienza morale e. II, a. i.).
un
Articolo IV.
Della quantità ontologica astratta.
528. Abbiamo detto, che « la quantità è la relazione d'un'enlità
coi suoi limiti, » e che si hanno le diverse maniere di quantità col
sostituire in tale definizione alla parola entità l'uno o l'altro va-
lore. Prendendo a fare questa sostituzione per trovare le di-
verse maniere di quantità, abbiamo cominciato dal prendere
l'essere in luogo di quella parola entità, e abbiamo così trovato
la quantità (mtologica, che si può definire « la relazione dell' es-
sere co' suoi limiti ».
L'essere è sussistente nelle sue tre forme: quindi abbiamo de-
dotto pure tre categorie della quantità ontologica.
Ma noi abbiamo distinto l'essere ideale dall'essere obiettivo as-
soluto. E abbiamo detto, che rispetto alla Mente creatrice l'es-
sere ideale è una specie di astratto , che contiene virtualmente
tanto il reale infinito obiettivo , quanto il reale finito. Questo
essere indeterminato è l'oggetto dell'intuito umano.
Di più , noi stessi per mezzo dell' astrazione possiamo trovare
molli concetti elementari dell'essere {Ideol. 575), sia che si con-
sideri come essere indeterminato senza più, sia che si consideri
come ciascuna delle sue tre forme, virtualmente comprose in esso:
e allora l'essere diventa nella nostra mente ora l'alto, ora l'uno ,
ora il possibile, ora l'universale, ora il necessario, ora l'immuta-
bile, ora ciò che assolutamente è, e così via via.
Vi ha dunque una quantità ontologica d'idealità, una quantità
di atto , una quantità di unità, una quantità di possibilità, una
quantità d'universalità, una quantità d'immutabilità, una quantità
di assolutezza, ecc.^ e tutte queste corrispondono alla quantità
dell'essere.
Per distinguere questa quantità considerata non nell' essere ,
ma ne' suoi concetti astratti ed elementari , noi la chiamiamo
« quantità ontologica astratta o elementare ».
Ma con eguale diritto si potrebbe chiamare questa quantità an-
che « cosmologica fondamentale, » perocché essa non si riferisce
immediatamente all'essere assoluto, ma all'essere in qualche modo
limitato , e lutti gli elementi dell'essere nella mente divina ed
umana non esistono distinti, ma la loro distinzione è il principio o
cominciaraenlo dell'atto creativo.
Articolo V.
Continuazione. — Quantità discreta. — L'uno astratto è misura
assolutamente , e non misurato: tutte le altre misure sono misura-
bili e ricevono l'essere misure da esso.
5i9, Tra queste quantità ontologiche elementari, o, se piace
più, cosmologiche fondamentali, merita una maggior conside-
razione quella che ci si presenta quando si considera Y essere
come uno astratto.
Poiché ['uno astratto non ammettendo alcuna quantità intrin-
seca, essendo anzi un concetto che nega ogni quantità intrin-
seca, ammette non di meno la quantità che si dice discreta, la
quale dà materia all'aritmetica e a tutte le scienze che sull'a-
ritmetica si fondano.
E che questa quantità discreta sia ontologica astratta, e non
puramente cosmologica , cioè cavata dall'astrazione puramente
dagli enti finiti , vedesi dal considerare che è essenziale all'es-
sere il numero tre delle forme, dal qual numero venir possono,
per opera della mente, tutti i numeri e tutte le operazioni arit-
metiche.
Ma qui si consideri che questa maniera di quantità ha una
proprietà che la fa differire dalle altre quantità ontologiche ele-
mentari in questo che l'astrazione del concetto non si fa sull'es-
sere, ma sulle sue tre forme. Ora l'essere è uno e non molti-
plice, essendo identico nelle forme. Onde se si astrae 1' unità
dall'essere, non ci dà che l'uno, cioè la negazione d'ogni quan-
tità. All'incontro astraendosi l'uno dalle forme, troviamo il numero
tre, il quale ci rimane tre uni distinti, appunto perchè è astratto,
e per astrazione si prescinde affatto dall'unità assoluta dell'essere
stesso. Le tre forme dunque danno veramente tre uni astratti,
benché non sieno che un essere solo. Il numero astratto dunque
non suppone sotto a ciascuna unità , come pensiero completo
/i96
corrispondente, un essere, ma una pura forma di essere. Lad-
dove l'altre quantità ontologiche astratte hanno 1' essere come
pensiero completo a cui si riferiscono. Il numero Ire dunque si
fa per una doppia astrazione, poiché si astraggono le forme dal-
l'essere, e da queste forme astratte si astrae di novo il numero
Ire Così la quantità numerica è d'origine ontologica astratta.
530. Questa maniera di quantità discreta è dotala di due pre-
rogative, che non hanno l'altre, e sono:
ì.° Che la misura sua propria è la menoma possibile, cioè
l'uno; di modo che questa misura non ha bisogno d'essere mi-
surata, perchè non ha e non può avere altra misura anteriore,
e perciò non può dirsi né pure quantità, non distinguendosi
nell'uno astratto entità e limiti , anzi non involgendo l'uno da
sé preso nessuna relazione co' limili, potendo essere ugualmente
finito ed infinito;
2.° Che la quantità del numero è perciò stesso determina-
tissima, e misuratissima di tutte , perchè é misurata coll'unità,
che è r ultima misura possibile, anzi è tale misura che sola è
assolutamente misura, e non può esser da altre misurata.
Poiché tutte le altre misure ricevono l'esser misura dall'avere
l'unità, e variano soltanto per quell'elemento che s'unisce al-
l'unità.
Se dunque si sottrae questo elemento, che s'aggiunge all'uno
come una natura a lui soggiacente, rimane il puro uno astratto,
e come tale non misura che il numero astratto, il quale è un
complesso d'unità, complesso che si considera come un nu-
mero solo.
Ma se all'uno si suppone che soggiaccia qualche natura, questa
natura soggiacente all'uno può avere una quantità, ma questa
quantità della natura soggiacente all'uno talora può essere mi-
surata, talora no.
Non può essere misurata:
i.° Quando la natura di cui si tratta è infinita;
:2.° Quando non è infinita relalivameate a quella che è
d'ogni parte infinita, ma è infinita relativamente ad altre qualità
inferiori. Cosi abbiamo veduto che i sommi generi della realità
di cui consta il mondo non sono infiniti relativamente al reale
assoluto da cui la Mente divina li astrae, ma sono infiniti rela-
r
497
livamente ai generi inferiori , alle specie e agl'individui. Ovo.
questo è il caso , che abbiam dello , cioè avervi una quantità
che non ha una misura detcrminata, ma solo una misura propor-
zionale, cioè tal misura che dimostra il piìi e il meno, ma non
il quanto dell'eccesso e del mancamento.
E ciò perchè la misura determinata c'è allora « quando l'en-
lilà presa entro i limili di cui è vestita sta un numero deter-
minato di volte entro la stessa entità che non ha ancora ricevuto
quei limili ». Ora qualunque entittà limitata non islà già un
numero di volle dentro l'enlilà d'ogni parte infinita, perchè l'in-
finito eccede infinitamente il finito, eccede non di quantità sola-
mente, ma d'essenza, onde il finito e l'infinito non possono essere
enti in senso univoco, ma equivoco {Psicol. 1581 sgg.), né l'uno
può mai cangiarsi nell'altro. Non accade dunque « per tutti quei
casi , in cui non si può trovare un numero di volte, che un'en-
tità sia compresa nell'altra, che ci sia una misura determinata
tra l'una e l'altra entità, e quindi non rimane altra misura che
la proporzionale, come dicemmo, per la quale si conosce il più
e il meno, ma il quanto di questo più e di questo meno non è
misurabile perchè non ha affatto misura )>.
Conchiudiamo dunque, che « il solo numero ha una misura
determinata che è l'uno , e dove non si piw assegnare un nu-
mero, non e' è neppure misura, nò di conseguente quantità de-
terminata ».
Articolo VI.
Quantità cosmologica.
1)51. 11 mondo è l'ente finito nelle sue tre forme, sia che ne
partecipi solamente come avviene dell'ente finito ideale, sia che ne
sia costituito come avviene della forma reale, sia che ad un tempo
ne partecipi e ne sia costituito come avviene della forma morale.
Questa ultima però richiede un discorso speciale, e dobbiamo ri-
servarne ^altrove* la trattazione.
Intendiamo dunque per quantità cosmologica quella che si può
ravvisare sia nell'essere ideale come primo fondamento del mondo,
sia ne' sommi generi, e ne' generi inferiori, e nelle specie
Rosmini. Teosofìa. 32
498
aslralte, e nelle specie piene, e negl'individui reali compara li-
vamenle presi, poiché di questi sei anelli si collega il mondo e
tutto l'essere finito.
Come dunque la quantità ontologica è « la quantità di essere
nelle sue tre forme » che si ravvisa nel mondo j cosila quantità
cosmologica è « la quantità di essere ideale che si ravvisa nel
genere sommo , e la quantità di genere sommo che si ravvisa
nel genere inferiore e nella specie, la quantità di specie astratta
che si ravvisa nella sjjecie piena, e la quantità di specie piena
che si ravvisa nell'individuo realmente esistente ». Come dunque
la qiianlità ontologica è una, così la quanlilà cosmologica è per
lo meno di quattro classi subordinate. Esaminiamo la natura di
ciascheduna.
532. I.* Quantità cosmologica fondamentale. — Quantità d'es-
sere ideale.
La quantità di essere ideale è tanto maggiore , come ab-
biamo detto, quanl'è più estesa l'idea. Ma l'essere ideale es-
sendo voto di ogni realità, e però essendo puro essere, egli non
appartiene propriamente al mondo se non come condizione pre-
liminare, e come oggetto intuito dalle menti, e causa della loro
esistenza subiettiva, causa d'un genere suo proprio, che chia-
mammo causa obicttfvo- formale.
Può dunque alla quantità di essere convenire ugualmente la
denominazione, come dicemmo, di quantità ontologica astratta.
533. 11.^ Quantità cosmologica. — Quantità di genere sommo,
che si ravvisa nel genere inferiore a nella specie astratta.
Quando si applica un genere sommo della realità finita come
misura all'essere reale e infinito, vedesi che non è misura che
gli si adegui, il quale resta perciò stesso immisurato e immi-
surabile, e non si può averne altro risultato, se non questo,
che « l'essere infinito è maggiore del genere sommo dtlla realità
finita d'una differenza che non ha quanto, perchè infinita, come
abbiamo detto ».
Ma si presenta una domanda : « Quantunque né un genere
sommo, né tutti insieme presi i generi sommi della realità finita
non possano essere commisurali all'essere reale infinito, il quale
rimane sempre eccedente d'eccesso infinito, tuttavia il numero
de' generi sommi possibile è egli infinito, o ci può essere soltanto
!i99
un numero finito di tali generi ». — Questa questione appartiene
a' libri cosmologici.
Ma se l'essere non ha quantità né misura, perchè non ha
confini; il genere ha egli quantità, e se l'ha, può essere misuralo?
Tre sono le misure possibili:
ì." La prima, più grande della cosa misurata. Con questa
misura la cosa riesce misurala , quando si rileva qual quota
parie ella sia d'una quantità maggiore, che perciò appunto si dice
sua misura. Così dimostrato che la sfera sia uguale a due terzi
del cilindro descritto intorno ad essa, si ha misurata la sfera
con una misura maggiore cioè col cilindro.
2.° La seconda, uguale alla cosa misurala. Così nel problema
dell'ipotenusa dimostrandosi che la somma de' quadrali de' due
cateti è uguale al quadralo dell'ipotenusa^ si è misurata recipro-
camente quella somma, e questo quadralo.
ù.° La terza, minore della cosa misurata. Così conoscendosi
quante volte una data linea è contenuta in un'altra maggiore,
questa è misurala per mezzo di quella come per una misura
minore.
Ora il genere sommo non ha una misura maggiore, altro non
avendo maggiore di sé se non l'essere, il quale è infinito, onde,
se l'essere vuoisi dire misura, è una misura trascendente.
Non ha una misura uguale^ perchè ogni genere sommo è unico,
e non ha uguale.
534. Ma un genere sommo non si può commisurare con un
altro genere sommo come col suo uguale ?
Prima di rispondere a questa domanda si dovrebbe rispondere
a quell'altra da noi indicala di sopra, che appartiene alla Co-
smologia, cioè « se i generi si riducano forse a un solo primo
e sommo, quello dell'ente finito, di cui tulli gli altri sieno ge-
neri inferiori «.
Se un solo è il genere primo e sommo, è chiaro che non ne
ha alcun altro che lo misuri.
Se poi consideriamo per generi sommi i generi dell'ente-prin-
cipio, 0 quelli dell'ente termine, in tal caso, non ci sono generi
uguali, ma l'uno conliene una porzione d'essere più o meno
eccellente dell'altro , e però di tali generi paragonati si potrà
dire, che l'uno è maggiore dell'altro, non però assegnarsi una
500
misura dell'eccesso o del difelto , perchè le porzioni di essere
che racchiudono sono reciprocamente incommensurahili , diffe-
rendo tali generi sommi l'uno dall'altro in tutto fuorché nell'es-
sere. Ora le porzioni di essere non avendo ciascuna di esse
misura, perchè niuna è una quota parte di essere^ ma ciascuna
differendo dall'essere per una differenza infinita, né pure si pos-
sono paragonare tra loro , se non come più e meno, ma non
come misura e misurato.
533, Ma supponiamo, che non si tratti di generi sommi, ma di
generi inferiori. I generi inferiori della realità finita sono i ge-
neri superiori ristretti dentro certi limiti. Cercare la quantità
d'un genere inferiore è cercare quanto di genere superiore egli
contenga, non è più un cercare quanto di essere egli contenga.
Conviene, che osserviamo la differenza che passa tra queste
due questioni.
Quando noi cerchiamo la quantità di essere contenuta in un'entità
limitata, per esempio in un genere sommo , allora la questione
è duplice , perchè o si cerca la quantità di essere intendendo
l'essere realissimo , o si cerca la quantità di essere intendendo
l'essere indeterminato o ideale che solo virtualmente contiene il
reale infinito.
Riguardo alla prima questione è chiaro, che l'essere realis-
simo eccede infinitamente e d'ogni parte il genere sommo delia
realità finita , e tutti insieme i generi sommi se sono più, e
questa è quella a cui spelta assolutamente la denominazione di
« quantità ontologica ».
Riguardo alla seconda questione, l'essere indeterminato eccede
infinitamente del pari ogni genere della realità finita come idea
e come contenente virtualmente un reale infinito. Ma in quanto
all'attualità distinta dell'essere, il genere finito ha un'attualità
maggiore rispetto a quel reale che contiene, ma manca dell'in-
finita virtualità del reale che nel genere sommo non è punto
contenuta né attualmente né virtualmente. Il genere sommo è
dunque infinitamente meno dell'essere ideale, ma è più, rispetto
mWattualità d'una porzione di reale infinitamente minima in pa-
ragone del reale assoluto virtualmente contenuto nell'ideale.
Questo più, non é un più d'idealità, né di essere, ma è « un
501
più di reale finito allualc « che nell' ideale si conteneva solo
immerso ancora nella virtualità.
Quando all'incontro si domanda: « qual è la quantità d'un
genere inferiore rispetto al genere superiore — supponendo che
la realità di questo non abbia un'esistenza subiettiva», — non c'è
più che una questione sola: si domanda cioè « quanto di genere
superiore si contenga entro i limiti di genere inferiore ».
Se si paragonano questi due generi come idee , il genere
superiore come idea contenente è maggiore del genere inferiore;
e questa è la quantità ideale di cui abbiamo parlato, non è quantità
di realità.
Se si paragonano questi due generi come realità contenuta,
il genere superiore contiene una realità più eslesa , ma meno
attuale che il genere inferiore.
(Conviene dunque dimandare :
i° Di quanto il genere superiore eccede colla sua [virtualità
il genere inferiore ;
2" Di quanto il genere inferiore vince il superiore per at-
tualità.
Riguardo alla prima di quelle due domande , ella ancora si
biparte così :
a) I generi inferiori ne' quali si può ripartire il genere su-
periore hanno essi un numero finito, o possono essere in numero in-
finito? e quest'ò questione che di novo riserviamo alla Cosmologia;
b) La realità contenuta nel genere inferiore ha ella ujia
misura^ ossia è una quota parte del genere superiore? Di questa
diremo qui alcuna cosa.
53G. Per risolvere tale questione conviene paragonare la idealità
attuale che ha il genere inferiore colla realità più virtuale del
genere supcriore , e rilevare se sia possibile misurare quanto
questa s'estenda più di quella. Ora questo paragone non si può
intraprendere se non si considera quanto l'attualità del genere
inferiore restringa la virtualità del superiore. Dobbiamo dunque
parlare dell'attualità del genere inferiore, e quindi dobbiamo ad
un tempo stesso risolvere l'altra questione : « di quanto il ge-
nere inferiore vinca il superiore di attualità ».
Poiché, Valtualilà maggiore del genere inferiore è quella che
ad un tempo medesimo e attua il genere superiore e ne restringe
502
l'estensione, facendolo così diventare genere inferiore. A questo
conviene porre ben mente. Come avvien dunque, dimanderemo
noi, che il genere superiore sia limitalo ? Coll'aggiungersi ad esso
tm novo atto di realità. Ma questo novo atto di realità è più ri-
stretto della realità contenuta e propria del genere superiore : è
un atto che il genere superiore conteneva virtualmente, ma che
non esaurisce tutta questa virtualità, perchè è più angusto. La
realità dunque contenuta nel genere superiore paragonata alla
realità contenuta nel genere inferiore è virtuale, ma più estesa;
la realità contenuta nel genere inferiore paragonata a quella con-
tenuta nel genere superiore è più attuale, ma più ristretta. Fac-
ciamo l'ipotesi, che tutta intera la realità virtuale contenuta nel
genere superiore passasse immediatamente alla piena attualità :
avremmo quel genere superiore sussistente con esistenza propria
e subiettiva. Invece di questo passaggio repentino di tutta la
realità virtuale contenuta nel genere superiore all'esistenza subiet-
tiva, nel genere inferiore non abbiamo che una porzione di essa,
e questa non ancora venuta fino all'esistenza subiettiva, ma pro-
gredita di un grado verso di questa, rimanendo tuttavia nell'in-
volucro della forma obiettiva. Ora che cosa può determinare la
realità contenuta nel genere superiore a non passare immedia-
tamente all'esistenza subiettiva, ma in quella vece a rompersi,
per così dire , e una parte di essa rimanere virtuale , un'altra
parte uscire d'un grado verso l'esistenza subiettiva, e così costi
tuire quella differenza che distingue il genere inferiore dal supe-
riore ? La ragione di questo fatto non può trovarsi, se non per
una di queste due vie , o ricorrendo alla volontà del Creatore,
che impone un tal limite a quella realità che progredisce verso
la subiettiva esistenza , o cercando se nella natura stessa del
reale ci sia una necessità di questo lento progresso. Noi di ciò
parleremo in appresso trattando della natura della limitazione.
Qui ci basta osservare, che il genere superiore, dato che esista in
una mente, è compiuto e quieto nella sua esistenza oggettiva , e
non ha nessuna virtù di produrre da se stesso la propria attuale
differenza che lo faccia divenire genere inferiore. Laonde questa
differenza viene prodotta da un'altra causa, perchè infatti è una
attualità che il genere superiore non ha, ma solo riceve.
Il genere superiore dunque col suo concetto non ci dice altro
503
se non che egli non può ricevere un'attualità maggiore se non
come un'aggiunta a quella realità ch'egli contiene: e con questo
rimane certamente limitata la sfera delle attuali dilTercnze possibili.
Ma il quanlo maggiore o minore di queste dilferenze non è
determinato dal medesimo genere supcriore, ma da qualche cosa
di straniero a lui, sia questo la libertà creatrice , sia la natura
del reale infinito.
Finalmente quando questa differenza attuale è data, e il genere
inferiore è coslituilo, si vede bensì, che l'estensione della virtua-
liti\ del genere è maggiore di quella dell'attualità differenziale,
ma non si trova dall'uomo una misura, che determini di quanlo
sia maggiore, perchè lutto il resto dei genere superiore giace in
un'assoluta virtualità. Ora l'estensione di questa virtualità non
si può misurare con un'attualità inferiore, poiché a potersi misu-
rare converrebbe sapere quante volte questa si contiene in quella;
ma nella virtualità non si può segnare il numero delle volte ,
essendo la virtualità uniforme e non mostrando in sé differenza
alcuna, e, come abbiam detto, dove non c'è numero, non ci può
essere misura determinata.
537. Questo ragionamento vale tanto pei generi inferiori, quanlo
per le specie astratte, e da esso possiamo conchiudere:
1" Che il genere sommo della realità finita non ha alcuna
misura né maggiore, né uguale, né minore; ma solamente si
manifesta come idea meno estesa di quella dell'essere, avente
però in sé un reale finito che non è in quella, se non virtual-
mente; come realità poi è d'un' estensione maggiore di quella
contenuta ne' generi inferiori, e maggiore di tutti i generi in-
feriori e delle specie astratte ;
2° Che la quantità di genere superiore racchiuso entro i
confini del genere inferiore o della specie non ha del pari misura,
ma il genere inferiore si conosce più angusto del superiore, ma
più ampio degli altri generi più inferiori ancora e delle specie
astratte : nello stesso tempo cresce il quanto à'altualilà della rea-
lità ne' generi meno estesi.
La quantità cosmologica di realità dunque tra i generi superiori
e inferiori, e le specie astratte, é di due maniere:
a) Quantità d'estensione di reale ;
b) Quantità d'attualità di reale.
804
538. Ma rimane a domandare: La differenza della quantità
d'estensione del reale è ella infinita ? — E la differenza della
quantità d'attualità del reale è ella infinita ?
Rispondo, che la parola infinito significa la mancanza di limiti,
e che perciò questa espressione « entità limitata « suppone che
si poss^ concepire quell'entità in due modi, 1" come separata dai
suoi limiti e cosi ancora illimitata, e solo suscettiva di limiti,
2° e come già limitata, ossia entro la sfera de'limiti.
Ora se si prende l'entità de' sommi generi , ella non si può
concepire fuori de' limiti , perchè senza di questi altro non ri-
mane se non 1" o l'essire indeterminato il quale non contiene
alcuna realità attualmente e però non è la realità contenuta nel
genere sommo , la quale ha un primo grado d'attualità, 2" o
l'essere reale infinito, e questo non è punto subielto della limi-
tazione. Nel genere sommo dunque della realità finita non si può
distinguere il limite della entità stessa limitata: e in questo senso
non si può dire che « la realità contenuta nel genere sia una
entità finita », o che l'estensione di tale realità sia finita. Con-
viene dunque distinguere due specie d'infinito : 1° quello che né
ha limiti in sé stesso, né ha limiti paragonato e riportato a un'
altra entità, e quest'infinità é solo propria di Dio; 2" quello che
non ha limili in sé stesso, di maniera che si possa distinguere
la sua entità dai limiti che la circondano, ma ha limiti riferita
dalla mente ad un'altra entità; e questa maniera d'infinità si
trova anche nell'estensione della realità de' sommi generi : e in
questo senso i sommi generi della realità finita sono infiniti.
Poiché se si confrontano dalla mente all'essere assoluto, si ve-
dono a questo infinitamente minori ; ma se si considera Ventità
stessa de' sommi generi, si trova che non ha confini da cui sia
racchiusa, di maniera che si possa pensare quella entità stessa
non racchiusa , e poi racchiusa , ma si pensa sol essa qual é ,
senza che nient' altro la racchiuda e limiti.
Noi chiameremo la prima « infinità assoluta » , la seconda
« infinità d'essenza propria». 1 generi sommi dunque hanno cia-
scuno « l'infinità d'essenza propria ».
539. Ma se poi a questa estensione infinita d'essenza del sommo
genere raffrontiamo quella d'un genere inferiore, la diflterenza è-
olla infinita? — Nel genere inferiore noi vediamo l'entità del
505
genere superiore limitata da quel grado d'attualità che s'ag-
giunse ad una porzione di quel reale che giaceva nel genere
superiore. Qui dunque abbiamo la distinzione tra l'entità limi-
tabile , e l'cnlilà già racchiusa dentro i suoi limiti. Nel genere
iiiferiore dunque non c'è « rinfiiiilà d'essenza propria », che ab-
biane veduto essere nel genere sommo. Il genere inferiore dunque
ba una reahlà la cui estensione è limitata. Ora la differenza tra
un'estensione limitata e una estensione illimitala è infinita. Dunque
tutti i generi inferiori e le specie astratte differiscono dal genere
sommo infinitamente per riguardo a\Y estensione della realità che
racchiudono.
5'iO. Ma i generi inferiori e le specie astratte hanno tra loro
differenze infinite rispetto all'estensione della loro realità?
Si consideri, che della realità che è nel genere sommo nulla
si trova nell'essere ideale , e che nel reale infinito quella non
c'è che virtualmente ed eminentemente , onde ella non è una
realità la quale limitandosi diventi quella del genere sommo (^).
All'incontro nel genere inferiore e nella specie astratta c'è il ge-
nere superiore, cioè la stessa realità che è in questo, ma soltanto
limitata d'estensione mediante un grado ulteriore d'attualità. Nel
genere inferiore dunque e nella specie si distingue l'entità dai
suoi limiti, e quella da prima si pensa senza di questi, poi si pensa
racchiusa dentro di questi , onde la realità del genere inferiore
e della specie astratta ha il carattere che abbiamo assegnato alle
« entità limitate ».
Dal che procede che il genere inferiore e le specie astratte
stieno tra loro come quantità finite a quantità finite, e che dieno
perciò differenze finite.
(1) Di qui si raccoglie un'altra bellissima dimostrazione dell' impossibilità
de' sistemi panteistici, ed emanantistici. Poiché dimostrato, che la prima rea-
lità finita, qual è quella contenuta ne' generi sommi, non ne ha un'altra pre-
cedente che ricevendo limitazioni diventi essa ; e che questa è proprietà sua,
che non si riscontra ne' generi inferiori e nelle specie; è dimostrato con ciò
stesso, che la prima e fondamentale realità, o come dicono prima materia
del mondo, non ha nessun altro subietto antecedente, e quindi non può es-
sere un'altra realità evoluta, o emanata, o differenziata. E questo basta a di-
struggere il panteismo e l'emanantismo. Ma parleremo di proposito di tutto
questo, concedendoci Iddio vita e agio^ nella Teologia.
b06
Ma se si vuole rilevare il quanto di queste differenze non si
trova , perchè l'estensione della specie determinata dal maggior
grado d'attualità, che ha una porzione della realità del genere,
non è commensuiahile all'estensione di questa realità , la quale
relativamente a quell'altualità maggiore è una realità virtuale.
Ora possiamo slahilire in universale questo principio , che :
« Ogni qualvolta una data realità virtuale acquista un grado
d'attualità che non s'estende che a una parte di quella realità vir-
tuale , non si i)uò rilevare che quota parte sia questa di tutta
quella realità virtuale, perchè ciò che è virtuale non ha nu-
mero, cioè non si possono segnare nella virtualità diverse misure
che rappresentino l'unità «.
Si conosce dunque che la realità della specie paragonata alla
realità del suo genere ha una differenza finita d'estensione, ma
non si può assegnarne la quantità determinala.
541. Veniamo all'altra questione dieci siamo proposto: « Se
la differenza della quantità d'attualità che si scorge nella realità
finita sia infinita ».
Se si paragona l'attualità di realità^ che è in un sommo ge-
nere , col nulla di attualità reale che ha l'essere indetermi-
nato, la differenza è tra il nulla e il qualche cosa; ora questo
qualche cosa può essere più e meno, e però la differenza può
essere più o meno {La Società e il suo fine I. IV e. vi). Ma questa
maniera di valutare una tale differenza è puramente matematica,
è un concetto in servigio del calcolo. Ontologicamente convien
dire che tra il nulla e il qualche cosa non si dà paragone di
quantità e però né pure differenza. Convien dunque per cercare
il quanto deW attualità paragonar questa ad un'altra attualità o
maggiore o minore. Ma minore attualità di quella del sommo
genere non esiste, conviene dunque paragonare l'attualità della
realità che contiene all'attualità maggiore che trovasi ne' generi
inferiori e nelle specie. Come dunque movendo dal sommo ge-
nere fino all'ultima specie s'andava da una estensione maggiore
di realità ad un'estensione minore; così movendo pure dal sommo
genere si va da un'attualità minore ad una sempre maggiore.
Che se mediante il paragone successivo degli anelli di questa
catena si perviene fino all'ultimo, cioè all'individuo reale in sé
sussistente, questo ha cangiato di forma categorica, essendo
b07
puro reale, laddove gli anelli precedenti erano tulli nella forma
obiettiva, perchè la realità in essi era contenuta nell'idea (J81-
187; 580-^00*). Ora le forme categoriche non differiscono tra
esse di quantità, e né tampoco di più e di meno , ma differiscono
totalmente : è questa la prima dìfjercnza, la quale non si può
dire che sia né finita né infinita, essendo anteriore al concetto
del finito, e dell'infinito, anteriore al concetto del più e del
meno; anteriore Iroppo più al concetto di quantità. Non si può
dunque esprimerla in altro modo se non dicendo , che è una
diflerenza assoluta di forma categorica, o scniplicenìente una
differenza ca tegorica .
Che se in vece di considerare le forme dell'essere, si consi-
dera la pura realità , sia questa in sé , o involta nella forma
obiettiva, in tal caso Vattualità di quel reale che sussiste come
individuo non ha limili, poiché prescindiamo qui dai limiti del-
Testensione e non consideriamo che Valtiialilà del reale, sia poi
questo più 0 meno esleso , più o meno eccellente, più o meno
perfetto. Non polendosi dunque considerare quest'attualità come
un'entità limitata, ella è infinita: é l'attualità stessa del reale.
E perciò la differenza quantitativa d'attualità tra il reale sussi-
stente, e quello che rimane solo nell' idea è infinita, perché è
una differenza che passa tra l'infinito e il finito.
Se all'incontro noi risaliamo dalla specie piena fino al sommo
genere, vediamo che all'attualità del reale sempre si toglie un
grado, e però quest'attualità è in tutta quella serie d'idee limi-
tata, fino che nel genere rimane un'attualità minima. Le diffe-
renze dunque d'attualità reale tra quelle realità che giacciono
nella specie prima, nella specie astratta , ne' generi inferiori, e
nel genere sommo sono tutte finite, e decresce l'attualità conti-
nuamente d'un grado.
542. Ma questi gradi, di cui l'attualità reale decresce, si
possono misurare? Si può assegnare ad essi una quantità de
terminata.?
Quando ci proponemmo di misurare l'estensione dilla realità
contenuta nei generi, e nelle specie, riconoscemmo che era
impossibile darne una misura determinata , perché conveniva
raffrontare un quanto attuale a un quanto virtuale, e questo con
quello non si può commisurare. Trattandosi ora di commisurare
b08
un grado d'attualità con un altro, non c'è questo impedimento:
eppcrò sappiamo dire qual sia la differenza , perchè il grado di
attualità che s'aggiunge al precedente è appunto una tale diffe-
renza. Se dunque prendiamo il grado d'attualità che s'aggiunge
come la misura del quanto d' attualità di cui la precedente è
cresciuta , conoscendo noi questo grado, e anche il precedente,
conosciamo il quanto d'aumento della detta attualità. Ma questa
è una misura di cognizione immediala, nella quale il misuralo
è misura di sé slesso. Ora questa misura di cognizione immediata
non ha che un uso immediato , e però sembra oscura e non
soddisfacente paragonata a quelle misure che danno de' risultati
universali , applicabili a molte quantità. Gli uomini comune-
mente riguardano solo quest'ultime come misure, cioè chiamano
misura « un quanto applicabile a quantità di cose diverse •».
Non si trova dunque una misura comune applicabile al grado
precedente e al grado susseguente dell'attualità di cui parliamo;
come accadrebbe se questi gradi si potessero misurare con una
terza misura diversa da essi, ossia con un quanto, diverso dal
quanto loro proprio.
Con questo genere di misure dunque, che chiamammo « mi-
sure di cognizione immediata», si rileva :
ì.° Che una cosa è maggiore o minore dell'altra;
2.° Si conosce la differenza tra l'una e l'altra, ossia l'ec-
cesso e il difetto ;
5.° Ma questo eccesso o questo difello non si può ripor-
tare ad un'altra misura, per la quale si possa determinare « di
qual quota parte » l'una quantità differisca dall'altra.
Con queste misure nondimeno si conosce di più che non sia
il solo sapere che un'entità eccede l'altra, senza conoscere l'una
delle due entità paragonate. Così:
Paragonandosi la realità del sommo genere alla realità infinita
si sa che questa eccede quella ed eccede infinitamente, ma di
questa non s'ha alcuna cognizione;
Paragonandosi la realità del sommo genere a quella che è nel-
l'essere ideale, non essendovene in questa niuna d'attualmente
visibile , si sa che quella eccede d'attualità , ma manca il ter-
mine del paragone, perchè questo termine non è che il nulla ;
Paragonandosi l'estensione della realità della specie all'esten-
K09
sione della realità generica, si sa che qu<esta eccede quella, ma
non si conosce l'estensione di questa per la sua virtualità.
All'incontro paragonandosi il grado dell'attualità della specie
al grado dell'attualità del genere, si sa che quello eccede questo,
e si conosce e quello e questo , onde la differenza è cospicua
alla mente, e anche paragonabile , ma non con una terza mi-
sura comune ad entrambi. Questa dunque è una « quantità di
confronto immediato ».
543. III.* Quantità cosmologica. — Quantità di specie astratta
che si ravvisa nella specie piena.
La differenza tanto d'estensione, quanto d'attualità, che sì
ravvisa Ira la realità contenuta nella specie astratta, e la realità
contenuta nella specie piena è minore che non sia tra la specie
astratta e i generi, o i generi gerarchicamente tra loro,
E che sia minore si scorge da questo, che tra genere supe-
riore e inferiore e tra questo e la specie astratta le differenze
sono sostanziali, laddove le differenze tra la specie astratta e la'
specie piena non sono che differenze accidentali. Questo ha bi-
sogno di spiegazione.
La realità della specie piena è soltanto quella che può acqui-
stare l'esistenza subiettiva e così divenire un ente reale. Ora,
dato quest'en/e reale, noi vediamo nella sua realità una forza di
modificarsi, senza perdere la sua identità, principalmente per
propria virtìi, benché aiutalo anche da agenti o stimoli diversi
da lui. Conservando quest' ente la sua identità a malgrado di
diverse modificazioni che egli subisce, in esso si distingue l'ente
identico causa-potenza delle sue modificazioni , e queste modi-
ficazioni. La specie astratta rappresenta l'ente identico causa-
potenza delle sue modificazioni, che prende il nome di sostanza;
la specie piena rappresenta l'ente identico causa-potenza avente
già i detti suoi modi mutabili, che si dicono accidenti. La varia-
zione di questi modi non aggiunge né toglie all'ente che rimane
identico: la specie piena dunque non ha, più della specie astratta,
nulla che costituisca l'ente reale, ma solo ha certi modi deter-
minati dell'ente stesso. La specie astratta dunque contiene in sé
tutta la realità entitativa o sostanziale, e le differenze che ag-
giunge la specie piena non sono che pure modalità dello
slesso ente.
510
Per intender meglio quanto si dispaia la differenza tra la
specie astratta e la specie piena dalla differenza tra la specie
astratta e i generi, si consideri meglio quello che dicevamo, che
il reale contenuto nella specie astratta quando sussiste è la
causa-potenza de' suoi accidenti. È vero che egli non potrebhe
esistere senza avere alcuni di questi che lo determinassero pie-
namente , ma supposto che sia creato , egli è creato co' suoi
accidenti in modo che queste sono produzioni della sua attività
intrinseca, di quella slessa attività che può variarsi, date certe
condizioni. Dunque nella specie astratta essendo determinata
pienamente la potenza causa di questi, sono determinati altresì
questi con tutte le loro variazioni, di cui il reale sussistente è
suscettivo. All'incontro abbiamo veduto, che il genere rappre-
senta un reale, che non può produrre di so quel grado maggiore
di realità, che ha un altro genere inferiore o la specie astratta,
ma che questo deve essere aggiunto dal di fuori, cioè dal Crea-
tore. Poiché la realità generica non contiene alcuna attività
reale produttrice, non è una causa-potenza, appunto perchè non
rappresenta l'ente reale determinato, supponendo che non possa
essere immediatamente realizzato, nel qual caso avrebbe la na-
tura di specie astratta , o di specie piena se non ammettesse
accidenti.
5^4. I generi superiori dunque differiscono dai generi inferiori
e il genere ultimo dalla specie piena per una quantità cntitatim,
cioè per una parte di quella entità che è necessaria a costituire
un ente reale: la specie astratta non differisce (\-à\\i\ specie piena
per alcuna quantità entitativa, ma soltanto per certi atti e fini-
menti dello stesso ente che si dicono accidenti. 11 reale che
costituisce l'ente finito nella specie astratta è già compiuto, gli
mancano gli atti variabili che l'ente compiuto emette di sé ne-
cessariamente come una sequela della sua radicale attività. Quindi
lutti gl'individui sussistenti che si riferiscono alla stessa specie
a^ralta ricevono lo stesso nome.
Di conseguente la realità della specie piena è esaurita in cia-
scuno di essi, perchè in ciascuno produce lo stesso ente, relati-
vamente all'intelligenza che lo nomina, laddove il genere non è
esaurito in ciascuna specie astratta, perchè concorre mediante
più specie a produrre enti che sono diversi appunto perchè si
mi
conoscono con un'altra specie, e quindi ricevono un altro nome.
La specie astratta dunque contiene il reale già uno ed alto ad
essere subielto esistente de' propri alti , e la specie piena non
differisce da quella se non perchè rappresenta anche il finimento
di questi alti, ma non un subietto novo. I generi all'incontro
rappresentano una realità , che non è ancora una , né atta ad
essere un subietto reale de' propri alti , ma che deve essere
unificata, e può essere unificata in più modi, sicché ne escano
più subiclti reali e quindi più enti distinti dalla mente per la
necessità che ha di concepirli con ispecie diverse.
11 grado dunque d'allualità del quale differisce la specie piena
dalla specie astratta non costituisce un quanto d'enle reale, ma
un quanto d'azione di questo ente.
Anche questo quanto d'azione che contengono le specie piene
più delle specie astratte non si può misurare con altra misura
che con quella che abbiamo delta « misura immediala di cogni-
zione )).
Le diverse specie piene poi o modi della stessa idea specifica
tra loro differiscono per gradi d'imperfezione e di perfezione, i quali
ammettono una numerazione più o men lunga, e questa nume-
razione è una certa misura determinala, giacché c'è qualche
determinazione di misura da per tutto dove c'è numero [Ideol.
648 sgg).
543. IV. '^ Quantità cosmologica. — Quantità di specie piena che
si ramsa nell'individuo reale sussistente.
L'individuo reale è il reale pienamente determinato che ha
ricevuto l'essere subiettivo ed è divenuto ente. Abbiamo veduto
che quest'essere subiettivo è dato al reale da un'affermazione
della mente. Perocché la mente ha davanti a sé l'essere obiettivo,
ma nel seno dell'essere obiettivo come nel suo contenente sta il
subiettivo, ed é questo che la mente appone al reale, che altra-
mente noi potrebbe affermare. Nella specie piena c'è il reale
unito coll'essere subiettivo, cioè il reale ente nel seno dell'essere
obiettivo. Quando il reale si fa sentire fuori della mente, chi
ha la mente vede questo reale qual è nel seno dell'oggetto, e
c'è come ente, e così l'afferma come ente, ed acquista condi-
zione di ente subiettivo con forma subiettiva perchè non più
contenuto nell'obiettivo.
512
Nella specie piena dunque c'è più dell'individuo reale esterno,
perchè c'è il reale determinalo, non come puro termine del-
l'essere , ma come ente reale nell'essere oggettivo. Ma il reale
finito determinalo esiste come ente subiettivo: Leonella mente
e allora involto nell'oggettivo, o 2.° in sé e allora non involto
nell'oggettivo, ma nella forma categorica subiettiva.
L'ente finito dunque essente in sé consta di due elementi
indivisibili: ì.° d'un elemento relativo a sé cioè il reale puro,
2.° di un altro elemento che è nella mente cioè l'essere subiel
livo, che la mente gli attribuisce, coli' aiTcrmazione creativa di
Dio in modo permanente, e colla percezione e affermazione umana
in modo transitorio relativo all'uomo che può rinnovarsi quante
volle piace all'uomo.
Attribuendo la mente l'essere subiettivo al reale in sé, ella
fa sì che esista come ente in sé e però fuori della mente.
Neil' alto della percezione 1' uomo non trova fuori della sua
mente se non il puro reale. Ma il puro reale senza l'essere non
potrebbe esistere. Se dunque apparisce all'uomo il puro reale si
è perchè questo reale è congiunto permanentemente alla mente
divina che contiene l'essere subiettivo nell'obiettivo e di con-
tinuo glielo attribuisce. Esiste dunque il reale finito come ente
in rispetto a Dio; ma in rispetto all'uomo esso si comunica come
puro reale nel sentimento, ma nello stesso lempo l'uomo intuisce
l'essere subiettivo di quel sentimento. Essendo dunque ad un
tempo appresi dall'uomo i due elementi, il reale e l'essere, egli
vede ossia percepisce il reale ente. Ma pure per astrazione di-
slingue il reale dall'essere, che lo fa ente, pensando il sentimento
puro con astrazione dal pensiero con cui lo pensa , e quindi
pare a lui che il reale gli sia dato senza l'essere , diviso dal-
l'essere; benché non sia questa che un'illusione dialetlica, che
ha però a fondamento il vero, il vero cioè che « il reale non
è l'essere » benché, come abbiamo detto, sia inseparabile dal-
l'essere subiettivo, e questo dall' obietlivo che lo contiene nella
mente.
Il reale finito dunque e determinato non è, se non è ente, e
dipende dalla mente divina che lo crea, e dalla menle umana
che gli attribuisce l'essere subiettivo e così lo fa ente relativa-
mente a sé stessa.
513
La specie piena dunque è l'ente reale finito involto nell'oggetto
e però in forma obiettiva; 1' individuo reale sussistente è lo
stesso ente reale finito in forma subiettiva.
Non differiscono dunque riguardo all'essere, come meglio
vedremo in appresso, ma differiscono di forma categorica.
La differenza di forma categorica non è una differenza di
quantità, né una differenza di qualità generica, ma una differenza
prima e massima, che è il principio originale di tutte le altre
differenze concepibili.
Articolo VH.
Continuazione. — Concetto di qualità.
5^6. Cbiamasi qualità « un' attualità permanente , cbe colla
mente si astrae dal totale d'un ente, e che dopo averla astratta
si predica del medesimo ».
Questa è una definizione universale, che abbraccia tutti i signi-
ficati, ne' quali si suole usare la parola qualità.
E veramente ci sono delle attualità essenziali, integrali, acci-
dentali e di pura relazione , e tutte si possono astrarre colla
mente e distinguere dalia totalità dell'ente e poi predicare di lui.
Aristotele stesso considera come qualità 1' essenza generica e
specifica degli enti (d). Vero è che dividendosi queste entità
essenziali dall'ente, si distrugge l'ente determinato, ma la niente
in tal caso considera per subietto, a cui attribuire tali qualità
essenziali, V ente indeterminato , cioè le rimane un subietto dia-
lettico , e col restituirgli i suoi essenziali costitutivi di novo
forma l'ente determinato di prima.
Conviene ancora osservare che ci sono delle qualità reali e
delle qualità puramente dialettiche. Perocché se la mente astrae
dal totale d'un ente un'attualità , che è contenuta in esso solo
virtualmente, o non vi é contenuta affatto se non per una finzione,
in tal caso la qualità di cui si tratta non é reale ma puramente
dialettica.
547. Ora quello che per noi é imporlant-e di conoscere si è,
(1) Categ. 5.
Rosmini. Teosofia. 33
514
qual sia la relazione tra il quale e il quanto preso l'uno e l'altro
concetto nella sua maggiore universalità.
Il quanto si concepisce prima in un concreto , subietto della
quantità, poi la mente ne fa un astratto, che chiama assoluta-
mente quantità.
Ora il quanto di un subietto è quasi sempre il quanto d'un
quale : poiché quasi ogni subictto ha qualche attualità che da lui
si può astrarre , e poi di lui si può predicare.
La qualità dunque d'un subielto considerata in relazione alla
quantità del medesimo sta come l'indeterminato ai limiti che lo
determinano. Poiché la quantità, come abbiam detto, è « l'entità
considerala entro i suoi limiti ». Se dunque in luogo della parola
entità, sostituiamo in questa definizione la parola qunlità, avremo
non l'ente tutt' intero ma una sua attualità elementare , alla
quale potremo aggiungere poi i limili , e così la quantità.
La qualità dunque non é tulio l'ente ma una sua attualità
qualunque divisibile colla mente e poi di lui predicabile. Questa
attualità poi si dice nella definizione dover essere permanente
per distinguere la qualità daWatto transitorio dell'ente , che al-
l'ente non inerisce. La qualità così concepita può esser subietto
di quantità, ossia di limiti.
548. Ma quali sono le attualità dell'ente che si possono dal-
l'ente dividere e poi di lui predicare?
Se si parla dell'Ente assoluto niente si può da lui dividere
realmente o considerare diviso con un pensiero assoluto. Ma con
un pensiero imperfetto si può coll'astrazione ipotetica distinguere
da esso, o piuttosto in esso, molti suoi attributi e perfezioni, che
virtualmente vi si contengono e poi di lui si possono predicare,
il che é quanto dire si possono considerare come sue qualità. Ma
essendo tutte queste qualità dialettiche assolutamente infinite,
esse non ammettono quantità alcuna appunto perchè non ammet-
tono limiti.
Se si prende l'essere indeterminato dell'intuito, si possono colla
stessa astrazione distinguere in esso quelli che chiamammo con-
cetti elementari deWessere , ma anche questi essendo infiniti si
possono bensì considerare come altrettante qualità dialettiche, ma
non suscettive di limiti , e però immuni da ogni quantità.
La quantità dunque non si può trovare nell'essere puro , la
qualità poi vi si può trovare per un'astrazione puramente ipotetica.
Di che nascono tre conseguenze :
i° Che il concetto di qualità puramente dialettico, qua! ò
quello che la mente si fa per un'astrazione ipotetica, è anteriore
a! concetto di quantità.
2" Che se si parla non d'una qualità dialetlica , ma d'una
qualità vera, cioè di quella attualità dell'ente , che si distingue
realmente nell'ente stesso, questa non si può trovare che negli
enti finiti, ne' quali esistono attualità realmente distinte dal su-
bietto a cui si attribuiscono.
.">" Che la quantità, non esistendo nell'essere , convien cer-
carla nelle forme dell'essere.
549. Rimane dunque a ricercare primieramente se la quan-
tità si rinvenga nelle forme dell'essere in quanto si trovano nel-
l'Ente infinito 0 nell'ente finito.
E si risponde primieramente che la quantità puramente discreta
sembra trovarsi nelle tre forme infinite, perocché essendo queste
veramente tre e inconfusibili , sembra che il numero tre si possa
di esse predicare. Ma qui conviene accuratamente distinguere.
Poiché primieramente il numero é un astratto e però una conce-
zione mentale che non esiste se non nella mente così astratto, e
non c'è una distinzione reale tra il numero tre e le divine persone.
Di poi quando si tratta di predicare un numero d'un subietlo,
il quale di conseguente abbia la quantità discreta conviene, che
il subietto di cui si predica il numero sia unico : poiché, se non
è unico , manca il subietto della quantità discreta. Ora in Dio
manca l'unico subietlo di cui si possa predicare il numero tre.
Poiché non c"é in Dio che la natura e le persone. Ma la natura
è una, e però non si può di essa predicare il tre dicendo : « tre
nature». Le persone poi, come persone, non sono un subietto
perché sono tre.
Se dunque si predica il numero tre delle persone si fa questo,
perché si concepiscono dalla mente le tre divine persone come
un subietto mentalmente collettivo (1), ed è come se si predicasse
il tre del tre dicendosi : « il tre è tre ».
(1) Si dirà forse, che questo avviene sempre quando si predica il numero,
come quello che d'altro sembra non potersi predicare che d'una collezione di
bl6
550. Dal che dobbiamo conchiudere:
1° Che in Dio non non si può neppure ammettere la quan-
tità discreta, perchè l'imo dinno non misura il tre delle persone,
essendo quell'uno stesso lutto in ciascuna persona e non tripli-
candosi ma rimanendo identico ;
2° Che tanto l'uno come il tre in Dio non si possono distin-
guere come numeri astratti, dove l'uno si replica; ma il tre sus-
siste assolutamente senza che possa predicarsi d'un altro subietto
unico; e l'uno sussiste assolutamente identico di numero in cia-
scuno de' tre.
Conviene dunque conchiudere che propriamente parlando ogni
quantità si trova non nell'essere , non nelle forme infinite del-
l'essere: ma soltanto nelle forme dell'ente finito.
Ma noi abbiamo veduto che l'ente finito è costituito, come su-
bietto avente un'esistenza propria, solo dalla forma reale , e che
non fa che partecipare in diverso modo delle altre due forme,
le quali non vengono limitate in sé, ma per unai limitazione di
relazione.
cose, e però d'un subietto mentale. Ma passa questa differenza tra le colle-
zioni d'enti finiti, e quella che, impropriamente parlando, formano le divine
persone, che nelle collezioni degli enti finiti c'è una specie o un genere che
contiene veramente il reale unico che poi si divide e replica in molli, me-
diante diverse limitazioni; all'opposto nella natura divina non c'è un fonda-
mento della divisione in più, perchè non si tratta punto di divisione, o di
limitazione, ma c'è l'unica natura divina semplicissima, che tutta intera sus-
siste in tre modi diversi e incomunicàbili. Non si può dunque numerare la
natura, ma solo le persone, e come persone sono tre subielti, che non si ri-
portano ad un altro subietto. Si dirà che c'è la specie astratta della perso-
nalità che si replica, ma questa specie astratta non è che un'entità di ra-
gione, poiché questa specie della personalità non contiene alcun reale che
sia comune alle persone, o anteriore ad esse, o che tra esse si divida, e
anzi propriamente la personalità non si predica delle persone, ma ciascuna
persona è la stessa personalità sussistente della natura. Finalmente si deve
considerare che noi parlavamo dell'uno astratto e del numero tre astratto.
Ora predicarsi dell'uno astratto il numero tre sarebbe formare una propo-
sizione contradiltoi'ia, perchè l'uno astratto è eguale a ciascun uno dei tre.
All'incontro non è una proposizione contradittoria questa « la natura divina
è le tre persone », perchè la natura divina non è lo stesso uno con cui
si numerano le persone, nel qual caso sarebbe anch'ella una persona. E così
si possono predicare le tre persone della natura, ma non il tre astratto del-
l'uno.
517
La quantità dunque è propria dell'ente finito, e dell'elemento
che lo costituisce come subietto proprio cioè la realità finita ; e
però ella è alla stessa condizione della qualità reale , poiché anche
di questa abbiam veduto che solo agli enti finiti appartiene.
551. Insieme dunque coH'esislenza del finito compariscono la
quantità e la qualità reale: ma quale delle due comparisce la
prima ?
Abbiamo veduto che i sommi generi della realità mondiale non
sono « entità circoscritte da limiti » perchè non esiste l'entità
anteriore ad essi che ricevendo limili sia il loro subietto : ma
che essi tuttavia si concepiscono come infinitamente meno della
realità assoluta. Perciò altra quantità in essi non si ravvisa che
quella di più e di meno , la quale non ammette misura alcuna.
Non si distinguono dunque ne' sommi generi i limiti dall'entità,
ma è un'entità che è limite a sé stessa: è il finito esistente. Essi
stessi sono anche i limiti del tutto creato , come contenenti di
questo : perchè il creato non è che i sommi generi variamente
limitati.
Se dunque noi sotto il nome di quantità intendiamo anche
(juella di cui altro non si può afTermare che il più ed il meno,
benché l'eccesso e il difetto sia senza quantità: in tal caso la
quantità e la qualità sono coeve nella loro comparsa all'esistenza.
Poiché i sommi generi sono le somm,e qualità e sono in pari tempo
infinitamente minori della realità assoluta ed infinita.
552. Ma si possono considerare i sommi generi come la rea-
lità assoluta limitata ?
La realità assoluta in sé stessa esistente ricusa ogni limitazione
e distinzione. Ma la realità assoluta in quanl'è puramente pre-
sente alla divina mente, ammette limitazioni mentali colle quali
diviene l'idea esemplare del mondo , nel quale esemplare c'è la
realità del mondo involto nell'oggetto e però non ancora Mondo,
ma tale però che in virtù dell'atto creativo acquista un'esistenza
propria, relativa a sé, subiettiva, e così diviene il Mondo.
Se dunque si parla della realità del mondo in quant' è ancora
nella mente divina , può dirsi che sia la realità assoluta limitata
dall'alto libero della divina mente e così può considerarsi come
una quantità , secondo la definizione da noi data « d'una entità
in quanl'è racchiusa da limili », e ciò quantunque l'entità che
518 *
si prende come subielto de' limili ecceda tulli i limili infìniUi-
menle , onde prescnli una quanlilà soltanto « di più e di meno»,
senza che l'eccesso abbia un quanto. È dunque questa una quan-
tità mentale duina.
L'uomo poi non conosce la realità assoluta se non virtualmente
neir essere virtuale , onde altro non può paragonare che i sommi
generi come idee all'idea dell'essere, e conchiudere che quelle
sono questa limitata , onde può dire che stanno le une all'altra
come il limitato all'illimitato, e cosi ha una (piantila ontologica
«di più e di meno)). E questa è quanlilà di più e di meno
ideale.
Ma se si paragonano i reali aventi esistenza propria e subiet-
tiva in quanto si vedono contenuti ne' generi sommi, essi non
sono punto una realità limitata , e però non hanno quanlilà di
sorla. Poiché qual potrebbe essere la realità subiettiva, che: ag-
giungendosi i limiti, venisse a costituirli? Non la realità assoluta
che non riceve limiti , e che è essere ; laddove la realità dei
sommi generi non è essere e però non c'è un fondamento co-
mune di limitazione. Se i sommi generi fossero la realità asso-
luta limitata , questa sarebbe il subietto di quelli , e, in tal caso,
quelli sarebbero per sé esseri. Il subietto reale all'incontro di
tutto ciò che è finito non può essere allro che un puro reale
che non é essere. Ma i sommi generi non hanno neppure un
reale antecedente che sia puro reale e non essere, perchè sono
i sommi generi de' reali finiti per la supposizione. Dunque non
hanno limiti , e quindi né pure quantità reale.
553. Alla domanda dunque che noi ci facevamo qual com-
parisca prima all'esistenza, se la qualità o la quantità, conviene
rispondere in questo modo :
Se trattasi d'una quantità mentale divina , la qualità e la quan-
tità sono coeve.
Se trattasi d'una qualità e quantità d'idee, pure sono coeve.
Ma se trattasi di quanlilà e di qualilà realmente esistenti negli
enti in quanto hanno un'esistenza propria e subiettiva , la qualità
precede la quantità, perché i sommi generi delle realità porgono
il concetto di somme qualità, prive al tutto di quantità. Con-
viene dunque che ritorniamo a quello che dicemmo a principio,
che il quanto è sempre « quanto d'un quale )>, e che però la
o49
quantità suppone antecedente a sé una qualità o più general-
mente un'entità di cui come di suo proprio subietto si predichi.
In quanto poi ai generi inferiori e alle specie, queste si pos-
sono considerare sotto due rispetti diversi come qualità, e come
quantità. Si considerano come quantità se si riferiscono al genere
superiore, come a questo limitato », e si considerano come qua-
lità se si guardano in sé stesse , senza relazione al genere su-
periore che in essi esiste limitalo , ovvero se si guardano rela-
tivamente ai generi o specie inferiori, rispetto a cui, essi sono
il quale di cui il genere o la specie inferiore è il quanto.
Ma se escludiamo dalla nostra considerazione tutto ciò che sta
nell'idea e pensiamo alla sola e pura realità , in tal caso non
ci rimane che il concetto astratto di quantità riferibile ad una
qualità che rimane occulta, perché la mente non la determina.
E veramente se non si conservasse tuttavia nella mente il con-
cetto d'un quale almeno indeterminato, non si potrebbe più con-
cepire una quantità né pure astratta.
In cima dunque all'Universo sta la qualità pura de'sommi ge-
neri ; poi ne' generi inferiori e nelle specie viene una qualità che
si può considerare anche sotto il concetto di quantità , e potrebbe
dirsi quantità qualitativa ; viene finalmente la quantità pura e
astratta avente però quasi contrapposto nella mente il concetto
di qualità pure astratta e indeterminata.
Si osservi che questa questione ontologica sulla priorità dei
due concetti di qualità e di quantità non fu potuta risolvere chia-
ramente da Aristotele per aver egli troppo divisi i suoi predica-
menti da quelli che si chiamarono predicabili {Logica 415-415),
atteso che non é risolvibile col semplice paragone de' due con-
cetti astratti di quantità e di qualità , ma conviene considerare
l'una e l'altra ne' generi e nelle specie e in fine nel reale , e
vedere dove incomincia prima a presentarsi al pensiero l'una
0 l'altra.
520
Articolo Vili.
Quantità fisica^, ossia del reale finito in sé.
S ^•
Quantità del reale finito determinato considerata nella specie piena.
554. La specie piena contiene il reale finito pienamente de-
terminalo. Ma in essa trovasi anche determinata la quantità di
questo reale finito in quanto esiste subiettivamente in sé stesso?
Questa quantità può concepirsi in due maniere, cioè:
V Quantità di realità di cui consta un'individuo reale sus-
sistente.
2" Quantità di realità d'un individuo sussistente replicata
in un dato numero d'individui uguali.
Chiameremo la prima quantità fisica individua ; chiameremo la
seconda quantità fisica discreta,
555. Intorno alla prima nasce il dubbio, se ella sia contenuta
nella specie piena. Certo è contenuta neH'maf/nje perfetta o in quella
rappresentanza d'un ente spirituale individuo che tien luogo del-
l'imagine. Ora sembra che l'imagine perfetta o la rappresentanza
perfetta sia la materia propria della specie piena , essendo sua
forma l'essere ideale , che la mente attribuisce al fantasma o alla
delta rappresentanza. Infatti concepire una specie piena allual-
menle presente all'intuizione della mente senza fantasma o la
detta rappresentanza della attualità determinata dell'ente spiri-
tuale non si può. Per questo noi abbiamo sempre ritenuto, che
nella specie per essere veramente piena si deva contenere anche
la quantità individua della realità {Ideol. 402).
Ma è manifesto che non vi si contiene una quantità fisica
discreta. Pure egli sembra nel primo aspetto che una sola specie
piena possa corrispondere a innumerevoli individui realmente
esistenti. Ciascuno di questi esisterebbe ugualmente nella specie
piena con tutte le loro particolarità , quantunque non esistesse
in quella il loro numero.
b21
Pure se possono esistere più individui perfettamente uguali ,
è certamente necessario che sia determinato nella causa che il
produce il loro numero , che è la quantità fisica discreta di cui
parliamo , giacché non possono esistere individui reali finiti in
un numero indeterminato, ma conviene che o ne esista uno, o
due, 0 tre o qualunque numero determinato. Onde verrebbe dun-
que questa determinazione? — Si dirà, che, non venendo dalla
causa obiettiva, conviene che venga dalla causa subiettiva del
mondo, cioè dalla libera volontà del Creatore. E si aggiungerà
che anche l'uomo, quando sia in possesso d'una specie piena,
può imaginare un individuo come sussistente ad essa corrispon-
dente, e poi un altro, e un altro senza fine, replicando quell'alto
d'imaginazione ipotetica.
556. Ma occorre tosto una maggiore difficoltà : k Se gl'in-
dividui uguali non hanno la ragione del loro numero, e però
della quantità di reale di cui tutt' insieme constano, nella specie
piena, dunque tutta questa quantità di reale non ha veruna og-
gettività. Ma se non ha oggettività non potrà essere conosciuta
né potrà ricevere l'essere , perocché l'essere subiettivo che dà
la mente si trova nell'obiettivo, dove é contenuto. Dunque più
individui uguali non possono esistere. Né vale il dire che l'E-
semplare del mondo non essendo una sola specie piena, ma lutto
il complesso delle specie piene possibili , queste vi possono es-
sere replicate; perchè la specie piena è sempre una, per modo
che non ammette leplicazione di sorte, e di più non può oc-
cupare che una sola situazione nell'esemplare, giacché la stessa
situazione diversa che occupasse, deve anch' essa comprendersi
nel concetto d'una specie piena sotto lutti gli aspetti ».
Io considero questa argomentazione come ineluttabile, e come
una conferma a priori del -principio dell'esclusa uguaglianza , o
come lo chiama il Leibnizio degl' indiscernibili , da noi altrove
propugnato {Teod. Ci7 sgg.) Ma di esso non avevamo ancora
trovato una dimostrazione a /?non, e però non osammo presen-
tarlo in tutta la sua estensione, restringendone l'applicazione.
557. Ci si opporrà che alla specie piena — come in qualche
luogo noi slessi abbiam detto — può corrispondere un numero in-
definito d'individui {Psicol. 1623J. Rispondiamo che la specie piena
si pensa in un modo più o meno perfetto. Poiché o si prende per
K22
ispecie piena quel concello dell'enle che è vestito de' suoi acci-
denti per modo che si può imaginare o ipotelizzare l'indivi-
duo reale clic le corrisponde, e chiamcrenio questa specie piena
vaga, o si può prendere per ispecie piena quella che ha in sé
non solo tulli gli accidenti dell'ente, ma anche tutte le relazioni,
sue essenziali, e chiameremo questa specie piena fissa. A ra-
gion d'esempio, se io voglio formarmi la s{)€cie piena d' un al-
bero , posso pensare un albero vestilo de' suoi accidenti, ma
senza relazione allo spazio in cui collocarlo , e posso anche
pensare un albero vestilo di tulli i suoi accidenti , e ancora
del luogo che egli deve occupare (1). Nel primo caso io ho una
specie piena vaga, e rispetto a questa posso imaginare un numero
indefinito d'alberi reali, giacché posso collocarli in diversi luogbi
dello spazio, i quali sono indefiniti di numero: nel secondo caso
ho una specie piena fissa, e a questa non può corrispondere che
un solo individuo reale , perocché nello stesso spazio non pos-
sono stare nello stesso tempo due corpi.
Si dirà forse , che facendo intervenire lo spazio s' introduce
nella specie piena un elemento reale , perché lo spazio è un
reale. Ma non è così , poiché e' é lo spazio , e c'è l' idea dello
spazio. Facilmente si confondono queste due cose, perchè l'idea
dello spazio non ha altro individuo possibile che un solo e pie-
namente determinato, é un'idea che non ha altra idea generica
sopra di sé, onde si può considerare come un genere ella stessa,
ma non ha specie sotto di sé, quindi partecipa anche del carat-
tere di specie piena e fissa. Onde abbiamo altrove detto che un
principio senziente che non avesse altro termine che lo spazio
non potrebbe essere che unico {Psicol. b5o-557).
E di più abbiamo pur detto quello che consegue , cioè che
« più enti-principio con termini affatto identici non possono
(1) Noi abbiamo escluso il luogo dalla specie piena di cui parlavamo nella
Psicologia (1622 n. Uident.), percliè effettivamente nella natura d'un dato corpo
non entra piuttosto un luogo che un altro. Pure il luogo è una relazione con
questa natura che dee essere determinata, acciocché il detto corpo possa
passare all'esistenza subiettiva, e però esso non si comprende, è vero, nella
specie piena di quel corpo se si prende isolatamente , ma se la specie
piena si considera come parte dell'esemplare del mondo, deve acchiudere an-
che il luogo e questo determinato.
b25
sussistere (Ivi e 567 w). Laonde ogni qual volta la specie piena
di tali enti contiene la determinazione perfetta del termine, co-
stituente tali enti, ella è di necessità una specie piena fissa.
Dal che ne viene per conseguenza che neppure due enti-ter-
mine |)ossono esistere perfettamente uguali. Poiché se esistessero
darebbero sussistenza a due enti-principio. Ma due enti-principio
con un termine perfettamente uguale non è cosa possibile, dunque
neppure due termini aventi perfetta uguaglianza.
Colla stessa ragione si prova che non possono esistere due enti
misti di principio e di termine.
È dunque a conchiudere che nella specie perfettamente piena
c'è tutta la realità dell'individuo reale , ma che ella è involta
nella forma oggettiva, e però non esiste in sé, ma nell'oggetto.
La sussistenza dunque degli enti reali finiti in sé, ossia la loro
esistenza propria e subiettiva in altro non consiste, se non nel-
l'essersi spogliati per così dire della corteccia obiettiva, nell'es-
sere usciti daquest'ovo metafisico. E il cacciarli fuori da que-
st'ovo e così loro dare un'esistenza propria é l'opera della vo-
lontà dell'Essere stesso sussistente, il cui volere è essere, ed è
di conseguente esistente in sé ciò che vuole.
558. In questa maniera abbiamo trovato la perfetta equazione tra
la forma obiettiva e la forma subiettiva degli enti finiti. In quanto
esistono nella prima, non sono subietti esistenti, ma sono subiett-
esislenti in quanto esistono nella seconda. La loro natura entii
tativa nelle due forme é identica , ma essi non costituiscono il
mondo esterno se non nella seconda, e così si spiega la frase che
usa S. Paolo per indicare la creazione che « le cose visibili sono
state fatte dalle invisibili » ex invisibilibus visibilia (1).
Quantità del reale finito considerata ne' diversi
reali finiti confrontati tra loro.
559. Giunti colla nostra investigazione dai sommi generi alle
specie piene fisse della realità finita noi abbiamo trovato tutte le
(1) Hiebr. XI, 3.
824
determinazioni che la realità finita riceve dall'essere oggettivo ,
acciocché sia resa atta ad essere creata ^ cioè ad uscire dal seno
della forma obiettiva e sussistere come forma subiettiva.
Fino a tanto che il reale finito esiste nella forma obiettiva,
egli è essere, essere nella forma obiettiva , perchè questa è il
contenente massimo.
Ma quando esce dalla forma obiettiva per sussistere come su-
bietto, esso non è più essere, ma solamente forma ossia termine
dell'essere. Quindi non può uscirne se non a condizione che nello
stesso istante che n'esce, la mente gli aggiunga l'essere subiet-
tivo ; il che fa Dio, come essere subiettivo, pronunciandolo ed
affermandolo, perchè la parola dell'Essere non può essere altro
che essere, non essendoci nell'essere puro niun atto e niun ter-
mine dell'atto che non sia essere. Esce dunque dalla forma
obiettiva ricevendo l'essere subiettivo dall' atto divino. E l'uomo
nella percezione, percepisce pure il reale finito coll'atto stesso che
afferma di lui l' essere subiettivo che egli intuisce nell' obiet-
tivo, e predica del reale finito datogli nel sentimento.
Costituiti così gli enti reali finiti sì per rispetto a Dio che
per rispetto all' uomo , il quale pure è un ente reale finito co-
stituito allo stesso modo, come abbiamo detto, rimane a cercare
la quantità dell' ente finito in sé slesso , cioè la quantità della
sua realità ne' diversi enti finiti comparativamente.
E quantunque questa ricerca non riguardi la determinazione
oggettiva del reale finito, la quale è compita nella specie piena,
tuttavia si vedrà dalle cose che siamo per dire , che ci è ne-
cessaria a rendere in qualche modo compiuta la dottrina intorno a
quella determinazione.
Perocché la diversa quantità di reale, che hanno gli enti fi-
niti tra loro , è causa della loro moltiplicità , ossia della mol-
liplicità delle specie piene fisse. Ora anche la moltiplicità degli
enti deve essere determinata prima nell'oggetto, che altrimenti
non potrebbe uscire da questo all'esistenza subiettiva un numero
determinato di enti, e venire all'esistenza un numero indetermi-
nalo di essi è impossibile.
560. Vediamo dunque primieramente quali siano le diverse
maniere di quantità comparativa degli enti reali finiti, e poi cer-
chiamone la ragione determinante nel loro essere obiettivo.
52b
La quantità, abbiamo detto, è « la relazione d'un'entità co' suoi
limiti )).
Dalla qual definizione abbiamo primieramente concbiuso, che
una entità, che non è racchiusa da alcun limite, non ha quan-
tità di sorte alcuna. Dipoi:
1." Che un'entità che sia Hmitata da qualche lato, ma
da altri illimitata, non ha quantità da que' lati da cui rimane
illimitata , e questa può chiamarsi infinità ìinilaterale, o sempli-
cemente laterale. Ma ha quantità da que' lati da cui ha limiti,
e si può del pari chiamare: « quantità laterale ».
2.° In secondo luogo i limiti da cui è contenuta una data entità
0 possono essere immutabili, o mutabili, allargandosi o restrin-
gendosi. Se i limiti sono immutabili , in tal caso si ha quella
quantità che abbiamo chiamata « quantità di cognizione imme-
diata », la quale non lia alcuna misura, ma è misura a sé stessa,
e sebbene la mente percepisce quel quanto coU'atto stesso con
cui percepisce l'entità, non può dare di essa altra definizione ,
né esercitare su di essa alcun calcolo di maniera che a lei non
pare né pure d'aver appresa una quantità.
5.° In terzo luogo se i limiti entro i quali si considera
racchiusa un'entità sono mutabili, sicché si possono pensare più
ampi 0 pii!i ristretti, la mente intende subitamente che 1' entità
chiusa entro limiti più ristretti lia una quantità minore della
stessa entità racchiusa entro limiti più ampi, e viceversa que-
sta ha una quantità maggiore che non avea quella. Ma questo
eccesso o questo difetto dell'entità stessa, che s'allarga e si re-
stringe, 0 si può riferire ad un'altra quantità che gli serve di mi-
sura, come se l'aumento che va facendo 1' entità che allarga i
suoi limiti fosse atto ad essere distinto in gradi o parti uguali,
r unità delle quali sarebbe la misura , ovvero quell' eccesso o
quel difetto non si può misurare perché non si |)uò dividere in
parti uguali. Nel primo caso si sa che la quantità é cresciuta
0 diminuita, ma non si sa dire di quanto, e questa è quella che
abbiamo chiamata « quantità di più e di meno ».
k." Se poi si può misurare i gradi dell' aumento e della
diminuzione , in tal caso si ha « la quantità misurata o misu-
rabile ». Questa si può definire « la relazione che hanno tra
loro i confini d'una data entità ». Dove é da osservarsi quello
5-26
che risulta dalle cose delle, cioè che, quando gli enti sono più,
devono avere un'entità comune subiello della quantità , accioc-
ché essi sieno reciprocamente misurabili.
5.° Ma in tutte le misure reali l'unità di misura rimane im-
misurata ed è una quantità di cognizione immediata. Se all' in-
contro si astraggono i numeri , 1' unità astratta ne' numeri è
semplice e perrettamente indivisibile. Onde in questa quantità
astratta de' numeri, tutto ciò che potesse rimanere indetermi-
nato e immisurato resta escluso dall'astrazione stessa. Questa
quantità astratta pertanto è « quantità discreta astrattamente
determinata ».
Questi pertanto sono i cinque supremi generi — astratti — della
quantità: quantità laterale; di cognizione immediata; di più e di
meno; misurata; astrattamente determinata.
Dalla definizione oltracciò risulta che la quantità suppone
un' entità identica che ne sia il subietto: laonde la quantità non
è una relazione d'un'cntità con un'altra, ma d' un' entità con sé
slessa, cioè co' suoi limiti più o meno estesa.
5C1. Conviene dunque, acciocché ci sia una quantità comparativa
ad un'altra quantità, che ci sia un'entità identica subietto del-
l'una e dell'altra quantità che si paragonano, sia per rilevarne il
più 0 il meno, sia per commisurarle.
Laonde se si cerca la quantità comparativa di due entità , è
necessario che queste entità abbiano qualche cosa di comune ,
acciocché questo elemento comune sia preso dalla mente come
l'entità unica, come l'unico subietto delle due quantità.
La quantità dunque comparativa di diversi enti finiti non
c'è al tutto in quanto sono diversi , ma solo in quanto sono
identici.
Quegli enti dunque, i quali nulla avessero di comune se non
l'essere, non potrebbero avere altra quantità comparativa se non
l'ontologica.
Quelli che hanno di comune anche la limitazione , ma non
più, la quale è infatti comune a tutti gli enti finiti , avranno
anche comparativamente la quantità cosmologica.
Quelli che hanno oltracciò di comune la forma subiettiva e
l'esistenza in sé avranno anche comparativamente la quantità
fisica, che è quella che viene detcrminata dalla specie piena fissa.
K27
Ma poiché le specie piene fisse sono diverse , perciò gli enti
reali sussistenti nell'Universo sono pure e molti e diversi, e per
rilevare la loro quantità fisica comparativa converrà vedere che
cosa abbiano di comune tra loro, che serva alla mente di subietto
unico a cui riferire le diverse quantità.
Questo subietto rispetto alla realità contenuta nella specie
piena, che è delia stessa quantità' del finito reale sussistente, è
la realità contenuta nella specie astratta: ma rispetto alle rea-
lità contenute nelle diverse specie astratte è la realità conte-
nuta nel genere, e così via fino a un genere sommo.
Conviene dunque ricorrere alle realità contenute nei generi
sommi per avere l'entità unica che riceve i diversi confini den-
tro a' quali sono contenuti i diversi enti reali. Questa ricerca è
diversa da quella che abbiamo fatto avanti della quantità co-
smologica, dove abbiamo cercato di rilevare le quantità de' reali
contenuti ne' generi e nelle specie comparativamente, o di sta-
bilire fin dove si poteva rilevare. Qui all' incontro parliamo de'
diversi reali sussistenti e delle loro comparative quantità , ma
non potendosi queste comparare senza riferirle a un subiello
unico della quantità, ossia de' vari limiti entro cui si considera
esistente^ è uopo di novo ricorrere a ciò che nel reale sussistente
v'ha di sommamente generico.
50:2. Ora qui appunto ci bisogna entrare nella questione toccata
prima: « Se i sommi generi dell' ente finito si possano ridurre
ad uno «.
A primo aspetto sembra, che si possa considerare come unico
genere a cui tutti gli enti finiti si riducono lo stesso concetto
indelerminatissimo dell'ente finito. Ma « l'ente finito » indeler-
minalissimo, non è più che un genere nominale (1) [Ideol. 6S5,
656). E veramente è necessario per avere un genere reale — o
anche solamente un genere mentale di quelli che rappresentano
un' essenza accidentale, — che la parola che esprime il genere
abbia un solo e medesimo significato, e non sia presa equivo-
camente. Ora quando io dico « ente finito, « o « reale finito » la
(1) Questi generi nominali si possono considerare come una suddivisione
de' generi dialettici, e così le classi de' generi si riducono a due : generi
reali e generi dialettici.
528
parola ente, o la parola reale, non ha ^sempre* il medesimo signi-
ficato. Poiché l'ente reale soggettivo che è ente-principio, e l'ente
reale estrasoggettivo che è ente-termine, non sono enti se non
in un significato equivoco; questo secondo non essendo ente se
non in relazione al primo e non considerato in sé stesso. 11 primo
all'incontro è ente considerato in sé stesso. L'ente estrasoggettivo
dunque considerato in sé stesso è non-ente, e il solo ente sog-
gettivo è ente considerato in sé stesso. L'espressione dunque di
« ente finito » o abbraccia solo l'ente soggettivo, o abbraccia in
sé stesso l'ente e il non-ente sotto la stessa parola di ente, la
quale in tal modo rimane equivoca. Acciocché dunque la pa-
rola ente nell'espressione « ente finito », presa come unico genere,
ricevesse un significato unico, converrebbe fare un'astrazione sui
due o|)posti ente e non ente, poiché il concetto elementare del-
Venle (inilo non racchiude altro che una pura relazione, e i ge-
neri che esprimono pure relazioni sono stati detti da noi nomi-
nali, rimanendo da essi esclusa l'essenza tanto sostanziale quanto
accidentale {Idcol. 050). Né si può dire che rimanga nel detto
genere il concetto elementare dell' « essere finito, » perché l' es-
sere non viene limitalo che dalla realità, che é il subietto della
limitazione. Nel concetto dunque di essere finito si contiene una
relazione alla realità, e cosi torna l'equivoco, perché la realità
nell'ente soggettivo è realità in sé, laddove nell' ente estrasog-
gettivo essa in sé non é realità, ma piuttosto non-realità.
Ora un genere puramente nominale non può essere il subietto
delle varie limitazioni, se non nel caso che si trattasse di limi-
tazioni puramente nominali del pari; ma cercando noi la quan-
tità comparativa dell'ente reale sussistente, abbiamo bisogno d'a-
ver per entità unica, subietto delle varie limitazioni, quella che ci
è data da generi reali.
Ora questi sono due, irreducibili, e sono appunto quelli che
dicevamo dell' ente-principio o suhieltivo , e dell' ente-termine o
estrasoggettivo (1). E non si opponga, che riducendosi la realità
(t) Gli enti misti di principio e di termine si riducono ai due sommi ge-
neri semplici, percliè gli enti misti si dividono in due classi: 1° quelli che
sono principi aventi un termine, come l'uomo che ha per termine il corpo,
e questi appartengono assolutamente agli enti-principio ; 2" quelli che sono
finita a due sommi generi, in vece che a un solo, si distrugge
r unità del tutto mondiale, perchè questa è salva dall' istante
che uno dei due generi è relativo all'altro , di maniera che un
solo genere reale primeggia ed è reale per sé, e l'altro non è
tale che per la relazione che ha col primo. L'unico genere dun-
que che è vero fondamento dell' Universo è « 1' ente finito prin-
cipio ».
563. Dobbiamo dunque parlare separatamente della quantità
comparativa degli enti-principio , e della quantità comparativa
degli enti- termine, nienl'altro che termini.
Le due maniere di quantità non si commisurano, e solo si può
in qualche modo dire, che i primi sieno infinitamente più dei
secondi. Ma poiché gli enti-termine stanno agli enti-principio
come il non- ente sta all'ente , perciò non si può neppur dire
che gli enti-principio sieno pii^i degli enti-termine come enti ,
ma solo che sieno più per la dignità, o prezzo estimativo e mo-
rale nell'animo umano , nel quale si calcola anche il non-ente,
per l'efìelto che in lui produce. In questa maniera di valutare
l'ente e il non-ente^ non si considerano questi in sé slessi,
ma tutti e due come relativi, cioè relativi all'animo umano e
così possono compararsi.
Se dunque noi vogliamo investigare prima la quantità com-
parativa dogli enti-principio, troveremo necessario distinguere in
ciascuno di essi sei maniere di quantità: 1.° la quantità della
natura, 2.° la quantità dell' attualità naturale, 3.° la quantità
della potenza naturale, ^i." la quantità della potenza acquisita
ossia dell'abito, 5." la quantità dell'atto, C.° la quantità della
perfezione acquisita. Consideriamo ciascuna a parte.
5C4. 1.° Quanlilà della natura dcll'ente-principio. — La natura
dell'enle-principio è costituita dol suo termine {Psicol. 878 sgg ).
Laonde quanto più il termine ha dell'essere, tanto più n'ha il
principio. Ora tre termini noi conosciamo: ì° il sentilo^ 2." l'es-
sere oggettivo, 3.' l'essere morale. Ninna natura ha per suo
teriiiini aventi principi, come il corpo vivente, e questi appartengono asso-
liUamonte agli enti-termine. Ciò che cosliluisce la natura dell'ente è il su-
bietto il quale negli enti-principio è reale, negli enti-termine è pensalo dalla
mente, e però è suppositizio.
Rosmini. Teosofia, 34
J)ÓO
proprio termine costitutivo l'essere morale, fuorché la divina.
Nella natura divina Tessere morale, nello stesso tempo che è ter-
mine, è anche ente-principio, perchè è Dio, persona sussistente e
causa del mondo (1). Nella natura finita il termine morale non
è che termine di perfezione , e non termine costitutivo della
natura stessa.
I termini costitutivi dunque degli enti finiti sono due: I" il
sentito , 2" e r inleso, ossia l'essere oggettivo. Questi corri-
spondono ai due sommi generi degli enti-principio finiti. Il
sentito è termine che costituisce l'ente-principio puramente sen-
ziente: Tessere ohiellivo è ternìine che costituisce l'ente prin-
cipio intelligente.
II termine puramente sentilo è reale finito e per sé solo non-
ente: il termine oggettivo é essere. Non si possono dunque com-
parare questi due termini perchè l'uno è non essere, l'altro è es-
sere; non sono commensurahili, perché, come ahhiamo detto degli
enti-i)rincij)io e di quelli che sono puramente enti-termine, non
hanno nulla di comune, ma dilTeriscono solo infinitamente di
dignità e di valore relativamente all'animo umano. La diffe-
renza loro dunque non è di quantità, e né manco di essere,
differendo come Tessere e il nulla; ma é solo di dignità diffe-
rendo senza quanto, cioè infinitamente.
Se dunque da' termini dipende la natura degli enti-principio,
le due nature, delTente-principio puramente senziente e dell'ente
principio intelligente, differiscono pure d'una differenza non di
quantità, ma di dignità infinita.
Ma è da notarsi, che l'ente principio è sempre un senlimento,
altramente sarebbe cosa morta e inerte, il che ripugna alla con-
dizione di principio: è dunque un senlimento anche il principio
inlellellivo [Introduz. VII, i. Sul. Ling. fdos.).
IjGT). Ora riducendosi ogni ente-principio ad un sentimento, non
si riducono così gli enti-principio ad un solo genere supremo?
Noi abbiamo veduto che Tenie finito si compone di due ele-
menti, il reale e Vessere. Rispetto dunque al reale è verissimo che
(I) 1^0 stesso dicasi dell'essere oggetto, il quale in Dio è ad un tempo e
termine della divina intelligenza, e ente-principio sussistente, Dio perfetto,
persona divina.
N31
tulio il reale degli enti principio finiti si riduce ad un sommo
genere di reale che è il sentimento.
Ma questo non vuol dire che si possano ridurre ad un solo
genere sommo gli enti principio, perchè quello che è puramente
senziente non è ente da sé solo, ma perchè la mente lo consi-
dera oggetlivamente, e gli dà l'essere suhieltivo per via di sup-
posizi(»ne {Logic. ^54).
L'enle-principio intellettivo dunque è un sentimento. Questo
sentimento si può considerare in due modi, o come senlimenlo,
dove non e' è altro sentito eiie sé stesso, o come senlimenlo, dove
oltre esserci per sentito sé stesso e per intuito Tessere, ci sia
un altro sentilo diverso da se stesso.
Se nel detto sentimento principio intellettivo non c'è altro sen-
tilo che sé stesso, il sentito è il senziente, e però trattasi d'un
termine che è nello stesso tempo anche principio.
Questo accade primieramente in Dio, che non ha per sentilo
allro che sé stesso, onde ogni termine in un tale ente, che è
l'Ente assoluto, è medesimamente principio.
Ma in quanto all'ente finito, l'esperienza non ci dà esempio di
un lai fatto. Onde non si può parlare che di possihilità. È dun-
que possihile concepire un ente-principio, il quale avendo per
termine naturale della sua intuizione l'essere ideale, non abhia
allro sentito che sé stesso intuente? — È difficile rispondere a
questa domanda. Noi abbiamo altrove supposto che un tale con-
cetto sia possibile mediante un' astrazione ipotetica. È però a
confessare, che volendo ridurre il principio intuente l'essere
ideale a non avere allro sentito che sé stesso, questo sentito ci
si attenua così fallamenle in mano che egli pare ci svanisca del
tutto e ci s'annulli (1). Onde noi lasceremo sospesa questa que-
stione ontologica, di cui qui non abbiamo or bisogno. Solamente
avvertiamo, che se l'essere oggettivo invece d'essere ideale fosse
reale ed assoluto, il principio intellettivo riceverebbe ad un tempo
un sentito infinito, e quindi parteciperebbe d'uha vita infinita.
Avrebbe in tal caso non solo un inleso per termine, ma nello
(1) Non così, se un principio avesse già avuto un altro termine, e poi ne
fosse rimasto privo, come accade deiranima umana clie lascia il corpo ,
perchè rimane ad essa aderente l'abito del termine perduto.
slesso inleso un scnlilo slraniero a sé, e l'uno e l'altro sarebbero
essere, il medesimo essere.
500. Lasciando dunque queslo, e supponendo che Tenie-principio
inlellelUvo, olire l" oggetto inluìto, abbia un altro seulito non
essere, oltre se slesso, noi avremo trovato in questo sentito di-
verso dal principio inlelletlivo, il fermo fondamento d'una classi-
ficazione ontologica degli enti intellettivi finiti.
Poiché a quel modo che varierà di natura questo termine sen-
tito, varier;\ pure la natura degli enti intellettivi {Psic. IC^i-203).
L'ente inlelletlivo uomo ha per suo termine sentito — diverso
da sé, e però eslrasoggettivo, e dall'oggetto, — V estensione pura e
corporea, e questa é quella che ne determina la natura e fìssa
la specie umana.
Ora niente vieta d'intendere la possibilità, che Iddio ad altri
enti intellettivi abbia dato altri termini sentiti per loro naturale
costitutivo interamente diversi óaW estensione pura e corporea.
Sarebbero dunque essi altre specie di enti intellettivi del tutto
diversi dalla specie umana, e diversi pure da quel genere che
si può concepire degli enti intellettivi composti di spirilo e di
corpo.
Quanto più poi i termini sentiti avessero di realità, quegli enti
avrebbero una quantità maggiore di natura. Ma poiché noi pos-
siamo bensì pensare la possibilità di tali enti, e congetturarne
l'esistcn/a, ma non conoscerli in questa vita positivamente ,
null'altropossiam sapere della loro quantità comparativa di natura.
Il sentito eslrasoggettivo che determina la specie degli enti
intelligenti finiti non è qualunque sentito parziale, ma è « un
sentilo primitivo e fondamentale » [Psic. i78 sgg.), che poten-
zialmente comprende tutte le modificazioni sensibili di cui l'ente
come senziente è suscettivo.
Come dunque cangia « il sentito primitivo e fondamentale »,
cangiano gli enti: se di genere, di genere, se di specie, di specie:
e la loro quantità comparativa, come pure la loro eccellenza e
dignità sta in ragione della quantità di reale che presenta « il
detto sentito eslrasoggettivo fondamentale ».
r)G7. Ma lasciamo gli enti intellettivi e consideriamo la quantità
di natura degli enti puramente sensitivi. Non avendo noi altro
esempio di questi se non gli animali, o gli animali, restringe-
535
remo a qucsli il nostro discorso. Animali e animali si dicono
(juejili enti che hanno per loro termine estrasoggettivo l'esten-
sione |)ura e corporea.
E priinierainenlè tre sono le vite di qucsli enti, vita di conti-
nuità, vita di eccitazione, e vita di organizzazione o di eccita-
zione armonica, imperiiale l'una nell'altra {Psìcol. 53^ sgg.).
La quantità della vita di continuità è in ragione dell'esten-
sione continua della materia corporea che è termine di questa
vita.
La quantità della vita di eccitazione è in ragione della quan-
tità del moto eccitalorio, e la quantità di questo moto risulta da
più elementi.
La quantità della vita di eccitazione armonica dipende dalla
quantità di |)erfezione che ha l'organismo, la quale dipende del
pari da molli elementi.
La prima maniera di vita , date certe condizioni , ha ragione
di potenza relativamente alla seconda, e la seconda, date pure
certe condizioni, ha ragione di |)olenza relativamente alla terza:
e in tal caso stanno tra loro come la potenza all'atto.
Quando c'è una qualunque di queste vile, o le due prime, c'è
Vanimato, ma quando c'è anche l'ultima, c'è {'animali' compiuto.
Ogni armonia di eccitazioni costituisce un termine costitutivo
diverso e però una diversa specie d'animali. Tulle queste diverse
specie convengono nel genere degli animali , il fondamento del
quale è Veccitazione armonica rappresenlala dall'organismo. Un
genere superiore è il sentimento di eccitazione, e un genere su-
periore a questo è quello di continuità. Quest'ultimo genere è il
sommo genere di quegli enti-principio a noi cogniti che sono
enti-principio puro sentimento, e non intellettivi.
La quantità dunque della vita puramente sensiliva è in ragione
de' limiti entro a' quali è racchiuso il senlimenlo primilico e fon-
damenlale: questo sentimento può attuarsi maggiormente quanto
è più grande, complicata, e una l'organizzazione, e meno se manca
(|uesta, e quanto è più molliplice , vasta, celere, pressante l'ecci-
tazione, e meno se manca del tutto questa, e quanto è più estesa
la materia continua.
La quantità dunque del genere sommo che si trova ne' sin-
goli enti senzienti, determina la quantità della loro natura.
S34
568. 2." Quantità dell' attualità naturale JeW ente- principio. — La
natura deirenlo-principio è determinata nella specie astratta. Ogni
qualvolta questa è realizzata c'è la stessa natura. Ma ella si rea-
lizza secondo specie piene che hanno una sericMi gradi di perfe-
zione , dall'imperfettissima alla specie piena perfetta o completa
{Ideol. 6^1800:2), e quindi l'ente reale ha maggior attualità di
natura quanto più è in esso di realizzato della specie piena com-
pleta 0 del suo archetipo.
La specie astratta è come il tema invariabile dell'ente, che si
attua sempre identico , ma più o meno lino all'ultima perfezione
di sua natura. Questa maggiore attualitcà di natura non si deve
confondere colla perfezione acquisita dall'ente co' suoi atti. Cosi
un uomo nasce più perfetto di natura di un altro : il primo ha
più dell'umanità, ma questo più, riguarda le parti meno essen-
ziali all'umanità stessa, senza le quali non ci sarebbe l'uomo.
Altra dunque è la quantità di natura, altra la quantità d'at-
tualità di natura. La prima dà agli enti reali un grado di ec-
cellenza, che appartiene ad un ordine superiore. A quest'ordine
di eccellenza che viene dalla natura stessa non si può comparare
il grado di eccellenza che viene dall'attualità della natura che è
posteriore, e perciò non si commisurano, perchè cangia il subietto
de' limiti , essendo subietto della quantità di natura il genere delle
specie astratte, e di mano in mano i generi superiori lino al
sommo genere dell'ente-principio , 0 del reale di questi enti;
laddove il subietto della quantità d'attualità di natura è la specie
astratta.
ì)69. 3° Quantità di potenza naturale. — La quantità di questa
potenza naturale negli enti finiti sta in ragione della quantità di
natura e della quantità d'attualità naturale.
Nel che si vede una nova differenza tra l'ente infinito e l'enfe-
principio finito. Poiché l'ente infinito che ha una natura infinita
non ha alcuna potenza, laddove l'ente-principio finito quant'ha
una natura maggiore ha pure una potenza maggiore.
Ma conviene qui distinguere più cose.
Se si tratta d'ente-principio finito che abbia per termine so-
lamente un sentito, — parliamo del sentito esteso materiale, non
avendo noi d'altri sentiti cognizione positiva — non anche un in-
teso, la potenza sua naturale si riduce a svolgere il suo sentimento,
535
compiendo la sua natura, e agli atti dello stesso sentimento. Ora
questa potenza svolge la natura fino a un certo slato oltre al
quale non si dà altro svolgimento e perfezionamento, e però la
potenza stessa dopo toccato questo punto decade e con essa gli
alti del sentimento ad un tempo col decadimento della natura,
die perisce convertendosi l'ente in un altro.
Questo nasce perchè il termine costitutivo di un tal ente è
mutabile se è l'animale, essendo mutabile e dissolubile l'organiz-
zazione. Del pari può fermarsi il movimento eccitalorio. La
potenza poi delia vita elementare rimane modificata dalla conti-
nuità maggiore o minore degli elementi. Ma la natura e la vita
seminale dell'atomo rimane immotabilc, e non ha potenza rispetto
a sé, ma solo potenza d'entrare a comporre un altro sentimento,
il che è quanto dire un altro ente.
Che se si tratta d'enli-principio intellettivi, questi si possono
concepire in due modi, secondo i loro due termini, l'essere ogget-
tivo, che è attuale e immediato, e l'essere morale che è in essi
potenziale.
Qualora si supponesse che essi non avessero alcuno sviluppo
riguardo al primo , il che avverrebbe quando da naiura stessa
avessero già tutta la scienza di cui sono suscettivi, non rimar-
rebbe in essi altra potenza che la morale e questa non sarebbe
potenza di svilujipo, ma potenza di scelta assoluta tra il bene e
il male. Se di tali enti possano esistere od esistano, none da
questo luogo il dirlo.
Qualora poi si consideri l'uomo che ha uno sviluppo doppio
cioè relativo all'uno e all'altro termine, scorgesi una potenza di
perfezionamento indefinito sì per riguardo alla scienza, che per
riguardo alla virtù, che dura o può durare quanto dura o può
durare l'esistenza dell'uomo su questa terra. Tale e la perfetti-
bilità umana.
Ma nell'uomo la potenza è di sei generi, essendoci ì.° la po-
tenza di sviluppo animale, 2.° la potenza d'indefinita perfettivilà
intellettiva, 5.° la potenza d'indefinita perfettivilà morale. A
ciascuna poi di queste potenze rispondono tre altre che sono le
potenze 1." degli atti animali, 2.'* degli atti intellettivi, e 3. *• degli
atti morali.
b70. 4.° Qiuinlilà di potenza acquisita ossia abiiuak degli enti-
1)30
principio. — Ogni potenza nncdianlc gli alti , quando sicno a sé
convcnienli, si aumenta e si moltiplica, e questo aumento e mol-
tiplicazione si chiama abito.
Si aumenta, rendendosi il suo operare più celere, più facile ,
più sicuro, [)iù itilenso, più piacevole. Non solo 1' abito ha i suoi
gradi in qualche modo misurabili e però ha una sua -propria (juan-
tilà, ma c'è una quantità di tutte queste cinque doti dell'abito,
una quantità di prontezza, una quantità di facilità, ecc.
Si moltiplica, perchè una stessa potenza acquista l'abito di lare
colle cinque doti accennate una certa classe o gruppo de' suoi
atti, e considerata rispetto a queste classi e gruppi ella sembra
altrettante facoltà speciali. La stessa potenza rispetto ad altri
gruppi non ha l'abito.
E poiché tutte le potenze sono mosse e dirette dall'unico sog-
getto che le possiede, quindi anche il soggetto acquista gli abiti,
ossia aumenta nella virtù di movere e di dirigere le varie po-
tenze; e particolarmente di moverne più simultaneamente, e per
ogni diverso aggruppamento di queste potenze nasce al soggetto
un abito novo.
Sebbene gli abiti in sé considerati sieno un perfezionamento
subiettivo delle potenze, tuttavia ci hanno degli abiti che ca-
gionano al soggetto funesti effetti : e sono quelli che nascono
da atti disordinati e nocivi. Così ncll' animale la |)otenza del-
l' istinto sensuale può acquistare un abito d'operare che conduca
l'animale alla morte {^Anlvop. 400, sgg.').
Molto j)iù vedesi questo negli enti intellettivi, la cui perfe-
zione dipende dall'oggetto. In questi gli abiti malvagi sono un
aumento di potenza soggettiva , ma rendono al soggetto tutta
l'imperfezione che deriva dal non aderire al suo proprio og-
getto.
571. 5.° Quantità dell'atto. — La quantità totale dell'atto del-
l'enle-principio dipende da più elementi:
1." L'intensione dell'atto.
2.° La moltiplicità dell'atto stesso, potendo un unico atto ri-
sultare da più potenze associate.
3." La durata.
4." L'estensione del termine sentito, se tale è il suo ter-
mine.
o37
5 ° L'ordine dell'atlo, il che si rileva dall'ordine che produce
nel suo lennine, se è un alto naodifìeanle o producenle.
G.° La dignità del termine, poiché s<; ha per termine il
sentilo materiale, ha un non essere per sé; se ha per termine l'es-
sere oggettivo 0 morale ha per suo termine l'essere che è infhii-
lanienle |)iù, per dignità, del non essere.
7.° il grado di virtualità e di maggiore attualità del termine
oggettivo, e del termine morale.
Ognuno di questi elementi ha la sua quantità j)ropria , e d'o-
gnuno almeno si può fare la questione « se abbia quantità, e a
quale de' cinque sommi generi dialettici di quantità essa appar-
tenga ».
La quantità totale dell' atto dipende da tutte le quantità dei
suoi elementi sommale o calcolate insieme.
Se si considera una serie di atti successivi che si ripetono o
si seguono con un cert'ordine, allora è da calcolarsi altresì la
(liiantilà del tempo, della misura del quale abbiamo parlato nel-
['lilcobgia (704 sgg.).
Se dalla quantità del tempo si astraggono gli atti reali, e tìon si
considerano che gli alti possibili, si ha la quantità di tempo pura,
e la vìisiira astratta dello stesso.
Se si calcola la quantità di atti in un dato tempo, il risul-
talo diccsi quantità cVazione. La quantità d'azione non è uguale
sempre airetretto che rimane prodotto , poiché la successione e
complicazione degli alti può essere stata tale , che gli uni ab-
biano distrutto una parte di quello che hanno prodotto gli altri,
ovvero tale, che non abbiano lascialo elTelto percettibile.
.^7^. 6." Qaanlità della perfezione acquisita. — Quantunque la
perfezione acquisita dell'ente sia dovuta a' suoi atti, tuttavia ella
non istà già in proporzione della quantità d'azione , perchè gli
alti possono essere difettivi e disordinati.
La quantità di perfezione acquisita è dunque « quella porzione
del proprio archetipo che ogni ente ha realizzato in se me-
diante i suoi atti )).
575. Trascorse queste sei entità, di cui si può cercare il quanto
nell'enle-principio finito, vediamone l'ordine nel quale la quan-
tità dell'una si subordina alla quantità dell'altra secondo il valore
enlilativo.
538
La qnantilà d'attualità ha tanto maggior valore entitativo,
quanl'è più eccellente la natura ;
La quantità di potenza naturale ha tanto maggior valore en-
titativo, quant'ha più di valore la natura e l'attualità;
La quantità di abito ha tanto maggior valore entitativo,
quant'ha più di valore la potenza di cui aumenta l'efficacia ;
La quinUtà di atto ha tanto maggior valore entitativo, quan-
t'ha più di valore la potenza e l'abito da cui proviene;
La quantità di perfezione acquisita ha tanto maggior valore
entitativo, quant'hanno più di valore gli alti da cui nacque.
Onde la perfezione acquisita d' un ente è della stessa dignità
de' suoi atti; e questi d'una dignità proporzionata a quella degli
abiti; e questi a quella delle potenze; e queste a quella dell'at-
tualità naturale; e questa a quella della natura.
Non si può dunque paragonare la dignità e l'eccellenza della
perfezione di cui sono suscettivi enti diversi, se non risalendo a
conoscere il valore e l'eccellenza delle loro nature; di maniera
che le quantità della perfezione acquisita, i\eWatto , dell' abito ,
ecc. d'enti che abbiano nature diverse non sono commensura-
bili : ma conviene risalire al paragone delle loro nature stesse
per trarre una quantità compiirativa delle loro cinque entità po-
steriori, una quantità dico di proporzione.
Se dunque si paragona 1' atto d'un ente a ragion d' esempio
coll'a/^o dun altro ente d'altra natura, senza risalire alle loro
nature stesse, altro non si ha che una quantità comparativa di
entità astratte, dalla quale non si può argomentar nulla circa la
quantità entitativa relativa a que' due enti.
574. Venendo ora noi a parlare della quantità comparativa
degli enti-termine , osserviamo che noi non conosciamo positi-
vamente altro che due sommi generi di enti termini, lo spazio,
e il corpo.
Lo spazio puro ha la proprietà de' generi sommi, di non avere
sopra di sé altro genere reale. Ma gli mancano le altre proprietà
del genere , perchè non ha specie subordinate , e non ha po-
tenza di sorte. Egli è bensì recettivo de' corpi; ma impropria-
mente si chiamerebbe potenza questa recettività, non ricevendo
la definizione da noi data della potenza « una causa che è su-
bietto de' suoi effetti. » Nò lo spazio è causa dei corpi, nò è loro
b30
subietto, né riceve da essi alcuna modificazione, poiché non es-
sendo egli altro che l'estensione, questa rimane identica, sia essa
piena, o sia vota.
Non avendo dunque lo spazio generi o specie subordinati, non
ha quinlità cosmologica perché non si può restringere entro con-
fini di sorta nell'Universo, e però non ha che la quantità onto-
logica , essendo solo limitato riguardo all' essere e alla realità
dell'essere , e questa limitazione é massima , giacché egli sem-
bra il minimo degli enti-termine, considerato come ente, ben-
ché sia infinito considerato come spazio o estensione.
Lo spazio dunque non riceve limiti cosmologici in sé e però
né pure quantità; ma ammette limili di relazione, e però quan-
tità di relazione.
Questa nasce dall'essere lo spazio recettivo della materia cor-
porea. L'esistere la materia corporea nello spazio é inesistenza
d"un ente- termine noli' altro , inesistenza che non è punto as-
surda {Rinnov. ,512-515 p. 556*), purché l'ente che contiene sia
di natura su,i atto a ciò, e l'ente che in quello inesiste sia di
natura sua atto ad essere contenuto.
Ora dall'inesistenza della materia corporea nello spazio nasce
la quantità di relazione dello spazio. Poiché la materia non oc-
cupa tutto lo spazio. Lo spazio dunque da essa limitato rimane
rispello a l«i limitalo. Non sono limiti dello spazio cotesti, ma
della materia. La monte poi li trasporta allo spazio e quindi la
quantità di relaziono attribuita allo spazio non é una quantità
reale ma dialettica, laddove i limiti estensivi della materia sono
una quantità reale di questa.
575. Astraendosi poi dalla materia e ritenendo i suoi limiti
estensivi , si concepiscono le figure matematiche , che la mente
delinea nello spazio a suo piacere. Il che fece sì che Platone
considerasse l'estensione come la materia delle figure geome-
triche; ma non s'accorse che l'estensione in se stessa é immo-
dificabile, e che una tale materia é puramente relativa ai corpi,
da cui la mente astrae i confini e li riporta allo spazio, che
non lì riceve già in sé, se non come una relazione tra l'infinito
e il finito. Ora tra l'infinito e il finito non c'è altra relazione
di quantità che quella che dicemmo di più e di meno, essendo
infinito e immisurabile l'uno dei due estremi della relazione.
Ma tra le figure geomelriche c'è una quanlità comparativa
misurata , non però a pieno determinala , come quella de' nu-
meri , perche la prima quantità, misura dell'altra , e di quella
quantità che abbiamo chiamata di cognizione immediata.
La quanti là propria delle figure geometriche si dice qunnlilà
continna.
La quantità continua è quanlità di cui i corpi sono il vero
subietto ; ma i corpi si possono considerare, o come puramente
possibili, ne' quali non è determinato nulla della qualità della
materia^ e allora si ha h quantità continua matematica; o come
corpi imaginari p. e. una colonna di pietra, e di questi è la
quantità continua corporea pura ; o come corpi realmente esistenti,
e di questi è la quantità continua reale.
Il verosubiello dunque delle figure geometriche non è l'eslen-
sione illimitata, ma. là materia corporea asiraiìa; il subielto della
quantità continua corporea pura sono i corpi imaginati, ma non esi-
stenti; il subìelU) deWiì quantità continua reale sono ì corpi reali.
La materia corporea dunque in quanto ha una relazione reale
collo spazio, nel quale s'estende — poiché il fondamento di questa
relazione è la slessa materia corporea , e lo spazio non ne è
che il termine, — in tanto ha la quantità continua o quantità
d'estensione.
f)7(). Ma oltracciò in questo ente termine si possono distinguere
altri elementi dotali di quantità.
Poiché la materia corporea si offre alla nostra esperienza come
un ente triplice, cioè :
1." come un sentito, o stabile o mobile;
2.° come un sensifero ossia un agente, il quale operando
nell'anima nostra produce il sentito sia continuo, sia d'eccita-
zione, sia d'eccitazione armonica, e come causa ad un tempo
della comunicazione del moto ;
5.° come una causa del moto stesso.
Ora il sentito e il subietto suscettivo del moto è un ente
inerte e passivo e puro termine [Psicol. 810-822).
La causa del moto non può essere lo stesso ente inerte, e
però noi abbiamo distinta questa causa doW ente-materia, e l'ab-
biamo attribuita ad un ente -principio, cioè alla vita elementare
{Psicol. 822).
Uhi
La causa del sentito e della transmissione del moto ne pure
può essere la materia corporea, e però l'abbiamo dicbiarala un
enle-principio nascosto alla nostra esperienza come subielto, die
abbiamo denominato principio corporeo {Psicol. 8:20, 821).
Della quantità degli enli principio abbiamo già ragionato.
Non rimane dunque a parlare cbe della materia come sen-
tito e come subietto recettivo del moto.
Della quantità del sentito abbiamo fatto cenno parlando della
(]uantilà degli enti-principio aventi per termine il mero sentilo.
Rimane dunque la qminlUà Od moto , il quale è pari alla
somma della quantità della celerilà, e del tempo nel quale dura
il moto. La celerità poi è pari alla quantità dello spazio per-
corso nello slesso tempo. Cbe se si vuole la quantità di moto di
tutto un corpo movenlesi , conviene oltracciò moltiplicare quella
somma per la massa,
CAPITOLO V.
Continuazione — Del quarto elemento della forma finita,
comune ad ogni ente finito, /' unità.
577. Veniamo al quarto elemento della forma cbe la realità
Unita deve ricevere dall'essere obiettivo, acciocché riesca piena-
mente determinata, e cosi alta a ricevere l'esistenza subiettiva e
propria: il quale abbiam detto essere l'unità.
La dottrina intorno all'unità si avviluppò negli equivoci, cbe
dai più anticbi tentativi di filosofia passarono di mano in mano
nelle scuole posteriori ; e questo avvenne per mancanza delle
debite distinzioni, e per difetto di lingua filosofica. Noi ripren-
deremo la cosa da capo, incominciando a distinguere i diversi
significali, di cui sono suscettive le voci uno, e unità.
Articolo L
Definizione universale dell'unità e dell'uno.
578. L'unità è quella qualità del subietto, per la quale il su-
bielto è indiviso in sé, e diviso ossia separato da ogni altro.
Quando questa qualiltà si predica del subielto , allora pren-
dendo essa la forma di predicato dicesi uno.
Queste definizioni hanno una forma negativa, perchè altro non
fanno che escludere la divisibilità. Ma veramente sono positive,
perchè la divisibilità stessa è un concetto negativo, onde si ha
negazione di negazione che è affermazione.
Articolo II.
Vari significati dell'uno, che ammetlono tutti
la data definizione.
579. Ora il variar di senso della parola uno dipende da due ca-
gioni; la prima è la diversa maniera, colla quale il predicato imo
si riferisce dalla mente al subielto di cui è predicato, la seconda
è il variare della parola subielto che entra nella definizione data
qui sopra deWunilà. Poiché questa parola in quella definizione
generalissima rimane indeterminata, onde sostituendo ad essa
vari valori, cioè vari subietti, ne risulla un valor diverso di tutta
la definizione.
Consideriamo la prima cagione, cioè la diversa maniera colla
quale il predicato uno si riferisce dalla mente al subielto , e
troviamo i diversi significati che da ciò derivano alla voce uno.
Talora il subietto dell'uno si esprime nel discorso , come di-
cendosi : « un uomo «. Qui la voce uno ha la forma gramma-
ticale di addiellivo.
Talora il subietto si soli' intende senza che sia determinato,
si solt'intende un subielto qualunque, e allora l'uno prende la
forma grammaticale d'addiettivo sostantivato. Secondo quest'uso
la voce uno significa: « ciò che è uno, « come dicendosi: « l'uno
non è più, « cioè « ciò che è uno, non è più ,(!)' ».
(1) In questo senso prendevano le parole uno e molli i più iccenli pita-
gorici quando chiamavano il corpo molti, la qualità o piuttosto la forma so-
stanziale molti uno, il demone uno molti. Dio uno. (Vedi il Ficino, De im-
mortalitate III, 1). Il molti significa a ciò che risulla da molti enti », il
molti uno « ciò che risulta da molti enti ma unilìcati da una sola for-
ma »; l'uno molli: « ciò che è uno ma che ha molle facoltà o atti *, Yuno:
Talora si astrae l'uno dal subiello e da questo si prescinde ,
e allora significa « esser uno » come dicendosi: « l'uno è pro-
prietà d'ogni ente >; cioè « l'esser uno è proprietà d'ogni ente ».
Quest'uno astratto non diflerisce dal concetto iVunilà, se non per
aver questa un grado maggiore d' astrazione , onde 1' uno così
preso indica quel grado d'astrazione con cui si formano i nomi
comuni, Vimilà indica quel grado d'astrazione con cui si formano
i nomi puri astratii {Psicol. ihlì sgg.) (2).
Consideriamo ora la seconda ragione che moltiplica il signi-
ficalo della parola uno, che, come dicevamo^ è l'unità |ìredicata.
Abbiamo definita questa: « la qualità per la quale un d-ito su-
hietto è uno ». Ma il subictto può variare, poiché può prendersi
per subietlo, di cui si predichi l'uno, l'ente infinito, o l'ente
finito, 0 le forme dell'ente infinito, o la forma reale finita, o
l'altre due forme, che rivestono o si comunicano all'ente finito,
0 l'essere indeterminalo, o un ente puramente dialettico; e lo
stesso ente dialettico può dividersi in varie classi. Ora 1' unità,
di cui partecipano questi subielli e de' quali si predica, non è
punto uguale, ma più o meno perfetta e di diversa maniera.
Indi è che anche il predicalo uno riceve diversi significali, se-
condo che viene applicalo ad uno o ad un altro subietlo della
predicazione.
Articolo 111.
Se r uno si converta coWenle.
580. Di qui si vede in qual senso si deva intendere la sentenz;i
scolastica, che « l'uno si converte coH'ente ». Ella è vera sol-
a ciò che è assolutamente e pienamente uno ». Questi sono tulli « addiel-
tivi sostantivali ».
(2) L'ordine della generazione di questi tre concetti è il seguente :
1." La mente astrae dagli enti finiti, di cui lia percezione, Vtino e lo
considera come comune : onde poi forma Vastratto pvro d'unità ;
2.0 Quando ha astratta questa qualità d'esser uno e conosciutala come
necessariamente comune a tutti gli enti, ella predica Vuno di ciascun ente
con un giudizio analitico, e quest'è Yuno addiettivo ;
3.0 Finalmente sostantiva questo addiettivo e dice Vuno sott'intendendo
un subietto qualunque, senza determinarlo.
tinto quando si porla dcirtino come « aggellivo sostantivalo »,
e prendesi la |)arola erilo nel senso universale à'entilà. Non
regge all'incontro quella sentenza, se si parla dell'uno comune,
il quale non è che un astratto, un elemento formale dell'ente,
0, per dir meglio, dell'entilà qualunque sia concepibile dalla
mente {\).
A II TI COLO IV.
Origine del concelto di uno comune.
r)84. L\ino comune ha due proprietà: la prima di essere astratto
da ogni singoiar subietto, a cui si può applicare, come predi-
cato; l'altra di esser così necessario ad ogni subietlo e ad ogni
ente , che non si può pensare il subietlo o 1' ente che non
fosse uno.
La mente umana trova la prima proprietà coH'astrazione stessa,
con cui divide l'unità degli enti finiti che percepisce da ogni
altra loro qualità (5); ma l'astrazione non le può somministrare
la seconda proprietà dell'uno comune, cioè l'esser egli neces-
sario predicabile d'ogni subietlo e d'ogni ente , perchè l'astra-
zione non s'esercita su tulli gli enti possibili, ma soltanto sopra
alcuni pochi percepiti. Onde viene dunque alla mente la cogni-
zione che niun ente può esistere, se non è uno ?
L'intendere che non può esister nulla che non sia uno è lo
slesso che intendere che tra esistere e non uno vi è rijìugnanza,
di modo che ciò che non è uno non si può concepire come
(1) Ctie gli anliclii e dopo essi gli scolastici proferendo quella sentenza
parlassero dell'MWO sostantivato, è manifesto da questo clie adoperavano
J'uno in genere neutro. Ed espressamente S. Tomaso detìnisce quest'uno
cosi : Unum nihil aliud signijìcat quam ens indivisum, a cui soggiunge :
Et ex hoc ipso apparet quod unum convertitiir cum ente {S. I, XI, i), il
die toglie ogni dubbio. Chi vuol conoscere le principali opinioni sostenute
dagli Scolastici intorno all'uno consulti il Suarez, DD. MM. D. IV-VI.
(2) Essendo necessaria l'astrazione ad avere il concetto puro dell'uno ,
appare, ch'ella non può essere la prima idea o notìzia che s'abbia la mente
umana, dovendo precedere quel concetto su cui s'esercita l'astrazione (Cf.
Psicol. 1295, Ì297-130I, 1305, 1319-1321).
548
esistente. Questa ripugnanza non potrebbe esser veduta dalla
mente, se la mente non avesse prima i due concetti, di cui vede
immediatamente la ripugnanza. Che cosa sia dunque esistere e
che cosa sia non uno, dev'essere conosciuto prima dalla mente
che scorge tale ripugnanza.
Questa ripugnanza veduta dalla mente ammette delle prove
in forma di raziocinio.
Queste si possono ridurre a due, l'una tratta dall'idea dell'es-
sere in universale, l'altra tratta dal concetto dell'essere assoluto.
Dall'idea dell'essere in universale si argomenta così: Che cosa
è l'esistente ? L' esistente è V essere col suo termine compiuto
d'una data forma categorica (i). Si supponga che i termini
compiuti dell'essere della stessa forma categorica fossero due.
Gli esistenti sarebbero due, perchè s'avrebbe due volte l'essere
col suo termine compiuto, il che costituisce l'ente. A ciascuno
dunque di questi enti compelerebbe l' esser uno. L' esser uno
dunque è necessario, acciocché si possa concepire l'ente, o l'e-
sistente. Questa si può dire una prova ideologica.
Dal concetto dell'essere assoluto si trae una prova ontologica
ed è quella che abbiamo già prima esposta , che si riassume
così: L'Essere assoliilo è l'Ente per essenza. Ma l'Essere assoluto
é uno. Dunque appartiene all' essenza dell' ente l' esser uno.
Dunque l'ente non può essere se non uno.
Questa prova ha la sua ragione ultima nella dottrina delle
supreme forme dell'essere, le quali, essendo ciascuna contenente
massimo, hanno di conseguente per loro essenza runità (,181-189*).
Perocché non potendo niun ente esistere se non in una delle
tre formCj e ciascuna essendo un contenente, ne viene di neces-
saria conseguenza che niun ente possa esistere senz'esser uno,
giacché uno deve essere, se e contenuto : altro non significando
esser contenuto , che esser raccolto in una unità. Laonde per
questo appunto la realità finita può costituire molti enti finiti ,
perchè può esser composta ad unità in molte maniere , e cosi
in molte maniere sussistere come contenuta.
(1) Dico d'una data forma categorica, perchè abbiamo veduto che sotto
diverse forme categoriche l'ente è il medesimo, onde le varie forme non
moltiplicano l'ente, ma solamente i modi in cui l'ente identico Ì-.
Rosmini. Teosofia. 35
546
Articolo V.
Dell'imo predicato (Vun solo subiello , e predicato comune
di più subielti. — Concetto di pluralità e di numero.
582. Or dicevamo che se i termini completi della stessa forma
categorica sono più, quando s'aggiunga loro l'essere, più enti ne
emergono.
L'uno dunque si può considerare o come predicato di un solo
subietto, 0 come predicato comune a molti subielti.
All'uno come predicato d'un solo subietto conviene la defini
zione data: « quella qualitcà, per la quale un subietto è indivisi-
bile ». Ma in questa definizione non è espresso com'egli possa
esser predicato di più subietti.
L'uno in quanto si considera come predicato comune a
molti subietti abbraccia due concetti diversi , cioè il concetto
che lo rende predicalo di un subietto^ e il concetto che questo
slesso identico predicato convenga a ciascun altro subielto
de' molti.
Volendosi esprimere questa seconda proprietà dell' uno , esso
riceve quest'altra definizione: « la qualità, per la quale un su-
bietto è diviso dall'altro, ossia esclude l'altro ».
o83. Ma qui nasce una questione ontologica della più alta im-
portanza, « qual sia l'origine della pluralità degli enti».
La trinità delle forme che trovasi nell'Ente assoluto, precede
la pluralità degli enti che non può aver luogo, che nella sfera
degli enti finiti. Essendo dunque la trinità nell'essere assoluto,
la Mente può astrarre da essa l'unità, la dualità, la trinità, che
sono gli elementi di tutti i numeri astratti: laonde queste forme
astratte generatrici di tutti i numeri sono per sé ab eterno
nella Mente infinita, mediante l'astrazione divina. Ma la mente
umana non deduce il numero da così alto, ma dagli enti finili
e contingenti che cadono già divisi in più subietti sotto la sua
esperienza. Per l'uomo dunque precede la pluralità degli enti
alla pluralità astratta del numero. La questione dunque si cangia
in quest'altra: « onde venga la pluralità degli enti finiti, se l'Ente
assoluto è un solo ».
Ìik7
Ora ecco quale risposta si deva fare a questa questione.
Quando l'Ente infinito decretò di dare esistenza all'ente finito,
allora pose una condizione a sé stesso , cioè la condizione che
« l'ente a cui volca dare esistenza fosse finito «. T limiti sono
dunque la condizione prima dell'opera della creazione. Il con-
cetto dunque dell'ente finito nella mente divina dovea essere
la realità infinita dell' essere , a cui la stessa mente togliesse
l'infinitezza. Toltale dattorno col puro pensiero l'infinitezza, quella
realità nella mente libera di Dio non era più l'Essere, ma pura
realità e questa limitata dall'atto volontario della stessa mente.
Ma qual dovea essere questa limitazione, acciocché quella realità
finita potesse ricevere l'essere subiettivo ed esistere con un'esi-
stenza propria , diventando così ente in sé finito ? Qualunque
fosse, ella dovea sempre avere questa condizione, che la realità,
che dovea sussistere come ente, fosse 4. '^ limitata, 2.*' limitata
in modo da avere in sé una perfetta unità , perchè l'esistenza
subiettiva è lo stesso che l'esistere come subietto, e il subietto è
« ciò che si concepisce come primo, contenente, e causa di unità».
L' unità dunque è essenziale ad ogni subietto concepibile dalla
mente, e però niente può esistere con esistenza subiettiva senza
unità.
Da questo procede che « in quanti modi la realità può essere
limitata, così che riesca uno, tanti né più, né meno, ci possono
essere, ossia possono esser creati, enti finiti ».
Ora la realità può esser uno, ricevendo limitazioni diverse. Po-
lendo dunque quella realità limitata riuscire uno con diverse e più
e meno larghe limitazioni , ne viene che molti enti finiti possano
esser concepiti dalla divina mente e quindi creati.
oSh. Dal che procede che l'ordine ontologico tra Venie e Vimo
è il seguente:
1." C'è prima la realità infinita, che è l'essere assoluto nelle
tre forme.
2.° C'è nella mente divina V uno astratto come condizione
dell'ente finito.
5.° Volendo la mente divina limitare la realità infinita, in
quant' è puramente nel suo pensiero, in modo da poter esser
creata, concepisce la detta realità limitata in lutti que'modi nei
quali ne riesca l'uno di realità.
h.'^ (li sono gli enti finiti componenti il Mondo creati da
Dio, e sono altrettanti quanti i modi^ ne' quali la realilù può
essere limitata in modo da formar uno.
L'uno dunque sussiste prima nell'Essere divino e non è altro
che la sua assoluta indivisibilità e illimitabilità.
Di poi c'è l'uno astratto nella divina mente.
Poi e' è l'uno applicato innumerevoli volte alla realità nel-
Timporle la varia limitazione di cui è suscettiva .. e così ci sono
gli enti finiti come puri oggetti del libero pensiero di Dio, senza
che sussistano in sé.
Di poi c'è V uno negli enti finiti creati , che altro non è se
non la indivisibilità essenziale a ciascuno.
F*oi, c'è l'uno astratto dalla mente umana^ astratto da questi
enti finiti e moltiplici.
Replicandosi l'uno tante volte quanti sono gli enti finiti e le
loro possibilità si forma nella mente umana il concetto della
pluralità e del numero.
d85. Dalla quale genealogia ontologica dell'imo si vede:
i." Che Vuno astratto « la qualità d'esser uno » è un con-
cetto che precede quello dell' ente finito : ma non quello del-
l'ente infinito.
2." Che la pluralità degli enti è prodotta dall'uno applicato
alla realità limitabile dalla mente divina, in quanto la detta
realità può ricevere « la qualità d'esser uno « in diverse
maniere.
3.° Che l'imo è sempre l'identico concetto dell'indivisibilità
dell'epte, ma la natura della realità essendo suscettiva di rice-
vere questa qualità in più modi, diventa essa più enti colla varia
partecipazione di quello. Onde la causa della pluralità degli enti è
« la varia suscettività della realità di esser limitata cosi da riu-
scir una ».
Da questo si potrà fare slima di quella sentenza tanto ripetuta
dagli Alessandrini e da'iNeoplatonici che « l'uno è anteriore al-
l'ente » , e che « l'unità stessa precede tutte le cose». Essi ,
come tutti gli antichi filosofi, traevano tutti i loro concetti del-
l'ente, e tutta la loro Ontologia, da quel che vedevano nell'ente
finito, lì quando volevano risalire più alto, altro non sapevano
549
fare^ che ricorrere all' astrazione esercitata su questo (i). Indi
il difetto della loro Ontologia , difetto conservatosi poi sempre
in questa scienza. Mancava loro una vera cognizione dell'Essere
infinito.
Questa sentenza dunque non ha che una parie di vero^ onde
a rend(!rla vera deve essere moderata così: k l'uno astratto^ asso-
lutamente parlando, è anteriore all'ente finito, come la condizione
al condizionato, ma è posteriore all'Ente assoluto » (2).
Articolo VI.
Se r essere ideale sia uno.
586. 11 numero dunque degli enti finiti possibili è determinalo
dalla possibilità che la realilà, termine dell'essere iniziale , sia
concepita dentro a limili come uno.
(1) Odasi a ragion d'esempio Jamblico : In formis separabilibus, iini-
tatem superale midtitudinem et in Diis adeo superare, ut illorum esse sit
ìinilas quaedam, dico autem f/uaedam, quia primum principium est ipsa
simpUciter UNITAS{L. deMysteriis,^ 16). L'unità astratta non può essere
tult'al più che un principio dialettico — noi abbiamo veduto che il primo
principio dialettico delle cose è l'essere iniziale. — Ma essi fanno d'una tale
astrazione esercitata sui Uniti il loro Dio. S. Tomaso corregge quest'errore
dove mostra, che l'unità sussistente è maggiore dell'unità astratta. Siim, I,
XI, I, ad 1."', e IV.
(2) La sentenza Aristotelica {Metaph. Ili, (IVj, ) che l'uno e i molti sono
accidenti dell'ente, in quanto ente, pecca dello stesso difetto di restringere
l'Ontologia agli enti finiti. È vero che è cosa accidentale all'ente ilnito, che
ne sussista un solo o molli, ma i molti enti finiti possibili sono necessari ,
perchè provengono dalla natura stessa della realità, la qual natura è neces-
saria. Riguardo all'Ente infinito è necessario che sia uno, e non sia molti;
questo non è già a lui accidentale. Del pari a ogni ente infinito o finito è
essenziale che sia uno. Che poi quest'uno si replichi nell'ente finito, questo
è accidentale. L'espressione dunque « gli accidenti dell'ente come ente sono
l'uno e i molli )), è per lo meno equivoca. Ella non è vera se non dichia-
rando, che per ente come ente, s' intenda non 1' Ente assoluto che è l'ente
per essenza; ma i.( l'Ente astratto e indeterminato », e che per uno, s'in-
tenda solo: « non molti ». Così spiegata se n'ha questa sentenza vera « l'ente
indeterminato che la mente concepisce può essere considerato in un solo
ente o in molti », e in questo n)odo l'esser uno o l'esser molti gli è acci-
dentale. Così va intesa questa sentenza in S. Tomaso C. Gen. I, 50.
Ma qui nasce la domanda : « se lo slesso essere qual vedesì
nell'idea sia uno ».
Rispondiamo che se si parla dell'essere dell'inlùilo egli mani-
l'esla Vessenza pura dell' essere : ora questa è semplicissima , e
non solo è una ma è la ragione per la quale ogni ente è ne-
cessariamente uno : la ragione cioè per la quale la realità finita
non può divenire ente , se prima non ha ricevuta dalla mente
l'unità. Poiché l'essenza dell'essere , semplicissima com'ella è^
non può associarsi ad altro termine che a quello che sia uno.
Perciò appunto apparisce così chiaro , che dovunque i termini
reali compiuti sono più , se n' hanno più enti (,581*) : perciò'
ancora dicemmo che la forma dell' uno è imposta dall' essere
obiettivo alla realità finita nella mente del Creatore, prima che
sia creata, come condizione necessaria ad esser creala.
Essendo dunque una l'essenza dell'essere, ella non si può di-
videre, come pure si dividerebbe se l'ente potesse esser molti.
Quindi avviene che lo slesso essere, quando si considera come
iniziale di varie realità une, è presente lo stesso e identico es-
sere colla sua intera essenza a ciascuna di esse (,293, h^S-kGU*).
Ma perchè i reali uni sono molli, perciò acquista molte relazioni,
per le quah sembra moltiplicarsi. Ma veramente non si moltiplica
y essere, sì bene gli enti; perchè la molliplicazione nasce dalla
realità che riceve l'uno in tanti modi diversi, e, in ciascuno uni-
ficala, riceve l'atto subiettivo dell' essere mediante la presenza
di questo tutto intero a ciascun uno di realità, rimanendo l'atto
ricevuto in questa limitalo dalla sua propria limitazione , nel
modo già dichiaralo,
887. Si dirà : « Yoi dite che l'essere dell'intùito^ cioè l'essenza
dell'essere, è uno e ragione dell'unità: perchè dunque non può sus-
sistere senza i suoi termini ? « — Si risponde, la ragione per la
quale 1' essere senza i suoi termini non può sussistere non è
perchè egli sia qualche cosa di moltiplice ^ come accade della
realilà prima di ricevere l'unità dalla mente, ma perchè è qual-
che cosa meno dell'uno: non ha tutto ciò che entra a costituire
l'uno perfetto: è dunque un uno diminulo, quasi come una fra-
zione dell'uno stesso, come è un ente diminulo, e quasi frazione
dell'enle. Ma egli però mostra alla mente che lo contempla il
suo difetto, e, per conoscer questo suo ditello, la mente non ha
551
bisogno d' altra regola o tipo che di lui stesso : il che accade
perchè contiene i suoi termini in un modo virtuale, e, in quanto
li contiene, l'abbiamo chiamalo essere virtuale.
Or se si considera questa virtualità dell'essere, egli è virtual-
mente ente ed uno perfetto : ma questo, altro non viene a dire
se non che mostra in sé la necessità che ciò che è ente sia uno
né più, né meno.
Articolo VII.
Concello d'individuo e di comune.
588. La parola individuo, secondo l'etimologia significa indi-
visibile, e però equivale all' k uno sostantivalo ».
Ma nell'uso più frequente di questa parola, individuo si dice
« l'ente reale in quant'é uno e indivisibile senza che mai possa
essere un altro ».
Il lettore troverà una dottrina più copiosa intorno all'indivi-
dualità nella Psicologia (560, sgg.) : qui vogliamo osservata la
differenza che passa tra individuo, in questo secondo senso , e
identico.
L'individuale é un concetto che ha per suo opposto il comune
e non Videntico ; poiché l' identico si trova tanto nell'individuo
quanto in ciò che é comune. In fatti tutto ciò, che è comune
a più entità, è identico, altramente non sarebbe comune , ma
non é individuo, in quant'é comune: é un. uno anch' egli per-
chè rimane identico , ma è un uno unito a molti uni simulta-
neamente. All'incontro Vindividuo reale come ente non ha nulla
da poter accomunare con altri enti, ma tutto ciò che lo costi-
tuisce come subietto reale determinato è suo proprio e inco-
municabile.
L'individuo reale dunque racchiudendo un concetto opposto al
concetto di comune dev'essere pienamente determinato ^ poiché
tutto ciò che è da qualsiasi parte indeterminato e che può essere
determinato in vari modi è comune a tutte le entità che ne na-
scono col determinarlo in que'varì modi.
L'individuo reale dunque è costituito non dall'essere comune
ma dal suo termine reale uno: ciò che costituisce l'ente come
552
individuo è dunque l' unità dell' ultimo termine dell' ente , non
diviso però dal resto dell'ente.
Quantunque V individuo sia costituito da ciò che è proprio nel-
l'ente e non da ciò che è comune, cioè dall'ultimo termine che
la sì che quell'ente sia lui, e non un altro; tuttavia questa qua-
lità della propiietà esclusiva conviene a ciascun ente individuo
preso l'uno separatamente dall'altro , e considerata così questa
qualità fu detta dalle scuole , come dicemmo ancora , indimluo
vago.
U individuo vago dumiue è il concetto di questa proprietà, per
cui ciascun ente, terminato in sé, è individuo, cioè a niun altro
ente comune. Così per virtù del pensar formale quel concetto che
esclude il comune — che anzi consiste nell'esclusion del comune, —
diventa comune, concependosi come comune la negazione della
comunità. La ragione poi, che fa sì che gl'individui sieno più,
è quella stessa per la quale Vuno può informare in più modi il
reale, ond'è che ci sieno più uni reali.
589. Ma dal proprio passiamo al comune, che è il suo opposto.
Che cosa è il comune? Quale n'è la sua natura?
Abbiamo già detto altrove che questa parola di comune signi-
fica un ugual rapporto di più individui con un'essenza identica
veduto dalla mente {Ideolog. 60, 61, 2^7, 249). Perciò il
comune non è una qualità che esista negli enti, ma è una re-
lazione degli enti colla mente. Qual è il subictto di questa rela-
zione? L' essenza identica , di che si j)redica il comune. Quale
ne è il fondamento? La pluralilà degli enti partecipanti della
medesima essenza. Quale ne è il termine? Gl'individui stessi
molti. Quale ne è la causa? La stessa causa della moUiplicità ,
cioè la natura della realità, finita che può ricevere dalla mente
l'unità in molte e'certe maniere, e in altrettante può esser creala
o fatta ente, o dopo creata così può esser pensata.
Da quest'analisi del comune si vede, che il comune non può
esistere senza una mente che il pensi: 1.° perchè nella mente
sola esiste la pluralilà, essendo anche questa una relazione tra
Vuno astratto che soltanto nella mente esiste, e la realità che li-
mitata dalla mente, e non ancora unificata, solo nella mente può
esistere; 2.° perchè non esistendo la pluralità altrove che nella
mente, anche gli enti come molti non esistono che nella mente
K55
(love solo è la pluralità ; 3." perchè nella sola mente divina ,
come dicevamo , è l'uno astratto , e la realità finita suscettiva
dell'uno in varie maniere.
Non c'è dunque il comune come reale; ma c'è di reale solo
r essenza identica che costituisce il subietto di questa relazione
mentale di comunità.
590. Rimane dunque a vedere che cosa sia quest'essenza ?V/(7i-
tica di cui si può predicare il comune.
Ogni realità che si contiene ne'generi sommi, ne'gencri infe-
riori , nelle specie astratte o piene , ma non pienissime, può
acquistare l'esistenza subiettiva in più individui reali, e così di-
venir comune. Perciò si dice che a tali idee appartiene il pre-
dicalo di comune intendendo della realità in esse contenuta. La
realità all'incontro che sia nella specie pienissima non può esser
comune a più individui, come noi abbiam detto.
La ragione di questo si è , che la detta realità de' generi e
delle specie astratte e non pienissime non è a pieno determinata
ma determinabile in più maniere. L' indeterminazione dunque ,
ossia la moltiplice determinabilità, è la ragione del comune nel
reale contenuto in tali idee.
Da questo comune procede il comune della stessa forma ideale
dì cui il reale indeterminato più o meno è vestito.
Onde l'idee hanno la relazione di comune in due modi, come
contenente, e come contenuto.
Ma rimane a ricercare, se fuori delle idee, e sotto la forma
categorica di realità , possa trovarsi qualche essenza identica a
più individui , che perciò sia subietto di quella relazione colla
mente, che dicesi comune.
A primo aspetto sembra che la realità indeterminata, che la
niente intuisce nelle idee, sia anche realizzala negli enti reali.
E c'è in questi sicuramente; ma non più indeterminata, o de-
terminabile, sì bene a pieno determinala e divenuta così propria
di ciascun individuo rappresentalo dalla specie pienissima. Se
dunque noi predichiamo il fow?me de'rcali, per esempio dicendo:
tutti questi fiori che mi si presentano hanno di comune il color
rosso, 0 altro: che cosa facciam noi? Non altro, che un'astrazione
del color rosso, e il color rosso così astratto è il colore che si trova
nel genere del color rosso: questo reale dunque in quanto è nel
bS4
j:5enere, in tanto è il suhietto della relazione di comune, e non in
(juanlo è ne' singoli fiori sussistenti, dove è proprio di ciascuno.
Laonde il comune si predica dell'indeterminato che è nell'idea
e del determinato che è nel sussistente con un copulativo diverso,
nel primo coU'È , nel secondo coli' HA {Logic. hoO) , dicendosi
a ragion d'esempio: « questo color rosso — che è l'indeterminato
nel genere — è comune a molti fiori sussistenti o possibili », e:
« questi fiori — che è il determinalo sussistente — HANNO di co-
mune il color rosso » ; venendo questa seconda maniera a si-
gnificare: « da questi fiori, percepiti che siano dalla mente, si
può astrarre 'un color rosso identico «, che è un ritorno che fa
la mente al genere. E che questo rosso comune sia formato
dalla mente astraente vedesi anche da questo, che i molti fiori,
cioè la collezione non ha esistenza fuori della mente, dove solo
esistono i fiori singoli. 11 reale dunque che si vede nell' idea
come un indeterminalo , quando si considera come sussistente
non è più subietto della relazione di comune , se non per un
ritorno rapido della mente da esso determinato a esso inde-
terminalo.
591. Se dunque nella sfera del reale sussistente e' è il comune,
questo non è quello che esiste nell' idea come indeterminato :
ma è qualcos'altro. C'è dunque questo qualcos'altro di sussistente,
vero subietlo della relazione di comune? e se c'è, qual può esser
egli? ~ Noi rispondiamo alla prima domanda affermativamente,
ed alla seconda diciamo così :
Gli enti reali si dividono in enli- principio e in enti-termine.
Sì negli uni, come negli altri c'è qualche cosa di reale, che è
subietto della relazione di comune , e di cui si può predicare il
comune col copulativo E.
Rispetto agli enti-principio abbiamo dimostrato nella Psicolo-
gia, che essi sono costruiti per siffalto modo , che hanno delle
radia reali antecedenti all'ente individuo , e cornimi a lutti gli
individui che si possono classificare sotto una specie o anche sotto
un genere : tale radice è in lutto il genere degli animali l'alto
fondamentale avente per termine lo spazio {Psicol. 556-bb9) :
tale è pure , almeno per tutti gl'individui della specie umana ,
l'alto fondamentale intuente l'essere {Ivi, 568 n ).
Queste radici reali antecedenti all'ente principio individuo SONO
it!
555
veramente comuni, cioè veri subielli reali di questa relazione di
comunità, che v'aggiunge la mente pensando collettivamente i
loro individui.
Rispetto agli enti-termine lo spazio è per la stessa ragione
un torniine comune agl'individui animali. In (juanlo all'essere
indeterminato, esso non è se non la realità indeterminata involta
neiroggello ideale , e però non differisce dal conmne ideale , di
cui abbiamo prima parlato.
CAPITOLO VI.
^Concetti di lutto, e di parti'
Articolo I.
Concetto del tutto.
592. Dal concetto dell'uno nasce il concetto del tulio; poiché
l'uno predicato semplicemente dell'ente è « quella qualità per la
quale Tenie è indivisibile, e, in quanto è comune a molti enti,
quella qualità per cui un ente esclude ogni altro ».
Quindi ogni ente si considera come un lutto, in quanto che
fuori di lui non c'è nulla che gli appartenga , e però ha tutto
ciò che deve avere.
La definizione dunque generale del lutto si è: « il tutto è il
complesso di quelle cose che insieme formano uno ».
Ci hanno dunque tanti tutti, quanti sono gli uni.
Ma tra il concetto di uno e il concetto di tulio passa questa
differenza, che l'uno in quanto è applicato a molte entità ha in
sé la relazione per la quale un' entità esclude le altre; il tutto
ha in se la relazione d'abbracciare le parti che compongono la
medesima entità e di negare che ce ne sieno altre che concor-
rano a comporla. *
L'uno adunque esclude altri uni , il tutto esclude altre parli
dell'uno.
Il tutto rispetto all'uno ha la condizione di predicalo, polen-
?)56
dosi di ogni uno predicare il lutto. E quantunque anche dei
lutto possa predicarsi l'uno, perchè ogni tutto è uno, di maniera
che « ogni uno è tutto », e « ogni lutto è uno « dialetticamente :
sieno proposizioni convertibili , tuttavia nell' ordine logico della
generazione de' concelli il concello dell'uno precede al concetto
del lutto , non potendosi dire tutto se la mente non ha prima
pensato l'uno, laddove la mente può aver concepito l'entilà come
uno, senza avere ancora riflettuto ch'ella costituisca un tutto.
Poiché per pensare che un'entità costituisca un tutto conviene
non solo aver riflettuto che quell'entità non ammette divisione,
ma di più che ninna sua parte è fuori di lei.
Come dunque si distinguono varie sorti di uno, così egual-
mente si distinguono varie sorti di tutto per la correlazione
di questi due concelli (1).
E quantunque nella deliiiizione del tulio s'acchiuda una rela-
zione colle cose di cui consta, onde abbiam detto: « il lutto es-
sere il complesso di quelle cose ec. » , tuttavia non procede ,
che nel tutto si devano necessariamente trovare delle parti ,
perchè quella relazione può essere negativa, cioè esclusiva delle
slesse parti; e tale è quando l'uno sia aflatto senza parli, ovvero
quando la mente concepisca semplicemente il lutto con un solo
alto senza riguardar punto alle parli. Il qual concetto di tulio
si chiamò da'greci, totum ante partes, oXov Trpò tóov ixs^^v.
Che se l'uno si riguardi come un composto di parli, chiama-
rono questo concetto, venuto dalla considerazione delle parli e
della loro congiunzione, totum ex partibus, oXov ex tSòv i^spéòv.
Finalmente la mente considera nelle parti stesse un uno pos-
sibile, considera il tutto nel complesso delle parli come esistente
nella sua materia, e il concetto del lutto materiale così consi-
derato lo chiamarono totum in pai tihus, oXov iv Toìg jxépeGi ("2).
(\) Quindi apparisce vieppiù come si cliiamino reciprocamente i due ca-
latteri dell'imitò e della totalità da noi assegnati alla Filosolìa. Vedi le Pre-
fazioni agli Opuscoli filosofici, e al Nuovo Saggio.
(2) Eustratius in I."' Etliic. Arist. fol. 11 — Quest'autore dice, che « il
« lutto avanti le parti sono quelle forme e idee semplicissime e prive di
« materia , delle quali ciascuna esiste prima delle parti che sono fatte su di
« essa « (oXoj) rcpò Tùv jxipòiv IJ.ÌV , ixetvs; xà. eiov) , oTt ttjSÒ twv 7t(5>.},65v sx«(jtov
Èxeivwv vyJsTfxsv, x npòi Ixstvs yt/ovfJ, k-rù.òvzzxra. Svts;, x«i aù>K, dal che SÌ vede
SS7
Il che (limosliM clie la dottrina intorno alla natura delle parti
è necessaria ad illustrare il concolto del tutto: veniamo dunque
a questa.
Articolo IL
Concetto di (Uoisione e coìicelto dì parli.
ì)95. Definendosi l'uno « ciò che è indiviso in sé, e diviso da
altri )), lorz'è che il concetto di divisione, che involge quello di
parti, preceda al concetto astratto dell'uno, nova ragione del non
essere il concetto di uno anteriore al noncello di ente, come pre-
tendono i novi platonici.
Laonde S. Tommaso riconosce quest'ordine logico tra i concetti,
che primo cada nell" intelletto V ente, di poi la divisione di un ente
dall'altro , in terzo luogo \'uno , che è quanto dire l'indivisione di
ciascun ente, in quarto luogo i molti, e la moltitudine (i).
che le ideo o forme si dicevano « tutto avanti le parti », per aver con queste
una relazione positiva, prendendosi come parti le loro moltiplici realizzazioni,
come ctii dicesse die tutti i corpi fossero come parli dell'essenza o idea del
corpo, e che questo precedesse come un tutto quelle parti. Ma che « il tutto
at)l)ia parti e preceda le parti », è una contraddizione, se si prende nell'ordine
della realità: non così dianoeticamente, poiché la mente può pensare contem-
poraneamente l'idea e gl'individui reali ad essa corrispondenti , e considerar
questi in quella, nel qual caso questi prendono il concetto di parti in quanto
che dall'idea acquistano un legame e una cotale unità dianoetica.
(Ij Primo cadit in intellectu ENS; secimdo quod hoc ens non est il-
lud ens, et sic secnndo apprehendimus divisionem; tertio unum; quarto
multitudinem. Onde anche dice : quod divisio sit prius unitate non sim-
pliciter, sed secunduia rationcm nostne appreheìisionis {S. I, XI, u,ad 4..™).
— La distinzione tra il simpliciter e secundum apprehensionem nostrani
ha uopo di qualche dichiarazione.' L'»>u7(/, o l'uno astratto, significa, come
dicemmo, la qualità per cui l'ente è uno. Ora questa qualità apparisce alla
mente nostra come separata dall'ente, e in questa separazione non esiste
nell'ente, e però è un oggetto che appartiene unicamente all'essere dianoe-
tico. Ma l'ente non ha poi anch'egli la qualità di uno? e però non è questa
qualità nell'ente? Rispondo, che questa qualità è nell'ente non separata né
divisa da tutto il resto dell'ente : ma se si toglie ogni separazione tra l'ente
e la qualità di uno, il pensiero e il vocabolo dell'uno svanisce o resta solo
quello dell'ente ; non potendosi in alcun modo predicare l'uno dell'ente né
^
5K8
Ma conviene che noi facciamo diverse considerazioni sul con-
cetto di divisione, che appartiene al pensar formale dianoetico; at-
teso che la riflessione umana che prende ad esaminare l'essere in
quanl'è formale e diancoticosi tiene difficilmente in questo, e scade
facilmente nell' ordine dell' essere anoetico onde un'inestricahile
confusione di concetti e perpetue antinomie.
Osserviamo dunque primieramente quello che abhiam toccato di
sopra cioè che il concetlo di divisione non aggiunge nulla a quel tutto,
a quell'ente che si divide. IMuttosto la divisibilità è un concetto
di diminuzione, poiché un lutto indiviso non solo equivale alla to-
talità delle parti in cui si divida, ma , oltre tutto ciò che e' è nelle
partì , ci sono di più quei nessi , quelle forze , quella universale
energia che unisce tutte le parti in modo da renderlo un tutto
solo. E questo di più è tanto maggiore , quanto è maggiore quella
virtù che congiunge le parti, ed è massimo quando una tale virtù
domina sì fattamente che non lascia per cosi dire alcuna cicatrice
tra le parti, alcun segno di divisione, alcuna differenza, e che
abolisce financo il concetto di parte, compiendo così la più perfetta
loro unificazione. È dunque chiaro che nel concetto del tutto ci
può essere assai di più che non sia nel concetto d' aggregato di
parti ; e c'è veramente tanto di più , quanto quel tutto è più uno.
594. Non è dunque assolutamente vero il principio che « il
tutto è uguale alle sue parti «.
Pure ond'è che gli uomini ricevono per bono questo principio?
Ond'è che gli antichi metafìsici ce l' hanno dato per uno dei prin-
cipi più evidenti della ragione?
Di qui, che i principi ontologici più usati dagli uomini, e quelli dei
quali si formò l'Ontologia come scienza, oso dire fino al di d'oggi,
col pensiero né colle parole, se quest'uno non si abbia in qualche modo se-
parato dagli altri elementi dell'ente. 11 che parrebbe levar via la distinzione
di S. Tommaso, e l'unità non sarebbe mai simpliciter, ma solo nell'appren-
sione della mente. Pure è da considerarsi, che dopo che l'unità si è trovata
coll'astrazione, la mente può considerarla come ente ella stessa, dialettica-
mente. Certo che per arrivare a considerarla in questo modo, deve essere
preceduto il concetto di divisione. Ma posto che la mente sia già pervenuta
a questo, incomincia un novo ordine di pensieri, e allora la mente prima
pensa l'uno, e poi la divisione dell'uno cioè dell'ente uno. In quest'ordine si
può dire che simpliciter cioè da parte del fatto della cosa preceda l'uno alla
divisione, perchè ci deve essere l'uno ente prima che se ne faccia la divisione.
559
non furono cavali dalla considerazione dell' essere e dell' ente
in tutta la loro pienezza, ma da quella dell'ente materiale che
è il minimo degli enti. Ciò che videro essere de' corpi e degli
estesi, vollero che t'osse proprietà dell'ente, universalizzando in-
debitamente ciò che nun valeva se non per una specie angu-
stissima di ente: indi la povertà dell'Ontologia, che si possiede fi-
nora, e la materialità che vi si trova nel fondo.
Vero è, che furono distinti due tutti, Vuno omogeneo, compo-
sto di parti simili , qual è il continuo e la materia o almeno una
data specie di materia; e un tutto eterogimeo, composto di parti
dissimili. Nel tutlo omogeneo la parte ha la stessa forma del
lutto ; laddove nel lutto eterogeneo la parte non ha la forma
del lutto (1).
Ora nel lutto omogeneo, come quello dell'esteso e della ma-
laria, ha la sua verità il principio che « il tutto è uguale alle
parli )). Così un ettolitro d'acqua è uguale a cento litri, un et-
tometro è uguale a cento metri.
Ma anche rispetto all'ente materiale e all'esteso un tal prin-
cipio non ha verità se non a condizione, che si consideri la pura
maleria, poiché se si considerasse qualche altra cosa nella ma-
teria 0 negli spazi , per esempio se si considerasse la forma ,
quel principio perderebbe la sua verità. Onde riesce falso a ra-
gion d'esempio che tutta la polvere in cui è slata ridotta una
statua di Canova sia uguale alla statua di Canova; che a que-
sla polvere manca la forma che avea prima quella materia.
E la stessa deficienza dalla verità si riscontra in quel princi-
pio , se invece di considerare ne' corpi qualche loro proprietà
diversa da quella della materia , si consideri in essi qualche
relazione,' per esempio il prezzo , gli effetti, ecc. Così i minuti
pezzi , ne' quali si avesse diviso un solitario , benché non ne
mancasse alcuno, non riescirebbero uguali al solitario intero e
indiviso ; unite insieme due o tre sostanze innocue in un certo
modo , e voi avrete per risultalo un veleno : tanto è vero che il
lutto rispello a' suoi effetli non equivale alle parli di cui è
composto.
('onchiudiamo dunque che quel principio non ha valore se non
(1) S. Tomm. Sam. I, XI, ii, ad 2.'"
560
rispetto alla quantità diinensim , ed è per questo che ne fecero
tanto uso i matematici, 1 quali l'accreditarono.
CAPITOLO VII.
Concetto di semplice.
ARTICOLO I.
Anlinomia tra l'ente uno e Venie composto.
593. L'ente è uno, come abhiam detto, ma non sempre è sem-
plice: in fcitti ci hanno molti enti composti.
Ma in questo apparisce un' antinomia. Poiché l'uno, in quanto
è uno, è certamente semplice; che in quanto si distinguono in
esso più parti, in tanto non è uno, né ente. Come dunque es-
sendo ogni ente uno, tuttavia non ogni ente é semplice?
Questa anlinomia merita d' essere da noi considerata , poiché
solo dal considerarla attentamente, e trovarne la conciliazione,
si perviene a conoscere, in che il concetto di semplice si dislingua
dal concetto di uno.
Articolo II.
Una certa maniera di semplicità
è essenziale ad ogni ente.
596. E primieramente conviene riconoscere che v'ha una certa
maniera di semplicità, che non può mancar mai a nessun ente,
di qualunque genere sia o si concepisca, e questa è quella ap-
punto, che è indivisibile dalla qualità di uno, essenziale all'ente.
E questa osservazione comincia a dissipare l' antinomia sopra
accennata, perché mantiene ad ogni ente quella senq)licità che
deriva dall'uno, nella quale semplicità l'antinomia si fondava.
In fatti ciò che e contradittorio aW uno è la moltitudine , e
però un ente è contradittorio a più enti. Il concetto all'incon-
noi
Irò conlradillorio a quello di semplice è la moltiplicità ossia la
composizione. La moltiplicità è un predicato , che si predica
dell'ente uno , o negandola o affermandola , e non si predica ,
non si afferma e si nega d'una moltitudine di enti^ a meno che
questa stessa non si consideri come uno. Di più, la moltiplicità
non si predica doll'enle uno col copulativo essere, quasiché l'ente
uno sia la stessa molliplicilcà , il che Irarrehbe seco di novo la
contradizione, ma col copulativo apert? {Logic. Wild), il che importa
che all'ente uno sta congiunta intimamente una moltiplicità.
Quando dunque si dice, che un ente è moltiplice, non si dice con
questo che un ente sia più enti, o che egli stesso sia la moltiplicità,
il che sarebbe ugualmente contraditlorio ; ma si dice , che nel-
r unità stessa dell' ente cade una moltiplicità non di enti , ma
d'altro, cioè d'elementi che compongono l'ente.
Quando dunque si predica di qualche ente 1' unità e insieme
la moltiplicità ossia la composizione , allora non si predicano
queste due qualità dello stesso ente sotto lo stesso aspetto, ma
sotto un aspetto diverso ; il che fa sì, che in tali predicazioni
si evili la contradizione ; perchè l'unità si predica dell'ente, e
la moltiplicità e la composizione non si predicano dell'ente ma
de' suoi componenti. Così sparisce 1' antinomia ; rimanendo
l'ente uno e semplice come tale, moltiplice airincor\tro e com-
posto in quanto queir unità e quella semplicità di ente risulta
da più elementi.
L'unità dell'ente è un predicato che s'attribuisce al suhietto,
la composizione o la semplicità sono predicati de' suoi predicati ,
cioè di quelle cose, che non sono lui, ma di lui- si dicono.
Articolo III.
Concetti di composizione, e eli composto.
597. Per ridurre il concetto di composto, che s'oppone al con-
cetto di semplice, in una definizione così universale, che abbracci
lutti gli usi , che la mente umana fa della parola composto ,
noi diremo, che « ogni qualvolta in un ente si possono distin-
RosMiNi. Teosofia. 36
K62
guere col pensiero più entità, l'ente si dice composto di tutte
queste entità insieme prese e contenute nel principio dell'ente )>.
Questa definizione abbraccia ugualmente il composto obiettivo,
il composto dialettico, e il composto reale. Ma nel comune di-
scorso si parla del composto reale , e il reale si dice semplice
ogni qualvolta non ha composizione reale, sebbene possa avere
una composizione dialettica, od obiettiva.
Allo stesso modo si usa la parola composizione, che è l'atto
del comporre, ossia di mettere nel principio dell'ente, come in
suo contenente, tutte quelle entità che nell'ente si distinguono.
Poiché c'è una composizione che fa la mente, e dicesi dialettica,
sia che n'esca un composto puramente obiettivo od anche dia-
lettico; e c'è una composizione che fa la forza reale, e dicesi
composizione reale.
Dalla definizione generalissima che abbiamo data del composto
si deduce che il concetto di composto fa conoscere sempre un'es-
senza dianoetica , cioè tale che a formarla c'entra l'atto della
mente. E per verità quand'anco si parli del composto reale ,
quel concetto importa una relazione de' componimenti con quel-
l'uno che ne risulta , e ogni relazione può bensì avere il suo
fondamento nel sussistente, ma la natura completa di relazione
non può riceverla altrove che nella mente , la qual sola ab-
braccia i due estremi della relazione, ciascuno de' quali è su-
biettivamente diverso dall'altro , e però non abbraccia in sé
tutta la relazione, s'egli stesso non sia intelligente.
In ogni genere di composti dunque, come tali, cioè precisa-
mente come composti, entra un elemento mentale; ma alcuni
di essi hanno i loro estremi nella realità dell'essere, ossia sono
essenti in sé, e questi sono i composti reali; altri poi sono tali,
che anche gli estremi loro dipendono dalla mente , sia come
oggetti, e se n'hanno i composti ideali , sia come entità dia-
lettiche, e se n'hanno i composti dialettici.
Articolo IV.
Della dilferenza tra i composti oggettivi, i composti
dialettici, e i composti reali.
598. L'obietto si può considerare in due modi, o come puro
oggetto della mente, che è quanto dire come idea contenente ;
ovvero come essenza coìì tenuta , "e cognita perchè contenuta.
Questa essenza contenuta può essere Vogyetto stesso, come conte-
nulo, 0 il reale, o il morale. Riducendosi quest'ultimo a due
primi, possiamo lasciarlo da parie.
DdVessenza dunque contenuta nell'oggetto la mente predica la
semplicità o la composizione, e molliplicità.
Se dunque per essenza si prende Voggetto stesso come conte-
nuto ossia come inteso, si può domandare se quest'oggetto sia
semplice o composto, e di qual genere di semplicità e di com-
posizione. Questa questione appartiene al composto oggettivo
ossia ideale.
Se per essenza si prende il reale, questo o è un reale com-
pleto che è essente o può esser essente in sé cioè fuori dell'og-
getto, 0 è un reale incompleto e diminuto, che non può avere
quel modo di essere che è fuori dell'oggetto e che dicesi su-
biettivo, ma che non è altro che nell'oggetto.
Se trattasi di questo reale incompleto, che è solo nell'oggetto,
nell'idea, ma non ha una propria e subiettiva esistenza, può
domandarsi « se sia composto o semj)lice, » e questa questione
riguarda un semplice o un composto dialettico.
Se poi trattasi d'un reale completo che vedesi bensì nell'idea,
ma che è tale da sussistere in sé, fuori dell'idea, si j)uò ancora
dimandare « se egli sia semplice o composto, » e la quistione
riguarda il semplice o composto reale ; al quale solo, almeno per
lo più, il parlare comune applica l'epiteto di semplice o di
composto.
Di qui si vede:
ì.,° Che cadendo ogni questione, relativa al semplice ed al
composto, intorno ad una essenza contenuta nell'idei, il semplice
ed il composto sono qualità, che non sarebbero senza una re-
564
lazione colla mente , e che però giuslamenle si dicono dia-
noetiche.
2.° Che il semplice ed il composto dialettico tiene sempre
dell'oggettivo, perchè l'essenza di cui si predicano, non essendo
un reale completo e pienamente determinato, non può svestirsi
dell'oggetto; ma il dialettico non è puramente oggettivo, perchè
riguarda un'essenza reale.
5." Che il composto e il semplice obiettivo tiene sempre
del dialettico. Perocché per dialettico intendiamo ciò che ^nge
0 suppone la mente, servendosi di queste finzioni o supposizioni
per ragionare. Ora l' oggettività non è finta o semplicemente
supposta dalla mente , e però non si può dire una finzione o
supposizione dialettica. Ma quando la mente predica d'un puro
oggetto 0 idea la semplicità o la composizione, allora ella finge
che ({nQW oggetto sia un subietlo a cui possano appartenere de'
predicati. Poiché V oggetto come tale, non è suhìelto, ma è la
forma opposta a quella del subielto. Quest'operazione dunque
colla quale la mente riveste il puro obietto della forma di su-
bietto è puramente dialettica. Quando dunque si parla della
semplicità o della composizione dell'obietto o dell'idea, e' entra
sempre un'operazione dialettica; e però il composto e il sem-
plice obiettivo ritiene un elemento dialettico.
Articolo V.
Che per conoscere se un ente è semplice o composto, e in guaì senso sia
tale, conviene considerare, se molte entità compongano il subielto
dell'ente, ossia l'ente subiettivo.
599. Il subietto, noi abbiam detto, è essenzialmente uno, nondi-
meno può avere — non essere — molte entità, e di queste si predica
la moltiplicilà col copulativo essere. Del subietto dunque si possono
predicare molte entità col copulativo avere, ma questo avere ha
qui il valore di contenere , perchè il subictto dell'ente o 1' ente
subiettivo ha le molte entità conlenendole. E in questo modo le
dette entità compongono 1' ente subietlivamente preso , ossia il
subielto dell'ente.
565
Per conoscere dunque se 1' ente di cui si parla è composto ,
conviene esaminare se ciò che coslituisce in lui il subietlo, come
subietlo, contenga molte entità. E dico precisamente come su-
bielto , perchè altramente non formerebbero queste entità un
ente solo ed uno. 11 subietlo infatti fu da noi definito: « ciò che
in un ente è primo^ contenente e causa di unità ». Se dunque
ciò^ che il subietto contiene in tal modo, è molte entità , esso
è composto; se non contiene nulla d'attuale, o solo sé stesso in
altro modo, è semplice.
Ma il subielto è o reale, o dialetlico. Quando il subietlo è pu-
ramente dialettico, e non c'è un subietto reale in sé essente,
allora non c'è realmente né semplicità né composizione, poten-
doci soltanto essere unità o moltitudine , ma ci possono essere
dialetticamente. Così se si parla d'una moltitudine di persone, la
parola moltitudine esprime un subielto puramente dialettico.
Questo subietto si può dire dialetticamente composto, ma non
realmente, perchè una moltitudine non é un subietto reale. Man-
cando il subietto reale non ti possono essere i predicati, e perciò
non c'è realmente né la semplicità né la molliplicità : realmente
non esiste che la mollitudine stessa delle persone. Lo stesso può
dirsi d'un aggregato di materia sconnessa, che la mente prende
a subietto del discorso.
Così del pari se il subielto è reale e in sé essente , ma le
entità che contiene non sono molte realmente, ma solo dialetti-
camente, non si può dire che quel subietlo sia realmente com-
posto, cioè che contenga niolte entità reali diverse, ma solo si
considera e finge composto dalla mente , il che è una compo-
sizione dialettica. Si potrà nondimeno dire ch'egli sia realmente
semplice, perchè la semplicità è un predicato negativo che esclude
la moltiplicilà. Se c'è dunque un subielto reale, ma non ci sono
i molti reali componenti, esso è realmente semplice.
600. Apparisce da tutto questo :
l.** Che la semplicità e la moltiplicilà sono sempre subiet-
tive cioè predicati appartenenti al subielto nel modo detto;
2." Che a predicare la moltiplicilà reale è necessario che
ci sia un subietto reale, e più entità reali in \n\ conienuic come
suoi componenti ;
5." Che a predicare la semplicità reale è necessario che ci
56G
sia un subietlo reale, che non contenga più entità, o che queste
sieno molle soltanto dialetticamente.
E qui si scorge un'altra differenza tra i concetti di uno e di
semplice. Il semplice è predicato di un subietto, che nega la mol-
tiplicità, ma Vimo non è propriamente il predicato d'un subietto,
ma è lo stesso subielto , e in universale è un' idea elementare
dell'ente che appartiene alla cognizione intuitiva, e non a quella
di predicazione. Per questo dell'uno può predicarsi la semplicità
facendo l'uno stesso ufficio di subielto, e la semplicità di predi-
cato, e in questo modo ogni ente, come noi dicemmo, in quanto
è uno in tanto è semplice, perchè in quanl'è uno esclude in sé
il concetto di molliplicità , benché questa moltiplicità si possa
contenere nell'uno. Del pari, i multi non é un predicalo d' un
subietto, perché il subielto è uno e non molti, né é un'idea
elementare dell'ente, ma é puramente un siihietto dialettico for-
mato dalla mente che impone ai molli la forma dell' uno. La
moltiplicità poi é un predicato positivo d'un subietlo, dal quale
riceve l'unità. Da per lutto dunque dove si prescinde colla mente
da un subietto, non si trovano più i concelti di semplice e di
molteplice , che sono relativi a un subietlo , ma può rimanere
il concetto di uno: quello di molti poi rimane solo se s'aggiunge
un subietto dialettico.
Articolo VI.
Della semplicità e della moltiplicità considerata
negli obietti come obietti, ossia nelle idee.
601. Nell'obietto della mente si distinguono due entità, il con-
tenente che è l'obietto come obietto ossia la forma oggettiva, e
il contenuto ossia l'essenza.
L'obietto come obietlo è l'opposto del subietto, e però esclude
questo da sé. Non essendovi dunque alcun subielto nel puro
obietto, consegue da quello che abbiam detto, che l'obietto può
essere uno, ma non gli può convenire in alcun modo il predi-
calo di -composto. Ma prendendo l'uno come subietlo gli può
convenire il predicato di semplice essenzialmente, cioè allo stesso
titolo al quale è uno; perchè l'uno come uno esclude ogni mol-
567
liplicilà. Attendasi qui la differenza che passa tra il convenire
aWoggetto il semplice ed il composto, e il convenir questo a un
subictlo. Quando s'attribuiscono queste determinazioni a un su-
bietto, allora la mente considera il subietto come primo e an-
tecedente— questo importando la definizione di subietto, — e per
conseguenza quelle attribuzioni sono seconde e posteriori. Ma
dove non e' è alcun subietto come nel puro oggetto , né la
mente ce lo finge, non c'è un ordino di priorità e posteriorità
ne' concetti tra l'oggetto e quelle attribuzioni, ma c'è simulta-
neità. La semplicità dunque nell' oggetto non è un predicato e
non ne ha tampoco la forma , ma è un' idea elementare ed
astratta che nello stesso oggetto si vede qual suo costitutivo og-
gettivo, e lo stesso dicasi della moltiplicità, se questa vi si scorge.
Di poi r obietto come obietto cioè la forma obiettiva è una
e non molte, benché possano esser molte le essenze che contiene.
602. iMa l'obietto come obietto , sebbene escluda il subietto,
tuttavia si riferisce essenzialmente ad un subietto reale, cioè alla
mente intuente. Nasce dunque la questione : « Se la mente in-
tuente e l'obietto puro sieno due o uno, e nel caso che sieno
due, se questi due sieno componenti del subietto mente )>.
Risposta — Qualora noi consideriamo la mente umana , con-
vien dire indubitatamente che la mente intuente e l'obietto in-
tuito sieno due inconfusibili Ira loro , la mente umana avendo
ragione di realità finita e non di essere, e l'oggetto avendo ra-
gione di essere infinito. Convien dire ancora, e ammettere come
un fatto evidente, che l'oggetto vien dato alla mente umana ed
essa lo riceve da quella causa occulta che glielo dà. E a mal-
grado di ciò in nessuna maniera si può dire che la mente sia
composta di subietto, e di obietto, perchè la ménte è solo su-
bietlo, e l'obietto che le è dato è solo obietto, e questo è in-
dipendente da quella. La mente nondimeno dalla presenza del-
l'obietto , che le è dato, viene attuata coH'atto dell' intuizione
che la costituisce , ma quest' atto , effetto della presenza del-
l'obietto, non è l'obietto ma il subietto stesso in atto. Onde la
mente non è composta, ma è una e semplice, con una re-
lazione essenziale all'oggetto , è ella stessa un atto di relazione.
Ma se si solleva il pensiero ad una prima mente e si sup-
ponga ch'ella stessa produca ed abbia ab eterno il suo obietto,
568
e questo si consideri nella sua qualità di puro oggetto di quella
mente, converrà dire, che l'oggetto sia lo stesso atto ulliinato e
compiuto di quella mente, e non cosa diversa. E poiché la mente
non si dislingue in lai caso dal suo alto ma è lo stesso alto ,
perciò quella mente non sarà più altro che un per sé inteso che
è più che non sia dire un intelligente, p;ìr(»ln che esprime l'atto
d'intendere nel suo farsi e non ancora fallo e pienamente ul-
timato, dove non rimane più che l'atlualmenle inleso (i). E per
vero se l'oggetto è prodotto eternamente dalla mente, quest'og-
getto non può essere che la mente intesa , poiché se ci fosse
altro in quest'oggetto primitivo converrebbe prima spiegare la
produzione di quest'altro, e spiegare non si potrebbe senza sup-
porre la mente eterna, pienamente costituita. L'oggetto dunque
prodotto da una mente eterna non può essere che sé stessa eter-
namente intesa. L' intelligente poi che intende sé stesso, se si
suppone che l'alto del suo inlenderi' non sia mai in via a farsi
ma sia sempre fallo, ha sempre inteso sé stesso. Se stesso dun-
que é sempre un per sé inteso, e l'atto dell'intendere non com-
piuto è contenuto nell'inteso come il meno nel più, e solo per
una astrazione si può dialetticamente dividere dal sé inleso per
sé slesso. 11 per sé inteso dunque è l'atto intellettivo compiuto
e ultimatissimo rispetto a una tal mente che essendo compiuta
sussiste e costituisce la slessa mente subiettiva attualissima, e, in
fatti, mente e intelligenza attualissima non sarebbe, se non fosse
per sé ab eterno inlesa. E questa é la costituzione del subiello
infinito, dove é da attendersi, che si parla sempre dell' obietlo
come puro obietto, e non si parla di quel soverchio di atto della
mente eterna col quale fa che l'essere contenuto in tale obietto
da lei prodotto 'sussista come prodotto ossia generalo, il che di-
cesi eterna generazione del Verbo, di cui dovremo altrove parlare.
Ritornando dunque al principio del nostro discorso^ dicenjmo,
che nell'oggetto si distinguono dalla mente due entità, il con-
tenente che é r oggetto come oggetto , e il contenuto che noi
(1) S'avvera così di questa sola mente quello, a cui finalmente venne Ari-
stotele, nello speculare che fece sulla natura deiriutelligenza, cioè che il co-
noscente ed il cognito, tutto in atto e niente in potenza, sia il medesimo. "ììtt.
ixiv yàp T(wv avEO Oivjs tò kutò tari tò voov-j /.al tò vooù/j.vjdv. De Aìl. IH, 4. — Cf,
Metaph. XI (XII) 7.
sogliamo chiamare essenza. E per riguardo all'oggetto come og-
getto vedemmo che nella mente umana si distingue dalla mente
suhielto , senza recare alla mente una composizione , ma sola-
mente una relazione d' opposizione ; e per riguardo alla mente
eterna , 1' oggetto come oggetto non si distingue da essa ; ma
questo eterno oggetto è ella stessa in atto ullimatissimo^ com'è
per natura , e non si trova dualità in essa se non quella che
vi pone la mente umana applicandole i concetti inadeguati che
toglie da sé stessa , dove la nozione d'intelligente è altra da
quella d'inteso, perchè nella mente umana l'intelligente non è
atto intellettivo puro per sé stesso, ma diventa tale per un altro
cioè per l'oggetto inteso , e l'inteso non è per sé stesso inleso
in allo, ma rispetto alla detta mente diventa inteso in atto per
un altro, cioè per la mente. Ma dove V inteso fosse attualmente
inteso per sé stesso, necessariamente sarebbe ad un tempo atto
intellettivo purissimo e ullimatissimo. Dobbiamo ora parlare della
moltiplicità e semplicità dell'essenza contenuta nell'oggetto.
COo. Abbiamo detto che l'obietto come oggetto non può esser che
^^no, e quest'uno, preso come subietto dialettico, é essenzialmente
semplice; ma l'essenze che contiene possono esser molte, e tra
queste alcuna può essere non semplice ma molliplice. In fatti in
ogni intelligenza anche limitata, com'è quella dell'uomo, uno è
l'oggetto in cui si conoscono tutte le essenze possibili: nell'uomo
Vessere ideale, in Dio {'essenza divina per sé intesa.
Ora queste essenze, che si conoscono nell'oggetto, sono o l' og-
getto stesso, 0 essenze reali, o essenze morali. Quest'ultime, come
dicemmo , si riducono , per quello che riguarda il bisogno del no-
stro discorso, alle reali. Dell'oggetto poi contenuto è a dire il me-
desimo che del contenente. Onde basta che noi parliamo dell' es-
senze reali, in quanto sono contenute nell'obietto. Queste , o sono
subietti perfetti, e come tali possono essere suscettibili di semplicità
e di moltiplicità , o subielti astratti e però dialettici, e possono del
pari essere suscettibili dell' uno e dell' altro #que' due predicati.
Ma perchè noi parliamo in questo articolo della semplicità o
moltiplicità dell'obietto, è necessario farci queste due domande:
1 .° La moltitudine delle essenze contenute nell'obietto pro-
duce molti oggetti , contro quello che abbiauì detto che T oggetto
sia uno?
570
2.° La moUiplicìtà d'alcuna di quelle essenze, che sono con-
tenute nell'oggetto, rende moltiplice l'oggetto, contro quello che
abbiam detto , che all'oggetto , preso come subielto dialettico ,
appartiene il predicalo di semplice ?
QOh. Alla prima questione rispondiamo che non moltiplica l'og-
getto , perchè è sempre lo stesso oggetto quello che fa cono-
scere, e così contiene tutte le essenze. Ma essendo molte queste
essenze , la relazione del medesimo oggetto con essenze reali
diverse è diversa , e però ci hanno molte relazioni di cui uno
degU estremi è uno ed identico , e l'altro termine è molti di-
versi ; di che il fondamento della pluralità di tali relazioni sta
nelle molte essenze reali j e non nell'unico oggetto. E questo
accade tanto rispetto aWoggetlo della mente umana, cioè all'es-
sere ideale , in cui e con cui essa conosce tutto ciò che cono-
sce j quanto rispetto all'oggetto della mente divina , che è la
divina essenza, la mente divina stessa. Il che come sia rispetto
all'oggetto umano, fu da noi altrove ragionato; rispetto poi alla
mente divina il diremo coH'angelico dottore, il quale insegna,
che Iddio conosce tutto per la sua sola essenza ; ma in quanto
questa è ragione o similitudine delle singole cose chiamasi
idea, e così le diverse relazioni o ragioni, che la divina essenza
ha colle diverse cose reali , si dicono idee intese da Dio (i).
La moltitudine dunque sta nelle cose o essenze reali , e non
nella divina essenza che essendo una le rende tutte conoscibili.
E non ne viene da questo, aggiunge il gran filosofo , che tali
rispetti di conoscibilità vengano dalle stesse cose, ma dal divino
intelletto che paragona l'essenza sua propria colle cose (2), non
essendo in fatti le cose reali finite conoscibili per sé stesse ,
perchè non sono obiettive per sé, ma subiettive , e rendendosi
conoscibili a Dio dalla propria essenza che è obiettiva e per sé
conoscibile e conosciuta. Ma se i rispetti che rendono le cose
conoscibili vengono da Dio e sono in Dio in quanto sono le
(1) Idea non nominai clMnam essentiam in quantum est essentia, sed in
quantum est similitudo, vel ratio hujtis vel illius rei. Unde secundum quod
sunt plures rationes iniellectce ex una essentia, secundum hoc dicuntur plu-
res idece. S. B, XV, ii, ad 1."
(2) Hujiismodi respectus, quibus multiplicantur idece non causantur a
rebus, sed ab intellectu divino, comparante essentiam suam ad res. Ivi. ad 3.'"
o71
conoscibilità ossia le idee , in quanto però sono molti vengono
dalle cose, perchè queste sole sono molte, sebbene l'esser esse
molte venga da Dio come dal loro autore. E di qui è che la
moltitudine stessa di questi rispetti non è in Dio^ ma nelle cose,
benché sia intesa da Dio, come esistente e da lui posta nelle
cose (I).
605. Ma qui si presenta una difficoltà : « Se le conoscibi-
lità delle cose, o idee o cose conosciute, come si vogliano chia-
mare, importano una relazione delle cose coU'essenza divina, e si
fanno ah intellectii divino comparante essenliam suam ad res, per
usare l'espressione di S. Tomaso, dunque le cose sono anteriori
alle idee ». Si risponde che Iddio fa tutto con un solo e me-
desimo alto e cose e relazioni loro colla sua essenza , e però
che non si dà priorità e posteriorità , se non dialettica , pel
modo imperfetto di concepire della nostra mente. Sono dunque
molte le cose, rimanendo una l'essenza divina che le conosce ,
e si dà alle cose il predicato di molte, o si predica di esse la
moltitudine , perchè dei molti o della moltitudine la mente fa
un subietto dialettico, rivestendo i molti, o la moltitudine della
forma dell'uno.
Pure ristanza si rinnova così: « Che le cose sieno molle in
quanto sono reali, senza pregiudizio dell'unità dell'essenza di-
vina, questo s'intendo, perchè in tal caso le cose stesse sono il
subielto — dialettico — della loro pluralità; ma che le cose sieno
molte in quanto sono conosciute ossia come idee, questo sembra
che distrugga l'unità dell'essenza divina , perchè le idee stesse
diventano il subielto della moltitudine, e queste non sono in sé,
ma nell'essenza divina «.
La risposta è questa : « Le idee sono oggetti interni dell'es-
senza divina respectus inlellecti a Deo. Ma l'oggetto, come puro
oggetto, dell'intelligenza divina è identico coll'atlo dell'intel-
ligenza divina per la natura di quest'alto d'essere ullimatissimo,
come abbiam veduto. Se dunque un oggetto s' identifica con
quest'alto, anche ogn' altro oggetto s'identifica con quest'atto,
(1) Respectus multiplicantes ideas non stint in rebus creatis sed in Deo:
non iamen sunt reales respectus, sicut illi quibus distingimntur personae ,
sed respectus intellecti a Deo. S. I, XV, ii, ad 4."
572
e però tulli gli oggelti s' identificano con quest'alto. L'identico
atto dunque termina e si ultima ad un tempo in tutti questi
oggetti. Ora la moltitudine di questi oggelti non ha alcun su-
bietlo in Dio, che il loro subietlo -- dialettico -- è nelle cose stesse
sussistenti , ma è una moltitudine d'un altro puramente cono-
sciuta. La moltitudine d'un altro conosciuta, non è moltitudine
del conoscente o dell'atto conoscitivo , perchè il conoscente o
l'alto conoscitivo è un altro subietto, non il subietto della mol-
titudine conosciuta. I molti conosciuti dunque, che si dicono og-
• getti come oggetti , non hanno moltitudine in sé , essendo un
altro il subietto della moltitudine , ma sono sempre uno , l'es-
senza divina conoscente molli. Altro è dunque i molli, altro la
conoscenza de' molli ; questa conoscenza non è molti , e benché
ella si concepisca come molli cogniti, molli oggetti cogtiiti, queste
espressioni non indicano veramente molti oggetti nella mente ,
ma indicano molti fuori della mente cogniti con un unico og-
getto della mente, che dicesi molti oggetti unicamente perché fa
conoscere i molti fuori della mente (1).
Non v'hanno dunque neirintelletto divino molti oggetti, sì un
oggetto solo ; ma v'ha un alto — non diverso dallo slesso intel-
letto, — col quale crea molte cose finite, che hanno un'esistenza
relativa diversa al tutto dalla divina che é assoluta, e che sono
il subietto - dialettico -- della moltitudine, e con questo stesso atto
causa la propria cognizione di esse cose molte, la quale cogni-
zione essendo una , considerala in relazione alle dette molte
cose, si dice da noi molti oggetti , perchè a quelle molte cose
essa identica si riferisce.
606. (Ireando dunque Iddio i molli reali, la moltitudine resta
propria di questi, e in Dio non ce n'è che il conoscimento o atto
conoscitivo che rimane uno , atto , oggetto , essenza divina in-
tesa. Ma questo è cosa molto difficile a ben intendersi dall'uomo,
perchè nell'uomo va la cosa altramente.
Primieramente in Dio l'obietto come puro oggetto - non come
(1) E perciò sapientemente S. Tommaso scrive : Non est autem cantra
simplicitatem divini inlellectus, quod multa intelligat: sed cantra simplici-
tatem ejus esset si per plures species ejus intellectus formaretur. Unde plu-
res idecB sunt in mente divina ut intellectae ab ipso. S. I, XV, ii.
573
persona -- essendo lo stesso subielto intelligente per l'ultimazione
del suo alto, ritiene senìpre l'unità subiettiva. Nell'uomo all'in-
contro la mente, subietto, è diversa dai suo naturale obietto,
e però questo non riceve dalla mente umana l'unità subiettiva:
quindi l'obietto, né pure come puro obietto, non s'identifica mai
col subietto. Di poi rispetto a Dio, come dicevamo, non ci può
essere altra moltiplicilà cbe quella delle cose essenti in sé, come
il Verbo e lo Spirito Santo, e gli enti finiti relativi. Ma questi
avendo un'esistenza relativa non hanno la moltiplicità in Dio,
ma in sé stessi, e però non rimane in Dio altra moltiplicità che
quella delle persone. Poiché in quanto le cose finite e relative
sono in Dio, in tanto altro non sono che l'unico atto inlellet-
livo ad un tempo e creativo che é medesimamente essenza di-
vina ed oggetto unico, come dicevamo. Nell'uomo all'incontro
il puro oggetto , quello con cui conosce lutto , è uno : ma le
realità finite non hanno solo una moltiplicilà in quanto sono in
sé slesse, ma anche come contenute nell'oggetto. E questo ac-
cade, perché l'obietto unico naturale della mente umana ed uno
è vóto di contenuto, essendo l'essere virtuale, non contenente
nulla, se non sé stesso. Deve dunque l'uomo acquistare in ap-
presso, non con un atto solo, ma con molti alti sucessivi , la
cognizione delle cose reali finite all'occasione de' sentimenti e
delle percezioni sensitive, le quali percezioni sensitive sono per
l'uomo ciò che corrisponde, come analogo, alla creazione de' finiti
in Dio. Ma la percezione sensitiva procede dagli enti finiti in sé
essenti che agiscono nel sentimento umano. Ora i reali finiti in
quanto esistono in sé sono moìii, e perciò rimangono nell'uomo
molli percepiti. Dalla moltitudine degli enti finiti in sé essenti,
viene la moltitudine de' percepiti. La cognizione dunque che
l'uomo ha de' reali finiti, procede dai reali finiti in sé essenti, i
quali sono molti, e con molte azioni e impressioni producono
molti sensibili percepiti nel sentimento umano , i quali poi si
conoscono nell'oggetto. La cognizione all'opposto che ha Dio
de' reali finiti procede dall'atto intellettivo creativo, nulla rice-
vendo dai molti reali finiti in sé essenti (1), cui egli conoscendo
(1) Sed niimquid Deus Pater, de quo natum est Verbum de Deo Deus ;
numquid ergo Deus Pater in Illa sapientia quod est ipse sili, alia didicit
574
crea (1) , — non enlm ejus sapientiae aliquìd accessit ex eis;
.ved illis existentibus sicul oportehat , et quando oportcbal, illa
mansit ut erat ("2), — e l'atto creativo è un solo ed è la
stessa essenza divina , e questa stessa e atto insieme ed og-
getto in quant'è ultimatissimo, il qual alto si riferisce ad un
tenopo ai creati che sono molti in sé stessi, senza che la mol-
tiplicità loro passi in Dio come passa nell'uomo. Avendo
dunque l'uomo molti sensihili percepiti , tutti questi trovano la
loro conoscibilità nell'unico oggetto , l'essere virtuale , in cui
l'uomo li vede. E né pure da questo oggetto ricevono alcuna unità
in sé, poiché tale oggetto essendo voto e non pieno non ha in sé
stesso quella realità infinita nella quale si potrebbero vedere i
molti reali finiti nell'unità della loro origine. Quindi i sensibili
percepiti trasportati dalla mente nell'unico oggetto, l'essere ideale,
vengono bensì conosciuti in esso come enti reali, ma la loro rea-
lità rimane oscura , perché non si vede com'essa si trovi nella
realità infinita conoscibile per sé stessa, qual parie dialettica sia di
quella realità infinita. 1 reali finiti dunque non essendo veduti
come reali nel reale conoscibile per sé stesso, ma solo come enti,
la loro realità non è spiegata né resa intelligibile dalla realità infi-
nita, perchè solo contenuta nell'idealità come un'essenza sensibile,
non intelligibile, — giacché anche di quello che non é intelligi-
bile, e di cui s'abbia il sentimento, s'intende l'esistenza nell'es-
sere ideale. — La sola realità del proprio principio intellellivo é in
qualche grado intelligibile per la ragione che a suo lungo diremo.
Rimangono dunque molte essenze reali distinte rispetto alla mente
umana non solo in sé stesse, ma anche nella stessa mente come
contenute nell'obietto ideale. Il conoscimento dunque di molli
reali finiti in sé esistenti é un concetto, che non importa neces-
sariamente una pluralità nell'oggetto intelligibile, con cui i molti
reali finiti in sé essenti si conoscono. Non importa questa pluralità,
per sensuni corporis sui, alia per seipsum ? — Numquid Deus Pater ea ipsa,
quae non per corpus, quod est ci nullum, sed per se ipsum scit, aliunde ab
aliquo didicit, aut nuntiis vel testibus ut ea sciret, indiguit? S, Aug. De
Tr. XV, 13.
(1) Universas autem creaturas suas, et spirituales et corporales, non quia
sunt ideo novit; sed ideo sunt quia novit. S. Aug. De Tr. XV, 13.
(2) Ivi.
57S
quando l'atto del conoscere precede i molti reali finiti, come av-
viene dell'atto del conoscere divino il quale li precede perchè li
crea; ma importa pluralità nell'oggetto intelligibile quando l'alto
del conoscere i detti reali è posteriore ai molti reali finiti, e i
molti reali finiti sono quelli che producono per la loro azione
molti percepiti sensibili, e questi molti percepiti restano tali, cioè
molli nell'oggetto intelligibile, come altrettanti segni de'molti esi-
stenti in sé, perchè quest'oggetto li riceve senza dar loro niente
di reale, senza unificare e riportare questi segni alla loro origine
che è la realità infinita come atto creativo: di che avviene che si
possano e devano conoscere con più atti intellettivi diversi e su-
cessivi, e appariscano come molti oggetti intellettivi.
607. E per vero sebbene l'oggetto intelligibile , col quale si
conoscono dall'uomo i molli reali finiti, sia uno; tuttavia gli og-
getti conosciuti sono molli. Poiché oggetti conosciuti si dicono le
essenze, nelle quali riposa l'intuizione: l'oggetto poi, col quale e
pel quale si conoscono, è bensì conosciuto col primo atto d'in-
tuizione , col quale l'intelletto umano esiste, ma gli altri atti
d' intuizione che succedono in occasione delle percezioni sensi-
bili, e costituiscono le idee delle cose reali, finiscono nelle es-
senze sensibili vedute nell'oggetto primo , nel quale questi atti
posteriori non più riposano, procedendo avanti l'atlenzione verso
i reali (possibili).
Essendo dunque molli gli alti dell'intuizione umana e molti
gli oggetti, ossieno i concelti in cui ella termina, l'uomo non
può sollevarsi, se non mediante una difficilissima speculazione a
considerare, come T intellezione divina sia una, e non abbia bi-
sogno di più oggetti ossia concelli distinti per conoscere i molti
reali sussistenti, ma li conosca distintamente e nelle proprie ra-
gioni, con un solo e medesimo alto creativo, il quale è il solo
e medesimo oggetto conoscibile con cui conosce i molti.
Riprendendo ora dunque le due questioni proposte, avevamo
domandato in prima se la moltitudine delle essenze «ontenute
nell'obietto produce molti oggetti; e si risponde, che quando
nell'oggetto come oggetto — il che importa oggetto interno nella
mente — ci avesse una vera moltitudine di essenze distinte, queste
rappresenterebbero alla mente molli oggetti di seconda intui-
zione, rimanendo unico l'oggetto di prima intuizione che è quello
570
che contiene tulle le essenze reali; e questo è quello che av-
viene nell'uomo, onde la moltiplicilà delle idee o de' concelti.
Ma che non s'avvera che neiroggetlo divino si contengano molle
essenze , ma un'essenza sola , la divina , e questa è l'oggetto
slesso, e tutta la moltiplicilà rimane negli enti relativi, e, come
relativi in sé esistenti, fuori di Dio, de'quah molli relativi, come
relativi, in Dio non c'è che la cognizione avente un oggetto solo
il quale è lo stesso atto creante i molti, atto di cognizione crea-
tiva unico, di cui sono effetto i molti che restano al di fuori,
perchè l'esistenza relativa è altra e fuori dell'assoluta. .
608. Alla seconda questione poi « se la moltiplicilà d'alcuna di
quelle essenze che sono contenute nell'oggetto come puro og-
getto interno della mente, renda moltiphce l'oggetto stesso », si
risponde negativamente. Poiché, come ahhiamo detto, la molli-
plicilà non si può predicare d'altro che d'un subietlo. Ora l'og-
gelto come oggetto non è suhietto; non gli può dunque conve-
nire la moltiplicità. Né gli può convenire tampoco, se si prende
l'oggetto come un suhietto dialettico , poiché la natura dell'o-
bietto, come tale, essendo quella d'essere contenente, il conte-
nente é essenzialmente uno , e se non fosse uno non potrebbe
contenere i molti contenuti. Onde all'oggetto, cioè al contenente,
preso come subietto dialettico conviene senìpre la semplicità, ma
in nessun modo la moUiplicilà. Ogni oggetto dunque è essen-
zialmente semplice, qualunque sia il suo contenuto, e la moUi-
plicilà non può che essere predicato di qualche essenza reale e
subiettiva in esso contenuta.
Questo vale per l'oggetto, in quanto si considera come puro
oggetto; ma se si considera l'oggetto umano nelle sue relazioni
col contenuto, poiché abbiam veduto che egli si moltiplica per
mezzo di quesle e diviene più oggetti , e ciò prendendolo come
subietlo dialettico, riceve anche la qualità di molliplice.
Si dislingua dunque nell'uomo due maniere d'oggetti , l'og-
getto di prima e l'oggetto di seconda intuizione. L'oggetto di
prima intuizione è quello che informa rintelletto umano e in cui
si porta il primo allo intuitivo, col qual oggetto si conoscono poi
tulli i percepiti sensibili , e le astrazioni e relazioni di questi.
D'un tale oggetto si dee negare ogni moltiplicità. L'altro oggetto
è la stessa essenza reale, che, in quant'ò contenuta neiroggetlo,
b77
e però è solo possibile, s'intuisce colle successive intuizioni: esso
è l'essenza reale conosciuta e resa conoscibile dall'oggetto. Que-
st'oggetto , ossia questo cognito può essere molliplice , perchè
l'essenza reale intuita in esso può esser moltiplice. In fatti ab-
biamo detto che di questi generi d'oggetti ce ne sono moltij come
molti sono i sensibili cogniti, e tutti quegli astratti che da essi
si deducono. Questi molti possono aver un ordine tra loro , e
quindi divenire un oggetto solo organato, il quale è, in questo
senso, moltiplice. Tali sono quelle idee, le cui parli rimangono
distinte in esse come altrettante idee. Così l'idea dell'universo
può contenere tutti gli enti dell'universo legati tra loro in un
solo tutto ; e tale oggetto o idea per questo appunto sarebbe
moltiplice d'una moltiplicità partecipata dall'essenza reale molti-
plice che contiene e rende cognita.
Articolo VII.
Della semplicità e della composizione dialettica.
609. Il dialettico^ come l'abbiam definito , è ciò che finge o
suppone la mente nelle sue operazioni, e che non è tale in sé
stesso, cioè prescindendo dall'operazione della mente.
Il dialettico si dislingue dal dianoetico in questo, che il dia-
noetico è ciò che produce la mente nelle cose in sé essenti, per
modo che la mente concorre colle sue operazioni a fare che la
cosa sia tale in sé stessa, com'è: onde il dianoetico non é il pro-
dotto non essente d'una finzione, ma il prodotto vero d'una cau-
sazione, laddove il diaìeltico è il prodotto d'una mera finzione o
supposizione mentale.
Questa cosa finta o supposta dalla mente, per bisogno di pro-
cedere ad altre sue operazioni, è moltiplice, e suol essere per
lo pili solo un elemento dell'operazione. E veramente un elemento
dialettico sì mescola in tutto il pensare umano, eccetto che nel
pensare assoluto , il quale è appunto quello che fu purgato da
ogni elemento dialettico {Logic. 36-42).
Ma perchè appunto qualche elemento dialettico si mescola da
per tutto, per questo riuscirebbe lungo, e difficile, il raccoglierne
Rosmini. Teosofia. 37
578
tutte le sue apparizioni e diverse forme; e lasciando ad altri questa
ricerca, a noi basti di parlarne quel tanto che è richiesto dal bisogno
del nostro discorso, e anziché farne un trattalo tutt'unito — il
che sarebbe pure utilissimo — parlarne qua e colà all'occasione.
Abbiamo distinto di sopra ciò che è dialettico da ciò che è
oggettivo, e detto che il semplice e il composto dialettico è quello
che si predica d'un reale, il quale non è subietto compiuto e
alto ad avere un'esistenza propria, e che lullavia è preso e sup-
posto dalla mente come fosse un vero e compiuto subiello. Que-
sto non è a dir vero che una sola classe di subietli dialettici
{Logic. 422, 423), giacché anche l'oggetto, il nulla, e ogni re-
lazione si può rivestire della forma dialettica di subietto.
Ma noi dobbiamo considerare che nella predicazione del sem-
plice e del composto può esser dialettico il subiello, ma può an-
che in quella vece esser dialettico, cioè fìnto dalla mente , il
predicato di composto ; ovvero esser dialettico tanto il subiello
quanto il predicato.
Se io dico , a ragion d'esempio , che la facoltà di volere è
moltiplice perchè ha la funzione del volere semplicemente e
quella dello scegliere , io ho finto dialetticamente il subiello ,
perchè la facoltà di volere è bensì un reale, ma non tale che
costituisca un subietto perfetto in sé esistente. Ma il predicato
di moltiplice è reale e non dialettico.
Se all'incontro io distinguo molte proprietà o attributi in Dio
e così gli do una moUiplicità, questa moltiplicità non è che un
predicalo dialettico cioè finto dalla mente , laddove il subietto
è reale. In falli non c'è punto in Dio quella moltiplicità.
Se io dico , che la nazione ordinata a stato è una e sem-
plice, io ho dialetticamente finto tanto il subietto quanto il pre-
dicato, perchè la nazione non è un subietto sussistente se non
per la mente, che come tale il considera, e realmente questo su-
bietto dialettico è moltiplice perchè composto di molli subietli
reali , onde anche il predicato di semplice è solo dialettico.
La nazione è una e semplice come oggetto della mente :
laonde il subietto che fingo in questo caso è di quella specie,
di cui abbiamo innanzi parlalo, la cui natura sta in questo, nel
prendere l'oggetto nella sua unità oggettiva e fingere che que-
st'uno sia subiello.
579
Articolo Vili.
D3I Composto dianoetico.
610, Ma da queste tre classi di semplice e di composto dialet-
tico, in cui 1." 0 il stibietto, 2.° 0 il predicato di semplice e di
composto, 3.° 0 l'un e l'altro è un'entità dialettica, è da distin-
guersi il composto dianoetico, che è il composto oggettivo rea-
lizzato, nel quale composto dianoetico c'è una composizione non
finta dalla mente , ma dalla mente prodotta nelle cose reali.
Così un ente reale che in sé esiste, e che può essere un vero
e perfetto subietto, vedesi composto di un elemento generico, e
d'uno specifico , e questo sostanziale 0 accidentale ; di un ele-
mento indeterminato che resta uguale (materia), e di una de-
terminazione che si muta (forma); di un elemento potenziale
(potenza), e di un elemento attuale (atto).
Ciascuno di questi elementi è un reale distinto dall'altro, ma
la loro distinzione proviene unicamente dalla relazione di pro-
cedenza che l'ente reale finito ha coH'ente obiettivo. In fatti nel-
l'ente reale in sé esistente questi elementi sono così uniti che
formano un ente solo, e non si possono separare in modo che
sussistano in sé separati. Onde dunque la loro distinzione che
li rende molti e quindi l'ente molteplice? Unicamente da questo
che essi sono nell'oggetto, dove l'una cosa si può separare dal-
l'altra pensandola a parte, come un oggetto diverso, cioè un'es-
senza di natura diversa. La separazione dunque che hanno nel-
l'oggetto ossia nel loro tipo — potendosi l'essenza ch'egli contiene
scomporre in più essenze al lutto diverse — si dice ne' reali,
come realizzazioni di tali tipi, distinzione reale.
Ora dicevamo che la distinzione reale non è finta dalla mente
pel semplice bisogno di ragionare , ossia dialettica , ma che è
vera, e dianoetica, il che apparisce dalla chiara nozione di ciò
che noi chiamiamo l'elemento dianoetico de' reali. Abbiamo ve-
duto che questo consiste nella condizione necessaria, che hanno
gli enti reali per esistere, d'avere una intima unione col loro
concetto tipico. Questa necessità consiste in questo , che tutti
gli enti reali di cui parliamo sono enti reali conosciuti; perocché
S80
se non fossero conosciuti non sarebbero. In fatti, rimossa da
loro ogni conoscibililà, che cosa rimarrebbero essi? Un assurdo,
un che non pensabile. .Ma il non pensabile è il non possibile
(Ideol. 395, 424, 1070); e il non possibile è ciò che non può
esistere. È dunque necessario alFente finito d'esser pensabile,
acciocché sussista. Ma se gli è essenziale V esser pensabile, dun-
que gli è necessario anche Vesser pensato. Poiché se non fosse
pensato da qualche mente, egli non sarebbe né pure pensabile
E in fatti ad esser pensabile basta che ci sia una qualche mente
in potenza. Ma tutte le menti non possono essere in potenza.
Poiché se tutte le menti fossero in potenza e nessuna in alto,
esse non potrebbero mai passare dalla potenza all'atto, e quindi
non potrebbero mai pensare l'ente finito. Se nessuna mente
potesse pensarlo, egli non sarebbe dunque pensabile. È dun-
que necessario ammettere anteriormente alle menti in potenza
una mente attualissima. Ma se c'è una mente attualissima,
questa penserebbe l'ente finito. L'ente finito dunque non esiste ,
se non è da qualche mente pensato. La condizione dunque d'es-
ser pensalo, necessaria alla sussistenza dell'ente finito in sé, é
l'elemento suo dianoetico, non finto dalla mente, ma inchiuso
nella sua esistenza. Non solo dunque l'uomo parla sempre e
ragiona degli enti reali in quanto sono da lui pensati, ma al-
l'ente stesso reale è essenziale l'esser pensato: quest' é un suo
primo costitutivo , quello che abbiam detto essergli dato dal-
l'essere oggettivo, l'oggellivilà (/+99-501 ; 521, 522*).
Gli. Posto dunque che l'ente reale non è tale se non pensato,
cioè essente nell'oggetto, di lui si predica quello che si vede nel-
l'oggetto che lo rende inteso. Ma nell'oggetto c'è la separazione
di più essenze: dunque si dice che nell'ente reale c'è una di-
slinzione reale di tali essenze, benché nella realità stessa queste
essenze sieno una cosa sola, costituendo un solo ente.
La composiziono dianoetica dunque è quella che si trova
nell'enee reale a cagion ch'egli è essenzialmente nell'oggetto.
Essendo adunque il medesimo e identico ente nell'oggetto -- per-
chè dicesi pensalo per questo che è nell'oggetto, — e fuori del-
l'oggetto, e vedendosi composto in quant'è nell'oggetto, e non
composto di questa composizione in quant'è fuori dell'oggetto;
dicesi che in quant'è fuori dell'oggetto non ha questa specie di
\
581
moltiplicilà ma che è uno, e dicesi pure che egli stesso, per la
sua identità, ha una molliplicità dianoetica , perchè non si può
separare dal suo oggetto, dalia congiunzione col quale la riceve;
e però questi elementi nell'oggetto separati, e nella sua realiz-
zazione unificati, si dicono in questa non separati, ma realmenle
distinti.
Solamente è qui da aggiungersi una considerazione impor-
tante. Quello che abbiamo dello, che gli elementi dianoetici non
si trovano divisi nell'ente reale, unicamente come reale, va in-
teso degli elementi degli enti non personali, che sono subielli
incompleti. Negli enti personali poi è da considerare, che v'ha
un elemento che veramente e realmente si separa dal resto, si
separa, dico, in sé slesso, e a sé stesso , e questo é lo slesso
principio personale subietto completo. Ma il resto che é con-
giunto al principio personale non si separa , ma fa una cosa
con esso.
Vi ha dunque una separazione reale d'un elemento dall'altro,
ma non reciproca dell'altro dal primo. Questa separazione rela-
tiva è reale insieme e dianoetica: poiché l'essere il principio
personale a se stesso, separato e diviso dal resto, è quello che
lo coslituisce, e perciò è reale; ma è anche dianoetica , perchè
lo stesso principio personale é costituito dalla mente e dalla co-
scienza propria; e queste dall'intuizione dell'oggetto.
Articolo IX.
Del semplice e del composto ne' ideali.
612. Ora venendo noi a parlare del semplice e del composto
ne' reali, non c'è possibile, o almeno non troviamo utile, di se-
parare interamente questo discorso dagli altri generi di composto
e di semplice, di cui sin qui abbiamo parlalo, che furono l'og-
gettivo, il dialettico, e il dianoetico ; perchè questi s' intromettono
di novo in tutti i discorsi che noi facciamo degli enti reali ; e
il separameli sistematicamente renderebbe sommamente astratto
e difficile il discorso. Ci basterà dunque d'indicarli , quando in-
tervengono ; e questo stesso gioverà ad illustrarli maggiormente.
582
Gli enti reali non sono sempre subieUi completi: non sono
tali gli estrasoggeltivi , né gli enti-termine; e però s'intenda una
volta per sempre che ogni qual volta noi parliamo degli enti
che non sono persone , come fossero de' veri e completi subietti ,
c'entra sempre nel discorso un elemento dialettico : colla quale
avvertenza s'eviterà ogni equivocazione.
Lasciando dunque questo^ e parlando di tutti gli enti reali ,
conviene distribuirli in due classi.
613. Alcuni sono costituiti enti dal nesso che congiunge diverse
entità — sieno essenze dianoetiche o tali che anche separate pos-
sano sussistere, — e allora in questo nesso giace la natura del-
l'ente, come pure la natura dell'uno. Le slesse entità, che ven-
gono congiunte insieme da quel nesso o principio, per sé non
costituiscono l'ente, ma sono condizione dell'ente; che non ci
potrebbe essere il nesso se non ci fossero le entità da connettersi.
11 nesso dunque, e però l' ente, ha una relazione essenziale con
esse.
Dalla considerazione di questa classe di enti trasse l'origine
quella distinzione antichissima della forma e della materia. Il
nesso reale , la virtù uniente , o il principio è la forma dcl-
enle, quella che costituisce formalmente l'ente, e a cui si rife-
risce il nome che gli s'impone {Psicol. 735-822). All'incontro le
entità connesse insieme da quella virtù uniente non costituiscono
per sé stesse quell'ente, ma ne sono parte integrante e condi-
zione necessaria , e si possono considerare, da sé prese, come
un rudimento e una predisposizione alla costituzione di quell'ente,
e una specie di potenzialità di quell'ente, in quanto che esse
sono alte a ricevere quella connessione nella quale sta l'atto
dell'ente.
Questa virtù reale e unitiva, che costituisce il subietto — com-
pleto 0 incompleto — e l'ente stesso subiettivamente, é di tal na-
tura che non può esistere se non in quelle entità che congiunge,
e però ha un'esistenza dipendente da altro, cioè da quelle en-
tità che non sono lui , e che però si chiamano anche la sua
materia (1).
(1) La parola greca ^U cioè selva, che si prende a significar materia, lia
seco il concetto d'una moltitudine non ridotta ad unità. E lo stesso viene a
b83
Ora a questa classe di enti reali compete Vunità, comune ad
ogni altro ente, ma non così la per fé ita semplicità, atteso che
quella virtù unitiva dipendendo da altro, non può stare da sé
sola , e però quell'ente non può stare da sé solo , ma è obli-
gato di slare colle entità che congiunge e unifica. Benché dun-
que l'ente sia sempre uno, tuttavia quell'ente non dicesi del tutto
semplice, ma sotto questo riguardo composto.
E qui pure si vede non esserci vera contraddizione nell'altri-
buire all'ente da una parte Vunità e dall'altra la moltiplicità
della composizione; perocché l'unità, si attribuisce alla virtù unienle
che è Vatto dell'ente, e la moltiplicità si attribuisce alle entità
che si uniscono, nelle quali non islà l'atto dell'ente, ma sono
condizioni inseparabili. Non si afferma dunque e si nega simul-
taneamente la stessa cosa dello stesso subielto sotto lo stesso
aspetto. Veniamo alla seconda classe di enti.
614, Questa é la classe di quegli enti ne'quali l'alto dell'ente —
il subietlo — non giace nell'unione di più entità, ma finisce in sé
medesimo; e però s'esclude da tali enti ogni moltiplicità di com-
posizione. A questi enti non appartiene solamente il predicato
comune deWunità j ma ancor quello della semplicità.
E qui da osservare, acciocché non nascano equivoci, che i
vocaboli materia e forma furono presi , come tulli gli altri del-
l'Ontologia antica, dall'osservazione de'corpi. Poiché i nomi so-
stantivi spesse volte si applicano a' corpi in quanto hanno una
data forma , come una statua , un vaso , un tridente , un anello
e simili. Questi nomi esprimono il pensiero che considera come
ente la forma, e la materia che soggiace a questa forma come
una condizione essenziale , ma non come l'ente nominato: l'atto
pel quale questo ente é -- il subietto - giace nella forma, che è
il nesso che unisce in quella data unità le entità molteplici. Que-
sto nesso , cioè questa forma , che si esprime con un nome so-
stantivo, ha un atto suo, che la mente considera come l'atto
costitutivo di quell'ente speciale; ma poiché quest'atto non è che
un alto unitivo d'altre entità — benché sia un atto reale, — perciò
significare la parola t« aTotxsta usata pure a significare la materia, e non solo
la materia corporea, ma anche la spirituale e ideale, come si può vedere in
Aristotele, Metaph. 1, 6. Cf. Trendelenburg In Arist. De An. I, 2, 7.
584
egli suppone davanti a sé essenzialmente degli altri atti entitativi,
come nel caso nostro l'alio pel quale sussistono gli elementi cor-
porei , che compongono la statua , o alcun'altra delle cose no-
minate.
E allorquando l'atto entitalivo del nesso è sorretto da questi
alti precedenti, entitativi anch'essi, allora l'atto del nesso — nel
caso nostro la forma — viene chiamato più propriamente forma
sostanziale, che non sia sostaìiza.
Ma su questa origine della parola forma e materia conviene
che noi facciamo qualche altra osservazione.
61 S. 1." In virtù del parlar formale e dialettico, la mente consi-
dera come ente tutto ciò che vuole, anche quello che non è ente
in sé, che non è un subielto reale. Laonde non c'è cosa alcuna
per accidentale che sia o imaginaria e fin anche assurda, che non
possa prendersi come il subietto di una proposizione , per esem-
pio : « il rosso è un colore, il nulla è l'esclusione dell'ente, il
contradiltorio non può pensarsi, ecc. « ; delle quali proposizioni
il rosso, il nulla, il contradiltorio sono subietli. Ora il subielto
è sempre considerato come assolutamente ente. Ma conviene os-
servare, se l'ente, che forma il subielto del discorso, sia puramente
dialettico , ovvero se sia ente in sé , con indipendenza dal modo
di concepirlo.
Degli enti dialettici poi ce ne sono di molle sorli; onde con-
vien vedere di qual sorte sia quello di cui si parla. Così gli stessi
nomi sostantivi, che s'impongono ai corpi per una forma data loro,
esprimono enti, che, non a torlo, si possono dire dialettici, non
perchè la cosa che si esprime sia puramente relativa alla mente,
che la forma è una vera determinazione della materia , ma per-
chè è la mente quella che considera quella forma, in cui termina
quella materia, come l'atto subiettivo dell'ente che nomina, e ciò
per certi bisogni che ha l'uomo di così fare.
Ora molle cose sono vere dell'ente dialettico , che non sono
vere dell'ente quale é, prescindendo dal modo del concepire
umano, e di questo sono vere le contrarie. Il che apre un
altro fonte di antinomie, le quali si conciliano colla distin-
zione tra l'ente assunto come tale dialetticamente, e l'ente qual è,
prescindendo da questo modo dialettico di concepirlo. E veramente
se si proponesse la questione : « se la statua sia un ente , » si
b8S
potrebbe sostenere il prò e il centra senza mai intendersi, poiché
si potrà provare che è un ente mostrando che si nomina con un
nome sostantivo, e che è diverso, non per qualche accidente ma
del tutto, da ogni altro ente; ma chi vorrà negarlo, dirà che la
sola materia è l'ente , perchè è l'atto primo che fa sussistere la
statua, e che l'una piuttosto che l'altra forma è alla materia ac-
cidentale. Di questo genere erano le argomentazioni de' sofisti , i
quali promettevano di difendere il prò e il centra di ogni cosa.
Ma il sofisma è sciolto in questo modo : « Se si prende tanto la
statua, cioè la forma , quanto la materia come un subietto dia-
lettico , le due proposizioni conlradittorie sono vere , perchè
non fanno che permutare il subietto, dicendo l'una : « la statua è
un ente », e l'altra « la materia che compone la statua è un
ente « : qui non c'è contradizione. Ma se poi si domanda se que-
sti sono ducenti, conviene rispondere di no ; poiché la statua
cioè la forma è un ente che suppone come sua condizione per esser
tale una materia ; e la materia è un ente che suppone una forma
cioè de' limiti che la determinino come sua condizione per esser
tale. Sono dunque due modi dialettici di concepire il medesimo
ente, nel primo de' quali entra necessariamente una materia
qualunque , ma che la materia sia questa o quella, piuttosto legno
che pietra 0 metallo, è accidentale ; nel secondo entra necessa-
riamente una forma qualunque , ma che la forma sia piuttosto
quella che questa, di statua piuttosto che di cubo o d'altra fi-
gura , è accidentale. Ma qual è dunque il vero ente , ossia il vero
subielto reale nella statua inanimata ? Abbiamo già veduto , che
gli enti-termine sono tutti subietti per supposizione {Logic. h'5U).
Ora ciò che la mente suppone come subietto reale è la materia
definita dalla forma: appartenendola materia aWa realità che
costituisce sempre V ente finito.
616. 2.° Il modo dunque dialettico, col quale la mente conce-
pisce, cangia una limitazione, un'accidente qualunque, come è la
forma d'estensione rispetto alla materia corporea , in un ente,
quando pur non è tale, o almeno prende una tale limitazione per
la base dell'ente, per l'atto costitutivo e specifico di lui, come
quando si definisce la statua come un ente; e ciò perchè l'uomo
dà grande importanza alla forma d'estensione della statua per
le relazioni che vi annette col suo pensiero , le dà più impor-
886
tanza che alla materia. Gli antichi non meditarono abbastanza
su questa maniera dialettica di concepire , per la quale l'uomo
s'allontana dalla natura propria dell'ente, ed anzi Aristotele
trasse tutta la sua Logica dal concepire dialettico, prendendolo
spessissimo per un fedele rappresentante degli enti ; il che obligò
poi gli Scolastici ad entrare nel ginepraio d' innumerevoli sotti-
gliezze e distinzioni per ispacciarsi dalle obiezioni che prove-
nivano dalla natura degli enti quali sono in sé.
Prendendo dunque la forma e la materia de' corpi nel detto
modo dialettico e considerando la forma, che in sé non é che
una limitazione accidentale, come base che costituisce gli enti
corporei nelle loro specie, si applicarono quelle due parole, per
una estensione di significato , ai due elementi che si possono
distinguere negli enti finiti, cioè ùWelemento potenziale e aWele-
mento attuale.. Vale a dire, si osservò che l'ente finito ha in sé
stesso un ordine di generazione. L'ordine di generazione che si
osserva nell' ente finito è questo : « Data un' entità qualunque
pensabile dalla mente, un'entità o semplice o moltiplice, si può
pensare che questa entità acquisti qualche novo atto che ferma
l'attenzione dell'uomo per l'importanza che ha per lui, in qua-
lunque sia maniera l' acquisti , e quell'entità con questo novo
atto si può considerare, dialetticamente, per un altro ente. Ciò
fatto si dice, che l'atto acquistato é la forma di questo ente, e
che l'entità pensata precedentemente all'acquisto di quest'atto è la
materia di quest'ente », generalizzandosi, appunto come dicevamo,
quello che accade ne' corpi. Così precedentemente alla forma
della statua si pensa la materia, come l'elemento potenziale della
statua, cioè come quell'entità che può ricevere questa forma:
la forma poi della statua è Velemenlo attuale , è il novo atto
che si aggiunge alla materia, e che si prende per base del novo
ente, come l'atto entitativo, per certe relazioni interessanti,
come dicevamo, che vi aggiunge la mente.
Quindi, tutto ciò che in un dato ente si può pensare prima
di questo ultimo atto , costitutivo del novo ente , e come in
potenza a riceverlo, fu chiamato materia: Vallo stesso poi fu
chiamato forma.
Queste due parole dunque di materia e di forma furono ado-
perate non solo nell'ordine delle sostanze, ma anche nell'ordine
887
degli accidenti: e nell'ordine logico, come quando si distingue la
materia e la forma delle proposizioni : e nell'ordine grammati-
cale, come quando si considerano le sillabe come materia del
vocabolo 0 le voci come materia della costruzione: e nell'or-
dine morale, come quando si distingue il peccato materiale dal
formale ; e in qualunque altro ordine di cose di cui l'uomo ra-
gioni. Il che mostra come questa distinzione si estenda tanto,
quanto il pensar dialettico, sia dialettico puro , o dialettico e ad
un tempo conforme alla natura degli enti in sé.
Sovente però accade che gli antichi e gli Scolastici stessi ri-
pugnino a dare questa estensione di significato alla parola ma-
teria, e S. Tommaso dice espressamente che questa parola si ap-
plica impropriamente alle nature intellettuali, e impropriamente
si estende a lutto ciò che è in potenza in qualunque modo, cioè
che abbia una potenzialità qualunque, e che il significato pro-
prio di materia è « ciò che è in pura potenza » cioè senza al-
cun atto; e però nega che le dette nature intellettuali sieno
composte di materia e di forma , benché abbiano qualche po-
tenza, ma accorda che sieno così composte qualora si dia alla
parola materia il senso più esteso (1). Sono così comode quelle
due parole e così comuni nell' uso a distinguere l'elemento po-
tenziale e T'attuale dell'ente, che, a malgrado di tale osser-
vazione, gli stessi Scolastici le usano spesso nel significato più
esteso che abbiamo accennato.
617. Intanto da tutto quello che abbiamo detto apparisce:
ì.° Che in molti enti convien distinguere la base dell'ente
dalle appendici che compiono l'ente.
2.° Che la base dell'ente — a cui si riferisce il nome sostan-
tivo, col quale l'ente si denomina — è sempre una e semplice, e
le appendici possono essere moltiplici.
3.° Che la distinzione de'due elementi, di cui si compongono
tali enti, cioè la base e le appendici, ha luogo tanto negli enti
(1) Si materia dicatur oinne illud quod est in potentia quocumque modo,
et forma dicatur omnis actus, necesse est ponere, quod anima humana et
quoelibet substantia ciccata sit composita ex materia et forma. — Si vero
materia proprie accipiatur prò ilio quod est potentia tantum, sic impossi-
bile est quod anima humana sit composita ex materia et forma. Quod).
Ili, XX.
588
che sono o possono essere reali, o si suppongono reali, quanto
ne'puramente dialettici.
Articolo X.
Continuazione. — Dottrina della base e delle appendici degli enti.
GIS. A questo si deve aggiungere, che la relazione tra la base
dell'ente e le sue appendici è di molte sorti tanto negli enti
puramente dialettici quanto ne'reali — sieno tali in atto o in po-
tenza, 0 supposti tali. — Quindi si apre il campo ad una ricerca
ontologica di grande importanza, qual'è quella di determinare
le varie sorli di relazione che possono averci tra la base del-
l'ente e le sue appendici, e ciò non meno nell'ordine degli enti
reali che nell'ordine degli enti dialettici. Ma poiché la distin-
zione tra la base e le appendici dell'ente non può cadere che
in enti finiti, come a suo luogo meglio vedremo, perciò la ri-
cerca appartiene propriamente alla Cosmologia, che è la scienza
dell'ente finito. Tuttavia è impossibile dare la dottrina dell'infinito
senza quella del finito, dal quale la mente umana è obbligala
a incominciare quando vuol determinare l'essere che non in-
tuisce se non in uno stato d'indeterminazione, e così pure è im-
possibile dare la dottrina dell'ente in universale, che è propria-
mente l'Ontologia, se non si prende dagU enti finiti le mosse.
Perciò noi non possiamo qui trascurare del lutto questa ricerca,
e parlando del concetto di semplicità ci è uopo ricorrervi.
Diciamo dunque intanto che la relazione tra la base dell'ente e
le sue appendici primieramente è di due sorli.
619. 1. Ci hanno degli enti ne' quali tolta via la base è bensì
tolto via l'ente, ma non ogni ente, che le entità, che venivano
unificate dal nesso, rimangono enti diversi dall'ente di prima,
che era costituito dal detto nesso come da sua base.
Questo avviene ogni qualvolta col perdersi la base dell'ente, che
è l'atto che lo costituisce e a cui si riferisce il nome sostantivo,
rimane un'altra base che per essere diversa costituisce un'altro
ente diverso dal primo.
Ora quest'altra base, che rimane dopo distrutta la base superiore
589
da cui l'ente si denominava , è di varie maniere : talora rimane
una base sola , talora rimangono più basi : nel primo caso rimane
un'ente solo, nel secondo più enti : talora la base che rimane
prima esisteva solo in potenza, e colla distruzione della base sopra-
posta ella passa all'atto, e costituisce immediatamente un altro
ente : talora finalmente la base sottoposta era in alto anch'essa, ma
relativamente alla base supcriore dell'ente teneva il grado di sem-
plice appendice. Classifichiamo dunque questa composizione inlima
dell'ente nel modo seguente.
620. A. Enti ne'quali, distrutta la base e con essa l'ente speci-
ficato dalla medesima, si formano incontanente altre basi, e quindi
altri enti che non esistevano prima.
1.° Questo accade in quelli enti che si considerano composti di
sola materia corporea e hanno per loro base o atto costitutivo la
forma ohe tiene insieme questa materia (l).
Poiché, tolta alla materia la sua forma, subito se ne discopre
un'altra, e questa serve di base al novo ente. Così se alla sta-
tua si toglie la sua forma di statua, ella prenderà altre forme,
e la stessa materia sotto altre forme si considererà come un
complesso d'altri enti , se si ridusse in più pezzi , o come un
ente solo, se non si spezzò, ma le si diede solo altra forma,
come una statua di cera ridotta alla forma di sfera.
2.° Accade lo stesso in quegli enti che si compongono di
principi sensitivi e di termini estesi. Noi supponiamo che la
materia non si separi mai da tutti i principi sensitivi. Atte-
nendoci dunque a questa teoria esposta nella Psicologia diciamo,
che qualora muore un animale, per distruzione dell'organismo,
(i) Suppongo qui che la materia sia tenuta insieme dalla forma , non
perchè la forma sia quella che la tiene realmente , ma perchè dialettica-
mente si considera come base dell'ente, e si nomina statua, o vaso, o altro
significante forma. Quando poi si dovesse considerare per base dell'ente
ciò che realmente tiene unita la materia, e che si può chiamar forza, si
avrebbe una base incognita, ed è la base dell'ente materiale, quando questo
si considera con un concetto negativo, o indeterminato^ come « una forza
diffusa nell'estensione ». Che se con una ricerca cosmologica ed ontologica
si vuol determinare e rendere positivo il concetto di forza, s'arriverà, se-
condo noi , a principi sensitivi , di cui la materia sia termine , come fu
esposto nella Psicologia, e allora vale quello che diciamo al n.» 2.o
S90
la materia o ritiene delle organizzazioni parziali che danno
luogo ad altri enti animali , o rimane del tutto disorganizzata,
e gli elementi non cessano perciò di essere termini estesi di
principi elementari che sentono. Alla distruzione dunque d'un
animale perisce la hase dell'ente e l'ente slesso, e perde il suo
nome, ma succedono altre basi e altri enti, cioè altri princìpi
sensitivi, che, rimanendo separati a cagione che separali sono i
loro termini, s'individuano, e così si costituiscono in altri enti
diversi da quello che era prima, e che è perito. ♦
621. B. Enti ne' quali la base dell'ente separata dalle sue ap-
pendici rimane sussistente, e le appendici slesse separate conser-
vano una loro propria base che prima esisteva , ma non era
considerata come base, ma come appendice della base superiore.
Che certe basi sussistano anche separate da certe loro ap-
pendici che prima costituivano parie della loro materia, si vede
negli enti composti d'anima intellettiva e di corpo animato ,
come nell'uomo, e ciò perchè la base , cioè il principio intel-
lettivo perfettamente semplice , ha un atto compiuto suo pro-
prio indipendente dalle dette sue appendici, e però è indistrut-
tibile ancor che perda le dette appendici. Ciò che costituisce
l'ente in tal caso rimane identico , e però rimane identico
l'ente reale, benché abbia perduto certa attività che gli da-
vano le dette sue appendici. Tuttavia quando la detta base
ha tutte le sue appendici, riceve un nome sostantivo, che nel
caso nostro è quello di uomo. Questo nome è diverso da quel
nome sostantivo pure che riceve la base separata , che nel no-
stro caso è quello d'anima intellettiva. Questi due nomi sostan-
tivi esprimono, solo dialetticamente, due enti; ma realmente la
parola uomo esprime lo stesso ente che viene espresso dalla pa-
rola anima intellettiva, esprimendo i due vocaboli la stessa base
dell'ente, ma uno de'due vocaboli esprime la base con maggiori
appendici che non faccia l'altro.
Quando dunque si dice uomo, l'ente si ripone dalla mente nel
composto della base colle appendici , e di conscguente si dice
distrutta questa sostanza, o quest'ente, perchè è distrutto questo
composto. Ma la sostanza così considerata, cioè riposta nel nesso
che passa tra un atto che sta da sé, e che sussiste anche solo,
e alcune appendici di quest'alto, risulta da due parli, una delle
591
quali è principale e non solo è base di ente, ma anche è base
d'una tale sostanza composta , e questa base principale riceve
a un certo titolo il nome di persona. Onde anche distrutta e
scomposta questa sostanza, rimane la joersona identica, che è so-
stanza semplice.
Quanto poi alle appendici di cui parliamo , cioè al corpo
animato , non è certo impossibile il pensare, che dalla potenza
divina possa esser da lui divisa l'anima intellettiva ed egli tut-
tavia rimanersi nella qualità d'animale , rimanendo il principio
animale, che prima esisteva come appendice, siccome base del
novo ente, cioè del puro animale che rimarrebbe. Ma non cre-
diamo che questo possa avvenire se non per miracolo , attese
le considerazioni da noi fatte nella Psicologia su questo argo-
mento (672-680). Basta nondimeno la possibilità assoluta di
questo per dover assegnare a quest'ente possibile un posto nella
presente classificazione degli enti secondo i diversi modi della
loro scomposizione, o separazione dalle appendici.
Del resto dobbiam notare, che quando avvenisse questo mira-
colo di scomposizione, pel quale rimanesse da una parte l'anima
intellettiva e dall'altra il corpo coll'organizzazione intatta e col-
l'animazione , si direbbe ancora con tutta verità e proprietà,
l'uomo esser morto secondo il giusto concetto della morte del-
l'uomo da noi esposto {Psicolog. 670-700) ; e con egual verità
si direbbe esser morto il corpo come corpo umano , poiché ri-
marrebbe privo della vita umana, benché gli rimanesse la vita
animale non più umana.
622. II. Vi hanno degli altri enti ne' quali alla base, cioè all'atto
costitutivo dell'ente , sono così intimamente congiunte le sue
appendici che annullata la base non restano più le appendici ,
ma queste stesse sono annullate. E questi enti si possono sud-
dividere nel modo seguente, prendendo per principio della clas-
sificazione la relazione d' intimità tra la base e le appendici.
A. In quelli ne' quali tra la base e le appendici passa
un vincolo così stretto che non solo, tolta la base, non rimane
più nulla delle appendici, ma le appendici stesse sono contenute
implicitamente nella base, e quindi il rimoverle del tutto è un
rimovere la base, e questi sono enti semplici come dicevamo.
— Si avverta che anche negli enti del numero F la base di-
K92
pende dalle appendici, come la forma della slalua dalla materia;
ma negli enti di cui qui parliamo la dipendenza o condizione
d'esistere è reciproca, perchè non solo le appendici sono neces-
sarie alla base, ma la base è necessaria alle appendici, accioc-
ché rimangano in qualunque sia modo. Così l'anima umana, che
è il principio razionale, ha per sue appendici le diverse potenze,
ma queste essendo implicitamente contenute in esso sono an-
nullate con esso , e se si supponessero annullate le potenze ,
anche il principio razionale non si potrebbe piij concepire , sa-
rebbe dunque annullato.
B. In quelli ne' quali, tolta la base, sono tolte le appendici,
ma pure alcune di queste potrebbero cessare senza che perisse la
base e di conseguente, senza che si annullasse l'ente. Questa re-
lazione tra la base e le appendici è quella che si esprime coi vo-
caboli di sostanza e di accidentej indicandosi col nome di sostanza
l'atto 0 sia la base da cui l'ente si denomina, e per accidenti le ap-
pendici che possono variare rimanendo l'ente identico.
Questo ha luogo tanto in certi enti che sono puramente dialet-
tici, quanto in enti reali. Negli enti dialettici accade questo, a
ragion d'esempio, quando si prende per base un concetto astratto
che si considera dialetticamente come sostanza e per appendici le
sue determinazioni che si considerano come accidenti. Così se si
parla d'una statua in genere, ciò che si contiene nella definizione
della statua è la base o sostanza dialettica, più propriamente Ves-
senza, di quest'ente, e l'esser la statua grande o piccola, di pietra
0 di metallo, di uomo o di donna, bella o brutta e simili, si con-
siderano come accidenti della statua che posson variare. Dico che
possono variare, perchè la statua di tutti gli accidenti contradit-
torì dee averne uno, e, in questa generalità , gli accidenti non
sono accidenti, ma appendici della classe precedente A; pure non
non è necessario che de' due contradiltorì la statua abbia piut-
tosto l'uno che l'altro.
11 che rende manifesto, che l'ente è sempre uno, e tuttavia
ammette composizione per riguardo alle sue appendici entitalive,
e questa composizione può essere maggiore o minore. Laonde più si
allontanano àaWdi semplicità e più composti sono quelli enti: a) che
hanno più moltiplici appendici enlitative, h) e ne'quali il nesso tra
queste appendici e la base dell'ente è meno stretto.
59Ó
Per Io contrario enti più semplici sono quelli: a) che hanno
minor numero di tali appendici, b) e ne' quali il nesso tra le ap-
pendici e la base è più stretto.
CAPITOLO Vili.
Teoria iiell' idenlità.
Articolo I.
Formazione del conceUo d' identilà. — Idcnlilà opiwsta al concetto
di diversità dialettica, e identità opposta al concetto di diversità
obiettiva.
Ciò. Le cose dette involgono il concetto d'identità , che dob-
biamo pure dichiarare.
Anche questo concetto si può api licare tanto agli enti dialet-
tici, quanto ai reali.
In sé stesso non ha bisogno di sjjiegazione , essendo chiaro che
identico è il contrario di diverso: pure tutti i concelti più semplici
domandano attenzione e perspicacia nelle applicazioni, e danno
de' risultati che la loro semplicità e facilità non facevano pre-
vedere.
L'uomo non avrebbe mai pensato esplicitamente all' identità ,
non si sarebbe formata quest'astrazione , se non avesse trovato
prima il diverso. Come l'uomo non si move spontaneamente a col-
locare la sua attenzione in qualità astratte senza un bisogno o uno
slimolo , così senza di questi moventi non sarebbe mai venuto a
pensare l'astratta idcnlilà [Psicolog. '145G-1'475). Tre sono i passi
che si fanno dalla mente umana per giugnerc al pensiero della
idenlità.
a). Primo passo. — Ella apprende enti diversi, e riflelle,
per qualunque sia causa, che sono diversi, cioè che l'uno non è
l'altro: quindi il concello di diversità. Questo concetto implica il
suo opposto che è quello di identità : tuttavia questo rimane nella
mente ancora implicito nel suo opposto. La mente non gli dà
Rosmini. Teosofia. 38
594
ancora una separata attenzione. Come dunque, prima di pensare
alla diversità degli enti percepiti, entrambi questi concetti, quello
d'identità e quello di diversità, giucevano impliciti e indivisi nel-
l'idea dell'essere, così il j)rimo, che si renda esplicito, è quello di
diversità^ non essendo necessario, che, di due concetti correlativi,
l'un e l'altro stia esplicitamente, che è quanto dire in separato,
davanti all'attenzione della mente, purché l'altro sia, in qualunque
modo, nella mente stessa imjdicito ed indiviso.
b). Secondo passo. — Quando lo stesso oggetto si presenta
più volte all'apprensione e all'atlenziono dell'uomo, questi ha già
una prima occasione di riconoscere, che quell'ente è identico a se
stesso, dal qual riconoscimento può astrarre facilmente il concetto
àldenlità, e dargli un vocabolo che lo significhi in forma astratta.
Acciocché dunque lo spirilo umano abbia l'occasione di fare que-
st'astrazione, è mestieri, che cangi qualche cosa, se non nell'og-
getto stesso, almeno nelle relazioni tra Venie e il soggetto che lo
pensa, come sarebbe nel numero delle volte che si pensa ad esso,
0 nel modo diverso di concepirlo. Che se nulla si cangiasse rispetto
al soggetto che lo pensa, l'oggetto non si direbbe né identico, né
diverso. Ma quando un oggetto si presenta più volte al pensiero,
e si cangia l'atto, con cui il soggetto lo pensa, si cangia il tempo
— e il soggetto stesso che lo pensa la seconda e la terza volta ha
subito intanto alcune modificazioni; — o finalmente si cangia il
modo di pensarlo o la forma in cui si pensa , e allora sono pure
cangiate e moltiplicate le relazioni tra l'oggetto e il soggetto pen-
sante. Tuttavia nessuno di questi cangiamenti ha mutato l'oggetto
in sé, la moltiplicilà loro non l'ha per nulla reso moltiplice; è re-
stato uno, e quello di prima. L'umana mente dunque arriva, per
qualunque sia causa , a fare un confronto tra questa moltiplicità
e variabilità soggettiva e l'oggetlo che in sé realmente non la
soffre; e per indicare questa condizione dell'oggetto al tutto im-
mune dalle diversità, che si trovano negli atti del soggetto, dice,
che l'ente o l'oggetto è identico con sé stesso. La parola identità
dunque implica sempre qualche relazione con una diversità, e
senza questa non si penserebbe mai quella, che altro non esprime
se non la negazione della divers'tà.
Qui si domanderà , se dunque Videntità è qualche cosa di ne-
gativo, e non anzi di positivo? Poiché la diversità è, rispetto al-
595
l'ente , qualche cosa di defeUivo e di mancante , come abbiamo
detto del concello di divisione e di parte (595 sgg.), l'opposlo, cioè
V identità sembra dover essere qualche cosa di positivo. E certo,
l'identità dell'ente indica la mancanza di quel difetto che è nella
diversità dell'ente. Pure la mancanza di un difetto di ente non è
in sé qualche cosa di positivo, ma il positivo corrispondente sta
nell'ente privo di quel difetto. Di che si trae questa verità impor-
tante per la dialettica, che
« A un concetto che contiene un negativo non sempre corri-
sponde un concetto che contenga un positivo che stia da sé, ma
talora ciò che gli corrisponde cotne positivo è qualche cosa di più
di quello che importa la semplice correlazione ».
e). Terzo passo. — Finalmente uno slesso ente può pre-
sentarsi più volte all'attenzione e all'apprensione di un uomo con
qualche varietà di forma o altra qualunque. Allora la mente
umana confronta l'ente appreso più volte con quelle varietà , e
nòta ciò che non è stato cangiato e che rimase identico.
Questi due ultimi passi del pensiero producono i concelti di due
generi d'identità. Il primo genere é à' un' identità opposta a una
diversità dialettica, perchè si suppone che l'oggetto rimanga del
tutto il medesimo e solo gli alti della mente sieno molliplici ; il
secondo genere è d'un' ù/6'/i<«7à opposta a una diversità obiettiva ^
perchè la diversità a cui l'identità si riferisce cade nell'oggetto
stesso che presenta alla mente qualche varietà.
Articolo II.
Difficoltà che s incontra ne' giudizi intorno alla identità degli enti, —
Sede dell'identità. — Doppio genere di questi giudizi.
62^. Nei giudizi che si pronunciano intorno all'identità degli
enti la mente incontra sovente delle gravi e inaspettate difficoltà.
Conviene dunque avere un principio, dal quale si riconosca
quando si perda l'identità di un ente, e quando non si perda
a malgrado di certe diversità che nascono in esso.
Ma poiché negli enti finiti la realizzazione loro è diversa dalla
loro essenza, perciò un principio solo non si può avere per gli
596
enti finiti in quanto reali, e per gli enti finiti in quanto essen-
ziali. Conviene stabilire questi due principi:
1.° Ogni qualvolta c'è una varietà qualunque nell'essenza,
l'ente o l'entità ha perduto la sua identità; poiché se un ente
0 un'entità perde qualunque menoma parte della sua essenza,
non è più desso, o dessa ; ma un altro.
2." Ogni qualvolta l'ente reale finito perde la sua base
reale subiettiva , l'identità è perduta , non c'è più 1' ente di
prima.
Il nodo sta nel decidere, se quella varietà, che c'è sempre
nell'apprensione dell'oggetto o nell' oggetto stesso^ sia tale che
tolga ciò che costituisce l'essenza dell'ente che è la sede del-
V identità propria degli enti nella loro forma oggettiva, ovvero
se tolga la base dell'ente che è la sede dell'identità degli enti
nella loro forma subiettiva o reale. Quando poi si tratta del-
l' identità dell'essere slesso nelle sue tre forme , la sede del-
l'identità è di novo ['essenza, che, come dicemmo, coslituisce
anche la ragione delle stesse tre forme (170 170). Onde la
sede dell'identità è scnqìre o Vessenza, o la base dell' ente , poi-
ché, sia che si muti l'una, sia che si muli l'altra^ l'ente è un
altro, non è più quello di prima.
6*25. Ora come abbiamo distinti due generi d'identità, l'identità
che corrisponde alla diversità o varietà sùbiotliva , e l' identità
che corrisponde alla diversità o varietà obiettiva, così del pari
due sono i sommi generi delle questioni e de'giudizì che si pos-
sono fare intorno all'identità. Poiché si può cercare l'una o
l'altra identità, e per formulare le due questioni generiche di
cui parliamo, esse si possono così esprimere :
1.^ Questione generica intorno l'identità degli enti. — Dati di-
versi alti della mente, ciascun de'quali ha il suo oggetto, si do-
manda se l'oggetto sia identico per tutti quegli atti d'una iden-
tità perfetta, di guisa che nulla affatto sia cangialo nell'oggetto,
ma tutta la varietà e la molliplicilà appartenga agli atti del
subielto che replicatamente lo pensa , e però sia estrinseca al-
l'oggetto.
S."* Questione generica intorno l'identità degli enti — Dati più
oggetti davanti al pensiero, che mostrano qualche varietà tra
loro, si domanda se l'ente in essi rimanga identico a malgrado
597
di quella varietà che hanno in sé stessi , e però a malgrado
d'una varietà intrinsecd all'oggetto slesso.
Egli è chiaro, che il primo genere di queste due questioni
ha per intento di trovare un'ideulilà perfetta, perchè non riguarda
le varietà che sono nell'onte, ma unicamente si riferisce alla
varietà e diversità che nasce dalla moltiplicità degli atti del
subietto che lo concepisce, o dalla diversità del modo di con-
cepirlo, 0 dalla forma in cui si concepisce.
Tanto il primo, quanto il secondo genere di questioni può
farsi intorno a qualunque oggetto del pensiero, sia quest'oggetto
un ente, o una semplice entità, sia l'essere o le forme dell'es-
sere, 0 un concreto o un astratto, o un ente in sé, o un ente
])uramenle dialettico.
Dal che procede, che la [)rima regola per riconoscere l'iden-
tità degli oggetti, sia che si tratti dell'una o dell' altra identità,
è quella di ben afferrare e ritenere col pensiero « qual sia il pre-
ciso oggetto di cui si cerca l'identità ». Poiché l'incaglio che
s' incorre in tali ricerche consiste per lo più nel confondere
l'oggetto, di cui si cerca l' identità, con altri oggetti a lui me-
scolati nel ragionamento e con esso lui legati per varie rela-
zioni.
Articolo III.
Identità relativa alla varietà estrinseca.
626. Venendo dunque al primo genere, l'identità a cui mira
il primo genere di questioni, la varietà estrinseca a cui s'oppone
tale identità dicemmo consistere « nella diversa relazione che
passa tra il subietto pensante e la cosa pensata, senza che que-
sta diversità di relazione rechi alcuna mutazione intrinseca
nell'entità contenuta nell'oggetto, che è la cosa pensata. « La
diversità o varietà è tutta dalla parte degli alti del subietlo
pensante.
Ora la varietà che si può concepire negli atti d'un ente pen-
sante un'identica entità è di molte sorti.
598
Prima specie di varietà estrinseca all'entità pensata : moltiplicilcà
degli alti del pensiero: giudizi suW identità dell' entità pensata
con atti ugnali moltiplici.
627. Se colui che pensa un'entità cessa dal pensarla attualmente,
e poi rinnova l'alto del pensiero, e la pensa ugualmente senza
discoprire in essa alcuna novità, egli pronuncia il giudizio, che
Ventila pensata con quegli atti moltiplici è identica.
Acciocché questo giudizio sia vero è necessario che V enlità,
di cui si tratta, non si sia veramente cangiata in sé stessa. Poi-
ché potrebbe essersi cangiata, e tuttavia apparire la slessa. Ci
può esser dunque un identità apparente. E qui si presenta già
una prima difficoltà in questi giudizi intorno a\V identità, la qual
consiste appunto nell' assicurarsi , che non si tratti forse d'un'ap-
parenza d'identità in vece che d' una vera identità della cosa
che si percepisce o si pensa.
Ora dato che l'entità non si sia veramente cangiata , qui
noi abbiamo « un'entità identica a fronte di replicati atti del
pensiero, che sebbene tutti uguali come li supponiamo, tuttavia
l'uno non é l'altro , e però a fronle d'una varietà numerica di
alti. •»
Ma che poi l'enlilà non si sia veramente cangiata, e però non
apparisca già solamente, ma anche sia da vero quella di prima
identicamente, questo non dipende dalla mente che la pensa,
ma dalla natura dell'entità slessa. Poiché se questa avesse su-
bito cangiamento, senza che il pensatore se ne fosse avveduto,
non sarebbe identica, ma solo apparirebbe tale. Ora supposto
questo cangiamento, esso apparterrebbe alla varietà intrinseca,
e però « i giudizi che si pronunciano su quella identità che
s' oppone alla varietà estrinseca , cioè alla varietà degli atti
del subietto pensante, non si possono verificare se non ricor-
rendo a'que giudizi che si pronunciano su quella identità che
s'oppone alla varietà intrinseca)): quelli dipendono da questi per
essere avverati.
599
Questo vale per tulle le specie di varietà estrinseca all'entità, di
cui si vuol pronunciare l'idenlilà.
Seconda specie di varietà estrinseca all'entità pnisata: modi diversi
di pensare; giudizi sull'identità dell' entità pensata con modi
diversi.
628. Un'entità identica si può pensare più volle non solo con atti
uguali, ma con modi diversi. Qualora l>N//frt pensala rimanga la
medesima, e non cangi altro che il modo con cui si pensa , ella è
identica, perchè la varietà del modo di pensarla non la rende ne-
cessariamente un'altra entità. Ora che l'enlilà che si pensa con
modi diversi sia la medesima, e non apparisca soltanto tale, que-
sto dipende, conìc abbiam dello di sopra, dall'esser essa veramente
scevra di varietà intrinseca.
Supposto dunque che apparisca e sia veramente scevra di
varietà intrinseca, noi abbiamo una seconda specie d'identità
del primo genere cioè « un'entità identica a fronte de' diversi
modi co'quali ella si pensa -», che la rendono molliplice da-
vanti al pensiero, per diverse relazioni ch'ella prende con esso,
e tuttavia identica.
G29. Ma qui s'incontra spesso una seconda difficoUà a pronun-
ciare il vero in questa specie di giudizi.
La difficoltà è questa : « I modi originari del pensiero umano
sono tre: intuire, percepire, e riflettere. iMa questi non sono pro-
priamente modi diversi di pensare , se non perchè qualche
cosa si cangia nel termine del pensiero. Così la percezione ag-
giunge la realità all'intuizione umana , li riflessione poi non sa-
rebbe un modo veramente diverso di pensare se non aggiungesse
all'oggetto qualche nova relazione, o non lo restringesse , o non lo
analizzasse, o non sintesizz;isse ec. {Psicol. i03"2). E per vero «il
principio non si cangia né in se stesso e né pure ne' suoi atti, se
non a condizione che si cangi in modo corrispondente i\ suo ter-
mine »: principio ontologico, che regge la natura degli enti, di
sommo momento. Se dunque i diversi modi del pensiero suppon-
600
gono un qualche cangiamento nel suo termine, « come potrà avve-
nire che questo termine conservi la sua identità? »
Per rispondere a questa difficoltà conviene richiamarsi alla
mente la regola, che abbiamo data, e che abbiam 'detto esser
di tutte la prima, per riconoscere l' identità degli oggetti, cioè
che « è necessario prima di tutto definire accuratamente qual
sia l'oggetto di cui si cerca l'identità ». ab
Tenendo questa regola davanti alla mente, facilmente s'in- V
tende , che quantunque diversi modi del pensare non possano
avere un termine del tutto identico, dovendo questo subire al-
meno qualche . cangiamento nelle sue relazioni con altre cose,
acciocché sia pensato in diverso modo ; tuttavia ci può essere
un elemento identico negli oggetti, a cui si riferiscono que' di-
versi modi del pensare. L'afferrare questo elemento , e giudi-
carlo identico relativamente a que' diversi modi con cui si pensa,
è appunto un eseguire la regola prescritta , cioè è un definire
precisamente qual sia l'oggetto di cui si predica l'identità. Se
in vece di questo elemento , termine comune in tutti i modi di
pensare , si stabilisce un altro oggetto su cui movere la que-
stione « se esso sia identico », in tal caso converrà pronunciare
un giudizio negativo^ cioè converrà negare ch'esso sia un og-
getto identico.
Ma quando si abbia riconosciuto Velemento identico che si
rinviene ne' diversi oggetti corrispondenti ai diversi modi di
pensare, allora si presenta incontanente un'altra questione:
« qual valore abbia quell'elemento identico negli oggetti corri-
spondenti ai diversi modi di pensare », cioè se egli sia tale che
costituisca V essenza ^ o la base dell'ente pensato, nel qual caso
r identità si predica dell'ente ; cioè si dice con verità che in
tutti que'modi l'ente pensato è identico; ovvero se egli non sia
tale che costituisca l'essenza, o la base dell'ente, nel qual caso
non si pensa più lo stesso ente. In quest'ultimo caso, la que
stione è d'altro genere. Poiché non è più vero che gli oggetti
de' diversi modi di pensare abbiano soltanto quella varietà che
corrisponde ai modi diversi con cui si pensano, ma gli oggetti
hanno allora una diversità intrinseca indipendente dai diversi
modi del pensare medesimo.
A ragion d'esempio se io penso nel modo intuitivo Vuomo ,
COI
uhe e quanto dire l'idea dell'uomo, e poi nel modo percettivo
penso un uomo reale , l'elemento comune e identico negli og-
getti di questi due modi di pensare è Vessenza dell'uomo. In
questi due modi di pensare Vessenza identica mi è stata sempre
presente. Posso dunque dire giustamente d'aver pensato 1' iden-
tico enti; con due atli e modi diversi di pensare. Che se io per-
cejiissi un uomo reale, e poi mediante la riflessione astraente
mi formassi lidea d'animali là, coU'intuire quest'idea non penserei
lo stesso ente che prima percepivo. Poiché Velemento identico
in tal caso sarebbe solo Vanimalitàj che non costituise nò Ves-
senza né la base dell'ente uomo.
C50. Ci sono dunque due serie di questioni , che si possono
fare intorno a qaeWidentità che si trova negli oggetti corrispon-
denti a diversi modi di pensare, e sono:
1.° Quelle questioni colle quali s'investiga, qual sia l'ele-
mento identico negli oggetti che differiscono tra loro unicamente
a cagione del differente modo con cui si pensano , oppure che
colla loro varietà costituiscono appunto i diversi modi di pensare;
2." Quelle questioni colle quali si cerca, se quell'elemento
costituisca un medesimo ente, ovverossia se l'ente si possa dire
identico sebben pensato in diversi modi.
La prima serie di queste questioni ammette una soluzione
generale, ossia la soluzione di essa si può ridurre ad una sola
formola, e la formola è questa :
« Quelle varietà degli oggetti che costituiscono diversi modi di
pensare si riducono a queste, che con un modo si pensa qualche
cosa di più che con un altro: e nello stesso tempo collo stesso
modo con cui si pensa qualche cosa di più sotto un aspetto, si
può pensare qualche cosa di meno sotto un altro. Così col modo
dell'intuizione si suol pensare qualche cosa di più d'estensione,
e col modo di percezione si pensa qualche cosa di più di com-
prensione , e col modo della riflessione si pensa qualche cosa
di meno e di più secondo che astrae o sintesizza o esercita altre
operazioni II di più che si pensa con ciascun modo in relazione
agli altri é ciò che costituisce Velemento diverso negli oggetti ,
il resto che rimane, tolto via ogni di più pensato, è Velemento
identico ».
Riguardo poi alla seconda serie di questioni: « se ci sia l'i-
002
dentila dell'ente « ovvero « se l'elemento identico sia ente » que-
ste prima di lutto esigono che si definisca di qua! ente si parli,
poiché la parola ente ammette diverse definizioni , delle quali
la più universale di tutte è quella che abbiam dato: « l'ente è
ciò che è ». Per ciascuna definizione dunque la risposta sarà
diversa^ dove ritorna la regola prima di ben definire « qual sia
l'oggetto intorno a cui si move la questione se sia identico ».
Ma se si tratta d'ente compiuto , cioè d'un ente che sussiste o
che può sussistere , la risposta si trova colla regola data , cioè
« se Velemento identico è l'essenza o la base dell'ente compiuto,
in tal caso si pensa con que' diversi modi il medesimo ente, e
se no, no ». Se poi l'ente di cui si domanda: « se sia pensato
identico in que' diversi modi », cade fuori dello stesso elemento
identico, è chiaro che la questione non ammette altra risposta
che negativa
63J. Se a ragion d'esempio noi abbiamo due pensieri, l'uno dei
quali sia intuizione dell'animale, l'altro intuizione dell'uomo, e
si domanda se con questi due pensieri si pensa l'identico, con-
verrà, per la prima regola, definire qual sia l'oggetto preciso,
di cui si cerca 1' identità. Ora quest'oggetto può esser triplice
nel caso addotto, il quale perciò dà luogo a tre questioni diverse:
1.° Se l'elemento identico ne' due pensieri sia l'uomo.*'
•2.° Se l'elemento identico ne'due pensieri sia l'animale?
5.° Se l'elemento identico ne'due {)ensieri sia l'animale,
ma ristretto alla specie umana?
Alla prima questione si risponde negativamente , perchè nel
pensiero del semplice animale non esiste l'uomo né pure in po-
tenza 0 in virtù, non potendosi cavar mai dal concelto dell'a-
nimale l'intelligenza, che dev'essere aggiunta altronde, acciocché
l'uomo sia costituito. L' intelligenza dunque ossia la razionalità
é ciò che si pensa di più col secondo pensiero, e costituisce il
diverso, non Y identico.
Alla terza questione si risponde pure di no. Poiché nel primo
pensiero, nel quale non si pensa che l'animale, non esiste la de-
terminazione della specie umana né in atto né in potenza ,
per la stessa ragione che l'intelligenza non è virtualmente com-
presa nell'animale. Questa specificazione dunque è ancora un
di più che si pensa col secondo pensiero , e questo di più co-
603
stiluisce ancora il diverso, e non Videntico. Che se in vece del-
l'uomo , col secondo pensiero si pensasse una pecora , questa
specie sarebbe virtualmete compresa nel genere; e si potrebbe
dire che coll'uno e coll'altro pensiero si pensasse l'identico ente
pecora, in due modi diversi, virtualmente nel primo pensiero,
attualmente nel secondo.
Alla seconda questione si risponde aifermativamente, cioè che
Vanimale è un'idea identica che si pensa ne' due pensieri , ma
in un modo diverso, perchè nel primo pensiero si pensa come ter-
mine dove riposa l'attenzione, nel secondo pensiero come mezzo,
contenenle il termine del pensiero, che è Vuomo. Si trova dunque
in questi due pensieri un elemento identico, ma quest'elemento non
è un ente completo, e quindi non si può dire che si pensi con essi
il medesimo ente: di pii!i qucsVelemento si può bensì dire un og-
getto comune e identico de' due pensieri, ma non un termine iden-
tico perchè è termine del primo nel quale l'attenzione si posa
sull'idea dell'animale in genere, ma non è termine dell'altro, nel
quiile l'attenzione non si posa nell'animale in genere, ma nell'a-
nimale specifico cioè colla determinazione aggiunta della raziona-
lità e ad un tempo su questa razionalità stessa che compisce il
concetto di uomo.
In quanto dunque più pensieri hanno un oggetto pienamente
identico, in tanto sono pensieri uguali, che non differiscono se non
di numero; in quanto poi hanno ne' loro oggetti un elemento di-
K'erso, in tanto si dicono pensieri dispersi, ma in quanto hanno un
elemento identico ne' loro oggetti non pienamente identici, in tanto
si dicono modi diversi di pensare.
G32. Da tutto questo noi possiamo raccogliere, che i modi di
pensare si possono classificare secondo dilTerenze diverse, che co-
stituiscono la base della classificazione.
Una prima classificazione de' modi di pensare si prende dalle
facoltà razionali dello spirito, e questa base di classificazione ci dà
i tre modi accennati deWinluizione, dvWn percezione, e della rifles-
sione, che si suddivide in nvilte funzioni [Psicol. 1023 sgg.).
Una seconda classificazione de' modi di pensare si prende dal-
l'oggetto che si mostra con luce diversa , e qui si hanno i
modi del pensare virtualmente , e del pensare attualmente. Per
riconoscere se ciò che si pensa virtualmente sia identico a ciò
che si pensa attualmente, conviene 1 .° assicurarsi che tutlo ciò
che si pensa atluahnenle sia contenuto in ciò che si pensa vir-
luahìicnte , e niente venga aggiunto dal di fuori , come nell'e-
sempio addotto dell'animale in genere, e dell'animale uomo, il
quale non esiste lutto nella virtualità dell'animale; '2.° osser-
vare se Vuttualilà stessa sia essenziale all'ente o all'entità di cui
si cerca l' identità , poiché se gli fosse essenziale 1' attualità
stessa, quell'ente non si penserebbe nel pensiero virtuale, man-
cando in questo ciò che costituirebbe l'essenza deiroggelto del
pensare attuale. A ragion d'esempio un sentimento, qual sarebbe
quello del color rosso ^ non si può pensare in potenza, perchè
è proprio del color rosso l'essere in atto, e perciò i ciechi nati
non possiUio pensare il color rosso. Allo slesso modo pensare
Vessere in universale, e pensare Iddio, non è pensare un oggetto
identico , perchè sebbene Iddio sia virtù ilmente compreso nel
concetto dell'essere , pure con esso non si pensa Iddio , percbè
è essenziale a Dio {'attualità, e se non si pensa la sua attua-
lità, non si pensa lui.
Una terza non meno importante classificazione si prende dalla
differenza che passa tra termine del pensiero e oggetto del pen-
siero. Poiché una data entità si può pensare come oggetto che
è anche termine del pensiero , in cui riposa e finisce l'atten-
zione del pensiero stesso , e si può pensare come oggetto che
non sia termine del pensiero, ma che contenga il termine e sia
mezzo di poterlo conoscere, come quando per concepire la specie
abbiamo bisogno del genere. Altro é dunque cercare se si pensa
un termine identico del pensiero, altro cercare se si pensa pu-
ramente un idetitico oggetto. A ragion d'esempio noi in tutti i
pensieri pensiamo Vessere universale, ma non in tutti lo pen-
siamo come oggetto termine , ma nella maggior parte come og-
getto contenente, mezzo e condizione del pensiero del termine.
Convien dunque, per dirlo di novo, definire prima di tutto qual
sia l'entità, di cui si cerca l'identità.
Una quarta classificazione de' modi del pensare è quella che
si prende dal pensare analitico e dal pensar sintetico, potendosi
pensare la stessa cosa nella sua unità, e analizzala nelle parli
che formano quest'unità , e questa è l'identità de' giudizi , quel-
r identità di cui fa sì grand'uso la dialettica.
G05
DeWuso che fa la dialellica Jt'//' identità relativa ai due modi
di pensare , analitico e sintetico.
655. L' importanza di quest'identità dell'oggetto relativa ai due
modi di pensare, l'analitico e il sintetico, è tanta , che essa fu
considerata da molti filosofi come il primo principio del ragio-
namento umano; e che egli sia tra primi e più universali prin-
cipi non è negalo da nessuno {Logica 558, 54^-560).
Riguardo agli enti puramente dialettici, la questione sta nel
sapere se l'ente dialettico, per esempio un accidente, una rela-
zione , una negazione, ecc. assunti come enti e costituenti il
subietto del discorso, rimanga il medesimo o no in diverse pro-
posizioni.
Lo stesso è da dirsi di qualunque ente anche reale dialetti-
camente considerato. Ogni proposizione pretende di asserire un'
identità tra il subietlo ed il predicato: provare che questa iden-
tità esiste è un provare la verità della proposizione , provare
che non esiste è un dimostrarne la falsità [Logica 402 sgg.).
Ogni sillogismo pretende dimostrare che due entità sono iden-
tiche a una terza , e però sono identiche tra loro. Riconoscere
quest'identità è riconoscere la verità di ciò che pretende il sil-
logismo; riconoscere che quest'identità non c'è, è un riconoscere
che il sillogismo è viziato e non allo a provare.
Così l'applicazione dell'identità diviene il principio che pre-
siede a lutti i ragionamenti umani e li giudica tutti, efficaci o
non efficaci, veri o falsi.
La Logica è la scienza che insegna a far uso del concetto
d'identità in ordine a questo scopo dialettico.
Ella fa questo principalmente col distinguere V identità asso-
luta dall' identità parziale, e la difficoltà maggiore consiste nel
ritrovare nettamente qual sia l'identità parziale che si pretende
asserire colla proposizione o coH'argomentazione. Poiché chi di-
cesse « l'uomo è l'uomo » non c'è difficoltà, trattandosi d'iden-
tità piena, della slessa sintesi uomo replicata senz'analisi; ma chi
dicesse « l'uomo è fallibile » trattandosi d'identità parziale deesi
verificare , se questa qualità di fallibile, che si concepisce in
ere
aslrallo, si trovi identica in concreto, cioè nella realità deiruonio:
queste identità parziali sono talora difficilissime a cogliersi con
sicurezza dal pensiero, od esigono lunghe prove per accertarsene.
034. La difficoltà di verificare questa identità parziale ha su-
scitate nelle Scuole questioni che non si poterono mai comporre:
toccheremo d'una sola di queste.
Gli Scotisti ponevano il principio che « la negazione non si
può mai identificare coH'ente reale ». Per rilevare il valore d"un
tal principio conviene osservare, che esso si riferisce aW iden-
lilà parziale; poiché, riguardo all'identità totale, quel principio
non fu mai messo in duhhio da nessuno, né può essere.
Poiché dunque non si parla che d'una identità parziale, giu-
stamente fu combattuto quel principio da' Tomisti, che distinsero
un'identilà positiva da una identità negativa,
E nel vero, niente vieta che per via di negazione si esprima
e determini un ente reale.
Se si tratta d'un reale finito , egli ha le sue limitazioni che
possono essere pensate e pronunciate in forma di negazione, e
la stessa parola finito é negazione della pienezza dell'essere , e
pure queste due parole : « ente finito » servono a determinare
lutti quegli enti reali che non sono l'essere assoluto, e però c'è
un'identità parziale tra questi enti reali e la detta negazione.
Se si tratta dell'ente infinito è a considerarsi , che la nega-
zione di negazione s' identifica coll'affermazione ; e la mente
umana infatti accumula negazioni di negazioni per arrivare al
concetto dell'ente infinito. In questo caso dunque si deve di-
stinguere la forinola dialettica, della quale si serve la mente per
pensare l'infinito, dal r/5M/<«/o della stessa formola che é l'infi-
nito stesso. Ora rispetto a questo, ninna semplice negazione può
avere identità né totale né parziale; ma v'ha una identità dia-
lettica tra la formola e l'infinito come semplicemente indicato
alla mente umana; poiché quella formola tessuta di negazioni
indica veramente alla mente quell'infinito che non ha negazione.
Gli Scotisti dal suddetto loro principio inducevano, che Vuno
preso formalmente, dovea essere qualche cosa di positivo, come
quello che realmente è lo slesso che l'ente (1). Era una con-
(1) G. Scoi, in IV Metaph.
607
tradizione; poiché in quanto l'uno è distinto dall'ente non è
più che un astratto, pensando il quale si prescinde dall'ente;
parlandosi poi dell'uno in genere neutro, parlavasi dell'uno so-
stantivato, e non della qualità astratta, parlavasi dell'ente uno,
e non del solo uno.
Ma i Tomisti, o alcuni di essi, attenendosi alla qualità astratta
dell'uno e distinguendo T identità positiva dalla negativa, dice-
vano che l'uno era identico coll'ente negativamente, in quanto
che non poteva significare o piuttosto indicare altra cosa che
l'ente (1), perchè infatti la qualità propria indica la cosa di cui
essa è qualità e la sottintende a sé stessa, non potendo slare
senza di questa, e |)erò con questo s'identifica.
Articolo IV.
Identità relativa alla varietà intrinseca.
655. Fin qui di quella identità, che si cerca unicamente in
confronto della varietà estrinseca, cioè di quella varietà, che è
condizione necessaria a costituire un diverso modo del pensare.
Dobhiamo ora parlare di quella seconda specie d'identità, che
si cerca in confronto della varietà intrinseca, cioè esistente nella
slessa entità, di cui si fa la domanda, se sia identica.
Esporremo in primo luogo alcune regole generali atte a diri-
gere i giudizi che si fanno intorno a questo secondo genere
d'idenlità, e poi ne faremo alcune applicazioni.
S 1.
Regole generali per conoscere V identità degli enti
relativa alle loro varietà intrinseche.
636. Dalle cose dette più sopra risulta:
ì.° Altri enti sono semplici, altri composti;
2.° Tra i composti ce n'hanno di più e meno composti ,
(1) 11 Gaetano: Esse idem contingit dnpliciler, scilicet positive et nega-
live. Unum autem forìaaliter est idem enti negative: quia non aliam na-
GOS
secondo che a) sono più .0 meno' ìe appendici enlilative, e b)
il nesso Ira queste appendici e la base dell'ente è più 0 men
largo (.622*);
3." L'ente semplice 0 composto è costituito da un atto a
cui non può mancare l'unità, cioè ogni ente è uno;
h.° Negli enti composti quest'atto costitutivo dell'ente si
chiama base„ e tutto ciò che è diverso da quest'atto si chiama
appendice cntitativa; ma negli enti semplici questa parola di
base che si riferisce alle appendici non è applicabile , perchè
non hanno appendici , e per così dire sono tulio base. Resta
dunque il solo atto costitutivo che è l'ente stesso.
Da questi principi derivano le regole per giudicare dell'iden-
tità 0 della diversità degli enli, e sono le seguenti,
A. Per gli enli composti.
d.* Regola. — Ogni qual volta in un ente composto è di-
strulta la base del medesimo , benché rimangano dopo di lui
degli altri enti con altre basi, egli ha perduta la sua identità ,
e gli enti che rimangono sono enti diversi dal primo, il quale
è perito.
Quello che può ingannare in questo giudizio si è il vedere ,
che rimane tuttavia ciò che prima era appendice dell'ente. Se
queste appendici si prendono per l'ente^ pare che ci sia un'iden-
tità tra la materia che rimane , cioè le appendici , e l'ente di
prima. Tutto ciò che importa dunque si è, che si sappiano bene
distinguere le appendici dalla base dell'ente , e che si precida
colla mente la bnse in modo da non lasciarle aderente nulla
delle appendici. Questa avvertenza vale ugualmente per la re-
gola seguente.
2." Regola. — Ogni qual volta l'ente si costituisce, cioè, a
ciò che v'era prima si soprappone una nova base, l'ente costi-
tuito da questa nova base è un ente novo, e l'ente 0 gli enti
che c'erano prima hanno perduta la loro identità, benché pos-
sano sembrare per un'illusione esistenti, in quanto che si sono
cangiati nelle appendici del novo ente, e però hanno acquistato
il concetto di materia rispetto al novo ente, e così pure hanno
turam signi ficat, sed eamdem alio modOy ut dicitur IV Metaphysicomm. In
Sum. S. Tli. I, XI, I.
C09
cessalo d'essere enti, o eerto hanno cessato d'essere quegli enti
di prima.
5/ Regola. — Se si mutano le appendici , rimanendo im-
mutata la base dell'ente, l'identità è conservala,
B. Rispetto agli enti semplici.
1 '^ Regola — Questi enti non possono perdere la loro iden-
tità per via di composizione o di scomj)osizione della base e
delle appendici, perchè non hanno che un atto costitutivo senza
appendici.
2." Regola. — Se la base dcH'cnle semplice può esser unita
0 separala da altre basi, può perdere la sua identità per unione
di più basi uguali in una sola, per una nova attualità della base
stessa, quando questa nova attualità si prenda ella stessa come
aumento della base, e per una base superiore che s'unisca colla
base inferiore in modo da costituire una sola base.
3.^ Regola. — Se la base dell'ente semplice non può es-
sere in nessuna maniera mutala o modificala, l'ente semplice
conserva una perpetua identità con sé stesso, come avviene del-
l'Ente assoluto in cui nulla si può mutare.
Due specie di varietà inlriuseca, quella che consiste ne^ cangiamenti
che nascono nello stesso ente, e quella che consiste nella molti-
plicitàj che si trova nello slesso identico ente.
G57. Chi cerca V identità d'un ente in confronto della varietà
intrinseca, deve prima di tutto distinguere due specie di varietà.
L'ùna è quella che nasce neir( nte per le modificazioni ch'egli
subisce rimanendo tuttavia identico, modificazioni a cui soggiac-
ciono quasi tutti gli enti finiti: l'altra è quella che si trova
nell'ente stesso immutabile, come nell'ente infinito che pur sus-
siste in tre modi.
Nascono di qui due questioni, cioè:
l.° Come si dimostri che l'ente rimanga identico, a mal-
grado che nascano in esso diversi cangiamenti, questione di cui
abbiamo trattato nella Psicologia (866 sgg.):
Rosmini. Teosofia. 39
610
2." Come si provi che l'ente rimanga identico in più modi
di essere: questione che ahbiamo risoluta nel libro delle forme
primitive dell'essere, e in altri luoghi.
038. Solamente qui aggiungeremo che la varietà delle tre forme
in cui l'essere identico si ritrova, e che èvarietà intrinseca al-
l'ente stesso, è quella che contiene la ragione ultima, e l'origine
di quella che abbiamo chiamata varietà estrinseca cioè relativa ai
diversi atti e modi del pensare. Poiché il pensare sorge appunto
dalla relazione Ira le forme , supponendo una forma subiettiva
pensante in istretta unione con una forma obiettiva pensata. Per
questa stretta relazione ed unione, ossia per questo sintesismo,
accade, che l'ente nella sua forma obiettiva riceva dalla subiet-
tiva. Ma questo ricevere è diverso, secondo che sono diversi gli
enti che si considerano in quelle due forme. Se trattasi dell'Ente
assoluto, questo nella forma subiettiva genera col pensiero, che
è lui stesso, l'ente obiettivo, e crea gli enti finiti. Ma se si parla
dell'uomo come ente nella forma subiettiva, egli non può col suo
pensiero creare gli enti; essendogli dunque questi dati, co' di-
versi modi del pensiero non gli resta altro che di lavorare
intorno ad essi una rete, dirò così, di relazioni positive o ne-
gative , e però anche dal pensiero dell'uomo ricevono qualche
cosa gli enti , rimanendo però questi quello che sono in sé ,
senza di lui.
Questo fa il pensiero umano ne' diversi suoi modi anche ri-
guardo agli enti semplici , Egli scompone l'ente semplice — come
pure l'ente composto, — e ne riunisce le parti, egli lo considera
in relazione con altri enti, o lo precide da essi. Se si tratta di
parti, 0 d'elementi formali o materiali, nasce allora la questione
dell' identità che può avere con questi elementi l'ente stesso ,
e per risolverla conviene ricorrere alle regole già *da noi date
parlando dell'identità relativa alla varietà estrinseca. Tra le
questioni di questo genere vi hanno quelle che riguardano l'ente
semplicissimo ed assoluto , cioè Dio , quando si domanda d'un
attributo, per esempio della sapienza, se sia Dio , e si predica
l'identità, poiché tanto si dice che Dio è sapienza , quanto che
la Sapienza è Dio. Come s'avveri quest' identità sarà discusso
nella Teologia. Ma quando non si tratta d'un ente semplicissimo,
allora l'elemento , sebben formale , si distingue come diverso
cu
dall'ente stesso, almeno in molli casi che risultano dalle regole
che abbiamo date.
In falli , essendo l'atto costitutivo dell'ente semplice essen-
zialmente uno, (,595, sgg.; GÌ 4*) qualunque cosa manchi a
quest'uno non è più quell'uno di prima, perchè è l'uno dimezzato
(,586, 587*): manca all'ente semplice parte della sua essenza e
questo basta, per la regola che abbiam data , a non esser più
lui , e aver perduto la sua identità.
Ciò che rimane allora davanti alla mente non è un ente com-
pleto , ma diminulo , e solo la mente lo considera per ente in
un modo dialettico.
639. Diamo degli esempi, ne' quali apparisca, come pel modo
del pensare astratto si perda l'identità dell'ente.
a) Se noi prendiamo i corpi — enti estrasoggettivi — e
facciamo astrazione da tutte le loro forme, come pure dalla loro
quantità, ci rimane nella mente un concetto di materia prima
corporea, e questa materia prima è considerata dalla mente come
un ente semplice, ma quest'ente non è identico a nessun corpo
dell'universo, e però non si può chiamare un corpo, anzi non
è un ente in sé slesso, e soltanto la mente lo prende come fosse
tale, dialetticamete. Questa mancanza d'identità nasce da questo
che a un corpo è necessario l'atto della grandezza e della for-
ma ecc.; e mancando queste attualità manca qualche cosa del-
l'essenza del corpo.
b) Se prendiamo gli animali — enti soggettivi imperfetti —
e prescindiamo da ogni termine del loro sentimento, non ci ri-
mane più l'animale, e non di meno possiamo ancora pensare un
principio sensitivo puramente in potenza. Questo principio al tutto
potenziale , che nulla sente, non si può chiamare animale né
animato, né conserva alcuna identità con quell'ente che si
chiama animale o animato, ed anzi non esiste realmente in sé,
ma rimane qualche cosa davanti alla mente che il pensa e lo
considera come ente indeterminato , che la mente assume dia-
letticamente per ente. E ancora qui manca l' identità, perchè
manca il termine e l'alto del principio verso questo termine che
appartiene all'essenza dell'animale.
e) Lo slesso è da dirsi, se pensiamo agli enti intellettivi
e poi precidiamo da essi ogni oggetto, senza del quale né pen-
612
sano né possono più pensare. Il principio intellettivo considerato
dalla mente con questa precisione non è l'ente identico di prima,
anzi l'ente intellettivo non c'è più davanti alla mente, la quale
ora pensa soltanto un principio potenziale di quest'ente, che non
è ente, se non dialettico ; e ciò di novo perchè un oggetto è ne-
cessario, acciocché ci sia l'atto essenziale all'ente intellettivo. E
non di meno ciò che sta davanti alla mente non é nulla, e non
è il soggetto pensante né una sua modificazione , né una sua
produzione; ma una realità indetcrminata nell'idea.
d) Abbiamo già applicala la stessa dottrina all'essere. Se
sì pensa l'essere co' suoi termini propri, si ha tutto intero l'alio
costitutivo dell'essere, che è l'essere assoluto. Se si spoglia dei
suoi termini propri od impropri , che cosa rimarrà davanti al
pensiero? Certo non più lo stesso essere assoluto che si pen-
sava prima: l'identità è perduta, non pensandosi più lutto l'atto
costitutivo, semplicissimo, dell'essenza divina. Si pensa in quella
vece un essere iniziale, che non si assolve in alcun termine e
che ha solamente la virtù d'assolversi e completarsi, o assoluta-
mente ne' suoi termini propri con che davanti alla mente si
restituisce Iddio, o relativamente co' suoi termini impropri con
che si presentano alla mente gli enti finiti. Questi tre oggetti
del pensiero essere preciso da suoi termini, essere assoluto, essere
relativo e finito non sono dunque enti identici, ma tre enti di-
versi: l'ente infinito e finito sono enti diversi reali; l'essere
preciso da' suoi termini è un inizio di ente: la mente stessa noi
concepisce come un ente in sé, ma come un ente che è sola-
mente in sé relativamente ad essa, ed oggetto di lei , e perciò
dalla mente slessa diverso.
Articolo V.
Concetto di diventare.
6^0. La dottrina della semplicità e dell' identità degli enti con-
duce a intendere il concetto del diventare, che male inleso diede
occasione a innumerevoli errori, tra i quali i più recenti della
scuola hegeliana.
Q\3
Abbiamo veduto, che la varietà intrinseca è duplice, poicliè
0 è quella delle forme, in cui è un medesimo ente, o è quella
de'cangiamenli che può subire un medesimo ente. Tra questi can-
giamenti si può pensare anche quello in cui l'ente cessa d'esi-
stere , e rimangono delle appendici che si costituiscono in un
novo ente. Questo è il genuino concetto del diventare rispetto
all'ente. iMa di questo concetto si abusa da alcune menti, che si
perdono in una confusa speculazione. È dunque necessario dare
a questo concetto la luce dell'analisi , e cosi togliere quell'o-
scuro, dal quale deriva l'errore.
Il concetto dunque del diventare risulta da elementi parte reali
— cioè che si riferiscono ai reali, — parte ideali, e parte puramente
mentali. Quando questi vari elementi si prendano confusamente,
quel concetto si presta a tessere innumerabili fallacie , che nel
maneggiarlo si passa occultamente dall'ordine de' reali a quello
degli ideali e dall'uno e l'altro a quello de' mentali, e si con-
chiude d'uno di questi ordini quello che non vale se non per
l'altro; quindi i paradossi e i sofismi non hanno più fine.
G^l. Cominciamo dal considerare questo concetto in sé stesso,
per considerare poscia le applicazioni ai tre ordini,
« Un ente diventa un altro ».
Acciocché questa proposizione abbia una verità rigorosa con-
viene che ci sia identità tra l'ente che diventa e l'altro diven-
tato, perché in ogni proposizione vera ci deve essere un'identità
tra il predicato e il subietto (Logic. 205-205, 3^8-357, itOZ-hOH).
Ma questo è impossibile, perchè il diventato é un altro, diverso
da quello che diventa, e però sono due, e l'ente è essenzial-
mente uno. Né vale il mutar forma alla proposizione riducen-
dola così : (c Un ente è diventante un altro », ovvero : « un ente
è diventato un altro » . Poiché la seconda di queste due forme
ha lo stesso assurdo in sé stessa, perché Venie divejitalo già non
è più l'ente di prima , onde non è l'ente di prima che sia di-
ventato, perchè Vente diventato non é quello a cui s'attribuisce
l'atto del diventare. Manca dunque ancora ogni identità del
giudizio. Dicendo poi « l'ente è diventante un altro », fino che
l'ente é diventante solamente é ancora l'ente di prima , ma
quando ha finito il suo atto, egli si è annullato, e perciò non
é mai diventante un altro, ma solamente è nell'atto di annui-
6U
larsi, checché rimanga dopo di lui, che non è lui. Se non può
mai essere diventato un altro , né pure può essere diventante.
Gli Hegeliani dunque, che fanno del diventare il principio della
filosofia , fondano la scienza sopra un concetto che nella sua
enunciazione rigorosa è un assurdo; e in fatti sono poi costretti
a confessare essi stessi, che la loro filosofia s'intesse di contrad-
dizioni, e se ne danno vanto come d'una grande scoperta.
Si replicherà che altra proposizione è : « l'ente che diventa
è il diventalo >; , e altra: « l'ente diventa un altro ». Ammet-
tiamo qualche differenza nelle due proposizioni ; ma se non è
vera la prima, non può essere vera la seconda, perchè la se-
conda implica la prima. Ciononostante dimostriamo di novo l'im-
possibilità della seconda.
« Un ente diventa un altro » : quest'altro non é lui che di-
venta, altrimenti non sarebbe un altro. Dunque se indichiamo
l'ente che diventa colla lettera A, la proposizione « un ente di-
venta un altro » si potrà esprimere così « A diventa non- A ». Ora
diventare non-A equivale a cessare di essere A , e cessare di
essere A equivale per A ad annullarsi. Diventare dunque un
altro è prima di tutto un annullarsi. Ma ciò che é annullato
non può più diventare un altro. La proposizione dunque, come
dicevamo, implica una contraddizione inevitabile , perché con-
tiene due cose contraddittorie, cioè l'annullarsi , e il diventare
un altro.
042. S'insisterà dicendo, che il diventare un altro esprime un
movimento dell'ente che passa per il nulla, di maniera che l'ente
che diventa si move così che prima s'avvicina al nulla fino che
lo raggiunge, e poi, raggiunto il nulla, da questo nulla sorge
l'altro ente, di maniera che il nulla sia la fine del primo ente
e il cominciamento del secondo e però il punto di continua-
zione 0 d'indifferenza de' due enti. Così infatti s'esprimono gli
Hegeliani. Ma con ciò invece di un assurdo solo, ce ne danno
due. Poiché devono dire , o che l'ente primo , il nulla in cui
finisce, e l'ente secondo che nasce dal nulla, sieno un subietto
identico del movimento, o che que'tre termini non abbiano
identità. Se fossero identici, allora la proposizione: « l'ente di-
venta nulla e dal nulla diventa l'altro ente » sarebbe ,vera*,
perchè questa supposizione ha un subielto solo che diventa , e
645
questo subietto non sarebbe solo se non fosse identico ed uno.
Ma se il primo ente non ha identità col nulla , e il nulla non
ha identità col secondo ente, quella proposizione è falsa, perchè
essa pone un subietto solo ed identico di tutto il movimento.
Lo stesso ente che si move a diventar nulla, divenuto nulla si
move a diventare un altro ente. Ma il dire, che l'ente primo ,
il nulla , e Tonte secondo sieno identici , è dire due assurdi :
poiché un assurdo è il dire che l'ente sia identico al nulla ,
che quando l'ente si è annullato non c'è più , e se non c'è
più, non è più l'ente di prima; e un altro assurdo è il dire che
il nulla sia identico al novo ente per la stessa ragione, che il
nulla nega l'ente, e l'ente afferma sé stesso. Ora negare e af-
fermare non può essere identico , appunto perchè è diverso al
maggior grado, essendo contraddittorio; e diverso vuol dire non
identico.
Tutto dunque l'hegelianismo è basato sopra una proposizione
doppiamente assurda.
Ma s'escluderà per questo ogni senso della parola diventare?
Come avviene che tanto l'adoperino gli uomini, e che nell'umano
discorso appena se ne possa far senza?
Noi siamo ben lontani da volere escludere l'uso volgare di
questa parola. Ma è necessario dichiarare in qual senso la si
usi, dal che apparirà più manifestamente ancora, che se ella è
buona nel comune discorso, non si può tuttavia introdurre nella
scienza,
643. I. Incominciamo dagli enti reali finiti.
A. Abbiamo detto, che questi enti si compongono d'una
hase e di appendici^ e che l'ente non ha perduta l'identità, se non
quando è rimossa la base: di più, che in certi enti le appendici
sono variabili rimanendo immutata la base (622, B). In que-
st'ultimo caso si dice con proprietà, che l'ente si muta, ma non
si dice, che diventi un altro ente. Nel primo caso, per bre-
vità di parlare, si dice che diventa un altro; ma questo parlare
figuralo usato ne' discorsi comuni, non esprime il fatto con esat-
tezza , ed anzi involge le contraddizioni che abbiamo indicate.
Per maggior chiarezza, cominciamo a parlare di quegli enti le
cui appendici sono variabili •
Se accade, che una base inferiore si congiunga ad una base
6^6
superiore , e da questa congiunzione risulli un ente solo, si fa
una mutazione nelle due basi divenule una sola , ma la muta-
zione è di natura assai diversa rispetto alla base superiore da
quello che sia rispetto alla base inferiore. La base superiore
rimane, dopo la congiunzione , base dell'ente e però Tenie da
essa formato ha conservata la sua identità , ma l'atto costitu-
tivo di quest'ente^ dall'intima unione che ha contratto coU'atto
costitutivo dell'ente inferiore, acquistò una nova virtù e un novo
valore. Questa nova virtù si può dire un aumento di sostanza,
perchè aifetta l'atto stesso che fa sussistere Tenie: ogniqualvolta
dunque una base superiore s'accresce di virtù per la congiun-
zione d'una base inferiore , s'aumenta la sostanza , ma non si
perde l'identità dell'ente.
La base inferiore all'incontro essendosi unita e unitìcata con
una base superiore non costituisce più da sé stessa un ente, e
però l'ente ch'ella prima formava non esiste più, ma solo esiste
l'ente che era costituito dalla base superiore. Questa base su-
periore rispetto all'inferiore, a cui s'è unita, dicesi forma sostan-
ziale di quest'ultima, che .ha cessato d'essere ella slessa forma
sostanziale d'un ente.
Ci hanno dunque due cose a considerare. Tona il cangiamento
sostanziale che ha subito l'ente costituito dalla base superiore
senza perdere l'identità, l'altro il cangiamento entico che ha su-
bito l'ente costituito dalla base inleriore, cangiamento che con-
siste nelTaver cessato d'esistere , e cosi aver perduto la sua
identità per una nova forma sostanziale che gli è sopravvenuta.
644. Il cangiamento sostanziale che nasce nell'ente superiore,
senza che se ne perda l'identità, suscita nell'animo questo dubbio:
« Se la base dell'ente, che è Tatto costitutivo dell'ente stesso,
acquista nova virtù , e se però la parte stessa sostanziale del-
l'ente s'aumenta, come rimane Tenie identico? o, se è identico,
come si può dire, che Tenie sia perfettamente uno, quando egli
stesso può esser composto di uno e di due »? A ragion d'esempio,
Tanima intellettiva separata dall'animalità è un ente; quando a
questa s'aggiunge il principio sensitivo animale, che è una base
inferiore, quell'anima acquista una virtù che non aveva prima,
la virtù sensitiva' e motiva del corpo. Quest'aggiunta che ha
acquistalo Tanima umana è un aumento di sostanza , poiché
fi 17
divenne base coslilutiva dell'ente il principio razionale, clic è la
b;isc dcH'enle uomo, e che è qualche cosa di più del principio
meramente inlelletlivo. Nasce dunque la dimanda: « se l'anima
rimanga identica, separata ed unita all'animalità ».
Per risolvere il qual dubbio conviene fare alcune distinzioni:
l ° L'accidente, la sostanza, e Venie sono tre concetti diversi.
ll° L'atto costitutivo o base dell'ente dee collocarsi sola-
mente nel principio sapremo immanente che si trova nella rea-
lità dell'ente stesso. Da questo principio supremo dipendono
tutte le attività dell'ente, ed egli è il contenente massimo di
quelle. Se trattasi d'un ente intellettivo , da un tale principio
supremo nasce a lui la coscienza della propria identità. Ora
questo principio supremo, soggettivo, reale, nel caso dell'anima
umana è il solo intellettivo , a cui è subordinato il sentitivo.
Perciò l'anima anche separata, dato che rifletta sopra sé stessa,
si fa consapevole della propria identità.
3.° La parola sos'anza, negli enti- princìpio, abbraccia non
solo questo principio supremo soggettivo unico contenente il
resto; ma abbraccia ancora tutta l'attività immanente, di cui
essa può esser fornita, ossia che può contenere in sé.
4.° La sostanza poi si distingue dagli accidenti per essere
questi, 0 atti transeunti, o tali che, anche mutati , non tolgano
né diminuiscano l'attività immanente dello stesso principio, o
quella che in un modo immanente egli contiene. Dalle quali
distinzioni si deduce la soluzione del dubbio. Poiché unendosi
l'anima ossia il principio intellettivo col principio sensitivo — onde
di due i)rincipì se ne fa uno [Psicol. 294-298, 039-644) — il
principio intellettivo rimane il medesimo, come contenente, ma
s'è accresciuto il suo contenuto, e perciò acquistò una nova
virtù. Egli dunque, e conseguentamenle Tenie da esso costituito,
ha conservata la sua identità, ma s'è accresciuta la sua sostanza,
perchè s'è accresciuta la sua attività immanente. Di che si de-
duce il corollario:
« Che le sostanze finite non sono del lutto invariabili, benché
sieno tali considerate in relazione cogli accidenti, ma ammettono
qualche aumento e qualche diminuzione senza che perciò si di-
strugga necessariamente l'identità dell'ente, e questa variabilità
si vede quando si considerano in relazione al primo principio
GIS
costitutivo dell'ente e alla diversa quantità d'attività immanente
ch'egli può contenere » {Ideol. 612,613).
6^5. Stabilito questo fatto ontologico che la sostanza d'un ente
ammette qualche aumento o diminuzione senza che si perda
l'identità dell'ente, a cagione della costanza del principio su-
premo — il che accade quando una base superiore s'unisce a una
base inferiore, — consideriamo ora che cosa avvenga della base
inferiore quando s'unisce ed unifica con una base superiore.
Abbiamo già detto , che la base inferiore, a cui sopravviene
una base superiore, cessa d'esser base d'un ente e conseguente-
mente d'esser forma sostanziale, e acquista per forma sostanziale
la base superiore. Perisce così l'identità dell'ente e se n'ha un
ente novo , il che s'esprime brevemente colla parola diventare.
In fatti se noi consideriamo un principio animale prima diviso
da ogni principio intellettivo, poi unito con un principio intel-
lettivo troviamo:
1." Che questo principio animale, quando stava da sé, co-
stituiva la base d'un ente, completo o no non importa.
2.° Che congiunto con un principio intellettivo ha cessato
d'essere base d'un ente, ed è divenuto appendice, o contenuto,
d'un ente superiore a lui.
Sebbene dunque non ci sia più l'ente di prima, tuttavia la
mente umana può considerare quest'appendice, o quest'attività
immanente contenuta, come un ente , e può domandare qual
mutazione abbia subito quest'ente, ma tultociò per una finzione
0 ipotesi dialettica. Ella risponde dunque a sé stessa, che quan-
tunque in sé sia ancora un principio animale, tuttavia per l'in-
tima unione coli' ente superiore ha acquistato una nova forma
sostanziale, una nova dignità, una relazione ontologica che il fa
cangiare di natura e di specie.
In questo discorso, che fa la mente, il subiello è puramente
dialettico, e il predicato é reale, cioè la mente prende ciò che
è appendice, e dialetticamente lo suppone un ente, ponendolo
come tale a subietto del discorso: a quest'ente dialettico poi attri-
buisce una forma sostanziale e reale, che consiste nella sua con-
giunzione ontologica col principio intellettivo divenuto sua forma,
reale e sostanziale , rispetto alla quale esso ha il concetto di
materia.
619
Qui dunque si ha un esempio del modo e del significalo, in
cui si può adoperare la parola diventare applicala agli enli.
Poiché se si dicesse che quel principio sensitivo e animale è
diventato razionale, si direbbe una cosa che non regge certa-
mente in senso rigoroso, ma che è tollerabile nell'uso dialettico.
Non regge in senso rigoroso , perchè quel principio sensitivo ,
quando s'è trovato unito airintellellivo, ha cessato d'essere un
ente. Pure cessato l'ente, e perduta di conseguente l'identità
propria dell'ente, è restato materia d'un altro ente. Ma la mente
che prende questa materia per subietto del discorso , parla di
essa come fosse un ente, e però l'ente reale non è divenuto
cosa alcuna, ,nè' s'è annullato, ma è divenuto l'ente dia-
lettico, perchè questo ente dialettico, cioè supposto dalla mente,
è restato, e però la mente potè considerarlo come identico , sia
quando era disunito dal principio intellettivo, sia dopo che s'unì
al medesimo, benché realmente tale non sia: che la mente può
benissimo fare tali supposizioni per la necessità del suo conce-
pire e del discorrere, salvo poi a distruggerle con una più alta
riflessione, e così ad emendare il difetto del discorso umano.
C46. Questa maniera di parlare, non vera rigorosamente ma
vera di supposizione dialettica, trova un cerio appoggio anche
nella natura della cosa. Noi abbiamo già detto, che la generazione
dell'anima umana si può concepire per gradi progressivi dal-
l'imperfetto al perfetto, e però che prima ci sia il principio
sensitivo , il quale giunto alla sua perfezione colla perfezione
dell'organismo, riceva l'intuizione dell'essere e così si renda
intellettivo e razionale [Psicol. 672-675). È vero — e l'abbiam
pure dimostralo — che il principio sensitivo, tosto che riceve
la detta intuizione, perde la sua individualità, e l'ente che ri-
mane non è più lui, ma un ente razionale {Ivi. 676-680). Que-
sto spiega come S. Tommaso dica che un anima si corrompa
nel feto, e ne sopravvenga un'altra. Quindi si offre alla mente
l'espressione, che il principio sensitivo sia divenuto principio ra-
zionale, che si sia convertilo in un altro, avendo subito vera-
mente una tale permutazione , per la quale prima c'era lui, e
poi c'è l'ente razionale. Ma questo nasce sempre per la ragione
delta che la mente considera il principio sensitivo, anche dopo
d'esser divenuto materia d'altro ente, come ente, per la virtù
dialettica, e quindi come identico; che materialmente è identico,
benché non formalmente.
E da quest' esempio pure si vede come la parola diventare
s'applica nel comune discorso alla materia, e alle appendici degli
enti, e non agli enti stessi. Di che conviene stabilire il seguente
principio:
({ L'ente è, o non è, non diventa mai, né diventa un altro :
ma la materia, o le appendici degli enti, diventano, cioè diven-
tano un ente, o un altro ».
Ma poiché la materia da sé sola non è mai un ente reale ,
e solo si considera per tale dalla mente per bisogno del discorso,
perciò il dire che « la materia diventa » non è più che una
verità dialettica, su cui non si può in alcun modo fondare un
sistema assoluto di verità , ossia una vera Ontologia come pre-
tese di fare Giorgio Hegel.
6^7. È dunque pienamente manifesta l'illusione degli Hegeliani,
che hanno confusa e identificata una base dialettica dell'ente
— cioè la materia presa dalla mente per base dell'ente — colla
base reale, ossia coU'ente stesso. La sola materia, le sole appen-
dici dell'ente, non esistono se non davanti alla mente, dialet-
ticamente, cioè per opera della mente: il solo ente esiste. Dun-
que i seguenti corollari sono importantissimi teoremi d'Ontologia:
l. L'ente non è generato dalla materia, di maniera che
ci sia prima la materia o le appendici , e poi dalla materia o
dalle appendici sia nato l'ente.
H. L'ente, che non ha appendici o materia, non è soggetto
al moto della generazione, o della formazione.
HI. La prima origine dell'ente finito, composto di basi e
d'appendici — supposto già provato , che deva avere comin-
ciato — non può essere che la creazione, appunto perchè l'ente
non diventa, ma è o non è.
IV. 11 moto della generazione o della formazione dell'ente
è solo possibile in questo senso, che la materia o le appendici
dell'ente perdano la loro forma sostanziale ossia la loro base ,
e ne ricevano un altra, nel qual caso non c'è identità tra l'ente
antecedente e il susseguente, cioè il primo ente non è più , e
in suo luogo ne esiste un altro.
V. r^a generazione o formazione dell'ente finito non può
dunque aver luogo, se non a condizione che ci sia una materia
ossia delle 'appendici alte a ricevere diverse basi o forme so-
stanziali ; ma questa materia non islando mai da sé sola, perchò
non è un ente, non ha che un' esistenza dianoetica , e quando
l'uomo ne ragiona come fosse un ente, ella si veste della forma
dell'ente, datale ed imprestito dalla mente provvisoriamente e
per supposizione, il che equivale a dire che è un ente dialettico.
VI. Quest'ente dialettico, quando la mente ci riflette sopra
con una riflessione ontologica, riceve i nomi di non-ente, di rudi-
mento dell'ente, o altro simile, e così è che la mente pensa e parla
d'un movimento dal non-ente all'ente, dal rudimento dell'ente
all'ente formato , da ciò che è in via d'esser ente a ciò che
è già ente ecc., il che i Greci chiamarono generazione e più
propriamente si direhbe formazione dell'ente. Nel considerare
questo movimento, il pensiero fa astrazione da quella forma so-
stanziale e hase che perisce, e non considera che le appendici
e la materia che diventa, l'ente informe, quasiché questa fosse
sola, esistesse da sé sola, o l'ente informe fosse ente.
0^8. Illustriamo questa dottrina con altri esempi.
Supponendo che ci fosse o ci potesse essere un corpo del
tutto inanimato, benché non destituito di forme figurative, e che
poi venisse animalo, il principio che l'animasse costituirebbe
la nova base, il novo ente : quel corpo rimarrebbe corpo, pure
avrebbe acquistalo una nova forma sostanziale , onde non sa-
rebbe più l'ente di prima. Se questo corpo che ha ricevuto
coH'animazione un altra forma sostanziale, ricevesse in appresso
anche la forma intellettiva, unendosi il principio intellettivo al
principio animale , quel corpo slesso avrebbe ancora mutato di
forma sostanziale e non sarebbe più né l'ente che era quando
era puro corpo, né quell'ente che era poi quando ebbe acqui-
stata l'animazione , ma sarebbe un novo ente con una nova
forma sostanziale. Il corpo coli' acquisto della prima forma
avrebbe cessato d'essere egli stesso un ente, e sarebbe divenuto
appendice della base sensitiva coll'aquisto della seconda forma,
lo stesso principio sensitivo avrebbe cessato d'esser ente, e sa-
rebbe divenuto alla sua volta un' appendice dell'ente razionale,
e solo dialetticamente in questo modo di dire sarebbe -conside-
rato come ente subietto del discorso.
6-22
Ma se invece si riconosce, che il principio della vita è unito
individualmente agli elementi della materia {Psicologia 500-533),
e si riconoscono pure i tre gradi di vita da noi descritti , di
continuità, d'eccitamento, e d'armonia (M. b34-5U), l'identità
del corpo, cioè deirenle-termine, dipenderà dall'identità del prin-
cipio vivente che lo anima, e che costituisce veramente la sua
forma sostanziale.
6^i9. Conviene dunque prima di tutto proporre la questione
sull'identità dell'ente vivente.
Questa questione generica ne inchiude molte più particolari,
tra le quali, questa: « Se l'ente che vive del primo grado di
vita diventi un altro ente quando acquista il secondo e poi il
terzo, 0 se resti l'ente identico; e al contrario, se ciò che di-
venta non sia l'ente di prima, ma solo la sua parte materiale
od appendice, secondo la teoria data ».
E prima ancora di questa si può fare un'altra questione:
« Se nella moltiplicazione degli enti materiali, di cui abbiamo
dato altrove la teoria {Psicologia 445-553), gli enti diversi che
esistono dopo la moltiplicazione, sieno identici, o diversi dall'ente
unico che esisteva prima della moltiplicazione ».
I. Principiando da questa seconda questione, è chiaro che
gli enti, esistenti dopo la moltiplicazione, non possono essere
identici al primo, si perchè sono diversi tra loro, e cose diverse
tra loro non possono essere identiche ad una terza , e sì per
la ragione, che ad ogni ente è necessaria la proprietà d' esser
uno indiviso in sé e diviso da tutti gli altri (,578, sgg. 612,
sgg.*). È dunque chiaro che tutti gli enti esistenti dopo la
moltiplicazione non hanno identità col primo.
II. Rimane la questione se tra gli enti che esistono dopo
la moltiplicazione , ne possa esistere uno identico di specie al
primo. E questo può benissimo avvenire, ed avviene nella ge-
nerazione degli animali più completi.
III. Supponendo poi, che esista la sola vita di continuità
annessa ad una massa di materia coerente, ma non organata, e che
dividendosi la materia, o divisa riunendosi, i principi sensitivi,
che sono la base dell'ente, si moltiplichino, o di novo si unifi-
chino; i nuovi enti che ne nascono conservano l'identità col
primo 0 almeno alcuno di essi?
G23
Moltiplicali, essendo per ciò stesso diversi, non possono, come
abbiam detto, esser identici a quell'unico ente che c'era prima,
per la ragion detta che è proprietà dell'ente l'unità.
Né pure è da dirsi , supposta sempre la materia inorganica
uniforme ed equabilmente distribuita, che uno tra i molli che
esistono, dopo la moltiplicazione, rimanga identico a quel di
prima, poiché qui trattasi di quegli enti ne' quali la base è così
congiunta coll'appendice, — e qui sarebbe il continuo corpo-
reo, — che tolte le appendici è distrutta la base (,622 A*). In
enti di questa sorte, l'esistenza della base dipende essenzial-
mente dalle appendici, e però ella si deve cangiare secondo il
cangiarsi delle appendici. Consegue, che cangiale anche nella
sola quantità le appendici, in qualunque sia modo, l'ente slesso
non c'è più, e n'è venuto un altro ; e ciò perchè in questo caso
i principi che s'unificano sono dello stesso grado, non ce n'è
uno superiore e l'allro inferiore; e però quel principio che c'è
è supremo. Coli' accrescersi d(mque e col diminuirsi il numero
de' principi, nasce un cangiamento nello stesso principio supremo,
base dell'ente. Io slimo conseguentemente, che il principio sen-
sitivo di mera continuità si cangi e diventi base di un altro ente
ad ogni aumento o diminuzione del numero degli atomi animati,
che per la loro contiguità uniscono i loro principi sensitivi in un
solo.
Non così direi, se, rimanendo uguale il numero degli atomi
al conlatto, si mutasse la loro posizione reciproca , la conden-
sazione, 0 rarefazione, i quali sarebbero cangiamenti acciden-
tali e però apparterebbero alle appendici accidentali (621 i9).
Trattandosi di principio sensitivo di continuità materiale, il suo
atto è essenzialmente determinalo dalla quantità degli atomi
contigui, che in quanto allo spazio, a cui questa materia si ri-
ferisce, si suppone sempre presente, illimitato e immutabile [Psi-
cologia 5o4-5o9), e il luogo diverso non toglie l' identità del corpo.
IV. Ma qualora la materia disunita tornasse ad unirsi sic-
come prima, il novo ente che se n'avrebbe, sarebbe egli iden-
tico a quello che era prima 'f
Da una parte, se l'ente di prima è stalo distrutto, come po-
trà essere identico a lui, quello che si fa di novo? Dall'altra,
quello che si fa di novo è perfettamente uguale a quello che
624
c'era prima si per rispello alla forma e sì per rispelto alla ma-
leria; in che può dunque variare? come può esser diverso? Il
tempo diverso dell'esistenza o lo spazio diverso cangiano l' iden-
tità dell'ente?
Essendo questa una di quelle difficoltà, che, studiate a fondo,
fanno progredire la scienza, giova che noi ne traltiamo alquanto
estesamente.
6S0. Il corpo può esser considerato in due modi; o si considera
il corpo tale qual è come termine d'un principio sensitivo unito
a questo, o lo si considera con astrazione da questo principio,
come un ente pur.imente eslrasoggetlivo, separato dal principio
sensitivo a cui è realmente unito.
L'uomo in falli, il comune degli uomini, lo pensa in questo
secondo modo imperfetto, e non perviene a riconoscere, ch'egli
non esiste e non può esistere così solo, se non dopo molta me-
ditazione e speculazione: parliamo dunque primieramente del-
l'identità del corpo così considerato.
Abhiamo dello, che ne' giudizi intorno l'identità è necessario
afferrar bene qual sia Veleìuento identico, se questo c'è ; che se
ridenlità si rijìone in un altro elemento, i giudizi sono sbagliali.
Ora la varietà dell'elemento identico, che ci può essere, dà luogo
ai diversi generi o classi d' identità. Gioverà qui enumerare le
principali per procedere con chiarezza nella soluzione della no-
stra questione :
Prima classe d'identità. — Identità di esistenza.
Seconda classe d'identità. — Identità di genere sommo.
Terza classe d'identità. — Identità di genere inferiore.
Quarta classe d'identità. — Identità di specie astratta.
Quinta classe d'identità. — Identità di specie pienissima.
Sesta classe d'identità. — Identità di specie piena ma non pie-
nissima.
Settima classe d' indentila. — identità dell' individuo realmente
esistente.
Col. Abbiamo distinto \a specie piena dalla pienissima da questo,
che la specie pienissima è quella che si considera neW Esemplare
del mondo; laddove la specie piena si considera in sé, secondo
la propria natura , e non secondo la posizione che occupa in
tutto l'Esemplare.
623
Applichiamo or dunque questa dislinzione agli enli corporei
eonsiderati nudamente come estrasoggeltivi. Nella specie piena
di questi non è rappresentato né lo spazio che occupano , né
il tempo in cui realmente esistono , e ciò perchè la specie, e
l'essenza totale, veduta nella specie, è fuori dello spazio e del
tempo, esistendo la specie ah eterno nella divina mente. All'in-
contro se la stessa specie piena d' un corpo si contempla come
essente nell'Esemplare del mondo, ella racchiude il tempo deter-
minato e lo spazio determinalo in cui è quel corpo — Ma se
la specie piena in sé stessa considerata è immune dallo spazio
e dal tempo, come avvien poi, che la slessa specie piena con-
templata nell'Esemplare determini anche lo spazio ed il tempo?
Non è ab eterno nella divina mente appunto anche V Esem-
plare ?
Ecco la risposta a questa apparente difficoltà. — L'Esemplare
deve considerarsi lutto insieme nella divina mente come una
specie sola organala, contenente tutta la realità mondiale. Ora
è indubitato, che l'Esemplare come specie della mente divina è
immune dallo spazio e dal tempo: e del pari n"è immune l'es-
senza totale che contiene.
Quest'essenza è tutta la realità mondiale involta nell'idea. Se
si prende tutto il mondo, oggfHto della creazione divina, — e di-
cendo tutto il mondo dico lutto lo spazio e tutto il tempo della
durata mondiale, — in tal caso il mondo^ e il temi)o, e lo spazio,
sono ugualmente cosa immune alTatto dallo spazio e dal tempo: lo
spazio totale non è in un altro spazio, nò il tempo in un allro
tempo. iMa se all'incontro si considerano le parli di questo esem-
plare, cioè le specie piene di tutti gli enli mondiali, delle quali
egli si compone , allora si trova tra gli enti mondiali, che in
quelle specie si vedono, un tempo in cui ciast^uno è, in quant'é
temporaneo , e un luogo detcrminato nello spazio nel quale i
corporei sono; onde tra queste parli dell'esemplare cadono le
relazioni di spazio e di tempo, benché nò l'esemplare tulio in-
tero, nò la singola specie piena de' corpi, o l'essenza rappresen-
tata da questa, dimostri in sé alcun luogo determinato in cui
sieno, 0 alcun tempo. Gli enti mondiali dunque, intuiti nell'esem-
plare, hanno rispetto ad altri enti, che sono nell'esemplare me-
desimo, relazioni di spazio e di tempo, le quali relazioni ren-
RosMi.Ni. Teosofa. 40
6-26
dono, ciascuna delle dette specie \ì\ene, pienissima, e capace d'una
sola realizzazione.
La ragione dunque per la quale conviene distinguere la spe-
cie piena d.illa specie pienissima si è, che la prima contiene le
delenninazioni inlerne della realità finita, ma la seconda contiene
oltracciò le determinazioni esterne, cioè le relazioni cogli altri
enti, e specialmente quelle di tempo , e quelle di spazio per
gli enti ed entità corporee.
Se dunque l'ente o più enti hanno lutto ciò che si trova
in una specie piena, ma non tutto ciò che si trova determinalo
nella specie pienissima, V identità che vi si ravvisa dicesi : iden-
tità di specie piena.
Se Tenie ha tutto ciò che si trova determinato nella specie
pienissima, in tal caso l'ente è unico, ed ha ridentità di specie
pienissima, e supponendo questa realizzata si ha l'identità d'in-
dividuo realmente esistente.
652. Ottava classe d'identità. — Identità media tra quella della
specie piena e quella della specie pienissima propria de'corporei.
Ma parlando de' corporei s'incontra un' identità media, perchè
si può ravvisare in un ente corporeo tutto ciò che c'è nella
specie piena e parte anche di quello che c'è di più nella specie
pienissima, ma non tulio : per esempio la slessa posizione nello
spazio, e non la stessa posizione nel tempo.
In falli se si suppone, che due corpi occupino duo spazi di-
versi, benché l'un e l'altro realizzi in sé tutto ciò che si trova
nella specie piena , tullavia non possono constare dell' identica
materia; perchè l'identità di questa è determinata dall'identità
dello spazio che occupa [Ideal. 941 sgg, 851). Non hanno dun-
que Videntilà d'individuo reale , che è quella slessa della specie
pienissima.
Ma se dopo aver fusa una statua di metallo, questa statua
si rimette nel crogiuolo, e collo stesso metallo liquefatto si ri-
fonde la statua nella medesima forma, in tal caso si ha l' identica
forma figurativa — che è l'unica propria dell'ente estrasoggettivo
preso in separato — l' identica materia, e si può avere l' identico
luogo, determinazione che appartiene alla specie pienissima, ma
non s' ha tuttavia lo stesso tempo continuato d'esistenza, e però
manca qualche cosa della specie pienissima. Questa è l'identità
6-27
media che dicevamo tra quella della specie pienissima, e quella
della specie piena, propria de' soli corpi cstrasoggellivamente
considerali.
G55. Si domanderà dunque: l'ente identico di materia, di
forma e di luogo, ma la cui esistenza ebbe un'interruzione di
tempo, si può ell.i dire: identità d'individuo reale ^
Rispondo affermativamente. Il snhiclto dell' individuo reale
corporeo è la materia, la quale non ha propriamente una /br»m
sostanziale, ma solo ha una quantità determinala, che si può
considerare come /orma sostauziale estrasoggettiva: l'avere poi
piuttosto una figura che un'altra le è accidentale. L'esistenza del
subietlo non fu dunque interrotta, il subictto non fu mai annul-
lalo. Avendo dunque lo stesso subietlo ricuperati gli stessi acci- .
denti di prima, si dee dire identico l'ente statua considerato come
un individuo reale determinato , e ciò [>erchè l'ente estrasoggettivo,
non avendo subiettivilà , e molto meno coscienza, la discontinuità
del tempo noi cangia, essendo il tempo essenzialmente un elemento
subiettivo, e non trovandosi nello cose puramente materiali {Psi-
col. 41ì)7 sgg.). Di che viene il principio :
« Che ogni qual volta il subietto — dialettico, — costituente un
ente reale, dura senza interruzione nella sua esistenza, ma è
interrotta solo l'esistenza de' suoi accidenti, quando abbia ricu-
perato gli accidenti di prima, è l'identico ente reale di prima:
identico dico in lutto, non solo per riguardo alla sostanza e alla
quantità che sta in vece di forma sostanziale, ma ben anco ri-
guardo agli accidenti ».
634. L'ente reale, dunque, può subire modificazioni, che gli fac-
ciano perdere i suoi accidenti, e il nome pel quale da questi si
denomina, come il nome di statua, e può dopo di questo ritornare
identico a quel di prima, ricuperando gli stessi accidenti , e lo
stesso nome che gli attribuisce la mente umana, quando lo deno-
mina da' suoi accidenti, e lo denomina da questi, quando questi
abbiano per lei una certa importanza prevalente, per diverse re-
lazioni, come accade appunto del nome di statua dato a una pietra,
0 di ritratto dato a certi colori impressi sopra una superficie.
Dunque è medesimamente da conchiudere « che l' interruzione
di tempo nell'esistenza di ciò che non costituisce lo slesso subietlo
reale , non distrugge l'identità dell'individuo reale determinato ,
\
628
quando questo poi abbia ricuperato quegli accidenti e quella for-
ma, da cui si denomina -».
L'identità dunque dell'ente reale si fonda unicamente nell'iden-
tità del subielto, cbe è la buse delTente.
Altra è dunque Videntità espressa dal nome^ la quale talora è
un'identità puramente dialettica, altra Videntità dello stesso ente
reale. Quella può perdersi e ricuperarsi, non questa.
E non farà maraviglia, che l'identità di cui parliamo espressa
dal nome sostantivo, ma sostantivo solo dialetticamente, perchè
in fatti dedotto da una forma accidentale, possa perdersi e ricupe-
rarsi, quando si consideri, che questa forma onde si trae il nome,
e che nel caso nostro è la figura data ad un corpo, è di natura
semplice e tale che rimane involta nell'idea: onde quando ritorna
allo stesso subietto è quella di prima e non un'altra, benché il
subietto col perderla e ricuperarla abbia fatto atti diversi acci-
dentali, non identici. Così la figura cubica, a ragion d'esempio, è
identica sempre in qualunque corpo si ravvisi, come il numero tre
è sempre l'identico numero, a qualunque cosa si applichi.
6ar>. Fin qui noi abbiamo parlato dell'identità del corpo unica-
mente come ente eslrasoggeltivo e termine astraendo dal suo prin-
cipio intrinseco vivente. Ma quest'è un modo imperfetto e parziale
di considerare il corpo; perchè in fatto questo non esiste e non può
esistere se non unito al suo principio sensitivo che lo contiene.
Ora abbiamo già detto innanzi, che i corpi considerali nella loro
vera natura, per la quale sono essenzialmente termini d'un prin-
cipio sensitivo, non hanno un'entità e quindi un'identità entica,
che sia loro propria, ma insieme colla loro esistenza l'acquistano
dalla natura del principio intrinseco di cui sono termini. Laonde
vedemmo che un corpo diventa un altro ente, e cessa d'essere
quel di prima, quando si muta il principio di cui è termine, e per-
ciò ottimamente dice S. Tommaso, che il corpo d'un uomo vivo e
il corpo d'un uomo morto non sono identici, ma sono enti diversi.
Dobbiamo or dunque continuarci nell'esaminare le questioni
d'identità, che riguardano gli enti sensitivi e intellettivi, che ab-
biamo chiamati enli-principio.
Dicemmo, che non si perde l'identità delTente principio quando
con lui s'unifica un principio inferiore, ma che si perde quando a
n lui s'unifica un principio superiore, che diventi base dell'ente.
629
Ancora , che si perde l'identità dell'ente principio quando più
principi uguali, essondo priiria disuniti , s'unificano, o essendo
prima uniti , si dividono ; benché la dkersilà sopravvenuta in
questo caso a distruggere ridentilc\ sia minore e diversa di specie
della diversità sopravvenuta nel caso precedente, in cui è com-
parso un principio superiore a b;ise dell'ente.
In questa teoria conviene conservare la distinzione tra la base
dell'ente, e il principio. Poiché questi sono concetti diversi, come
si vede dalle definizioni. Infatti:
La base dell'ente è quell'atto unico che contiene e unisce in sé
tutto ciò che c'è nell'ente, e costituisce il subietto ente.
Il principio è quell'atto, che contiene il termine, al quale sempre
ripugna la natura di principio.
O.jO. Uà queste definizioni si deduce :
1° Che ogni principio unico unito al suo termine può esser
un ente sussistente, perchè a costituire l'ente non c'è bisogno d'al-
tro che d'un principio unito a tutto il suo termine : in tal caso il
principio e anche la base d'un ente. Cos'i ammesso un principio
vivente che abbia per termine lo spazio e nient'altro, questo prin-
cipio unito con tutto lo spazio come suo termine costituisce un
ente che può sussistere , benciiè incompiuto , benché mancante
d'intelligenza,
2.° Che se con un principio, che ha un dato termine, s'unifica
un altro principio con un novo termine, in tal caso la base del-
l'ente consiste nell'atto unitivo de'due principi, e non in un prin-
cipio solo, e il primo principio da sé solo non basta a costituire il
novo ente. Così se col principio che ha per termine lo spazio puro
da ogni corporeità s'unifichi un altro principio che abbia per suo
termine l'essere ideale indeterminato, dalla loro unione risulterà
un novo ente, la cui base sarà costituita dai due principi unifi-
cali. Ma la mente potrà distinguere ancora due enti, poiché ri-
mane il principio dello spazio col suo termine che può esser con-
sideralo con astrazione dall'altro principio e dall'altro termine, e
così considerato ha lutto ciò che si richiede per essere un ente
sussistente, ma non per essere il secondo ente; e rimane il prin-
cipio dello spazio unito col principio dell'essere, divenuti insieme
un solo atto ed un solo principio, che coslituisce perciò un ente
630
solo, che non ha identità col primo ente, perchè n'è mutala la
base, ma è un altro ente più perfetto e gicà intellettivo.
E allo stesso modo per vìa d'astrazione si concepisce ancora un
terzo ente, quello che è principio dell'essere avente per termine
e oggetto suo tutto l'essere. In fatto dunque sussisterebbe un solo
ente reale, posta l'unificazione de'due principi, ma un ente reale
tale, i cui elementi potrebbero sussistere da sé come due enti non
identici né con esso ente reale, né tra loro, per la diversità delle
loro basi.
Ma qui si osservi che quando noi diciamo spazio intendiamo
parlare dello spazio quale apparisce all'uomo, e prescindiamo af-
fatto dalla ricerca che cosa potesse essere per l'Angelo quello che
per noi è spazio. E così del pari noi parliamo dell'essere quale è
all'intuito dell'uomo, non quale é ad altre intelligenze diverse dal-
l'uomo, ricerca che complicherebbe troppo il nostro discorso.
5.° Il principio dello spazio, e il principio dell'essere sono in-
dipendenti; l'uno è un principio vivente puram.ente sensitivo, l'altro
è un principio intellettivo. Ma c'è un terzo principio che dipende
da quello dello spazio e lo suppone, e questo è il principio vivente
della materia corporea. Noi abbiamo veduto che questo principio
vivente ha tre atti : l'atto che ha per termine il continuo corpo-
reo, l'atto che ha per termine il movimento intestino di questo
continuo corporeo, l'atto che ha per termine l'armonia circolare
di questo movimento. Questi tre atti cangiano il principio, e però
costituiscono tre basi diverse d'enti; poiché « ogni qualvolta il prin-
cipio di un ente subisce una mutazione proveniente da un termine
novo, si cangia la base dell'ente, e questo perde l'identità tanto,
quanl'è diverso il novo termine, essendo l'identità sempre relativa
alla diversità ». Che anzi perla stessa ragione abbiam veduto,
che il solo unirsi più principi di continuità in un solo composto, o
un solo dividersi in molti, cangia l'identità dell'ente, l'identità
dico individuale, perchè rimanendoli termine della stessa specie
— continuità, — e non mutandosi se non il numero e la quantità,
la specie astratta dell'ente rimane la stessa. Vi hanno dunque
quattro principi nell'ordine del sentimento animale dipendenti
l'uno dall'altro, e però quattro basi diverse di enti, e quattro
specie concepibili di enti: 1° il principio vivente dello spazio;
631
2° il principio vivcnle di materia continua; 5° il principio vivente
di movimento intestino; 4° il principio vivente di armonia circolare
nel movimento intestino.
Ora il principio vivente di armonia circolare nel movimento
intestino dipende dal principio vivente di movimento intestino,
e però non può stare senza questo, del quale è un novo alto ;
il principio vivente del movimento intestino dipende dal prin-
cipio vivente di continuità , del quale pure è un novo alto ; il
principio vivente di continuità dipende dal principio vivenle
dello spazio , del quale è un novo alto , proveniente , come i
precedenti, da un novo termine (i); il principio vivente di spazio
non dipende da alcun principio anteriore. Essendo dunque questi
principi viventi quattro basi specificamente diverse, costituiscono
quattro enti specifici, per modo però che 1° l'ultima base risulta
dall'unificazione e sta nell'atto unitivo di quattro principi diversi,
2° il terzo risulta dall'unificazione e sta nell'atto unitivo di tre
principi, 5° il secondo risulla dall'unificazione, e sta nell'alto
unitivo di due principi viventi, 4" e del primo è base l'unico
principio dello spazio.
Si domanderà ora qual sia la base superiore e quale la base
inferiore. Ora noi intendiamo per base superiore quella che più
contiene, e per base inferiore quella che meno contiene. E però
la base dell'armonia del movimento intestino è superiore ossia
di mag<]!Ìor dignità degli altri tre , perchè questo principio ha
già in sé gli altri tre e a sé gli unisce: e la base del movi-
mento intestino è per la slessa ragione superiore e più ricca
dell'altre due, perchè questo principio ha già in sé l'altre due;
e dicasi lo stesso della base dell'ente corpo , rispetto a quella
(1) Ctie si tratti sempre di novi termini specificamente diversi facilmente
s'intende se si considera 1° clie le proprietà delio spazio puro, l'immobilità,
l'immisurabililà, l'indivisibilità ecc. sono opposte a tutte le proprietà es-
senziali del corpo ; 2° che le proprietà e la natura del corpo non compren-
dono nel loro concetto il movimento, ma solo Yinerzia, onde il movimento
dee venire al corpo da un'altra causa; 3° che la natura o essenza del mo-
vimento non è quella di avere in sé un ordine armonico, ma che questo gli
deva venire da un'altra causa , e certamente intelligente. Sono dunque i
quattro termini specificamente diversi, sebbene l'uno dall'altro nel loro con-
cetto dipendenti, non però reciprocamente.
632
(lell'enle spazio: di maniera che Tenie spazio è il più imperfelto
u men compiuto di tutti gli altri,
Convien dunque far attenzione per non prender errore , pò-
tendo parere il contrario a chi considera che nell'ordine dei
concetti lo spazio precede al corpo , e il corpo materiale , e il
sentimento di continuità a quello di eccitazione , e questo a
quello di armonia. Questa antecedenza di concetti è fondata sul
progresso dell'imperfetto al perfetto, perchè nelle cose finite e
generahili il perfetto suppone davanti a sé l'imperfetto, e sembra
che da questo dipenda, e in qualche modo dipende per la sua
natura di generabile, ma non assolutamente, come ha osservato
Aristotele. Si distingue dunque la superiorità della base del-
Tente óuWanlecedenza del concetto, apparendo la base superiore
posteriore nel nostro conecllo, senza che perciò cessi dall'essere
superiore di entità e di ricchezza.
4.° Si osservi ora, che, facendo l'ordine e l'armonia circolare
ne' movimenti intestini d'un corpo supporre una causa intelli-
gente, è questa una nova prova della convenienza che il prin-
cipio intellettivo si unifichi solo col principio d'un corpo per-
fettamente organizzato, degna d'aggiungersi a quella che abbiamo
data nella Psicologia (672-075). Qualora duncjue il principio in-
tellettivo si congiungesse e unificasse alla base dell'ente animale,
esso sarebbe una base superiore, contenente de' quattro principi
inferiori unificati, l'uno de'quali è contenente degli altri tre, e
l'uno de'tre contenente degli altri due , e l'uno de' due conte-
nente l'ullimo, quel dello spazio.
C!}7. Ora dopo aver noi così dichiarato come si deva intendere
la proposizione che « il principio superiore è sempre quello che
costituisce la base dell'ente », e che fino che questa rimane im-
mutala, anche l'ente conserva la sua identità, conviene che ri-
torniamo ad una questione simile a quella che abbiamo falla
circa l'identità dell'ente materiale statua, applicando quella do-
manda all'ente sensitivo. Domandiamo dunque: « se, dato che
il termine materiale d'un ente sensitivo, dopo essersi cangiato
— disciolto per esempio, — sia poi ritornato e ricomposto al
modo di prima , sia anche l'ente ritornato identico a quello di
prima ».
In quell'ente rigeneralo per via di composizione c'è sicura-
653
niente Tidenlica materia reale, e l'identica forma come nell'ente
corporeo estrasor^geltivo statua: la sua materia non è mai pe-
rita e la sua forma si è pure conservata virtualmente negli
atomi che lo compongono, ha solo cessato di esistere attual-
mente, e poi ha ricuperato quest'atto. Si può dunque dire che
l'ente ricostituito e rigenerato sia identico? — lo rispondo di
sì, per le stesse ragioni, colle quali fu dimostrata l'identità del-
l'ente eslrasoggettivo statua, e dico d'un' identità individuale e
numerica.
Conviene che aggiungiamo pure una distinzione tra l'ente
principio, che ha per termine ciascun atomo separato, e l'ente
principio d'un aggregato d'atomi. L'atomo vivente non ammette
alcuna modificazione, egli può essere annullalo del tutto, nella
nostra dottrina , ma non scomposto. Perciò se l'atomo vivente
cessasse un solo momento dall'esistenza , egli non potrebhe più
essere restituito realmente e individualmente identico, ma quello
che venisse dopo creato, sarehhc realmente un altro. Dico real-
mente, perchè la natura dell'ente finito ò di essere reale : se
dunque cessa la realità cessa l'ente finito. L'atomo vivente dun-
(]ue che cessa può avere con quello che vien in appresso creato
un'identità di specie piena e anche pienissima. Ma come due sa-
rebbero gli atti della sua realizzazione in tempi diversi , così
due sarebbero i reali individui. Dato dinuiue che convenissero
nella specie pienissima, si potrebbero dire identici essenzialmente
cioè in quanto all'essenza che è nell'idea , ma non realmente
cioè in quanto alla realizzazione di quell'essenza.
Se poi si trattasse d'un aggregato vivente ma inorganico di
atomi, ed esso venisse sciolto e poi ricomposto degli slessi atomi
identici collocali allo stesso modo, un tale vivente avrebbe anche
un'identità reale a malgrado della discontinuità del tempo della
sua esistenza , di maniera che si potrebbe chiamare un ente
reale identico , e ciò perchè la materia, o sieno gli atomi ele-
mentari, di cui è composto, avrebbe continualo ad esistere , e
anche la forma avrebbe continuato ad esistere potenzialmente
nei delti atomi viventi. L'essenza sostanziale in falli di tali
forme giace nell'essenza degli atomi e nella loro potenzialità, e
però tali forme non esistono in alto che per accidente. Ora le
essenze potenziali giacciono nell'idea, come abbiam detto della
634
figura de'corpi, e quando vengono ridolle airatlo, quest'alto è
loro accidentale. Se dunque sono prodotte all'atto in diversi tempi,
mediante la stessa materia che le ha in potenza , esse sono
identiche, perchè hanno la slessa essenza sostanziale, e anco
l'identico allo accidentale, che dà loro il nome, perchè l'identità
dell'atto accidentale, come dicevamo, si desume dalla specie ossia
dall' idea in cui giace. L'elemento dunque identico in tali enti
consiste nella sostanza con un atto accidentale che ns determina
il modo, il qual modo non ha un'identità reale sua propria, ma
essendo egli semplice ed uno , e non potendo essere numerica-
mente più, diventa più per la moltiplicità della sostanza, e se
questa è identica rimane identico , ^benché* la sua inesistenza
reale nella sostanza sia discontinua. Tali forme sostanziali dun-
que, da cui sono costituiti tali enti, non hanno la pura natura
di sostanza^ ma hanno una natura composta di sostanza e d'un
modo d'essere accidentale, che cangia tuttavia la base ddl'ente,
se si muta, e restituisce la slessa base, se dopo essersi mutato
ritorna quel di prima : perchè si conserva una sostanza identica
atta a ricevere lo stesso modo. Chiameremo queste: « forme
sostanziali di formazione accidentale ».
Ma se gli atomi componenti un aggregato inorganico non fos-
sero numericamente identici, non ci sarebbe in tal caso identità
se non di specie tra due aggregati d'atomi uguali di numero ,
di grandezze, di forme, e di composizione.
Altra dunque è l'identità del principio sensitivo reale , altra
quella d'un principio intellettivo pure reale. Il principio intel-
lettivo reale non potrebbe cessare che per via d'annullamento,
laddove il principio sensitivo quando risulti dall'unione di più
principi sensitivi elementari può cessare per iscomposizione , e
però anche riprodursi per via di ricomposizione. Anzi questa
scomposizione e ricomposizione si dà in tutti que'principì che
sono composti di più principi: ed è per questo che s'intende
possibile che l'uomo moia, e risorga ancora identico come quel
di prima.
658. Cessando un principio intellettivo reale, non rimane nessuna
potenzialità reale che gli appartenga. Di che apparisce, che il
principio intellettivo non esprime mai un genere reale [Ideol. 655),
quando il principio sensitivo è un vocabolo indicante un genere
635
reale, sotto al quale stanno tante specie quanti possono essere
gli aggregati opportuni di materia. Ora , essendo Venie deter-
minalo dalla specie, non dal genere, «l'ente reale sensi-
tivo » che è genere, non dice lo stesso, che « il principio reale
sensitivo » che è specie : quando è un medesimo il dire l'ente
intellettivo , o il principio intellettivo reale , perchè s'esprime
sempre una specie. Supponendo dunque, che un principio in-
tellettivo cessi , non rimane più di lui alcuna appendice che si
possa considerare come entilà generica , e però dopo la distru-
zione di esso non comparisce in suo luogo alcun altro ente
intellettivo: se poi un principio intellettivo comparisce di novo,
questo è totalmente un altro, il primo non gli ha somministrato
nulla di sé. All'incontro dato che si distrugga un atto sensitivo
di continuità, che abbia per termine un aggregato di atomi ,
col disunirsi di questi, come pure col loro aggregarsi se erano
disuniti , i novi enti hanno ricevuto dal primo la materia e i
principi sostanziali elementari, e però questi esistevano nel primo
come una potenza reale loro propria. In fatti il principio sensi-
tivo, che era prima , avea nella sua propria natura la facoltà
di moltiplicarsi , o se era moltiplice di dividersi , per la di-
visione quantitativa del termine.
La forma sostanziale dunque degli enti sensitivi è il principio
sensitivo dell'atomo, e l.i forma sostanziale de' corpi viventi è
costituita di\\\'unione accidentale di più forme sostanziali, che di-
ventano una forma sola avente la virtù di tutte. Onde questa
forma che ha un termine moltiplice, ma continuo, è una e so-
stanziale rispetto alla sua materia elementare , ma è determi-
nala da un'unilà di più sostanze, la formazione della quale unità
è accidentale.
G59. Oltracciò negli enti sensitivi che hanno un termine corporeo
moltiplice c'è una radice realmente comune nell'attività sogget-
tiva , che apprende lo spazio immensurato {Psicol. o56-5b9), e
nelle stesse anime razionali c'è una radice reale e comune nel-
l'attività soggettiva che intuisce l'essere [Psicol. 568, n.): di
maniera che se queste attività aventi per termine lo spazio e
l'essere non fossero differenziate da altre attività unificate con
quelle non potrebbero costituire più individui , ma ciascuna
d'esse un solo.
636
Ma queste radici reali e comuni danno il fondamento a generi
reali antecedenti , e più estesi , che non sia il genere reale di
sensilivilà. corporea, o la specie degli enti intellettivi : danno il
fondamento, dicevo, a tali generi reali, quando si considerano
come subietti generici , die vengono determinati dalle attività
loro aggiunte. E però esse non costituiscono , così conside-
rale (1), un ente rcde , l'essenza del quale si ha nella specie
e non nel genere; ma costituiscono un precedente all'ente, come
abbiamo già detto (,618 022*).
Che se si suppone , come è al sommo verisimile , che tutti
gli atomi materiali sieno a qualche contatto tra loro , in tal
caso si dovrà dire che il principio di continuità abbia per suo
termine tutto l'essere corporeo, e che sia anch'egli una radice
unica costituente il genere reale dì tutte le specie reali di corpi
viventi nell'universo , specie che verrebbero distinte solo dai
punti diversi di contatto procedente dalla varia figura degli
atomi , dal peso reciproco degli elementi procedente dalla loro
reciproca grandezza e quantità di contatto, dal movimento in-
testino, e dalle armonie diverse in cui circola questo movimento.
060. Conchiudiamo dunque la nostra questione così:
Se torna a ricomporsi nel modo di prima l' aggregato di
materia già disgregato, convien dire, che ritorni anche l' indi-
viduo identico che era prima , dico identico di numero e non
^soltanto* di specie, attesoché la sua esistenza si continuò nella
potenza reale della radice sensitiva.
È però da confessare che questa specie d'identità non è por-
letta perchè non è perfetta la semplicità dell'ente, scomponen-
dosi la stessa sua base in una radice reale e comune e in un
atto sensitivo limitato dal termine proprio, onde è a distinguersi:
1." L'unità e identità di tutta la materia creata. — Che
questa unità e identità, che giace nella continuità, sia in allo o
in potenza è cosa accidentale dipendendo dall' essere unita o
divisa.
2." L'unità e identità dell'individuo termine. — Questo in-
(\) Dico « così considerate ?, cioè come radici antecedenti, perette con-
siderate come stanti da sé, ce ne sono di quelle, che possono costituire un
ente (.618-622*).
637
dividilo sarebbe identico a sé stesso ogni qualvolta la materia
disgregata tornasse ad aggregarsi nello stesso modo. La quale
identità consiste nell'esistcre lo stesso individuo termine in tempi
diversi con interruzione tra l'uno e l'altro, maniera d'identità
simile a quella che si concepisce in tutti gli individui som-
messi al tempo, la cui esistenza va divisa nella successione dei
momenti, di guisa che si può dire in qualche modo, che l'ente
non esiste più nel momento di prima né nel futuro , ma nel
presente, e tuttavia l'ente che é esistito ne' momenti passati,
l'ente che esiste ora, e quello che esisterà in appresso, è iden-
tico perché composto di materia e di forma numericamente
identica; la cui proprietà ò di poter esistere identica in più
momenti di tempo,
o.° L'identità proj)ria de' principi che hanno per termine
aggregati di materia. — Questa identità si perde coll'aumen-
tarsi 0 col diminuirsi questi aggregati, e tale è l'identità che più
facilmente s' intende, e di cui nell'umano discorso si fa maggior
uso (1).
OGl. Ritornando noi ora al concetto del diventare, dalle cose
esposte si vede in qual senso si possa dire in qualche modo, che
un ente diventa un altro. Suppongasi un principio reale che abbia
per suo termine tutta la materia corporea, e prendasi esso per
base dell'ente. Trovandosi questa base — posto che per .base si
consideri — in tutti gli enti sensitivi individuati da diversi aggre-
gati di materia, il dire che « l'un d'essi diventa un altro o più
altri » equivale a dire che « quella radice identica prende diversi
termini quasi accidenti del medesimo ente )>. Il dire così ha
una certa verità, a cagione che il rimutarsì di tali enti è acci-
dentale; ma la base nondimeno rimane equivoca. Poiché o per
Vente che diventa s' intende la radice col suo termine e allora
non é vero che quest'ente diventi , ma si distrugge perdendo
il termine , o s'intende la sola radice reale e allora impropria-
(I) La materia presa da sé sola separata da qualunque principio sensitivo
non può costituire né un aggregato né un esteso {Psicologia H 57-1166).
Ma la materia può trovarsi in due relazioni col principio sensitivo , come
termine proprio e come termine straniero ; come termine proprio se esso
la informa, come termine straniero in quanto agisce sopra un'altra materia
informata da un altro principio sensitivo.
658
mente si chiama ente , e d'altra parte essa non diventa , ma
rimane identica. Acciocché dunque quella frase possa correre
in qualche modo , conviene che s'intenda per ente che diventa
— subielto della proposizione — quella radice reale colla sua polen-
zialità ai diversi termini, e allora l'ente che diventa è. un ente
potenziale, e la proposizione significa, che l'ente potenziale che
prima era attuato in un dato ente si attua in un altro ente. 11
che tutto dimostra con quanta cautela e con quante dichiara-
zioni si deve adoperare questo verbo diventare, anche rispetto
ai soli enti sensitivi, per non cadere in un guazzabuglio d'equi-
voci, di sofismi e d'erronei paradossi, come accade agli Hegeliani.
()G2. Veniamo alla questione « se l'ente vivente perda la sua
identità quando passa dal primo grado di vita al secondo^ e dal
secondo al terzo ».
L'uomo nell'ordine del pensar comune giudica dell'unità e
dell'identità degli enti dai fenomeni e dagli effetti esterni, prin-
cipalmente da quelli che sono per lui importanti, e che prende
a base della classificazione degli enti, come a ragion d'esempio,
l'abbiamo già detto altrove , classifica le piante di fiori e le
piante di frutti, perchè nell'une gl'interessa più il fiore e nelle
altre più il frullo (*). Se dunque si considera questa maniera di
classificare appoggiata alle apparenze, certo che l'ente che vive
della vita di continuità, e che diciamo semplicemente animalo,
è diversissimo da quello che vive della vita d'eccitamento e
più ancora da quello che vive della vita d'eccitamento perpetuo
ed armonico che chiamiamo animale; anzi le due prime vite,
il comune degli uomini non le osserva tampoco, pensando che
non ci sia altro animato, che Tanimale. Ma ove il filosofo sia
giunto a distinguere le tre vite, ritenendo la maniera volgare
facilmente s'indurrà a crederle basi di tre enti distinti.
Lasciando dunque le apparenze e considerando la realtà della
cosa, che s'ha da dire? Che il principio di continuità costituisca
un ente diverso dal principio dell'eccitamento, e questo uno di-
verso da quello del principio di eccitamento perpetuo o cir-
colare ?
Parrebbe che non dovesse esser così, che la vita d'eccitamento
(*) Melodol. 20 sgg.; 200 sgg.
G59
e quella d'eccilamenlo perpetuo e d'armonia conviene clie esista
in un modo reale^ benché non ispiegata ma implicita, e come
in germe nel sentimento di continuità. Onde il principio che
sente il corporeo continuo pare quel subietlo stesso che si attua
maggiormente eccitato o per un momento o con perpetua vi-
cenda di stimoli.
Ma la radice comune e la potenziale non basta a costituire
i subietli diversi, quand'ella sia antecedente a questi.
La radice comune reale, cioè il principio del sentimento di
continuità , è di quelle che possono slare da sé separate da
ogni altro atto, e quando stanno da sé , allora non si conside-
rano più come comuni e costituiscono per sé un ente. Tale è
appunto il principio sensitivo di continuità non eccitato , nel
quale stato egli é base dell'ente.
Ma dottrina ontologica di gran momento , che abbiamo già
accennato altrove e datone degli esempi {Pskol. 680, CSo 689),
si è questa che :
« Qualora un principio, che ha un atto, acquisti un novo ter-
mine più eccellente del precedente , e in conseguenza emetta
un allo permanente di più forza, o di maggior grado di attività
del precedente, cessa d'essere la base dell'ente, che così si co-
stituisce, e ne rimane semplicemente un antecedente che chia-
minmo radice, e la base o principio costitutivo del novo ente
è il novo atto immanente e permanente ».
Quindi può avvenire, e crediamo che di continuo avvenga, che
nello stesso corpo animale possano formarsi dei sistemi parziali
d'eccitazioni stranieri al principio d'eccitazione che é la base
dell'animale. Questi sistemi parziali d'eccitazioni tendono a co-
stituirsi in altrettanti individui animali separati da quello, nel
corpo del quale si trovano, secondo le leggi, che abbiamo esposte
nel X de' Psicologici.
065. Il qual lavoro crediamo noi che possa talora essere in-
nocuo e normale , se il principio d'eccitamento armonico che
costituisce l'animale slesso è forte abbastanza da reprimere tali
allentati alla sua dominazione, tosto che passassero a cagionargli
nocumento. Anzi il moderato sforzo che egli deve fare entra
forse a costituire l'attività delta sua vita, non credendo noi del
tutto erronea la sentenza del Brown che la vita consista in un
cerio moderato sforzo / in una certa lolla che sempre si vince
dal vivente.
Pure altri esili può avere il conato d'un sistema parziale d'ec-
citamento, che incomincia a manifestarsi nel corpo delTanimale,
diverso dal sistema totale d'eccitamento proprio dell'animale
medesimo. Poiché il sistema parziale può prendere il vantaggio
sul totale e distruggere l'animale prima ancora che esso si costi-
tuisca in un animale novo.
Ovvero il sistema parziale quando sia ristrclto, ma tale che
si sottrae al dominio del principia dell'animale , può cosliluirsi
in individui animali di minor mole viventi nell' animale mag-
giore, che ci pare essere il caso degli Entozoi.
Finalmente un sistema parziale può prevalere al sistema to-
tale e costituirsi in un novo animale che si divide dal primo
in un modo normale , e questo è il caso della generazione
{Psicol. mii-ì)8h).
Che poi ogniqualvolta si cosliluisce un novo circolo di vita
separato dal primo si ahbia un ente novo, che ha per base il
principio sensitivo della nova armonia, si rende all'uomo mani-
festo in virtù della sua consapevolezza. Poiché il principio ra-
zionale può rendersi consìipevole di quel principio sensitivo col
quale è unito per la j)ercezione fondamentale (Psicol. 2^9-271),
e di tulli gli atti e delle passioni di questo ; laddove di tulli
gli altri princijìì ed effetti animali rimane inconsapevole, il che
prova che sono altri individui animali.
E tuttavia 1' aderenza delle parli tra due animali potrebbe
esser tale, che ci fosse un solo principio sensitivo di continuità
comune ai due soggetti animali, e anche un principio comune
d'eccitamento, se il movimento eccitalorio si continua , il che
potrebbe avverarsi in quegli Entozoi che non possono vivere
estratti dal corpo dell'animale maggiore , e lo slesso dicasi Ira
il feto e la madre, e ne'mostri bicefali.
Quindi anco abbiamo dedotto la duplice azione materiale e
sentimentale de'corpi viventi al contatto (Psicol. 587-002).
Dalle quali cose possiamo conchiudcre di novo , che il dire
che un ente diventa un altro, si può , in qualche modo , dire
rispello a quelle radici reali, che possono sussistere da se slesse
e costituire la base di un ente, come accade del principio sen-
641
silivo di continuità. Poiché, dato un aggregato di materia inor-
ganica al contatto , noi diciamo , che ivi è un solo atto di
continuità , base di un ente. Se dunque questo principio orga-
nizza il suo termine coll'aiuto di stimoli esterni, e se ne produce
un animale, quel principio sensitivo di continuità , che non ha
cessato di esistere e che era un ente, sembra essere divenuto
un altro ente. A rigore però convien dire, che egli ha cessalo
di esser ente , e s'è cangiato in appendice del novo ente , la
base di'l quale giace nel principio dell'eccitamento armonico.
GG4. B. Rimane a parlare delle mutazioni che subiscono le
appendici dell' ente senza ricevere o perdere alcuna forma so-
stanziale , ma per mutazione di meri accidenti , la qual lasci
intatta la radice, la base dell'ente, e tutta la sua sostanza.
Ora non si potrà mai dire che un ente diventa un altro per
cangiarsi che facciano i suoi meri acciilenti.
Tuttavia, non è questa una mutazione che nasce nell* ente?
Se non diventa un'altro, acquista però delie altre qualità. L'ente
dunque non ò più immutabile come ente, e se non è immuta-
bile di maniera che non ci sia per lui altra condizione che una
di queste due, essere o non essere, non «: più vero che l'ente
sia uno. Contro questa difficoltà noi abbiamo già difeso lunga-
mente r unità dell' ente nel VI dt)'Psicolo(jìci (735-9G5). Quivi
fu dimostrato da noi, come la base dell'elite reale sia sempre un
principio non chiamandosi enti i termini, S(! non per un modo
imperfetto di concepire della menls^ umana (835-859); come
i termini sicno quelli che individuano gli enti e però gli enti reali
si classifichino, secondo i loro termini ; come questi termini pos-
sano variare d'essenza specifica e d'essenza generica, onde na-
scono le varie specie e i vari generi degli enti ; e finalmente
come nella stessa specie certi termini ammettano più individui,
e come il termine individuante ammetta de'cangiamenti accidentali
che non mutano la sua sostanza e natura specifica. Tutti gli acci-
denti dunque , o atti accidentali, per cangiarsi che facciano, non
mutano l'ente individuo , rimanendo il principio uno ed identico ,
appunto perchè le mutazioni accidentali del termine non costitui-
scono il principio stesso, base dell' ente. Di qui procede che gli
atti accidentali del principio dell'ente, in quanto sono accidentali,
si devono considerare come appendici e non come base dell'ente;
Rosmini. Teosofìa. 41
642
il quale perciò conserva la sua perfetta identità, e non divcnla un
altro né si cangia in ciò che Io rende formalmente ente.
CCS. il. Vediamo ora qual valore può darsi al diventare ap-
plicandolo agli esseri puramente ideali.
Abbiamo detto, che l'essere indeterminato ha de'termini propri e
de'termini impropri: il termine è la realità dell'essere, e però costi-
tuisce l'ente reale e il subietto reale (.521 sgg , ^439 sgg., ^i91 sgg.*).
Ma dianoeticamente si può prendere per subietto l'essere ideale
e per predicato la realità. Quindi si può dire ugualmente: « l'atti-
vità reale di questo sentimento è », dove il reale forma il subietto;
e « l'essere è realizzato nell'attività di questo sentimento », dove
tien luogo di subietto l'essere ideale [Sist. 50, Logic. 53-2-35C).
li potersi far subietto della proposizione tanto il reale quanto
l'ideale suole divenire un fonte d'illusione ai filosofi malaccorti
come sono gli FIegelii\ni. E in vero essi furono ingannati al
vedere che l'essere poteva comparire nel discorso come subietto
di tutti gli enti , perchè veramente lutti gli enti sono l'essere
^ideale* con un termine reale. E quindi credettero falsamente di
poter conchiudere che l'essere ideale, ossia l'idea diventasse tutti
gli enti. E perchè l' idea non la trovavano palpabile e però non
pareva loro cosa salda , perciò non seppero conoscere com'ella
potesse star ferma, ma imaginarono il pazzo sistema, che l'idea
stessa sia sempre sul diventare qualche cosa altro, e che que-
st'atto del diventare — che come tale non è mai compiuto ed è
un concetto composto d'essere e di non essere, di qualche cosa e
di nulla — fosse l'atto proprio dell'idea generatrice di tutte le cose.
Confondevano dunque il subietto dialettico col reale : e non
s'erano accorti, che l'umano discorso adopera indifferentemente
questi due subietti ; ma che passa tra l'uno e l'altro una dif-
ferenza immensa. Appartiene all'Ontologo il riconoscere la na-
tura de' due subietti. Mediante la riflessione ontologica si vede
che l'uno è ideale e non costituisce l'ente reale; l'altro è reale
ed è questo solo che costituisce l'ente nella sua propria subiet-
tiva esistenza, e quindi è la vera base dell'ente.
ecc. La meditazione ontologica va più avanti ancora e ri-
scontra la differenza tra i termini dell'essere propri ed impropri :
e s'accorge che i termini propri sono infiniti e costituiscono un
solo ente infinito.
0^3
Airjnconlro i lermini impropri, come abbiam veduto , sono
finiti e quantunque siono uniti all'essere, che aHrament(> non sa-
rebbero , né tampoco sarel)bero conoscibili , tuttavia non sono
Tessere; e però l'essere in essi non ha ragion di subielto.
Quindi questa proposizione : « L'essere indeterminato acqui-
stando i lermini propri diventa l'essere assoluto », non ha che
un valore dialettico, che l'essere assoluto non diventa, ma sem-
pre ò, ne ammette formazione, né annullamento, né modifica-
zione, né moto. Quella proposizione esprime solo un movimento
0 passaggio della mpnte ìnnana, la quale perviene a formarsi il
concetto dell'essere assoluto partendo dall' indeterminato e ag-
giungendogli i suoi lermini propri. Mediante questa oi)erazione
della mente i termini propri rimangono come appiccicali all'es-
sere indeterminato, e però il concetto di questo essere, che non
ammette composizione, rimane sempre, per l'uomo , imperfetto
e negativo. Anzi , come meglio si vedià altrove , quest'essere
non ha concetto positivo , ma egli stesso tien luogo anche del
suo concetto.
La proposizione poi: « L'essere indeterminato acquistando dei
termini impropri diventa ente o enti finiti » , non ha neppur
essa un valore filosofico, e contiene l'errore di far credere che Io
stesso essere ideale diventi reale — cosa assurdissima, che le due
forme non possono mai permutare la loro natura. — E dunque da
lasciarsi tale espressione alla filosofìa volgare , ncn potendo si-
gnificar altro che quello che nasce nella percezione, nella quale
la mente attribuendo l'essere al sentito, raj)prende siccome ente;
senza che nulla si sia mutato perciò dalla parte dell'essere, nò
l'essere sia divenuto cosa alcuna. La sola mente umana é pas-.
sata a vedere che il suo sentito è un ente, il che non converte
già l'essere nel sentito, ma afferma che il sentito è unito al-
l'essere, nella quale unione é posta l'esistenza del sentito, poiché
l'esistenza del sentito è tutta in quest'unione che s'opera nelle
menti, la quale non é confusione né trasformazione (1).
(1) Inolino dice, clie Parmenide appresso Platone distingue : l.» Vunum,
2.0 Yunum multa, 3.» Vunum et multa, ( o ny^ù. iDktwvi nap/^sviò/js, àzpipé-
arsjsov }iéywv, SiocipiX «tt" à)./-/ì}.&)v tò TCp'Tizd-j Iv, o i(\>pi'Jiripov Iv, x«t Siùvtpov Iv TtcìÀlà
;^i/wy, zaiTpiTov sv /.x't 7r5).).à), e clic Vunuìii milita signitìca la mente perfet-
Uh
CG7. Rimane a vedere se ressero ideale e indelerir inalo, che
non può diventar mai un reale, possa nondimeno diventare un
ente ideale delerminalo.
Neppur questo è possibile, a cagion che le determinazioni si
prendono tutte dalla realità. Onde quando si dice una determi-
nazione ideale, propriamente non si vuol dir altro, se non una
determinazione reale possibile; e però le determinazioni, ancorché
si considerino nella loro possibilità, non sono veramente ideali ma
involte nell'idea. E veramente suppongasi che il discorso sia
d'una determinazione generica 0 specifica: ninno può conoscerla
positivamente, se non avendola percepita realmente e conserva-
tone almeno un segno reale nella memoria; e il concetto nega-
tivo , suppone sempre qualche altro concetto positivo a cui si
appoggi, onde ogni concetto d'una determinazione esige il pen-
siero di qualche realità.
E però rimane che di tutte le entità accessibili quaggiù al-
l'uomo il solo essere indeterminato sia veramente ideale, e sia il
solo conoscibile per sé, e tutte le sue determinazioni siano in
qualche modo reali, benché si pensino anche come possibili
unendosi ad esse la possibilità, che ha il suo fondamento nello
stesso essere indeterminato.
Quando dunque la mente dalla considerazione dell'essere inde-
terminato passa a considerare un ente determinato come possibile
— onde anche questo si dice ideale nel senso che partecipa dell'og-
gettività, — allora non è già che l'essere indeterminato divenga
questo ente determinato, ma solo si congiunge in un dato modo
alla realità finita, e quest'unione si fa per la virtù sintetica d'un
qualche soggetto intelligente.
608. Dalle quali cose si deve finalmente conchiudere:
i.° Che quando l'essere indeterminato, che è Videa, si consi-
dera in relazione coi reali finiti, esso non diventa gli culi finiti,
benché questi siano enti per la congiunzione e partecipazione di
lui; ma altro è l'unirsi e il partecipare d'una cosa, altro è l'essere
questa stessa cosa.
tissima. Ora il chiamare la mente uno molti bencliè sia un gergo filosofico,
pure indica questa verità: clie la mente congiiinge in uno l'essere e i suoi
termini impropri, l'ente e le sue appendici. Vedi R. Cudworlh Syst. intellect.
T, 1, G. IV, §. XXI.
645
2." Che l'essere ideale, con cui si conoscono i finiti, rimane
sempre indeterminato, a propriamente parlare; quantunque i reali
finiti riescano enti per la presenza di esso nel soggetto intelli-
gente.
3 ° Che questi enti finiti, appunto perchè sono enti, hanno
Tunilà e l'individualità e non possono confondersi con altra cosa.
Si considerano bensì come determinazioni dell'essere indetermina-
lo, e sono veramente tali; ma tali sono rispetto alla mente e però
sono tali solo dialetticamente. Il che è quanto dire, che la mente
può formare questa proposizione: « l'essere ha ricevuto questa de-
terminazione finita )) dove si prende l'essere come subietto della
proposizione. Ma la rillessione ontologica disfà poi questa propo-
sizione mentale riconoscendo che l'ente finito non è, né fu mai
l'essere, e che l'essere a cui è congiunto non è lui.
In altre parole l'ente reale finito avendo un'esistenza propria
relativa a sé slesso, non va fuori di sé, e però non abbraccia
l'essere che é infinito. Che se per l'opposto l'essere che é infinito
abbraccia il finito, questo non si riferisce che a lui e non é recipro-
camente vero del finito. Poiché il finito rimane sempre distinto
dall'infinito, che il finito non è quell'infinito che s'estende a luì,
ma è quel finito che termina in sé come più ampiamente si vedrà
altrove.
4,° (;he quando la mente umana dall'essere indeterminalo
passa all'assoluto coH'aggiungere a quello un termine infinito,
allora fa una operazione simile nella forma a quella, che fa quando
aggiungendo all'essere indeterminato un termine finito passa a
considerare l'ente reale finito. Ma la riflessione ontologica che
sopravviene trova diversissimo il risultato delle due operazioni.
Poiché il risultalo della seconda é la percezione dell'ente finito;
laddove il risultato della prima non è la percezione dell'infinito,
ma una sola formula indicativa di esso. La differenza nasce da
questo, che il termine finito è un sentito, e questo forma la base
0 il subiello dell'ente, laddove il termine infinito non é sentilo
dall'uomo, ma solo determinato per via d'astrazioni e di negazioni.
C69. Di che avviene, che quando si tratta d"un ente finito, og-
getto della nostra percezione, noi ne possediamo la base reale, e
quindi conosciamo la relazione che ha questa base cnll'essere inde-
terminato, e per questa relazione l'onte finito non distrugge né as-
646
sorbe l'essere indetonninalo, ma anche dopo la percezione di questo
ci stanno tull'e due presenti allo spirito, e distinti in nnodo, che
possiamo parlare dell'uno e dell'altro a nostro piacere. Ma quando
si tratta dell'ente infinito, la cosa non va cosi. Certose si considera
la sola forma dell'operazione mentale con cui lo concepiamo ,
troviamo in essa la medesima distinzione, da una parte l'essere,
dall'altra il termine. Ma se ne sottomettiamo il risultato ad una
ritlessione più elevata^ vediamo che non può stare quella dual!t<à,
dovendoci essere nell'inlìnito una perfettissima semplicità. Andando
più avanti col pensiero ontologico troviamo ancora, che nell'essere
indeterminato si devono distinguere i dueelemcnti: i." dell'essere,
2 " della indeterminazione, e che l'essere deve identitìcarsi col
termine infinito , e l'indeterminazione deve affatto scomparire,
e rimanere solo l'essere reale colla sua oggettivila e intelligibilità
assoluta: che quindi anche la parola relativa di termine rimane
a rigore inapplicabile: rimane inapplicabile anche la parola id^a,
come quella che esprime una cosa vota di realità subiettiva. Ri-
mane dunque il solo essere assoluto semplicissimo.
Non si deve dunque confondere il movimento della mente
umana, e i passi e le operazioni, che ella fa per arrivare al pen-
siero dell'essere assoluto, colla natura di quest'essere: non
conviene trasportare questo movimento della mente nell'essere
stesso, quasi che egli si mova, come imperitamente dice l'Hegel:
nò in alcuna maniera si dee dire, che l'essere indelerminato^divenga
assoluto, che la stessa nostra mente con una riflessione superiore,
come dicevamo, s'accorge, che nell'essere assoluto cessa l'idea,
e non resta più che lui stesso. Solo questo si può dire con verità,
die nell'essere indeterminato la mente intuisce un elemento, il
quale rimane, non diviene, non si cangia.
Il discorso umano predica, è vero, l'essere di Dio, quando dice,
che Dio ò, come lo predica degli enti finiti, quando dice che sono,
e questa predicazione è dialetticamente univoca (1). Ma di Dio si
predica l'essere entitativ.tmente e dei finiti solo accidentalmente;
con che vogliamo dire che rispetto a Dio il predicato e il subietto
è assolutamente identico, e rispetto agli enti finiti il predicato è
(1) Vedi la Lettera a Alessandro Pestilozza sulla questione se l'essere si
predichi univocamente di Dio e delle creature, neW Introduzione, VII. v.
647
realmonte diverso dal subicllo, e non c'è che un'identilà relativa
e partocipativa.
670. 191. Molto meno poi si può dire degli enti puramente
montali, che l'uno diventi l'altro. Poiché, essendo essi l'opera del mo-
vimento della mente umana, è questa che si move e passa daiTuno
all'altro; tali cnli dunque non hanno in sé medesimi alcun moto.
Vero è che essi sono bene spesso elementi dialettici di altri enti,
0 ideali o reali possihili; ed è di qui che nasco l'illusione, sem-
brando, che un ente si spezzi in molti, o che di molti se ne com-
ponga uno. Ma oltre che questa composizione e scomposizione è
sempre l'opera del pensiero, lo scomporsi e il ricomporsi non è
un diventare; che l'ente scomposto non è più, ma sono gli enti
venuti dalla scomposizione; e gli stessi enti col riunirsi in uno,
non sono più, ma un novo ente; onde il divenire in senso proprio
non ha luogo mai, 'né l'ente soffre trasmutazione come ente, ma
solamente è, o non é.
671. Da tutto questo si vede, che
ì." È impossibile che l'ente in sé diventi un altro; e
2.° Nondimeno apparisce davanti alla mente umana una
trasformazione di un ente in un altro, o di un'entità-appendice
in un ente.
Questa trasformazione non accade all'ente in sé, ma all'ente in
quanto è pensato dalla mente, e però essa appartiene unicamente
alla relazione che ha l'ente colla mente, poiché, come abbiamo
veduto, ogni ente, oltre essere in sé, è anche nella cognizione
della mente. Ed è per questo che noi vedemmo, la mente divina
limitare il reale infinito e produrre ad un tempo l'esemplare del
creato ed il creato. Poiché il reale infinito non è limitabile in sé
né come subiello né come abbietto sussistente, ma solo come co-
gnito, cioè in quanto la sua presenza nella mente lascia in essa
una cognizione sua propria, su cui la mente può esercitare analisi
e sintesi ed altre operazioni.
Nelle quali operazioni la mente umana lascia l'impronta delle
sue proprie limitazioni.
5." Il movimento che deve attribuirsi alla mente stessa e alla
sua cognizione, non può tuttavia attribuirsi al pensar assoluto, col
quale la mente conosce l'ente in sé ; ma al pensar parziale e dia-
lettico.
648
h." La menle umana che sinlesizza trasforma il senlilo in un
ente, quando gli aggiunge l'essere, formando con questa giunta
l'oggetto de! suo conoscere (1).
5.° La mente trasforma un ente in un altro per via di com-
posizione 0 di scomposizione.
Per via di composizione, aggiungendo delle forme sostanziali o
entitalive; e questo in due modi, o rimovendo le forme precedenti
dalle loro appendici, o soprapponendo forme a forme^ come se a un
principio animale s'aggiungesse l'alto intellettivo.
Per iscomposizione, disfacendola composizione fatta.
G.° Quando la mente umana passa al concetto d'un ente per
vìa della detta composizione ontologica, il concetto dell'ente così
formato può riuscire di due sorta, o semplicemente logico o formale,
che anche si dice negativo o ideale ìiegativo, ovvero anche mate-
riato, completo^ positivo.
Riesce logico e negativo se la composizione si fa senza che si
conosca il nesso degli elementi componenti, nel qual nesso consiste
l'atto costitutivo dell'ente, ossia la base (,012 sgg *) : riesce po-
sitivo se il nesso non rimane occulto, e però non determinato
dalla mente , ma si conosce determinatamente , il che accade
soltanto quando si percepisce l'ente e non ì soli elementi , coi
quali il pensiero logicamente lo compone.
Quando non si conosce il nesso degli elementi, non si conosce
propriamente l'ente , che in questo nesso consiste : ma solo si
sa, che quegli elementi, qualora avessero quel nesso che devono
avere e che pur non si sa qual sia, sarebbero quell'ente; la
quale è una cotal formola indicativa dell'ente e non un con-
cello dell'ente slesso.
Tale è il concetto che l'uomo si forma di Dio, e di tutti gli
enti che non cadono nella sua percezione.
Dal che procede la spiegazione del perchè l' uomo trovi in
Dio una certa composizione, come sarebbe una moltiplicità d'at-
tributi e di fterfezioni , e di gradi e di atti di essere. Questa
composizione l'uomo la trova in Dio, perchè ce la mette. Es-
sendosi edi formato il concetto di Dio coli' unire insieme tutte
(1) Vedi la Lettera a Benedetto Monti sull'essenza del conoscere^ neW In-
troduzione, IV.
649
le perfezioni possibili e tulli i gradi di esse, gli rimane sempre
davanti alla mente questa moltipiicilà , di cui ignora il nesso ,
ignora come tulle queste perfezioni e gradi si rifondino in una
semplicissima natura. Intende che l'unità e la semplicità ci deve
essere in questa natura, ma non sa COME sia (Teodicea 59-74).
Così dunque avviene che l'uomo anche nella natura sempli-
cissima trovi molliplicità, l'analisi la scomponga e vi distingua
innumerevoli concetti elementari.
Articolo VI.
Della ricchezza e dignità degli enti.
072. Un corollario che possiamo cavare dalle cose dette si è il
criterio per conoscere quanto un ente preceda un altro in ric-
chezza e in dignità.
Il qual criterio si può dividere da noi in due proposizioni.
I. Un ente è maggiore dell'altro quanto più d'entità hanno
i suoi termini.
II. Un ente è maggiore dell' altro quanto , supposti i ter-
mini d'entità eguali, egli ha più di semplicità, sicché ci sia un
nesso più stretto tra i suoi termini e il suo inizio.
Abbiamo veduto che Vuno astratto è un concetto poverissimo
(,581-591*), e all'opposto abbiamo veduto ancora che ogni di-
visione e reale distinzione impoverisce l'ente (,592-594*) e pel
contrario la semplicità l'arricchisce (.595 sgg., 612 sgg.*).
Gonvien dunque dire che la semplicità renda l'ente più per-
fetto, ma che egli riesca altresì più ricco quanto i suoi termini
hanno più d'entità.
Articolo VII.
Semplicità dell'essere assolato , e semplicità dell'essere
indeterminato.
673. Di che procede, che l'essere assoluto essendo quello che ha
ogni grado e perfezione di essere, essendo l'essere per essenza
630
cu' suoi propri termini, deve avere altresì una semplicità mnssima
ed assoluta, senza ammettere in sé slesso alcuna varietà, che possa
dare fondamento a qualche distinzione di qualità.
Riguardo poi all'essere indeterminato e ideale, come abbiam
veduto, gli compete l'unità virtuale, e d'essere il principio del-
l'unità ^attuale*. Qualora poi si consideri preciso da' suoi termini,
è meno di uno^ e però non si può concepire che per astrazione.
La sua ricchezza del pari è virtuale se si considera quale sta
presente all'umana intelligenza; se si precida ed astragga dai
suoi termini virtuali, gli è tolta con questo modo dialettico anche
ogni ricchezza virtuale (.581-587*)
La semplicità di quest'essere è tale che non si può levargli
cosa alcuna colla mente senza annullarlo: di modo che o si
pensa tutto o niente.
Pare a primo aspetto che nella percezione degli enti finiti non
si pensi lutto l'essere, e che perciò questo si spezzi. Ma, come
abbiam dello nella Psicologia (1506-1311), e più sopra, ogni
realità finita si percepisce nell'essere universale e totale di cui
essa non ò che un termine improprio. Onde la stessa percezione
delle realità finite diventa possibile all'uomo solo per questo che
a lui sta presente l'essere nella sua totalità e infiniludine, nel
quale solo, e non mai da esso diviso, si può pensare il limitalo.
Laonde come Emanuele Kant propose il problema dell'Ideologia
così: « A quali condizioni sia possibile l'esperienza » , noi in
modo simile lo proponemmo così : u A quali condizioni sia pos-
.sibile la percezione o l'astrazione ». E dopo esclusa la soluzione
che il Kant diede al suo problema, noi risolvemmo il nostro
dicendo « essere possibile la percezione e l'astrazione alla sola
condizione che sia presente l'essere — ed è lo stesso che dire
tutto l'essere — al soggetto umano». Il pensare parziale dunque
è sempre condizionalo al pensare totale, e complesso, e non può
andare mai totalmente diviso da questo. È dunque la totalità
dell'essere che rende possibile ogni singoiar pensiero : il che
conferma, che l'essere è semplice e indivisibile al m(\ssimo grado,
è uno d'una unità insolvibile , non ammettendo divisione nep-
pure nella mente, di maniera che quando la mente crede divi-
derlo, ancora in tutte queste parli che crede d'aver trovate
intuisce l'essere intero. La mente non può dunque pensare niuna
631
parie deil'esserc, se non con un pensiero posteriore ad un altro
immobilmente presente, col quale mantiene l'indivisibilità dell'es-
sero che tenta distruggere.
074. Di die quest'altra antinomia del pensare umano, che da
una parte veda l'essere indivisibile, dall'altra lo divida e con-
sideri come moltiplice^ sia ne' vari enti finiti, sia nelle diverse
proprietà e relazioni particolari che nello slesso essere distingue.
Ma riguardo agli enti finiti abbiamo rimossa la contraddizione,
tosto che abbiamo osservalo che questi non sono l'essere, ma
reali, termini impropri dell'essere, ne'quali solo sta tutta la mol-
liplicilà reale (,581 591*). Da questa poi procedono relazioni
moltiplici Ira tali realità molliplici e l'essere semplice ed uno.
Rimane non pertanto, che i delti termini moltiplici e le delle
relazion si pensino anch'esse ciascuna e tutte nncdianle il pen-
siero dell'essere uno, semplice e indivisibile.
Laonde quando si pensa il finito, stanno di (rontc due pen-
sieri, quello del finito e quello dell' infinito, quello del termine
improprio o delle relazioni che da esso nascono, e quello dell'es-
sere in universale. E si conferma che la cosa sia così dall'analisi
del concello di parte (,592-594*). Poiché questo concello si ri-
marrebbe inesplicabile, se non si supponesse, che nella mente
ci fossero contemporaneamente due pensieri. Infatti il concello
di parli contiene l'antinomia più sopra toccata. Poiché non è
cosa facile lo slriearsi da colui che assalisce la verità di quel
concetto dialetticamente cosi: « Dove si trovano le parli? 0 prima
che esse si separino nel tulio, o dopo. Priuìa che si separino,
non sono parti, non cadendo nel tutto alcuna divisione. Nep-
pure sono parti , separate che sieno dal tutto , poiché allora
ciascuna forma un tutto da sé, e non può esser parte di quel
tulio che non esiste piìi ». Argomento non frivolo; poiché non
poco giova a far conoscere la natura d' un concetto così per-
plesso. Convicn dire che il concello delle parti é relativo al tutto,
e però conviene che nella mente ci sieno due pensieri, come di-
cevamo, acciocché ne risulti quel concello della relazione che si
cerca, il pensiero del tutto indiviso ed uno, ed il pensiero delle
parti cioè d'altri tutti che si vedono nel lutto maggiore, senza che
ciascuno di essi l'esaurisca, onde rispetto a questo, si chiamano
parti. E però la porle non c'è propriamente nella realità, presa
C?J2
da sé sola , la cosa già divisa lia cessalo d'esistere in sé , e
quelle che ne nacquero per la divisione non possono essere
parli, per ripeterlo, d'una cosa che non esiste, ma cose da sé,
sebben minori. 11 concetto dunque della parte non è dato dalla
sola realità : ma appartiene a quella relazione essenziale che ha
l'essere con una mente. Chi dunque non considera la cosa sol-
lilmenle , attribuisce la parte e il tutto all'essere , senza avve-
dersi che una tale relazione procede dall'essere solo in quanto
è inlellÌKÌbi!e.
Articolo Vili.
Del concetto deW altro.
67S. È necessario che, dopo aver parlato dell'imo, diciamo
anche qualche cosa del concetto ùeWaltro.
Nella locuzione: « l'uno e l'altro « Vallro significa un altro uno
parte dissimile, e parte anche simile in qualche modo al primo;
ma che non si contiene nel primo. L'uno e l'altro sono due su-
bietti del discorso che possono essere o dialettici o ideali, o reali,
0 misti. Quella locuzione dunque non potrebbe aver luogo se
la mente non concepisse con un solo atto una pluralità di su-
bietti, e però più uni.
Dicevo, che, nella detta locuzione, Vallro è in qualche modo
simile al primo. Infatti se non ci fosse qualche omogeneità, non
si potrebbe mai dire: l'uno e l'altro. Almeno in questo devono
assomigliarsi, nell'essere entrambi subielli della locuzione. E
però qualora noi vogliamo supporre la maggior disparità possi-
bile tra l'uno e l'altro, resterà in essi, almeno di iletticamenle,
qualche cosa di comune, che sarà il fondamento della locuzione.
L'uno e l'altro dunque si dicono così dall'elemento cojnune e
non dagli elementi propri di due subietti. A ragion di esem-
pio, se l'uno fosse Tessere, e l'altro fosse il nulla — che è, o
poniamo che sia la maggior differenza possibile — in tal caso
avranno ancora di comune , che sono due enti dialettici , e la
locuzione equivale a: « questi due enti dialettici, « onde si
chiamano per quello che hanno di comune , benché si distin-
G53
guano e si separino , sotlinlendendo che ciascuno abbia anche
qualche cosa di proprio e d'eterogeneo.
676. E qui si presentano diverse quistioni ontologiche.
La prima : « se il concetto di uno si possa avere senza niuna
relazione nWallro )>.
Colla quiil questione non si domanda già, se h\ ragione astraente
possa precidere il concetto dell'uno da lutto il resto, su di che
non e' è dubbio; ma se il concetto dell'uno in sé stesso senza
nulla preciderne contenga una relazione all'altro .
Or noi abbiamo veduto , che 1' uno non può essere il primo
concetto della mente, che è quello dell'essere ; questo appunto
dimostra, che Tuno puro, come qualità astratta, è relativo all'ente.
E in generale tutte le qualilà involgono una relazione a un su-
bielto, che è il loro allro, come la qualità è Valiro del subietto
che la possiede , e anche allorquando la qualità e il subielto
s'immedesimano, come accade nell'essere assoluto , rimangono
distinte nondimeno le due forme logiche della qualità e del su-
bietto: onde l'identico sotto la forma di subietto è allro dialet-
ticamente da sé stesso sotto la forma di qualilà , o di essenza.
Nell'essere assoluto poi vi hanno più forme, come vedemmo,
non dialettiche, ma reali, l'una all'altra relative, onde ciascuna
di esse ha realmente il suo allro.
L'essere nondimeno in ciascuna è identico. E questo stesso
ha il suo altro nelle forme, ma quell'altro è solo dialettico.
Non c'è dunque nulla, né l'uno, né l'essere, né l'ente, che
non abbia il suo altro almeno dialettico. E il lutto stesso ha
il suo altro nelle parli, o elementi dialettici.
E quantunque questa legge ontologica contenga il principio
della molliplicilà nell'essere: tuttavia non ispezza l'essere e non
gli toglie Tesser uno, ma mostra che in lui c'è un ordirle, una
molliplicilà organala , che é 1' altro dell' uno, e che, lungi dal
distruggere l'uno, lo costituisce sussistente.
677. La seconda questione si é : « se v'abbia una natura la
quale per se sia altro, quasiché la relazione, che si contiene nel
concetto di altro, sia o possa essere sussistente ».
La risposta dipende da quello che abbiamo dello circa i
concetti di semplicilà e d' identità , e intorno a quello che gli
antichi hanno chiamalo materia dell' ente. Poiché la materia
doli' ente , e generalmente le sue appendici , quantunqne real-
mente sussistano nell'ente, lullavia non sono un renle subielto,
e il nome dell'ente è imposto al subit-lto dello stesso, cioè alla
sua base ebe lo definisce e separa da lutti gli altri ; e così le
appendici non banno una denominazione propria , ma si deno-
minano dal subietto ebe costituiscono. Se dunque si domanda
ebe cosa esse sono, conviene ricorrere per definirle al subietto
ebe costituiscono, e ebe è il loro aliro. E poiebè esse lo costi-
tuiscono, esse dunque sono l'altro di lui non potendosi dar loro
un'esistenza propria, ma attribuir loro l'esistenza del subietto
ebe è altra. In quesio dunque sta la loro essenza , ebe sieno
altre, ossia ebe sieno Valtro; poiebè sé slesse non sono se non
dialetticamente.
E per questa relazione di alterità gli anticbi denominarono
la materia Vallra natura tmv htpav (pvaiv {\), o semplicemente
r aVro To ÒÓLTEpov (^), 0 ancbe « quello ebe veramente mai non
è » ovTCog ov^é^ore ov (Ti).
ARTICOLO IX.
Ricapitolazione della dottrina dell uno.
678. Riassumendo dunque, noi abbiamo veduto ebe la realità fi-
nita non potrebbe ricevere l'essere ,sè* la mente ebe la produce
nell'alto di aggiungerle i confini, non glieli aggiungesse per modo
da cosliluire un reale uno. Infatti la realità finita non può esi-
stere se non o come essenza ebe si vede nell' idea , nel qual
caso esiste come ente in forma obiettiva , o come subietlo da
sé, nel qual caso è ente nella forma subiettiva , o finalmente
come nesso attivo tra subielto ed obietto, cioè come ente nella
forma morale. Ma ciascuna di queste tre forme supreme essendo
contenente massimo, ha una perfetta unità di essere. Se dunque
la realità finita esiste in alcuno di questi tre modi , deve di
necessità esistere come uno.
(1) Arisi. Metaph. \, 9.
(2) Tim. p. 29 e spessissimo in questo e in altri dialoghi di Platone.
(3) Mp. 28.1.
6b5
Ora , secondo l'ordine logico del pensare umano , noi siamo
obl)Iigali a pensare, che un artista che voglia dare esistenza a
qualche sua opera esterna e reale , debba prima l'orla esistere
nel suo proprio pensiero nella forma oggettiva. La realità finita
dunque, secondo quest'ordine — che non è punto cronologico, ma
solo logico e propriamente dialettico — deve prima ricevere dalla
mente divina, che la crea, l'esistenza oggettiva e però l'unità del-
l'essere in questa forma, e di poi, mediante la creazione, l'esi-
stenza subiettiva e propria, e però ancora quell'unità che è pro-
pria dell'essere subiettivo.
Quest'unità subiettiva costituisce la realità come individuo reale.
Di qui deducemmo, che ad ogni ente finito, appunto perchè
è necessario l'avere unità, ed essere un individuo, conviene al-
tresì la nozione di tiitto^ sia che questo concetto di tutto si con-
sideri dalla parte dell'uno contenente, in cui ci sia il contenuto,
sia che lo si consideri dalla parte del contenuto, che sia nel con-
tenente. Questi due concetti, che dar possono due definizioni del
lutto, risultano ugualmente dall'unione del conlenente e del con-
tenuto.
Di qui deducemmo la dottrina delle parli e la nozione di sem-
plicità, e quella che ne consegue intorno alla base dell'ente su-
biettivo, che costituisce l'uno contenente della forma subieltiva, e
allo appendici dell'ente medesimo che hanno ragione di contenuto.
Nella base poi dell'ente trovammo la sede della sua identità.
Ma poiché gli enti finiti sono contingenti, e però possono cessare,
e possono incominciare, e le appendici dell'ente possono scio-
gliersi, perdendo la base che le contiene e unifica, e possono ri-
cevere nove basi, onde l'individuo si scioglie, e se ne costituisce
un altro o il medesimo , secondo certe leggi , perciò dovemmo
chiamare ad esame il concetto del diventare e analizzarlo, e ci
venne scoperto che esso è uno di que' concetti volgari, che con-
tengono un implicito assurdo; su quali si fonda uno special genere
di sofismi {Logic. 71:2 sgg. 106G sgg.), e abbiamo di conseguente
raccolto che il fondamento del sistema hegeliano non è altro che
il sistema dell'assurdo implicito.
Abbiamo veduto dopo ciò che la base dell'ente può unire e con-
tenere più 0 meno appendici, e unirle con una maggiore o minore
semplificazione, dalle quali Sue cose dipendono i gradi della rie-
C5G
cliezza e della dignilà degli enti; e che come la base somministra
il concetto dell'uno e del semplice, cosi le appendici sommini-
strano il concetto dell'rt/f/'o, concetto che pure noi abbiamo di-
chiarato.
CAPITOLO IX.
Dottrina de' limiti.
Articolo I.
Ravviamento del discorso.
679. Noi abbiamo dunque veduto che il reale finito non potrebbe
esser oggetto dell'alto creativo e così acquistare l'essere subiet-
tivo, se prima ancora la mente divina, che lo concepisce, non lo
determinasse, dandogli coU'atto stesso del concepirlo quattro pro-
prietà che sono: 4.° la suprema qualità generica, 2.° l'intelligibi-
lità obiettiva, 3." la quantità determinata, h.° l'unità. Queste
quattro proprietà sono gli elementi comuni e necessari a costi-
tuire ogni forma finita.
Abbiamo ancora veduto che la realità finita determinata in que-
sto modo dalla mente, come ente oggetto, può essere prodotta
all'esistenza sua propria subiettiva. E questo fa l'atto creativo col-
l'aggiungere alla realità, che si trova nell'oggetto descritto, l'es-
sere subiettivo, coll'acquisto del qual essere la delta realità finita
riceve quattro altre proprietà, che sono: i.° l'esistenza subiettiva,
5." li) durala, 5.° l'attività, k.° rintelligibililà subiettiva. Queste
quattro proprietà sono inseparabili dall'atto della sussistenza.
Tutte queste otto proprietà appartengono alla realità finita esi-
stente nella mente e in sé stessa. 11 ragionamento dunque intorno
ad esse suppone che la realità sia finita. Conviene ora dunque che
p:irliamo della limitazione in generale che è la prima condizione,
alla quale può esistere l'ente finito, e quindi la prima condizione
della creazione.
657
Articolo II.
La differenza di limitalo e d'illimilato
è diff'crenza d'enti.
C80. Abbiamo gi;\ veduto e dimoslralo, cbfì un subietlo illimitato
e un subielto limitato non possono costituire un solo ente, e cbe
però la limitazione pone tra Dio e le creature una separazione en-
titativa, cbe è maggiore d'ogni altra separazione, ancbe di quella
di genere (Cf. Psicol. iSSi sgg.).
Riassumeremo qui una prova ontologica di questa proposizione,
che risulta dalle cose delle.
La realità tosto che sia fmita, non è |)iù l'essere ma presenta
solo al pensiero un rudimento, che non appartiene all'essere
il quale non riceve limite , ma ad una delle sue forme , la forma
reale. Essendo dunque Dio l'essere, procede, che tra la realità
finita, presa da sé sola, e Dio passa la differenza slessa che c'è
tra essere e non essere. Questa è differenza massima, assoluta, in-
finita. Poiché se si prende la differenza tra Vessere e il non essere,
quello eccede questo di tutto Vessere, che è per essenza infinito
(Cf. Filosof. della Politica, Lih. IV, e. xx.). Ora la realità finita
ricevendo l'essere nella sua forma subiettiva diventa ente, que-
st'ente tuttavia non è il suo essere. Che cosa è dunque ? È la
realità finita a cui è sialo aggiunto l'essere, acciocché potesse esi-
stere in sé. Il subietlo dunque dcU'enle finito è la realità finita, il
subietto dell'ente infinito é l'essere slesso. Dunque tra il subietto
ossia ente finito, e il subietto ossia ente infinito passa ancora ^a
stessa differenza massima. L'un ente dunque non può esser l'altro,
e la loro differenza è più che generica, perchè questa differenza è
l'essere slesso superiore a tulli i generi.
Dell'ente infinito dunque e dell'ente finito si predica l'essere in
senso equivoco {Logic. 370 w.), e però i ducenti differiscono an-
cor più che da un ente a un altro ente : ma propriamente differi-
scono, come dicevamo, da essere a non essere [ì). Il che confor-
teremo appresso di nove prove.
(i) Onde nel Salmo XXXII, 6: et substantia mea tanquam nihilum ante
te. — Vedi S. Ansel. Monolog. 28.
Rosmini, Teosofia. 42
Articolo HI.
Origine ontologica della Umitazione.
681. L'origine degli enti finiti, abbiam detto, dee riferirsi ad un
atto della libera intelligenza di Dio. Ma poiché dell'intelligenza .
sono propri due alti che abbiamo ^chiamali' V intuizione e V affer-
mazione (1), rimane a cercare se la limitazione della realità nasca
dall'inluire o dall'affermare divino. Diciamo intuire in Dio « quel-
Tatto con cui la mente divina vede ciò che è ». Ora la realilà fi-
nita non è, ma egli la fa essere coU'aggiungere alla realità infi-
nita la limitazione. Dunque l'origine della limitazione non è un
atto intuitivo, ma affermativo. E questo conviene con ciò che di-
cevamo, che la creazione appartiene all'intelligenza libera di Dio.
Ora r intelligenza libera è appunto quella che afferma , e non
quella che semplicemente intuisce [Logic. ,86-89*).
All'obiezione, che avendo la mente divina per oggetto la di-
vina essenza, e questa non potendo essere limitata, non si vede
come possa volontariamente limitarla , abbiamo già risposto di-
stinguendo la divina essenza come oggetto della divina mente
in sé sussistente, il quale non si può limitare ed è il Verbo
divino, e la divina essenza in quant'è cognita, e non in sé ma
nella mente stessa esistente. Poiché abbiam veduto che un og-
getto della mente lascia nella mente , oltre sé stesso ad essa
presente , anche una cognizione di sé , quasi effetto di sé nella
mente. Ora in quest'o^^iefio cognizione, abbiamo detto, la mente
può segnare quelle limitazioni , che vuole , senza che queste
passino all'oggetto stesso in sé , perchè sono limitazioni pura-
mente mentali cioè dello sguardo della mente e dell'oggetto
come cognito, e non come oggetto. E tuttavia l'oggetto in sé,
(1) Vintidzione umana si riferisce alle sole idee, perchè l'uomo non ha
che un oggetto ideale: in Dio l'intuizione ha un oggetto reale. Perciò la pa-
rola intuizione applicata a Dio cangia afliitto di significato. Poiché nell'intui-
zione divina Iddio non solo intuisce ma percepisce, e di più affermando sé
stesso genera il Verbo. Ma per bisogno del discorso noi facciamo qui astra-
zione dall'atto generativo del Verbo, e dall'affermazione di sé stesso, e de-
tìniamo l'intuizione divina « quell'atto con cui Iddio vede ciò che già è » :
l'affermazione poi « quell'atto con cui fa che la cosa sia >.
1
659
serve di fondamento e di appoggio a queste operazioni anali-
tiche della mente, ma sempre in quant'è cognito, non in quanto
è oggetto in sé considerato. Di che seguila che la mente divina
ha sempre in tali sue analisi davanti un fondamento reale , a
differenza dell'uomo , che non ha talora che un oggetto ideale
su cui operare colla sua analisi o colla sua astrazione. Traesi
tuttavia anche dall'esperienza umana l'esempio d'operazioni men-
tali esercitate sul fondamento d'un reale in quant' è cognito.
Poiché noi possiamo aver presente all'occhio una bellissima
poma , e riguardando in essa possiamo colla mente astrarre il
color vermiglio, la figura , le parti, ecc. a nostro piacimento ,
senza che quest'analisi mentale produca alcuna alterazione alla
poma che riguardiamo, perchè facciamo tali operazioni su quella
poma, in quanto ci é attualmente cognita, e come tale è nella
nostra mente , benché ci sia anche presente la poma reale. ,E
sarebbe nella mente come oggello, ma non come cognito^ anche
posto che essendoci sottratta dallo sguardo ne perisse in noi tosto
l'immagine , e non potessimo più farci sopra quelle mentali
operazioni. La poma reale in tal caso servirebbe di fondamento
ad esse : perchè la sua presenza sarebbe necessaria alla nostra
attuai cognizione di essa. E così avviene del Verbo divino , la
cui presenza nella divina mente è necessaria alla cognizione at'
tuale della realitii infinita, sulla quale realità, in quant'é cognita,
la divina mente segna le dette limitazioni.
Articolo IV.
La realilà infinita liinilabile solo come cognita :
in che modo si dica imitabile.
682. La realità infinita è limitabile non in quanto esiste in
sé come eterno oggetto della divina mente , ma puramente in
quanto è cognita; e però la limitazione non viene dalla realità
stessa oggettiva , ma dalla divina mente , che vuole restringere
la realità cognita dentro i limiti.
Gravissimi autori adoperano un'altra maniera di dire a signi-
ficare le idee divine delle creature. Dicono, che l'essenza divina
è imitabile, che Iddio conosce questa essenziale imitabililà, e che
eco
però ha le idee elerne di lulle le cose finite possibili. Non ri-
fiutiamo questa maniera di parlare usala da sommi Teologi; ma
ci sembra che in essa sia del Iraslato , e che perciò appunto
involga non leggere diificoltà. Infatti il concetto ùeW imHabiliià
suppone che ci sia qualche cosa che imiti. Or qual sarà questa
cosa? Gli enti finiti , dicono. Ma in tal caso si suppongono
questi esistenti. Quella espressione dunque non può servire alla
questione che noi trattiamo , colla quale cerchiamo come ven-
gano ad esistere gli enti finiti sìa eternamente nel divino pen-
siero e decreto creativo , sia nel tempo cioè in sé stessi. È
dunque verissimo che le creature imitano Iddio in qualche modo,
dopo che esistono almeno nel pensiero. Ma come hanno esse
questa esistenza? È chiaro che non si può ricorrere di novo al-
l' imitazione per farle esistere, poiché ciò che non esiste al tutto
non può imitare uè ricopiare in sé cosa alcuna : ma per rispon-
dere nettamente a tale domanda, conviene dedurre in altro modo
gli enti finiti sia che si considerino nell'esemplare o in sé stessi.
La parola dunque d'imitabililà dell'essenza divina è posteriore
alle creature, ed esprime l'analogia di queste con Dio. Ad un
tal uso noi la riserbiamo. Ma per ispiegare l'origine delle idee
dei finiti, e de' finiti stessi, ricorriamo alla potestà che ha la
divina mente di porre volontariamente alla realità infinita , in
quanto le é cognita, de' limiti con un allo libero affermativo.
Rimane a vedere che cosa sia quesla limitazioìie posta dalla
mente libera di Dio alla realità cognita, limitazione che è causa
delle divine idee de' finiti, e quindi ancora del mondo sussistente.
Affine di conoscere la natura di questa limitazione creativa,
conviene che la distinguiamo da ogni altro genere di limita-
zione. Questo ci conduce ad esporre la dottrina della limitazione
nella sua universalità.
Articolo V.
Concelti affim a quello di limitazione.
C83. Distinguiamo per isgombrarci la via i concetti affini. Ne-
gazione, limilazione, privazione sono concetti che non si devono
confondere.
G6i
Negazione è l'operazione della mente contraria all'afferma-
zione. Con questa operazione si nega l'esistenza di qualche
entità. La negazione dunque non pone cosa alcuna, ma toglie
via la cosa posta ipoteticamente dalla mente, che si considera
come subielto dialettico e ipotetico della negazione stessa, ben-
ché questa non lasci dopo di sé alcun vero subietto , che anzi
lo toglie via. L'effetto mentale dunque della negazione é l'an-
nullamento. Il concetto del nulla differisce da quello deW annul-
lamento j perchè il nulla non involge una relazione con altra
cosa se non coH'enlità in universale , laddove Vannullamenlo
involge una relazione con un'entità posta ipoteticamente dalla
mente stessa e poi da essa annullata. Qualunque sia quest'en-
tità , la negazione l'annulla del tutto. — La parola negazione
prende un altro senso, quando s'adopera per indicare la stessa
entità annullata, il negalo.
Limilazione è un'operazione, colla quale non si nega un'entità
ma si la che qualche cosa non si trovi in una data entità. Ella
involge dunque una relazione con una entità che rimane dopo
la stessa limitazione come suhiello della limitazione eseguita. La
parola limitazione dunque prende due significati^ poiché 1.° si-
gnifica l'operazione limitante , !2.° e il limite posto dalla detta
operazione che rimane come suo elTctlo. Quando si prende questo
limite insieme col suo subietto, dicesi questo «il limitato».
Nella negazione si pone dalla mente un'entità solo ipotetica-
mente per annullarla tosto; nella limitazione Ventila si pone
veramente, e solo si fa che qualche cosa non si trovi in essa.
Privazione é un'operazione , che toglie da un'entità ciò che
dovrebbe avere secondo la sua natura, sia che questo si faccia
colla mente negando che la detta entità abbia ciò che dovrebbe
avere , sia che si faccia col produrre la detta entità mancante
di ciò che dovrebbe avere secondo la legge della sua natura. —
Anche la privazione é voce che riceve due significali come le
voci negazione e limitazione; poiché ora significa l'operazione
che priva , ora l'effetto di questa operazione che rimane dopo
di essa, cioè la mancanza permanente di quello che l'entità do-
vrebbe avere- secondo la sua natura. — La privazione é una
specie di limitazione , ma differisce in questo che non ogni li-
mitazione toglie a un'entità ciò che dovrebbe avere secondo la
062
sua natura, ma solo una certa limitazione ^ e dicesi appunto
perciò privazione. — Differisce dalla negazione per quello stesso
carattere pel quale differisce la limitazione, cioè che c'è un vero
subietto della privazione: cioè un'entità che non è posta ipo-
teticamente dalla mente per levarsi poi via , ma c'è o si pro-
duce un'entità che rimane insieme colla privazione , cioè colla
mancanza di ciò che dovrebbe avere secondo natura.
Articolo VI.
Dichiarazione della definizione data della limitazione
nel suo doppio significato.
684. Noi abbiamo detto che la parola limitazione si usa in
due significati , come un'operazione limitante , e come l'effetto
che rimane dopo di essa, cioè il limite.
Nel primo significalo l'abbiamo definita così: « un'operazione,
colla quale si fa che in un'entità non si trovi qualche cosa ».
Nel secondo significato si definisce : « ciò che manca ad una
data entità e di essa si nega ».
Queste sono definizioni universali, come devono essere le de-
finizioni, che devono abbracciare tutto il definito, ma nulla più.
Se noi consideriamo la prima delle accennate definizioni, fa-
cilmente scopriremo i due sommi generi di limitazione, cioè:
i.° La limitazione speculativa, ed è quella che fa la mente,
quando fa che nel concetto che prende a contemplare non ci
sia qualche cosa di quello che c'è, come accade nell'astrazione e
nell'analisi.
2.^ La limitazione attiva , ed è quella che produce una
causa efficiente , quando fa si , che in una data entità reale
manchi qualche cosa.
La limitazione speculativa può divenire limitazione attiva , se
la mente speculante aggiunge la sua forza pratica e produce
quello che specula.
Se consideriamo la seconda delle due definizioni date n'avremo
questo corollario importante, che:
« Tutto ciò che di positivo non si contiene in una data entità
6G3
e che si nega di questa è ciò che costituisce il suo limile to-
tale », eppcrò :
(( Ciò che si contiene neWiDio è l'entità , e tutto ciò che si
contiene neWallro è ciò che costituisce la totalità del limite
dell'uno ».
Di qui procede, a ragion d'esempio, che lo spazio benché non
sia limitato come spazio, è il più limitato degli enti, perchè il
suo altro, cioè ciò che di lui si può negare, è massimo.
Nella definizione data della limitazione in significato di limite,
dopo aver detto; «ciò che manca ad una data entità », ab-
biamo aggiunto: « e di essa si nega », per fare avvertire che
il limite d'una data entità non è ciò, che ad essa manca con-
siderato in sé stesso , ma considerato in relazione coU'enlilà di
cui si cerca il limite, e ad essa riferito.
Articolo VII.
Limite assoluto. Umile relativo, loro misure.
C8o. Quando dunque si vuol misurare la limitazione, cioè il limile,
e trovarne la misura assoluta, è necessario paragonarne Tenlità
di cui si vuole misurare il limile col tutto, cioè con lutto quel
complesso di cose che si può concepire , e riconoscere ciò che
è dentro in quella entità, ossia nell'ufo che ella forma , e ciò
che è fuori di essa e che è Valtro di essa: e quest'altro che
riman fuori e si nega di essa e il suo limite assoluto.
Che se l'entità di cui si cerca il limite non si confronta col
tulio, ma solo con qualch'allra entità , per trovare ciò che di
questa resta escluso da quella , in tal caso questo che resta
fuori, e che è il suo altro relativo, e che della prima si nega,
costituisce sollanto il suo limite relativo.
La misura dunque del limite assoluto d'ogni entità è il tutto
assolutamente preso.
La misura del limile relativo è qualunque entità maggiore di
quella di cui si cerca il limile relativo, per esempio il genere
è misura del limile relativo della specie , e Io spazio è misura
del limite relativo d'un corpo.
664
Articolo Vili.
Analisi della definizione data del limile, e maniera di dedurre
i generi diversi de' limiti.
686. Come l'ente infinito e l'ente finito coslituiseono le due
suprème classi degli enti (,lbO-lb4*); cosi il limite assoluto,
e il limite relativo costituiscono le due supreme classi de' limiti.
Ma ciascuna di queste due supreme classi hanno i loro ge-
neri , e per determinarli conviene che riprendiamo la defini-
zione universale del limile, ne analizziamo i termini^ e vediamo
corae ciascuno di essi possa cangiare , e cosi dare fondamento
ad una classificazione diversa de' generi de' limiti.
Dicevamo dunque, che il limite « è ciò che manca ad una
data entità e di essa si nega ».
Ora in questa definizione si distinguono tre elementi: I." il
sabietto della limitazione, 2." il limite predicato di esso, 3.° la
predicazione che esprime la relazione tra il subiello e il pre-
dicalo. — ì.° L'entità, di cui è il limite, è il subietto; 2.° Ciò
che ad essa entità manca, costituisce la materia del limile, ossia
il limite predicabile; 3.° L'esclusione di questa materia del li-
mite dall'entità è la forma del limite stesso^ espressa dalla pre-
dicazione negativa.
Ora egli è chiaro che ciascuno di questi tre elementi della
definizione del limile può determinarsi in varie maniere , e un
tale elemento determinato variamente, somministra un fonda-
mento a classificare in genere i limiti abbracciati da quella
definizione.
Si possono dunque avere tre classi di generi di limitazione;
ossia i generi de' limili possono classificarsi in tre diversi modi,
secondo che si prende per fondamento a distinguere i generi il
subietto della limitazione, o il limite stesso , o la relazione del
limite al subietto.
005
Articolo IX.
Prima classe de generi de' limili, che è quella che nasce
dalla diversità de' subietti delle limitajuioni.
% 1.
/ sommi generi della prima classe sono sei.
687. Come subielli opinabili di limitazione possono concepirsi
dalla mente l'essere, le sue tre forme, l'ente, e l'entità mentale:
questi sono sei generi sommi di subietti di cui si può predicare
in qualche modo il limite, o cercarsi almeno se e come si possa
predicare di ciascun di essi il limile.
Secondo questo fondamento dunque si distinguono sei sommi
generi di limitazione.
Della limitazione dell'essere.
688. L'essere per naturale intuizione si conosce come indeter-
minato, per raziocinio ontologico come assoluto.
Nò secondo l'uno né secondo l'altro concello Yessere può ri-
cevere limitazione in se stesso, poiché se ne ricevesse alcuna
con ciò stesso perderebbe la natura dell'essere , che è infinita.
Ma l'essere, come già vedemmo, ammette limili di relazione.
I. h'essere indeterminato, mediante questi limiti di relazione,
si fa il principio del sistema dell'identità assoluta, che abbiamo
esposto in questo libro ( ,276 312* ), perchè all'essere si rife-
riscono dalla mente nostra tutte le limitazioni di tutte le altre
entità.
Potendosi distinguere da quest'essere le sue forme, noi con-
sidereremo in appresso queste sue forme, come subietlo di limi-
tazione.
II. L'essere assoluto conosciuto dall'uomo mediante la rifles-
sione ontologica non ammette limile alcuno , e le distinzioni
666
d'attributi o d'altro^ che quella riflessione fa per raggiungerne
il pensiero , rimangono sulla via , e non arrivano ad entrare
nell'oggetto a cui perviene quella riflessione , poiché questa
stessa le abolisce , dopo d'averne usato , come l'edificatore di-
strugge le armadure , le andature e i ponti adoperali per co-
slrurre l'edifìzio.
Non ommetteremo qui d'avvertire che la cosa è diversa nel-
V ordine soprannaturale, a cui toccare non giunge la naturale fi-
losofia. In quest'ordine Iddio si comunica all'uomo immediata-
mente, come si comunica immediatamente l'essere indeterminalo
nell'ordine di natura. Ora Iddio cos'i comunicato riceve limiti ,
non in se, ma di quel genere che abbiamo detti limiti di rela-
zione. Di questi parla la mistica Teologia. E poiché l'essere as-
soluto non è distinto dalle sue forme, ci sono de' limiti di rela-
zione (ìeWEssere morale comunicato all'uomo, dell'Essere obicttivo
e finalmente dell'Essere subiettivo. Ma queste arcane dottrine
non appartengono alla Teosofia filosofica.
1 3.
Della limitazione delle forme categoriche
e delle entità mentali.
689. Abbiamo veduto che le forme supreme dell'essere danno
il fondamento alle tre caleijorie , che sono le tre massime di-
stinzioni di tutte le entità concepibili. La natura, per la quale
le calegorie si distinguono tra loro reciprocamente , si chiama
forma categorica. Tutte le entità concepibili hanno l'una o l'altra
di queste tre forme categoriche , e però s'accoglie nell'una o
nell'altra delle calegorie.
La mente considera l'essere indeterminato, — astrazion fatta
dalle forme categoriche, — e lo considera pure in ciascuna delle
dette tre forme.
L'essere indeterminato, noi abbiam detto — astrazion fatta dalle
forme categoriche, — è il subiello dialettico di tutti i limili per
una semplice relazione di questi ad esso.
Rimane a vedere se possano essere subiello di limitazione \*ì
forme categoriche.
6G7
Ora conviene distinguere le forme, di cui l'ente finito parte-
cipa, dalla forma che lo costituisce. Questa, abbiam veduto, è
la forma reale o subiettiva.
Ora le forme, di cui l'onte finito partecipa solamente, cioè
r ideale e la morale, non si possono neppur colla mente separare
dall'essere. Poiché l' idea è 1' essere stesso indeterminato in
quanto è per sé intelligibile , la perfezione morale poi è rico-
noscimento volontario degli enti fatto nell'essere ideale : non si
può dunque separare dall'ente e dall'essere. All' incontro la
mente può pensare la realità pura, non essere.
I subietti dunque categorici de' limiti sono :
1.° L'essere ideale, e questo é subietto dialettico di tutti i
limiti che si ravvisano nelle idee generiche e specifiche e di
più ancora di tutte le limitazioni degli enti mentali , che so-
gliono essere idee, su cui la mente esercitò qualche sua opera-
zione e così li limitò mentalmente.
2.» Uessere morale, e questo è subietto dialettico di lutti i
limiti, che si ravvisano nell'ordine morale.
3.° La realità, pura forma categorica, e questa è subielto
di tutti i limiti nell'ordine reale e degli enti reali.
II genere de' limiti che si attribuiscono aW essere ideale, e al-
l'essere morale , e quello che abbiamo denominato de' limiti di
relazione.
Il genere de' limiti appartenente alla forma categorica della
realità è quello de'/«m/// propri e reali.
La realità così considerata divisa dall'essere è reale finita , e
questa forma categorica è come un sopragenere , a cui tutti i
generi anche sommi mettono capo e s'unificano. Non è già che
la realità finita, senza più, possa sussistere in sé: ella non pre-
senta al pensiero niuna specie determinata, ma si può concepire
astraendo dal pensiero del concetto , nel quale la realità finita
ma indeterminata esiste nella mente; e così ella si prende per
subielto universale di lutti i limiti reali. Ora è di questi limiti
reali necessari alla costituzione degli enti finiti che noi princi-
palmente ci occuperemo.
6(38
S 4-
Della limitazione degli enti.
690. Abbiamo distinlo Tenie dialettico dall'ente in sé. Noi qui
parliamo soltanto dell'ente in sè^ perchè l'ente dialettico o di-
minuto appartiene alle entità mentali, rispello alle quali il su-
bietto universale della limitazione è l'essere nella forma ideale,
come abbiam detto.
L'ente in sé si concepisce in tre modi : come ente astratto,
come individuo v.tgo, e come individuo specifico, ossia determina-
tamente determinalo.
Vente astratto é il subietto dialettico universale di lutti i li-
mili di cui sono suscettivi gli enti.
Venie individuo vago é il subielto dialettico de' limiti, non già
di lutti gli enti, ma di ciascuno preso individuamente , di ma-
niera che il dire: « l'ente individuo vago è limitato «, equivale
a dire : « ciascun ente limitato è subietto delle proprie limita-
zioni ».
L'ente determinatamente determitiato é subielto delle sue prò-
prie limitazioni. È sulle limitazioni di questo che dobbiamo prin-
cipalmente trattenerci , perché quello che più di lutto imporla
al nostro scopo è di dare la teoria degli enli finiti , che com-
pongono il mondo.
L'ente dunque determinatamente determinato e quello che si
divide nelle due somme classi dcWinjìnito e del finito. Ma l'ente
infinito é lo stesso essere assoluto, e come questo possa e non
possa esser subielto di limili fu da noi già detto. Ci resta
dunque solo a parlare dell'enle finito consideralo come deter-
minatamente determinato.
A BUGOLO X.
Continuazione. — Degli enti reali finiti. — Limite entitativo,
trascendente ed essenziale.
69i. Abbiam veduto che l'ente individuo é costituito dalla sua
base, di maniera che mutandosi la base degli enli, l'ente perde
CG9
la sua idenlità, e le sue appendici ricevendo un'altra base diveji-
tano un allro ente. Egli è chiaro che se la nova base non dif-
ferisce di specie astratta , l'ente novo sarà della stessa specie
del precedente; se differisce solo di specie, Tenie novo differirà
di specie , ma sarà dello stesso genere, e così si dica sino al
sommo genere. Dal che avviene, che dato un ente qualunque,
non potendo e"li avere che una sola base, perchè l'unità è ne-
cessaria all'ente , tutte le altre basi possibili d'enti , prese in-
sieme, sono tante mancanze e altrettanti limiti di quell'ente.
Ora questi limiti si dicono limiti entitativi, perchè ciò che esclu-
dono dall'ente sono altri enti.
Ma se si concepissero le sole appendici senza base di sorla,
in tal caso in questo concetto d'appendici mancherebbero tutte
affatto le possibili basi degli enti , e quindi la limitazione con-
cepita dalla mente sarebbe ancora maggiore , perchè manche-
rebbe del tutto l'ente , e ci avrebbe la differenza dal non -ente
all'ente. La mancanza adunque di tutte le basi dell'ente all'en-
tità mentale che si chiama appendice, è un limite più che en-
litativo. Noi chiameremo questo limite trascendente.
Oltracciò è da considerare, che le basi stesse degli enti dif-
feriscono mediante certi limiti. La differenza massima è tra la
base dell'ente infinito e degli enti finiti. Poiché la base dell'ente
infinito è Vessere stesso, la base degli enti finiti non è l'essere,
ma un termine dell'essere cioè il reale. Noi chiamiamo questa
sorta di limite: limite essenziale. Ciò che manca dunque alla
base dell'ente finito è la base dell'ente infinito, e atteso questo
limite entitatico l'ente finito e l'ente infinito sono due enti. Ma
di più la base dell'ente finito essendo il reale, e non Vessere,
differiscono le basi d'una differenza maggiore d'ogni genere ,
perchè differiscono da essere a non essere : cioè Vente finito ha
oltracciò il limite essenziale. Se dunque la base dell'ente finito
non è l'essere, ella non esiste se questo colla sua presenza ad
essa non la fa esistere. Questa base dunque non è base per sé.
La base dunque dell'ente finito comparala a quella dell'ente
infinito non è base. Ha dunque l'ente finito anche il limite tra-
scendente che fa sì che egli sia all'infinito come un non-ente.
670
Articolo XI.
Con linuaz lune. — Limite Irascendenle subiellivo e limite
trascendente obbiettivo: limiti secondari.
692. Ma analizziamo l'ente finito e cerehiamo i diversi limiti che
prende secondo il diverso modo, nel quale possiamo concepirlo.
Il limite trascendente che consiste nella mancanza d'ogni base
è di due SOI te, come due sono le serie d'elementi che il reale
finito acquista dall'essere, acciocché egli esista come ente finito.
Acquista, come abbiam detto, quattro elementi dall'essere su-
biettivo , e quattro elementi dall'essere obiettivo. Se dunque
l'ente finito si spoglia de'quattro elementi che riceve dall'essere
subiettivo, egli rimane un ente obiettivo, cioè un ente che non
è ente in sé , perchè non ha esistenza propria e subiettiva :
nell'ordine subiettivo egli è dunque ancora nulla , non ha né
base nò appendici. Questo non è propriamente un limite, ma è
la negazione totale dell'ente. In quanto poi esiste come oggetto
nella mente, egli ha base ed appendici, ma mentali. Quest'ente
mentale è un'appartenenza della mente che concepisce : ciò che
manca è l'essere subiettivo, che lo faccia esistere come ente in
sé. Se dunque noi mentalmente prendiamo l'ente oggettivo fi-
nito, come subietto della limitazione , dovrem dire che il suo
limile è l'essere subiettivo , e però quello differisce dall'ente
subiettivo, come il non essere subietlivamente dall'essere subieiti-
vamente. Il limite trascendente dunque di questa sorte consiste
nella mancanza di base ad un tempo e di appendice.
Se poi svestiamo l'ente finito oggettivo anche delle quattro
qualità che riceve dall'essere oggettivo , egli rimane non solo
privo della base e dell'appendice subiettiva , ma anche della
base oggettiva , e però non resta che l'appendice obiettiva ,
cioè la realità finita e indeterminata — materia prima nel senso
d'alcuni filosofi, — e quest'appendice obiettiva ha per limite la
mancanza d'ogni base oggettiva e subiettiva, e dell'appendice
subiettiva, e quesl'é il limite trascendente di seconda sorte, che
differisce come Vessere dal non-essere assolutamente.
Chiameremo dunque il primo di questi due limiti : limite tra-
67i
scendente subiellho — mancanza dell'ente subiellivo, — il secondo:
limite trascendente obiettivo — mancanza dell'ente subiellivo e
della base obiettiva.
Si può dunque considerare dalla mente l'entità finita in tre
modi :
1 .** Come appendice obiettiva , nel quale stato non è an-
cora ente. Se dunque si prende quella appendice come un su-
bielto dialettico del limile , essa dilTerisce dall'ente as.soluto ,
come ciò che non è in nessuna maniera ente , da ciò che è
ente assoluto — limile trascendente obiettivo.
2." Come ente obiettivo. Se si prende l'ente finito obiettivo
come subietto dialettico della limitazione, esso differisce dall'ente
assoluto, come ciò che non è ente in se subietlivamenle — limite
trascendente subiettivo.
5.° Come ente subiettivo. Se si prende l'ente finito subiet-
livamenle esistente come subielto reale della limitazione , egli
differisce dall'ente assoluto come ciò che ha per base una cosa
che non è essere , da ciò che ha per base l'essere stesso , e
però differisce più che da ente ad ente, perchè differisce come
un ente che è tale per partecipazione da un altro ente che è
tale per sé ■■ — limite essenziale.
693. Da tutto questo si deve conchiudere che ci sono tre o
quattro sommi generi di limili reali; il primo che riguarda l'essere
ed è la limitazione essenziale ; il secondo che riguarda la base
dell'ente ed è la limitazione entitaliva e \a. trascendente; il terzo
che riguarda solo le appendici dcH'ente a cui daremo il nome
di limitazione secondaria.
La limitazione essenziale è quella che esclude l'essere.
La limitazione entitaliva è quella che esclude le basi dell'ente,
meno una, propria dell'enle.
La limitazione trascendente è quella che esclude tutte affatto
le basi dell'ente, ed è subiettiva se esclude la base subiettiva,
obiettiva se esclude anche la base obiettiva.
La limitazione secondaria è quella che esclude delle appen-
dici dell'ente, ma non la base.
La limitazione essenziale escludendo l'essere, toglie via ogni
subietto reale della limitazione slessa, e però non si concepisce
che applicala ad un subiello dialettico.
()72
La limitazione trascendente escludendo tutte le basi dell'ente,
non lascia né pur essa alcun subietlo reale della limitazione ,
ma un subietlo dialettico.
La limitazione entitativa lasv3ia un subietto reale della limi-
tazione, perchè lascia una base che esclude tutte le altre basi.
La limitazione secondaria lascia pure un subictto reale della
limitazione, escludendo solo le appendici.
Le due prime limitazioni dialettiche sono negazioni dell'ente.
La ter?a limitazione toglie V identità dell'ente, e ne fa esistere
un'altro.
La quarta è limitazione semplice dell'ente, di cui non distrugge
punto l'identità.
Articolo XIL
Seconda classe de' generi de' limili che è quella che nasce
dalla diversa natura de' limiti stessi.
694. Abbiamo classificati i subietti de' limiti, e abbiamo veduto
chela diversa natura de' detti subietti è suscettiva di limiti diversi:
quindi dalla diversa natura de'subietli abbiam derivali diversi
generi di limili.
Ma per fondamento della classificazione in generi de' limiti si
può prendere anche immediatamente la stessa natura de'limili
E una classificazione su questo fondamento è pure necessaria
perchè uno stesso subietlo può aver limiti diversi. Volendo però
discendere a una classificazione minuta della diversa natura dei
limili , noi verremmo a parlare degli slessi generi fin qui an
noverali e per conseguente a ripeterli.
Or gioverà dunque meglio, rannodando le considerazioni pre-
cedenti , far osservare, che la natura de' limiti va di conserva
con quella delle quantità. Poiché essendo questa « un'entità in
quant'è contenuta entro i linìiti « , procede, che quanti sono i
generi delle quantità, altrettanti sono quelli de'limili e viceversa.
Avendo noi dunque distinta la quantità per riguardo a' reali in
ontologica, cosmologica e fisica, si devono di conseguente distin-
guere tre corrispondenti generi di limiti, cioè limili ontologici.
673
Umili cosmologici e limiti fisici. Parlando della quantitìi abbiamo
già dello più cose intorno a queste nature diverse di limiti.
Quello che stiamo per dire dichiarerà maggiormente questa
dottrina. Poiché questi tre sommi generi di limiti secondo che
si considerano o nella loro natura , o nella diversa relazione
che hanno col loro subietto, appartengono ugualmente alla se-
conda 0 alla terza classe di generi. Consideriamoli dunque sotto
l'aspetto della relazione, nella quale si predicano con un subietto.
Articolo XIII.
Terza classe de' generi de' limiti che è quella che ha per fondamento
la congiunzione dicersa che passa tra il limite e l'entità che ne è il
subietto.
095. Anche questa terza maniera dunque di distribuire in ge-
neri i limiti de' reali concepibili dalla mente, ce li divide in tre
generi.
Il primo è quel genere di limiti , anteriormente a' quali si
concepisce un ente individuo reale che è il loro subietlo: e sono
i lìmiti fisici ;
Il secondo è quel genere di limiti, anteriormente a' quali non
si concepisce un ente individuo reale, ma solo un'entità, che
si considera come il loro .«^ubietto : e sono i limiti cosmologici;
11 terzo è quel genere di limiti, anteriormente a' quali non si
concepisce per loro subietto né un ente, né un'entità: e sono
i limiti ontologici.
S 1-
Delimiti , anteriormente a' quali si
concepisce un ente individuo reale loro suhietto.
696. Questi limiti sono quelli che abbiamo chiamati secondari:
cade su di essi la comune attenzione ; di maniera che ne* di-
scorsi comuni si parla in modo come se altri limiti non esi-
stessero.
Rosmini. Teosofia, 43
Concependosi dalla mente Tenie reale individuo anlecedente-
mente a tali limiti , ò chiaro che questi non entrano punto a
formare il loro subietlo: non sono a questo essenziali.
Ad ogni reale individuo è essenziale una compiuta determi-
nazione , ma non una delcrminazione determinata , poiché la
compiala determinazione di esso individuo può essere questa o
quella, e nel suo concetto non entra questa piuttosto che quella.
11 che avviene per la potenzialità dell'individuo reale , il quale
ha questa legge che « abbia una compiuta determinazione in
atto, e tutte le altre compiute determinazioni , di cui è suscet-
tivo, in potenza ». L'individuo reale come potenza, ossia come
causa de' propri alti , ha in sé tutti i suoi atti indistinti , e
questa unificazione di tali alti, che sono più o meno, in un solo
principio , causa , o virtù di essi , è ciò che costituisce la sua
natura. Ma esso non potrebbe ricevere l'esistenza ossia l'essere
subiettivo, se tra tutti i suoi atti determinanti non avesse spie-
gati quelli che costituiscono una sua qualunque determinazione,
perchè, come abbiamo veduto, un subietto da qualche lato in-
determinato non può sussistere.
697. IMa il concetto della determina zione preso in senso con-
traddittorio àWindeterminazioìie non è ancora il concetto de' limiti
secondari di cui parliamo. Come questo si trova?
Polendo un ente reale aver un gran numero di determina-
zioni compiute, purché ne abbia una qualunque di quelle a cui
s' estende la sua potenzialità , queste diverse determinazioni
possibili sono più o meno perfette , cioè aggiungono perfezione
0 imperfezione all' ente a cui appartengono. Si può adunque
concepire una serie di determinazioni perfette, la quale incominci
da quella determinazione perfetta che deteriorerebbe l'ente sino
all'ultimo possibile grado di deterioramento, e finisca con quella
determinazione perfetta che darebbe all'ente l'ultimo grado della
sua perfezione. Questi sono i due estremi d'una tal serie. Infatti
se noi, dopo aver pensato un ente nel suo stalo il più imperfetto
po.ssibile, volessimo progredire cercando colla mente una imper-
fezione ancor maggiore, noi usciremmo da quell'ente che non ha
altra potenzialità d'imperfezione e così l'avremmo annullato — poi-
ché quell'ente è annullato tosto che ha ^perduta *la sua identità. —
E similmente, se, dopo aver concepito l'ente nell'atto della sua
C75
più alta perfezione possibile, volessimo andar oltre , usciremmo
dall'ente slesso, uscendo dalla potenzialità che ne costituisce la
natura, e quell'ente sarebbe annullato, e tutto al più saremmo
passati colla mente ad un altro onte non identico al primo.
Se noi ora prendiamo quella determinazione compiuta, che
data air ente individuo lo reca all' atto della sua più elevata
perfezione possibile, per misura di lutti gli altri gradi inferiori
di perfezione , noi intenderemo che tutti questi altri inferiori
gradi di perfezione sono appunto i Imiti secondari deWenie, che
noi cerchiamo , in quanto vengono meno dal sommo grado. Si
può dunque definire il limile secondario complessivo così; « quel
tanto che manca ad un ente individuo della perfezione, di cui
è suscettivo secondo la sua natura )>.
Dico « il limile secondaria complessivo « , perchè si possono
distinguere colla mente moltissime specie di limili secondari
parziali , se si determina variamente nella definizione data la
parola perfezione. Questa si può intendere pel complesso armo-
nico d' ogni perfezione di cui un ente è suscettivo , e così la
definizione appartiene al limite complessivo: si può anche inten-
dere quella parola d'una perfezione parziale qualunque, per esem-
pio, se si tratta di un uomo, della sua bellezza esterna, della sua
statura, della sua robustezza, d'una sua dote qualunque, come
la celerità del corso: e in qualunque genere di cose che si
possano considerare , sotto qualunque specie , come pregi del-
l'uomo, si può sempre dire che « il limite è ciò che manca al
più alto grado di quella speciale perfezione, che si considera ».
Questi pertanto sono limiti secondari parziali , che ammettono
innumerevoli modi e classi, le quali non è a noi necessario in-
vestigare più minutamente.
Noi abbiamo supposto , che la perfezione complessiva o speciale
d' un dato ente individuo abbia un grado massimo e che il limite
secondario consista in ciò che manca all' ente per raggiungere
quest' ultimo grado di perfezione. Se un grado massimo ci sia in
lutti i subielti de'limiti secondari, è questione di cui parleremo in
appresso: per ora restiamo in questa ipotesi.
Posto dunque, che in un ente ci sia un massimo e un mininio
di perfezione — il qual grado minimo di perfezione è il massimo di
deterioramento, — - ne viene che il limite secondario di quest' ente
676
non può accrescersi all' infinito , perchè ove 1' ente fosse disceso
al suo massimo deterioramento , non potendo discender più basso
senza distruggersi , avrebbe ricevuto la massima limitazione
possibile. Quando dunque i filosofi definiscono il limitato « ciò
che può sempre accrescersi e diminuirsi » , danno una defini-
zione che non è universale, perchè non abbraccia tutti i limiti
possibili , che non lutti hanno un aumento e una diminuzione
indefinita: non l'hanno appunto i limiti secondari, di cui par-
liamo , rispetto a quegli enti che ammettono un massimo di
perfezione e di deterioramento : e però « questo genere di li-
mitali non si può accrescere e diminuire all' indefinito » , ma
solo fino a un certo grado. Laonde « lo stesso limile è limitalo ».
2.
Continuazione — Onde Vindeflnilo, e perchè cerli limiti si possono
sempre più diminuire senza che mai s' annullino.
698. iMa viene qui in campo la questione accennata: « se tulli
gli individui reali abbiano un massimo e un minimo di perfe-
zione » , Ira quali due estremi conservino sempre la loro
identità.
E primieramente non è assurdo concepire degli enti , che
abbiano una sola determinazione compiuta , e non ne possano
aver altra. Questi enti non possono esser subietti in sé stessi di
limiti secondari : solo possono esser subielli di limiti secondari in
quanto si considerano partecipati piìi o meno da altri enti.
E tale è appunto tra gli enti-termine lo spazio , il quale in
sé slesso non ha limili secondari , non avendo e non potendo avere
che un solo modo semplicissimo ed immutabile di essere. Ma ne
ha solo quando si considera come partecipato più o meno dai
corpi. Lo slesso può dirsi di tutti quegli enti , che hanno natura
in qualunque modo infinita.
Il considerare questi enti che in sé stessi non hanno limiti
secondari e per questa assenza di limiti secondari si dicono illimi-
tati , il considerarli dico come partecipati da altri , fa nascere
nella mente il concetlo «d'un indefinito aumento e d'una indefinita
677
diminuzione » , perchè non si trova nessuna ragione d' imporre
alla partecipazione dell'ente infinito piuttosto un limile che un al-
tro. Di qui dunque si può avere una definizione dell' indefinito che
es])riraa la sua propria natura. Poiché « 1' indefinito sta nella
partecipazione finita dell' infinito ». Sotto queir aspetto nel quale
l'entità partecipata si dice infinita, sotto lo stesso aspetto si ha un
indefinito corrispondente. L'indefinito dunque è medio tra l'infinito
ed il finito, o piuttosto è la loro congiunzione, di maniera che
si può esprimere così la definizione di lui : e. L'infinito parteci-
palo è l'indefinito ».
699. Se noi dunque prenderemo a considerare un ente finito
qualunque, che in qualsisia modo partecipi dell'infinito, subito ci
abbatteremo in esso alla progressione indefinita. Così il corpo,
come dicemmo^ può sempre ricevere aumento e diminuzione ,
senza che la serie finisca mai perchè partecipa dello spazio
che è infinito : il tempo può sempre ricevere aumento perchè
partecipa della durata infinita: il numero può sempre ricevere
aumento perchè partecipa della possibilità astratta che pure è
infinita.
Che se ci leviamo a un ordine di cose più sublime , qui si
trova la ragione dell'indefinita perfettibilità umana. La perfet-
tibilità umana presa in astratto è indefinita dal lato della scienza
e della virtù: poiché la scienza si fa colla partecipazione del-
l'essere oggettivo il quale è infinito, e la virtù s'acquista colla
partecipazione dell' amabilità dell' essere , la quale pure è
infinita.
Qual è dunque in lutti questi casi, ne' quali non si può tro-
vare mai un massimo, la misura del limile secondario? Questo
non si può determinare, definendolo : « ciò che manca all'ente
per raggiungere la sua massima perfezione totale o parziale ».
Come dunque si determinerà e definirà ?
Questo si fa in due modi , secondo i generi d' indefinito di
cui si tratta, cioè :
•l." Prendendo per misura il minimo se si può avere;
2." Se non si può avere neppure il minimo , in tal caso
si prende un minimo, o un massimo per supposizione, che rimane
una quantità di cognizione immediata.
700. 11 minimo si può avere nel numero astratto, il quale è
G78
r uniUà numerica. Questo minimo cioè V uno numerico ha il
limite massimo de numeri j e però il limile del numero è tanto
maggiore, quanto più il numero si accosta all'unità.
Il minimo non si può avere né nel ^0/7)0 , né nel tempo , i
quali sono divisibili all' indefinito. Perchè questa differenza dal
numero? La ragione si è, che l'uno, elemento del numero , è
così astratto che non ha subietla alcun'altra natura la quale si
divida, ma forma il numero colla replicazione di tutto sé stesso
e non partecipa che della possibilità infinita di replicarsi dalla
mente; laddove il corpo partecipa della natura dello spazio, non
replicando lo spazio ma partecipandone una porzione ; e così
fa il tempo della natura della durala. Essendo dunque lo spazio
partecipabile dal corpo, e la durata eterna dal tempo^ lo spazio
e il tempo conservano sempre la loro natura di estensione, e di
durata: fin che rimangono, l'estensione e la durata sono parteci-
pabili per divisione: rimanendo dunque sempre estensione quello
che è estensione , e durata quello che è durata , sono sempre
partecipabili per nova divisione , e così la divisibilità rimane
indefinita. In questi generi dunque à'indefinilo , i quali s'origi-
nano da quelle nature infinite, che sono parlecipabili per divi-
sione , non e' è un minimo assoluto , né un massimo assoluto.
La mente dunque prende un quanto per supposizione massimo,
ovvero un quanto per supposizione minimo, e si serve di queste
due misure a determinare il limile j il quale così non è altro che
un limite relativo. Trattandosi dunque di tali indefiniti, si hanno
per essi due misure in vece di una , ma entrambe relative e
niuna assoluta.
Così, se per misura minima di supposizione prendiamo un mil-
limetro, più che i corpi s'avvicineranno in quant' alla lunghezza
a questo limitatissimo, più si diranno limitali. — Se per misura
massima di supposizione prenderemo 1' asse della terra , 0 il
meridiano, noi diremo i corpi in quanto alla lunghezza limitati
in ragione inversa dell'avvicinarsi alla delta lunghezza dell'asse
terrestre, 0 al meridiano.
Del pari si può prendere a misura relativa del limite del
tempo 0 un minimo di supposizione, come un minuto secondo^
0 un massimo di supposizione come un millennio, e secondo che
il tempo s'avvicina a quello preso pel massimo limitato, 0 s'al-
679
lontana da quello preso pel minimo limitalo, avrà [)iù o meno
di limite relativo.
701. Queste due misure relative sono dunque possibili ogni qua!
volta 1." è limitata la parteeipazione d'una natura illimitata ;
2." e questa natura illimitata può essere partecipala per divi-
sione , e però non tutta , ma in parli. Tali nature, sebbene in
sé stesse siano illimitate e indivisibili, tuttavia nella partecipa-
zione si dividono in parli relalive agli enti che ne partecipano.
Esse non sono tali che devano essere partecipale tutte o nulla;
perchè non godono d'una perfclla semplicità, come l'uno astratto.
In sé stesse hanno due infinità — di quelle che abbiam dette uni-
laterali — cioè a dire sotto due aspetti possono essere considerate
come infinite, come nature qualitati\'e , e come nature quantita-
tive. Lo spazio e la durata, come nature qualitative^ sono infi-
nite, e quest'infinità si conserva in esse anche partecipala, perchè
se non si conservasse , sarebbero annullate quelle nature per-
dendo la loro qualità essenziale. Lo spazio e la durata come na-
ture quantitative sono pure infinite , ma quest' infinità si perde
quand'esse sono partecipate : la parlecipazione , essendo finita ,
comunica la sua Jìnilezza alla natura quantitativa dello spazio
e della durata. Rimane dunque la natura di spazio e la natura
di durata anche allo spazio partecipalo , e alla durata parteci-
pata , ma non rimane loro l'infinità quantitativa: ed è per
questo che sono partecipabili , poiché l'alto, col quale sono da un
dato ente partecipate, è 1' atto che impone limiti alla loro natura
quantitativa. Questo dunque avviene perchè tali nature non sono
al lutto semplici , ma hanno in sé la detta dualità di natura quali-
tativa e quantitaliva.
Ma se all' opposto si tratta d' infiniti che hanno una natura
affatto semplice, e che non ammette di conseguenza parli, nep-
pure relalive a chi ne partecipa , come potranno essere par-
tecipali? — Questo è il caso dell' essere , sia subiettivo , sia
obbiettivo, sia morale. L'essere, e preso con astrazione dalle sue
forme e preso colle sue forme, è sempre semplicissimo e indivisi-
bile. Ora noi abbiam veduto che la parlecipazione dell'essere non
si fa per via di limitazione e di divisione ; ma semplicemente per
via di presenza , o se più piace d' insidenza. Dalla natura del-
l'essere nasce questa relazione. La presenzialilà è cosi propria
680
.dell'essere, che* senza l'essere non ce n'è più il concetto, come di-
mostreremo a suo luogo. Il termine reale dunque insiede nell'es-
sere, e l'essere insiede nel termine reale. Dove ha luogo questa in-
sessione reciproca? Sempre, come noi vedemmo, in una mente. Ora
se noi parliamo d'un termine reale finito, Tessere che insiede in
esso, e nel quale .esso* insiede, è Tessere puro, privo de'suoi ter-
mini infiniti, ossia Tessere iniziale. L'essere iniziale è uguale e
identico in lutti i termini finiti : egli dunque non si divide né
si moltiplica se non per relazione , cioè non si moltiplicano
che le sue relazioni a cagione della moltiplicità de' termini finiti,
fondamento di tali relazioni. C è dunque in ogni termine reale
finito, concepito dalla mente come un ente , l'infinito. E questo
spiega quella sentenza d'alcuni filosofi , che dicono « T infinito
esser per tutto , tutta la natura essere involta d'infinito , ogni
speculazione sulle cose finite anche minime abbattersi, se va un
po' avanti , in qualche infinito «. Ma qual è quest' infinito che
si scontra per lutto?
702. Noi abbiamo veduto, che quest'essere è virtuale, appunto
perchè nasconde alle menti i suoi termini propri, e si manife-
sta solo come inizio comune di tutte le realità finite. Mediante
questa sua virtualità egli può essere partecipato dal finito , e
con partecipazione finita senza dividersi , né moltiplicarsi : é
partecipato tutto, sempre tutto, ma non totalmente , perchè na-
sconde nel suo seno i termini che gli sono propri ed essenziali.
Non essendo dunque partecipato totalmente, benché sia parte-
cipato tutto, resta luogo ad una partecipazione limitata, la quale
può crescere per una serie di gradi indefinita; almeno conside-
rata la cosa astrattamente.
Questo aumento di partecipazione consiste nello svolgimento
della virtualità delTessere, perocché quanto più Tessere acquista
di termini nella mente umana — o in un'altra qualunque^ — tanto
più cresce la partecipazione delTessere rispetto all' attualità dei
suoi termini.
La mente umana è formata dalla presenza delTessere virtuale
obiettivo : in questo si contiene 1' essere virtuale subiettivo.
Quando è a lei dato un reale — un sentimento^ — ella lo percepisce
come ente. Che cosa vuol dire percepire questo reale finito
com'ente? Che cosa vuol dire esser dato alla mente questo reale
681
0 sentimento finito? Esserle dato^ non vuol dir altro se non che
avviene questo fatto, che Vessere subieltioo virtuale, che è a lei
presente ndl' essere obiettivo , da totalmente virtuale che era
comincia a diventarle attualmente terminato : il reale, che è la
forma occulta, si manifesta nel suo seno, ma si manifesta entro
certi limiti. Quindi è che la mente predica l'essere di quel reale
finito con verità, e così lo riconosce come un ente: perchè ciò
che sente, .lo sente nel seno dell'essere subiettivo, che già pos-
sedeva virtualmente nell'oggettivo e come suo termine. Così il
reale finito nella mente insiede nell'essere , e 1' essere in esso
come suo principio, senza confondersi, perchè l'uno è principio
comune, l'altro termine e subietto dello stesso ente finito. Ma
poiché la virtualità dell'essere è infinita , il termine reale può
sempre aumentarsi , o almeno la mente umana non trova una
ragione immediata per assegnare un confine al suo aumento. Il
reale finito dunque partecipa del termine virtuale infinito, e di
qui l'aumenlo indefinito, concepibile ne'reali finiti.
703. Se noi passiamo a considerare la partecipazione finita del-
l'essere obiettivo, troviamo egualmente un indefinito, cioè l' in-
definita progressione della scienza , la quale cresce in propor-
zione che l'essere obiettivo da virtuale si fa attuale colla mani-
festazione de' suoi termini. Ma questo indefinito differisce dal
precedente che appartiene all'ordine de'reali, e però dell'essere
subiettivo, in questo che i reali finiti partecipano solo di quella
virtualità dell' essere subiettivo che si riferisce al reale finito
— virtualità che abbraccia la realità pura astratta dall'essere per
la limitazione, — laddove la mente finita partecipa tanto di quella
virtualità dell' essere che si riferisce al reale finito , quanto di
quella, che si riferisce all'essere assoluto: ed è questo l'oggetto
massimo della scienza che più o meno si può conoscere.
L'essere morale poi non si ferma mai al finito, e ogni virtù
morale suppone l'amore dell'essere infinito.
Laonde l' indefinito^ che procede dalla partecipazione dell'es-
sere virtuale, è di tre sorta:
1." L'indefinito che nasce dalla virtualità infinita dell'ente
finito (indefinito subiettivo) ;
2." L'indefinito che nasce dalla virtualità infinita dell'ente
finito, e dell'ente infinito (indefinito obiettivo) ;
682
3.° L'indefinito che nasce dalla virtualità infinita dell'ente
infinito (indefinito morale).
Il limite dunque in queste maniere di quantità suscettive d'in-
definito aumento e sempre posto dalla virtuaìltà dell'essere.
70'j. Ora quale sarà la maniera di misurarlo?
Non si dà una misura massima, perchè ciò che si partecipa
è infinito: non si dà una misura minima, perchè quand'anco
si trovasse il minimo del reale, il minimo della scienza, il mi-
nimo della virtù, esso non si potrehbe applicare per l'eteroge-
neità delle cose che si volessero misurare, giacché ogni misura
domanda un'omogeneità tra la misura e il misurato. Onde chi
dicesse a ragion d'esempio che il minimo reale è Vestrasoggetlivo,
in primo luogo si dovrebbe cercare il minimo dello stesso eslra-
soggettivo , il quale non esiste , come vedemtno parlando del
corpo e della estensione partecipata: di poi se anche esistesse,
come si potrà prendere il minimo corpo o la minima estensione,
come misura dell'anime?
Conviene di più considerare di che natura sia l'eterogeneità
delle cose che si tratterebbe di misurare: ella è infinita, E in-
fatti la virtualità del [mito e la virtualità deirinfinilo distano infi-
nitamente tra loro, come dista il finito dall'infinito. E però
anche la partecipazione de'gradi d'attualità di quello dista infi-
nitamente dalla partecipazione de'gradi d'attualità di questo.
Ci hanno dunque degli indefiniti , che distano tra loro infini-
tamente.
705. Riassumiamo dunque: Ogni qual volta l'entità che ha
de' limiti è costituita dalla partecipazione di qualche infinito, si
dà in esso un aumento indefinito.
I limiti di un finito di questa natura non possono avere per
loro misura un massimo , perchè il finito non ha un massimo
in cui finisca i suoi aumenti. Essi dunque, se si riguarda la
loro misura, si ripartono in generi:
•1.° Alcuni hanno un mm/wo per loro misura, quando l'au-
mento si fa per replicazione e non per divisione partecipativa ,
come nella quantità discreta.
2.° Alcuni non hanno né massimo, né minimo assoluto, ma
possono avere due misure relative, cioè un minimo e un mas-
simo per supposizione , e queste sono proprie di quelle entità
683
che partecipano d'un infinito partecipabile per divisione di parli,
come il corpo, il tempo e il moto.
5.° Alcuni limiti non hanno neppure una misura relativa,
ma solo si può conoscere che l'entità di cui si tratta è più o
meno limitata senza un quanto assegnabile. E questi limili sono
propri di quelle entità che si costituiscono dalla partecipazione
d'un infinito che non è partecipabile per divisione di parli, ma
per virlualilà esplicata, sia poi il finito quello che s'esplica emer-
gendo dalla sua virtualità, o sia l' infinito.
ContÌ7iuazione. — DeW inerenza del limite secondario.
706. La definizione universale, che noi abbiamo data del limite,
si fu : « ciò che manca in una entità e di lei si nega )>. Abbiamo
avvertito che le parole a e di lei si nega m sono state poste
nella definizione per indicare, che « ciò che manca in un'en-
tità » non è limile in sé slesso, ma riferito dalla mente all'en-
tità che ne va priva. Ma la relazione di ciò che manca in un
entità coH'entità non è sempre la stessa ; e di qui abbiamo de-
dotta la terza maniera di dividere i limiti in generi. De' tre
generi di limiti distinti su questo fondamento, il primo abbiamo
detto esser quello de'limiti secondari. Dobbiamo dunque chia-
rire la relazione tra questo genere di limiti e l'ente a cui ap-
partengono.
Supponendo questi limili che preesisla l'ente, che è il su-
bielto di cui si predicano , essi hanno con esso una relazione,
che noi chiameremo d'inerenza. Ma poiché il limite é sempre
« qualche cosa che manca )>, rimane a vedere come qualche
cosa che manca possa avere un'inerenza a ciò che é.
Questo trova la sua spiegazione nella natura della potenzia-
lità. Abbiamo veduto che il limile secondario è limile della
causa potenza. Cause potenze sono tulli gli enti che ammet-
tono qualche sviluppo , di qualunque sia genere. Questi enti
devono avere una determinazione compiuta attuale , senza la
quale non potrebbero esistere , ma oltre questa determinazione
684
compiuta attuale , hanno in sé molte determinazioni potenziali
più 0 meno perfette. La determinazione di maggior perfe-
zione rimove e allarga i limiti dell'ente. Questi limiti dunque
consistono « nella potenzialità della perfezione (parziale o totale)
dell'ente )>. La perfezione in potenza è un modo di essere. II
limite secondario adunque è un modo di essere, e però non è
nulla , ma qualche cosa che inerc all'ente , che è nell'ente ;
perchè la potenza dell'ente non è nulla. Ma ciò che dicesi po-
tenza considerato come un positivo , dicesi Umite considerato
dalla mente come un negativo, cioè come una mancanza d'at-
tualità 0 d'esplicitità. Questa mancanza è dunque indivisibile da
qualche cosa che esiste , non è una mancanza pura. Anzi la
potenza dell'ente risulta appunto dall' indivisibile unione d'un
principio positivo causa, che ha in virlù i suoi effetti, e d'un
principio negativo che consiste nella mancanza dell'attualità di
questi. Il Umite secondario dunque è un necessario costitutivo
della potenza dell'ente.
Conviene applicare questa dottrina a lutti i generi inferiori
de' limiti secondari, e segnare la diversa natura dell'inerenza di
ciascuno all'ente. Noi, per non essere infiniti, ci limiteremo a
considerare solamente la natura dell'inerenza del limite secon-
dario in quegli enti che sono costituiti da una partecipazione
finita per divisione d'un infiìiito. Tali sono , come vedemmo , i
corpi che partecipano dello spazio. Quelle parti di spazio che i
corpi partecipano non si possono dividere realmente da tutto lo
spazio, ma con questo si continuano, perchè lo spazio in sé è
indivisibile. La divisione non è che relativa ai corpi parteci-
panti e non allo spazio slesso. C'è dunque uno spazio parteci-
palo finito, e c'è lo spazio non partecipalo infinito. I confini tra
lo spazio partecipato e Io spazio escluso dalla partecipazione
sono le superficie, le linee e i punti. Questi confini escludono
tutto lo spazio non partecipato dal corpo stesso. La mancanza
di tulio questo spazio partecipalo è ciò che costituisce il limite
complessivo del corpo. Ma poiché questa mancanza o esclusione
è determinala dai detti confini , perciò questi stessi confini si
prendono pei limiti de' corpi a questi inerenti. Propriamente
parlando sono indicazione e determinazione del limite e non ve-
ramente il limite. Il limile è tutto lo spazio escluso, e i confini
C8a
di questo spazio escluso sono identici ai confini dello spazio
partecipato; poiché i punti, le linee, e le superficie entro le
quali è chiuso un corpo, sono comuni allo spazio partecipato,
e allo spazio escluso dalla partecipazione. Sono dunque la de-
terminazione del limile. Ma si possono anche chiamare que'con-
fini il liinite virtuale del corpo. Perocché que' confini non si
possono concepire, senza concepire implicitamente lo spazio il-
limitato {Antropol. 156 1 08, 165, 166): essi dunque indicano
alla mente tutto lo spazio escluso dal corpo contenuto virtual-
mente nel suo concetto. Quesl'è dunque la ragione per la quale
i punti, le linee, e le superficie si possono dire limiti inerenti
a corpi che circoscrivono.
De' limiti, anteriormente a quali non si concepisce alcun ente reale,
ma solamente qualche entità.
707. 1 limiti secondari, ahbiamo detto, hanno per subielto un
ente reale e però lo suppongono come anteriore. Ma questo stesso
ente reale, appunto perchè è subietto de' limili secondari e si
concepisce anteriore a questi , dev'essere limitato. I limiti se-
condari non sono dunque i primi , ma suppongono degli altri
limiti anteriori ad essi, perchè suppongono un limitato che serva
loro di subietto. Questa è quella proprietà, dalla quale viene loro
appunto la denominazione di secondari.
Rimane dunque a cercare quali sieno i limiti propri dello
stesso ente reale in quanto si concepisce come anteriore a'suoi
limiti secondari. Egli è chiaro che i limiti propri dell'ente non
presuppongono avanti di sé un altro ente , poiché in tal caso
ricadrebbero nel genere di secondari; sono dunque limiti che
entrano nella costituzione dell'ente stesso , non potendosi senza
di essi concepire piij l'ente.
A questo genere dunque appartengono que' limiti che abbiamo
chiamati enlitativi. Come dunque i limiti secondari limitano
solo V appendice dell'ente, così questi limili, che abbiamo anche
delti cosmologici, limitano la base dell'ente. E se col cangiarsi
C86
de' limili secondari non perisce l'enle, perchè affettano solo le
sue aiipendici, col cangiarsi degli entitativi è cangiata la base
dell'ente, il quale perde la sua identità.
A questo stesso genere appartengono anche que' limiti che
abbiamo chianìati trascendenti, che escludono gli elementi obiet-
tivi e subiettivi che costituiscono l'ente.
Ventila che si concepisce precedente ai limiti entitativi è la
potenza d'un reale, che ha una base, di averne un'altra : l'en-
tità che si concepisce precedente ai limiti trascendenti è la
potenza d'un reale che non ha base alcuna, e che perciò è un
reale indeterminato nella mente , suscettivo di acquistare una
base e così d'esser fatto ente.
Supposto r ente esistente co' suoi limiti entitativi , egli è il
subielto di tali limiti ; è un subietto che non è antecedente
ad essi, ma coevo. Questa osservazione già comincia a chiarire
la relazione di tali limili entitativi coll'cnte realmente esistente.
708. Noi dicemmo che la parola limitazione si prende in due
sensi, 0 nel senso d'operazione limitante, o nel senso di limile.
Vedesi dunque che, parlandosi di questo genere di limili a l'ente
non è l'oggetto della limitazione, presa questa parola nel primo
significato », perchè se l'ente fosse oggetto dell'operazione limi-
tante , esso si supporrebbe anteriore a questa operazione; ma
soltanto è il a subietto della limitazione presa nel secondo si-
gnificato )) cioè nel significato di limite, perchè questo non esige
che l'ente sia anteriore al limite, ma solo esige che la mente
astragga dall'ente limitato il limite e glielo attribuisca, ricono-
scendolo con lui indivisibile.
La quale osservazione giova a rimovere una volgare opinione
insinuatasi, con tant' altre, nella filosofia, cioè che talli i limiti
s'impongano per un' operazione limitante , del che nulla di più
falso. Questo non può aver luogo se non rispetto a que'limiti ,
il cui concetto si separa da quello dell'ente , come accade ri-
spello a limili secondari, anteriore a quali si concepisce l'ente:
non può aver luogo se non rispetto a questi e non sempre, né
necessariamente. Ma i limiti che sono essenziali all' ente non
s'impongono all' ente per una operazione limitante , ma per la
stessa operazione con cui si produce l'ente, sia questa vegetazione,
0 generazione, o creazione.
G87
Voperazione limitante dunque — parlo d'una operazione separata
da ogni allra — non è atta a imporre limiti, se non a queste
due condizioni:
ì.° Che l'entità a cui gli impone sia già un limitato, onde
essa non fa che restringere de'limiti esistenti — e non produrne
de' novi — e tali limili possono dall'operazione contraria essere
anche allargali ;
2.° Che ciò a cui s'applica Voperazione limitante ammetta
parti per via di partecipazione. Così un corpo reale od imma-
ginario, un tempo, un numero, cose tutte limitate, possono es-
sere maggiormente limitate da un'operazione limitante.
Gli altri limiti, all'opposto, non si producono da un'operazione
limitante, ma da una operazione che produce ad un tempo l'ente
e il suo limite proprio,
709. Tornando dunque al limite essenziale a un dato reale esi-
stente, egli si concepisce insieme con esso, e però entra come
ingrediente necessario a costituirlo. Ma se la mente non può
concepire l' ente anteriormente a questo genere di limiti , non
potrà tuttavia concepire d' anteriore cosa alcuna quasi materia
che viene limitata? Sì, rimane un'entità. Quest'entità è la specie
astratta.
La relazione dunque che passa tra il limite entitativo e l'ente
che si considera come suo subietlo, non è di sola inerenza, ma
è una relazione essenziale e costitutiva dell'ente.
All'incontro Venie non è il suhietto di quel limite che abbiamo
detto trascendente, ma la realità che non esiste ancora se non
nella mente attesa la sua indeterminazione , che non le lascia
di poter esistere in sé. Il subietlo dunque di tali limiti non può
essere che quella realità e potenzinlilà che trovasi ne' generi
inferiori gerarchicamente distribuili fino al genere sommo : in
somma la realità involta ancora nell'idea generica, dove manca
ancora la base dell'ente.
Limiti cosmologici chiamiamo dunque quelli che la mente
divina impone alla realità indeterminatissima , che è nella
mente stessa, per mezzo de'quali ella si rende di mano in mano
determinatissima, ed atta ad acquistare un'esistenza in sé. Que-
sti limiti l'uomo li trova ne'gencri e nelle specie. Se noi pren-
diamo la realità indeterminatissima come genere sommo, ella è
C88
queir entità che si concepisce anteriore a tulti questi limili e
che diviene il subiello di lutti. Ora non è ella questa un' ope-
razione limitante? Sia pure, che l'operazione limitante si faccia
or dalla mente, or da un'azione esteriore ossia reale; non perde
con questo la sua natura d'operazione limitante.
Rispondiamo, che per operazione limitante intendiamo quella
che non produce altro effetto che quello di limitare. Così se
da un dato corpo continuo si recida , o colla mente o colla
scure , una porzione , il corpo rimasto più piccolo fu limitato,
senza che per questo egli abbia perduto la sua natura di corpo
0 acquistatane un'altra. Ma quando per limitare un'entità è
necessario produrre una cosa nova, in tal caso l'operazione
non è limitante, ma producente, benché con questa operazione
producente anche si limiti l'entità precedente. Ora così appunto
avviene quando vi si limita il genere colla produzione della
specie, 0 la specie astratta colla produzione della specie piena:
con questa produzione si limita certo l'entità precedente, ma si
limita con produrre una cosa nova. Ora si consideri che cosa
sia questa cosa nova: ella si divide in tre parti e nature:
i.° La prima quella che viene prodotta da' limiti cosmolo-
gici, anteriori alla specie astratta, e quest'è materia della base
dell'ente, la quale base ancora non esiste, è precedente alla
base;
2.° La seconda, quella che viene prodotta da limiti cosmo-
logici che producono la specie astratta, e questa è la base del-
l'ente formata;
3.° La terza, quella che viene prodotta da' limiti che ren-
dono la specie piena e pienissima, e pongono le appendici del-
l'ente.
Quest' ultima cosa prodotta appartiene a' limiti secondari e
fisici, di cui abbiamo già ragionato: conviene dunque considerare
le due prime nature prodotte da' limiti.
La prima di esse, cioè quella che è prodotta da' limiti ante-
riori alla base dell'ente, non è l'ente, ma ancora non-ente:
la seconda poi è l'ente stesso. Alcuni dunque de' limiti cosmo-
logici producono ancora una materia meno indeterminata che
è preambula all'ente, altri producono l'ente stesso. Essi dunque
non possono essere imposti con un'operazione puramente limitante,
(J80
ma con un'operazione prodacente o, aumcntanle hi cosa die in
pari tempo riceve i limiti,
710. Di qui si rende più generale quella distinzione che facevamo
tra l'obietto della limitazione nel senso di operazione che impone
i limili, ^e il limile," che è quanto dire ,lra' i! subietlo che
riceve i limiti, e il subietto de' limiti già prodotti. Perocché il
subietto che riceve i limili è ciò che ancor non li ha; ma il
subiello de' limili già prodotti è un altro, perchè i limili slessi
hanno prodotto un subietto novo che prima non esisteva, Go.si
il subiello de' limiti della specie astraila è la base dell'ente, ma
ì! subiello, che ha ricevuti questi limili, pririìa di riceverli era
il genere prossimo, non la base deirenle, e non l'ente, ma solo
materia jireambula all'ente e alla sua base,
L'eiietUt dun(]ue deiro])erazionc clie produeendo impone i li-
mili è doppio perchè aggiunge e nello slesso tempo restringe.
Noi daremd di ciò una dichiarazione maggiore quando parleremo
de' limiti ontologici. Ora ci basterà osservare che questo fallo
si concepisce come risultante dalla concorrenza di due cause,
cioè 1." d'una causa efficiente che è la mente divina; '2." e
d'una potenza di ricevere , che è la realità indeterminala o
generica. In fatti la realità generica si concepisce come una
potenza delle specie, e la specie si concepisce come un allo
della realità generica. La causa potenza, abbiam dello, è quella
che rimane il subietto de' propri atti; se noi consideriamo la
realità generica come causa potenza, ella comparisce come su-
bietto delle specie che sono suoi atti: ma ella non è che un
subiello dialellico e antecedente. Oltre di ciò la realità gene-
rica com'è conosciuta dall'uomo, non ha virtù d'emettere da
se i suoi atti, e perciò l'abbiamo chiamata « una polenza di
riceverò ». Poiché la realità generica, fino che si considera come
generica, è un indeterminato, e l'indeterminato non esiste in sé,
e però non può operare e determinarsi da sé, ma come esiste solo
nella mente, così non altro che la mente, come causa efficiente,
può aggiungervi quegli atti che lo determinino. Deve dunque
intervenire questa causa efficiente a far si che il genere come
potenza passi all'atto della specie. 11 genere dunque come ge-
nere cioè come indeterminato è polenza imperfella, perchè è
causa imperfetta e però è « polenza di ricevere i suoi alti
KoSMiNi. Teosofia. 44
C90
piuUosto che di farli ». Ma dopo che egli li ha ricevuli è su-
biello dialettico e nnleredenle de' medesimi
7i 1 . Ora gli alti che può ricevere il genere, cioè la realità gene-
rica, sono diversi, e tali che s'escludono reciprocamente, allo stesso
modo, come abbiamo veduto parlando de'limiti secondari, e delle
varie determinazioni compiute che può ricevere lo stesso ente
S'escludono reciprocamente, perchè ciascuno di questi atticomiìleìi
e determinanti ha delle proprietà contradditorie a quelle degli
altri. Posto dunque che ognuna di queste determinazioni, che pro-
ducono un genere inferiore o una specie, sia esclusiva di tutte le
altre, apparisce cliiaro, come con una tale aggiunta di attualità si
limiti il genere. Ma che cosa diminuisce questo limite? ì/indeter-
mlnasìone e la potenzialità di riccoere che ha il genere. Cioè a
dire, il genere già determinato a un modo, e cosi reso la specie,
non può più essere determinato ad altri modi, cioè quella s|)e-
cie non può essere nello stesso tempo altre specie per l'identità
con sé stessa che le è necessaria. Limitandosi dunque in potenza
aumenta Volto: onde, come vedcmnìo, limitasi l'estensione delle
idee coH'aumentarsi la comprensione. Ora la potenza non è
già nulla, ma è mancanza di atto. Pure se ogni atto mancasse
non resterebbe più cos'alcuna. La potenza dunque inesiste in
un atto, che in quanl'è atto non è potenza. « La potenza dunque
è un atto che può esser causa d'altri atti di cui esso è subietto
0 antecedente, e dialettico, o reale ». Se questi altri atti sono
appendici deirenlc, la potenza è un aito che è subietto reale di
questi atti appendici, ma se questi atti costituiscono essi stessi un
novo subietto « la potenza è un atto che può produrre altri atti, di
cui esso è subietto dialettico e antecedente )> ,e come* tale ,è* nella
mente. Trattandosi dunque di limiti cosmologici, questi sono posti
coll'aggiungere ad una potenza tali atti, di cui essa rimane sola-
mente subietto dialettico.
Se dunque l'indeterminazione e la potenzialità è qualche cosa
di negativo e di difettoso , converrà dire che 1 limili cosmo-
logici , che la diminuiscono, sieno qualche cosa di positivo ,
non cosa che manca; sarà mancanza di ciò che manca, il che
ha forma dialettica di mancanza, ma non è vera mancanza.
Questo sarebbe vero, se la stessa potenza non fosse qualche
cosa di positivo: essa non è positiva in quanto all'atto che le
091
manca, ma è posiliva in quanto può l'are o avore quest'atto:
ella è un alto incipiente radice di moki atti. Quando dunque
le si aggiunge un alto che la determina c'è un aumento e una
diminuzione, 1." c'è aumento di atto; 2.° c'è diminuzione di
potenza. Questa diminuzione di potenza è il limite che le vien
posto, il quale perciò consiste nella mancanza d'una cosa ^nega-
tiva*.
E questa stessa condizione, che la potenza non possa arric-
chirsi di un maggior allo, senza diminuir.^ ella stessa, è una
condizione che ha natura di liniile, essenziale alla potenza me-
desima,
1 limili cosmologici dunque son qìielli che s'impongono dalla
mente ad un'enlilà anteriore all'ente ed alla sua base, cioè alla
realità indeterminala che non ha esistenza che nella mente, e
s'impongono per un' operazione producenle un'ulteriore allualilà,
e non per un'operazione semplicemente limilanle, avendosi l'ef-
lello della limitazione come una conseguenza della slessa produ-
zione.
SS
De' limili, anteriormente a quali non si concepisce alcun ente né
alcuna etilità che sia subietto della limitazione.
712. Ma come ha cominciato la limitazione? qua! è l'origine della
limitazione stessa? Noi fin qui l'abbiamo supposta perchè siamo
passati da un limitato a un limitato sempre più esteso , ma
però limitalo, da' limiti delle appendici dell'ente siamo venuti
a' limili propri della base dell'ente stesso, da' limiti propri della
base dell' ente siamo venuti a' limiti della materia dialettica
precedente all'ente, cioè della realità indeterminata e indeter-
minatissima. Ma questa stessa è un primo limitato che abbiamo
supposto. Convien dunque spiegarlo e mostrare come sia avve-
nuto il passaggio non d'un limitalo a un limitato ma dall' illi-
milalo al limitato. Noi n' abbiamo certamente parlato anche
prima, sia descrivendo la creazione, sia dando la teoria della
quantità onlologien , ma è necessario cl»e ci ritorniamo sopra
C92
per chiarire maggiormente la natura e !a nascila, per così
dire, della limitazione.
Varie questioni importanti si possono fare intorno a questi
limili ontologici. Le due prime sono queste :
(( 1.° A' limili fisici e cosmologici, di cui abbiamo parlato,
preesiste qualche cosa che riceve la limitazione, almeno un'en-
lili\ nell'idea, e quest'entità già limitata ella stessa; ma a' limiti
ontologici niente prcesiste che possa esser limitato, non preesiste
che rillimitalo. Come dunque nascerà questo primo limitato «?
(i 2.° Spiegato come nasca il primo limitato, che è quanto
dire il primo suhietto do' limiti, e ad un tempo i primi limili,
rimane a vedere, se questo limitalo sia formato dalla libertà
creante, in questo senso, che essa non abbia in produrlo alcuna
norma determinata , ma possa esser fallo maggiore o minore
indefinitamente. »
In quanto alla prima questione rispondiamo che la mente di-
vina, mediante quella operazione che abbiamo chiamato (nitra-
zione divina, può trarre il limitato dall'illimitato. E ciò per-
chè questa operazione astraente non s'esercita sull'illimitato
sussistente in sé, di modo che questo soffra da esso qualche
alterazione, o divisione o limitazione; masuìVillimilalo, in quanl'è
puramente cognito alla mente, e non in quanto in sé sussìstente
nella mente divina. E lo slesso illimitato cognito non si dimi-
nuisce coll'astrazione, ma solo per essa s'aggiunge un altro co-
gnito che è VasiraltOy il quale è un pensiero parziale, che non
distrugge ma suppone presente il totale. Cosi il limitato si fa
nella mente come cognito. Or poi la potenza divina lo vuole, e
volendolo lo crea, come abbiamo detto avanti.
Ma questo limitalo, formalo nella mente, può essere più o
meno grande indefìnitamenle? E se può esser |)iù o meno grande
indefinitamente, come la libertà di Dio lo determina ad una
piuttosto che ad un'altra quantità? Tale è la seconda questione
più ardua della prima.
Cerchiamo prima di collocare in piena luce la difficoltà che
una tale questione involge.
7ÌT). Ogni finito dilferiscc dall'infinito infinitamente, li finito
dunque, astrattamente consideralo, si può concepire come atto ad
aumentarsi indefinitamente, senza che saccosli perciò all'infinito.
093
clic per quanto s'accresca rimane sempre inlìnita ia difT'>renza.
l'crciò il finito non si può trovare col diminuire l'infinito, né
l'infinito coU'accrcscere il finito. Sembra dnn(jue impossibile
trarre dall' infinito il finito, percbc Ira l'uno e l'altro c'è un
abisso invalicabile: sono due concetti che non possono aver
nulla di co?nune.
Ma suppongasi possibile di cavare dall'infinito il concetto del
finito. Potendo esser questo indefinilamcnlc aumentato e dimi-
nuito e dovendo la mente stabilire il finito in una determinata
quantitji , dovrà la mente scegliere una determinata quantità
Ira le quantità indefinite, di cui è suscettivo il finito generica-
mente ossia astrattamente consideralo. Ma questo è impossibile
per jtiù ragioni,
71^. Primieramente, perchè le quantità determinale possibili del
finito essendo indefinite, non si possono mai avere in atto, ma
solo in potenza: tale essendo la natura dell'indefinito, che non
sia mai tutto in atto. Ora le quantità in potenza non sono
quantità, tra cui possa cadere una elezione. Che se si dice che
tutte le quantità possibili sicno in atto nella mente divina , si
urla in un altro assurdo di ammettere un numero infinito in
atto: poiché un numero infinito attualmente presente alla mente
è un assurdo, non essendoci numero che non sia pari o dispari
e a cui aggiungendo un' unità non si possa ridurre da j)ari a
dispari , e da dispari a pari. Di più , dato che questo numero
infinilo di quantità possibili potesse esser attualmente presente
alla divina mente , non si vede come potesse fcirsi una scelta
tra partiti di numero infinilo. Poiché scelta non potrebbe aver
luogo se prima non si avesse paragonato ciascuno degli infiniti
numeri a tutti gli altri: e poiché il parag(mare un solo di essi
con tutti gli altri involge un infinilo numero di paragoni , si
dovrebbe supporre che infinite volte, si tacesse un infinito nu-
mero di operazioni comparative. 11 che è già un novo assurdo,
perchè dimostra che il numero che si suppose infinito può es-
sere infinitamente aumentato, quando é proprietà dell'infinito di
non poter aver aumento : dunque il numero, che si suppose
itifinito , non era infinito. Ma spingiamo più avanti la dimo-
strazione. Sujìponendosi che infinite volte si fosse eseguito un
infinito numero di paragoni , paragonando ciascuna unità del
694
numero infinito con tutte le altre infinite unità, di cui quel
numero consta per la supposizione , che cosa se n'avrebbe V
Un infinito numero di risultati. Converrebbe dunque ricomin-
ciare il paragone di questi risultati tra loro; e questo ci ricon-
durrebbe a rifare infinite volte lo stesso numero infinito di
paragoni; cioè ci condurrebbe in un circolo d'operazioni infinite
senza risultato alcuno : un infinito numero d' operazioni condu-
cendo sempre ad un altro infinito numero di operazioni, e così
infinitamente. È dunque impossibile una scella tra iin numero
infinito di partiti da prendersi. Per questa via dunque non si
può spiegare come la mente divina tragga dall' infinito il con-
cetto d'un finito determinato ad un quanto.
Egualmente assurdo sarebbe il dire, cbe la mente divina s'ap-
pigli ad uno degli infiniti Umilati possibili a caso e alla cicca: pri-
mieramente, perchè ciò ripugna alla divina natura, per essenza
sapiente; di poi perchè anche l'operare alla cieca esige una ragio-
ne sufficiente che determini l'operazione a un partito piuttosto che
ad un altro, dai)poichè fino a tanto che la causa è indifferente a
più effetti che si escludono, ella non può produrre l'uno piuttosto
che l'altro di essi.
Finalmente, questa maniera di spiegare il nascimento del con-
cetto del limitato nella divina mente pecca di vizio per un'altra
ragione, cioè perchè suppone quello che si cerca: suppone cioè
infiniti limitati possibili. Ma infiniti limitali possibili altro non sa-
rebbero, che infiniti atti della mente divina, co' quali li avesse
trovali; e noi cerchiamo appunto come possa aver trovato il limi-
lato movendo dalla presenza dell'illimitato a lei cognito per essen-
za. La questione dunque non può supporre i possibili, perchè si
volge appunto intorno alla prima origine di questi.
715. Vedute le difficoltà, affrontiamo la questione studiandoci
di evitarle.
L'oggetto, su cui la Mente divina eseguisce l'astrazione^ è Vessere
(tssolulo in quanto cognilo. Nell'essere assoluto cognito la Mente
distingue Vesserò dal lenninc dell' essere subiettivo, realità obictti-
va. Questa realità obiettiva, divisa dall'essere subiettivo, non esiste
se non nella mente, perchè è stata divisa per astrazione l'esistenza
subiettiva ed iti sé. Questa è la prima limitazione ontologica.
Questa limitazione priva la realità obiettiva delle qualtro prò
G9o
prietà che procedono dall'essere subiettivo, cioè I" dell'esistenza
in sé; 2° della durala in questa esistenza: 5° (hW atdvità propria;
4" e dell'intelligibilità d'afTermazione. Il primo limite massimo on-
tologico dunque consiste nella mancanza di queste quattro pro-
prietà.
Mediante questo primo limite 1' essere infinito obiettivo è
divenuto, come cognito, un intlnilo obiettivo possibile, che si può
dire in qualche modo « l'idea di Dio ».
In questo « infinito obiettivo possibile » c'è dunque ancora
rintìiiilo , ma virtuale rispetto alla sussistenza. Quest' infinito
puramente cognito nell'idea , da cui per astrazione fu separala
la sussistenza, è un'essenza che ha tuttavia i quattro elementi
da cui risulta la forma obieltim e che sono: I." (jualità, 2.°
intelligibilità obiettiva, 5.° quantità, 4.° unità.
Ora se coll'aslrazione si rimovono dall'essenza infinita, che dice-
vamo, anche queste quattro proprietà della realilà. qual è il cognito
che rimane davanti alla mente?
Non altro che un' essenza indcterminatissitna possibile, una
radice ultima di tulle le cose, una materia prima, se cosi la si
vuul chiamare^ iìivulla in un'idea, che è certamente quella che
abbiam chiamalo l'idea dell'essere indeterminato, o dell'essere in
Ufiiversale, o dell'essere possibile, è in una parola l'oggetto dell'in-
tuito umano. Conviene osservare che parlando noi dell'essenza
indeterminatissima , ne parliamo necessariamente come veduta
nell'idea, ma prescindiamo e facciamo astrazione dall'idea stessa,
la quale costituisce 1' intelligibilità cbietliva , che è uno dei
quattro elementi della forma obiettiva. Conviene osservare in
secondo luogd che dicendo essere possibile, diciamo il termine del-
l'essere e non l'essere stesso, a cui appartiene l'allualilà: ma al
termine solo appartiene la possibilità dell'essere, perchè è quello
che può ricevere l'essere.
La mente divina dunque con questa seconda astrazione sull'es-
sere assoluto, in quante cognito, pone davanti al suo pensiero
Vesscre possibile privo di ogni determinazione. La mancanza delle
quattro determinazioni obiettive è il secondo limite massimo ontolo-
gico.
710. Forniate cosi per astrazione dalla mente divina questo co-
gnito, vediamone la natura.
696
Da quello clic abbiamo dotto risiijla, ch'esso si può definire kuu
termine iiidetorminalo dell'essere che può ricevere Tessere ».
Questo termine indeterminato, essendo un cognito, ritiene la forma
obicttiva., ossia esso è nelfidea: altramente non islarebbe davanti
la mente: ma la mente astraente fissa ciò che è nell'idea, non l'idea.
Comincia dunque qui un'altra serie d'operazioni in senso opposto
alle precedenti, per le quali la mente divina dall'indeterminato
procede al determinato. Ma va ella forse ad arbitrio e per così
dire alla cieca? Come lo due grandi astrazioni, che abbiamo de-
scritte, non furono fatte; alla cieca e ad arbitrio, avendo spoglialo
l'assoluto oggetto in quanto puramente cognito delle determina-
zioni subiettive ed obiettive, così la divina mente non procede
punto a caso nelle determinazioni che aggiunge all'esser*? possibile'.
ed ecco in che modo.
L'essere possibile è « un termine dell'essere indeterminato »,
Ora tutte le determinazioni del concetto astratto di termine del-
l'essere si riducono, come a somme categorie, alle tre forme su-
preme: la subietlim, Vohielliva e la morale; fuori di queste non si
può andare. Qualunque determinazione dunque voglia aggiungere
la divina mente « al termine indeterminato », j)cr determinarlo
conviene che si contenga in una delle tre categorie, di maniera
che il detto termine deve rimaner determinato o come un lermine
subiettivo, 0 come un termine obiettivo, o come un lermine morule.
Questa è una determinazione prima, ma non completa, perchè
ciascuno de'detti tre termini è ancora un concetto universale: si
concepisce il termine subiettivo in universale non costituente
ancora questo o quell'ente, e cosi si concepiscono con un concetto
universale gli altri due termini, che perciò si dicono categorici, il
che esprime una universalità massima, maggiore di quella d'ogni
genere. Per arrivare dunque aircnte a pieno determinalo conviene
aggiungere altre determinazioni.
Ora qual ò la legge dell'ente perfettamente determinato? — Che
egli sia da ogni parte uno. Questa legge si trae dall'Ente assoluto,
l)crchè egli, come vedemmo, essendo l'Ente per essenza, Tenie
primo, dimostra in se che è all'ente essenziale Tesser uno.
Presupposta questa legge, ne viene, che « i tre concetti univer-
sali di termine subiettivo, di termine obiettivo, e di lermine mo-
rale, potranno diventar enti tante volte, quante volle potranno
007
esser determinati in modo., che diventino uno v. Ogni qual volta
la mente potrà dar loro la perfetta unità, ella potrà con ciò stesso
concepirli come enti o possibili, o esistenti in sé.
717. Ora si possono fare due ricerche:
1." Se tutti e tre que' termini possano costituire un sulo
uno:
^2.^ Se ciascuno di essi possa concepirsi in modo che for-
mino uno.
Alla prima ricerca si risponde afTermali va mente; e lutti e tre
in falti uniti nell'essere costituiscono l'Ente Assoluto, ed infinito :
il quale è determinato appunto per questo che è l'Essere lutto in-
tero senza mancamento alcuno. Infatti non si dà indeterminazione
dove non manchi nulla. L'assoluto tulio e il massimo determi-
nante. Determinando duiìquc i tre termini a questo modo, e ridu-
cendoli così alla perfetla unità, altro non si fa che restituire quello
che era stalo tolto dall'astrazione divina, e riavere l'Essere asso-
luto.
Rimane la seconda ricerca, che è quella che conduce appunto
alla .cognizione della* costituzione dell'ente finito. Dimandavamo
dun(|iic : « Se ciascuno de' tre concetti universali de' termini
dell' essere può concepirsi separatamente l'uno dall'altro come
uno, e così costituire un ente ».
A questo rispondiamo , che rispetto al concello del primo
termine, che è il reale o subiettivo , può essere pensato dalla
mente come imo, senza che a comporre quest'uno entrino gli
altri due termini: iVJa il termine obiettivo non può pensarsi come
uno, se non supponendolo in una mente, perchè questa forma del-
l'obiettività importa che esista in una mente, la quale ha na-
tura di termine reale o subiettivo. Preso dunque il termine
obiettivo da sé solo, senza che sia oggetto di ninna mente,
perisce, e però non può costituire un uno separalo realmente
dal termine subiettivo dell'essere. Mollo meno il termine morale
può concej)irsi come uno separandolo dagli altri due termini;
poiché egli nasce dalla compenetrazione non confusa degli altri
due.
Rimane dunque che il solo concetto del termine reale p(ts-
sa esser determinato a parte in modo da formare uno, E po-
sciachè , se si prendono tutti e tre insieme i termini, e si
698
determinano come uno, se ne ha solo l'Ente ififinito, e separali
non possono stare nò il termine obiettivo, né il termine mo-
rale, rimane che la possibilità dell'ente finito si deva cercare nel
solo termine rciile, come quello che solo può esser determinalo
come uno in separato dagli altri due.
Consegue, che se v'hanno enti finiti, essi non possono essere
altro che subielii reali, e non obiettivi o morali come subielti,
essendo il subietto « contenente e causa dell'unità dell'ente ».
718. Con questo noi abbiamo già dato im gran passo: abbiamo
trovalo delle limitazioni essenziali, e non arbitrarie o casuali
dell'ente finito: poiché abbiamo veduto che egli non può essere
né un enlc oggetto né un ente morale, delle quali forme egli
può bensì partecipare, ma rimanendo puramente un reale.
Rimane dunque nella mente divina il concetto d'un reale
jìossibile pienamente indeterminato come un' essenza separala
dall'altre due forme. Il problema dirò così che l'eterna mente
deve risolvere si è: in quanti modi il reale possibile indetermi-
nalo possa determinarsi in modo da esser uno a pieno deter-
minato. E in j)rimo luogo è chiaro, che questo reale non può
più determinarsi in modo da esser un uno infinito; poiché per
esser un uno infinito il reale ha bisogno dell'altre due forme.
E che esso abbia bisogtio delle altre due forme si prova così:
il reale acquista dalle altre due forme un alto di realità che
non ha senza le altre due forme. Quindi privo dell'altre due
forme gli manca una porzione di reale, e perciò non è un
reale infinito. Che la cosa sia così s'intende dalla dottrina del-
l'iiisidenza reciproca delle tre forme supreme dell'essere. Poiché
per questa noi sappiamo che il reale, oltre esistere in sé stesso
come forma suprema e contenente massimo, inesiste anche nelle
altre due forme come contenuto. Questo modo dunque dell'ine-
sistenza gli manca quando la mente lo vede separato dall'altre
due forme, e quindi non é più infinito ma limitalo. Di più
quand'é unito all'altre due forme egli le ha nel proprio seno
come suo contenuto; ma separalo da esse ha perduto questo
suo conlenulo e però di novo ha cessato di essere infinito, e si è
reso finito.
Laonde il reale possibile e a pieno indeterminato, che é nel-
l'idea divina come termine del libero suo pensiero e radice di
699
luUe le cose finite — non radice di UUle le cose assolutamente, — è
un'essenza già da sé limitata in più modi: I ." perchè è soltanto
possibile cioè priva dell'essere subiettivo: '2." perchè è indeter-
minata mancandogli 1" unità propria dell'ente; 3.° pt'rchc le
manca quel modo di esistere che ha come contenuto dell'altre
due forme; k° perchè le mancano la altre due forme come proprio
suo contenuto.
7i9. iMa ora, prima di procedere oltre a vedere come e quante
volle questa realità possa esser determinata dalla mente divina
per modo da divenire una, conviene che dichiariamo ancora
meglio che cosa ella sia.
Quelli che hanno speculato per trovare una dottrina ontolo-
gica — e sono pochi assai che l'abbiano fatto di proposito e col
proprio pensiero , avendo tutti seguito in sostanza Platone e
Aristotele — sono risaliti al concetto d'una materia prima per
mezzo dell'astrazione esercitata unicamente sulla realità esterna
0 estrasoggcltiva. Le stesse specie, i generi, le categorie furono
tolte dagli enti sensibili per astrazione. Da questo nacque che
l'ultima materia che restò loro in mano dopo tutte le astrazioni
fu un vero caput mortaum, un'entità priva d'ogni vita e d'ogni
relazione coll'intelligenza, appunto perchè la materia messa da
essi nel lambicco dell'astrazione era il termine opposto alla vita
e all'intelligenza, e non l'ente intero.
Volendo dunque adoperare l'astrazione sugli enti mondiali a
noi cogniti per arrivare al concetto d'un primo reale indeter-
minalissimo conviene condurre l' operazione graduatamente, e
non omettere nulla di tutto l'ente finito a noi cognito da cui
dobbiamo astrarre quell'ultima radice comune che ricerchiamo.
A tal fine è necessario classificare gii enti mondiali, affinchè
niun genere ce ne sfugga. La prima classificazione è questa:
altri sono enti-principio, altri enti-termine. Gli enti-principio sono
intellettivi o puramente sensitivi. Gli enti-termine sono spazio e
corpo. Ora egli è chiaro che gli enti-principio e gli enti termine
sono di nature opposte, cioè gli enti termine sono relativi agli
enti-principio, e per questi soli esistono. Egli e dunque mani-
festo che non ci può essere una radice comune, ossia un'ultima
realità comune, ma di comune non ci può esser altro che la
forma dialettica di ente: e dico dialettica^ perchè questa forma
700
veramente conviene loro in un senso equivoco ; ma la mente
facendo astrazione dall'equivoco del significato considera 1' ente
come fosse una forma comune. E questo è appunto quello che
ingannò gli antichi filosofi, i quali fo4pdarono l'Ontologia sopra
forme dialettiche, che non si possono applicare nello stesso
senso agli enti-principio ed agli enti-termine.
Cercando dunque noi una prima realità vera, sebbene inde-
terminata e non puramente dialettica, ci è necessario lasciare
da parto gli enli-termine come posteriori e non partecipanti della
realità prima, ma nascenti in conseguenza della determinazione
di questa, la qua! determinazione le dà l'unità propria dell'ente.
Rimane dun([ue che por innalzare il nostro pensiero a trovare
una prima realilà indeterminata degli enti finiti, dobbiamo eser-
citare l'astrazione sui soli enti-principio i quali sono intellettivi
e sensitivi. Ma di novo i sensitivi sono posteriori agli intellet-
tivi; poiché, come abbiamo mostrato ancora, essi non potrebbero
esistere tutti soli senza che ci fosse un ente intellettivo; e non
sono enti completi, perchè non sono subietti completi (,502, sgg.*).
Rimane dunque che la prima realità indeterminata e possibile,
che si deve concepire nella mente divina come radice o germe
del mondo, sia quella Dalila che si può astrarre dai soli enti intel-
lettivi come a tulli comune. Se dunque noi prendiamo i costi-
tutivi dcirenlc intellettivo in genere, noi in questi costitutivi,
lutti indeterminali perchè generici, avremo il concetto di quel
reale primo che si concepisce dover esser stato nella mente di-
vina, come fondamento della creazione del mondo.
720. Indichiamo dunque i costitutivi di questa prima materia
0 realità che dovette essere nel fondo deiresemplare divino.
Il primo si è, che l'ente intellettivo deve avere un'intuizione
dell'essere obiettivo.
Il secondo, che l'ente intellettivo deve avere un sentimento.
Il terzo si è, che l'essere intellettivo deve avere una volontà
colla quale unisca armonicamente, amando, il proprio sentimento
all'essere.
Questi sono i tre costitutivi dell'ente intellettivo finito in gene-
re; e appunto l'ente intelleU'wo finito in genere è quel priuKì reale
possibile indeterminato che dovette trovarsi nella divina mente
quasi direi come il primo rudimento dell'ente finito.
7!U
Si dirà, che il primo coslitulivo, cioè l'inluizione deU' essere
obiellivo, non soddisfa alla condizione prcaccennala, di separare
il reale dalla forma obielliva. ìMa questo da noi si nega, j)erchè
l'essere intuito non costituisce un elemento ingrediente del su-
bietto intelligente, ma è cosa da lui diversa che le sta presente e
così si dice che ne partecipa.
Allo stesso modo è a dire del terzo coslitulivo, non perchè la
volontà non sia un elemento ingrediente del subielto, ma perchè
questa termina anch'essa nell'essere obiettivo esterno al subietto
intelligente, è questo il modo con cui il subielto intelligente par-
tecipa della forma morale, senza che questa sia desso.
Si dirà ancora, che l'ente inlelletlivo fiiùlo in genere non è
l'ultimo indeterminato tra i concelti del reale ; ma questa obie-
zione ricadrebbe nell'illusione, che abbiamo già accennata, degli
Ontologi dialettici. Concediamo che si può concepire un reale più
indeterminato ancora che non sia l'ente intellettivo generico; ma
affinchè quel reale fosse più indeterminato dovrebbe concepirsi
non solo come comune agli enti intellettivi, ma ad altri ancora, e
un reale comune ad entrambi non esiste se non in senso equi-
voco, e però quantunque la mente gli applichi una sola forma
astraltissima, pure non è un solo, ma due che hanno un ordine di
anteriorità e di posteriorità: infatti ogni qualvolta una parola si
dice comune a entità a cui essa si ap|)lica in sensi diversi, que-
sta non è una vera comunanza, ma una comunanza o puramente
ver!)ale o di pura forma dialellica. Convien dunque fermarsi
all'ente intellettivo in genere come realità prima nella sua mas-
sima indeterminatezza.
7^1. Per veder dunque come la divina mente possa procedere da
questa prima realità indetcrminata alle altre determinazioni che
le danno l'unità propria dell'ente, e quante volte essa possa esser
fatta una, basterà considerare l'indeterminazione di ciascuno dei
tre suoi costitutivi.
L'intuizione dell'essere è un'indeterminato, perchè non ci si de-
termina quanto dell'attualità dell'essere si manifesti all'intuizione
primitiva e naturale dell'ente intellettivo. Quesl' indeterminato
dunque può ricevere l'unità propria dell'ente tante volle quanti
possono essere i gradi dell'attualità deiresscre che si manifesta.
Il senlimenlu proprio, che è il secondo costitutivo, è determi-
70-2
nato in questo, clie deve avere un senziente e un sentito; e
ii senziente lui già per su;i essenza Punita e la semplicità, ma
il suo sentito fondamentale può variare, e quindi 1" ente che
risulta dall'unione del senziente col sentilo può variare anch'es-
so tatite volte quanti possono esserci sentimenti fondamentali
diversi: e di conseguenza allretlanle volle questo secondo costi-
tutivo può acquistare l'unità propria dell'ente.
Quanto poi al terzo costitutivo, die è la volontà, essendo ella
conseguente ai due primi, e già determinata come potenza
quando 1 due primi sono determinati, essa non aggiunge altra
moltiplicazione agli enti finiti intellettivi considerata come po-
tenza, ma potrebbe aggiungere una terza classe di essi, qua-
lora si concepisse creala con una attualità permanente maggiore
0 minore.
Dal che avviene che gli enti intellettivi, concepibili dal pen-
siero umano, si compartono in tre classi diverse di generi.
Entro questi confini dunque giace racchiusa la possibilità
delle determinazioni, e la prima realità indeterminata che si
concepisca nella mente divina come fondamento di lutti gli
enti finiti possibili. E in lutto questo non c'è né caso né arbitrio,
poiché tutte queste limitazioni dell'infinilo, in quanto cognito,
fluiscono per via d'illazioni logiche dal puro concetto dell'ente
finito: dove la scienza d'affermazione e quella d'inluizione si
trovano in una perfetta corrispondenza, come esige il problema
dell'Ontologia.
16.
Continua Zi Otte. — Lunilà, ossia rimo vago, è data nella prima e
indelerminala realità finita nella mente divina.
7:22. Dall'aver così accuratamente descritta la prima e indeler-
minala realità che Iddio pose per fondamento all'opera del mondo,
ci deriva una verità preziosa, ed è, che quella realità non è
la selva, vXw, senza forma ed ordine degli antichi, né il grande
e il piccolo, TÒ [xéya xal fjnxpòv, di Platone, né l'indefinito, rò ànsipov,
de" Pitagorici, ma è Venie intellettivo indeterminato che solo è tò
xA^'ctÙTÓ, mentre lutto il resto della natura è rò npiì^ n.
703
Se dunque questo primo reale finito, che compare per illa-
zione logica nella mMUe creatrice^ ò l'ente intellettuale finito in
genere, ne viene clic i! principio dell'unità degli enti finiti sia
già trovato, cioè coevo col primo recde indeterminato. Poiché
l'ente intellettivo è ente-principio; e il principio ha una perfetta
semplicità ed unità.
Infatti ciò che nell'ente è il principio, non solo è semplice
ed uno pel concetto slesso del principio, ma ha natura altresì
di contenente di tutto il resto: contiene il suo termine, e così è
la causa dell'unità del suo termine e di tutto l'ente. Così ab-
biamo già dimostrato che il principio sensitivo contiene lo spazio
e il corpo, e contenendoli dà loro il continuo [Antropol. 94 i03,
232 — IdeoL 1002-100'») e che il principio intellettivo si con-
tiene pure unificato col sensitivo {Pslcol. 178-180).
Ma questo principio uno e unificante come rimane dunque
indeterminato? A quel modo che può rimanere indeterminato
l'uno. Il concetto dell'uno, come abbiamo veduto, è determina-
tissimo, ma l'uno può replicarsi, e può replicarsi come causa
di unità a ciò che si aggiunge ad esso. L'uno in quanto può
così replicarsi dicesì Vuno vago. Il princi[)io dunque dell'ente è
essenzialmente semplice ed uno, ma egli si determina variamente'
secondo i suoi termini, che si riducono^ come a somme classi,
ai tre categorici: 1." l'essere oggettivo, 2." il sentilo, 5.° il
voluto. Il principio costituisce l'ente finito come uno, subietto
puramente reale, ma determinalo dalla relazione con que' termini
categorici. La diversità però degli enti nasce dalla diversità
de' termini, che uniti col principio reale e proprio costituiscono
l'enle. Questa diversità poi, acciocché gli enti sieno diversi, deve
esserci fino dal primo momento in cui l'ente esiste, e dee esser
tale che contenga in potenza tutto il posteriore sviluppo ac-
cidentale dell'ente , come abbiamo dichiarato nella Psicologia
(iC4 180).
% 7.
Cunl'mnii ziom : •— «. Se sia finito o infìnilo il numero (le(]li enti
finiti possibili »,
725. Trovala ora l'origine deH'unità dell'ente fmilo. hrijual con-
siste neiia natura d'un principio intelìeltivo che è un puro reale,
senza che sia Taltre due forme categoriche, di cui solo parte-
cipa, rimarrebbero a investigare l' altre determinazioni degli
enti si generiche che specifiche, a investigare cioè:
1." In quanti modi l'essere oggettivo può rendersi termine
di lui, senza immedesimarsi, cioè per via di semplice inlìiilo:
^2." Quanti sentili fondamentali ci possono essere, che vir-
tualmente comprendono tutti i sentiti parziali, a cui s' estende
raltività senziente del principio,;
5." Quante volontà ci possono essere aventi un diverso grado
«raltualilà fondamentale^ primitiva e permanente, conlenenti in
potenza tulle h; volizioni accidentali.
E prima di tulio si presenta al pensiero la questione: « se queste
determinazioni inferiori costilucnli gli enti finiti, si devano crede-
re di numero intlnilo, o finito, e perù se gli enti finiti possibili
sieno infiniti o finiti ».
Noi diciamo che non possono essere infiniti, e lo proviamo colle
seguenti ragioni.
i." Qualora i! numero delle limitazioni possibili fosse infinito,
non polendo esser create tutte, dovrebbe intervenire una scella
da parte del Creatore, e questa scella sarebbe impossibile, come
abbiamo dimostrato, trattandosi di scegliere Ira un numero infinito.
Dunque per la natura stessa dell'ente finito, non ci può essere
che un numero finito d'individui possibili.
2.° Se il numero degli enti finiti possibili /osse infinito*, non
polendo essere creali lutti, perchè ripugna che ci esista un nu-
mero infinito di enti, ne verrebbe che la potenza di Dio rimarrebbe
limilala, e vinta dalla sfera della possibilità delle cose.
5." Ma né pure gli enti ne' concelti della mente possono esi-
slere distinti in numero infinito, perchè il numero infinito ripugna
in sé slesso.
703
li." k queste si aggiunge un'altra dimostrazione non meno
efficace e più intrinseca. Poiché la prima è tratta dall'impossibilità
della scelta che dovrebbe fjre il Creatore se gli enti finiti possibili
fossero infiniti; la seconda e la terza sono tratte dal concello
astratto del numero che ricusa l'infinità attuale. Quella che vo-
gliamo aggiungere viene dalla slessa natura del limitalo ontologi-
co : ed ceco qual è.
Abbiamo veduto che il limitato ontologico, essendo il primo
limitalo, non ha alcun altro limitalo anteriore. Di più anteceden-
temente al limite ontologico non si può pensare alcun ente, né
alcuna entilà che riceva il limite Poiché quest'ente o entità, se
ci fosse, non potendo essere un finito, dovrebbe essere un infinito.
Ma l'infinito non riceve limili di sorte alcuna, co' quali cgii si
cangi in un finito, poiché tra l'infinito e il finito c'è una difftTcnza
essenziale e totale, per modo che tra l'uno e l'altro non c'è nulla
di comune {Psicol. 1581-1395). E quantunque la mente divina
passi col pensiero dall'infinito cognito al finito, considerando il
termine reale del primo spogliato dell'essere e conseguentemente
dell'altre due forme in cui l'essere si trova, tuttavia in questo pas-
saggio non avviene alcuna modificazione dell'infinito cognito, ma
è un passaggio assoluto d'un cognito ad un altro cognito, essen-
zialmente e totalmente diverso dal primo, di maniera che il reale,
che rimane come oggetto della mente divina dopo questo passaggio,
il reale dico, che non è più essere, è il primo finito che dilTeriscc
dall'infinito come il non-essere dall'essere. Ed è chiaro che il non-
essere non è modificazione né limite dell'essere, ma è del lutto
un altro, escludente atTallo il primo. Procede da questa dottrina,
che la sostanza prima, la pasta, dirò cosi, da cui devon essere
cavati lutti gli enti finiti possibili, è un primo finito. Se dunque
tulli gli enti finiti possibili sono cavali, per mezzo d'altre limita-
zioni determinanti^ da una prima materia finita concepita nella
mente divina, egli è evidente che gii enti finiti possibili non pos-
sono essere in un numero infinito, ma finito. Poiché il finito non
può dare che il finito. Né questo ofi'ende la divina onnipotenza,
poiché questa consiste nel poter far tulio ciò che è possibile, non
l'impossibile e il conlradittorio. Ora é impossibile e conlradillorio
ugualmente e che d'una materia infinita consti il finito, e che
d'una raalerla finita si formino enii infiniti. Dunque lutti gli enti
Rosmini. Teosofìa. 45
706
finiti possibili constano d'una materia finita, e anche il loro nume-
ro di conseguente è finito.
8.
Continuazione. — // complesso degli enti finiti possibili è in sé stesso
ordinato.
724. Dimostrato che il numero degli enti finiti possibili è finito,
ne viene altresì ch'egli sia ordinato.
Se fosse infinito, non si potrebbe trovare in esso alcun ordine,
perchè ci avrebbero differenze e lontananze tra essi enti infi-
nite, e queste non sarebbero tra loro commisurabili, né potreb-
bero perciò essere collegali, e formare tutl' insieme un' unità.
In fatti nessuno di essi potrebbe estendere le sue potenze a
tutti gli altri, poiché ciascuno essendo finito non potrebbe avere
de' rapporti reali con infinito numero di enti. Che se si ricorres-
se al panteismo — sistema già da noi confutato — e si dicesse,
che la sostanza di tutti gli enti finiti fosse la stessa sostanza
divina, ne nascerebbero infiniti assurdi. Poiché, onon esisterebbero
più enti finiti, ma tutti sarebbero infiniti, e più enti infiniti è
di novo un assurdo, e un assurdo ancor maggiore se si pones-
sero infiniti enti infiniti; ovvero si farebbe che l'essere infinito
fosse subiello reale di modificazioni e di limiti, il che distrugge
al tutto la nozione dell'infinito. Non potendo dunque gli enti
finiti aver tra loro differenze infinite di realità, né potenze infinite,
né rapporti reali infiniti, qualora fossero in numero infinito,
sarebbero privi d'ogni contenente, e d'ogni ordine tra loro; e
questo costituisce un quinto argomento, atto a dimostrare che
l'ipotesi, che gli enti possibili sieno infiniti di numero, è del
tutto erronea ed inammissibile.
All'incontro, supposto finito questo numero , ne viene la
conseguenza che gli enti possibili non solo possano ricevere
un ordine e formare insieme un'unità, ma ben anco che siano
già da sé per la loro slessa natura e generazione ordinati.
Infatti, noi abbiamo veduto che i primi e completi enti finiti
sono enti intellettivi, e che gli altri sono a questi posteriori e
707
relativi, e però da questi stessi determinali e contenuti, come i
termini sono contenuti da' principi.
Gli enti intellettivi poi hanno tre basi di classificazione, onde
si hanno tre classi di generi. Queste tre basi sono la parteci-
pazione fondamentale dell'essere oggettivo, il sentito fondamentale, e
Vattualità fondamentale della volontà.
Se dunque il loro numero non può esser altro che finito, ci
sarà un numero finito di differenze nella partecipazione fonda-
mentale dell'essere obiellivo, un numero finito di differenze nel
sentito fondamentale, e un numero finito di differenze nell'at-
tualità fondamentale della potenza volitiva.
Ora questo numero finito di differenze non potrà risultare
che dal più e dal raeno^ cioè da una gradazione finita di par-
tecipazione dell' oggetto, di sentimento, e d'attualità volitiva.
Tutte queste graduazioni stabiliscono un ordine gerarchico, sia
che si consideri ognuna delle tre serie in separalo, sia che si
considerino due, o tutt'e Ire ad una volta.
E le stesse tre serie di graduazione hanno un ordine tra
loro. Poiché la prima è la principale nella costituzione dell'ente.
Onde dato un quanto di partecipazione fondamentale dell'essere
oggettivo, che costituisce come il genere, la graduazione del
sentimento fondamentale costituirà de' generi inferiori: e dato
un quanto di sentimento fondamentale, la graduazione possibile
delle attualità volitive fondamentali costituirà un altro genere
più inferiore e subordinalo al precedente. Onde la prima base
di classificazione diviene la suprema e la contenente delle altre.
725. E non si creda né manco, che se queslo spiega come sieno
ordinali tra loro i generi e le specie, e gli uni connessi cogli
altri per una continua subordinazione, rimanga privo di spie-
gazione come siano ordinati per natura gli enti individui, e di-
ciamo per natura, perchè dobbiamo noi ora lasciar da parte la
perfezione acquisita, che appartiene alle limitazioni secondarie.
In fatti essendo le serie de' gradi di realità degli enti finite ,
e la prima serie che regge l'altre due essendo quella formala
da' gradi di partecipazione dell' essere obiettivo, si prenda il
primo grado di questa serie cioè il grado massimo possibile di
partecipazione, e si determini pure il sentimento e l' attuahlà
volitiva fondamentale al grado massimo: noi avremo con queste
708
delerminozioni il tipo d'un enle finito massimo, il quale non
polrà essere che unico, come una specie pienissima, e s;ìrà
questo il culmine degli Enti finiti, che ne ridurrà il complesso
ad una perfetta unità. Poiché quantunque i limili, come ahbiam
detto, si pongano dalla mente divina con quell'operazione mon-
tale che abbiamo chiamala afférmazione , e non colla semplice
intuizione delfoggeltu, e l'affermazione sia di natura sua una
operazione che si possa ripetere, tuttavia non si può ripetere
qualora manchi un novo oggetto, e qui non si darebbe il caso
d'un limitato maggiore di questo massimo. Ma di questo più
copiosamente tratteremo nella Cosmologia.
Qui ci basta di raccogliere la conclusione che risponda alla
questione che c'eravamo fatta: « Se le limitazioni e determinazioni
degli enti finiti si trov;:sspro dalla mente divina ad arbitrio senza
ragioni determinami ». E la conclusione clic risulta da tutto il
nostro ragionamento si è la seguente: « Tutto il complesso delle
limitazioni e determinazioni possibili, che danno unità e l'orma agli
enti finiti, sono in numero finito e sono ordinate tra loro: onde
tulli gli enti finiti possibili si trovano dalia mente divina non per
opera d'un arbitrio scevro di ragione, ma per le ragioni intrinse-
che al coneetlo dello stesso ente finito )>.
Articolo XiV.
La quiddità dell'ente finito non è costituita da ciò che egli
ha di positivo, ma da' suoi limiti .
7"2G. Dalla dottrina che abbiam data de' limiti procede questo
corollario, che « la quiddità dell'ente finito non è costituita da
ciò che egli ha di positivo, ma da' suoi limili ».
Per quiddità s'intende « ciò che una cosa è ». Ora noi abbiamo
veduto che tra il finito e l'infinito c'è una differenza essenziale e
massima, la qual differenza è lo stesso infinito tutt'intero: a cagio-
ne di questa differenza il finito non è ninna parte dell'infinito. Ma
il finito differisce dall'infinito a cagione de' limiti. Pe' limili dunque
l'ente finito e quello che è; e perciò la sua quiddità ò costituita
propriamente da' limiti, da' quali dipende la natura di ciò che egli
ha di positivo.
700
Cosi pure abbiam vedalo, che ci sono de' limili, anteriormente
a' quali non c'è i'enle, di maniera die non si può concepire quel
determinato ente, senza concepire i suoi limili. Se questi limili
non si pensano, non si pensa l'ente (limite trascendente), se col
pensiero si mutano, si muta l'ente: questo perde la sua identità, e
un altro ente è venuto davanti al pensiero (limili entilativi). Il
limile dunque è ciò, che cosliluisce queilo che è l'ente finito o in
genere, o in ispecie, o in individuo; e perciò « il limite costituisce
la quiddità dell'ente finito », e l'identità del limite costituisce
l'identità dell'ente. I soli limiti secondari conseguono all'ente finito
e non lo costituiscono.
E veramente dovendo l' ente esser uno, il che è quanto dire
pienamente determinato , non si concepiscono possibili che due
maniere di determinazioni atte a renderlo uno,, altre infinite, altre
finite. Per l'uno infinito dunque la determinazione complessiva è
la sua infinità stessa, nulla di più determinato dell'infinità com-
piuta da ogni lato: ma se manca quesla determinazione consistente
nell'assoluta infinità — nel concetto della quale è una somma sem-
plicità ed unità, — altro non rimane per costituire l'uno, se non i
limili così d'ogni parte determinati e fissi, che non si possano da
niuna parte rimovere da tutta l'attività deli' ente: allora questa
attività può aver natura di principio che abbraccia una data
sfera determinata di atti. Così si ha l'uno e l'ente finito.
Questi lim.iti dunque, che rinserrano l'attività o la potenzialità
dell'ente d'ogni parte, quasi dentro una sfera , sono quelli che
costituiscono la quiddità dell'ente , cioè fanno sì ch'egli sia
desso, e non un altro.
Dal che si ritrae questa formola, che riassume quello che ab-
biam detto , cioè « che la quiddità dell'ente infinito è costituita
dall'entità, ed è positiva, e la quiddilà ^dell'ente finito* è co-
stituita da' limiti dell'entità, ed è negativa «. Un'entità c'è dun-
que anche nell'ente finito, ma non è quella che lo costituisce,
ha però in lui ragione di materia , di cui i limili costitutivi
sono forma ; laddove nell'ente infinito l'entità stessa è forma
pura senza materia.
710
Articolo XV.
Se la prima realità finita, prima di ricevere resistenza in sé , abbia
bisogno d: essere determinala mediante una serie costante di diffe-
renze generiche e specifiche, ovvero possa ottenere una piena deter-
minazione con un numero ora ìnaggiore or minore di differenze
successive.
727. La nostra mente distribuisce gli enti mondiali in genei'i
e specie. Lasciamo qui da parte i generi puramente mentali e
dialettici, che non appartengono alla presente questione. Di-
ciamo che anco parlando solo de' generi reali, noi concepiamo
le cose mondiali partendo da un primo genere , al quale ag-
giungendo una differenza veniamo a un secondo genere infe-
riore, e di mano in mnno alla specie astratta , e piena e
pienissima; e solo quest'ultima dà l'uno, cioè la compiuta deter-
minazione necessaria ad una entità, aftinché ella possa acqui-
stare l'essere subiettivo e così esistere in sé come ente reale.
Di qui nasce la questione: « se la specie pienissima, cioè l'ente
compiutamente determinato , possa trovarsi dalla mente divina
prima , senza bisogno di percorrere tutta quella scala di diffe-
renze generiche e specifiche :»>.
Questa stessa questione si presentò agli Scolastici quando di-
mandarono: «se il genere potesse essere immediatamente in-
dividuato )).
A noi qui basta di dare una risposta generale, che veramente
non è una risposta, ma un principio per trovare la risposta. Il
principio è questo.
« Ogni qualvolta la somma realità finita può — per mezzo d'una
compiuta determinazione — costituirsi uno, essa è un ente indi-
viduo, che può esistere in sé ».
Quando dunque per costituirsi un dato uno, ha bisogno d'una
lunga serie di differenze generiche e specifiche ; tutta questa
serie é necessaria per arrivare a quel dato uno. Ma per un altro
uno, non é dimostrato che sia necessaria una serie così lunga,
e niente osta che la serie sia più breve, o più lunga , purché
s'arrivi all'uno.
711
Se noi consideriamo i generi subordinali come sono gli eslra-
soggeltivi, troviamo che lo spazio è un ente determinato dalla
sua infinità unilaterale , il quale non ha specie sotto di sé , e
sopra di sé non ha generi reali, ma soltanto ha de' generi men-
tali 0 dialettici, qual sarebbe il genere degli enti estrasoggeltivi,
e il genere della realità affatto indeterminata. Onde lo spazio
non si può dire né un genere reale, né una specie astratta, ma
una specie pienissima e un individuo reale.
La questione dunque « se il genere si possa immediatamente
individuare » é da distinguersi così. Se voi ammettete per es-
senziale al genere l'avere sotto di sé delle specie , ripugna il
dire ch'egli si possa individuare immediatamente, il che gli ter-
rebbe la specie. Se poi intendete per genere « un'entità che
non ha altri generi reali dello stesso ordine sopra di sé, benché
non abbia specie », niente ripugna, che possa essere individuato.
Se finalmente con quella questione voi intendete , che quella
stessa entità, che ammette delle specie sotto di sé, possa anche
sussistere in sé , in tal caso , quella entità in quanto sussiste
non è più genere , ma é genere in quanto ha sotto di sé le
specie, le quali non può averle come sussistente , perché come
tale è un ente individuo, ma come concepito dalla mente, cioè
come comune in tutte le specie. E che questo possa essere, in
qualche modo si ha l'esempio neWanimaìe , che come genere
s'applica all'uomo e a' bruti, e sussiste tuttavia ne'bruti. Ma in
tali casi quello che si dice comune è detto così con qualche
equivocazione, perchè Ventila animale non è identica nell'uomo e
nel bruto: poiché l'animalità cangia nell'uomo di natura dall'es-
sere ella assunta dal principio intellettivo, e però perde l'iden-
tità propria del genere nelle specie.
Finalmente noi abbiamo già di sopra (695, sgg.) dichiarato di
non vedere un intrinseco assurdo in pensare che la massima
realità finita potesse sussistere tutta insieme in un solo ente
massimo , il quale non escluderebbe per questo gli enti finiti
minori, e però da quello potrebbe la mente astrarne un sommo
genere di tutti gli altri enti finiti inferiori.
Questo cenno della quistione indicata giova non poco anche
a far intendere come V indeterminazione possa essere un concetto
relativo, di maniera che la stessa cosa sia in sé determinata,
7J2
e relativamente ad un'altra indeterminata. Cosi appunto Vanima-
lUà può esser determinata in sé stessa , ma considerala in re-
lazione ali'uomo rimane sempre un indelermìnato nella mente di
chi lo concepisce. E così avviene die molte proprietà che con-
vengono all'Assoluto e in lui sono determinate o piuttosto sono
lui slesso , considerate in relazione cogli enti finiti appariscono
indeterminatissime, perchè prive di que' limili che sono i de-
terminanti rispetto agli enti finiti. E perciò giustamente S. Tom-
maso osserva che i concelli universalissimi, come l'essere,, sono
quelli che meglio convengono a Dio.
CAPITOLO X.
Ricapilolazione e conclusione.
728. Qui gmnli possiamo ritorcere il guardo dando un'occhiata
al cammino percorso. Noi ci siamo proposto di considerare Tessere
in quanto è uno in relazione con lutti gli enti e le entità che
cader possono nell'umano pensiero.
Dopo aver fissalo il linguaggio che ci conveniva adoperare
in una investigazione così astratta, nella quale il raziocinio può
facilmente deviare dal retto filo, e deviando anche un poco tra-
balzare in un precipizio , abbiamo consideralo prima l'essere
qua! principio e qual contenente di tutte le cose conoscibili, e
n'abbiamo dedotto un sislema d'idenlilà dialcllica, sostituendolo
a quello dell'unità assoluta dello Schelling. Con questo rimase
ancora spiegato un fatto costante che offre la storia della filo-
sofia, cioè come gì' intelletti speculativi provino un bisogno ir-
resistibile verso l'unità, e per soddisfarvi , quando non possono
afferrare il vero, si vanno fabbricando dei sistemi ingegnosi, ma
erronei.
Dopo di questo abbiam preso a considerare l'essere unico nelle
tre forme sia riguardo all'ente infinito , sia riguardo agii enti
finiti. E riguardo al primo abbiamo trovato che tra l'essere e
ciascuna delle sue tre forme c'è una relazione d'Identità; ri-
guardo ai secondi una relazione di diversità-
Abbiamo sottomessa all'analisi questa relazione di diversità ,
713
e abbiamo rinvenuto quelle proprietà dell'essere cbe sono inco-
municabili ai reali finiti, e quelle che sono a questi comunicate
dalla presenza dell'essere stesso.
Ma poiché l'essere è identico colle sue tre forme, quindi l'es-
sere acquista i nomi di essere subiettivo , essere obiettivo , ed
essere morale.
Noi ci siamo dunque proposti di ricercare quali proprietà co-
munichi Tessere subiettivo ai reali finiti , e le riducemmo a
quattro; e di poi quali propricl.'j comuniclii l'essere obiettivo ai
medesimi reali finiti, e le riducemmo pure a quattro, che sona
loro comunicale nella mente divina prima che ricevano l'essere
subiettivo, che li fii esistere in sé.
Con queste ricerche svolgemmo di mano in mano l'intima co-
stituzione, e l'intrinseco ordine (lellVute finito, il che mise in
qualche lume i! processo creativ<». jn-l quale viene all'esistenza
sua propria l'Universo. Questo ci obbligò ad esporre in fine la
dottrina universale delia limitazioiie. come quella cbe costituisce
la stessa quiddità degli enti finiti.
Ci trattenemmo dal fare una ricerca speciale intorno a ciò
che confeiisce ai reali finiti Vesso.re morale, contentandoci d'av-
vertire, che gli enti intelb ftivi né partecipano per mezzo della
loro volontà. E ciò perché l'essere in questa forma non costi-
tuisce gli enti finiti a noi cogniti nella loro natura, ma è piut-
tosto conseguente alla costituzione de' medesimi, e principalmente
ne dà loro la perfezione. Onde di quest'argomento, di tutti ono-
rabilissimo , ci riserviamo a ragionare più compiutamente e di
proposito in altro luogo.
un.
714
ERRATA
CORRIGE
Pag.
iò Linee
' 2
la cognizione
le cognizioni
»
32
>
28
£7tlCTa,UWV
Ì7rtffT/j/*>7
>
34
fi
21
mantiene
contiene
9
85
>
33
dall'altra
dall'altre
>
93
»
32
abbia
abbiamo
»
98
»
33
non lui
con lui
»
99
fi
10
altro ed altro
altro ad altro
>
163
s>
4
antimonia
antinomia
>
i71
ù
24
primo contenente
primo, contenente,
»
269
»
32
perchè e
peichè è
i>
282
»
32
l'astrazione
la riflessione
D
289
>
8
però
per
>
326
»
1
statua prima
seconda statua
»
351
9
essa
esso
I
365
8
novi
nove
fi
464
38
per vero
per vero dire
»
511
16
immediata di cognizione
di cognizione immediata
fi
562
19
componimenti
componenti
fi
621
6
ed imprestito
ad imprestito
fi
654
21
sé la mente
se la mente
fi
664
25
in genere
in generi
I
666
26
s'accoglie
s'accolgono
S
667
fi
ivi
reale
realità
fi
ivi
>
31
nel
pel
INDICE
Prefazione '. Pag. 1
I. Due parti della Metafisica, la Psicologia e la Teosofia. » 2
II. La Teosofìa è pura scienza, non pratica » 3
III. Dell'intemperanza della speculazione n 7
IV. La Filosofia teosofica insiste in sé stessa, non prende nulla
dalle altre scienze, ed esclude ogni ipotesi .... j> 9
V, Come si distingua la Teosofia dall'altre scienze ... > 10
VI. Come la Teosofia si'distingua dalle altre scienze filosofiche.
— Filosofia regressi\ a e progressiva > 12
VII. Tre principi dello scibile umano : l'ideale, il materiale, l'as-
soluto s 13
Vili. Errore metodico dell' Hegel nel cominciare dal principio
materiale , che rifonde poi gratuitamente nel principio
assoluto > 14
IX, La Filosofia, e il sistema dello scibile, deve cominciare dal
principio ideale » 16
X. Lo stato dell'uomo prima dell'invenzione della Filosofia non
è il dubbio , ma la cognizione comune , e V ignoranza
metodica » 17.
XI. La Filosofia non coniiucia col raziocinio, ma colla rifles-
sione osservatrice, e però con un conoscere immediato,
senza supposizione di sorta > 19
Tifi
MI.
xin.
XIV.
XV.
L'fdeologiii è la scienza che stnbilisce il punto di partenza;
la Psicologia e la Logica danno le condizioni materiali,
e le condizioni formali delia Teosofia Pag-
he scienze filosollche anteriori procedono con un ragiona-
mento diretto, la Teosolìa usa d'un ragionamento circo-
lare ma non vizioso i
Continuazione. — Tre parti della Teosofia : l'Ontologia, la
Teologia e la Cosmologia »
Le scienze anteriori si possono chiamare scienze comuni ,
la Teosofia scienza arcana j
20
21
LiBiio m\m
Il Problema dell'Ontologia — Proemio
CAPITOLO I. Helazioni dell'Ontologia colla Teologia razionale,
colla Cosmologia, e coli' Ideologia » ?,\
Articolo I. L'Ontologia si dee distinguere dalla Teologia razio-
nale, e a questa premettere s ivi
» II. L'Ontologia è necessaria alla cognizione perfetta del-
l'ente finito, onde si deve premettere alla Cosmo-
logia » 36
» Ili. Differenza caratteristica tra l' Ideologia e l'Ontologia,
riguardata la materia di queste due scienze. . » 37
» IV. Differenza caratteristica tra l'Ontologia e la Teologia
razionale , riguardala la materia di queste due
scienze » 39
CAPITOLO II. A qual grado di sviluppo si presenti alla mente umana
il problema: « Conciliare i modi apparenti dell'ente
co! concetto dell'essere » ; prima forma del pro-
blema ontologico » 42
» III. Seconda forma de! problema dell'Ontologia: a Tro-
vare la ragione sufficiente delle diverse raanifesta-
.-ioni dell'ente b x 46
ArT)C01.o I. Perchè l'intendimento esiga una ragione sofficienle
delle diverse manifestazioni dell'ente .... » ivi
i II. La ragione sufficiente delle manifestazioni dell'ente
non può appagare l' intendimento , se non è una ,
necessaria, oggettiva j» 47
CAPITOLO IV. Terza forma del problema dell'Ontologia: «Trovare
un'equazione tra la cognizione intuitiva e quella
di predicazione j» » 52
747
CAPITOLO V. Quarta forma del problema dell'Ontologia: « Conci-
liare le antinomie che appariscono nel pensiero
umano » » 54
Articolo I. Come ogni qual volta non si trova l'equazione tra la
cognizione intuitiva e quella di predicazione , ri-
mane un'antinomia nella scienza » ivi
» n. Il problema ontologico si manifesta tanto riguardo al
mondo ideale, quanto riguardo al mondo reale, e
al morale » 59
CAPITOLO VI. Quinta forma del problema ontologico: « Che cosa
sia ente e che cosa sia non-ente» o Gì
» VII. Si riassumono le formole , nelle quali fu presentato
il problema ontologico » 62
» Vili. Della possibilità di dare uu cominciamento logico al-
rOntologia » 65
» IX. Meccanismo dell'argomentare che adopera l'Onlologo » 67
>> X. Del circolo in cui si volge il ragionamento ontologico,
e come non sia vizioso x 72
» XI. Divisione dell'Ontologia r, 76
LIBRO l
Le Categorie » 79
CAPITOLO I. Difficoltà di trovare una classilìcazione, che abbracci
tutte le varietà dell'essere » 82
j II. Gli antichi conobbero in qualche parte la difficoltà
sovra esposta, scontrandola per via nelle loro spe-
culazioni » 87
Articolo I. Primo aspetto in cui la difficoltà appari agli antichi :
sfugge ai generi degli enti la distinzione del reale
e dell' ideale » ivi
^ II. Secondo aspetto in cui appari agli antichi la stessa
difficoltà e dubbio se le Categorie classificavano i
principi degli enti, o gli enti stessi s 89
» 111. Terzo aspetto e più diretto, in cui fu veduta la diffi-
coltà: l'ente è fuori d'ogni genere » 93
CAPITOLO III. Della denominazione di Categorie. » 95
* IV. Di alcune questioni affini non distinte bastevolmente
dagli antichi filosofi » 99
i V. Questione dei principi o cause delle entità ... » 101
7i8
G\P1T0L0 VI. Questione degli elementi Pag. 103
9 VII. Questione de' generi degli enti » 106
» Vili. Questione delle Classi degli enti » 109
» IX. Questione delle forme primitive dell'Essere . . > 111
j X. Come alle tre forme si riducono le prime Classi del-
l'ente, i primi principi, i primi elementi, e i primi
generi » 113
* XI. Le tre forme dell'essere somministrano veramente le
Categorie dell'essere * 115
» XII. Confutazione degli Unitari e conferma delle cose
dette » 117
» XIII. Della falsa via presa da alcuni filosofi per giungere a
sciorre il problema dell'Ontologia » 133
» XIV. Della ragione sufficiente delle tre categorie e forme
dell'Essere » 134
» XV. Obiezioni » 140
Articolo 1. Obiezione prima. L'uomo non può trovare le di-
stinzioni, se non nell'essere ch'egli conosce . e ivi
» 11. Obiezione seconda. -Gii enti razionali non sembrano
cnnipri^si nelle Categorie assegnate » 144
» III. Obiezione terza. — Le tre forme dell'essere sembra
rbe non possano essere categorie dell'essere stesso » ivi
CAPITOLO XVI. Dell'errore di quei filosofi , che fanno entrare nelle
Categorie lo spazio e il tempo » 14G
* XVII. Df>!la maniera di distinguere una forma dell'essere
dall'altra , e dell' inscssione reciproca delle tre
forme » 147
» XVIII. Della dottrina del contenente e del contenuto in uni-
versale » 150
» XIX. Della ragione per la quale la trinità delle forme su-
preme non toglie l'unità dell'essere » 153
» XX. Puinnodamento del libro presente co' susseguenti; la
Trinità sta nel fondo della Teosofia, come miste-
rioso fondamento » 154
Al\Ticoi.O I. Nesso co' libri che seguono » ivi
» 11. Le tre forme dell'essere non sono la divina Trinità,
ma qualche cosa che ad essa analogicamente si ri-
ferisce » 155
» 111. La dottrina della divina Trinità può e deve essere
ricevuta nella Filosofia k 157
» IV. Postulati necessari alle ricerche filosofiche de' libri
seguenti » 158
719
LIBRO li
L'Essere Uno Pag. i6l
SEZIONE I
Del linguaggio Ontologico » 166
CAPITOLO I. Della necessità di distinguere accuratamente il signi-
ficato di alcuni vocaboli che s'adoperano nell'On-
tologia » ivi
» II. Delle cause dialettiche della moltiplicità de' significati
del vocabolo essere, e d'altri che all'essere si rife-
riscono » i67
» III. Dei significati del vocabolo essere, e d'altri che s'a-
doperano nell'Ontologia " 171
Articolo I. Definizioni » ivi
» II. Essere dell' intuito, essere virtuale , essere iniziale ,
astratto, ideale » 172
> III. Significati del vocabolo: ente » 175
> IV. Significati de' vocaboli : entità, e cosa « 178
» V. Significato della parola : essenza » 179
» VI. Significati delle parole : subielto e predicato . . » 185
SEZIONE II
Sistema delVunità e identità dialettica.
187
CAPITOLO I. Dell'unità dialettica. — Disogno, che ha l'intelligenza
umana di ridurre tutto lo scibile ad un principio ,
e come da' tentativi di soddisfarvi nacquero molti
sistemi erronei per non essersi definito a sufficienza
il significato dei vocaboli »
Articolo I. L'antinomìa dell'unità e della pluralità dell'essere
non si scioglie se non per una dialettica distin-
zione di concetti »
> II. Il problema dell'unità e della pluralità dell'essere
presso gli antichi Filosofi >
> III. Il problema dell'unità e della pluralità dell'essere
perchè non potuto sciogliere dal Fichte ... »
188
189
720
Articolo
Articolo
CAPITOLO
Articolo
>
fV
§
1,
>.
2
Articolo
V.
§
1
Articolo
IV. Il problema dell'unità e della pluralità dell'essere
nelle mani delio Schelling Pag. 191
1. Lo Schelling pone male lo stato del problema. . » ivi
2. Lo Schelling pone male le condizioni delia soluzione
dei problema » 195
3. La soluzione del problema data dal Fichte e dallo
Schelling non può soddisfare » 202
V. Come si possa soddisfare al bisogno che ha la mente
umana d'unità » 209
VI. Ragione degli errori, in cui caddero lo Schelling e
l'Hegel suo discepolo » 214
n. Sistema dell'identità dialettica » 218
1. Breve esposizione del Sistema » ivi
II. Come l'essere sia il primo determinabile, il comune
(leterminanfe , e l\illmn determinazione d'ogni
entità » 223
III. L'essero inizialo h. principio dolio scibili', e inizio dia-
leti'ii:n (ielle cosf tutto )> 227
Qual parlo dell'End? risponda -AWesscrc iniziale. » 233
Si risolve In questiono rispetto all'Ente contingento 9 ivi
Si risolvo la questiono rispetto all'Ente necessario > 236
Corollari importanti. — Dall'esposta dottrina si mc-
colgouo tre importanti corollari » 241
Primo Corollario : dimoslrnziono a priori dell'esi-
stenza di Dio » ivi
2. Secondo Corollario : dimostrazione a priori della
Creazione ■" 245
3. Terzo Corollario: l'apprensione imperfetta dell'atto
creativo all'occasione delia percezione intoilcttiva » 251
VI. Dialettica di Platone ti 254
SEZIONE UT
Della relazione dell'essere uno co' suoi termini in generale .
257
CAPITOLO
Articolo
I. Di ciò che appartiene aila ricerca che si fa in questo
libro, e di ciò che appartiene alla ricerca che ri-
mane a farsi nel libro seguente intorno alla mohi-
plicità deil'essere »
I. Definizione dell'essere in sé contrapposto all'essere
dialettico »
IL Principio della teoria deil'essere uno »
HI. Principio della teoria dell'essere trino »
IVI
258
259
724
Articolo IV. Di ciò che ci resta a trattare per compire le ricerche
abbracciate da questo libro Pag. 260
» V. Osservazione sul metodo ontologico » 262
CAPITOLO II. Della ricerca di ciò che l'essere conferisce a' suoi
termini riguardo all'ente assoluto ed infinito . » 263
« III. Della ricerca di ciò che l'essere conferisce a' suoi
termini riguardo agli enti finiti. — Analisi di questa
ricerca » 266
» IV. Che cosa ci abbia nell'essere d'incomunicabile ai reali
finiti .^267
Articolo I. Onde nasca che alcune proprietà dell'essere sieno in-
comunicabili ai reali finiti » ivi
» II. Sei prime proprietà dell'essere incomunicabili. . » ivi
» III. Altre sei proprietà dell'essere incomunicabili ai reali
finiti : 1. r universalità ; 2. la necessità ; 3. l' im-
mutabilità; 4. l'eternità; 5. la semplicità asso-
luta; 6. la primalilà assoluta > 270
» IV. Doppia relazione dell'essere alle cose contingenti ,
l'una nascente dalle proprietà comunicabili, l'altra
dalle proprietà incomunicabili dell'essere. . . » 273
» V. Delle proprietà incomunicabili e comunicabili dell'es-
sere rispetto alle essenze de' finiti » 274
CAPITOLO V. Quale sia la natura della comunicazione e congiun-
zione dell'essere co' reali » 275
Articolo I. Triplice relazione dell'essere col reale » ivi
» li. Relazioni d'identità » ivi
» III. Relazione immediata e mediata di causa atto . . » 277
j IV. Relazione immediata di causa atto, o enlificazione » 280
» V. Antinomìe che trovò Platone meditando suU'entifica-
zione, e critica delle medesime > ivi
» VI. Relazione mediata di causa atto, o azione ... » 291
» VII, Relazione di causa subietto » 294
CAPITOLO VI. Se l'essere riceva nulla dalla sua congiunzione co'i'eali
finiti » ivi
» VII. Quali sieno le proprietà dell'essere comunicabili ai
reali finiti e di questi predicabili » 299
SEZIONE IV
Di ciò che Vessere subiettivo comunica ai reali finiti » 309
CAPITOLO I. Della prima proprietà che l'essere iniziale ed attuante
comunica di sé ai reali finiti » ivi
Articolo I. Esistenza » ivi
» II. Durata » 310
Rosmini. Teosofia. 46
722
CAPITOLO
II.
Articolo
9
I.
lì.
IH.
\
>
§
IV.
1.
>
2.
>
3.
Articolo
CAPITOLO
Articolo
V.
III.
I.
>
II.
HI.
IV.
CAPITOLO
IV.
Articolo
>
I.
IL
»
III.
>
IV.
CAPITOLO
Articolo
V.
I
III
Della seconda proprietà che l'essere iniziale attuante
comunica di sé ai reali Uniti, l'atto dei loro -MiPag.
Concetto di potenza e di atto »
Concetto di virtualità »
Classificazione delle potenze — Potenze in senso pro-
prio e in senso dialettico »
Dell'essere considerato come potenza dialettica . »
Se, e come l'essere considerato come primo determi-
nabile sia potenza dialettica. — Dottrina del pos-
sibile »
Se, e come l'essere considerato come causa determi-
nante sia potenza »
Se l'essere consideralo come ultima determinazione
sia potenza. — Conclusione della questione. . »
Se la virtualità dell'essere iniziale sia una limitazione »
Continuazione — Dottrina dell'essere possibile . »
Stato della questione ; « come l'essere , in quanto è
primo determinabile, possa esser potenza «. . »
Soluzione della questione in generale »
Possibilità dell'ente. ■ — Dieci generi di potenze . »
Possibile, predicato dell'essere indeterminato relativo
a' suoi termini propri e impropri »
Possibile, predicato de'termini dell'essere. — Se i fi-
niti possibili siano qualche cosa di positivo : pos-
sibilità logica, possibilità metafisica de' medesimi:
necessità duplice dell'essere assoluto e de' finiti
possibili »
Continuazione. — Dell'atto considerato nell' essere
indeterminato »
Ricapitolazione e nesso colla trattazione che segue. »
Come la potenza dialettica opinativa si concilii col-
l'attualità propria dell'essere »
Come la potenza dialettica ideale si concilii coll'attua-
lità dell'essere »
Io qual senso abbiamo chiamato l'essere materia uni-
versale ossia primo determinabile »
Corollari importanti dell'esposta dottrina .... »
Primo Corollario. ~ Ragione ontologica del princi-
pio, che non può esistere se non ciò che è con-
cepibile »
Secondo Corollario. — Non può esistere realmente
cosa alcuna che non sia, non solo concepibile, ma
concepita da qualche mente »
Terzo Corollario. — La creazione non può esser fatta
da altri che da Dio >
311
ivi
313
341
342
346
350
351
352
ivi
ivi
354
355
357
366
ivi
367
370
379
394
396
IVI
723
Articolo IV. Quarto Corollario. — Concetto ed esistenza necessaria
della libertà divina Pag. 398
j> V. Quinto Corollario. — L' Emanatismo è un sistema
erroneo » ivi
K VI. Sesto Corollario. — 11 Panteismo è un sistema er-
roneo a 399
i VII. Settimo Corollario. — Descrizione della Creazione » ivi
» Vili. Ottavo Corollario. — L'Esemplare del Mondo non è
il Verbo divino , benché 1' Esemplare si trovi in
questo in due modi: 1.» per eminenza; 2.» per
conseguenza » i\3
» IX. Nono Corollario. — Il reale creato non è il reale
divino » 429
» X. Decimo Corollario. — Il reale degli enti lìniti , in
quant'è proprio di questi ed appartiene alla loro
esistenza subiettiva , o estrasoggettiva , è fuori di
Dio; ma nell'Essere assoluto obiettivo, come obietto
dell'atto intellettivo creatore, esiste eminente-
mente > 430
» XI. Corollario undecimo. — L'essere ideale, lume della
mente umana, non è il Verbo divino , né la divina
essenza, ma una appartenenza di questa ... » 444
B XII. Duodecimo Corollario. — Differenza tra i due elementi
del Mondo, l'essere iniziale e il reale .... » 447
CAPITOLO VI. Della terza proprietà, che l'essere comunica a' reali
finiti, r intelligibilità d'affermazione » 456
SEZIONE V
Di ciò che l'essere obiettivo comunica ai reali finiti » 461
CAPITOLO I. Della forma finita , che l'essere comunica al reale
nella mente, prima che esista, d'una esistenza sua
propria, l'ente finito > ivi
Articolo I. Il reale finito non può ricevere l'esistenza, se non è
pienamente determinato » ivi
B li. Come l'essere ideale contenga il principio della de-
terminazione del reale finito » 467
> III. Nell'Universo e e qualche cosa che appartiene all'ele-
zione del Creatore, e qualche cosa che è un conse-
guente necessario » 477
> IV. Quali sieno i sommi generi di materia ossia di realità,
di cui consta il mondo » 478
724
Abticolo
V,
>
VI
>
VII
CAPITOLO
II,
III.
IV.
Articolo
»
II
»
III
»
IV.
»
V.
» VI.
j VII.
» vili.
§ 1.
CAPITOLO V.
Articolo I.
i. II.
* ni.
IV.
» V.
» VI.
> VII,
CAPITOLO VI
Articolo I
Come la mente divina potè trovare nel reale illimi-
tato i sommi generi delle realità di cui consta il
mondo ... Pag.
Di quanti elementi si componga la forma del reale
finito »
Determinazioni comuni ad ogni ente finito, e deter-
minazioni non comuni »
Continuazione. — Del primo elemento della forma
finita comune ad ogni ente finito, la somma qualità
generica »
Continuazione. — Del secondo elemento della forma
finita comune ad ogni ente finito, l' intelligibilità
obiettiva »
Continuazione. — Del terzo elemento della forma
finita comune ad ogni ente finito , la quantità de-
terminata »
Origine dell'infinità e dell'universalità delle idee. »
Definizione della quantità »
Della quantità ontologica »
Della quantità ontologica astratta »
Continuazione. — Quantità discreta. — L'uno astratto
è misura assolutamente, e non misurato : tutte le
altre misure sono misurabili e ricevono l'essere
misure da esso »
Quantità cosmologica »
Continuazione. — Concetto di qualità »
Quantità fisica, ossia del reale finito in sé . . . t>
Quantità del reale finito determinato considerata nella
specie piena »
Quantità del reale finito considerata ne' diversi reali
finiti confrontati tra loro »
Continuazione — Del quarto elemento della forma
finita, comune ad ogni ente finito, l'unità . . »
Definizione universale dell'unità e dell'uno ... »
Vari significati dell'uno, che ammettono tutti la data
definizione »
Se l'uno si converta coH'ente »
Origine del concetto di uno comune »
Dell'uno predicalo d'un solo subietto, e predicato co-
mune di piti subietti. — Concetto di pluralità e di
numero »
Se l'essere ideale sia uno »
Concetto d' individuo e di comune »
Concetto di tutto, e di parti »
Concetto del tutto »
479
480
483
484
485
488
ivi
490
ivi
494
495
497
513
520
523
541
ivi
542
543
544
546
549
551
555
ivi
irò
Articolo II. Concetto di divisione e concetto di parli .... Pag.
CAPITOLO VII. Concetto di semplice >
Articolo I. Antinomia tra l'ente uno e l'ente composto. . >
» II. Una certa maniera di semplicità è essenziale ad ogi»i
ente »
» HI. Concetti di composizione, e di composto ... »
!> IV. Della differenza tra i composti oggettivi, i composti
dialettici e i composti reali »
» V. Che per conoscere se un ente è semplice o composto,
e in qual senso sia tale, conviene considerare , se
molle entità compongano il subietto dell'ente, ossia
l'ente subiettivo »
» VI. Della semplicità e della molliplicità considerata negli
obielti come obietti, ossia nelle idee »
» VII. Della semplicità e della composizione dialettica . j
» Vili. Del composto dianoetico »
> IX. Del semplice e del composto ne' reali »
i X. Continuazione. — Dottrina della base e delle appen-
dici degli enti »
CAPITOLO Vili. Teoria dell'identità »
Articolo I. Formazione del concetto d'identità. — Identità op-
posta al concetto di diversità dialettica, e identità
opposta al concetto di diversità obiettiva ... t
» II. Difficoltà che s'incontra ne' giudizi intorno alla identità
degli enti. — Sede dell'identità. — Doppio genere
di questi giudizi s
» III. Identità relativa alla varietà estrinseca t
§ 1. Prima specie di varietà estrinseca all'entità pensata:
moltiplicità degli atti del pensiero : giudizi sul-
l'identità dell'entità pensata con atti uguali mol-
liplici »
» 2. Seconda specie di varietà estrinseca all'entità pensata:
modi diversi di pensare: giudizi suH' identità del-
l'entità pensata con modi diversi >
» 3. Dell' uso che fa la dialettica dell' identità relativa ai
due modi di pensare, analitico e sintetico. . . 9
Articolo IV. Identità relativa alla varietà intrinseca »
§ i . Regole generali per conoscere l' identità degli enti
relativa alle loro varietà intrinseche »
ì) 2. Due specie di varietà intrinseca, quella che consiste
ne' cangiamenti che nascono nello stesso ente, e
quella che consiste nella moltiplicità, che si trova
nello stesso identico ente >
Articolo V. Concetto di diventare ^
» VI, Della ricchezza e dignità degli enti >
557
560
IVI
561
563
564
566
577
579
581
588
593
595
597
598
599
605
607
609
612
649
726
Articolo
VII.
»
Vili.
» •
IX.
CAPITOLO
' IX.
Articolo
I.
»
II.
a
IH.
»
IV.
))
V.
;)
VI.
»
VII.
))
Vili.
Articolo
IX
I,
2.
3,
4,
X.
XI.
XII.
XIII.
1.
2,
Semplicità dell'essere assoluto,, e semplicità dell'es-
sere indoterminato , ^ Pag. 649
Del concetto dell'altro » 652
llicapitolazione della dottrina dell'uno » 654
Dottrina de' limiti » q^q
Ravviamento del discorso >, ivi
La differenza di limitato e d'illimitato è differenza
d'enti » 657
Origine ontologica della limitazione » 658
La realità inlluita limitabile solo come cognita: in che
modo si dica imitabile » 659
Concetti afìini a quello di limitazione s> 660
Dichiarazione della definizione data della limitazione
nel suo doppio significato » 662
Limite assoluto, limite relativo, loro misure . . » 663
Analisi della definizione data del limite, e maniera di
dedurre i generi diversi de' limiti » 664
Prima classe de' generi de' limiti , che è quella che
nasce dalla diversità de'subietti delle limitazioni » 665
I sommi generi della prima classe sono sei. . . » ivi
Della limitazione dell'essere » ivi
Della limitazione delle forme categoriche e delle en-
tità mentali » 666
Della limitazione degli enti » 668
Continuazione. — Degli enti reali finiti. — Limite
entitativo, trascendente ed essenziale .... » ivi
Continuazione. — Limite trascendente subiettivo e
limite trascendente obiettivo : limiti secondari. » 670
Seconda classe de' generi de'limiti che è quella che
nasce dalla diversa natura de'limiti stessi . . » 672
Terza classe de' generi de'limiti che è quella che ha
per fondamento la congiunzione diversa che passa
tra il limite e l'entità che ne è il subietto . . » 673
De'limiti, anteriormente a' quali si concepisce un
ente individuo reale loro subietto » ivi
Continuazione. — Onde l' indefinito , e perchè certi
limiti si possono sempre piìi diminuire senza che
mai s'annullino » 676
Continuazione. — Dell'inerenza del limite secondario » 683
De'limiti, anteriormente a' quali non si concepisce
alcun ente reale, ma solamente qualche entità » 685
De'limiti, anteriormente a' quali non si concepisce
alcun ente né alcuna entità che sia subietlo della
limitazione » 691
Continuazione. — L'unità , ossia l'uno vago , è data
727
nella prima e indeterminata realità finita nella
mente divina Pag. 702
§ 7. Continuazione : — « Se sia finito o infinito il numero
degli enti finiti possibili » > 704
B 8. Continuazione. — 11 complesso degli enti finiti pos-
sibili è in sé stesso ordinato » 706
Articolo XIV. La quiddità dell'ente finito non è costituita da ciò che
egli lia di positivo, ma da' suoi limiti .... » 708
T) XV. Se la prima realità finita, prima di ricevere l'esitenza
in sé, abbia bisogno d'essere determinata mediante
una serie costante di differenze generiche e speci-
fiche, ovvero possa ottenere una piena determina-
zione con un numero ora maggiore ora minore di
differenze successive » 710
CAPITOLO X. Ricapitolazione e conclusione i 712
«.--?y».Q*»U»B'^r^~»
Con approvazione ecclesiastica.
Boston Public Library
Central Library, Copley Square
Division of
Reference and Research Services
The Date Due Card in the pocket ìndi-
cates the date on or before which this
hook should be returned to the Library.
Please do not remove cards from this
pocket.