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Full text of "Teosofia : opere postume"

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TEOSOFIA 


DI 


ANTONIO  ROSMINI-SERBATI 


PRETE    ROVERETANO 


(OPERE   POSTUME) 


VOLUME  I. 


TORINO 

PRESSO  LA  SOCIETÀ  EDITRICE  DI  MBRI  DI  FILOSOFIA 
1859. 


^iM: 


AGLI 

AMICI  DELLA  VERITÀ 

FRANCESCO  PAOLI 


La  verità  è  l' essere  conosciuto  e  conoscibile  per  sé 
stesso.  Gli  scrutatori  dunque  della  natura  dell'Essere,  i 
ricercatori  dell'ordine  intrinseco  di  esso,  sono  gli  amanti 
della  verità;  e  coloro,  che,  conosciuto  l'Essere,  nell'amo- 
rosa contemplazione  di  lui  si  riposano,  a  lui  con  tutto  l'af- 
fetto aderiscono,  e  da  lui  prendono  la  misura  de'  loro  giu- 
dizi ,  dei  loro  affetti,  e  delle  loro  operazioni,  sono  gli 
amici  della  verità.  E  la  verità,  amata,  di  questo  loro  amore 
li  ricompensa  ,  rivelando  ad  essi  novi  e  più  maravigiiosi 
arcani  dell'Essere ,  e  sollevandoli  ad  una  condizione  di  vita 
troppo  migliore,  nell'ordine  della  moralità  e  della  felicità. 
Perocché,  se  l'Essere  conoscibile  per  sé  é  la  verità,  l'es- 
sere per  la  verità  conosciuto  è  il  vero  ,  e  il  vero  amato 
è  il  bene ,  e  il  bene  posseduto  genera  gaudio  e  perfezione. 

Agli  amici  dunque  della  verità  è  di  sua  natura  conse- 
■crata  quest'opera,  nella  quale  il  grande  ricercatore  dell'or- 
dine dell'  Essere  e  amico  fedele  della  verità  ,  Antonio 
Rosmini,  più  che  in  altra  qualunque  tenta  di  rimo- 
vere alquanto  più  il  velo,  ond'è  alla  moltitudine  coperta  la 


natura  dell'  Essere.  In  essa  con  irrepugnabili  argomenta- 
zioni, e  a  chi  vuol  intenderne  il  linguaggio  evidenti,  dimo- 
stra, che  l'Essere  è  necessariamente  uno  e  trino,  princi- 
pio, inizio,  virtù  e  causa  di  quella  moltitudine  di  enti  e 
di  entità,  che  senza  esser  V Essere  pur  sono,  perchè  par- 
tecipano dell'  Essere  sotto  l'una  o  l'altra,  o  tutt'  e  tre  le 
forme,  reale,  ideale,  morale,  nelle  quali  esso  è  tutto  in- 
tero, uno,  perfetto,  assoluto.  E  in  che  stia,  cosa  sia 
questa  partecipazione,  dichiara  per  forma,  che  le  più  gravi 
e  terribili  antinomie,  che  si  affacciano  al  pensiero  dello 
speculatore ,  sono  rimosse  ;  tutti  gli  erramenti  fdosofici  in 
un  solo  conflitto  battuti,  il  possesso  della  verità  assicurato 
agli  uomini  di  bon  volere,  e  la  veduta  allargata  agl'in- 
telletti sani  e  più  vigorosi.  Con  che  è  pur  data  l'ultima 
risposta  alle  molte  e  contrarie  accuse  —  dal  nullismo  al 
panteismo  —  che  furono  mosse  a  quello  ,  che  il  Rosmini 
chiama  il  Sistema  della  Verità. 

E  guardimi  il  Cielo  che  per  amici  della  verità  io  in- 
tenda quei  soli ,  ai  quali  il  Rosmini  volge  il  discorso  nella 
Introduzione  alla  Filosofìa,  tra  quali  dipinge  il  Manzoni; 
né  quelli  soltanto,  che  della  dottrina  di  lui  si  sono  alta- 
mente persuasi  per  inconcusse  ragioni  —  numero  cresciuto 
di  molto  —  tra'  quali  la  stima  e  l'affetto  non  mi  permet- 
tono di  tacere  il  caro  nome  di  Pagano  Paganini ,  splendore 
dello  Studio  Pisano  ;  ma  eziandio  tutti  quelli,  che  per  amore 
di  verità  le  dottrine  rosminiane  con  leale  coraggio  com- 
battono. Leggano  questi  spregiudicati  e  coscienziosi  la 
Teoisofla,  e  vi  troveranno  sciolte  le  difficoltà,  riempiute 
le  lacune ,  e  recato  a  compimento  il  sistema.  Quest'  era  il 
convincimento  e  la  speranza  di  A.  Rosmini,  per  modo  che 
egh  diceva  di  non  avere  mai  scritta  altra  Opera  con  mag- 
giore soddisfazione  dell'animo  suo.  Della  quale  io  credo  di 
dover  qui  narrare  a  siffatti  amici  la  storia  :  piccolo  cenno 
di  grande  avvenimento. 

Come  apparisce  dalla  Prefazione  di  quest'Opera  il  Jlosmini 


volse  fino  da  giovine  la  mente  alle  speculazioni  ontolo- 
giche. Di  quanto  scrisse  in  quella  verde  età  non  ci  resta 
nulla ,  se  si  eccettuano  alcuni  pensieri  staccati,  suoi  propri 
e  d'altrui,  su  questo  argomento.  Nella  prefazione  alle  Opere 
Metafisiche  stampata  nel  4846  lascia  vedere  una  prima 
traccia  di  quest'Opera  grandiosa,  che  trovai  essere,  secondo 
il  disegno  di  allora,  la  seguente  senza  ulteriore  sviluppo: 

TEOSOFIA 

Parte  I.  —  Ontologia. 


I. 

Il  Problema  dell' Ontologia. 

II. 

L'Ente  uno. 

III. 

L'Ente  trino.  —  Categorie.  —  Le  Forme 

ridotte  in  Categorie. 

IV. 

L'Ideale. 

A).  L'Idea. 

B).  La  Dialettica. 

V. 

Il  Reale. 

VI. 

Il  Morale.   —  La  Bellezza   ecc. 

VII.  L'Ordine  dell'Essere. 


Parte  II.  —  Tb-ologia. 

I.  L'Assoluto  soggettivo. 

II.  L'Assoluto  oggettivo. 

III.  L'Assoluto  morale  e  perfettivo. 

IV.  L'Unità  dell'Assoluto  nelle  tre  forme, 


Parte  III.  —  Cosmologia. 

I,       Il   iMondo   metafisico.   —  L'Ente    finito 
oggettivo. 


II. 

Le  condizioni  dell'Ente  finito.  — 

finito. 

m. 

L'Ente  trino  finito.  — -  Creazione 

IV. 

L'Universo.  —  L'Ente  principio. 

Angeli. 

V. 

La  prima  intelligenza  creata. 

VI. 

L'Anima  del  Mondo, 

VII. 

L'Uomo. 

vili. 

Il  Tempo. 

IX. 

Lo  Spazio. 

X. 

La  Materia. 

XI. 

I  Numeri. 

XII. 

Le  Forme. 

XIII. 

Le  Leggi,  le  Ragioni  ultime.— 

monia.  —  La  Bellezza. 

XIV. 

Il  Fine. 

XV. 

La  Realizzazione  de!  Fine. 

L'Uno 


Gli 


L'Ar- 


Su  questo  disegno  lavorò  fin  quasi  al  termine  del  Reale^ 
Parte  I.  Ontologia^  che  doWIdea,  e  la  Dialettica  dettò  in 
Verona  nel  1847  dove  da  qualche  tempo  si  occupava  pure 
per  l'affidamento  della  parocchia  di  S.Zeno  all'Istituto  da 
lui  fondato.  Negli  anni  che  immediatamente  seguirono,  so- 
prassedette, occupato  d'altri  studi  e  lavori  a  più  immediato 
vantaggio  della  patria  Italia.  Pare  però  che  abbia  poi  ritoc- 
cato ,  e  non  poco  modificato  il  lavoro  già  eseguito,  perchè 
trovo,  che  distribuì  diversamente  la  prima  parte  della 
Teosofìa  come  segue  : 

Parte  I.  —  Ontologia. 

Il  problema  Ontologico. 

I.  Ontologia  universale. 
A).  L'Ente  uno. 

B).  L'Ente  trino. 

II.  Ontologia  categorica. 
A).  L'Ideale. 


XI 

i.  L'Idea.  —  Ideologia  ontologica. 

2.  La  Dialettica.  —  Dialettica  ontologica. 
B),  Il  Reale. 
C).  Il  Morale. 

\.  Il  Morale  come  Categoria. 

2.  Come  ordine  e  perfezione  dell'Essere. 

II  21  Agosto  1852  fece  la  Prefazione,  e  prese  a  rifor- 
mare il  lavoro,  levando  la  distinzione  dell'Ontologia  in  Uni- 
versale e  Categorica,  e  riducendo  tutta  la  prima  parte  della 
Teosofìa  a  tre  libri  nel  modo  seguente: 

Parte  I.  —  Ontologia.  —  Prefazione. 

//  Problema  Ontologico.  —  Libro  unico. 

I.  Le  Categorie. 

II.  L'Essere  uno. 

III.  L'Essere  trino. 

Questa  riforma  non  fu  parziale,  ma  piena,  poiché  del 
primo  lavoro  rispondente  ai  tre  libri  suddetti  soltanto  'po- 
che pagine  sopravanzarono  al  fuoco,  e  pare  che  abbia  dato 
al  novo  lavoro  una  estensione  molto  maggiore  di  quella  che 
aveva  prima  della  rifusione.  Sopravvissero  però  gli  altri 
tre  libri  V  Idea,  la  Dialettica,  e  il  Reale,  al  primo  de' quali 
fece  in  questo  medesimo  anno  qualche  modificazione.  Fu 
in  questa  contingenza  ,  che  trovò  necessario  di  convertire 
una  piccola  parte  del  lavoro  ontologico  in  un  grosso  vo- 
lume, l'Aristotele  esposto  ed  esaminato.  Il  libro  delle  Ca- 
tegorie doveva  essere  diviso  in  due  parti ,  l'una  teoretica , 
e  l'altra  storica.  Ma  poi  si  risolse  di  ritenere  la  sola  Teoria, 
e  di  separare  la  Storia,  che  resta  col  titolo  di  Saggio  sto- 
rico-critico stille  Categorie.  Lavoro  di  non  piccol  volume 
anche  questo ,  il  quale ,  argomentando  dalla  qualità  della 
carta  e  del  carattere ,  giudico  essere  più  antico  di  tutto  il 
resto.  In  questo  medesimo  tempo  scrisse  e  pubblicò  la 
Logica ,  scrisse  e  rivide  l' Aristotele ,  sicché  rimase  inter- 


XII 

rotta  la  rifusione  dell'Ontologia,  ripresa  sul  finire  del 
i853.  Ne  rifece  circa  due  mila  pagine,  scritte  quasi  tutte 
nel  1854  di  sua  mano.  In  quest'anno  scrisse  e  rivide  anche 
//  Divino  nella  Natura,  diretto  a  Alessandro  Manzoni,  per 
non  lasciarsi ,  come  diceva ,  vincere  in  cortesia  dal  gene- 
roso amico,  già  autore  del  mirabile  Dialogo  sull'Invenzione: 
dettati  l'uno  e  l'altro  che  mostrano  quanta  cognazione  vi 
abbia  tra  la  Poesia  e  la  Filosofìa.  I  primi  mesi  del  1855 
lavorò  pochissimo  ,  perchè  già  molto  aggravato  dal  male 
che  lo  travagliava  assai  fin  dall'ottobre  del  1854;  e  negli 
ultimi  di,  pregandolo  noi  di  sospendere,  ci  disse,  che  gli 
restava  soltanto  qualche  capitolo  a  compiere  il  trattato  on- 
tologico deW  Essere  Trino.  Ma  non  gli  fu  al  tutto  possi- 
bile, e  il  1  luglio  1855  dovette  soccombere,  portando 
seco  tanti  peregrini  pensieri,  che  ci  avrebbero  più  da  vicino 
levati  al  trono   della  Verità  sussistente,  che  è  Dio  stesso. 

Noi  quindi  ci  trovammo  a  un  tempo  e  troppo  poveri 
di  lavoro  teosofico,  e  troppo  ricchi  dell'ontologico.  Di  Teo- 
logia razionale  e  di  Cosmologia  non  e'  era  dunque  nulla 
da  stampare?  E  dove  collocare  Videa,  la  Dialettica,  il 
Reale'!  in  tutto  circa  due  mila  pagine  anche  queste  di  ma- 
noscritto. E  //  Divino  nella  Natura  non  sarebbe  forse  un 
nobile  frammento  della  seconda  parte,  la  Teologia  ? 

Io  mi  trovavo  molto  perplesso  sul  modo  di  classificare 
questi  lavori,  che  pur  mi  parevano  degni  d'esser  messi  in 
luce.  Mi  sembrava  che  la  Dialettica  dovesse  essere  pub- 
blicata unitamente  al  Saggio  storico-critico  sulle  Categorie 
per  apparecchiare  il  lettore  allo  studio  della  Teosofìa.  Pe- 
rocché il  Saggio  dimostra  gli  errori  ne'quali  caddero  gli  an- 
tichi e  i  recenti  Ontologi;  la  Dialettica  poi  fa  vedere  la 
via  da  tenersi  per  non  cadervi ,  prestando  al  ragionamento 
fede  non  ceca ,  ma  illuminata.  Tra  //  Divino  nella  Natura 
e  L  Idea  trovavo  non  poca  analogia.  Poiché  in  quello  si  fa 
vedere  che  l'elemento  divino  nella  natura  é  VEssere  ideale, 
del    quale  gli  uomini    abusarono  ,  o  chiamandolo  Dio ,   o 


XIII 

confondendolo  colla  natura  stessa  ,  onde  trassero  origine 
tutte  le  Idolatrie  scientifiche  e  volgari.  In  questo  poi  si  di- 
mostra come  VEssere  ideale  sia  non  Dio  ma  un'  apparte- 
nenza divina,  e  fin  dove  per  esso  si  possa  giungere  a  co- 
noscere delle  divine  cose  e  delle  create.  Mi  pareva  dun- 
que che  potessero  far  parte,  almeno  come  preamboli, 
della  Teologia  razionale.  Il  Reale  poi  appare  manifestamente 
essere,  se  non  un  lavoro  compito,  un  frammento  consi- 
derevole di  Cosmologia. 

Mentre  ero  in  questi  pensieri,  il  mio  amico  e  compagno 
Vincenzo  De-Vit,  che  aveva  avuto  l'ufficio  di  Assistente  agli 
studi  di  Antonio  Ro.smini,  mi  tolse  giù  da  ogni  dubitazione. 
Egli  mi  assicura  che  era  intenzione  dell'Autore  di  collo- 
care il  Divino  nella  Natura  nella  seconda  parte  di  quest' 
Opera,  che  è  la  Teologia  razionale,  e  il  trattato  del  Reale 
nella  terza  che  è  la  Cosmologia.  Per  tal  modo  tutta  la  Teo- 
sofia sarà  pubblicata  in  cinque  volumi,  dei  quali  tre  com- 
prenderanno l'Ontologia ,  secondo  l'ultimo  disegno ,  e  due 
quelle  parti  della  Teologia  razionale,  e  della  Cosmologia, 
che  ci  sono  rimaste  come  frammenti  di  maggior  lavoro, 
e  che  basterebbero  per  se  sole  a  dimostrare  la  grandezza 
dell'ingegno  e  dell'animo  di  Antonio  Rosmini. 

Spero,  che  gli  amici  della  Verità  non  vorranno  disappro- 
vare questo  mio  divisamento,  per  il  quale  vien  dato  alla 
Teosofia  di  Antonio  Rosmini  quella  interezza  che  maggiore 
non  è  oramai  più  possibile.  Il  Rosmini  era  solito  dire  che 
la  Teosofia  avrebbe  dato  compimento  al  Sistema,  e  che 
chi  la  leggesse  con  animo  libero  e  intelligente  troverebbe 
in  essa  l'appagamento  mentale;  quell'appagamento  che  si 
può  ragionevolmente  cercare,  che  da  alcuni  si  dispera  di 
poter  mai  trovare,  e  che  il  Rosmini  co'  precedenti  suoi 
scritti  aveva  dimostrato  possibile  e  necessario,  e  fattone 
quasi  indovinare  il  come  e  l'oggetto.  Credo,  che  a  questo 
scopo  basti  quant'egli  ci  ha  lasciato,  e  che  noi  ora  pub- 
blichiamo.  E  parmi  pure  che  con  quest'Opera  il  Rosmini 


XIV 

abbia  toccato  il  termine  de'  suoi  desideri  a  prò  della  scienza 
e  dell'umanità;  combattuti  gli  errori,  ridotta  la  verità  a 
sistema,  data  una  solida  base  alle  scienze,  prestato  mira- 
bile servizio  alla  Teologia ,  mostrato  anche  meglio  agli  amici 
della  Verità  la  divina  faccia  di  lei,  dove  abiti,  come  si 
possa  conquistare,  come  essere  sapienti  (1).  Che  se  restasse 
ancora,  come  deve  naturalmente  restare,  il  desiderio  di 
qualcos'  altro,  che  apporti  maggior  chiarezza,  e  dia  sod- 
disfazione maggiore,  quegli  amici  della  Verità  che  hanno 
gli  omeri  da  ciò  subentrino  alla  fatica,  e  col  metodo  in- 
segnato loro  da  questo  maestro  provino  essi  pure  di  le- 
vare un  po'  più  il  lembo  del  sacro  velo  che  copre  il  mi- 
stero della  natura,  gli  altri  poi  si  contentino  di  seriamente 
meditare  sulle  dimostrazioni  già  fatte  ;  che  nulla  s'impara, 
se  per  propria  riflessione  non  si  giunga  a  fissare  le  luci 
della  mente  nel  lume  della  verità ,  che  come  reina  e  sola 
maestra  siede  nelle  menti  di  tutti,  e  piìi  si  rivela  a  chi  più 
amorosamente  la  cerca  (2). 

Il  difetto  della  parte  Teologica  e  della  Cosmologica  è 
veramente  cosa  grave,  ma  sarebbe  da  lamentare  ancora 
più,  se,  come  pare,  un  presentimento  di  non  lontano  mo- 
rire non  avesse  fatto  ristare  il  Rosmini  con  una  specie  di 
arcano  diletto  nelle  questioni  Teologiche  e  Cosmologiche, 
che  la  ragione  del  metodo  gli  veniva  mettendo  tra  mani 
svolgendo  l'Ontologia,  nella  quale  si  può  dire  che  di 

(I  Quanto  per  occhio  e  per  mente  si  gira  » 
ha  sommariamente  e  ontologicamente  toccato.  Sicché  Egli 
avrebbe  potuto  dire  come  il  Poeta  filosofo  : 

«  Or  ti  riman,  lettor,  sovra  il  tuo  banco 
Dietro  pensando  a  ciò  che  si  preliba 
S'esser  vuoi  lieto  assai  prima  che  stanco. 
Messo  l'ho  innanzi;  omai  per  te  ti  ciba  (3)  u. 

(1)  Rosm.  Introd.  I.  Degli  Studi  dell'Autore. 

(2)  S.  Aiigust.  De  Magistro  36-ftO. 

(3)  Dante  Alig.  Par.  X,  4  e  22-24. 


XV 

Il  manoscritto  fu  trovato  in  bon  ordine  e  nella  massima 
parte  riveduto  dall'Autore  e  corretto.  Io  lo  feci  trascrivere 
per  custodire  religiosamente  l'originale,  specialmente  che 
delle  Opere  pubblicate  vivente  l'Autore  furono  da  lui  stesso 
annullati  gli  autografi.  Mi  assunsi  di  correggere  le  bozze 
di  stampa,  collazionandole  diligentemente  col  manoscritto. 
Volli  rivedere  per  quanto  mi  fu  possibile  le  citazioni,  e  do- 
vetti aggiungere  quelle  dell'Opera  in  discorso  secondo  la  nu- 
merata da  me  apposta,  e  dall'Autore  semplicemente  indicate 
con  una  parentesi  vuota.  Dove  mi  parve  utile  o  necessario 
un  leggiero  emendamento,  aggiunsi  qualche  parola  segnan-= 
dola  cogli  asterischi,  affinchè  il  lettore  possa  vedere  genuino 
qual  è  il  manoscritto.  Mi  determinai  a  questo  partito  per 
consiglio  di  gravi  persone,  e  confidando  nell'  indulgente  giu- 
dizio dei  lettori  benevoli.  Le  citazioni  del  Rinnovamento 
erano  fatte  per  numero  di  pagine,  alle  quali  io  da  principio 
sostituii  quello  dei  Libri  e  dei  Capi,  essendovi  più  edizioni, 
ma  poi  al  numero  della  pagina,  che  è  della  prima  edizione, 
aggiunsi  quello  nei  capiversi,  avendo  rilevato  che  l'Autore 
gh  aveva  posti  a  una  copia  apparecchiata  con  molti  emen- 
damenti per  una  nova  edizione,  nella  quale  è  pur  cam- 
biata la  divisione  dei  Libri,  e  che  spero  di  poter  presto 
eseguire.  Dove  mi  occorra  di  trovare  qualche  piccola  la- 
cuna e  degli  appunti  fatti  dall'  Autore  in  margine  al  ma- 
noscritto ,  ne  farò  cenno  in  nota  coli'  asterisco.  E  poiché 
noi  feci  di  due  noterelle  che  appartengono  alle  prime  pa- 
gine, credo  che  non  sarà  discaro  al  lettore  di  averle  qui 
sott'  occhio. 

Sul  frontispizio  della  Prefazione  sta  scritto  :  «  Nella  Teo- 
»  sofia  i  principi  ideologici,  che  sono  evidenti  da  sé,  hanno 
»  una  spiegazione  ulteriore  vedendoli  fondati  nell'  essere 
»  sussistente  ». 

In  due  cartoline  volanti  e  appartenenti  al  libro  che  ha 
per  titolo  //  Problema  Ontologico,  sta  parimenti  scritto  di 
mano  dell'Autore  quel  che  segue:  «  Aggiunte  da  farsi: 


XVI 

<(;  1 .  C'è  un'altra  forma,  oltre  le  cinque  addotte,  del  Pro- 
»  blema  Ontologico,  ed  è:  Perchè  l'uomo  non  creda  di 
»  conoscere,  se  non  conoscete  cause  (Arist.  Melaf.  l.). 
»  Questa  si  può  forse  ridurre  ad  una  delle  cinque  ». 

«  2.  Toccare  le  questioni  che  Aristotele  propone  nella 
»  Metafìsica ,  che  sono  quelle  appunto  che  si  riputarono  fin 
»  qui  Ontologiche ,  e  ridurle  a  quelle  date  da  noi  in  un 
))  modo  più  universale  ». 

Noto  questi  propositi,  specialmente  perchè  mi  paiono 
restati  inadempiti;  altri  simili,  ch'ebbero  in  qualche  modo 
esecuzione,  li  lascio.  Quelli  che  ammirano  il  core  e  la 
mente  di  Antonio  Rosmini  spero  che  non  mi  biasi- 
meranno nemmeno  di  queste  minute  diligenze,  che  la 
grandezza  dell'affetto  mi  persuase  dovessero  essere  gra- 
devoli agli  Amici  della  Verità. 


.<'^>tìi*?|f*£k  ^r^-j 


PREFAZIONE 


ì.  Gaspare  Contarini,  uno  de' grandi  uomini  italiani  dimenti- 
cali dalla  sua  patria,  e  pur  de' migliori,  in  mezzo  a' civili  ne- 
gozi ,  trovava  tempo  e  agio  di  scrivere  selle  libri  Della  prima 
Filosofìa,  in  sulla  fine  esortando  altri  a  dar  dopo  lui  compi- 
mento al  generoso  principio  (1).  Parole  di  lanl'aulorità  se  le 
portò  il  venlo^  e  piacesse  a  Dio,  che  la  sapienza  de'nostri  con- 
nazionali ora ,  per  virtìi  del  progresso,  giugnesse  fino  a  quelle 
prime  linee,  e  a  que'  rudimenti,  che  il  veneto  porporato,  avanti 
tre  secoli,  pensava  e  pubblicava,  acciocché  si  colorissero  in  ap- 
presso, e  si  conducessero  a  perfezione  dagli  avvenire.  Se  troppo 
maggiori  e  più  alti  motivi  non  vi  c'inducessero,  anche  solo  il 
dolore,  per  non  dire  lo  sdegno,  di  tant' indifferenza  e  apatia, 
che  da  gran  tempo  mostrò  l'Italia  per  quelli  tra  suoi  savi,  che 
le  additano  il  vero  cammino  della  sua  gloria,  ci  dovea  moverò 
a  raccogliere  e  seguire  l'esortazione  di  quell'uomo ,  che  con- 
giungendo  l'operosità  e  la  prudenza  ne'  più  gravi  negozi  della 
patria  alle  virtù  cristiane  e  allo  zelo  infaticabile  ne'  più  impor- 


(t)  Le  parole,  colle  quali  concliiude  quell'opera,  sono:  Alii  doctiores  ac 
minus  occupati  civilibus  negoiiis  rem  perficiant:  nostrum  namqne  institii- 
tum  fuil-,  ut  potius  allis  pnescriberemus  quoìiam  pacto  disciplinarnm  om- 
nium facile  princeps  philosophia,  scilicet  luec  prima,  seu  sapientiam  appel- 
lare malucris,  tractari  debeat,  quam  ut  nostro  labore  id  fieret,  cui  impares 
nos  esse  sentimus ,  maiusque  otium  poscit,  quam  nobis  inter  tot  bellorum 
procellas,  atque  publicas  occupationes,  hinc  indeque  occursantes  in  hoc  le- 
gationis  munere,  quo  fungimur,  prcestari  possit. 

Rosmini.  Teosofìa.  1 


tanti  affari  (lolla  Chiesa,  ebbe  nondimeno  e  tempo  libero  e  sere- 
nili! di  mente  da  consacrare  alle  più  astratte  ed  ardue  specu- 
lazioni filosofiche.  Quello  dunque,  che  noi  abbiamo  incominciato 
in  verde  età  ,  vogliamo  continuare  in  questa  già  canuta  ,  e  se 
piace  a  Colui,  in  cui  mano  sono  le  nostre  sorti,  e  a  cui  dob- 
biamo lutti  noi  slessi,  in  suo  onore  intendiamo  d'aggiungere  ai 
trattali  iìlosofici  preccdenli  anche  questo,  che  più  divisalamente 
ragiona  di  quelle  materie  ,  che  il  Contarini  con  x\rislolele  al- 
IrJbuisce  ad  una  Prima  Filosofìa,  e  che  a  noi  parve  intitolare 
Teosofìa . 

I. 

Bue  parli  della  Metafìsica,  la  Psicologia  e  la  Teosofìa. 

2.  La  ragione  di  questa  denominazione  fu  già  da  noi  data 
nella  Prefazione  alle  Scienze  metafisiche  (21-29).  Ivi  abbiamo 
pure  dimostrato  ,  che  la  Metafisica  ,  disciplina  che  s'aggira 
intorno  all'ente  considerato  nella  sua  interezza  {Pref.  alle  Opp. 
Mdaff.  8-15),  si  riduce  convenevolmente  a  due  scienze,  la  Psi- 
cologia, e  la  Teosofia;  la  qual  divisione  non  si  diparte  mollo 
da  quello  che  ebbero  detto  gli  antichi ,  e  s'accorda  colla  ma- 
niera di  concepire  di  S.  Agostino,  che  riduce  tutte  le  ricerche 
della  filosofica  disciplina  ultimamente  a  due  ,  una  dell'Anima , 
l'altra  di  Dio:  «  La  prima  —  soggiunge  —  fa  che  conosciamo  noi 
«  stessi  ,  l'altra  che  conosciamo  la  nostra  origine  :  quella  ci  è 
«  più  dolce,  questa  più  preziosa  :  quella  ci  fa  degni  della  vila 
«  beata,  questa  ci  fa  beati  :  la  prima  è  per  chi  ancora  impara, 
«  la  seconda  per  quelli  che  sono  già  dotti.  Quest'è  l'ordine  de- 
ce gli  studi  della  sapienza,  pel  quale  ognuno  si  rende  idoneo  ad 
«  intendere  l'ordine  delle  cose ,  cioè  a  riconoscere  due  mondi 
«  {il  sensibile  e  r intelligibile  ['[)) ,  e  lo  stesso  padre  dell'universo, 
«  di  cui  non  c'è  altra  scienza  nell'anima,  se  non  quella  di  sa- 
ie pere,  come  essa  noi  sappia  »  (2). 

(1)  Cf.  Retract.  I,  3. 

(2)  De  Ord.  II,  18.  —  Cf.  Sol.  T,  1  ;  De  C.  D.  Vili,  4;  De  F.  R.  29,  35. 
Quando  S.  Agoslino  dice,  che  «  la  cognizione  di  noi  slessi  ci  fa  degni  di  es- 


II. 

La  Teosofìa  è  pura  scienza,  non  pratica. 

ò.  Ma  noi  crediamo  nostro  dovere  di  non  promettere,  o  far 
mostra  di  promettere  piii  di  quello  che  possiamo  dare.  Che 
avendo  noi  già  pubblicata  la  prima  parte  della  Metafisica,  cioè 
la  Psicologia  ,  ed  ora  accingendoci  a  dare  la  seconda ,  sotto  il 
titolo,  forse  troppo  mag^nifico,  (ma  non  ne  abbiamo  trovato  un 
altro  che  meno  male  le  s'appropriasse)  di  Teosofia  ,  non  vor- 
remmo che  i  nostri  lettori  ci  giudicassero  arroganti,  quasi  che 
con  questa  vasta  disciplina  filosofica  confidassimo  di  poter  dare 
ai  nostri  simili  quello  che  non  può  dare  la  scienza^  lasciando 
anche  da  parte  che  la  scienza  slessa  rimarrà  accorciata  e  im- 
poverita dalla  nostra  insufficienza.  E  prenderemo  occasione  a 
rimovere  questo  pregiudizio  dalle  stesse  citate  parole  d'Agostino. 

Quando  Agostino  dice  che  «  la  cognizione  di  noi  stessi  ci  fa 
degni  della  vita  beata,  e  la  cognizione  di  Dio  ci  fa  beati  «  parla 
evidentemente  d'una  cognizione  pratica ,  che  è  la  sola  compiuta 
e  ultimata,  parla  di  quella  cognizione  di  noi  stessi,  onde  deri- 
viamo l'umile  sommessione  alla  suprema  causa  e  ultimo  fine 
delle  cose;  di  quella  cognizione  di  Dio,  nella  quale  non  soltanto 
la  mente  specula,  ma  l'animo  e  con  esso  lutt'  intero  l'uomo  ade- 
risce appieno  alla  causa  e  al  fine  ,  oltre  al  quale  e  fuori  del 
quale  non  è  alcun  altro  bene  in  cui  si  riposi  appagato, 

4.  Di  questa  cognizione  due  gradi  principali  si  distinguono,  il 
primo  de'  quali  fu  insegnato  agli  uomini  prima  del  Cristo,  quando 
l'autore  del  libro  della  Sapienza  scrivea:  «  Il  conoscerli  è  con- 
ce sumata  giustizia  »  (i)  ;  il  secondo  fu  manifestato  dal  mede- 
simo Cristo,  quando  con  concetto  assai  pii^i  elevato,  disse  :  »  E 
«  questa  è  la  vita  eterna,  che  conoscano  te,  solo  Dio  vero ,  e 


sere  beati,  e  la  cognizione  di  Dio  ci  fa  beali  »  dee  intendersi  di  una  cogni- 
zione completa,  e  soprannaturale,  non  d'una  semplice  speculazione  filosofica, 
e  le  due  cognizioni  non  s' intendono  prese  esclusivamente ,  quasi  che  l'una 
potesse  stare  divisa  totalmente  dall'altra. 
(1)  Sap.  XV,  3. 


((  quello  che  lu  hai  mandato^  GESÙ'  Cristo  >:  (1).  E  qui  con- 
tenuto non  solamente  la  scienza,  ma  l'intero  della  sapienza;  e 
l'uomo  essendo  semplice  ed  uno,  e  creato  da  Dio  —  per  usare 
la  frase  d'un'eroina  cristiana  —  «  con  un  certo  istinto  beatifico 
verso  di  sé  »  (2),  aspira  e  tende  all'intero:  laonde  una  parte 
separata  da  questo  intero  noi  può  acquetare. 

5.  Ma  quali  sono  queste  parti  dell'intero  corpo  della  sapienza? 
—  C'è  una  cognizione  pratica  soprannaturale ,  che  è  gratuito  e 
immediato  dono  dell'infinito  autore  dell'uomo^  e  questa  è  sempre 
intera  sapienza,  non  è  mai  parte;  c'è  una  cognizione  pratica 
naturale  formata  a  sé  dall'uomo  coll'attività  sua  propria  ,  con 
quell'attivilcà  che  insieme  colla  natura  ha  ricevuto  dal  medesimo 
suo  autore,  e  anche  questa  è  un  colale  intero,  benché  d'ordine 
inferiore  infinitamente  al  primo.  Onde  anche  questo,  consideralo 
in  sé  stesso  (lasciando  ora  da  parte  la  questione  se  l'uomo  da 
sé  solo  possa  effettuarlo  o  no),  non  ha  ragione  di  parie  ma  di 
lutto.  Sarebbe  nulladimeno  difficile  l'assegnare  con  distinzione 
tutti  que'caratteri,  pe' quali  quest'intero  della  sapienza,  secondo 
natura,  si  differenzia  dal  primo,  e  quanto  da  esso  sia  deficiente; 
ma  non  abbiamo  noi  bisogno  di  entrare  al  presente  in  questa 
ricerca,  che  appartiene  ad  una  piìi  alta  disciplina  (3),  null'allro 
importandoci  per  intanto,  se  non  di  sapere  quali  sieno  le  parti 
della  sapienza. 

Queste  dunque  sono  la  speculativa  e  la  pratica  ,  le  quali  si 
possono  distinguere  ugualmente  nella  sapienza  soprannaturale 
e  nella  naturale;  e  per  ispeculativa  qui  intendiamo  tutto  ciò 
che  riguarda  il  pretto  intendimento,  comprendendovi  anche  la 
cognizione  diretta  e  spontanea,  benché  il  vocabolo  si  soglia  re- 
stringere a  significare  la  scientifica.  Conviene  ora  considerare 
il  vincolo ,  che  lega  insieme  queste  due  che  chiamavamo  parli 
della  sapienza. 

La  pratica  non  islà  mai  priva  di  una  speculativa,  a  cui  s'ap- 
poggia. Quindi  apparisce,  che,  se  si  considera  qual  é  nel  fatto, 
la  pratica  non  può  dirsi  che  sia  mera  parie  della  sapienza,  per- 

(i)  Io.  XVII,  3. 

(2)  Caterina  Fieschi,  la  santa,  nel  suo  Trattato  del  Purgatorio. 

(3)  AÌV Antropologia  soprannaturale. 


s 

che  n'è  veramente  il  tutto  ,  non  dividendosi  dalla  speculativa 
e  in  essa  innestandosi:  solo  può  dirsi  parte  per  astrazione, 
quando  si  riguarda  senza  tener  conto  della  speculativa  a  cui 
s'accoppia. 

La  speculativa  all'incontro  sta  veramente  da  sé;  e  però  a  lei 
sola  s'aspetta  la  ragione  di  parte.  11  che  meglio  si  scorge  os- 
servando che  di  lei  sola  si  compongono  tutte  le  scienze  umane 
e  le  teorie  filosofiche,  quando  all'incontro  la  pratica  non  si 
scrive  punto,  ma  solamente  si  fa,  e  non  si  conserva  nelle  più 
copiose  biblioteche ,  con  grandissime  cure  e  dispendi  da  ogni 
parte  raccolte,  ma  negli  animi  degli  uomini  e  d'ogni  altro  es- 
sere intelligente  perpetuamente  dimora,  senza  che  ella  possa  mai, 
per  qualunque  sia  cagione,  dipartirsi  dal  suo  naturale  domicilio. 
Laonde  il  fine  dell'uomo  è  uno ,  nel  quale  sono  fuse  scienza  e 
virtù  così  intimamente,  che  già  non  sono  più  due,  ma  un  bene 
solo  ^  il  quale  soddisfa  pienamente  alla  natura  intelligente;  e 
quando  da  questo  intero,  per  un'operazione  che  non  è  di  tutto 
l'uomo  ma  d'una  speciale  sua  potenza,  si  segrega  la  scienza  che, 
divenuta  speculativa,  tutta  da  sé  sola  si  riguarda  e  si  consegna 
alle  lettere,  allora  la  scienza  non  è  oggimai  più  quel  fine  e  quel 
bene  che  l'uomo  desidera,  ma  è  altro,  e  ha  ragione  di  mezzo. 

6.  La  soddisfazione  dunque  dell'  umana  natura  trovasi  nella 
sua  miglior  parte  fuori  di  tutto  quello  che  è  stato  scritto  dagli 
scienziati,  o  che  si  scriverà  al  mondo  giammai;  il  che  nondi- 
meno ha  bisogno  di  qualche  maggiore  dichiarazione;  che  facil- 
mente verrà  altrui  in  pensiero:  «  E  non  si  può  scrivere  anche 
la  virtù  nell'Etica,  e  Iddio  nella  Teologia  ?»  A  cui  è  facile  il 
rispondere  di  no,  e  che  non  si  scrive  altro  in  quelle  scienze  se 
non  Videa  della  virtù,  e  Videa  di  Dio,  le  quali  non  sono  né  la 
virtù,  né  Dio,  né  appartengono  alla  pratica,  ma  alia  speculativa; 
ma  intenderne  pienamente  la  ragione  non  é  facile:  procuriamo 
di  dichiararla. 

Si  consideri ,  che  la  pratica  appartiene  all'  ordine  del  reale  , 
laddove  la  speculativa,  all'ordine  éoWidcale.  Ora,  tale  é  la  natura 
di  tutti  i  segni,  una  classe  de'  quali  sono  i  vocaboli  ,  che  non 
si  riferiscono  che  all'ideale,  poiché  quando  si  usino  per  condurre 
la  mente  a  pensare  un  reale,  non  la  conducono  ad  esso  se  non 
per  mezzo  dell'idea  del  medesimo.  Onde  la  qualità  di  segno  ap- 


6 

parliene  unicamente  all'  ordine  intelligibile  ,  e  non  al  reale  e 
sensibile,  bencbè  ciò  cbe  si  prende  per  segno  sia  un  sensibile; 
che  il  segno^  come  segno^  non  è  altro  che  una  relazione,  e  le 
relazioni  sono  nell'  intendimento  e  per  l' intendimento.  Altro  è 
dunque  un  reale ,  ed  altro  che  questa?  reale  acquisti  qualità  e 
condizione  di  segno:  il  reale,  come  pretto  reale,  non  segna  nulla, 
non  uscendo  di  sé,  e  non  esprimendo  che  sé  stesso ,  se  così  si 
vuol  dire;  l'intendimento  poi  è  quello,  che  lo  assume  a  significare 
un'altra  cosa.  Ma  non  lo  potrebbe  assumere  all'ufficio  di  segno, 
se  prima  non  l'avesse  concepito,  e  se  la  cosa,  che  vuol  segnata 
con  esso,  pure  non  l'avesse  prima  concepita;  onde  il  segno  e  il 
segnato  sono  due  termini  concepiti  dalla  mente,  e  non  due  pretti 
reali.  Laonde  si  ha  dall'Ideologia,  che  i  reali  non  sono  para- 
gonabili tra  loro  se  non  per  mezzo  d'un'idea ,  a  cui  si  rappor- 
tino {Ideol.  482-187);  e  lo  stesso  è  a  dire  del  segno  e  del  se- 
gnato. Il  perchè  l'artificio  de'  segni  è  unicamente  fondato  nelle 
idee,  e  appartiene  al  mondo  della  cognizione,  e  però  co'  segni, 
co'  vocaboli,  colle  lettere  scritte,  altro  non  s'ottiene  mai  se  nor 
di  porgere  alla  mente  le  notizie  delle  cose,  e  non  di  dare  al 
l'uomo  le  cose  stesse.  Tutto  ciò  dunque,  che  é  pratico,  la  virtù, 
l'affetto ,  l'opera  ,  in  una  parola,  il  reale,  eccede  l'efficacia  de 
segni  naturali,  e  sta  intieramente  fuori  d'ogni  parlata,  per  quan 
tunque  eloquente ,  e  d'ogni  scrittura  ,  per  quantunque  dotta 
elegante,  sublime  possa  parere. 

7.  Di  che  s'intendono  alcuni  limiti  essenziali  della  dottrina 
che  intendiamo  esporre ,  cioè  che  le  conviene  lasciar  da  part( 
tutto  quello  a  cui  non  giunge  il  naturale  raziocinio,  benché  s 
conosca  per  divina  rivelazione,  benché  della  rivelazione  il  ra 
ziocinio  stesso  si  giovi  per  avvigorirsi  e  ingrandirsi;  e  che,  de 
pari ,  essendo  pura  scienza  ,  non  presume  e  non  può  presumei 
di  esser  pratica  attività. 


IH. 

Dell' intemperan:;a  della  speculazione. 

8.  Si  raccoglie  ancora  dalle  cose  delle  in  che  consista  l'in- 
temperanza della  speculazione  ,  dico  1'  intemperanza  assoluta  e 
non  quella  che  è  relativa  all'individuo,  di  cui  fu  parlato  nella 
Logica  (1179-il8^).  Ogni  qualvolta  si  vuol  ridurre  tutto  l'uomo 
alla  speculazione,  e  scambiandosi  la  parte  pel  tutto,  si  presume 
che  nella  sola  speculativa  si  deva  comprendere  tutto  il  bene 
umano,  e  si  fa  di  conseguente  ogni  sforzo  colla  mente  per  ri- 
cacciare il  reale  nell'idea,  e  per  fare,  che  da  questa  sola  rie- 
sca fuori  la  materia  di  cui  consta  il  Mondo  sensibile,  e  lo  Spirito, 
e  finalmente  Dio  stesso,  c'è  evidentemente  intemperanza  di  spe- 
culazione, e  quella  specie  di  sofisma,  che  si  chiama  della  parte 
{Logic.  727-730).  Se  potesse  essere  che  nell'idea  ci  fosse  tutto 
ciò,  certo  allora  il  bene  dell'uomo  si  conterrebbe  tutto  intero 
nella  scienza  ,  e  ciascuno  potrebbe  ricavarlo  dalle  parole  d'  un 
uomo  0  dalla  lettura  d'un  libro;  che  qui  troverebbe  ogni  cosa, 
e  però  non  abbisognerebbe  d' altro ,  molto  meno  della  cosa  più 
tenue  di  tutte  l'altre,  qual  è  il  pane  quotidiano.  Ma  quantunque 
lo  Schelling  e  l'Hegel  abbiano  asserito  d'essere  pervenuti  ad  una 
scienza  così  compiuta,  ebbero  tuttavia  bisogno  d'insegnarla  pub- 
blicamente ,  non  dico  per  procacciarsi  la  pratica  della  virtù  , 
che  sarebbe  assai ,  ma  pure  per  vivere  cogli  stipendi  annessi 
alle  loro  cattedre:  prova  evidente  che  nella  loro  idea  assoluta 
non  c'era  tutto:  che  se  ci  fosse  stato  dentro,  com'essi  dicevano, 
il  Mondo  ,  ci  avrebbe  dovuto  essere  anche  del  frumento  e  del 
pane  e  del  vino. 

9.  La  nostra  Teosofia  non  può  certo  dare  al  pubblico  pro- 
messe tanto  magnifiche,  tanto  maravigliose:  ma  essa  spiegherà 
come  la  mente  umana  che  s'inoltra  nella  speculazione  sia  pro- 
clive a  trovare  ogni  cosa  in  se  stessa  :  dimostrerà  cioè  doverci 
essere  un  oggetto,  che  contiene  elfettivamente  in  se  l'università 
delle  cose  ,  e  come  quest'oggetto  non  è  1'  idea  ,  che  splende 
alle  menti  umane,  la  quale  idea  nondimeno  partecipa  da 
queU'oggelto  la  forma  d'oggetto;  onde  l'idea  essendo  anch'essa 


8 

per  sé  oggetto,  colui  che  specola  facilmente  la  confonde  coU'og- 
getto  compiuto  e  sussistente,  nascendo  in  lui  un  grandissimo  de- 
siderio d'attribuire  a  quella,  che  sola  intuisce,  gli  attributi  di 
questo  che  non  intuisce,  e  pur  intende  che  non  può  mancare: 
è  un'aberrazione  della  tendenza  all'unità  ,  essenziale  ad  ogni 
intelligenza ,  e  quest'aberrazione  trascina  l'uomo  anche  sopra 
un  abisso  d'assurdi,  sicché  piìi  non  vede,  sperando  per  mezzo 
a  questi  di  pervenire  al  suo  disperato  proposito. 

10.  Riconosciamo  dunque  —  e  dimostrerà  anche  questo  la  no- 
stra Teosofia  —  che  l'essere  stesso,  se  ha  un'esistenza  oggettiva, 
è  per  sé  intelligibile ,  e  contenendo  l'essere  tutte  le  cose  (  poi- 
ché quello,  che  non  è  essere,  é  nulla  )  conviene ,  che  l'intelli- 
gibile contenga  tutte  le  cose  ;  e  dimostrerà  di  più  che  l'essere 
deve  avere  effettivamente  per  necessità  questa  forma  primitiva  : 
ma  nello  stesso  tempo  farà  ancora  vedere  con  tutta  evidenza  , 
che  l'iNTELLiGiBiLE  CONTENENTE  TUTTO  nou  é  dato  all'intuito  della  na- 
tura umana,  potendo  questa  soltanto  trovarlo  per  argomentazione 
atta  a  darne  solamente  un  concetto  negativo  e  formale.  Di  che 
conseguita,  che  l'uomo  non  possa  avere  né  l'assolato  conoscimento 
che  lo  Schelling  gli  attribuì  per  immediata  intuizione,  né  Videa 
assoluta  che  gli  promise  il  suo  discepolo  Giorgio  Hegel ,  nemico 
d'ogni  immediatezza,  per  via  d'un  mediato  raziocinio,  il  quale  alla 
guisa  d'un  ragno  industrioso  col  lavoro  di  molti  anni  andò  tessendo 
e  ritessendo  una  tela,  che  non  involse  che  lui  solo,  confessando 
moriente  egli  medesimo  che  nessuno  l'aveva  inteso,  eccetto  uno, 
il  quale  ne  pure  l'aveva  inteso  pienamente.  Onde  per  sentenza  del 
maestro  ci  non  lasciò  eredità  ne'  discepoli,  benché  alcuni  dal  nome 
dei  maestro  ora  si  denominino.  Ma  se  la  scopa  del  buon  senso 
rinellò  così  presto  e  facilmente  da  questa  sottilissima  ragna  la 
casa  della  filosofia,  non  sarà  punto  inutile,  che  subentrando  la 
Teosofia,  ella  anche  additi  come  a  quell'errore  dotto  ed  inge- 
gnoso sottostia  una  gran  verità  ,  che  pur  vollero  ,  ma  non 
poterono  cogliere  que'  coraggiosi  speculatori;  e  questa  verità  è 
quella  necessità  appunto ,  che  dicevamo ,  «  di  un  intelligibile 
eterno  contenente  le  cose  tutte  «  ,  a  cui  arbitrariamente  e  del 
tutto  falsamente  essi  applicarono  la  parola  idea  ,  che  indica  il 
lume,  vóto  di  contenuto,  della  natura  umana,  quand'esso  non 
ebbe  mai  e  non  può  avere  altro  nome,  che  quel  nome  che  gli 


impose  il  Cristianesimo,  che  lo  fece  conoscere  all'uomo  che  per 
natura  l'ignora,  di  verbo  di  dio. 


IV. 

La  Filosofia  teosofica  insisle  in  se  stessùj  non  prende  nulla 
dalle  altre  scienze^  ed  esclude  ogni  ipotesi. 

il.  Purespl'rtssohUo  conoscere  è  proprio  di  Dio  e  non  dcH'uomo, 
anche  l'uomo  ha  nondimeno  un  conoscere  assoluto  rispetto  alla 
forma,  quantunque  non  cosi  rispetto  alla  materia  [Ideol.  .^"iS,  sgg.; 
474,  sgg.);  e  questa  maniera  d'assolutezza  del  conoscere  umano 
anch'essa  divenne  occasione  agli  erramenti  delia  scola  germa- 
nica ,  di  cui  parlavamo.  La  Teosofia  dovrà  parlare  lungamente 
dell'assoluto  conoscere  umano:  anzi  essa  stessa  dovrà  usarlo;  e 
più  ancora  dovrà  esserlo.  E  veramente  non  essendo  ella  altro 
che  la  TEORIA  dell'ente  (  né  parrà  poco  ,  henchè  in  due  sole 
parole  si  compia  la  sua  definizione),  e  l'ente  essendo  infinito 
ed  assoluto,  innanzi  che  racchiuso  tra  limili  e  tra  questi  esi- 
stente come  finito  ,  niun  pensiero  potrchhe  raggiungerlo  ,  se 
non  si  rendesse  egli  stesso  da  qualche  parte  assoluto  ;  che  as- 
soluto, in  qualunque  modo,  si  rende  quel  pensiero  che  è  infor- 
mato da  un  oggetto,  in  qualunque  modo,  assoluto.  E  anche  a 
bona  ragione  Platone  chiama  il  discorso  del  massimo,  quello  che 
tratta  delTente,  nspi  ^è  tov  ixayìsrov  re  xa.ì  à.^yrìyQv  tt/joStoi;  (1). 

12.  E  poiché  non  c'è  cosa  alcuna,  che  possa  antecedere  nell'Uni- 
verso e  nella  mente  alFenle  o  all'essere,  che  ,  tolto  l'essere  , 
rimane  il  nulla  nell'ordine  nelle  cose  e  il  buio  in  quello  delle 
cognizioni,  perciò  la  dottrina  dell'ente,  che  noi  intitolammo  Teo- 
sofia ,  risponde  al  concetto  che  gli  antichi  s'erano  formati  della 
Filosofia,  i  quali  dicevano  ch'essa  si  distingue  dall'altre  scienze 
in  questo,  che  mentre  tutte  le  altre  scienze  suppongono  dei  prin- 
cipi che  non  dimostrano,  la  filosofia  all'incontro  non  mutua  cosa 
alcuna  altronde,  ma  S'edifica  co'  materiali  suoi  propri,  non  parte 
da  alcuna  ipotesi  o  supposizione  gratuita,   ma  anzi  cerca  e  sta- 

(1)  So/)/*,  p.  243.  C 


10 

bilisce  tò  àvutt'o^stov  [{)  ,  ond'ha  una  base  inconcussa,  e  non 
ammette  che  il  necessario  (^). 


V. 

Come  si  distingua  la  Teosofia  dall'  altre  scietize. 

13.  Ma  per  la  stessa  ragione  che  non  rimane  nulla  Cuori 
dell'essere  ,  parrà  che  la  Teosofia  ,  proponendosi  quest'oggetto  , 
deva  assorbire  e  riassumere  in  se  stessa  tutte  Tallre  scienze,  e 
però  che  si  prometta  con  essa  cosa  impossibile  e  temeraria  , 
quasi  ella  prendesse  a  discacciare  dal  mondo  tutte  l'altre  disci- 
pline. Laonde  è  necessario  che  noi  vediamo  come  la  Teosofia 
dall'altre  scienze  si  distingua  ed  abbia  suoi  certi  confini.  Sebbene 
dunque  sia  vero,  che  non  si  dà  scienza  che  non  riguardi  cose 
che  appartengono  aliente,  tuttavia  altro  è  trattare  d'alcuni  enti 
e  di  ciò  che  loro  appartiene,  ed  altro  trattare  dell'Ente  e  del- 
l'Essere come  Ente  ed  Essere  :  questo  fa  la  Teosofia ,  quello  le 
altre  scienze.  Il  che  s'intenderà  pienamente  mediante  le  seguenti 
considerazioni. 

ih.  Il  pensiero  dell'uomo  e  l'attenzione  che  n'è  la  sua  inlima 
attività  ha  tale  indole  che  spezza  l'ente  ,  e  si  posa  sopra  una 
parte  o  un  lato  di  esso,  non  badando  punto  al  resto,  quasi  non 
ci  fosse,  e  quella  parte  o  lato  di  ente  in  cui  si  raccoglie  l'at- 
tenzione segna  colle  parole  .  e  molte  cose  ne  va  ragionando  e 
dicendo.  Di  poi  viene  un  tempo  ,  nel  quale  riscuotendosi  da 
questa  specie  di  sogno,  riconosce  eh"  egli  non  s'è  occupato  che 
d'una  parte  o  d'un  lato  solo  dell'ente,  e  allora  s'industria  di 
risalire  al  tutto  e  di  considerare  anche  la  parte  o  il  lato  speciale, 
in  cui  prima  s' era  indugiato ,  nel  tutto  a  cui  appartiene.  Se- 
gnando con  due  vocaboli   questo  doppio   modo  di  operare  della 

(1)  Sen.  Ep.  88.  —  Cf.  Van  Heusde,  Initia  Philos.  plat.  II,  12. 

(2)  Esclude  dunque  la  Filosofia  gli  argomenti,  che  conchiudono  a  probabi- 
lità? ■ — Questi  non  sono  propri  della  filosofia,  e  mostrano  imperfezione  della 
scienza  :  né  si  possono  dire  filosofici  se  non  in  quanto  che  hanno  un  ele- 
mento necessario,  cioè  in  quanto  è  necessario  che  quell'argomento  conchiuda 
a  probabilità. 


Il 

mente  umana,  dicemmo  che  il  primo  è  un  pensiero  parziale  e  il 
secondo  un  pensiero  totale  {Psicol.  1294,  sgg.;  1407,  sgg.).  Ora,  il 
primo  di  questi  due  modi  del  pensare  e  del  conoscere  è  il  fonte 
delle  varie  scienze:  il  secondo  è  il  fonte  della  Teosofia,  che  conside- 
rando l'ente  come  ente,  considera  per  conseguenza  l'ente  nella  sua 
totalità.  È  vero  dunque,  che  tutte  le  scienze  trattano,  e  non  pos- 
sono trattare  che  di  qualche  cosa  che  appartiene  all'ente;  ma  poi- 
ché esse  riguardano  l'ente  solo  in  quanto  è  diviso  o  dalle  limita- 
zioni naturali  o  dallo  sguardo  della  mente,  perciò  stesso  prescindono 
e  astraggono  al  tutto  dalla  sua  natura  totale  ed  intera,  e  questa 
rimanendo  dimentica  ed  esclusa  da  esse,  viene  raccolta  dalla  Teo- 
sofia che  ne  fa  sua  materia  ed  argomento. 

13.  E  di  qui  non  solamente  apparisce  la  distinzione  della  Teosofìa 
dalle  altre  scienze,  ma  ancora  l'eccellenza  di  quella,  che  si  eleva 
di  lunga  mano  su  tutte  queste  ,  e  le  unifica  e  compie  tutte  in 
se  medesima.  Poiché,  quantunque  l'umano  pensiero  s'eserciti  nel 
detto  modo  parziale  e  unilaterale,  tuttavia  l'intelligenza  non  trova 
la  sua  quiete  nella  cognizione  delle  parti  e  de'Iati ,  ma  vi  sta 
come  in  sul  viaggio,  o  facendovi  delle  dimore  provvisorie  (ben- 
ché anche  a'  viaggiatori  incontri  di  morire  in  qualche  albergo, 
prima  d'avere  il  loro  viaggio  fornito) ,  o  solamente  trapassando 
più  0  meno  celeremente.  Che  la  mente  é  sempre  volta  per  sua 
propria  natura  a  raggiungere  le  ragioni  ultime,  e  le  parti  e  i 
lati  diversi  delle  cose  hanno  le  loro  ragioni  nel  tulto  e  nel  su- 
bietto, e  lutto  ciò  che  in  qualunque  modo  appartiene  all'ente  è 
per  l'ente  ed  ha  la  sua  ragione  d'esistere  nell'ente.  Onde  quella 
sola  disciplina  che  considera  l'ente  come  tale,  né  più  né  meno, 
e  però  nella  sua  interezza  e  pienezza,  é  il  termine  di  quel  de- 
siderio di  scienza  che  fruga  incessantemente  ed  urge  tutte  le 
finite  intelligenze. 


l'i 


VI. 


Come  la  Teosofia  si  distingua  dalle  altre  scienze  filosofiche. 
—  Filosofìa  regressiva  e  progressiva. 

16.  Potrà  qui  parere,  che  se  la  Teosofia  non  assorbe  in  sé 
le  altre  scienze,  s'appropri  però,  e  a  se  sola  pretenda  riserbare 
la  qualità  di  scienza  filosofica.  Poiché  incaricandosi  essa  d'asse- 
gnare le  ragioni  supreme  che  si  trovano  nel  tutto  dell'ente,  e 
non  essendo  la  Filosofia  che  «  la  scienza  delle  ragioni  ultime  »  ; 
pjre  che  tutta  la  Filosofia  si  riduca  in  quest'unica  scienza  della 
Teosofia  ,  non  rimanendo  fuori  di  lei  altra  scienza  ,  che  meriti 
questo  nome.  Pure  si  consideri ,  che  la  Filosofia  ha  bensì  per 
iscopo  le  ultime  ragioni,  ma  per  arrivare  a  coglierle,  definirle, 
ordinarle,  condurle  all'unità,  l'uomo,  che  ama  e  cerca  la  vera 
scienza  ,  ha  uopo  di  fare  co'  suoi  pensieri  e  ragionamenti  assai 
lungo  cammino  e  prima  di  raggiungerle  ci  adopera  molte  inve- 
stigazioni. Poiché  se  alcune  tra  l'ultime  ragioni  sono  prime  nella 
intuizione  della  mente  umana  ,  non  si  rifondono  però  nella  ri- 
flessione che  dopo  tutte  l'altre,  e  ogni  scienza  é  di  sua  natura 
cognizione  riflessa  [Ideol.  ÌM^.;  Logic.  69-71).  Tutto  quei 
lavoro  dunque  che  fa  la  mente  del  filosofo  per  avanzarsi  fino 
agli  ultimi  perchè,  e  ha  questi  per  intento,  é  filosofico;  e  questo 
é  così  copioso  ed  involto  che  ,  quando  s'esprime  ordinatamente 
in  parole  o  in  iscrilture,  si  riparte  in  più  scienze,  quasi  stazioni 
del  lungo  viaggio  ,  ultima  delle  quali  e  compimento  di  tutte  le 
altre  è  la  Teosofia. 

Oltre  di  ciò,  dovendosi  ordinare  questa  per  modo,  che  abbia 
un  capo  e  principio,  donde  tutte  l'altre  membra  e  conseguenze 
si  derivino  (che  tanto  esige  la  cognizione  scientifica,  acciocché 
appaghi  la  più  nobile  riflessione  dell'uomo),  come  arrivare  d'un 
tratto  a  quella  sommità  onde  discende  tutta  la  scienza.?  Noi  ab- 
biamo dunque  riconosciuto  doversi  ammettere  la  distinzione  tra 
la  Filosofia  regressiva  ,  che  é  quella  che  sulla  via  della  rifles- 
sione riconduce  la  mente  a  trovare  il  principio  da  cui  si  deriva 
la  scienza  dell'ente,  e  la  Filosofia  progressiva,  che  è  la  stessa  scienza 


i3 

dell'Ente  dal  suo  principio  derivata.  {Prelim.  alle  Scienze  Ideol. 
li,  3Ì-34),  cioè  la  Teosofia;  e  oltracciò  una  Filosofia  media,  che 
è  quella  che  somministra  le  condizioni  tanto  formali  —  Logica — , 
quanto  materiali  —  Psicologia  —  del  passaggio  della  mente  spe- 
culativa dalla  filosofia  regressiva  —  Ideologia  —  alla  progressiva 
e  teosofica.  La  Teosofia  dunque,  benché  meriti  essa  sola  l'ap- 
pellazione di  teoria,  non  è  la  sola  scienza  filosofica,  ma  è  pre- 
ceduta necessariamente  da  altre. 


vn. 

Tre  principi  dello  scibile  umano  :  lideale,  il  materiale,  l'assolato. 

\7 .  Il  lavoro  della  mente  filosofica  e  tutto  il  sistema  del  sa- 
pere umano  ha  tre  principi,  l'obiettivo  formale,  il  subiettivo, 
l'obiettivo  essenziale,  ossia  Videa,  Vanima,  Venie;  e  però  lo  sci- 
bile conceduto  agli  uomini  può  essere  ordinato  in   tre  modi  : 

1°  Movendo  dall'  idea  che  è  il  lume  con  cui  si  conosce 
lutto  ciò  che  si  conosce,  e  però  ò  un  primo  anteriore  a  tutti  gli 
altri  noti; 

2°  Movendo  àaWanima  intelligente  ,  che  tutto  ciò  che  si 
pensa  o  si  specula,  quantunque  abbia  natura  di  oggetto,  veste 
la  forma  di  cognizione  anche  subiettiva  in  questo  solo  senso,  che 
sono  gli  atti  del  subietto  intelligente  quelli  che  danno  le  cogni- 
zioni all'  uomo,  onde  queste  suppongono  il  subielto  intelligente 
come  nn  primo,  antecedente  ad  esse,  da  cui  derivano  nella  forma 
di  cognizioni  umane; 

3°  Finalmente  movendo  dall'enfi,  come  quello  che  è  tutto  ciò 
che  si  pensa  —  e  lo  stesso  subietto  intelligente  non  è  se  non  per 
la  partecipazione  dell'ente  —  onde  si  suppone  come  anteriore  a 
lui  Venie,  il  quale  così  è  anch'esso  un  primo  ,  da  cui  partendo 
quasi  da  capo  si  possono  ordinare  tutte  le  membra,  cioè  le  en- 
tità alle  quali  lo  scibile  si  riferisce. 

L'idea  dunque  è  un  primo  neWordine  delle  cognizioni  assolu- 
tamente considerate  ;  il  subietto  intelligente  è  un  primo  neh'  or- 
dine di  rapporto  tra  le  cognizioni  e  il  subielto  umano  a  cui  sono 
comunicate;  l'ente  ò  un  primo  XieWordine  assoluto  degli  oggetti 


conoscibili.  Quindi  tre  scienze,  cioè  l'Ideologia,  la  Psicologia  e  la 
Teosofia,  diesi  possono  considerare  come  tre  centri,  intorno  ai 
quali  fu  già  radunala  dalle  diverse  scole  in  tre  modi  diversi  la 
Filosofia,  e  da' quali  ricevette  un  diverso  carattere. 

18.  Ma  questi  tre  melodi  sono  essi  ugualmente  logici?  Sod- 
disfano ugualmente  alla  legge  essenziale  della  filosofia  ,  di  non 
prendere  altrove  il  suo  oggetto  ,  di  non  cominciare  da  alcuna 
ipotesi  ,  di  non  prosupporre  davanti  di  sé  nulla  di  gratuito  su 
cui  fondare  i  suoi  ragionamenti?  —  La  necessità  di  rispondere 
a  queste  interrogazioni  ci  obbliga  ad  esaminare  con  più  diligenza 
la  questione  assai  grave  e  difficile:  «  da  che  cosa  deva  inco- 
minciare la  Filosofia  ». 


Vili. 

Errore  metodico  (ìeWHegcl  nel  cominciare  dal  principio  materiale, 
che  rifonde  poi  gratuitamente  nel  princijjio  assoluto. 


19.  L'Hegel  sentì  l'importanza  di  questa  questione  e  rispose, 
che  «  qualunque  cosa  sia  quella  da  cui  si  cominci,  ella  è  sempre 
una  supposizione,  poiché  ogni  sapere  immediato  è  puramente  ipo- 
tetico )).  Questa  sentenza  gli  fu  suggerita  dal  sensismo,  di  cui 
non  si  potè  mai  ripurgare  la  scola  germanica  ,  benché  pren- 
desse titolo  ^'Idealismo  trascendentale.  Infatti  egli  non  riconosce 
per  immediato  altro  che  l'esperienza  sensibile,  e  questa  dice  es- 
sere il  punto  di  partenza  della  Filosofìa  (i);  egli  accetta  il  detto 
aristotelico:  niìiil  est  in  intcllectu  quod  prius  non  faerit  in  sensu;  e 
il  suo  sistema  consiste  in  aggiungere  che  nihil  est  in  sensu  quod 
prius  non  fuerit  in  intellectu  ,  di  maniera  che  ammette  per  vera 
reciprocamente  l'una  e  l'altra  sentenza  ,  e  compendia  sé  stesso 
in  queste  parole:  Was  vernilnflig  ist,  das  ist  wirklich,  und  was 
ivirklich  isl,  das  ist  verniinftig  (2).  Ora  è  ben  chiaro  che  se  la 
Filosofia  non  ha  altro  punto  di  partenza  che  l'esperienza  del  senso 

(1)  Encijclopédie,  $  1-12. 

(2)  Philosoph.  des  Rechts,  Vorrede Encyclop,  Einleitung,^Q. 


15 

esterno  ed  interno,  essendo  il  puro  senso  un  non  conoscere,  e 
la  cognizione  delle  cose  sensibili  presentandosi  alla  monte  del 
filosofo  come  cognizioni  soggettive,  egli  dovrà  riguardarle  quali 
supposizioni^  quai  dati  non  ancora  pienamente  giustificati.  Ma  è 
egli  vero  ciò  che  gratuitamente  asserisce  questo  filosofo,  che  il 
punto  di  partenza  della  Filosofia  sia  l'esperienza  ?  Qucsl'c  da  vero 
una  sua  supposi  zinne  ,  e  nel  tempo  stesso  ch'egli  ricusa  d' am 
meltere  cosa  alcuna  non  dimostrata  ,  e  nega  valor  filosofico  a 
qualunque  immediato  conoscimento  ,  fa  pur  maraviglia  a  ve- 
dere con  che  sicurezza  mova  il  cammino  da  una  tale  asserzione, 
supponendo  infallibile  che  l'esperienza  sia  il  punto  di  partenza 
della  Filosofia,  e  non  solo  trascurando  di  provarlo,  ma  dispen- 
sandosi dal  sottoporlo  a  qualunque  esame.  Questo  punto  di  par- 
lenza  della  Filosofia  posto  nell'esperienza  sensibile  ,  è  proprio  al 
genere  di  que'fìlosofi  che  movono  dal  soggetto,  ossia  dall'anima. 
Ma  confessando  l'Hegel  ,  che  incominciandosi  dall'esperienza  si 
comincia  da  una  pura  supposizione,  egli  viene  a  confessare  ad 
un  tempo  che  qui  non  comincia  ancora  veramente  la  Filosofia  , 
la  quale  non  è  una  supposizione,  ed  anzi  ella  non  è,  come  di- 
cevamo ,  che  una  dottrina  necessaria  ,  e  però  dove  comincia  il 
necessario,  ivi  solo  può  cominciare  la  teoria  filosofica. 

20  Che  poi  l'Hegel,  avendo  creduto,  che  la  Filosofia  avesse  il  suo 
punto  di  partenza  dall'esperienza,  pronunciasse  in  universale  che 
«  da  qualunque  cosa  incominci  la  Filosofia,  questa  cosa  è  sempre 
una  supposizione  d,  non  è  che  un  salto  dal  particolare  all'uni- 
versale ,  una  di  quelle  conclusioni  illogiche  tanto  frequenti  nel 
nostro  filosofo,  che  si  persuade  non  poterci  essere  altro  se  non 
quello,  ed  è  ben  poco,  che  si  presenta  alla  sua  immaginazione. 
Ma  se  egli  avesse  consideralo  che  il  senso  esterno  ed  interno  , 
fonti  dell'esperienza  ,  e  l'altre  facoltà  del  subietto  umano  ,  e  lo 
stesso  subietto  umano ,  non  sono  altro  che  condizioni  materiali , 
necessarie  non  all'esistenza  della  verità,  ma  a  far  s'i  che  questa 
si  comunichi  all'uomo  (poiché  ella  non  si  potrebbe  comunicare 
a  un  subietto,  che  non  esistesse  o  che  non  avesse  la  potenza  di 
riceverne  la  comunicazione),  avrebbe  facilmente  compreso,  che 
queste  condizioni  materiali  non  possono  costituire  pur  il  prin- 
cipio di  quella  teoria  della  verità  che  si  cerca  ,  benché  la  ri- 
cerca della  verità  le  supponga,  appunto  come  l'armatura  d'una 


\6 

fabbrica,  benché  necessaria  a  costruirla,  non  è  ancora  il  princi- 
pio, né  una  menoma  parte  della  fabbrica.  Come  poi  l'esperienza, 
e  il  soggetto  che  l'esercita,  rientri  più  tardi  nella  teoria  del  tutto 
che  l'assorbe  in  sé,  benché  non  possa  esserne  il  principio,  dalla 
teoria  stessa  si  verrà  a  conoscere. 


IX. 

La  Filosofìa ,  e  il  sistema  dello  scibile ,  deve  cominciare 
dal  principio  ideale. 

21.  È  dunque  manifesto,  che  quelli,  che  pretendono  incomin- 
ciare il  sistema  delio  scibile  umano  dall'anima,  movono  dalla  condi- 
zione materiale  dello  scibile,  e  però  da  un  principio  che  non  prin- 
cipia punto  il  sistema.  Conviene  dunque  appigliarsi  ad  uno  dei  due 
altri  capi  che  si  presentano  alla  mente  colla  pretensione  di  poter 
esserne  principio,  cioè  Videa  o  Venie  che  collidea  si  conosce.  Ma 
se  l'ente  si  conosce  coll'idea,  l'idea  logicamente  precede;  e  co- 
minciando dall'ente  si  lascerebbe  indietro  l'idea,  che  rimarrebbe 
sottintesa  e  supposta  :  si  principierebbe  dunque  ancora  da  una 
supposizione^  e  una  supposizione  non  somministra  il  comincia- 
menlo  del  sistema;  che  il  sistema  ha  per  suo  essenziale  carattere 
la  necessità  ,  che  se  non  fosse  necessario  non  sarebbe  sistema. 
Vediamo  dunque  se  si  possa  cominciare  il  sistema  dall'idea. 

22.  G'é  egli  qualche  cosa  nella  mente,  che  abbia  priorità  in 
confronto  dell'idea?  C'è  un  noto  che  sia  anteriore  all'idea,  col 
quale  si  conosca  l'idea  stessa?  Poiché  se  c'è  qualche  cosa  di  più 
noto  dell'idea  ,  dal  quale  1'  idea  mutui  la  sua  luce  intellettiva  , 
converrà  trovare  in  quel  primo  noto  il  principio  che  si  cerca. — 
Per  rispondere  a  questa  domanda  conviene  passare  a  rassegna  tutte 
le  diverse  classi  d'idee,  le  quali  si  possono  ridurre  a  due:  «  idee 
più  comprensive  e  idee  meno  comprensive  «;  e  confrontarle  tra 
loro.  Dal  quale  confronto  risulta  ,  che  le  idee  più  comprensive 
hanno  bisogno,  per  essere  note  ossia  ricevute  dalla  mente  umana, 
delle  idee  meno  comprensive  ,  le  quali  hanno  maggiore  esten- 
sione, di  maniera  che  ogni  idea  più  comprensiva  suppone  da- 
vanti a  sé  tutte  le  meno  comprensive.  Allorché  dunque  si  voglia 


47 

cominciare  il  sistema  da  qualche  idea,  che  abbia  una  certa  com- 
prensione ,  il  conijnciamento  involge  una  supposizione  ,  cioè  ri- 
mangono sottintese  e  supposte  le  idee  che  hanno  priorità  a  quella 
da  cui  si  comincia,  che  sono,  come  dicevamo,  quelle  dotate  di 
una  maggior  estensione.  Ma  se  trascorrendo  le  idee  dalle  più 
comprensive  alle  meno  si  può  arrivare  ad  una  che  non  abbia 
alcuna  comprensione  ,  questa  non  supporrà  davanti  a  sé  altra 
idea  di  sorta;  e  come  sarà  l'estesissima  di  tutte,  così  anche  sarà 
nota  la  prima  ,  e  quindi  nota  per  sé  :  e  quindi  sarà  trovato  il 
vero  principio  di  tutto  il  sistema  ,  scevro  da  ogni  supposizione, 
ma  per  sé  stante  davanti  alla  mente.  E  questo  é  appunto  quello 
che  fa  rideologia  ,  la  quale  dimostra  che  V  idea  della  massima 
estensione  e  priva  d'ogni  comprensione  e'  è  davanti  alla  mente 
—  e  se  non  ci  fosse,  né  pur  ci  potrebbero  essere  l'altre  idee  più 
0  meno  comprensive  come  pur  ci  sono,  —  ed  è  V  idea  dell'essere 
del  tutto  indeterminato.  Laonde  dicevamo  {Prelim.  alle  Opp.  Ideol. 
31),  che  l'Ideologia  è  quella  scienza  che  costituisce  la  Filosofia 
regressiva,  avendo  ella  per  iscopo  di  ricondurci  colla  riflessione 
fino  al  principio  di  tutto  ciò  che  sappiamo,  trovato  il  qual  prin- 
cipio semplicissimo,  e  nuU'altro  esigente  per  essere  pensato  che 
se  stesso,  da  esso  si  mova  e  si  produca  il  sistema  della  verità, 
ossia  la  Teosofia,  che  è  la  Filosofia  progressiva. 

23.  Questo  principio  non  è  una  supposizione,  perchè,  ridotta 
r  idea  a  giudizio,  con  esso  non  si  dice  altro  se  non  che  «  l'essere 
è  Tessere  »  ;  il  che  è  vero  anche  se  non  ci  fosse  il  soggetto 
umano  che  intuisce  l'essere  e  lo  pronuncia. 


X. 

Lo  stato  deiruomo  prima  dell' invenzione  della  Filosofia 
non  è  il  dubbio,  ma  la  cognizione  comune,  e  T igno- 
ranza melodica. 

24.  Qui  ci  si  dirà:  «  Quando  voi  siete  in  sul  cercare  colla 
vostra  riflessione  quell'essere  e  non  l'avete  ancora  raggiunto, 
dovete  trovarvi  in  uno  stato  di  dubbio,  e  partite  almeno  dalla 
supposizione  di  poterlo  trovare  ».  Rispondiamo  che  questa  sup- 

llosMiNi.  Teosofia.  2 


18 

posizione  non  è  il  principio  della  filosofia,  il  quale  non  c'è  se 
non  quando  s'è  trovato:  di  poi  la  supposizione  di  poter  trovare 
il  punto  fermo  delle  umane  cognizioni  non  è  una  supposizione 
logica  che  involga  alcun  dubbio,  ma  una  persuasione  spontanea 
che  equivale  a  certezza  di  doverlo  trovare  ,  perchè  l'  uomo 
prima  ancora  di  filosofare  si  sente  fatto  per  la  verità  ,  e  sa 
di  possederla  in  un  qualsiasi  modo;  onde  quella  supposizione, 
se  così  si  vuol  chiamare,  none  esitazione:  il  dubbio  nasce  più 
tardi  nella  mente  e  nell'animo  umano,  e  lo  scetticismo  è  l'ultimo 
de'  sistemi,  che  comparisce  sempre  al  mondo  dopo  la  Filosofìa, 
quando  questa  si  va  perdendo  e  corrompendo.  Quello  dunque,  che 
precede  nell'  uomo  la  filosofia,  non  è  propriamente  il  dubbio,  ma 
uno  stato  di  cognizione  diretta  e  spontanea,  pieno  di  persuasione, 
e  che  si  mantiene  in  possesso  della  certezza.  Quindi  la  nostra 
filosofia  regressiva  non  parte  dal  dubbio  metodico,  ma  parte  dalla 
ignoranza  metodica  [Prelim.  ìì)  e  la  parola  «  metodica  »  di- 
chiara di  qual  ignoranza  si  parli.  Ella  fa  conoscere  che  non 
s'intende  un'ignoranza,  che  esista  di  fatto  nel  filosofo  che  inco- 
mincia ad  esporre  «  la  filosofia  regressiva  «^  che  anzi  egli  può 
e  deve  essere  già  dotto,  ma  s'intende  un'ignoranza  relativa  al- 
l'ordine e  all'esposizione  delle  verità  che  egli  prende  a  fare,  in 
quanto  che,  prima  d' esporle  ordinatamente ,  esse  non  vi  sono 
nell'esposizione,  e  dopo  esposta  una  prima,  o  alcune  di  esse, 
rimane  l'assenza  dell'altre  nell'esposizione,  perchè  non  sono  an- 
cora dedotte  ed  esposte ,  e  quindi  si  suppone  che  il  discepolo 
ancora  non  le  sappia,  perchè  non  le  sa  come  discepolo,  benché 
possa  saperle  altronde:  quest'assenza  dunque  ipotetica  delle  ve- 
rità che  si  prendono  a  esporre  è  quella  che  chiamasi  «  igno- 
ranza metodica  ». 

Essendo  dunque  l'ignoranza  metodica  relativa  all'esposizione 
ordinata  e  filosofica  delle  verità,  è  un'  ignoranza,  che  si  riferisce 
alla  riflessione ,  e  non  alla  cognizione  diretta  o  alla  popolare, 
questa  rimanendo  con  quella  ignoranza.  Colla  cognizione  diretta 
e  colla  popolare  l' uomo  sa,  benché  molte  cose  le  sappia  in  una 
forma  più  o  meno  implicita,  e  c'è  in  lui  la  certezza:  l'idiota 
non  dubita,  o  dubita  meno  del  dotto,  ma  non  essendo  queste 
cognizioni  riflesse,  o  almeno  non  riflesse  quanto  basta  ad  esser 
filosofiche ,  l'assenza  di  queste  cognizioni   in   forma  filosofica  e 


19 

sislemalica  è  l'ignoranza  metodica  da  cui  comincia  la  filosofia, 
e  che  nella  scola  si  suppone. 


XI. 


La  Filosofia  non  comincia  col  raziocinio,  ma  colla  riflessione 
osservatrice,  e  però  con  un  conoscere  immediato,  senza 
supposizione  di  sorta. 

25.  La  filosofia  dunque  non  comincia  da  alcuna  proposizione 
supposta ,  ma  da  un  punto  luminoso ,  che  ha  l'evidenza  della 
necessità  ,  riconosciuto  bensì  nell'  uomo  dalla  riflessione ,  ma 
dalla  riflessione  osservatrice,  e  non  punto  argomentatrice.  Ora 
ogni  osservazione  anche  riflessa  è  un  conoscere  diretto  ed  im- 
mediato, e  però  incomincia  da  una  notizia  immediata,  sì  perchè 
questa  notizia  è  presente  all'intuizione  senza  niun  mediatore,  si 
perchè  è  riconosciuta  dalla  riflessione  con  un'osservazione  imme- 
diata senza  argomentazione  di  sorta,  e  perciò  senza  alcun  bisogno 
di  mezzo  termine. 

2G.  Né  si  ipnò  o\)\)ovve,  che  essendo  V intuizione  e  l'osservazione 
riflessa  facoltà  dello  spirito  ,  colle  quali  si  coglie  quel  punto  di 
evidenza,  e  non  essendone  ancor  provata  la  veracità,  c'è  la 
supposizione  che  non  ingannino.  Questa  obiezione  avrebbe  luogo, 
se  fosse  vero ,  che  l' evidenza  di  quel  punto ,  cioè  dell'essere 
obiettivo,  si  argomentasse  dalla  veracità  delle  potenze  dell'uomo 
che  r  apprendono  ;  ma  non  è  e  non  può  esser  questo  il  fonda- 
mento di  quella  evidenza.  L'ideologia  non  dice  mica:  «  L'essere 
è  essenzialmente  obiettivo ,  perchè  tale  mi  è  presentato  dall'  in- 
tuizione e  dall'osservazione,  potenze  che  sono  dotate  di  veracità)); 
ma  dice:  «l'essere  è  essenzialmente  obiettivo,  perchè  non  può 
essere  diversamente  )>.  È  nella  natura  stessa  dell'essere  che  si 
trova  la  sua  necessità ,  e  non  s' argomenta  già  dalla  veracità 
delle  potenze  ;  anzi  la  veracità  di  queste  si  conchiude  posterior- 
mente dall'  intrinseca  necessità  dell'essere  che  esclude  qualunque 
contraria  possibilità  ;  onde  le  potenze  rimangono  escluse  da  ciò 
che  si  conosce  evidente  e  necessario ,  il  quale  sta  e  vince  per 


20 

la  propria  luce;  esse  non  sono,  come  dicevamo,    se  non  condi- 
zioni materiali  del  conoscere. 


XII. 

L'Ideologia  è  la  scienza  che  stabilisce  il  punto  di  partenza;  la 
Psicologia  e  la  Logica  danno  le  condizioni  maleriali,  e  le 
condizioni  formali  della  Teosofia. 

27.  L'essere  dunque  è  quel  solo  che  non  ha  bisogno  d'altro 
che  di  sé  stesso  per  essere  pensato  ed  ammesso  come  evidente 
e  necessario;  e  quando  la  riflessione  filosofica  l'ha  per  tale  ri- 
conosciuto, ell'è  venula  in  possesso  dell' istrumento  o  mezzo  di 
andare  avanti  a  riconoscer  l'altre  cose,  a  riconoscer  la  veracità 
delle  percezioni^  delle  idee,  spiegandone  l'origine,  e  de'  principi 
del  ragionamento,  il  che  fa  l'Ideologia  e  la  Logica;  e  in  appresso 
riconosce  pure,  come  conseguenza  indeclinabile,  la  veracità  delle 
facoltà  intellettive,  e  massimamente  dalla  riflessione^  dall'evidenza 
delle  cognizioni  sempre  argomentando  alle  facoltà,  e  dagli  atti 
venendo  a  conoscere  la  natura  delle  potenze  e  non  viceversa, 
come  fanno,  e  pretendono  illogicamente  che  si  faccia,  i  sensisti 
e  tutti  i  sogetlivisti;  e  finalmente  viene  a  trovare  la  dottrina 
del  subietto  umano,  che  è  l'intento  della  Psicologia.  Questa  è 
una  scienza,  che  non  ha  bisogno  d'altro  che  dell'Ideologia  e 
della  Logica,  e  presupposte  queste,  può  stare  da  sé,  perchè  si 
fonda  sulla  percezione  [Sistem.  fìl.  75,  76)  che  da  una  parte  è 
certa,  dall'altra  circoscrive  all'uomo  un  lutto  conoscitivo,  né  lo 
necessita  ad  uscirne.  Così  dopo  che  la  riflessione  trovò  l'evidente 
nel  necessario,  ella  discopre  la  dottrina  delle  condizioni  formali 
del  ragionamento,  scopo  principalmente  della  Logica,  e  quella 
deWe  condizioni  materiali,  argomento  della  Psicologia  {Prelim,.  52). 


21 


XIII. 

Le  scienze  filosofiche  anteriori  procedono  con  un  ragiona- 
mento diretto ,  la  Teosofìa  usa  d'un  ragionamento  circolare, 
ma  non  vizioso. 

28.  Fin  qui  la  niente  speculatrice  fa  un  cammino  in  direzione 
retta.  Ma  quando  con  altre  riflessioni ,  uscendo  dalle  angustie 
della  percezione ,  si  solleva  a  considerare  l'ente  in  se  stesso  nella 
sua  universalità  e  nella  sua  totalità,  e  s'accorge  che  esso  è  uno 
ed  identico  in  tre  forme,  e  cerca  come  queste  sieno  nell'infinito, 
e  poi  come  ne  partecipi  il  finito  ;  allora  viene  spinta  in  circolo , 
che  ben  s'avvede  non  potersi  parlare  d'alcuna  di  quelle  forme  a 
parte ,  senza  contemporaneamente  supporre  le  altre  due,  tali  es- 
sendo le  tre  forme  che,  rimanendo  inconfusibili,  pure  reciproca- 
mente si  chiamano  e  si  compenetrano.  Onde  non  potendo,  per  la 
successione  dei  pensieri  e  delle  parole,  abbracciare  in  un  solo 
atto  istantaneo  quella  triplice  dottrina,  lo  speculatore  si  vede 
stretto  a  dover  dividere  quello  che  è  indivisibile  ,  ed  usare,  vo- 
lendo parlare  d'una  di  esse,  un  ragionamento  deficiente  per 
l'astrazione  che  si  obbliga  a  fare  dall'altre  due.  Ma  come  e  fino  a 
qual  termine  possa  di  poi  emendarsi  questo  inevitabile  difetto  di 
ragionamento,  e  in  che  modo  ci  abbia  un  circolo  non  vizioso,  non 
solo  fu  detto  nella  Logica,  ma  si  mostrerà  in  quel  libro,  che  ab- 
biamo consacrato  a  dichiarare  «  il  problema  dell'Ontologia  ».  Poi- 
ché l'Ontologia  e  tutta  la  Teosofia  ha  per  suo  proprio  modo  di 
ragionare  il  circolo ,  quello  cioè  che  abbiamo  chiamato  solido ,  in 
cui  si  contiene  anche  l'argomento  che  gli  Scolastici  chiamarono 
di  regresso  {Logic.  701,  702). 

29.  E  questo  stesso  circolo,  in  cui  non  viziosamente  s' involge 
di  continuo  il  pensare  e  il  sapere  teosofico,  e  che  risulta  non  solo 
dal  sintesismo  delle  tre  forme  dell'essere,  ma  ancora  da  molt'altri 
sintesismi  che  per  tutto ,  nell'ordine  intrinseco  dell'essere,  si 
riscontrano,  dà  una  nova  ragione  dell'avere  noi  considerata  come 
una  sola  scienza  quella  dottrina  che  s'usò  fin  qui  partire  in  tre , 
e  l'averne  il  loro  complesso  denominato  Teosofia. 


XIV. 

Continuazione.  —  Tre  parti  della   Teosofia  : 
l'Ontologia,  la  Teologia  e  la  Cosmologia. 

30.  L'Ontologia,  la  Teologia  (razionale)  e  la  Cosmologia  sono 
tre  parti  d'una  sola  scienza,  a  ciascuna  delle  quali  manca  il  lutto 
e  l'esistenza  propria  :  rientrando  di  contìnuo  l'una  nell'altra,  esse 
confondono,  quasi  direi,  le  loro  acque  nel  mare  dell'essere.  In 
l'atti,  come  parlare,  a  ragion  d'esempio,  dell'essere  nella  sua  es- 
senza universale,  e  in  tutta  la  sua  possibilitcà,  ciò  che  appartiene 
all'Ontologia  ,  senza  avere  alcun  riguardo  all'  infinitcà  e  all'assolu- 
tezza dell'essere,  argomento  della  Teologia?  0  come  dare  una 
dottrina  filosofica  del  Mondo,  intento  della  Cosmologia,  senza  risa- 
lire a  considerare  la  causa  che  gli  ha  dato  l'esistenza,  e  il  modo 
d'operare  di  questa  causa ,  il  che  riconduce  il  ragionamento  sul 
suolo  teologico  ?  Laonde  il  centro  e  la  sostanza  di  tutta  la  tratta- 
zione è  sempre  la  dottrina  di  Dio,  senza  il  quale  né  si  conosce  a 
pieno  la  dottrina  dell'essere,  né  si  spiega  il  mondo.  Quindi  la  de- 
nominazione di  Teosofia  data  all'unica  scienza  che ,  dividendosi 
nelle  indicate  tre  parti,  riesce  una  e  trina, 

31 .  Questa  assume,  come  dicevamo,  di  ragionar  dell'ente  nella 
sua  piena  estensione  e  comprensione  —  quanto  può  andare  la  ra- 
gione umana  —  sotto  tutte  le  forme,  nel  suo  ordine  organico,  in 
tutti  que'suoi  intimi  nessi  che  dall'immensa  moltiplicità,  in  cui  si 
diffonde  e  s'allarga  ,  lo  fanno  mirabilmente  rientrare  nell'unità 
semplicissima  ed  assoluta.  Se  dunque  l'argomento  delle  scienze 
ideologiche  e  psicologiche  è  di  sua  natura  analitico,  e  la  divisione 
0  analisi  si  può  dire  la  funzione  ed  operazione  caratteristica  colla 
quale  procede  l'Ideologo  e  lo  Psicologo;  l'argomento  all'incontro 
delle  scienze  teosofiche  è  di  natura  sintetica,  che  queste  scienze 
si  propongono  di  meditare  ed  esplorare  la  gran  sintesi  ossia  la 
grande  unità  di  tutte  le  cose  pensabili;  né  dividono  in  parti  l'ente 
se  non  affine  di  poi  dimostrare  in  che  modo  mirabile  tutte  quelle 
parti  sì  raggiungono  ed  unificano.  Di  che  conseguita  manifesta- 
mente che  le  scienze  teosofiche  non  possono  in  alcun  modo  essere 
più,  ma  debbono  essere  una  che  abbracci  il  tutto.  Laonde  la  Teo- 


23 

sofia  ha  questo  suo  proprio  carattere  di  essere  sommamente  orga- 
nica. Che  a  quella  guisa,  che  le  membra  ossia  organi  d'un  vivo 
animale  cospirano  a  formare  un  solo  ente  ,  né  alcuna  delle  mem- 
bra separate  dal  lutto  può  far  conoscere  quell'indivisibile  che  da 
tutte  risulta;  così  riesce  impossibile  squarciare  le  membra  della 
Teosofia,  senza  che  incontanente  ci  sfugga  di  mano  e  ci  svanisca 
la  stessa  scienza  vivente  che  noi  cerchiamo;  come  appunto  ac- 
cade nell'anatomico  che  divide  le  fibre  d'un  cadavere  col  coltello 
per  considerarle  a  parte,  a  cui  non  si  presenta  mai  l'organico  vi- 
vente, che  nella  unione  armonica  e  animata  di  tutte  insieme  con- 
sisteva. 11  perchè  il  Teosofo  obbligato  dall'imperfezione  del  pen- 
siero umano  e  della  parola  a  trattare  delle  singole  parti  e  speciali 
conformazioni  dell'ente,  noi  fa  però  se  non  considerandole  in  un 
continuo  rispetto  al  tutto  e  nel  tutto,  e  siccome  partecipanti  l'es- 
sere loro  dallo  stesso  tutto;  e  se  facesse  altramente,  cesserebbe 
con  ciò  dall'esser  Teosofo,  trattando  forse  altra  scienza,  non  punto 
la  Teosofia.  Il  che  mi  par  singolare  che  non  abbiano  fin  qui  ve- 
duto quelli  che  hanno  preso  a  filosofare  ;  i  quali  hanno  pure 
squarciate  le  membra  di  quella  scienza,  che  ha  per  iscopo  ed  in- 
tendimento l'unirle. 

32.  Di  che,  se  noi  cerchiam  la  ragione,  ci  verrà  trovata  nella 
somma  difficoltà  della  Teosofia  e  de'  pericoli  che  ella  involge. 
Poiché  la  scienza  che  tratta  dell'essere  nella  sua  magnifica  ed 
immensa  complessità,  risica  d'urtare  nell'uno  o  nell'altro  de'  due 
scogli  ojìposti;  0  di  frangere  l'essere  per  modo  che  ne  perisca 
l'unità ,  il  che  ruba  alla  Teosofia  il  suo  proprio  scopo  che  è  di 
mostrare  di  quest'unità  la  vera  ed  arcana  natura  ;  o  d'accozzare 
mostruosamente  e  identificare  l'essere  in  modo  alieno  dal  vero, 
con  che  il  Teosofo  si  rende  maestro  di  panteismo.  Quindi  gli  er- 
ranti nelle  dottrine  teosofiche  si  dividono  in  due  ampie  classi  : 
nella  prima  stanno  quelli  che  non  diedero  all'essere  la  debita 
unità ,  nella  seconda  quelli  che  glie  ne  diedero  una  indebita  : 
quelli  peccarono  per  difetto,  questi  per  eccesso:  i  primi  disconob- 
bero i  vincoli  e  nessi,  pei  quali  gli  enti  relativamente  diversi  si 
attengono  e  si  congiungono  assolutamente  in  un  bellissimo  tutto 
organico;  i  secondi,  vinti  anch'essi  dall'immensa  difficoltà  di 
trovare  la  natura  di  questi  nessi ,  sostituirono  ai  veri  de'  nessi 
falsi,  dati  loro  dall'imaginazione,  ed  anzi,  per  far  più  presto,  ne- 


garono  a  dirittura  la  verità  de'  nessi  che  dovunque  appariscono^  e 
che  suppongono  a  un  tempo  e  l'unità  e  la  distinzione,  sognando 
un  cotai  essere  uniforme  assorbente  tutto  nel  proprio  seno  quasi 
in  una  voragine  profonda,  ove  ogni  distinzione  scompare.  I  quali 
errori  devono  a  noi  fruttare  non  piccolo  ammaestramento  di  pro- 
ceder cauti  e  temperati  nel  pronunciare.  Che  ninno,  a  nostro 
avviso ,  si  può  mettere ,  senza  certissimo  rischio  di  naufragio  , 
nelle  teosofiche  investigazioni ,  il  quale  prima  di  tutlo  non  sappia 
che  la  scienza  a  cui  egli  pone  la  mente ,  di  sua  natura  vince 
l'intelligenza  della  specie  umana,  di  che  niun  savio  che  vi  si 
applica  può  sperare,  o  mettersi  in  animo  di  far  più  che  d'in- 
nalzare qualche  lembo  del  velo  che  ricopre  sì  immenso  corpo 
di  verità.  Laonde  a  prima  dote  richiesta  nel  Teosofo  noi  ponia- 
mo quella  che  egli  non  si  vergogni  di  confessare  essere  immen- 
samente più  le  cose  che  gli  rimangono  ignote,  di  quelle  che 
.  egli  sa  ed  insegna ,  e  conosca  il  confine  che  non  lice  ad  uomo 
di  trapassare;  e  qui,  come  davanti  ad  un'ara  sacra  si  fermi  ed 
adori ,  e  sacrifichi  con  purità  a  Dio  onnisciente.  Laonde  sappia 
chi  ci  leggerà ,  che  noi  gli  porgiamo  questo  lavoro ,  che  per 
tanti  anni  ci  ha  affaticati ,  non  come  scienza  compiuta  o  pros- 
sima alla  perfezione ,  ma  come  un  imperfettissimo  e  poverissi- 
mo saggio,  e  domandiamo  da' savi,  che  abbiamo  esperimentato 
tanto  benevoli  ai  nostri  precedenti  scritti,  un'indulgenza  e  un 
compatimento  ancor  maggiore  per  questo. 


XV. 

Le  scienze  anteriori  si  possono   chiamare  scienze   comuni , 
la  Teosofia  scienza  arcana. 

33.  Le  difficoltà  intrinseche  alla  scienza  teosofica  :  quella  di 
trovar  una  maniera  d'esprimere  concetti  così  ardui  senza  equi- 
voci; l'indole  di  certe  questioni  che  anche  risolute  con  verità  ed 
espresse  con  proprietà  non  sono  accessibili  che  a  poche  intelligenze; 
il  pericolo  che  le  intelligenze  mediocri,  che  di  solito  sono  le  più  te- 
merarie ,  mettendosi  per  entro  ad  esse  smarrissero  la  via  girova- 
gando in  un  fatale  labirinto  di  sottigliezze  e  di  vanilogic;  la  defi- 


25 

ficienza  del  sentimento  morale  e  religioso ,  che  rende  questa  età 
nostra  così  aperta  all'errore,  e  con  essa  la  deficienza  dell'arte  lo- 
gica, che  la  fa  così  le«[gera  al  sofisma  ;  il  vedere  che  altre  dottrine 
di  minore  difficoltà  e  di  grande  importanza  rimangono  siccome  cibo 
a|)pena  abboccalo  e  non  digesto:  tutte  queste  considerazioni  ten- 
nero lungamente  sospeso  l'animo  mio,  se  mi  fosse  lecito  di  co- 
municare a  tutti  colle  stampe  queste  speculazioni  teosofiche ,  o 
non  convenisse  meglio  discuterle  con  amici  sceltissimi  ne' pri- 
vati colloqui.  Non  lieve  molestia  mi  dava  il  timore  che  quello 
che  io  con  molte  cure  avevo  radunato  ad  intento  di  giovare  ai 
miei  simili  ,  dovesse  in  quel  cambio  tornar  loro  disutile  o  an- 
che dannoso.  Mi  spiegavo  in  questa  esitazione  il  perchè  tutti  i 
savi  dell'  antichità ,  Sacerdoti  o  Filosofi ,  avessero  avuto  una 
scienza  esoterica  e  comune ,  e  un'altra  acroamatica  e  riserbata , 
cominciando  da  Sciakia  Munì  fino  a' Druidi  (1):  l'avesse  avuta 
lo  stesso  Cristianesimo  ne'  primi  secoli  :  e  perchè  tutti  avessero 
opinato  non  istar  bene  di  propalare  al  volgo  certe  altissime  ve- 
rità ,  da  Pitagora  a  Francesco  Bacone  che  ancora  parla  d' un 
velo  da  tenersi  calalo  davanti  agli  occhi  della  plebe.  Cicerone 
scrivea,  la  Filosofia  cansare  la  moltitudine,  contenta  di  pochi 
giudici  (2):  Seneca  si  contentava  d'un  solo  amico  (3):  e  Pla- 
tone vuol  rimossi  i  profani ,  e  profani  dice  coloro  che  non  isti- 
mano  esserci  altro  che  quello  che  toccano  colle  mani  (4).  E  di 
vero  la  Filosofìa  non  è  utile  se  non  è  partecipata  da  sani  in- 
telletti e  da  animi  ben  disposti  :  la  scienza  giova  se  nella  so- 
cietà a  cui  ella  si  comunica  trova  l'altra  parte  che  ella  non 
ha  e  non  può  dare ,  voglio  dire  la  pratica ,  l' efficacia  d' un 
morale  sentimento  :,  al  quale  copulandosi  si  feconda  e  diventa  un 
tutto  novo  mirabilmente  contemperato,  un  sapere  vivente  e  ope- 
rante della  vita  della  virtù.  Tutta  l'antica  sapienza  risona  que- 

(1)  Della  scienza  arcana  de'Druidi,  V.  Ces.  DeBel.  Grt/.V1,5,  e  P.  Mela  III, 2. 

(2)  Est  enim  philosophia  paucis  contenta  judicibus ,  miiltitudinem  con- 
sulto ipsa  fugiens,  eique  ipsi  et  suspecta  et  invisa.  Tuscul.  II,  i. 

(3)  HcBC  ego  non  multis  sed  tibi  ;  satis  enim  magmim  alter  alteri  iheatrum 
siimus.  Sen. 

(4)  'ASpii  5vj  ■7rspt(T;^0TtwVj  nò  Ttg  Twv  à//u*ÌTwv  é-rea/ouv)'  £Ìul  Sk  oÙTot,  oi  ohSìv  a.i.Xo 
oió/xsvoi  stvKi  ^  oZ  «V  5uvwvT«t  aTTjslI  rxiv  x^po'v  ).«j3iij&flcf  npó.^s.ii  Si  x«l  ysvéffstj  xat 
Trxv  TÒ  «ópaTov  ovx  òcTvoSzx^f^-^oi,  wj  sv  ovsCk^  iJ-épii,  Thoet.  p.  155,  E, 


26 

sto  gran  vero,  mentre  pure  in  tutti  i  tempi  animi  illanguiditi 
e  agghiacciati  l'hanno  negato;  che  il  vìzio  brigò  sempre  d'av- 
volgere la  propria  deformità  nel  mantello  della  filosofia,  insu- 
perbendone. E  in  una  lettera  attribuita  a  Liside  discepolo  di 
Pitagora  si  dice  così  :  «  A  quella  guisa ,  che  i  tintori  spre- 
«  mondo  ripurgano  quelle  vesti ,  che  devono  tingere ,  acciocché 
«  imbevano  una  tinta  incancellabile ,  e  che  non  perdano  mai 
«  più,  così  l'uomo  divino  {Pitagora)  preparava  quelli,  che  an- 
«  davano  presi  dell'amore  della  Filosofia,  onde  non  gli  fallisse 
«  d'averli  buoni  ed  onesti.  Ch'ei  non  trattava  un'erudizione 
((  adulterina,  o  que' lacci  ne' quali  il  volgo  de' sofisti  avvinoola 
((  i  giovanetti  senza  insegnar  loro  mai  nulla  di  buono  e  di  vero, 
«  ma  possedeva  la  scienza  delle  cose  divine  ed  umane.  Quelli 
«  poi,  abusando  a  pretesto  la  dottrina  di  lui,  fanno  maraviglie 
«  co' giovani  tortamente  e  temerariamente  allacciali.  Il  che  è 
(c  cagione  che  rendano  i  loro  uditori  difficili  ed  imprudenti.  Poi- 
«  che  tra  costumi  confusi  e  torbidi  inculcano  teoremi  e  ragio- 
«  namenti  liberi.  Come  se  taluno  infondesse  acqua  pura  e  lim- 
«  pida  in  un  pozzo  profondo  pieno  d'immondezza  e  (ìi  fango, 
«  altro  non  farebbe  se  non  sconvolgere  quel  sudiciume  e  gua- 
«  star  l'acqua;  allo  stesso  modo  accade  a  coloro,  che  a  quella 
«  guisa  ammaestrano  e  sono  ammaestrati.  Poiché  intorno  alla 
«  mente  e  al  core  di  coloro  che  non  s' iniziano  con  purità , 
«  ingombrano  per  natura  folti  cespugli  con  tenaci  radici ,  che 
«  impediscono  ogni  modestia  e  mansuetudine ,  e  inombrano  il 
«  ragionare ,  in  apparenza  e  solo  da  fuori  accresciuto  ;  e  in 
«  quel  prunaio  cacciansi  malizie  d'ogni  genere,  che  con  ri- 
«  goglio  fanno  impedimento ,  e  non  permettono  veder  la  ra- 
ce gione  »  (4). 

Ma  poi  meco  stesso  considerai,  che  se  alcuni  poteano  abu- 
sare delle  teosofiche  meditazioni ,  altri  se  ne  poteano  giovare , 
e  a  questi ,  ancorché  pochissimi ,  conveniva  aver  più  rispetto 
che  a  quelli  :  da  pochi  il  profitto  potersi  estendere  a  molti  ;  e 
non  potersi  celare  una  parte  di  naturai  verità  ad  un  mondo  a 
cui  già  fu  predicato  il  Vangelo  :  in  una  età  in  cui  non  si  può 
più  dire  quello  che  disse  Platone  :  «  È  difficile  trovare  l' Opifice  e 

(1)  Ep.  ad  Hipparch, 


27 

il  Padre  del  mondo;  e  trovatolo,  illecito  predicarlo  al  volgo  «  (1): 
dopo  la  luce  venuta  di  cielo  rivelatrice  degli  arcani  della  fede 
essere  passato  già  il  tempo  degli  arcani  della  scienza ,  e  i  mi- 
steri divini  aver  tolto  ogni  luogo  agli  umani.  Se  la  pienezza 
della  cristiana  sapienza  avvalorò  gl'ingegni  umani,  e  gli  in- 
camminò a  più  alte  speculazioni ,  sarebbe  sconvenevole  non  con- 
fidare che  la  stessa  luce  le  renda  agli  uomini  non  solo  innocue , 
ma  vantaggiose:  rimanere  ciò  non  ostante  molte  cose  arcane  da 
sé  medesime,  e  comparire  alle  umane  menti  soltanto  circondale 
da  un  tabernacolo  impenetrabile  ed  augusto  dì  nubi.  Finalmente 
alcune  intime  e  segrete  della  divinità,  sebbene  accessibili  per 
grazia  e  in  quella  misura  nella  quale ,  secondo  il  voler  di  Dio, 
sono  comunicate,  avere  tal  natura ,  che  né  chi  n'  é  in  possesso 
prova  alcuna  voglia  di  propalarle,  né  gli  altri,  dico  i  buoni, 
non  sentono  in  sé  stessi  curiosità  di  conoscerle  d' alcuna  sorta, 
anzi  ripugnando  al  cenno  che  loro  ne  venisse  fatto  ,  e  anche 
lamentandosene,  per  un  certo  riverenzial  timore  e  misterioso 
turbamento  da  cui  sono  assaliti ,  come  da  inusitata  e  molesta 
luce  si  sottraggono  e  ritirano  in  se  medesimi ,  amanti  e  soddis- 
fatti pienamente  di  quella  verità  proporzionata  al  loro  sguardo 
che  già  possedono.  Onde  sia  pe'  misteri,  da'quali  necessariamente 
è  circondata  quella  natura  che  abita  una  luce  inaccessibile ,  sia 
perchè  l' indole  e  l' essenza  della  verità  tiene  colla  sua  stessa 
maestà  a  convenevole  e  varia  distanza  da  sé  le  diverse  classi 
degli  uomini,  rimarrà  sempre,  checché  possa  investigare  colla 
mente  e  scrivere  il  filosofo,  una  porzione  di  verità  del  tutto 
inarrivabile ,  ed  un'  altra  naturalmente  segretissima  alla  molti- 
tudine :  e  questo  solamente  é  queir  arcano  che  conviene  ai 
tempi  cristiani  ('). 


(1)  Tim.  p.  28,  D. 

(*)  Ci  sia  permesso  di  riferire  qui  le  parole,  onde  S.  Agostino  esprimeva 
questo  stesso  sentimento  dell'illustre  Autore:  Vereor  ne  hoc  aliquando  a 
tardioribus  non  possit  intelligi:  veruntamen  dicam;  sequatur  qui  potest , 
ne,  non  dicto,  non  sequatur  et  qui  potest.  —  Enar.  in  Ps.  XLIV,  n.  5. 


TEOSOFIA 


PARTE  PRIMA 


ONTOLOGIA 


'EffTiv   Imszriy.-/)  Tt5j   ?i  &£Ci)pst  TÒ   Sv   ^  èv^  xal 
tà  TOUTw  ÙTcdtp^^ovra  xotS'aÙTÓ.  Autvj  Sé  iartv 

ARiST.  Metaph,  m  (IV),  1. 


IL 

PROBLEMA    DELL'  ONTOLOGIA 


LIBRO  UNICO 

che  serve  d^  Introduzione  all'Ontolog^ia 


11e.pì  toùtwv  «TtaKTWv  oh  jj-Óvov  y^a.y.inòv  tò  eùitop^aat 
T/)5    à),/i&£Ì5<5  ,    ccì/.   oùok   TÒ    tìtaTtop/juat   Tw   ióyw 

ARiST.  Mctaph.  II  (III),  I. 


PROEMIO 

34.  La  natura  dà  a  gustare  all'uomo  un  primo  sorso  di  ve- 
rità nell'essere  ideale  che  lo  informa;  e  in  quel  primo  assaggio 
egli  s'innamora  del  dolcissimo  sapore  di  cibo  divino.  Di  che 
scaturisce,  come  da  prima  sua  fonte,  l'amore  della  sapienza,  che 
si  vuol  per  sé  stessa ,  e  quell'  ardentissima  bramosia  di  cono- 
scere, che  fa  irrequieto  il  genere  umano  per  cibarsi  più  copio- 
samente del  vital  nutrimento  assaporato  a  principio.  Poiché  se 
quel  nativo'  sperimento  del  dolce  della  verità  gliene  mette  il 
gusto  vivace,  e,  dirò  cosi,  l'appetito,  non  glielo  sazia  però. 
Laonde  tosto  che  conoscendo  si  sviluppa  e  si  rende  conscio  di 
sé  medesimo ,  non  solo  quasi  seco  ricorda  ,  che  squisito  e  so- 
stanzioso alimento  di  sua  natura  sia  il  vero,  ma  ancora  s'ac- 
corge del  sommo  difetto  che  ne  patisce,  e  del  sommo  bisogno 
che  n'ha.  E  sente  in  pari  tempo  d'essere  una  potenza  di   co- 


32 

noscere  e  di  poter  conoscere  quanto  cade  in  quella  forma  di 
verità  che  attualmente  intuisce,  ma  che  nulla  ancora  comprende, 
e  a  tutto  si  estende. 

3S.  Ma  l'uomo  non  aspira  a  puramente  conoscere:  vuole 
amare  ciò  che  conosce.  Anzi  non  v'ha  compiuta  cognizione  che 
non  sia  affettuosa;  l'amore  perfeziona  il  conoscimento,  e  l'uo- 
mo che  conoscendo  ama,  trova  nell'ente  amato  il  bene,  ter- 
mine pieno  di  quell'atto  di  cui  egli  è  potenza.  Laonde  si  può 
convenientemente  definir  l'uomo  «  Una  potenza,  l'ultimo  atto 
«  della  quale  è  congiungersi  all'Essere  senza  limiti  per  conosci- 
«  mento  amativo  ».  Questa  tendenza,  quest'istinto  razionale  e 
morale,  detto  da  S.  Agostino  il  peso  dell'uomo  (1),  move  e 
guida  tutto  il  suo  sviluppamento.  Di  che  la  ragione  è  ,  perchè 
l'uomo,  ne' primi  suoi  tentativi  d'acquistare  un  conoscimento 
scientifico,  non  si  volge  ad  astratte  speculazioni,  né  se  n'ap- 
paga, ov'allri  gliele  presenti ,  giudicandole  vane  ricerche  e  quasi 
un  sapere  formato  a  tela  di  ragno.  Che  le  astrazioni  si  possono 
desiderare  per  la  luce  che  danno  a  conoscere  la  realità  ,  ma 
sole  non  sono  amabili  né  può  acquietarvisi  1'  umano  desiderio. 
L' uomo  è  realità ,  e  vuol  accrescere  la  realità  propria  ,  e  non 
può  accrescerla  colle  pure  astrazioni.  Non  é  dunque  maraviglia, 
se  tutte  le  prime  filosofie ,  se  le  prime  questioni  che  si  propo- 
sero gli  uomini  in  tutte  le  nazioni,  quando  cominciarono  a  fi- 
losofare, tendessero  sempre  a  discoprire  e  conoscere  la  natura 
degli  enti  reali;  i  quali  si  riducono  principalmente  e  finalmente 
a  due:  Dio,  e  l'uomo.  Per  questo  fu  sempre  definita  la  Filo- 
sofia ((  la  scienza  delle  cose  divine  ed  umane  »  ,  ^èBÌav  rf  xtà 
av^pconivcov  7rpxy[/.xrG3v  s7TiaTÓ(.fjLcov  (^).  Né  la  scienza  delle  sole 
umane  bastava  a  sé  stessa  ,  che  essendo  l' uomo  accidentale  e 
quasi  effimero,  non  si  può  intendere  senza  ricorrere  a  un  altro 
ente,  che  contenga  la  sua  ragione.  Onde,  secondo  Aristotele, 
la  sapienza  è  «  la  cognizione  delle  prime  ed  altissime  cause  »  (5). 

(1)  Pondiis  meum,  amor  niem,  eo  feror  quocumque  feror.  Conf.  XIII,  9. 
—  Animus  quippe,  velut  pondere ,  amore  fertur  quocumque  fertur.  Ep. 
CLVII ,  9. 

(2)  Lysid.  Ep.  ad  Hipp.  —  Cf.  Cic.  QQ.  Tuscul 

(3)  Metaph.  1,  2,  3. 


33 

Pure  venne  un  tempo ^  nel  quale  i  Filosofi,  abbandonando 
per  un  poco  le  realità ,  si  sollevarono  ,  quasi  volessero  abbrac- 
ciare le  nubi,  alle  pure  idee^  e  per  gli  ambigui  e  tortuosi  calli 
delle  astrazioni  si  aggirarono;  e  non  fu  senza  ragione  e  senza 
necessità.  Poiché  propostisi  sulle  prime  d'investigare:  «  che 
((  cosa  sia  l' uomo  ,  che  l' anima ,  che  questa  scena  dell'  uni- 
«  verso  su  cui  l' uomo  apparisce  e  scompare ,  ond'  abbia  avuto 
«  origine  tutto  ciò,  ove  sia  la  causa,  quale  abbia  natura,  come 
«  tante  cause  seconde  s'incatenino  così  ordinate  tra  loro  alla  pri- 
«  ma ,  e  quale  di  tutto  questo  spettacolo  sia  il  fine  ultimo ,  e 
u  quale  il  fine  dell'ente  umano  dotato  d'intelletto  e  d'amore, 
tt  se  questo  fine  lo  tolga  e  frustri  la  morte ,  o  ad  esso  conduca ,  » 
tutte  questioni  che  prossimamente  riguardano  le  realità  ;  pro- 
postisi, dico,  d'investigar  lutto  questo,  senz' ancor  conoscerne 
la  difficoltà,  quando  confidavano  di  doverne  trovare  col  pen- 
siero il  chiaro,  si  trovarono  al  buio  e  s'accorsero  che  per  giun- 
gere allo  scioglimento  di  .queste  questioni  importantissime ,  do- 
veano  dare  una  giravolta,  e  prendere  una  via  troppo  più  lunga, 
che  non  aveano  credulo  a  principio.  Allora  inventarono  la  Dia  * 
lettica  e  l'Ontologia,  quasi  macchine  potenti  a  espugnare  la  ve- 
rità d'ogni  parte  munita  e  come  chiusa  in  una  rocca;  e  ricor- 
sero a  molle  astrazioni ,  quai  potenti  ausiliari  e  di  diversi  ordini, 
che  annodarono  e  formolarono  in  principi  e  teoremi ,  e  ne  tras- 
sero una  nova  specie  di  cognizione  formale  e  vota  per  sé  stessa, 
di  cui  il  comune  degli  uomini  non  vede  l'utilità  e  la  necessità, 
e  però  la  dispregia.  Ma  a  torto  ;  che  i  più  astratti  principi  sono 
l'unica  via,  benché  lunga,  che  conduca  la  ragione  umana  al 
più  intimo  conoscimento  possibile  delle  nature  reali ,  e  princi- 
palmente di  quelle  a  cui  tutte  si  riducono  per  importanza,  Iddio 
e  l'uomo.  Il  che  mi  convenne  dire,  non  solo  per  giustificare 
i  filosofi  dalle  volgari  accuse ,  quasi  senza  ragione  divagassero 
a  bel  diletto  nel  campo  degli  astratti  e  ambiziosamente  vi  an- 
dasser  giostrando  ,  ma  per  giustificare  altresì  me  medesimo,  che 
prima  d'arrestarmi  all'esposizione  della  Metafisica,  che  é  la  scienza 
de' sommi  reali  ,  ho  dimorato  gran  tempo  nelle  ricerche  ideolo- 
giche e  logiche,  e  tuttavia  al  discorso  di  Dio  e  del  Mondo  mi 
trovo  obbligato  di  premettere  un'altra  scienza  piena  d'astra- 
zioni e  di  concetti  formali,  qual'è  l'Ontologia. 

Rosmini.  Teosofia.  ;} 


3«i 

CAPITOLO  I. 

Relazioni  dell'  Ontologia  colla  Teologia  razionale , 
colla  Cosmologia  e  coW  Ideologia. 


Articolo  I. 

L'  Ontologia  si  dee  distinguere  dalla  Teologia  razionale 
e  a  questa  premettere. 

36.  La  ragione  per  la  quale  l'Omologia  si  deve  distinguere 
dalla  Teologia ,  benché  l'una  e  l'altra  traili  dell'essere,  e  si  deve 
premettere  a  questa  come  pure  alla  Cosmologia ,  risulterà  dal- 
l'Ontologia  stessa;  e,  a  dir  vero,  non  si  può  a  pieno  inten- 
dere prima  e  in  separato  al  tutto  da  questa  scienza.  Poiché  è 
appunto  l'Ontologia  quella  che  insegna  e  dimostra,  che  cosi 
esige  la  natura  della  mente  umana  e  la  limitazione  del  suo  pen- 
siero: dimostra  che,  essendo  l'Essere  assoluto  al  di  là  della 
natura  finita,  l'uomo,  che  appartiene  a  questa  natura  finita, 
e  che  non  ha  altro  mezzo  che  la  percezione  sua  propria  per 
mettersi  in  comunicazione  co'  reali  e  direttamente  conoscerli  (la 
quale  non  uscendo  dalla  natura  non  può  apprendere  l' essere 
divino),  l'uomo,  dico,  limitato  a  così  scarso  mezzo  d'apprendere 
il  reale,  non  può,  per  una  via  diretta  e  positiva,  arrivare  alla 
cognizione  di  Dio ,  nel  quale  solo  si  mantiene  tutto  1'  essere  e 
nella  cognizione  del  quale  e'  è  l' intera  cognizione  dell'  essere. 
Di  che  procede,  che  volendo  l'uomo  speculare  intorno  all'es- 
sere infinito  ,  qual'  è  nella  sua  verità  ,  non  può  direttamente 
fiirlo,  ma  è  obbligato  d'inferirlo,  ascendendo  per  una  scala  di 
logici  e  vóti  concetti.  E  il  somigliante  deve  fare  ogni  qualvolta 
non  gli  è  dato  d'arrivare  alla  cognizione  d'un  altro  reale  qua- 
lunque colla  percezione  ;  convien  che  s' aiuti  allora  colle  dedu- 
zioni ,  0  colle  induzioni ,  o  colle  analogie ,  e  così  ne  venga  rac- 
cogliendo queir  imperfetta  notizia  ,  che  gliene  possono  fornire 
mezzi  così  indiretti.  A  procacciarsi  dunque  una  dottrina  scien- 
tifica ,  qualunque  sia  ,  inforno  nll'  Essere  infinito  sussistente.  Tuo- 


3S 

mo  si  vede  di  necessità  obbligalo ,  di  venir  osservando  a  parte 
a  parte  e  raccozzando  i  caratteri ,  le  proprietà  ,  e   le   relazioni 
interne  e  necessarie  dell'essere,  cavandole  dagli  enti  reali  finiti, 
cbe  percepisce ,  per  via  di  astrazione  e  di  altre  operazioni  appar- 
tenenti ad  un  pensare  formale  e  negativo,  e  di  poi  d'applicare 
cosi    molli{)lici   principi   ed   astratte   nozioni   al   concetto,    pure 
ideale  ,   dell'  essere    infinito   sussistente ,    uno   e   semplicissimo. 
Certo  se  quest'ente  infinito  cadesse  nell'umana  percezione,  sa- 
rebbe immediatamente  conosciuto  per  sé  stesso ,  e  però  non  sa-  • 
rebbe  più  necessario,  a   conoscerlo,  darsi   attorno   per  procac- 
ciarsi prima  cotante  nozioni  e  principi  astratti,    e   la    «  Teoria 
dell'Essere  in   universale  »,    che   è  l'Ontologia,    potrebbe   la- 
sciarsi da  banda ,  occupandosi  unicamente  e  direttamente   della 
Teologia,  cioè  dell'Essere  nella  sua  assolutezza  e  pienezza,  che 
darebbe  ella   sola   una   cognizione   assai   compiuta   dell'Essere. 
Ma  poiché  la  sussistenza  infinita  ,  come  dicevamo ,  è  impercet- 
tibile alla  natura  finita ,  qual   è  l' umana ,   accade  ,    che    come 
coloro   che   sopprimendo   l'Ontologia,  pretendono   che   stia   per 
sé  sola  la  Teologia,  cadono  in  un  falso  mislicismo,  essendo  ob- 
bligati di  surrogare  alle  cognizioni  percettive  che  loro  mancano, 
i  sogni  d' un'  immaginazione   fanatica  ;  così   gli   altri ,  che  sop- 
primendo la  Teologia,  come  scienza  separata,  pretendono  ridurla 
all'Ontologia,  cadono  nel  razionalismo  (1):  e  per   due   opposte 
vie  gli  uni  e  gli  altri  si   ritrovano   riuscire  allo   stesso   punto, 
nel    Panteismo.  Benché   dunque   queste   due   scienze,  come   né 
pure  la  Cosmologia ,  non  si  possano  trattare  compiutamente  senza 
che  le  dottrine  dell'una  vengano  in  soccorso  dell'altre  due  re- 
ciprocamente e  prestino  alla  mente  inferenze,  che  alle  dottrine 
dell'altre  due  appartengono,  onde  non  sono  scienze  indipendenti, 
nondimeno  l'intento  dell'una  non  è  quello  dell'altra,  e  quelle  dot- 
trine,  che  si  trovano  ricomparire  in  ciascuna  di  esse,  sebbene 
comuni,  diventano  proprie  di  ciascuna  delle  tre  scienze,  perché 

(1)  Vittore  Cousin  divide  la  filosofìa  in  1°  Dottrina  del  Metodo,  2°  Psico- 
logia e  H»  Oatologia.  (Fragments  —  Introduci,  à  l'histoire  de  la  Pliilosophie 
—  Hisioìre  de  la  Pliilosophie  du  XVIII'^^  siede).  Una  cosi  fatta  distribu- 
zione delle  scienze  filosofiche,  dove  la  Teologia  è  ridotta  all'Ontologia,  svela 
il  nizionalismo  di  questo  filosofo:  il  suo  Dio  in  tal  modo  di  concepire,  non 
può  essere,  che  un'astrazione,  o  un  complesso  d'astrazioni. 


30 

a  ciascuna  appartengono  ad  un  titolo  diverso,  e  per  un  intento 
diverso. 

Articolo  II. 

L'Ontologia  è  necessaria  alla  cognizione  perfetta  delVente  finito, 
onde  si  dee  premettere  alla  Cosmologia. 

37.  Ma  l'Ontologia  non  è  solamente  come  una  grande  prefazione 
alla  Teologia  razionale,  è  altresì  necessaria  per  conoscere  l' intima 
natura,  quant'è  conoscibile  all'uomo,  dell'ente  finito,  benché  que- 
sto sia  in  parte  percettibile.  E  questa  necessità  nasce  da  ragioni 
assai  diverse  da  quella,  per  la  quale  la  mostrammo  necessaria  al- 
l'umano pensiero  per  giungere  a  qualche  scientifica  notizia  del- 
l'Ente infinito.  Primieramente  l'ente  finito  i-  percettibile  solo  in 
parte ,  non  avendo  l'uomo  altra  percezione  che  dell'anima  e  della 
materia,  e  la  percezione  della  materia  non  è  pura,  ma  involta  ella 
stessa  nelle  condizioni  della  materia,  che  i  corpi  esteriori  non  si 
percepiscono  dalla  pura  mente,  ma  col  mezzo  del  senso  e  di  stru- 
menti viventi  e  organizzati  in  modo  determinato  e  loro  proprio , 
quali  sono  i  sensori  del  corpo  umano;  e  finalmente  il  reale  finito 
non  è  conoscibile  per  sé  stesso ,  come  lo  è  il  reale  infinito. 
Laonde  per  tre  ragioni  la  Teoria  universale  dell'  Essere  rendesi 
necessaria  a  conoscere  l'ente  finito  sussistente  : 

i.»  Perché  volendosi  conoscere  l'ente  finito  e  sussistente  nelle 
sue  condizioni  essenziali,  e  non  ne'  puri  suoi  fenomeni,  e  perciò 
nelle  condizioni  comuni  a  tutti  gli  enti  finiti ,  e  di  più  volendosi 
conoscere  la  sua  fecondità,  ossia  la  moltiplicità  de'modi  e  de'  li- 
miti entro  a'  quali  può  trovarsi  :  la  percezione  e  l'esperienza,  limi- 
tata a  pochissimi  enti  finiti  singolari,  ci  abbandona  ben  presto  in 
questo  cammino,  e  non  ci  resta  che  ricorrere  a  principi  universali 
e  formali,  da  cui  si  argomenti  quel  che  m.inca  alla  stessa  espe- 
rienza ; 

2,"  Perché  volendosi  conoscere  qual  è  l'ente  finito  in  sé  stesso, 
e  non  quale  ci  vien  dato,  rispetto  a' corpi  esteriori,  dalle  perce- 
zioni che  abbiamo  per  mezzo  degli  organi  sensori,  che  avendo  una 
determinata  tessitura  o  forma  ne  compongono  il  fenomeno  secondo 
la  propria  forma  :  siamo  obbligati  a  ricorrere  al  raziocinio  per 


37 

isveslirlo  di  quella  veste  fenomenale  che  gli  è  posta  attorno  dagli 
stessi  sensori,  strumenti  della  percezione  sensitiva:  e  questo  pure 
ha  bisogno  di  principi  e  nozioni  universali  ; 

3."  Perchè  non  essendo  l'ente  finito  intelligibile  per  sé  stesso, 
non  ha  la  stessa  condizione,  per  riguardo  alla  mente  che  lo  pensa, 
dell'ente  infinito^  il  quale  se  si  percepisse,  si  percepirebbe  con  lui 
slesso  senza  bisogno  d'altro  lume,  quando  la  percezione  intellet- 
tiva dell'ente  finito  e  sensibile  non  si  fa  che  coll'aiuto  d'un  lume 
che  non  è  lui,  cioè  coli' idea,  il  qual  lume  a  lui  congiungendosi  lo 
rende  intelligibile  per  partecipazione.  Essendo  dunque  la  perce- 
zione del  reale  finito  mescolata  con  qualcos'altro,  è  uopo  ricorrere 
a  principi  e  nozioni  e  raziocini  per  separare  da  esso  quello  che 
non  è  suo,  e  così  arrivare  finalmente  a  conoscerlo  in  un  modo  in- 
diretto qual  è  distinto,  se  non  separato,  da  tutto  il  resto. 

L'Ontologia  dunque,  cioè  la  teoria  astratta  dell'ente,  è  ugual- 
mente necessaria  alla  Teologia  che  tratta  del  sussistente  infinito,  e 
alla  Cosmologia  che  tratta  del  sussistente  finito  :  da  quella  e  da 
questa  si  distingue  ,  e  all'una  e  all'altra  precede.  Quest'  è  quello 
che  deve  risultare  con  tutta  evidenza  nella  stessa  Ontologia,  che  si 
difende  e  stabilisce  da  sé,  poiché  questo  è  proprio  della  scienza 
teosofica,  insistere  in  sé  stessa  e  giustificarsi  da  sé  medesima. 


,^        Articolo  III. 

Differenza  caratteristica  tra  l'Ideologia  e  r Ontologia, 
riguardata  la  materia  di  queste  due  scienze. 

38.  Ciò  non  di  meno  essendo  necessario  a  chi  prende  ad  esporre 
l'Ontologia ,  0  a  studiarla  esposta ,  d'avere  ben  chiaro  prima  nella 
mente  il  concetto  della  scienza  e  le  determinazioni  e  i  limiti ,  entro 
i  quali  ella  si  contiene,  crediamo  dover  accennare  in  che  consista 
la  differenza  specifica  tra  l'Ontologia  e  l'Ideologia,  per  riguardo 
alla  materia  intorno  a  cui  lavorano.  Poiché  anche  l'Ideologia  tutta 
all'essere,  come  a  suo  principe  e  lume  universale,  si  riferisce. 

È  dunque  da  considerare,  che  l' Ideologia  tratta  dell'origine  e 
della  natura  delle  idee ,  e  però  dell'essere  come  pura  ed  assoluta 
idea,  nella  quale  tutte  le  altre  si  contengono.  Ma  ogni  idea  ci  pre- 


38 

senta  una  duplicità,  poiché  in  ogni  idea  si  può  considerare  il  con- 
tenente e  il  contenuto  :  il  contenente  è  quello  che  fa  conoscere ,  e 
che  ritiene  propriamente  il  nome  d'idea  o  di  concetto;  il  contenuto 
nell'idea  è  la  cosa  conosciuta,  e  acquista  il  nome  àU'ssenzn,  omle 
abbiamo  definito  l'essenza  «  ciò  che  si  contiene  in  una  idea  » 
{Ideol.  G4C).  Questa  è  dunque  la  differenza,  che  per  riguardo  alla 
materia  loro  divide  l'Ideologia  dall'Ontologia,  che  quella  versa 
intorno  alle  idee,  questa  intorno  alle  essenze  contenute  nelle  idee: 
quella  riconduce  tutte  le  idee  all'essere  come  o  loro  comune  ri- 
trovo e  formale  principio,  questa  riconduce  pure  tulle  le  essenze 
all'essere  come  all'essenza  prima  in  cui  tutte  sono  e  da  cui  contì- 
nuamente derivano:  quella  descrive  l'origine  e  la  natura  delle  co- 
gnizioni come  cognizioni,  e  questa  l'origine  e  la  natura  delle  cose 
conosciute. 

Ora  è  ben  manifesto,  che  la  duplicità  dell'  idea  ritorna  alle  due 
forme  dell'essere  stesso ,  l'oggettiva  e  ideale ,  e  la  subiettiva  e 
reale;  giacché  anche  nell'idea  vola  ed  universale  quell'essenza 
indeterminala,  che  si  conosce,  non  si  dice  per  verità  reale  sempli- 
cemente, perchè  il  reale  non  è  nel  suo  allo,  ma  dicesi  reale  ^urtanlej 
perchè  in  quell'essenza  c'è  virtualmente  il  reale;  e  il  reale  virtuale 
appartiene  al  reale,  non  in  se  stesso,  ma  in  quanto  è  puramente 
contenuto  nell'idea. 

Pure  dicendo,  che  l'Ontologia  tratta  delle  essenze  che  nelle  idee 
si  conoscono,  non  si  vuol  dire  ch'ella  tratti  •drllrssore  nella  sola 
forma  reale.  È  l'Ontologia  stessa  quella  che  dimostrerà ,  che  l'es- 
sere, in  quant'è  reale,  è  così  fattamente  il  principio  dell'altre  due 
sue  forme,  che  queste  stesse  sono  per  l'alto  della  realità,  onde  a 
tutt'e  tre  le  forme  necessariamente  la  teoria  dell'essere  reale  si  di- 
stende. Per  questo  le  essenze,  che  sono  il  contenuto  delle  idee,  al- 
l'essere e  a  tulle  le  forme  si  estendono,  di  maniera  che  abbrac- 
ciano la  stessa  idea  contenente,  la  quale  come  contenuta  diviene 
anch'essa  un'essenza.  Né  si  potrebbe  intendere  a  pieno  la  teoria 
dell'essere  reale,  senza  considerare  altresì  com'egli  si  virlualizzi 
davanti  alla  mente  e,  da  virtuale,  che  prima  apparisce,  poscia  si 
attualizzi.  Ma  tutto  questo,  come  dicevamo,  non  può  essere  a  pieno 
dichiarato,  se  non  nel  corso  stesso  dell'esposizione  della  scienza 
ontologica.  B.isterà  dunque  ritenere  per  intanto,  che  la  differenza 
caralterislica  tra  l' Ideologia  e  l'Ontologia  è  questa ,  che  l'una 


59 

tratta  delle  idee  ,  l'altra  poi  delle  essenze  contenute  nelle  idee  ,  e 
per  le  idee  conosciute. 


Articolo  IV. 

Differenza  caratteristica  tra  l'Ontologia  e  la  Teologia  razionale, 
riguardata  la  materia  di  queste  due  scienze. 

39.  L'Ontologia  poi  e  la  Teologia  hanno  per  loro  comune  ma- 
teria l'essere,  di  maniera  che  si  possono  l'una  e  l'altra  definire  : 
«  Teoria  dell'essere  ».  Qual  è  dunque  la  loro  diCFerenza  caratteri- 
stica? 0  non  ce  n'è  forse  per  riguardo  alla  loro  materia? 

La  differenza  caratteristica  sta  in  questo,  che  l'Ontologia  è  la 
«  Teoria  dell'essere  comune  »,  quando  la  Teologia  è  la  «  Teoria 
dell'essere  proprio  »  che  è  Dio  stesso. 

La  ((  teoria  dell'essere  comune  »  è  quella  che  precede  nel- 
l'ordine della  ment-e  umana,  la  quale  non  può  pensare  il  singo- 
lare se  non  per  mezzo  dell'universale  (4).  L'Ontologo  riceve  dalla 
ideologia  l'essere  indeterminato  come  luce  della  mente,  e  trova 
nella  sua  essenza  una  specie  di  lacuna,  cioè  la  virtualità.  Questo 
è  come  un  punto  oscuro,  ch'egli  vuole  rischiarare,  perchè  ben 
vede,  che  la  teoria  dell'essere  non  è  compiuta  ,  se  rimane  nel 
concello  dell'  essere  tanto  vóto  ,  che  può  rassomigliarsi  a  una 
macchia  lunare  o  solare  cagionata  da  valle  immensa ,  dove  non 
è  luce  ma  ombra.  E  da  principio  lo  speculatore  non  sa  né  pur 
egli,  se  a  lui  sia  possibile  di  diradare  affatto  quest'ombra:  di  ma- 
niera che  non  islà  in  sua  mano  altro  mezzo  per  farlo,  o  per  ten- 
tarlo, se  non  quello  di  rivolgersi  agli  enti  finiti  e  in  questi  cer- 
care quel  pieno  di  realità  ,  di  cui  difetta  l' essere  datogli  a  in- 
tuire dalla  natura  Si  mette  dunque  in  via,  e  coU'opera  del- 
l'astrazione   trae  dagli   enti  finiti   i   concelti   e  le  essenze   più 

(1)  Questa  priorità  dell'essere  comune ,  e  posterità  dell'essere  proprio  e 
singolare  fu  riconosciuta  generalmente  anche  da'  filosofi  Scolastici.  S.  Tom- 
maso scrive  :  Communia  absolute  dieta,  secundum  ordinem  intellectns  nostri, 
sunt  priora  quam  propria,  quia  includuntur  in  intellectu  propriorum,  sed 
non  e  converso.  —  S.  I,  XXXIII,  III  ad  1. 


40 

universali  eh'  egli  possa  trovare.  Esamina  queste  essenze  e  i 
loro  nessi,  e^  facendoli  rientrare  gli  uni  negli  altri,  lenta  di  per- 
venire all'unità,  cioè  ad  una  prima  essenza,  in  cui  tulli  si  de- 
vano ritrovare  ed  unificare,  e  discopre,  che  questo  è  l'essere 
stesso  che  viene  cosi  arricchito  ,  e  il  cui  vóto  viene  empito. 
Tulio  questo  lungo  ragionamento  conduce  l'Ontologo  a  vedere, 
come  l'Essere  possa  manifestarsi  in  due  modi,  o  sparso  e  legalo 
in  qualche  modo  al  finito,  o  unito  e  unificalo  nell'infinito;  ma 
questa  possibilità  di  apparire  ora  legato  col  finito  e  distribuito 
nella  moltiplicilà  di  questo ,  ora  indiviso  nell'infinito  e  seco  slesso 
uno,  il  getta  in  una  perplessità  per  l'apparente  contraddizione. 
Si  dibalte  dunque  seco  stesso  per  conciliare  questa  colai  lotta, 
che  l'essere  gli  dimostra  in  sé  slesso,  e  non  arriva  a  conciliarla 
se  non  uscendo  dall'ordine  del  possibile,  e  riconoscendo,  che  se 
le  essenze  finite  possono  essere  mere  possibilità  di  reale,  l'es- 
senza prima,  in  cui  tutte  le  altre  s'unificano,  deve  essere  sus- 
sistente, e  così  perviene  a  discopire  Iddio  fonte  e  ricettacolo  di 
tutte  le  essenze. 

Egli  è  obbligato  certamente  per  non  lasciare  il  suo  discorso 
imperfetto  di  meditare  sulle  relazioni  tra  le  essenze  possibili  e 
l'essenza  sussistente  ,  e  dimostrare  la  processione  di  quelle  da 
questa;  ma  con  un  tale  argomento  già  è  incominciata  la  Teo- 
logia, che  come  abbiam  detto  non  può  dividersi  con  un  taglio  del 
tutto  reciso  e  netto  da  una  compiuta  Ontologia.  Sebbene  dunque 
r  Omologo  abbia  per  iscopo  suo  proprio  di  dare  la  teoria  del- 
l'essere universale  ,  in  quant'  è  comune  all'  ente  tanto  finito 
quanto  infinito,  e  però  consideri  l'ente  nella  sua  possibilità,  ciò 
non  ostante  egli  s'avvede  in  ultimo,  che  la  teoria  dell'essere 
comune  dipende  da  un'altra  teoria,  cioè  da  quella  dell'Essere 
sussistente  ed  assoluto.  Parla  dunque  anche  di  questo,  usurpando 
e  a  sé  traendo  una  parte  della  Teologia  ,  ma  lo  fa  in  servigio 
deWessere  comune,  che  non  può  essere  altramente  spiegato  né 
illustrato  pienamente. 

Lo  scopo  all'  incontro  e  1'  unico  oggetto  della  Teologia  é  di 
dare,  per  quanto  è  possibile  alla  mente  umana  ,  la  teoria  del- 
l'essere proprio  ed  assoluto  cioè  di  Dio;  e  a  tal  fine  le  bisogna 
necessariamente  far  uso  di  quegli  stessi  concelti  ed  essenze,  che 
nell'Ontologia  furono  illustrati ,  giovandosi  della  teoria  dell'  essere 


kì 

universale  e  comune  per  intendere  la  natura  dell'Essere  pieno, 
proprio  e  compiuto,  sussistente  nelle  sue  tre  forme. 

Trovato  dunque  che  l'Essere  deve  sussistere  infinito  ed  asso- 
luto ,  benché  così  non  si  percepisca  dall'  uomo  ,  si  cerca  dal 
Teologo  come  tutti  que'  concetti  ed  essenze  universalissime,  che 
rOntologo  ha  discoperte  ed  illustrate,  si  riscontrino  in  Dio.  Ed 
allora  quelle  essenze  contemplate  dal  Teologo  in  Dio ,  dove 
hanno  il  loro  fondamento  e  la  loro  vita ,  gli  si  mutano  in 
mano,  quasi  direi,  divenendo  tutte  una  sola  con  una  mirabile 
reciproca  identificazione,  e  quest'unica  essenza  cessa  d'esser 
comune,  universale,  astratta,  ma  rimane  propria,  singolare, 
sussistente.  Da  quest'una  nondimeno  ,  per  una  maniera  teoso- 
fica d'astrazione ,  la  mente  può  avere  di  ritorno  quelle  es- 
senze separate  com'erano  prima,  rappresentanti,  così  divise, 
le  possibilità  de' finiti,  le  quali  nella  suprema  essenza  non  son 
divise  se  non  virtualmente  e  in  un  modo  relativo  alla  mente  e 
ai  finiti,  dove  si  considerano  Di  quest'Essere  dunque  sussistente 
tratta  il  Teologo  come  suo  proprio  ed  unico  scopo:  a  questo 
essere  ricorre  1'  Ontologo  per  illustrare  l'essere  nella  sua  uni- 
versalità, come  comune  a  tulli  gli  enti  che  esister  possono.  Ma 
ripetiamo,  che  la  chiara  e  piena  notizia  di  queste  differenze  tra 
l'Ontologia  e  le  scienze  affini  non  si  può  raccogliere  che  dalla 
esposizione  della  stessa  scienza  ontologica,  come  quella,  nello 
scopo  della  quale  entra  anco  lo  stabilire  la  differenza  tra  l' es- 
sere oggetto  suo,  e  l'essere  oggetto  sia  dell'Ideologia,  sia  della 
Teologia. 

40.  Vasto  0  piuttosto  immenso  è  il  campo ,  in  cui  s'esercita 
rOntologo.  Ma  egli  ha  uno  scopo  unico,  come  dicevamo,  ed  è 
quello  di  dare  una  teoria  dell'  essere  nella  sua  universalità , 
senza  fare  ancora  distinzione  ,  se  sia  finito  o  infinito ,  di  dare 
cioè  quelle  proprietà  e  leggi  dell'  essere ,  che  si  avverano  in 
ogni  ente  tanto  finito  quanto  infinito.  Questo  è  il  problema,  ma 
enunciato  in  un  modo  ancora  astratto.  Non  si  può  accingersi 
prudentemente  a  risolverlo,  se  non  dopo  averlo  considerato  nelle 
diverse  forme  ch'egli  va  prendendo  nella  mente  umana.  Poiché 
questa,  considerandolo  da  diversi  lati,  s'avvisa  facilmente  di  aver 
incontrati  più  problemi  distinti,  quando  essi  non  sono  che  pro- 
blemi parziali,  i  quali  si  rifondono  in  un  solo  problema  più  ampio. 


42 

Convien  dunque,  prima  d'entrare  in  un  lavoro  così  complicalo, 
che  noi  ripassiamo  queste  diverse  forme,  e  confrontandole  e  ridu- 
cendole ad  una  sola,  stabiliamo  così  colla  maggior  chiarezza  pos- 
sibile lo  stato  della  questione,  e  in  pari  tempo  ne  esploriamo  l'in- 
tima natura  e  la  difficoltà. 

CAPITOLO  II. 

A  qual  grado  di  sviluppo  si  presenti  alla  mente  umana  il  problema  : 
«  Conciliare  i  modi  apparenti  dell'ente  col  concetto  dell'essere  »; 
prima  forma  del  problema  ontologico. 

kì.  Sapendo  noi  già,  benché  in  un  modo  imperfetto  ed  im- 
plicito, che  cosa  sia  l'Ontologia  per  la  definizione:  «  la  teoria 
dell'ente  nella  sua  possibilità  w  ;  possiamo  e  ci  giova  primiera- 
mente cercare  «  in  che  modo  lo  spirito  umano  nel  suo  progresso 
intellettu;ile,  e  a  quale  stadio  di  questo  progresso,  s'abbatta  nel 
problema  dell'Ontologia  ».  Con  questa  ricerca  il  detto  problema 
ci  si  offrirà  da  sé  stesso  nella  sua  forma  primitiva. 

Oltre  di  ciò  il  conoscere  per  qual  bisogno  intellettuale  l'uomo 
lo  propose  a  sé  stesso  farà  conoscere  l'importanza  d'un  tale  pro- 
blema, apparendo  necessario  ad  appagare  quelle  esigenze,  che 
successivamente  si  svolgono  nell'intendimento  {Sistem.  2-8);  e 
di  più  porgerà  la  ragione  per  la  quale  nelle  diverse  età  del 
genere  umano  s'andò  cangiando  lo  stato  della  questione,  e  ri 
comparve  vestito  di  diverse  forme  ed  espressioni,  per  le  quali, 
essendo  sostanzialmente  il  medesimo,  pareva  sempre  un  altro. 

42.  Convien  dunque,  che  noi  percorriamo,  giovandoci  delle 
notizie  che  ci  somministrano  l'Ideologia  e  la  Psicologia,  le  di- 
verse condizioni  dell'ingegno  umano  nel  suo  progressivo  sviluppo, 

I.    Prima   d' ogni  sviluppo  è  l'uomo   avente   in    sé   tutti    i 
germi  del  suo  futuro  sviluppamento,  i  quali  sono: 

A.  La  notizia  dell'essere,  onde  sa  abitualmente,  che  cosa 
sia  essere  {Ideal.  598-472); 

B  11  termine  sentito  dello  spazio  immisurato  {Antropol. 
161-174;  Psicol.  554-559),  primo  elemento  del  sentimento  fon- 
damentale; 


43 

C.  II  termine  sentito  della  materia  del  proprio  corpo  sita 
nello  spazio ,  secondo  elemento  del  sentimento  fondamentale 
(Psicol.  534,  53o). 

D.  Il  termine  sentito  dell'  eccitamento  medinnte  i  moti 
intestini  nella  detta  materia,  terzo  elemento  del  sentimento  fon- 
damentale (  Psicol.  536-540)  ; 

E.  Il  termine  sentito  dell'armonia  organica  del  detto  ec- 
citamento ,  quarto  elemento  del  sentimento  fondamentale  (  Psi- 
col. 541-555); 

F.  Il  sentimento  proprio  indiviso  dai  cinque  accennati 
termini,  il  primo  ideale,  gli  altri  quattro  reali  {Psicol.  656- 
646),  i  quali  da  esso  ricevono  l'unità  soggettiva; 

G  La  percezione  intellettiva  fondamentale  del  sentimento 
animale,  die  è  il  nesso  dell'anima  intellettiva  col  corpo  ani- 
malo, pel  quale  è  costituito  V  Uomo  come  «  ente  razionale  » 
{Psicol.  264,  265). 

II.  Primo  grado  di  sviluppo  —  la  percezione  acquisita   de- 
gli enti  da  sé  diversi. 

La  nntura  della  percezione  è  quella  di  una  operazione  dello 
spirito.,  che  si  limita  ad  un  ente  esterno  più  o  meno  complesso. 
Quindi  le  percezioni  distinguono  i  loro  oggetti  per  forma ,  che 
non  può  confondersi  l'oggetto  d'una  percezione  coli' oggetto  di 
un'altra  percezione. 

III.  Secondo  grado  di  sviluppo  —  il  primo  ordine  di  rifles- 
sione. 

Questo  si  rivolge  sopra  gli  oggetti  delle  percezioni  ,  e  para- 
gonandoli tende  a  stabilirne  le  diflerenze  :  la  natura  di  questa 
prima  riflessione  è  dunque  analitica. 

Questa  riflessione  differenziatrice  conduce  l'uomo  anche  alla 
percezione  di  sé  stesso  ;  ma  con  ciò  noi  trasporta  ad  un  grado 
di  sviluppo  superiore  a  quello  delle  percezioni  e  del  primo  or- 
dine delle  riflessioni, 

A  questo  grado  pure  possiamo  riferire  la  separazione  delle 
idee  dalle  percezioni. 

IV.  Terzo  grado  di  sviluppo  —  il  secondo  ordine  di  rifles- 
sione. 


44 

Distinti  gli  oggetti  percepiti  e  intuiti,  l'uomo  sente  il  biso- 
gno di  spiegarsene  l'esistenza,  non  trovando  in  essi  la  loro  ra- 
gione sufficiente ,  e  indi  usando  dell'  integrazione  giugno  a  una 
causa  prima.  Fin  qui  perviene  la  cognizione  popolare ,  l' indole 
della  quale  fu  da  noi  già  descritta ,  e  giova  che  il  lettore  ne 
abbia  presente  la  data  descrizione  {ì). 

A  questo  grado  pure  appartiene  la  formazione  di  molti  esseri 
mentali. 

V.  Quarto  grado  di  sviluppo  —  il  terzo  ordine  di  riflessione. 
Quando  1'  uomo  ha  conosciuto  gli  esseri  finiti ,  e  differenziati , 

e  ha  conosciuto  altresì  1'  esistenza  della  prima  causa  ;  allora 
egli  incomincia  a  filosofare  ,  mediante  nove  riflessioni ,  colle 
quali  considera  ciò  che  già  conosce  in  relazione  coli'  ente  a 
lui  noto  per  natura,  e  quindi  rileva  le  limitazioni  delle  cose,  e 
le  loro  similitudini  ed  analogie:  egli  allora  distribuisce  in  classi 
gli  oggetti  conosciuti  ;  e ,  attesoché  si  serve  a  far  ciò  dell'  uso 
de'  segni  —  del  linguaggio  —  che  diventano  per  lui  come  vicari 
delle  cose  stesse,  egli  facilmente  confonde  il  reale  col  mentale; 
gli  esseri  prodotti  dalla  propria  mente  e  dalla  propria  fantasia 
cogli  esseri  sussistenti. 

VI.  Quinto  grado  di  sviluppo  —  il  quarto  ordine   di  rifles- 
sione e  gli  ordini  superiori. 

Conosciuti  e  classificati  in  qualche  modo  gli  enti ,  si  sviluppa 
nella  mente  umana  il  bisogno  di  ritrovare  una  ragione  sufficiente 
di  tutto  quello  che  egli  sa.  Quando  egli  non  conosceva  che  il 
finito  ed  il  contingente,  (e  per  conoscere  il  finito  ed  il  contin- 
gente doveva  aver  presente  l'infinito  e  il  necessario,  e  l'avea 
neir  idea  dell'  essere)  gli  si  fece  sentire  il  bisogno  d' una  ra- 
gione ,  che  ne  spiegasse  1'  esistenza  reale ,  e  così  salì  alla  pri- 
ma causa  reale.  Ma  egli  non  cercava  ancora  che  una  causa 
efficiente ,  da  cui  pendesse  1'  universo  esteriore  e  che  gliene  spie- 
gasse la  sussistenza.  Ora  poi  non  si  contenta  più  di  una  ragione, 
che  ne  spieghi  la  sussistenza ,  domanda  una  ragione ,  che  gli 
spieghi  tutti  i  diversi  modi,  ne' quali  l'ente  gli  apparisce,  ossia 
«  come  questi  si  conciliino  col  concetto  dell'essere  »,  questo  è 

(i)  N.  Saggio,  n.  1264-1273. 


45 

appunto  il  problema  ontologico  che  la  mente  incontra ,  come 
chi  cammina  incontra  un  sasso,  in  cui  urtando  è  obbligato  di 
alzare  il  piede,  per  usare  un'espressione  del  Manzoni. 

ha.  ((  Conciliare  i  diversi  modi  {\) ,  ne'qunli  l' ente  apparisce 
all'uomo,  col  concetto  dell'essere  »  è  dunque  la  prima  forma 
del  problema  ontologico. 

La  conciliazione  de' modi,  nei  quali  l'ente  apparisce  all' uomo, 
col  concetto  dell'  essere  ,  è  voluta  dall'  intendimento  per  questo 
che  il  concetto  dell'essere  da  una  parte  è  il  punto  evidente,  e 
dall'altra  implica  due  cose: 

1°  Che  niente  ci  sia  d'intelligibile  fuori  dell'essere; 
2°  Che  tutto  ci  sia  nell'essere. 

Ma  da  una  parte  l'essere  è  uno  e  semplicissimo,  d'altra  parte 
i  modi,  ne'quali  apparisce  all'uomo,  sono  molliplici  :  nasce  dun- 
que una  difficoltà  a  spiegare  come  questi  modi  vari  e  molli- 
plici possano  giacere  tutti  nell'essere  uno  e  semplicissimo,  e  iden- 
tificarsi con  questo. 

Ma  se  si  perviene  a  superare  questa  difficoltà  e  a  mostrare , 
come  que'modi,  che  appariscono,  benché  molti  e  vari,  siano  lo 
slesso  essere  ,  allora  ogni  esitazione  dell'  intendimento  è  rimossa, 
e  questo  si  riposa  soddisfatto  nella  verità,  perchè  i  modi  appa- 
renti dell'essere  sono  ridotti  aW e{>idenza ,  oltre  alla  quale  non 
può  andare  e  desiderare  T  intendimento.  Devesi  dunque  dall'  On- 
tologo  dimostrare ,  che  lutti  i  modi  hanno  la  loro  ragione  nel 
concetto  dell'essere  stesso,  il  qual  concetto  non  ha  bisogno  di 
altra  ragione ,  perchè  è  evidentemente  necessario. 

Ridurre  dunque  tulli  i  modi  dell'essere  all'essere  slesso  è 
la  slessa  cosa  che  trovare  VuUima  ragione  di  questi  modi,  il 
che  è  l'ufficio  e  l'intento  della  Filosofia. 


(1)  Prendiamo  qui  la  parola  modi  in  senso  larghissimo  :  non  intendiamo 
esclusivamente  per  essa  le  limitazioni,  che  l'ente  si  presenta  ora  illimitato  or 
limitalo  alla  mente,  e  si  dee  conciliare  l'uno  e  l'altro  modo  col  concetto  del- 
l'ente :  né  pure  intendiamo  per  modi  i  soggettivi,  che  ce  n'hanno  di  sogget- 
tivi, ossia  relativi  alla  limitata  natura  dell'uomo,  e  di  oggettivi.  Molto  meno 
si  creda  che  il  concetto  di  «  modi  apparenti  all'uomo  »  tragga  seco  necessa- 
riamente qualche  cosa  di  falso  ,  essendovi  de'  modi  veraci ,  ne'quali  l'ente 
apparisce  all'uomo ,  ed  ogni  errore  viene  dall'uomo  stesso  e  non  dalla  na- 
tura, come  dimostra  la  Logica  (244.  sgg.). 


46 

CAPITOLO  III. 

Seconda   forma   del  problema  dell'  Ontologia  : 
a  Trovare  la  ragione  sufficiente  delle  diverse  manifestazioni  deWente  » . 

Articolo  I. 

Perchè  V  intendimento  esiga  una  ragione  sufficiente 
delle  diverse  manifestazioni  dell'  ente. 

Uh.  Perchè  dunque  rintcndimento  sente  il  bisogno  di  «  conci- 
liare i  diversi  modi  apparenti  ,  ossia  le  diverse  manifestazioni 
dell'ente  col  concetto  dell'essere?  »  ossia  sott' altra  forma: 
perchè  sente  il  bisogno  di  «  trovare  una  ragione  sufficiente  ul- 
tima ed  evidente  che  gli  spieghi  le  diverse  manifestazioni  del- 
l'ente?  ». 

Due  sono  le  esigenze  dell'intendimento  umano,  l'una  è  quella 
di  sapere,  l'altra  quella  che  in  ciò,  che  egli  sa,  non  cada  al- 
cuna contraddizione.  Da  queste  due  esigenze  risulta  quella  d'a- 
vere una  ragione  sufficiente  di  tutto  ciò ,  che  l' uomo  conosce. 

kli.  E  in  quanto  alla  prima  esigenza—  che  è  quella  di  sapere  — 
siccome  ogni  potenza  inclina  al  proprio  atto,  che  la  perfeziona, 
così  appare  manifesto  che  anche  l'intendimento  umano  tende  a 
sapere,  essendo  questo  il  suo  atto  e  la  sua  perfezione. 

46.  Quanto  poi  all'esigenza  che,  in  ciò  che  sa^  non  cada  con- 
traddizione, questa  nasce  dalla  natura  dell'oggetto  proprio  dell'in- 
tendimento, il  quale  è  l'essere  —  principio  di  cognizione  — .  Ora 
l'essere  è  per  sua  propria  essenza  immune  da  ogni  contraddizione; 
tutto  ciò  dunque,  che  avesse  in  sé  una  contraddizione,  non  sa- 
rebbe più  essere;  e  per  ciò  non  potrebbe  essere  oggetto  della 
intelligenza,  non  costituirebbe  un  sapere,  che  è  la  brama  es- 
senziale dell'essere  intellettivo,  e  però  sua  assoluta  esigenza. 

47.  Ora  quando  si  presenta  un  oggetto,  che  non  ha  in  so 
la  ragione  sufficiente  di  sé  stesso ,  non  si  può  concepire  che 
una  di  queste  tre  disposizioni  dell'intendimento: 

ì'  0  che  l'intendimento  si  contenti  di  dire,  che  quella  ra- 


47 

gione  non  esiste;  e  in  tal  caso  gli  rimane  un  oggetto  viziato 
di  contraddizione ,  perchè  esistere  e  non  esserci  la  ragione  di 
esistere  é  contraddizione:  il  che  si  oppone  alla  seconda  delle  ac- 
cennate supreme  esigenze; 

2°  0  che  l'intendimento  si  contenti  di  dire ,  che  la  ragione 
ci  sarà ,  ma  non  gli  cale  conoscerla  :  il  che  si  oppone  alla  prima 
di  quelle  esigenze; 

3"  0  finalmente,  ch'egli  si  mostri  bramoso  e  sollecito  di  rin- 
venire quella  ragione,  credendo  fermamente  che  ci  deva  essere  ; 
ed  allora  con  ciò  stesso  egli  s'è  già  proposto  il  problema  del- 
l' Ontologia. 

48.  L'esperienza  dimostra,  che  l' intendimento  umano  appa- 
lesa sempre  questa  terza  disposizione;  dunque  egli  ha  il  biso- 
gno di  rendersi  una  ragione  sufficiente  di  tutto  ciò  che  conosce 
e  che  non  ha  la  ragione  in  se  slesso.  Il  bisogno  dunque,  che 
ha  l'intendimento  di  aver  sempre  delle  cose  da  lui  conosciute 
una  ragione  sufficiente  che  gliele  spieghi ,  è  un  risultato  delle 
due  esigenze  sopra  indicate. 


Articolo   II. 

La  ragione  sufficiente  delle  manifestazioni  dell'ente  non  può 
appagare  l'  intendimento ,  se  non  è  una ,  necessaria , 
oggettiva. 

h9.  Già  abbiamo  accennato,  che  la  ragione  sufficiente  delle 
diverse  manifestazioni  dell'ente  non  può  essere  che  il  concetto 
stesso  dell'essere,  sede  della  necessità  e  dell'evidenza  ( 'iS  ). 
Ma  prescindendo  ora  da  questo,  consideriamo  in  astratto,  come 
convenga  che  sia  una  ragion  sufficiente ,  acciocché  pienamente 
appaghi  r  intendimento  nella  sua  esigenza.  Poiché  questa  ri- 
cerca conduccndoci  a  conoscere  le  condizioni  della  ragion  suffi- 
ciente, che  cerca  l'Ontologia,  ne  renderà  più  chiaro  il  problema. 
E  facciamo  questo  gradatamente,  proponendoci  alcune  questioni: 

50.  l'  Questione. — La  ragion  sufficiente  può  ella  essere  con- 
tingente, 0  deve  esser  necessaria? 

Risposta.  —  Diverse  ragioni   sufficienti  si  possono  distinguere, 


/48 

le  quali  formino  una  serie ,  che  s'eleva  dal  basso  all'alto ,  delle 
quali  ciascuna  più  elevata  è  ragione  rispetto  all'altre  inferiori , 
e  l'ultima  è  l'unica  ragione  di  tutte. 

Ora  la  domanda  non  può  riguardare  che  la  ragione  eleva- 
tissima, ultima  di  tutte,  che  non  ne  ha  altra  sopra  di  sé, 
l'unica  per  ciò  sufficiente  per  sé  a  sé  stessa.  Laonde  è  mani- 
festo, che  le  ragioni  non  ultime  possono  essere  contingenti, 
come  d'un  effetto  contingente  la  ragion  prossima  è  nella  causa 
pure  contingente.  Ma  l"  ultima  e  assoluta  ragione,  in  cui  si 
queli  r  intendimento  ,  conviene  che  sia  necessaria,  non  contin- 
gente ;  poiché  se  fosse  contingente,  potendo  essere  e  non  es- 
sere, richiederebbe  un'altra  ragione  che  spiegasse  alla  mente, 
perché  ella  sia,  altramente  resterebbe  un'entità  indeterminata 
tra  l'esistere  e  il  non  esistere:  nulla  poi  esiste  d' indeterminato , 
essendo  esclusa  dal  concetto  dell'ente  sussistente  l' indetermi- 
nazione. 

Se  dunque  le  ragioni  sono  molte,  e  la  prima  e  prossima 
é  contingente ,  l' intendimento  ricorre  alla  seconda ,  e  se  trova 
contingente  anche  questa,  l'esclude  collo  stesso  ragionamento, 
e  ne  cerca  un'altra;  e  così  conviene,  che  o  si  perda  in  una 
progressione  di  ragioni  all'infinito  senza  trovare  l'ultima,  o  che 
si  fermi  in  un'  ultima  necessaria. 

51.  Questa  sembra  dimostrazione  evidente,  che  l'ultima  ra- 
gion delle  cose  deve  essere  necessaria.  Ma  si  oppone  una  grave 
difficoltà:  «  L'ultima  ragione  del  mondo,  si  dice,  non  può  essere 
r  essenza  divina ,  perocché  se  fosse  la  divina  essenza ,  il  mondo 
sarebbe  eterno  com'  essa  e  necessario.  Dunque  la  ragione  suf- 
ficiente ultima  delle  cose  non  può  essere  che  1'  atto  libero  del 
divino  volere.  E  se  è  libero  ,  deve  essere  contingente ,  cioè  tale 
che  potea  farsi  e  non  farsi  ». 

Ma  noi  rispondiamo,  che  l'atto  del  divino  volere,  quan- 
tunque libero,  non  è  distinto  realmente  dalla  divina  essenza, 
la  quale  é  un  atto  solo  e  semplicissimo ,  e  che  non  viene  punto 
da  ciò,  che  il  mondo  debba  essere  eterno,  benché  l'atto  che 
lo  crea  sia  eterno;  giacché  il  mondo  non  ha  già  la  natura  di 
quell'atto,  ma  riceve  quella  natura  temporanea,  che  dall'atto 
della  volontà  divina  gli  viene  determinata. 

E  quantunque  l'atto  divino   sia  libero  ,  non  ne  viene  già  che 


49 

egli  si  possa  chiamare  contingente;  poiché  non  è  necessario, 
che  la  libertà  di  quell'atto  consista  nella  perfetla  indifferenza,  e 
sia  in  tal  modo  bilaterale,  come  è  necessario  che  sia  nel  pre- 
sente stato  dell'uomo  l'atto  della  sua  volontà  per  meritare  o  de- 
meritare. Giacché  l'jitto  creativo  non  appartiene  punto  alla 
classe  degli  atli  meritori.  L'alto  creativo  è  libero  di  quella  li- 
bertà, che  è  definita  da  S.  Giovanni  Damasceno,  cujus  prmcipium 
et  causam  coiUinet  is  qui  agii  (1),  di  maniera  che  egli  non  ha 
alcuna  causa,  o  ragione,  o  motivo  fuori  di  Dio  stesso,  il  quale 
per  ciò  si  determina  da  sé  liberissimamente.  Dico  si  determina 
per  esprimere  l'attività  sua  immanente,  non  per  indicare  al- 
cun alto  transeunte ,  che  abbia  cominciato  ,  di  maniera  che  pas- 
sasse Iddio  dal  non  essere  all'essere  determinalo  a  creare.  Così 
dicono  i  Teologi ,  che  Iddio  vuole  la  propria  bontà,  ed  ama  se 
stesso  con  un  allo  di  libera  volontà  ,  perchè  quest'atto  non  ha 
né  la  causa  nò  la  ragione  fuori  di  lui  slesso  (2).  Ma  la  libertà 
dell'atto  creativo  è  diversa  da  quella ,  con  cui  Iddio  vuole  ed 
ama  sé  stesso,  benché  sia  simile  ed  appartenga,  siccome  quella, 
all'ordine  morale.  Perocché  l'atto,  con  cui  Dio  ama  se  stesso, 
ha  per  oggetto  la  sua  propria  essenziale  amabilità,  la  quale  non 
sarebbe  se  non  fosse  l'atto  dell'amore ,  che  è  il  suo  correlativo. 
Onde  non  si  può  intendere  Iddio ,  senza  intendere  che  ama  se 
stesso.  All'incontro  non  appartenendo  le  creature  alla  natura  di- 
vina, non  v'ha  in  queste  alcuna  ragione,  perche  debbano  essere 
da  Dio  amate  e  volute;  e  però  quando  le  vuole,  la  causa  o  il 
motivo  che  lo  determina  non  è  l'oggetto  immediato  di  questa 
sua  volizione ,  sicché  il  concetto  di  creatura  non  presenta  alcuna 
necessità  di  esistere ,  nò  alcuna  necessità  che  determini  Iddio 
a  fiirla  esistere.  l'ila  vi  ha  una  ragione  in  Dio  stesso  ,  per  la 
quale  ei  si  determina  a  creare;  e  questa  ragione  é  di  novo 
l'amore  di  se  stesso ,  il  quale  si  ama  anche  nelle  creature.  Quindi 

(1)  L.  II,  de  Orlodoxa  fide,  C.  XXIV.  Tutto  il  luogo  è  cosi  :  Spante  id  fieri 
dicitur,  cuius  principium  et  causam  coniinei  is  qui  agit,  ma  il  contesto  di- 
mostra, che  il  Santo  Dottore  intende  definire  il  libero,  e  in  questo  senso  ci- 
tano questo  passo  i  teologi. 

(2)  S.  Th.  De  Potenlia,  Q.  X,  a.  II  ad  5.  Deus  sua  voluntate  libere  amai 
seipsum ,  licet  de  necessitate  amet  seipsum.  —  Scotus,  Quodlib.  VI.  Vo- 
luntas  divina  necessario  vuU  bonitatem  suam,  et  tamen  in  volendo  est  libera. 

Rosmini.  Teosofia.  4 


50 

la  divina  sapienza ,  come  meglio  altrove  esporremo ,  trova  esser 
cosa  conveniente  la  creazione,  e  questa  semplice  convenienza 
basta  a  far  sì,  che  l'Essere  perfettissimo  vi  si  determini.  Ma 
non  si  deve  confondere  questa  necessità  di  convenienza  con 
quella  necessità  che  nasce  dalla  forma  reale  dell'  Essere , 
e  che  necessità  fisica  si  suol  chiamare.  La  necessità  di  conve- 
nienza è  una  necessità  morale  :  cioè  veniente  dall'  Essere  sotto 
la  sua  forma  morale  :  e  la  necessità  morale  non  sempre  in- 
duce r  effetto  che  ella  prescrive;  ma  lo  induce  solo  nell'Essere 
perfettissimo,  e  non  negli  esseri  imperfetti  (a  molli  de'  quali 
rimane  perciò  la  libertà  bilaterale),  perchè  l'Essere  perfettis- 
simo è  insieme  moralissimo,  cioè  ha  compiuta  in  sé  ogni  esi- 
genza morale. 

52.  il.'"'  Questione.  —  La  ragion  sufficiente  deve  essere  un  ideale 
0  un  reale? 

Risposta.  — Egli  è  chiaro  prima  di  lutto,  che  non  può  essere  un 
mero  reale  ,  perchè  la  parola  ragione  indica  qualche  cosa  che 
appartiene  all'intendimento;  e  all' intendimento  non  appartengono 
i  puri  reali,  ma  vi  appartengono  i  reali  associati  alle  loro  idee, 
che  li  fanno  conoscere. 

Ciò  premesso,  diciamo  che  la  ragion  sufficiente  è  sempre  una 
notizia.  Ma  dovrà  ella  essere  una  notizia  meramente  ideale,  o 
potrà  essere  anche  una  notizia  di  cosa  reale,  o  potrebb'essere 
reale  la  stessa  notizia?  Ben  inteso  che  trattandosi  di  ragione  ul- 
tima (a  cui  solo  spelta  la  denominazione  di  ragione  per  sé), 
sì  parla  di  notizia  d'un  reale  necessario  —  Iddio. 

A  prima  giunta  sembrerebbe,  che  la  ragione  ultima  talora 
fosse  un'idea,  e  talora  fosse  anco  la  notizia  del  reale  necessa- 
rio. Perocché  si  può  cercare  la  ragione  ultima  tanto  di  ciò  che 
si  conosce  nell'ordine  ideale,  quanto  di  ciò  che  si  conosce  nel- 
l'ordine reale;  e  nel  primo  caso  la  ragione  ultima  è  certamente 
un'idea  ,  nel  secondo  egli  pare  che  non  possa  essere  una  sem- 
plice idea,  ma  anzi  debba  essere  la  notizia  del  reale  necessario. 

Noi  scioglieremo  questa  questione  così: 

Vi  ha  un  ordine  d'idee,  e  un  ordine  di  cose  reali,  di  cui  si 
può  cercare  la  ragione  ultima. 

Che  v'abbiano  dell'idee,  di  cui  si  possa  cercare  la  ragione, 
apparisce  da  questo  che  quantunque  le  idee,  prese  nel  loro  fondo. 


51 

siano  necessarie  ed  eterne;  ciò  non  ostante  ove  si  tratti  di  idee  li- 
mitate, come  sono  le  specifiche  e  le  generiche,  rimane  a  spiegare 
la  loro  limitazione,  la  quale  procede  sempre,  se  ben  si  consi- 
dera, dalla  relazione  che  hanno  con  un  reale  contingente  (i). 
Quindi  nel  concetto  di  un'  idea  limitala  non  si  contiene  la  ra- 
gione della  possibilità  della  sua  limitazione,  e  questa  possibilità 
bassi  a  cercare  altrove.  Or  egli  è  chiaro ,  che  la  ragione  delle 
possibili  limitazioni  delle  idee  si  deve  trovare  nella  natura 
dell'idea  prima,  universale,  che  si  lascia  così  limitare  relativa- 
mente allo  spirilo  che  la  intuisce.  Quindi  l'ultima  ragione  suf- 
ficiente nell'ordine  ideale  è  sempre  l'idea  prima. 

Venendo  alT ordine  delle  cose  reali,  queste  hanno  manifesta- 
mente la  ragione  della  loro  realità  nella  causa  reale  che  le  pro- 
dusse, e  per  ciò  la  notizia  di  un  reale  —  d'Iddio  creante  —  si  è  la 
loro  causa  sufficiente.  Ma  questa  causa  è  ella  ultima?  Se  si  dice, 
che  Iddio  è  la  causa  sufficiente  del  mondo,  certamente  si  no- 
mina la  causa  ultima:  poiché  nominandosi  l'Essere  supremo;  si 
nomina  'Ente  assoluto,  che  è  ad  un  tempo  pienamente  reale, 
ideale  e  morale.  Ma  ciò  non  toglie  che  si  possa  poi  domandare 
qual  sia  la  ragion  sufficiente  nell'Essere  divino.  Questa  ragione 
non  può  certo  essere  fuori  di  Dio  :  ma  ella  può  bensì  trovarsi 
nella  divina  oggettività,  come  quella  che  ,  essendo  l'intelligibi- 
lità di  Dio  stesso,  ne  mostra  all'intendimento  la  sua  necessità, 
e,  più  addentro  investigando,  come  altresì  egli  debba  essere  per 
sua  costituzione  uno  e  trino.  Onde  in  questo  senso  l'idea  —  ma 
l'idea  nella  sua  perfezione  qual  è  in  Dio  —  torna  di  novo  ad 
essere  la  ragione  prima  universale  di  ogni  reale  non  meno  che 
di  ogni  ideale,  come  del  pari  di  ogni  morale. 

Apparisce  dunque  chiaro,  come  il  principio  della  ragion  suf- 
ficiente si  manifesti  nell'uomo,  e  come  una  delle  supreme  esi- 
genze dell'  umano  intendimento  sia  quella  di  cercare  una  ra- 
gione sufficiente  di  tutte  le  cose,  che  egli  conosce  per  via  di 
predicazione:  il  che  è  quanto  dire,  di  giungere  ad  intuire  colla 
mente  una  qualche  essenza  ,  che  contenga  in  sé  tutto  ciò  che 
egli  predica  degli  enti,  e  questa  non  possa  essere  per  l'uomo 
che  l'essere  ideale. 

(1)  Fu  dimostrato  nel  Rinnovamento,  Uh.  Ili,  C.  LII,  IJII. 


52 


CAPITOLO  IV. 


Terza  forma  del  problema  dell'Ontologia  :  a  Tromre  un'  equazione 
tra  la  cognizione  inluitiva  e  quella  di  predicazione  ». 

53.  Ma  di  novo  che  cosa  vuol  dire:  «  avere  una  ragione  suf- 
ficiente 0  non  averla?  )>  Che  quantunque  tulli  gli  uomini  arrivati 
al  competente  grado  di  sviluppo  sentano  il  bisogno  della  ragion 
sufficienle  ,  nondimeno  pochi  ne  hanno  una  cognizione  riflessa, 
e  sanno  ben  definirla. 

Conviene  dunque  avvertire ,  che  la  cognizione  umana  delle 
cose  è  duplice,  l'unaòla  notizia  deWesscnza ,  l'altra  è  quella, 
che  si  ha  per  via  di  predicazione:  alle  quali  due  cognizioni  ri- 
spondono le  due  forme  dell'essere  ideale  od  oggettiva,  e  reale; 
perocché  nell'idea  o  nell'oggettività  si  conoscono  gli  enti  nella 
loro  essenza,  e  colla  cognizione  di  predicazione  si  conoscono  gli 
enti  nella  loro  forma  reale  e  nelle  loro  limitazioni  ed  apparte- 
nenze. iMa  la  cognizione  di  predicazione  dell'ente  non  può  mai 
starsene  tutta  sola  ,  che  esige  l'ideale  ed  essenziale  ;  perocché 
non  si  può  asserire,  che  un  ente  sia  nella  sua  forma  reale,  né  si 
può  predicare  di  lui  qualche  cosa,  se  non  si  sappia  in  qualche 
modo  che  enle  egli  è ,  o  che  cosa  sia  il  predicato  che  gli  si 
attribuisce;  il  che  è  quanto  dire,  se  non  si  abbia  l'idea  di  lui, 
0  del  suo  predicato,  non  si  abbia  notizia  della  sua  essenza  o  di 
quella  del  suo  predicalo. 

54.  Ma  l'ente  reale,  e  lutto  ciò  che  si  predica  di  un  ente 
qualunque,  vicn  egli  sempre  conosciuto  lotalraenle  nella  sua  es- 
senza? Voglio  dire:  il  tipo  ideale  dell'ente  abbraccia  egli  tutta 
intera  l'intelligibilità  dell'ente  reale .«^  Se  nell'essenza  non  si  con- 
tiene tulio  ciò  che  si  riscontra  nel  detto  ente ,  in  tal  caso  l'es- 
senza non  è  sufficienle  a  farcelo  pienamente  conoscere.  Ora 
accade  ben  sovente  appunto  così,  che  nell'ente  conosciuto  per 
via  di  predicazione  siano  più  cose  che  non  sono  nell'essenza  di 
lui  conosciuta  da  noi  nella  sua  idea.  Or  viene  il  tempo,  in  cui 
l'intendimento  colla  rifiossione  si  accorge  di  ciò;  e  allora,  con- 
scio che  la  sua  cognizione  essenziale  dell'ente  è  manchevole  e 
non  adegua   l'ente  stesso  e  quanto   di  lui  si  predicò ,  sente  il 


55 

bisogno  di  perfezionarla,  per  l'esigenza  di  sapere  compiutamente 
che  abbiamo  sopra  indicata.  La  ragione  di  ciò  si  è,  che  la  cogni- 
zione di  predicazione  è  soggettiva  e  relativa  a  noi  ;  e  la  sola 
cognizione  ideale  od  essenziale  è  oggettiva  ed  assoluta.  La  co- 
gnizione soggettiva  consiste  in  una  cotale  disposizione  di  noi 
stessi  affermanti  o  neganti,  che  non  illumina  l'oggetto  affermato 
0  negato,  il  quale  ritiene  quella  luce  che  ha  dall'idea  né  più 
né  meno,  sì  sotto  l'affermazione  nostra,  che  sotto  la  negazione. 
Per  ciò,  se  noi  per  via  di  predicazione  conosciamo  qualche  cosa 
di  più  che  non  si  contiene  nell'essenza  della  cosa  che  conosciamo 
nell'idea,  ci  accorgiamo  che  la  nostra  cognizione  ideale  od  es- 
senziale è  imperfetta,  perchè  non  adegua  la  nostra  cognizione  di 
predicazione. 

Quindi  si  manifesta  l'esigenza  dell'intendimento,  che  gli  sia 
completata  la  cognizione  ideale  ed  essenziale,  e  pareggiata  a 
quella  di  predicazione ,  sicché  egli  possa  trovare  nelle  essenze 
conosciute  tutto  ciò  che  si  predica  di  un  ente.  Poiché  senza  di 
questo,  ciò  che  si  predica  gli  rimane  oscuro,  ed  è  come  predi- 
care un  quid  ignoto.  Dove  appunto  si  manifesta  il  bisogno  che 
l'uomo  sente  di  cercare  di  tutte  le  cose  la  ragione  sufficiente  (1). 


(1)  Le  diverse  forme  del  problema  dell'Ontologia  si  sono  sempre  presentate 
alle  meni!  de'lilosoli ,  ma  non  nettamente.  A  ragion  d'esempio  ,  quando  lo 
Schelling  diceva,  che  «  bisognava  fare  col  pensiero  rinascere ,  per  cosi  dire, 
la  natura  e  seguirla  dalla  sua  origine  in  lutto  il  suo  svolgimento  »_,  e  defi- 
niva la  Filosofia  «  l'arte  di  conformare  tutte  le  nostre  rappresentazioni  a 
un'idea  assoluta,  e  di  produrre  a  priori,  dalle  profondità  del  nostro  spirito, 
il  sistema  universale  »  (Michelet,  Geschichtc  der  letztenSy steme,  t.  II,  p.  dlQ), 
egli  travedeva  il  prohloma  dell'  Ontologia  sotto  la  forma  d'equazione  tra  la 
scienza  d' intuizione  e  quella  d'alTermazione  ,  ma  non  l'esprimeva  retta- 
mente. 


S4 

CAPITOLO  V. 

Quarta  forma  del  problema  dcW Ontologia:  «  Conciliare  le  antinomie 
che  appariscono  nel  pensiero  umano,  n 

Articolo  I. 

Come  ogni  guai  volta  non  si  trova  l'equazione  tra  la  cognizione 
intuitiva  e  quella  di  predicazione,  rimane  un  antinomia  nella 
scienza. 

55.  Abbiamo  dello  che  il  bisogno  di  Irovare  una  ragione  suf- 
ficiente dei  modi  apparenti  dell'ente  nasce  da  questo,  che,  fino  a 
tanto  che  una  tale  ragione  non  s'è  trovata,  c'è  uno  squilibrio  tra 
la  scienza  intuitiva  delie  essenze  e  quella  di  predicazione;  il  quale 
squilibrio  è  per  sua  natura  molesto  all'intelligenza.  E  !e  è  mo- 
lesto, perchè  l'intelligenza  ripugna  alla  contraddizione,  onde  fino 
a  tanto  che  le  pare  di  trovare  un'antinomia  nel  suo  sapere,  le 
manca  la  quiete.  Ora  che  in  quello  squilibrio  rimanga  un'anti- 
nomia, si  può  raccogliere  considerando  la  cosa  da  più  lati. 

Primieramente  è  un'antinomia  il  porre  che  una  cosa  sussista 
senza  una  ragion  sufficiente^  poiché  la  ragion  sufficiente  è  il 
principio  d'ogni  esistenza:  onde  dove  non  c'è  il  principio  suo, 
non  ci  può  essere  resistenza;  negando  il  principio  a  cui  un'esi- 
stenza s'appoggia  come  a  sua  condizione,  si  nega  lei  stessa;  e 
però  ammettere  un'esistenza  senza  una  ragion  sufficiente  è  lo 
slesso  che  alTermare  e  negare  nello  stesso  tempo  l'esistenza  me- 
desima. La  ragione  poi  delTesistenza  non  è  sufficiente,  come  di- 
cevamo, se  non  e  necessaria  o  almeno  eterna;  e  ciò  che  è  ne- 
cessario od  eterno  non  può  appartenere  che  a  qualche  essenza, 
che  le  sole  essenze  sono  tali. 

In  secondo  luogo  l'essenza  e  la  sussistenza  sono  forme  primi- 
tive dell'ente,  non  essendo  la  sussistenza  altro  che  la  realizza- 
zione dell'essenza.  Essendo  dunque  Tente  identico  e  diverse  le 
forme,  vi  avrebbe  un'antinomia  tra  il  concello  dell'essere  e  il 
porre  una  realiti^  priva  di  essenza;  che  il  concetto  dell'essere 
importa   appunto  che"  quella   formi   non   sia,   non  possa  essere 


ss 

senza  questa.  Ma  molte  altre  antinomie  s'incontrano  Ira  l'es- 
sere e  le  sue  manifestazioni  ;  e  l'Ontologia  dee  raccoglierle 
tutte  con  diligenza,  e  dimostrare  che  esse  non  sono  che  appa- 
renti, che  tutte  si  conciliano.  Tale  è  l'oggetto  della  speculazione 
ontologica. 

oC.  Una  di  questo,  antinomie  apparenti,  a  ragion  d'esempio,  è 
quella  che  viene  dal  numero.  Il  concetto  dell'ente  è  d'una  cosa 
unica^  e  i  sembianti  dell'ente  sono  molti.  Come  si  concilia  l'unità 
dell'ente  co' molti  suoi  sembianti,  i  quali  presentano  alla  mente 
non  soltanto  attualità  accidentali,  ma  innumerevoli  enti  distinti 
tra  loio? 

Quest'antinomia  tra  l'ente  uno  e  i  molti  enti  apparisce  ancora 
più  chiara  ,  considerando  quelle  che  noi  chiameremo  passioni 
dialetliche  dell'ente. 

57.  Gli  antichi  hanno  parlalo  delle  passioni  dell'ente,  ma  in 
questa  espressione  avvi  un  equivoco  dannoso,  perchè  sembra  che 
l'ente  possa  patire,  o  che. egli  sia  un  unico  suhietto  reale  di 
tutte  le  sue  manifestazioni  o  sembianti.  Per  evitare  questo  equi- 
voco adopereremo  l'espressione  di  passioni  diaìeltiche  per  indi- 
care che,  quantunque  sembri  che  l'ente  sia  il  subietto  di  tutte 
le  entità  che  in  vari  modi  si  presentano  al  nostro  intendimento, 
tuttavia  l'ente,  che  è  subietto  di  tutto  ciò,  altro  non  è  che 
quello  che  nella  mente  si  concepisco  come  inizio  o  ragione  di 
tutte  le  cose,  e  che  precede  le  cose  stesse,  né  punto  né  poco 
fei  cangia  ne'  subietti  particolari,  o  siano  questi  reali  contingenti 
0  dialettici  anch'essi. 

58.  Dichiariamo  dunque  che  cosa  siano  le  passioni  dialettiche 
dell'ente,  e  come  anche  la  loro  considerazione  somministri  alla 
mente  di  novo  il  problema  dell'Ontologia. 

Il  più  grande  tra' filosofi  della  nostra  nazione,  sono  già  sei 
secoli,  scriveva  così  : 

«  Come  nelle  dimostrazioni ,  così  pure  nel  ricercare  la  quid- 
«  dita  di  checchessia,  è  necessario  ridursi  ad  alcuni  principi  noti 
«  all' intelletto  per  sé  stessi:  altramente  nell'una  e  nell'altra 
«  operazione  ce  n'andremmo  all'infinito,  e  così  perirebbe  ogni 
«  scienza  e  cognizione  delle  cose  «  --  non  trovandosi  mai  l'ultimo 
termine  da  cui  penderebbero  lutti  gli  altri. —  «Ora  ciò  che  per 
«PRIMO  l'intelletto  concepisce  QUA.SI   NOTISSIMO,   e  in  cui 


56 

«  risolve  TUTTE  LE  CONCEZIONI,  è  l'ENTE,  come  dice  Avi- 
«  cenna  in  principio  della  Mclafmra  (I).  Quindi  è  d'uopo  che 
«tulle  le  altre  concezioni  dell' intelletto  si  abbiano  per  via  di 
«  addizione  all'ente  »  (i). 

Secondo  questa  evidentissima  dottrina  di  S.  Tommaso,  tutte 
le  concezioni  della  umana  mente  altro  non  sono  che  la  conce- 
zione dell'ente  puro  con  qualche  addizione  :  di  che  |)rocede  la 
manifesta  conseguenza  che  ninna  cosa  può  cadere  nella  mente 
umana,  se  prima  questa  non  ha  la  notizia  dell'ente;  poiché  ogni 
altra  notizia  è  questa  notizia  medesima  dell'ente  con  qualche 
aggiunta,  né  si  può  fare  aggiunta  a  ciò  che  non  é.  E  qual  è  di 
ciò  la  ragione?  La  natura  degli  stessi  oggetti  della  mente.  Pe- 
rocché non  vi  hanno  altri  oggetti  possibili  che  l'ente^  e  le  giunte 
che  può  ricevere  l'ente. 

L'ente  dunque  si  presenta  all'umana  mente,  o  nella  sui  sem- 
plicità e  purezza,  o  con  varie  giunte  od  appendici. 

Ora,  queste  varie  giunte  od  apiTfndici,  colle  quali  l'ente  si  fa 
oggetto  dell'intelligenza,  sono  appunto  quelle  che  da  noi  si  chia- 
mano passioni  dialettiche  dell'ente. 

59.  Ma  per  aver  ben  chiaro  il  concetto  che  noi  vogliamo  signi- 
ficare con  questa  locuzione,  dobbiamo  distinguere  primieramente 
ciò  che  si  comprende  nell'essenza  dell'ente,  da  ciò  che  in  quella 
essenza  non  si  comprende  (3). 


(1)  Avicenna  morì  nel  1037.  Onesta  grande  verità  cosi  chiara  noi  secolo 
più  barbaro  di  tutto  il  medio  evo  non  sembra  ella  oscura  ad  alcune  nienti 
del  nostro  secolo? 

(-2)  S.  Th.  De  Verii.  Q.  I,  a.  1. 

{'A)  Noi  escludiamo  qui  qualche  cosa  dall'essenza  dell'ente,  il  die  sembra 
direttamente  opposto  a  ciò  che  dico  S.  Tommaso  in  queste  parole:  Nnlla 
cnim  res  natinw  est ,  qua;  sit  extra  csscntiam  enlis  uìiivcrsaUs.  QQ.  De 
Verit.  XXI,  1.  —  L'opposizione  non  è  che  apparente.  S.  Tommaso  non 
vuol  dire,  che  ogni  cosa  sia  nell'essenza  dell'ente,  ma  che  ogni  cosa  parte- 
cipa di  quell'essenza,  perocché  altrimenti  non  sarebbe  ente,  il  che  dichiara 
altrove  così:  Enti  non  potest  addi,  aliqnid  quasi  extranea  natura  per  ma- 
dum,  quo  differcntia  additur  generi,  vel  accidens  subiccto,  quia  QU/ELIBET 
NATURA  ESSENTIALtTER  EST  ENS.  QO.  De  Verit.  I,  t.  Che  ogni  na- 
tura sia  essenzialmente  ente,  vuol  dire  che  l'essenza  di  ogni  natura  è  l'ente; 
ora  Vcssenza  è  ciò  che  s'intuisce  ncW idea,  e  quindi  appartiene  all'ente^  che 


57 

A  ciò  che  entra  nell'essenza  dell'ente  non  ispelta  il  nome  di 
passione,  poiché  lutto  ciò  che  entra  in  quell'esscnzi  è  l'ente 
stesso^  e  non  una  sua  passione;  ma  la  nostra  mente  colla  rifles- 
sione può  nell'essenza  stessa  distinguere  e  separare  più  elementi; 
il  che  ella  fa  per  due  modi  : 

1^  Naturalmente,  come  accade  nclT  intuito  naturale,  il  quale 
si  limita  all'essenza  dell'ente  sotto  la  sola  forma  ideale  indeter- 
minata, restando  segregate  le  altre  due  forme  di  quella  essenza 
—  la  reale  e  la  morale  ; 

2°  Per  mezzo  d'atti  del  ragionamento,  come  quando  considera 
l'ente  sotto  singole  relazioni  speciali^  p.  es.,  il  considera  come 
verità  e  come  bontà.  —  Ora,  in  queste  distinzioni  e  separazioni 
che  nascono  unicamente  per  via  delio  sguardo  della  mente,  e  che 
nell'ente  stesso  non  hanno  luogo  come  vere  s<^parazioni ,  si  dee 
distinguere  la  parie  positiva  .  che  s'immedesima  coU'ente  e  che 
non  è  sua  passione,  e  la  parie  negatiut ,  cioè  le  limitazioni  poste 
all'ente,  in  quant'è  veduto  dalla  mente  ;  e  queste  limitazioni  sono 
passioni  dialelliche  negative  dell'ente. 

A  ciò  poi  che  non  entra  nell'essenza  dell'ente,  come  sono  tutti  i 
reali  contingenti,  appartiene  la  denominazione  di  passioni  dialet- 
tiche positive  dell'ente,  perchè  la  mente  considera  queste  aggiunte, 
come  atti  ovvero  termini  degli  alti  dello  stesso  ente,  da  lui  real- 
menle  separabili. 

Ma  ripetiamo  che ,  qunndo  noi  chiamiamo  i  reali  contingenti 
passioni  dell'ente,  non  vogliamo  mica  dire  che  l'ente  in  se  slesso 
patisca ,  quando  anzi  l'ente  essenziale  nel  suo  esser  proprio  non 
soggiace  a  passione  né  mutazione  alcuna.  Noi  dunque  parliamo 
dell'ente  in  quant'è  nella  mente  nostra  concepito  ed  unito  da  essa 
colle  sue  giunte,  come  sono  appunto  gli  enti  contingenti,  in 
quella  guisa  che  a  suo  luogo  vedremo. 

è  l'oggetto  intuilo  nell'idea.  Ma  altro  è  l'essenza  delle  cose  conlingenti,  allro 
la  loro  realità  o  sussistenza;  questa  non  essendo  la  loro  essenza,  è  fuori 
dell'ente  essenziale  ;  e  non  diconsi  enti  die  f>er  partecipazione ,  in  quanto 
che  la  mente  concependole  le  unisce  colla  loro  essenza  e  così  le  rende  com- 
pletamente enti.  Laonde  negli  oggetti  concepiti  dalla  mente  umana  niente  è 
fuori  dell'essenza  dell'ente  ,  perchè  altrimenti  non  si  potrebbero  concepire  , 
ma  le  cose  continge.nli  in  sé  stesse,  non  come  concepite  ,  sono  fuori  dell'es- 
senza dell'ente. 


88 

Tanto  le  passioìii  dialettiche  negative  dell'ente,  come  le  passioni 
dialettiche  positive  hanno  luogo  in  virtù  dell'azione  della  mente,  la 
quale  rispetto  alle  passioni  negative  considera  separato  quello  che 
non  è  separato  nell'ente  ;  e  rispetto  alle  passioni  positive  consi- 
dera come  inerente  all'essenza  dell'ente  quello  che  realmente  a 
lui  non  è  inerente.  Ma  come  ciò  avvenga  ed  avvenire  possa  senza 
inganno  lo  vedremo  fra  poco, 

CO.  Qui  conviene  aggiungere  ancora  un'altra  avvertenza.  La 
ricerca  delle  passioni  dell'ente  si  può  prendere  in  due  sensi  ;  pe- 
rocché alcuni  hanno  inleso  con  essa  d' investigare,  che  cosa  in 
ogni  ente  determinato  si  esiga,  acciocché  egli  abbia  la  natura  di 
ente  ;  e  però  dissero  a  ragion  d'esempio,  che  Vìinità  é  una  passione 
dell'ente  —  pigliando  pasmne  [)er  proprielà,  —  perché  non  si  può 
dare  alcun  ente,  se  non  a  condizione  che  sia  uno.  Non  é  in  questo 
senso,  che  noi  prendiamo  ad  investigare  le  passioni  dell'ente.  Ma 
noi  cerchiamo  le  passioni  dell'ente  essenziale,  cioè  di  quell'ente 
che  è  concepito  dalla  mente  a  principio.  Come  dice  l'Angelico  nel 
testo  citato,  tutte  le  nostre  concezioni  sono  sempre;  1.°  l'ente,  e 
2  »  l'ente  con  qualche  aggiunta.  In  tulle  le  nostre  concezioni 
adunque  vi  ha  un  elemento  uguale,  ed  è  l'ente;  ma  quest'ente 
ricevendo  diverse  aggiunte  si  cangia  in  tutte  le  cose  venendo  va- 
riamente determinato,  e  queste  determinazioni  del  concetto  primo 
dell'ente,  a  cui  appartiene  in  proprio  la  denominazione  d'  IDEA, 
sono  quelle  che  chiamiamo  sue  passioni  dialettiche. 

CI.  Ora  tanto  quelle  che  abbiamo  dette  passioni  dialettiche  ne- 
gative, quanto,  e  molto  più ,  quelle  che  abbiamo  dette  passioni 
dialettiche  positive  dell'ente  presentano  l'aspetto  d'una  contraddi- 
zione col  concetto  dell'ente  stesso. 

Poiché  se  l'ente  é  così  semplice  per  sua  essenza,  che  non  am- 
mette in  se  medesimo  distinzioni,  come  poi  nascono  le  passioni 
negative,  cioè  le  distinzioni,  che  fa  in  esso  la  mente  umana? 

E  in  quanto  alle  passioni  dialettiche  positive,  che  abbiamo  detto 
essere  le  roalitù  contingenti,  se  queste  non  entrano  nell'essenza 
dell'ente,  che  cosa  sono  d-unque?  0  si  dovranno  negare,  o,  se  si 
ammettono,  si  dovrà  dire  che  sono  enti;  e  se  sono  enti  ,  hanno 
dunque  l'essenza  di  enti,  e  non  sono  fuori  di  questa  essenza. 

È  sempre  lo  stesso  problema,  togliere  via  la  contraddizione  tra 
i  sembianti  dell'ente  e  il  concetto  dell'ente. 


b9 

Articolo  II. 

Il  problema  ontologico  si  manifesta  tanto  riguartb  al  mondo  ideale, 
quanto  riguardo  al  mondo  reale,  e  al  morale. 

C2.  Dappertullo  il  concetto  dell'ente  è  circondato  d'antinomie. 

Infatti  egli  sembra,  che  l'ente  soggiaccia  alle  passioni  dialettiche 
le  più  contrarie.  Poiché  egli  è  uno,  ed  è  anche  più;  egli  è  neces- 
sario, ed  è  anche  contingente;  egli  è  infinito,  ed  è  anche  finito; 
egli  è  immutabile,  e  pure  è  anche  mutabile  ;  e^Ii  è  eterno  ed  è 
anche  temporaneo;  egli  è  semplice,  ed  egli  è  anche  composto: 
egli  è  massimo  ed  è  anche  minimo  ecc.  Ora  come  tutte  queste 
cose  così  contrarie  possono  essere  egualmente  passioni  dell'ente? 
Se  Tenie  non  ha  in  sé  contraddizione^  come  dunque  si  spiega 
l'antagonismo,  che  si  combatte  dovunque  nella  sfera  del  mondo 
reale?  Onde  traggono  origine  le  antinomie,  a  cui  sembra  obbe- 
dire il  pensiero  e  i  concelti  lutti? 

65.  'Ma  restringendoci  vediamo  brevemente  come  il  problema 
ontologico  s'incontri  egualmente  nel  mondo  ideale,  nel  mondo 
reale,  e  nel  mondo  morale. 

L'uomo  percepisce  diversi  enti  ,  di  cui  si  compone  l'universo. 
La  percezione  si  fa  per  via  di  predicazione,  Qual  è  la  scienza  ideale 
ed  essenziale^  che  risponde  nell'uomo  a  questa  scienza  di  predica- 
zione, che  egli  raccolse  percependo  gli  enti  sensibili?  Ella  giace 
tutta  nella  essenza  di  questi  enti.  Ora  in  questa  essenza  trova  forse 
l'uomo  tutto  ciò  che  conobbe  per  via  di  predicazione,  in  modo  che 
tale  cognizione  essenziale  comprenda  adeguatamente  tutto  ciò  che 
egli  predicò  degli  enti.?  No  certamente.  In  prima  nelle  semplici 
essenze  degli  enti  egli  non  trova  la  loro  sussistenza,  di  maniera 
che  colle  sole  idee  non  potrebbe  conoscere  giammai  se  sussistes- 
sero 0  non  sussistessero;  l'essenza,  che  egli  intuisce,  è  la  mede- 
sima, sia  che  gli  enti  sussistano  o  non  sussistano.  Quindi  sente  il 
bisogno  che  gli  venga  completala  quella  sua  cognizione  delle  es- 
senze così  manchevole,  trovando  un'altra  cognizione  pure  di  es- 
senze, la  quale  sia  atta  a  largii  conoscere  anche  la  sussistenza  di 
quegli  enti  che  sussistono,  e  la  non  sussistenza  di  quelli  che  non 
sussistono.  Questo  è  quanto  dire  in  altre  parole,  che  gli  oggetti  da 
lui  conosciuti  sono  contingenti,  cioè  che  la  loro  essenza  è  tale  che 


co 

può  essere  intuita  dalla  mente,  senza  che  gli  oggetti  sussistano,  (Ji 
maniera  che  la  mente,  guardando  tale  essenza,  vede  che  possono 
sussistere  e  possono  non  sussistere.  Quindi  la  mente,  pel  bisogno  che 
ha  di  una  cognizione  assoluta,  tende  a  procacciarsi  la  cognizione  di 
qualche  altra  essenza  ,  dall'  intuizione  della  quale  ella  rilevi ,  se 
quegli  enti  sussistono  o  non  sussistono:  e  questa  seconda  essenza 
dicesi  la  ragione  sufficiente  di  quegli  enti.  Dove  si  vede  qual  sia 
la  natura  della  ragione  sulficiente,  la  quale  si  è  «  una  data  es- 
senza, nella  quale  s'intuisca  ciò  che  contiene  la  cognizione  acqui- 
stata per  via  di  predicazione  ». 

64.  Quello  che  abbiamo  detto  rispetto  alla  sussistenza  degli  enti 
visibili,  noi  dobbiam  dirlo  egualmente  rispetto  a  tutto  ciò  che  ve- 
niamo a  conoscere  insieme  colla  sussistenza,  per  esempio  la  quan- 
tit<à  della  materia,  il  numero  degli  enti,  la  loro  situazione  nello 
spazio  e  nel  tempo,  le  loro  qualità  accidentali  e  relazioni  tra  loro. 
Nella  semjdice  idea  di  tali  enti  nulla  di  tutto  ciò  si  contiene.  Nel- 
l'idea del  cavallo,  e  cosi  dicasi  di  ogni  altro  ente,  non  si  contiene 
mica  ne  il  numero  dei  cavalli  esistenti,  né  il  luogo  e  il  tempo  dove 
i  cavalli  esistenti  Irovansi  collocati,  né  le  qualità  e  relazioni  acci- 
dentali tra  loro:  l'idea  del  cavallo  non  ci  fa  conoscere  nulla  di 
tutto  ciò,  e  però  tutte  queste  appartenenze  e  attinenze  del  cavallo 
diconsi  contingenti.  L'intendmiento  adunque  sente  d'abbisognare 
d'una  ragione  sufficiente  che  gli  spieghi  tutte  queste  cose,  che 
egli  riscontra  nella  sua  cognizione  di  predicazione  ,  ma  che  gli 
mancano  affatto  nella  sua  cognizione  ideale  delle  essenze. 

63.  Riguardo  al  mondo  delle  idee  si  presenta  il  problema  stesso. 

Le  idee  o  piuttosto  i  concetti  dell'umana  mente  sono  moltis- 
simi e  variatissimi  ;  eppure  l' idea  dell'essere  è  unica.  Non  si 
vede  il  perché,  essendo  unica  l'essenza  dell'essere,  ci  si  devano 
presentare  tante  altre  essenze;  onde  questa  moltiplicità?  qual  é 
il  principio  che  le  moltiplica  e  che  le  differenzia? 

Oltre  di  ciò  sopra  le  idee  specifiche  piene  delle  cose  la  ri- 
flessione ci  fa  tanti  lavori,  e  ne  trae  tanti  enti  mentali,  i  quali 
|)ure  producono  all'intelligenza  il  bisogno  di  domandare,  come 
nel  concetto  dell'ente  si  possa  rinvenire  alcuna  ragion  suffi- 
ciente di  essi. 

66.  Nel  mondo  morale,  nel  quale  l'essere  prende  la  forma  di 
bene,  ritornano  le  stesse  antinomie  sotl'altro  aspetto,  e  T Intel- 


61 

ligenza  addomanda  assolulamcnte  una  conciliazione.  Si  presenta 
infatti  come  un'antinomia  ,  che  v'abbia  un  bene  assoluto  ed 
unico,  e  conlemporancamenlfì  molli  beni  finiti;  cbe  v'abbia  un 
solo  principio  di  tutte  le  cose  ,  e  questo  ottimo,  e  insieme  con 
questo  esista  il  male;  cbe  il  principio  del  bene  sia  onnipotente, 
e  cbe  ciò  non  ostante  si  scorga  da  per  tutto  una  costantissima 
lolla  tra  il  bene  e  il  male;  cbe  l'essenza  del  bene  morale  sia 
una,  e  tuttavia  sieno  innunìerevoli  le  sue  forme  ed  apparizioni,  ecc. 
Anche  riguardo  al  mondo  morale  adunque  la  ragione  sente  il 
bisogno  di  trovare  nella  slessa  essenza  dell'essere  la  ragione  e 
la  conciliazione  di  queste  apparenti  contraddizioni. 


CAPITOLO  VI. 

Quinta  forma  del  problema  ontologico:  a  Che  cosa  sia  ente 
e  che  cosa  sia  non  ente  ». 

07.  Se  noi  cerchiamo  le  Iraccie  storiche  del  problema  on Io- 
logico,  sembra  cbe  l'umana  mente  toccasse  questo  termine,  prim.i 
cbe  altrove,  in  Italia.  Nella  Storia  della  FilosoMa  ,  la  più  an- 
tica data  certa  di  questo  problema  espresso  scientiricamenle  è 
(piella  della  Scola  d'Elea;  e  il  più  gran  monumento,  cbe  ci  ri- 
manga di  questa  dotlrina,  è  il  Parmenide  di  Platone.  In  parie 
almeno  si  sa,  in  che  modo  questa  scola  sciogliesse  un  tal  pro- 
blema. Ma  ora  resta  a  noi  d'accennare  il  sommo  merito  filoso- 
fico dell'averlo  proposto,  e  la  formola,  nella  quale  lo  ha  proposto. 

Questa  formola  può  enunciarsi  così  : 

a  Che  cosa  sia,  che  si  possa  dire  veramente  ente  »;  ovvero: 
«  quali  sono  i  caratteri  e  le  condizioni  indispensabili  dell'enle  ». 

08.  Proposta  da  Parmenide  una  cosi  ardua  questione  ,  essa 
travagliò  in  vano  tutta  l'antica  filosofia. 

E  veramente  tutta  la  filosofia  antica  ,  qualora  si  voglia  par- 
tirla secondo  la  soluzione  data  a  questo  gran  problema ,  pre- 
senta tre  sistemi  esclusivi,  che  si  uniscono  poi  in  un  quarto,  i 
quali  comprendono  tutte  le  soluzioni  possibili  ,  benché  indicate 
in  un  modo  generale. 

I."  Classe  dì  sislcmi.  Quelli  che,  non  trovando  il  modo  di 


62 

conciliare  Vimilà  degli  enti  colla  loro  moltiplicilà,  esclusero  que- 
sla  seconda,  e  ammisero  l'ente  uno,  il  tò  h  di  Parmenide. 

li."  Quelli  che  ,  disperati  ugualmente  della  conciliazione  , 
esclusero  affatto  l'uno,  e  posero  i  molti,  ttoIXcì,  come  Leucippo 
e  Democrito. 

III.''  Quelli  che  tentarono  di  conciliare  l'uno  coi  molti  , 
benché  noi  crediamo  che  non  ci  sieno  riusciti  ,  i  quali  ammi- 
sero V  ìv  xal  TToXXk;  nel  qual  numero  io  credo  si  possa  collo- 
care Anassagora. 

IV. "  Finalmente  quelli  che  ammettevano  ad  un  lempo  1'  h 
xcti  ~av,  l'uno  e  lutto,  i  noXXx,  i  molti,  e  V  bv  xxl  ttoXKcc,  l'uno 
e  i  molli,  sotto  diversi  rispetti  Sembra,  che  tra  questi  devano 
collocarsi  i  miggiori  filosofi,  Platone  e  Aristotele. 

69.  Gli  Alessandrini  fecero  di  queste  tre  cose  tre  ipostasi  e 
quasi  persone  divine  ,  appropriandosi  il  linguaggio  del  Cristia- 
nesimo ,  e  prelesero  di  trovare  fondamento  a  questa  dottrina 
ne'  più  antichi.  Cosi  Plotino  pretende  di  trovare  le  tracce  di 
quei  tre  principi  ineguali  ,  da  riconoscersi  nella  divinità  ,  nel 
dialogo  che  Platone  inscrisse  il  Parmenide  (1),  e  ad  alcuni  de' 
filosofi  moderni,  come  a  Rodolfo  Cudworth,  parve,  che  questa 
sia  veramente  la  chiave  di  quel  dialogo  (2). 


CAPITOLO  VII. 

Si  riassumono  le  formole,  nelle  quali  fu  presentato 
il  problema  ontologico. 

70.  Riassumendo  dunque  le  diverse  formole  nelle  quali  ab- 
biamo posto  sempre  lo  stesso  problema  dell'Ontologia,  esse  furono 
le  cinque  seguenti  : 


(\)    0  -nxpx  II),aT6)vi  Ua.py.iviSii,  àxpt^zazipov  It/uv  oioapii  ktt  «Xi-ó),wv  tò  ttjSwtov 
sv,   o   y.xìpiùtipov   iv     y.yX  ^tù-zipov   ev  -KoWy.  iéywv,  x«i  rplrov  tv  xjcl  Ttol^x'    xaX   aù/j.— 

ftùvoi  ouTw  x«ì  «ÙTós  àcTt  TaTs  f'jaiat  TKtj  -rpiiìv ,  cioè ,  «  Parmenide  appresso 
«  Platone  parlando  più  esattamente  distingue  il  primo  uno,  che  è  più  princi- 
«  palmento  uno,  il  secondo  uno,  che  chiama  molti,  finahnento  il  terzo,  wno 
(f  e  molti  ».  Plot.  Ennead.  V,  490,  a. 
(i)  liane  minime  admonitionem  Plotini  sjireverim;  quin  ad  obscarum 


63 

1°  Trovare  la  conciliazione  delle  manifestazioni  dell'enlc  col 
concetto  dell'ente; 

2°  Trovare  una  ragione  sufficiente  delle  diverse  manifesta- 
zioni dell'ente; 

5°  Trovare  l'equazione  tra  la  cognizione  intuitiva  e  quella 
di  predicazione  ; 

4°  Conciliare   le    antinomie    che  appariscono   nel   pensiero 
umano; 

l)°  Che  cosa  sia  ente  e  che  cosa  sia  non  ente. 
7ì  Queste  cinque  diverse  forme  esprimono  lo  stesso  problema 
sotto  diversi  aspetti,  e  l'una  implica  l'altra.  Colla  prima  si  pro- 
pone di  conciliar  le  manifestazioni  dell'ente  col  concetto  dell'ente, 
cioè  di  mostrare  che  quelle  non  ripugnano  al  concetto  semplice  di 
questo.  Ora  questo  concetto,  essendo  universale,  egli  mostra  di 
dover  abbracciare  tutto  ciò  che  è.  Non  si  può  dunque  dimostrare 
che  le  manifestazioni  dell'ente  non  ripugnino  al  concetto  semplice 
e  universale  dell'ente,  se  non  dimostrando  che  i  diversi  modi, 
nei  quali  l'ente  si  manifesta ,  si  contengono  nell'unico  concetto 
dell'ente  stesso.  .Ma  dimostrato  che  vi  si  contengono,  è  dimostrato 
altresì  che  sono  necessariamente  possibili ,  perchè  il  concctlo 
dell'ente  è  evidentemente  necessario,  e  per  ciò,  tutto  ciò  che  è  in 
esso,  è  necessario. 

Trovata  questa  possibilità  necessaria  di  que'  modi  nel  concetto 
dell'ente,  è  trovata  di  conseguente  la  loro  ragione,  cioè  la  ragione 
ultima,  necessaria  ed  evidente  per  la  quale  sono  possibili.  Il 
proporsi  dunque  di  cercare  questa  ragione,  che  è  la  seconda 
forma  del  problema,  è  una  stessa  questione  con  quella  di  con- 
ciliare i  modi  dell'ente  col  concetto  dell'ente,  prima  forma  del 
problema;  se  non  che  la  seconda  forma  è  più  avanzala,  perchè 
indica  qual  deva  essere  il  risultato  del  problema. 

I  diversi  modi  poi ,  ne'  quali  l'ente  si  manifesta  ,  hanno  per 
loro  fondamento  il  sentimento  e  la  percezione  de' reali,  e  quindi 
una  cognizione  di  predicazione.  Il  concetto  dell'ente  all'opposto 
costituisce  la  cognizione  intuitiva.  Se  dunque  si  dimostra  che  i 


et  diffìcilem  Platonis  Dialogum,  quem  Parmenidem  imcripsit,  reserandvm 
vix  aliquid  opporlunius  hoc  inveniri  posse  arbitror.  —  li.  Cudworth  Syst. 
intellect.  T.  I,  e.  IV,  §  XXI. 


64 

diversi  modi  dell'ente  a  noi  manifesti  per  le  realità  che  perce- 
piamo, hanno  la  raj^ione  della  loro  possibilità  nello  stesso  con- 
cello dell'ente,  con  ciò  quello  che  si  conosce  per  predicazione  si 
soggioga  alla  teoria,  si  rannoda  all'idea  e  all'oggetto  dell'intui- 
zione, e  non  e" è  più  dissidio  tra  il  reale  e  l'ideale,  e  tra  la 
cognizione  di  predicazione  che  riguarda  il  primo,  e  la  cognizione 
d'intuizione  che  riguarda  il  secondo;  ma  le  due  cognizioni  s'ag- 
guagliano ed  equilibrano,  e  l'intendimento  s'acqueta,  trovando 
che  quello,  che  è,  ha  la  sua  ragione  necessaria  in  quello,  che  può 
essere.  La  terza  forma  dunque  del  problema  ontologico  è  ancora 
la  prima  nel  suo  fondo ,  ma  è  più  avanzata  delle  due  prime 
nell'espressione  ,  perchè  indica  un  risultato  ulteriore  del  pro- 
blema ,  che  è  la  quiete  dell'  intendimento ,  che  ha  trovato  la 
concordia  e  l'ordine  tra  quelle  due  maniere  di  conoscere,  che  si 
riducono  ad  un  medesimo  principio  necessario. 

Che  se  si  considera  che  tutta  la  difficoltà  di  tali  conciliazioni 
è  riposta  in  certe  apparenti  contraddizioni  o  antinomie  tra  i  modi 
dell'ente  e  l'ente  :  tra  il  contingente,  che  non  ha  la  sua  ragione 
in  se  slesso  e  il  necessario:  tra  la  cognizione  per  predicazione 
e  quella  per  intuizione;  ne  uscirà  tosto  la  quarta  formola,  e  il 
problema  si  ridurrà,  senza  mutare  di  natura,  a  cercare  come  si 
concilino  le  antinomie  che  appariscono  nel  pensiero  umano.  Colle 
tre  prime  forme  s'esprime  il  problema  definendolo  e  determinan- 
dolo dallo  scopo  a  cui  intende;  la  quarta  dalla  difficoltà  che  deve 
vincere  per  raggiungere  lo  scopo. 

La  quinta  formola  poi,  che  domanda  :  «  Che  cosa  sia  ente, 
quali  sieno  le  sue  essenziali  condizioni  w:  esprime  lo  stesso  pro- 
blema definendolo  dal  mezzo  a  cui  si  deve  ricorrere  per  tro- 
varne la  soluzione.  Poiché  ove  ben  si  conosca  qual  sia  la  natura 
dell'ente,  e  quale  di  conseguente  quella  del  non  ente^  con  faci- 
lità si  compone  quel  quadruplice  dissidio. 

7^.  Ora  cercare  qual  sia  la  natura  e  i  caratteri  essenziali 
dell'ente,  è  quanto  un  procurarsi  la  Teoria  universale  dell'ente, 
e  per  ciò  così  appunto  si  definisce  TOnlologia. 


65 


CAPITOLO  Vili. 

Della  possibilità  di  dare  un  cominciamento  logico  all'Ontologia. 

73.  Abbiamo  già  notalo  che  que'  filosofi,  che  ridussero  tutta 
la  filosofia  all'Ontologia,  si  trovarono  impacciati  alla  prima  pa- 
rola che  vollero  pronunciare,  e  furono  obbligati  di  dire  che  qua- 
lunque fosse  il  cominciamento,  non  poteva  essere  che  un'ipotesi, 
quasi  che  ciò  che  si  fonda  sopra  un'ipotesi  potesse  divenire  in 
progresso  una  verità  senza  l'antecedenza  di  qualche  principio 
logico  necessario,  che  ne  giustifichi  il  passaggio:  nel  qual  caso 
questo  principio  logico,  sottinteso,  avrebbe  dovuto  essere  il  vero 
cominciamento:  e  lo  sbaglio  per  verità  consisteva  nell'averlo 
sottinteso,  collo  stesso  negarlo,  anzi  che  esprimerlo. 

Non  vedendo  poi  alcun  modo  di  cominciare  l' Ontologia  da 
cosa  certa  ,  dissero  che  nessuna  notizia  immediata  era  vera ,  e 
gran  rumore  levarono  contro  quello  che  essi  chiamarono  l'm- 
mediato  {ì) ,  quasi  che  potesse  esser  certo  il  mediato,  che  di- 
pende logicamente  dall'  immediato,  se  questo  stesso  non  è  certo, 
0  l'unione  de'  molli  incerti  potesse  dare  un  tutto  certo. 

74.  Ma  noi  non  abbiamo  questa  specie  d' impedimenti ,  non 
avendo  cominciata  la  filosofia  dalle  scienze  ontologiche ,  ma  ad 
esse  fatto  precedere  le  ideologiche. 

In  queste  si  fece  chiaro,  che  ogni  umano  sapere  dipende  da 
due  elementi  primitivi  e  immediati ,  che  sono  Vesscre  ideale  in- 
tuito per  natura  dall'umana  intelligenza,  e  il  sentimento  (2). 

V essere  ideale  è  l'immediato  evidente,  non  di  quella  evidenza, 
che  Cartesio  poneva  neWidea  chiara,  ma  di  quella  che  consiste 
nella  necessità  logica,  onde  la  mente,  che  l' intuisce,  vede  essere 
impossibile  che  egli  sia  diverso  da  quello  che  apparisce  (5). 

Il  sentimento  non  è  noto  per  sé  stesso  ,  ma  per  l'atto  della 
percezione,  la  quale  non  ammette  errore  (4). 


(i)  Introduzione  alla  Filosofia,  n.  84. 

(2)  Antropologia,  n.  10-17;  Logica,  n.  309;  1045;  1092-1097. 

(3)  Rinnovamento,  1.  IH,  e.  XLVII. 

(4)  Nuovo  Saggio,  sez.  VI,  p.  Ili,  n.  1158-1244. 

Rosmini.  Teosofia.  5 


co 

7S.  Vero  è,  cìie  la  percezione  non  dà  che  una  cognizione  li- 
mitata, ma  questo  non  toglie,  che  dentro  la  sua  limitazione  non 
possa  esser  vera.  Onde  i  filosofi  tedeschi  dal  Fichte  all'Hegel 
caddero  in  un  grave  errore^  quando  confusero  la  imitazione  colla 
fahità  del  conoscere  ;  e  dissero  falsa  la  percezione,  perchè  non 
ci  trovarono  dentro  quello  che  non  ci  polca  essere,  e  che  pure 
vi  cercavano.  Che  colesti  filosofi  cercano  da  per  tulio  l'essere 
assoluto  per  quella  ragione  che  dicevo,  che  impreparali  si  but- 
tarono nell'Ontologia^  e  omisero  le  scienze  ideologiche,  volendo 
subito  trovare  la  dottrina  compiuta  dell'essere,  e  per  questo  ri- 
putando falsa  la  percezione,  perchè  loro  non  la  somministrava, 
che  anzi  della  percezione  stessa  non  seppero  formarsi  un  giusto 
concetto,  dandole  arbitrariamente  un'estensione  che  ella  non  ha, 
e  poi  condannandola  come  falsa,  perchè  non  l'ha  (1). 

70.  Sui  due  elementi  primitivi  del  sapere  si  ripiega  la  rifles- 
sione, e  trovandone  i  limili,  e  rimovendoii  con  lungo  e  faticoso 
lavoro,  riesce  finalmente  ad  una  teoria  soddisfacente  dell'essere, 
a  conoscere  il  problema  dell'Onlologia,  a  scioglierlo  e  a  dimo- 
strare i  limili  necessari  di  questa  risoluzione  umana. 

77.  Ma  di  qual  mezzo  si  serve  la  riflessione  per  ripiegarsi 
sopra  que'  due  elementi,  cioè  sull'essere  ideale  e  sul  sentimento, 
e  conoscere  ciò  che  hanno  di  limitato,  rimovendo  altresì  questi 
limili?  —  Dello  stesso  essere,  che  è  la  forma  d'ogni  conosci- 
mento, il  mezzo  universale  e  necessario  degli  atti  dell' intelli- 
genza. E  come  questo  si  applichi  a  sé  medesimo,  come  pure  ai 
percepiti,  apparisce  chiaramente  dall'Ideologia. 

78.  Vero  è;,  che  la  mente  umana  procede  per  gradi  ,  e  che 
n(m  arriva  alla  compiuta  teoria  dell'essere  con  un  solo  allo  di 
riflessione,  ma  con  molli,  e  quindi  ha  bisogno  di  rompere  il  pen- 
siero in  una  serie  di  moltissime  proposizioni  particolari  e  uni- 
versali connesse  tra  loro,  prima  d'arrivare  a  quello  che  noi  chia- 
miamo pensare  assoluto,  dove  sta  l'apice  dell'Ontologia.  Ma  anche 
qui  si  deve  escludere  l'errore  dell'Hegel  —  simile  a  quello  mento- 
valo di  sopra  —  il  quale  dichiarò  false  tutte  le  proposizioni  e  lutti 
i  giudizi ,  unicamente  perchè  ciascuna  non  abbraccia  tulio , 
quand'egli  pretende  che  solamente  nel  tutto  stia  la  verità.  E  in 

(1)  Introduzione  alla  Filosofia.  —  Sistema  filosofico  n.  75-77. 


67 

qual  tutto  ?  In  quello  che  egli  chiama  idea  assoluta,  nella  quale, 
secondo  lui,  lo  stesso  soggetto  umano,  dico  il  soggetto  reale,  come 
pure  il  mondo  materiale  si  perde  intieramente  ;  di  che  nasce 
questa  strana  dottrina,  che  «  quando  fosse  trovata  a  questo  modo 
la  verità,  l'uomo,  che  ne  dovrebbe  fruire,  non  ci  sarebbe  più  ». 
Ma  nella  Logica  furono  già  in  parte  dileguate  queste  tenebre  (1). 

79.  Onde  dobbiamo  conchiudere,  che  noi  e  abbiamo  un  punto 
fermo,  da  cui  cominciare  l'Ontologia  (l' idea  dell'essere  e  il  sen 
timento);  e  abbiamo  un  mezzo,  pel  quale  da  questo  punto  fermo 
possiamo  movere  spingendoci  a  sempre  nove  cognizioni  (l'essere 
ideale,  l'essenza  dell'essere)  ;  e  finalmente  sappiamo^  che  ci  è  le- 
cito di  procedere  da  una  di  queste  cognizioni  ad  altre  per  via 
di  proposizioni  connesse  tra  loro ,  con  sicurezza  che  ciascuna , 
quando  risponda  alle  leggi  dell'antica  e  eterna  logica,  è  vera,  e 
tutte  insieme  mediante  le  accennate  connessioni  possono  darci 
quel  sistema  della  verità  che  cerchiamo. 

Questo  solo  vogliamo  aggiungere  a  encomio  della  scienza  on- 
tologica ,  che ,  appunto  perchè  tutti  i  giudizi  e  le  proposizioni 
particolari  hanno  qualche  cosa  di  negativo,  ninna  di  esse  fa- 
cendo conoscere  interamente  l'essere  ,  l'Ontologia  ,  che  si  pro- 
pone di  congiungere  insieme  una  serie  di  proposizioni  da  farne 
riuscire  la  teoria  dell'essere  ,  è  quella  che  perfeziona  lo  stesso 
sapere  umano ,  e  però  ella  si  può  chiamare  ad  un  tempo  «  la 
teoria  del  sapere  ». 

CAPITOLO  IX. 

Meccanismo  dell'argomentare  che  adopera  l'Ontologo. 

80.  Ma  poiché  sommamente  giova,  che  ben  si  conosca  fin  da 
principio  il  meccanismo  dell'argomentare,  con  cui  l'Ontologo  pro- 
cede alla  soluzione  del  difficile  problema  che  gli  è  proposto  , 
giova  che  qui  lo  rimettiamo,  nudo  di  ogni  accessorio,  sotto  gli 
occhi  de'  lettori. 

81.  i.°  La  mente  intuisce  l'essere  indeterminato:  l'essere  in- 

(1)  Lo^ic.  n.  41-53;  1181-1184. 


G8 

determinalo  è  il  primo  oggetto,  che  s'affaccia  all'Ontologo,  e  il 
suo  punto  di  partenza, 

82.  2.°  Applicando  quest'essere  ai  sentiti  si  formano  le  per- 
cezioni, e  le  idee:  in  tal  modo  la  mente  ha  la  cognizione  degli 
enti  finiti. 

83.  3.°  La  cognizione  di  un  ente  finito  qualunque  non  fa  so- 
lamente conoscere  l'ente  finito  nella  sua  realità,  ma  anche  nella 
sua  possibil'tà,  anzi  quella  si  conosce  per  questa  che  logicamente 
precede.  Che  cosa  è  conoscere  l'ente  finito  nella  sua  possibilità? 
«  Conoscerlo  in  quanto  è  necessariamente  nell'essere  ».  Da  que- 
sta formola,  che  sarà  meglio  illustrata  in  appresso,  si  vede  che 
la  cognizione  dell'ente  finito  discopre  una  nova  cosa  in  quell'ente 
indeterminato  che  si  vedeva  prima  :  lo  si  vede  ora  ugualmente, 
ma  ci  si  vede  anche  qualche  cosa  di  più,  perchè  s'impara  che 
egli  può  essere  attuato  e  terminato  in  quell'ente  finito  che  si  è 
conosciuto  Prima  di  conoscersi  questo ,  si  vedeva  nell'essere 
indeterminalo  una  potenzialità,  senza  sapere  a  che  cosa  essa  si 
riferisse.  Ora  si  sa  almeno  uno  de'  termini  a  cui  si  riferiva  quella 
potenzialità.  Dunque  con  ciò  s'è  accresciuta  la  cognizione  dello 
stesso  essere,  avendosi  uno  de' punti  ai  quali  l'indeterminazione 
sua  s'estende.  Noi  consideriamo  qui  il  termine  come  possibile: 
la  cognizione  del  termine  come  possibile  ci  fa  sapere  ,  come 
l'essere  può  essere  terminato  :  se  considerassimo  il  termine 
come  reale  ,  avremmo  l'essere  da  qursta  parte  determinato , 
e  sarebbe  la  stessa  cognizione  dell'  ente  finito  sussistente. 
Il  ragionamento  ,  che  noi  facciamo  d'un  ente  finito  qualun- 
que ,  s'estenda  ora  a  lutti  gli  enti  che  noi  percepiamo  :  tulli 
li  conosciamo  non  solo  come  reali  ,  ma  anche  come  possibili  : 
lasciando,  per  un  poco,  da  parte  la  cognizione  del  reale  come 
reale,  consideriamo  la  cognizione  di  questo  come  possibile.  Gli 
enti  finiti  possibili  presenti  alla  mente  nostra  crescono  la  nostra 
cognizione  in  due  modi,  secondo  i  due  modi  ne'quali  la  mente 
li  considera.  Poicbè  la  mente  li  può  considerare  fermandosi  in 
ciascuno  di  essi,  e  questo  costituisce  la  cognizione  de' singoli  ; 
e  li  può  considerare  in  relazione  all'essere  indeterminalo  ,  cioè 
come  suoi  termini  possibili,  e  questo  aumenta  la  cognizione  del- 
l'essere indeterminato,  facendo  conoscere  i  termini  ai  quali  esso 
può  determinarsi. 


69 

84.  Quindi  si  vede  la  ragione,  perchè  molli  trovino  tanta  dif- 
ficoltà ad  ammettere,  che  lo  spirito  umano  intuisca  l'essere  an- 
teriormente alla  percezione  d'un  ente  finito.  Un  tal  essere  si 
trova  davanti  alla  mente  non  solamente  privo  d'ogni  sua  determi- 
nazione e  d'ogni  suo  termine,  ma  ben  anco  in  tale  stato  iniziale 
che  non  dà  alla  mente  alcuna  notizia  delle  sue  determinazioni 
possibili,  ma  soltanto  mostra  di  poter  essere  determinato,  non  si 
sa  come  né  a  che.  Onde  facilmente  pare,  che  sia  un  bel  nulla. 
E  pure  quando  la  riflessione  cade  sopra  un  ente  finito  e  lo  ana- 
lizza, distingue  l'atto,  pel  quale  è  questo  ente  finito,  dallo  stesso 
ente  finito,  e  lo  distingue  a  tal  segno  che  conchiude,  l'atto  pel 
quale  è,  accomunarsi  a  tutti  gli  altri  enti  finiti  ,  laddove  cia- 
scuno di  questi  esser  proprio,  distinto,  e  non  potersi  accomunare 
agli  altri.  E  andando  avanti  col  pensiero  filosofico  riesce  a  questa 
conclusione  importantissima,  che  l'atto  dell'essere  comune  a  tutti 
gli  enti  finiti  è  intelligibile  per  sé  stesso,  e  per  lui  si  rendono 
intelligibili  gli  enti  finiti.  Di  che  seguita,  che  il  puro  atto  del- 
l'essere può  benissimo  intuirsi  senza  gli  enti  finiti,  e  avanti  che 
questi  si  percepiscano^  benché  in  questo  tempo  non  possa  esser 
parlato,  perchè  è  ancora  tutto  solo,  e  per  questa  sua  perfetta  so- 
litudine non  ammette  discorso  né  della  mente,  né  della  lingua. 

La  stessa  riflessione  poi  sopra  gli  enti  finiti  già  percepiti  ci  fa 
intendere  ,  che  l' intuizione  dell'essere  contiene  la  notizia  della 
possibilità  di  maniera  che,  se  l'esseie  è  solo,  presenta  alla  mente  il 
possibile  solo,  senza  che  questo  possibile  si  possa  riferire  a  cosa 
alcuna  determinata  :  se  poi  la  mente  ha  già  percepito  un  ente 
finito,  allora  l'essere  indeterminato  presenta  alla  mente  non  sol- 
tanto il  possibile  in  universale,  ma  il  possibile  di  quel  dato  ente 
percepito:  di  che  s'aggiunge  luce  all' indeterminazione  e  alla  pos- 
sibilità, perché  hanno  un  punto  a  cui  riferirsi. 

85.  E  qui  attentamente  si  consideri,  che  qualunque  cosa  si 
pensi,  la  quale  non  involga  contraddizione,  si  pensa  come  possi- 
bile, e  non  si  può  a  meno  di  pensarla  così;  e  questa  possibilità  /o- 
gf/ca  consiste  certamente  nel  non  involgere  contraddizione;  e  non 
in  questo  solo,  ma  ben  anco  nell' intendere,  che  la  cosa  è  assoluta- 
mente possibile:  il  che  implica,  che  c'è  necessariamente  una  po- 
tenza incognita,  per  la  quale  quella  cosa  potrebbe  esistere,  po- 
tenza virtualmente  contenuta  nel  concetto  stesso  di  essere. 


70 

86.  Vessere  dunque  per  se  stesso  è,  e  la  possibilità  non  è  che 
una  relazione  alla  reaìilà,  cioè  a.i  suoi  termini,  i  quali  non  si  su 
ancora  di  che  natura  sieno,  sino  a  tanto  che  non  si  siano  percepiti. 
Cogli  enti  finiti  poi  s'incominciano  a  percepire.  Percependo  dun- 
que la  realità,  cioè  i  finiti  reali^  non  solo  si  aumenta  la  nostra  co- 
gnizione per  aver  appresa  questa  realità^  ma  si  aumenta  anche  la 
nostra  cognizione  della  possibilità,  perchè  s'incomincia  a  cono- 
scere di  che  natura  sia  il  termine  di  questa  possihililà,  e  così  si 
conosce  più  di  pi  ima  l'essere  indeterminato,  perchè  si  conosce  in 
qualche  parte  la  natura  delle  sue  determina/joni. 

Dalla  percezione  dunque  degli  enti  finiti  riceve  una  prima  illu- 
strazione l'essere  indeterminato  ,  che  sta  presente  naturalmente 
alla  mente  umana,  e  allora  solo  può  incominciare  il  discorso  della 
mente,  che  esige  pluralità  di  notizie;  poiché  non  si  conosce  più  il 
solo  essere  colla  possibilità  delle  sue  determinazioni  e  de'  suoi  ter- 
mini in  universale,  ma  oltre  a  ciò  si  conosce  qualcheduno  di  questi 
termini,  e  però  si  conosce  in  parie  la  natura  di  quello,  a  cui  la 
possibilità  si  riferisce,  ossia  la  natura  di  qualche  determinazione 
dell'essere. 

87.  4"  Quest'è  W  primo  passo,  che  fa  l'Ontologo  verso  la  co- 
gnizione piena  dell'essere.  Il  secondo  passo  consiste  in  nove  ri- 
flessioni che  egli  fa  sulle  realità  finite  da  lui  conosciute.  Quali 
sono  queste  riflessioni?  Primieramente  egli  confronta  le  realità 
conosciute  come  termini  possibili  dell'essere  colla  possibilità  uni- 
versale,  che  presenta  l'essere  stesso.  Da  questo  confronto  egli 
rileva  : 

a)  Che  le  realità  finite  considerate  come  termini  possi- 
bili dell'essere  non  esauriscono  la  possibilità  universale  dell'essere, 
la  quale  non  ammette  limite  alcuno  ; 

b)  E  di  più  rileva,  che  Tessere  con  tutta  la  sua  possi- 
bilità infinita  sarebbe,  ancorché  non  esistessero  quelle  realità: 
perciò  queste  realità  non  costituiscono  l'essenza  dell'essere,  non 
sono  necessarie  all'essere,  onde  le  chiama  contingenti; 

e)  Vede  nondimeno,  che  la  loro  possibilità  è  inchiusa  nella 
possibilità  universale,  la  quiile  appartiene  all'essenza  dell'essere. 

88.  ì)^  Dopo  di  ciò  la  riflessione  ontologica  s'eleva  ancor  più 
verso  la  piena  cognizione  dell'essere  con  un  terzo  passo.  Ella 
possiede  un  saggio  benché  assai  povero  dei  termini  e  delle  de- 


74 

terminazioni  dell'essere  nella  realità  degli  enti  finiti  sommini- 
strali dalla  percezione.  Deduce  da  questo ,  che  que'  termini  e 
quelle  determinazioni  dell'essere,  ch'ella  ancora  non  conosce, 
devano  avere  qualche  similitudine  o  analogia  coi  termini,  cioè 
colle  realità  finite  ch'ella  ha  percepite  e  conosce.  E  ciò  perchè 
tulli  i  termini  dell'essere  hanno  egualmente  per  principio  l'essere 
e  dalla  natura  dell'essere  dipendono,  di  che  conviene  che  neces- 
sariamente abbiano  qualche  cosa  di  comune,  almeno  per  cinalo- 
gia.  Deduce  lo  stesso  analizzando  i  termini  finiti  ch'ella  conosce, 
e  scoprendo  che  alcuni  elementi  di  questi  termini  finiti  devono  ne- 
cessariamente trovarsi  anche  in  tulli  gli  altri  termini  possibili 
dell'essere;  e  ciò  perchè,  se  non  vi  si  trovassero,  l'essere  non 
potrebbe  averli  senza  distruggersi.  Con  queste  e  simili  riflessioni 
giunge  la  riflessione  ontologica  a  formarsi  una  dntlrina  intorno 
alle  determinazioni  ed  ai  termini  in  universale  dell'essere.  A  ra- 
gion d'esempio  la  detta  riflessione  negli  enti  finiti  trova  attività, 
sentimento V  intelligenza,  moralità,  e  cose  simili,  e  intende,  che 
sarebbe  impossibile  che  l'essere  avesse  dei  termini  i  quali  fos- 
sero privi  al  tulio  di  esse,  o  almeno  fossero  privi  al  tulio  di 
relazioni  con  esse;  il  che  dà  già  un  risultalo  importante  per 
la  dottrina  universale  delle  determinazioni  e  de'  termini,  di  cui 
l'essere  è  suscettivo. 

89.  6®  Questa  dottrina  fa  poi  un  quarto  passo  di  grandissima 
importanza,  quando  meditando  l'essere  indeterminato  trova: 

a)  Che  l'essere,  che  s'intuisce  dalla  mente,  quantunque 
indeterminato,  non  può  non  essere  in  se  stesso; 

b)  Che  l'essere  non  può  essere  in  sé  stesso  se  non  è  pie- 
namente determinalo,  e  quindi  che  egli  deve  avere  delle  deter- 
minazioni e  de'  termini  propri  e  necessari,  ai  quali  applica  la 
dottrina  universale  intorno  alla  natura  de'  termini  cavata  da' 
termini  finiti  per  analogia; 

e)  Che  i  termini  propri  e  necessari  dell'essere  non  pos- 
sono avere  limitazione  alcuna,  perchè  l'essere  non  ne  ha,  e  de- 
vono entrare  anch'essi  a  costituire  l'essenza  dell'essere,  altri- 
menti si  cadrebbe  in  contradizione,  cioè  l'essere  sarebbe  ne 
gaio,  quando  la  sua  natura  importa  che  non  possa  non  essere. 
Quindi  un  quinto  passo  della  riflessione  ontologica  è  quello,  che 
stabilisce  la  necessità  de'  termini  propri  dell'essere;  e  un  sesto, 


72 

quello  che  rimove  da  questi  termini  tutto  ciò  che  non  può  loro 
convenire,  come  sarebbe  appunto  la  limitazione.  In  questo  modo 
la  mente  perviene  alla  teoria  dell'essere  assoluto,  che  ha  i  ca- 
ratteri della  divinità,  i  quali  mancavano  ancora  all'essere  inde- 
terminato, 

90.  Tale  è  il  meccanismo  dell'argomentare,  che  adopera  l'On- 
tologo;  egli  consiste  lutto  in  un  continuo  confronto,  che  la  ri- 
flessione fa  tra  gli  enti  finiti  percepiti,  e  l'essere  che  sta  pre- 
sente alla  mente,  benché  in  un  modo  indeterminato  Questo  la- 
voro tende  a  determinare  l'essere,  nelle  quali  parole  si  ha  una 
sesta  forma  del  Problema  ontologico. 

È  importantissimo  il  ben  intendere  questo  meccanismo  logico, 
pel  quale  il  pensiero  dell'uomo  si  avanza  sino  alle  ultime  ricer- 
che concedute  alla  mente  umana ,  e  perviene  ad  unti  teoria  che 
gli  dà  il  pieno  riposo  a  cui  aspira;  e  vi  perviene  di  un  passo  si- 
curo procedendo  sempre  in  un  modo  necessario  coH'uso  conti- 
nuo del  principio  di  contradizione,  d'identità,  e  di  cognizione, 
dal  quale  ultimo  i  due  primi  dipendono. 

Questa  è  la  via,  che  noi  terremo  in  tutta  quest'Opera. 


CAPITOLO  X. 

Del  circolo  in  cui  si  volge  il  ragionamento  ontologico, 
e  come  non  sia  vizioso. 

91.  Da  questo  si  conferma,  che  il  ragionamento  ontologico 
si  volge  necessariamente  in  circolo. 

Poiché  l'oggetto  dell'Ontologia  è  tutto  l'ente,  e  il  ragiona- 
mento non  può  ascendere  alla  cognizione  del  tulio  senza  ricor- 
rere alle  dottrine  delle  parli  che  lo  compongono,  e  non  può  co- 
noscere le  parti  che  lo  compongono  se  non  ricorrendo  alla  co- 
gnizione del  tulio.  Il  tutto  eie  parti  sono  correlative;  ei  cor- 
relativi s'  intendono  dalla  mente  con  un  solo  allo.  Ma  il  ragio- 
namento abbisogna  d'esaminare  i  termini  della  correlazione,  e 
non  li  può  esaminare  amendue  in  uno  slesso  tempo.  Chi  volesse 
parlare  del  lutto  senza  analizzarlo,  avrebbe  finito  il  discorso  in 


73 

una  sola  parola;  poiché  dopo  aver  pronunciato  la  parola  tutto, 
non  potrebbe  più  dir  altro. 

0:1.  Nel  capitolo  precedente  abbiamo  veduto,  che  la  rifl*'s- 
sione  ontologica  propria  della  mente  umana  move  dalla  perce- 
zione degli  enti  finiti  per  conoscere  : 

lo  La  fecondità  dell'ente  indeterminalo; 

2"  La  necessità  e  la  ricchezza  dell'ente  assoluto. 

Si  suppone  dunque  di  conoscere  l'ente  finito.  Ma  l'ente  finito  non 
si  può  investigare  e  conoscere  profondamente  senza  la  teoria  del- 
l'essere in  universale,  e  quella  altresì  dell'essere  assoluto.  Onde 
il  Teosofo  è  obbligato  a  collocare  la  teoria  dell'ente  finito^  che  è 
la  Cosmologia,  nell'ultimo  luogo.  Vi  è  dunque  in  quest'ordine  di 
ragionare  un  circolo  inevitabile,  essendovi  bisogno  della  teoria 
dell'ente  finito  per  istabilire  la  teoria  dell'essere  in  universale  e 
dell'essere  assoluto,  ed  essendovi  bisogno  di  queste  due  teorie  per 
dare   quella  dell'ente  finito. 

93.  Lo  stesso  circolo  s  incontra ,  se  invece  della  materia  cioè 
degli  oggetti  del  pensare ,  si  considera  la  forma  cioè  il  mezzo 
del  pensare  ragionativo.  Poiché  la  forma  del  pensare  è  l'essere 
indeterminato  e  i  principi  universali  che  da* esso  derivano 
{Ideol.  55G-572),  le  idee  elementari  dell'essere  (iVi  t)73-580), 
e  tutte  universalmente  le  astrazioni.  Ora  queste  nozioni  formali 
sono  necessarie  a  ogni  ragionamento  e  intervengono  in  lutti , 
0  si  presuppongono.  Ma  esse  slesse  si  derivano  dall'essere  di 
cui  sono  altrettante  applicazioni ,  o  si  lavorano  dalla  mente  col- 
l'astrazione  o  colla  finzione  dialettica  ,  esercitate  queste  opera- 
zioni sugli  enti  percepiti.  Onde  da  una  parte  non  si  può  ragio- 
nare dell'essere  e  degli  enti  percepiti  senza  tali  nozioni  ;  e  dal- 
l'altra  non  si  possono  avere  in  forma  scientifica  tali  nozioni 
senza  istituirsi  qualche  ragionamento  sull'essere  stesso  e  sugli 
enti.  Onde  già  osservammo,  che  l'essere  dalla  mente  nostra  s'ap- 
plica a  sé  slesso,  e  fa  ad  un  tempo  i  due  uffici  di  oggetto  e 
di  mezzo  del  conoscere  {Psicol.  S70),  e  lo  stesso  si  deve  dire 
di  tulle  le  nozioni  e  proposizioni  formali.  Vi  è  dunque  qui  di 
novo  un  circolo.  E  però  é  a  concliiudersi ,  che  tulli  i  ragiona- 
menti dell'Ontologia  e  della  Teosofia  si  volgono  necessariamente 
in  un  circolo. 

0^».   Ma   questo   circolo   è   egli    vizioso?   Non    punto,    poiché 


74 

quando  si  ragiona  delle  parti  per  conoscere  il  tutto,  allora  sta 
presente  alia  mente  il  lutto ,  il  quale  già  si  conosce  in  un  modo 
imperfetto  e  complessivo;  onde  lo  studio,  che  si  fa  delle  parti, 
non  produce  la  cognizione  del  tulio,  ma  soltanto  la  rende  più  per- 
fetta, la  illustra,  la  fa  più  riflessa  e  divisata  a  modo  di  scienza. 
Questo  dunque  non  pecca  di  quel  vizio,  che  i  Greci  chiamavano 
vTTEpov  Tponh  e  gli  scolastici  pìsiilli  versatio.  Ma  quella  prima  co- 
gnizione del  tutto  che  dirige  l'uomo  nello  studio  delle  parli,  ri- 
mane fuori  della  scienza:  il  perchè  la  cognizione  scientifica, 
ondccchessia  incominci  ,  ha  bisogno  d'una  cognizione  non  scien- 
tifica presupposta;  il  che  è  un  difetto  della  scienza,  non  pro- 
priamente della  cognizione  umana:  della  scienza  che  sembra  in- 
volgere un  circolo,  perchè  si  propone  di  dir  tutto  ordinatamente 
e  dimostrativamente,  e  però  deve  incominciare  dal  dire  alcune 
cose  che  ne  presuppongono  alcune  altre  che  dirà  o  anche  di- 
mostrerà in  appresso,  il  che  ha  l'apparenza  di  un  circolo.  Ma 
nella  cognizione  umana  il  circolo  non  v'è,  perchè  non  ha  bi- 
sogno di  successioni  e  di  parti ,  ma  ha  il  tutto  presente  senza 
presupporre  altra  cosa. 

Così  riguard'o  alla  materia ,  quando  la  mente  considera  gli 
enti  finiti  per  cavare  da  questi  delle  notizie  che  le  accrescono 
la  cognizione  e  la  dottrina  dell'essere,  ella  ha  presente  l'essere 
stesso;  e  sebbene  non  conosca  tutto,  circa  l'essere,  quanto  viene 
a  conoscere  di  poi,  ciò  non  ostante  conosce  abbastanza  l'essere, 
perchè  gli  serva  di  lume  e  di  norma  nello  studio  delle  parti. 
Laonde  gli  stessi  Scolastici  seguendo  Aristotele  riconobbero,  che 
doveva  precedere  una  cognizione  confusa  alla  cognizione  distinta  j 
e  scientifica  {Psicol.  451^»), 

Lo  stesso  è  da  dirsi  riguardo  alla  forma  del  pensare.  Pe- 
rocché, quantunque  la  scienza  non  possa  fare  alcun  ragiona- 
mento senza  l'uso  de' principi  formali,  e  abbia  bisogno  di  questi 
anche  quando  ragiona  intorno  ad  essi,  tuttavia  prima  d'ogni 
ragionamento  c'è  davanti  all'inttUigenza  l'essere  ideale,  cheli 
contiene  in  sé  tutti  virtualmente  e  indivisi.  Onde  ogni  qual- 
volta si  dividono  da  lui ,  riducendoli  in  proposizioni  separale 
r  una  dall'altra,  e  poi  s'adoperano  a  ragionare  intorno  allo 
slesso  essere,  da  cui  derivarono,  per  conoscerlo  meglio,  o  per 
la  stessa  ragione  intorno   ai   medesimi    principi   formali  ;    allora 


75 

si  f<i  bensì  un  circolo  apparente,  ma  non  vizioso,  perchè  essi 
s'adoperano  non  f»ià  ad  acquistare  quella  cognizione,  che  già 
si  possiede,  perchè  la  si  presuppone:  ma  ad  accresci  re  una 
tale  cognizione  e  a  renderla  più  viva,  esplicita,  distinta,  con- 
sapevole. 

93.  E  tant'è  lungi,  che  si  cada  con  ciò  nel  vizio  del  circolo, 
che  anzi  questa  slessa  necessità  d'applicar  l'essere  a  sé  stesso, 
e  i  princi[)ì  formali  a  sé  slessi,  dimostra  la  certezza  e  neces- 
saria verità  della  cognizione  di  cui  si  traila.  Poiché  è  una  prova 
•della  sua  ecidenza  questo  appunto,  il  non  potersi  illustrare  e 
intimamente  conoscere,  che  per  sé  stessa.  Nella  quale  evidenza 
appurilo  termina  ogni  dimostrazione ,  che  avanti  la  dimostra- 
zione c'è  l'evidenza  dell' intuito ,  da  cui  la  forza  della  dimostra- 
zione dipende  {Logic.  59G).  Onde  i  principi  formali,  a  cui  dob- 
biamo necessariamente  assentire  per  l' evidenza  dell'  essere  in 
cui  si  osservano  giacere,  sono  sicuri  mezzi  per  conoscere  la 
verità,  e  però  si  possono  applicare  anche  all'essere  stesso;  e 
se  ci  fanno  conoscere  in  noi  delle  cose  che  prima  non  cono- 
scevamo ,  0  in  altro  modo  da  quello  in  cui  le  conoscevamo, 
di  necessità  ci  bisogna  conchiudere,  che  le  nove  notizie  così 
avute  sono  vere;  perché  già  conosciamo  precedentemente  abba- 
stanza dell'essere  per  accertarci,  quando  ci  si  presentano  quelle 
notizie,  che  sono  vere:  il  qual  modo  di  ragionare  fu  chiamalo 
da' logici  non  circolo,  ma  regresso  {\). 


(1)  Per  regresso  noi  inteodiamo  «due  dimostrazioni,  o  più  generalmente, 
due  operazioni  conoscitive  connesse  insieme  in  questo  modo,  che  colla  prima 
partiamo  da  una  cosa  conosciuta,  e  arriviamo  a  conoscerne  un'altra  che  non 
conoscevamo  :  colla  seconda  ricominciamo  il  movimento  da  questa  stessa 
cosa,  che  siamo  arrivati  a  conoscere,  e  meditandovi  sopra  scopriamo  in  essa 
nove  cose  che  ci  servono  a  conoscerne  delle  altre  intorno  alla  prima  da  cui 
eravamo  partiti.  »  Questa  definizione  é  più  generale  di  quella  che  danno  i 
logici  del  regresso,  pel  quale  intendono  due  dimostrazioni,  colla  prima  delle 
quali  si  move  dall'effetto  a  conoscere  Vesistenza  della  causa  {demonstratio 
quod):  conosciuta  questa,  e  rilevatane  per  istudio  la  natura,  da  questa  na- 
tura move  poi  la  seconda  dimostrazione ,  colla  quale  conosciamo  meglio  di 
prima  l'effetto  {demonstratio  propter  quid),  la  qual  definizione  non  abbrac- 
cia, pare  a  noi ,  tutti  i  modi  e  i  casi  del  regresso.  Giacopo  Zabarella,  nobile 
filosofo  italiano,  dimenticato  da  noi  Italiani  al  solito,  ottimamente  osserva 
che  ne!  regresso  non  basta  aver  trovato  dall'effetto  Vesistenza  deWa  causa. 


76 

96.  Il  nostro  ragionare  dunque  nell' esposizione  della  Teosofia 
sarà  simile  al  procedere  di  quelli  che  navigano  in  uno  stagno, 
i  quali  quantunque  solchino  lo  stagno  colla  loro  navicella  in 
una  sola  linea,  tuttavia,  o  vadano  o  vengano  o  si  movano  per 
una  retta  o  per  linee  curve  serpeggiando,  non  escono  mai  dallo 
stagno ,  e  se  non  ci  fosse  tutto  lo  stagno  non  potrebbero  punto 
solcarlo  per  lungo  e  per  largo  nelle  diverse  direzioni,  benché  trac- 
cino sempre  delle  strisce  angustissime  in  quell'  acqua.  Così  noi 
qualunque  cosa  veniam  ragionando  per  le  diverse  parti  di  questa 
opera,  non  potremo  uscire  giammai  dal  mare  dell'essere  che 
esploriamo,  e  quantunque  ristretto  sia  il  sentiero  che  ci  apria- 
mo in  esso  colla  nostra  carena  ,  ci  converrà  aver  sempre  lutto 
l'essere  presente  non  alla  lingua  ma  alla  mente,  che  ogni  no- 
stra parola,  ogni  parziale  trattazione  lo  domanda  necessaria- 
mente come  un  presupposto ,  acciocché  o  possa  essere  da  noi 
delta  ,  0  dagli  altri  intesa. 


CAPITOLO  XI. 

Divisione  dell'  Ontologia. 

97.  Da  questo  apparisce,  che  non  fu  assegnato  compiutamente 
r oggetto  della  Metafìsica,  e  neppur  quello  della  sola  Ontologia 
da  coloro,  che  il  restrinsero  all'"  essere  comunissimo  »  (I).  Al- 
l'«  essere  comunissimo  »  in  senso  composto  precede  «  l'essere 
ideale  »,  di  cui  l'esser  comune  non  è  che  una  relazione  coi 
contingenti  (2) ,  che  la  mente  discopre  quando  colla   riflessione 

ma  conviene,  trovala  questa,  scoprirne  la  natura,  o  comecchessia  scoprire 
in  essa  qualche  cosa  di  novo  più  delia  sola  esistenza,  acciocché  da  questa 
si  possa  ritornare  all'effetto  ed  illustrarlo.  Vedi  il  libro  che  questo  logico 
scrisse  col  titolo  De  Regressu,  e  la  Logica  nostra,  n.  701-708. 

(t)  Così  lo  Suarez:  Ens  communissime  sumptwn,  ut  est  transcendens  et 
ohiectum  Methaphysicce  vel  intellectus,  abstrahit  a  completo  et  incompleto. 
DD.  MiM.,  D.  II.  S.'  V,  14. 

(2)  Quantunque  e  l'essere  »  sia  la  sola  qualità  che  si  possa  dire  comune  a 
Dio  e  agli  enti  finiti  (Introd.  VII,  Lett.  ad  Aless.  Pestalozza),  tuttavia  co- 
mune non  si  potrebbe  dire,  se  non  esistesse  la  pluralità  di  questi,  e  però 
una  tale  appellazione  esprime  una  relazione  ai  contingenti. 


77 

astrae  l' essere   dai   reali   percepiti   e   conosciuti.  Ma  prima   di 
questa  riflessione  e  astrazione  c'è  davanti  alla  mente  «  l'essere 
indeterminato  »  ,   dove   si   deve   cercare    la  ragione   necessaria 
degli  altri  enti:  onde  piuttosto  questo  è  l' oggetto  dell'Ontologia 
Ma  non  basta. 

98.  La  Teosofia  tratta  di  tutto  1'  essere.  Ma  come  l' essere 
può  pensarsi  nella  sua  possibilità,  e  nella  sua  sussistpuza ,  per 
ciò  ella  si  divide  primieramente  in  due  parti:  «  Teoria  del- 
l'essere considerato  nella  sua  possibilità  »  cbe  è  l'Ontologia, 
e  «  Teoria  dell'essere  considerato  nella  sua  sussistenza  », 

99.  L'essere  poi  nella  sua  sussistenza  è  o  infinito,  cioè  Dio, 
0  finito ,  cioè  il  Mondo  :  onde  la  «  Teoria  dell'  essere  conside- 
rato nella  sua  sussistenza  »  si  assolve  nelle  due  parti  o  scienze 
della  Teologia  e  della  Cosmologia. 

100.  Ma  l'Ontologia,  quantunque  consideri  l'Essere  nella  sua 
possibilità,  e  però  nella  sua  astrazione  dal  sussistente,  ciò  non 
ostante  abbraccia  anch'essa  la  totalità  dell'essere,  e  perciò  non 
considera  solamente  l'essere  nella  sua  determinazione,  o  as- 
traendo dalle  sue  forme,  o  dall'essere  infinito  e  finito,  ma  consi- 
dera l'essere  indeterminato  in  sé,  e  nella  possibilità  e  quindi 
anche  nella  necessità  delle  sue  forme,  e  delle  sue  condizioni, 
tra  le  quali  ci  ha  quella  di  poter  essere  infinito  e  finito  ,  e  di 
poter  come  finito  ricevere  diverse  limitazioni. 

101.  Dicendo  poi,  che  l'Ontologia  considera  la  totalità  dell'es- 
sere nella  sua  possibilità,  è  da  avvertire,  che  la  possibilità  non 
esclude  la  necessità,  anzi  la  involge,  perchè  ogni  possibile  è  ne- 
cessario come  possibile,  e  rispetto  all'essere  infinito  col  dimostrarlo 
possibile,  cioè  che  può  esistere,  lo  si  dimostra  ad  un  tempo  stesso 
necessariamente  esistente;  poiché  in  cercando  se  sia  possibile, 
cioè  se  possa  esistere,  si  perviene  ad  una  singoiar  conclusione  , 
cioè  a  trovare,  che  «  possibile  non  può  essere  se  non  è  necessario, 
ma  è  necessario  che  sia  possibile,  dunque  è  necessario  che  esista  ». 

102.  L'Ontologia  dunque  non  tratta  solamente  dell'essere  inde- 
terminato, benché  parta  da  questo  ;  e  non  prescinde  dalFessere 
completo  0  incompleto,  ma  anche  di  queste  condizioni  dell'essere 
ragiona  in  relazione  a  quello, 

103.  Mettendosi  dunque  in  cammino  il  pensiero  dell'Ontologo  . 
affine  di  pervenire  ad  una  <c  Teoria  dell'essere  in  tutta  l'ampiezza 


78 

della  sua  possibilità  » ,  egli  discopre  ,  che  l'essere  ha  essenzial- 
mente tre  atti,  che  sono  l'oggettivila,  la  subiellivilà ,  e  la  mora- 
lità, a  cui  pone  il  nome  di  forme  e  di  categorie;  e  che  in  ciascuna 
di  queste  l'essere  è  identico.  Di  qui  s'accorge,  che  gli  bisogna  di- 
videre il  suo  lavoro  in  due  parti,  investigando  prima  la  natura 
dell'essere  come  uno,  e  poi  la  natura  dell'essere  come  trino. 

104.  Ma  poiché  quello  che  prima  si  presenta  all'umano  pensiero 
è  la  moltiplicità  degli  enti  sensibili,  egli  è  necessario  di  movere  il 
ragionamento  da  questa  moltitudine  di  sensibili,  investigando  un 
ordine  in  essa  ;  la  qual  ricerca  ci  reca  a  rinvenire  le  ultime  classi 
delle  differenze,  che  hanno  i  moltiplici  enti  ed  entità  tra  di  loro,  e 
queste  differenze  classificate  ci  recano  alle  tre  categorie,  e  queste 
alle  tre  supreme  forme  dell'essere,  e  queste  all'essere  stesso. 

Laonde  potremo  dividere  acconciamente  tutto  il  lavoro  ne'  tre 
seguenti  libri  : 

Libro  \.  —  Le  Calcgorie. 
»  IL  ~  L Essere  uno. 
»      IH.  —  U Essere  trino. 


^*-fl««3^&-*- 


LIBRO  I 

LE     CATEGORIE 


PROEMIO 


105.  Se  il  pensiero  si  restringe  a  considerare  il  puro  essere  uno, 
lulta  la  scienza  che  ne  ha  si  dice  con  una  sola  parola:  Essere. 
Quando  adunque  si  voglia  dar  movimento  al  pensiero  speculando 
più  avanti,  conviene  ritrovare  una  qualche  varietà  e  moltiplicità 
nell'essere  stesso.  Ma  questa  varietà,  e  questa  molliplicilà  dell'es- 
sere non  si  manifesta  all'uomo,  se  non  per  l'efiFelto  che  nel  suo 
pensiero  produce  lo  spettacolo  dell'universo,  il  quale  di  tanti  va 
riati  e  variabili  enti  si  compone.  Conviene  dunque  che  l'uomo  sia 
pervenuto  a  un  certo  grado  di  sviluppo,  e  che  dall'esperienza  abbia 
attinte  le  nozioni  comuni  delle  cose  sensibili  a  quel  modo  che  lun- 
gamente dichiara  l'Ideologia,  prima  che  egli  proponga  a  se  stesso 
la  domanda:  «  qual  è  la  natura  dell'essere  w;  e  nella  fatica  as- 
sunta per  rispondervi  trovi  il  veicolo,  che  Io  conduca  a  concepire 
e  lavorare  a  sé  stesso  una  Teoria  dell'essere,  l'Ontologia. 

i06.  Ora  il  pensiero  speculativo,  che  si  mette  per  questo  cam- 
mino, scosso  dalla  moltiplicità  degli  enti  finiti  che  gli  sono  appa- 
riti, ne'  quali  tutti  vede  un  atto  di  essere,  non  fa  e  non  può  far 
altro  da  prima  che  risalire  da  questa  moltiplicità  misteriosa  a  quel- 
l'unità dell'essere  più  misteriosa  ancora.  La  moltiplicità  j)oi,  che 
sta  nella  sua  mente,  quando  da  prima  incomincia  a  così  speculare, 
è,  come  dicevamo,  confusa  e  somigliante  a  un  caos.  Innumerevoli 
oggetti,  innumerevoli  entità  si  trovano  nella  sua  mente,  ed  altri 
se  ne  possono  trovare,  e  questi  d'ogni  sorta  e  natura,  reali,  com- 
pleti e  incompleti,  ideali,  astratti,  razionali,  relativi  e  assoluti. 


80 

Noi  li  chiameremo  tutti  col  nome  d'entità.  E,  acciocché  il  pensiero 
speculativo  risalga  da  una  così  fatta  moltitudine  d'entità  disparate, 
opposte  e  contrarie,  all'unità  dell'essere,  egli  è  evidente  che  con- 
viene avanti  ogni  altra  cosa  studiarsi  di  dare  un  qualche  ordine  a 
quell'ammasso  di  disunite  e  discontinue  entità. 

Per  far  questo  è  indispensabile  considerare  le  loro  differenze  e 
varietà,  e  ridurre  queste  varietà  alle  ultime  classi.  Poiché,  se  si 
comincia  a  ridurre  in  classi  le  dette  varietà,  è  facile  accorgersi, 
che  le  prime  classi  si  possono  generalizzando  ridurre  a  un  numero 
di  classi  minori,  n  così  ascendendo  coll'astrazione  e  colla  genera- 
lizzazione si  può  finalmente  pervenire  alle  ultime  classi  di  varietà, 
le  universalissime  di  tutte,  le  quali  non  si  possono  ridurre  a  mi- 
nor numero.  Tali  classi  ultime  delle  varietà  che  dimostrano  le 
innumerevoli  entità  alla  mente  nostra,  si  dicono  CATEGORIE,  e 
la  ricerca  di  esse  :  il  problema  delle  Categorie. 

107.  Egli  è  chiaro,  che  qualora  la  mente  pervenga  a  scio- 
gliere questo  problema,  ella  ha  in  mano  il  principio  dell' orcf/we 
di  tutto  r  essere  e  di  tutte  le  entità ,  nelle  quali  l' essere  si 
mostra  trasfuso  all'intelligenza.  Perocché  dalle  prime  varietà, 
che  diremo  categoriche,  dipendono  tutte  le  altre  in  modo  ana- 
logo ,  non  uguale  ,  a  quello  in  cui  da'  generi  dipendono  le 
specie.  E  come  i  generi  contengono  virtualmente  le  specie 
nel  loro  seno  ,  così  le  varietà  categoriche  contengono  nel  loro 
seno  le  classi  inferiori  di  varietà ,  di  maniera  che  quelle  sono 
i  principi  di  queste,  da' quali  queste  si  derivano.  All'incontro, 
se  la  mente  speculativa  del  filosofo  fosse  bensì  arrivata  a  tro- 
vare certe  classi  di  varietà  dell'essere,  ma  non  le  ultime  che 
non  si  possono  ridurre  a  numero  minore,  non  essendoci  al  di 
là  di  esse  altro  che  unità  dell'  essere  stesso  ;  in  tal  caso  essa 
non  avrebbe  ancora  nelle  mani  il  principio  ordinatore  di  tutto 
quel  caos  d'entità,  che  le  sta  presente.  Poiché  le  classi,  che 
non  sono  le  ultime  o  supreme,  danno  bensì  un  ordine  alle  classi 
inferiori,  ma  esse  stesse,  e  tutte  le  altre,  che  stanno  sopra  ad 
esse,  non  sono  ordinale,  ma  rimangono  confuse  rispetto  alla 
mente.  Ancora  le  classi  ,  che  non  sono  ultime  ,  senza  queste 
mancano  della  loro  ragione,  poiché  le  classi  inferiori  hanno  la 
loro  ragione  e  il  perché  della  loro  distinzione  nelle  superiori. 
Le  supreme  adunque  sono  le  ragioni  ultime  di  tutte  le  altre  ,  e 


81 

non  hanno  la  ragion  loro  in  altre  classi  che  ad  esse  antece- 
dano, ma  l'hanno  nell'essere  stesso,  che  solamente  di  concetto 
ad  esse  precede. 

i08.  L'arduità  del  problema  delle  Categorie  apparisce  dalla 
stessa  storia  della  filosofia.  A  tutti  quelli  che  tolsero  a  filosofare, 
si  è  offerto  in  vari  modi  quel  problema.  Ma  quantunque  s'ac- 
cingessero con  grand' animo  alla  prova  di  scioglierlo,  e  molte  e 
preziose  verità  abbiano  trovato  per  via ,  pure  noi  non  osiamo 
asserire  che  alcuno  di  essi  sia  riuscito  a  risolverlo  compiutamente: 
anzi  l'esame  di  alcuni  sistemi  che  noi  facciamo  in  questo  libro, 
e  più  ampiamente  la  storia  critica  che  n'abbiamo  fatta  {'),  chia- 
risce il  contrario. 

E  veramente  le  condizioni  del  problema  sono  diffìcili  ad  adem- 
pirsi, poiché  sono  queste  : 

1."  Che  si  propongano  certo  varietà  dell'essere; 
2.°  Che  si  dimostri,  che  non  si  possono  ridurre  a  un    nu- 
mero minore; 

«3.®  Che  si  dimostri,  che  tutte  le  altre  varietà  possibili  tro- 
vano la  loro  sede  in  una  di  quelle:  e  quando  si  dice  tutte  le 
altre  varietà  possibili ,  non  si  dice  soltanto  quelle  varietà ,  di 
cui  il  filosofo  ha  esperienza  e  attuai  cognizione,  ma  quelle  stesse 
che  non  conosce.  Il  che  è  quanto  dire,  che  si  deve  dare  di  ciò 
una  dimostrazione  a  priori,  dalla  quale  risulti,  che  sarebbe  as- 
surdo pensare  il  contrario. 

Ognuno  sente  quanto  dure  condizioni  sieno  queste.  Ma  ve  ne 
hanno  dell'altre  estrinseche  al  problema,  che  derivano  dalle 
maniere  equivoche,  colle  quali  esso  fu  bene  spesso  proposto, 
dalla  facilità  di  confonderlo  con  questioni  alTini  ,  e  in  una  pa- 
rola v'ha  la  difficoltà  di  determinar  bene  il  problema  e  d'in- 
tenderne il  senso.  Converrà  dunque,  che  noi  cominciamo  dal 
rimovere  quelle  difficoltà  ,  che  più  ci  potrebbero  impedire  il 
passo. 

(*)  Il  Saggio  Storico  e  Critico  sulle  Categorie. 


Rosmini.  Teosofìa. 


82 

CAPITOLO   I. 

Difficoltà  di  trovare  una  classificazione,  che  abbracci 
tutte  le  varietà  dell'  essere. 

109.  Se  si  considerano  le  leggi  prescritte  dalla  Logica  alle 
comuni  classificazioni  delle  cose  [Logic.  979-982),  tosto  si  co- 
nosce che  esse  sono  difficilmente  applicabili  alla  classificazione 
di  tutte  le  entità.  Poiché  una  di  queste  leggi  si  è,  che  tutte  le 
classi  abbiano  un  subietto  unico  e  una  qualità  comune,  che  è  il 
fondamento  della  classificazione  e  della  divisione;  e  il  subietto 
unico  ,  che  si  divide ,  e  la  qualità ,  secondo  cui  si  divide  e 
classifica,  danno  il  nome  generico  e  specifico  agli  individui  con- 
tenuti in  ciascuna  classe.  Così  se  si  classificassero  gli  uomini  in 
dotti  ed  ignoranti ,  il  subielto  unico,  che  si  divide  e  classifica, 
sarebbe  l'uomo  (1),  che  terrebbe  luogo  del  genere  ;  e  la  dottrina 
sarebbe  la  qualità ,  secondo  cui  si  divide  ,  che  costituirebbe  le 
specie  0  classi  de'  dotti  e  degli  ignoranti. 

dio.  Ma  affinchè  la  classificazione  non  pecchi  contro  questa  re- 
gola, il  subietto  che  si  divide  deve  essere  veramente  e  non  appa- 
rentemente unico;  ed  è  tale,  quando  il  nome  che  lo  esprime,  e  che 
s'applica  a  tutti  gl'individui  classificati  ,  conserva  sempre  rispetto 
ai  singoli  il  medesimo  significato  ;  e  la  qualità  o  il  concetto,  se- 
condo cui  si  divide,  deve  esser  comune  e  divisibile,  cioè  partecipa- 
bile variamente  dallo  stesso  subietto  ,  senza  di  che  non  potrebbe 
somministrare  divisione  e  classificazione  alcuna.  Laonde  chi  clas- 
sificasse gli  uomini  in  t'eri  e  dipinti,  peccherebbe  contro  la  detta 
legge;  e  a  propriamente  parlare  non  opererebbe  alcuna  classifi- 
cazione, perchè  gli  uommi  rimarrebbero  tutti  da  una  parte  senza 
essere  distribuiti  in  classi,  e  dall'altra  parte  s'avrebbero  delle  di- 
pinture ,  che  non  sono  uomini ,  benché  si  applicasse  loro  questo 
nome  ma  in  tutt'altro  significato.  La  qualità  d'esser  veri  e  d'esser  di- 


(1)  La  classificazione  è  propriamente  degli  nomini ,  anziché  deH'Momo; 
ma  l'uomo  in  questo  caso  essendo  la  specie  comune  degli  uomini,  e  quindi 
il  fondamento  della  classi fli'azioìie ,  si  prende  pel  subielto  della  divisione, 
perchè  gli  umani  individui  sono  virtualmeote  compresi  nella  specie  :  uomo. 


83 

pinti  sono  due  quiilità  e  non  una  sola,  né  questa  seconda  è  la  pri- 
vazione della  prima  in  modo  che  ad  essa  si  possa  ridurre:  per- 
chè la  privazione  non  introduce  altro  concetto  nella  mente  fuor  di 
quello  di  cui  è  privazione,  onde  con  questo  solo  concetto,  varia- 
mente partecipato  o  negato  del  tutto,  si  può  fare  una  classificazione. 
All'incontro  la  privazione  del  vero  è  il  non  vero,  e  la  privazione 
del  dipinto  è  il  non  dipinto,  e  ci  potrebbero  essere  uomini  veri  di- 
pinti, e  non  dipinti.  Oltre  a  ciò  la  prima  di  queste  due  qualità,  cioè 
il  vero,  non  è  divisibile  in  più,  cioè  non  può  esser  variamente  par- 
tecipato, perchè  ogni  uomo  è  ugualmente  vero  uomo,  se  è  uomo; 
e  però  non  è  una  di  quelle  qualità,  su  cui  si  possa  fondare  una 
classificazione  degli  uomini. 

111.  Ora  quando  si  prende  l'essere  a  subietto  della  classifica- 
zione, la  difficoltà  è  ancor  maggiore,  perchè  non  si  trova  una  qua- 
lità sola,  secondo  la  quale  si  possa  dividere,  ma  egli  stesso  è  il  su- 
biello  che  si  divide,  e  la  qualità  secondo  cui  si  deve  dividere.  Poi- 
ché si  tratta  di  divider  l'essere  in  una  classificazione  compiuta  e 
suprema.  Ora  l'ente  ammette  molte  diverse  e  opposte  qualità,  tra 
le  quali  ninna  può  scegliersi  a  fondamento  della  classificazione,  per- 
chè ninna  abbraccia  tutto  l'essere  e  non  è  da  ogni  ente  partecipata. 
Eppure  una  retta  classificazione,  deve  avere  per  fondamento  una 
qualità  unica  del  subietto  che  si  divide.  Se  dunque  si  cerca  una 
qualità  unica  comune  ad  ogni  entità,  altro  non  si  trova  che  l'essere 
stesso  ,  0  qualche  cosa  che  essenzialmente  gli  appartiene.  Posto 
dunque  l'essere  per  subietlo  della  classificazione  ed  anche  per  qua- 
lità secondo  cui  si  deve  dividere  e  classificare,  la  questione  si  rende 
oltremodo  perplessa  presentando  una  contraddizione  in  sé  medesima. 
Poiché  il  subielto  che  si  divide,  deve  rimaner  identico,  e  ricevere 
un  nome  d'eguale  significazione  in  tutti  i  membri  della  divisione  ; 
e  all'incontro  la  qualità,  secondo  cui  si  classifica,  deve  variare,  ed 
essere  variamente  partecipata:  altramente  come  potrebbe  dar  luogo 
a  divisione  e  classificazione?  Da  una  parte  dunque  si  esige  che  l'es- 
sere sia  uno  ed  identico  come  subietlo  che  si  divide,  e  dall'altra  che 
cangi  e  si  molti|)lichi  come  qualità,  secondo  cui  si  divide.  L'essere 
uno  e  l'essere  piij  sono  contradditori  che  si  escludono.  Se  dunque 
si  pretende  d'avere  una  classificazione  dell'essere,  si  pretende  l'im- 
possibile, perchè  converrebbe  che  l'essere  fosse  ad  un  tempo  ed  il 
subielto  unico  che  si  divide,  e  la  qualità  moltiplice  secondo  cui  si 


84 

divide,  come  se  si  volesse  divider  l'uomo  secondo  l'uomo,  cioè  se- 
condo l'umanità,  qualità  costitutiva  di  ogni  uomo, 

112.  L  'essere  dunque  non  può  per  se  stesso  divenire  il  subietto 
d'una  divisione  che  lo  riduca  in  classi,  stantechè  per  sé  solo  con- 
siderato ò  uno  e  uguale  a  sé  medesimo. 

Convicn  dunque  dire  che  il  problema  propostoci  se  ha  una  solu- 
zione possibile,  deve  essere  inteso  in  un  altro  modo;  e  quest'altro 
modo  ci  si  renderà  manifesto,  se  porremo  mente,  che  alla  stessa 
parola  essere  la  mente  nostra  attribuisce  diversi  valori.  Ma  prima 
dobbiamo  penetrare  ancora  più  a  fondo  la  difficoltà  della  nostra 
impresa. 

Ripensiam dunque:  che  cosa  si  tratta  di  fare?  Di  classificare  tutte 
le  entità,  che  possono  presentarsi  al  pensiero  umano.  Se  dunque 
tutte  queste  entità  devono  ridursi  in  alcune  classi,  queste  classi  de- 
vono avere  :  1°  qualche  differenza  tra  loro;  2"  qualche  cosa  di  co- 
mune, elio  è  il  tutto  che  si  divide,  o,  come  dicevamo  poco  fa,  il  su- 
bietto della  divisione.  Ma  se  quelle  classi  devono  avere  tra  loro 
qualche  dilTerenza,  questa  stessa  differenza  non  è  ella  un'entità?  e 
però  non  deve  ella  entrare  nella  divisione,  non  deve  anch' ella  es- 
ser classificata?  Ma  come  la  dilTerenza,  che  dislingue  una  classe  da 
un'altra,  può  entrare  nelle  stesse  classi?  Ecco  un  altro  imbarazzo. 

Un  simile  discorso  possiam  fare  del  subielto  della  divisione  e  con- 
seguente classificazione.  Se  le  classi  devono  avere  qualche  cosa 
di  comune,  questo  elemento  comune,  qualunque  sia,  non  sarà  an- 
ch'esso un'entità  davanti  al  pensiero  umano.?  E  in  tal  caso  non  do- 
vrà essere  anch'esso  riposto  in  alcune  delle  dette  classi?  E  se  ap- 
partiene ad  una  delle  dette  classi,  come  sarà  comune  alle  altre? 
Ciò  che  è  comune  alla  divisione  e  alla  classificazione  ,  rimane  di 
necessità  escluso  da  queste,  ed  è  a  queste  anteriore.  GÌ'  imbarazzi 
dunque  ci  stanno  da  tutte  le  parti. 

Pure,  le  diverse  entità  non  hanno  esse  qualche  cosa  di  comune? 
Il  clìiamarsi  appunto  con  un  medesimo  nome  dimostra,  che  questo 
appunto  hanno  di  comune  d'esser  entità.  Che  cosa  vuol  dire  entità? 
Un'entità  non  si  può  concepire  se  non  come  un  qualche  atto  di 
essere.  C'è  dunque  un  alto  di  essere  comune  a  tulle  le  cnliià.  Se 
si  astrae  colla  riflessione  della  mente  quest'atto  di  essere  comune  a 
tutte  le  entità  di  qualsivoglia  natura,  noi  abbiamo  il  primo  signifi- 
cato di  essere  ;  ed  è  qucll'  essere  che  noi  diciamo  iniziale,  perchè 


85 

comunissimo  e  iniziamento  di  tutte  ugualmente  le  entità,  prima 
loro  condizione,  senza  cui  né  sono,  né  s'intendono.  L'essere  dun- 
que preso  in  questo  senso  ,  reciso  da  tutte  le  entità  ,  comune 
inizio  di  esse,  è  così  solitario  ed  uno  che  non  ammette  certa- 
mente compagnia  o  pluralità,  e  quindi  né  anco  divisione,  o  clas- 
sificazione. 

Ma  se  quest'essere  iniziale  non  ammette  compagnia  ed  é  uno 
e  solitario,  per  ciò  stesso  si  divide  e  separa  da  tutte  l'altre  en- 
tità, ed  é  egli  stesso  un'entità  che  può  essere  classificata.  Da 
questo  risulta,  che  l'essere  in  questo  senso  astratto  si  considera 
dalla  mente  in  due  aspetti  diversi  ;  o  come  comune  a  tutte  le 
entità,  0  non  in  relazione  a  queste  ma  in  sé  stesso.  In  quanl'é 
comune  a  tutte  le  entità  egli  sfugge  dalla  loro  classificazione,  e 
costituisce  il  subìetto  della  loro  divisione  e  classificazione  ;  in 
quanto  poi  si  considera  preciso  da  esse,  e  come  un'entità  egli 
stesso,  ninna  difficoltà  ad  ammettere  ch'egli  rientri  in  qualcuna 
delle  classi  che  delle  entità  si  fanno. 

L'essere  dunque  nel  primo  senso,  che  gli  abbiam  assegnato 
per  una  diversa  veduta  della  mente,  s'addoppia,  e  veste  nell'or- 
dine del  pensiero  umano  due  caratteri  distinti:  poiché  o  il  pen- 
siero lo  vede  in  relazione  alle  entità  come  comunissimo,  ed  è  il 
subietto  0  fondamento  della  loro  partizione  e  classificazione  ;  o 
lo  vede  in  se  stesso,  in  quant'è  uno,  preciso  da  tutte  le  entità, 
e  così  é  egli  stesso  un'entità  classificabile  come  le  altre.  Conviene 
in  fatti  considerare,  che  la  classificazione  è  l'opera  della  mente,  e 
che  non  si  può  rinvenire  fuori  di  questa  e  senza  l'opera  di 
questa. 

Se  dunque  noi  consideriamo  Vessere  come  comunissimo  a  tutte 
le  entità,  egli  è  evidente,  che  questi  due  vocaboli  essere,  ed  entità 
hanno  un  diverso  significato,  e  che  il  primo  significa  l'atto  comune 
di  queste. 

Se  poi  noi  consideriamo  quest'  essere  iniziale  come  un'  etilità 
egli  stesso,  recidendolo  dall'  altra  entità  ;  in  tal  caso  l'essere  è 
un'entità,  ma  non  è  già  l'entità.  La  differenza  tra  questa  entità, 
che  si  chiama  essere  puro,  e  le  altre  entità,  si  é  questa.  L'es- 
sere é  condizione  comune  a  tulle  le  entità  ,  ma  in  se  stesso  è 
tale  entità  che  non  c'è  dentro  altro  che  lui  stesso;  quando  nelle 
altre  enlità,  oltre  esserci  lui  in  tutte,  c'è  qualche  altra  cosa,  la 


86 

quale  non  è  senza  di  lui,  ma  con  esso  lui,  e  non  è  tuttavia  lui, 
ma  da  lui  diversa.  Nel  qual  fallo  organico  dell'essere  giace  la 
legge  del  sintesismo  Ira  V essere  puro ,  e  quelle  enlilà  che  non 
sono  l'essere  puro. 

Il  concello  dunque  di  essere  e  quello  di  entità  s'immedesimano, 
quando  si  parla  del  puro  allo  dell'essere,  reciso  da  ogni  altra 
cosa,  ma  ogni  qual  volta  si  traila  d'altro,  si  distinguono. 

113.  Colla  distinzione  dunque  del  doppio  valore,  che  riceve 
la  parola  essere,  quando  si  prende  come  puro  allo  di  esistenza, 
e  quando  si  prende  come  comunissimo  a  tulle  le  entità^  si  può 
vincere,  almeno  in  parte,  quella  difficoltà  che  sembrava  a  primo 
aspello  rendere  insolubile  il  problema  delle  Categorie.  Poiché 
risulla,  che  lo  stesso  essere,  in  quanl'è  comunissimo,  somministra 
il  sa6ie<fo  itm'co  della  classificazione  delle  entità,  ch'esso  contiene 
virtualmente  nel  suo  seno,  come  il  genere  contiene  le  specie, 
0  un'idea  più  eslesa  le  meno  estese;  e  che  lo  stesso  essere  in 
quanto  è  consideralo  in  se  stesso,  segregalo  per  astrazione  dalle 
altre  entità  ,  può  essere  classificalo  come  una  di  queste  (1). 

114.  Ma  onde  si  prenderà  la  qualità  comune,  che  essendo  in 


(1)  Appunto  per  questo  Parmenide  non  potè  uscire  dall'unità  dell'ente, 
perchè  io  considerò  come  puro  atto  segregalo  da  ogni  suo  termine.  Questo 
incaglio  mosse  Platone  a  dimostrare  clie  la  stessa  natura  dell'essere  invol- 
geva una  molliplicità  nell'unità  :  all'incontro  Aristotele,  non  fermandosi 
qui,  diede  nell'altro  estremo,  cioè  di  riconoscere  bensì  l'essere  come  una 
natura  comune ,  prestandosi ,  come  tale ,  alla  divisione  in  categorie,  ma  ne- 
gando che  potesse  essere  qualche  cosa  di  compiuto  in  se  slesso,  fuori  di 
tutte  le  entità  limitate,  o:  Ma  se  —  dice  —  sarà  qualche  cosa,  rì,  lo  stesso  ente, 
«  e  lo  slesso  uno,  sorgerà  un  gran  dubbio,  come  ci  sarà  qualche  altra  cosa 
«  oltre  essi?  E  dico,  come  gli  enti  saranno  più  di  uno?  Poiché  quello  che  è 
«  altro  dall'ente,  non  è.  Laonde,  secondo  il  ragionamento  di  Parmenide,  ver- 
«  rebbe  necessariamente  che  tutti  gli  enti  sieno  uno,  e  questo  esser  l'ente», 
{Metajìh.  II  (IH),  4).  —  L'argomenlaziono  di  Parmenide  era  giusta,  qualora 
s'intenda  per  ente  Tessere  iniziale  separalo  colla  mente  da  tulli  i  suoi  ter- 
mini, come  un'entità  unica,  o  semplicemente  Tessere  puro.  Ma  non  valeva 
punto,  se  all'ente  si  dà  il  significato  di  essere  iniziale  unibile  co' suoi 
termini  che  lo  finiscono  e  completano,  ossia  di  essere  comunissimo.  Aristo- 
tele in  vece  di  riconoscere  l'una  e  l'altra  significazione  del  vocabolo  ente,  o 
meglio  essere,  ritenne  soltanto  la  seconda,  come  Parmenide  aveva  ritenuta 
solamente  la  prima  ;  e  considerò  l'essere  come  l'alto  di  ciascuna  cosa,  non 
come  un  allo  o  iniziale  o  compiuto  in  sé  stesso. 


87 

pari  lempo  variabile  somministri  la  differenza  delle  classi?  — 
Questa  non  è  iinj)ossibile  a  rinvenirsi  dopo  che  abbiamo  distinto 
il  concello  di  essire  paro,  e  quello  di  entità;  e  così  siamo  usciti 
dall'iissoluta  e  sterile  unità,  e  pervenuti  a  una  dualità  di  prin- 
cipi. La  qualità  comune  e  variabile  dovrà  trovarsi  neWentità 
stessa.  Poiché  se  Vessere  si  segrega  dalle  entità,  che  non  sieno 
lui  stesso,  dunque  anche  le  entità  mentalmente  si  possono  pensare 
come  segregate  dall'essere,  o  per  dir  meglio  tutte  le  varie  en- 
tità si  possono  distinguere  per  quello  che  hanno  d'identico  e  di 
diverso  dall'essere,  per  modo  che  questa  stessa  aggiunta  all'es- 
sere iniziale  —  o  maggiore,  o  minore,  o  nulla,  o  comecchessia 
diversa  —  può  essere  la  qualià  variabile  che  somministri  le  dif- 
ferenze delle  classi. 

US.  Se  noi  dunque  vogliamo  fissare  con  un  vocabolo  tulio 
quello  che  s'aggiunge  nel  nostro  pensiero  all'essere  comunissimo, 
lo  chiameremo  termine  dell'  essere.  La  varia  natura  dunque  di 
questi  termini  dell'essere,  sarà  quella  che  somministrerà  le  dif- 
ferenze costitutive  delle  classi  delle  entità:  e  di  conseguente  le 
somme  classi  de'termini  dell'essere  comunissimo  saranno  le  ca- 
tegorie, che  noi  ricerchiamo. 


CAPITOLO  II. 

Gli  antichi  conobbero  in  qualche  parte  la  difficoltà  sovra  esposta, 
scontrandola  per  via  nelle  loro  speculazioni. 


Articolo  I. 

Primo  aspetto  in  cui  la  difficoltà  apparì  aqli  antichi  : 
sfugge  ai  generi  degli  enti  la  distinzione  del  reale  e 
dell'  ideale 

iI6.  Gli  antichi,  che  i  primi  poser  mano  a  ridurre  l'ente  in 
classi,  e  trovarono  le  Categorie,  sentirono  l'esposta  difficoltà.  Si 
rileva  da  questo,  che  essi  medesimi  confessarono,  che  l'ente  nei 
diversi  generi  ,  in  cui  lo   distinsero  ,  non   è  univoco  ,  cioè  non 


88 

ammette  lo  stesso  significato  (1)  ;  il  che  è  quanto  dire ,  che 
quella  loro  classificazione  difetta  contro  la  prima  legge  logica  , 
che  prescrive  dover  esser  unici  —  e  però  prendersi  nello  stesso 
significato  —  tanto  il  subietto  che  si  classifica,  quanto  la  qualità 
secondo  cui  si  classifica.  Sagacemente  Plotino  fa  loro  questa 
stessa  censura;  e  per  mostrare,  che  nei  dieci  generi  essi  pren- 
dono equivocamente  il  vocabolo  ente,  «  prima  —  dice  —  si  deve 
«  domandare  ,  se  quelle  dieci  cose  ci  sieno  tanto  negl'intelligi- 
((  bili^  quanto  ne'sensibili,  o  piuttosto  tutte  ne'sensibili.  In  quelle 
«  poi,  che  spettano  all'intelligenza,  altre  ci  siano  ed  altre  non 
«  ci  siano  «  {il).  S'accorge  qui  Plotino  della  immensa  diversitcà 
che  passa  tra  l'essere  ideale  e  l'essere  reale,  e  ritiene  che  quelli 
che  hanno  inventate  le  Categorie  si  sono  dimenticati  al  tutto 
dell'essere  ideale,  e  però  non  hanno  diviso  tutti  gli  enti  (  ou 
TTccvroc  rk  ovtcx.),  ma  omisero  quelli  che  sono  massimamente  enti 
(rà  ixaXiOTcn  ovra),  cioè  gl'ideali. 

il 7.  A  malgrado  di  questo,  neppur  Plotino  vide  ciò  che  e'  è 
di  comune  nell'  ideale  e  nel  reale  ,  e  però  non  ammette  che  i 
medesimi  generi  degli  enti  possano  trovarsi  nell'uno  e  nell'altro 
(ov  ykp  B»  àymaXiv),  e  trova  assurdo  che  1'  essenza  significhi  il 
medesimo  nelle  idee  che  sono  anteriori  ,  e  ne'sensibili  che  sono 
posteriori  ;  e  però  vuole ,  che  non  costituisca  lo  slesso  genere, 
ma  generi  diversi,  altri  negl'intelligibili,  ed  altri  ne'sensibili. 
Mostrava  così  di  non  aver  veduta  1'  intima  unione  che  nasce 
nella  mente    umana   tra  1'  intelligibile  ed    il  sensibile ,  e  come 


(1)  Plot.  Enn.  Vi,  L.  I,  1. 

(2)  Ivi. —  Aristotele  stesso  s'accorse  che  qui  c'era  una  questione  da  farsi, 
e  tra  le  questioni  die  si  propone  nel  terzo  (al.  II)  ùq  Metafisici  {e.  1), 
accenna  questa:  «  Posto  che  i  generi  sieno  principi:  sono  principi  que' ge- 
neri che  ultimi  si  predicano  degli  individui ,  o  i  primi?  come  sarebhe:  è 
principio  l'animale  o  l'uomo?  ed  è  più  principio  che  i  singolari?;)  dove,  per 
que'  generi  che  si  predicano  gli  ultimi ,  intende  manifestamente  i  reali ,  e 
per  quelli  che  si  predicano  anteriormente,  gli  ideali.  Ma  non  ammettendo 
Aristotele  idee  o  specie  separale  dalle  cose,  perchè  non  giunse  a  cogliere 
l'oggettivila  delle  idee,  e  opinando  per  ciò,  che  col  separarle  altro  non  si 
facesse  che  accrescere  inutilmente  il  numero  degli  enti  {Metaph.  I,  9),  e 
così  considerando  le  idee  come  pure  forme,  siano  estrasoggettive  siano  sog- 
gettive cioè  del  principio  intelligente^  non  poteva  farne  de' generi  a  parte, 
come  vuole  Plotino. 


89 

quello  presta  I'  essenza  a  questo ,  senza  che  l'essenza  perda  la 
sua  identità,  e  come  quest'individua  unione  tra  il  reale  e  l'in- 
telligibile ,  prima  ancora  che  nella  mente  umana  ,  si  trovi  ab 
eterno.  Di  che  avviene,  che  dell'essenza  e  del  reale  non  se  ne 
possano  fare  due  generi. 

Articolo  II. 

Secondo  aspetto  in  cai  apparì  agli  antichi  la  stessa  difficoltà ,  e 
dubbio  se  le  Categorie  classificavano  i  principi  degli  enti ,  o  gli 
enti  stessi. 

118.  Quando  i  primi  s'accinsero  a  classificare  gli  enti  ,  non 
conoscendo  le  difficoltà  del  problema^  come  accade  sempre  ai 
primi  nelle  questioni  metafisiche,  vi  si  accinsero  confidenti,  cre- 
dendolo men  difficile  di  quel  che  è.  Ma  sopra  l'opera,  le  diffi- 
coltà si  manifestalo,  e  abbiamo  veduto  come  Parmenide  s'arenò 
nell'unità  dell'ente,  ii  che  scosse  Platone  e  Aristotele  a  cercare 
un'uscita.  Non  vedendole  però  in  faccia,  per  così  dire,  ma  sem- 
pre di  profilo  e  da  qualche  Iato ,  si  credettero  superarle  con 
qualche  distinzione  dialettica  :  non  tornarono  da  capo,  ma  con- 
vertirono le  difficoltà  ,  trovate  in  sulla  via,  in  questioni  acces- 
sorie ,  che  non  dovessero  rompere ,  come  speravano  ,  la  loro 
classificazione  già  beli' e  fatta.  Tale  è  la  questione  accennata: 
se  l'ente,  che  si  doveva  dividere  in  classi,  si  dovesse  intendere 
univocamente,  o  equivocamente;  e  si  rassegnarono  a  confessare 
che  in  quest'ultimo  modo,  senz'accorgersi  che  questo  guastava 
nelle  midolla  la  loro  classificazione  (i), 

119.  Un'altra  di  queste  questioni  nascenti  dalla  stessa  diffi- 
coltà intrinseca,  che  abbiamo  esposta,  si  è  quella  che  tocca  lo 

(t)  .Aristotele  nega  che  la  sostanza  e  Vaccidente  sieno  enti  univocamente 
delti  ;  ma  soltanto  la  sostanza  è  vero  ente,  e  gli  accidenti  solo  sue  apparte- 
nenze, TosauTa^ws  òk  iiyo/^évo-J  t&O  Svtoì  yavapòv,  ori  tovtwv  itpStTov  sv,  tò  ri 
£(JTtv,  omo  <:r,ij.a.Oj&i  Tr,v  où^t'av  —  Tà  S  a).Xa  iiysrzt  óvra,  Tw  ToD  outwj  ovtos,  tx  fj.'tv 
TTiuÓT/^Ta;   tt-jxi^   rà   ò=   TTotÓT/jTzj,   Tà  Sì  TtaS"/;,  rà  Si  xl}.o  xt  -zeiot-zo-j.   Mstoph.  VI 

(VII),  1.  —  D'onde  chiaramente  s'intende  che  le  Categorie  Aristoteliche  non 
sono  una  classificazione  delle  entità,  ma  sono  altrettanti  modi,  ne' quali  si 
può  dire ,  ossia  predicare  l'ente. 


90 

slesso  Aristotele  ,  «  se  i  generi  dogli    enti    sieno   principi  degli 
enti,  0  sieno  gli  enti  sl<essi  che  si  dividono  w   (1),  e  gli  uni  so- 
stennero una  sentenza  ,  gli  altri  l'altra  (2).  Pareva  dovesse  es- 
ser chiarissimo  ,  che  altro  è  dividere    in    classi   gli    enti  stessi, 
altro  è  dividere  in  classi  i  principi  degli  enti:  come  dunque  si 
presentò  una  tale  questione  e  parve  importante?  Appunto  perchè, 
quando  toglievano  a  classificare  gli  enti,  i  filosofi  s'accorsero  che 
la  classificazione,  che  ne  facevano,  non  riusciva  ad  essere  una 
classificazione  degli  enti ,  ma  de'  principi  da  cui  risultavano  gli 
enti.  Così  Aristotele  riducendo  la  classificazione    degli   enti  alla 
sostanza  e  aWaccidente,  invece  di  classificare  gli  enti,  avea  di- 
sciolto l'ente  finito  in  due    principi  ,  cioè   nella  sostanza  e  nel- 
l'accidente^ che  uniti  insieme  compongono  la  maggior  parte  degli 
enti  finiti.  E  dico  la  maggior  parte,  perchè  come  osservò  Plo- 
tino ,  impacciati  quelli  ,  che  avevano   voluto  dare  i  sommi  ge- 
neri degli  enti,  confessarono  che  la  loro  classificazione  non  ab- 
bracciava   tutti    i    generi  ,  ma  alcuni  (5).  Perchè  dunque  quei 
filosofi  si  trovarono  mutato   in   mano    il  problema  ,  e  accinti  a 
fare  una  cosa,  e  credendo  d'averla  fatta,  s'accorsero  nella  fine 
averne  fatta  un'altra?  Appunto  perchè  l'ente,  come  ente,  non 
si  prestava  a  quella  classificazione  che   si   voleva   da  lui,   che, 
dividendolo,  non  poteva  che  spezzarsi  negli  elementi  o  ne'prin- 
cipi  ,  rimanendo  così  ciascun   di   essi   a  parte   non-ente.  Invece 
dunque  di  domandarsi  «  se  i  generi  erano  principi  dell'ente  w, 
conveniva  riconoscere  che  l'ente,   come    ente,    non    ammetteva 
generi,  e  che  la    questione  così  presa  era  assurda,  che  era  as- 
surdo il  cercare  de' veri  generi  in  cui  si  dividesse  l'ente;  ma  do- 
veano  contentarsi  piuttosto  della  sola  questione  :  «  quali  sono  gli 
elementi  dell'ente»,  o   a  quali  i  principi  degli  enti»,  che  è  la 
questione  originale  de'  Pitagorici.  Ma  questa  stessa  con  un'Onto- 
logia più  avanzata  sarebbe  sparita  dalle  mani  :  poiché  quando  si. 
fosse  venuto  a  trattare  della  congiunzione  di  quegli   elementi  o 
principi ,  s'  avrebbe  dovuto  finir  di  conoscere  che  se  alcuni  degli 
enti  si  compongono  di  quegli  elementi  in  modo  da  restare  nel- 


(1)  Arisi.  Metaph.  II  (III),  i. 

(2)  Così  avverte  IMotino,  Enn.  VI,  L.  I,  1 . 

(3)  Tivn  Si  Ttva  oZrol  tipr,^a9iv.  Plot.  Emi.  VI,  L.  I,  1. 


91 

l'ente  composto  una  distinzione  tra  essi  elementi ,  in  un  ente 
massimo  e  d'ogni  parte  assoluto  i  principi  non  ci  sono  più,  e  gli 
elementi  stessi  spariscono  in  una  semplicità  ed  unità  perfetlis- 
sims,  di  modo  che  mutano  natura,  e  cessano  del  tutto  d'essere 
elementi.  Onde  qurlla  non  è  più  una  classificazione  degli  ele- 
menti di  tutti  gli  enti;  ma  degli  elementi  d'alcuni,  sfuggendo 
ad  essa  il  maggior  ente,  siccome  quello  che  è  privo  d'elementi. 
Di  che  in  qualche  modo  s'era  accorto  Platone,  che  lasciò  l'ente 
per  sé  compiuto  da  parte,  e  parlò  degli  elementi,  o  delle  passioni 
dell'ente  limitato,  e  se  ne  accorse  pure  Plotino,  benché  imper- 
fettamente ,  quando  disse  che  si  dovea  cercare  a  parte  i  generi 
del  mondo  intelligibile  ed  eterno,  e  i  generi  del  sensibile  (1). 

120.  La  questione  dunque ,  se  i  sommi  generi  sieno  principi 
degli  enti,  è  proposta  e  dispulata  da  Aristotele,  la  cui  sentenza 
sembra  questa  :  Che  se  per  principi  si  intendono  gli  elementari, 
che  sono  insiti  negli  enti,  e  de' quali  insiti  si  costituiscono  gli 
esistenti,  é^  a>v  saTi  tu  ovra,  kvvTzcK.p'/oyTcov  (2) ,  questi  sono  prin- 
cijìì  0  elementi,  ma  non  generi.  Se  poi  invece  di  classificar  gli 
enti  dalla  materia,  si  classificano  dalla  forma,  s' hanno  dei  ge- 
neri che  sono  principi  razionali  non  fisici ,  principi  delle  defini- 
zioni, e  conseguentemente  de'ragionamenli.  Poiché  «  i  singolari 
si  conoscono  per  le  definizioni ,  e  i  principi  delle  definizioni  sono 
i  generi,  onde  conviene  che  anche  delle  cose  definite  sieno  prin- 
cipi i  generi.  Così  pure,  avere  scienza  degli  enti  é  avere  scienza 
delle  specie:  ora  i  principi  delle  specie  sono  i  generi  »   (3). 

121.  Questa  doppia  classificazione  degli  enti,  accennata  da 
Aristotele,  l'una  dalla  materia,  l'altra  dalla  forma,  ritorna  in 
qualche  modo  alla  questione  di  Plotino  ,  se  i  generi  degli  enti 
reali  e  i  generi  degli  ideali  sieno  i  medesimi,  o  se  il  reale  e  lo 
ideale  non  si  devano  confondere  nello  stesso  genere,  ma  distin- 
guersi come  generi  diversi,  senza  che  si  possano  ridurre  ad  un 
g'nere  superiore  e  comune  (^).  Ma  mentre  il  filosofo  platonico 


(lì  ì^eWEnneida  VI  occupa  i  cine  primi  libri  intorno  ai  generi  del  mondo 
inlelligil)ile,  e  il  terzo  inlorno  ai  generi  del  niomlo  sensibile. 

(2)  Metaph.  Ili,  3. 

(3)  Ivi. 

(4)  Anche  Platone,  Tim.  p.  52,  dice  ctie  i  reali  sono  omonimi  alle  specie, 


92 

riconosceva  le  idee  come  separate,  e  però  enli  per  se  sempi- 
lerni,  Arislotele  le  disconosceva  per  tali ,  e  le  considerava  solo 
come  mezzi  di  conoscere,  e  forme  secondo  le  quali,  essendo  prin- 
cipi di  conoscere,  si  classificassero  gli  enli,  senza  che  esse  stesse 
potessero  aver  luogo  tra  gli  enti  classificali.  L'uno  e  l'altro  fi- 
losofo errava,  e  la  verità  si  doveva  trovare  tra  tali  estremi.  Er- 
rava Plotino,  dandosi  a  credere  che  i  generi  degli  enli  ideali  fos- 
sero al  lutto  diversi  dai  generi  degli  enti  reali,  per  non  accor- 
gersi che  l'ente  stesso  era  identico  negli  uni  e  negli  altri,  e  che 
le  qualità  generiche,  appartenenti  all'ente,  erano  pure  identiche. 
Errava  Aristotele,  escludendo  le  idee  o  specie  dal  novero  degli 
enti  e  dalla  loro  classificazione,  opinando  che  i  generi  si  riferis- 
sero solo  ai  reali,  e  in  questi,  ne' quali  comprendeva  le  idee  come 
qualità  formali,  la  classificazione  trovasse  il  suo  solo  fondamento. 
Aristotele  ben  vide,  che  non  si  potevano  nominare  e  definire  le 
cose ,  se  non  dalle  loro  idee ,  e  che  perciò  l' universale ,  cioè 
l'idea,  non  doveva  essere  equivoco  ììWsl  cosa,  mm  èfxcK>vv[jLov  (1); 
ma  non  s'accorse ,  che  era  impossibile  di  trovare  1'  universale 
ne' singolari ,  e  che  però  era  necessario  ammetterlo  anche  da 
essi  diviso  :  onde  errò  persuadendosi ,  che  l'uno  universale  fosse 
ne' molli  singolari,  cosa  assurdissima  {  Ideol.  234-274). 


cioè  si  chiamano  enti  in  significato  totalmente  diverso  :  e  pure  da  tutto  il 
suo  modo  di  speculare  risulta  che,  separati  dalle  idee^  non  meritano  punto 
il  nome  di  enti.  Che  se  egli  avesse  mantenuto  costantemente  questa  seconda 
maniera  di  parlare,  avrebbe  evitato  il  rimprovero  che  gli  fa  Aristotele 
d'avere  colle  idee  separate  più  che  raddoppiato  inutilmente  il  numero  degli 
enti,  di  cui  si  voleva  dare  spiegazione.  E  forse  con  quest'osservazione  si  può 
spiegare  e  conciliare  quel  passo  di  Alessandro  Afrodisio,  dove,  secondo  la 
traduzione  del  Sepulveda  ,  dice:  Secundum  Platonem,  formae  non  sunt 
aequivocae  iis,  quae  ad  sui  exemplar  efficiuntur.  Ap.  Trendlenburg.  Plat. 
De  ideis  et  numeris  doctrina,  ecc.  p.  34, 
(1)  Poster.  I,  11. 


93 


Articolo    III. 

Terzo  aspetto  e  più  diretto ,    in  cui  fu  veduta  la  difficoltà  : 
l'ente  è  fuori  d'ogni  genere. 

.  122.  Ma  Aristotele  s'accorse  più  direttamente  della  difficoltà 
in  occasione  d'esaminare  la  sentenza  di  Platone^  che  ammettea 
per  elementi  dell'ente  lo  stesso  uno  e  V essenza,  cioè  il  grande  e 
e  il  piccolo,  l'indeterminato  e  il  determinato,  perfezionando  la 
dottrina  de'  Pitagorici.  Ora  dice  Aristotele  che  «  quelli  che  di- 
ce cono  elementi  degli  enti  lo  stesso  uno  e  l'ente  (l'essenza),  o 
«  il  grande  e  il  piccolo,  semhra  che  ne  facciano  uso  come  di  gc- 
«  neri»  (I).  Ma  osserva  che  i  principi  degli  enti  non  si  possono 
prendere  ad  un  tempo  per  clementi,  di  cui  come  d'ingredienti 
si  compongano  gii  enli^  e  per  generi.  Poiché  dice:  «il  concetto 
dell'ente,  cioè  dell'essenza  {Xóyog  rriq  ovciug  aìg)  è  uno:»  ma' 
egli  riceve  due  definizioni ,  altra  essendo  la  definizione  dell'ente, 
che  si  fa  per  mezzo  dei  generi,  altra  quella  che  si  fa  per  mezzo 
degli  elementi  insiti,  cioè  che  dice  di  quali  ingredienti  si  com- 
ponga (ò  Xiycov  et,  &v  ksTiv  iy^7rcic/3p(;(jvTa?v).  Dunque,  se  lessenza 
ossia  l'ente  si  prende  per  elemento,  non  ammette  più  la  defini- 
zione di  genere  :  non  può  dunque  essere  ad  un  tempo  elemento  e 
genere. 

Prova  poi  che  i  generi  non  possono  essere  elementi.  Po- 
niamo, dice,  che  gli  stessi  generi,  come  si  pretende,  siano  ele- 
menti: rimane  a  cercare  se  si  voglia  questo  de'  sommi  generi, 
0  degli  ultimi  che  si  predicano  degl'individui.  Si  dice  che  ap- 
partiene più  ai  generi  Tattribuzione  di  elemento,  perchè  sono 
universali  :  secondo  questo  principio,  tanti  saranno  gli  elementi 


(1)  Mi  sembra  indubitato,  che  si  riferisca  a  Platone  e  ai  Pitagorici  e  ai 
Platonici  quet  luogo  de'  Metafisici  (III,  3)  dove  scrive  :  ^atvovrat  H  veni  x«l 
Tójv  /i/óvTwv  aTov/iix  Tdiv  óvTwv  Tò  £v  r,  TÒ  óv  T,  TÒ  [j-i'joi.  xsà  TÒ  /j.iy.pòv.  Il  Tò  óv  è  in- 
dubitatamente l'essenza,  chiamata  anche  da  Platone  ora  tò  óv  ora  tò  /j-éy» 
■/.xì  TÒ  /xiy.pòv  ora  oùaCx  come  abbia  veduto  neìV Aristotele.  — Si  noti  il  costume 
d'Aristotele  di  confutare  i  sistemi  fondandosi  nelle  sue  proprie  interpreta- 
zioni e  illazioni,  di  cui  non  sì  mostra  al  tutto  sicuro,  onde  anche  qui  dice 
♦«ìvovTat. 


n 

degli  enti,  quanti  i  sommi  e  primi  de' generi  —  i  principi  de' ge- 
neri— ,  i  quali  si  predicano  di  tulle  le  cose  ;  e  perciò  anche  lo 
stesso  uno  e  lo  stesso  ente  saranno  elementi  e  sostanze.  Ma  è 
egli  possibile  che  lo  stesso  uno  e  lo  slesso  ente  siano  generi  di 
enti?  In  nessun  modo:  poiché  l'essere  e  l'uno  si  predicano  an- 
che delle  differenze,  dicendosi  che  la  differenza  è  e  che  è  una, 
onde  in  tal  caso  il  genere  si  predicherebbe  delle  differenze ,  il 
che  è  impossibile.  Se  poi  l'essere  e  l'uno  non  si  predicassero 
delle  differenze,  le  differenze  non  sarebbero,  e  ciascuna  non  sa- 
rebbe una  :  e,  se  non  ci  fossero  differenze ,  non  ci  sarebbero 
neppure  sotto  il  genere  le  specie  che  risultano  dal  genere  e 
dalla  differenza.  Dunque  l'ente  e  l'uno  non  possono  esser  generi, 
di  cui  è  proprio  l'avere  sotto  di  sé  specie  formate  dalle  diffe- 
renze. E  poiché  si  vuole  che  i  principi  degli  enti  sieno  i  ge- 
neri, non  potendo  esser  genere  l'ente  e  l'uno,  né  pure  potranno 
esser  principi  (1).  E  seguita  a  dimostrare  gli  assurdi,  che  pro- 
verrebbero dall' ammettere  l'ente  e  l'uno  come  principi  ad  un 
tempo  e  come  generi,  perchè  e  le  specie  e  le  differenze  e  gl'in- 
dividui, e  tutte  le  cose  che  sono  e  sono  une,  sarebbero  generi 
e  principi,  e  così  sarebbe  perturbato  lutto  l'ordine,  in  che  Tuni- 
versilà  delle  cose  si  distingue  e  risplende. 

L'aver  dunque  conosciuto  Aristotele,  che  l'ente  è  fuori  di 
tulli  i  generi,  e  che  dal  concetto  di  ente  non  si  può  cavare 
alcuna  differenza  che  dislingua  gli  enti  in  generi,  é  un  aver 
veduta  la  difficoltà  che  involge  quel  problema  che  noi  abbiamo 
chiamato  delle  Categorie.    Ma  come  dunque  chiama  poi  egli  le 

(1)  Metaph.  Ili,  3.  —  E  ciò  non  ostante  Aristotele  chiama  generi  uni- 
versalissimi  l'ente  e  l'uno,  come  nel  X  de' Metafisici ,  e.  i,  e  altrove. 
Onde  questa  specie  d'antilogia?  — 'Aristotele  non  ammette,  che  l'ente  e 
l'uno,  siccome  nò  pure  gli  altri  universali,  aljbiano  un  esistenza  propria, 
ma  vuole  che  esistano  soltanto  nelle  cose.  Partendo  da  questa  maniera  di 
concepire  non  si  può  intendere,  che  l'ente  e  l'uno  sieno  generi  separati,  poi- 
ché di  tutte  le  cose,  anche  delle  differenze,  si  predicano.  Tuttavia  è  ob- 
bligato Aristotele  stesso  a  convenire,  che  almeno  davanti  alla  mente  con- 
templatrice,  l'ente  e  l'uno  separali  da  lutto  il  resto,  e  perciò  anteriormente 
alla  loro  relazione  di  predicati,  sono  qualche  cosa.  È  dunque  obbligato  ad 
ammettere,  che  sieno  àe  generi  scientifici,  oggetto  della  I*rima  Filosolia.  E 
uno  sdrucciolo  che  dà  involontariumcnle,  ma  necessariamente,  verso  il  si- 
stema di  riatone. 


95 

categorie  generi  dell'ente?  Appunto  perchè  aWente  egli  dà  sola- 
mente un'unità  analogica,  e  non  ammette  veramente  un  ente  fuori 
delle  cose  finite  che  sia  puramente  e  per  essenza  ente.  Ma  doven- 
dosi l'analogia  stessa  fondare  in  un  concetto  comunissimo  del- 
l'ente, ricade  di  necessità  a  prendere  per  subietto  della  divi- 
sione quello  stesso^  che  abbiamo  noi  posto  e  chiamalo  1'  essere 
iniziale.  Lasciando  dunque  da  parte  il  vocabolo  d'ente,  e  ado- 
perando quello  di  essere  nel  primo  suo  significato  di  atto  senza 
alcun  termine  determinato  j,  l'essere  così  preso  può  sommini- 
strare il  subielto  di  una  ripartizione,  perchè  può  prendere  dal 
suo  termine  le  differenze  necessarie  a  distinguere  le  varie  classi. 


CAPITOLO  III. 

Della  denominazione  di  Categorie. 

1*53.  Categoria,  xuTtiyopix,  viene  a  dire,  nel  senso  filosofico, 
predicazione,  da  xATtiyopéa,  accuso,  predico. 

124  Noi  abbiamo  creduto  bene  di  conservare  questa  parola 
antica,  restringendola  a  significare  le  ultime  diversità,  che  si 
possono  notare  entro  l'essere  (I),  e  quindi  le  ultime  classi  delle 
entità.  Il  bisogno  d'avere  un  vocabolo  atto  a  significare  questo 
concetto  vi  c'indusse,  e  non  ci  pare  senza  ragione. 

In  fatti,  abbiamo  veduto,  che  qualunque  classificazione  esige 
due  cose  : 

i°  Un  subietto  unico,  che  è  quello  che  si  divide  e  classifica; 

2°  Una  qualità,  che  è  il  fondamento,  secondo  cui  si  divide  e 
classifica. 


(t)  Anche  Aristotele  restrinse'  il  significato  di  Categoria  —  che  secondo  l'ori- 
gine della  parola  indicliereblje  qualunque  predicazione,' — a  significare  quelli 
che  egli  chiama  i  sonimi  generi  degli  en(i,  e  che  più  propriamente  si  do- 
vreljbero  dire  i  sommi  predicati.  Ma  noi  repiitiamo,  come  apparirà  in  pro- 
gresso, che  i  sommi  predicali  o  predicabili  non  sieno  propiiamenle  i  sommi 
generi  degli  enli ,  e  mollo  meno  sieno  quelli  che  classificarono  Arislolele 
e  Porfirio,  ma  siano  le  forme  originali  e  primitive  dell'esseri.',  in  quanl'esse 
servono  poi  di  fondamento  alle  somme  classi  ,  e  poi  ai  generi  degli  enli , 
il  die  s'intenderà  in  progresso. 


96 

Ora  una  qualità,  presa  in  senso  universalissimo ,  come  qui  la 
prendiamo,  è  sempre  un  predicabile  che  s'atlribuisce  in  un  modo 
0  in  un  altro  —  o  più  o  meno,  o  anche  si  nega  del  tutto  —  al  su- 
bietto unico  della  divisione  e  classificazione.  Perciò  gli  antichi, 
che  dopo  Socrate  s'  applicarono  specialmenie  alla  Dialettica  ,  e 
propriamente  Aristotele,  trovarono  convenire  ai  sommi  generi, 
in  cui  divisero  l'ente,  com'essi  dicevano,  la  denominazione  di 
Categoria,  o  di  predicamento. 

423.  Questa  parola  spezza  veramente  l'ente  in  due  parli  , 
cioè  in  un  subietto  e  nei  predicati ,  che  gli  si  attribuiscono,  e 
classifica  questi  secondi,  ma  per  mezzo  di  questi  divide  il  su- 
bietto stesso,  come  abbiamo  veduto,  non  potendo  il  subietto,  che 
è  unico  e  comunissimo,  diventare  differente,  e  diventar  molti  , 
se  non  in  quanto  si  considera  unito  a  diversi  suoi  termini,  i 
quali  di  lui  predicandosi  aquistano  il  nome  e  l'essere  di /predicati. 

12G.  Che,  se  per  predicamento  s'intende  \o  slesso  modo  di  pre- 
dicare {Logica,  i02,  sgg.),  il  nome  di  predicamenli  esprime  i  di- 
versi modi  di  predicare.  Ma  questi  stessi  modi,  quando  si  predica 
attualmente  e  con  verità,  dipendono  dalla  natura  de'  predicabili, 
e  si  convertono  in  predicabili  essi  stessi.  Poiché,  se  si  dice,  a 
ragion  d'esempio,  che  si  predica  l'uomo  d'una  statua  in  un  modo 
analogico,  questo  modo  d'analogia  entra  nel  predicato  e  lo  mo- 
difica, predicandosi  della  statua  non  altro  se  non  «  ciò  che  è 
analogo  all'uomo  ».  Ai  predicabili  dunque  (nona  quelli  di  Por- 
firio, ma  ai  predicabili  quali  sono  in  verità)  si  può  sempre  ri- 
durre ogni  classificazione  delle  entità. 

427.  Uessere  comunissimo  dunque  conviene  che  prenda  il  fon- 
damento della  sua  classificazione  in  un  altro  —  cioè  in  cosa,  che 
dialetticamente  sia  altro,  —  nel  suo  termine,  ossia  in  qualche  cosa 
che  gli  si  possa  attribuire  come  predicalo.  Qual  sia  la  natura 
di  (\yiQsV altro,  di  questo  termine,  in  cui  si  fondi  la  divisione  o 
distinzione  dell'essere,  lo  cercheremo  in  appresso.  Qui  ci  basta 
di  far  intendere  come  la  parola  Categoria  possa  ricevere  suffi- 
ciente estensione  per  abbracciare  ogni  distinzione,  o  divisione, 
0  classificazione,  che  si  possa  mai  fare  delle  entità. 

428.  Veramente  la  parola  Categoria  parrà  piuttosto  dialettica 
che  ontologica.  Ma  è  appunto  la  dialettica  l'unico  fonte,  onde  si 
può  attingere  il  linguaggio  dell'Ontologia,  come  c'insegna  Pia- 


97 

Ione.  l'oichè,  essendo  anche  questa  una  scienza,  non  può  parlare 
JcH'esserc  che  in  quanto  si  fa  conoscere  e  come  si  la  cono- 
scere :  appartenendo  questa  stessa  virtù  di  farsi  conoscere  ,  come 
vedremo,  alla  natura  dell'essere. 

i"21).  La  qual  parola  di  Categoria,  perciò  appunto  che  è  tolta 
dal  modo  di  conoscere  ,  ha  il  vantaggio  di  non  pregiudicare 
le  diverse  questioni  affini,  non  distinte  sufficientemente  dalTan- 
tichità,  per  e-empio  la  questione:  se  lo  idee  ahhiano  un'esistenza 
separata  dalle  cose:  e  l" altre  che  diremo  in  appresso.  Poiché 
prima  conviene  dare  un  qualche  ordine  a  tutti  gli  oggetti,  che 
cader  possono  nella  mente,  e  poscia  vedere  quali  di  essi  ahhiano 
un'esistenza  propria  anche  fuori  della  mente,  quali  no.  Che  se 
si  classificassero  od  ordinassero  solamente  i  primi,  i  secondi 
esclusi  dalla  classificazione  impaccierebbero  la  scienza. 

150.  Vero  è,  che  la  parola  Caletjorui  rappresenta  le  cose 
conosciute  analiticamente,  perchè  divide  il  subielto  ed  il  predi- 
cato; tuttavia  ella  stessa  ha  in  sé  la  virti!i  emendatrice  di  questo 
difetto,  poiché  la  scienza  di  predicazione  (Psicol.  ^lASri-l'iOl*),  che 
per  sé  e  col  suo  primo  atto  suppone  gli  enti  divisi  ,  é  quella 
stessa  che  negando  poi  questa  divisione,  e  predicando  la  perfetta 
unità,  risarcisce  lo  squarcio  ch'ella  avea  fatto  da  prima  nell'ente. 

15J.  Ma  quello,  che  é  più  diluito  necessario  d'aver  presente 
in  questa  ricerca  delle  Categorie,  si  è  che  il  subielto  della  di- 
visione, essendo  V  essere  iniziale  e  comunissimo,  non  è  altro  dì 
conseguente  che  un  subietto  dialellico,  il  primo  e  il  più  remoto 
de'  subietti  dialettici.  Sarebbe  dunque  un  errore  confonderlo 
con  un  subielto  reale,  quand'  é  astrattissimo  e  tale  che  riceve 
la  natura  di  subielto  primo  ed  universale  unicamente  dalia  ma- 
niera di  concepire  dell'umana  mente. 

Egli  é  tanto  più  necessario  por  mente  a  questo,  che  la  nvàn- 
canza  di  una  cosi  fatta  avvertenza  fu  la  causa  del  Panteismo,  che 
guastò  la  filosofia  specialmente  in  Germania,  e  in  fine  la  con- 
sunse.  Poiché,  chi  scambiasse  per  avventura  V essere  iniziale  di 
tulle  le  entità,  e  comunissimo,  coH'c.^.srr^  cnniplelo  nella  sua  na- 
tura.  ossia  coH'essere  assoluto  e  realissimo,  che  é  Dio  stesso, 
questi  arriverebbe  all'errore  enorme  e  grossolano  di  fare  che 
tutte  le  entità  fossero  predicali  e  però  qualità  di  Dio ,  e  c.o^ì  ne 
comporrebbe  il  mostro  de'  Panteisti. 

Rosmini.  Teosofìa.  7 


98 

Quando  dunque  si  considerano  por  noi  tutte  le  entità  come 
termini  e  come  predicati  dell'essere,  si  parla  allora  d'un  essere, 
che  non  ha  una  esistenza  propria  in  sé,  ma  che  esiste  soltanto 
davanti  alla  mente  come  una  specie  d'ente  di  ragione.  Che  anzi 
per  questo  appunto  noi  distinguiamo  queste  tre  cose,  Vesserò  ini- 
ziale,  Venlità,  e  Venie.  Poiché  chiamiamo  essere  iniziale  quel- 
l'atto d'esistenza,  che  é  comune  a  tutte  le  entità  concepibili; 
entità  ogni  oggetto  che  si  pensa  in  qualunque  modo,  come  uno, 
dalla  mente  umana:  ente  finalmente  quelle  tra  le  entità,  che  hanno 
tutto  ciò  che  si  richiede,  acciocché  possano  esistere  in  sé  slesse, 
e  non  soltanto  alla  mente ,  o  possano  come  esistenti  in  sé  stesse 
essere  pensate.  Laonde  ente  è  ciò,  che  ha  un  termine  in 
qualche  modo  compiuto  e  da  sé  stante;  entità  è  ciò  che 
ha  un  termine  sia  compiuto  o  no;  essere  iniziale  è  ciò,  che 
non  ha  termine  alcuno,  ma  è  puramente  atto  iniziale  d'ogni 
esistente. 

Vessere  dunque  veduto  dalla  mente  in  quest'  astrattezza  è  im- 
perfettissimo,  perchè  separato  per  opera  della  mente  da  ogni 
suo  termine  e  finimento,  ed  è  quello  ,  che  chiamiamo  anche  es- 
sere ideale  indeterminato. 

45'2.  Riassumendo  dunque  noi  ora  il  problema  delle  Categorie 
fin  qui  dichiarato  ; 

1°  V essere  iniziale  preciso  da  tutti  i  suoi  termini  in  modo, 
che  non  si  consideri  pili  la  congiunzione  che  può  avere  con 
questi,  è  un  puro  oggetto  dialettico.  Come  tale  è  uno  e  sempli- 
cissimo, non  ammette  nel  suo  seno  varietali  sorta,  e  però  ninna 
divisione,  né  classificazione;  ma  egli  slesso  piuttosto  è  una  delle 
entità  classificabili. 

2°  Se  quest'essere  iniziale  si  considera  nella  relazione  e  nella 
congiunzione  co' suoi  termini,  in  tal  caso  egli  acquista  il  nome 
universalissimo  di  entità. 

Ora  poiché  quando  un  termine  é  congiunto  coll'essere  iniziale 
diventa  una  cosa  non  lui,  cioè  un'entità  unica,  possiamo  inferire, 
che  è  proprietà  dell'essere  iniziale  di  divenire  davanti  alla  menle 
nostra  tutte  le  entità  dalia  mente  concepibili. 

Dire  che  Vessere  iniziale  può  divenire  le  entità  —  cessando  cosi 
d'essere  iniziale,  almeno  puramente  iniziale  —  é  il  medesimo  che 
dire  ch'egli  è  in  potenza  tulle  le  entità,   ossia  che  ha  virlual- 


99 

mente  tutte  le  enlitcà  nel  suo  seno  :    di  qui    egli   acquista  il  li- 
,tolo  di  essere  possibile. 

Queste  entilù,  che  sono  nel  seno  dell'essere  iniziale  virtual- 
mente, si  j)ossono  acconciamente  chiamare  varietà  inesistenti 
virtualmente  nell' essere. 

ù"  V  essere  iniziale  dunque,  che  per  se  solo  è  uno  e  indi- 
visibile, congiunto  con  questi  diversi  termini,  che  sono  sue  at- 
tuazioni ulteriori,  diventa  vario,  e  cosi  ammette  una  divisione 
e  una  pluralità,  altro  divenendo  congiunto  con  un  termine,  ed 
altro  ed  aitnì  congiunto  e  proteso  in  altri  termini. 

4"  Questi  termini  si  possono  predicare  sempre  del  medesimo 
essere,  avendo  l'essere  per  inizio  loro  comune,  potendosi  sempre 
dire  «l'essere  è  dotato  del  tale  e  del  tal  termine».  Onde  la 
varietà  e  la  divisione  dell'essere  risponde  alla  varietà  e  divisione 
de'predicati  di  lui,   possibili  a  concepirsi. 

5°  Se  questi  predicati  si  ordinano  in  classi,  e  queste  in 
classi  più  ristrette,  e  con  questo  lavoro  s'arriva  alle  classi  prime 
e  fondamenlali,  queste  danno  di  conseguente  la  prima  e  fonda- 
mentale classificazione  delle  entità:  e  queste  ultime  classi  sono 
quelle,  a  cui  diamo  il  nome  di  Categorie  e  che  or  dobbiamo 
ricercare. 

CAPITOLO  IV. 

Dì  alcune  questioni  affini  non  distinte  bastevolmente 
dagli  antichi  filosofi. 

133.  Dobbiamo  dunque  classificare  i  termini  dell'essere  iniziale. 
Ma  questi  termini  possono  esser  classificati  in  molte  maniere,  e 
si  tratta  di  rilevare  quale  sia,  come  dicevamo,  la  prima  e  fon- 
damentale, di  maniera  che  abbracci  tutte  le  altre. 

Le  entità  sono  legate  tra  I(»ro  in  molle  maniere,  ed  è  certa- 
mente da  questi  legami,  che  conviene  derivare  la  loro  classi- 
ficazione. Appunto,  perchè  questi  legami  sono  vari,  furono  pro- 
poste classificfizioni  diverse,  e  nacquero  di  quelle  questioni  affini 
a  quella  delle  Categorie^  che  abbiamo  superiormente  accennate. 
Queste  questioni  affini  sono  cinque  principali,  cioè; 

I.  Quali  sono  i  principi,  ossia  le  cause  delle  entità  :  primo 


100 

modo  di  classificare    le  entità  aggruppandole  ai  loro  principi   o 
cause, 

II.  Quali  sono  gli  elementi  costitutivi  delle  entità:  secondo 
modo  di  classificare  le  entità,  dagli  elementi  di  cui  si  com- 
pongono. 

III.  Quali  sono  i  generi  delle  entità:  terzo  modo  di  classi- 
ficarle, secondo  le  idee  più  universali  ossia  comuni  (i). 

IV.  Quali  sono  le  forme  dell'essere:  quarto  modo  di  classi- 
ficare le  entità,  secondo  che  appartengono  piuttosto  a  una  forma 
primitiva,  che  ad  un'altra. 

V.  Quali  sono  le  somme  classi  degli  enti:  qui  non  si  tratta 
più  di  entità,  parola  ,  come  vedemmo  ,  che  abhraccia  tutto  ciò 
che  si  distingue  col  pensiero;  ma  degli  enti,  cioè  di  quelle  en- 
tità compite  ,  che  possono  non  soltanto  esistere  nella  relazione 
colla  mente,  ma  anche  sussistere  in  sé. 

ÌZU.  Non  è  diffìcile  accorgersi  die  tutti  questi  cinque  concetti, 
i  principi,  gli  elementi,  i  generi,  le  forme  dell'essere  e  le  somme 
classi  degli  enti,  possono  acquistare  la  condizione  di  predicati, 
come  quelli  che  sono  lutti  atti  ad  essere  predicati  dell'essere. 
E  veramente  i  principi  e  le  cause  si  predicano  dell'  entità  , 
quando  si  dice:  «  queste  entità  sono  causate  dai  tali  principi  w. 
Gli  elementi  si  predicano  dell'enlilà,  quando  si  dice:  «  l'entità 
è  composta  di  tali  elementi  ».  I  generi  si  predicano  dell'entità, 
quando  si  dice:  «  quest'entità  ha  la  tale  qualità  generica  »,  o 
«  è  compresa  in  questo  genere  «.  Le  forme  si  predicano  delle 
entità,  dicendosi:  «  l'entità  ha  la  tale  forma  »,  ovvero  «  è  sotto 
questa  forma  ».  Le  somme  classi  si  predicano  dell'  ente  allo 
stesso  modo  dei  generi,  e  dirò  in  appresso  in  che  dai  generi  si 
distinguano. 

Dalle  quali  cose  risulta  ,  che  si  possono  distinguere  cinque 
specie  di  predicati  ,  in  ciascuna  delle  quali  si  può  cercare  i 
sommi  ossia  ultimi  predicali  ,  e  quindi  in  questo  senso  cinque 
specie  di  Categorie.  Non  è  dunque  maraviglia  che  gli  antichi  , 


(t)  Che  altra  fosso  la  questione  dcprincipì,  aìlvaqnGÌÌà  de  sommi  generi 
ì'a  notalo  da  Plotino  ,  dove  rimprovera  ai  Cinici ,  clie  nelle  loro  Categorie 
oj  Tìt  5VT«  j5ap(&,uoOvTKt,  uXy  '■'■p'A^i  Twv  óvToiv  ^r,x<j\><si,,  —  Emi.  vi,  1,  25.  Cf. 
Enn.  VI,  I,  1. 


40( 

cercando  le  Categorie,  abbiano  confuso  quelle  cinque  questioni; 
né  i  filosofi  moderni  hanno  certamente  pensalo   a   distinguerle. 


CAPITOLO  V. 

Questione  dei  principi  o  cause  delle  entità. 

i55.  Che  queste  cinque  questioni  abbiano  affinità  tra  loro 
risulta  da  questo  appunto,  che  ciascuno  de'  cinque  concelti  ,  a 
cui  si  riferiscono  ,  abbraccia  una  specie  di  predicabili,  e  che  i 
predicabili  sommi  in  detta  specie  si  possono  chiamare  Categorie 
relative  a  quella  specie. 

Ma  se  per  Categoria  s'intende,  come  abbiam  detto,  un  predi- 
cato che  sia  primo  e  fondamentale  relativamente  a  tutte  le  specie 
delle  entità,  rimarrà  a  domandare  quale  tra  quelle  cinque  specie 
sia  anteriore  e  primitiva  rispetto  alle  altre.  Quali  i  sommi 
predicali  non  ristretti  entro  una  specie  ,  che  già  suppor- 
rebbe una  classificazione  anteriore  j  ma  rispetto  a  tutte  affatto 
le  entità? 

Ora  egli  è  chiaro  prima  di  tutto  ,  che  tali  categorie  non  si 
possono  dedurre  da'  principi,  ossia  dalie  cause  degli  enti  (1), 
perocché  non  tutte  le  entità  hanno  cause  o  principi;  e  però  ri- 
marrebbe esclusa  da  questa  classificazione  la  prima  causa,  e  in 
generale  tutte  le  cause,  come  cause,  altro  non  facendosi  che  di- 
stinguere i  causati.  Né  varrebbe  il  dire  ,  in  quanto  alla  prima 
causa,  che  ella  si  potrebbe  classificare  appunto  dalla  mancanza 
di  causa,  come  dal  contrario  della  qualità  con  cui  si  classifica; 
primieramente  perchè  rimarrebbe  sempre  esclusa  dalla  classifi- 
cazione la  causa  come  causa,  di  poi  perchè  la  prima  classifica- 
ci) Principio  ò  più  universale  di  causa  (Cf.  S.  Tti.  S.  I.  xxxm.  I.ad  i.), 
bencliè  Aristotele  (Metaph.  IV  (V),  1)  e  i  greci  prendano  l'una  parola  per 
rah.ra.  La  distinzione  fu  introdotta  da'teologi  greci,  come  osserva  S.  Tom- 
maso —  bencliè  ci  abbia  forse  qualche  esempio  anche  appresso  i  latini ,  in 
cui  il  Padre  è  detto  causa,  rispetto  al  Figlio,  come  in  S.  Agost.  de  Trinit. 
VII,  4,  —  e  conviene  ritenersi,  perchè  sono  due  i  concetti  diversi,  che  hanno 
bisogno  di  diverse  espressioni. 


102 

rione  non  può  fondarsi  sopra  una  qualità  negativa,  essendo  an- 
teriore sempre  quella  che  si    fonda    sopra  una  qualità    positiva. 

In  secondo  luogo,  uno  stesso  causato  si  dovrebbe  riferire  a 
più  cause,  giacché  diversi  generi  di  cause  concorrono  a  produrre 
un  medesimo  ente.,  poniamo  la  causa  esemplare,  refficiente  e  la 
finale.  Non  potrebbero  dunque  le  cause  dare  un  sufficiente  fon- 
damento alla  classificazione  delle  diverse  entità. 

In  terzo  luogo,  la  classificazione  delle  entiià,  per  via  della 
loro  cj.usa  ,  non  sarebbe  fondata  in  alcuna  determinala  qualità 
inesistente  o  inerente  alle  entità  classificate  ,  ma  in  una  rela- 
zione con  altro,  cioè  colle  loro  cause. 

E  nuove  ragioni  sono  queste,  che  dimostrano,  che  le  Cate- 
gorie aristoteliche  non  possono  tenere  il  luogo  di  quelle,  che  noi 
cerchiamo.  Poiché  Aristotele  colle  sue  Categorie  altro  non  fa  , 
che  dividere  la  causa  formale:  essendo  quelle  sue  categorie  dieci 
generi  di  forme  e  non  altro,  la  prima  il  genere  delle  forme  es- 
senziali, le  altre  nove  generi  di  forme  accidentali.  Le  altre  cause, 
che  Aristotele  stesso  distingue,  la  materiale,  la  motrice,  la  finale, 
Bono  entità  che,  come  cause,  rimangono  escluse  da  quella  clas- 
sificazione. 

In  quarto  luogo,  la  divisione  delle  Categorie  sarebbe  poste- 
riore alla  divisione  delle  cause,  e  però  non  sarebbe  più  la  prima 
classificazione  dell'essere. 

In  quinto  luogo,  dovendosi  classificar  prima  le  cause,  e  queste 
distribuendosi  in  serie  (poiché  ci  sono  cause  più  o  meno  pros- 
sime e  rimote  all'effetto)  .  converrebbe  investigare  quali  sieno 
le  primissime  cause.  Ora  quando  il  filosofo  sia  obbligato  a  mei- 
tersi  in  questa  investigazione  delle  primissime  cause,  è  giuoco - 
forza  ch'egli  pervenga  a  conoscere,  che  di  cause  primissime  non 
ce  ne  sono,  e  non  ce  ne  può  essere  che  una  sola,  cioè  Dio  (I), 

(i)  Aristotele  non  è  perveniilo  a  scoprire  l'unità  della  causa.  Poicliè  seb- 
bene riduca  in  un  ultimo  principio  le  tre  cause,  formale,  finale,  e  motrice, 
e  anche  questo  non  peifetiamente,  gli  sfugge  però  la  causa  materiale,  che 
è  la  quarta  delle  cause  da  lui  ammesse,  poiché  non  giunse  alia  creazione, 
e  si  trovò  in  mano  quella  materia  eterna,  che  lo  inipaccia  da  tulli  i  lati. 
Laonde  sebbene  riponga  la  sapienza  nella  cognizione  delle  cause  ullime 
{Metaph,  I.  1,  e  2.),  e  quindi  nella  cognizione  di  Dio  »,  tì  yyp  Sìòs  òo-aiX  tò 
«'ttov  Tiv.w  zr.v'xt  y.xi  upxó'^ii  ('"f.  Metaph.  XI  (XII),  4.;  De  Coel  I.  9.);  tuttavia 


403 

e  in  tal  modo  si  vedrebbe  di  novo  ricondotto  alla  perfetta  unità 
dell'essere,  e  quindi  ritoltasi  di  mano  ogni  possibilità  di  classi- 
ficazione; elle  ciò  cbe  si  riduce  ad  una  perfetta  unità  ,  non  si 
divide  più  né  classifica.  Come  Vessere  puro  in  quanl'è  iniziale, 
come  unità  segregala  colla  mente  dal  resto  ,  non  si  presta  ad 
esser  subielto  d'alcuna  classificazione,  cosi  né  pure  ,  anzi  molto 
meno,  l'essere  puro  e  assoluto,  cbe  per  se  stesso  è  da  ogni  altro 
ente  finito  sogregatissimo  di  natura.  Ma  ridotto  il  filosofo  per 
la  seconda  volta  in  quest'angustia  dell'essere  uno ,  qui  appunto 
trova  dove  allargarsi.  Poicbé  può  domandare  a  sé  stesso  ,  se 
l'essere  sia  in  più  forme  o  in  una  sola:  e  dove  gli  venga  tro- 
valo che  egli ,  secondo  la  sua  natura  di  essere  ,  è  necessaria- 
mente identico  in  più  forme,  già  con  questo  ha  sciolto  il  pro- 
blema, poiché  queste  forme  sono  altrettanti  principi,  in  ciascuno 
de'quali  lutto  l'essere  si  contiene:  ond'essi  e  abbracciano  tulto^ 
e  però  ad  essi  tutte  le  entità  si  possono  riferire,  e  non  dividono 
tuttavia  l'essere  in  quanto  è  indivisibile  ed  uno. 


CAPITOLO  VI. 

Questione  degli  elementi. 

iù(S.  Se  dalla  diversità  delle  cause  non  si  può  trarre  una  clas- 
sificazione delle  entità,  molto  meno  dalla  diversità  degli  elementi 
di  cui  gli  enti  si  compongono. 

Primieramente  ,  perchè  la  parola  elemento  indica  qualche 
cosa   di    meno    universale   della  causa  (1)  ,    perchè   indica    so- 


rimane  sempre  la  materia  come  un  altro  principio,  e  Iddio  non  è  il  prin- 
cipio assolutamente  ,  ma  àp//,  tc?.  Tuttavia  nell'ordine  della  scienza  anche 
per  Aristotele  c'è  una  sola  causa  ultima^  e  quest'è  Dio,  che  riunisce  in  se 
il  triplice  concetto  di  causa  formale,  finale  e  motrice,  sehbone  incompiu- 
tamente perchè  inattivo  al  di  fuori  di  sé. 

{{) Principimn  communius  est  quam  causa,  sicut  causa  communior  quam 
elementum.  S.  Th.  S.  I.  xxxui.  1.  ad  1.  —Quindi  .Aristotele,  che  alle  so- 
stanze sensibili  assegna  quattro  cause,  la  materia,  la  forma,  la  privazione,  e 
il  movente,  dice:  le  tre  prime  essere  elementi  inesistenti  e  componenti  la 
sostanza  sensibile,  l'ultima  esser  causa,  non  elemento  {Metaph.  XI  (XII)  4). 


lamenle  ciò  che  è  insilo  nell' entità  ,  e  di  cui  Tentila  si 
compone. 

Di  poi  ,  perchè  non  tulle  le  entità  sono  composte,  e  io  stesso 
essere   puro   non  è    composto   d'elementi  ,   ma   è  semplicissimo. 

In  terzo  luogo,  se  si  dovesse  stabilire  la  classificazione  delle 
entità  sugli  elementi  ,  si  dovrebbe  prima  di  tulio  classificare 
gli  elementi  slessi.  Ma  quesla  classilicazione  condurrebbe  la  mente 
a  trovare  un  primo  elemento  unico  ,  il  quale  sebbene  non  è 
proprio  di  ciascuna  entità  (onde  gli  fu  negata  da  qualche  filosofo 
la  denominazione  d'elemento),  tuttavia  è  ad  ogni  modo  un  ele- 
mento comunissimo;  e  quesl'è  appunto  l'atto  iniziale  dell'essere, 
senza  il  quale  nessuna  entità  si  può  concepire,  e  pure  è  distinto 
dal  suo  termine  ,  e  però  non  è  tutta  1'  entità  ,  eccetto  allora 
quando  esso  stesso  si  considera  a  parte ,  preciso  da  ogni  ter- 
mine; sotto  il  quale  aspetto  esso  non  è  più  elemento,  ma  l'en- 
tità stessa.  Se  dunque  gli  elementi  ultimi  delle  entità  si  ridu- 
cono ad  uno,  egli  è  evidente  che  le  supreme  classificazioni  non 
si  possono  prendere  dalle  ultime  classi  d'elementi,  perchè  queste 
non  ci  sono,  svanendo  nell'uno.  Ci  rimane  piuttosto  in  mano  il 
subietto  stesso  della  classilicazione,  quando  quest'uno  si  consi- 
dera come  essere  iniziale  suscettivo  di  vari  termini. 

E  ben  chiaro,  ciie  quando  s'incominciò  a  filosofare,  e  in  ge- 
nerale nell'antica  filosofia,  non  s'erano  potute  fare  tante  distin- 
zioni. Si  cercarono  piuttosto  i  sommi  generi  degli  enti,  che  non 
sia  di  tutte  le  entità.  E  per  far  questo  si  spezzò  l'ente  ne' suoi 
elementi  (1). 

J37.  E  questa  è  la  via  ehe,  seguendo  i  Pitagorici,  tenne  lo  slesso 
Platone.  Poiché  analizzò  la  nati;ra  dell'ente  con  un'osservazione 
sottilissima,  e  conobbe  che  l'ente  non  poteva  essere  ente,  senza 
che  constasse  di  alcuni  suoi  elementi.  Ma  ,  così  dicendo  ,  egli 
parlò  dell'  ente  che  avesse    possibilità   di  sussistere  ,  e  non  del- 

(1)  PJatonti  nella  prima  parte  del  Panneiiide  consiilerò  l'ente  senza  i  suoi 
termini,  rpiello  clic  noi  chiamiamo  «  essere  iniziale  preciso  colla  mente 
da'suoi  termini  j  ;  e  lo  annullò,  cioè  dimostrò,  che  così  solo  non  poteva 
avere  alcuna  esistenza  in  sé;  nella  seconda  parte  Io  rivestì  de'suoi  termini, 
e  così  mostrò,  che  nell'unità  dell'essere  c'era  la  pluralità,  e  conchiusc,  che 
senza  di  questo  l'essere  uno  non  poteva  stare,  sciogliendo  così  il  nodo  di 
Parmenide  per  bocca  dello  stesso  Parmenide. 


l'essere  iniziale  ,  quale  il  può  considerare  la  mente  distinto  dai 
8Uoi  termini.  Trovali  i  coneelti  elementari  dell'ente  insiti  nella 
sua  essenza,  vide  ancora  ch'egli  poteva  assumerne  di  acciden- 
tali ,  e  quindi  dedusse  che  il  concetto  dell'ente  si  trasformava 
nel  concetto  di  molli  enti,  secondo  che  abbracciava  l'uno  o 
l'altro  gruppo  di  questi  ultimi,  trovando  così  la  maniera  d'uscire 
dalla  sterile  unità  dell'ente.  Con  questo  ragionare  scoverse  un 
fondamento,  sul  quale  classificare  in  generi  questa  moltitudine  di 
enti  così  derivali,  che  non  abbracciavano  però  tutte  le  entità. 
Quando  Aristotele,  come  vedemmo  {Aristotele  ,56,  sgg.;  149,  sgg.*), 
tolse  a  confutare  Platone  e  i  Platonici,  dicendo  che  gli  elementi 
non  potevano  essere  generi,  sebbene  dicesse  una  cosa  vera,  non 
dicea  però  nulla  che  potesse  confutare  eflicacemente  la  sentenza 
di  Platone,  che  egli  materializzò  e  dimozzò.  Poiché  è  certamente 
vero  che  gli  elementi  per  sé  stessi  non  sono  generi,  ma  diven- 
tano indicazioni  e  caratteri  del  genere,  se  si  prendono  come 
predicati  dell'ente.  Certo,  che  non  possono  esser  tali,  se  si  ma- 
terializzano, cioè  si  considerano  come  reali,  il  che  sembra  fare 
appunto  Aristotele.  Ma  Platone  ammette  elementi  non  solo  delle 
cose  reali,  ma  anche  delle  idee,  ed  Aristotele  stesso  poco  coe- 
rente lo  confessa,  e  di  più  gli  ammette  egli  medesimo  (1).  Ora 
se  si  moltiplicano  le  idee  per  la  varia  composizione  degli  ele- 
menti, qual  difficoltà  ci  può  essere  che  queste  varie  idee  siano 
fondamento  di  vari  generi?  Starà  solo  a  vedere,  se  questa  sia 
una  partizione  suprema  e  che  abbracci  ogni  entità.  Intanto  lo 
slesso  Aristotele  non  fa,  e  non  può  fare  altro  col  novero  delle 
sue  categorie  ;  che  la  sostanza  e  gli  accidenti  sono  elementi  , 
ed  egli  pure  confessa,  che  i  generi  sono  universali,  e  che  dagli 
universali  tutte  le  cose  si  nomano  e  si  classificano  e  si  dimo- 
strano, conoscendosi  per  essi  {'2). 

(1)  Jy.  i/.iijbti  i-:'jv/y.'j.  rAt-.wt   wr^r^  twv  Óvtwv  Cvì'jx  tr'ji/v.x.  Metdpìl.    I,    6.  — 

Cf.  Metaph.  I,  5;  XIII,  7.;  V,  8.  De  An.  I,  3. 

(2)  Aristotele,  dice  Poster.  \,  11.  «  È  necessario ,  elio  veramente  si  dica 
«  esser  uno  ne" molli,  perchè  senza  di  ciò  non  ci  sareiilie  nviversalc.  Che 
«  s«  non  ci  fosse  universale  ,  non  ci  sarebbe  il  mozzo,  e  por  ciò  né  manco 
ff  la  dimostrazione.  È  (liiui|uc  mestieri ,  ciie  ci  sia  qnalclie  uno ,  e  il 
9  medesimo  nei  più,  non  omonimo  (/'v;  òu'j'ivuao-j)  »  Quesl" ultima  parola 
indica  la  differenza  caratteristica,  che  vuol  porre  .\ristoteIe   tra   il  suo  si- 


i06 


CAPITOLO  VII. 

Questione  de' generi  degli  enti. 

158.  Dalla  questione  degli  elementi,  dunque,  si  doveva  pas- 
sare, e  si  passò  a  quella  de'generi.  Ma  questo  passaggio  dopo 
essersi  fatto  doveva  suscitare  delle  difficolt.à,  perchè  gli  elennenti 
non  s'erano  classiticati  a  principio  con  bastevole  avvedimento  e 
sagacità,  il  che  se  si  fosse  fatto,  s'avrebbe  veduto,  coma  abbiamo 
detto,  che  per  questa  via  non  si  polea  pervenire  ad  una  prima 
partizione  o  distinzione  dell'essere.  E  oltre  le  cose  dette,  si  trova 
anche  questo  impedimento,  che  gli  elementi  stessi  hanno  due 
forme,  l'ideale  e  la  reale;  e  gli  elementi  di  cui  coosta  il  reale, 
essendo  di  natura  individua  e  singolare,  non  possono  mai  co- 
stituire de'generi.  Di  che  tolse  Aristotele  a  censurare  quelli,  che 
gli  elementi  dicevano  generi,  o  i  generi  elementi,  prendendo 
questi  per  ingredienti  delle  cose  reali. 

139.  Un'altra  difficoltà  nasceva  da  questo  che  essendo  gli 
elementi  parte  essenziali  all'ente,  parte  accidentali,  i  primi  non 
potevano  servire  di  fondamento  alla  distinzione  de' generi,  perchè 
dovevano  trovarsi  in  ogni  ente,  e  però  non  ammettevano  dif- 
ferenze necessarie,  acciocché  l'ente  si  moltiplicasse  in  più  generi, 
sulla  quale  ragione  fondato  Aristotele  nega  costantemente,  che 
l'essere  sia  un  elemento  degli  enti.  Ma  quando  nega  questo, 
egli  prende  l'essere  in  tutta  l'estensione  della  parola,  e  non 
s'accorge,  che  questa  parola  essere  ha  un  altro  significato  nel- 
l'uso, quello  d'essere  iniziale.  Poiché  la  mente  umana  ha  una 
facoltà  di  considerare  anche  ciascuno  degli  elementi  essenziali 
dell'ente  da  sé,  separato  dagli  altri.  S'aggiunga  che,  prendendo 
per    base   della  classificazione   gli  elementi  essenziali  dell'  ente, 

sfcma  e  quello  di  Platone  ;  percliè  questi  aveva  detto,  che  le  specie  sono 
omonime  alle  cose  (Tini.  p.  52,  A.)^  dal  che  Aristotele  traeva,  che  non 
potevano  essere  fondamento  di  cognizione  delle  cose  e  delle  dimostrazioni 
intorno  ad  esse.  Ma  egli  dimenticava,  che  Platone  considera  le  idee  sotto 
due  relazioni;  come  separate  dalle  cose  e  così  le  vuole  omonime;  e  come 
partecipate  dalle  cose,  e  così  le  fa  sinonime,  poiché  da  esse  si  chiamano 
e  si  conoscono  le  cose.  Di  questo  più  altrove. 


107 

rimangono  esclusi  dalia  classificazione  gli  elementi  accidentali; 
e  se  prendonsi  questi  per  base,  rimangono  esclusi  gli  elementi 
essenziali  :  e  prendendosi  gli  uni  e  gli  altri,  la  classificazione 
difetta,  perchè  muta  di  base,  e  sono  due  le  classificazioni,  non 
una  sola. 

ìliO.  E  quesl'è  una  nova  ragione,  che  prova  difclloso  il 
novero  delle  Categorie  aristoteliche.  Poiché  ridncondosi  tutte  a 
sostanza  e  ad  accidente,  ad  ogni  modo  non  ha  una  base  unica, 
ma  ne  ha  due. 

\M.  Di  più:  qual'è  il  subietlo  di  tale  classificazione?  L'essere 
comunissimo,  si  dirà.  Ma  questo  non  si  divide  già  prima  di  tulio 
in  sostanza  e  in  accidente.  Ciò,  che  prima  di  ogni  altra  cosa  esso 
contiene  virluahnenle  in  sé,  sono  gli  enti,  e  in  questi  si  divide: 
e  solo  di  poi  questi,  e  anzi  solamente  alcuni  di  questi,  si  possono 
spezzare  nelledue  entità  elementari,  sostanza  e  accidente.  Laonde 
la  sostanza  e  l'accidente  non  appartengono  propriamente  par- 
lando né  agli  elementi  essenziali,  né  agli  elementi  accidentali  del- 
l'essere; ma  sono  agli  uni  e  agli  altri  posteriori.  È  dunque  più  vi- 
cina al  vero,  che  si  cerca,  la  distinzione  platonica  fondala  sugli 
elementi  propri  dell'essere  {Aristotele  .4S5  sgg.*),  che  non  sia  l'ari- 
stotelica tratta  dagli  elementi  propri  ddV  individuo  vago  {Ivi  ,63 
sgg.*)  che  è  posteriore  all'essere  nell'ordine  delle  idee. 

142.  Ma  conviene,  che  noi  dimostriamo  di  più,  che  i  generi, 
qualunque  siano,  non  possono  mai  costituire  la  prima  distinzione 
che  si  trovi  nell'essere. 

Primieramente  egli  è  chiaro,  che  nessuno  de'generi  in  cui 
si  pretenda  distinguere  l'essere,  può  contenere  da  sé  solo  l'essere 
intero,  sia  che  questo  si  prenda  virtuale,  sia  che  si  prenda  at- 
tuale. Di  qui  consegue,  che  l'essere  intero  rimane  escluso  dalla 
distinzione  e  classificazione  delle  entità.  Questa  dunque  non  è 
completa,  escludendo  la  principalissima. 

Di  poi,  l'essere  virtuale  e  l'essere  attuale  differisce  da  ciascun 
genere.  Ora  questa  differenza  è  anteriore  alla  distinzione  e  alla 
differenza,  che  hanno  i  generi  4ra  loro:  e  però  i  generi  non 
possono  inai  rappresentare  che  prime  (iifi'erenzc  e  varietà  del 
l'essere  stesso.  Si  dirà  forse,  che  questi  stessi  saranno  i  due 
primi  generi,  cioè  l'essere  universale  e  l'essere  generico,  o 
fornito  delle  prime  sue  determinazioni.  Ma  si  risponde,  che  l'essere 


^08 

universale  non  può  cosliluire  per  sé  un  genere  ,  perchè  esso  è 
unico  e  senza  specie  o  generi  minori:  dunque  quelli  non  costi - 
tuiscono  due  generi. 

In  terzo  luogo,  i  generi  hanno  un  elemento  comune,  che  è 
l'essere  iniziale^  e  un  elemento  proprio.  Per  questo  secondo  dif- 
feriscono tra  loro.  Ora  queste  differenze  de'  generi,  la  loro 
esclusività  perla  quale  dicendosi  l'uno  si  negano  tutti  gli  altri , 
sono  anch'esse  entità,  che  non  possono  esser  contenute  ne' generi 
slessi.  Si  risponderà  di  raccoglierle  esse  stesse  in  un  altrogenere. 
Ma  in  tal  caso  questo  sarebbe  un  genere  inferiore  ai  primitivi, 
e  rimarrebbe  sempre  vero  che  i  generi  primitivi  non  abbrac- 
ciano tutto  l'essere. 

In  quarto  luogo,  i  generi  hanno  per  proprio  loro  carattere  il 
contenere  virtualmente  delle  specie  o  generi  minori,  i  quali, 
toslochè  attualmente  appariscono,  si  dicono  divider  l' essere:  e 
così  pure  i  generi  medesimi  devono  essere  contenuti  virtualmente 
nell'essere  universale,  iniziale,  indeterminato.  Ma  se  si  considera 
quest'essere  universale,  si  trova  che  egli  contiene  virtualmente 
—  secondo  la  veduta  della  mente  —  un  essere  assoluto,  sempli- 
cissimo, in  una  parola  Dio,  il  quale  non  ammette  in  sé  alcuna  di- 
stinzione né  generica  né  specifica.  Ciò  posto,  l' essere  universale 
e  astrattissimo  non  s'  esaurisce  co'  soli  generi,  che  in  esso 
si  distinguono;  ma  oltre  i  generi  egli  contiene  assai  più, 
cioè  l'assoluto  essere.  Dunque  i  generine  esauriscono  l'essere, 
né  sono  la  prima  distinzione  che  in  esso  trovi  la  mente  ;  poiché 
la  mente  trova  in  esso  virtualmente  compreso  da  una  parte 
r  essere  attualissimo,  non  suscettivo  di  divisione  generica,  dal- 
l'altra un  altro    suo  termine,  che  si  lascia  dividere  in  generi. 

1^3.  Le  quali  ragioni,  e  specialmente  la  prima  e  la  quarta, 
dimostrano: 

{"  Che  la  partizione  in  generi  non  può  darci  la  prima 
varietà  e  partizione,  che  nell'essere  trovi  la  mente; 

2°  Che  questa  prima  partizione  non  può  essere  altra  che 
quella  delle  forme  primitive,  in  cui  l'essere  sia:  poiché  in  tal 
caso  essendo  tutto  l'essere  in  ciascuna,  questo  è  abbracciato 
tutto  intero  da  ciascuna  di  quelle  forme,  e  però  si  distingue  senza 
spezzarsi  e  distruggersi. 


409 

CAPITOLO  Vili. 

Questione  delle  Classi  degli  enti. 

ìkk.  Abbiamo  veduto^  che  nell'  essere  iniziale  non  si  trova 
nessuna  difTerenza  :  è  perfettamente  uno  ;  e  che  per  ciò  Tunica 
differenza  e  varietà  che  possa  indicare  una  sua  partizione  o 
distinzione  quahmque,  deva  prendersi  dalla  congiunzione  ch'egli 
ha  co' suoi  termini  (J45,  422,  127,  132*). 

Di  pili,  abbiamo  veduto,  che  il  detto  essere  iniziale  ammette 
un  termine  che  non  è  suscettivo  di  alcuna  partizione  generica, 
e  ne  ammette  un  altro  che  è  suscettivo  di  partizione 
generica  (,138-143*). 

Finalmente  abbiamo  veduto,  che  questa  partizione,  che  è  quella 
ddVeaserc  assoluto  e  dt^Wessere  relativo  —  secondo  che  il  termine 
dell'essere  iniziale  ò  assoluto  o  relativo,  —  non  costituisce  punto 
de'  generi;  poiché  è  proprio  del  genere  l'avere  specie  o  generi 
minori  sotto  di  sé,  e  l'essere  assoluto  non  ne  ammette  nessuno. 

Di  qui  procede,  che  non  tulle  le  distinzioni  o  partizioni  del- 
l'essere sieno  generiche;  ma,  anteriormente  alla  distribuzione  in 
generi,  s'incontra  una  partizione  che  noi,  per  usare  una  deno- 
minazione più  estesa,  abbiam  chiamata  Classi  dell'ente.  Ogni  genere 
dunque  é  certamente  una  classe,  o  per  una  classe  si  può  pren- 
dere, in  quanto  ne  costituisce  il  fondamento;  ma  non  tutte  le 
classi  degli  enti  sono  generiche:  e  tale  é  quella,  che  dicevamo 
dell'essere  assoluto,  e  del  relativo  o  suscettivo  di  generi:  tale 
pure  è  la  classificazione  nelle  ultime  specie,  le  quali  perdono 
la  natura  di  generi,  perchè  non  hanno  altre  specie  minori  sotto 
di  sé. 

145,  Ora,  che  queste  due  prime  classi  degli  enti,  cioè  l'Ente 
assoluto,  e  Vente  limitalo  e  relativo ,  non  siano  due  generi ,  si  vede 
ancora  dalle  seguenti  ragioni. 

I  generi  hanno  necessariamente  per  loro  subietto  comune , 
che  è  il  subietto  della  divisione,  l'essere  limitabile.  E  veramente 
ogni  genere  suppone  una  limitazione  del  subietto  comune  a  tutti 
i  generi;  e  però  ciascun  genere  esclude  lutti  gli  altri.  Ora  l'essere 
limitabile  non  è  l'Essere  assoluto,  che  non  può  subire  limitazioni 


440 

senza  cessare  d'essere  assoluto.  Questo  dunque  non  è  un  genere, 
né  ìi  subielto  de'  generi. 

In  secondo  luogo,  l'essere  limitabile,  subielto  comune  de'generi, 
è  Tessere  iniziale  suscettivo  di  termini  limitati.  All'incontro  l'Essere 
assoluto  è  l'essere  iniziale  già  ultimato  con  un  termine  illimitalo, 
e  compiutamente  ultimato. 

In  terzo  luogo,  il  genere  è  un'  (Milita  incompiuta,  alla  quale 
manca  l'atto  ulteriore  della  specie  e  della  realità.  All'incontro 
l'essere  assoluto,  essendo  l'Essere  d'ogni  parie  atlualo,  ultimato 
e  compiuto,  non  può  più  proceder  oltre,  e  non  può  di  conse- 
guente ultimarsi  in  alcuna  specie  o  altro  individuo.  Di  conseguenza 
è  lutt'altro  che  un  genere. 

In  quarto  luogo,  i  generi  indicano  altrettante  attualità  dei  su- 
bietto loro  comune,  che  per  essi  si  divide.  Di  conseguente  ogni 
genere  e  costituito  da  una^«a//7à  positiva;  cliè tutte  virtualmente 
giacciono  nel  subielto.  Ma  oltre  questa  divisione,  che  si  fa  per 
mezzo  di  qualità  diverse,  c'è  una  divisione,  che  si  fa  per  qualità 
contrarie,  cioè  ponendo  da  una  parte  la  qualità  positiva,  e  dal- 
l'altra la  negazione  di  questa.  Questa  parlizione  non  costituisce 
de'  generi.  E  tale  è  appunto  la  prima  classificazione  dell'ente 
in  Ente  Assoluto,  e  Ente  relativo;  poiché  la  qualità  di  quello, 
l'assolutezza,  è  la  positiva,  e  la  qualità  di  questo,  la  limitazione 
a  quella  contraria,  è  la  negativa.   (4) 

4/i6.  A  malgrado  di  tulio  ciò  questa  classificazione  anteriore  ai 
generi  ste.ssi  non  è  ancora  quella  prima  distinzione  o  varietà 
dell'essere,  di  cui  noi  andiamo  in  cerca. 

Primieramente,  essa  manca  al  bisogno  del  problema,  che  ci 
siamo  proposti,  per  questo  che  abbraccia  bensì  tutto  l'ente,  ma 
non  tulle  le  entità:  perchè  l'idea  generica  e  specifica,  a  ragione 

(1)  Aristotele  fece,  a  imitazione  de'Pitagorici,  le  Categorie  doppie  riducendo 
a  uno  stesso  genere  la  forma  e  la  privazione  ;  il  ctie  dimostra  che  egli  rico- 
nosceva la  conrmr/V/à  non  poter  essere  il  fondamento  de'generi.  Se  non  che 
egli  non  s'avvide  che  il  contrario ,  cioè  il  negativo ,  poteva  riferirsi  a  qualche 
cosa  d'anteriore  ai  generi ,  come  nel  caso  nostro  Vassoliitezza ,  nel  qual 
caso  la  classilicazione  che  ne  deriva  è  anteriore  a'  generi  ;  o  riferirsi  a  qualche 
genere,  nel  qual  caso  è  posteriore  a' generi,  perchè  divide  il  genere  stesso; 
0  finalmente  a  qualche  qualità  de'generi  inferiori,  o  delle  specie,  nel  qual 
paso  la  classificazione  è  posteriore  a  quel  genere  o  specie  che  biparte. 


\iì 

d'esempio,  non  è  un  ente  conìpiulo  ;  e  non  si  potrebbe  ridurre 
né  all'ente  assoluto,  a  cui  per  un  verso  appartiene,  né  all'ente 
relativo,  perché  non  é  contingente  ne  so;zgelta  al  tempo. 

In  secondo  luogo,  l'Ente  assoluto,  e  l'Ente  relativo  e  limitato, 
hanno  de'  vincoli  che  tra  loro  gii  uniscono,  e  questi  vincoli  sono 
pure  entità  che  rimangono  escluse  da  quelle  due    prime  classi. 

In  terzo  luogo,  o  si  considera  l'Ente  relativo  nella  sua  pos- 
sibilità, e  in  tal  caso  esso  è  coevo  all'Ente  assoluto;  o  si  considera 
come  reale,  e  in  tal  caso  è  a  lui  posteriore.  Una  parte  dunque 
della  seconda  classe  è  posteriore  alla  prima  classificazione,  e 
però  a  questa  non  appartiene.  M;i,  se  l'ente  finito  reale  non 
appartiene  alla  classificazione  prima,  in  tal  caso  questa  non  ab- 
braccia né  pure  tutto  l'ente,  cioè  lutti  quelli  enti  a  cui  noi 
diamo  un  tal  nome:  e  però  rimane,  che  ella  non  sia  neppure 
una  piena  e  prima  classificazione  dell'ente. 

In  quarto  luogo,  se  la  prima  classe,  cioè  l'Ente  assoluto,  è 
anteriore  all'ente  finito  reale,  qualora  si  trovi  nello  stesso  ente 
ass(*luto  qualche  distinzione  a  farsi,  questa  di  conseguente  sarà 
anteriore  alla  distinzione  dell'Ente  illimitato  e  del  limitato.  Ora 
la  distinzione  neirEnte  assoluto  si  trova,  e  questa  è  quella  delle 
primitive  forme  dell'essere.  Queste  dunque  sono  anteriori  non 
solo  alla  distinzione  in  generi,  ma  ben  anco  alla  distinzione  che 
produce  la  prima  classificazione  anteriore  ai  generi.  Se  dunque 
quelle  forme  sono  tali,  che  possano  costituire  de'  predicati, questi 
saranno  i  primi,  e  così  costituiranno  le  Categorie  dell'essere,  che 
noi  ricerchiamo. 


CAPITOLO  IX. 

Questione  delle  (orme  primitive  deW  Essere. 

147.  Da  tutto  ciò  che  abbiamo  veduto  fin  qui  risulta  che  né 
la  distinzione  dell'essere  in  principi  o  cause  ed  efletli,  né  quella 
in  elementi,  né  quella  in  generi,  né  quella  in  classi  può  essere 
la  prima  e  fondamentale  diistinzione  che  la  mente  possa  notare 
nell'essere. 

Risulta  ancora,  che  la  prima  distinzione  osservabile  nell'ente 


415 

non  può  essere  quella,  che  in  qualsivoglia  modo  spezzi  l'ente 
sia  in  principi,  sia  in  elementi,  sia  in  generi,  perchè  spezzan- 
dulo  lo  distrugge,  cioè  distrugge  quel  che  era  prima,  per  averne 
solo  delle  cnliti\  che  neppur  tulle  insieme  abhracciano  l'ente  pri- 
mo gi<i   diverso  da  ciascuna  di    esse. 

Risulta,  che  sebbene  le  prime  classi  dell'ente  sfuggano  a  que- 
sta obbiezione  perchè  non  ispezzano  l'ente,  tuttavia  questa  di- 
stinzione non  può  essere  la  prima,  poiché  abbraccia  l'ente  con- 
tingente reale,  che  è  posteriore  all'Ente  assoluto,  onde  le  di- 
stinzioni che  si  possono  trovare  in  questo,  che  non  può  ridursi 
in  classi ,  sono  anteriori  alle  classi  ;  oltre  il  non  poter  queste 
raccogliere  in  sé  ed  ordinare   tutte  le  entità. 

Consegue  da  questo,  che  se  nell'Essere  slesso  senza  limita- 
zione si  trovano  più  forme  o  modalità,  queste  certamente  de- 
vono costituire  le  prime  e  fondamentali  distinzioni  dell'ente,  e, 
in  quanto  si  predicano  dell'essere,  le  categorie,  e,  in  quanto 
poi  ad  esse  si  riducono  tutte  le  entità,  devono  dare  origine  alla 
classificazione  prima  di  tutte  le  entità. 

\hS.  Vediamo  dunque,  se  queste  forme  o  modalità  originarie 
ci  sono  veramente:  e  prima  che  cosa  sono. 

Chiamiamo  forme  dell'essere  «  l'essere  stesso,  che,  sebbene 
tuli' intero,  è  in  modi  diversi  a  lui  essenziali». 

Ci  sono  dunque  queste  forme  ?  l'essere ,  per  la  propria  natura 
di  essere,  è  egli  in  un  modo  solo,  o  in  più?  e  se  è  in  più  modi, 
è  egli  in  ciascun  modo  tutto  l'essere?  —  Questa  è  la  questione, 
e  non  si  può  risolvere ,  so  non  per  via  della  contemplazione  della 
mente,  che  sola  può  conoscere  come  l'ente  è  fatto,  e  inlima- 
mente  costituito.  Ora  noi  diciamo,  che  queste  forme  ci  sono,  e 
sono  tre,  cioè  che  l'essere  come  tale  è  identico  in  tre  modi  di- 
versi a  lui  essenziali.  Noi  denominiamo  queste  forme  subiettiva, 
obiettiva,  e  morale.  Che  poi  ci  siano  le  due  prime,  risulla  dall'Ideo- 
logia (,iY.  Sag.  MGG,  1178,  1170,  l'tOO*)  e  dalle  osservazioni, 
che  pur  ora  facevamo  sugli  clementi  :  giacché  è  evidente,  che  si 
possono  concepire  alcuni  di  tali  clementi ,  ugualmente  come  esi- 
stenti in  sé  realmente,  quanto  nella  loro  essenza,  senza  che 
realmente  esistano  ;  e  qucsl'  cssoiza  è  la  forma  obiettiva ,  come 
la  sussiste7iza  ò  la  forma  subiettiva  .  a  cui  si  riduce  pure ,  come 
vedremo,  quella  che  si  dice  (]i\  noi  estrasubiettiva.  Ma  se  l'essere 


il5 

è  identico  nella  forma  obieUiva  e  nella  subielliva,  queste  due 
forme  sono  congiunte  nell'  identità  dell'estere.  Se  dunque  sono 
congiunte,  e"  è  tra  di  esse  un  vincolo.  Ma  questo  vincolo  non 
risulta  dalla  considerazione  di  ciascuna  delle  due  forme  presa 
runa  in  separato  dall'altra.  Dunque  questo  vincolo  costituisce 
una  terza  forma,  nella  quale  l'essere  è.  Poiché  questo  vincolo 
non  è  nulla;  dunque  è  egli  stesso  l'essere.  E  poiché  in  ciascuna 
delle  due  forme  e'  è  Tessere  intero,  l'unione  di  esse  deve  abbrac- 
ciare lutto  Tessere  sotto  una  forma  unitamente  a  tutto  Tessere 
sotto  l'altra  forma:  dunque  c'è  tutto  Tessere  sotto  la  forma  di 
unione,  poiché  non  e'  è  nessuna  particella  dell'essere  che  ne 
vada  immune,  e  però  non  si  dà  distinzione  tra  il  subietto  che 
ammette  l'unione,  e  ciò  che  rimane  unito,  ma  luti"  è  unito,  e 
tuli' è  unione.  Riceverà  tulio  ciò  maggior  chiarezza  da  quello 
che  diremo  nel  libro  seguente,  bastandoci  (\n\  d'avere  provalo 
la  necessaria  esistenza  delle  tre  forme. 

1A9.  Ora,  che  queste  tre  forme  non  sieno  né  semplicemente 
principi,  né  elementi ,  nò  generi,  rilevasi  da  quello  che  abbiam 
detto,  che  Tessere  luti"  intero  è  in  ciascuna  delle  tre  forme  Se 
c'è  luti' intero,  dup.que  n(m  è  ancora  diviso  !)è  in  principi  ne 
in  elementi,  nò  in  generi:  ma  e  i  principi,  e  gli  elemenli ,  e  i 
generi  si  troveranno  anch'essi  nelle  Ire  forme  ,  e  scilo  ad  esse 
si  ridurranno. 


CAPITOLO  X. 

Come  alle  tre  (orme  si  riducono  le  prime  Classi  dell'ente, 
i  primi  princiiìi ,  i  primi  elemmìli ,  e  i  primi  generi. 

150.  Se  si  considera  Tessere  nella  sua  cosliluzione  intima, 
senza  limitazione  alcuna,  vedesi  ch'egli  è,  e  che  è  essenzial- 
mente, e  necessariamente,  e  che  egli  è  tutto  nelle  Ire  forme. 
Nulla  dunque  potrebbe  essere,  se  Tessere  non  fosse  così  co- 
stiluilo. 

Ma  posto  ch'egli  sia  cosi  cosliluilo,  rimane  a  cercare  s'egli 
possa  esistere  anche  limitalo;  e  non  c'è,  a  pensarlo,  ripu- 
gnanza alcuna.  L'esperienza  poi  ce  lo  mostra  tale  in  noi  stessi, 
Rosmini.  Teosofìa.  8 


e  in  tiilti  ;.'li  crili  rrK.ndi.ili.  f)i  più  <{^li  (•  indubilfito  ,  coiìw  uh 
l»i;im(»  mostralo  nella  Psirolr»f^ia  (137'2  i7ì\ìli  ) ,  elio  VeH.Hrrr,  Hit 
mitalo  V.  V  rnaero  limil'ito  non  possono  essere,  mni  un  mednsirno 
ente,  ma  due  enti.  Tuttavia,  se  rx-l  primo  si  (lislin;^uono  le  Ire 
forme,  anche  il  secondo  deve  parlecipnrnc ,  perchè  anch'esso  è 
in  qualche  modo  enlc.  Ma  essendo  questo  un  ente  posteriore  al 
primo,  conviene  clu-  anche  la  partecipazione  delle  forme  sia  po- 
steriore alle,  forme,  f. aonde  la  parti/ione  dell'essere  in  due  enti , 
l'uno  illimitato  e  l'altro  limitato,  è  la  prima  vnriet;'i  che  si  trova 
nell'essere,  ma  posteriore  a  (juclla   delle  forme. 

Questa  |)arti/ione  o  (;lassific;i/.if>ne  dell'  essere  è  anteriore  a 
lutti  i  generi,  perchè  l'Kssere  illimitato,  come  ahhiamo  veduto, 
non  ammette  generi  di  sorla,  essendo  semplicissimo;  l'essere 
poi  limitato  è  un  concetto,  rdje  li  racchiude  tutti  in  sé  mede- 
simo virtualmente  ed  ancora  indistinti. 

\l)\.  E  però  è  evid(!nle,  che  la   prima  divisione  e  clapsifiea- 
zione  dell'ente  sarà  appunto  (piella  che  lo  divide  in  due,  cioè: 
!■'.    li' Ente  illiniiliilo   clu^  dunora  essenzialmente    nelle  sue 
tre  forme. 

II".   1/ Ente  limitalo,  che  partecipa  in  diversi  modi  e  gradi 
di  (pielle  forme. 

M^)""!.  Da  questa  classificazione  prende  appunto  la  sua  divisione 
la  Teosofìa. 

Ui.l.  (]ho,  se  si  doto  inda  (pitie  sia  la  relazione  de'  principi 
e  delle  c.-.use  colle  siipr<;rne  forme  dell'essere,  si  troverà  pure 
che  (piesle.  forme,  in  rpianto  sono  nell'essere  illimitato  ed  as- 
soluto, ricevono  anche  il  eoncello  di  principi  nrdle  relazioni  d(d- 
l'una  all'altra,  e  dì  prime  cau.se  nella  loro  rela^fione  all'ess(>re 
limitalo.  Laonde  né  i  |)rinci|)l  ne  le  cause  ultime  si  po.ssono  tro- 
vare, se  non  avendo  prima  distinte  le  forme  originali  dell'es- 
sere (  ì  ) . 


(I)  Lu  (lislinziono  sovrarccnnala  tra  '\  principi  e  le  rame  è  cosi  slaliilifa 
da  S.  Tommaso:  Principium  nihil  aliad  significai  quam  id,  a  quo  nliquid 
procedil.  Omne  cninia  quo  nliquid  procedit,  quocumquemodo,  dicimusesse 
principium  {Sum.  I.xxxm,  1),  e  (fri  ad  1).  Principium  communius  est  quam 
causa:  siculi  causa  cnmmunior  quam  clcmentum.  Primus  enim  termimis, 
vcl  cliam  prima  pars  rei  dicilnr  principium  scd  non  causa.  —  linde  hoc 
nomen,  causa,  videlur  importare  diversitatem  substantiae,  et  dependentiam 


\f)ft  fili  dlenn'nli  poi  M  \  g«mri ,  f\t,\\  f"  chìnm  pft  f\uci  cUfi 
,'iM»i;»fn  (l*'iio.  (Un  non  «»i  pfmvino  ìrnyurn  a<?  non  tìfW't'uU'  Mmi^ 
t/ito ,  r  p<'r6  «tono  (»o<«('*rif»f  I  nim  ^^^\()  nWc  fmifì!' ,  m«  ftn^of»  ai 

priOfip)  ,    »<I  ;il|r   t;.,rrifrir    r|;K<(    rh'H>M^r^ 


«ACriOI,')    X( 

h- in   fhrrnt:  iJiUl  e>txr,re  adianiimaiian'i  ^iramcnU 
lf>  C/ilffforif  itc.Wi'.ntfirf., 

{ì'y.'ì.  I,»-  r|itfiiil/i,  eli»'  (Jivfiiio  I  ,ìr>ì\\t't\if.f\\r  \r  i  .,)ìfyhrtf ,  ■;óf>r>: 
che  fn<if  *i«no  prfT<Jir;ih  //r/w/  flfrll 'c«<*f r'* ,  rii  nr»rtnl^f;»  rhc  uott 
r\c  ^ii()[)<»ri;i;;»rif.  «Uri  iUvittitì  a  nei  Mftfitt  itrcAwnìt  fmdnmmtati , 
Hifflic  lulli  j^li  filtri  ;i(l  l'm  <*i  t'u\nc^nn  e  (\\  cm  romf.  piit  nut 
vfTHJili  e  finN-riori  ni  predichino  ;<h  «Uri,'  jti«no  prrdical»  rj/mpktt , 
<U  niofjo  rho*  nbhrancinn  IiiUr  le  entitii^  frb«  (w>«»ono  ^«M^f  d»l 
l'tim.'Min  mente  pendale,-  f  f»n;ilrfi/nle  ntnnn  prediC/ifi  perfed;»- 
mfni't  'i/pj'^i! ,  n  lej/no  che  l'entif,'!  df ll'tino  di  '^^i  non  enfrii  » 
eo^liluirr  VfjiUìh  dfirfiMro. 

Ora  fpjf-Hli  (|u;jtlro  r-arntleri  w  rijicòfilfano  dppfinf/>  nelle  fr« 
orij.'iri;jli  fornrif  fj*ir*-««(^'re  eli»-  nhhffìffKi  wfiwfilf.  JViehA,  ehe 
niuri' rillr-1  dmiin/.iorie  precf d'i  alif*  for rn'*  lUW  ('.=s^*:rf .  e  per/»  ebc 
queste  n'muo  predie?ih  ffrimi,  è  chiaro  anehe  da  que»!!/»  solo,  che 
niente  precede  all'  e?t^ere ,  f  però  ni'^nle  p«»6  \H'fCf'óerf,  fiUf,  hf 
me ,   nelle  quali  Vc^M-Tf.  h. 

Che  queste  siglino  distinzioni  ff/n/lnmmtali ,  di  modo  che  lotte 
le  altre  distinzioni  po«i<»»MII  «enx'cjwr  non  »i  (k»««wi»io  eoneepirer, 
si  deduce  da  questa»  che  ^jfn' altra  di<»llnzione  deve  ca  '  '  "^ 
sfera    del    subielto ,  o   in    quella  dell'ohielfo,  o   in   f\  » 

virlu  f;h'-  li  unisce;  e  se  non  cadefwe  in  una  di  qncAte  tre  sf<fT« 

alkuinn  ah  aiterò^  ipi.'im  Wia  unportril  n/rni^.n  [inor.'fn.i  fn  t/minihiiA  ^rnìM 
cavAoe  ffeMfihun  ^empT  intumtur  dat/tnlia  inter  rmnnm  H  id  t.vtvx  «»l 
r.auM.,  nf.cnwtum  aiu/u/im  perffirjioMm  ani  rArtut^m.  H^d  nr/mm^  prinr.tyii 
utimur  eiiam  in  ha,  ffuae  nuthm  hmmmodt  difff.rtalvtm  k/fM»t .  n^d 
lolnm  iecufiflum  'iHcnuUim  ordir^rra.  Hicf*t  cvim  dUirnux  j^tnrAum  «m# 
principxnm  linme,  tei  etvim  rum  duimm,  frrmtmk  Uiuae  tue  ftttuifmm 
tineae 


H6 

rimarrebbe  equivoca,  e  però  non  sarebbe  una  dislinzione  deler- 
minata.  Poiebè  si  ponga  ,  che  per  qualunque  distinzione  fuori  di 
quella  delle  forme  si  separassero  due  entità,  ciascuna  di  queste 
entità  potrà  essere  o  ideale  o  reale,  cioè  appartenere  all'una  o 
all'  altra  delle  due  prime  forme  e  quindi  rimarrà  una  distinzione 
indeterminata,  che  non  è  vera  distinzione^  se  non  si  supponga 
fatta  prima  la  dislinzione  delle  forme  ed  applicata  alla  distin- 
zione di  cui  si  tratta. 

Conseguentemente  le  forme  sono  predicati  completi .  non  solo 
perchè  ciascuno  abbraccia  l'ente  nella  sua  totalità,  ma  ben  anco 
perchè  non  c'è  nessuna  entità  che  ad  esse  non  si  subordini  :  ap- 
punto perchè  ogni  entità  conviene  che  necessariamente  sia  qual- 
che cosa  d'ideale,  di  obiettivo,  o  qualche  cosa  di  reale,  o  final- 
mente qualche  cosa  d'appartenente  alla  loro  unione.  Dove  si 
ponga  ben  mente,  che  non  si  può  applicare  alle  nostre  forme 
l'obiezione  che  vale  per  entità  altramente  distinte;,  cioè  che  le 
relazioni,  tra  le  dette  forme,  sieno  entità  non  comprese  nelle 
forme;  poiché  anche  queste  relazioni  o  sono  entità  ideali,  e  si 
riducono  alla  forma  obiettiva  :  o  sono  relazioni  sussistenti,  e  si 
riducono  alla  forma  reale  —  subiettiva  ed  estrasubietliva,  —  oalla 
morale.  La  mente  può  riflettere  e  astrarre,  ma  qualunque  entità 
ritragga  da  tali  riflessioni  o  astrazioni,  sempre  all'una  delle  tre 
forme  si  riduce.  Così  quaiìtunque  ci  sia ,  per  noi,  entità  ideali 
d'entità  ideali  indefinitamente ,  tutte  però  appartengono  alla 
forma  ideale,  che  ha  virtù  d'applicarsi  a  sé  medesimo,  quasi  in 
perpetuo  circolo  rivolgendosi. 

Che  poi  tali  forme  sieno  perfettamente  divise  apparisce  da 
questo,  che  per  nessun  verso  ciò  che  è  ideale,  come  tale,  può 
divenire  un'altra  delle  due  forme;  eia  stessa  inaiti  rabilità  è  ap- 
plicabile a  ciascuna.  Di  che  avviene,  che  esse  non  si  possono 
ridurre  a  minor  numero:  se  non  che  tutte  e  Ire  si  consumano 
nell'unità  dell'essere,  che  in  ciascuna  d'esse  identico  sussiste. 


di7 

CAPITOLO  XII. 

Confutazione  degli  Unitari  e  conferma 
delle  cose  dette. 

156.  Ora  dalla  duUrina  fin  qui  esposta  esce  quel  vero,  che 
abbaile  gli  errori  degli  Unitari ,  cioè  di  que'  filosofi  che  non 
trovano  altro  nell'essere  che  l'unità.  E  a  dir  vero  le  tre  forme 
dell'essere,  vedute  da  tulli  gli  uomini  e  nel  comune  ragiona- 
mento adoperate,  sfuggono  al  pensiero  de' filosofi,  il  quale  si 
esercita  ncH'  ordine  più  elevalo  della  riflessione  filosofica.  Nel 
qual  ordine  il  filosofo  suole  anzi  a  prima  giunta  lalmenlc  inva- 
ghirsi dell'unità  dell'essere,  che  ne  combatte  la  pluralità  delle 
forme,  le  quali  s'  inlrommettono  quasi  da  se  stesse  ne'  volgari 
discorsi;  e  per  questa  lotta  appunto  la  dottrina  filosofica  acquista 
quel  non  so  che  di  paradossale,  pel  quale  s'invanisce  e  si  crede 
di  lunga  mano  superiore  al  senso  comune  degli  uomini.  Il  che 
spicca  nell'Uno  di  Plotino,  e  di  Proclo  (1),  di  Damaselo  da  Da- 
masco (2),  e  d'altri  neoplatonici. 

157.  Plotino  considera  l'Uno  come  superiore  all'ente,  e  ciò 
perchè  nell'ente  trova  sempre  qualche  moltiplicità;  il  che  a 
vero  dire  è  una  confessione  indiretta  contro  il  sistema  degli 
Unitari  (3).  Ma  noi  domandiamo  se  l'uno  di  Plotino  è,  o  non  è; 

(1)  Questo  filosofo  nella  sua  Theologia  Platonis  (I.  25)  tenta  di  mostrare 
non  avervi  ctie  un  solo  principio  reale  delle  cose  ,  e  questo  essere  l'uno  , 
il  quale  produce  ogni  cosa  per  triadi  (Ttxpayetv,  ttpóoooi).  Guglielmo  Tenne- 
man  giustamente  osserva,  che  la  prova  che  adduce  Proclo  di  tale  sentenza 
«  si  fonda  sulla  confusione  de'principì  astratti  e  logici  co'principì  attivi  e 
«  reali  ».  {Manuale,  §  220).  Questa  osservazione  deriva  dalla  distinzione 
delle  due  forme  dell'essere  ideale  e  reale. 

(2)  Wolf  nei  suoi  Aneddoti  greci  (t.  III.)  publicò  i  frammenti  d'un  trat- 
tato di  Damaselo,  che  avea  per  titolo  :  \\.nopixi  /.cà  lùaui  mpi  7.pxS>v. 

(3j  Profecto  si  ens  uniuscuiusque  multitudo  quaedam  est,  ipsum  vero 
unum  esse  multitudo  non  potest,  procnl  dnbio  diversum  Inter  se  erit  utrum- 
que.  Homo  igitur  est  et  animai  et  rationale,  partesque  multae,  multaeque 
in  eo  uno  quodam  conglntinantur.  Aliud  ijitur  homo  est,  aliud  unum  : 
siquidem  homo  quidem  dividuus  est,  unum  vero  penitus  indivìduum. 
Atquì  et  totum  ens  cuncta  in  se  omnia  continens  magis  etiam  cxistit  multa 


US 

poiché  se  non  è,  non  rimane  che  il  nulla  ;  ma  se  è,  egli  fuor 
d'  ogni  dubbio  è  ente,  poiché  enle  é  ciò  che  è.  È  dunque  ira- 
possibile  ammetlere  l'uno  anteriore  all'enle. 

Nel  che  si  osservi  la  differenza,  che  v'  ha  tra  il  considerar 
l'uno  come  una  semplice  astrazione  dall'ente,  e  i!  considerarlo 
come  prmcipio  di  tutte  le  cose,  e  dell'ente  stesso,  a  quel  modo  che 
fanno  gli  Unitari ,  poiché  nel  primo  caso  l'uno  astratto  è  po- 
steriore all'ente,  e  quando  la  mente  pensa  in  quosto  modo  l'uno, 
allora  l'ente  non  è  già  distrutto,  ma  egli  si  resta  davanti  alla 
mente,  ed  è  anzi  il  mezzo,  pel  quale  conosciamo  l'uno  ,  poiché 
l'uno  astratto  si  conosce  nell'ente,  che  è  il  principio  del  cono- 
scere come  abbiam  detto  più  volte;  onde,  acciocché  possiamo 
pensare  l'uno  astratto  prescindendo  affatto  dall'ente,  è  necessario 
che  non  solo  l'ente  ci  sia,  ma  ci  sia  davanti  alla  mente,  benché 
la  mente  consideri  l'ente  da  una  parte  e  l'uno  dall'altra,  come 
mentalmente  separati,  ma  pure  relativi,  quasi  l'Uno  fosse  un  ri- 
flesso dell'ente.  All'incontro  gli  Unitari,  che  fanno  dell'uno  il  prin  • 
cipio  da  cui  viene  l'ente  e  lutti  gli  enti,  suppongono  che  l'uno  pre- 
ceda l'ente  anche  davanti  alla  mente,  il  che  involge  contraddizione. 

Egli  pare  evidente  ,  che,  se  gli  Unitari  procedessero  a  fil  di 
logica,  non  arriverebbero  mai  a  mostrare,  come  il  loro  Uno 
fosso  fecondo  di  cosa  alcuna;  poiché  ciò,  che  è  perfettamente 
uno,  come  essi  vogliono,  non  può  esser  fecondo,  non  potendo 
fecondare  se  stesso  senza  esser  due,  né  essere  fecondalo  da  altro 
senza  ammettere  una  dualità:  e  anche  prescindendo  da  ogni  fe- 
condazione, non  può  pensarsi  che  abbia  nel  suo  seno  il  germe  di 
qualche  cosa  diversa  da  sé,  senza  riconoscere  con  questo  stesso 
in  esso  lui  qualche  pluralità,  Ma  che  cosa  fanno  gli  Unitari? 
Plotino  fa  quello  stesso  che  fa  Hegel.  Invece  di  dedurre  le  cose 
da  quell'Uno,  che  coH'astrazione  hanno  spogliato  di  tutto,  mo- 
strando veramente  come  gli  enti  escano  da  lui  :  colia  maggior 
comodità  del  mondo,  cioè  a  pieno  loro  arbitrio,  aggiungono  a 
quel  loro  Uno  lutto  ciò  che  gli  hanno  tolto,  e  più  ancora;  e 
poi  vi  dicono:  Ecco,  tutto  viene  fuori  dall'Uno,  ed  applaudono  a 


et  ab  uno  diversum,  participatione  tamen  possidet  unum.  Praeterea  em 
vitam  habet  et  mentem.  Nefas  enim  est,  vita  vacuum  id  opinavi.  Ens  i'jitur 
est  et  multa.  Ennead,  VI.  i,  2.  —  .Tradus:.  di  M.  Ficino*. 


\Ì9 

sé  slessi  per   avervi    fatto    vedere    proprio  cogli  occhi    vostri  il 
parlo  dell'universo. 

iì)8.  Ma    se   si    lieii   dietro   alla   traccia    del    pensiero   degli 
Unitari,  si  riconosce  quanto  segue: 

4"  Che  v'ha  un  principio  vero  da  cui  partono,  ed  è  questo, 
che  le  cose  relative  non  possono  avere  la  loro  ragione  se  non 
in  qualche  cosa  di  assoluto,  e  la  molliplicità  in  qualche  cosa 
che  sia  perfettamente  una.  Questa  è  una  necessità  logica  che 
viene  iminedialamenle  dalla  natura  dell'  essere,  da  quell'  essere 
che  sta  sempre  davanti  alla  mente,  e  che  serve  di  regola  su- 
prema a  tutti  i  giudizi,  poiché  l'unità  dell'essere  è  così  evidente 
che  è  assurdo  pensare  il  contrario,  poiché  due  esseri  non  sareb- 
bero più  l'essere ,  che  é  un'essenza  semplice.  Trovandosi  dunque 
molli  enti,  la  mente  non  trova  in  nessuno  d'essi  l'essere  semplice 
ed  uno  ;  e  pur  vede  che  l'essere  semplice  ed  uno  è  la  ragione  di 
essi  per  modo,  che  senza  questo  non  sarebbero;  quindi  la  m^- 
cessità  alla  mente  di  cercare  l'essere  puro  ed  essenziale  ed  as- 
soluto, ossia  la  necessità  di  sciogliere  il  problema  dell'Ontologia. 

2"  Che  dopo  di  ciò  prendono  il  concetto  dell'ente  dagli  enti 
particolari  e  finiti,  i  quali  li  trovano  lutti  molliplici^  e  in  qualche 
modo  composti,  come  fa  Plotino  volendo  mostrare  che  l'uno  non 
può  essere  l'ente,  prendendo  ad  analizzare  l'uomo,  e  mostrando 
ch'egli  si  compone  di  molte  parli,  onde  non  è  uno  (1).  Il  che 
è  vero  dell'uomo  e  d'ogni  altro  ente  finito,  ma  ciò  non  toglie 
che  non  v'abbia  l'ente  assoluto,  il  quale  sia  perfellamente  uno: 
onde  non  e'  é  bisogno  di  cercare  ciò  che  è  perfettamente  uno 
fuori  dell'essere,  per  soddisfare  al  bisogno  dialettico  della  mente 
di  trovare  in  una  prima  unilà  la    ragione  dialettica  delle  cose. 

3"  Che  per  mancanza  d'una  bona  Ideologia  non  vedono,  che 
l'uno  non  si  può  pensare  da  colui  che  non  pensasse  nello  stesso  tempo 
l'ente,  onde  s'immaginarono  che  l'Uno  possa  stare  senza  l'ente. 

h'^  Nò  pur  videro  per  difetto  d'analisi ,  che  la  parola  uno 
0  si  sostantiva,  e  in  tal  caso  si  sottintende  l'ente  uno:  ovvero 
altro  non  significa  che  una  qualità  di  relazione,  che  da  sé  sola 
senza  alcun  subielto  non  può  stare  in  alcun  modo,  poiché  se  c'è 
uno,  conviene  che  ci  sia  qualcosa  che  sia  uno;  e  se  c'è  qualche 

(1)  Vedi  la  nota  al  n.  157. 


cosiì,  c'è  l'eiìte,  che  è  quello  che  è  uno.  Ma  l'uso  neutro,  che 
in  latino  e  in  greco  si  fa  della  parola  uno  (éV,  unum),  può 
avere  occasionata  rillusione  di  tali  scrittori,  die  non  esprimendosi 
l'ente  si  giudicasse  che  neppure  ci  fosse  sottinteso. 

5"  Finalmente  non  avvertirono,  che  l'ente  essenzialmente 
uno  poteva  henissimo  essere  in  più  modi  primitivi,  identico  in 
ciascuno,  senza  che  ne  patisse  l'unità  perfettissima:  il  che  dal 
comune  degli  uomini  si  suppone  nei  loro  discorsi,  quantunque 
non  si   osservi  direllamenle:  del    che  noi  parleremo  in  appresso. 

159.  Che  se  noi  investighiafno  dove  sia  condotto  il  pensiero, 
a  ragion  d'esempio  di  Plotino,  quando  gli  bisogna  maneggiare 
quell'astrazione  dell'unità  pura,  da  cui  egli  dice  prendere  il  prin- 
cipio tutte  quante  le  cose,  noi  vedremo  che  egli  è  costretto  di 
dare  all'unità  i  caratteri  dell'essere  indeterminato,  e  che  questo 
appunto  è  quell'Uno  che  egli  dice  anteriore  all'ente,  perchè 
per  ente  egli  intende  un  ente  finito,  e  non  arriva  a  capire  che 
l'essere  j)uro  deve  essere  egli  slesso  ente:  non  arriva  a  capirlo, 
perchè  neiressere  rimangono  occulti  i  termini  propri,  e  quindi 
occulto  anche  il  subielto,  che  nella  parola  ente  è  significalo. 

K  nel  vero  Plotino  dice  chiaramente,  che  l'uno  è  pienamente 
ili  forme ,  e  questa  è  la  ragione,  perchè  non  si  comprende  (1), 
E  dall'essere  l'uno  appunto  del  tutto  informe  deduce  che  non 
è  ente  ,  poiché  l'ente  ,  dice  ,  ha  almeno  la  forma  di  ente  , 
è  un  quid,    un  quale  ,    un  quanto  (2)  ;    il    che   tutto    conviene 


(1)  Quando  vero  ad  informe  aliquid  fcrtiir  animus,  ami  comprehendere 
neqneat,  proplera  quod  non  determinetur,  m'que  velut  fìguretur  vario  quo- 
piam  figurante,  prolinas  inde  prolabitur,  meluens  ne  forte  nihil  ibi  re- 
portet.  Ennead.  Vi.  ix,  3. 

(2)  Quamobrem  quodintellectu  superius  est,  non  est  intclledus,  sedante  in- 
tellectum  extat.  Tntellectus  enim  est  aliquid  entium:  illiid  vero  (unum)  non 
aliquid,  sed  uno  quoque  superius.  Nequeest  ens:  nani  ens  velut  formam  ipsam 
entis  habet.  Sed  illud  est  prorsus  informe,  et  ab  intelligibili  eliom  forma 
secretum.  Unius  namque  natura  cum  sit  genitrix  omnium,  merito  nuUum 
existit  illorum:  igitur  ncque  quid  existit,  neqne  quale,  neque  quantum. 
Praeterea  non  est  intellectns ,  non  anima,  non  movetur,  non  quiescit, 
non  est  in  loco,  non  est  in  tempore:  sed  ipsum  secundum  se  uniforme, 
imo  vero  INFORME  super  oninem  existens  formam,  super  molum,  super 
statum.  Haec  eaim  circa  ens  versantnr,  quae  quidem  ipsum  multa  confìciunt. 
EnneaJ.  VI.  ix,  R. 


i21 

benissimo  a  quello  .  che  noi  diciamo  essere  iniziale  o  inde- 
lerminalo. 

Dice  ancora  ,  che  rune  u  ò  il  massimo  di  tulle  le  cose,  non 
di  grandezza  ma  di  potenza  »  (I).  Ora  se  s'intendesse  d'una 
potenza  in  atto  ,  già  con  ciò  1'  uno  sarebhe  determinalo.  Vuol 
dunque  Plotino  assegnare  al  suo  Uno  il  carattere  d'  una  poten- 
zialità infinita  ;  il  che  ancora  risponde  all'essere  in  potenza,  o 
all'essere  possibile,  che  è  l'essere  al  lutto  indeterminalo. 

Aggiunge  che  «  non  lo  conosciamo  come  le  altre  cose,  che 
«  si  dicono  intelligibili,  per  una  qualche  scienza^  o  per  alcuna 
((  intelligenza  ,  ma  per  una  cotale  presenza  {ncLpovcioì)  migliore 
«  della  scienza  »  ('2)  ;  e  quest'  è  appunto  la  presenzialità  del- 
l'essere indeterminalo  ,  onde  anche  noi  diciamo,  che  egli  si  co- 
nosce per  pura  intuizione  (5). 

Plotino  oltre  a  ciò  dice  del  suo  Uno  quello  appunto,  che  noi 
diciamo  dell'essere  puro,  che  sta  presente  alla  mcnle  nostra. 
Noi  diciamo  che  tulli  gli  enti  finiti  sono  e  si  conoscono,  perchè 
hanno  l'alto  dell'essere  per  se  conoscibile.  Ora  questa  e  sentenza 
di  Plotino  :  Omnia  entia  IPSO  UNO  mnt  entia  ,  Imi  quw  primo 
entia  sunt ,  lum  eliam  quce  quoquomodo  in  rerum  ordine  nume- 
vantar  {l\). 

160.  Dopo  avere  Plotino  dati  questi  attributi  all'Uno,  egli  dice 


(1)  Enn.  VI.  IX,  6. 

(2;  Ivi  4.  Cf.  Ennead.  V.  in,  8;  v,  7  e  sgg. 

(3)  Lo  stesso  ancora  Plotino:  Sin  autem  ipsum  esse  inde  auferens  illud 
apprefienderis,  protiìws  obstupesces,  et  dirijens  te  in  illud,  et  assequens, 
atque  in  ipsius  sedibus  conquiescens  UNO  POTISSIMUM  SIMPUCIQUE 
INTUITI!  iam  compicias.  Enn.  III.  viii,  9. 

(4)  Ennead.  VI.  ix,  1.  —  Il  signor  Giulio  Simon  nella  sua  Storia  della 
Scuola  d'Alessandria  dice  die  l'unità  assoluta  di  Plotino  non  è  altro  che 
l'Essere  degli  Eleati.  Io  ho  mostrato  che  quest'Essere  degli  Eleati  è  appunto 
l'essere  indeterminalo  (Psicologia  ,1337-1371*).  Dice  ancora  che  è  il  Bene 
della  dialetlica  platonica;  e  questo  è  vero,  non  quando  Plotino  parla  della 
sua  unità  pura,  ma  quando  s'accinge  a  renderla  feconda,  poiché  allora  è  ob- 
bligato a  scambiarne  il  concetto  per  farla  produrre  qualche  cosa.  Questi  due 
momenti,  quello  in  cui  conduce  il  lettore  al  concetto  dell'uno,  e  quello  in 
cui  vuol  derivare  dall'uno  l'altre  cose,  sono  da  aversi  presenti,  da  chi  logge 
questo  filosofo.  —  Vedi  Ennead.  IV.  ].  8,  dove  lo  stesso  Plotino  cita 
Parmenide. 


122 

che  quest'Uno  è  Dio  slesso,  e  così  ricade  nella  classe  di  quelli 
che  noi  chiamiamo  Realisti  ideologici,  i  quali  trasformano  in  Dio 
l'essere  indeterminalo  ed  informe,  quale  si  manifesta  per  natura 
al  subiello  umano.  Cosi  anche  si  divinizza  il  Razionalismo,  e  il 
razionalismo  divinizzalo  è  lo  Pseudomisticismo,  conseguenza  im- 
mediala del  Realismo  ideologico. 

101.  Dopo  di  ciò  egli  si  accinge  a  fare,  che  il  suolino  di- 
venti prolifico,  e  qui  cessa  il  ragionamento,  narra  al  modo  di 
Hegel ,  come  si  narrerebbe  un  mito  ,  sempre  colla  pretensione 
di  speculare  rigorosamente.  Plotino  almeno  sente  di  non  poter 
dar  ragione  di  ciò  che  dice  ,  e  ricorre  alla  preghiera  e  ad  un 
lume  soprannaturale  {Ennead.  V.  i,  C)  Egli  non  dice,  e  non 
può  dire,  come  quello  ,  che  è  per  essenza  unità  ,  diventi  du<- 
e  più,  ma  si  contenta  di  accertarci  che  avviene  così:  non  dice, 
come  quello  che  è  Uno  senza  essere  ente,  il  nulla  di  Hegel,  dia 
a  sé  stesso  l'essere;  ma  dice  però,  come  Hegel,  che  dà  a  se  stesso 
l'essere,  che  è  ciò  che  vuol  essere,  ciò  che  ama  d'essere,  onde 
diviene  sussistente,  perchè  ama  di  essere  tale,  e,  perchè  ama  di 
essere  iiitelletlo ,  è  intelletto,  e,  perchè  ama  di  essere  amore,  è 
amore ,  onde  egli  slesso  è  V  opera  di  sé ,  egli  forma  se  slesso  , 
non  a  caso,  ma  perchè  egli  slesso  lo  vuole,  né  questa  volontà 
è  temeraria  o  vana  ,  perchè  è  volontà  di  ciò  che  è  ottimo  (I). 
Dice  che  V  essere  ciò  ,  che  attualmente  è  ,  è  un'  azione  a  se 
stesso  ;  che  egli  slesso  dà  a  sé  la  propria  sussistenza  ,  che 
quest'azione  non  è  fatta  ma  esiste  sempre  quasi  una  colai  vi- 
gilanza al  di  sopra  dellessenza  dell'  intellello  e  della  vita  sa 
piente,  e  che  tutto  ciò  è  egli  stesso  ;  onde  conchiude,  che  il  suo 
essere  si  produce  da  lui  e  di  lui,  e  ciò  non  a  caso,  ma  per  la 
pura  sua  volontà  liberissima  (2),  onde  la  libertà  perfetta  fa  essere 


(1  )  Ille  autem  intra  se  aeque  per  totum  quasi  perfertur  ,  Icmquam  sei- 
psum  amans,  puram  lucem,  IPSE  HOC IPSUM QUOD  AMAI EXISTENS, 
idest  autem  in  SUBSISTENTIAM  SE  PRODUCENS-  siquidem  actus  est 
permanens,  et  qtiod  ibi  amabilissimum  est  velut  intellectus  existit.  Intel- 
lectus  autem  ipsius  est  opiftcium:  quapropter  opificium  ipse  est.  Cum  vero 
non  sit  opus  alterius,  SEQUITUR  UT  SUI  IPSIUS  IPSE  SIT  OPUS.  Quam 
oh  rem  non  ita  est  ut  contigit,  sed  potius  ut  ipse  agii.  (Ennead.  VI,  vni,  16). 
Ma  nel  periodo  susseguente  tituba  dicendo,  che  quasi  effìcit  semetipsum. 

(2)  Non  igitur  est  ut  contigit,  sed  ut  ipse  vult:  neque  voluntas  ibi  teme- 


123 

il  primo  principio  di  tulio  (1)  ,  pensiero  di  cui  si  sono  impos- 
sessali alcuni  filosofi  moderni  (2),  Ora  che  si  trovi  pre^s'a  poco 
lutto  ciò  nell'uno  preso  come  sostantivo,  che  è  quanto  dire  nel- 
l'essere semplicissimo ,  nella  cui  essenza  non  cade  alcuna  reale 
distinzione  ,  questo  passi  per  ora  ;  ma  in  lai  caso  non  è  più 
l'uno  astratto  e  preciso  da  ogni  altra  cosa  fuori  dell'unità,  non 


raria  est  et  vana,  neque  sic  accidit.  Cum  enini  optimi  sit  voluntas,  non  est 
inanis  atque  fortuita.  —  Esse  igitur  hoc  ipsum  quod  existit ,  est  actio  ad 
seipsum:  hoc  autem  atque  ipse  est  unum.  lite  igitur  sibimet  exhibet  sub- 
sistentiam,  una  cum  ipso  eius  actione  collata.  Si  eri/o  facta  non  est  eius 
actio,  sed  semper  extitit  quasi  rigilantia  quaedam,  nec  aliud  ibi  vig Hans  est , 
aliud  vigilantia,  quae  quidem  super  intelligentia  quaedam  est  semper  vi- 
gens,  profecto  sic  est,  sicut  et  vigilavit.  Vigilantia  vero  super  essentiam 
intellectumque  et  vitam  sapientem  extat:  id  autem  ipse  est.  Ille  igitur  actus 
est  super  intellectum  et  sapientiam  atque  vitam:  ex  eo  autem  haec  sunt, 
nec  ab  alio  quopiam.  Ab  ilio  igitur  et  ex  ilio  suum  esse  producitur.  Non 
ergo  sicut  contigit,  sed  ut  ipse  voluit,  sic  prorsus  existit.  Enn.  VI.  viii,  16. 

(1)  Quod  si  ita  se  habel,  constai  iterum  Deum  seipsum  efficere,  suique 
existere  dominum,  neque  sic  esse  factum  ,  ut  aliud  quidquam  voluerit . 
SED  QUEMADMODUAf  IPSE  VULT.  Proinde  ubi  Beum  dicimus  nec  quid- 
quam in  se  accipere,  nec  ab  alio  capi,  hac  quoque  ratione  eum  ab  ea  con- 
ditionelongius  segregamus,  per  quam  sorte  quadam  talis  evasisse  dicatur, 
non  solum  ex  eo  quod  agat,  seu  reddat  se  unicum,  et  (ut  ita  dixerim)  soli- 
tarium,  purumque  conservet  ab  omnibus,  verum  etiam  quoniam  si  quando 
et  nos  in  nobis  naturam  eiusmodi  quandam  inspiciamus,  aliorum  nihil 
habentem,  quotcumqne  nobis  adhaerent  per  quae  nobis  accidere  solet  quicquid 
contiqerit  perpeti ,  casuque  vivere  ,  LIBE UT ATEM  prorsus  experiemur. 
Alia  enim  quaecumque  nostra  dicuntur,  serviunt,  fortunaeque  exposita 
sunt,  et  quasi  fortuito  nobis  accidunt.  In  hoc  autem  solo  consistit  SUI 
IPSIUS  DOMINIUM  LIBERUMQUE  EXISTERE,  per  actum  videlicet 
quemdam  luminis  boniformis,  et  boni  exuperantis  menlem,  actum,  inquam, 
vim  non  adventitiam  in  se  habentem,  quae  omnem  excedat  intelligentiam. 
—  E  conctiiude:  Est  enim  radix  quaedam  rationis  snapte  natura--  atque 
huc  tandem  omnia  desinunt.  Est  et  tamquam  ingentis  cuiusdam  arboris 
ratione  viventis  principium  atque  fundamentum  in  se  ipso  quidem  per- 
manens,tradens  vero  esse  arbori  per  rationem  inde  susceptam.  Ennead.  VI. 
vili,  15.  —  Ammette  dunque  nell'uno  una  radice  della  ragione,  in  cui  ter- 
minano tutte  le  cose  e  questa  è  la  libertà,  ^  così  rimotte  nell'uno  la  moltipli- 
cita  che  gli  ha  tolta.  Che  anzi  la  libertà  stessa  fa  venire  dall'amore  di  sé,  e 

questo  dalla  ragione  con  una  perpetua  contraddizione. 

(2)  Vedasi  l'opera  di  Carlo  Secretan,  La  Phdosophie  de  la  libertà. 
Genève  1849. 


124 

è  quell'uno  che  prescinde  dall'essere  e  dall'ente,  ma  anzi  è  l'ente 
uno  ;  di  maniera  che  se  l'uno  può  considerarsi  nell'ordine  del- 
l'astrazione nostra,  cioè  del  nostro  pensiero  parziale,  come  ante- 
riore all'ente,  nell'ordine  però  del  nostro  pensiero  complesso  (che 
è  quello  che  ahhraccia  tutto  ciò  ,  che  sta  attualmente  davanti 
alla  mente),  l'essere  e  l'ente  è  anteriore  all'uno,  traendosi  l'uno 
per  astrazione  dall'ente.  L'uno  dunque,  preso  precisamente  come 
uno,  non  essendo  che  la  forma  dell'unità,  è  perfettamente  vuoto, 
e  non  gli  si  può  dare  nessuna  azione  ;  che  l'  azione  o  è  ella 
stessa  l'essere,  o  consegue  all'essere;  non  si  può  dare  né  vo- 
lontà, né  libertà,  né  amore,  né  tutta  quella  moltiplicità  di  cose, 
che  gli  dà  Plotino  ,  dopo  avergli  negata  ogni  qualunque  molti- 
plicità e  distinzione  mentale,  a  tal  segno  che  si  nega  allo  stesso 
ente  che  sia  l'uno  ,  perchè  in  esso  si  trova  una  qualche  molti- 
plicità di  questa  m.aniera  Laonde  questi  filosofi  non  possono  esa- 
gerare a  tal  segno  il  concetto  dell'unità,  come  primo  ed  origine 
di  tulle  le  cose,  senza  involgersi  in  innumerevoli  contradizioni. 

162.  Dovendosi  dunque  dare  all'essere  una  fecondità,  e  questo 
essendo  impossibile  senza  qualche  sorta  di  moltiplicità  ,  il  pro- 
blema che  riguarda  l'essere  primo  si  può  annunziare  così:  «  Come 
si  concini  la  perfetta  unità  dell'essere  primo  con  quella  sorte  di 
moltiplicità  che  gli  é  necessaria  acciocché  sia  pieno,  altivo,  e 
causa  delle  cose  ». 

463.  Noi  certamente  non  intendiamo  d'accingerci  qui  alla  so- 
luzione d'un  problema,  di  cui  si  dovrebbe  prima  cercare  se  sia 
solubile  dall'  umana  ragione  ;  e  trovatolo  in  qualche  modo  so- 
lubile apparterrebbe  alla  Teologia  e  alla  Cosmologia.  Ma  vogliamo 
escludere  alcune  sentenze  che  impedirebbero  la  soluzione  di 
quel  problema,  e  condurrebbero  all'assurdo,  le  quali,  poste  sotto 
l'esame  della  ragione  ,  si  convincono  gratuite  ed  erronee.  Tale 
a  ragion  d'esempio  è  la  maniera  colla  quale  Plotino  —  e  degli 
altri  Unitari  si  può  dire  press'a  poco  il  simile  —  fa  emanare  le 
cose  tutte  dal  suo  Uno. 

Poiché  dopo  di  aver  detto  fin  da  principio  ,  che  il  bene  è 
l'  uno  e  non  più  (4)  —  mutando  con   questo  stesso  il  concetto 

(i)  Cosi  si  riassume  nel  libro  IX  della  II  Ennead.  Gap,  I:  Qiwniam  ex 
aliis  disputationibus  nobis  constai  ipsius   boni  naturam  esse  simpiicem 


^2S 

puro  di  uno  col  concelto  del  bene,  —  vuole  che  questo  conosca 
sé  stesso,  e  così  emani  rinleiletlo  {vovg),  e  ciò  senza  alcun  allo 
di  volontà,  cadendo  in  una  nova  contraddizione  con  quel  che 
aveva  detto  altrove,  che  la  libertà  era  il  primo  principio,  onde 
l'uno  operava,  e  dava  a  sé  stesso  l'essere,  perchè  lo  voleva. 
Ora  esclude  la  volontà,  e  ogni  movimento  dell'uno,  perchè  dice: 
se  l'uno  generasse  l'intelletto  per  via  di  qualche  movimento, 
questo  non  sarebbe  secondo,  ma  terzo,  tenendo  il  secondo  luogo 
il  movimento  (1).  Finalmente  dall'intelletto  procede  la  ragione, 
0  anima  intellettuale  del  mondo,  principio  del  movimento  (4'^%»' 
ToO  TTAVTÓs,  Tcòv  oXoov) .  CoTtìG  la  mcute  o  T  intelletto  è  chiamato 
da  Plotino  verbo  di  Dio,  cioè  del  suo  uno,  cosi  l'anima  è  chia- 
mata verbo  o  atto  della  mente,  ossia  deirintelletto  (2). 

Non  si  trova  altra  ragione  di  queste  emanazioni  ploliniane, 
se  non  questa,  che  l'Uno  dovendo  essere  perfetto  deve  produrre, 
giacché  il  produrre  si  contiene  nel  concetto  della  perfezione  (3). 

atque  primam:  nisi  enim  prima  esset,  simplex  esse  non  posset:  constitit  et 
IN  SE  IPSA  NIHIL  HABERE,  SED  UNUM  ESSE  UUMTAXAT,  atque 
etiam  ipsius  quod  dicitur  unum,  eamdem  esse  naturam:  etiam  haec  non 
prius  quideni  aliiid  quiddam  est,  deinde  insuper  unum:  neque  ipsum  bonum 
aliud  quiddam  est  et  pr aeterea  bonum. 

(t)  Qaod  igitur  inde  gignitur  dicendam  est,  superiore  non  agitato  gigni: 
alioquin  si  moto  ilio  aliqaid  generetur,  certe  id  quod  gignitur,  non  se- 
cundum,  sed  tertiam  eritab  ilio  post  motum.  Quamobrem  necessarium  est, 
cum  illud  sit  prorsus  immobile,  si  quid  secundum  post  ipsum  nascitur,  id 
profecto  ilio  NEQUE  ANNUENTE,  NEQUE  VOLUNTATE  DECER- 
NENTE, neque  allo  pacto  commoto  subsistere.  —  Numquid  nihil  prodit 
ab  eo,  an  potius  ab  eo  prodeunt  quae  omnium  maxima  sunt  post  ipsum  ? 
Maximum  vero  post  ipsum  est  intellectus  atque  secundum.  Inspicit  enim 
intellectus  illud  soloque  ilio  indigel:  illud  vero  primuni  hoc  minime  indiget. 
Oportet  profecto  quod  fit  ab  eo,  quod  est  mente  inelius,  esse  mentem:  melius 
vero  omnium  quae  ftunt  est  intellectus,  qwmiam  alia  sunt  post  ipsum. 
Ennead.  V.  i,  ti. 

(2)  lam  vero  et  anima  mentis  est  verbum  et  actus  quidam,  sicut  mens 
est  Dei  verbum.  (Ennead.  V.  i,  6).  —  Est  enim  sicut  est  intellectus  eodem 
modo ,  semper  in  actn  stabili  constitutus  :  motus  autem  vel  ad  ipsum  , 
vel  circa  ipsum  iam  animae  est  offtcium.  Atqui  et  ratio  ab  intellectu  in 
animun  usque  procedens  animam  reddil  intellectualem:  neque  aliam  quam- 
dam  adducit  naturam   intellectus   et   animae  mediam.  Ennead  11.  ix,  1. 

(3)  Atqui  quaecumque  per  feda  iam  sunt,  aliquid  generant.  Quod  autem 
semper  est  perfeclum,   semper  gignit  et  sempiternum ,  MINUS  AUTEM 


126 

Ma  concedutogli  anche  quello  die  gratuitamente  afferma  ,  che 
l'uno,  come  egli  Io  (h^scrive,  possa  essere  qualcosa  di  perfetto, 
quando  pure  gli  nt^ga  1"  essere  slesso  :  vedesi  tuttavia  la  fiac- 
chezza del  ragioDiunenlo ,  poiché  ragionando  da  quel  principio  a 
rigore  conveniva  argomentnre  cosi:  «  il  perfetto  deve  produrre, 
ma  di  più  deve  produrre  in  modo  perfetto ,  e  però  deve  pro- 
durre il  perfetto  ».  Secondo  dunque  il  concetto  d'una  perfetta 
produzione  ,  quale  conviene  a  un  perfetto  producente  ,  si  deve 
necessariamente  conchiudere,  che  anche  il  prodotto  deva  essere 


GENITUM  GENITORE.  Quidnam  igitur  de  perfectissimo  est  dicendumf 
Numquid  nihil  prodit  ab  eo,  an  potius  ab  eo  prodeunt ,  quae  omnium 
maxima  sunt  post  ipsum?  Maximum  vero  post  ipsum  est  intellectus 
atque  secundiim.  Inspicit  enim  intellectus  illud ,  soloque  ilio  indi-jet  : 
illud  vero  primum  hoc  minime  indigef.  Oportet  profecto  quod  sit  ab 
eo  quod  est  mente  melius ,  esse  mentem  :  melius  vero  omniun  quae 
fiunt  est  intellectus,  quoniam  alia  sunt  post  ipsum.  lam  vero  et  anima 
mentis  est  verburn,  et  actus  quidam,  sicut  mens  est  Dei  verbum.  Ennead. 
V,  ij  6.  —  Le  emanazioni  dei  neoplatonici  nacquero  dalla  mala  intelli- 
genza della  dottrina  circa  le  imagini.  Si  credeva  che  il  conoscimento  si 
facesse  sempre  per  via  d'imagine,  di  maniera  che  l'oggetto  prossimo  della  co- 
noscenza fosse  l'imagine  della  cosa,  e  non  la  cosa  stessa.  Plotino  dunque 
dedusse  a  questo  modo  il  suo  pensiero:  L'uno  intende  se  stesso,  e  cosi  pro- 
duce l'imngine  di  so  stesso  (necessaria  alla  cognizione  di  se  stesso)  :  questa 
imagine  è  il  verbo  dell'uno,  il  primo  intelletto.  Ma  quest'imagine  ,  questo 
intelletto  anch'egli  conosce  se  stesso,  epperò  produce  l'imagine  di  sé,  in  cui 
si  conosce,  un  verbo,  e  questa  è  la  prima  anima,  l'anima  del  tutto.  Questi 
sono  i  tre  principi  e  il  secondo  è  minore  del  primo,  il  terzo  è  minore  del 
secondo,  a  cagione  che  l'imagine  è  minore  della  cosa  che  rappresenta.  Ve- 
desi facilmente  la  fallacia  di  questo  ragionamento;  la  parola,  imagine,  o  rap- 
presentazione, come  quelle  che  cadono  sotto  i  sensi,  certo  sono  minori 
della  cosa  che  segnano  e  rappresentano,  anzi  l'imagine  pura  non  tiene  nulla 
affatto  della  realità  della  cosa  a  cui  si  riferisce.  Ora  questo  non  si  avvera  nel 
fatto  della  cognizione  umana,  perchè:  1"  l'oggetto  immediato  della  cognizione 
è  propriamente  la  cosa  in  sé  stessa,  e,  qualora  esso  si  chiami  un'imaginc, 
altro  ciò  non  significa  se  non  la  relazione  che  ha  coll'intellclto,  cioè  d'es- 
sere non  puramente  la  cosa,  ma  la  cosa  cognita,  onde  è  più  che  le  imagini 
sensibili,  le  quali,  non  essendo  la  cosa,  sono  certamente  meno  di  essa;  2»  che 
se  coH'astrazione  si  divide  la  cosa  dalla  sua  conoscibilità,  l'idea  della  cosa, 
in  tal  caso  questa  è  ancora  la  cosa  essenziale,  ed  è  maggiore  della  pura  rea- 
lità; ma  questa  distinzione  è  impossibile  a  farsi  in  Dio,  dove  la  realità  stessa 
è  per  sé  conoscibile,  onde  Iddio  non  conosce  già  per  via  di  un' imagine  che 
sia  minore  di  se  stesso,  ma  per  la  propria  essenza;  3"  finalmente  Plotino  è 


1^27 

egualmente  perfetto  come  il  producente,  quanto  alla  natura  ,  e 
non  già  necessariamenle  inferiore  a  questo  (ì). 

Vero  è  che  s'incontra  così  ragionando  un'antinomìa,  poiché, 
che  due  nature  siano  perfette,  è  contradizione,  richiedendo  la 
nozione  del  perfetto  che  egli  sia  un  solo  essere  ,  e  che  non  possa 
trovarsi  nulla  di  perfetto  fuori  di  lui.  Ma  quest'  antinomìa  è 
quella  appunto,  che  ha  trovato  la  sua  conciliazione  nel  mistero 
della  Religione  ("ristiana  ,  il  quale  mantenne  l'unità  perfettissima 
della  natura  divina  e  insieme  tre  relazioni  opposte,  onde  quella 
stessa  divina  natura  sussiste  in  tre  maniere  relative ,  realmente 
distinte,  le  quali  diconsi  e  sono  persone. 

164.  11  pensiero  dunque  degli  unitari  da  Plotino  ad  Hegel  fa 
due  lavori:  va  dal  moltiplice  all'uno,  edalTuno  torna  al  mol- 
tiplice.  Va  di\l  moltiplice  all' uno  jaer  via  d'astrazione,  e  per 
questa  via  giunge  al  concetto  della  pura  unità  ,  che,  come  dice 
Plotino,  non  ha  nulla  in  se  stesso  altro  che  l'esser  uno(i); 
ond'  è  appunto  il  nulla  di  Hegel;  e  va  dall'uno  al  moltiplice  per 
via  d' aggiunzione:  due  vie  impotenti  a  distruggere  e  a  creare, 
ma  alte  solo  a  diminuire  o  a  distruggere  gli  oggetti  davanti 
alla  mente  del  filosofo. 


costi  etto  a  dar  vita  e  operazione  all'  imaqine,  il  che  (trattandosi  d'imagine 
pura)  ha  dell'assurdo.  Quatenus  enim,  dice,  (anima)  est  IMAGO  MENTIS, 
hoc  ipso  ei  aspieiendum  est  in  mentem:  eadem  ratione  Deum  suspicit 
MENS  IMAGO  DEI,  ut  ita  sit  intellectus.  (  Ennead.  V,  i,  6  ).  —  Dal- 
l'anima poi  del  mondo  Piotino  fa  emanare  colla  slessa  facilità,  cioè  per 
via  d'imagini  sempre  inferiori,  gli  enti  tutti  dell'universo  fino  alla  materia 
che  non  è  piìi  atta  ad  avere  un'imagine  di  se  stessa.  Un  altro  errore  da  cui 
procedette  il  sistema  plotiniano,  si  è  quello  di  confondere  l'intelletto  come 
potenza  coll'oggetto,  dando  il  nome  d'intelletto  a  quest'ultimo;  un  altro 
ancora  di  confondere  Yoggetto  pronunziato,  che  è  il  verbo ,  coll'oggetto 
semplice,  che  è  l'idea.  Da  questa  genesi  dell'erroneo  sistema  di  Plotino  ve- 
desi  l'importanza  dell'Ideologia:  poiché  sono  errori  d'Ideologia  quelli  che 
produssero  il  sistema  delle  emanazioni  e  tutti  i  sistemi  unitari. 

(1)  Questa  osservazione  fu  già  fatta  da  altri  :  S'il  est  trai,  dice  il  sig.  Se- 
cretane qnétre  signifte  prodvire  son  image ,  la  perfeclion  de  l'ètre  réside 
dans  la  production  parfaite ,  rimage  de  l'etile  parfait  est  une  parfaite 
image ,  c'est-à-dire  une  image  ègide  au  modèle,  ce  qui  nous  conduit  non 
point  à  la  sèrie  dècroissante  des  èmanations  de  Plotin,  mais  à  la  frinite 
dWthanase.  La  Philosophie  de  la  liberlé,  le?.  IV, 

(2)  Enn.  \\,  ix,  1 . 


128 

165.  Ora  se  noi  vogliamo  tener  dietro  all'una  e  all'altra  di 
queste  due  vie ,  vedremo  che  esse  non  si  possono  percorrere  se 
non  dalla  mente  che  sottintende  una  certa  duaiilà  annessa  al- 
l'essere stesso. 

P.  E  per  vero  dire,  abbiamo  già  osservato,  che  nulla  si 
può  astrarre  dall'essere,  epperciò  neppur  l'unità,  senza  che  si 
abbia  presente  l'essere,  da  cui  si  astragga,  onde  nella  mente  è 
sempre  supposta  una  dualità  (,1S7,  161*).  Di  più  l'uno,  che 
si  pretende  d'astrarre  dall"  essere,  in  qual  modo  si  pensa?  Cer- 
tamente col  dargli  un  qualche  atto  di  essere,  poiché,  se  gli  si 
negasse  ogni  atto  di  essere,  col  negarglielo  stesso  non  sarebbe 
più  Uno,  ma  niente.  E  lo  slesso  Plotino,  altrettanto  quanto  He- 
gel ed  ogn'altro  unitario,  dicendo  che  l'uno  È  superiore  all'ente, 
0  che  ha  solamente  questo  di  esser  uno;  unum  ESSE  dumtaxnl; 
gli  dà  r  essere.  Di  novo  dunque  nel  pensiero  di  questi  filosofi 
unitari  c'è  sempre  a  lor  malgrado  una  certa  dualità. 

IP.  Ma  lo  slesso  si  vede,  se  si  considera  l'altra  via,  quella 
di  aggiunzione  ,  per  la  quale  pensano  di  fare  emanare  dall'uno 
tutte  le  cose. 

In  primo  luogo  a  quest'uno  convien  dare  una  potenza,  ac- 
ciocché emanino  le  cose,  e  quest'aggiunta,  totalmente  arbitra- 
ria, la  sì  che  nell'uno  non  ci  sia  già  più  solo  il  concello  del- 
l'uno, ma  che  si  cangi  il  cuncello  di  uno  nel  concetto  di  po- 
tenza e  di  potenza  infinita,  quando  Tunilà  pura  non  racchiude, 
come  tale,  potenza  alcuna  né  grande  nò  piccola.  E  pure  dopo 
aver  dello,  che  Tuno  non  è  neppure  ente,  poiché  in  tal  caso 
sarebbe  multiplice  —  confessandosi  con  ciò  che  nel  concello  dei- 
Tenie  s'involge  una  molliplicilà,  —  dicono  tuttavia  che  è  la  po- 
tenza univcrséile.  Quid  ergo  est?  dice  Plotino.  Profvcto  poteshs 
omnium:  quw  quideni  nisi  esset,   ncque  cu'tera  forent  (ì) . 

(1)  Eìin.  Ili,  vai,  9.  —  Diceudo  che  l'uno  ò  poleslas  omnium  si  usa 
una  maniera  equivoca ,  poiché  ci  sono  due  maniere  di  potenze  :  l'una  ri- 
cettiva, qual  è  quella  dell'essere  indeterminato,  che  può  ricevere  tutti  i 
reali  come  suoi  termini;  e  l'altra  attiva,  qual  è  quella  dell'essere  reale  e 
assoluto,  che  può  produrre  ogni  cosa.  L'una  potenza  si  scamhia  nell'altra 
dagli  Unitari ,  e ,  dopo  d'aver  parlato  dell'essere  indeterminato  ed  informe , 
si  dice  che  è  la  potenza  di  tutte  le  cose;  il  che  è  vero,  se  s'intende  d'una 
potenza  ricettiva  di  tutti  i  termini.  Ma  abusando  della  parola  potenza  e 


120 

Ancora ,  se  l'Uno  è  il  principio  della  vita  molliplice  e  di  tutte 
le  cose(l),  quasi  fonte  ond'escono  i  fiumi,  o  radice  end' esce 
l'albero  ('i) ,  o  fuoco  ond'esce  il  calore  (3) ,  egli  è  evidente  che 
non  è  più  Uno  nel  senso  astratto,  che  in  esso  non  si  distingua 
nulla  neppur  colla  mente,  di  maniera  che  gli  si  deva  negare  lo 
stesso  essere,  l'essenza  e  la  vita,  come  vuol  Plotino  ('4)  per  ti- 
more di    non  introdurre  in  esso  una    moltiplicità   mentale,    ma 

prendendola  in  senso  attivo,  gli  si  dà  una  realità  potentissima,  e  cosi  si 
cade  nel  sistema  dei  realisti  ideologici .  come  fa  pure  Plotino  e  tutta  quella 
Scola. 

(1)  Multiplicis  citce  principium.  Eun.  Ili,  vili,  9. 

(2)  Plotino  adopera  queste  similitudini  di  spesso.  Enn.  HI,  vili,  9. 

(.3)  Lumen  undique  circumfusum  ex  ipso  dependeus,  ex  ipso,  inquam,  pe- 
nitus  quiescente,  ceu  fulgorem  circa  solem,  quasi  circurncurrentem,  ex  ipso 
semper  manente  progenitum.  Jam  vero  res  omnes  quatenus  naluraliter 
perseverant,  ex  ipsa  sui  essentia  prcesenteque  virtute  necessarium  circa  se 
foras  naturam  producunt ,  ab  ipsis  dependentem ,  qucs  quidem  imago  sic 
velut  exemplaris  scilicet  virtutis  illius  unde  manavit.  Ignis  quidem  ex  se 
foras  emittit  calorem,  nix  quoque  frigus  non  intrinsecus  tantum  cohibet , 
sed  et  aliis  exhibet:  prcecipue  vero  id  res  odoratce  testantur.  Quamdiv 
enim  sunt,  nnnnihil  ab  eis  circmneffunditur  :  cuius  inde  pt  particeps  qiiod 
est  propinquum.  Enn.  V,  1,  6. 

(4)  Certe  (Unum)  nihil  horum  est,  quorum  est  principium:  est  et  tale,  ut 
de  ipso  nihil  prwdicari  queat,  non  ens,  non  essentia,  non  vita:  propterea 
quod  super  haec  omnia  sit.  Sin  autcm.  ipsiim  esse  inde  auferens  illud  ap- 
prehenderis ,  protinus  obstupesces,  et  dirigens  te  in  illud,  et  assequens , 
atque  in  ipsius  sedibus  ronquiescens  uno  potissimum  simplicique  ìntuitit 
iam  conspicias ;  conspicatus  outem  ,  magnitndinem  eius  auspicaberis  per 
Illa  qua  e  post  ipsum  sunt,  ulque  per  ipsum.  Enn.  HI,  viii,  9. 

In  questo  passo  di  Plotino  si  osservi  :  1"  che  egli  protesta  non  doversi 
punto  credere  che  il  suo  Ino  sia  il  nulla,  pretendendo  anzi  clie  egli  sia 
qualche  cosa  d"  intinitanìente  grande;  2"  dice  che  nulla  si  può  predicare  di 
lui,  né  lente,  lu'  l'essenza,  né  la  vita;  3"  che  si  trova  quell'uno  spoglian- 
dolo dell'essere:  ipsum  esse  inde  auferens;  il  che  indica  la  via  dell'astra- 
zione che  toglie  all'uno  l'essere.  Ma  se  conviene  togliere  l'essere  all'uno  per 
formarsi  il  concetto  di  questo,  dunque  l'Uno  ha  l'essere,  altramente  noi  col 
pensiero  noi  potremmo  togliere,  e  se  dobbiamo  toglierlo  per  formarci  il 
concetto  puro  dell'uno ,  questo  concetto  non  istà  dunque  solo  nella  nostra 
mente,  ma  ci  sta  in  compagnia  dell'essere  da  cui  lo  prendiamo  e  in  cui  lo 
vediamo.  Onde  rimane  che  l'Uno  di  Plotino  da  sé  solo  né  è,  né  può  essere 
pensato.  Non  è  dunque  il  primo  principio  indipendente  delle  cose  che  da  lui 
emanano. 

UOSMINI.  Teosofia.  9 


130 

nel  concclto  di  principio  -—  diverso  da  quello  di  uno  —  già  s'ac- 
chiude una  relazione  reale  colle  cose  molliplici,  di  cui  è  principio. 
E  poi  si  consideri  come  Plotino  non  solo  si  vede  obbligalo  a 
dare  al  suo  Uno  le  proprietà  di  bono  e  di  perfetto ,  che  non 
entrano  nel  concetto  della  semplice  Unità  ,  e  che  suppongono 
l'Essere,  che  egli  nega  all'Uno  ,  giacché  il  solo  essere  è  il  su- 
bietto della  bontà  e  delia  perfezione  ,  non  solo  è  obbligalo  di 
attribuirgli  la  proprietà  di  principio  ;  ma  di  più  è  obbligato  a 
fare ,  ch'egli  produca  l'essere  di  sé  stesso  ,  e  la  sussistenza  di 
se  stesso,  il  che  è  un  confessare,  che  quel  concetto  del- 
l'Uno è  così  inquieto,  che  non  può  star  solo;  che  se  fosse  solo, 
sarebbe  perduto  nel  nulla.  Né  questo  slesso  trovò  bastargli,  poi- 
ché non  solamente  fece  che  egli  producesse  l'essere  di  se  stesso, 
ma  il  fece  produttore  del  primo  intelletto^  e  questo  intelletto  della 
prima  ragione,  o  anima ,  e  queste  tre  cose  volle  che  rimanessero 
inseparabili  dall'Uno,  che  anzi  formassero  il  perfetto  Uno  (1), 
Onde  pare,  che  quest'intelletto,  e  quest'anima  sia  appunto  nel 
sistema  di  Piotino  quell'essere  che  l'Uno  dà  a  sé  stesso;  poiché 
in  un  luogo  dice  che  l'Uno  dà  a  sé  stesso  l'essere,  e  nell'altro 
che  la  prima  cosa  che  emana  é  l'intelletto,  e  da  questo  l'anima, 
e  prima  di  queste  due  cose  nuU'altro.  Ma  se  l' intelletto  e  l'a- 
nima prima  costituiscono  l'essere  dell'Uno,  che  per  sé  non  l'ha , 
e  formano  l'Uno  semplicissimo  ,  non  s'intende  più  come  essi 
sieno  minori  dell'Uno,  da  cui  emanano  (2).  Ad  ogni  modo  da 
tutto  questo  si  vede  come  alla  mente  del  filosofo  riuscì  impos- 
sibile lasciare  l'Uno  solo,  senza  nulla  aggiungergli  che  lo  ren- 
desse fecondo;  perocché  veramente  un  sistema  a  rigore  unitario 
è  impossibile  e  incapace  di  spiegar  cosa  alcuna. 


(1)  Quatenus  enim  (anima)  est  imago  mentis,  hoc  ipso  ei  aspiciendtcm 
est  in  mentem  :  eadem  ratione  Deum  suspicit  mens  imago  Dei,  ut  ita  sit 
inlelledus:  videi  vero  Deum  MINIME  INDE  SEPARATA:  sed  quoniam 
est  post  ipsum,  nihitque  est  medium,  quemadmodum  nihil  medium  est  in- 
ter  animam  atque  mentem.  Omne  vero  genitum  appetit  genitorem,  in  cuius 
consecutione  sit  contentum,  praecipue  autem  quando  soli  sunt  genitor  atque 
genitus.  At  ubi  quod  genuit  est  omnium  optimum,  necessario  genitum  ipsi 
cohaeret  usque  adeo,  ut  ALTERITATE  {ut  ita  dixerim)  quadam  solum 
videuiur  inde  secretum.  Enn.  V,i,  6. 

(2)  Enn.  V,  i,  G. 


131 

166.  Escluso  dunque  il  sistema  degli  unitari,  come  impossibile, 
rimane  che  ci  sia  qualche  molliplicilà  coeterna  all'  essere.  Ma 
questa  non  deve  togliere  la  perfetta  unità  e  semplicità  dell'es- 
sere ;  e  quindi  la  difficoltù  di  quell'antinomia,  che  ha  fatto 
delirare,  se  mi  si  permette  di  così  esprimermi,  la  filosofia  in 
tutti  i  secoli,  a  cui  Cristo  ha  soddisfatto,  ma  rivelando  il  mi- 
stero. Dal  qual  mistero  però  venne  un  rinforzo  di  luce  alla  stessa 
intelligenza  umana,  che  si  mise  all'opera  di  rispondere  in  qual- 
che modo  a  quel  problema  più  istrutta  e  cautelata  contro  gli 
errori.  Ed  ecco  in  quali  investigazioni  ella  può  mettersi  con 
buon  successo. 

La  meditazione  attenta  sulla  natura  dell'essere  puro,  quale  sta 
presente  essenzialmente  all'inlelligenza,  conduce  a  quel  risultato, 
che  abbiamo  spesso  toccato,  cioè  ch'egli  abbia  una  relazione  es- 
senziale con  una  mente  ;  e  questa  relazione  essenziale  è  l'oggel- 
lività.  Quest'oggetlivit.à  ha  natura  d"  imagine .  qualora  si  voglia 
adoperare  questa  parola  alquanto  traslata  :  onde  gli  errori  di  Plo- 
tino, come  vedemmo,  avendo  egli  ragionato  dell'imagine,  come 
si  ragionerebbe  delFimagine  sensibile,  che  è  inferiore  alla  cosa 
di  cui  è  imagine;  n»a  l' oggettività  dell'essere  (si  chiami  ima- 
gine o  no)  è  l'essere  stesso  né  più  né  meno,  come  per  so  nolo, 
ed  è  questa  la  relazione  essenziale,  che  dicevamo,  colia  mente. 
L'essere  dunque  oggetto  .  ossia  per  .sé  noto  ,  non  è,  né  più  né 
meno,  che  l'essere  stesso,  lutto  intiero,  bensì  in  questa  forma 
d'essere  per  sé  noto.  Ma  se  l'essere  è  di  sua  natura  per  sé  noto, 
deve  esserci  in  lui  il  principio  conoscente  ,  che  è  appunto  la 
niente  ,  non  però  diversa  dalle.ssere  per  se  noto  ,  giacché  nel 
concetto  ste.eso  dell'essere  per  sé  conosciuto  si  contiene  essen- 
zialmente il  subiclto  conoscente  ;  che  non  sarebbe  per  sé  noto 
ma  per  altri  so  il  subietto  conoscente  fosse  fuori  di  lui  ,  o  di- 
verso da  lui.  xMa  dell'essere  per  sé  noto  si  distinguono  due  rela- 
zioni ,  poiché  ogni  cogni/jone  è  cognizione  in  quanto  fa  co- 
noscere l'essere  com;  assolutamente  essente.  Onde  c'è  ì"  V essere 
assolntamenle  essente,  e  e'  é  2°  la  conoscibilità  ossia  l'oggettività  di 
quest'essere.  Ma  l'essere  é  il  medesimo,  e  però  non  perde  nulla 
«iella  sua  essenziale  unità  e  semplicità.  Tuttavia  quesl'  unico 
essere  é  tutto  identico  in  queste  due  forme  :  è  tutto  assoluta- 
mente essente,  ed  é  tutto  assolutamente  noto.  Cosi  una  dualità 


ÌZÌÌ 

è  necessaria  all'essere,  senza  che  punto  lo  moltiplichi,  o  scemi 
la  perfettissima  uniti\  della  sua  essenza. 

Ma  non  basta  ,  poiché  se  s' investiga  più  avanti  vedesi  che 
l'essere  deve  avere  necessariamente  una  terza  forma,  che  punto 
non  lo  moltiplica.  Poiché  1'  essere  ,  come  apparisce  alla  mento 
umana  indeterminato,  fa  vedere  da  una  parte  che  non  può  stare, 
come  assolutamente  essente,  separato  dalla  mente  umana,  se  non 
abbia  quelle  determinazioni  e  quei  termini,  che  alla  mente  umana 
non  appariscono  ;  dall'altra,  che  è  assolutamente  essente  e  però 
può  stare  in  sé  ,  e  però  deve  avere  quei  termini.  Ma  in  terzo 
luogo  vedesi  anche  ,  che  i  suoi  termini  propri  devono  essere 
quali  convengono  ad  un  essere  infinito,  poiché  l'essere  è  di  sua 
natura  universale,  necessario  ed  infinito.  Se  dunque  trattasi  d'un 
essere  infinito,  conviene  che  questo,  sotto  qualunque  forma  sia, 
sia  infinito  ;  altrimenti  non  sarebbe  più  identico  ,  non  sarebbe 
più  lui.  Per  essere  infinito  deve  avere  tutto  ciò  che  si  conce- 
pisce sotto  il  concetto  di  essere,  e  però  la  vita  e  l'intelligenza. 
L'essere  dunque  nella  forma  di  assolutamente  essente  é  vita  ed 
intelligenza,  e  così  pure  nella  forma  di  assolutamente  per  sé  nolo. 
Ora  l'essere  non  sarebbe  perfetto,  se  nelle  due  forme  egli  fosse 
in  modo  che  ,  in  quanto  è  sotto  1'  una  ,  non  avesse  comunica- 
zione con  sé,  in  quanto  è  sotto  l'altra,  anzi  la  deve  aver  mas- 
sima ,  e  senza  questa  neppure  sarebbe  identico.  Le  due  forme 
dunque  ,  l'  una  'delle  quali  non  è  l'altra  ,  ma  ciascuna  é  lutto 
l'essere,  devono  avere  una  comunicazione  tra  loro  senza  con- 
fondersi. Questa  comunicazione  suppone,  che  l'essere  sia  per  sé 
amato,  cioè  a  dire  che  quell'essere  che  è  assolutamente  essente, 
e  che  è  anche  per  se  noto  ,  sia  anche  per  sé  amato.  Ma  in 
quanto  è  per  sé  amato,  non  è  per  sé  assolutamente  essente, 
né  per  sé  noto  :  dunque  Vessere  per  sé  amato  è  una  terza  forma 
in  cui  è  lo  stesso  essere.  E,  appunto  perchè  l'essere  per  sé  amato 
è  lo  slesso  essere,  che  è  nelle  due  prime  forme,  né  pure  questa 
terza  forma  toglie  l'unità  perfettissima  dell'essere. 

V'ha  dunque  nell'essere  necessariamente  un'unità  perfettissima 
d'essenza  e  una  trinità  di  forme. 


433 

CAPITOLO  XIII. 

Della  falsa  cm  presa  da  alcuni  filosofi  per  giungere  a  sciorre 
il  problema  dell'Ontologia. 

167.  Le  accennale  (lategorie  sono  dunque  perfettamenle  divise 
Ira  loro.  Infatti  le  parole  ideale ,  reale  e  morale  esprimono  una 
reciproca  opposizione  ,  per  la  quale  quelle  entità  s'escludono  a 
vicenda. 

E  certo  sarebbe  un  controsenso  manifesto  l'asserire,  come  fece 
non  ha  molto  un  eloquente  nostro  avversario,  che  l'ideale  è  reale, 
e  che  il  reale  è  ideale.  Questo  strano  parlare  non  mostrerebbe 
che  uno  sforzo  di  confondere  1  concetti  più  opposti  tra  loro.  Si 
può  appellare  senza  timore  al  senso  comune  per  decidere  ,  se 
quando  si  dice  un  essere  ideale,  poniamo  un  gelsomino  ideale, 
si  dica  lo  stesso  che  quando  si  dice  :  il  gelsomino  che  ora  io 
piglio  colle  mie  dita  accostato  alle  nari  mi  dà  odore  soave. 
Viceversa  non  pare  che  ci  voglia  una  grande  intelligenza  a  per- 
suadersi^ che  questo  gelsomino  reale  che  io  al  presente  odoro , 
non  è  la  pura  idea  del  gelsomino  che  mi  rimane  immutabile 
nella  mente,  anche  allorquando  ho  sciupato  e  trito  in  minuzzoli 
il  gelsomino  reale. 

Qui  dunque  si  scorge  la  mala  via  che  hanno  preso  gli  On- 
tologi  moderni  della  Germania ^  i  quali  vanamente  si  sforzano, 
per  amore  d'una  soverchia  unità ,  di  distruggere  e  confondere 
insieme  le  forme  immutabili  e  incomunicabili  dell'  Essere ,  che 
costituiscono  le  nostre  categorie  ;  sicché  alcuni  di  essi  vogliono  ri- 
dur  lutto  al  reale,  anche  ciò  che  è  ideale;  come  quelli  che 
credono  poter  ricacciare  ogni  cosa  nell'io;  alcuni  altri  poi  si 
persuadono  di  poter  ridurre  tutto  all'idea ,  anche  il  reale,  come 
gli  Hegeliani.  Così  guastarono  interamente  la  filosofìa,  o  piuttosto 
la  distrussero,  in  Germania. 

168.  E  qui  sembrami  degno  d'osservare  che  nessun  filosofo, 
che  io  sappia,  si  provò  di  ridur  tutto  al  morale,  perocché  questo 
tentativo  non  potevasi  fare  senza  ricorrere  alla  trinità  delle  forme 
e  cosi  restituire  la  distinzione  che  si  voleva  abolire.  Conciossiachè 
niuna  entità  morale  può  essere  se  non  in  virtù  dell'armonia  che 


134 

hanno  insieme  le  due  forme  del  reale  e  dell'ideale ,  e  non  può 
essere  tra  esse  armonia  se  non  si  distinguono  (1).  Laonde  vedcsi 
altra  funestissima  conseguenza,  che  nasce  dall'intento  di  ridurre 
le  tre  forme  ad  una  sola  ;  la  qual  conseguenza  si  è  l'abolizione 
della  morale.  Di  che  non  deve  fare  alcuna  maraviglia,  se  l'Hege- 
lianismo  sia  terminato  in  una  compiulissima  empietà,  che  toglie 
Dio  e  la  moralità  ad  un  tempo  con  ogni  obbligazione  e  dignità. 
109.  Colle  quali  osservazioni  il  problema  dell'Ontologia,  che 
abbiam  proposto  ,  già  fa  un  passo  verso  il  suo  scioglimento. 
Perocché  siamo  resi  certi  di  [questo  ,  che  1'  Essere,  uno  in  sé 
stesso  e  semplicissimo,  non  può  tuttavia  ridursi  ad  unità  di  forma, 
ed  il  tentarlo  è  un  distruggerlo.  Ma  quella  massima  semplicità 
di  forme ,  a  cui  si  può  e  si  deve  ridurre  ,  é  finalmente  e  non 
può  essere  altro,  che  quella  trinità  che  abbiamo  accennata,  di 
modo  che  egli  sia  sotto  la  forma  obbiettiva,  e  sotto  la  reale,  e 
scilo  la  morale,  né  possa  essere  sotto  alcun' altra,  che  a  queste 
non  si  riduca. 


CAPITOLO  XIV. 

Ddìa  ragione  sufficiente  delle  Ire  categorie  e  forme  dell'Essere. 

170.  Le  tre  categorie  si  dicono  anche  forme  dell'Essere,  perché 
l'Essere  non  si  può  concepire  se  non  in  alcuna  di  esse,  almeno 
con  un  pensiero  compiuto.  Ora  queste  forme  si  possono  esse 
chiamare  passioni  dell'Essere ,  di  maniera  che  l'essere  in  esse  o 
per  esse  sofl'ra  qualche  modificazione  ?  —  No  certo  ,  ma  le  tre 
forme  sono  superiori  alle  passioni  dell'Essere  :  poiché  queste  sup- 
pongono concepito  nella  mente  umana  l'Essere ,  che  prende  dei 
modi  che  non  gli  sono  necessari  ;  laddove  le  forme  dell'essere 
noi  suppongono  concepito  innanzi,  ma  in  esse  e  per  esse  si  con- 

(1)  Veramente  C.  Secréfan  nella  sua  Opera  :  La  Philosophie  de  la  Li- 
berté,  Cours  de  Philosophie  morale,  etc.  Genève,  1849,  Voi.  2,  intende  di 
ridurre  ogni  cosa  alla  libertà,  come  a  un  sommo  principio  dell'essere;  ma 
la  libertà  riposta  in  un  primo  atto  solitario,  a  cui  tutti  gli  altri  siano  poste- 
riori, non  è  la  forma  morale,  e  non  è  tampoco  libertà  morale,  come  pare 
che  egli  si  persuada. 


435 

cepisce  :  di  maniera  che  le  passioni  danno  un  concetto  poste- 
riore a  quello  dell'Essere ,  laddove  le  forme  supreme  danno  un 
concetto  che,  quantunque  possa  essere  per  alcuna  di  esse  poste- 
riore di  tempo  nella  nostra  mente  a  quello  dell'essere,  tuttavia  non 
è  posteriore  logicamente  :  che  ciascuna  forma  è  l'Essere  stesso, 
benché  in  altro  modo.  Vero  è  che  in  tutte  e  tre  le  forme  si  distin- 
gue l'Essere  identico,  ma  quest'Essere  è  un  astratto  che  la  mente 
slessa  vede  non  potere  stare  da  sé  solo,  né  potersi  concepire  da 
sé  solo  con  un  pensiero  compiuto  e  intero;  e  però  la  mente  noi 
concepisce  cosi  separato  dalle  sue  forme,  se  non  posteriormente 
anche  di  tempo,  e  sottintendendo  la  condizione  che  egli  sia  nelle 
sue  forme,  benché  prescinda  dal  considerare  la  distinzione  di  que- 
ste. E  veramente  se  io  penso  l'essere  senza  più,  astenendomi  dalla 
distinzione  delle  forme,  come  accade  nell'intuizione  primitiva, 
che  cosa  penso  io  con  ciò  se  non  l'essere  ideale  ,  benché  non 
consideri  l'idealità  separata  dall'Essere  ?  Non  si  dà  dunque  vera- 
mente l'Essere  nella  mente  nostra  svestito  delle  sue  forme  se 
non  per  un'  astrazione  posteriore  ,  e  il  non  considerare  le  sue 
forme  è  appunto  un  non  distìnguerlo  da  esse.  Che  anzi  ,  anche 
quando  l'uomo  per  via  d'astrazione  distingue  le  forme  tra  loro, 
crede  distinguere  altresì  l'essere  dalle  forme  ;  ma  veramente  col- 
l'essere  svestito  dalle  forme  —  non  accorgendosene  il  pensatore  — 
rimane  sempre  la  forma  ideale,  senza  la  quale  non  potrebbesi  in 
alcun  modo  concepire  ;  e  solo  quella  forma  che  l'uomo  ha  nella 
mente,  e  non  può  non  avere,  egli  esclude  dirò  così  dal  suo  calcolo, 
benché  non  possa  escluderla  veramente  dal  suo  pensiero.  Sicché 
l'essere  deve  concepirsi  almeno  nella  forma  ideale  anche  quando 
r  uomo  prescinde  da  questa  forma  per  una  specie  d' ipotesi , 
e  non  la  considera.  Perocché  veramente  altro  è  ciò  che  l'uomo 
concepisce,  altro  ciò  che  considera  in  ciò  che  concepisce. 

171.  E  qui  ben  si  dislingua  ciò  che  s'intende  per  essere  oggetto 
dcU'inluizione  naturale  dell'uomo.  Quest'essere  è  l'essere  ideale  in- 
determinalo,  ma  l'umano  subielto  col  primo  intuito  non  considera 
punto  in  esso  né  Videalità,  né  Y indeterminatezza  ;  laonde  queste 
sono  denominazioni  posteriori  dell'oggetto  dell'intuito,  le  quali  in 
lui  si  trovano  per  analisi  che  ne  fa  il  filosofo ,  e  non  già  l'anima 
in  quant'é  per  natura  intuente.  Ma  una  qualità  posteriore  ancor 
più  è  quella  che  si  esprime,  quando  si  dice:  essere  iniziale.  L'ini- 


136 

zialilà  dell'  essere  può  prendersi  in  due  modi  ;  o  considerando 
Tessere  come  inizio  delle  realità  fiiiilc,  e  questa  inizialità  è  pro- 
pria dell'essere  ideale,  e  però  si  trova  nell'oggetto  della  prima 
intuizione  coll'analisi,  come  l'altre  due  d'ideale  e  d'indeterminato; 
ovvero  considerando  l'essere  come  inizio  delle  forme,  spoglio  di 
questi  suoi  termini  essenziali  ;  e  Vesserò  iniziale  in  questo  senso 
non  è  un  concetto  compiuto,  ma  una  parte  di  concetto,  che  si 
considera  ne' concetti  compiuti  ,  quali  sono  le  forme,  mediante 
quella  maniera  di  pensare  parziale,  di  cui  abbiamo  descritto  l'ufficio 
nella  Psicologia  (1319-13~21). 

172.  Essendo  dunque  tale  la  condizione  dell'essere,  eh'  egli 
non  si  possa  pensare,  e  però  non  sia  essere ,  se  non  nelle  tre 
forme  o  in  alcuna  di  esse;  egli  è  chiaro  che  questa  trinità  delle 
forme  devesi  considerare  come  un  fatto  primitivo  coesistente  al- 
l'essere stesso  ;  e  che  non  si  può  dare  altra  ragione  sufficiente 
se  non  questa, che  «l'essere  è  così  fallo,  così  appunto  ordinato»; 
più  là  dell'essere  non  si  può  andare.  Perocché  niente  può  essere 
in  modo  contrario  alle  leggi  o  alla  natura  dell'essere  stesso: 
ora  la  natura  dell'essere  è  questa  d'esser  trino:  egli  è  dunque 
trino. 

173.  Ma  se  di  questo  fatto  non  si  dà  ragione  anteriore  ,  perchè 
il  fatto  stesso  è  la  prima  necessità  di  tutte  le  cose;  e  non  si 
può  dimandare,  perchè  ciò  che  e  necessario  sia  ncessario; 
quand'anzi  il  necessario  è  sempre  la  ragione  del  contingente,  di 
cui  solo  si  domanda  una  ragione;  tuttavia  non  è  assurdo  il  pro- 
porre questa  questione:  «  se  tutto  questo  fatto  sia  la  ragione  di 
sé,  0  se  la  ragione  di  quel  fallo,  che  in  esso,  e  non  fuori  di 
esso,  si  deve  trovare,  sia  una  sua  parte». 

Alla  quale  questione  noi  rispondiamo,  che  la  ragione  perchè 
l'essere  è  in  tre  forme,  né  più  né  meno,  sta  nell'essenza  del- 
l'essere  conosciuto.  Ma  ressenza  dell'  essere  conosciuto  è  l'es- 
sere ideale.  Laonde  la  forma  ideale  dell'essere  si  può  acconcia- 
mente dire  essere  la  ragione  della  trinità  delle  forme  dell'  essere. 
Il  che,  acciocché  si  veda  meglio,  si  consideri  (juanto  segue. 

L'essere  conosciuto  nell'  idea  è  necessario  {Ideol.  307  n,  380, 
429,  575,  llOG,  H58,  I'jCO):  dunque  quell'essere  essenziale  è. 
Ma  se  quell'essere  essenziale  è,  egli  non  può  esser  solo,  cioè 
nella  pura   idea,  ma  deve  avere  un  altro,  cioè  un  reale.  Dunque 


157 

l'essere  ideale  esige  l'essere  reale.  Abbiamo  dunque  qui  di  ne- 
cessità due  forme  dell'essere,  l'ideale  e  la  reale.  Vediamo  ora 
su  che  s'appoggi  questo  ragionamento. 

Esso  move  dal  princii)io  che  «  l'essere,  se  fosse  soltanto  in- 
telligibile e  nulla  più,  non  sarebbe  essere,  perchè  involgerebbe 
una  contraddizione  ».  Quando  diciamo  «  essere  intelligibile  », 
altro  non  diciamo  che  essere  ideale  ossia  oggettivo.  Proviamo 
l'accennato  principio. 

Un  essere  non  può  dirsi  intelligibile,  se  nulla  ci  fosse  chele 
potesse  intendere.  Perocché  «  intelligibile  »  esprime  appunto  la 
possibilità  d'essere  inteso.  Affermando  dunque  che  l'essere  è 
intelligibile,  affermo  nello  stesso  tempo  che  c'è  qualche  cosa 
alta  ad  intenderlo.  Qualora  dunque  io  dicessi  che  «  c'è  neces- 
sariamente un  essere  intelligibile,  e  non  e' è  nulla  che  sia  capace 
d'intenderlo  »,  io  affermerei  e  negherei  nello  stesso  tempo  la 
slessa  cosa,  cioè  direi  una  proposizione  contraddittoria.  Ma  se 
oltre  l'intelligibile  c'è  chi  lo  può  intendere,  dunque,  oltre  l'essere 
ideale,  c'è  l'essere  reale>  perchè  chi  può  intendere  è  un  subìetlo 
intelligente,  e  1'  essere  subiettivo  è  reale,  per  la  slessa  defini- 
zione. Dunque  la  forma  ideale  dell'  essere  esige  la  forma  reale: 
e  l'ultima  ragione  di  questa  esigenza  è  la  necessità  del  principio 
di  contraddizione.  INIa  il  principio  di  contraddizione  non  è  altro 
che  lo  stesso  essere  ideale  applicato  {Ideol.  559 — 566,  60^,  605, 
1460  n).  Dunque  la  ragione  di  queste  due  forme  è  nella  prima 
di  esse,  ossia  nell'essere  ideale. 

\7k.  Si  può  dimostrare  lo  stesso  anche  partendo  da  un'altra 
proposizione,  cioè  che  l'essere  puramente  ideale  non  può  sussistere 
da  sé  solo,  perchè  ciò  che  si  conosce  suppone  una  realità  an- 
teriore alla  conoscibilità ,  essendo  la  conoscibilità  sempre  di 
qualche  cosa  e  non  di  nulla.  La  quale  argomentazione  abbiamo 
già  usata  nell'Ideologia  (608  — 6H,  i457  — 1460). 

Osserveremo  soltanto,  che  non  si  potrebbe  rilevare,  che  l'es- 
sere ideale  abbia  quest'attitudine  di  servirci  di  principio  a  co- 
noscere la  necessità,  che  l'essere  sia  anche  reale,  se  non  dopo 
che  noi  abbiamo  acquistato  coll'esperienza  il  concetto  di  qualche 
realità,  e  quindi  d'una  realità  in  generale.  Vi  ha  dunque  nel- 
l'essere ideale  la  ragione  della  necessità,  che  l'essere  sia  anco 
reale  ;  benché  questa  ragione  a  noi  non  si  manifesti  nel  prinjo 


i58 

intuito  di  esso,  ma  solamente  dopo  che,  avendo  già  il  concetto  di 
realità  in  genere,  ce  ne  vagliamo  a  interrogare  e  decifrare  ciò 
che  nell'essere  ideale  sta  scritto  quasi  in  iscrittura  abbreviata 
ed  arcana. 

Che  se  poi  noi  abbiamo  di  j)iù  imparato  a  conoscere,  che 
la  realità  importa  sentimento  ed  intelligenza ,  non  potendosi 
fermare  il  pensiero  ad  un'entità  puramente  estrasubietliva;  noi 
veniamo  tosto  a  conoscere,  che  l'ultimo  e  perfettivo  atto  del- 
l'essere è  il  morale.  Ora,  che  il  concetto  della  realità  non  sia 
compiuto  senza  il  sentimento,  scorgesi  da  questo,  che  fuori  del 
sentimento  —  e  l' intendimento  stesso  è  sentimento  —  altro  non  si 
conosce  che  i  termini  del  sentimento  che  da  sé  non  possono 
stare,  e  ne  perisce  il  concetto  se  dal  sentimento  mentalmente 
si  dividano,  poiché  il  concetto  di  cosa  sentita  o  di  termine  al 
sentimento  involge  la  correlazione  col  sentimento  medesimo.  Ma 
né  pure  il  sentimento  da  per  sé  solo,  senza  intelligenza,  é  un 
concetto  completo  e  possibile.  Perocché  niuna  cosa  è  ente,  se 
non  partecipi  dell'essenza  dell'ente.  Ora  l'essenza  dell'ente  è 
primieramente  obiettiva:  e  però  suppone  d'avere  sua  sede  in 
una  intelligenza.  Di  più,  le  cose  che  non  sono  l'essenza  dell'ente, 
ma  ne  partecipano,  non  ne  possono  partecipare  se  non  in  virtù 
di  quella  intelligenza,  nella  quale  abbia  sua  sede  l'essenza  og- 
gettiva dell'ente.  Questa  intelligenza  é  quella  che  unisce  1'  es- 
senza dell'ente  al  sentimento  che  per  sé  non  l'ha.  Questo  dunque 
per  sé  solo  sarebbe  non-ente  ;  il  che  viene  a  dire:  non  sarebbe  se 
non  fosse  qualche  intelligenza  (i).  Ora,  posto  che  l'essenza  del- 
l'essere esiga  che  vi  abbia  anche  un  sentimento,  e  questo  in- 
telligente, s'intende  essere  conseguenza  di  ciò  che  Tessere  sog- 
gettivo, sentimento  (affetto)  ed  intelligenza,  possa  amare  l'essere 
reale  —  sé  stesso  od  altro  —  in  quanl'é  conosciuto,  cioè  percepito 
nell'essere  ideale  od  oggettivo;  e  quesl'é  l'atto  morale:  il  rapporto 
morale  è  dunque  essenziale  all'ente.  L'essenza  dunque  oggettiva 


(1)  Data  r  intelligenza  che  concepisce  il  sentimento  cieco  come  ente,  que- 
sto sentimento  si  considera  coH'astrazione  come  non-ente;  e  in  tal  caso  la 
parola  non-ente  ha  valore  diverso  dal  nulla.  Ma  se  il  sentimento  non  si  di- 
videsse dall'essenza  oggettiva  dell'ente  per  astrazione,  ma  in  sé,  egli  rimar- 
rebbe un  nulla,  un  assurdo. 


439 

dell'ente  imporla  che  l'ente  sia  non  solo  ideale,  ma  reale  ancora, 
e  morale  :  di  modo  che  mancando  l'una  di  queste  Ire  forme 
Tenie  diverrebbe  assurdo. 

ilo.  Ecco  le  tre  tesi,  che  colle  cose  dette  si  possono  rigo- 
rosamente dimostrare: 

Tesi  i.  — Supponendo  ,  che  ci  avesse  Tessere  ideale  ,  ma  che 
non  ci  avesse  nell'università  delle  cose  niente  affatto  di  reale,  si 
farebbe  il  supposto  d'un  assurdo,  cioè  d'un  concetto  contraddittorio. 

Tesili. — Supponendo,  che  ci  avesse  l'ente  reale,  ma  che 
nelTuniversilà  delle  cose  non  si  trovasse  affatto  Tessere  ideale, 
il  supposto  sarebbe  ugualmente  assurdo. 

Tesi  in.  —  Supponendo,  che  ci  avesse  Tenie  ideale  e  reale, 
e  che  non  ci  avesse  quel  rapporto  tra  loro  che  costituisce  la 
forma  morale  ,  ancora  il  supposto  sarebbe  assurdo. 

Dalle  quali  tesi  deriva  una  tesi  più  generale ,  ma  ugualmente 
dimostrabile ,  cioè  che  «  l'essenza  dell'essere  suppone  le  tre  for 
«me  né  più,  né  meno,  e  niuna  di  esse  può  stare  senza  l'altre 
«due,  nò  due  senza  la  terza». 

476.  Ma  come,  per  dirlo  di  novo,  l'essenza  ideale  dell'es- 
sere, che  non  contiene  né  la  forma  reale  né  la  morale,  ci  dà 
un  punto  d'  appoggio  per  argomentare  alla  necessità  di  queste 
altre  due  forme?  Ecco  come  rispondo  in  altre  espressioni:  «nel- 
l'essenza ideale  dell'essere  vi  hanno  anche  le  altre  due  forme , 
non  nel  modo  loro  proprio,  ma  nel  modo  ideale:  perchè  l'es- 
senza ideale  dell'essere  comprende  tutto  Tessere ,  ma  sempre  al 
suo  proprio  modo;  che  consiste  nel  farlo  conoscere  idealmente, 
e  non  nel  comunicarlo  realmente,  o  moralmente',  il  che  meglio 
s'intenderà ,  quando  parleremo  dell'inesistenza  reciproca  dell'una 
forma  nell'altre  due.  Se  dunque  anche  la  forma  reale  e  la  for- 
ma morale  si  contengono  idealmente  nella  forma  ideale ,  niuna 
maraviglia  che  da  questa,  che  rappresenta  la  necessità  delT es- 
sere, si  possa  dedurre  la  necessità  delT altre  due  forme:  e  la 
necessità  loro  è  la  "loro  ragione.  Solamente  è  da  avvertire ,  che 
la  forma  reale  e  la  morale  sono  nelTessere  ideale  indistinte , 
fino  a  tanto  che  ,  come  abbiamo  detto,  comunicandosi  a  noi 
almeno  la  forma  reale,  ce  ne  formiamo  il  concetto;  e  quindi 
paragonandole  alla  forma  ideale,  da  quella  le  distinguiamo.  La 
forma  ideale  dunque  diventa  allora  eloquente  per  noi ,  ci  rivela 


140 

nove  cose.  Ma  il  conoscere  per  via  di  percezione  il  reale  è  con- 
dizione necessaria  alla  nostra  speculazione ,  non  è  già  condizione 
all'esistenza  delle  dette  forme. 

Così  è  dunque ,  che  l'essere  ideale  contiene  la  ragione ,  che 
spiega  le  tre  categorie  e  forme  dell'essere. 

CAPITOLO  XV. 

Obiezioni. 

Articolo  I. 

Obiezione  prima.  —  L'uomo  non  può  trovare  le  distinzioni, 
se  non  ncWessere  ch'egli  conosce. 

477.  Alla  impresa  tolta  da  noi  di  trovare  le  categorie  del- 
l'ente si  possono  fare  più  obiezioni ,  a  tre  delle  quali  stimiamo 
prezzo  dell'opera  il  rispondere. 

La  prima  è  di  quelli ,  che  così  ragionano  :  «  Quando  l'uomo 
si  propone  di  ridurre  l'Essere ,  considerato  in  tutti  i  suoi  modi 
e  passioni,  al  minor  numero  possibile  di  classi  o  distinzioni  su- 
preme,  allora  egli  non  può  intendere  che  di  voler  distinguere 
0  classificare  quell'essere  che  riconosce ,  poiché  di  ciò  che  non 
conosce,  non  può  pensare  nò  favellare  né  trovare  una  classe, 
in  cui  collocarlo.  Ora  conosce  egli  l'uomo  lutto  l'essere?  Lo  co- 
nosce tutto  pienamente?  Acciocché  l' uomo  conoscesse  tutto 
l'Essere ,  e  pienamente ,  dovrebbe  essere  infinito ,  perchè  l'Es- 
sere é  infinito,  non  trovandosi  nella  pura  nozione  di  essere  li- 
mite alcuno;  quand'anzi  ogni  limite  altro  non  é  che  una  dimi- 
nuzione ,  un  mancamento  di  essere  ;  e  però  limitazione  ed  essere 
sono  cose  opposte.  L'umana  intelligenza  è  siccome  piccolissimo 
specchio  :  di  fronte  a  questo  specchio  sta  l'essere,  oggetto  luminoso 
sì,  ma  infinito,  perciò  eccede  infinitamente  la  dimensione  dello 
specchio,  che  lo  deve  riflettere.  La  qual  simihtudine,  benché  oltre 
modo  imperfetta,  dimostra  che,  prima  di  por  mano  a  classifi- 
care l'Essere,  si  deve  cercare,  se  l'uomo  il  possa  fare,  e  come 
il   possa   fare  » . 


A  sì  speciosa  obiezione  rispondiamo:  egli  è  cerio  che  si  pos- 
sono conoscere  le  classi  di  certe  cose  ,  senza  bisogno  di  cono- 
scere tutto  ciò  die  nelle  stesse  classi  si  contiene.  Per  esempio, 
non  è  cosa  assurda  il  pensare  che  l'uomo,  conoscendo  clic  tutta 
la  materia,  di  cui  il  mondo  si  compone,  sia  divisa  in  cento  specie 
d'elementi,  ignorasse  nondimeno  il  numero  degli  atomi  individuali, 
la  forma,  gli  aggregati  infiniti  che  essi  formano  insieme.  Di  più  , 
l'uomo  ha  tanto  meno  bisogno  di  conoscere  ciò  che  sia  nelle 
classi  contenuto,  quanto  le  classi  stesse  sono  più  estese,  di  ma- 
niera che  per  conoscere  a  ragion,  d'esempio  le  classi  specifiche 
delle  cose  mi  è  bisogno  sapere  assai  più  che  per  conoscere  so- 
lamente le  classi  generiche.  K  tra  le  classi  generiche  ,  quelle 
che  sono  più  estese,  cioè  i  generi  più  ampi,  si  conoscono  con 
più  facilità  0  certo  con  bisogno  di  minor  sapere,  che  i  generi 
meno  ampi  e  più  prossimi  alla  specie.  Così  egli  non  è  difficile 
intendere  che  l'universo  si  compone  di  enti  corporei  e  incor- 
porei ;  e  sarebbe  lontano  dal  vero  chi  credesse  non  aversi  no- 
tizia di  questi  due  grandi  generi,  senza  conoscere  lutti  gli  spi- 
rili e  lutti  i  corpi  che  contengono,  o  la  loro  natura  con  tutte 
le  leggi  che  la  governano  Laonde  molto  più  facilmente  di  tulle 
le  altre  classi  e  distinzioni  si  devono  poter  conoscere  le  supreme, 
che  sono  le  categorie,  le  quali  per  la  loro  eslensione  massima 
si  riscontrano  in  tutte  le  cose  conoscibili,  sieno  poche  od  assai. 
Ma  acciocché  si  veda  meglio  la  ragione  ,  onde  accade  ,  che  le 
classi  e  le  distinzioni  degli  es.seri  esigano  meno  notizie  a  cono- 
scersi quanto  sono  più  ampie  .  vuoisi  osservare  la  natura  del- 
l'essere ideale,  dalla  quale  un  lai  fatto  procede. 

Coir  Essere  ideale  .^i  conosce  l'essenza  oggettiva  dell'Essere. 
Ora  egli  è  evidente,  che  l'essenza  oggettiva  dell'Essere  deve  ab- 
bracciare al  suo  modo  lutto  l'essere,  ogni  essere.  Poiché  niun 
essere  sarebbe  ,  se  gli  mancasse  l'essenza  dell'essere.  Onde  la 
natura  dà  già  a  conosct-re  all'uomo  fin  da  principio  lutto  l'es- 
sere, in  quanto  è  oggettivo  e  ideale.  Quindi  mostrammo  altrove, 
che  da  parte  dell'oggetto  che  illumina  la  mente  umana,  l'umano 
conoscere  è  infinito ,  contro  il  supposto  dell'obiezione  { Idcol. 
428,  4106).  Di  che  avviene,  che  vi  si  possa  risponder  cosi: 
«  Voi  dite,  che  1'  Essere  è  infinito  ,  e  per  distinguerlo  o  classi- 
ficarlo convien  conoscerlo  tulio,  e   che  l'uomo   ali" incontro  ha 


U2 

una  cognizione  finila.  Noi  dislinguiaino  nella  cognizione  umana 
l'oggetto  dall'alto  del  soggetto  .  e  vi  neghiamo  che  da  parte 
deiroggello  la  cognizione  umana  sia  finita;  anzi  ella  è  infinita, 
perchè  l'oggetto  è  infinito  ».  La  prima  categoria  dunque,  che  è 
quella  dell'essere  ideale,  ci  è  data  dalla  natura,  e  la  difficoltà 
non  può  cadere  che  sulla  seconda  e  sulla  terza.  Ma  queste  due 
sono  contenute  anch'esse  implicatamente  nell'ideale  (,170-176*); 
ed  altro  non  s'esige  che  la  condizione  delTesperieiiza,  acciocché  si 
manifestino  all'uomo.  È  duncpic  a  tenere  hen  fermo  ciò  che  ab 
biam  detto ,  che  l'essere  ideale,  quando  viene  al  confronto  del 
reale,  mette  fuori  una  sua  nova  altitudine,  che  è  quella  di  far 
conoscere  il  reale;  che  se  a  colui,  che  ha  l'essere  ideale,  non 
fosse  dato  d'aver  alcun  sentimento,  l'essere  ideale  gli  rimarrebbe 
pienamente  vuoto  ed  ozioso.  \a\  cosa  avviene  appunto  come 
d'ogni  idea  astratta  ,  d'ogni  genere.  Chi  ha  l'idea  del  genere, 
ha  bisogno  d'avere  presente  qualche  specie,  acciocché  egli  co- 
nosca la  fecondità  dell'idea  generica;  e  chi  ha  l'idea  della 
specie,  ha  bisogno  della  percezione  di  qualche  individuo,  che  gli 
renda  viva  e  parlante  l'idea  drlla  specie.  Ma  toslochè  un  sog- 
getto, che  ha  l' idea  delia  specie .  percepisce  qualche  individuo 
di  essa  ,  non  gli  bisogna  di  più  a  poter  pensare  altri  individui 
infiniti  contenuti  virtualmente  in  (juelia  specie.  E  così  a  colui 
che  avendo  l'idea  generica  conosce  altresì  qualche  specie  su- 
bordinata ,  non  bisogna  di  più  a  pensare  la  possibilità  d'altre 
specie  :  e  ciò  |)erchè  ogni  idea  generica  comprende  già  in  sé 
virtualmente  tutte  le  specie  ,  si-bhene  indistinte.  Il  che  tutto  è 
dato  dall'osservazione  immediata.  Se  applichiamo  dunque  questo 
fallo,  che  spiega  e  determina  il  valore  dell'idee  universali,  al- 
l'idea universalissima^  che  è  rK.ssere  ideale,  noi  intendiamo  fa- 
cilmente: 1"  Che  ella  abbraccia  in  sé  lutto  l'Essere  nel  modo 
ideale,  e  che  perciò  cosliluisce  una  suprcuìa  categoria;  '2'^  Che 
confrontando  noi  ad  esso  Essere  i-h'ale  qualche  sentimento  tro- 
viamo un  esempio  di  ciò,  che  non  è  meramente  ideale  ,  e  per 
segnarlo  con  una  parola ,  il  ehiamiamo  rmle.  Ma  perciocché 
questo  esempio  ci  basta  a  pensare  lutto  il  reale,  ogni  reale, 
—  benché  indistintamente  —  attesoché  possiamo  universalizzare 
quell'esempio,  la  quale  universalità  ci  vien  data  dallo  stesso  essere 
ideale;  quindi  noi  possiamo  pensare  il  reale  come   categoria   o 


forma  suprema  dell'Essere.  Pensare  il  reale  con  questa  univer- 
salità è  lo  slesso  che  pensare  un  reale,  che  può  adeguare  ed 
esaurire  tutto  l'essere  ideale:  e  però,  come  nell'idea  abhiamo 
tutto  l'essere  in  un  modo  proprio,  cio'è  nel  modo  ideale;  così  in 
questo  r^ale  abbiamo  pure  tutto  l'essere,  ma  in  un  altro  modo, 
cioè  nel  modo  reale,  e  però  abbiamo  pure  una  vera  categoria.  E 
conosciute  così  queste  due  prime  categorie,  scorgesi  manifesta- 
mente la  possibilitù  di  conoscere  la  terza,  che  altro  non  è  che  la 
congiunzione  intima  delle  due  prime,  onde  procede  il  perfeziona- 
mento e  finimento  di  lutto  l'essere.  Poiché  dovendo  l'essere  reale 
avere  intelligenza,  di  modo  che,  abolita  ogni  intelligenza,  l'essere 
reale  rimarrebbe  un  assurdo,  come  abbiam  detto,  egli  può  co- 
noscer sé  stesso  in  virtù  dell'essere  ideale,  che  è  la  forma  dell'in- 
telligenza, e  quindi  amarsi.  E  appunto  in  quest'amore  come  novo 
ed  ultimo  alto  dell'essere,  l'essere  si  nobilita  e  bea,  e  in  una  pa- 
rola si  perfeziona,  il  che  è  appunto  ciò  che  dicesi  essere  morale. 
Il  quale  del  pari  abbraccia  tutto  l'E.-sere,  non  altro  essendo  che 
il  congiungimento  dell'essere  ne' due  primi  modi,  onde  giusta- 
mente gli  si  applica  il  nome  di  categoria,  per  la  ragione  detta  che 
non  si  può  dare  una  forma  più  estesa  di  quella  che  abbraccia  tutto 
l'essere  (1). 

(1)  Non  posso  a  meno  di  notare  come  i  migliori  ingegni,  pei'  l'influenza 
delle  (ìlosotie  sensiste  o  soggettiviste  invalse  fin  qui ,  provano  una  somma 
difficoltà  ad  intendere  la  vera  dottrina  dell'oggetto  e  la  dimostrazione  d'un 
diverso  da  noi.  La  stima  mi  fa  nominare  qui  il  conte  Maniiani ,  il  quale 
scrive  cosi  in  una  sua  dotta  ed  elegante  operetta  :  «  Vero  è  che  in  Italia 
«  l'Ideologia  dell'abate  Rosmini  s'infonde  e  s'incarna,  per  così  dire,  nel- 
4  l'Ontologia  più  di  tutte  le  altre  comparse  fino  a'  di  nostri.  Pure  non  riesce 
if  a  quella  sua  trattazione  lunghissima,  e  tanto  sottile,  d'uscire  dal  cerchio 
«  delle  forme  intellettuali  e  delle  nozioni  ipotetiche  »  {Dell" Ontologia  e  del 
Metodo,  Discorso  di  Terenzio  Mamiani,  seconda  edizione,  ecc.,  Cap.  I).  Ora 
io  ho  dimostrato:  1"  Che  dall'analisi  della  stessa  sensazione  risulla,  che  c'è 
un  diverso  da  noi ,  e  un  corpo  fuori  del  nostro  corpo.  2°  Che  «  l'essere 
ideale  »  non  è  noi  stessi,  ne  alcuna  nostra  modificazione.  Che  se  l'ho  anche 
chiamato  forma  del  nostro  spirito,  ho  spiegato  in  che  senso,  cioè  perchè 
informa  lo  spirito  nostro  senza  confondersi  con  esso ,  anzi  avendo  ad  esso 
un'opposizione  di  natura,  come  quello  che  è  d'una  natura  infinitamente  di- 
versa dal  nostro  spirito,  un  vero  oggetto,  e  tutto  ciò  risulta  ad  evidenza 
dall'analisi  dello  stesso  essere  ideale ,  e  del  nostro  spirito ,  e  della  loro 
unione  {Ideolog.  384,  1010}.  H^Che  l'essere  possibile  non  è  ipotetico  {Psicol. 


44 


Articolo  II. 

Obiezione  seconda.  —  Gli  enti  razioihili  non  sembrano 
compresi  nelle  Categorie  assegnate. 

Ì7S.  A  quest'obiezione  rispondliuiio ,  che  non  formandosi  gli 
enti  di  ragione  se  non  per  mezzo  dell'astrazione  ,  e  questa  eser- 
citandosi sulle  idee,  essi  appartengono  tutti  alla  t'orma  ideale, 
alla  categoria  delle  entità  ideali. 

Che  anzi  una  riprova  delta  verità  e  necessità  delle  nostre  ca- 
tegorie ò  questa  appunto^  che  esse  sono  le  uniche,  nelle  quali 
trovino  il  loro  luogo  tutti  gli  enti  di  ragione ,  i  quali  sono  infi- 
niti, e  per  infiniti  modi  gli  uni  nascono  dagli  altri,  e  si  raddos- 
sano e  intralciano  tra  loro.  Ora  in  quale  altra  classe  si  potrebbe 
mai  raccogliere  tutti  questi  enti  di  ragione ,  se  si  escludesse 
l'idealità  dalle  somme  categorie V 

Ahticolo    in. 

Obiezione  terza.  —  Le  ire  forme  dell'essere 
sembra  che  non  possano  essere  calegorie  dell'essere  slesso. 

Ì79.  Finalmente  altri  ci  moveià  forse  questa  difficoltà:  «  L'es 
sere  ideale,  reale,    e  morale  non  è  più  che   un  essere  solo,  e 
però  quelle  Ire  saranno  bensì  furme  o  modi  (I)  dell'essere,  ma 

11,  n.)y  il  che  verrebbe  a  dire  coudizioniito  ,  siipposilizio,  ecc.,  die  anzi 
(^gli  è  necessario,  incondizionalo,  sempre  uguale,  eterno,  ecc.  Vi  ha  bensì 
anche  per  me  un  possibile  ipotetico,  ma  ipieslo  è  tiitl'altra  cosa  diversa  dal- 
Vessere  ideale.  11  possibile  ipotetico  risponde  ai  pos/(/irt// de' Matematici,  *^ 
all'individuo  vago  degli  Scolastici  {Aristot. . 03-60,  128*).  Per  esempio,  se  un 
filosofo  dicesse  :  «  io  supftongo  che  qui  esista  una  colonna  reale  :  ora  voglio 
vedere  quali  conseguenze  avverrebbero  da  tale  supposizione  »  :  questo  è  un 
possibile  ipotetico;  perchè  non  è  la  mera  idea  della  colonna,  ma  sì  la  sup- 
posizione d'un  reale  che  veramente  non  è. 

(1)  L'essere  ideale  e  l'essere  reale  si  chiamano  anche  da  S.  Tommaso  modi 
di  essere,  come  si  può  vedere  C.  (i.  I,  \\\\i,  dove  il  Santo  dice,  che  la  casa 
nell'arte,  e  la  casa  nella  materia  convengono  nella  specie,  ma  che  «on  seciin- 
diiiii  F.l'MDEM MODUM  K^SENDI  eoniilem upeciem  vpl  formam  svsripiunt. 


Ì4K 

non  categorie  delle  entità.  Voi  stesso,  c'incalzerà,  affermate, 
che  le  tre  forme  sono  legate  insieme  per  un  ammirabile  sinle- 
sismo  sifTaltamente ,  che  nò  una  né  due  possono  stare  da  sé  sole, 
ma  ciascuna  può  stare  quando  non  manchino  l'altre  due  m. 

In  questa  obiezione  c"è  di  vero  questo,  che  l'esser  forme  del- 
l'essere e  l'esser  categorie  sono  concetti  diversi,  E  perciò  noi  ab- 
biamo già  di  sopra  dichiarato ,  che  le  forme  sono  la  base  delle 
categorie,  perchè  somministrano  quelle  qualità  comuni ,  secondo 
le  quali  tutte  le  entità  si  p()ssono  distinguere. 

Ma  quanto  al  dire  che  non  si  danno  entità,  che  non  abbiano 
in  sé  tutte  e  tre  le  forme,  questo  non  procede  dalla  dottrina 
del  sintesismo  delle  forme. 

Dalla  dottrina  del  sintesismo  delle  tre  forme  procedono 
certamente  le  tre  tesi  mentovate  di  sopra  (,175*),  ma  non 
più.  Ella  dice  bensì  che  nella  università  delle  cose  non  po- 
trebbero stare  degli  esseri  ideali ,  se  non  vi  avessero  anche 
degli  esseri  reali,  e  de'  morali;  ma  questo  non  significa  già, 
che  ogni  entità  deva  avere  quelle  tre  forme  ad  un  tempo;  tanto 
più  se  si  considera  che  per  entità  intendiamo  ogni  oggetto  qua- 
lunque pensato  dalla  mente  umana,  tra  le  quali  ci  sono  certa- 
mente delle  entità  puramente  ideali  e  delle  entità  puramente  dia- 
lettiche. 

Che  anzi,  se  si  vuole  applicare  la  dottrina  del  sintesismo  delle 
forme  a  conoscere  qual  sia  la  natura  degli  enti,  si  trova  il  con- 
trario, cioè  si  trova  che  il  solo  Essere  assoluto  è  nelle  tre  forme, 
laddove  gli  enti  finiti  non  sono  che  nella  forma  reale ,  e  del- 
l'ideale e  della  morale  partecipano  in  tutt'altra  guisa.  Infatti  una 
pietra  ovvero  un  bruto  è  un  ente  reale,  ma  in  nessuna  maniera 
può  dirsi  un  ente  morale  o  ideale .  L'uomo  è  un  ente  reale  :  ma 
non  è  già  un  ente  ideale ,  benché  questo  gli  sia  presente  ;  e 
non  é  un  ente  morale  se  non  a  condizione  di  questa  presenza 
dell'idea.  L' uomo  ideale  in  fatti  non  è  alcuno  degli  uomini 
reali  che  compongono  il  genere  umano,  ma  il  suo  subiettc  an- 
tecedente {Logic,  ^hid-f^'ì^'). 


Rosmini.  Teosofìa.  10 


146 

CAPITOLO  XVI. 

Deir  errore  di  quei  filosofi,  che  fanno   entrare  nelle  Categorie 
lo  spazio  e  il  tempo. 

480.  Quasi  tutti  i  filosofi  vedono  a  quando  a  quando  che  l'ente, 
come  tale ,  è  indipendente  dallo  spazio  e  dal  tempo.  Ma  ben 
presto  questo  vero,  che  balenò  alla  loro  mente  per  un  istante 
sfuggevole,  rimane  da  loro  interamente  dimenticato,  e  il  loro 
pensiero  ricade  nella  limitazione  dello  spazio  e  del  tempo  sif- 
fattamente, che  non  hanno  più  coscienza  di  concepir  nulla,  che 
non  soggiaccia  a  tali  modi  e  modificazioni.  Costoro  si  vanno 
facilmente  persuadendo,  che  deva  esserci  uno  spazio  eterno,  e 
che  Iddio  stesso  abbisogni  dello  spazio,  quasi  di  un  sensorio 
costituente  la  sua  immensità  (i).  La  ragione,  onde  questi  filo- 
sofi, benché  forniti  di  forte  intendimento,  non  possono  dispac- 
ciarsi da  cotale  illusione,  si  è  perchè  invece  d'adoperare  il  puro 
pensiero  nelle  speculazioni  filosofiche,  vi  adoperano  l'immagina- 
zione, e  invece  di  contentarsi  di  conoscere  le  cose,  vogliono 
imaginarle  quasi  figurale:  e  ciò  per  la  prevalenza  che  lasciano 
nello  spirito  le  cose  corporee,  tra  le  quali  l'uomo  continuamente 
s'avvolgo,  e  tanto  pena  a  dislaccarne  1'  animo.  Ora  tulli  quelli 
che  non  possono  pervenire  a  contemplare  l'ente  nella  sua  natura, 
scevro  affatto   dalle    condizioni  dello  spazio    e  del  tempo,  sono 

(1)  Nella  questione  disputata  tra  il  Mamiani  e  il  Galuppi  sulla  natura 
dello  spazio  ,  io  sto  col  Mamiani  nel  liconoscere  lo  spazio  come  reale  ed 
infinito.  Noi  chiamo  tuttavia  un  oggettivo  se  non  in  relazione  delia  mente, 
che  lo  contempla;  ma  bensì  un  estrasoggettivo.  Prendo  la  parola  infinito 
nel  vero  suo  significalo,  non  per  indefinito,  come  dichiara  voler  fare  il  Ma- 
miani; né  per  essere  inlìnita  estensione  lo  spazio  s'innalza  già  al  disopra 
della  nobiltà  degli  esseri  intelligenti,  anzi  come  privo  al  tutto  d'intelligenza, 
ha  natura  incompleta  ,  e  di  lunga  mano  inferiore  a  quella  degl'  intelligenti 
lutti ,  e  di  lutti  i  sensitivi.  Molto  mono  è  da  confondersi  l' infinità  d'esten- 
sione coir  infinità  di  Dio,  che  è  infinità  assoluta  di  natura  compiuta  e  per 
sé  sussistente.  Onde  giustamente  S.  Tommaso  insegna  che  nihil  prohibet 
idiquam  creaturam  esse  secundum  quid  infìnitam  (S.  I,  L,  ii,  ad  4.).  Vedi 
Dell" Ontologia  e  del  Metodo  —  Discorso  di  Terenzio  Mamiani.  —  Firenze, 
1843,  pag.  283  e  sgg. 


447 

inetti  allo  studio  dell'Ontologia  ;  ed  ogni  qualvolta  si  danno  alle 
speculazioni  ontologiche  colla  mente  ofTuscata  da  tal  pregiudizio, 
abbiano  ingegno  anche  sommo,  lungi  da  trarne  profitto,  s'  av- 
volgono per  una  via  di  tenebre  e  d'errori. 

Laonde  uno  de'segni,  che  fanno  conoscere  l'imperfetta  divisione 
delle  loro  Categorie^  si  è  il  vedere,  che  vi  fanno  entrare  il  tempo, 
lo  spazio,  il  luogo  ecc.,  come  (a  lo  stesso  Aristotele,  coerente 
almeno  in  questo^  che  pone  il  tempo  e  il  molo  e  la  materia 
eterni.  Egli  è  evidente  per  noi  che  entità  così  speciali,  alcune 
delle  quali,  come  lo  spazio  e  il  luogo,  spettano  solamente  all'uni- 
verso materiale,  non  possono  annoverarsi  tra  le  supreme  di- 
stinzioni dell'essere  stesso. 

Conviene  dunque ,  che  il  filosofo  si  guardi  dal  cadere  in 
un'Ontologia  materiale,  la  quale  invece  di  raccogliere  le  qualità 
e  condizioni  dell'essere,  presa  la  parola  in  tutta  l'estensione  del 
significato,  si  limita  ed  impiccolisce  a  considerare  i  soli  corpi  e 
le  corporee  leggi  e  qualità,  ed  appresso  si  dà  a  credere,  che 
tutti  gli  enti  debbano  esser  fatti  a  lai  foggia,  e  sottostare  a 
tali  condizioni,  e  niente  possa  avvenir  di  novo,  che  non  abbia 
il  suo  esempio  in  ciò  che  avviene  tra'  corpi,  di  maniera  che 
l'essere  e  l'operar  de'  corpi,  universalizzato  ed  astratto,  sia  ap- 
punto l'essere  e  1'  operare  di  ogni  ente. 

Ma  noi  abbiamo  già  dimostrato,  e  ci  verrà  occasione  di  di- 
mostrarlo ancora,  come  lo  spazio  ed  il  tempo,  e  le  nozioni  che 
ne  dipendono,  siano  tutte  particolarissime  e  proprie  della  infe- 
rior  classe  degli  enti,  quali  sono  gli  enti  estesi ,  materiali,  e 
i  contingenti  ;  e  come  però  non  si  possano  annoverare  tra  le 
nozioni  ontologiche,  ma  appartengano  al  mondo  creato,  e  quindi 
sieno  puramente  aozioni  cosmologiche. 


CAPITOLO   XVII. 

Della  maniera  di  disli7iguere  ima  forma   dell'essere  dall' allra, 
e  dell' insessione  reciproca  delle  tre  forme. 

181.  Finalmente  dobbiamo    avvertire,  che  le  tre  forme   del- 
l'essere, insiedendo  reciprocamente  l'una  nell'altra,  si  potrebbero 


1^8 

facilmenle  confondere,  da  chi  non  avesse  una  regola  per 
discernerle.  Ora  la  regola  è  questa,  che  «  la  forma  contenente  è 
quella  che  dà  il  nome  a  ciò  che  contiene,  henchè  ciò  che  con- 
tiene sia  d'un'  altra  forma». 

Per  intendere  questa  regola  conviene,  che  diciamo  qualche 
cosa  deU'insessione  reciproca  delle  tre  forme  e  la  dichiareremo 
prendendo  un  esempio  dall'ente  intelligente  finito,  dal  solo  ente 
intelligente  che  a  noi  sia  noto,  cioè  dall'uomo  stesso,  dal  quale 
dobbiamo  per  via  di  raziocinio  salire  alla  teoria  universale  del- 
l'essere {Psicol.  741  —  744). 

L'uomo  conosce  se  stesso.  In  questo  fatto  l'IO  entra  due  volle  : 
poiché  rio  è  il  conoscente  ,  e  l'IO  è  il  conosciuto.  L'IO  cono- 
scente è  l'ente  IO  nella  forma  subiettiva;  FIO  conosciuto  è  lo 
stesso  ente  10  nella  forma  obiettiva  (1).  Ora  se  si  parla  del- 
l'IO  conoscente  se  stesso,  che  è  l'ente  nella  forma  subiet- 
tiva ,  egli  è  ben  chiaro  che  1'  IO  conosciuto,  che  è  l'ente  nella 
forma  obiettiva  ,  inesiste  nel  primo.  L'  10  conoscente  dunque  , 
quest'ente  nella  forma  subiettiva,  abbraccia  in  sé  l'IO  conosciuto, 
quest'ente  nella  forma  obiettiva  ;  e  tanto  l'abbraccia  che,  se  non 
r  abbracciasse  ,  non  potrebbe  essere  10  conoscente  ,  ente  nella 
forma  subiettiva.  Ci  sono  dunque  le  due  forme  l'una  nell'altra. 
Ma  quando  si  parla  dell'  IO  conoscente  sé  stesso,  in  qual  delle 
due  forme  è  l'ente?  Nella  forma  subiettiva,  perchè  è  la  conte- 
nente. 

Consideriamo  ora  1*10  conosciuto,  non  come  contenuto  nel  co- 
noscente, ma  in  sé  stesso.  Che  cos'è  l'IO  conosciuto?  L'IO  è  un 
subietto  che  opera,  sente,  intende,  vuole.  Pure  questo,  che  per  la 
sua  stessa  natura,  essendo  subiello,  è  ente  nella  forma  subiettiva, 
è  conosciuto;  e  in  quanto  è  conosciuto,  in  tanto  è  obietto  del  co- 
noscere, e  però  è  ente  nella  forma  obiettiva.  Quest'ente  dunque 
nella  forma  obiettiva  contiene  se  slesso  nella  forma  subiettiva. 
Ma  quest'obietto,  che  contiene  il  subietto,  sarà  egli  ente  nella 
forma  obiettiva,  o  nella  forma  subiettiva  ?  È  ente  in  quella  forma 
che  contiene  l'altra:  perciò  è  ente  nella  forma  obiettiva,  benché 
nel  suo  seno  insieda  lo  stesso  ente  subiettivo. 


(1)  Vedremo  a  suo  luogo,  clie  quesl'lO  non  è  propriamente  obietto  ,  ma 
obiettivato;  ma  questo  ci  basta  per  fare  intendere  ciò  clic  qui  vogliamo. 


U9 

II  medesimo  discorso  si  deve  fare  dell'ente  nella  sua  forma 
morale.  E  benché  l'uomo  non  sia  questa  forma  ,  ma  di  questa 
forma  partecipi,  come  partecipa  dell'oggetto;  tuttavia  ciò  che 
diciamo  basterà  a  far  conoscere  l'insessione  reciproca  delle  tre 
forme. 

L'uomo  comincia  ad  essere  attualmente  morale,  quando  ade- 
risce colla  sua  propria  attività  volontaria  all'  essere  in  tutta 
l'estensione  del  suo  ordine.  Da  questa  adesione  nasce  in  lui  un 
atto  novo  eccellentissimo:  quest'atto  deve  tenere  nel  nostro 
discorso  luogo  dell'ente  nella  sua  forma  morale. 

Ora  rio  vede  l'essere  sia  finito  sia  infinito  (iniziale)  :  così 
rio,  ente  nella  forma  subiettiva,  ha  in  sé  stesso  e  gli  altri  enti 
e  l'essere  nella  forma  obiettiva.  Ma  quest'IO  medesimo  aderisce 
colla  sua  volontà  a  quest'oggetto  ,  che  ha  in  se  stesso,  in  tutta 
l'estensione  del  suo  ordine,  e  così  acquista  l'atto  morale.  Quest'alto 
novo  morale  é,  come  dicevamo,  l'ente  —  o  se  si  vuole  un'entità 
—  nella  forma  morale.  L'ente  dunque  nella  forma  morale  è  nel- 
l'ente nella  forma  subiettiva,  dov'è  anco  l'ente  nella  forma  obiet- 
tiva. Ora  quest'ente ,  che  dicesi  IO,  in  quale  delle  tre  forme  si 
trova  ?  Nella  forma  che  contiene  le  altre  in  lui  contenute.  L'IO 
dunque  intelligente  e  volente  ordinatamente  è  un  ente  nella 
subiettiva,  quantunque  contenga  nel  suo  seno  l'ente  nella  forma 
obiettiva,  e  l'ente  nella  forma  morale. 

Ora  questo  subietto  IO  intelligente  e  morale  si  consideri  come 
conosciuto.  Come  tale  è  oggetto  dell'intelligenza.  iMa  in  quest'og- 
getto che  cosa  si  trova  ?  Si  trova  ad  un  tempo  l'IO  intelligente 
e  rio  morale,  cioè  nell'ente  in  forma  oggettiva  si  trova  conte- 
nuto l'ente  nella  sua  forma  subiettiva  e  l'ente  medesimo  nella 
sua  forma  morale. 

Prendiamo  finalmente  a  considerare  l'atto  ,  con  cui  l' IO  su- 
bietto aderisce  volontariamente  a  tutto  il  suo  obietto.  Quest'atto, 
che  è  l'unione  perfetta  dell'ente  nella  forma  subiettiva  coll'ente 
nella  forma  obiettiva,  è  l'ente  —  o  entità  —  nella  forma  morale. 
Ma  nel  combaciamento  dell'ente  nella  forma  subiettiva  e  dell'ente 
nella  forma  obiettiva  ci  sono  necessariamente  queste  due  forme 
che  si  combaciano,  e  ogni  cosa  che  sia  nell'una  aderisce  a  ogni 
cosa  che  sia  nell'altra.  Nell'ente  dunque  nella  forma  morale  sono 
contenute  l'altre  due  forme,  cioè  nell'ente  nella  forma  morale  c'è 


450 

l'cnlc  nella  forma  subietliva  e  l'ente  nella  forma  obiettiva.  E 
però  quest'entità  attuale  d'intima  unione  e  adesione  a  qual  forma 
appartiene?  Ancora  ,  secondo  la  regola  da  noi  data,  appartiene 
alla  forma  contenente  e  non  alle  forme  contenute:  e  così  do- 
vremo conchiudere  che  qui  abbiamo  1'  ente  nella  forma  morale. 
È  dunque  importantissimo  d'  aver  presente  questa  proprietà 
delle  tre  forme  d'insiedere  l'una  nell'altra  per  non  confonderle, 
e  distinguere  con  accuratezza  quale  sia  la  contenente  quali  le  con- 
tenute, perchè  quella  costituisce  l'ente  sotto  la  sua  forma.  Di  che 
si  deduce,  che  le  forme  dell'essere  hanno  tutte  e  tre  questa  qua- 
lità di  essere  conlenenti  massimi  dell'essere  slesso,  e  in  quanto 
non  sono  tali,  non  sono  forme  dell'essere. 


CAPITOLO  XVIII. 

Della  dottrina  del  contenente  e  del  contenuto  in  universale. 

182.  Da  questa  considerazione  si  vede  ,  come  nella  specula- 
zione intorno  all'  essere  si  presenta  sempre  al  pensiero  qualche 
cosa  di  contenente  e  qualche  cosa  di  contenuto. 

Platone  e  tutti  gli  antichi  hanno  parlato  di  queste  due  rela- 
zioni intrinseche  all'essere,  specialmente  all'occasione  di  parlare 
della  materia,  e  della  forma  che  la  contiene;  ma  non  le  hanno 
mai  spiegate.  La  dottrina  delle  tre  forme  le  spiega. 

Oltracciò  l'insidenza  reciproca  delle  tre  forme  è  il  principio  d'o- 
gni contenibilità  e  d'ogni  contenenza,  perchè  ogni  qual  volta  queste 
in  modi  diversi  si  presentano  al  pensiero,  si  riducono  sempre,  in 
fine  del  conto,  alla  natura  delle  tre  forme,  alle  quali  è  essenziale 
di  essere  contenenti  l'essere,  e  contenenti  se  stesse  reciprocamente. 
Faremo  di  questa  dottrina  fecondissima  frequenti  applicazioni  in 
progresso. 

Un  altro  vantaggio  parziale  essa  presta  alla  scienza  ,  ed  è 
quello  di  distruggere  il  pregiudizio  de'sensisti  e  de' materialisti, 
che  un'entità  non  possa  inesistere  nell'altra.  La  confutazione  da 
noi  arrecata  di  questo  volgare  e  pernicioso  pregiudizio  {Rinnov. 
Jll,  XLvii  Dial.  in  fin.')  riceve  colla  dottrina  delle  tre  forme  il 
suo  fondamento  ontologico  e  la  perfezione. 


183.  Dobbiamo  dunque  definire  accuratamente  queste  due  no- 
zioni. Che  cosa  vuol  dire  entità  contenente  ?  Che  cosa  vuol  dire 
entità  contenuta?  prese  queste  nozioni  in  universale. 

Contenente  esprime  un'  abitudine  attiva  ;  contenuto  esprime 
un'abitudine  passiva.  Ora  l'attivo  ha  una  priorità  di  concetto  al 
passivo,  e  però  \à  prima  nota  de' conlenenti  è  quella  di  essere  lo- 
gicamente antecedenti  ai  contenuti. 

Se  dunque  il  concetto  di  contenente  è  anteriore,  consegue  che 
non  si  possa  conoscere  l'entità  contenuta,  come  contenuta,  senza 
aver  prima  conosciuto  1'  entità  contenente.  L'  entità  contenente 
dunque  è  quella  che  fa  conoscere  la  contenuta:  quesl'è  la  se- 
conda nota  delle  entità  contenenti. 

Se  l'entità  contenente  è  tale,  che  logicamente  precede  la  conte- 
nuta, seguita  che  la  contenente  deva  esser  determinata  prima  della 
contenuta.  Infatti  si  può  conoscere  uxCentità,  che  sia  contenente, 
senza  sapere  ancora  determinatamente,  che  cosa  ella  contenga, 
bastando  che  questo  si  sappia  con  certa  indeterminazione.  E 
quesl'è  la  terza  noia,  che  distingue  il  contenente  dal  contenuto. 
Da  questo  poi,  che  l'entità  contenente  può  conoscersi  determinata- 
mente, e  tuttavia  il  contenuto  può  rimanere  indeterminato ,  con- 
segue che  pel  contenente  si  può  conoscere  il  contenuto  virtual- 
mente. All'incontro  l'entità  contenente  non  si  può  conoscere  vir- 
tualmente nella  contenuta  ,  perchè  in  tal  caso  la  contenuta  la 
conterrebbe  ,  e  cosi  sarebbe  contenente  e  cesserebbe  in  questo 
rispetto  d'essere  entità  contenuta. 

Ogniqualvolta  dunque  si  concepiscono  dalla  mente  due  entità 
congiunte  insieme,  delle  quali  l'una  sia  1°  logicamente  precedente 
all'altra,  ^'^  necessaria  al  conoscimento  dell'altra,  e  3°  tale  che 
può  essere  determinata ,  senza  che  sia  determinata  1'  altra  ,  nel 
qual  caso  si  conosce  virtualmente  per  la  cognizione  della  prima, 
la  prima  di  queste  due  entità  dicesi  entità  contenente,  e  la  seconda 
entità  contenuta.  Quindi  : 

184.  1."  Ciò  che  in  un  ente  reale  costituisce  il  subietto  è  con- 
tenente di  tutto  il  resto,  che  si  concepisce  nell'ente,  perchè  la 
prima  cosa,  che  si  conosce  in  un  ente  reale,  è  il  subietto  o  ciò 
che  si  considera  come  subietto,  e  per  la  cognizione  di  questo  si 
passa  poi  a  conoscere  virtualmente  od  attualmente  tutto  il  resto, 
che  si  possa  pensare  in  quel  dato  ente. 


152 

A  questa  contenenza  subiettiva  si  riduce,  come  vedremo  nei 
libri  seguenti,  la  contenenza  della  base  dell'ente,  cbe  contiene 
le  appendici  ;  la  contenenza  della  potenza ,  che  contiene  gli 
atti  ;  la  contenenza  dell'alto  primo  ,  che  contiene  gli  atti  ul- 
teriori ;  la  contenenza  dell'ente  principio,  che  contiene  gli  enti 
termini,  ecc. 

185.  2°  Tutto  ciò  che  si  conosce  in  un  oggetto  della  mente, 
l'essere  in  sé,  con  tutte  le  sue  determinazioni,  è  contenuto  nel- 
l'oggetto, e  perù  Voggetto  è  contenente,  perchè  l'oggetto  essendo 
il  mezzo  del  conoscere  tutte  quelle  entità,  egli  è  logicamente  an- 
teriore a  queste  in  quanto  son  conosciute,  e  |)er  lui  si  conoscono 
0  attualmente  o  anche  solo  virtualmente.  —  Si  opporrà  a  questo, 
che  nell'intuito  si  vede  l'essere  in  sé,  ma  non  l'oggeilo,  e  che 
solo  mediante  la  riflessione  si  rileva,  che  l'essere  in  sé  è  cono- 
sciuto come  oggetto  della  mente,  onde  pare  che  V  essere  in  se, 
che  è  il  contenuto,  sia  anteriore  di  concetto  ììW  oggetto.  Ma  si 
risponde,  che  nell'intuito  l'essere  in  sé  non  si  conosce  come  con- 
tenuto ,  ma  puramente  in  sé.  Quando  poi  sopravviene  la  rifles- 
sione, allora  si  conosce  come  contenuto,  perchè  si  avverte  che 
è  conosciuto,  e  però  che  è  necessariamente  oggetto. 

E  però  noi  dicevamo,  che  le  entità  si  dicono  contenenti  e  con- 
tenute ,  quando  si  presentano  alla  mente  insieme  congiunte  ,  e 
non  quando  si  considerano  singolarmente  ,  1'  una  separata  dal- 
l'altra. Si  può  anche  rispondere,  che  l'essere  in  sé  nell'intuito 
si  conosce  indiviso  coli' oggetto  slesso,  ma  che  l'oggetto  ossia 
l'oggettività  non  è  ancora  astratta,  il  che  fa  la  riflessione.  In  altre 
parole,  nell'intuito  l'essere  è  in  sé,  ma  assolutamente  oggetto: 
ma,  poiché  la  condizione  d'oggetto  è  doppia,  l'una  assoluta,  e 
come  tale  è  condizione  dell' essere ,  l'altra  relativa  alla  mente 
umana;  questa  seconda  è  quella  che  discopre  la  riflessione,  la 
prima  essendo  costitutiva  di  quell'essere  slesso  in  sé  che  appare 
all'intuito  umano. 

A  questa  contenenza  deWoggetlo  appartiene  la  contenenza  as- 
soluta dell'  essere,  o  attuale  o  virtuale  ;  quella  delle  idee  più 
estese,  di  cui  le  meno  estese  sono  un  contenuto  attuale  o  virtuale; 
la  contenenza  de'  principi,  che  contengono  o  attualmente  o  vir- 
tualmente le  conseguenze,  ecc. 

186.  5°  Il  nesso  morale  tra  il  subielto  compilo   e  l'oggetto  è 


conlenenle,  perchè  è  di  essenza  di  questo  nesso  di  rendere  con- 
corde tatto  il  subietto  con  tutto  V  obietto  e  non  una  sola  parie 
con  una  parie.  Ora  il  nesso  tra  più  cose  è  un  concetto  ante- 
riore alle  cose  connesse,  in  quanto  sono  connesse,  come  causa 
della  loro  connessione  ,  ed  è  pel  nesso  che  esse  s'intendono  o 
attualmente  o  virtualmente  connesse.  Onde  il  nesso  ha  natura  di 
contenente,  e  le  cose  connesse,  in  quanto  connesse,  hanno  condi- 
zione di  contenute. 

A  questa  terza  calegoria  di  contenenza  si  riducono  tutte  le 
contenenze  che  si  ravvisano  in  un  nesso  qualunque,  che  tiene 
unite  più  cose  ;  e  qui  chiaramente  s'avvera  la  forza  etimologica 
della  parola  contenere,  che  è  quella  di  tenere  insieme. 

Laonde  a  questa  contenenza  spetta  pure  la  contenenza  ma- 
teriale d'un  vaso  qualunque  che  tiene  insieme  le  cose  o  liquide 
0  solide,  che  sono  poste  dentro  di  lui. 

187.  Ora  se  si  considerano  queste  tre  maniere  di  contenenza 
si  vedrà  facilmente ,  che  sono  reciproche  ;  poiché  si  concepisce 
che  il  subietlo  compiuto  contenga  anche  l'oggetto  con  tutto  il 
suo  contenuto,  e  il  nesso  morale  col  suo  contenuto  ;  e  del  pari 
si  concepisce  ,  che  l'oggetto  compiuto  può  contenere  il  subietlo 
con  tutto  il  suo  contenuto,  e  il  nesso  morale  col  suo  contenuto  ; 
e  si  concepisce  ancora,  che  il  nesso  morale  tenga  ins'euie  e  così 
contenga  tutto  il  subielto  e  tutto  robiello  co' loro  contenuti.  E 
questa  è  appunto  la  reciproca  contenenza  delle  tre  forme  del- 
l'essere, onde  dicevamo,  che  l'Essere  in  ciascuna  delle  sue  tre 
forme   è  un   contenente  massimo,  che  ogni  cosa  contiene. 


CAPITOLO  XIX. 

Della  ragione  per  la  quale  la  trinità  delle  forme  supreme 
non  toglie  l'unità  dell'essere. 

188.  Il  più  importante  corollario  che  deriva  da  quest'  insi- 
denza  reciproca  delle  tre  forme,  si  è  la  conciliazione  dell'  an- 
tinomìa fra  il  tre  e  l'uno  che  si  trova   neh'  essere. 

Perocché  se  ciascuna  delle  Ire  forme  non  contenesse  recipro- 
camente le  altre  due,  esse  non  si  potrebbero  concepire  se   non 


come  tre  enti.  Ma  essendo  l'une  nell'altra  recìprocamente  ine- 
sistenti, si  vedono  inseparabili,  e  tutte  e  tre  sempre  costituenti 
il  medesimo  essere  e  il  medesimo  ente. 

L'insidenza  dunque  reciproca  delle  tre  forme  è  la  ragione, 
per  la  quale  la  trinità  delle  forme  non  pregiudica  punto  alla 
perfetta  unità  dell'essere,  il  quale  nella  sua  assoluta  perfezione 
è  sempre,  né  più  né  meno,  le  tre  forme  quasi  direi  organate  in 
un  trino  ordine. 

489.  Innumerevoli  altri  e  importantissimi  corollari  derivano 
dalla  slessa  dottrina,  come,  a  ragion  d'esempio,  quello  dell'ugual 
dignità  e  pienezza  delle  tre  forme,  i  quali  saranno  da  noi  de- 
dotti, quando  1'  esigerà  la  connessione  del  nostro  ragionamento. 


CAPITOLO  XX. 

Rannodamento  del  libro   presente  co'  susseguenti:    la  Trinità 
sta  nel  fondo  della   Teosofìa,  come   misterioso  fondamento. 


Articolo  I. 
Nesso  co'  libri  che  seguono. 

\00.  Abbiamo  dunque  trovalo  le  supreme  varietà  dell'essere, 
le  Categorie;  abbiamo  dimostrato,  che  non  si  possono  ridurre 
a  minor  numero  di  queste  tre:  subiellività,  obiettività,  santità: 
0  per  dirlo  altramente:  realità,  idealità  e  moralità. 

Abbiamo  dimostralo  che  queste  sono  le  tre  supreme  forme 
dell'essere  e  che  non  si  possono  ridurre  ad  un  numero  minore. 

Abbiamo  del  pari  dimostralo,  che  sarebbe  assurdo  il  concepire 
un'  entità  che  non  trovasse  il  suo  luogo  in  una  di  quelle  tre 
varietà  universalissime  come  nella  propria  classe,  e  che  fuori 
di  quelle  altro  non  si  può  pensare  che  l'essere  astratto  come 
loro  iniziamento;  e  nulla  fuori  di  questo.  E  così  crediamo  d'aver 
sodisfatto  al  problema  delle  Categorie;  e  d'aver  trovato  il  prm- 
cipio  ordinatore  dell'essere  in  tutta  la  sua  estensione.  Così  la 
moltiplicilà  delle  entità,  che  come  un  caos  indistinto  s'affaccia 


155 

alla  mente  dell'uomo  che  comincia  a  speculare  sulla  natura  del- 
l'essere, già  comincia  a  ricevere  distinzione  e  luce.  Ma  noi 
dobbiamo  continuare  questo  lavoro  ordinativo  nel  libro  seguente, 
nel  quale  tratteremo  dell'  essere  uno  in  relazione  alle  Categorie, 
e  incominceremo  ad  illustrare  la  relazione  e  la  concordia,  che 
tiene  la  moltiplicità  coli' unità  deiresscre:  lavoro  che  continue- 
remo ne' susseguenti. 


Articolo  II. 

Le  tre  forme  deWessere  non  sono   la   divina    Trinità,  ma   qualche 
cosa  che  ad  essa  analogicamente  si  riferisce. 

191.  Prima  però  d'entrare  in  questo  gran  campo,  di  due  cose 
dobbiamo  avvertire  i  lettori. 

La  prima  si  è,  che  il  mistero  dell'augustissima  Trinità,  che 
rivelalo  da  Dio  agli  uomini  noi  cristiani  professiamo  di  credere 
sulla  parola  di  Dio  rivelante,  è  cosa  infinitamente  diversa  dalle 
nostre  tre  forme  dell'essere,  benché  in  queste  risplenda  una 
certa  analogia  con  quell'altissimo   dogma. 

La  seconda,  che  quantunque  il  mistero  della  Triade  non  si 
sarebbe  giammai  rinvenuto  dall'umana  intelligenza,  se  lo  stesso 
Dio  non  l'avesse  rivelato  agli  uomini  positivamente,  tuttavia, 
dopo  che  fu  rivelalo,  esso  rimane  bensì  incomprensibile  nella 
sua  propria  natura  (  e  Dìo  stesso  è.  incomprensibile  e,  come 
meglio  dimostreremo  nella  Teologia,  tale^  di  cui  non  si  può  avere 
da  noi  per  natura  che  una  cognizione  iniziale  e  negativa),  ma 
nondimeno  non  solo  si  può  dimostrare  col  raziocinio  l'esistenza 
di  Dio,  ma  ben  anche  si  può  conoscere  quella  d'una  Trinità  in 
Dio  in  un  modo  almeno  congetturale  con  ragioni  positive  e 
dirette,  e  dimostrativamente  con  ragioni  negative  e  indirette  ; 
e  che,  mediante  queste  prove  puramente  speculative  della  esi- 
stenza d'un'  augustissima  Triade,  questa  misteriosa  dottrina  ri- 
entra nel  campo  della  Filcsolìa,  intendendo  nui  sotto  questa  voce 
lutto  ciò  che  per  filo  di  raziocinio  ci  conduce  all'  invenzione  e 
al  conoscimento  delle  ultime  ragioni  delle  cose. 

192.  Ora,  che  la  dottrina  delle  tre  forme   dell'essere  sia  cosa 


infinilamente  diversa  da  quella  divina  Trinità,  assai  facilmente 
si  può  conoscere,  quando  si  considera,  che  in  questa  si  professa 
l'esistenza  in  Dio  di  tre  \)ersorìe  perfette  ,  assolute,  intere  (1). 
Ma  le  nostre  tre  forme  non  sono  tali.  E  per  convincersene 
basta  considerare  la  forma  oggettiva,  la  quale  non  presentando 
nessuna  subiettività  in  se  vivente,  non  può  essere  ancora  una 
persona  ,  ma  è  unicamente  l'essere  impersonale  in  quanto  di- 
mora semplicemente  come  oggetto  davanti  alla  nostra  mente. 

In  secondo  luogo.  Vesserò  privo  delle  forme  si  distingue  da 
noi  dalle  forme  stesse.  Ora  questo  non  avviene  nella  divina 
Trinità,  nella  quale  l'essere  divino  sussiste  in  ciascuna  delle 
divine  persone  indistinto  dal  suo  termine  personale.  Vero  è  che 
per  astrazione  noi  dividiamo  col  pensiero  la  natura  divina  dalle 
l)crsone;  ma  se  questa  astrazione  rimanesse  in  noi,  senza  che 
fosse  emendata  con  un  altro  pensiero  sopravvegnenle ,  non  si 
potrebbe  dire  che  conosceremmo  in  tal  caso  quel  gran  dogma, 
esigendosi  alla  retta  cognizione  di  esso,  che  noi  sappiamo  altresì, 
non  trovarsi  alcuna  dilTerenza  reale  tra  la  natura  divina  e  le 
persone. 

In  terzo  luogo,  la  prima  forma  è  bensì  subiettiva,  anzi  èia 
forma  della  subieltività  stessa,  ma  perciò  appunto  non  è  un 
subietto  per  sé  determinato,  ma  è  una  forma  universale,  sotto 
alla  quale  si  classificano  tutti  i  subielti  determinati,  increati  o 
creati,  E  lo  stesso  si  può  dire  delle  altre  due.  Le  tre  forme 
dunque  non  costituiscono  le  tre  persone  divine,  ma  tre  concetti 
appartenenti  alla  dottrina  universale  dell'essere,  che  è  TOnto- 
ogia,  tre  forme  universali,  e  come  dice  S.  Tommaso,  universalia 
non  subsistimt  per  se,  sed  solam  in  singiilaribus  (2).  Le  dette 
tre  forme  dunque  non  possono  essere  le   tre   divine  persone. 

(1)  S.  Athanas.  Jn  hoc  dictum  :  Omnia  mihi  tradita  sunt  a  Patre'  etc. 

(2)  C.  G.  Ili,  75,  9. 


157 

Articolo  III. 

La  dottrina  della  divina  Trinità  può  e  deve  essere 
ricevuta  nella    Filosofìa. 

i93.  Potrei  dimoslrare  molto  più  ampiamente  lo  stesso  vero: 
ma  le  differenze  indicale  sono  suftlcienli  ad  intendere,  che  la 
dottrina  ontologica  delle  tre  forme  dell'essere  non  si  può  con- 
fondere con  quella  infinitamente  più  augusta  e  sublime  di  Dio 
uno  e  trino. 

Ma,  come  dicevo,  ora  che  ci  è  stato  annuncialo  da  Dio  slesso 
questo  gran  vero  dell'unità  della  natura  divina  sussistente  in  tre 
persone,  non  è  impossibile  rinvenirne  una  prova  di  raziocinio. 
Questo  è  quello  che  dovremo  discutere  nella  Teologia.  Ma  per 
queir  incatenamenlo  e  sinlesismo ,  che  hanno  tra  sé  tutte  le  ri- 
cerche teosofiche,  onde  si  volgono  in  circolo,  non  punto  vizioso, 
tua  perfettissimo  ,  noi  non  potremmo  inoltrarci  in  queste  con  passo 
libero,  e  pervenire  a  una  scienza,  quant'  è  dato  all'  uomo, 
compiuta,  se  non  ricorressimo  sovente  all'essere  assoluto  sussi- 
slente  in  Ire  persone ,  come  già  si  vedrà  nel  libro  seguente , 
che  tratta  dell'essere  uno.  È  dunque  indispensabile,  che  fin  d'a- 
desso giustifichiamo  questo  nostro  sdruscire ,  colle  nostre  ricer- 
che intorno  all'essere,  nella  sfera  teologica,  ed  anzi  toccarne 
le  cime.  Il  che  ad  alcuni  potrebbe  parere  contrario  al  metodo 
filosofico,  al  quale  è  prescritto  camminar  sempre  per  una  via 
di  raziocinio,  senza  che  nulla  possa  in  questa  sfera  l'autorità, 
se  non  fosse  per  accidente ,  cioè  per  confermare  con  essa  e  ren- 
dere più  persuasiva  la  rettitudine  dello  stesso  raziocinio,  veden-, 
dolo  formato  egualmente  da  più  menti ,  o  da  più  menti  confer- 
matone il  risultato. 

Ora  non  è  punto  introdurre  nella  scienza  filosofica  l'autorità 
della  rivelazione,  quando  non  ci  serviamo  del  peso  di  questa  per 
dimoslrare  le  proposizioni  che  dimostriamo.  Dondechesia  noi  pren- 
diamo queste  proposizioni ,  la  scienza  non  risale  alla  storia  della 
loro  origine,  cioè  del  modo  come  ci  sono  apparite  alla  mente, 
che  s'ella  entrasse  in  questa  investigazione  non  sarebbe  più  scien- 
za ma  storia.  La  scienza  razionale  d'altro  non  si  cura,  se  non 


d58 

di  comporsi  e  tessersi  lulta  di  proposizioni  dimostrate  col  razio- 
cinio. Qualora  dunque  arrecar  si  possano  dell'esistenza  d'una  tri- 
nila in  Dio  prove  razionali,  quesl'  esistenza  diventa  una  propo- 
sizione scienlifica  come  le  altre,  quantunque  la  scienza  deva  sto- 
ricamente questo  suo  aumento  e  questa  sua  perfezione  a  un  fonte 
da  sé  diverso ,  come  nel  nostro  caso  a  Dio  rivelante  sé  stesso 
agli  uomini  come  autorevol  maestro. 

d94  Óra  la  dimostrazione  che  noi  daremo  della  proposizione 
che,  «  Dio  sussiste  in  una  Trinità  di  persone  »  sarà  questa  —  e 
qui  non  possiamo  che  accennarla  :  —  «  qualora  si  negasse  quella 
trinità,  ne  verrebbero  da  tutte  le  parli  conseguenze  assurde 
apertamente,  e  la  dottrina  dell'essere  portata  a'  suoi  ulti- 
mi risultati  diverrebbe  un  caos  di  contraddizioni  manifestis- 
sime». Questa  prova  verrà  illuminata  gradatamente  da  tuttala 
teoria  dell'essere,  che  andremo  svolgendo,  e  nella  Teologia  ri- 
ceverà la  sua  compiuta  forma.  Ivi  non  avremo  che  a  ricapito- 
lare quello  che  sarà  stato  detto  avanti,  e  dimostrare  che  non 
rimane  uscita  alcuna:  o  conviene  ammettere  la  divina  Triade,  o 
lasciare  la  dottrina  teosofica  di  pura  ragione  incompleta  non  solo 
ma  pugnante  d'ogni  parte  seco  medesima,  e  dagli  assurdi  ine- 
vitabili straziata  e  del  tutto  annullala. 

Questa  é  certamente  una  dimostrazione  indiretta,  come  indi- 
rette sono  le  dimostrazioni  che  i  matematici  conducono  dall'as- 
surdo ,  e  non  sono  meno  efficaci  per  questo  {Logic.  ,b26'):  è 
una  dimostrazione  deontologica  ,  perchè  dimostra  ,  non  che  la 
cosa  sia  così,  ma  che  deva  esser  così;  e  questo  modo  pure,  se 
è  in  regola,  dà  una  certezza  irrefragabile. 


'  Articolo  IV. 

Postulati  necessari  alle  ricerche  filosofiche 
de'  libri  seguenti. 

i95.  Sarebbe  dunque  impossibile  inoltrarci  nelle  ricerche  , 
che  ci  restano  a  fare  intorno  alla  natura  dell'essere,  e  molto 
più  condurre  la  della  dottrina  a  quella  perfezione  di  cui  ella  é 
suscettiva   (limitata  solo   dal   limite  delle  nostre  facoltà  indivi- 


459 

duali),  se  non  assumessimo  per  conceduti  due  postulati,  che 
dalle  stesse  dottrine  ,  che  con  essi  si  rinvengono ,  ricevono  poi 
compiuta  dimostrazione  ;  e  questi  due  postulati  sono  : 

V  Che  l'Essere  assoluto,  il  quale  dicesi  Dio,  sussista; 
2°  Che  l'Essere  assoluto  sussista  identico  in  tre  persone  di- 
stinte, ciascuna  assoluta  ed  infinita, 

196.  I  quali  postulati,  dicevamo  ,  riceveranno  dimostrazione 
dall'evidenza  delle  slesse  dottrine  che,  dati  quelli,  si  deducono: 
stantechè  apparirà ,  che  altre  non  ce  ne  potrebbero  essere,  a 
quelle  contrarie,  immuni  da  intrinseca  lotta  e  contraddizione. 

E  per  verità  le  stesse  forme  dell'essere  per  un  raziocinio  ana 
logico  conducono  il  pensiero  a  quelle  stesse  proposizioni  che  noi 
a  principio  ci  contentiamo  di  chiamare  «  postulati  »  necessari 
alla  scienza  ,  che  vogliam  trattare.  Perocché  l'essere  nelle  tre 
forme  è  identico.  Se  dunque  quest'essere  si  concepisca  infinito 
e  assoluto ,  ci  dà  il  concetto  di  Dio  uno  :  e  ben  si  può  dimo- 
strare, che  ove  non  ci  fosse  quest'essere  assoluto  e  infinito  sus- 
sistente e  intelligente ,  né  pure  ci  potrebbe  avere  Tessere  uni- 
versale, che  é  la  verità  che  collustra  le  umane  menti  :  la  quale 
è  quella  dimostrazione  della  divina  esistenza  che  noi  già  espo- 
nemmo nell'Ideologia  (1^57- Fj60,  1055  n.)  Onde  questa  prima 
proposizione,  che  noi  chiamiamo  «  postulato  »  ,  rispetto  all'Ontolo- 
gia, é  ad  un  tempo  così  dimostrata  che  non  ci  può  essere  punto 
negata ,  specialmente  se  si  avverte  che  1'  Ideologia  nostra  non 
si  deve  dividere  dall'Ontologia ,  e  la  si  considera  come  una  parte 
della  medesima  scienza,  la  Filosofia. 

Le  tre  forme  poi  dell'essere  ,  ove  si  trasportino  nell'Essere  as- 
soluto,  non  si  possono  più  concepire  in  altro  modo,  che  come 
persone  sussistenti  e  viventi.  Essendo  dunque  quelle  tre  forme 
inconfusibili,  perchè  hanno  una  cotal  relazione  d'opposizione  tra 
loro ,  e  non  potendo  cadere  nell'  essere  assoluto  nessuna  divi- 
sione reale,  non  c"è  altra  via  d'  intendere ,  come  l'essere  sus- 
sista in  quelle  tre  forme,  se  non  supponendo  che  egli  sus- 
sista tutto  intero  in  ciascuna.  Ma  se  sussiste  tutto  intero  in 
ciascuna,  egli  deve  sussistere  in  ciascuna  come  vivente,  come 
intelligente ,  come  alto  primo  e  puro ,  il  che  è  quanto  dire 
con  que'  caratteri  appunto  che  sono  i  distintivi  essenziali  della 
personalità.  Ed  ecco  già  una  forma  della  dimostrazione  deonlo- 


logica,  la  quale  da  sé  stessa  ci  si  manifesta.  Anche  al  Filosofo 
dunque,  se  a  quest'altezza  voglia  elevarsi ,  convengono  quelle  no- 
bilissime e  verissime  parole,  che  diceva  Gregorio  della  Triade 
augustissima  :  «  Mi  sforzo  di  comprendere  l'unità ,  e  già  i  raggi 
«  ternari  risplendono  intorno  a  me  :  tento  di  distinguerli ,  e  già 
«  mi  hanno  ricacciato  nell'unità  »  (1). 

Questo  sublime  mistero  dunque  è  il  profondo  e  immobile  fon- 
damento, su  cui  si  possa  innalzare  l'edificio  non  solo  della  dot- 
trina soprannaturale,  ma  anche  della  Teosofia  razionale,  ond'è 
veramente  rfìs  KpiaTicv&v  eupops  GsosofUg,  come  fu  chiamato  da 
un  padre  della  Chiesa  (2).  Dal  che,  essendo  dimostrato,  se  ne 
avrà  questa  conseguenza  importante,  che  alla  divina  rivelazione 
la  slessa  Filosofia  dovrà  la  sua  perfezione ,  l'inconcussa  sua  base , 
e  il  suo  inarrivabile  fastigio. 

x«i  tii  rò  ìv  à.vc(fipoiJ.a.i.  —  Ap.  Henrlc.  Slt'ph.  in  *9«vw. 
(2)  Dall'autore  dell'Opera  r^ipi  uvcti/.ò^  Gco/o/tas,  e.  I. 


LIBRO  II. 

L'  E  S  S  E  R  E    UNO 


PROEMIO 


■197.  L'essere,  concepito  come  l'atto  dell'esislenza,  è  semplice  ed 
uno.  Laonde,  se  lo  speculatore  si  fermasse  a  questo  concetto,  non 
potrebbe  dare  movimento  al  suo  pensiero,  e  tutta  la  scienza  fini- 
rebbe in  una  parola,  nella  parola  :  essere.  Il  movimento  dunque  del 
pensiero,  e  quella  copia  di  dottrina  che  ne  deriva,  abbisogna  d'una 
moltiplicità.  E  questa  si  trova  nell'essere,  quando  non  lo  si  arresta 
col  pensier  nostro  al  principio  della  sua  attivila,  ma  lo  si  lascia 
andare  fino  al  termine.  L'essere  uno  adunque  non  è  l'oggetto 
d'una  scienza,  se  non  quando  si  considera  in  relazione  alla  molti- 
plicità. L'Ontologia  dunque  non  può  trattare  dell'essere  uno  se 
non  in  questa  relazione. 

198.  Ma  come  colui  che  s'accosta  a  filosolare  trova  la  moltipli- 
cità? —  Questa  è  quella  che  gli  è  data  dallo  sviluppo  naturale 
dell'uomo  ;  una  farraggine  di  variati  senlimenli  e  di  concetti,  di 
cui  ciascun  uomo  adulto  è  provveduto ,  e  che  gli  si  fa  avanti 
dal  primo  momento,  nel  quale  si  dà  allo  speculare,  e  colla  pro- 
pria moltitudine  l'opprime,  e  quasi  l'atterrisce,  o  — per  trasportar 
a  questo  una  frase  adoperata  in  un  senso  molto  più  sublime  da 
Platone  —  lo  rende  stupido,  come  quelli  che  sono  tocchi  dalla  tor- 
pedine. Poiché  r  uomo  ,  che  vuole  intendere  speculativamente, 
vedendosi  d'un  tratto  davanti  tante  differenti  entità,  non  sa  più 
che  si  dire,  e  si  persuade  di  non  intender  nulla.  Alla  mente 
speculativa  non  par  d'intendere,  se  non  intende  la  ragiono  delle 
cose  ,  e  della  moltitudine  delle  cose  individue  non  intende  da 
Rosmini.  Teosofia.  li 


iG2 

principio  rogionc  alcuna  :  questa  dunque  è  per  essa  un  arcano 
e  come  un  tenebroso  caos.  Quando  poi  rinviene  dal  suo  stupore 
e  si  fa  cuore  a  tentare  di  scoprire  quella  ragione,  che  le  serva 
di  luce,  che  cosa  vuole  allora,  che  cosa  si  propone  con  cotesto 
tentativo?  Non  altro  che  di  risalire  dalla  moltitudine  all'unità, 
che  la  contenga  e  le  dia  ordine,  dimostrandolo  consentaneo  alla 
natura  dell'essere,  come  fu  mostrato  nel  libro  del  problema  del- 
l'Ontologia {5(3-52). 

Così  il  bisogno  ed  il  desiderio  della  scienza  non  consente  al- 
l'uomo d'acquetarsi  all'essere  uno,  ma  da  questo  è  spinto  verso 
la  moltiplicità:  e  lo  stesso  bisogno  o  desiderio  è  quello,  che 
dalla  moltiplicità  lo  respinge  e  lo  fa  risalire  all'  essere  uno  , 
nel   quale  vede  già  contenersi  quella  moltiplicità. 

Questo  dimostra,  che  né  l'uno  preso  in  separalo  da' molli, 
nò  i  molti  presi  in  separato  dall'  uno  sono  sufficienti  a  sod- 
disfare a  quel  doppio  bisogno  dell'umana  mente,  od  a  costituire 
qualche  scienza.  All'incontro,  quando  la  mente  speculativa  può 
dall'uno,  senzi  alcup.  salto,  discendere  ai  molti,  trovando  nel- 
l'uno stesso  la  ragione  e  la  causa  di  questo  passaggio;  e  quando 
del  pari  le  è  dato  d'ascendere  dai  molli  fino  all'uno,  che  li  con- 
tiene e  li  spiega  ;  allora  ella  s'ncquieta  soddisfatta,  e  crede  sa- 
pere. In  questo  doppio  movimento  dunque  ,  o  se  così  meglio 
piace  chiamarlo,  in  questa  doppia  azione  del  pensiero,  che  va 
incessantemente  da' molli  all'uno,  e  dall'uno  ai  molti,  senza  ar- 
bitrio, ma  per  una  continua  necessità  di  ragione,  consiste  la  vita 
intellettiva  dello  speculatore  :  la  scienza  poi  consiste  nel  vedere 
i  molli  nell'uno,  e  l'uno  ne'molli  senza  contraddizione  nò  confu- 
sione,  nò  distruzione  de'due  termini. 

499.  In  questo  sta  il  sinlesismo  scientifico  {Psicol.  oU-kh,  1537- 
1559);  al  quale  deve  rispondere  di  necessità  un  sinlesismo  ontologico. 
Poiché,  ammesso  W  principio  di  cognizione,  che  è  il  piìi  evidente 
di  lutti  {Ideol.  ì>59-57^;  Psicol.  1294-1502),  cioè  ammesso,  che 
l'essere  sia  l'oggetto  del  pensiero;  come  e  perché  la  mente  non 
s'acquieta  nell'uno?  Come  e  perché  la  mente  non  s'acquieta  nei 
molli. ^  Ogni  potenza,  quando  é  pervenuta  ad  unirsi  pienamente 
col  suo  oggetto,  trova  la  sua  quiete  e  piena  soddisfazione,  non 
rimanendole  altra  attività  da  spiegare  {Ideol.  515).  Se  dunque  la 
mente,  che  ha  per  suo  oggetto  l'essere,  non  s'acqueta  nell'uno, 


1C3 

convien  dire,  che  l'essere,  in  quant'è  uno,  non  è  a  pieno  l'essere; 
e  se  non  s'aquela  ne' molli  senza  unilà,  convien  dire,  che  i  molli 
senza  nnità  non  sono  a  pieno  l'essere.  Ma  se  s'acqueta  nell'uno  — 
molli,  tostochè  ella  conosca  che  in  quesl'anlimonia  non  giace 
alcuna  contraddizione,  conviene  conchiudere,  che  l'essere  sia  uno 
—  molli;  cioè  che  sia  essenziale  all'essere  tanto  l'unilcà,  quanto  la 
moltiplicilà,  coesistenti  in  esso  senza  discordia.  L'uno  dunque  e 
i  molti  formano  nell'essere  un  sintesismo  ontologico,  sono  entrambi 
condizioni  necessarie  all'essere,  oggetto  d'ogni  intelligenza. 

E  questo  riceve  uirirrecusabile  conferma  dal  libro  precedente 
nel  quale  abbiamo  fatto  ricerca  delle  Categorie.  Poicliè  movendo 
noi  dalla  moltitudine  delle  entità,  che  come  una  nebulosa  s'af- 
faccia al  primo  sguardo  dello  speculalore,  e  alTaticandoci  per  ri- 
durle al  minor  numero  possibile  :  infine  siamo  pervenuti  a  co- 
noscere che  non  si  possono  raccogliere  in  un  numero  di  classi 
più  piccolo  di  quello  di  tre,  aventi  per  loro  fondamento  i  Ire 
concetti  dell' obbiettività  ,  della  subiellivilà ,  e  della  santità.  Ma 
esaminando  poi  i  contenuti  di  questi  tre  concedi  abbiamo  co- 
nosciuto, che  essi  costituiscono  tre  forme  primitive  dell'essere 
e  non  tre  parti  di  essere.  Perocché  in  ciascuna  di  esse  tutto 
l'essere  intero  si  può  contenere,  ma  in  modo  che  Tessere  non 
può  dimorare  intero  in  una  di  quelle  forme,  senza  che  il  pensiero  sia 
obbligato  a  pensare,  ch'egli  dimori  pure  intero  nelle  altre  due. 
E  così  abbiamo  rinvenuto  il  primo  ed  essenziale  sinlesismo  del- 
r essere . 

200.  Mediante  poi  questa  riduzione  della  sterminata  moltiplicilà 
alle  tre  forme,  si  è  scoperto  da  sé  un  primo  principio  di  concilia- 
zione tra  l'unità  e  la  moltiplicilà  dell'essere.  Poiché  qualunque 
altra  divisione  dell'essere,  o  classificazione  de'molti^  avrebbe  di- 
strutta irreparabilmente  l'unità,  scindendo  l'essere  in  più  parli. 
Ma  nelle  tre  forme  l'essere  mantiene  la  sua  unità  ed  integrità, 
poiché  in  ciascuna  di  esse  dimora  tulio:  e  nello  stesso  tempo  è 
moltiplice  nelle  forme.  Una  tale  moltiplicilà  dunque,  che  riguarda 
le  sole  forme,  non  toglie  la  sua  unità  essenziale,  e  l'unità  es- 
senziale dell'essere  non  toglie  la  trinità  delle  sue  forme,  in  cia- 
scuna delle  quali  uno  e  identico  sussiste.  Così  andando  noi  in 
cerca  delle  ultime  classi  delle  entità,  abbiamo  trovato  meglio 
che  delle  semplici  classi ,  essendoci    abbattuti  alle  forme,  i  cui 


concelli  ci  danno  poi  un  fondamento  inconcusso  alle  ullime  classi 
medesime  (I). 

Così  il  problema  dell'Ontologia  ricevette  già  una  sua  prima 
soluzione,  poiché  è  trovata  la  via  di  spiegare  l'antinomìa  del- 
l'uno e  de' molti  ;  mostrando  che  non  involge  contraddizione:  il 
quale  è  uno  degli  aspetti  ,  in  cui  noi  abbiamo  posto  quel  pro- 
blema (,53-06"). 

201.  Ma  questa  soluzione,  come  ancor  troppo  generale,  non  può 
assolvere  tutta  la  Teoria  dell'essere.  Essa  però  ci  dh  il  bandolo 
per  uscire  dal  labirinto.  Sia  a  noi  ora  ad  usarne.  E  per  farne 
l'uso  cbe  ci  bisogna,  dobbiamo  ricercare  tutte  le  altre  moltipli- 
cilà  inferiori  che  nell'essere  si  riscontrano,  e  ricondurlc  tutte  sì 
all'unicilà  dell'essere,  e  sì  alla  trinità  delle  forme:  il  che  è  quanto 
dire  dobbiamo  aprire  il  seno  profondo  dell'essere  e  diligente- 
mente riguardare  tulio  ciò  che  nei  suoi  più  riposti  visceri  si 
nasconde,  per  quaiito  è  dato  all'inferme  nostre  pupille:  questo 
solo  potendoci  dare  quella  notizia  e  teoria  ,  che  noi  cerchiamo, 
dell'intima  costituzione  e   primordiale  ordine  dell'essere  stesso. 

Ora  posciachè  abbiamo  distinto  ['essere  e  le  sue  forme,  dobbiamo 
prima  anatomizzare  l'essere  e  poscia  le  forme.  Poiché  tentando 
e  spiando  l'uno  e  l'altre,  noi  troveremo  una  raoltiplicità,  che  al- 
l'essere si  riduce,  consideralo  in  quell'as'razione  che  il  divide 
per  virtù  del  pensiero  nostro  dalle  forme;  e  un'altra  moltiplicità 
che  dalle  forme  immediatamente  dipende  e  a  ciascuna  di  queste 
é  subordinata.  Ne  qui  rechi  incaglio  al  pensiero  del  lettore,  che 
ci  accompagna  in  queste  speculazioni,  l'obiezione  che,  se  l'essere, 
astrazione  fatta  dalle  forme,  ha  una  sua  propria  moltiplicità, 
questa  moltiplicità  sia  anteriore  alle  forme ,  e  però  queste  non 
siano  le  ullime  varietà  dell'essere,  perocché  svanirà  da  sé  l'obie- 
zione  sulla  slessa  via  che  percorreremo  speculando. 

20^2.  La  moltiplicità  dunque,  che  esce  immediatamente  dalla  na- 
tura dell'essere,  e  la  moltiplicità,  che  esce  dalla  nalura  delle  forme, 
snranno  da  noi  poste  in  esame,  e  ridotte  a  teoria  in  due  libri 
distinti:  il  primo  de'quali  ,  che  è  il  presente,  abbiamo  intito- 
lato :  L'essere   uno  ,  perchè  in  questo  si   considera   e   si   riduce 

(1)  Abbiamo  già  distinte  le  ullime  classi  delle  entilà  e  le  n\i\me  classi  degli 
enti  :  quelle  sono  tre,  queste  due,  Tenie  infinito  e  l'ente  finito. 


iOa 

,a  unità  la  prima  delle*  dette  molliplicità  •  al  seguente  abbiamo 
posto  per  titolo  :  L'essere  trino,  perchè  parla  di  quella  molliplicità 
che  dalle  forme  discende  e  ad  esse  sì  richiama  e  si  unifica  nel- 
Viinico  ordine,  nel  quale  esse  sono  reciprocamente  avvincolate. 

Avvertiremo  soltanto  i  lettori ,  che  proponendoci  di  trattare 
dell'essere  uno,  non  possiamo  già  parlando  prescindere  al  tutto 
dalle  sue  forme  ;  e  parlando  delle  tre  forme  non  potremo  par- 
larlarne  prescindendo  interamente  dall'  essere  uno  ;  il  che  sa- 
rebbe impossibile  per  l'accennato  sintesismo  tra  l'essere  e  le 
forme,  il  quale  fa  che  tutta  l'Ontologia  si  volga  in  quel  circolo 
logico  ,  di  cui  abbiamo  parlato  nella  prefazione.  Considereremo 
dunque  in  questo  librò  1'  essere  uno  non  senza  riferirlo  alle  sue 
forme  ;  nel  seguente  poi  tratteremo  delle  forme  non  senza  ri- 
ferirle e  riscontrarle  coll'essere  uno. 


-^«8«3ft»^- 


SEZIONE  I. 


Bici  E&ugiB»ggèo  outologico 


CAPITOLO  I. 

Della  necessità  di  distinguere  accuratamente  il  significato 
di  alcuni  vocaboli  che  s'adoperano  nell'Ontologia. 

205.  Chi  osserva  attcntamenle  i  ragionamenti  de'più  solenni  On- 
lologi  scorge,  che  sono  impacciati  nel  linguaggio  che  adoperano, 
e  sarebbe  inclinato  a  credere  che  dall'imperfezione  e  dalla  po- 
vertà del  linguaggio  provenisse  l'imperfezione,  la  povertà,  e  spesso 
anche  l'erroneità  della  dottrina.  Ed  è  certo,  che  quando  uscirono 
dal  volgo  i  primi  a  speculare^  essi  non  avevano  altra  lingua 
che  la  volgare  e  la  comune.  E  come  la  lingua  non  è  solo  il 
mezzo  di  comunicare  altrui  i  pensieri ,  ma  anche  lo  strumento 
del  pensare  [hleol.  4o8  n;  Psicol.  y21-o5!7),  s'accostavano  alle 
speculazioni  ontologiche  mal  armati,  cioè  d'una  lingua  che  non 
era  fatta  per  la  speculazione.  Di  che  non  avvedendosi  a  principio 
(poiché  l'uno  crede  naturalmente  di  poter  esprimere  colla  lingua 
nativa  tutto  ciò  che  pensa,  se  l'esperienza  noi  fa  accorto  del 
contrario),  si  sforzarono  invano  di  formolare  delle  chiare  sen- 
tenze, e  il  loro  pensiero  ontologico  rimase  impacciato  nelle  parole. 
Per  liberarsene  era  necessario,  che  il  pensiero,  lasciata  la  solita 
compagnia  della  lingua,  se  n'andasse  avanti  da  sé  quanto  poteva  e 
poi  di  mano  in  mano  si  vestisse  d'una  nova  lingua  proporzionata 
alla  sua  grandezza  ;  non  dico  d'una  lingua  nova  del  tutto,  che 
sarebbe  stato  impossibile  e  disutile  :  ma  dove  gli  mancava  quella, 
che  la  società  gli  porgeva.  Al  che  nondimeno  il  pensiero  non 
potea  risolversi ,  se  non  dopo  molti  tentativi  ed  esperienze  riu- 
scitegli male  colla  lingua  comune;  e  vediamo  nel  fatto,  che  i 
filosofi  più  maturi,  quali  furono  Platone  ed  Aristotele,  comincia- 


167 

rono  a  farlo,  e  gradatamente  si  continuò  a  fare  con  più  o  meno 
di  felicità  fino  a  noi.  Su  questa  via  anche  noi  ci  trovammo  ne- 
cessitali di  camminare  introducendo  qualche  novo  vocabolo 
—  meno  però  che  ci  fosse  possibile  —  obbedendo  alla  sola  ne- 
cessità di  fare  intendere  il  pensar  nostro  e  d'evitare  gli  equivoci 
{Logic.  572). 

A  evitare  i  quali  —  se  alcuna  volta  è  mestieri  chiedere  licenza 
agli  orecchi  del  pubblico  d'introdurre  qualche  nova  ed  insolita 
parola  —  giova  per  lo  piìi  anche  solamente  ricorrere  ad  accura- 
tissime definizioni^  colle  quali  si  stabilisca  e  si  dichiari  il  signi- 
ficato preciso  di  certe  parole  comuni,  senza  bisogno  d'abbando- 
nare la  proprietà  della  favella,  anzi  ad  essa  strettamente  atte- 
nendosi; e  quando  questo  significato  fosse  o  paresse  moltiplice, 
si  faccia  intendere  in  quale  de' diversi  significati  s'adoperi  ogni 
parola  ne' vari  luoghi,  ne' quali  essa  ricorre.  Ciò  non  ostante  non 
ogni  scienza  esige  nella  stessa  misura  questo  sottilissimo  lavoro 
della  distinzione  de' significati,  e  noi  abbiamo  procuralo  di  farlo 
nell'Ideologia  e  nelle  altre  scienze  solo  quanto  ci  bisognava  e 
non  più,  che  avrebbe  gravato  inutilmente  il  lettore.  Ma  l'Onto- 
logia è  tale  scienza,  che  richiede  assolutamente  una  diligenza  e 
una  sottigliezza  mollo  maggiore  nel  distinguere  e  notare  le  dif- 
ferenze de' significali  d'alcune  solenni  parole,  che  contengono  lo 
slesso  oggetto  di  questa  scienza. 

CAPITOLO  II. 

Delle  cause  dialettiche  della  moltiplicità  de'  sìgnifìcali  del  vocabolo 
essere,  e  d'altri  che  all'essere  si  riferiscono. 

204.  La  ragione,  per  la  quale  l'Ontologia  non  può  far  a  meno  di 
così  sottili  distinzioni,  si  è  che,  trattando  essa  dell'essere  in  tutta 
la  sua  possibilità,  comprende  nel  suo  àmbito  anche  tulli  i  diversi 
aspetti^  ne' quali  l'essere  si  presenta  alia  mente  umana.  Quando 
il  discorso  non  cade  sull'essere  sotto  questi  diversi  aspelli  ,  ma 
puramente  sull'essere,  qualunque  sia  l'aspetto  da  cui  si  consi- 
dera, non  c'è  bisogno  di  distinguerli,  ma  questi  non  si  possono 
trascurare  ogni  qual  volta  diventano  l'argomento  slesso  del  ra- 
gionare {Logic.  394). 


168 

Egli  è  chiaro  che  i  vocaboli,  essendo  de' meri  segni,  non 
hanno  per  sé  la  virlù  d'essere  applicati  alle  entità,  che  si  vo- 
gliono per  essi  significare,  in  maniere  diverse  secondo  le  diverse 
nature  delle  entità  stesse,  ma  qualunque  natura  abbiano,  sono 
significale  tutte  allo  stesso  modo,  cioè  coU'imposizione  d'un  suono 
che  dicesi  vocabolo  o  nom(^.  Sieno  dunque  le  entità  reali,  od 
ideali,  0  mentali,  o  di  qualunque  altra  natura,  se  ce  n'ha  delle 
altre,  tutte  egualmente  sono  significate  da  suoni.  Questo  fa  sì 
che  ne'  vocaboli  co'  quali  si  ragiona,  la  moUiplicità  nell'essere  è 
rappresentata,  senza  che  appariscano  le  diverse  origini  della  me- 
desima, dalle  quali  dipendono  le  diverse  nature  delle  entità  stesse. 
Conviene  dunque  che  il  filosofo,  definendo  accuralissimamenle 
il  valore  de' vocaboli,  si  spieghi  in  modo  che  si  conosca  queste 
nature  diverse  delie  entità  che  significano,  per  non  esporsi  al 
pericolo  di  scambiare  le  entità  d'una  natura  colle  entità  d'un'allra 
natura, 

205.  Sino  dal  principio  dunque  avvertiamo,  che,  sebbene  l'essere 
stesso  sia  semplicissimo ,  tuttavia  esso  si  moltiplica  davanti  alla 
mente  non  solo  per  le  diverse  sue  forme  categoriche ,  di  cui 
abbiamo  parlato  nel  libro  precedente,  ma  anche  prescindendo 
da  queste: 

l**  Pei  diversi  modi  del  nostro  concepire  ; 

2"  Pei  diversi  modi,  ne' quali  egli  stesso  si  presenta  nella 
nostra  mente;  e 

3"  Pel  diverso  numero  delle  riflessioni,  che  noi  facciamo 
sopra  di  lui  {Logic.  350,^02). 

20G.  Le  diversità  che  presenta  l'essere  a  cagione  dedkersi  modi 
co' qiiftli  noi  lo  concepiamo  e  lo  riguardiamo,  eleggendo  di  riguar- 
darlo piuttosto  sotto  un  aspetto  che  sotto  un  altro,  si  riducono 
a  tre  classi. 

1°  Quelle  diversità ,  che  procedono  dalla  facoltà  d'astrarre 
(pensiero  parziale),  come  quando  noi  consideriamo  l essere  as- 
tratto preciso  da  ogni  relazione  co'  suoi  termini,  o  quando  ci 
formiamo  il  concetto  d'entità  : 

2°.  Quelle  diversità,  che  nascono  dalla  facoltà  di  conside- 
rar l'essere  in  relazione  co'  suoi  termini,  onde  ci  vengono  i  con- 
cetti, come  si  dirà,  d'essere  virtuale,  d'essere  iniziale  e  diente: 

3°.  Quelle  diversità ,  che  nascono  dalle  due  prime  cause  in- 


169 

sieme  unite,  come  quando  noi  ci  formiamo  il  concello  di  essenza, 
che  suppone  da  una  parie  l'astrazione,  e  dall'altra  la  relazione 
con  un    suhietto  o  Icrmine,  come   vedremo. 

207.  Le  diversità  clie  presenta  l'essere  a  cagione  del  dmrso  modo 
coni'  egli  si  presenta  alla  nostra  mente,  si  riducono  a  due,  cioè 
•à\V  implicito  e  aW  esplicito  [Logic.  3^i8),  Ma  se  si  considera  le 
cause  di  queste  diversità  ,  si  trovano  facilmente  da  notare  le  tre 
seguenti  : 

i.°  0  la  natura  dell'essere  stesso,  a  cui  si  riducono  le  tre 
forme,  in  cui  egli  è,  che  più  o  meno  esplicitamente,  o  impli- 
citamente, si  manifestano  ; 

2."  0  la  niolliplicità  delle  facoltà  nostre  —  che  è  una  prima 
loro  limitazione  —  come  allora  che  concepiamo  1'  essere  come 
atto  visibile,  medìanle  V  intuito  {nome) ,  e  lo  concepiamo  come 
atto   che  si  fa,    mcilìanic  W  giudizio  (verbo); 

5."  0  la  limita zione  di  ciascuna  delle  primitive  facoltà, 
come  intuendo  l'essere  virtuale,  e  Tessere  ideale,  invece  del- 
l'essere oggettivo    assoluto. 

208.  La  diversità  de'concetli,  che  presenta  l'essere  a  cagione 
delle  varie  riflessioni^  parrebbe  ridursi  alla  diversità  proveniente 
dai  modi  di  concepire,  tra' quali  lo  spirito  umano  sceglie  di  riguar- 
darlo; ma  ci  parve  di  distinguere  questa  causa  di  diversità  di 
concetti,  perchè  i  diversi  ordini  di  riflessioni  non  sono  propriamente 
un  diverso  modo  di  concepire ,  e  non  è  intieramente  libera  in  noi 
la  riflessione ,  colla  quale  riguardiamo  un  oggetto,  ma  siamo 
obbligali  a  riguardarlo  colla  riflessione  prossima  alla  precedente, 
e  non  con  alcun'altra.  Vero  è  che  qualche  nova  relazione  s'ag- 
giunge sempre  in  qualunque  nova  riflessione;  ma  se  questo  è 
conseguente  alla  riflessione ,  non  è  ciò  che  costituisce  la  rifles- 
sione medesima  [Logic.  5ii9). 

209.  Tutte  queste  diverse  maniere,  secondo  le  quali  divariano  le 
concezioni  nostre  d'una  entità,  che  ritiene  sempre  lo  stesso  vo- 
cabolo, si  devono  aver  presenti  ne'  discorsi  ontologici,  non 
perchè  ne  ricorra  di  continuo  il  bisogno,  ma  perchè  questo  bi- 
sogno talora  si  manifesta ,  or  dell'una  or  dell'altra  ,  ora  di  più 
di  esse,  secondo  che  la  distinzione  è  involta  nell'argomento 
stesso  di  cui   si  tratta. 

E  in  pari  tempo  conviene  avvertire,  che  tali  differenze  nelle 


170 

concezioni  delle  slesse  entità  si  mescolano  e  s'involgono  per 
modo ,  che  in  due  proposizioni  la  slessa  entità  può  comparire 
diversa  ad  un  tempo  per  tutte  quelle  differenze  o  più  di  esse  , 
e  che  una  produce  o  suppone  l'altra ^  e  l'analisi  deve,  al  biso- 
gno ,  accorrere  a  sceverarle.  Poniamo ,  che  la  mente  consideri 
una  entità  in  relazione  con  un'altra,  dalla  quale  nella  prece- 
dente concezione  era  divisa.  Questa  differenza  appartiene  al 
primo  de"  quattro  fonti  di  differenze  sopra  indicate ,  u  il  diverso 
modo  di  concepire  »  ,  e  alla  seconda  polla  di  questo  fonte  : 
«  concepire  l'entità  stessa  con  diverse  relazioni  «.  Ma  se  l'entità, 
di  cui  si  tratta  ,  era  implìcita  .  e  la  relazione  ,  in  cui  si  considera  , 
fosse  quella  de' termini  che  racchiude  in  sé,  e  che,  se  fossero 
sviluppati ,  si  renderebbe  esplicita  ,  questa  differenza  di  relazione 
apparterrebbe  al  terzo  fonte  delle  differenze,  o  certo  suppor- 
rebbe questo  terzo  fonte  che  abbiam  detto:  «  un  modo  diverso 
dell'essere  rispetto  alla  mente  » .  Converrebbe  dunque  al  bisogno 
sapere  riferire  la  diversità  a  tutt'  e  due  que'  fonti,  e  distinguere 
quanto  e  come   appartenga  all'  uno  ,    e  quanto  e  come  all'  altro. 

Certo  che,  se  si  dovesse  procedere  di  continuo  con  distin- 
zioni così  sottili,  l'Ontologia  diverrebbe  una  scienza  difficilis- 
sima; ma  ella  non  ha  bisogno  di  tanto:  anzi  è  dovere  dell'Onlo- 
logo  farne  uso  colla  maggiore  sobrietà  possibile;  e  questa  è 
determinata  da  quel  tanto  che  si  trova  indispensabilmente  neces- 
sario alla  chiarezza  dei  pensieri  che  si  devono  esprimere,  e  alla 
remozione  di  tutti  gli  equivoci,  i  quali  soli,  dando  appiglio  al 
sofisma ,  rendono  la  scienza  un  prunaio  in  cui  non  si  può  più 
camminare  senza  pungersi,  né  si  può  più  trarne  il  piede. 

210.  E  qui  ben  sentiamo,  che  ci  si  domanderà  ragione  delle 
stesse  distinzioni  dialettiche,  cioè  ci  si  domanderà  l'origine  loro.  Ma 
dobbiamo  rispondere  che  questa  non  può  essere  da  noi  chiarita,  che 
nel  libro  seguente.  Poiché  le  distinzioni  dialettiche  si  fondano  nella 
forma  ideale  dell'essere,  e  nella  relazione  di  questo  col  soggetto 
umano.  Dovendo  noi  dunque  qui  favellare  del  puro  essere  ante- 
riore alle  forme,  dobbiamo  prenderlo  come  ci  si  presenta,  e  in 
appresso  poi ,  trattando  delle  forme  ,  dare  la  ragione  per  la  quale 
ci  si  presenta  al  pensiero  così.  Il  che  è  nova  prova  che  la  dot- 
trina ontologica  apparisce  in  forma  di  circolo  ,  di  modo  che  le 
cose  che  vengono  in  appresso  sono  necessarie  alla  chiara  intelli- 


^7i 

genza  di  quelle  venute  prima,  e  queste  alla  chiara  intelligenza 
di  quelle.  II  qual  circolo  non  è  vizioso:  ed  altro  non  viene  a 
dire,  se  non  chela  scienza  ontologica  è  perfettamente  una,  e 
allora  s'  intende,  quando  con  un  solo  pensiero  se  n'abbracciano 
insieme   tutte  le  parti. 


CAPITOLO   ili. 

Dei  significali  del  vocabolo  essere,  e  d'altri , 
die  s'  adoperano  nell'  Ontologia. 


Articolo   I. 

Definizioni. 

2H.  Richiamando  qui  le  definizioni  di  alcuni  vocaboli  dati  nel 
libro  antecedente,  aggiungeremo  quelle  di  qualche  altro,  e  sog- 
giungeremo le  necessarie  spiegazioni. 
Definizioni  : 

i°  L'essere  è  l'atto  d'ogni  ente  e  d'ogni  entità. 
2°  L'ente  ammette  due  definizioni  : 

a)  Un  subietto  avente  l'essere; 

b)  L'essere  con  qualche  suo  termine. 

5o  L'cMf/fà  è  quell'oggetto  del  pensiero^  qualunque  sia ,  che 
dal  pensiero  è  riguardato  come  uno. 

h"  L'essenza  è  l'essere  avuto  da  un  subietto,  astratto  dal 
subietto  che  lo  ha. 

a"  Il  subietto  in  universale  è  ciò  che  in  un  ente ,  o  in  un 
gruppo  d'entità  si  concepisce  come  primo  contenente  e  causa 
dell'unità  {Psicol.  85()). 

212.  Dichiariamo  queste  definizioni. 

Esse  dimostrano  in  primo  luogo ,  che  le  parole  essere,  enle^ 
entità,  essenza,  hanno  un  significato  largo  e  indeterminato,  e 
j)erò  che  esse  possono  essere  applicate  ad  oggetti  diversi.  È  dun- 
que necessario,  che  noi  vediamo  quali  siano  questi  oggetti,  e 
come  ciascuna  di  quelle  parole,  mantenendoli  significato  inde- 


172 

lerminalo  che  ha,  possa  ricevere  qualche  aggiunto^  che  segni 
l'oggelto  preciso,  a  significare  il  quale  s'adopera.  Cominciamo 
dall'essere. 


Articolo  II. 

Essere  deW  intuito ,  essere  nrtuale ,  essere  iniziale, 
astratto  ,    ideale. 

'ìiù.  L'Ideologia  dimostra,  che  l'essere  è  presente  all'inlelligenza 
umana,  e  che  colla  sola  presenza  la  forma.  Quest'essere  ammette 
certamente  la  definizione  da  noi  data  :  «  l'atto  d'ogni  ente  e  di 
ogni  entità».  Ma  dov'è  l'ente,  dove  sono  le  entità  in  questo 
essere  intuito  per  natura?  Niun  ente,  ninna  entità  è  distinta  e 
visibile  in  questo  intùito,  anzi  l'uomo  anteriormente  ad  ogni 
esperienza  non  rivolge  alcun  pensiero  a  tali  entità  in  qualche 
modo  determinate.  Egli  intuisce  l'essere  senza  affermare  ancor 
nulla  ,  e  senza  negar  nulla  di  esso ,  senza  conoscere  esplicita- 
mente la  relazione  di  lui  co'  suoi  termini ,  o  con  altra  cosa  qua- 
lunque. Questo  è  l'essere  dell' intuito,  essere  indeterminato,  che 
informa  la  facoltà  conoscitiva   {Logic.  334). 

Ma  quest'essere  ha  una  virtù  nascosta,  che  si  manifesta  in  ap- 
presso nei  successivi  atti  di  conoscere.  Se  la  riflessione  dell'uomo 
considera  questa  virtù^  ella  trova  che  neWessere  dell'intuito  giac- 
ciono nascosti  tutti  i  suoi  termini ,  unito  ai  quali  presenta  al 
pensiero  i  concetti  degli  enti.  Se  dunque  si  adopera  la  parola  essere 
a  significare  l'oggetto  naturale  dell'intuito,  e  la  sua  virtù  scoperta 
colla  riflessione,  le  parole  ente  ed  entità  che  si  trovano  nella  sua 
definizione,  devono  intendersi  per  enti  ed  entità  virtuali.  Volendo 
noi  dunque  determinare  questo  significato  dell'essere  con  un  ag- 
giunto, lo  chiameremo  Tessere  virtuale. 

214.  Questo  è  l'essere  considerato  in  relazione  alla  sua  virtualità. 
Che  se  noi  lo  consideriamo  in  relazione  agli  enti  e  alle  entità  at- 
tuali, egli  ammette  ancora  la  definizione:  «  l'atto  dell'ente  e 
delle  entità  »  ;  ma  la  relazione ,  nella  quale  la  riflessione  della 
mente  lo  considera,  è  diversa;  poiché,  non  esistendo  alfatto  alcun 
ente  né  alcuna  entità  senz'alio  di   essere,  rimane   che  l'essere 


i75 

acquisti  la  nozione  d'inizio  d'ogni  ente  e  d'ogni  entità.  Per  si- 
gnificare l'essere  in  questa  relazione  si  adopera  l'aggiunto  d'ini- 
ziale, chiamandosi  essere  iniziale. 

215.  Ma  la  mente  umana  può  coll'astrazione  precidere  l'essere 
dall'intuito  e  anche  dai  termini  dell'essere,  siano  virtuali,  siano  at- 
tuali, e  considerare  l'essere  in  se  slesso.  Né  anche  in  questo  caso 
egli  perde  la  sua  definizione  «  l'atto  dell'ente  e  delle  entità  ». 
Soltanto,  che  la  mente  eoi  pensiero  parziale  {Psicol.  1319-1521)  si 
ferma  alla  prima  parola  della  definizione,  alto,  e  considera  questa 
precisa  dalle  seguenti.  E  ancora  l'essere  iniziale,  ma  non  più  con- 
siderato come  iniziale,  ma  come  qualche  cosa  da  sé.  Quest'è  una 
pura  entità  di  ragione  ,  e  per  significarla  con  degli  aggiunti  la 
chiameremo  :  essere  astratto  preciso. 

21G,  L'essere  virtuale  dunque,  Tessere  iniziale  e  Vessere  astratto 
preciso  sono  tre  significali ,  che  riceve  il  vocaholo  essere ,  il  quale  , 
essendo  parola  che  animelle  una  definizione  indeterminata,  gli 
ahhraccia  tulli  e  tre  secondo  che  la  mente  lo  riguarda  in  varie 
relazioni. 

E  sono  appunto  queste  diverse  vcdule  della  mente  secondo  di- 
verse relazioni,  che,  senza  dar  adito  all'errore,  si  possono  trascu- 
rare in  varie  scienze,  ma  non  così  nelle  definizioni  che  devono 
servire  alKOntologia,  perchè  queste  slesse  vedute  entrano  a  for- 
mar parte  del  suo  oggetto,  come  si  vedrà  meglio  in  appresso.  Onde 
è  necessario,  che  sulle  tre  vedute  e  relazioni  accennate,  che  am 
mette  la  parola  essere,  un  poco  ancora  ci  tratteniamo. 

217.  E  dunque  a  considerarsi,  che  il  primo  intuito  dell'essere 
nulla  distingue  in  esso  e  neanco  ninna  relazione ,  benché  tulio 
virtualmente  vi  si  comprenda.  Diche  procede: 

1°  Che  il  solo  intuito,  non  facendo  altro  che  intuire,  non 
possa  neppur  dare  un  nome  all'essere  che  intuisce:  onde  la  slessa 
denominazione,  data  a  un  tale  oggetto,  di  essere,  è  l'opera  della 
riflessione ,  che  a  suo  tempo  succede  al  taciturno  intuito  : 

2°  Che  molto  meno  appartiene  all'intuito  la  denominazione 
di  essere  virtuale,  la  quale  distingue  la  virtualità,  che  è  nel 
seno  dell'essere,  dall'essere  slesso,  atteso  i  due  distinti  vocaboli 
con  cui  si  chiama  (Ideol.  458  n,  29o  n,  1410.)  onde  a  escogi- 
tare quella  denominazione  non  solo  si  richiede  la  riflessione ,  ma 
una  riflessione  analitica,  che  suppone  un'astrazione,  benché  que- 


Ì7li 

sta  venga  riunita  poi  a  ciò  che  prima  si  astrasse,  di  maniera  che 
quell'espressione  essere  virluale ,  significa  due  astraili  riuniti,  per 
la  quale  riunione  il  senso  complessivo  non  è  più  astrailo,  perchè 
l'analisi  astrattiva  rimane  distrutta  imm.edialamente  dalla  sintesi. 
ù"  Che  ncW essere  virtuale,  oggetto  dell'  intuito,  ci  sono  im- 
plicite anche  le  tre  forme  dell'essere,  ma  anche  queste,  ap- 
punto perchè  del  tulio  implicite  ,  sono  nascoste  nella  virtù  an- 
cora occulta  dell'essere,  e  non  si  manifestano  che  in  appresso 
coU'applicazione ,  che  fa  l'anima,  dell'essere  stesso  ai  sentimenti. 
Ma  V essere  Virtuale  appartiene  egli  slesso  alla  forma  ideale,  nella 
quale  sono  implicite  l'altre  due;  pure  la  mente  non  considera 
quesV  idealità,  come  appunto  non  considera  la  virtualità,  hen- 
chè  runa  e  l'altra  siano  qualit;\  dell'essere  intuito:  queste  qua- 
lità dunque  sono  inerenti  all'essere  intu'ito  senza  che  la  mente 
le  distingua  dall'essere  stesso ,  né  dall'altre  forme.  Onde  l'intuito 
propriamente  termina  semplicemente  nell'essere  ;  e  solamente  di 
poi,  per  una  riflessione  già  svolta,  l'uomo  s'avvede  che  quell'essere 
è  ideale,  e  contiene  virtualmente  l'altre  forme  {Logic.  oOh  ). 

Ciononostante  noi  non  abhiamo  posta  la  denominazione  d'essere 
ideale  come  un  quarto  significato  della  parola  essere,  perchè  non 
le  appartiene  in  tutta  la  sua  estensione  la  definizione:  a  l'atto 
degli  enti  e  delle  entità  »  ,  significando  solo  l'alto  degli  enti  e 
delle  entità  ideali.  E  ciò  per  due  ragioni  :  l'una,  perchè  le  for- 
me dell'essere  piuttostochè  il  suo  alto  (si  parla  di  atto  iniziale, 
come  lo  dà  l'astrazione  umana)  sono  i  primi  e  propri  termini 
di  quest'atto  che  si  dice  essere;  l'altra  perchè  V  idealità  non  è 
una  forma  completa ,  come  a  suo  tempo  diremo ,  riducendosi  alla 
forma  completa  óqW oggettività,  ma  è  questa  forma  in  quella  parte 
limitata  che  all'uomo  si  mostra  per  natura.  In  quanto  poi  l'es- 
sere ideale  si  considera  come  inizio  di  tutti  gli  enti  e  di  tutte  le 
entità,  è  già  contenuto  nell^i  denominazione  di  essere  iniziale;  e 
tale  è  veramente  l'essere  ideale  secondo  la  maniera  del  conce- 
pire umano  {Ideol.   1180,  1181,  1425). 

4°  Che  nella  denominazione  d'essere  iniziale  c'entra  un'  ana- 
lisi e  una  sintesi  simile  a  quella ,  che  abbiamo  detto  contenersi 
nella  denominazione  d'essere  virtuale ,  la  quale  non  appartiene  al- 
l' intùito;  però  l'essere  non  si  può  considerare  dalla  mente  come 
inizio  di  tutti  gli  enti  e  di  tutte  le  entità  se  non  dopo  aver  que- 


i75 

sle  —  cioè  molle  di  queste  —  conosciute  e  trovato  in  tutte  l'atto 
dell'esistenza  ad  esse  comune.  Laonde  ùWessere  iniziale  conviene 
la  denominazione  di  essere  comunissimo,  in  quant' appunto  così 
consideralo  si  vede  comune  a  lutti  gli  oggetti  del  pensiero. 

5"  Finalmente  V  essere  aslralto  preciso,  ossia  consideralo 
dalla  ragione  astraente  come  preciso  da  ogni  relazione  co'  suoi 
termini,  è  di  molto  posteriore  ai  precedenti;  poiché  conviene 
aver  prima  conosciuto,  in  qualche  modo,  l'essere  come  iniziale 
e  come  virtuale,  acciocché  si  possa  recidere  da  esso  per  astra- 
zione e  metter  da  banda  queste  due  relazioni  di  virtualità  e  di 
inizialità. 


Articolo  III. 
Signi^cati  del  vocabolo:  ente. 

218.  Venendo  ora  aircnle,  noi  Tabbiamo  definilo  «l'essere  col 
suo  termine)).  Ala  come  possiamo  discernere  «l'essere  termi- 
nalo «  ovunque  si  trovi?  Trovandosi  in  varie  entità,  accade  che 
anche  il  vocabolo  ente  riceva  diversi  valori,  perchè  avviene  che 
nell'uso  s'applichi  a  tutte  le  entità  che  hanno  i  caratteri  essen 
ziali  dell'ente,  benché  questi  siano  mescolati  con  altro. 

Attenendoci  alla  forma  della  parola  enle ,  se  n'ha  l'altra  de- 
finizione: «l'ente  ò  ciò  che  è  « ,  ossia  «è  un  subietto  avente 
l'essere  ». 

Intendo  per  subielto  :  «  ciò  di  cui  si  predica  qualche  cosa  »  , 
ovvero  :  «  ciò  che  si  considera  come  un  che  avente  un  atto  » , 
sia  poi  quest'atto  attivo,  o  passivo,  o  ricettivo:  di  maniera  che 
quesV  attuai  Uà  sia  da  esso  operala,  o  sostenuta,  o,  in  qualun- 
que sia  modo ,  avuta. 

La  formola  :  u  l'ente  è  ciò  che  è  « ,  se  si  analizza,  vediamo, 
che  ha  due  parli  «  ciò  che  •»  ,  ed  «  E  »  .  Il  «  ciò  che  »  è  di  que- 
sto g\ud\z\o  i\  subielto ,  l'È,  W  predicato  ;  del  subielto  «  ciò  che  » 
si  predica  l'atto  dell'essere,  È.  Di  qui  si  trae  un  carattere  di- 
stintivo tra  il  valore  della  parola  essere,  e  quello  della  parola 
ente.  Poiché  essere  esprime  puramente  V  atto ,  pel  quale  l'ente 
è;  laddove  Venie  esprime  il  subietto  avente  quest'atto  [Logic.  554j, 


d70 

!219.  Essere  dunque,  per  sé  solo,  non  esprime  alcun  subietto,  ma 
puramente  V alto  (I):  laddove  l'ente  esprime  il  subietlo  avente 
quest'atto.  Ma  conviene ,  che  paragoniamo  le  due  definizioni 
clic  Abbiamo  fin  qui  date  dell'ente.  Poiché  abbiamo  detto:  i°  che 
«  l'ente  è  l'essere  col  suo  termine  >>  :  '2°  che  è  «  ciò  che  è  ».  In 
qucsl' ultima  abbiamo  osservato  che  a  ciò  che  ))  esprime  un  su- 
bietto, e  l'È  esprime  l'atto  dell'es.sere,  predicato.  Ora  dov'è 
nella  prima  definizione  il  subietto?  Dicendo  che  l'ente  è  «l'es- 
sere col  suo  termine  »  ,  ossia  «  l'essere  terminalo  »  ,  noi  venia- 
mo a  porre  l'essere  stesso  come  subietlo^  e  il  termine  come  pre- 
dicato: il  contrario  di  quanto  risulta  dalla    seconda  definizione. 

Quesl'antinomìa  dialettica  o  apparente  contraddizione  si  discio- 
giie  facilmente,  quando  si  considera  che  Vesscre  è  un  concello 
anteriore  aWente:  perchè  questo  suppone  quello  nell'ordine  de' 
concetti,  e  non  quello  questo.  Ciò  posto,  la  natura  deW ente 
si  può  definire  in  due  modi;  nell'uno  considerando  l'essere  come 
suo  antecedente  ed  esprimente  la  via,  per  la  quale  l'essere  —  nel- 
l'ordine mentale  —  si  fa  ente;  nell'altro,  non  considerando  punto 
il  suo  antecedente,  nò  la  via  per  la  quale  questo  nel  pensiero 
diviene  ente,  ma  considerando  l'ente  in  sé  stesso  già  divenuto. 
Se  considero  l'ente  nella  sua  relazione  al  concetto  essere,  suo 
antecedente ,  allora  questo  prende  luogo  di  subietto  nella  pro- 
posizione, come  dicendo:  l'ente  è  «l'essere  col  suo  termine)), 
dove  l'essere  è  il  suo  subietto  antecedente  {Logic.  ,4^4,  h[7"), 
che  per  mezzo  del  termine  diviene  ente,  e  cessa  d'essere  quel- 
l'indeterminato di  prima.  Se  poi  considero  l'ente  qual  è  in  sé 
stesso,  senza  risalire  al  suo  antecedente,  allora  non  posso  più 
far  entrare  l'essere  indeterminato  nella  proposizione  e  poi  deter- 
minarlo coU'aggiungergli  il  termine;  ma  devo  fermarmi  all'ente 
dicendo  solo  ciò  che  già  ha^  come  nella  definizione:  l'ente  è  «  ciò 
che  è  )) .  Considerato  l'ente  nella  prima  relazione,  Vessere  lien 
luogo  nella  proposizione  di  principale  ossia  di  suhielto ,  e  il  kr- 
mine  di  predicato:  nella  seconda  il  termine  stesso  è  il  suhielto, 
e  l'essere  non  si  considera  più  come  antecedente ,  ma  già  come 
predicato  del   termine,  e  però  a  questo  limitato  {Logic.  397), 

Egli  è  chiaro,  che  l'essere  nella  prima  definizione  non  è  che 

(4)  E  quell'atto  è  espresso  nella  sua  forma  obiettiva.  Cf.  Logica.  320-327. 


177 

un  subieilo  dialeltico,  cioè  die  ha  natura  di  subielto  nell'ordine 
de' concelli  della  mcnle  umana,  laddove  il  termine,  che  nella 
seconda  definizione  ò  subielto,  può  essere  anche  un  subielto  reale. 

220.  Si  deve  considerare  inoltre,  che  l'essere  che  può  diventare 
un  subielto  dialctlico ,  è  Vessere  iniziale,  perche  questo  solo  è 
consideralo  in  relazione  co'  suoi  termini  :  non  può  essere  tale 
Vessere  astratto,  perchè  questo  è  dalla  mente  diviso  da'suoi  ter- 
mini, e  però  non  si  può  dire  di  lui  che^  terminalo,  sia  l'ente, 
per  r  ipolesi  astrattiva  della  mente  che  gli  nega  il  termine  (1). 

Venie  dunque  ammettendo  due  definizioni  si  concepisce  in  due 
modi  dialettici,  o  come  avente  in  sé  il  subielto  antecedente,  o 
come  essente  subielto  e  avente  in  sé  l'alto  dell'essere  come  pre- 
dicalo. Questi  due  modi  puramente  concettuali  e  dialettici  appar- 
tengono all'ente  in  qualunque  sua  applicazione,  purché  s'adoperi 
con  quella  proprietà  che  lo  dislingue  dall'essere  (2). 

221 .  Ma  l'ente  viene  appunto  applicalo  diversamente  e  allora 
cangia  di  significalo.  Poiché  l'ente  essendo  «l'essere  terminalo», 
accade  che  si  concepisca  l'essere  più  o  meno  terminalo.  Noi  dob- 
biam  dare  la  teoria  de'  termini  dell'essere.  Ma  qui  ci  basta  av- 
vertire, che  i  termini  dell'essere  potendo  concepirsi  piij  o  meno 
ullimali,  e  dislribuirsi  in  una  lunga  serie  secondo  i  gradi  della 
loro  ultimazione,  procede  che  l'ente,  in  quanto  si  distingue  dal 
puro  essere  ancor  senza  termini,  acquisti  una  serie  di  valori  del 
pari  lunghissima  ,  e  che  gli  enti  così  schierali  ammettano  più 
pienamenle  la  nozione  di  ente,  quanto  il  termine  è  più  pieno  e 
completo. 

I  primi  termini  dell'essere  sono  le  forme  categoriche,  in  eia- 


(1)  Vessere  astratto,  come  qualsivoglia  altra  entità,  può  occupare  il  luogo 
di  subietto  in  altre  proposizioni ,  ma  non  nella  definizione  deWente.  Così 
egli  è  subietlo  della  propria  definizione,  e  in  tant'altre ,  potendo  la  mente 
umana  considerare  come  sostantivo  una  qualunque  entità  anche  negativa 
{Logic.  396). 

(2)  Dove  non  c'era  bisogno  di  questa  proprietà,  abbiamo  anche  noi  nelle 
opere  precedenti ,  al  modo  degli  antichi ,  usato  essere  ed  ente  promiscua- 
mente. Nondimeno  conviene  por  mente  ,  che  alcune  cose  si  possono  dire 
ugualmente  dell'essere  e  dell'enee,  e  in  questi  luoghi  il  discorso  non  s'allon- 
tana dalla  proprietà  usando  l'uno  o  l'altro  indifferentemente  di  quei  due 
vocaboli. 

Rosmini.  Teosofia.  IS 


i78 

scuna  delle  quali  può  essere  l'ente  pieno.  Ma  parlando  noi  dia- 
lellicamenle  devesi  distinguere  l'ente  puramente  dialettico  dal- 
l'ente in  sé. 

222,  L'ente  puramente  dialettico  è  quello  che  non  è  che  un  sti- 
hietlo  (lialellko;  di  maniera  che,  se  l'ente  sussistesse,  quello  che 
si  esprime  non  sarebbe  un  subietto  reale  ,  ma  qualche  cosa  del 
subietto. 

225.  Uente  in  sé  all'opposto  è  un  subietlo,  che,  se  sussistesse, 
sarebbe  un  vero  subietlo  reale,  di  cui  si  predicherebbe  il  resto. 

A  ragion  d'esempio  la  qualiià,  è  un  ente  dialettico,  perchè  si 
può  dialetticamente  predicare  di  lei  l'essere,  p.  e.  dicendo: 
«  questa  qualità  de' corpi  esiste  »  ;  ma  supposto  che  sussista  la 
qualità  di  cui  si  parla,  non  sussisterebbe  che  nel  corpo,  che  sa- 
rebbe suo  subietlo  ,  e  non  sussisterebbe  ella  slessa  ,  come  su- 
bietto del  resto.  All'incontro  il  corpo  è  un  ente  in  sé,  o  tale 
almeno  si  pensa  essere  ,  e  però  un  corpo  sussistente  é  subietto 
delle  sue  qualità. 

Venie  poi  in  sé  può  esser  pensato  come  un  concello  aslrallo 
di  enle,  p.  e.  il  corpo,  e  anche  come  un  concello  pieno  di  enle; 
e  questo  ancora  in  due  modi  ,  cioè  come  individuo  vago  ,  nel 
quale  si  pensa,  che  abbia  la  sua  piena  determinazione,  ma  non 
si  pensa  qual  sia  questa  determinazione  ;  ovvero  come  individuo 
specifico  ,  cioè  si  pensa  che  sia  determinalo  ed  anche  si  pensa 
qual  sia  la  sua  determinazione  slessa,  p.  e.  un  corpo  fornito  di 
tulle  le  sue  determinazioni,  ossia  colla  specie  piena  {Ideol.  509, 
507,  G/i8  G50). 


Articolo  IV. 

Significati  de'  vocaboli  :  entità,  e  cosa. 

224.  Riserviamo  alla  parola  entità  un  significato  più  universale 
di  essere  e  di  ente,  come  appare  dalla  data  definizione:  «  quel- 
l'oggetto ,  qualunque  sia  ,  che  dal  pensiero  è  riguardato  come 
uno  )).  Laonde  anche  l'essere,  anche  l'ente  è  un'entità,  ma  en- 
tità abbraccia  di  più  tutti  gli  oggetti  dialettici  e  di  pura  ra- 
gione, che  l'astrazione  possa  proporre  alla  mente. 


179 

Una  parola  così  universale  è  indispensabile  al  linguaggio  del- 
rOntologia. 

225.  Alla  parola  cosa  —  dal  Ialino  causa  (1)  —  si  dà  parimenli 
un  significalo  ugualmente  esleso;  ma  quando  cosa  si  conlrappone 
a  idea,  allora  la  parola  si  rcslringe  a  significare  un'cnlilà  colla 
forma  della  realilà  ,  e  riceve  il  significato  proprio  della  parola 
latina  reSj  della  quale  non  è  rimasto  il  derivalo  sostantivo  nella 
nostra  lingua. 

220.  Ma  è  necessario  osservare,  che  quantunque  le  parole  enlità 
e  cosa  abbiano  un  senso  più  universale  di  essere  e  di  enle^  non 
sono  tuttavia  a  queste  anteriori  nò  nell'ordine  delia  loro  forma- 
zione,  né  tampoco  in  quello  del  pensiero. 

Non  nvWoì'dine  della  loro  formazione,  perchè  non  si  può  l'are 
una  così  estesa  astrazione,  se  non  dopo  che  la  mente  umana  è 
provveduta  già  de'  conceUi  dell'essere  ,  deirente  ,  e  di  qualche 
oggetto  dialettico;  l'astrazione  non  polendo  mai  essere  la  prima 
operazione  delia  menle,  perchè  ha  bisogno  della  materia  su  cui 
s'eseguisce  {Ideol.  ^98-^99,  510,  ìhU,  ìho'ó). 

Non  neir  ordine  del  pensiero ,  perchè  uiia  tale  astrazione  non 
si  fa  che  col  pensiero  parziale  [Psicol.  1518-1521),  il  qual  pen- 
siero non  può  agire  se  non  colln  presenza  dell'oggetto  lolaie , 
del  quale  sceglie  una  parte. 

Laonde  ,  se  si  sbandisce  dalla  menle  il  concetto  espresso 
dalla  parola  entilà,  non  scompare  con  ciò  anche  l'essere  e  l'ente; 
laddove,  viceversa,  tolti  via  questi,  il  concello  d'entità  rimane 
del  pari  annientalo. 

Articolo  V. 

Significato  della  parola:  essenza. 
227.  Nell'Ideologia  (646-6/i8)  abbiamo  definita  l'essenza  «  ciò 

(1)  L'essersi  tanto  universalizzato  il  significato  della  parola  latina  causa  , 
dimostra  la  maniera  di  concepire  della  mente  umana,  ctie  inclina  a  ricono- 
scere come  causa  ciò  che  è  universalissinio  :  cosi  vedremo  in  appresso ,  che 
l'essere  preso  nella  sua  massima  indeterminazione  e  universalità  è,  ne' modi 
che  diremo,  causa  di  tutte  le  cose  contingenti. 


^80 

che  si  conliene  nell'idea  »  (Def.  1).  Questa  definizione  ha  il  van- 
taggio, che  dà  in  mano  il  modo  di  classificare  le  essenze:  poi- 
ché apparisce  ,  che  la  loro  classificazione  segue  quella  delle 
idee,  e  questa  classificazione  si  può  vedere  nell'Ideologia  slessa 
(646-656,  n,  1145,  H81,  1^221,  193  n,  104  n,  1416,  1234, 
1095  71.). 

228.  E  tuttavia  questa  definizione  non  basta  all'Ontologia,  che 
di  più  richiede  che  si  consideri  il  significato  della  parola  essenza 
colle  sue  relazioni  dialettiche  e  così  si  determini  il  senso  pre- 
ciso e  composto  della  parola  {Logic.  ,373*). 

È  dunque  a  considerarsi,  che  essenza  significa  «  ciò  che  una 
cosa  è  )>  {Dcf.  2)  (1),  e  ciò,  che  una  cosa  è,  è  sempre  veduto 
dagli  uomini  nell'  idea  della  cosa  :  onde  questa  definizione  con  - 
viene  colla  prima. 

Ma  confrontiamo  questa  definizione  con  quella  dell'ente. 

L'ente  è  ciò  che  è. 

L'essenza  è  ciò  che  una  cosa  è. 

Ciò  che  è,  equivale  a  dire  «  ciò  che  ha  l'alto  d'essere  )>:  ciò 
che  una  cosa  è,  equivale  a  dire:  k  quel  tanto  di  atto  d'essere 
che  ha  una  cosa  »  {Def.  3.).  Nella  espressione  dunque:  «  ciò 
che  è  »,  il  subietto  è  del  tutto  indeterminato  e  non  involge 
alcun  concetto  di  determinazione,  e  però  anche  il  predicato  es- 
sere, ovvero  atto  d'essere,  rimane  del  tutto  indeterminato.  Nel- 
l'espressione all'incontro:  «  ciò  che  una  cosa  è  »  ,  il  subictto 
((  una  cosa  »  è  ancora  indeterminato  ,  ma  involge  il  concetto 
d'una  determinazione,  senza  che  punto  si  dica  qual  sia  questa 
determinazione  ,  onde  trattasi  d'una  determinazione  generica, 
ossia  d'una  determinazione  indeterminata. 

Sotto  questo  rispetto  dunque  c'è  un  concetto  di  più  espresso 
nella  parola  essenza  ,  che  non  sia  nella  parola  ente:  poiché  in 
quella  si  conliene  il  pensiero  d'una  determinazione  e  limitazione, 
qualunque  poi  sia  ;  il  che  non  si  specifica  punto. 

Ma  sotto  un  altro  rispetto  nella  parola  essenza  c'è  un  con- 
cetto di  meno  che  nella  parola  ente.  Poiché  l'ente   esprime   un 


(1)  Nani  sicut  ab  co  qnocl  est,  verbi  gratia  sapere  et  intelligere,  sapien- 
tiam  et  intelligentiam  nomiìiamus:  regnlariter  et  AB  EO  QUOD  EST,  es- 
sentiam  non  taceniìis.  Sidon.  Ep.  praefixa  carm.  14  ad  fin. 


18i 

subietto  essente  come  indica  la  definizione:  «  ciò  che  è  ».  Ma 
nella  parola  essenza  il  subictto  è  sottinteso  come  il  fondamento, 
su  cui  si  è  operata  l'astrazione:  poiché  definendosi  l'essenza: 
«  ciò  che  una  cosa  è  »  ,  il  subietto  cosa  non  è  introdotto  come 
subiello  della  definizione,  ma  come  il  fondamento  da  cui  col- 
lastrazione  si  è  cavata  la  definizione^  onde  l'essenza  non  è  già 
la  cosa  ,  ma  a  ciò  che  ella  è  »,  rimanendo  la  cosa  fuor  della 
definizione  dell'essenza.  Per  aver  questa  dunque  la  mente  si  pro- 
pone avanti  la  cosa,  e  così  non  ha  ancora  l'essenza  —  nel  senso 
preciso  della  parola,  —  ma  per  avere  l'essenza  astrae  dalla  cosa 
«  ciò  che  è  )),  e  questo  a  ciò  che  è  la  cosa  »,  è  l'essenza  della 
cosa.  L'essenza  dunque  è  ciò,  che  dà  l'astrazione  che  s'esercita 
su  una  cosa  ,  quando  ,  lasciando  la  cosa  ,  s'estrae  da  essa  ciò 
che  è,  cioè  Tatto  di  essere  a  lei  proprio.  Considerandosi  quest'alto 
di  essere  proprio  della  cosa,  in  separato  dalla  cosa,  s'ha  Vessenza. 
L'essenza  dunque  non  contiene  il  concetto  del  subietto,  né  del- 
l'atto del  subielto  ,  ma  ha  una  relazione  ad  un  subietto  possi- 
bile, da  cui  fu  estratta,  e  di  cui  si  può  predicare. 

229.  E  quindi  ancorasi  vede  la  differenza  dialettica,  che  passa 
Ira  il  valore  della  parola  essenza  e  quello  della  parola  essere.  Anche 
la  parola  essere  non  involge  in  sé  alcun  concetto  di  subietto,  ma 
il  puro  concetto  di  atto,  e  questo  senza  relazione  a  un  subietto; 
onde,  quand'osso  é  ancora  tutto  solo  davanti  alla  mente,  non 
costituisce  una  cognizione  compiuta,  né  un  giudizio  {Logic.  354, 
354).  Ma  la  parola  essenza,  sebbene  non  involga  in  sé  il  concetto 
d'un  subietto,  involge  però  la  relazione  con  un  subietto,  da  cui  fu 
cavata  per  via  d'astrazione.  La  differenza  dunque  tra  essere  e  es- 
senza è  questa,  che  «  l'essenza  è  l'essere  astratto  da  un  subietto 
qualunque  »  :  il  che  conferma  e  spiega  quello  che  abbiamo  detto 
nell'Ideologia,  che  Tessere  non  é  un'astrazione,  e  Vessenza  sì. 
{Ideol.  43,  ìliU,  1455). 

E  da  questa  differenza  si  può  ricavare  anche  un  altro  carattere, 
che  distingue  il  valore  della  parola  essenza  dal  valore  delle  parole 
essere  ed  ente:  e  questo  si  é,  che  essere  non  inchiude  una  distin- 
zione tra  sé  e  il  subietto,  perché  non  implica  alcuna  relazione  con 
questo,  laddove  essenza  implica  una  distinzione  di  sé  dal  subictto 
e  però  esclude  e  caccia  da  sé  questo,  da  cui  fu  tratta:  ente  poi  rac- 
chiude manifestamente  un  subietto. 


i8i 

230.  Implicando  dunque  l'essenza  la  relazione  col  subietto,  da  cui 
si  dislingue ,  questa  relazione  si  può  anche  esprimere  dicendosi  : 
(c  l'essenza  della  tal  cosa  »,  laddove  non  si  potrebbe  dire:  «  l'ente 
della  tal  cosa  »,  perchè  il  subietto,  cioè  la  cosa,  è  già  nell'ente. 
All'incontro  non  contenendo  la  parola  essere  il  subietto,  come 
l'ente,  e  nò  pure  escludendolo  come  l'essenza  —  perchè  non  involge 
alcuna  relazione  co!  subietlo,  —  si  può  benissimo  aggiungere  all'es- 
sere la  delta  relazione  dicendo  :  «  Tessere  della  tal  cosa  »  ;  e  con 
quest'aggiunta  l'essere  diventa  sinonimo  d'essenza,  la  quale  si  può 
ancora  dcfmire  :  «  l'essere  considerato  in  relazione  col  subietto, 
che  lo  possiede  »  {Def.  h). 

53i.  Nella  definizione,  che  abbiamo  data  di  sopra  dell'essenza: 
«  ciò  che  una  cosa  è  »,  quello^  che  ha  un  valore  indelerrainalo,  è  ap- 
punto il  subietlo,  a  cui  l'essenza  si  riferisce,  cioè  a  dire  il  vocabolo 
cosa.  Questo  dunque  ammetle  diverse  determinazioni ,  attesoché 
cosa  ha  un  significato  allreltanto  largo,  quanlo  entità  {Jììlh.sgg.*). 
Se  dunque  al  vocabolo  cosa,  che  cade  nell'accennata  definizione, 
noi  sostituiamo  un  valore  più  determinato,  come  i  matematici 
fanno,  quando  ne!  calcolo  una  delle  incognite  rimane  indetermi- 
nata, noi  avremo  una  serie  d'essenze,  che  è  quanto  dire  avremo  il 
modo  di  dedurre  tutte  le  diversi  classi  d'essenze  concepibili  dalla 
mente  umana  (Weo/.  6/i6,  Gy5-Co9,  ìhìQ  ,  1234,  1221),  che 
variano  appunto  secondo  i  subietti  a  cui  si  riferiscono,  e  da  cui 
sono  tratte  coll'astrazione. 

Possiamo  dunque  sostituire  alla  parola  cosa  l'essere,  o  un'al- 
tra entità.  Se  sostituiamo  un'allra  entità  diversa  da  quella  che 
si  esprime  colla  semplice  parola  essere ,  Vessenza  rimane  distinta 
dal  subietlo  a  cui  si  riferisce  ;  ma  se  soslituiamo  a  cosa  la  parola 
essere,  ella  allora  s'immedesima  col  suo  subietlo.  Poiché  questa 
definizione  indeterminata:  «  ciò  che  una  cosa  è  »,  si  cangia 
in  quest'altra  «  ciò  che  V essere  è  »  ;  e  poiché  l'essere  non  è  che 
Tessere,  quindi:  «ciò  che  l'essere  è  »  è  appunto  Tessere.  Così 
Tessere  esprime  l'essenza  sua  propria,  che  si  può  anche  dire 
l'essenza  universalissima  {Ideol.  (V(7). 

232.  E  veramente,  cavandosi  l'essenza  per  astrazione  dal  su- 
bietto, se  noi  prendiamo  Tessere  per  subietto,  e  caviamo  da  esso 
ciò  che  è,  conviene  che  lo  caviamo  lutto,  non  restandoci  altro 
di   rimanenza ,    come   ce  ne  rimane   quando   caviamo   dall'altre 


185 

cose  ciò  chi;  sono.  L'aslrazione  dunque  ^  con  cui  si  vuol  ca- 
vare dall'essere  ciò  che  è,  viene  al  medesimo  che  a  un  pren- 
dere tulio  Tessere.  E  lullavia  tra  V essere  e  l'essenza  deW  essere 
rimane  una  diversità  dialettica,  poiché  questa  seconda  involge 
una  relazione  colla  facoltà  e  coU'atto  dell'astrazione,  che  manca 
interamente  nel  primo.  L'astrazione  in  questo  caso  non  produce 
alla  mente  niente  di  novo,  ma  si  trova  aver  ottenuto  quello 
slesso  suhietto,  che  s'aveva  prima.  E  non  di  meno  la  forma  della 
parola  essenza  indica  quest'operazione  astrattiva  della  mente, 
che  non  viene  indicata  dalla  parola  essere,  il  quale  non  è  che 
oggetto  dell"  intuito  {Logic.  320  sgg.òOliJ. 

Ogniqualvolta  un  concetto  mostra  in  sé  d' essere  un  prodotto 
dell'astrazione,  acquista  un'espressione  nova  come  essere,  che 
si  dice  :  essenza  dell'essere.  Così  nascono  quelle  forme  de'  con- 
celli e  de'  vocaboli ,  che  si  dicono  aslralte.  Nel  caso  dell'essere 
adunque  la  forma  astratta  non  aggiunge  nulla,  eccello  che  la 
stessa  forma  di  concepin.' ,  limanendo  l'oggetto  slesso  identico. 
Dove  s'ha  un  esempio  della  variazione  del  concetto  unicamente 
pel  vario  modo  di  concepire  (.205,  206*). 

235.  Lo  stesso  risultalo  abbiamo  prendendo  la  terza  definizione: 
«l'essenza  è  quel  tanto  di  atto  d'essere  che  ha  una  cosa  «.  Poiché 
se  questa  cosa  è  l'essere  slesso,  quella  definizione  ci  si  cangia 
in  quest'altra:  «quel  tanto  di  essere,  che  ha  l'essere»,  dove 
la  misura  dell'essere,  espressa  in  quel  tanto,  scomparisce,  cioè 
adire  rimane  l'essere  senza  misura;  come  nel  calcolo,  quando, 
facendo  uguali  a  nulla  i  differenziali ,  ci  rimane  1'  incognita  con 
un  valore  massimo.  Quel  tanto  di  essere,  che  ha  l'essere,  non 
è  dunque  che  l'essere  stesso:  onde  l'essenza  dell'essere  e  l'es- 
sere è  il  medesimo,  salvo  la  forma  astratta  della  prima  espres- 
sione. L'essere  dunque  esprime  l'essere  come  oggetto  ùeW  intuito 
senza  l'intuito  (Logic.  504):  l'essenza  dell'essere  esprime  l'es- 
sere stesso  come  oggetto  dell'astrazione  e  coll'astrazione. 

234.  Ma  consideriamo  di  novo  questa  espressione:  «  essenza 
dell'essere  »,  equivalente  alla  definizione:  «  ciò  che  l'essere  è  ». 
In  quesla  es{)ressione  cadono  le  due  forme  essere,  ed  e.  Nella 
Logica  noi  abbiamo  veduto  che  la  prima  forma  espi  ime  Vatto  vi- 
sibile alla  mente ,  considerato  senza  il  concetto  di  questa  visibi- 
lità relativa   alla  menle  che   intuisce,    ma  come   puro   oggetto 


{Logic.  504):  la  seconda  forma,  È,  esprime  l'atto  che  si  fa, 
non  come  visibile  alla  mente  (  Logic.  5^0  sgg.  ).  Il  concetto  dun- 
que, che  viere  espresso  dalla  parola  essenza,  esprime  «l'alto 
che  si  fa»,  ma  in  forma  astratta  e  divisa  dal  subiello ,  e  in- 
sieme visibile  alla  mente  astrattiva.  Nell'essenza  dunque  concor- 
rono quo' due  modi  di  concepire,  di  maniera  che:  i°  l'essere  si- 
gnifica Tatto  come  si  vede  farsi,  preciso  da  ogni  concetto  di  vi- 
sione; 2**  VE  significa  l'atto  come  si  fa,  e  non  come  si  vede; 
3°  Vessenzn  significa  «l'atto  come  si  fa,  in  quanto  si  vede  colla 
vista  astrattiva  deliamente»  ( Def.  5). 

Abbiamo  detto  che  «  l'essere  della  tal  cosa  »,  e  «  l'essenza 
della  tal  cosa  »  sono  espressioni  che  significano  il  medesimo.  Se 
dunque  a  talcosa  sostituiamo  l'essere,  ne  viene,  che  «l'essenza 
dell'essere»  significhi  il  medesimo  che  «l'essere  dell'essere»; 
dove  si  ripete  il  medesimo ,  con  solamente  una  riflessione  del 
l'essere  sopra  se  stesso  {Logic.  349),  e  l'ordine  delle  riflessioni  è 
un'altra  di  quelle  quattro  cause,  che  abbiamo  accennate  come 
modificatrici  del  significalo  dialettico  de'  concetti  e  delle  parole 
(^203,  208*).  Qual  è  dunque  la  differenza  dialettica  tra  l'e- 
spressione semplice  di  «  essere  »  ,  e  quella  di  «  essere  dell'es- 
sere »  ?  In  quest'ultima  espressione  il  secondo  essere  tien  luogo 
del  subictto ,  a  cui  si  riferisce  l'essenza,  e  il  primo  essere  espri- 
me l'essenza  medesima.  In  tutte  le  altre  essenze  il  subiello  è  di- 
stinto dall'essenza  diluì,  ma  quando  per  subielto  dell'essenza 
si  prende  lo  stesso  essere,  allora  s'identifica  il  subietto  coH'es- 
senza,  come  vedemmo.  Ma  la  mente  conserva  le  forme  logiche 
distinte  ,  cioè  la  forma  di  suhietto  e  la  forma  d'essenza ,  che  a 
lui  si  riferisce.  In  che  differiscono  queste  forme.'* 

235.  Il  subiello  significa  «  ciò  che  fa  l'atto  »:  l'essenza  significa 
Vallo  nella  sua  forma  astratta  dal  subielto,  ma  ad  esso  relativa. 
L'essere  dunque  è  consideralo  in  due  modi  dalla  mente  ,  come 
subiello  dialettico,  e  come  atto.  Questa  dualità  dunque  nasce  uni- 
camente dai  modi  di  concepire:  ma  a  questi  modi  di  concepire 
nel  caso  presente  non  risponde  alcuna  distinzione  nell'oggetto 
stesso  concepito,  che  è  identico  e  né  pure  suscettivo  di  quei  due 
modi.  Poiché  l'essere  è  puro  alto  e  non  subielto,  quale  sta  da- 
vanti, cosi  puro,  alla  mente  umana.  C'è  dunque  qui  una  limi- 
tazione della  mente,  che  moltiplica  quello,  che  non  può  essere 


i85 

moltiplicato.  Laonde  se  non  ripugna  il  dire  «  l'essenza  dell'es- 
sere )),  perchè  la  replicazione  dell'essere  non  è  così  subito  palese; 
offende  però  gli  orecchi  l'altra  espressione  identica:  «  l'essere 
dell'essere  »  :  e  ognuno  qui  s'accorge,  che  con  ciò  non  si  dice 
jillro  che  semplicemente  l'essere. 

Questa  espressione  dunque:  «  l'essenza  dell'essere  «  non  si 
tollera,  se  non  perchè  siamo  avvezzali  a  dire:  «  l'essenza  della 
tale  e  tal  cosa  »,  onde  anche  per  l'essere  conserviamo  la  stessa 
forma  verbale:  che  dicendosi  semplicemente  «  l'essenza  »,  aspet- 
tiamo, che  segua:  «  della  tal  cosa  ».  Pure  vincendo  questa  abi- 
tudine di  forma,  ben  intendiamo,  che  invece  di  «  l'essenza  del- 
l'essere »,  possiamo  dire  assolutamente:  «  l'essenza  »^  e  inten- 
diamo altresì  che  «  l'essenza  »  senza  aggiunger  altro  esprime 
meglio  e  più  semplicemente  quello  che  si  suol  dire  :  «  l'essenza 
dell'essere  »  :  e  così  appunto  Platone  adoperò  ovaia  mollo  spesso. 

236.  La  terminazione  poi  diversa  della  parola  esmìza  da  quella 
della  parola  essere,  ben  dimostra  che  quella  è  l'essere  nella  sua 
forma  astratta,  cioè  l'essere  che  si  astrae  da  un  subietto  qua- 
lunque, e  però  che  involge  una  relazione  con  un  subietto;  e  per- 
chè questo  suhietlo  è  indeterminato,  perciò  la  parola  essenza 
senza  più  porta  in  sé  l'impronta  della  massima  universalilù , 
laddove  la  parola  essere  non  l'ha  per  se ,  se  non  presa  nel  senso 
d'essenza ,  o  coll'aggiunta  d'essere  iniziale  o  virtuale. 

Che  anzi,  se  noi  consideriamo  la  parola  essenza  nella  sua  eti- 
mologia ,  troveremo  forse  in  questa  stessa  una  relazione  col  suo 
subielto,  poiché  sembra  che  ella  inchiuda  due  volte  l'essere, 
come  nella  espressione  «  l'essere  dell'essere  »•  E  veramente  come 
sapiente,  cioè  sapiente,  è  un  ente  che  sa,  pot-ente  un  ente  che 
può,  ecc  ;  così  ess  ente  viene  a  dire  un  ente  che  è,  e  nella  forma 
astratta  sapienza,  potenza,  ess-enza ,  viene  a  dire  Tenlità  di 
ciò  che  sa,  di  ciò  che  può,  di  ciò  che  è. 

Articolo  VL 

Significali  delle  parole:  subielto  e  predicato. 

257.  Riprendendo  la  definizione  :  «  il  suhictto  è  ciò  che  in  un 
ente,  o  in  un  gruppo  di  entità,  si  concepise  come  primo,  contenente. 


18G 

e  causa  dell'unità  « ,  vedesi  che  in  essa  si  dislingue  il  subielto  in 
un  ente,  e  in  un  gruppo  d'enlilà,  che  costituiscono  qualche  cosa, 
che  non  è  una  in  sé,  ma  soltanto  rispetto  alla  mente.  Quindi: 
un  subietlo  in  ,sè*,  cioè  ncWente,  e  un  subietto  dialettico  cioè 
relativo  alla  mente. 

238.  L'ente  potendo  essere  reale,  ideale,  e  morale,  in  ciascuna 
di  queste  tre  forme  si  concepisce  il  subictto  dell'ente. 

Il  subietto  unito  alle  entità  che  egli  contiene,  e  di  cui  è  la 
prima  —  il  che  vuol  dire,  che  l'altre  senza  di  lui  non  sarebbero  — 
è  quello  che  costituisce  l'ente  stesso  completo:  così  la  definizione 
dell'ente  appartiene  al  subietto  in  unione  coll'altre  entità  è  non 
alle  entità  in  unione  col  subietlo. 

Dovendo  dunque  in  ogni  ente  compiuto  e  reale  esservi  il  su- 
bielto ,  questo  è  della  stessa  natura  dell'ente,  cioè  è  anch' egli 
principio  negli  enti,  che  sono  principi;  o  termine  negli  enti, 
che  sono  termini;  ne'  misti  poi  egli  non  è  che  principio,  per- 
chè altramente  non  potrebbe  essere  primo  in  tutto  l'ente. 

259.  Se  in  ogni  ente  compiuto  deve  necessariamente  esservi  il 
subietto,  ne  viene,  che  ogni  qualvolta  la  mente  fa  un  gruppo 
d'entità,  delle  quali  una  di  esse  sia  un  ente  compiuto,  in  questo 
gruppo  sono  due  suhietli ,  cioè  il  subietlo  del  gruppo,  e  questo  è 
puramente   dialettico,  e  il  subielto   dell'ente,  il  quale  è  reale. 

Così ,  se  si  considera  l'essere  indeterminato  come  subietto  degli 
enti  reali  e  completi ,  egli  è  un  subietto  dialettico,  e  ognuno  degli 
enti  ha  il  suo  subielto  reale. 

Ma  negli  enti  termini  il  subielto  reale  è  supposto  dalla  mente 
come  un  incognito,  aftìne  dì  poterlo  pensare:  e  si  può  dire  un 
subietlo  cogitativo ,  o  un  subietlo   surrogato. 

240.  Essendo  primo  il  subietto  in  ogni  Uno  ,  che  si  concepisce 
come  ente,  e  contenendo  tutte  le  altre  cose,  che  la  mente  in  quel- 
l'uno può  distinguere:  quell'altre  cose  tutte  si  predicano  del  su- 
bietlo, e  si  dicono  predicali  (*). 

(*)  Sospetto  che  qui  ci  sia  una  piccola  lacuna,  perchè  queste  poche  pa- 
role sul  predicato  furono  fatte  trascrivere  dall'Autore  verso  il  fine  della  sua 
vita  in  un  foglio  a  parte  coli' intenzione,  a  quanto  p;ire,  di  svilupparne  più 
ampiamente  il  concetto,  ma,  qualunque  uè  sia  stata  la  cagione,  il  rima- 
nente del  foglio  rimase  in  bianco.  Fr.  Paoli. 


SEZIONE  II. 


Sisieiua  dciriiuitù  e  idculitìi  dialettica 


CAPÌTOLO   1. 

DdVunilà  diakltica.  ~  Bisogno,  che  ha  l  intelliijenza  umana  di  ri- 
durre tulio  io  scibile  ad  un  principio,  e  come  da  lenlalivi  di  sod- 
disfarvi nacquero  molti  sistemi  erronei  pi r  non  essersi  definito  a 
sufficienza  il  significalo  dei  vocaboli. 


AUTICOLO    1. 

L'anlinomhi    dell'unità  e  della  pluralilà  delTessere  non  si  scioglie 
se  non  per  una  dialettica  distinzione  di  concetti. 

2^1.  Dalle  dislinzioni ,  che  abbiamo  esposte  nell'antecedente 
Sezione  apparisce,  come  uno  stesso  oggetto  della  mente  si  molti- 
plica e  divien  molti  nelle  quattro  maniere  indicate,  senza  perdere 
la  sua  prima  unicità.  Queste  maniere,  per  ripeterlo,  non  dipen- 
dono tutte  dalla  limitazione  dell'umana  mente,  ma  parte  dalla 
natura  dell'essere,  come  la  trinità  delle  forme;  parte  dalla  mol- 
tiplicilà  delle  facoltà  umane  colle  qu.ili  s'apprende  l'essere  —  e 
qucst'è  una  prima  limitazione,  — ond'aceade  che  l'essere  presenti 
ad  una  facoltà  un'aspetto  altro  da  quello  che  esso  presenta  ad 
un'altra,  p.  e.  alla  facoltà  dell'intuizione  l'essere  si  presenta 
come  un  atto  visibile ,  a  quella  del  giudizio  come  un  atto  che 
si  fa:  parte  da' diversi  modi  e  dalle  diverse  relazioni,  nella  nuali 
la  stessa  facoltà  concepisce  l'essere  :  cosi  l'astrazione  concepisce 
l'essere  variamente  astratto;  parte  finalmente  dal  diverso  nu- 
mero delle  riflessioni,  con  cui  si  considera  l'essere  stesso.  Quindi 
accade  che  lo  stesso  vocabolo  riceva  diversi  usi  e  significali. 


188 

Ora  quanto  siano  necessarie  tali  distinzioni  all'Ontologo  s'in- 
tenderà faciinìente  considerando  la  natura  del  Problema  dell'On- 
tologia, che  abbiamo  dichiarato  nel  libro  intorno  al  medesimo; 
e  da' tentativi  mal  riusciti  fin  qui  per  dargli  una  soddisfacente 
soluzione.  Poiché  alcuni  Filosofi  né  pure  posero  direttamente  il 
problema,  o  certo  non  si  trattennero  a  studiarne  diligentemente 
la  natura;  altri  lo  posero  più  o  men  bene,  ma  poi  restarono 
schiacciati  sotto  il  suo  peso.  Fra  questi  ultimi,  sono  gli  specula- 
tori tedeschi  dal  Kant  in  poi;  e  l'averlo  essi  posto  in  forma  più 
esplicita  di  tutti  i  filosofi  precedenti,  è  un  merito  scientifico,  che 
loro  non  potrà  mai  esser  tolto. 


Articolo  II. 

Il  problema  dell'unità  e  della  plurali  là  deW  essere 
presso  gli  antichi  Filoso f. 

242.  Giace  nell'intelligenza  umana  il  bisogno  di  ridurre  ogni  cosa 
ad  unità.  Se  si  considera  onde  nasca  questo  bisogno^  si  vedrà 
facilmente  ,  che  la  sua  origine  viene  da  questo  ,  che  l'umana 
mente  intende  tutto  ciò  che  intende  coWessere,  e  che  «  ciò  che 
non  è  essere  non  può  intenderlo  »  ,  il  qual  fu  da  noi  detto 
«  principio  di  cognizione  »  (Ideol.  559,  560  :  Logic.  540-545  ; 
Psicol.  1294  sgg.).  Ora  Vessere  è  una  natura  semplice  ed  una: 
e  perciò  la  natura  umana  non  può  persuadersi,  che  ci  sia  qualche 
cosa  fuori  dell'essere,  il  che  sarebbe  un'aperta  contraddizione  : 
tende  dunque  incessantemente  ed  aspira  a  ridurre  tutte  le  cose 
all'essere,  come  ad  unica  e  semplice  natura.  Ella  non  tende  già 
solamente  a  coseguire  quest'unità  nell'ordine  delle  cognizioni  , 
ma  anco  in  quello  delle  cose  reali,  perchè  anche  in  queste  non 
vede  finalmente  altro  che  essere  (^62-66*). 

243.  Forse  la  prima  volta  che  questo  bisogno  dell'intelligenza  si 
trasformò  in  un  esplicito  problema  filosofico  fu  presso  di  noi  per 
mezzo  di  Parmenide.  Questo  filosofo  sembra  averlo  sciolto  con 
un  grande  coraggio  speculativo,  ma  senza  coglier  nel  vero, 
poiché  dichiarando  che  sono  uno  tutte  le  cose,  non  indicò  come 
la   pluralità  de' concetti  e  de' reali  a  quest'uno  si   riducesse.    Il 


189 

suo  errore  nondimeno  va  immune  dalla  ignobiltà  e  dalla  bas- 
sezza di  que' filosofi  ,  che  sentendo  il  problema  superiore  alle 
proprie  forze  e  schifi  di  confessarsi  incapaci  di  scioglierlo  ,  la- 
sciarono da  un  canto  il  bisogno  indubitabile  dell'intelligenza  di 
trovare  un  principio  d'unilà  di  tutte  le  cose,  come  se  non  esi- 
stesse, e  s'adagiarono  nella  molliplicità  disgregata  de' sensibili  e 
de' concetti,  come  se  di  quella  unità,  a  cui  l'uomo  aspira,  si 
potesse  far  senza,  quasi  d'una  vana  e  superflua  stravaganza. 

2^44.  Platone  il  primo  e  il  solo  — poiché  Aristotele  non  è  che  un 
suo  discepolo,  il  quale  in  parte  perfezionò,  in  parte  guastò  l'opera 
del  maestro  {Arisi.  ^429-130;  2G4;  pass.*),  —  tentò  di  conservare 
la  molliplicità  e  l'unità  ad  un  tempo,  ben  vedendo,  che  nò  l'una 
né  l'altra  si  poteva  negare,  collegandole  insieme  e  dimostrando, 
che  la  molliplicità  era  nell'unità  stessa  dell'essere,  e  che  questo 
non  si  poteva  concepire  essente,  se  non  uno  ad  un  tempo  stesso 
e  moltiplice.  Il  pensiero  era  sublime  e  tale  che  non  poteva  più 
perire  nella  scienza.  Ma  l'esecuzione  di  questo  pensiero  non  po- 
teva esser  condotta  alla  sua  peifczione  da  un  solo  uomo,  perché 
nascondeva  difficoltà  imprevedute;  come  accade  sempre  a' dif- 
ficili problemi  la  prima  volta  che  si  presentano  ,  e  che  una 
mente,  robusta  ed  acre  quanto  si  voglia,  tenta  di  scioglierli.  A 
ragion  d'esempio,  Platone  non  conobbe  distintamente  nò  cercò 
qual  fosse  la  prima  varietà  che  cade  nell'essere  ,  non  conobbe 
cioè  la  distinzione  e  la  natura  delle  tre  forme  ,  che  sola  è  es- 
senziale all'essere  stesso  ,  e  da  cui  ricominciano  tutte  le  altre 
varietà  e  diversità.  A  cagione  de'  difelli  che  rimasero  nella  so- 
luzione platonica  del  gran  problema,  ella  fu  messa  in  dubbio, 
combattuta,  da  molli  fu  abbandonalo  il  problema  stesso,  o  di- 
chiarandolo una  vana  speculazione  e  insolubile  come  la  quadra- 
tura del  circolo,  o  affallo  dimenticandolo,  dormendoci  sopra  il 
pigro  sonno  dell'  ignoranza. 

Articolo   III. 

Il  problema  delV  unità  e  della  pluralità  dell'essere 
perchè  non  potuto  sciogliere  dal  Fichte. 

24o.Ma  esso  è  pur  uno  di  que'problemi,  che  non  si  dimenticano 
per  sempre,  e  che  ritornano  a  certi  determinali  tempi  a  sturbar 


190 

la  quiete  delle  intelligenze,  fino  che  non  sono  sciolti  del  tutto. 
Questo  problema  ricomparve  con  una  forza  da  gigante,  ne' tempi 
moderni,  allo  spirito  del  Fichte  e  de' suoi  due  illustri  successori. 
Ma  sgraziatamente  il  Fichte,  a  cui  dalla  filosofia  del    Kant  era 
slato  inoculalo  il  soggellivismo,  fissò  il  suo  pensiero  all'/O  umano, 
e  credette  in  questo  —  o  in  un  altro  IO  imaginato  alla  foggia  di 
questo  —  di  poter  unificare  tulle  le  cose.  Quelli  che  più  favore- 
volmente credono  d' inlerpretarlo,  come  il  Chaliboeo  (1),  dicono 
che  egli  credeva  alla  realità  del  mondo,  ma  al  di  fuori  del  suo 
sistema,  soltanto  per  la  fede  nella  legge  morale.  Ma  questa  slessa 
distinzione  tra  la  scienza  e  la  fede,  già  introdolla  dal  Kant  colla 
sua  distinzione  della  ragione  in  teoretica  e  pratica  [Teod.  101), 
toglie  quell'unilà  che  si  volea  stabilire,  e  introduce  una  dualità. 
Era  una  protesta  della  natura  contro  il  sofisma:   poiché   quella 
fede  di  Giovanni  Teofilo  Fichte  in  opposizione  alla  scienza  è  un 
riconoscimento  della  forma  morale  dell'essere  con  altre   parole  , 
e  nel  fondo  si  riduce  a  un  argomenlo  di  convenienza  mclajìsical 
di  cui  nella  logica  {Logic.  J  12^-1120*).  Ma  due  cose  capitali  sfug- 
girono alla  mente  di  quel  filosofo;  l'una  d'ascendere  all'essere, 
anteriore  di  concetto  alle  forme,  loro  vincolo  e  principio  d'iden- 
tificazione ,  il  qual  difetto  tolse  Vimilà;  lallro  il   non   aver  in- 
teso   la   distinzione  categorica  e  irreducibile  della  forma   ideale 
od  obiettiva,  e  della  forma  reale  o  subiettiva.   Poiché  il  Fichte 
fn,  che  la  forma  obiettiva  (il  sapere  obicttivo)  sia  anch'ella   un 
puro  allo  di  pensare,  un  allo  reale  del  subietto  10,  e  da  questo 
prodotto  ;    il   che   fa   che  il  sistema  sia   manchevole  anche   dal 
lato  della  pluralità,  in  cui  è  l'essere  ,  essenziale  anch'essa  alla 
sua  intima  costituzione. 

(t)  Historische  Entivickelung,  etc.  3*  ed.,  p.  178. 


d91 

Articolo  IV. 

//  problema   deliimità   e  della  pluralità   dell'essere 
nelle  mani  dello  Schelling. 

S  I. 

Lo  Schelling  pone  male  lo  stato  del  problema. 

ikO.  Come  il  Fichte  avca  incominciato  a  cercare  l'unità  nell'or- 
dine della  scienza  col  suo  \ivo'^v<\mma:  Sul  concetto  della  dottrina 
della  scienza,  publicato  a  Jena  nel  1794  (1);  cosi  fece  pure  il  suo 
discepolo,  lo  Schelling,  che  nello  stesso  anno  pubblicò  a  Tubinga 
il  suo  scritto;  Sulla  possibilità  e  sulla  forma  della  filosofia  in  ge- 
nerale (2),  Il  problema  dell'Ontologia  così  posto  non  compariva 
che  da  un  lato  solo,  cioè  da  quello  dello  scibile,  non  da  quello 
dell'essere  reale.  Volendo  dunque  quei  pensatori  risolverlo,  cam- 
minando su  questa  via  laterale  ,  riuscirono  ,  specialmente  lo 
Schelling,  a  violentare  la  natura  delle  cose,  ricacciando  nello 
stesso  scibile,  per  diritto  o  per  traverso ,  anche  il  mondo  reale: 
storpiatura  raccolta  poi  dall'Hegel  e  magnificata  come  una  gran 
verità.  Ma  lo  Schelling  mal  contento  del  dualismo  del  Fichte , 
si  sforzò  di  pervenire  a  un  sistema  di  perfetto  unitarismo  ,  ri- 
ducendo ad  un  solo  principio  la  scienza  e  la  fede  del  Fichte: 
all'Hegel  poi  parendo,  che  l'opera  non  fosse  ancora  com- 
piuta, per  un'atto  d'intuizione  soggettiva,  che  rimaneva  nel 
Sistema  dello  Schelling  distinto  dall'oggetto  di  essa  intuizione  , 
si  vantò  d'avere  col  suo  Sistema  dell'  idea  assoluta  trovato  il 
vero  Sistema  unitario  (3),  invano  cercato  da' suoi  predecessori 
[Logic.  ^45,  sgg.*).  E  questo  vanto  medesimo  è  la  confessione  che 

(1)  «  Ueber  den  Begriff  der  Wissenschaftslehre  ». 

(2)  «  Ueber  die  Móglichkeit  iind  Forme  der  Philosophie  iiberhaiipt  j>.  — 
11  Fictite  avea  allora  32  anni,  lo  Sclielling  19. 

(3)  Per  Sistema  unitario  intendo  quello  —  qualunque  ne  sia  la  forma,  — 
che  nella  soluzione  del  problema  ontologico,  sollecito  della  sola  ^(nità  dell'es- 
sere, 0  non  conosce,  o  abolisce  la  moltiplicità  sua  propria,  cioè  le  tre  forme 
categoriche,  senza  le  quali  l'essere  stesso  diventa  assurdo. 


495 

lo  condanna:  che  un  sistema  di  puro  unitarismo  è  contrario  alla 
natura  dell'essere  ,  la  dottrina  del  quale  è  l'Ontologia.  Laonde 
a  questo  Filosofo  sfuggì  in  fatti  di  mano  l'essere  stesso,  e  fu 
cacciato  dal  primo  errore  tanto  avanti  nell'assurdo,  che  si  vide 
obbligato  a  fare  l'essere  stesso  uguale  al  nulla  e  a  ripararsi  nel 
concetto  oscuro  e  volgare  del  dmnlare  ,  di  molto  posteriore  a 
quello  dell'essere   {Logic.  51). 

Ihl .  Ma  chi  vuole  sottomettere  alla  critica  qualche  sistema  fi- 
losofico, deve  prenderlo  da  suoi  principi,  e  vedere  se  i  passi  del 
pensatore  vadano  diritti,  fissando,  in  caso  che  no,  quel  primo 
punto,  nel  quale  il  suo  raziocinio  travia.  Riprendiamo  adunque 
l'opuscolo  di  sopra  citato  del  maestro  dell'  Hegel  ,  il  primo  da 
lui  pubblicalo,  che  contiene  il  germe  di  tutto  il  Sistema  Schel- 
linghiano,  e  analizzandolo  cerchiamo  di  sorprendere  il  ragiona- 
mento, che  vi  si  adopera  nel  luogo  preciso,  dove  incomincia  a 
sviare  (1) . 

In  quest'opuscolo  si  proponeva  lo  Schelling  di  cercare  «  il  prin- 
cipio universale  della  filosofia». 

Incomincia  dicendo ,  che  si  devono  risolvere  due  questioni  : 
«  qual  sia  il  principio  formale,  quale  il  principio  materiale  di 
ogni  sapere  ». 

2^48.  Sulle  quali  due  questioni,  ch'egli  propone  ex  abrupto,  dob- 
biamo già  osservare  ch'esse  non  possono  essere  le  prime  nella 
Filosofia  :  poiché  importando  esse  una  riflessione  sulla  Filosofia 
slessa,  suppongono  la  Filosofia  già  formata. 

Di  poi  tali  questioni,  prese  come  prime  ,  ne  pregiudicano  molte 
altre;  p.  e.,  esse  suppongono  certo,  che  ci  sìa  un  principio  for- 


(1)  Lo  Sclielling  andò  bensì  ne'suoi  posteriori  scritti  sviluppando  sempre 
più  il  suo  sistema,  ma  non  cangiandone  i  principi,  che  sono  quelli  clie  più 
importa  siano  accuratamente  esaminati.  I^a  stessa  nova  Filosofia,  ch'egli  im- 
prese d'insegnare  a  Berlino,  è  proposta  da  lui  come  una  continuazione  del 
primo  suo  sistema,  0,  com'egli  dice,  un'altra  pagina  della  Filosofia.  «  Erste 
Vorlesung  in  Berlin  15  Novembr.  1841  ».  La  differenza,  che  lo  parte  dal 
Fichte,  è  forse  più  di  parole  che  d'altro:  poiché  l'un  e  l'altro  traggono  lo 
spirito  e  il  mondo  esteriore  dall'Io:  nel  Fichte  il  mondo  esteriore  pare 
anch'egli  un'idea:  lo  Schelling  volle  provarlo  una.  realità.  Ma  il  mondo  e 
ogni  cosa  riman  sempre  un  effetto  dell'Io,  e  l'Io  stesso  è  un  effetto  di  sé 
stesso:  onde  poi  il  nullismo  dell'Hegel. 


193 

male,  e  un  principio  materiale  di  tulio  lo  scibile,  il  che  non 
è  stalo  ancora  provato.  Sarebbe  stalo  almeno  necessario  definir 
prima,  con  una  definizione  propria,  la  stessa  Filosofia,  definire 
la  forma  e  la  materia  della  medesima ,  definire  che  cosa  s' in- 
tenda per  principio,  e  [ìgv  principio  [urinale,  e  \ìer  principio  ma- 
teriale. Lasciando  tulio  questo  sottinteso,  si  viaggia  necessaria- 
menle  alla  cieca. 

249.  Viene  in  appresso  una  definizione  generica  della  Filosofia  : 
((  La  Filosofia  —  si  dice  -  è  una  scienza,  cioè  un  contenuto  deter- 
minato sotto  una  forma  determinata)).  Con  questa  definizione 
non  si  fa  conoscere  della  Filosofia ,  se  non  ciò  ch"ella  ha  di  co- 
mune con  tulle  r altre  scienze:  che  anzi  restringendosi  a  dire 
un  contenuto  dclerminalo  sotto  una  forma  determinala,  non  si 
sa  perciò  né  di  qual  conlenuto  ,  nò  di  qual  formasi  parli,  cioè 
se  d'un  contenuto  e  d'una  forma  nell'ordine  delle  cognizioni,  o 
in  quello  delle  realità.  E  se  in  quello  delle  cognizioni ,  conve- 
niva dire  chiaramente,  che  cosa  sia  il  contenuto  nell'ordine  delle 
cognizioni,  che  cosa  la  forma  in  quest'ordine  medesimo.  La  forma 
nell'ordine  delle  cognizioni  non  è  anch'essa  una  cognizione?  e  se 
è  una  cognizione,  non  è  anch'essa  o  non  può  essere  un  conte- 
nuto? e  se  non  è  una  cognizione  che  cosa  è  dunque?  —  Egli  è  certo 
d'altra  parte,  che  non  ogni  contenuto  e  ogni  forma  è  una  scienza, 
non  ogni  contenuto  e  ogni  forma  è  la  Filosofìa.  La  parola  slessa 
di  conleuìito  (quand'anco  non  si  voglia  chiamarla  una  metafora) 
ha  un  significalo  assai  diverso  applicala  al  mondo  delle  cogni- 
zioni e  a  quello  delle  realità:  e  rispetto  a  queste  ancora  riceve 
un  senso  diversissimo,  quando  s'applica  alle  cose  corporee,  e 
quando  s'applica  alle  cose  spirituali;  che  uno  spirito  contiene 
ciò  che  contiene  in  un  modo  tuiraHalto  differente  da  quello  di 
un  vaso  pieno,  che  contiene  del  liquore.  Se  lo  Schelling  avesse 
chiariti  precedentemente  tutti  questi  significali ,  e  dimostrato 
in  che  consiste  la  differenza  del  contenuto  dalla  forma ,  e  se 
sia  una  difterenza  assoluta  o  relativa,  se  una  differenza  in 
sé  0  puramente  dialettica  ,  non  sarebbe  sopravvenuto  poi 
l'Hegel  a  negare  tra  contenuto  e  forma  ogni  differenza  ,  gio- 
cando anch' egli  d'equivoci.  Che  anzi  investigando  più  avanti 
la  natura  del  contenuto  e  della  forma  nell'ordine  scientifico, 
sarebbe  pervenuto  a  discoprire,  probabilmente,  la  differenza 
Rosmini.  Teosofa.  i3 


494 

categorica  dell'essere  ideale  e  del  reale,  da  cui  quella  dualità 
scientifica  procede,  e  in  cui  ultimamente  si  fonda,  come  ve- 
dremo nel  libro  seguente. 

250.  Domanda  in  appresso^  se  il  contenuto  e  la  forma  della  Fi- 
losofia sicno  arbitrari  o  determinati  necessariamente,  di  maniera 
elle  il  contenuto  vesta  necessariamente  questa  forma,  e  la  forma 
tragga  seco  questo  contenuto  :  nel  qual  caso ,  dice ,  sono  fondali 
sopra  un  principio  comune.  Questa  questione  partecipa  di  tutta 
l'indeterminazione,  in  cui  furono  lasciali  i  termini,  ne'  quali 
ella  è  posta  per  mancanza  di  definizioni.  Per  forma  s' intende 
quella,  cbe  la  mente  umana  può  dare  allo  scibile,  concependolo,  o 
esprimendolo  in  parole?  e  in  questo  caso  c'è  una  forma  sola  o 
più?  ovvero  s'intende  per  forma  quella,  che  esige  lo  scibile  stesso? 
Ma  lo  scibile,  come  contenuto,  esige  egli  una  forma  diversa  da  se 
slesso?  E  di  quale  scibile  si  parla?  d'uno  scibile  che  può  cadere 
nella  mente  umana ,  o  d'uno  scibile  infinito,  alla  mente  umana 
inaccessibile?  E  se  si  parla  delio  scibile  ,  qual  può  cadere  nella 
mente  umana,  d'uno  scibile  finito  e  imperfetlo,  comesi  può  di- 
mostrare ch'egli  esiga  una  sola  forma?  Se  poi  si  parla  dello  sci- 
bile infinito,  qual  è  in  Dio,  è  egli  provato  che  deva  avere  una 
forma,  o  che  questa  sia  la  forma  della  Filosofia?  Poiché  la  parola 
Filosofia  sembra  accennare  a  una  scienza  umana,  altrimenti  ten- 
teremmo il  volo  d' Icaro.  Laonde  quand'anco  fosse  provato,  che 
lo  scibile  compiuto  ed  infinito,  quale  è  in  Dio,  dovesse  avere 
un'unica  forma  ;  non  sarebbe  ancor  provato  ,  che  quello  scibile 
imperfetto,  e  conformato  alle  limilozioni  della  mente  umana,  cioè 
la  Filosofia,  fosse  suscettivo  di  quella  forma  unica,  e  non  do- 
vesse anzi  dalla  sua  slessa  imj)erfezione  e  limitazione,  corri- 
spondente a  quella  delle  facoltà  umane,  poter  ricevere  più  forme, 
0,  se  una  sola,  anche  questa  imperfetla  com'è  imperfetto  il  con- 
tenuto. Se  poi  si  dice,  che  anche  nella  mente  umana  lo  scibile 
tiene  qualche  cosa  dell' infinito  e  dell'assoluto,  in  tal  caso  non 
si  doveva  parlare  di  tulio  lo  scibile ,  o  della  Filosofia ,  senza 
distinzione  ;  ma  era  necessario  cominciare  il  discorso  dal  dimo- 
strare :  \°  che  una  parte  dello  scibile  umano  è  necessaria  e 
assoluta;  2°  separare  questa  parte  necessaria  e  assoluta  da  tutto 
il  rimanente;  3.""  domandare  se  questa  parte  aveva  i  due  elementi 
del  contevuto  e  della  fornid ,  e  se  forse  questa  appunto  si  riducesse 


495 

in  fine  a  essere  la  forma,  per  l'uomo,  d'ogni  scientifico  contenuto 
{Teod.  ÌU;  Ideol.  506-509;  'HOi-1109.). 

La  queslioiie  dunque  :  «  se  la  forma ,  e  il  contenuto ,  della 
Filosofia  è  arbitraria  o  necessaria  »,  rimane  troppo  indeterminata 
nella  maniera  in  cui  se  la  pose  lo  Schelling.  Vediamo  come  si 
faccia  a  risolverla. 

I  2. 

Lo  Schelling  pone  male  le  condizioni  della  soluzione 
del  problema. 

251.  Comincia  ancora  da  una  definizione  impropria  e  soverchia- 
mente generale  di  ciò  che  è  una  scienza.  «  Una  scienza  —  dice  — 
è  un  tutto  sotto  la  forma  d'unità».  Non  ogni  tutto  sotto  la  forma 
d'unità  è  una  scienza:  il  corpo  umano,  a  ragion  d'esempio,  è 
un  tutto  sotto  la  forma  d'unità,  e  non  è  una  scienza.  E  non  si 
dice  né  pure  di  quale  uhità  si  [larli ,  essendovi  molte  nianiere 
d'unità.  D'altra  parte  si  cercava ,  se  la  forma  della  Filosofia  sia 
necessaria  :  e  qui  nella  definizione  d'una  scienza  qualunque  si  pre- 
scrive, che  per  essere  scienza  abbia  h  forma  d'unità.  La  forma 
d'unità  è  certamente  unica  :  quindi  con  una  tale  definizione  par- 
rebbe già  sciolto  il  problema.  Che  se  poi  qui  la  parola  forma  si 
prende  in  altro  significato  ,  perchè  non  dirlo?  La  medesima  pa- 
rola in  più  significati  confonde  il  pensiero.  Ma  udiamo  tutto  il 
ragionamento. 

«  L'unità  non  è  possibile,  se  non  quando  tutte  le  parti  d'una 
scienza  dipendono  da  un'unica  condizione,  e  una  delle  sue  parli 
non  determina  un'altra  se  non  in  tanto  che  ella  stessa  è  determi- 
nata da  quella  superior  (Condizione.  Dunque  una  scienza  non  è 
possibile,  se  non  sia  fondata  sopra  un  principio  unico  e  assoluto 
rispetto  ad  essa  ». 

«  Ma  affinchè  questo  principio  possa  essere  la  condizione  di 
tutta  la  scienza ,  conviene  che  sia  nello  stesso  tempo  principio 
del  suo  contenuto  e  della  sua  forma.  Se  dunque  la  filosofia  è 
una  scienza  d'una  forma  determinala,  e  d'un  contenuto  pure 
determinato,  il  principio  unico  e  supremo  non  dee  solamente  dare 
il  fondamento  a  tutto  il  contenuto  e  a  tutta  la  forma ,  ma  avere 


^96 

ancora  egli  stesso  un  centennio  necessariamente  unito  a  una  forma 
determinata  ». 

S'avverta  bene,  che  qui  si  parla  sempre  dell'unità  d'una 
scienza,  e  che  però  non  siamo  nel  mondo  reale,  ma  nel  mondo 
scientifico:  questi  due  mondi,  cioè  questi  due  ordini  di  esseri, 
sono  distinti  costantemente  dal  senso  comune  :  e  il  pensatore  non 
può  confonderli  in  un  solo,  se  prima  non  prova,  che  il  senso 
comune  s'inganna.  Quest'avvertenza  è  necessaria  per  quello  che 
si  dirà  in  appresso. 

252.  Dice  dunque  in  prima,  che  una  scienza  per  avere  unità  deve 
derivarsi  da  un  unico  principio,  che  chiama  anche  condizione  di 
tutte  le  sue  parti  :  ma  non  definisce  in  specie ,  che  cosa  intenda 
per  principio.  Intende  egli  una  proposizione?  Egli  pare;  stantechè 
le  scienze  essendo  un  sapere  riflesso  si  compongono  di  proposi- 
zioni connesse  tra  loro  ,  la  prima  delle  quali ,  da  cui  tulle  le  altre 
derivano,  dicesi  il  loro  principio.  iMa  si  badi:  in  tal  caso  il  prin- 
cipio, che  si  cerca,  non  è  né  un  principio  delle  realilà,  né  un 
principio  di  tutto  lo  scibile  umano,  poiché  lo  scibile  umano, 
come  pure  l'ordine  logico  delle  notizie,  non  incomincia  da  una 
proposizione,  ma  da  una  idea.  E  veramente  le  proposizioni  si 
risolvono  in  idee  come  ne'  loro  elementi ,  e  nella  copula  delle 
idee,  che  é  il  verbo,  che  da  sé  solo  non  costituisce  né  un  giu- 
dizio né  una  proposizione  [Logic.  o3^),  e  che  si  riduce  al- 
l' idea,  da  cui  si  origina  [Logic.  520-327,).  Ora  gli  elementi  sono 
anteriori  logicamente  al  loro  tutto  (1),  e  perciò  sono  i  principi 
del  tutto:  le  idee  dunque  sono  logicamente  i  principi  dello  sci- 
bile ,  anteriori  alla  scienza  che  comincia  dalla  proposizione 
[Logic.  302,  ,83o,  sgg.').  E  veramente  si  può  dimostrare,  e  cre- 
diamo d'aver  dimostrato,  che  anlcccdentcmente  ad  ogni  giudizio, 
e  mollo  più  ad  ogni  proposizione,  l'uomo  possiede,  e  deve  di  ne- 
cessità possedere,  il  lume  d'una  prima  idea.  Il  principio  della 
scienza  dunque  non  è  il  principio  assolutamente  primo:  ma  è 
principio  rispetto  alla  scienza.  Anche  questa  avvertenza  è  da  noi 
posta  qui,  affinchè  il  lellon-  possa  vigilare,  e  quasi  direi  con- 
trollare, i  passi  del  nostro  pensatore. 

E  già  fin  da  qui  quest'avvertenza  ci  giova  di  tanto  ,  che   pos- 

(1)  Arisi.  Metaph.  ^\  (V)  3'. 


197 

siamo  riconoscere  ,  quanto  difelti  di  metodo  la  filosolìa  che  esa- 
miniamo ,  cominciando  dalia  questione  come  deve  esser  fatta  la 
Filosofia  e  disposta  la  scienza  ,  quando  egfi  è  evidente  che  biso- 
gna prima  di  tutto  cercare ,  che  cosa  ci  sia  nella  mente  umana 
d'anteriore  ad  una  scienza  ed  alla  Filosofia:  il  che  è  quanto  dire 
conviene  incominciare  dalle  ricerche  ideologiche,  i  cui  risultati 
si  devono  aver  alla  mano  ad  ogni  passo  nell'altre  questioni ,  e 
in  quella  stessa  cosi  complessa  della  forma  e  del  contenuto  della 
Filosofia  [Logic.  1-9).  11  cercare  dunque  il  principio  della  Filo- 
sofia di  colpo  non  è  incominciare  dal  principio,  ma  buttarsi  in 
mezzo  al  sapere  umano  quasi  a  caso,  per  afferrarlo  dove  la  mano 
incontra. 

255.  Già  incominciando  dal  Kant  la  filosofia  tedesca  era  entrata 
in  questa  falsa  via  :  quegli  speculatori  si  trovavano  nella  cogni- 
zione filosofica  :  credendo  d'  essere  nel  lutto  dello  scibile  ,  non 
s'accorsero  che  erano  in  una  parie,  cioè  nel  sapere  scienlifico, 
e  non  seppero  uscire  da  quella  cerchia.  Cercando  il  principio 
di  questo  si  persuasero  di  cercar  quello  d'ogni  sapere,  quello 
almeno,  a  cui  ogni  sapere  fosse  subordinato.  Perchè,  dunque, 
è  la  ragione  quella  che  produce  la  filosofia,  il  Kanl  rovesciò  l'or- 
dine delle  facoltà  e  descrisse  la  ragione  come  una  facoltà  su- 
periore a  quella  dell'  intelletto  {Idcolog.  ^32a-364*).  Il  Fichte 
medesimamente  dispregia  la  coscienza  immediata  dell'uomo  vol- 
gare, e  dice,  che  soltanto  la  ragione,  che  s'eleva  al  disopra  della 
semplice  coscienza  di  fatto,  dà  il  suo  oggetto  alla  Filosofia  (1); 
pure  lasciava  alla  ragione  il  suo  oggetto  immediato,  onde  venne 
l'intuizione  dello  Schelling.  Ma  l'Hegel  s'accorse,  che  se  s'am- 
mette il  principio  della  Filosofia  come  principio  di  tutto  lo  sci- 
bile ,  e  se  il  principio  della  Filosofia  è  l'opera  della  ragione ,  che 
è  quanto  dire  il  risultato  del  ragionamento,  non  si  polca  accet- 
tare per  principio  alcun  oggetto  immediato  {Introd.  I.  Degli  studi 
deW Autore,  8^),  quasi  che  il  mediato  sapere,  che  dee  ad  ogni 
modo  dall'immediato  derivarsi,  potesse  avere  in  sé  verità  e  cer- 
tezza, se  non  l'ha  quello,  da  cui  ragionando  si  deriva  {Prelimi- 
nare alle  Opp.  Ideol.  12  sgg.)  Noi  abbiamo  riconciliata  la  Fi- 
li) «  Die  Staatslehre ,  oder  das  Verlidltniss  des  Urstaats  zum  Vernun- 
ftreiche  »,  nella  collezione  delle  sue  opere,  t.  IV,  p.  369  sgg. 


198 

losofia  coir  intelligenza  umana,  che  pure  esiste  nell'uoino  prima 
della  Filosofia,  dimostiaiido  che  il  principio,  da  cui  parte  la 
mente  del  filosofo ,  è  di  necessità  quello  stesso  da  cui  parte  la 
mente  dell'uomo,  trasportato  solnmente  questo  unico  principio 
dell'intelligenza  nell'ordine  della  riflessione  filosofica. 

Quesl'  errore  dunque  di  metodo,  pel  quale  lo  Schelling  prese 
a  investigare  qual  doveva  essere  il  principio  della  Filosofìa,  prima 
di  conoscere  che  cosa  sia  sapere  umano,  nella  sua  propria  es- 
senza, travolse  il  corso  del  pensiero  de'  filosofi  di  questa  scola 
in  innumerevoli  errori ,  atti ,  per  la  loro  sottigliezza  e  complica- 
tezza.    a  stancare  ed  esaurire  invano  ogni  potente  intelligenza. 

^2j'(.  Dopo  aver  dunque  supposto  lo  Schelling,  che  la  Filosofia 
deva  avere  una  forma  e  un  contenuto,  e  che  tuttavia  deva  avere 
una  perfetta  tinilà:  non  c'era  altra  via  che  di  ridurre  a  un  principio 
stesso  tanto  la  forma,  quanto  il  contenuto.  Da  questo  conchiude 
lo  Schelling,  che  il  principio  cercato  «  deve  avere  egli  stesso  un 
contenuto  necessariamente  unito  a  una  forma  determinala  ». 
Che  cammino  abhiam  fatto  con  questo?  Eccolo:  se  la  dualità 
delli)  forma  e  del  contenuto  non  toglie  l'unità  che  si  cerca  della 
Filosofia ,  la  stessa  dualità  non  lorrà  l'unità  neppure  al  principio 
della  medesima.  Ma  se  questa  dualità  non  toglie  l'unità  della 
Filosofia,  perchè  né  pur  la  toglie  al  principio  ,  quando  si  tras- 
porta in  questo  :  dunque  la  slessa  dualità  non  può  essere  quella 
che  ci  obblighi  a  cercare  un  principio  della  filosofia,  che  dia  a 
questa  unità,  ma  il  principio  lo  cercheremo  per  qualsivoglia  altra 
sagione.  0  dunque  il  principio  della  Filosofia  ha  in  sé  questa 
dualità,  0  non  Vìva.  Se  non  l'ha,  cessa  d'esser  vero  che  in  esso 
sia  tanto  la  forma  quanto  il  conlcnulo ;  se  l'ha,  la  dualità  si  con- 
serva e  il  principio,  che  si  cerca,  non  la  rimove:  per  questo 
fine  dunque  esso  è  inutile. 

2bo.  Ma,  continua  lo  Schelling,  acciocché  l'unità  non  si  sciolga, 
conviene,  che  i  due  elementi,  da  cui  risulta,  forma  e  contenuto, 
sieno  legati  necessariamente  tra  loro,  di  maniera  che  si  deter- 
minino reciprocamente.  Ammesso  questo  per  la  Filosofia  intera, 
come  s'ammise  non  per  una  dimostrazione  ,  ma  per  un'  ipotesi 
da  cui  si  parte,  la  conclusione  non  è  una  conclusione,  ma  è  la 
stessa  ipotesi  trasportata  dalla  Filosofia  intera  al  principio  della 
medesima.  Con  quella  ipolesi  ,si  dice*  che  «  se  la  forma  e  il  con- 


199 

temilo  sono  legati  necess;iriamenle  in  modo,  che  l'uno  determini 
l'ijltro  reciprocamente,  non  ,si*  toglie  l'unità  della  filosofia  ,e*  non 
^si*  toglie  né  pure  l'unità  del  suo  principio  ».  Questo  principio 
dunque  consta  di  due  elementi,  e  del  loro  nesso,  che  costituisce 
un  terzo  elemento.  Per  quanto  sia  tutto  questo  avanzato  gra- 
tuitamente, potea  però  fare  accorto  il  pensatore  che,  a  malgrado 
di  tutti  gli  sforzi  del  pensiero  per  giungere  alla  perfetta  unità, 
il  pensiero  slesso  da  una  ineluttabile  necessità,  senza  pur  accor- 
gersi ,  è  ricacciato  fuori  dalla  stessa  unità  ad  una  misteriosa  e 
indeclinabile  trinità. 

Di  poi  suj)ponendo  un  principio  il  quale  abbia  una  forma 
ed  un  contenuto  necessariamente  congiunti  e  determinali  , 
conviene  che  la  forma  sia  necessaria  ,  e  necessario  il  conte- 
nuto :  senza  di  questo  non  sarebbe  necessario  il  loro  vincolo. 
Di  qui  procede  ,  che  o  conviene  negare  l'esistenza  delle  cose 
contingenti,  o  conviene  riconoscere  che  il  principio  della  filosofia 
che  si  cerca  ,  non  può  esser  lo  slesso  che  il  principio  di  tutto 
lo  scibile  :  perocché  lo  scibile  si  stende  anche  alle  cose  contin- 
genti ;  si  sa,  a  ragion  d'esempio,  che  esiste  il  mondo,  e  che  po- 
trebbe non  esistere,  senza  che  ciò  involga  contraddizione.  Dunque 
il  principio  che  si  cerca  non  e  né  pure  un  principio  di  tutto  lo 
scibile,  ma  solo  un  principio  della  cognizione  de' necessari:  che  il 
suo  contenuto  è  necessario ,  e  non  ha  nulla  di  contingente.  In 
falli  si  capisce  benissimo  come  la  forma  anche  della  cognizione 
de' contingenti  possa  essere  necessaria  ;  ma  non  si  capisce  come 
il  contenuto  di  quesla  cognizione  possa  esser  necessario,  perchè 
questo  contenuto  è  anzi  il  contingente  medesimo.  Dalla  quale 
osservazione  procede  quesla  ineluttahile  conseguenza,  «  che  non  è 
assurdo  che  un  principio  d'una  cognizione,  che  riguarda  1  soli 
necessari,  abbracci  forma  e  contenuto,  e  sia  necessario,  ma  che 
non  si  dà  e  non  si  può  dare  un  principio  necessario  avente 
in  sé  forma  e  contenuto  della  cognizione  in  universale,  cioè  di  una 
cognizione  che  abbracci  tanto  i  necessari  quanto  i  contingenti, 
e  che  un  tale  principio  per  conscguente  non  può  essere  che  for- 
male, cioè  deve  essere  pura  forma,  ma  non  contenuto  ».  E  di 
vero  il  contenuto  contingente  non  può  esser  legato  in  un  modo 
necessario  con  una  forma  necessaria. 

Vero  è  ,   che  la  forma  contiene  sempre  in  sé  virtualmente  il 


200 

conlenulo  ;  e  questo  è  quello  elio  abhiamo  ehiamalo  Vessere  vir- 
tuale. Ma  questo  appunto  s'cselude  dallo  Schelling  dal  momento 
che  egli  distingue  li  forma  dal  contenuto,  che  il  contenuto  vir- 
tuale non  si  dislingue  dalla  forma  stessa,  ed  è  a  questa  essen- 
ziale; dal  momento  altresì  che  dice,  non  bastare  che  il  principio 
cercato  «  dia  il  fondamento  a  tutta  la  forma  e  a  tutto  il  con- 
tenuto, ma  essere  uopo,  che  abbia  un  contenuto  egli  stesso  unito 
a  una  forma  determinala  )). 

250.  Una  così  fatta  maniera  di  parlare,  noi  osserveremo  di  più, 
è  sommamente  impropria  :  «  avere  un  contenuto  e  una  forma  de- 
terminata ».  Il  principio  cercato,  secondo  la  medesima,  è  il  su- 
bietlo  del  contenuto  e  della  forma;  egli  non  è  dunque  nò  forma 
né  contenuto.  Ma  se  c'è  qualche  cosa  che  non  sia  né  forma  né 
contenuto,  ma  solo  che  abbia  qucsÌQ  due  cose,  ugualmente  si  potrà 
dire  che  la  Filosofia  non  sia  nò  la  sua  forma  né  il  suo  contenute, 
ma  una  terza  cosa  che  ha  questi  due  predicati.  Se  questo  prin- 
cipio, che  non  é  nò  forma  né  contenuto,  ma  subietto  dell'una  e 
dell'altro,  si  può  concepire,  questo  per  fermo  non  può  essere  che 
un  aslrallo;  poiché  da  ciò  che  ha  forma  e  contenuto  e  che  è  indi- 
visibile da  questi,  senza  i  quali  nulla  sarebbe,  si  trae  colla  ragione 
astraente  un  iniziamento  della  forma  e  del  contenuto  che  non  è  né 
runa  né  l'altro  ancora    Dal  che  procedono  due  conseguenze  : 

1.°  che  essendo  la  r^tgione  astraente  un  pensiero  parziale 
(Psìcol.  1519-1521)  e  sempre  posteriore  per  conseguenza  al  pen- 
siero completo  e  totale,  immanente  nella  mente,  essa  non  può  dare 
un  risultato  che  sia  logicamente  primo,  ma  soltanto  un  risul- 
tato dedotto.  Onde  giustamente  diremo  noi  di  novo:  il  Fichte  (1) 
e  l'Hegel  confessarono  con  ingenuità  ,  che  il  principio  del  loro 
sistema  non  era  un  lume  immedialo,  ma  un  sapere  mediato:  il 
che  equivale  a  confessarne  l'imperfezione,  che  ogni  medialo  di- 
pende dall'immediato,  e  però  non  è  né  primo,  né  incondizionalo; 

2.°  che  un  principio  astratto  non  è  né  l'essere,  né  un  ente, 


(1)  [•'il  il  l'iclite  il  primo  a  dire  :  clie  all'uomo  naturale  l'essere  assoluto  è 
flato  dalia  coscienza  immediata ,  ma  al  I^'ilosofo  è  dato  dalla  ragione  che  si 
leva  al  di  sopra  della  semplice  coscienza  di  fatto.  Vedi  «  Die  Slaatstehre , 
oder  das  Verhdltniss  des  Urstaats  ziim  Vermimftr ciche  »  nella  collezione 
delle  sue  opere,  t.  IV. 


20! 

ma  è  una  pura  cnlilà  clemcnlarc  { Idcolog.  JiSS'  ) ,  che  non  può 
avere  esistenza  fuorché  nella  mente  e  non  in  sé,  e  nasce  da 
uno  sguardo  limitato  della  mente  stessa,  che  considera  l'ente  o 
l'essere  da  un  solo  lato  sotto  qualche  sua  relazione,  e  non  nelU 
sua  integrità. 

Dalle  quali  considerazioni  si  deduce,  che  se  si  dà  un  principio 
della  (ìlosolìa^  che  abbia  una  sua  forma  e  un  suo  contenuto,  e 
che  non  sia  egli  stesso  nò  forma  ne  contenuto,  questo  né  è  un 
principio  logicamente  primo,  né  indipendente  né  assoluto,  ma  é 
un  puro  astratto  .  elTetto  d'un'operazione  limitata  della  mente 
umana,  avente  un'esistenza  soltanto  relativa  alla  medesima.  Dal 
che  consegue  ,  che  il  principio  ,  che  per  questa  via  cercò  lo 
Schelling,  non  può  avere  in  nessun  modo  i  caratteri  ch'egli  as- 
segna al  vero  principio  della  Filosofia,  i  quali  sono  che  sia  as- 
soluto ed  incondizionato  ,  e  condizione  egli  stesso  d'ogni  forma 
e  d'ogni  contenuto. 

207.  Ma  forse  lo  Schelling  ci  dirà ,  che  noi  prendiamo  troppo  a 
rigore  la  parola  avere,  e  che  egli  intende  che  il  principio  slesso 
sia  ad  un  tempo  forma  e  contenuto;  e  non  già  un  subietlo  da 
questi  due  elementi  per  astrazione  distinto.  Quando  piaccia  al  fi- 
losofo di  Leonberga  di  correggere  in  questo  modo  le  sue  maniere 
d'esprimersi,  non  vedo  che  possa  guadagnarne  gran  fatto.  Se  il 
detto  principio  è  la  forma  ,  non  può  essere  il  contenuto  nella  for- 
ma ,  a  meno  che  la  forma  stessa  mediante  una  riflessione  non  si 
faccia  divenire  contenuto  d'un' altra  forma  o  contenuto  della 
slessa  forma  veduta  riflessamente;  e  se  quel  principio  é  egli 
slesso  il  contenuto,  non  può  essere  la  forma,  a  meno  che  di  novo, 
mediante  un'altra  riflessione ,  egli  non  si  faccia  divenire  forma 
d'un  altro  contenuto  o  del  contenuto  medesimo  veduto  rifles- 
samente: perchè  forma  e  contenuto .  dati  una  volta  che  sieno, 
s'escludono  reciprocamente,  benché  anche  si  chiamino  come  cose 
relative.  La  relazione  di  due  termini  involge  sempre  una  nega- 
zione, per  la  quale  la  mente  dice  :  k  l'uno  non  è  l'altro  »  .  0  con- 
viene dunque  dire  ,  che  il  principio  che  si  cerca  sia  da  prima 
forma,  e  solo  posteriormente  contenuto,  o  convien  dire  che  sia 
prima  contenuto,  e  posteriormente  forma  :  non  può  essere  l'una 
e  l'altro  colla  slessa  primitività  di  relazione,  benché,  suj)posto 
che  sia  prima  forma,  questa   involga  una  relazione  con  un   con- 


202 

tenuto,  e  supposto  che  sia  prima  contenuto,  questo  involga 
una  relazione  con  una  forma.  I  concetti  insomma  di  forma  e  di 
contenuto  hanno  una  correlazione,  o,  come  noi  diciamo,  sinte- 
sizzano;  ma  restano  sempre  distinti,  l'uno  non  è  mai  l'altro: 
è  una  dualità  prima ,  che  non  si  può  abolire  per  sostituire 
ad   essa   l'unità. 

Se  dunque  si  cerca  «  un  principio  della  forma  e  del  conte- 
nulo  M  ,  di  modo  che  quello  sia  subietto  dell'una  e  dell'altro ,  e 
non  sia  nò  l'una  nò  l'altro ,  s'avrà  ;  ma  come  un  puro  astratto 
dipendente  dall'intero ,  e  però  posteriore  e  condizionato.  Se  si 
cerca  un  principio  che  sia  egli  stosso  forma ,  ed  egli  stesso  conte- 
nuto, s'avrà  ancora;  ma  in  quant'è  forma  non  sarà  contenuto., 
e  in  quant'è  contenuto  non  sarà  forma;  e  però  non  si  potrà  dire 
che  colla  stessa  primitività  di  relazione  sia  l'una  e  l' altro ,  nò 
che  la  relazione  della  forma  e  del  contenuto  sia  qualche  cosa  di 
diverso  e  d'anteriore  ad  entrambi.  E  che  non  possa  essere  ante- 
riore è  palese,  perchè  la  relazione  non  è  mai  anteriore  ai  termini 
tra  cui  ella  passa  ;  che  anzi  nell'ordine  logico,  e  secondo  il  conce- 
pire della    mente   umana,    è  posteriore   ai   medesimi. 

258.  Ma  0  che  si  concepisca  il  principio  cercato  della  Filosofìa 
come  un  subietlo  avente  essenzialmente  una  primitiva  forma  e  un 
primitivo  contenuto;  o  che  si  concepisca  il  detto  principio  come 
esso  stesso  forma,  e  contenuto  di  questa  forma  ad  un  tempo;  risulta 
sempre  necessaria  che  nel  principio  detto  cadano  tre  elementi  di- 
stinti :  1.'  la  forma;  2."  il  contenuto;  5,°  o  il  subietto,  o  la  re- 
lazione qualunque  sia  che  unisce  in  uno  la  forma  e  il  contenuto; 
e  tutt'e  tre  questi  elementi  devono  sinlesizzare,  onde  ninno  di 
essi  può  essere  assolutamente  prima.  L'unità  assoluta  non  si  può 
dunque  trovare  nel  principio  della  Filosofìa  alle  condizioni  poste 
dallo  Schelling. 

La  soluzione  del  problema  data  dal  Fichte  e  dallo  Schelling 
non  può  soddisfare. 

259.  Stabilite  dunque  dallo  Schelling  queste  condizioni  e  que- 
sti caratteri ,  che  dovea  avere  il  principio  della  Filosofia  ,  si  mise 
in  traccia  del  medesimo. 


203 

Sulla  stessa  traccia  dobbiamo  metterci  anche  noi ,  e,  se- 
guendolo ,  vedere  dove  ci  conduce ,  e  se  il  principio  che  giunge 
ad  afferrare  sia  il  principio  vero  della  Filosofia,  ch'egli  prende 
per  un  medesimo  col  principio  dello  scibile  universale  ,  benché  a 
torto  ,    come  abbiamo  osservalo. 

È  dunque  da  collocarsi  al  tempo ,  in  cui  lo  Schelling  co- 
minciò in  Germania  a  speculare,  e  vedere  in  quale  stato  vi  si  tro- 
vava allora  la  Filosofìa. 

260. 11  Kant  dalla  varietà  dc'giudizi  aveva  dedotti  i  concetti  puri 
dell'  intendimento;  ma  della  varietà  stessa  de'  giudizi  non  avea 
dato  nessuna  ragione ,  l'avea  presa  come  un  fallo.  Il  Reinholt 
credette  di  trovare  un  principio  unico ,  a  cui  si  riducessero  le 
forme  de' giudizi  :  e  questo  disse  esserla  coscienza  (1).  Ma  non 
s'accorse ,  che  la  coscienza  poteva  bensì  abbracciare  tutti  i  giu- 
dizi ,  ma  non  mai  rendere  una  ragione  della  loro  diversità  : 
molto  meno  s'accorse  che  la  coscienza  era  qualche  cosa  di  ri- 
flesso, che  esigeva  una  cognizione  precedente  immediata  ed 
ancora  inconsapevole.  Tuttavia  la  coscienza  del  Reinholt  parve 
un  progresso ,  specialmente  dopo  che  il  Fichte  le  tolse  dattorno 
({uel  vago  e  quell'indeterminato  che  la  parola  presenta,  riducen- 
dola all'  IO. 

Lo  Schelling  sopraggiunto  in  questo  momento,  da  una  parie 
prese  il  pensiero  del  Reinholt  e  del  Fichte  come  giusto  e  fecondo, 
dall'altra  vide,  che  l'IO  e  la  coscienza  non  poteva  determinare  e 
spiegare  la  varietà  de'  giudizi  e  de'  concelli ,  onde  disse  che  oltre 
rio  ci  doveva  essere  una  forma,  per  cstmpio,  il  principio  di  con- 
traddizione. Ma  quest'era  una  dualità  :  ed  una  tale  dualità  l'avea 
posta  lo  stesso  Kant,  quando  avea  insegnata  la  doppia  forma  de' 
giudizi,  l'analitica  e  la  sintetica  [Ideal.  3^^-360).  Il  Fichte  avea 
riconosciuto  questa  dualità ,  e  sforzatosi  di  levarla.  Avea  comin- 
ciato dal  principio   d'identità  ,    cioè  dalla   forma  .   da  lui  espresso 

(1)  Già  lo  stesso  Kant  avea  detto:  n  V io  penso  »  ■ —  ossia  la  coscienza  del 
mìo  pensiero  —  a  deve  poter  accompagnare  tutte  le  mie  rappresentazioni, 
«  poicliè  altrimenti  qualclie  cosa  sarebbe  rappresentata  in  me  senza  poter 
«  esser  pensata  ».  Critica  della  ragion  pura,  §  XVI.  Laonde  il  Reinholt  non 
fece  in  fine  altro  che  dar  maggiore  importanza  ed  anclie  esagerata  ad  una 
sentenza  del  Kant.  V.  Rinnov.  Lib.  Ili,  Gap.  XXIV,  p.  336.  n;  e  Ideol. 
i390,  sgg.* 


20^» 

così  A— A,  ed  avea  dello,  che  queslo  non  può  esislere  assolu- 
tamente che  nella  coscienza,  nelP  IO,  come  in  un  primo  fallo. 
Avea  ditto  A=A  è  un  princijìio  condizionato,  e  vuol  dire  «  se 
A  ò,  è  A»;  all'incontro  il  principio:  «lo  sono  io  « ,  è  un 
principio  assoluto  d'  identità  ,  perchè  esprime  un  atto  che  pone 
sé  stesso,  un  atto  che  è  nello  stesso  tempo  un  fatto  {Thathan- 
dluiig).  Neil'  Io  c'è  dunque  il  principio  d'identità  assolutamente 
posto,  perchè  «l'Io  suppone  la  coscienza  di  sé  stesso  »,  quindi 
c'è  essenzialmente  la  replicazione  di  sé  stesso,  c'è:  «Io  sono 
io  ».  È  questa  forse  la  più  tenace  e  sottile  illusione  della  filosofia 
{j;ermanica  :  noi  crediamo  d'aveila  esposta  con  tutta  la  forza  di 
cui  è  suscettiva,  e  interamenle  disciolla  nella  Psicologia  (01-81). 
Il  discepolo,  cioè  lo  Schelling,  credette  che  questa  fosse  vera- 
mente la  maniera  di  porre  un  principio  unico  che  contenesse  in 
se  la  furma  e  W  contenuto:  e  quindi  ahbracciò  il  principio  fich- 
liano:  Io  =  Io. 

201,  Vediamo  dunque  se  questo  {ìiincipio  corrisponde  alle  con- 
dizioni del  problema. 

In  primo  luogo  che  cosa  si  cercava  ?  —Un  principio  dello  sci- 
bile —  e  non  di  tutto  lo  scibile  ma  della  Filosofia  —  cioè  dello  sci- 
bile sotto  la  forma  rifiessa  e  filosofica  (,247-249,  251,  2o2*). 

Oral'/Oèegli  una  cosa  che  appartenga  all'ordine  dello  sci- 
bile, 0  all'ordine  delle  realità?  — Tre  risposte  sono  possibili:  o 
che  170  appartiene  unicamente  allo  scibile;  o  che  appartiene  uni- 
camente all'ordine  delle  realità:  o  all'uno  e  all'altro  ordine  ugual- 
mente:   l'averlo   lasciato  indubbio  è  già  un   gran    difetto. 

La  prima  risposta  rovinerebbe  il  sistema,  poiché  se  appar- 
tenesse unicamente  allo  scibile  ,  sarebbe  una  pura  idea  ,  o  se 
meglio  piace  chiamarlo  una  prima  forma,  senz'altro  conlenulo, 
da  poiché  le  sole  idee  appartengono  puramente  allo  scibile.  E  la 
pura  idea  dell'  IO  non  è  certamente  lo  slesso  che  V  IO  reale  [Rin- 
novamento,  p.  284-295.). 

Pure  sembra  ,  che  l' IO  del  Fichte  e  dello  Schelling  si  prenda 
da  questi  filosofi  per  un'  idea.  Poiché  se  si  discende  alla  realità  e 
quindi  all'esperienza,  ci  sono  altrettanti  IO  quanti  uomini  reali; 
e  sembra  che  l' IO  d'un  uomo  reale  qualunque,  che  è  quanto  dire 
un  IO  reale ,  non  possa  esser  venuto  né  pure  nella  mente  de' 
nostri  speculatori.  Dunque  il  loro  IO  è  ideale,  separalo  ed  astratto 


205 

da  tulli  gli  IO  reali  e  sussislenli.  Ma  l'  10  aslralto  è  un'  idea  ,  e 
qiicsla  posteriore,  nell'ordine  logico,  appunto  percliè  astratta. 
Conveniva  dunque  provare  che  questa  fosse  la  prima  delle  idee, 
quella  da  cui  tulle  le  altre  procedono  :  il  che  è  impossibile.  Non 
essendo  dunque  l'idea  astratta  dell' IO  la  prima  delle  idee ,  ma- 
dre di  tutte  l'altre ,  non  può  essere  il  principio  della  Filosofia  o 
dello  scibile  umano:  e  poi  l'idea  non  è  quella  che  dice  IO,  e  che 
pone  se  stessa. 

20:2.  Che  se  l'IO  appartiene  unicamente  aWordine  reale,  ancor 
meno  può  essere  il  principio  cercalo  ,  quando  neppure  apparter- 
rebbe all'ordine  scientifico.  E  pure  il  Fichte  e  lo  Schelling  indubi 
latamente  parlano,  e  descrivono  l'IO,  come  se  appartenesse  al- 
l'ordine delle  cose  reali  :  dicono  che  è  un'azione ,  e  un  fallo;  e  l'a- 
zione è  il  carattere  proprio  della  forma  reale  dell'essere ,  e  non 
dell'ideale:  che  anzi,  secondo  questi  filosofi,  l'IO  è  l'azione  as- 
soluta creatrice  di  sé  stesso,  onde  il  Fjchte  lo  definisce:  k  ciò,  la 
«cui  essenza  consiste  puramente  in  questo  che  si  pone  da  sé 
«stesso  come  esistente,  è  l'IO,  come  subietto  assoluto  «  (J). 
Quesl'  IO  dunque  é  un  suhielto  :  nova  prova  che  s'intende  d'un  10 
reale  ,  poiché  il  snbielto  come  lale  non  é  l'obietto;  e  soltanto 
l'obietto  è  ciò  che  costituisce  lo  scibile,  e  nel  caso  nostro,  la 
Filosofia.  Nella  Filosofia,  e  in  generale  nella  scienza,  si  può 
beii.sì  introdurre  V  idea  del  subiello  ,  come  ogni  altra  idea,  perché 
viS'à  è  oggetto  conoscibile;  ma  un  subiello  reale  e  vivente  non 
può  in  nessuna  maniera  esserci  portato;  che  altramente  la  Filo- 
sofia sarebbe  un  aggregato  di  cose  reali,  per  esempio,  di  persone 
reali,  sarebbe  una  persona,  o  un  popolo  e  non  una  scienza. 
Diremo  piuttosto  che  questi  filosofi  nel  risolvere  il  problema, 
che  si  sono  proposti,  lo  scambiano  del  tutto,  e  mentre  cercano 
il  principio  della  Filosofia,  cioè  d'una  scienza,  essi  poi  aCferrano 
in  fallo  il  principio  del  mondo  reale;  se  pur  è  lale  FIO,  questione 
che  tratteremo  a  suo  luogo.  Nessuna  realità  può  essere  — ella  slessa 
e  non  la  sua  idea — il  principio  d'una  teoria,  e  molto  meno  della 
tt  teoria  della   scienza  »  ,   come  il  Fichte  intitola    il   suo    libro. 


(1)  Das  jenige  dessert  seyn  blos  dar  in  besleht ,  dass  es  sich  selbst  als 
seyend  setzt,  ist  das  Jch  als  absolutes  subject.  Grunrllage  der  gpsammten 
Wissensctiaftslelire,  (1794),  p.  9. 


206 

2G3.  Restii  la  terza  ipotesi ,  che  l'IO  si<i  ad  un  tempo  e  un  reale  , 
e  qualche  cosa    d'appartenente   all'ordine  dello  scibile  :  e  questo 
è  quello  che  sembra  pretendere  il  Fichte  quando  dice  che  «  l'IO 
suppone  la   coscienza  di  so,  e   non  diventa   oggetto,  se  non  in 
quanto  è  subicUo  »   (1);    quello   che   sembra   pretendere  il   suo 
discepolo  lo  Schelling,  quando  crede  di  trovare  nell'Io  — lo  il  con- 
tenuto ad    un    tempo  e  la  forma.  Ma  le  cose  dette  di  sopra  mo- 
strano anche  Timpossibilità  di  questa  terza  ipotesi.  Poiché  in  qual 
maniera  ciò  che  è  l'idea  dell'lO  sarebbe  anche  un  IO  reale ,  deter- 
minato, vivente?  L'Io  determinato  e  vivente  qualunque  sia  esclude 
da  sé  tutti  gli  altri  IO  determinati  e  viventi:  Videa  dell  Io  all'incon- 
tro essendo  una  forma  vota  ,  non  contiene  in  sé  alcun  Io  determi- 
nato e  vivente,  benché  li  faccia  conoscer  tutti.  L'Io  detcrminato 
e  vivente  e  V  idea   deW  Io   non  possono  mai   essere  la  medesima 
cosa,  escludendosi  per  la  loro  opposizione:   onde  il    primo  può 
bensì  essere  un  principio  reale  d' azione ,    ma  come  tale  non  può 
essere  un   principio  scientifico ,  e  il  secondo   può  ben  essere  un 
principio  scientifico,  per  esempio,  della   Psicologia  {PsicoL  107  — 
\{h),  non  mai  però  il  primo  della   Filosofia  o  dello  scibile  uma- 
no,   né  quello  che  i  nostri  filosofi  vanno  cercando.  E  ciò  perchè 
le  due  forme   dell'essere,  la  subiettiva  e  V obiettila,  non  si  pos- 
sono mai  confondere  e  unificare ,  il  che  sfuggì  ai  nostri  filosofi. 
E  non  vale  l'asserire  col  Fichte ,  che  all'IO  è  essenziale  la   co- 
scienza di  sé   stesso,  dovendosi  distinguere  il  sentimento  proprio, 
che  gli  è  essenziale  ,  dalla  sua  coscienza  ,    che  non  é  altro  che  il 
conoscimento  del  proprio  senlinienlo,  il  quale  non  gli  è  essenziale, 
come  abbiamo  già  distinto  e  provalo  nella  Psicologia.  11  credere 
il  contrario  provenne  a'  filosofi  tedeschi  dal  non  aver  essi  consi- 
derato r  Io  puro  ma  1'  Io  involto  nella  riflessione.  Ma  quand' anco 
supponessimo   che  l' Io  avesse   essenzialmente  la  coscienza  di  sé 
stesso,  e  che  perciò?  Sarebbe  sempre  o  un  Io  reale,  com'è  l'Io 
riflettente  sopra  di  sé,  e  quindi  non  mai  un  principio  scientifico; 
ovvero  Videa   dell'  Io ,    e   non  mai  il  primo    noto,   non    mai    il 


(1)  Ivi.  —  Quel  giorno^  nel  quale  il  Fichte  salita  la  cattedra ,  promise  ai 
suoi  discepoli:  «f  di  creare  Dio  »  {Ideol.  1389  e  sgg.),  intendeva  certamente 
no  principio  della  sua  Filosofia,  non  FIO  divino,  perocché  quest' IO  divino 
era  creato  dall' IO  umano,  che  parlava  dalla  cattedra. 


207 

principio  di  tutto  lo  scibile,  o  anche  solo  della  Filosofia,  per- 
chè altre  idee  egli  suppone  avanti  di  sé ,  idee  che  hi  scienza 
deve  esaminare  e  non  supporre.  E  poi  quest'  IO  reale  vestilo 
della  propria  riflessione  sarà  egli  reale  e  ideale  ad  un  tempo , 
a  cagione  che  ha  la  coscienza  di  sé?  Non  mai.  L'idea  di  so 
slesso  starà  a  lui  presente,  ma  non  si  confonderà  mai  con  esso. 
L'Io  reale  sarà  puramente  un  Io,  e  non  sarà  mai  anche  Videa 
dell'Io  :  ma  questa  idea  sarà  un  obietto  a  lui  contrapposto  come 
intelligibile,  non  mai  egli  stesso  che  è  essenzialmente  subielto. 
Le  speculazioni  de' nostri  filosofi  altro  non  sono  dunque  che  un 
viluppo  di  concetti,  mancante  d'analisi,  e  quindi  un  viluppo  di 
paralogismi  e  d'illusioni. 

264.  Ma  tentando  di  avvocare  la  loro  causa,  affine  che  si  veda 
la  queslione  da  ogni  lato,  prendiamo  la  cosa  sotto  un  altro  aspetto. 

NellVrfea  s'intuisce  Vessenza:  nell'idea  dell'Io  s'intuisce  l'es- 
senza dell'Io.  Se  quest'essenza  dell'Io  noi  la  spogliamo  d'ogni 
difetto  e  limitazione  ,  e  gli  aggiungiamo  ogni  pregio  ,  avremo 
un'essenza  perfetta  dell"  Io.  Ora  sia  dimostrato  ,  che  l'essenza 
perfetta  dell'  Io  deva  sussistere  :  questa  sarà  un  Dio  persona  , 
condizione  di  tutte  le  cose  e  di  tutto  lo  scibile.  Quest' è  dunque 
il  principio  dello  scibile,  che  si  cerca:  ed  è  reale  ad  un  tempo 
ed  oggettivo  cioè  intelligibile.  A  questo  infatti  sembra  che  vo- 
glia condurci  lo  Schelling:  non  è  così  sciolto  il  problema? 

A  questo ,  che  è  quanto  di  meglio  si  può  dire  a  favore  dei 
nostri  speculatori,  dobbiamo  di  novo  rispondere,  che  con  tutto 
ciò  non  sarebbe  punto  trovalo  il  principio  dello  scibile  o  della 
Filosofia,  come  abbiamo  già  mostrato  nel  Preliminare  alle  opere 
ideologiche,  ed  ecco  perchè: 

1.°  Per  arrivare  al  pensiero  d'un  Io  assoluto,  la  mente 
umana  non  può  movere  che  dall'esperienza  dell'Io  umano.  Deve 
prima  universalizzarlo  ed  aslrarlo,  formando  l'idea  astratta  del- 
l'Io umano,  poi  levargli  d'attorno  le  limitazioni  umane,  aggiun- 
gendogli tutti  i  pregi.  Formatasi  in  questo  modo  l'idea  dell'Io 
assoluto,  argomentare,  che  quest'Io  assoluto,  che  intuisce  nel- 
l'idea e  di  cui  non  percepisce  la  realità,  deve  esistere  neces- 
sariamente. La  persuasione  dunque  che  quest' IO  assoluto  sussìsta 
è  il  prodotto  di  molte  facoltà  e  operazioni  dello  spinto  umano, 
dovendo  concorrere  all'opera  :   1."  il  sentimento  proprio;  2."  la 


208 

percezione  inlelleltiva  di  questo  senlitnenlo;  3.°  l'univcrsalizza- 
zionc;  ti."  l'aslrazione;  S."  la  facoltà  di  conoscere  ciò  che  è 
difettoso  e  limitato  nell'Io  umano  astratto,  il  che  suppone  una 
nonna  preesistente  nel  pensiero,  e  una  norma  illimilala;  G.°  la 
facoltà  d'aggiungere  i  pregi  sovrumani,  il  che  ancora  suppone 
una  norma  per  trovarli;  7.°  la  facoltà  d'argomentare,  che  rac- 
chiude quel  giudizio  e  quel  raziocinio,  e  suppone  precedenti 
i  principi  di  cognizione,  d'idcntilà,  di  contraddizione,  ecc.,  e  parti- 
colarmente \\  principio  di  assolutila.  Da  questo  si  vede  che  non 
si  può  in  alcun  modo  pervenire  a  trovare  con  certezza  l'esi- 
stenza d'un  IO  assoluto  ,  se  prima  non  sia  ammesso  per  vero 
che  le  facoltà  umane  ben  adoperate  non  conducono  in  errore, 
e  sopratulto  se  non  precedano  i  principi  universali  del  ragiona- 
mento. Quell'io  assoluto  adunque,  che  non  si  percepisce,  ma 
s' induce  ragionando  ,  non  è  il  primo  nell'ordine  dello  scibile 
umano  ,  e  della  Filosofia  :  ma  è  piuttosto  l'ultimo  risultalo  di 
questa. 

2."  L' IO  assoluto,  argomentato  così  e  non  percepito,  non  è 
già  svelato  positivamente  all'uomo,  ma  determinalo  con  altre 
idee  a  quella  guisa  che  nella  matematica  un' ;7;  incognita  ancora 
si  possiede  in  una  formola ,  di  cui  non  si  può  calcolare  il  valore 
[Logic.  ,080,  !igg.')  :  non  può  dunque  una  notizia  negativa  costi- 
tuire il  principio  di  tutto  Io  scibile  positivo;  perocché  sarebbe 
come  se  si  pretendesse  che  il  valore  dell' j?  incognita  fosse  il  prin- 
cipio della  cognizione  della  formola  in  cui  è  involto  e  da  cui  è 
determinato,  forma  composta  di  valori  noti  singolarmente  presi. 

3.°  A  questo  s'aggiunge  che  l' IO  assoluto  di  questi  filosofi 
non  è  che  Via  umano  preso  per  assoluto.  E  una  delle  prove 
che  essi  non  giunsero  né  pure  all'idea  indicativa  {'Log.  476-^i85*) 
si  è  questa  che,  dopo  d'aver  ammesso  per  primo  principio 
l'Io  "Io  —  sforzandosi  d' introdurvi  un  principio  d'identità  {Ide- 
ol.  438.  n.)  —  dissero,  che  da  questo  principio  ne  veniva  quest' 
altro:  «Il  Non-Io  é  diverso  dall'Io»,  introducendo  un  Non- io, 
e  pretendendo  che  questa  opposizione  del  Non-io  all'  Io  fosse  es- 
senziale all'Io.  Ora  l'IO  assoluto  non  può  certamente  avere  ninna 
opposizione  e  limitazione  a  sé  essenziale ,  perchè  non  ha  limile 
alcuno:  e  l' Io  che  ha,  nell'esperienza,  opposizione  e  limitazione 
è  soltanto  l'umano;  senza  che  perciò  sia  punto  dimostrato,    che 


-209 

l'opposizione  e  la  limitazione  empirica  sia  punto  essenziale.  Che 
anzi  i  nostri  filosofi  qui  precipitano  del  tutto.  Peroccliè  questo 
Nonio,  che  oppongono  all'  IO  assoluto,  è  il  Mondo  esteriore,  il 
quale  è  manifestamente  un  contingente ,  che  con  franche  asser- 
zioni destituite  d'ogni  prova  cangiano  in  un  necessario.  Poiché 
se  no  assoluto,  coni' essi  dicono,  è  necessario,  e  se  quest'Io 
non  può  stare  senza  un  Non-io  che  contrappone  a  sé  medesimo, 
e  questo  Non-io  é  il  mondo  ,  dunque  il  Mondo  è  necessario  :  ed 
è  necessario  il  legame  del  Mondo  con  Dio,  che  é  il  terzo  prin- 
cipio dello  Schelling.  Ora  qui  pervenuta  la  speculazione  si  trova 
in  un  fatalismo  e  in  un  panteismo  senz'uscita  [Ideal.  1588-1407). 
Ma  come  ci  é  pervenuta?  Per  mezzo  di  asserzioni  gratuite,  di 
concetti  avviluppati  e  confusi ,  di  salii,  di  paralogismi ,  di  con- 
traddizioni. 

Se  dunque  si  fossero  data  la  pena  questi  filosofi  d' attenersi 
più  religiosamente  alle  regole  dell'antica  logica,  se  avessero  de- 
finito, e  distinto:  se  sopratutto  avessero  distinti  i  concetti  se- 
condo le  loro  relazioni  e  aspetti  dialettici,  non  avrehhero  riem- 
pila la  filosofia  di  tanti  paradossi,  ed  assurdi. 


Articolo  V. 

Come  si  possa   soddisfare   al   bisogno 
che  ha  la  mente  umana  d' unità. 

263.  E  veramente  il  bisogno  della  mente  di  ridurre  ogni  cosa 
ad  una  certa  unità,  c'è  sicuramente.  Ma  la  difficoltà   consiste: 
1.°   Nel  determinare  qual  sia  quest'«n?ìà ,  quale  ne  sia  la 
natura; 

2.°  Nel  determinare  di  qual  riduzione  si  parli,  nel  descri- 
vere accuratamente  questa  riduzione. 

Questo  non  si  può  fare ,  come  dicevamo ,  senza  le  più  accu- 
rate definizioni  e  distinzioni  dialetliclie.  Approfittiamoci  di  quelle 
che  abbiamo  accennale  per  risolvere  una  tale  importante 
questione. 

206.  Egli  è  chiaro,  dopo  quello  che  abbiam  detto,  che  runiti\ 
che  si   cerca ,  non    può  trovarsi  nei  termini  dell'essere  ,  perchè  i 
RosMLXi.  Teosofia.  U 


210 

primi  suoi  termini  sono  le  forme  categoriche,  e  queste  sono  tre 
e  non  una,  e  sono  irreducibili;  i  termini  poi  posteriori  alle  cate- 
gorie sono  assai  più  numerosi.  Convien  dunque  cercare  V unità 
nell'essere  stesso. 

267.  Ma  l'essere  si  concepisce  in  più  maniere  come  abbiam 
dello,  le  quali  si  riducono  a  tre.  Perocché: 

i.°  0  si  concepisce  l'essere  unito  a' suoi  termini,  e  in  tal 
caso  non  è  più  uno,  ma  non  si  hanno  che  più  enti  o  più  entità  ; 
2.°  0  si  concepisce  Vessere  astrailo  preciso  da  ogni  relazione 
co'  suoi  termini,  e  quest'essere  astratto  non  è  principio  di  cosa 
alcuna  ,  per  la  stessa  ipolesi  dell'  astrazione ,  e  però  non  si  può 
ridurre  a  lui  come  ad  unità  la  molliplicità  delle  cose; 

5.°  0  finalmente  si  concepisce  l'essere  bensì  in  separato  da' 
suoi  termini,  ma  in  relazione  con  essi:  e  in  questo  aspello  egli  può 
essere  riguardalo  dalla  mente  in  due  relazioni  diverse,  o  come 
quello  che  contiene  virluaìmente  i  suoi  termini ,  e  così  lo  chia- 
mammo essere  virtuale,  o  come  iniziamento  e  attualità  prima  de' 
termini  stessi  antecedente  ad  essi ,  e  così  lo  chiamammo  essere 
iniziale. 

2C8.  Col  primo  di  questi  due  concelli  si  pensa  la  virtù  o  pos- 
sibilità che  ha  la  natura  dell'essere  di  terminarsi  in  tutti  i  modi 
che  non  involgano  contraddizione:  si  pensa  Vessere  senz' altra 
considerazione  se  non  quella  della  suscellività  ch'egli  ha  di  ulti- 
marsi comecchesia.  In  quest'essere  dunque  si  pensano  tutti  i  ter- 
mini, ma  in  potenza  e  non  distinti.  E  questa  è  una  prima  unifica- 
zione delle  entità  nell'essenza,  un'unificazione  delle  entità  tutte, 
ma  nella  prima  loro  ed  unica  potenzialità,  non  delle  entità  in  allo. 

Col  secondo  di  questi  due  concetti  dell'essere,  cioè  coWessere 
iniziale ,  si  pensa  Vessere  come  inizio  di  tutti  i  suoi  termini  in 
allo.  L'essere  è  diviso  per  astrazione  da'  suoi  termini,  ma 
non  si  prescinde  dalla  sua  relazione  con  questi  ,  anzi  è 
appunto  questa  relazione ,  che  si  considera  in  quel  concetto. 
Questa  relazione  è  appunto  quella  d' inizio  e  di  ultimazione. 
Essendo  i  termini  innumerevoli,  l'essere  si  può  ultimare  in  tutti 
questi,  ma  egli  è  sempre  uno,  semplice,  il  medesimo:  non 
è  i  suoi  termini,  ma  è  il  comune  loro  principio.  Quesl'è  dunque 
una  seconda  tmifìcazione  o  per  dir  meglio  una  seconda  ridu- 
zione all'unità  di  tutti  i  termini  in  atto. 


211 

I  concetti  dunque  di  essere  virhuile  e  di  essere  iniziale  prestano 
alla  mente  la  via  di  soddisfare  al  bisogno  ch'ella  sente  dell'unitii: 
il  primo  le  somministra  il  modo  di  ridurre  ad  unità  tutti  i  mol- 
tiplici  termini  dell'essere  considerati  nella  loro  potenzialità  ;  il  se- 
condo le  somministra  il  modo  di  ridurre  ad  unità  tutti  i  nioltiplici 
termini  dell'essere  considerali  nella  loro  attualità. 

!2G9.  Se  si  considera  dunque  Vessere  ^Hrlitale,  egli  costituisce  la 
materict  luìii'ersale  di  tutte  le  cose:  se  si  considera  Vessere  ini- 
ziale, egli  costituisce  la  forma  tiìmersnle  di  tutte  le  cose  (l). 
Tutte  le  cose  dunque  sono  essere  come  maleria ,  in  quanto  di- 
venta al  pensiero  tutte  le  cose  per  la  sua  virtualità  :  tutte  le 
cose  sono  essere  come  forma,  in  quanto  ogni  loro  alto  è  essere 
per  la  sua  inizialità.  Ma  si  consideri  bene  che  valore  abbia  que- 
sta sentenza,  e  non  si  prenda  alla  grossa.  L'essere  virtuale  e 
l'essere  iniziale  sono  due  concetti  dialettici  della  mente  umana. 
Deve  dunque  intendersi  unicamente  che  resscre  virtuale  è  la 
materia  dialeUica  di  tutte  le  cose,  e  che  l'essere  iniziale  i^  \i\ 
forma  dialeUica  di  tutte  le  cose;  e  non  altramente. 

Ora  che  cosa  vuol  dire  maleria  e  forma  dialettica?  —  Materia 
dialettica  vuol  dire  quella  che  risponde  a  un  dato  cancello  dialettico, 
col  quale  la  materia  delle  cose  si  conosce:  forma  dialettica  vuol 
dire  quella  che  corrisponde  a  un  dato  concetto  dialettico,  col  quale 
la  forma  delle  cose  si  conosce,  il  concetto  dialettico  è  quello  che 
non  fa  conoscere  già  un  ente  pieno ,  ma  qualche  cosa  dell'ente 
diviso  per  astrazione  dal  resto  sotto  qualche  relazione.  Quando 
dunque  si  dice  che  Vessere  virtuale  è  la  maleria  universale  di 
tutte  le  cose,  altro  non  si  dice ,  se  non  che  ciò  che  il  concetto 
dell'essere  virtuale  fa  conoscere  è  la  materia  di  tulle  le  cose, 
ma  ciò  che  il  concetto  dell'essere  virtuale  fa  conoscere ,  non  è 
già  un  ente  pieno,  o  l'essere  terminato,  e  mollo  meno  tra  gli 
esseri   terminali  il  più   terminato  di  lutti   che  è  l'ente  assoluto, 

(1)  Nella  Psicologia  (776-815)  abbiamo  ristretto  l'uso  de' vocaboli  materia 
e  forma  alla  natura  corporea.  Aggiungenùo  gli  epiteti  di  universale  e,  di 
dialettica,  ricevono  qui  un  altro  significato,  clic  rispctlo  al  primo  ha  del  tras- 
lato. .\vrcmmo  voluto  potere  evitare  questo  varietà  nell'uso  delle  parole, 
rna  non  l'altbiamo  potuto  fare  per  servire  alla  cliiarezza,  e  non  dipartirci 
troppo  bruscamente  dall'uso  comune.  Più  avanti  sostituiremo  a  queste  parole 
di  materia  e  di  forma  de' vocaboli  più  propri. 


212 

Iddio.  Laonde  quantunque  si  predichi  di  tutte  le  cose  l'essere 
virtuale  come  loro  materia,  non  è  già  vero  che  si  predichi  con 
questo  Dio;  poiché  Iddio  none  l'essere  virtuale,  ma  l'essere 
attUcilissimo:  ma  si  predica  quella  natura  di  essere  che  è  con- 
tenuta nel  concetto  dell'essere  virtuale,  il  quale  non  fa  cono- 
scere Iddio,  ma  l'essere  senza  termini  attuali  che  ha  virtù  d'at- 
tuarsi,  i!  quale  non  è  un  ente  pieno,  ma  solo  qualche  cosa  del- 
l'ente, diviso  dal  resto  dell'ente  e  considerato  da  sé. 

Lo  stesso  si  dica  dell'essere  iniziale  considerato  come  forma 
dialetUcii  uiìiversale  di  tutte  le  cose.  11  concetto  dialettico  di  forma 
non  fa  conoscere  già  una  forma  che  sia  un  ente ,  e  molto  meno 
fa  conoscere  Iddio  che  è  ente  pienissimo;  ma  altro  non  fa  co- 
noscere che  qualche  cosa  d'appartenente  all'ente,  diviso  dal  resto 
di  esso,  cosa  che  in  tal  modo  separata  non  esiste  che  nella  mente, 
cioè  nello  stesso   concetto  dialettico  intuito  dalla  mente  umana. 

Quando  dunque  si  dice,  che  V essere  v'jr/(ta/f  è  la  materia  dia- 
lettica, e  Vessere  iniziale  è  la  forma  dialettica  di  tutte  le  cose, 
non  si  dice  altro  se  non  che  la  mente  umana  ha  un  concetto  che 
si  può  predicare  come  materia  di  tutte  le  cose,  ed  ha  un  altro 
concetto  che  si  può  predicare  come  forma  di  tutte  le  cose;  ma 
non  si  dice  mica  che  quel  concetto  rappresenti  un  ente ,  e  molto 
meno  che  rappresenti  Dio;  ma  altro  non  rappresenta  che  qual- 
che cosa  dell'ente ,  che  separato  dall'ente  non  è  ente,  e  non  può 
sussistere  altro  che  nella  mente;  altro  non  rappresenta  in  una 
parola  che  l'essere  precisamente  come  virtuale ,  e  l'essere  pre- 
cisamente come  inizio  di  tutte  le  cose. 

270.  Il  Panteismo  nacque  appunto  dal  non  essersi  distinti  questi 
concetti  dialettici  della  mente  da  que'  concetti,  che  rappresen- 
tano un  ente  pieno  Si  vide  dunque  che  l' essere  dovea  essere 
la  materia  di  tutte  le  cose,  ma  non  si  vide  che  quest'essere 
non  rappresentava  punto  Dio ,  nò  rappresentava  un  ente ,  ma 
un  oggetto  ideale  ed  astratto,  non  esistente  che  davanti  alla 
mente;  benché  questo  oggetto  ideale  ed  astratto  non  fosse  già 
nulla,  né  fosse  punto  la  mente  stessa  che  è  subiettiva,  né  fosse 
tale  a  cui  nulla  rispondesse  nella  realità ,  perché  nella  realità  vi 
corrispondeva  non  l'ente,  ma  qualche  cosa  dell'ente.  Il  dirsi 
dunque  che  tutto  é  essere,  o  che  l'essere  si  può  predicare  di 
tulio,  non  é  panteismo;  e  non  è  un  ridurre  tutti  gli  enti  ad  un  solo 


2i5 

ente,  benché  l'essere  sia  semplice  e  non  abbia  moltiplicità  ;  ma 
questo  nasce  perchè  ogni  moltiplicità  trac  la  sua  origine  dai  ter- 
mini dell'essere,  e  però  non  si  può  trovare  nell'essere  in  quanto 
si  concepisce  dalla  mente  come  anteriore  a'  suoi  termini  e  del 
lutto  interminato. 

Che  anzi  di  questa  entità  astratta  si  potrebbe  movere  que- 
stione, se  le  convenga  il  predicato  di  unoj  e  se  non  fosse  più 
esalto  favellare  il  dire,  ch'ella  non  ha  ancora  né  moltiplicilà  né 
unità ,  ma  che  è  nell'ordine  logico  dell'astrazione  anteriore  al- 
l'una ed  all'altra.  In  fatti,  se  nel  concetto  di  uno  si  fa  entrare 
l'esclusione  àdV altro ,  non  si  potrebbe  dare  all'essere  iniziale  e 
virtuale  l'epiteto  di  uno  ,  perchè  niente  esclude ,  niente  ha  da 
escludere:  ma  de' diversi  concelti  dell'uno  diremo  altrove. 

271 .  Mediante  questi  due  concetti  dell'essere,  cioè  Vessere  virtuale 
e  Vessere  iniziale,  si  spiega,  come  l'essere  possa  ugualmente  fare 
l'ufficio  di  subietto  e  di  predicalo  {Logic.  597).  Quando  l'essere 
fa  l'ufficio  di  predicato,  come  dicendo:  «  questo  fiore  è  essere  «. 
allora  se  non  è  un  giudizio  d'identità  perfetta  [Logic.  ^Oh) ,  il 
subietlo  è  costituito  dal  termine  dell'essere  o  dall'essere  termi- 
nato, e  il  predicato  essere  si  considera  come  virtuale,  quasi  si 
dicesse  :  «  questo  fiore  è  cosa  che  sta  contenuta  virtualmente 
nell'essere  ».  Quando  l'essere  fa  l'ufficio  di  subietlo  ,  e  non  si 
tratta  d'un  giudizio  d'identità  perfetta,  allora  l'essere  si  consi- 
dera come  iniziale,  ed  è  uno  di  quei  subielli  che  abbiamo  chia- 
mati antecedenti  [Logic.  ^OG).  Cosi  dicendosi:  k  L'essere,  che  è 
qui,  è  un  fiore  »,  equivale  a  dire:  «  Vessere  iniziale  si  termina 
così  che  se  ne  ha  un  fiore  ». 

Che  se  prendiamo  la  formola  de' giudizi  perfettamente  iden- 
tici: «  l'essere  è  l'essere  »,  l'un  essere  prende  il  concelto  di  ma- 
teria (essere  virtuale),  l'altro  di  forma  (essere  iniziale);  ma  può 
ugualmente  il  subietto  considerarsi  come  materia,  nel  qual  caso 
il  predicato  è  forma,  o  considerarsi  come  forma,  nel  qual  caso 
il  predicalo  tiene  il  poslo  della  materia. 


214 

AnxicoLo  VI. 

Ragione  deijli  errori,  in  cui  caddero  lo  Schelling 
e  l'Hegel  suo  discepolo. 

27:2.  Polendosi  dunque  [)rendcre  Vcssere  sotto  i!  doppio  nspelto  di 
materia  e  di  forma  universale,  si  soddisfa  all;\  condizionii  posta 
dallo  Sehclling  »!  jìrincipio  da  lui  cercato  della  filosofia  ,  che 
deva  esser  ad  un  tempo  e  contenuto  o  forma  di  lutto  Io  scibile. 
Dicendo  (juesto  il  nostro  filosofo  travide  una  verità  ;  ni:i  né  la 
espresse  con  esittezza  filosofica  ,  né  potè  attuarla  soddisfacendo 
alla  condizione  che  s'era  imposta  :  indi  i  suoi  errori. 

Non  espresse  quella  condizione  con  esaltezza  ,  perchè  omise 
le  analisi  e  le  definizioni  dialettiche,  sulle  quali  si  regge  il  pro- 
blema :  non  potè  soddisfarvi,  perché,  invece  di  mantenersi  alla 
sfera  del  problema,  che  riguardava  lo  scibilo  e  quindi  esigeva 
che  si  ascendesse  alla  prima  idea  ,  all'essere  ancor  senza  ter- 
mini considerato  nella  sua  virtualità  e  inizialilà,  precipitò  senza 
alcuna  logica  derivazione  a  un  ente  determinatissimo  ,  (jual  è 
l'io,  e  questo  slesso,  non  distinguendo  le  forme  categoriche,  Io 
lasciò  ambiguo,  ora  prendendolo  come  un  IO  ideale ,  ora  come 
un  IO  reale,  con  perpetua  equivocazione.  In  fatti,  dopo  aver 
detto  che  il  principio  della  filosofia  ,  di  cui  andava  in  cerca  , 
dovea  essere  «  assoluto  ed  indipendente  »,  soggiunge:  «  II  suo 
«  contenuto  sarà  indipendente  da  ogni  altro  contenuto  ,  s'egli 
«  SI  PORRÀ'  egli  slesso,  per  la  sua  propria  potenza  d'azione  «: 
dimenticandosi  che  «  un  principio  dello  scibile  non  ha  potenza, 
né  azione  ,  né  può  porre  sé  stesso  »,  perché  tulle  queste  cose 
appartengono  a  un  principio  o>sia  causa  reale,  onde  siamo  già 
usciti  con  questo  dalla  sfera  delle  idee  e  della  scienza.  Sog- 
giunge francamente  ,  e  senz'alcuna  j>rova  :  «  questo  carattere 
non  appartiene  che  all'Io  ».  Ma  se  si  parla  d'un  Io  reale,  come 
abbiamo  già  osservalo  ,  gli  IO  reali  sono  innumerevoli ,  quanti 
sono  gli  uomini  ,  e  però  vi  avranno  allrcltanti  principi  di  filo- 
sofia! Se  si  parla  d'un  IO  astrailo,  questa  é  mV  idea  che,  al 
pari  di  tulle  le  altre,  è  uno  scibile,  ina  non  ha  azione,  e  non 
pone   sé   slessa;   e   converrebbe  provare  che  fosse  la   prima  di 


24  S 

tutte  le  idee,  per  collocarla  in  capo  alla  filosofìa  e  allo  scibile. 
Se  poi  si  parla  d'un  IO  assoluto,  dell'Io  di  Dio,  è  una  futilil;"» 
entusiastica  il  dire,  che  l'uomo  vede  immediatamente  Iddio:  che 
se  lo  vedesse  veramente,  vedrebbe  ch'egli  è  tre  persone,  e  non 
una  sola,  com'è  cotesl'IO  filosofico  de*  nostri  speculatori.  Se  poi 
non  si  vede  quest'Io  assoluto,  convien  dedurle,  e  ricorrere 
perciò  a' principi  logici,  a  lui  anteriori  nella  mente  umana.  Ma 
poniamo  che  l'uomo  vedesse  il  preteso  Io  unico  ed  assoluto  dello 
Schelling:  anche  l'uomo  che  lo  vede  è  un  Io.  Ora  l'Io  veduto 
non  sarebbe  l'Io  vedente:  si  avrebbero  dunque  due  Io:  qual 
sarebbe  il  principio  della  filosofia,  e  dello  scibile?  Probabilmente, 
anzi  certamente  si  risponderà  l'Io  veduto,  perchè  si  dichiara 
veduto  appunto  per  questo,  perchè  s'abbia  il  principio  dello  scì- 
bile. Ora  ,  io  che  vedo  quest'Io  assoluto  avrò  la  coscienza  di 
me  stesso ,  ma  avrò  per  questo  ancora  la  coscienza  di  queir  lo 
assoluto  ch'Io  vedo?  Pare  di  no;  altrimenle  io,  umano  indi- 
viduo, avrei  la  coscienza  dell' IO  infinito.  Se  vedo  dunque  quest' 
Io  assoluto  ,  vedo  bensì  la  necessità  che  esso  abbia  la  sua  co- 
scienza, ma  non  avendo  io  slesso  questa  coscienza,  non  ho  quel- 
l'Io che  si  richiede,  acciocché  sia  principio  della  filosofia  e  dello 
scibile:  poiché  si  dichiara  che  a  quest'Io  è  essenziale  la  co- 
scienza di  se  stesso.  V Io  veduto  dunque  da  un  altro  Io,  non  è 
precisamente  lo  stesso  dell'Io  che  sente  e  vive  in  se  stesso:  ma 
è  una  semplice  notizia  di  questo.  Lo  Schelling  dunque  non  move 
la  sua  Filosofia  dall'Io  stesso,  ma  da  una  notizia  che  l'uomo  che 
filosofa  ha  dell'Io  assoluto.  Ma  una  pura  notizia  non  ha  po- 
tenza ,  non  pone  sé  stessa  colla  propria  sua  attività  :  non  è 
dunque  quel  principio  ,  che  richiede  lo  Schelling  a  cui  faccia 
capo  la  filosofia. 

273.  Pure  a  quell'Io,  ch'egli  costituisce  principio  della  filosofia 
e  dello  scibile,  lo  Schelling  discepolo  del  Fichte  attribuisce  la  co- 
scienza, e  dice  che  il  principio  della  Filosofia  —  imitando  qui  il 
Cartesio  —  è  quella  prima  parola  con  cui  pone  se  stesso,  ponendo 
la  sua  coscienza,  e  dicendo:  «  Io  sono  lo  «.  Lascio  da  parte 
che  questa  formola  suppone  che  l'Io  esista  prima  d'esistere;  ma 
invece  osservo,  che  se  questo  pronunciato  dell'Io  è  il  principio 
della  filosofia,  s'avranno  tanti  principi  realmente  diversi  di  filo- 
sofia, quanti  saranno  gli  Io:  giacché  ogni  Io  dice  essenzialmente: 


216 

«  Io  sono  Io  »,  e  queslo  principio  non  si  potrà  insegnare,  perchè 
ciascun  IO  lo  pronuncia  per  se  solo,  e  non  si  può  pronunciare 
in  due  o  in  più  :  e  quel  che  pronuncia  un  Io,  non  è  quel  che 
pronuncia  un  altro  Io.  Che  se  si  dice  che  si  potrà  raccogliere 
questi  pronunciati,  e  formarne  un  pronunciato  universale;  questo 
non  sarà  più  il  principio  della  filosofia  ,  perchè  queslo  pronun- 
ciato universale  non  è  un  Io  che  pronunci  se  stesso,  ma  un'altra 
cosa  pronunciata  da  quanti  Io  sì  voglia,  ciascun  de' quali  pro- 
nunciandola non  pronuncia  se  stesso,  ben  siipcndo  di  non  essere 
essi  stessi,  individuale  come  sono,    un  pronuncialo  universale. 

Ma  come  poi  un  lo  può  dire:  «  lo  sono  Io  »?  Dicendo  così 
non  dice  solamente:  IO;  ma  anche  dice  col  pensiero  SONO.  Che 
cosa  è  questo  sono,  se  non  la  prima  persona  del  tempo  pre- 
sente del  verbo  essere?  Quest'Io  dunque  conosce  anche  il  verbo 
essere  se  lo  pronuncia:  e  lo  conosce  prima  di  conoscere  se  stesso, 
anzi  prima  d'esistere,  perchè  solo  dopo  aver  detto  «  sono  Io  », 
egli  ha  posto  sé  stesso  e  incomincia  la  sua  esistenza.  L'Io  con- 
sapevole dunque  del  Fichte  e  dello  Schelling  ha  una  cognizione 
anteriore  a  se  stesso,  quella  dcW'essere.  E  in  tal  caso,  non  con- 
vien  riconoscere  che  l'Io  non  è  né  il  primo,  né  l'incondizio- 
nato? perchè  più  primo  di  lui,  e  sua  condizione  è  l'essere  stesso? 

E  quest'essere,  lo  stesso  Schelling,  senz'avvedersi,  lo  ammette 
come  cognito  all'Io,  in  universale.  Perocché  dopo  aver  detto, 
die  il  principio  della  filosofia  è  Io=;:Io,  tosto  soggiunge  :  «  In 
((  questo  principio  è  data  la  forma  di  orjni  posizione  assoluta  , 
((  e  questa  forma  può  divenire  il  contenuto  d'un  principio  che 
K  naturalmente  non  può  avere  che  questa  medesima  forma,  di 
<(  guisa  che  l'espressione  di  lui  sarà  A=A  »,  che  è  il  principio 
universale  d'Identità.  Nell'Io^rlo  c'è  già  dunque  bell'e  dato  il 
principio  dell'essere  identico  a  sé  stesso  :  c'è  dunque  nell'Io  non 
solo  la  cognizione  deWessere  suo  proprio  ,  ma  anche  la  forma 
universale  dell'essere.  E  cosi  si  fa  presto  a  andare  avanti,  non 
certo  a  passo  di  logica,  ma  a  volo  d'imaginazione, 

"111 li.  Andò  a  sangue  all'Hegel  quest'espressione  de' suoi  maestri  : 
L'Io  pone  se  stesso  dicendo:  Io  sono  Io.  Ne  inferì,  e  giusta- 
mente, che  se  l'Io  pone  se  stesso  dicendo:  io  sono  io;  l'Io  do- 
veva esistere  prima  d'esistere:  poiché  in  quanto  si  poneva 
non   era   ancora,   perchè  non  s'era  ancora  posto;    e   pur   era, 


217 

perchè  si  poneva.  La  scoperta  era  sorprendente.  L'Hegel  disse: 
è  vero  il  principio  perchè  me  l'hanno  insegnato  i  miei  maestri , 
dunque  è  vera  la  conseguenza.  Su  questa  conseguenza  fab- 
bricherò io  un  sistema  ,  che  farà  sbalordire  il.  mondo  :  negherò 
come  un'anticaglia  il  principio  di  contraddizione.  !  miei  maestri 
Dell' Io  =  Io  vedono  il  principio  d'identità,  come  forma  univer- 
sale del  sapere:  io  andrò  più  avanti,  e  ci  troverò  la  contraddi- 
zione, e  l'essere  ~-  zero  ;  e  in  questa  contraddizione  che  fa  cose 
uguali  l'essere  e  il  nulla  ,  riporrò  la  forma  universale  del  vero 
sapere.  Vera  era  la  conseguenza,  assun'o  il  conseguente  (Lo- 
^k.    11  ù). 

E  tuttavia  la  mente  umana,  la  cui  essenza  è  d'intendere,  non 
sragiona  mai  tanto,  che  nello  stesso  tempo  di  sbieco  non  ri- 
guardi in  qualche  verità.  L'cs.^e/T  iniziale  non  esiste  separato 
da' suoi  termini,  se  non  nella  mente  che  restringe  il  suo  sguardo, 
e  invece  di  fissarsi  in  tutto  il  suo  oggetto,  non  ne  considera  che 
un  elemento.  L'essere  iniziale  dunque  non  è  ancora  nessun  ente  : 
.'.mmette  dunque  la  denominazione  di  non-ente.  Ora,  nel  linguaggio 
esagerato  d'un  filosofo  che  ama  di  sorprendere  i  suoi  uditori  col 
paradosso  ,  alla  denominazione  di  non-ente  si  poteva  sostituire 
quella  di  nulla,  senza  scrupolo:  come  a  quella  (['essere  iniziale 
si  potea  sostituire  quella  più  semplice  di  essere,  e  con  queste  so- 
stituzioni e  scambi  si  otteneva  elfetlivamente  la  formola  dell'  es- 
sere uguale  al  nulla. 

273.  I  maestri  dell'Hegel  aveano  anche  detto  che  l'Io  si  con- 
trappone al  Non-io;  e  noi  osservammo,  che  se  questo  ha  qualche 
senso,  non  può  averlo  che  supponendosi  un  lo  finito,  e  un  Non- 
io pure  finito.  E  infatti  per  questo  Non-io  lo  Schelling  intese  la 
natura,  il  mondo,  onde  una  parte  della  sua  Filosofia  dell'identità 
assoluta  fu  quella  che  egli  intitolò:  Filosofia  della  natura.  S'era 
dunque  questa  scola,  a  malgrado  della  magnifica  parola  d'assoluto 
di  cui  faceva  sciupìo,  racchiusa  da  se  medesima  nella  sfera  del 
finito,  prendendo  da  questo,  che  cade  sotto  l'umana  esperienza, 
le  nozioni  ontologiche ,  e  con  queste  componendo ,  quasi  con 
materiali  fradici,  la  teoria  dell'infinito.  Ora  poiché  nella  sfera 
del  finito  le  cose  finiscono  e  incominciano,  e  fanno  l'una  e  l'al- 
tra cosa  con  una  gradazione  fenomenale ,  di  maniera  che  pare 
che  il  finir  dell'una  sia  l' incominciar  dell'altra  —  benché  questo 


2i8 

avvenga  solo  delle  forme  specifiche  ,  e  non  della  stessa  materia 
corporea,  —  perciò  l'Hegel  raccolse  il  concetto  volgare,  fenome- 
nale,  e  che  solo  apparisce  nel  finito,  del  dmntare  {Logic.  51: 
^Psicol.  1365')  e  lo  trasportò  senz'analisi  nell'Ontologia,  asserendo 
che  «  l'essere  slesso  dmnta  »  —  quando  pure,  come  dicevamo, 
non  solo  l'essere  non  diventa  ,  ma  né  pure  diventa  la  materia 
corporea,  ma  solo  la  forma  —  e  credette  d'aver  trovato  quel  punto 
medio,  nel  quale  l'essere  non  è  ancora,  ma  pure  incomincia,  e 
quindi  è,  riponendo  così  il  principio  dell'essere  nello  stesso  di- 
ventare ,  che  insieme  accoppia  in  bona  pace ,  essere  e  nulla  ! 
A  un  tale  risultato  ammutolì  la  Filosofia. 


CAPITOLO  II. 
Sislema  dell'  identità  dialettica. 


Articolo   I. 
Breve  esposizione  del  Sistema. 

276.  Si  dà  dunque  un  sislema  d'unità  assoluta  dialettica.  (Ihe 
cosa  vuol  dire  unità  assoluta  dialettica? 

Non  altro  se  non  che  tutte  le  cose ,  per  quantunque  si  spez- 
zino e  si  dividano  materialmente  o  formalmente,  e  però  lutti  i 
loro  elementi,  convengono  in  una  certa  essenza  concepita  dalla 
mente  ,  di  maniera  che  questa  essenza  si  può  predicare  di  tutte 
e  per  essa  tutte  affermare  con  verità,  e  questo  è  Vessere:  ma 
Tessere  sotto  1  due  concetti  di  virtuale  e  d'iniziale.  Essendoci 
nell'uno  e  nell'allro  concetto  l'essere,  l'unità  è  perfetta,  e  anche 
r  identità,  rispetto  a  questa  forma  mentale. 

277.  Ora  come  questa  maniera  d'unità  e  d' identità  di  tutte  le 
entità  —  qualunque  sieno  —  si  concilia    colla  loro  molliplicilà? 

Questo  s' intende,  qualora  si  ponga  attenzione  alla  natura  del- 
l'essere virtuale  e  dell'essere  iniziale.  Nelle  stesse  appellazioni  di 
virtuale  e  d'iniziale  si  contiene  la  variabilità  ed  estensibilità  di  co- 
tesl'essere  mentale.  Poiché  virtuale  vuol  dire,  che  ha  in  sé  virtual- 


219 

mente  e  indislinli  tulli  i  termini,  ma  nessuno  ancora  in  allo;  ed 
iniziale  vuol  dire  che  senza  lui  non  si  concepiscono  termini,  ma 
ch'egli  è  il  subiello  antecedente  di  tulli  i  termini  attuali  qualunque 
siano.  Ciò  posto,  avviene  di  uecessilà  che,  se  si  predica  l'essere 
di  due  0  più  termini  diversi,  egli  dalla  slessa  predicazione  riceve 
un  valore  diverso,  rimanendo,  come  virtuale,  unico.  Si  predichi, 
a  ragion  d'esempin,  d'una  pietra  e  d'un  uomo,  dicendosi  :  «  que- 
sta [ìietra  è  essere  >:  ,  «  (luesf  uomo  è  essere  «  :  che  cosa  si  viene 
a  dire  con  queste  predicazioni'^  Nienl'altro,  se  non:  u  questa  pie- 
tra è  uno  di  quei  termini  che  l'essere  virtuale  contiene  imphci- 
laracnte  nel  suo  seno:  quest'uomo  è  uno  di  que'  termini  che  l'es- 
sere virtuale  contiene  implicitamente  nel  suo  seno^).  Nella  prima 
predicazione  si  prende  l'essere  virtuale  in  relazione  col  termine 
pietra,  nella  seconda  si  prende  l'essere  virtuale  in  relazione  col 
termine  uomo.  È  lo  stesso  essere  virtuale  che  racchiude  tutti  i 
termini,  ma  non  èia  sfossa  relazione  in  cui  si  considera:  l'es- 
sere virtuale  dunque  nelle  diverse  predicazioni  cangia  di  valor 
relativo,  perchè  s'applica  ora  a  un  termine  ora  a  un  altro:  e 
questo  non  toglie,  ma  stabilisce  la  differenza  e  la  moltiplicilà  de 
termini  stessi. 

Ma  quest'  essere  virtuale  non  è  già  un'ente  ,  ma  un'entità 
mentale,  l'elemento  d'un  ente.  Quando  dunque  si  dice:  «  questa 
pietra  è  essere,  quest'uomo  è  essere,  ecc.  »,  allora  non  si  dice  mica 
che  questa  pietra  sia  Tenie  che  si  dice  essere,  né  che  quest'uomo 
sia  l'ente  che  si  dice  essere,  ma  si  dice  solamente,  che  l'ente  uomo 
e  l'enle  pietra  tiene  in  se  questa  entità  elementare  che  si  dice  es- 
sere, e  che  ogni  parte  della  pietra  e  dell'uomo  e  d'ogni  altra  cosa 
la  tiene  parimente,  senza  che  mai  quest'entità  elementare  —  che 
è  in  ogni  entità  ~  sia  l'entità  stessa,  a  meno  che  si  parli  di  quel- 
l'cnliià  che  è  Tessere  stesso  virtuale.  Così,  a  ragion  d'esempio, 
d'un  corpo  e  di  qualunque  parte  d'un  corpo  si  dice  che  è  esteso, 
ma  non  si  dice  mica  che  esleso  significhi  un  dato  corpo  ,  ma 
solo  una  qualità  elementare  comune  a  tutti  i  corpi  :  nell'esten- 
sione dunque  i  corpi  sono  identici,  benché  variino  nel  quanto 
dell'estensione.  Ma  la  ditTerenza  tra  Teslensione  od  altra  qualità 
comune  e  Vcssere  sia  in  questo  ,  che  quelle  non  sono  entità  prime, 
su|)ponendo  tulle  Tessere:  laddove  Tessere  è  Tentila  prima,  a 
cui  sono  tutte  le  altre  entità  posteriori ,  onde  non  si  può  conce- 


220 

p're  le  onlilà  elementari  posteriori  se  non  a  condizione  di  conce- 
pire la  prima  e  a  questa  raggiungerle.  Se  dunque  noi  prendiamo 
un  ente  pieno  qualunque  e  lo  dividiamo  materialmente  ,  come  si 
può  fare  de'  corpi ^  abbiamo  altrettanti  enti  pieni  sebbene  meno 
estesi  e  in  essi  tutti  la  prima  entità  è  l'essere;  se  poi  li  dividiamo 
formalmente  per  opera  dell'astrazione  noi  troviamo  delle  entità 
mentali  le  une  legate  alle  altre  con  un  cert'  ordine,  e  l'ultima  a 
cui  r  altre  tutte  sono  essenzialmente  legate  è  l'essere.  Senza 
quest'ultima  dunque  niuna  delle  precedenti  è,  e  quindi  avviene 
che  quest'ultima  si  predichi  di  tutti,  perchè,  rimossa  questa ^  le 
precedenti  si  annullano ,  cioè  non  si  possono  concepire  senza  ca- 
dere in  contraddizione,  che,  concependosi,  già  si  pone  che 
sieno  in  qualche  modo;  e  rimovendo  al  tutto  l'essere,  si  pone 
clic  non   sieno:    il  che   è  contraddizione. 

Non  è  dunque  assurdo  il  dire  ,  che  tutte  le  entità  sono  es- 
sere ,  e  da  questa  identificazione  di  tutte  le  entità  coU'essere  , 
non  vien  punto  né  poco,  che  le  dette  entità  non  sieno  diverse 
tra  loro,  perchè  trattasi  qui  d'essere  virtuale  che  ha  un  diverso 
rapporto  d'identità,  sebbene  sempre  d'identità  con  ciascuna 
di  esse. 

278.  Col  lume  della  qual  dottrina  rimane  sciolta  l'antinomìa 
che  presenta  al  pensiero  il  problema  dell'unità  e  della  pluralità 
sotto  questa  forma  : 

Tesi:  «  Più  cose  uguali  ad  una  terza  sono  uguali  tra  di  loro  »; 
Antilesi:  «  Più  cose  uguali  ad  una  terza  sono  diverse  tra 
di  loro  »  ;  perchè  tutte  le  cose  sono  uguali   all'essere  ,   e    pure 
sono  diverse  tra  di  loro. 

L'antinomìa  svanisce  tostochè  si  considera  che  le  varie  cose 
ed  entità  sono  uguali  all'essere  ,  ma  che  quest'uguaglianza  n 
identità  nasce  per  una  relazione  diversa  che  ciascuna  ha  col- 
l'essere  ,  relazione  determinata  dalla  natura  della  slessa  cosa  , 
perchè  la  pietra  è  uguale  i\\V essere  in  quanto  questo  contiene 
virtualmente  la  pietra,  non  in  quanto  contiene  virtualmente  l'altre 
cose;  l'uomo  è  uguale  all'essere  in  quanto  questo  contiene  vir- 
tualmente l'uomo,  e  cosi  si  dica  dell'altre  entità:  onde  questa 
identità  risulta  dalla  virtualità  dell'essere,  che  è  la  virtù  ch'egli 
ha  in  sé  di  ricevere  diversi  termini  ,  e  per  questi  diverse  re- 
lazioni, sotto  le  quali  viene  considerato  limitatamente. 


221 

279.  Ora  qui  si  domanderà  se  questa  sia  una  identità  perfetta.  — 
Per  rispondere  alla  qiial  domanda  ,  conviene  bene  intendere  il 
valore  della  parola  virtualità  applicata  all'essere.  Questa  parola 
non  significa  altro  s^j  non  che  Vesscre  ha  la  suscetlibità  di  rice- 
vere diversi  termini.  Ma  questa  suscettività  o  virtù  non  importa 
nessun  termine  attuale:  è  una  pura  potenza.  Ora  come  potenza, 
(  ci  si  permetta  per  ora  questa  parola  ,  che  poi  sarà  chiarita  ), 
che  non  ha  ancora  nessun  alto  ,  non  è  già  moUiplice  j  ma  è 
unico  e  indivisibile.  Di  più  questa  universale  potenzialità  non 
si  può  separare  daircssere,  separata  dal  quale,  si  annulla.  Ves- 
serò virtuale  dunque  può  bensì  essere  considerato  in  relazione 
con  qualcuno  de' suoi  termini,  ma  rimane  semplice  e  indivisi- 
bile; e  perciò  si  predica  tutto  di  ciascuno  de' suoi  termini,  ma 
non  totalmente:  egli  è  necessario  che  la  mente  lo  veda  lutto 
—  perchè  non  potrebbe  esser  veduto  altramente  per  la  sua  sem 
plicità  e  indivisibilità,  —  acciocché  ella  possa  conoscere  un'entità 
qualunque,  ma  non  ne  viene  per  questo,  ch'egli  si  leghi  e  li- 
miti a  quell'entità  singolare,  perchè  resta  quel  di  prima,  sem- 
plice ed  uno^  ma  colla  virtualità  sua  a  tutti  i  diversi  termini. 
Se  dunque  per  uguaglianza  o  identità  perfetta  s'intende,  che  l'es- 
sere che  si  predica  di  qualche  altra  entità  è  tutto  l'essere  vir- 
tuale, conviene  dire  che  ci  sia  identità  perfetta  tra  l'essere  e 
ciascuna  dell'altre  entità  ;  se  poi  per  identità  perfetta  s'intende, 
che  l'essere  virtuale  sia  predicato  d'ogni  cosa  e  tutto  e  total- 
mente, non  c'è  identità  perfetta;  perchè  l'essere  virtuale  che 
non  ha  alcun  termine,  non  si  predica  totalmente  d'ogni  entità, 
ma  in  quella  maniera  che  è  de'erminata  dal  termine  stesso  del- 
l'entità di  cui  si  predica. 

280.  Perchè  dunque  si  dice  assolutamente:  «  la  pietra  è  essere, 
l'uomo  è  essere,  ecc.  ?  Perchè  io  non  posso  in  alcuna  maniera 
trovare  nella  pietra  o  nell'uomo  qualche  cosa  che  non  sia  es- 
sere^ per  quantunque  e  in  qualunque  modo  io  la  scomponga  col 
pensiero:  anche  tutte  le  differenze  delle  cose  sono  essere:  perciò 
si  dice  che  le  cose  sono  essere.  Ma  che  cosa  si  viene  a  dire  con 
questo.?  NuH'allro,  se  non  che  l'essere  virtuale  e  senza  termini  è 
la  prima  e  la  più  semplice  delle  entità,  per  cosi  fatto  modo  che 
qualunque  altra  entità  è  composta,  e  tra  i  suoi  componenti  c'è 
l'essere  virtuale  sempre,  e  necessariamente.  Supponiamo  dunque 


252 

che  sia  composta  di  due  elcmcnli;  e  che  l'uno  di  questi  sia 
l'csscie  virtuale:  che  cosa  sarà  l'altro?  L'altro  avrà  natura  di 
termine  attuale,  e  perciò  avrà  bensì  il  suo  correspetlivo  nell'es- 
sere virtuale,  ma  col  suo  atto  esce  dall'essere  virtuale.  Ma  dunque 
c'è  una  cosa,  di  cui  non  si  predica  l'essere  virtuale,  e  questo  è  il 
termine  dell'essere  preciso  dall'essere?  Se  si  potesse  precidere,  così 
sarebbe  ;  ma  questa  precisione  è  impossibile,  perchè  il  termine  si 
annullerebbe  se  non  fosse  congiunto  coU'esscre.  Ed  ecco  la  neces- 
sità che  ogni  termine  sia  congiunto  coU'f'Sscrc  <,'irlaali',  suo  primo 
e  fondamentale  elemento.  In  virtù  di  questa /ìt'C('5'si/à  assoluta  che 
il  termine  non  sia  se  non  per  la  sua  unione  coll'essere,  avviene 
che  d'ogni  entità,  qualunque  sia,  e  perciò  anche  d'ogni  ditTerenza, 
si  possa  e  si  deva  necessariamente  predicar  l'essere,  e  quindi  che 
s'instituisca  una  equazione  dialettica  tra  ogni  cosa  e  l'essere. 

E  in  fatti,  che  involga  contraddizione  separare  estramenlal- 
mente  Vcssere  da' suoi  termini  ,  si  vede  non  solo  dalla  conside- 
razione della  parola  termine,  che  involge  una  relazione  essen- 
ziale col  suo  subiello  ,  di  cui  è  termine  ,  ma  ben  anco  dalla 
prova,  che  non  riesce  se  non  ad  un  assurdo.  In  fatti  provia- 
moci: ecco  io  penso  coll'astrazionc  un  termine  dell'essere  se- 
parato dall'essere.  Ma  se  io  lo  [)enso  ,  egli  è  davanti  al  mio 
pensiero:  se  è  davanti  al  mio  pensiero,  egli  ha  già  (\UQ\Vcs^ere 
mentale ,  senza  il  quale  non  sarebbe  presente  al  mio  pensiero  ; 
io  dunque  ho  creduto  di  separarlo,  ma  senz'accorgermi  glieriio 
lasciato  unito,  che  non  avrei  potuto  altramente  j)ensarlo,  e  non 
ho  separato  da  lui  l'essere  nella  sua  purezza  che  è  superiore  ad 
ogni  maniera  di  essere  ,  ma  sulo  una  maniera  di  essere  ,  Tes- 
sere estramentale.  U essere  dunque  è  necessario  ad  ogni  entità 
pensabile  e  possibile.  I  termini  dell'essere  dunque  non  si  pos- 
sono dividere  da  lui  nò  pure  per  astrazione  :  benché  l'essere  si 
possa  dividere  col  pensiero  da'suoi  termini,  e  così  appunto  s'ha 
il  concetto  dell'essere  virtuale. 

281.  Da  questo  conchiudiamo,  che  l'essere  virtuale  è  bensì  di- 
verso da'suoi  termini,  qualunque  questi  sieno,  ma  ad  essi  neces- 
sario: necessario  a  tutte  le  entità.  Quando  dunque  si  dice  che  tutte 
le  entità  sono  essere,  si  esprime  un'identità,  che  altro  non  si- 
gnifica, se  non  che  a  ogni  entità  è  necessario  Vessere  virtuale, 
senza   il  quale  ella  cessa  di  essere.   Si    potrebbe   dunque   dire  , 


223 

ohe  «  l'essere  virtuale  è  parie  essenziale  di  lulte  affatto  le  en- 
lilù,  per  quantunque  col  pensiero  si  dividano  »,  benché  non  sia 
compiutamente  nessuna  di  esse:  e  perciò  non  si  dà  identità 
perfetta. 

Di  qui  procede,  che  se  Vesserò  è  predicato  necessario  ed  es- 
senziale di  tutte  le  entità,  che  non  sieno  l'essere  stesso,  e  come 
tale  si  chiami  virtuale;  egli  sia  anche  ugualmente  subielto  dia- 
lettico antecedente  di  tutte  le  enlii.à  stesse,  e  così  si  chiami  ini- 
ziale.  Poiché  da  una  parie  abbiam  veduto,  che  l'essere  si  può 
concepire  colla  mente  diviso  da"  suoi  termini,  e  che  perciò  questi 
hanno  una  distinzione  logica  da  lui  :  abbiam  veduto  che  l'essere 
è  elemento  primo,  essenziale  d'ogni  entità,  p^r  modo,  che  i  ter- 
mini, tolto  via  lui,  s'annullano  davanti  al  pensiero  o  diventano 
assurdi:  e  che  questi  altro  non  sono  che  un  finimento  e  quasi 
«ina  continuazione  di  allo  dell'essere  stesso.  Di  qui  procede  che 
l'essere  si  concepisca  come  l'inizio  d'ogni  entità,  e  il  subictlo  di 
tutti  i  termini  che  finiscono  le  entità,  di  cui  si  tratta:  e  quindi  che 
dell'essere  stesso  si  possano  [)redicare  i  termini,  dicendosi  a  ragion 
d'esempio:  «  L'essere  qui  è  questa  pietra,  quest'uomo  ecc.  »,  le 
quali  maniere  esprimono  un'altra  forma  dialellica  della  slessa  iden- 
tità Ira  l'essere  e  i  suoi  termini. 


Akticolo  li. 

Come  l'easere  sia  il  primo  determinabile,  il  comune  determinante, 
e  l'ultima  determinazione  (iogni  entità. 

282.  Per  rendere  questa  dottrina  in  un  linguaggio  più  proprio, 
definiremo  la  materia  universale  e  dialettica  coH'espressione  di 
primo  deierminahile,  e  la  forma  universale  dialettica  per  comune 
determinante.  Dal  che  si  trae,  che  l'essere,  nel  suo  concetto  di 
essere  virtuale,  è  il  primo  determinabile,  come  quello  che  essendo 
al  lutto  privo  d'ogni  delerminaziono,  è  nondimeno  suscettivo  di 
tutte,  nel  che  sta  la  sua  virtualità;  e  che  l'essere  stesso,  nel  suo 
concetto  d'essere  iniziale,  è  il  comune  determinante  d'ogni  entità, 
perchè  è  l'atto,  pel  quale  ogni  entità  è.  ì  quali  due  concelli  del- 


224 

l'essere  rispondono  a' due  elemonli  pitagorici  tò  oiTreipov,  e  tò  né- 
poCivoy   (1). 

285.  Quesli  due  eleinenli  dunque  di  luUe  le  cntilà  all'essere 
posteriori,  si  riducono  ad  uno,  cioè  all'essere  intiùlo  dall'uomo  per 
natura,  ma  accresciuto  di  due  relazioni  diverse  ,  per  un  doppio 
sguardo  della  riflessione,  culle  entità  posteriori  nella  mente  umana 
a  quell'essere. 

E  che  Vessere  virtuale  sia  il  primo  determinabile  apparisce  ba- 
stevolmente  dalla  ragion  detta.  Ma  come  Vessere  iniziale  sia  il 
comune  determinante,  non  è  ancor  dichiarato  abbastanza.    . 

Abbiamo  detto,  che  l'essere  comparisce  come  determinante, 
quando  nelle  definizioni  delle  entità  tiene  il  posto  di  suhielto  ante- 
cedente, per  esempio:  k  L'essere  qui  è  questa  entità  ».  Ma  questa 
proposizione  si  può  prendere  tutta  insieme,  o  nelle  sue  parti.  Se 
si  prende  tutta  insieme,  significa,  che  l'essere  è  attuato  a  quel 
modo  che  indica  l'entità  alla  quale  si  agguaglia  :  l'essere  attuato 
ò  lo  stesso  che  l'alto  dell'essere  che  ha  quell'entità,  e  quest'atto 
dell'essere  è  il  determinante  quell'entità,  perchè  se  ella  non  avesse 
quell'atto  dell'essere  non  sarebbe  quella  che  è. 

iMa  se  quella  proposizione  non  sì  prende  nel  suo  valore  totale, 
ma  si  considera  il  valore  delle  sue  singole  parli,  cioè  delle  sue 
tre  parli  principali  :  1"  l'essere  subietto,  2"  l'è  copula,  3°  l'entità 
predicato;  trovasi  che  l'essere  subielto  è  ancora  l'essere  virtuale 
ossia  il  primo  determinabile,  che  l'È  copula  è  l'essere  stesso  dcter- 
minanle,  il  quale  determinando  Vessere  virtuale,  gli  fa  prendere  il 
concetto  iVessere  iniziale,  e  che  l'entità  esprime  il  modo  o  il  limite 
di  questa  determinazione.  Poiché  dunque  l'È  come  copula  ,  è  il 
determinante,  ma  tuttavia  non  esprime  ancora  la  determinazione, 
perchè  questa  non  c'è  senza  il  suo  modo,  perciò  all'È  copula  con- 
viene la  denominazione  di  determinante  tò  TtipoCivov;  laddove  l'en- 
lità  stessa,  considerata  in  relazione  all'essere,  meglio  si  denominerà 
determinazione,  rò  Trspccq,  benché  questi  due  elementi  si  confondes- 
sero dagli  antichi. 

Pure  si  avverta  ,  che  quando  diciamo  Ventila  essere  la  de- 
terminazione slessa  ,  cosi  la  chiamiamo  in  relazione  all'essere 
come   subielto   antecedente.  Poiché  in  se  stessa   può  essere   un 

(1)  Filolao,  apud  Proci,  in  Timaeum  I,  p.  26.  —  Cf.  Boeckhii  Philol. 


228 

ente  da  tult'i  lati  determinato,  e  quindi  meritare  il  nome  plato- 
nico TÒ  ^viJi,iJ,iayó[jt,£voy.  Ma  niente  vieta,  che  nell'ordine  dialettico, 
in  cui  sta  il  nostro  ragionamento,  si  consideri  come  una  deter- 
minazione deiressere  stesso  virtuale ,  e  quindi  che  deva  chia- 
marsi   TÒ   7TÌpO(.g. 

Dal  che  si  vede,  che  questi  concetti  di  determinabile  ,  de- 
terminante ,  determinazione  e  delcrminato  esprimono  soltanto 
relazioni  dialettiche,  che  possono  convenire  a  vari  oggetti,  e 
più  di  esse  ad  un  oggetto  solo  ,  secondo  le  vedute  dialettiche 
della  mente. 

Vessere  virtuale  dunque,  che  è  Velemenlo  determinabile,  che  la 
mente  conosce  in  tutte  le  entità,  diventa  essere  iniziale,  quand'è 
posto  in  congiunzione  coU'atto  dell'essere  espresso  nel  monosil- 
labo È,  determinante,  e  riceve  la  determinazione  dell'entità  pre- 
dicata ;  onde  Vessere  virluale  per  questi  tre  passi  àeWinizialità, 
ùeW alio  determinante  e  del  ricevimento  della  determinazione,  di- 
viene determinato  più  o  meno,  secondo  che  è  più  o  mcn  compiuta 
la  determinazione  stessa,  ossia  l'entità  predicala  di  lui. 

284.  Colle  quali  distinzioni,  ove  si  volessero  ritenere  le  deno- 
minazioni di  materia  e  di  forma  dialettica  universale^  si  dovrebbero 
emendare  le  proposizioni  sopra  poste  distinguendo  la  forma  dal- 
Valto  determinante,  e  dicendo,  che: 

i."  Materia  universale  dialettica  è  l'essere  nel  suo  concetto 
di  virtuale  (1)  ; 

2.°  Alto  universale  è  lo  slesso  essere  virtuale,  quando  acquista 
il  concello  d'iniziale  {^),  dal  considerarsi  in  relazione  coU'atto 
posteriore,  che  s'esprime  nel  monosillabo  È; 

3.°  Forìna  universale  è  lo  stesso  essere  iniziale,  quando  si 
considera    in  relazione  coU'atto   posteriore  determinato   dall'ag- 


(1)  Questo  travidero  que'  primi  filosofi^,  che  dicevano  tutte  le  cose  essere 

una  sola  natura,   óì;?i  Si  rive;  oì  mpl  xm  TtavTòs   w?    àv  px^z  ovTf,i   yuffsws  kii&tfr,- 

vavTo  (Arist.  Met.  I,  5),  ma  poi  si  dividevano  e  confondevano,  perchè  non 
erano  giunti  all'astrazione  dell'essere  virtuale,  e  però  non  s'erano  accorti, 
che  quella  sentenza  non  avea  valore  che  nell'ordine  dialettico  dell'a- 
strazione. 

(2)  Omne  ens  in  quantum  est  ens,  est  in  actu,  et  quodammodo  perfectum, 
quìa  omnis  actus  perfectio  qucedam  est,  S.  Th.  S.  I.  v.  3. 

Rosmini.  Teosofia,  15 


226 

giunta  all'È  dell'enlità  predicata  (i),  che  aggiunge  appunto  al- 
l'atto posteriore  la  sua  determinazione  (2). 

Questi  tre  concetti  dell'essere  ricevono  dunque  acconciamente 
le  denominazioni  di  primo  e  universale  determinabile,  di  universale 
determinnnte  e  di  ultima  e  universale  determinazione,  secondo  che 
l'essere  si  considera  o  come  suscettivo  di  lutti  i  termini,  o  in  re- 
lazione coH'alto  che  gli  dà  un  termine,  o  in  relazione  col  termine 
stesso,  che  senza  di  lui  non  è  possihile. 

La   ragione   poi   perchè   questo  determinabile  si  dice  primo  è 

(1)  S.  Tommaso  :  llliid  autem  quod  est  maxime  formale  omnium  est 
ipsum  esse.  S.  I.  vii.  1. 

(2)  Platone  ripose  nell'wno  la  causa  dell'essenze  o  idee,  secondo  Aristo- 
tele,   che  dice  :   t^^    yàp  s'ò/j  toO  tì  èinv,   «r-rta  Tots   a).Àotj,    Tot{   5  iiòiai  tò  Ìv. 

Metaph.  I,  6. 

Uuno  dunque  era  causa  della  quiddilcà  delle  idee,  o  essenze,  le  essenze 
erano  causa  della  quiddità  delle  cose.  In  queste  cose  Platone  considerava 
Tessere,  onde  nel  Parmenide  dice,  che  l'essere  è  «  l'essenza  che  partecipa 
del  tempo  presente  ».  Platone  non  raggiungeva  dunque  Vessere  se  non  come 
sussistente  nelle  cose  mondiali ,  e  non  come  sussistente  in  sé  e  separato 
da  queste,  il  che  appartiene  alla  luce  cristiana.  In  vece  di  ciò  si  sollevava 
per  una  scala  di  vote  astrazioni.  Poiché  dall'essere,  di  cui  sono  fornite  le 
cose  temporanee,  saliva  all'astratta  essenza,  ossia  alle  idee,  e  dall'essenza 
per  un'altra  astrazione  aW'nno.  Così  gli  sfuggiva  di  mano  Vesseì^e.  Ma  ar- 
rivato coll'aslrazione  della  mente  all'uno,  s'accorgeva  che  l'uno  avea  bisogno 
dell'essenza  per  esser  qualche  cosa,  di  maniera  che  diviso  da  questo  s'an- 
nullava, come  prova  nella  prima  parte  del  Parmenide.  L'uno  poi  coll'es- 
senza  avea  bisogno  del  tempo,  dello  spazio^  e  dell'altre  condizioni  delle 
cose  mondiali ,  come  prova  nella  seconda  ipotesi  dello  stesso  Parmenide. 
Vedesi  come  Platone  con  questo  offeriva  debole  il  fianco  alla  critica  del 
suo  discepolo  indomito,  Aristotele.  —  Quando  Aristotele  dice,  che  Platone 
faceva  l'uno  causa  della  quiddità  delle  idce^  intende  causa  formale.  Perciò 
altrove  dice,  che  Platune  seguendo  i  Pitagorici,  dichiarava  l'uno  essere 
essenza  ,  e  vuol  dire  subietto  delle  cose ,  onde  si  fa  a  provare ,  che  non 
può  essere,  e  che  l'uno  deve  aver  subietta  un'altra  natura  (i?  //SUov  ùrtó- 
xEtTat  tU  yJut,-.  Metaph.  IX  (X),  2).  Tutti  questi  sono  equivoci  di  parole, 
che  nascono  per  non  essersi  distinto  il  subietto  dialettico  dal  subietto  reale. 
L\mo  astratto  può  essere  anch'egli  un  subietto  dialettico  e  cosi  oùui'a,  ma 
non  il  subietto  reale  delle  cose,  che  varia  secondo  che  variano  le  cose.  E 
c'è  sempre  il  difetto  della  parola  ohsix  adoperata  come  subietto,  quand'ella 
stessa  significa  per  la  sua  forma  un'astrazione  da  ogni  subietto.  Del  rima- 
nente tutte  queste  disputazìoni  s'aggirano  intorno  all'essere,  senza  coglierlo 
mai  in  pieno  lume. 


227 

chicara  dall'istante,  che  si  considera  che  la  mente  —  la  quale  è 
costituita  già  dall'  intuito  —  suol  concepire  ogni  entità,  avanti 
lutto,  come  un  determinabile;  e  la  ragione  perchè  questo  deter- 
minante si  dice  universale  è  pur  chiara  dall'istante,  che  se  all'es- 
sere virtunlo  s'aggiungono  determinazioni,  conviene  che  ve  le 
aggiunga  un  atto  di  essere  ,  altramente  quella  virtualità  non 
uscirebbe  a  qucll'allo;  e  la  ragione  finalmente  perchè  la  deter- 
minazione delTessere  si  dice  ultima  è  perchè  le  altre  determina- 
zioni non  sarebbero,  se  esse  non  avessero  già  ricevuto  l'alto  di 
essere. 

Così  l'essere,  preso  secondo  i  concelti  dialettici  che  abbiamo 
esi^oslo,  è  anteriore  e  posteriore,  primo  e  ultimo  di  tutte  le  entità 
che  non  sono  lui:  e  non  è  ninna  di  esse  singolarmente  ed  esclu- 
sivamente considerata;  ma  è  subietlo  dialettico  anteriore  ad  esse, 
ed  è  predicato  dialettico  posteriore  ad  esse ,  ed  è  copula  ossia 
atto  di  congiunzione  e  di  continuazione  tra  esse  e  l'essere  virtuale, 
e  quindi  per  tre  maniere  è  causa  di  tutte,  cioè  causa  determina- 
bile come  essere  virtuale,  causa  effirJente  come  determinante,  e 
causa  terminativa  come  comune  determinazione  di  tutte  le  deter- 
minazioni. 

Laonde  gli  Scolastici  ben  vedendo,  che  niuna  delle  cose  crea- 
te era  Tessere,  e  che  tuttavia  l'essere  si  predicava  di  tutte, 
gh  diedero  il  nome  di  predicato  trascendente  o  trascendentale , 
e  questo  stesso  nome  diedero  a  tutti  i  concetti  elementari  del- 
l'essere (1). 

Articolo  III. 

L'essere  iniziale  è  principio  dello  scibile , 
e  inizio  dialettico  delle  cose  tutte. 

285.  Le  quali  cose  tutte  spiegano  perchè  i  sopranominati  filosofi 
tedeschi,  mentre  si  proponevano  di  trovare  il  principio  dello  sci- 
bile, ed  anzi  della  Filosofìa,    poi,   quasi  non  accorgendosi  che 

(I)  Tom.  Campanella:  Transcendens  est  terminus  universalissimam  com^ 
mimitatiim  omnium  rerum  communitatem  significans;  proptereaqiie  in 
oratione  praedicabilis  immediate  de  omnibus  generibus  in  quid  analogum, 
ut  ens,  veì'um,  bonum,  et  unum.  Dial,  I,  4.  p.  32.  Dialecticor,  I. 


228 

il  risultato  eccedeva  la  ricerca ,  dicevano  d'aver  trovato  il  prin- 
cipio di  tutte  le  cose. 

C'è  in  falli  un  principio  dialettico  di  tutte  le  cose;  ma  quelli 
non  avvertivano  punto  ,  né.  clic,  se  c'è  un  principio  che  sia  ad 
un  tempo  principio  dello  scibile  e  principio  delle  cose,  non  può 
esser  altro,  che  un'entità  dialettica  ed  astratta;  né  questo  ve- 
ramente cercavano ,  ma  cercavano  e  credevano  di  trovare  un 
principio  assoluto  e  sussistente ,  che  pareva  loro  esser  V  IO,  so- 
spinti sempre  da  queir  insistente  bisogno  dell'umana  intelligenza 
d'arrivar  pure  all'unità. 

28G.  Ora,  se  si  considera  il  concetto  dell'essere  inizinle.,  che 
come  abbiam  veduto  è  quello  dell'essere  virtuale  considerato  in 
relazione  co'  termini  attuali,  facilmente  conosceremo,  che  questo 
comparisce  alla  mente  come  inizio  non  meno  dello  scibile,  che 
di  tulle  le  cose  reali:  e  quest'è  chiaro  dall'istante  che  si  riflette, 
che  quell'essere  iniziale  è  anteriore  a'  suoi  termini,  e  quindi  alle 
forme  categoriche,  che  sono  i  primi  termini  dell'essere,  da  cui 
vengono  tulli  gli  altri.  Ora  l'ordine  scientifico  proviene  dalla  for- 
ma obiettiva  dell'  idealità,  e  Vordine  delle  cose  reali  appartiene  alla 
forma  subiettiva  della  realità  ;  come  l'ordine  morale  a  quella  su- 
bieltivo-obieltiva  della  moralità:  onde  quel  concetto  non  solo  è 
inizio  della  scienza  e  d' ogni  sussistenza ,  ma  ancora  dell'atto 
perfettivo  e  morale  che  accoppia  in  uno  scienza  e  realità  :  il 
,che*  non  videro  il  Kant  e  il  Fichte,  che  relegarono  la  loro  ra- 
gione pratica  (morale)  in  un  luogo  a  parte ,  sequestrandola  dalla 
teoretica,  e  con  questo  dissidio  rendendo  impossibile  l'unità  on- 
tologica, unità  che  invano  poi  lo  Schelling  e  l'Hegel  tentarono 
di  ristabilire. 

Si  dirà  forse,  che  noi  facciamo  dell'essere  iniziale  un'idea,  e 
quindi  poniamo  per  iniziamento  dialettico  delle  cose  tutte  la 
forma  ideale.  Ma  l' obiezione  mostrerebbe  una  falsa  intelligenza 
dell'esposta  teoria.  Poiché  è  ben  vero,  che  l'essere  iniziale, 
com'  ogni  altra  essenza,  si  vede  in  un'  idea,  che  è  lui  stesso 
come  essenzialmente  intelligibile.  Ma  quando  parliamo  dell'es- 
sere come  inizio  delle  cose,  allora  facciamo  astrazione  dall'idea, 
in  cui  e  per  cui  lo  vediamo  —  dalla  sua  propria  intelligibilità,  — 
parliamo  della  stessa  essenza  ,  cioè  dello  stesso  essere  puro ,  che 
nell'idea  si  vede,  e  però  d'un  essere  che,  appunto  perchè  ini- 


229 

ziale,  è  anteriore  dialetticamente  ad  ogni  forma  ideale  da  noi  intesa, 
che  è  uno  de' suoi  termini,  dal  quale  per  astrazione  si  prescinde  (1). 

287.  L'essere  iniziale  dunque  è  inizio  tanto  dello  scibile,  quanto 
del  sussistente  (lasciando  il  morale  che  è  per  noi  conseguente); 
ma  con  questa  differenza  però^  che  1'  essere  iniziale  rispetto  allo 
scibile  si  può  dire  anche  principio,  quando  si  considera  nella  sua 
virtualità,  cioè  perchè  contiene  implicitamente  tutte  le  intelligibili 
cose  (2).  Già  abbiamo  detto,  che  quest'essi^re  si  vede  nell'idea, 
benché  lo  si  consideri  astraendo  dall'idea,  onde  quand'egli  poi  si 
prende  come  inizio  dell'ordine  ideale,  si  trova  che  lutto  quest' 
ordine  è  in  lui  stesso  ingenerato,  e  di  lui  si  trae,  come  il  filo  dal 
bozzolo ,  purché  ci  sieno  le  condizioni  ;  laddove  quando  si  con- 
sidera come  inizio  dell'essere  reale,  quest' inizio  è  puro  inizio 
antecedente  a  questa  forma  dell'essere,  e  il  reale  non  si  può 
trarre  da  lui,  se  non  gli  s'aggiunge  un  atto,  che  esce  dalla 
sfera  dell'idea,  in  cui  l'essere  ideale  si  contempla.  L'essere  ini- 
ziale dunque  si  conosce  come  inizio  dell'ordine  ideale ,  conside- 
randolo solo  in  relazione  colla  forma  ideale ,  perchè  è  quella  che 
abbiamo  insieme  con  lui,  e  nella  quale  lo  vediamo;  ma  per  co- 
noscerlo altresì,  come  inizio  della  realità,  non  basta  che  lo  con- 
sideriamo in  relazione  coli' idea  che  ci  é  data  insieme  con  lui, 
ma  dobbiamo  paragonarlo  al  reale  sentimento ,  il  quale  esige  un 
principio  0  causa  reale,  da  aversi  al  di  fuori  di  quella  prima  idea. 

Ma  ciò  non  ostante  quando  abbiamo  l'esperienza  di  qualche 
realità,  lo  riconosciamo  anche  per  inizio  dialettico  di  questa,  e 

(1)  S.  Tommaso  distingue  le  idee  e  le  idee  intes<j  {ideas  intellectas)  : 
queste  seconde  esigono  una  riflessione,  per  la  quale  l'uomo  dà  loro  esclu- 
siva attenzione  (S.  I.  XV.  ii  ad  2™). 

(2)  Si  ascolti  S.  Tommaso:  Primwn  —  quod  cadit  in  imaginatione  intel- 
ledus  est  ens,  SINE  QUO  NIHIL  POTEST  APPREHENDI  AB  INTEL- 
LECTU  (ecco  la  notizia  dell'essere  riconosciuta  come  primordiale  e  ne- 
cessaria ad  ogni  Jiltra  cognizione,  perciò  non  originata  da  queste),  sictit 
primurn  quod  cadit  in  credulilate  intellectas  sicnt  dignitates  et  pi'aecipiie 
ista:  «  contradictoria  non  esse  simul  vera  t.  Unde  OMNIA  ALIA  INCLU- 
DUNTUR  QUODAMMODO  IN  ENTE  UNITE  ET  INDISTINCTE  sicut 
in  PRINCIPIO  (ecco  Vessere  virtuale  che  tutto  in  sé  virtualmente  contiene 
come  in  un  principio  o  inizio  delle  cose  ) ,  ex  quo  etiam  habet  quandam 
decentiam  ,  ut  sit  propriissimwn  divinum  nomen.  In  I.  Sent.  D.  Vili, 
q.  I,  art.  3. 


230 

non  solo  delle  cose  contingenti ,  ma  inizio  dialettico  di  Dio  stesso  : 
il  che  ha  bisogno  di  qualche  dichiarazione. 

288.  Quella  slessa  diflerenza  che  passa  tra  essenza  ed  esistenza, 
passa  pure  tra  essere  ed  esistere.  La  parola  esistenza,  secondo 
noi,  esprime  appunto  l'essere  iniziale,  quando  la  parola  essenza 
indica  assai  di  più  (,211,  227-256*):  tutte  le  cose  concepibili 
hanno  in  questo  senso  ugualmente  esistenza,  essendo  manifesta- 
bili alla  mente  (1)  :  ma  le  loro  essenze  sono  molte  e  difTerenlis- 
sime.  Laonde  la  semplice  esistenza  si  predica  di  Dio  e  delle 
creature,  come  ho  altrove  dimostrato  {Introd.  VIL  Lelt.  ad 
Aless.  Pestalozza  ).  Ninna  ripugnanza  dunque  ,  che  l'essere 
concepito  nella  sua  iniziahtà,  senza  alcun  termine  ,  il  che  è 
quanto  dire  come  pura  esistenza,  sia  ugualmente  inizio  di  Dio, 
come  da  noi  si  concepisce,  e  delle  creature;  il  che  è  quanto 
dire,  che  si  predica  comunemente  ed  univocamente  dell'uno 
e  dell'altre.  In  falli  se  l'uomo  non  sapesse  che  cosa  è  esistenza, 
non  potrebbe  conoscere  né  che  esista  Iddio,  né  che  esista  qualche 
altra  cosa. 

Egli  é  chiaro,  che  la  pura  esistenza,  altro  non  essendo  che 
l'inizialità  dell'essere,  il  dire  comune  l'inizio  dell'essere  a  Dio 
e  alle  creature,  non  pregiudica  la  questione  della  loro  essenza, 
e  però  Iddio  rimane,  rispetto  alla  sua  essenza,  totalmente  diverso 
dalle  creature,  e  non  c'è  punto  pericolo  di  confondere  l'uno  col- 
l'altre,  scivolando  in  dottrine  panteistiche.  Ad  evitare  le  quali 
basta  che  nessun  altro  predicato,  eccetto  questo  primo  della 
pura  esistenza,  s'accomuni  a  Dio  ed  alle  creature.  Il  che  non 
è  possibile  farsi  ne'  sistemi  dello  Schelling  e  dell'  Hegel  e  di  tutti 
quelli  che  ammettono  l'IO  per  principio  dello  scibile  e  delle  cose: 
poiché  l'Io  non  é  un'entità  dialettica  elementarissima  e  antece- 
dente alle  cose,  ma  è  anzi  un  ente  compiutissimo  fino  all'altis 
sima  attualità  cioè  alla  personalità.  Onde  se  l' Io  é  il  principio 
comune  a  Dio  e  alle  creature,  il  panteismo  é  inevitabile,  qua- 
lunque sieno  gli  schermi  de'  Filosofi. 


(1)  Il  Caluso  tentò  di  stabilire  una  differenza  tra  esseì^e  ed  esistere,  che 
non  s'acconcia  colla  costanza  dell'uso  comune,  e  fu  seguito  dal  suo  con- 
cittadino, il  Gioberti.  Si  vedano  le  note  da  me  apposte  al  Caluso,  Principi 
di  Filosofia  per  gì'  iniziati  nelle  Matematiche,  e.  i.  Trad.  di  P.  Corte, 


531 

289.  Né  osla,  che  qualche  teologo  neghi,  che  l'essere  si  possa 
predicare  univocamenle  di  Dio  e  degli  enti  contingenti.  Primiera- 
mente essi  non  parlano  propriamente  dell'essere  iniziale,  ma  so- 
gliono parlare  dell'essere  senza  piìi  :  restando  dunque  indefinita 
la  parola  essere,  e  ammettendo  più  significati,  non  fa  maravi- 
glia, che  intorno  a  questa  questione  si  dividano  d'opinione.  Rie- 
sce piuttosto  una  discrepanza  di  parole  che  di  fatto;  un  non  in- 
tendersi,  piuttosto  che  professare  veramente  opinioni  contrarie. 

Se  si  va  al  fondo,  tutti  convengono  nella  nostra  sentenza; 
il  che  proveremo  così. 

Senza  qualche  cosa  di  comune  tra  Iddio  e  gli  enti  finiti ,  man- 
cherebbe la  base  dell'analogia  tra  il  Mondo  e  Dio.  Vanalogia  si 
fonda  sulla  comunanza  àeWessere  iniziale  e  la  proprietà  di  tutte 
l'altre  cose.  Poiché  Vessere  iniziale  è  il  menomo  possibile,  che  ci 
possa  essere  di  comune  tra  due  enti  ;  e  se  né  pur  questo  fosse  co- 
mune, niente  più  rimarrebbe  di  comune ,  e  quindi  non  ci  sarebbe 
più  alcun  passaggio  dialettico,  alcuna  argomentazione  dall'uno 
all'altro,  E  nel  vero  se  ^er  analogia  s'intende  proporzione,  come 
comunemente  si  prende  (  e  noi  analizzeremo  poi  questo  con- 
cetto a  suo  luogo) ,  la  proporzione  suppone  comunanza  di  nu- 
meri e  di  certe  relazioni  :  per  esempio  quando  si  dice  :  «  come 
nell'uomo  c'è  intelletto  e  volontà,  così  in  Dio  c'è  qualche  cosa 
che  corrisponde  all'intelletto  umano  e  qualche  cosa  che  corri- 
sponde alla  volontà  umana,  benché  questa  cosa  sia  di  differente 
natura  da  quella  dell'intelletto  umano  e  da  quella  della  volontà 
umana  » ,  allora  si  riferisce  una  virtù  che  é  nell'  uomo  a  una 
virtù  che  è  in  Dio ,  e  un'altra  virtù  che  é  nell'uomo  a  un'altra 
virtù  che  é  in  Dio;  l'uno  dunque  si  riferisce  all'uno,  e  ancora 
l'uno  all'uno  ,  il  che  é  comunanza  di  numero  e  di  certa  rela- 
zione. Ma  il  numero  e  qualunque  relazione  suppone  la  comu- 
nanza dell'essere  iniziale,  di  cui  il  numero  e  la  relazione,  di  cui 
si  tratta,  non  sono  che  astratti  elementari.  L'argomento  dunque 
d'analogia  non  sarebbe  possibile,  se  non  ci  fosse  di  comune  tra 
Dio  e  i  contingenti  l'essere  iniziale  e  gì'  intrinseci  elementi  di 
questo. 

Ma  tutta  la  Teologia  argomenta  sempre  per  analogia  dalle  crea- 
ture al  Creatore,  e  così  si  forma  una  dottrina  intorno  a  Dio  : 
quest'è  riconosciuto  da  tutti  i   teologi.    Qualora    dunque  si  ne- 


232 

gasse  la  comunanza  dell'essere  iniziale  a  Dìo  e  ai  contingenti,  si 
negherebbe  Vanalogia,  e  quindi  si  distruggerebbe  tutta  la  Teologia: 
non  sarebbe  più  possibile  alcuna  dottrina  intorno  a  Dio  :  non  se  ne 
potrebbe  né  pure  più  conoscere  l' esistenza,  se  l'esistenza  appli- 
cata non  ha  quel  valore  semplicissimo  che  le  dà  l'uomo,  quando 
la  predica  delle  creature  :  perchè  l'  uomo  altra  esistenza  non 
conosce^  e  non  può  averne  due  concetti ,  perchè  due  concetti 
dell' esistenza  sono  assolutamente  impossibili;  che  se  l'uno  fosse 
il  concetto  d'esistenza,  l'altro  non  sarebbe  più  il  concetto  d'esi- 
stenza, ma  di  un'altra  cosa. 

E  perchè  apparisca  la  cosa  in  qualche  particolare,  i  teologi 
dicono,  che  «  Iddio  conosce  se  slesso  non  solo  in  quanto  è  in 
sé  ,  ma  anche  in  quanto  è  imitahUe  o  partecipabile  dalle  crea- 
ture w(l).  Ma  se  non  ci  avesse  tra  le  creature  e  Dio  nulla  af- 
fatto di  comune,  come  sarebbe  imitabile  ,  o,  come  più  piace, 
partecipabile,  non  essendovi  di  comune  né  pure  l'esistere?  Se 
dunque  si  distrugge  V  imitabilità  ò\  Dio  da  parte  delle  creature, 
è  tolto  il  principio  della  dottrina  di  Dio. 

E  come  potremmo  avere,  tolta  affatto  l'analogia  tra  Dio  e  le 
creature,  una  notizia  qualunque  del  Divin  Verbo  ?  Non  solo  non 
si  potrebbe  speculare  nulla  intorno  ad  esso ,  ma  la  stessa  rive- 
lazione sarebbe  del  tutto  e  in  ogni  sua  parte  inintelligibile,  non  si 
avrebbe  né  pure  la  notizia   di  ciò  che  s'avesse  da  credere  (2). 

Essendo  dunque  ammessa  da  tutti  i  teologi  l'analogia,  e  que- 
sta supponendo  qualche  cosa  di  comune  tra  Dio  e  le  creature , 
conviene  che  di  comune  ci  sia  almeno  l'  essere  iniziale,  perchè 
se  non  ci  fosse  questo,  nulla  affatto  ci  potrebbe  essere. 


(1)  Così  S.  Tommaso  per  tutti:  Potest  autem  cognosci  (Deus)  non  solum 
secundum  quod  in  se  est,  sed  secundum  quod  est  participabilis  secundum 
aliquem  modum  similitudinis  a  creaturis.  —  Sic  igitur  in  quantum  Deus 
cognoscit  suam  essentiam,  ut  sic  iniitabilem  a  tali  creatura,  cognoscit  eam, 
ut  propriam  rationem  et  ideam  hujus  creaturae.  S.  I.  xv.  2. 

(2)  Cosi  ancora  S.  Tommaso:  Unde  ad  hujus  notitiam  sciendum  est,  quod 
verbum  intellectus  nostri ,  secundum  cujus  similitudinem  loqui  possumus 
de  Verbo  in  Divinis  etc.  De  Verit.  IV.  De  Verb.  II. 


253 


Articolo  IV. 
Qual  parte  dell'  Ente  risponda  «//'essere  iniziale. 

290.  Ora  avendo  noi  dello  che  l' essere  iniziale^  quale  per 
aslrazione  si  pensa,  non  è  Tenie,  ma  qualche  cosa  dell'ente,  ri- 
mane a  cercare  che  cosa  sia  questo  qualche  cosa. 

291.  E  qui  noi  facilmente  vediamo  che  quest'essere  iniziale  non 
ha  la  stessa  connessione  con  tutti  gli  enti  da  noi  pensabili.  Poiché 
noi  pensiamo  l'ente  contingente,  e  l'ente  necessario. 


Si  risolve  la  questione  rispetto   all'ente  contingente. 

292.  Ora  se  noi  cerchiamo,  che  cosa  sia  l'essere  iniziale  rispello 
all'ente  contingente,  troviamo  eh'  egli  non  si  concepisce  punto 
da  noi  come  vero  elemento  di  quest'ente,  ma  soltanto  come  una 
condizione  necessaria  all'esistenza  del  medesimo. 

E  veramente  noi  abbiam  dello  in  universale  che  l'essere  vir- 
tuale è  il  primo  determinabile ,  l'essere  iniziale  poi  è  il  comune 
determinante  j  e  V  ultima  determinazione.  Ora  nessuno  di  questi 
tre  concetti  esprime  cosa  che  sia  un  elemento  intrinseco  d'  un 
ente,  o  d'un'enlità  contingente,  ma  sollanlo  esprimono  condizioni 
necessarie,  senza  le  quali  tali  enti  o  entità  non  sarebbero  pur 
concepibili. 

Quando  diciamo:  «L'essere  è  qui  una  pietra  »,  V  essere  non  è 
ancora  la  pietra,  ma  è  un  subietlo  antecedente  alla  pietra  :  esso 
è  ì\  primo  determinabile;  e  come  primo  determinabile  non  è  pie- 
Ira  ,  poiché  una  data  pietra  è  anzi  un  determinato.  Determina- 
bile e  determinalo  sono  concelti  opposti,  a  cui  risponde  nell'ente 
qualche  cosa  d'  opposto.  Se  prendiamo  le  due  prime  parole  di 
quella  proposizione:  «l'essere  è  »,  abbiamo  il  primo  determinabile 
—  l'essere  —  e  il  comune  determinante  —  è;  —  ma  non  avendo 
ancora  alcuna  determinazione,  il  determinante  è  tale  per  tutte 
le  determinazioni  possibili.    Ora  la  pietra  è  una  determinazione 


234 

dell'  essere  :  V  essere  dunque  come  determinante ,  cioè  conside- 
ralo nel  suo  alto  espresso  col  monosillibo  e ,  none  la  pietra, 
ma  è  ancora  antecedente  alla  pietra.  E  se  Tessere  virtuale  è  un 
primo  inizio,  quando  gli  s'aggiunge  col  pensiero  quell'alto  che 
esprime  l'È,  egli  incomincia  ad  uscire  ad  un  atto,  ma  questo 
alto  è  ancora  iniziale,,  perchè  non  è  compito  da  alcuna  determi- 
nazione, e  però  non  si  sa  ancora  dove  vada  quest'alto  a  parare. 
Dunque  coU'aggiunta  dell' È,  s' ha  nel  pensiero  la  virtù  deter- 
minante, ma  ancora  anteriore  alla  cosa  determinala  :  non  è  dun- 
que quella  virtù  determinante  qualche  cosa  d' intrinseco  alla 
pietra,  ma  qualche  cosa  d'  antecedente,  causa  necessaria  della 
pietra  ,  causa  dico  determinante  e  creante.  Nella  nostra  conce- 
zione dunque  dell'ente  contingente  colla  riflessione  si  distinguono 
tre  gradi  indivisibilmente  connessi:  1.°  l'essere  determinabile, 
è  il  primo  grado;  2.°  l'è,  cioè  l'atto  con  cui  si  determina  ,  il 
determinante,  è  il  secondo  grado;  3.°  la  pietra  determinata,  è 
il  terzo.  Questi  tre  gradi  sono  così  connessi ,  come  dicevamo , 
che  il  secondo  non  si  può  concepire  senza  il  primo,  e  il  terzo 
non  si  può  concepire  senza  i  due  primi.  Alla  concezione 
della  pietra  dunque  —  e  lo  stesso  si  dica  d'ogni  altro  contin- 
gente —  è  assolutamente  necessario,  che  preceda  la  concezione 
dell'essere,  sia  come  nome,  sia  come  verbo  —  se  si  esprime  la  con- 
cezione in  forma  di  proposizione,  —  cioè  sia  come  determinabile, 
sia  come  determinante,  sia  come  virtuale  (inizialissimo) ,  sia 
come  iniziale.  La  quale  analisi  conferma  il  principio  della  nostra 
Ideologia.  Ma  sebbene  ci  abbia  questo  intimo  e  indispensabil  nesso 
tra  que'  tre  gradi,  di  maniera  che  la  concezione  della  pietra  è 
radicala  ne'  due  precedenti  concelli  dell'essere ,  tuttavia  chiara- 
mente si  vede,  che  questi  precedono  nella  concezione,  e  non  co- 
stituiscono punto  la  pietra  stessa,  onde  l'essere  così  concepito  si 
può  chiamare,  a  doppio  titolo,  causa  della  pietra. 

Se  poi  noi  analizziamo  quest'altra  proposizione:  «  La  pietra 
è  »,  noi  vediamo  che  la  pietra  ha  bisogno  dell'è  per  essere,  e 
così  l'essere  prende  il  concello  di  ultima  determinazione  poste- 
riore a  tulle  le  determinazioni  della  pietra  stessa,  ciascuna  delle 
quali  s'annullerebbe  anche  nel  concetto,  se  non  si  potesse  pre- 
dicare di  essa  l'essere.  Questo  predicato  dunque,  comune  a  tutte 
le  entità,  è  l'alto  che  le  determina  ad  essere,  e  perciò  appunto 


25» 

si  chiama  determinazione  xUtima.  E  la  connessione  tra  la  pietra 
e  questo  comune  predicato  è  talmente  intima  ,  che  il  solo  yo- 
càhoìo  pietra  nulla  potrebbe  significare,  se  non  vi  si  sottinten- 
desse è,  anche  quand'egli  non  si  pronuncia:  di  maniera  che  lo 
stesso  essere  intuito  ha  implicito  quell'atto  che  poi  si  esprime 
colla  forma  verbale  è  {Logic.  520-3!27).  Se  dunque  si  paragonano 
le  due  proposizioni  :  «  L'essere  qui  È  questa  pietra  »,  e  «  questa 
pietra  È  »  ,  nella  prima  l'È  è  determinante  l'essere  ,  nella  se- 
conda, che  ha  per  subietto  la  stessa  pietra  determinala,  l'È  è 
Vullima  determinazione  comune  a  tutte  le  entità,  senza  la  quale 
queste  tutte  svanirebbero  nel  nulla.  Onde,  se  l'ente  contingente 
pietra  nella  prima  proposizione  si  concepisce  come  quella  che 
ha  la  sua  radice  nell'essere  ,  ma  che  non  è  l'essere  ;  nella 
seconda  proposizione  si  concepisce  come  quella  che  finisce  la 
sua  essenza  nell'essere,  senza  il  quale  non  essendo  quell'essenza 
finita,  non  sarebbe;  e  così  l'essere  si  può  dire,  causa  finale  del- 
l'essenza dei  contingenti. 

'293.  Tutta  la  qual  dottrina  è  di  tanta  importanza,  che  noi  cre- 
diamo prezzo  dell'opera  ricapitolarla  e  ripeterne  i  risultati  nei 
seguenti  punti: 

1.°  Ucssere  non  è  un  elemento  propriamente  intrinseco  degli 
enti  contingenti,  ma  è  antecedente  e  raccogliente  i  medesimi. 

2.°  L'essere  è  causa  creante  ,  determinante  e  finale  dell'es- 
senza degli  enti  contingenti. 

5.°  Se  un  solo  momento  cessasse  questa  triplice  causa  , 
cioè  l'essere ,  gli  enti  contingenti  non  sarebbero  più  né  manco 
concepibili. 

U.°  Quindi  non  solo  l'essenza  de' contingenti  dipende  come  da 
causa  dall'essere  virtuale  e  iniziale  ,  ma  ne  dipende  in  modo 
che  la  loro  stessa  essenza  consiste  in  questa  continua  dipendenza. 

5.°  Dunque  l'essenza  de' contingenti,  in  quanto  dura,  im- 
porta un  atto  continuo  di  creazione,  ed  ella  stessa  non  è  altro 
che  un  continuo  esser  fatta,  un  continuo  ricever  l'essere. 

6,**  L'essere  virtuale  e  iniziale  dunque  è  indipendente  dagli 
enti  contingenti  ,  e  si  concepisce  anche  senza  questi  :  onde 
dev'essere  qualche  cosa  dell'ente  assoluto,  e  non  degli  enti  con- 
tingenti. 

7."  Gli  enti  contingenti  sono  termini  dell'essere  iniziale,  ma 


236 

termini  non  necessari  ad  esso,  che  rimane  davanti  alla  mente, 
senza  di  essi;  termini  perciò  che  noi  chiameremo  impropri. 

8.°  Gli  enti  contingenti  dunque  non  sono  nulla ,  ma  un 
qualche  cosa  ;  ma  questo  qualche  cosa  non  può  esister  solo^  ma 
congiunto  continuamente  aWessere  iniziale  e  virtuale  ,  come  a 
causa  creante  ,  determinante,  e  finiente  della  sua  essenza.  Non 
hanno  dunque  niente  di  indipendente  ,  ma  tutto  ciò  che  hanno 
è  da  essi  ricevuto  ogni  momento. 

9.°  La  relazione  degli  enti  contingenti  coU'essere  virtuale 
e  iniziale  è  una  relazione  di  sintesismo  ,  perchè  quelli  non  si 
possono  concepire  senza  concepir  questo  ;  laddove  la  rela- 
zione dell'essere  virtuale  e  iniziale  cogli  enti  contingenti  non  è 
una  relazione  di  sintesismo,  ma  di  assoluta  indipendenza;  perchè 
si  può  concepir  quello  senza  nessun  bisogno  di  concepire  anche 
questi:  il  che  dimostra  la  falsità  della  formola  «  L'ente  crea 
le  esistenze  »  (1). 

I  2. 
Si  risolve  la  questione  rispetto  all'Ente  necessario. 

294.  Se  dunque  l'essere  virtuale  e  iniziale  non  è  qualche  cosa 
dell'ente  contingente,  conviene  che  sia  qualche  cosa  d'un  ente 
necessario:  poiché  non  può  esser  nulla,  essendo  una  contradi- 
zione che  l'essere  non  sia. 

295.  E  qui  si  consideri  la  differenza  che  passa  tra  tutte  le  cose 
contingenti ,  e  l'essere.  Di  quelle  non  si  può  fare  lo  stesso  ra- 
gionamento   che   di  questo.  Prendiamo  ancora   l'esempio  d'una 

(1)  Prescindendo  dall'improprietà  della  parola  esistenze  ,  qiiesta  formola, 
dove  non  è  espressa  punto  né  poco  la  libertà  e  la  contingenza  della  crea- 
zione, farebbe  credere  che  non  solo  le  esistenze,  cioè  gli  enti  contingenti, 
non  potessero  concepirsi  od  esistere  senza  l'ente  ;  ma  che  neppur  l'ente  si 
potesse  concepire  senza  concepirete  esistenze.  Altramente  le  esistenze,  ap- 
punto perchè  contingenti,  non  potrebbero  aver  luogo  nel  primo  principio, 
che  vuol  essere  necessario.  In  fatto  gli  enti,  se  contingenti,  non  si  possono 
ammettere  esistenti  a  priori,  ma  conviene  ricorrere  all'esperienza  per  cono- 
scerne l'esistenza.  E  come  cominciare  la  lìlosoiìa  da  un  dato  dell'esperienza , 
se  non  è  ancor  provata  la  veracità  di  questa?  Anzi  questa  stessa  c'è  forse 
necessità  che  esista,  se  anch'essa  dipende  da  enti  contingenti? 


239' 

pietra.  Se  io  considero  che  cosa  penso  nell'essenza  d'una  pietra, 
trovo  che  penso  in  essa  una  natura  corporea  che  occupa  spazio, 
che  ha  la  qualità  della  durezza,  e  tutte  le  altre  che  sono  proprie 
d'una  pietra.  Ora  non  sarebbe  per  certo  un  diritto  ragionamento 
cotesto  :  «  Nel  concetto  della  pietra  e'  è  la  corporeità  ,  e  tutte 
l'altre  /jualità*:  dunque  la  pietra  esiste  ».  La  ragione  per  cui  un 
tale  ragionamento  non  tiene  è  evidente:  Vesislenza,  che  io  tento 
dedurre  dalla  corporeità  e  dall'altre  qualità  che  costituiscono  l'es- 
senza della  pietra,  non  è  contenuta  in  questa,  non  c'è  contenuto 
l'essere  virtuale  e  iniziale  ,  che  è  soltanto  la  condizione  neces- 
saria e  la  causa  dell'essenza:  dunque,  ragionando  a  quel  modo, 
aggiungo  io  l'esistenza  ad  arbitrio  (i).  Ma  cosi  non  va  la  cosa, 
se  io  fiiccio  un  simile  argomento  dell'essere.  Poiché  io  posso 
dire  benissimo:  «  Nel  concetto  dell'essere  c'è  l'essere;  dunque 
l'essere  è  ».  In  questo  argomento  ,  io  non  aggiungo  nulla  di 
novo  ad  arbitrio  nella  conclusione ,  ma  con  un  giudizio  per- 
fettamente analitico  {Ideal.  542,  343),  conchiudo  quello  stesso 
che  è  nelle  premesse;  che,  il  dire  è,  equivale  a  dire,  è  essere, 
ed  ho  già  detto  che  l'essere  è  nel  suo  concetto:  il  che  equivale 
a  dire,  che  l'essenza  dell'essere  è  di  essere.  L'identità  della  qual 
proposizione:  «  l'essere  è  »  trae  la  sua  rigorosa  esattezza  da 
questo  che  si  parla  dell'essere  concepito  anteriormente  alle  sue 
forme  primordiali,  onde  non  s'inchiude  la  modalità,  non  si  dice 
in  che  modo  l'essere  sia,  se  reale  o  ideale,  ma  anzi  si  dice  che, 
prescindendo  da  ogni  modo  e  però  in  un  qualche  modo,  qua- 
lunque, «  l'essere  è  ».  Onde  si  avvera  il  carattere  delle  propo- 
sizioni per  sé  evidenti ,  che  è  quello  che  il  predicato  sia  con- 
tenuto nel  subietlo  (2),  e  s'avvera  nel  caso  nostro  al  maggior 
segno,  perchè  predicato  e  subietto  sono  identici,  salvo  il  diverso 
sguardo,  con  cui  la  mente  li  concepisce  {Logic.  521). 

0  convien  dunque  negare  che  qualche  cosa  ci  sia,  o  ammet- 
tere che  c'è  l'essere  iniziale,  condizione  e  inizio  di  lutto  il  resto. 

(1)  Vedremo  in  altro  luogo  che  questo  vale  non  solo  per  la  pietra  reale, 
ma  anche  per  la  sua  cssenza_,  qual  si  vede  nelFidea.  Anche  quest'essenza, 
sebbene  eterna,  dipende  dall'essere,  determinabile,  determinante,  e  determi- 
nazione. Vedasi  per  intanto  il  Rinnovamento  JÀh.  Ili,  C.  LII'. 

(2)  Aliqua  propositio  est  per  se  nota,  quod  prcedicatum  includitur  in  ra- 
tione  subiecti.  S.  Th.  S.  I,  ii,  1. 


538 

Ma  tra  il  dire  che  tutto  è  nulla  —  proposizione  d'altra  parte  con- 
tradilloria,  —  e  l'ammettere  che  ci  sia  l'essere,  non  è  ambigua 
lo  scelta.  Poiché  questo  è  il  punto  in  cui  conviene  il  testimonio 
dell'esperienza  coU'evidenza  razionale  a  costituire  una  sola  e 
medesima  necessità  logica.  Poiché  dall'istante  che  noi  pensiamo 
l'essere  (e  lo  stesso  si  può  dire  del  pensiero  d'ogni  altra  cosa, 
sia  anche  apparente  e  illusorio  questo  pensiero) ,  l'essere  non 
può  mancare,  abbracciando  esso  lutto,  anche  l'illusorio  e  l'ap- 
parente, appunto  perchè  l'essere  di  cui  si  parla  è  l'essere  vir- 
tuale ed  iniziale;  e  non  si  dice  ancora  in  che  modo  sia  ,  e  però 
non  si  disputa  ancora  della  sua  apparenza  o  della  sua  illusorietà  , 
ma  solo  si  dice  ,  che  è.  Non  può  dunque  accadere  apparenza 
alcuna  o  inganno,  nel  dire  che  {'essere,  o  apparente  o  in  altro 
modo,  è  (i):  c'è  dunque  qui  un  punto  fermo,  sicuro  da  ogni 
contradizione,  evidente. 

Se  dunque  Tessere  iniziale  evidentemente   è,    e  non  è  ente  , 

(1)  Uno  de' più  dotti  e  sottili  filosofi  d'Italia,  dirò  anzi  del  mondo,  è  certa- 
mente Tomaso  De  Vio  da  Gaeta.  Questi,  coiracume  di  cui  va  fornito,  accennò 
la  vera  distinzione  tra  il  nome  e  il  verbo,  quale  fu  da  noi  dichiarata  nella 
Logica  (320  sgg.).  Nominibus,  dice,  res  significantur  ut  conceptce,  verbis 
autem  ut  exercitw.  Ma  egli  non  vide  punto  che  anche  nelle  cose  puramente 
concepite  c'è  un  atto  che  può  essere  espresso  benissimo  con  un  verbo,  seb- 
bene quest'atto  esercitato  non  sia  nella  forma  della  realità ,  ma  solo  nella 
forma  della  idealità;  onde  in  ogni  definizione,  benché  si  tratti  d'un'essenza 
ideale,  s'adopera  il  verbo  È,  come  dicendo  :  «  la  pietra  è  un  corpo,  ecc.  >.  Poi- 
ché la  pietra  di  cui  si  parla  nella  definizione  non  è  una  pietra  reale,  ma  l'es- 
senza della  pietra  che  si  vede  puramente  nell'idea.  Laonde  o  conviene  esten- 
dere l'espressione  à'atto  esercitato  anche  all'atto  col  quale  sono  le  essenze 
ideali ,  0  modificare  quella  definizione  del  verbo  e  del  nome  per  modo,  che 
apparisca,  che  la  cosa  concepita  significata  nel  nome  e  l'atto  della  sua  esi- 
stenza significato  dal  verbo,  non  sono  che  il  medesimo  atto,  variando  solo  il 
modo  col  quale  la  mente  nostra  lo  vede  ed  esprime.  Onde  le  parole  che  se- 
guono dell'acuto  filosofo:  Unde  ista  enunciatio  a  existentia  non  est-»,  non 
implicai  contradictoria  :  ista  autem:  «  quod  existit,  non  est  »,  implicat  con- 
tradictoria  (In  S.  S.  Th.  L  ii,  3),  se  devono  essere  vere,  vanno  intese 
così  :  a  existentia  non  est  »,  non  implica  contradizione,  se  pel  verbo  non  est 
s'intenda  un'esistenza  nella  forma  della  realità,  ma  se  pel  verbo  non  est  s'in- 
tende che  assolutamente  non  sia,  la  contradizione  è  patente,  giacché  il  dire 
«  non  è  »  é  lo  stesso  che  il  dire  «  non  è  cosa  alcuna,  e  però  neppure  è  esi- 
stenza »,  e  il  dire  che  l'esistenza  non  è  esistenza  è  indubitatamente  contra- 
dizione. 


239 

ma  qualche  cosa  dell'ente,  e  non  può  essere  qualche  cosa  del- 
l'ente contingente,  perchè  è  pura  causa  dell'essenza  di  questo, 
causa  creante  ,  determinante  e  finiente  ,  ma  non  elemento  in- 
ìntrinseco  della  stessa;  rimane  che  sia  qualche  cosa  dell'Ente 
necessario. 

E  questo  si  conferma  appunto  dal  vedere  che  l'essere  virtuale 
e  iniziale  è  assolutamente  necessario,  di  maniera  che  non  si  può 
pensare  che  non  sia  :  perocché  il  pensare  che  non  sia  è  già  un 
ammetterlo  {IdeoL  d0o9-1089;  lììnnov.  ,Lib.  III.  C.  i.  sgg.*  Logic. 
1044  sgg.):  se  dunque  Tessere  virtuale  e  iniziale  è  necessario 
non  può  esser  parte  iilcuna  del  contingente  ,  ma  deve  essere 
un'  appartenenza  di  un  enie  necessario  (I). 

290.  Alla  Teologia  cerlamcnìe  spetta  il  dimostr<ire,  che  non  si 
può  dare  che  un  solo  essere  necessario,  come  pure  dichiarare  il 
modo  nel  quale  s'intendn,  che  l'essere  virtuale  e  iniziale  è  qualche 
cosa  dell'unico  essere  necessario.,  cioè  di  Dio.  Ma,  come  ho  detto 
nella  prefazione  alla  Teosofìa,  è  impossibile  separare  le  tre  dot- 
trine dell'essere ,  di  Dio  e  del  mondo  ,  essendo  veramente  una 
dottrina  sola  che  da  per  tutto  s'intreccia.  Laonde  anche  qui, 
senza    alcuno  scrupolo  di   non  ollrepnssarc   de' confini  posti  ad 

(1)  S.  Tomaso  scrive:  Nihil  habet  esse,  nisi  in  quantum  participat  divi- 
num  esse,  quia  ipsum  est  primum  ens,  QVARE  CAUSA  OMNIS  ENTIS ; 
sed  omne  quod  est  participatum  in  aliquo,  est  in  eo  per  modum  partici- 
pantis  ,  quia  nihil  potest  recipere  ultra  mensuram  suam  :  cum  igitur 
modus  cvjuslibet  rei  creatce  sit  finitus ,  quaelibet  res  creata  recipit  esse  fi- 
nitimi et  inferius  divino  esse,  quod  est  perfectissimum.  Ergo  constai  quod 
esse  creaturce,  quo  est  formaliter,  non  est  divinum  esse  (In  I.  Sent.  D.  Vili, 
q.  I,  a.  3,  contr.  2).  In  queste  parole  1.°  si  chiama  divino  Tessere  di  cui  le 
creature  partecipano,  il  che  viene  a  dire  che  Tessere  virtuale  e  iniziale  ap- 
partiene a  Dio;  2."  si  distingue  il  partecipante,  cioè  la  cosa  creata,  dall'es- 
sere partecipato,  il  che  è  quanto  dire,  che  l'essenza  della  creatura  non  è 
Tessere  di  cui  partecipa;  3.°  si  dice  che  Tessere  quo  creatura  formaliter  est 
non  è  Tessere  divino.  Ora  questo  essere,  con  cui  la  creatura  esiste  formal- 
mente ,  è  Tatto  dell'essere  che  la  forma  ha  già  ottenuto  :  e  quest'essere  già 
partecipato  dalla  forma  speciale  è  limitato  ad  essa  e  non  comune  a  tutte 
l'altre  forme,  e  perciò  considerato  cosi  limitato  non  è  e  non  può  essere  lo 
stesso  che  Tessere  di  Dio,  il  quale  è  essenzialmente  illimitato  ;  ma  se  questo 
atto  si  considera  come  ultima  determinazione  comune  a  tutte  le  forme 
limitate,  in  tal  caso  esso  è  causa  finale  di  queste,  che  per  esso  vengono  al- 
l'esistenza ;  e  così  di  novo  è  un'appartenenza  di  Dio,  causa  omnis  entis, 


240 

arbitrio,  accenneremo  che  l'unità  assoluta  dell'Essere  necessario 
è  già  provata  dall'unità  propria  di  qualunque  essenza.  Poiché 
ogni  essenza  è  così  fattamente  una  e  semplice  ,  ciie  qualunque 
minimo  cangiamento  si  facesse  in  essa,  perderebbe  la  sua  identità 
[Rinnov.  Lib.  III.  C.  xxxix,  xlv).  Se  dunque  quest'unità  perfetta 
è  propria  d'ogni  essenza,  lo  sarà  anche  della  prima  che  è  quella 
dell'essere.  Se  l'essere  dunque  come  essenza  esiste  in  sé  ,  egli 
non  può  essere  che  uno  e  semplicissimo  ,  e  quest'  è  appunto 
l'Essere  necessario  in  se  essente  ,  del  quale  l'essere  iniziale  è 
un'appartenenza. 

297.  E  come  l'essere  iniziale  possa  essere  chiamato  un'appar- 
tenenza dell'assoluto  senza  inconveniente  fu  da  noi  mostrato  al- 
trove (  Vedi  DifficoUà  che  l'Ab.  Gioberti  move  alla  filosofìa  di 
A.  R.,  ecc.  in  fine  all'opusc.  Vinc.  Gioberli  e  il  Panteismo,  Lucca 
■1853,  p.  279  sgg  ).  Ma  poiché  V Essere  assoluto  è  quello  che  è  in 
tre  modi,  cioè  nelle  tre  forme  primordiali,  perciò  rimane  a  ve- 
dere, se  Vessere  iniziale  sia  un'appartenenza  delTEssere  assoluto 
nella  forma  subiettiva,  o  nell'obiettiva,  o  nella  forma  perfettiva 
e  morale.  Ora  egli  è  certo  che  l'essere-  iniziale  si  concepisce 
dalla  mente  umana  come  anteriore  alle  forme ,  e  loro  comune 
iniziamento.  Ma  così  apparisce  come  essenza  veduta  neWidea,  non 
come  idea.  Poiché  nell'essere,  come  in  ogni  altro  oggetto  della 
mente,  si  distingue  l'essenza  veduta  dal  lume  inerente  all'essenza, 
pel  qual  lume  essa  è  visibile  {Rinnov.  ,111.  XLvn.  lii.  Diali.*): 
in  quanto  é  lume  dicesi  idea;  in  quant'è  ciò  che  si  vede,  di- 
cesi essenza.  L'essere  iniziale  dunque  come  essenza  è  anteriore 
alle  forme  e  loro  iniziamento.  Ma  in  quanto  quest'essenza  é  lu- 
minosa alla  mente  ,  intanto  partecipa  della  forma  obiettiva  e 
intelligibile  dell'essere.  Ora  poiché  l'essere  assoluto  nella  sua 
forma  obiettiva  dicesi  Verbo  divino,  perciò  l'essere  iniziale  con- 
siderato nella  sua  obiettività  è  qualche  cosa  dell'Essere  assoluto 
nella  forma  obiettiva,  ossia  del  Verbo  divino  (4). 

(1)  Tutti  i  padri  della  Chiesa  insegnarono  sempre  che  il  lume  deirintelletto 
umano  è  qualche  cosa  del  Verbo  divino.  Cf.  S.  Giustino  Apol.  I,  n.  3. 
S.  Athan.  De  incarn.  Verbi  —  Tertull.  De  testimon.  animce  —  IdeologAk-ìl; 
Bianov amento  Lib.  III.  G.  xlii. 


244 
Articolo  V. 


COROLLARI  IMPORTANTI. 


Dall'esposta  dottrina  si  raccolgono  Ire  importanti  corollari. 


ì. 


Primo  Corollario:  dimostrazione  a  priori  dell'esistenza  di  Dio 
(Cf.  Ideol.  1 450-1460;  Sistema  178). 

298.  Uessere  virtuale  e  iniziale,  ossia  l'essere  intuito  per  na- 
tura, di  cui  la  riflessione  scoperse  le  relazioni  di  virtualità  e  ini- 
ziatila, è  necessario  come  abbiam  vedulo,  perchè  l'essere  non  può 
non  essere.  Ma  egli  non  è  un  ente  ;  è  dunque  qualche  cosa  d'un 
ente.  Ma  quest'ente  di  cui  quell'essere  è  qualche  cosa,  non  può 
essere  un  ente  contingente,  perchè  il  contingente  è  l'opposto  del 
necessario.  Dunque  1'  essere  intuito  dall'  uomo  deve  necessaria- 
mente essere  qualche  cosa  d'un  ente  necessario  ed  eterno,  causa 
creante,  determinante  e  fìniente  di  lutti  gli  enti  contingenti:  e 
questo  è  Dio. 

299.  11  dimostrarsi  poi  a  priori  l'esistenza  di  Dio  non  risolve 
l'altra  questione:  «  Se  sia  per  sé  noto  che  Dio  esiste  «.  La  riso- 
luzione di  quest'ultima  questione  dipende  dal  definire  accurata- 
mente che  cosa  s'intenda  per  quelle  parole  per  sé  noto. 

Se  per  sé  noto  s'intende  che  Dio  sia  intuito  dall'uomo  imme- 
diatamente per  natura,  conviene  rispondere  negativamente:  il 
dire  che  1'  uomo  vede  Iddio  per  natura,  non  è  altro ,  che  il 
pronunciato  d'una  filosofia  entusiasta  e  declamatoria. 

Se  poi  per  sé  noto  s'intende  una  proposizione,  il  cui  predicato 
sia  contenuto  nel  concetto  medesimo  del  subietlo,  la  proposizione 
«  Dio  esiste  »  è  certamente  per  sé  nota.  Ma  non  ne  viene  da 
questo  che  quella  proposizione  sia  per  sé  nota  all'uomo ,  perchè 
può  essere  che  l'  uomo  non  conosca  abbastanza  il  subietto  o  il 
predicato  di  cui  si  tratta ,  per  potersi  accorgere  che  il  predicato 
Rosmini.  Teosofia,  16 


242 

sia  contenuto  nel  concetto  del  subietto  medesimo  (1);  e  infatti 
nella  proposizione  «Dio  esistei  il  subietto  Dio  è  ignoto,  non 
avendo  l'uomo  nell'ordine  naturale  altra  cognizione  dell'essenza 
divina,  che  negativa  (2). 

300.  Se  dunque  in  terzo  \uogo  per  sé  noia  si  prende  a  significare 
una  proposizione,  nella  quale  non  solo  il  predicato  è  contenuto 
nel  concetto  del  subietto ,  ma  di  più  il  subietto  e  il  predicato 
sono  noti  abbastanza ,  da  potersi  conoscere  che  questo  è  rac- 
chiuso già  in  quello,  in  tale  accettazione  dell'espressione  per  sé 
nota  si  danno  tre  casi  : 

i.''  0  il  subietto  e  il  predicato  è  tale  che  si  conoscono,  a  quel 
grado,  immediatamente  da  tutti  gli  uomini  ;  e  allora  la  proposi- 
sizione  è  per  sé  noia  tanto  in  sé  stessa,  quanto  a  tutti  gli  uomini, 
e  lutti  l'ammettono  come  evidente  ,  e  così  avviene  dei  primi  prin- 
cipi del  ragionamento,  i  quali  sono  tutti  composti  dal  puro  es- 
sere indeterminato,  che  è  a  lutti  palese  [Ideol.  559  570,  145:2, 
1455;  Logic.  557-5G3),  Ora  in  questo  senso  la  proposizione 
.«  Dio  esiste  »  ,  non  è  per  sé  nota ,  perchè  non  lutti  gli  uomini 
conoscono  tanto  distintamente  il  subietlo  Dio,  da  intendere  che  in 
esso  si  contenga  necessariamente  il  suo  esistere;  e  però  alcuni  lo 


(1)  Se  si  considera  questa  sentenza  de'  logici  :  Illa  dicuntur  esseper  se  nota, 
quce  statim  cognitis  terminis  cognoscuntnr  (S.  Th.  S.  I.  ii.  i,  2)  si  ricono- 
scerà in  essa  una  testimonianza  che  danno  in  favore  della  sentenza  ctie 
«  l'essere  è  noto  per  sé  stesso  j,  perchè  suppongono  sempre  che  la  copula 
È,  0  NON  È,  de'due  termini  sia  già  nota  senz'altro  (Lop'ic.  1059).  Il  principio 
dunque  della  nostra  Ideologia  è  ammesso  e  indirettamente  confessato  da 
tutti,  anche  da  quelli  che  espressamente  il  negano.  Ter  questa  stessa  ragione 
nelle  antiche  lingue  la  copula  È  per  lo  più  non  s'esprimeva  con  un  vocabolo, 
lasciandola  pensare  alla  mente  degli  uditori,  come  a  quella  che  l'aveva  pre- 
sente e  da  sé  la  suppliva.  E  quest'è  pure  una  testimonianza  del  genere 
umano  a  favore  della  nostra  Ideologia. 

(2)  Quia  nos  non  scimus  de  Ueo  quid  est,  non  est  nobis  per  se  nota  (pro- 
positio:  Deus  existit)^  sed  iudiget  demonstrari  per  ea  quce  sunt  magis 
nota  quoad  nos,  et  minus  nota  quoad  naturam,  scilicet  per  effectus  (S.  Tli. 
S.  I.  II.  i).  Sebbene  poi  qui  S.  Tommaso  ricorra  per  dimostrare  l'esistenza 
di  Dio  agli  effetti ,  tuttavia  la  nostra  dimostrazione  a  piiori  non  ripugna  ai 
suoi  principi  generali:  e  in  (ine  la  sostanza  della  sua  dottrina  sta  in  questo, 
che  l'esistenza  di  Dio  non  è  nota  all'uomo  per  sé,  cioè  senza  alcun' altra 
proposizione  media ,  da  cui  si  dimostri ,  sia  poi  questa  proposizione  media 
conosciuta  da  noi  imraediatamonte  o  per  esperienza. 


243 

negano  come  gli  Atei,  altri  si  vanno   facendo   di   Dio   concelti 
erronei,  come  gli  idolatri,  ecc. 

2.'»  0  il  subietlo  e  il  predicato  sono  noti  ad  alcuni  uomini 
dotti,  che  vi  hanno  adoperato  intorno  la  meditazione:  ma  que- 
sta notizia  può  essere  da  essi  acquistata  anteriormente  o  poste- 
riormente alla  proposizione  di  cui  si  tratta.  Se  l'hanno  acquistala 
anteriormente  alla  proposizione,  questa  allora  è  per  sé  nota  tanto 
in  sé,  quanto  rispetto  non  a  lutti  gli  nomini,  ma  a  quei  dotti;  e 
così  accade  a  ragion  d'esempio  delle  proposizioni  :  «  il  principio 
senziente  non  è  esteso  »,  «  il  principio  pensante  non  è  esteso  », 
ed  altre  simili,  che  in  questo  senso  si  possono  dire  per  sé  note 
ai  dotti. 

Z.'^  Se  poi  la  cognizione  de'  termini  della  proposizione,  ba- 
stevole a  conoscere  che  l'uno  è  inchiuso  nell'altro,  fu  acquistata 
posteriormente  alla  notizia  della  proposizione ,  in  tal  caso  la  pro- 
posizione non  è  per  sé  nota  neppure  ai  dotti,  ma  solo  in  sé  stessa. 
E  qui  appunto  viene  in  esempio  la  proposizione:  «Dio  esiste»; 
perchè  quantunque  si  possa  conoscere,  che  nel  concello  di  Dio 
DEVE  esser  contenuta  la  sua  esistenza;  tuttavia  questo  non  si  sa,  se 
non  dopo  essersi  saputo,  che  Dio  veramente  esiste,  come  vedremo 
in  appresso;  e  però  non  ci  serve  quella  notizia  a  renderci  nota 
questa  proposizione,  ma  solamente  a  confermarcene  la  verità. 

301.  Finalmente  in  quarto  luogo  se  si  voglia  intendere  che  una 
proposizione  sia  per  sé  nota,  quand'ella  è  implicitamente  contenuta 
in  un'  altra  per  sé  nota  (1) ,  si  potrà  in  questo  solo  senso  im- 
propriamente dire ,  che  la  proposizione  «  Dio  esiste  »  sia  per  sé 

(1)  Cf.  Logic.  533,  199-206.  —  L'acuto  filosofo  sopra  citato,  Tommaso 
De-Vio,  osservò,  clie  il  dire  «  le  proposizioni  il  cui  predicato  è  contenuto 
nella  ragione  del  subietto  sono  per  sé  note  »  è  vero,  ma  clie  non  è  una  defi- 
nizione delle  proposizioni  per  sé  note,  avendovene  altre  che  sono  perse  noto, 
benché  il  predicato  non  sia  della  ragione  del  subietto.  Ecco  l'importante  os- 
servazione che  conferma  quanto  noi  ab])iamo  insegnato  nella  Logica  (1.  e): 
Bene  veruni  est  apud  Sanctnm  Thomam  quod  omnis  propositio,  aijus  prw- 
dicatum  cadit  in  ratione  subiecti,  est  per  se  nota,  sed  non  e  converso.  Quo- 
niam  cum  unum  generalissimum  negatur  de  alio  ,  et  cum  prima  imssio 
prcedicatur  de  primo  subiecto,  fiunt  propositiones  immediatce  secundum  se, 
et  consequenter  secundum  se  per  se  notce.  Si  tamen  alicubi  sic  difinita  re- 
peritur,glossetur]y  esse  in  ratione  subiecti  f or maliter,  vel  VIRTVALITER 
proxime  (In  S.  S.  Th.  \.  ii,  1). 


244 

nota.  Perciocché  nella  dimostrazione  a  priori  da  noi  data , 
abbiamo  una  proposizione  nota  per  sé  anche  rispetto  a  tutti  gli 
uomini,  la  quale  ò  «  l'essere  esiste  »,  e  in  questa  si  trova  colla 
meditazione  implicitamente  contenuta  quest'altra  «  Dio  esiste  », 
non  contenuta  come  il  più  contiene  il  meno,  ma  come  «  il  con- 
cetto del  condizionato  contiene  implicitamente  la  sua  condizione», 
la  quale  si  trae  da  esso  per  deduzione  in  viriti  della  sua  cor- 
relatività. E  veramente,  se  V  essere  indeterminato  necessaria- 
mente esiste,  e  se  per  esistere  ha  bisogno  dtW  Ente  assoluto  a 
cui  appartenga  ,  anche  questo  necessariamente  esiste. 

Nel  qual  processo  d'idee  si  vede  che  la  proposizione  :  «  Dio 
esiste  »  é  una  conseguenza  dell'  altra  :  «  l' essere  esiste  »  ,  e  che 
solamente  dopo  aver  tirata  questa  conseguenza  s'intende,  che  nel 
concetto  di  Dio  si  contiene  quello  dell'esistere.  Si  sa  dunque  que- 
sto ,  dopo  che  si  sa  che  Dio  esiste ,  e  però  la  notizia  che  nel 
concetto  di  Dio  si  contenga  l'esistenza ,  non  è  quella  che  ci  possa 
dimostrare  l'esistenza  di  Dio ,  perchè  quella  suppone  già  questa. 

Ma  secondo  la  maniera  propria  di  favellare,  che  noi  costante- 
mente seguiamo,  la  proposizione  :  «  Dio  esiste  »  si  dee  dire  di- 
mostrabile a  priori,  ma  non  per  sé  nota ,  perchè  ha  bisogno  di 
un'altra  proposizione  precedente  nella  mente  nostra,  dalla  quale 
e  colla  quale  si  argomenti  ;  benché  non  abbia  bisogno  di  esser 
dedotta  a  posteriori  dalle  notizie  ricevute  da'  sensi  esterni  (4). 
E  questa  medesima  è  la  ragione  per  la  quale  S.  Tommaso,  pur 
concedendo  all'uomo  una  naturale  cognizione  dell'essere  in  uni- 
versale ("2),  gli  nega  quella  della  divina  esistenza,  cioè  dell'Es- 
sere assoluto. 

(1)  Il  carattere  assegnato  alle  proposizioni  per  sé  note  dal  De-Vio  è  ap- 
punto questo  ,  che  non  abbiano  bisogno,  per  rendersi  note  ,  d'un  mezzo  a 
priori.  «  Si  enim  omnis  propositio  per  se  nota  est  habens  prcedicalum  in  ra- 
tione  subiedi,  oportet  ut  semper  ly  per  se  excludat  medium  a  priori.  Sed 
qnoniam  contingil,  quod  interca  inter  qucs  nullum  est  secundum  se  medium, 
ut  sunt  cognita  nobis,  sit  medium,  ideo  non  semper  excludit  medium  a  po- 
steriori ».  In  S.  S.  Th.  I.  II.  1. 

(2)  Cosi  concede  S.  Tommaso  : 

1.0  Che  la  verità  in  comwne  sia  per  sé  nota;  ma  nega  che  Dio  sia  la  ve- 
rità  in  comune,  essendo  egli  la  prima  e  sussistente  verità  :  veritatem  esse  in 
communi,  est  per  se  notum:  sed  primam  veritatem  esse,  hoc  non  est  per  se 
notum  quoad  nos.  Ora  la  verità  non  è  altro  che  l'essere  nella  sua  forma  obiet- 


248 

S  2. 

Secondo  Corollario:  la  dimostrazione  a  priori  della  Creazione. 

502.  Noi  abbiamo  veduto  cbe  nessuna  delle  cose  contingenti  è 
l'essere  virtuale  e  iniziale  ;  perchè  quest'essere  è  necessario  e  non 
contingente  (1).  Questo  vero  si  può  confermare  con  altri  argo- 
menti: 1.°  L'essere  virtuale  contiene  nel  suo  seno  virtualmente 
tutte  le  idee  e  le  realità.  Ora  niuna  drlle  cose  ,  che  compon- 
gono il  mondo ,  contiene  in  sé  tutte  le  idee  e  tutte  le  rea- 
lità. Dunque    l' essere   virtuale   è   cosa   diversa   da  taU   realità! 


tiva,  dalla  quale  non  nega  l'Aquinale  che  si  possa  argomentare  l'esistenza 
della  prima  verità,  ma  nega  solo  che  questa  sia  per  se  nota. 

2."  Che  l'uomo  conosca  naturalmente  la  beatitudine  in  comune;  e  però 
dice  :  Deum  esse  in  aliquo  communi,  sub  quadam  confusione  est  nobis  ìiU' 
turaliter  insertum ,  in  quantum  scilicet  Deus  est  hominis  beatitudo.  Ma 
questo,  dice,  non  è  conoscere  Dio  semplicemente ,  come  conoscere  uno  che 
viene,  non  è  conoscer  Pietro.  Ora  la  beatitudine  è  infine  l'essere  nella  sua 
piena  forma  morale:  jiella  cognizione  di  quell'essere  in  comune  c'è  dunque 
implicita  come  condizione  l'essenza  divina:  onde  non  nega  che  si  possa  col 
ragionamento  dedurre. 

3."  Che  l'uomo  intenda  naturalmente  che  cosa  voglia  dire  :  «  ciò  di  cui 
non  si  può  pensare  cosa  maggiore  ».  Ma  dice  che  coH'aversi  questo  concetto 
universale  e  negativo  non  s'ha  però  la  certezza  che  «  ciò  di  cui  non  si  può 
pensare  cosa  maggiore  »  sussista  veramente;  altro  non  contenendo  quel 
concetto  che  la  possibilità  logica.  Ora  il  concetto  di  «  ciò  di  cui  non  si  può 
pensare  cosa  maggiore  »  riducesi  all'essere  nella  sua  forma  reale. 

L'argomentare  dunque  da  ciascuna  delle  tre  forme  all'esistenza  di  Dio 
{Sistema  179-181),  non  s'oppone  al  pensiero  di  S.  Tommaso.  Ma  è  poi  con- 
formissimo  al  suo  pensiero  il  concedere  come  noto  all'uomo  per  natura 
quello  che  è  cognizione  universalissima  e  indeterminata,  e  il  riconoscere  che 
l'oggetto  di  questa  cognizione  non  è  Dio  stesso  ,  che  è  un  essere  determi- 
natissimo. 

(t)  Contingente  vuol  dire  che  si  può  pensare  tanto  che  sia  quanto  che  non 
sia ,  senza  cader  in  una  logica  contradizione.  Questo  si  può  fare  di  tutti  gli 
enti  finiti,  i  quali  però  sono  contingenti  :  non  si  può  fare  dell'essere,  il  quale 
perciò  è  necessario.  Questo  dimostra  erroneo  il  sistema  di  que'  filosofi,  che 
tentano  di  dare  alle  nature  di  cui  si  compone  il  mondo  la  necessità;  i  quali 
furono  da  noi  più  ampiamente  confutati  nel  Rinnovamento  Lib.  IH.  C.  xxxv. 


246 

2.<>  Ciascuna  di  queste  realità  sussistenti  è  così  chiusa  in  sé  stessa, 
che  tutto  ciò  che  è ,  è  proprio  di  essa,  non  comune  ad  altro. 
Ma  tutte  hanno  eguahnenle  l'essere:  quest'essere  comune  non 
può  dunque  essere  ninna  di  esse,  perchè  il  proprio  ed  il  comune 
sono  cose  opposte,  che  s'escludono  reciprocamente.  Quest'essere 
comune  è  V essere  iniziale:  l'essere  iniziale  dunque  è  cosa  intiera- 
mente diversa  dalle  realità  componenti  l'universo.  S.**  L'essere  ini- 
ziale è  lo  stesso  essere  virtuale  in  quanto  si  considera  come  comune 
alle  cose.  Ma  per  l'aggiunta  di  questa  relazione  l'essere  virtuale 
rimane  tale  qual  era  prima,  contenente  ancora  in  virtù  tutte  le 
idee  e  tutte  le  cose.  Dall'  esistere  dunque  o  dal  non  esistere  le 
cose  mondiali ,  l'essere  virtuale  non  soffre  modificazione  alcuna, 
rimane  identico.  L'essere  virtuale  dunque  è  diverso  e  indipen- 
dente dall'esistenza  delle  cose  mondiali,  e  quindi  non  si  può 
confondere  menomamente  con  queste. 

303.  Fermata  bene  questa  diff"erenza,  si  procede  a  quest'altra 
proposizione  pure  evidente  :  «  tutte  le  realità  che  compongono  l'u- 
niverso non  sarebbero,  se  non  avessero  l'essere  »  :  la  proposizione 
non  si  può  negare,  perchè  il  dire  «  questa  cosa  contingente  è  »,  e 
il  dire  «  questa  cosa  contingente  ha  l' essere  »  sono  proposi- 
zioni identiche.  Di  qui  la  dilTerenza  tra  i  due  copulativi,  acni 
si  riducono  tutti  gli  altri,  essere^  e  avere  {Logic.  427-439).  Con- 
chiudasi dunque  :  «  la  realità  contingente  non  è  l'essere  (1*  propo- 
sizione), ma  ha  l'essere  »:  il  che  esprime,  che  l'essenza  della  cosa 
contingente  e  l'essenza  dell'essere  sono  due  essenze  diff'erenli, 
ma  che  quella  è  per  questa,  acquista  questa,  è  unita  necessa- 
riamente a  questa ,  partecipa  di  questa  ,  che  è  il  ixéÒ£x£iy  di 
Platone  (1). 

304.  Da  queste  due  proposizioni  procede  una  terza,  che  è  quella 
che  si  volea  dimostrare:  «  tutte  le  realità  che  compongono  l'uni- 
verso sono  create  ».  ~  E  che  questa  sia  un  corollario  delle  due 
prime  proposizioni  si  vede  dalla  definizione  della  creazione,  poiché 
questa  si  può  acconciamente  definire  «  quell'atto,  pel  quale  ciò  che 
non  ha  l'essere  —  e  che  perciò  è  ancor  nulla  —  acquista  l'essere  ». 
Noi  abbiamo  veduto  altrove  (Psicol.  1228),  che  è  essenziale  al  con- 
cetto di  creazione:  i.°che  il  termine  dell'atto  creante  resti  fuori  del- 

(1)  Arisi.  Metaph.  I,  6. 


247 

l'alto  medesimo,  cioè  costituisca  un'altra  essenza  diversa  da  quella 
dello  slesso  atto  creante:  e  nel  caso  nostro  s'avvera  appunto, 
che  r  essenza  della  cosa  contingente  sia  diversa  da  quella  del- 
l'essere  virtuale  e  iniziale,  per  la  prima  proposizione;  2."  che 
l'essenza  dell'alto  creante  non  si  muti  punto  per  cagione  della 
cosa  nova  che  acquista  l'esistenza ,  ma  rimanga  immutabile  ed 
identico;  e  così  avviene  pure  rispetto  all'essere  virtuale  ed  ini- 
ziale ,  che  non  soffre  mutazione  in  sé  slesso  coli'  essere  parteci- 
pato da'  contingenti  ,  come  abbiamo  detto  nelle  prove  arrecate 
della  prima  proposizione  medesima  (1).  Poiché  dunque  le  cose 
contingenti  non  sono  l'essere,  ma  hanno  l'essere  fin  che  sussi- 
stono —  per  la  seconda  proposizione  —  ne  viene  ineluttabilmente 
che  sono  create,  cioè  che  esistono  per  un  atto  che  dà  loro  l'es- 
sere, e  che  non  è  niuna  di  esse  (2). 


(1)  Quindi  dalla  sola  considerazione  d'un  atto  immanente  e  immutabile 
necessario  per  ispiegare  gli  atti  transeunti,  e  gli  atti  immanenti  terminati  da 
questi,  s'arriva  facilmente  a  una  rigorosa  dimostrazione  dell'esistenza  di  Dio, 
e  della  creazione,  il  che  abbiam  fatlo  nella  Psicologia  (1224-1228). 

(2)  Questa  dimostrazione  è  sostanzialmente  la  medesima  di  quella  che  dà 
S.  Tommaso,  salvochè  noi  la  deduciamo  dall'essere  iniziale ,  laddove  egli  la 
deduce  dell'essere  assoluto  che  è  Dio,  cosi  dicendo  :  Deus  est  ipsum  esse  per 
se  subsistens.  Et  ostensiim  est,  qiiocl  esse  subsistens  non  potest  esse  nisi 
unum,  sicut  si  albedo  esset  subsistens,  non  posset  esse  nisi  una,  cum  albe- 
dines  multiplicentur  secundum  recipientia.  Relinquitur  ergo,  quod  omnia 
alia  a  Beo  non  sint  siium  esse  ,  sed  participent  esse.  Necesse  est  igitur  , 
omnia  qua;  dioersificantur  secundum  diversam  participationem  essendi,  ut 
sint  perfectius  vel  minus  perfecle,  causari  ab  uno  primo  ente,  quod  perfe- 
ctissime  èst.  (S.  I,  XLIV,  1).  Avendo  di  questo  argomento  abusato  i  Panteisti, 
era  necessario  cercare,  onde  prendessero  l'appiglio  a  dedurne  il  loro  erroneo 
sistema.  Questa  ricerca  ci  condusse  a  distinguere  l'essere  iniziale  dall'essere 
assoluto ,  mostrando  che  Dio  è  bensì  questo,  ma  non  il  primo  benché  sia 
una  divina  appartenenza.  Ora  quello  di  cui  partecipano  le  creature  è  del- 
l'essere iniziale,  e  non  dell'essere  stesso  di  Dio.  Questo  è  ipsum  esse  per  se 
subsistens,  come  egregiamente  lo  definisce  S,  Tommaso  ,  e  però  è  l'essere 
nelle  sue  forme  e  sopratutto  nella  forma  della  sussistenza.  Ora  egli  è  in- 
dubitato che  le  cose  create  non  partecipano  punto  dell'essere  in  quanto  è 
per  sé  sussistente,  cioè  in  quanto  é  Dio  :  ma  partecipano  solo  dell'essere 
come  si  concepisce  anteriormente  a  quella  sussistenza  per  sé  che  ha  come 
Dio.  E  che  questo  fosse  anche  il  vero  sentimento  di  S.  Tommaso  —  benché 
gli  mancasse  ancora  il  linguaggio  filosofico  necessario  ad  esprimerlo  diretta- 
mente—  è  indubitato  non  solo  da  tutti  que' luoghi  ne' quali  ripudia  affatto 


248 

305.  E  qui  si  avverta,  che  questa  dimostrazione  della  creazione 
non  prova  solamente  che  le  cose  contingenti  sono  create  al  loro 
cominciamenlo,  ma  di  più  che  la  conservazione  loro  è  una  continua 
creazione;  perchè  per  tutto  il  tempo  che  durano  devono  continua- 
mente ricevere  ossia  aver  l'  essere  ,  dacché  se  un  istante  solo 
perdessero  l'essere,  non  sarebbero  più,  s'annullerebbero. 

E  dico  che  devono  di  continuo  ricevere,  ossia  aver  l'essere,  per  in- 
dicare che  il  ricevimento  dell'essere  è  in  un  istante,  in  ogni  istante 
di  maniera  che  il  riceverlo  non  è  successivo,  ma  è  lo  stesso  che 
averlo;  il  che  soddisfa  ad  un'altra  condizione  del  concetto  di 
creazione  che  è  appunto  questa',  che  non  si  faccia  per  alcuna 
successione,  ma  per  un  istantaneo  passaggio  dal  non  essere  al- 
l'essere, sicché  tra  il  momento  in  cui  d'una  cosa  contingente  si 
può  dire  non  è,  e  il  momento  in  cui  si  può  dire  è ,  non  ci  sia 
nulla  di  mezzo  {Psicol.  1228). 

506.  Ora  una  tale  condizione  fa  sì,  che  questi  non  sieno  due 
istanti  ma  il  medesimo  istante;  il  quale  istante  è  certamente  quello 


ogni  ombra  di  panteismo,  ma  si  rileva  anche  qui  dal  vedere,  che  prende  ad 
esempio  la  bianchezza,  che  non  è  un'entità  sussistente,  ma  un'entità  astratta. 
Il  che  ben  vide  l'acutissimo  Commentatore,  il  Card.  De-Vio,  che  cosi  scrive 
a  questo  luogo  dell'Angelico  :  Quia  esse  secundum  suiim  ordinem  est  recepii- 
bile  in  alio  {et  similiter,  sapientia,  bonitas,  etc,  et  apud  Platonem  quid- 
ditates  sensibiles  receptibiles  erant  in  materia);  ideo  ,  quodcumque  horum 
SI  SUBSISTAT,  est  tale  per  essenliam ;  et  SI  NON  SUBSISTAT,  per 
participationem.  Et  propterea  in  litera  daiur  exemplum  de  albedine,  qiiam 
constai  esse  formam  receptibilem  in  alio.  Et  quoniam  naturaliter  SUSSI- 
STERE INCLUDIT  IRRECEPTIBILITATEM ,  et  NON  SUBSISTERE 
RECEPTIONEM  IN  ALIO,  propterea  in  litera  a  siibsistentia  ad  recipi 
declinatur  ,  dum  dicitur,  quod  albedo  non  miiltiplicatur  nisi  secundum  re- 
cipientia:  parole  sapientissime,  le  quali  dimostrano  che  questo  grand'uomo 
del  De-Vio  })en  conobbe  che  bisognava  levare  dall'essere  la  sussistenza, 
acciocché  s'avesse  un  essere  partecipabile.  Ora  levando  dall'essere  la  sus- 
sistenza, s'  ha  appunto  quello  che  noi  chiamiamo  l'essere  iniziale,  il  quale 
non  è  più  Dio,  poiché  Dio  è  Tessere  per  se  sussistente.  Così  ridotto  dunque 
quell'argomento  in  favore  della  creazione  diventa  più  netto  e  filosofico  ,  e 
non  abbisogna  che  AeìY essere  intuito  na.turn\menle  ,  ed  osservato  ne' per- 
cepiti; e  in  pari  tempo  non  tiene  più  in  sé  quel  qualche  cosa  d'inutile  alla 
sua  efficacia  che  serve  di  presa  a' Panteisti.  Così  ancora  esso  va  immune 
dalle  obiezioni,  colle  quali  da  Giovanni  Duns  veniva  assalito  (In  I.  Dist. 
D.  II.  Q.  Ili  ad  S™  princip.). 


249 

che  ha  traveduto  l'Hegel,  quando  ha  detto  che  il  diventare  è  il 
momento  in  cui  l'essere  e  il  non  essere  s' identificano.  Ma  egli 
ha  espresso  male  questo  vero,  e  n'ha  abusato.  L'ha  espresso 
male  ,  perchè  la  parola  diventare  suppone  un  subietto  che  di- 
venta ,  e  un  subietto  che  diventa  non  è  ancor  diventalo  ^  e 
però  non  esiste  :  il  diventare  dunque  è  un  concetto  diverso 
dall'essere  creato  :  la  parola  diventare  non  ha  dunque  senso  se 
non  per  que' subietti  gicà  esistenti  che  si  modificano  o  anche  che 
si  cangiano  in  altri,  ma  non  per  ciò  che  si  crea,  il  quale  prima 
non  è^  e  poi  è  senza  alcun  passaggio  del  medesimo  subietlo  da 
uno  stato  ad  un  altro,  venendo  creato  il  subietto  stesso. 

Ma  quello  che  può  avere  ingannato  l'  Hegel  si  è  l' identità 
dialettica ,  poiché  nella  maniera  del  concepir  nostro  1'  essere  è 
subietto  dialettico  antecedente  d'  ogni  cosa  :  egli  non  capì  che 
era  un  antecedente  alla  cosa ,  e  non  la  cosa  stessa  contingente  : 
era  una  condizione  necessaria  tanto  all'essenza  quanto  all'idea 
della  cosa,  ma  di  novo  non  era  la  cosa. 

Abusò  poi  di  quella  parola  impropria,  volendone  dedurre  che 
l'essere  s'identifica  col  nulla  nell'atto  del  diventare;  e  così  ef- 
fettivamente sarebbe ,  se  l' essere  creato  fosse  un  diventare.  Ma 
appunto  perchè  s'incorrerebbe,  se  ciò  fosse,  in  una  contraddi- 
zione, perciò  il  diventare  dev'essere  escluso,  e  ritenuto  l'essere 
creato.  Ora  in  questo  punto  dell'essere  creato  ^concedo*  che  si 
concepisca  ad  un  tempo  non  essere  ed  essere,  ma  non  già  che 
formino  un'equazione,  o  che  l'essere  s'immedesimi  col  non  essere. 
Il  concetto  dell'essere  rimane  sempre  distintissimo  dal  concetto 
del  non  essere ,  che  altro  non  è  se  non  il  primo,  negato.  Ora 
altro  non  risulta  da  ciò  se  non  questo,  che  la  mente  ha  bisogno 
di  due  concetti,  cioè  del  concetto  dell'essere  e  del  non  essere  ; 
per  intendere  che  cosa  sia  la  cosa  creata  :  il  raffrontare  e  col- 
legare que' due  concetti  non  è  un  confonderli  in  un  solo  o  identi- 
ficarli. Ma  la  mente  considerando  la  cosa  creata  intende  con- 
temporaneamente due  cose  :  1°  che  essa  non  è  l'essere  ;  e  cosi 
la  nega  ,  nascendole  il  concetto  di  non  essente  :  T  che  ella  ha 
l'essere;  e  così  l'afferma  nascendole  il  concetto  della  cosa  essente. 
Il  concetto  adunque  dell'  essere  rimane  anteriore  alla  cosa  ,  e 
condizione  necessaria  per  conoscere  ad  un  tempo  la  cosa  essente 
e  la  cosa  non  essente.  Che  cosa  è  il  concetto  della  cosa  essente? 


250 

—  È  il  concetto  della  cosa  che  è  per  l'essere.  Che  cosa  è  il  con- 
cetto della  cosa  non  essente  ?  —  È  il  concetto  della  cosa  che 
s'annulla  per  mancanza  dell'essere.  Sono  due  concetti  perfetta- 
mente diversi,  e  diversi  e  posteriori  al  concetto  dell'essere.  Non 
c'è  dunque  un  momento  in  cui  la  cosa  sia  essere  e  non  sia  essere  : 
ma  ella  non  è  mai  l'essere  :  non  e'  è  quel  momento  supposto  in  cui 
la  cosa  passi  all'esistenza,  e  pure  ancora  non  esista,  perchè  quel 
momento  in  cui  passa  all'  esistenza  è  quello  in  cui  già  è  :  è  il 
primo  momento  della  sua  esistenza,  e  non  un  momento  in  cui  non 
abbia  ancora  esistenza. 

307.  Laonde,  secondo  due  rispetti  diversi  in  cui  si  considera  la 
cosa  contingente,  si  può  dire  che  essa  non  è,  cioè  non  è  per  sé 
slessa,  e  si  può  dire  che  essa  è,  cioè  per  l'essere  ricevuto  che  già 
ella  ha,  e  però  si  può  dire  che  ci  sia  nella  cosa  l'ente  e  il  non  ente: 
ma  questi  sono  due  rispetti,  e  due  diversi  rispetti,  in  cui  si  consi- 
dera dalla  mente  la  stessa  cosa,  sono  una  distinzione  e  non  una  iden- 
tificazione di  concetti.  E  a  questi  due  concetti  appunto  riguardava 
S.  Agostino,  quando  diceva  delle  cose  inferiori  a  Dio  :  nec  omnino 
esse,  nec  omnino  non  esse;  e  rivolgendo  il  discorso  a  Dio  stesso  :  Esse 
quidem,  qiioniam  abs  te  sunt:  noìi  esse  autem,  quoniam  id,  quod  es, 
non  sunt.  Id  enim  vere  est,  quod  incommutabiliter  mcinet  (1).  La  quale 
è  voce  ripetuta  in  tanti  modi  diversi  da'Padri  (2),  non  meno  che 
da' filosofi  (3).  Ora  una  dottrina  così  perseverante  nella  Chiesa, 
non  meno  che  nelle  scole  filosofiche ,  riceve  la  sua  spiegazione 
immediata  dalla  dottrina  esposta  dell'essere  virtuale  e  iniziale; 
e  questa  spiegazione  svelle  gli  errori  che  ,  non  avendola  inlesa, 
vi  aggraticciò  il  filosofo  tedesco  di  cui  parlavamo. 


(1)  Confess.  VII.  11. 

(2)  Cf.  S.  Anselm.  Monolog.  e.  28.  —  Il  Fénélon  nel  trattato  deW Esistenza 
di  Dio  ripete  spesso  questo  sentimento.  Je  ne  suis  pas,  ó  man  Dieu;  dice  in 
un  luogo  ,  ce  qui  est  :  helas!  je  suis  presque  ce  qui  ri  est  pas.  Je  me  vois 
camme  un  milieu  incompréhensible  entre  le  néant  et  V  étre  etc.  II,  P. 
a.  Ili,  n.  9.5. 

(3)  Cf.  Plutarco,  DeW  iscrizione  delfica  et  n.  17. 


2S1 


Terzo  Corollario  :  V apprensione  imperfetta  dell'atto  creativo 
all'occasione  della  percezione  intellettiva. 

508.  Dalle  cose  dette  sorge  un  altro  corollario,  ed  è,  che  l'uomo 
nella  percezione  intellettiva  de' reali  contingenti  ha  un'appren- 
sione dell'alto  creativo,  ma  imperfetta:  e  ciò  perchè  vede  l'essere 
unito  col  reale  contingente,  e  nello  stesso  tempo  vede  che  questo 
non  sarebbe  senza  quello,  e  che  è  per  quello  —  benché  la  sola 
riflessione  e  meditazione  filosofica  distingua  tutto  ciò  nella  per- 
cezione e  lo  sappia  dire.  —  E  perchè  è  per  quello  continuamente, 
vede  che  il  reale  contingente  che  percepisce  riceve  continua- 
mente l'essere,  di  maniera  che  è  continuamente  creato.  E  l'in- 
tendere tutto  ciò,  è  un  intendere  che  nella  percezione  s'apprende 
l'alto  creativo,  e  per  mezzo  di  questo  è  che  s'apprende  la  realità 
contingente. 

Noi  dunque  apprendiamo  il  reale  nell'alto  stesso  in  cui  egli 
diventa  ente,  ossia  in  quell'atto  che  lo  fa  ente,  lo  crea. 

309.  Ma  quanto  sia  imperfetta  quest'apprensione  dell'alio 
creativo,  facilmente  si  conosce  dalle  seguenti  considerazioni  : 

ì ."  Noi  vediamo  l'atto  creativo  nel  suo  termine,  ma  non  nel  suo 
principio.  E  qui  si  rammenti  che  la  mente  umana  può  apprendere 
Vatto  staccato  dal  suo  suhietto.  Questo  è  appunto  quello  che  av- 
viene, come  abbiamo  osservato  altrove  {Logic.  334),  nell'intuizione 
naturale  dell'assire:  noi  vediamo  l'essere,  ma  non  come  subietto 
d'un  allo,  come  aito  semplicemente.  Il  concetto  di  subiello  e  il  con- 
cetto d'alio  sono  distinti  nella  mente  umana,  e  sebbene  possono  in 
fallo  convenire  in  uno,  di  modo  che  il  subielto  sia  sempre  necessaria- 
mente un  alto;  tuttavìa  non  ogni  atto  è  subietto.  La  mente  nostra 
dunque  può  avere  ed  ha  il  concetto  universale  di  atto,  senza  che 
sia  necessitala  a  riconoscere  quest'alto  per  un  subietto,  né  ad  ag- 
giungergli un  subielto  nel  primo  intùito  dell'atto,  benché  posterior- 
mente trovi  col  ragionamento  la  necessità  di  dare  all'  alto  un 
qualche  subielto  —  senza  pur  averne  una  positiva  e  determinala 
cognizione  —  e  ciò  per  quel  principio  che  abbiamo  chiamalo 
«  principio  di  subiello  »  {Logic.  362). 


252 

Nella  percezione  dunque  de'  contingenti  reali  noi  apprendiamo 
Tatto  creativo,  come  atto  che  fa  ente  il  reale,  senza  sapere  ancora 
chi  faccia  o  chi  mova  quest'atto,  senza  apprendere  in  una  parola 
Iddio  creante,  subielto  di  quest'atto. 

Quest'apprensione  dell'atto  creativo  è  dunque  imperfetta,  perchè 
noi  non  vediamo  punto  che  quest'atto  deva  ridursi  alla  divina  es- 
senza, ma  questa  ci  rimane  nascosta,  e  solo  possiamo  argomentarlo. 

Né  vale  il  dire  ,  che  l' atto  creativo  non  si  può  dividere 
dalla  divina  essenza,  come  quello  che  è  una  cosa  medesima  con 
questa,  rispondendosi  a  tale  istanza,  che  certamente  non  si  può 
dividere,  né  distinguere  realmente  ;  ma  che  può  apparire  diviso 
alla  mente  nostra,  perchè  questa  è  limitata,  alla  quale  si  comu- 
nicano delle  appartenenze  della  divinità ,  senza  che  così  divise 
esse  possano  meritare  il  nome  di  Dio;  e  ciò  appunto  per  questo 
che  Iddio  è  essenzialmente  indivisibile,  onde  quando  un'apparte- 
nenza di  lui  si  concepisce  da  sé,  non  presenta  più  il  concetto 
di  Dio,  ma  un  altro,  per  quel  principio,  che  «  se  ad  una  essenza 
colla  facoltà  del  concepire  si  toglie  qualche  cosa,  non  si  pensa 
più  dessa,  ma  un'altra  »  {Logic.  ,971-978.  Cf.  Ideol.  C46-65G*) 
2."  L'  atto  creativo,  che  noi  apprendiamo  in  occasione  delle 
percezioni  intellettive,  è  limitato,  perchè  in  ciascuna  percezione 
noi  non  apprendiamo  altro  atto  creativo  se  non  quello  che  fa 
ente  la  realità  singolare  da  noi  percepita,  per  l'esclusiva  natura 
della  percezione  {Sistema  74-79).  Ora  se  noi  potessimo  appren- 
dere l'atto  creativo  pienamente,  vedremmo  la  sua  perfetta  unità; 
e  come  egli,  essendo  uno  e  semplice,  fa  esistere  tutti  gli  enti  che 
compongono  il  mondo  e  tutti  i  loro  diversi  stati,  ed  anzi  tutto 
ciò  che  fu,  ed  è,  e  sarà  mai  di  contingente.  Non  l'iipprendiamo 
noi  dunque  se  non  in  quanto  fa  ente  quel  reale  singolare  che 
noi  percepiamo  intellettivamente;  lo  apprendiamo  come  essere 
inizio  di  quel  reale,  che  non  è  lui,  e  senza  lui  non  è;  onde  ha 
tal  natura  che  sta  tra  l'essere  e  il  nulla  :  non ,  che  ci  sia  una 
tal  natura  separata,  ma  c'è,  per  la  mente  astraente  nel  senso 
detto,  unita  all'essere  e  per  l'essere. 

3.°  L'atto  creativo,  che  noi  apprendiamo  nella  percezione  dei 
contingenti,  ha  una  terza  e  massima  limitazione  in  questo,  che 
s'apprende  bensì  come  una  continua  comunicazione  o  congiun- 
zione dell'essere  ai  detti  reali,  ma  non  s'apprende  come  produ- 


585 

cenle  le  realità  slesse  :  si  vede  che  queste  ricevono  l'essere  che 
le  fa  enti,  ma  dicendosi  queste,  si  suppongono  concepite  queste 
realità  come  distinte  dall'  essere  per  astrazione.  Ora  di  queste 
realità  che  rispondono  a  quest'astrazione  non  si  vede  già  in 
quell'atto  l'origine,  né  tampoco  la  natura.  Laonde  l'atto  creativo 
s'apprende  per  così  dire  dimezzato:  si  vede  che  le  realità  ri- 
cevono e  non  sono  l'essere,  ma  non  sì  vede  come  lo  ricevano , 
né  si  vede  come  si  possa  pensare  una  cosa  che  riceva  l'essere,  e 
non  sia  l'essere;  nel  che  si  riduce  il  mistero  della  creazione; 
e  di  questo  parleremo  a  suo  luogo, 

310.  Stabilite  le  quali  cose,  facilmente  possiam  discornere  quale 
sia  quella  particella  di  verità  che  ingannò  poco  fa  il  facondo 
scrittore  degli  Errori  di  Antonio  Rosmini,  e  possiamo  sceverare 
questa  particella  dal  resto  di  falso,  che  si  contiene  nel  sistema 
giobertiano. 

La  particella  di  vero  dunque  si  è,  che  l'uomo  nell'immediata 
cognizione  de' reali  contmgenti  ha  una  qualche,  sebbene  imper- 
fettissima, visione  dell'atto  creativo. 

La  parte  poi    di  falso  j)uò  raccogliersi  ne'  punti  seguenti  : 

ì.°  È  falso  che  ci  s\a.  \ia  naturale  intatto  dell'atto  creativo, 
sicché  l'uomo  l'intuisca  sempre  per  natura,  come  intuisce  l'essere 
indeterminalo:  quando  in  quella  vece  l'apprende  solo,  entro  le 
tre  limitazioni  indicate,  all'atto  della  percezione-, 

2.°  È  falso  che  quest'atto  creativo  si  veda  unito  al  suo  su- 
bietto, cioè  a  Dio,  quand'egli  s'apprende  solo  come  atto  imper- 
sonale, e  non  come  subietto  personale  ; 

S.**  È  falso  che  quest'atto  s'intuisca  naturalmente  colle  esi- 
stenze, cioè  colle  cose  create,  quasi  che  anche  queste,  e  perciò 
tutte,  fossero  oggetto  del  primo  intùito:  quando  niuno  de' reali 
contingenti  è  oggetto  dell'intuito,  ma  solo  i  singoli  sono  termini 
che  si  fanno  oggetti  nella  percezione  e  per  la  percezione  intel- 
lettiva; 

4.°  È  frilso  che  ci  sia  un  naturale  intùito  deWEnte,  cioè  di 
Dio,  quando  l'umano  soggetto  non  ha  altro  che  l'intuito  deì- 
Vessere  indeterminato  ,  cioè  dell'  essere  come  atto  universale , 
privo  de' suoi  termini,  il  quale  non  è  alcun  ente,  e  molto  meno 
Dio,  ma  inizio  di  tutti  ; 

5."  È  falso  che  nelle  cose  percepitesi  veda  Dio  stesso  {Cf. 


234 

V.  Gioberti  e  il  Panleismo  ;  Saggio  dilezioni  filosofiche.  Lucca,  4853, 
Lez.  VII),  il  quale  è  1'  essere  terminato  sussistente,  e  assoluto  : 
quando  in  esse  altro  non  s'apprende,  che  Tessere  non  ideale,  non 
reale  ^  ma  indifferente,  cioè  anteriore  alle  sue  forme  e  a  tutti  i 
suoi  termini,  il  quale  così  unito  alla  realità  sensibile  costituisce 
l'ente  contingente  reale  da  noi  percepito,  che  ha  l'essere  come 
materia  dialettica  e  antecedente ,  e  come  forma  pure  dialettica 
e  ultima,  non  sua  propria,  mi  comune  a  tutti  ugualmente  i  reali 
/miti; 

G.**  Finalmente  è  falso,  che  iddio  non  sia  un  oggetto  atto 
ad  essere  pensato  dalla  mente  senza  le  esistenze  o  cose  contin- 
genti da  lui  create;  poiché  sebbene  sia  vero  che  queste  non 
siano  per  sé  oggetto  ,  come  non  sono  per  sé  ente;  ma  hanno 
bisogno  per  esser  tali  che  la  mente  le  veda  nell'  essere  e  però 
insieme  coli' essere,  (non  per  questo  in  Dio  e  insieme  con  Dio)  ; 
tuttavia  non  è  già  vero  il  contrario,  come  abbiamo  detto,  che 
Tessere  non  sia  oggetto  della  mente  per  sé  stesso,  e  molto  meno 
è  vero  che  tale  non  sia  Dio  stesso  {Cf.  Lezioni  citate,  Lez.  Vili). 


Articolo  VI. 
Dialettica  di  Platone. 

31  i.  Da  tutto  quello  che  abbiamo  esposto  in  questo  capitolo 
apparisce,  che  Vessere  indeterminato,  quale  apparisce  all'inlùilo 
naturale  dell'uomo^  è  queirà/3x«  àwnó^eToq,  dal  quale  Platone 
diceva  dover  principiare  la   scienza  (1). 

Ora  quest'essere  riceve  poi  dall'  uomo  ,  posteriormente  alle 
percezioni,  e  mediante  la  riflessione  filosofica  e  l'astrazione,  il 
titolo  d'iniziale  ;  e  quindi  con  un'altra  riflessione  ancora,  quello 
di  virtuale  :  considerato  poi  come  mezzo  della  cognizione  delle 
singole  realità,  si  chiama  l'essenza  di  ciascuna  di  esse,  il  cui 
carattere  d'intelligibilità  si  denomina  idea.  Quest'essenze,  avendo 
l'immutabilità  dell'essere  che  costituisce  il  loro  fondo  comune, 
sono  quelle  cose  veramente  essenti  rà  óVrcag  ovra,  a  cui  voleva  che 

(l)  DeRep.yi,  pag.  511. 


28S 

la  mente  del  filosofo  lungaoienlesi  applicasse,  per  arrivare  in  ultimo 
a  quello  che  egli  chiama  il  fine  dell'intelligibile,  tov  votìTov  riXog, 
cioè  il  bene,  Iddio,  l'idea  del  quale  pone  come  sommo  apice  del 
sapere,  ultima  e  massima  disciplina,  «  tov  àya^ov  ì^éa.  ixiyiCTov 
fjkx^tilJLx  (1).  La  qual  idea  non  è  ancora  Iddio  stesso,  ma  un  co- 
tal  raggio  di  lui,  ed  è  quel  più  forse,  secondo  Platone  ,  che  è 
dato  all'uomo  saperne  {Cf.  Degli  studi  dell'autore,  72,  75). 

Ora  a  quest'ultimo  fine  dell' intelligìbile  Platone  s'accosta  sempre 
con  riverenza  e  somma  diffidenza  dell'  idoneità,  a  perscrutarlo, 
della  propria  intelligenza  e  delle  altrui  ;  appena  lo  addita,  e  mentre 
ne' suoi  dialoghi  tutto  tende  e  dispone  ad  esso,  esso  stesso  ri- 
mane sempre  quasi  occultato  da  una  sacra  cortina.  GÌ'  ingegni 
al  presente  avvalorali  dalla  nova  luce  del  cristianesimo,  possono 
certo  favellarne  con  più  di  coraggio;  ma  coloro  che,  lasciata  la 
cristiana  luce  ,  audacemente  e  da  sé  soli  e  quasi  vivessero  nel 
tempo  anticristiano ,  affrontano  un  tale  argomento,  rimangono 
dalla  sua  stessa  luce  oppressi  (2). 

Platone  dunque  s'avvide,  che  Videa  è  quel  solo  spiraglio,  da 
cui  si  può  contemplare  qualche  cosa  di  divino.  E  poiché  il  ra- 
gionamento ,  espressione  della  riflessione,  è  quello  che  fa  cono- 
scere la  natura  delle  idee  e  i  loro  nessi  e  le  loro  condizioni,  e 
che  conduce  a  contemplare  l'elemento  divino  che  é  in  esse  (3), 
disse  che  la  dialettica,  che  per  lui  è  l'arte  di  maneggiare  e  lo 


(1)  De  Rep.,  sub  fin.  VI  et  initio  VII. 

(2)  Carlo  Kuehn  nel  suo  opuscolo  «  De  dialectica  Platonis  j>  (Berolini 
t843)  p.  30,  31,  osserva  parlando  del  metodo  di  Platone  che  in  generale  «r  gli 
antichi  da'singolari  elevandosi  tendono  all'unità,  e  la  difficoltà  consistere  nel- 
l'intendere  come  arrivino  a  conseguire  quest'unità;  i  moderni  —  allude  a' te- 
deschi —  incominciano  con  tutta  sicurezza  dallo  slahilire  una  prima  unità,  e 
la  difficoltà  consistere  come  da  questa  loro  unità  si  possa  trapassare  alla 
pluralità  ». 

(3)  Arriva  Platone  a  dire,  che  Iddio  stesso  è  divino,  perchè  alle  idee  ade- 
risce, TTfòs  oT(77csp  ó  &£òs  wv,  Sctós  £sTt.  Pìicedv .  p.  249. 

È  certamente  il  contrario,  venendo  le  idee  da  Dio  e  non  Iddio  dalle  idee; 
ma  pure  quell'arditissima  frase  dimostra  due  cose  :  1."  Che  Platone  dislingue 
Iddio  dalle  Idee,  e  la  natura  divina  dalla  personalità  divina;  2.°  che  il  primo 
elemento  divino  da  noi  conosciuto  sono  le  idee,  e  che  questo  elemento  ci  si 
mostra  cosi  assolutamente  divino,  che  Iddio  stesso  non  avrebbe  la  natura 
divina,  se  non  avesse  in  sé  l' intelligibile. 


2S6 

stesso  maneggio  delle  idee  {Cf.  Logic.  847),  doveva  essere  la 
più  eccellente  di  tutte  le  scienze,  la  filosofia  (1). 

Sotto  la  qual  parola  di  dialettica  egli  riuniva  certamente  due 
cose  molto  distinte  ,  1'  arte  cioè  di  ragionare  che  è  la  vìa  che 
conduce,  e  l'oggetto  divino  che  è  il  fine  ultimo  e  più  sublime 
a  cui  conduce  ;  e  l'accoppiamento  di  queste  due  scienze  sotto  la 
sola  denominazione  di  dialettica ,  veniva  dal  vedere  che  quelle 
idee  stesse  di  cui  fa  uso  il  ragionamento,  partecipano  della  na- 
tura dell'oggetto  a  cui  conoscere  tende  il  filosofo,  cioè  parteci- 
pano del  divino  (2). 

312.  Tutto  quello  che  abbiam  detto  in  questo  capitolo  dimostra 
quanta  profondità  ci  fosse  in  questa  veduta  di  Platone,  dacché 
noi  abbiamo  dovuto  incominciare  da  distinzioni  dialettiche,  ed 
alTerrare  un'entità  dialettica,  quella  dell'essere  virtuale  e  iniziale, 
colla  quale  i  sistemi  d' identità  assoluta  rimangono  esclusi ,  e 
sorge  sulle  loro  rovine  quello  dell'identità  dialettica  ,  che  sod- 
disfa al  bisogno  d'unità,  che  si  manifesta  a  certo  tempo  po- 
tentissimo nella  mente  umana,  vi  soddisfa  dico  senza  assurdi, 
senza  strani  ed  erronei  conseguenti,  che  contrariano  altri  bisogni 
non  meno  potenti  della  intelligenza. 

La  scola  tedesca  divenne  maestra  di  que' mostruosi  errori, 
ne' quali  trovò  il  suo  sepolcro  appunto  per  questo,  che  volle 
trattare  la  seconda  parte  della  dialettica  platonica  —  dalla  cui 
maestà  quasi  impaurito  Platone  s'astenne,  contento  d'averla  indi- 
cata e  salutala  da  lontano  —  senza  applicarsi  sufficientemente  alla 
prima,  intorno  alla  quale  infaticabilmente  lavorò  il  filosofo  ate- 
niese, ben  avvedendosi,  che  questa  sola  era  opera  vasta  ed  im- 
plicata di  somme  difficoltà  e  pericoli ,  e  che  quando  questa  fosse 
ridotta  a  perfezione,  la  via  sicura  era  spianata  e  bene  ammatto- 
nata per  giungere ,  quanto  permetteva  l'umana  limitazione,  alla 
seconda. 

(1)  Soph.  p.  153;  Phwdr.  p.  265,  266,  273;  Rep.  VII,  334. 

(2)  Platonem  ipsum  dialecticce  duo  genera  ,  quorum  alterum  formam  , 
alterum  argumentum  summce  scientice  exponeret,  distinxisse,  è  ampiamente 
mostrato  nel  citato  opuscolo  del  Kuelin. 


SEZIONE  III. 


Della  reiaziosic  dell'  essere  «no  co^  suoi 
termiui   in  generale. 


CAPITOLO  I. 

Di  ciò  che  appartiene  alla  ricerca  che  si  fa  in  questo  libro , 
e  di  ciò  che  appartiene  alla  ricerca  che  rimane  a  farsi  nel 
libro  seguente  intorno  alla  molti plicità  delV  essere. 


Articolo  I. 
Definizione  dell'essere  in  sé  contrapposto  all'essere  dinlettico. 

515.  Arrivali  qua,  noi  siamo  in  grado  di  definire  con  maggior 
precisione,  che  cosa  appartenga  alia  ricerca,  a  cui  abbiamo  desti- 
nato questo  libro  intitolalo:  Dell'essere  uno;  e  che  cosa  appar- 
tenga a  quella  che  deve  esser  fatta  nel  seguente  intitolalo  :  Del- 
l'essere  trino.  Noi  potevamo  prima,  perchè  volendo  noi  qui  ri- 
cercare come  la  molliplicità  si  trovi  nell'essere  uno,  e  colà  come 
la  molliplicità  si  trovi  in  ciascuna  delle  tre  forme ,  era  neces- 
sario prima  conoscere  come  l' essere  uno  ,  anteriore  alle  sue 
forme,  si  presenti  al  pensiero  umano  :  conosciuto  poi  quale  sia 
quest'unità  dell'essere  presente  al  pensiero,  potevamo  pure  de- 
terminare quale  molliplicità  ad  esso  appartenesse,  e  quale  si  do- 
vesse per  intanto  lasciar  da  parte ,  da  svolgersi  nel  libro  che 
segue. 

In  fatti  la  parola  essere  ha  due  fondamentali  significali,  poi- 
ché si  dice  essere  tanto  quello  che  si  concepisce ,  aslrazion  fatta 
dalle  sue  forme,  quanto  quello  che  si  concepisce  essente  nelle  tre 
sue  forme  o  termini  essenziali  :  ed  è  uno  sì  nel  primo  signi- 
RosMiNi.  Teosofia.  17 


2S8 

ficaio,  come  nell'altro.  Ma  in  questo  secondo  significato  non 
è  solamente  uno,  ma  anche  trino:  nel  primo,  all'incontro,  è  so- 
lamente uno:  ed  è  di  questo  che  deve  parlare  il  lihro  presente. 
Conveniva  dunque  hen  intendere  questa  diversità  di  senso  in 
cui  si  prende  la  parola  essere,  acciocché  si  potesse  del  pari  in- 
tendere come  l'unità  e  la  moltiplicità,  che  noi  cerchiamo  in  que- 
sto lihro,  siano  puramente  entità  dialettiche,  e  non  un'unità  ed 
una  moltiplicità  ueWeasere  in  sé. 

314.  Questa  denominazione  di  essere,  o  di  ente  in  se  richiede  qui 
d'essere  definita.  Chiamo  essere  o  ente  in  sé  quello,  che  si  può 
concepire  esistente ,  prescindendo  da  una  mente  a  lui  straniera 
che  lo  pensa.  Quando  dunque  l'essere  o  l'ente  che  si  pensa,  si 
vede  esser  tale  che  non  può  esistere  da  sé  solo,  senza  una  mente 
a  lui  straniera  che  lo  pensa ,  ma  solo  in  questa  mente  si  con- 
cepisce essente,  allora  non  si  dice:  «essere  o  ente  in  sé»,  ma 
«  essere  o  ente  dialettico  »,  o  con  altre  appellazioni.  L'analisi 
di  questa  definizione  sarà  da  noi  data  ,  quando  ci  sarà  ne- 
cessaria. 

L'essere  dunque  concepito  come  anteriore  alle  sue  forme ,  non 
è  che  un'ente  dialettico,  perchè  egli  non  può  esistere  in  sé,  ma 
soltanto  in  una  mente  qualunque  che  lo  pensi,  sia  col  naturale 
intùito^  sia  colla  riflessione,  o  in  qualunque  altro  modo.  E  tut- 
tavia, come  vedemmo,  egli  non  è  già  nulla ,  ma  è  qualche  cosa 
nella  mente  ;  e  di  più,  l'essenza  sua  è  qualche  cosa  dell'ente  in 
sé,  ma  non  é  l'ente  in  sé,  perchè  non  è  tutto,  quando  l'ente  in 
sé  è  sempre  tutto,  e  non  può  esistere  in  sé  una  sola  parte  di  lui 
{Psicol.  1319-1321,  1362). 

Articolo  IL 

Principio  della  teoria  dell'essere  uno. 

315.  Ciò  posto,  noi  possiamo  cercare  quale  sia  il  principio  della 
teoria  dell'ente  uno ,  che  è  la  teoria  appunto ,  che  stiamo  svol- 
gendo in  questo  libro  :  ed  ecco  come  questo  principio ,  da  cui 
tutte  sì  derivano  le  dottrine ,  che  in  questo  libro  si  raccolgono , 
si  possa  facilmente  da  noi  rinvenire. 

Primieramente  si  affaccia  la  difficoltà  :  se  l'essere  di  cui  par- 


259 

liamo,  è  anteriore  pel  concelto  alle  sue  forme  e  però  a  lutti  i 
suoi  termini,  come  si  potrà  Irovare  in  esso  molti plicità  alcuna? 
Non  rimarrà  egli  uno,  solitario,  sterile?  —  A  questo  si  risponde, 
che  la  moltiplicità  cercata,  appunto  per  ciò  non  si  può  trovare 
neW essere  astratto  e  preciso  da'  suoi  termini,  ma  si  può  trovare., 
come  ahbiam  fatto,  considerando  le  relazioni,  ch'egli  ha  co'  suoi 
termini.  E  quest'è  appunto  il  principio  della  teoria,  di  cui  s' oc- 
cupa questo  libro  :  «  La  relazione  che  l'essere,  concepito  come 
anteriore  a' suoi  termini,  ha  co'  suoi  termini  )>. 

Il  qual  principio  ci  ha  somministrati  i  tre  concetti  di  essere  in- 
determinato,  di  essere  virtuale,  e  di  essere  inizile:  il  primo,  che  è 
l'oggetto  dell'intùito,  è  considerato  unicamente  come  privo  de' 
termini,  il  secondo  è  consideralo  come  suscettivo  di  tutti  i  termini, 
il  terzo  è  considerato  come  inizio  di  tutte  le  entità  aventi  o  in- 
volgenti qualche  termine  :  sempre  dunque  in  relazione  co'  suoi 
termini.  Così  l'essere  uno  anteriore  a'  suoi  termini  ci  si  molti- 
plicò in  mano,  e  ci  si  moltiplicherà  maggiormente,  quanto  più 
svolgeremo  il  principio  accennalo  dì  questa  teoria. 


Articolo  III. 
Principio  della  teoria  delV  essere  trino. 

51G.  Se  dunque  l'essere  consideralo  in  relazione  co' suoi  termini 
è  il  principio  della  teoria  dell'essere  uno,  quale  sarà  il  principio 
della  teoria  dell'essere  trino? 

Non  è  difficile  riconoscerlo  dalle  cose  delle.  Quando  si  consi- 
sidera  l'essere  in  relazione  co'  suoi  termini,  da  una  parte  si  pone 
l'essere,  dall'altra  i  suoi  termini.  Senza  questa  divisione  di  con- 
cetti, la  mente  non  potrebbe  concepire  alcuna  relazione  tra  l'uno 
e  gli  altri,  dappoiché  ogni  relazione  suppone  due  opposti  tra' quali 
ella  si  considera.  All'incontro,  quando  si  considera  l'essere  ul- 
timato 0  progredito  a'  suoi  termini,  allora  non  si  separa  più  colla 
mente  l'essere  da  questi,  ma  a  questi  si  unisce,  e  unito  si  con- 
sidera. Ora  i  primi  termini  dell'essere  sono  le  tre  forme.  L'es- 
sere unito  ai  termini,  non  può  dunque  più  godere  d'una  unità 
così  fatta,  che  escluda  qualunque  pluralità.  Se  il  primo  termine 


260 

fosse  un  solo,  l'essere  con  questo  suo  termine  sarebbe  ancora 
assolutamente  uno;  ma  poiché  tutti  e  tre  i  detti  termini  sono 
primi  egualmente,  la  mente  non  può  concepirlo  unito  a'  suoi  ter- 
mini se  non  molteplice,  cioè  trino.  Ma  in  ciascuno  di  questi  suoi 
primi  termini  è  uno:  e  tuttavia  quest'uno  in  ciascuna  specie 
trova  una  moltiplicità.  Rimane  a  vedere  in  che  modo:  e  tosto 
s'avrà  il  principio  della  teoria,  che  si  cerca.  Ora  come  V  essere 
uno  anteriore  a  tutti  i  suoi  termini  riceve  una  pluralità  lostochè 
si  considera  la  relazione  eh'  egli  ha  co'  suoi  termini  ;  cosi  l'  es- 
sere uno  in  ciascuno  de'  suoi  primi  termini,  cioè  delle  sue  forme, 
riceve  una  moltiplicità  tostochè  si  considera  in  relazione  con  al- 
tri termini  posteriori  e  subordinati  al  priuìo.  La  relazione  dun- 
que dell'  essere  in  ciascuna  delle  sue  tre  forme  primordiali  coi 
termini  a  ciascuna  posteriori  e  subordinali  è  di  conseguente  il 
principio  della  teoria  ontologica  dell'essere  trino,  che  dobbiamo 
svolgere  nel  libro  seguente. 


Articolo  IV. 

Di  ciò  che  ci  resta  a  imitare  per  compire  le  ricerche 
abbracciate  da  questo  libro. 

317.  Or  dunque,  se  noi  dobbiamo  in  questo  libro  svolgere  «  la 
relazione  dell'essere  coi  suoi  termini,  »  rimane  a  cercare  quali 
parti  abbia  questo  argomento.  SI  troveremo  che  due.  Poiché  pos- 
siamo cercare  : 

i.°  Qual  sia  questa  relazione  dell'essere  con  tulli  i  suoi  ter- 
mini in   universale  rispetto  all'essere; 

2.°  E  qual  sia  questa   relazione  dell'essere  co' suoi  termini 
in  universale  rispetto  a'  suoi  termini. 
Queste  due  ricerche  costituiscono  le  due  parli  di  questo  libro. 

318.  La  prima  fu  traila  la  fin  qui,  cioè  nelle  due  precedenti 
Sezioni  :  e  i  risultati  che  n'abbiamo  avuto  furono  : 

1.*'  Che  l'essere  indeterminato  non  è  qualche  cosa  dell'ente 
contingente,  ma  qualche  cosa  dell'ente  necessario  ed  assoluto; 

2.°  Ch'egli  è  la  materia  dialettica,  cioè  W  primo  determinabile 
di   tutti   gli   enti   contingenti;  ma  appunto   perchè  dialellico   e 


261 

perchè  universale,  cioè  comune  a  tulli,  non  costituisce  Yessenza 
d'alcuno  di  essi,  ma  è  soltanto  causa  e  condizione,  che  precede 
l'essenza  di  tutti,  per  modo  che  questa  esiste  per  quello,  e  non 
è  concepibile  senza  di  quello; 

5.0  Che  r  essere  essendo  atto  primissimo  e  universale  è 
anche  il  primo  determinante,  cioè  l'atto  che  fa  sì  che  l'essenza 
sia  piuttosto  questa  che  un'altra,  e  né  pur  questo  determinante 
è  essenza  d'  alcuna  cosa  contingente  ,  ma  causa  determinante 
universale  che  determina  all'essenza  il  suo  modo  di  essere  ; 

4.0  Che  finalmente,  date  alla  mente  le  essenze  determinate 
de' contingenti,  l'essere  è  l'atto  pel  quale  ogni  essenza  è,  e  quindi 
è  ultima  determinazione  di  tutte ,  e  così  è  forma  universale  di 
tutte  le  forme. 

319.  Ma  se  noi  consideriamo  la  relazione  dell'essere  co' suoi 
termini,  rispetto  ai  termini  stessi,  la  ricerca  che  ne  nasce  si  riduce 
a  questa:  «  che  cosa  l'essere  conferisca  a' suoi  termini  ». 

Ridotta  a  questa  forma  precisa  la  questione,  che  ci  rimane  a 
trattare  in  questo  libro^  noi  possiamo  facilmente  risolverla  con  una 
risposta  universale  ,  la  quale  ci  serva  di  principio  fecondo  per 
ritrovare,  mediante  l'analisi  di  essa  medesima,  tutto  quello  che 
i  termini  dell'essere  devono  all'essere  stesso.  Questa  risposta  uni- 
versale ,  che  ci  dee  valere  di  filo  conduttore  nello  svolgere  la 
seconda  parte  di  questo  libro,  è  la  seguente  : 

«  Tutto  ciò  che  negli  enti  noi  potremo  trovare  d'universale,  e 
atto  ad  essere  ugualmente  ne' tre  modi  o  forme  proprie  dell'essere, 
viene  conferito  all'ente  dall'essere  iniziale  anteriore  ai  termini  ». 

Nel  qual  principio  e  regola  questo  solo  giova  osservare,  che 
risultando  la  terza  forma  dal  combaciamento  delle  due  prime, 
sarà  sufficiente,  il  più  delle  volte,  l'avverare  che  l'elemento,  di  cui 
si  tratta,  possa  essere  pensato  ugualmente  nelle  due  prime  forme 
per  potere  affermare  ch'egli  appartiene  all'essere  anteriore  a' suoi 
termini,  senza  più.  E  dico  il  più  delle  volte,  perchè,  come  vedremo 
nella  Teologia,  questo  scorciatolo  di  ragionamento  vale  rispetto  a 
tutti  gli  enti  finiti;  ma  nell'essere  assoluto  e  infinito  non  regge 
a  pieno. 


262 

Articolo  V. 
Osservazione  sul  metodo  onlologico. 

320.  E  qui  cade  un'osservazione^  fatta  già  sagacemente  da'filosofi 
tedeschi,  cioè  che  il  metodo  dell'Ontologia  si  confonde  coU'Onlolo- 
gia  slessa  :  sicché  la  scienza  qui  è  il  proprio  metodo ,  o  per  dir 
meglio  involge  il  suo  metodo  in  sé  medesima.  Infatti  non  essendo 
altro  i  principi  del  metodo,  se  non  l'ordine  intrinseco  dell'essere 
consideralo  in  relazione  colla  mente  umana,  o  da  questo  traendosi 
come  norme  da  seguirsi  nell'esposizione  delle  scienze,  egli  è  chiaro 
che  quella  scienza  che  tratta  appunto  dell'essere  stesso  in  tutta  la 
sua  universalità,  e  del  suo  ordine,  qual  è  l'Ontologia,  non  può  avere 
un  metodo  anteriore  a  se  stessa;  ma  nello  stesso  tempo  che  narra 
l'essere  e  il  suo  ordine,  dee  trovare  con  questo  il  metodo  con  cui 
cammina.  C'è  dunque  tra  le  altre  scienze  e  l'Ontologia  questa  no- 
tabile differenza,  che  prima  dell'altre  scienze  si  può,  in  qualche 
modo  ,  prescriver  loro  il  metodo  che  hanno  a  seguitare ,  perchè  i 
principi  del  loro  metodo  sono  dati  da  una  scienza  anteriore  ad 
esse  ;  ma  trattandosi  dell'Ontologia,  che  è  appunto  la  scienza  che 
contiene  i  detti  principi  in  universale,  se  le  si  prescrive  antece- 
dentemente un  metodo,  altro  non  si  farebbe  se  non  distaccare 
dalla  scienza  un  brano,  e  anteporlo  a  se  stessa,  il  che  riuscirebbe 
un  guasto  e  un  dilaceramento  della  scienza  stessa.  Oltre  di  che 
il  metodo  così  prescritto  in  antecedenza  all'Ontologia  o  rimarrebbe 
una  prescrizione  arbitraria,  o,  volendosi  giustificare,  si  dovreb- 
bero aggiungere  tali  ragioni,  che  costituirebbero  l'intera  scienza: 
onde  invece  di  dare  in  antecedenza  il  metodo,  si  tenterebbe  l' im- 
possibile,  cioè  di  trasportare  l'intera  scienza  avanti  a  se  stessa. 

Simile  dunque  a  quel  mollusco,  che  chiamarono  l'argonauta, 
il  quale  si  fa  e  vascello  e  pilota  e  vela  e  remo  e  timone  a  sé 
stesso  ,  e  così  trascorre  leggermente  la  superfìcie  del  mare  , 
r  Ontologia  compone  di  se  stessa  il  suo  proprio  metodo  ,  col 
quale  viaggia  sicura  per  l'immensa  regione  dell'essere  ;  e  però 
non  rimane  altra  via  a  tenersi  in  essa,  se  non  quella  di  con- 
templare direttamente  e  descrivere  l'essere  e  l'ente  quale  si  pre- 
senta alla  mente ,  e  di  mano  in  mano  che  si  discopre  qualche 


265 

porzione  dell'ordine  che  l'essere  ha  in  seno,  fermandosi,  divisarne 
le  parti,  siccome  traccia  del  metodo  ad  un  tempo,  ed  esposizione 
della  scienza.  E  cosi  pure  abbiamo  dovuto  noi  fare  :  dopo  distinto 
l'essere  da' suoi  termini,  ci  siamo  soffermati  a  indicare  che  ci 
rimaneva  a  considerare  la  relazione  di  quello  con  questi,  tanto 
in  riguardo  all'essere,  quanto  in  riguardo  a' termini  slessi. 

CAPITOLO  II. 

Della  ricerca  di  ciò  che  V essere  conferisce  a'  suoi  termini 
riguardo  aWente  assoluto  ed  intuito. 

321.  Dovendo  noi  dunque  ora  ricercare,  che  cosa  Vessere  con- 
ferisce a' suoi  termini,  conviene  che  prima  consideriamo  questa 
ricerca,  proposta  in  universale  riguardo  all'Ente  infinito,  e  poi 
che  la  consideriamo  riguardo  agli  enti  finiti. 

Ora  non  è  difficile  vedere  primieramente ,  che  la  ricerca 
cangia  di  natura  secondo  che  i  tre  termini,  a  cui  si  riferisce 
l'essere,  sono  infiniti,  come  avviene  nell'ente  assoluto  ed  infinito, 
0  sono  finiti,  quali  sono  negli  enti  finiti. 

Apparisce  dalle  cose  dette,  che  l'ente  infinito  e  l'ente  finito 
e  mondiale  si  possono  definire  nel  modo  seguente ,  che  ne  fa 
risaltare  la  differenza. 

«  L'Ente  infinito  è  Vessere  clie  sussiste  nelle  sue  tre  forme  ». 

«  L'ente  finito  è  la  forma  del  reale  finito,  che  ha  l'essere  ». 

322.  Dal  confronto  di  queste  due  definizioni  si  scorge  : 

ì.°  Che  il  subietto  nell'Ente  infinito  è  l'essere  stesso;  laddove 
il  subietto  nell'ente  finito  non  è  l'essere,  ma  è  la  forma  reale  (1); 

2.°  Che  quindi  l'ente  infinito  essendo  l'essere,  è  per  sé; 
laddove  l'ente  finito  essendo  puramente  la  forma,  non  è  per  sé, 
ma  per  l'essere  ad  essa  aggiunto  : 

3.°  Che  l'Ente  infinito  essendo  lo  stesso  essere  sussistente 
nelle  sue  tre  forme  ,  non  può  esservi  nessuna  reale  distinzione 
tra  lui  e  le  sue  forme,  perchè  le  forme  altro  non  sono  che  il 
triplice  atto  del  suo  stesso  sussistere.  All'opposto  l'ente  finito 
non  essendo  l'essere,  ma  una  forma  finita,  e  questa  forma  avendo 

(1)  Nulla  forma  vel  natura  creata  est  suum  esse.  S.  Th.  De  Pot.  II,  1. 


264 

bisogno  di  partecipare  l'essere,  che  è  un  altro  diverso  da  essa,  per 
esistere,  c'è  una  diversità  reale  nell'ente  finito  tra  la  forma  reale 
che  lo  costituisce  quel  subietto  che  è,  e  l'essere  che  Io  fa  esistere. 

3^5.  Da  questo  nasce  la  denominazione  di  termini  propri  ed  im- 
propri dell'essere:  essendo  termini  propri  dell'Essere  le  forme 
nell'Ente  infinito,  e  termine  improprio  la  forma  reale  che  costi- 
tuisce l'ente  finito  partecipando  l'essere. 

Di  qui  procede  la  conseguenza,  che  la  ricerca  che  ci  pro- 
ponevamo: «  che  cosa  l'essere  conferisca  a' suoi  termini:  •»  nel- 
l'Ente infinito  non  può  aver  luogo,  perchè  non  c'è  una  dualità 
dell'essere  e  delle  singole  forme,  di  maniera,  che  l'essere  possa 
dare  qualche  cosa  a  queste,  essendovi  anzi  perfetta  identificazione. 
L'essere  dunque  nell'Ente  infinito  non  dà  nulla  alla  forma,  o  le 
dà  tutto  :  perchè  ogni  forma  non  è  altro  che  lo  stesso  essere 
tutto  intero  sussistente  in  quella  forma. 

Quindi  non  rimane  rispetto  a  quest'essere  altra  domanda  pos- 
sibile a  farsi  se  non  questa:  «  cosa  l'essere,  tutto  intero  sussi- 
stente in  una  o  nell'altra  forma,  dia  a  se  stesso  )> ,  cioè  quali 
sieno  le  relazioni  attive  delle  forme  dell'essere  assoluto  :  e  questa 
è  la  dottrina  delle  processioni  delle  Divine  Persone  ,  la  cui 
esposizione  non  ispelta  al  presente  libro. 

324.  Questa  dottrina  dell'Essere  assoluto,  che  non  sì  dislingue 
dalla  sua  forma,  è  quella  che  mancò  a  Platone,  e  che  rese  deficiente 
la  sua  Ontologia.  Infatti  da  per  tutto,  ma  specialmente  nel  Par- 
menide^ egli  non  sa  concepire  altro  ente,  se  non  quello  che  egli 
chiama  ente  uno,  ov  év,  e  che  fa  composto  di  due  elementi,  cioè 
dell'essenza  ovaia.,  forma  astratta  dell'essere,  e  dell'uno  £v  (1).  Non 
potendo  dunque  Platone  concepire  nessun  ente,  che  non  sia  com- 
posto e  che  non  abbia  la  pluralità  in  se  stesso ,  ne  fa  uscire 
tutte  quelle  antinomìe  ,  che  espone  brevemente  nel  Sofista  ,  e 
lungamente  nel  Parmenide,  e  che  rimangono  di  necessità  incon- 
ciliabili. Lo  stesso  essere  aivai  per  lui  diviene  un  composto,  cioè 
diviene  la  partecipazione  deW essenza  e  del  tempo  presente  (2).  Di 
puro  dunque  e  di  semplice  non  gli  rimase   in   mano   altro   che 


(t)  Parm.  p.  142. 

(2)  Ti   Si   ùva.1   v.llò  ri  S'j'riv  /j  /xi^t'iii  ovalxi  y.e.zx  xpàvou  ro'J  -riupòvroi]   PaVììl. 

\).  tSl.  Di  qui  si  vede,  come  il  suo  discepolo  Aristotele  non  potesse  poi  con- 


265 

elementi  di  enti,  ma  nessun  vero  ente  :  tali  elementi  sono  Vimo 
e  Vessenza,  due  astraili ,  senza  avvedersi  che  Vcssenza  esprime 
un  alto  mancante  di  subietto,  con  una  relazione  però  a  questo 
subietlo  (,211,  227-236*);  onde  il  concetto  dell'essenza  suppone 
qualche  altra  cosa,  non  d'astratto,  ma  di  reale,  il  che  nel  fondo 
è  la  censura  che  gli  fece  Aristotele. 

Dal  principio  dunque  universale,  che  l'ente  uno  si  compone 
ihWuno  e  dell'  essenza  (1)  ,  ne  viene  che  ogni  ente  si  fa  ,  di- 
venta, sistema  riprodotto  dairiiegel ,  come  una  novità  ne'nostri 
tempi!  Ecco  questo  sistema  nelle  espressissime  parole  di  Platone. 

«  Ora,  ricevere  l'essenza  noi  chiami  tu  un  l'arsi."^ 

«  Certo. 

«  Ed  esser  |>rivato  dell'essenza  un  perire  ? 

«  Più  elle  mai. 

((  L'uno  dunque  assumendo  o  deponendo  l' essenza  si  fa 
e  perisce  V 

«  Di  necessità. 

«  E  poiché  egli  è  uno  e  molti,  e  si  fa  e  perisce  ,  non 
deve  egli  accadere,  che  quando  si  fa  uno  cessi  d'esser  molli,  e 
quando  si  fa  molti  cessi  d'esser  uno  ? 

«  Per  fermo  (2). 

cepire  l'essere  come  qualche  cosa  di  sussistente  in  sé ,  ma  lo  considerasse 
sempre  come  un  atto  d'altra  cosa,  e  però  non  lo  facesse  conoscibile  che  per 
via  d'astrazione  :  sebbene  ricadesse  poi  involontariamente  e  per  necessità 
dialettica  nel  vero  (Aristotele  ,139  ;  passim*). 

(1)  Platone  deduce  la  moltiplicità  dalla  dualità  prima,  che  è  l'unione  di 
ciò,  che  cliiama  uno,  coWesseiiza.,  dualità  che  si  trova  in  ogni  ente  uno.  Que- 
sta unione  non  si  può  sciogliere  colla  mente,  perchè  non  si  può  concepire 
l'uno  se  non  essente  (altramente  s'annullerebbe),  e  per  la  stessa  ragione  non 
si  può  concepire  l'essenza  senza  l'uno.  Se  dunque  la  mente  tenta  di  dividere 
questi  due  elementi,  quando  pensa  il  solo  uno ,  il  concetto  dell'essenza  non 
l'abbandona,  ma,  suo  malgrado,  segue  il  concetto  dell'uno^  e  quando  pensa 
la  sola  essenza,  la  pensa  di  novo  coll'uno  ;  e  quindi  ognuno  de'  due  elementi 
nel  pensiero  rimane  duplice^  e  potendosi  replicare  quest'operazione  all'infi- 
nito, il  pensiero  trova  il  numero  all'indefinito  ,  ogni  numero.  Da  questo  de- 
duce che  Vessenza  si  distribuisce  secondo  il  numero,  e  l'uno  si  plurifica  se- 
condo l'essenza  distribuita  (Parmen.  p.  142,  sgg.).  L'uno  dunque  e  l'essenza 
in  questo  sistema  sono  i  due  ultimi  elementi  degli  enti;  ma  l'ente  uno  è 
sempre  necessariamente  composto  di  tutt'e  due. 

(2)  Parmen.  p.  156. 


266 

32S.  Platone  non  essendo  pervenuto  ad  intendere  come  Ves- 
sere  sussista  in  sé  medesimo  semplicissimo  ,  non  potè  conce- 
pire una  vera  Ontologia  ,  mancandogli  la  dottrina  dell'essere 
sussistente,  e  gli  convenne  restringersi  a  parlare  dell'ente  com- 
posto ,  che  è  l'ente  finito  ,  il  che  non  è  più  che  un  Ontologia 
cosmologica.  Più  maraviglia  ci  deve  recare  ,  che  un  filosofo  al 
dì  d'oggi  non  abbia  saputo  approfittarsi  dello  splendido  lume  , 
che  apportò  alla  dottrina  dell'essere  il  Cristianesimo,  e  che, 
come  fece  l'Hegel,  abbia  amato  meglio  d'arretrarsi  cotanto,  e 
sperato  di  parere  un  filosofo  originale  col  ricantare  quanto  ave- 
vano balbettato,  in  un  modo  ammirabile  in  quel  silenzio  della 
verità,  i  filosofi  del  gentilesimo. 


CAPITOLO  III. 

Della  ricerca  di  ciò  che  l'essere  conferisce  a'  suoi  termini 
riguardo  agli  enti  finiti  —  Analisi  di  questa  ricerca. 

326.  Rimane  dunque,  che  la  ricerca,  da  noi  proposta  «  di  ciò 
che  l'essere  conferisca  a' suoi  termini,  »  s'intraprenda  riguardo 
agli  enti  finiti. 

La  quale  investigazione  non  si  può  condurre  ordinatamente, 
riguardo  a  questi,  se  ella  non  si  analizza  e  si  divide  nelle  sue 
parti.  Poiché  egli  è  chiaro  che  per  condurla  a  fine  ,  si  dee 
mettersi  in  queste  ricerche  speciali  ,  ch'essa  racchiude  nel  suo 
seno  : 

1.**  Che  cosa  ci  abbia  nell'essere  d'incomunicabile  agli 
enti  finiti  ; 

2.**  Quale  sia  la  natura  della  comunicazione  dell'essere  ,  e 
partecipazione  delle  proprietà  dell'essere  dalla  parte  de'  reali 
finiti  ; 

Z.^  Se  l'essere  riceva  nulla  dalla  sua  comunicazione  coi 
reali  finiti; 

U.°  Quali  sieno  le  proprietà  dell'essere  comunicabili  ai  reali 
finiti,  e  che  in  questi  si  trovano. 


267 

CAPITOLO  IV. 

Che  cosa  ci  abbia  neW essere  d'incomunicabile 
ai  reali  finiti. 


Articolo  I. 

Onde  nasca  che  alcune  proprielà  dell'essere 
sieno  incomunicabili  ai  reali  finiti. 

527.  Che  ci  sia  neWessere  impersonale,  come  risplende  nulural- 
mente  alla  nostra  intelligenza,  qualche  cosa  d'incomunicabile, 
questo  non  viene  dalla  natura  dell'essere  stesso,  ma  dalla  limi- 
tazione del  reale  che  costituisce  il  subielto  dell'ente  finito,  ossia 
l'ente  stesso  finito,  a  cui  si  riferisce  la  definizione. 

Ora  nel  reale  dell'ente  finito,  quello  che  osta  alla  piena  co- 
municazione dell'essere  ,  si  è  appunto  la  sua  finitezza,  o  limita- 
zione (1).  Questo  è  il  principio  universale  che  ci  deve  condurre 
a  rinvenire  tutto  ciò  che  nell'essere  c'è  d'incomunicabile  al 
reale  finito, 

Afiticolo  li. 

Sei  prime  proprietà  dell'essere  incomunicabili. 

528.  Quello  dunque  che  primieramente  c'è  d'incomunicabile 
nell't'ss^rd  indeterminato,  si  è  la  sua  illimitazione  j  perchè  questa 
conlradice  alla  condizione  già  posta,  che  il  reale  di  cui  si  traila 
sia  limitalo.  L'essere  dunque,  che  fa  esistere  «  un  reale  limitato  », 
non  può  fare  che  egli  abbia  un'esistenza  illimitata,  com'è  quella 
dell'essere  stesso. 

La  limitazione  poi  de'  reali  è  minore  o  maggiore,  e  però  l'esi- 
stenza del  pari  che  ricevono  dall'essere  è   maggiore  o  minore. 

(1)  S.  Tommaso  :  Forma  autem  non  perficitur  per  materiam,  sed  magis 
per  eam  cine  amplitudo  contrahitur.  S.  I,  vii,  1. 


268 

Ora  la  parola  «  illimilazione  dell'essere  »  può  essere  analiz- 
zala, e  trovarsi  in  essa  molte  proprietà  ;  le  quali  tutte  sono  in- 
comunicabili ,  perchè  appartengono  all' illimitazione   dell'essere. 

La  limitazione  dunque  del  reale  è  la  prima  ragione  del  perchè 
ci  abbiano  nell'essere  alcune  proprietà  incomunicabili  al  mede- 
simo reale. 

La  seconda  ragione  —  ed  è  una  limitazione  anche  questa  — 
si  è  che  l'ente  finito,  essendo  costituito  da  una  delle  tre  forme 
dell'essere,  e  questa  finita  ,  e  perciò  non  essendo  l'essere  egli 
stesso,  ma  una  forma  ,  e  la  forma  essendo  incomunicabile  al- 
l'altre forme,  l'ente  finito  non  può  comunicare  se  stesso,  come 
Vessere,  che  può  esistere  nelle  tre  forme.  La  proprietà  dunque 
dell'essere,  di  comunicarsi,  manca  aWente  finilo,  a  cui  non  re- 
.  sta  che  l'azione  d'un  ente  sull'altro  ,  la  quale  è  propria  della 
forma  e  non  dell'essere  ,  di  cui  è  propria  la  comunicazione. 
}  529.  Di  qui  vengono  tre  principali  proprietà  incomunicabili 
dell'essere,  che  sono  : 

4.°  L'essere  non    riceve  l'essere  da  altro:   quest' asse/7à   è 
una  sua  proprietà  incomunicabile; 

2."  L'essere  comunica  l'essere  alla  forma  reale  finita:  questa 
comunicabililà  dell'essere  è  una  seconda  proprietà  incomunicabile; 
3."  L'essere  è  essere:  questa  identità  con  sé  stesso  è  una 
terza  proprietà  incomunicabile. 

L'ente  finito  all'incontro  ha  necessariamente  le  proprietà  op- 
poste: 1.°  di  esistere  non  da  sé,  ma  da  altro;  2°  di  avere 
virtù  di  agire  sopra  altri  enti  ,  ma  non  di  comunicare  loro 
l'essere  stesso;  3.°  di  essere  duplice,  uguale  a  se  stesso  e  disu- 
guale, e  non  uno  e  semplice  e  uguale  a  se  stesso  come  l'essere. 

La  limitazione  dunque  dell'ente  finito ,  e  l'essere  egli  ,  come 
reale,  mancante  deW  essere ,  sono  le  due  ragioni,  per  le  quali 
nell'essere  ci  sono  proprietà  incomunicabili  ,  che  si  possono  ri- 
durre a  quattro  universali:  1.°  Villimilazio?ie ;  2."  Vasseità; 
ò.°  la  comunicabilità:  e  4,°  Videntità. 

Al  qual  discorso  non  può  fare  ostacolo  la  definizione  dell'ente 
finito  ,  dal  quale  esso  move.  Poiché  la  definizione  è  questa  : 
«  l'ente  finito  è  un  reale  finito  unito  coU'essere  ».  Onde  sva- 
nisce ben  tosto  l'obiezione  che  si  presenta  al  pensiero:  a  L'ente 
è  nelle  Ire  forme:  ma  anche  l'ente  finilo  è  ente:  dunque  anche 


269 

egli  deve  essere  nelle  tre  forme».  Poiché  si  risponde,  che 
l'ente  finito  dicesi  ente  in  un  significato  al  tutto  diverso  da 
quello,  in  cui  si  dice  ente  l'Ente  infinito,  e  però  anche  l'ente 
finito  ha  le  sue  tre  forine  ,  ma  in  una  maniera  totalmente  di- 
versa da  quella  ,  in  cui  è  nelle  sue  tre  forme  l'Ente  infinito. 
L'Ente  infinito  dicesi  ente,  perchè  è  egli  stesso  «  l'Essere  in  sé 
terminato  »;  ma  l'ente  finito  dicesi  ente,  non  perché  sia  anche 
egli  ((  r  Essere  in  sé  terminato  » ,  ma  perché  è  «  un  reale 
che  partecipa  dell'essere,  e  che  non  è  l'essere  ».  L'ente  finito 
dunque  è  un  ente  relativo,  e  non  un  ente  assoluto  :  e  propria- 
mente parlando  altro  non  è,  come  dicevamo,  che  un  termine  o 
forma  impropria  dell'essere  stesso,  quasi  sospesa  all'essere. 

530.  Ma  (|unli  poi,  si  replicherà,  sono  l'altre  due  forme,  cioè 
l'oggettiva  e  la  morale,  che  rispondano  a  questa  forma  reale,  che 
dicesi,  unita  all'essere  suo  inizio,  ente  finito?  —  Rispondiamo 
quello  che  risulta  dalle  cose  dette  e  che  meglio  apparirà  da 
quelle  che  diremo  in  appresso  : 

i."  Che  la  forma  obiettiva  dell'ente  finito  non  è  l'ente  fi- 
nito, ma  sono  le  idee  delerminale,  e  queste  altro  non  sono  che 
l'essere  stesso  in  quanto  serve  a  far  conoscere  l'ente  finito  come 
possibile,  e  come  sussistente  ;  e  di  questa  forma  finita  parteci- 
pano le  intelligenze  finite  ,  non  in  modo  che  costituisca  l'esi- 
stenza subiettiva  e  reale  loro  propria,  ma  come  oggetto  da  esse 
diverso  ; 

2."  Che  la  forma  morale  nasce  con  quell'atto  ,  col  quale 
i  detti  enti  finiti  dotati  d'intelligenza  s'uniformano  nel  loro  ope- 
rare iìW essere  obiettivo  rappresentante  ossia  facente  conoscere 
tutte  le  cose,  onde  la  forma  morale  dell'ente  finito  è  una  co- 
municazione dell'essere  stesso  morale ,  cioè  dell'essere  come 
amabile.  Questa  forma  dunque  è  ricevuta  nell'essere  subiettivo 
finito  che  ne  trae  la  sua  perfezione  ,  ma  è  un  altro  da  lui  , 
perchè  e  l'amabilità  e  l'amore  dell'essere  ordinatissimo  in  sé, 
che  si  mostra  all'ente  finito  senza  confondersi  ,  contribuendo 
l'attività  di  questo  a  ricevere  in  sé  quell'amabilità  e  così  per- 
fezionarsi. 

551.  Come  dunque  l'ente  finito  non  è  il  proprio  essere,  ma  é  una 
forma  finita  dell'essere  (la  reale),  cosi  egli  non  esiste  in  sé  stesso 
nelle  tre  forme,  ma  nella  sola  forma  reale.  Come  poi  l'ente  fi- 


270 

nito  ha  una  congiunzione  intima  coH'essere,  senza  il  quale  non 
sarebbe,  cosi  pure  ha  una  congiunzione  intima  colle  altre  due 
forme  dell'essere  (l'obiettiva  e  la  morale),  e  in  quanto  queste  due 
forme  si  riferiscono  a  lui  ed  egli  ne  partecipa^  in  tanto  dicesi 
che  sono  anch'esse  sue  forme  ,  ma  in  altro  modo  da  quello  in 
cui  è  sua  forma  la  reale,  perchè  questa  gli  appartiene  col  co- 
pulativo dell'essere,  e  l'altre  con  quello  dell'attere  o  del  parteci- 
pare {Logic.  429),  che  all'avere  si  riduce. 

Rimane  dunque  fermo  che  l'ente  finito  non  si  può  definire 
se  non  come  «  un  reale  che  ha  l'essere,  e  che  può  avere  co- 
municazione, ma  non  confondersi,  colla  forma  oggettiva  e  colla 
forma  morale  dell'essere  stesso  ».  Di  che  consegue,  che  se  tra 
le  cose,  che  l'essere  non  può  comunicare  nella  costituzione  del- 
l'ente finito,  si  vuole  comprendere  anche  le  forme,  due  altre 
proprietà  incomunicabili  si  dovranno  aggiungere  alle  quattro  no- 
minate, e  saranno:  5.**  la  forma  obiettiva;  G.'  la  forma  morale; 
delle  quali  però  partecipa  gl'ente  finito*. 


Articolo  III. 

i4//re  sei  proprietà  dell'essere  incomunicabili  ai  reali  finiti:  ì.°  l'u- 
niversalità; 2.°  la  necessità;  "5.°  l'immutabilità;  h."  l'eternità; 
5."  /a  semplicità  assolata;  G.**  la  primalità  assoluta. 

332.  Da  queste  sei  prime  proprietà  molte  altre  se  ne  derivano, 
che  non  possono  essere  comunicate  ai  reali  finiti. 

L'alto  dell'essere  si  trova  ugualmente  in  tutte  le  entità:  poiché 
è  l'atto,  pel  quale  sono.  L'alto  che  si  dice  essere  è  dunque  uni- 
versale e  comune  a  tutte  le  entità  possibili. 

E  qui  si  noti  in  che  consista  il  concetto  deW universalità  : 
«  essere  universale  vuol  dire  trovarsi  identico  in  tutte  le  entità  ». 
Questo  carattere  non  si  ravvisa  che  nell'essere  iniziale  :  distin- 
guendosi questo  colla  mente  da  tutti  i  suoi  termini,  è  suscettivo 
di  lutti  :  rimane  dunque  identico  ,  s'  abbia  o  non  s'  abbia  i 
termini:  ogni  cangiamento  possibile  cade  solo  ne' suoi  termini. 
L'essere  dunque  è  la  sede,  e  il  fonte,  la  ragione  unica  d'ogni 
universalità. 


271 

Ma  se  r  essere  è  un  alto  universale,  le  entità,  avendo  quel- 
l'atto ,  avranno  esse  un  alto  universale?  No ,  ma  l'atto  proprio 
di  ciascuna.  L'universalità  dell'essere  iniziale  non  è  un  atto  che 
passi  nelle  entità  (1)  :  si  unisce  ai  singoli  termini  l'atto  che  si 
dice  essere,  ma  non  V ìiniversalità  di  quest'atto:  poiché  questa 
consiste  nel  potere  che  ha  l'  essere  iniziale  d'  unirsi  a  tutti  i 
termini  possibili,  e  non  nell'atto  dell'unione  con  ciascuno.  Laonde 
già  prima  vedemmo,  che  l'essere  iniziale  è  lo  stesso  essere  vir- 
tuale, in  quanto  si  considera  unito  a' singoli  suoi  termini  :  l'uni- 
versalità sua  consiste  all'opiiosto  nella  sua  virtualità  o  suscetti- 
vità de' termini,  rimanendo  identico. 

Quesl'è  nuova  prova  che  Vessere  si  dislingue  da  tutte  le  entità 
conlingenli,  che  hanno  di  lui  bisogno  per  esistere;  poiché  quello 
conserva  una  universalità,  che  non  può  essere  a  queste  comu- 
nicata. 

353.  Altra  proprietà  dell'essere  è  la  necessità  e  l'immutabilità. 
Che  l'essere  sia  necessario  ed  immutabile  fu  da  noi  veduto  :  ma 
se  le  entità  anche  contingenti  hanno  quest'atto,  saranno  anche 
esse  necessarie  e  immutabili,  e  non  contingenti,  —  È  dunque 
da  rispondersi  anche  qui  in  un  modo  simile  al  precedente,  che 
la  necessità  e  immutabilità  appartiene  all'essere  fjVfMaie:  che  in 
questo  non  accade  cangiamento  alcuno,  quando  a  lui  s'uniscono 
de' termini  contingenti,  se  non  che  acquista  l'appellazione  d'ini- 
ziale dalla  mente  ,  che  lo  riguarda  in  unione  co' suoi  termini. 
Tutta  la  mutazione  nasce  ne' termini:  questi  sono  uniti  a  quello, 
e  slaccandoli  da  quello  non  sono  più:  ma  l'essere  a  cui  s'uni- 
scono 0  da  cui  si  distaccano  rimane  lì  uguale,  identico  perfetta- 
mente. Ricevono  dunque  l'atto  dell'esistere,  ma  quest'atto  è  cosa 
diversa  da  essi.  Altra  prova  dell'importante  proposizione,  che: 
«  altro  è  l'essere ,  ed  altro  i  suoi  termini  contingenti  »  :  questi 
non  sono  se  non  uniti  a  quello ,  ma  quello  è  quello  che  è  per 
se  stesso,  s'uniscano  a  lui  questi  o  da  lui  si  distacchino. 

334.  Una  terza  proprietà  incomunicabile  dell'atto  dell'essere  è 
la  semplicità  perfetta.  —  Essendo  l'atto  dell'essere  di  una  sempli- 


(1)  Nel  libro  seguente  vedremo  come  dell'universalità  dell'essere  parte- 
cipino le  essenze  de' contingenti,  ma  non  la  ricevano  mai  tutta,  quale  è  nel- 
l'essere stesso. 


272  ^ 

cita  perfetta,  non  può  esserci  in  esso  successione  :  quindi  è  im- 
mune dal  tempo,  è  eterno. 

Non  ha  gradazione  per  modo  che  sia  più  o  meno. 

Quindi  due  corollari: 

a)  In  questa  semplicità  dell'atto  dell'essere,  ossia  dell'esistere, 
in  cui  non  si  può  pensare  né  successione  ,  né  gradazione  ,  si 
scorge  la  ragione  del  principio  di  contraddizione.  Non  potendoci 
essere  niente  di  mezzo  tra  l'essere  e  il  non  essere,  ogni  cosa  o 
è  0  non  è  {Logic,  o^l,  'òhi,  542,  345,  34G):  se  non  ci  avesse 
questa  assoluta  ed  evidente  semplicità  dell'atto  dell' essere ,  il 
principio  di  contraddizione  non  sarebbe  vero,  perchè  ci  potrebbe 
essere  qualche  cosa  di  mezzo  tra  un  assoluto  sì^  e  un  assoluto  no, 
h)  Non  si  può  applicare  all'alto  dell'essere  il  concetto  del 
divenlarej  che  involge  quello  di  molo,  e  quindi  di  mutabilità  e 
di  successione.  Laonde  l'Hegel  che  volle  applicare  questo  con- 
cetto all'essere,  si  trovò  obbligato  di  negare  il  principio  di  con- 
traddizione, di  ricevere  anzi  la  contraddizione  stessa  come  prin- 
cipio di  un  sistema,  che  con  ciò  si  annulla  da  sé  medesimo. 

Questa  semplicità  dell'  atto  dell'  essere  è  partecipata  da  tulle 
le  entità  che  partecipano  l'atto  dell'essere,  o  sia  l'esistenza: 
poiché  anche  di  esse  si  può  dire:  «  sono  o  non  sono  ».  Onde 
il  principio  di  contraddizione  vale  ugualmente  applicato  a  tulli 
gli  oggetti  del  pensiero. 

535.  Altra  proprietà  (\c\Ve?<seve  è  \iì  primnlità  assoluta  ;  il  che 
è  quanto  dire,  che  l'atto  dell'essere,  è  l'alto  d'ogni  alto  contin- 
gente. Reincide  questo  carattere  dell'essere  colla  proprietà  che  gli 
abbiamo  attribuita  di  essere  qualcosa  di  dialetticamente  ante- 
riore e  posteriore  a  tutte  le  cose  contingenti. 

Il  qual  carattere  di  primalilà  non  può  essere  partecipato  dai 
contingenti,  poiché  niuno  di  essi  può  dirsi  che  sia  anteriore  a 
se  medesimo. 

Gli  enti  finiti  dunque  non  possono  ricevere  in  sé  V universalità, 
la  necessità,  e  con  essa  V immutabilità,  e  Veternità ,  la  semplicità 
assoluta,  la  primalità  assoluta  dell'essere,  appunto  perché  tali  pre- 
rogative appartengono  all'essere  considerato  in  sé  stesso  e  nella 
sua  virtualità,  e  non  all'essere  in  quanto  é  precisamente  inizio 
delle  singole  entità  :  benché  quello  slesso  essere  che  è  virtuale 
sia  il  medesimo  con  quello  che  è  inizio,  ma  in  quant'è  inizio  è 


273 

veduto  dalla  mente  sotto  una  relazione  più  ristretta  ,  ristretta 
cioè  a' singoli  termini  che  a  lui,  come  a  loro  inizio,  si  congiungono. 
E  non  di  meno  le  entità  contingenti  hanno  per  loro  condi- 
zione necessaria  d'essere  unite  siccome  termini  all'essere  neces- 
sario dotato  di  tutte  quelle  altre  prerogative  che  ad  osse  non 
possono  essere  comunicate. 


Articolo   IV. 

Doppia  relazione  dell'essere  alle  cose  contingenti,  l'ima  nascente 
dalle  proprietà  comunicabili,  l'altra  dalle  proprietà  incomuni- 
cahili  dell'essere. 

336.  Dalle  quali  cose  tutte  si  deve  trarre  questa  importante 
conseguenza  che  «  la  relazione  delle  cose  contingenti  coH'essere 
virtuale  ed  iniziale  e  duplice  :  l'  una  consiste  in  questo  ,  che 
Tessere  deve  trovarsi  in  esse  con  alcune  sue  prerogative,  ac- 
ciocché esse  sieno,  e,  come  tale,  egli  è  causa  formale,  universale, 
antecedente,  e  susseguente  nell'ordine  dialettico;  l'altra  consiste 
in  questo,  che  l'essere  deve  avere  altre  prerogative,  colle  quali 
egli  non  si  trovi  nelle  cose,  prerogative  tuttavia  necessarie  e 
proprie  di  lui,  e,  come  tale,  egli  è  causa  condizionale,  ossia  con- 
dizione assolutamente  necessaria  ,  acciocché  sieno  le  cose  con- 
tingenti ». 

Nel  discorrere  le  diverse  prerogative  dell'essere,  noi  dovremo 
avere  di  continuo  presente  questo  principio,  e  definire  quale 
delle  prerogative,  che  ripasseremo,  sia  partecipata  a'  contingenti, 
e  quale  si  rimanga  nell'essere  ,  come  semplice  condizione  dei 
medesimi.  Per  discernerle  abbiamo  già  posto  il  criterio,  giacché 
«  le  prerogative  che  appartengono  all'essere  nella  sua  precisa 
relazione  d'iniziale  di  ciascuna,  sono  partecipabili;  quelle  che  gli 
appartengono  soltanto  nella  sua  relazione  di  virtuale,  sono  im- 
partecipabili  >:  . 


Rosmini.  Teosofìa.  18 


274 

Articolo  V. 

Delle  proprietà  incomunicabili  e  comunicabili  dell'essere 
rispello  alle  essenze  de'  finiti. 

557.  Ma  parlando  noi  qui  di  entità  contingenti,  ci  si  presentano 
altre  entità  che  a  queste  si  riferiscono,  e  sono  le  loro  essenze 
vedute  nell'idea.  Noi  abbiamo  già  detto,  che  le  essenze  delle  cose 
contingenti  vedute  nell'idea  sono  universali,  necessarie,  immuta- 
bili, eterne,  ecc.  e  però  che  partecipano  delle  più  nobili  preroga- 
tive dell'essere  stesso  {IdeoL  ^2,  213  w,  hìh-Wòl;  Rinnov.  Lib.  HI. 
Gap.  XL  segg  ).  Dobbiamo  qui  osservare  che  le  essenze  delle  cose 
contingenti  vedute  nelle  idee  non  partecipano  neppur  esse  della 
primalilà  dell'essere  virtuale  ed  iniziale:  delle  altre  qualità  divine 
poi  partecipano  limitatamente,  perocché  ì.°  Vuniversaiità  delle 
idee  delle  cose  contingenti,  non  è  universalità  se  non  rispetto  a 
quelle  cose  di  cui  rappresentano  l'essenza,  e  non  a  tulle  le  cose 
ed  essenze,  qual  è  l'universalità  dell'essere  iniziale  ;  2,°  la  ne- 
cessità non  è  l'assoluta,  ma  presupposto  un  atto  dell'essere  asso- 
luto, come  altrove  ho  accennato  {Rina.  ,111.  xlii  in  fin.  lu*),  e 
meglio  si  dichiarerà  altrove;  5,°  e  lo  stesso  è  a  dirsi  della  loro  eter- 
nità; U.°  l'immutabililà  che  consegue  dalla  loro  semplicità,  per  la 
quale  non  cade  in  esse  la  distinzione  di  sostanza  e  d'accidente, 
è   anch'essa  condizionala  alla  loro  esistenza. 

La  ragione  poi  per  la  quale  le  idee  e  le  essenze  in  esse  ve- 
dute partecipano  di  così  eccelse  doti  si  è,  che  esse  sono  l'essere 
stesso,  ma  considerato  come  inlelligibilità  delle  cose  contingenti 
(forma  ideale  dell'essere) ,  e  come  tale  nella  relazione  esclusiva 
che  egli  ha  con  ciascuna  di  esse,  veduta  la  quale  dalla  mente, 
questa  trasferisce  nell'  essere  la  limitazione  enlitativa  di  essa 
cosa  ,  e  cosi  intuisce  l'essere  stesso  ristretto  al  bisogno  che  ha 
la  cosa  d'essere  da  lui  illustrala. 

358.  Dobbiamo  dunque  distinguere  due  gradi  di  partecipazione 
delle  prerogative  dell'essere  alle  entità  in  generale  : 

1."  Un  grado  maggiore   di   partecipazione  delle  dette  pre- 
rogative, che  è  quello  delle  essenze  e  delle  idee  (entità  ideali)  ; 
2.°  Un  grado  molto  minore  della  detta  partecipazione,  che 
è  quello  di  cui  godono  i  reali  contingenti  (entità  contingenti). 


27S 

CAPITOLO  V. 

Quale  sia  la  natura  della  comunicazione  e  congiunzione 
dell'essere  co'  reali. 


Articolo  I. 

Triplice  relazione  dell'essere  col  reale. 

339.  L'essere  iniziale  col  suo  termine  reale  ha  Ire  relazioni  : 
i.°  La  relazione  d'identità,  la  quale  non  si  trova  che  nel- 
l'Essere infinito  per  sé  sussistente. 

2."  La  relazione  di  causa  alto  immediata,  la  quale  si  trova 
in  certi  reali  finiti,  che  per  ciò  si  dicono  sostanze. 

3.°  La  relazione  di  causa  atto  mediata,  la  quale  si  trova  in 
certi  reali  finiti,  che  perciò  si  dicono  accidenti,  perchè  non  ri- 
cevono l'essere  se  non  per  mezzo  d'altri  reali  (sostanze),  che 
hanno  giù  partecipato  immediatamente  l'essere. 

Articolo  II. 

Relazioni  d'identità. 

ùUO.  In  quanto  alla  relazione  d'identità  tra  {'essere  e  il  reale  infi-r 
nito,  essa  è  puramente  mentale,  e  relativa  al  modo  del  conoscere 
astratto.  Poiché  l'essere  assoluto  è  perfettamente  identico  e  uno 
in  sé  stesso,  e  però  non  ammette  intrinseche  relazioni,  non  po- 
tendo queste  concepirsi  se  non  tra  due.  Ma  poiché  noi  conce- 
piamo prima  Vessere  privo  della  sussistenza,  e  poi  congiungendo 
ad  esso  i  reali  che  cadono  nel  nostro  sentimento  ,  concepiamo 
gli  enti  finiti  ;  quando  vogliamo  ascendere  al  pensiero  dell'  Ente 
infinito,  che  non  cade  nel  nostro  naturai  sentimento ,  siamo  co- 
stretti a  tenere  la  via  dell'analogia  dell'ente  finito  —  la  sola  cosa 
reale  che  conosciamo  positivamente,  —  e  però  concepiamo  l'Ente 
infinito,  mediante  la  congiunzione  de' due  elementi  che  abbiamo 


27C 

prima  nel  nostro  pensiero  in  uno  stalo  di  divisione,  cioè:  1."  l'es- 
sere, 2.'  il  reale.  Aumentiamo,  è  vero,  questo  secondo  col  pen- 
siero air  infinito  ,  ma  così  che  ci  resta  sempre  nel  concetto  il 
puro  reale  senza  l'attualità  dell'essere.  Questa  dunque  noi  gliela 
aggiungiamo,  e  così  ci  formiamo  il  concetto  dell'  Ente  assoluto 
ed  infinito.  Ma  dopo  aver  fatta  quest'operazione,  torniamo  colla 
riflessione  sopra  un  tale  concetto  ,  e  vediamo  che  sebbene  noi 
abbiamo  prima  concepiti  que' due  elementi  separati,  tuttavia  non 
possono  rimanere  due,  né  rimanere  clementi  nell'Essere  infinito, 
ma  devono  essere  un  solo  e  semplicissimo  essere  senza  alcuna 
vera  distinzione.  E  ciò  perchè:  \.°  l'essere  stesso  è  il  subietto 
che  sussiste,  e  però  la  sussistenza  o  realità,  non  può  essere  altro 
che  l'alto  pel  quale  è,  e  quindi  non  punto  cosa  differente,  il  che 
si  prova  anche  così  :  k  U  vero  subietto  è  sempre  il  reale.  Ma 
l'essere  in  Dio  ,è  il  vero  subietto,  dunque  ecc.*;  2.''  Perchè  il 
reale  non  potrebbe  essere  infinito,  se  non  fosse  lo  slesso  essere, 
non  essendoci  d'  infinito  che  1'  essere.  Per  esprimere  dunque 
questa  congiunzione  che  noi  facciamo  dell'  essere  e  del  reale  infi- 
nito in  modo  che  non  involga  assurdo  —  come  l'involgerebbe  se  si 
trattasse  d'una  semplice  unione  e  congiunzione,  —  la  chiamiamo 
identificazione,  e  l'unione  stessa  la  chiamiamo  identità  o  relazione 
d'identità,  emendando  con  questa  espressione  ed  abolendo  quel  di- 
fetto che  il  nostro  concello  di  Dio  traeva  seco  dalla  sua  origine 
cioè  dalla  maniera  indiretta  e  analogica,  con  cui  la  nostra  mente 
era  stata  costretta  di  formarselo. 

Zhì.  E  questo  spiega  in  universale  l'origine  del  concetto  A' iden- 
tità, 0  quella  che  si  chiama  relazione  d'identità.  L'origine  è  questa  : 
«  Ogni  qual  volta  la  nostra  mente  concepisce  un'  entità  come 
fos.'^ie  duplice,  o  molteplice,  ma  poi  s'accorge  che  ciascuno  di 
que'  più  è  luUa  l'entità  che  si  presentò  al  pensiero  sotto  vari 
concelti,  ella  dice  allora  che  que'  più  hanno  tra  loro  la  rela- 
zione d'identità^)  {Logic,  'ùhh,  sgg.). 

La  relazione  dunque  d'identità  è  un  pensiero,  che  abolisce  la 
pluralità  introdotta  indebitamente  nella  concezione  d'una  qual- 
che entità  da  un  altro  pensiero  precedente,  e  così  l'emenda. 


277 

Articolo  III. 
Relazione  immediata  e  mediata  di  causa  atto. 

342,  Abbiamo  dello  di  poi,  che  la  relazione  dell'essere  rispelto 
al  reale  finilo  è  quella  di  catisa  atto ,  e,  questa  causa  alto,  o  me- 
diata 0  immediata. 

Il  lettore  già  intende  da  quello  che  abbiamo  detto ,  che  noi 
distinguiamo  la  causa  atto  dalla  causa  subietto.  Abbiamo  già  av- 
vertilo che  l'essere  iniziale  ,  qual  è  quello  che  noi  concepiamo  , 
è  a  noi  manifesto  come  allo,  non  come  subiello  di  quest'atto  {Lo- 
gic. 334);  laonde  quando  noi  in  favellando  prendiamo  l'essere 
come  subietto  delle  cose,  non  è  che  una  finzione  del  pensar  no- 
stro che  cangia  l'alto  in  subiello,  il  quale  per  ciò  viene  da  noi 
chiamalo  subietto  puramente  dialetlico,  E  cosi  anche  V essere  ài- 
cesi  materia  dialettica  universale,  per  la  stessa  finzione  per  la 
quale  lo  chiamiamo  subietlo  dialetlico. 

Ma  quando  lo  consideriamo  come  puro  allo,  qual  è,  non  su- 
bietto, allora  lo  chiamiamo  forma  universalissima  e  non  pro- 
pria delle  cose  ,  ovvero  forma  universale  e  unica  di  tutte  le 
forme  finite.  E  così  egli  si  distingue  dalla  causa  suprema,  Iddio. 
Poiché  Iddio  è  la  causa  subietto  delle  cose,  e  l'essere  è  puramente 
la  causa  atto  delle  cose. 

Questo  medesimamente  dimostra  come  Y essere  possa  essere  ai 
reali  finiti  congiuntissimo,  e  costituire  l'atto  pel  quale  sono, 
senza  che  ne  seguili  il  panteismo.  Poiché  come  Vessere  obiettivo 
da  cui,  per  un'astrazione  dell'intelligenza  libera  di  Dio,  è  stato 
astratto  il  subietto ,  costituisce  il  lume  conceduto  alla  mente 
umana  ;  così  Vessere  subiettivo,  da  cui  é  stato  da  Dio  pure  astratto 
il  subiello  (e  vedremo  meglio  nel  libro  seguente  come  quest'a- 
strazione possa  aver  luogo) ,  é  puro  atto  comune  a  tulli  i  reali 
finiti,  e  quest'atto  senza  subietto  non  è  Dio,  perchè  Dio  è  essen- 
zialmente Essere  subietto.  Quest'atto  poi  che  rimane  senza  su- 
biello proprio ,  trova  il  suo  subietto  nella  realità  finita ,  di  cui 
egli  è  atto.  E  tutto  questo  avviene,  perchè  l'astrazione  divina, 
come  diremo  in  appresso,  è  il  fondamento  della  creazione. 

Abbiamo  poi  aggiunto  che  questa  causa  atto  si  unisce  a'  reali 


278 

0  immediatamente,  e  intanto  i  reali  divengono  sostanze;  o 
mediante  i  reali  sostanze,  e  intanto  i  reali  si  dicono  accidenti. 
Questo  ci  obbliga  a  determinare  il  carattere  della  sostanza  e  del- 
l'accidente  in  universale,  distinzione  che  non  si  trova  che  nel- 
l'ente finito,  e  però  tale,  che  apparterrebbe  alla  scienza  cosmo- 
logica ;  ma  pel  tenersi  di  tutte  queste  dottrine  teosofiche  insieme, 
non  possiamo  a  meno  che  ricorrere  alle  une  o  alle  altre,  secondo 
il  bisogno,  senza  riguardo  alla  divisione  delle  tre  parti,  ontolo- 
gica, teologica,  cosmologica,  che  per  ciò  appunto  abbiamo  chia- 
mate parti  d'una  sola  scienza,  la  Teosofia. 

343.  Che  cosa  è  dunque  quel  reale  finito  che  si  chiama  da  noi 
sostanza?  Che  cosa  è  quello  che  si  chiama  da  noi  accidente? 

Il  carattere  distintivo  della  sostanza  reale  è  quello  di  essere 
una  e  indivisibile,  e  di  poter  come  una  e  indivisibile  ricevere 
l'essere,  che  la  faccia  sussistere  in  se  (i). 

Conviene  che  della  sostanza,  come  d'ogni  altra  proprietà  del- 
l'ente finito,  ci  formiamo  il  concetto  a  posteriori,  perchè  del  solo 
Ente  infinito  vale  il  ragionamento  a  priori.  Come  dunque  ci  for- 
miamo noi  il  concetto  della  sostanza  ? 

Prima  di  tutto  dalla  coscienza  di  noi  stessi.  Ciascuno  di  noi 
è  consapevole  d'esser  uno  e  di  sussistere  fPsicol.  124  sgg;  ìkO 
sgg.;  180  sgg;  431  sgg;  bCO  sgg  ;  626  sgg;  676  sgg.)  :  e  però 
d'aver  i  caratteri  accennali  della  sostanza.  Si  ritenga,  che  seb- 
bene il  nostro  proprio  sentimento  non  sia  sempre  coscienza,  tut- 
tavia la  coscienza  è  sempre  lo  stesso  nostro  proprio  sentimento 
consapevole,  l'IO;  onde  ciò,  che  dice  la  coscienza  dell' IO,  è:  poi- 
ché il  conosciuto  qui  è  la  cosa  stessa:  e  per  questa  identificazione 
la  coscienza  non  può  errare.  In  noi  stessi  dunque  abbiamo  il 
primo  concetto  e  il  primo  esempio  della  sostanza. 

L'abbiamo  pure  dell'accidente,  perchè  noi  ci  sentiamo  uni  ed 
identici  a  malgrado  di  tutti  gli  atti  nostri  passivi  ed  attivi,  e 
delle  modificazioni  abituali  che  ce  ne  rimangono.  Questi  atti  e 
modificazioni  raoltiplici  e  continuamente  mutabili,  non  si  possono 
concepire  esistenti  senza  l'anima,  cioè  senza  l'IO  che  li  subisca. 
Non  avendo  dunque  né  unità  né  sussistenza  immediata ,  non  sono 
sostanza,  ma  accidente. 

(1)  Cf.  Aristotele  esp.  ed  esam. 


279 

Ora  lo  stesso  accade  d'  un  principio  sensitivo  ancorché  privo 
d'intelligenza  :  nel  suo  concetto  s'acchiude  quello  d'unità,  e  che 
possa  sussistere  il  vediamo  negli  animali  bruti ,  i  quali  hanno 
pure  i  loro  accidenti. 

Se  noi  ci  rivolgiamo  agli  enti  estrasoggettivi,  corporei  (4) ,  la 
loro  natura  è  relativa  al  sentimento.  Ma  che  sussistano  è  mani- 
festo da  questo  che  agiscono  sul  soggetto  sensitivo,  e  l'agire 
non  è  che  del  sussistente.  In  quanto  poi  alla  loro  unità,  ella  è 
giudicata  dall'  intendimento  secondo  1'  unità  del  sentimento  che 
suscitano^  e  di  cui  sono  termini.  Di  che  natura  sia  questa  unità 
e  quanto  deficiente  dall'unità  perfetta  noi  lo  cercheremo  nella 
(Cosmologia.  Basta  per  adesso  che  il  sentimento  assegni  loro  qual- 
che unità,  sia  qualitativa,  sia  figurativa  ;  per  intendere  che  allo 
stesso  modo  che  hanno  sussistenza  ed  unità,  allo  stesso  modo 
sono  sostanze. 

344.  Tutto  ciò  dunque  che  si  concepisce  come  uno,  e  che  nella 
sua  unità  può  sussistere,  ed  è  soggetto  a  modificazione  senza  per- 
dere la  sua  unità  e  sussistenza,  è  una  sostanza  ;  e  l'idea  che  ad 
essa  corrisponde  è  quella  che  abbiamo  chiamata  specifica  astratta, 
e  che  abbiamo  dedotta  dalla  sua  capacità  di  ricevere  immediata- 
mente l'essere,  e  così  di  sussistere  (Idcol.  G49-652J.  Ma  qui 
osserviamo  di  più,  che  questa  capacità  di  ricevere  immediata- 
mente l'essere  è  nella  natura  del  reale ,  che  serve,  quasi  direi, 
di  materia  alla  forma  dell'essere ,  e  non  nella  natura  dell'essere , 
che  da  parte  sua  è  sempre  comunicabile. 

E  per  la  stessa  ragione  vi  ha  qualche  reale,  cioè  l' accidente, 
che  non  è  suscettivo  di  ricevere  l'essere  se  non  in  un  altro  reale, 
cioè  in  quel  reale  che  ricevendo  immediatamente  l' essere  è 
sostanza  reale  :  anche  questo  dipende  dunque  dalla  natura  del 
reale,  che  è  più  o  men  limitato ,  e  questa  limitazione  determina 
il  modo  e  il  quanto  della  partecipazione  dell'essere. 

Consideriamo  dunque  qual  sia  l'indole  della  congiunzione  del- 
l'essere col  reale  sostanziale,  e  poi  qual  sia»!' indole  caratteri- 
stica della  congiunzione  dell'essere  col  reale  accidentale. 


(1)  Lo  spazio  puro  non  si  può  chiamare  sostanza,  perchè  non  ha  per  se 
accidenti,  racchiudendo  il  concetto  di  sostanza  una  relazione  co' corpi.  Egli 
è  dunque  un  ente  estrasoggettivo  semplicissimo. 


280 

Articolo  IV. 

Relazione  immediata  di  causa  atto ,  o  enlificazionc. 

345.  La  congiunzione  e  comunicazione  dell'essere  col  reale  so- 
stanziale  primieramente  non  è  identificazione,  la  quale  si  riscontra 
solo  nell'Essere  assoluto  ed  infinito,  come  abbiamo  già  dimostrato. 

Di  poi,  ella  è  la  più  intima  di  tutte  le  congiunzioni  possibili, 
a  cui,  per  distinguerla  dall'altre,  noi  daremo  il  nome  di  entiftca. 

Questa  tuttavia  non  è  un'identificazione,  la  qual  si  fa  solo 
nel  concepimento  dell'ente  infinito;  ma  è  un  unione  sintetiz- 
zante, non  di  quelle  che  sono  tali  da  amendue  i  lati ,  ma  da 
un  solo  ,  onde  le  chiamiamo  sintetizzanti  imilaterali.  Le  quali 
hanno  questa  natura  ,  che  sebbene  uno  de'  due  elementi  noi\ 
perisce  col  perir  dell'altro  ,  tuttavia  l'altro  perisce  col  perire, 
0  collo  slaccarsi  da  lui,  del  primo.  Così  Vessore  non  perisce 
quand'anche  s'annulli  il  reale  ,  ma  il  reale  s'annulla  e  non  è 
più  concepibile,  quando  si  pensasse  che  non  ci  fosse  l'essere,  o 
quando  l'essere  da  lui  si  dividesse.  Perendo  poi  il  reale,  perisce 
l'ente  che  risulta  da  tal  unione. 


Articolo  V. 

Antinomìe  che  trovò  Platone  meditando  sull'entilìcazione, 
e  critica  delle  medesime. 

346.  Ora  tale  essendo  la  costituzione  dell'ente  finito ,  egli  com- 
parisce al  pensiero  come  non  fosse  uno,  ma  due,  ammettendo  due 
definizioni,  l'una  dialettica,  come  abbiam  veduto,  nella  quale  si 
pone  un  subietto  dialettico,  e  l'altra  propria,  nella  quale  si  pone 
il  suo  vero  subietto.  Di  qui  gli  antichi  dissero,  che  l'ente  reale 
non  è  identico  ma  diverso  da  sé  stesso.  Anzi  in  questo  princi- 
palmente si  fondano  le  antinomìe  che  Platone  espone  nel  Par- 
menide. Sulle  quali  crediamo  utile  aggiunger  qui  qualche  altra 
osservazione  a  quelle  fatte  altrove,  bramando  noi  che  la  nostra 
filosofia  si  rannodi  alla  tradizione  filosofica  e  a  questa  si  con- 
tinui ,  acciocché  apparisca  che  il  genere  umano  non  ebbe   che 


281 

una  filosofìa  sola,  a  cui  sempre  fa  ritorno,  non  essendo  filosofia 
gli  errori,  o  gli  equivoci  che  vi  si  possono  essere  intramessi 
dalla  limitazione  dell'umano  ragionamento. 

Nella  prima  parte  dunque  del  Parmenide,  Platone  prende  a 
dimostrare  che  Vuno  da  se  solo  senza  alcuna  moltiplicità  non 
può  esistere  (p.  137-142),  Ma  che  cosa  è  quest'uno?  —  La 
parola  uno,  è'v,  di  genere  neutro,  significa:  «  tutto  ciò  che 
si  concepisce  come  uno  » ,  e  però  vale  tanto  a  significare 
l'uno  astratto  ,  quanto  l'uno  reale.  Lasciò  questa  indetermina- 
zione nella  parola  appunto  per  avere  il  modo  di  cavarne  pro- 
posizioni conlradittorie  ,  prendendo  la  slessa  parola  ora  in  uno 
ora  in  altro  senso.  Pure  nella  prima  parte  della  disputa  il  vo- 
cabolo uno  è  conservato  nella  sua  indeterminazione  sempre,  e 
però  non  ha  luogo  alcuna  fallacio,  e  quindi  ne  riusci  una  vera 
e  seria  dimostrazione  che  «  il  solo  e  puro  uno ,  sia  astratto  o 
sia  reale,  non  può  esistere  »  ;  il  che  è  quanto  dire,  che  l'essere 
involge  di  necessità  ad  un  tempo  coll'unilà  una  moltiplicità. 

Nella  seconda  parte  [p.  142-lo7)  non  pone  più  per  ipolesi 
che  l'uno  rimanga  solo,  ma  pone  in  vece  quest'altra  che  «  l'uno 
esista  )),  rimanga  poi  solo  o  no  ,  e  cerca  le  condizioni  neces- 
saria della  sua  esistenza.  Ora,  egli  è  evidente  che  una  di  queste 
condizioni ,  acciocché  l'uno  possa  esistere,  si  è  che  l'uno  sia 
qualche  cosa  di  reale  e  di  determinato,  qualunque  poi  sia  que- 
sto determinato  e  questo  reale.  E  infatti  ponendo  Platone  da 
una  parte  Vuno  ,  che  deve  aver  l'esistenza  ,  dall'altra  Vessenza 
(per  la  quale  intende  l'essenza  dell'essere,  non  un'essenza  deter- 
minata), è  chiaro  che  nell'uno  subietto  dell'esistenza  deve  rima- 
nere lutto  il  resto  necessario  a  costituir  l'ente,  che  consta  del- 
l'essenza e  dell'uno  ,  e  però  l'uno  non  può  più  essere  che  un 
reale  determinato. 

347.  Comincia  dunque  dal  dire,  come  vedemmo,  che,  posto  che 
Vuno  sia,  deve  partecipar  Vcssenzch  e  che  questa  e  un  elemento 
diverso  dall'uno,  perchè  all'uno  si  riferisce,  essendo  ella  essenza 
dell'uno  ,  e  perchè  la  parola  È,  quando  si  dice  «  l'uno  È  », 
esprime  un'altra  cosa  diversa  dalla  parola  UNO.  E  quindi  Irova 
una  dualità  nell'uno  esistente.  Ora  noi  abbiamo  già  osservato, 
che  questa  dualità  non  esiste  nell'Essere  infinito,  e  che  non  è  che 
una  semplice  distinzione  del  pensiero  umano  imperfetto.  Quindi 


282 

lulto  il  ragionamento  dialellico  di  Platone  non  può  aver  luogo, 
che  riguardo  all'ente  finito,  il  quale  è  veramente  composto  dei 
due  clementi.  Intendiamo  dunque  il  ragionar  di  Platone  di  questo 
solo^  a  cui  può  essere  applicato  ,  e  vediamo  che  ne  risulti  a 
lume  di  questo  importantissimo  argomento  dell'intima  costitu- 
zione òeWente  finito. 

Deduce  dunque  Platone  che  l'uno  esìstente  ha  parti ,  cioè 
{."  l'uno,  2."  l'essenza.  Ma  prosegue:  se  noi  predichiamo  dell'uno 
essente,  l'essenza,  e  dell'essente  uno,  l'uno,  concepiamo  dunque 
queste  due  parti  separatamente  :  ma  possiamo  noi  concepire 
l'essenza  senza  l'uno,  o  l'uno  senza  l'essenza?  In  nessuna  ma- 
niera: di  che  deduce  il  sintesismo  di  questi  due  elementi,  cioè 
che  l'uno  non  abbandona  mai  l'essenza,  e  l'essenza  non  abban- 
dona mai  l'uno,  quando  si  trovano  nell'uno  esistente  come  un  tutto 
risultante  da  quelle  due  parti.  E  questo  certamente  dimostra 
l'insolubilità  di  quella  che  noi  abbiamo  chiamata  congiunzione 
entifica,  posto  che  esista  l'ente  finito. 

Ma  da  questo,  che  il  pensiero  di  chi  pensa  l'uno  essente,  ossia 
l'uno  ente ,  non  può  fermarsi  sull'essenza  senza  che  si  trascini 
dietro  V  uno ,  né  può  pensare  l'uno  senza  che  si  trascini  dietro 
l'essenza,  inferisce  che  anche  ciascuna  delle  due  parti  è  duplice 
e  così  all'  infinito,  potendosi  fare  lo  stesso  discorso  sui  due  ele- 
menti delle  parti,  poiché  «  l'uno  abbraccia  sempre  l'ente,  e  l'ente 
abbraccia  sempre  l'uno  con  reciproci  nessi  {  tó  ts  ykp  k'v  r'ó  h 
àei  *iax£iy>(.cà TÒ  ovtò  h),  e  di  qui  conchiude,  che  «  l'ente  ha  un'in- 
finita moltitudine  [knsipov  rh  ■n'kri^og)  »»  Ora  questo  non  prova 
già  che  l'ente  reale  sia  un'infinita  moltitudine,  ma  solo  indica 
una  legge  dell'umana  astrazione,  la  quale  volendo  fermarsi  sul- 
l'uno de'  due  elementi  che  compongono  l'ente  finito  —  il  reale,  e 
l'essere  —  non  può  a  meno  di  pensare  l'uno  senza  tener  di  fronte, 
per  così  dire,  l'altro,  come  abbiamo  dichiarato  nella  Psicologia 
(131 9  sgg.).  E  poiché  l'astrazione  astraente  si  può  replicare  al- 
l'infinito senza  riuscir  mai  a  staccare  intieramente  l'uno  elemento 
astratto  dall'altro  ,  per  la  necessità  del  pensiero  complesso  ,  da 
cui  si  astrae,  perciò  le  entità  di  ragione  si  moltiplicano  senza 
fine.  Il  che  però  non  pone  alcuna  nova  moltiplicità  nell'ente, 
ma  dimostra  solo  viemmeglio  l'indissolubilità  della  congiunzione 
entifica,  senza  la  quale  non  si  può  più  concepir  l'ente. 


285 

Di  j)oi  considera  Plalonc  che  l'uno  e  l'essenza  si  possono  con- 
cepire in  (lue  modi,  ciascuno  come  qualche  cosa  in  sè^  e  ciascuno 
in  relazione  all'altro,  come  quando  si  dice  che  l'essenza  è«  essenza 
dell'  uno  »  ,  o  dell'uno  si  dice  che    «    è   uno   dell'  essenza   «. 
Ciascuno  dunque,  inferisce,  è  due,  ma  questi  due  non  formano  che 
uno.  Se  non  formano  che  uno,  ce  anche  il  nesso  tra  loro,  e  però 
sono  Ire.  Se  dunque  prendiamo  l'essenza  e  l'uno  e  il  loro  nesso, 
abbiamo  ancora  il  tre:  se  l'essenza  stessa,  e  poi  Tuno  li  conside- 
riamo  {."  in   sé,  2.°  relativi    all'altro,   3.°  formanti    tanto   in 
sé  come  relativi  una  sola  essenza,    o  un  solo   uno  ,    avremo  il 
numero  pari  ,   e   il   dispari  ,  e   due   volte  il  pari  e  tre  volte  il 
dispari ,    e  due   volte   il    dispari  e  tre  volte   il   pari  :    insomma 
avremo    e    gli    elementi   de' numeri    (pari   e   dispari)    e  tutti  i 
numeri    che    da  questi    Vengono.     «  Se  dunque    l'uno   esiste  , 
conchiude,   è   d'uopo   che  ci  sia  il  numero  »  {sì  àpa,  eanv  h , 
ccvàyxw  XCI.Ì  ó.pi6fu.òv  sivAi).  Il  qual  discorso  non  appartiene  esclu- 
sivamente alla  dialettica  ,  come   il   precedente  :  ma  c'è  qualche 
cosa  di  vero  ontologico.  Appartiene  alla  pura  dialettica  in  quanto 
suppone  che  l'essenza  e  l'uno  possano   essere  in  sé ,  quando  la 
prima,  cioè  l'essenza  (l'esistenza)  non  può  essere  che  nella  mente 
che  la  pensa,  l'uno  (ciò  che  nell'ente  è  diverso  dall'esistenza) 
non  può  esistere  neppure  nella  mente,  se  non  a  condizione  che 
esista  nella  realità.  Ma  il   pensiero  può  considerarli   in  sé   per 
una  doppia  astrazione ,  cioè  l  °  per  un'astrazione,  colla  quale  li 
considera  l'uno  separalo   dall'altro;  2.°  per  un'altra  astrazione, 
per  la  quale  rimove  da  essi  la  relazione  che  l'uno  ha  all'altro. 
Quello  dunque,  che  Platone  dice  esser  due,  altro  non  sono  che 
due  maniere  astratte  di   considerare  l'essenza,    e   di   considerar 
l'uno.  Quando  poi  dice,  che  questi  due  devono  avere  un  nesso, 
acciocché  costituiscano  uno  (cioè  o  l'uno  o  l'essenza),  questo  non 
è  che  un  altro  pensiero  riflesso  ,  pel  quale  noi  intendiamo  che 
è  lo  stesso  oggetto  che  si  considera  in  sé,  e  in  relazione  con  un 
altro.  Tutto  questo   appartiene  alla  pura  dialettica  del  pensiero 
umano,  e  ninna  distinzione  o   pluralità  mette  nell'ente  in  sé. 

348.  Rimane  dunque  solo  che  si  dimandi,  se  i  due  elementi  che 
realmente  si  distinguono  nell'ente  finito  (uno,  o  reale,  ed  essenza), 
abbiano  un  nesso  che  costituisca  un  terzo  elemento.  Ora  o  si 
considera  questo  nesso  come  potenziale,  o  come  attuale.  Come 


284 

potenziale  è  l'attitudine  che  ha  l'essere  iniziale  di  divenire  l'atto 
ullimo  del  reale  finito  ,  e  1'  attitudine  che  ha  il  reale  finito  di 
ricevere  quest'alto  e  così  esistere.  Ma  questa  doppia  attitudine 
rispetto  all'essere  iniziale  è  qualche  cosa  di  positivo,  cioè  è  quella 
proprietà  che  noi  dicemmo  virtualità;  ma  rispetto  al  reale,  non 
essendo  altro  che  la  possibilità  d'esistere,  il  fondamento  vero  di 
questa  possibilità  non  c'è  che  nella  potenza  creatrice  di  Dio,  e 
non  può  essere  qualche  cosa  del  reale  finito  che  ancor  non  esiste. 
Se  i)oi  si  parla  del  nesso  attuale  ,  questo  non  è  altro  che  lo 
slesso  ente  finito,  il  cui  atto,  pel  quale  sussiste,  è  appunto  quel 
nesso.  Non  c'è  dunque  tra  l'essere  e  il  reale  nulla  di  mezzo,  ma 
copulali  imraediatameute,  il  loro  toccamento  ultimato  e  perma- 
nente è  l'ente  finito;  in  quanto  poi  quel  toccamento  si  consi- 
dera nell'istante  in  cui  avviene  dicesi  congiunzione  entifica. 

Trovato  adunque  il  numero  infinito  nell'ente  uno,  Platone  con- 
tinua dicendo  che  l'essenza  deve  di  conseguente  esser  distribuita 
a  tulio  il  numero  e  alle  parli  del  numero.  «  È  dunque  divisa,  per 
«  quanl'è  possibile,  nelle  minime  e  nelle  massime,  ed  intuitele  cose 
«  che  in  qualunque  modo  sono,  e  si  divide  più  di  tutte  le  cose,  e 
«  infinite  sono  le  parli  dell'essenza  «.  Ma  poiché  abbiamo  dello  che 
l'uno  non  può  abbandonare  nessuna  parie  dell'essenza,  «  lo  slesso 
«  uno  distribuito  dall'essenza  è  un'infinita  moltitudine  »  (p.  ìkU). 

Abbiamo  veduto  che  il  numero  infinito  o  piuttosto  indefinito  — 
dacché  l'infinito  non  si  trova  mai  per  successione  —  è  composto 
d'entità  parte  reali,  come  sono  i  due  elementi  dell'essere  e  del 
reale  e  la  virtualità  del  primo,  e  l'ente  finito  che  ne  risulta;  e 
parte  puramente  dialettiche,  come  la  partizione  che  fa  la  mente 
di  quegli  elementi  in  due  ,  e  poi  ancora  in  due  ,  e  così  via. 
Laonde  l'essenza  —  noi  diremo  l'essere  iniziale  —  che  si  distri- 
buisce non  produce  altre  entità  che  della  stessa  natura,  e  l'uno 
che  segue  l'essenza  nella  sua  distribuzione  è  d'egual  genere. 

349.  Ma  ,se*  invece  di  prendere  l'uno  astratto  per  elemento  (che 
è  piuttosto  elemento  d'elemento),  prendiamo  l'elemento  vero  che  è 
il  reale;  noi  troveremo  che  l'altro  elemento  cioè  l'essenza  —  noi 
diremo  l'essere  —  si  distribuisce  al  reale  finito  per  cagione  di 
questo  e  non  per  sé:  di  maniera  che  non  si  distribuisce  allo 
stesso  modo  l'essere,  e  il  reale  finito.  Ma  questo  si  distribuisce  e 
si  parte  per  la  sua  finitezza,  e  quello  non  si  parte  in  sé  stesso, 


28") 

ma  dà  a  questo  l'atto  che  può  ricevere,  rimanendo  egli  indiviso. 
Onde  vedemmo  che  per  conoscere  come  un  ente  qualunque  sia  una 
particella  di  reale,  è  bisogno  che  la  mente  adoperi  tutto  l'essere 
(,28r),  sgg.;  50-2,  sgg.')  semplice  come  è  ed  indiviso,  benché  il  reale 
finito  non  sia  suscettivo  di  ricevere  tutto  l'alto  dell'essere,  onde 
pare  che  l'essere  stesso  si  divida  :  ma  ella  è  questa  una  specie  d'il- 
lusione trascendentale,  che  con  una  riflessione  supcriore  si  di- 
legua. V'ha  dunque  questo  difetto  nel  raziocinio  di  IMatone,  che 
attribuisce  la  moltiplicità  all'essenza  stessa  ,  e  1'  attribuisce  del 
pari  all'uno,  q^jando  il  vero  fondamento  della  moltiplicità  è  nel 
reale  per  la  sua  limitazione  :  onde,  scambiando  il  significato  del- 
l'uno, quest'uno  gli  diviene  in  mano  Vuno  reale,  potendo  «  ciò 
che  è  uno  »  ricevere  anche  (juesto  significato,  mi  non  solo. 

Trovato  cbe  l'uno  h:\  parti  e  le  parli  essendo  sempre  parti 
d'un  tutto  e  comprese  nel  tutto,  e  il  comprendente  essendo  il 
termine  (róyf  7:£pie-x,oy,  ttÌ/j»?  àv  f j») ,  l'uno  è  anche  terminalo 
ossia  finito.  Conchiude  dunque  che  <c  l'uno  ente  è  in  qualche  modo 
uno  e  molli,  tutto  e  parti,  finito,  e  per  nioliiludinc  indefinito  ». 
ti  che  ben  dimo.stra  che  quesl'«/io  di  IMatone  cangia,  come  di- 
cevamo, di  significalo,  o  certo  cangiano  di  significato  le  entità 
di  cui  si  parla,  prendendosi  in  fascio  le  entità  reali  e  le  dialet- 
tiche. Cos'i  l'uno  ente  {h  cv)  —  poieliè  di  questo  si  parla  —  in 
se  stesso  è  uno  ,  costituito  da  due  elementi  reali  inseparabili  , 
ma  il  pensiero  astraente  può  trovare  in  esso  indefinite  entità 
puramente  dialettiche  ,  che  non  sono  propriamente  sue,  ma  del 
pensiero  stesso. 

In  quanto  Venie  imo  è  un  lutto  terminato,  ha  princijiio,  mezzo 
e  fine,  e  il  mezzo  essendo  ugualmente  distante  dagli  estremi  , 
deduce  che  l'uno  essente  ha  figura.  Se  la  parola  disianza  e  la 
parola  figura  non  si  prendessero  in  senso  metaforico,  il  filosofo  qui 
sarebbe  caduto  dall'altezza  della  speculazione  dell'ente  in  univer- 
sale nel  basso  d'un  ente  speciale  corporeo.  Che  poi  ogni  ente  esi- 
stente abbia  un  principio,  un  mezzo  e  un  fine,  è  una  proposizione 
che  ha  più  significati.  In  un  tutto  corporeo  è  facile  distinguere  i 
due  estremi  e  un  punto  di  mezzo  equidistante.  Nell'ente  spirituale 
e  semplice  è  più  difficile,  e  .se  si  trattasse  dell'ente  infinito,  per 
|)rincipio,  mezzo  e  fine  altro  non  si  potrebbe  intendere  che  le  tre 
ipostasi,  di  cui  Platone  non  possedeva  cerlamenle  un'accurata  dot- 


28G 

Irina.  Nell'ente  finito  poi  come  principio  si  può  prendere  Vessere, 
come  mezzo  la  realità,  come  fine  i  limili  di  questa  realità  che  le 
danno  la  forma  propria. 

Posto  dunque  che  l'uno  essente  abbia  parli  e  ciascuna  sia  uno 
indiviso  dal  resto,  egli  dice ,  che  deve  essere  in  sé  stesso  e  in 
altro.  Poiché  le  parti  sono  nel  tutto,  e  le  parli  sono  uno,  e  il 
tulio  è  uno  ;  dunque  l'uno  é  in  sé  slesso.  Ma  il  tutto  non  è 
nelle  parli,  né  nelle  singole,  né  in  alcune,  nò  in  tulle;  dunque 
l'uno  è  in  altro,  poiché,  dice,  se  non  fosse  in  qualche  altro, 
sarebbe  niente  [ovxovv  fX}iha,iJ.ov  fj.svov,  ov^èv  àv  eh).  Di  che  con- 
chiude che  l'uno,  posto  che  esista ,  è  in  sé  stesso,  e  in  altro. 

550.  Come  abbiam  detto,  se  si  fa  l'uno  ente  composto  di  due 
elementi,  il  discorso  non  può  essere  più  che  intorno  all'ente  finito. 
Ora  l'ente  finito  é  certamente  tulle  le  sue  parli  {ssn  ^é  ra 
rs  TravTot  rò  h)  in  un  senso,  e  queste  parti  sono  nel  tulio,  onde 
egli  è  in  se  slesso.  Ma  questa  sentenza  in  che  si  fonda?  In  una 
doppia  maniera  di  concepire  Tenie  reale,  e  in  una  doppia  ma- 
niera di  esprimerlo.  Poiché  si  concepisce  l' ente  reale  partendo 
dalla  sua  materia  come  da  subiello,  a  cui  si  attribuisce  la  pro- 
pria forma,  e  partendo  dalla  sua  propria  forma,  a  cui  si  attri- 
buisce la  sua  materia  :  due  maniere  di  concepir  l'ente  che  da 
Platone  sono  passate  in  Aristotele  ,  dove  giocano  mollo.  Onde 
l'ente  reale  si  può  definire  :  «  tutte  le  parti  insieme  prese  »  ,  e 
anche  «  il  lutto  che  comprende  le  parli  ».  Così  si  dice  che  l'ente 
preso  come  parli  é  nell'ente  preso  come  lutto.  Ma  se  ben  si 
considera,  la  prima  definizione  non  regge:  perocché  le  parti  non 
sono  l'ente,  ma  l'ente  é  l'unione  stessa  delle  parli,  ossia  il  tutto 
che  formano  le  parli.  Onde  la  proposizione  che  l'ente  é  nel- 
l'ente,  non  è  vera  rigorosamente;  ma  soltanto  questa  é  vera: 
«la  materia   propria  dell'ente  é  nella  forma  deirente». 

L'altra  proposizione  poi  di  Platone  che  l'uno  essente  sia  in 
un  altro,  perchè  altramente  sarebbe  nulla,  è  data  come  evidente 
da  Platone,  e  non  sorretta  da  prove,  quasi  che  l'esempio  del 
corpo  che  è  sempre  in  qualche  luogo  si  potesse  applicare  al- 
l'ente in  universale.  Ma  esaminata  quella  proposizione  con  ac- 
curatezza, si  trova  non  esser  vera  universalmente,  perché  se  ciò 
fosse,  quest' a/<ro  dovrebbe  essere  in  un  altro  ancora,  e  cosi 
all'infinito.   Si  trova  non  esser  vera  né  manco  dell'essere  infi- 


287 

nito,  il  quale  non  è  che  in  sé  slesso.  Ma  ella  vale  pel  finito; 
giacche  l'ente  finito  reale,  tutto,  materia  e  forma ,  è  nell'essere 
sua  forma  ultima,  e  quest'essere  è  in  Dio,  come  abbiam  detto. 

Supposto  dunque  da  Platone  che  l'uno  ente  sia  in  sé  slesso 
ed  in  altro,  deduce  che  in  quanto  é  sempre  in  sé  stesso  in  tanto 
continuamente  sta  fermo;  e  in  quanto  è  sempre  in  un  altro  non 
è  mai  nel  medesimo  (àvayxw  (Xìi^énor'  év  tó3  avrcò  ehcx.i'^,  e 
però  continuamente  si  move,  e  di  più  conviene  che  sia  sempre 
il  medesimo  a  se  stesso,  e  anche  sempre  altro  da  sé;  e  del  pari 
rispetto  all'altre  cose,  in  quanto  è  a  se  il  medesimo,  sia  altro  da 
esse,  e  in  quanto  è  altro  da  sé,  sia  il  medesimo  con  esse. 

Anche  qui  la  parola  quiete  e  moto  si  prende  figuratamente: 
ogni  mutalo  aspetto  in  cui  si  considera  l'uno  ente  dicesi  moto , 
ogni  medesimo  aspello  si  dice  quiete  :  il  movimento  e  la  quiete 
del  pensiero  s'attribuisce  all'uno  enle.  Ma  oltre  questo  senso 
dialettico  c'è  qualche  verità  in  questo  pensiero  di  Platone  ? 

351.  Abbiamo  veduto  che  l'uno  ente  si  dice  essere  in  sé  in  quanto 
si  considera  come  il  complesso  delle  parti  (materia)  che  sono 
nel  tulio  (forma  propria),  e  questo  é  il  concello  della  quiete, 
perchè  sta  in  se  medesimo;  e  che  l'uno  ente  si  dice  essere  in 
altro  in  quanto  si  considera  come  il  lutto  (forma  propria)  uni- 
ficante le  parti,  e  questo  è  il  concetto  del  moto.  Se  dunque  noi 
applichiamo  questo  concello  all'ente  finito,  intenderemo  che  fino 
ch'egli  si  considera  come  subiello  reale  (materia)  esistente  nella 
sua  forma  propria,  noi  lo  concepiamo  come  qualche  cosa  di  sla- 
bile in  sé  slesso;  ma  se  consideriamo  il  tutto  dell'ente  (forma 
propria  e  materia)  come  esistente  in  altro  cioè  nell'essere  che 
lo  fa  esistere,  noi  vediamo  che  continuamente  riceve  l'esistenza, 
e  cosi  fluisce  quasi  movimento  continuo  dal  non  esistere  all'esi- 
stere. Quindi  si  dice  che  l'  ente  finito  ne  del  tutto  è  ,  né  del 
tutto  non  é,  secondo  i  due  aspelli  in  cui  si  riguarda  dal  pensiero. 

Ma  Platone  aggiunge  ch'egli  è  il  medesimo  e  l'altro,  anche  ri- 
spetto alle  altre  cose.  Ora  che  cosa  sono  quest'altre  cose  diverse 
dall'uno  enle?  Sono,  secondo  Platone,  non  ente.  Ora  questo  si 
avvera  dell'ente  finito  così.  L'ente  finito  é  considerato  come  su- 
bietto essente  nella  sua  propria  forma,  e,  se  è,  egli  é  altro 
dalle  cose  che  sono  non  ente.  L'ente  finito  non  è,  ma  si  fa  di  con- 
tìnuo ,    consideralo  come  un  lutto  che  esiste   nell' essere,    e  in 


288 

questo  senso  potendosi  chiamare  non  ente  ,  egli  è  il  medesimo 
coiraltre  cose  che  sono  non  ente.  In  quanto  dunque  è  non  ente,  sta 
fermo  rispetto  alle  cose  non  ente;  e  in  quanlo  è  ente,  egli  con- 
tinuamente  si  move,  cioè  si  parte  dal  non  ente  e  viene   all'ente. 

Dall'avere  mostralo  che  l'uno  ente  è  il  medesimo  a  sé  e  il  di- 
verso da  sé,  e  il  medesimo  e  il  diverso  rispetto  alle  altre  cose^ 
ne  deduco  che  del  pari  è  simile  e  dissimile,  sia  rispetto  a  sé, 
sia  rispetto  alle  altre  cose  che  sr-no  non  ente.  Poiché  simile  é 
ciò  che  patisce  la  stessa  passione  (tò  ^è  -nov  tclvtòv  Trsnoyóòg,  o{j.ovov 
p.  1^8  a).  Ma  l'ente  uno  partecipa  dell'idea  del  medesimo  e 
dei  diverso.  Se  dunque  si  confrontano  queste  due  partecipazioni 
0  passioni,  l'ente  uno,  che  partecipa  il  medesimo  o  il  diverso,  è 
dissimile  a  se  che  partecipa  il  diverso  o  il  medesimo,  e  al  con- 
trario é  simile.  E  lo  stesso  rispetto  all'altre  cose  (non  ente),  che 
con  esso  lui  partecijìano  le  slesse  idee  del  medesimo  e  del  di- 
verso: è  simile  o  dissimile  a  queste,  secondo  che  si  confronta 
l'ente  partecipante  o  della  stessa  idea  o  dell'altra. 

33"2.  Passa  a  dimostrare,  che  l'uno  essente  tocca  e  non  tocca  sé 
stesso,  tocca  e  non  tocca  l'altre  cose  che  non  sono  ente.  Anche 
qui  la  parola  toccare  vuol  prendersi  in  senso  metaforico  per  con- 
tinuarsi per  mezzo  almeno  d'una  relazione  dialettica,  per  la  quale 
non  si  possa  pensar  l'uno  senza  l'altro.  Prova  la  sua  tesi  così. 

Abhiamo  veduto  che  l'uno  ente  preso  per  l'insieme  delle  parti 
è  nell'uno  ente  preso  pel  tutto.  L'uno  dunque  è  in  sé  stesso,  e 
però  si  tocca,  è  a  sé  continuo.  Ma  se  l'ente  uno  come  insieme  delle 
parti,  è  nel  tutto;  l'ente  uno  preso  come  tutto,  non  é  nelle  parti, 
e  così  non  tocca  se  stesso;  le  parti,  astrazion  fatta  dal  tutto, 
sono  l'altre  cose,  non  ente.  Ora  ogni  parte  non  si  può  conce- 
pire che  come  una;  dunque  l'ente  uno  tocca  l'altre  cose,  per- 
ché ciascuna  d'esse  è  in  lui.  Ma  se  le  parti  si  concepiscono 
come  molte,  non  come  uno,  ma  come  non  uno,  in  tal  caso  l'ente 
uno  non  tocca  l'  altre  cose  diverse  da  sé  ,  cioè  le  parti  molte 
senza  unità.  Ancora ,  o  l'ente  uno  si  pensa  solamente  in  quant'è 
uno,  e  in  tal  caso  non  si  tocca,  perchè  ogni  toccamento  nasce 
tra  due.  Ma  se  l'ente  uno  si  concepisce  sotto  diversi  aspetti, 
come  molteplice,  si  tocca,  perchè  è  continuo  ne'  suoi  diversi 
aspetti  nell'umano  pensiero,  essendo  uno  sotto  tutti. 

In  altre  parole.  8e  si   considerano  le  parti  come  pura  mate- 


289 

ria ,  prive  della  loro  forma  propria  che  le  rende  une  ,  la  qual 
materia  è  chiamata  da  Platone  rk  àXXa,  queste  altre  né  sono  uno, 
né  due,  nò  determinate  da  alcun  numero  (òW  ocpa.  h  ian  rk 
kXKx  Svre  ^vo,  ovrs  àXXou  kpiòfMv  ay^ona.  ovoua.  évdiv),  e  però  non 
c'è  più  il  contatto  coU'uno.  Ma  se  si  considera  la  materia  unifi- 
cata dalla  sua  propria  forma,  allora  benché  questa  sia  altra  cosa 
dalla  forma  che  l'unifica,  tuttavia  è  con  questa  congiunta  e  per 
l'uno  la  tocca.  Si  prende  dunque  l'uno  in  due  sensi  :  ora  però 
materia  unificata,  ora  per  forma  unificante,  perchè  infatti  «  ciò 
che  è  uno  »,  ossia  che  esiste  come  uno,  non  può  esser  altro  che 
l'ente  reale  finito  in  cui  si  distingue  materia  e  forma  :  e  su  que- 
st'uno esistente  si  dialettizza.  Qui  poi  è  dimenticato  l'altro  ele- 
mento, cioè  l'essenza:  noi  diciamo  l'essere. 

Il  contatto  dunque  di  cui  parla  Platone,  è  l'unione  della  forma 
propria  colla  materia,  e  della  materia  colla  forma  propria:  e  la 
mancanza  di  quel  conlatto  è  la  forma  propria  considerata  con 
astrazione  dalla  materia,  e  la  materia  considerata  con  astra- 
zione dalia  forma.  La  materia  unificata  si  considera  nel  suo 
tutto ,  0  nelle  sue  parti  maggiori  e  minori  ;  la  materia  poi  che 
non  è  unificata,  non  è  né  una,  né  altro  numero  determinato. 

553.  Prova  poi  che  l'uno  ente  è  uguale  a  sé  e  all'altre  cose 
(le  parli),  e  che  è  anche  maggiore  e  minore  di  sé  e  dell'altre 
cose  cosi.  Nel  puro  concello  dell'uno  non  c'è  nò  quello  di  più 
grande,  né  quello  di  più  piccolo,  e  questi  concetti  non  ci  sono 
né  pure  in  quello  dell'altre  cose ,  cioè  delle  parli.  Se  dunque 
nell'uno  non  c'è  il  più  grande  né  il  più  piccolo,  e  né  pure  non 
c'è  negli  altri:  rimane  che  l'uno  sia  uguale  a  sé  stesso  e  uguale 
alle  parli.  Questa  uguaglianza  è  negativa,  come  si  vede,  è  una 
assoluta  mancanza  della  grandezza  relativa  ,  che  non  si  trova 
ne' due  concelli. 

Se  poi  si  considera  che  le  parti  sono  nel  tutto  ,  e  le  parti 
insieme  sono  l'ente  uno  anch'esse  ,  e  anche  il  tutto  è  l'ente 
uno ,  dunque  l'ente  uno  è  maggior  di  se  stesso,  perché  il  con- 
tenente è  maggiore  del  contenuto  ,  cioè  l'ente  come  forma  è 
maggiore  dell'ente  come  materia.  "Viceversa  l'ente  come  materia 
è  minore  dell'ente  considerato  come  forma,  e  però  è  minore  di 
se  stesso. 

E  poiché   anche  gli  altri ,    cioè  le  parli  o  singole    o  più  ,  si 
Rosmini.  Teosofia.  19 


290 

possono  concepire  come  uno  ,  l'uno  è  maggiore  degl'altri  cioè 
delle  parli,  se  si  considera  come  l'uno  totale  contenente  l'uno 
le  singole  parti,  o  un  numero  di  parti;  ed  è  minore,  se  si  con- 
sidera l'uno  delle  singole  parti  o  di  più  parti  rispetto  a  tutte  le 
parti.  Di  che  deduce  che  sotto  questi  diversi  aspetti  l'uno  e  gli 
altri  (le  parli)  hanno  piìi  o  meno  ,  o  ugual  numero  di  misure 
e  di  parli.  Qui  gioca  sempre  la  doppia  definizione  dell'uno  con- 
siderato dalla  parte  della  sua  forma  propria,  o  dalla  parte  della 
sua  materia  ,  e  il  variare  dell'ente  uno  di  cui  si  tratta  ,  non 
trattandosi  d'un  ente  uno  determinato,  ma  d'un  individuo  vago. 

354.  Dopo  aver  dette  queste  cose  dell'uno  ente,  considerato 
come  uno,  passa  a  dire  altre  cose  dell'uno  ente  considerato  come 
ente,  cioè  come  partecipe  dell'essenza,  [p.  \M  sgg.). 

Dice  che  se  l'uno  è  ,  gli  compete  l'essere  (fWt  ij^év  ttou  olvtò 
v7TÓ,p^£i,  £Ì7t£p  i'v  sotì)  .  L'csscrc  ò  consIdcralo  da  Platone  come 
l'atto  dell'essenza  partecipata,  ed  è  questo  il  significato  d'Ù7ra/3- 
%f<v  tanto  poi  anche  da  Aristotele  usato.  Di  che  deduce  che 
Vessere  è  la  partecipazione  dell'essenza  col  tempo  presente  (rè 
da  ehoLi  xXXó  ti  kariy  »  ixéòe^it^  ovsiccs  iJ.£Ta  "^p'ovov  rov  -apó^Tog). 
Dove  se  si  considera  che  lo  stesso  Platone  nel  Timeo  dice  es- 
sere il  tempo  nato  col  Mondo  ,  vcdesi  che  l'uno  ente  di  cui 
parla,  altro  non  può  essere  che  Vente  finilo,  benché  poi  nel  di- 
scorso passi  qualche  volta  per  astrazione  all'ente  in  universale. 
Deduce  dunque  da  questo  che  l'uno  ente  partecipando  del  tempo 
e  del  tempo  fluente,  come  spiega,  {nopsvoixiyov  rov  xpóvov), 
è  presente,  passalo  e  futuro,  e  quindi  è  più  vecchio  e  più  gio- 
vane e  coevo  a  se  slesso,  ed  anche  all'altre  cose;  e  non  solo 
è,  ma  anche  si  fa  tale.  Se  l'ente  percorre  il  tempo  diventa  più 
vecchio  di  quel  che  era  ,  ma  si  fa  anche  più  giovane  ,  ed  es- 
sendo identico  ,  è  a  se  coevo.  Ma  quando  ha  toccato  il  tempo 
presente  non  più  si  fa  tale,  ma  è  tale.  Dove  queste  parole,  che 
«  il  presente  è  sempre  appresso  all'uno  per  lutto  l'essere  (  ró  ys 
IMìy  vOv  ó.e\  TTapEGTi  Toi  hi  ^la  navròg  tov  slvat  p.  45^  e)  »  dimostrano 
l'elernilà  dell'essenza  ,  ma  a  questo  non  si  ferma  qui  Platone. 

Venendo  poi  a  dimostrare  che  l'uno  ente  anche  all'altre  cose 
è,  e  si  fa  più  giovane  ,  e  più  vecchio  e  coevo,  avverte  prima 
che  parla  dell'altre  cose,  erspa.,  e  non  dell'altro,  hepov,  perchè 
questo  singolare  indicherebbe  l'altre  cose  partecipi  d'unità,  lad- 


291 

dove  quel  plurale  indica  l'altre  cose  senz'unità,  le  parti,  la  pura 
materia  :  avvertenza  che  è  una  chiave  per  intendere  la  maniera 
di  parlare  di  questo  filosofo. 

L'altre  cose  dunque  così  prese  sono  più ,  ma  a  l'uno  è  fatto 
prima  del  più  (Travi cov  h.^a.  10  h  Trpcòrov  yéyove  tóov  &.ptòfji.òy  £%óv- 
Tojv)  »  Dunque  l'uno  è  più  vecchio  dell'altre  cose.  Ma  l'uno  ha 
parli,  cioè  principio,  mezzo  e  fine,  e  non  c'è  l'uno  ente  prima  che 
ci  sia  il  fine  ,  ond'cgli  è  l'ultimo  a  farsi  ,  e  però  più  giovane 
delle  sue  parti,  che  sono  l'altre  cose.  Ma  né  il  principio,  né  il 
mezzo,  né  il  fine  può  stare  senza  l'uno  ;  dunque  è  coevo  a  cia- 
scuna dell'altre  cose.  E  poi  mostra  che  non  solo  l'ente  uno  è 
tale,  ma  tale  anche  si  fa. 

555.  Ora  poiché  l'uno  ente  era,  ed  è,  e  sarà,  conchiude  che  di 
lui  c'è  la  scienza,  e  poiché  si  faceva,  e  si  fa,  e  si  farà,  che  di 
lui  e'  è  Vopinionj  ed  il  senso,  dove  apertamente  si  vede  che 
vuol  comprendere  nel  ragionamento  anche  Vente  uno  eterno  —  del 
quale  solo  è  la  scienza,  secondo  Platone  —  ma  senz'accorgersi  at- 
Irihuiscc  all'Ente  eterno  le  proj)rietà  dell'c/iig  finilo ,  pel  quale 
solo  ,  preso  come  individuo  vago  ,  vale  il  suo  ragionamento. 
Di  che  apparisce  ,  che  Platone  non  giunse  a  formarsi  un  ac- 
curato concetto  di  Dio,  attribuendogli  la  composizione  dell'es- 
senza (come  forma  ultima)  e  dell'uno  (materia  e  forma  propria) 
a  similitudine  dell'ente  finito.  Onde  tantosto  appresso  parlando 
della  continua  congiunzione  che  si  fa  dell'essenza  coll'uno,  cade 
nel  sistema  copiato  poi  dall'Hegel,  del  diventare,  come  ahbiam 
detto  (324). 


Articolo  VI. 
Relazione  mediata  di  causa  atto,  o  azione. 

356.  Quando  un  reale  è  enlificato  ,  esiste. 

Ora   qual  è  la   natura  del  reale? 

Il  reale  finito  esistente  o  è  principio ,  o  termine  ,  o  misto 
{Psicol.  842-845).  La  sostanza  termine  non  ha  azione,  come 
lo  spazio  ,  e  la  pura  materia  considerata  astrattamente  dalle 
sue  forme  proprie  ,  e  però  non  ha  pluralità  di    modi   suol   prò- 


292 

prì ,  e  però  né  pure  accidenti.  Di  questi  reali  dunque  non 
possiamo  qui  parlare. 

Il  reale  finito  principio  —  e  tali  si  possono  chiamare  i  misti 
di  principio  e  di  termine,  quando  il  termine  non  costituisce  il 
subietlo  ,  ma  .soltanto  una  condizione  sintesizzante  co!  subielto 
come  nell'anima  umana  —  ha  questo  di  proprio  d'essere  attivo, 
e  di  modificare  colla  sua  attività  se  stesso,  od  altri  reali  con- 
tinui ad  esso,  in  cui  passa  l'attività. 

Conviene  dunque  che  consideriamo  l'attività  propria  del  reale 
finito  ,  e  che  ne  vediamo  la  natura.  Quest'attività  si  riduce  a 
dare  a  se  stesso  un'attualità  nova  ,  un  modo  novo  ;  e  quando 
diciamo  dare  a  se  stesso  un'attualità  nova  ,  intendiamo  anche 
ammettere  in  sé  stesso  un'attualità  nova:  perchè  il  fare,  il  patire 
0  il  ricevere,  suppone  sempre  un'attività  in  chi  fa,  patisce,  o  ri- 
ceve: onde  l'azione  del  reale  esistente  a  tutto  questo  si  estende. 

357.  Qualora  si  volessero  classificare  le  modificazioni  che  prende 
il  reale  da  questa  sua  azione  —  che  comprende  sotto  di  se  la  pas- 
sione e  la  recezione  —  troveremmo  che  si  riducono  tutte  in  tre 
classi . 

I."  Modificazioni  che  aggiungono  al  reale  finito  qualche  at- 
tualità senza  distruggere  le  precedenti ,  o  qualche  attualità  mag- 
giore e  più  importante  di  quella  che  va  perduta,  e  quest'è  cosa 
propria  degli  enti  perfetlihili ,  anzi  in  questo  consiste  la  loro  p^r- 
fellibilità; 

]].-'  Modificazioni  che  aggiungono  qualche  nova  attualità, 
ma  nello  slesso  tempo  ne  fanno  cessare  qualche  altra  d'ugual 
valore  ; 

III.*  Modificazioni  che  fanno  cessare  ne'  reali  qualche  at- 
tualità senza  aggiungerne  di  nove  ,  o  aggiungendone  di  minor 
valore,  e  questo  costituisce  il  deterioramento  dell'ente  reale. 

Ora  qualunque  sieno  queste  modificazioni:  I."  o  perficienti  ; 
2.°  0  indiCferenti;  3."  o  deterioranti,  fino  che  il  medesimo  ente 
reale  esiste ,  egli  è  il  subielto  di  esse  che  si  dice  sostanza ,  e  le 
modificazioni  che  ad  esso  si  riferiscono  e  che  non  ledono  la  sua 
identità,  si  dicono  accidenti. 

358.  Dobbiamo  dunque  vedere  come  l'essere  si  comunichi  a 
queste  entità  accidentali,  giacché  egli  si  deve  comunicare,  che 
altramente  non  sarebbero. 


293 

Conviene  dunque  riflettere  che  per  V  enti  fica  zione  l'essere  si 
congiunge  a  tutto  il  reale  con  istabile  nesso,  di  maniera  che  non 
più  l'abbandona  Ora  il  reale  esistente  avendo  in  sé  la  delta 
attività,  anche  a  questa  è  unito  l'essere,  e  però  operando  quel- 
l'attività, l'essere  accompagna  l'azione  fino  al  suo  termine,  quasi 
al  reale  stesso  servendo  ne'  suoi  movimenti.  Quindi  i  novi  ac- 
cidenti che  ne  nascono  e  che  sono  i  termini  delle  azioni  del  reale 
identico ,  ricevono  anch'essi  l'essere. 

L'azione  dunque  propria  del  reale,  che  produce  e  cangia  gli  ac- 
cidenti, è  in  qualche  modo  un'imitazione  della  creazione  stessa, 
perchè  è  una  comunicazione  dell'essere  a  certe  attualità  reali. 
Ma  dilTerisce  dalla  creazione  e  dall'enlificazione  in  questo,  che  la 
creazione  produce  l'ente  finito  (il  reale  ad  un  tempo  e  l'essere), 
r  entificazione  è  quella  per  la  quale  l'essere  al  reale  si  congiungc 
(considerata  astrattamente  dal  subietto  creante,  come  si  offre 
all'osservazione  ontologica  della  natura);  V azione  finalmente 
produce  modificazioni  nell'ente  reale  finito,  già  esistente,  ed  è 
azione  di  questo. 

E  come  Iddio  creatore  producendo  l'ente  finito  produce  neces- 
sariamente un  ente  diverso  da  sé,  perchè  l'ente  finito  non  può 
essere  infinito,  avendovi  repugnanza;  così  il  reale  finito  produce 
qualche  cosa  di  sé ,  non  avendovi  repugnanza  che  ciò  che  pro- 
duce, essendo  termine  finito  della  sua  azione,  sia  qualche  cosa 
di  sé  medesimo. 

Parleremo  poi  altrove  di  quell'azione  dell'ente  finito,  per  la 
quale  egli  perde  la  sua  identità  e  diviene  un  altro  —  detta  dagli 
antichi  corruzione  e  generazione —  bastando  per  intanto  avvertire 
che  l'ente  reale  anche  in  quest'azione  comunica  bensì  l'essere 
che  ha  in  sé,  ma  non  fa  che  sviluppare  ciò  che  tiene  in  sé  po- 
tenzialmente,  acuì  pure,  come  a  tutto  il  resto  del  reale,  è  già 
unito  l'essere  con  vincoli  indissolubili, 

3S9,  Tre  dunque  sono  le  relazioni  tra  l'essere  ed  il  reale: 
I.  Relazione  d'identità; 

II.  Relazione   d' entificazione; 

III.  Relazione  d'azione. 


294 

Articolo  VII. 

Relazione  di  causa  subielto. 

oGO.  Se  poi  il  reale  si  considera  non  in  relazione  all'essere  come 
puro  allo,  conoscibile  senza  il  subielto  che  sta  nascosto,  ma  al- 
l'essere come  subietto  di  quest'atto  e  in  quest'alto;  in  tal  caso 
si  esce  dall'ente  reale  finito,  e  si  considera  queslo,  rispetto  al- 
l'ente reale  infinito  cioè  a  Dio  che  lo  crea.  Perocché  1'  essere 
come  subietto  in  se  sussistente  è  Dio  come  abbiamo  veduto ,  e 
questa  appunto  è  la  relazione  di  creazione. 

CAPITOLO   VI. 

Se  l'essere  riceva  nulla  dalla  sua  congiunzione  co'  reali  finiti, 

561.  L'essere  puro  che  sussiste  in  sé,  cioè  Dio,  in  creando  Tenie 
finito  fa  che  in  sé  sia  l'atto  della  creazione ,  e  nella  sua  intel- 
ligenza creatrice  il  creato  come  oggetto  veduto  e  afTermato 
nel  Verbo  realmente  sussistente  e  per  sé  intelligibile  ed  inteso. 
Ma  in  quanto  all'ente  finito  subiettivamente  esistente,  questo  nulla 
aggiunge  all'Essere  assoluto,  e  però  non  è  necessario  alla  sua 
natura,  ma  liberamente  voluto.  L'atto  creativo  poi,  e  l'oggetto 
finito  atfermato  nel  Verbo  e  col  Verbo,  non  è  una  mutazione  in 
Dio  {{) ,  ma  un'eterna  sua  perfezione,  il  che  come  sia  spieghe- 
remo meglio  a  suo  luogo. 

Quanto  poi  all'essere  da  noi  intuito  come  semplice  atto  —  sce- 
vro dal  subietto  —  oltre  vedersi  in  noi  come  atto  puro,  si  vede 
come  attuante  i  reali,  e  da  questo  intimo  nesso  co'  reali,  av- 
viene ch'egli  si  renda  al  nostro  pensiero  subielto  dialettico  di  tutti 
universalmente  i  reali ,  e  di  ciascuno  di  essi ,  e  che,  come  d'un 


(1)  Mutari,  dice  S.  Tommaso,  proprie  dicitur  per  remotionem  a  termino 
a  quo:  fieri  autem  per  accessum  ad  terminum.  E  soggiunge:  sicut  etiam 
sciens,  quando  considerai,  non  mutatur,  proprie  loquendo,  sed  perficitur , 
ut  dicit  Philosopìms  in  II  (tex.  e.  57,  58)  de  Anima.  In  IH  Ss.  II  a.  1,  ad  1."' 


i>9ì> 

subietlo  dialetlico ,  di  lui  si  predichi  ogni  realità  che  sia  nel- 
l'enle  reale.  Ma  l'essere  si  presenta  anche  a  noi  come  contratto 
ai  singoli  reali.  Questi  specie  di  contrazione  non  toglie  l'univer- 
sale sua  virtualità  ,  ed  ceco  in  che  modo. 

362.  Nell'essere  intuito  dalla  mente  c'è:  ì."  l'essenza;  2."  e  l'og- 
gettività 0  intelligibilità.  Come  essenza  nella  sua  virtualità  è  e 
rimane  universale,  ma  in  quanto  è  atto  ultimo  e  comune  de' sin- 
goli reali,  contrae  questo  suo  atto  veramente  ai  reali  che  lo  rice- 
vono, ma  quest'atto  dell'essere  non  è  quello  che  costituisce  la 
sua  essenza  necessaria,  ma  un  atto  che  corrisponde  all'atto  li- 
bero dell'  essere  sussistente  ,  il  quale  di  ragione  si  dislingue  dal- 
l'alto necessario. 

Come  dunque  in  Dio,  benché  in  se  stesso  sia  un  atto  unico, 
purissimo  ed  eterno,  si  distingue  da  noi  (per  la  maniera  del  no- 
stro concepire)  un  allo  necessario  pel  quale  è ,  ed  un  allo  li- 
bero^ cioè  l'atto  creativo,  pel  quale  è  il  mondo;  così  anche  nel- 
l'essere a  noi  naturalmente  conosciuto  (che  è  alto  senza  subielto), 
si  dislingue  un  atto  che  risponde  aWallo  necessario  di  Dio,  e 
quesl'è  V  essere  viriuale  ;  e  un  alto  che  risponde  a\V  allo  libero  ài 
Dio  e  quesl'è  quello  col  quale  egli  fa  sussistere  i  singoli  reali 
finiti ,  che  abbiamo  chiamato  enlificazione  immediata  o  mediala. 

E  come  Iddio  creante  fa  che  sia  in  sé  nella  sua  propria  es- 
senza l'alto  creativo,  così  l'atto  deU'entificazione  rimane  nel  seno 
dell'essere  virtuale  ,  e  il  subietto  intelligente  lo  congiunge  al  reale 
da  lui  sentito  per  mezzo  dell'  affermazione  percettiva  degli  enti 
reali. 

Inquanto  poi  lo  slesso  essere  è  oggetto,  intanto  avviene  che 
gli  enti  reali  per  lo  slesso  atto  con  cui  si  enlificano  a  noi  slessi, 
anche  si  conoscano.  Ma  poiché  abbiamo  distinto  l'alto  libero  nel- 
r  Essere  subielto  sussistente  e  l'atto  dell'essere  puramente  at- 
tuante il  reale  finito  che  a  quello  corrisponde  ;  conviene  che  con- 
sideriamo prima  la  relazione  del  reale  finito  coli' alto  libero 
dell'Essere  subielto ,  cioè  coH'allo  creativo ,  poi  la  relazione  che 
ha  il  reale  coll'essere  attuante  che  è  l'entificazione  stessa  nel 
suo  effetto  a  noi  visibile. 

L'ente  finito  o  è  intelligente,  o  relativo  all' intelligente:  è 
dunque  necessario  parlare  di  quello,  e  poi  di  questo. 

3G5.  Noi  abbiamo  veduto  che  l'alto  creativo  rimane  in  Dio  e  che 


296 

ha  per  suo  termine  il  Verbo  divino  ^  nel  quale  il  Padre  vede  ed 
afferma  ad  un  tempo  l'essere  iniziale  e  il  reale  del  mondo  nella  sua 
forma  obiettiva.  Ma  veduto  ed  affermato  il  Mondo  come  oggetto, 
esso  acquista,  senza  più,  un'esistenza  subiettiva,  che  non  può  es- 
sere in  Dio,  perchè  totalmente  relativa  all'ente  slesso  finito:  que- 
sta é  quella  esistenza  propria  del  mondo  che  emerge  per  così  dire 
dal  mondo  obiettivo  in  Dio  mediante  l'energia  dell'affermazione 
divina.  Ora  a  certo  reale  finito  Iddio  fa  apparire,  come  oggetto, 
l'essere  iniziale,  che  diciamo  anche  essere  allo,  e  con  questo  lo 
entifica  ad  un  tempo  e  lo  fa  intelligente.  Questo  reale  è,  perchè 
ha  presente  l'essere  :  indi  a  lui  procede  il  sentimento  proprio  in- 
tellettivo che  è  il  suo  principio  {Psicol.  71  sgg.),  e  conseguente- 
mente la  coscienza  di  sé,  vedendo  il  principio  proprio  nell'essere 
che  gli  è  manifesto. 

In  questa  congiunzione  sintesizzanle  dell'essere  col  reale  esi- 
ste l'anima  intellettiva,  essendole  dato  l'essere  obiettivo  indivisa- 
mente con  essa  connesso.  L'anima  intellettiva  risulta  dunque  da 
due  elementi,  l'uno  il  principio  intellettivo  ed  è  il  reale  costituente 
il  subietlo  —  a  cui  si  riferisce  la  definizione  dell'anima  intellet- 
tiva —  l'altro  l'essere  oggettivo,  nel  quale,  contemplando,  è.  Il 
primo  è  inferiore  in  dignità  al  secondo  :  il  secondo  è  divino , 
come  è  da  noi  dimostrato  in  libro  apposito  (  Del  divino  nella 
natura).  È  divino,  perchè  è  lo  stesso  essere  iniziale  che  sta  come 
termine  nella  mente  creatrice,  non  però  veduto  come  termine  di 
questa  mente,  ma  puramente  come  alto;  non  veduto  nel  su- 
bietto che  lo  fa,  o  nell'obietto  in  cui  riguarda  in  facendolo,  ma 
solo  da  sé  medesimo. 

Ma  questa  prima  costituzione  dell'anima  intellettiva  formala 
dall'unione  d'un  reale  principio  intuente,  e  dall'essere  oggetto, 
viene,  quando  che  sia,  seguita  da  un  atto  dell'anima  stessa,  pel 
quale  atto  ella  applica  a  se  stessa  cioè  al  suo  sentimento  pro- 
prio, e  predica  di  se  stessa  quell'essere  che  prima  vedeva  come 
puro  oggetto  ,  e  con  quell'atto  dice  «  sono  )>.  Quindi  quella 
espressione  che  «l'anima  o  l'Io  (impropriamente)  pone  se  slessa  », 
divenuta  tanto  celebre,  per  averci  fabbricata  sopra  il  Fichte  e 
tutta  quella  scola  tedesca  la  filosofia  intera.  Il  dire  che  «  l'a- 
nima pone  se  slessa  )>  ha  della  verità,  inleso  come  un  secondo 
atto:  ma  inleso  come  l'alto  primo  che  costituisce  l'anima   e  la 


297 

fa  esistere  e  le  dà  la  propria   reale   essenza  ,    è   un  errore  ,    e 
un  assurdo,  come  abbiamo  già  altrove  dimostrato. 

Conviene  tuttavia  convenire  die  quest'atto  dell'anima  con 
cui  ella  diventa,  mediante  la  coscienza,  un  Io  alluale ,  è  di 
somma  importanza,  ed  è  quasi  un  compimento  della  sua  propria 
costituzione.  Poiché  se  prima  l'essere  gli  era  congiunto  come 
oggetto  e  così  la  rendeva  un  subielto  intuente  l'essere  ,  dopo 
quest'affermazione  che  è  compresa  nel  pronunciamento  dell' /o^ 
0  nella  parola  sono,  l'essere  gli  è  congiunto  come  una  sua  qua- 
lità subiettiva,  come  l'atto  pel  quale  ella  è  a  se  stessa. 

Prima  di  quest'alto  ella  non  è  a  se  slessa,  ma  è  a  Dio  che 
l'ha  affermala  e  unita  all'essere  obiettivo. 

Ora  quest'alto  dell'anima  che  dice  lo,  è  il  primo  atto  che  l'intelli- 
genza creata  esercita  come  causa  subietto  d'enlificazione  relativa. 

364.  Ma  veniamo  agli  altri  enti  finiti  ohe  non  sono  intellettivi. 
Iddio  gì' intuisce  e  afferma  nel  Verbo  come  vuole  che  sieno, 
cioè  relativi  non  a  sé  ,  ma  agli  enti  intellettivi:  gì' intuisce  e 
gli  afferma  unitamente  con  questi,  perocché  a  Dio  il  mondo  è 
un  oggello  solo  e  lo  fa  con  un  alto  solo.  Così  gli  enti  finiti 
acquistano  rispetto  a  Dio  un'esistenza  indipendente  dalla  propria 
azione. 

Ma  non  avrebbero,  con  questo  solo,  un'esistenza  subiettiva  e 
personale,  se  tra  essi  non  ci  fossero  degli  enti  intellettivi ,  che 
riferissero  se  stessi  all'essere  da  essi  intuito,  e  in  se  stessi  non 
ricevessero  l'altre  cose,  o  le  loro  azioni,  riferendo  poi  quest'altre 
cose  e  le  loro  azioni  all'essere  slesso  ;  e  così  non  li  enlifìcassero 
a  se  stessi. 

Quando  dico  l'altre  cose  o  la  loro  azione ,  non  voglio  punto 
decidere  la  questione  che  cosa  siano  le  cose  prive  d' intelligenza; 
poiché  questa  difficile  questione  appartiene  alla  Cosmologia  ,  e 
però  dissi  l'altre  cose  o  le  loro  azioni ,  per  non  pregiudicare 
innanzi  tempo  una  questione  sì  grave  {  Gf.  Psicol.  Ihl ,  758 , 
773,  777). 

36b.  Da  lutto  questo  dunque  apparisce  che  ci  hanno  due  cause 
subielto  dell'entificazione.  Che  l'essere  sussistente  ,  Iddio  ,  dà 
primieramente  al  mondo  l'esistenza  obiettiva  che  rimane  in 
lui.  Che  in  questo  mondo  obiettivo,  che  in  quant'  é  obiettivo 
non  si  distingue   dal   Verbo   se  non  secondo   la   ragione  divina 


298 

che  ne  lo  dislingue,  insiede  il  reale  finito  per  l'energia  dell'affer- 
mazione divina  distinto  da  Dio  ,  ma  solo  relativamente  a  Dio 
slesso ,  non  ancora  a  se  slesso.  Che  a  questo  reale  finito ,  cioè 
ad  alcuna  parte  di  esso,  Iddio  manifesta  V essere  atto  come  og- 
gello ,  e  così  rendendolo  intelligente,  gli  dà  un'esistenza  pro- 
pria. Che  questo  reale  intelligente  avendo  presente  V essere  alto, 
come  oggetto  identico  a  quello  che  è  nella  mente  divina,  di- 
venta causa  subietto  d'entificazione  relativa,  acquistando  cosi 
una  similitudine  con  Dio.  Che  questo  reale  finito  intellettivo  eser- 
citando la  sua  potenza  entificalrice  ,  che  è  quella  di  predicar 
l'essere  del  reale,  nell'atto  di  sentire  o  percepir  questo  sensiti- 
vamente ,  completa  la  propria  esistenza  subiettiva  e  personale  , 
ed  enlifica  gli  altri  reali  da  lui  sentili  dell' entificazione  rela- 
tiva a  se  slesso  ,  non  polendo  gli  enti  privi  di  ragione  averne 
alcun'altra  se   non  dialettica  (1). 

Ci  hanno  dunque  due  cause  subielto  d'entificazione,  l'Essere 
sussistente,  e  il  principio  intellettivo  crealo  dall'Essere  sussi- 
stente. 

366.  I  reali  finiti  nella  loro  esistenza  propria  e  subiettiva  non 
pongono  nulla  nell'Essere  sussistente,  nulla  gli  danno.  Ma  l'Essere 
sussistente  stesso  dà  a  se  stesso  ab  eterno  l'ente  finito  obiettivo 
intuendolo  nel  proprio  Verbo  ,  dove  è  indistinto,  e  distinguendolo 
coU'atto  dell'affermazione  creatrice;  atto  che  pure  rimane  in  Dio, 
indistinto  dall'atto  con   cui  Iddio  è  l'essere. 

Il  principio  intellettivo  creato  come  causa  subielto  di  entifi- 
cazione, non  può  già  esercitare  quest'atto  attribuendo  ai  reali  qual- 
che cosa  di  se  stesso ,  perchè  egli  non  è  l'essere.  Iddio  solo  af- 
ferma qualche  cosa  di  se  stesso,  cioè  il  reale  finito  obielltivo  cre- 
ando il  mondo,  perchè  Iddio  è  l'Essere  slesso.  L'uomo  dunque 
—  e  dicasi  il  simile  d'ogni  altra  intelligenza  finita  — attribuisce  al 
reale  l'essere,  come  diverso  da  sé,  l'essere  che  intuisce,  l'essere 
puramente  atto  e  non  subietto.  La  ragione  poi  per  la  quale  l'es- 
sere si  vede  come  attuante  il  reale  finito ,  si  è  perchè  quest'es- 


(1)  Per  esistenza  dialettica  àegVi  enti  non  intellettivi  intendo  la  maniera  con 
cui  l'uomo  intende  tali  enti  in  un  modo  assoluto  ,  come  se  esistessero  a  se 
slessi  ;  quando  veramente  esistono  solo  agli  enti  intellettivi,  de' quali  il  primo 
è  il  loro  Creatore. 


200 

sere  puro  altiiante  il  reale  finito  è  termine  d'.-ll' affermazione  di- 
vina ,  e  però  ritiene  dell'  efficacia  di  questa  affermazione  rea- 
lissima. Ma  non  ne  viene  da  questo  che  lai  essere  si  veda  in 
unione  coli' affermazione  divina,  ma  solo  in  relazione  co'  reali 
finiti  che  pure  sono  ad  un  tempo  termini  della  stessa  aflerma- 
zione  :  e  la  prova  di  questo  si  è,  che  l'essere  si  vede  puramente 
come  atto,  e  non  come  subietto  creante  (1).  E  dunque  adirsi, 
che  nella  percezione  o  enlificazione  che  l'uomo  fa  de'  reali,  l'es- 
sere che  prima  intuiva  come  virtuale  ,  manifesta  a  lui  certi  suoi 
alti  relativi  ai  reali  stessi  che  sono  nell'affermazione  divina  ,  ben- 
ché questa  non  si  veda  interamente  e  non  se  ne  veda  il  princi- 
cipio  che  la  fa,  ossia  il  subietto;  e  così  accade  che  i  reali  finiti 
sieno  veri  termini  di  quesl'  essere  ntluante  (508,  sgg.). 


CAPITOLO  VII. 

Qmli  sieno  le  proprietà  dell'essere  comunicabili  ai  reali  finiti 
e  di  questi  predicabili. 

367.  Se  si  considera  l'ordine  logico  dell'atto  creativo,  si  troverà 
che  in  esso  prima  dee  comparire  nella  mente  divina  Vessere  virtuale; 
di  poi  il  reale  finito,  disegnato  dalla  stessa  mente  nel  reale  in- 
finito come  in  obietto  che  eminentcnente  lo  contiene,  quasi  come 
se,  essendo  presente  agli  occhi  nostri  un  circolo,  la  mente  nostra 
immagini  in  esso  una  figura  poligona  ;  e  questo  disegno  o  circo- 
scrizione del  reale  deve  esser  fatto  colla  norma  dell'essere  vir- 
tuale ;  e  finalmente  l'affermazione  divina  che  entifica  questo  reale 
formato  e  determinato  nel  suo  proprio  ordine. 

Infatti  il  reale  finito  non  potrebbe  esistere  in  sé,  se  non  fosse 
determinato ,  e  però  fornito  delle  sue  proprie  forme  e  dell'ordine 
di  queste  forme,  dal  quale  deriva  l'unità  e  l'armonia  dell'universo 
{PsicoL  15o7  sgg  ;  1572  sgg.).  Quando  il  reale  finito  si  spoglia  di 
tutte  le  sue  forme  che  lo  determinano,  allora  egli  non  è  più  che  una 


(1)  Quindi  l'essere  intuito  dalla  mente  umana  non  si  vede  in  Dio ,  percliè 
se  si  vedesse  in  Dio,  si  vedrebbe  Dio  ,  come  prova  S.  Tommaso  II,  II. 
q.  CLXXIIt,  i;  e  in  tal  casosi  vedrebbe  come  Essere  subielto. 


300 

entità  dialettica ,  che  non  può  ricevere  l'esistenza  in  sé,  e  che 
fu  chiamata  da  alcuni  tnateria  prima  (Cf.  Psicol.  779-815),  e 
si  potrebbe  chiamare  ,  per  evitare  il  pericolo  di  restringere  il 
concetto  alla  materia  corporea ,  realità  astratta.  Ora  è  indubi- 
tato, che  una  realità  pura  senza  nessuna  forma  o  determina- 
zione, ed  anzi  di  più  un  reale  che  non  sia  determinalo  da  tutti 
i  lati ,  non  può  esistere  in  sé,  non  può  ricever  l'essere  che  la 
enlifichi  (Psicol.  770  sgg.). 

Convien  dunque  stabilire  quest'ordine  logico  nell'entificazione 
del  reale  finito:  che  venga  prima  nella  mente  il  reale  puro  o  in- 
detcrminato; di  poi  a  questo  siano  date  le  forme  che  lo  deter- 
minano; e  finalmente  riceva  l'essere  che  lo  fa  esistere  iii  sé, 
lo  entifica. 

Ma  nell'entificazione  del  reale  finito  che  fa  l'uomo  relativa- 
mente a  se  stesso,  egli  non  aggiunge  che  Tessere,  e  non  punlo 
la  determinazione  e  la  forma  propria  del  reale  :  poiché  il  reale, 
che  è  il  suo  sentimento,  o  l'azione  sentila  nel  suo  sentimento 
(Psicol.  778 j,  gli  è  dato  già  in  natura  pienamente  determinato 
e  formalo.  Conviene  dunque  dire ,  che  Iddio,  comunicando  al- 
l'uomo in  qualche  modo  una  similitudine  della  sua  potenza  en- 
tifica, non  gli  comunica  che  la  similitudine  dell'ultimo  atto,  che 
è  quello  che  rende  enti  i  reali  già  determinali ,  ma  non  la  simi- 
litudine di  quell'atto  divino  che  produce  i  reali  finiti  né  in  quanto 
alla  materia,  né  in  quanto  alla  forma  :  salvo  che  il  più  de' reali 
hanno,  come  dicevamo,  una  potenza  di  modificare  sé  slessi  e  di 
modificarsi  reciprocamente. 

368.  Stabilito  dunque  che  la  forma  del  reale  finito  dee  precedere 
la  comunicazione  a  lui  dell'essere  che  lo  fa  esistere  in  sé,  rimane 
a  cercare  se  questa  forma  imposta  al  reale  venga  dall'  essere 
stesso,  0  sia  diversa  dall'essere,  come  è  certamente  cosa  diversa 
dalla  materia.  Ora  è  indubitato  che  quella  forma  viene  dall'es- 
sere: ma  non  dall'essere  come  attuante  i  reali,  ma  dall'essere 
come  intelligibilità  delle  cose,  come  idea.  Poiché  non  si  potrebbero 
determinare  i  limiti  al  reale,  e  dargli  così  una  forma  propria, 
e  un  ordine  a  più  reali  connessi  insieme,  se  non  per  un  dato  fine, 
l'assegnare  il  quale  appartiene  all'intelligenza  pratica  di  Dio, 
che  non  é  mai  disgiunta  in  Dio  dalla  speculativa.  Avendo  dun- 
que Dio,  per  essenza  amabile  ed  amalo,  per  fine  sé  slesso,  e 


a  questo  fine  per  istinto  d'un  tale  amore  dirigendo  tutte  le  cose 
ch'egli  produce;  posto  questo  fine,  conveniva  che  egli  concepisse 
il  Mondo  ad  esso  ordinato,  e  per  trovarlo  dovea  applicare  (secondo 
l'analisi  umana  che  spezza  l'operar  divino)  l'essere  virtuale,  come 
idea  prima  e  universale  che  il  fa  conoscere,  a  inventare  tutte 
quelle  forme  ordinale  di  cui  doveva  essere  rivestilo,  acciocché 
ottenesse  nel  modo  più  confacente  il  suo  fino.  Quindi  le  forme 
e  la  serie  e  l'ordine  delle  cose  mondiali  dovevano  essere  con- 
cepite da  Dio  anteriormente  all'esistenza  in  sé  del  reale  finito, 
e  però  dovevano  in  lui  esistere  allo  stalo  d'idee,  insieme  però 
col  reale  ohieltivo  finito  veduto  nel  Verbo  ,  il  quale  reale  finito 
costituiva  il  fondamento  della  relazione  coU'essere  iniziale  ,  e 
col    vederlo  si  pronunciava   da  Dio  e  si  creava. 

Da  questo  procede  che  l'essere,  secondo  l'ordine  logico,  co- 
munica ai  reali  finiti  alcuna  cosa  di  sé  nella  mente  divina  prima 
che  esistano ,  e  alcuna  cosa  di  sé  comunica  per  farli  poi  esi- 
stere in  se  slessi.  Prima  che  esistano,  l'essere,  come  determi- 
nante, comunica  loro  nella  mente  divina  la  forma  ideale  (e- 
scmplare  del  mondo),  e  secondo  la  norma  di  questa  forma,  e 
propriamente  ad  un  tempo  con  questa,  Iddio  dà  loro  l'essere  at- 
tuante, l'essere  come  ulliina  determinazione,  per  la  quale  esi- 
stono in  sé  subiettivamente  (o  estrasubietlivamente)  ;  esistenza 
che  non  potrebbero  ricevere,  se  prima  non  avessero  quella  forma 
determinante.  Poiché  l' essere  essendo  i."  l'intelligibile  ossia  l'i- 
dea, 2/'  e  in  pari  tempo  l'essenza;  in  quanto  é  intelligibile  fa 
conoscere  alla  divina  mente  quali  siano  le  determinazioni  che 
debbono  avere  i  reali  finiti,  acciocché  ottengano  il  fine  loro  pre- 
stabilito dalla  essenziale  bojità,  e  per  lui  come  essenza  attuante 
—  nello  slesso  tempo  —  ricevono  l'esistenza  propria  dalla 
divina  affermazione.  Del  che  parleremo  più  lungamente  in  ap- 
presso. 

5G9.  Dall'essere  dumpio  deriva  l'esemplare  nella  divina  mente,  il 
quale  esem[)lare  è  il  complesso  ordinato  delle  idee  specifiche  piene, 
e  questo  esemjìlare  è  veduto  nel  Verbo,  dove  eminentemente  esi- 
ste e  dove  la  mente  per  propria  energia  lo  distingue,  e  la  po- 
tenza rfftttrice  di  Dio  dirige  poi  i!  suo  proprio  atto  creativo  per 
modo  che  il  reale  finito  che  crea  ,  risponda  a  qucU'  esemplare. 
Ma  in  che  consiste  questa  corrispondenza?  In  questo  ,  che  le  li- 


302 

mitazioni  che  la  mente  creatrice  esemplante  pone  al  suo  alto 
creatore,  risultano  le  stesse  neiresistenza  propria,  subiettiva  ed 
estrasubieltiva  del  mondo.  Infatti  nel  reale  infinito  obietto  affer- 
mato, cioè  nel  Verbo,  c'è  già  tutto ,  e  il  reale  finito  risulla  in 
esso  dalle  limitazioni  in  lui  descritte  dal  pensiero  di  Dio,  entro 
alle  quali  limitazioni  cadendo  l'affermazione  divina,  produce  il 
reale  finito  ,  il  Mondo. 

Tutto  ciò  infatti  che  c'è  nel  mondo  c'è  in  Dio,  ma  illimitato 
e  in  un  modo  eminente.  Tostochè  1' Essere  assoluto  non  solo  af- 
ferma il  detto  reale  come  illimitalo,  il  che  è  generare  il  Verbo 
eterno,  ma  anche  il  dello  reale  come  coli' intelligenza  sua  limi- 
tato ,  il  mondo  temporale  esiste.  C'è  nel  reale  infinito  l'alti  vita, 
il  sentimento,  l'intelligenza,  tulio  in  una  parola  quello  che  c'è 
nel  reale  finito ,  ma  c'è  assai  più  e  in  un  modo  assai  più  eccel- 
lente :  ciò  che  s'aggiunge  dunque  per  determinare  questo ,  non 
sono  che  i  limili;  determinato  poi,  nello  stesso  tempo  l'afferma- 
zione divina  lo  fa  esistere. 

Esistono  dunque  le  forme  nel  reale  finito  come  limitazioni  che 
lo  determinano.  Queste  forme  reali  o  determinazioni  subiettive 
ed  estrasubietlive  sono  certamente  diverse  dalle  idee  divine,  poi- 
ché queste  idee  divine  esprimono  ad  un  tempo  il  reale  e  le  li- 
mitazioni entro  le  quali  rimane  inchiuso  il  reale  in  un  modo 
obiettivo  ;  ma  il  reale  finito  non  ha  per  sua  forma  reale  subiet- 
tiva od  estrasubieltiva  se  non  i  limili  che  lo  determinano ,  lo 
dividono ,  lo  distinguono.  Quindi  le  idee  specifiche  non  sono  già 
imposte  alle  cose  come  loro  forme  reali;  il  che  non  vide  Ari- 
stotele, che  confuse  queste  con  quelle,  e  però  credette  che  queste 
si  potessero  dividere  dalla  loro  materia  che  è  ciò  che  si  com- 
prende entro  i  limiti,  e  così  si  cangiassero  in  idee.  Che  se  l'es- 
sere ideale  è  dato  all'intelligenze  finite,  non  cloro  dato  come 
forma  reale  subiettiva ,  ma  è  loro  mostrato  come  oggetto  inde- 
terminato e  non  più:  da  questa  vista  poi  viene  al  principio  in- 
tuente la   sua  forma  reale,  come  da  causa. 

370.  Ma  come  Iddio  colla  sua  mente  determinò  e  disegnò  i  li- 
mili del  reale  finito,  nell'alto  stesso  di  crearlo,  deducendoli  dal- 
l'essere iniziale  quasi  conseguenze  dal  principio;  così  l'uomo  che 
ha  presente  l'essere  iniziale  e  universale,  riporta  ad  esso  il 
reale  sentito  e  con  questo  rapportamento  i  limili    di   questo   ri- 


303 

mangono  disegnali  nell'essere,  formandosi  egli  così  le  idee  speci- 
fiche piene  (che  tutte  l'altre  gli  vengono  poi  per  astrazione);  ma 
egli  non  può  trasportare  nell'essere  ideale  il  reale  stesso,  perchè 
relativamente  a  lui  non  ha  che  un'esistenza  subiettiva  od  estra- 
subietliva  e  non  un'esistenza  obiettiva,  come  l'ha  in  Dio  per 
eminenza;  onde  non  rimane  un  oggetto  reale  nella  mente  in- 
tuente, ma  solo  un'idea. 

Conosce  dunque  il  reale  finito  con  quell'atto  slesso ,  ed  unico 
—  per  l'unità  del  prijicipio  intelligente  e  senziente  —  con  cui  ad 
un  tempo  intuisce  l'idea  e  sente  ed  afferma  il  reale  sentito  cor- 
rispondente (i). 

Poiché  afferma  il  reale  nell'idea  quasi  dicendo:  «questo 
sentilo  è  compreso  entro  questi  limili  di  essere)).  Quest'è  la 
parte  che  fa  l'uomo  applicando  il  reale  all'essere  nell'unico  pro- 
prio sentimento ,  considerando  1'  essere  come  inlclligibile  ossia 
come  idea,  con  che  restituisce  per  così  dire  all'essere  que' li- 
mili,  forme  ed  ordine,  che  dall'essere  perla  mente  divina  pro- 
vennero al  reale.  Ma  onde  nasce  questo  riportamento?  e  cos'è 
egli?  L'essere  non  è  solo  intelligibile,  idea,  ma  è  ancora  essenza. 
L'essere  come  essenza  è ,  come  dicevamo ,  attuante  il  reale  : 
questo  è  il  nesso  fisico,  per  così  dire,  dell'essere  col  reale  :  e  in 
questo  sta  il  dello  rapporlamenlo:  sta  cioè  nel  vedere,  che  il  reale 
è  attuato  dall'essere  (e  questo  si  vede  nella  percezione,  non  nell'in- 
tuizione semplice),  e  che  però  il  reale  è  un  tèrmine  d'un'azione  del- 
l'essere, di  un'azione  all'essere  non  necessaria,  ma  solo  di  fatto  esi- 
stente :  di  maniera  chf  l'essere  si  può  pensare  intero  senza  questo 


(1)  Quindi  S.  Tommaso  dice  :  «  La  scienza  è  duplice.  Nel  primo  e  principal 
«  modo  è  delle  ragioni  universali,  su  cui  si  fonda  »  delle  idee.  «  In  un  altro 
«  modo  secondario  e  quasi  per  una  certa  riflessione  è  di  quelle  cose,  di  cui 
«  sono  quelle  ragioni,  in  quanto  applica  quelle  ragioni  anche  alle  cose  parlico- 
«  lari  di  cui  sono,  coll'aiuto  delle  forze  inferiori  ».  Questa  è  la  scienza  che 
noi  chiamiamo  di  predicazione  o  d'afférmazione,  che  si  fa  adminiculo  in- 
feriorum  viriuni,  cioè  coll'aiuto  del  sentimento.  Continua  :  «  Della  ragione 
a  universale,  colui  che  sa,  fa  uso  come  di  cosa  saputa  e  come  di  mezzo  di 
<  sapere.  Poiché  per  mezzo  della  ragione  universale  dell'uomo,  posso  GIU- 
«  UICARE  di  questo,  o  di  quello  ».  Ecco  la  scienza  che  si  fa  col  giudizio 
ossia  coiraffermazione,  e  che  riguarda  anche  i  particolari  sentiti.  —  Cf.  S. 
Th.  Super.  Boet.  De  Trinit.  q.  V,  2. 


304 

suo  termine,  che  pur  ha.  Se  non  ci  fosse  questa  connessione  fìsica 
tra  l'essere,  come  essenza  attuante,  e  il  reale  finito,  e  non  s'ap- 
prendesse, non  potrebbe  l'uomo  intuire  nell'essere  come  intelli- 
gibile il  reale  sentito,  cioè  a  lui  riportarlo,  perchè  il  principio  e  il 
termine  non  avrebbero  unione  alcuna.  Ma  poiché  l'essere  nella 
percezione  si  vede  attuante  il  reale,  e  attuante  il  reale  in  ogni 
sua  menoma  parte  e  alto  suo  proprio  —  che  l'essere  è  l'atto 
di  tulli  gli  atti  —  nella  percezione  s'apprende  l'essere  ed  il 
reale  unito  intimamente  senza  che  sfugga  alcuna  attualità  di 
questo,  e  così  s'inlende  tutto  il  reale  nell'essere,  che  perciò  si 
chiama  reale  non  oggetto ,  ma  oggettivato  ;  perchè  in  questo 
reale  oggettivato  rimane  sempre  discernibile  dalla  mente  l'inizio 
dell'ente  cioè  l'essere ;,  dal  termine  cioè  il  reale  sentilo,  che 
non  è  l'essere  stesso. 

371.  Dichiarate  queste  cose,  ritorniamo  alla  nostra  questione: 
u  quali  sieno  le  proprietà  dell'essere  comunicabili  ai  reali  finiti  e 
di    questi  predicabili  »  ? 

Abbiamo  detto ,  che  l'essere  si  presenta  nella  sua  relazione  coi 
reali  finiti:  l.°come  intelligibile  o  idea;  2.°  come  essenza  at- 
tuante il  reale. 

La  questione  dunque  si  parte  in  due  altre  subordinate  : 

\.°  Quali  siano  le  proprietà  che  l'essere  comunica  ai  reali 
finiti  a  cagione  della  sua  essenziale  intelligibilità  ; 

2."  Quali  sieno  le  proprietà  che   l'essere  comunica  ai  reali 
finiti  come  essenza  attuante  i  medesimi. 

Ma  prima  ancora  di  risolvere  tali  questioni,  dobbiamo  avver- 
tire,  che  in  queste  questioni  non  si  parla  più  dell'essere  preciso 
interamente  dalle  sue  forme,  ma  dell'essere  che  ritiene  qualche 
cosa  delle  sue  forme  eterne  e  proprie  ;  perocché  se  si  prendesse 
l'essere  rigorosamente  preciso  dalle  sue  forme,  sarebbe  tolta  ogni 
relazione  tra  lui  e  il  reale  finito  che  appartiene  ad  una  delle  sue 
forme.  Infatti  quando  si  considera  l'essere  come  essenzialmente 
intelligibile,  rispetto  a  noi  come  idea  ,  già  lo  si  considera  nella 
sua  forma  oggettiva  e  divina;  e  quando  lo  si  considera  come 
attuante  il  reale  finito ,  lo  si  considera  come  ritenente  della  sua 
forma  reale  e  subiettiva,  poiché  l'agire  è  proprio  carattere  di  questa 
forma,  come  della  prima  il  far  conoscere;  ond'anco  dicemmo, 
che  una  tale  attività  comunicativa  dell'esistenza  a'  reali  finiti  ap- 


.IO", 

partiene  all'alto  creativo ,    benché   rimanga  nascosto  di  quest'atto 
il  divino  subielto. 

di'!.  Venendo  dunque  a  rispondere  alia  prima  delle  due  que- 
stioni in  cui  abbiamo  spezzata  la  questione  generale  che  ci  siamo 
proposta  ,  dalle  cose  dette  risulta  : 

i .°  Che  dall'essere  come  virtuale  ed  intelligibile  vengono  le 
idee  divine  del  mondo  ; 

'il."  Che  queste  idee  hanno  per  loro  fondamento  in  Dio  il 
reale  infinito  nella  sua  forma  obiettiva  cioè  il  Verbo,  e  che  però 
hanno  un  fondamento  reale,  ma  in  quanto  sono  reali  non  si  di- 
stinguono dal  Verbo  stesso,  se  non  di  ragione,  per  un  atto  in- 
tuitivo della  mente  divina ,  onde  la  distinzione  rimane  nella  di- 
vina mente  ; 

5,°  Che  queste  idee  prescrivono  al  reale  finito,  oggetto  del- 
l'affermazione creatrice,  i  Imiti,  i  quali  limiti  costituiscono  le 
forme  reali  degli   enti  finiti ,    che  devono   esser  creati  ; 

h.°  Che  questi  limiti  reali  o  forme  non  sono  le  idee  divine, 
ma  sono  l'effetto  dell'atto  creativo,  diretto  e  circoscritto  da  quelle 
idee  divine; 

ri."  Che  perciò  le  forme  reali  del  mondo  nella  loro  esistenza 
propria  subiettiva  ed  estrasubietliva  non  sono  Vesserò  attuante 
partecipato,  ma  sono  limitazioni  del  reale  impostegli  anterior- 
mente dalla  Mente  divina  ; 

0."  Che  questi  limili  sono  condizioni  e  predisposizioni  del 
reale  finito  a  poter  ricevere  l'esistenza ,  perchè  sono  quelli  che 
lo  determinano ,  non  potendo  esso  ricevere  resistenza  in  sé  qua- 
lora rimanesse  indeterminato  ; 

7."  Che  il  reale  finito,  mediante  queste  forme,  limiti  e 
determinazioni,  sebbene  egli  non  abbia  in  sé  altro  che  un'esi- 
stenza subiettiva  ed  estrasubiettiva ,  acquista  una  speciale  rela- 
zione coU'essere  iniziale  intelligibile ,  e  così  diventa  intelligibile, 
perchè  que'  limiti  e  forme  vengono  dall'essere  non  in  quanto  è 
essere  attuante ,  ma  in  quanto  è  essenza  inlelligihile ,  dove  la 
mente  divina  le  tracciò  prendendo  la  norma  dal  fine  ultimo  a  sé 
proposto  nel  creare  il  mondo. 

E  veramente  il  reale  finito ,  in  quanto  esiste  subiettivamenle 
ed   estrasubietlivamente^    none  conoscibile  per  sé,  perché  non 
è  obietto  ;  e  in   Dio    come    obietto  non  esiste  se  non  eminente- 
tiosMiNi.  Teosofia.  20 


5or> 

mente  nel  Verbo ,  e  come  idea  nella  mente  intuente  di  Dio.  Onde 
non  potrebbe  esser  conosciuto  se  non  avesse  i  detti  limiti  e  le 
delle  forme  reali.  Ma  queste  essendo  limitazioni  dello  stesso  es- 
sere altuantc  e  dante  l'esistenza  al  reale ^  sono  conoscibili  come 
limitazioni  e  determinazioni  dello  stesso  essere  iniziale. 

575.  Dal  cbe  procede  che  Platone  e  Aristotele  e  tutti  i  più  ce- 
lebri filosofi  hanno  sempre  insegnato  che  «  la  sola  forma  degli  enti 
mondiali  abbia  natura  d'intelligibile  »  separata  dalla  materia,  e 
non  la  materia  stessa  (1).  Ma  non  compresero  essi  il  vero  perchè 
di  questa  intelligibilità  della  forma  ^  e  della  non  intelligibilità 
della  materia  :  ragione  che  noi  possiamo  riassumere  così  :  «  la 
materia  pura  e  indeterminata  non  può  ricevere  l'essere:  ma  il 
solo  essere  è  intelligibile  ;  dunque  quella  rimane  inintelligibile  ». 
All'opposto  «  la  forma  della  materia,  e  più  generalmente  della 
realità,  è  ciò  chela  determina,  e  determinata  è  suscettiva  del- 
l'essere attuante  che  la  fa  esistere.  Essendo  dunque  suscettiva 
dell'essere,  è  suscettiva  dell'intelligibilità  per  l'essere  che  può  rice- 
vere (idea),  0  che  ie  è  aggiunto  di  fatto  (cognizione  d'atl'erma- 
zionc)  ».  Essa  dunque,  la  realità  determinata^  è  intelligibile  non 
come  realità  subiettiva  ed  eslrasubietliva ,  ma  per  la  sua  deter- 
minazione 0  limitazione.  Di  più  la  limitazione  o  determinazione 
de'  reali  finiti,  è  fatta,  j)rima  che  sieno  in  sé,  nell'essere  dalla 
mente  di  Dio,  e  però  è  ancor,  prima  limitazione  e  determinazione 
dell'essere  intelligibile  ,  poi  limitazione  e  determinazione  dell'ef- 
ficienza creatrice,  e  finalmente  del  reale  fiiìito  in  sé  esistente. 
Questa  limitazione  e  determinazione  è  dunque:  ì.°  nell'essere 
ideale  j  2.°  poi  nell'efficienza  creatrice;  3.°  finalmente  nel  reale 
finito  in  sé.  Essendo  dunque  prima  nell'essere^  è  conoscibile 
rome  cosa  dell'essere:  nel  reale  finito  poi  non  è  conoscibile  se 
non  in  quanto  partecipa  l'essere  aUiianle  che  lo  fa  esistere,  e  che 
restringe  il  suo  alto  entro  alla  detta  limitazione  e  determinazione. 
Ora  quest'csiv'n!  alluante  non  è  il  reale  determinato:  perciò  que- 
sto reale,  benché  determinato,  non  si  conosce  in  sé,  non  essendo 


(!)  Plat.  Thcaet.  p.  185,  ISG  —  Arht.  De  An.  Ili,  4,  6,  8  ;  Metaph.  I, 
7;  VII,  10;  13;  1G;  IX,  7;  XI,  1;  ;2  ;  WW  —  Soph.  22,  §  17. —  E,  seguendo 
Aristotele,  S.Tommaso:  Omni»  m  coanosdtnr  per  suam  formam.  Sup. 
Ito  e  111.  De  Trinit.  q.  V,  2. 


507 

egli  stesso  l'essere;  ma  si  conosce  per  la  relazione  sua  coli' es- 
sere,  stabilita  prima  dalla  mente  divina,  poi  manifestata  all'u- 
mana nell'atto  della  percezione. 

E  di  qui  si  può  trarre  una  spiegazione  filosofica  della  frase  me- 
taforica d'Aristotele  e  d'altri  filosc-fì,  che  «  la  forma  si  conosce 
separandola  dalla  materia  (1)  w.  Che  cosa  è  questa  separazione 
dalla  materia?  Come  può  la  forma  d'un  reale  rimanere  separata 
dallo  stesso  reale?  Quesl'  è  quello  che  rimane  presso  di  essi  nel- 
l'oscuro, quello  che  i  filosofi  non  hanno  forse  mai  detto.  Ricono- 
scono però  che  qucsl'  è  l'opera  dell'intelligenza.  Ma  l'intelligenza 
ha  ella  una  forza  da  operare  sul  reale  stesso  e  dividerne  i  due 
elementi  di  cui  consta,  e  che  sono  indivisibili?  Qui  dunque  non 
si  va  più  avanti.  Ma  lutto  rimane  chiaro  nella  teoria  esposta. 
(  limiti ,  prima  che  nel  reale,  sono  neWessere  attuante  il  reale. 
Ma  questo  è  conoscibile  per  se  stesso.  I  limiti  dunque  che 
si  trovano  nel  reale  da  noi  sentito,  si  vedono  nello  stesso  essere 
obiettivo  ideale,  e  in  questo  sono  scevri  dal  reale  slesso ,  e  così 
sono  separati  dalla  materia. 

37^1.  Ma  come  possono  questi  limili  esser  comuni  al  reale  ed 
all'ideale?  —  La  ragione  si  t%  perchè  sono  propri  dell'ente:  e  ciò 
che  è  proprio  dell'ente,  e  non  delle  forme  dell'ente,  è  comune  alle 
tre  forme.  Noi  abbiamo  veduto  che  gli  enti  si  dividono  in  due 
supreme  classi  (  l'i 4-15^  ) ,  che  non  sono  forme,  e  non  sono 
generi  :  e  queste  sono  l'Ente  assoluto,  e  l'ente  limitalo  e  relativo. 
L'uno  e  l'altro  di  questi  enti  hanno  le  loro  Ire  forme,  benché 
in  altro  nìodo:  dunque  anche  nell'ente  limitato  si  devono  di- 
stinguere le  tre  forme  ^  e  ciò  che  è  a  queste  comune  appartiene 
all'ente  slesso,  e  non  alla  forma,  secondo  il  principio  da  noi 
posto  di  sopra.  I  limiti  dunque  che  costituiscono  le  determina- 
zioni dell'ente  limilato,  sono  anteriori  per  loro  natura  alle  forme 
di  questo,  e  però  devono  ridursi  all'essere  slesso  e  non  alla 
forma  propria. 

Possiamo  dunque  conchiudere,  rispondendo  alla  prima  delle 
due  questioni  parziali  che  ci  siamo  proposte,  che  l'ente  reale 
finito  ^riceve*  dall'essere  come  intelligibile  la  sua  forma  pro- 
pria, che  si  riduce  alle  limitazioni  de!  reale.  E  questa  imposizione 

(1)  De  An.  Ili,  4. 


50.S 

della  forma  la  riceve  prima  di  esistere  in  sé,  nella  mente  divina; 
e  r  intelligenza  finita  non  partecipa  punto  di  questa  potenza  di 
imporre  al  reale  finito  la  forma  :  salvo  che  può  conoscere  questa 
forma  gifi  imposta  ,  e  servirsi  di  queste  forme  conosciute  per 
cangiar  le  forme  de'  reali  fino  a  un  certo  segno  ,  come  accade 
nell'opere  dell'arte, 

375.  Veniamo  ora  alla  seconda  questione  parziale:  «quali  sieno 
le  proprietà  che  l'essere  comunica  ai  reali  finiti  come  essenza 
attuante  i  medesimi». 

Questa  è  questione  più  facile,  poiché  è  manifesto  che  l'essere 
attuante  comunica  ai  reali  finiti  e  determinati  l'esistenza  in  sé 
(subiettiva  od  estrasubiettiva) ,  per  la  quale  diventano  enti  fi- 
niti. L'esistenza  poi  è  l'atto  di  tutto  ciò  che  d'attualo  può  essere 
pensato  nel  reale  determinato.  Infatti  é  proprio  di  questo  Vagire: 
ma  Vagire  non  ha  luogo  se  non  dopo  l'esistere.  Prima  di  questo 
dunque  non  c'è  che  il  concetto  d'un  agire  potenziale,  che  non  è 
punto  vero  agire.  Finalmente  l'essere  attuante  comunica  all'ente 
finito  l'intelligibilità  di  percezione  ossia  d'affermazione,  perchè 
l'essere  in  qualsivoglia  suo  atto  è  sempre  per  sé  intelligibile. 

Dovendo  noi  dunque  ora  parlare  divisatamente  di  tutto  ciò 
che  r  essere  comunica  ai  reali  .finiti* ,  prima  considereremo 
queste  tre  ultime  proprietà,  cioè  l'esistenza,  l'atto  e  l' intelligibi- 
lità di  predicazione  che  procedono  al  reale  dall'essere  come  es- 
senza attuante  ;  e  dipoi  considereremo  la  forma,  in  quanto  è  co- 
mune a  tutti  gli  enti  finiti,  e  che  proviene  loro  dall'essere 
come  intuitivamente  intelligibile. 


» -S~'QX9X&'»^ 


SEZIONE  IV. 


Di  ciò  che  Tessere  snbiettlTo  comunica 
ai  reali  finiti. 


CAPITOLO   I. 

Della  prima  proprietà  che  l'essere  iniziale  ed  attuante 
comunica  di  se  ai  reali  finiti,  resistenza . 


Articolo  I. 
Esistenza . 

376.  L'esistenza  dunque,  eome  risulla  da  quello  che  ahbiam 
dello,  in  ogni  ente  qualunque  apparliene  all'essere. 

Se  l'esistenza  ò  essenziale  all'ente  slesso  di  cui  si  predica  , 
quest'ente  è  necessario.  In  tal  caso  quest'ente  è  l'essere  stesso, 
e  quest'essere  non  è  già  solamente  iniziale ,  ma  è  terminalo  in 
se  stesso.  E  l'essere  essendo  infinito  ,  quest'ente,  che  non  è 
altro  che  l'essere  terminato  in  se  stesso ,  è  Dio.  Il  processo 
della  mente  umana  per  arrivare  a  Dio  è  appunto  questo.  Con- 
sideriamolo nell'ordine  della  riflessione.  Dopo  che  la  mente  si 
è  formato  il  concetto  dialettico  dell'essere  iniziale,  l'applica  ad 
un  ente,  a  cui  pensa  che  gli  sia  essenziale.  Ora  se  l'essere  è 
essenziale  ad  un  tal  ente,  quest'ente  è  l'essere.  Ma  l'ente  è  sem- 
pre terminato:  l'essere  dunque  in  tal  caso  deve  essere  termi- 
nato, e  non  più  iniziale.  Tale  è  il  concelto  dell'essere  compiuto 
ed  assoluto.  I  termini  in  questo  caso  sono  propri  dell'essere,  e 
non  a  lui  stranieri,  perchè  egli  termina  se  stesso. 

Ma  l'esistenza  si  concepisce  anche  come  accidentale  in  un 
dato   ente.    In   tal   caso  l'ente  non  è  l'essere   stesso:   tali    sono 


510 

gli  eiili  finiti  ,  0  contingenti.  In  questo  caso  quesl/cnte  in  sé 
considerato  non  essendo  Tessere,  altro  non  può  essere  in  sé  che 
termine  iìeWessere  ,  giacché  tutto  è  o  essere  ,  o  termine  dei- 
Tessere  (L.  I  ,Lc  Caleijorie) .  Ma  questo  termine  non  è  proprio 
à&Wessere,  ma  a  hii  straniero  e  improprio:  poiché  Tessere  si 
concepisce  perfetlo  senza  di  lui  :  né  Tessere  si  trova  nelTes- 
senza  di  un  tal  ente  ,  nò  quest'ente  nell'essenza  dell'essere  ,  se 
non  virtualmente. 

L'essere  dunque  che  si  ravvisa  in  un  tal  ente  ,  spogliato 
del  termine  che  non  appartiene  alla  sua  essenza,  si  rimane  da- 
vanti alla  mente  come  essére  iniziale  ed  attuante,  ma  nulla  più. 

QuesTenle  poi  si  riconosce  di  conseguente  come  composto: 
1.°  di  termine,  e  '2.°  di  essere  iniziale:  ossia  di  reale  finito  e 
di  essere. 

E  nondimeno  Vessere  puro  e  iniziale  é  comune  all'essere  asso- 
luto, e  però  é  divino;  nia  nell'ente  assoluto  é  ?Vimf?'co,  nell'ente 
finito  e  diverso  da  questo  (Vedi  il  Lib.   Del  Dimio  ucc  ) . 


Articolo  li. 
Durata. 

377.  Indivisiliile  dall'esistenza  é  la  durata  [Psicol.  1365  sgg.): 
perocché  un  en!e  che  non  durasse  niente,  non  esisterebbe. 

Insieme  allesislenza  dunque  il  reale  finito  riceve  la  durala 
propria  dell'essere.  IJi  che  il  fondamento  del  tempo,  ma  Udii 
ancora  il  tempo:  poiché  la  durala  non  é  la  successione,  ma 
questa  si  fa  in  (|ue!!a.  La  successione  non  viene  al  reale  finito 
dall'essere,  ma  è  propria  del  reale,  il  tempo  poi  é  la  relazion«> 
della  successione  colla  durata  {Psicol.  1159  sgg.). 

Laonde  i  due  clementi  che  costituiscono  la  natura  del  temp(\ 
hanno  la  loro  ragione  e  spiegazione  nella  dualità  dell'ente  fi- 
nito ,  jìoiché  tìclTuno  dei  due  elementi  ,  cioè  nell'essere,  è  la 
durata:  nell'altro  elemento,  cioè  nel  reale,  giace  la  mutabilità 
e  la  consesuenìe  successione  nella  durata. 


5H 

CAPITOLO  11. 

Della  seconda  proprietà  clic,  l'essere  iniziale  attuante  comunica 
di  sé  ai  reali  finiti,  Vallo  dei  loro  atti. 

378.  Consideriamo  ora  l'esistere  sotto  il  concetto  di  alto.  In  fatti 
l'esistere  d'un  ente  è  l'alto  di  lutti  i  suoi  alti ,  come  abbiamo 
già  dello.  Ma  per  illustrare  il  concetto  di  atto  dobbiamo  con- 
frontarlo a  quello  di  potenza. 

Articolo  I. 

Concetto  di  potenza  e  di  atto. 

.579.  !i  concetto  dunijuc  di  atto  involge  una  relazione  con 
quello  di  potenza. 

E  un  latto  primitivo  somministrato  dall'osservazione  degli 
enti  contingenti;,  che  questi  si  trovano  in  isfali  diversi  ,  senza 
perdere  la  loro  identità  ;  e  però  che  quando  cangiano  passando 
da  uno  stalo  ad  un  altro,  questo  secondo  stato  a  cui  passano, 
esisteva  in  essi  implicito,  siccome  in  germe.  Questi  stali  che 
non  esistono  ancora,  ma  di  cui  non  di  meno  esiste  il  principio 
attivo  che  li  produce,  sotto  certe  condizioni  ,  si  chiamano  stati 
in  potenza. 

((  La  potenza  duiupie  è  una  causa  che  ad  un  tempo  è  su- 
hietto  del  proprio  effetto  »  (1). 

(1)  Noi  ci  dipartiamo  da  Aristotele  clie  definisce  ia  potenza  *(  Un  principio 
di  moto  0  di  trasmutazione  in  un  altro,  o  in  quanto  è  un  altro  »   òj-jx/mì  )A- 

•/2Ts:t,  -7  //kv  àpxvj  ztvvjffsws  o  //.cTapoXi)?  -/i  ì-J  iripM  ri  'irspov   (Metiiph.   IV  (V),  12). 

Primieramente  in  questa  definizione  la  potenza  manca  dell'atto  immanente. 
Di  poi  con  essa  si  definisce  piuttosto  una  causa  clic  la  potenza:  non  si  defini- 
sce quella  potenza  clie  è  l'opposto  di  atto.  Laonde  Aristotele  stesso  quando 
viene  a  considerare  l'ente  ne' suoi  due  concetti  di  ente  in  potenza  e  di  ente  in 
atto,  s'accorge  che  non  gli  serve  la  definizione  data  della  potenza  :  xal  Ttpw- 

Tov  liept  5uvà;Ui£W5,  ìv  y.iyzrxi  /J.ÌV  ixAìicry.  /"-jpiws,  oh   u-y,-j  ■/pr\iip:r,-i'  lart  Tipa;  o   SouJió- 

/xeS«  vuy  {Metaph.  vili  (IX),  1)  ;  poiché,  dice  «  la  potenza  e  l'atto  si  estende  al 
«  di  là  di  quelle  cose,  che  si  dicono  soltanto  secondo  il  moto  »  Ini  nUo^  ykp 


512 

In  quanto  qtieslo  effetto  è  già  prodotto,  la  causa  considerala 
conio  subietlo  del  medesimo,  dicesi  in  atto,  e  l'effetto  slesso  di- 
cesi alto  di  queslo  subietlo.  In  quanto  poi  questo  subielto  è 
considerato  come  causa  d'un  tale  effetto,  diccsi  potenza;  e  se 
questo  effetto  non  è  ancora  prodotto,  dicesi  che  il  detto  subietto 
è  in  potenza. 

Considerando  la  natura  d'una  tal  causa  d'esser  subietlo  del 
proprio  effetto  ,  e  questa  natura  dell'effetto  d'essere  uno  stato 
diverso  della  propria  causa,  la  mente  umana  forma  a  se  slessa 
i  concetti  di  atto  e  di  potenza:  i  quali  dipendono  da  quelli  an- 
teriori e  più  generali  di  causa  ed  effetto. 

Anche  questi  ultimi  traggono  la  loro  origine  da  ciò  che  l'uomo 
osserva  avvenire  nelle  entità  contingenti  ,  che  compongono  il 
mondo  ,  oggetto  immediato  della  sua  percezione.  Se  nulla  si 
mutasse  ,  mai  non  nascerebbero  i  detti  concetti  di  causa  e  di 
effetto  :  questi  suppongono  che  qualche  cosa  avvenga  di  novo  , 
ed  ogni  novità,  ogni  novo  avvenimento,  suppone  la  natura  con- 


ia-ztv  ri  5-Jvxfj.ii  /ai  vj  ivipyiioc  Tòiv  /jióviv  ).eyo,aÉvwv  zktì  xtV/isiv  (Ivi\  Ma  appicci- 
cato al  parlar  comune,  clie  fa  i  vocaboli  adattati  ad  esprimere  le  cose  finito 
e  contingenti,  e  non  le  nielafisiclie,  Aristotele  tien  fermo  ctie  il  proprio  si- 
gnificato di  potenza  è  quello  «  d'un  principio  del  moto  in  un  altro,  o  in 
quanto  è  un  altro  »,  e  vuole  che  per  traslato  s'usi  questa  parola  potenza 
quando  si  dice:  (f  Quest'è  possibile,  quest'è  impossibile;  come  fanno  i  geome- 
tri: J)   évtat  yàp  Òimìcixotì  xvn  J.iyovrxi^  xa&aTiep  ev  yioìy.trpia.-  xat  òuvarà  xal  àòuvara 

Uyoixiv  ró}  V.-ÌVX  iruc,  ?;  p-r,  iivai.  (Metapk.  Vili  (IX),  1  ;  IV  (V),  12).  Ma  non  con- 
viene ricorrere  nelle  scienze  alle  metafore,  quando  si  può  stabilire  un  lin- 
guaggio proprio.  D'altra  parte ,  che  l'elfetto  della  potenza  si  deva  sempre 
produrre  in  un  altro ,  è  falso  ,  perchè  chi  opera ,  prima  ancora  di  produrre 
in  altro  un  effetto,  Io  produce  in  se  stesso  ,  che  si  mette  in  atto  :  né  vale 
l'aggiunta  «  in  quanto  è  altro  »;  perchè  può  essere  identico  il  soggetto  che 
operando  si  modifica,  e  soltanto  riman  diversa  la  relazione  di  passivo  ed  at- 
tivo che  ha  io  slesso  alto,  come  osserva  Aristotele  stesso  :  yscvipòv  oZv  ozi 

iczi    'j.i-j   6>i  y.icx  Sùvay.ti  xùu  nrjtùv  /ai  iratr/stv  (Metapìì.  Vili    (IX),    1).    A   questO 

s'aggiunge  essere  un  pregiudizio,  che  non  si  dia  azione  senza  passione;  noi 
abbiam  dimostrato  darsi  il  caso  del  contrario  {Rinnov.  L.  111.  C.  XLIV. 
ultini.  net.).  Finalmente  essendo  necessario  alla  scienza  distinguere  la  po- 
tenzialità che  è  in  un  ente,  la  quale  non  esce  da  lui,  dalla  causa  che  si  può 
riferire  a  un  effetto  prodotto  fuori  di  sé  ;  senza  confondere  questo  secondo 
concetto  che  è  il  genere,  col  primo  che  è  la  specie  ;  noi  abbiamo  preferito 
di  assegnare  alla  potenza  la  sua  propria  definizione. 


313 

tingente.  Di  qui  dunque  l'Ideologia  spiega  l'origine  de' concelti 
di  causa  e  di  effello  {Ideol.  G15-6Ì8;  637,  038). 

Posti  dunque  questi  concetti  di  causa  e  di  effetto  ,  nascono 
quelli  di  potenza  e  di  atto.  La  potenza  è  una  specie  di  causa , 
ma  non  ogni  causa  è  potenza  nel  senso  della  data  definizione. 
Quella  sola  causa  dicesi  potenza  che  è  in  pari  tempo  il  su- 
bietto del  proprio  effetto:  e  l'atto  è  una  specie  di  effetto,  ma 
non  ogni  effetto  è  atto  che  rimane  nella  causa  che  l'ha  prodotto 
come  in  suo  subictto. 

Articolo  li. 

Concetto  di  virtualità. 

380.  Mollo  diverso  dal  concetto  della  potenza  —  secondo  la 
data  definizione  —  è  il  concetto  della  virtualità. 

Questo  si  definisce  da  noi  così:  «  Virtuale  è  ciò  che  il  pen- 
siero vede  contenuto  in  un  altro  ,  dal  quale  per  sé  non  si  di- 
stingue, ma  che  può  esservi  distinto  dallo  stesso  pensiero  ,  n 
anche  ricevere  un'esistenza  da  sé,  separata  da  quella  dell'altro 
in  cui  indistinto  si  trova  ». 

A  ragion  d'esempio,  in  un  numero  maggiore  il  pensiero  ve 
deci  contenuto  un  numero  minore  ,  il  quale  non  si  distingue 
da!  numero  maggiore  in  cui  è  contenuto  ,  perchè  in  tal  caso 
i!  numero  maggiore  non  sarebbe  più  quel  numero;  e  pure  il 
pensiero  può  vederlo  in  esso,  e  può  vederlo  anche  separato  da 
esso  come  un  altro  numero,  senza  che  perciò  il  numero  mag- 
giore soffra  alterazione.  Del  pari  nel  circolo  col  pensiero  si 
[)Ossono  vedere  contenuti  molti  poligoni:  ma  ci  sono  indistinti: 
che  se  ci  fossero  distinti  in  sé ,  già  non  s'avrebbe  più  la  sem- 
j)lice  figura  del  circolo  :  pure  possono  anche  esser  pensati  da 
sé  ,  senza  il  circolo  ,  e  senza  che  ci  abbia  bisogno  di  recare 
a!  circolo  alcuna  alterazione.  Allo  stesso  modo  nell'estensione 
iilimitata  dello  spazio  si  possono  pensare  comprese  tutte  le 
figure  geometriche  di  qualunque  grandezza  e  l'orma  si  voglia, 
benché  in  essa  non  sieno  distinte:  e  queste  figure  stesse  si 
jmssono  anche   pensare   senza  Testensione   illimitata. 

Tale  è  dunque  il  concetto  di  ciò  che  é  virtuale.  Se  si  prende 


51 /i 

l'astratto,  abbiamo  la  virlualità.  Ora  la  virtualità  si  predica  tanto 
di  ciò  che  è  virtuale,  quanto  di  ciò  che  contiene  in  sé  ciò  che 
è  virtuale,  vale  a  dire  l'entità  che  il  pensiero  distingue  in  esso, 
benché  in  esso  non  sia  per  sé  distinta  Ma  nel  primo  caso  si  dice; 
«questo  è  virtualmente  in  quello  «,  nel  secondo  caso:  «que- 
sto contiene  virtualmente  quello»  :  la  virtualità  del  primo  riguarda 
la  sua  propria  esistenza;  la  virlualità  del  secondo  riguarda  l'esi- 
stenza di  quello  che  Ita  in  sé,  e  che  in  sé  non  ha  un'esistenza  di- 
stinta, ma  può  averla  fuori  di  se  almeno  come  oggetto  del  pensiero. 

Di  qui  apparisce  che  non  sempre  l'avere  la  virtualità  é  un'  im- 
perfezione nel  contenente ,  ma  riguardo  al  contenuto,  l'esistenza 
virtuale,  e  relativamente  al  pensiero  che  la  pone  in  un  altro,  ò 
un'esistenza  imperfetta,  e  in  sé  poi  non  é  neppure  esistenza. 

381.  Ma  conviene  che  vediamo  le  diverse  specie  di  virlualità,  e 
così  troviamo  quando  indichi  imperfezione,  o  non  esistenza,  e 
quando  no. 

Abbiamo  distinto  due  specie  di  causa:  1."  la  causa  potenza, 
2."  e  la  causa  non  potenza. 

Ora  l'effetto  esiste  sempre  virtualmente  nella  causa. 

I.  Ma  l'cffetìo  della  causa  potenza  rimane  in  essa,  perchè  ella 
è  il  subietto  di  cui  l'effetto  è  l'atto  inerente.  Quest'atto  perfeziona 
la  causa,  perché  le  dà  un  atto  suo  proprio  che  forma  parte  di 
sé  subjetto.  Dunque  la  virtualità  della  causa  potenza  è  un'imper- 
fezione, è  mancanza  d'un'altualità  che  la  detta  causa  deve  avere 
per  essere  subietlo  in  atto.  Rispetto  poi  a  quest'atto  la  sua  vir- 
tualità è  non  esistenza  ,  perchè  fino  che  è  virtuale  non  esiste ,  se 
non  puramente  nel  pensiero  che  lo  vede  possibile.  Spogliando  la 
causa  potenza  di  tutti  allatto  i  suoi  atti,  se  n'ha  il  concetto  che 
si  sono  formato  gli  antichi  della  pura  materia,  cioè  della  mera 
potenzialità  Ora  V imperfezione  di  (piesta  causa  potenza  qui  é  spinta 
tanto  avanti,  che  è  divenuta  non  esistenza;  poiché  Va  causa  po- 
tenza senz'atto  alcuno  non  può  avere  alcuna  esistenza  in  sé,  né 
è  subietto,  a  cui  si  possano  attribuire  degli  atti,  se  non  dialet- 
tico; rimane  duìKpie  una  pura  r-ntità  di  ragione  prodotta  dall'// 
sirazione  ipotetica  {Psicol.  787  j  (1). 


(1)  Questo  concetto  pertanto  è  divei'so  da  quello  della  materia  primri 
corporea,  che  si  fa  colV astrazione  tetica,  di  cui  abbiamo  parlato  nella  Psi- 


545 

II.  Altramente  è  da  dirsi  della  causa  non  potenza. 

L'effetto  che  questa  produce  avendo  un'esistenza  propria  e  da 
sé,  separata  al  tutto  dall'esistenza  e  dall'essenza  della  causa, 
non  perfeziona  la  causa.  Così  un  uomo  è  perfettamente  uomo 
tanto  nel  caso  che  abbia  un  figlio,  quanto  che  non  labbia:  per- 
chè l'alto  dell'esistenza  del  figlio  non  è  parte  dell'alto  con  cui 
esiste  il  padre.  Se  si  concepisce  dunque  che  in  un  uomo  sia  vir- 
lualmente  un  figlio,  questa  virtualità  che  si  dà  a  quell'uomo 
non  è  una  sua  imperfezione,  non  avendo  egli  bisogno  del  figlio 
per  essere  perfetto  uomo.  All'incontro  se  si  considera  la  virtua- 
lità nel  figlio  che  è  reffetto.  il  figlio  virtuale  non  ha  esistenza 
in  sé,  e  il  solo  pensiero  lo  distingue  nella  causa:  il  figlio  vir- 
tuale dunque  non  é  altro  che  un'entità  di  ragione. 

In  questo  secondo  genere  di  cause  efficienti ,  1'  efTetto  delle 
quali  ha  un'esistenza  distinta  da  quella  della  causa,  e  non  è  egli 
slesso  l'alto  di  questa,  conviene  distinguere  dall" efletto  l'atto 
con  cui  l'effetto  è  prodotto.  Quest'atto  e  della  causa  producentc 
e  ad  essa  inerente.  Rispetto  dunque  a  quest'alto  è  ella  causa  po- 
tenza prima  di  produrlo. 

Ma  si  consideri  che  quest'atto  che  produce  l'effetto  è  tran- 
fieunle  o  permanente. 

Se  è  transeunte  .  perfeziona  la  causa  solo  in  quel  momento  ne! 
quale  egli  dura,  e  in  quel  momento  la  perfeziona  solamente  in 
quant'  é  causa  relativa  a  quell'effetto  ;  dal  che  non  ne  viene  che. 
col  cessare  quell'atto,  il  subietlo  di  quella  caus-i  rimanga  perfe- 
zionalo: che  anzi  può  il  subietto  stesso  di  poi  rimanere  indebo- 
lito e  deteriorato,  come  se  l'atto  che  produsse  l'effetto  fosse  m;il- 
vngio  (deterioramento  morale),  o  fosse  uno  sforzo  soverchio  dei 
subietto  che  lo  fa  (deterioramento  fisico). 


rologia  (788,  789),  dove  abbiamo  proposto  di  riservare  a  questa  sola  il  noiiit' 
(ti  materia  prima,  chiamando  potenzialità,  o  con  altro  simil  nome,  il  con- 
cetto d'una  causa  potenza  priva  al  tutto  de'suoi  atti.  La  materia  prima  ne! 
senso  di  forza  corporea,  spoglia  colla  mente  d'ogni  altra  sua  qualità  e  de- 
terminazione, rappresenta  un  elemento  reale,  e  però  un  reale  subielto  delle 
altre  qualità  e  determinazioni,  sia  ne' corpi  esistenti,  sia  nel  pensiero  che 
gliele  aggiunge;  perciò  l'astrazione  che  produce  quel  concetto  è  tetica  ;  lad- 
dove una  semplice  e  assoluta  potenzialità  senz'alto  alcuno  non  presenta  al- 
cun elemento  reale^  e  però  è  un  prodotto  dell'astrazione  ipotetica. 


516 

Se  poi  trattasi  di  un  alto  permanente ,  questo  può  esser  buono 
0  cattivo ,  e  così  perfezionare  o  guastare  il  subietto  della  causa  ; 
ma  la  causa  considerata  astrattamente  come  causa  relativa  al- 
l'effetto, rimarrebbe  perfezionata;  il  cbe  accade  in  lutti  gli  abiti. 

Finalmente  noi  abbiamo  supposto  che  l'atto  che  produce  un 
elFetto ,  la  cui  esistenza  è  diversa  da  quella  della  causa,  inco- 
minci; e  abbiamo  detto  che  prima  che  un  tal  atto  sia  fatto,  la 
causa  è  potenza  ad  esso.  Ora  se  l'atto  fosse  eterno,  come  accade 
in  Dio  dell'atto  creativo^  la  causa  non  sarebbe  mai  stata  po- 
tenza ,  e  solo  si  potrebbe  concepire  tale  dialetticamente  per  astra- 
zione ipotetica. 

III.  Fin  qui  abbiamo  considerata  la  causa  potenza,  e  là  causa 
non  potenza ,  e  considerate  le  due  specie  di  virtualità  loro  pro- 
prie. Queste  cause  appartengono  alla  forma  reale  subiettiva  ed 
estrasubieltiva  dell'essere,  essendo  cause  efficienti ,  ed  ogni  effi- 
cienza, ogni  azione  appartiene  all'ente  reale. 

382.  Ora  se  noi  consideriamo  l'essere  nella  sua  forma  obiettiva, 
troveremo  una  terza  specie  di  virtualità.  Questa  terza  maniera  di 
virtualità  consiste  in  questo,  che  l'intelligenza  contemplando  un 
oggetto ,  può  distinguere  in  esso  più  entità,  e  considerare  ciascuna 
di  esse  a  parte,  come  fosse  un  oggetto  da  sé. 

L'oggetto,  in  cui  ella  distingue  tali  entità  moltiplici ,  è  uno  ; 
che  altramente  non  sarebbe  un  oggetto  solo ,  ma  più.  Essendo 
dunque  uno  l'oggetto,  e  le  entità  distinte  in  esso  dalla  mente 
molte ,  la  mente  che  considerando  ciascuna  a  parte  dell'  altra 
le  separa  ,  ci  mette  del  suo  questa  separazione  che  spezza  l'unità 
dell'oggetto.  Si  dice  dunque  che  tutte  queste  entità  moltiplici,  quasi 
parti,  sono  contenute  virtualmente  nell'oggetto  uno  contemplato 
dalla  mente.  Questa  virtualità  non  suppone  necessariamente  nel- 
l'oggetto alcun'imperfezione,  non  essendo  l'oggetto  rispetto  a  que- 
ste entità  separale  dalla  mente  una  potenza  :  che  esse  non  esistono 
separate  come  un  atto  dell'oggetto  stesso,  ma  come  un  effetto 
dello  sguardo  della  mente  nell'oggetto,  cioè  della  limitazione  che 
il  subietto  pensante  pone  al  suo  proprio  sguardo.  E  bensì  vero,  che 
la  mente  per  limitare  così  il  suo  sguardo  ha  bisogno  d'aver  pre- 
sente l'oggetto  intero,  e  che  quelle  entità  le  distingue  in  questo, 
ma  la  separazione  ce  la  pone  la  mente  stessa,  è  un  effetto  di  que- 
sta sola.  È  dunque  necessario  distinguere  l'oggetto  in  sé  dalla  rela- 


517 

zione  che  l'oggetto  ha  colla  mente,  quasi  una  doppia  esistenza  del- 
l'oggetto, l'una  propria,  e  l'altra  relativa  alla  mente.  L'oggetto  in  sé, 
in  quant'ha  un'esistenza  propria,  è  uno  e  indivisibile,  e  anche  come 
tale  e  continuamente  presente  alla  mente  (Psicol.  1319  sgg.j  ; 
che  altramente  non  sarebbe  oggetto.  1/  oggetto  stesso  poi ,  in 
quant'ha  un'esistenza  relativa  alla  mente,  si  spezza  dalla  mente, 
che  vede  in  esso  molte  cose ,  separando  le  une  dalle  altre,  senza 
che  però  cessi ,  come  dicevamo,  di  rimanere  l'oggetto  in  sé  tutto 
intero  davanti  alla  mente. 

Tale  è  la  virtualità  oggettivo-mentale. 

583.  Ma  questa  si  suddivide  in  molte  classi,  e  l'averle  accurata- 
mente distinte  è  di  grand'uso  nella  Teosofia.  Ecco  qual  è  il  prin- 
cipio di  questa  sottociassifìcazione.  Abbiamo  detto  che  V oggetto 
in  cui  la  mente  dislingue  più  cose  è  uno.  Ma  l'unità  di  cui  gode 
quest'oggetto  può  esser  di  varie  sorti  :  la  diversa  natura  dunque 
d'unità  di  cui  gode  il  detto  oggetto  è  il  principio  della  sotto- 
classificazione di  cui  parliamo  ,  poiché  la  virtualità  non  é  altro 
che  «  quel  modo  d'esistenza  che  hanno  i  più  nell'uno  ».  Appli- 
chiamo questo  principio 

A),  h" oggetto  uno,  che  contiene  virtualmente  i  più,  può  es- 
sere un  oggetto  la  cui  unità  sia  dialetiica .  cioè  opera  della  nostra 
mente  o  in  tutto  o  in  parte.  In  tal  caso  le  parti  che  lo  compon- 
gono hanno  in  sé,  l'una  separata  dall'altra,  un'esistenza  vera 
ed  attu;ile;  e  la  virtualità,  cioè  il  modo  con  cui  esse  esistono 
unificate  nell'oggetto,  é  dialettica. 

Se  a  un  ammasso  di  varie  cose  noi  imponiamo  il  nome  di 
«congerie»,  abbiamo  creata  a  nostro  arbitrio  un'unità  che  non 
hanno  punto  quelle  cose  disparate:  la  parola  «congerie»  esprime 
in  tal  caso  un  oggetto  puramente  dialettico,  stante  che  la  sua 
unità  è  del  tutto  opera  della  nostra  mente.  Distinguendo  ella  e 
separando  questa  molliplicità  di  cose  nell'  unico  oggetto  detto 
«  congerie  »  ,  con  questa  separazione  non  fa  che  distruggere  l'o- 
pera sua  propria.  La  «congerie))  dunque,  come  oggetto  dialettico, 
comprende  virtualmente  tutte  quelle  singole  cose  che  esistono 
in  sé  attualmente;  e  l'oggetto,  in  cui  sono,  esiste  solo  in  modo 
relativo  all'atto  arbitrario  della  mente  che  lo  finse. 

Ma  talora  l'oggetto  dialettico  non  é  intieramente  dialettico,  cioè 
un  prodotto  arbitrario  delle  operazioni  mentali,  ma  la  sua  unità 


518 

nasce  da  un  misto  di  vincoli  reali ,  ideali,  e  morali,  i  quali  non- 
dimeno non  basterebbero  a  costituirla  pienamente  una  tale  unilìi, 
se  non  intervenisse  la  mente  con  un'operazione  dialettica  ad  ul- 
timarla, e  cosi  costituire  l'oggetto  uno.  Questo  accade  ogni  qual 
volta  l'oggelto  uno  è  composto  di  più  enti  che  esistono  da  sé 
singolarmente  presi,  come  avviene  in  una  società  di  persone,  e 
in  qualunque  organismo  di  più  enti,  per  esempio  una  macchina. 
In  questi  organismi  ci  possono  essere  de'  vincoli  reali  :  in  una 
macchina,  per  esempio,  ci  sono  le  forze  che  agiscono  reciproca- 
mente, in  una  società  ci  sono  gli  atti  reali  de'  singoli  mefnbri 
co'  quali  si  trattano  socialmente:  ci  sono  de'  vincoli  ideali,  tale 
è  il  fine  imposto  alla  società  o  alla  macchina  :  e  nella  società  ci 
sono  anche  de'  vincoli  morali ,  quali  sono  le  scambievoli  obbli- 
gazioni. Ma  se  tali  oggetti  si  concepiscono  come  aventi  unità, 
deve  intervenir  la  mente,  la  quale  aggiunga  un'operazione  dia- 
lettica ,  cioè  l'astrazione.  Perocché  l'unità  dell'oggetto  macchina 
non  si  concepisce ,  se  non  a  condizione  di  considerare  le  parti 
di  cui  si  compone  astrattamente,  cioè  solo  in  ordiìie  al  fine  della 
macchina  stessa  :  e  cosi  nella  società  la  mente  deve  considerare 
le  persone  che  la  compongono  non  semplicemente  come  uomini, 
ma  anche  aslratlanjente  come  uomini  membri  dì  qudh  società, 
come  cittadini  per  esempio  ,  se  la  società  di  cui  si  tratta  è  la 
civile.  Quando  dunque  la  mente  considera  le  parti  di  questi  or- 
ganismi dialeltiri ,  ella  considera  de'  veri  enti,  e  questi  esistono 
virlualmentc  nel!'  oggetto  unico ,  ma  in  questo  non  esistono  se 
non  come  entità  astratte;  e  però  qui  abbiamo  una  virtualità  non 
puramente  dialettica,  ma  astratta;  e  ciò  che  ha  un'esistenza  vir- 
tuale astratta  nell'oggetto  uno,  ha  un'esistenza  in  sé  reale  ed 
attuale  (-1). 

B).  C'è  un'unità  dell'oggetto  puramente  ideale.  Di  que- 
st'unità gode  l'idea  dell'essere  universale.  Quando  la  mente  di- 
stingue in  esso  più  proprietà  o  concetti  elementari  (Ideol.  o7b 
e  sgg.)  come  l'unità,  l'universalità,  ecc.,  e  considera  ciascuno 


(1)  Si  ponga  mente  che  l'intelligenza  non  avrebbe  il  potere  eli  costituire 
unità  del  tutto  o  in  parte  dialettiche  e  arbitrarie  ,  se  non  avesse  presente 
Vessere  virtuale  che  è  il  fondamento  di  ogni  unità,  e  di  ogni  unificazione, 
anche  puramente  mentale. 


TAi) 

a  parte,  ella  forma  de' concctli  dialettici  relativi  ad  essa,  e  che 
separatamente  dall'oggello,  in  cui  li  distingue,  non  esistono:  si 
dice  dunque  che  essi  hanno  un'esistenza  virtuale  nell'oggetto,  e 
un'esistenza  attuale  puramente  dialettica.  Questa  maniera  di  vir- 
tualità non  involge  alcuna  imperfezione  nell'oggetto  in  cui  si 
trova,  ed  anzi  è  una  sua  perfezione;  perchè  l'esistenza  vir- 
tuale di  tali  enti  è  un'esistenza  unita  e  semplice:  e  la  virtua- 
lità non  è  che  relativa  alla  divisione  dialettica  della  niente.  Ora 
Vanità  è  proprietà  di  perfezione,  e  la  divisione  —  e  separazione 
correlativa  — è  una  proprietà  d'imperfezione. 

Laonde  si  può  stabilire  il  principio  universale  che  «  ogni  qnal 
volta  la  parola  virtualità  non  è  che  relativa  alla  separazione, 
di  maniera  che  altro  non  esprime  che  una  separazione  virtuale, 
ella  non  importa  imperfezione,  ma  perfezione  dell'oggetto. 

C).  C'è  un'unità  dell'oggetto  ideale  e  reale.  Intendo  per 
oggetto  ideale  e  reale  quello  che  è  un  ente  che  può  sussistere 
in  sé,  e  che  può  pensarsi  anche  nell'idea.  Tali  sono  quelli  cui 
appartengono  le  specie  piene,  le  quali  essendo  pienamente  deter- 
minate, possono  servire  d'esemplare,  su  cui  si  produca  un  ente 
realmente  sussistente.  Ora  l'unità  di  quest'ente  si  può  concepire 
come  proprietà  deW  idea  piena,  o  come  proprietà  óeWente  reale. 

Laonde  del  pari  si  può  concepire  la  virtualità  nell'oggetto 
uno  come  idea,  e  nell'oggetto  uno  come  ente  reale. 

Consideriamo  Tuna  e  l'altra  virtualità. 

584.  1.  Virtù  ililà  nell'oggetto  che  ha  per  sede  la  sua  realità.  — 
L'ente  reale  ha  un'unità  reale  più  o  meno  perfetta,  che  noi  qui 
al  nostro  uopo  divideremo  in  due  gradi. 

Primo  grado  d'unità.  —  Alcuni  enti  reali,  benché  ah!)i;!no 
un  unità  reale,  pure  si  possono  dividere;  e  questa  divisione  la- 
scia sussistere  degli  altri  enti  anecra  pienamente  determinati  e 
reali. 

Secondo  grado  d'unità.  —  Alcuni  enli  reali  hanno  un'unità 
così  perfetta,  che  non  ammettono  alcuna  divisione,  non  avendo 
parti  che  possano  sussistere  da  sé  stesse  come  enti  reati  an- 
ch'esse. 

"B  ")  Enli  che  hanno  un'unità  reale,  ma  che  ammettono  divi- 
sione, d.ìlla  quide  n.iscono  altri  enti  reali. 

Non  intendiamo  ,  che  a  questi  enti  appartenga  la    pura  ma- 


520 

teria  corporea,  benché  determinala  da  una  misura  e  da  una  fi- 
gura, perchè  la  misura  e  la  figura  non  danno  alhi  materia  cor- 
porea se  non  un'unità  relativa  al  principio  senziente  che  la 
contiene  dentro  a  quell'unità  [Antropol.  Oh  sgg.)  :  l'unità  è  pro- 
pria del  principio  senziente  non  della  materia  corporea,  che  non 
è  altro  che  un  suo  termine.  È  soltanto  la  mente  quella  che  at- 
tribuisce a  un  corpo  inorganico  —  o  considerato  come  tale  —  una 
certa  unità  ,  prendendola  dalla  relazione  che  egli  ha  col  prin- 
cipio senziente.  Ma  questa  unità  è  dialettica  :>  ed  appartiene  a 
quegli  oggetti  formati  dalle  operazioni  dialettiche  della  mente 
di  cui  abbiamo  parlato.  Quindi  la  divisione  d'un  tal  corpo  dà 
degli  enti  reali,  d'ugual  natura  a  quella  del  corpo  che  si  divide, 
e  se  prima  di  dividerli  questi  si  considerano  come  virtualmente 
contenuti  nel  corpo  totale,  questa  non  è  più  che  una  virtnaUtà 
dialettica  del  secondo  genere  ,  quando  si  prescinda  ,  come  qui 
noi  facciamo,  da  ogni  virtù  organica  intrinseca  al  corpo,  nel 
qual  caso  il  corpo  apparterrebbe  agli  organici  ,  contro  la  pre- 
sente supposizione  E  dico  del  secondo  genere  ,  perchè  l'unità 
dialettica  non  è  interamente  arbitraria ,  ma  trova  un  legame 
reale  nella  relazione  del  detto  corpo  col  principio  senziente.  — 
Si  dirà  forse  ,  che  il  corpo  acquista  una  certa  unità  dall'unità 
dello  spazio  che  occupa;  ma  dell'unità  dell'estensione  parleremo 
tra  poco,  e  basta  qui  il  dire  che  anche  una  tale  unità  è  unità 
di  termine,  rèhiliva  cioè  al  principio  senziente  che  lo  contiene. 

Gli  enti  dunque  composti ,  che  hanno  un'unità  reale  e  che 
ammettono  divisione,  dalla  quale  nascono  altri  enti  reali,  sono: 
a).  Quelli  che  essendo  un'unico  principio  subiettivo  hanno 
tuttavia  de" termini  divisibili,  come  sarebbe  l'uomo,  il  quale 
colla  morte  si  divide  in  anima  intellettiva  e  corpo.  —  Questi 
due  elementi  separati  hanno  un'esistenza  virtuale  nell'uomo. 

Ora  questa  virtualitàj  con  cui  esistono  questi  elementi  nel- 
l'uomo, è  ella  un'imperfezione  dell'uomo?  0  l'esistenza  virtuale 
è  ella  un'imperfezione  di  questi  elementi  che  si  trovano  nel- 
l'uomo? —  Per  rispondere  a  queste  domande,  conviene  esami- 
nare se  i  due  enti  separati  vengano  per  mezzo  della  separa- 
zione ad  acquistare  uno  stalo  migliore  e  più  eccellente  di  quello 
che  avevano  nella  loro  esistenza  virtuale.  Ora  egli  è  manifesto 
die    il    corpo  sej)<irato  è   un  ente  di    gran    lunga    inferiore    al 


5-21 

corpo  unito  all'iinima  inlelletliva ,  e  che  l'anima  stessa  rima- 
nendo priva  del  suo  naturale  istromento  ,  ha  diminuita  la  sua 
naturai  perfezione.  Quindi  quosta  virimlilà  non  è  punto  imper- 
fezione, ma  anzi  è  una  perfezione,  riguardo  agli  enti  separali; 
riguardo  poi  all'uomo  che  nella  sua  unità  virtualmente  li  con- 
tiene, ella  è  più  che  semplice  perfezione,  perchè  è  ciò  che  co- 
stituisce la  sua  natura,  senza  la  quale  non  esiste. 

Di  qui  si  trae  questo  principio  universale:  «  Ogni  qual  volta 
dalla  divisione  d'un  ente  si  hanno  altri  enti  che  separati  hanno 
un  grado  inferiore  d'esistenza  a  quello  che  virtualmente  ave- 
vano uniti,  questa  virtualità  non  è  un'imperfezione  né  di  essi  né 
dell'ente  che  virtualmente  li  contiene  ». 

h).  Quelli  che  avendo  un  unico  principio  subiettivo, 
questo  però  si  molliplica  dividendosi  il  termine  ,  come  negli 
animali  {Antropolog.  52^»  sgg.  Psicol.  Itoli  sgg.).  Questa  divi- 
sione si  fa  in  più  modi,  secondo  i  quali  ['esistenza  ^urluale  degli 
enti  separati  cangia  di  natura. 

i."  Si  fa  senza  sciogliersi  il  primo  ente,  come  per  generazione 
e  produzione.  —  In  tal  caso  Tente  generalo  o  prodotta,  prima 
non  ha  nessuna  esistenza  nel  generante  o  producente ,  e  in  sua 
vece  non  c'è  che  la  causa  efficiente  di  produrlo  o  di  generarlo. 
Tale  efficienza  è  un  pregio  dclli  natura  dell'ente  che  la  pos- 
siede: l'effetto  poi  non  é  un  alto  di  quella  causa,  onde  rispetto 
a  questo  effetto  non  si  può  dir  potenza  nel  senso  da  noi  definito. 
È  però  potenza  dell'atto  della  generazione  o  produzione ,  ma 
transeunte,  e  che  momentaneamente  perfeziona  la  causa  come 
causa,  ma  non  però  il  subielto  della  causa,  che  da  questa  è  di- 
stinto. Il  generato  poi ,  quando  esiste,  esiste  attualmente  con  di- 
versi gradi  di  perfezione  successiva  ,  ma  né  pur  allora  la  sua 
esistenza  è  virtuale ,  esistendo  d'esistenza  propria. 

Ogni  qual  volta  dunque  da  un  ente  reale  ne  nasce  un  altro, 
senza  che  si  sciolga  il  primo,  non  si  dà  virtualità,  ma  solo  po- 
tenza ,  nella  quale  lutt'al  più  si  può  concepire  una  virtualità  dia- 
lettica ideale. 

2.**  Si  fa  sciogliendosi  il  primo.  —  Se,  sciogliendosi  in  parie 

un  corpo,  animato  da  un  solo  princii)io,  ne  nascono  più,  ciascuno 

animato   dal  suo   principio ,   questi   esistevano  virtnalmente  nel 

primo;  ma  nel  primo  esistevano  in  un  modo  jììù  perfetto  ed  emi- 

UosMiNi.  Teosofia.  21 


32-2 

nente;  e  però  la  mlaalilà  era  una  perfezione  per  riguardo  all'  in- 
tero corpo  animalo:  quanto  poi  ai  corpi  animati  parziali,  essi  anche 
uniti  al  tutto  possono  avere  una  certa  individualità  imperfetti , 
ma  non  sono  lilicri  di  sciogliersi  per  conto  proprio.  Ed  essendo 
varie  le  condizioni  loro,  sarebbe  al  nostro  scopo  supeifluo  entrare 
nella  ricerca  della  loro  classificazione  e  determinare  i  gradi  di 
perfezione  o  d'imperfezione  che  hanno  vivendo  nell'organismo 
maggiore.  Divisi  poi ,  essi  possono  in  appresso  acquistare  cia- 
scuno la  perfezione  del  primo  ;  ma  questa  perfezione  soprag- 
giunta non  appartiene  al  confronto  che  noi  facciamo  tra  l'esi- 
stenza virtuale  delle  parti  ,  coH'esistenza  propria  di  ciascuna 
di  queste. 

2,")  Enti  reali  che  hanno  un'unità  reale,  ma  che  non  am- 
mettono divisione  reale. 

Questi  enti  semplici  non  essendo  suscettivi  di  alcuna  divisione 
reale  ,  non  contengono  in  sé  virlualmenle  altri  enti  reali.  Non 
ammettono  dunque  altro  che  una  virtualità  ideale;  cioè  a  dire  la 
sola  mente  è  quella  che  può  trovare  in  essi  più  cose  virtualmente 
comprese,  in  quanto  esistono  non  solo  in  sé,  ma  anche  relativa- 
mente alla  mente.  Passiamo  dunque  a  considerare  la  virtualità 
nell'oggetto  uno  come  idea,  cioè  come  idea  specifica  piena  a  cui 
(jnell'ente  reale  che  abbiamo  detto  in  se  slesso  indivisibile  (1) 
corrisponde;  poiché  della  virtualità  appartenente  airoggetto  pura- 
mente ideale,  cioè  all'essere,  abbiamo  parlalo  B). 

o8J>.  11.  Virlualilà  nell'ocjgcllo,  che  ha  per  sede  la  sìia  idea- 
lità.—  L'idea  specifica  piena  non  è  un  ente  dialeltico,  perchè 
ha  bensì  esistenza  solo  nella  mente,  ma  non  è  formata  dalle  ope- 
razioni e  dall'arbitrio  della  mente,  ma  ha  una  certa  necessità  ed 
un'unità  sua  propria.  Si  domanda  dunque  qual  è  la  sua  virtua- 
lità? quali  entità  ella  virtualmente  contiene? 

Si  risponde  ch'ella  virtualmente  contiene  :   I.o  delle  entità  dia- 


(1)  fi'idea  specifica  piena  d'un  ente  reale,  divisibile  realmenfe,  rappresenta 
anclie  la  divisiliilità ,  riducendosi  in  più  idee  specilìclie  piene  che  trovansi 
nel  reale.  I^a  virtualità  dunque  clie  si  scorge  in  queste  idee  composte  di  più 
specie  piene  risiede  nel  reale,  di  cui  abbiamo  parlato,  e  nell'idea  si  riflette. 
Ma  le  specie  piene  che  rappresentano  un  reale  indivisibile  hanno  quella 
doppia  divisibilità  e  virtualità  menlale  di  cui  noi  qui  ora  trattiamo. 


lelticlie,  2.°  delle  altre  idee  specifiche  '  piene  informi.  Ella  ha 
dunque  una  duplice  virtualità.  Ma  come  quelle  entità  si  trovano 
in  essa  e  si  separano  dalla  mente? 

Mediante  due  operazioni',  che  chiameremo  Vaslrazione  e  Vìdea- 
-ione:  V  nalrazione  trova  le  entità  dialettiche  che  virtualmente 
si  contengono  nella  detta  specie  piena;  V  ideazione  vi  trova  vir- 
tualmente contenute  delle  specie  piene  informi^  ch'ella  slessa  poi 
forma  nel  modo  che  diremo. 

380.  {/astrazione  o  analisi  formale  (Logic.  aUì-aì7)  produce 
tutti  gli  astratti  che  sono  virtualmente  compresi  nella  specie  piena, 
cioè  la  specie  astratta,  e  tutti  i  generi  tanto  sostanziali,  quanto 
accidentali ,  o  di  relazione,  che  sieno  puramente  astratti  e  non 
specie  piene  anch'essi  [Ideol.  ùoù  ,  QoQ):  questi  sono  virtual- 
mente couìpresi  nella  specie  piena  ,  e  una  tale  virluaìilà  della 
specie  piena  non  è  un' imperfezione  ,  ma  una  sua  perfezione,  e 
l'esistenza  virtuale  di  questi  astratti,  anche  rispetto  ad  essi,  è 
più  perfetta ,  che  non  sia  la  loro  esistenza  separata  davanti  alla 
mente,  come  abbiamo  detto  dell'essere  B). 

I  puri  astratti  sono  entità  dialettiche ,  perchè  non  possono  es- 
sere realizzate,  e  non  possono  esistere  neppure  nella  mente, 
senza  che  questa  tenga  presente  quel  tutto  che  li  contenga  e  in 
cui  li  veda,  appartenendo  essi  al  pensare  parziale  ( Psicol. 
1319  sggj. 

Ma  se  noi  consideriamo  questo  lavoro  d'astrazione  nell'ordine 
suo  naturale  progressivo ,  che  consiste  nel  levare  prima  le  de- 
terminazioni meno  comuni  della  specie  piena  e  poi  di  mano  in 
mano  le  più  comuni  ,  noi  possiamo  distinguere  ciò  che  si  leva 
da  essa,  e  ciò  che  resta.  Tutto  ciò  che  si  leva  appartiene  cer- 
tamente alle  entità  puramente  dialettiche.  Ma  quando  dividendo 
abbiamo  levato  tutto  coU'astrazione ,  in  maniera  che  non  ci  resta 
più  nulla  da  dividere  e  da  levare,  ma  ci  resta  solo  l'ultimo  sem- 
plicissimo fondamento  della  detta  specie,  che  non  ammette  in 
sé  divisione,  togliendo  il  quale,  non  c'è  più  rimanenza  di  sorte  ; 
quando  in  una  parola  siamo  rimasti  colla  pura  idea  dell'essere, 
allora  quest'ultima  rimanenza  non  è  più  un'entità  puramente  dia- 
lettica,  appimto  perchè  è  l'essere  slesso,  ma  è  la  pura  idea  della 
cui  virtualità  abbiamo  già  fatto  cenno  B).  Poiché  l'essere  non  è 
già  una  specie  che  non  possa  esistere  da  sé,  ma  anzi  è  tale  che 


324 

necessariamente  da  sé  snlo  e  senza  aggiunla  ,  che  non  abbia  nei 
suoi  visceri,  siissisle. 

Né  punto  si  può  dire  che  l'essere  esista  virtualmente  nella 
specie  piena ,  ma  è  vero  il  contrario  che  la  specie  piena  è  vir- 
tualmente neiressere  :  porche  l'essere  è  l'atto  stesso  pel  quale  la 
specie  piena  ed  ogni  altra  entità  è. 

CoW astrazione  dunque  si  trovano  nelle  specie  piene,  che  rap- 
presentano enti  reali  indivisibili  ,  le  entità  dialettiche  in  esso  vir- 
tualmente contenute  :  ma  la  rimanenza  che  lascia  nel  fondo  que- 
sto lavoro,  non  è  un'entità  dialettica,  ma  l'idea  pura,  l'essere 

387.  Veniamo  al  lavoro  dell'ideazione. 

Ideazione  chiamiamo  quella  funzione  della  mente,  per  mezzo 
della  quale  nella  specie  piena  d'un  ente  indivisibile,  o  conside- 
rato come  indivisibile  (\),  ella  trova  altre  specie  piene,  non 
perchè  si  comprendano  in  essa  belle  e  formate,  ma  perché  si 
contengono  in  essa  i  loro  rudimenti ,  de'  quali  la  mente  ser- 
vendosi ,   poi  le  forma. 

Questo  avviene  quando  la  mente  riguardando  in  un  ente,  con- 
cepisce un  altro  ente  contenuto  implicitamente  nel  primo.  A  ren- 
der più  chiaro  questo  fatto  ontologico  si  consideri  primieramente 
ehe  non  !u!te  le  specie  piene  hanno  necessariamente  delle  specie 
astratte,  perche  non  tutti  gli  enti  sono  composti  di  sostanza  e 
d'accidente  :  di  questi  due  elementi  non  è  composto  lo  spazio,  non 
è  composto  Iddio.  Tuttavia  molte  di  esse  rappresentano  una  so- 
stanza a  cui  risponde  la  specie  astratta,  e  degli  accidenti.  L'idea- 
zione dunque  talora  s'esercita  rispetto  a'  soli  accidenti,  talora  ri- 
spetto all'ente  intero  :  chiameremo  l'una  ideazione  accidentale, 
l'altra  ideazione  enti  fica. 

L'ideazione,  qualunque  sia,  non  s'esercita  mai  sugli  enti  reali 
come  tali  ,  ma  sulle  loro  specie  e  più  generalmente  sull'oggetto, 
come  oggetto  relativo  alla  mente. 

Conviene  adunque  segregare  quella  virtualità  che  appartiene 
all'ente  reale,  come  reale  subiettivo  od  estrasubiettivo,  la  quale 


(1)  Diciamo  «  d'un  ente  indivisibilo  o  considerato  come  indivisibile  »  , 
perchè  anctie  sopra  un  ente  composto  e  divisibile,  la  menie  può  esercitare 
V ideazione;  ma  in  tal  caso  l'ente  non  si  divide,  e  però  si  considera  come  un 
lutto  indivisibile. 


525 

non  appartiene  aW  ideazione,  e  della  quale  abbiamo  già  parlato. 
A  ragione  d'esempio,  non  è  la  funzione  dell'ideazione  che  trova 
quella  virtualità  che  giace  nell'ente  reale  come  in  causa  potenza. 
Il  bambino  contiene  certo  virtualmente  quegli  accidenti  quanti- 
tativi 0  qualificativi  che  acquisterà  facendosi  uonio^  e  medesima- 
mente contiene  virtualmente  la  mancanza  di  tutti  quelli  che  perde 
nella  sua  vita:  tutti  questi  sono  in  lui  virtualmente  come  in  causa 
potenza.  L'esistenza  virtuale  di  questi  atti  effetti  ,  se  sono  per- 
fettivi della  causa  potenza,  è  un' imperfezione  di  questa  causa, 
come  abbiam  dello ,  e  riguardo  ad  essi ,  ella  è  una  non  esistenza. 
A  questi  non  riguarda  l'ideazione.  Vediamo  dunque  qual  è  l'og- 
getto dell'ideazione  accidentale. 

388.  Essa  riguarda  quegli  accidenti  che  non  esistono  nell'ente 
reale  come  in  causa  potenza  ,  ma  che  si  trovano  dalla  mente  ri- 
guardando nella  specie  piena  del  medesimo,  il  che  accade  appunto 
ogni  qualvolta  neW  ente  reale  rappresentato  dalla  specie  non  c'è 
la  causa  potenza  di  essi  o  da  questa  si  prescinde.  Onde  conce- 
piti tali  accidenti  dalla  mente,  affinchè  sieno  posti  in  atto  e  fatti 
esistere  in  sé ,  ci  vuole  un'altra  causa  ;  vedesi  questo  ne'  corpi 
inorganici,  che  non  hanno  virtù  come  tali  di  modificarsi  ,  o  ne- 
gli organici ,  rispetto  a  tutti  quelli  accidenti  a  cui  non  si  estende 
la  loro  potenza.  Così  quando  lo  scultore  riproduce  la  stessa  statua 
sopra  una  scala  maggiore  o  minore,  nella  nova  statua  c'è  il  tipo 
della  prima  ,  ma  con  diverse  dimensioni.  La  statua  in  sé  stessa 
non  aveva  virtù  d'impicciolirsi  o  d'ingrandirsi,  non  esisteva  dun- 
que la  nova  statua  in  essa  come  in  causa  potenza.  L'appiccioli- 
mento  o  l'ingrandimento  della  statua  fu  dunque  fatto  dallo  scul- 
tore sulla^s/;6'c/t;  piena,  e  non  sulla  statua  reale.  Modellata  poi 
così  la  statua  idealmente ,  ci  volle  un'  altra  causa  efficiente  per 
farla  sussistere,  cioè  la  mano  dell'artista,  e  un'altra  causa  ma- 
teriale cioè  un  altro  ceppo  di  marmo  (1).  Nella  specie  piena  dun- 
que della  prima  statua  esisteva  virtualmente  la  specie  piena  della 


(1)  Se  lo  stesso  marmo  della  prima  statua  si  fa  servire  alla  seconda  ,  for- 
mandosi' la  seconda  colla  distruzione  delia  prima  ,  non  si  può  più  dire  che 
l'una  esista  nell'altra  virtualmente,  ma  solo  che  la  specie  dell'una  esiste  vir- 
tualmente nella  specie  dell'altra ,  perchè  la  prima  statua  è  distrutta  quando 
esiste  la  seconda,  ma  le  specie  non  si  distruggono. 


526 

statua  prima,  diversa  solo  nelle  dimensioni ^  ma  in  lutto  il  re- 
sto uguale;  e  per  questo  solo  si  dice  che  «la  statua  seconda» 
esiste  virtualmente  nella  prima. 

389.  Ora  consideriamo  questo  lavoro  nella  mente  dell'artista,  e 
vediamo  quali  accidenti  della  specie  piena  della  prima  statua 
abbia  trasportalo  nella  seconda  ,  e  quali  no.  Supponiamo  la 
prima  statua  di  dimensioni  maggiori ,  la  seconda  di  dimensioni 
minori. 

Egli  e  chinro  che  tulli  gli  accidenti  della  forma  che  sono 
nella  prima  statua,  sono  identici  nella  seconda:  rispello  a  que- 
sti nessuna  ideazione  è  stala  falla.  Questa  dunque  si  riduce 
tutta  all'accidente  della  grandezza:  questa  sola  è  stala  variala. 
Ora,  come  la  figura  di  uìinor  grandezza,  qual  si  vede  nella  se- 
conda statua,  si  contiene  virtualmente  nella  figura  di  grandezza 
maggiore,  qual  si  vede  nella  prima  statua?  Non  si  contiene 
certamente  bell'e  formata.  Che  cosa  dunque  c'è  nella  statua 
maggiore  ,  j)er  cui  si  possa  dire  che  la  figura  minore  ci  sia 
implicita?  Ci  sono  tulli  gli  elementi  necessari  alla  mente  per 
formarla,  vale  a  dire:  1.°  c'è  l'estensione,  di  cui  si  possono  colla 
mente  diminuire  i  limili;  2."  c'è  la  i\'gola  direttiva  della  mente 
a  poter  ideare  nell'estensione  la  figura  minore,  e  questa  regola 
è  la  proporzione  delle  parti.  Per  questo  dicevamo  che  nella 
specie  piena  maggiore  c'è  h  specie  piena  minore,  ma  informe: 
e  per  inforinc  intendiamo,  che  non  c'è  in  quella  propriamente 
questa  specie  ,  ma  ci  sono  gli  elementi  necessari  alla  mente 
per  formarla,  tanto  l'elemento  maleiiale  ricettivo,  quanto  la 
regola,  secondo  cui  trovare  la  forma  che  si  vuol  dare  a  questo 
elemento  (1). 


(1)  Nella  sola  materia  non  c'è  né  pur  virtualmente  la  forma,  perchè  non 
c'è  alcuna  regola  che  conduca  la  mente  a  trovarla.  Di  qui  la  necossilà  che 
la  mente  riceva  o  abbia  ogni  forma  in  un  ente  reale  formato,  sia  che  questo 
abbia  già  la  forma  che  si  cerca,  sia  che  n'abbia  un'altra  che  somministri 
le  regole  per  trovarla.  Quando  dunque  Leibnizio  disse  che  in  un  ceppo  di 
marmo  esiste  virtualmente  la  statua,  non  s'accorse  che  la  forma  della  statua 
era  nel  marmo  a  condizione  che  ci  avesse  una  mente,  la  quale  possedendo 
ella  stessa  la  forma,  la  imponesse  al  marmo;  il  che  non  è  essere  né  attual- 
mente ne  virtualmente  la  statua  nel  marmo.  Né  pure  nello  spazio  puro  <  i 
sono  virlualuicnte  gli  spazi  limitati,  per  esempio,  le  ligure  geometriche  che 


527 

Noi  abbiamo  fin  qui  dfscrilta  Videazione  accidentale  per  ri- 
guardo ad  un  solo  accidente  quantitativo ,  cioè  quello  della 
grandezza. 

Ora  dobbiamo  osservare  di  più  in  generale,  che  l'id.fazione 
cade  sopra  un  solo  genere  d'accidrntì  alla  volta,  perchè  gli  ac- 
cidenti separati  dalla  sostanza  non  hanno  unità  tra  loro,  e  l'uno 
non  è  virtualmente  contenuto  nell'altro,  benché  tutti  sieno  vir- 
tualmente contenuti  nella  sostanza:  solamente  dunque  uno  stesso 
genere  prossimo  d'accidenti  può  contenere  virtualmente  più 
specie  piene  d'accidenti,  dall'una  delle  quali  la  mente  coH'idea- 
zione  passa  all'altra.  Quindi  nclia  grandezza  della  statua  ,  non 
si  contiene  virtualmente  il  colore,  o  le  qualità  della  materia  ecc. 
Conviene  dunque  in  generale  stabilire  questa  regola  che  «  una 
specie  piena  accidentale  si  contiene  virtualmente  in  un'altra  , 
quando  in  quella  la  mente  trova  una  regola  per  formarsi  questa  », 
e  ciò  accade  quando  le  specie  i)iene  accidentali  appartengono 
allo  stesso  genere  jìrossimo. 

390.  Dicevamo  che  gli  accidenti,  se  si  dividono  per  astrazione 
dalla  sostanza  ,  rimangono  slegati  tra  loro,  e  quindi  Videazione 
non  si  può  laro,  se  non  sopra  un  genere  jìrossimo  d'accidenti  alla 
volta,  quando  si  considerino  divisi  dalla  loro  sostanza.  Ma  se 
si  considerano  esistenti  in  questa,  si  può  fare  su  molli  e  su  tutti 
insieme:  ed  ecco  come. 

La  cognizione  perfetta  d'una  sostanza  imporla  che  si  conoscano 
tutti  i  possibili  accidenti,  di  cui  ella  è  suscettiva,  sieno  perfet- 
tivi 0  deteriorativi  di  essa  o  indifferenti.  Quindi  nella  cognizione 
perfetta  della  sostanza  la  mente  ha  la  regola  —  che  è  lo  stesso 
concetto  perfetto  della  sostanza  —  per  ideare  tutti  gli  accidenti 
di  cui  ad  essa  piaccia  rivestirla:  e  però  «  tutti  gli  accidenti  si 
contengono  virtualmente  nel  concetto  perfetto  della  sostanza  ». 


si  disegnano  in  esso  col  pensiero  :  ma  ogni  limitazione  e  figura  disegnata 
nello  spazio  procede  da  un  reale  attivo,  sia  ctie  questo  reale  occupi  una  por- 
zione dello  spazio  ed  abbia  egli  stesso  la  figura  come  i  corpi  ,  sia  che  esso 
sia  la  monte  la  quale  o  abbia  già  le  ligure  presenti  alla  sua  i'maginativa,  o 
abbia  le  regole  per  formarle.  Ma  poiché  data  la  mente  così  disposta  ,  lo 
spazio  e  la  materia  corporea  è  suscettiva  di  tali  figure,  si  può  dir-;  che  essi 
n'abbiano  non  la  vii'tualità,  ma  la  recettività  o  la  suscettività. 


528 

Ora  questa  esistenza  degli  accidenti,  nel  concetlo  astratto  della 
sostanza,  è  un'imperfezione  della  sostanza  stessa,  perchè  gli  ac- 
cidenti così  considerali  hanno  quella  virtualità,  che  giace  nella 
causa  potenza  ,  tale  essendo  la  soslanza  relalivamente  agli  ac- 
cidenti ch'ella  non  ha  in  atto. 

Ma  questa  cognizione  perfetta  della  sostanza  non  è  data  al- 
l'uomo. L'uomo  conosce  solo  imperfellamente  la  sostanza  ,  e 
quest'imperfezione  della  cognizione  della  sostanza,  che  è  una 
specie  astratta,  mette  un  limile  a  queW  ideazione  dell'uomo, 
per  la  quale  la  mente  passa  dal  concetto  della  sostanza  a  ideare 
quegli  accidenti  che  le  aggradano. 

Or  prima  di  passare  ad  esporre  la  dottrina  intorno  all'  idea- 
zione entica,  dobhiamo  far  cenno  di  due  questioni  intimamente 
connesse  colle  cose  delle. 

59i.  Abbiamo  supposto  che  la  statua,  in  cui  la  mente  ne  vede 
un'altra  per  mezzo  dell'ideazione,  fosse  più  grande,  e  quest'altra 
più  piccola;  e  abbiamo  spiegato  come  questa  più  piccola  sia 
virtualmente  contenuta  nella  più  grande.  Facciamo  ora  la  sup- 
posizione contraria:  la  statua  più  grande  può  ella  dirsi  virtual- 
mente contenuta  nella  più  piccola? 

Rispondiamo  affermativamente,  ed  ecco  il  perchè.  La  regola 
per  trovare  la  figura  più  piccola,  è  la  proporzione  delle  parti: 
questa  regola  vale  tanto  per  trovare  una  figura  più  piccola  , 
quanto  per  trovare  una  figura  più  grande,  —  Ma  non  manca 
la  materia?  che  l'estensione  minore  sia  virtualmente  compresa 
nella  maggiore  s'intende,  ma  non  viceversa. —  Rispondiamo  a 
questa  obiezione,  che  nell'estensione  continua,  e  illimitata,  non 
c'è  virtualmente  compreso  alcun  limite,  perchè  non  appar- 
tiene il  limite  all'estensione  come  estensione,  ma  a  qualche 
cosa  di  diverso  dairestensione  ,  al  corpo  sensibile  o  all'imagi- 
nazione della  mente.  L'estensione  limitata  altro  non  è  dunque 
se  non  una  relazione  tra  il  sensibile  e  Teslensione  illimitata. 
Ora  nella  statua  piccola  c'è  l'estensione  e  il  limite  ,  e  quindi 
c'è  l'eslensione  limitata.  In  un'estensione  limitata  poi  c'è  vir- 
tualmente compresa  ogni  altra  estensione  più  o  meno  limitata: 
ed  ecco  perchè.  Nessuna  estensione  limitata  è  concepibile  se 
non  a  condizione  che  sia  concepita  l'estensione  illimitata  (4w 
tropol.   1'j9,  ÌM>-I7k):  questo  nasce  dalla  natura  dell'estensione, 


529 

che  essendo  il  siibietto  de' limiti,  deve  precedere  nel  pensiero 
qualunque  limile  che  la  circoscriva.  Data  dunque  l'estensione 
illimitata  nella  mente  e  insieme  con  essa  data  anche  una 
estensione  limitata,  è  chiaro  che  la  mente  può  prender  questa  o 
una  parie  di  questa  ,  piccola  quanto  si  voglia  ,  come  un'unità 
di  misura:  trovata  quest'unità  di  misura,  che  le  abbisogna,  ella 
può  misurare  con  essa  qualunque  porzione  dell'estensione  illi- 
mitata ,  che  ha  presente,  e  così  formarsi  davanti  all'imagina- 
zione intellettiva  qualunque  grandezza  le  piaccia,  o  piccola  o 
grande.  Affine  dunque  di  spiegare  come  la  mente  da  un'esten- 
sione |)iecola  possa  passare  a  un'estensione  grande,  basta  spiegare 
com'ella  possa  replicare  ,  quanto  basta  ,  quell'unità  di  misura. 
Ma  questo  è  spiegato  coli' idea  del  possibile  ,  che  è  la  forma 
dell'intelligenza  {Ideol.  821,  823).  La  differenza  dunque  che 
passa  tra  l'operazione,  colla  quale  la  mente  va  da  un'estensione 
grande  a  un'estensione  piccola,  e  quella  colla  (juale  va  da  una 
|iiccola  ad  una  grande,  si  è  che  nel  primo  caso  deve  levare, 
ne!   secondo   aggiungere. 

Si  dirà  che  nell'operazione  del  levare,  quello  che  resta,  cieè 
restensi{»ne  piccola,  c'era  già;  ma  in  quella  dell'aggiungere,  l'e- 
stensione aggiunta  non  c'era,  ma  la  mente  dovea  prenderla  al- 
trove. —  Vero,  ma  vediamo  dove  la  mente  prenda  questa  quantità 
d'estensione  che  aggiunge.  Non  ha  già  bisogno  di  prenderla  da 
qualche  altra  estensione  limitata,  che  a  lei  sia  data  dal  senso. 
Le  basta  ,  a  trovarla  ,  quella  misura  che  ha  trovato  nell'esten- 
sione minore;  poiché  ella  ha  la  facoltà  di  replicare  indefinita- 
mente quella  misura  ,  o  prendere  per  misura  una  parte  di 
questa  ,  e  replicarla  quanto  le  aggrada.  E  ciò  perchè  a  far 
questo  non  s'esige  se  non  i  due  elementi:  1.°  dell'estensione 
interminata  ;  2."  e  di  limiti  atti  a  circoscriverla.  Dati  questi 
elementi,  l'intelligenza  può  col  concetto  de' limiti  circoscrivere 
l'estensione  interminata  a  sua  volontà.  Ora  l'estensione  inter- 
minata è  data  al  principio  sensitivo  qual  primo  suo  termine  o 
forma  terminativa  ,  come  abbiamo  dimostrato  nell'Antropologia 
e  nella  Psicologia  {Psicol.  554-5.^9).  Il  concetto  del  limite  poi 
è  dato  nella  statua,  qualunque  questa  sia,  piccola  o  grande,  o 
da  qualunque  altro  corpo  limitato.  La  mente  dunque  ingran- 
disce  0   impiccolisce    l'estensione   limitata    a    suo    piacimento  , 


530 

senza  aver  bisogno  di  prender  la  quantità  di  questo  ingrandi- 
mento 0  impiccolimento  da  alcuna  cosa  esterna.  Come  dunque 
la  statua  piccola  era  virtualmente  nella  grande ,  così  la  statua 
grande  era  virtualmente  nella  piccola  ;  poiché  questa  virtualità 
non  consiste  nell'essere  l'estensione  piccola  nella  grande  ,  che 
questa  non  è  virtualità  ,  non  essendovi  punto  il  piccolo  nel 
grande  continuo ,  appunto  perchè  è  continuo  ,  e  non  ha  in  sé 
divisione  né  distinzione;  ma  consiste  nel  somministrare  alla 
mente  il  concetto  di  limite  atto  a  circoscrivere  l'estensione ,  e 
quello  d'una  figura  determinala;  e,  il  passaggio,  è  la  mente  che 
lo  fa  da  specie  a  specie,  trovando  in  una  specie  j)iena  l'altra 
specie  piena  ancora  informe,  intendendo  noi  per  specie  informe 
gli  elementi  da  comporre  la  specie,  i  quali  sono,  come  dicevamo, 
il  limite  e  la  figura.  La  virtualità  dunque  di  cui  parliamo  sta 
propriamente  nella  specie  della  statua,  e  non  nella  statua  ma- 
teriale; ma  questa  virtualità  si  predica  posteriormente  anche 
della  statua ,  ptTchè  la  statua  somministra  alla  mente  gli  ele- 
menti co' quali  ella  si  compone  l'altra  specie  con  quella  opera 
zione  che  abbiamo  chiamata  ideazione. 

592.  E  qui  ci  si  presenta  la  seconda  questione  di  cui  dicevamo 
dover  noi  far  menzione,  ed  è  «  se  la  i>irtualilà  e  quindi  Videa- 
zione  ci  sia  anche  rispetto  alle  specie  astratte  e  in  generale 
rispetto  alle  idee  che  hanno  un'estensione  maggiore  di  quella 
della  specie  piena  ». 

Rispondiamo  che  per  ideazione  intendiamo  quella  funzione,  per 
la  quale  la  mente  si  forma  una  specie  piena  che  non  le  è  data 
dalla  percezione  intellettiva. 

Ora  per  costituire  una  nova  specie  piena  (sia  che  la  novità 
della  stessa  cada  sui  soli  accidenti  ,  sia  che  cada  sull'ente 
slesso),  è  necessario  che  la  mente  n'abbia  lutti  gii  elementi,  e 
ninna  mente  può  creare  questi  elementi ,  ma  deve  trovarli  in 
qualche  ente  reale  ^  che  percepito  o  comechessia  avuto  nella 
sua  intelligenza  ,  dia  a  questa  la  specie  piena  di  sé.  Poiché 
questi  elementi  sono  :  4 .°  la  realità  i)ensata  ,  cioè  quel  dato 
genere  di  realità  di  cui  la  nova  specie  piena  si  deve  comporn  : 
2  °  una  regola,  secondo  la  quale  la  mente  possa  trovare  le  de- 
terminazioni 0  limiti  di  questa  realità.  Né  l'uno  né  l'altro  di 
questi  due  elemenli  possono  esser  creati,  ma  devono  esser  tolti 


55  i 

da  un  reale,  esislcnle  alla  mente  ,  che  è  quello  di  cui  si  dice 
che  contiene  virtualmente  la  nova  specie  informe ,  perchè  ne 
somministra  appunto  alla  mente  gli  elementi  con  cui  ella  poi 
forma  la  nova  specie.  Ma  l'uno  e  l'altro  di  questi  elementi  non 
sono  altro  che  concetti  astratti  ,  che  la  mente  toglie  dall'ente 
reale  da  lei  conosciuto.  In  questi  concetti  astratti  insieme  presi 
esiste  dunque  virtualmente  la  specie  j)iena  ,  che  poi  la  mente 
si  forma  con  essi.  E  veramente  non  è  egli  un  astratto  il  cor. 
cotto  0  illimitato  o  generica  di  realità?  non  è  astratto  il  con- 
cetto d'un  dato  genere  di  limili  o  di  determinazioni  di  cui  è 
suscettiva  quella  realità  generica  di  cui  si  tratta?  Nell'ideazione 
dunque  ci  ha  questo  processo  che:  1."  ci  sia  la  specie  piena  o 
l'ente  reale  percepito  o  comechessia  avuto  dalla  mente;  2."  che 
la  mente  astragga  da  essa  gli  elementi  necessari  per  comporre 
la  nova  sjjccie,  nel  complesso  de' quali  elementi  la  nova  specie 
è  contenuta  virtualmente;  3."  che  la  mente  componendo  tali 
elementi  idei  la  nova  specie. 
Dal  qual  processo  si  scorge: 

\ .°  Che  r  idea  astratta  non  si  può  concej)irc  se  non  sia  pre- 
ceduta dall'idea  specifica  piena,  onde  la  mente  l'astrae,  per  cui 
l'idea  astratta  esiste  virtualmente  nella  specie  piena; 

2.0  Che  in  una  sola  idea  astraila  non  può  esistere  virtual- 
mente nessuna  specie  piena,  ma  questa  può  esistere  in  più  id(!e 
astratte  insieme  prese,  cioè  in  quel  complesso  d' idee  astratte, 
che  somministra  alla  mente  tutti  gli  eletnenti,  sebbene  ancor  se- 
parati ,  co'  quali  ella  si  può  comporre  un'altra  idea  piena  ; 

5."  Che  la  nova  idea  piena  si  forma  sempre  dalla  mente  tra- 
endola  prossimamente  da  questo  complesso  d'idee  astratte,  nel 
quale  è  virtualmente  compresa. 

393.  Ma  si  tornerà  a  dimandare,  «se  in  una  sola  idea  astratta 
possano  esser  comprese  virtualmente  altre  idee? 

Hispondiamo  di  sì ,  e  diremo  tosto  in  quai  casi;  ma  il  trovare 
h  idee  che  virtualmente  sono  comprese  in  altre  idee  non  si  fa 
con  quella  funzione  che  abbiamo  chiamato  ideazione,  ma  colla 
senijìlice  analisi,  o  colla  sintesi:  eccone  i  casi. 

\ ,°  CoH'anaìisi  furmale  ,  ossia  coll'astrazione  si  spezzano  le 
idee;  e  le  parli  clic  se  ne  fanno,  sono  altrettanti  concetti  astraiti 
che  erano  viitualmonle  contenuti  nell'idea  che  per  astrazione  si 


532 

è  spezzata.  Quindi,  a)  nell'idee  di  maggior  comprensione  si  pos- 
sono trovare  colla  mente  le  idee  di  minor  comprensione  e  di  più 
estensione:  queste  erano  virtualmente  contenute  in  quelle;  h)  le 
differenze  di  queste  idee  S'mo  anch'esse  concetti  astratti  ,  sono 
il  contenuto  dell'idea  prima  diviso  per  astrazione  :  onde  le  idee 
semplici  sono  virtualmente  contenute  nelle  idee  composte,  ecc. 
'■2.°  Il  concetto  d'una  misura  determinata  è  un'astratto,  ben- 
ché la  misura  sia  determinata,  perchè  è  divisa  dal  misurato. 
Ma  quest'idea  suppone  sempre  nella  mente  un  misurabile  il  quale 
non  sia  astratto,  ma  bensì  infinito;  perocché  se  fosse  finito,- già 
sarebbe  misuralo .  e  si  suppone  solo  misurabile.  Stante  dunque 
questo  rapporto  del  concetto  astratto  d'una  misura  determinata , 
con  un  concetto  non  astratto  del  misurabile  infinito,  avviene  che 
questa  misura  si  possa  replicare  quante  volte  si  voglia  applican- 
dola al  detto  misurabile,  e  la  replicazione  somministra  del- 
l'altre misure  determinate  che  sono  pure  concetti  astratti  conte- 
nuti nella  prima  misura.  Atteso  dunque  questo  misurabile  injinilo 
sempre  presente  alla  mente,  una  misura  determinata  qualunque 
contiene  virtualmente  qualunque  altra  misura.  Ma  questa  virtua- 
lità di  una  misura  in  ogni  misura  concepita  dalla  mente  non  giace 
nella  misura,  precisa  dal  misurabile,  ma  , dipende'  dalla  coesi- 
stenza nella  mente  della  misura  e  del  misurabile,  e  dal  sintesismo 
di  queste  due  idee,  l'una  astratta  l'altra  no,  per  così  fatto  modo 
che  non  si  può  intender  l'una  separata  affatto  dall'altra.  Il  qual 
sintesismo  fu  almeno  traveduto  da'  Pitagorici,  quando  facevano 
del  finito  (misura  determinata),  e  dell'indefinito  (misurabile  in- 
finito) i  due  primi  elementi  di  tutte  le  cose. 

In  questa  dottrina  si  vede  la  ragione  della  natura  de'  nu- 
meri ,  cioè  perchè  dato  l'uno,  che  è  la  misura  determinala 
della  quantità  discreta,  quest'uno  si  possa  replicare  dalla  mente, 
e  così  formare  il  due,  il  tre  e  tutti  i  numeri  successivi.  Ciascun 
numero,  come  osservò  Aristotele,  è  distinto  dall'altro  come  le 
specie.  Colla  sola  specie  dell'uno  dunque  —  la  qual  si  trae  dal- 
l'individuo reale,  e  prossimamente  dall'individuo  vago  —  e  colla 
replicazione  del  medesimo  si  fermano  dalla  mente  tutte  l'altre  spe- 
cie numeriche.  Ma  questo  non  potrebbe  far  la  mente,  se  ella 
n(m  avesse  simultaneamente  davanti  a  sé  un  misurabile  infinitn. 
guardando  nel   quale  la   mente   potesse  replicare  la  misura  del- 


l'uno.  Ora  questo  misurabile  infinito  è  ognuna  di  quelle  specie 
piene,  i  cui  individui  realizzati  possono  essere  infiniti,  delle  quali 
specie  piene  molle  ne  ha  sempre  la  mente  d'  un  uomo  adulto  , 
e  basta  che  n'avesse  una  sola,  per  applicare  ad  essa  l'uno  in- 
dividuo, poi  il  due,  ecc.  Questa  infinità  poi  della  specie  ,  viene 
ad  essa  dall'essere ,  che  è  il  supremo  misurabile  infinito ,  o  come 
l'abbiamo  chiamato  sopra,  con  appellazione  più  ampia  ,  W  primo 
determinabile. 

Quindi  nell'amo  c'è  virtualmente,  non  solo  lutti  i  numeri^  ma 
ben  anco  tutta  1'  aritmetica ,  supposto  presente  alla  mente  il 
primo  determinabile  ,  che  contiene  virtualmente  anche  tutte  le 
regole  del  raziocinio  (1). 

In  questa  stessa  dottrina  si  vede  la  ragione  della  natura 
della  quantità  continua  ,  cioè  perchè  data  una  misura  deter- 
minata ,  come  ahbiam  detto  di  sopra,  si  possa  dalla  mente, 
spezzandola  o  replicando  essa  o  i  suoi  spezzati ,  trovare  tulle  le 
misure  e  grandezze  possibili.  Questo  non  avviene  ,  perchè  nella 
detta  misura  determinata,  precisa  dal  misurabile  infinito,  ci  sieno 
le  dette  misure,  ma  perchè  ogni  misura  grande  o  piccola  suppone 
e  sintesizza  con  un  misurabile  infinito,  che  sta  sempre  davanti 
alla  mente  ;  e  questo  misurabile  è  Io  spazio  infinito  o  immisu- 
rato, che  è  forma  terminativa,  come  abbiam  detto,  de!  principio 
sensitivo  animale. 

Quindi  mediante  la  presenza  e  il  sintesismo  con  questo  misu- 
rabile, in  ogni  qualunque  misura  c'è  virtualmente  compresa 
ogni  altra  misura  e  figura  qualunque,  e  medesimamente  c'è  vir- 
tualmente compresa  tutta  la  geometria:  di  maniera  che  un'in- 
t*'lligenza  che  altro  non  avesse  veduto  che  un  corpo  d'una  gran- 
dezza qualunque,  e  astratta  da  esso  la  grandezza  determinata 
0  figurata ,  n'avrebbe  abbastanza  per  inventare  tutta  la  scienza 
geometrica  (2). 

594.  Dobbiamo  ora  descrivere  V  ideazione  enti  fica,  che  è  quel  la- 

(1)  Clii  avrà  pienamente  intesa  questa  dottrina ,  vedrà  in  essa  una  nova 
dimostrazione  del  principio  della  nostra  filosofia,  che  l'essere  è  sempre  pre- 
sente alla  mente. 

(2)  Di  qui  una  nova  dimostrazione  della  necessità  clie  lo  spazio  immensu- 
rato  informi  il  principio  sensitivo  animale  ;  altramente  sarebbe  inesplicabile 
il  raziocinio  de' geometri. 


534 

voro  della  mente,  col  quale  in  un  oggetto  reale  e  indivisibile  —  che 
conosce  cioè  nella  specie  piena  del  medesimo  —  vede  la  specie  in- 
forme di  un  altro  oggetto  reale.  11  che  è  quanto  dire  trova  in 
esso  tulli  gli  elementi  co'  quali  ella  sa  formarsi  un'altra  specie 
piena  ,  non  già  diversa  accidentalmente  dalla  prima,  ma  rappre- 
sentante un  ente  che  non  apparliene  a  quella  prima  specie.  Poiché 
questa  è  un'altra  maniera  di  virtmlilà,  per  la  quale  si  dice  che 
un  oggetto  reale  indivisibile  contiene  un  altro  oggetto  reale. 

Noi  siamo  obligati  a  cominciar  sempre  queste  speculazioni  on- 
tologiche dall'osservazione  degli  enti  finiti  ,  di  cui  solo  possiamo 
avere  naturalmente  specie  piene  positive,  relative  anche  queste 
alla  capacità  de'  nostri  sensi. 

Abbiamo  dunque  veduto  che  in  ogni  ente  finito  si  trova  la 
prima  dualità,  cioè  1.°  {'essere,  che  non  è  lui,  2."  e  il  reale  for- 
mato, che  è  lui.  Dobbiamo  qui  lasciar  da  parte  Vesscre,  appunto 
perché  egli  non  è  l'ente  fìnilo,  di  cui  cerchiamo  la  virtualità 
ideale ,  ossia  relativa  alla  mente ,  e  perchè  l'essere  è  comune 
ad  ogni  ente  finito,  onde  non  ci  dà  le  differenti  nature,  nelle 
quali  vogliamo  trovare  la  detta  realità. 

Nel  reale  formato  dell'ente  finito  si  distingue  la  realità  pura  e 
la  forma  che  riceve.  Così  se  io  considero  la  realità  corporea  , 
posso  spogliarla  di  tulle  quelle  forme,  o  si  dicano  sostanziali 
0  si  dicano  accidentali,  che  fanno  sì  che  ci  sieno  tante  di- 
verse maniere  di  corpi  e  tanti  corpi  individui  nell'universo. 
Mi  resta  dunque  davanti  alla  mente  la  realità  suscettiva  di 
tulle  quelle  forme  ,  che  si  dice  realità  corporea.  Questa  non 
presenta  al  pensiero  alcuna  differenza  né  moltiplicità ,  perchè 
tulle  le  differenze  sono  slate  tolte  colle  sue  forme:  è  dunque 
un  concetto  semplicissimo ,  sul  quale  non  si  può  più  esercitare 
un'analisi  formale.,  ma  si  può  solo  o  pensarlo  o  non  pensarlo. 
Ma  questa  realità  corporea,  priva  delle  sue  forme,  è  diversa  da 
altre  realità,  per  esempio,  dalla  realità  dell' (/«/m^/^?.  L'animale 
è  un  principio  sensitivo  e  attivo,  il  quale  termina  il  suo  primo 
atto  nell'estensione  e  in  un  sentito  organico.  Dalla  diversità  dei 
sentili  organici  nascono  le  diverse  specie  degli  animali  ,  da  quelli 
che  per  la  loro  piccolezza  sfuggono  al  microscopio  fino  a  quelli 
che  colla  loro  robusta  mole  cagionano  all'uomo  maraviglia  e 
spavento.  Se  dunque  noi  leviamo  da  quel  principio  sensitivo  ed 


555 

attivo  tutti  i  sentiti  organici,  non  lasciandogli  per  termine  che 
lo  spazio  immensurato  comune  a  tulli,  non  abbiamo  più  chela 
realità  animale,  spoglia  di  tutte  le  sue  forme;  realità  una  e 
semplice,  che  non  si  può  più  spogliare  d'altra  forma  senza  an- 
nullarla. Abbiimo  dunque  qui  due  realità  semplici,  la  corporea 
e  l'animale.  In  che  cosa  differiscono  Ira  loro?  Differiscono  in 
lutto,  differiscono  con  tutto  sé  slesse:  nulla  hanno  o  aver  pos 
sono  di  comune  (facendo  noi  astrazione  dnW essere  ,  come  ab- 
biamo detto).  Lo  stesso  potremmo  dire  d'altre  realità.  Ora  queste 
realità  prive  delle  loro  forme  rispettive  sono  il  vero  fondamento 
de'  generi,  cioè  de'  generi  reali  [Ideol.  634,  655 J. 

Vide  questo  vero  Aristotele  quando  disse  che  c'erano  diverse 
maniere  di  materia,  e  che  ciò  che  differiva  di  materia,  differiva  di 
genere  (l).Ma  nelloslesso  tempo  che  così  sagacemente  investigava 
la  natura  e  costituzione  de'  reali  finiti,  gli  sfuggiva  di  mano  la 
dottrina  dell'essere,  a  cagione  che  gli  mancava  quella  gran  chiave 
data  dal  cristianesimo  alla  filosofia,  cioè  questa  verità  che:  «  l'es- 
sere da  sé  solo  senza  altra  giunta  sussisto  ». 

Ci  sono  dunque  delle  realità  totalmente  diverse  tra  loro,  e 
queste  sono  il  fondamento  di. tutti  gli  enti  finiti  che  compongono 
l'universo,  i  quali  riescono  così  classificati  in  un  certo  numero  di 
generi  ,  dall'  uno  de'  quali  non  e'  è  alcun  passaggio  all'  allro  , 
perchè  non  hanno  nulla  di  comune,  se  non  l'essere  che  non  è 
il  reale  finito,  ma  altro. 

595.  Di  qui  procede  che  ninno  degli  enti  finiti  che  compon- 
gono il  mondo  può  dare  una  specie  piena  che  contenga  virtual- 
■mente  lutte  le  altre,  ma  la  specie  piena,  che  ciascun  somministra, 
può  solo  conlcnero  virtualmente  quelle  specie  piene  che  non  ec- 
cedono il  genere  a  cui  quell'ente  reale  appartiene.  Ma  le  specie 
piene  spettanti  allo  stesso  genere  reale  sono  esse  di  tal  natura 
da  contenere  virtualmente  tutte  le  specie  entro  lo  stesso  genere? 

Rispondiamo  che  se  la  specie  piena  fosse  perfetta,  ogtii  spe- 
cie piena  conterrebbe  virtualmente  tulle  le  specie  piene  dello 
stesso  genere;  cioè  l'intelligenza,  che  la  possedesse,  troverebbe 
in  essa  gli  elementi  per  comporsi  un'altra  specie  piena  dello 
stesso  genere.  E  veramente,  in  una  specie  piena  perfetta  si  eo- 

(t)  Metaph.  VII  (V1II\  5;  Vili  (IX;,  2;  IX  (X\  2,  3;  XIV,  1. 


336 

nosce  la  realità  prima  e  si  conosce  altresì  un  limile,  nel  quale 
è  contenuta  ,  cioè  una  sua  forma  :  ora  le  altre  forme  della 
stessa  realità  risultano  dagli  slessi  elementi  che  in  ciascuna 
specie  si  contengono,  variamente  uniti  e  con  intensità  e  misure 
diverse.  Risultando  dunque  ogni  specie  piena  4.°  da  una  realità 
prima  ,  i2  "  da  elementi  limitanti  che  in  ogni  specie  piena  si 
contengono,  la  mente  può  variamente  vestire  di  questi  elementi 
questa  specie  piena  ,  e  così  formarsi  altre  specie  piene  ,  cioè 
tutte  quelle,  nelle  quali  può  essere  rappresentata  quella  realità, 
se  pur  queste  sono  più. 

Di  che  si  vede  ,  che  il  numero  delle  forme  è  determinato 
dalla  natura  della  realità  prima  ,  che  ne  è  la  causa  potenza  :  e 
però  queste  forme  non  possono  difTerirc  ne'  loro  elementi  costi- 
tutivi ,  ma  solo  nel  loro  accoppiamento  e  quanlitj  intensiva  e 
grandezza. 

390.  Fin  qui  ahhiamo  supposto  che  la  specie  piena  d'un  ente 
finito  sia  perfetta,  e  che  sia  posseduta  da  un'intelligenza  perfetta. 
Ma  sono  elle  perfette  le  specie  piene,  che  ha  l'uomo  degli  enti 
mondiali  ?  —  Se  si  parla  de'  corpi  esterni  ,  le  specie  piene 
che  r  uomo  n'  ha,  sono  imperfettissime.  Esse  non  rappresen- 
tano dell'ente  se  non  l'azione  che  esercita  nel  senso.  E  il  senso 
slesso  è  diviso  in  più:  e  ciascun  sensorio  dà  la  sua  specie  piena 
alla  menle.  Questa  poi  delle  specie  piene  somministrate  da  più 
sensori  compone  una  sola  specie  piena  del  corpo.  Ora  i  senti- 
menti propri  de'  diversi  sensori  sono  così  divisi  tra  loro  come 
i  generi  delle  realità,  di  maniera  che  il  colore  —  spoglialo  di 
tulle  le  sue  varietà,  —  è  un  genere  sensibile  diverso  da  quello 
dell'odore,  del  suono,  del  sapore  ecc.  —  sjìogliati  anche  questi 
delle  loro  varietà  —  come  la  realità  corporea  è  diversa  dalla 
realità  animale.  Quindi  la  menle  non  può  andare  dall'uno  al- 
l'altro, e  l'uno  non  è  virtualmente  contenuto  nell'altro.  E  la 
ragione  di  questo  si  è  la  semplicità  del  sentimento  proprio  di 
ciascun  sensorio;  poiché  «  ogni  entità,  la  quale  sia  così  semplice 
che  non  ammetta  più  elementi  reperibili  in  essa  coll'analisi  for- 
male, è  con  tutta  se  stessa,  e  non  con  una  sua  parte,  differente 
da  un'altra  entità  ugualmenle  semplice  ». 

Anzi  di  più,  lo  stesso  sensorio  ha  sensazioni  così  semplici  che 
differiscono  tra  loro  totalmente   e   però   costituiscono   de'  geìwi 


357 

sensibili  diversi.  A  ragion  d'esempio  i  sette  colori  e  i  sette  suoni. 
Sarebbe  impossibile  che  la  mente  passasse  dal  verde  al  rosso  o 
al  turchino,  se  non  avesse  mai  avuto  altra  sensazione  che  quella 
del  verde.  E  lo  stesso  si  dica  de'  suoni.  Onde  in  una  sensazione 
non  si  può  trovare  altra  virtualità  che  quella  dell'intensione  di 
ossa  0  della  durata  più  o  meno  lunga  —  la  qual  durata  pro- 
priamente non  appartiene  a  lei  ma  all'essere  —  e  la  mente  di 
conseguenza  non  può  passare  dal  concetto  d'una  sensazione  a 
quello  d'un'altra,  ma  solamente  da  un  grado  della  sensazione 
stessa  a  un  grado  più  forte  e  anche  questo  fino  a  un  certo  \\- 
mììc  {Ideol.  887,  888).  Onde  i  generi  sensibili  sono  molti  e  spez 
zano  la  realità  corporea,  in  se  stessa  d'un  solo  genere,  in  molti 
generi  ,  i  quali  limitano  la  virtualità  di  lei  relativamente  all'u- 
mana intelligenza,  dentro  a  ciascun  genere  sensibile. 

Supposto  poi  che  d' un  dato  corpo  la  mente  si  sia  formata 
una  specie  piena,  composta  delle  sensazioni  di  vari  sensori  , 
questa  specie  piena  ha  una  virtualità  maggiore,  e  tanto  maggiore, 
quanto  sono  più  i  sensori,  e  la  varietà  delle  sensazioni  de'  me- 
desimi, di  cui  consta  quella  specie  piena;  e  ciò  non  solo  perchè 
s'uniscono  le  virtualità  di  ciascun  sentimento  generico,  ma  ben 
anco  perchè  la  mente  potendo  variare  la  disposizione  e  il  me- 
scuglio  di  tali  sentimenti,  può  comporre  di  essi  molle  più  spe 
eie  piene:  il  che  fa  di  continuo  l'immaginazione. 

Che  se  la  specie  piena  d'un  corpo,  oltre  risultare  da  sensazioni, 
risulti  ancora  da  qualità  seconde  del  detto  corpo  [Ideol.  G93  G97, 
880),  la  specie  piena  si  rende  più  perfetta,  e  somministra  nuovi 
elementi  della  realità  corporea,  co'  quali  ella  può  formarsi  un 
numero  maggiore  di  specie  piene. 

Se  invece  della  specie  piena  de' corpi  estrasoggeltivi  ,  noi 
consideriamo  la  specie  piena  del  nostro  proprio  corpo,  quale  ce 
la  dà  il  sentimento  fondamentale,  è  da  distinguersi  tra  la  spe- 
cie piena  del  sentito  fondamentale  e  quelle  specie  piene  del 
corpo  soggettivo  che  si  vestono  de'  sentimenti  che  proviamo 
dentro  di  noi  ,  cioè  dentro  quel  sentito  fondamentale.  La 
prima  specie  essendo  semplice  ed  uniforme  non  contiene  alcuna 
virtualità,  e  solo  possiamo  —  dato  che  potessimo  volerlo  —  passare 
dal  nostro  individuai  sentimento  a  pensare  altri  sentimenti 
uguali  ,  la  quale  non  è  una  virtualità  veniente  dal  reale  ,  ma 
Rosmini.  Teosofia.  22 


338 

veniente  dalla  specie  che  contiene  potenzialmente  gli  individui  a 
cagion  dell'essere  di  cui  partecipa. 

Se  il  sentimento  soggettivo  supponiamo  essersi  arricchito  di 
vari  sentimenti  passeggeri  a  noi  interni  e  da  noi  avvertiti,  in 
tal  caso  la  specie  piena  somministra  degli  elemonli  che  possono 
dalla  mente  essere  variamente  composti,  e  diversificati  di  grado; 
e  però  ella  può  formarsi  altro  specie  pione  d'altri  viventi.  E 
questo  tanto  più  estesamente,  quante  più  sono  le  cognizioni  di 
cui  potè  arricchire  il  sentimento  animale,  anche  intorno  all'ef- 
ficacia ed  alle  leggi  dell'organismo,  mediante  esterne  osservazioni 
e   induzioni  ecc. 

397.  Finalmente  l'uomo  ha  nell'IO  la  specie  piena  dell'umano 
soggetto,  e  questa  è  la  più  perfetta  specie  piena  che  egli  abbia 
0  aver  possa  :  quindi  è  anche  quella  che  contiene  più  di  virlua- 
litcà.  Ella  è  quella  che  somministra  alla  mente  la  materia  per  la 
dottrina  filosofica  delle  anime  e  dolle  intelligenze  separate,  e  di 
Dio  stesso.  Ma  c'è  questo  da  osservare,  che  la  spec'e  piena  che 
ci  somministra  il  sentimento  dell'IO  conlienc  un  ente  principio 
{Psicol.  857-846)  ,  e  quest'ente  principio  si  riferisce  ad  un 
termine.  Ora  l'ente  principio  ci  serve  di  tipo  per  concepire  tutti 
gli  enti  spirituali  possibili,  ma  il  termine  che  è  quello  che  spe- 
cifica e  determina  il  [irincipio,  non  è  nell'IO  se  non  limitato 
all'essere  ideale  e  al  corpo  animale  e  sue  modificazioni.  Ora 
questo  termine  non  ci  somministra  elementi  bastevoli  per  for- 
marci una  specie  piena  di  enti  superiori  all'uomo,  ma  solo  uguali 
od  inferiori.  Dalla  parte  dunque  del  principio  noi  troviamo  nel- 
l'Io un  elemento  delle  specie  piene  di  altre  intelligenze  separate 
maggiori  dell'uomo,  e  della  specie  di  Dio:  ma  dalla  parte  del  ter- 
mine, nell'Io  non  troviamo  che  elementi  deficienti  e  imperfetti. 

Noi  possiamo  dunque  sapere  che,  supposta  l'esistenza  d'in- 
telligenze separate  maggiori  dell'uomo ,  queste  sono  tutte  enti- 
principio;  ma  non  potendo  elevarci  ad  una  cognizione  positiva 
del  termine  a  cui  que'  principi  sono  congiunti  ;,  non  ci  è  pos- 
sibile di  formarci  la  specie  piena ,  ma  solo  una  specie  che  ha 
in  sé  una  ragione  oscura,  per  dir  così,  e  per  noi  senza  luce. 

Mollo  maggiore  è  l'  imperfezione  della  specie  piena  di  Dio  , 
poiché  essendo  in  quest'essere  il  principio  identico  col  termine, 
non  po.ssiamo  neppure    formaici   una   chiara   idea   del  principio. 


030 

stante  che  W  Wpo  ùì  principio  che  c\  somministra  l'Io,  è  un  prin- 
cipio che  ha  una  differenza  reale  dal  termine  che  gli  è  dato  e  che 
non  è  desso,  non  è  l'Io  {Teod.  b9-67). 

Quantunque  dunque  la  specie  piena  dell' IO  somministri  alla 
mente  materia  alle  più  nobili  e  alte  dottrine,  a  cui  l'uomo  possa 
arrivare,  tuttavia  queste  dottrine  non  pervengono  a  tanto  di  per- 
fezione da  porgere  all'uomo  alcuna  specie  piena  d'intelligenza 
d'una  natura  alla  sua  superiore  ;  e  però  rispetto  a  queste  la  virtua- 
lità della  specie  piena  dell'Io  non  è  che  dialettica,  e  la  mente  non 
può  cavare  da  essa  Videa  di  tali  enti  superiori,  ma  solo  delle 
specie  astratte  e  negative. 

r»98,  Fin  qui  abbiamo  parlato  della  virtualità  che  giace  nella  spe- 
cie piena  degli  enti  finiti ,  considerando  prima  questa  specie  piena 
nella  sua  [)erfezione,  e  poi  considerando  1'  imperfezione  e  quindi 
r  imperfetta  virtualità  delle  specie  piene  che  può  aver  l'uomo  de' 
medesimi  enti  finiti. 

Conviene  ora  che  ci  solleviamo  a  considerare  la  virtualità  nel- 
l'Ente infinito. 

L'ente  finito  abbiamo  veduto  esser  diviso  in  generi  reali  in- 
comunicabili e  inconfusibili ,  e  per  l'  uomo  anche  in  generi  sensi- 
bili a.  \u\  relativi.  Lasciando  questi  e  non  parlando  che  di  quelli 
che  sono  per  così  dire  le  fondamenta  dell'universo,  è  manifesto 
che  Tente  infinito  essendo  puro  essere,  come  dicemmo,  non  am- 
mette in  sé  generi  di  sorta,  ma  dev'essere  perfettamente  uno. 
Nondimeno  abbracciando  tutto  l'essere,  nulla  gli  deve  mancare 
di  ciò  che  neir  immensità  dell'essere  si  contiene,  e  non  essendo 
puramente  essere  ideale ,  ma  essere  nelle  tre  forme,  e  queste 
perfette  ,  di  conseguente  deve  contenere  tutta  la  realità  che 
è  ne'  generi  ,  non  divisa  da'  generi  ma  unificata  nell'  essere. 
Quindi  nell'Ente  infinito  e  realissimo  non  può  mancare  nulla,  né 
di  reale  né  di  formale,  di  ciò  che  faccia  bisogno  alla  mente  per 
formarsi  la  specie  piena  dell'ente  finito  in  tutta  la  sua  possibile 
estensione  e  moltiplicità.  La  specie  piena  dunque  dell'ente  finito, 
cioè  di  ogni  e  di  tutti  gli  enti  finiti ,  esiste  virtualmente  nell'Ente 
infinito:  e  questo  vuol  dire  che  la  mente,  che  conosce  pienamente 
l'Ente  infinito,  può  prendere  da  esso  tutti  gli  elementi  necessari 
a  formare  ogni  specie  piena  d'ente  finito.  Diciamo  poi  che  que- 
ste specie  piene  esistono  solo  virtualmente  nell'Ente  infinito,  per- 


540 

che  questo  è  uno  e  semplice  e  senza  reali  distinzioni  di  sorta  ; 
ma  la  mente  ha  il  potere,  in  quanto  esiste  in  un  modo  relativo 
ad  essa  ,  di  limitarlo  e  spezzarlo.  Cosi  la  mente  di  Dio  potè  ri- 
guardando nel  Verho,  suo  oggetto,  trarne  l'esemplare  del  mondo; 
e  questo  lo  trasse  nell'atto  stesso,  e  collo  stesso  allo,  col  quale 
per  la  sua  propria  virtù  lo  produsse. 

399.  Ora  questa  virtualità  dell'Ente  infinito  è  duplice ,  perchè 
si    può  considerare  sotto  due  aspetti  : 

i.°  Come  virtualità  delle  specie  piene  degli  enti  finiti,  in 
quanto  l'Ente  infinito  è  oggetto  conoscibile; 

2.**  Come  virtualità  degli  slessi  enti  finiti  reali ,  in  quanto 
l'Ente  infinito  è  reale  assoluto. 

Né  l'una  né  l'altra  di  queste  virtualità  è  cosa  che  rechi  ira- 
perfezione  all'Ente  infinito,  dove  esiste  come  in  causa  non  })o- 
tenza;  ma  anzi  è  conseguente  alla  sua  somma  perfezione. 

In  quanto  poi  aWente  finito,  prima  che  la  mente  divina  lo 
tragga  all'esistenza  ideale  o  reale,  la  sua  virtualità  non  è  im- 
perfezione, ma  non  esistenza. 

Egli  non  esiste  dunque  in  Dio  prima  che  sia  creato,  come  in 
causa  potenza,  ma  si  dice  che  esiste  in  un  modo  eminente.  Con- 
viene dichiarare  questa   friso  tanto  usata  nelle  scuole. 

L'esistenza  eminente  non  è  esistenza  dell'ente  finito,  ma  è 
l'esistenza  dell'infinito  a  cui  la  mente  paragona  il  finito,  dopo 
che  n'è  stato  tratto  dalla  mente  divina.  Considerandosi,  che  ogni 
perfezione  e  ogni  elemento  dell'ente  finito  trovasi  dalla  mente 
nell'infinito,  perchè  la  mente  spezza  e  limita  questo  a  sé  me- 
desima, dicesi  che  l'ente  finito  è  nell'infinito  in  un  modo  emi- 
nente. Con  questa  frase  dunque  si  esprime  un  rapporto  che  la 
mente  istituisce  tra  il  finito  e  l'infinito;  e  la  mente  può  isti- 
tuire questo  rapporto,  perchè  l'oggetto  infinito,  oltre  esistere  in 
sé,  avendo  un'esistenza  relativa  alla  mente  —  che  è  la  «  cogni- 
zione del  medesimo  »  —  la  mente  che  il  limita  può  altresì  vedere 
il  rapporto  del  limitato  da  lei  prodotto  coli' illimitato,  sulla  no- 
tizia del  quale  esercitò  la  limitazione. 

400.  Atteso  questo  rapporto  mentale,  accade: 

ì.^  Che  molte  idee  si  possono  predicare  di  Dio  (come  av- 
viene quando  si  predicano  di  lui  molti  attributi),  con  che  si 
viene  a  dire ,    che   «  a  Dio  unico    oggetto    molte  idee  di   perfe- 


541 

zione  rispondono ,  senza  che  questo  rnella  alcuna  moltiplicilà  in 
Dio,  perchè  tutte  quelle  idee  non  rispondono  a  Dio  unico  og- 
getto in  quanto  sono  separate  l'una  dall'altra,  ma  in  quanto  la 
mente  le  ha  separate  nella  notizia  dell'oggetto  »  il  che  sta  nel 
poter  della  mente  che  ha  la  facoltà  limitante; 

2."  Che  molti  reali,  lutti  i  generi  de' reali,  si  considerano 
esistere  nell'essere  realissimo,  anche  qui  non  come  sono,  sepa- 
rali, ma  senza  la  separazione  posta  dalla  mente. 

A  cagione  dunque  che  la  mente  divina  ha  il  potere  di  limi- 
tare idealmente  l'Essere  infinito,  cioè  in  quanto  questo  è  pu- 
ramente sua  cognizione ,  e  non  in  quanto  in  sé  sussiste ,  e  a 
cagione  che  essa  lo  ha  limitato  creando  il  mondo  :  accade  che, 
viceversa,  la  mente  possa  restituire  a  Dio  quegli  elementi  che  essa 
ha  in  lui  distinti  ;  e  quindi  che  anche  ogni  intelligenza  possa 
dallo  spettacolo  dell'universo,  come  da  un  vestigio  di  Dio,  sa- 
lire a  formarsi  una  certa  negativa  e  imperfetta  cognizione  di  Dio 
medesimo. 

Articolo   111. 

Classificazione  delle  potenze  —  Potenze  in  senso  proprio 
e  in   senso  dialettico. 

hOÌ.  Ritorniamo  ora  al  concetto  di  potenza,  e  cerchiamo  una 
prima  classificazione  secondo  la  maniera  di  concepire  della  mente 
umana.  Poiché  questo  ci  bisogna  a  dichiarare  quell'atto  che  l'es 
sere  comunica  ai  reali  finiti  ,  e  a  discoprire  se  nell'essere  stesso 
si  acchiuda  qualche  potenzialità. 

Essendo  la  potenza ,  secondo  la  definizione  da  noi  data  ,  «  una 
causa  che  rimane  subiello  del  proprio  atto  »  ,  egli  è  chiaro  che 
secondo  il  valore  che  si  darà  alla  parola  causa  e  snbietto ,  questa 
definizione  cangerà  di  valore ,  e  così  determinerà  un  diverso  ge- 
nere di  potenza. 

Infatti  polendosi  prendere  quelle  parole  in  diversi  significati , 
si  ha  qui   «  il  principio  d'ogni  classificazione  delle  potenze  ». 

Restringendoci  a  quella  che  noi  cerchiamo  e  che  ci  bisogna  , 
noi  abbiamo  distinto  un  subietto  antecedente  e  dialettico ,  e  un 
subietto  proprio  di  ciascun  ente  finito.  Consegue  dunque  che  se  vi 


342 

ha  una  causa  che  si  possa  considerare  come  un  subietto  dialet- 
tico del  suo  atto,  ella  si  potrà  denominare  una  potenza  dialet- 
tica; e  se  v'ha  una  causa  che  sia  subietto  proprio  del  suo  allo, 
ella  sarà  una  potenza  in  senso  proprio. 

Questa  è  la  prima  bipartizione  delle  potenze  a  cui  noi  ora  dob- 
biamo ricorrere  per  dichiarare  la  questione  della  potenzialità  del- 
l'essere. 

Articolo  IV. 

Dell' essere  consideralo  come  potenza  dialettica. 

40^.  Abbiamo  veduto  che  l'essere  è  il  subielto  universale  dia- 
lettico di  tulli  gli  enti  lìnili.  Ma  questo  subietlo  antecedente  e  uni- 
versale è  anche  loro  causa.  Come  dunque  è  ad  un  tempo  causa 
e  subietto  di  tulli  gli  enti  finiti ,  così  gli  si  applica  il  concetto  di 
potenza.  Or  egli  non  è  che  subietto  dialettico;  non  gli  può  dun- 
que competere  il  concetto  di  potenza  se  non  in  un  modo  soltanto 
relativo  al  concepire  della  mente,  in  un  senso  dunque  pura- 
mente dialettico. 

iMa  rimane  a  cercarsi  se  questa  denominazione  di  potenza  dia 
lettica   gli  convenga  in    lutti    que'  modi    ne'  quali  gli    conviene 
quella  di   causa.    Poiché  abbiamo    veduto  che  egli  è  causa  dia- 
lettica di  tutte  le  entità  in  un  triplice  modo  : 

I.°  Come  primo  ed  universale  determinabile. 

"2.°  (^ome  universale  determinante. 

5."  Come  ultima  posteriore  ed  universale  determinazione. 

È  egli  dunque  anche  subietto  dialettico  de'  suoi  atti  relativa- 
mente a  ciascuno  di  questi  tre  modi  di  causa? 

Se  e  come  l'essere  considerato  come  primo  determinabile 
sia  potenza  dialettica. — Dottrina  del  possibile. 

405.  Se  l'esspre  si  considera  come  primo  determinabile ,  egli 
diventa  quella  specie  di  potenza  dialetlica  che  si  dice  essere 
possibile,  quando  si  riff^risce  dalla  mente  a'  suoi  termini. 


543 

Ma  questa  espressione  di  possibile  riceve  due  significati  ben 
distinti ,  che  non  si  possono  confondere  senza  dar  luogo  a  molti 
errori  e  fallacie.  Poiché  si  può  prendere  il  possibile  come  una 
qualità  deW  essere  virimle ,  ed  altro  non  esprime  che  la  sua  stessa 
virlunlilà;  e  così  per  essere  possibile  s'intende  ((l'essere  inter- 
minato che  ha  la  suscettività  di  ricevere  i  termini  ». 

Ovvero  si  può  prendere  il  possibile  come  una  qualità  de'  ter- 
mini slessi  e  allora  (c  un'entità  possibile  »  significa  un  termine 
di  cui  l'essere  è  suscettivo. 

Questi  due  significati  hanno  impacciato  mollo  i  filosofi  che  non 
gli  hanno  distinti,  e  turbato  il  campo  della  filosofia. 

Noi  non  dobbiamo  qui  parlare  di  questo  secondo  concetto  del 
possibile,  ma  del  primo. 

E  dobbiamo  prima  avvertire  che  l'essere  determinabile  e  i  ter- 
mini suoi  sono  concetti  che  sintesizzano  esprimendo  una  relazione 
tra  l'uno  e  gli  altri  ;  onde  se  si  abolissero  i  termini  nel  nostro 
pensiero,  perirebbe  anche  il  concetto  stesso  dell'  essere  deter- 
minabile. 

40i.  Posli  dunque  questi  due  concetti  e  volendo  noi  indagare 
la  relazione  dell'essere  determinabile  co' suoi  termini,  ricordiamo 
che  tali  termini  secondo  la  suprema  loro  classificazione  si  ridu- 
cono alle  tre  forme  categoriche.  Perciò  questa  suscettività  de' 
termini,  per  la  quale  l'essere  si  chiama  possibile,  è  di  tre  Cate- 
gorie, Nell'essere  dunque  così  considerato  si  ravvisano  tre  modi 
categorici  di  possibilità,  cioè: 

a)  Possibilità  de' concetti  o  degli  obietti. 

b)  Possibilità  de' reali. 
e)  Possibilità  de' morali. 

A)  La  possibilità  de  concetti  o  degli  obietti  è  quella  per 
la  quale  l'essere  indeterminato  è  suscettivo  di  tutti  i  suoi  ter- 
mini nella  forma  ideale  od  obiettiva.  Questi  si  estendono  altret- 
tanto quanto  la  sfera  dell' intelligibile,  che  non  ha  altro  confine 
se  non  la  contraddizione  —  poiché  questa  sola  é  esclusa  dall'intel- 
ligenza, —  e  propriamente  non  é  confine,  se  non  relativamente 
alla  mente  umana  che  può  opinare  di  trapassarlo  {Logic.  .Hi*). 

B)  La  possibilità  de  reali  è  quella  per  la  quale  l'essere  è 
suscettivo  di  tutti  i  suoi  termini  nella  forma  reale.  Questa  s'e- 
stende evidentemente  altrettanto,  quanto  la  possibilità   de' con- 


celli  pienamente  determinati  (specie  piene):  questa  possibilità 
de' reali  e  anch'essa  una  potenza  puramente  logica,  cioè  non 
conosciamo  altro  se  non  che  non  involge  contradizione  che  ad 
un  concetto  pienamente  determinato  risponda  un  reale.  Del  resto 
ci  rimane  incognito  del  tutto  il  modo,  nel  quale  l'essere  trova 
un  termine  reale  finito  ,  a  cui  congiungersi  ,  come  abbiamo 
detto.  Gol  raziocinio  possiamo  venire  a  conoscere  solamente 
questo  : 

1."  Che  l'essere  indcterniinato  non  potendo  non  esistere, 
e  nello  slesso  tempo  non  potendo  esistere  come  indeterminato , 
deve  di  necessità  avere  un  suo  termine  proprio,  nascosto  al  no- 
stro inluilo,  che  lo  completi,  unito  al  qual  termine  sia  ente  ed 
ente  necessario  ;  e  che  dovendosi  questo  termine  identificare  col 
detto  essere  {,321,  sgg.*),  concepito  quest'essere  così  con- 
giunto al  suo  termine  e  immedesimalo  non  ritiene  più  la  re- 
lazione di  essere  possibile,  né  di  virtuale  rispetto  a  questi  suoi 
propri  termini.  Niente  vieta  però  che  questa  relazione  continui 
ad  essere  opinata  dalla  nostra  mente  per  una  cotale  astrazione 
puramente  ipotetica.  E  tale  è  il  concetto  della  possibilità  di  Dio: 
possibilità  che  non  c'è  propriamente ,  non  essendoci  di  Dio  se 
non  l'esistenza  identificala  coll'essenza;  ma  pure  la  nostra  mente 
per  l'abito  che  ha  di  concepire  i  contingenti  ,  ne'  quali  altro  è 
l'esistenza  ed  altro  l'essenza,  applica  la  stessa  forma  di  conce 
pire  anche  a  Dio,  e  così  opina  di  pensarne  la  possibilità. 

^.°  Che  non  c'è  conlradizione  nel  pensiero  che  l'essere  in- 
determinato assuma  de' termini  reali  conlingenli  e  finiti,  qua- 
lunque sieno^  entro  il  limite  accennato  delle  specie  piene:  ma 
nello  stesso  tempo  in  esso  non  apparisce  alcuna  forza  capace 
di  fare  che  questi  termini  reali  esistano;  e  ciò  perchè  è  a  noi 
velato  il  subietto  creante  (^508-510*)  che  ha  la  forza  di  rendere 
esistenti  i  detti  termini  reali  contingenti. 

405.  Quindi  è  necessario  che  noi  distinguiamo  questa  causa 
relativa  ai  termini  fisici  in  due  specie: 

a)  Quella  a  cui  conviene  la  denominazione  di  possibilità 
de'  reali; 

b)  E  quella  che  è  una  causa  reale  e  non  una  mera  pos- 
sibilità. 

Questa  seconda  non  si  scopre  a  noi  nell'intùito  né  nell'ana- 


345 

lisi   dell'essere  intuito,  ma  soltanto  la  prima;  ed  ella  non  è  il 
subietto  neppur  dialettico  degli  enti  finiti,  ma  pura  causa. 

e)  La  possibilità  de' morali  è  quella,  per  la   quale   l'essere 
è  suscettivo  di  tutti  i  suoi  termini  nella  forma  morale. 

Essendo  la  forma  morale  l'ultimazione  e  la  perfezione  del- 
l'ente, e  involgendo  in  sé  il  reale  e  l'ideale,  a  cui  ella  mette 
l'ultimo  allo  di  perfezione,  vedesi  cbe  l'essere  indeterminato  ed 
iniziale  è  suscettivo  di  questi  termini  morali  per  la  stessa  ra- 
gione che  è  suscettivo  ^dei  termini*  delle  due  prime  classi  , 
cioè  perchè  il  pensarlo  prodotto  fino  a  questi  estremi  termini 
.morali*  non  involge  contradizione. 

406.  Ma  anche  qui  dobbiamo  distinguere  \a  possibililà  de'moraii 
òiìWefficienza  morale;  quella  sola  si  scorge  colla  mente  nell'es- 
sere indeterminato,  non  questa  seconda  che  suppone  un  subietto 
reale  intelligente  che  l'abbia  veramente. 

Laonde  anche  questa  possibilità  de' morali  non  si  vede  nel- 
l'essere indeterminato  se  non  logicamente,  come  una  pura  pos- 
sibilità. 

La  possibilità  de'concetti  abbraccia  tutte  le  entità  ideali  e  dia- 
lelliche  che  sono  innumerabili. 

La  possibilità  de' reali  abbraccia  una  sfera  minore,  poiché  non 
s'estende  se  non  quanto  si  può  estendere  il  numero  di  quelle 
entità,  che  sono  enti  ideali  pienamente  determinati. 

La  possibilità  de' morali  abbraccia  una  sfera  ancora  più  ri- 
stretta, e  si  concepisce  dalla  mente  umana  in  due  modi: 

A)  In  un  modo  analitico  ed  imperfetto,  quando  la  mente 
considera  la  possibilità  de' singoli  enti  morali;  e  questa  possi- 
bilità analitica  de'morali  s'estende  a  quegli  enti  i  quali  sono  do- 
tali d'intelligenza  e  quindi  capaci  dell'essenza  del  Bene. 

B)  In  un  modo  sintetico  ed  assoluto  ,  quando  la  mente 
considera  la  possibilità  del  bene  totale  creato  ,  e  questa  possi- 
bilità sintetica  e  assoluta  ha  per  oggetto  solo  quel  tutto  di  santità 
nell'universo  che  è  conforme  agli  attributi  e  alla  volontà  e 
santità  del  Creatore. 

L'essere  dunque  considerato  come  primo  determinabile  pre- 
senta in  sé  alla  mente  questi  tre  modi  di  possibilità. 

407.  Non  si  confonda  dunque  la  possibililà  né  colla  potenza  attiva, 
ì\ò  colla  potenza  pissiva  —  le  quali  si  trovano  soltanto  nell'ordine 


346 

della  realità  —  né  colla  potenza  recettim:  ma  si  avverta  che  qui 
non  si  tratta  d'altro  che  d'un  concetto  dialettico  di  potenza  che 
si  può  chiamare:  «  potenza  dialettica  di  determinabilità  ». 

E  questa  stessa  è  dialettica  in  un  modo  diverso  se  si  consi- 
dera riguardo  a' suoi  termini  propri  e  infiniti,  o  a' suoi  termini 
finiti.  Perchè  nell'Ente  assoluto  che  è  l'Essere  co' suoi  termini 
propri,  non  c'è  vera  distinzione,  come  abbiamo  detto  ^  tra  l'i- 
nizio e  il  termine  dell'essere,  e  solo  il  nostro  pensiero  imper- 
fetto imagina  l'essere  come  una  potenza  che  emetta  i  suoi 
termini  propri  e  che  così  con  questi  suoi  effetti,  de' quali  egli 
rimane  il  subietto  ,  si  perfezioni  e  da  indeterminato  d'mnli  de 
terminato;  ma  questo  diventare  esprime  il  progresso  del  nostro 
pensiero,  e  non  quello  dell'essere  che  è  sempre  per  sua  essenza 
terminato  ed  assoluto. 

Riguardo  poi  ai  termini  impropri  e  non  necessari  all'essere 
la  potenza  dialeltica  di  determinahìUtà  è  qualcosa  dell'  Essere 
assoluto,  non  distinto  dallo  stesso  Essere  assoluto,  ma  sì  distinto 
veramente  da' termini  impropri:  e  però  non  è  Io  stesso  la  pos- 
sibilità de' concetti,  e  i  concetti  attuali,  né  la  possibilità  de  reali 
e  i  reali  stessi;  né  la  possibilità  de  morali  e  gli  stessi  morali: 
ma  c'è  quella  distinzione  che  abbiamo  descritta  tra  l'Essere  ini- 
ziale unico  e  comune,  e  i  suoi  termini  moltiplici  e  singolari. 

i  2. 

Se,  e  come  l'essere  considerato  come  causa  determinante 
sia  potenza. 

408.  L'essere  consideralo  come  primo  e  universale  determinabile 
mostra  dunque  in  sé  stesso  le  tre  indicate  possibilità  ,  per  una 
relazione  coi  termini  che  lo  possono  determinare.  Ma  quando 
lo  pensiamo  come  determinante  universale  e  come  ultima  deter 
minazione ,  allora  il  possiamo  considerare  sotto  due  aspetti 
diversi  : 

a)  Nelle  entità  stesse  di  cui  è  subietto  dialettico  ,  e  così 
viene  considerato  nell'atto  in  cui  egli  è  determinante  o  ultima 
determinazione.  Allora  esso  non  si  dimostra  come  potenza  ma 
come  alto. 


547 

b)  Anterìormenle  alle  enlilà,  come  avente  quella  virtù,  per 
la  quale  può  rendersi  determinante  e  ultima  determinazione. 

Considf  rato  sotto  questo  secondo  aspetto  ci  si  affaccia  a  prima 
j^Munta  un  concetto  che  abbraccia  una  doppia  potenza,  la  potenza 
di  determinare  ciascuna  entità  ad  essere  quella  che  è  piuttosto 
ohe  un'altra,  eia  potenza  d'aggiungersi  come  alto  ultimo  e  co- 
mune alle  entità  determinale 

409.  Consideriamo  dunque  se  l'essere  ammetta  veramente  il 
concetto  di  potenza  determinante,  o  non  sia  questa  piuttosto 
una  nostra  illusione  dialettica. 

A  noi  pare  di  poterci  formare  un  tal  concetto  risalendo  col  pen- 
siero dall'atto  che  percepiamo  alla  potenza  che  non  percepiamo  ; 
e  ciò  per  l'abitudine  che  abbiamo  di  riferire  universalmente  gii 
atti  degli  enti  finiti  a  certe  loro  potenze.  Così  anche  qui  ci 
sforziamo  di  distinguere  una  potenza  determinante,  che  conside- 
riamo come  unica,  dagli  alti  determinanti  le  singole  entità  che 
vediamo  essere  moltiplici. 

M;i  qual  può  essere  questa  potenza?  Quando  noi  sotlomcl- 
liamo  un  tal  concetto  alla  critica,  ella  ci  sfugge  di  mano,  poi- 
ché noi:  i.°  in  tutte  le  entità  vediamo  sempre  l'essere  come 
puro  alto;  '2.°  se  le  entità  sono  diverse,  la  diversità  è  tutta  ne' 
termini,  a  cui  l'essere  si  unisce  culla  sua  presenza,  rimanendo 
egli  uno,  e  il  medesimo  (essere  iniziale);  3.°  quesl' unirsi 
dell'essere  alle  entità  non  altera  la  natura  del  puro  essere,  ma 
solo  è  un  concepirsi  de' vari  termini  a  cui  l'essere  assiste.  Se 
dunque  l'essere  determinante  rimane  puro  alto  uno  e  identico  , 
qualora  togliamo  via  quest'alto  semplicissimo  ,  non  ci  rimane 
lìiù  alcun  concetto  di  potenza,  ma  solo  il  nulla. 

Atteso  dunque  che  la  ragione  della  diversità  degli  enti  reali 
finiti  giace  nella  realità,  e  non  in  quell'allo  di  essere  pel  quale 
sono  ,  egli  è  manifesto  che  la  causa  della  determinazione  di 
questa  ci  rimane  nascosta,  e  che  il  concepire  questa  causa  come 
l'essere  slesso  in  potenza  è  un  distruggere  lo  slesso  concetto 
dell'essere.  Non  rimane  dunque  altro  concetto  deWessere  deter- 
minante che  quello  di  atto,  e  il  concetto  di  potenza  è  un  con- 
cetto opinativo  e  falso  ,  che  altro  non  fa  se  non  distruggere 
Tessere  stesso  senza  darci  nulla  da  sostituire  al  medesimo. 

Ma  se  noi  investighiamo  qual  possa  essere  la  ragione  per  la 


348 

quale  i  reali  finiti  sono  determinati  cosi  e  non  in  altro  modo  , 
niuna  ragione  possiamo  trovare  né  in  essi  né  nell'essere  che 
unito  ad  essi  ci  apparisce:  ma  ci  é  forza  ricorrere  ad  una  vo 
Ionia  potentissima  che,  essendo  essi  indifferenti  ,  ha  fissale  li- 
beramente e  sapientemente  le  loro  determinazioni.  Coli' inoltrarci 
nella  speculazione  troveremo  altresì  che  questa  volontà  deve  es- 
sere l'Essere  stesso  in  quanto  da  sé  sussiste  ,  che  ci  rimane 
nascosto.  Ora  in  quest'Essere  vivente  ci  è  facile  concepire  una 
causa,  ma  non  una  causa  potenza,  appunto  perché  sussiste  da  sé, 
senza  che  le  realità  finite  formino  alcuna  parte  del  suo  sussistere. 

410.  Conchiudiamo  dunque: 

a)  Che  noi  argomentiamo  con  sicurezza  che  ci  deve  essere 
un  subielto  determinanle  le  varie  entità: 

b)  Che  noi  non  conosciamo  né  intuitivamente  né  per  un'ana- 
lisi dell'oggetto  dell'intùito,  né  per  un'analisi  delle  entità  da  noi 
percepite,  la  natura  di  questo  subielto  determinanle,  e  però  non 
ne  possiamo  avere  che  una  cognizione  negativa; 

e)  Che  la  causa  determinante  non  è  causa  potenza  ma  causa 
creante,  ed  essendo  essa  il  detto  subietto,  noi  non  vediamo  né 
conosciamo  neppur  questa  causa  positivamente  ma  solo  negati- 
vamente per  argomenti  deontologici  ; 

d)  Che  nella  percezione  e  nella  concezione  degli  enti  finiti 
vediamo  solo  Vatto  determinanle   l'ente  finito  che  percepiamo. 

E  quest'atto  lo  vediamo  sempre  compilo  e  intendiamo  che 
non  lo  possiamo  vedere  altramente,  perchè  l'alto  dell'essere  non 
ha  successione  ,  né  gradazione:  è,  o  non  é  (^334*).  Laonde 
due  sole  cose  possiamo  pensare  circa  l'essere  determinante;  o 
che  quest'atto  non  sia,  o  che  sia,  e  allora  pensiamo  l'atto  stesso 
semplicissimo  e  però  sempre  compiuto. 

411.  Ma  non  possiamo  noi  pensare  l'istante  stesso  in  cui  l'atto 
si  fa?  E  se  possiamo  pensare  quest'istante  non  possiamo  noi  appli- 
care a  ciò  che  pensiamo  farsi  in  quell'istante  l'adagio  degli  scola- 
stici: in  actu  actus  nondum  est  aclus?  Quest'adagio  appunto,  am- 
messo alla  grossa,  è  quello  che  ha  ingannalo  l'Hegel.  Un  tale 
adagio  non  vale  per  lutti  gli  atti  ma  solo  per  un  certo  genere.  Ci 
hanno  degli  alti  che  ammettono  successione  e  sono  tutti  puramente 
fenomenali  [Ideal.  779-799)  che  si  compiono  nel  tempo:  di  questi 
è  vero,  che  nel  mentre  si  fanno  non  sono  ancora  falli.  Ma  ci  sono 


3Zi9 

degli  atti  ,  che  per  la  loro  assoluta  semplicità  non  ammettono 
successione  né  gradazione  ,  e  questi  propriamente  non  si  fanno 
ma  sono:  e  tale  è  quello  dell'essere,  come  determinante,  e  anche 
come  ultima  determinazione  Ma,  poiché  noi  siamo  ahituati  a 
considerare  gli  atti  fenomenali-  e  temporanei  e  non  l'atto  puro 
dell'essere,  il  linguaggio  che  fu  trovato  per  quelli,  noi  lo 
trasportiamo  e  applichiamo,  con  troppa  confidenza,  a  questo;  e 
così  facilmente  c'inganniamo.  Di  quelli  noi  diciamo:  «  si  fanno 
e  intanto  che  si  fanno  non  sono  ancora  «,  ed  è  vero.  Di  questo 
vogliamo  dire  il  medesimo,  ed  è  falso,  è  una  contradizione  nei 
termini.  Se  dunque  di  quest'atto  determinante  dell'essere  vo- 
gliamo dire  che  «si  fa  «,  ricordiamoci  dell'improprietà  della 
locuzione  ,  e  consideriamo  che  il  «  si  fa  »  altro  non  può  qui 
significare  se  non  «  è  ».  Il  che  si  prova  rigorosamente  anche 
in  questo  modo.  Il  verbo  ,  terza  persona  ,  tempo  presente  , 
esprime  l'atto  che  si  fa  {Logic.  520  sgg.).  Così,  dell'azione  di 
parlare,  l'atto  che  si  fa  s'esprime  dicendo  parla;  dell'azione  di 
mangiare,  l'alto  s'esprime  dicendo  mangia.  Lo  stesso  si  dica  di 
tulli  gli  altri  verbi.  Prendiamo  dunque  il  verbo  essere,  e  vediamo 
come  si  esprime  l'atto  che  si  fa,  proprio  di  questo  verbo.  S'esprime 
appunto  dicendo:  È.  Se  dunque  il  monosillabo  È  esprime  l'atto 
che  si  fa  dell'essere  ,  consegue  che  l' È  in  questo  caso  ha 
egual  valore  di  si  fa.  IVla  l' È  dice  un  atto  compiuto ,  non 
solo  cominciato,  non  un  atto  ancor  in  fieri;  dunque  rispello 
all'essere  non  accade  che  si  possa  dire:  in  actu  aclus  non- 
dum  est  aclus.  Nel  qual  adagio  sono  supposti  due  atti  ,  poiché 
si  dice  :  «  nell'atto  dell'atto  »,  ma  l'atto  dell'essere  è  il  primo 
di  lutti  gli  atti  e  però  non  si  può  pensnre,  senza  assurdo, 
«  l'atto  di  questo  atto  »,  poiché  egli  stesso  é  l'atto  d'ogni  atto 
(,578  sgg.*).  Laonde  giustamente  i  teologi  negano  che  alla 
creazione  convenga  il  concetto  di  mutazione  (1). 

/il2.  Pure  la  mente  umana,  abituata  agli  atti  temporanei,  deve 
fare  uno  sforzo  a  concepire  un  atto  che  propriamente  parlando 
non  si  fa  mai,  ma  che  unicamente  o  é  o  non  é,  e  che  è  tale 
che  non  si  può  veramente  concepire  altro  che  o  fatto  o  non  fatto, 
non   nell'atto   di   farsi  ,    che   quest'atto   del    farsi    per    lui    non 

(1)  Cf.  S.  Th.  S.  I,  XLV,  2. 


c'è,  non  ci  può  essere,  come  escluso  dalla  sua  slessa  natura.  Chi 
non  coglie,  sarà  presto  a  replicare:  «  ma  dunque  Iddio  creando 
non  fa  ?  »  A  cui  noi  rispondiamo  che  quello  che  fa  Iddio  è  uni- 
camcnle  di  porre  tulio  intero  l'alio  dell'essere  delle  creature  ; 
dunque  quest'alto  non  è  propriamente  fatto  ma  è  posto. 

Essendo  posto  tulio  intero,  perchè  semplicissimo  ed   indivisi 
hile,  non  c'è  alcun  istante  in  cui  egli  si  faccia  e  non  sia  ancora; 
ma  l'atto  eterno  di  Dio  [  one  l'atto  dell'essere  delle  creature  in 
quell'istante  in  cui  vuole  che  sia,  ed  in  quest'istante  un  tale  allo 
è  compiulamenle:  prima  di  questo  istante  non  è  neppure  incipiente. 

Concludiamo  dunque  che  nelle  entità  noi  osserviamo  Tessere 
come  atto  che  determina  ciascuna  di  esse,  ma  ci  rimane  nascosta 
la  potenza  di  lutti  questi  atti,  la  potenza  universalmente  determi- 
nalrice;  perchè  questa  è  il  subiello  slesso  di  quell'alto  dell'essere, 
cioè  Dio,  di  cui  noi  aver  non  possiamo  che  una  cognizione 
negativa,  come  fu  detto;  ndi  vediamo  Tessere  determinante  solo 
in  ciascuno  de'  determinati ,  nell'atto  in  cui  ad  un  tempo  li  de- 
termina e  li  fa  esistere. 


Se  r essere  considerato  come  ultima  determinazione  sia  potenza. 
—  Conclusione  della  questione. 

filo.  E  in  quanto  li  fa  esistere,  in  tanto  abbiamo  detto  che  l'es- 
sere è  determinazione  ultima  e  comune  a  tulle  le  entità.  —  Qui 
dunque  scomparisce  interamente  anche  la  potenza  illusoria,  di  cui 
parlavamo,  perchè  l'ulliìna  e  comune  determinazione,  quella  del- 
l'esistenza, apparisce  per  ciascuna  entità  atto  purissimo. 

Possiamo  ora  noi  rispondere  alla  questione  che  ci  eravamo  pro- 
posta :  «  se  l'essere  possa  considerarsi  come  potenza ,  sia  come 
primo  determinabile,  sia  come  determinante,  sia  come  ultima 
e  posteriore  determinazione  «. 

Richiamiamo  a  tal  uopo  la  definizione  dilla  potenza:  «  la  po- 
tenza è  una  causa  che  ad  un  tempo  è  subiello  del  proprio  ef- 
fetto ».  Ora: 

L'essere  come  primo  determinabile  è  certamente  suhietto  dialet- 
tico ed  antecedente  di  tutti  gli  enti  determinali,  ed  egli  è  anche 


ÒOÌ 

causa  materiale  di  questi  :  indi  a  lui  può  convenire  la  denomina- 
zione di  potenza  ,  in  quel  modo  speciale  che  abbiam  veduto,  e 
di  potenza  triplice  secondo  le  categorie  de'  determinati:  ma  que- 
sta potenza  ha  per  suo  proprio  nome  quello  di  possibililà.  Que- 
sta triplice  potenza  è  dunque  la  possibilità  de'  concetti,  la  pos- 
sibilità de'  reali  e  la  possibilià   de'  morali. 

L'essere  come  dekrminanto  è  causa  certamente  della  determi- 
nazione propria  della  singola  entità  in  cui  si  vede  come  deter- 
minante, ma  essa  non  è  il  suhiello  del  suo  effetto  cioè  della  de- 
terminazione propria  della  singola  entità,  ma  il  subietto  di  questa 
determinazione  è  l'entità  stessa  :  perciò  l'essere  come  determi- 
nante è  causa  ma  non  potenza.  Questa  causa  è  in  allo  nelle  sin- 
gole entità  e  suppone  un'  altra  causa  libera ,  non  potenza ,  in 
cui  solo  può  trovarsi  la  ragione  delle  determinazioni. 

L'essere  come  determinazione  ultima  di  ciascuna  entità  è  pure 
causa,  causa  formalissima,  perche  causa  per  la  quale  il  reale  è 
ente.  Ma  que&V effetto  ,  cioè  l'esistenza  di  ciascuna  entità  ,  non 
ha  per  subietlo  lo  stesso  essere  che  colla  sua  potenza  lo  cagiona, 
ma  la  stessa  entità  ,  poiché  è  l'entità  quella  che  esiste.  L'essere 
dunque  come  determinazione  ultima  e  posteriore  non  è  potenza 
ma  puramente  causa  dell'atto  di  essa  entità  ,  visibile  nel  suo 
leimine.  Quest'atto  poi  puro  e  semplice  non  suppone  avanti  di  sé 
altra  potenza,  ma  solo  l'essere  assoluto,  a  cui  quell'atto  del- 
l'essere dell'entità  si  possa  ridurre. 

Nelle  entità  dunque  da  noi  concepite  l'essere  ci  si  manifesta 
i.°  come  potenza,  propriamente  possibilità;  2.°  come  alto  che 
suppone  prima  di  sé  una  causa  determinante  ,  non  causa  po- 
tenza; 5.°  come  alto  che  suppone  prima  di  sé  un'atto  completo 
di  §è,  cioè  V essere  assoluto  (creatore). 


Articolo  V. 

Se  la  virtualità  dell' essere   iniziale  sia  una  limitazione. 

hì'i.  Dalle  quali  cose  tutte  possiamo  dedurre  la  soluzione  della 
questione:    «se  la  virtualità  dell'essere  sia  una  limitazione». 
Poiché  apparisce  che  la  virtualità  dell'essere,  se  si  considera 


055 

come  virtualità  de'  termini  suoi  propri ,  non  limita  l'essere ,  ma 
solo  gli  toglie  mentalmente  i  termini  —  davanti  alla  mente  umana 
che  lo  considera  —  lasciandoglieli  impliciti  :  onde  rispetto  all'es- 
sere non  è  iimilazione ,  rispetto  poi  alle  forme  non  è  limitazione 
ma  totale  astrazione  di  esse,  e  questa  è  solo  relativa  alla  mente 
che  così  lo  contempla. 

La  virtualità  poi  dell'essere  rispetto  ai  termini  impropri  e  fi- 
niti non  è  una  sua  limitazione,  perchè  questi  non  sono  necessari 
a  far  che  Tessere  sussista  nella  sua  perfezione  assoluta,  ed  è  una 
perfezione  poi  l'averli  tutti  eminentemente  compresi  ne'  suoi  ter- 
mini  propri  ed  assoluti    {  Cf.   Psicol.  1373  sgg.  ). 

CAPÌTOLO   IH. 

Continuazione  —  DoHrina  dell'essere  possibile. 

Articolo   L 

Stalo  della  questione:    iicome  V  essere,   in  quanto  è  primo 
determinabile ,  possa  esser  potenza  ». 

/|15.  Le  cose  dette  fin  qui  devono  sollevare  molli  pensieri  nella 
mente ,  e  la  questione  pur  ora  sciolta  ingenerarne  altre  di  non 
meno  diffìcile  soluzione.  Poiché  come  si  può  attribuire  all'essere, 
concepite  come  primo  determinabile,  il  concetto  di  potenza? 

Primieramente  l'essere  si  presenta  come  atto  purissimo,  e  fu 
da  noi  riconosciuto  come  atto  di  tutti  gli  atti. 

Di  poi,  essendo  semplice  ed  uno,  come  potrebbe  egli  essere 
alto  ad  un  tempo  e  potenza,  quale  il  dichiaravamo  pur  ora.<^ 

Articolo  IL 

Soluzione  della  questione  in  generale. 

416.  La  soluzione  di  questa  difficoltà  dipende  interamente  dal 
giusto  concetto  della  potenza  dialettica.  Quando  una  cosa  si  chiama 


353 

potenza  dialettica,  non  si  dice  con  questo  che  ella  abbia  alcuna 
vera  potenzialittà  in  sé  stessa  ,  ma  solo  una  potenzialità  che  in 
essa  pone  la  mente  colla  sua  maniera  di  concepirla  in  relazione 
con  altre  cose. 

Ora  egli  è  chiaro  che  Vessere,  quando  si  considera  da  sé  stesso 
e  però  senza  la  relazione  co'  reali  finiti,  altro  non  ci  dà  che  un 
atto  purissimo  senza  meschianza  di  potenzialità  di  sorta  alcuna. 

Anzi  esso  é  propriamente  l'origine  del  concetto  di  atto  ,  per- 
chè è  esso  Vattoper  essenza.  E  non  si  sarebbero  pur  trovale  que- 
ste due  parole  essere  e  atto,  se  l'essere  solo  noi  avessimo  co- 
nosciuto, poiché  questa  seconda  parola  nacque  dal  bisogno  di 
distinguere  la  potenzialità  daWessere  stesso. 

417.  Il  concetto  di  potenzialità  é  dunque  sorto  nella  mente, 
perché  all'essere  si  aggiunse  qualche  restringimento  o  limitazione 
straniera  alla  sua  propria  natura.  Conviene  perciò  vedere  quali 
siano  tali  limitazioni  e  di  quante  specie. 

Primieramente  la  nostra  natura  finita,  la  nostra  mente ,  con- 
cepisce l'essere  separato  da  tutti  i  suoi  termini.  Non  è  già  che 
l'essere  sia  in  sé  stesso  così  separato ,  che  anzi  la  mente  umana 
stessa,  con  una  argomentazione  sopraveniente  e  riflessa,  dimostra 
a  sé  medesima ,  che  l'essere  concepito  con  una  tale  separazione 
non  è  tale  in  sé  slesso  ,  e  che  in  sé  stesso  deve  Irovarsi  unito  co' 
suoi  propri  termini.  Che  cosa  importa  dunque  «  l'essere  conce- 
pito senza  i  suoi  termini?»  Importa  che  l'essere  non  avendo,  per 
un'  ipotesi  naturale  della  mente,  i  suoi  termini,  può  averli.  Così 
la  mente  umana  col  suo  modo  di  concepire  ha  posto  nell'essere 
una  potenzialità  che  egli  non  ha  in  sé  stesso,  cioè  la  potenzia- 
lità di  avere  i  termini.. La  potenzialità  dunque,  che  nasce  mediante 
questa  limitazione  dialettica,  non  è  una  potenzialità  dell'essere  in 
sé,  ma  dell'essere  veduto  in  un  modo  limitalo  dalla  mente  umana, 
la  quale  non  ne  vede  tutto  il  fondo  ,  ne  vede  l'iniziamento  e  non 
il  finimento,  e  però  lo  vede  suscettivo  di  finimento  (  Cf.  Ideol. 
4143  w.).  11  qual  finimento  essendo  triplice,  triplice  è  pure  que- 
sta suscetlività,  0  potenzialità  dialettica  e  propriamente  possi- 
bilità. 

Oltre  di  ciò,  i  termini  di  cui  l'essere  indeterminalo  é  suscettivo 
sono  0  infiniti  o  finiti.    Riguardo  ai  termini   infiniti  si  considera 
come  potenza  dialettica,  perché  è  causa  e  subietto  dialettico.  Ri- 
RosMiNi.  Teosofia,  23 


354 

guardo  ai  termini  finiti  si  considera  come  potenza  ,  perchè  è  su- 
bietto dialettico ,  essendo  causa  vera. 


Articolo  III. 

Possibilità  deWente.  —  Dieci  generi  di  potenze. 

UìS.  Di  pili  noi  abbiamo  veduto  che  la  parola  possibile  riceve 
due  significati  fondamentali,  l'uno  quando  si  predica  àeWessere  in- 
determinato e  vuol  dire  che  «  l'essere  può  estendere  il  suo  alto  ai 
termini  » ,  l'altro  quando  si  predica  dei  termini  e  vuol  dire  che 
«  il  termine  può  ricevere  l'atto  dell'essere  •». 

Ma  quando  un  ente  esiste,  allora  entrambe  quelle  possibilità 
hanno  trovato  il  loro  atto ,  e  l' una  di  esse  non  può  trovarlo 
cbe  non  lo  trovi  in  pari  tempo  l'altra  ,  di  maniera  che  l'ente  è 
l'atto  unico  di  quelle  due  possibilità.  La  possibilità  dunque  del- 
l'ente abbraccia  quelle  due  possibilità  ad  un  tempo.  Né  fa  ma- 
raviglia che  V  ente  essendo  necessariamente  uno,  ma  scioglien- 
dosi dalla  mente  in  due  elementi  sintesizzanti ,  la  mente  altresì 
concepisca  la  sua  possibilità  in  relazione  con  que'  due  elementi  , 
e  si  formi  così  due  concetti  relativi  di  possibilità. 

419.  Se  noi  dunque  parliamo  della  possibilità  di  un  ente,  conviene 
che  consideriamo  che  questa  è  una  potenzialità  che  si  distingue 
da  ogni  altra,  perchè  si  riferisce  all'atto  puro  dell'essere  espri- 
mendo «  che  può  essere  » ,  non  che  può  fare  o  esser  fatto ,  non 
che  può  patire ,  non  che  può  avere  od  essere  avuto ,  non  che 
può  dare  od  esser  dato  ,  non  che  può  ricevere  od  esser  ricevuto. 
Questi  nove  copulativi  posteriori  aìVessere  {Logic.  427-459)  co- 
stituiscono nove  specie  di  potenze  relative  tutte  ad  atti  posteriori 
al  primissimo  dell'essere.  All'incontro  la  possibilità  dell'ente 
esprime  una  potenza  relativa  puramente  all'atto  primissimo  del- 
l'essere, e  però  è  una   potenza  peculiare,  tutta  differente 

i.°  Dalla  potenza  di  fare. 

2.°  Dalla  potenza   d'esser   fatto. 

3.°  Dalla  potenza  di  patire. 

4."  Dalla  potenza  di  avere. 

5."  Dalla  potenza   d'essere  avuto. 


6.**  Dalla  potenza  di  dare. 

7.0  Dalla  potenza  d'esser  dato. 

8.°  Dalla  potenza  di  ricevere. 

9.**  Dalla  potenza  d'essere  ricevuto  (1). 


355 


Articolo  1Y. 

Possibile,  predicato   deW essere  indeterminato  relativo 
a'  suoi  termini  propri  e  impropri. 

420.  La  possibilità  poi  che  nell'essere  iniziale  da  noi  si  pensa, 
cioè  «  la  suscettività  de'  suoi  termini  » ,  si  riferisce ,  come  ab- 
biamo già  accennato,  o  a' suoi  termini  propri,  o  a' suoi  termini 
impropri. 

In  quanto  si  riferisce  a'  suoi  termini  propri,  ell'è  k  la  possibilità 
di  Dio  ))  che  la  mente  umana  opina  di  pensare ,  come  abbiamo 
detto  :  e  questa  possibilità  è  simultanea  di  tutti  e  tre  i  termini  su- 
premi :  poiché  l'essere  iniziale  non  si  potrebbe  ultimare  in  uno 
di  essi,  senza  che  si  ultimasse  parimenti  negli  altri  due:  e  se 
la  mente  distingue  l'ultimarsi  in  una  delle  tre  forme  dall'ulti- 
marsi  in  un'altra,  è  anche  questo  un  opinamento  e  illusione  dia- 
lettica ,  di  cui  in  appresso  la  stessa  mente  può  dimostrare  a  sé 
stessa  l'assurdità. 

Rispetto  poi  alla  possibilità  che  nell'essere  iniziale  si  vede  de' 
suoi  termini  limitati,  questa  è  certo  assoluta,  e  non  ha  bisogno 
di  nulla  per  essere  concepita  (2). 

(1)  Di  qui  apparisce  che  la  divisione  della  potenza  in  attiva  e  passiva  è 
troppo  povera  al  bisogno  dell'Ontologia.  iNè  pure  la  maniera,  con  cui  Aristo- 
tele {Metaph.  IV  (V),  12)  classifica  le  potenze,  è  completa.  Tra  le  censure 
che  gli  furono  fatte  intorno  a  ciò  dagli  Scolastici  (Cf.  Suarez  Index  in  Me- 
taph. Arist.  V,  12)  una  fu  quella  che  tra  le  specie  di  potenze  da  lui  anno- 
verate manca  quella  di  creare.  Ora  creare  è  porre  l'essere  delle  cose.  Ma 
l'essere  si  pensa,  come  noi  abbiamo  osservato ,  in  due  modi ,  come  iniziale 
e  come  assoluto.  La  potenza  di  creare  appartiene  all'essere  assoluto.  All'es- 
sere iniziale  poi  appartiene  quella  che  abbiamo  detta  possibilità  de'suoì  ter- 
mini, che,  come  vedemmo,  è  triplice  per  la  trinità  delle  Categorie:  di  questa 
pure  non  trattano  bastevolmente  né  Aristotele,  né  gli  Scolastici. 

(2)  Si  distinguano  due  maniere  di  concepire  la  possibilità  di  checchessia  : 
1."»  la  prima  è  quella  in  cui  si  concepisce  la  semplice  ed  assoluta  possi- 


356 

421.  Ma  la  riflessione  sopravveniente  trova  in  appresso  che  ella 
ha  un  ordine ,  il  quale  è  il  seguente  : 

In  primo  luogo ,  acciocché  possano  darsi  de'  termini  limitati 
dell'essere  ,  è  necessario  che  l'essere  sia  ultimato  co'  suoi  termini 
propri  e  illimitali.  L'essere  assoluto  e  illimitato  è  dunque  la 
prima  condizione ,  non  a  che  si  possa  p'ìnsare  la  suscettività  de' 
termini  limitali ,  la  quale  si  può  pensare  da  sé  e  senz'altro  pen- 
siero ,  come  dicevamo ,  ma  a  che  questa  suscettività  o  possibi- 
lità ci  sia  veramente-  Poiché  se  non  ci  fosse  prima  l'essere  as- 
soluto, non  ci  sarebbe  il  subietto  determinante  e  limitante. 

In  secondo  luogo  ,  dato  precedentemente  questo  subietto  de- 
terminante e  limitante  ,  la  riflessione  ontologica  trova  un  ordine 
tra  le  tre  possibilità  relative  ai  termini  limitati  dell'essere.  Pe- 
rocché non  si  possono  concepire  de'  termini  reali ,  se  non  a  con- 
dizione che  prima  ci  siano  de' termini  corrispondenti  ideali  — 
giacché  il  concepire  non  è  altro  che  intuire  l'ideale  —  e  non  si 
può  concepire  che  ci  siano  de'  termini  morali ,  se  non  si  pensa 
prima  che  ci  siano  già  de'  termini  ideali  e  reali. 

Quindi  i  termini  ideali  dell'essere,  primi,  e  condizione  degli 
altri ,  sono  stati  considerati  come  le  possibilità  delle  cose  finite. 
Le  essenze  delle  cose  finite,  che  s'intuiscono  nelle  idee,  non  ma- 
lamente furono  anche  dette  da  Giovanni  Duns  Scoto  potenze  obiet- 
tive (1);  ma  a  noi  pare  più  schietto  chiamarle  le  possibilità  de' 
reali  finiti ,  o  i  possibili,  o  semplicemente  le  loro  essenze, 

422.  Da  quest'ordine  si  deduce  una  serie  subordinata  di  possibi- 
lità, ossia  una  serie  di  concetti  subordinati  di  possibilità  riguardo 

bilità ,  senza  che  il  pensiero  s'incarichi  di  determinare  a  quali  condizioni 
la  cosa  possiliile  possa  veramente  passare  all'esistenza  attuale  :  il  pensiero 
né  nega  né  afferma  tali  condizioni ,  ma  implicitamente  sa  che  ci  possono 
essere  ,  appunto  perchè  sa  che  la  tal  cosa  è  assolutamente  possibile  ,  il 
qual  concetto  implicitamente  contiene  Vassoluta  possibilità  di  tutte  le  con- 
dizioni, senza  le  quali  q\ie\V assoluta  possibilità  non  sarebbe;  2."  la  seconda 
maniera  di  concepire  la  possibilità  è  quella  di  concepire  non  solo  che  la 
cosa  è  assolutamente  possibile,  ma  di  concepire  e  pensare  ad  un  tempo 
Vesistenza  delle  condizioni  e  sopra  tutto  della  causa  atta  a  produrla.  Quindi 
gli  Scolastici  distinsero  i  possibili  in  negativi  definendoli  :  «  quelli  che  non 
involgono  contraddizione  »  e  in  positivi  «  quelli  che  possono  esser  prodotti 
da  una  causa  che  si  conosce  esistente  ». 
(1)  in  li,  Dist.  XII.  q.  i. 


357 

ai  termini  finiti  dell'essere,  gli  anelli  principali  della  qual  serie 
sono  i  seguenti  : 

A.  Possibilità  suprema —  \a  possibilità  dell' essetize  ideali 
piene,  la  quale  risiede,  cioè  si  vede  dalla  mente,  nell'essere  inde- 
terminato e  iniziale  (essendo  l'essere  assoluto  condizione  neces- 
saria alla  medesima). 

B.  Possibilità  media  —  la  possibilità  de'  reali  finiti ,  la 
quale  risiede  nelle  essenze  ideali  determinate. 

C.  Possibilità  ullima — là  possibilità  de' morali  finiti,  la 
quale ,  come  si  dirà  appresso  ,  risiede  nell'ordine  perfetto  delle 
essenze  ideali  determinate  ,  ordine  che  risulta  dalla  relazione  di 
queste  coW'essere  iniziale  e  coU'assoluto  (essendo  una  condizione 
necessaria  l'esistenza  dei  reali  finiti  intelligenti). 

Questa  triplice  possibilità  subordinata  relativa  ai  termini  fi- 
niti dell'essere  riceverà  la  necessaria  sua  spiegazione  da  quello 
che  diremo   appresso. 

Articolo  V. 

Possibile,  predicato  de'  termini  dell'essere.  —  Se  i  finiti  possibili 
siano  qualche  cosa  di  positivo  :  possibilità  logica,  possibilità 
metafisica  de'  medesimi  :  necessità  duplice  dell'  essere  assoluto 
e  de'  finiti  possibili. 

423.  Fu  disputato  se  gli  enti  finiti  possibili  sieno  qualche  cosa 
di  positivo,  alcuni  negandolo,  altri  affermandolo  (1).  Il  P,  Par- 
chetli  movendo  da  una  viziosa  definizione  delle  idee ,  quale  era 
invalsa  nelle  scole  sensistiche  del  suo  tempo,  dalla   definizione 


(1)  Fra  quelli  che  negarono  acremente  i  possibili  ne' tempi  moderni  è 
degno  d'esser  letto  il  P.  Ercolano  Oberrauch  nel  primo  trattato  della  sua 
Morale,  opera  che  dimostra  un  rarissimo  ingegno.  Un  altro  forte  ingegno, 
il  P.  Tarchetti,  diede  arditamente  nell'estremo  opposto,  sostenendo  ne'suoi 
Fragmenta  CosniologicB  (Lucani,  ex  Officina  F.  Veladini,  ìSàà,  e.  I)  che  i 
primi  possibili  sono  cose,  sostanze,  enti  eterni  e  indipendenti  dall'intel- 
letto divino.  È  pieno  d'interesse  il  mettere  a  confronto  gli  argomenti  di 
questi  due  acuti  pensatori,  e  vedere  con  quanta  sottigliezza,  e  con  uguale 
intendimento  pio  e  cattolico,  sostengano  sentenze  estreme  ,  allontanandosi 
per  opposte  vie  dal  comune  pensare. 


358 

cioè  che  le  idee  «  sieno  rappresentazioni  delle  cose  o  esistenti  o 
possibili  ))  (1)  ;  ne  dedusse  che  dunque  le  cose  possibili  sono  og- 
getti distinti  dalle  idee,  eterni,  indipendenti  dall'intelletto  di- 
vino, enti  in  cui  termina  l'alto  creativo^  il  quale  non  fa  altro 
che  aggiungere  a  quegli  enti  possibili  Vesistcnza  (la  realità),  di 
maniera  che  gli  enti  componenti  il  mondo  siano  gli  stessi  enti 
possibili  passati  all'esistenza  che  è  un  altro  modo  di  essere.  Ma 
la  nova  Ideologia  da  noi  introdotta  rovescia  quella  definizione: 
poiché  vi  si  dimostra  che  l'idee  non  sono  rappresentazioni  de' 
possibili,  ma  sono  i  possibili  stessi;  tutt'al  più  le  idee  possono 
dirsi,  e  impropriamente  ancora,  rappresentazioni  de'  reali  {Ideol. 
77,  n,  91  ,  97,  107  n,  177  w,  994  n.).  L'idea  è  lo  stesso  es- 
sere iniziale  (Ideol.  417)  ,  il  quale  o  si  pensa  senza  determi- 
nazioni e  senza  limiti,  e  si  dice  idea  dell'essere;  o  si  pensa  più  o 
meno  determinato  con  limiti,  e  si  dice  idea  di  qualche  altra  en- 
tità. Ora  quel  che  può  aver  ingannato  il  P.  Parchetli  ed  altri 
sono  appunto  queste  espressioni  :  «  idea  dell'essere ,  idea  della 
tale  entità,  ecc.  »,  nelle  quali  sembra  distinguersi  l'idea  dal  suo 
oggetto.  E  che  questo  si  distingua,  non  sta  qui  il  male:  e, 
noi  stessi  n'abbiamo  parlato  come  fosse  distinto  in  alcuni  luoghi 
del  Rinnovamento  ;  ma  tutto  sta  a  stabilire  di  qual  distinzione  si 
tratti.  L'essere  iniziale,  sia  che  si  consideri  illimitato,  sia  che 
si  consideri  limitato,  ha  più  rispetti,  sebbene  rimanga  sempre 
uno  e  il  medesimo  :  poiché  o  si  pensa  assolutamente  senza  rela- 
zioni ,  e  allora  si  dice  essere ,  o  si  pensa  in  quanto  è  intelligi- 
bile per  sé  stesso,  e  si  dice  oggetto,  o  si  astrae  da  lui  questa 
intelligibilità  come  una  proprietà  intrinseca  all'essere  nella  sua 
forma  obiettiva,  e  si  dice  idea.  Ma  questi  sono  rispetti,  in  cui 
si  considera  il  medesimo  essere  ,  che  ancora  sott'altri  si  può 
considerare:  come,  se  si  considera  come  atto  d'un  subietto , 
astrazion  fatta  dal  subietto  ,  esso  si  chiama  essenza  ;  e  se  si  con- 
sidera come  quello  che  fa  conoscere,  si  chiama  lume;  e  se  si 
considera  come  causa  prossima,  immediata  e  immanente  dell'in- 


(1)  Fragmenta  Cosmologia,  e.  I,  p.  12,  ove  dice:  Quid  sunt  idece?  Re- 
spondetur,  esse  repraesentationes  rerum  aut  extantium  aut  possibilium  ; 
onde  tosto  inferisce  :  Ergo  ideis  divinis  possibilium  dchet  respondere 
obiectum:  aliter  omnino  chimericae  forent;  imo  forent  zero,  seu  nihil. 


359 

telligenza  ,  si  chiama  forma  dell'inlelletto.  Così  dunque  quando 
si  dice  «  oggetto  dell'idea  »  ,  altro  non  si  vuol  dire  se  non  quel- 
l'essere, che  è  conosciuto  per  la  sua  propria  intelligibilità:  poiché 
r  intelligibilità ,  se  si  astrae ,  diventa  comune  a  lutti  gli  oggetti 
intelligibili  e  quindi  Videa,  che  è  questa  slessa  intelligibilità:  qua- 
lora dunque  si  vuol  indicare  a  qual  essere  appartenga  questa 
proprietà  dell'intelligibilità  di  cui  si  parla,  dicesi  che  quest'es- 
sere è  oggetto  d'un'idea;  e  del  pari  vanno  dichiarale  le  espressioni 
«  idea  dell'essere ,  idea  della  tale  e  tale  entità  «  che  altro  non  vo- 
glion  dire  se  non  «l'intelligibilità  inerente  all'essere,  l'intelli- 
gibilità inerente  alla  tale  entità  »,  senza  che  per  questo  si  mol- 
tiplichino le  entità  stesse. 

Rimane  a  considerarsi  l'altra  proposizione  del  citalo  filosofo  , 
cioè  che  «  r  atto  creativo  non  cavi  le  cose  dall'assoluto  nulla  , 
ma  altro  non  faccia  che  rendere  esistenti  quegli  enti  che  già  esi- 
stono ab  eterno  come  possibili ,  senza  dipendenza  dal  divino  in- 
telletto ».  Noi  non  possiamo  assentire  a  una  tale  proposizione  , 
riprovata  da  tutti  forse  i  filosofi  e  i  teologi  cattolici  :  ma  vogliamo 
indicare  la  via,  per  la  quale  la  mente  del  P.  Parchelti  possa  es- 
sere stata  condotta  a  un  tale  errore.  Faremo  questo  poi  col  ri- 
spondere alla  questione  che  ci  eravamo  proposta  :  «  se  i  possi- 
bili sieno  qualche  cosa  di  positivo  ». 

424.  Gonvien  dunque  considerare,  che  questa  locuzione  «  i  pos- 
sibili »  ha  due  significati,  perchè  è  un  predicalo  che  può  riferirsi 
a  due  subielti  :  ad  un  subietto  ideale  e  comune ,  e  a  un  subielto 
individuo  imaginato.  Se  si  riferisce  a  un  subietto  ideale,  per 
esempio  a  un  cavallo  ideale,  il  significato  è  questo:  «quest'ente 
ideale  (cavallo j  PUÒ'  essere  realizzalo  in  un  individuo».  Se  si 
riferisce  ad  un  subietto  individuo  che  ancor  non  esiste ,  ma  che 
s'  imagina ,  il  significalo  è  questo  :  «  quest'ente  individuo  che 
iraagino ,  può  essere  realizzato».  La  possibilità  in  questo  secondo 
caso,  cioè  come  predicato  d'un  subietto  individuo,  reale  o  ima- 
ginato come  reale,  è  quella  slessa  che  anche  si  predica  degli  in- 
dividui reali ,  onde  si  dice ,  che  dalla  realità  si  dà  passaggio  di 
inferenza  alla  possibilità,  come  argomentandosi:  «questo  cavallo 
sussiste,  dunque  è  possibile  ».  I  due  subielti  dunque  a  cui  si  ri- 
ferisce il  predicato  possibile  sono  oggetti  di  due  facoltà  diverse 
nell'uomo,    della   facoltà  intuitiva  delle  idee,  e  della    imagina- 


360 

zione  intellettiva,  che  risponde  alla  percezione  sensitiva.  Nel- 
l'uno e  nell'altro  caso  il  concetto  di  possibilità  contiene  la  rela- 
zione  tra  Videa  e  un  rea/e  percepito  o  imaginato;  e,  potendosi 
una  relazione  considerare  dalla  parte  di  ciascuna  delle  due 
entità  tra  cui  ella  passa ,  questo  dà  luogo  al  doppio  significato 
della  parola  possibile. 

42o.  La  questione  propostaci  dunque  si  divide  in  due,  poiché 
si  può  dimandare: 

i."  Il  possibile,  considerato  come  predicato  dell'essenza  che 
s'intuisce  nella  idea  ,  è  egli  qualche  cosa  in  essa  essenza  di  po- 
sitivo ? 

2."  Il  possibile,  considerato  come  predicato  d'un  reale  ò  per- 
cepito 0  imaginato ,  è  egli  in  questo  reale  qualche  cosa  di  po- 
sitivo? 

Affine  di  rispondere  a  queste  questioni  conviene  che  investi- 
ghiamo la  natura  delle  relazioni ,  non  a  pieno ,  il  che  tenteremo 
di  fare  nel  libro  seguente,  ma  quanto  ci  è  necessario  al  bisogno. 

La  relazione  corre  sempre  tra  due  entità  :  ma  l'origine  onde 
ella  nasce,  talora  è  in  una  sola  di  esse,  la  quale  si  suol  chia- 
mare il  fondamento  o  il  principio  della  relazione;  l'altra  poi  a  cui 
la  relazione  è  ordinata  si  suol  chiamare  semplicemente  il  termine 
della  relazione  stessa  (4).  Il  subietto  poi  in   cui  esiste  il   fonda- 

(1)  Filippo  Melantone  troppo  universalmente  scrisse  ne' suoi  libri  De  Dia- 
lectica  (Wiitemberg  \%'òi)  così:  Omne  relativum  ver satiir  Inter  duo,  quo- 
rum alternm  vocatur  fundamentum  a  quo  oritur  relatio.  Terminus  est 
res,  ad  quam  ordinata  est  relatio.  Inter  ha;c  relatio  est  ipsa  applicatio 
seu  ordo  fundamenti  ad  terminum  (Lib.  I,  p.  55).  Nella  relazione  per 
esempio  della  distanza  tra  due  corpi ,  qual  di  essi  è  il  fondamento ,  quale 
è  il  termine?  0  né  l'uno  né  l'altro,  o  amendue  sono  ad  un  tempo  il  fonda- 
mento e  il  termine  della  relazione  ,  secondo  che  la  mente  va  dall'uno  al- 
l'altro, movendo  da  quello  che  le  piace.  Onde  qui  il  fondamento  o  principio 
della  relazione  è  puramente  dialettico  e  nasce  dal  modo  di  vedere  della 
mente  stessa.  Ma  in  sé  il  principio  di  quella  relazione  di  distanza  non  é  né 
nell'uno,  né  nell'altro  de' due  termini  della  relazione,  ma  é  nella  natura 
dello  spazio  (Gf.  Logic.  ,421*);  e  ciò  perchè  la  distanza  de' due  corpi  è 
«  una  relazione  conseguente  ad  un'altra  »  cioè  alla  relazione  della  materia 
collo  spazio.  Conviene  dunque  tra  l'altre  distinzioni  che  sono  a  farsi ,  di- 
stinguere «  le  relazioni  immediate  tra  due  unità  »,  dalle  mediate  che  na- 
scono da  relazioni  precedenti,  nelle  quali  si  deve  cercare  il  principio  o  fon- 
damento delle  medesime. 


56i 

mento,  dicesi  subietto  della  relazione.  In  questo  caso  ì\  principio 
della  relazione  è  qualità  essenziale  o  accidentale ,  positiva  o  ne- 
gativa, d'una  sola  delle  predette  entità.  Così  il  principio  della  re- 
lazione tra  la  causa  e  l'effetto  è  nella  causa;  la  causalità  slessa 
è  la  qualità  essenziale  o  accidentale  d'una  entità,  che  da  essa  si 
denomina  causa;  l'effetto  all'incontro,  quand' ha  un'esistenza  di- 
versa da  quella  della  causa  propria  e  indipendente ,  non  è  che 
il  termine  della  relazione.  La  pura  condizione  d'essere  effetto  o 
non  è  una  qualità  ovvero  è  una  qualità  dipendente  dalla  causa- 
lità propria  dell'entità  che  ha  virtù  di  produrlo. 

426.  Riprendiamo  ora  la  prima  questione:  «  il  possibile —  la 
relazione  che  concepisce  la  mente  tra  l'essenza  ideale  e  il  reale  — 
considerato  come  predicato  dell'essenza,  è  egli  in  questa  qualche 
cosa  di  positivo?»  Il  possibile  così  preso  significa  che  non  in- 
volge contraddizione  che  quella  essenza  sia  realizzata.  Ma  que- 
st'assenza di  contraddizione  è  ella  l'ultima  ragione,  per  la  quale 
un'essenza  si  dica  possibile  a  realizzarsi?  o  si  può  domandare  an- 
cora: per  qual  cagione  tostochè  la  mente  intuisce  un'essenza  (e 
se  involgesse  contraddizione  non  sarebbe  un'essenza,  né  sarebbe 
intuibile)  intende  e  dice  che  è  possibile?  Quest'ulteriore  domanda 
si  può  certamente  fare,  e  la  ragione  domandata  sta  nella  natura 
stessa  dell'essere,  il  quale  è  per  sé  pensabile  ossia  intelligibile, 
e  l'essere  intelligibile  involge  la  possibilità  assoluta:  l'assenza 
della  contraddizione  è  una  proprietà  essenziale  dell'essere,  e  però 
è  una  condizione,  acciocché  sia  essere  e  acciocché  sia  pensabile 
come  tale.  —  Ma  dopo  che  l'ho  pensato,  non  sembra  egli  che  io 
aggiunga  qualche  cosa,  che  io  aggiunga  qualche  altra  sua  pro- 
prietà, quando  incontanente  dico  che  può  essere  realizzato?  — 
La  prima  risposta  che  s'affaccia  alla  mente  é  questa,  che  quando 
io*  dico  (c  la  tal  essenza  può  essere  realizzata  « ,  intendo  di  dire 
unicamente  che  «se  per  ipotesi  si  supponesse  esistere  il  reale  cor- 
rispondente a  quella  essenza ,  questo  reale  sarebbe  anch'egli 
pensabile ,  senza  difficoltà ,  come  quello  che  non  si  opporrebbe 
alle  leggi  del  pensiero,  che  nulla  ricusa  fuor  solo  il  contrad- 
ditorio ».  E  la  risposta  é  giusta  in  sé  stessa.  Ma  con  questa  ri- 
sposta non  si  stabilisce  che  la  possibilità  logica,  che  é  appunto 
un  sinonimo  dì  pensabilità  (Ideal.  543,  1070).  Ma  questa  possi- 
bilità logica  e  negativa  ha  ella  un  fondamento  metafisico?  Tutto 


362 

ciò  che  è  negativo  non  deriva  egli  da  qualche  antecedente  po- 
sitivo? 

Indubitatamente,  e  questo  antecedente  positivo  è  appunto, 
come  dicevamo,  la  natura  delV essere ,  che  noi  dobbiamo  qui 
novamenle  considerare.  Abbiamo  già  detto  che  l'essere,  per 
quanto  s'intuisca  imperfettamente  dall'uomo,  mostra  sempre  in 
sé  stesso  una  necessità  assoluta ,  perchè  l'essere  non  può  non  es- 
sere. Di  qui  la  riflessione  deduce,  che  l'essere  dovendo  essere, 
egli  deve  aver  lutto  ciò  che  è  condizione  indispensabile  accioc- 
ché sia ,  quantunque  questa  condizione  di  sua  esistenza  non  si 
intuisca  da  noi.  Questa  stessa  riflessione  ontologica  ,  o  piut- 
tosto deontologica ,  avanzandosi  a  ricercare  che  cosa  sia  con- 
dizione all'esistenza  dell'essere,  trova  che  é  la  determinazione 
completa  nelle  sue  tre  forme  categoriche ,  col  quale  argomento 
viene  ad  intendere  dover  esister  l'essere  assoluto.  Questo  triplice 
termine  è  condizione  essenziale  all'essere,  acciocché  sia,  e  nulla 
più  si  richiede,  accioché  l'essere  abbia  un'esistenza  in  sé.  Ma 
assicurata  così  la  sua  esistenza  in  sé,  richiesta  dall'intima  neces- 
sità del  medesimo ,  la  riflessione  vede  oltre  ciò  che  il  concetto 
di  essere  è  così  esteso  che  abbraccia  anche  i  modi  limitati  di 
essere.  Pure  questi  non  sono  necessari  alla  sua  esistenza  in  sé. 
Ora  queste  due  proprietà  dell'essere:  i."  di  contenere  nel  suo 
concetto  tutti  i  modi  limitati  di  esistenza;  2."  e  di  non  essere  essi 
necessari,  acciocché  l'essere  sia  veramente  in  sé  e  non  si  an- 
nulli —  come  si  annullerebbe  in  sé  stesso  se  gli  mancassero  le  con- 
dizioni del  suo  esistere  in  sé  —  sono  quelle  da  cui  si  compone  il 
concetto  della  possibililà  metafisica  ossia  ontologica  degli  enti 
finiti. 

427.  Questa  possibilità  dunque  involge  due  cose ,  la  prima  che 
l'essere  non  sia  intelligibile  in  tutta  la  sua  estensione  se  nel  suo 
concetto  non  abbraccia  i  detti  modi  limitati;  e  che  questi  modi  non 
abbiano  punto  bisogno  d'esistere  in  sé,  acciocché  l'essere  sia  in 
sé,  bastando  che  esistano  nel  concetto.  Ma  nel  concetto  dell'es- 
sere é  necessario  che  essi  esistano  ;  altramente  non  sarebbe  più  il 
concetto  dell'essere,  che  ha  un'estensione  illimitata.  Ci  sono  dun- 
que due  necessità  provenienti  entrambi  della  natura  dell'essere  : 
i  °  La  necessità  ,  che  1'  essere  esista  in  sé ,  e  perciò  che 
abbia  i  suoi  termini  propri ,  senza  i  quali  mancherebbe  la  sua  esi- 


363 

stenza  in  sé,  e  però  in  sé  stesso  si  annullerebbe,  e  questa  è  la 
necessità  dell'essere  assoluto. 

2.°  La  necessità  che  l'essere  esista  come  intelligibile,  per- 
chè se  non  fosse  intelligibile  ,  mancherebbe  il  concetto  stesso  del- 
l'essere, e  però  molto  meno  potrebbe  avere  un'esistenza  in  sé; 
la  necessità  poi  del  concetto  dell'essere  importa ,  che  in  questo 
concetto  ci  sieno  anche  tutti  i  modi  limitali  di  essere^  senza  i 
quali  quel  concetto  sarebbe  un  altro,  e  non  più  quello  dell'es- 
sere :  e  questa  è  la  necessità  de'  possibili  ossia  dell'essenze  delle 
cose  limitate  {Ideal.  507  n,  373  «,  380,  1106,  1158,  1460). 

Di  qui  viene  il  concetto  della  contingenza.  Perocché  ogni  ne- 
cessità viene  dalla  natura  dell'essere  come  da  suo  fonte ,  e  si 
riduce  a  questa  formola  :  «  la  necessità  é  la  proprietà  che  ha  l'es- 
sere di  esistere  in  sé  ».  Le  condizioni  poi  acciocché  l'essere  esi- 
sta in  sé  sono  due:  1."  che  esista  co'  suoi  termini  propri; 
2.°  che  esista  il  suo  concetto ,  che  abbraccia  tutti  i  termini  im- 
propri. Ma  non  è  punto  condizione,  acciocché  l'essere  esista  in 
sé,  che  esista  in  sé  co'  suoi  termini  finiti.  La  reale  esistenza  di 
questi  non  é  dunque  necessaria  :  la  mancanza  di  questa  neces- 
sità dicesi  contingenza.  «  La  contingenza  é  dunque  quella  pro- 
prietà negativa  degli  enti  finiti ,  per  la  quale  non  é  punto  ne- 
cessario che  esistano  in  sé ,  ossia  nella  loro  forma  reale  o  mo- 
rale » . 

Mediante  questa  analisi  si  rileva ,  che  la  possibilità  de'  con- 
tingenti ,  sebbene  logicamente  altro  non  significhi  che  un'assenza 
di  contraddizione  ,  tuttavia  ha  il  suo  fondamento  in  una  proprietà 
essenziale  dell'essere,  che  è  quella  d'avere  un  concetto  affatto  illi- 
mitato, la  quale  vedesi  appunto  nell'essere  iniziale  e  indeter- 
minato. 

In  questo  senso  e  secondo  queste  dichiarazioni  si  dee  conchiu- 
dere ,  che  la  possibilità  attribuita  alle  essenze ,  benché  logica- 
mente sia  un  concetto  negativo,  pure  ha  per  sua  base  e  prin- 
cipio una  proprietà  positiva  dell'essenze  medesime,  proprietà 
nondimeno  che  deriva  dalla  natura  dell'essere ,  onde  possibili  si 
dicono  «  in  quanto  partecipano  di  quell'essere  che  contiene  nella 
sua  intelligibilità  tutti  i  modi  limitati  di  essere  )>. 

428.  Venendo  ora  all'altra  quistione  :  «  se,  quando  si  attribuisce 
ai  reali,  o  percepiti  o  imaginati,  la  possibilità,  si  predichi  di  essi 


564 

qualche  cosa  di  positivo  »,  sarà  facile  il  rispondere  che  essi  non 
sono  il  principio  ma  solo  il  termine  della  relazione  di  possibilità 
di  cui  parliamo.  Laonde  «  un  reale  possibile  »  non  vuol  dir  al- 
tro se  non  che  questo  reale  ha  come  sua  condizione  necessaria 
un'essenza  ideale  e  necessaria^  nella  quale  giace  la  sua  possibi- 
lità logica  e  altresì  metafisica,  nel  senso  di  sopra  spiegato.  Di  che 
è  a  conchiudersi  che  la  possibilità  come  predicalo  degli  enti  reali 
finiti,  non  è  nulla  di  positivo  che  ad  essi  appartenga,  ma  so- 
lamente una  condizione  antecedente  ad  essi ,  condizione  che  è 
quella  stessa  qualità  che  abbiamo  riconosciuta  positiva  nella  sua 
essenza  ideale,  in  quanto  questa  giace  nel  concetto  dell'es- 
sere (1). 

La  doppia  locuzione  dunque,  per  la  quale  ora  si  fa  la  possi- 
bilità un  predicato  dell'essenza  ideale ,  ora  un  predicato  del  sus- 
sistente reale,  non  esprime  una  doppia  possibilità,  ma  la  stessa 
possibilità  considerata  rispetto  alle  due  entità  a  cui  s'estende  per 
esser  essa  una  relazione  :  soltanto  che  quando  si  predica  dell'es- 


(1)  La  maniera  di  parlare  d'Aristotele  che  gl'intelligibili  sieno  in  potenza 
negli  enti  aventi  materia  èv  Sì  toTs  ty^oMaiv  u),/]v,  S-jvuixti  Ixkstóv  Ioti  twv  vovitwv 
{De  An.  Ili,  i)  è  piena  di  equivoci  pel  vario  significato  della  parola  Wva//.t{, 
potenza,  che,  come  abbiam  veduto,  si  parte  in  tanti  generi  e  specie.  Se- 
condo quella  maniera  di  dire,  l'intelligibile  in  potenza  sembrerebbe  qualche 
cosa  di  positivo  negli  enti  materiali  e  sensibili.  Aristotele  fu  condotto  a 
quell'espressione  dall'aver  considerato  gli  enti  reali  come  stanno  concepiti 
dalla  mente_,  la  quale  concependoli  compone  la  parte  reale  (materia)  col- 
r  ideale  che  è  in  sé.  E  lo  stesso  filosofo  travide  almeno  questa  verità  quando 
definì  la  mente  a  la  potenza  delle  entità  prive  di  materia  avsu  yip  uì-oi  Sù- 
vafj.ii  b  volli  T&iv  TotouTwv  »  e  fece  che  «  di  questa  potenza  si  componessero 
tutti  gli  intelligibili  »  (Ivi).  Ora  se  la  potenza  (Wva/;.t?)  degl'intelligibili  è  la 
mente,  come  possono  essere  in  potenza  (5uvà/;.si),  fuor  della  mente,  se  «on 
prendendo  la  parola  ^uvayts  in  tutt'altro  senso?  —  Che  se  la  mente  è  come 
una  materia  intelligibile  che  diviene  tutti  gl'intelligibili,  come  egli  dice, 
conviene  che  questa  mente  sia  lo  stesso  essere  indeterminato.  Acciocché 
dunque  quella  sentenza  aristotelica  riceva  un  significalo  ragionevole,  è  ne- 
cessario che  «  aver  l'intelligibile  in  potenza  »  altro  non  significhi,  se  non 
potere  i  reali  essere  concepiti  dalla  mente,  ossia  essere  veduti  in  relazione 
colle  loro  essenze  ideali.  Ma  lo  Stagirita  distrugge  sgraziatamente  questa  re- 
lazione ,  cangiandola  in  una  vera  identificazione  ;  cosi  identifica  la  mente 
reale  coli' idea,  e  questo  è  il  suo  error  capitale  ètiI  /xìv  yxp  twv  avsu  uX/js,  rè 

leUTÓ  éffTì  TÒ  voovj^  xal  tò  vooii/icvov  {De  An.  III,  A). 


365 

senza,  allora  si  attribuisce  all'entità  che  è  principio  della  rela- 
zione, nella  quale  giace  come  qualche  cosa  di  positivo:  quando 
si  predica  del  sussistente  finito  si  considera  dalla  parte  dell'en- 
tità in  cui  termina  la  relazione ,  e  in  cui  non  costituisce  alcuna 
qualità  positiva 

'i29.  Si  dirà  forse,  che  negli  individui  reali  finiti  si  possono  ri- 
conoscere la  potenza  d' esser  [alto  e  impotenza  di  ricevere  l'essere  e 
la  potenza  di  aver  l'essere ,  che  sono  tre  de'  novi  generi  più  sopra 
indicati  di  potenza.  Ma  se  si  può  attribuire  alla  realità  finita  questi 
tre  generi  di  potenza,  essi  in  ogni  caso  altro  non  sarebbero  che 
certi  concetti  dialettici  che  non  darebbero  niuna  qualità  positiva 
all'ente  reale  sussistente ,  sebbene  né  pure  sono  tutti  e  tre  modi 
dialettici  di  concepire,  ma  piuttoso  modi  illusori. 

E  infatti  sotto  l'espressione  potenza  d'esser  fatto  o  s'intende  la 
stessa  possibilità  logica  e  metafisica  di  cui  abbiamo  parlato,  o 
s' intende  la  potenza  creativa,  che  ha  l'essere  assoluto ,  di  deter- 
minare l'essenza  e  di  realizzarla.  In  quest'ultimo  caso  una  tale 
potenza  indica  una  qualità  positiva  nell'essere  assoluto,  princi- 
pio della  relazione ,  ma  niuna  qualità  positiva  nel  termine  della 
relazione,  il  quale  non  esiste  se  non  posteriormente  all'atto  crea- 
tivo stesso:  e  se  si  concepisce  anteriormente,  questo  non  è  che 
un  atto  dell'imaginazione  intellettiva,  dalla  riflessione  poi  cono- 
sciuto come  illusorio;  non  potendo  avere  altra  determinazione, 
che  l'essenza  ideale  contenuta  nell'essere  obiettivo  o  nel  con- 
cetto dell'essere. 

In  quanto  poi  alla  potenza  di  ricevere  l'essere  conviene  riflettere 
che  0  il  subielto  di  questa  potenza  è  di  novo  l'essenza  ideale  , 
e  in  tal  caso  sotto  l'espressione  ricevere  l'essere  altro  non  si  viene 
a  dire  che  poter  quell'essenza  essere  realizzata,  o  poter  ricevere 
la  forma  reale  dell'essere ,  onde  si  rifonde  nel  concetto  di  quella 
possibilità  che  si  predica  delle  essenze  finite  e  determinate.  Ov- 
vero si  vuole  che  il  subietto  della  potenza  di  ricevere  l'essere 
sia  la  realità  stessa,  e  in  tal  caso  si  fa  subietto  cosa  che  non 
è  e  non  può  essere  concepita  come  subielto,  separata  che  sia 
dall'essere,  perchè  non  è  al  tutto.  Non  si  può  dunque  pensare 
come  potenza  di  ricevere  l'essere ,  ma  solo  come  avente  già  rice- 
vuto l'essere  ,  poiché  soltanto  dopo  averlo  ricevuto  si  concepisce 
esistente  e  si  può  poi  per   astrazione  dividere  dall'essere.  Come 


366 

potenza  dunque  di  ricevere  l'essere  la  realità  finita  altro  non  è 
che  un  concetto  illusorio. 

Finalmente  dato  il  reale  esistente ,  e  dividendo  coU'astrazione 
la  realità  dall'essere,  si  può  in  qualche  modo  concepire  la  rea- 
lità come  potenza  d'aver  l'essere,  come  si  può  dire  che  chi  ha 
una  cosa  la  può  avere  ;  ma  anche  qui  non  è  solamente  una 
maniera  dialettica  di  concepire ,  essa  ha  pure  del  falso  e  dell'illu- 
sorio ;  perchè  infatti  la  realità  o  ha  l'essere  attualmente  o  non 
l'ha;  e  perciò  si  può  concepire  come  nell'atto  dell'essere,  ma 
non  come  in  potenza  all'essere  :  che  concepita  in  quesl'  ultimo 
modo  è  essenza  ideale  e  non  reale. 

Conviene  dunque  conchiudere  che  la  realità  finita  è  sempre 
in  atto  —  perchè  è  un  termine  dell'essere;  —  ma  non  è  mai  in 
potenza  all'essere. 

CAPITOLO  IV. 

Continuazione. — Dell'atto  considerato  nell'essere 
indeterminato. 


Articolo  I. 
Ricapitolazione  e  nesso  colla  trattazione  che  segue. 

liZO.  Da  tutto  il  ragionato  fin  qui  risulta  : 

d."  Che  l'essere  come  primo  determinabile  si  concepisce  come 
una  potenza  d'avere  i  suoi  termini. 

2.°  Che  questa  potenza  è  puramente  dialettica. 

3.°  Che  questa  potenza  dialettica  non  ha  le  stesse  condi- 
zioni rispetto  ai  termini  propri  e  ai  termini  impropri  dell'essere; 
poiché  rispetto  ai  termini  propri  l'essere  indeterminato  si  con- 
cepisce come  potenza  d'essere  V  essere  determinato ,  laddove  ri- 
spetto a'  termini  impropri  si  concepisce  come  potenza  di  aver  tali 
termini. 

4.°  Che  la  potenza  che  s'attribuisce  all'essere  indeterminato 
d'essere  l'essere  determinato  è  potenza  dialettica  opinativn  ;  il 
che  è  quanto  dire ,  che  non  è  più  che  un'  illusione  dialettica  ; 


567 

laddove  la  potenza  d'aver  i  termini  finiti  è  veramente  una  po- 
tenza dialettica. 

Poiché,  che  l'essere  sia  determinato  da'  suoi  termini  propri, 
questo  non  è  possibile,  ma  sempre  attualmente  necessario.  E 
veramente  il  concetto  dell'essere  non  dà  altra  necessità  se  non 
questa  che  l'essere  sia.  Ma  l'essere  non  è  se  non  è  in  sé:  ma  in 
sé  non  può  essere  se  non  ha  i  suoi  termini  propri,  dunque  questi 
sono  necessari. 

All'incontro  i  termini  impropri  dell'essere  non  sono  dimo- 
strali necessari  dal  concetto  dell'essere  :  ma  da  questo  concetto 
è  solo  dimostrata  necessaria  la  loro  possibilità  in  quanto  che  tale 
è  l'estensione  di  questo  concetto,  che  abbraccia  tutti  i  modi  pos- 
sibili dell'essere:  dunque  anche  i  finiti.  È  dunque  necessario  che 
nell'essere  si  concepisca  la  potenza  dialettica  de'  suoi  termini  finiti 
ma  non  l'alto  di  questi. 

5.°  (Ihe  essendo  la  causa  potenza  quella  che  è  subietto  de' 
suoi  atti  e  però  essendo  dialellica  ogni  qual  volta  il  subietlo  é  dia- 
lettico ,  la  potenza  dialellica  si  divide  in  più  specie  secondo  la 
specie  della  causa.  Ora  nel  caso  nostro  l'essere  indeterminato 
non  é  causa  efficiente  de'  suoi  termini ,  ma  come  primo  determi- 
nabile—  concepito  separato  da'  suoi  termini  —  è  puramente  cawsa 
logica  0  ideale,  e  però  l'essere  come  potenza  d'avere  i  suoi  ter- 
mini finiti  dee  chiamarsi  «una  potenza  dialettico-ideale». 

Ma  come  l'essere  che  è  semplicissimo  può  ad  un  tempo,  come 
primo  determinabile,  ricevere  il  nome  di  potenza  dialettico-ideale, 
quand'egli  stesso  come  primo  determinante  e  ultima  determina- 
zione dà  un  concetto  di  puro  alto?  Ecco  quello  che  ci  resta  ad 
indagare. 

Articolo  II. 

Come  la  potenza  dialettica  opinatila  si  concilii  coli'  attualità 
propria  dell'essere. 

hZi.  E  in  prima,  se  l'essere  atto  appartiene  all'essenza  stessa 
dell'essere,  in  qualunque  maniera  anche  imperfetta  si  concepisca, 
egli  deve  apparire  come  atto  dall'istante  che  si  concepisce. 

A  questo  rispondiamo  che  cosi  è  appunto:  poiché  l'essere  ini- 


368 

ziale,  abbia  o  non  abbia  i  suoi  termini,  è  sempre  atto  e  alto  di 
ogni  atto.  Questo  s'intenderà  considerando  meglio  come  l'essere 
iniziale  si  unisca  a'  suoi  termini.  Egli  si  unisce  propriamente 
colla  sua  presenza  senza  soffrire  modificazione  di  sorte,  tanto  se- 
parato quanto  unito  ad  essi  egli  è  uguale:  l'atto  di  unirsi  appar- 
tiene dunque  al  copulativo  dare,  ma  è  più  speciale  cbe  il  dare 
preso  in  tutta  la  sua  universalità.  Egli  dà  ossia  pone  sé  stesso , 
e  non  altra  cosa:  o  per  parlare  con  più  proprietà  (non  essendo 
egli  propriamente,  come  abbiamo  veduto,  il  subietlo  dante  ma 
sì  l'essere  assoluto)  è  dato,  è  posto  tale  qual  è,  cioè  come 
atto.  Ora  che  un  atto  sia  qui  o  qua,  in  più  o  meno  subielli , 
questo  non  gli  fa  perdere  né  acquistare  la  sua  propna  natura 
e  essenza  di  allo  :  ma  rimane  sempre  quello  cbe  è,  cioè  atto.  Si 
prenda  un  allo  qualunque  anche  posteriore  a  quello  dell'essere, 
e  si  potrà  fare  lo  stesso  discorso.  L'alio  del  vedere,  a  ragione  di 
esempio,  non  è  un  atto  necessario,  ma  contingente:  pure,  se 
c'è,  c'è  necessariamente  come  atto  e  non  può  esserci  come  po- 
tenza perchè  la  sua  natura  ed  essenza  è  quella  di  allo.  L'atto 
dell'essere  all'incontro  è  un  allo  necessario,  non  può  non  essere: 
è  dunque  come  atto.  Ma  quest'atto  che  è  necessariamente ,  tro- 
vasi unito  a  più  0  meno  o  a  diversi  suoi  termini:  la  sua  natura  è 
la  medesima:  è  sempre  alto.  Ciò  che  per  essenza  è  atto,  non 
può  essere  altramente. 

Quando  dunque  si  dice  dell'essere  indeterminato  e  iniziale,  che  è 
la  potenza  di  essere,  questa  maniera  non  va  intesa  allo  stesso  modo 
come  s'intendono  gli  altri  generi  di  potenza.  Non  si  deve  inten- 
dere ,  quasi  che  Ventità  di  cui  si  predica  una  tale  potenza ,  abbia 
ella  stessa  la  natura  di  potenza  :  ma  si  deve  intendere  che  avendo 
ella  e  rilenendo  immutata  la  natura  di  allo,  c'è  la  possibilità 
che  quest'atto  si  trovi  unito  a'  suoi  termini.  Questa  è  una  po- 
tenza relativa  a'  suoi  termini:  .sono  questi  che  acquistano  l'atto: 
l'atto  già  e'  è  come  alto  :  ma  i  termini  non  sono  :  possono  dun- 
que essere. 

Ora  questo  parrebbe  a  prima  giunta  il  contrario  di  quanto  ab- 
biamo detto  di  sopra ,  cioè  che  la  possibilità  non  è  qualche  cosa 
di  positivo  che  si  predica  de'  termini  ,  ma  qualche  cosa  di  po- 
sitivo che  si  predica  dell'essere  o  dell'essenza.  Ma  chi  attenta- 
mente consideri  la  cosa,  vedrà  che  non  c'è  contraddizione  nelle 


369 

due  (lollrìne.  Perocché  quello  che  c'è  di  positivo  nell'essere,  e 
nelle  essenze  costituenti  la  possibilità  de  termini ,  è  appunto  que- 
sto che  l'essere  è  aito  ;  e  perchè  è  atto ,  perciò  dove  si  trova  dà 
l'atto  di  esistere  a'  termini.  Onde  non  ci  potrebbe  essere  la  po- 
tenza di  essere  ossia  la  possibilità  de' termini  se  l'essere  non  fosse 
atto  purissimo.  L'attribuzione  dunque  di  potenza  conviene  all'es- 
sere iniziale  appunto  per  questo  che  egli  non  è  potenza  ma  atto; 
ed  essendo  atto,  può  fare  che  l'altre  cose  tutte  acquistino  l'atto. 

Tale  dunque  è  la  natura  di  questa  prima  e  singolare  potenza 
dell'essere,  che  è  una  potenza  che  consegue  necessariamente  alla 
natura  di  atto  purissimo.  L'essere  cioè,  appunto  perchè  è  puro 
atto  rispetto  a  sé,  ha  là  potenza  di  fare  che  abbiano  l'atto  i  suoi 
termini  a  cui  s'unisce.  Questa  maniera  di  potenza  dunque  ,  non 
è  tale ,  che,  come  l'altre,  supponga  un  difetto  di  atto  in  chi  la 
possiede,  ma  è  tale  che  non  può  trovarsi  in  altro,  se  non  in 
ciò  che  è  puro  atto. 

^ù'^.  A  questo  si  opporrà  che  quando  così  sia  la  cosa,  alla  po- 
tenza propria  dell'essere  iniziale  non  conviene  più  la  definizione 
data  della  potenza:  «una  causa  che  ad  un  tempo  è  subietto  del 
proprio  effetto»  (^579*).  Poiché  l'essere  iniziale  rimane  ugual- 
mente atto,  sia  diviso  o  riunito  col  suo  termine,  e  l'effetto  che 
consegue  da  quest'unione  non  è  un  atto  novo  di  lui  subietto. — 
A  questo  rispondiamo  che  per  ciò  appunto  la  potenzialità  univer- 
sale, di  cui  parlifuiio,  è  puramente  dialettica,  come  l'essere  ini- 
ziale è  il  subietto  dialettico  antecedente  di  tutti  universalmente 
gli  enti.  La  sola  mente  è  (juelia  che  dice,  a  cagion  d'esempio; 
(i l'essere  che  ha  l'entità  che  dicesi  animale  razionale,  è  l'uomo», 
ma  non  è  in  sé  stesso  vero  che  l'essere  stesso  sia  l'uomo,  ma 
è  soltanto  vero  che  a  l'uomo  ha  l'essere  ossia  partecipa  dell'es- 
sere»: onde  la  prima  espressione  indica  soltanto  l'o/dme  di  con- 
cepire, quando  la  seconda  indica  «  l'ordine  dell'esistere  dell'ente 
uomo  ». 

Si  replicherà  che  la  risposta  vale  pei  termini  finiti  dell'es- 
sere, ma  non  per  gli  infiniti  a  lui  essenziali.— Rispondiamo  che  i 
termini  infiniti  sono  essenziali  all'essere  acciocché  esista  in  sé; 
ma  che  egli  esiste  davanti  alla  mente  nostra  senza  che  i  mede- 
simi appariscano  :  laonde  noi  nell'ordine  dialettico ,  che  è  quello 
del  nostro  concepire,  consideriamo  l'essere  iniziale  come  su- 
RosMiNi.  Teosofia.  24 


370 

bietlo  anche  de'  suoi  termini  infiniti,  e  come  atto  della  loro  esi 
stenza,  benché  questo  sia  un  modo  dialettico  opinalivo  ed  illuso- 
rio di  cui  poscia  ci  spogliamo.  Poiché  quando  sopravviene  la  ri- 
flessione, un  così  fatto  concello  dialettico  si  risolve,  venendosi 
a  conoscere  che  l'essere  co'  suoi  termini  é  dei  pari  puro  atto,  in 
quanlo  che  i  termini  stessi  sono  atti  indistinguibili,  ciascuno,  dal  loro 
principio,  di  maniera  cbe  nell'essere  assoluto  non  c"é  più  vera- 
mente distinzione  alcuna  tra  principio  e  termine  ,  ma  c'è  solo  atto 
semplicissimo.  Se  dunque  non  c'è  più  l'essere  iniziale ,  precisa- 
mente come  iniziale,  consegue  che  questo  non  abbia  alcuna  po- 
tenza rispetto  a'  termini  essenziali,  perchè  rispetto  a  questi  non 
c'è  come  miziale,  e  se  non  c'è  ,  né  pure  può  avere  potenziahtà  di 
sorte. 

La  potenzialità  dunque  universale  dell'  essere  rispetto  a'  suoi 
termini  è  puramente  dialettica,  salvo  die  rispetto  a'  suoi  termini 
finiii  questa  potenzialità  dialettica  viene  risolta  dalla  riflessione 
ontologica  con  un'assoluta  distinzione  tra  l'essere  iniziale  e  il  ter- 
mine; e  rispetto  a"  suoi  termini  infiniti  viene  risolta  con  una  per- 
fetta identificazione  ,  per  modo  che  scomparisce  l'essere  iniziale , 
e  non  rimane  che  l'assoluto. 


Articolo  III. 

Come  la  potenza  dialettica  ideale  si  concilii 
coli'  attualità  dell'essere. 

435.  Abbiamo  veduto  che  i  soli  termini  propri  ed  infiniti  del- 
l'essere gli  sono  necessari,  acciocché  possa  essere  in  sé  e  non 
solamente  rispetto  a  una  mente  che  lo  contempla. 

Ora  che  questi  termini  essenziali  all'essere  devano  essere  infiniti 
facilmente  s'intende,  solo  che  si  consideri  l'estensione  dell'essere. 
Essendo  questa  estensione  infinita,  egli  non  sarebbe  tutto  in  sé, 
se  i  suoi  termini  fossero  finiii  ;  e  d'altra  parte  essendo  l'essere 
semplice  e  indivisibile,  non  potrebbe  esistere  in  sé  con  una  sua 
parte,  e  non  esistere  in  sé  con  un  altra.  Oltre  di  che  quella  parte 
dell'essere  che  rimanesse  priva  di  termini ,  non  solo  non  potrebbe 
esistere  in  sé,  ma  non  potrebbe  essere  neppure  pensala,  perchè 


371 

è  una  condizion  necessaria  a  potersi  pensare  l'essere,  che  egli 
sia,  né  sarebbe  s'egli  non  fosse  in  sé,  benché  non  è  necessa- 
rio quando  si  pensa  che  si  pensi  colle  condizioni  dell'  essere  in 
sé.  Per  la  stessa  ragione  i  soli  termini  infiniti  sono  termini  suoi 
propri,  perchè  i  termini  finiti  possono  bensì  convenire  ad  un'es- 
senza finita,  ma  non  ad  un'essenza  infinita.  Di  che  si  raccoglie, 
che  «la  mente  non  può  pensare  che  l'essere  sia  in  sé  stesso, 
se  non  supposto  che  egli  sia  ultimato  ne'  suoi  termini  infiniti  che 
sono  le  tre  forme  categoriche»;  ogni  altro  pensiero  dell'essere 
essente  in  sé  contiene  un  assurdo. 

L'essere  dunque  in  sé  deve  avere  i  suoi  termini  propri  e  infi- 
niti, ma  non  è  necessario  che  abbia  ì  suoi  termini  impropri  e 
finiti  :  perchè  non  sono  condizione  della  sua  piena  esistenza  in 
sé.  Tuttavia  stante  che  non  può  esistere  in  sé ,  come  abbiamo 
veduto,  se  non  esiste  anche  come  oggetto  intelligibile  della 
mente,  e  poiché  il  concetto  dell'essere  —  e  il  concetto  non  è  che 
l'oggetto  inteso  dalla  mente  umana  —  contiene  la  possibilità  di 
tutti  i  modi  finiti,  cioè  contiene  anche  il  concetto  di  questi  modi; 
perciò  una  tale  possibilità  è  anch'essa  condizione  all'esistenza 
dell'essere  in  sé ,  e  perciò  è  una  possibilità  non  dialettica  sem- 
plicemente, ma  dialettico-ideale;  e  in  quant'è  ideale  può  anche 
dirsi  ontologica. 

Questa  possibilità  nondimeno  de'  termini  finiti  dell'essere  non 
pone  neir  essere  assoluto  alcuna  potenzialilà.  Il  che  apparisce 
dalla  definizione  che  noi  abbiamo  data  della  potenza.  Richiamia- 
mola di  novo:  «  la  potenza  é  una  causa  che  è  ad  un  tempo  su- 
bietto del  proprio  effetto»  (^579').  Oragli  enti  finiti  esistendo 
sono  effetto  dell'ente  assoluto.  Ma  essi  non  hanno  già  verso  di 
lui  la  relazione  di  predicato  e  di  subietlo  :  l'essere  assoluto  non 
è  in  alcun  modo  il  loro  subietto.  E  dico  in  nessun  modo,  perchè 
non  è  loro  subietlo  ontologicamente:  che  essi  stessi  sono  subietti; 
e  non  è  neppure  loro  subietto  dialetticamente.  Poiché  il  solo  subietto 
dialettico  ed  antecedente  degli  enti  finiti  è  l'essere  iniziale  e  non 
l'assoluto.  Dunque  all'essere  assoluto  conviene  il  concetto  di  causa 
degli  enti  finiti,  ma  non  il  concetto  di  potenza.  L'esistere  dunque, 
nell'essere  assoluto,  la  possibilità  degli  enti  finiti ,  non  pone  in 
esso  alcuna  potenzialità ,  e  non  toglie  di  conseguenza  che  egli 
non  sia  puro  atto. 


372 

hZh.  Veduto  che  l'esistenza  reale  degli  enti  finiti  nulla  aggiunge 
di  perfezione  o  di  atto  all'Essere  assoluto,  s'intende  come  in 
esso  possa  esistere  la  virtualità  di  questi.  Poiché  abhiamo  già 
detto  che  in  tutte  quelle  cause  che  non  sono  potenza,  i  cui  ef- 
fetti non  hanno  per  subielto  la  causa  stessa,  accade  che  seb- 
bene questi  effetti  in  atto  non  appartengano  alla  natura  della 
causa ,  tullavia  alla  nalura  della  causa  appartiene  la  virtualità 
di  tali  effetti  (,380  sgg.').  Gli  effetti  dunque  che  costitui- 
scono enti  diversi  dalla  causa  non  hanno  la  propria  virlualittà 
in  sé  stessi,  ma  nella  loro  causa;  il  che  s'  avvera  pienamente 
quando  trattasi  della  virtualità  di  essere,  alla  quale  risponde  una 
causa  pienissima  ed  assoluta,  nella  quale  tutto  intero  l'effetto 
esiste  in  istato  virtuale,  e  non  nel  suo  proprio  atto.  Infatti  se 
si  trattasse  soltanto  della  causa  dell'accidente  o  della  causa  della 
forma  sostanziale  da  imporsi  ad  una  materia  precedente,  la  causa 
non  sarebbe  piena,  perchè  avrebbe  bisogno  per  produrre  il  suo 
effetto  della  materia,  e  così  la  virtualilà  dell'effetto  rimarrebbe 
divisa  tra  le  due  cause,  la  efficiente,  e  la  materiale,  e  altre  che 
vi  concorressero  a  produrlo.  Ma  essendo  nel  caso  nostro  unica 
e  pienissima  la  causa  ,  perchè  trattasi  di  causa  creativa  ossia 
di  causa  di  essere,  in  questa  solo  giace  tutta  la  virtualità  del- 
l'effetto. 

Ora  la  parola  virtualità  esprime  una  relazione ,  come  abbiam 
detto,  della  possibilità  :  e  il  fondamento  ossia  il  principio  di  que- 
sta relazione  è  nell'Essere  assoluto.  Questo  principio  della  rela- 
zione è  una  proprietà  positiva  dell'Essere  assoluto,  e  perciò  in 
sé  stessa  è  atto,  e  solo  considerato  quest'atto  in  rispetto  all'ef- 
fetto dicesi  virtualità.  Si  separi  dunque  la  virtualità  dell'ente 
finito  dall'ente  finito  stesso;  questo,  esista  attualmente  o  no,  nul- 
l'aggiunge  all'Essere  assoluto ,  perchè  non  gli  appartiene,  non  è 
né  sua  parte  né  sua  proprietà  o  qualità ,  di  lui  in  una  parola  non 
si  può  predicare:  la  virtualità  all'incontro  dell'ente  finito  ossia 
r  ente  finito  virtuale  non  è  qualche  cosa  che  aj)partenga  all'ente 
finito  in  sé  stesso,  la  cui  esistenza  è  solamente  attuale,  ma  è  qualche 
cosa  che  appartiene  all'Ente  assoluto  e  infinito,  e  questo  qualche 
cosa  é  l'intelligibilità  essenziale  e  infinita  dell'essere.  In  quanto 
poi  questa  intelligibilità  serve  di  principio  della  relazione,  di  cui 
l'enic  finito  è  termine,  dicesi  virtunlità.  Ma  ogìi  è  evidente   che 


375 

questo  concetto  di  virtualità,  presa  come  relazione  all'ente  finito, 
è  posteriore  all'  intelligibilità  stessa ,  che  è  base  o  principio 
della  medesima,  poiché  suppone  l'ente  finito  esistente  in  sé  e 
determinato,  termine  della  relazione  medesima.  Laonde  qualora 
per  ipotesi  non  fossero  mai  esistiti  enti  finiti  ,  né  mai  ce  ne 
dovessero  essere ,  non  si  concepirebbe  nell'Essere  assoluto  altro 
che  un  essere  finito  intelligibile  virtuale  indeterminato  ,  e  la 
virtù  0  causa  atta  a  determinare  in  esso  i  finiti  singolari  e  a 
crearli.  Quando  poi  si  supponga  che  questa  causa  li  abbia  creati, 
allora  nasce  tra  questi  enti  finiti  determinati  ed  esistenti  in 
sé  quella  relazione  colla  detta  possibilità  e  virtualità  univer- 
sale, proprietà  dell'assoluto  intelligibile,  che  fa  vedere  in  questa 
le  loro  essenze,  cioè  le  possibilità  de'  reali  determinati,  in  quel 
modo  che  abbiamo  dichiarato  nel  Dialogo  intitolato  De  possibili 
{Rinov.  in,  XLvii),  senza  che  l'Essere  assoluto  acquisti  nulla  di 
più,  su  di  che  dobbiamo  ritornare  nella  Teologia. 

455.  E  non  faccia  ombra  la  doppia  maniera  colla  quale  noi 
esprimiamo  questa  possibilità  universale  dell'ente  finito  considerata 
nell'Essere  assoluto  ,  chiamandola  noi  ugualmente  ora  virtualità 
delV ente  [mito,  ora  ente  finito  virtuale.  La  prima  di  queste  due 
forme  di  dire  esprime  la  relazione  tra  la  virtualità  e  l'ente  fi- 
nito, e  perciò  é  posteriore  alla  creazione  di  questo,  cioè  sup- 
pone questo  esistente,  perchè  indica  i  due  termini  della  rela- 
zione. Quando  si  volesse  emendare  una  tal  forma  in  modo  che 
altro  non  esprimesse  che  una  semplice  proprietà  dell'Essere  in- 
finito, la  sua  denominazione  propria  sarebbe  :  virtualità  assoluta. 

Questa  espressione  ci  sembra  preziosa  ed  esatta.  In  essa  non 
si  dice  a  che  cosa  si  riferisca  la  detta  virtualità  ,  perché  non 
c'è  ancora  alcun  termine,  a  cui  si  riferisca:  si  riferisce  a  tutto: 
è  il  possibile  stesso  sussistente  in  Dio  :  Dio  é  quello  che  colla 
sua  libera  volontà  può  darvi  un  termine  e  così  costituire  una  re- 
lazione. Questo  termine  si  concepisce  posteriore  all'  atto  della 
volontà  di  Dio.  Avanti  di  questo  termine  c'è  la  proprietà  che  di- 
verrà in  appresso  —  quando  ci  sarà  il  termine  —  principio  o 
fondamento  della  relazione;  questa  proprietà  é  quella  che  si  può 
significare  acconciamente  colla  denominazione  di  virtualità  asso- 
luta. Così  è  stabilita  l'origine  vera  di  tutte  le  virtualità  poste- 
riori e  relative:  queste  in  fatti  non  si  potrebbero  concepire  col 


374 

pensiero  ontologico  ed  assoluto ,  se  non  si  supponga  prima  di 
tutto  una  virtualilà  prima,  essenziale,  assoluta,  che  non  ha  al- 
cun termine  determinato,  e  li  può  aver  tutti. 

Ora  questa  virtualità  assoluta  è  atto  e  non  potenza  ,  ed  ap- 
partiene a  quello  stesso  atto  che  costituisce  l' Essere  assoluto 
medesimo. 

436.  Venendo  ora  all'altra  espressione  che  abbiamo  adoperata 
come  equivalente,  cioè  che  nell'essere  assoluto  c'è  «  l'ente  finito 
indeterminato  e  virtuale  »,  questa  non  presenta  in  sé  una  rela- 
zione tra  due  entità  e  perciò  equivale  sotto  questo  aspetto  al- 
l'espressione di  virtualità  assoluta.  Ma  offre  in  quella  vece  al 
pensiero  un'altra  difficoltà,  perchè  parla  d'un  ente  finito  nell'in- 
finito.  Se  nell'infinito  c"è  il  finito,  sembra  dunque  che  nell'infi- 
nito ci  sia  una  dualità,  il  che  ripugna.  Conviene  dunque  dichia- 
rare e  darsi  cura  di  ben  intendere  quella  forma  di  dire, 

E  per  ben  dichiararla  ed  intenderla,  prima  di  tutto  conviene 
considerare,  in  che  modo  colla  mente  nostra  noi  distinguiamo 
l'ente  finito  virtuale  ossia  intelligibile  dall'Ente  infinito,  e  quello 
riponiamo  in  questo  come  sua  proprietà,  perocché  ben  intesa  la 
natura  di  questa  distinzione  scomparisce  ogni  dualità  in  Dio, 
In  primo  luogo  si  consideri  che  l'ente  finito,  di  cui  si  parla,  non 
è  l'ente  finito  esistente  in  sé,  ossia  avente  esistenza  subiettiva, 
ma  avente  soltanto  un'esistenza  obiettiva.  Già  dicemmo  prima 
che  l'essere  indeterminato,  in  quant'é  obietto,  è  qualche  cosa  che 
si  riduce  al  Verbo  divino,  che  é  l'Essere  assoluto  nella  sua 
forma  obiettiva.  Che  cosa  è  dunque  l'Essere  nella  sua  forma 
obiettiva?  È  l'Essere  in  quanto  è  essenzialmente  intelligibile 
ed  inteso.  Ora  l'Essere,  come  tale  senza  restrizione  di  sorte 
alcuna,  è  semplice  ed  unico  ed  è  tutto  intelligibile  in  tutta 
la  sua  estensione ,  in  tutta  la  sua  profondità  ,  in  tutti  i  suoi 
modi.  L'Essere  adunque  nella  forma  d'intelligibile  è  un  solo  ed 
unico  essere  essenzialmente  inteso,  è  un  atto  solo.  Se  si  potesse 
separare  l'essere  essenzialmente  inteso  dall'essere  nella  forma 
subiettiva  di  sussistenza,  in  esso  non  si  distinguerebbe  punto  il 
finito  dall'infinito.  Ma  non  si  può  separare,  perchè  l'essenza 
dell'essere,  come  abbiam  detto,  é  comune  alle  tre  forme:  onde 
neir  essere  stesso  obiettivo  in  un  modo  puramente  dialettico  e 
mentale  si  distingue  V essenza  dalla  sua  obiettività.    Ora  questa 


375 

stessa  essenza  dell'essere,  che  in  quanto  è  obiettiva  costituisce 
l'Essere  assoluto  come  inteso,  è  anche  nella  forma  subiettiva  di 
sussistenza,  ed  anzi  di  più  ciò  che  c'è  nell'Essere  obiettivo  come 
inteso  è  appunto  l'essenza  in  questa  forma  subiettiva  di  sussi- 
slenza  ;  perocché  se  l'oggetto  inteso  non  fosse  quest'essenza 
sussistente,  esso  oggetto  inteso  non  sarebbe  che  l'essere  iniziale 
e  indeterminato,  il  che  involgerebbe  due  assurdi:  1"  l'uno  che 
non  sarebbe  inteso  tutto  l'essere,  ma  solo  l'iniziamento  dell'es- 
sere; 2"  l'altro  che  non  ci  potrebbe  più  essere  l'essere  in  sé: 
non  potendoci  essere  l'essere  in  sé,  se  non  é  concepibile,  ossia 
intelligibile,  come  abbiam  detto.  Se  dunque  l'Essere  nella  forma 
oggettiva ,  r  Essere  essenzialmente  inteso  é  la  stessa  essenza 
sussistente,  convien  vedere  come  questa  sussista.  Egli  è  chiaro 
che  non  avendo  limiti  l'essenza,  convien  che  ella  esista  in  una 
forma  di  sussistenza  infinita.  Se  sussiste  in  una  forma  infinita, 
non  può  esistere  del  pari  sotto  forme  di  sussistenza  finite,  perchè 
il  finito  e  l'infinilo  ripugnano:  onde  è  una  legge  ontologica 
che  «il  termine  del  pensiero  complesso  sia  un  finito  o  un  in- 
finito senza  che  l'uno  possa  cangiarsi  nell'altro  »  [Psicol.  1381 
sgg.).  Infatti  se  l'essenza  dell'essere  potesse  sussistere  come  finita, 
non  sarebbe  più  l'essenza  dell'essere  che  sussiste,  perch'ella  è  in- 
finita. Sussistendo  poi  come  finita,  il  sussistere  come  finita  —  ancor 
che  potesse  essere  —  niente  le  aggiungerebbe,  perchè  è  già  infinita; 
gli  aggiungerebbe  anzi  un  difetto,  perché  la  limitazione  è  un  difetto 
relativamente  ad  un  ente  che  di  natura  sua  è  illimitato.  Ma  come 
dunque  si  diceva  che  l'essenza  dell'essere  nella  sua  forma  obiet- 
tiva, cioè  come  essenzialmente  inlesa,  contiene  anche  tutti  i 
modi  dell  "essere,  e  però  anche  l'essere  in  quant'è  limitabile?  — 
In  prima  si  consideri  che  l'essere  in  sé  stesso,  nella  sua  essenza, 
non  è  punto  limitabile;  la  limitazione  non  istà  nell'essere  ma  nel 
suo  termine  reale,  e  se  pare  che  stia  nell'essere  è  per  la  rela- 
zione di  Ini  a  questo  termine ,  in  quanto  facendo  esso  che  questo 
termina  finito  reale  sia,  si  considera  dalla  mente  l'essere  in 
questo  termine  del  suo  alto  creativo  e  non  in  sé  stesso.  Ora  que- 
sto termine  finito  dell'atto  creativo  dipende  dalla  libera  volontà 
dell'Essere  sussistente.  Neil' Essere  obiettivo  c'è  anche  come  es- 
senzialmente intesa  questa  libera  volontà  dell'Essere  sussistente, 
poiché  l'Essere  sussistente  è  necessariamente  vivente ,  intelligente 


376 

e  causa.  Questa  causa  si  riferisce  alla  Imìtabilità  del  reale  com- 
presa nell'essenza  dell'essere  per  sé  intesa,  ed  è  appunto  quella 
a  cui  conviene  la  denominazione  di  virtaalità  assolata. 

437.  Quindi  si  trae  la  differenza  di  valore  tra  le  due  parole  di 
possibilità  assoluta,  e  di  virtualità  assoluta:  questa  differenza  nasce 
daila  nostra  maniera  di  concepire  Vesserò  oggettivo  come  distinto 
in  due  modi,  cioè  come  essere  possibile  o  ideale  (iniziale),  e 
come  essere  reale  oggettivo.  Concependo  l'essere  oggettivo  solo  come 
possibile  0  ideale,  noi  vediamo  in  esso  l'essere  reale  possibile  e 
questo  infinito  e  limitabile.  Questa  iimitabilità  dell'essere  reale 
concepito  come  possibile ,  noi  la  chiamiamo  possibilità  assoluta. 
Ma  se  prendiamo  poi  l'essere  oggettivo  come  reale  inteso,  in  tal 
caso  concepiamo  l'Essere  assoluto  sussistente  in  sé  e  come  avente 
un  principio  volitivo  d'azione  o  una  virtù  causante,  cioè  limi- 
tante la  realità  dell'essere,  ossia  creante,  e  questa  causa  essenziale 
e  libera  la  chiamiamo  virtualità  assoluta. 

Questa  seconda  maniera  di  concepire  è  ontologica ,  la  prima 
è  dialettica.  E  nondimeno  entrambe  sono  necessarie  alle  onto- 
logiche ricerche ,  perchè  queste  non  possono  né  farsi  né  espri- 
mersi se  non  adattandosi  alle  leggi  della  mente  umana.  Conviene 
solamente  in  appresso  ridurre  la  maniera  dialettica  all'  ontolo- 
gica :  unica  maniera  di  pervenire  alla  verità  assoluta ,  ossia 
a  una  notizia  che  sia  assolutamente  e  pienamente  vera.  E  per 
continuare  a  farlo  osserviamo  di  novo  ,  che  se  noi  ci  restrin- 
gessimo a  considerare  soltanto  V esseìiza  dell'essere  senza  i  suoi 
termini  (essere  indeterminato)  e  supponessimo  che  quest'essenza 
fosse  per  sé  intesa  ,  in  quest'oggetto  inteso  non  si  potrebbe  tro- 
vare quella  che  abbiamo  chiamata  la  Iimitabilità  dell'essere,  ap- 
punto perchè,  come  abbiam  detto.  Tessere  o  la  sua  essenza  non 
è  in  sé  stesso  limitabile.  Quindi  il  concetto  di  possibilità  è  po- 
steriore alle  nostre  percezioni  de'rcali  finiti,  è  trovato  risalendo 
da  questi  alla  loro  intelligibilità.  Ma  in  questo  risalimento  della 
mente  nostra  ,  il  pensiero  è  partito  dalla  realità  finita  cioè  dalla 
forma  reale  dell'essere  già  limitata ,  e  quindi  non  abbiamo  cavato 
quel  concetto  dalla  pura  essenza  dell'essere,  separata  da  ogni 
forma.  Quindi  abbiamo  già  prima  mostrato  che  il  concetto  di 
possibilità  e  di  virtualità  involgono  una  relazione  tra  l' ideale  o 
r  oggettivo  e  il  reale.    Come  dunque  noi    troviamo   nell'  essere 


377 

una  limitazione  puramente  dialettica,  e  non  esistente  nell'essere 
slesso  ,  confrontando  V  ente  finito  coW  essere  indeterminato;  cosi 
so  vogliamo  istituire  la  ricerca  ontologica  d' onde  ^sia*  questa 
limitabilità  dell'essere  che  ci  apparisce  posteriormente  all'ente  fi- 
nito reale,  dobbiamo  risalire  all'origine  di  questo  stesso.  E  l'o- 
rigine di  questo  non  possiamo  rinvenirla  se  non  nel  prificipio  at- 
tivo volitivo  e  libero  dell'Essere  Assoluto  nella  sua  forma  reale; 
il  quale  ha  virtù  di  limitare  la  forma  reale  e  darle  l'essere:  il 
che  è  creare.  Supposto  adunque  quest'atto  creativo,  il  quale 
riguardando  nell'essere  intelligibile  e  oggettivo  limita,  seguendo 
le  indicazioni  dell'amabililà  dell'essere  stesso  ,  l'oggetto  d'un  tale 
sguardo  creativo ,  si  rileva  come  la  realità  oggettiva  possa  ri- 
cevere le  limitazioni  che  appariscono  negli  enti  finiti.  L'origine 
dunque  delle  limitazioni  dell'essere  reale  giace  nell'attività  in- 
telligente, volitiva  e  libera  dell'Essere  assoluto,  guidata  dall'A- 
mabilità dell'essere  stesso  reale,  pel  quale  vuole  che  l'essere  reale 
sia  attuato  anche  ne'  modi  finiti.  Nella  suprema  causa  dunque 
libera  sta  la  limitabilitù  della  forma  reale  dell'essere  e  V ente  finito 
virtuale  è  determinato  in  essa  unicamente  dal  suo  amore  perfetto 
dell'essere  ,  ossia  di  se  stessa  ,  veniente  dall'  Amabilità  essenziale 
allo  stesso  Essere  reale  oggettivo.  Laonde  tra  le  due  espressioni  di 
virtualità  assoluta,  e  dì  ente  virtuale  finito,  alla  prima  spetta  la 
proprietà  logica  perchè  indica  semplicemente  la  causa,  laddove 
V ente  virtuale  finito  suppone  la  causa  in  atto,  perchè  è  ciò  in 
cui  termina  appunto  l'atto  causante. 

438.  Se  dunque  si  considera  l'ente  finito  nel  suo  atto  pel  quale 
esiste  in  sé  stesso,  l'attività  libera  ed  amorosa  dell'Essere  assoluto 
reale  non  è  potenza ,  perchè  questo  suo  effetto  non  è  qualche 
cosa  che  appartenga  alla  natura  del  medesimo  Essere  assoluto,  e 
però  questo  non  è  subietto  del  suo  effetto  :  ma  è  pura  e  asso- 
luta causa,  che  compisce  l'attualità  e  la  personalità  del  me- 
desimo Essere  assoluto. 

Ma  se  si  considera  l'ente  finito  come  ancora  virtuale ,  torna  in 
campo  la  difficoltà  che  ci  facevamo  di  sopra  e  con  maggior  forza, 
la  quale  noi  proporremo  ora  con  altre  parole  così.  Quella  causa  che 
è  mera  potenza  non  produce  altro  effetto  che  quello  di  cui  ella  stessa 
rimane  il  subietto.  Quella  causa  che  produce  un  effetto  di  cui  ella 
stessa  non  sia  il  subietto  dicesi  causa  non  potenza.  Ma  è  da  consi- 


378 

derarsi,  che  anche  le  cause  di  questo  secondo  genere,  acciocché  ar- 
rivino a  produrre  un  efTello  di  cui  esse  non  sono  il  subietto,  con- 
viene che  emeltnno  un  atto,  del  qual  atto  —  che  è  come  un  primo 
ed  immediato  effetto  —  esse  sono  pure  il  subietto.  Onde  è  a  dirsi 
che  sebbene  una  causa  di  questo  secondo  genere  non  sia  potenza 
relativamente  al  suo  secondo  effetto,  di  cui  non  è  subietto,  tut- 
tavia è  anch'ella  potenza  rispetto  al  primo  effetto,  cioè  rispetto 
all'atto  con  cui  ella  ha  prodotto  quel  secondo  effetto.  Laonde 
non  s'intende  come  la  causa  creatrice  non  sia  anche  potenza  con- 
siderata prima  dell'emissione  dell'alto  creatore. 

Questa  difficoltà  è  più  stringente  di  quella  che  ci  siamo  prima 
proposta,  quando  considerammo  la  possibilità  de'  finiti  in  rela- 
zione coir  essere  indeterminato  ed  iniziale.  Allora  dicemmo  che 
una  tale  possibilità  non  pone  nell'essere  iniziale  alcuna  poten- 
zialità, perchè  egli  stesso  non  fa  nulla,  non  soffre  nulla  coU'esser 
presente  alle  realità  finite:  essendo  per  essenza  alto^  egli  è  alto 
tanto  se  ci  comparisce  annesso  a  queste,  quanto  se  non  ci  com- 
parisce e  può  solo  comparirci.  Questa  risposta  era  possibile  allora 
perchè  l'essere  iniziale  di  cui  parlavamo  è  puramente  alto  e  non 
subietto  dell'atto,  rimanendo  al  nostro  intuito  nascosto  l'essere 
essenziale  come  subietto.  Ma  ora  che  colla  riflessione  ontologica 
siamo  pervenuti  a  trovare  il  subietto  reale ^  il  quale  limita  il  ter- 
mine reale  dell'essere,  non  possiamo  a  meno  di  considerare  questo 
subiello  —  l'Essere  assoluto  reale  come  volontà  che  si  compiace 
nel  reale  finito  —  in  due  condizioni  diverse^  cioè  come  potenza  prima 
di  emettere  l'atto  creativo,  e  come  atto  dopo  emesso  questo  atto. 

AUii  quale  difficoltà  dobbiamo  rispondere  quello  che  nella  Teo- 
logia, a  Dio  piacendo,  più  estesamente  sporremo  sciogliendo  ogni 
difficoltà,  cioè  che  nell'essere  infinito  non  c'è  un  prima  e  un  poi, 
che  egli  dall'eternità  ha  sempre  amato  tanto  l'essere  col  suo  ter- 
mine reale  infinito ,  quanto  l'essere  col  suo  termine  reale  finito, 
secondo  l'amabilità  dello  stesso  essere,  e  quindi  che  l'alto  stesso 
creativo  è  eterno  ;  e  non  essendo  mancalo  mai ,  perchè  non  è 
mancato  mai  un  tale  amore,  né  poteva  mancare,  né  pur  mai 
cadde  in  Dio  potenzialità  di  sorte  alcuna.  Che  se  noi  la  pensiamo 
ipoteticamente  ,  è  questo  un  concetto  puramente  dialettico  non 
avente  verità ,  un  concetto  che  nasce  dalla  imperfezione  della 
nostra  intelligenza. 


379 


Articolo  IV. 

In  qual  senso  abbiamo  chiamato  l'essere  materia  ìiniversale 
ossia  primo  determinabile. 

159.  Tulio  quello  che  abbiamo  detto  fin  qui  dà  una  nova  luco 
alla  sentenza  che  «l'essere  sia  materia  universale  ossia  primo 
determinabile  ». 

Noi  abbiamo  pronunciata  questa  proposizione  considerandola 
solo  dialetticamente,  parlando  «  dell'  essere  indeterminalo  oggetto 
del  nostro  naturale  intuito»  e  abbiamo  detto  che  quest'essere 
rimane  sempre  il  medesimo ,  ma  a  cagione  che  si  cangiano  i  suoi 
termini,  egli  come  presente  a  lutti,  si  dice  materia  di  tutte 
le  entità,  non  perchè  egli  si  modifichi  come  si  modificherebbe  un 
corpo  che  prende  diverse  forme,  ma  perchè  ciascuno  de'  vari 
termini  unito  intimamente  con  esso  prende  da  esso  il  nome  di 
entità  e  di  ente,  e  senza  lui  non  sarebbe.  Laonde  egli  si  considera 
come  determinabile  per  l'apposizione  a  lui  de'  termini ,  e  non  in 
sé  stesso:  la  determinabilità  dunque  altro  non  è  che  la  relazione 
sua  co'  diversi  suoi  termini  :  il  principio  o  fondamento  della  qual 
relazione  sta  ne'  termini  stessi. 

E  quanto  pur  ora  abbiamo  detto  è  un  passo  ulteriore  di  questa 
teoria;  perocché  abbiamo  trovalo  quale  sia  \\  termine  che  varia 
ne'  diversi  enti,  cioè  abbiamo  trovato  che  è  il  termine  reale. 

11  principio  volitivo  e  amoroso  dell'Essere  Assoluto  subiettivo  è 
quello  che  crea  un  reale  finito,  guardandolo  nel  reale  infinito 
obiettivo ,  designandolo  in  esso  e  volendolo ,  secondo  la  regola 
dell'Amabilità  dell'essere  obiettivo,  e  questo  reale  finito  nella  sua 
esistenza  subiettiva  è  l'universo. 

fihO.  Laonde  il  processo  dialettico  e  l'ordine  di  priorità  e  po- 
steriorità di  concetti  nel  raziocinio  scientifico  [Logic.  UkO  sgg.) 
è  il  seguente  : 

1.°  Deve  precedere  il  concetto  della  volontà  divina  che  si  porta 
in  tutta  l'amabilità  dell'essere  obiettivo. 

2.°  Viene  in  secondo   luogo  il  concetto   della  realità  finita 
determinata  e  creata  dall'atto  di  quella  volontà  divina, 

3."  Viene  in  terzo  luogo  la  relazione   tra  questa  realità  fi,- 


380 

nita  già  esistente  coli' essere  indeterminato,  pel  quale  avviene 
che  quest'essere  indeterminato  mostri  alla  mente  nostra  varie  de- 
terminazioni finite  rispondenti  agli  enti  finiti,  di  cui  egli^  l'es- 
sere indeterminato,  rimane  il  subietto  antecedente.  Gli  enti  in 
quanto  sono  reali,  diversi  tra  loro,  hanno  una  moltiplicità  di  re- 
lazioni coir  unico  e  identico  essere  iniziale  indeterminato  il  quale 
perciò  si  considera  come  determinabile  diversamente,  e  in  quanto 
riceve  queste  determinazioni  diverse  dicesi  materia  universale  dia- 
lettica. 

II  principio  di  questa  relazione  dialettica  giace  dunque  ne' 
termini  reali  finiti  diversi,  e  l'essere  non  costituisce  che  iWer- 
mine  della  relazione,  onde  la  relazione  noi  modifica.  Ma  poiché 
egli  è  per  sé  antecedente  ai  delti  termini  ed  é  comune  a  tutti , 
perciò  si  dice,  dialetticamente,  il  primo  determinabile. 

La  qualità  dunque  di  essere  determinabile,  benché  apparisca 
subito  alla  nostra  mente,  supposta  la  percezione  degli  enti  finiti, 
pure  non  trova  la  sua  ragione  ontologica  se  non  quando  una  spe- 
culazione di  più  alta  riflessione  ascende  allo  stesso  alto  creativo 
di  Dio.  Ma  appunto  perchè  questa  ragione  ontologica  non  è  data 
dall'intuito  né  dall'essere  intuito,  la  detta  speculazione  é  quella 
che  la  investiga,  e  perciò  ella  non  è  necessaria  affinché  noi  ab- 
biamo semplicemente  la  notizia  che  l'essere  indeterminalo  sia  il 
primo  determinabile ,  benché  in  questa  notizia  non  apparisca  il 
perchè  egli  sia  tale. 

hkì.  Qui  nondimeno  potrà  parere  che  noi  diciamo  cose  contrad- 
dittorie, perocché  in  un  luogo  abbiamo  detto,  che  la  possibilità  è 
una  relazione  che  ha  il  suo  principio  o  fondamento  nelle  essenze, 
e  il  suo  termine  ne'  reali  percepiti  o  imaginati,  e  però  che  in  quelle 
è  una  proprietà  positiva ,  non  in  questi  ;  per  lo  contrario  ora  di- 
ciamo che  il  principio  della  relazione  di  determinabilità ,  che  si 
attribuisce  all'  essere,  sta  ne'  suoi  termini  stessi ,  i  quali  sono 
quelli  che  restringono  l'essere  medesimo ,  e  perciò  è  determina- 
bile per  essi  e  non  essi  per  lui  :  è  determinabile  per  la  relazione 
ch'essi  hanno  con  lui ,  e  non  viceversa.  E  veramente  la  stessa 
parola  determinabilità  —  in  quanto  alla  forma  dialettica  —  indica 
una  potenza  piuttosto  di  ricevere  che  di  dare. 

Ma  l'apparenza  di  contraddizione  svanirà  quando  si  avrà  bene 
considerato  che  altro  è  la  possibilità  delie  cose  reali  da  noi  per- 


381 

cepile  che  si  contempla  nelle  loro  immediate  essenze ,  e  che  ab- 
biamo chiamata  possibilità  media  ;  ed  altro  è  la  determinabilità  del- 
l'essere stesso  anteriore  alle  essenze  che  abbiamo  chiamata  pos- 
sibilità suprema  e  che  è  la  possibilità  delle  stesse  essenze  {^h'ilT). 

Ora  riguardo  a  questa  seconda  noi  abbiamo  detto  cosi.  «  L'Es- 
senza dell'essere  in  sé  —  come  pure  l'essere  iniziale —  non  ammette 
modificazioni ,  ma  è  semplice  ed  immutabile,  tale  è  l'essere  nella 
sua  forma  obiettiva.  Ma  l'Essere  stesso  nella  sua  forma  subiet- 
tiva adeguato  all'Essere  nella  forma  obiettiva  è  vivente,  intel- 
ligente, volente,  e  la  volontà  sua  è  la  sua  intelligenza  operante 
0  pratica.  Questa  intelligenza  operante  ha  per  suo  oggetto  l'Es- 
sere nella  sua  forma  obiettiva  in  quanto  è  essenzialmente  Ama- 
bile e  Amato.  Amandolo  ella  in  tutti  i  modi,  l'ama  e  lo  vuole 
nel  suo  tutto,  e  poi,  intelligenza  come  è ,  ne  restringe  la  realità 
e  l'ama  ancora  così  ristretto.  Questo  restringimento  della  realità 
obiettiva  non  è  già  cosa  che  afTetti  o  che  modifichi  lo  stesso  es-» 
sere  obiettivo,  ma  il  restringimento  rimane  nello  sguardo  amo- 
roso della  delta  intelligenza  operante,  la  quale  non  contenta, 
per  così  dire,  di  vederlo  e  di  amarlo  nell'intera  e  piena  sua  realità, 
l'ama  anche  ristretto  in  tutti  que'  modi  di  realità,  ne'  quali  ella 
lo  guarda  e  guardandolo  lo  percepisce ,  e  ne'  quali  lo  trova  ama- 
bile quanto  più  può  essere  nella  limitazione.  Quesl'  atto  del- 
l'intelligenza  operante  dell'Essere  assoluto  subiettivo,  col  quale 
resli'inge  il  suo  sguardo  amoroso  a  una  realità  obiettiva  da  sé 
definita  secondo  l'amabilità,  é  l'atto  creativo.  Il  termine  reale 
così  circoscritto  dallo  sguardo  volontario  e  amoroso  di  Dio,  non 
sarebbe  oggetto  pieno  e  vero  se  non  avesse  V esistenza  subiettiva  , 
perché  non  ci  sarebbe  tutto  nell'oggetto  se  non  ci  fosse  questa. 
Onde  per  un  tale  sguardo,  l'esistenza  obiettiva  del  finito  involge 
necessariamente  la  subiettiva,  e  questa  é  lUniverso  in  se  stesso.  Il 
reale  finito  dunque  acquista  così  un'esistenza  obiettiva  e  un'esistenza 
subiettiva  ed  in  sé  Quindi  da  una  parte  si  hanno  le  essenze,  dal- 
l'altra si  hanno  i  reali  sussistenti  finiti.  Il  mondo,  come  dice- 
vamo ,  in  sé  stesso  non  é  che  il  reale  finito  avente  l'esistenza  su- 
biettiva, e  l'uomo  del  pari,  essendo  uno  de'  reali  che  esistono  nel 
mondo.  Ma  l'esistenza  subiettiva  si  compone  di  due  elementi: 
1.°  del  reale,  2.°  e  dell'essere;  che  senza  Vessere  il  reale  non 
avrebbe  esistenza  non  istando  il  termine  senza  il  suo  principio. 


382 

Ora  l'essere  non  si  modifica  per  trovarsi  presente  a'  suoi  termini 
reali  finiti,  come  vedemmo,  ma  egli  non  sia  loro  presente  se 
non  in  quel  tanlo  che  hanno  di  realità,  colla  quale  presenza 
gli  fa  enti.  L'uomo,  uno  di  questi  enti,  è  dotato  d'intelligenza. 
Che  cosa  vuol  dire  dotalo  d'intelligenza?  Non  altro  che  avere 
la  facoltà  di  apprendere  l'intelligibilità  degli  enti.  L'essere  è  es- 
senzialmente intelligibile  e  non  si  può  apprendere  senza  che  sia 
inteso  e  esso  fa  conoscere  il  suo  termine  reale  finito.  Quindi 
l'uomo  come  intelligente  intuisce  l'essere.  Ma  l'essere  in  tulli 
i  reali  finiti  non  è  che  iniziale ,  perchè  il  reale  finito  non  è  suo 
termine  proprio,  essendo  il  suo  termine  proprio  essenzialmente 
infinito.  L'uomo  dunque  ha  l'intuito  dell'essere  iniziale.  Ma  an- 
teriormenle  a'  suoi  termini  l'essere  iniziale  è  indeterminalo.  L'in- 
tuito di  quest'essere  indeterminato  è  quello  che  costituisce  l'in- 
telligenza dell'uomo ,  e  con  esso  vede  ne'  reali  finiti  lo  stesso  es- 
sere come  loro  inizio.  Si  consideri  che  quest'essere  indeterminato 
non  può  essere  ristretto  ad  alcun  termine,  sia  perchè  non  ne 
ha  ancora  nessuno  ,  sia  perchè  è  necessario  veder  tulto^  se  non 
totalmente,  l'essere,  per  intendere  poi  ciascun  termine,  essendo 
anche  l'essere  indivisibile. 

442.  Stabilito  bene  lutto  ciò,  si  scorge  subito  che  i  termini 
finiti  si  possono  considerare  in  tre  relazioni  coU'esscre,  cioè: 

1.°  0  in  relazione  coW essere  indeterminato  e  ideale  che  è  og- 
getto del  naturale  intuito  dell'uomo  ; 

2.°  0  in  relazione  coll'Essere  assoluto  nella  sua  forma  su- 
biettiva; quale  si  ritrova  dover  esistere  colla  riflessione; 

3.°  0  in  relazione  coll'Essere  assoluto  nella  sua  forma  obiet- 
tiva ,  che  pure  colla  riflessione  si  discopre. 

Se  si  considera  la  relazione  che  i  termini  finiti  dell'essere  hanno 
coir  essere  indeterminato  informante  secondo  natura  le  menti  crea- 
te ,  non  è  possibile  concepire  che  quell'essere  sia  limitato,  de- 
terminalo ,  finito ,  se  non  riportando  ad  esso  i  termini  finiti , 
quasi  come  quando  s'applica  ad  una  tela  bianca  un  merletto  a 
traforo  di  qualche  colore ,  che  la  tela  nulla  ne  soffre  o  si  altera 
punto,  ma  sovr'essa  tuttavia  appaiono  gli  occhi  colorili  e  le  maglie 
del  merletto ,  e  tulle  le  ripiegature,  intrecci  e  gruppi  de'  fili ,  e 
ciò  perchè  la  vista  di  chi  riguarda  unisce  quelle  due  cose  ri- 
portando l'una  sull'altra.  In  nessun  altro  modo  che  per  questo  colai 


583 

confronto,  che  la  mente  fa ,  si  potrebbe  concepire  alcuna  dif- 
ferenza in  quell'essere  indeterminato,  uniforme  e  del  tutto  sem- 
plicissimo, ed  è  per  questo  che  egli,  anche  dopo  essersi  conce- 
pito determinato  con  questo  sguardo,  apparisce  all'altro  sguardo 
dellintuito  indeterminato  come  prima.  In  questa  relazione  per- 
tanto che  fa  la  mente  tra  il  reale  finito  e  l'essere,  essa  trova 
J'ente  finito*.  Ma  il  principio  e  fondamento  della  relazione  sta  tutto 
nel  reale  finito;  poiché  è  questo  che  colla  intelligenza  si  riporta  e 
riferisce  all'essere  che  così  diviene  nella  mente  suo  principio,  e 
l'ente  finito  è  costituito.  Dopo  dunque  che  noi  abbiamo  percepiti  i 
reali  finiti  come  enti,  all'essere  congiungendoli  —  come  prima  gli 
ha  congiunti  Iddio  colla  sua  intelligenza  creatrice —  noi  possiamo 
esercitare  l'astrazione  dividendo  con  questa  di  novo  da' reali  l'es- 
sere intuito  ,  e  in  tal  modo  considerare  l'essere  indeterminalo 
come  atto  a  ricevere  per  suo  termine  i  detti  reali  finiti  ed  altri 
quanti  ne  possiamo  a  nostra  voglia  imaginare  ,  porche  vediamo 
che  egli  nulla  patendo  a  rendersi  inizio,  ed  essendo  illimitato, 
può  riceverne  di  tali  termini  senza  fine.  L'essere  considerato  così 
astratto  da'  termini  reali  finiti,  percepiti  da  noi  od  imaginati, 
dà  luogo  al  pensiero  ch'egli  abbia  quest'altitudine  di  servir  d'ini- 
zio a  tali  termini ,  e  quest'attitudine  è  quella  che  chiamiamo  pos- 
sibilità. Ma  appunto  perchè  tutto  questo  è  un  lavoro  d'astrazione, 
e  l'astrazione  non  è  mai  una  prima  concezione,  ma  posteriore, 
e  appartenente  al  pensar  parziale  fPsicol.  1519  sgg.J,  perciò 
il  concetto  di  possibilità  suprema  —  cioè  quella  che  si  attribuisce 
all'essere  e  non  alle  essenze  determinate  —  non  appartiene  pro- 
priamente all'essere  intuito,  ma  si  scopre  e  forma  di  poi  colla  menie 
quando  colla  riflessione  astraente,  che  succede  alle  percezioni  de' 
reali ,  si  pensa  alla  sua  suscettività  d'avere  nel  modo  detto  i  reali 
finiti  per  termine.  Apparisce  dunque  da  lutto  questo  la  verità  di 
quello  che  noi  abbiamo  detto ,  cioè  che  se  si  parla  della  possi- 
bililà  suprema,  questa  è  una  relazione  de'  termini  finiti  coll'es- 
sere  indeterminato  che  ba  il  suo  principio  e  fondamento  negli 
stessi  esseri  finiti,  e  il  suo  termine  nell'essere  indeterminato, 
poiché  una  tale  relazione  non  esiste  se  non  supponendo  che  i 
termini  finiti  o  percepiti  o  imaginati  già  esistano  ed  esistendo  si 
possa  da  loro  astrarre,  e  così  astratti,  e  non  però  annullati ,  ve- 
dere la  loro  possibilità  nell'essere  indeterminato. 


584 

Uh'5.  Ma  tuU'allro  discorso  convien  fare  quando  si  parli  della 
possibiUlà  media,  che  abbiamo  detto  essere  quella  che  risiede 
nelle  essenze  determinale  e  piene  (1)  degli  enti  finiti.  Perocché  in 
questo  caso  la  relazione  che  costituisce  questa  possibilità  passa 
non  già  Ira  i  termini  finiti  e  l'essere  indeterminalo,  ma  tra  i 
reali  finiti  e  le  loro  essenze  determinate:  che  è  quanto  dire  tra 
i  termini  slessi  dell'essere.  Perocché  tanto  le  essenze  determinate 
quanto  i  reali  ad  esse  corrispondenti  sono  termini  dell'essere. 
Abbiamo  già  indicato  come  per  l'atto  creativo  il  reale  finito  ac- 
quista un'esistenza  obiettiva,  e  ad  un  tempo  un'esistenza  subiet- 
tiva che  è  richiesta  da  quella,  perché  l'obietto  non  è  che  il  su- 
bietto nella  forma  d'oggetto  (oggettivato).  L'esistenza  obiettiva 
é  l'essenza  determinala,  quella  per  la  quale  il  reale  nella  sua 
forma  subiettiva  si  conosce:  è  l' intelligibilità  di  questa.  Quando 
dunque  la  nostra  mente  riporta  il  reale  —  esistente  subietliva- 
mente  —  alla  sua  essenza  (sua  intelligibilità),  allora  già  esistono 
i  due  termini  della  relazione  :  esistono  questi  due  termini  non  solo 
assolutamente  per  l'atto  creativo  che  li  fa  esistere,  ma  anche  ri- 
guardo all'intelligenza  dell'uomo.  Come  esistono  assolutamente 
per  l'atto  creativo?  Nel  modo  che  abbiamo  detto,  cioè  l'Essere 
Assoluto  nella  forma  subiettiva  col  suo  sguardo  amoroso  si  portò 
nell'essere  obiettivo  e  non  considerò  ed  amò  soltanto  tutta  la  realità 
che  egli  gli  mostrava,  ma  amò  anche  in  esso  una  realità  finita,  de- 
finendola egli  slesso.  Come  esiste  riguardo  all' intelligenza  dell'uo- 
mo V  Riportando  il  reale  finito  percepito  all'essere  indeterminato  a 
sé  manifesto  e  vedendo  in  esso  il  suo  essere  iniziale,  cioè  l'essere 
al  reale  proporzionato.  Quest'essere  iniziale  de'singoli,  in  quant'è 
intelligibile,  è  limitato  a'  singoli  reali  che  fa  conoscere  ,  ed  è 
quello  che  mostra  in  sé  la  loro  essenza  determinata  e  piena  co' 
limiti  de' reali  stessi  percepiti.  Poiché  abbiamo  veduto  che  nell'og- 
getto dell'intuito  si  distingue  Vessenza^  o  l'essere  che  è  il  conosciuto, 
e  la  sua  conoscibilità,  che  è  conseguente  e  inerente  alla  sua  og- 
gettività, la  quale  conoscibilità  se  si  astrae  dicesi  idea.  Essendo 
dunque  per  sé  conoscibile  l'essere,  l'essere  iniziale  d'un  dato  rea- 


(1)  Parliamo  di  queste  sole  che  sono  le  prime ,  perchè  le  altre,  cioè  le 
specifiche  astratte  e  le  generiche,  non  sono  che  astrazioni  di  queste  e  si 
può  proporzionalmente  fare  un  simile  discorso  di  queste. 


3gS 

le  fa  conoscere  questo,  ed  in  tanto  cliiamasi  or  l'essenza  or  l'i- 
dea di  questo.  L'essenza  dunque  intelligibile  d'un  reale  finito 
non  è  l'essere  indeterminato  ancora,  ma  è  qucU' essere  a  cui  è 
stato  già  soprapposto  dalla  nostra  mente  —  per  non  uscire  dalla  si- 
militudine usata  di  sopra  —  quel  lavoro  a  traforo  o  a  maglia  di 
altro  colore,  segnando  in  esso  colla  mente  que'  punti  che  a  que- 
sto si  avvengono,  e  quasi  dirci  si  combaciano.  Fatto  questo,  noi 
possiamo  usare  l'astrazione  in  due  modi,  poiché  possiamo  astrarre 
tanto  dal  reale ,  che  è  come  il  merletto  sovra  indicato ,  quanto 
da  quel  disegno  di  lui,  che  mentalmente  trasportiamo  nell'essere, 
e  che  è  la  sua  obiettività  e  intelligibilità  —  a  noi  relativa  —  e 
facendo  questa  astrazione  perveniamo  al  concetto  di  quella  che  ab- 
biamo chiamata  possibilità  suprema  come  residente  nell'essere; 
ovvero  ])ossiamo  asti'arre  dal  solo  reale,  conservando  e  riguar- 
dando il  disegno  del  reale  nell'essere  stesso,  e  allora  noi  in  questo 
disegno,  che  è  l' intelligibilità  e  l'essenzi,  ci  formiamo  il  concetto 
della  possibilità  media  che  appunto  nelle  essenze  risiede.  Per  co- 
noscere dunque  qual  sia  il  principio  o  fondamento  di  questa  re- 
lazione, noi  dobbiamo  vedere  qual  sia  l'ordine  de'  due  termini: 
4.°  l'essenza,  2.°  e  il  reale.  Ora  noi  vediamo  che  nell'essenza 
del  reale  giace  l'essere  iniziale,  pel  quale  il  reale  esiste,  essendo 
impossibile  che  il  reale  o  sia  o  si  concepisca  senza  l'essere.  Peroc- 
ché nell'essenza,  sebbene  sia  oggettiva  e  come  tale  intelligibile,  si 
contiene  come  veduto  l'essere  che  acquista  forma  subiettiva  dalla 
sua  unione  col  reale.  Vediamo  in  secondo  luogo  che  il  termine 
reale  soggiace  al  tempo  ,  di  maniera  che  non  è  necessario  che 
sempre  esista  ,  ma  purché  esista  una  volta,  sia  in  un  tempo  pas- 
sato, presente,  o  futuro,  l'essenza  a  lui  relativa  é  sempre  conce- 
pibile, e  concepibile  come  eterna,  e  immutabile,  partecipando 
queste  qualità  dall'essere  stesso  in  cui  si  vede.  Può  dunque  esi- 
stere l'essenza  determinata  in  una  mente  prima  e  dopo  che  esista 
il  reale  nella  sua  forma  subiettiva,  benché  a  questo  si  riferisca  e 
però  questo  deva  una  volta  esistere.  Laonde  quantunque  l'es- 
senza determinata  e  il  reale  abbiano  un'intima  connessione  tra 
loro  di  maniera  che  entrambi  formano  un  solo  termine  dell'atto 
creativo ,  tuttavia  se  si  sopprime  o  coU'astrazione  o  colla  distru- 
zione 0  col  ritardo  della  sua  esistenza  subiettiva  il  reale,  l'es- 
senza esiste  nella  mente:  ma  non  viceversa,  perocché  è  impossi- 
llosMLM.  Teosofia.  25 


386 

bile  pur  concepire  l'esistenza  subiettiva  del  reale,  senza  la  sua  es- 
senza. E  appunto  perchè  il  reale,  dentro  i  delti  limili,  si  può  sop- 
primere—  sopprimendosi  o  per  astrazione  o  pel  fallo  —  nell'essenza 
si  vede  la  possibilità  del  medesimo.  Questa  possibilità  dunque,  in 
quanto  si  distingue  dal  medesimo  reale ,  ha  il  suo  principio  e 
fondamento  e  la  sua  propria  sede  nell'essenza  medesima.  Poiché 
dopo  che  la  mente  acquistò  l'essenza,  questa  le  basta  a  vedere 
un  reale  possibile,  e  anche  ad  imaginarlo  esistente,  che  è  una 
specie  di  creazione  imaginaliva  :  il  che  è  quanto  noi  abbiam  detto 
parlando  della  possibililà  media  considerala  come  relazione. 

4^4.  E  a  conferma  di  questo  si  consideri,  che  a  una  medesima 
essenza  alcuna  volta  possono  corrispondere  infiniti  reali,  ed  ella 
contenere  la  possibililà  di  ciascuno,  non  più  dell'uno  che  dell'al- 
tro. Sia  pure  dunque  che  un  reale  si  richieda,  acciocché  sia  pen- 
sata e  così  sia  la  sua  essenza  —  di  che  parleremo  in  appresso,  — 
ma  basta  un  solo,  e,  dato  questo  solo,  già  si  pensa  un'essenza 
che  può  aver  per  suo  termine  innumerabili  reali.  Laonde  la  possi- 
bilità de'  reali  non  si  può  contenere  in  nessuno  di  essi ,  per- 
chè ella  é  universale  e  abbraccia  tulli  ugualmente.  Onde  anche 
posto  che  un  reale  sia  necessario  all'essenza,  tutti  gli  altri 
uguali  non  sono  necessari,  e  pure  in  essa  sono  possibili.  E 
quel  reale  che  si  ammette  per  necessario  non  è  necessario  che 
sia  uno  piuttosto  che  l'altro  degli  innumerabili.  Laonde  que- 
sta eccedenza  dell'essenza  dal  reale  ,  uno  di  numero  e  non 
fisso,  è  quella  che  si  dice  possibililà  di  tutti.  Questa  possibililà 
dunque  è  una  relazione  che  ha  il  suo  fondamento  nell'essenza, 
fondamento  che  sta  nella  proprietà  dell'essenza  determinata  «di 
contenere  l'essere  iniziale  in  quel  tanlo  che  a  quel  reale  così  li- 
inilalo,  e  ad  ognuno  qualunque,  è  necessario  per  esistere  e  quindi 
di  contenere  la  conoscibilità  di  questi  enli».  Laonde  l'essenza  è 
l'elemento  principale  degli  enti  reali,  perchè  essa  è  l'essere  pro- 
prio di  questi ,  e  l'altro  elemento  non  è  che  il  termine  reale  che 
da  se  solo  non  è  ente  né  concepibile,  e  ad  essa  unito  può  mol- 
tiplicarsi senza  numero ,  rimanendo  ella  la  medesima ,  una  e  sem- 
plicissima. Nello  slesso  tempo  si  vede ,  come  data  una  volta  l'es- 
senza come  oggetto  dello  sguardo  della  mente,  ella  non  si  altera 
né  può  alterarsi,  sia  che  i  reali  ad  essa  corrispondenti  sieno  molti 
0  pochi ,  0  che  si  distruggano  lutti,  e  poi  sieno  riprodotti.  Pe- 


38^ 

rocche  l'essere,  come  abbiamo  veduto,  non  fa  esistere  i  reali 
che  colla  sua  presenza ,  e  l'esser  presente  non  mula  l' essere , 
e  l'essenza  non  è  che  l'essere  dalla  mente  divina  circoscritto  al 
bisogno  del  termine  reale  finito.  Poiché  dovendo  Vesserò  esser 
presente  ad  ogni  minima  parte  e  attualità  del  reale  (,502  sgg., 
57C,  58b  sgg.*)  è  necessario  che  egli  stesso  apparisca  davanti 
al  veder  della  mente  definito  e  limitato  dal  reale  e  dal  complesso 
maggiore  o  minore  de'suoi  clementi  anche  formali  ed  astratti  ren- 
dendo così  una  rappresentazione  del  reale  stesso  ,  che  è  quella 
che  fu  detta  idea  esemplare  ,  o  tipo  degli  enti  contingenti.  Ma 
poiché  è  la  mente  divina  che  cosilo  determina,  mediante  l'atto 
creativo,  perciò  questa  determinazione  intellettiva  dell'essere  è  al 
lutto  indipendente  e  impassibile  dai  reali  medesimi. 

Dalle  quali  cose  tulle  possiamo  conchiudere,  che  se  l'essere 
oggetlivo  indeterminato  per  sé  non  ha  nessun  limite,  ma  quando 
ha  di  fronte  l'ente  finito  allora  prende  dei  limili  relativi  alla  mente 
clic  in  esso  riguarda  ,  ne  viene  che  quella  relazione  che  abbiamo 
chiamata  possibilità  suprema,  benché  si  contempli  nell'essere  og- 
gettivo indeterminato,  abbia  il  suo  fondamento  nell'ente  finito, 
senza  il  quale  non  è  concepibile  quella  relazione,  e  il  suo  termine 
nell'ente  oggettivo  infinito.  Ma  poiché  l'ente  finito  si  compone 
di  due  elementi  cioè  xìeW essenza  che  è  suo  principio  e  del  reale 
che  è  suo  termine,  se  noi  confrontiamo  questi  due  elementi  l'uno 
all'altro  —  e  non  si  può  fare  il  confronto  se  non  supposto  che  sia 
già  dato  Tenie  finilo —  scorgiamo  che  \i\  possibilità  media,  dimo- 
rante nell'essenza  ,  é  una  relazione  che  ha  il  suo  fondamento  e 
principio  nell'essenza  stessa  ,  e  il  suo  termine  soltanto  ne'  reali. 
Ma  questo  non  é  tutto.  Conviene  che  abbracciamo  nella  nostra 
considerazione  un  altro  elemento  che  compisca  questa  dottrina. 
445.  Consideriamo  a  tale  scopo  l'origine  di  tutte  queste  nozioni 
nell'uomo.  Si  trova  in  esse  questo  progresso  : 

4.°  L'uomo  percepisce  prima  gli  enti  finiti. 

2.°  Di  poi  colla  riflessione  vede  che  gli  enti  finiti  da  lui 
percepiti  sono  composti  di  due  elementi:  a)  l'essenza ,  b)  il  reale: 
e  coll'aslrazione  divide  l'uno  dall'altro, 

5."  Confronta  l'elemento  reale  coU'essenza ,  e  da  questo 
confronto  vede  che  senza  l'essenza  l'elemento  reale  non  sarebbe 
ente  perchè  non  sarebbe  al  tutto  :  e  che  l' essenza  può  essere  da 


388 

lui  pensala  anche  annullandosi  il  suo  reale  corrispondente  :  pone 
dunque  nell'essenza  la  possibilità  del  reale. 

h.°  Con  un'altra  riflessione  s'accorge  che  egli  non  avrebbe 
comincialo  a  pensare  l'essenza,  se  non  avesse  percepito  una  qual- 
che volta  l'ente  reale  lutto  intero:  questo  gli  prova  che  i  due 
elementi  hanno  tra  loro  un  sintesismo ,  cioè  che  devono  es- 
ser comparsi  insieme  davanti  alia  mente.  Ma  nello  stesso  tempo 
vede  che  questo  non  prova  la  necessità  che  il  termine  reale  fi- 
nito sussista  ossia  esista  in  sé,  acciocché  ci  sia  l'essenza;  ma 
prova  solo  la  necessità  che  ci  sia  una  mente  che  in  qualunque 
modo  abbia  avuto  la  j)otenza  di  pensare  ad  un  tempo  l'essenza 
e  il  reale.  Data  questa  mente,  c'è  l'uno  e  l'altro  elemento  da- 
vanti ad  essa,  e  c'è  la  relazione  tra  l'uno  e  l'altro.  Questa  mente, 
qualunque  sia,  umana  o  divina,  è  un  reale  ella  stessa.  Dunque 
acciocché  ci  sia  l'essenza  è  bensì  necessario  che  ci  sia  un  reale 
in  sé  esistente ,  ma  basta  che  questo  reale  sia  una  mente  reale 
che  pensi  simultaneamente  i  due  elementi,  e  non  è  necessario  che 
esista  in  sé  quel  reale  finito  che  corrisponde  all'essenza. 

5.°  Veduto  questo  e  presupposta  questa  mente  atta  a  pen- 
sare ad  un  tempo  —  in  qualunque  modo  —  l'essenza  e  il  reale  cor- 
rispondente^ benché  questo  secondo  non  esista  in  sé,  è  data  una 
relazione  tra  i  due  elementi  pensati  da  quella  mente  reale,  cioè 
Vessenza  e  il  reale  pensato,  non  ancora  esistente  in  sé.  E  que- 
sto reale  pensato  è  il  terzo  elemento  che  dicevamo  necessario  a 
compire  la  dottrina  della  possibilità  di  cui  parliamo,  poiché  altro 
è  la  relazione  tra  l'essenza  e  il  reale  pensato,  e  altro  è  la  rela- 
zione tra  Vessenza  e  il  reale  esistente  in  sé  per  l'unione  sua 
coll'essenza.  È  questa  seconda  relazione  che  costituisce  la  pos- 
sibilità media  ed  ideale  di  cui  parliamo,  la  quale  ha  nell'essenza 
il  suo  principio  e  fondamento,  e  nel  reale  in  sé  ha  solamente 
il  suo    termine. 

Ma  se  consideriamo  l'altra  relazione,  cioè  quella  che  passa  tra 
Vessenza  e  il  reale  pensato,  noi  non  abbiamo  più  il  concello  della 
possibilità  media  di  cui  parlavamo:  ma  abbiamo  un'altra  relazione 
che  é  condizione  ontologica  della  relazione  che  costituisce  la/)os- 
sihilità  media.  La  qual  altra  relazione  appunto  perché  é  una  con- 
dizione ontologica  di  questa,  non  si  scopre  che  con  un  razioci- 
nio mollo  avanzalo  e  laborioso ,  laddove  questa  è  presentala  al- 


389 

l'uomo  dall'intuito  delle  essenze  quasi  direi  immediatamente. 
Laonde  i  filosofi  trattarono  di  questa  seconda  relazione  e  non  della 
prima  o  certo  assai  poco. 

Se  si  considera  dunque  la  relazione  tra  V  essenza  e  il  reale 
pensato,  vedesi  che  questi  due  estremi  hanno  un  perfetto  sinte- 
sismo  tra  loro ,  di  modo  che  ciascuno  di  essi  è  ugualmente  prin- 
cipio e  termine  della  relazione  che  costituiscono  insieme,  di  ma- 
niera che  non  è  concepibile  un'essenza  senza  che  ci  sia  di  con- 
tro il  pensiero  d'un  reale  ,  né  è  possibile  il  pensiero  del  reale  senza 
che  ci  sia  di  contro  l'essenza,  formando  tult'e  due  insieme  que- 
ste cose  l'ente  finito,  in  quant'è  l'essenza  nella  forma  oggettiva, 
in  quanl'è  il  reale  nella  forma  subiettiva,  e  questa  in  quella. 
Noi  lasciamo  ora  questo  discorso  per  riprenderlo  tra  poco. 

6."  La  speculazione  qua  pervenuta  considera  a  parte  le  es- 
senze d'una  moltitudine  di  enti  finiti,  e  vede  che  tutt'esse  non 
sono  altro  che  l'essere  variamente  limitalo  e  conformato  ai  reali 
finiti  pensati,  de' quali  così  diviene  l'iniziamento,  l'essere  loro 
proprio.  E  questa  limitazione  e  quasi  configurazione  óeWessere  è 
spiegata  da  quello  che  abbiam  detto  e  che  qui  giova  ripetere, 
cioè  che  ad  ogni  minimo  che  di  reale  è  uopo  l'essere  acciocché 
sia;  onde  l'essere  seguendo  colla  sua  presenza  il  reale  in  ogni 
minima  sua  parte,  e  non  più,  è  dalla  mente  veduto  così  al  reale 
adattato  e  configuralo  e  da  esso  limitato.  Quello  sguardo  dunque 
della  mente  che  pensa  il  reale  limitalo  è  quello  stesso  che  vede 
l'essere  limitato  ugualmente,  che  per  questa  limitazione  prende 
il  nome  d'essenza. 

Veduto  questo,  conchiude  che  dunque  l'essere  non  è  limitato 
per  sé  slesso,  o  in  sé  stesso  ;  ma  é  limitato  dal  guardo  della  mente 
che  pensando  il  reale  finito,  con  questo  slesso,  bisognoso  dell'es- 
sere, lo  limita  a  sé  stessa  e  così  limitato  lo  vede.  Vede  dunque 
che  la  limitazione  viene  dallo  sguardo  della  mente  e  non  dall'es- 
sere stesso  e  che  é  posta  da  quella  ;  benché  la  mente  non  potrebbe 
limitare  così  il  suo  sguardo  se  l'essere  slesso  suo  oggetto  essen- 
ziale non  fosse.  Confrontando  dunque  le  essenze  prodotte  dalla 
mente  ,  per  la  limitazione  imposta  al  suo  proprio  sguardo,  col- 
l'essere^  si  considera  l'essere  come  la  possibilità  delle  essenze, 
ma  venendo  queste  costituite  nella  loro  limitazione  dalla  mente 
e  non  subendo  l'essere  stesso  alcuna  modificazione  se  non  rela- 


390 

tiva  alla  mente  ,  e  da  dire  che  il  principio  e  il  fondamento  di  que- 
sta relazione  sia  nelle  essenze  slesse  dalla  mente  prodotte,  e  nel- 
l'essere soltanto  il  termine  della  medesima.  Ed  è  bensì  vero  che 
il  fondo  delle  essenze  stesse  e  l'essere,  ma  non  si  chiama  essenza 
del  finito  se  non  per  la  limitazione,  ed  è  questa  appunto  il  prin- 
cipio e  fondamento  della  relazione  medesima. 

!tU6.  Abbiamo  in  tutto  questo  discorso  supposta  la  necessità 
d'una  mente  qualunque,  come  condizione  e  causa  delle  essenze. 
Ma  ora  conviene  che  vediamo  qual  sia  la  mente,  che  si  richiede, 
acciocché  le  essenze  finite  esistano.  Se  noi  consideriamo  la  mente 
umana  e  il  modo  pel  quale  ella  viene  gradatamente  a  queste  spe- 
culazioni mediante  i  sei  passi  del  raziocinio  ontologico  da  noi  testò 
distinti ,  vediamo  che  ella  incomincia  il  suo  lavoro  dalla  perce- 
zione degli  enti  finiti.  Prima  dunque  che  la  mente  umana  s'ac- 
cinga a  questo  lavoro,  i  reali  finiti  esistono.  Questi  dunque  sono 
da  essa  indipendenti;  l'uomo,  avuta  l'azione  di  questi  reali  finiti 
nel  suo  sentimento ,  colla  sua  mente  riporta  questa  azione  sen- 
tita all'essere  che  intuisce,  e  questo  sguardo  limitandosi  all'esten- 
sione de'  reali ,  vede  l'essere  a  questi  acccomodato ,  cioè  vede 
l'essenze:  così  ha  la  percezione  intellettiva  degli  enti  finiti,  che 
è  il  pensiero  simultaneo  dell'essenza  e  del  reale  :  ossia  è  l'unione 
deWessenza  e  del  reale  pensato  in  un  solo  ente.  Ma  i  reali  finiti 
esistendo  prima  che  faccia  tutto  ciò  la  mente  umana,  e  non  po- 
tendo esistere  il  reale  senza  la  sua  essenza,  convien  dire  che  a- 
vanti  che  l'uomo  veda  le  loro  essenze,  queste  pure  esistevano 
come  necessarie  all'esistenza  de'  reali  stessi.  Non  potendo  dun- 
que queste  esistere  se  non  per  una  mente ,  e  in  una  mente,  è  ne- 
cessario conchiudere  che  prima  della  mente  dell'uomo  esista  una 
mente  che  pensa  ad  un  tempo  l'essenza  ed  il  reale  finito ,  e  che 
con  questo  pensiero  abbia  fatto  esistere  simultaneamente  l'uno 
e  r  altro  elemento ,  e  questa  è  la  mente  creatrice  di  Dio.  Nova 
prova  è  questa  e  luculentissima  della  divina  esistenza  tratta  dal- 
l'esistenza  de'  reali  finiti   {Sistema  103,  180). 

447,  Quindi  la  (.[uc&iìone  deWd  possibilità  suprema  e  media  che 
si  riferisce  all'Essere  indeterminato,  ci  conduce  ad  un'altra,  cidc 
alla  questione  della  causa  efficiente ,  origine  di  tutta  questa  pos- 
sibilità ,  la  quale  causa  efficiente  abbiam  detto  non  poter  esser 
altro  che  la  mente  pratica  e  creatrice  di  Dio. 


391 

Ritorna  adunque  qui  la  domanda  «  se  in  questa  causa  cffìcienle 
ci  possa  esser  potenza  » ,  prendendo  la  parola  potenza  secondo  la 
definizione  data  da  noi. 

E  dunque  a  considerare,  che  concependo  noi  negli  enti  finiti, 
—  die  sono  l'oggetto  positivo  del  nostro  sapere  —  sem\)re  potenza 
ed  atto,  perchè  gli  enti  finiti  per  lo  più  hanno  appunto  questo  di 
proprio  di  non  esistere  con  tutta  la  loro  attività ,  ma  parte  di 
questa  tenerla  involta  e  jnesplicata,  e  poi  esplicarla  mediante 
certi  stimoli  ed  occasioni,  e  ciò  perchè  non  sono  mai  cause  piene; 
noi  applichiamo  le  stesse  forme  dialettiche  di  potenza  ed  atto  a 
tutte"  le  cause,  e  anche  alla  Causa  prima  ;  benché  riflettendoci 
meglio  in  appresso  vediamo  di  aver  corso  in  questa  applicazione, 
non  essendoci  in  essa  che  puro  atto. 

Secondo  dunque  questo  modo  imperfetto  del  nostro  conce- 
pire, noi  consideriamo  anche  la  Mente  o  Intelligenza  operativa 
di  Dio  come  in  due  stati  successivi,  l'uno  di  potenza,  l'altro 
di  atto. 

Considerandola  nello  stato  di  potenza  noi  ci  formiamo  il  con- 
cetto di  potenza  creatrice ,  e  in  questa  vediamo  l' origine  ontolo- 
gica della  possibilità  suprema.  Perocché  questa  non  ci  potrebbe 
essere  se  non  ci  fosse  la  potenza  creatrice  ,  cioè  quella  potenza 
che  pone  la  realità  finita  e  con  essa  le  essenze  ad  essa  corri- 
spondenti. 

Considerandola  nello  stato  di  atto,  noi  abbiamo  già  l'Universo 
creato,  e  in  quest'atto  noi  vediamo  V origine  oìitologica  deWa pos- 
sibilità media;  perchè  abbiamo  il  reale  finito  pensato  come  pos- 
sibile nell'essenze  attualmente  esistenti  i\ella  divina  mente. 

Ma  si  osservi  bene,  che  considerandosi  l'Intelligenza  pratica 
e  creatrice  di  Dio  ancora  in  potenza  a  creare  —  nel  quale  stato 
non  fu  mai  —  non  ci  sono  ancora  le  essenze  finite  perchè  essa  non 
ha  fatto  ancora  quell'atto  con  cui  le  circoscrive  e  distingue.  Che 
cosa  dunque  ci  rimane?  La  sola  possibilità  di  queste  essenze  che 
è  .quella  che  abbiamo  chiamata  possibilità  suprema.  Ma  questa 
possibilità  si  può  considerare  da  due  lati,  o  dal  Iato  dell'Intel- 
ligenza divina  che  ha  la  potenza  del -suo  atto,  e  questa  si  chiama 
acconciamente  potenzialità  delle  essenze,  o  dal  lato  dell'essere 
oggettivo,  nel  quale  riguardando  quella  Intelligenza  le  forma,  e 
questa  propriamente  si  chiama  possibilità. 


392 

448.  Richiamiamo  dunque  alla  mente  le  tre  relazioni  determini 
finiti  coU'essere  ,  che  abbiamo  distinte  a  principio. 

i.°  La  loro  relazione  coli' essere  indeterminato,  e  di  questa 
abbiamo  parlalo  e  veduto  che  ella  ha  il  suo  principio  e  fonda- 
mento ne'  termini  finiti  e  il  suo  termine  nell'  essere  indetermi- 
nato, possibililà  suprema  ideologica. 

!2.°  La  loro  relazione  coli' Essere  assoluto  nella  sua  forma 
subiettiva ,  e  questa  è  la  potenzialità  suprema  delle  essenze ,  la 
quale  ha  il  suo  principio  e  fondamento  nella  Intelligenza  pratica 
dell'Essere  assoluto,  e  però  nella  realità,  e  il  suo  termine  nell'Es- 
sere assoluto  obiettivo. 

5."  La  loro  relazione  coli' Essere  assoluto  obiettivo,  e  que- 
sta è  la  possibilità  suprema  ontologica.  Ora  questa  relazione  altro 
non  significa  se  non  che  «  l'Essere  assoluto  obiettivo  ha  l'attitu- 
dine d'essere  riguardato  dalla  mente  non  solo  nel  suo  tutto  ma 
anche  ristretto,  non  però  in  modo  che  egli  stesso  soffra  questa 
restrizione ,  ma  ristretto  d'una  restrizione  relativa  unicamente  al 
modo  d'operare  della  mente  stessa.  E  però  se  si  paragonano  le 
essenze  finite  con  quest'  Essere  assoluto ,  si  può  dire  che  prima 
della  esistenza  di  queste  egli  ne  contenga  la  possibilità  e  che 
«  in  lui  sia  il  principio  e  fondamento  di  questa  relazione,  e  nelle 
essenze  che  ancor  non  sono  il  termine  ».  Ma  egli  è  evidente  che 
questa  è  una  relazione  dialettica  ;  perche  nò  ancora  sono  le  es- 
senze, né  l'attitudine  dell'Essere  assoluto  obiettivo,  ad  essere  così 
veduto,  è  qualche  cosa  propria  di  lui,  ma  della  mente  e  della  rela- 
zione di  questa  con  esso.  Onde  la  potenzialità  delle  essenze  è  la 
causa  della  relazione  dialettica  che  chiamammo  possibilità  su- 
prema ontologica. 

449.  Per  significare  dunque  in  altre  parole  la  natura  di  queste 
possibilità  supreme,  l'ontologica  e  l'ideologica,  si  distingua  tra  l'o- 
rigine  d'una  relazione  e  la  natura  d'una  relazione  esistente. 
Quando  una  relazione  già  esiste ,  allora  si  può  determinarne  la 
natura  e  trovare  a  quale  delle  due  entità,  tra  cui  essa  corre,  ap- 
partenga la  proprietà  di  principio,  a  quale  appartenga  la  pro- 
prietà di  termine  della  slessa;  posto  che  trattisi  d'una  relazione  le 
cui  entità  abbiano  queste  distinte  proprietà.  Ma  prima  che  le  due 
entità  esistano,  l'una  a  fronte  dell'altra,  e  però  prima  che  esi- 
sta la  relazione  che  passa  tra  esse,    può  esistere  il  principio  o 


393 

fondamento  della  relazione  —  che  è  una  qualiUi  positiva,  —  o  per 
dir  meglio,  può  esistere  i[i\e\\à  proprietà  che  in  appresso,  quando 
l'altra  entità  acquista  l'esistenza ,  diviene  principio  o  fondamento 
di  quella  relazione ,  di  cui  questa  seconda  entità  ,  tosto  che  esi- 
ste,  è  termine.  E  cosi  appunto  accade  della  possibilità  suprema 
ontologica:  prima  che  la  volontà  divina  sia  uscita  al  suo  atto  crea- 
tivo, quella  non  esiste  ancora  come  relazione,  perchè  nell'Es- 
sere obiettivo  solo  non  si  vede  alcun  finito,  e  affinchè  si  pensi 
la  sua  attitudine  di  somministrarlo  a  una  Mentii,  convien  ri- 
correre alla  potenza  della  mente  di  restringere  il  suo  sguardo. 
Dunque  queW attitudine  si  concepisce  dopo  aver  concepito  la  re- 
lazione della  Mente  con  esso,  cioè  la  possibilità  suprema  onto- 
logica è  come  una  conseguenza  di  questa  potenzialità.  La  possi- 
bilità suprema  ontologica  è  dunque  un  conseguente  alla  relazione 
che  passa  tra  l'Essere  Assoluto  nella  forma  subielliva,  e  l'Essere 
assoluto  nella  forma  obiettiva,  conseguente  che  ne  trae  il  pen- 
siero. 

Ma  il  pensiero  non  può  dedurre  questo  conseguente  AeWalti- 
tiidine  deir  Essere  obiettivo  ad  essere  in  tal  modo  riguardato  dalla 
mente,  se  non  conosce  prima  l'atto  di  questa  mente,  il  quale  atto 
solo  gli  fa  conoscere  la  potenza.  E  però  nell'ordine  logico  la  pos- 
sibilità suprema  ontologica  è  un  concetto  posteriore  a  quello  della 
potenzialità  suprema  ,  come  questo  è  un  concetto  posteriore  a 
quello  dell'  attualità  deWatto  creativo. 

La  possibilità  suprema  ideologica  poi  se  si  considera  ontologi- 
camente e  rispetto  alla  Mente  suprema,  che  ne  conosce  l'origine, 
è  un  concetto  posteriore  a  lutti  i  precedenti,  perchè  suppone  già 
avvenuta  la  creazione.  Ma  rispetto  alla  mente  umana  ,  le  è  data 
immediatamente,  perchè  le  è  dato  ad  intuire  l'essere  indetermi- 
nato in  cui  la  trova.  E  veramente  questo  stesso  essere  indeter- 
minato, in  cui  riguarda  di  continuo  lo  spirito  umano,  è  egli  stesso 
conseguente  alla  creazione  dell'uomo  e  dell'altre  finite  intelli- 
genze. E  che  cos'è  altro  se  non  l'Essere  oggettivo,  ma  ristretto 
al  suo  inizio  rimanendo  occulto  il  termine?  È  dunque  questo  —  dia- 
letticamente parlando  —  il  primo  restringimento  che  la  Mente  crea- 
trice pose  al  suo  sguardo  quando  volle  creare  il  Mondo.  Poiché 
l'Essere  oggettivo  per  sé  è  tutta  luce  senza  distinzione  di  prin- 
cipio e  di  termine.  Ma  solo  per  l'atto  creativo  della  divina  mente 


594 

apparisce  all'uomo  come  inizio.  L'essere  iniziale  dunque  e  inde- 
terminato è  così  limitalo  dall'Atto  creatore. 

Or  come  trova  in  esso  l'uomo  la  possibilità  ideologica  delle  es- 
senze? Col  riferire  a  lui  i  reali  percepiti  e  vedere  in  esso  l'ini- 
zio di  questi.  Col  confronto  di  questi  reali  la  mente  umana  lo 
determina.  Ella  dopo  di  ciò,  trasportandosi  colla  riflessione  ad- 
dietro, lo  chiama  il  primo  determinabile  ossia  la  possibilità  su- 
prema ideologica. 

CAPITOLO  V. 

Corollari '^importanti  dell'esposta  dottrina. 

^50.  Prima  di  procedere  avanti  nell'esposizione  della  dottrina 
dell'atto  e  della  potenza,  conviene  che  ci  tratteniamo  a  dedurre 
dalle  cose  dette  fin  qui  degli  importantissimi  corollari  che  esse 
ci  somministrano. 

Articolo  I. 

Primo  Corollario. — Ragione  ontologica  del  principio,  che  non 
può  esistere  se  non  ciò   che  è  concepibile. 

451.  Questa  proposizione  ci  è  somministrata  già  dall'Ideologia 
come  evidente  e  perciò  non  ha  bisogno  di  prova. 

Può  però  essere  anche  questa  evidenza  ideologica  analizzata  dalla 
riflessione  e  ridotta  ad  un  argomento  così  :  È  concepibile  tutto 
ciò  che  non  involge  contraddizione;  ma  ciò  che  involge  contrad- 
dizione implica  annullamento  di  sé,  perchè  un  estremo  defla  con- 
traddizione annienta  l'altro,  di  modo  che  ogni  contraddizione  si  può 
rappresentare  con  questa  forraola  :  a — a  =  o.  Ora  il  nulla  non 
può  essere,  perchè  è  appunto  non  essere.  Dunque  ciò  che  non 
si  può  concepire  non  può  esistere. 

Questa  prova  è  fondata  sulla  latitudine  del  pensiero  e  deU'in- 
telligenza,  essa  nasce  dall'aver  questa  per  sua  propria  forma  obiet- 
tiva l'essere ,  e  parlando  dell'  intelligenza  umana  l' essere  inde- 
terminato il  quale  non  ha  limiti ,  e  questa  essenziale  illimitazione 
dell'essere,  e  dell'essere  indeterminato,  è  evidente  per  sé. 


39S 

La  ragione  ontologica  non  è  dunque  necessaria ,  acciocché 
l'uomo  conosca  questa  verità  come  evidente.  Ma  anche  le  cose  alla 
mente  evidenti  hanno  una  causa  della  loro  evidenza  nell'Essere 
assoluto,  e  questa  si  dice  ragione  ontologica.  Questa  ragione  non 
serve  dunque  a  formare  o  ad  accrescere  l'evidenza  della  verità  , 
ma  è  utile  a  compire  la  scienza  ,  e  di  [ìiù ,  a  sciogliere  i  sofismi 
che  la  riflessione  talora  accampa  contro  l'evidenza  stessa. 

Avendo  noi  dunque  veduto  che  l'Essere  ha  tre  forme  essen- 
ziali ,  la  seconda  delle  quali  è  l' obiettiva ,  e  dovendo  l'Essere 
assoluto  sussistere  compiuto  in  tutte  tre  quelle  forme,  è  evidente 
che  egli  non  solo  è  concepibile  e  intelligibile  a  sé  stesso  ma  an- 
che attualmente  inteso,  tale  essendo  la  natura  della  forma  o- 
biettiva. 

i52.  Venendo  poi  all'ente  limitato  e  creato,  noi  abbiamo  dimo- 
strato che  questo  é  un  termine  non  necessario  all'Essere  assoluto, 
e  però  che  egli  non  può  esistere  se  non  per  l'opera  d'una  libera 
volontà,  ossia  dell'intelligenza  amorosa  dell'Essere  supremo  nella 
sua  forma  subiettiva.  Ma  se  il  Mondo  é  l'opera  dell'Intelligenza 
operativa  e  libera,  conviene  che  egli  sia  stato  creato  coll'atto  stesso 
con  cui  fu  inteso ,  e  però  che  egli  sia  concepibile  e  concepito. 
Non  può  dunque  nulla  esistere  senz'essere  concepibile. 

Quest'è  pure  la  ragione  ontologica  per  la  quale  s'intende  subilo 
non  solo  «  non  essere  possibile  ciò  che  non  è  concepibile  « ,  ma 
ancora  il  contrario  ,  giacché  «  ogni  concepibile  si  dichiara  pos- 
sibile )).  Questo  avviene  perchè  ciò  che  è  concepibile,  in  quant'ò 
concepibile,  si  vede  eterno  (essenza),  e  tale  non  potrebbe  essere 
se  non  fosse  concepito  da  una  mente  eterna.  Se  dunque  c'è  una 
mente  eterna  che  ebbe  potere  di  concepirlo  la  prima,  e  così  farlo 
essere,  è  consentaneo  che  ella  abbia  anche  il  potere  di  dargli 
la  realità,  essendo  cosa  minore  la  realità  che  non  l'essenza,  e 
la  causa  potente  a  produrre  questa ,  molto  più  deve  essere  po- 
tente a  produrre  quella.  L'eternità  e  l'immutabilità  essendo  dun- 
que d'immediata  evidenza,  quasi  per  un  istinto  intellettivo  l'uomo 
è  pronto  a  conchiudere  che  esse  contengono  la  possibilità  anche 
ontologica  de'  reali  loro  corrispondenti. 


396 

Articolo  li. 

Secondo  Corollario. — Non  può  esistere  realmenlo  cosa  alcuna 
che  non  sia,  non  solo  concepibile ,  ma  concepita  da  qualche  mente. 

455.  L'Ideologo  prova  questa  proposizione  quasi  per  una  divi- 
nazione deontologica  facendo  uso  di  questa  serie  di  proposizioni: 
i.°  Ogni  cosa  reale  non  potrebbe  essere  e  non  sarebbe,  se  non 
fosse  concepibile.  2.°  Essendo  concepibile  ha  la  sua  essenza 
ideale  o  intelligibilità.  5.°  Questa  è  immutabile  ed  eterna.  4."  Ma 
non  potrebbe  essere  eterna  se  non  ci  fosse  una  mente  eterna 
che  la  concepisse.  5.°  Dunque  niuna  cosa  può  realmente  esi- 
stere ,  se  non  è  ab  eterno  attualmente  concepita. 

L'Ontologia  conferma  e  spiega  questo  ragionamento.  Poiché  a- 
vendo  dimostrato  che  l'Essere  assoluto  è  essenzialmente  obiettivo, 
è  dimostrato  pure  ch'egli  è  per  sua  essenza  inteso.  Avendo  poi 
dimostrato  che  gli  enti  reali  finiti  non  possono  esistere  se  non 
per  un  alto  della  libera  volontà  della  divina  intelligenza,  rimane 
che  non  possono  esistere  se  non  sieno  concepiti  e  intesi  dalla 
mente  creatrice.  Niente  dunque  può  esistere  realmente  non  solo 
che  non  sia  intelligibile,  ma  che  non  sia  inteso  attualmente  da 
qualche  intendimento. 

Articolo  III. 

Terzo  Corollario. — La  creazione  non  può  esser  fatta  da  altri 
che  da  Dio. 

454.  Questo  corollario  viene,  dalle  cose  esposte,  per  più  vie, 
e  così  trova  in  esse  altrettante  dimostrazioni. 

La  prima  è  questa.  Gli  enti  finiti  che  compongono  il  mondo 
risultano  da  due  elementi ,  cioè  dal  termine  reale  finito  ,  e  dal- 
l'essere iniziale  che  dà  a  questo  termine  la  forma  di  ente.  Ma 
l'essere  iniziale  è  qualche  cosa  dell'Essere  assoluto  (,292,  sgg. 
294,  sgg.*),  e  l'Essere  assoluto  è  il  solo  che  può  disporre  di  ciò 


397 

che  a  sé  appartiene ,  epperò  il  solo  essere  assoluto ,  Iddio,  può 
essere  il  creatore  del  moodo  (4). 

La  seconda  è  questa.  Gli  enti  finiti  che  compongono  il  mondo 
non  sono  necessari  logicamente,  perchè  possono  esser  negati 
senza  cadere  in  contraddizione.  Se  non  sono  necessari  logicamente, 
non  sono  né  pure  necessari  ontologicamente,  perchè  abhiam  ve- 
duto che  il  possibile  è  il  concepibile  (,4ol,  li^T).  Ma  è  conce- 
pibile ugualmente  che  il  mondo  esista  e  che  il  mondo  non  esi- 
sta. È  possibile  dunque  ugualmente  l'esistenza  e  la  non  esistenza 
del  mondo.  Acciocché  dunque  si  verifichi  piuttosto  l' esistenza 
che  la  non  esistenza  ci  vuole  una  causa  reale  che  determini 
quella  a  preferenza  di  questa.  Ma  una  tal  causa  non  è  determi- 
nata dall'oggetto,  pendile  la  esistenza  e  la  non  esistenza  di  questo 
è  indifferente,  dunque  questa  causa  ragione  sufficiente  dell'esistenza 
del  mondo  non  può  essere  che  una  causa  libera  e  straniera  al 
mondo  stesso:  fuori  del  quale  —  che  è  il  complesso  degli  enti  fi- 
niti —  non  c'è  che  l'essere  infinito,  Dio.  Dunque  Dio  solo  é  la 
causa  creatrice  del  mondo. 

La  terza,  che  rinforza  e  rischiara  anche  la  seconda,  è  questa.  Non 
c'è  di  necessario  altro  che  l'Essere,  questo  è  semplice,  indivisibile, 
infinito.  Laonde  è  nelle  sue  tre  forme  infinite  la  subiettiva,  l'obiet- 
tiva e  la  sanlilativa  o  morale.  Non  può  dunque  entrare  nella  sua 
natura  ninna  limitazione.  Non  essendo  dunque  necessario  al  com- 
pimento dellEssere  stesso  niun  ente  finito,  e  la  natura  di  quello 
non  potendo  essere  il  subietto  di  alcuna  limitazione,  rimane 
che  l'ente  finito  non  possa  esser  altro  che  l'effetto  della  sua  libera 
volontà  ossia  Intelligenza  amorosa  e  pratica.  Se  Y  essere  finito 
fosse  una  conseguenza  della  natura  divina  ,  farebbe  parte  di  que- 
sta: il  che  abbiamo  mostrato  impossibile  e  ripugnante  a  quella  na- 
tura essenzialmente  illimitata.  Se  dunque  non  fa  parte,  e  non  è 
un'appendice  della  sua  natura,  é  un'  opera  libera  che  va  oltre  la 
sua  natura  :  la  causa  del  mondo  non  può  esser  dunque  che  la 
libera  attività ,  la  libertà  divina. 

(1)  Perciò  S.  Tommaso  distingue  con  grande  acutezza  l'operare  della 
causa  prima  dall'operare  delle  cause  seconde,  ,alla  prima  compete  dar  l'es- 
sere, alle  seconde  la  determinaziune* .  Cf.  In  II.  Sent.  D.  I.  q.  i.  a.  i.  — 
Teodicea  522,  547,  556-562,  dove  si  mostra  che  Dio  opera  sempre  per  modo 
di  creazione. 


398 

Articolo  IV. 

Quarto  Corollario.  —  Concetto  ed  esistenza  necessaria 
della  libertà  divina. 

hìili.  Che  anzi  di  qui  appunto  si  trae  il  concetto  della  libertà 
divina,  e  se  ne  prova  l'esistenza  necessaria. 

Poiché  siccome  il  concetto  di  contingenza,  come  abbiamo  ve- 
duto ,  è  quello  pel  quale  d'un'entilà  si  concepisce  ugualmente 
che  può  essere  e  non  essere  ^  perchè  non  forma  parte  dell'es- 
scre  stesso  —  che  è  necessario  tutto,  per  modo  che  non  si  può 
concepire  che  non  sia,  —  così  il  concetto  della  libertà  divina  è 
«  il  potere  che  ha  l'Essere  assoluto  di  far  cose  che  non  fanno 
parte  deUa  sua  propria  natura  »  e  però  cose  contingenti,  delle 
quali  si  può  ugualmente  concepire  che  sieno  e  che  non  sieno , 
di  maniera  che  l'Essere  assoluto  non  è  obbligato  e  determinato 
a  farle  ,  perchè  senz'esse  egli  nella  sua  propria  natura  è 
compiuto. 

Ora  che  questo  potere  esista  nell'Essere  assoluto  si  prova  ar- 
gomentando dal  reale  finito  del  mondo  nel  modo  che  abbiam  fatto, 
e  che  si  riassume  in  queste  proposizioni:  1 ."  Il  reale  finito  e 
contingente  esiste;  2.°  Se  esiste,  c'è  unita  l'esistenza  ossia  l'es- 
sere iniziale,  che  lo  fa  esistere  ossia  essere  ente;  3.°  L'essere  ini- 
ziale è  un'appartenenza  dell'Essere  assoluto;  4-."  Dunque  l'Essere 
assoluto  è  la  causa  creatrice  degli  enti  finiti  e  contingenti  ;  5."  Ma 
quella  causa  creatrice  ossia  quel  potere  dell'Essere  assoluto,  che 
fa  esistere  i  contingenti,  dicesi  causa  libera,  o  libertà  di  Dio; 
G."  Dunque  esiste  necessariamente  in  Dio  la  libertà  ,  secondo 
l'indicalo  concetto. 

Articolo  V. 

Quinto  Corollario.  —  V Emanantismo  è  un  sistema  erroneo. 

456.  L'Emanantismo  è  quel  sistema  che  fa  uscire  il  contingente 
dalla  sostanza  dell'Essere  assoluto. 


399 

Ma   noi  abbiamo   veduto  che   il  contingente   non  appartiene 
punto  alla  sostanza  dell'Essere  assoluto. 

Dunque  l'Emanantismo  è  un  sistema  erroneo. 


Articolo  VI. 
Sesto  Corollario.  —  //  Panteismo  è  un  sistema  erroneo. 

Ul}7.  Il  Panteismo  è  quel  sistema,  cbe  confonde  in  una  sola 
natura  il  conlingenle  e  l'Essere  assoluto. 

Ma  noi  abbiamo  veduto:  1.°  Che  il  contingente  non  forma 
alcuna  parte  della  natura  dell'Essere  assoluto;  2.°  (Ihe  egli  non 
è  essere,  ma  che  partecipa  nel  modo  detto  dell'essere  ,  e  così 
acquistala  condizione  di  ente;  3.°  Che  partecipando  dell'essere 
non  si  confonde  con  esso,  perchè  l'essere  rimane  unico  per  lutti  i 
contingenti  —  di  che  la  sua  relazione  mentale  d'universale,  —  lad- 
dove ogni  contingente  ò  prefinifo  in  se  stesso  e  diviso  dagli  altri. 

Dunque  il  Panteismo  è  un  sistema  erroneo. 

Articolo   VII. 
Settimo  Corollario.  —  Descrizione  della  Creazione. 

^S8.  Ora,  avendo  noi  detto  che  gli  enti  finiti,  che  compongono 
l'Universo,  constano  di  due  elementi,  cioè  Vessere  iniziale  e  ìi 
reale,  dedurremo  dall'esposta  dottrina  prima  i  corollari  che  tendono 
a  far  conoscere  la  natura  del  primo  elemento,  poi  quelli,  che 
tendono  a  far  conoscere  la  natura  del  secondo  elemento,  e  poi 
quelli  che  liguardano  la  loro  unione. 

E  quanto  al  primo  elemento,  noi  dicemmo,  che  l'essere  ini- 
ziale accompagna  ogni  minimo  che  di  reale,  perocché  nes- 
suna particella  di  questo  sarebbe,  se  non  avesse  l'essere  iniziale. 
Di  che  abbiamo  conchiuso  che  esso  diventa  Vessenza  di  ogni 
ente  reale  ,  ricevendo  da  questo  la  misura  e  per  così  dire  la 
configurazione.  Ma  poiché  tutti  gli  enti  reali  —  che  furono,  sono 
e  saranno  —  ordinatissimamente  congiunti  compongono  il  Mondo, 


AOO 

così  tulle  le  loro  essenze  ordinatissimamente  pure  congiunte 
costituiscono  quello  che  fu  detto  l'Esemplare  del  mondo.  Par- 
lando dunque  della  natura  di  questo  dichiariamo  la  natura  di 
tulle  le  essenze  specifiche  piene,  e  dell'essere  iniziale  in  tulla 
la  sua  estensione. 

È  soltanto  a  distinguere  il  complesso  di  queste  essenze  quale  è 
j)resenle  airinlelligcnza  divina,  da  queste  , medesime*  essenze  quali 
sono  vedute  da  noi  uomini,  perocché  queste  noi  non  le  vediamo 
che  in  un  modo  imperfettissimo  e  relativo,  e  il  come  l'abbiamo 
spiegato  altrove  (R'innov.  ììhS,  sgg.  pag.  597)  L'Esemplare  adun- 
que del  Mondo  non  significa  il  complesso  delle  essenze  delie  cose 
finite,  quali  le  vediamo  noi;  ma  il  complesso  delle  essenze  quale 
sta  presente  alla  divinn  mente.  Dobbiamo  dunque  parlare  in  se- 
paralo delle  essenze  che  costituiscono  l'esemplare  del  mondo,  e 
delle  essenze  che  costituiscono  l'oggetto  della  nostra  cognizione 
ideale.  Cominciamo  dall'Esemplare. 

439.  Riguardo  dunque  alla  natura  delTEsemplare  del  Mondo, 
procede  dalle  cose  dette  il  corollario  che  egli  non  è  il  Verbo 
divino,  pel  quale  intendiamo  1'  Essere  assoluto  nella  sua  forma 
obiettiva  per  sé  attualmente  inlesa. 

E  veramente  noi  abbiamo  detto  che  Vessere  è  uno  e  sempli- 
cissimOj  e  che  non  ammette  in  sé  limitazioni  di  sorla,  di  modo 
che  non  può  essere  subiello  di  queste.  Quest'essere  uno,  sem- 
plicissimo e  infinito,  repugnante  ad  ogni  limitazione,  è  l'essere 
in  sé  in  tulle  le  sue  tre  forme,  compiuto,  e  perciò  anche  nella 
sua  forma  obiettiva.  Ma  le  essenze  degli  enti  finiti  sono  l'essere  sì, 
ma  limitato,  subiello  di  limitazioni,  onde  l'abbiamo  chiamato  il 
primo  determinabile.  Consegue  da  questo  che  quest'essere  che  é 
il  subiello  di  tulle  le  limitazioni  colle  quali  diventa  tulle  le  es- 
senze delle  cose  finite  non  può  essere  l'Essere  assoluto  obieltivo, 
cioè  il  Verbo  divino:  dico  essere  subiello  di  tulle  le  limita- 
zioni, sia  che  si  concepisca  come  suscettivo  di  esse  (essere  inde- 
terminato e  determinabile),  sia  che  si  concepisca  come  già  de- 
terminalo e  così  divenuto  tutte  le  essenze  piene  degli  enti  finiti. 

^00.  Rimane  dunque  a  vedere  che  cosa  noi  abbiam  dello  dover 
essere  cotesto  Esemplare  del  mondo. 

Abbiam  detto  che  é  l'opera  della  Jiberlà  creatrice  di  Dio.  La 
libertà  creatrice  è  una  virtù,  un  potere  dell'Essere  assoluto  nella 


sua  forma  subiettiva.  L'Essere  assoluto  nella  sua  forma  subiet- 
tiva ama  infinitamente  se  stesso  inteso  nella  sua  forma  obiettiva: 
l'Essere  ama  infinitamente  l'Essere.  Quest'amore  lo  porta  ad 
amar  l'essere  in  tutti  i  modi  ne' quali  e  amabile,  ne' quali  può 
essere  amato.  Per  amarlo  in  tutti  i  modi  egli  l'ama  non  solo 
come  Essere  assoluto  ed  infinito,  ma  ancbe  come  essere  relativo 
e  finito:  quest'amore  è  l'atto  creativo.  Crea  dunque  a  sé  stesso 
un  oggetto  finito  amabile,  per  l'espansione  dell'amore  e  questo 
è  il  Mondo.  Per  crearlo  deve:  1.°  concepirlo,  sì  percbè  questo 
principio  creativo  è  intelligenza,  si  perchè  non  si  può  amare 
quello  che  non  s'intende;  2.°  realizzarlo  ,  perchè  se  non 
fosse  realmente  in  se  l'oggetto  dell'amore  non  esisterebbe,  ma 
solo  sarebbe  possibile,  e  ciò  che  si  ama,  visto  nella  sua  possi- 
bilità, si  vuole  che  esista.  Quindi  i  due  clementi  ài^W essenza  e 
del  reale  nati  ad   un    parto    e    formanti  gli    enti  mondiali. 

L'essenza  nella  mente  divina  è  come  l'Esemplare.  Come  po- 
teva dunque  la  divina  intelligenza  concepirlo  se  esso  non  era 
nell'Essere  assoluto  obiettivo?  Preavvertendo  che  nel  divino  ope- 
rare non  cade  successione  di  sorta,  ma  lutto  e  sempre  è  fallo 
nell'istante,  se  così  lice  parlare  dell'eternità,  noi  esporremo 
l'ordine  logico  delle  divine  operazioni  come  fossero  dislinle  e 
successive,  così  richiedendo  il  bisogio  della  nostra  limitata  in- 
telligenza: il  che  non  produrrà  errore,  perchè  la  riHessione, 
avvertita,  detrarrà  poi  ciò  che  fu  messo  nel  discorso  d'imperfetto 
e  d'umano  ,  pel  bisogno  che  ha  un  uomo  di  parlare  a  uomini 
con  una  lingua  umana. 

461.  1."  Dico  —  ciò  bene  avvertito  —  che  la  prima  operazione 
della  suprema  Intelligenza  per  riguiirdo  all'essere  finito  fu  quella 
che  chiamerò  Vaslrazione  divina.  Mediante  questa  operazione  l'In- 
telligenza dell'Essere  assoluto  liberamente  astrasse  dall'Assoluto 
suo  oggetto  Vessere  iniziale,  cioè,  oltre  intendere  Tessere  assoluto 
oggettivo,  ella  fece  un'altro  atto  d' intelligenza  col  quale  neWessere 
assoluto  distinse  Vinizio  dal  termine  e  vide  quello  separato  da 
questo  ,  non  perchè  nell'essere  assoluto  obiettivo  fosse  vera- 
mente separato  ,  ma  perchè  ella  lo  separava  per  astrazione 
mentale.  In  fatti,  se  questo  è  il  potere  anche  della  mente  umana 
di  dividere  un  oggetto  unico  e  indivisibile,  e  di  fissarsi  in  uno 
degli  elementi  da  essa  creati  —  il  che  si  dice  astrazione,  —  perchè 
Rosmini.  Teosofia.  26 


402 

sarà  questo  conteso  alla  mente  divina?  L'uomo  n'ha  talora  bi- 
sogno per  acquistare  il  sapere;  Iddio  no,  perchè  non  gli  manca 
mai  l'intelligenza  dell'essere  infinito.  Laonde  se  nell'uomo  l'a- 
strazione è  sovente  un'imperfezione,  in  Dio  non  è  altro  ^  che 
quasi  direi  un  soprappiù  di  peifezione.  In  questo  essere  iniziale 
vide  dunque  Iddio  in  sé  stesso  ab  eterno  l'essere  finito,  tutto 
virtualmente  in  esso  compreso.  Questa  astrazione  o  visione  del- 
l'essere finito  nell'infinito  non  è  ancora  l'atto  libero  della  crea- 
zione, ma  appartiene  all'atto  necessario  della  divina  intelligenza 
con   cui  conosce  l'essere  finito  possibile. 

Ora  quQsV essere  iniziale ,  veduto  dall'Essere  assoluto  subiettivo 
nell'Essire  assoluto  obiettivo ,  non  poteva  essere  questo  stesso 
essere  assoluto  obiettivo,  essendo  un  astratto.  L'astratto  è  un 
concetto  mentale,  un  termine  che  la  mente  ha  dato  a  sé  stessa 
colla  limitazione  del  proprio  sguardo;  non  esiste  in  sé  stesso, 
ma  nella  mente  e  per  la  mente,  e  non  può  esistere  in  sé  in 
quello  stato  nel  quale  la  mente  lo  vuol  vedere,  perocché  non  è 
un  ente  compiuto,  ma  é  solo  l'inizio  d"un  ente  privo  del  suo 
termine,  che  fa  conoscere  l'ente  finito  possibile.  L'Essere  asso- 
luto obiettivo  all'incontro  é  un  ente  in  sé:  è  di  tal  natura  che 
il  termine  infinito  gli  é  necessario,  altramente  non  sarebbe 
desso.  L'essere  iniziale  dunque  presente  alla  mente  divina  non  è 
identico  all'essere  assoluto  obiettivo,  ma  é  un  altro,  un  pro- 
dotto dell'atto  della  mente  stessa ,  la  creazione  dun  proprio 
obietto.  Vero  è  che  la  Mente  divina  astraente  ha  trovato  e  pro- 
dotto quest'oggetto,  che  dicemmo  essere  iniziale,  tenendo  fisso  lo 
sguardo  nell'Essere  assoluto  obiettivo ,  laonde  si  può  dire  in 
questo  senso  che  lo  vede  in  esso  ;  ma  questa  espressione  «  veder 
l'essere  iniziale  nell'essere  assoluto  obiettivo»,  altro  non  vuol 
dire  se  non  «  giovarsi  dell'essere  assoluto  obiettivo  come  di  fon- 
damento dell'astrazione  »,  il  che  non  toglie  che  il  prodotto  del- 
l'astrazione non  sia  un  diverso  dal  fondamento  in  cui  l'astrazione 
fu  operata. 

Considerando  questo  fondamento  in  relazione  all'astrazione, 
egli  acquista  la  ragione  di  più  o  di  lutto,  e  il  prodotto  dell'a- 
strazione acquista  la  ragione  di  meno  o  di  parte.  Ma  questo  non 
è  vero  npl  senso  che  nel  fondamento  dell'astrazione  ci  sia  il  piìi 
e  il  meno  distinto,  o  le  parti  distinte,  e  se  non  ci  sono  le  parli 


403 

distinte  per  nessun  verso,  dunque  non  ci  sono  parli.  La  parte 
dunque,  e  il  meno,  è  essa  stessa  dovuta  all'astrazione  che  appar- 
tiene all'intelligenza  divina  essenziale,  senza  che  il  fondamento 
della  medesima  divenga  punto  né  poco  il  subietlo  del  più  o  del 
meno  o  delle  parti.  Sono  dunque,  il  meno  e  la  parte,  essi  stessi 
effetti  e  prodotti  dell'astrazione  che  appartengono  all'atto  astra- 
ente della  mente:  e  non  ricevono  questi  nomi  se  non  per  una 
relazione  tra  due  facoltà  mentali,  quella  di  pensare  il  fondamento 
deiraslrazione,  che  nel  caso  nostro  è  l' Essere  assoluto  obiettivo 
—  ed  è  il  pensiero  necessario  e  naturale  di  Dio,  —  e  quella  di 
pensare  l'astratto  che  nel  caso  nostro  è  l'Essere  iniziale. 

La  proposizione  dunque  «  l'essere  iniziale  è  contenuto  nell'Es- 
sere assoluto  obiettivo  e  in  esso  veduto  »  ,  non  vuol  dire  che 
l'essere  iniziale  sia  qualche  cosa  in  sé  contenuto  nell'Essere  asso- 
luto in  sé,  ma  vuol  dire  solamente  che  l'Essere  iniziale,  che  è 
nulla  in  sé,  ma  é  qualche  cosa  alla  mente,  è  nato  da  uno 
sguardo  della  mente  nell'Essere  assoluto  mediante  la  limitazione 
dello  sguardo  stesso,  sicché  questa  limitazione  non  passò  nell'Es- 
sere assoluto,  ma  rimase  nello  sguardo. 

A  chiarire  maggiormente  questa  difficile  relazione  tra  l'essere 
iniziale  e  l'oggettivo  assoluto,  si  consideri  che  la  Mente  e  l'Og- 
getto in  cui  termina  il  suo  atto  sono  entità  distinte,  come  si 
rileva  dalle  loro  definizioni  [Cf.  Lezioni  filos.  \,  sgg.).  Tuttavia 
tale  è  la  natura  della  Mente  e  del  suo  Oggetto  essenziale  che 
sintesizzano  per  modo  che  la  Mente  deve  aver  l'Oggetto  per  es- 
ser Mente,  e  l'Oggetto  deve  essere  presente  alla  Mente  per  es- 
ser Oggetto.  Dati  poi  questi  due  estremi  simultanei ,  l'oggetto  ha 
ragione  di  luce,  la  mente  poi  somiglia  all'occhio  che  la  riceve. 
Ma  come  la  luce  si  può  considerare  in  sé  stessa,  econsiderare  come 
ricevuta  e  veduta  dall'occhio  ricevente,  così  l'Oggetto  può  avere 
una  doppia  esistenza;  l'una  in  sé,  l'altra  relativa  alla  mente  e 
.come*  tale  prodotta  dall'alto  della  Mente.  Così  l'Essere  assoluto 
dovendo  essere  ente  completo  anche  nella  forma  obiettiva,  é  uopo 
che  anche  in  questa  forma  esista  in  sé,  cioè  subiettivamente , 
e  sia  per  ciò  un  subietto  per  sua  essenza  obielto.  Questo  esiste  dun- 
que in  sé  ed  anche  rclalivamenle  alla  Mente  assoluta,  dalla  quale 
è  essenzialmente  inteso.  Mi  questa  Mente  ha  un'attività  propria, 
V astrazione  divina,  per  la  quale  all'atto  di  conoscere  l'oggetto  in 


sé  unisce  un  allr'atto,  col  quale  lo  considera  nel  suo  inizio,  e 
così  dà  a  quest'essere  iniziale  Y esistenza  relativa  ad  essa,  senza 
che  quest'essere  iniziale,  oggetto  dello  sguardo  libero^  abbia  Ve- 
sistenza  in  sé,  sia  un  subietto.  — Si  dirà:  «  che  cos'è  quest'oggetto 
prodotto  a  sé  dalla  Mente  con  uno  sguardo  d'astrazione,  se  da  una 
parte  non  é  la  mente  stessa,  dall'altra  non  è  l'Oggetto  assoluto  »? 
Rispondo,  che  è  la  prima  produzione,  la  cognizione  divina  del 
l'essere  finito  possibile ,  il  fondamentale  elemento  della  creatura 
(Cf.  Rimiov.  .565-570,  ;)flgi.  0^5-634*),  la  luce,  che  in  quanto 
si  comunica  alle  inlelhgenze  creale  si  può  dir  creata,  si  può  dir 
quella  creatura,  di  cui  si  trova  scritto  «Sia  la  luce,  e  la  luce 
fu  fatta  »  (1).  Questa  prima  creatura  dunque,  l'essere  iniziale,  non 
ha  una  sussistenza  subiettiva,  ma  ha  soltanto  un'esistnza  obiettiva 
e  relativa  alla  Mente  creatrice,  e  quindi  appresso,  come  diremo, 
a  tutte  le  menti  create:  esiste  per  l'atlo  della  Mente,  e  davanti 
ad  essa,  senz'essere  la  Mente  stessa.  L'atto  della  Mente  la  creò 
riguardando  nell'Oggetto  assoluto  e  in  sé  sussistente ,  ma  non  é 
l'Oggetto  assoluto  e  in  sé  sussistente.  Niente  vieta  di  dire ,  che 
sia  in  questo  virtualmente,  ma  l'esservi  virtualmente  none  un 
avere  un'esistenza  propria,  ed  esistere  virtualmente  altro  non 
viene  a  dire ,  se  non  che  la  mente  la  produce  riguardando  in 
quell'Oggetto,  il  che  non  potrebbe  fare  se  non  riguardasse  in  esso. 
Per  questo,  e  secondo  tutte  queste  spiegazioni,  si  dice ,  che 
«  l'essere  iniziale  é  qualche  cosa  del  Verbo  divino  ,  che  è  una 
sua  partenenza  ,  che  è  un  lume  increato  ecc.  «  (^).  Infatti  la 
Mente  col  suo  sguardo  astrae  Vessere  iniziale  dall'Essere  assoluto 
obiettivo,  trova  quello  come  qualche  cosa  di  questo,  ma  questo 
qualche  cosa,  losloché  dallo  sguardo  della  mente  si  considera 
a  parte,  si  considera  come  un  qualche  cosa,  non  è  più  lui, 
non  potendosegli  applicare  la  stessa  definizione.  Tale  é  la  sempli- 
cità e  l'assolulità  dell'Oggetto  assoluto ,  che  diminuito  di  chec- 
chessia perde  la  sua  identità ,  è  un  altro.  Questo  appunto  è  ciò 

(t)  Niente  impedisce,  che  con  queste  stesse  parole  s'esprima  ad  un  tempo 
la  creazione  della  luce  sensibile,  simbolo  della  intelligibile. 

(2)  Per  questo  i  primi  principi,  quorum  cognitio  est  nobis  innata,  —  e 
tutti  s'hanno  nell'intuito  dell'essere  —  sono  acconciamente  chiamati  da 
S.  Tommaso  ,  e  da  molt'aUri  Padri  e  scrittori  ecclesiastici,  «  Similitudine 
dell'increata  Verità  »  ~  Cf.  Th.  De  Verìtate  Q.  X,  vi  ad  6."' 


/»05 

che  (là  luoj^o  ;illa  creazione,  cioè  a  fare  che  dalla  non  esistenza 
vengano  all'esistenza  altri  enti,  l'ente  finito.  Pure  il  prodotto  del- 
l'Astrazione divina,  esercitandosi  questa  sull'Oggetto  assoluto  che 
è  Dio,  ritiene  alcune  delle  jjroprietà  divine,  l'oggettività^  l'intelli- 
gibilità ecc.  onde  nasce  la  distinzione  tra  il  dmno  e  Dio,  che  noi 
dichiarammo  in  un  libro  apposito  (*).  Poiché  avendo  l'Oggetto  asso- 
luto—  Dio,  il  Verbo  —  un'esistenza  in  sé,  ed  un'esisteuza  relativa 
alla  Mente  divina,  questa  seconda  può  esser  contralta  dalla  mente 
ed  astratta,  rimanendole  presente  il  lutto,  come  accade  sempre 
nelle  astrazioni  anche  umane  [Psicol.  irvl9,sgg.),  e  non  la  prima: 
e  però  quello,  che  l'Astrazione  ne  prende,  rimane  ancora  divino, 
sebbene  non  esistendo  in  sé ,  e  perciò  non  avendo  la  persona- 
lità divina^  non  può  essere  il  Verho,  ma  un'appartenenza  della 
divina  essenza.  E  noi  già  dicemmo,  che  la  Mente  coU'astrazione 
ha  virtù  di  concepire  a  parte  la  natura  divina  dalla  personalità 
divina:  quella  è  il  divino,  e  non  esiste  distinto  se  non  davanti 
alla  mente,  questa  é  Dio. 

^i6'2.  2.°  Così  dumpie  si  può  concepire  il  primo  atto  di  Dio 
che  riguarda  il  finito,  e  costituisce  ad  un  tempo  la  cognizione  di- 
vina dell'ente  finito  e  il  lume  comunicabile  alla  natura  intelli- 
gente: veniamo  al  secondo. 

L'inlelligenza  operativa  e  libera  di  Dio  si  porta  nell'Amahi- 
lità  dell'Essere  oggettivo,  ossia  essenzialmente  inteso ,  e  in  que- 
st'Amabilità si  porta  con  tutta  l'infinita  l'orza  del  suo  amore. 
Si  porta  dunque  in  esso  tanto  col  potere  necessario,  quanto  col 
suo  potere  liner(ì.  Col  potere  necessario  si  porla  nell'Essere  og- 
gettivo assoluto,  semplice  e  indivisibile,  col  potere  libero  si  porta 
in  tutte  quelle  liuìitazioni  dell'Essere  assoluto,  ch'Ella  vuol  creare 
guidata  (lall'anìabilità  dell'essere  limitato.  L'istinto  dell'Amore 
nel. mare  luminoso  dell'Essere  assoluto  trova  tulio  ciò  che  é  a- 
mabile  anche  limitato,  e  a  questo  si  limita  Io  sguardo  della 
Mente  operante  libera.  Se  noi  vogliamo  dare  un  nome  anche  a 
questa  o])erazione,  l.i  potremmo  chiamare  imaginaziune  ilivina. 

V  imiì(j inazione  divina  è  diversa  ó-aW astrazione  divina.  Poiché 
questa  separa  nell'Oggetto  assoluto  —  in  quanto  ha  l'esistenza  uni- 

C)  Del  Diritto  nella  Natura  ad  Alessandro  Manzoni,  che  si  pubblicherà 
nella  seconda  parte  di  quest'Opera. 


406 

camenle  relativa  ad  essa  e  non  in  sé  —  il  principio  dal  termine , 
contiene  lo  sguardo  dal  termine,  e  non  pensa  che  l'inizio  del- 
l'essere: quella  limila  ossia  imagina  limitato  il  termine  reale.  Il 
termine  reale ,  imaginato  limitatamente  dalla  Mente  operante  e 
libera  di  Dio,  è  la  realità  dell'universo.  La  Mente  divina  non 
j)olrebbe  liberamente  contemplare  il  termine  reale  dell'Essere 
limitalo  da  lei,  se  non  creandolo,  cioè  facendolo  esistere  non 
solo  relativamente  a  sé,  ma  ancora  in  sé  stesso.  La  ragione  di 
ciò  si  è  ,  cbe  il  termine  reale  è  la  forma  subiettiva  dell'essere  , 
e  la  forma  subiettiva  é  quella  per  la  quale  l'ente  esiste  in  sé, 
non  solo  relativamente  a  una  mente.  Se  dunque  il  termine  reale 
limitato  fosse  veduto  dalla  Mente ,  e  non  sussistesse  in  sé ,  ella 
vedrebbe  il  falso,  prenderebbe  un'illusione.  Il  che  è  assurdo  pen- 
sare della  divina  intelligenza.  Conviene  dunque  scegliere  tra 
queste  due  proposizioni^  o  dire  che  la  Mente  divina  non  può 
pensare  il  termine  reale  limitato,  o  dire  che  ella  può  farlo  sus- 
sistere in  sé,  il  che  è  crearlo.  Ma  il  dire  la  prima  cosa  è  ini 
possibile,  perché  in  lai  caso  ella  non  conoscerebbe  l'Universo 
reale  ,  e  alla  sua  intelligenza  mancherebbe  quella  virtù  che  ha 
la  mente  umana  di  pensare  l'essere  fiiìitb.  Non  rimane  dunque 
allra  proposizione  immune  da  assurdi  se  non  questa ,  che  la 
«  Mente  divina  operante  può  far  sussistere  in  sé  col  suo  sguardo 
libero  il  reale,  ch'essa  stessa  imagina  limitato». 

In  questa  proposizione  sta  il  mistero  della  creazione ,  come 
abbiamo  detto  di  sopra  ,  ma  la  ragione  umana  é  tuttavia  co 
stretta  ad  ammetterla  per  vera  ,  sebbene  non  possa  compiuta- 
mente intenderla  ,  perchè  la  sua  contraddittoria  involge  assurdo 
{Logic.  492  sgg.),  essendo  ben  diversa  cosa  la  qualità^  che  può 
avere  una  proposizione,  di  misteriosa  e  d'inesplicabile,  e  la  qua 
Illa  d'indimostrabile  e  di  falsa:  può  esser  tale,  la  cui  verità  sia 
dimostrabile,  e  tuttavia  non  vedersene  la  spiegazione  {Logic. 
802-805),  onde  il  mistero. 

Non  pretendiamo  dunque  d'alzare  il  velo  misterioso  che  copre 
l'atto  creativo,  ma  solo  descriverlo  fin  dove  è  .concepibile  all'uomo, 
e  così  concepito  dimostrare,  che  non  involge  in  sé  stesso  contrad- 
dizione, e  che,  in  qualunque  altro  modo  se  ne  pensi,  la  contrad 
dizione  è  inevitabile,  il  che  è  una  dimostrazione  della  sua  verità. 

Noi  abbiamo  dato  a  questa    virtù   divina  il  nome  d' imagina- 


407 

zione,  perchè  essendo  necessitati  di  applicare  a  Dio  i  vocaboli 
togliendoli  dall'analogia  delle  creature  —  le  sole  cose  che  cono- 
sciamo positivamente —  niun'altra  facoltà  dell'uomo  ha  più  d'a- 
nalogia coll'azione  creatrice  del  reale  che  quella  óeW  hnagina- 
zione  inlelletli^^a.  E  in  fatti  l'imaginazione  intellettiva  dell'uomo 
ha  anch'essa  il  suo  verbo,  e  in  qualche  modo  crea  [Ideol.  531- 
553  n.).  Ma  la  dilTerenza  tra  V imaginazione  umana  e  la  dinna 
è  infinita.  Vediamo  prima  brevemente  in  che  consista  l'analogia, 
e  poi  in  che  consista  la  differenza. 

L'analogia  consiste  principalmente  in  due  cose:  ì°  chetante 
r  imaginazione  umana  ,  quanto  quella  che  abbiamo  delta  imagi- 
nazione divina  è  mossa  ,  e  guidala  da  un  istinto  di  amoroso  di- 
letto; '2.°  che  tanto  l'una  quanto  l'altra  dà  l'esistenza  ad  un  og- 
getto voluto  dall'istinto  motore. 

Ecco  poi  in  che  consiste  la  differenza.  L'imaginazione  umana  è 
una  facoltà,  che  consegue  a  quelle  del  senso  e  dell' inlellello  coo- 
peranti alla  percezione,  e  più  prossimamente  consegue  alle  per- 
cezioni stesse  Poiché  le  percezioni  intellettive  de'  sensibili  sono 
come  la  radice  di  quel  movimento  ulteriore  che  dicesi  imagina- 
zione intellettiva,  per  la  quale  l'uomo  non  solo  richiama  i  ve- 
stigi delle  percezioni  ricevute,  e  le  loro  imagini  [Cf.  Ideol.  519 
sgg.) ,  ma  ancora  le  compone  diversamente ,  e  così  fa  esistere 
novi  oggetti ,  quali  vuole  ed  ama ,  alla  sua  contemplazione.  Ma 
la  percezione  non  dà  all'uomo  tutto  l'ente,  esso  non  ne  riceve  che 
un  effetto  limitato  dallo  stesso  modo  dell'agente  e  della  sua  azione, 
e  dalla  natura  dell'organo  corporeo,  e  da  quella  dell'umano  senti- 
mento fondamentale  {Ideol.  1213  sgg.;  Rimiov.  407  sgg.,pag.  419 
502  sgg.  pag  542),  onde  ciò  che  l'uomo  apprende  dell'ente,  non 
è  tutta  la  sua  entità,  ma  un  effetto  che  l'ente  produce  in  lui  e  che 
gli  serve  di  segno  per  rappresentarsi  gli  enti.  Essendo  dunque  così 
limitalo  l'oggetto  della  percezione,  e  l'imaginazione  umana  pren- 
dendo da  questa  gli  elementi  di  ciò  che  produce,  questi  oggetti 
creati  dall'imaginazione  umana  non  possono  esser  enti,  ma  uni- 
cainenle  sensibili  segni  di  enti  da  essa  variamente  richiamati ,  e 
in  novo  modo  composti. 

All'incontro  V imaginazione  divina  non  viene  da  alcuna  fa- 
coltà 0  potenza  precedente  che  sia  in  Dio,  quasi  un'attività  u- 
scente  da  una  passione ,  nò  ella  stessa  è  una  facoltà  o  potenza. 


408 

che  in  Dio  non  cadono  facoltà  o  potenze  distinte  dalla  sua  stessa 
essenza.  Che  cosa  dunque  è  ella?  Indubitatamente  la  stessa  es- 
senza di  Dio.  Ma  l'Essenza  di  Dio  e  l'Essere,  e  non  altro  che  l'Essere. 
L' imaginazione  divina  dunque  è  lo  stesso  Essere  assoluto  nella  sua 
forma  subiettiva  e  realissima.  Supponendo  dunque  che  l'Essere 
slesso  sussistente  e  realissimo  imagini  un  ente  finito,  conviene 
che  questo  novo  oggetto  sia  un  vero  ente  in  sé,  ed  abbia  per- 
ciò anch'egli  la  sua  esistenza  subiettiva  e  reale.  Poiché  l'essere 
essenziale  imaginanle  non  può  già  imaginare  un  accidente,  che 
non  ha  accidenti,  né  una  modificazione  di  sé,  che  non  ha  mo- 
dificazioni,  né  una  passione  ricevuta,  che  non  ha  passioni  e 
niente  riceve.  Ciò  che  dunque  imagina  non  può  essere  che  es- 
sere nel  suo  termine  reale.  Benché  di  questo  imaginare  non  ci 
sia  esempio  nella  natura  [Te.od.  S9,  60,  62-74),  pure  s'intende 
che  in  Dio  la  cosa  DEVE  esser  così,  perchè  ogni  altro  modo  di 
pensare  il  finito  applicato  a  Dio  involge  assurdo;  come  involge 
pure  assurdo  l'ammetlcrc  ch'egli  noi  pensi,  e  noi  conosca.  Tutto 
questo  riceverà  maggior  luce  da  lutto  quello  che  diremo  piìi  sotto. 
403.  ù.^  i^oW astrazione  divina  abbiamo  veduto  come  sia  stato 
prodotto  V essere  iniziale  primo  elemento  degli  enti  finiti:  coH'ma- 
ginazione  divina,  abbiamo  pure  veduto  come  sia  stato  prodotto  il 
reale  finito  —  tutte  le  realità  di  cui  consta  l'universo.  —  La  terza 
operazione  dell'Essere  assoluto  creante  il  Mondo  é  la  sintesi  divina 
cioè  l'unione  de'  due  clementi ,  l'essere  iniziale  inizio  comune  di 
tutti  gli  enti  finiti,  e  il  reale  finito,  o  per  <lir  meglio  i  diversi  reali 
finiti ,  termini  diversi  dello  stesso  essere  iniziale.  Colla  quale  u- 
nione  sono  creati  gli  enti  finiti.  Anche  qui  quello  che  chiamiamo 
terza  operazione  non  è  che  una  distinzione  di  ragione  che  fac- 
ciamo noi  uomini,  secondo  il  modo  del  pensar  nostro.  Nel  fatto 
questa  terza  operazione  è  compresa  in  quelle  che  abbiamo  de- 
scritte come  fossero  le  due  prime  ,  poiché  facendosi  esse  con  un 
solo  atto  divino  ,  sono  unitissime  nell'atto  divino  ,  onde  produce 
Dio  ad  un  corpo  l'essere  iniziale  con  tulli  i  suoi  termini  reali  finiti 
congiunti  cnn  esso.  xMa  [)oiché  l'effetto  di  questa  operazione  unica 
è  trino,  niente  vieta,  che  noi  consideriamo  quest'unica  operazione, 
come  fosse  tre  operazioni  diverse,  avvertendo  solo  che  con  ciò  non 
si  vuol  esprimere  altro  se  non  la  relazione,  che  quell'unica  opera 
zione  ha  coi  tre  effetti,  distinguibili  dalla  mente,  ch'essa  produce. 


^09 

Consideriamo  dunque  attentamenle  ciò,  che  consegue  alla 
Sinlesi  divina . 

Primieramente  abbiam  dello  che  Vessere  iniziale  in  quanto  si 
considera  come  essenza  dell'essere  è  anteriore  alle  forme.  In 
quanto  poi  è  essenzialmente  intelligibile  è  nella  forma  obiettiva. 
Di  i)oi  abbiam  dello  che  l'essere  iniziale  deve  essere  presente  ad 
ogni  sua  minima  parte  o  materiale  o  formale  dell'essere,  co- 
stituendo così  Culla  sua  presenza  tutti  i  diversi  enti  finiti.  Se  dun- 
que Vessere  iniziiile  si  considera  presente  ad  ogni  reale,  in  ogni 
parte  del  medesimo  egli  produce  Venie  finito  nella  forma  subiettiva 
—  a  cui  l'estra-subietliva  si  riduce,  come  vedremo  a  suo  luogo.  — 
Ma  se  l'essere  iniziale  si  considera  nella  sua  forma  obiettiva  in 
quant'è  intelligibile,  egli  estendendosi  a  tutto  intero  il  reale, 
nelle  sue  minime  parti,  lo  rende  intelligibile  tulio,  e  questa  in- 
telligibililà  de'  reali  finiti  sono  le  loro  essenze ,  che  in  quanto  si 
contemplano  dalla  mente  si  dicono  idee. 

La  sinlesi  divina  dunque  fa  due  cose ,  produce  ad  un  tetnpo 
le  essenze  o  idee,  e  gli  enti  fìniti  nella  loro  forma  subiettiva  e 
reale,  nel  modo  che  tosto  diremo  (i). 


(1)  Con  questa  dottrina  si  spiega  e  si  concilia  la  lolla  incessante  e  non 
mal  finila  in  tulli  i  secoli  passali  tra  due  scuole  di  tìlosolì,  a  distinguere  e 
rappresentare  le  quali  si  adoperano  i  duo  solenni  nomi  di  Platone  e  di  Ari- 
stotele. Platone —  sotto  il  qual  nome  più  che  l'uomo  intendiamo  la  scuola 
perpetua  di  cui  si  fa  rappresentante  —  (isso  nella  contemplazione  delle  idee 
e  delle  sublimi  loro  prerogative,  le  dichiara  eterne,  indipendenti  dalle  cose 
finite ,  sole  veri  enti ,  delle  quali  le  cose  finite  e  sensibili  del  mondo  non 
sono  che  un'  imitazione.  Aristotele  trova  tra  gli  enti  reali  e  sensibili  e  le 
idee  un  nesso  cosi  intimo,  così  necessario,  che  vuole  esister  queste  poten- 
zialmente negli  enti  reali  e  sensibili,  e  la  sola  mente  separarle  e  renderle  a 
sé  oggetto  di  conosciraeglo,  senza  che  cosi  separate  esistano  in  sé  stesse. 
S.  Tommaso  trova,  che  Aristotele  ha  ragione  in  questo,  nel  non  volere  un 
assoluta  separazione  tra  le  idee  e  i  reali,  quasiché  questi  fossero  accidenti 
dell'ente,  e  quelle  sole  fossero  il  vero  ente.  Plato  in  hoc  reprehenditur , 
quod  posuit  formas  naturales  secvndnm  propriam  rationem  esse  prteter 
materiarn,  ac  si  materia  accidentaliter  se  haberet  ad  species  naturales  {De 
Verit.  0.  IV^  a.  VI,  conlr.  ad  2.">).  Ora  dalla  dottrina  della  creazione  da  noi 
esposta  (a  cui  risponde  la  dottrina  dell'intendere  umano  ,  come  vedremo) 
risultano  queste  due  proposizioni  : 

1."  Che  le  essenze  degli  enti  finiti  non  sarebbero,  se  non  fossero  slati 
tratti  all'esistenza  i  reali,  perchè  quelle  essenze  risultano  da  una  relazione 


410 

4C^j.  Ma  prima  ricapitolando  tutta  questa  descrizione  della  crea- 
zione doU'universo,  risulta  dalle  cose  fin  qui  ragionate: 

1."  Che  Vessere  iniziale  è  tratto  per  via  d'astrazione ,  che 
fa  r  Intelli.^enza  divina  liberamente  operante,  dall'Essere  asso- 
luto nella  l'orma  obiettiva,  che  dicesi  il    Verbo. 

2."  Che  i  reali  finiti  che  formano  il  termine  reale  finito 
dell'essere  iniziale  sono  fatti  esistere  dalla  forza  deW immagina- 
zione dell'Essere  assoluto  nella  sua  forma  subiettiva  ,  che  se- 
condo la  cristiana  rivelazione  dicesi  il  Padre. 

5."  Che  i  termini  reali  riferiti,  per  mezzo  della  sintesi  di- 
vina, dall'intelligenza  all't'ssere /«ù/a/?^  consideralo  questo  come 
oggetto  intelligibile  ,  fanno  che  si  vedano  in  esso  le  essenze  o 
idee  degli  enti  finiti. 

4."  Che  riferito  dall'intelligenza  ,  per  mezzo  della  sintesi 
divina  ,  l'essere  iniziale  ,  non  come  intelligibile  ma  puramente 
come  essenza  ,  ai  termini  reali  finiti ,  fa  che  esistano  gli  enti 
finiti  subietti vamente  e  realmente. 

Le  quali  cose  ben  ritenute,  possiamo  in  qualche  modo  inten- 
dere come  la  sintesi  divina  possa  ottenere  questi  due  ultimi  ef- 
fetti. Poiché  coWessere  iniziale  ella  informa  quel  reale  ^finito*  che 
diviene  così  intelligenza  e  persona.  Gli  enti  intellettivi  hanno  il 
reale  come  subietto  proprio  e  l'essere  iniziale  come  oggetto. 
Da  questo  quello  riceve  l'esistenza  ,  e  perciò  sono  enti  subiet- 
tivi   perfetti,   benché   finiti.  Gli  enti  all'incontro  a  cui   manca 


intellettiva  tra  il  reale  e  il  suo  principio,  l'essere  iniziale  ;  e  questo  spiega  e 
giustifica  la  ripugnanza  dWristotele  e  di  S.  Tommaso  d'ammettere  idee  o 
essenze  indipendenti  al  tutto  dall'esistenza  de' reali  loro  corrispondenti; 

2.°  Che  le  idee  e  le  essenze,  essendo  Vessere  iniziale  ctie  riceve  certe 
determinazioni  dalla  mente  che  a  lui  riporta  i  reali  finiti,  e  l'essere  iniziale 
essendo  un'appartenenza  di  Dio  stesso^  anche  le  essenze  o  idee  hanno  una 
eccellenza  di  natura  infinitamente  superiore  ai  reali  finiti ,  e  certe  qualitcà 
divine  da  Dio  stesso  immediatamente  partecipate,  tra  le  quali  l'eternità  ;  il 
che  spiega  e  giustifica  tutto  ciò  che  Platone  dice  dell'eccellente  natura  delle 
idee.  Ma  come  Platone  semhra  non  aver  bastevolmente  meditato  sulla  ne- 
cessaria connessione  tra  le  idee  e  i  reali  ;  cosi  Aristotele  sembra  non  aver 
chiaramente  inteso  la  sublime  natura  delle  idee,  e  invece  di  stabilire  una 
relazione  necessaria  tra  le  idee  e  i  reali,  cadde  nell'errore  d'immergere 
queste  nella  stessa  natura  de' reali ,  quasi  la  realità  come  realità  ne  conte- 
nesse il  germe  o  fosser  un  atto  di  questa. 


411 

l'inlelligenza  sono  de' puri  reali,  ossia  termini,  ma  gli  inlellellivi 
percipiendoli  o  concependoli  li  apprendono  nell'essere  iniziale 
obiettivo  ossia  nelle  essenze,  e  così  quei  termini  acquistano  Ves- 
sere  iniziale,  il  primo  elemento  pel  quale  sono  e  si  dicono  enti,  ed 
è  di  questi  che  scMiiprc  si  parla  nò  si  può  parlare  d'altri:  essendo 
impossibile  parlare  d'enti  non  concepiti,  se  non  per  via  d'astra- 
zione {Binnov.  573  sgg.  pag.  G37).  Onde  si  può  dire  in  qualche 
modo,  che  la  creazione  degli  enti  privi  d'intelligenza  si  continua  e 
si  compie  non  solo  coU'atto  dell'intelligenza  divina,  che  veramente 
li  crea,  ma  anche  coll'atto  dell'intelligenza  umana  e  d'ogni 
altra  intelligenza  :  ciascuna  di  queste  intelligenze  compie  la 
creazione  di  tali  enti  relativa  a  se  stessa.  E  così  la  creatura 
imita  il  Creatore  (I)    Né  si  può  già  opporre,   che  se  la  mente 


(1)  A  fjiiosto  concetto  s'avvicina  il  concetto  d'Aristotele,  clie  dice  la  mente 
essere  in  qualche  modo  tutte  le  cose,  e  di  più  ad  essa  attribuisce  l'atto  degli 
enti  :  miX  rà  Sovìijìh  Svra  ivipyiicc.  Glie  cosa  sono  «  gli  enti  in  potenza  »  SuvifiEi 
svra?  I  reali.  Ora  quelli  che  gli  fa  enti  in  atto  hipyda.  è  la  mente,  secondo 
Aristotele.  Dove  si  osservi  che  Aristotele  non  vuole  che  si  dia  il  nome  di 
enti  alle  idee  separate  dalle  cose^  come  volea  Platone.  Dicendo  dunque  che 
gli  enti  sono  resi  enti  in  atto  dalla  mente,  intende  àaWente  composto  di 
reale  e  d'ideale:  almeno  supponendo  coerente  il  suo  discorso.  Così  pure 
dice  espressamente  che  la  mentu  è  l'atto  /«i  oJtos  ó  voi?  xw/st^Tò»,  /«i  à,u£y/,;, 
xaì  àTtaS^òs  tvj  ohsix  wv  hzp-/ii%  {De  AH.  li),  5).  Dice  ancora  che  la  mente  in 
atto — e  intende  cerlomente  la  mente  obiettiva,  che  risponde  all'essere  ini- 
ziale—  è  «il  principio  della  materia»  zal  -ó  àp'/ri  t;^;  uìrn  (Ivi),  parole  signiii- 
cantissime,  perchè  significano  che  la  mente  dà  alla  materia  il  suo  principio, 
che  noi  diciamo  inizio,  o  atto  di  essere  ;  la  materia  dunque,  non  potendo  es- 
sere senza  il  suo  principio,  non  può  essere  senza  la  mente  che  glielo  sommi- 
nistra e  cosi  la  fa  ente  in  alto.  Laonde  anco  dice  che  «  la  scienza  in  atto  è 

lo  stesso  die  la  cosa  »  tò  avrò  Si  iinv  -h  /.«Tsvépysiav  ÈTtiir/i/^/ì  Tìi  irpay/zaTt  (Ivi), 

dove  per  la  cosa  s'intende  certamente  l'ente  reale  informato  dalla  mente 
che  lo  conosce.  Nella  mente  non  entra  certamente  la  materia,  né  ella  dà  la 
materia,  ma  alla  materia  dà  il  suo  atto  di  essere,  e  però  l'oggetto  proprio 
della  mente  è  l'essere  della  cosa  senza  materia  èttì  //.sv  yàp  twv  àvsu  C//];  tò 
alfzà  £(7T(  TÒ  vociuv,  xat  rè  vooùij.vìtj  (Ivi,  4).  Onde  disting\ie  la  grandezza  reale, 
TÒ  iJ.iyt?ioi,  dall'essere  della  grandezza  tò  //syi&t  slva;,  Vacqua  reale  vòup  dal- 
l'essere delVacqua  tò  OS^Tt  sìvat,  la  carne  reale  s^p?,  dall'essere  della  carne 
T^  ff«pxi  tlvM,  e  cos'i  dell'altre  cose;  e  l'essere  di  tutte  l'attribuisce  alla  mente 
riconoscendo  che  l'essere  di  tutte  queste  cose  è  senza  materia ,  e  dicendo 

xal  o).Ms  ap%  &J5  x^pi<s-z%  Tà  -Kpi.-njsjxa.  rrii    '\)'kr\i^   oOtw   /.ai  tk  -rtipl  tòv   vsuv  (Ivi). 

L'essere  iniziale  dunque  -h  àpx_yì  rY,i   ùlni  è  l'atto  che  viene  dato  alle  cose 


H^2 

creata  fosse  quella  che  aggiunge  l'essere  ai  reali  sensibili,  questi 
non  sarebbero  quando  le  intelligenze  creale  non  li  conoscessero; 
poiché  dalla  dottrina  esposta  procede  solo,  che  non  sarebbero 
relativamente  a  tali  intelligenze  ,  ma  sarebbero  però  relati- 
vamente air  intelligenza  divina  che  li  pose  e  li  creò  intenden- 
doli; e  così  creandoli  lì  rose  atti  a  ricevere  anche  dallo  stesse 
intelligenze  create  quell'essere  che  possono  avere  relativamente 
ad  esse.  Quest'essere  poi  che  hanno  i  reali,  relativo  a  ciascuna 
specie  delle  creale  intelligenze  e  diverso  tra  loro,  è  molto  più 
imperfetto  di  quello  che  hanno  rispetto  all'inlelligen/.a  divina, 
perchè  questa  li  conosce  e  penetra  interamente,  e  ogni  creata 
mente  li  conosce  in  una  maniera  ristretta  al  nesso  fisico  che  tali 
cose  reali  hanno  con  ossa,  come  abbiam  detto  (  Idcol.  1213  sgg.  ; 
Rinnov.  ^07  sgg.  p.  419,  b02  sgg.  p.  545).  Ma  nascendo  la  diffe- 
renza dalla  realità,  che  comunica  co'  diversi  sentimenti  delle  varie 
specie  d'intelligenze  create,  cangia  bensì  Vessenza  conoschila  della 
cosa,  poiché  questa  è  la  realità  disegnata  e  circoscritta  nell'es- 
sere; ma  non  cangia  punto  Vcssere  iniziale^,  il  quale  rimane  uguale 


dalla  mente  ,  e  gli  vien  dato  nel  momento  che  questa  le  concepisce  ed  in- 
tende, onde  dice  lo  stesso  Aristotele,  che  la  mente  prima  d'intendere  le  cose 
non  è  ninna  di  esse:  ov§iv  kcrtv  lvip-/dcf.  twv  Svtwv  npìv  voiXv  (Ivi,  4).  Quando 
poi  le  intende,  allora  l'essere  iniziale  dato  dalla  niente  si  congiunge  talmente 
colla  materia,  cioè  col  reale,  che  costituisce  un  unico  ente,  di  maniera  che 
i  due  elementi  non  si  possono  separare  se  non  per  via  d'astrazione  ,  onde 
rassomiglia  questo  congiunto  al  naso  rincagnato,  da  cui  non  è  separabile  il 
curvo  se  non  per  via  d'astrazione,  che  distrugge  l'ente  ct.ll''Sì(s%tp  rò  at/^àv 
Tùòi  h  TWÒ5  (Ivi);  e  di  questi  astratti  appunto  che  si  riferiscono  a' reali  tratta 
la  matematica.  Per  questo  nega  a  Platone,  che  le  essenze  delle  cose  sensibili 
siano  da  queste  separate,  non  avendole  la  mente  che  nell'atto  nel  quale  le 
congiunge  a' reali,  e  prima  di  quest'atto  essa  non  avendo  che  l'essere  inde- 
terminato, che  è  tutte  quelle  essenze  ma  solo  virtualmente;  onde  la  mente 
prima  d'uscire  all'atto  della  percezione  ò  tóttov  tlo&v  ma  otri  ivzzltyzia.  kllà 
Suvó.iJ.ii  rà  ziSv)  (Ivi).  Ma  quantunque  i  reali,  dopo  che  la  mente  li  ha  perce- 
piti, sieno  enti  ne' quali  non  si  possono  separare  i  due  elementi  di  cui  ri- 
sultano, Vessere  e  la  materia  cioè  la  realità,  tuttavia  questi  due  elementi  ap- 
partengono a  due  potenze  distinte  dell'anima  kzipM  ipx,  v)  hipMi  £xovci  /.pìvu 
(Ivi).  Questa  mi  sembra  la  maniera  d'intendere  Aristotele  più  inerente  alle 
sue  espressioni.  S.  Tommaso  dice  pure,  riferendosi  a  questa  dottrina,  che 
similitiulo  creatura  est  quodammodo  ipsa  creatura  per  modani  illum,  quo 
dicitur,  quod  anima  est  quodammodo  omnia.  De  Ver.  q.  IV,  a.  Vili. 


413 

per   tutte  le   intelligenze  ,  attesa  la  sua  semplicissima  e   divina 
natura. 

Articolo  Vili. 

Oliavo  Corollario  —  L'Esemplare  del  Mondo  non  è  il  Verbo  diùno, 
benché  i Esemplare  si  Iron  in  questo  in  due  modi:  \"  per 
eminenza;  2.°  per  conseguenza. 

405,  Dalle  cose  dette  possiamo  intendere  che  cosa  sia  l'Esem- 
plare del  Mondo,  e  come  egli  si  distingua  dall'Essere  assoluto  nella 
sua  forma  obiettiva,  a  cui  la  divina  rivelazione  dà  il  nome  di 
Verbo  divino. 

L'Essere  assoluto  nella  sua  forma  obiettiva  è  l'Essere  essenzial- 
mente inteso  per  sé  slesso.  L'essere  non  ammette  divisioni  nò. 
limitazioni  di  nessuna  sorte  :  è  infinito  e  perfetto  in  sé  stesso. 
Ma  l'Essere  assoluto  nella  sua  forma  subiettiva  onde  intendere 
essenzialmente  sé  stesso  —  divenulo  così  obietto  essenzialmente 
inleso  —  ed  amare  sé  stesso,  inteso,  infinitamente  —  divenuto  cosi 
amato — tende  ad  amare  l'essere  anche  ne' modi  finiti.  Quindi 
egli  coW astrazione  divina  fissa  lo  sguardo  amoroso,  e  anche  libero, 
nell'oggetto  infinito  limitando  il  suo  sguardo  all' inizialità  del- 
l'essere^ e  contemporaneamente  coW  imaginazione  divina  crea  il 
reale  in  quel  modo  che  più  gli  piace:  unendo  poi  questo  reale 
colla  sintesi  divina  r\V essere  iniziale,  vede  ad  un  tempo  e  crea 
tutta  la  serie  e  l'ordine  degli  esseri  mondiali.  Quando  dico:  «  in 
quel  modo  che  più  gli  piace  >:,  vengo  a  dire  che  l'istinto  amo- 
roso lo  guida  a  trovare  immediatamente  (^la  quantità,  e  la  specie 
e  l'ordine  dell'ente  finito  che  Mondo  ?<ì  chiama,  appunto  per  la 
sua  bellezza.  Ora  in  quanto  questa  realità  così  ordinata  è  ve- 
duta WiAVessere  iniziale  oggettivo,  ella  é  il  complesso  delle  essenze 
intelligibili  di  tutte  le  cose  finite,  e  questo  complesso,  che  pel 
suo  ordine  è  dotato  d'armonia  e  d'unità,  dicesi  Esemplare  del 
mondo. 

106.  Da  questo  si  ricava: 

ì."  Che  l'Esemplare  del   mondo  è   creato  dall'intelligenza 
amorosa  e  libera  di  Dio; 

2."  Che  nell'ordine  logico  di  formazione  precede   la  crea- 


Uh 

zinne  dell'essere  iniziale ,  sussegue  quella  della  realità  finita  , 
viene  in  terzo  luogo  V Esemplare ,  che  risulla  dalla  relazione  che 
la  realità  finita  ha  coWessere  iniziale,  in  quanlo  questo  è  obiel- 
livo  ,  e  per  se  intelligibile  ;  e  in  quarto  luogo  viene  il  Mondo 
ossia  il  complesso  degli  enti  finiti  risultanti  dalla  sintesi  del 
reale  coH'esemplare  per  mezzo  della  mente. 

5."  Che  quest'ordine  logico  non  indica  punto  un  ordine  di 
lempo  —  essendo  tutti  atti  che  Iddio  fa  nella  sua  eternità,  e  tutti 
essendo  un  alto  solo,  che  contiene  relativamente  a  noi  le  tre 
operazioni^  che  noi  distinguiamo  per  la  necessità  che  viene  dalla 
natura  del  nostro  intendere,  —  di  maniera  che  l'Esemplare  fosse 
posteriore  di  tempo  alla  creazione  dell'  Essere  iniziale  ,  e  del 
reale.  Perocché  quando  l'istinto  amoroso  condusse  l'Intelligenza 
divina  a  limitare  l'obietto  infinito  a  lei  essenziale,  operava  nella 
luce  ,  essendo  obietto  e  luce  il  medesimo,  ma  esso  era  scorto 
da  una  luce  precedente,  logicamente,  a  quella  dell'Esemplare  che 
trovava  in  un  modo  simile  a  quello  che  un  Artista,  usando  dei 
precetti  dell'arte  sua  come  di  altrettanti  principij  ne  cava  come 
conseguenze  le  belle  forme  d'una  figura  ,  che  intende  esprimere 
nel  marmo  o  sulla  tela,  o  la  bella  composizione  de's'.ioni  e  dei 
sentimenti  di  cui  concreta  una  musica  od  un  poema.  ('oU'alto 
stesso  dunque,  con  cui  l'Intelligenza  creatrice  guidata  dall'istinto 
amoroso  trovava  e  trovando  produceva  il  reale  nell'oggetto  in- 
finito, trovava  pure  VEsemplare,  perchè  trovava  quel  reale  come 
oggetto  cioè  unito  all'essere  iniziale  oggettivo.  Le  tre  operazioni 
divine  ,  che  noi  abbiamo  distinte,  non  si  possono  disgiungere  , 
che  sono  in  Dio  un  solo  atto. 

4."  Che  sebbene  la  realità  del  mondo  sia  il  fondamento  e 
il  subietto  di  quella  relazione,  che  dicesi  da  noi  possibilità  su- 
prema, il  termine  della  quale  è  l'es.^ere  iniziale  (I),  di  maniera 

(1)  Questa  dottrina  circa  la  natura  delle  relazioni  è  insegnata  da  S.  Tom- 
maso: e  da  essa  deduce  che  la  relazione  di  creatura  al  Creatore  lia  il  suo  su- 
bielto  nella  creatura,  e  non  viceversa:  Quandocumque,  dice,  aliqua  duo  sic 
se  habent  ad  invicem,  quod  unum  dependet  ab  altero  sed  non  e  converso^ 
in  eo  quod  dependet  ab  altero  est  realis  relatio,  sed  in  eo,  a  quo  dependet , 
non  est  relatio  nisi  rationis  tantum  ;  prò  ut  scilicet  non  potest  intelligi 
aliquid  referri  ad  alterum,  quin  intelligatur  etiam  respectus  oppositus  ex 
parte  alterius ,  ut  patet  in  scientia  quce  dependet  a  scibili ,  et  non  e  con- 


4i5 

che  questa  possibilità  non  si  può  intendere  se  non  posteriormenle 
alla  realità  stessa;  tuttavia  dopo  conosciuta  questa  realità,  e  con 
essa  designale  nell'essere  iniziale  le  essenze  delle  cose  ;  queste 
essenze  (l'Esemplare)  hanno  una  priorità  logica,  cioè  relativa 
all'intelligenza,  in  paragone  delle  realità  stesse;  perchè  con 
quelle  essenze  queste  si  conoscono  e  si  fanno  enti. 

5.0  Che  dunque  si  deve  distinguere  l'ordine  logico  noll'allo 
della  ereazione,  e  l'ordine  logico  che  risulla  dopo  la  creazione 
0  in  conseguenza  della  creazione.  Nell'atto  della  creazione  l'or- 
dine logico  a  noi  concepibile  degli  oggetti  è,  come  dicevamo: 
ì."  il  Verbo  divino;  2."  Vessere  iniziale;  3.°  i  reali  finiti;  h."  le 
essenze  di  questi  reali  ossia  V Esemplare  del  mondo  designato 
nell'essere  iniziale;  o.°  il  Mondo.  Dopo  la  creazione  l'ordine, 
che  ne  risulta  relativo  all'intelligenza,  è  all'opposto:  ì.°  il  Verbo: 
'^.^  l'essere  iniziale;  3.°  l'essenze;  h.°  i  reali  finiti;  5."  il  Mondo. 
Abbiamo  distinto  la  creazione  divina  da  quella  specie  di  crea- 
zione completiva  che  fa  l' intelligenza  umana  relativamente  ai 
reali  del  mondo  *privi  d'intelligenza.  Ora  questi  due  ordini  lo- 
gici si  ravvisano  non  solo  rispetto  all'alto  creativo  di  Dio ,  ma 
anche  rispetto  all'atto  creativo  che  fa  l'uomo  colla  sua  intelli- 
genza. Quest'atto  creativo  dell'uomo,  col  quale  fa  che  alla  sua 
intelligenza  diventino  e  si  possano  chiamar  enti  i  reali  privi 
d'intelligenza  come  i  corpi,  si  fa  ncWa  percezione,  che  risponde 
analogicamente  all'  imaginazione  creativa  di  Dio.  Si  consideri 
dunque  la  relazione  tra  le  essenze  e  i  reali  nell'alto  della  per- 
cezione e  dopo  la  percezione.  L'uomo  prima  della  percezione  in- 
tuisce l'essere  iniziale  ,  ma  le  essenze  specifiche  delle  cose  non 
esistono  ancora  per  lui.  Che  cosa  accade  nella  percezione?  Ac- 
cade ,  che  egli  percepisca  sensibilmente  il  reale  ,  e  nello  stesso 
tempo  riportandolo  colla  sua  intelligenza  all'essere  iniziale,  che 
intuisce ,  lo  oggetlivizzi ,  e  se  ne  formi  l'idea  ,  ossia  l'essenza 
{Ideol.    55-d7,    63  n.,  120  »i.,  298  n.,  9G1-978,    417,   418, 


verso.  Unde  cimi  creatura;  omnes  a  Deo  dependeant,  sed  non  e  converso,  in 
creaturis  sunt  relationes  realcs,  quibus  referuntur  ad  Deiim,  sed  in  Deo 
sunt  relationes  oppositce  secundtim  rationem  tantum  {De  Verit.  q.  IV,  V).  — 
E  lo  stosso  per  conseguenza  è  a  dirsi  della  relazione  tra  gli  enti  mondiali  e 
l'essere  iniziale. 


U6 

4b3  «.,  985  n.,  337-339.  506,  495,  518,  510,  357,  358, 
359,  530,  12"20-1222.  —  SuWEssenza  del  conoscere,  Inlrod.  IV), 
e  poi  unendo  le  due  cose  percepisca  il  reale  intellelliv amente,  cioè 
come  ente  formato.  Vedesi  dunque  ,  che  anche  nella  percezione 
inlelleltim  dell'uomo  si  riseonlra  quest'ordine  logico:  i.°  essere 
ideale;  2.°  reale  sentito;  3.°  essenza,  o  esemplare,  come  al) 
biamo  dello  appunto  dell'alto  creativo  divino  ;  4."  ente  crealo, 
ossia  percepito. 

Ma  qui  si  ponga  attenzione:  quest'ordine  che  abbiamo  con- 
siderato è  assoluto:  ma  se  il  pcnsier  noslro  si  restringe  a  con- 
siderare l'ordine  relativo  alla  pura  intelligenza  ,  in  tal  caso  il 
secondo  anello  di  quest'ordine  ,  cioè  il  reale  sentito,  non  esiste 
più,  perchè  non  è  ancora  inteso,  e  però  non  esiste  per  l'intel- 
ligenza :  invece  poi  di  esso  se  ne  soggiunge  un  terzo  ,  cioè  il 
reale  senti  lo -inteso,  l'ente  formalo.  Onde  l'ordine  logico  relativo 
all'intelligenza  diviene  quest'altro:  1."  essere  iniziale;  2."  es- 
senza del  reale;  3."  reale  senlilo-inteso.  E  questo  viene  a  dire 
S.  Tommaso  quando  insegna  ,  che  intellectus  liumani  propriam 
obieclum  est  quidditas  rei  malcrialis  ,  quae  sub  sensii  et  imagi- 
natione  cadil  (1);  il  quidditas  non  è  la  cosa  stessa  materiale,  che 
cade  solo  sotto  il  senso  e  l' imaginazione  ,  ma  è  la  sua  es- 
senza, la  sua  idea,  per  mezzo  della  quale  la  stessa  cosa  mate- 
riale si  conosce. 

E  tale  essendo  l'ordine  della  intelligenza —  non  quello  asso 
luto  della  formazione  dell'ente  —  avviene,  che  se  l'ordine  lo- 
gico di  cui  parliamo  si  considera  dopo  la  percezione,  quand'è 
già  fatto  l'ente  relativamente  alla  mente  nostra,  si  ritrovi  ap- 
punto, che  Vcssenza  precede  il  reale  divenuto  ente.  Onde  questo 
per  quella  si  conosce,  e  non  si  può  né  pure  intendere  ,  che  il 
solo  reale  esista  senza  di  quella,  sebbene  per  astrazione  si  con- 
cepisca essere  in  via  di  diventar  ente  ,  avendo  condizione  di 
sentito  0  d'imaginalo,  nel  quale  stato  si  dichiara  giustamente 
da  Platone  non-ente. 

Il  che  spiega  la  vera  origine  dell'errore  de'Sensisti  :  pongono 
essi  mente  all'ordine  di  formazione  dell'ente,  male  intendendo  que- 
st'ordine, e  però  credono,  che  il  reale  sia  anteriore,  e  che  dal  reale 

(1)  Swn.  I,  Lxxxv,  v,  ad  S."" 


417 

poi  si  traggano  per  via  d'astrazione  le  idee.  L'errore  consiste  in 
questo,  che  non  vedono  che  il  redo,  prima  che  sia  percepito,  non 
è  ente  per  l'intelligenza  umana,  e  però  non  esiste  per  questa  ; 
ma  esso  stesso  è  un  concetto  astratto  dalla  percezione  intellettiva, 
dalla  quale  togliendosi  via  l'idea  ,  rimane  il  puro  reale.  Da 
questo  puro  reale  dunque  non  si  può  astrarre  l'idea,  ma  bensì 
aggiungergliela,  e  con  quest'aggiunta  nasce  h  percezione  inlcllet- 
tira,  onde  poi  per  mozzo  dell'analisi  astrattiva  si  divide  l'idea  dal 
reale,  e  il  reale  dall'  idea. 

E  da  questo  ancora  si  vede  come  nell'ordine  di  tormazione 
y essenza  determinata,  dipendendo  dal  reale  finito,  può  essere  con- 
siderata come  il  subietto  della  relazione  col  reale,  siccome  abbiam 
detto  prima;  ma  nell'ordine  d'intelligenza  il  reale  già  conosciuto 
(ente)  dipendendo  dall'essenza  diventa  esso  stesso  il  siibietto  della 
relazione,  e  l'essenza  il  termine  della  stessa.  Tutto  sta  dunque 
nella  relazione  tra  il  reale  puro,  e  il  reale  ente. 

6.°  Vedesi  dunque,  che  l'Esemplare  precede  al  Mondo,  ma 
che  nell'ordine  della  sua  formazione,  logicamente  parlando,  non 
precede  al  puro  reale,  non-ente,  che  è  un  elemento  del  mondo, 
e  che  il  Mondo  non  è  che  la  sintesi  del  reale  puro  colle  essenze, 
che  sono  nell'esemplare,  fatta  prima  dalla  mente  divina,  e  poi 
dall'umana. 

467.  Può  rimanere  qualche  oscurità  su  quello  che  abbiamo 
detto,  che  l'istinto  amoroso  dell'Essere  assoluto  nella  sua  forma 
subiettiva  trovi  nell'Oggetto  assoluto  il  reale  colla  sua  misura, 
specie  ed  ordine,  giacché  questi  pregi  appartengono  all'  intelli- 
genza ed  alla  sapienza,  che  nel  reale  cosi  preciso,  come  noi  lo 
consideriamo,  non  esiste.  —  Vero,  e  per  ciò  appunto  dobbiamo 
prima  di  procedere  avanti  dichiarare  questo  punto.  Si  rammenti 
dunque,  che  l'Oggetto  assoluto  è  il  Reale  infinito  nella  sua  forma 
obiettiva,  e,  in  quanl'è  in  questa  forma,  è  essenzialmente  inteso. 
Tutto  ciò  dunque  che  l'Assoluto  nella  forma  subiettiva  vede  in 
quest'obietto  ,  sia  con  uno^  sguardo  necessario  ,  che  tutto  l'ab- 
braccia ,  sia  con  uno  sguardo  liberamente  limitato  ,  che  limita 
a  se  stesso  l'Oggetto  assoluto ,  non  può  esser  altro  che  un 
reale  nella  forma  obiettiva  e  per  ciò  stesso  inteso.  Ma  essere 
inteso  vuol  dire  che  il  reale  è  unito  coH'essere  iniziale  :  noi 
dunque  abbiamo  separati  i  due  elementi  per  un'analisi  astrattiva, 

Rosmini.  Teosofia.  27 


418 

come  già  abbiamo  avvertito,  quando  nella  divina  mente  furono 
sempre  uniti,  e  formanti  un  solo  ente.  Ma  si  domanda,  —  e  que- 
sl'è  la  difficoltà  cbe  dobbiamo  chiarire, —  «  secondo  qual  regola 
l'Essere  subiettivo  limita  il  suo  sguardo  in  modo ,  che  trovi  la 
realità  di  misura  e  di  specie  e  d'ordine  fornita,  e  non  una  rea- 
lità scomposta  ed  informe  »,  come  quella  che  descrive  Platone 
nel  Timeo?  Ahbiam  detto  coll'istinto  amoroso  di  quell'Intelli- 
genza pratica.  Ma  l'amore,  si  risponde,  cbe  cerca  e  non  ha 
ancora  il  suo  oggetto  ,  è  cieco.  Certamente  ,  e  perciò  aggiun- 
giamo cbe  l'amore  divino  era  guidato  nella  ricerca  del  reale, 
ossia  nello  stabilire  i  limiti  entro  a  cui  conteneva  lo  sguardo 
creativo,  òàWessere  iniziale  stesso.  Perocché  l'astrazione  divina 
di  questo  non  avea  bisogno  d'altro  lume ,  le  bastava  il  desi- 
derio di  creare  Tente  finito,  essendo  Y essere  iniziale  V  inizio  de- 
terminato da  sé  d'ogni  creazione  e  d'ogni  ente  finito,  onde  non 
c'erano  piìi  ogg(^lli  possibili  tra  cui  scegliere  rispetto  a  questo, 
essendo  comunissimo,  unico,  e  identico  inizio  di  tutte  le  cose. 
Questo  poi  era  il  principio  direttivo  dell'Amore  nel  trovare  il 
reale  misur;ito,  specificato,  ordinato.  Perocché  neWesscre  ideale 
si  contengono  tutti  i  principi  della  sapienza  applicabili  al  finito, 
non  essendo  i  principi  di  cognizione,  d'identità,  di  contraddizione, 
e  gli  altri  tutti  a  questi  subordinati,  e  i  principi  stessi  dell'or- 
dine dell'essere,  se  non  Tessere  iniziale  applicato  [Ideol.  559-574, 
1452,  1455).  Laonde  ricorrendo  all'analogia  di  sopra  adoperata, 
siccome  la  mente  d'un  artista  da  principi  dell'arte  sua  è  guidata 
a  trovare  i  più  bei  tipi  de'suoi  lavori;  così  la  divina  mente 
coi  principi  sapienziali  ,  che  sono  nell'essere  iniziale  lutti  con- 
tenuti come  conseguenze  d'applicazione,  applicando  la  detta  re- 
gola dell'essere  ideale  al  Reale  assoluto  trova  e  determina  quel 
reale  finito,  cbe  nella  sua  finitezza  sia  ottimo  e  perfetto  tanto 
per  riguardo  al  numero  ,  peso  e  misura  ,  quanto  per  riguardo 
alle  specie  e  al  loro  ordine  acciocché  ottengano  il  fine  pro- 
[)rio  dello  stesso  amore.  Se  non  che  l'artista  concepisce  prima 
il  tipo  nella  mente  e  poi  l'esprime  nella  materia  reale;  quando 
la  Mente  divina  concepisce  il  reale  stesso  come  dev'essere  , 
a  quel  modo ,  che  accade  all'uomo  nella  percezione  intellet- 
tiva. Ma  come  nell'ordine  puramente  intellettivo  precede  logi- 
camente l'essenza,  o  tipo  —  anche  nella  percezione  —  e  rimane 


419 

escluso  il  puro  reale,  susseguendo  poi  come  reale  ente;  così 
neH'ordine  intellettivo  divino  precede  del  pari  il  mondo  de' prin- 
cipi e  delle  conseguenze,  e  le  essenze  quindi  che  compongono 
l'esemplare,  e  a  ques!o  sussegue  il  reale  ente,  cioè  il  mondo, 
restando  escluso  il  reale  puro.  Questo  però  sì  concepisce  da  noi 
come  antecedente  nell'ordine  di  formazione  e  di  naturazione,  ed 
è  così  che  si  spiega  l'origine  del  concetto  che  ebbero  gli  anti- 
chi della  materia  informo  anteriore  alle  forme  stesse,  quale  ap- 
punto alatone  nel  Timeo  la  descrive,  benché  nel  descriverla  egli 
stesso,  senza  accorgersi,  le  dia  alcune  forme,  non  però  quella 
dell'ordine  universale,  a  cui  pose  quasi  esclusiva  attenzione  quel 
gran  filosofo. 

4C8.  Chiarita  dunque  in  questo  modo  la  natura  del  divino  Esem- 
plare ,  accostiamoci  a  provare  la  nostra  tesi.  Questa  ha  due  parti, 
la  prima,  che  l'Esemplare  none  il  Verbo  divino,  la  seconda 
che  è  contenuto  nel  Verbo  divino  in  un  modo  eminente  ed  im- 
plicito, e  in  un  modo  conseguente  ed  esplicito. 

Ora  che  l'Esemplare  non  sia  il  Verbo  divino,  oltre  risultare 
da  altre  prove  già  toccate,  si  dimostra  così. 

Il  Verbo  divino  non  è  suscettivo  di  limitazioni ,  di  divisioni 
in  ispecie,  di  quantità  o  di  misura,  laddove  l'Esemplare  è  un 
complesso  d'idee  divise  come  sono  divisi  gli  enti  mondiali,  a- 
vente  il  numero  e  la  misura  di  questi.  Il  che  basta  per  inten- 
dere che  non  può  essere  il  Verbo  divino.  Chi  è  che  dà  e  de- 
termina le  limitazioni  a  tutto  questo  complesso  di  essenze  e  a 
ciascuna  di  esse?  L'intelligenza  pratica  di  Dio,  che  opera  libe- 
ramente. Queste  limitazioni  dunque,  come  pure  le  molte  es- 
senze specifiche  da  quelle  circoscritte  diverse  dal  Verbo  divino, 
non  possono  essere  enti  in  sé  ,  e  però  rimangono  puri  enti  di 
ragione j  che  hanno  un'esistenza  vera,  ma  relativa  alla  mente, 
che  producendole  le  contempla.  Lo  stesso  convien  dire  delle  es- 
senze 0  idee  generiche  sino  alle  più  universali ,  che  in  quelle 
sono  implicitamente  contenute  e  per  un'astrazione  su  quelle  si 
trovano,  l'ultima  delle  quali  è  la  stessa  idea  dell'essere,  o  es- 
sere iniziale,  che  nelle  sue  più  universali  applicazioni  si  trasforma 
in  tutti  i  principi  della  ragione.  E  lutto  questo  mondo  di  entità  di 
pura  ragione,  che  in  sé  non  sono  ma  soltanto  nella  mente  di- 
vina, costituiscono  insieme  coll'arte  d'usarne  la  Sfipienza  creata. 


alla  quale  convenientemente  si  applicano  quelle  parole  :  «  Dal 
principio  e  prima  de'  secoli  sono  stata  creata))  (1);  e  quell'al- 
tre «  Ab  eterno  sono  stata  ordinata,  e  in  antico  prima  che  fosse 
fatta  la  terra  —  Ero  con  lui,  quando  componeva  tutte  le  cose  (2). 

In  secondo  luogo  abbiam  veduto ,  che  le  limitazioni ,  che  cir- 
coscrivono le  essenze  o  idee  delle  cose  mondiali  dipendono  nel- 
l'atto della  loro  formazione  dal  reale  (3) ,  che  piace  a  Dio  di 
creare,  cioè  dal  reale  finito,  il  quale  viene  circoscritto  e  ordi- 
nato secondo  la  guida  dell'essere  iniziale  che  contiene  i  supremi 
principi  della  ragione.  Ora  il  Verbo  non  ha  dipendenza  di  sorta 
alcuna  nò  dalla  libera  volontà  di  Dio,  né  dall'essere  Ì7iiziale, 
che  da  lui  si  astrae,  né  dal  reale  finito  determinato  da  quest'es- 
sere iniziale  medesimo  ,  in  quant'é  oggetto  intelligibile.  Dunque 
l'Esemplare  del  mondo  non  é  il  Verbo  divino,  ma  è  la  Sapienza 
creata  ab  eterno  relativa  all'ente  creato. 

Ora  primo  di  procedere  oltre  a  dimostrare  la  seconda  parte 
della  nostra  tesi  gioverà  che  confrontiamo  questa  dottrina  con 
quella  del  maggior  filosofo  d'Italia  ,  e  forse  del  mondo  ,  che  il 
pensiero  dell'individuo  rimane  non  poco  avvalorato  ^  e  rassicu- 
rato di  sé,  quando  si  trova  d'accordo  col  pensiero  d'altri  indi- 
vidui dei  |)iù  sapienti. 

AG9.  Il  filosofo  d'Aquino  dunque  distingue  :  1.°  l'alio  con  cui 
Iddio  intonde  le  cose;  2."  la  specie  con  cui  le  intende;  o.°  le 
cose  intese;  '}.°  le  ragioni  specifiche  ossia  le  idee  o  ragioni  delle 
cose  intese. 


(1)  Ecclesiast.  XXIV,  U. 

(2)  Prov.  Vili,  23,  30. 

(3)  Quando  S.  Tommnso  dice  dell'essenza  divina  :  Potest  autem  cognosci 
non  solum  secundum  quod  in  se  est,  sed  secimdum  quod  est  participa- 
bilis  secundum  aliquem  modam  simililudinis  A  CREATI] MS  (Sum.  I, 
XV,  li),  ricorre  anch'egli  per  ispiegare  i  possibili  ossia  le  idee  divine  alla 
relazione  colle  creature.  Oneste  dunque  nell'ordine  logico  si  suppongono 
in  qualche  modo  preesistenti,  come  il  fondamento  della  relazione  coll'es- 
senza  divina,  dalla  quale  nascono  le  idee,  ossia  plures  rationcs  proprias 
PLURIUM  RERUM.  Convien  dunque  per  concepire  le  idee  specifiche  delle 
cose  mondiali  in  Dio  presupporre  non  già,  che  le  cose  esistano  nel  tenqio, 
ma  che  ab  eterno  esista  l'atto  creativo,  Viniaginazione  divina  del  reale, 
con  cui  il  reale  ab  eterno  si  crea  nel  tempo. 


421 

L'atto  dell'intelligenza  divin.i  è  unico,  onde  dice,  che  uno 
intellectii  infelligit  multa  (1), 

La  specie  concai  l' intelligenza  divina  intende  le  cose  finite  è 
pure  una ,  benché  le  cose  intese ,  e  di  conseguente  le  idee,  siano 
molte.  Definisce  la  specie:  Forma  faciens  intelleclum  in  actu ,  e 
soggiunge;  Non  est  autem  con  tra  simplicilatem  divini  inlellectiis 
quod  multa  inleUicjat ,  sed  cantra  simplicilatem  eius  esset ,  si  per 
plures  speeies  eius  intellcctus  formuretur  (2).  Ora  che  cosa  è  que- 
sta specie  unica  che  S.  Tommaso  distingue,  secondo  la  ragione, 
dal  divino  intelletto,  dicendo,  che  da  essa  il  divino  intelletto 
è  informato ,  cioè  posto  in  atto  a  conoscere  tutti  gli  enti  finiti? 
Che  cos'è  questa  specie,  colla  quale  s'intendono  tutti  i  finiti? 
Dice  lo  stesso  S.  Tommaso  altrove,  che  la /orma  che  perfeziona 
una  potenza  deve  estendersi  a  tutte  le  cose,  a  cui  la  potenza  si 
estende  (5).  Ora  questa  forma  ,  che  rispetto  all'intelligenza  è  la 
specie,  per  estendersi  a  tutti  i  finiti  ,  per  contenerli  tutti  sotto 
di  sé,  non  può  esser  altro  che  V  essere  iniziale  e  yìvluaìe ,  onde 
ninna  sentenza  più  comune  in  S.  Tommaso  di  questa,  che  ob- 
jcctum  intellcctus  est  ens  vel  veruni  commune  (4).  L'essere  iniziale 
dunque  è  quella  specie  unica  che  informa  il  divino  intelletto  alla 
cognizione  de'  finiti ,  e  nella  quale ,  e  per  la  quale  tutti  li  co- 
nosce. 

Le  cose  intese  sono  gli  enti  finiti,  i  quali  nella  loro  esistenza 
propria  ed  in  sé  sono  fuori  di  Dio,  e  però  la  loro  moltiplicità 
niente  detrae  alla  divina  semplicità. 

Le  idee  poi  ossia  le  ragioni  specifiche  di  questi  enti  finiti ,  sono 
la  relazione  che  l'elemento  reale  determinato  ha  coU'essenza  di- 
vina ,  riferito  alla  quale  ella  acquista  la  ragione  di  loro  similitu- 
dine. Tommaso  De  Vio,  «  che  il  gran  commento  feo  »,  osserva, 
che  il  concetto  dell'idea  specifica  importa  una  relazione  alla  cosa, 
di  cui  è  idea,  e  che  nell'essenza  divina,  essendo  sem|)licissima, 
non  può  esserci   che  il  fondamento  ,    appunto   come   abbiamo   di 

(1)  Sum.  \.  XV,  li. 

(2)  S.  I.  XV,  II. 

(3)  Oportet  autem  ad  hoc  quod potentia  perfecte  compleatur  per  formam, 
quod  omnia  contineantur  sub  forma  ad  qwe  potentia  se  extendit.  Sum.  I, 
Lv,  i;  Cf.  Rinnovamento  575  sgg.  pag.  640, 

(l)  Sum.  I.  LV,  1. 


422 

sopra  detto  del  Verbo  divino.  Le  sue  parole  meritano  d'esser  qui 
riportate:  Cum  ìllud  (fandamenlum  imilabililalis)  sit  omnino  unum 
in  omnibus  ideis ,  quia  est  ipsa  simplicissima  essentia  divina^  in  qua 
non  polest  distingui  ahsolutam  imitabile  a  lapide  ab  absoluto  imita- 
bili a  leone,  non  posset  sustineri  pluralitas  idearum  in  Beo.  Pkires 
enim  ideas  inlelHgere  est  impossibile  nisi  signifìcalum  idem  plurifica- 
tum  intelligatur  (i).  E  quindi  deduce  che  le  idee  non  si  possono 
concepire  col  solo  concetto  dell' imitabilità  dell'essenza  divina, 
ma  che  le  idee  sono  1'  essenza  divina  solo  in  questo  senso  che 
l'essenza  divina  è  imitabile  dalle  creature,  ma  questo  altro  non 
significa,  se  non  che  l'essenza  divina  è  il  fondamento  delle  idee, 
non  ancora  le  idee,  e  quindi  per  aver  queste  conviene  aggiun- 
gere i  rispetti  diversi  dell'  essenza  divina  alle  diverse  crea- 
ture, 0  per  dir  meglio  i  rispetti  di  queste,  che  sono  diverse, 
a  quella  ,  e  questi  respectus  rispondono  agli  sguardi  liberamente 
limitati  dell'intelletto  divino,  di  cui  dicevamo  più  sopra.  Ora 
questi  rispetti  —  dice  questo  celeberrimo  e  perspicacissimo  inter- 
prete di  S.  Tommaso  —  sono  quelli,  che  costituiscono  le  idee  di- 
vine e  sono  falli  (.lai  divino  intelletto:  «  Respectus  isti,  dice, 
distinguenles  ideas,  cum  sint  etiam  constitutivi  earum,  non  con- 
sequuntar  actum  intellectus  divini  intelligentis  ideas,  sed  fiunt  per 
actum  intellectus  divini  intelligentis  essentiani  suam  comparative  (2). 

(1)  In  Sum.  I.  XV,  II  ad  2.™  et  3."^ 

(2)  In  Sum.  I.  XV,  li  ad  2.™  et  S.™  —  Il  De  Vio  soggiunge,  che  «  questi 
rispetti  idetili  non  sono  necessari  in  Dio,  acciocché  intenda  distintamente  le 
creature  ,  perchè  la  perfezione  delhi  divina  intellezione  nulla  mendica  dai 
rispetti  di  ragione,  ma  sono  necessariamente  costituiti  in  conseguenza  delia 
perfezione  della  stessa  intellezione  divina  ».  Questo  luogo  ci  sembra  difficile 
ad  intendere,  perchè:  1."  Se  si  riconoscono  necessari  tali  rispetti  alla  per- 
fezione della  divina  intellezione,  niente  vieta ,  che  si  riconoscano  necessari 
anche  alla  distinta  cognizione  delle  cose:  nulla  questo  detrae  alla  divina  intel- 
ligenza e  scienza  ;  2."  S.  Tommaso  li  considera  come  necessari  alla  cognizione 
divina  dell'ordine  dell'universo  dicendo:  Ratio  antem  alicuins  totius  haberì 
non  potcst,  nisi  habeantur  proprice  rationes  eorum  ex  quibus  totum  consti- 
tuitiir  {Sum.  1,  XV,  ii);  3."  Lo  stesso  De  Vio  osserva,  che  essendo  l'essenza 
divina  semplicissima,  iu  essa  non  si  potrebbe  dintinguere  le  idee,  se  dall' in- 
telletto divino  non  fosse  considerata  come  imitahile  sotto  diversi  rispelli 
cioè  da  diverse  creature.:  l'intelletto  divino  le  intenderebbe  bensì  tutte  in 
un  modo  implicito,  ma  non  distinte.  Farmi  dunque,  che  il  sentimento  del 
De  Vio  devasi  spiegare  così,  acciocché  sia  vero:  «  Iddio  crea  le  cose  facendo 


423 

470.  Un'apparente  diversità  si  troverà  forse  tra  questa  dottrina 
dell'Angelico  e  quella  che  abbiamo  esposta,  avendo  noi  detto  del 
Verbo  divino  quello  che  S.  Tommaso  dice  della  divina  essenza. 
Cioè  noi  dicevamo,  che  l'Essere  assoluto  nella  sua  forma  subiettiva 
riguarda  nell'Essere  assoluto  nella  forma  obiettiva  con  uno  sguardo 
liberamente  limitato  e  che  con  questo  sguardo,  vedendo,  crea  gli 
enti  finiti,  cioè  le  loro  idee  e  il  reale  che  li  costituisce  subietli- 
vamente  :  il  che  l'Angelico  sembra  dire  deWessenza  divina  imita- 
bile dalle  creature.  iMa  la  diversità  è  solo  apparente,  perocché 
l'essenza  divina  è  anche  nel  Verbo,  e  l'intelligenza  subiettiva 
di  Dio  la  vede  nel  Verbo,  a  cui  è  comunicata  nella  forma  obiet- 
tiva, né  senza  il  Verbo  può  stare  la  divina  essenza  (i). 

Pure,  dacché  *la  divina  essenza  nel  Verbo  è  semplicissima  ed 
infinita  e  non  ammette  limitazioni,  queste  vengono  costituite  dal- 
l'intelligenza subiettiva  e  libera.  Ma  poiché  l'oggetto  ha  due 
modi  di  essere,  l'uno  in  sé,  e  in  tanto  l'Essere  assoluto  oggetto 
dicesi  Verbo,  l'altro  nell'intelletto  conoscente,  e  intanto  l'og- 
getto dicesi  idea,  gli  oggetti  limitati,  cioè  l'essenze  limitate  de- 
gli enti  finiti  sono  primieramente  soltanto  nell'intelletto  subiet- 
tivo divino,  dal  quale  vengono  costituiti  (2).  E  dico,  che  «  pri- 

collo  stesso  atto  nascere  le  idee  o  essenze  loro  e  la  realità  di  cui  si  com- 
pongono ».  Non  Ila  dunque  Insogno  d'aver  prima  respectus  rationis  cioè  le 
idee  astratte  e  separate  dalle  cose.  E  quest'è  quello  clie  noi  appunto  di- 
cevamo. 

(1)  Il  De  Vio  riconosce,  che  l'idea  conviene  alla  divina  essenza  in  qnant'è 
oggetto  ,  e  elle  :  Hoc  palei  non  convenire  divina;  essentice  secundum  quod 
est  mere  naturaliter ,  sed  secundum  quod  est  obiecta  divince  nienti ,  e 
contro  lo  Scoto  aggiunge  che  Vessere  obiettivo  in  Dio  è  reale:  licci  esse 
ohiectivum  in  communi  non  sii  reale  :  esse  tamen  obiectivum  apud  intellec- 
tmn  divinum  est  reale  {In  Sum.  1,  xv,  i).  Ora  per  quanto  io  vedo,  se  Vessere 
obiettivo  in  Dio  è  reale  deve  essere  distinto  realmente  daWessere  subiettivo, 
e  non  essendovi  altre  distinzioni  reali  in  Dio  che  quelle  delle  divine  per- 
sone, convien  dire  ,  che  Vessere  obiettivo  reale  in  Dio,  in  qnant'è  dal  Padre 
pronunciato  e  così  generato,  sia  il  divin  Vcii)o,  e  così  venga  ogni  oliiettività 
all'intelletto,  ossia  all'Essere  subiettivo. 

(2)  S.  Tommaso  prova  doversi  ammettere  le  idee  nella  mente  divina  in 
questo  modo.  1."  Definisce  l'idee  fornice  alia  rum  rerum  pr(8ter  ipsas  res 
existentes.  2.°  Dice  che  la  forma  ha  due  uffici  :  di  servir  d'esemplare,  ed  è 
la  guida  della  ragione  pratica,  e  d'esser  principio  di  cognizione  in  quanto 
si  dice  essere  nel  conoscente ,  e  cosi  è  principio  della  ragione  speculativa. 


424 

mieramente  sono  soltanto  nell' intelletto  divino  dal  quale  ven- 
gono costiluili  »  per  questo,  che  essi  sono  costituiti  dalle  linìita- 
zioni  nel  loro  esser  proprio  d'idee  specitìche  diverse  relative  ai 
diversi  enti  finiti  :  non  potendo  essere  il  Verbo  subielto  di  limi- 
tazioni (1).  Ora  sebbene  il  principio  dell'intelletto  divino  —  come 
d'ogni  altra  cosa,  che  si  concepisce  nel  divino  essere  —  sia  quello 
che  noi  linguaggio  della  cristiana  sapienza  dicesi  Padre,  tutta- 
via l'intelletto  appartiene  alla  divina  essenza,  che  il  Padre  co- 
munica al  Figliuolo,  e  allo  Spirito  Santo:  e  però  le  idee  divine 
giustamente  si  dicono  essere  nella  divina  essenza.  E  ciononostante, 
come  in  priYicipio ,  appartengono  al  Padre,  di  cui  S.  Tommaso 
dice  ,  che  Pater  scicntia  sua  continet  omnem  creaturam  velut  cxem- 
plar  creaturcB  tolius  {"2). 

471.  Veniamo  ora  aila  seconda  parte  della  nostra  tesi,  la  quale 
diceva,  che  l'Esemplare  divino  del  mondo  è  nel  Verbo  in  un 
modo  eminente  e  in  un  modo  conseguente. 

Forma  autem  alkuius  rei  proìter  ipsam  existens  ad  duo  esse  potest,  vel  ut 
sit  exemplar  eius,  cuius  dicitur  forma,  vel  ut  sit  principium  cognitionis  ipsius 
secundum  quod  fornice  coynoscibiUum  dicuntur  esse  in  cognoscente.  3."  Dice 
che  nell'uno  e  nell'altro  modo  si  devono  arametlere  in  Dio,  et  quantum  ad 
ntrumque  necesse  est  ponere  ideas;  e  qui  osservo,  clie  S.  Tommaso  am- 
mette le  idee  in  Dio  anche  come  principio  di  cognizione,  ben  inteso  com'è 
principio  di  cognizione  l'oggetto  inteso.  4.°  Di  che  conchiude^  che  avendo 
Iddio  fatto  il  mondo  come  un  artefice  con  intelligenza,  dovea  avere  in  sé 
la  forma  a  cui  similitudine  il  mondo  fu  fatto;  et  in  hoc  consistit  ratio  idem 
{Sum.  ],  XV,  lì.  Questo  però  non  vuol  dire,  che  l'Esemplare  già  formato  ed 
esplicito  sia  anteriore  all'atto  creativo  del  reale.  Secondo  che  pare  a  noi , 
logicauientc  non  è  anteriore  che  l'Essere  iniziale,  che  è  Vesemplare  impli- 
cito. E  veramente  il  principium  cognitionis  è  solo  l'essere  iniziale,  essendo 
le  idee  lui  stesso  applicato  a  conoscer  le  cose  che  lo  determinano. 

(1)  Da  questo  indotto  Giovanni  Duns  Scoto  negò,  che  le  idee  diverse  sieno 
in  Dio  l'essenza  divina  {In  I.  D.  XXXV).  Ma  la  questione  sembra  più  di  parole 
che  d'altro.  Poiché  il  fondo  delle  idee  non  può  essere  altro  che  l'es- 
senza divina  ohiettiva,  dove  l'intelletto  divino  quasi  le  sogna,  le  circoscrive, 
e  le  moltiplica.  Ora  queste  segnature  e  circoscrizioni  rimangono  nell'intel- 
letto divino  subiettivo,  ma  ci  rimangono  colla  forma  obicttiva^  che  vien  loro 
dalla  divina  essenza  obiettiva,  in  cui  sono  dal  divino  pensiero  segnate.  Ma  lo 
stesso  intelletto  divino  è  l'essenza  divina  nella  forma  subiettiva.  Non  si  può 
dunque  negare,  ch'esse  sieno  tutte  l'essenza  divina  in  quanto  hanno  il  loro 
fondo  reale  in  Dio. 

(2)  De  Verit.  q.  IV,  a.  IV  ad  l.™ 


428 

In  un  modo  eminente  :  avendo  noi  veduto  che  il  Verbo  divino 
è  l'Essere  assoluto  obiettivo  in  quant'è  pronunciato  e  così  gene- 
ralo dall'  Essere  assoluto  subiettivo  —  il  Padre,  —  e  che  l'intelli- 
genza subiettiva  e  libera  del  Padre  vede  in  esso  l'essere  iniziale 
e  le  essenze  delle  cose,  che  circoscrive  e  moltiplica  secondo  il 
principio  della  sapienza  creatrice,  che  è  lo  stesso  essere  iniziale; 
egli  è  manifesto,  che  tanto  l'essere  iniziale  quanto  le  idee  o  es- 
senze determinate,  delle  quali  consta  l'Esemplare  del  mondo, 
sono  tutte  nel  Verbo  divino  in  un  modo  eminente,  cioè  come 
il  meno  sta  nel  più,  come  il  limitato  sta  nell'illimitato,  come 
nel  circolo  sono  contenuti  lutti  i  poligoni 

In  un  modo  conseguente:  in  quanto,  che  il  Pndre  pronun- 
ciando se  stesso  ,  oggettivandosi ,  e  così  generando  il  suoVerbo, 
dice  con  ciò  tutto  ciò  che  egli  ha,  e  quindi  anche  il  suo  allo  crea- 
tivo e  libero^  anche  il  suo  alto  intellettivo,  e  quell'alto  (che  è 
sempre  un  solo  allo)  con  cui  intende  d'intendere  (1),  e  quindi  an- 

(1)  S.  Tommaso  dislingue  l'intonrlere  che  fa  Iddio  l'idea  unita  al  reale,  e 
l'intendere  la  stessa  idea  astratta  dal  reale,  attribuendo  questa  seconda  co- 
gnizione ad  una  riflessione  che  astrae  l'idea,  e  lascia  il  reale.  Arlifex,  dice, 
dum  inielligii  formam  domus  in  materia,  dicitur  intelligere  dotmim:  dum 
tanien  iììteUigit  formam  domus  vt  a  se  speculatam,  ex  eo  quod  intelligit  se 
intelligere  eam  ,  intelUf/it  ideam,  tei  rationem  domus.  Ora  che  cos'è  «  la 
forma  della  casa  nella  materia  »?  È  la  casa  stessa,  risponde  S.  Tommaso,  e 
però  intelligere  formam.  domus  in  materia  è  intelligere  domum.  L' inten- 
dere dunque  la  forma  o  idea  insieme  colla  materia  corrisponde  a  quelle  fun- 
zioni, che  nell'uomo  si  dicono  percezione  e  imaginazione.  Ora  una  funzione 
analoga  ripone  S.  Tommaso  in  IJio  nell'intelletto  divino,  alla  quale  fa  sus- 
seguir l'altra,  che  considera  Videa  separala  dalla  materia.  E  che  questa  sia 
logicamente  posteriore,  vedesi  da  questo,  che  esige  l'intendere  d'intendere, 
cioè  una  riflessione  sulla  prima  (ex  eo  quod  intelligit  se  intellijere).  Con- 
tinua dunque  l'Angelico  ad  applicare  l'analogia  dell'artefice  a  Dio  cosi  :  Deus 
autem  non  solum  intelligit  multas  RES  per  essentiam  suam  sed  etiam  in- 
telligit se  intelligere  multa  per  essentiam  suam.  Sed  hoc  est  intelligere 
plures  rationes  rerum,  vel  plures  ideas  esse  in  intellectu  eius,utiniellectas. 
(Smn.  I,  XV.  Il  ad  2."').  Secondo  S.  Tommaso  dunque  Iddio  prima  conosce  le 
cose,  che  crea,  la  loro  forma  nella  materia,  e  poi  per  una  riflessione  astraente 
conosce  le  idee  pure ,  cioè  le  forme  separate  dalla  materia.  E  quest'è  pure 
il  processo  da  noi  descritto  nell'intelligenza  divina.  Se  dunque  per  esem- 
plare s'intende  il  complesso  delle  idee  pure  separate  dalla  materia,  che  noi 
chiamiamo  l'Esemplare  esplicito  ;  questo  sussegue  all'alio  della  creazione  e 
Iddio  non  ha  bisogno  di  esso  per  creare,  e  in  questo  senso  abbracciamo  l'o- 


426 

che  le  cose  da  lui  intese  e  create,  onde  la  celebre  sentenza  di 
S.  Anselmo ,  che  uno  eodemque  Verbo  dicit  seipsum  et  oinnem  crea- 
tiiram  (1).  E  questa  è  la  dottrina  di  S.  Tommaso,  seguita  da 
lutti,  credo,  i  teologi  :  «  in  Dio  —  dice  —  a  ciò  che  il  Verbo  di 
«  lui  sia  perfetto,  è  necessario,  che  il  Verbo  di  lui  esprima  tutto 
«ciò,  che  si  contiene  in  quello  da  cui  nasce,  massimamente 
«  che  Iddio  con  uno  intuito  vede  tutte  le  cose  non  in  un  modo  di- 
«  viso.  Così  dunque  è  d'uopo  ,  che  tutto  ciò  che  si  contiene  nella 
«  scienza  del  Padre  ,  tutto  questo  s'esprima  per  un  solo  suo  verbo 
«e  s'esprima  in  quel  modo,  nel  quale  è  nella  scienza  contenuto, 
«  acciocché  sia  vero  Verbo  corrispondente  per  lascicnza  alsuoprin- 
tt  cipio,  e  che  il  suo  Verbo  esprima  principalmente  (principaliter) 
«  lo  stesso  Padre,  e  j)er  conseguente  (coìisequenler)  tutte  l'altre 
«  cose,  che  il  Padre  conosce  conoscendo  se  slesso,  e  così  il  Fi- 
«  gliuolo,  per  ciò  stesso  che  è  Verbo  esprimente  perfettamente  il 
«  Padre,  esprime  ogni  creatura;  e  quest'ordine  si  mostra  nelle  pa- 
ce role  d'Anselmo,  ilqualdice:  che  dicendo  sé  dice  ogni  creatura))  (2). 
472.  E  qui  conviene  attentamente  considerare  le  due  differenze, 
che  S.  Tommaso  assegna  tra  Videa  e  il  Verbo  di  Dio.  La  prima 
consiste  in  questo,  che  le  idee  sono  prima  nel  Padre,  la  cui  li- 

pinione  del  Gaetano,  che  Iddio  non  !ia  bisogno  di  queste  idee  per  conoscere 
e  creare  le  cose^  ma  conseguono  come  perfezione  dell'intelletto  divino:  Ex 
hoc  autem  habes  quod  respectus  idealdS  non  ponuntur  ìiecessarii  ad  hoc  ut 
Deus  distincte  intelligat  creaturas  —  sed  ponuntur  necessarii  ut  necessario 
constituti  ex  perfectione  intellectionis  divinaedn  l.  e).  Ma  se  per  Esemplare 
s'intende  l'esempkn'e  implicito  ììeWessere  iniziale,  e  le  idee  che  Iddio  creante 
forma  nell'atto  stesso  che  imngina  i  reali  sussistenti ,  e  cosi  insieme  con 
questi  le  crea;  in  tal  caso  l'Esemplare  logicamente  precede  l'alto  creativo. 
E  che  questo  sia  il  vero  sentimento  di  S.  Tommaso  —  henchè  da  alcuni  altri 
luoghi  possa  parere  il  contrario,  —  parmi  potersi  chiaramente  inferire  da  ciò, 
che  costantemente  insegna  i  diversi  rispetti  dell'intelligenza  divina  esser 
quelli,  che  moltiplicano  le  idee,  ma  questi  non  esser  reali,  ma  di  pura  ra- 
gione: Non  tnmen  sìint  reales  respectus  sicut  ilU  quibits  distinguuntur  per- 
sona, sed  respectus  inteìlecti  a  Deo.  {Sum.  I.  XV.  II  ad  4-.™;.  Questi  rispetti 
0  sguardi  esigono  un  oggetto  :  questo  oggetto  non  possono  esser  le  idee 
molteplici ,  perchè  sono  essi  che  le  producono  :  dunque  non  possono  essere 
che  i  reali  finiti,  i  quali  essendo  molti  costituiscono  molte  relazioni  colla 
divina  essenza,  e  queste  riguardate  da  Dio  sono  le  idee  determinate. 

(1)  Monol.  C.  XXXII. 

(2)  De  Vent.  IV,  iv. 


427 

bera  intelligenza  creando  il  mondo  ab  eterno  le  costituisce  come 
altrettanti  respeclus  rationis  e  però  appartengono  all'essenza  di- 
vina ,  die  poi  dal  Padre  viene  comunicata  al  Verbo ,  onde  al 
Verbo  appartengono  le  idee  come  un  esemplare  dedotto  da  un 
altro.  Ecco  le  sue  parole  :  «  DifTerisce  il  Verbo  dall'idea.  Poiché 
«  l'idea  nomina  una  forma  esemplare  assolutamente,  ma  il  Verbo 
«  del  creato  in  Dio  nomina  la  forma  esemplare  dedotta  da  un  al- 
((  tro  ,  e  però  l'idea  in  Dio  appartiene  all'essenza  ,  ma  il  Verbo 
«  alla  persona  »  (i). 

Il  che  rimane  spiegalo  da  quello  che  abbiamo  detto ,  che  l'og- 
getto in  Dio,  parlando  in  universale,  si  concepisce  secondo  due 
modi  d'esistere,  cioè  in  sé,  e  come  tale  è  persona.  Verbo  divino 
generato  dal  Padre,  e  nell'intelletto  divino,  e  come  tale  é  idea. 
iMa  le  idee  diverse  delle  cose  hanno  solamente  esistenza  nell'in- 
telletto divino,  e  non  in  sé  —  che  sarebbe  un  ammettere  le 
idee  separate  in  sé  esistenti,  come  altrettanti  Iddii  —  perché 
sono  enti  mentali,  respectus  ralionis.  L'intelletto  divino  poi  ap- 
partiene prima  al  Padre  —  prima  forma  subiettiva  dell'Essere 
assoluto  —  e  il  Padre  lo  comunica  coU'essenza  all'altre  due  per- 
sone, e  così  l'idea  appartiene,  come  forma  esemplare  assoluta- 
mente presa,  all'essenza,  in  quanto  questa  è  il  Padre  che  libe- 
ramente   intende  e  crea,  e  poi  come  comunicata  al  Verbo. 

La  seconda  differenza  che  pone  S.  Tommaso  tra  le  idee  di- 
vine e  il  Verbo  si  è,  che  quelle  riguardano  direttamente  le  crea- 
ture, ed  essendo  queste  molte  ,  molte  sono  le  idee,  perché  ogni 
crealu-a  ha  una  diversa  relazione  coU'essenza  divina,  ma  il 
Verbo  riguarda  dinMIamcnte  Dio,  e  però  è  un  solo  (2).  Dove  si 
vede,  che  propriamente  parlando  non  si  dà  in  Dio  idea  del  Verbo, 
se  non  in  quanto  anche  le  idee  negative,  che  le  intelligenze  fì- 


(1)  Verhum  differì  ab  idea.  Idea  enim  nominai  fonnam  exemplarem  ab- 
solute,  sed  Verbum  crealurac  in  Beo  nominai  formani  exemplarem  ab  alio 
dedmiam.  Et  ideo  idea  in  Beo  ad  essentiam  pertinel;  sed  Verbum  ad  per- 
sonam.  —  De  Verit.  IV,  iv  ad  'i.™ 

(2)  Apparet  alia  differentia  inter  ideam  et  verbum,  quia  idea  directe 
respicit  creaturam,  et  ideo  plurium  creaturarum  sunt  plures  ideae;  sed 
Verbum  respicit  directe  Deum.,  qui  primo  per  Verbum  exprimitur,  et  ex 
consequenti  crealuram,  et  quia  crealurae,  seeundum  quod  in  Beo  sunt, 
unum  stint,  creaturarum  omnium  est  unum  verbum.  De  Verit.  IV,  iv  ad  5.^ 


428 

nite  hanno  del  Verbo,  sono  conosciute  da  Dio;  ma  la  slessa  esi- 
stenza in  sé  del  Verbo  è  anche  l'esistenza  sua  nell'intelligenza 
divina,  e  però  non  si  danno  in  questo  oggetto  assoluto  due  modi, 
ma  un  solo  modo  di  essere,  come  pure  m'W  idea,  che  si  riferi- 
sce alla  creatura ,  non  si  danno  due  modi  di  essere ,  ma  un  solo , 
quello  pel  quale  è  nell'intelligenza  (1). 

(1)  Noi  abbiamo  detto,  clie  «  il  Verbo  è  l'Essere  assoluto  per  sé  inteso 
come  atto  sussistente  del  Padre,  che  dice  o  aflerma  sé  stesso  ».  Questo  ha 
bisogno  di  spiegazione.  Nell'uomo  la  cosa  intesa,  l'oggetto,  può  stare  sempre 
davanti  alla  mente  in  due  modi  :  1."  come  puro  oggetto  (idea);  2."  come  og- 
getto affermato  (verbo)  [Ideal.  531-534.,  495  w.,  1328  n.).  Quindi  una  doppia 
cognizione  nell'uomo  d'intuizione,  e  d'affermazione ,  ossia  di  predicazione. 
Ma  in  Dio  relativamente  a  se  stesso  non  ci  può  essere  una  distinzione  reale 
tra  queste  due  maniere  di  cognizione,  sicché  importino  due  atti.  La  ragione 
per  la  quale  è  nell'uomo  questa  duplicità  di  cognizione  si  é,  che  l'uomo  col 
suo  atto  non  può  creare  né  generare  l'oggetto,  ma  questo  gli  è  dato  dal  di 
fuori,  essendo  esso  Yessere  iniziale,  e  l'uomo  non  fa  che  riceverlo.  Non  ri- 
mane dunque  all'attività  umana,  che  di  congiungere  l'oggetto  essenziale  , 
che  gli  è  dato,  ai  sensibili  e  così  percepirli  intellettivamente,  e  la  percezione 
intellettiva  é  il  primo  verbo,  che  l'uomo  pronuncia.  Ma  Iddio  costituisce  egli 
stesso  colla  propria  attività  sé  stesso  come  oggetto  coli'atto  stesso  con  cui  si 
afferma,  e  questo  è  il  Verbo  divino  uscente  dal  Padre. 

In  secondo  luogo.  Vallo  dell'uomo,  con  cui  afferma  l'oggetto  intuito,  rimane 
necessariamente  distinto  dall'affermante,  perché  è  un  atto  accidentale,  e  dal- 
Voggetto  affermato,  perchè  l'oggetto  non  uscendo  dall'uomo  stesso,  ma  es- 
sendo ricevuto  dall'uomo  dal  di  fuori,  esso  non  può  esser  l'atto  stesso  del- 
l'uomo. Ma  in  Dio  la  cosa  non  va  così  quando  il  Padre  afferma  sé  stesso, 
perchè,  uscendo  l'oggetto  dal  subietto  intelligente  per  un  atto  necessario  e 
non  accidentale,  è  il  medesimo  l'atto  uscito  e  l'oggetto  del  Padre  dicente 
lutto  sé  stesso.  Onde  non  c'è  Voperazione  distinta  realmente  dal  dicente  e 
dal  detto  ,  e  quasi  media  tra  essi,  ma  non  c'è  altro  di  così  distinto  ,  che  il 
dicente  o  generante  e  il  detto  o  generato,  che  é  l'oggetto  e  l'alto  ultimato  in 
se  stesso. 

Qui  si  dirà  forse,  che  non  differendo  in  Dio  l'operazione  dall'essenza  di- 
vina pare  con  questo  che  sia  l'essenza  che  genera  e  non  il  Padre,  e  si  con- 
fermerà l'obiezione  con  S.  Tommaso  che  dice:  Hoc  nomen  operatio  ,  quae 
procul  dubio  importai  aliquid  procedens  ab  operante,  tamen  ('in  Deo)  iste 
processus  non  est  nisi  secundnm  rationem  tantum  :  unde  operatio  in  di- 
vinis  non  personaliter  sed  essentialiter  dicitur,  quia  in  Deo  non  differì 
essentia,  virlus,  et  operatio  {De  Verit.  IV,  ii).  Ma  rispondiamo,  che  Vessenza 
divina  in  quanl'é  generante  è  appunto  il  Padre. 

In  terzo  luogo,  l'alto  intellettivo  dell'uomo  si  può  concepire  in  due  mo- 
menti :  nell'atto  stesso  del  farsi,  e  quand'egli  è  già  fatto.  Ma  questo  nasce 


429 


Articolo  IX. 
Nono  Corollario.  —  Il  reale  creato  non  è  il  reale  divino. 

473.  Avendo  noi  veduto,  che  il  reale  divino  è  infinito  e  in- 
divisibile, e  che  non  animelle  nissuna  distinzione  reale,  mn  è 
tutto  intero  in  ciascuna  delle  tre  forme  primordiali  dell'essere, 
consegue  ch'esso  non  possa  essere  il  reale  finito. 

In  secondo  luogo,  il  reale  finito  è  la  forma  subiettiva  finita  del- 
l'essere. iMa  la  forma  subiettiva  dell'  essere  acciocché  sia  com- 
piuta importa  un  sentimento  proprio,  che  per  mezzo  dell'intelli- 
genza diventa  consapevolezza,  come  accade  nell'uomo.  Ora  l'uomo 
è  consapevole  d'essere  un  sentimento  finito,  e  d'avere  un  istinto 
e  una  potenza  finita,  e  questa  consapevolezza  *non  può  non 
averla*  essendo  lui  stesso  :  quindi  egli  non  è   il  reale   infinito , 


appunto  perchè  quest'atto  nell'uomo  è  accidentale,  e  però  si  concepisce  un 
momento  nel  qiiale  passa  dal  non  essei'e  all'essere ,  nel  quale  non  è  ancora 
del  tutto  secondo  il  detto  scolastico,  in  aciu  actus  nondum  est  actus.  A  cui 
si  risponde,  ctie  questo  stato  di  mezzo  tra  il  non  essere  e  l'essere  compiu- 
tamente non  si  può  veramente  concepire,  se  non  in  quegli  alti ,  che  occu- 
pano qualche  tempo  a  ultimarsi,  e  non  in  quelli  che  si  fanno  fuori  del  tempo, 
come  sono  i  divini  {Logic.  51).  Ma  anche  senza  di  questo,  l'alto  della  ge- 
nerazione del  Verbo  è  sempre  compiuto  ab  eterno  e  non  mai  incipiente,  e 
né  tampoco  si  può  concepire  come  incipiente,  senza  falsarne  il  concetto. 
Onde  il  Verbo  non  passa  mai  dal  non  essere  all'essere  ,  ma  è  sempre  og- 
getto inteso  e  affermato  in  atto,  e  com'è  Verbo  del  Padre,  così  è  atto  sus- 
sistente in  sé,  ed  oggetto  eterno  del  Padre  (a),  ed  è  anche  atto  compiuto  in 
sé,  perchè  è  per  sé  e  in  sé  essenzialmente  inteso  e  affermato,  e  come  tale  per- 
sona sussistente. 


[a)  L'atto  intellettivo,  con  cui  (quo)  il  Padre  genera  il  Figlio  appartiene  alla  natura  divina  e 
però  è  comune  al  Padre  e  al  Figlio;  ma  questa  natura  d.vina  attualmente  intelligente,  non 
presa  in  astratto  ma  in  quanto  è  generante,  è  il  Padre,  e  questa  natura  divina  stessa  e  identica 
di  numero,  in  quanto  è  notizia  espressa  e  attuale,  cioè  è  oggetto  afiermato  e  in  sé  sussistente, 
è  il  Figlio.  Onde  S.  Tommaso  (5Mm.  L  XLI,  vj: /D  (/«o  PATER  generatesi  natura  divina, 
in  qua  sibi  Filius  assimilatur,  et  sccundum  hoc  Damascenìts  dicit  (L.  I.  De  fld.  ori.  8)  quod 
<i  generano  est  opus  naturce  non  sicut  gencrantis,  sed  sicut  eins,  quo  generans  general  a. 
E  ad  1."  Id  guo  generans  general  est  comune  genito  et  generanti.  —  Cf.  Jo.  Lamy.  De  recla 
Niccenorum  fide  C.  XXXUL  12  dove  mostra  che  il  Concilio,  che  definì  che  essentia  non  est 
generans,  intese  dell'essenza  assolutamente  presa  con  astrazione  dalle  persone,  non  come  sus- 
sistente nella  persona  del  Padre,  e  fornita  di  proprietà  peculiare. 


430 

perchè  reale  finito  e  sentimento  consapevole  finito  sono  termini 
identici. 

In  terzo  luogo,  l'uomo  sa  per  la  propria  consapevolezza  di 
non  essere  quell'oggetto,  colla  intuizione  del  quale  conosce  sé 
stesso,  il  quale  oggetto  è  l'essere  {Ideol.  439-442,  980- 
98:2.  11.)  (1),  poiché  sa  di  non  essere  Tessere  stesso.  Ora  il  reale 
divino  esiste  necessariamente  anche  nella  forma  obiettiva  per  sé, 
dunque  l'ente  reale  finito  non  ha  la  realità  infinita  e  divina. 

Un  quarto  argomento  si  può  cavare  dalla  consapevolezza,  che 
ha  la  creatura  reale  finita  dotata  d'intelligenza  di  non  essere  nella 
forma  morale  per  sé,  ma  solo  riferendo  se  stessa  all'infinito. 

Che  se  il  reale  della  creatura  intelligente  non  é  il  reale  di- 
vino,  molto  meno  può  esser  tale  il  reale  proprio  di  quegli  enti, 
che  non  hanno  intelligenza,  il  quale  è  troppo  inferiore  e  troppo 
più  limitato. 

Articolo  X. 

Decimo  Corollario.  —  //  reale  degli  enti  finiti,  in  quanf  è  pro- 
prio di  questi  ed  appartiene  alla  loro  esistenza  subiettiva,  o  e- 
strasoggettiva ,  è  fuori  di  Dio  ;  ma  neW  Essere  assoluto  obiet- 
tivo ,  come  obietto  deWalto  intellettivo  creature,  esiste  eminente- 
mente. 

474.  Dopo  aver  noi  parlato  dell'essere  iniziale  e  delle  essenze 
finite,  che  costituiscono  l'Esemplare  del  Mondo,  e  veduto  come  si 
formi  ,  e  come  esista  in  Dio  ,  dobbiamo  parlare  del  secondo 
elemento  degli  enti  finiti,  che  è  il  reale. 

La  tesi  che  ci  siamo  proposta  da  dimostrare  ha  due  parti,  la 
prima  delle  quali  si  è  che  «  il  reale  degli  enti  finiti  in  quanto 
è  proprio  di  questi  ed  appartiene  alla  loro  esistenza  subiettiva, 
od  estrasoggettiva,  è  fuori  di  Dio». 

Ora  coll'espressione  «  è  fuori  di  Dio  «  altro  non  si  vuol  dire , 
se  non  che   «  il  reale  finito  in  quanto  appartiene  all'esistenza  su- 


(1)  Quando  mens  intelligit  seipsam,  dice  anclie  S.  Tommaso,  eius  con- 
ceptio  non  est  ipsa  mens,  sed  aliquid  expressum  a  notitia  mentis  {De 
Verit.  IV,  11). 


431 

bietliva  degli  enti  finiti ,  non  costituisce  l'essenza  divina  ,  o  al- 
cuna parte  di  questa  essenza  «. 

Si  prova  in  primo  luogo  da  questo ,  che  all'essere  finito  è  es- 
senziale la  finità  ,  e  all'essere  infinito  l'infinità,  e  l'unii  di  que- 
ste due  proprietà  essenziali,  come  contradditorie,  esclude  l'altra. 
Onde  ne  tiasce  la  legge  ontologica  del  pensiero  :  «  Il  ter- 
mine del  pensiero  è  un  finito  o  un  infinito  «  [Psicol.  4381  sgg.). 
La  ragione  intima  di  questo  si  è,  che  «  la  finità  e  l'infinità  sono 
proprietà  dell'essere! ,  e  l'essere  diventa  un'entità  diversa  per 
qualsivoglia  differenza  che  in  esso  si  concepisca ,  giacché  ogni 
differenza  è  differenza  di  essere  e  non  di  accidente  )>. 

La  seconda  jirova  si  trae  dalla  coscienza,  come  sopra.  La  co- 
scienza non  può  ingannare  intorno  al  sentimento  proprio  [Ideol. 
4246) ,  e  facendoci  conoscere  il  nostro  proprio  sentimento  ci  fa 
conoscere  noi  stessi  {Psicol.  79  sgg.).  Ora  noi  sappiamo  per  la 
coscienza  di  non  essere  l'altre  cose,  che  da  noi  distinguiamo, 
e  sappiamo  essercene  molte  che  neppur  conosciamo  :  sappiamo 
dunque,  che  la  nostra  non  è  la  natura  divina,  di  cui  è  proprio 
conoscer  tutte  le  cose  ed  esser  causa  intelligente  di  tutte  :  siamo 
dunque  enti  subiettivi  fuori  di  Dio.  iMolto  più  dobbiamo  dir  lo 
stesso  delle  cose  puramente  sensibili  e  inanimate  ,  che  noi  con- 
cepiamo mediante  le  loro  limitazioni  ,  e  limitazioni  più  anguste 
delle  nostre  proprie. 

La  terza  prova  si  fa  così.  Noi  sappiamo  e  sentiamo  d'esser 
persone.  Ora  la  personalità  è  incomunicabile  {Antropol.  856).  Non 
può  dunque  la  nostra  personalità  esser  quella  stessa  di  Dio,  e 
perciò  non  può  esser  in  Dio ,  come  tale ,  cioè  come  persona- 
lità nostra. 

In  questo  senso  tutti  i  teologi  convengono,  che  gli  enti  finiti 
sono  in  Dio  come  in  causa  e  in  esemplare ,  ma  non  per  la  loro 
materia,  o  forma  subiettiva  (4)  :  il  reale  dunque,  che  appartiene 
all'esistenza  subiettiva  degli  enti  finiti,  è  fuori  di  Dio. 

475.  Obiezione.  —  A  Dio  dunque  mancherà  qualche  cosa,  se 
gli  manca  la  realità  finita  in  quanto  esiste  subiettivamenle. 

Risposta.  —  L'esistenza  subiettiva  della  realità  finita  è  relativa 
a  questa.  Iddio  è  Tessere  assoluto,  che  esclude  l'esistenza  re- 

(1)  Cf.  S  Tli.  Sum.  I,  III,  vili. 


452 

lativa.  Questa  esclusione  non  è  difetto^  ma  perfezione,  perchè 
la  relatività  dell'esistenza  è  una  limitazione.  Il  mancare  dunque 
in  Dio  questa  è  il  mancargli  una  mancanza  :  e  il  mancare  una 
mancanza  è  avere,  non  è  mancare. 

Si  dirà  che  cos'è  questa  relatività  d'esistenza  ?  in  che  consi- 
ste questa  relazione?  Rispondiamo,  che  i  due  termini  di  questa 
relazione  sono  V essere  iniziale  e  W  reale  finito.  L'eseere  iniziale, 
cioè  l'esistenza,  è  relativo  a  questo  suo  termine  finito  e  non  si 
estende  più  oltre.  Se  l'essere  iniziale  non  esistesse  colla  sua  pre- 
senza al  reale  finito,  questo  non  sarebbe.  Il  reale  finito  unito 
aWessere  iniziale  è  l'ente  finito  :  l'ente  finito  dunque  ha  una  esi- 
stenza relativa  alla  sua  propria  realità  ;  e  questa  esistenza  rela- 
tiva è  ciò  che  lo  costituisce  quello  che  è.  Egli  è  dunqne  un  re- 
lativo, e  niente  di  assoluto,  perchè  è  mediante  la  relazione, 
che  l'essere  ^iniziale*  ha  con  esso  lui  :  e  posto  che  è,  in  esso  si 
scorge  la  detta  relatività  della  sua  natura  reale ,  la  quale  è  lui 
stesso;    giacché  l'essere  iniziale  non  è  punto  lui,  ma  altro. 

hlQ.  La  seconda  parte  della  nostra  tesi  si  è:  «  Neil' Esssere 
assoluto  obiettivo,  come  oggetto  dell'atto  creativo,  ,il  reale  degli 
enti  finiti*  esiste  eminentemente». 

Nell'ordine  logico  del  nostro  concepire  Vatto  creativo  è  poste- 
riore all'atto  deWà  generazione  del  Verbo,  col  quale  il  Padre  og- 
gettivizza  se  stesso  alFermandosi  e  pronunciandosi.  Questo  è  am- 
messo da'  Teologi.  Poiché,  appartenendo  l'atto  creativo  anche  al 
Verbo  ugualmente  come  comunicatogli  dal  Padre  insieme  col- 
l'essenza,  conviene  che  esso  esista  acciocché  crei. 

Questo  stesso  si  prova  col  raziocinio  così.  Il  Padre  crea  gli 
enti  finiti  con  un  atto  della  sua  intelligenza  pratica  e  libera.  I\la 
quest'atto  lo  fa  guardando  in  se  stesso  oggettivato,  che  è  quanto 
dire  nel  Verbo,  perchè  si  oggettiva  affermandosi  e  pronunciandosi: 
lo  fa  guardando  dunque  nell'  Essere  assoluto  oggettivo  ,  e  re- 
stringendo volontariamente  quel  suo  sguardo  dentro  i  confini  , 
che  gli  piace  assegnare  all'ente  che  crea.  Dunque  conviene 
supporre  che  logicamente  preceda  l'Essere  assoluto  oggettivo  in 
cui  si  porta  quello  sguardo,  ossia  che  esista  il  Verbo. 

Ma  con  questo  sguardo  nell'Essere  assoluto  obiettivo  non  pone 
nessuna  limitazione ,  o  distinzione  reale  in  esso,  perché  l'Essere 
assoluto  non  ammette  limitazione,  divisione,  o  distinzione  reale. 


A  33 

La  limitazione  dunque  rimane  nel  termine  di  quello  sguardo,  cioè 
ha  un'esistenza  non  in  sé,  ma  nella  mente  divina.  Il  termine 
di  questo  sguardo  creatore  è  il  Mondo.  Ora  il  Mondo  come  ab- 
biamo veduto  risulta  da  due  ,  o  se  si  vuol  meglio,  da  tre  ele- 
menti :  i.°  dall'essere  iniziale^  che  si  comunica  come  essenziale 
oggetto  alle  intelligenze  create;  2.°  dal  reale ^  che  costituisce 
unito  al  primo  l'esistenza  subiettiva  e  propria  del  Mondo;  5."  dal 
riferimento,  che  fa  la  mente,  del  reale  all'essere  iniziale,  che 
fa  vedere  in  esso  le  essenze  o  idee  specifiche  piene  delle  cose 
col  loro  ordine  ,  e  costituisce  l'esemplare. 

Ora  noi  abbiamo  detto,  che  l'essere  iniziale,  e  in  esso  l'e- 
semplare, esiste  primieramente  nella  intelligenza  creatrice  e  non 
in  sé  slesso ,  e  che  eminentemente  e  conseguentemente  esiste 
nell'Essere  assoluto  obiettivo,  cioè  nel  Verbo  divino. 

Abbiamo  detto ;,  che  l'esistenza  realee  subiettiva  del  Mondo, 
come  propria  di  questo,  esiste  fuori  di  Dio,  e  non  forma  alcuna 
parte  della  natura  divina. 

Ora  rimane  a  vedere ,  se  a  questa  realità  esterna  corrisponda 
nulla  in  Dio  ,  e  diciamo  che  corrisponde  alla  medesima  la  rea- 
lità stessa  dell'  Essere  assoluto  obiettivo ,  ossia  del  Verbo,  nel 
quale  esiste  eminentemente  la  realità  creata  ,  perché  è  in  que- 
sta realità,  che  la  mente  divina  del  Padre  la  vede,  e  atTerman- 
dola  la  crea. 

477.  Dì  qui  si  scorge,  che  noi  poniamo  una  certa  differenza  tra 
la  maniera  nella  quale  esiste  l'esemplare  nel  Verbo  divino,  e  la 
maniera  nella  quale  esiste  in  esso  la  realità  finita.  Poiché  ab- 
biamo detto  ,  che  l'esemplare  esiste  nel  Verbo  non  solo  eminen- 
temente,  ma  anche  consegiientenienle  :  laddove  della  realità  finita 
abbiamo  detto,  che  esiste  solo  eminentcmenle. 

La  ragione  di  questa  diversità  si  è,  che  l'Esemplare,  cioè  l'es- 
sere iniziale  colle  sue  determinazioni,  ha  la  forma  oggettiva  e  però 
può  esistere  in  una  intelligenza:  esiste  dunque  nell'intelligenza 
del  Padre,  che  crea.  Se  dunque  esiste  nell'intelligenza  del  Pa- 
dre che  crea,  quando  il  Padre  dice  sé  stesso,  e  così  genera 
il  Verbo,  è  uopo,  perché  dica  e  affermi  lutto  se  stesso ,  che  dica 
anche  il  suo  allo  d' intelligenza  creatrice  ,  e  lutto  ciò  che  e'  è 
nel  suo  allo,  e  però  anche  l'Esemplare  suo  termine  interiore; 
e  così  conseguentemente  deve  comunicare  al  Verbo  insieme  col- 
RosMiNi.  Teosofìa.  »28 


434 

l'essenza  divina  questo  esemplare  che  era  già  eminentemente  nel 
Verbo,  dove  l'aveva  miralo  col  suo  libero  sguardo. 

All'incontro  il  reale  finito  non  può  esistere  in  una  mente, 
perchè  la  sua  natura  è  essenzialmente  e  unicamente  subiettiva; 
onde  sarebbe  assurdo ,  come  osserva  Aristotele ,  il  pensare  che 
la  slessa  pietra  fosse  nella  mente.  E  per  ciò  il  reale  finito  può 
esistere  bensì  nell'Essere  assoluto  obiettivo  eminentemente,  cioè 
come  il  meno  nel  più,  perchè  l'Essere  assoluto  obiettivo  è  puro 
essere ,  e  l' essere  è  anche  per  se  obiettivo ,  ma  non  può  esi- 
stere conseguentemente  perchè  come  reale  finito  e  subiettivo  non 
si  trova  nella  mente  del  Padre ,  che  solo  lo  vede  nel  Verbo  col 
suo  sguardo  libero,  senza  che  possa  essere  staccato  da  lui  per 
astrazione,  giacché  il  reale  non  soggiace  in  se  stesso  all'astra- 
zione, ma  solamente  l'idea  del  reale,  che  è  nella  mente,  al- 
l'astrazione soggiace. 

La  qual  dottrina  presenta  certamente  delle  apparenti  difficoltà, 
e  noi  dobbiamo  esjwrre  e  dissipare  le  principali. 

li7S.  Obiezione  i." — Voi  avete  detto,  che  nell'ordine  logico 
e'  è  prima  il  Verbo  generato,  poi  l'atto  della  creazione,  pel  quale 
esiste  V  esemplare  nella  mente  divina  ,  e  il  reale  finito  avente  esi- 
stenza propria  fuori  di  Dio,  poiché  l'esemplare  è  comunicato  al 
Verbo  nell'atto  stesso  in  cui  il  Verbo  è  generalo.  Questo  ha  l'a- 
spetto di  contradizione.  Poiché  se  l'esemplare  è  comunicato  dal 
Padre  al  Verbo  nell'atto  in  cui  è  generato,  l'esemplare  si  sup 
pone  anteriore  allo  slesso  Verbo. 

Si  risponde,  che  quest'antinomia,  o  apparente  conlradizione  si 
dissipa ,  quando  si  considera  attenlamenle  la  differenza  che  passa 
tra  V  ordine  logico  e  V ordine  cronologico.  Nelle  operazioni  divine 
non  c'è  alcun  ordine  cronologico ,  percbè  tutte  sono  eterne. 
Nella  slessa  eternità  dunque  ,  e  non  prima  e  poi,  fu  generatoli 
Verbo  e  crealo  il  Mondo ^  e  comunicato  al  Verbo  insieme  coU'es- 
senza  divina  l'esemplare  del  Mondo  in  quest'essenza  intelligente 
racchiuso.  Il  concepirsi  dunque  da  noi  prima  il  Verbo,  e  poi  il 
Mondo  in  esso  contenuto  eminentemente,  e  poi  l'esemplare  di- 
stinto a  lui  comunicato,  non  viene  già  a  dire,  che  l'atto  crea- 
tivo sia  posteriore  di  tempo  alla  generazione  del  Verbo,  né  che 
il  Verbo  dopo  essere  generato  fosse  perfezionato  col  ricevere  l'e- 
semplare distinto  del  Mondo  dalla  mente  del  Padre  ;   poiché  fu 


435 

sempre  generato,  e  sempre  fu  l'atto  creativo ,  e  sempre  fu  l'e- 
semplare comunicalo  al  Verbo.  Ma,  come  dicevamo,  non  indica 
se  non  un  ordine  relativo  alla  mente,  che  concepisce  quest'atto 
unico  del  Padre,  con  cui  dice  se  stesso  —  Verbo  —  e  il  Mondo  nel 
Verbo,  e  pel  Verbo. 

/i79.  Obiezione  2.^  —  Se  il  reale  subiettivo  del  Mondo  è  fuori 
di  Dio,  e  non  è  termine  dell'intelligenza  creatrice,  non  si  può 
intendere  come  sia  creato. 

Risposta.  —  Ciò  che  abbiamo  detto  non  importa  già,  che  il 
reale  subiettivo  del  Mondo  non  sia. termine  dell'intelligenza  crea- 
trice ,  che,  se  non  fosse  termine ,  non  potrebbe  esser  creato: 
ma  solo  importa  ,  che  sia  termine  esterno,  a  cui  corrisponde  per 
termine  interno  l'Essere  assoluto  oggettivo,  ossia  il  Verbo ,  nel 
quale  il  reale  finito  esiste  eminentemente. 

480.  Obiezione  3."  —  S'intende  che  nell'Essere  assoluto  obiettivo, 
cioè  nel  Verbo,  ci  sia  eminentemente  la  realità  finita ,  cioè  come 
nel  più  c'è  il  meno,  ma  l'esistenza  eminente  non  importa  una 
distinzione  e  una  limitazione,  e  questa  è  necessaria,  acciocché 
si  conosca  la  realità  finita.  Il  Padre  dunque  non  conoscerà  la 
realità  finita  distintamente,  ma  solo  in  confuso. 

Risposta.  —  È  vero,  che  l'esistenza  d'una  cosa  in  un'altra  in 
un  modo  eminente  non  trae  seco  la  distinzione  della  cosa  con- 
tenuta dalla  cosa  contenente;  ma  questa  distinzione  si  fa  dalla 
mente  del  Padre  mediante  l'essere  iniziale  e  l'esemplare,  che 
avendo  in  sé  le  distinzioni  tutte  ,  e  le  limitazioni  delle  essenze 
finite ,  vengono  queste  dall'affermazione  creatrice  applicate  alla 
realità  infinita  oggettiva  del  Verbo ,  e  per  mezzo  di  questa  ap- 
plicazione la  mente  vede  la  realità  oggettiva  limitata  entro  i  li- 
miti di  quelle  idee ,  e  così  conosce  la  realità  finita  distinta ,  e 
non  confusa  nel  Verbo. 

^81.  Obiezione  4.''  —  La  realità  finita  così  limitata  veduta  nel 
Verbo  dall'intelligenza  creante  del  Padre  non  è  la  realità  finita 
del  Mondo,  perchè  questa  è  subiettiva  e  propria  del  Mondo,  fuori 
di  Dio ,  e  quella  ha  un'esistenza  oggettiva  ,  né  certo  la  realità 
del  Verbo  può  esser  la  realità  del  Mondo. 

Risposta.  —  Si  deve  considerare,  che  qui  si  tratta  di  cono- 
scere. Ora  per  conoscere  la  realità  non  è  già  necessario  che  il 
conoscente  sia  la  realità  stessa   subiettiva  che  vuol  conoscere. 


436 

ma  basta  che  questa  realità  subiettiva  gli  sia  presente  nella  forma 
obiettiva,  perchè  la  forma  obiettiva  è  l'intelligibilità  della  su- 
biettiva. Ora  tutta  la  realità  subiettiva,  e  propria  del  Mondo  con 
tutte  le  sue  parli ,  distinzioni  e  limitazioni ,  ha  la  sua  forma  o- 
biettiva  nel  Verbo  ,  ed  è  veduta  in  esso  distintamente  dal  Padre 
per  l'applicazione  dell'eseniphire,  chela  determina  e  limila,  di- 
slingue ed  ordina,  e  questo  basta  affinchè  l'intelligenza  divina 
conosca  la  realità  subiettiva  e  propria  del  Mondo,  benché  que- 
sta nella  sua  forma  subiettiva  sia  fuori  di  Dio,  e  però  non  sia 
Dio.  E  qui  si  consideri  attentamente  ,  che  la  forma  obiettiva 
abbraccia  la  subiettiva  in  sé,  perchè  tutto  riceve  la  forma 
obiettiva,  anche  il  subiettivo,  ma  in  quanto  è  solo  subiettivo 
ha  un'esistenza  in  sé,  in  quanto  poi  questo  é  vestito  e  con- 
tenuto dalla  forma  obiettiva  ha  la  sua  esistenza  nel  Verbo , 
ed  é  un  altro  modo  di  essere  che  fa  conoscere  l'altro,  cioè  il 
subiettivo. 

/i82.  Obiezione  5. a  —  Se  c'è  nel  Verbo  l'ente  reale  finito  di- 
stinto dalla  mente  divina^  e  l'ente  reale  finito  esiste  anche  in 
sé  stesso  fuori  di  Dio,  dunque  ci  sono  due  enti  reali  finiti  e  non 
un  solo. 

Risposta,  —  Nego  la  conseguenza,  perché  abbiamo  veduto, 
che  l'essere  è  unico  in  tre  forme,  e  però  il  medesimo  ente  fi- 
nito può  esistere  in  sé  stesso,  cioè  subieltivamente,  e  in  Dio 
obiettivamente,  senza  che  da  questo  nasca  duplicità  di  enti  ,  per- 
ché non  nasce  duplicità  di  essere,  ma  solo  nasce  duplicità  di 
forme  in  cui  esiste  il  medesimo  ente,  l'una  delle  quali  è  l'intelli- 
gibilità dell'ente  e  non  un  altro  ente. 

485.  Obiezione  6."  —  L'avversnrio  può  instare  e  dire,  che  ci 
ha  non  due  forme  dello  stesso  essere,  ma  la  stessa  forma  repli- 
cala, perchè  nel  Verbo  c'è  la  realità  finita,  e  in  sé  c'è  pure  la 
realità  finita  fuori  di  Dio. 

Risposta.  —  ha  realità  finita  quando  è  oggettiva  non  è  più 
nella  sua  forma  reale  subiettiva,  ma  è  nella  forma  obiettiva; 
e  però  non  è  vero  ,  che  ci  sia  la  stessa  forma  replicala  del- 
l'ente,  ma  le  due  forme,  la  subiettiva  in  sé,  e  l'obiettiva  nel 
Verbo  divino. 

kSU.  Obiezione  7.*  —  Altra  istanza:  l'essere  iniziale  che 
appartiene  alla  realità  finita  subiellivamenle   esistente  non   può 


437 

essere  la  stessa  ,cosa*  di  quell'essere  iniziale  che  è  nella  mente 
divina,  e  però  essendoci  due  esseri  iniziali,  l'uno  reale  e  l'altro 
ideale  nella  divina  mente,  ci  sono  due  enti  finiti  corrispondenti. 

Si  nega  che  l'essere  iniziale,  che  informa  gli  enti  finiti  per 
modo  che  di  essi  si  predica  l'esistenza  ,  sia  diverso  da  quello 
che  è  contemplato  dalla  mente  divina:  ma  l'identico  essere  ini- 
ziale è  nella  mente  divino,  nella  monte  umana,  e  negli  enti 
finiti  in  quanto  sono  creati  dall'intelligenza  divina  e  percepiti 
dall'umana.  Né  ciò  involge  alcun  assurdo,  perchè  l'essere  ini- 
ziale ò  immune  da  ogni  spazio  ,  e  da  per  tutto  si  vede  iden- 
tico, benché  i  corpi  a  cui  s'api)lica  sieno  nello  spazio;  ma  egli 
non  è  i  corpi,  come  neppure  è  alcun  ente  finito,  ma  un  ante- 
cedente, e  subietto  dialettico  di  lutti,  come  é  stiito  detto. 

485.  Obiezione  8' —  Non  rimane  tuttavia,  da  quello  che  avete 
detto,  spiegata  sufficientemente  la  cognizione  divina  del  reale 
finito,  poiché  coW esemplare ,  che  produce  in  sé  stessa  l'intelli- 
genza divina,  non  si  può  conoscere  che  il  Mondo  possibile,  ma 
non  il  Mondo  sussistente. 

Risposta.  —  Col  solo  esemplare  non  si  conosce  che  il  Mondo 
possibile,  si  concede.  Ma  conviene  avvertire,  che  questo  esem- 
plare è  trovato  dalla  mente  divina  nel  modo  detto  coH'applicare 
{'essere  iniziale  all'Oggetto  assoluto,  che  contiene  la  realità  in- 
finita. Ora  la  Mente  divina  applicando  l'essere  iniziale  all'Og- 
getto assoluto  ,  non  solo  disegna  in  questo  quella  realità  del 
Mondo  che  vuol  creare,  ma  la  imagina  come  abbiamo  detto, 
e  la  |)ronuneia.  Questa  imaginazione,  pronunciazione  o  aflferma- 
zione,  é  nello  stesso  tempo  e  cognizione  e  creazione  del  Mondo. 
Ma  perciò  appunto  abbiamo  detto,  che  questo  esemplare  è  ap- 
plicato dall'intelligenza  divina  all'essere  assoluto  oggettivo.  Se 
dunque  vogliamo  distinguere  logicamente  tre  gradi  nella  cogni- 
zione divina  del  Mondo,  avremo:  {°  l'essere  iniziale,  che  fa 
conoscere  la  possibilità  in  universale  dell'ente  finito  ;  2."  l'intui- 
zione dell'esemplare  nel  Verbo,  che  fi  vedere  la  realità  possi- 
bile ma  distinta  e  ordinata  del  Mondo;  5"  l'affermazione  di 
questa  realità ,  colla  quale  Dio  conosce  e  fa  sussistere  ossia 
crea  il  Mondo  stesso  reale. 

Ora  il  reale  finito  non  si  conosce  se  non  nell'oggetto  e  per 
\\a  òì  affermazione ,  come  abbiamo  mostrato  altrove  estesamente 


458 

{Ideol.  Prelim.  15;  65  n.,  405,  407,  479,  1254;  Sistem.  fil. 
44  sgg;  Saggio  di  lezioni  fìlos.  45  sgg.  ).  Dunque  Iddio  coU'af- 
fermare  il  Mondo  esemplato  nel  Verbo  lo  conosce  pienamente 
nella  sua  slessa  realità  e  sussistenza. 

486.  Obiezione  9.  —  L'esistenza  propria  del  Mondo  è  un'esi- 
stenza relativa  alla  sua  realità.  Ma  l'oggetto,  essendo  un'essenza 
0  idea,  è  sempre  assoluto.  Dunque  nell'oggetto  non  si  può  cono- 
scere l'esistenza  puramente  relativa. 

Si  risponde,  che  la  forma  oggettiva  dell'essere  appartiene  sem- 
pre all'assoluto.,  ma  in  quella  forma  si  può  contener  tutto,  an- 
che l'esistenza  relativa,  la  quale  rimane  bensì  relativa  in  sé 
stessa,  ma  rimane  assoluto  l'oggetto,  che  la  contiene  e  la  fa 
conoscere. 

487,  Obiezione  10.^  —  Se  l'esemplare,  e  le  idee  che  lo  com- 
pongono, è  limitato  e  distinto ,  come  deve  essere  acciocché  sia 
esemplare  del  Mondo ,  e  se  esso  esiste  nella  mente  divina  e 
conseguentemente  nel  Verbo;  dunque  nella  mente  divina  si  pon- 
gono le  distinzioni  e  le  limitazioni. 

Si  risponde ,  che  le  essenze  o  idee ,  che  si  trovano  nell'esem- 
plare, sono  limitate  e  distinte  tra  loro,  ma  non  in  Dio,  perchè 
la  distinzione  e  limitazione  non  riguarda  Dio  stesso ,  ma  è  una 
distinzione  e  limitazione  delle  idee  ed  essenze  da  Dio  conosciute: 
colui  che  pensa  la  limitazione  di  qualche  ente  non  è  già  egli 
stesso  il  subietto  di  questa  (1),  ma  il  suo  subietto  è  la  cosa  li- 
mitata. Qui  si  dirà  forse ,  che  le  idee,  che  sono  in  Dio ,  sono 
la  stessa  essenza  divina,  onde  questa  stessa  o  conviene  che 
sia  vaneggiata  e  quasi  screziata  come  l'esemplare  ,  o  che  que- 
sto non  ci  può  essere  in  essa  ed  esser  essa.  Ma  si  replica  , 
che  il  subietto  reale  e  il  fondamento  delle  varietà  e  limitazioni 
sono  le  cose  reali  aventi  l'esistenza  subiettiva  fuori  della  di- 
vina natura,  onde  l'essenza  divina  non  è  che  il  termine  di  que- 
sta relazione,  che  costituisce  quelle  che  si  dicono  idee  o  esem- 

(1)  S.  Tommaso  :  Non  est  antem  cantra  simplicitatem  divini  intellectus 
quod  multa  inteUigat,  sed  cantra  simplicitatem  eius  esset,  si  per  plures 
species  eius  iìitellectus  formaretur.  Sum.  \,  xv,  ii.  Ora  noi  vedemmo,  che  il 
divino  intelletto  vede  tutte  le  cose  finite  per  un'unica  specie,  che  è  Vessere 
ideale,  e  questa  stessa  è  da  lui  veduta  in  sé  stesso,  cioè  nel  Verbo,  per  quella 
operazione,  che  abbiamo  chiamata  Y Astrazione  divina. 


^39 

plari.  Ora  il  termine  della  relazione  non  è  reale  ma  solo  un'en- 
tità di  ragione  risultante  dal  modo  di  concepire ,  come  abbiam 
detto  avanti. 

^88.  Obiezione  11."  —  A  questo  modo  sembra  incorrersi  un  altro 
inconveniente.  Poiché  se  le  idee  limitate  in  Dio  provengono  da 
uno  sguardo  che  Iddio  volge  a  se  stesso  così  limitato^  che  con 
esso  invece  di  veder  tutto  l'essere  vede  questo  in  parte,  cioè 
vede  l'ente  finito  che  vuol  creare  e  affermandolo  lo  crea,  e  que- 
st'essere veduto  così  limitato  è  l'esemplare ,  e  insieme  affermalo 
è  il  Mondo,  con  ciò  si  toglie  bensì  la  difficoltà,  che  nasce  dalla 
limitazione  e  moltiplicità  delle  idee,  ma  si  trasporta  poi  la  limita- 
zione nell'atto  dell'intelligenza  divina,  e  però  si  trasporta  in 
Dio  stesso. 

Risposta. — L'alto  dell'affermazione  divina  ha  due  termini: 
l'uno  infinito  e  necessario  con  cui  afferma  se  stesso  e  genera  il 
Verbo,  l'altro  finito  e  libero  con  cui  affermali  Mondo  da  lui 
disegnato  in  se  stesso  e  crea  il  Mondo.  Mediante  il  primo  ter- 
mine ha  la  notizia  attuale  di  tutto  l'essere  nella  sua  assolutezza, 
e  quest'è  infinita  Sapienza.  Che  se  oltre  a  ciò  afferma  il  finito, 
questo  non  toglie  né  limita  la  sua  infinita  sapienza,  ma  la  per- 
feziona, se  così  si  può  dire,  in  quanto  così  conosce  il  conosci- 
bile  in  tutti    i   modi    possibili. 

L'obiezione  può  riguardare  la  Imitazione  indeterminata  ,  e  la 
limitazione  determinata  a  una  misura.  Consideriamo  l'una  e  l'al- 
tra ,  e  così  rispondiamo  alle  due  parti  implicite  nell'obiezione. 

1.°  Quanto  a.\h  limitazione  indeterminatamente  considerata, 
il  finito  non  si  può  conoscere  che  come  finito ,  altramente  non 
si  conoscerebbe  lui,  ma  l'infinito.  Ora  la  necessità  logica,  come 
pure  la  metafisica ,  non  mette  nissun  limitene  all'essere,  né 
all'intelligenza,  sebbene  a  chi  male  la  intenda  possa  parere  un 
limite:  non  mette  nissun  limite,  perchè  quello  che  é  logica- 
mente 0  metafìsicamente  impossibile  è  nulla.  Ora  conoscere  il 
finito  appartiene  anche  questo  alla  Sapienza  ,  che  sarebbe  un 
difetto  l'ignorarlo.  Ma  per  conoscersi  il  finito  è  metafisicamente 
necessario  non  allargare  lo  sguardo  dell'intelligenza  fuori  di  lui, 
il  che  abbiam  detto  —  per  farci  intendere  —  un  contenerlo  o  re- 
stringerlo, ma  veramente  non  è  altro,  che  un  guidarlo  a  trovare  il 
suo  oggetto.    Però   questo    restringere   al   finito  lo  sguardo  della 


440 

mente  per  conoscere  il  finito  non  è  un'  imperfezione  o  una  limi- 
tazione del  conoscente,  ma  una  sua  perfezione.  Ora  che  questo 
modo  di  riguardare  della  mente  divina  non  sia  in  senso  proprio 
un  restringere  l'alto  dell'intelligenza  risulta  dalle  dottrine  da 
noi  in  vari  luoghi  esposte:  a)  il  finito  non  si  può  conoscere 
dalla  mente  se  collo  stesso  atto  non  si  conosce  tutto  l'essere 
iniziale,  il  quale  è  virtualmente  infinito  (,213,  580-400*);  b) 
Vesserò  iniziale  non  si  può  conoscere  dalla  mente  divina,  se  collo 
stesso  atto  non  conosce  tutta  se  stessa,  cioè  l'essere  assoluto  in- 
finito, per  la  legge  dell'astrazione,  che  ha  bisogno  di  formarsi 
sull'oggetto  intero  {Psicol.  1519  sgg.).  Non  convien  dunque  di- 
stinguere in  Dio  più  atti  d'intelligenza;  ma  un  solo  il  quale, 
abbracciando  l'infinito  ed  il  finito  ad  un  tempo,  è  di  conseguente 
egli  stesso  compiuto  ed  infinito  e  però  perfettissimo.  L'obiezione 
dunque  circa  il  restringimento  dello  sguardo  divino  nasce  dal- 
l'erronea supposizione  che  questo  sguardo  ristretto  sia  egli  da  sé 
un  atto  della  divina  intelligenza,  mentre  egli  non  è  che  una 
parte,  per  così  dire,  dell'unico  atto  infinito,  che  si  separa  da 
noi  per  astrazione.  Se  dunque  Iddio  con  quest'atto  infinito  d'in- 
telligenza non  conoscesse  anche  tutto  il  finito,  sarebbe  manche- 
vole la  sua  sapienza,  e  nò  pur  conoscerebbe,  come  osserva  S. 
Tommaso ,  perfettamente  la  propria  essenza  ,  perchè  non  cono- 
scerebbe come  ella  sia  atta  ad  esser  imitata  o  partecipata  in  un 
modo  finito.  Ipse  cnim  essenliam  suamperfecte  cognoscit  :  linde  co - 
gnoscit  eam  secundnm  omnem  modum  quo  cognoscihiiis  est.  Potesl 
miteni  cognosci  non  solimi  secundnm  quod  in  so  est,  sed  etiani 
secundum  quod  est  parli cipahilis,  secundum  aliquem  modum  si- 
militudinis   a  creaturis  (1). 

2.°  Quanto  poi  alla  limitazione  determinata  a  una  mi- 
sura che  è  nel  Mondo  e  nell'Esemplare  divino;  che  una  misura 
ci  dovesse  avere,  quesl'è  di  necessità  logica  e  metafisica, 
come  altrove  abbiamo  veduto  (  Teod.  480  sgg.  )  ,  e  però  si 
risponde,  come  s'è  risposto  all'obiezione  tratta  dalla  limitazione 
indeterminata. 

Che  poi  Dio  abbia  voluto  affermare  e  creare  piuttosto  questa 
misura  d'ente  limitato,  che  un'altra,  questo  non  pone  alcuna  li- 

(1)  Sum.  I,  XV,  n. 


milazione  in  Dio,  perchè  chi  opera  liheramente  e  pone  all'opera 
sua  quo'  limiti  che  sono  prescritti  dalla  sapienza  e  dalla  bontà 
essenziale ,  non  limita  già  sé  stesso  :  che  la  sua  potenza  rimane 
quella  di  prima:  la  limitazione  imposta  nel  modo  detto  dalla 
libera  volontà  e  non  da  alcuna  necessità  straniera  non  è 
un  limite  dell'operante,  ma  puramente  un  limite  imposto  alla 
cosa  operata.  Oltre  di  che  l'atto,  come  dicevamo,  con  cui  Iddio 
afferma  e  crea  Venie  finito,  non  è  un  atto  da  sé;  ma  é  quello 
stesso  atto  infinito  con  cui  afferma  se  slesso  e  genera  il  Verbo, 
come  insegnano  tutti  i  teologi  (1) ,  e  però  atto  infinito. 

^189.  Obiezione  1^.^ — Sembra  che  da  tutta  la  teoria  esposta  ne 
dovesse  venire  che  la  scienza  divina  sussegua  alla  generazione  del 
Verbo,  ed  esista  solo  per  questo  ed  in  questo;  il  che  s'oppone 
alla  dottrina  comune,  che  la  scienza  divina  appartiene  alla  di- 
vina essenza  ,  e  il  Padre  la  comunica  al  Verbo  insieme  colla  di- 
vina natura. 

Risposta. — Questo  può  sembrare  adii  non  distingue  l'ordine 
logico  dal  cronologico,  e  attribuisce  a  questo  —  che  in  Dio  non 
esiste  punto  —  ciò  che  si  dice  unicamente  di  quello.  E  dunque 
a  considerarsi  che  la  divina  essenza  non  esiste  in  sé  separala 
dalle  divine  persone  :  ma  la  divina  essenza  sussiste  solo  nelle 
tre  divine  persone  identica  in  ciascuna.  Non  convien  dunque  par- 
lare della  divina  essenza  separata  dalle  persone,  nel  qual  caso 
si  parlerebbe  d'un  aslralto-e  d'un  astrailo  indefinibile  appunto 
perché  mancante  di  personalità.  Ma  conviene  aver  presente  la 
Triade  perfetta,  e  parlare  dell'essenza  che  in  essa  sussiste  (5). 
Le  tre  divine  persone  si  devono  dunque  ammettere  come  pre- 
cedenti al  concetto  della  divina  essenza.  Ciò  posto,  l'atto  dell'in- 
telligenza appartiene  all'essenza  primieramente  in  quanto  questa 


(1)  Sic  igitur  oportet  quod  quidquid  in  scientia  Palris  continetur,  totum 
hoc  per  wmm  ipsius  verbum  exprimatur  et  hoc  modo,  quo  in  Scientia  con- 
tinetur, ut  sit  veruni  Verbum  suo  principio  correspondens  per  scientiam; 
et  Verbum  ipsius  expriniat  ipsum  Patrem  principalitcr,  et  consequenter 
omnia  alia,  quae  cognoscit  Pater  cognoscendo  se  ipsum,  et  sic  Fiiius,  ex 
hoc  ipso  quod  est  Verbum  perfecte  cxprimens  Patrem,  exprimit  omnem 
creaturam,  et  hic  ordo  ostenditur  in  verbis  Anselmi  qui  dicit,  (Monol,  32) 
quod  dicendo  se  dicit  omnem  creaturam.  De  Verit.  IV,  iv. 

(2)  Vedi  S.  Tommaso,  Jn  111,  d.  i,  q.  II,  a.  3,  q.  1. 


4^2 

è  nel  Padre  come  nel  principio  fontale  delle  altre  due  persone. 
Ora  l'alto  d'intelligenza  che  emette  il  Padre  è  unico,  ma  ha 
tre  termini:  1."  sé  stesso;  2.°  l'essere  iniziale  e  virtuale,  che 
contiene  tutto  l'ente  finito  possibile  ancora  indeterminato; 
3.°   il  Mondo. 

L'atto  d'intelligenza  del  Padre,  con  cui  conosce  sé  stesso, 
é  quello  con  cui  afferma  sé  stesso  ,  e  così  genera  il  Verbo. 
Ora  il  Verbo  risponde,  come  dice  S.  Tommaso,  a  quello 
che  in  noi  è  «  la  notizia  attuale  «  (1).  Qualora  dunque  per 
via  d'un' astrazione  si  volesse  cercare  che  cosa  si  concepisca 
nel  Padre  anteriormente  alla  generazione  del  Verbo ,  non  ci 
rimarrebbe  che  una  «  notizia  potenziale  » ,  non  espressa  e  at- 
tuale; ma  quest'astrazione  é  assurda  e  impossibile ,  che  prima 
della  generazione  del  Verbo  né  c'è  il  Padre,  né  l'essenza  di- 
vina che  non  si  distingue  realmente  da  ciascuna  delle  persone. 
Per  conoscer  dunque  ciò  che  appartiene  all'essenza,  e  ciò 
che  alle  persone  ,  è  necessario  procedere  non  per  una  sirail 
via  di  astrazione,  ma  per  quest'altro  principio:  «vedere  ciò 
che  il  Padre  comunica  di  sé  alle  altre  due  persone;  e  tutto  ciò 
che  comunica  alle  altre  due  persone  appartiene  all'essenza  «, 
che  é  comune  a  tutt'e  tre.  Ora  la  cognizione  infinita  é  comune 
alle  tre  persone  e  però  appartiene  all'essenza.  Ma  dalla  cogni- 
zione 0  scienza  si  deve  distinguere  l' intellezione  che  è  quella  che 
produce  la  cognizione  nell'intelligente.  Ora  l'intellezione  del 
Padre,  com'  abbiam  detto,  è  un  atto  unico,  ma  ha  tre  termini. 
In  quanto  essa  ha  per  termine  il  Verbo,  é  quel!' affermazione 
con  cui  il  Padre  affermandosi  oggettivizza  sé  stesso ,  e  pone  se 
stesso  come  l'Essere  essenzialmente  inteso.  Ma  quest'Essere  es- 
senzialmente inteso  essendo  in  sé  stesso  nella  mente  del  Padre, 
fa  si  che  il  Padre  intelligente  ne  abbia  la  coscienza,  ne  abbia  la 
cognizione  e  la  persuasione.  Ora  questa  cognizione  e  persuasione 
pienissima  del  Padre,  conseguente  alla  presenza  del  Verbo  nella 
mente,  è  scienza  infinita  di  Dio  comune  a  tutt'e  tre  le  persone. 
Ma  è  loro  comune  però  in  diverso  modo.  Perchè  é  nel  Padre  come 
generatore  del  Figlio ,  essendo  il  Figlio ,  eternamente  generato, 

(1)  Notitia,  qune  ponitur  in  deftnitione  Verbi,  est  intelligenda  notitia 
expressa  ab  alio,  quae  est  in  nobis  notitia  actualis.  De  Verit.  IV,  ii,  ad  2.™ 


445 

eternamente  nella  mente  del  Pcidre,  notizia  sussistente  ed  at- 
tuale: ènei  Figlio  come  l'Essere  inteso  per  sua  essenza  e  però 
come  notizia  sussistente,  vivente,  personale:  è  nello  Spirilo  Santo 
come  l'Essere  essenzialmente  amato,  in  questa  notizia  sussistente 
e  vivente,  cioè  nell'essere  essenzialmente  inteso,  nel  Verbo. 
Sicché,  essendo  il  Verbo  l'Essere  assoluto  oggettivo  per  sé  in- 
teso, se  si  sottrae  il  Verbo  perisce  la  divinità,  e  non  è  più  con- 
cepibile un'essenza  divina  sapientissima;  ma  lasciando  il  Verbo 
e  considerando  la  Trinità  com'ella  è,  c'è  l'infinita  sapienza  e 
scienza  in  ciascuna  delle  tre  divine  persone. 

Venendo  ora  al  secondo  termine  dell'  intellezione  divina ,  cioè 
r  essere  iniziale  o  la  cognizione  virtuale  dell'  ente  finito  :  questo 
termine,  non  sussistendo  in  sé,  ma  solo  nella  mente,  che  l'astrae 
dal  Verbo  col  suo  sguardo  astrattivo ,  è  evidentemente  scienza 
che  appartiene  all'essenza  divina ,  e  che  viene  comunicata  dal 
Padre  all'altre  due  persone,  cioè  al  Figlio  affermando  sé  stesso  con 
ciò  che  ha,  e  perciò  anche  con  questo  termine  dell'essere  iniziale, 
e  allo  Spirito  Santo  amando  sé  stesso  nel  Verbo  con  quell'atto 
pel  quale  l'Essere  assoluto  diventa  essenzialmente  amato.  E  di 
più  la  stessa  intellezione  che  astrae  dal  Verbo  quesl'  esemplare 
viene  comunicata  ,  perchè  con  essa  non  si  genera  il  Verbo,  onde 
si  dee  dire  colla    lingua  dei  Teologi    essenziale ,   non  nozionale. 

Quanto  al  terzo  termine  della  scienza  divina,  che  è  il  Mondo, 
e  che  in  quanto  è  in  Dio  contiene  Vesemplare  affermato  e  cosi 
creato,  convien  dire  lo  stesso  :  cioè  che  non  solo  viene  comu- 
nicata all'altre  persone  la  scienza  del  Mondo,  ma  ancora  l'in- 
tellezione con  cui  è  prodotto  per  affermazione  il  Mondo,  il  reale 
ad  un  tempo  e  l'esemplare:  e  ciò  per  la  stessa  ragione.  E  però 
la  creazione  del  Mondo  è  comune  alla  Trinità  tutta.  Né  questo 
impedisce,  che  l'intellezione  affermativa  e  astrattiva  che  ha  que' 
tre  termini  sia  un  atto  solo,  e  che  con  una  sola  affermazione 
il  Padre  abbia  generato  il  Verbo  e  prodotto  il  Mondo  ,  e  che 
tuttavia  abbia  comunicato  quest'atto  all'altre  due  persone  non  in 
quanto  è  generativo  del  Verbo,  ma  in  quanto  è  astrattivo  del- 
l'essere iniziale  e  creativo  del  Mondo  (1). 

(1)  Cf.  Caro).  Witasse.  De  Ss.  Trinit.  Qiiaest.  V,  Art.  IV,  dove  dice  olie, 
tolto  Enrico  da  Gand,  e  il  Durando,  Caeteri  vero  cxistimant  essentiales  et 


444 

Articolo  XI. 

Corollario  undecimo.  —  L'essere  ideale,  lume  della  niente  umana, 
non  e  il  Verbo  divino,  né  la  divina  essenza ,  ma  una  apparte- 
nenza di  questa. 

Ii90.  Abbiamo  veduto  che^Vessere  iniziale  non  è  il  Verbo  divino, 
ma  appartiene  alla   divina  essenza,  o  alla  divina  mente   come 


notionales  non  distintili  ut  aetus  a  se  piane  diversos  ;  sed  nolionales  actus 
niliil  aliud  esse  quam  ipsosmet  essentialrs,  quatenus  connotant  relationes 
sibi  proprias.  Ituque  generationem  esse  ipsammet  divinam  intellectionem 
quatenus  adiunctam  habet  paternitatem,  adeo  ut  intellectio  notionalis  ab 
essentiali  se  tota  non  differat,  sed  tantum  ut  includens  ab  inclusa  :  quia 
scilicet  notionalis  est  ipsamet  essentialis,  et  praeterea  aliud  quidpiam  coni- 
plectitur,  nempe  relationeni.  Onde  in  appresso  difende  la  tosi:  Intellectio  et 
volitio  notionales  ab  essentialibus  non  discrepant,  ut  actus  ab  actibus,  sed 
dumtaxat  nt  includens  et  inclusum.  E  lo  prova  dagli  assurdi  che  ne  vor- 
rebbero se  si  sostenesse,  che  Yintendere  e  Yaffermare  {dicere)  fossero  due 
atti  distinti  del  divino  intelletto.  Si  fa  poi  l'obiezione  che,  se  Yintendere  e  il 
dire  fossero  un  solo  atto,  anche  il  Verbo  e  lo  Spirito  Santo,  che  hanno 
l'atto  dell'intendere,  direbbero  e  genererebbero.  E  risponde;  Si  idem  est 
ex  omni  parte,  concedo:  si  idem  est  tantum  in  ratione  actus,  nego.  Porro 
dicere  et  intelUgere,  sunt  quidem  unus  et  idem  intellectus  actus  :  sed  dicere 
relationcm  habel  adiunctam,  nempe paternitatis ,  quae  impedit  quominus 
dicere  Filio  conveniat  aiit  Spirititi  Sancto.  La  maniera  da  noi  usata  di  dire, 
se  non  isbaglio,  parmi  renda  più  chiara  la  risposta.  La  relazione  anterior- 
mente alla  generazione  non  si  può  concepire  che  come  potenziale  :  essa  è 
insieme  colla  generazione  ultimata.  Dicendo  dunque,  che  nel  Padre  c'è  un 
unico  atto  d'intelligenza  ma  con  tre  termini,  il  primo  de'quali ,  fon- 
damento degli  altri,  è  se  stesso;  è  chiaro  che  in  quanto  un  tal  atto  del 
Padre  ha  per  termine  sé  stesso  affermato,  è  nozionale  cioè  generativo  del 
Verbo  e  costitutivo  delle  relazioni  di  paternità  e  di  figliazione.  Ora  in  quanto 
quell'atto  è  generativo  del  Verbo  non  può  essere  comunicato  ,  perchè  il 
Verbo  è  il  termine  di  quell'atto ,  e  principio  e  termine  si  oppongono.  Né 
pure  può  essere  comunicato  allo  Spirito  Santo,  perchè  questo  esce  dal  Padre 
pel  Verbo,  e  però  è  termine  della  spirazione  dell'uno  e  dell'altro,  e  ciò  non 
può  essere  per  la  stessa  ragione.  Che  poi  intendere  e  affermare  sia  un 
atto  solo  in  Dio  è  indubitato,  ma  un  atto  che  ha  più  termini,  rispetto  ad  uno 
de'quali  cioè  all'essere  iniziale  manca  l'affermazione,  e  non  e'  è  che  inten- 
dere :  la  differenza  è  dalla  parte  del  termine  e  non  dell'atto,  che  unico  pro- 
duce più  termini  connessi  insieme  nel  Verbo. 


suo  termine.  Esistendo  soltanto  nella  divina  mente  e  non  sus- 
sistendo in  sé  stesso  personalmente,  egli  non  è  punto  il  Verbo, 
benché  il  Padre  riguardando  nel  Verbo  cioè  in  sé  stesso  affer- 
mato lo  conosca,  cognizione  che  comunica  all'altre  persone. 

Ma  l'intelligenza  divina  è  diversa  dall'umana.  Nell'uomo  c'è 
prima  la  persona,  che  è  l'essenza  umana  individua  e  sussistente, 
la  quale  ha  l'intelligenza  essenziale,  cioè  l' intuito  dell'essere,  e 
poi  ha  r  intelligenza  come  potenza  colla  quale  applica  l'essere  e 
conosce  l'altre  cose.  Sono  dunque  tre  cose  realmente  distinte 
nell'uomo,  d  °  il  subietto  ;  2."  l'oggetto  o  l'essere  iniziale;  3."  la 
potenza  di  applicare  l'oggetto.  L'oggetto  cioè  l'essere  iniziale  è 
totalmente  diverso  dal  subielto  uomo,  benché  questo  riceva  da 
lui  la  sua  forma.  La  potenza  di  conoscere  è  del  pari  distinta 
dal  soggetto  e  dall'oggetto.  In  Dio  all'incontro  non  ci  sono  po- 
tenze, ma  tutto  è  atto  essenziale.  L'oggetto  poi  non  è  distinto 
dall'essenza  divina  ,  che  sussiste  tanto  subiettivamente  quanto 
obiettivamente.  Quando  dunque  la  mente  del  Padre  conosce, 
per  quella  che  abbiamo  chiamala  Vaslrazione  divina,  Vessere  ini- 
ziale ,  ella  non  vede  già  qualche  cosa  che  abbia  una  natura 
ditferente  dalla  propria,  ma  vede  la  propria  natura  sussistente 
oggettivamente  nel  suo  Verbo;  vede  qualche  cosa  del  Verbo, 
che  ella  distingue  non  realmente,  ma  secondo  la  ragione ,  dal 
Verbo,  Questo  distinguere,  puramente  secondo  ragione,  appar- 
tiene a  quella  maniera  di  conoscere  che  noi  chiamiamo  affer- 
mare,  e  che  nell'uomo  si  distingue  ò-àW  intaire.  Il  distinguere, 
secondo  ragione,  come  pure  il  semplice  affermare  distinto  dall' in- 
tuire, non  produce  un  oggetto  novo,  ma  dà  una  nova  cognizione 
dell'oggetto  su  cui  cade  la  distinzione  di  ragione  e  l'afferma- 
zione {Lezz.  Filos.  d9-22).  La  distinzione  di  ragione  dunque 
che  la  mente  divina  fa  dell'essere  iniziale  (ÌaW assoluto  oggetto 
non  produce  in  Dio  un  oggetto  in  sé  stesso  novo,  ma  produce 
una  nova  cognizione  (  nova  per  esprimere  sempre  l'ordine  lo- 
gico ,  essendo  tutto  in  Dio  eterno  e  niente  novo  secondo  il 
tempo)  propria  della  divina  essenza,  e  un  oggetto  novo  di  ra- 
gione, non  novo  in  sé  stesso.  Quest'oggetto  di  ragione  è  dalla 
cognizione,  e  dall'atto  del  distinguere  sopradescrilto,  in  Dio  in- 
separabile, di  maniera  che  atto  di  ragione  e  oggetto  di  ragione 
hanno   una  continuità  e  costituiscono  una  sola   entità,   essendo 


hk6 

questo  il  proprio  finimento  di  quello.  Ma  il  dello  allo  del  di- 
stin^uiere  secondo  ragione  nel  Verbo  divino  l' inizio  dell'essere 
è  proprio  di  Dio,  perchè  ogni  allo  è  subiettivo  e  non  può  esser 
comune  alle  creature.  Ma  l'oggetto  di  ragione,  che  è  il  fini- 
mento di  quell'atto  .  appunto  nella  sua  condizione  di  oggetto  e 
non  in  quella  di  atto,  può  essere  comunicalo  alle  creature, 
non  in  questo  senso  che  le  creature  possano  anch'esse  essere 
quell'oggetto,  il  che  è  proprio  di  Dio  solo,  ma  nel  senso  che 
può  essere  da  esse  intuito,  come  cosa  da  sé  diversa.  E  questo 
è  possibile,  perchè  la  natura  dell'oggello  è  quella  d'essere  ma- 
nifesto, d'essere  luce  intellettiva  (1).  Onde  l'ente  subiettivo,  an- 
che finito,  può  essere  da  esso  illuminalo,  sebbene  non  possa 
essere  con  esso  confuso,  perchè  la  luce  che  illumina  non  si  con- 
fonde mai  coir  illuminato  ,  per  l'opposizione  intrinseca  tra  la 
forma  subiettiva  e  l'obiettiva. 

Essendo  dunque  l'essere  iniziale  in  Dio  nello  stesso  tempo  un 
alto  che  è  subiello  —  perchè  l'atto  di  Dio  è  Dio  stesso,  —  e  un 
obietto,  e  non  potendo  essere  comunicato  nella  sua  condizione 
di  alto  siihielto,  perchè  i  subielti  sono  incomunicabili,  rimane 
che  egli  sia  comunicato  solamente  come  obietto,  e  però  Vessere 
iniziale  esiste  nella  mente  umana  in  un  altro  modo  da  quello 
che  esiste  nella  mente  divina,  dalla  quale  è  indistinto. 

Se  l'atto  della  stessa  distinzione  di  ragione,  che  abbiamo  de- 
scritto ,  e  che  è  identico  col  subietto  che  lo  fa ,  potesse  essere 
accomunato  alla  creatura,  la  creatura  sarebbe  ella  stessa  Dio  , 
il  che  e  assurdo. 

Se  {'obietto  assoluto  fosse  comunicato  alla  creatura  ,  la  crea- 
tura vedrebbe  il  Verbo  divino:  il  che  non  può  essere,  secondo 
natura,  ma  solo  per  grazia  in  un  ordine  soprannaturale. 

Essendo  dunque  comunicato  ossia  mostrato  al  subietto  umano 

(1)  Quanto  erroneamente  sia  inteso  S.  Tommaso  da  quelli,  che  gli  attri- 
buiscono, che  tutte  intere  le  nostre  cognizioni  vengano  da'sensi,  potrà  ve- 
dersi tra  gli  altri  molti  da  quel  luogo  ove  dice:  «  Le  similitudini  delle  cose» 
(le  idee)  «  come  nel  Verbo  sono  alle  cose  causa  d'esistere,  cosi  sono  alle 
«  cose  causa  di  conoscere,  in  quanto  cioè  vengono  impresse  alle  menti  in- 
«  tellettive,  acciocché  cosi  possano  conoscere  le  cose,  e  perciò  come  si  di- 
ce cono  vita  in  quanto  sono  principi  di  esistere,  cosi  si  dicono  LUCE  in 
«  quanto  sono  principi  di  conoscere  ».  De  Verit.  IV,  viii  ad  4.""' 


447 

un  obietto  di  ragione  qual  è  Vessere  iniziale,  senza  l'atto  divino 
che  Io  produce  e  quindi  senza  il  subietto  divino  con  cui  quel- 
l'atto s'identifica  ,  ne  procede  che  l'uomo  vedendo  quell'essere 
iniziale  non  vede  Dio  ,  sebbene  vede  in  esso  un' apparlenenza 
della  divina  essenza  (F.  Giob.  e  il  Pant.  Lezz.  G3  sgg.,  e  D«/^- 
colta  in  Ap.). 

Articolo  XII. 

Duodecimo  corollario.  —  Differenza  tra  i  due  elementi  del 
Mondo,  l'essere  iniziale  e  il  reale. 

hdl .  Noi  abbiamo  veduto  che  Vesemplare  e  il  reale  del  Mondo 
dovettero  esser  fatti  con  un  medesimo  atto  creatore  di  Dio.  Poiché 
non  cadendo  nessuna  distinzione  reale  nel  Verbo  o  nell'essenza 
divina,  le  idee  determinate  e  distinte,  di  cui  l'esemplare  si  com- 
pone ,  non  risultano  se  non  da  una  relazione  del  reale  creato 
all'essere  iniziale,  e  il  fondamento  di  questa  relazione  è  nella 
stessa  creatura  ,  cioè  nel  reale  finito.  Questo  dunque  deve  esi- 
stere nell'affermazione  creativa,  acciocché  ci  sia  quella  relazione. 
Né  giova  il  dire,  che  c'era  il  reale  finito  nella  sua  possibilità, 
poiché  0  si  parla  d'una  possibililà  remota  e  implicita  e  in  tal 
caso  ella  é  lo  stesso  Verbo  divino  senza  distinzioni  ,  o  d'una 
possibililà  prossima,  e  questa  o  è  universale  e  indistinta,  e  que- 
sl'è  l'essere  iniziale,  o  é  possibilità  distinta,  qual  é  nell'esem- 
plare, e  quest'appunto  é  quella  che  nasce  dall'affermazione  crea- 
tiva, cioè  dal  reale  finito  per  essa  esistente,  e  di  conseguente 
suppone  quest'affermazione. 

Quantunque  però  il  reale  affermato  sia  il  fondamento  della 
relazione  coU'essere  iniziale  che  distingue  in  questo  le  idee  delle 
cose,  e  però  questo  reale  affermato  logicamente  preceda,  non 
consegue  però  che  preceda  all'esemplare  il  reale  finito  nella  sua 
esistenza  subiettiva,  la  quale  è  nel  tempo,  ma  solo  ['affermazione 
creativa  che  è  nell'eternità. 

In  secondo  luogo,  precede  sempre  aW affermazione  creativa  V  ì- 
slinto  amoroso  che  la  conduce,  e  l'essere  iniziale  che  col  suo 
lume  lo  guida. 

in  terzo  luogo,  quando  diciamo  che  precede  logicamente  l'af- 


fermazione  creativa  all'esemplare,  intendiamo  neWordine  logico 
delle  entità  ,  e  non  neWordine  logico  della  cognizione.  Poiché 
neirordine  logico  della  cognizione  avviene  il  contrario,  non  po- 
tendosi conoscere  i  reali  distinti  senza  che  ci  siano  prima  le 
idee  dislifite.  Come  appunto  s'osserva  nella  percezione  nostra, 
nella  cpiale  si  distinguono  appuntino  gli  stessi  due  oidini:  \  .°  ror- 
dine  delle  entità  ossia  di  formazione,  nelle  quali  il  sentilo  |)re- 
cede  Videa  specifica;  2.°  lordine  di  cognizione,  nel  quale  precede 
Videa  specijica  al  sentilo,  perchè  questo  non  è  oggetto  di  cogni- 
zione fino  che  non  e  è  quella.  Ma  in  Dio,  invece  del  sentito 
esterno,  c'è  lo  slesso  atto  che  lo  pone,  e  che  si  compie  col- 
r  idea  specifica,  dalla  quale  comincia  l'ordine  della  cognizione 
distinta. 

492.  1  quali  ordini  logici  non  tolgono  jìunto,  che  l'atto  crea- 
tivo, sì  per  rispetto  al  reale  che  all'esemplare,  sia  uno  ed  eterno, 
ne  si  possa  riconoscere  in  esso  né  più  atti,  né  successione  al- 
cuna di  tempo,  o  durata  successiva. 

Ma  e'  è  questa  differenza  tra  l' esemplare  e  il  reale ,  che 
l'esemplare  non  costituisce  l'esistenza  suhietliva  e  propria  del 
Mondo,  quando  il  reale  all'incontro  la  costituisce:  e  però  1'  e- 
semplare  rimane  in  Dio  eternamente  e  appartiene  alla  divina 
natura:  su  di  che  nascono  due  questioni; 

i.*  Se  rimanendo  in  Dio  1' eseinplare  ,  questo  non  venga 
comunicalo  punto  ai  reali  finiti;  e  se  viene  comunicato,  come 
ciò  sia. 

2."  Se  il  reale  finito  è  ciò  che  costituisce  1'  esistenza  su- 
hietliva e  propria  del  Mondo,  fuori  di  Dio,  non  ce  in  Dio 
nulla  che  a  questo  corrisponda? 

Alla  prima  rispondiamo  ,  che  risulta  dalle  cose  dette  ,  che 
iddio  ad  alcuni  reali  fuiili  comunica  la  vista  dell'essere  iniziale 
e  così  li  rende  perfetti  enti  ed  intelligenti.  Essi  poi  ad  un  tal 
essere,  come  ad  oggetto  universale  ed  indeterminato,  riferiscono 
i  sensihili ,  e  così  si  formano  da  se  slessi  il  loro  mondo  delle 
idee.  Il  qual  mondo  ideale  non  è  l'esemplare  divino,  come  ah- 
biamo  detto  altrove  [Rinov.  502  sgg.  pag.  542),  ma  qualche  cosa 
d'analogo  ad  esso,  e  proporzionato  all'umano  sentimento  che  è 
il  fondamento  della  relazione. 

Alla  seconda  domanda  poi  rispondiamo,  che  il  reale  finito  in 


449 

quanto  costituisce  l'esistenza  subiettiva  e  propria  del  mondo  non 
è ,  e  non  può  essere  in  Dio,  perchè  è  un  modo  d'  essere  rela- 
tivo al  mondo  ,  come  vedemmo  ;  ma  che  in  Dio  a  questo  cor- 
risponde l'esemplare  unito  indivisibilmente  all'affermazione  di- 
vina deil'ente  finito  che  nell'esemplare  si  manifesta.  In  questo 
esemplare  aflcrmato  c'è  il  reale  finito,  ma  in  forma  obiettiva, 
analogamente  a  (luello  che  accade  nella  nostra  percezione  in- 
tellettiva ,  per  la  quale  vediamo  il  reale  nell'essere  obiettivo 
(Logic.  307;  Inlrod.  IV.  Sall'Ess.  del  Conosc).  Lo  stesso  reale 
finito  in  forma  subiettiva  è  quello  che  appartiene  al  mondo 
fuori  di  Dio,  la  cui  esistenza  è  relativa  ad  esso  reale.  Questo 
ente  finito  nell'affermazione  divina  dell'esemplare  è  il  termine 
interno  dell'affermazione  slessa,  che  dall'affermazione  non  si  di- 
versifica, per  la  ragione  detta  che  l'affermazione  in  Dio  non  si 
fa  per  via  di  [ìrogresso,  per  modo  che  per  arrivare  al  suo  ter- 
mine deva  fare  dc'passi,  ma  il  suo  termine  è  trovato  immedia- 
tamente. Questo  termine  dunque  è  la  stessa  affermazione  divina 
eternamente  ultimata  nell'esemplare  veduto  nel  Verbo ,  dove  il 
Padre  con  uno  stesso  allo  lo  distingue  e  lo  dice  (1).  Nel  Verbo 
dunque  c'è  l'ente  finito  in  modo  eminente,  nelle  operazioni  poi 
dell'intelligenza  divina  (astrazione  dell'essere  iniziale,  imagi- 
nazione e  affermazione)  c'è  la  distinzione  dell'ente  finito  dall'in- 
finito e  ad  un  temi)o  la  forza  per  la  quale  sussiste, 

495.  Obiezione  1.="  —  Se  in  Dio  non  c'è  che  il  reale  finito 
nella  forma  obicttiva  in  un  modo  eminente  nel  Verbo  divino,  e 
questo  è  poi  distinto  per  un  att<»  d'intelligenza  e  con  quest'atto 
efficaCiP  è  nello  stesso  tempo  fatto  sussistere  nella  sua  forma 
subiettiva  e  propria  fuori  di  Dio,  dunque  la  cognizione  e  l'a- 
zione di  Dio  non  perviene  a  conoscere  il  mondo  nella  forma 
subiettiva,  e  il  mondo  nella  sua  forma  subiettiva  non  è  il  ter- 
mine dell'azione  divina,  e  per  conseguente  è  indipendente  da 
Dio. 

Risposta.  —  Conseguenze  erronee,  che  non  procedono  dalle 
premesse.  La  forma  subiettiva  e  propria  del  mondo,  e  la  rela- 
tività  dell'esistenza   di  questa ,  è  compresa  nell'obiettiva  ;  e   in 

(1)  Laonde  S.  Aml^rogio  dice,  quod  voluntas  ejus'fundamentiim  sit  uni' 
versorum,  et  propter  eum  adhuc  mundns  hic  manoat.  Hexnem.  I,  vi. 

Rosmini.  Teosofia.  29  . 


450 

quanto  è  compresa  nell'obiettiva  ,  ella  si  dice  obielliva,  come 
appunto  accade  nella  percezione  intellettiva  dell'  uomo ,  nella 
quale  il  reale  e  il  subiettivo  è  compreso  nell'  essere  obiettivo  e 
in  tanto  si  dice  obiettivo  (Loijk.  507;  Lezioni  58  sgg.).  Di  qui 
avviene:  1°  cbe  il  mondo  subiettivo  possa  essere  conosciuto  per 
l'oggettività  di  cui  è  vestilo,  nella  qual  forma  si  trova  in  Dio; 
2°  che  da  un  subielto  potente  a  ciò,  quale  è  Dio,  conoscendolo 
come  obietto,  possa  esser  prodotto.  Quindi  l'uomo  stesso  pro- 
duce nella  realità  subiettiva,  a  cui  si  riduce  l'estrasoggettiva , 
quelle  opere  cbe  egli  oggettivamente  ha  presenti  alTintelligenza. 

494.  Obiezione  2.^  —  L'uomo  produce  nella  realità  subiettiva 
quelle  modificazioni  e  fitrmc ,  che  egli  oggettivamente  ha  pre- 
senti all'intelligenza,  perchè  oltre  l'intelligenza  ha  una  forza 
subiettiva  colla  quale  opera  sulla  realità  subiettiva  e  eslrasog- 
gettiva  che  gli  è  data.  Ma ,  secondo  Voi,  la  potenza  divina  non 
opera  sulla  realità  subiettiva  o  cstrasubietliva  del  mondo,  ma 
soltanto  produce  la  realità  obicttiva  in  sé  stessa,  e  quindi  non 
è  spiegato  come  esista  il  mondo  subiettivo  e  come  sia  continua- 
mente dipendente  dall'azione  divina. 

A  questa  obiezione  non  possiamo  rispondere  senza  qualche 
prenozione,  che   terremo  anch'essa    dalle  cose  dette. 

Conviene  dunque  ben  intendere,  onde  nasca  la  diversità  del- 
l'operare di  Dio  e  degli  enti  finiti:  e  quindi  spiegare  perchè  gli 
enti  finiti  operando  abbisognino  d'  avere  una  materia  preesi- 
stente in  cui  operino,  e  non  possano  produrre  che  nove  forme 
in  enti  esistenti  su  cui  operano;  laddove  Iddio  non  ha  bisogno 
di  materia  o  d'  altro  che  preesista  alla  sua  immediata  ^opera- 
zione, e  produce  gli  enti  stessi. 

Questo  accade  perchè  la  natura  dell'operazione  e  quella  del- 
l'effetto è  simile  alla  natura  della  causa  operante.  Qual  è  dun- 
que la  natura  di  Dio?  quale  la  natura  dell'ente  finito? 

Iddio  è  puro  essere  ,  l' essere  stesso  assoluto  :  ecco  la  sua 
natura. 

L'ente  finito,  come  abbiamo  dimostrato  di  sopra  non  è  l'  es- 
sere ,  benché  l'essere  gli  sia  necessario,  che  altramente  nulla 
sarebbe:  egli  ne  partecipa,  l'essere  gli  è  presente.  Se  l'ente  fi- 
nito non  è  l'essere,  ma  solo  dipende  continuamente  dall'essere, 
il  che  si  dice  anche  partecipar  l'essere,  che  cos'è  dunque?  Noi 


abbiamo  distinto  l'essere  dalle  sue  forme,  e  abbiamo  detto  che 
il  reale  dell'universo  è  una  forma,  ossia  un  termine  dell'essere, 
la  forma  della  realità.  Questa  è  la  forma  subiettiva,  e  l'universo 
in  sé  non  è  che  questa  forma  subiettiva.  L'essere  le  sta  ag- 
giunto acciocché  sussista  ,  ma  non  è  dessa  né  si  confonde  con 
essa,  essendo  essa  individua  e  l'essere  universale  e  uguale  per 
tutti  gli  individui  finiti.  Quindi  quando  si  prende  l' essere  come 
subietto  di  tutte  le  cose  mondiali,  esso  è  un  subietto  puramente 
dialettico;  laddove  quando  si  prende  l'individuo  reale  come  su- 
bietto e  di  lui  si  predica  l'essere  ,  si  parla  d'un  subietto  reale 
[Logic.  55^-550  ,  ^OG).  Gli  enti  mondiali  sono  dunque  subietti 
reali  ,  e  come  subie'lti  reali  operano  ,  e  non  come  essere  ,  il 
quale  non  é  dessi ,   ma  solo  il  loro  comune  subietto  dialettico. 

Conosciute  le  due  nature  de'  due  subietti  operanti ,  cioè  del 
subietto  infinito  che  è  di  esser  essere,  e  del  subielto  finito  che 
è  di  non  esser  essere ,  ma  pura  forma  reale  finita  dell'essere, 
ne  vengono  le  seguenti  conseguenze  ,  intorno  al  loro  diverso 
modo  di  operare,  ed  alla  diversa  natura  de'loro  efletti. 

^95.  1.°  Ogni  alto  dell'essere  divino  é  essere:  l'intelligenza,  e 
la  volontà  non  sono  in  Dio  potenze  distinte  dall'  essere  ,  ma 
sono  r  essere  stesso  operante.  Per  conseguenza  se  questa  ope- 
razione divina,  che  è  essa  stessa  essere  attuale,  produce  qual- 
che cosa,  deve  produrre  essere,  acciocché  la  natura  dell'effetto 
sia  conforme  alla  natura  della  sua  causa  immediata  e  piena. 

Dato  dunque,  che  Tessere  stesso,  l'essere  che  é  puro  essere 
e  non  può  esser  altro  che  essere  in  tutte  le  sue  attività  e  che 
essendo  essere  assoluto  è  ente  compiutissimo ,  intenda  e  voglia 
qualche  cosa  ,  egli  non  può  intendere  e  volere  altro  che 
ente.  Il  primo  suo  atto  (distinguiamo  gli  atti  soltanto  secondo 
la  ragione  dell'effetto  ,  ma  come  abbiam  detto  in  Dio  non  c'è 
che  un  atto  solo,  che  è  lui  stesso)  dunque  si  ritorcerà  in  sé 
stesso:  intenderà,  vorrà,  affermerà  se  stesso:  e  quest'è  la  ge- 
nerazione del  Verbo,  ponendo  sé  slesso  come  oggetto  della  pro- 
pria affermazione  e  intellezione  compiuta.  Il  termine  di  quest'atto 
del  puro  ed  assoluto  essere  è  dunque  puro  ed  assoluto  essere;  dal- 
l'essere procede  essere:  né  può  proceder  altro.  Si  consideri  bene 
che  si  tratta  qui  non  già  di  essere  in  astratto  ,  ma  di  essere  asso- 
luto ,  però  necessariamente  intellettivo  e  volitivo  ,  essendo  chiaro 


452 

che  l'essere  non  sarebbe  assoluto,  se  gli  mancasse  intelligenza  e 
volontà  che  sono  pure  gradi  di  essere.  11  secondo  alto  di  quell'  es- 
sere assoluto  è  di  vedere  in  se  stesso  cioè  nel  Verbo  l'ente  finito  , 
volerlo  e  alTcrmario.  È  chiaro  che  l'effetto  di  quest'atto  deve  essere 
l'ente  finito  ,  perchè  l'ente ,  essere  assoluto  ,  non  può  aver  per 
termine  che  l'ente.  Voler  dunque  e  affermar  1'  ente  finito  è  pro- 
durlo ,  perchè  questo  volere  e  questo  affermare  è  alto  dell'  essere 
ed  ente  essenziale  ed  assoluto  ,  il  cui  termine  d'  operazione  altro 
non  può  essere  che  essere  ed  ente.  Da  una  parte  dunque  sarebbe 
assurdo  negare  che  l' essere  essenziale  ed  assoluto  non  potesse  in- 
tendere e  volere  l'ente  finito  ,  perchè  in  tal  caso  1'  essere  non  sa- 
rebbe più  essenziale  ed  assoluto,  contro  la  definizione,  ma  sarebbe 
manchevole  d'una  parte  di  essere,  e  all'essenza  nulla  può  mancare 
di  ciò  che  contiene,  senza  annullarsi;  dall'altra  se  si  pone  che  l'es- 
sere stesso  intenda  e  voglia,  essendo  intendere  e  volere  atti  pro- 
duttivi di  essere,  deve  produrre  un  termine  che  sia  ente. 

Rimane  a  cercare  perchè  questo  termine  dell'  essere  assoluto  , 
deva  avere  una  esistenza  subiettiva  e  propria  fuori  di  Dio. 

È  provalo  che  l'essere  assoluto  intelligente  e  volente  può  inten- 
dere e  volere  l'essere  assoluto,  senza  di  che  l'essere  assoluto  non 
sarebbe  tale  come  si  suppone.  E  provato  del  pari  ,  che  il  termine 
della  volontà  di  quell'essere,  non  può  essere  altro  cheente^  perchè 
quella  volizione  è  ella  slessa  1'  essere  per  essenza,  e  rimane  tale 
anche  giunta  al  suo  termine.  Da  ciò  consegue  che  una  tale  voli- 
zione—  diversa  dall'umana —  deve  essere  produttiva,  e  non  può 
essere  sterile,  o  dare  nel  falso,  o  nel  solo  possibile  :  perchè  il  suo 
stesso  termine  non  può  essere  altro  che  enlQ.  Ritenuto  bene 
questo,  come  cosa  provata,  ecco  la  serie  dell'altre  proposizioni. 

Ogni  ente  —  che  non  sia  meramente  possibile  e  non  ancora 
in  sé  attuato  —  deve  essere  un  subietto  o  ad  un  subietto  rife- 
rirsi, come  accade  del  reale  estrasoggcttivo. 

Se  dunque  l'Essere  essenziale  ed  assoluto  intende ,  vuole ,  e 
produce  l'ente  finito,  anche  questo  deve  essere  un  subietto  ,  o 
ciò  che  ad  esso  subietto  si  riferisce. 

Ma  il  subielto  divino ,  1'  Essere  essenziale  ed  assoluto,  è  su- 
bietto essenzialmente  infinito,  il  quale  può  bensì  avere  per  suo 
oggetto  l'ente  finito,  nel  modo  che  abbiam  detto,  ma  in  nessuna 
maniera   può   essere  subielto  finito  ,  perchè  ogni   subielto  con- 


455 

viene  che  sia  infinito  n  firiilo,  non  polendoci  essere   nell'essere 
conlradizione  di  sorte  [Psicol.   1581  sgg.). 

Vesscre  finito  dunque,  termine  dell'  intelligente  e  volente  Essere 
assoluto,  deve  essere  un  subietto  diverso  dal  subielto  divino; 
benché  sia  oggetto  (lelTatlo  divino,  e  per  questo  atto  sussista. 

Ma  l'essere  un  subietlo  diverso  dal  subictlo  divino  equivale 
a  dire  che  è  fuori  di  Dio.  L'ente  subiettivo  dunque  del  mondo, 
benché  prodotto  da  Dio  ,  dicesi  giustamente  fuori  di  Dio  ,  ed 
egualmente  l'onte  estrasubictlivo  che  a  questo  ente  subiettivo 
finito  si  riferisce. 

496.  2°  Veniamo  all'operare  di  quest'ente  subiettivo  finito  e  agli 
effetti  che  esso  può  produrre.  Quest'ente  come  subietto  non  è  l'es- 
sere, ma  è  soltanto  una  forma  reale  finita  sostenuta  da  un  altro, 
cioè  dall'essere  che  non  è  lui.  Esso  dunque  non  opera  come 
essere,  ma  unicamente  come  realità  subiettiva.  Se  l'effetto  dun- 
que non  può  eccedere  la  natura  della  causa,  gli  effetti  che  può 
produrre  un  tale  agente  non  possono  essere  enti.  Questa  è  la 
prima  conseguenza ,  che  viene  evidentemente  dal  principio  da 
noi  posto.  L'ente  finito  dunque  come  subietto  agente  non  può 
creare  cosa  alcuna  di  novo. 

Che  cosa  dunque  potrà  fare.?  Rimangono  due  generi  di  ef- 
fetti da  esaminarsi,  l'uno  quello  di  produrre  la  forma  reale  senza 
l'essere  ,  l'altro  di  modificare  la  forma  reale  degli  enti  finiti 
esistenti. 

Ma  il  primo  di  questi  efi"etti  è  impossibile  ,  perchè  la  forma 
reale  non  può  esistere  senza  l'essere  che  la  fa  esistere:  sarebbe 
una  forma  non  esistente,  cioè  sarebbe  nulla.  Solo  dunque  chi 
può  produrre  l'ente  finito  è  in  caso  di  produrre  anche  la  rea- 
lità finita  che  lo  costituisce. 

Non  resta  dunque  altro  potere  al  subietto  reale  finito  se  non 
di  modificare  la  realità  degli  enti  finiti  esistenti,  secondo  la  pro- 
pria virtù  dell'agente  e  secondo  la  natura  e  le  leggi  a  cui  questa 
realità  stessa  è  per  la  volontà  creatrice  subordinata. 

Dunque: 

i."  Il  subietto  finito  operante,  non  come  essere  ma  come 
reale,  non  può  far  esistere  da  sé  la  materia  che  sia  termine  della 
sua  operazione,  ma  può  solamente  esercitare  la  sua  attività  so- 
pra una  materia  che  già  preesisla. 


I 


2."  Non  può  produrre  che  modificazioni  in  questa  materia 
limitata  e  condizionala  alla  sua  propria  finita  virtù  ed  alla  su- 
scettività della  materia  su  cui  opera. 

Così  lo  spirito  finito  cogli  alti  della  sua  intelligenza,  della  sua 
volontà,  e  delle  altre  sue  interiori  potenze  modifica  sé  stesso,  e 
colla  sua  potenza  esterna  modifica  gli  altri  enti  finiti  che  lo 
circondano  :  così  gli  altri  enti ,  secondo  le  reciproche  forze  di 
cui  sono  dotati,  agiscono  e  reagiscono  e  reciprocamente  si  mo- 
dificano. 

497.  Premesse  queste  nozioni,  risolvo  l'obiezione  così: 

L'uomo  e  gli  enti  finiti  hanno  una  forza  subiettiva  colla  quale 
operano  sulla  realità  subiettiva  od  eslrasubieltiva  che  loro  è 
data;  perchè  il  subietto  agente  qui  non  è  l'essere  ma  la  forma 
reale  e  limitala  dell'essere.  La  potenza  divina  è  anch'essa  una 
forza  subiettiva,  ma  questa  forza  subiettiva  è  l'essere  stesso  as- 
soluto, e  però  l'effetto  di  questa  forza  è  l'ente  stesso  finito. 
Quest'ente  finito  è  Yobietto  di  questa  operazione  dell'Essere  as- 
soluto, ma  quest'obietto  prodotto  ha  un'esistenza  subiettiva  in 
sé,  esistenza  relativa  alla  realità  che  lo  costituisce  come  subietto. 
Da  questo  procede  che  Iddio  coH'atlo  creativo  non  opera  sulla 
realità  subiellivamente  considerata,  quasi  questa  preesistessc  alla 
sua  operazione,  come  accade  nelle  operazioni  dell'uomo;  ma 
procede  che  la  produce,  e  che  mentre  prima  non  era,  di  poi  è. 
Dato  poi  che  sia,  in  virtù  di  quest'alto  creativo  ,  ella  è  a  sé 
stessa,  cioè  ha  un'esistenza  relativa  a  sé  slessa  e  però  diversa 
dall'esistenza  subiettiva  di  Dio,  per  la  ragione  detta.  Ora  questo 
non  vuol  già  dire  che  l'esistenza  subiettiva  della  creatura  non 
esista  per  Iddio  e  non  dipenda  da  Dio  :  prova  anzi  che  ella  è 
il  termine  dell'atto  creativo  continuo  che  di  continuo  la  fa  sus- 
sistere. Nell'ente  finito  come  oggetto  dell'atto  creativo  si  con- 
tiene adunque  Vesistenza  subiettiva  dello  stesso  ente  finito,  ma 
si  contiene  come  oggetto  :  e  però  quando  Iddio  fa  sussistere 
l'ente  finito  come  suo  oggetto,  il  fa  sussistere  anche  in  sé  slesso 
come  subietlo  :  solamente  che  questo  subiello,  che  fa  sussistere, 
non  è  il  subietlo  divino,  ma  un  altro  la  cui  esistenza  è  relativa 
a  sé  stesso.  L'esistenza  subiettiva  dunque  del  mondo  dipende  ed 
è  fondata  nell'esistenza  obiettiva  in  Dio,  e  per  questa  sola  ella  è. 

Il  che   a  pieno   s' intenderà  quando  si  abbia  presente  la  dif- 


485 

ferenza  dialettica  —  e  rispetto  all'ente  finito  anche  reale  —  tra 
l'essere  e  le  sue  forme.  L'essere  è  unico  nelle  sue  forme.  Nell'ente 
finito  l'essere  pure  è  unico  nella  forma  obiettiva,  e  nella  forma 
subielliva  in  sé  slesso.  Ma  l'essere,  in  quest'ultima  forma,  non  è 
ciò  che  costituisce  il  suhietto  reale  dell'ente  finito:  ma  il  su- 
bicllo  reale  dell'ente  finito  è  la  stessa  forma  reale  e  l'essere 
non  fa  che  darle  esistenza.  Quest'è  dunque  la  difftrenza  tra  Dio 
e  l'ente  finito  in  sé  considerato.  Quando  si  parla  di  Dio  come 
ente  subiettivo,  si  parla  d'un  ente  che  si  definisce:  l'essere. 
Quando  si  parla  dell'ente  finito  come  subietto  ,  si  parla  d'un 
ente  che  non  si  può  definire:  l'essere;  ma  conviene  definirlo: 
({  forma  finita  dell'essere  «^  di  che  gli  viene  il  nome  datogli  dagli 
antichi  filosofi  di  a  non  ente  ■».  Non  si  prende  dunque  la  parola 
ente  nello  stesso  significato  quando  ella  si  applica  a  Dio  ,  e 
quando  s'applica  all'ente  finito. 

Dal  non  considerarsi  questa  diversitcà  di  significato  ,  nasce 
tutta  la  difficoltà.  È  dunque  da  dire  che  l'ente  finito  reale  esiste 
in  sé  subiettivamente  in  conseguenza  dell'esser  fatto  da  Dio  og- 
getto della  propria  intelligenza  pratica  ,  e  che  in  quest'oggetto 
assoluto  esso  ha  la  sua  esistenza  relativa. 

498.  Obiezione  3.*  —  Quando  la  cosa  sia  così,  voi  identificale  il 
Mondo  con  Dio,  perchè  fate  un  solo  e  medesimo  ente  del  finito 
come  oggetto  dell'atto  creativo,  e  del  finito  come  subiello  in  sé 
esistente. 

Risposta.  —  Niente  di  tutto  questo,  dome  ho  stabilito  l'unità 
dell'essere  nelle  Ire  forme^  così  ho  distinte  le  forme.  E  come  l'u- 
nità dell'essere  è  massima,  così  è  pure  massima  la  diversità  delle 
forme.  La  diversità  di  forma  costituisce  dunque  la  massima  di- 
versità possibile  che  si  possa  assegnare  tra  tulle  le  varietà  e  di- 
versità assegnabili. 

Ciò  posto  ,  ho  detto  che  Tessere  oggettivo  del  Mondo  è  quello 
che  dà  al  Mondo  la  sua  forma  soggettiva.  Ma  ho  detto  che  l'essere 
non  è  il  mondo,  ma  la  causa  prossima  e  immediata  del  mondo. 
Il  Mondo  dunque  in  sé  considerato  non  è  che  la  forma  subiettiva 
finita  dell'essere,  e  non  l'essere.  Se  questa  forma  subiettiva  finita 
dell'essere  si  chiama  un  ente,  questa  denominazione  gli  si  dà,  non 
perchè  ella  stessa  sia  l'essere  ma  perdio  ha  l'essere ,  è  sostenuta 
dall'essere  :  gli  si  dà  dunque  la  denominazione  di  ente  per  la  re- 


4S6 

lazione  intima  e  indispensabile  ch'ella  ha  coH'essere.  All'incontro 
il  mondo  obiettivo  in  Dio  e  Dio  stesso,  come  abbiamo  già  mo- 
strato, e  Iddio  —  e  così  pure,  per  una  distinzione  di  ragione,  il 
mondo  obiettivo  —  si  chiama  ente  non  per  una  relazione  coU'cs- 
sere,  ma  perchè  è  essere  egli  stesso.  Onde  la  parola  ente,  applicata 
al  mondo  obiettivo  e  all'esistenza  subiettiva  di  questo  mondo,  ha 
tutt'altro  significato,  valendo  nel  primo  caso  ente  assolutamente  e 
causa  assoluta,  e  nel  secondo  non-ente  ossia  ente  relativo  all'es- 
sere che  gli  assiste  e  di  continuo  lo  produce.  Vi  ha  dunque  un'in- 
finita distanza  tra  il  Mondo  reale  e  subiettivo,  e  il  mondo  obiet- 
tivo in  Dio,  ed  un'assoluta  dipendenza  di  quello  da  questo  (1). 


CAPITOLO  VI. 

Della  terza  proprietà,  che  l'essere  comunica  a'reali  finiti, 
V  intelligibilità  d'affermazione. 

499.  Di  questa  terza  proprietà,  che  l'essere  comunica  al  reale 
finito  costituendolo  ente,  noi  abbiamo  già  parlato  così  ampiamente 
in  questo  libro  e  in  quelli  che  abbiamo  precedentemente  pubblicati, 
che  appena  ci  rimane  a  dir  più  nulla  di  novo  Ci  restringeremo 
dunque  quasi  solo  a  ricapitolare  il  già  detto. 

L'intelligibiMtà  è  una  proprietà  del  solo  essere  e  a  lui  essen- 
ziale: da  per  tutto  dove  c'è  l'essere,  c'è  questa  luce,  da  per  tutto 
dove  l'essere  si  toglie  via,  rimane  buio. 

Perciò  l'essere  sussistente,  Iddio,  sussiste  come  per  sé  inteso 


(1)  De'due  modi  di  essere  clie  hanno  gli  enti  finiti,  in  Dio  (obiettivo)  ed 
in  sé  stessi  (subiettivo)  vedi  S.  Tomaso  ,  De  Veritate  ,  dove  tra  l'altre 
cose  dice:  Cum  ergo  quaeritur  utrnm  res  veriiis  sint  in  se  ipsis  (esi- 
stenza subiettiva)  quam  in  Verbo  (esistenza  obiettiva^  distinguendum  est, 
quia  !y  «  verius  »  polest  designare  vel  veritatem  rei,  vel  veritatem  praedica- 
tionis.  Si  designet  veritatem  rei  (la  verità  dell'ente)  sic  procul  dubio  maior 
est  veritas  rerum  in  Verbo,  quam  in  se  ipsis  (si  dicono  più  veramente  ente). 
Si  autem  designetur  veritas  praedicationis  (in  cui  si  prende  per  snbietto  il 
reale  esistente  in  sé),  sic  est  e  converso.  Verius  enim  praedicatur  homo  de 
re  prout  est  in  propria  natura,  quam  de  ea  secundum  quod  est  in  Verbo. 
Q.  IV,  VI.  Cf.  a.  vili. 


457 

assolutamente:  ma  dobbiamo  considerare  questa  luce  negli  enti 
relativi. 

Essi  non  sono  questa  luce,  perchè  non  sono  l'essere,  ma  hanno 
questa  luce,  perchè  hanno  l'essere,  e  la  hanno  a  quel  modo  slesso 
che  hanno  Tessere. 

L'essere  è  obiettivo  e  subiettivo:  in  questi  due  modi  s'unisce 
al  reale  finito  per  enlificarlo.  Non  parlo  della  terza  forma  del- 
l'essere, perchè  ella  non  costituisce  l'ente  finito,  ma  solo  lo  per- 
feziona. 

Essendo  dunque  l'essere  per  sé  intelligibile,  e  avendo  le  due 
delle  forme  l'obiettiva  e  la  subiettiva,  in  due  modi  deve  essere 
conoscibile.  Questa  è  la  ragione  ontologica  de' due  modi  di  cono- 
scere che  nell'uomo  si  manifestano,  il  conoscere  l'essenza  e  il 
conoscere  la  sussistenza,  il  conoscere  per  idea  e  il  conoscere  per 
affermazione  {Sistema  kì  sgg.;  Lezioni  fil.  51  sgg.). 

Ma  non  in  tutt'e  due  le  forme  l'essere  si  comunica  a  tulli 
gli  enti  finiti.  Nella  forma  obietliva  si  comunica  a  que'reali  che 
hanno  natura  di  principio  e  che  diventano  con  tale  comunica- 
zione enti  intelligenti.  Con  questa  maniera  di  comunicazione 
l'essere  non  mescola  e  confonde  sé  slesso  co' delti  principi,  ma 
sta  loro  presente  e  manifesto,  onde  ne  rimangono  illuminali,  e 
ad  un  tempo  creali. 

Ma  l'essere  ,  che  a  questo  modo  si  comunica  al  principio 
umano,  manifesta  a  questo  di  sé  la  sola  forma  obiettiva,  senza 
conlener  nulla  manifestamente  di  subiellivo  ,  ma  lutto  virtual- 
mente, onde  apparendo  esso  vólo  d'ogni  contenuto  reale  e  su- 
biellivo che  sia  manifesto,  acquista  il  nome  d'idea. 

L'ente  intellettivo,  così  costituito,  considerato  anteriormente 
ad  ogni  suo  allo  secondo  d'intelligenza,  e  prescindendo  dal  sen- 
timento attualo  da  un  termine  corporeo  proprio  dell'uomo,  per- 
chè l'uomo  non  è  puramente  intellettivo  ma  anche  animale,  non 
ha  altro  sentimento  che  quello  che  nasce  dall'intuizione  dell'es- 
sere e  che  è  di  conseguente  intellellivo  anch'esso,  perchè  intuire  è 
senlire  [Introd.  VII,  i,  in  fin.  Heol.  5S3  sgg.).  Quindi  i  due  modi 
in  cui  noi  abbiamo  dello  potersi  considerare  esistente  l'oggetto, 
in  sé,  e  in  relazione  delia  mente  come  cognizione  di  questa.  In 
sé  l'oggello  è  indivisibile;  come  cognizione  (itila  mente,  può  es- 
ser da  questa  diviso  per  via  d'astrazione  o   d'altre   operazioni. 


458 

Se  dunque  l'ente  puramente  intellettivo  non  ha  altro  sentimento 
che  quello  dell'essere,  e  se  nel  sentimento  si  riduce  la  forma 
subiettiva  dell'  essere  ;  l' ente  dunque  puramente  intellettivo 
esiste  non  solo  per  l'essere,  ma  ancora  nell'essere  cioè  nell'og- 
getto. L'esistenza  subiettiva  dunque  del  principio  intellettivo 
dimora  nell'essere  oggettivo  sentito. 

Quest'intima  unione  del  jìrincipio  intellettivo  coll'essere  og- 
gettivo, dalla  quale  sorge  la  sua  esistenza  subiettiva,  fu  quella, 
io  credo,  che  ingannò  gli  antichi  che  insegnarono,  l'anima  esser 
conosciuta  per  sé  stessa  ,  e  ingannò  sopra  tutto  Aristotele  che 
dichiarò:  «  ogni  forma  separata  dalla  materia  è  intelligibile  e 
intelligente  per  sèi).  All'incontro  la  forma  degli  enti  finiti,  se 
è  presa  in  un  senso  obiettivo  è  intelligibile,  ma  non  perciò 
intelligente;  se  è  presa  in  senso  subiettivo,  è  intelligente,  ma 
non  intelligibile  per  sé  ,  ma  per  l'oggetto  nel  quale  prende  la 
sua  propria  esistenza:  due  significati  che  Aristotele,  e  non  egli 
solo,  confonde  in  uno. 

Il  vero  si  è  ,  che  un  principio  intelligente  non  può  esistere 
senza  aver  l'essere  come  oggetto,  e  avendolo  la  sua  subiettiva 
esistenza  è  essenzialmente  in  quest'oggetto  come  nel  suo  ne- 
cessario contenente,  bencbé  con  quest'oggetto  non  si  confonda. 
Ma  tutto  ciò  che  è  nell'oggetto  é  intelligibile:  dunque  anche 
l'intelligente  é  intelligibile.  Si  può  dir  anche  intelligibile  per 
sua  natura,  ma  non  per  sé,  poiché  egli  stesso  é  un  reale  e  un 
subietto ,  e  la  ragione  della  sua  intelligibilità  non  è  l'essere 
reale  e  subietto,  ma  é  riposta  in  un  diverso  da  sé,  cioè  nel 
l'essere  obiettivo  con  cui  sintesizza  ,  e  in  cui  è  come  nell'og- 
getto veduto. 

Ma  se  l'intelligente  è  inlelligibile ,  non  ne  viene  perciò,  che 
medesimamente  sia  inteso  a  sé  stesso  :  ma  conviene  che  egli 
faccia  un  altro  atto,  oltre  quello  dell'esistere,  acciocché  attual- 
mente s'intenda. 

500.  Ripigliamo  dunque,  e  diciamo:  1'  intelligente  finito  è  un 
reale,  che  non  esiste  se  non  unito  all'essere  oggettivo  e  in  virtù 
di  questa  unione:  la  sua  natura  è  sentimento  dell'essere  og- 
getto. Ma  a  ogni  sentimento  è  essenziale  un  principio  e  un  ter- 
mine. Il  subietto  reale  di  quell'ente  è  il  principio.  Sentimento 
dell'essere  equivale  a  dire  essere  sentito.  Ma  l'essere   è    intel- 


489 

ligibile:  dunque  anche  l'essere  sentilo:  dunque  per  la  stessa 
ragione  anche  questo  sentimento  nel  suo  principio. 

Ma  coU'atto  con  cui  esiste  non  sente  che  l'oggetto.  Convien 
dunque  gli  sia  data  una  potenza  d'emettere  un  secondo  atto  con 
cui  intenda  se  stesso  già  intelligibile.  Questa  potenza  di  rifles- 
sione gli  è  data  da  chi  lo  crea  come  principio  reale.  Con  essa 
applica  l'essere  intuito  al  proprio  principio  intuente  —  già  intel- 
ligihile,  perchè  unito  all'essere  intuito,  —  e  per  l' identità  del 
principio  dell'atto  secondo  e  dell'atto  primo  dice  :  «  io  sono  » 
(Psicol.  61  sgg  ).  Così  egli  dà  a  sé  slesso  l'esistenza  subiettiva 
consapevole. 

Per  tal  modo  Vessere  comunica  V intelligibilità  sua  propria  ai 
reali  finiti  intellettivi  nell'atto  di  costituirli.  Il  Creatore  con  uno 
stesso  atto^  e  simultaneo  effetto  1.°  crea  il  principio  finito  reale, 
e  2.°  gli  manifesta  l'essere  indeterminato;  l'uno  di  questi  due 
effetti  non  può  esser  né  posteriore  né  anteriore  all'altro,  non  po- 
tendosi concepir  Tuno  senza  l'altro.  Per  la  stessa  ragione  dun- 
que, per  la  quale  l'ente  finito  si  crea  intellettivo,  si  crea  anche 
intelligibile,  ma  non  ancora  inteso  a  sé  stesso;  c'è  in  lui  l'intel- 
ligibiliià,  ma  manca  lo  sguardo  intellettuale  che  finisca  in  questa 
intelligibilità,  poicbc  niuna  cosa  é  intesa  ad  un  dato  intelligente 
se  non  a  queste  due  condizioni:  ì.°  che  ella  sia  intelligibile, 
2.0  che  l'intelligente  faccia  l'atto  d'intenderla,  con  cui  ammette 
in  sé  quella  cosa  come  intelligibile. 

501.  Passiamo  a  vedere  come  si  comunichi  dall'essere  l'intelligi- 
bilità all'altre  cose  non  intellettive;  l'intelligibilità,  dico,  rispetto 
all'uomo  intelligente,  stanteché  rispetto  all' intelligenza  divina 
già  vedemmo  che  Iddio  le  crea  intendendole  e  pronunciandole. 

Siene  principi  o  termini  questi  enti  ,  ad  essi  non  é  comuni- 
cato l'essere  oggettivo.  Perciò  essi  né  sono  intelligibili  per  sé 
come  è  il  solo  essere,  né  sono  intelligibili  per  la  propria  costi- 
tuzione :  come  dunque  vien  loro  comunicato  l'essere  e  l'intelli- 
gibilità relativa  all'uomo? 

Non  altramente  che  per  via  di  effetti  che  essi  producono  nel 
sentimento  dell'uomo  ,  il  quale  come  abbiam  veduto  è  intelli- 
gibile nel  modo  dello  {Teod.  155).  Questi  effetti  tengono  luogo 
del  reale  che  li  produsse  quasi  altrettanti  segni  vicari.  L'uomo 
in  questi   supplisce  l'essere  che  conosce  per  natura  ,  vedendoli 


460 

in  sé  stesso,  e  sé  stesso  nell'essere.  L'essere  conosciuto  l'attri- 
buisce loro  nella  forma  subiettiva,  appunto  perché  ne  sente  Va- 
zione,  la  quale  non  può  appartenere  che  a  questa  forma. 

Riguardo  dunque  a  sé  stesso  come  reale  finito  ,  l'uomo  per 
intendersi  non  ha  da  far  altro  che  da  riguardarsi,  perchè  egli 
è  intolligibile  già  per  la  sua  costituzione;  riguardo  agli  altri 
reali  non  intelligenti  i."  convien  che  gli  si  rendano  intelligibili 
acquistando  un'esistenza  nel  sentimento  umano  mediante  le 
azioni  che  in  esso  esercitano  e  le  modificazioni  che  vi  produ- 
cono; 2.°  e  che  di  poi  coll'atto  dell'intelligenza,  resi  intelligi- 
bili, gli  apprenda. 


c:-.^irSì9(0>''èN~:> 


SEZIONE  V. 


Di  ciò  che  l'essere  ot>iettÌTO  coinnnica 
ai  reali  fìuiti. 


CAPITOLO   I. 

Della  forma   finita,  che  l'essere  comuìiica  al  reale  nella  mente, 
prima  che  esista,  d'una  esistenza  sua  propria.  Venie  finito. 


Articolo  i. 

Il  reale  finito  non  può  ricevere 
l'esistenza ,  se  non  è  pienamente  determinato. 

\ 

502.  Nell'ente  finito  le  quattro  proprietà  annoverate^  cioè  1"  l'e- 
sistenza, '2°  la  durata,  3°  l'atto,  4°  e  l'intelligibilità  come  su- 
biello  esistente,  sono  da  riferirsi  all'essere  che  è  1'  uno  dei  due 
elementi  che  lo  costituisce;  e  non  al  reale  che  è  1'  altro  ele- 
mento ,  che  di  quelle  proprietà  informato  esiste.  L'essere  dun- 
que comunica  al  reale  finito  queste  sue  quattro  proprietà  col 
trovarsi  a  lui  presente  come  ultima  sua  determinazione. 

Ma  il  reale  finito  non  potrebbe  ricever  l'essere,  ultima  deter- 
minazione, se  non  avesse  le  determinazioni  precedenti  supposte 
da  quest'ultima.  Conviene  dunque  che  quelle  determinazioni 
precedenti,  che  lo  rendono  abile  a  ricever  poi  1'  esistenza  pro- 
pria ,  gli  sieno  date  quando  ancora  non  esiste  in  sé  ,  ma  sol- 
tanto nella  mente. 

Con  queste  determinazioni  egli  esiste  nella  mente  divina  che 
lo  produce,  e  nella  mente  umana.  Nella  mente  umana  il  reale 
così  determinalo  esiste  come  specie  piena  imperfetta,  nella  mente 


462 

divina  come  specie  piena  perfetta  ed  esemplare.  La  mente  divina 
colla  sua  propria  virtù  cava  questa  specie  piena  perfetta  riguar- 
dando nel  proprio  Verbo  reale  obiettivo  ed  assoluto  :  la  mente 
umana  cava  la  sua  specie  piena  imperfetta  riguardando  sé  stessa, 
sentimento  Imito,  reale  finito,  e  le  proprie  modificazioni  nell'essere 
indetermiiialo  scevro  di  sussistenza.  La  mente  divina  collo  stesso 
alto,  con  che  vede  nel  Verbo  la  specie  piena  esemplare,  lo  pro- 
nuncia, e,  pronunciandolo,  il  mondo  esiste:  l'ultima  e  comune 
determinazione  dell'esistenza  è  data  agli  enti  mondiali  coli' alto 
stesso  con  cui  gli  sono  dale  le  determinazioni  precedenti. 

La  mente  divina  è  l'Essere  da  sé  sussistente  nella  sua  forma 
subiettiva,  il  Verbo  è  pure  l'essere  da  sé  sussistente  nella  sua 
forma  obiettiva  pronunciata  da  essa  Mente.  Ma  l'oggetto  divino, 
in  quanto  é  cognizione  della  Mente,  viene  dalla  Mente  limitato; 
e  questo  oggetto  limitalo  è  l'idea  del  mondo,  e  in  quanto  é  unito 
all'alto  creativo  é  causa  del  mondo  sussistente. 

503.  La  determinazione  dunque  dell'idea  del  nìondo  è  fatta  dalla 
Mente,  la  quale  in  tal  modo  è  V essere  determinante  e  attuante 
il  mondo  ,  come  causa  subietto.  Ma  lasciando  il  mondo  reale  e 
considerandone  l'idea,  che  logicamente  é  anteriore  a  questo ,  e 
in  cui  anteriormente,  sempre  nell'ordine  logico,  dee  trovarsi  la 
determinazione  ,  consideriamo  come  la  divina  Mente  trovi  ap- 
punto questa  determinazione. 

Non  a  caso  certamente,  e  non  curandosi  d'alcun  ordine:  ma 
con  sapienza.  Se  dunque  con  sapienza  ,  queste  determinazioni 
devono  contenersi  virtualmente  nell'essere  obiettivo,  che  é  l'as- 
soluto intelligibile  e  l'assoluto  inteso.  Ma  se  queste  determina- 
zioni dell'idea  sono  in  questo  solo  virtualmente  comprese ,  per- 
chè l'assoluto  inteso  non  ha  in  se  distinzioni  reali  ,  dunque  la 
mente  divina  per  ridurle  dalla  virtualità  all'  atto,  deve  seguire 
certe  norme  fisse  astratte  dalla  slessa  essenza  obiettiva.  Per 
questo  descrivendo  la  creazione  dicemmo  che  nell'ordine  logico 
il  primo  elemento  del  processo  mentale  divino  dovette  essere 
Vessere  iniziale,  come  un  astratto  che  tenesse  luogo  di  regola  o 
norma  per  trovare  tulio  il  resto  della  determinazione  da  darsi 
all'idea  o  esemplare  del  mondo.  Laonde  sebbene  la  Mente  di- 
vina sia  Vessere  determinante  e  attuante  come  causa  subietto,, 
tuttavia  non  male  abbiamo  chiamato  essere  determinante  e  al- 


463 

tiianle  come  causa  alto  Vessere  iniziale  a  noi  visibile,  nel  senso 
ch'egli,  preso  da  sé,  è  la  regola,  secondo  cui  si  opera  la  de- 
terminazione dell'  idea  e  di  conseguente  poi  del  reale  creato  : 
preso  poi  come  unito  al  reale  finito,  è  l'alto  dell' esistenza  di 
questo.  Ma  egli  stesso  riguardato  sotto  un'  altra  relazione  è 
anche  primo  determinabile  ;  perocché  la  mente  applica  lui  a  lui 
stesso  {Logic.  701  sgg.)  ,  e  determina  lui  con  lui,  cioè  con  regole 
ch'egli  le  somministra.  Ma  questo  non  si  spiega  se  non  si  ascende 
colla  mente  ad  un  primo  ed  assoluto  determinato.  L'essere  come 
essere  è  per  sé  determinato,  e  non  ha  bisogno  d'altra  determi- 
nazione per  sussistere  ;  ma  dicesi  indeterminato  quando  si  con- 
sidera come  causa  attuante  i  reali  finiti ,  perché  non  e'  é  nel  solo 
suo  concetto  una  ragione  sufficiente  per  asserire  ch'egli  li  attui, 
0  che  attui  questi  piuttosto  che  quelli.  L'essere  dunque  in  sé  stesso 
è  essenzialmente  determinato,  com' è  essenzialmente  semplice,  e 
però  anche  l'Ente  assoluto  é  per  sé  determinalo,  e  determinalo  in 
tulle  e  tre  le  forme.  L'Ente  assoluto  poi  è  la  stessa  essenza  del- 
l'essere sussistenle.  Ciò  che  é  di  essenza  ad  una  cosa  ,  non  può 
mancargli  se  la  cosa  è;  poiché,  se  gli  mancasse,  non  sarebbe.  È 
dunque  dell'essenza  dell'  ente  di  essere  da  tutte  le  parli  determi- 
nato: se  da  una  sola  parte  rimanesse  indeterminato,  non  sarebbe 
ente   {Psicol.  i37!2-i395). 

504.  Si  risponderà  che  questa  maniera  di  argomentare  prove- 
rebbe troppo,  perchè  con  essa  si  potrebbe  dimostrare  ,  che  ogni 
ente  deve  essere  infinito,  attesoché  l'Ente  assoluto,  che  é  l'essenza 
sussistente  dell'  essere  ,  è  infinilo.  —  Rispondiamo  ,  che  non  ne 
viene  questa  conseguenza:  poiché  altro  é  l'essere,  altro  le  forme  o 
termini  dell'essere.  Da  quella  maniera  d'argomentare  viene  sol- 
tanto questo  che  «  l'essere  deva  sempre  avere  l'infinità  »  ,  ma  non 
che  devano  averla  tulle  le  sue  forme.  Ora  la  limitazione  dell'ente 
finito  non  risiede  nell'essere,  ma  nel  reale  che  é  una  forma.  Noi 
abbiamo  veduto  che  tulio  l'essere  si  richiede  per  conoscere  qua- 
lunque ente  finito  (,213,  380-400*),  perchè  l'essere  è  semplice  e 
^indivisibile,  e  ricevendo  il  reale  finito  la  natura  di  ente  dall'essere 
che  gli  dà  la  mente  —  sia  la  mente  divina,  sia  la  mente  umana 
che  lo  rende  ente  a  sé  stessa  —  ne  procede,  che  tutto  l'essere 
infinito  concorra  a  dare  la  natura  di  ente  al  reale  finito.  Vero  è 
che  nell'ente  finito  apparisce  l'essere  come  fosse  egli  slesso  li- 


mitato,  ma  questa  limitazione  non  è  che  una  relazione  del  rea- 
le finito  all'essere  ,  non  potendo  il  reale  finito  esistere  altro  che 
come  finito,  e  il  fondamento  di  questa  relazione  è  nel  reale  (,^G6, 
U7l),  hS7').  Non  è  dunque  1'  essere  che,  sia  limitato  ,  ma  l'es- 
sere illimiliito  fa  sussistere  colla  sua  presenza  il  reale  limitato, 
e  in  quanto  lo  fa  sussistere  diccsi  essere  allnanle.  Il  più  può  fare 
il  meno  senza  divenir  meno  egli  stesso:  in  (;iò  non  v'  è  alcun 
assurdo. 

SOri.  Che  se  si  riassume  l'ordine  logico  dell'alto  creativo,  questa 
dottrina  riceverà  nuovo  lume.  La  divina  Mente  astrae  dall'es- 
sere assoluto  V essere  iniziale:  questo  non  è  una  limitazione  del- 
l'essere ,  come  ahbiam  detto,  perchè  rimangono  in  esso  virtual- 
mente tutti  i  suoi  termini:  solamente  che  la  mente  ne  prescinde 
e  prescindendone  l'essere  rimaiu;  davanti  alla  mente  astraente 
come  pura  idea,  ossia  puro  oggetto. 

Di  poi  la  stessa  mente  divina,  volendo  dare  a  quest'essere 
virtuale  de'  termini  fmiti,  domanda  a  sé  stessa:  a  quale  condi- 
zione potrò  darglieli? — L'essere  iniziale,  relativamente  a' suoi 
termini  infiniti,  è  pienamente  determinato.  Onde  se  la  Mente 
divina  volesse  restituire  all'essere  iniziale  i  suoi  termini  infiniti, 
non  avrebbe  da  far  altro  che  cessare  da  quest'atto  d'aslrozione. 
Ma  non  va  cosi  la  cosa  relativamente  ai  terjnini  finiti,  poiché 
questi  non  esistono,,  e  Tessere  iniziale  non  è  determinato  ad  cs 
sere  inizio  j)iullosto  di  questi  che  di  quelli.  Conviene  dunque 
che  la  Mente  divina  concepisca  le  specie  de'  reali  finiti  che  vuol 
far  sussistere.  Ma  ella  s'accorge  che  questi  reali  devono  esser  d'ogni 
parte  determinati,  acciocché  possano  ricevere  l'èssere.  Ella  vede 
in  sé  stessa  ,  che  l'essere  non  può  ricevere  altro  termine  reale, 
che  deterniinato  da  tutti  i  lati,  perchè  l'essere  sussistente  è  de- 
terminalo. L'ente  finito  e  relativo,  in  quanto  e  ente,  non  ])uò 
esser  tale  chea  similitudine  dell'ente  assoluto,  alle  slesse  con- 
dizioni in  quanto  è  ente  ,  benché  ad  altre  condizioni  in  quant'è 
reale  e  termine,  e  questo  finito.  Se  dunque  l'ente  assoluto,  in 
quant'è  ente,  è  a  pieno  determinato,  a  pieno  determinato  deve  es-^ 
sere  anche  l'ente  finito.  Quindi  si  scorge  una  ripugnanza  tra  l'es- 
sere virtuale,  e  un  reale  indeterminato:  poiché  l'essere  virtuale 
è  appunto  l'  essere  assoluto  in  quant'è  ente,  astrazion  fatta  dai 
termini.  E  per  vero  un  reale  indeterminato,  non  è  più  questo 


465 

che  quel  reale  :  se  adunque  la  mente  volesse  farlo  sussistere , 
non  saprebbe  che  cosa  volesse  fare,  perchè  questa  cosa  rimane 
incerta.  La  mente  non  può  applicare  l'essere  virtuale  senza  sa- 
pere a  che  Io  applichi.  Ripugna  adunque  che  l'essere  virtuale 
riceva  un  termine  reale  indeterminato.  La  mente  divina  dunque 
volendo  dare  all'essere  virtuale  un  reale  finito  })er  termine, 
intende  la  necessiti^  di  determinarlo  a  pieno. 

500.  Ora  in  questi  ragionamenti  che  suj)poniamo  —  per  inten- 
derci noi  uomini  —  andar  facendo  seco  stessa  la  mente  creatrice, 
non  solo  apparisce  la  necessità,  che  il  reale  finito  ch'ella  vuole 
lare  esistere  sia  determinato,  ma  si  trova  altresì  W  principio  della 
determinazione. 

Questo  priìiiiipio,  secondo  il  quale  la  divina  mente  può  deter- 
minare il  reale  finito,  consiste  nella  relazione,  che  la  stessa 
mente  vede  correre  tra  l'essere  virtuale  da  lei  astratto,  e  il 
reale  infinilo,  per  la  quale  relazione  quest'essere  virtuale  cessa 
d'essere  virtuale,  ed  è  Dio  sussistente  e  vivente.  Poiché  «tutte 
le  condizioni  che  ha  il  reale  infinilo  all'essere  iniziale  deve  averle 
anche  il  reale  finito,  acciocché  possa  ricevere  l'essere  e  così  di- 
venire ente,  eccetto  solo  l' illimitazione  e  tutto  ciò  che  conse- 
gue a  questa  ». 

La  mente  divina  dunque,  distinguendo  mentalmente  nell'essere 
divino  V essere  dalla  forma  reale  e  sussisterne ,  trova  nella  rela- 
zione mentale  tra  quello  e  questa  il  principio  ossia  la  legge, 
secondo  cui  deve  esser  concepito  il  reale  finito,  acciocché  sia 
suscettivo  di  ricevere  l'essere  che  lo  fa  ente. 

507.  Ma  qui  si  presenta  un'altra  questione:  «L'uomo  non  vede  la 
sussistenza  divina,  non  vede,  per  sua  natura,  jiiuno  de'termini  del- 
l'essere divino  :  perciò  non  vede  nò  pure  la  relazione  tra  l'essere 
iniziale  e  i  termini  infiniti  :  non  sa  come  sieno  questi  termini.  Ora 
a  malgrado  di  ciò  non  intende  anch'egli,  che  il  reale,  fino  che 
resta  indeterminato  davanti  alla  mente,  rron  può  acquistare  l'esi- 
stenza in  sé  ?  Certamente.  E  se  lo  vedo  onde  dunque  s'accorge 
di  questa  necessità?  Non  dev'  egli  dedurla  dalla  luce  che  gli 
viene  dall'essere  iniziale»?  Rispondiamo,  che  argomentarlo  a 
priori  dal  solo  essere  iniziale  non  può,  perchè  gli  mancherebbe 
il  concetto  del  reale  finito,  che  non  può  esser  dato  dal  solo  es- 
sere puro  {Ideol.  1458,  sgg  ),  ma  supposto  questo  concetto  che 
Rosmini.  Teosofia.  30 


/»66 

egli  acquista  in  un  tempo  posteriore  alla  percezione  quando  me- 
diante la  riflessione  e  l'analisi  divide  l'ente  finito  ne'  suoi  due 
elementi  dell'essere  e  del  reale,  lo  può  certamente,  con  argo- 
mento a  priori,  benché  non  a  priori  puro. 

E  in  prima  quando  una  volta  l'umana  ragione  è  arrivata  a 
conoscere  che  l'esistenza  del  reale  è  opera  d'un' intelligenza, 
ella  s'accorge.,  come  abbiamo  accennato,  che  c'è  assurdo  nella 
supposizione,  che  l'intelligenza  dia  l'essere  a  un  reale  che  non 
può  accertare  e  dislinguere  da  ogn'allro.  Ora  un  reale  fino  che 
resta  indeterminato  appartiene  a  più  reali  determinali.  Conviene 
dunque ,  che  là  mente  scelga  tra  questi ,  e  non  resti  incerta 
tra  l'uno  e  l'altro,  non  potendo  operare  fino  che  resta  incerta 
che  cosa  voglia  operare.  Questo  argomento  nasce  dal  concetto 
del  reale  indeterminato,  in  relazione  col  concetto  della  mente 
operante,  e  tribuentc  l'essere,  poiché  nel  concetto  indeterminato 
s'acchiude  la  pluralilcà  e  diversità  delle  determinazioni  che  esso 
può  ricevere;  onde  non  è  uno,  ma  è  più  ,  senza  che  la  mente 
umana  sappia  qual   sia   de'più. 

Di  poi  l'essere  che  si  dà  al  reale  è  l'ultima  sua  determina- 
zione, l'ultimo  suo  atto:  questa  determinazione  non  gli  può  dun- 
que esser  data,  se  non  a  condizione  ch'egli  abbia  tutte  le  deter- 
minazioni precedenti  di  cui  è  suscettivo.  Ma  se  il  reale  è  da 
qualche  parte  indeterminato,  non  ha  ancora  tutte  le  determina- 
zioni precedenti  all'ultima,  e  perciò  non  può  esistere.  Anche 
questa  ragione  nasce  dal  concetto  del  reale  in  relazione  alla  na- 
tura dell'essere  come  suo  ultimo  atto.  11  reale  è  concepito  dalla 
mente  come  un  involuto,  che  si  spiega  gradatamente  davanti  a  lei, 
e  percorrendo  tutti  i- gradi  dello  sviluppo,  arriva  all'ultimo,  dopo 
il  quale  non  gli  resta  che  a  ricevere  l'essere  come  sua  ultima- 
zione. Fino  dunque  che  il  reale  come  concetto  non  ha  percorso 
nella  mente  tutti  quegli  anelli  sucessivi ,  egli  non  è  ancora  pro- 
priamente il  reale,  gli  manca  qualche  cosa  d'essenziale  al  reale, 
e  però  non  può  esistere.  Poiché  nulla  può  esistere  se  non  ha  tutto 
ciò  che  richiede  la  sua  propria  essenza. 

Di  qui  si  vede,  che  anche  l'uomo  arriva  ad  intendere,  che 
«  il  reale  non  può  ricevere  l'essere  se  non  è  pienamente  determi- 
nalo »,  mediante  la  relazione  che  egli  osserva  tra  il  concetto  del 
reale  e  V essere  puro,   sia  che  questa  relazione  la  consideri   ri- 


^67 

spello  alla  mente  che  è  la  causa  subietto  che  dà  l'essere  al  reale 
finito ,  sia  che  la  consideri  rispello  allo  slesso  essere  puro ,  che 
è  la  causa  allo. 

Articolo  II. 

Come  r  essere   ideale   contenga   il  principio 
della  determinazione  del  reale  finito. 

o08.  Ma  come  abbiamo  detto,  che  Vessere  ideale  è  il  principio 
della  determinazione,  la  regola  secondo  la  quale  la  divina  mente 
forma  in  sé  slessa  il  reale  finito? 

Risponderemo  alla  questione  ,  considerando  l'  essere  ideale 
come  principio  di  determinazione  prima  rispetto  alla  mente  di- 
vina, e  poi  rispetto  alla  mente  umana. 

La  Mente  divina  avendo  per  proprio  ed  essenziale  oggetto 
l'essere  assoluto,  dove  è  una  semplicità  perfettissima,  non  po- 
trebbe vedere  in  esso  l'ente  finito  se  con  un  atto  suo  proprio 
noi  distinguesse  in  esso  :  e  questa  distinzione  non  essendo  reale, 
conviene  che  sia  una  distinziOTie  ideale  nell;i  Mente  stessa.  Ma 
quest'idea  in  cui  la  Mente  divina  vede  l'ente  finito  distinto  dal- 
l'infinito abbraccia  il  reale  ad  un  tempo  e  l'essere,  onde  quell'i- 
dea è  insieme  verbo  e  causa  efficiente  delle  cose  {Rinnov.  559, 
sgg.  p.  61 G),  non  essendoci  il  reale  se  non  è  pronunciato,  e  non 
meramente  intuito.  Ora  è  necessario  che  la  divina  Mente,  in 
questo  pensiero  dell'ente  finito  che  essa  fa,  dislingua  i  due  ele- 
menti chele  compongono,  cioè  l'essere  e  il  reale ,  perchè  effet- 
tivamente il  reale  finito  non  è  l'essere ,  come  l'essere  non  è  il 
reale  finito.  Se  dunque  la  Mente  divina  li  distingue,  eUa  dislingue 
con  ciò  l'essere  iniziale  dal  reale  finito  suo  termine;  e  così  è  ne- 
cessario che  l'essere  iniziale  ,  puro  essere  ,  e  questo  ideale  ,  sia 
presente  alla  mente  divina  con  tulle  le  sue  proprietà  e  in  tutta 
la  sua  infinita  estensione,  per  la  quale  dal  reale  finito  si  separa 
di   natura. 

L'essere  così  pensato  dalla  divina  mente  in  relazione  co'suoi 
termini  finiti  possibili  è  quello  che  fa  conoscere  questi  stessi 
termini,  i  quali  separati  da  lui  non  hanno  essere,  e  quindi  né 
pure  intelligibilità.   Ma  se  l'essere  ideale  é  quello  che  fa  cono- 


468 

score  alla  mente  i  propri  termini  finiti,  conviene  che  egli  sia 
altresì  quello  che  le  faccia  conoscere  quai  reali  possono  essere 
suoi  termini,  e  quali  no.  Egli  dunque  è  quello  che  fa  conoscere, 
i  suoi  termini  non  potere  esser  altri  reali  che  quelli  che  sieno 
a  pieno  e  da  ogni  lato  determinati.  Egli  è  dunque  alla  mente 
divina  il  principio  e  la  regola  della  determinazione  di  questi. 
Quando  noi  dunque  dicevamo  nell'articolo  precedente ,  che  nel 
concetto  stesso  del  reale  indeterminato  si  contiene  la  sua  ina- 
bilità a  ricever  l'essere ,  noi  parlavamo  d'un  reale  indetermi- 
nalo che  lo  slesso  essere  ideale  ci  faceva  conoscer  tale  cioè 
avente  quella  inabilità.  E  veramente  parlavamo  del  concetto  del 
reale  indeterminato  ,  e  non  dei  reale  stesso.  Se  dunque  parla- 
vamo del  concello  ,  ò  chiaro  che  parlavamo  del  reale  indeter- 
minato unito  coll'essere  ideale,  da  cui  viene  ogni  concetto.  Cosi 
il  primo  principio  o  regola,  da  cui  intendiamo  la  necessità  della 
determinazione  ,  acciocché  il  reale  finito  sussista ,  non  sia  nel 
concetto  di  questo  ,  ma  nell'essere  ideale  che  produce  questo 
concetto  ,  quando  la  niente  vede  il  reale  indeterminato  nel- 
l'essere ideale.  Nell'essere  ideale  dunque  e  per  l'essere  ideale 
noi  conosciamo  il  reale  indeterrninato  e  ne  parliamo:  questa 
conoscenza  poi  ci  mostra  che  egli  non  può  sussistere  in  sé.  Il 
reale  indeterminato  dunque  non  ha  che  un'esistenza  ideale  nella 
mente,  ed  esclude  l'esistenza  propria  in  sé. 

Questo  stesso  processo  si  fa  nella  mente  umana  ;  e  però  an- 
che nella  mente  umana  l'essere  ideale  è  il  primo  principio  della 
determinazione  del  reale  finito:  cioè  il  principio  che  ne  mostra 
la  necessità  e  le  condizioni. 

L'essere  dunque,  la  natura  deH'essere  —  se  raccogliamo  tutto 
quello  che  abbiam  detto — fa  due  cose  :  4.°  come  intelligibile, 
ossia  idea  (forma  oggettiva)  ci  fa  conoscere  il  termine  determi- 
nalo e  l'indeterminato,  dandocene  i  concelli;  e  in  questi  ci  fa 
conoscere,  che  quello  può  ricevere  l'esistenza  propria,  e  questo 
no:  2."  l'essere,  come  avente  la  virtù  d'attuare  (forma  subiet- 
tiva), ricusa  i  termini  indeterminati  ,  e  ammette  solo  i  deter- 
minati. 

L'essere  come  intelligibile  o  idea  fa  conoscer  dunque  che  l'es- 
sere come  avente  la  virtù  d'attuare  ricusa  i  termini  indetermi- 
nati e  ammette  solo  i  termini  determinali. 


469 

Perchè  dunque  li  ricusa? 

Perchè  l'essere  che  ha  la  virtù  d'attuare  è  essenzialmente  e 
puramente  allo,  e  la  sua  virtìi  entiOca  consiste  nel  rendere  atto 
il  reale.  Ma  il  reale  indeterminato  non  può  ricevere  ciò  che  è 
puro  e  semplicissimo  atto,  che  il  puro  e  semplicissimo  atto  dee 
aflcltare  ciò  che  è  uno,  allritnenti  egli  stesso  si  dividerebbe  in 
più,  e  così  non  sarebbe  più  alto  semplicissimo  ,  contro  la  sua 
natura,  e  cadrebbe  perciò  in  conlradizione  con  sé  stesso. 

509.  Qui  altri  dirà:  «  voi  ammettete  che  l'indeterminato  possa 
esistere  m'Ha  mente,  ma  non  in  sé:  ora  l'esistenza  dell'indeter- 
minato nella  mente  non  involge  le  stesse  difficoltà  che  l'esi- 
stenza in  sé?  «  —  No,  ed  ecco  per  qual  ragione. 

L'esistenza  dell'  indeterminato  nella  mente  appartiene  ad  un 
ente  determinato,  cioè  all'i  mente:  questa  come  ente  determi- 
nato può  sussistere  e  sussistere  con  tutto  ciò  che  le  appartiene. 
Ciò  che  ripugna  si  è  dunque  che  l'indeterminato  esista  come 
un  subietto  reale  :  poiché  il  subielto  reale  deve  essere  uno  per 
la  ragione  delta.  Ma  nella  mente  egli  non  ha  natura  di  subielto 
reale:  in  ([uesta  dunque  esiste  soltanto  come  obietto,  come  cosa 
alla  stessa  mente  appartenente.  La  mente  non  è  già  il  subietto 
della  indeterminazione  del  suo  oggetto ,  di  maniera  che  ella 
stessa  rimanga  perciò  indeterminata;  ma  l'indeterminazione  ri- 
mane nel  solo  obietto. 

Ciò  posto,  rimane  a  vedere  come  l'indeterminazione  possa  ri- 
maner nell'obietto.  Ora  questo  non  s'avvera  se  non  ipotetica- 
mente, e  non  di  fatto.  Perocché  la  mente  non  potrebbe  avere 
presente  il  reale  indeterminato  ,  se  non  avesse  presente  anche 
il  determinato  {Psicol.  1572  sgg.  1557  sgg.);  e  in  questo  vede 
quello,  perchè  limita  a  quello  il  proprio  sguardo  —  limitazione 
che  si  dice  astrazione,  —  senza  che  ne  soffra  il  vero  oggetto  tutto 
intero  determinato.  È  dunque  l'atto  della  mente  che  costituisce 
l'indeterminato,  e  quest'atto,  benché  limitato,  è  al  tutto  deter- 
minato ,  ma  non  cade  se  non  sopra  una  parte  delLoggelto  ,  e 
cadendo  sopra  una  parte,  ben  conosce  la  mente  che  è  parte, 
e  non  tutto;  e  appunto  perchè  la  conosce  per  parte,  conosce 
insieme  che  non  può  essere  un  ente,  perchè  una  parte  di  ente 
non  è  ente.  Ma  la  mente  per  una  ipotesi,  considerandola  da  sé, 
come  l'osse  un  oggetto,  le  dà  a  prestito  la  forma  dell'ente,  senza 


470 

però  ingannarsi.  Dunque  nò  pure  l'oggello  propriamente  esiste 
nella  mente  come  indeterminato,  ma  solo  come  visibile  in  parte, 
e  in  parte  non  visibile,  per  volontà  della  mente  stessa  riguar- 
dante, e  questo  stesso  oggetto  —  parte  non  lascia  incerto  l'atto 
della  mente,  ma  a  sé  soltanto  lo  limita  e  determina. 

E  veramente ,  se  si  tratta  della  mente  divina  ,  ella  vede  il 
reale  finito  nel  reale  infinito,  che  è  oggetto  compiutissimo  ed  as- 
soluto, e  se  si  tratta  della  mente  umana,  ella  astrae  l' indetermi- 
nato dalla  specie  piena  che  è  pure  un  oggetto  determinato  (1). 

510.  Ma  come  dite  dunque  che  la  mente  divide  l'essere  dal 
reale  finito,  quando  il  reale  finito  senza  l'essere  non  si  può  co- 
noscere né  prendere  ad  argomento  di  discorso? 

Conviene  ritenere  la  distinzione  dell'essere  nelle  sue  forme. 
La  mente  divide  dal  reale  finito  l'essere  nella  sua  forma  su- 
biettiva ed  attuante  ,  ma  non  divide  da  lui  l'essere  nella  sua 
forma  obiettiva  puramente  o  ideale.  Se  al  reale  finito  ella  to- 
gliesse anche  l'essere  ideale,  gli  sfuggirebbe  totalmente  dal  pen- 
siero :  ma  egli  ci  rimane  come  concetto  del  reale  ,  ossia  come 
reale  possibile.  La  forma  qui  è  ancora  obiettiva ,  perché  il 
contenente  é  l'idea  (  J82-187').  Il  contenuto  cioè  il  reale 
non  si  può  mai  dividere  colla  mente  (se  non  per  quell'astra- 
zione che  abbiamo  chiamata  ipotetica)  dal  contenente  ,  di  ma- 
niera che  quando  ci  proviamo  a  dividere  il  contenuto,  cioè  il 
reale,  ci  rimane  ancora  investito  dall'idea,  —  non  potendosi  al- 
tramente pensare,  —  che  é  quel  nesso  indissolubile  che  Platone 
ha  osservato  tra  l'uno  e  l'essenza,  ond' ha  dedotto,  come  ve- 
demmo, che  nell'uno  ci  sono  necessariamente  tutti  i  numeri 
(^346-555*),  perchè  dividendo  l'uno  dall'essenza,  coll'uno  a  no- 
stra  insaputa   rimane   l'essenza  ,    e  coU'essenza  a    nostra  insa- 


(1)  Aristotele  ben  s'accorse  che  l'indeterminato,  l'universale,  non  aveva 
esistenza  che  nel  singolare,  a  cui  S.  Tomaso  consentendo  dice  :  Universalia 
non  simt  res  subsistentes,  sed  habent  esse  solum  m  singiilaribiis,  ut  proba- 
tur  VII  Metafisicorum.  C.  G.  1 ,  65.  Ma  quello  di  cui  non  s'accorse  si  fu 
che  Vessere  lia  due  aspetti  diversi,  secondo  clie  si  considera  in  sé  stesso,  o 
relativamente  agli  enti  finiti.  Solo  relativamente  a  questi  è  indeterminato  ed 
universale  :  in  sé  stesso  è  uno,  determinato  e  sussistente.  Si  può  anche  con- 
siderare, coufe  abbiam  veduto,  astraendo  da  lui  tutti  i  termini  finiti  e  infi- 
niti :  cosi  considerato  e  preciso  esiste  virtualmente  nell'essere  assoluto. 


471 

pula  rimane  l'uno;  onde  gli  atti  analitici  della  mente  non  fanno 
che  moltiplicare  que'due  primi  elementi  all'infinito,  senza  che 
le  sia  possibile  di  far  altro. 

olì.  Ma  qui  ci  si  discopre  una  difficoltà  molto  maggiore,  che 
ci  condurrà  a  discoprire  una  verità  di  pari  importanza.  Poiché 
si  dirà  :  «  Se  noi  prendiamo  il  reale  del  tutto  indeterminato  , 
l'idea  di  questo  reale  pienamente  indeterminato  in  che  differisce 
dall'idea  dell'essere?  E  se  dall'idea  dell'essere  noi  caviamo  ogni 
reale  ,  quantunque  del  tutto  indeterminato  ,  che  cosa  rimane 
quest'idea  dell'essere?  Non  ci  svanisce  ella  del  tutto?  Poiché  lo 
stesso  essere  ideale,  se  è  atto ,  deve  essere  alto  reale,  o  esser 
nulla.  Chi  dicesse  che  è  l'idea  dell'alto,  non  avrebbe  inleso  la 
domanda^  poiché  si  domanda  se  quell'idea  dell'atto  é  veramente 
un  alto  ella  slessa  o  no.  Se  é  intelligibile,  deve  far  conoscere 
qualche  cosa,  o  sé  stesso  o  un'altra  cosa  diversa.  Se  fa  cono- 
scere sé  slesso ,  questo  sé  slesso  conosciuto  sarà  un  reale  o 
un'idea  egli  medesimo,  se  fosse  un'idea  noi  andremmo  d'idea 
in  idea  all'infinito.  Se  fa  conoscere  un'altra  cosa,  come  la  farà 
conoscere  se  non  per  questo  ch'egli  fa  conoscer  sé  stesso  ?  Se 
non  facesse  conoscer  sé  stesso,  non  potrebbe  far  conoscere  un 
altra  cosa,  ma  quest'altra  cosa  essendo  la  prima  conosciuta,  sa- 
rebbe quella  sola  che  è  intelligibile  per  sé.  E  su  quest'  altra 
cosa  intelligibile  per  sé,  si  dovrebbe  ripetere  il  discorso  che 
facevamo  sull'essere  intelligibile.  (Conviene  dunque  confessare, 
che  Videa  deiressere  e  Videa  d'un  reale  pienamente  indeterminalo 
sono  l'identica  idea,  e  che  l'essere  ideale  non  é  altro,  che  il  reale 
pensato  come  pienamente  indeterminato  »  (  Prelimin.  alle  Opp. 
Idecdl.   IG.  ,Cf.  Ideùl.  mi)  sgg.   1177-1181*'). 

Non  siamo  già  noi  quelli  che  neghino  questa  conclusione; 
siamo  anzi  quelli  che  la  stabiliscono.  In  falli,  quando  noi  abbiamo 
dello  che  l'essere  é  il  primo  determinabile,  e  la  materia  univer- 
sale —  presa  la  parola  materia  in  significato  estesissimo,  —  altro 
non  dicevamo  che  quello  con  cui  il  nostro  obiellatore  conchiude 
la  sua  obiezione. 

Conviene  dunque  distinguere  il  reale  finito,  che  si  parte  in 
vari  generi,  dal  reale  infinito,  che  é  unico  e  superiore  a  tulli 
quei  generi.  11  reale  iìifinito  non  é  che  1'  essere  slesso  nella 
sua  forma  infinita  reale,  perché,  come  abbiamo  detto  più  volle, 


472 

tra  l'essere  e  il  termine  infinito  non  c'è  distinzione  in  sé,  ma 
soltanto  mentale,  onde  lo  stesso  reale  infinito  è  essere. 

Quando  dunque  la  Mente  divina  astrae  l'essere  virtuale  dal- 
l'essere assoluto,  come  abbiam  detto,  quest'essere  virtuale  è  per 
ugual  modo  virtualmente  reale  e  subiettivo,  e  virtualmente  reale 
obiettivo,  e  virtualmente  reale  santo.  Ha  implicite  in  sé  le  forme 
infinite.  Ora,  se  noi  consideriamo  che  valore  abbia  «  l'idea  del 
reale  pienamente  indeterminato»,  troviamo  che  una  tal' idea 
altro  non  esprime  che  «  il  reale  infinito  virtuale  ».  Dico  il  reale 
infinito,  perchè  l'indeterminazione  essendo  massima  ,  non  ha 
confini,  e  però  abbraccia  virtualmente  tutte  le  determinazioni 
possibili  indistinte,  e  però  non  limitate.  L'idea  dunque  del  reale 
pienamente  indeterminato  è  la  stessa  idea  dell'essere  iniziale  in 
quanto  contiene  virtualmente  la  realità  infinita,  ossia  in  quanto 
è  suscettiva  d'avere  un  termine  infinito  reale,  il  quale  ammette 
posteriormente  limitazioni  per  un  lavoro  mentale,  e  già  con 
queste  limitazioni  non  rimane  più  a  pieno  indeterminato  ,  per- 
chè le  limitazioni  stesse  sono  altrettante  determinazioni, 

bl2.  Di  qui  si  ricava,  che  aWessere  iniziale  corrispondono  tre 
concelti  che  con  lui  s'identificano:  il  concetto  d'oggetto  o  A'  intel- 
ligibile pienamente  indeterminato,  e  quest'è  quello  che  si  chiama 
assolutamente  idea;  il  concetto  di  reale  o  di  sussistente  piena- 
mente indetermiìiato;  e  il  concetto  di  amato  o  di  perfezione  e 
fine  pienamente  indeterminato.  Sono  i  tre  termini  virtualmente 
compresi  nell'essere  iniziale,  ciascuno  de' quali  s'identifica  con 
lui.  E  gli  antichi  dicevano  lo  slesso  in  altre  parole,  quando 
asserivano,  che  Vente  (reale),  il  vero  (l'idea),  e  il  bene  erano 
tre  concetti  trascendentali,  che  si  convertivano  1' uno  nell'altro. 

Deriva  ancora  da  questa  dottrina  un  altro  corollario  impor- 
tante ,  cioè  che  l'essere  divino  o  sussistente  non  ha  alcuna 
forma  distinta  da  sé  stesso  che  lo  determini.  Perocché  il  reale 
infinito,  esistendo  per  sé  stesso,  è  per  sé  determinato,  e  l'obietto 
infinito  e  l'amato  infinito  del  pari:  la  sua  slessa  infinità  ossia 
mancanza  d'ogni  forma  o  determinazione  ristrettiva  è  la  sua  pro- 
pria determinazione.  Perciò  dividendo  mentalmente  l'essere  ini- 
ziale da  questi  suoi  Ire  termini,  abbiamo  questi  stessi  chiamati 
forme.  Ma  ciascuno  di  quesli  termini  infiniti  non  ha  veruna 
distinzione  in  sé  dall'essere  ;  dunque  l'essere  in  Dio  è  forma  di 


/j73 

sé  stesso;  ossia,  come  dicono  i  teologi,  non  si  dà  in  Dio  alcuna 
reale  distinzione  Ira  materia  e  forma.  Nondimeno  separandosi 
mentalmente  i  termini  dall'essere  iniziale,  questi  acquistano  il 
concetto  —  per  un'astrazione  ipotetica  —  di  materia,  e  l'essere 
di  l'orma  loro  comune. 

E  quindi  nasce  la  distinzione  tra  ['essere  iniziale,  e  i  tre  altri 
concetti  che  con  lui  s'identificano:  è  una  distinzione  puramente 
dialettica.  L'essere  iniziale  relativamente  a' quei  tre  concetti,  di 
reale  indeterminato,  d'oggetto  indeterminato,  di  amato  indeter- 
lìiinato,  veste  la  condizione  di  forma,  e  questi  tre  concelli  di 
sua  materia;  ma,  questi  essendo  l'essere,  è  sempre  l'essere  iden- 
tico che  è  materia  e  forma  ad  un  tempo,  pel  modo  di  concepire  pro- 
jìrio  della  mente  umana. 

i\ia  la  cosa  procede  molto  diversamente  se  si  parla  d'un  reale 
che  non  sia  pienamente  indeterminato  e  perciò  stesso  non  sia 
virtualmente  infinito.  In  fatti  que'reali  tutti  che  cadono  nella  perce- 
zione umana  sono  tali,  che  si  possono  bensì  s[)ogliare  delle  loro 
determinazioni  fino  che  ci  rimangono  nella  mente  come  essenze 
sem[)lici,  che  nulla  più  ritengono  di  cui  si  possano  spogliare, 
per  modo  che  non  si  potrebbe  più  toglier  via  da  essi  altro  che 
essi  stessi  restando  allora  del  lutto  annullati;  ma  questi  reali  , 
spogliati  così  d'  ogni  loro  determinazione  removibile  da  essi 
per  astrazione  senza  che  si  annullino,  non  sono  ancora  il  reale 
pienamente  indeterminato,  ma  sono  de'sowm?  generi  di  reali.  Ora 
appunto  perchè  .sono  de' sommi  generi  di  reali  essi  ritengono 
una  determinazione  generica,  cioè  tale  che  li  costituisce  quel 
genere  e  li  distingue  da  ogni  altro:  e  però  quella  determinazione 
che  ritengono  è  una  determinazione  ristrettiva  paragonata  al 
reale  indeterminalissimo.  Ma  quella  determinazione  ristretliva 
essendo  semplice,  e  tale  che  tolta  via,  niente  più  rimarebbe  di 
que'reali,  vedesi  che  quella  determinazione  slessa  li  costituisce 
quello  che  sono.  La  loro  propria  essenza  dunque  consiste  in  una 
limitazione.  Ninno  dunque  di  questi  reali  generici  è  il  reale 
indeterminatissimo,  e  questo  essendo  essere  —  come  primo  dialet- 
ticamente determinabile,  — siccome  abbiam  veduto,  ne  viene 
una  nova  e  manifesta  dimostrazione ,  che  il  reale  finito  è  cosa 
veramente  distinta  in  sé  àaWessere  di  cui  è  essenziale  non  avere 
limitazione  di  sorte  alcuna. 


h7h 

515.  La  mente  umana  dunque:  o  considera  la  natura  dell'es- 
sere dell'intuito,  dov'è  il  reale  illimitato  virtualmente,  e  restando 
questo  nascosto,  perchè  virtuale ,  non  ne  può  discernere  1'  atto 
—  il  che  darebbe  una  cognizione  positiva,  —  ma  altro  non  vede 
che  essere  semplicissimo;  o,  ricevendo  le  percezioni  de' reali  finiti, 
da  queste,  e  dalle  specie  piene  che  le  somministrano,  sale  per 
astrazione  ai  sommi  generi  de'reali,  che  sono  reali  indeterminali 
ma  non  del  tutto;  o  finalmente  da  questi  sommi  generi  de'reali, 
vedendoli  tutti  esclusivi  l'uno  dell'altro,  e  di  conseguente  limi- 
tati, e  lasciandoli  da  parte,  ascende  al  pensieì'o  d'un  reale  inde- 
terminatissimo e  infinito,  di  cui  non  ha  alcuna  esperienza,  e  però 
non  ne  conosce  l'alto  :  e  così  si  forma  una  cognizione  di  lui 
tutta  negaliva ,  cioè  composta  di  logiche  ed  astratte  nozioni  e 
nulla  più. 

Quando  dunque  ell'è  arrivata,  partendo  dalla  percezione  de- 
gli enti  finiti,  a  trovare  i  sommi  generi  dei  reali,  s'accorge  che 
questi  non  sono  l'essere,  perchè  Tessei  e  è  illimitalo,  ed  essi 
hanno  limitazione,  l'essere  è  uno  ed  essi  sono  più,  l'essere  è 
necessario  ed  essi  sono  contingenti,  l'essere  abbraccia  ogni  cosa 
che  è,  ed  essi  no,  e  così  via.  S'accorge  in  secondo  luogo,  che  non 
essendo  essi  l'essere,  da  questo  però  dipendono  come  da  causa  che 
li  attua  e  li  fa  esistere.  S'accorge  in  terzo  luogo,  che  l'essere 
dà  loro  primieramente  un'esistenza  ideale  nella  mente,  senza  la 
quale  non  potrebbero  essere  concepiti  e  molto  meno  passare 
alla  sussistenza  o  esistenza  in  sé,  e  che  con  quest'esistenza  ideale, 
essi  sono  essenze  semplici ,  incapaci  d'altra  astrazione  o  scom- 
posizione formale.  S'accorge  in  quarto  luogo  che  la  mente  umana 
trae  queste  essenze  semplici  per  astrazione  dagli  enti  reali  per- 
cepiti, e  che  senza  questi,  in  cui  sono,  la  mente  umana  non  sa- 
prebbe pensarle  :  esse  sono  parli  formali  d' una  specie  piena  : 
queste  parti  formali,  qualora  anche  l'uomo  avesse  la  potenza 
creatrice,  non  potrebbe  crearle  se  non  creando  l' ente  di  tutta 
la  specie  piena,  in  cui  esse  dimorano  e  per  mezzo  di  cui  le  in- 
tuisce. L'uomo  non  vede  mai  esistenti  in  sé  —  prescindendo  dal 
solo  spazio  —  questi  sommi  generi  di  materia  ;  ma  appunto  per- 
ché li  vede  come  generi  e  però  come  universali,  li  vede  solo 
atti  ad  esistere  nelle  specie  astratte  come  in  loro  contenente,  e 
queste  nelle  specie  piene,  nelle  quali  trova  il  subielto,  che  come 


l'abbiam  definito,  è  ciò  che  è  «  primo,  contenente  e  causa  del- 
l'unità in  un  ente  ».  Ora  l'ente  senza  subietto  non  può  esistere 
in  sé,  perchè  non  può  esistere  in  sé  il  secondo  senza  il  primo, 
il  contenuto  senza  il  contenente,  il  più  senza  Tuno.  I  sommi  generi 
del  reale  dunque  hanno  nella  mente  umana  la  condizione  di 
secondo  ossia  posteriore,  di  contenuto,  e  di  cosa  priva  di  cir- 
coscrizione. 

S'aggiunge  a  questo  che  l'uomo  non  conosce  positivamente 
e  in  sé  altro  reale  che  il  proprio  sentimento  fondamentale^  e 
il  proprio  sentimento  intellettivo  —  l'IO  —  e  questo  non  solo  lo 
vede  a  pieno  determinato,  ma  vede  di  più  che  l'IO  ,  se  non 
fosse  da  tutti  i  lati  determinato ,  se  non  fosse  un  principio 
unico  e  semplice  avente  un  termine  sentito  e  inteso,  certo  non 
sarebbe  l'IO.  Rispetto  dunque  a  questo  reale  la  determinazione 
e  limitazione  sua  è  ciò  che  essenzialmente  lo  costituisce  e  forma 
in  ogni  istante  Riguardo  poi  ngli  altri  reali  esfrasoggettivi ,  non 
li  conosce  se  non  per  l'azione  che  essi  esercitano  in  lui,  e  que- 
sta azione  è  determinata,  e  vede,  che  se  non  foss*^  determinata, 
non  sarebbe  nessun'  azione.  L'agente  dunque  deve  esser  deter- 
minalo da  tutti  i  lati  :  altrimenti  non  potrebbe  esser  agente. 
M.ì  se  non  fosse  agente  non  sarebbe  reale  in  sé  esistente.  È 
dunque  necessario  che  il  reale  finito,  acciocché  possa  esistere, 
sia  pienamente  determinalo-c  circoscritto  da  certi  confini  i  quali 
soli  lo  rendono  piuttosto  questo  che  quello. 

514.  I  sommi  generi  dei  reali  dunque  non  possono  esistere  in  sé 
né  come  enti  finiti,  perchè  manca  loro  il  subietto  e  i  limiti  che 
li  costituiscono  piuttosto  questo  che  quell'ente,  né  possono  esistere 
come  ente  infinito ,  perché  hanno  una  prima  limitazione  loro 
naturale,  la  qual  fa  sì  che  1'  uno  escluda  l'altro  (1).  Laonde 
essi  si  chiamano  materia  dell'ente;  la  determinazione  poi  che 
loro  manca  per  poter  esser  enti  e  per  potere  agire,  che  é  il 
carattere  della  forma  reale,  é  ciò  che  si  chiama  forma. 


(t)  La  questione  scolastica  e  se  il  genere  si  possa  individuare  immediata- 
mente da  parte  della  cosa  »,  qui  non  c'entra.  —  Poicliè  posto,  che  un  dato 
genere  potesse  divenire  per  creazione  un  individuo  reale,  esso  in  quant'è 
tale  perderebbe  la  natura  di  genere,  che  è  un  concetto  che  involge  relazione 
colle  sue  specie.  Cosi  la  stessa  idea  che  è  generica  rispetto  a  una  specie, 


476 

Come  materia  essi  non  sono  l'essere  e  non  hanno  la  forma 
loro  necessaria  per  sussistere.  Onde  viene  loro  questa  forma? 
Come  abbiamo  gicà  detto  ,  daW  essere  nella  sua  forma  obiettiva 
ideale.  Abbiamo  gicà  veduto,  ch'essi  non  potrebbero  esser  con- 
cepiti né  pure  come  generi  di  reale,  se  non  ricevessero  l'essere 
ideale,  se  non  si  vedessero  in  questo  come  essenze  generiche 
virtualmente  in  esso  contenute.  Ma  di  più  abbiamo  veduto,  che 
le  idee  generiche  non  sono  che  nelle  idee  specifiche ,  dove  le 
vede  la  mente^  e  queste  nelle  idee  specifiche  piene.  Queste  poi 
r  uomo  le  toglie  dalla  percezione  degli  enti  sussistenti  ,  e  la 
mente  divina  dall'essere  obiettivo  assoluto  che  virtualmente  ed 
eminentemente  le  contiene:  e  le  toglie  con  quell'atto  stesso  con 
cui  pronuncia  e  crea  l'ente  finito.  Il  reale  dunque  è  da  prima 
determinato  e  poi  indeterminato,  è  prima  essere  ideale  limitalo 
e  determinato,  nella  divina  mente  avanti  la  creazione  secondo 
l'ordine  logico  e  simultaneamente  nell'ordine  di  fatto  ,  nella 
mente  umana  dopo  la  creazione  e  per  la  percezione  degli  enti 
creati. 

La  mente  divina  determina  il  reale  che  vuol  creare ,  perchè 
ella  vede  «  nell'essenza  dell'essere  reale  sussistente  »  la  neces- 
sità di  questa  determinazione,  acciocché  sussista  come  ente  fi,- 
nito.  L'essenza  dell'  essere  reale  sussistente  é  lo  stesso  come 
dire:  «  l'idea  del  reale  illimitato  »  e  quest'idea  è  la  stessa  che 
l'idea  dell'essere,  come  abbiam  detto,  o  l'essere  ideale,  o  l'essere 
indelerminatissimo.  Dunque  l'idea  dell'  essere  è  quella  che  im- 
pone la  necessità  al  reale  finito  d'essere  a  pieno  determinato 
per  potere  esistere,  in  quanto  quell'idea  contiene  virtualmente 
il  reale  infinito. 

può  essere  specilìca  rispetto  a  certi  individui,  per  esempio  «  l'idea  dell'a- 
nimale !>  come  abitiamo  osservato  neWIdeologia  (655,  not.).  E  come  di- 
remo in  appresso,  lo  spazio  è  appunto  un  individuo  oslrasoggeltivo  ctie  non 
lia  genere  né  specie,  ma  che  perciò  stesso  sotto  un  qualche  aspetto,  si  può 
considerare  come  un  genere  individuato.  Ma  di  queste  quistioni  parleremo 
più  ampiamente  nei  libri  cosmologici. 


477 


Articolo  III. 


NeW Universo  c'è  qualche  cosa  che  appartiene  all'elezione  del  creatore^ 
e  qualche  cosa  che  è  un  conseguente  necessario. 

515.  Il  creare  o  il  non  ere. ire  il  mondo  e  il  fine  della  crea- 
zione sono  cose  d'assoliila  elezione  di  Dio,  perchè  anteriori  al 
mondo  slesso. 

IVla  considerando  il  mondo  già  crealo,  e  il  legame  ontologico 
di  tulle  le  entità  che  lo  compongono,  noi  vediamo  che  i  sommi 
generi  di  materia  rimangono  determinali  dalla  sola  elezione  del 
creatore,  non  essendovi  alcuna  ragione  nella  realità  del  mondo 
che  fosser  creati  quelli  piuttosto  che  altri.  Se  ce  ne  possano 
essere  degli  altri,  questa  sarà  questione  da  trattarsi  nella  Cosmo- 
logia; e  così  pure  se  o  come  la  elezione  di  qiie' generi  fosse 
determinata  dalla  divina  sapienza.  Egli  è  certo  intanto  che  i 
sommi  generi  di  materia,  che  costituiscono  i  primi  stami  di 
questo  universo ,  non  sono  punto  necessari,  ma  si  può  da  noi 
pensare  che  non  fosser  creati  ,  o  che  fossero  creati  in  minor 
numero. 

Ma  presupposto  che  que'  sommi  generi  di  materia  fossero  già 
da  Dio  eletti  a  costituire  le  prime  fila  della  sua  grand'opera  , 
egli  è  chiaro,  dalle  cose  dette,  che  le  determinazioni  dei  mede- 
simi, richieste  affinchè  possano  ricevere  l'esistenza  propria  come 
enti  finiti,  costituiscono  un  conseguente  necessario,  stantechè  quei 
sommi  generi  fino  che  non  ricevessero  le  ulteriori  determina- 
zioni che  li  rendessero  specie  piene ,  non  avrebbero  potuto  es- 
sere realizzati. 

I  sommi  generi  dunque  del  reale  creato  sono  di  pura  ele- 
zione del  creatore;  le  determinazioni  ulteriori  a  far  sì  che  quelli 
venissero  all'esistenza  propria,  costituiscono  la  parte  del  mondo 
di  necessità  conseguente. 


478 

Articolo  IV. 

Quali  sieno  i  sommi  generi  di  materia  ossia  di  realità  , 
di  cui  consta  il  mondo. 

516.  E  perchè  il  considerar  le  cose  in  individuo  dà  maggior 
lume  alle  teorie  astratte  ,  accenniamo  qui  la  questione  cosmo- 
logica:  «  quali  sieno  i  sommi  generi  di  realità  di  cui  consta  il 
mondo  ». 

Per  sommo  genere  di  realità  intendiamo,  come  abbiamo  detto, 
«  un'essenza  semplice  astratta  dal  reale  degli  enti  mondiali  da 
noi  percepiti,  da  cui  non  si  può  astrarre  più  nulla  senza  uscire 
da  ciò  che  è  in  quel  reale  su  cui  s'esercita  l'astrazione  ». 
Laonde  sommo  genere  di  realità  è  «  quell'elemento  reale  che  in 
tutto  il  genere  si  concepisce  come  il  primo  determinabile  ». 

Da  questa  definizione  apparisce  ,  che  noi  lasciamo  da  parie 
la  materia  dialettica  o  ideale,  che  non  appartiene  al  reale  ,  se 
non  in  quanto  virtualmente  lo  contiene:  ma  parliamo  di  materia 
appartenente  a  un  subiello  reale. 

I  sommi  generi  di  realità  dunque,  che  noi  cerchiamo,  parte 
appartengono  al  mondo  subiettivo,  parte  all'estrasubiettivo,  e  in 
altre  parole,  parte  sono  realità  degli  enti-principio,  parte  sono 
realità  degli  enti-termine. 

Parlando  de'  sommi  generi  di  realità  in  universale  si  fa  avanti 
la  questione:  «  se  genere  assolutamente  primo  e  sommo  sia  un 
solo,  l'ente  finito  ».  Di  questa  questione  altrove. 

Restringendo  per  ora  il  discorso  ai  sommi  generi  della  rea- 
lità dogli  enti-principio  ,  diremo  ,  che  sembrano  essere  due  : 
1."  il  sentimento  puro;  2.°  e  il  sentimento  intellettivo. 

I  sommi  generi  della  realità  degli  enti-termine  pure  sembrano 
esser  due:  1."  la  materia  o  forza  corporea,  2.°  l'estensione. 

Ma  riguardo  a  quest'ultimo  è  da  osservarsi  ch'esso  non  è 
propriamente  genere,  perchè  non  ammette  astrazione,  né  deter- 
minazione ,  né  limitazione  propria.  E  dunque  puramente  un 
reale  semplice  non  compreso  negli  altri  generi,  e  per  sola  questa 
esclusione  si  considera  come  un  genere  egli  stesso,  benché  non 
abbia  le  condizioni  degli  altri  generi.  Si  considera  come  genere 


479 

in  relazione  coi  limiti  che  gli  può  porre  la  mente,  onde  Platone 
lo  considerò  come  materia  matemalìca  {Arist.  ,158-100,  449  n. 
È  opin.*).  Noi  lo  chiameremo  un  genere  ibrido  ,  perchè  le  sue 
specie  cioè  le  figure  matematiche  sono  un'opera  mentale  ,  ed 
egli  stesso  è  un  reale  che  somministra  ad  esse  la  loro  materia, 
il  loro  fondo. 

Articolo  V. 

Come  la  mente  divina  potè  trovare  nel  reale  illimitato  i  sommi  generi 

delle  realità  di  cui  consta  il  mondo. 

517.  Per  rispondere  a  questa  questione  conviene  prima  di  tutto 
escludere  i  sommi  generi  della  realità  estrasoggettiva.  Poiché 
tutta  la  loro  natura  consiste  nell'essere  puramente  termini  del 
principio  sensitivo:  onde  non  hanno  altra  esistenza  che  relativa 
a  questa  natura,  e  per  questa  sola  noi  li  conosciamo  e  li  nomi- 
niamo. Che  se  avessero  una  natura  nascosta^  questa  non  sarebbe 
mai  ciò  di  cui  parla  l'uomo,  e  che  intende  significare  co'  vocaboli 
di  spazio  0  di  materia  corporea  {Ideal.  C67,  749,  sgg.,  855  sgg.). 

Questi  non  sono  dunque  generi  assolutamente  primi  se  non 
per  un'operazione  astratta  della  mente  che  li  considera  in  sé, 
e  non  nella  loro  connessione  essenziale  al  principio  senziente: 
onde  si  possono  chiamare  «  generi  di  realità  relativi  agli  enti- 
principio  )). 

E  da  considerarsi  di  più  che  se  tali  generi  si  considerano 
"come  termini,  e  non  in  sé,  in  tal  caso  si  moltiplicano:  essi  si 
cangiano  ne'  «  generi  de' sentiti  »  ,  di  cui  abbiamo  già  fatto 
cenno.  Anche  questi  «  generi  di  realità  sentita  )>,  che  son  molti, 
altro  non  sono  che  «  generi  relativi  all'uomo  ». 

Ora  tutti  i  generi  relativi  agli  enti-principio  si  dicono  generi, 
quando  si  considerano  colla  mente  o  come  «  realità  sensifere  » 
0  come  «  realità  sentite  ■»  ;  ma  se  si  considerano  dalla  mente 
in  un  modo  più  compiuto,  uniti  cioè  all'ente-principio  essi  altro 
non-  sono  che  «  generi  determinanti  l'ente-principio  «. 

Supposta  dunque  l'idea  perfetta  dell'ente-principio,  le  idee  di 
tutti  que'  generi  relativi  a  quest'ente  si  contengono  virtualmente 
in  essa,  poiché  l'idea  specifica  piena  di  un  ente-principio  con- 
tiene necessariamente  le  correlative,  cioè  1°.  i  generi  dei  termini 


/i80 

0  dei  sentili  determinanti,  2°.  i  generi  degli  enti  estrasoggetlivi, 
(forza  e  spazio). 

Altro  dunque  non  si  richiede  per  rispondere  alla  nostra  que- 
stione se  non  dire  «  come  la  divina  mente  potè  trovare  nel 
reale  assoluto  l'idea  dei  generi  della  realità  dell'enle-principio)). 
Ora  questo  non  ha  difficoltà  se  si  considera  che  Iddio  è  senti- 
mento infinito  ,  ed  è  sentimento  infinito  intellettivo  ad  un  tempo, 
senza  distinzione  alcuna  reale.  La  divina  mente  dunque  |)oleva 
dividere  in  sé  stessa  que'  due  sentimenti  l'uno  dall'altro,  e  li- 
mitarli :  cosi  trovava  i  sommi  generi  (idee  generiche)  di  tutte  le 
realità  finite  di  cui  consta  il  Mondo. 

Li  potea  dividere  coli' astrazione  ,  li  potea  del  j)nri  limitare 
—  come  esigeva  il  proposito  di  creare  uiì  ente  limitato^  —  poiché 
per  limitare  non  fa  bisogno  aggiungere,  ma  detrarre;  e  per  de- 
trarre la  mente  non  ha  bisogno  d'aver  nova  materia,  ma  lo  fa  colle 
sue  sole  operazioni  mentali.  Queste  limitazioni  poi  erano  del- 
l'elezione della  mente,  ed  elette  quelle  che  poi  creò,  in  queste 
s'aveano  le  idee  de'  termini ,  cioè  deiresleso  e  del  sentilo,  e  delle 
cause  di  questi  termini  e  delle  loro  azioni:  cioè  di  que'  generi 
di  realità,  che  abbiamo  detta  estrasoggetliva.  Onde  la  mente 
non  aveva  bisogno  per  queste  idee,  relative  a  quelle  due  prime 
e  fondamentali  de'  generi  appartenenti  agli  enti-principio,  di  ri- 
correre ad  altro,  perchè  le  si  potea  formar  tulle  colle  sol»^  men- 
tali operazioni  su  tali  due  generi. 


Articolo  VI. 
Di  quanti  elementi  si  componga  la  forma  del  reale  finito. 

K18.  Noi  abbiamo  distinto  nel  reale  finito  la  materia  dalla 
forma. 

Abbiamo  definita  la  materia  a  ciò  che  è  il  primo  delermina- 
bile  in  ciascun  genere  •»  :  abbiamo  anche  accennato  quali  sieno 
i  diversi  generi  sommi  del  reale  finito ,  ossia  i  diversi  generi  di 
materia  di  cui  consta  il  Mondo. 

Nella  materia  c'è  il  reale  positivo  di  cui  il  mondo  è  composto  : 
ora  dobbiamo  passare  alla  forma  propria  del  reale  finito. 


usi 

Questa  forma  propria  del  reale  finito ,  per  la  quale  intendiamo 
qui  tutto  il  complesso  delle  sue  determinazioni^  parte  procede, 
abbiamo  detto,  dalla  libera  volontà  divina ,  parte  da  una  neces- 
sità conseguente. 

Per  libera  volontà  divina  intendiamo  qui  una  volontà  che 
non  è  determinata  a  tare  o  non  fare,  e  a  fare  piuttosto  in  un 
modo  cbe  in  un  altro  ,  da  ninna  entità  finita  reale  ,  e  né  pure 
dalle  idee  di  tali  entità. 

Da  questa  volontà  dipende  il  decreto  di  creare  l'ente  finito, 
e  il  crearlo  per  quel  fine  che  tale  volontà  si  propone. 

Presupposto  questo  decreto,  è  di  necessità  conseguente  che 
l'ente,  che  la  divina  volontà  vuol  creare,  sia  finito.  La  limitazione 
dunque  è  la  prima  condizione  di  quest'opera,  e  però  si  può  con- 
siderare come  il  primo   elemento  della  forma  del  reale  finito. 

Ma  la  limitazione  non  è  imposta  all'ente  finito  dalla  natura 
dell'essere  obiettivo,  il  quale  è  infinito,  ma  solamente  dal  libero 
decreto  della  volontà  di  Dio  :  la  prima  limitazione  infatti  appar- 
tiene a  quella  maniera  di  conoscere  che  abbiamo  chiamata  di 
affermazione  nascendo  dal  limite  che  si  impone  l'alto  affermativo 
della  mente ,  dal  quale  poi  solo  per  astrazione  si  ha  il  concetto 
obiettivo  di  limitazione.  Non  è  dunque  questa  una  di  quelle  qua- 
lità che  il  reale  come  concetto  riceve  dall'essere  obiettivo  de- 
terminante. Dobbiamo  dunque  considerare  la  qualità  universale 
di  limitato  come  una  condizione  preliminare  delle  determinazioni 
che  dee  ricevere  dall'essere  oggettivo  il  reale  finito,  acciocché 
sia  reso  suscettivo  dell'essere  attuante. 

Fissala  in  universale  la  limilazione  dal  decreto  della  crea- 
zione, ne  viene,  che  l'ente,  che  Iddio  vuol  creare,  dovrà  avere 
per  fondamento  uno  o  più  reali  generici,  esseiìdo  \a  limitazioìie 
propria  de'  sommi  generi  la  prima  e  la  minore  di  tutte  le  limi- 
tazioni,  e  un  subielto  dialettico  di  tutte  le  altre  posteriori. 
Laonde  le  supreme  qualità,  che  sono  le  somme  generiche,  costi- 
tuiranno il  secondo  elemento  del  reale  finito;  ed  il  primo  di 
quelli  che  vengono  imposti  al  reale  finito  dall'essere  ideale,  ac- 
ciocché possa  essere  detcrminato  all'  esistenza. 

Ora  poiché  i  sommi  generi  non  possono  esistere  altrove  che 
nella  mente,  perciò  l'essere  ideale  dà  a  questa  prima  materia 
generica  V intelligibilità  oggettiva,  e  così  la  fa  esistere.  Quest'è 
Rosmini.  Teosofia.  31 


482 

dunque  il  secondo  elemento  di  quelli  che  costituiscono  la  forma 
del  reale  finito ,  veniente  dall'essere  ideale.  Ma  questo  secondo 
elemento  non  è  già  posteriore ,  né  cronologicamente  né  logica- 
mente, ai  generi;  ma  non  è  altro  che  i  generi  stessi,  i  quali 
hanno  due  aspetti  sotto  cui  si  possono  considerare,  l'aspetto  di 
essenze  e  così  sono  supreme  qualità,  e  l'aspetto  à' idee  e  così  sono 
intelligibili.  Il  che  nasce  perché  il  reale  nella  mente ,  come  ab- 
biamo detto,  deve  sempre  partecipare  dell'  idea,  che  altramente 
non  sarebbe,  non  potendo  essere  nella  mente  se  non  in  forma 
obiettiva  come  contenente  di  esso  reale. 

Il  terzo  elemento  é  la  quantità  determinala  di  reale  di  ciascuno 
de'  generi  supremi.  Ma  questa  quantità  determinala  in  ciascuno 
de'  sommi  generi  di  reale  si  può  intendere  in  due  sensi  ;  I."  o  si 
intende  ,  che  il  reale  finito  deva  avere  una  quantità  determi- 
nata senza  dir  quale;  2.°  o  s'intende,  che  deva  avere  questa  quan- 
tità detcrminata,  fissandosene  la  precisa  misura.  In  questo  se- 
condo senso ,  cioè  quale  deva  essere  precisamente  il  quanto  della 
realità  di  cui  consti  il  Mondo,  quest'è  un  secreto  che  giace  nel- 
l'abisso del  fine  che  s'è  proposto  Iddio,  e  non  é  qui  il  luogo 
d'esaminare,  se  nulla  si  possa  ragionare  su  di  ciò  dall'uomo, 
ma  ne'  libri  cosmologici.  All'  incontro  il  dire  in  universale,  che 
il  reale  finito,  supposto  che  deva  esser  creato,  conviene  che  abbia 
una  determinata  quantità,  qualunque  poi  ella  sia,  questo  vedesi 
necessario  ,  ed  è  certamente  un  elemento  imposto  al  reale  fi- 
nito dall'essere  ideale ,  nella  divina  mente,  prima  che  sia  creato. 

Dati  dunque  i  sommi  generi  di  cui  consta  il  Mondo  e  la  loro 
essenziale  intelligibilità,  e  data  una  quantità  determinata  di  essi, 
restano  a  considerare  le  altre  condizioni  che  dee  avere  questo 
reale,  acciocché  riceva  l'essere  attuante  e  diventi  ente  reale.  Ora 
quella  condizione,  che  abbraccia  tutte  le  altre  inferiori,  si  è  ch'egli 
sia  uno.  Questo  risulta  da  quello  che  abbiam  dello  ,  e  per  ri- 
chiamarne alla  mente  una  prova  atta  ad  essere  ristretta  in  po- 
che parole  diremo  così:  «  Il  reale  non  può  acquistare  un'esi- 
stenza subiettiva  se  non  diventi  un  subietto.  Ma  il  subielto  è  «  ciò 
che  v'ha  di  primo ,  e  di  contenente  tutto  il  resto  che  si  trovi 
nell'ente  e  che  è  causa  dell'unità  dell'ente  »  ,  dunque  ogni  ente 
che  abbia  un'esistenza  subiettiva  o  gliela  si  attribuisca ,  deve  es- 
sere uno  in  sé,  o  deve  avere  quell'unità  che  gli  si  attribuisce  ». 


485 

L'essere  uno   dunque  è  il  quarto  degli   elementi  che  entrano  a 
costituire  la  forma  del  reale  finito. 


Articolo  VII. 

Determinazioni  cornimi  ad  ogni  ente  finito ,  e  determinazioni 
non  comuni. 

519.  Le  quattro  determinazioni  della  qualità  generica,  éeW intelli- 
gibilità obiettiva,  della  quantità  determinata,  e  deWnnità  sono  uni- 
versali ;  cioè  niun  reale  finito  potrebbe  ricevere  Tessere  attuante, 
e  così  divenire  un  ente  reale  finito,  se  gli  mancasse  nella  mente 
creatrice  una  sola  di  quelle  quattro  determinazioni. 

Laonde  in  ogni  ente  finito  quelle  determinazioni  si  devono 
ugualmente  riscontrare  a  cagione  che  le  esige  il  nesso  tra  il 
reale  e  l'essere  ,  di  maniera  che  sono  condizioni  indispensabili 
a  questo  nesso  medesimo. 

Esse  si  possono  chiamare  ugualmente  determinazioni  del  reale 
finito,  ovvero  determinazioni  deliente  finito,  perchè,  come  abbiamo 
veduto,  l'ente  finito  «è  il  reale  finito  coU'essere  »,  e  non  è  già 
((  l'essere  col  reale  finito».  Esse  appariscono  dunque  come  ca- 
ratteri e  predicati  comuni  di  ogni  ente  finito  possibile. 

Ma  esse  non  sono  già  proprietà  ugualmente  dell'Ente  infinito. 
Poiché  l'Ente  infinito  non  ha  punto  né  la  qualità  generica  ,  né 
la  quantità  determinata,  che  derivano  dalla  limitazione  del  reale. 
E  però  queste  due  non  sono  elementi  ontologici,  ossia  proprietà 
del  puro  ente,  perchè  l'ente  può  concepirsi  senz'esse,  ma  sono 
proprietà  dell'ente  finito  e  però  elementi  cosmologici. 

L'intelligibilità  obiettiva  e  Vunità  si  trovano  nell'  Ente  infinito, 
ma  non  in  quel  modo  che  nel  finito. 

Poiché  il  reale  finito  sotto  la  forma  di  reale  non  è  intelligi- 
bile, se  non  posteriormente,  non  come  obietto  ma  solo  per  via 
d'affermazione  nell'obietto  :  all'incontro  il  reale  infinito  è  l'es- 
sere stesso  nella  forma  di  reale  ,  e  però  è  intelligibile  per  sé 
come  affermato  ad  un  tempo  e  come  obietto.  Il  reale  finito 
dunque  non  ha  l' intelligibilità  in  sé,  ma  ne  partecipa,  e  ne 
partecipa  per  la  forma  obiettiva  che  precede  nella  mente  divina, 


kSk 

e  questa  forma  obiettiva  non  esiste  per  sé,  ma  per  opera  della 
divina  mente  che  la  trae  dall'oggetto  reale  infinito  dove  vir- 
tualmente   si  contiene. 

Del  pari  Vunilà  non  è  propria  del  reale  finito  ,  il  quale  si 
concepisce  come  genere  indeterminalo ,  senza  unità  subiettiva  : 
ma  quella  gli  viene  aggiunta  come  sua  determinnzione  e  forma 
dalla  stessa  mente  divina.  Onde  il  reale  finito  non  ha  di  novo 
l'unità  ,  che  per  partecipazione  ,  e  per  una  partecipazione  che 
non  dipende  da  lui,  ma  dalla  mente  divina  che  gliela  impone, 
acciocché  possa  essere  suscettivo  dell'esistenza  in  sé. 

Ora  queste  quattro  determinazioni  universali  ossia  comuni 
aìVente  finito,  e  nascenti  dal  nesso  del  suo  elemento  reale  col- 
i'altro  suo  elemento  l'essere  attuante  ,  ne  contengono  sotto  di 
sé  altre  di  generiche,  di  specifiche^  di  proprie,  di  accidentjili  : 
tutte  quelle  in  una  parola  che  sono  necessarie  a  ciascuna  spe- 
cie acciocché  divenga  sprcie  piena,  la  qual  sola  può  essere  esem- 
plare ad  un  ente  reale,  che  esista  in  sé.  Ma  di  queste  deve  trat- 
tare principalmente  la  Cosmologia. 

A  noi  resta  di  ragionare  di  ciascuna  di  quelle  quattro  deter- 
minazioni universali  del  reale  finito  ,  che  gli  vengono  imposte 
dall'essere  ideale,  acciocché  possa  poi  esistere  come  ente. 


CAPITOLO  II. 


Continuazione.  —  Del  primo  elemento  della  forma  finita  comune 
ad  ogni  ente  finito,  la  somma  qualità  generica. 

520.  Fu  già  fatta  la  questione  se  il  concetto  di  qualità  nell'ordine 
logico  preceda  quello  di  quantità  o  questo  preceda  quello.  Ari- 
stotele nel  libro  delle  Categorie  colloca  la  quantità  prima  della 
qualità,  benché  in  altri  luoghi  nomini  la  quantità  dopo  la  qua- 
lità. Questa  é  questione  puramente  dialettica  a  cagione  dell'a- 
strazione con  cui  si  concepiscono  que' concetti ,  cioè  a  cagione 
che  si  sono  separati  quelli  che  si  chiamarono  predicabili ,  da 
quelli  che  si  chiamarono  predicamenti.  Noi  che  qui  facciamo 
l'ufficio  d'Ontologi  dobbiamo  riunirli,  e  però  consideriamo  la  qua- 


lità  nel  sommo  genere,  e  non  la  qualità  senza  definire  se  sia  ge- 
nerica e  di  qual  genere,  specifica  e  di  quale  specie. 

Parlando  dunque  di  quella  qualità  che  appartiene  ai  generi 
supremi  del  reale  ,  non  è  più  dubbio  ,  ch'ella  sia  un  concetto 
che  precede  a  quello  di  quantità  :  perchè  niente  nell'universo 
si  potrebbe  concepire ,  se  prima  non  si  concepisse  qualche 
sommo  genere  di  realità.  Per  questo  abbiam  detto  i  sommi  ge- 
neri della  realità  essere  le  fondamenta  dell'universo. 

Ora  i  sommi  generi  della  realità  non  esistono  distinti  che 
nella  mente:  e  però  le  fondamenta  dell'universo  giacciono  nelle 
menti. 

La  Mente  divina  vede  i  sommi  generi  nell'Oggetto  reale  as- 
soluto, dove  esistono  virtualmente,  e  per  astrazione  li  distingue  : 
li  vede  dunque  nell'essere  obiettivo  ideale  ossia  astratto  dal 
reale  assoluto. 

La  mente  umana  li  vede  nel  reale  finito  percepito,  cioè  ve- 
stito dell'essere  obicttivo  ideale,  li  vede  dunque  per  astrazione 
in  quell'essere  obiettivo  ideale. 

La  mente  divina  li  vede  coU'atto  stesso  con  cui  li  determina 
e  determinati  li  pronuncia  enti  finiti,  e  li  crea. 

La  mente  umana  ritorna  indietro,  e  da  questi  enti  finiti  reali 
già  esistenti  viene,  universalizzando  e  astraendo,  a  intuire  i 
sommi  generi  nello  stesso  essere  ideale. 


CAPITOLO  IH. 

Continuazione. — Del  secondo  elemento  della  forma  finita 
comune  ad  ogni  ente  finito,  l' intelligibilità  obiettiva. 

521 .  Noi  abbiamo  distinte  le  proprietà  sue  proprie  che  l'essere 
comunica  ai  reali  finiti  nell'atto  d'attuarli  come  enti,  da  quelle 
proprietà  che  1'  essere  comunica  ai  reali  finiti  prima  di  essere 
attuati  ad  un'esistenza  in  sé,  cioè  ohe  loro  comunica  quando 
ancora  sono  nella  forma   obiettiva  d'idea. 

Tra  quelle  prime  proprietà  abbiamo  collocata  l'intelligibilità, 
{h99-^OÌ),  e  questa  stessa  intelligibilità  la  troviamo  anche 
tra  le  seconde. 


486 

Ma  è  assai  differente  il  modo  nel  quale  l'essere  comunica  l' in- 
telligibilità ai  reali  mentre  si  trovano  ancora  nella  forma  ideale, 
dal  modo  nel  quale  comunica  l'intelligibilità  ad  essi  nell'atto 
in  cui  li  fa  sussistere  con  esistenza  propria.  Le  differenze  tra 
queste  due  maniere  d' intelligibilità  del  reale  finito  sono  le  se- 
guenti : 

Prima  differenza.  — L'essere  comunica  un* intelligihilità  obiet- 
tiva 0  d' intuizione  ai  reali  prima  che  sussistano,  mentre  ancora 
sono  puri  termini  della  mente. — L'essere  attuante,  cioè  nell'atto 
in  cui  li  fa  sussistere ,  comunica  ai  reali  un'  intelligibilità  subiet- 
tiva 0  d'  affermazione. 

Seconda  differenza.  —  L'intelligibilità  obiettiva  o  d'intuizione 
non  fa  conoscere  il  reale  come  sussistente ,  ma  come  possibile 
a  sussistere.  —  h'  intelligibilità  subiettiva  o  d'affermazione  fa  cono- 
scere il  reale  come  sussistente. 

Terza  differenza.  —  L' intelligibilità  obiettiva  per  Io  più  è 
universale,  perchè  molti  e  anzi  indefiniti  individui  sussistenti 
hanno  quell'identica  essenza  che  s'intuisce  nella  loro  intelli- 
gibilità obiettiva.  —  h' intelligibilità  subiettiva  o  d'affermazione  è 
singolare,  cioè  non  fa  conoscere  mai  altro  che  un  solo  indivi- 
duo sussistente. 

Quarta  differenza.  —  U intelligibilità  obiettiva  e  d'intuizione 
d'un  reale  nella  sua  forma  idealo  si  riferisce  ad  una  mente  stra- 
niera al  reale  stesso  conosciuto,  perchè  questo  è  ancora  puro  og- 
getto, e  una  mente  è  soggetto  :  ora  il  reale  finito  come  obietto 
non  può  essere  un  reale  subietto  e  però  non  può  essere  la  mente 
a  cui  il  reale  oggetto  si  riferisca. — L' intelligibilità  subiettiva  o  di 
affermazione  si  può  riferire  ad  una  mente  che  sia  lo  stesso  reale 
finito,  come  accade  quando  la  mente  umana  afferma  sé  stessa. 

Quinta  differenza. — L'intelligibilità  subiettiva  del  reale  finito 
è  logicamente  posteriore  all'  intelligibilità  obiettiva  e  da  quella 
dipendente,  come  l'essere  subiettivo  e  attuante  è  un  concetto  lo- 
gicamente posteriore  all'essere  obiettivo  e  intelligibile.  La  di- 
pendenza e  posteriorità  logica  tra  V  intelligibilità  subiettiva  e  Vo- 
biettiva  è  quella  stessa  che  si  ravvisa  tra  l'affermazione  e  l'in- 
tuizione. Non  si  può  affermare  ciò  che  prima  non  si  conosce  : 
la  cognizione  dunque  che  viene  dall'  affermazione  suppone  una 
cognizione  precedente  e  questa  è  l'oggettiva. 


487 

522.  L'affermazione  è  divina  ed  umana.  Coll'affermazione  divina 
è  dato  al  reale  finito  l'esistenza  subiettiva  e  simultaneamente  l'in- 
telligibilità subiettiva  rispetto  a  Dio;  coli' umana  viene  dato  al 
reale  finito,  già  creato,  l'esistenza  subiettiva  e  simultaneamente 
rintelligibilità  subiettiva  rispetto  all'uomo  affermante. 

L'affermazione  divina  è  efficace,  perchè  è  un  atto  dell'  essere 
che  produce  ente:  l'affermazione  umana  è  affermazione  d'una 
mente  che  non  è  l'essere,  ma  solo  mente  (reale  finito),  e  quindi 
produce  soltanto  cognizione  e  persuasione. 

L'affermazione  divina  efficace  produce  il  reale  finito  insieme 
coll'essere,  affermandolo.  Il  termine  di  quest'affermazione  sono  le 
menti  finite  con  tutto  il  resto  dell'universo  che  si  riferisce  a  que- 
ste menti.  Le  menti  coll'affermazione  divina  sono  costituite  in 
modo  che  loro  è  dato  ad  intuire  l'essere  oggettivo  :  onde  l'alto 
subiettivo  dell'affermazione  divina  nella  costituzione  delle  menti 
finite  non  ha  per  termine  solamente  il  reale  finito,  ma  ancora 
la  manifestazione  a  questo  dell'essere  obiettivo  ideale,  la  quale 
manifestazione  è  affermata  insieme  col  principio  subiettivo  e 
reale  della  mente. 

Di  che  apparisce  che  l'Essere  nella  forma  subiettiva  ed  af- 
fermante 0  pronunciante  dispone  anche  dell'  essere  obiettivo  a 
favore  degli  enti  che  crea,  a  questi  manifestandolo,  e  comuni- 
candolo come  forma  loro  obiettiva  causante  la  loro  slessa  su- 
bietlività. 

Ma  ritornando  ora  indietro,  abbiamo  posta  la  prima  intelligibi- 
lità obiettiva  de'  reali  finiti  nei  sommi  generi  di  questi.  Infatti 
se  questi  non  fossero  prima  di  tutto  intelligibili,  né  potrebbero 
essere  nella  mente  dove  solamente  possono  concepirsi  esistenti , 
né  sarebbe  più  possibile  spiegare  l'intelligibilità  delle  altre  cose 
mondiali  che  ne'  sommi  generi  hanno  il  loro  primo  fondamento 
e  il  primo  subietto  dialettico  proprio  delle  cose  finite.  Perocché 
l'essere  é  subietto  dialettico  trascendente  tutte  le  cose  finite. 

Risiedendo  dunque  la  prima  intelligibilità  obiettiva  propria 
dell'  Universo  ne'  sommi  generi  delle  realità  di  cui  questo 
consta  ;  procede  che  questa  stessa  intelligibilità  de'  sommi 
generi  si  propaghi  ai  generi  minori  ,  e  alle  specie  astraile  ,  e 
finalmente  alle  specie  piene  ,  e  così  tutto  l'  universo  ideale  sia 
intelligibile  d'  intelligibilità    obiettiva  ,  rimanendo  solo  l'  ultimo 


/I88 

alto  che  è  quello  dell'essere  attuante;  il  quale  non  è  intelligi- 
bile per  sé  stesso,  se  è  diviso  dall'essere  oggettivo.  Ma  acquista 
r  intelligibilità  subiettiva  come  abbiamo  detto  dall'  affermazione 
della  mente  .,  affermazione  però  che  non  può  concepirsi  senza  che 
preceda,  in  chi  la  fa,  l'intuizione  o  come  che  sia  il  possesso  deì- 
V  inteliigibilità  obiettwa;  perocché  é  questa  che  viene  applicata 
a  quell'ultimo  atto  del  reale  dalla  mente  affermante  colla  sua 
affermazione. 

CAPITOLO  IV. 

Continuazione. —  Del  terzo  elemento  della  forma  finita  comune 
ad  ogni  ente  finito,  la  quantità  determinata. 

Articolo  I. 
Origine  delV infinità  e  dell'universalità  delle  idee. 

523.  I  sommi  generi  della  realità  hanno  essi  qualche  quantità  ? 
non  sono  infiniti  riguardo  alla  propria  essenza  ? 

Ciascuno  di  essi  non  ha  altra  limitazione  che  la  prima  di  tutte, 
che  è  appunto  quella  che  consiste  nell'essere  sommi  generi  ,  e 
però  nel  distinguersi  reciprocamente,  l'uno  non  esser  l'altro,  né 
potersi  mutare  nell'altro. 

E  veramente  se  prendiamo  per  sommo  genere  il  sentimento 
puro  ,  egli  è  evidente,  che  nel  concetto  di  sentimento  puro  non 
c'è  limitazione  di  quantità,  ma  solamente  di  qualità  generica,  e 
però  niente  ripugna  che  esistano  degli  enti  puramente  sensitivi 
fino  a  qualunque  numero  indefinitamente:  il  genere  del  senti- 
mento non  si  esaurirà  mai  nella  mente,  né  si  diminuirà  per 
questo. 

Ne'  sommi  generi  dunque  risiede  prima  che  in  ogni  altro  ele- 
mento del  reale  finito  l'universalità  ,  che  è  un'infinità  unilate- 
rale che  esclude  qualunque  quantità  determinata.  Quest'infinità 
de' sommi  generi  com'è  la  prima,  così  è  la  massima  infinità 
che  si  scorga  negli  elementi  del  reale  finito,  e  ciò  perchè  i  som- 
mi generi  sono  più  vicini,  nell'ordine  di  logica  processione,  al 


489 

reale  infinito,  dove  esistono  virtualmente,  e  donde  la  mente  di- 
vina li  trae  coll'aslrazione  prima  d'ogni  altro  elemento,  prima 
cioè    logicamente. 

Poiché  esiste  veramente  una  processione  e  successiva  evolu- 
zione logica  0  mentale,  per  la  quale  un  elemento  esce  dall'al- 
tro, dove  virtualmente  si  contiene,  sempre  per  opera  della  mente, 
la  qual  successione  non  è  già  nell'  atto  della  mente  infinita  , 
unico  che  tutto  abbraccia,  ma  è  una  relazione  che  passa  tra  gli 
anelli  della  serie  ideale  ch'ella  abbraccia.  Laonde  si  può  stabi- 
lire questo  principio ,  che  «  ogni  entità  che  emani  e  proceda  , 
per  opera  della  mente  ,  dal  reale  infinito  ,  conserva  tanto  più 
dell'infìnilà  di  questo,  quant'  è  pii!i  prossima  al  fonte  dell'emana- 
zione 0  processione  •». 

Il  procedere  è  il  passare  per  opera  della  mente  dalla  virtua- 
lità all'esistenza  propria  e  distinta.  Laonde  se  noi  concepiamo 
una  serie,  della  quale  il  primo  termine  sia  il  reale  infinito  che 
virtualmente  contiene  ogni  reale  finito,  e  l'ultimo  termine  sia 
l'ente  reale  finito  singolare  avente  un'esistenza  propria  ,  trove- 
remo che  le  prime  entità  che  mentalmente  emanano  sono  i 
sommi  generi,  e  ciascuno  di  questi  ritiene  una  virtualità  mas- 
sima relativamente  alle  altre  entità  mondiali.  Se  da  questi  sommi 
generi  la  mente,  apponendo  loro  certe  differenze  ,  cava  de'  ge- 
neri sempre  meno  estesi,  e  poi  le  specie  astratte,  e  poi  le  spe- 
cie piene,  e  finalmente  i  reali  singolari  mediante  l'essere  che 
attua  e  realizza  quelle  specie  piene ,  noi  vediamo  che  la  vir- 
tualità,  r  universalità  e  l'  infinità  si  va  sempre  più  diminuendo 
fino  a  tanto  che  rimane  del  tutto  esaurita  noli'  ultimo  anello, 
cioè  nel  reale  che  avendo  ricevuto  l'ultimo  atto  dell'essere  è  di- 
venuto un  ente  singolare  avente  una  propria  e  subiettiva  esistenza. 

E  quest' è  quello  che  rende  ragione  dell'infinità  o  universa- 
lità delle  idee  :  la  quale  a'  sommi  generi  viene  dal  reale  infi- 
nito, alle  idee  meno  estese  fino  alle  idee  specifiche  piene  viene 
partecipata  di  mano  in  mano  da'  sommi  generi  ,  dove  risiede 
come  in  propria  e  prima  sede,  parlando  di  lutto  il  mondo  delle 
idee.  Come  dunque  da' sommi  generi  discende  tutta  l'intelligi- 
bilità obiettiva  del  mondo  ,  così  dagli  stessi  sommi  generi  di- 
scende pure  ogni  infinità  e  universalità  che  la  mente  concepisca 
quando  considera  le  entità  mondiali. 


490 

Ora  egli  è  evidente  che  in  tulle  queste  entilà^  cioè  in  queste 
idee  degli  elementi  del  reale  finito,  non  c'è  la  quantità  da  quel 
lato  dal  quale  sono  infinite,  perchè  l'infinito  esclude  la  quantità. 
Sotto  questo  rispetto  dunque  le  idee  non  hanno  quantità. 

Ma  posciachè  i  sommi  generi,  e  mollo  più  le  idee  meno  estese, 
hanno  dei  liFiiiti,  non  si  potrà  concepire  in  essi  rispetto  a  questi 
qualche  quantità  ?  Per  poter  dare  una  risposta  a  questa  do- 
manda, conviene  che  prima  di  tutto  investighiamo  che  cosa  sia  la 
quantità. 

Articolo   II. 

Definizione  della  quantità. 

524.  La  quantità  è  «  la  relazione  d'un'entità  co'  suoi  limiti  ». 
Questa  definizione  è  universalissima  e  abbraccia  ogni  maniera 

di  quantità. 

Conviene  dunque  osservare,  che  la  quantità  risolvesi  nel  con- 
cello d'una  relazione  tra  1'  entità  e  i  limiti  di  cui  è  vestita.  Ora 
l'entità  di  cui  si  considera  la  relazione  colimiti  entro  a'  quali  esi- 
ste può  variare,  cioè  può  essere  questa  o  quella  entità  che  si 
prende  a  considerare.  Quindi  secondo  che  varia  l'entità,  riceve  un 
diverso  valore  la  definizione,  e  s'ha  in  essa  una  diversa  maniera 
di  quantità. 

Articolo   III. 

Della  quantità    ontologica. 

525.  A  ragion  d'esempio,  se  l'entità  di  cui  si  cerca  la  quantità 
è  il  reale  infinito  in  quanl'è  nella  mente,  ne'  sommi  generi  del 
reale  finito ,  noi  vediamo  «  il  reale  infinito  dalla  mente  rac- 
chiuso entro  limitazioni  sommamente  generiche  ».  In  ciascun  ge- 
nere sommo  si  può  considerare  dunque  una  quantità  :  ma  di  qual 
natura?  Una  quantità  che  è  tale  solo  relativamente  al  reale  infi- 
nito ,  in  quanto  esiste  nella  mente  divina  che  lo  limita  ,  ossia 
una  quantità  che  è  tale  solo  relativamente  all'essere  indetermi- 
nato oggetto  dell'intuizione  umana  che  virtualmente  comprende 


491 

il  reale  infinito.   Noi  chiameremo  questa  maniera  di   quantità 
«  quantità  ontologica  ». 

La  quantità  ontologica  è  dunque  quella  nella  quale  si  considera 
r  essere  limitato,  ossia  l'essere  in  quant'è  racchiuso  da'  limiti  : 
e  questa  si  può  anche  dire  «  quantità  di  essere  ». 

Ma  poiché  l' essere  indeterminato  contiene  virtualmente  tutt'e 
tre  le  sue  forme ,  perciò  la  quantità  ontologica  sarà  triplice  , 
ossia  ci  saranno  tre  quantità  categoriche  ,  ciascuna  ontologica  , 
secondo  che  si  considererà  1'  essere  dentro  a  confini  ideali  ,  o 
dentro  a  confini  reali,  o  dentro  a  confini  morali:  quantità  ideale, 
quantità  reale,  quantità  morale  ,  e  ciascuna  di  queste  categorie 
di  quantità  di  essere  sarà  convenientemente  chiamata  onto- 
logica. 

In  ciascuna  di  queste  tre  categorie  di  quantità  è  1'  essere  che 
da  noi  si  considera  come  limitato  ,  ma  nella  prima  è  1'  essere 
in  quanto  virtualmente  contiene  la  forma  obiettiva ,  nella  se- 
conda è  r  essere  in  quanto  virtualmente  contiene  la  forma 
subiettiva,  nella  terza  è  l'essere  in  quanto  virtualmente  contiene 
la  forma  morale. 

La  quaìitità  ontologica  dunque  c'è  anche  ne'  sommi  generi  del 
reale  finito ,  e  da  questi  si  comunica  a  tutte  le  entità  inferiori 
ad  essi;  poiché  in  ciascuna  di  queste  si  può  considerare  l'essere 
reale  come  limitato,  e  stabilire  una  serie  Ai  gradi  di  essere  reale, 
secondo  che  crescendo  la  limitazione  diminuisce  il  reale  stesso 
racchiuso  da  esse. 

Ma  poiché  i  sommi  generi  de'  reali  finiti  contengono  il  reale 
sotto  la  forma  obiettiva,  che  altramente  non  potrebbero  essere 
né  concepirsi,  perciò  ne'  sommi  generi  ,  come  pure  in  tutte  le 
entità  inferiori  fino  alla  specie  piena,  si  pensa  l'essere  ideale  , 
—  che  è  l'oggettivo  virtuale  —  e  l'essere  reale  insidente  in  esso. 
Perciò  le  idee  sommamente  generiche  come  pure  tutte  le  altre 
idee  inferiori  possono  essere  considerate  in  relazione  alle  due 
forme  dell'essere,  cioè  all'essere  obiettivo  ideale  contenente  ,  e 
all'  essere  subiettivo  e  reale  contenuto.  Possono  essere  conside- 
rate in  relazione  al  primo  in  quanto  sono  idee ,  possono  essere 
considerale  in  relazione  al  secondo  in  quanto  la  natura  che  in- 
siede in  esse  è  realità:  nel  primo  modo  sono  «  l'essere  ideale 
limitato  »,  nel  secondo  sono  «  l'essere  reale  limitato  ». 


un 

Quesl'è  l'origine  delle  due  quantità  ontologiche,  che  si  osser- 
vano nelle  idee  e  che  si  chiamano  l'estensione  e  la  comprensione 
{Logic.  317,  318,  380,  ^»0C,  414,  416).  La  prima  è  la  quan- 
tità dell'idea  considerata  come  «  essere  ideale  limitato  «^  la  se- 
conda è  la  quantità  dell'idea  considerata  «  come  reale  limitalo  » 
in  quant'essa  contiene  il  reale. 

52G.  Ora  può  sorprendere  il  vedere  che  l'una  di  queste  quantità 
va  in  ragione  inversa  dell'altra;  può  quindi  domandarsi:  «  per- 
chè r  essere  ideale  quant'è  più  ampio  contiene  meno  di  reale? 
e  perchè  quanto  contiene  più  di  reale ,  rimane  più  limitato  ? 
Nell'Essere  infinito  non  è  egli  in  perfetto  accordo  la  forma  obiet- 
tiva colla  subiettiva  e  reale.?  non  è  l'una  e  l'altra  ugualmente 
infinita  ?  Per  qual  ragione  dunque  dee  tenere  un'  altra  legge  il 
reale  e  l'ideale  nella  sfera  dell'ente  finito  «  ? 

La  domanda  stessa  suggerisce  anche  la  risposta ,  trovandosi 
appunto  la  differenza  tra  l'ente  infinito  e  il  finito.  Come  abbiamo 
già  veduto,  il  reale  finito  non  è  essere,  ma  puro  termine  dell'es- 
sere :  all'incontro  il  reale  infinito  è  egli  stesso  essere»  Essendo 
dunque  essere  per  sé  tanto  l'oggetto  infinito  quanto  il  reale  in- 
finito, l'uno  adegua  all'altro,  e  ninno  dei  due  può  essere  o  mag- 
giore 0  minore  dell'altro.  All'incontro  che  cosa  è  il  reale  finito? 
È  appunto  quello  che  limita  l'essere:  poiché  l'essere  in  sé  non 
può  a  meno  d'  essere  infinito  ,  ma  dal  reale  finito  riceve  una 
limitazione  relativa  a  questo  reale,  in  quanto  attua  questo  solo 
tanto  quanto  questo  é,  e  non  più.  Il  limite,  abbiamo  detto,  del- 
l'ente finito  non  viene  dall'essere,  ma  dal  reale.  Quanto  dunque 
un  reale  finito  è  più  ultimato,  e  progredito  verso  la  sua  esistenza 
propria  e  subiettiva,  tant'è  più  completa  e  di  conseguenza  mag- 
giore la  Umilazione  che  adduce  nell'  ideale,  perchè  quanto  un 
reale  finito  è  più  completo  ed  ultimato  ,  tanto  altresì  è  più 
reale. 

Ogni  reale  finito  dunque  ha  una  limitazione  sua  propria  indi- 
pendente dall'  essere  obiettivo  ,  e  veniente  dalla  libera  volontà 
di  colui  che  creandolo  gliela  impose.  Ma  fissata  questa  limitazione, 
ella  si  divide  in  più  elementi  cioè  negli  elementi  generici  ,  e  spe- 
cifici e  in  quelli  della  specie  piena,  dopo  la  quale  il  reale  finito 
uscendo  dall'involucro  dell'obiettivo  ideale  quasi  dall'evo,  e  rice- 
vendo così  l'alto  dell'essere  subiettivo,  con  questo  riceve  l'ultimo 


/i95 

elemento  della  sua  determinazione  ed  è  costituito  ente  reale  esistente 
in  sé,  ente  subiettivamente  considerato.  Quest'ultima  limitazione 
essendo,  come  dicevamo,  l'esistenza  subiettiva,  esce  interamente 
dall'essere  oggettivo  —  non  è  più  idea,  —  e  accioccbò  sia  cono- 
sciuto conviene  che  una  mente  all'  essere  obiettivo  ideale  lo  rap- 
porti e  ricongiunga.  Ma  gli  elementi  anteriori  della  realità  finita 
rimangono  insidenti  nell'  oggettività  ideale  dell'essere,  e  quindi 
restringono  l'ampiezza  dell'essere  ideale,  conservando  però  sem- 
pre qualche  cosa  della  sua  infinità. 

5:27.  Proprietà  della  qu;intità  ontologica  è  di  non  aver  misura 
altra  che  proporzionale.  La  ragione  si  è  che  essendo  ella  quantità 
dell'essere,  e  l'essere  essendo  infinito,  non  può  darsi  una  mimra 
alta  a  misurar  l'essere. 

Rimane  dunque  che  si  conosca  soltanto  «  il  più  e  il  meno», 
ma  non  il  quanto  di  più  o  di  meno.  Per  esempio,  conosciamo  che 
la  realità  generica  è  minore  della  realità  assoluta  infinitamente, 
cioè  senza  quanto.  Chiameremo  questa  quantità  trascendente,  e 
la  definiremo  «  quella  in  cui  si  conosco  il  più  e  il  meno ,  ma  non 
il  quanto  di  questo  più  o  di  questo  meno,  perchè  infinito  ».  Una 
tale  quantità  diviene  «  quantità  trascendente  di  proporzione  )>, 
quando  con  essa  si  determina  con  qual  proporzione  stiano  al- 
l'essere due  0  più  entità  finite.  A  ragion  d'esempio,  se  si  parla 
d'una  quantità  categorica,  «  della  quantità  di  essere  obiettivo,  »  si 
potrà  dire  che  la  specie  ha  meno  d'essere  obiettivo  d'un  qenere. 
Se  si  parla  «  della  quantità  dell'essere  reale  »  si  potrà  dire  che  un 
ente  intellettivo  finito  ha  più  di  reale  che  non  sia  un  ente  finito 
solamente  sensitivo  )>. 

La  quantità  infinitiva  di  proporzione  è  dunque  «  quella  che 
commisura  più  entità  finite  tra  loro  rispetto  a  ciò  che  partecipano 
d'  una  terza,  senza  poterne  rilevare  un  quanto  determinato,  ma 
solo  riconoscendo  che  una  ne  partecipa  più,  un'altra  meno  ». 

Questa  quantità  ontologica  riesce  nondimeno  di  somma  im- 
portanza per  istabilire  il  prezzo  morale  delle  cose  {Princip.  della 
Scienza  morale  e.  II,  a.  i.). 


un 

Articolo  IV. 
Della  quantità  ontologica  astratta. 

528.  Abbiamo  detto,  che  «  la  quantità  è  la  relazione  d'un'enlità 
coi  suoi  limiti,  »  e  che  si  hanno  le  diverse  maniere  di  quantità  col 
sostituire  in  tale  definizione  alla  parola  entità  l'uno  o  l'altro  va- 
lore. Prendendo  a  fare  questa  sostituzione  per  trovare  le  di- 
verse maniere  di  quantità,  abbiamo  cominciato  dal  prendere 
l'essere  in  luogo  di  quella  parola  entità,  e  abbiamo  così  trovato 
la  quantità  (mtologica,  che  si  può  definire  «  la  relazione  dell'  es- 
sere co'  suoi  limiti  ». 

L'essere  è  sussistente  nelle  sue  tre  forme:  quindi  abbiamo  de- 
dotto pure  tre  categorie  della  quantità  ontologica. 

Ma  noi  abbiamo  distinto  l'essere  ideale  dall'essere  obiettivo  as- 
soluto. E  abbiamo  detto,  che  rispetto  alla  Mente  creatrice  l'es- 
sere ideale  è  una  specie  di  astratto  ,  che  contiene  virtualmente 
tanto  il  reale  infinito  obiettivo  ,  quanto  il  reale  finito.  Questo 
essere  indeterminato  è  l'oggetto  dell'intuito  umano. 

Di  più ,  noi  stessi  per  mezzo  dell'  astrazione  possiamo  trovare 
molli  concetti  elementari  dell'essere  {Ideol.  575),  sia  che  si  con- 
sideri come  essere  indeterminato  senza  più,  sia  che  si  consideri 
come  ciascuna  delle  sue  tre  forme,  virtualmente  comprose  in  esso: 
e  allora  l'essere  diventa  nella  nostra  mente  ora  l'alto,  ora  l'uno , 
ora  il  possibile,  ora  l'universale,  ora  il  necessario,  ora  l'immuta- 
bile, ora  ciò  che  assolutamente  è,  e  così  via  via. 

Vi  ha  dunque  una  quantità  ontologica  d'idealità,  una  quantità 
di  atto ,  una  quantità  di  unità,  una  quantità  di  possibilità,  una 
quantità  d'universalità,  una  quantità  d'immutabilità,  una  quantità 
di  assolutezza,  ecc.^  e  tutte  queste  corrispondono  alla  quantità 
dell'essere. 

Per  distinguere  questa  quantità  considerata  non  nell'  essere  , 
ma  ne'  suoi  concetti  astratti  ed  elementari  ,  noi  la  chiamiamo 
«  quantità  ontologica  astratta  o  elementare  ». 

Ma  con  eguale  diritto  si  potrebbe  chiamare  questa  quantità  an- 
che «  cosmologica  fondamentale,  »  perocché  essa  non  si  riferisce 
immediatamente  all'essere  assoluto,  ma  all'essere  in  qualche  modo 


limitato  ,  e  lutti  gli  elementi  dell'essere  nella  mente  divina  ed 
umana  non  esistono  distinti,  ma  la  loro  distinzione  è  il  principio  o 
cominciaraenlo  dell'atto  creativo. 


Articolo  V. 

Continuazione.  —  Quantità  discreta.  —  L'uno  astratto  è  misura 
assolutamente ,  e  non  misurato:  tutte  le  altre  misure  sono  misura- 
bili e  ricevono  l'essere  misure  da  esso. 

5i9,  Tra  queste  quantità  ontologiche  elementari,  o,  se  piace 
più,  cosmologiche  fondamentali,  merita  una  maggior  conside- 
razione quella  che  ci  si  presenta  quando  si  considera  Y  essere 
come  uno  astratto. 

Poiché  ['uno  astratto  non  ammettendo  alcuna  quantità  intrin- 
seca, essendo  anzi  un  concetto  che  nega  ogni  quantità  intrin- 
seca, ammette  non  di  meno  la  quantità  che  si  dice  discreta,  la 
quale  dà  materia  all'aritmetica  e  a  tutte  le  scienze  che  sull'a- 
ritmetica si  fondano. 

E  che  questa  quantità  discreta  sia  ontologica  astratta,  e  non 
puramente  cosmologica  ,  cioè  cavata  dall'astrazione  puramente 
dagli  enti  finiti  ,  vedesi  dal  considerare  che  è  essenziale  all'es- 
sere il  numero  tre  delle  forme,  dal  qual  numero  venir  possono, 
per  opera  della  mente,  tutti  i  numeri  e  tutte  le  operazioni  arit- 
metiche. 

Ma  qui  si  consideri  che  questa  maniera  di  quantità  ha  una 
proprietà  che  la  fa  differire  dalle  altre  quantità  ontologiche  ele- 
mentari in  questo  che  l'astrazione  del  concetto  non  si  fa  sull'es- 
sere, ma  sulle  sue  tre  forme.  Ora  l'essere  è  uno  e  non  molti- 
plice,  essendo  identico  nelle  forme.  Onde  se  si  astrae  1'  unità 
dall'essere,  non  ci  dà  che  l'uno,  cioè  la  negazione  d'ogni  quan- 
tità. All'incontro  astraendosi  l'uno  dalle  forme,  troviamo  il  numero 
tre,  il  quale  ci  rimane  tre  uni  distinti,  appunto  perchè  è  astratto, 
e  per  astrazione  si  prescinde  affatto  dall'unità  assoluta  dell'essere 
stesso.  Le  tre  forme  dunque  danno  veramente  tre  uni  astratti, 
benché  non  sieno  che  un  essere  solo.  Il  numero  astratto  dunque 
non  suppone   sotto    a  ciascuna  unità  ,    come  pensiero  completo 


/i96 

corrispondente,  un  essere,  ma  una  pura  forma  di  essere.  Lad- 
dove l'altre  quantità  ontologiche  astratte  hanno  1'  essere  come 
pensiero  completo  a  cui  si  riferiscono.  Il  numero  Ire  dunque  si 
fa  per  una  doppia  astrazione,  poiché  si  astraggono  le  forme  dal- 
l'essere, e  da  queste  forme  astratte  si  astrae  di  novo  il  numero 
Ire    Così  la  quantità  numerica  è  d'origine  ontologica  astratta. 

530.  Questa  maniera  di  quantità  discreta  è  dotala  di  due  pre- 
rogative, che  non  hanno  l'altre,  e  sono: 

ì.°  Che  la  misura  sua  propria  è  la  menoma  possibile,  cioè 
l'uno;  di  modo  che  questa  misura  non  ha  bisogno  d'essere  mi- 
surata, perchè  non  ha  e  non  può  avere  altra  misura  anteriore, 
e  perciò  non  può  dirsi  né  pure  quantità,  non  distinguendosi 
nell'uno  astratto  entità  e  limiti  ,  anzi  non  involgendo  l'uno  da 
sé  preso  nessuna  relazione  co' limili,  potendo  essere  ugualmente 
finito  ed  infinito; 

2.°  Che  la  quantità  del  numero  è  perciò  stesso  determina- 
tissima, e  misuratissima  di  tutte  ,  perchè  é  misurata  coll'unità, 
che  è  r  ultima  misura  possibile,  anzi  è  tale  misura  che  sola  è 
assolutamente  misura,  e  non  può  esser  da  altre  misurata. 

Poiché  tutte  le  altre  misure  ricevono  l'esser  misura  dall'avere 
l'unità,  e  variano  soltanto  per  quell'elemento  che  s'unisce  al- 
l'unità. 

Se  dunque  si  sottrae  questo  elemento,  che  s'aggiunge  all'uno 
come  una  natura  a  lui  soggiacente,  rimane  il  puro  uno  astratto, 
e  come  tale  non  misura  che  il  numero  astratto,  il  quale  è  un 
complesso  d'unità,  complesso  che  si  considera  come  un  nu- 
mero solo. 

Ma  se  all'uno  si  suppone  che  soggiaccia  qualche  natura,  questa 
natura  soggiacente  all'uno  può  avere  una  quantità,  ma  questa 
quantità  della  natura  soggiacente  all'uno  talora  può  essere  mi- 
surata, talora  no. 

Non  può  essere  misurata: 

i.°  Quando  la  natura  di  cui  si  tratta  è  infinita; 
:2.°  Quando  non  è  infinita  relalivameate  a  quella  che  è 
d'ogni  parte  infinita,  ma  è  infinita  relativamente  ad  altre  qualità 
inferiori.  Cosi  abbiamo  veduto  che  i  sommi  generi  della  realità 
di  cui  consta  il  mondo  non  sono  infiniti  relativamente  al  reale 
assoluto  da  cui  la  Mente  divina  li  astrae,  ma  sono  infiniti  rela- 


r 


497 

livamente  ai  generi  inferiori  ,  alle  specie  e  agl'individui.  Ovo. 
questo  è  il  caso ,  che  abbiam  dello ,  cioè  avervi  una  quantità 
che  non  ha  una  misura  detcrminata,  ma  solo  una  misura  propor- 
zionale, cioè  tal  misura  che  dimostra  il  piìi  e  il  meno,  ma  non 
il  quanto  dell'eccesso  e  del  mancamento. 

E  ciò  perchè  la  misura  determinata  c'è  allora  «  quando  l'en- 
lilà  presa  entro  i  limili  di  cui  è  vestita  sta  un  numero  deter- 
minato di  volte  entro  la  stessa  entità  che  non  ha  ancora  ricevuto 
quei  limili  ».  Ora  qualunque  entittà  limitata  non  islà  già  un 
numero  di  volle  dentro  l'enlilà  d'ogni  parte  infinita,  perchè  l'in- 
finito eccede  infinitamente  il  finito,  eccede  non  di  quantità  sola- 
mente, ma  d'essenza,  onde  il  finito  e  l'infinito  non  possono  essere 
enti  in  senso  univoco,  ma  equivoco  {Psicol.  1581  sgg.),  né  l'uno 
può  mai  cangiarsi  nell'altro.  Non  accade  dunque  «  per  tutti  quei 
casi ,  in  cui  non  si  può  trovare  un  numero  di  volte,  che  un'en- 
tità sia  compresa  nell'altra,  che  ci  sia  una  misura  determinata 
tra  l'una  e  l'altra  entità,  e  quindi  non  rimane  altra  misura  che 
la  proporzionale,  come  dicemmo,  per  la  quale  si  conosce  il  più 
e  il  meno,  ma  il  quanto  di  questo  più  e  di  questo  meno  non  è 
misurabile  perchè  non  ha  affatto  misura  )>. 

Conchiudiamo  dunque,  che  «  il  solo  numero  ha  una  misura 
determinata  che  è  l'uno ,  e  dove  non  si  piw  assegnare  un  nu- 
mero, non  e'  è  neppure  misura,  nò  di  conseguente  quantità  de- 
terminata ». 

Articolo  VI. 

Quantità  cosmologica. 

1)51.  11  mondo  è  l'ente  finito  nelle  sue  tre  forme,  sia  che  ne 
partecipi  solamente  come  avviene  dell'ente  finito  ideale,  sia  che  ne 
sia  costituito  come  avviene  della  forma  reale,  sia  che  ad  un  tempo 
ne  partecipi  e  ne  sia  costituito  come  avviene  della  forma  morale. 
Questa  ultima  però  richiede  un  discorso  speciale,  e  dobbiamo  ri- 
servarne ^altrove*  la  trattazione. 

Intendiamo  dunque  per  quantità  cosmologica  quella  che  si  può 
ravvisare  sia  nell'essere  ideale  come  primo  fondamento  del  mondo, 
sia  ne' sommi  generi,  e  ne' generi  inferiori,  e  nelle  specie 
Rosmini.  Teosofìa.  32 


498 

aslralte,  e  nelle  specie  piene,  e  negl'individui  reali  compara li- 
vamenle  presi,  poiché  di  questi  sei  anelli  si  collega  il  mondo  e 
tutto  l'essere  finito. 

Come  dunque  la  quantità  ontologica  è  «  la  quantità  di  essere 
nelle  sue  tre  forme  »  che  si  ravvisa  nel  mondo j  cosila  quantità 
cosmologica  è  «  la  quantità  di  essere  ideale  che  si  ravvisa  nel 
genere  sommo ,  e  la  quantità  di  genere  sommo  che  si  ravvisa 
nel  genere  inferiore  e  nella  specie,  la  quantità  di  specie  astratta 
che  si  ravvisa  nella  sjjecie  piena,  e  la  quantità  di  specie  piena 
che  si  ravvisa  nell'individuo  realmente  esistente  ».  Come  dunque 
la  qiianlità  ontologica  è  una,  così  la  quanlilà  cosmologica  è  per 
lo  meno  di  quattro  classi  subordinate.  Esaminiamo  la  natura  di 
ciascheduna. 

532.  I.*  Quantità  cosmologica  fondamentale.  —  Quantità  d'es- 
sere ideale. 

La  quantità  di  essere  ideale  è  tanto  maggiore  ,  come  ab- 
biamo detto,  quanl'è  più  estesa  l'idea.  Ma  l'essere  ideale  es- 
sendo voto  di  ogni  realità,  e  però  essendo  puro  essere,  egli  non 
appartiene  propriamente  al  mondo  se  non  come  condizione  pre- 
liminare, e  come  oggetto  intuito  dalle  menti,  e  causa  della  loro 
esistenza  subiettiva,  causa  d'un  genere  suo  proprio,  che  chia- 
mammo causa  obicttfvo- formale. 

Può  dunque  alla  quantità  di  essere  convenire  ugualmente  la 
denominazione,  come  dicemmo,  di  quantità  ontologica  astratta. 

533.  11.^  Quantità  cosmologica.  —  Quantità  di  genere  sommo, 
che  si  ravvisa  nel  genere  inferiore  a  nella  specie  astratta. 

Quando  si  applica  un  genere  sommo  della  realità  finita  come 
misura  all'essere  reale  e  infinito,  vedesi  che  non  è  misura  che 
gli  si  adegui,  il  quale  resta  perciò  stesso  immisurato  e  immi- 
surabile, e  non  si  può  averne  altro  risultato,  se  non  questo, 
che  «  l'essere  infinito  è  maggiore  del  genere  sommo  dtlla  realità 
finita  d'una  differenza  che  non  ha  quanto,  perchè  infinita,  come 
abbiamo  detto  ». 

Ma  si  presenta  una  domanda  :  «  Quantunque  né  un  genere 
sommo,  né  tutti  insieme  presi  i  generi  sommi  della  realità  finita 
non  possano  essere  commisurali  all'essere  reale  infinito,  il  quale 
rimane  sempre  eccedente  d'eccesso  infinito,  tuttavia  il  numero 
de' generi  sommi  possibile  è  egli  infinito,  o  ci  può  essere  soltanto 


!i99 

un  numero  finito  di  tali  generi  ».  —  Questa  questione  appartiene 
a' libri  cosmologici. 

Ma  se  l'essere  non  ha  quantità  né  misura,  perchè  non  ha 
confini;  il  genere  ha  egli  quantità,  e  se  l'ha,  può  essere  misuralo? 

Tre  sono  le  misure  possibili: 

ì."  La  prima,  più  grande  della  cosa  misurata.  Con  questa 
misura  la  cosa  riesce  misurala  ,  quando  si  rileva  qual  quota 
parie  ella  sia  d'una  quantità  maggiore,  che  perciò  appunto  si  dice 
sua  misura.  Così  dimostrato  che  la  sfera  sia  uguale  a  due  terzi 
del  cilindro  descritto  intorno  ad  essa,  si  ha  misurata  la  sfera 
con  una  misura  maggiore  cioè  col  cilindro. 

2.°  La  seconda,  uguale  alla  cosa  misurala.  Così  nel  problema 
dell'ipotenusa  dimostrandosi  che  la  somma  de' quadrali  de' due 
cateti  è  uguale  al  quadralo  dell'ipotenusa^  si  è  misurata  recipro- 
camente quella  somma,  e  questo  quadralo. 

ù.°  La  terza,  minore  della  cosa  misurata.  Così  conoscendosi 
quante  volte  una  data  linea  è  contenuta  in  un'altra  maggiore, 
questa  è  misurala  per  mezzo  di  quella  come  per  una  misura 
minore. 

Ora  il  genere  sommo  non  ha  una  misura  maggiore,  altro  non 
avendo  maggiore  di  sé  se  non  l'essere,  il  quale  è  infinito,  onde, 
se  l'essere  vuoisi  dire  misura,  è  una  misura  trascendente. 

Non  ha  una  misura  uguale^  perchè  ogni  genere  sommo  è  unico, 
e  non  ha  uguale. 

534.  Ma  un  genere  sommo  non  si  può  commisurare  con  un 
altro  genere  sommo  come  col  suo  uguale  ? 

Prima  di  rispondere  a  questa  domanda  si  dovrebbe  rispondere 
a  quell'altra  da  noi  indicala  di  sopra,  che  appartiene  alla  Co- 
smologia, cioè  «  se  i  generi  si  riducano  forse  a  un  solo  primo 
e  sommo,  quello  dell'ente  finito,  di  cui  tulli  gli  altri  sieno  ge- 
neri inferiori  «. 

Se  un  solo  è  il  genere  primo  e  sommo,  è  chiaro  che  non  ne 
ha  alcun  altro  che  lo  misuri. 

Se  poi  consideriamo  per  generi  sommi  i  generi  dell'ente-prin- 
cipio,  0  quelli  dell'ente  termine,  in  tal  caso,  non  ci  sono  generi 
uguali,  ma  l'uno  conliene  una  porzione  d'essere  più  o  meno 
eccellente  dell'altro ,  e  però  di  tali  generi  paragonati  si  potrà 
dire,  che  l'uno  è  maggiore  dell'altro,  non  però  assegnarsi  una 


500 

misura  dell'eccesso  o  del  difelto  ,  perchè  le  porzioni  di  essere 
che  racchiudono  sono  reciprocamente  incommensurahili ,  diffe- 
rendo tali  generi  sommi  l'uno  dall'altro  in  tutto  fuorché  nell'es- 
sere. Ora  le  porzioni  di  essere  non  avendo  ciascuna  di  esse 
misura,  perchè  niuna  è  una  quota  parte  di  essere^  ma  ciascuna 
differendo  dall'essere  per  una  differenza  infinita,  né  pure  si  pos- 
sono paragonare  tra  loro ,  se  non  come  più  e  meno,  ma  non 
come  misura  e  misurato. 

533,  Ma  supponiamo,  che  non  si  tratti  di  generi  sommi,  ma  di 
generi  inferiori.  I  generi  inferiori  della  realità  finita  sono  i  ge- 
neri superiori  ristretti  dentro  certi  limiti.  Cercare  la  quantità 
d'un  genere  inferiore  è  cercare  quanto  di  genere  superiore  egli 
contenga,  non  è  più  un  cercare  quanto  di  essere  egli  contenga. 

Conviene,  che  osserviamo  la  differenza  che  passa  tra  queste 
due  questioni. 

Quando  noi  cerchiamo  la  quantità  di  essere  contenuta  in  un'entità 
limitata,  per  esempio  in  un  genere  sommo  ,  allora  la  questione 
è  duplice  ,  perchè  o  si  cerca  la  quantità  di  essere  intendendo 
l'essere  realissimo  ,  o  si  cerca  la  quantità  di  essere  intendendo 
l'essere  indeterminato  o  ideale  che  solo  virtualmente  contiene  il 
reale  infinito. 

Riguardo  alla  prima  questione  è  chiaro,  che  l'essere  realis- 
simo eccede  infinitamente  e  d'ogni  parte  il  genere  sommo  delia 
realità  finita  ,  e  tutti  insieme  i  generi  sommi  se  sono  più,  e 
questa  è  quella  a  cui  spelta  assolutamente  la  denominazione  di 
«  quantità  ontologica  ». 

Riguardo  alla  seconda  questione,  l'essere  indeterminato  eccede 
infinitamente  del  pari  ogni  genere  della  realità  finita  come  idea 
e  come  contenente  virtualmente  un  reale  infinito.  Ma  in  quanto 
all'attualità  distinta  dell'essere,  il  genere  finito  ha  un'attualità 
maggiore  rispetto  a  quel  reale  che  contiene,  ma  manca  dell'in- 
finita virtualità  del  reale  che  nel  genere  sommo  non  è  punto 
contenuta  né  attualmente  né  virtualmente.  Il  genere  sommo  è 
dunque  infinitamente  meno  dell'essere  ideale,  ma  è  più,  rispetto 
mWattualità  d'una  porzione  di  reale  infinitamente  minima  in  pa- 
ragone del  reale  assoluto  virtualmente  contenuto  nell'ideale. 
Questo  più,  non   é  un   più  d'idealità,    né  di  essere,  ma  è  «  un 


501 

più  di  reale  finito  allualc  «   che  nell'  ideale   si   conteneva   solo 
immerso  ancora  nella  virtualità. 

Quando  all'incontro  si  domanda:  «  qual  è  la  quantità  d'un 
genere  inferiore  rispetto  al  genere  superiore  —  supponendo  che 
la  realità  di  questo  non  abbia  un'esistenza  subiettiva»,  —  non  c'è 
più  che  una  questione  sola:  si  domanda  cioè  «  quanto  di  genere 
superiore  si   contenga   entro  i  limiti  di  genere  inferiore  ». 

Se  si  paragonano  questi  due  generi  come  idee  ,  il  genere 
superiore  come  idea  contenente  è  maggiore  del  genere  inferiore; 
e  questa  è  la  quantità  ideale  di  cui  abbiamo  parlato,  non  è  quantità 
di  realità. 

Se  si  paragonano  questi  due  generi  come  realità  contenuta, 
il  genere  superiore  contiene  una  realità  più  eslesa  ,  ma  meno 
attuale  che  il  genere  inferiore. 

(Conviene  dunque  dimandare  : 

i°  Di  quanto  il  genere  superiore  eccede  colla  sua  [virtualità 
il  genere  inferiore  ; 

2"  Di  quanto  il  genere  inferiore  vince  il  superiore  per   at- 
tualità. 

Riguardo  alla  prima  di  quelle  due  domande ,  ella  ancora  si 
biparte  così  : 

a)  I  generi  inferiori  ne'  quali  si  può  ripartire  il  genere  su- 
periore hanno  essi  un  numero  finito,  o  possono  essere  in  numero  in- 
finito? e  quest'ò  questione  che  di  novo  riserviamo  alla  Cosmologia; 

b)  La  realità  contenuta  nel  genere  inferiore  ha  ella  ujia 
misura^  ossia  è  una  quota  parte  del  genere  superiore?  Di  questa 
diremo  qui  alcuna  cosa. 

53G.  Per  risolvere  tale  questione  conviene  paragonare  la  idealità 
attuale  che  ha  il  genere  inferiore  colla  realità  più  virtuale  del 
genere  supcriore  ,  e  rilevare  se  sia  possibile  misurare  quanto 
questa  s'estenda  più  di  quella.  Ora  questo  paragone  non  si  può 
intraprendere  se  non  si  considera  quanto  l'attualità  del  genere 
inferiore  restringa  la  virtualità  del  superiore.  Dobbiamo  dunque 
parlare  dell'attualità  del  genere  inferiore,  e  quindi  dobbiamo  ad 
un  tempo  stesso  risolvere  l'altra  questione  :  «  di  quanto  il  ge- 
nere inferiore  vinca  il  superiore  di  attualità  ». 

Poiché,  Valtualilà  maggiore  del  genere  inferiore  è  quella  che 
ad  un  tempo  medesimo  e  attua  il  genere  superiore  e  ne  restringe 


502 

l'estensione,  facendolo  così  diventare  genere  inferiore.  A  questo 
conviene  porre  ben  mente.  Come  avvien  dunque,  dimanderemo 
noi,  che  il  genere  superiore  sia  limitalo  ?  Coll'aggiungersi  ad  esso 
tm  novo  atto  di  realità.  Ma  questo  novo  atto  di  realità  è  più  ri- 
stretto della  realità  contenuta  e  propria  del  genere  superiore  :  è 
un  atto  che  il  genere  superiore  conteneva  virtualmente,  ma  che 
non  esaurisce  tutta  questa  virtualità,  perchè  è  più  angusto.  La 
realità  dunque  contenuta  nel  genere  superiore  paragonata  alla 
realità  contenuta  nel  genere  inferiore  è  virtuale,  ma  più  estesa; 
la  realità  contenuta  nel  genere  inferiore  paragonata  a  quella  con- 
tenuta nel  genere  superiore  è  più  attuale,  ma  più  ristretta.  Fac- 
ciamo l'ipotesi,  che  tutta  intera  la  realità  virtuale  contenuta  nel 
genere  superiore  passasse  immediatamente  alla  piena  attualità  : 
avremmo  quel  genere  superiore  sussistente  con  esistenza  propria 
e  subiettiva.  Invece  di  questo  passaggio  repentino  di  tutta  la 
realità  virtuale  contenuta  nel  genere  superiore  all'esistenza  subiet- 
tiva, nel  genere  inferiore  non  abbiamo  che  una  porzione  di  essa, 
e  questa  non  ancora  venuta  fino  all'esistenza  subiettiva,  ma  pro- 
gredita di  un  grado  verso  di  questa,  rimanendo  tuttavia  nell'in- 
volucro della  forma  obiettiva.  Ora  che  cosa  può  determinare  la 
realità  contenuta  nel  genere  superiore  a  non  passare  immedia- 
tamente all'esistenza  subiettiva,  ma  in  quella  vece  a  rompersi, 
per  così  dire  ,  e  una  parte  di  essa  rimanere  virtuale ,  un'altra 
parte  uscire  d'un  grado  verso  l'esistenza  subiettiva,  e  così  costi 
tuire  quella  differenza  che  distingue  il  genere  inferiore  dal  supe- 
riore ?  La  ragione  di  questo  fatto  non  può  trovarsi,  se  non  per 
una  di  queste  due  vie  ,  o  ricorrendo  alla  volontà  del  Creatore, 
che  impone  un  tal  limite  a  quella  realità  che  progredisce  verso 
la  subiettiva  esistenza  ,  o  cercando  se  nella  natura  stessa  del 
reale  ci  sia  una  necessità  di  questo  lento  progresso.  Noi  di  ciò 
parleremo  in  appresso  trattando  della  natura  della  limitazione. 
Qui  ci  basta  osservare,  che  il  genere  superiore,  dato  che  esista  in 
una  mente,  è  compiuto  e  quieto  nella  sua  esistenza  oggettiva ,  e 
non  ha  nessuna  virtù  di  produrre  da  se  stesso  la  propria  attuale 
differenza  che  lo  faccia  divenire  genere  inferiore.  Laonde  questa 
differenza  viene  prodotta  da  un'altra  causa,  perchè  infatti  è  una 
attualità  che  il  genere  superiore  non  ha,  ma  solo  riceve. 
Il  genere  superiore  dunque  col  suo  concetto  non  ci  dice  altro 


503 

se  non  che  egli  non  può  ricevere  un'attualità  maggiore  se  non 
come  un'aggiunta  a  quella  realità  ch'egli  contiene:  e  con  questo 
rimane  certamente  limitata  la  sfera  delle  attuali  dilTercnze  possibili. 

Ma  il  quanlo  maggiore  o  minore  di  queste  dilferenze  non  è 
determinato  dal  medesimo  genere  supcriore,  ma  da  qualche  cosa 
di  straniero  a  lui,  sia  questo  la  libertà  creatrice  ,  sia  la  natura 
del  reale  infinito. 

Finalmente  quando  questa  differenza  attuale  è  data,  e  il  genere 
inferiore  è  coslituilo,  si  vede  bensì,  che  l'estensione  della  virtua- 
liti\  del  genere  è  maggiore  di  quella  dell'attualità  differenziale, 
ma  non  si  trova  dall'uomo  una  misura,  che  determini  di  quanlo 
sia  maggiore,  perchè  lutto  il  resto  dei  genere  superiore  giace  in 
un'assoluta  virtualità.  Ora  l'estensione  di  questa  virtualità  non 
si  può  misurare  con  un'attualità  inferiore,  poiché  a  potersi  misu- 
rare converrebbe  sapere  quante  volte  questa  si  contiene  in  quella; 
ma  nella  virtualità  non  si  può  segnare  il  numero  delle  volte  , 
essendo  la  virtualità  uniforme  e  non  mostrando  in  sé  differenza 
alcuna,  e,  come  abbiam  detto,  dove  non  c'è  numero,  non  ci  può 
essere  misura  determinata. 

537.  Questo  ragionamento  vale  tanto  pei  generi  inferiori,  quanlo 
per  le  specie  astratte,  e  da  esso  possiamo  conchiudere: 

1"  Che  il  genere  sommo  della  realità  finita  non  ha  alcuna 
misura  né  maggiore,  né  uguale,  né  minore;  ma  solamente  si 
manifesta  come  idea  meno  estesa  di  quella  dell'essere,  avente 
però  in  sé  un  reale  finito  che  non  è  in  quella,  se  non  virtual- 
mente; come  realità  poi  è  d'un' estensione  maggiore  di  quella 
contenuta  ne'  generi  inferiori,  e  maggiore  di  tutti  i  generi  in- 
feriori e  delle   specie  astratte  ; 

2°  Che  la  quantità  di  genere  superiore  racchiuso  entro  i 
confini  del  genere  inferiore  o  della  specie  non  ha  del  pari  misura, 
ma  il  genere  inferiore  si  conosce  più  angusto  del  superiore,  ma 
più  ampio  degli  altri  generi  più  inferiori  ancora  e  delle  specie 
astratte  :  nello  stesso  tempo  cresce  il  quanto  à'altualilà  della  rea- 
lità ne'  generi  meno  estesi. 

La  quantità  cosmologica  di  realità  dunque  tra  i  generi  superiori 
e  inferiori,  e  le  specie  astratte,  é  di  due  maniere: 

a)  Quantità  d'estensione  di  reale  ; 

b)  Quantità  d'attualità  di  reale. 


804 

538.  Ma  rimane  a  domandare:  La  differenza  della  quantità 
d'estensione  del  reale  è  ella  infinita  ?  —  E  la  differenza  della 
quantità  d'attualità  del   reale  è  ella  infinita  ? 

Rispondo,  che  la  parola  infinito  significa  la  mancanza  di  limiti, 
e  che  perciò  questa  espressione  «  entità  limitata  «  suppone  che 
si  poss^  concepire  quell'entità  in  due  modi,  1"  come  separata  dai 
suoi  limiti  e  cosi  ancora  illimitata,  e  solo  suscettiva  di  limiti, 
2°  e  come  già  limitata,  ossia  entro  la  sfera  de'limiti. 

Ora  se  si  prende  l'entità  de'  sommi  generi  ,  ella  non  si  può 
concepire  fuori  de'  limiti ,  perchè  senza  di  questi  altro  non  ri- 
mane se  non  1"  o  l'essire  indeterminato  il  quale  non  contiene 
alcuna  realità  attualmente  e  però  non  è  la  realità  contenuta  nel 
genere  sommo  ,  la  quale  ha  un  primo  grado  d'attualità,  2"  o 
l'essere  reale  infinito,  e  questo  non  è  punto  subielto  della  limi- 
tazione. Nel  genere  sommo  dunque  della  realità  finita  non  si  può 
distinguere  il  limite  della  entità  stessa  limitata:  e  in  questo  senso 
non  si  può  dire  che  «  la  realità  contenuta  nel  genere  sia  una 
entità  finita  »,  o  che  l'estensione  di  tale  realità  sia  finita.  Con- 
viene dunque  distinguere  due  specie  d'infinito  :  1°  quello  che  né 
ha  limiti  in  sé  stesso,  né  ha  limiti  paragonato  e  riportato  a  un' 
altra  entità,  e  quest'infinità  é  solo  propria  di  Dio;  2"  quello  che 
non  ha  limili  in  sé  stesso,  di  maniera  che  si  possa  distinguere 
la  sua  entità  dai  limiti  che  la  circondano,  ma  ha  limiti  riferita 
dalla  mente  ad  un'altra  entità;  e  questa  maniera  d'infinità  si 
trova  anche  nell'estensione  della  realità  de'  sommi  generi  :  e  in 
questo  senso  i  sommi  generi  della  realità  finita  sono  infiniti. 
Poiché  se  si  confrontano  dalla  mente  all'essere  assoluto,  si  ve- 
dono a  questo  infinitamente  minori  ;  ma  se  si  considera  Ventità 
stessa  de'  sommi  generi,  si  trova  che  non  ha  confini  da  cui  sia 
racchiusa,  di  maniera  che  si  possa  pensare  quella  entità  stessa 
non  racchiusa ,  e  poi  racchiusa  ,  ma  si  pensa  sol  essa  qual  é , 
senza  che  nient' altro  la  racchiuda  e  limiti. 

Noi  chiameremo  la  prima  «  infinità  assoluta  » ,  la  seconda 
«  infinità  d'essenza  propria».  1  generi  sommi  dunque  hanno  cia- 
scuno «  l'infinità  d'essenza  propria  ». 

539.  Ma  se  poi  a  questa  estensione  infinita  d'essenza  del  sommo 
genere  raffrontiamo  quella  d'un  genere  inferiore,  la  diflterenza  è- 
olla  infinita?  —  Nel  genere  inferiore    noi  vediamo   l'entità   del 


505 

genere  superiore  limitata  da  quel  grado  d'attualità  che  s'ag- 
giunse ad  una  porzione  di  quel  reale  che  giaceva  nel  genere 
superiore.  Qui  dunque  abbiamo  la  distinzione  tra  l'entità  limi- 
tabile ,  e  l'cnlilà  già  racchiusa  dentro  i  suoi  limiti.  Nel  genere 
iiiferiore  dunque  non  c'è  «  rinfiiiilà  d'essenza  propria  »,  che  ab- 
biane veduto  essere  nel  genere  sommo.  Il  genere  inferiore  dunque 
ba  una  reahlà  la  cui  estensione  è  limitata.  Ora  la  differenza  tra 
un'estensione  limitata  e  una  estensione  illimitala  è  infinita.  Dunque 
tutti  i  generi  inferiori  e  le  specie  astratte  differiscono  dal  genere 
sommo  infinitamente  per  riguardo  a\Y estensione  della  realità  che 
racchiudono. 

5'iO.  Ma  i  generi  inferiori  e  le  specie  astratte  hanno  tra  loro 
differenze  infinite  rispetto  all'estensione  della  loro  realità? 

Si  consideri,  che  della  realità  che  è  nel  genere  sommo  nulla 
si  trova  nell'essere  ideale  ,  e  che  nel  reale  infinito  quella  non 
c'è  che  virtualmente  ed  eminentemente  ,  onde  ella  non  è  una 
realità  la  quale  limitandosi  diventi  quella  del  genere  sommo  (^). 
All'incontro  nel  genere  inferiore  e  nella  specie  astratta  c'è  il  ge- 
nere superiore,  cioè  la  stessa  realità  che  è  in  questo,  ma  soltanto 
limitata  d'estensione  mediante  un  grado  ulteriore  d'attualità.  Nel 
genere  inferiore  dunque  e  nella  specie  si  distingue  l'entità  dai 
suoi  limiti,  e  quella  da  prima  si  pensa  senza  di  questi,  poi  si  pensa 
racchiusa  dentro  di  questi ,  onde  la  realità  del  genere  inferiore 
e  della  specie  astratta  ha  il  carattere  che  abbiamo  assegnato  alle 
«  entità  limitate  ». 

Dal  che  procede  che  il  genere  inferiore  e  le  specie  astratte 
stieno  tra  loro  come  quantità  finite  a  quantità  finite,  e  che  dieno 
perciò  differenze  finite. 


(1)  Di  qui  si  raccoglie  un'altra  bellissima  dimostrazione  dell'  impossibilità 
de' sistemi  panteistici,  ed  emanantistici.  Poiché  dimostrato,  che  la  prima  rea- 
lità finita,  qual  è  quella  contenuta  ne' generi  sommi,  non  ne  ha  un'altra  pre- 
cedente che  ricevendo  limitazioni  diventi  essa  ;  e  che  questa  è  proprietà  sua, 
che  non  si  riscontra  ne' generi  inferiori  e  nelle  specie;  è  dimostrato  con  ciò 
stesso,  che  la  prima  e  fondamentale  realità,  o  come  dicono  prima  materia 
del  mondo,  non  ha  nessun  altro  subietto  antecedente,  e  quindi  non  può  es- 
sere un'altra  realità  evoluta,  o  emanata,  o  differenziata.  E  questo  basta  a  di- 
struggere il  panteismo  e  l'emanantismo.  Ma  parleremo  di  proposito  di  tutto 
questo,  concedendoci  Iddio  vita  e  agio^  nella  Teologia. 


b06 

Ma  se  si  vuole  rilevare  il  quanto  di  queste  differenze  non  si 
trova ,  perchè  l'estensione  della  specie  determinata  dal  maggior 
grado  d'attualità,  che  ha  una  porzione  della  realità  del  genere, 
non  è  commensuiahile  all'estensione  di  questa  realità  ,  la  quale 
relativamente  a  quell'altualità  maggiore  è  una  realità  virtuale. 
Ora  possiamo  slahilire  in  universale  questo  principio ,  che  : 

«  Ogni  qualvolta  una  data  realità  virtuale  acquista  un  grado 
d'attualità  che  non  s'estende  che  a  una  parte  di  quella  realità  vir- 
tuale ,  non  si  i)uò  rilevare  che  quota  parte  sia  questa  di  tutta 
quella  realità  virtuale,  perchè  ciò  che  è  virtuale  non  ha  nu- 
mero, cioè  non  si  possono  segnare  nella  virtualità  diverse  misure 
che  rappresentino  l'unità  «. 

Si  conosce  dunque  che  la  realità  della  specie  paragonata  alla 
realità  del  suo  genere  ha  una  differenza  finita  d'estensione,  ma 
non  si  può  assegnarne  la  quantità  determinala. 

541.  Veniamo  all'altra  questione  dieci  siamo  proposto:  «  Se 
la  differenza  della  quantità  d'attualità  che  si  scorge  nella  realità 
finita  sia  infinita  ». 

Se  si  paragona  l'attualità  di  realità^  che  è  in  un  sommo  ge- 
nere ,  col  nulla  di  attualità  reale  che  ha  l'essere  indetermi- 
nato, la  differenza  è  tra  il  nulla  e  il  qualche  cosa;  ora  questo 
qualche  cosa  può  essere  più  e  meno,  e  però  la  differenza  può 
essere  più  o  meno  {La  Società  e  il  suo  fine  I.  IV  e.  vi).  Ma  questa 
maniera  di  valutare  una  tale  differenza  è  puramente  matematica, 
è  un  concetto  in  servigio  del  calcolo.  Ontologicamente  convien 
dire  che  tra  il  nulla  e  il  qualche  cosa  non  si  dà  paragone  di 
quantità  e  però  né  pure  differenza.  Convien  dunque  per  cercare 
il  quanto  deW attualità  paragonar  questa  ad  un'altra  attualità  o 
maggiore  o  minore.  Ma  minore  attualità  di  quella  del  sommo 
genere  non  esiste,  conviene  dunque  paragonare  l'attualità  della 
realità  che  contiene  all'attualità  maggiore  che  trovasi  ne'  generi 
inferiori  e  nelle  specie.  Come  dunque  movendo  dal  sommo  ge- 
nere fino  all'ultima  specie  s'andava  da  una  estensione  maggiore 
di  realità  ad  un'estensione  minore;  così  movendo  pure  dal  sommo 
genere  si  va  da  un'attualità  minore  ad  una  sempre  maggiore. 

Che  se  mediante  il  paragone  successivo  degli  anelli  di  questa 
catena  si  perviene  fino  all'ultimo,  cioè  all'individuo  reale  in  sé 
sussistente,   questo    ha   cangiato   di  forma   categorica,  essendo 


b07 

puro  reale,  laddove  gli  anelli  precedenti  erano  tulli  nella  forma 
obiettiva,  perchè  la  realità  in  essi  era  contenuta  nell'idea  (J81- 
187;  580-^00*).  Ora  le  forme  categoriche  non  differiscono  tra 
esse  di  quantità,  e  né  tampoco  di  più  e  di  meno  ,  ma  differiscono 
totalmente  :  è  questa  la  prima  dìfjercnza,  la  quale  non  si  può 
dire  che  sia  né  finita  né  infinita,  essendo  anteriore  al  concetto 
del  finito,  e  dell'infinito,  anteriore  al  concetto  del  più  e  del 
meno;  anteriore  Iroppo  più  al  concetto  di  quantità.  Non  si  può 
dunque  esprimerla  in  altro  modo  se  non  dicendo  ,  che  è  una 
diflerenza  assoluta  di  forma  categorica,  o  scniplicenìente  una 
differenza  ca tegorica . 

Che  se  in  vece  di  considerare  le  forme  dell'essere,  si  consi- 
dera la  pura  realità  ,  sia  questa  in  sé  ,  o  involta  nella  forma 
obiettiva,  in  tal  caso  Vattualità  di  quel  reale  che  sussiste  come 
individuo  non  ha  limili,  poiché  prescindiamo  qui  dai  limiti  del- 
Testensione  e  non  consideriamo  che  Valtiialilà  del  reale,  sia  poi 
questo  più  0  meno  esleso ,  più  o  meno  eccellente,  più  o  meno 
perfetto.  Non  polendosi  dunque  considerare  quest'attualità  come 
un'entità  limitata,  ella  è  infinita:  é  l'attualità  stessa  del  reale. 
E  perciò  la  differenza  quantitativa  d'attualità  tra  il  reale  sussi- 
stente, e  quello  che  rimane  solo  nell'  idea  è  infinita,  perché  è 
una  differenza  che  passa  tra  l'infinito  e  il  finito. 

Se  all'incontro  noi  risaliamo  dalla  specie  piena  fino  al  sommo 
genere,  vediamo  che  all'attualità  del  reale  sempre  si  toglie  un 
grado,  e  però  quest'attualità  è  in  tutta  quella  serie  d'idee  limi- 
tata, fino  che  nel  genere  rimane  un'attualità  minima.  Le  diffe- 
renze dunque  d'attualità  reale  tra  quelle  realità  che  giacciono 
nella  specie  prima,  nella  specie  astratta  ,  ne' generi  inferiori,  e 
nel  genere  sommo  sono  tutte  finite,  e  decresce  l'attualità  conti- 
nuamente d'un  grado. 

542.    Ma   questi    gradi,    di  cui  l'attualità    reale   decresce,  si 
possono  misurare?  Si  può    assegnare  ad   essi  una    quantità   de 
terminata.? 

Quando  ci  proponemmo  di  misurare  l'estensione  dilla  realità 
contenuta  nei  generi,  e  nelle  specie,  riconoscemmo  che  era 
impossibile  darne  una  misura  determinata  ,  perché  conveniva 
raffrontare  un  quanto  attuale  a  un  quanto  virtuale,  e  questo  con 
quello  non  si  può  commisurare.  Trattandosi  ora  di  commisurare 


b08 

un  grado  d'attualità  con  un  altro,  non  c'è  questo  impedimento: 
eppcrò  sappiamo  dire  qual  sia  la  differenza  ,  perchè  il  grado  di 
attualità  che  s'aggiunge  al  precedente  è  appunto  una  tale  diffe- 
renza. Se  dunque  prendiamo  il  grado  d'attualità  che  s'aggiunge 
come  la  misura  del  quanto  d'  attualità  di  cui  la  precedente  è 
cresciuta  ,  conoscendo  noi  questo  grado,  e  anche  il  precedente, 
conosciamo  il  quanto  d'aumento  della  detta  attualità.  Ma  questa 
è  una  misura  di  cognizione  immediala,  nella  quale  il  misuralo 
è  misura  di  sé  slesso.  Ora  questa  misura  di  cognizione  immediata 
non  ha  che  un  uso  immediato  ,  e  però  sembra  oscura  e  non 
soddisfacente  paragonata  a  quelle  misure  che  danno  de' risultati 
universali  ,  applicabili  a  molte  quantità.  Gli  uomini  comune- 
mente riguardano  solo  quest'ultime  come  misure,  cioè  chiamano 
misura  «  un  quanto  applicabile  a  quantità  di  cose  diverse  •». 
Non  si  trova  dunque  una  misura  comune  applicabile  al  grado 
precedente  e  al  grado  susseguente  dell'attualità  di  cui  parliamo; 
come  accadrebbe  se  questi  gradi  si  potessero  misurare  con  una 
terza  misura  diversa  da  essi,  ossia  con  un  quanto,  diverso  dal 
quanto  loro  proprio. 

Con  questo  genere  di  misure  dunque,  che  chiamammo  «  mi- 
sure di  cognizione  immediata»,  si  rileva  : 

ì.°  Che  una  cosa  è  maggiore  o  minore  dell'altra; 
2.°  Si  conosce  la  differenza  tra  l'una  e  l'altra,  ossia  l'ec- 
cesso e  il  difetto  ; 

5.°  Ma  questo  eccesso  o  questo  difello  non  si  può  ripor- 
tare ad  un'altra  misura,  per  la  quale  si  possa  determinare  «  di 
qual  quota  parte  »  l'una  quantità  differisca  dall'altra. 

Con  queste  misure  nondimeno  si  conosce  di  più  che  non  sia 
il  solo  sapere  che  un'entità  eccede  l'altra,  senza  conoscere  l'una 
delle  due  entità  paragonate.  Così: 

Paragonandosi  la  realità  del  sommo  genere  alla  realità  infinita 
si  sa  che  questa  eccede  quella  ed  eccede  infinitamente,  ma  di 
questa  non  s'ha  alcuna  cognizione; 

Paragonandosi  la  realità  del  sommo  genere  a  quella  che  è  nel- 
l'essere ideale,  non  essendovene  in  questa  niuna  d'attualmente 
visibile  ,  si  sa  che  quella  eccede  d'attualità  ,  ma  manca  il  ter- 
mine del  paragone,  perchè  questo  termine  non  è  che  il  nulla  ; 

Paragonandosi  l'estensione  della  realità  della  specie  all'esten- 


K09 

sione  della  realità  generica,  si  sa  che  qu<esta  eccede  quella,  ma 
non  si  conosce  l'estensione  di  questa  per  la  sua  virtualità. 

All'incontro  paragonandosi  il  grado  dell'attualità  della  specie 
al  grado  dell'attualità  del  genere,  si  sa  che  quello  eccede  questo, 
e  si  conosce  e  quello  e  questo ,  onde  la  differenza  è  cospicua 
alla  mente,  e  anche  paragonabile  ,  ma  non  con  una  terza  mi- 
sura comune  ad  entrambi.  Questa  dunque  è  una  «  quantità  di 
confronto  immediato  ». 

543.  III.*  Quantità  cosmologica.  —  Quantità  di  specie  astratta 
che  si  ravvisa  nella  specie  piena. 

La  differenza  tanto  d'estensione,  quanto  d'attualità,  che  sì 
ravvisa  Ira  la  realità  contenuta  nella  specie  astratta,  e  la  realità 
contenuta  nella  specie  piena  è  minore  che  non  sia  tra  la  specie 
astratta  e  i  generi,  o  i  generi  gerarchicamente  tra  loro, 

E  che  sia  minore  si  scorge  da  questo,  che  tra  genere  supe- 
riore e  inferiore  e  tra  questo  e  la  specie  astratta  le  differenze 
sono  sostanziali,  laddove  le  differenze  tra  la  specie  astratta  e  la' 
specie  piena  non  sono  che  differenze  accidentali.  Questo  ha  bi- 
sogno di  spiegazione. 

La  realità  della  specie  piena  è  soltanto  quella  che  può  acqui- 
stare l'esistenza  subiettiva  e  così  divenire  un  ente  reale.  Ora, 
dato  quest'en/e  reale,  noi  vediamo  nella  sua  realità  una  forza  di 
modificarsi,  senza  perdere  la  sua  identità,  principalmente  per 
propria  virtìi,  benché  aiutalo  anche  da  agenti  o  stimoli  diversi 
da  lui.  Conservando  quest'  ente  la  sua  identità  a  malgrado  di 
diverse  modificazioni  che  egli  subisce,  in  esso  si  distingue  l'ente 
identico  causa-potenza  delle  sue  modificazioni  ,  e  queste  modi- 
ficazioni. La  specie  astratta  rappresenta  l'ente  identico  causa- 
potenza  delle  sue  modificazioni,  che  prende  il  nome  di  sostanza; 
la  specie  piena  rappresenta  l'ente  identico  causa-potenza  avente 
già  i  detti  suoi  modi  mutabili,  che  si  dicono  accidenti.  La  varia- 
zione di  questi  modi  non  aggiunge  né  toglie  all'ente  che  rimane 
identico:  la  specie  piena  dunque  non  ha,  più  della  specie  astratta, 
nulla  che  costituisca  l'ente  reale,  ma  solo  ha  certi  modi  deter- 
minati dell'ente  stesso.  La  specie  astratta  dunque  contiene  in  sé 
tutta  la  realità  entitativa  o  sostanziale,  e  le  differenze  che  ag- 
giunge la  specie  piena  non  sono  che  pure  modalità  dello 
slesso  ente. 


510 

Per  intender  meglio  quanto  si  dispaia  la  differenza  tra  la 
specie  astratta  e  la  specie  piena  dalla  differenza  tra  la  specie 
astratta  e  i  generi,  si  consideri  meglio  quello  che  dicevamo,  che 
il  reale  contenuto  nella  specie  astratta  quando  sussiste  è  la 
causa-potenza  de' suoi  accidenti.  È  vero  che  egli  non  potrebhe 
esistere  senza  avere  alcuni  di  questi  che  lo  determinassero  pie- 
namente ,  ma  supposto  che  sia  creato  ,  egli  è  creato  co'  suoi 
accidenti  in  modo  che  queste  sono  produzioni  della  sua  attività 
intrinseca,  di  quella  slessa  attività  che  può  variarsi,  date  certe 
condizioni.  Dunque  nella  specie  astratta  essendo  determinata 
pienamente  la  potenza  causa  di  questi,  sono  determinati  altresì 
questi  con  tutte  le  loro  variazioni,  di  cui  il  reale  sussistente  è 
suscettivo.  All'incontro  abbiamo  veduto,  che  il  genere  rappre- 
senta un  reale,  che  non  può  produrre  di  so  quel  grado  maggiore 
di  realità,  che  ha  un  altro  genere  inferiore  o  la  specie  astratta, 
ma  che  questo  deve  essere  aggiunto  dal  di  fuori,  cioè  dal  Crea- 
tore. Poiché  la  realità  generica  non  contiene  alcuna  attività 
reale  produttrice,  non  è  una  causa-potenza,  appunto  perchè  non 
rappresenta  l'ente  reale  determinato,  supponendo  che  non  possa 
essere  immediatamente  realizzato,  nel  qual  caso  avrebbe  la  na- 
tura di  specie  astratta ,  o  di  specie  piena  se  non  ammettesse 
accidenti. 

5^4.  I  generi  superiori  dunque  differiscono  dai  generi  inferiori 
e  il  genere  ultimo  dalla  specie  piena  per  una  quantità  cntitatim, 
cioè  per  una  parte  di  quella  entità  che  è  necessaria  a  costituire 
un  ente  reale:  la  specie  astratta  non  differisce  (\-à\\i\  specie  piena 
per  alcuna  quantità  entitativa,  ma  soltanto  per  certi  atti  e  fini- 
menti dello  stesso  ente  che  si  dicono  accidenti.  11  reale  che 
costituisce  l'ente  finito  nella  specie  astratta  è  già  compiuto,  gli 
mancano  gli  atti  variabili  che  l'ente  compiuto  emette  di  sé  ne- 
cessariamente come  una  sequela  della  sua  radicale  attività.  Quindi 
lutti  gl'individui  sussistenti  che  si  riferiscono  alla  stessa  specie 
a^ralta  ricevono  lo  stesso  nome. 

Di  conseguente  la  realità  della  specie  piena  è  esaurita  in  cia- 
scuno di  essi,  perchè  in  ciascuno  produce  lo  stesso  ente,  relati- 
vamente all'intelligenza  che  lo  nomina,  laddove  il  genere  non  è 
esaurito  in  ciascuna  specie  astratta,  perchè  concorre  mediante 
più  specie  a  produrre  enti  che   sono  diversi  appunto   perchè  si 


mi 

conoscono  con  un'altra  specie,  e  quindi  ricevono  un  altro  nome. 

La  specie  astratta  dunque  contiene  il  reale  già  uno  ed  alto  ad 
essere  subielto  esistente  de'  propri  alti ,  e  la  specie  piena  non 
differisce  da  quella  se  non  perchè  rappresenta  anche  il  finimento 
di  questi  alti,  ma  non  un  subietto  novo.  I  generi  all'incontro 
rappresentano  una  realità  ,  che  non  è  ancora  una ,  né  atta  ad 
essere  un  subietto  reale  de'  propri  alti  ,  ma  che  deve  essere 
unificata,  e  può  essere  unificata  in  più  modi,  sicché  ne  escano 
più  subiclti  reali  e  quindi  più  enti  distinti  dalla  mente  per  la 
necessità  che  ha  di  concepirli    con  ispecie  diverse. 

11  grado  dunque  d'allualità  del  quale  differisce  la  specie  piena 
dalla  specie  astratta  non  costituisce  un  quanto  d'enle  reale,  ma 
un  quanto  d'azione  di  questo  ente. 

Anche  questo  quanto  d'azione  che  contengono  le  specie  piene 
più  delle  specie  astratte  non  si  può  misurare  con  altra  misura 
che  con  quella  che  abbiamo  delta  «  misura  immediala  di  cogni- 
zione )). 

Le  diverse  specie  piene  poi  o  modi  della  stessa  idea  specifica 
tra  loro  differiscono  per  gradi  d'imperfezione  e  di  perfezione,  i  quali 
ammettono  una  numerazione  più  o  men  lunga,  e  questa  nume- 
razione è  una  certa  misura  determinala,  giacché  c'è  qualche 
determinazione  di  misura  da  per  tutto  dove  c'è  numero  [Ideol. 
648  sgg). 

543.  IV. '^  Quantità  cosmologica.  —  Quantità  di  specie  piena  che 
si  ramsa  nell'individuo  reale  sussistente. 

L'individuo  reale  è  il  reale  pienamente  determinato  che  ha 
ricevuto  l'essere  subiettivo  ed  è  divenuto  ente.  Abbiamo  veduto 
che  quest'essere  subiettivo  è  dato  al  reale  da  un'affermazione 
della  mente.  Perocché  la  mente  ha  davanti  a  sé  l'essere  obiettivo, 
ma  nel  seno  dell'essere  obiettivo  come  nel  suo  contenente  sta  il 
subiettivo,  ed  é  questo  che  la  mente  appone  al  reale,  che  altra- 
mente noi  potrebbe  affermare.  Nella  specie  piena  c'è  il  reale 
unito  coll'essere  subiettivo,  cioè  il  reale  ente  nel  seno  dell'essere 
obiettivo.  Quando  il  reale  si  fa  sentire  fuori  della  mente,  chi 
ha  la  mente  vede  questo  reale  qual  è  nel  seno  dell'oggetto,  e 
c'è  come  ente,  e  così  l'afferma  come  ente,  ed  acquista  condi- 
zione di  ente  subiettivo  con  forma  subiettiva  perchè  non  più 
contenuto  nell'obiettivo. 


512 

Nella  specie  piena  dunque  c'è  più  dell'individuo  reale  esterno, 
perchè  c'è  il  reale  determinalo,  non  come  puro  termine  del- 
l'essere ,  ma  come  ente  reale  nell'essere  oggettivo.  Ma  il  reale 
finito  determinalo  esiste  come  ente  subiettivo:  Leonella  mente 
e  allora  involto  nell'oggettivo,  o  2.°  in  sé  e  allora  non  involto 
nell'oggettivo,  ma  nella  forma  categorica  subiettiva. 

L'ente  finito  dunque  essente  in  sé  consta  di  due  elementi 
indivisibili:  ì.°  d'un  elemento  relativo  a  sé  cioè  il  reale  puro, 
2.°  di  un  altro  elemento  che  è  nella  mente  cioè  l'essere  subiel 
livo,  che  la  mente  gli  attribuisce,  coli'  aiTcrmazione  creativa  di 
Dio  in  modo  permanente,  e  colla  percezione  e  affermazione  umana 
in  modo  transitorio  relativo  all'uomo  che  può  rinnovarsi  quante 
volle  piace  all'uomo. 

Attribuendo  la  mente  l'essere  subiettivo  al  reale  in  sé,  ella 
fa  sì  che  esista  come  ente  in  sé  e  però  fuori  della  mente. 

Neil'  alto  della  percezione  1'  uomo  non  trova  fuori  della  sua 
mente  se  non  il  puro  reale.  Ma  il  puro  reale  senza  l'essere  non 
potrebbe  esistere.  Se  dunque  apparisce  all'uomo  il  puro  reale  si 
è  perchè  questo  reale  è  congiunto  permanentemente  alla  mente 
divina  che  contiene  l'essere  subiettivo  nell'obiettivo  e  di  con- 
tinuo glielo  attribuisce.  Esiste  dunque  il  reale  finito  come  ente 
in  rispetto  a  Dio;  ma  in  rispetto  all'uomo  esso  si  comunica  come 
puro  reale  nel  sentimento,  ma  nello  stesso  lempo  l'uomo  intuisce 
l'essere  subiettivo  di  quel  sentimento.  Essendo  dunque  ad  un 
tempo  appresi  dall'uomo  i  due  elementi,  il  reale  e  l'essere,  egli 
vede  ossia  percepisce  il  reale  ente.  Ma  pure  per  astrazione  di- 
slingue il  reale  dall'essere,  che  lo  fa  ente,  pensando  il  sentimento 
puro  con  astrazione  dal  pensiero  con  cui  lo  pensa  ,  e  quindi 
pare  a  lui  che  il  reale  gli  sia  dato  senza  l'essere  ,  diviso  dal- 
l'essere; benché  non  sia  questa  che  un'illusione  dialetlica,  che 
ha  però  a  fondamento  il  vero,  il  vero  cioè  che  «  il  reale  non 
è  l'essere  »  benché,  come  abbiamo  detto,  sia  inseparabile  dal- 
l'essere subiettivo,  e  questo  dall' obietlivo  che  lo  contiene  nella 
mente. 

Il  reale  finito  dunque  e  determinato  non  è,  se  non  è  ente,  e 
dipende  dalla  mente  divina  che  lo  crea,  e  dalla  menle  umana 
che  gli  attribuisce  l'essere  subiettivo  e  così  lo  fa  ente  relativa- 
mente a  sé  stessa. 


513 

La  specie  piena  dunque  è  l'ente  reale  finito  involto  nell'oggetto 
e  però  in  forma  obiettiva;  1'  individuo  reale  sussistente  è  lo 
stesso  ente  reale  finito  in  forma  subiettiva. 

Non  differiscono  dunque  riguardo  all'essere,  come  meglio 
vedremo  in  appresso,  ma  differiscono  di  forma  categorica. 

La  differenza  di  forma  categorica  non  è  una  differenza  di 
quantità,  né  una  differenza  di  qualità  generica,  ma  una  differenza 
prima  e  massima,  che  è  il  principio  originale  di  tutte  le  altre 
differenze  concepibili. 

Articolo   VH. 

Continuazione.  —  Concetto  di  qualità. 

5^6.  Cbiamasi  qualità  «  un'  attualità  permanente ,  cbe  colla 
mente  si  astrae  dal  totale  d'un  ente,  e  che  dopo  averla  astratta 
si  predica  del  medesimo  ». 

Questa  è  una  definizione  universale,  che  abbraccia  tutti  i  signi- 
ficati, ne' quali  si  suole  usare  la  parola  qualità. 

E  veramente  ci  sono  delle  attualità  essenziali,  integrali,  acci- 
dentali e  di  pura  relazione  ,  e  tutte  si  possono  astrarre  colla 
mente  e  distinguere  dalia  totalità  dell'ente  e  poi  predicare  di  lui. 
Aristotele  stesso  considera  come  qualità  1'  essenza  generica  e 
specifica  degli  enti  (d).  Vero  è  che  dividendosi  queste  entità 
essenziali  dall'ente,  si  distrugge  l'ente  determinato,  ma  la  niente 
in  tal  caso  considera  per  subietto,  a  cui  attribuire  tali  qualità 
essenziali,  V ente  indeterminato  ,  cioè  le  rimane  un  subietto  dia- 
lettico ,  e  col  restituirgli  i  suoi  essenziali  costitutivi  di  novo 
forma  l'ente  determinato  di  prima. 

Conviene  ancora  osservare  che  ci  sono  delle  qualità  reali  e 
delle  qualità  puramente  dialettiche.  Perocché  se  la  mente  astrae 
dal  totale  d'un  ente  un'attualità  ,  che  è  contenuta  in  esso  solo 
virtualmente,  o  non  vi  é  contenuta  affatto  se  non  per  una  finzione, 
in  tal  caso  la  qualità  di  cui  si  tratta  non  é  reale  ma  puramente 
dialettica. 

547.  Ora  quello  che  per  noi  é  imporlant-e  di  conoscere  si  è, 

(1)  Categ.  5. 

Rosmini.  Teosofia.  33 


514 

qual  sia  la  relazione  tra  il  quale  e  il  quanto  preso  l'uno  e  l'altro 
concetto  nella  sua  maggiore  universalità. 

Il  quanto  si  concepisce  prima  in  un  concreto ,  subietto  della 
quantità,  poi  la  mente  ne  fa  un  astratto,  che  chiama  assoluta- 
mente quantità. 

Ora  il  quanto  di  un  subietto  è  quasi  sempre  il  quanto  d'un 
quale  :  poiché  quasi  ogni  subictto  ha  qualche  attualità  che  da  lui 
si  può  astrarre ,  e  poi  di  lui  si  può  predicare. 

La  qualità  dunque  d'un  subielto  considerata  in  relazione  alla 
quantità  del  medesimo  sta  come  l'indeterminato  ai  limiti  che  lo 
determinano.  Poiché  la  quantità,  come  abbiam  detto,  è  «  l'entità 
considerala  entro  i  suoi  limiti  ».  Se  dunque  in  luogo  della  parola 
entità,  sostituiamo  in  questa  definizione  la  parola  qunlità,  avremo 
non  l'ente  tutt'  intero  ma  una  sua  attualità  elementare  ,  alla 
quale  potremo  aggiungere  poi  i  limili ,  e  così  la  quantità. 

La  qualità  dunque  non  é  tulio  l'ente  ma  una  sua  attualità 
qualunque  divisibile  colla  mente  e  poi  di  lui  predicabile.  Questa 
attualità  poi  si  dice  nella  definizione  dover  essere  permanente 
per  distinguere  la  qualità  daWatto  transitorio  dell'ente  ,  che  al- 
l'ente non  inerisce.  La  qualità  così  concepita  può  esser  subietto 
di  quantità,  ossia  di  limiti. 

548.  Ma  quali  sono  le  attualità  dell'ente  che  si  possono  dal- 
l'ente dividere  e  poi  di  lui  predicare? 

Se  si  parla  dell'Ente  assoluto  niente  si  può  da  lui  dividere 
realmente  o  considerare  diviso  con  un  pensiero  assoluto.  Ma  con 
un  pensiero  imperfetto  si  può  coll'astrazione  ipotetica  distinguere 
da  esso,  o  piuttosto  in  esso,  molti  suoi  attributi  e  perfezioni,  che 
virtualmente  vi  si  contengono  e  poi  di  lui  si  possono  predicare, 
il  che  é  quanto  dire  si  possono  considerare  come  sue  qualità.  Ma 
essendo  tutte  queste  qualità  dialettiche  assolutamente  infinite, 
esse  non  ammettono  quantità  alcuna  appunto  perchè  non  ammet- 
tono limiti. 

Se  si  prende  l'essere  indeterminato  dell'intuito,  si  possono  colla 
stessa  astrazione  distinguere  in  esso  quelli  che  chiamammo  con- 
cetti elementari  deWessere ,  ma  anche  questi  essendo  infiniti  si 
possono  bensì  considerare  come  altrettante  qualità  dialettiche,  ma 
non  suscettive  di  limiti ,  e  però  immuni  da  ogni  quantità. 

La  quantità  dunque  non  si  può   trovare  nell'essere  puro ,  la 


qualità  poi  vi  si  può  trovare  per  un'astrazione  puramente  ipotetica. 

Di  che  nascono  tre  conseguenze  : 

i°  Che  il  concetto  di  qualità  puramente  dialettico,  qua!  ò 
quello  che  la  mente  si  fa  per  un'astrazione  ipotetica,  è  anteriore 
a!  concetto  di  quantità. 

2"  Che  se  si  parla  non  d'una  qualità  dialetlica  ,  ma  d'una 
qualità  vera,  cioè  di  quella  attualità  dell'ente  ,  che  si  distingue 
realmente  nell'ente  stesso,  questa  non  si  può  trovare  che  negli 
enti  finiti,  ne' quali  esistono  attualità  realmente  distinte  dal  su- 
bietto a  cui  si  attribuiscono. 

.">"  Che  la  quantità,  non  esistendo  nell'essere ,  convien  cer- 
carla nelle  forme  dell'essere. 

549.  Rimane  dunque  a  ricercare  primieramente  se  la  quan- 
tità si  rinvenga  nelle  forme  dell'essere  in  quanto  si  trovano  nel- 
l'Ente infinito  0  nell'ente  finito. 

E  si  risponde  primieramente  che  la  quantità  puramente  discreta 
sembra  trovarsi  nelle  tre  forme  infinite,  perocché  essendo  queste 
veramente  tre  e  inconfusibili ,  sembra  che  il  numero  tre  si  possa 
di  esse  predicare.  Ma  qui  conviene  accuratamente  distinguere. 
Poiché  primieramente  il  numero  é  un  astratto  e  però  una  conce- 
zione mentale  che  non  esiste  se  non  nella  mente  così  astratto,  e 
non  c'è  una  distinzione  reale  tra  il  numero  tre  e  le  divine  persone. 

Di  poi  quando  si  tratta  di  predicare  un  numero  d'un  subietlo, 
il  quale  di  conseguente  abbia  la  quantità  discreta  conviene,  che 
il  subietto  di  cui  si  predica  il  numero  sia  unico  :  poiché,  se  non 
è  unico  ,  manca  il  subietto  della  quantità  discreta.  Ora  in  Dio 
manca  l'unico  subietlo  di  cui  si  possa  predicare  il  numero  tre. 
Poiché  non  c"é  in  Dio  che  la  natura  e  le  persone.  Ma  la  natura 
è  una,  e  però  non  si  può  di  essa  predicare  il  tre  dicendo  :  «  tre 
nature».  Le  persone  poi,  come  persone,  non  sono  un  subietto 
perché  sono  tre. 

Se  dunque  si  predica  il  numero  tre  delle  persone  si  fa  questo, 
perché  si  concepiscono  dalla  mente  le  tre  divine  persone  come 
un  subietto  mentalmente  collettivo  (1),  ed  è  come  se  si  predicasse 
il  tre  del  tre  dicendosi  :  «  il  tre  è  tre  ». 


(1)  Si  dirà  forse,  che  questo  avviene  sempre  quando  si  predica  il  numero, 
come  quello  che  d'altro  sembra  non  potersi  predicare  che  d'una  collezione  di 


bl6 

550.  Dal  che  dobbiamo  conchiudere: 

1°  Che  in  Dio  non  non  si  può  neppure  ammettere  la  quan- 
tità discreta,  perchè  l'imo  dinno  non  misura  il  tre  delle  persone, 
essendo  quell'uno  stesso  lutto  in  ciascuna  persona  e  non  tripli- 
candosi ma  rimanendo  identico  ; 

2°  Che  tanto  l'uno  come  il  tre  in  Dio  non  si  possono  distin- 
guere come  numeri  astratti,  dove  l'uno  si  replica;  ma  il  tre  sus- 
siste assolutamente  senza  che  possa  predicarsi  d'un  altro  subietto 
unico;  e  l'uno  sussiste  assolutamente  identico  di  numero  in  cia- 
scuno de'  tre. 

Conviene  dunque  conchiudere  che  propriamente  parlando  ogni 
quantità  si  trova  non  nell'essere  ,  non  nelle  forme  infinite  del- 
l'essere: ma  soltanto  nelle  forme  dell'ente  finito. 

Ma  noi  abbiamo  veduto  che  l'ente  finito  è  costituito,  come  su- 
bietto avente  un'esistenza  propria,  solo  dalla  forma  reale  ,  e  che 
non  fa  che  partecipare  in  diverso  modo  delle  altre  due  forme, 
le  quali  non  vengono  limitate  in  sé,  ma  per  unai  limitazione  di 
relazione. 

cose,  e  però  d'un  subietto  mentale.  Ma  passa  questa  differenza  tra  le  colle- 
zioni d'enti  finiti,  e  quella  che,  impropriamente  parlando,  formano  le  divine 
persone,  che  nelle  collezioni  degli  enti  finiti  c'è  una  specie  o  un  genere  che 
contiene  veramente  il  reale  unico  che  poi  si  divide  e  replica  in  molli,  me- 
diante diverse  limitazioni;  all'opposto  nella  natura  divina  non  c'è  un  fonda- 
mento della  divisione  in  più,  perchè  non  si  tratta  punto  di  divisione,  o  di 
limitazione,  ma  c'è  l'unica  natura  divina  semplicissima,  che  tutta  intera  sus- 
siste in  tre  modi  diversi  e  incomunicàbili.  Non  si  può  dunque  numerare  la 
natura,  ma  solo  le  persone,  e  come  persone  sono  tre  subielti,  che  non  si  ri- 
portano ad  un  altro  subietto.  Si  dirà  che  c'è  la  specie  astratta  della  perso- 
nalità che  si  replica,  ma  questa  specie  astratta  non  è  che  un'entità  di  ra- 
gione, poiché  questa  specie  della  personalità  non  contiene  alcun  reale  che 
sia  comune  alle  persone,  o  anteriore  ad  esse,  o  che  tra  esse  si  divida,  e 
anzi  propriamente  la  personalità  non  si  predica  delle  persone,  ma  ciascuna 
persona  è  la  stessa  personalità  sussistente  della  natura.  Finalmente  si  deve 
considerare  che  noi  parlavamo  dell'uno  astratto  e  del  numero  tre  astratto. 
Ora  predicarsi  dell'uno  astratto  il  numero  tre  sarebbe  formare  una  propo- 
sizione contradiltoi'ia,  perchè  l'uno  astratto  è  eguale  a  ciascun  uno  dei  tre. 
All'incontro  non  è  una  proposizione  contradittoria  questa  «  la  natura  divina 
è  le  tre  persone  »,  perchè  la  natura  divina  non  è  lo  stesso  uno  con  cui 
si  numerano  le  persone,  nel  qual  caso  sarebbe  anch'ella  una  persona.  E  così 
si  possono  predicare  le  tre  persone  della  natura,  ma  non  il  tre  astratto  del- 
l'uno. 


517 

La  quantità  dunque  è  propria  dell'ente  finito,  e  dell'elemento 
che  lo  costituisce  come  subietto  proprio  cioè  la  realità  finita  ;  e 
però  ella  è  alla  stessa  condizione  della  qualità  reale ,  poiché  anche 
di  questa  abbiam  veduto  che  solo  agli  enti  finiti  appartiene. 

551.  Insieme  dunque  coH'esislenza  del  finito  compariscono  la 
quantità  e  la  qualità  reale:  ma  quale  delle  due  comparisce  la 
prima  ? 

Abbiamo  veduto  che  i  sommi  generi  della  realità  mondiale  non 
sono  «  entità  circoscritte  da  limiti  »  perchè  non  esiste  l'entità 
anteriore  ad  essi  che  ricevendo  limili  sia  il  loro  subietto  :  ma 
che  essi  tuttavia  si  concepiscono  come  infinitamente  meno  della 
realità  assoluta.  Perciò  altra  quantità  in  essi  non  si  ravvisa  che 
quella  di  più  e  di  meno ,  la  quale  non  ammette  misura  alcuna. 
Non  si  distinguono  dunque  ne' sommi  generi  i  limiti  dall'entità, 
ma  è  un'entità  che  è  limite  a  sé  stessa:  è  il  finito  esistente.  Essi 
stessi  sono  anche  i  limiti  del  tutto  creato  ,  come  contenenti  di 
questo  :  perchè  il  creato  non  è  che  i  sommi  generi  variamente 
limitati. 

Se  dunque  noi  sotto  il  nome  di  quantità  intendiamo  anche 
(juella  di  cui  altro  non  si  può  afTermare  che  il  più  ed  il  meno, 
benché  l'eccesso  e  il  difetto  sia  senza  quantità:  in  tal  caso  la 
quantità  e  la  qualità  sono  coeve  nella  loro  comparsa  all'esistenza. 
Poiché  i  sommi  generi  sono  le  somm,e  qualità  e  sono  in  pari  tempo 
infinitamente  minori  della  realità  assoluta  ed  infinita. 

552.  Ma  si  possono  considerare  i  sommi  generi  come  la  rea- 
lità assoluta  limitata  ? 

La  realità  assoluta  in  sé  stessa  esistente  ricusa  ogni  limitazione 
e  distinzione.  Ma  la  realità  assoluta  in  quanl'è  puramente  pre- 
sente alla  divina  mente,  ammette  limitazioni  mentali  colle  quali 
diviene  l'idea  esemplare  del  mondo ,  nel  quale  esemplare  c'è  la 
realità  del  mondo  involto  nell'oggetto  e  però  non  ancora  Mondo, 
ma  tale  però  che  in  virtù  dell'atto  creativo  acquista  un'esistenza 
propria,  relativa  a  sé,  subiettiva,  e  così  diviene  il  Mondo. 

Se  dunque  si  parla  della  realità  del  mondo  in  quant' è  ancora 
nella  mente  divina  ,  può  dirsi  che  sia  la  realità  assoluta  limitata 
dall'alto  libero  della  divina  mente  e  così  può  considerarsi  come 
una  quantità ,  secondo  la  definizione  da  noi  data  «  d'una  entità 
in  quanl'è  racchiusa  da  limili  »,  e  ciò  quantunque  l'entità  che 


518  * 

si  prende  come  subielto  de' limili  ecceda  tulli  i  limili  infìniUi- 
menle  ,  onde  prescnli  una  quanlilà  soltanto  «  di  più  e  di  meno», 
senza  che  l'eccesso  abbia  un  quanto.  È  dunque  questa  una  quan- 
tità mentale  duina. 

L'uomo  poi  non  conosce  la  realità  assoluta  se  non  virtualmente 
neir  essere  virtuale  ,  onde  altro  non  può  paragonare  che  i  sommi 
generi  come  idee  all'idea  dell'essere,  e  conchiudere  che  quelle 
sono  questa  limitata ,  onde  può  dire  che  stanno  le  une  all'altra 
come  il  limitato  all'illimitato,  e  cosi  ha  una  (piantila  ontologica 
«di  più  e  di  meno)).  E  questa  è  quanlilà  di  più  e  di  meno 
ideale. 

Ma  se  si  paragonano  i  reali  aventi  esistenza  propria  e  subiet- 
tiva in  quanto  si  vedono  contenuti  ne' generi  sommi,  essi  non 
sono  punto  una  realità  limitata  ,  e  però  non  hanno  quanlilà  di 
sorla.  Poiché  qual  potrebbe  essere  la  realità  subiettiva,  che:  ag- 
giungendosi i  limiti,  venisse  a  costituirli?  Non  la  realità  assoluta 
che  non  riceve  limiti  ,  e  che  è  essere  ;  laddove  la  realità  dei 
sommi  generi  non  è  essere  e  però  non  c'è  un  fondamento  co- 
mune di  limitazione.  Se  i  sommi  generi  fossero  la  realità  asso- 
luta limitata ,  questa  sarebbe  il  subietto  di  quelli ,  e,  in  tal  caso, 
quelli  sarebbero  per  sé  esseri.  Il  subietto  reale  all'incontro  di 
tutto  ciò  che  è  finito  non  può  essere  allro  che  un  puro  reale 
che  non  é  essere.  Ma  i  sommi  generi  non  hanno  neppure  un 
reale  antecedente  che  sia  puro  reale  e  non  essere,  perchè  sono 
i  sommi  generi  de'  reali  finiti  per  la  supposizione.  Dunque  non 
hanno  limiti ,  e  quindi  né  pure  quantità  reale. 

553.  Alla  domanda  dunque  che  noi  ci  facevamo  qual  com- 
parisca prima  all'esistenza,  se  la  qualità  o  la  quantità,  conviene 
rispondere  in  questo  modo  : 

Se  trattasi  d'una  quantità  mentale  divina ,  la  qualità  e  la  quan- 
tità sono  coeve. 

Se  trattasi  d'una  qualità  e  quantità  d'idee,  pure  sono  coeve. 

Ma  se  trattasi  di  quanlilà  e  di  qualilà  realmente  esistenti  negli 
enti  in  quanto  hanno  un'esistenza  propria  e  subiettiva  ,  la  qualità 
precede  la  quantità,  perché  i  sommi  generi  delle  realità  porgono 
il  concetto  di  somme  qualità,  prive  al  tutto  di  quantità.  Con- 
viene dunque  che  ritorniamo  a  quello  che  dicemmo  a  principio, 
che  il  quanto  è   sempre  «  quanto  d'un   quale  )>,   e  che  però  la 


o49 

quantità  suppone  antecedente  a  sé  una  qualità  o  più  general- 
mente un'entità  di  cui  come  di  suo  proprio  subietto  si  predichi. 

In  quanto  poi  ai  generi  inferiori  e  alle  specie,  queste  si  pos- 
sono considerare  sotto  due  rispetti  diversi  come  qualità,  e  come 
quantità.  Si  considerano  come  quantità  se  si  riferiscono  al  genere 
superiore,  come  a  questo  limitato  »,  e  si  considerano  come  qua- 
lità se  si  guardano  in  sé  stesse ,  senza  relazione  al  genere  su- 
periore che  in  essi  esiste  limitalo ,  ovvero  se  si  guardano  rela- 
tivamente ai  generi  o  specie  inferiori,  rispetto  a  cui,  essi  sono 
il  quale  di  cui  il  genere  o  la  specie  inferiore  è  il  quanto. 

Ma  se  escludiamo  dalla  nostra  considerazione  tutto  ciò  che  sta 
nell'idea  e  pensiamo  alla  sola  e  pura  realità ,  in  tal  caso  non 
ci  rimane  che  il  concetto  astratto  di  quantità  riferibile  ad  una 
qualità  che  rimane  occulta,  perché  la  mente  non  la  determina. 
E  veramente  se  non  si  conservasse  tuttavia  nella  mente  il  con- 
cetto d'un  quale  almeno  indeterminato,  non  si  potrebbe  più  con- 
cepire una  quantità  né  pure  astratta. 

In  cima  dunque  all'Universo  sta  la  qualità  pura  de'sommi  ge- 
neri ;  poi  ne'  generi  inferiori  e  nelle  specie  viene  una  qualità  che 
si  può  considerare  anche  sotto  il  concetto  di  quantità ,  e  potrebbe 
dirsi  quantità  qualitativa  ;  viene  finalmente  la  quantità  pura  e 
astratta  avente  però  quasi  contrapposto  nella  mente  il  concetto 
di  qualità  pure  astratta  e  indeterminata. 

Si  osservi  che  questa  questione  ontologica  sulla  priorità  dei 
due  concetti  di  qualità  e  di  quantità  non  fu  potuta  risolvere  chia- 
ramente da  Aristotele  per  aver  egli  troppo  divisi  i  suoi  predica- 
menti  da  quelli  che  si  chiamarono  predicabili  {Logica  415-415), 
atteso  che  non  é  risolvibile  col  semplice  paragone  de'  due  con- 
cetti astratti  di  quantità  e  di  qualità ,  ma  conviene  considerare 
l'una  e  l'altra  ne'  generi  e  nelle  specie  e  in  fine  nel  reale  ,  e 
vedere  dove  incomincia  prima  a  presentarsi  al  pensiero  l'una 
0  l'altra. 


520 

Articolo  Vili. 
Quantità  fisica^,  ossia  del  reale  finito  in  sé. 

S  ^• 
Quantità  del  reale  finito  determinato  considerata  nella  specie  piena. 

554.  La  specie  piena  contiene  il  reale  finito  pienamente  de- 
terminalo. Ma  in  essa  trovasi  anche  determinata  la  quantità  di 
questo  reale  finito  in  quanto  esiste  subiettivamente  in  sé  stesso? 

Questa  quantità  può  concepirsi  in  due  maniere,  cioè: 

V  Quantità  di  realità  di  cui  consta  un'individuo  reale  sus- 
sistente. 

2"  Quantità  di  realità  d'un   individuo  sussistente  replicata 
in  un  dato  numero  d'individui  uguali. 

Chiameremo  la  prima  quantità  fisica  individua  ;  chiameremo  la 
seconda  quantità  fisica  discreta, 

555.  Intorno  alla  prima  nasce  il  dubbio,  se  ella  sia  contenuta 
nella  specie  piena.  Certo  è  contenuta  neH'maf/nje perfetta  o  in  quella 
rappresentanza  d'un  ente  spirituale  individuo  che  tien  luogo  del- 
l'imagine.  Ora  sembra  che  l'imagine  perfetta  o  la  rappresentanza 
perfetta  sia  la  materia  propria  della  specie  piena ,  essendo  sua 
forma  l'essere  ideale ,  che  la  mente  attribuisce  al  fantasma  o  alla 
delta  rappresentanza.  Infatti  concepire  una  specie  piena  allual- 
menle  presente  all'intuizione  della  mente  senza  fantasma  o  la 
detta  rappresentanza  della  attualità  determinata  dell'ente  spiri- 
tuale non  si  può.  Per  questo  noi  abbiamo  sempre  ritenuto,  che 
nella  specie  per  essere  veramente  piena  si  deva  contenere  anche 
la  quantità  individua  della  realità  {Ideol.  402). 

Ma  è  manifesto  che  non  vi  si  contiene  una  quantità  fisica 
discreta.  Pure  egli  sembra  nel  primo  aspetto  che  una  sola  specie 
piena  possa  corrispondere  a  innumerevoli  individui  realmente 
esistenti.  Ciascuno  di  questi  esisterebbe  ugualmente  nella  specie 
piena  con  tutte  le  loro  particolarità ,  quantunque  non  esistesse 
in  quella  il  loro  numero. 


b21 

Pure  se  possono  esistere  più  individui  perfettamente  uguali , 
è  certamente  necessario  che  sia  determinato  nella  causa  che  il 
produce  il  loro  numero ,  che  è  la  quantità  fisica  discreta  di  cui 
parliamo  ,  giacché  non  possono  esistere  individui  reali  finiti  in 
un  numero  indeterminato,  ma  conviene  che  o  ne  esista  uno,  o 
due,  0  tre  o  qualunque  numero  determinato.  Onde  verrebbe  dun- 
que questa  determinazione?  —  Si  dirà,  che,  non  venendo  dalla 
causa  obiettiva,  conviene  che  venga  dalla  causa  subiettiva  del 
mondo,  cioè  dalla  libera  volontà  del  Creatore.  E  si  aggiungerà 
che  anche  l'uomo,  quando  sia  in  possesso  d'una  specie  piena, 
può  imaginare  un  individuo  come  sussistente  ad  essa  corrispon- 
dente, e  poi  un  altro,  e  un  altro  senza  fine,  replicando  quell'alto 
d'imaginazione  ipotetica. 

556.  Ma  occorre  tosto  una  maggiore  difficoltà  :  k  Se  gl'in- 
dividui uguali  non  hanno  la  ragione  del  loro  numero,  e  però 
della  quantità  di  reale  di  cui  tutt' insieme  constano,  nella  specie 
piena,  dunque  tutta  questa  quantità  di  reale  non  ha  veruna  og- 
gettività. Ma  se  non  ha  oggettività  non  potrà  essere  conosciuta 
né  potrà  ricevere  l'essere ,  perocché  l'essere  subiettivo  che  dà 
la  mente  si  trova  nell'obiettivo,  dove  é  contenuto.  Dunque  più 
individui  uguali  non  possono  esistere.  Né  vale  il  dire  che  l'E- 
semplare del  mondo  non  essendo  una  sola  specie  piena,  ma  lutto 
il  complesso  delle  specie  piene  possibili ,  queste  vi  possono  es- 
sere replicate;  perchè  la  specie  piena  è  sempre  una,  per  modo 
che  non  ammette  leplicazione  di  sorte,  e  di  più  non  può  oc- 
cupare che  una  sola  situazione  nell'esemplare,  giacché  la  stessa 
situazione  diversa  che  occupasse,  deve  anch'  essa  comprendersi 
nel   concetto    d'una   specie  piena  sotto  lutti  gli  aspetti  ». 

Io  considero  questa  argomentazione  come  ineluttabile,  e  come 
una  conferma  a  priori  del  -principio  dell'esclusa  uguaglianza  ,  o 
come  lo  chiama  il  Leibnizio  degl'  indiscernibili ,  da  noi  altrove 
propugnato  {Teod.  Ci7  sgg.)  Ma  di  esso  non  avevamo  ancora 
trovato  una  dimostrazione  a /?non,  e  però  non  osammo  presen- 
tarlo in  tutta  la  sua  estensione,  restringendone  l'applicazione. 

557.  Ci  si  opporrà  che  alla  specie  piena  —  come  in  qualche 
luogo  noi  slessi  abbiam  detto  —  può  corrispondere  un  numero  in- 
definito d'individui  {Psicol.  1623J.  Rispondiamo  che  la  specie  piena 
si  pensa  in  un  modo  più  o  meno  perfetto.  Poiché  o  si  prende  per 


K22 

ispecie  piena  quel  concello  dell'enle  che  è  vestito  de'  suoi  acci- 
denti per  modo  che  si  può  imaginare  o  ipotelizzare  l'indivi- 
duo reale  clic  le  corrisponde,  e  chiamcrenio  questa  specie  piena 
vaga,  o  si  può  prendere  per  ispecie  piena  quella  che  ha  in  sé 
non  solo  tulli  gli  accidenti  dell'ente,  ma  anche  tutte  le  relazioni, 
sue  essenziali,  e  chiameremo  questa  specie  piena  fissa.  A  ra- 
gion d'esempio,  se  io  voglio  formarmi  la  s{)€cie  piena  d'  un  al- 
bero ,  posso  pensare  un  albero  vestilo  de'  suoi  accidenti,  ma 
senza  relazione  allo  spazio  in  cui  collocarlo  ,  e  posso  anche 
pensare  un  albero  vestilo  di  tulli  i  suoi  accidenti  ,  e  ancora 
del  luogo  che  egli  deve  occupare  (1).  Nel  primo  caso  io  ho  una 
specie  piena  vaga,  e  rispetto  a  questa  posso  imaginare  un  numero 
indefinito  d'alberi  reali,  giacché  posso  collocarli  in  diversi  luogbi 
dello  spazio,  i  quali  sono  indefiniti  di  numero:  nel  secondo  caso 
ho  una  specie  piena  fissa,  e  a  questa  non  può  corrispondere  che 
un  solo  individuo  reale ,  perocché  nello  stesso  spazio  non  pos- 
sono  stare  nello  stesso  tempo  due  corpi. 

Si  dirà  forse  ,  che  facendo  intervenire  lo  spazio  s'  introduce 
nella  specie  piena  un  elemento  reale ,  perché  lo  spazio  è  un 
reale.  Ma  non  è  così  ,  poiché  e'  é  lo  spazio  ,  e  c'è  l' idea  dello 
spazio.  Facilmente  si  confondono  queste  due  cose,  perchè  l'idea 
dello  spazio  non  ha  altro  individuo  possibile  che  un  solo  e  pie- 
namente determinato,  é  un'idea  che  non  ha  altra  idea  generica 
sopra  di  sé,  onde  si  può  considerare  come  un  genere  ella  stessa, 
ma  non  ha  specie  sotto  di  sé,  quindi  partecipa  anche  del  carat- 
tere di  specie  piena  e  fissa.  Onde  abbiamo  altrove  detto  che  un 
principio  senziente  che  non  avesse  altro  termine  che  lo  spazio 
non  potrebbe  essere  che  unico  {Psicol.  b5o-557). 

E  di  più  abbiamo  pur  detto  quello  che  consegue  ,  cioè  che 
«  più  enti-principio   con    termini   affatto   identici    non    possono 

(1)  Noi  abbiamo  escluso  il  luogo  dalla  specie  piena  di  cui  parlavamo  nella 
Psicologia  (1622  n.  Uident.),  percliè  effettivamente  nella  natura  d'un  dato  corpo 
non  entra  piuttosto  un  luogo  che  un  altro.  Pure  il  luogo  è  una  relazione  con 
questa  natura  che  dee  essere  determinata,  acciocché  il  detto  corpo  possa 
passare  all'esistenza  subiettiva,  e  però  esso  non  si  comprende,  è  vero,  nella 
specie  piena  di  quel  corpo  se  si  prende  isolatamente ,  ma  se  la  specie 
piena  si  considera  come  parte  dell'esemplare  del  mondo,  deve  acchiudere  an- 
che il  luogo  e  questo  determinato. 


b25 

sussistere  (Ivi  e  567  w).  Laonde  ogni  qual  volta  la  specie  piena 
di  tali  enti  contiene  la  determinazione  perfetta  del  termine,  co- 
stituente tali  enti,  ella  è  di  necessità  una  specie  piena  fissa. 

Dal  che  ne  viene  per  conseguenza  che  neppure  due  enti-ter- 
mine |)ossono  esistere  perfettamente  uguali.  Poiché  se  esistessero 
darebbero  sussistenza  a  due  enti-principio.  Ma  due  enti-principio 
con  un  termine  perfettamente  uguale  non  è  cosa  possibile,  dunque 
neppure  due  termini  aventi  perfetta  uguaglianza. 

Colla  stessa  ragione  si  prova  che  non  possono  esistere  due  enti 
misti  di  principio  e  di  termine. 

È  dunque  a  conchiudere  che  nella  specie  perfettamente  piena 
c'è  tutta  la  realità  dell'individuo  reale  ,  ma  che  ella  è  involta 
nella  forma  oggettiva,  e  però  non  esiste  in  sé,  ma  nell'oggetto. 
La  sussistenza  dunque  degli  enti  reali  finiti  in  sé,  ossia  la  loro 
esistenza  propria  e  subiettiva  in  altro  non  consiste,  se  non  nel- 
l'essersi  spogliati  per  così  dire  della  corteccia  obiettiva,  nell'es- 
sere usciti  daquest'ovo  metafisico.  E  il  cacciarli  fuori  da  que- 
st'ovo  e  così  loro  dare  un'esistenza  propria  é  l'opera  della  vo- 
lontà dell'Essere  stesso  sussistente,  il  cui  volere  è  essere,  ed  è 
di  conseguente  esistente  in  sé  ciò  che  vuole. 

558.  In  questa  maniera  abbiamo  trovato  la  perfetta  equazione  tra 
la  forma  obiettiva  e  la  forma  subiettiva  degli  enti  finiti.  In  quanto 
esistono  nella  prima,  non  sono  subietti  esistenti,  ma  sono  subiett- 
esislenti  in  quanto  esistono  nella  seconda.  La  loro  natura  entii 
tativa  nelle  due  forme  é  identica  ,  ma  essi  non  costituiscono  il 
mondo  esterno  se  non  nella  seconda,  e  così  si  spiega  la  frase  che 
usa  S.  Paolo  per  indicare  la  creazione  che  «  le  cose  visibili  sono 
state  fatte  dalle  invisibili  »  ex  invisibilibus  visibilia  (1). 


Quantità  del  reale  finito  considerata  ne'  diversi 
reali  finiti  confrontati  tra  loro. 

559.  Giunti  colla  nostra  investigazione  dai  sommi  generi  alle 
specie  piene  fisse  della  realità  finita  noi  abbiamo  trovato  tutte  le 

(1)  Hiebr.  XI,  3. 


824 

determinazioni  che  la  realità  finita  riceve  dall'essere  oggettivo  , 
acciocché  sia  resa  atta  ad  essere  creata  ^  cioè  ad  uscire  dal  seno 
della   forma  obiettiva  e  sussistere  come  forma  subiettiva. 

Fino  a  tanto  che  il  reale  finito  esiste  nella  forma  obiettiva, 
egli  è  essere,  essere  nella  forma  obiettiva  ,  perchè  questa  è  il 
contenente  massimo. 

Ma  quando  esce  dalla  forma  obiettiva  per  sussistere  come  su- 
bietto, esso  non  è  più  essere,  ma  solamente  forma  ossia  termine 
dell'essere.  Quindi  non  può  uscirne  se  non  a  condizione  che  nello 
stesso  istante  che  n'esce,  la  mente  gli  aggiunga  l'essere  subiet- 
tivo ;  il  che  fa  Dio,  come  essere  subiettivo,  pronunciandolo  ed 
affermandolo,  perchè  la  parola  dell'Essere  non  può  essere  altro 
che  essere,  non  essendoci  nell'essere  puro  niun  atto  e  niun  ter- 
mine dell'atto  che  non  sia  essere.  Esce  dunque  dalla  forma 
obiettiva  ricevendo  l'essere  subiettivo  dall'  atto  divino.  E  l'uomo 
nella  percezione,  percepisce  pure  il  reale  finito  coll'atto  stesso  che 
afferma  di  lui  l'  essere  subiettivo  che  egli  intuisce  nell'  obiet- 
tivo, e  predica  del  reale  finito  datogli  nel  sentimento. 

Costituiti  così  gli  enti  reali  finiti  sì  per  rispetto  a  Dio  che 
per  rispetto  all'  uomo ,  il  quale  pure  è  un  ente  reale  finito  co- 
stituito allo  stesso  modo,  come  abbiamo  detto,  rimane  a  cercare 
la  quantità  dell'  ente  finito  in  sé  slesso ,  cioè  la  quantità  della 
sua  realità  ne'  diversi  enti  finiti  comparativamente. 

E  quantunque  questa  ricerca  non  riguardi  la  determinazione 
oggettiva  del  reale  finito,  la  quale  è  compita  nella  specie  piena, 
tuttavia  si  vedrà  dalle  cose  che  siamo  per  dire ,  che  ci  è  ne- 
cessaria a  rendere  in  qualche  modo  compiuta  la  dottrina  intorno  a 
quella  determinazione. 

Perocché  la  diversa  quantità  di  reale,  che  hanno  gli  enti  fi- 
niti tra  loro  ,  è  causa  della  loro  moltiplicità  ,  ossia  della  mol- 
liplicità  delle  specie  piene  fisse.  Ora  anche  la  moltiplicità  degli 
enti  deve  essere  determinata  prima  nell'oggetto,  che  altrimenti 
non  potrebbe  uscire  da  questo  all'esistenza  subiettiva  un  numero 
determinato  di  enti,  e  venire  all'esistenza  un  numero  indetermi- 
nalo di  essi  è  impossibile. 

560.  Vediamo  dunque  primieramente  quali  siano  le  diverse 
maniere  di  quantità  comparativa  degli  enti  reali  finiti,  e  poi  cer- 
chiamone la  ragione  determinante  nel  loro  essere  obiettivo. 


52b 

La  quantità,  abbiamo  detto,  è  «  la  relazione  d'un'entità  co'  suoi 
limiti  )). 

Dalla  qual  definizione  abbiamo  primieramente  concbiuso,  che 
una  entità,  che  non  è  racchiusa  da  alcun  limite,  non  ha  quan- 
tità di  sorte  alcuna.  Dipoi: 

1."  Che  un'entità  che  sia  Hmitata  da  qualche  lato,  ma 
da  altri  illimitata,  non  ha  quantità  da  que'  lati  da  cui  rimane 
illimitata ,  e  questa  può  chiamarsi  infinità  ìinilaterale,  o  sempli- 
cemente laterale.  Ma  ha  quantità  da  que'  lati  da  cui  ha  limiti, 
e  si  può  del  pari  chiamare:  «  quantità  laterale  ». 

2.°  In  secondo  luogo  i  limiti  da  cui  è  contenuta  una  data  entità 
0  possono  essere  immutabili,  o  mutabili,  allargandosi  o  restrin- 
gendosi. Se  i  limiti  sono  immutabili  ,  in  tal  caso  si  ha  quella 
quantità  che  abbiamo  chiamata  «  quantità  di  cognizione  imme- 
diata »,  la  quale  non  lia  alcuna  misura,  ma  è  misura  a  sé  stessa, 
e  sebbene  la  mente  percepisce  quel  quanto  coU'atto  stesso  con 
cui  percepisce  l'entità,  non  può  dare  di  essa  altra  definizione  , 
né  esercitare  su  di  essa  alcun  calcolo  di  maniera  che  a  lei  non 
pare  né  pure  d'aver  appresa  una  quantità. 

5.°  In  terzo  luogo  se  i  limiti  entro  i  quali  si  considera 
racchiusa  un'entità  sono  mutabili,  sicché  si  possono  pensare  più 
ampi  0  pii!i  ristretti,  la  mente  intende  subitamente  che  1'  entità 
chiusa  entro  limiti  più  ristretti  lia  una  quantità  minore  della 
stessa  entità  racchiusa  entro  limiti  più  ampi,  e  viceversa  que- 
sta ha  una  quantità  maggiore  che  non  avea  quella.  Ma  questo 
eccesso  o  questo  difetto  dell'entità  stessa,  che  s'allarga  e  si  re- 
stringe, 0  si  può  riferire  ad  un'altra  quantità  che  gli  serve  di  mi- 
sura, come  se  l'aumento  che  va  facendo  1'  entità  che  allarga  i 
suoi  limiti  fosse  atto  ad  essere  distinto  in  gradi  o  parti  uguali, 
r  unità  delle  quali  sarebbe  la  misura  ,  ovvero  quell'  eccesso  o 
quel  difetto  non  si  può  misurare  perché  non  si  |)uò  dividere  in 
parti  uguali.  Nel  primo  caso  si  sa  che  la  quantità  é  cresciuta 
0  diminuita,  ma  non  si  sa  dire  di  quanto,  e  questa  è  quella  che 
abbiamo  chiamata  «  quantità  di  più  e  di  meno  ». 

k."  Se  poi  si  può  misurare  i  gradi  dell'  aumento  e  della 
diminuzione  ,  in  tal  caso  si  ha  «  la  quantità  misurata  o  misu- 
rabile ».  Questa  si  può  definire  «  la  relazione  che  hanno  tra 
loro  i  confini  d'una  data  entità  ».  Dove  é  da  osservarsi  quello 


5-26 

che  risulta  dalle  cose  delle,  cioè  che,  quando  gli  enti  sono  più, 
devono  avere  un'entità  comune  subiello  della  quantità  ,  accioc- 
ché essi  sieno   reciprocamente   misurabili. 

5.°  Ma  in  tutte  le  misure  reali  l'unità  di  misura  rimane  im- 
misurata ed  è  una  quantità  di  cognizione  immediata.  Se  all'  in- 
contro si  astraggono  i  numeri  ,  1'  unità  astratta  ne'  numeri  è 
semplice  e  perrettamente  indivisibile.  Onde  in  questa  quantità 
astratta  de'  numeri,  tutto  ciò  che  potesse  rimanere  indetermi- 
nato e  immisurato  resta  escluso  dall'astrazione  stessa.  Questa 
quantità  astratta  pertanto  è  «  quantità  discreta  astrattamente 
determinata  ». 

Questi  pertanto  sono  i  cinque  supremi  generi  —  astratti  —  della 
quantità:  quantità  laterale;  di  cognizione  immediata;  di  più  e  di 
meno;  misurata;  astrattamente  determinata. 

Dalla  definizione  oltracciò  risulta  che  la  quantità  suppone 
un'  entità  identica  che  ne  sia  il  subietto:  laonde  la  quantità  non 
è  una  relazione  d'un'cntità  con  un'altra,  ma  d'  un'  entità  con  sé 
slessa,  cioè  co'  suoi  limiti  più  o  meno  estesa. 

5C1.  Conviene  dunque,  acciocché  ci  sia  una  quantità  comparativa 
ad  un'altra  quantità,  che  ci  sia  un'entità  identica  subietto  del- 
l'una e  dell'altra  quantità  che  si  paragonano,  sia  per  rilevarne  il 
più  0  il  meno,  sia  per  commisurarle. 

Laonde  se  si  cerca  la  quantità  comparativa  di  due  entità  ,  è 
necessario  che  queste  entità  abbiano  qualche  cosa  di  comune  , 
acciocché  questo  elemento  comune  sia  preso  dalla  mente  come 
l'entità  unica,  come  l'unico  subietto  delle  due  quantità. 

La  quantità  dunque  comparativa  di  diversi  enti  finiti  non 
c'è  al  tutto  in  quanto  sono  diversi  ,  ma  solo  in  quanto  sono 
identici. 

Quegli  enti  dunque,  i  quali  nulla  avessero  di  comune  se  non 
l'essere,  non  potrebbero  avere  altra  quantità  comparativa  se  non 
l'ontologica. 

Quelli  che  hanno  di  comune  anche  la  limitazione  ,  ma  non 
più,  la  quale  è  infatti  comune  a  tutti  gli  enti  finiti  ,  avranno 
anche  comparativamente  la  quantità  cosmologica. 

Quelli  che  hanno  oltracciò  di  comune  la  forma  subiettiva  e 
l'esistenza  in  sé  avranno  anche  comparativamente  la  quantità 
fisica,  che  è  quella  che  viene  detcrminata  dalla  specie  piena  fissa. 


K27 

Ma  poiché  le  specie  piene  fisse  sono  diverse  ,  perciò  gli  enti 
reali  sussistenti  nell'Universo  sono  pure  e  molti  e  diversi,  e  per 
rilevare  la  loro  quantità  fisica  comparativa  converrà  vedere  che 
cosa  abbiano  di  comune  tra  loro,  che  serva  alla  mente  di  subietto 
unico  a  cui  riferire  le  diverse  quantità. 

Questo  subietto  rispetto  alla  realità  contenuta  nella  specie 
piena,  che  è  delia  stessa  quantità' del  finito  reale  sussistente,  è 
la  realità  contenuta  nella  specie  astratta:  ma  rispetto  alle  rea- 
lità contenute  nelle  diverse  specie  astratte  è  la  realità  conte- 
nuta nel  genere,  e  così  via  fino  a  un  genere  sommo. 

Conviene  dunque  ricorrere  alle  realità  contenute  nei  generi 
sommi  per  avere  l'entità  unica  che  riceve  i  diversi  confini  den- 
tro a'  quali  sono  contenuti  i  diversi  enti  reali.  Questa  ricerca  è 
diversa  da  quella  che  abbiamo  fatto  avanti  della  quantità  co- 
smologica, dove  abbiamo  cercato  di  rilevare  le  quantità  de' reali 
contenuti  ne'  generi  e  nelle  specie  comparativamente,  o  di  sta- 
bilire fin  dove  si  poteva  rilevare.  Qui  all'  incontro  parliamo  de' 
diversi  reali  sussistenti  e  delle  loro  comparative  quantità  ,  ma 
non  potendosi  queste  comparare  senza  riferirle  a  un  subiello 
unico  della  quantità,  ossia  de'  vari  limiti  entro  cui  si  considera 
esistente^  è  uopo  di  novo  ricorrere  a  ciò  che  nel  reale  sussistente 
v'ha  di  sommamente  generico. 

50:2.  Ora  qui  appunto  ci  bisogna  entrare  nella  questione  toccata 
prima:  «  Se  i  sommi  generi  dell'  ente  finito  si  possano  ridurre 
ad  uno  «. 

A  primo  aspetto  sembra,  che  si  possa  considerare  come  unico 
genere  a  cui  tutti  gli  enti  finiti  si  riducono  lo  stesso  concetto 
indelerminatissimo  dell'ente  finito.  Ma  «  l'ente  finito  »  indeler- 
minalissimo,  non  è  più  che  un  genere  nominale  (1)  [Ideol.  6S5, 
656).  E  veramente  è  necessario  per  avere  un  genere  reale  —  o 
anche  solamente  un  genere  mentale  di  quelli  che  rappresentano 
un'  essenza  accidentale,  —  che  la  parola  che  esprime  il  genere 
abbia  un  solo  e  medesimo  significato,  e  non  sia  presa  equivo- 
camente. Ora  quando  io  dico  «  ente  finito,  «  o  «  reale  finito  »  la 


(1)  Questi  generi  nominali  si  possono  considerare  come  una  suddivisione 
de'  generi  dialettici,  e  così  le  classi  de'  generi  si  riducono  a  due  :  generi 
reali  e  generi  dialettici. 


528 

parola  ente,  o  la  parola  reale,  non  ha  ^sempre*  il  medesimo  signi- 
ficato. Poiché  l'ente  reale  soggettivo  che  è  ente-principio,  e  l'ente 
reale  estrasoggettivo  che  è  ente-termine,  non  sono  enti  se  non 
in  un  significato  equivoco;  questo  secondo  non  essendo  ente  se 
non  in  relazione  al  primo  e  non  considerato  in  sé  stesso.  11  primo 
all'incontro  è  ente  considerato  in  sé  stesso.  L'ente  estrasoggettivo 
dunque  considerato  in  sé  stesso  è  non-ente,  e  il  solo  ente  sog- 
gettivo è  ente  considerato  in  sé  stesso.  L'espressione  dunque  di 
«  ente  finito  »  o  abbraccia  solo  l'ente  soggettivo,  o  abbraccia  in 
sé  stesso  l'ente  e  il  non-ente  sotto  la  stessa  parola  di  ente,  la 
quale  in  tal  modo  rimane  equivoca.  Acciocché  dunque  la  pa- 
rola ente  nell'espressione  «  ente  finito  »,  presa  come  unico  genere, 
ricevesse  un  significato  unico,  converrebbe  fare  un'astrazione  sui 
due  o|)posti  ente  e  non  ente,  poiché  il  concetto  elementare  del- 
Venle  (inilo  non  racchiude  altro  che  una  pura  relazione,  e  i  ge- 
neri che  esprimono  pure  relazioni  sono  stati  detti  da  noi  nomi- 
nali, rimanendo  da  essi  esclusa  l'essenza  tanto  sostanziale  quanto 
accidentale  {Idcol.  050).  Né  si  può  dire  che  rimanga  nel  detto 
genere  il  concetto  elementare  dell'  «  essere  finito,  »  perché  l' es- 
sere non  viene  limitalo  che  dalla  realità,  che  é  il  subietto  della 
limitazione.  Nel  concetto  dunque  di  essere  finito  si  contiene  una 
relazione  alla  realità,  e  cosi  torna  l'equivoco,  perché  la  realità 
nell'ente  soggettivo  è  realità  in  sé,  laddove  nell'  ente  estrasog- 
gettivo essa  in  sé  non  é  realità,  ma  piuttosto  non-realità. 

Ora  un  genere  puramente  nominale  non  può  essere  il  subietto 
delle  varie  limitazioni,  se  non  nel  caso  che  si  trattasse  di  limi- 
tazioni puramente  nominali  del  pari;  ma  cercando  noi  la  quan- 
tità comparativa  dell'ente  reale  sussistente,  abbiamo  bisogno  d'a- 
ver per  entità  unica,  subietto  delle  varie  limitazioni,  quella  che  ci 
è  data  da  generi  reali. 

Ora  questi  sono  due,  irreducibili,  e  sono  appunto  quelli  che 
dicevamo  dell'  ente-principio  o  suhieltivo  ,  e  dell'  ente-termine  o 
estrasoggettivo  (1).  E  non  si  opponga,  che  riducendosi  la  realità 


(t)  Gli  enti  misti  di  principio  e  di  termine  si  riducono  ai  due  sommi  ge- 
neri semplici,  percliè  gli  enti  misti  si  dividono  in  due  classi:  1°  quelli  che 
sono  principi  aventi  un  termine,  come  l'uomo  che  ha  per  termine  il  corpo, 
e  questi  appartengono  assolutamente  agli  enti-principio  ;  2"  quelli  che  sono 


finita  a  due  sommi  generi,  in  vece  che  a  un  solo,  si  distrugge 
r  unità  del  tutto  mondiale,  perchè  questa  è  salva  dall'  istante 
che  uno  dei  due  generi  è  relativo  all'altro ,  di  maniera  che  un 
solo  genere  reale  primeggia  ed  è  reale  per  sé,  e  l'altro  non  è 
tale  che  per  la  relazione  che  ha  col  primo.  L'unico  genere  dun- 
que che  è  vero  fondamento  dell'  Universo  è  «  1'  ente  finito  prin- 
cipio ». 

563.  Dobbiamo  dunque  parlare  separatamente  della  quantità 
comparativa  degli  enti-principio  ,  e  della  quantità  comparativa 
degli  enti- termine,  nienl'altro  che  termini. 

Le  due  maniere  di  quantità  non  si  commisurano,  e  solo  si  può 
in  qualche  modo  dire,  che  i  primi  sieno  infinitamente  più  dei 
secondi.  Ma  poiché  gli  enti-termine  stanno  agli  enti-principio 
come  il  non- ente  sta  all'ente  ,  perciò  non  si  può  neppur  dire 
che  gli  enti-principio  sieno  pii^i  degli  enti-termine  come  enti  , 
ma  solo  che  sieno  più  per  la  dignità,  o  prezzo  estimativo  e  mo- 
rale nell'animo  umano ,  nel  quale  si  calcola  anche  il  non-ente, 
per  l'efìelto  che  in  lui  produce.  In  questa  maniera  di  valutare 
l'ente  e  il  non-ente^  non  si  considerano  questi  in  sé  slessi, 
ma  tutti  e  due  come  relativi,  cioè  relativi  all'animo  umano  e 
così  possono  compararsi. 

Se  dunque  noi  vogliamo  investigare  prima  la  quantità  com- 
parativa dogli  enti-principio,  troveremo  necessario  distinguere  in 
ciascuno  di  essi  sei  maniere  di  quantità:  1.°  la  quantità  della 
natura,  2.°  la  quantità  dell' attualità  naturale,  3.°  la  quantità 
della  potenza  naturale,  ^i."  la  quantità  della  potenza  acquisita 
ossia  dell'abito,  5."  la  quantità  dell'atto,  C.°  la  quantità  della 
perfezione  acquisita.  Consideriamo  ciascuna  a  parte. 

5C4.  1.°  Quanlilà  della  natura  dcll'ente-principio.  —  La  natura 
dell'enle-principio  è  costituita  dol  suo  termine  {Psicol.  878  sgg  ). 
Laonde  quanto  più  il  termine  ha  dell'essere,  tanto  più  n'ha  il 
principio.  Ora  tre  termini  noi  conosciamo:  ì°  il  sentilo^  2."  l'es- 
sere oggettivo,    3.'  l'essere   morale.  Ninna  natura  ha  per   suo 


teriiiini  aventi  principi,  come  il  corpo  vivente,  e  questi  appartengono  asso- 
liUamonte  agli  enti-termine.  Ciò  che  cosliluisce  la  natura  dell'ente  è  il  su- 
bietto il  quale  negli  enti-principio  è  reale,  negli  enti-termine  è  pensalo  dalla 
mente,  e  però  è  suppositizio. 

Rosmini.  Teosofia,  34 


J)ÓO 

proprio  termine  costitutivo  l'essere  morale,  fuorché  la  divina. 
Nella  natura  divina  Tessere  morale,  nello  stesso  tempo  che  è  ter- 
mine, è  anche  ente-principio,  perchè  è  Dio,  persona  sussistente  e 
causa  del  mondo  (1).  Nella  natura  finita  il  termine  morale  non 
è  che  termine  di  perfezione ,  e  non  termine  costitutivo  della 
natura  stessa. 

I  termini  costitutivi  dunque  degli  enti  finiti  sono  due:  I"  il 
sentito  ,  2"  e  r  inleso,  ossia  l'essere  oggettivo.  Questi  corri- 
spondono ai  due  sommi  generi  degli  enti-principio  finiti.  Il 
sentito  è  termine  che  costituisce  l'ente-principio  puramente  sen- 
ziente: Tessere  ohiellivo  è  ternìine  che  costituisce  l'ente  prin- 
cipio intelligente. 

II  termine  puramente  sentilo  è  reale  finito  e  per  sé  solo  non- 
ente:  il  termine  oggettivo  é  essere.  Non  si  possono  dunque  com- 
parare questi  due  termini  perchè  l'uno  è  non  essere,  l'altro  è  es- 
sere; non  sono  commensurahili,  perché,  come  ahhiamo  detto  degli 
enti-i)rincij)io  e  di  quelli  che  sono  puramente  enti-termine,  non 
hanno  nulla  di  comune,  ma  dilTeriscono  solo  infinitamente  di 
dignità  e  di  valore  relativamente  all'animo  umano.  La  diffe- 
renza loro  dunque  non  è  di  quantità,  e  né  manco  di  essere, 
differendo  come  Tessere  e  il  nulla;  ma  é  solo  di  dignità  diffe- 
rendo senza  quanto,  cioè  infinitamente. 

Se  dunque  da'  termini  dipende  la  natura  degli  enti-principio, 
le  due  nature,  delTente-principio  puramente  senziente  e  dell'ente 
principio  intelligente,  differiscono  pure  d'una  differenza  non  di 
quantità,  ma  di  dignità  infinita. 

Ma  è  da  notarsi,  che  l'ente  principio  è  sempre  un  senlimento, 
altramente  sarebbe  cosa  morta  e  inerte,  il  che  ripugna  alla  con- 
dizione di  principio:  è  dunque  un  senlimento  anche  il  principio 
inlellellivo  [Introduz.  VII,  i.  Sul.  Ling.  fdos.). 

IjGT).  Ora  riducendosi  ogni  ente-principio  ad  un  sentimento,  non 
si   riducono  così  gli  enti-principio  ad  un  solo   genere  supremo? 

Noi  abbiamo  veduto  che  Tenie  finito  si  compone  di  due  ele- 
menti, il  reale  e  Vessere.  Rispetto  dunque  al  reale  è  verissimo  che 


(I)  1^0  stesso  dicasi  dell'essere  oggetto,  il  quale  in  Dio  è  ad  un  tempo  e 
termine  della  divina  intelligenza,  e  ente-principio  sussistente,  Dio  perfetto, 
persona  divina. 


N31 

tulio  il  reale  degli  enti  principio  finiti  si  riduce  ad  un  sommo 
genere  di  reale  che  è  il  sentimento. 

Ma  questo  non  vuol  dire  che  si  possano  ridurre  ad  un  solo 
genere  sommo  gli  enti  principio,  perchè  quello  che  è  puramente 
senziente  non  è  ente  da  sé  solo,  ma  perchè  la  mente  lo  consi- 
dera oggetlivamente,  e  gli  dà  l'essere  suhieltivo  per  via  di  sup- 
posizi(»ne  {Logic.   ^54). 

L'enle-principio  intellettivo  dunque  è  un  sentimento.  Questo 
sentimento  si  può  considerare  in  due  modi,  o  come  senlimenlo, 
dove  non  e'  è  altro  sentito  eiie  sé  stesso,  o  come  senlimenlo,  dove 
oltre  esserci  per  sentito  sé  stesso  e  per  intuito  Tessere,  ci  sia 
un  altro  sentilo  diverso  da  se  stesso. 

Se  nel  detto  sentimento  principio  intellettivo  non  c'è  altro  sen- 
tilo che  sé  stesso,  il  sentito  è  il  senziente,  e  però  trattasi  d'un 
termine  che  è  nello  stesso  tempo  anche  principio. 

Questo  accade  primieramente  in  Dio,  che  non  ha  per  sentilo 
allro  che  sé  stesso,  onde  ogni  termine  in  un  tale  ente,  che  è 
l'Ente  assoluto,  è  medesimamente  principio. 

Ma  in  quanto  all'ente  finito,  l'esperienza  non  ci  dà  esempio  di 
un  lai  fatto.  Onde  non  si  può  parlare  che  di  possihilità.  È  dun- 
que possihile  concepire  un  ente-principio,  il  quale  avendo  per 
termine  naturale  della  sua  intuizione  l'essere  ideale,  non  abhia 
allro  sentito  che  sé  stesso  intuente?  —  È  difficile  rispondere  a 
questa  domanda.  Noi  abbiamo  altrove  supposto  che  un  tale  con- 
cetto sia  possibile  mediante  un'  astrazione  ipotetica.  È  però  a 
confessare,  che  volendo  ridurre  il  principio  intuente  l'essere 
ideale  a  non  avere  allro  sentito  che  sé  stesso,  questo  sentito  ci 
si  attenua  così  fallamenle  in  mano  che  egli  pare  ci  svanisca  del 
tutto  e  ci  s'annulli  (1).  Onde  noi  lasceremo  sospesa  questa  que- 
stione ontologica,  di  cui  qui  non  abbiamo  or  bisogno.  Solamente 
avvertiamo,  che  se  l'essere  oggettivo  invece  d'essere  ideale  fosse 
reale  ed  assoluto,  il  principio  intellettivo  riceverebbe  ad  un  tempo 
un  sentito  infinito,  e  quindi  parteciperebbe  d'uha  vita  infinita. 
Avrebbe  in  tal  caso  non  solo  un  inleso   per  termine,   ma  nello 


(1)  Non  così,  se  un  principio  avesse  già  avuto  un  altro  termine,  e  poi  ne 
fosse  rimasto  privo,  come  accade  deiranima  umana  clie  lascia  il  corpo , 
perchè  rimane  ad  essa  aderente  l'abito  del  termine  perduto. 


slesso  inleso  un  scnlilo  slraniero  a  sé,  e  l'uno  e  l'altro  sarebbero 
essere,  il  medesimo  essere. 

500.  Lasciando  dunque  queslo,  e  supponendo  che  Tenie-principio 
inlellelUvo,  olire  l"  oggetto  inluìto,  abbia  un  altro  seulito  non 
essere,  oltre  se  slesso,  noi  avremo  trovato  in  questo  sentito  di- 
verso dal  principio  inlelletlivo,  il  fermo  fondamento  d'una  classi- 
ficazione ontologica  degli  enti  intellettivi  finiti. 

Poiché  a  quel  modo  che  varierà  di  natura  questo  termine  sen- 
tito, varier;\  pure  la  natura  degli  enti  intellettivi  {Psic.  IC^i-203). 

L'ente  inlelletlivo  uomo  ha  per  suo  termine  sentito  —  diverso 
da  sé,  e  però  eslrasoggettivo,  e  dall'oggetto,  —  V estensione  pura  e 
corporea,  e  questa  é  quella  che  ne  determina  la  natura  e  fìssa 
la  specie  umana. 

Ora  niente  vieta  d'intendere  la  possibilità,  che  Iddio  ad  altri 
enti  intellettivi  abbia  dato  altri  termini  sentiti  per  loro  naturale 
costitutivo  interamente  diversi  óaW estensione  pura  e  corporea. 
Sarebbero  dunque  essi  altre  specie  di  enti  intellettivi  del  tutto 
diversi  dalla  specie  umana,  e  diversi  pure  da  quel  genere  che 
si  può  concepire  degli  enti  intellettivi  composti  di  spirilo  e  di 
corpo. 

Quanto  più  poi  i  termini  sentiti  avessero  di  realità,  quegli  enti 
avrebbero  una  quantità  maggiore  di  natura.  Ma  poiché  noi  pos- 
siamo bensì  pensare  la  possibilità  di  tali  enti,  e  congetturarne 
l'esistcn/a,  ma  non  conoscerli  in  questa  vita  positivamente  , 
null'altropossiam  sapere  della  loro  quantità  comparativa  di  natura. 

Il  sentito  eslrasoggettivo  che  determina  la  specie  degli  enti 
intelligenti  finiti  non  è  qualunque  sentito  parziale,  ma  è  «  un 
sentilo  primitivo  e  fondamentale  »  [Psic.  i78  sgg.),  che  poten- 
zialmente comprende  tutte  le  modificazioni  sensibili  di  cui  l'ente 
come  senziente  è  suscettivo. 

Come  dunque  cangia  «  il  sentito  primitivo  e  fondamentale  », 
cangiano  gli  enti:  se  di  genere,  di  genere,  se  di  specie,  di  specie: 
e  la  loro  quantità  comparativa,  come  pure  la  loro  eccellenza  e 
dignità  sta  in  ragione  della  quantità  di  reale  che  presenta  «  il 
detto  sentito  eslrasoggettivo  fondamentale  ». 

r)G7.  Ma  lasciamo  gli  enti  intellettivi  e  consideriamo  la  quantità 
di  natura  degli  enti  puramente  sensitivi.  Non  avendo  noi  altro 
esempio  di  questi  se  non  gli  animali,  o  gli  animali,  restringe- 


535 

remo  a  qucsli  il  nostro  discorso.  Animali  e  animali  si  dicono 
(juejili  enti  che  hanno  per  loro  termine  estrasoggettivo  l'esten- 
sione |)ura  e  corporea. 

E  priinierainenlè  tre  sono  le  vite  di  qucsli  enti,  vita  di  conti- 
nuità, vita  di  eccitazione,  e  vita  di  organizzazione  o  di  eccita- 
zione armonica,  imperiiale  l'una  nell'altra  {Psìcol.  53^  sgg.). 

La  quantità  della  vita  di  continuità  è  in  ragione  dell'esten- 
sione continua  della  materia  corporea  che  è  termine  di  questa 
vita. 

La  quantità  della  vita  di  eccitazione  è  in  ragione  della  quan- 
tità del  moto  eccitalorio,  e  la  quantità  di  questo  moto  risulta  da 
più  elementi. 

La  quantità  della  vita  di  eccitazione  armonica  dipende  dalla 
quantità  di  |)erfezione  che  ha  l'organismo,  la  quale  dipende  del 
pari  da  molli  elementi. 

La  prima  maniera  di  vita  ,  date  certe  condizioni ,  ha  ragione 
di  potenza  relativamente  alla  seconda,  e  la  seconda,  date  pure 
certe  condizioni,  ha  ragione  di  |)olenza  relativamente  alla  terza: 
e  in  tal  caso  stanno  tra  loro  come  la  potenza  all'atto. 

Quando  c'è  una  qualunque  di  queste  vile,  o  le  due  prime,  c'è 
Vanimato,  ma  quando  c'è  anche  l'ultima,  c'è  {'animali'  compiuto. 

Ogni  armonia  di  eccitazioni  costituisce  un  termine  costitutivo 
diverso  e  però  una  diversa  specie  d'animali.  Tulle  queste  diverse 
specie  convengono  nel  genere  degli  animali  ,  il  fondamento  del 
quale  è  Veccitazione  armonica  rappresenlala  dall'organismo.  Un 
genere  superiore  è  il  sentimento  di  eccitazione,  e  un  genere  su- 
periore a  questo  è  quello  di  continuità.  Quest'ultimo  genere  è  il 
sommo  genere  di  quegli  enti-principio  a  noi  cogniti  che  sono 
enti-principio  puro  sentimento,  e  non  intellettivi. 

La  quantità  dunque  della  vita  puramente  sensiliva  è  in  ragione 
de'  limiti  entro  a'  quali  è  racchiuso  il  senlimenlo  primilico  e  fon- 
damenlale:  questo  sentimento  può  attuarsi  maggiormente  quanto 
è  più  grande,  complicata,  e  una  l'organizzazione,  e  meno  se  manca 
(|uesta,  e  quanto  è  più  molliplice  ,  vasta,  celere,  pressante  l'ecci- 
tazione, e  meno  se  manca  del  tutto  questa,  e  quanto  è  più  estesa 
la  materia  continua. 

La  quantità  dunque  del  genere  sommo  che  si  trova  ne'  sin- 
goli enti  senzienti,  determina  la  quantità  della  loro  natura. 


S34 

568.  2."  Quantità  dell' attualità  naturale  JeW  ente- principio.  —  La 
natura  deirenlo-principio  è  determinata  nella  specie  astratta.  Ogni 
qualvolta  questa  è  realizzata  c'è  la  stessa  natura.  Ma  ella  si  rea- 
lizza secondo  specie  piene  che  hanno  una  sericMi  gradi  di  perfe- 
zione ,  dall'imperfettissima  alla  specie  piena  perfetta  o  completa 
{Ideol.  6^1800:2),  e  quindi  l'ente  reale  ha  maggior  attualità  di 
natura  quanto  più  è  in  esso  di  realizzato  della  specie  piena  com- 
pleta 0  del  suo  archetipo. 

La  specie  astratta  è  come  il  tema  invariabile  dell'ente,  che  si 
attua  sempre  identico ,  ma  più  o  meno  lino  all'ultima  perfezione 
di  sua  natura.  Questa  maggiore  attualitcà  di  natura  non  si  deve 
confondere  colla  perfezione  acquisita  dall'ente  co'  suoi  atti.  Cosi 
un  uomo  nasce  più  perfetto  di  natura  di  un  altro  :  il  primo  ha 
più  dell'umanità,  ma  questo  più,  riguarda  le  parti  meno  essen- 
ziali all'umanità  stessa,  senza  le  quali  non  ci  sarebbe  l'uomo. 

Altra  dunque  è  la  quantità  di  natura,  altra  la  quantità  d'at- 
tualità di  natura.  La  prima  dà  agli  enti  reali  un  grado  di  ec- 
cellenza, che  appartiene  ad  un  ordine  superiore.  A  quest'ordine 
di  eccellenza  che  viene  dalla  natura  stessa  non  si  può  comparare 
il  grado  di  eccellenza  che  viene  dall'attualità  della  natura  che  è 
posteriore,  e  perciò  non  si  commisurano,  perchè  cangia  il  subietto 
de'  limiti ,  essendo  subietto  della  quantità  di  natura  il  genere  delle 
specie  astratte,  e  di  mano  in  mano  i  generi  superiori  lino  al 
sommo  genere  dell'ente-principio  ,  0  del  reale  di  questi  enti; 
laddove  il  subietto  della  quantità  d'attualità  di  natura  è  la  specie 
astratta. 

ì)69.  3°  Quantità  di  potenza  naturale.  —  La  quantità  di  questa 
potenza  naturale  negli  enti  finiti  sta  in  ragione  della  quantità  di 
natura  e  della  quantità  d'attualità  naturale. 

Nel  che  si  vede  una  nova  differenza  tra  l'ente  infinito  e  l'enfe- 
principio  finito.  Poiché  l'ente  infinito  che  ha  una  natura  infinita 
non  ha  alcuna  potenza,  laddove  l'ente-principio  finito  quant'ha 
una  natura  maggiore  ha  pure  una  potenza  maggiore. 

Ma  conviene  qui  distinguere  più  cose. 

Se  si  tratta  d'ente-principio  finito  che  abbia  per  termine  so- 
lamente un  sentito,  —  parliamo  del  sentito  esteso  materiale,  non 
avendo  noi  d'altri  sentiti  cognizione  positiva —  non  anche  un  in- 
teso, la  potenza  sua  naturale  si  riduce  a  svolgere  il  suo  sentimento, 


535 

compiendo  la  sua  natura,  e  agli  atti  dello  stesso  sentimento.  Ora 
questa  potenza  svolge  la  natura  fino  a  un  certo  slato  oltre  al 
quale  non  si  dà  altro  svolgimento  e  perfezionamento,  e  però  la 
potenza  stessa  dopo  toccato  questo  punto  decade  e  con  essa  gli 
alti  del  sentimento  ad  un  tempo  col  decadimento  della  natura, 
die  perisce  convertendosi  l'ente  in  un  altro. 

Questo  nasce  perchè  il  termine  costitutivo  di  un  tal  ente  è 
mutabile  se  è  l'animale,  essendo  mutabile  e  dissolubile  l'organiz- 
zazione. Del  pari  può  fermarsi  il  movimento  eccitalorio.  La 
potenza  poi  delia  vita  elementare  rimane  modificata  dalla  conti- 
nuità maggiore  o  minore  degli  elementi.  Ma  la  natura  e  la  vita 
seminale  dell'atomo  rimane  immotabilc,  e  non  ha  potenza  rispetto 
a  sé,  ma  solo  potenza  d'entrare  a  comporre  un  altro  sentimento, 
il  che  è  quanto  dire  un  altro  ente. 

Che  se  si  tratta  d'enli-principio  intellettivi,  questi  si  possono 
concepire  in  due  modi,  secondo  i  loro  due  termini,  l'essere  ogget- 
tivo, che  è  attuale  e  immediato,  e  l'essere  morale  che  è  in  essi 
potenziale. 

Qualora  si  supponesse  che  essi  non  avessero  alcuno  sviluppo 
riguardo  al  primo  ,  il  che  avverrebbe  quando  da  naiura  stessa 
avessero  già  tutta  la  scienza  di  cui  sono  suscettivi,  non  rimar- 
rebbe in  essi  altra  potenza  che  la  morale  e  questa  non  sarebbe 
potenza  di  svilujipo,  ma  potenza  di  scelta  assoluta  tra  il  bene  e 
il  male.  Se  di  tali  enti  possano  esistere  od  esistano,  none  da 
questo  luogo  il  dirlo. 

Qualora  poi  si  consideri  l'uomo  che  ha  uno  sviluppo  doppio 
cioè  relativo  all'uno  e  all'altro  termine,  scorgesi  una  potenza  di 
perfezionamento  indefinito  sì  per  riguardo  alla  scienza,  che  per 
riguardo  alla  virtù,  che  dura  o  può  durare  quanto  dura  o  può 
durare  l'esistenza  dell'uomo  su  questa  terra.  Tale  e  la  perfetti- 
bilità umana. 

Ma  nell'uomo  la  potenza  è  di  sei  generi,  essendoci  ì.°  la  po- 
tenza di  sviluppo  animale,  2.°  la  potenza  d'indefinita  perfettivilà 
intellettiva,  5.°  la  potenza  d'indefinita  perfettivilà  morale.  A 
ciascuna  poi  di  queste  potenze  rispondono  tre  altre  che  sono  le 
potenze  1."  degli  atti  animali,  2.'*  degli  atti  intellettivi,  e  3. *•  degli 
atti  morali. 

b70.  4.°  Qiuinlilà  di  potenza  acquisita  ossia  abiiuak  degli  enti- 


1)30 

principio.  —  Ogni  potenza  nncdianlc  gli  alti ,  quando  sicno  a  sé 
convcnienli,  si  aumenta  e  si  moltiplica,  e  questo  aumento  e  mol- 
tiplicazione si  chiama  abito. 

Si  aumenta,  rendendosi  il  suo  operare  più  celere,  più  facile  , 
più  sicuro,  [)iù  itilenso,  più  piacevole.  Non  solo  1'  abito  ha  i  suoi 
gradi  in  qualche  modo  misurabili  e  però  ha  una  sua -propria  (juan- 
tilà,  ma  c'è  una  quantità  di  tutte  queste  cinque  doti  dell'abito, 
una  quantità  di  prontezza,  una  quantità  di  facilità,  ecc. 

Si  moltiplica,  perchè  una  stessa  potenza  acquista  l'abito  di  lare 
colle  cinque  doti  accennate  una  certa  classe  o  gruppo  de'  suoi 
atti,  e  considerata  rispetto  a  queste  classi  e  gruppi  ella  sembra 
altrettante  facoltà  speciali.  La  stessa  potenza  rispetto  ad  altri 
gruppi  non  ha  l'abito. 

E  poiché  tutte  le  potenze  sono  mosse  e  dirette  dall'unico  sog- 
getto che  le  possiede,  quindi  anche  il  soggetto  acquista  gli  abiti, 
ossia  aumenta  nella  virtù  di  movere  e  di  dirigere  le  varie  po- 
tenze; e  particolarmente  di  moverne  più  simultaneamente,  e  per 
ogni  diverso  aggruppamento  di  queste  potenze  nasce  al  soggetto 
un  abito  novo. 

Sebbene  gli  abiti  in  sé  considerati  sieno  un  perfezionamento 
subiettivo  delle  potenze,  tuttavia  ci  hanno  degli  abiti  che  ca- 
gionano al  soggetto  funesti  effetti  :  e  sono  quelli  che  nascono 
da  atti  disordinati  e  nocivi.  Così  ncll'  animale  la  |)otenza  del- 
l' istinto  sensuale  può  acquistare  un  abito  d'operare  che  conduca 
l'animale  alla  morte  {^Anlvop.  400,  sgg.'). 

Molto  j)iù  vedesi  questo  negli  enti  intellettivi,  la  cui  perfe- 
zione dipende  dall'oggetto.  In  questi  gli  abiti  malvagi  sono  un 
aumento  di  potenza  soggettiva  ,  ma  rendono  al  soggetto  tutta 
l'imperfezione  che  deriva  dal  non  aderire  al  suo  proprio  og- 
getto. 

571.  5.°  Quantità  dell'atto.  —  La  quantità  totale  dell'atto  del- 
l'enle-principio  dipende  da  più  elementi: 
1."  L'intensione  dell'atto. 

2.°  La  moltiplicità  dell'atto  stesso,  potendo  un  unico  atto  ri- 
sultare da  più  potenze  associate. 
3."  La  durata. 

4."  L'estensione  del   termine  sentito,  se  tale  è  il  suo  ter- 
mine. 


o37 

5  °  L'ordine  dell'atlo,  il  che  si  rileva  dall'ordine  che  produce 
nel  suo  lennine,  se  è  un  alto  naodifìeanle  o  producenle. 

G.°  La  dignità  del  termine,  poiché  s<;  ha  per  termine  il 
sentilo  materiale,  ha  un  non  essere  per  sé;  se  ha  per  termine  l'es- 
sere oggettivo  0  morale  ha  per  suo  termine  l'essere  che  è  infhii- 
lanienle  |)iù,  per  dignità,  del  non  essere. 

7.°  il  grado  di  virtualità  e  di  maggiore  attualità  del  termine 
oggettivo,  e  del  termine  morale. 

Ognuno  di  questi  elementi  ha  la  sua  quantità  j)ropria ,  e  d'o- 
gnuno almeno  si  può  fare  la  questione  «  se  abbia  quantità,  e  a 
quale  de'  cinque  sommi  generi  dialettici  di  quantità  essa  appar- 
tenga ». 

La  quantità  totale  dell'  atto  dipende  da  tutte  le  quantità  dei 
suoi  elementi  sommale  o  calcolate  insieme. 

Se  si  considera  una  serie  di  atti  successivi  che  si  ripetono  o 
si  seguono  con  un  cert'ordine,  allora  è  da  calcolarsi  altresì  la 
(liiantilà  del  tempo,  della  misura  del  quale  abbiamo  parlato  nel- 
['lilcobgia  (704  sgg.). 

Se  dalla  quantità  del  tempo  si  astraggono  gli  atti  reali,  e  tìon  si 
considerano  che  gli  alti  possibili,  si  ha  la  quantità  di  tempo  pura, 
e  la  vìisiira  astratta  dello  stesso. 

Se  si  calcola  la  quantità  di  atti  in  un  dato  tempo,  il  risul- 
talo diccsi  quantità  cVazione.  La  quantità  d'azione  non  è  uguale 
sempre  airetretto  che  rimane  prodotto  ,  poiché  la  successione  e 
complicazione  degli  alti  può  essere  stata  tale  ,  che  gli  uni  ab- 
biano distrutto  una  parte  di  quello  che  hanno  prodotto  gli  altri, 
ovvero  tale,  che  non  abbiano  lascialo  elTelto  percettibile. 

.^7^.  6."  Qaanlità  della  perfezione  acquisita.  —  Quantunque  la 
perfezione  acquisita  dell'ente  sia  dovuta  a' suoi  atti,  tuttavia  ella 
non  istà  già  in  proporzione  della  quantità  d'azione  ,  perchè  gli 
alti  possono  essere  difettivi  e  disordinati. 

La  quantità  di  perfezione  acquisita  è  dunque  «  quella  porzione 
del  proprio  archetipo  che  ogni  ente  ha  realizzato  in  se  me- 
diante   i   suoi  atti   )). 

575.  Trascorse  queste  sei  entità,  di  cui  si  può  cercare  il  quanto 
nell'enle-principio  finito,  vediamone  l'ordine  nel  quale  la  quan- 
tità dell'una  si  subordina  alla  quantità  dell'altra  secondo  il  valore 
enlilativo. 


538 

La  qnantilà  d'attualità  ha  tanto  maggior  valore  entitativo, 
quanl'è  più  eccellente  la  natura  ; 

La  quantità  di  potenza  naturale  ha  tanto  maggior  valore  en- 
titativo, quant'ha  più  di  valore  la  natura  e  l'attualità; 

La  quantità  di  abito  ha  tanto  maggior  valore  entitativo, 
quant'ha  più  di  valore  la  potenza  di  cui  aumenta  l'efficacia  ; 

La  quinUtà  di  atto  ha  tanto  maggior  valore  entitativo,  quan- 
t'ha più  di  valore  la  potenza  e  l'abito  da  cui  proviene; 

La  quantità  di  perfezione  acquisita  ha  tanto  maggior  valore 
entitativo,  quant'hanno  più  di  valore  gli  alti  da  cui  nacque. 

Onde  la  perfezione  acquisita  d'  un  ente  è  della  stessa  dignità 
de'  suoi  atti;  e  questi  d'una  dignità  proporzionata  a  quella  degli 
abiti;  e  questi  a  quella  delle  potenze;  e  queste  a  quella  dell'at- 
tualità naturale;  e  questa  a  quella  della  natura. 

Non  si  può  dunque  paragonare  la  dignità  e  l'eccellenza  della 
perfezione  di  cui  sono  suscettivi  enti  diversi,  se  non  risalendo  a 
conoscere  il  valore  e  l'eccellenza  delle  loro  nature;  di  maniera 
che  le  quantità  della  perfezione  acquisita,  i\eWatto  ,  dell'  abito  , 
ecc.  d'enti  che  abbiano  nature  diverse  non  sono  commensura- 
bili :  ma  conviene  risalire  al  paragone  delle  loro  nature  stesse 
per  trarre  una  quantità  compiirativa  delle  loro  cinque  entità  po- 
steriori, una  quantità  dico  di  proporzione. 

Se  dunque  si  paragona  1'  atto  d'un  ente  a  ragion  d'  esempio 
coll'a/^o  dun  altro  ente  d'altra  natura,  senza  risalire  alle  loro 
nature  stesse,  altro  non  si  ha  che  una  quantità  comparativa  di 
entità  astratte,  dalla  quale  non  si  può  argomentar  nulla  circa  la 
quantità  entitativa  relativa  a  que' due  enti. 

574.  Venendo  ora  noi  a  parlare  della  quantità  comparativa 
degli  enti-termine  ,  osserviamo  che  noi  non  conosciamo  positi- 
vamente altro  che  due  sommi  generi  di  enti  termini,  lo  spazio, 
e  il  corpo. 

Lo  spazio  puro  ha  la  proprietà  de'  generi  sommi,  di  non  avere 
sopra  di  sé  altro  genere  reale.  Ma  gli  mancano  le  altre  proprietà 
del  genere ,  perchè  non  ha  specie  subordinate ,  e  non  ha  po- 
tenza di  sorte.  Egli  è  bensì  recettivo  de'  corpi;  ma  impropria- 
mente si  chiamerebbe  potenza  questa  recettività,  non  ricevendo 
la  definizione  da  noi  data  della  potenza  «  una  causa  che  è  su- 
bietto de'  suoi  effetti.  »  Nò  lo  spazio  è  causa  dei  corpi,  nò  è  loro 


b30 

subietto,  né  riceve  da  essi  alcuna  modificazione,  poiché  non  es- 
sendo egli  altro  che  l'estensione,  questa  rimane  identica,  sia  essa 
piena,  o  sia  vota. 

Non  avendo  dunque  lo  spazio  generi  o  specie  subordinati,  non 
ha  quinlità  cosmologica  perché  non  si  può  restringere  entro  con- 
fini di  sorta  nell'Universo,  e  però  non  ha  che  la  quantità  onto- 
logica ,  essendo  solo  limitato  riguardo  all'  essere  e  alla  realità 
dell'essere ,  e  questa  limitazione  é  massima  ,  giacché  egli  sem- 
bra il  minimo  degli  enti-termine,  considerato  come  ente,  ben- 
ché sia  infinito  considerato  come  spazio  o  estensione. 

Lo  spazio  dunque  non  riceve  limiti  cosmologici  in  sé  e  però 
né  pure  quantità;  ma  ammette  limili  di  relazione,  e  però  quan- 
tità di  relazione. 

Questa  nasce  dall'essere  lo  spazio  recettivo  della  materia  cor- 
porea. L'esistere  la  materia  corporea  nello  spazio  é  inesistenza 
d"un  ente- termine  noli'  altro  ,  inesistenza  che  non  è  punto  as- 
surda {Rinnov.  ,512-515  p.  556*),  purché  l'ente  che  contiene  sia 
di  natura  su,i  atto  a  ciò,  e  l'ente  che  in  quello  inesiste  sia  di 
natura  sua  atto  ad  essere  contenuto. 

Ora  dall'inesistenza  della  materia  corporea  nello  spazio  nasce 
la  quantità  di  relazione  dello  spazio.  Poiché  la  materia  non  oc- 
cupa tutto  lo  spazio.  Lo  spazio  dunque  da  essa  limitato  rimane 
rispello  a  l«i  limitalo.  Non  sono  limiti  dello  spazio  cotesti,  ma 
della  materia.  La  monte  poi  li  trasporta  allo  spazio  e  quindi  la 
quantità  di  relaziono  attribuita  allo  spazio  non  é  una  quantità 
reale  ma  dialettica,  laddove  i  limiti  estensivi  della  materia  sono 
una  quantità  reale  di  questa. 

575.  Astraendosi  poi  dalla  materia  e  ritenendo  i  suoi  limiti 
estensivi  ,  si  concepiscono  le  figure  matematiche ,  che  la  mente 
delinea  nello  spazio  a  suo  piacere.  Il  che  fece  sì  che  Platone 
considerasse  l'estensione  come  la  materia  delle  figure  geome- 
triche; ma  non  s'accorse  che  l'estensione  in  se  stessa  é  immo- 
dificabile, e  che  una  tale  materia  é  puramente  relativa  ai  corpi, 
da  cui  la  mente  astrae  i  confini  e  li  riporta  allo  spazio,  che 
non  lì  riceve  già  in  sé,  se  non  come  una  relazione  tra  l'infinito 
e  il  finito.  Ora  tra  l'infinito  e  il  finito  non  c'è  altra  relazione 
di  quantità  che  quella  che  dicemmo  di  più  e  di  meno,  essendo 
infinito  e  immisurabile  l'uno  dei  due  estremi  della   relazione. 


Ma  tra  le  figure  geomelriche  c'è  una  quanlità  comparativa 
misurata  ,  non  però  a  pieno  determinala  ,  come  quella  de'  nu- 
meri ,  perche  la  prima  quantità,  misura  dell'altra  ,  e  di  quella 
quantità  che  abbiamo  chiamata  di  cognizione  immediata. 

La  quanti  là  propria  delle  figure  geometriche  si  dice  qunnlilà 
continna. 

La  quantità  continua  è  quanlità  di  cui  i  corpi  sono  il  vero 
subietto  ;  ma  i  corpi  si  possono  considerare,  o  come  puramente 
possibili,  ne' quali  non  è  determinato  nulla  della  qualità  della 
materia^  e  allora  si  ha  h  quantità  continua  matematica;  o  come 
corpi  imaginari  p.  e.  una  colonna  di  pietra,  e  di  questi  è  la 
quantità  continua  corporea  pura  ;  o  come  corpi  realmente  esistenti, 
e  di  questi  è  la  quantità  continua  reale. 

Il  verosubiello  dunque  delle  figure  geometriche  non  è  l'eslen- 
sione  illimitata,  ma.  là  materia  corporea  asiraiìa;  il  subielto  della 
quantità  continua  corporea  pura  sono  i  corpi  imaginati,  ma  non  esi- 
stenti; il  subìelU)  deWiì  quantità  continua  reale  sono  ì  corpi  reali. 

La  materia  corporea  dunque  in  quanto  ha  una  relazione  reale 
collo  spazio,  nel  quale  s'estende  —  poiché  il  fondamento  di  questa 
relazione  è  la  slessa  materia  corporea  ,  e  lo  spazio  non  ne  è 
che  il  termine,  —  in  tanto  ha  la  quantità  continua  o  quantità 
d'estensione. 

f)7().  Ma  oltracciò  in  questo  ente  termine  si  possono  distinguere 
altri  elementi  dotali  di  quantità. 

Poiché  la  materia  corporea  si  offre  alla  nostra  esperienza  come 
un  ente  triplice,  cioè  : 

1."  come  un  sentito,  o  stabile  o  mobile; 
2.°  come  un   sensifero  ossia  un  agente,  il    quale  operando 
nell'anima  nostra   produce   il  sentito  sia  continuo,    sia   d'eccita- 
zione, sia  d'eccitazione  armonica,  e  come  causa  ad   un    tempo 
della  comunicazione  del  moto  ; 

5.°  come  una  causa  del  moto  stesso. 

Ora  il  sentito  e  il  subietto  suscettivo  del  moto  è  un  ente 
inerte  e  passivo  e  puro  termine  [Psicol.  810-822). 

La  causa  del  moto  non  può  essere  lo  stesso  ente  inerte,  e 
però  noi  abbiamo  distinta  questa  causa  doW ente-materia,  e  l'ab- 
biamo attribuita  ad  un  ente -principio,  cioè  alla  vita  elementare 
{Psicol.  822). 


Uhi 

La  causa  del  sentito  e  della  transmissione  del  moto  ne  pure 
può  essere  la  materia  corporea,  e  però  l'abbiamo  dicbiarala  un 
enle-principio  nascosto  alla  nostra  esperienza  come  subielto,  die 
abbiamo  denominato  principio  corporeo  {Psicol.  8:20,  821). 

Della  quantità  degli  enli  principio  abbiamo  già  ragionato. 

Non  rimane  dunque  a  parlare  cbe  della  materia  come  sen- 
tito e  come  subietto  recettivo  del  moto. 

Della  quantità  del  sentito  abbiamo  fatto  cenno  parlando  della 
(]uantilà  degli  enti-principio  aventi  per  termine  il  mero  sentilo. 

Rimane  dunque  la  qminlUà  Od  moto  ,  il  quale  è  pari  alla 
somma  della  quantità  della  celerilà,  e  del  tempo  nel  quale  dura 
il  moto.  La  celerità  poi  è  pari  alla  quantità  dello  spazio  per- 
corso nello  slesso  tempo.  Cbe  se  si  vuole  la  quantità  di  moto  di 
tutto  un  corpo  movenlesi  ,  conviene  oltracciò  moltiplicare  quella 
somma  per  la  massa, 

CAPITOLO   V. 

Continuazione  —  Del  quarto  elemento  della  forma  finita, 
comune  ad  ogni  ente  finito,  /'  unità. 

577.  Veniamo  al  quarto  elemento  della  forma  cbe  la  realità 
Unita  deve  ricevere  dall'essere  obiettivo,  acciocché  riesca  piena- 
mente determinata,  e  cosi  alta  a  ricevere  l'esistenza  subiettiva  e 
propria:  il  quale  abbiam  detto  essere  l'unità. 

La  dottrina  intorno  all'unità  si  avviluppò  negli  equivoci,  cbe 
dai  più  anticbi  tentativi  di  filosofia  passarono  di  mano  in  mano 
nelle  scuole  posteriori  ;  e  questo  avvenne  per  mancanza  delle 
debite  distinzioni,  e  per  difetto  di  lingua  filosofica.  Noi  ripren- 
deremo la  cosa  da  capo,  incominciando  a  distinguere  i  diversi 
significali,  di  cui  sono  suscettive  le  voci  uno,  e  unità. 

Articolo  L 

Definizione  universale  dell'unità  e  dell'uno. 

578.  L'unità  è  quella  qualità  del  subietto,  per  la  quale  il  su- 
bielto è  indiviso  in  sé,  e  diviso  ossia  separato  da  ogni  altro. 


Quando  questa  qualiltà  si  predica  del  subielto  ,  allora  pren- 
dendo essa  la  forma  di  predicato  dicesi  uno. 

Queste  definizioni  hanno  una  forma  negativa,  perchè  altro  non 
fanno  che  escludere  la  divisibilità.  Ma  veramente  sono  positive, 
perchè  la  divisibilità  stessa  è  un  concetto  negativo,  onde  si  ha 
negazione  di  negazione  che  è  affermazione. 


Articolo  II. 

Vari  significati  dell'uno,  che  ammetlono  tutti 
la  data  definizione. 

579.  Ora  il  variar  di  senso  della  parola  uno  dipende  da  due  ca- 
gioni; la  prima  è  la  diversa  maniera,  colla  quale  il  predicato  imo 
si  riferisce  dalla  mente  al  subielto  di  cui  è  predicato,  la  seconda 
è  il  variare  della  parola  subielto  che  entra  nella  definizione  data 
qui  sopra  deWunilà.  Poiché  questa  parola  in  quella  definizione 
generalissima  rimane  indeterminata,  onde  sostituendo  ad  essa 
vari  valori,  cioè  vari  subietti,  ne  risulla  un  valor  diverso  di  tutta 
la  definizione. 

Consideriamo  la  prima  cagione,  cioè  la  diversa  maniera  colla 
quale  il  predicato  uno  si  riferisce  dalla  mente  al  subielto  ,  e 
troviamo  i  diversi  significati  che  da  ciò  derivano  alla  voce  uno. 

Talora  il  subietto  dell'uno  si  esprime  nel  discorso ,  come  di- 
cendosi :  «  un  uomo  «.  Qui  la  voce  uno  ha  la  forma  gramma- 
ticale di  addiellivo. 

Talora  il  subietto  si  soli' intende  senza  che  sia  determinato, 
si  solt'intende  un  subielto  qualunque,  e  allora  l'uno  prende  la 
forma  grammaticale  d'addiettivo  sostantivato.  Secondo  quest'uso 
la  voce  uno  significa:  «  ciò  che  è  uno,  «  come  dicendosi:  «  l'uno 
non  è  più,  «  cioè  «  ciò  che  è  uno,  non  è  più  ,(!)'  ». 

(1)  In  questo  senso  prendevano  le  parole  uno  e  molli  i  più  iccenli  pita- 
gorici quando  chiamavano  il  corpo  molti,  la  qualità  o  piuttosto  la  forma  so- 
stanziale molti  uno,  il  demone  uno  molti.  Dio  uno.  (Vedi  il  Ficino,  De  im- 
mortalitate  III,  1).  Il  molti  significa  a  ciò  che  risulla  da  molti  enti  »,  il 
molti  uno  «  ciò  che  risulta  da  molti  enti  ma  unilìcati  da  una  sola  for- 
ma »;  l'uno  molli:  «  ciò  che  è  uno  ma  che  ha  molle  facoltà  o  atti  *,  Yuno: 


Talora  si  astrae  l'uno  dal  subiello  e  da  questo  si  prescinde  , 
e  allora  significa  «  esser  uno  »  come  dicendosi:  «  l'uno  è  pro- 
prietà d'ogni  ente  >;  cioè  «  l'esser  uno  è  proprietà  d'ogni  ente  ». 
Quest'uno  astratto  non  diflerisce  dal  concetto  iVunilà,  se  non  per 
aver  questa  un  grado  maggiore  d'  astrazione ,  onde  1'  uno  così 
preso  indica  quel  grado  d'astrazione  con  cui  si  formano  i  nomi 
comuni,  Vimilà  indica  quel  grado  d'astrazione  con  cui  si  formano 
i  nomi  puri  astratii  {Psicol.  ihlì  sgg.)  (2). 

Consideriamo  ora  la  seconda  ragione  che  moltiplica  il  signi- 
ficalo della  parola  uno,  che,  come  dicevamo^  è  l'unità  |ìredicata. 
Abbiamo  definita  questa:  «  la  qualità  per  la  quale  un  d-ito  su- 
hietto  è  uno  ».  Ma  il  subictto  può  variare,  poiché  può  prendersi 
per  subietlo,  di  cui  si  predichi  l'uno,  l'ente  infinito,  o  l'ente 
finito,  0  le  forme  dell'ente  infinito,  o  la  forma  reale  finita,  o 
l'altre  due  forme,  che  rivestono  o  si  comunicano  all'ente  finito, 
0  l'essere  indeterminalo,  o  un  ente  puramente  dialettico;  e  lo 
stesso  ente  dialettico  può  dividersi  in  varie  classi.  Ora  1'  unità, 
di  cui  partecipano  questi  subielli  e  de' quali  si  predica,  non  è 
punto  uguale,  ma  più  o  meno  perfetta  e  di  diversa  maniera. 
Indi  è  che  anche  il  predicalo  uno  riceve  diversi  significali,  se- 
condo che  viene  applicalo  ad  uno  o  ad  un  altro  subietlo  della 
predicazione. 

Articolo  111. 

Se  r  uno  si  converta  coWenle. 

580.  Di  qui  si  vede  in  qual  senso  si  deva  intendere  la  sentenz;i 
scolastica,  che  «  l'uno  si  converte  coH'ente  ».  Ella  è  vera  sol- 

a  ciò  che  è  assolutamente  e  pienamente  uno  ».  Questi  sono  tulli  «  addiel- 
tivi  sostantivali  ». 
(2)  L'ordine  della  generazione  di  questi  tre  concetti  è  il  seguente  : 

1."  La  mente  astrae  dagli  enti  finiti,  di  cui  lia  percezione,  Vtino  e  lo 
considera  come  comune  :  onde  poi  forma  Vastratto  pvro  d'unità  ; 

2.0  Quando  ha  astratta  questa  qualità  d'esser  uno  e  conosciutala  come 
necessariamente  comune  a  tutti  gli  enti,  ella  predica  Vuno  di  ciascun  ente 
con  un  giudizio  analitico,  e  quest'è  Yuno  addiettivo  ; 

3.0  Finalmente  sostantiva  questo  addiettivo  e  dice  Vuno  sott'intendendo 
un  subietto  qualunque,  senza  determinarlo. 


tinto  quando  si  porla  dcirtino  come  «  aggellivo  sostantivalo  », 
e  prendesi  la  |)arola  erilo  nel  senso  universale  à'entilà.  Non 
regge  all'incontro  quella  sentenza,  se  si  parla  dell'uno  comune, 
il  quale  non  è  che  un  astratto,  un  elemento  formale  dell'ente, 
0,  per  dir  meglio,  dell'entilà  qualunque  sia  concepibile  dalla 
mente  {\). 

A  II  TI  COLO    IV. 

Origine  del  concelto  di  uno  comune. 

r)84.  L\ino  comune  ha  due  proprietà:  la  prima  di  essere  astratto 
da  ogni  singoiar  subietto,  a  cui  si  può  applicare,  come  predi- 
cato; l'altra  di  esser  così  necessario  ad  ogni  subietlo  e  ad  ogni 
ente  ,  che  non  si  può  pensare  il  subietlo  o  1'  ente  che  non 
fosse  uno. 

La  mente  umana  trova  la  prima  proprietà  coH'astrazione  stessa, 
con  cui  divide  l'unità  degli  enti  finiti  che  percepisce  da  ogni 
altra  loro  qualità  (5);  ma  l'astrazione  non  le  può  somministrare 
la  seconda  proprietà  dell'uno  comune,  cioè  l'esser  egli  neces- 
sario predicabile  d'ogni  subietlo  e  d'ogni  ente  ,  perchè  l'astra- 
zione non  s'esercita  su  tulli  gli  enti  possibili,  ma  soltanto  sopra 
alcuni  pochi  percepiti.  Onde  viene  dunque  alla  mente  la  cogni- 
zione che  niun  ente  può  esistere,  se  non  è  uno  ? 

L'intendere  che  non  può  esister  nulla  che  non  sia  uno  è  lo 
slesso  che  intendere  che  tra  esistere  e  non  uno  vi  è  rijìugnanza, 
di  modo  che  ciò   che  non   è  uno    non    si    può    concepire  come 


(1)  Ctie  gli  anliclii  e  dopo  essi  gli  scolastici  proferendo  quella  sentenza 
parlassero  dell'MWO  sostantivato,  è  manifesto  da  questo  clie  adoperavano 
J'uno  in  genere  neutro.  Ed  espressamente  S.  Tomaso  detìnisce  quest'uno 
cosi  :  Unum  nihil  aliud  signijìcat  quam  ens  indivisum,  a  cui  soggiunge  : 
Et  ex  hoc  ipso  apparet  quod  unum  convertitiir  cum  ente  {S.  I,  XI,  i),  il 
die  toglie  ogni  dubbio.  Chi  vuol  conoscere  le  principali  opinioni  sostenute 
dagli  Scolastici  intorno  all'uno  consulti  il  Suarez,  DD.  MM.  D.  IV-VI. 

(2)  Essendo  necessaria  l'astrazione  ad  avere  il  concetto  puro  dell'uno , 
appare,  ch'ella  non  può  essere  la  prima  idea  o  notìzia  che  s'abbia  la  mente 
umana,  dovendo  precedere  quel  concetto  su  cui  s'esercita  l'astrazione  (Cf. 
Psicol.  1295,  Ì297-130I,  1305,  1319-1321). 


548 

esistente.  Questa  ripugnanza  non  potrebbe  esser  veduta  dalla 
mente,  se  la  mente  non  avesse  prima  i  due  concetti,  di  cui  vede 
immediatamente  la  ripugnanza.  Che  cosa  sia  dunque  esistere  e 
che  cosa  sia  non  uno,  dev'essere  conosciuto  prima  dalla  mente 
che  scorge  tale  ripugnanza. 

Questa  ripugnanza  veduta  dalla  mente  ammette  delle  prove 
in  forma  di  raziocinio. 

Queste  si  possono  ridurre  a  due,  l'una  tratta  dall'idea  dell'es- 
sere in  universale,  l'altra  tratta  dal  concetto  dell'essere  assoluto. 

Dall'idea  dell'essere  in  universale  si  argomenta  così:  Che  cosa 
è  l'esistente  ?  L' esistente  è  V  essere  col  suo  termine  compiuto 
d'una  data  forma  categorica  (i).  Si  supponga  che  i  termini 
compiuti  dell'essere  della  stessa  forma  categorica  fossero  due. 
Gli  esistenti  sarebbero  due,  perchè  s'avrebbe  due  volte  l'essere 
col  suo  termine  compiuto,  il  che  costituisce  l'ente.  A  ciascuno 
dunque  di  questi  enti  compelerebbe  l'  esser  uno.  L' esser  uno 
dunque  è  necessario,  acciocché  si  possa  concepire  l'ente,  o  l'e- 
sistente. Questa  si  può  dire  una  prova  ideologica. 

Dal  concetto  dell'essere  assoluto  si  trae  una  prova  ontologica 
ed  è  quella  che  abbiamo  già  prima  esposta  ,  che  si  riassume 
così:  L'Essere  assoliilo  è  l'Ente  per  essenza.  Ma  l'Essere  assoluto 
é  uno.  Dunque  appartiene  all'  essenza  dell'  ente  l'  esser  uno. 
Dunque  l'ente  non  può  essere  se  non  uno. 

Questa  prova  ha  la  sua  ragione  ultima  nella  dottrina  delle 
supreme  forme  dell'essere,  le  quali,  essendo  ciascuna  contenente 
massimo,  hanno  di  conseguente  per  loro  essenza  runità  (,181-189*). 
Perocché  non  potendo  niun  ente  esistere  se  non  in  una  delle 
tre  formCj  e  ciascuna  essendo  un  contenente,  ne  viene  di  neces- 
saria conseguenza  che  niun  ente  possa  esistere  senz'esser  uno, 
giacché  uno  deve  essere,  se  e  contenuto  :  altro  non  significando 
esser  contenuto  ,  che  esser  raccolto  in  una  unità.  Laonde  per 
questo  appunto  la  realità  finita  può  costituire  molti  enti  finiti  , 
perchè  può  esser  composta  ad  unità  in  molte  maniere  ,  e  cosi 
in  molte  maniere  sussistere  come  contenuta. 


(1)  Dico  d'una  data  forma  categorica,  perchè  abbiamo  veduto  che  sotto 
diverse  forme  categoriche  l'ente  è  il  medesimo,  onde  le  varie  forme  non 
moltiplicano  l'ente,  ma  solamente  i  modi  in  cui  l'ente  identico  Ì-. 

Rosmini.  Teosofia.  35 


546 

Articolo  V. 

Dell'imo  predicato  (Vun  solo  subiello ,  e  predicato  comune 
di  più  subielti.  —  Concetto  di  pluralità  e  di  numero. 

582.  Or  dicevamo  che  se  i  termini  completi  della  stessa  forma 
categorica  sono  più,  quando  s'aggiunga  loro  l'essere,  più  enti  ne 
emergono. 

L'uno  dunque  si  può  considerare  o  come  predicato  di  un  solo 
subietto,  0  come  predicato  comune  a  molti  subielti. 

All'uno  come  predicato  d'un  solo  subietto  conviene  la  defini 
zione  data:   «  quella  qualitcà,  per  la  quale  un  subietto  è  indivisi- 
bile ».  Ma  in  questa  definizione  non  è  espresso  com'egli  possa 
esser  predicato  di  più  subietti. 

L'uno  in  quanto  si  considera  come  predicato  comune  a 
molti  subietti  abbraccia  due  concetti  diversi  ,  cioè  il  concetto 
che  lo  rende  predicalo  di  un  subietto^  e  il  concetto  che  questo 
slesso  identico  predicato  convenga  a  ciascun  altro  subielto 
de'  molti. 

Volendosi  esprimere  questa  seconda  proprietà  dell'  uno ,  esso 
riceve  quest'altra  definizione:  «  la  qualità,  per  la  quale  un  su- 
bietto è  diviso  dall'altro,  ossia  esclude  l'altro  ». 

o83.  Ma  qui  nasce  una  questione  ontologica  della  più  alta  im- 
portanza, «  qual  sia  l'origine  della  pluralità  degli  enti». 

La  trinità  delle  forme  che  trovasi  nell'Ente  assoluto,  precede 
la  pluralità  degli  enti  che  non  può  aver  luogo,  che  nella  sfera 
degli  enti  finiti.  Essendo  dunque  la  trinità  nell'essere  assoluto, 
la  Mente  può  astrarre  da  essa  l'unità,  la  dualità,  la  trinità,  che 
sono  gli  elementi  di  tutti  i  numeri  astratti:  laonde  queste  forme 
astratte  generatrici  di  tutti  i  numeri  sono  per  sé  ab  eterno 
nella  Mente  infinita,  mediante  l'astrazione  divina.  Ma  la  mente 
umana  non  deduce  il  numero  da  così  alto,  ma  dagli  enti  finili 
e  contingenti  che  cadono  già  divisi  in  più  subietti  sotto  la  sua 
esperienza.  Per  l'uomo  dunque  precede  la  pluralità  degli  enti 
alla  pluralità  astratta  del  numero.  La  questione  dunque  si  cangia 
in  quest'altra:  «  onde  venga  la  pluralità  degli  enti  finiti,  se  l'Ente 
assoluto  è  un  solo  ». 


Ìik7 

Ora  ecco  quale  risposta  si  deva  fare  a  questa  questione. 

Quando  l'Ente  infinito  decretò  di  dare  esistenza  all'ente  finito, 
allora  pose  una  condizione  a  sé  stesso  ,  cioè  la  condizione  che 
«  l'ente  a  cui  volca  dare  esistenza  fosse  finito  «.  T  limiti  sono 
dunque  la  condizione  prima  dell'opera  della  creazione.  Il  con- 
cetto dunque  dell'ente  finito  nella  mente  divina  dovea  essere 
la  realità  infinita  dell'  essere ,  a  cui  la  stessa  mente  togliesse 
l'infinitezza.  Toltale  dattorno  col  puro  pensiero  l'infinitezza,  quella 
realità  nella  mente  libera  di  Dio  non  era  più  l'Essere,  ma  pura 
realità  e  questa  limitata  dall'atto  volontario  della  stessa  mente. 
Ma  qual  dovea  essere  questa  limitazione,  acciocché  quella  realità 
finita  potesse  ricevere  l'essere  subiettivo  ed  esistere  con  un'esi- 
stenza propria  ,  diventando  così  ente  in  sé  finito  ?  Qualunque 
fosse,  ella  dovea  sempre  avere  questa  condizione,  che  la  realità, 
che  dovea  sussistere  come  ente,  fosse  4. '^  limitata,  2.*'  limitata 
in  modo  da  avere  in  sé  una  perfetta  unità  ,  perchè  l'esistenza 
subiettiva  è  lo  stesso  che  l'esistere  come  subietto,  e  il  subietto  è 
«  ciò  che  si  concepisce  come  primo,  contenente,  e  causa  di  unità». 
L'  unità  dunque  è  essenziale  ad  ogni  subietto  concepibile  dalla 
mente,  e  però  niente  può  esistere  con  esistenza  subiettiva  senza 
unità. 

Da  questo  procede  che  «  in  quanti  modi  la  realità  può  essere 
limitata,  così  che  riesca  uno,  tanti  né  più,  né  meno,  ci  possono 
essere,  ossia  possono  esser  creati,  enti  finiti  ». 

Ora  la  realità  può  esser  uno,  ricevendo  limitazioni  diverse.  Po- 
lendo dunque  quella  realità  limitata  riuscire  uno  con  diverse  e  più 
e  meno  larghe  limitazioni ,  ne  viene  che  molti  enti  finiti  possano 
esser  concepiti  dalla  divina  mente  e  quindi  creati. 

oSh.  Dal  che  procede  che  l'ordine  ontologico  tra  Venie  e  Vimo 
è  il  seguente: 

1."  C'è  prima  la  realità  infinita,  che  è  l'essere  assoluto  nelle 
tre  forme. 

2.°  C'è  nella  mente  divina  V uno  astratto  come  condizione 
dell'ente  finito. 

5.°  Volendo  la  mente  divina  limitare  la  realità  infinita,  in 
quant'  è  puramente  nel  suo  pensiero,  in  modo  da  poter  esser 
creata,  concepisce  la  detta  realità  limitata  in  lutti  que'modi  nei 
quali  ne  riesca  l'uno  di  realità. 


h.'^  (li  sono  gli  enti  finiti  componenti  il  Mondo  creati  da 
Dio,  e  sono  altrettanti  quanti  i  modi^  ne'  quali  la  realilù  può 
essere  limitata  in  modo  da  formar  uno. 

L'uno  dunque  sussiste  prima  nell'Essere  divino  e  non  è  altro 
che  la  sua  assoluta  indivisibilità  e  illimitabilità. 

Di  poi  c'è  l'uno  astratto  nella  divina  mente. 

Poi  e'  è  l'uno  applicato  innumerevoli  volte  alla  realità  nel- 
Timporle  la  varia  limitazione  di  cui  è  suscettiva  ..  e  così  ci  sono 
gli  enti  finiti  come  puri  oggetti  del  libero  pensiero  di  Dio,  senza 
che  sussistano  in  sé. 

Di  poi  c'è  V  uno  negli  enti  finiti  creati ,  che  altro  non  è  se 
non  la  indivisibilità  essenziale  a  ciascuno. 

F*oi,  c'è  l'uno  astratto  dalla  mente  umana^  astratto  da  questi 
enti  finiti  e  moltiplici. 

Replicandosi  l'uno  tante  volte  quanti  sono  gli  enti  finiti  e  le 
loro  possibilità  si  forma  nella  mente  umana  il  concetto  della 
pluralità  e  del  numero. 

d85.  Dalla  quale  genealogia  ontologica  dell'imo  si  vede: 
i."  Che  Vuno  astratto  «  la  qualità  d'esser  uno  »  è  un  con- 
cetto che  precede    quello  dell'  ente    finito  :  ma  non  quello  del- 
l'ente infinito. 

2."  Che  la  pluralità  degli  enti  è  prodotta  dall'uno  applicato 
alla  realità  limitabile  dalla  mente  divina,  in  quanto  la  detta 
realità  può  ricevere  «  la  qualità  d'esser  uno  «  in  diverse 
maniere. 

3.°  Che  l'imo  è  sempre  l'identico  concetto  dell'indivisibilità 
dell'epte,  ma  la  natura  della  realità  essendo  suscettiva  di  rice- 
vere questa  qualità  in  più  modi,  diventa  essa  più  enti  colla  varia 
partecipazione  di  quello.  Onde  la  causa  della  pluralità  degli  enti  è 
«  la  varia  suscettività  della  realità  di  esser  limitata  cosi  da  riu- 
scir una  ». 

Da  questo  si  potrà  fare  slima  di  quella  sentenza  tanto  ripetuta 
dagli  Alessandrini  e  da'iNeoplatonici  che  «  l'uno  è  anteriore  al- 
l'ente »  ,  e  che  «  l'unità  stessa  precede  tutte  le  cose».  Essi  , 
come  tutti  gli  antichi  filosofi,  traevano  tutti  i  loro  concetti  del- 
l'ente, e  tutta  la  loro  Ontologia,  da  quel  che  vedevano  nell'ente 
finito,  lì  quando  volevano  risalire  più  alto,  altro  non  sapevano 


549 

fare^  che  ricorrere  all' astrazione  esercitata  su  questo  (i).  Indi 
il  difetto  della  loro  Ontologia  ,  difetto  conservatosi  poi  sempre 
in  questa  scienza.  Mancava  loro  una  vera  cognizione  dell'Essere 
infinito. 

Questa  sentenza  dunque  non  ha  che  una  parie  di  vero^  onde 
a  rend(!rla  vera  deve  essere  moderata  così:  k  l'uno  astratto^  asso- 
lutamente parlando,  è  anteriore  all'ente  finito,  come  la  condizione 
al  condizionato,  ma  è  posteriore  all'Ente  assoluto  »   (2). 

Articolo  VI. 

Se  r essere  ideale  sia  uno. 

586.  11  numero  dunque  degli  enti  finiti  possibili  è  determinalo 
dalla  possibilità  che  la  realilà,  termine  dell'essere  iniziale  ,  sia 
concepita  dentro  a  limili  come  uno. 

(1)  Odasi  a  ragion  d'esempio  Jamblico  :  In  formis  separabilibus,  iini- 
tatem  superale  midtitudinem  et  in  Diis  adeo  superare,  ut  illorum  esse  sit 
ìinilas  quaedam,  dico  autem  f/uaedam,  quia  primum  principium  est  ipsa 
simpUciter  UNITAS{L.  deMysteriis,^  16).  L'unità  astratta  non  può  essere 
tult'al  più  che  un  principio  dialettico  —  noi  abbiamo  veduto  che  il  primo 
principio  dialettico  delle  cose  è  l'essere  iniziale.  —  Ma  essi  fanno  d'una  tale 
astrazione  esercitata  sui  Uniti  il  loro  Dio.  S.  Tomaso  corregge  quest'errore 
dove  mostra,  che  l'unità  sussistente  è  maggiore  dell'unità  astratta.  Siim,  I, 
XI,  I,  ad  1."',  e  IV. 

(2)  La  sentenza  Aristotelica  {Metaph.  Ili,  (IVj,  )  che  l'uno  e  i  molti  sono 
accidenti  dell'ente,  in  quanto  ente,  pecca  dello  stesso  difetto  di  restringere 
l'Ontologia  agli  enti  finiti.  È  vero  che  è  cosa  accidentale  all'ente  ilnito,  che 
ne  sussista  un  solo  o  molli,  ma  i  molti  enti  finiti  possibili  sono  necessari , 
perchè  provengono  dalla  natura  stessa  della  realità,  la  qual  natura  è  neces- 
saria. Riguardo  all'Ente  infinito  è  necessario  che  sia  uno,  e  non  sia  molti; 
questo  non  è  già  a  lui  accidentale.  Del  pari  a  ogni  ente  infinito  o  finito  è 
essenziale  che  sia  uno.  Che  poi  quest'uno  si  replichi  nell'ente  finito,  questo 
è  accidentale.  L'espressione  dunque  «  gli  accidenti  dell'ente  come  ente  sono 
l'uno  e  i  molli  )),  è  per  lo  meno  equivoca.  Ella  non  è  vera  se  non  dichia- 
rando, che  per  ente  come  ente,  s' intenda  non  1'  Ente  assoluto  che  è  l'ente 
per  essenza;  ma  i.(  l'Ente  astratto  e  indeterminato  »,  e  che  per  uno,  s'in- 
tenda solo:  «  non  molti  ».  Così  spiegata  se  n'ha  questa  sentenza  vera  «  l'ente 
indeterminato  che  la  mente  concepisce  può  essere  considerato  in  un  solo 
ente  o  in  molti  »,  e  in  questo  n)odo  l'esser  uno  o  l'esser  molti  gli  è  acci- 
dentale. Così  va  intesa  questa  sentenza  in  S.  Tomaso  C.  Gen.  I,  50. 


Ma  qui  nasce  la  domanda  :  «  se  lo  slesso  essere  qual  vedesì 
nell'idea  sia  uno  ». 

Rispondiamo  che  se  si  parla  dell'essere  dell'inlùilo  egli  mani- 
l'esla  Vessenza  pura  dell'  essere  :  ora  questa  è  semplicissima  ,  e 
non  solo  è  una  ma  è  la  ragione  per  la  quale  ogni  ente  è  ne- 
cessariamente uno  :  la  ragione  cioè  per  la  quale  la  realità  finita 
non  può  divenire  ente  ,  se  prima  non  ha  ricevuta  dalla  mente 
l'unità.  Poiché  l'essenza  dell'essere  ,  semplicissima  com'ella  è^ 
non  può  associarsi  ad  altro  termine  che  a  quello  che  sia  uno. 
Perciò  appunto  apparisce  così  chiaro ,  che  dovunque  i  termini 
reali  compiuti  sono  più ,  se  n'  hanno  più  enti  (,581*)  :  perciò' 
ancora  dicemmo  che  la  forma  dell'  uno  è  imposta  dall'  essere 
obiettivo  alla  realità  finita  nella  mente  del  Creatore,  prima  che 
sia  creata,  come  condizione  necessaria  ad  esser  creala. 

Essendo  dunque  una  l'essenza  dell'essere,  ella  non  si  può  di- 
videre, come  pure  si  dividerebbe  se  l'ente  potesse  esser  molti. 
Quindi  avviene  che  lo  slesso  essere,  quando  si  considera  come 
iniziale  di  varie  realità  une,  è  presente  lo  stesso  e  identico  es- 
sere colla  sua  intera  essenza  a  ciascuna  di  esse  (,293,  h^S-kGU*). 
Ma  perchè  i  reali  uni  sono  molli,  perciò  acquista  molte  relazioni, 
per  le  quah  sembra  moltiplicarsi.  Ma  veramente  non  si  moltiplica 
y essere,  sì  bene  gli  enti;  perchè  la  molliplicazione  nasce  dalla 
realità  che  riceve  l'uno  in  tanti  modi  diversi,  e,  in  ciascuno  uni- 
ficala, riceve  l'atto  subiettivo  dell'  essere  mediante  la  presenza 
di  questo  tutto  intero  a  ciascun  uno  di  realità,  rimanendo  l'atto 
ricevuto  in  questa  limitalo  dalla  sua  propria  limitazione  ,  nel 
modo  già  dichiaralo, 

887.  Si  dirà  :  «  Yoi  dite  che  l'essere  dell'intùito^  cioè  l'essenza 
dell'essere,  è  uno  e  ragione  dell'unità:  perchè  dunque  non  può  sus- 
sistere senza  i  suoi  termini  ?  «  —  Si  risponde,  la  ragione  per  la 
quale  1'  essere  senza  i  suoi  termini  non  può  sussistere  non  è 
perchè  egli  sia  qualche  cosa  di  moltiplice  ^  come  accade  della 
realilà  prima  di  ricevere  l'unità  dalla  mente,  ma  perchè  è  qual- 
che cosa  meno  dell'uno:  non  ha  tutto  ciò  che  entra  a  costituire 
l'uno  perfetto:  è  dunque  un  uno  diminulo,  quasi  come  una  fra- 
zione dell'uno  stesso,  come  è  un  ente  diminulo,  e  quasi  frazione 
dell'enle.  Ma  egli  però  mostra  alla  mente  che  lo  contempla  il 
suo  difetto,  e,  per  conoscer  questo  suo  ditello,  la  mente  non  ha 


551 

bisogno  d'  altra  regola  o  tipo  che  di  lui  stesso  :  il  che  accade 
perchè  contiene  i  suoi  termini  in  un  modo  virtuale,  e,  in  quanto 
li  contiene,  l'abbiamo  chiamalo  essere  virtuale. 

Or  se  si  considera  questa  virtualità  dell'essere,  egli  è  virtual- 
mente ente  ed  uno  perfetto  :  ma  questo,  altro  non  viene  a  dire 
se  non  che  mostra  in  sé  la  necessità  che  ciò  che  è  ente  sia  uno 
né  più,  né  meno. 

Articolo  VII. 

Concello  d'individuo  e  di  comune. 

588.  La  parola  individuo,  secondo  l'etimologia  significa  indi- 
visibile,  e  però  equivale  all'  k  uno  sostantivalo  ». 

Ma  nell'uso  più  frequente  di  questa  parola,  individuo  si  dice 
«  l'ente  reale  in  quant'é  uno  e  indivisibile  senza  che  mai  possa 
essere  un  altro  ». 

Il  lettore  troverà  una  dottrina  più  copiosa  intorno  all'indivi- 
dualità nella  Psicologia  (560,  sgg.)  :  qui  vogliamo  osservata  la 
differenza  che  passa  tra  individuo,  in  questo  secondo  senso  ,  e 
identico. 

L'individuale  é  un  concetto  che  ha  per  suo  opposto  il  comune 
e  non  Videntico  ;  poiché  l' identico  si  trova  tanto  nell'individuo 
quanto  in  ciò  che  é  comune.  In  fatti  tutto  ciò,  che  è  comune 
a  più  entità,  è  identico,  altramente  non  sarebbe  comune  ,  ma 
non  é  individuo,  in  quant'é  comune:  é  un. uno  anch' egli  per- 
chè rimane  identico ,  ma  è  un  uno  unito  a  molti  uni  simulta- 
neamente. All'incontro  Vindividuo  reale  come  ente  non  ha  nulla 
da  poter  accomunare  con  altri  enti,  ma  tutto  ciò  che  lo  costi- 
tuisce come  subietto  reale  determinato  è  suo  proprio  e  inco- 
municabile. 

L'individuo  reale  dunque  racchiudendo  un  concetto  opposto  al 
concetto  di  comune  dev'essere  pienamente  determinato  ^  poiché 
tutto  ciò  che  è  da  qualsiasi  parte  indeterminato  e  che  può  essere 
determinato  in  vari  modi  è  comune  a  tutte  le  entità  che  ne  na- 
scono col  determinarlo  in  que'varì  modi. 

L'individuo  reale  dunque  è  costituito  non  dall'essere  comune 
ma  dal  suo  termine  reale  uno:  ciò  che  costituisce  l'ente  come 


552 

individuo  è  dunque  l'  unità  dell'  ultimo  termine  dell'  ente  ,  non 
diviso  però  dal  resto  dell'ente. 

Quantunque  V individuo  sia  costituito  da  ciò  che  è  proprio  nel- 
l'ente e  non  da  ciò  che  è  comune,  cioè  dall'ultimo  termine  che 
la  sì  che  quell'ente  sia  lui,  e  non  un  altro;  tuttavia  questa  qua- 
lità della  propiietà  esclusiva  conviene  a  ciascun  ente  individuo 
preso  l'uno  separatamente  dall'altro  ,  e  considerata  così  questa 
qualità  fu  detta  dalle  scuole  ,  come  dicemmo  ancora ,  indimluo 
vago. 

U individuo  vago  dumiue  è  il  concetto  di  questa  proprietà,  per 
cui  ciascun  ente,  terminato  in  sé,  è  individuo,  cioè  a  niun  altro 
ente  comune.  Così  per  virtù  del  pensar  formale  quel  concetto  che 
esclude  il  comune  —  che  anzi  consiste  nell'esclusion  del  comune, — 
diventa  comune,  concependosi  come  comune  la  negazione  della 
comunità.  La  ragione  poi,  che  fa  sì  che  gl'individui  sieno  più, 
è  quella  stessa  per  la  quale  Vuno  può  informare  in  più  modi  il 
reale,  ond'è  che  ci  sieno  più  uni  reali. 

589.  Ma  dal  proprio  passiamo  al  comune,  che  è  il  suo  opposto. 
Che  cosa  è  il  comune?  Quale  n'è  la  sua  natura? 

Abbiamo  già  detto  altrove  che  questa  parola  di  comune  signi- 
fica un  ugual  rapporto  di  più  individui  con  un'essenza  identica 
veduto  dalla  mente  {Ideolog.  60,  61,  2^7,  249).  Perciò  il 
comune  non  è  una  qualità  che  esista  negli  enti,  ma  è  una  re- 
lazione degli  enti  colla  mente.  Qual  è  il  subictto  di  questa  rela- 
zione? L'  essenza  identica  ,  di  che  si  j)redica  il  comune.  Quale 
ne  è  il  fondamento?  La  pluralilà  degli  enti  partecipanti  della 
medesima  essenza.  Quale  ne  è  il  termine?  Gl'individui  stessi 
molti.  Quale  ne  è  la  causa?  La  stessa  causa  della  moUiplicità , 
cioè  la  natura  della  realità,  finita  che  può  ricevere  dalla  mente 
l'unità  in  molte  e'certe  maniere,  e  in  altrettante  può  esser  creala 
o  fatta  ente,  o  dopo  creata  così  può  esser  pensata. 

Da  quest'analisi  del  comune  si  vede,  che  il  comune  non  può 
esistere  senza  una  mente  che  il  pensi:  1.°  perchè  nella  mente 
sola  esiste  la  pluralilà,  essendo  anche  questa  una  relazione  tra 
Vuno  astratto  che  soltanto  nella  mente  esiste,  e  la  realità  che  li- 
mitata dalla  mente,  e  non  ancora  unificata,  solo  nella  mente  può 
esistere;  2.°  perchè  non  esistendo  la  pluralità  altrove  che  nella 
mente,  anche  gli  enti  come  molti  non  esistono  che  nella  mente 


K55 

(love  solo  è  la  pluralità  ;  3."  perchè  nella  sola  mente  divina  , 
come  dicevamo  ,  è  l'uno  astratto  ,  e  la  realità  finita  suscettiva 
dell'uno  in  varie  maniere. 

Non  c'è  dunque  il  comune  come  reale;  ma  c'è  di  reale  solo 
r  essenza  identica  che  costituisce  il  subietto  di  questa  relazione 
mentale  di  comunità. 

590.  Rimane  dunque  a  vedere  che  cosa  sia  quest'essenza  ?V/(7i- 
tica  di  cui  si  può  predicare  il  comune. 

Ogni  realità  che  si  contiene  ne'generi  sommi,  ne'gencri  infe- 
riori ,  nelle  specie  astratte  o  piene  ,  ma  non  pienissime,  può 
acquistare  l'esistenza  subiettiva  in  più  individui  reali,  e  così  di- 
venir comune.  Perciò  si  dice  che  a  tali  idee  appartiene  il  pre- 
dicalo di  comune  intendendo  della  realità  in  esse  contenuta.  La 
realità  all'incontro  che  sia  nella  specie  pienissima  non  può  esser 
comune  a  più  individui,  come  noi  abbiam  detto. 

La  ragione  di  questo  si  è  ,  che  la  detta  realità  de'  generi  e 
delle  specie  astratte  e  non  pienissime  non  è  a  pieno  determinata 
ma  determinabile  in  più  maniere.  L'  indeterminazione  dunque  , 
ossia  la  moltiplice  determinabilità,  è  la  ragione  del  comune  nel 
reale  contenuto  in  tali  idee. 

Da  questo  comune  procede  il  comune  della  stessa  forma  ideale 
dì  cui  il  reale  indeterminato  più  o  meno  è  vestito. 

Onde  l'idee  hanno  la  relazione  di  comune  in  due  modi,  come 
contenente,  e  come  contenuto. 

Ma  rimane  a  ricercare,  se  fuori  delle  idee,  e  sotto  la  forma 
categorica  di  realità  ,  possa  trovarsi  qualche  essenza  identica  a 
più  individui  ,  che  perciò  sia  subietto  di  quella  relazione  colla 
mente,  che  dicesi  comune. 

A  primo  aspetto  sembra  che  la  realità  indeterminata,  che  la 
niente  intuisce  nelle  idee,  sia  anche  realizzala  negli  enti  reali. 
E  c'è  in  questi  sicuramente;  ma  non  più  indeterminata,  o  de- 
terminabile, sì  bene  a  pieno  determinala  e  divenuta  così  propria 
di  ciascun  individuo  rappresentalo  dalla  specie  pienissima.  Se 
dunque  noi  predichiamo  il  fow?me  de'rcali,  per  esempio  dicendo: 
tutti  questi  fiori  che  mi  si  presentano  hanno  di  comune  il  color 
rosso,  0  altro:  che  cosa  facciam  noi?  Non  altro,  che  un'astrazione 
del  color  rosso,  e  il  color  rosso  così  astratto  è  il  colore  che  si  trova 
nel  genere  del  color  rosso:  questo  reale  dunque  in  quanto  è  nel 


bS4 

j:5enere,  in  tanto  è  il  suhietto  della  relazione  di  comune,  e  non  in 
(juanlo  è  ne'  singoli  fiori  sussistenti,  dove  è  proprio  di  ciascuno. 
Laonde  il  comune  si  predica  dell'indeterminato  che  è  nell'idea 
e  del  determinato  che  è  nel  sussistente  con  un  copulativo  diverso, 
nel  primo  coU'È ,  nel  secondo  coli'  HA  {Logic.  hoO) ,  dicendosi 
a  ragion  d'esempio:  «  questo  color  rosso — che  è  l'indeterminato 
nel  genere  —  è  comune  a  molti  fiori  sussistenti  o  possibili  »,  e: 
«  questi  fiori  —  che  è  il  determinalo  sussistente  —  HANNO  di  co- 
mune il  color  rosso  »  ;  venendo  questa  seconda  maniera  a  si- 
gnificare: «  da  questi  fiori,  percepiti  che  siano  dalla  mente,  si 
può  astrarre 'un  color  rosso  identico  «,  che  è  un  ritorno  che  fa 
la  mente  al  genere.  E  che  questo  rosso  comune  sia  formato 
dalla  mente  astraente  vedesi  anche  da  questo,  che  i  molti  fiori, 
cioè  la  collezione  non  ha  esistenza  fuori  della  mente,  dove  solo 
esistono  i  fiori  singoli.  11  reale  dunque  che  si  vede  nell'  idea 
come  un  indeterminalo  ,  quando  si  considera  come  sussistente 
non  è  più  subietto  della  relazione  di  comune  ,  se  non  per  un 
ritorno  rapido  della  mente  da  esso  determinato  a  esso  inde- 
terminalo. 

591.  Se  dunque  nella  sfera  del  reale  sussistente  e'  è  il  comune, 
questo  non  è  quello  che  esiste  nell'  idea  come  indeterminato  : 
ma  è  qualcos'altro.  C'è  dunque  questo  qualcos'altro  di  sussistente, 
vero  subietlo  della  relazione  di  comune?  e  se  c'è,  qual  può  esser 
egli?  ~  Noi  rispondiamo  alla  prima  domanda  affermativamente, 
ed  alla  seconda  diciamo  così  : 

Gli  enti  reali  si  dividono  in  enli- principio  e  in  enti-termine. 
Sì  negli  uni,  come  negli  altri  c'è  qualche  cosa  di  reale,  che  è 
subietto  della  relazione  di  comune  ,  e  di  cui  si  può  predicare  il 
comune  col  copulativo  E. 

Rispetto  agli  enti-principio  abbiamo  dimostrato  nella  Psicolo- 
gia, che  essi  sono  costruiti  per  siffalto  modo  ,  che  hanno  delle 
radia  reali  antecedenti  all'ente  individuo  ,  e  cornimi  a  lutti  gli 
individui  che  si  possono  classificare  sotto  una  specie  o  anche  sotto 
un  genere  :  tale  radice  è  in  lutto  il  genere  degli  animali  l'alto 
fondamentale  avente  per  termine  lo  spazio  {Psicol.  556-bb9)  : 
tale  è  pure  ,  almeno  per  tutti  gl'individui  della  specie  umana , 
l'alto  fondamentale  intuente  l'essere  {Ivi,  568  n  ). 

Queste  radici  reali  antecedenti  all'ente  principio  individuo  SONO 


it! 


555 

veramente  comuni,  cioè  veri  subielli  reali  di  questa  relazione  di 
comunità,  che  v'aggiunge  la  mente  pensando  collettivamente  i 
loro  individui. 

Rispetto  agli  enti-termine  lo  spazio  è  per  la  stessa  ragione 
un  torniine  comune  agl'individui  animali.  In  (juanlo  all'essere 
indeterminato,  esso  non  è  se  non  la  realità  indeterminata  involta 
neiroggello  ideale  ,  e  però  non  differisce  dal  conmne  ideale  ,  di 
cui  abbiamo  prima  parlato. 


CAPITOLO  VI. 

^Concetti  di  lutto,  e  di  parti' 

Articolo  I. 
Concetto  del  tutto. 

592.  Dal  concetto  dell'uno  nasce  il  concetto  del  tulio;  poiché 
l'uno  predicato  semplicemente  dell'ente  è  «  quella  qualità  per  la 
quale  Tenie  è  indivisibile,  e,  in  quanto  è  comune  a  molti  enti, 
quella  qualità  per  cui  un  ente  esclude  ogni  altro  ». 

Quindi  ogni  ente  si  considera  come  un  lutto,  in  quanto  che 
fuori  di  lui  non  c'è  nulla  che  gli  appartenga ,  e  però  ha  tutto 
ciò  che  deve  avere. 

La  definizione  dunque  generale  del  lutto  si  è:  «  il  tutto  è  il 
complesso  di  quelle  cose  che  insieme  formano  uno  ». 

Ci  hanno  dunque  tanti  tutti,  quanti  sono  gli  uni. 

Ma  tra  il  concetto  di  uno  e  il  concetto  di  tulio  passa  questa 
differenza,  che  l'uno  in  quanto  è  applicato  a  molte  entità  ha  in 
sé  la  relazione  per  la  quale  un'  entità  esclude  le  altre;  il  tutto 
ha  in  se  la  relazione  d'abbracciare  le  parti  che  compongono  la 
medesima  entità  e  di  negare  che  ce  ne  sieno  altre  che  concor- 
rano a  comporla.  * 

L'uno  adunque  esclude  altri  uni  ,  il  tutto  esclude  altre  parli 
dell'uno. 

Il  tutto  rispetto  all'uno  ha  la  condizione  di  predicalo,  polen- 


?)56 

dosi  di  ogni  uno  predicare  il  lutto.  E  quantunque  anche  dei 
lutto  possa  predicarsi  l'uno,  perchè  ogni  tutto  è  uno,  di  maniera 
che  «  ogni  uno  è  tutto  »,  e  «  ogni  lutto  è  uno  «  dialetticamente  : 
sieno  proposizioni  convertibili  ,  tuttavia  nell'  ordine  logico  della 
generazione  de'  concelli  il  concello  dell'uno  precede  al  concetto 
del  lutto  ,  non  potendosi  dire  tutto  se  la  mente  non  ha  prima 
pensato  l'uno,  laddove  la  mente  può  aver  concepito  l'entilà  come 
uno,  senza  avere  ancora  riflettuto  ch'ella  costituisca  un  tutto. 
Poiché  per  pensare  che  un'entità  costituisca  un  tutto  conviene 
non  solo  aver  riflettuto  che  quell'entità  non  ammette  divisione, 
ma  di  più  che  ninna  sua  parte  è  fuori  di  lei. 

Come  dunque  si  distinguono  varie  sorti  di  uno,  così  egual- 
mente si  distinguono  varie  sorti  di  tutto  per  la  correlazione 
di    questi    due  concelli  (1). 

E  quantunque  nella  deliiiizione  del  tulio  s'acchiuda  una  rela- 
zione colle  cose  di  cui  consta,  onde  abbiam  detto:  «  il  lutto  es- 
sere il  complesso  di  quelle  cose  ec.  »  ,  tuttavia  non  procede  , 
che  nel  tutto  si  devano  necessariamente  trovare  delle  parti  , 
perchè  quella  relazione  può  essere  negativa,  cioè  esclusiva  delle 
slesse  parti;  e  tale  è  quando  l'uno  sia  aflatto  senza  parli,  ovvero 
quando  la  mente  concepisca  semplicemente  il  lutto  con  un  solo 
alto  senza  riguardar  punto  alle  parli.  Il  qual  concetto  di  tulio 
si  chiamò  da'greci,  totum  ante  partes,  oXov  Trpò  tóov  ixs^^v. 

Che  se  l'uno  si  riguardi  come  un  composto  di  parli,  chiama- 
rono questo  concetto,  venuto  dalla  considerazione  delle  parli  e 
della  loro  congiunzione,  totum  ex  partibus,  oXov  ex  tSòv  i^spéòv. 

Finalmente  la  mente  considera  nelle  parti  stesse  un  uno  pos- 
sibile, considera  il  tutto  nel  complesso  delle  parli  come  esistente 
nella  sua  materia,  e  il  concetto  del  lutto  materiale  così  consi- 
derato lo  chiamarono  totum  in  pai  tihus,  oXov  iv  Toìg  jxépeGi  ("2). 


(\)  Quindi  apparisce  vieppiù  come  si  cliiamino  reciprocamente  i  due  ca- 
latteri  dell'imitò  e  della  totalità  da  noi  assegnati  alla  Filosolìa.  Vedi  le  Pre- 
fazioni agli  Opuscoli  filosofici,  e  al  Nuovo  Saggio. 

(2)  Eustratius  in  I."'  Etliic.  Arist.  fol.  11  —  Quest'autore  dice,  che  «  il 
«  lutto  avanti  le  parti  sono  quelle  forme  e  idee  semplicissime  e  prive  di 
«  materia ,  delle  quali  ciascuna  esiste  prima  delle  parti  che  sono  fatte  su  di 

«    essa   «  (oXoj)  rcpò    Tùv  jxipòiv  IJ.ÌV  ,  ixetvs;  xà.  eiov)  ,    oTt    ttjSÒ    twv   7t(5>.},65v    sx«(jtov 
Èxeivwv  vyJsTfxsv,  x  npòi  Ixstvs  yt/ovfJ,  k-rù.òvzzxra.  Svts;,  x«i  aù>K,  dal  che  SÌ  vede 


SS7 

Il  che  (limosliM  clie  la  dottrina  intorno  alla  natura  delle  parti 
è  necessaria  ad  illustrare  il  concolto  del  tutto:  veniamo  dunque 
a  questa. 

Articolo  IL 

Concetto  di  (Uoisione  e   coìicelto  dì  parli. 

ì)95.  Definendosi  l'uno  «  ciò  che  è  indiviso  in  sé,  e  diviso  da 
altri  )),  lorz'è  che  il  concetto  di  divisione,  che  involge  quello  di 
parti,  preceda  al  concetto  astratto  dell'uno,  nova  ragione  del  non 
essere  il  concetto  di  uno  anteriore  al  noncello  di  ente,  come  pre- 
tendono i  novi  platonici. 

Laonde  S.  Tommaso  riconosce  quest'ordine  logico  tra  i  concetti, 
che  primo  cada  nell"  intelletto  V  ente,  di  poi  la  divisione  di  un  ente 
dall'altro  ,  in  terzo  luogo  \'uno  ,  che  è  quanto  dire  l'indivisione  di 
ciascun  ente,  in  quarto  luogo  i  molti,  e  la  moltitudine  (i). 


che  le  ideo  o  forme  si  dicevano  «  tutto  avanti  le  parti  »,  per  aver  con  queste 
una  relazione  positiva,  prendendosi  come  parti  le  loro  moltiplici  realizzazioni, 
come  ctii  dicesse  die  tutti  i  corpi  fossero  come  parli  dell'essenza  o  idea  del 
corpo,  e  che  questo  precedesse  come  un  tutto  quelle  parti.  Ma  che  «  il  tutto 
at)l)ia  parti  e  preceda  le  parti  »,  è  una  contraddizione,  se  si  prende  nell'ordine 
della  realità:  non  così  dianoeticamente,  poiché  la  mente  può  pensare  contem- 
poraneamente l'idea  e  gl'individui  reali  ad  essa  corrispondenti ,  e  considerar 
questi  in  quella,  nel  qual  caso  questi  prendono  il  concetto  di  parti  in  quanto 
che  dall'idea  acquistano  un  legame  e  una  cotale  unità  dianoetica. 

(Ij  Primo  cadit  in  intellectu  ENS;  secimdo  quod  hoc  ens  non  est  il- 
lud  ens,  et  sic  secnndo  apprehendimus  divisionem;  tertio  unum;  quarto 
multitudinem.  Onde  anche  dice  :  quod  divisio  sit  prius  unitate  non  sim- 
pliciter,  sed  secunduia  rationcm  nostne  appreheìisionis  {S.  I,  XI,  u,ad  4..™). 
—  La  distinzione  tra  il  simpliciter  e  secundum  apprehensionem  nostrani 
ha  uopo  di  qualche  dichiarazione.' L'»>u7(/,  o  l'uno  astratto,  significa,  come 
dicemmo,  la  qualità  per  cui  l'ente  è  uno.  Ora  questa  qualità  apparisce  alla 
mente  nostra  come  separata  dall'ente,  e  in  questa  separazione  non  esiste 
nell'ente,  e  però  è  un  oggetto  che  appartiene  unicamente  all'essere  dianoe- 
tico. Ma  l'ente  non  ha  poi  anch'egli  la  qualità  di  uno?  e  però  non  è  questa 
qualità  nell'ente?  Rispondo,  che  questa  qualità  è  nell'ente  non  separata  né 
divisa  da  tutto  il  resto  dell'ente  :  ma  se  si  toglie  ogni  separazione  tra  l'ente 
e  la  qualità  di  uno,  il  pensiero  e  il  vocabolo  dell'uno  svanisce  o  resta  solo 
quello  dell'ente  ;  non  potendosi  in  alcun  modo  predicare  l'uno  dell'ente  né 


^ 


5K8 

Ma  conviene  che  noi  facciamo  diverse  considerazioni  sul  con- 
cetto di  divisione,  che  appartiene  al  pensar  formale  dianoetico;  at- 
teso che  la  riflessione  umana  che  prende  ad  esaminare  l'essere  in 
quanl'è  formale  e  diancoticosi  tiene  difficilmente  in  questo,  e  scade 
facilmente  nell'  ordine  dell'  essere  anoetico  onde  un'inestricahile 
confusione  di  concetti  e  perpetue  antinomie. 

Osserviamo  dunque  primieramente  quello  che  abhiam  toccato  di 
sopra  cioè  che  il  concetlo  di  divisione  non  aggiunge  nulla  a  quel  tutto, 
a  quell'ente  che  si  divide.  IMuttosto  la  divisibilità  è  un  concetto 
di  diminuzione,  poiché  un  lutto  indiviso  non  solo  equivale  alla  to- 
talità delle  parti  in  cui  si  divida,  ma ,  oltre  tutto  ciò  che  e'  è  nelle 
partì  ,  ci  sono  di  più  quei  nessi ,  quelle  forze  ,  quella  universale 
energia  che  unisce  tutte  le  parti  in  modo  da  renderlo  un  tutto 
solo.  E  questo  di  più  è  tanto  maggiore ,  quanto  è  maggiore  quella 
virtù  che  congiunge  le  parti,  ed  è  massimo  quando  una  tale  virtù 
domina  sì  fattamente  che  non  lascia  per  cosi  dire  alcuna  cicatrice 
tra  le  parti,  alcun  segno  di  divisione,  alcuna  differenza,  e  che 
abolisce  financo  il  concetto  di  parte,  compiendo  così  la  più  perfetta 
loro  unificazione.  È  dunque  chiaro  che  nel  concetto  del  tutto  ci 
può  essere  assai  di  più  che  non  sia  nel  concetto  d'  aggregato  di 
parti  ;  e  c'è  veramente  tanto  di  più  ,  quanto  quel  tutto  è  più  uno. 

594.  Non  è  dunque  assolutamente  vero  il  principio  che  «  il 
tutto  è  uguale  alle  sue  parti  «. 

Pure  ond'è  che  gli  uomini  ricevono  per  bono  questo  principio? 
Ond'è  che  gli  antichi  metafìsici  ce  l'  hanno  dato  per  uno  dei  prin- 
cipi più  evidenti  della  ragione? 

Di  qui,  che  i  principi  ontologici  più  usati  dagli  uomini,  e  quelli  dei 
quali  si  formò  l'Ontologia  come  scienza,  oso  dire  fino  al  di  d'oggi, 

col  pensiero  né  colle  parole,  se  quest'uno  non  si  abbia  in  qualche  modo  se- 
parato dagli  altri  elementi  dell'ente.  11  che  parrebbe  levar  via  la  distinzione 
di  S.  Tommaso,  e  l'unità  non  sarebbe  mai  simpliciter,  ma  solo  nell'appren- 
sione della  mente.  Pure  è  da  considerarsi,  che  dopo  che  l'unità  si  è  trovata 
coll'astrazione,  la  mente  può  considerarla  come  ente  ella  stessa,  dialettica- 
mente. Certo  che  per  arrivare  a  considerarla  in  questo  modo,  deve  essere 
preceduto  il  concetto  di  divisione.  Ma  posto  che  la  mente  sia  già  pervenuta 
a  questo,  incomincia  un  novo  ordine  di  pensieri,  e  allora  la  mente  prima 
pensa  l'uno,  e  poi  la  divisione  dell'uno  cioè  dell'ente  uno.  In  quest'ordine  si 
può  dire  che  simpliciter  cioè  da  parte  del  fatto  della  cosa  preceda  l'uno  alla 
divisione,  perchè  ci  deve  essere  l'uno  ente  prima  che  se  ne  faccia  la  divisione. 


559 

non  furono  cavali  dalla  considerazione  dell'  essere  e  dell'  ente 
in  tutta  la  loro  pienezza,  ma  da  quella  dell'ente  materiale  che 
è  il  minimo  degli  enti.  Ciò  che  videro  essere  de' corpi  e  degli 
estesi,  vollero  che  t'osse  proprietà  dell'ente,  universalizzando  in- 
debitamente ciò  che  nun  valeva  se  non  per  una  specie  angu- 
stissima di  ente:  indi  la  povertà  dell'Ontologia,  che  si  possiede  fi- 
nora, e  la  materialità  che  vi  si  trova  nel  fondo. 

Vero  è,  che  furono  distinti  due  tutti,  Vuno  omogeneo,  compo- 
sto di  parti  simili  ,  qual  è  il  continuo  e  la  materia  o  almeno  una 
data  specie  di  materia;  e  un  tutto  eterogimeo,  composto  di  parti 
dissimili.  Nel  tutlo  omogeneo  la  parte  ha  la  stessa  forma  del 
lutto  ;  laddove  nel  lutto  eterogeneo  la  parte  non  ha  la  forma 
del  lutto  (1). 

Ora  nel  lutto  omogeneo,  come  quello  dell'esteso  e  della  ma- 
laria, ha  la  sua  verità  il  principio  che  «  il  tutto  è  uguale  alle 
parli  )).  Così  un  ettolitro  d'acqua  è  uguale  a  cento  litri,  un  et- 
tometro è  uguale  a  cento  metri. 

Ma  anche  rispetto  all'ente  materiale  e  all'esteso  un  tal  prin- 
cipio non  ha  verità  se  non  a  condizione,  che  si  consideri  la  pura 
maleria,  poiché  se  si  considerasse  qualche  altra  cosa  nella  ma- 
teria 0  negli  spazi ,  per  esempio  se  si  considerasse  la  forma  , 
quel  principio  perderebbe  la  sua  verità.  Onde  riesce  falso  a  ra- 
gion d'esempio  che  tutta  la  polvere  in  cui  è  slata  ridotta  una 
statua  di  Canova  sia  uguale  alla  statua  di  Canova;  che  a  que- 
sla  polvere  manca  la  forma  che  avea  prima  quella  materia. 

E  la  stessa  deficienza  dalla  verità  si  riscontra  in  quel  princi- 
pio ,  se  invece  di  considerare  ne'  corpi  qualche  loro  proprietà 
diversa  da  quella  della  materia  ,  si  consideri  in  essi  qualche 
relazione,'  per  esempio  il  prezzo  ,  gli  effetti,  ecc.  Così  i  minuti 
pezzi  ,  ne'  quali  si  avesse  diviso  un  solitario  ,  benché  non  ne 
mancasse  alcuno,  non  riescirebbero  uguali  al  solitario  intero  e 
indiviso  ;  unite  insieme  due  o  tre  sostanze  innocue  in  un  certo 
modo  ,  e  voi  avrete  per  risultalo  un  veleno  :  tanto  è  vero  che  il 
lutto  rispello  a'  suoi  effetli  non  equivale  alle  parli  di  cui  è 
composto. 

('onchiudiamo  dunque  che  quel  principio  non  ha  valore  se  non 

(1)  S.  Tomm.  Sam.  I,  XI,  ii,  ad  2.'" 


560 

rispetto  alla  quantità  diinensim ,    ed  è  per  questo  che  ne  fecero 
tanto  uso  i  matematici,  1  quali  l'accreditarono. 


CAPITOLO  VII. 

Concetto  di  semplice. 

ARTICOLO    I. 

Anlinomia  tra  l'ente  uno  e  Venie  composto. 

593.  L'ente  è  uno,  come  abhiam  detto,  ma  non  sempre  è  sem- 
plice: in  fcitti  ci  hanno  molti  enti  composti. 

Ma  in  questo  apparisce  un'  antinomia.  Poiché  l'uno,  in  quanto 
è  uno,  è  certamente  semplice;  che  in  quanto  si  distinguono  in 
esso  più  parti,  in  tanto  non  è  uno,  né  ente.  Come  dunque  es- 
sendo ogni  ente  uno,  tuttavia  non  ogni  ente  é  semplice? 

Questa  anlinomia  merita  d'  essere  da  noi  considerata  ,  poiché 
solo  dal  considerarla  attentamente,  e  trovarne  la  conciliazione, 
si  perviene  a  conoscere,  in  che  il  concetto  di  semplice  si  dislingua 
dal  concetto  di  uno. 

Articolo  II. 

Una  certa  maniera  di  semplicità 
è  essenziale  ad  ogni  ente. 

596.  E  primieramente  conviene  riconoscere  che  v'ha  una  certa 
maniera  di  semplicità,  che  non  può  mancar  mai  a  nessun  ente, 
di  qualunque  genere  sia  o  si  concepisca,  e  questa  è  quella  ap- 
punto, che  è  indivisibile  dalla  qualità  di  uno,  essenziale  all'ente. 

E  questa  osservazione  comincia  a  dissipare  l' antinomia  sopra 
accennata,  perché  mantiene  ad  ogni  ente  quella  senq)licità  che 
deriva  dall'uno,  nella  quale  semplicità  l'antinomia  si  fondava. 

In  fatti  ciò  che  e  contradittorio  aW  uno  è  la  moltitudine  ,  e 
però  un  ente  è  contradittorio  a  più  enti.  Il  concetto  all'incon- 


noi 

Irò  conlradillorio  a  quello  di  semplice  è  la  moltiplicità  ossia  la 
composizione.  La  moltiplicità  è  un  predicato  ,  che  si  predica 
dell'ente  uno  ,  o  negandola  o  affermandola  ,  e  non  si  predica  , 
non  si  afferma  e  si  nega  d'una  moltitudine  di  enti^  a  meno  che 
questa  stessa  non  si  consideri  come  uno.  Di  più,  la  moltiplicità 
non  si  predica  doll'enle  uno  col  copulativo  essere,  quasiché  l'ente 
uno  sia  la  stessa  molliplicilcà  ,  il  che  Irarrehbe  seco  di  novo  la 
contradizione,  ma  col  copulativo  apert?  {Logic.  Wild),  il  che  importa 
che  all'ente  uno  sta  congiunta  intimamente  una  moltiplicità. 
Quando  dunque  si  dice,  che  un  ente  è  moltiplice,  non  si  dice  con 
questo  che  un  ente  sia  più  enti,  o  che  egli  stesso  sia  la  moltiplicità, 
il  che  sarebbe  ugualmente  contraditlorio  ;  ma  si  dice  ,  che  nel- 
r  unità  stessa  dell'  ente  cade  una  moltiplicità  non  di  enti  ,  ma 
d'altro,  cioè  d'elementi  che  compongono  l'ente. 

Quando  dunque  si  predica  di  qualche  ente  1'  unità  e  insieme 
la  moltiplicità  ossia  la  composizione  ,  allora  non  si  predicano 
queste  due  qualità  dello  stesso  ente  sotto  lo  stesso  aspetto,  ma 
sotto  un  aspetto  diverso  ;  il  che  fa  sì,  che  in  tali  predicazioni 
si  evili  la  contradizione  ;  perchè  l'unità  si  predica  dell'ente,  e 
la  moltiplicità  e  la  composizione  non  si  predicano  dell'ente  ma 
de'  suoi  componenti.  Così  sparisce  1'  antinomia  ;  rimanendo 
l'ente  uno  e  semplice  come  tale,  moltiplice  airincor\tro  e  com- 
posto in  quanto  queir  unità  e  quella  semplicità  di  ente  risulta 
da  più  elementi. 

L'unità  dell'ente  è  un  predicato  che  s'attribuisce  al  suhietto, 
la  composizione  o  la  semplicità  sono  predicati  de'  suoi  predicati , 
cioè  di  quelle  cose,  che  non  sono  lui,   ma  di  lui-  si  dicono. 


Articolo  III. 

Concetti  di  composizione,  e  eli  composto. 

597.  Per  ridurre  il  concetto  di  composto,  che  s'oppone  al  con- 
cetto di  semplice,  in  una  definizione  così  universale,  che  abbracci 
lutti  gli  usi  ,    che  la   mente    umana  fa  della  parola  composto  , 
noi  diremo,  che  «  ogni  qualvolta  in  un  ente  si  possono   distin- 
RosMiNi.  Teosofia.  36 


K62 

guere  col  pensiero  più  entità,  l'ente  si  dice  composto  di  tutte 
queste  entità  insieme  prese  e  contenute  nel  principio  dell'ente  )>. 

Questa  definizione  abbraccia  ugualmente  il  composto  obiettivo, 
il  composto  dialettico,  e  il  composto  reale.  Ma  nel  comune  di- 
scorso si  parla  del  composto  reale  ,  e  il  reale  si  dice  semplice 
ogni  qualvolta  non  ha  composizione  reale,  sebbene  possa  avere 
una  composizione  dialettica,  od  obiettiva. 

Allo  stesso  modo  si  usa  la  parola  composizione,  che  è  l'atto 
del  comporre,  ossia  di  mettere  nel  principio  dell'ente,  come  in 
suo  contenente,  tutte  quelle  entità  che  nell'ente  si  distinguono. 
Poiché  c'è  una  composizione  che  fa  la  mente,  e  dicesi  dialettica, 
sia  che  n'esca  un  composto  puramente  obiettivo  od  anche  dia- 
lettico; e  c'è  una  composizione  che  fa  la  forza  reale,  e  dicesi 
composizione  reale. 

Dalla  definizione  generalissima  che  abbiamo  data  del  composto 
si  deduce  che  il  concetto  di  composto  fa  conoscere  sempre  un'es- 
senza dianoetica ,  cioè  tale  che  a  formarla  c'entra  l'atto  della 
mente.  E  per  verità  quand'anco  si  parli  del  composto  reale  , 
quel  concetto  importa  una  relazione  de' componimenti  con  quel- 
l'uno che  ne  risulta  ,  e  ogni  relazione  può  bensì  avere  il  suo 
fondamento  nel  sussistente,  ma  la  natura  completa  di  relazione 
non  può  riceverla  altrove  che  nella  mente ,  la  qual  sola  ab- 
braccia i  due  estremi  della  relazione,  ciascuno  de' quali  è  su- 
biettivamente  diverso  dall'altro  ,  e  però  non  abbraccia  in  sé 
tutta  la  relazione,  s'egli  stesso  non  sia  intelligente. 

In  ogni  genere  di  composti  dunque,  come  tali,  cioè  precisa- 
mente come  composti,  entra  un  elemento  mentale;  ma  alcuni 
di  essi  hanno  i  loro  estremi  nella  realità  dell'essere,  ossia  sono 
essenti  in  sé,  e  questi  sono  i  composti  reali;  altri  poi  sono  tali, 
che  anche  gli  estremi  loro  dipendono  dalla  mente  ,  sia  come 
oggetti,  e  se  n'hanno  i  composti  ideali  ,  sia  come  entità  dia- 
lettiche, e  se  n'hanno  i  composti  dialettici. 


Articolo  IV. 

Della  dilferenza  tra  i  composti  oggettivi,  i  composti 
dialettici,  e  i  composti  reali. 

598.  L'obietto  si  può  considerare  in  due  modi,  o  come  puro 
oggetto  della  mente,  che  è  quanto  dire  come  idea  contenente  ; 
ovvero  come  essenza  coìì tenuta ,  "e  cognita  perchè  contenuta. 
Questa  essenza  contenuta  può  essere  Vogyetto  stesso,  come  conte- 
nulo,  0  il  reale,  o  il  morale.  Riducendosi  quest'ultimo  a  due 
primi,  possiamo  lasciarlo  da  parie. 

DdVessenza  dunque  contenuta  nell'oggetto  la  mente  predica  la 
semplicità  o  la  composizione,  e  molliplicità. 

Se  dunque  per  essenza  si  prende  Voggetto  stesso  come  conte- 
nuto ossia  come  inteso,  si  può  domandare  se  quest'oggetto  sia 
semplice  o  composto,  e  di  qual  genere  di  semplicità  e  di  com- 
posizione. Questa  questione  appartiene  al  composto  oggettivo 
ossia  ideale. 

Se  per  essenza  si  prende  il  reale,  questo  o  è  un  reale  com- 
pleto che  è  essente  o  può  esser  essente  in  sé  cioè  fuori  dell'og- 
getto, 0  è  un  reale  incompleto  e  diminuto,  che  non  può  avere 
quel  modo  di  essere  che  è  fuori  dell'oggetto  e  che  dicesi  su- 
biettivo, ma  che  non   è   altro    che  nell'oggetto. 

Se  trattasi  di  questo  reale  incompleto,  che  è  solo  nell'oggetto, 
nell'idea,  ma  non  ha  una  propria  e  subiettiva  esistenza,  può 
domandarsi  «  se  sia  composto  o  semj)lice,  »  e  questa  questione 
riguarda  un  semplice  o  un  composto  dialettico. 

Se  poi  trattasi  d'un  reale  completo  che  vedesi  bensì  nell'idea, 
ma  che  è  tale  da  sussistere  in  sé,  fuori  dell'idea,  si  j)uò  ancora 
dimandare  «  se  egli  sia  semplice  o  composto,  »  e  la  quistione 
riguarda  il  semplice  o  composto  reale  ;  al  quale  solo,  almeno  per 
lo  più,  il  parlare  comune  applica  l'epiteto  di  semplice  o  di 
composto. 

Di  qui  si  vede: 

ì.,°  Che  cadendo  ogni  questione,  relativa  al  semplice  ed  al 
composto,  intorno  ad  una  essenza  contenuta  nell'idei,  il  semplice 
ed  il  composto  sono  qualità,  che  non  sarebbero  senza    una  re- 


564 

lazione  colla  mente ,  e  che  però  giuslamenle  si  dicono  dia- 
noetiche. 

2.°  Che  il  semplice  ed  il  composto  dialettico  tiene  sempre 
dell'oggettivo,  perchè  l'essenza  di  cui  si  predicano,  non  essendo 
un  reale  completo  e  pienamente  determinato,  non  può  svestirsi 
dell'oggetto;  ma  il  dialettico  non  è  puramente  oggettivo,  perchè 
riguarda  un'essenza  reale. 

5."  Che  il  composto  e  il  semplice  obiettivo  tiene  sempre 
del  dialettico.  Perocché  per  dialettico  intendiamo  ciò  che  ^nge 
0  suppone  la  mente,  servendosi  di  queste  finzioni  o  supposizioni 
per  ragionare.  Ora  l'  oggettività  non  è  finta  o  semplicemente 
supposta  dalla  mente  ,  e  però  non  si  può  dire  una  finzione  o 
supposizione  dialettica.  Ma  quando  la  mente  predica  d'un  puro 
oggetto  0  idea  la  semplicità  o  la  composizione,  allora  ella  finge 
che  ({nQW oggetto  sia  un  subietlo  a  cui  possano  appartenere  de' 
predicati.  Poiché  V oggetto  come  tale,  non  è  suhìelto,  ma  è  la 
forma  opposta  a  quella  del  subielto.  Quest'operazione  dunque 
colla  quale  la  mente  riveste  il  puro  obietto  della  forma  di  su- 
bietto è  puramente  dialettica.  Quando  dunque  si  parla  della 
semplicità  o  della  composizione  dell'obietto  o  dell'idea,  e'  entra 
sempre  un'operazione  dialettica;  e  però  il  composto  e  il  sem- 
plice obiettivo  ritiene  un  elemento  dialettico. 


Articolo  V. 

Che  per  conoscere  se  un  ente  è  semplice  o  composto,  e  in  guaì  senso  sia 
tale,  conviene  considerare,  se  molte  entità  compongano  il  subielto 
dell'ente,  ossia  l'ente  subiettivo. 

599.  Il  subietto,  noi  abbiam  detto,  è  essenzialmente  uno,  nondi- 
meno può  avere  —  non  essere  —  molte  entità,  e  di  queste  si  predica 
la  moltiplicilà  col  copulativo  essere.  Del  subietto  dunque  si  possono 
predicare  molte  entità  col  copulativo  avere,  ma  questo  avere  ha 
qui  il  valore  di  contenere  ,  perchè  il  subictto  dell'ente  o  1'  ente 
subiettivo  ha  le  molte  entità  conlenendole.  E  in  questo  modo  le 
dette  entità  compongono  1'  ente  subietlivamente  preso  ,  ossia  il 
subielto  dell'ente. 


565 

Per  conoscere  dunque  se  1'  ente  di  cui  si  parla  è  composto  , 
conviene  esaminare  se  ciò  che  coslituisce  in  lui  il  subietlo,  come 
subietlo,  contenga  molte  entità.  E  dico  precisamente  come  su- 
bielto  ,  perchè  altramente  non  formerebbero  queste  entità  un 
ente  solo  ed  uno.  11  subietlo  infatti  fu  da  noi  definito:  «  ciò  che 
in  un  ente  è  primo^  contenente  e  causa  di  unità  ».  Se  dunque 
ciò^  che  il  subietto  contiene  in  tal  modo,  è  molte  entità  ,  esso 
è  composto;  se  non  contiene  nulla  d'attuale,  o  solo  sé  stesso  in 
altro  modo,  è  semplice. 

Ma  il  subielto  è  o  reale,  o  dialetlico.  Quando  il  subietlo  è  pu- 
ramente dialettico,  e  non  c'è  un  subietto  reale  in  sé  essente, 
allora  non  c'è  realmente  né  semplicità  né  composizione,  poten- 
doci soltanto  essere  unità  o  moltitudine ,  ma  ci  possono  essere 
dialetticamente.  Così  se  si  parla  d'una  moltitudine  di  persone,  la 
parola  moltitudine  esprime  un  subielto  puramente  dialettico. 
Questo  subietto  si  può  dire  dialetticamente  composto,  ma  non 
realmente,  perchè  una  moltitudine  non  é  un  subietto  reale.  Man- 
cando il  subietto  reale  non  ti  possono  essere  i  predicati,  e  perciò 
non  c'è  realmente  né  la  semplicità  né  la  molliplicità  :  realmente 
non  esiste  che  la  mollitudine  stessa  delle  persone.  Lo  stesso  può 
dirsi  d'un  aggregato  di  materia  sconnessa,  che  la  mente  prende 
a  subietto  del  discorso. 

Così  del  pari  se  il  subielto  è  reale  e  in  sé  essente  ,  ma  le 
entità  che  contiene  non  sono  molte  realmente,  ma  solo  dialetti- 
camente, non  si  può  dire  che  quel  subietlo  sia  realmente  com- 
posto, cioè  che  contenga  niolte  entità  reali  diverse,  ma  solo  si 
considera  e  finge  composto  dalla  mente ,  il  che  è  una  compo- 
sizione dialettica.  Si  potrà  nondimeno  dire  ch'egli  sia  realmente 
semplice,  perchè  la  semplicità  è  un  predicato  negativo  che  esclude 
la  moltiplicilà.  Se  c'è  dunque  un  subielto  reale,  ma  non  ci  sono 
i  molti  reali  componenti,  esso  è  realmente  semplice. 
600.  Apparisce  da  tutto  questo  : 

l.**  Che  la  semplicità  e  la  moltiplicilà  sono  sempre  subiet- 
tive cioè  predicati  appartenenti  al  subielto  nel  modo  detto; 

2."  Che  a  predicare  la  moltiplicilà  reale  è  necessario  che 
ci  sia  un  subietto  reale,  e  più  entità  reali  in  \n\  conienuic  come 
suoi  componenti  ; 

5."   Che  a  predicare  la  semplicità  reale  è  necessario  che  ci 


56G 

sia  un  subietlo  reale,  che  non  contenga  più  entità,  o  che  queste 
sieno  molle  soltanto  dialetticamente. 

E  qui  si  scorge  un'altra  differenza  tra  i  concetti  di  uno  e  di 
semplice.  Il  semplice  è  predicato  di  un  subietto,  che  nega  la  mol- 
tiplicità,  ma  Vimo  non  è  propriamente  il  predicato  d'un  subietto, 
ma  è  lo  stesso  subielto  ,  e  in  universale  è  un'  idea  elementare 
dell'ente  che  appartiene  alla  cognizione  intuitiva,  e  non  a  quella 
di  predicazione.  Per  questo  dell'uno  può  predicarsi  la  semplicità 
facendo  l'uno  stesso  ufficio  di  subielto,  e  la  semplicità  di  predi- 
cato, e  in  questo  modo  ogni  ente,  come  noi  dicemmo,  in  quanto 
è  uno  in  tanto  è  semplice,  perchè  in  quanl'è  uno  esclude  in  sé 
il  concetto  di  molliplicità  ,  benché  questa  moltiplicità  si  possa 
contenere  nell'uno.  Del  pari,  i  multi  non  é  un  predicalo  d'  un 
subietto,  perché  il  subielto  è  uno  e  non  molti,  né  é  un'idea 
elementare  dell'ente,  ma  é  puramente  un  siihietto  dialettico  for- 
mato dalla  mente  che  impone  ai  molli  la  forma  dell'  uno.  La 
moltiplicità  poi  é  un  predicato  positivo  d'un  subietlo,  dal  quale 
riceve  l'unità.  Da  per  lutto  dunque  dove  si  prescinde  colla  mente 
da  un  subietto,  non  si  trovano  più  i  concelti  di  semplice  e  di 
molteplice  ,  che  sono  relativi  a  un  subietlo  ,  ma  può  rimanere 
il  concetto  di  uno:  quello  di  molti  poi  rimane  solo  se  s'aggiunge 
un  subietto  dialettico. 

Articolo  VI. 

Della  semplicità  e  della  moltiplicità  considerata 
negli  obietti  come  obietti,  ossia  nelle  idee. 

601.  Nell'obietto  della  mente  si  distinguono  due  entità,  il  con- 
tenente che  è  l'obietto  come  obietto  ossia  la  forma  oggettiva,  e 
il  contenuto  ossia   l'essenza. 

L'obietto  come  obietlo  è  l'opposto  del  subietto,  e  però  esclude 
questo  da  sé.  Non  essendovi  dunque  alcun  subielto  nel  puro 
obietto,  consegue  da  quello  che  abbiam  detto,  che  l'obietto  può 
essere  uno,  ma  non  gli  può  convenire  in  alcun  modo  il  predi- 
calo di  -composto.  Ma  prendendo  l'uno  come  subietlo  gli  può 
convenire  il  predicato  di  semplice  essenzialmente,  cioè  allo  stesso 
titolo  al  quale  è  uno;  perchè  l'uno  come  uno  esclude  ogni  mol- 


567 

liplicilà.  Attendasi  qui  la  differenza  che  passa  tra  il  convenire 
aWoggetto  il  semplice  ed  il  composto,  e  il  convenir  questo  a  un 
subictlo.  Quando  s'attribuiscono  queste  determinazioni  a  un  su- 
bietto, allora  la  mente  considera  il  subietto  come  primo  e  an- 
tecedente—  questo  importando  la  definizione  di  subietto,  —  e  per 
conseguenza  quelle  attribuzioni  sono  seconde  e  posteriori.  Ma 
dove  non  e'  è  alcun  subietto  come  nel  puro  oggetto ,  né  la 
mente  ce  lo  finge,  non  c'è  un  ordino  di  priorità  e  posteriorità 
ne'  concetti  tra  l'oggetto  e  quelle  attribuzioni,  ma  c'è  simulta- 
neità. La  semplicità  dunque  nell'  oggetto  non  è  un  predicato  e 
non  ne  ha  tampoco  la  forma  ,  ma  è  un'  idea  elementare  ed 
astratta  che  nello  stesso  oggetto  si  vede  qual  suo  costitutivo  og- 
gettivo, e  lo  stesso  dicasi  della  moltiplicità,  se  questa  vi  si  scorge. 

Di  poi  r  obietto  come  obietto  cioè  la  forma  obiettiva  è  una 
e  non  molte,  benché  possano  esser  molte  le  essenze  che  contiene. 

602.  iMa  l'obietto  come  obietto  ,  sebbene  escluda  il  subietto, 
tuttavia  si  riferisce  essenzialmente  ad  un  subietto  reale,  cioè  alla 
mente  intuente.  Nasce  dunque  la  questione  :  «  Se  la  mente  in- 
tuente e  l'obietto  puro  sieno  due  o  uno,  e  nel  caso  che  sieno 
due,  se  questi  due  sieno  componenti  del  subietto  mente  )>. 

Risposta  —  Qualora  noi  consideriamo  la  mente  umana  ,  con- 
vien  dire  indubitatamente  che  la  mente  intuente  e  l'obietto  in- 
tuito sieno  due  inconfusibili  Ira  loro  ,  la  mente  umana  avendo 
ragione  di  realità  finita  e  non  di  essere,  e  l'oggetto  avendo  ra- 
gione di  essere  infinito.  Convien  dire  ancora,  e  ammettere  come 
un  fatto  evidente,  che  l'oggetto  vien  dato  alla  mente  umana  ed 
essa  lo  riceve  da  quella  causa  occulta  che  glielo  dà.  E  a  mal- 
grado di  ciò  in  nessuna  maniera  si  può  dire  che  la  mente  sia 
composta  di  subietto,  e  di  obietto,  perchè  la  ménte  è  solo  su- 
bietlo,  e  l'obietto  che  le  è  dato  è  solo  obietto,  e  questo  è  in- 
dipendente da  quella.  La  mente  nondimeno  dalla  presenza  del- 
l'obietto ,  che  le  è  dato,  viene  attuata  coH'atto  dell'  intuizione 
che  la  costituisce  ,  ma  quest'  atto  ,  effetto  della  presenza  del- 
l'obietto, non  è  l'obietto  ma  il  subietto  stesso  in  atto.  Onde  la 
mente  non  è  composta,  ma  è  una  e  semplice,  con  una  re- 
lazione essenziale  all'oggetto  ,  è  ella  stessa  un  atto  di  relazione. 

Ma  se  si  solleva  il  pensiero  ad  una  prima  mente  e  si  sup- 
ponga ch'ella  stessa  produca  ed  abbia  ab  eterno  il  suo  obietto, 


568 

e  questo  si  consideri  nella  sua  qualità  di  puro  oggetto  di  quella 
mente,  converrà  dire,  che  l'oggetto  sia  lo  stesso  atto  ulliinato  e 
compiuto  di  quella  mente,  e  non  cosa  diversa.  E  poiché  la  mente 
non  si  dislingue  in  lai  caso  dal  suo  alto  ma  è  lo  stesso  alto  , 
perciò  quella  mente  non  sarà  più  altro  che  un  per  sé  inteso  che 
è  più  che  non  sia  dire  un  intelligente,  p;ìr(»ln  che  esprime  l'atto 
d'intendere  nel  suo  farsi  e  non  ancora  fallo  e  pienamente  ul- 
timato, dove  non  rimane  più  che  l'atlualmenle  inleso  (i).  E  per 
vero  se  l'oggetto  è  prodotto  eternamente  dalla  mente,  quest'og- 
getto non  può  essere  che  la  mente  intesa  ,  poiché  se  ci  fosse 
altro  in  quest'oggetto  primitivo  converrebbe  prima  spiegare  la 
produzione  di  quest'altro,  e  spiegare  non  si  potrebbe  senza  sup- 
porre la  mente  eterna,  pienamente  costituita.  L'oggetto  dunque 
prodotto  da  una  mente  eterna  non  può  essere  che  sé  stessa  eter- 
namente intesa.  L'  intelligente  poi  che  intende  sé  stesso,  se  si 
suppone  che  l'alto  del  suo  inlenderi'  non  sia  mai  in  via  a  farsi 
ma  sia  sempre  fallo,  ha  sempre  inteso  sé  stesso.  Se  stesso  dun- 
que é  sempre  un  per  sé  inteso,  e  l'atto  dell'intendere  non  com- 
piuto è  contenuto  nell'inteso  come  il  meno  nel  più,  e  solo  per 
una  astrazione  si  può  dialetticamente  dividere  dal  sé  inleso  per 
sé  slesso.  11  per  sé  inteso  dunque  è  l'atto  intellettivo  compiuto 
e  ultimatissimo  rispetto  a  una  tal  mente  che  essendo  compiuta 
sussiste  e  costituisce  la  slessa  mente  subiettiva  attualissima,  e,  in 
fatti,  mente  e  intelligenza  attualissima  non  sarebbe,  se  non  fosse 
per  sé  ab  eterno  inlesa.  E  questa  é  la  costituzione  del  subiello 
infinito,  dove  é  da  attendersi,  che  si  parla  sempre  dell' obietlo 
come  puro  obietto,  e  non  si  parla  di  quel  soverchio  di  atto  della 
mente  eterna  col  quale  fa  che  l'essere  contenuto  in  tale  obietto 
da  lei  prodotto 'sussista  come  prodotto  ossia  generalo,  il  che  di- 
cesi eterna  generazione  del  Verbo,  di  cui  dovremo  altrove  parlare. 
Ritornando  dunque  al  principio  del  nostro  discorso^  dicenjmo, 
che  nell'oggetto  si  distinguono  dalla  mente  due  entità,  il  con- 
tenente che  é  r  oggetto  come  oggetto  ,  e  il  contenuto  che  noi 

(1)  S'avvera  così  di  questa  sola  mente  quello,  a  cui  finalmente  venne  Ari- 
stotele, nello  speculare  che  fece  sulla  natura  deiriutelligenza,  cioè  che  il  co- 
noscente ed  il  cognito,  tutto  in  atto  e  niente  in  potenza,  sia  il  medesimo.  "ììtt. 

ixiv  yàp  T(wv  avEO  Oivjs  tò  kutò  tari  tò  voov-j  /.al  tò  vooù/j.vjdv.  De  Aìl.  IH,  4.  —  Cf, 

Metaph.  XI  (XII)  7. 


sogliamo  chiamare  essenza.  E  per  riguardo  all'oggetto  come  og- 
getto vedemmo  che  nella  mente  umana  si  distingue  dalla  mente 
suhielto  ,  senza  recare  alla  mente  una  composizione  ,  ma  sola- 
mente una  relazione  d'  opposizione  ;  e  per  riguardo  alla  mente 
eterna  ,  1'  oggetto  come  oggetto  non  si  distingue  da  essa  ;  ma 
questo  eterno  oggetto  è  ella  stessa  in  atto  ullimatissimo^  com'è 
per  natura  ,  e  non  si  trova  dualità  in  essa  se  non  quella  che 
vi  pone  la  mente  umana  applicandole  i  concetti  inadeguati  che 
toglie  da  sé  stessa  ,  dove  la  nozione  d'intelligente  è  altra  da 
quella  d'inteso,  perchè  nella  mente  umana  l'intelligente  non  è 
atto  intellettivo  puro  per  sé  stesso,  ma  diventa  tale  per  un  altro 
cioè  per  l'oggetto  inteso  ,  e  l'inteso  non  è  per  sé  stesso  inleso 
in  allo,  ma  rispetto  alla  detta  mente  diventa  inteso  in  atto  per 
un  altro,  cioè  per  la  mente.  Ma  dove  V inteso  fosse  attualmente 
inteso  per  sé  stesso,  necessariamente  sarebbe  ad  un  tempo  atto 
intellettivo  purissimo  e  ullimatissimo.  Dobbiamo  ora  parlare  della 
moltiplicità  e  semplicità  dell'essenza  contenuta  nell'oggetto. 

COo.  Abbiamo  detto  che  l'obietto  come  oggetto  non  può  esser  che 
^^no,  e  quest'uno,  preso  come  subietto  dialettico,  é  essenzialmente 
semplice;  ma  l'essenze  che  contiene  possono  esser  molte,  e  tra 
queste  alcuna  può  essere  non  semplice  ma  molliplice.  In  fatti  in 
ogni  intelligenza  anche  limitata,  com'è  quella  dell'uomo,  uno  è 
l'oggetto  in  cui  si  conoscono  tutte  le  essenze  possibili:  nell'uomo 
Vessere  ideale,  in  Dio  {'essenza  divina  per  sé  intesa. 

Ora  queste  essenze,  che  si  conoscono  nell'oggetto,  sono  o  l'  og- 
getto stesso,  0  essenze  reali,  o  essenze  morali.  Quest'ultime,  come 
dicemmo  ,  si  riducono  ,  per  quello  che  riguarda  il  bisogno  del  no- 
stro discorso,  alle  reali.  Dell'oggetto  poi  contenuto  è  a  dire  il  me- 
desimo che  del  contenente.  Onde  basta  che  noi  parliamo  dell'  es- 
senze reali,  in  quanto  sono  contenute  nell'obietto.  Queste  ,  o  sono 
subietti  perfetti,  e  come  tali  possono  essere  suscettibili  di  semplicità 
e  di  moltiplicità  ,  o  subielti  astratti  e  però  dialettici,  e  possono  del 
pari  essere  suscettibili  dell'  uno  e  dell'  altro  #que'  due  predicati. 

Ma  perchè  noi  parliamo  in  questo  articolo  della  semplicità  o 
moltiplicità  dell'obietto,  è  necessario  farci  queste  due  domande: 

1 .°  La  moltitudine  delle  essenze  contenute  nell'obietto  pro- 
duce molti  oggetti ,  contro  quello  che  abbiauì  detto  che  T  oggetto 
sia  uno? 


570 

2.°  La  moUiplicìtà  d'alcuna  di  quelle  essenze,  che  sono  con- 
tenute nell'oggetto,  rende  moltiplice  l'oggetto,  contro  quello  che 
abbiam  detto ,  che  all'oggetto  ,  preso  come  subielto  dialettico  , 
appartiene  il  predicalo  di  semplice  ? 

QOh.  Alla  prima  questione  rispondiamo  che  non  moltiplica  l'og- 
getto ,  perchè  è  sempre  lo  stesso  oggetto  quello  che  fa  cono- 
scere, e  così  contiene  tutte  le  essenze.  Ma  essendo  molte  queste 
essenze  ,  la  relazione  del  medesimo  oggetto  con  essenze  reali 
diverse  è  diversa  ,  e  però  ci  hanno  molte  relazioni  di  cui  uno 
degU  estremi  è  uno  ed  identico  ,  e  l'altro  termine  è  molti  di- 
versi ;  di  che  il  fondamento  della  pluralità  di  tali  relazioni  sta 
nelle  molte  essenze  reali  j  e  non  nell'unico  oggetto.  E  questo 
accade  tanto  rispetto  aWoggetlo  della  mente  umana,  cioè  all'es- 
sere ideale ,  in  cui  e  con  cui  essa  conosce  tutto  ciò  che  cono- 
sce j  quanto  rispetto  all'oggetto  della  mente  divina  ,  che  è  la 
divina  essenza,  la  mente  divina  stessa.  Il  che  come  sia  rispetto 
all'oggetto  umano,  fu  da  noi  altrove  ragionato;  rispetto  poi  alla 
mente  divina  il  diremo  coH'angelico  dottore,  il  quale  insegna, 
che  Iddio  conosce  tutto  per  la  sua  sola  essenza  ;  ma  in  quanto 
questa  è  ragione  o  similitudine  delle  singole  cose  chiamasi 
idea,  e  così  le  diverse  relazioni  o  ragioni,  che  la  divina  essenza 
ha  colle  diverse  cose  reali  ,  si  dicono  idee  intese  da  Dio  (i). 
La  moltitudine  dunque  sta  nelle  cose  o  essenze  reali  ,  e  non 
nella  divina  essenza  che  essendo  una  le  rende  tutte  conoscibili. 
E  non  ne  viene  da  questo,  aggiunge  il  gran  filosofo  ,  che  tali 
rispetti  di  conoscibilità  vengano  dalle  stesse  cose,  ma  dal  divino 
intelletto  che  paragona  l'essenza  sua  propria  colle  cose  (2),  non 
essendo  in  fatti  le  cose  reali  finite  conoscibili  per  sé  stesse  , 
perchè  non  sono  obiettive  per  sé,  ma  subiettive ,  e  rendendosi 
conoscibili  a  Dio  dalla  propria  essenza  che  è  obiettiva  e  per  sé 
conoscibile  e  conosciuta.  Ma  se  i  rispetti  che  rendono  le  cose 
conoscibili   vengono   da   Dio  e  sono  in  Dio   in  quanto  sono   le 

(1)  Idea  non  nominai  clMnam  essentiam  in  quantum  est  essentia,  sed  in 
quantum  est  similitudo,  vel  ratio  hujtis  vel  illius  rei.  Unde  secundum  quod 
sunt  plures  rationes  iniellectce  ex  una  essentia,  secundum  hoc  dicuntur  plu- 
res  idece.  S.  B,  XV,  ii,  ad  1." 

(2)  Hujiismodi  respectus,  quibus  multiplicantur  idece  non  causantur  a 
rebus,  sed  ab  intellectu  divino,  comparante  essentiam  suam  ad  res.  Ivi.  ad  3.'" 


o71 

conoscibilità  ossia  le  idee ,  in  quanto  però  sono  molti  vengono 
dalle  cose,  perchè  queste  sole  sono  molte,  sebbene  l'esser  esse 
molte  venga  da  Dio  come  dal  loro  autore.  E  di  qui  è  che  la 
moltitudine  stessa  di  questi  rispetti  non  è  in  Dio^  ma  nelle  cose, 
benché  sia  intesa  da  Dio,  come  esistente  e  da  lui  posta  nelle 
cose  (I). 

605.  Ma  qui  si  presenta  una  difficoltà  :  «  Se  le  conoscibi- 
lità delle  cose,  o  idee  o  cose  conosciute,  come  si  vogliano  chia- 
mare, importano  una  relazione  delle  cose  coU'essenza  divina,  e  si 
fanno  ah  intellectii  divino  comparante  essenliam  suam  ad  res,  per 
usare  l'espressione  di  S.  Tomaso,  dunque  le  cose  sono  anteriori 
alle  idee  ».  Si  risponde  che  Iddio  fa  tutto  con  un  solo  e  me- 
desimo alto  e  cose  e  relazioni  loro  colla  sua  essenza ,  e  però 
che  non  si  dà  priorità  e  posteriorità  ,  se  non  dialettica  ,  pel 
modo  imperfetto  di  concepire  della  nostra  mente.  Sono  dunque 
molte  le  cose,  rimanendo  una  l'essenza  divina  che  le  conosce  , 
e  si  dà  alle  cose  il  predicato  di  molte,  o  si  predica  di  esse  la 
moltitudine  ,  perchè  dei  molti  o  della  moltitudine  la  mente  fa 
un  subietto  dialettico,  rivestendo  i  molti,  o  la  moltitudine  della 
forma  dell'uno. 

Pure  ristanza  si  rinnova  così:  «  Che  le  cose  sieno  molle  in 
quanto  sono  reali,  senza  pregiudizio  dell'unità  dell'essenza  di- 
vina, questo  s'intendo,  perchè  in  tal  caso  le  cose  stesse  sono  il 
subielto  —  dialettico  —  della  loro  pluralità;  ma  che  le  cose  sieno 
molte  in  quanto  sono  conosciute  ossia  come  idee,  questo  sembra 
che  distrugga  l'unità  dell'essenza  divina  ,  perchè  le  idee  stesse 
diventano  il  subielto  della  moltitudine,  e  queste  non  sono  in  sé, 
ma  nell'essenza  divina  «. 

La  risposta  è  questa  :  «  Le  idee  sono  oggetti  interni  dell'es- 
senza divina  respectus  inlellecti  a  Deo.  Ma  l'oggetto,  come  puro 
oggetto,  dell'intelligenza  divina  è  identico  coll'atlo  dell'intel- 
ligenza divina  per  la  natura  di  quest'alto  d'essere  ullimatissimo, 
come  abbiam  veduto.  Se  dunque  un  oggetto  s' identifica  con 
quest'alto,    anche  ogn' altro  oggetto  s'identifica  con   quest'atto, 

(1)  Respectus  multiplicantes  ideas  non  stint  in  rebus  creatis  sed  in  Deo: 
non  iamen  sunt  reales  respectus,  sicut  illi  quibus  distingimntur  personae , 
sed  respectus  intellecti  a  Deo.  S.  I,  XV,  ii,  ad  4." 


572 

e  però  tulli  gli  oggelti  s' identificano  con  quest'alto.  L'identico 
atto  dunque  termina  e  si  ultima  ad  un  tempo  in  tutti  questi 
oggetti.  Ora  la  moltitudine  di  questi  oggelti  non  ha  alcun  su- 
bietlo  in  Dio,  che  il  loro  subietlo  --  dialettico  --  è  nelle  cose  stesse 
sussistenti  ,  ma  è  una  moltitudine  d'un  altro  puramente  cono- 
sciuta. La  moltitudine  d'un  altro  conosciuta,  non  è  moltitudine 
del  conoscente  o  dell'atto  conoscitivo ,  perchè  il  conoscente  o 
l'alto  conoscitivo  è  un  altro  subietto,  non  il  subietto  della  mol- 
titudine conosciuta.  I  molti  conosciuti  dunque,  che  si  dicono  og- 
•  getti  come  oggetti ,  non  hanno  moltitudine  in  sé  ,  essendo  un 
altro  il  subietto  della  moltitudine ,  ma  sono  sempre  uno ,  l'es- 
senza divina  conoscente  molli.  Altro  è  dunque  i  molli,  altro  la 
conoscenza  de'  molli  ;  questa  conoscenza  non  è  molti ,  e  benché 
ella  si  concepisca  come  molli  cogniti,  molli  oggetti  cogtiiti,  queste 
espressioni  non  indicano  veramente  molti  oggetti  nella  mente  , 
ma  indicano  molti  fuori  della  mente  cogniti  con  un  unico  og- 
getto della  mente,  che  dicesi  molti  oggetti  unicamente  perché  fa 
conoscere  i  molti  fuori  della  mente  (1). 

Non  v'hanno  dunque  neirintelletto  divino  molti  oggetti,  sì  un 
oggetto  solo  ;  ma  v'ha  un  alto  —  non  diverso  dallo  slesso  intel- 
letto, —  col  quale  crea  molte  cose  finite,  che  hanno  un'esistenza 
relativa  diversa  al  tutto  dalla  divina  che  é  assoluta,  e  che  sono 
il  subietto  -  dialettico  --  della  moltitudine,  e  con  questo  stesso  atto 
causa  la  propria  cognizione  di  esse  cose  molte,  la  quale  cogni- 
zione essendo  una  ,  considerala  in  relazione  alle  dette  molte 
cose,  si  dice  da  noi  molti  oggetti  ,  perchè  a  quelle  molte  cose 
essa  identica  si  riferisce. 

606.  (Ireando  dunque  Iddio  i  molli  reali,  la  moltitudine  resta 
propria  di  questi,  e  in  Dio  non  ce  n'è  che  il  conoscimento  o  atto 
conoscitivo  che  rimane  uno ,  atto  ,  oggetto ,  essenza  divina  in- 
tesa. Ma  questo  è  cosa  molto  difficile  a  ben  intendersi  dall'uomo, 
perchè  nell'uomo  va  la  cosa  altramente. 

Primieramente  in  Dio  l'obietto  come  puro  oggetto  -  non  come 


(1)  E  perciò  sapientemente  S.  Tommaso  scrive  :  Non  est  autem  cantra 
simplicitatem  divini  inlellectus,  quod  multa  intelligat:  sed  cantra  simplici- 
tatem  ejus  esset  si  per  plures  species  ejus  intellectus  formaretur.  Unde  plu- 
res  idecB  sunt  in  mente  divina  ut  intellectae  ab  ipso.  S.  I,  XV,  ii. 


573 

persona -- essendo  lo  stesso  subielto  intelligente  per  l'ultimazione 
del  suo  alto,  ritiene  senìpre  l'unità  subiettiva.  Nell'uomo  all'in- 
contro la  mente,  subietto,  è  diversa  dai  suo  naturale  obietto, 
e  però  questo  non  riceve  dalla  mente  umana  l'unità  subiettiva: 
quindi  l'obietto,  né  pure  come  puro  obietto,  non  s'identifica  mai 
col  subietto.  Di  poi  rispetto  a  Dio,  come  dicevamo,  non  ci  può 
essere  altra  moltiplicilà  cbe  quella  delle  cose  essenti  in  sé,  come 
il  Verbo  e  lo  Spirito  Santo,  e  gli  enti  finiti  relativi.  Ma  questi 
avendo  un'esistenza  relativa  non  hanno  la  moltiplicità  in  Dio, 
ma  in  sé  stessi,  e  però  non  rimane  in  Dio  altra  moltiplicità  che 
quella  delle  persone.  Poiché  in  quanto  le  cose  finite  e  relative 
sono  in  Dio,  in  tanto  altro  non  sono  che  l'unico  atto  inlellet- 
livo  ad  un  tempo  e  creativo  che  é  medesimamente  essenza  di- 
vina ed  oggetto  unico,  come  dicevamo.  Nell'uomo  all'incontro 
il  puro  oggetto ,  quello  con  cui  conosce  lutto  ,  è  uno  :  ma  le 
realità  finite  non  hanno  solo  una  moltiplicilà  in  quanto  sono  in 
sé  slesse,  ma  anche  come  contenute  nell'oggetto.  E  questo  ac- 
cade, perché  l'obietto  unico  naturale  della  mente  umana  ed  uno 
è  vóto  di  contenuto,  essendo  l'essere  virtuale,  non  contenente 
nulla,  se  non  sé  stesso.  Deve  dunque  l'uomo  acquistare  in  ap- 
presso, non  con  un  atto  solo,  ma  con  molti  alti  sucessivi ,  la 
cognizione  delle  cose  reali  finite  all'occasione  de' sentimenti  e 
delle  percezioni  sensitive,  le  quali  percezioni  sensitive  sono  per 
l'uomo  ciò  che  corrisponde,  come  analogo,  alla  creazione  de' finiti 
in  Dio.  Ma  la  percezione  sensitiva  procede  dagli  enti  finiti  in  sé 
essenti  che  agiscono  nel  sentimento  umano.  Ora  i  reali  finiti  in 
quanto  esistono  in  sé  sono  moìii,  e  perciò  rimangono  nell'uomo 
molli  percepiti.  Dalla  moltitudine  degli  enti  finiti  in  sé  essenti, 
viene  la  moltitudine  de'  percepiti.  La  cognizione  dunque  che 
l'uomo  ha  de'  reali  finiti,  procede  dai  reali  finiti  in  sé  essenti,  i 
quali  sono  molti,  e  con  molte  azioni  e  impressioni  producono 
molti  sensibili  percepiti  nel  sentimento  umano ,  i  quali  poi  si 
conoscono  nell'oggetto.  La  cognizione  all'opposto  che  ha  Dio 
de' reali  finiti  procede  dall'atto  intellettivo  creativo,  nulla  rice- 
vendo dai  molti  reali  finiti  in  sé  essenti  (1),  cui  egli  conoscendo 

(1)  Sed  niimquid  Deus  Pater,  de  quo  natum  est  Verbum  de  Deo  Deus  ; 
numquid  ergo  Deus  Pater  in  Illa  sapientia  quod  est  ipse  sili,  alia  didicit 


574 

crea  (1)  ,  —  non  enlm  ejus  sapientiae  aliquìd  accessit  ex  eis; 
.ved  illis  existentibus  sicul  oportehat ,  et  quando  oportcbal,  illa 
mansit  ut  erat  ("2),  —  e  l'atto  creativo  è  un  solo  ed  è  la 
stessa  essenza  divina  ,  e  questa  stessa  e  atto  insieme  ed  og- 
getto in  quant'è  ultimatissimo,  il  qual  alto  si  riferisce  ad  un 
tenopo  ai  creati  che  sono  molti  in  sé  stessi,  senza  che  la  mol- 
tiplicità  loro  passi  in  Dio  come  passa  nell'uomo.  Avendo 
dunque  l'uomo  molti  sensihili  percepiti  ,  tutti  questi  trovano  la 
loro  conoscibilità  nell'unico  oggetto  ,  l'essere  virtuale  ,  in  cui 
l'uomo  li  vede.  E  né  pure  da  questo  oggetto  ricevono  alcuna  unità 
in  sé,  poiché  tale  oggetto  essendo  voto  e  non  pieno  non  ha  in  sé 
stesso  quella  realità  infinita  nella  quale  si  potrebbero  vedere  i 
molti  reali  finiti  nell'unità  della  loro  origine.  Quindi  i  sensibili 
percepiti  trasportati  dalla  mente  nell'unico  oggetto,  l'essere  ideale, 
vengono  bensì  conosciuti  in  esso  come  enti  reali,  ma  la  loro  rea- 
lità rimane  oscura  ,  perché  non  si  vede  com'essa  si  trovi  nella 
realità  infinita  conoscibile  per  sé  stessa,  qual  parie  dialettica  sia  di 
quella  realità  infinita.  1  reali  finiti  dunque  non  essendo  veduti 
come  reali  nel  reale  conoscibile  per  sé  stesso,  ma  solo  come  enti, 
la  loro  realità  non  è  spiegata  né  resa  intelligibile  dalla  realità  infi- 
nita, perchè  solo  contenuta  nell'idealità  come  un'essenza  sensibile, 
non  intelligibile,  —  giacché  anche  di  quello  che  non  é  intelligi- 
bile, e  di  cui  s'abbia  il  sentimento,  s'intende  l'esistenza  nell'es- 
sere ideale.  —  La  sola  realità  del  proprio  principio  intellellivo  é  in 
qualche  grado  intelligibile  per  la  ragione  che  a  suo  lungo  diremo. 
Rimangono  dunque  molte  essenze  reali  distinte  rispetto  alla  mente 
umana  non  solo  in  sé  stesse,  ma  anche  nella  stessa  mente  come 
contenute  nell'obietto  ideale.  Il  conoscimento  dunque  di  molli 
reali  finiti  in  sé  esistenti  é  un  concetto,  che  non  importa  neces- 
sariamente una  pluralità  nell'oggetto  intelligibile,  con  cui  i  molti 
reali  finiti  in  sé  essenti  si  conoscono.  Non  importa  questa  pluralità, 

per  sensuni  corporis  sui,  alia  per  seipsum  ?  —  Numquid  Deus  Pater  ea  ipsa, 
quae  non  per  corpus,  quod  est  ci  nullum,  sed  per  se  ipsum  scit,  aliunde  ab 
aliquo  didicit,  aut  nuntiis  vel  testibus  ut  ea  sciret,  indiguit?  S,  Aug.  De 
Tr.  XV,  13. 

(1)  Universas  autem  creaturas  suas,  et  spirituales  et  corporales,  non  quia 
sunt  ideo  novit;  sed  ideo  sunt  quia  novit.  S.  Aug.  De  Tr.  XV,  13. 

(2)  Ivi. 


57S 

quando  l'atto  del  conoscere  precede  i  molti  reali  finiti,  come  av- 
viene dell'atto  del  conoscere  divino  il  quale  li  precede  perchè  li 
crea;  ma  importa  pluralità  nell'oggetto  intelligibile  quando  l'alto 
del  conoscere  i  detti  reali  è  posteriore  ai  molti  reali  finiti,  e  i 
molti  reali  finiti  sono  quelli  che  producono  per  la  loro  azione 
molti  percepiti  sensibili,  e  questi  molti  percepiti  restano  tali,  cioè 
molli  nell'oggetto  intelligibile,  come  altrettanti  segni  de'molti  esi- 
stenti in  sé,  perchè  quest'oggetto  li  riceve  senza  dar  loro  niente 
di  reale,  senza  unificare  e  riportare  questi  segni  alla  loro  origine 
che  è  la  realità  infinita  come  atto  creativo:  di  che  avviene  che  si 
possano  e  devano  conoscere  con  più  atti  intellettivi  diversi  e  su- 
cessivi,  e  appariscano  come  molti  oggetti  intellettivi. 

607.  E  per  vero  sebbene  l'oggetto  intelligibile  ,  col  quale  si 
conoscono  dall'uomo  i  molli  reali  finiti,  sia  uno;  tuttavia  gli  og- 
getti conosciuti  sono  molli.  Poiché  oggetti  conosciuti  si  dicono  le 
essenze,  nelle  quali  riposa  l'intuizione:  l'oggetto  poi,  col  quale  e 
pel  quale  si  conoscono,  è  bensì  conosciuto  col  primo  atto  d'in- 
tuizione ,  col  quale  l'intelletto  umano  esiste,  ma  gli  altri  atti 
d' intuizione  che  succedono  in  occasione  delle  percezioni  sensi- 
bili, e  costituiscono  le  idee  delle  cose  reali,  finiscono  nelle  es- 
senze sensibili  vedute  nell'oggetto  primo  ,  nel  quale  questi  atti 
posteriori  non  più  riposano,  procedendo  avanti  l'atlenzione  verso 
i  reali  (possibili). 

Essendo  dunque  molli  gli  alti  dell'intuizione  umana  e  molti 
gli  oggetti,  ossieno  i  concelti  in  cui  ella  termina,  l'uomo  non 
può  sollevarsi,  se  non  mediante  una  difficilissima  speculazione  a 
considerare,  come  T  intellezione  divina  sia  una,  e  non  abbia  bi- 
sogno di  più  oggetti  ossia  concelli  distinti  per  conoscere  i  molti 
reali  sussistenti,  ma  li  conosca  distintamente  e  nelle  proprie  ra- 
gioni, con  un  solo  e  medesimo  alto  creativo,  il  quale  è  il  solo 
e  medesimo  oggetto  conoscibile  con  cui  conosce  i  molti. 

Riprendendo  ora  dunque  le  due  questioni  proposte,  avevamo 
domandato  in  prima  se  la  moltitudine  delle  essenze  «ontenute 
nell'obietto  produce  molti  oggetti;  e  si  risponde,  che  quando 
nell'oggetto  come  oggetto  —  il  che  importa  oggetto  interno  nella 
mente  — ci  avesse  una  vera  moltitudine  di  essenze  distinte,  queste 
rappresenterebbero  alla  mente  molli  oggetti  di  seconda  intui- 
zione, rimanendo  unico  l'oggetto  di  prima  intuizione  che  è  quello 


570 

che  contiene  tulle  le  essenze  reali;  e  questo  è  quello  che  av- 
viene nell'uomo,  onde  la  moltiplicilà  delle  idee  o  de' concelti. 
Ma  che  non  s'avvera  che  neiroggetlo  divino  si  contengano  molle 
essenze  ,  ma  un'essenza  sola  ,  la  divina  ,  e  questa  è  l'oggetto 
slesso,  e  tutta  la  moltiplicilà  rimane  negli  enti  relativi,  e,  come 
relativi  in  sé  esistenti,  fuori  di  Dio,  de'quah  molli  relativi,  come 
relativi,  in  Dio  non  c'è  che  la  cognizione  avente  un  oggetto  solo 
il  quale  è  lo  stesso  atto  creante  i  molti,  atto  di  cognizione  crea- 
tiva unico,  di  cui  sono  effetto  i  molti  che  restano  al  di  fuori, 
perchè  l'esistenza  relativa  è  altra  e  fuori  dell'assoluta.     . 

608.  Alla  seconda  questione  poi  «  se  la  moltiplicilà  d'alcuna  di 
quelle  essenze  che  sono  contenute  nell'oggetto  come  puro  og- 
getto interno  della  mente,  renda  moltiphce  l'oggetto  stesso  »,  si 
risponde  negativamente.  Poiché,  come  ahhiamo  detto,  la  molli- 
plicilà  non  si  può  predicare  d'altro  che  d'un  subietlo.  Ora  l'og- 
gelto  come  oggetto  non  è  suhietto;  non  gli  può  dunque  conve- 
nire la  moltiplicità.  Né  gli  può  convenire  tampoco,  se  si  prende 
l'oggetto  come  un  suhietto  dialettico  ,  poiché  la  natura  dell'o- 
bietto,  come  tale,  essendo  quella  d'essere  contenente,  il  conte- 
nente é  essenzialmente  uno  ,  e  se  non  fosse  uno  non  potrebbe 
contenere  i  molti  contenuti.  Onde  all'oggetto,  cioè  al  contenente, 
preso  come  subietto  dialettico  conviene  senìpre  la  semplicità,  ma 
in  nessun  modo  la  moUiplicilà.  Ogni  oggetto  dunque  è  essen- 
zialmente semplice,  qualunque  sia  il  suo  contenuto,  e  la  moUi- 
plicilà non  può  che  essere  predicato  di  qualche  essenza  reale  e 
subiettiva  in  esso  contenuta. 

Questo  vale  per  l'oggetto,  in  quanto  si  considera  come  puro 
oggetto;  ma  se  si  considera  l'oggetto  umano  nelle  sue  relazioni 
col  contenuto,  poiché  abbiam  veduto  che  egli  si  moltiplica  per 
mezzo  di  quesle  e  diviene  più  oggetti ,  e  ciò  prendendolo  come 
subietlo  dialettico,  riceve  anche  la  qualità  di  molliplice. 

Si  dislingua  dunque  nell'uomo  due  maniere  d'oggetti  ,  l'og- 
getto di  prima  e  l'oggetto  di  seconda  intuizione.  L'oggetto  di 
prima  intuizione  è  quello  che  informa  rintelletto  umano  e  in  cui 
si  porta  il  primo  allo  intuitivo,  col  qual  oggetto  si  conoscono  poi 
tulli  i  percepiti  sensibili  ,  e  le  astrazioni  e  relazioni  di  questi. 
D'un  tale  oggetto  si  dee  negare  ogni  moltiplicità.  L'altro  oggetto 
è  la  stessa  essenza  reale,  che,  in  quant'ò  contenuta  neiroggetlo, 


b77 

e  però  è  solo  possibile,  s'intuisce  colle  successive  intuizioni:  esso 
è  l'essenza  reale  conosciuta  e  resa  conoscibile  dall'oggetto.  Que- 
st'oggetto ,  ossia  questo  cognito  può  essere  molliplice  ,  perchè 
l'essenza  reale  intuita  in  esso  può  esser  moltiplice.  In  fatti  ab- 
biamo detto  che  di  questi  generi  d'oggetti  ce  ne  sono  moltij  come 
molti  sono  i  sensibili  cogniti,  e  tutti  quegli  astratti  che  da  essi 
si  deducono.  Questi  molti  possono  aver  un  ordine  tra  loro  ,  e 
quindi  divenire  un  oggetto  solo  organato,  il  quale  è,  in  questo 
senso,  moltiplice.  Tali  sono  quelle  idee,  le  cui  parli  rimangono 
distinte  in  esse  come  altrettante  idee.  Così  l'idea  dell'universo 
può  contenere  tutti  gli  enti  dell'universo  legati  tra  loro  in  un 
solo  tutto  ;  e  tale  oggetto  o  idea  per  questo  appunto  sarebbe 
moltiplice  d'una  moltiplicità  partecipata  dall'essenza  reale  molti- 
plice che  contiene  e  rende  cognita. 


Articolo  VII. 
Della  semplicità  e  della  composizione  dialettica. 

609.  Il  dialettico^  come  l'abbiam  definito  ,  è  ciò  che  finge  o 
suppone  la  mente  nelle  sue  operazioni,  e  che  non  è  tale  in  sé 
stesso,  cioè  prescindendo  dall'operazione  della  mente. 

Il  dialettico  si  dislingue  dal  dianoetico  in  questo,  che  il  dia- 
noetico è  ciò  che  produce  la  mente  nelle  cose  in  sé  essenti,  per 
modo  che  la  mente  concorre  colle  sue  operazioni  a  fare  che  la 
cosa  sia  tale  in  sé  stessa,  com'è:  onde  il  dianoetico  non  é  il  pro- 
dotto non  essente  d'una  finzione,  ma  il  prodotto  vero  d'una  cau- 
sazione, laddove  il  diaìeltico  è  il  prodotto  d'una  mera  finzione  o 
supposizione  mentale. 

Questa  cosa  finta  o  supposta  dalla  mente,  per  bisogno  di  pro- 
cedere ad  altre  sue  operazioni,  è  moltiplice,  e  suol  essere  per 
lo  pili  solo  un  elemento  dell'operazione.  E  veramente  un  elemento 
dialettico  sì  mescola  in  tutto  il  pensare  umano,  eccetto  che  nel 
pensare  assoluto  ,  il  quale  è  appunto  quello  che  fu  purgato  da 
ogni  elemento  dialettico  {Logic.  36-42). 

Ma  perchè  appunto  qualche  elemento  dialettico  si  mescola  da 
per  tutto,  per  questo  riuscirebbe  lungo,  e  difficile,  il  raccoglierne 
Rosmini.  Teosofia.  37 


578 

tutte  le  sue  apparizioni  e  diverse  forme;  e  lasciando  ad  altri  questa 
ricerca,  a  noi  basti  di  parlarne  quel  tanto  che  è  richiesto  dal  bisogno 
del  nostro  discorso,  e  anziché  farne  un  trattalo  tutt'unito  —  il 
che  sarebbe  pure  utilissimo  —  parlarne  qua  e  colà  all'occasione. 

Abbiamo  distinto  di  sopra  ciò  che  è  dialettico  da  ciò  che  è 
oggettivo,  e  detto  che  il  semplice  e  il  composto  dialettico  è  quello 
che  si  predica  d'un  reale,  il  quale  non  è  subietto  compiuto  e 
alto  ad  avere  un'esistenza  propria,  e  che  lullavia  è  preso  e  sup- 
posto dalla  mente  come  fosse  un  vero  e  compiuto  subiello.  Que- 
sto non  è  a  dir  vero  che  una  sola  classe  di  subietli  dialettici 
{Logic.  422,  423),  giacché  anche  l'oggetto,  il  nulla,  e  ogni  re- 
lazione si  può  rivestire  della  forma  dialettica  di  subietto. 

Ma  noi  dobbiamo  considerare  che  nella  predicazione  del  sem- 
plice e  del  composto  può  esser  dialettico  il  subiello,  ma  può  an- 
che in  quella  vece  esser  dialettico,  cioè  fìnto  dalla  mente ,  il 
predicato  di  composto  ;  ovvero  esser  dialettico  tanto  il  subiello 
quanto  il  predicato. 

Se  io  dico  ,  a  ragion  d'esempio  ,  che  la  facoltà  di  volere  è 
moltiplice  perchè  ha  la  funzione  del  volere  semplicemente  e 
quella  dello  scegliere  ,  io  ho  finto  dialetticamente  il  subiello  , 
perchè  la  facoltà  di  volere  è  bensì  un  reale,  ma  non  tale  che 
costituisca  un  subietto  perfetto  in  sé  esistente.  Ma  il  predicato 
di  moltiplice  è  reale  e  non  dialettico. 

Se  all'incontro  io  distinguo  molte  proprietà  o  attributi  in  Dio 
e  così  gli  do  una  moUiplicità,  questa  moltiplicità  non  è  che  un 
predicalo  dialettico  cioè  finto  dalla  mente ,  laddove  il  subietto 
è  reale.  In  falli  non  c'è  punto  in  Dio  quella  moltiplicità. 

Se  io  dico  ,  che  la  nazione  ordinata  a  stato  è  una  e  sem- 
plice, io  ho  dialetticamente  finto  tanto  il  subietto  quanto  il  pre- 
dicato, perchè  la  nazione  non  è  un  subietto  sussistente  se  non 
per  la  mente,  che  come  tale  il  considera,  e  realmente  questo  su- 
bietto dialettico  è  moltiplice  perchè  composto  di  molli  subietli 
reali ,  onde  anche  il  predicato  di  semplice  è  solo  dialettico. 

La  nazione  è  una  e  semplice  come  oggetto  della  mente  : 
laonde  il  subietto  che  fingo  in  questo  caso  è  di  quella  specie, 
di  cui  abbiamo  innanzi  parlalo,  la  cui  natura  sta  in  questo,  nel 
prendere  l'oggetto  nella  sua  unità  oggettiva  e  fingere  che  que- 
st'uno sia  subiello. 


579 

Articolo  Vili. 
D3I  Composto  dianoetico. 

610,  Ma  da  queste  tre  classi  di  semplice  e  di  composto  dialet- 
tico, in  cui  1."  0  il  stibietto,  2.°  0  il  predicato  di  semplice  e  di 
composto,  3.°  0  l'un  e  l'altro  è  un'entità  dialettica,  è  da  distin- 
guersi il  composto  dianoetico,  che  è  il  composto  oggettivo  rea- 
lizzato, nel  quale  composto  dianoetico  c'è  una  composizione  non 
finta  dalla  mente  ,  ma  dalla  mente  prodotta  nelle  cose  reali. 
Così  un  ente  reale  che  in  sé  esiste,  e  che  può  essere  un  vero 
e  perfetto  subietto,  vedesi  composto  di  un  elemento  generico,  e 
d'uno  specifico ,  e  questo  sostanziale  0  accidentale  ;  di  un  ele- 
mento indeterminato  che  resta  uguale  (materia),  e  di  una  de- 
terminazione che  si  muta  (forma);  di  un  elemento  potenziale 
(potenza),  e  di  un  elemento  attuale  (atto). 

Ciascuno  di  questi  elementi  è  un  reale  distinto  dall'altro,  ma 
la  loro  distinzione  proviene  unicamente  dalla  relazione  di  pro- 
cedenza che  l'ente  reale  finito  ha  coH'ente  obiettivo.  In  fatti  nel- 
l'ente reale  in  sé  esistente  questi  elementi  sono  così  uniti  che 
formano  un  ente  solo,  e  non  si  possono  separare  in  modo  che 
sussistano  in  sé  separati.  Onde  dunque  la  loro  distinzione  che 
li  rende  molti  e  quindi  l'ente  molteplice?  Unicamente  da  questo 
che  essi  sono  nell'oggetto,  dove  l'una  cosa  si  può  separare  dal- 
l'altra pensandola  a  parte,  come  un  oggetto  diverso,  cioè  un'es- 
senza di  natura  diversa.  La  separazione  dunque  che  hanno  nel- 
l'oggetto ossia  nel  loro  tipo  —  potendosi  l'essenza  ch'egli  contiene 
scomporre  in  più  essenze  al  lutto  diverse  — si  dice  ne' reali, 
come  realizzazioni  di  tali  tipi,  distinzione  reale. 

Ora  dicevamo  che  la  distinzione  reale  non  è  finta  dalla  mente 
pel  semplice  bisogno  di  ragionare  ,  ossia  dialettica ,  ma  che  è 
vera,  e  dianoetica,  il  che  apparisce  dalla  chiara  nozione  di  ciò 
che  noi  chiamiamo  l'elemento  dianoetico  de' reali.  Abbiamo  ve- 
duto che  questo  consiste  nella  condizione  necessaria,  che  hanno 
gli  enti  reali  per  esistere,  d'avere  una  intima  unione  col  loro 
concetto  tipico.  Questa  necessità  consiste  in  questo  ,  che  tutti 
gli  enti  reali  di  cui  parliamo  sono  enti  reali  conosciuti;  perocché 


S80 

se  non  fossero  conosciuti  non  sarebbero.  In  fatti,  rimossa  da 
loro  ogni  conoscibililà,  che  cosa  rimarrebbero  essi?  Un  assurdo, 
un  che  non  pensabile.  .Ma  il  non  pensabile  è  il  non  possibile 
(Ideol.  395,  424,  1070);  e  il  non  possibile  è  ciò  che  non  può 
esistere.  È  dunque  necessario  alFente  finito  d'esser  pensabile, 
acciocché  sussista.  Ma  se  gli  è  essenziale  V esser  pensabile,  dun- 
que gli  è  necessario  anche  Vesser  pensato.  Poiché  se  non  fosse 
pensato  da  qualche  mente,  egli  non  sarebbe  né  pure  pensabile 
E  in  fatti  ad  esser  pensabile  basta  che  ci  sia  una  qualche  mente 
in  potenza.  Ma  tutte  le  menti  non  possono  essere  in  potenza. 
Poiché  se  tutte  le  menti  fossero  in  potenza  e  nessuna  in  alto, 
esse  non  potrebbero  mai  passare  dalla  potenza  all'atto,  e  quindi 
non  potrebbero  mai  pensare  l'ente  finito.  Se  nessuna  mente 
potesse  pensarlo,  egli  non  sarebbe  dunque  pensabile.  È  dun- 
que necessario  ammettere  anteriormente  alle  menti  in  potenza 
una  mente  attualissima.  Ma  se  c'è  una  mente  attualissima, 
questa  penserebbe  l'ente  finito.  L'ente  finito  dunque  non  esiste , 
se  non  è  da  qualche  mente  pensato.  La  condizione  dunque  d'es- 
ser pensalo,  necessaria  alla  sussistenza  dell'ente  finito  in  sé,  é 
l'elemento  suo  dianoetico,  non  finto  dalla  mente,  ma  inchiuso 
nella  sua  esistenza.  Non  solo  dunque  l'uomo  parla  sempre  e 
ragiona  degli  enti  reali  in  quanto  sono  da  lui  pensati,  ma  al- 
l'ente stesso  reale  è  essenziale  l'esser  pensato:  quest' é  un  suo 
primo  costitutivo  ,  quello  che  abbiam  detto  essergli  dato  dal- 
l'essere oggettivo,  l'oggellivilà  (/+99-501  ;  521,  522*). 

Gli.  Posto  dunque  che  l'ente  reale  non  è  tale  se  non  pensato, 
cioè  essente  nell'oggetto,  di  lui  si  predica  quello  che  si  vede  nel- 
l'oggetto che  lo  rende  inteso.  Ma  nell'oggetto  c'è  la  separazione 
di  più  essenze:  dunque  si  dice  che  nell'ente  reale  c'è  una  di- 
slinzione  reale  di  tali  essenze,  benché  nella  realità  stessa  queste 
essenze  sieno  una  cosa  sola,  costituendo  un  solo  ente. 

La  composiziono  dianoetica  dunque  è  quella  che  si  trova 
nell'enee  reale  a  cagion  ch'egli  è  essenzialmente  nell'oggetto. 
Essendo  adunque  il  medesimo  e  identico  ente  nell'oggetto  --  per- 
chè dicesi  pensalo  per  questo  che  è  nell'oggetto,  —  e  fuori  del- 
l'oggetto, e  vedendosi  composto  in  quant'è  nell'oggetto,  e  non 
composto  di  questa  composizione  in  quant'è  fuori  dell'oggetto; 
dicesi  che  in  quant'è  fuori  dell'oggetto  non  ha  questa  specie  di 

\ 


581 

moltiplicilà  ma  che  è  uno,  e  dicesi  pure  che  egli  stesso,  per  la 
sua  identità,  ha  una  molliplicità  dianoetica ,  perchè  non  si  può 
separare  dal  suo  oggetto,  dalia  congiunzione  col  quale  la  riceve; 
e  però  questi  elementi  nell'oggetto  separati,  e  nella  sua  realiz- 
zazione unificati,  si  dicono  in  questa  non  separati,  ma  realmenle 
distinti. 

Solamente  è  qui  da  aggiungersi  una  considerazione  impor- 
tante. Quello  che  abbiamo  dello,  che  gli  elementi  dianoetici  non 
si  trovano  divisi  nell'ente  reale,  unicamente  come  reale,  va  in- 
teso degli  elementi  degli  enti  non  personali,  che  sono  subielli 
incompleti.  Negli  enti  personali  poi  è  da  considerare,  che  v'ha 
un  elemento  che  veramente  e  realmente  si  separa  dal  resto,  si 
separa,  dico,  in  sé  slesso,  e  a  sé  stesso  ,  e  questo  é  lo  slesso 
principio  personale  subietto  completo.  Ma  il  resto  che  é  con- 
giunto al  principio  personale  non  si  separa  ,  ma  fa  una  cosa 
con  esso. 

Vi  ha  dunque  una  separazione  reale  d'un  elemento  dall'altro, 
ma  non  reciproca  dell'altro  dal  primo.  Questa  separazione  rela- 
tiva è  reale  insieme  e  dianoetica:  poiché  l'essere  il  principio 
personale  a  se  stesso,  separato  e  diviso  dal  resto,  è  quello  che 
lo  coslituisce,  e  perciò  è  reale;  ma  è  anche  dianoetica  ,  perchè 
lo  stesso  principio  personale  é  costituito  dalla  mente  e  dalla  co- 
scienza propria;  e  queste  dall'intuizione  dell'oggetto. 


Articolo  IX. 

Del  semplice  e   del  composto   ne'   ideali. 

612.  Ora  venendo  noi  a  parlare  del  semplice  e  del  composto 
ne' reali,  non  c'è  possibile,  o  almeno  non  troviamo  utile,  di  se- 
parare interamente  questo  discorso  dagli  altri  generi  di  composto 
e  di  semplice,  di  cui  sin  qui  abbiamo  parlalo,  che  furono  l'og- 
gettivo, il  dialettico,  e  il  dianoetico  ;  perchè  questi  s' intromettono 
di  novo  in  tutti  i  discorsi  che  noi  facciamo  degli  enti  reali  ;  e 
il  separameli  sistematicamente  renderebbe  sommamente  astratto 
e  difficile  il  discorso.  Ci  basterà  dunque  d'indicarli ,  quando  in- 
tervengono ;  e  questo  stesso  gioverà  ad  illustrarli  maggiormente. 


582 

Gli  enti  reali  non  sono  sempre  subieUi  completi:  non  sono 
tali  gli  estrasoggeltivi  ,  né  gli  enti-termine;  e  però  s'intenda  una 
volta  per  sempre  che  ogni  qual  volta  noi  parliamo  degli  enti 
che  non  sono  persone ,  come  fossero  de'  veri  e  completi  subietti , 
c'entra  sempre  nel  discorso  un  elemento  dialettico  :  colla  quale 
avvertenza  s'eviterà  ogni  equivocazione. 

Lasciando  dunque  questo^  e  parlando  di  tutti  gli  enti  reali , 
conviene  distribuirli  in  due  classi. 

613.  Alcuni  sono  costituiti  enti  dal  nesso  che  congiunge  diverse 
entità  —  sieno  essenze  dianoetiche  o  tali  che  anche  separate  pos- 
sano sussistere,  —  e  allora  in  questo  nesso  giace  la  natura  del- 
l'ente,  come  pure  la  natura  dell'uno.  Le  slesse  entità,  che  ven- 
gono congiunte  insieme  da  quel  nesso  o  principio,  per  sé  non 
costituiscono  l'ente,  ma  sono  condizione  dell'ente;  che  non  ci 
potrebbe  essere  il  nesso  se  non  ci  fossero  le  entità  da  connettersi. 
11  nesso  dunque,  e  però  l' ente,  ha  una  relazione  essenziale  con 
esse. 

Dalla  considerazione  di  questa  classe  di  enti  trasse  l'origine 
quella  distinzione  antichissima  della  forma  e  della  materia.  Il 
nesso  reale ,  la  virtù  uniente ,  o  il  principio  è  la  forma  dcl- 
enle,  quella  che  costituisce  formalmente  l'ente,  e  a  cui  si  rife- 
risce il  nome  che  gli  s'impone  {Psicol.  735-822).  All'incontro  le 
entità  connesse  insieme  da  quella  virtù  uniente  non  costituiscono 
per  sé  stesse  quell'ente,  ma  ne  sono  parte  integrante  e  condi- 
zione necessaria ,  e  si  possono  considerare,  da  sé  prese,  come 
un  rudimento  e  una  predisposizione  alla  costituzione  di  quell'ente, 
e  una  specie  di  potenzialità  di  quell'ente,  in  quanto  che  esse 
sono  alte  a  ricevere  quella  connessione  nella  quale  sta  l'atto 
dell'ente. 

Questa  virtù  reale  e  unitiva,  che  costituisce  il  subietto  —  com- 
pleto 0  incompleto  —  e  l'ente  stesso  subiettivamente,  é  di  tal  na- 
tura che  non  può  esistere  se  non  in  quelle  entità  che  congiunge, 
e  però  ha  un'esistenza  dipendente  da  altro,  cioè  da  quelle  en- 
tità che  non  sono  lui ,  e  che  però  si  chiamano  anche  la  sua 
materia   (1). 


(1)  La  parola  greca  ^U  cioè  selva,  che  si  prende  a  significar  materia,  lia 
seco  il  concetto  d'una  moltitudine  non  ridotta  ad  unità.  E  lo  stesso  viene  a 


b83 

Ora  a  questa  classe  di  enti  reali  compete  Vunità,  comune  ad 
ogni  altro  ente,  ma  non  così  la  per  fé  ita  semplicità,  atteso  che 
quella  virtù  unitiva  dipendendo  da  altro,  non  può  stare  da  sé 
sola  ,  e  però  quell'ente  non  può  stare  da  sé  solo ,  ma  è  obli- 
gato  di  slare  colle  entità  che  congiunge  e  unifica.  Benché  dun- 
que l'ente  sia  sempre  uno,  tuttavia  quell'ente  non  dicesi  del  tutto 
semplice,  ma  sotto  questo  riguardo  composto. 

E  qui  pure  si  vede  non  esserci  vera  contraddizione  nell'altri- 
buire  all'ente  da  una  parte  Vunità  e  dall'altra  la  moltiplicità 
della  composizione;  perocché  l'unità,  si  attribuisce  alla  virtù  unienle 
che  è  Vatto  dell'ente,  e  la  moltiplicità  si  attribuisce  alle  entità 
che  si  uniscono,  nelle  quali  non  islà  l'atto  dell'ente,  ma  sono 
condizioni  inseparabili.  Non  si  afferma  dunque  e  si  nega  simul- 
taneamente la  stessa  cosa  dello  stesso  subielto  sotto  lo  stesso 
aspetto.  Veniamo  alla  seconda  classe  di  enti. 

614,  Questa  é  la  classe  di  quegli  enti  ne'quali  l'alto  dell'ente  — 
il  subietlo  —  non  giace  nell'unione  di  più  entità,  ma  finisce  in  sé 
medesimo;  e  però  s'esclude  da  tali  enti  ogni  moltiplicità  di  com- 
posizione. A  questi  enti  non  appartiene  solamente  il  predicato 
comune  deWunità  j    ma  ancor  quello  della  semplicità. 

E  qui  da  osservare,  acciocché  non  nascano  equivoci,  che  i 
vocaboli  materia  e  forma  furono  presi ,  come  tulli  gli  altri  del- 
l'Ontologia antica,  dall'osservazione  de'corpi.  Poiché  i  nomi  so- 
stantivi spesse  volte  si  applicano  a'  corpi  in  quanto  hanno  una 
data  forma ,  come  una  statua  ,  un  vaso ,  un  tridente ,  un  anello 
e  simili.  Questi  nomi  esprimono  il  pensiero  che  considera  come 
ente  la  forma,  e  la  materia  che  soggiace  a  questa  forma  come 
una  condizione  essenziale ,  ma  non  come  l'ente  nominato:  l'atto 
pel  quale  questo  ente  é  --  il  subietto  -  giace  nella  forma,  che  è 
il  nesso  che  unisce  in  quella  data  unità  le  entità  molteplici.  Que- 
sto nesso ,  cioè  questa  forma ,  che  si  esprime  con  un  nome  so- 
stantivo, ha  un  atto  suo,  che  la  mente  considera  come  l'atto 
costitutivo  di  quell'ente  speciale;  ma  poiché  quest'atto  non  è  che 
un  alto  unitivo  d'altre  entità  —  benché  sia  un  atto  reale,  —  perciò 


significare  la  parola  t«  aTotxsta  usata  pure  a  significare  la  materia,  e  non  solo 
la  materia  corporea,  ma  anche  la  spirituale  e  ideale,  come  si  può  vedere  in 
Aristotele,  Metaph.  1,  6.  Cf.  Trendelenburg  In  Arist.  De  An.  I,  2,  7. 


584 

egli  suppone  davanti  a  sé  essenzialmente  degli  altri  atti  entitativi, 
come  nel  caso  nostro  l'alio  pel  quale  sussistono  gli  elementi  cor- 
porei ,  che  compongono  la  statua ,  o  alcun'altra  delle  cose  no- 
minate. 

E  allorquando  l'atto  entitalivo  del  nesso  è  sorretto  da  questi 
alti  precedenti,  entitativi  anch'essi,  allora  l'atto  del  nesso  —  nel 
caso  nostro  la  forma  —  viene  chiamato  più  propriamente  forma 
sostanziale,  che  non  sia  sostaìiza. 

Ma  su  questa  origine  della  parola  forma  e  materia  conviene 
che  noi  facciamo  qualche  altra  osservazione. 

61 S.  1."  In  virtù  del  parlar  formale  e  dialettico,  la  mente  consi- 
dera come  ente  tutto  ciò  che  vuole,  anche  quello  che  non  è  ente 
in  sé,  che  non  è  un  subielto  reale.  Laonde  non  c'è  cosa  alcuna 
per  accidentale  che  sia  o  imaginaria  e  fin  anche  assurda,  che  non 
possa  prendersi  come  il  subietto  di  una  proposizione ,  per  esem- 
pio :  «  il  rosso  è  un  colore,  il  nulla  è  l'esclusione  dell'ente,  il 
contradiltorio  non  può  pensarsi,  ecc.  «  ;  delle  quali  proposizioni 
il  rosso,  il  nulla,  il  contradiltorio  sono  subietli.  Ora  il  subielto 
è  sempre  considerato  come  assolutamente  ente.  Ma  conviene  os- 
servare, se  l'ente,  che  forma  il  subielto  del  discorso,  sia  puramente 
dialettico  ,  ovvero  se  sia  ente  in  sé ,  con  indipendenza  dal  modo 
di  concepirlo. 

Degli  enti  dialettici  poi  ce  ne  sono  di  molle  sorli;  onde  con- 
vien  vedere  di  qual  sorte  sia  quello  di  cui  si  parla.  Così  gli  stessi 
nomi  sostantivi,  che  s'impongono  ai  corpi  per  una  forma  data  loro, 
esprimono  enti,  che,  non  a  torlo,  si  possono  dire  dialettici,  non 
perchè  la  cosa  che  si  esprime  sia  puramente  relativa  alla  mente, 
che  la  forma  è  una  vera  determinazione  della  materia  ,  ma  per- 
chè è  la  mente  quella  che  considera  quella  forma,  in  cui  termina 
quella  materia,  come  l'atto  subiettivo  dell'ente  che  nomina,  e  ciò 
per  certi  bisogni  che  ha  l'uomo  di  così  fare. 

Ora  molle  cose  sono  vere  dell'ente  dialettico ,  che  non  sono 
vere  dell'ente  quale  é,  prescindendo  dal  modo  del  concepire 
umano,  e  di  questo  sono  vere  le  contrarie.  Il  che  apre  un 
altro  fonte  di  antinomie,  le  quali  si  conciliano  colla  distin- 
zione tra  l'ente  assunto  come  tale  dialetticamente,  e  l'ente  qual  è, 
prescindendo  da  questo  modo  dialettico  di  concepirlo.  E  veramente 
se  si  proponesse  la  questione  :  «  se  la  statua  sia  un   ente ,  »  si 


b8S 

potrebbe  sostenere  il  prò  e  il  centra  senza  mai  intendersi,  poiché 
si  potrà  provare  che  è  un  ente  mostrando  che  si  nomina  con  un 
nome  sostantivo,  e  che  è  diverso,  non  per  qualche  accidente  ma 
del  tutto,  da  ogni  altro  ente;  ma  chi  vorrà  negarlo,  dirà  che  la 
sola  materia  è  l'ente  ,  perchè  è  l'atto  primo  che  fa  sussistere  la 
statua,  e  che  l'una  piuttosto  che  l'altra  forma  è  alla  materia  ac- 
cidentale. Di  questo  genere  erano  le  argomentazioni  de'  sofisti  ,  i 
quali  promettevano  di  difendere  il  prò  e  il  centra  di  ogni  cosa. 
Ma  il  sofisma  è  sciolto  in  questo  modo  :  «  Se  si  prende  tanto  la 
statua,  cioè  la  forma  ,  quanto  la  materia  come  un  subietto  dia- 
lettico ,  le  due  proposizioni  conlradittorie  sono  vere ,  perchè 
non  fanno  che  permutare  il  subietto,  dicendo  l'una  :  «  la  statua  è 
un  ente  »,  e  l'altra  «  la  materia  che  compone  la  statua  è  un 
ente  «  :  qui  non  c'è  contradizione.  Ma  se  poi  si  domanda  se  que- 
sti sono  ducenti,  conviene  rispondere  di  no  ;  poiché  la  statua 
cioè  la  forma  è  un  ente  che  suppone  come  sua  condizione  per  esser 
tale  una  materia  ;  e  la  materia  è  un  ente  che  suppone  una  forma 
cioè  de'  limiti  che  la  determinino  come  sua  condizione  per  esser 
tale.  Sono  dunque  due  modi  dialettici  di  concepire  il  medesimo 
ente,  nel  primo  de'  quali  entra  necessariamente  una  materia 
qualunque ,  ma  che  la  materia  sia  questa  o  quella,  piuttosto  legno 
che  pietra  0  metallo,  è  accidentale  ;  nel  secondo  entra  necessa- 
riamente una  forma  qualunque ,  ma  che  la  forma  sia  piuttosto 
quella  che  questa,  di  statua  piuttosto  che  di  cubo  o  d'altra  fi- 
gura ,  è  accidentale.  Ma  qual  è  dunque  il  vero  ente  ,  ossia  il  vero 
subielto  reale  nella  statua  inanimata  ?  Abbiamo  già  veduto ,  che 
gli  enti-termine  sono  tutti  subietti  per  supposizione  {Logic.  h'5U). 
Ora  ciò  che  la  mente  suppone  come  subietto  reale  è  la  materia 
definita  dalla  forma:  appartenendola  materia  aWa  realità  che 
costituisce   sempre  V  ente  finito. 

616.  2.°  Il  modo  dunque  dialettico,  col  quale  la  mente  conce- 
pisce, cangia  una  limitazione,  un'accidente  qualunque,  come  è  la 
forma  d'estensione  rispetto  alla  materia  corporea ,  in  un  ente, 
quando  pur  non  è  tale,  o  almeno  prende  una  tale  limitazione  per 
la  base  dell'ente,  per  l'atto  costitutivo  e  specifico  di  lui,  come 
quando  si  definisce  la  statua  come  un  ente;  e  ciò  perchè  l'uomo 
dà  grande  importanza  alla  forma  d'estensione  della  statua  per 
le  relazioni  che  vi  annette  col  suo  pensiero  ,  le  dà  più  impor- 


886 

tanza  che  alla  materia.  Gli  antichi  non  meditarono  abbastanza 
su  questa  maniera  dialettica  di  concepire ,  per  la  quale  l'uomo 
s'allontana  dalla  natura  propria  dell'ente,  ed  anzi  Aristotele 
trasse  tutta  la  sua  Logica  dal  concepire  dialettico,  prendendolo 
spessissimo  per  un  fedele  rappresentante  degli  enti  ;  il  che  obligò 
poi  gli  Scolastici  ad  entrare  nel  ginepraio  d' innumerevoli  sotti- 
gliezze e  distinzioni  per  ispacciarsi  dalle  obiezioni  che  prove- 
nivano dalla  natura  degli  enti  quali  sono  in  sé. 

Prendendo  dunque  la  forma  e  la  materia  de'  corpi  nel  detto 
modo  dialettico  e  considerando  la  forma,  che  in  sé  non  é  che 
una  limitazione  accidentale,  come  base  che  costituisce  gli  enti 
corporei  nelle  loro  specie,  si  applicarono  quelle  due  parole,  per 
una  estensione  di  significato  ,  ai  due  elementi  che  si  possono 
distinguere  negli  enti  finiti,  cioè  ùWelemento  potenziale  e  aWele- 
mento  attuale..  Vale  a  dire,  si  osservò  che  l'ente  finito  ha  in  sé 
stesso  un  ordine  di  generazione.  L'ordine  di  generazione  che  si 
osserva  nell'  ente  finito  è  questo  :  «  Data  un'  entità  qualunque 
pensabile  dalla  mente,  un'entità  o  semplice  o  moltiplice,  si  può 
pensare  che  questa  entità  acquisti  qualche  novo  atto  che  ferma 
l'attenzione  dell'uomo  per  l'importanza  che  ha  per  lui,  in  qua- 
lunque sia  maniera  l' acquisti ,  e  quell'entità  con  questo  novo 
atto  si  può  considerare,  dialetticamente,  per  un  altro  ente.  Ciò 
fatto  si  dice,  che  l'atto  acquistato  é  la  forma  di  questo  ente,  e 
che  l'entità  pensata  precedentemente  all'acquisto  di  quest'atto  è  la 
materia  di  quest'ente  »,  generalizzandosi,  appunto  come  dicevamo, 
quello  che  accade  ne' corpi.  Così  precedentemente  alla  forma 
della  statua  si  pensa  la  materia,  come  l'elemento  potenziale  della 
statua,  cioè  come  quell'entità  che  può  ricevere  questa  forma: 
la  forma  poi  della  statua  è  Velemenlo  attuale ,  è  il  novo  atto 
che  si  aggiunge  alla  materia,  e  che  si  prende  per  base  del  novo 
ente,  come  l'atto  entitativo,  per  certe  relazioni  interessanti, 
come  dicevamo,  che  vi  aggiunge  la  mente. 

Quindi,  tutto  ciò  che  in  un  dato  ente  si  può  pensare  prima 
di  questo  ultimo  atto ,  costitutivo  del  novo  ente ,  e  come  in 
potenza  a  riceverlo,  fu  chiamato  materia:  Vallo  stesso  poi  fu 
chiamato  forma. 

Queste  due  parole  dunque  di  materia  e  di  forma  furono  ado- 
perate non  solo  nell'ordine  delle  sostanze,  ma  anche  nell'ordine 


887 

degli  accidenti:  e  nell'ordine  logico,  come  quando  si  distingue  la 
materia  e  la  forma  delle  proposizioni  :  e  nell'ordine  grammati- 
cale, come  quando  si  considerano  le  sillabe  come  materia  del 
vocabolo  0  le  voci  come  materia  della  costruzione:  e  nell'or- 
dine morale,  come  quando  si  distingue  il  peccato  materiale  dal 
formale  ;  e  in  qualunque  altro  ordine  di  cose  di  cui  l'uomo  ra- 
gioni. Il  che  mostra  come  questa  distinzione  si  estenda  tanto, 
quanto  il  pensar  dialettico,  sia  dialettico  puro  ,  o  dialettico  e  ad 
un  tempo  conforme  alla  natura  degli  enti  in  sé. 

Sovente  però  accade  che  gli  antichi  e  gli  Scolastici  stessi  ri- 
pugnino a  dare  questa  estensione  di  significato  alla  parola  ma- 
teria, e  S.  Tommaso  dice  espressamente  che  questa  parola  si  ap- 
plica impropriamente  alle  nature  intellettuali,  e  impropriamente 
si  estende  a  lutto  ciò  che  è  in  potenza  in  qualunque  modo,  cioè 
che  abbia  una  potenzialità  qualunque,  e  che  il  significato  pro- 
prio di  materia  è  «  ciò  che  è  in  pura  potenza  »  cioè  senza  al- 
cun atto;  e  però  nega  che  le  dette  nature  intellettuali  sieno 
composte  di  materia  e  di  forma ,  benché  abbiano  qualche  po- 
tenza, ma  accorda  che  sieno  così  composte  qualora  si  dia  alla 
parola  materia  il  senso  più  esteso  (1).  Sono  così  comode  quelle 
due  parole  e  così  comuni  nell'  uso  a  distinguere  l'elemento  po- 
tenziale e  T'attuale  dell'ente,  che,  a  malgrado  di  tale  osser- 
vazione, gli  stessi  Scolastici  le  usano  spesso  nel  significato  più 
esteso  che  abbiamo  accennato. 

617.  Intanto  da  tutto  quello  che  abbiamo  detto  apparisce: 

ì.°  Che  in  molti  enti  convien  distinguere  la  base  dell'ente 
dalle  appendici  che  compiono  l'ente. 

2.°  Che  la  base  dell'ente  —  a  cui  si  riferisce  il  nome  sostan- 
tivo, col  quale  l'ente  si  denomina  —  è  sempre  una  e  semplice,  e 
le  appendici  possono  essere  moltiplici. 

3.°  Che  la  distinzione  de'due  elementi,  di  cui  si  compongono 
tali  enti,  cioè  la  base  e  le  appendici,  ha  luogo  tanto  negli  enti 

(1)  Si  materia  dicatur  oinne  illud  quod  est  in  potentia  quocumque  modo, 
et  forma  dicatur  omnis  actus,  necesse  est  ponere,  quod  anima  humana  et 
quoelibet  substantia  ciccata  sit  composita  ex  materia  et  forma.  —  Si  vero 
materia  proprie  accipiatur  prò  ilio  quod  est  potentia  tantum,  sic  impossi- 
bile est  quod  anima  humana  sit  composita  ex  materia  et  forma.  Quod). 

Ili,   XX. 


588 

che  sono  o  possono  essere  reali,  o  si  suppongono  reali,  quanto 
ne'puramente  dialettici. 


Articolo  X. 
Continuazione.  —  Dottrina  della  base  e  delle  appendici  degli  enti. 

GIS.  A  questo  si  deve  aggiungere,  che  la  relazione  tra  la  base 
dell'ente  e  le  sue  appendici  è  di  molte  sorti  tanto  negli  enti 
puramente  dialettici  quanto  ne'reali  —  sieno  tali  in  atto  o  in  po- 
tenza, 0  supposti  tali. —  Quindi  si  apre  il  campo  ad  una  ricerca 
ontologica  di  grande  importanza,  qual'è  quella  di  determinare 
le  varie  sorli  di  relazione  che  possono  averci  tra  la  base  del- 
l'ente e  le  sue  appendici,  e  ciò  non  meno  nell'ordine  degli  enti 
reali  che  nell'ordine  degli  enti  dialettici.  Ma  poiché  la  distin- 
zione tra  la  base  e  le  appendici  dell'ente  non  può  cadere  che 
in  enti  finiti,  come  a  suo  luogo  meglio  vedremo,  perciò  la  ri- 
cerca appartiene  propriamente  alla  Cosmologia,  che  è  la  scienza 
dell'ente  finito.  Tuttavia  è  impossibile  dare  la  dottrina  dell'infinito 
senza  quella  del  finito,  dal  quale  la  mente  umana  è  obbligala 
a  incominciare  quando  vuol  determinare  l'essere  che  non  in- 
tuisce se  non  in  uno  stato  d'indeterminazione,  e  così  pure  è  im- 
possibile dare  la  dottrina  dell'ente  in  universale,  che  è  propria- 
mente l'Ontologia,  se  non  si  prende  dagU  enti  finiti  le  mosse. 
Perciò  noi  non  possiamo  qui  trascurare  del  lutto  questa  ricerca, 
e  parlando  del  concetto  di  semplicità  ci  è  uopo  ricorrervi. 

Diciamo  dunque  intanto  che  la  relazione  tra  la  base  dell'ente  e 
le  sue  appendici  primieramente  è  di  due  sorli. 

619.  1.  Ci  hanno  degli  enti  ne'  quali  tolta  via  la  base  è  bensì 
tolto  via  l'ente,  ma  non  ogni  ente,  che  le  entità,  che  venivano 
unificate  dal  nesso,  rimangono  enti  diversi  dall'ente  di  prima, 
che  era  costituito  dal  detto  nesso  come  da  sua  base. 

Questo  avviene  ogni  qualvolta  col  perdersi  la  base  dell'ente,  che 
è  l'atto  che  lo  costituisce  e  a  cui  si  riferisce  il  nome  sostantivo, 
rimane  un'altra  base  che  per  essere  diversa  costituisce  un'altro 
ente  diverso  dal  primo. 

Ora  quest'altra  base,  che  rimane  dopo  distrutta  la  base  superiore 


589 

da  cui  l'ente  si  denominava ,  è  di  varie  maniere  :  talora  rimane 
una  base  sola ,  talora  rimangono  più  basi  :  nel  primo  caso  rimane 
un'ente  solo,  nel  secondo  più  enti  :  talora  la  base  che  rimane 
prima  esisteva  solo  in  potenza,  e  colla  distruzione  della  base  sopra- 
posta ella  passa  all'atto,  e  costituisce  immediatamente  un  altro 
ente  :  talora  finalmente  la  base  sottoposta  era  in  alto  anch'essa,  ma 
relativamente  alla  base  supcriore  dell'ente  teneva  il  grado  di  sem- 
plice appendice.  Classifichiamo  dunque  questa  composizione  inlima 
dell'ente  nel  modo  seguente. 

620.  A.  Enti  ne'quali,  distrutta  la  base  e  con  essa  l'ente  speci- 
ficato dalla  medesima,  si  formano  incontanente  altre  basi,  e  quindi 
altri  enti  che  non  esistevano  prima. 

1.°  Questo  accade  in  quelli  enti  che  si  considerano  composti  di 
sola  materia  corporea  e  hanno  per  loro  base  o  atto  costitutivo  la 
forma  ohe  tiene  insieme  questa  materia  (l). 

Poiché,  tolta  alla  materia  la  sua  forma,  subito  se  ne  discopre 
un'altra,  e  questa  serve  di  base  al  novo  ente.  Così  se  alla  sta- 
tua si  toglie  la  sua  forma  di  statua,  ella  prenderà  altre  forme, 
e  la  stessa  materia  sotto  altre  forme  si  considererà  come  un 
complesso  d'altri  enti  ,  se  si  ridusse  in  più  pezzi ,  o  come  un 
ente  solo,  se  non  si  spezzò,  ma  le  si  diede  solo  altra  forma, 
come  una  statua  di  cera  ridotta  alla  forma  di  sfera. 

2.°  Accade  lo  stesso  in  quegli  enti  che  si  compongono  di 
principi  sensitivi  e  di  termini  estesi.  Noi  supponiamo  che  la 
materia  non  si  separi  mai  da  tutti  i  principi  sensitivi.  Atte- 
nendoci dunque  a  questa  teoria  esposta  nella  Psicologia  diciamo, 
che  qualora  muore  un  animale,  per  distruzione  dell'organismo, 


(i)  Suppongo  qui  che  la  materia  sia  tenuta  insieme  dalla  forma  ,  non 
perchè  la  forma  sia  quella  che  la  tiene  realmente  ,  ma  perchè  dialettica- 
mente si  considera  come  base  dell'ente,  e  si  nomina  statua,  o  vaso,  o  altro 
significante  forma.  Quando  poi  si  dovesse  considerare  per  base  dell'ente 
ciò  che  realmente  tiene  unita  la  materia,  e  che  si  può  chiamar  forza,  si 
avrebbe  una  base  incognita,  ed  è  la  base  dell'ente  materiale,  quando  questo 
si  considera  con  un  concetto  negativo,  o  indeterminato^  come  «  una  forza 
diffusa  nell'estensione  ».  Che  se  con  una  ricerca  cosmologica  ed  ontologica 
si  vuol  determinare  e  rendere  positivo  il  concetto  di  forza,  s'arriverà,  se- 
condo noi ,  a  principi  sensitivi ,  di  cui  la  materia  sia  termine  ,  come  fu 
esposto  nella  Psicologia,  e  allora  vale  quello  che  diciamo  al  n.»  2.o 


S90 

la  materia  o  ritiene  delle  organizzazioni  parziali  che  danno 
luogo  ad  altri  enti  animali ,  o  rimane  del  tutto  disorganizzata, 
e  gli  elementi  non  cessano  perciò  di  essere  termini  estesi  di 
principi  elementari  che  sentono.  Alla  distruzione  dunque  d'un 
animale  perisce  la  hase  dell'ente  e  l'ente  slesso,  e  perde  il  suo 
nome,  ma  succedono  altre  basi  e  altri  enti,  cioè  altri  princìpi 
sensitivi,  che,  rimanendo  separati  a  cagione  che  separali  sono  i 
loro  termini,  s'individuano,  e  così  si  costituiscono  in  altri  enti 
diversi  da  quello  che  era  prima,  e  che  è  perito.  ♦ 

621.  B.  Enti  ne' quali  la  base  dell'ente  separata  dalle  sue  ap- 
pendici rimane  sussistente,  e  le  appendici  slesse  separate  conser- 
vano una  loro  propria  base  che  prima  esisteva  ,  ma  non  era 
considerata  come  base,  ma  come  appendice  della  base  superiore. 

Che  certe  basi  sussistano  anche  separate  da  certe  loro  ap- 
pendici che  prima  costituivano  parie  della  loro  materia,  si  vede 
negli  enti  composti  d'anima  intellettiva  e  di  corpo  animato  , 
come  nell'uomo,  e  ciò  perchè  la  base  ,  cioè  il  principio  intel- 
lettivo perfettamente  semplice  ,  ha  un  atto  compiuto  suo  pro- 
prio indipendente  dalle  dette  sue  appendici,  e  però  è  indistrut- 
tibile ancor  che  perda  le  dette  appendici.  Ciò  che  costituisce 
l'ente  in  tal  caso  rimane  identico ,  e  però  rimane  identico 
l'ente  reale,  benché  abbia  perduto  certa  attività  che  gli  da- 
vano le  dette  sue  appendici.  Tuttavia  quando  la  detta  base 
ha  tutte  le  sue  appendici,  riceve  un  nome  sostantivo,  che  nel 
caso  nostro  è  quello  di  uomo.  Questo  nome  è  diverso  da  quel 
nome  sostantivo  pure  che  riceve  la  base  separata ,  che  nel  no- 
stro caso  è  quello  d'anima  intellettiva.  Questi  due  nomi  sostan- 
tivi esprimono,  solo  dialetticamente,  due  enti;  ma  realmente  la 
parola  uomo  esprime  lo  stesso  ente  che  viene  espresso  dalla  pa- 
rola anima  intellettiva,  esprimendo  i  due  vocaboli  la  stessa  base 
dell'ente,  ma  uno  de'due  vocaboli  esprime  la  base  con  maggiori 
appendici  che  non  faccia  l'altro. 

Quando  dunque  si  dice  uomo,  l'ente  si  ripone  dalla  mente  nel 
composto  della  base  colle  appendici ,  e  di  conscguente  si  dice 
distrutta  questa  sostanza,  o  quest'ente,  perchè  è  distrutto  questo 
composto.  Ma  la  sostanza  così  considerata,  cioè  riposta  nel  nesso 
che  passa  tra  un  atto  che  sta  da  sé,  e  che  sussiste  anche  solo, 
e  alcune  appendici  di  quest'alto,  risulta  da  due  parli,  una  delle 


591 

quali  è  principale  e  non  solo  è  base  di  ente,  ma  anche  è  base 
d'una  tale  sostanza  composta  ,  e  questa  base  principale  riceve 
a  un  certo  titolo  il  nome  di  persona.  Onde  anche  distrutta  e 
scomposta  questa  sostanza,  rimane  la  joersona  identica,  che  è  so- 
stanza semplice. 

Quanto  poi  alle  appendici  di  cui  parliamo ,  cioè  al  corpo 
animato ,  non  è  certo  impossibile  il  pensare,  che  dalla  potenza 
divina  possa  esser  da  lui  divisa  l'anima  intellettiva  ed  egli  tut- 
tavia rimanersi  nella  qualità  d'animale ,  rimanendo  il  principio 
animale,  che  prima  esisteva  come  appendice,  siccome  base  del 
novo  ente,  cioè  del  puro  animale  che  rimarrebbe.  Ma  non  cre- 
diamo che  questo  possa  avvenire  se  non  per  miracolo  ,  attese 
le  considerazioni  da  noi  fatte  nella  Psicologia  su  questo  argo- 
mento (672-680).  Basta  nondimeno  la  possibilità  assoluta  di 
questo  per  dover  assegnare  a  quest'ente  possibile  un  posto  nella 
presente  classificazione  degli  enti  secondo  i  diversi  modi  della 
loro  scomposizione,  o  separazione  dalle  appendici. 

Del  resto  dobbiam  notare,  che  quando  avvenisse  questo  mira- 
colo di  scomposizione,  pel  quale  rimanesse  da  una  parte  l'anima 
intellettiva  e  dall'altra  il  corpo  coll'organizzazione  intatta  e  col- 
l'animazione  ,  si  direbbe  ancora  con  tutta  verità  e  proprietà, 
l'uomo  esser  morto  secondo  il  giusto  concetto  della  morte  del- 
l'uomo da  noi  esposto  {Psicolog.  670-700)  ;  e  con  egual  verità 
si  direbbe  esser  morto  il  corpo  come  corpo  umano  ,  poiché  ri- 
marrebbe privo  della  vita  umana,  benché  gli  rimanesse  la  vita 
animale  non  più  umana. 

622.  II.  Vi  hanno  degli  altri  enti  ne' quali  alla  base,  cioè  all'atto 
costitutivo  dell'ente  ,  sono  così  intimamente  congiunte  le  sue 
appendici  che  annullata  la  base  non  restano  più  le  appendici , 
ma  queste  stesse  sono  annullate.  E  questi  enti  si  possono  sud- 
dividere nel  modo  seguente,  prendendo  per  principio  della  clas- 
sificazione la  relazione  d' intimità  tra  la  base  e  le  appendici. 

A.  In  quelli  ne' quali  tra  la  base  e  le  appendici  passa 
un  vincolo  così  stretto  che  non  solo,  tolta  la  base,  non  rimane 
più  nulla  delle  appendici,  ma  le  appendici  stesse  sono  contenute 
implicitamente  nella  base,  e  quindi  il  rimoverle  del  tutto  è  un 
rimovere  la  base,  e  questi  sono  enti  semplici  come  dicevamo. 
—  Si  avverta  che  anche  negli  enti  del  numero  F  la  base  di- 


K92 

pende  dalle  appendici,  come  la  forma  della  slalua  dalla  materia; 
ma  negli  enti  di  cui  qui  parliamo  la  dipendenza  o  condizione 
d'esistere  è  reciproca,  perchè  non  solo  le  appendici  sono  neces- 
sarie alla  base,  ma  la  base  è  necessaria  alle  appendici,  accioc- 
ché rimangano  in  qualunque  sia  modo.  Così  l'anima  umana,  che 
è  il  principio  razionale,  ha  per  sue  appendici  le  diverse  potenze, 
ma  queste  essendo  implicitamente  contenute  in  esso  sono  an- 
nullate con  esso  ,  e  se  si  supponessero  annullate  le  potenze  , 
anche  il  principio  razionale  non  si  potrebbe  piij  concepire ,  sa- 
rebbe dunque  annullato. 

B.  In  quelli  ne' quali,  tolta  la  base,  sono  tolte  le  appendici, 
ma  pure  alcune  di  queste  potrebbero  cessare  senza  che  perisse  la 
base  e  di  conseguente,  senza  che  si  annullasse  l'ente.  Questa  re- 
lazione tra  la  base  e  le  appendici  è  quella  che  si  esprime  coi  vo- 
caboli di  sostanza  e  di  accidentej  indicandosi  col  nome  di  sostanza 
l'atto  0  sia  la  base  da  cui  l'ente  si  denomina,  e  per  accidenti  le  ap- 
pendici che  possono  variare  rimanendo  l'ente  identico. 

Questo  ha  luogo  tanto  in  certi  enti  che  sono  puramente  dialet- 
tici, quanto  in  enti  reali.  Negli  enti  dialettici  accade  questo,  a 
ragion  d'esempio,  quando  si  prende  per  base  un  concetto  astratto 
che  si  considera  dialetticamente  come  sostanza  e  per  appendici  le 
sue  determinazioni  che  si  considerano  come  accidenti.  Così  se  si 
parla  d'una  statua  in  genere,  ciò  che  si  contiene  nella  definizione 
della  statua  è  la  base  o  sostanza  dialettica,  più  propriamente  Ves- 
senza,  di  quest'ente,  e  l'esser  la  statua  grande  o  piccola,  di  pietra 
0  di  metallo,  di  uomo  o  di  donna,  bella  o  brutta  e  simili,  si  con- 
siderano come  accidenti  della  statua  che  posson  variare.  Dico  che 
possono  variare,  perchè  la  statua  di  tutti  gli  accidenti  contradit- 
torì  dee  averne  uno,  e,  in  questa  generalità ,  gli  accidenti  non 
sono  accidenti,  ma  appendici  della  classe  precedente  A;  pure  non 
non  è  necessario  che  de'  due  contradiltorì  la  statua  abbia  piut- 
tosto l'uno  che  l'altro. 

11  che  rende  manifesto,  che  l'ente  è  sempre  uno,  e  tuttavia 
ammette  composizione  per  riguardo  alle  sue  appendici  entitalive, 
e  questa  composizione  può  essere  maggiore  o  minore.  Laonde  più  si 
allontanano  àaWdi semplicità  e  più  composti  sono  quelli  enti:  a)  che 
hanno  più  moltiplici  appendici  enlitative,  h)  e  ne'quali  il  nesso  tra 
queste  appendici  e  la  base  dell'ente  è  meno  stretto. 


59Ó 

Per  Io  contrario  enti  più  semplici  sono  quelli:  a)  che  hanno 
minor  numero  di  tali  appendici,  b)  e  ne' quali  il  nesso  tra  le  ap- 
pendici e  la  base  è  più  stretto. 


CAPITOLO  Vili. 

Teoria   iiell'  idenlità. 

Articolo  I. 

Formazione  del  conceUo  d' identilà.  — Idcnlilà  opiwsta  al  concetto 
di  diversità  dialettica,  e  identità  opposta  al  concetto  di  diversità 
obiettiva. 

Ciò.  Le  cose  dette  involgono  il  concetto  d'identità  ,  che  dob- 
biamo pure  dichiarare. 

Anche  questo  concetto  si  può  api  licare  tanto  agli  enti  dialet- 
tici, quanto  ai  reali. 

In  sé  stesso  non  ha  bisogno  di  sjjiegazione ,  essendo  chiaro  che 
identico  è  il  contrario  di  diverso:  pure  tutti  i  concelti  più  semplici 
domandano  attenzione  e  perspicacia  nelle  applicazioni,  e  danno 
de' risultati  che  la  loro  semplicità  e  facilità  non  facevano  pre- 
vedere. 

L'uomo  non  avrebbe  mai  pensato  esplicitamente  all'  identità  , 
non  si  sarebbe  formata  quest'astrazione  ,  se  non  avesse  trovato 
prima  il  diverso.  Come  l'uomo  non  si  move  spontaneamente  a  col- 
locare la  sua  attenzione  in  qualità  astratte  senza  un  bisogno  o  uno 
slimolo  ,  così  senza  di  questi  moventi  non  sarebbe  mai  venuto  a 
pensare  l'astratta  idcnlilà  [Psicolog.  '145G-1'475).  Tre  sono  i  passi 
che  si  fanno  dalla  mente  umana  per  giugnerc  al  pensiero  della 
idenlità. 

a).  Primo  passo.  —  Ella  apprende  enti  diversi,  e  riflelle, 
per  qualunque  sia  causa,  che  sono  diversi,  cioè  che  l'uno  non  è 
l'altro:  quindi  il  concello  di  diversità.  Questo  concetto  implica  il 
suo  opposto  che  è  quello  di  identità  :  tuttavia  questo  rimane  nella 
mente  ancora  implicito  nel  suo  opposto.  La  mente  non  gli  dà 
Rosmini.  Teosofia.  38 


594 

ancora  una  separata  attenzione.  Come  dunque,  prima  di  pensare 
alla  diversità  degli  enti  percepiti,  entrambi  questi  concetti,  quello 
d'identità  e  quello  di  diversità,  giucevano  impliciti  e  indivisi  nel- 
l'idea dell'essere,  così  il  j)rimo,  che  si  renda  esplicito,  è  quello  di 
diversità^  non  essendo  necessario,  che,  di  due  concetti  correlativi, 
l'un  e  l'altro  stia  esplicitamente,  che  è  quanto  dire  in  separato, 
davanti  all'attenzione  della  mente,  purché  l'altro  sia,  in  qualunque 
modo,  nella  mente  stessa  imjdicito  ed  indiviso. 

b).  Secondo  passo.  —  Quando  lo  stesso  oggetto  si  presenta 
più  volte  all'apprensione  e  all'atlenziono  dell'uomo,  questi  ha  già 
una  prima  occasione  di  riconoscere,  che  quell'ente  è  identico  a  se 
stesso,  dal  qual  riconoscimento  può  astrarre  facilmente  il  concetto 
àldenlità,  e  dargli  un  vocabolo  che  lo  significhi  in  forma  astratta. 
Acciocché  dunque  lo  spirilo  umano  abbia  l'occasione  di  fare  que- 
st'astrazione, è  mestieri,  che  cangi  qualche  cosa,  se  non  nell'og- 
getto stesso,  almeno  nelle  relazioni  tra  Venie  e  il  soggetto  che  lo 
pensa,  come  sarebbe  nel  numero  delle  volte  che  si  pensa  ad  esso, 
0  nel  modo  diverso  di  concepirlo.  Che  se  nulla  si  cangiasse  rispetto 
al  soggetto  che  lo  pensa,  l'oggetto  non  si  direbbe  né  identico,  né 
diverso.  Ma  quando  un  oggetto  si  presenta  più  volte  al  pensiero, 
e  si  cangia  l'atto,  con  cui  il  soggetto  lo  pensa,  si  cangia  il  tempo 
—  e  il  soggetto  stesso  che  lo  pensa  la  seconda  e  la  terza  volta  ha 
subito  intanto  alcune  modificazioni;  —  o  finalmente  si  cangia  il 
modo  di  pensarlo  o  la  forma  in  cui  si  pensa  ,  e  allora  sono  pure 
cangiate  e  moltiplicate  le  relazioni  tra  l'oggetto  e  il  soggetto  pen- 
sante. Tuttavia  nessuno  di  questi  cangiamenti  ha  mutato  l'oggetto 
in  sé,  la  moltiplicilà  loro  non  l'ha  per  nulla  reso  moltiplice;  è  re- 
stato uno,  e  quello  di  prima.  L'umana  mente  dunque  arriva,  per 
qualunque  sia  causa ,  a  fare  un  confronto  tra  questa  moltiplicità 
e  variabilità  soggettiva  e  l'oggetlo  che  in  sé  realmente  non  la 
soffre;  e  per  indicare  questa  condizione  dell'oggetto  al  tutto  im- 
mune dalle  diversità,  che  si  trovano  negli  atti  del  soggetto,  dice, 
che  l'ente  o  l'oggetto  è  identico  con  sé  stesso.  La  parola  identità 
dunque  implica  sempre  qualche  relazione  con  una  diversità,  e 
senza  questa  non  si  penserebbe  mai  quella,  che  altro  non  esprime 
se  non  la  negazione  della  divers'tà. 

Qui  si  domanderà ,  se  dunque  Videntità  è  qualche  cosa  di  ne- 
gativo, e  non  anzi  di  positivo?  Poiché  la  diversità  è,  rispetto  al- 


595 

l'ente  ,  qualche  cosa  di  defeUivo  e  di  mancante  ,  come  abbiamo 
detto  del  concello  di  divisione  e  di  parte  (595  sgg.),  l'opposlo,  cioè 
V identità  sembra  dover  essere  qualche  cosa  di  positivo.  E  certo, 
l'identità  dell'ente  indica  la  mancanza  di  quel  difetto  che  è  nella 
diversità  dell'ente.  Pure  la  mancanza  di  un  difetto  di  ente  non  è 
in  sé  qualche  cosa  di  positivo,  ma  il  positivo  corrispondente  sta 
nell'ente  privo  di  quel  difetto.  Di  che  si  trae  questa  verità  impor- 
tante per  la  dialettica,  che 

«  A  un  concetto  che  contiene  un  negativo  non  sempre  corri- 
sponde un  concetto  che  contenga  un  positivo  che  stia  da  sé,  ma 
talora  ciò  che  gli  corrisponde  cotne  positivo  è  qualche  cosa  di  più 
di  quello  che  importa  la  semplice  correlazione  ». 

e).  Terzo  passo.  —  Finalmente  uno  slesso  ente  può  pre- 
sentarsi più  volte  all'attenzione  e  all'apprensione  di  un  uomo  con 
qualche  varietà  di  forma  o  altra  qualunque.  Allora  la  mente 
umana  confronta  l'ente  appreso  più  volte  con  quelle  varietà  ,  e 
nòta  ciò  che  non  è  stato  cangiato  e  che  rimase  identico. 

Questi  due  ultimi  passi  del  pensiero  producono  i  concelti  di  due 
generi  d'identità.  Il  primo  genere  é  à' un'  identità  opposta  a  una 
diversità  dialettica,  perchè  si  suppone  che  l'oggetto  rimanga  del 
tutto  il  medesimo  e  solo  gli  alti  della  mente  sieno  molliplici  ;  il 
secondo  genere  è  d'un' ù/6'/i<«7à  opposta  a  una  diversità  obiettiva  ^ 
perchè  la  diversità  a  cui  l'identità  si  riferisce  cade  nell'oggetto 
stesso  che  presenta  alla  mente  qualche  varietà. 


Articolo  II. 

Difficoltà  che  s  incontra  ne' giudizi  intorno  alla  identità  degli  enti,  — 
Sede  dell'identità.  —  Doppio  genere  di  questi  giudizi. 

62^.  Nei  giudizi  che  si  pronunciano  intorno  all'identità  degli 
enti  la  mente  incontra  sovente  delle  gravi  e  inaspettate  difficoltà. 
Conviene  dunque  avere  un  principio,  dal  quale  si  riconosca 
quando  si  perda  l'identità  di  un  ente,  e  quando  non  si  perda 
a  malgrado  di  certe  diversità  che  nascono  in  esso. 

Ma  poiché  negli  enti  finiti  la  realizzazione  loro  è  diversa  dalla 
loro  essenza,  perciò  un  principio  solo  non  si  può  avere  per  gli 


596 

enti  finiti  in  quanto  reali,  e  per  gli  enti  finiti   in  quanto   essen- 
ziali. Conviene  stabilire  questi  due  principi: 

1.°  Ogni  qualvolta  c'è  una  varietà  qualunque  nell'essenza, 
l'ente  o  l'entità  ha  perduto  la  sua  identità;  poiché  se  un  ente 
0  un'entità  perde  qualunque  menoma  parte  della  sua  essenza, 
non  è  più  desso,  o  dessa  ;  ma  un  altro. 

2."  Ogni  qualvolta  l'ente  reale  finito  perde  la  sua  base 
reale  subiettiva  ,  l'identità  è  perduta  ,  non  c'è  più  1'  ente  di 
prima. 

Il  nodo  sta  nel  decidere,  se  quella  varietà,  che  c'è  sempre 
nell'apprensione  dell'oggetto  o  nell'  oggetto  stesso^  sia  tale  che 
tolga  ciò  che  costituisce  l'essenza  dell'ente  che  è  la  sede  del- 
V  identità  propria  degli  enti  nella  loro  forma  oggettiva,  ovvero 
se  tolga  la  base  dell'ente  che  è  la  sede  dell'identità  degli  enti 
nella  loro  forma  subiettiva  o  reale.  Quando  poi  si  tratta  del- 
l' identità  dell'essere  slesso  nelle  sue  tre  forme ,  la  sede  del- 
l'identità  è  di  novo  ['essenza,  che,  come  dicemmo,  coslituisce 
anche  la  ragione  delle  stesse  tre  forme  (170  170).  Onde  la 
sede  dell'identità  è  scnqìre  o  Vessenza,  o  la  base  dell' ente ,  poi- 
ché, sia  che  si  muti  l'una,  sia  che  si  muli  l'altra^  l'ente  è  un 
altro,  non  è  più  quello  di  prima. 

6*25.  Ora  come  abbiamo  distinti  due  generi  d'identità,  l'identità 
che  corrisponde  alla  diversità  o  varietà  sùbiotliva ,  e  l' identità 
che  corrisponde  alla  diversità  o  varietà  obiettiva,  così  del  pari 
due  sono  i  sommi  generi  delle  questioni  e  de'giudizì  che  si  pos- 
sono fare  intorno  all'identità.  Poiché  si  può  cercare  l'una  o 
l'altra  identità,  e  per  formulare  le  due  questioni  generiche  di 
cui  parliamo,  esse  si  possono  così  esprimere  : 

1.^  Questione  generica  intorno  l'identità  degli  enti.  —  Dati  di- 
versi alti  della  mente,  ciascun  de'quali  ha  il  suo  oggetto,  si  do- 
manda se  l'oggetto  sia  identico  per  tutti  quegli  atti  d'una  iden- 
tità perfetta,  di  guisa  che  nulla  affatto  sia  cangialo  nell'oggetto, 
ma  tutta  la  varietà  e  la  molliplicilà  appartenga  agli  atti  del 
subielto  che  replicatamente  lo  pensa ,  e  però  sia  estrinseca  al- 
l'oggetto. 

S."*  Questione  generica  intorno  l'identità  degli  enti  —  Dati  più 
oggetti  davanti  al  pensiero,  che  mostrano  qualche  varietà  tra 
loro,  si  domanda  se  l'ente  in  essi  rimanga  identico  a  malgrado 


597 

di  quella  varietà  che  hanno  in  sé  stessi ,  e  però  a  malgrado 
d'una  varietà  intrinsecd  all'oggetto  slesso. 

Egli  è  chiaro,  che  il  primo  genere  di  queste  due  questioni 
ha  per  intento  di  trovare  un'ideulilà  perfetta,  perchè  non  riguarda 
le  varietà  che  sono  nell'onte,  ma  unicamente  si  riferisce  alla 
varietà  e  diversità  che  nasce  dalla  moltiplicità  degli  atti  del 
subietto  che  lo  concepisce,  o  dalla  diversità  del  modo  di  con- 
cepirlo, 0  dalla  forma  in  cui  si  concepisce. 

Tanto  il  primo,  quanto  il  secondo  genere  di  questioni  può 
farsi  intorno  a  qualunque  oggetto  del  pensiero,  sia  quest'oggetto 
un  ente,  o  una  semplice  entità,  sia  l'essere  o  le  forme  dell'es- 
sere, 0  un  concreto  o  un  astratto,  o  un  ente  in  sé,  o  un  ente 
])uramenle  dialettico. 

Dal  che  procede,  che  la  [)rima  regola  per  riconoscere  l'iden- 
tità degli  oggetti,  sia  che  si  tratti  dell'una  o  dell'  altra  identità, 
è  quella  di  ben  afferrare  e  ritenere  col  pensiero  «  qual  sia  il  pre- 
ciso oggetto  di  cui  si  cerca  l'identità  ».  Poiché  l'incaglio  che 
s' incorre  in  tali  ricerche  consiste  per  lo  più  nel  confondere 
l'oggetto,  di  cui  si  cerca  l' identità,  con  altri  oggetti  a  lui  me- 
scolati nel  ragionamento  e  con  esso  lui  legati  per  varie  rela- 
zioni. 

Articolo  III. 

Identità  relativa   alla  varietà  estrinseca. 

626.  Venendo  dunque  al  primo  genere,  l'identità  a  cui  mira 
il  primo  genere  di  questioni,  la  varietà  estrinseca  a  cui  s'oppone 
tale  identità  dicemmo  consistere  «  nella  diversa  relazione  che 
passa  tra  il  subietto  pensante  e  la  cosa  pensata,  senza  che  que- 
sta diversità  di  relazione  rechi  alcuna  mutazione  intrinseca 
nell'entità  contenuta  nell'oggetto,  che  è  la  cosa  pensata.  «  La 
diversità  o  varietà  è  tutta  dalla  parte  degli  alti  del  subietlo 
pensante. 

Ora  la  varietà  che  si  può  concepire  negli  atti  d'un  ente  pen- 
sante un'identica  entità  è  di  molte  sorti. 


598 


Prima  specie  di  varietà  estrinseca  all'entità  pensata  :  moltiplicilcà 
degli  alti  del  pensiero:  giudizi  suW  identità  dell' entità  pensata 
con  atti  ugnali  moltiplici. 

627.  Se  colui  che  pensa  un'entità  cessa  dal  pensarla  attualmente, 
e  poi  rinnova  l'alto  del  pensiero,  e  la  pensa  ugualmente  senza 
discoprire  in  essa  alcuna  novità,  egli  pronuncia  il  giudizio,  che 
Ventila  pensata  con  quegli   atti  moltiplici  è   identica. 

Acciocché  questo  giudizio  sia  vero  è  necessario  che  V  enlità, 
di  cui  si  tratta,  non  si  sia  veramente  cangiata  in  sé  stessa.  Poi- 
ché potrebbe  essersi  cangiata,  e  tuttavia  apparire  la  slessa.  Ci 
può  esser  dunque  un  identità  apparente.  E  qui  si  presenta  già 
una  prima  difficoltà  in  questi  giudizi  intorno  a\V identità,  la  qual 
consiste  appunto  nell' assicurarsi ,  che  non  si  tratti  forse  d'un'ap- 
parenza  d'identità  in  vece  che  d' una  vera  identità  della  cosa 
che  si  percepisce  o  si  pensa. 

Ora  dato  che  l'entità  non  si  sia  veramente  cangiata  ,  qui 
noi  abbiamo  «  un'entità  identica  a  fronte  di  replicati  atti  del 
pensiero,  che  sebbene  tutti  uguali  come  li  supponiamo,  tuttavia 
l'uno  non  é  l'altro ,  e  però  a  fronle  d'una  varietà  numerica  di 
alti.  •» 

Ma  che  poi  l'enlilà  non  si  sia  veramente  cangiata,  e  però  non 
apparisca  già  solamente,  ma  anche  sia  da  vero  quella  di  prima 
identicamente,  questo  non  dipende  dalla  mente  che  la  pensa, 
ma  dalla  natura  dell'entità  slessa.  Poiché  se  questa  avesse  su- 
bito cangiamento,  senza  che  il  pensatore  se  ne  fosse  avveduto, 
non  sarebbe  identica,  ma  solo  apparirebbe  tale.  Ora  supposto 
questo  cangiamento,  esso  apparterrebbe  alla  varietà  intrinseca, 
e  però  «  i  giudizi  che  si  pronunciano  su  quella  identità  che 
s' oppone  alla  varietà  estrinseca  ,  cioè  alla  varietà  degli  atti 
del  subietto  pensante,  non  si  possono  verificare  se  non  ricor- 
rendo a'que  giudizi  che  si  pronunciano  su  quella  identità  che 
s'oppone  alla  varietà  intrinseca)):  quelli  dipendono  da  questi  per 
essere  avverati. 


599 

Questo  vale  per  tulle  le  specie  di  varietà  estrinseca  all'entità,  di 
cui  si  vuol  pronunciare  l'idenlilà. 


Seconda  specie  di  varietà  estrinseca  all'entità  pnisata:  modi  diversi 
di  pensare;  giudizi  sull'identità  dell' entità  pensata  con  modi 
diversi. 

628.  Un'entità  identica  si  può  pensare  più  volle  non  solo  con  atti 
uguali,  ma  con  modi  diversi.  Qualora  l>N//frt  pensala  rimanga  la 
medesima,  e  non  cangi  altro  che  il  modo  con  cui  si  pensa  ,  ella  è 
identica,  perchè  la  varietà  del  modo  di  pensarla  non  la  rende  ne- 
cessariamente un'altra  entità.  Ora  che  l'enlilà  che  si  pensa  con 
modi  diversi  sia  la  medesima,  e  non  apparisca  soltanto  tale,  que- 
sto dipende,  conìc  abbiam  dello  di  sopra,  dall'esser  essa  veramente 
scevra  di  varietà  intrinseca. 

Supposto  dunque  che  apparisca  e  sia  veramente  scevra  di 
varietà  intrinseca,  noi  abbiamo  una  seconda  specie  d'identità 
del  primo  genere  cioè  «  un'entità  identica  a  fronte  de' diversi 
modi  co'quali  ella  si  pensa  -»,  che  la  rendono  molliplice  da- 
vanti al  pensiero,  per  diverse  relazioni  ch'ella  prende  con  esso, 
e  tuttavia  identica. 

G29.  Ma  qui  s'incontra  spesso  una  seconda  difficoUà  a  pronun- 
ciare   il  vero  in    questa   specie  di    giudizi. 

La  difficoltà  è  questa  :  «  I  modi  originari  del  pensiero  umano 
sono  tre:  intuire,  percepire,  e  riflettere.  iMa  questi  non  sono  pro- 
priamente modi  diversi  di  pensare  ,  se  non  perchè  qualche 
cosa  si  cangia  nel  termine  del  pensiero.  Così  la  percezione  ag- 
giunge la  realità  all'intuizione  umana ,  li  riflessione  poi  non  sa- 
rebbe un  modo  veramente  diverso  di  pensare  se  non  aggiungesse 
all'oggetto  qualche  nova  relazione,  o  non  lo  restringesse ,  o  non  lo 
analizzasse,  o  non  sintesizz;isse  ec.  {Psicol.  i03"2).  E  per  vero  «il 
principio  non  si  cangia  né  in  se  stesso  e  né  pure  ne' suoi  atti,  se 
non  a  condizione  che  si  cangi  in  modo  corrispondente  i\  suo  ter- 
mine »:  principio  ontologico,  che  regge  la  natura  degli  enti,  di 
sommo  momento.  Se  dunque  i  diversi  modi  del  pensiero  suppon- 


600 

gono  un  qualche  cangiamento  nel  suo  termine,  «  come  potrà  avve- 
nire che  questo  termine  conservi  la  sua  identità?  » 

Per  rispondere  a  questa  difficoltà  conviene  richiamarsi  alla 
mente  la  regola,  che  abbiamo  data,  e  che  abbiam  'detto  esser 
di  tutte  la  prima,  per  riconoscere  l' identità  degli  oggetti,  cioè 
che  «  è  necessario  prima  di  tutto  definire  accuratamente  qual 
sia  l'oggetto  di  cui  si  cerca  l'identità  ».  ab 

Tenendo  questa  regola  davanti  alla  mente,  facilmente  s'in-  V 
tende ,  che  quantunque  diversi  modi  del  pensare  non  possano 
avere  un  termine  del  tutto  identico,  dovendo  questo  subire  al- 
meno qualche .  cangiamento  nelle  sue  relazioni  con  altre  cose, 
acciocché  sia  pensato  in  diverso  modo  ;  tuttavia  ci  può  essere 
un  elemento  identico  negli  oggetti,  a  cui  si  riferiscono  que' di- 
versi modi  del  pensare.  L'afferrare  questo  elemento  ,  e  giudi- 
carlo identico  relativamente  a  que' diversi  modi  con  cui  si  pensa, 
è  appunto  un  eseguire  la  regola  prescritta  ,  cioè  è  un  definire 
precisamente  qual  sia  l'oggetto  di  cui  si  predica  l'identità.  Se 
in  vece  di  questo  elemento ,  termine  comune  in  tutti  i  modi  di 
pensare ,  si  stabilisce  un  altro  oggetto  su  cui  movere  la  que- 
stione «  se  esso  sia  identico  »,  in  tal  caso  converrà  pronunciare 
un  giudizio  negativo^  cioè  converrà  negare  ch'esso  sia  un  og- 
getto identico. 

Ma  quando  si  abbia  riconosciuto  Velemento  identico  che  si 
rinviene  ne'  diversi  oggetti  corrispondenti  ai  diversi  modi  di 
pensare,  allora  si  presenta  incontanente  un'altra  questione: 
«  qual  valore  abbia  quell'elemento  identico  negli  oggetti  corri- 
spondenti ai  diversi  modi  di  pensare  »,  cioè  se  egli  sia  tale  che 
costituisca  V essenza  ^  o  la  base  dell'ente  pensato,  nel  qual  caso 
r  identità  si  predica  dell'ente  ;  cioè  si  dice  con  verità  che  in 
tutti  que'modi  l'ente  pensato  è  identico;  ovvero  se  egli  non  sia 
tale  che  costituisca  l'essenza,  o  la  base  dell'ente,  nel  qual  caso 
non  si  pensa  più  lo  stesso  ente.  In  quest'ultimo  caso,  la  que 
stione  è  d'altro  genere.  Poiché  non  è  più  vero  che  gli  oggetti 
de'  diversi  modi  di  pensare  abbiano  soltanto  quella  varietà  che 
corrisponde  ai  modi  diversi  con  cui  si  pensano,  ma  gli  oggetti 
hanno  allora  una  diversità  intrinseca  indipendente  dai  diversi 
modi  del  pensare  medesimo. 

A  ragion   d'esempio   se  io  penso  nel  modo  intuitivo  Vuomo  , 


COI 

uhe  e  quanto  dire  l'idea  dell'uomo,  e  poi  nel  modo  percettivo 
penso  un  uomo  reale  ,  l'elemento  comune  e  identico  negli  og- 
getti di  questi  due  modi  di  pensare  è  Vessenza  dell'uomo.  In 
questi  due  modi  di  pensare  Vessenza  identica  mi  è  stata  sempre 
presente.  Posso  dunque  dire  giustamente  d'aver  pensato  1'  iden- 
tico enti;  con  due  atli  e  modi  diversi  di  pensare.  Che  se  io  per- 
cejiissi  un  uomo  reale,  e  poi  mediante  la  riflessione  astraente 
mi  formassi  lidea  d'animali  là,  coU'intuire  quest'idea  non  penserei 
lo  stesso  ente  che  prima  percepivo.  Poiché  Velemento  identico 
in  tal  caso  sarebbe  solo  Vanimalitàj  che  non  costituise  nò  Ves- 
senza né  la  base   dell'ente  uomo. 

C50.  Ci  sono  dunque  due  serie  di  questioni ,  che  si  possono 
fare  intorno  a  qaeWidentità  che  si  trova  negli  oggetti  corrispon- 
denti a  diversi  modi  di  pensare,  e  sono: 

1.°  Quelle  questioni  colle  quali  s'investiga,  qual  sia  l'ele- 
mento identico  negli  oggetti  che  differiscono  tra  loro  unicamente 
a  cagione  del  differente  modo  con  cui  si  pensano  ,  oppure  che 
colla  loro  varietà  costituiscono  appunto  i  diversi  modi  di  pensare; 
2."  Quelle  questioni  colle  quali  si  cerca,  se  quell'elemento 
costituisca  un  medesimo  ente,  ovverossia  se  l'ente  si  possa  dire 
identico  sebben  pensato  in  diversi  modi. 

La  prima  serie  di  queste  questioni  ammette  una  soluzione 
generale,  ossia  la  soluzione  di  essa  si  può  ridurre  ad  una  sola 
formola,  e  la  formola  è  questa  : 

«  Quelle  varietà  degli  oggetti  che  costituiscono  diversi  modi  di 
pensare  si  riducono  a  queste,  che  con  un  modo  si  pensa  qualche 
cosa  di  più  che  con  un  altro:  e  nello  stesso  tempo  collo  stesso 
modo  con  cui  si  pensa  qualche  cosa  di  più  sotto  un  aspetto,  si 
può  pensare  qualche  cosa  di  meno  sotto  un  altro.  Così  col  modo 
dell'intuizione  si  suol  pensare  qualche  cosa  di  più  d'estensione, 
e  col  modo  di  percezione  si  pensa  qualche  cosa  di  più  di  com- 
prensione ,  e  col  modo  della  riflessione  si  pensa  qualche  cosa 
di  meno  e  di  più  secondo  che  astrae  o  sintesizza  o  esercita  altre 
operazioni  II  di  più  che  si  pensa  con  ciascun  modo  in  relazione 
agli  altri  é  ciò  che  costituisce  Velemento  diverso  negli  oggetti , 
il  resto  che  rimane,  tolto  via  ogni  di  più  pensato,  è  Velemento 
identico  ». 

Riguardo  poi  alla  seconda  serie  di  questioni:  «  se  ci  sia  l'i- 


002 

dentila  dell'ente  «  ovvero  «  se  l'elemento  identico  sia  ente  »  que- 
ste prima  di  lutto  esigono  che  si  definisca  di  qua!  ente  si  parli, 
poiché  la  parola  ente  ammette  diverse  definizioni  ,  delle  quali 
la  più  universale  di  tutte  è  quella  che  abbiam  dato:  «  l'ente  è 
ciò  che  è  ».  Per  ciascuna  definizione  dunque  la  risposta  sarà 
diversa^  dove  ritorna  la  regola  prima  di  ben  definire  «  qual  sia 
l'oggetto  intorno  a  cui  si  move  la  questione  se  sia  identico  ». 
Ma  se  si  tratta  d'ente  compiuto  ,  cioè  d'un  ente  che  sussiste  o 
che  può  sussistere ,  la  risposta  si  trova  colla  regola  data  ,  cioè 
«  se  Velemento  identico  è  l'essenza  o  la  base  dell'ente  compiuto, 
in  tal  caso  si  pensa  con  que' diversi  modi  il  medesimo  ente,  e 
se  no,  no  ».  Se  poi  l'ente  di  cui  si  domanda:  «  se  sia  pensato 
identico  in  que' diversi  modi  »,  cade  fuori  dello  stesso  elemento 
identico,  è  chiaro  che  la  questione  non  ammette  altra  risposta 
che  negativa 

63J.  Se  a  ragion  d'esempio  noi  abbiamo  due  pensieri,  l'uno  dei 
quali  sia  intuizione  dell'animale,  l'altro  intuizione  dell'uomo,  e 
si  domanda  se  con  questi  due  pensieri  si  pensa  l'identico,  con- 
verrà, per  la  prima  regola,  definire  qual  sia  l'oggetto  preciso, 
di    cui   si  cerca  1'  identità.  Ora  quest'oggetto  può  esser  triplice 
nel  caso  addotto,  il  quale  perciò  dà  luogo  a  tre  questioni  diverse: 
1.°  Se  l'elemento  identico  ne' due  pensieri  sia  l'uomo.*' 
•2.°  Se  l'elemento  identico  ne'due  pensieri  sia  l'animale? 
5.°  Se  l'elemento  identico  ne'due   {)ensieri   sia    l'animale, 
ma  ristretto  alla  specie  umana? 

Alla  prima  questione  si  risponde  negativamente ,  perchè  nel 
pensiero  del  semplice  animale  non  esiste  l'uomo  né  pure  in  po- 
tenza 0  in  virtù,  non  potendosi  cavar  mai  dal  concelto  dell'a- 
nimale l'intelligenza,  che  dev'essere  aggiunta  altronde,  acciocché 
l'uomo  sia  costituito.  L' intelligenza  dunque  ossia  la  razionalità 
é  ciò  che  si  pensa  di  più  col  secondo  pensiero,  e  costituisce  il 
diverso,    non  Y  identico. 

Alla  terza  questione  si  risponde  pure  di  no.  Poiché  nel  primo 
pensiero,  nel  quale  non  si  pensa  che  l'animale,  non  esiste  la  de- 
terminazione della  specie  umana  né  in  atto  né  in  potenza  , 
per  la  stessa  ragione  che  l'intelligenza  non  è  virtualmente  com- 
presa nell'animale.  Questa  specificazione  dunque  è  ancora  un 
di  più  che  si  pensa  col  secondo  pensiero  ,  e  questo  di  più  co- 


603 

stiluisce  ancora  il  diverso,  e  non  Videntico.  Che  se  in  vece  del- 
l'uomo ,  col  secondo  pensiero  si  pensasse  una  pecora  ,  questa 
specie  sarebbe  virtualmete  compresa  nel  genere;  e  si  potrebbe 
dire  che  coll'uno  e  coll'altro  pensiero  si  pensasse  l'identico  ente 
pecora,  in  due  modi  diversi,  virtualmente  nel  primo  pensiero, 
attualmente  nel  secondo. 

Alla  seconda  questione  si  risponde  aifermativamente,  cioè  che 
Vanimale  è  un'idea  identica  che  si  pensa  ne' due  pensieri  ,  ma 
in  un  modo  diverso,  perchè  nel  primo  pensiero  si  pensa  come  ter- 
mine dove  riposa  l'attenzione,  nel  secondo  pensiero  come  mezzo, 
contenenle  il  termine  del  pensiero,  che  è  Vuomo.  Si  trova  dunque 
in  questi  due  pensieri  un  elemento  identico,  ma  quest'elemento  non 
è  un  ente  completo,  e  quindi  non  si  può  dire  che  si  pensi  con  essi 
il  medesimo  ente:  di  pii!i  qucsVelemento  si  può  bensì  dire  un  og- 
getto comune  e  identico  de' due  pensieri,  ma  non  un  termine  iden- 
tico perchè  è  termine  del  primo  nel  quale  l'attenzione  si  posa 
sull'idea  dell'animale  in  genere,  ma  non  è  termine  dell'altro,  nel 
quiile  l'attenzione  non  si  posa  nell'animale  in  genere,  ma  nell'a- 
nimale specifico  cioè  colla  determinazione  aggiunta  della  raziona- 
lità e  ad  un  tempo  su  questa  razionalità  stessa  che  compisce  il 
concetto  di  uomo. 

In  quanto  dunque  più  pensieri  hanno  un  oggetto  pienamente 
identico,  in  tanto  sono  pensieri  uguali,  che  non  differiscono  se  non 
di  numero;  in  quanto  poi  hanno  ne' loro  oggetti  un  elemento  di- 
K'erso,  in  tanto  si  dicono  pensieri  dispersi,  ma  in  quanto  hanno  un 
elemento  identico  ne' loro  oggetti  non  pienamente  identici,  in  tanto 
si  dicono  modi  diversi  di  pensare. 

G32.  Da  tutto  questo  noi  possiamo  raccogliere,  che  i  modi  di 
pensare  si  possono  classificare  secondo  dilTerenze  diverse,  che  co- 
stituiscono la  base  della  classificazione. 

Una  prima  classificazione  de'  modi  di  pensare  si  prende  dalle 
facoltà  razionali  dello  spirito,  e  questa  base  di  classificazione  ci  dà 
i  tre  modi  accennati  deWinluizione,  dvWn  percezione,  e  della  rifles- 
sione, che  si  suddivide  in  nvilte  funzioni  [Psicol.  1023  sgg.). 

Una  seconda  classificazione  de' modi  di  pensare  si  prende  dal- 
l'oggetto che  si  mostra  con  luce  diversa  ,  e  qui  si  hanno  i 
modi  del  pensare  virtualmente ,  e  del  pensare  attualmente.  Per 
riconoscere  se  ciò  che  si  pensa  virtualmente  sia  identico   a   ciò 


che  si  pensa  attualmente,  conviene  1 .°  assicurarsi  che  tutlo  ciò 
che  si  pensa  atluahnenle  sia  contenuto  in  ciò  che  si  pensa  vir- 
luahìicnte  ,  e  niente  venga  aggiunto  dal  di  fuori ,  come  nell'e- 
sempio addotto  dell'animale  in  genere,  e  dell'animale  uomo,  il 
quale  non  esiste  lutto  nella  virtualità  dell'animale;  '2.°  osser- 
vare se  Vuttualilà  stessa  sia  essenziale  all'ente  o  all'entità  di  cui 
si  cerca  l' identità  ,  poiché  se  gli  fosse  essenziale  1'  attualità 
stessa,  quell'ente  non  si  penserebbe  nel  pensiero  virtuale,  man- 
cando in  questo  ciò  che  costituirebbe  l'essenza  deiroggelto  del 
pensare  attuale.  A  ragion  d'esempio  un  sentimento,  qual  sarebbe 
quello  del  color  rosso  ^  non  si  può  pensare  in  potenza,  perchè 
è  proprio  del  color  rosso  l'essere  in  atto,  e  perciò  i  ciechi  nati 
non  possiUio  pensare  il  color  rosso.  Allo  slesso  modo  pensare 
Vessere  in  universale,  e  pensare  Iddio,  non  è  pensare  un  oggetto 
identico  ,  perchè  sebbene  Iddio  sia  virtù  ilmente  compreso  nel 
concetto  dell'essere  ,  pure  con  esso  non  si  pensa  Iddio  ,  percbè 
è  essenziale  a  Dio  {'attualità,  e  se  non  si  pensa  la  sua  attua- 
lità, non  si  pensa  lui. 

Una  terza  non  meno  importante  classificazione  si  prende  dalla 
differenza  che  passa  tra  termine  del  pensiero  e  oggetto  del  pen- 
siero. Poiché  una  data  entità  si  può  pensare  come  oggetto  che 
è  anche  termine  del  pensiero  ,  in  cui  riposa  e  finisce  l'atten- 
zione del  pensiero  stesso ,  e  si  può  pensare  come  oggetto  che 
non  sia  termine  del  pensiero,  ma  che  contenga  il  termine  e  sia 
mezzo  di  poterlo  conoscere,  come  quando  per  concepire  la  specie 
abbiamo  bisogno  del  genere.  Altro  é  dunque  cercare  se  si  pensa 
un  termine  identico  del  pensiero,  altro  cercare  se  si  pensa  pu- 
ramente un  idetitico  oggetto.  A  ragion  d'esempio  noi  in  tutti  i 
pensieri  pensiamo  Vessere  universale,  ma  non  in  tutti  lo  pen- 
siamo come  oggetto  termine ,  ma  nella  maggior  parte  come  og- 
getto contenente,  mezzo  e  condizione  del  pensiero  del  termine. 
Convien  dunque,  per  dirlo  di  novo,  definire  prima  di  tutto  qual 
sia  l'entità,  di  cui  si  cerca  l'identità. 

Una  quarta  classificazione  de' modi  del  pensare  è  quella  che 
si  prende  dal  pensare  analitico  e  dal  pensar  sintetico,  potendosi 
pensare  la  stessa  cosa  nella  sua  unità,  e  analizzala  nelle  parli 
che  formano  quest'unità ,  e  questa  è  l'identità  de'  giudizi ,  quel- 
r  identità  di  cui  fa  sì  grand'uso  la  dialettica. 


G05 


DeWuso  che  fa  la  dialellica  Jt'//' identità  relativa  ai  due  modi 
di  pensare  ,  analitico  e  sintetico. 

655.  L' importanza  di  quest'identità  dell'oggetto  relativa  ai  due 
modi  di  pensare,  l'analitico  e  il  sintetico,  è  tanta  ,  che  essa  fu 
considerata  da  molti  filosofi  come  il  primo  principio  del  ragio- 
namento umano;  e  che  egli  sia  tra  primi  e  più  universali  prin- 
cipi non  è  negalo  da  nessuno  {Logica  558,  54^-560). 

Riguardo  agli  enti  puramente  dialettici,  la  questione  sta  nel 
sapere  se  l'ente  dialettico,  per  esempio  un  accidente,  una  rela- 
zione ,  una  negazione,  ecc.  assunti  come  enti  e  costituenti  il 
subietto  del  discorso,  rimanga  il  medesimo  o  no  in  diverse  pro- 
posizioni. 

Lo  stesso  è  da  dirsi  di  qualunque  ente  anche  reale  dialetti- 
camente considerato.  Ogni  proposizione  pretende  di  asserire  un' 
identità  tra  il  subietlo  ed  il  predicato:  provare  che  questa  iden- 
tità esiste  è  un  provare  la  verità  della  proposizione  ,  provare 
che  non  esiste  è  un  dimostrarne  la  falsità  [Logica  402  sgg.). 

Ogni  sillogismo  pretende  dimostrare  che  due  entità  sono  iden- 
tiche a  una  terza  ,  e  però  sono  identiche  tra  loro.  Riconoscere 
quest'identità  è  riconoscere  la  verità  di  ciò  che  pretende  il  sil- 
logismo; riconoscere  che  quest'identità  non  c'è,  è  un  riconoscere 
che  il  sillogismo  è  viziato  e  non  allo  a  provare. 

Così  l'applicazione  dell'identità  diviene  il  principio  che  pre- 
siede a  lutti  i  ragionamenti  umani  e  li  giudica  tutti,  efficaci  o 
non  efficaci,  veri  o  falsi. 

La  Logica  è  la  scienza  che  insegna  a  far  uso  del  concetto 
d'identità  in  ordine  a  questo  scopo  dialettico. 

Ella  fa  questo  principalmente  col  distinguere  V  identità  asso- 
luta dall'  identità  parziale,  e  la  difficoltà  maggiore  consiste  nel 
ritrovare  nettamente  qual  sia  l'identità  parziale  che  si  pretende 
asserire  colla  proposizione  o  coH'argomentazione.  Poiché  chi  di- 
cesse «  l'uomo  è  l'uomo  »  non  c'è  difficoltà,  trattandosi  d'iden- 
tità piena,  della  slessa  sintesi  uomo  replicata  senz'analisi;  ma  chi 
dicesse  «  l'uomo  è  fallibile  »  trattandosi  d'identità  parziale  deesi 
verificare  ,    se   questa   qualità  di  fallibile,  che  si  concepisce   in 


ere 

aslrallo,  si  trovi  identica  in  concreto,  cioè  nella  realità  deiruonio: 
queste  identità  parziali  sono  talora  difficilissime  a  cogliersi  con 
sicurezza  dal  pensiero,  od  esigono  lunghe  prove  per  accertarsene. 

034.  La  difficoltà  di  verificare  questa  identità  parziale  ha  su- 
scitate nelle  Scuole  questioni  che  non  si  poterono  mai  comporre: 
toccheremo  d'una  sola  di  queste. 

Gli  Scotisti  ponevano  il  principio  che  «  la  negazione  non  si 
può  mai  identificare  coH'ente  reale  ».  Per  rilevare  il  valore  d"un 
tal  principio  conviene  osservare,  che  esso  si  riferisce  aW  iden- 
lilà  parziale;  poiché,  riguardo  all'identità  totale,  quel  principio 
non  fu  mai  messo  in  duhhio  da  nessuno,  né  può  essere. 

Poiché  dunque  non  si  parla  che  d'una  identità  parziale,  giu- 
stamente fu  combattuto  quel  principio  da' Tomisti,  che  distinsero 
un'identilà  positiva  da  una  identità  negativa, 

E  nel  vero,  niente  vieta  che  per  via  di  negazione  si  esprima 
e  determini  un  ente  reale. 

Se  si  tratta  d'un  reale  finito  ,  egli  ha  le  sue  limitazioni  che 
possono  essere  pensate  e  pronunciate  in  forma  di  negazione,  e 
la  stessa  parola  finito  é  negazione  della  pienezza  dell'essere ,  e 
pure  queste  due  parole  :  «  ente  finito  »  servono  a  determinare 
lutti  quegli  enti  reali  che  non  sono  l'essere  assoluto,  e  però  c'è 
un'identità  parziale  tra  questi  enti  reali  e   la    detta    negazione. 

Se  si  tratta  dell'ente  infinito  è  a  considerarsi ,  che  la  nega- 
zione di  negazione  s' identifica  coll'affermazione  ;  e  la  mente 
umana  infatti  accumula  negazioni  di  negazioni  per  arrivare  al 
concetto  dell'ente  infinito.  In  questo  caso  dunque  si  deve  di- 
stinguere la  forinola  dialettica,  della  quale  si  serve  la  mente  per 
pensare  l'infinito,  dal  r/5M/<«/o  della  stessa  formola  che  é  l'infi- 
nito stesso.  Ora  rispetto  a  questo,  ninna  semplice  negazione  può 
avere  identità  né  totale  né  parziale;  ma  v'ha  una  identità  dia- 
lettica tra  la  formola  e  l'infinito  come  semplicemente  indicato 
alla  mente  umana;  poiché  quella  formola  tessuta  di  negazioni 
indica  veramente  alla  mente  quell'infinito  che  non  ha  negazione. 

Gli  Scotisti  dal  suddetto  loro  principio  inducevano,  che  Vuno 
preso  formalmente,  dovea  essere  qualche  cosa  di  positivo,  come 
quello  che   realmente  è  lo  slesso  che  l'ente  (1).  Era  una   con- 

(1)  G.  Scoi,  in  IV  Metaph. 


607 

tradizione;  poiché  in  quanto  l'uno  è  distinto  dall'ente  non  è 
più  che  un  astratto,  pensando  il  quale  si  prescinde  dall'ente; 
parlandosi  poi  dell'uno  in  genere  neutro,  parlavasi  dell'uno  so- 
stantivato, e  non  della  qualità  astratta,  parlavasi  dell'ente  uno, 
e  non  del  solo  uno. 

Ma  i  Tomisti,  o  alcuni  di  essi,  attenendosi  alla  qualità  astratta 
dell'uno  e  distinguendo  T identità  positiva  dalla  negativa,  dice- 
vano che  l'uno  era  identico  coll'ente  negativamente,  in  quanto 
che  non  poteva  significare  o  piuttosto  indicare  altra  cosa  che 
l'ente  (1),  perchè  infatti  la  qualità  propria  indica  la  cosa  di  cui 
essa  è  qualità  e  la  sottintende  a  sé  stessa,  non  potendo  slare 
senza  di  questa,  e  |)erò  con  questo  s'identifica. 

Articolo   IV. 
Identità    relativa   alla  varietà   intrinseca. 

655.  Fin  qui  di  quella  identità,  che  si  cerca  unicamente  in 
confronto  della  varietà  estrinseca,  cioè  di  quella  varietà,  che  è 
condizione  necessaria  a  costituire  un  diverso  modo  del  pensare. 
Dobhiamo  ora  parlare  di  quella  seconda  specie  d'identità,  che 
si  cerca  in  confronto  della  varietà  intrinseca,  cioè  esistente  nella 
slessa  entità,  di  cui  si  fa  la  domanda,  se  sia  identica. 

Esporremo  in  primo  luogo  alcune  regole  generali  atte  a  diri- 
gere i  giudizi  che  si  fanno  intorno  a  questo  secondo  genere 
d'idenlità,  e  poi  ne  faremo  alcune  applicazioni. 


S  1. 

Regole  generali  per  conoscere  V  identità  degli  enti 
relativa  alle  loro  varietà  intrinseche. 

636.  Dalle  cose  dette  più  sopra  risulta: 
ì.°  Altri  enti  sono  semplici,  altri  composti; 
2.°  Tra  i  composti  ce  n'hanno  di   più   e   meno   composti  , 

(1)  11  Gaetano:  Esse  idem  contingit  dnpliciler,  scilicet  positive  et  nega- 
live.  Unum  autem  forìaaliter  est  idem  enti  negative:  quia  non  aliam  na- 


GOS 

secondo  che  a)  sono  più  .0  meno'  ìe  appendici  enlilative,  e  b) 
il  nesso  Ira  queste  appendici  e  la  base  dell'ente  è  più  0  men 
largo  (.622*); 

3."  L'ente  semplice  0  composto  è  costituito  da  un  atto  a 
cui  non  può  mancare  l'unità,  cioè  ogni  ente  è  uno; 

h.°  Negli  enti  composti  quest'atto  costitutivo  dell'ente  si 
chiama  base„  e  tutto  ciò  che  è  diverso  da  quest'atto  si  chiama 
appendice  cntitativa;  ma  negli  enti  semplici  questa  parola  di 
base  che  si  riferisce  alle  appendici  non  è  applicabile  ,  perchè 
non  hanno  appendici ,  e  per  così  dire  sono  tulio  base.  Resta 
dunque  il  solo  atto  costitutivo  che  è  l'ente  stesso. 

Da  questi  principi  derivano  le  regole  per  giudicare  dell'iden- 
tità 0  della  diversità  degli  enli,  e  sono  le  seguenti, 
A.  Per  gli  enli  composti. 

d.*  Regola.  —  Ogni  qual  volta  in  un  ente  composto  è  di- 
strulta  la  base  del  medesimo  ,  benché  rimangano  dopo  di  lui 
degli  altri  enti  con  altre  basi,  egli  ha  perduta  la  sua  identità  , 
e  gli  enti  che  rimangono  sono  enti  diversi  dal  primo,  il  quale 
è  perito. 

Quello  che  può  ingannare  in  questo  giudizio  si  è  il  vedere  , 
che  rimane  tuttavia  ciò  che  prima  era  appendice  dell'ente.  Se 
queste  appendici  si  prendono  per  l'ente^  pare  che  ci  sia  un'iden- 
tità tra  la  materia  che  rimane  ,  cioè  le  appendici ,  e  l'ente  di 
prima.  Tutto  ciò  che  importa  dunque  si  è,  che  si  sappiano  bene 
distinguere  le  appendici  dalla  base  dell'ente  ,  e  che  si  precida 
colla  mente  la  bnse  in  modo  da  non  lasciarle  aderente  nulla 
delle  appendici.  Questa  avvertenza  vale  ugualmente  per  la  re- 
gola seguente. 

2."  Regola.  —  Ogni  qual  volta  l'ente  si  costituisce,  cioè,  a 
ciò  che  v'era  prima  si  soprappone  una  nova  base,  l'ente  costi- 
tuito da  questa  nova  base  è  un  ente  novo,  e  l'ente  0  gli  enti 
che  c'erano  prima  hanno  perduta  la  loro  identità,  benché  pos- 
sano sembrare  per  un'illusione  esistenti,  in  quanto  che  si  sono 
cangiati  nelle  appendici  del  novo  ente,  e  però  hanno  acquistato 
il  concetto  di  materia  rispetto  al  novo  ente,  e  così  pure  hanno 

turam  signi ficat,  sed  eamdem  alio  modOy  ut  dicitur  IV  Metaphysicomm.  In 
Sum.  S.  Tli.  I,  XI,  I. 


C09 

cessalo  d'essere  enti,  o  eerto  hanno  cessato  d'essere  quegli  enti 
di  prima. 

5/  Regola.  —  Se  si  mutano  le  appendici ,  rimanendo  im- 
mutata la  base  dell'ente,  l'identità  è  conservala, 
B.  Rispetto  agli  enti  semplici. 

1  '^  Regola  —  Questi  enti  non  possono  perdere  la  loro  iden- 
tità per  via  di  composizione  o  di  scomj)osizione  della  base  e 
delle  appendici,  perchè  non  hanno  che  un  atto  costitutivo  senza 
appendici. 

2."  Regola.  —  Se  la  base  dcH'cnle  semplice  può  esser  unita 
0  separala  da  altre  basi,  può  perdere  la  sua  identità  per  unione 
di  più  basi  uguali  in  una  sola,  per  una  nova  attualità  della  base 
stessa,  quando  questa  nova  attualità  si  prenda  ella  stessa  come 
aumento  della  base,  e  per  una  base  superiore  che  s'unisca  colla 
base  inferiore  in  modo  da  costituire  una  sola  base. 

3.^  Regola.  —  Se  la  base  dell'ente  semplice  non  può  es- 
sere in  nessuna  maniera  mutala  o  modificala,  l'ente  semplice 
conserva  una  perpetua  identità  con  sé  stesso,  come  avviene  del- 
l'Ente assoluto  in  cui  nulla  si  può  mutare. 


Due  specie  di  varietà  inlriuseca,  quella  che  consiste  ne^ cangiamenti 
che  nascono  nello  stesso  ente,  e  quella  che  consiste  nella  molti- 
plicitàj  che  si  trova  nello  slesso  identico  ente. 

G57.  Chi  cerca  V identità  d'un  ente  in  confronto  della  varietà 
intrinseca,  deve  prima  di  tutto  distinguere  due  specie  di  varietà. 
L'ùna  è  quella  che  nasce  neir(  nte  per  le  modificazioni  ch'egli 
subisce  rimanendo  tuttavia  identico,  modificazioni  a  cui  soggiac- 
ciono quasi  tutti  gli  enti  finiti:  l'altra  è  quella  che  si  trova 
nell'ente  stesso  immutabile,  come  nell'ente  infinito  che  pur  sus- 
siste in  tre  modi. 

Nascono  di  qui  due  questioni,  cioè: 

l.°  Come  si  dimostri  che  l'ente  rimanga  identico,  a  mal- 
grado che  nascano  in  esso  diversi  cangiamenti,  questione  di  cui 
abbiamo  trattato  nella  Psicologia  (866  sgg.): 

Rosmini.  Teosofia.  39 


610 

2."  Come  si  provi  che  l'ente  rimanga  identico  in  più  modi 
di  essere:  questione  che  ahbiamo  risoluta  nel  libro  delle  forme 
primitive  dell'essere,  e  in  altri  luoghi. 

038.  Solamente  qui  aggiungeremo  che  la  varietà  delle  tre  forme 
in  cui  l'essere  identico  si  ritrova,  e  che  èvarietà  intrinseca  al- 
l'ente stesso,  è  quella  che  contiene  la  ragione  ultima,  e  l'origine 
di  quella  che  abbiamo  chiamata  varietà  estrinseca  cioè  relativa  ai 
diversi  atti  e  modi  del  pensare.  Poiché  il  pensare  sorge  appunto 
dalla  relazione  Ira  le  forme  ,  supponendo  una  forma  subiettiva 
pensante  in  istretta  unione  con  una  forma  obiettiva  pensata.  Per 
questa  stretta  relazione  ed  unione,  ossia  per  questo  sintesismo, 
accade,  che  l'ente  nella  sua  forma  obiettiva  riceva  dalla  subiet- 
tiva. Ma  questo  ricevere  è  diverso,  secondo  che  sono  diversi  gli 
enti  che  si  considerano  in  quelle  due  forme.  Se  trattasi  dell'Ente 
assoluto,  questo  nella  forma  subiettiva  genera  col  pensiero,  che 
è  lui  stesso,  l'ente  obiettivo,  e  crea  gli  enti  finiti.  Ma  se  si  parla 
dell'uomo  come  ente  nella  forma  subiettiva,  egli  non  può  col  suo 
pensiero  creare  gli  enti;  essendogli  dunque  questi  dati,  co' di- 
versi modi  del  pensiero  non  gli  resta  altro  che  di  lavorare 
intorno  ad  essi  una  rete,  dirò  così,  di  relazioni  positive  o  ne- 
gative ,  e  però  anche  dal  pensiero  dell'uomo  ricevono  qualche 
cosa  gli  enti ,  rimanendo  però  questi  quello  che  sono  in  sé  , 
senza  di  lui. 

Questo  fa  il  pensiero  umano  ne' diversi  suoi  modi  anche  ri- 
guardo agli  enti  semplici ,  Egli  scompone  l'ente  semplice  —  come 
pure  l'ente  composto,  —  e  ne  riunisce  le  parti,  egli  lo  considera 
in  relazione  con  altri  enti,  o  lo  precide  da  essi.  Se  si  tratta  di 
parti,  0  d'elementi  formali  o  materiali,  nasce  allora  la  questione 
dell'  identità  che  può  avere  con  questi  elementi  l'ente  stesso  , 
e  per  risolverla  conviene  ricorrere  alle  regole  già  *da  noi  date 
parlando  dell'identità  relativa  alla  varietà  estrinseca.  Tra  le 
questioni  di  questo  genere  vi  hanno  quelle  che  riguardano  l'ente 
semplicissimo  ed  assoluto  ,  cioè  Dio  ,  quando  si  domanda  d'un 
attributo,  per  esempio  della  sapienza,  se  sia  Dio  ,  e  si  predica 
l'identità,  poiché  tanto  si  dice  che  Dio  è  sapienza ,  quanto  che 
la  Sapienza  è  Dio.  Come  s'avveri  quest'  identità  sarà  discusso 
nella  Teologia.  Ma  quando  non  si  tratta  d'un  ente  semplicissimo, 
allora   l'elemento  ,  sebben  formale  ,  si   distingue  come   diverso 


cu 

dall'ente  stesso,  almeno  in  molli  casi  che  risultano  dalle  regole 
che  abbiamo  date. 

In  falli  ,  essendo  l'atto  costitutivo  dell'ente  semplice  essen- 
zialmente uno,  (,595,  sgg.;  GÌ 4*)  qualunque  cosa  manchi  a 
quest'uno  non  è  più  quell'uno  di  prima,  perchè  è  l'uno  dimezzato 
(,586,  587*):  manca  all'ente  semplice  parte  della  sua  essenza  e 
questo  basta,  per  la  regola  che  abbiam  data  ,  a  non  esser  più 
lui  ,  e  aver  perduto  la  sua  identità. 

Ciò  che  rimane  allora  davanti  alla  mente  non  è  un  ente  com- 
pleto ,  ma  diminulo  ,  e  solo  la  mente  lo  considera  per  ente  in 
un  modo  dialettico. 

639.  Diamo  degli  esempi,  ne' quali  apparisca,  come  pel  modo 
del  pensare  astratto  si  perda  l'identità  dell'ente. 

a)  Se  noi  prendiamo  i  corpi  —  enti  estrasoggettivi  —  e 
facciamo  astrazione  da  tutte  le  loro  forme,  come  pure  dalla  loro 
quantità,  ci  rimane  nella  mente  un  concetto  di  materia  prima 
corporea,  e  questa  materia  prima  è  considerata  dalla  mente  come 
un  ente  semplice,  ma  quest'ente  non  è  identico  a  nessun  corpo 
dell'universo,  e  però  non  si  può  chiamare  un  corpo,  anzi  non 
è  un  ente  in  sé  slesso,  e  soltanto  la  mente  lo  prende  come  fosse 
tale,  dialetticamete.  Questa  mancanza  d'identità  nasce  da  questo 
che  a  un  corpo  è  necessario  l'atto  della  grandezza  e  della  for- 
ma ecc.;  e  mancando  queste  attualità  manca  qualche  cosa  del- 
l'essenza del  corpo. 

b)  Se  prendiamo  gli  animali  — enti  soggettivi  imperfetti  — 
e  prescindiamo  da  ogni  termine  del  loro  sentimento,  non  ci  ri- 
mane più  l'animale,  e  non  di  meno  possiamo  ancora  pensare  un 
principio  sensitivo  puramente  in  potenza.  Questo  principio  al  tutto 
potenziale  ,  che  nulla  sente,  non  si  può  chiamare  animale  né 
animato,  né  conserva  alcuna  identità  con  quell'ente  che  si 
chiama  animale  o  animato,  ed  anzi  non  esiste  realmente  in  sé, 
ma  rimane  qualche  cosa  davanti  alla  mente  che  il  pensa  e  lo 
considera  come  ente  indeterminato ,  che  la  mente  assume  dia- 
letticamente per  ente.  E  ancora  qui  manca  l' identità,  perchè 
manca  il  termine  e  l'alto  del  principio  verso  questo  termine  che 
appartiene  all'essenza  dell'animale. 

e)  Lo  slesso  è  da  dirsi,  se  pensiamo  agli  enti  intellettivi 
e  poi  precidiamo  da  essi  ogni  oggetto,  senza  del  quale  né  pen- 


612 

sano  né  possono  più  pensare.  Il  principio  intellettivo  considerato 
dalla  mente  con  questa  precisione  non  è  l'ente  identico  di  prima, 
anzi  l'ente  intellettivo  non  c'è  più  davanti  alla  mente,  la  quale 
ora  pensa  soltanto  un  principio  potenziale  di  quest'ente,  che  non 
è  ente,  se  non  dialettico  ;  e  ciò  di  novo  perchè  un  oggetto  è  ne- 
cessario, acciocché  ci  sia  l'atto  essenziale  all'ente  intellettivo.  E 
non  di  meno  ciò  che  sta  davanti  alla  mente  non  é  nulla,  e  non 
è  il  soggetto  pensante  né  una  sua  modificazione  ,  né  una  sua 
produzione;  ma  una  realità  indetcrminata  nell'idea. 

d)  Abbiamo  già  applicala  la  stessa  dottrina  all'essere.  Se 
sì  pensa  l'essere  co'  suoi  termini  propri,  si  ha  tutto  intero  l'alio 
costitutivo  dell'essere,  che  è  l'essere  assoluto.  Se  si  spoglia  dei 
suoi  termini  propri  od  impropri  ,  che  cosa  rimarrà  davanti  al 
pensiero?  Certo  non  più  lo  stesso  essere  assoluto  che  si  pen- 
sava prima:  l'identità  è  perduta,  non  pensandosi  più  lutto  l'atto 
costitutivo,  semplicissimo,  dell'essenza  divina.  Si  pensa  in  quella 
vece  un  essere  iniziale,  che  non  si  assolve  in  alcun  termine  e 
che  ha  solamente  la  virtù  d'assolversi  e  completarsi,  o  assoluta- 
mente ne'  suoi  termini  propri  con  che  davanti  alla  mente  si 
restituisce  Iddio,  o  relativamente  co' suoi  termini  impropri  con 
che  si  presentano  alla  mente  gli  enti  finiti.  Questi  tre  oggetti 
del  pensiero  essere  preciso  da  suoi  termini,  essere  assoluto,  essere 
relativo  e  finito  non  sono  dunque  enti  identici,  ma  tre  enti  di- 
versi: l'ente  infinito  e  finito  sono  enti  diversi  reali;  l'essere 
preciso  da' suoi  termini  è  un  inizio  di  ente:  la  mente  stessa  noi 
concepisce  come  un  ente  in  sé,  ma  come  un  ente  che  è  sola- 
mente in  sé  relativamente  ad  essa,  ed  oggetto  di  lei ,  e  perciò 
dalla  mente  slessa  diverso. 


Articolo  V. 

Concetto  di  diventare. 

6^0.  La  dottrina  della  semplicità  e  dell'  identità  degli  enti  con- 
duce a  intendere  il  concetto  del  diventare,  che  male  inleso  diede 
occasione  a  innumerevoli  errori,  tra  i  quali  i  più  recenti  della 
scuola  hegeliana. 


Q\3 

Abbiamo  veduto,  che  la  varietà  intrinseca  è  duplice,  poicliè 
0  è  quella  delle  forme,  in  cui  è  un  medesimo  ente,  o  è  quella 
de'cangiamenli  che  può  subire  un  medesimo  ente.  Tra  questi  can- 
giamenti si  può  pensare  anche  quello  in  cui  l'ente  cessa  d'esi- 
stere ,  e  rimangono  delle  appendici  che  si  costituiscono  in  un 
novo  ente.  Questo  è  il  genuino  concetto  del  diventare  rispetto 
all'ente.  iMa  di  questo  concetto  si  abusa  da  alcune  menti,  che  si 
perdono  in  una  confusa  speculazione.  È  dunque  necessario  dare 
a  questo  concetto  la  luce  dell'analisi  ,  e  cosi  togliere  quell'o- 
scuro, dal  quale  deriva  l'errore. 

Il  concetto  dunque  del  diventare  risulta  da  elementi  parte  reali 
—  cioè  che  si  riferiscono  ai  reali,  —  parte  ideali,  e  parte  puramente 
mentali.  Quando  questi  vari  elementi  si  prendano  confusamente, 
quel  concetto  si  presta  a  tessere  innumerabili  fallacie ,  che  nel 
maneggiarlo  si  passa  occultamente  dall'ordine  de'  reali  a  quello 
degli  ideali  e  dall'uno  e  l'altro  a  quello  de' mentali,  e  si  con- 
chiude d'uno  di  questi  ordini  quello  che  non  vale  se  non  per 
l'altro;  quindi  i  paradossi  e  i  sofismi  non  hanno  più  fine. 

G^l.  Cominciamo  dal  considerare  questo  concetto  in  sé  stesso, 
per  considerare  poscia  le  applicazioni  ai  tre  ordini, 

«  Un  ente  diventa  un  altro  ». 

Acciocché  questa  proposizione  abbia  una  verità  rigorosa  con- 
viene che  ci  sia  identità  tra  l'ente  che  diventa  e  l'altro  diven- 
tato, perché  in  ogni  proposizione  vera  ci  deve  essere  un'identità 
tra  il  predicato  e  il  subietto  (Logic.  205-205,  3^8-357,  itOZ-hOH). 
Ma  questo  è  impossibile,  perchè  il  diventato  é  un  altro,  diverso 
da  quello  che  diventa,  e  però  sono  due,  e  l'ente  è  essenzial- 
mente uno.  Né  vale  il  mutar  forma  alla  proposizione  riducen- 
dola così  :  (c  Un  ente  è  diventante  un  altro  »,  ovvero  :  «  un  ente 
è  diventato  un  altro  » .  Poiché  la  seconda  di  queste  due  forme 
ha  lo  stesso  assurdo  in  sé  stessa,  perché  Venie  divejitalo  già  non 
è  più  l'ente  di  prima  ,  onde  non  è  l'ente  di  prima  che  sia  di- 
ventato, perchè  Vente  diventato  non  é  quello  a  cui  s'attribuisce 
l'atto  del  diventare.  Manca  dunque  ancora  ogni  identità  del 
giudizio.  Dicendo  poi  «  l'ente  è  diventante  un  altro  »,  fino  che 
l'ente  é  diventante  solamente  é  ancora  l'ente  di  prima  ,  ma 
quando  ha  finito  il  suo  atto,  egli  si  è  annullato,  e  perciò  non 
é  mai  diventante  un  altro,  ma  solamente  è  nell'atto  di  annui- 


6U 

larsi,  checché  rimanga  dopo  di  lui,  che  non  è  lui.  Se  non  può 
mai  essere  diventato  un  altro  ,  né  pure  può  essere  diventante. 
Gli  Hegeliani  dunque,  che  fanno  del  diventare  il  principio  della 
filosofia  ,  fondano  la  scienza  sopra  un  concetto  che  nella  sua 
enunciazione  rigorosa  è  un  assurdo;  e  in  fatti  sono  poi  costretti 
a  confessare  essi  stessi,  che  la  loro  filosofia  s'intesse  di  contrad- 
dizioni, e  se  ne  danno  vanto  come  d'una  grande  scoperta. 

Si  replicherà  che  altra  proposizione  è  :  «  l'ente  che  diventa 
è  il  diventalo  >;  ,  e  altra:  «  l'ente  diventa  un  altro  ».  Ammet- 
tiamo qualche  differenza  nelle  due  proposizioni  ;  ma  se  non  è 
vera  la  prima,  non  può  essere  vera  la  seconda,  perchè  la  se- 
conda implica  la  prima.  Ciononostante  dimostriamo  di  novo  l'im- 
possibilità della  seconda. 

«  Un  ente  diventa  un  altro  »  :  quest'altro  non  é  lui  che  di- 
venta, altrimenti  non  sarebbe  un  altro.  Dunque  se  indichiamo 
l'ente  che  diventa  colla  lettera  A,  la  proposizione  «  un  ente  di- 
venta un  altro  »  si  potrà  esprimere  così  «  A  diventa  non- A  ».  Ora 
diventare  non-A  equivale  a  cessare  di  essere  A ,  e  cessare  di 
essere  A  equivale  per  A  ad  annullarsi.  Diventare  dunque  un 
altro  è  prima  di  tutto  un  annullarsi.  Ma  ciò  che  é  annullato 
non  può  più  diventare  un  altro.  La  proposizione  dunque,  come 
dicevamo,  implica  una  contraddizione  inevitabile  ,  perché  con- 
tiene due  cose  contraddittorie,  cioè  l'annullarsi  ,  e  il  diventare 
un  altro. 

042.  S'insisterà  dicendo,  che  il  diventare  un  altro  esprime  un 
movimento  dell'ente  che  passa  per  il  nulla,  di  maniera  che  l'ente 
che  diventa  si  move  così  che  prima  s'avvicina  al  nulla  fino  che 
lo  raggiunge,  e  poi,  raggiunto  il  nulla,  da  questo  nulla  sorge 
l'altro  ente,  di  maniera  che  il  nulla  sia  la  fine  del  primo  ente 
e  il  cominciamento  del  secondo  e  però  il  punto  di  continua- 
zione 0  d'indifferenza  de' due  enti.  Così  infatti  s'esprimono  gli 
Hegeliani.  Ma  con  ciò  invece  di  un  assurdo  solo,  ce  ne  danno 
due.  Poiché  devono  dire  ,  o  che  l'ente  primo  ,  il  nulla  in  cui 
finisce,  e  l'ente  secondo  che  nasce  dal  nulla,  sieno  un  subietto 
identico  del  movimento,  o  che  que'tre  termini  non  abbiano 
identità.  Se  fossero  identici,  allora  la  proposizione:  «  l'ente  di- 
venta nulla  e  dal  nulla  diventa  l'altro  ente  »  sarebbe  ,vera*, 
perchè  questa  supposizione  ha  un  subielto  solo  che   diventa ,  e 


645 

questo  subietto  non  sarebbe  solo  se  non  fosse  identico  ed  uno. 
Ma  se  il  primo  ente  non  ha  identità  col  nulla ,  e  il  nulla  non 
ha  identità  col  secondo  ente,  quella  proposizione  è  falsa,  perchè 
essa  pone  un  subietto  solo  ed  identico  di  tutto  il  movimento. 
Lo  stesso  ente  che  si  move  a  diventar  nulla,  divenuto  nulla  si 
move  a  diventare  un  altro  ente.  Ma  il  dire,  che  l'ente  primo  , 
il  nulla  ,  e  Tonte  secondo  sieno  identici  ,  è  dire  due  assurdi  : 
poiché  un  assurdo  è  il  dire  che  l'ente  sia  identico  al  nulla  , 
che  quando  l'ente  si  è  annullato  non  c'è  più  ,  e  se  non  c'è 
più,  non  è  più  l'ente  di  prima;  e  un  altro  assurdo  è  il  dire  che 
il  nulla  sia  identico  al  novo  ente  per  la  stessa  ragione,  che  il 
nulla  nega  l'ente,  e  l'ente  afferma  sé  stesso.  Ora  negare  e  af- 
fermare non  può  essere  identico ,  appunto  perchè  è  diverso  al 
maggior  grado,  essendo  contraddittorio;  e  diverso  vuol  dire  non 
identico. 

Tutto  dunque  l'hegelianismo  è  basato  sopra  una  proposizione 
doppiamente  assurda. 

Ma  s'escluderà  per  questo  ogni  senso  della  parola  diventare? 
Come  avviene  che  tanto  l'adoperino  gli  uomini,  e  che  nell'umano 
discorso  appena  se  ne  possa  far  senza? 

Noi  siamo  ben  lontani  da  volere  escludere  l'uso  volgare  di 
questa  parola.  Ma  è  necessario  dichiarare  in  qual  senso  la  si 
usi,  dal  che  apparirà  più  manifestamente  ancora,  che  se  ella  è 
buona  nel  comune  discorso,  non  si  può  tuttavia  introdurre  nella 
scienza, 

643.  I.  Incominciamo  dagli  enti  reali  finiti. 

A.  Abbiamo  detto,  che  questi  enti  si  compongono  d'una 
hase  e  di  appendici^  e  che  l'ente  non  ha  perduta  l'identità,  se  non 
quando  è  rimossa  la  base:  di  più,  che  in  certi  enti  le  appendici 
sono  variabili  rimanendo  immutata  la  base  (622,  B).  In  que- 
st'ultimo caso  si  dice  con  proprietà,  che  l'ente  si  muta,  ma  non 
si  dice,  che  diventi  un  altro  ente.  Nel  primo  caso,  per  bre- 
vità di  parlare,  si  dice  che  diventa  un  altro;  ma  questo  parlare 
figuralo  usato  ne'  discorsi  comuni,  non  esprime  il  fatto  con  esat- 
tezza ,  ed  anzi  involge  le  contraddizioni  che  abbiamo  indicate. 
Per  maggior  chiarezza,  cominciamo  a  parlare  di  quegli  enti  le 
cui  appendici  sono  variabili  • 

Se  accade,  che  una  base  inferiore  si  congiunga  ad  una  base 


6^6 

superiore  ,  e  da  questa  congiunzione  risulli  un  ente  solo,  si  fa 
una  mutazione  nelle  due  basi  divenule  una  sola  ,  ma  la  muta- 
zione è  di  natura  assai  diversa  rispetto  alla  base  superiore  da 
quello  che  sia  rispetto  alla  base  inferiore.  La  base  superiore 
rimane,  dopo  la  congiunzione  ,  base  dell'ente  e  però  Tenie  da 
essa  formato  ha  conservata  la  sua  identità  ,  ma  l'atto  costitu- 
tivo di  quest'ente^  dall'intima  unione  che  ha  contratto  coU'atto 
costitutivo  dell'ente  inferiore,  acquistò  una  nova  virtù  e  un  novo 
valore.  Questa  nova  virtù  si  può  dire  un  aumento  di  sostanza, 
perchè  aifetta  l'atto  stesso  che  fa  sussistere  Tenie:  ogniqualvolta 
dunque  una  base  superiore  s'accresce  di  virtù  per  la  congiun- 
zione d'una  base  inferiore  ,  s'aumenta  la  sostanza  ,  ma  non  si 
perde  l'identità  dell'ente. 

La  base  inferiore  all'incontro  essendosi  unita  e  unitìcata  con 
una  base  superiore  non  costituisce  più  da  sé  stessa  un  ente,  e 
però  l'ente  ch'ella  prima  formava  non  esiste  più,  ma  solo  esiste 
l'ente  che  era  costituito  dalla  base  superiore.  Questa  base  su- 
periore rispetto  all'inferiore,  a  cui  s'è  unita,  dicesi  forma  sostan- 
ziale di  quest'ultima,  che  .ha  cessato  d'essere  ella  slessa  forma 
sostanziale  d'un  ente. 

Ci  hanno  dunque  due  cose  a  considerare.  Tona  il  cangiamento 
sostanziale  che  ha  subito  l'ente  costituito  dalla  base  superiore 
senza  perdere  l'identità,  l'altro  il  cangiamento  entico  che  ha  su- 
bito l'ente  costituito  dalla  base  inleriore,  cangiamento  che  con- 
siste nelTaver  cessato  d'esistere ,  e  cosi  aver  perduto  la  sua 
identità  per  una  nova  forma  sostanziale  che  gli  è  sopravvenuta. 

644.  Il  cangiamento  sostanziale  che  nasce  nell'ente  superiore, 
senza  che  se  ne  perda  l'identità,  suscita  nell'animo  questo  dubbio: 
«  Se  la  base  dell'ente,  che  è  Tatto  costitutivo  dell'ente  stesso, 
acquista  nova  virtù  ,  e  se  però  la  parte  stessa  sostanziale  del- 
l'ente s'aumenta,  come  rimane  Tenie  identico?  o,  se  è  identico, 
come  si  può  dire,  che  Tenie  sia  perfettamente  uno,  quando  egli 
stesso  può  esser  composto  di  uno  e  di  due  »?  A  ragion  d'esempio, 
Tanima  intellettiva  separata  dall'animalità  è  un  ente;  quando  a 
questa  s'aggiunge  il  principio  sensitivo  animale,  che  è  una  base 
inferiore,  quell'anima  acquista  una  virtù  che  non  aveva  prima, 
la  virtù  sensitiva'  e  motiva  del  corpo.  Quest'aggiunta  che  ha 
acquistalo   Tanima   umana  è  un    aumento  di   sostanza  ,    poiché 


fi  17 

divenne  base  coslilutiva  dell'ente  il  principio  razionale,  clic  è  la 
b;isc  dcH'enle  uomo,  e  che  è  qualche  cosa  di  più  del  principio 
meramente  inlelletlivo.  Nasce  dunque  la  dimanda:  «  se  l'anima 
rimanga  identica,  separata  ed  unita  all'animalità  ». 

Per  risolvere  il  qual  dubbio  conviene  fare  alcune  distinzioni: 

l  °  L'accidente,  la  sostanza,  e  Venie  sono  tre  concetti  diversi. 

ll°  L'atto  costitutivo  o  base  dell'ente  dee  collocarsi  sola- 
mente nel  principio  sapremo  immanente  che  si  trova  nella  rea- 
lità dell'ente  stesso.  Da  questo  principio  supremo  dipendono 
tutte  le  attività  dell'ente,  ed  egli  è  il  contenente  massimo  di 
quelle.  Se  trattasi  d'un  ente  intellettivo  ,  da  un  tale  principio 
supremo  nasce  a  lui  la  coscienza  della  propria  identità.  Ora 
questo  principio  supremo,  soggettivo,  reale,  nel  caso  dell'anima 
umana  è  il  solo  intellettivo  ,  a  cui  è  subordinato  il  sentitivo. 
Perciò  l'anima  anche  separata,  dato  che  rifletta  sopra  sé  stessa, 
si  fa  consapevole  della  propria  identità. 

3.°  La  parola  sos'anza,  negli  enti- princìpio,  abbraccia  non 
solo  questo  principio  supremo  soggettivo  unico  contenente  il 
resto;  ma  abbraccia  ancora  tutta  l'attività  immanente,  di  cui 
essa  può  esser  fornita,  ossia  che  può  contenere  in  sé. 

4.°  La  sostanza  poi  si  distingue  dagli  accidenti  per  essere 
questi,  0  atti  transeunti,  o  tali  che,  anche  mutati  ,  non  tolgano 
né  diminuiscano  l'attività  immanente  dello  stesso  principio,  o 
quella  che  in  un  modo  immanente  egli  contiene.  Dalle  quali 
distinzioni  si  deduce  la  soluzione  del  dubbio.  Poiché  unendosi 
l'anima  ossia  il  principio  intellettivo  col  principio  sensitivo  —  onde 
di  due  i)rincipì  se  ne  fa  uno  [Psicol.  294-298,  039-644)  —  il 
principio  intellettivo  rimane  il  medesimo,  come  contenente,  ma 
s'è  accresciuto  il  suo  contenuto,  e  perciò  acquistò  una  nova 
virtù.  Egli  dunque,  e  conseguentamenle  Tenie  da  esso  costituito, 
ha  conservata  la  sua  identità,  ma  s'è  accresciuta  la  sua  sostanza, 
perchè  s'è  accresciuta  la  sua  attività  immanente.  Di  che  si  de- 
duce il  corollario: 

«  Che  le  sostanze  finite  non  sono  del  lutto  invariabili,  benché 
sieno  tali  considerate  in  relazione  cogli  accidenti,  ma  ammettono 
qualche  aumento  e  qualche  diminuzione  senza  che  perciò  si  di- 
strugga necessariamente  l'identità  dell'ente,  e  questa  variabilità 
si  vede  quando  si  considerano  in    relazione    al   primo   principio 


GIS 

costitutivo  dell'ente  e  alla  diversa  quantità  d'attività  immanente 
ch'egli  può  contenere  »  {Ideol.  612,613). 

6^5.  Stabilito  questo  fatto  ontologico  che  la  sostanza  d'un  ente 
ammette  qualche  aumento  o  diminuzione  senza  che  si  perda 
l'identità  dell'ente,  a  cagione  della  costanza  del  principio  su- 
premo —  il  che  accade  quando  una  base  superiore  s'unisce  a  una 
base  inferiore,  —  consideriamo  ora  che  cosa  avvenga  della  base 
inferiore  quando  s'unisce  ed  unifica  con  una  base  superiore. 

Abbiamo  già  detto ,  che  la  base  inferiore,  a  cui  sopravviene 
una  base  superiore,  cessa  d'esser  base  d'un  ente  e  conseguente- 
mente d'esser  forma  sostanziale,  e  acquista  per  forma  sostanziale 
la  base  superiore.  Perisce  così  l'identità  dell'ente  e  se  n'ha  un 
ente  novo ,  il  che  s'esprime  brevemente  colla  parola  diventare. 

In  fatti  se  noi  consideriamo  un  principio  animale  prima  diviso 
da  ogni  principio  intellettivo,  poi  unito  con  un  principio  intel- 
lettivo troviamo: 

1."  Che  questo  principio  animale,  quando  stava  da  sé,  co- 
stituiva la  base  d'un  ente,  completo  o  no  non  importa. 

2.°  Che  congiunto  con  un  principio  intellettivo  ha  cessato 
d'essere  base  d'un  ente,  ed  è  divenuto  appendice,  o  contenuto, 
d'un  ente  superiore  a  lui. 

Sebbene  dunque  non  ci  sia  più  l'ente  di  prima,  tuttavia  la 
mente  umana  può  considerare  quest'appendice,  o  quest'attività 
immanente  contenuta,  come  un  ente ,  e  può  domandare  qual 
mutazione  abbia  subito  quest'ente,  ma  tultociò  per  una  finzione 
0  ipotesi  dialettica.  Ella  risponde  dunque  a  sé  stessa,  che  quan- 
tunque in  sé  sia  ancora  un  principio  animale,  tuttavia  per  l'in- 
tima unione  coli'  ente  superiore  ha  acquistato  una  nova  forma 
sostanziale,  una  nova  dignità,  una  relazione  ontologica  che  il  fa 
cangiare  di  natura  e  di  specie. 

In  questo  discorso,  che  fa  la  mente,  il  subiello  è  puramente 
dialettico,  e  il  predicato  é  reale,  cioè  la  mente  prende  ciò  che 
è  appendice,  e  dialetticamente  lo  suppone  un  ente,  ponendolo 
come  tale  a  subietto  del  discorso:  a  quest'ente  dialettico  poi  attri- 
buisce una  forma  sostanziale  e  reale,  che  consiste  nella  sua  con- 
giunzione ontologica  col  principio  intellettivo  divenuto  sua  forma, 
reale  e  sostanziale ,  rispetto  alla  quale  esso  ha  il  concetto  di 
materia. 


619 

Qui  dunque  si  ha  un  esempio  del  modo  e  del  significalo,  in 
cui  si  può  adoperare  la  parola  diventare  applicala  agli  enli. 
Poiché  se  si  dicesse  che  quel  principio  sensitivo  e  animale  è 
diventato  razionale,  si  direbbe  una  cosa  che  non  regge  certa- 
mente in  senso  rigoroso,  ma  che  è  tollerabile  nell'uso  dialettico. 
Non  regge  in  senso  rigoroso  ,  perchè  quel  principio  sensitivo , 
quando  s'è  trovato  unito  airintellellivo,  ha  cessato  d'essere  un 
ente.  Pure  cessato  l'ente,  e  perduta  di  conseguente  l'identità 
propria  dell'ente,  è  restato  materia  d'un  altro  ente.  Ma  la  mente 
che  prende  questa  materia  per  subietto  del  discorso ,  parla  di 
essa  come  fosse  un  ente,  e  però  l'ente  reale  non  è  divenuto 
cosa  alcuna,  ,nè'  s'è  annullato,  ma  è  divenuto  l'ente  dia- 
lettico, perchè  questo  ente  dialettico,  cioè  supposto  dalla  mente, 
è  restato,  e  però  la  mente  potè  considerarlo  come  identico  ,  sia 
quando  era  disunito  dal  principio  intellettivo,  sia  dopo  che  s'unì 
al  medesimo,  benché  realmente  tale  non  sia:  che  la  mente  può 
benissimo  fare  tali  supposizioni  per  la  necessità  del  suo  conce- 
pire e  del  discorrere,  salvo  poi  a  distruggerle  con  una  più  alta 
riflessione,  e  così  ad  emendare  il  difetto  del  discorso  umano. 

C46.  Questa  maniera  di  parlare,  non  vera  rigorosamente  ma 
vera  di  supposizione  dialettica,  trova  un  cerio  appoggio  anche 
nella  natura  della  cosa.  Noi  abbiamo  già  detto,  che  la  generazione 
dell'anima  umana  si  può  concepire  per  gradi  progressivi  dal- 
l'imperfetto al  perfetto,  e  però  che  prima  ci  sia  il  principio 
sensitivo ,  il  quale  giunto  alla  sua  perfezione  colla  perfezione 
dell'organismo,  riceva  l'intuizione  dell'essere  e  così  si  renda 
intellettivo  e  razionale  [Psicol.  672-675).  È  vero  —  e  l'abbiam 
pure  dimostralo  —  che  il  principio  sensitivo,  tosto  che  riceve 
la  detta  intuizione,  perde  la  sua  individualità,  e  l'ente  che  ri- 
mane non  è  più  lui,  ma  un  ente  razionale  {Ivi.  676-680).  Que- 
sto spiega  come  S.  Tommaso  dica  che  un  anima  si  corrompa 
nel  feto,  e  ne  sopravvenga  un'altra.  Quindi  si  offre  alla  mente 
l'espressione,  che  il  principio  sensitivo  sia  divenuto  principio  ra- 
zionale, che  si  sia  convertilo  in  un  altro,  avendo  subito  vera- 
mente una  tale  permutazione ,  per  la  quale  prima  c'era  lui,  e 
poi  c'è  l'ente  razionale.  Ma  questo  nasce  sempre  per  la  ragione 
delta  che  la  mente  considera  il  principio  sensitivo,  anche  dopo 
d'esser  divenuto   materia  d'altro  ente,  come  ente,  per   la  virtù 


dialettica,  e  quindi  come  identico;  che  materialmente  è  identico, 
benché  non  formalmente. 

E  da  quest'  esempio  pure  si  vede  come  la  parola  diventare 
s'applica  nel  comune  discorso  alla  materia,  e  alle  appendici  degli 
enti,  e  non  agli  enti  stessi.  Di  che  conviene  stabilire  il  seguente 
principio: 

({  L'ente  è,  o  non  è,  non  diventa  mai,  né  diventa  un  altro  : 
ma  la  materia,  o  le  appendici  degli  enti,  diventano,  cioè  diven- 
tano un  ente,  o  un  altro  ». 

Ma  poiché  la  materia  da  sé  sola  non  è  mai  un  ente  reale , 
e  solo  si  considera  per  tale  dalla  mente  per  bisogno  del  discorso, 
perciò  il  dire  che  «  la  materia  diventa  »  non  è  più  che  una 
verità  dialettica,  su  cui  non  si  può  in  alcun  modo  fondare  un 
sistema  assoluto  di  verità  ,  ossia  una  vera  Ontologia  come  pre- 
tese di  fare  Giorgio  Hegel. 

6^7.  È  dunque  pienamente  manifesta  l'illusione  degli  Hegeliani, 
che  hanno  confusa  e  identificata  una  base  dialettica  dell'ente 
—  cioè  la  materia  presa  dalla  mente  per  base  dell'ente  —  colla 
base  reale,  ossia  coU'ente  stesso.  La  sola  materia,  le  sole  appen- 
dici dell'ente,  non  esistono  se  non  davanti  alla  mente,  dialet- 
ticamente, cioè  per  opera  della  mente:  il  solo  ente  esiste.  Dun- 
que i  seguenti  corollari  sono  importantissimi  teoremi  d'Ontologia: 
l.  L'ente  non  è  generato  dalla  materia,  di  maniera  che 
ci  sia  prima  la  materia  o  le  appendici  ,  e  poi  dalla  materia  o 
dalle  appendici  sia  nato  l'ente. 

H.  L'ente,  che  non  ha  appendici  o  materia,  non  è  soggetto 
al  moto  della  generazione,  o  della  formazione. 

HI.  La  prima  origine  dell'ente  finito,  composto  di  basi  e 
d'appendici  —  supposto  già  provato  ,  che  deva  avere  comin- 
ciato —  non  può  essere  che  la  creazione,  appunto  perchè  l'ente 
non  diventa,  ma  è  o  non  è. 

IV.  11  moto  della  generazione  o  della  formazione  dell'ente 
è  solo  possibile  in  questo  senso,  che  la  materia  o  le  appendici 
dell'ente  perdano  la  loro  forma  sostanziale  ossia  la  loro  base  , 
e  ne  ricevano  un  altra,  nel  qual  caso  non  c'è  identità  tra  l'ente 
antecedente  e  il  susseguente,  cioè  il  primo  ente  non  è  più ,  e 
in  suo  luogo  ne  esiste  un  altro. 

V.  r^a  generazione  o   formazione  dell'ente  finito    non   può 


dunque  aver  luogo,  se  non  a  condizione  che  ci  sia  una  materia 
ossia  delle  'appendici  alte  a  ricevere  diverse  basi  o  forme  so- 
stanziali ;  ma  questa  materia  non  islando  mai  da  sé  sola,  perchò 
non  è  un  ente,  non  ha  che  un'  esistenza  dianoetica ,  e  quando 
l'uomo  ne  ragiona  come  fosse  un  ente,  ella  si  veste  della  forma 
dell'ente,  datale  ed  imprestito  dalla  mente  provvisoriamente  e 
per  supposizione,  il  che  equivale  a  dire  che  è  un  ente  dialettico. 
VI.  Quest'ente  dialettico,  quando  la  mente  ci  riflette  sopra 
con  una  riflessione  ontologica,  riceve  i  nomi  di  non-ente,  di  rudi- 
mento dell'ente,  o  altro  simile,  e  così  è  che  la  mente  pensa  e  parla 
d'un  movimento  dal  non-ente  all'ente,  dal  rudimento  dell'ente 
all'ente  formato  ,  da  ciò  che  è  in  via  d'esser  ente  a  ciò  che 
è  già  ente  ecc.,  il  che  i  Greci  chiamarono  generazione  e  più 
propriamente  si  direhbe  formazione  dell'ente.  Nel  considerare 
questo  movimento,  il  pensiero  fa  astrazione  da  quella  forma  so- 
stanziale e  hase  che  perisce,  e  non  considera  che  le  appendici 
e  la  materia  che  diventa,  l'ente  informe,  quasiché  questa  fosse 
sola,  esistesse  da  sé  sola,  o  l'ente  informe  fosse  ente. 

0^8.  Illustriamo  questa  dottrina  con  altri  esempi. 

Supponendo  che  ci  fosse  o  ci  potesse  essere  un  corpo  del 
tutto  inanimato,  benché  non  destituito  di  forme  figurative,  e  che 
poi  venisse  animalo,  il  principio  che  l'animasse  costituirebbe 
la  nova  base,  il  novo  ente  :  quel  corpo  rimarrebbe  corpo,  pure 
avrebbe  acquistalo  una  nova  forma  sostanziale ,  onde  non  sa- 
rebbe più  l'ente  di  prima.  Se  questo  corpo  che  ha  ricevuto 
coH'animazione  un  altra  forma  sostanziale,  ricevesse  in  appresso 
anche  la  forma  intellettiva,  unendosi  il  principio  intellettivo  al 
principio  animale ,  quel  corpo  slesso  avrebbe  ancora  mutato  di 
forma  sostanziale  e  non  sarebbe  più  né  l'ente  che  era  quando 
era  puro  corpo,  né  quell'ente  che  era  poi  quando  ebbe  acqui- 
stata l'animazione  ,  ma  sarebbe  un  novo  ente  con  una  nova 
forma  sostanziale.  Il  corpo  coli'  acquisto  della  prima  forma 
avrebbe  cessato  d'essere  egli  stesso  un  ente,  e  sarebbe  divenuto 
appendice  della  base  sensitiva  coll'aquisto  della  seconda  forma, 
lo  stesso  principio  sensitivo  avrebbe  cessato  d'esser  ente,  e  sa- 
rebbe divenuto  alla  sua  volta  un'  appendice  dell'ente  razionale, 
e  solo  dialetticamente  in  questo  modo  di  dire  sarebbe  -conside- 
rato come  ente  subietto  del  discorso. 


6-22 

Ma  se  invece  si  riconosce,  che  il  principio  della  vita  è  unito 
individualmente  agli  elementi  della  materia  {Psicologia  500-533), 
e  si  riconoscono  pure  i  tre  gradi  di  vita  da  noi  descritti ,  di 
continuità,  d'eccitamento,  e  d'armonia  (M.  b34-5U),  l'identità 
del  corpo,  cioè  deirenle-termine,  dipenderà  dall'identità  del  prin- 
cipio vivente  che  lo  anima,  e  che  costituisce  veramente  la  sua 
forma  sostanziale. 

6^i9.  Conviene  dunque  prima  di  tutto  proporre  la  questione 
sull'identità  dell'ente  vivente. 

Questa  questione  generica  ne  inchiude  molte  più  particolari, 
tra  le  quali,  questa:  «  Se  l'ente  che  vive  del  primo  grado  di 
vita  diventi  un  altro  ente  quando  acquista  il  secondo  e  poi  il 
terzo,  0  se  resti  l'ente  identico;  e  al  contrario,  se  ciò  che  di- 
venta non  sia  l'ente  di  prima,  ma  solo  la  sua  parte  materiale 
od  appendice,  secondo  la  teoria  data  ». 

E  prima  ancora  di  questa  si  può  fare  un'altra  questione: 
«  Se  nella  moltiplicazione  degli  enti  materiali,  di  cui  abbiamo 
dato  altrove  la  teoria  {Psicologia  445-553),  gli  enti  diversi  che 
esistono  dopo  la  moltiplicazione,  sieno  identici,  o  diversi  dall'ente 
unico  che  esisteva  prima  della  moltiplicazione  ». 

I.  Principiando  da  questa  seconda  questione,  è  chiaro  che 
gli  enti,  esistenti  dopo  la  moltiplicazione,  non  possono  essere 
identici  al  primo,  si  perchè  sono  diversi  tra  loro,  e  cose  diverse 
tra  loro  non  possono  essere  identiche  ad  una  terza  ,  e  sì  per 
la  ragione,  che  ad  ogni  ente  è  necessaria  la  proprietà  d' esser 
uno  indiviso  in  sé  e  diviso  da  tutti  gli  altri  (,578,  sgg.  612, 
sgg.*).  È  dunque  chiaro  che  tutti  gli  enti  esistenti  dopo  la 
moltiplicazione  non  hanno  identità  col  primo. 

II.  Rimane  la  questione  se  tra  gli  enti  che  esistono  dopo 
la  moltiplicazione  ,  ne  possa  esistere  uno  identico  di  specie  al 
primo.  E  questo  può  benissimo  avvenire,  ed  avviene  nella  ge- 
nerazione degli  animali  più  completi. 

III.  Supponendo  poi,  che  esista  la  sola  vita  di  continuità 
annessa  ad  una  massa  di  materia  coerente,  ma  non  organata,  e  che 
dividendosi  la  materia,  o  divisa  riunendosi,  i  principi  sensitivi, 
che  sono  la  base  dell'ente,  si  moltiplichino,  o  di  novo  si  unifi- 
chino; i  nuovi  enti  che  ne  nascono  conservano  l'identità  col 
primo  0  almeno  alcuno  di  essi? 


G23 

Moltiplicali,  essendo  per  ciò  stesso  diversi,  non  possono,  come 
abbiam  detto,  esser  identici  a  quell'unico  ente  che  c'era  prima, 
per  la  ragion  detta  che  è  proprietà  dell'ente  l'unità. 

Né  pure  è  da  dirsi  ,  supposta  sempre  la  materia  inorganica 
uniforme  ed  equabilmente  distribuita,  che  uno  tra  i  molli  che 
esistono,  dopo  la  moltiplicazione,  rimanga  identico  a  quel  di 
prima,  poiché  qui  trattasi  di  quegli  enti  ne'  quali  la  base  è  così 
congiunta  coll'appendice,  —  e  qui  sarebbe  il  continuo  corpo- 
reo, —  che  tolte  le  appendici  è  distrutta  la  base  (,622  A*).  In 
enti  di  questa  sorte,  l'esistenza  della  base  dipende  essenzial- 
mente dalle  appendici,  e  però  ella  si  deve  cangiare  secondo  il 
cangiarsi  delle  appendici.  Consegue,  che  cangiale  anche  nella 
sola  quantità  le  appendici,  in  qualunque  sia  modo,  l'ente  slesso 
non  c'è  più,  e  n'è  venuto  un  altro  ;  e  ciò  perchè  in  questo  caso 
i  principi  che  s'unificano  sono  dello  stesso  grado,  non  ce  n'è 
uno  superiore  e  l'allro  inferiore;  e  però  quel  principio  che  c'è 
è  supremo.  Coli' accrescersi  d(mque  e  col  diminuirsi  il  numero 
de' principi,  nasce  un  cangiamento  nello  stesso  principio  supremo, 
base  dell'ente.  Io  slimo  conseguentemente,  che  il  principio  sen- 
sitivo di  mera  continuità  si  cangi  e  diventi  base  di  un  altro  ente 
ad  ogni  aumento  o  diminuzione  del  numero  degli  atomi  animati, 
che  per  la  loro  contiguità  uniscono  i  loro  principi  sensitivi  in  un 
solo. 

Non  così  direi,  se,  rimanendo  uguale  il  numero  degli  atomi 
al  conlatto,  si  mutasse  la  loro  posizione  reciproca ,  la  conden- 
sazione, 0  rarefazione,  i  quali  sarebbero  cangiamenti  acciden- 
tali e  però  apparterebbero  alle  appendici  accidentali  (621  i9). 
Trattandosi  di  principio  sensitivo  di  continuità  materiale,  il  suo 
atto  è  essenzialmente  determinalo  dalla  quantità  degli  atomi 
contigui,  che  in  quanto  allo  spazio,  a  cui  questa  materia  si  ri- 
ferisce, si  suppone  sempre  presente,  illimitato  e  immutabile  [Psi- 
cologia 5o4-5o9),  e  il  luogo  diverso  non  toglie  l' identità  del  corpo. 

IV.  Ma  qualora  la  materia  disunita  tornasse  ad  unirsi  sic- 
come prima,  il  novo  ente  che  se  n'avrebbe,  sarebbe  egli  iden- 
tico a  quello  che  era  prima  'f 

Da  una  parte,  se  l'ente  di  prima  è  stalo  distrutto,  come  po- 
trà essere  identico  a  lui,  quello  che  si  fa  di  novo?  Dall'altra, 
quello  che   si   fa  di  novo  è  perfettamente  uguale  a  quello  che 


624 

c'era  prima  si  per  rispello  alla  forma  e  sì  per  rispelto  alla  ma- 
leria;  in  che  può  dunque  variare?  come  può  esser  diverso?  Il 
tempo  diverso  dell'esistenza  o  lo  spazio  diverso  cangiano  l' iden- 
tità dell'ente? 

Essendo  questa  una  di  quelle  difficoltà,  che,  studiate  a  fondo, 
fanno  progredire  la  scienza,  giova  che  noi  ne  traltiamo  alquanto 
estesamente. 

6S0.  Il  corpo  può  esser  considerato  in  due  modi;  o  si  considera 
il  corpo  tale  qual  è  come  termine  d'un  principio  sensitivo  unito 
a  questo,  o  lo  si  considera  con  astrazione  da  questo  principio, 
come  un  ente  pur.imente  eslrasoggetlivo,  separato  dal  principio 
sensitivo  a  cui  è  realmente  unito. 

L'uomo  in  falli,  il  comune  degli  uomini,  lo  pensa  in  questo 
secondo  modo  imperfetto,  e  non  perviene  a  riconoscere,  ch'egli 
non  esiste  e  non  può  esistere  così  solo,  se  non  dopo  molta  me- 
ditazione e  speculazione:  parliamo  dunque  primieramente  del- 
l'identità del  corpo  così  considerato. 

Abhiamo  dello,  che  ne'  giudizi  intorno  l'identità  è  necessario 
afferrar  bene  qual  sia  Veleìuento  identico,  se  questo  c'è  ;  che  se 
ridenlità  si  rijìone  in  un  altro  elemento,  i  giudizi  sono  sbagliali. 
Ora  la  varietà  dell'elemento  identico,  che  ci  può  essere,  dà  luogo 
ai  diversi  generi  o  classi  d' identità.  Gioverà  qui  enumerare  le 
principali  per  procedere  con  chiarezza  nella  soluzione  della  no- 
stra questione  : 

Prima  classe  d'identità.  —  Identità  di  esistenza. 

Seconda  classe  d'identità.  —  Identità  di  genere  sommo. 

Terza  classe  d'identità.  —  Identità  di  genere  inferiore. 

Quarta  classe  d'identità.  —  Identità  di  specie  astratta. 

Quinta  classe  d'identità.  —  Identità  di  specie  pienissima. 

Sesta  classe  d'identità.  —  Identità  di  specie  piena  ma  non  pie- 
nissima. 

Settima  classe  d' indentila.  —  identità  dell'  individuo  realmente 
esistente. 

Col.  Abbiamo  distinto  \a  specie  piena  dalla  pienissima  da  questo, 
che  la  specie  pienissima  è  quella  che  si  considera  neW Esemplare 
del  mondo;  laddove  la  specie  piena  si  considera  in  sé,  secondo 
la  propria  natura ,  e  non  secondo  la  posizione  che  occupa  in 
tutto  l'Esemplare. 


623 

Applichiamo  or  dunque  questa  dislinzione  agli  enli  corporei 
eonsiderati  nudamente  come  estrasoggeltivi.  Nella  specie  piena 
di  questi  non  è  rappresentato  né  lo  spazio  che  occupano  ,  né 
il  tempo  in  cui  realmente  esistono  ,  e  ciò  perchè  la  specie,  e 
l'essenza  totale,  veduta  nella  specie,  è  fuori  dello  spazio  e  del 
tempo,  esistendo  la  specie  ah  eterno  nella  divina  mente.  All'in- 
contro se  la  stessa  specie  piena  d'  un  corpo  si  contempla  come 
essente  nell'Esemplare  del  mondo,  ella  racchiude  il  tempo  deter- 
minato e  lo  spazio  determinalo  in  cui  è  quel  corpo  —  Ma  se 
la  specie  piena  in  sé  stessa  considerata  è  immune  dallo  spazio 
e  dal  tempo,  come  avvien  poi,  che  la  slessa  specie  piena  con- 
templata nell'Esemplare  determini  anche  lo  spazio  ed  il  tempo? 
Non  è  ab  eterno  nella  divina  mente  appunto  anche  V  Esem- 
plare ? 

Ecco  la  risposta  a  questa  apparente  difficoltà.  —  L'Esemplare 
deve  considerarsi  lutto  insieme  nella  divina  mente  come  una 
specie  sola  organala,  contenente  tutta  la  realità  mondiale.  Ora 
è  indubitato,  che  l'Esemplare  come  specie  della  mente  divina  è 
immune  dallo  spazio  e  dal  tempo:  e  del  pari  n"è  immune  l'es- 
senza totale  che  contiene. 

Quest'essenza  è  tutta  la  realità  mondiale  involta  nell'idea.  Se 
si  prende  tutto  il  mondo,  oggfHto  della  creazione  divina,  —  e  di- 
cendo tutto  il  mondo  dico  lutto  lo  spazio  e  tutto  il  tempo  della 
durata  mondiale,  —  in  tal  caso  il  mondo^  e  il  temi)o,  e  lo  spazio, 
sono  ugualmente  cosa  immune  alTatto  dallo  spazio  e  dal  tempo:  lo 
spazio  totale  non  è  in  un  altro  spazio,  nò  il  tempo  in  un  allro 
tempo.  iMa  se  all'incontro  si  considerano  le  parli  di  questo  esem- 
plare, cioè  le  specie  piene  di  tutti  gli  enli  mondiali,  delle  quali 
egli  si  compone  ,  allora  si  trova  tra  gli  enti  mondiali,  che  in 
quelle  specie  si  vedono,  un  tempo  in  cui  ciast^uno  è,  in  quant'é 
temporaneo  ,  e  un  luogo  detcrminato  nello  spazio  nel  quale  i 
corporei  sono;  onde  tra  queste  parli  dell'esemplare  cadono  le 
relazioni  di  spazio  e  di  tempo,  benché  nò  l'esemplare  tulio  in- 
tero, nò  la  singola  specie  piena  de' corpi,  o  l'essenza  rappresen- 
tata da  questa,  dimostri  in  sé  alcun  luogo  determinato  in  cui 
sieno,  0  alcun  tempo.  Gli  enti  mondiali  dunque,  intuiti  nell'esem- 
plare, hanno  rispetto  ad  altri  enti,  che  sono  nell'esemplare  me- 
desimo, relazioni  di  spazio  e  di  tempo,  le  quali  relazioni  ren- 
RosMi.Ni.  Teosofa.  40 


6-26 

dono,  ciascuna  delle  dette  specie  \ì\ene,  pienissima,  e  capace  d'una 
sola  realizzazione. 

La  ragione  dunque  per  la  quale  conviene  distinguere  la  spe- 
cie piena  d.illa  specie  pienissima  si  è,  che  la  prima  contiene  le 
delenninazioni  inlerne  della  realità  finita,  ma  la  seconda  contiene 
oltracciò  le  determinazioni  esterne,  cioè  le  relazioni  cogli  altri 
enti,  e  specialmente  quelle  di  tempo  ,  e  quelle  di  spazio  per 
gli  enti  ed  entità  corporee. 

Se  dunque  l'ente  o  più  enti  hanno  lutto  ciò  che  si  trova 
in  una  specie  piena,  ma  non  tutto  ciò  che  si  trova  determinalo 
nella  specie  pienissima,  V  identità  che  vi  si  ravvisa  dicesi  :  iden- 
tità di  specie  piena. 

Se  Tenie  ha  tutto  ciò  che  si  trova  determinato  nella  specie 
pienissima,  in  tal  caso  l'ente  è  unico,  ed  ha  ridentità  di  specie 
pienissima,  e  supponendo  questa  realizzata  si  ha  l'identità  d'in- 
dividuo realmente  esistente. 

652.  Ottava  classe  d'identità.  —  Identità  media  tra  quella  della 
specie  piena  e  quella  della  specie  pienissima  propria  de'corporei. 

Ma  parlando  de'  corporei  s'incontra  un'  identità  media,  perchè 
si  può  ravvisare  in  un  ente  corporeo  tutto  ciò  che  c'è  nella 
specie  piena  e  parte  anche  di  quello  che  c'è  di  più  nella  specie 
pienissima,  ma  non  tulio  :  per  esempio  la  slessa  posizione  nello 
spazio,  e  non  la  stessa  posizione  nel  tempo. 

In  falli  se  si  suppone,  che  due  corpi  occupino  duo  spazi  di- 
versi, benché  l'un  e  l'altro  realizzi  in  sé  tutto  ciò  che  si  trova 
nella  specie  piena  ,  tullavia  non  possono  constare  dell'  identica 
materia;  perchè  l'identità  di  questa  è  determinata  dall'identità 
dello  spazio  che  occupa  [Ideal.  941  sgg,  851).  Non  hanno  dun- 
que Videntilà  d'individuo  reale ,  che  è  quella  slessa  della  specie 
pienissima. 

Ma  se  dopo  aver  fusa  una  statua  di  metallo,  questa  statua 
si  rimette  nel  crogiuolo,  e  collo  stesso  metallo  liquefatto  si  ri- 
fonde la  statua  nella  medesima  forma,  in  tal  caso  si  ha  l' identica 
forma  figurativa  —  che  è  l'unica  propria  dell'ente  estrasoggettivo 
preso  in  separato  —  l' identica  materia,  e  si  può  avere  l' identico 
luogo,  determinazione  che  appartiene  alla  specie  pienissima,  ma 
non  s'  ha  tuttavia  lo  stesso  tempo  continuato  d'esistenza,  e  però 
manca  qualche  cosa  della  specie  pienissima.  Questa   è  l'identità 


6-27 

media  che  dicevamo  tra  quella  della  specie  pienissima,  e  quella 
della  specie  piena,  propria  de' soli  corpi  cstrasoggellivamente 
considerali. 

G55.  Si  domanderà  dunque:  l'ente  identico  di  materia,  di 
forma  e  di  luogo,  ma  la  cui  esistenza  ebbe  un'interruzione  di 
tempo,  si  può  ell.i  dire:  identità  d'individuo  reale  ^ 

Rispondo  affermativamente.  Il  snhiclto  dell'  individuo  reale 
corporeo  è  la  materia,  la  quale  non  ha  propriamente  una /br»m 
sostanziale,  ma  solo  ha  una  quantità  determinala,  che  si  può 
considerare  come  /orma  sostauziale  estrasoggettiva:  l'avere  poi 
piuttosto  una  figura  che  un'altra  le  è  accidentale.  L'esistenza  del 
subietlo  non  fu  dunque  interrotta,  il  subictto  non  fu  mai  annul- 
lalo. Avendo  dunque  lo  stesso  subietlo  ricuperati  gli  stessi  acci-  . 
denti  di  prima,  si  dee  dire  identico  l'ente  statua  considerato  come 
un  individuo  reale  determinato ,  e  ciò  [>erchè  l'ente  estrasoggettivo, 
non  avendo  subiettivilà  ,  e  molto  meno  coscienza,  la  discontinuità 
del  tempo  noi  cangia,  essendo  il  tempo  essenzialmente  un  elemento 
subiettivo,  e  non  trovandosi  nello  cose  puramente  materiali  {Psi- 
col.  41ì)7  sgg.).  Di  che  viene  il  principio  : 

«  Che  ogni  qual  volta  il  subietto  —  dialettico,  —  costituente  un 
ente  reale,  dura  senza  interruzione  nella  sua  esistenza,  ma  è 
interrotta  solo  l'esistenza  de' suoi  accidenti,  quando  abbia  ricu- 
perato gli  accidenti  di  prima,  è  l'identico  ente  reale  di  prima: 
identico  dico  in  lutto,  non  solo  per  riguardo  alla  sostanza  e  alla 
quantità  che  sta  in  vece  di  forma  sostanziale,  ma  ben  anco  ri- 
guardo agli  accidenti  ». 

634.  L'ente  reale,  dunque,  può  subire  modificazioni,  che  gli  fac- 
ciano perdere  i  suoi  accidenti,  e  il  nome  pel  quale  da  questi  si 
denomina,  come  il  nome  di  statua,  e  può  dopo  di  questo  ritornare 
identico  a  quel  di  prima,  ricuperando  gli  stessi  accidenti  ,  e  lo 
stesso  nome  che  gli  attribuisce  la  mente  umana,  quando  lo  deno- 
mina da' suoi  accidenti,  e  lo  denomina  da  questi,  quando  questi 
abbiano  per  lei  una  certa  importanza  prevalente,  per  diverse  re- 
lazioni, come  accade  appunto  del  nome  di  statua  dato  a  una  pietra, 
0  di  ritratto  dato  a  certi  colori  impressi  sopra  una  superficie. 

Dunque  è  medesimamente  da  conchiudere  «  che  l' interruzione 
di  tempo  nell'esistenza  di  ciò  che  non  costituisce  lo  slesso  subietlo 
reale ,  non  distrugge  l'identità  dell'individuo  reale  determinato , 


\ 


628 

quando  questo  poi  abbia  ricuperato  quegli  accidenti  e  quella  for- 
ma,  da  cui  si  denomina  -». 

L'identità  dunque  dell'ente  reale  si  fonda  unicamente  nell'iden- 
tità del  subielto,  cbe  è  la  buse  delTente. 

Altra  è  dunque  Videntità  espressa  dal  nome^  la  quale  talora  è 
un'identità  puramente  dialettica,  altra  Videntità  dello  stesso  ente 
reale.  Quella  può  perdersi  e  ricuperarsi,  non  questa. 

E  non  farà  maraviglia,  che  l'identità  di  cui  parliamo  espressa 
dal  nome  sostantivo,  ma  sostantivo  solo  dialetticamente,  perchè 
in  fatti  dedotto  da  una  forma  accidentale,  possa  perdersi  e  ricupe- 
rarsi, quando  si  consideri,  che  questa  forma  onde  si  trae  il  nome, 
e  che  nel  caso  nostro  è  la  figura  data  ad  un  corpo,  è  di  natura 
semplice  e  tale  che  rimane  involta  nell'idea:  onde  quando  ritorna 
allo  stesso  subietto  è  quella  di  prima  e  non  un'altra,  benché  il 
subietto  col  perderla  e  ricuperarla  abbia  fatto  atti  diversi  acci- 
dentali, non  identici.  Così  la  figura  cubica,  a  ragion  d'esempio,  è 
identica  sempre  in  qualunque  corpo  si  ravvisi,  come  il  numero  tre 
è  sempre  l'identico  numero,  a  qualunque  cosa  si  applichi. 

6ar>.  Fin  qui  noi  abbiamo  parlato  dell'identità  del  corpo  unica- 
mente come  ente  eslrasoggeltivo  e  termine  astraendo  dal  suo  prin- 
cipio intrinseco  vivente.  Ma  quest'è  un  modo  imperfetto  e  parziale 
di  considerare  il  corpo;  perchè  in  fatto  questo  non  esiste  e  non  può 
esistere  se  non  unito  al  suo  principio  sensitivo  che  lo  contiene. 
Ora  abbiamo  già  detto  innanzi,  che  i  corpi  considerali  nella  loro 
vera  natura,  per  la  quale  sono  essenzialmente  termini  d'un  prin- 
cipio sensitivo,  non  hanno  un'entità  e  quindi  un'identità  entica, 
che  sia  loro  propria,  ma  insieme  colla  loro  esistenza  l'acquistano 
dalla  natura  del  principio  intrinseco  di  cui  sono  termini.  Laonde 
vedemmo  che  un  corpo  diventa  un  altro  ente,  e  cessa  d'essere 
quel  di  prima,  quando  si  muta  il  principio  di  cui  è  termine,  e  per- 
ciò ottimamente  dice  S.  Tommaso,  che  il  corpo  d'un  uomo  vivo  e 
il  corpo  d'un  uomo  morto  non  sono  identici,  ma  sono  enti  diversi. 

Dobbiamo  or  dunque  continuarci  nell'esaminare  le  questioni 
d'identità,  che  riguardano  gli  enti  sensitivi  e  intellettivi,  che  ab- 
biamo chiamati  enli-principio. 

Dicemmo,  che  non  si  perde  l'identità  delTente  principio  quando 
con  lui  s'unifica  un  principio  inferiore,  ma  che  si  perde  quando  a 
n  lui  s'unifica  un  principio  superiore,  che  diventi  base  dell'ente. 


629 

Ancora  ,  che  si  perde  l'identità  dell'ente  principio  quando  più 
principi  uguali,  essondo  priiria  disuniti ,  s'unificano,  o  essendo 
prima  uniti  ,  si  dividono  ;  benché  la  dkersilà  sopravvenuta  in 
questo  caso  a  distruggere  ridentilc\  sia  minore  e  diversa  di  specie 
della  diversità  sopravvenuta  nel  caso  precedente,  in  cui  è  com- 
parso un  principio  superiore  a  b;ise  dell'ente. 

In  questa  teoria  conviene  conservare  la  distinzione  tra  la  base 
dell'ente,  e  il  principio.  Poiché  questi  sono  concetti  diversi,  come 
si  vede  dalle  definizioni.  Infatti: 

La  base  dell'ente  è  quell'atto  unico  che  contiene  e  unisce  in  sé 
tutto  ciò  che  c'è  nell'ente,  e  costituisce  il  subietto  ente. 

Il  principio  è  quell'atto,  che  contiene  il  termine,  al  quale  sempre 
ripugna  la  natura  di  principio. 

O.jO.   Uà  queste  definizioni  si  deduce  : 

1°  Che  ogni  principio  unico  unito  al  suo  termine  può  esser 
un  ente  sussistente,  perchè  a  costituire  l'ente  non  c'è  bisogno  d'al- 
tro che  d'un  principio  unito  a  tutto  il  suo  termine  :  in  tal  caso  il 
principio  e  anche  la  base  d'un  ente.  Cos'i  ammesso  un  principio 
vivente  che  abbia  per  termine  lo  spazio  e  nient'altro,  questo  prin- 
cipio unito  con  tutto  lo  spazio  come  suo  termine  costituisce  un 
ente  che  può  sussistere  ,  benciiè  incompiuto  ,  benché  mancante 
d'intelligenza, 

2.°  Che  se  con  un  principio,  che  ha  un  dato  termine,  s'unifica 
un  altro  principio  con  un  novo  termine,  in  tal  caso  la  base  del- 
l'ente consiste  nell'atto  unitivo  de'due  principi,  e  non  in  un  prin- 
cipio solo,  e  il  primo  principio  da  sé  solo  non  basta  a  costituire  il 
novo  ente.  Così  se  col  principio  che  ha  per  termine  lo  spazio  puro 
da  ogni  corporeità  s'unifichi  un  altro  principio  che  abbia  per  suo 
termine  l'essere  ideale  indeterminato,  dalla  loro  unione  risulterà 
un  novo  ente,  la  cui  base  sarà  costituita  dai  due  principi  unifi- 
cali. Ma  la  mente  potrà  distinguere  ancora  due  enti,  poiché  ri- 
mane il  principio  dello  spazio  col  suo  termine  che  può  esser  con- 
sideralo con  astrazione  dall'altro  principio  e  dall'altro  termine,  e 
così  considerato  ha  lutto  ciò  che  si  richiede  per  essere  un  ente 
sussistente,  ma  non  per  essere  il  secondo  ente;  e  rimane  il  prin- 
cipio dello  spazio  unito  col  principio  dell'essere,  divenuti  insieme 
un  solo  atto  ed  un  solo  principio,  che  coslituisce  perciò  un  ente 


630 

solo,  che  non  ha  identità  col  primo  ente,  perchè  n'è  mutala    la 
base,  ma  è  un  altro  ente  più  perfetto  e  gicà  intellettivo. 

E  allo  stesso  modo  per  vìa  d'astrazione  si  concepisce  ancora  un 
terzo  ente,  quello  che  è  principio  dell'essere  avente  per  termine 
e  oggetto  suo  tutto  l'essere.  In  fatto  dunque  sussisterebbe  un  solo 
ente  reale,  posta  l'unificazione  de'due  principi,  ma  un  ente  reale 
tale,  i  cui  elementi  potrebbero  sussistere  da  sé  come  due  enti  non 
identici  né  con  esso  ente  reale,  né  tra  loro,  per  la  diversità  delle 
loro  basi. 

Ma  qui  si  osservi  che  quando  noi  diciamo  spazio  intendiamo 
parlare  dello  spazio  quale  apparisce  all'uomo,  e  prescindiamo  af- 
fatto dalla  ricerca  che  cosa  potesse  essere  per  l'Angelo  quello  che 
per  noi  è  spazio.  E  così  del  pari  noi  parliamo  dell'essere  quale  è 
all'intuito  dell'uomo,  non  quale  é  ad  altre  intelligenze  diverse  dal- 
l'uomo, ricerca  che  complicherebbe  troppo  il  nostro  discorso. 

5.°  Il  principio  dello  spazio,  e  il  principio  dell'essere  sono  in- 
dipendenti; l'uno  è  un  principio  vivente  puram.ente  sensitivo,  l'altro 
è  un  principio  intellettivo.  Ma  c'è  un  terzo  principio  che  dipende 
da  quello  dello  spazio  e  lo  suppone,  e  questo  è  il  principio  vivente 
della  materia  corporea.  Noi  abbiamo  veduto  che  questo  principio 
vivente  ha  tre  atti  :  l'atto  che  ha  per  termine  il  continuo  corpo- 
reo, l'atto  che  ha  per  termine  il  movimento  intestino  di  questo 
continuo  corporeo,  l'atto  che  ha  per  termine  l'armonia  circolare 
di  questo  movimento.  Questi  tre  atti  cangiano  il  principio,  e  però 
costituiscono  tre  basi  diverse  d'enti;  poiché  «  ogni  qualvolta  il  prin- 
cipio di  un  ente  subisce  una  mutazione  proveniente  da  un  termine 
novo,  si  cangia  la  base  dell'ente,  e  questo  perde  l'identità  tanto, 
quanl'è  diverso  il  novo  termine,  essendo  l'identità  sempre  relativa 
alla  diversità  ».  Che  anzi  perla  stessa  ragione  abbiam  veduto, 
che  il  solo  unirsi  più  principi  di  continuità  in  un  solo  composto,  o 
un  solo  dividersi  in  molti,  cangia  l'identità  dell'ente,  l'identità 
dico  individuale,  perchè  rimanendoli  termine  della  stessa  specie 
—  continuità,  —  e  non  mutandosi  se  non  il  numero  e  la  quantità, 
la  specie  astratta  dell'ente  rimane  la  stessa.  Vi  hanno  dunque 
quattro  principi  nell'ordine  del  sentimento  animale  dipendenti 
l'uno  dall'altro,  e  però  quattro  basi  diverse  di  enti,  e  quattro 
specie  concepibili  di   enti:  1°  il  principio  vivente  dello  spazio; 


631 

2°  il  principio  vivcnle  di  materia  continua;  5°  il  principio  vivente 
di  movimento  intestino;  4°  il  principio  vivente  di  armonia  circolare 
nel  movimento  intestino. 

Ora  il  principio  vivente  di  armonia  circolare  nel  movimento 
intestino  dipende  dal  principio  vivente  di  movimento  intestino, 
e  però  non  può  stare  senza  questo,  del  quale  è  un  novo  alto  ; 
il  principio  vivente  del  movimento  intestino  dipende  dal  prin- 
cipio vivente  di  continuità  ,  del  quale  pure  è  un  novo  alto  ;  il 
principio  vivente  di  continuità  dipende  dal  principio  vivenle 
dello  spazio  ,  del  quale  è  un  novo  alto  ,  proveniente  ,  come  i 
precedenti,  da  un  novo  termine  (i);  il  principio  vivente  di  spazio 
non  dipende  da  alcun  principio  anteriore.  Essendo  dunque  questi 
principi  viventi  quattro  basi  specificamente  diverse,  costituiscono 
quattro  enti  specifici,  per  modo  però  che  1°  l'ultima  base  risulta 
dall'unificazione  e  sta  nell'atto  unitivo  di  quattro  principi  diversi, 
2°  il  terzo  risulta  dall'unificazione  e  sta  nell'atto  unitivo  di  tre 
principi,  5°  il  secondo  risulla  dall'unificazione,  e  sta  nell'alto 
unitivo  di  due  principi  viventi,  4"  e  del  primo  è  base  l'unico 
principio  dello  spazio. 

Si  domanderà  ora  qual  sia  la  base  superiore  e  quale  la  base 
inferiore.  Ora  noi  intendiamo  per  base  superiore  quella  che  più 
contiene,  e  per  base  inferiore  quella  che  meno  contiene.  E  però 
la  base  dell'armonia  del  movimento  intestino  è  superiore  ossia 
di  mag<]!Ìor  dignità  degli  altri  tre  ,  perchè  questo  principio  ha 
già  in  sé  gli  altri  tre  e  a  sé  gli  unisce:  e  la  base  del  movi- 
mento intestino  è  per  la  slessa  ragione  superiore  e  più  ricca 
dell'altre  due,  perchè  questo  principio  ha  già  in  sé  l'altre  due; 
e  dicasi  lo  stesso  della  base  dell'ente  corpo  ,   rispetto   a  quella 


(1)  Ctie  si  tratti  sempre  di  novi  termini  specificamente  diversi  facilmente 
s'intende  se  si  considera  1°  clie  le  proprietà  delio  spazio  puro,  l'immobilità, 
l'immisurabililà,  l'indivisibilità  ecc.  sono  opposte  a  tutte  le  proprietà  es- 
senziali del  corpo  ;  2°  che  le  proprietà  e  la  natura  del  corpo  non  compren- 
dono nel  loro  concetto  il  movimento,  ma  solo  Yinerzia,  onde  il  movimento 
dee  venire  al  corpo  da  un'altra  causa;  3°  che  la  natura  o  essenza  del  mo- 
vimento non  è  quella  di  avere  in  sé  un  ordine  armonico,  ma  che  questo  gli 
deva  venire  da  un'altra  causa  ,  e  certamente  intelligente.  Sono  dunque  i 
quattro  termini  specificamente  diversi,  sebbene  l'uno  dall'altro  nel  loro  con- 
cetto dipendenti,  non  però  reciprocamente. 


632 

(lell'enle  spazio:  di  maniera  che  Tenie  spazio  è  il  più  imperfelto 
u  men  compiuto  di  tutti  gli  altri, 

Convien  dunque  far  attenzione  per  non  prender  errore  ,  pò- 
tendo  parere  il  contrario  a  chi  considera  che  nell'ordine  dei 
concetti  lo  spazio  precede  al  corpo ,  e  il  corpo  materiale  ,  e  il 
sentimento  di  continuità  a  quello  di  eccitazione  ,  e  questo  a 
quello  di  armonia.  Questa  antecedenza  di  concetti  è  fondata  sul 
progresso  dell'imperfetto  al  perfetto,  perchè  nelle  cose  finite  e 
generahili  il  perfetto  suppone  davanti  a  sé  l'imperfetto,  e  sembra 
che  da  questo  dipenda,  e  in  qualche  modo  dipende  per  la  sua 
natura  di  generabile,  ma  non  assolutamente,  come  ha  osservato 
Aristotele.  Si  distingue  dunque  la  superiorità  della  base  del- 
Tente  óuWanlecedenza  del  concetto,  apparendo  la  base  superiore 
posteriore  nel  nostro  conecllo,  senza  che  perciò  cessi  dall'essere 
superiore  di  entità  e  di  ricchezza. 

4.°  Si  osservi  ora,  che,  facendo  l'ordine  e  l'armonia  circolare 
ne'  movimenti  intestini  d'un  corpo  supporre  una  causa  intelli- 
gente, è  questa  una  nova  prova  della  convenienza  che  il  prin- 
cipio intellettivo  si  unifichi  solo  col  principio  d'un  corpo  per- 
fettamente organizzato,  degna  d'aggiungersi  a  quella  che  abbiamo 
data  nella  Psicologia  (672-075).  Qualora  duncjue  il  principio  in- 
tellettivo si  congiungesse  e  unificasse  alla  base  dell'ente  animale, 
esso  sarebbe  una  base  superiore,  contenente  de' quattro  principi 
inferiori  unificati,  l'uno  de'quali  è  contenente  degli  altri  tre,  e 
l'uno  de'tre  contenente  degli  altri  due  ,  e  l'uno  de'  due  conte- 
nente l'ullimo,  quel  dello  spazio. 

C!}7.  Ora  dopo  aver  noi  così  dichiarato  come  si  deva  intendere 
la  proposizione  che  «  il  principio  superiore  è  sempre  quello  che 
costituisce  la  base  dell'ente  »,  e  che  fino  che  questa  rimane  im- 
mutala, anche  l'ente  conserva  la  sua  identità,  conviene  che  ri- 
torniamo ad  una  questione  simile  a  quella  che  abbiamo  falla 
circa  l'identità  dell'ente  materiale  statua,  applicando  quella  do- 
manda all'ente  sensitivo.  Domandiamo  dunque:  «  se,  dato  che 
il  termine  materiale  d'un  ente  sensitivo,  dopo  essersi  cangiato 
—  disciolto  per  esempio,  —  sia  poi  ritornato  e  ricomposto  al 
modo  di  prima  ,  sia  anche  l'ente  ritornato  identico  a  quello  di 
prima  ». 

In   quell'ente   rigeneralo  per  via  di  composizione  c'è  sicura- 


653 

niente  Tidenlica  materia  reale,  e  l'identica  forma  come  nell'ente 
corporeo  estrasor^geltivo  statua:  la  sua  materia  non  è  mai  pe- 
rita e  la  sua  forma  si  è  pure  conservata  virtualmente  negli 
atomi  che  lo  compongono,  ha  solo  cessato  di  esistere  attual- 
mente, e  poi  ha  ricuperato  quest'atto.  Si  può  dunque  dire  che 
l'ente  ricostituito  e  rigenerato  sia  identico?  —  lo  rispondo  di 
sì,  per  le  stesse  ragioni,  colle  quali  fu  dimostrata  l'identità  del- 
l'ente eslrasoggettivo  statua,  e  dico  d'un'  identità  individuale  e 
numerica. 

Conviene  che  aggiungiamo  pure  una  distinzione  tra  l'ente 
principio,  che  ha  per  termine  ciascun  atomo  separato,  e  l'ente 
principio  d'un  aggregato  d'atomi.  L'atomo  vivente  non  ammette 
alcuna  modificazione,  egli  può  essere  annullalo  del  tutto,  nella 
nostra  dottrina  ,  ma  non  scomposto.  Perciò  se  l'atomo  vivente 
cessasse  un  solo  momento  dall'esistenza ,  egli  non  potrebhe  più 
essere  restituito  realmente  e  individualmente  identico,  ma  quello 
che  venisse  dopo  creato,  sarehhc  realmente  un  altro.  Dico  real- 
mente, perchè  la  natura  dell'ente  finito  ò  di  essere  reale  :  se 
dunque  cessa  la  realità  cessa  l'ente  finito.  L'atomo  vivente  dun- 
(]ue  che  cessa  può  avere  con  quello  che  vien  in  appresso  creato 
un'identità  di  specie  piena  e  anche  pienissima.  Ma  come  due  sa- 
rebbero gli  atti  della  sua  realizzazione  in  tempi  diversi  ,  così 
due  sarebbero  i  reali  individui.  Dato  dinuiue  che  convenissero 
nella  specie  pienissima,  si  potrebbero  dire  identici  essenzialmente 
cioè  in  quanto  all'essenza  che  è  nell'idea  ,  ma  non  realmente 
cioè  in  quanto  alla  realizzazione  di  quell'essenza. 

Se  poi  si  trattasse  d'un  aggregato  vivente  ma  inorganico  di 
atomi,  ed  esso  venisse  sciolto  e  poi  ricomposto  degli  slessi  atomi 
identici  collocali  allo  stesso  modo,  un  tale  vivente  avrebbe  anche 
un'identità  reale  a  malgrado  della  discontinuità  del  tempo  della 
sua  esistenza  ,  di  maniera  che  si  potrebbe  chiamare  un  ente 
reale  identico  ,  e  ciò  perchè  la  materia,  o  sieno  gli  atomi  ele- 
mentari, di  cui  è  composto,  avrebbe  continualo  ad  esistere  ,  e 
anche  la  forma  avrebbe  continuato  ad  esistere  potenzialmente 
nei  delti  atomi  viventi.  L'essenza  sostanziale  in  falli  di  tali 
forme  giace  nell'essenza  degli  atomi  e  nella  loro  potenzialità,  e 
però  tali  forme  non  esistono  in  alto  che  per  accidente.  Ora  le 
essenze  potenziali  giacciono  nell'idea,  come   abbiam  detto  della 


634 

figura  de'corpi,  e  quando  vengono  ridolle  airatlo,  quest'alto  è 
loro  accidentale.  Se  dunque  sono  prodotte  all'atto  in  diversi  tempi, 
mediante  la  stessa  materia  che  le  ha  in  potenza ,  esse  sono 
identiche,  perchè  hanno  la  slessa  essenza  sostanziale,  e  anco 
l'identico  allo  accidentale,  che  dà  loro  il  nome,  perchè  l'identità 
dell'atto  accidentale,  come  dicevamo,  si  desume  dalla  specie  ossia 
dall'  idea  in  cui  giace.  L'elemento  dunque  identico  in  tali  enti 
consiste  nella  sostanza  con  un  atto  accidentale  che  ns  determina 
il  modo,  il  qual  modo  non  ha  un'identità  reale  sua  propria,  ma 
essendo  egli  semplice  ed  uno ,  e  non  potendo  essere  numerica- 
mente più,  diventa  più  per  la  moltiplicità  della  sostanza,  e  se 
questa  è  identica  rimane  identico  ,  ^benché*  la  sua  inesistenza 
reale  nella  sostanza  sia  discontinua.  Tali  forme  sostanziali  dun- 
que, da  cui  sono  costituiti  tali  enti,  non  hanno  la  pura  natura 
di  sostanza^  ma  hanno  una  natura  composta  di  sostanza  e  d'un 
modo  d'essere  accidentale,  che  cangia  tuttavia  la  base  ddl'ente, 
se  si  muta,  e  restituisce  la  slessa  base,  se  dopo  essersi  mutato 
ritorna  quel  di  prima  :  perchè  si  conserva  una  sostanza  identica 
atta  a  ricevere  lo  stesso  modo.  Chiameremo  queste:  «  forme 
sostanziali  di  formazione  accidentale  ». 

Ma  se  gli  atomi  componenti  un  aggregato  inorganico  non  fos- 
sero numericamente  identici,  non  ci  sarebbe  in  tal  caso  identità 
se  non  di  specie  tra  due  aggregati  d'atomi  uguali  di  numero  , 
di  grandezze,  di  forme,  e  di  composizione. 

Altra  dunque  è  l'identità  del  principio  sensitivo  reale  ,  altra 
quella  d'un  principio  intellettivo  pure  reale.  Il  principio  intel- 
lettivo reale  non  potrebbe  cessare  che  per  via  d'annullamento, 
laddove  il  principio  sensitivo  quando  risulti  dall'unione  di  più 
principi  sensitivi  elementari  può  cessare  per  iscomposizione  ,  e 
però  anche  riprodursi  per  via  di  ricomposizione.  Anzi  questa 
scomposizione  e  ricomposizione  si  dà  in  tutti  que'principì  che 
sono  composti  di  più  principi:  ed  è  per  questo  che  s'intende 
possibile  che  l'uomo  moia,  e  risorga  ancora  identico  come  quel 
di  prima. 

658.  Cessando  un  principio  intellettivo  reale,  non  rimane  nessuna 
potenzialità  reale  che  gli  appartenga.  Di  che  apparisce,  che  il 
principio  intellettivo  non  esprime  mai  un  genere  reale  [Ideol.  655), 
quando  il  principio  sensitivo  è  un  vocabolo  indicante  un  genere 


635 

reale,  sotto  al  quale  stanno  tante  specie  quanti  possono  essere 
gli  aggregati  opportuni  di  materia.  Ora  ,  essendo  Venie  deter- 
minalo dalla  specie,  non  dal  genere,  «l'ente  reale  sensi- 
tivo »  che  è  genere,  non  dice  lo  stesso,  che  «  il  principio  reale 
sensitivo  »  che  è  specie  :  quando  è  un  medesimo  il  dire  l'ente 
intellettivo  ,  o  il  principio  intellettivo  reale  ,  perchè  s'esprime 
sempre  una  specie.  Supponendo  dunque,  che  un  principio  in- 
tellettivo cessi ,  non  rimane  più  di  lui  alcuna  appendice  che  si 
possa  considerare  come  entilà  generica  ,  e  però  dopo  la  distru- 
zione di  esso  non  comparisce  in  suo  luogo  alcun  altro  ente 
intellettivo:  se  poi  un  principio  intellettivo  comparisce  di  novo, 
questo  è  totalmente  un  altro,  il  primo  non  gli  ha  somministrato 
nulla  di  sé.  All'incontro  dato  che  si  distrugga  un  atto  sensitivo 
di  continuità,  che  abbia  per  termine  un  aggregato  di  atomi  , 
col  disunirsi  di  questi,  come  pure  col  loro  aggregarsi  se  erano 
disuniti  ,  i  novi  enti  hanno  ricevuto  dal  primo  la  materia  e  i 
principi  sostanziali  elementari,  e  però  questi  esistevano  nel  primo 
come  una  potenza  reale  loro  propria.  In  fatti  il  principio  sensi- 
tivo, che  era  prima ,  avea  nella  sua  propria  natura  la  facoltà 
di  moltiplicarsi  ,  o  se  era  moltiplice  di  dividersi  ,  per  la  di- 
visione quantitativa  del  termine. 

La  forma  sostanziale  dunque  degli  enti  sensitivi  è  il  principio 
sensitivo  dell'atomo,  e  l.i  forma  sostanziale  de' corpi  viventi  è 
costituita  di\\\'unione  accidentale  di  più  forme  sostanziali,  che  di- 
ventano una  forma  sola  avente  la  virtù  di  tutte.  Onde  questa 
forma  che  ha  un  termine  moltiplice,  ma  continuo,  è  una  e  so- 
stanziale rispetto  alla  sua  materia  elementare  ,  ma  è  determi- 
nala da  un'unilà  di  più  sostanze,  la  formazione  della  quale  unità 
è  accidentale. 

G59.  Oltracciò  negli  enti  sensitivi  che  hanno  un  termine  corporeo 
moltiplice  c'è  una  radice  realmente  comune  nell'attività  sogget- 
tiva ,  che  apprende  lo  spazio  immensurato  {Psicol.  o56-5b9),  e 
nelle  stesse  anime  razionali  c'è  una  radice  reale  e  comune  nel- 
l'attività soggettiva  che  intuisce  l'essere  [Psicol.  568,  n.):  di 
maniera  che  se  queste  attività  aventi  per  termine  lo  spazio  e 
l'essere  non  fossero  differenziate  da  altre  attività  unificate  con 
quelle  non  potrebbero  costituire  più  individui  ,  ma  ciascuna 
d'esse  un  solo. 


636 

Ma  queste  radici  reali  e  comuni  danno  il  fondamento  a  generi 
reali  antecedenti  ,  e  più  estesi  ,  che  non  sia  il  genere  reale  di 
sensilivilà.  corporea,  o  la  specie  degli  enti  intellettivi  :  danno  il 
fondamento,  dicevo,  a  tali  generi  reali,  quando  si  considerano 
come  subietti  generici ,  die  vengono  determinati  dalle  attività 
loro  aggiunte.  E  però  esse  non  costituiscono  ,  così  conside- 
rale (1),  un  ente  rcde ,  l'essenza  del  quale  si  ha  nella  specie 
e  non  nel  genere;  ma  costituiscono  un  precedente  all'ente,  come 
abbiamo  già  detto  (,618  022*). 

Che  se  si  suppone  ,  come  è  al  sommo  verisimile  ,  che  tutti 
gli  atomi  materiali  sieno  a  qualche  contatto  tra  loro  ,  in  tal 
caso  si  dovrà  dire  che  il  principio  di  continuità  abbia  per  suo 
termine  tutto  l'essere  corporeo,  e  che  sia  anch'egli  una  radice 
unica  costituente  il  genere  reale  dì  tutte  le  specie  reali  di  corpi 
viventi  nell'universo  ,  specie  che  verrebbero  distinte  solo  dai 
punti  diversi  di  contatto  procedente  dalla  varia  figura  degli 
atomi  ,  dal  peso  reciproco  degli  elementi  procedente  dalla  loro 
reciproca  grandezza  e  quantità  di  contatto,  dal  movimento  in- 
testino, e  dalle  armonie  diverse  in  cui  circola  questo  movimento. 

060.  Conchiudiamo  dunque  la  nostra  questione  così: 

Se  torna  a  ricomporsi  nel  modo  di  prima  l' aggregato  di 
materia  già  disgregato,  convien  dire,  che  ritorni  anche  l' indi- 
viduo identico  che  era  prima  ,  dico  identico  di  numero  e  non 
^soltanto*  di  specie,  attesoché  la  sua  esistenza  si  continuò  nella 
potenza  reale  della  radice  sensitiva. 

È  però  da  confessare  che  questa  specie  d'identità  non  è  por- 
letta  perchè  non  è  perfetta  la  semplicità  dell'ente,  scomponen- 
dosi la  stessa  sua  base  in  una  radice  reale  e  comune  e  in  un 
atto  sensitivo  limitato  dal  termine  proprio,  onde  è  a  distinguersi: 
1."  L'unità  e  identità  di  tutta  la  materia  creata.  — Che 
questa  unità  e  identità,  che  giace  nella  continuità,  sia  in  allo  o 
in  potenza  è  cosa  accidentale  dipendendo  dall'  essere  unita  o 
divisa. 

2."  L'unità  e  identità  dell'individuo  termine.  —  Questo  in- 


(\)  Dico  «  così  considerate  ?,  cioè  come  radici  antecedenti,  perette  con- 
siderate come  stanti  da  sé,  ce  ne  sono  di  quelle,  che  possono  costituire  un 
ente  (.618-622*). 


637 

dividilo  sarebbe  identico  a  sé  stesso  ogni  qualvolta  la  materia 
disgregata  tornasse  ad  aggregarsi  nello  stesso  modo.  La  quale 
identità  consiste  nell'esistcre  lo  stesso  individuo  termine  in  tempi 
diversi  con  interruzione  tra  l'uno  e  l'altro,  maniera  d'identità 
simile  a  quella  che  si  concepisce  in  tutti  gli  individui  som- 
messi al  tempo,  la  cui  esistenza  va  divisa  nella  successione  dei 
momenti,  di  guisa  che  si  può  dire  in  qualche  modo,  che  l'ente 
non  esiste  più  nel  momento  di  prima  né  nel  futuro  ,  ma  nel 
presente,  e  tuttavia  l'ente  che  é  esistito  ne' momenti  passati, 
l'ente  che  esiste  ora,  e  quello  che  esisterà  in  appresso,  è  iden- 
tico perché  composto  di  materia  e  di  forma  numericamente 
identica;  la  cui  proprietà  ò  di  poter  esistere  identica  in  più 
momenti  di  tempo, 

o.°  L'identità  proj)ria  de' principi  che  hanno  per  termine 
aggregati  di  materia.  —  Questa  identità  si  perde  coll'aumen- 
tarsi  0  col  diminuirsi  questi  aggregati,  e  tale  è  l'identità  che  più 
facilmente  s' intende,  e  di  cui  nell'umano  discorso  si  fa  maggior 
uso    (1). 

OGl.  Ritornando  noi  ora  al  concetto  del  diventare,  dalle  cose 
esposte  si  vede  in  qual  senso  si  possa  dire  in  qualche  modo,  che 
un  ente  diventa  un  altro.  Suppongasi  un  principio  reale  che  abbia 
per  suo  termine  tutta  la  materia  corporea,  e  prendasi  esso  per 
base  dell'ente.  Trovandosi  questa  base  —  posto  che  per  .base  si 
consideri  —  in  tutti  gli  enti  sensitivi  individuati  da  diversi  aggre- 
gati di  materia,  il  dire  che  «  l'un  d'essi  diventa  un  altro  o  più 
altri  »  equivale  a  dire  che  «  quella  radice  identica  prende  diversi 
termini  quasi  accidenti  del  medesimo  ente  )>.  Il  dire  così  ha 
una  certa  verità,  a  cagione  che  il  rimutarsì  di  tali  enti  è  acci- 
dentale; ma  la  base  nondimeno  rimane  equivoca.  Poiché  o  per 
Vente  che  diventa  s' intende  la  radice  col  suo  termine  e  allora 
non  é  vero  che  quest'ente  diventi ,  ma  si  distrugge  perdendo 
il  termine ,  o  s'intende  la  sola  radice  reale  e  allora  impropria- 

(I)  La  materia  presa  da  sé  sola  separata  da  qualunque  principio  sensitivo 
non  può  costituire  né  un  aggregato  né  un  esteso  {Psicologia  H 57-1166). 
Ma  la  materia  può  trovarsi  in  due  relazioni  col  principio  sensitivo ,  come 
termine  proprio  e  come  termine  straniero  ;  come  termine  proprio  se  esso 
la  informa,  come  termine  straniero  in  quanto  agisce  sopra  un'altra  materia 
informata  da  un  altro  principio  sensitivo. 


658 

mente  si  chiama  ente  ,  e  d'altra  parte  essa  non  diventa  ,  ma 
rimane  identica.  Acciocché  dunque  quella  frase  possa  correre 
in  qualche  modo  ,  conviene  che  s'intenda  per  ente  che  diventa 
—  subielto  della  proposizione  —  quella  radice  reale  colla  sua  polen- 
zialità  ai  diversi  termini,  e  allora  l'ente  che  diventa  è.  un  ente 
potenziale,  e  la  proposizione  significa,  che  l'ente  potenziale  che 
prima  era  attuato  in  un  dato  ente  si  attua  in  un  altro  ente.  11 
che  tutto  dimostra  con  quanta  cautela  e  con  quante  dichiara- 
zioni si  deve  adoperare  questo  verbo  diventare,  anche  rispetto 
ai  soli  enti  sensitivi,  per  non  cadere  in  un  guazzabuglio  d'equi- 
voci, di  sofismi  e  d'erronei  paradossi,  come  accade  agli  Hegeliani. 
()G2.  Veniamo  alla  questione  «  se  l'ente  vivente  perda  la  sua 
identità  quando  passa  dal  primo  grado  di  vita  al  secondo^  e  dal 
secondo  al  terzo  ». 

L'uomo  nell'ordine  del  pensar  comune  giudica  dell'unità  e 
dell'identità  degli  enti  dai  fenomeni  e  dagli  effetti  esterni,  prin- 
cipalmente da  quelli  che  sono  per  lui  importanti,  e  che  prende 
a  base  della  classificazione  degli  enti,  come  a  ragion  d'esempio, 
l'abbiamo  già  detto  altrove  ,  classifica  le  piante  di  fiori  e  le 
piante  di  frutti,  perchè  nell'une  gl'interessa  più  il  fiore  e  nelle 
altre  più  il  frullo  (*).  Se  dunque  si  considera  questa  maniera  di 
classificare  appoggiata  alle  apparenze,  certo  che  l'ente  che  vive 
della  vita  di  continuità,  e  che  diciamo  semplicemente  animalo, 
è  diversissimo  da  quello  che  vive  della  vita  d'eccitamento  e 
più  ancora  da  quello  che  vive  della  vita  d'eccitamento  perpetuo 
ed  armonico  che  chiamiamo  animale;  anzi  le  due  prime  vite, 
il  comune  degli  uomini  non  le  osserva  tampoco,  pensando  che 
non  ci  sia  altro  animato,  che  Tanimale.  Ma  ove  il  filosofo  sia 
giunto  a  distinguere  le  tre  vite,  ritenendo  la  maniera  volgare 
facilmente  s'indurrà  a  crederle  basi  di  tre  enti  distinti. 

Lasciando  dunque  le  apparenze  e  considerando  la  realtà  della 
cosa,  che  s'ha  da  dire?  Che  il  principio  di  continuità  costituisca 
un  ente  diverso  dal  principio  dell'eccitamento,  e  questo  uno  di- 
verso da  quello  del  principio  di  eccitamento  perpetuo  o  cir- 
colare ? 

Parrebbe  che  non  dovesse  esser  così,  che  la  vita  d'eccitamento 

(*)  Melodol.  20  sgg.;  200  sgg. 


G59 

e  quella  d'eccilamenlo  perpetuo  e  d'armonia  conviene  clie  esista 
in  un  modo  reale^  benché  non  ispiegata  ma  implicita,  e  come 
in  germe  nel  sentimento  di  continuità.  Onde  il  principio  che 
sente  il  corporeo  continuo  pare  quel  subietlo  stesso  che  si  attua 
maggiormente  eccitato  o  per  un  momento  o  con  perpetua  vi- 
cenda di  stimoli. 

Ma  la  radice  comune  e  la  potenziale  non  basta  a  costituire 
i  subietli  diversi,  quand'ella  sia  antecedente  a  questi. 

La  radice  comune  reale,  cioè  il  principio  del  sentimento  di 
continuità  ,  è  di  quelle  che  possono  slare  da  sé  separate  da 
ogni  altro  atto,  e  quando  stanno  da  sé  ,  allora  non  si  conside- 
rano più  come  comuni  e  costituiscono  per  sé  un  ente.  Tale  è 
appunto  il  principio  sensitivo  di  continuità  non  eccitato  ,  nel 
quale  stato  egli  é  base  dell'ente. 

Ma  dottrina  ontologica  di  gran  momento  ,  che  abbiamo  già 
accennato  altrove  e  datone  degli  esempi  {Pskol.  680,  CSo  689), 
si  è  questa  che  : 

«  Qualora  un  principio,  che  ha  un  atto,  acquisti  un  novo  ter- 
mine più  eccellente  del  precedente  ,  e  in  conseguenza  emetta 
un  allo  permanente  di  più  forza,  o  di  maggior  grado  di  attività 
del  precedente,  cessa  d'essere  la  base  dell'ente,  che  così  si  co- 
stituisce, e  ne  rimane  semplicemente  un  antecedente  che  chia- 
minmo  radice,  e  la  base  o  principio  costitutivo  del  novo  ente 
è  il  novo  atto  immanente  e  permanente  ». 

Quindi  può  avvenire,  e  crediamo  che  di  continuo  avvenga,  che 
nello  stesso  corpo  animale  possano  formarsi  dei  sistemi  parziali 
d'eccitazioni  stranieri  al  principio  d'eccitazione  che  é  la  base 
dell'animale.  Questi  sistemi  parziali  d'eccitazioni  tendono  a  co- 
stituirsi  in  altrettanti  individui  animali  separati  da  quello,  nel 
corpo  del  quale  si  trovano,  secondo  le  leggi,  che  abbiamo  esposte 
nel  X  de'  Psicologici. 

065.  Il  qual  lavoro  crediamo  noi  che  possa  talora  essere  in- 
nocuo e  normale  ,  se  il  principio  d'eccitamento  armonico  che 
costituisce  l'animale  slesso  è  forte  abbastanza  da  reprimere  tali 
allentati  alla  sua  dominazione,  tosto  che  passassero  a  cagionargli 
nocumento.  Anzi  il  moderato  sforzo  che  egli  deve  fare  entra 
forse  a  costituire  l'attività  delta  sua  vita,  non  credendo  noi  del 
tutto  erronea  la  sentenza  del  Brown  che  la  vita  consista  in   un 


cerio  moderato  sforzo  /  in  una  certa  lolla  che  sempre  si  vince 
dal  vivente. 

Pure  altri  esili  può  avere  il  conato  d'un  sistema  parziale  d'ec- 
citamento, che  incomincia  a  manifestarsi  nel  corpo  delTanimale, 
diverso  dal  sistema  totale  d'eccitamento  proprio  dell'animale 
medesimo.  Poiché  il  sistema  parziale  può  prendere  il  vantaggio 
sul  totale  e  distruggere  l'animale  prima  ancora  che  esso  si  costi- 
tuisca in  un  animale  novo. 

Ovvero  il  sistema  parziale  quando  sia  ristrclto,  ma  tale  che 
si  sottrae  al  dominio  del  principia  dell'animale  ,  può  cosliluirsi 
in  individui  animali  di  minor  mole  viventi  nell'  animale  mag- 
giore, che  ci  pare  essere  il  caso  degli  Entozoi. 

Finalmente  un  sistema  parziale  può  prevalere  al  sistema  to- 
tale e  costituirsi  in  un  novo  animale  che  si  divide  dal  primo 
in  un  modo  normale ,  e  questo  è  il  caso  della  generazione 
{Psicol.  mii-ì)8h). 

Che  poi  ogniqualvolta  si  cosliluisce  un  novo  circolo  di  vita 
separato  dal  primo  si  ahbia  un  ente  novo,  che  ha  per  base  il 
principio  sensitivo  della  nova  armonia,  si  rende  all'uomo  mani- 
festo in  virtù  della  sua  consapevolezza.  Poiché  il  principio  ra- 
zionale può  rendersi  consìipevole  di  quel  principio  sensitivo  col 
quale  è  unito  per  la  j)ercezione  fondamentale  (Psicol.  2^9-271), 
e  di  tulli  gli  atti  e  delle  passioni  di  questo  ;  laddove  di  tulli 
gli  altri  princijìì  ed  effetti  animali  rimane  inconsapevole,  il  che 
prova  che  sono  altri  individui  animali. 

E  tuttavia  1'  aderenza  delle  parli  tra  due  animali  potrebbe 
esser  tale,  che  ci  fosse  un  solo  principio  sensitivo  di  continuità 
comune  ai  due  soggetti  animali,  e  anche  un  principio  comune 
d'eccitamento,  se  il  movimento  eccitalorio  si  continua  ,  il  che 
potrebbe  avverarsi  in  quegli  Entozoi  che  non  possono  vivere 
estratti  dal  corpo  dell'animale  maggiore  ,  e  lo  slesso  dicasi  Ira 
il  feto  e  la  madre,  e  ne'mostri  bicefali. 

Quindi  anco  abbiamo  dedotto  la  duplice  azione  materiale  e 
sentimentale  de'corpi  viventi  al  contatto  (Psicol.  587-002). 

Dalle  quali  cose  possiamo  conchiudcre  di  novo  ,  che  il  dire 
che  un  ente  diventa  un  altro,  si  può  ,  in  qualche  modo  ,  dire 
rispello  a  quelle  radici  reali,  che  possono  sussistere  da  se  slesse 
e  costituire  la  base  di  un  ente,  come  accade  del  principio  sen- 


641 

silivo  di  continuità.  Poiché,  dato  un  aggregato  di  materia  inor- 
ganica al  contatto  ,  noi  diciamo  ,  che  ivi  è  un  solo  atto  di 
continuità  ,  base  di  un  ente.  Se  dunque  questo  principio  orga- 
nizza il  suo  termine  coll'aiuto  di  stimoli  esterni,  e  se  ne  produce 
un  animale,  quel  principio  sensitivo  di  continuità ,  che  non  ha 
cessato  di  esistere  e  che  era  un  ente,  sembra  essere  divenuto 
un  altro  ente.  A  rigore  però  convien  dire,  che  egli  ha  cessalo 
di  esser  ente  ,  e  s'è  cangiato  in  appendice  del  novo  ente  ,  la 
base  di'l  quale  giace  nel  principio  dell'eccitamento  armonico. 

GG4.  B.  Rimane  a  parlare  delle  mutazioni  che  subiscono  le 
appendici  dell'  ente  senza  ricevere  o  perdere  alcuna  forma  so- 
stanziale ,  ma  per  mutazione  di  meri  accidenti  ,  la  qual  lasci 
intatta  la  radice,  la  base  dell'ente,  e  tutta  la  sua  sostanza. 

Ora  non  si  potrà  mai  dire  che  un  ente  diventa  un  altro  per 
cangiarsi  che  facciano  i  suoi  meri  acciilenti. 

Tuttavia,  non  è  questa  una  mutazione  che  nasce  nell*  ente? 
Se  non  diventa  un'altro,  acquista  però  delie  altre  qualità.  L'ente 
dunque  non  ò  più  immutabile  come  ente,  e  se  non  è  immuta- 
bile di  maniera  che  non  ci  sia  per  lui  altra  condizione  che  una 
di  queste  due,  essere  o  non  essere,  non  «:  più  vero  che  l'ente 
sia  uno.  Contro  questa  difficoltà  noi  abbiamo  già  difeso  lunga- 
mente r  unità  dell'  ente  nel  VI  dt)'Psicolo(jìci  (735-9G5).  Quivi 
fu  dimostrato  da  noi,  come  la  base  dell'elite  reale  sia  sempre  un 
principio  non  chiamandosi  enti  i  termini,  S(!  non  per  un  modo 
imperfetto  di  concepire  della  menls^  umana  (835-859);  come 
i  termini  sicno  quelli  che  individuano  gli  enti  e  però  gli  enti  reali 
si  classifichino,  secondo  i  loro  termini  ;  come  questi  termini  pos- 
sano variare  d'essenza  specifica  e  d'essenza  generica,  onde  na- 
scono le  varie  specie  e  i  vari  generi  degli  enti  ;  e  finalmente 
come  nella  stessa  specie  certi  termini  ammettano  più  individui, 
e  come  il  termine  individuante  ammetta  de'cangiamenti  accidentali 
che  non  mutano  la  sua  sostanza  e  natura  specifica.  Tutti  gli  acci- 
denti dunque  ,  o  atti  accidentali,  per  cangiarsi  che  facciano,  non 
mutano  l'ente  individuo  ,  rimanendo  il  principio  uno  ed  identico  , 
appunto  perchè  le  mutazioni  accidentali  del  termine  non  costitui- 
scono il  principio  stesso,  base  dell'  ente.  Di  qui  procede  che  gli 
atti  accidentali  del  principio  dell'ente,  in  quanto  sono  accidentali, 
si  devono  considerare  come  appendici  e  non  come  base  dell'ente; 
Rosmini.  Teosofìa.  41 


642 

il  quale  perciò  conserva  la  sua  perfetta  identità,  e  non  divcnla  un 
altro  né  si  cangia  in  ciò  che  Io  rende  formalmente  ente. 

CCS.  il.  Vediamo  ora  qual  valore  può  darsi  al  diventare  ap- 
plicandolo agli  esseri  puramente  ideali. 

Abbiamo  detto,  che  l'essere  indeterminato  ha  de'termini  propri  e 
de'termini  impropri:  il  termine  è  la  realità  dell'essere,  e  però  costi- 
tuisce l'ente  reale  e  il  subietto  reale  (.521  sgg  ,  ^439  sgg.,  ^i91  sgg.*). 

Ma  dianoeticamente  si  può  prendere  per  subietto  l'essere  ideale 
e  per  predicato  la  realità.  Quindi  si  può  dire  ugualmente:  «  l'atti- 
vità reale  di  questo  sentimento  è  »,  dove  il  reale  forma  il  subietto; 
e  «  l'essere  è  realizzato  nell'attività  di  questo  sentimento  »,  dove 
tien  luogo  di  subietto  l'essere  ideale  [Sist.  50,  Logic.  53-2-35C). 

li  potersi  far  subietto  della  proposizione  tanto  il  reale  quanto 
l'ideale  suole  divenire  un  fonte  d'illusione  ai  filosofi  malaccorti 
come  sono  gli  FIegelii\ni.  E  in  vero  essi  furono  ingannati  al 
vedere  che  l'essere  poteva  comparire  nel  discorso  come  subietto 
di  tutti  gli  enti  ,  perchè  veramente  lutti  gli  enti  sono  l'essere 
^ideale*  con  un  termine  reale.  E  quindi  credettero  falsamente  di 
poter  conchiudere  che  l'essere  ideale,  ossia  l'idea  diventasse  tutti 
gli  enti.  E  perchè  l' idea  non  la  trovavano  palpabile  e  però  non 
pareva  loro  cosa  salda ,  perciò  non  seppero  conoscere  com'ella 
potesse  star  ferma,  ma  imaginarono  il  pazzo  sistema,  che  l'idea 
stessa  sia  sempre  sul  diventare  qualche  cosa  altro,  e  che  que- 
st'atto del  diventare  —  che  come  tale  non  è  mai  compiuto  ed  è 
un  concetto  composto  d'essere  e  di  non  essere,  di  qualche  cosa  e 
di  nulla  —  fosse  l'atto  proprio  dell'idea  generatrice  di  tutte  le  cose. 

Confondevano  dunque  il  subietto  dialettico  col  reale  :  e  non 
s'erano  accorti,  che  l'umano  discorso  adopera  indifferentemente 
questi  due  subietti  ;  ma  che  passa  tra  l'uno  e  l'altro  una  dif- 
ferenza immensa.  Appartiene  all'Ontologo  il  riconoscere  la  na- 
tura de' due  subietti.  Mediante  la  riflessione  ontologica  si  vede 
che  l'uno  è  ideale  e  non  costituisce  l'ente  reale;  l'altro  è  reale 
ed  è  questo  solo  che  costituisce  l'ente  nella  sua  propria  subiet- 
tiva esistenza,  e  quindi  è  la  vera  base  dell'ente. 

ecc.  La  meditazione  ontologica  va  più  avanti  ancora  e  ri- 
scontra la  differenza  tra  i  termini  dell'essere  propri  ed  impropri  : 
e  s'accorge  che  i  termini  propri  sono  infiniti  e  costituiscono  un 
solo  ente  infinito. 


0^3 

Airjnconlro  i  lermini  impropri,  come  abbiam  veduto  ,  sono 
finiti  e  quantunque  siono  uniti  all'essere,  che  aHrament(>  non  sa- 
rebbero ,  né  tampoco  sarel)bero  conoscibili  ,  tuttavia  non  sono 
Tessere;  e  però  l'essere  in  essi  non  ha  ragion  di  subielto. 

Quindi  questa  proposizione  :  «  L'essere  indeterminato  acqui- 
stando i  lermini  propri  diventa  l'essere  assoluto  »,  non  ha  che 
un  valore  dialettico,  che  l'essere  assoluto  non  diventa,  ma  sem- 
pre ò,  ne  ammette  formazione,  né  annullamento,  né  modifica- 
zione, né  moto.  Quella  proposizione  esprime  solo  un  movimento 
0  passaggio  della  mpnte  ìnnana,  la  quale  perviene  a  formarsi  il 
concetto  dell'essere  assoluto  partendo  dall'  indeterminato  e  ag- 
giungendogli i  suoi  lermini  propri.  Mediante  questa  oi)erazione 
della  mente  i  termini  propri  rimangono  come  appiccicali  all'es- 
sere indeterminato,  e  però  il  concetto  di  questo  essere,  che  non 
ammette  composizione,  rimane  sempre,  per  l'uomo  ,  imperfetto 
e  negativo.  Anzi  ,  come  meglio  si  vedià  altrove  ,  quest'essere 
non  ha  concetto  positivo  ,  ma  egli  stesso  tien  luogo  anche  del 
suo  concetto. 

La  proposizione  poi:  «  L'essere  indeterminato  acquistando  dei 
termini  impropri  diventa  ente  o  enti  finiti  »  ,  non  ha  neppur 
essa  un  valore  filosofico,  e  contiene  l'errore  di  far  credere  che  Io 
stesso  essere  ideale  diventi  reale  —  cosa  assurdissima,  che  le  due 
forme  non  possono  mai  permutare  la  loro  natura. —  E  dunque  da 
lasciarsi  tale  espressione  alla  filosofìa  volgare  ,  ncn  potendo  si- 
gnificar altro  che  quello  che  nasce  nella  percezione,  nella  quale 
la  mente  attribuendo  l'essere  al  sentito,  raj)prende  siccome  ente; 
senza  che  nulla  si  sia  mutato  perciò  dalla  parte  dell'essere,  nò 
l'essere  sia  divenuto  cosa  alcuna.  La  sola  mente  umana  é  pas-. 
sata  a  vedere  che  il  suo  sentito  è  un  ente,  il  che  non  converte 
già  l'essere  nel  sentito,  ma  afferma  che  il  sentito  è  unito  al- 
l'essere, nella  quale  unione  é  posta  l'esistenza  del  sentito,  poiché 
l'esistenza  del  sentito  è  tutta  in  quest'unione  che  s'opera  nelle 
menti,  la  quale  non  é  confusione  né  trasformazione  (1). 


(1)  Inolino  dice,  clie  Parmenide  appresso  Platone  distingue  :  l.»  Vunum, 
2.0  Yunum  multa,  3.»  Vunum  et  multa,  (  o  ny^ù.  iDktwvi  nap/^sviò/js,  àzpipé- 

arsjsov  }iéywv,  SiocipiX  «tt"  à)./-/ì}.&)v  tò  TCp'Tizd-j  Iv,  o  i(\>pi'Jiripov  Iv,  x«t  Siùvtpov  Iv  TtcìÀlà 

;^i/wy,  zaiTpiTov  sv  /.x't  7r5).).à),  e  clic  Vunuìii  milita  signitìca  la  mente  perfet- 


Uh 

CG7.  Rimane  a  vedere  se  ressero  ideale  e  indelerir  inalo,  che 
non  può  diventar  mai  un  reale,  possa  nondimeno  diventare  un 
ente  ideale  delerminalo. 

Neppur  questo  è  possibile,  a  cagion  che  le  determinazioni  si 
prendono  tutte  dalla  realità.  Onde  quando  si  dice  una  determi- 
nazione ideale,  propriamente  non  si  vuol  dir  altro,  se  non  una 
determinazione  reale  possibile;  e  però  le  determinazioni,  ancorché 
si  considerino  nella  loro  possibilità,  non  sono  veramente  ideali  ma 
involte  nell'idea.  E  veramente  suppongasi  che  il  discorso  sia 
d'una  determinazione  generica  0  specifica:  ninno  può  conoscerla 
positivamente,  se  non  avendola  percepita  realmente  e  conserva- 
tone almeno  un  segno  reale  nella  memoria;  e  il  concetto  nega- 
tivo ,  suppone  sempre  qualche  altro  concetto  positivo  a  cui  si 
appoggi,  onde  ogni  concetto  d'una  determinazione  esige  il  pen- 
siero di  qualche  realità. 

E  però  rimane  che  di  tutte  le  entità  accessibili  quaggiù  al- 
l'uomo il  solo  essere  indeterminato  sia  veramente  ideale,  e  sia  il 
solo  conoscibile  per  sé,  e  tutte  le  sue  determinazioni  siano  in 
qualche  modo  reali,  benché  si  pensino  anche  come  possibili 
unendosi  ad  esse  la  possibilità,  che  ha  il  suo  fondamento  nello 
stesso  essere  indeterminato. 

Quando  dunque  la  mente  dalla  considerazione  dell'essere  inde- 
terminato passa  a  considerare  un  ente  determinato  come  possibile 
—  onde  anche  questo  si  dice  ideale  nel  senso  che  partecipa  dell'og- 
gettività, —  allora  non  è  già  che  l'essere  indeterminato  divenga 
questo  ente  determinato,  ma  solo  si  congiunge  in  un  dato  modo 
alla  realità  finita,  e  quest'unione  si  fa  per  la  virtù  sintetica  d'un 
qualche  soggetto  intelligente. 

608.  Dalle  quali  cose  si  deve  finalmente  conchiudere: 

i.°  Che  quando  l'essere  indeterminato,  che  è  Videa,  si  consi- 
dera in  relazione  coi  reali  finiti,  esso  non  diventa  gli  culi  finiti, 
benché  questi  siano  enti  per  la  congiunzione  e  partecipazione  di 
lui;  ma  altro  è  l'unirsi  e  il  partecipare  d'una  cosa,  altro  è  l'essere 
questa  stessa  cosa. 

tissima.  Ora  il  chiamare  la  mente  uno  molti  bencliè  sia  un  gergo  filosofico, 
pure  indica  questa  verità:  clie  la  mente  congiiinge  in  uno  l'essere  e  i  suoi 
termini  impropri,  l'ente  e  le  sue  appendici.  Vedi  R.  Cudworlh  Syst.  intellect. 
T,  1,  G.  IV,  §.  XXI. 


645 

2."  Che  l'essere  ideale,  con  cui  si  conoscono  i  finiti,  rimane 
sempre  indeterminato,  a  propriamente  parlare;  quantunque  i  reali 
finiti  riescano  enti  per  la  presenza  di  esso  nel  soggetto  intelli- 
gente. 

3  °  Che  questi  enti  finiti,  appunto  perchè  sono  enti,  hanno 
Tunilà  e  l'individualità  e  non  possono  confondersi  con  altra  cosa. 
Si  considerano  bensì  come  determinazioni  dell'essere  indetermina- 
lo, e  sono  veramente  tali;  ma  tali  sono  rispetto  alla  mente  e  però 
sono  tali  solo  dialetticamente.  Il  che  è  quanto  dire,  che  la  mente 
può  formare  questa  proposizione:  «  l'essere  ha  ricevuto  questa  de- 
terminazione finita  ))  dove  si  prende  l'essere  come  subietto  della 
proposizione.  Ma  la  rillessione  ontologica  disfà  poi  questa  propo- 
sizione mentale  riconoscendo  che  l'ente  finito  non  è,  né  fu  mai 
l'essere,  e  che  l'essere  a  cui  è  congiunto  non  è  lui. 

In  altre  parole  l'ente  reale  finito  avendo  un'esistenza  propria 
relativa  a  sé  slesso,  non  va  fuori  di  sé,  e  però  non  abbraccia 
l'essere  che  é  infinito.  Che  se  per  l'opposto  l'essere  che  é  infinito 
abbraccia  il  finito,  questo  non  si  riferisce  che  a  lui  e  non  é  recipro- 
camente vero  del  finito.  Poiché  il  finito  rimane  sempre  distinto 
dall'infinito,  che  il  finito  non  è  quell'infinito  che  s'estende  a  luì, 
ma  è  quel  finito  che  termina  in  sé  come  più  ampiamente  si  vedrà 
altrove. 

4,°  (;he  quando  la  mente  umana  dall'essere  indeterminalo 
passa  all'assoluto  coH'aggiungere  a  quello  un  termine  infinito, 
allora  fa  una  operazione  simile  nella  forma  a  quella,  che  fa  quando 
aggiungendo  all'essere  indeterminato  un  termine  finito  passa  a 
considerare  l'ente  reale  finito.  Ma  la  riflessione  ontologica  che 
sopravviene  trova  diversissimo  il  risultato  delle  due  operazioni. 
Poiché  il  risultalo  della  seconda  é  la  percezione  dell'ente  finito; 
laddove  il  risultato  della  prima  non  è  la  percezione  dell'infinito, 
ma  una  sola  formula  indicativa  di  esso.  La  differenza  nasce  da 
questo,  che  il  termine  finito  è  un  sentito,  e  questo  forma  la  base 
0  il  subiello  dell'ente,  laddove  il  termine  infinito  non  é  sentilo 
dall'uomo,  ma  solo  determinato  per  via  d'astrazioni  e  di  negazioni. 

C69.  Di  che  avviene,  che  quando  si  tratta  d"un  ente  finito,  og- 
getto della  nostra  percezione,  noi  ne  possediamo  la  base  reale,  e 
quindi  conosciamo  la  relazione  che  ha  questa  base  cnll'essere  inde- 
terminato, e  per  questa  relazione  l'onte  finito  non  distrugge  né  as- 


646 

sorbe  l'essere  indetonninalo,  ma  anche  dopo  la  percezione  di  questo 
ci  stanno  tull'e  due  presenti  allo  spirito,  e  distinti  in  nnodo,  che 
possiamo  parlare  dell'uno  e  dell'altro  a  nostro  piacere.  Ma  quando 
si  tratta  dell'ente  infinito,  la  cosa  non  va  cosi.  Certose  si  considera 
la  sola  forma  dell'operazione  mentale  con  cui  lo  concepiamo  , 
troviamo  in  essa  la  medesima  distinzione,  da  una  parte  l'essere, 
dall'altra  il  termine.  Ma  se  ne  sottomettiamo  il  risultato  ad  una 
ritlessione  più  elevata^  vediamo  che  non  può  stare  quella  dual!t<à, 
dovendoci  essere  nell'inlìnito  una  perfettissima  semplicità.  Andando 
più  avanti  col  pensiero  ontologico  troviamo  ancora,  che  nell'essere 
indeterminato  si  devono  distinguere  i  dueelemcnti:  i."  dell'essere, 
2  "  della  indeterminazione,  e  che  l'essere  deve  identitìcarsi  col 
termine  infinito  ,  e  l'indeterminazione  deve  affatto  scomparire, 
e  rimanere  solo  l'essere  reale  colla  sua  oggettivila  e  intelligibilità 
assoluta:  che  quindi  anche  la  parola  relativa  di  termine  rimane 
a  rigore  inapplicabile:  rimane  inapplicabile  anche  la  parola  id^a, 
come  quella  che  esprime  una  cosa  vota  di  realità  subiettiva.  Ri- 
mane dunque  il  solo  essere  assoluto  semplicissimo. 

Non  si  deve  dunque  confondere  il  movimento  della  mente 
umana,  e  i  passi  e  le  operazioni,  che  ella  fa  per  arrivare  al  pen- 
siero dell'essere  assoluto,  colla  natura  di  quest'essere:  non 
conviene  trasportare  questo  movimento  della  mente  nell'essere 
stesso,  quasi  che  egli  si  mova,  come  imperitamente  dice  l'Hegel: 
nò  in  alcuna  maniera  si  dee  dire,  che  l'essere  indelerminato^divenga 
assoluto,  che  la  stessa  nostra  mente  con  una  riflessione  superiore, 
come  dicevamo,  s'accorge,  che  nell'essere  assoluto  cessa  l'idea, 
e  non  resta  più  che  lui  stesso.  Solo  questo  si  può  dire  con  verità, 
die  nell'essere  indeterminato  la  mente  intuisce  un  elemento,  il 
quale  rimane,  non  diviene,  non  si  cangia. 

Il  discorso  umano  predica,  è  vero,  l'essere  di  Dio,  quando  dice, 
che  Dio  ò,  come  lo  predica  degli  enti  finiti,  quando  dice  che  sono, 
e  questa  predicazione  è  dialetticamente  univoca  (1).  Ma  di  Dio  si 
predica  l'essere  entitativ.tmente  e  dei  finiti  solo  accidentalmente; 
con  che  vogliamo  dire  che  rispetto  a  Dio  il  predicato  e  il  subietto 
è  assolutamente  identico,  e  rispetto  agli  enti  finiti  il  predicato  è 

(1)  Vedi  la  Lettera  a  Alessandro  Pestilozza  sulla  questione  se  l'essere  si 
predichi  univocamente  di  Dio  e  delle  creature,  neW Introduzione,  VII.  v. 


647 

realmonte  diverso  dal  subicllo,  e  non  c'è  che  un'identilà  relativa 
e  partocipativa. 

670.  191.  Molto  meno  poi  si  può  dire  degli  enti  puramente 
montali,  che  l'uno  diventi  l'altro.  Poiché,  essendo  essi  l'opera  del  mo- 
vimento della  mente  umana,  è  questa  che  si  move  e  passa  daiTuno 
all'altro;  tali  cnli  dunque  non  hanno  in  sé  medesimi  alcun  moto. 

Vero  è  che  essi  sono  bene  spesso  elementi  dialettici  di  altri  enti, 
0  ideali  o  reali  possihili;  ed  è  di  qui  che  nasco  l'illusione,  sem- 
brando, che  un  ente  si  spezzi  in  molti,  o  che  di  molti  se  ne  com- 
ponga uno.  Ma  oltre  che  questa  composizione  e  scomposizione  è 
sempre  l'opera  del  pensiero,  lo  scomporsi  e  il  ricomporsi  non  è 
un  diventare;  che  l'ente  scomposto  non  è  più,  ma  sono  gli  enti 
venuti  dalla  scomposizione;  e  gli  stessi  enti  col  riunirsi  in  uno, 
non  sono  più,  ma  un  novo  ente;  onde  il  divenire  in  senso  proprio 
non  ha  luogo  mai, 'né  l'ente  soffre  trasmutazione  come  ente,  ma 
solamente  è,  o  non  é. 

671.  Da  tutto  questo  si  vede,  che 

ì."  È  impossibile  che  l'ente  in  sé  diventi  un  altro;  e 
2.°  Nondimeno  apparisce  davanti  alla   mente  umana   una 
trasformazione   di  un  ente  in  un  altro,  o  di  un'entità-appendice 
in  un  ente. 

Questa  trasformazione  non  accade  all'ente  in  sé,  ma  all'ente  in 
quanto  è  pensato  dalla  mente,  e  però  essa  appartiene  unicamente 
alla  relazione  che  ha  l'ente  colla  mente,  poiché,  come  abbiamo 
veduto,  ogni  ente,  oltre  essere  in  sé,  è  anche  nella  cognizione 
della  mente.  Ed  è  per  questo  che  noi  vedemmo,  la  mente  divina 
limitare  il  reale  infinito  e  produrre  ad  un  tempo  l'esemplare  del 
creato  ed  il  creato.  Poiché  il  reale  infinito  non  è  limitabile  in  sé 
né  come  subiello  né  come  abbietto  sussistente,  ma  solo  come  co- 
gnito, cioè  in  quanto  la  sua  presenza  nella  mente  lascia  in  essa 
una  cognizione  sua  propria,  su  cui  la  mente  può  esercitare  analisi 
e  sintesi  ed  altre  operazioni. 

Nelle  quali  operazioni  la  mente  umana  lascia  l'impronta  delle 
sue  proprie  limitazioni. 

5."  Il  movimento  che  deve  attribuirsi  alla  mente  stessa  e  alla 
sua  cognizione,  non  può  tuttavia  attribuirsi  al  pensar  assoluto,  col 
quale  la  mente  conosce  l'ente  in  sé  ;  ma  al  pensar  parziale  e  dia- 
lettico. 


648 

h."  La  menle  umana  che  sinlesizza  trasforma  il  senlilo  in  un 
ente,  quando  gli  aggiunge  l'essere,  formando  con  questa  giunta 
l'oggetto  de!  suo  conoscere  (1). 

5.°  La  mente  trasforma  un  ente  in  un  altro  per  via  di  com- 
posizione 0  di  scomposizione. 

Per  via  di  composizione,  aggiungendo  delle  forme  sostanziali  o 
entitalive;  e  questo  in  due  modi,  o  rimovendo  le  forme  precedenti 
dalle  loro  appendici,  o  soprapponendo  forme  a  forme^  come  se  a  un 
principio  animale  s'aggiungesse  l'alto  intellettivo. 
Per  iscomposizione,  disfacendola  composizione  fatta. 

G.°  Quando  la  mente  umana  passa  al  concetto  d'un  ente  per 
vìa  della  detta  composizione  ontologica,  il  concetto  dell'ente  così 
formato  può  riuscire  di  due  sorta,  o  semplicemente  logico  o  formale, 
che  anche  si  dice  negativo  o  ideale  ìiegativo,  ovvero  anche  mate- 
riato, completo^  positivo. 

Riesce  logico  e  negativo  se  la  composizione  si  fa  senza  che  si 
conosca  il  nesso  degli  elementi  componenti,  nel  qual  nesso  consiste 
l'atto  costitutivo  dell'ente,  ossia  la  base  (,012  sgg  *)  :  riesce  po- 
sitivo se  il  nesso  non  rimane  occulto,  e  però  non  determinato 
dalla  mente  ,  ma  si  conosce  determinatamente  ,  il  che  accade 
soltanto  quando  si  percepisce  l'ente  e  non  ì  soli  elementi ,  coi 
quali   il  pensiero  logicamente  lo  compone. 

Quando  non  si  conosce  il  nesso  degli  elementi,  non  si  conosce 
propriamente  l'ente  ,  che  in  questo  nesso  consiste  :  ma  solo  si 
sa,  che  quegli  elementi,  qualora  avessero  quel  nesso  che  devono 
avere  e  che  pur  non  si  sa  qual  sia,  sarebbero  quell'ente;  la 
quale  è  una  cotal  formola  indicativa  dell'ente  e  non  un  con- 
cello dell'ente  slesso. 

Tale  è  il  concetto  che  l'uomo  si  forma  di  Dio,  e  di  tutti  gli 
enti  che  non  cadono  nella  sua  percezione. 

Dal  che  procede  la  spiegazione  del  perchè  l' uomo  trovi  in 
Dio  una  certa  composizione,  come  sarebbe  una  moltiplicità  d'at- 
tributi e  di  fterfezioni  ,  e  di  gradi  e  di  atti  di  essere.  Questa 
composizione  l'uomo  la  trova  in  Dio,  perchè  ce  la  mette.  Es- 
sendosi edi  formato  il  concetto  di  Dio  coli' unire  insieme   tutte 


(1)  Vedi  la  Lettera  a  Benedetto  Monti  sull'essenza  del  conoscere^  neW In- 
troduzione, IV. 


649 

le  perfezioni  possibili  e  tulli  i  gradi  di  esse,  gli  rimane  sempre 
davanti  alla  mente  questa  moltipiicilà  ,  di  cui  ignora  il  nesso , 
ignora  come  tulle  queste  perfezioni  e  gradi  si  rifondino  in  una 
semplicissima  natura.  Intende  che  l'unità  e  la  semplicità  ci  deve 
essere  in  questa  natura,  ma  non  sa  COME  sia  (Teodicea  59-74). 
Così  dunque  avviene  che  l'uomo  anche  nella  natura  sempli- 
cissima trovi  molliplicità,  l'analisi  la  scomponga  e  vi  distingua 
innumerevoli  concetti  elementari. 


Articolo  VI. 
Della  ricchezza  e  dignità  degli  enti. 

072.  Un  corollario  che  possiamo  cavare  dalle  cose  dette  si  è  il 
criterio  per  conoscere  quanto  un  ente  preceda  un  altro  in  ric- 
chezza e  in  dignità. 

Il  qual  criterio  si  può  dividere  da  noi  in  due  proposizioni. 

I.  Un  ente  è  maggiore  dell'altro  quanto  più  d'entità  hanno 
i  suoi  termini. 

II.  Un  ente  è  maggiore  dell'  altro  quanto  ,  supposti  i  ter- 
mini d'entità  eguali,  egli  ha  più  di  semplicità,  sicché  ci  sia  un 
nesso  più  stretto  tra  i  suoi  termini  e  il  suo  inizio. 

Abbiamo  veduto  che  Vuno  astratto  è  un  concetto  poverissimo 
(,581-591*),  e  all'opposto  abbiamo  veduto  ancora  che  ogni  di- 
visione e  reale  distinzione  impoverisce  l'ente  (,592-594*)  e  pel 
contrario  la  semplicità  l'arricchisce  (.595  sgg.,  612  sgg.*). 

Gonvien  dunque  dire  che  la  semplicità  renda  l'ente  più  per- 
fetto, ma  che  egli  riesca  altresì  più  ricco  quanto  i  suoi  termini 
hanno  più  d'entità. 

Articolo  VII. 

Semplicità  dell'essere  assolato ,  e  semplicità  dell'essere 
indeterminato. 

673.  Di  che  procede,  che  l'essere  assoluto  essendo  quello  che  ha 
ogni  grado  e  perfezione  di  essere,  essendo  l'essere  per   essenza 


630 

cu' suoi  propri  termini,  deve  avere  altresì  una  semplicità  mnssima 
ed  assoluta,  senza  ammettere  in  sé  slesso  alcuna  varietà,  che  possa 
dare  fondamento  a  qualche  distinzione  di  qualità. 

Riguardo  poi  all'essere  indeterminato  e  ideale,  come  abbiam 
veduto,  gli  compete  l'unità  virtuale,  e  d'essere  il  principio  del- 
l'unità ^attuale*.  Qualora  poi  si  consideri  preciso  da' suoi  termini, 
è  meno  di  uno^  e  però  non  si  può  concepire  che  per  astrazione. 
La  sua  ricchezza  del  pari  è  virtuale  se  si  considera  quale  sta 
presente  all'umana  intelligenza;  se  si  precida  ed  astragga  dai 
suoi  termini  virtuali,  gli  è  tolta  con  questo  modo  dialettico  anche 
ogni  ricchezza  virtuale  (.581-587*) 

La  semplicità  di  quest'essere  è  tale  che  non  si  può  levargli 
cosa  alcuna  colla  mente  senza  annullarlo:  di  modo  che  o  si 
pensa  tutto  o  niente. 

Pare  a  primo  aspetto  che  nella  percezione  degli  enti  finiti  non 
si  pensi  lutto  l'essere,  e  che  perciò  questo  si  spezzi.  Ma,  come 
abbiam  dello  nella  Psicologia  (1506-1311),  e  più  sopra,  ogni 
realità  finita  si  percepisce  nell'essere  universale  e  totale  di  cui 
essa  non  ò  che  un  termine  improprio.  Onde  la  stessa  percezione 
delle  realità  finite  diventa  possibile  all'uomo  solo  per  questo  che 
a  lui  sta  presente  l'essere  nella  sua  totalità  e  infiniludine,  nel 
quale  solo,  e  non  mai  da  esso  diviso,  si  può  pensare  il  limitalo. 
Laonde  come  Emanuele  Kant  propose  il  problema  dell'Ideologia 
così:  «  A  quali  condizioni  sia  possibile  l'esperienza  »  ,  noi  in 
modo  simile  lo  proponemmo  così  :  u  A  quali  condizioni  sia  pos- 
.sibile  la  percezione  o  l'astrazione  ».  E  dopo  esclusa  la  soluzione 
che  il  Kant  diede  al  suo  problema,  noi  risolvemmo  il  nostro 
dicendo  «  essere  possibile  la  percezione  e  l'astrazione  alla  sola 
condizione  che  sia  presente  l'essere  —  ed  è  lo  stesso  che  dire 
tutto  l'essere — al  soggetto  umano».  Il  pensare  parziale  dunque 
è  sempre  condizionalo  al  pensare  totale,  e  complesso,  e  non  può 
andare  mai  totalmente  diviso  da  questo.  È  dunque  la  totalità 
dell'essere  che  rende  possibile  ogni  singoiar  pensiero  :  il  che 
conferma,  che  l'essere  è  semplice  e  indivisibile  al  m(\ssimo  grado, 
è  uno  d'una  unità  insolvibile  ,  non  ammettendo  divisione  nep- 
pure nella  mente,  di  maniera  che  quando  la  mente  crede  divi- 
derlo, ancora  in  tutte  queste  parli  che  crede  d'aver  trovate 
intuisce  l'essere  intero.  La  mente  non  può  dunque  pensare  niuna 


631 

parie  deil'esserc,  se  non  con  un  pensiero  posteriore  ad  un  altro 
immobilmente  presente,  col  quale  mantiene  l'indivisibilità  dell'es- 
sero  che  tenta  distruggere. 

074.  Di  die  quest'altra  antinomia  del  pensare  umano,  che  da 
una  parte  veda  l'essere  indivisibile,  dall'altra  lo  divida  e  con- 
sideri come  moltiplice^  sia  ne' vari  enti  finiti,  sia  nelle  diverse 
proprietà  e  relazioni  particolari  che  nello  slesso  essere  distingue. 

Ma  riguardo  agli  enti  finiti  abbiamo  rimossa  la  contraddizione, 
tosto  che  abbiamo  osservalo  che  questi  non  sono  l'essere,  ma 
reali,  termini  impropri  dell'essere,  ne'quali  solo  sta  tutta  la  mol- 
liplicilà  reale  (,581  591*).  Da  questa  poi  procedono  relazioni 
moltiplici  Ira  tali  realità  molliplici  e  l'essere  semplice  ed  uno. 
Rimane  non  pertanto,  che  i  delti  termini  moltiplici  e  le  delle 
relazion  si  pensino  anch'esse  ciascuna  e  tutte  nncdianle  il  pen- 
siero dell'essere  uno,  semplice  e  indivisibile. 

Laonde  quando  si  pensa  il  finito,  stanno  di  (rontc  due  pen- 
sieri, quello  del  finito  e  quello  dell'  infinito,  quello  del  termine 
improprio  o  delle  relazioni  che  da  esso  nascono,  e  quello  dell'es- 
sere in  universale.  E  si  conferma  che  la  cosa  sia  così  dall'analisi 
del  concello  di  parte  (,592-594*).  Poiché  questo  concello  si  ri- 
marrebbe inesplicabile,  se  non  si  supponesse,  che  nella  mente 
ci  fossero  contemporaneamente  due  pensieri.  Infatti  il  concello 
di  parli  contiene  l'antinomia  più  sopra  toccata.  Poiché  non  è 
cosa  facile  lo  slriearsi  da  colui  che  assalisce  la  verità  di  quel 
concetto  dialetticamente  cosi:  «  Dove  si  trovano  le  parli?  0  prima 
che  esse  si  separino  nel  tulio,  o  dopo.  Priuìa  che  si  separino, 
non  sono  parti,  non  cadendo  nel  tutto  alcuna  divisione.  Nep- 
pure sono  parti  ,  separate  che  sieno  dal  tutto  ,  poiché  allora 
ciascuna  forma  un  tutto  da  sé,  e  non  può  esser  parte  di  quel 
tulio  che  non  esiste  piìi  ».  Argomento  non  frivolo;  poiché  non 
poco  giova  a  far  conoscere  la  natura  d'  un  concetto  così  per- 
plesso. Convicn  dire  che  il  concello  delle  parti  é  relativo  al  tutto, 
e  però  conviene  che  nella  mente  ci  sieno  due  pensieri,  come  di- 
cevamo, acciocché  ne  risulti  quel  concello  della  relazione  che  si 
cerca,  il  pensiero  del  tutto  indiviso  ed  uno,  ed  il  pensiero  delle 
parti  cioè  d'altri  tutti  che  si  vedono  nel  lutto  maggiore,  senza  che 
ciascuno  di  essi  l'esaurisca,  onde  rispetto  a  questo,  si  chiamano 
parti.  E  però  la  porle  non  c'è  propriamente  nella  realità,  presa 


C?J2 

da  sé  sola  ,  la  cosa  già  divisa  lia  cessalo  d'esistere  in  sé ,  e 
quelle  che  ne  nacquero  per  la  divisione  non  possono  essere 
parli,  per  ripeterlo,  d'una  cosa  che  non  esiste,  ma  cose  da  sé, 
sebben  minori.  11  concetto  dunque  della  parte  non  è  dato  dalla 
sola  realità  :  ma  appartiene  a  quella  relazione  essenziale  che  ha 
l'essere  con  una  mente.  Chi  dunque  non  considera  la  cosa  sol- 
lilmenle  ,  attribuisce  la  parte  e  il  tutto  all'essere  ,  senza  avve- 
dersi che  una  tale  relazione  procede  dall'essere  solo  in  quanto 
è  inlellÌKÌbi!e. 


Articolo  Vili. 
Del  concetto  deW altro. 

67S.  È  necessario  che,  dopo  aver  parlato  dell'imo,  diciamo 
anche  qualche  cosa  del  concetto  ùeWaltro. 

Nella  locuzione:  «  l'uno  e  l'altro  «  Vallro  significa  un  altro  uno 
parte  dissimile,  e  parte  anche  simile  in  qualche  modo  al  primo; 
ma  che  non  si  contiene  nel  primo.  L'uno  e  l'altro  sono  due  su- 
bietti del  discorso  che  possono  essere  o  dialettici  o  ideali,  o  reali, 
0  misti.  Quella  locuzione  dunque  non  potrebbe  aver  luogo  se 
la  mente  non  concepisse  con  un  solo  atto  una  pluralità  di  su- 
bietti, e  però  più  uni. 

Dicevo,  che,  nella  detta  locuzione,  Vallro  è  in  qualche  modo 
simile  al  primo.  Infatti  se  non  ci  fosse  qualche  omogeneità,  non 
si  potrebbe  mai  dire:  l'uno  e  l'altro.  Almeno  in  questo  devono 
assomigliarsi,  nell'essere  entrambi  subielli  della  locuzione.  E 
però  qualora  noi  vogliamo  supporre  la  maggior  disparità  possi- 
bile tra  l'uno  e  l'altro,  resterà  in  essi,  almeno  di  iletticamenle, 
qualche  cosa  di  comune,  che  sarà  il  fondamento  della  locuzione. 
L'uno  e  l'altro  dunque  si  dicono  così  dall'elemento  cojnune  e 
non  dagli  elementi  propri  di  due  subietti.  A  ragion  di  esem- 
pio, se  l'uno  fosse  Tessere,  e  l'altro  fosse  il  nulla  —  che  è,  o 
poniamo  che  sia  la  maggior  differenza  possibile  —  in  tal  caso 
avranno  ancora  di  comune  ,  che  sono  due  enti  dialettici ,  e  la 
locuzione  equivale  a:  «  questi  due  enti  dialettici,  «  onde  si 
chiamano  per  quello   che  hanno  di  comune  ,  benché   si  distin- 


G53 

guano  e  si  separino ,  sotlinlendendo  che    ciascuno  abbia  anche 
qualche  cosa  di  proprio  e  d'eterogeneo. 

676.  E  qui  si  presentano  diverse  quistioni  ontologiche. 

La  prima  :  «  se  il  concetto  di  uno  si  possa  avere  senza  niuna 
relazione  nWallro  )>. 

Colla  quiil  questione  non  si  domanda  già,  se  h\  ragione  astraente 
possa  precidere  il  concetto  dell'uno  da  lutto  il  resto,  su  di  che 
non  e'  è  dubbio;  ma  se  il  concetto  dell'uno  in  sé  stesso  senza 
nulla  preciderne  contenga  una  relazione  all'altro . 

Or  noi  abbiamo  veduto  ,  che  1'  uno  non  può  essere  il  primo 
concetto  della  mente,  che  è  quello  dell'essere  ;  questo  appunto 
dimostra,  che  Tuno  puro,  come  qualità  astratta,  è  relativo  all'ente. 
E  in  generale  tutte  le  qualilà  involgono  una  relazione  a  un  su- 
bielto,  che  è  il  loro  allro,  come  la  qualità  è  Valiro  del  subietto 
che  la  possiede  ,  e  anche  allorquando  la  qualità  e  il  subielto 
s'immedesimano,  come  accade  nell'essere  assoluto  ,  rimangono 
distinte  nondimeno  le  due  forme  logiche  della  qualità  e  del  su- 
bietto: onde  l'identico  sotto  la  forma  di  subietto  è  allro  dialet- 
ticamente da  sé  stesso  sotto  la  forma  di  qualilà  ,  o  di  essenza. 

Nell'essere  assoluto  poi  vi  hanno  più  forme,  come  vedemmo, 
non  dialettiche,  ma  reali,  l'una  all'altra  relative,  onde  ciascuna 
di  esse  ha  realmente  il  suo  allro. 

L'essere  nondimeno  in  ciascuna  è  identico.  E  questo  stesso 
ha  il  suo  altro  nelle  forme,  ma  quell'altro  è  solo  dialettico. 

Non  c'è  dunque  nulla,  né  l'uno,  né  l'essere,  né  l'ente,  che 
non  abbia  il  suo  altro  almeno  dialettico.  E  il  lutto  stesso  ha 
il  suo  altro  nelle  parli,  o  elementi  dialettici. 

E  quantunque  questa  legge  ontologica  contenga  il  principio 
della  molliplicilà  nell'essere:  tuttavia  non  ispezza  l'essere  e  non 
gli  toglie  Tesser  uno,  ma  mostra  che  in  lui  c'è  un  ordirle,  una 
molliplicilà  organala  ,  che  é  1'  altro  dell'  uno,  e  che,  lungi  dal 
distruggere  l'uno,  lo  costituisce  sussistente. 

677.  La  seconda  questione  si  é  :  «  se  v'abbia  una  natura  la 
quale  per  se  sia  altro,  quasiché  la  relazione,  che  si  contiene  nel 
concetto  di  altro,  sia  o  possa  essere  sussistente  ». 

La  risposta  dipende  da  quello  che  abbiamo  dello  circa  i 
concetti  di  semplicilà  e  d' identità  ,  e  intorno  a  quello  che  gli 
antichi  hanno   chiamalo   materia    dell'  ente.  Poiché  la  materia 


doli'  ente  ,  e  generalmente  le  sue  appendici  ,  quantunqne  real- 
mente sussistano  nell'ente,  lullavia  non  sono  un  renle  subielto, 
e  il  nome  dell'ente  è  imposto  al  subit-lto  dello  stesso,  cioè  alla 
sua  base  ebe  lo  definisce  e  separa  da  lutti  gli  altri  ;  e  così  le 
appendici  non  banno  una  denominazione  propria  ,  ma  si  deno- 
minano dal  subietto  ebe  costituiscono.  Se  dunque  si  domanda 
ebe  cosa  esse  sono,  conviene  ricorrere  per  definirle  al  subietto 
ebe  costituiscono,  e  ebe  è  il  loro  aliro.  E  poiebè  esse  lo  costi- 
tuiscono, esse  dunque  sono  l'altro  di  lui  non  potendosi  dar  loro 
un'esistenza  propria,  ma  attribuir  loro  l'esistenza  del  subietto 
ebe  è  altra.  In  quesio  dunque  sta  la  loro  essenza  ,  ebe  sieno 
altre,  ossia  ebe  sieno  Valtro;  poiebè  sé  slesse  non  sono  se  non 
dialetticamente. 

E  per  questa  relazione  di  alterità  gli  anticbi  denominarono 
la  materia  Vallra  natura  tmv  htpav  (pvaiv  {\),  o  semplicemente 
r  aVro  To  ÒÓLTEpov  (^),  0  ancbe  «  quello  ebe  veramente  mai  non 
è  »    ovTCog  ov^é^ore  ov   (Ti). 

ARTICOLO    IX. 

Ricapitolazione  della  dottrina  dell  uno. 

678.  Riassumendo  dunque,  noi  abbiamo  veduto  ebe  la  realità  fi- 
nita non  potrebbe  ricevere  l'essere  ,sè*  la  mente  ebe  la  produce 
nell'alto  di  aggiungerle  i  confini,  non  glieli  aggiungesse  per  modo 
da  cosliluire  un  reale  uno.  Infatti  la  realità  finita  non  può  esi- 
stere se  non  o  come  essenza  ebe  si  vede  nell'  idea  ,  nel  qual 
caso  esiste  come  ente  in  forma  obiettiva  ,  o  come  subietlo  da 
sé,  nel  qual  caso  è  ente  nella  forma  subiettiva  ,  o  finalmente 
come  nesso  attivo  tra  subielto  ed  obietto,  cioè  come  ente  nella 
forma  morale.  Ma  ciascuna  di  queste  tre  forme  supreme  essendo 
contenente  massimo,  ha  una  perfetta  unità  di  essere.  Se  dunque 
la  realità  finita  esiste  in  alcuno  di  questi  tre  modi  ,  deve  di 
necessità  esistere  come  uno. 


(1)  Arisi.  Metaph.  \,  9. 

(2)  Tim.  p.  29  e  spessissimo  in  questo  e  in  altri  dialoghi  di  Platone. 

(3)  Mp.  28.1. 


6b5 

Ora  ,  secondo  l'ordine  logico  del  pensare  umano  ,  noi  siamo 
obl)Iigali  a  pensare,  che  un  artista  che  voglia  dare  esistenza  a 
qualche  sua  opera  esterna  e  reale  ,  debba  prima  l'orla  esistere 
nel  suo  proprio  pensiero  nella  forma  oggettiva.  La  realità  finita 
dunque,  secondo  quest'ordine  —  che  non  è  punto  cronologico,  ma 
solo  logico  e  propriamente  dialettico  —  deve  prima  ricevere  dalla 
mente  divina,  che  la  crea,  l'esistenza  oggettiva  e  però  l'unità  del- 
l'essere in  questa  forma,  e  di  poi,  mediante  la  creazione,  l'esi- 
stenza subiettiva  e  propria,  e  però  ancora  quell'unità  che  è  pro- 
pria dell'essere  subiettivo. 

Quest'unità  subiettiva  costituisce  la  realità  come  individuo  reale. 

Di  qui  deducemmo,  che  ad  ogni  ente  finito,  appunto  perchè 
è  necessario  l'avere  unità,  ed  essere  un  individuo,  conviene  al- 
tresì la  nozione  di  tiitto^  sia  che  questo  concetto  di  tutto  si  con- 
sideri dalla  parte  dell'uno  contenente,  in  cui  ci  sia  il  contenuto, 
sia  che  lo  si  consideri  dalla  parte  del  contenuto,  che  sia  nel  con- 
tenente. Questi  due  concetti,  che  dar  possono  due  definizioni  del 
lutto,  risultano  ugualmente  dall'unione  del  conlenente  e  del  con- 
tenuto. 

Di  qui  deducemmo  la  dottrina  delle  parli  e  la  nozione  di  sem- 
plicità, e  quella  che  ne  consegue  intorno  alla  base  dell'ente  su- 
biettivo, che  costituisce  l'uno  contenente  della  forma  subieltiva,  e 
allo  appendici  dell'ente  medesimo  che  hanno  ragione  di  contenuto. 

Nella  base  poi  dell'ente  trovammo  la  sede  della  sua  identità. 
Ma  poiché  gli  enti  finiti  sono  contingenti,  e  però  possono  cessare, 
e  possono  incominciare,  e  le  appendici  dell'ente  possono  scio- 
gliersi, perdendo  la  base  che  le  contiene  e  unifica,  e  possono  ri- 
cevere nove  basi,  onde  l'individuo  si  scioglie,  e  se  ne  costituisce 
un  altro  o  il  medesimo ,  secondo  certe  leggi  ,  perciò  dovemmo 
chiamare  ad  esame  il  concetto  del  diventare  e  analizzarlo,  e  ci 
venne  scoperto  che  esso  è  uno  di  que' concetti  volgari,  che  con- 
tengono un  implicito  assurdo;  su  quali  si  fonda  uno  special  genere 
di  sofismi  {Logic.  71:2  sgg.  106G  sgg.),  e  abbiamo  di  conseguente 
raccolto  che  il  fondamento  del  sistema  hegeliano  non  è  altro  che 
il  sistema  dell'assurdo  implicito. 

Abbiamo  veduto  dopo  ciò  che  la  base  dell'ente  può  unire  e  con- 
tenere più  0  meno  appendici,  e  unirle  con  una  maggiore  o  minore 
semplificazione,  dalle  quali  Sue  cose  dipendono  i  gradi  della  rie- 


C5G 

cliezza  e  della  dignilà  degli  enti;  e  che  come  la  base  somministra 
il  concetto  dell'uno  e  del  semplice,  cosi  le  appendici  sommini- 
strano il  concetto  dell'rt/f/'o,  concetto  che  pure  noi  abbiamo  di- 
chiarato. 

CAPITOLO  IX. 

Dottrina   de'  limiti. 


Articolo  I. 
Ravviamento  del  discorso. 

679.  Noi  abbiamo  dunque  veduto  che  il  reale  finito  non  potrebbe 
esser  oggetto  dell'alto  creativo  e  così  acquistare  l'essere  subiet- 
tivo, se  prima  ancora  la  mente  divina,  che  lo  concepisce,  non  lo 
determinasse,  dandogli  coU'atto  stesso  del  concepirlo  quattro  pro- 
prietà che  sono:  4.°  la  suprema  qualità  generica,  2.°  l'intelligibi- 
lità obiettiva,  3."  la  quantità  determinata,  h.°  l'unità.  Queste 
quattro  proprietà  sono  gli  elementi  comuni  e  necessari  a  costi- 
tuire ogni  forma  finita. 

Abbiamo  ancora  veduto  che  la  realità  finita  determinata  in  que- 
sto modo  dalla  mente,  come  ente  oggetto,  può  essere  prodotta 
all'esistenza  sua  propria  subiettiva.  E  questo  fa  l'atto  creativo  col- 
l'aggiungere  alla  realità,  che  si  trova  nell'oggetto  descritto,  l'es- 
sere subiettivo,  coll'acquisto  del  qual  essere  la  delta  realità  finita 
riceve  quattro  altre  proprietà,  che  sono:  i.°  l'esistenza  subiettiva, 
5."  li)  durala,  5.°  l'attività,  k.°  rintelligibililà  subiettiva.  Queste 
quattro  proprietà  sono  inseparabili  dall'atto  della  sussistenza. 

Tutte  queste  otto  proprietà  appartengono  alla  realità  finita  esi- 
stente nella  mente  e  in  sé  stessa.  11  ragionamento  dunque  intorno 
ad  esse  suppone  che  la  realità  sia  finita.  Conviene  ora  dunque  che 
p:irliamo  della  limitazione  in  generale  che  è  la  prima  condizione, 
alla  quale  può  esistere  l'ente  finito,  e  quindi  la  prima  condizione 
della  creazione. 


657 
Articolo  II. 

La  differenza  di  limitalo  e  d'illimilato 
è  diff'crenza  d'enti. 

C80.  Abbiamo  gi;\  veduto  e  dimoslralo,  cbfì  un  subietlo  illimitato 
e  un  subielto  limitato  non  possono  costituire  un  solo  ente,  e  cbe 
però  la  limitazione  pone  tra  Dio  e  le  creature  una  separazione  en- 
titativa,  cbe  è  maggiore  d'ogni  altra  separazione,  ancbe  di  quella 
di  genere  (Cf.  Psicol.  iSSi  sgg.). 

Riassumeremo  qui  una  prova  ontologica  di  questa  proposizione, 
che  risulta  dalle  cose  delle. 

La  realità  tosto  che  sia  fmita,  non  è  |)iù  l'essere  ma  presenta 
solo  al  pensiero  un  rudimento,  che  non  appartiene  all'essere 
il  quale  non  riceve  limite ,  ma  ad  una  delle  sue  forme ,  la  forma 
reale.  Essendo  dunque  Dio  l'essere,  procede,  che  tra  la  realità 
finita,  presa  da  sé  sola,  e  Dio  passa  la  differenza  slessa  che  c'è 
tra  essere  e  non  essere.  Questa  è  differenza  massima,  assoluta,  in- 
finita. Poiché  se  si  prende  la  differenza  tra  Vessere  e  il  non  essere, 
quello  eccede  questo  di  tutto  Vessere,  che  è  per  essenza  infinito 
(Cf.  Filosof.  della  Politica,  Lih.  IV,  e.  xx.).  Ora  la  realità  finita 
ricevendo  l'essere  nella  sua  forma  subiettiva  diventa  ente,  que- 
st'ente tuttavia  non  è  il  suo  essere.  Che  cosa  è  dunque  ?  È  la 
realità  finita  a  cui  è  sialo  aggiunto  l'essere,  acciocché  potesse  esi- 
stere in  sé.  Il  subietlo  dunque  dcU'enle  finito  è  la  realità  finita,  il 
subietto  dell'ente  infinito  é  l'essere  slesso.  Dunque  tra  il  subietto 
ossia  ente  finito,  e  il  subietto  ossia  ente  infinito  passa  ancora  ^a 
stessa  differenza  massima.  L'un  ente  dunque  non  può  esser  l'altro, 
e  la  loro  differenza  è  più  che  generica,  perchè  questa  differenza  è 
l'essere  slesso  superiore  a  tulli  i  generi. 

Dell'ente  infinito  dunque  e  dell'ente  finito  si  predica  l'essere  in 
senso  equivoco  {Logic.  370  w.),  e  però  i  ducenti  differiscono  an- 
cor più  che  da  un  ente  a  un  altro  ente  :  ma  propriamente  differi- 
scono, come  dicevamo,  da  essere  a  non  essere  [ì).  Il  che  confor- 
teremo appresso  di  nove  prove. 

(i)  Onde  nel  Salmo  XXXII,  6:  et  substantia  mea  tanquam  nihilum  ante 
te.  —  Vedi  S.  Ansel.  Monolog.  28. 

Rosmini,  Teosofia.  42 


Articolo  HI. 
Origine  ontologica  della  Umitazione. 

681.  L'origine  degli  enti  finiti,  abbiam  detto,  dee  riferirsi  ad  un 
atto  della  libera  intelligenza  di  Dio.  Ma  poiché  dell'intelligenza  . 
sono  propri  due  alti  che  abbiamo  ^chiamali'  V  intuizione  e  V affer- 
mazione (1),  rimane  a  cercare  se  la  limitazione  della  realità  nasca 
dall'inluire  o  dall'affermare  divino.  Diciamo  intuire  in  Dio  «  quel- 
Tatto  con  cui  la  mente  divina  vede  ciò  che  è  ».  Ora  la  realilà  fi- 
nita non  è,  ma  egli  la  fa  essere  coU'aggiungere  alla  realità  infi- 
nita la  limitazione.  Dunque  l'origine  della  limitazione  non  è  un 
atto  intuitivo,  ma  affermativo.  E  questo  conviene  con  ciò  che  di- 
cevamo, che  la  creazione  appartiene  all'intelligenza  libera  di  Dio. 
Ora  r  intelligenza  libera  è  appunto  quella  che  afferma ,  e  non 
quella  che  semplicemente  intuisce  [Logic.  ,86-89*). 

All'obiezione,  che  avendo  la  mente  divina  per  oggetto  la  di- 
vina essenza,  e  questa  non  potendo  essere  limitata,  non  si  vede 
come  possa  volontariamente  limitarla ,  abbiamo  già  risposto  di- 
stinguendo la  divina  essenza  come  oggetto  della  divina  mente 
in  sé  sussistente,  il  quale  non  si  può  limitare  ed  è  il  Verbo 
divino,  e  la  divina  essenza  in  quant'è  cognita,  e  non  in  sé  ma 
nella  mente  stessa  esistente.  Poiché  abbiam  veduto  che  un  og- 
getto della  mente  lascia  nella  mente  ,  oltre  sé  stesso  ad  essa 
presente  ,  anche  una  cognizione  di  sé ,  quasi  effetto  di  sé  nella 
mente.  Ora  in  quest'o^^iefio  cognizione,  abbiamo  detto,  la  mente 
può  segnare  quelle  limitazioni  ,  che  vuole  ,  senza  che  queste 
passino  all'oggetto  stesso  in  sé  ,  perchè  sono  limitazioni  pura- 
mente mentali  cioè  dello  sguardo  della  mente  e  dell'oggetto 
come  cognito,  e  non  come  oggetto.  E  tuttavia  l'oggetto  in  sé, 

(1)  Vintidzione  umana  si  riferisce  alle  sole  idee,  perchè  l'uomo  non  ha 
che  un  oggetto  ideale:  in  Dio  l'intuizione  ha  un  oggetto  reale.  Perciò  la  pa- 
rola intuizione  applicata  a  Dio  cangia  afliitto  di  significato.  Poiché  nell'intui- 
zione divina  Iddio  non  solo  intuisce  ma  percepisce,  e  di  più  affermando  sé 
stesso  genera  il  Verbo.  Ma  per  bisogno  del  discorso  noi  facciamo  qui  astra- 
zione dall'atto  generativo  del  Verbo,  e  dall'affermazione  di  sé  stesso,  e  de- 
tìniamo  l'intuizione  divina  «  quell'atto  con  cui  Iddio  vede  ciò  che  già  è  »  : 
l'affermazione  poi  «  quell'atto  con  cui  fa  che  la  cosa  sia  >. 


1 


659 

serve  di  fondamento  e  di  appoggio  a  queste  operazioni  anali- 
tiche della  mente,  ma  sempre  in  quant'è  cognito,  non  in  quanto 
è  oggetto  in  sé  considerato.  Di  che  seguila  che  la  mente  divina 
ha  sempre  in  tali  sue  analisi  davanti  un  fondamento  reale  ,  a 
differenza  dell'uomo  ,  che  non  ha  talora  che  un  oggetto  ideale 
su  cui  operare  colla  sua  analisi  o  colla  sua  astrazione.  Traesi 
tuttavia  anche  dall'esperienza  umana  l'esempio  d'operazioni  men- 
tali esercitate  sul  fondamento  d'un  reale  in  quant'  è  cognito. 
Poiché  noi  possiamo  aver  presente  all'occhio  una  bellissima 
poma  ,  e  riguardando  in  essa  possiamo  colla  mente  astrarre  il 
color  vermiglio,  la  figura  ,  le  parti,  ecc.  a  nostro  piacimento  , 
senza  che  quest'analisi  mentale  produca  alcuna  alterazione  alla 
poma  che  riguardiamo,  perchè  facciamo  tali  operazioni  su  quella 
poma,  in  quanto  ci  é  attualmente  cognita,  e  come  tale  è  nella 
nostra  mente ,  benché  ci  sia  anche  presente  la  poma  reale.  ,E 
sarebbe  nella  mente  come  oggello,  ma  non  come  cognito^  anche 
posto  che  essendoci  sottratta  dallo  sguardo  ne  perisse  in  noi  tosto 
l'immagine  ,  e  non  potessimo  più  farci  sopra  quelle  mentali 
operazioni.  La  poma  reale  in  tal  caso  servirebbe  di  fondamento 
ad  esse  :  perchè  la  sua  presenza  sarebbe  necessaria  alla  nostra 
attuai  cognizione  di  essa.  E  così  avviene  del  Verbo  divino  ,  la 
cui  presenza  nella  divina  mente  è  necessaria  alla  cognizione  at' 
tuale  della  realitii  infinita,  sulla  quale  realità,  in  quant'é  cognita, 
la  divina  mente  segna  le  dette  limitazioni. 

Articolo  IV. 

La  realilà  infinita  liinilabile  solo  come  cognita  : 
in  che  modo  si  dica  imitabile. 

682.  La  realità  infinita  è  limitabile  non  in  quanto  esiste  in 
sé  come  eterno  oggetto  della  divina  mente  ,  ma  puramente  in 
quanto  è  cognita;  e  però  la  limitazione  non  viene  dalla  realità 
stessa  oggettiva ,  ma  dalla  divina  mente  ,  che  vuole  restringere 
la  realità  cognita  dentro  i  limiti. 

Gravissimi  autori  adoperano  un'altra  maniera  di  dire  a  signi- 
ficare le  idee  divine  delle  creature.  Dicono,  che  l'essenza  divina 
è  imitabile,  che  Iddio  conosce  questa  essenziale  imitabililà,  e  che 


eco 

però  ha  le  idee  elerne  di  lulle  le  cose  finite  possibili.  Non  ri- 
fiutiamo questa  maniera  di  parlare  usala  da  sommi  Teologi;  ma 
ci  sembra  che  in  essa  sia  del  Iraslato  ,  e  che  perciò  appunto 
involga  non  leggere  diificoltà.  Infatti  il  concetto  ùeW  imHabiliià 
suppone  che  ci  sia  qualche  cosa  che  imiti.  Or  qual  sarà  questa 
cosa?  Gli  enti  finiti  ,  dicono.  Ma  in  tal  caso  si  suppongono 
questi  esistenti.  Quella  espressione  dunque  non  può  servire  alla 
questione  che  noi  trattiamo  ,  colla  quale  cerchiamo  come  ven- 
gano ad  esistere  gli  enti  finiti  sìa  eternamente  nel  divino  pen- 
siero e  decreto  creativo  ,  sia  nel  tempo  cioè  in  sé  stessi.  È 
dunque  verissimo  che  le  creature  imitano  Iddio  in  qualche  modo, 
dopo  che  esistono  almeno  nel  pensiero.  Ma  come  hanno  esse 
questa  esistenza?  È  chiaro  che  non  si  può  ricorrere  di  novo  al- 
l' imitazione  per  farle  esistere,  poiché  ciò  che  non  esiste  al  tutto 
non  può  imitare  uè  ricopiare  in  sé  cosa  alcuna  :  ma  per  rispon- 
dere nettamente  a  tale  domanda,  conviene  dedurre  in  altro  modo 
gli  enti  finiti  sia  che  si  considerino  nell'esemplare  o  in  sé  stessi. 

La  parola  dunque  d'imitabililà  dell'essenza  divina  è  posteriore 
alle  creature,  ed  esprime  l'analogia  di  queste  con  Dio.  Ad  un 
tal  uso  noi  la  riserbiamo.  Ma  per  ispiegare  l'origine  delle  idee 
dei  finiti,  e  de' finiti  stessi,  ricorriamo  alla  potestà  che  ha  la 
divina  mente  di  porre  volontariamente  alla  realità  infinita  ,  in 
quanto  le  é  cognita,  de' limiti  con  un  allo  libero  affermativo. 

Rimane  a  vedere  che  cosa  sia  quesla  limitazioìie  posta  dalla 
mente  libera  di  Dio  alla  realità  cognita,  limitazione  che  è  causa 
delle  divine  idee  de' finiti,  e  quindi  ancora  del  mondo  sussistente. 

Affine  di  conoscere  la  natura  di  questa  limitazione  creativa, 
conviene  che  la  distinguiamo  da  ogni  altro  genere  di  limita- 
zione. Questo  ci  conduce  ad  esporre  la  dottrina  della  limitazione 
nella  sua  universalità. 

Articolo  V. 

Concelti  affim  a  quello  di  limitazione. 

C83.  Distinguiamo  per  isgombrarci  la  via  i  concetti  affini.  Ne- 
gazione, limilazione,  privazione  sono  concetti  che  non  si  devono 
confondere. 


G6i 

Negazione  è  l'operazione  della  mente  contraria  all'afferma- 
zione. Con  questa  operazione  si  nega  l'esistenza  di  qualche 
entità.  La  negazione  dunque  non  pone  cosa  alcuna,  ma  toglie 
via  la  cosa  posta  ipoteticamente  dalla  mente,  che  si  considera 
come  subielto  dialettico  e  ipotetico  della  negazione  stessa,  ben- 
ché questa  non  lasci  dopo  di  sé  alcun  vero  subietto  ,  che  anzi 
lo  toglie  via.  L'effetto  mentale  dunque  della  negazione  é  l'an- 
nullamento. Il  concetto  del  nulla  differisce  da  quello  deW annul- 
lamento j  perchè  il  nulla  non  involge  una  relazione  con  altra 
cosa  se  non  coH'enlità  in  universale  ,  laddove  Vannullamenlo 
involge  una  relazione  con  un'entità  posta  ipoteticamente  dalla 
mente  stessa  e  poi  da  essa  annullata.  Qualunque  sia  quest'en- 
tità ,  la  negazione  l'annulla  del  tutto.  —  La  parola  negazione 
prende  un  altro  senso,  quando  s'adopera  per  indicare  la  stessa 
entità  annullata,  il   negalo. 

Limilazione  è  un'operazione,  colla  quale  non  si  nega  un'entità 
ma  si  la  che  qualche  cosa  non  si  trovi  in  una  data  entità.  Ella 
involge  dunque  una  relazione  con  una  entità  che  rimane  dopo 
la  stessa  limitazione  come  suhiello  della  limitazione  eseguita.  La 
parola  limitazione  dunque  prende  due  significati^  poiché  1.°  si- 
gnifica l'operazione  limitante  ,  !2.°  e  il  limite  posto  dalla  detta 
operazione  che  rimane  come  suo  elTctlo.  Quando  si  prende  questo 
limite  insieme  col  suo  subietto,  dicesi  questo  «il  limitato». 
Nella  negazione  si  pone  dalla  mente  un'entità  solo  ipotetica- 
mente per  annullarla  tosto;  nella  limitazione  Ventila  si  pone 
veramente,  e  solo  si  fa  che  qualche  cosa  non  si  trovi  in  essa. 

Privazione  é  un'operazione  ,  che  toglie  da  un'entità  ciò  che 
dovrebbe  avere  secondo  la  sua  natura,  sia  che  questo  si  faccia 
colla  mente  negando  che  la  detta  entità  abbia  ciò  che  dovrebbe 
avere  ,  sia  che  si  faccia  col  produrre  la  detta  entità  mancante 
di  ciò  che  dovrebbe  avere  secondo  la  legge  della  sua  natura. — 
Anche  la  privazione  é  voce  che  riceve  due  significali  come  le 
voci  negazione  e  limitazione;  poiché  ora  significa  l'operazione 
che  priva ,  ora  l'effetto  di  questa  operazione  che  rimane  dopo 
di  essa,  cioè  la  mancanza  permanente  di  quello  che  l'entità  do- 
vrebbe avere-  secondo  la  sua  natura.  —  La  privazione  é  una 
specie  di  limitazione ,  ma  differisce  in  questo  che  non  ogni  li- 
mitazione toglie  a  un'entità  ciò  che  dovrebbe  avere  secondo  la 


062 

sua  natura,  ma  solo  una  certa  limitazione ^  e  dicesi  appunto 
perciò  privazione.  —  Differisce  dalla  negazione  per  quello  stesso 
carattere  pel  quale  differisce  la  limitazione,  cioè  che  c'è  un  vero 
subietto  della  privazione:  cioè  un'entità  che  non  è  posta  ipo- 
teticamente dalla  mente  per  levarsi  poi  via ,  ma  c'è  o  si  pro- 
duce un'entità  che  rimane  insieme  colla  privazione  ,  cioè  colla 
mancanza  di  ciò  che  dovrebbe  avere  secondo  natura. 


Articolo  VI. 

Dichiarazione  della  definizione  data  della  limitazione 
nel  suo  doppio  significato. 

684.  Noi  abbiamo  detto  che  la  parola  limitazione  si  usa  in 
due  significati ,  come  un'operazione  limitante ,  e  come  l'effetto 
che  rimane  dopo  di  essa,  cioè  il  limite. 

Nel  primo  significalo  l'abbiamo  definita  così:  «  un'operazione, 
colla  quale  si  fa  che  in  un'entità  non  si   trovi  qualche    cosa  ». 

Nel  secondo  significato  si  definisce  :  «  ciò  che  manca  ad  una 
data  entità  e  di  essa  si  nega  ». 

Queste  sono  definizioni  universali,  come  devono  essere  le  de- 
finizioni, che  devono  abbracciare  tutto  il  definito,  ma  nulla  più. 

Se  noi  consideriamo  la  prima  delle  accennate  definizioni,  fa- 
cilmente scopriremo  i  due  sommi  generi  di  limitazione,  cioè: 

i.°  La  limitazione  speculativa,  ed  è  quella  che  fa  la  mente, 
quando  fa  che  nel  concetto  che  prende  a  contemplare  non  ci 
sia  qualche  cosa  di  quello  che  c'è,  come  accade  nell'astrazione  e 
nell'analisi. 

2.^  La  limitazione  attiva ,  ed  è  quella  che  produce  una 
causa  efficiente ,  quando  fa  si ,  che  in  una  data  entità  reale 
manchi  qualche  cosa. 

La  limitazione  speculativa  può  divenire  limitazione  attiva  ,  se 
la  mente  speculante  aggiunge  la  sua  forza  pratica  e  produce 
quello  che  specula. 

Se  consideriamo  la  seconda  delle  due  definizioni  date  n'avremo 
questo  corollario  importante,  che: 

«  Tutto  ciò  che  di  positivo  non  si  contiene  in  una  data  entità 


6G3 

e  che  si  nega  di  questa  è  ciò  che  costituisce  il  suo  limile  to- 
tale »,  eppcrò : 

((  Ciò  che  si  contiene  neWiDio  è  l'entità  ,  e  tutto  ciò  che  si 
contiene  neWallro  è  ciò  che  costituisce  la  totalità  del  limite 
dell'uno  ». 

Di  qui  procede,  a  ragion  d'esempio,  che  lo  spazio  benché  non 
sia  limitato  come  spazio,  è  il  più  limitato  degli  enti,  perchè  il 
suo  altro,  cioè  ciò  che  di  lui  si  può  negare,  è  massimo. 

Nella  definizione  data  della  limitazione  in  significato  di  limite, 
dopo  aver  detto;  «ciò  che  manca  ad  una  data  entità  »,  ab- 
biamo aggiunto:  «  e  di  essa  si  nega  »,  per  fare  avvertire  che 
il  limite  d'una  data  entità  non  è  ciò,  che  ad  essa  manca  con- 
siderato in  sé  stesso ,  ma  considerato  in  relazione  coU'enlilà  di 
cui  si  cerca  il  limite,  e  ad  essa  riferito. 


Articolo  VII. 
Limite  assoluto.  Umile  relativo,  loro  misure. 

C8o.  Quando  dunque  si  vuol  misurare  la  limitazione,  cioè  il  limile, 
e  trovarne  la  misura  assoluta,  è  necessario  paragonarne  Tenlità 
di  cui  si  vuole  misurare  il  limile  col  tutto,  cioè  con  lutto  quel 
complesso  di  cose  che  si  può  concepire  ,  e  riconoscere  ciò  che 
è  dentro  in  quella  entità,  ossia  nell'ufo  che  ella  forma  ,  e  ciò 
che  è  fuori  di  essa  e  che  è  Valtro  di  essa:  e  quest'altro  che 
riman  fuori  e  si  nega  di  essa  e  il  suo  limite  assoluto. 

Che  se  l'entità  di  cui  si  cerca  il  limite  non  si  confronta  col 
tulio,  ma  solo  con  qualch'allra  entità  ,  per  trovare  ciò  che  di 
questa  resta  escluso  da  quella  ,  in  tal  caso  questo  che  resta 
fuori,  e  che  è  il  suo  altro  relativo,  e  che  della  prima  si  nega, 
costituisce  sollanto  il  suo  limite  relativo. 

La  misura  dunque  del  limite  assoluto  d'ogni  entità  è  il  tutto 
assolutamente  preso. 

La  misura  del  limile  relativo  è  qualunque  entità  maggiore  di 
quella  di  cui  si  cerca  il  limile  relativo,  per  esempio  il  genere 
è  misura  del  limile  relativo  della  specie  ,  e  Io  spazio  è  misura 
del  limite  relativo  d'un  corpo. 


664 

Articolo  Vili. 

Analisi  della  definizione  data  del  limile,  e  maniera  di  dedurre 
i  generi  diversi  de'  limiti. 

686.  Come  l'ente  infinito  e  l'ente  finito  coslituiseono  le  due 
suprème  classi  degli  enti  (,lbO-lb4*);  cosi  il  limite  assoluto, 
e  il  limite  relativo  costituiscono  le  due  supreme  classi  de'  limiti. 

Ma  ciascuna  di  queste  due  supreme  classi  hanno  i  loro  ge- 
neri ,  e  per  determinarli  conviene  che  riprendiamo  la  defini- 
zione universale  del  limile,  ne  analizziamo  i  termini^  e  vediamo 
corae  ciascuno  di  essi  possa  cangiare  ,  e  cosi  dare  fondamento 
ad  una  classificazione  diversa  de' generi  de'  limiti. 

Dicevamo  dunque,  che  il  limite  «  è  ciò  che  manca  ad  una 
data  entità  e  di  essa  si  nega  ». 

Ora  in  questa  definizione  si  distinguono  tre  elementi:  I."  il 
sabietto  della  limitazione,  2."  il  limite  predicato  di  esso,  3.°  la 
predicazione  che  esprime  la  relazione  tra  il  subiello  e  il  pre- 
dicalo. —  ì.°  L'entità,  di  cui  è  il  limite,  è  il  subietto;  2.°  Ciò 
che  ad  essa  entità  manca,  costituisce  la  materia  del  limile,  ossia 
il  limite  predicabile;  3.°  L'esclusione  di  questa  materia  del  li- 
mite dall'entità  è  la  forma  del  limite  stesso^  espressa  dalla  pre- 
dicazione negativa. 

Ora  egli  è  chiaro  che  ciascuno  di  questi  tre  elementi  della 
definizione  del  limile  può  determinarsi  in  varie  maniere  ,  e  un 
tale  elemento  determinato  variamente,  somministra  un  fonda- 
mento a  classificare  in  genere  i  limiti  abbracciati  da  quella 
definizione. 

Si  possono  dunque  avere  tre  classi  di  generi  di  limitazione; 
ossia  i  generi  de' limili  possono  classificarsi  in  tre  diversi  modi, 
secondo  che  si  prende  per  fondamento  a  distinguere  i  generi  il 
subietto  della  limitazione,  o  il  limite  stesso ,  o  la  relazione  del 
limite  al  subietto. 


005 
Articolo  IX. 

Prima  classe  de  generi  de'  limili,  che  è  quella  che  nasce 
dalla  diversità  de'  subietti  delle  limitajuioni. 


%  1. 
/  sommi  generi  della  prima  classe  sono  sei. 

687.  Come  subielli  opinabili  di  limitazione  possono  concepirsi 
dalla  mente  l'essere,  le  sue  tre  forme,  l'ente,  e  l'entità  mentale: 
questi  sono  sei  generi  sommi  di  subietti  di  cui  si  può  predicare 
in  qualche  modo  il  limite,  o  cercarsi  almeno  se  e  come  si  possa 
predicare  di  ciascun  di  essi  il  limile. 

Secondo  questo  fondamento  dunque  si  distinguono  sei  sommi 
generi  di  limitazione. 

Della  limitazione  dell'essere. 

688.  L'essere  per  naturale  intuizione  si  conosce  come  indeter- 
minato, per  raziocinio  ontologico  come  assoluto. 

Nò  secondo  l'uno  né  secondo  l'altro  concello  Yessere  può  ri- 
cevere limitazione  in  se  stesso,  poiché  se  ne  ricevesse  alcuna 
con  ciò  stesso  perderebbe  la  natura  dell'essere  ,  che  è  infinita. 

Ma  l'essere,  come  già  vedemmo,  ammette  limili  di  relazione. 

I.  h'essere  indeterminato,  mediante  questi  limiti  di  relazione, 
si  fa  il  principio  del  sistema  dell'identità  assoluta,  che  abbiamo 
esposto  in  questo  libro  (  ,276  312*  ),  perchè  all'essere  si  rife- 
riscono dalla  mente  nostra  tutte  le  limitazioni  di  tutte  le  altre 
entità. 

Potendosi  distinguere  da  quest'essere  le  sue  forme,  noi  con- 
sidereremo in  appresso  queste  sue  forme,  come  subietlo  di  limi- 
tazione. 

II.  L'essere  assoluto  conosciuto  dall'uomo  mediante  la  rifles- 
sione ontologica    non  ammette  limile  alcuno  ,  e  le  distinzioni 


666 

d'attributi  o  d'altro^  che  quella  riflessione  fa  per  raggiungerne 
il  pensiero  ,  rimangono  sulla  via  ,  e  non  arrivano  ad  entrare 
nell'oggetto  a  cui  perviene  quella  riflessione ,  poiché  questa 
stessa  le  abolisce  ,  dopo  d'averne  usato  ,  come  l'edificatore  di- 
strugge le  armadure  ,  le  andature  e  i  ponti  adoperali  per  co- 
slrurre  l'edifìzio. 

Non  ommetteremo  qui  d'avvertire  che  la  cosa  è  diversa  nel- 
V ordine  soprannaturale,  a  cui  toccare  non  giunge  la  naturale  fi- 
losofia. In  quest'ordine  Iddio  si  comunica  all'uomo  immediata- 
mente, come  si  comunica  immediatamente  l'essere  indeterminalo 
nell'ordine  di  natura.  Ora  Iddio  cos'i  comunicato  riceve  limiti  , 
non  in  se,  ma  di  quel  genere  che  abbiamo  detti  limiti  di  rela- 
zione. Di  questi  parla  la  mistica  Teologia.  E  poiché  l'essere  as- 
soluto non  è  distinto  dalle  sue  forme,  ci  sono  de' limiti  di  rela- 
zione (ìeWEssere  morale  comunicato  all'uomo,  dell'Essere  obicttivo 
e  finalmente  dell'Essere  subiettivo.  Ma  queste  arcane  dottrine 
non  appartengono  alla  Teosofia  filosofica. 

1  3. 

Della  limitazione  delle  forme  categoriche 
e  delle  entità  mentali. 

689.  Abbiamo  veduto  che  le  forme  supreme  dell'essere  danno 
il  fondamento  alle  tre  caleijorie  ,  che  sono  le  tre  massime  di- 
stinzioni di  tutte  le  entità  concepibili.  La  natura,  per  la  quale 
le  calegorie  si  distinguono  tra  loro  reciprocamente ,  si  chiama 
forma  categorica.  Tutte  le  entità  concepibili  hanno  l'una  o  l'altra 
di  queste  tre  forme  categoriche  ,  e  però  s'accoglie  nell'una  o 
nell'altra  delle  calegorie. 

La  mente  considera  l'essere  indeterminato,  —  astrazion  fatta 
dalle  forme  categoriche,  —  e  lo  considera  pure  in  ciascuna  delle 
dette  tre  forme. 

L'essere  indeterminato,  noi  abbiam  detto  —  astrazion  fatta  dalle 
forme  categoriche,  —  è  il  subiello  dialettico  di  tutti  i  limili  per 
una  semplice  relazione  di  questi  ad  esso. 

Rimane  a  vedere  se  possano  essere  subiello  di  limitazione  \*ì 
forme  categoriche. 


6G7 

Ora  conviene  distinguere  le  forme,  di  cui  l'ente  finito  parte- 
cipa, dalla  forma  che  lo  costituisce.  Questa,  abbiam  veduto,  è 
la  forma  reale  o  subiettiva. 

Ora  le  forme,  di  cui  l'onte  finito  partecipa  solamente,  cioè 
r  ideale  e  la  morale,  non  si  possono  neppur  colla  mente  separare 
dall'essere.  Poiché  l' idea  è  1'  essere  stesso  indeterminato  in 
quanto  è  per  sé  intelligibile  ,  la  perfezione  morale  poi  è  rico- 
noscimento volontario  degli  enti  fatto  nell'essere  ideale  :  non  si 
può  dunque  separare  dall'ente  e  dall'essere.  All'  incontro  la 
mente  può  pensare  la  realità  pura,  non  essere. 

I  subietti  dunque  categorici  de'  limiti  sono  : 

1.°  L'essere  ideale,  e  questo  é  subietto  dialettico  di  tutti  i 
limiti  che  si  ravvisano  nelle  idee  generiche  e  specifiche  e  di 
più  ancora  di  tutte  le  limitazioni  degli  enti  mentali  ,  che  so- 
gliono essere  idee,  su  cui  la  mente  esercitò  qualche  sua  opera- 
zione e  così  li  limitò  mentalmente. 

2.»  Uessere  morale,  e  questo  è  subietto  dialettico  di  lutti  i 
limiti,  che  si  ravvisano  nell'ordine  morale. 

3.°  La  realità,  pura  forma  categorica,  e  questa  è  subielto 
di  tutti  i  limiti  nell'ordine  reale  e  degli  enti  reali. 

II  genere  de' limiti  che  si  attribuiscono  aW essere  ideale,  e  al- 
l'essere morale  ,  e  quello  che  abbiamo  denominato  de'  limiti  di 
relazione. 

Il  genere  de'  limiti  appartenente  alla  forma  categorica  della 
realità  è  quello  de'/«m///  propri  e  reali. 

La  realità  così  considerata  divisa  dall'essere  è  reale  finita ,  e 
questa  forma  categorica  è  come  un  sopragenere  ,  a  cui  tutti  i 
generi  anche  sommi  mettono  capo  e  s'unificano.  Non  è  già  che 
la  realità  finita,  senza  più,  possa  sussistere  in  sé:  ella  non  pre- 
senta al  pensiero  niuna  specie  determinata,  ma  si  può  concepire 
astraendo  dal  pensiero  del  concetto ,  nel  quale  la  realità  finita 
ma  indeterminata  esiste  nella  mente;  e  così  ella  si  prende  per 
subielto  universale  di  lutti  i  limiti  reali.  Ora  è  di  questi  limiti 
reali  necessari  alla  costituzione  degli  enti  finiti  che  noi  princi- 
palmente ci  occuperemo. 


6(38 

S  4- 

Della  limitazione  degli  enti. 

690.  Abbiamo  distinlo  Tenie  dialettico  dall'ente  in  sé.  Noi  qui 
parliamo  soltanto  dell'ente  in  sè^  perchè  l'ente  dialettico  o  di- 
minuto  appartiene  alle  entità  mentali,  rispello  alle  quali  il  su- 
bietto universale  della  limitazione  è  l'essere  nella  forma  ideale, 
come  abbiam  detto. 

L'ente  in  sé  si  concepisce  in  tre  modi  :  come  ente  astratto, 
come  individuo  v.tgo,  e  come  individuo  specifico,  ossia  determina- 
tamente determinalo. 

Vente  astratto  é  il  subietto  dialettico  universale  di  lutti  i  li- 
mili di  cui  sono  suscettivi  gli  enti. 

Venie  individuo  vago  é  il  subielto  dialettico  de' limiti,  non  già 
di  lutti  gli  enti,  ma  di  ciascuno  preso  individuamente ,  di  ma- 
niera che  il  dire:  «  l'ente  individuo  vago  è  limitato  «,  equivale 
a  dire  :  «  ciascun  ente  limitato  è  subietto  delle  proprie  limita- 
zioni ». 

L'ente  determinatamente  determitiato  é  subielto  delle  sue  prò- 
prie  limitazioni.  È  sulle  limitazioni  di  questo  che  dobbiamo  prin- 
cipalmente trattenerci ,  perché  quello  che  più  di  lutto  imporla 
al  nostro  scopo  è  di  dare  la  teoria  degli  enli  finiti ,  che  com- 
pongono il  mondo. 

L'ente  dunque  determinatamente  determinato  e  quello  che  si 
divide  nelle  due  somme  classi  dcWinjìnito  e  del  finito.  Ma  l'ente 
infinito  é  lo  stesso  essere  assoluto,  e  come  questo  possa  e  non 
possa  esser  subielto  di  limili  fu  da  noi  già  detto.  Ci  resta 
dunque  solo  a  parlare  dell'enle  finito  consideralo  come  deter- 
minatamente determinato. 

A  BUGOLO   X. 

Continuazione.  —  Degli  enti  reali  finiti.  —  Limite  entitativo, 
trascendente  ed  essenziale. 

69i.  Abbiam  veduto  che  l'ente  individuo  é  costituito  dalla  sua 
base,  di  maniera  che  mutandosi  la  base  degli  enli,  l'ente  perde 


CG9 

la  sua  idenlità,  e  le  sue  appendici  ricevendo  un'altra  base  diveji- 
tano  un  allro  ente.  Egli  è  chiaro  che  se  la  nova  base  non  dif- 
ferisce di  specie  astratta  ,  l'ente  novo  sarà  della  stessa  specie 
del  precedente;  se  differisce  solo  di  specie,  Tenie  novo  differirà 
di  specie  ,  ma  sarà  dello  stesso  genere,  e  così  si  dica  sino  al 
sommo  genere.  Dal  che  avviene,  che  dato  un  ente  qualunque, 
non  potendo  e"li  avere  che  una  sola  base,  perchè  l'unità  è  ne- 
cessaria all'ente  ,  tutte  le  altre  basi  possibili  d'enti  ,  prese  in- 
sieme, sono  tante  mancanze  e  altrettanti  limiti  di  quell'ente. 
Ora  questi  limiti  si  dicono  limiti  entitativi,  perchè  ciò  che  esclu- 
dono dall'ente  sono  altri  enti. 

Ma  se  si  concepissero  le  sole  appendici  senza  base  di  sorla, 
in  tal  caso  in  questo  concetto  d'appendici  mancherebbero  tutte 
affatto  le  possibili  basi  degli  enti ,  e  quindi  la  limitazione  con- 
cepita dalla  mente  sarebbe  ancora  maggiore  ,  perchè  manche- 
rebbe del  tutto  l'ente ,  e  ci  avrebbe  la  differenza  dal  non -ente 
all'ente.  La  mancanza  adunque  di  tutte  le  basi  dell'ente  all'en- 
tità mentale  che  si  chiama  appendice,  è  un  limite  più  che  en- 
litativo.  Noi  chiameremo  questo  limite  trascendente. 

Oltracciò  è  da  considerare,  che  le  basi  stesse  degli  enti  dif- 
feriscono mediante  certi  limiti.  La  differenza  massima  è  tra  la 
base  dell'ente  infinito  e  degli  enti  finiti.  Poiché  la  base  dell'ente 
infinito  è  Vessere  stesso,  la  base  degli  enti  finiti  non  è  l'essere, 
ma  un  termine  dell'essere  cioè  il  reale.  Noi  chiamiamo  questa 
sorta  di  limite:  limite  essenziale.  Ciò  che  manca  dunque  alla 
base  dell'ente  finito  è  la  base  dell'ente  infinito,  e  atteso  questo 
limite  entitatico  l'ente  finito  e  l'ente  infinito  sono  due  enti.  Ma 
di  più  la  base  dell'ente  finito  essendo  il  reale,  e  non  Vessere, 
differiscono  le  basi  d'una  differenza  maggiore  d'ogni  genere  , 
perchè  differiscono  da  essere  a  non  essere  :  cioè  Vente  finito  ha 
oltracciò  il  limite  essenziale.  Se  dunque  la  base  dell'ente  finito 
non  è  l'essere,  ella  non  esiste  se  questo  colla  sua  presenza  ad 
essa  non  la  fa  esistere.  Questa  base  dunque  non  è  base  per  sé. 
La  base  dunque  dell'ente  finito  comparala  a  quella  dell'ente 
infinito  non  è  base.  Ha  dunque  l'ente  finito  anche  il  limite  tra- 
scendente che  fa  sì  che  egli  sia  all'infinito  come   un   non-ente. 


670 

Articolo  XI. 

Con linuaz lune.  —  Limite  Irascendenle  subiellivo  e  limite 
trascendente  obbiettivo:  limiti  secondari. 

692.  Ma  analizziamo  l'ente  finito  e  cerehiamo  i  diversi  limiti  che 
prende  secondo  il  diverso  modo,  nel  quale  possiamo  concepirlo. 

Il  limite  trascendente  che  consiste  nella  mancanza  d'ogni  base 
è  di  due  SOI  te,  come  due  sono  le  serie  d'elementi  che  il  reale 
finito  acquista  dall'essere,  acciocché  egli  esista  come  ente  finito. 
Acquista,  come  abbiam  detto,  quattro  elementi  dall'essere  su- 
biettivo ,  e  quattro  elementi  dall'essere  obiettivo.  Se  dunque 
l'ente  finito  si  spoglia  de'quattro  elementi  che  riceve  dall'essere 
subiettivo,  egli  rimane  un  ente  obiettivo,  cioè  un  ente  che  non 
è  ente  in  sé  ,  perchè  non  ha  esistenza  propria  e  subiettiva  : 
nell'ordine  subiettivo  egli  è  dunque  ancora  nulla  ,  non  ha  né 
base  nò  appendici.  Questo  non  è  propriamente  un  limite,  ma  è 
la  negazione  totale  dell'ente.  In  quanto  poi  esiste  come  oggetto 
nella  mente,  egli  ha  base  ed  appendici,  ma  mentali.  Quest'ente 
mentale  è  un'appartenenza  della  mente  che  concepisce  :  ciò  che 
manca  è  l'essere  subiettivo,  che  lo  faccia  esistere  come  ente  in 
sé.  Se  dunque  noi  mentalmente  prendiamo  l'ente  oggettivo  fi- 
nito, come  subietto  della  limitazione  ,  dovrem  dire  che  il  suo 
limile  è  l'essere  subiettivo  ,  e  però  quello  differisce  dall'ente 
subiettivo,  come  il  non  essere  subietlivamente  dall'essere  subieiti- 
vamente.  Il  limite  trascendente  dunque  di  questa  sorte  consiste 
nella  mancanza  di  base  ad  un  tempo  e  di  appendice. 

Se  poi  svestiamo  l'ente  finito  oggettivo  anche  delle  quattro 
qualità  che  riceve  dall'essere  oggettivo  ,  egli  rimane  non  solo 
privo  della  base  e  dell'appendice  subiettiva  ,  ma  anche  della 
base  oggettiva  ,  e  però  non  resta  che  l'appendice  obiettiva  , 
cioè  la  realità  finita  e  indeterminata  —  materia  prima  nel  senso 
d'alcuni  filosofi,  —  e  quest'appendice  obiettiva  ha  per  limite  la 
mancanza  d'ogni  base  oggettiva  e  subiettiva,  e  dell'appendice 
subiettiva,  e  quesl'é  il  limite  trascendente  di  seconda  sorte,  che 
differisce  come  Vessere   dal  non-essere  assolutamente. 

Chiameremo  dunque  il  primo  di  questi  due  limiti  :  limite  tra- 


67i 

scendente  subiellho  —  mancanza  dell'ente  subiellivo,  — il  secondo: 
limite  trascendente  obiettivo  —  mancanza  dell'ente  subiellivo  e 
della  base  obiettiva. 

Si  può  dunque  considerare  dalla  mente  l'entità  finita  in  tre 
modi  : 

1  .**  Come  appendice  obiettiva ,  nel  quale  stato  non  è  an- 
cora ente.  Se  dunque  si  prende  quella  appendice  come  un  su- 
bielto  dialettico  del  limile  ,  essa  dilTerisce  dall'ente  as.soluto  , 
come  ciò  che  non  è  in  nessuna  maniera  ente  ,  da  ciò  che  è 
ente  assoluto  —  limile  trascendente  obiettivo. 

2."  Come  ente  obiettivo.  Se  si  prende  l'ente  finito  obiettivo 
come  subietto  dialettico  della  limitazione,  esso  differisce  dall'ente 
assoluto,  come  ciò  che  non  è  ente  in  se  subietlivamenle  —  limite 
trascendente  subiettivo. 

5.°  Come  ente  subiettivo.  Se  si  prende  l'ente  finito  subiet- 
livamenle esistente  come  subielto  reale  della  limitazione  ,  egli 
differisce  dall'ente  assoluto  come  ciò  che  ha  per  base  una  cosa 
che  non  è  essere ,  da  ciò  che  ha  per  base  l'essere  stesso  ,  e 
però  differisce  più  che  da  ente  ad  ente,  perchè  differisce  come 
un  ente  che  è  tale  per  partecipazione  da  un  altro  ente  che  è 
tale  per  sé  ■■ —  limite  essenziale. 

693.  Da  tutto  questo  si  deve  conchiudere  che  ci  sono  tre  o 
quattro  sommi  generi  di  limili  reali;  il  primo  che  riguarda  l'essere 
ed  è  la  limitazione  essenziale  ;  il  secondo  che  riguarda  la  base 
dell'ente  ed  è  la  limitazione  entitaliva  e  \a.  trascendente;  il  terzo 
che  riguarda  solo  le  appendici  dcH'ente  a  cui  daremo  il  nome 
di  limitazione  secondaria. 

La  limitazione  essenziale  è  quella  che  esclude  l'essere. 

La  limitazione  entitaliva  è  quella  che  esclude  le  basi  dell'ente, 
meno  una,  propria  dell'enle. 

La  limitazione  trascendente  è  quella  che  esclude  tutte  affatto 
le  basi  dell'ente,  ed  è  subiettiva  se  esclude  la  base  subiettiva, 
obiettiva  se  esclude  anche  la  base  obiettiva. 

La  limitazione  secondaria  è  quella  che  esclude  delle  appen- 
dici dell'ente,  ma  non  la  base. 

La  limitazione  essenziale  escludendo  l'essere,  toglie  via  ogni 
subietto  reale  della  limitazione  slessa,  e  però  non  si  concepisce 
che  applicala  ad  un  subiello  dialettico. 


()72 

La  limitazione  trascendente  escludendo  tutte  le  basi  dell'ente, 
non  lascia  né  pur  essa  alcun  subietlo  reale  della  limitazione  , 
ma  un  subietlo  dialettico. 

La  limitazione  entitativa  lasv3ia  un  subietto  reale  della  limi- 
tazione, perchè  lascia  una  base  che  esclude  tutte  le  altre  basi. 

La  limitazione  secondaria  lascia  pure  un  subictto  reale  della 
limitazione,  escludendo  solo  le  appendici. 

Le  due  prime  limitazioni  dialettiche  sono  negazioni   dell'ente. 

La  ter?a  limitazione  toglie  V identità  dell'ente,  e  ne  fa  esistere 
un'altro. 

La  quarta  è  limitazione  semplice  dell'ente,  di  cui  non  distrugge 
punto  l'identità. 


Articolo  XIL 

Seconda  classe  de'  generi  de'  limili  che  è  quella  che  nasce 
dalla  diversa  natura  de' limiti  stessi. 

694.  Abbiamo  classificati  i  subietti  de' limiti,  e  abbiamo  veduto 
chela  diversa  natura  de' detti  subietti  è  suscettiva  di  limiti  diversi: 
quindi  dalla  diversa  natura  de'subietli  abbiam  derivali  diversi 
generi  di  limili. 

Ma  per  fondamento  della  classificazione  in  generi  de'  limiti  si 
può  prendere  anche  immediatamente  la  stessa  natura  de'limili 
E  una  classificazione  su  questo  fondamento  è  pure  necessaria 
perchè  uno  stesso  subietlo  può  aver  limiti  diversi.  Volendo  però 
discendere  a  una  classificazione  minuta  della  diversa  natura  dei 
limili  ,  noi  verremmo  a  parlare  degli  slessi  generi  fin  qui  an 
noverali  e  per  conseguente  a  ripeterli. 

Or  gioverà  dunque  meglio,  rannodando  le  considerazioni  pre- 
cedenti ,  far  osservare,  che  la  natura  de'  limiti  va  di  conserva 
con  quella  delle  quantità.  Poiché  essendo  questa  «  un'entità  in 
quant'è  contenuta  entro  i  linìiti  « ,  procede,  che  quanti  sono  i 
generi  delle  quantità,  altrettanti  sono  quelli  de'limili  e  viceversa. 
Avendo  noi  dunque  distinta  la  quantità  per  riguardo  a' reali  in 
ontologica,  cosmologica  e  fisica,  si  devono  di  conseguente  distin- 
guere tre  corrispondenti  generi  di  limiti,  cioè  limili  ontologici. 


673 

Umili  cosmologici  e  limiti  fisici.  Parlando  della  quantitìi  abbiamo 
già  dello  più  cose  intorno  a  queste  nature  diverse  di  limiti. 

Quello  che  stiamo  per  dire  dichiarerà  maggiormente  questa 
dottrina.  Poiché  questi  tre  sommi  generi  di  limiti  secondo  che 
si  considerano  o  nella  loro  natura  ,  o  nella  diversa  relazione 
che  hanno  col  loro  subietto,  appartengono  ugualmente  alla  se- 
conda 0  alla  terza  classe  di  generi.  Consideriamoli  dunque  sotto 
l'aspetto  della  relazione,  nella  quale  si  predicano  con  un  subietto. 


Articolo  XIII. 

Terza  classe  de' generi  de' limiti  che  è  quella  che  ha  per  fondamento 
la  congiunzione  dicersa  che  passa  tra  il  limite  e  l'entità  che  ne  è  il 
subietto. 

095.  Anche  questa  terza  maniera  dunque  di  distribuire  in  ge- 
neri i  limiti  de' reali  concepibili  dalla  mente,  ce  li  divide  in  tre 
generi. 

Il  primo  è  quel  genere  di  limiti  ,  anteriormente  a'  quali  si 
concepisce  un  ente  individuo  reale  che  è  il  loro  subietlo:  e  sono 
i  lìmiti  fisici  ; 

Il  secondo  è  quel  genere  di  limiti,  anteriormente  a' quali  non 
si  concepisce  un  ente  individuo  reale,  ma  solo  un'entità,  che 
si  considera  come  il  loro  .«^ubietto  :  e  sono  i  limiti  cosmologici; 

11  terzo  è  quel  genere  di  limiti,  anteriormente  a'  quali  non  si 
concepisce  per  loro  subietto  né  un  ente,  né  un'entità:  e  sono 
i  limiti  ontologici. 

S  1- 

Delimiti ,  anteriormente  a' quali  si 
concepisce  un  ente  individuo  reale  loro  suhietto. 

696.  Questi  limiti  sono  quelli  che  abbiamo  chiamati  secondari: 
cade  su  di  essi  la  comune  attenzione  ;  di  maniera  che  ne*  di- 
scorsi comuni  si  parla  in  modo  come  se  altri  limiti  non  esi- 
stessero. 

Rosmini.  Teosofia,  43 


Concependosi  dalla  mente  Tenie  reale  individuo  anlecedente- 
mente  a  tali  limiti  ,  ò  chiaro  che  questi  non  entrano  punto  a 
formare  il  loro  subietlo:  non  sono  a  questo  essenziali. 

Ad  ogni  reale  individuo  è  essenziale  una  compiuta  determi- 
nazione ,  ma  non  una  delcrminazione  determinata  ,  poiché  la 
compiala  determinazione  di  esso  individuo  può  essere  questa  o 
quella,  e  nel  suo  concetto  non  entra  questa  piuttosto  che  quella. 
11  che  avviene  per  la  potenzialità  dell'individuo  reale ,  il  quale 
ha  questa  legge  che  «  abbia  una  compiuta  determinazione  in 
atto,  e  tutte  le  altre  compiute  determinazioni  ,  di  cui  è  suscet- 
tivo, in  potenza  ».  L'individuo  reale  come  potenza,  ossia  come 
causa  de' propri  alti  ,  ha  in  sé  tutti  i  suoi  atti  indistinti  ,  e 
questa  unificazione  di  tali  alti,  che  sono  più  o  meno,  in  un  solo 
principio ,  causa  ,  o  virtù  di  essi ,  è  ciò  che  costituisce  la  sua 
natura.  Ma  esso  non  potrebbe  ricevere  l'esistenza  ossia  l'essere 
subiettivo,  se  tra  tutti  i  suoi  atti  determinanti  non  avesse  spie- 
gati quelli  che  costituiscono  una  sua  qualunque  determinazione, 
perchè,  come  abbiamo  veduto,  un  subietto  da  qualche  lato  in- 
determinato non  può  sussistere. 

697.  IMa  il  concetto  della  determina zione  preso  in  senso  con- 
traddittorio àWindeterminazioìie  non  è  ancora  il  concetto  de' limiti 
secondari  di  cui  parliamo.  Come  questo  si  trova? 

Polendo  un  ente  reale  aver  un  gran  numero  di  determina- 
zioni compiute,  purché  ne  abbia  una  qualunque  di  quelle  a  cui 
s'  estende  la  sua  potenzialità  ,  queste  diverse  determinazioni 
possibili  sono  più  o  meno  perfette  ,  cioè  aggiungono  perfezione 
0  imperfezione  all'  ente  a  cui  appartengono.  Si  può  adunque 
concepire  una  serie  di  determinazioni  perfette,  la  quale  incominci 
da  quella  determinazione  perfetta  che  deteriorerebbe  l'ente  sino 
all'ultimo  possibile  grado  di  deterioramento,  e  finisca  con  quella 
determinazione  perfetta  che  darebbe  all'ente  l'ultimo  grado  della 
sua  perfezione.  Questi  sono  i  due  estremi  d'una  tal  serie.  Infatti 
se  noi,  dopo  aver  pensato  un  ente  nel  suo  stalo  il  più  imperfetto 
po.ssibile,  volessimo  progredire  cercando  colla  mente  una  imper- 
fezione ancor  maggiore,  noi  usciremmo  da  quell'ente  che  non  ha 
altra  potenzialità  d'imperfezione  e  così  l'avremmo  annullato  —  poi- 
ché quell'ente  è  annullato  tosto  che  ha  ^perduta  *la  sua  identità.  — 
E  similmente,  se,  dopo  aver  concepito  l'ente  nell'atto  della  sua 


C75 

più  alta  perfezione  possibile,  volessimo  andar  oltre  ,  usciremmo 
dall'ente  slesso,  uscendo  dalla  potenzialità  che  ne  costituisce  la 
natura,  e  quell'ente  sarebbe  annullato,  e  tutto  al  più  saremmo 
passati  colla  mente  ad  un  altro  onte  non  identico  al  primo. 

Se  noi  ora  prendiamo  quella  determinazione  compiuta,  che 
data  air  ente  individuo  lo  reca  all'  atto  della  sua  più  elevata 
perfezione  possibile,  per  misura  di  lutti  gli  altri  gradi  inferiori 
di  perfezione  ,  noi  intenderemo  che  tutti  questi  altri  inferiori 
gradi  di  perfezione  sono  appunto  i  Imiti  secondari  deWenie,  che 
noi  cerchiamo  ,  in  quanto  vengono  meno  dal  sommo  grado.  Si 
può  dunque  definire  il  limile  secondario  complessivo  così;  «  quel 
tanto  che  manca  ad  un  ente  individuo  della  perfezione,  di  cui 
è  suscettivo  secondo  la  sua  natura  )>. 

Dico  «  il  limile  secondaria  complessivo  « ,  perchè  si  possono 
distinguere  colla  mente  moltissime  specie  di  limili  secondari 
parziali  ,  se  si  determina  variamente  nella  definizione  data  la 
parola  perfezione.  Questa  si  può  intendere  pel  complesso  armo- 
nico d'  ogni  perfezione  di  cui  un  ente  è  suscettivo  ,  e  così  la 
definizione  appartiene  al  limite  complessivo:  si  può  anche  inten- 
dere quella  parola  d'una  perfezione  parziale  qualunque,  per  esem- 
pio, se  si  tratta  di  un  uomo,  della  sua  bellezza  esterna,  della  sua 
statura,  della  sua  robustezza,  d'una  sua  dote  qualunque,  come 
la  celerità  del  corso:  e  in  qualunque  genere  di  cose  che  si 
possano  considerare  ,  sotto  qualunque  specie  ,  come  pregi  del- 
l'uomo, si  può  sempre  dire  che  «  il  limite  è  ciò  che  manca  al 
più  alto  grado  di  quella  speciale  perfezione,  che  si  considera  ». 
Questi  pertanto  sono  limiti  secondari  parziali  ,  che  ammettono 
innumerevoli  modi  e  classi,  le  quali  non  è  a  noi  necessario  in- 
vestigare più  minutamente. 

Noi  abbiamo  supposto ,  che  la  perfezione  complessiva  o  speciale 
d'  un  dato  ente  individuo  abbia  un  grado  massimo  e  che  il  limite 
secondario  consista  in  ciò  che  manca  all'  ente  per  raggiungere 
quest'  ultimo  grado  di  perfezione.  Se  un  grado  massimo  ci  sia  in 
lutti  i  subielti  de'limiti  secondari,  è  questione  di  cui  parleremo  in 
appresso:  per  ora  restiamo  in  questa  ipotesi. 

Posto  dunque,  che  in  un  ente  ci  sia  un  massimo  e  un  mininio 
di  perfezione  — il  qual  grado  minimo  di  perfezione  è  il  massimo  di 
deterioramento,  — -  ne  viene  che  il  limite  secondario  di  quest'  ente 


676 

non  può  accrescersi  all'  infinito  ,  perchè  ove  1'  ente  fosse  disceso 
al  suo  massimo  deterioramento  ,  non  potendo  discender  più  basso 
senza  distruggersi  ,  avrebbe  ricevuto  la  massima  limitazione 
possibile.  Quando  dunque  i  filosofi  definiscono  il  limitato  «  ciò 
che  può  sempre  accrescersi  e  diminuirsi  »  ,  danno  una  defini- 
zione che  non  è  universale,  perchè  non  abbraccia  tutti  i  limiti 
possibili  ,  che  non  lutti  hanno  un  aumento  e  una  diminuzione 
indefinita:  non  l'hanno  appunto  i  limiti  secondari,  di  cui  par- 
liamo ,  rispetto  a  quegli  enti  che  ammettono  un  massimo  di 
perfezione  e  di  deterioramento  :  e  però  «  questo  genere  di  li- 
mitali non  si  può  accrescere  e  diminuire  all'  indefinito  »  ,  ma 
solo  fino  a  un  certo  grado.  Laonde  «  lo  stesso  limile  è  limitalo  ». 


2. 


Continuazione  —  Onde  Vindeflnilo,  e  perchè  cerli  limiti  si  possono 
sempre  più  diminuire  senza  che  mai  s'  annullino. 

698.  iMa  viene  qui  in  campo  la  questione  accennata:  «  se  tulli 
gli  individui  reali  abbiano  un  massimo  e  un  minimo  di  perfe- 
zione »  ,  Ira  quali  due  estremi  conservino  sempre  la  loro 
identità. 

E  primieramente  non  è  assurdo  concepire  degli  enti  ,  che 
abbiano  una  sola  determinazione  compiuta  ,  e  non  ne  possano 
aver  altra.  Questi  enti  non  possono  esser  subietti  in  sé  stessi  di 
limiti  secondari  :  solo  possono  esser  subielli  di  limiti  secondari  in 
quanto  si  considerano  partecipati  piìi  o  meno  da  altri  enti. 

E  tale  è  appunto  tra  gli  enti-termine  lo  spazio  ,  il  quale  in 
sé  slesso  non  ha  limili  secondari ,  non  avendo  e  non  potendo  avere 
che  un  solo  modo  semplicissimo  ed  immutabile  di  essere.  Ma  ne 
ha  solo  quando  si  considera  come  partecipato  più  o  meno  dai 
corpi.  Lo  slesso  può  dirsi  di  tutti  quegli  enti  ,  che  hanno  natura 
in  qualunque  modo  infinita. 

Il  considerare  questi  enti  che  in  sé  stessi  non  hanno  limiti 
secondari  e  per  questa  assenza  di  limiti  secondari  si  dicono  illimi- 
tati ,  il  considerarli  dico  come  partecipati  da  altri  ,  fa  nascere 
nella  mente  il  concetlo  «d'un  indefinito  aumento  e  d'una  indefinita 


677 

diminuzione  »  ,  perchè  non  si  trova  nessuna  ragione  d'  imporre 
alla  partecipazione  dell'ente  infinito  piuttosto  un  limile  che  un  al- 
tro. Di  qui  dunque  si  può  avere  una  definizione  dell'  indefinito  che 
es])riraa  la  sua  propria  natura.  Poiché  «  1'  indefinito  sta  nella 
partecipazione  finita  dell'  infinito  ».  Sotto  queir  aspetto  nel  quale 
l'entità  partecipata  si  dice  infinita,  sotto  lo  stesso  aspetto  si  ha  un 
indefinito  corrispondente.  L'indefinito  dunque  è  medio  tra  l'infinito 
ed  il  finito,  o  piuttosto  è  la  loro  congiunzione,  di  maniera  che 
si  può  esprimere  così  la  definizione  di  lui  :  e.  L'infinito  parteci- 
palo è  l'indefinito  ». 

699.  Se  noi  dunque  prenderemo  a  considerare  un  ente  finito 
qualunque,  che  in  qualsisia  modo  partecipi  dell'infinito,  subito  ci 
abbatteremo  in  esso  alla  progressione  indefinita.  Così  il  corpo, 
come  dicemmo^  può  sempre  ricevere  aumento  e  diminuzione , 
senza  che  la  serie  finisca  mai  perchè  partecipa  dello  spazio 
che  è  infinito  :  il  tempo  può  sempre  ricevere  aumento  perchè 
partecipa  della  durata  infinita:  il  numero  può  sempre  ricevere 
aumento  perchè  partecipa  della  possibilità  astratta  che  pure  è 
infinita. 

Che  se  ci  leviamo  a  un  ordine  di  cose  più  sublime  ,  qui  si 
trova  la  ragione  dell'indefinita  perfettibilità  umana.  La  perfet- 
tibilità umana  presa  in  astratto  è  indefinita  dal  lato  della  scienza 
e  della  virtù:  poiché  la  scienza  si  fa  colla  partecipazione  del- 
l'essere oggettivo  il  quale  è  infinito,  e  la  virtù  s'acquista  colla 
partecipazione  dell'  amabilità  dell'  essere  ,  la  quale  pure  è 
infinita. 

Qual  è  dunque  in  lutti  questi  casi,  ne' quali  non  si  può  tro- 
vare mai  un  massimo,  la  misura  del  limile  secondario?  Questo 
non  si  può  determinare,  definendolo  :  «  ciò  che  manca  all'ente 
per  raggiungere  la  sua  massima  perfezione  totale  o  parziale  ». 
Come  dunque  si  determinerà  e  definirà  ? 

Questo  si  fa  in  due  modi  ,  secondo  i  generi  d'  indefinito  di 
cui  si  tratta,  cioè  : 

•l."  Prendendo  per  misura  il  minimo  se  si  può  avere; 
2."  Se  non  si  può  avere   neppure    il  minimo  ,  in  tal  caso 
si  prende  un  minimo,  o  un  massimo  per  supposizione,  che  rimane 
una  quantità  di  cognizione  immediata. 

700.  11  minimo  si  può  avere  nel  numero  astratto,  il  quale  è 


G78 

r  uniUà  numerica.  Questo  minimo  cioè  V  uno  numerico  ha  il 
limite  massimo  de  numeri  j  e  però  il  limile  del  numero  è  tanto 
maggiore,  quanto  più  il  numero  si  accosta  all'unità. 

Il  minimo  non  si  può  avere  né  nel  ^0/7)0  ,  né  nel  tempo  ,  i 
quali  sono  divisibili  all'  indefinito.  Perchè  questa  differenza  dal 
numero?  La  ragione  si  è,  che  l'uno,  elemento  del  numero  ,  è 
così  astratto  che  non  ha  subietla  alcun'altra  natura  la  quale  si 
divida,  ma  forma  il  numero  colla  replicazione  di  tutto  sé  stesso 
e  non  partecipa  che  della  possibilità  infinita  di  replicarsi  dalla 
mente;  laddove  il  corpo  partecipa  della  natura  dello  spazio,  non 
replicando  lo  spazio  ma  partecipandone  una  porzione  ;  e  così 
fa  il  tempo  della  natura  della  durala.  Essendo  dunque  lo  spazio 
partecipabile  dal  corpo,  e  la  durata  eterna  dal  tempo^  lo  spazio 
e  il  tempo  conservano  sempre  la  loro  natura  di  estensione,  e  di 
durata:  fin  che  rimangono,  l'estensione  e  la  durata  sono  parteci- 
pabili per  divisione:  rimanendo  dunque  sempre  estensione  quello 
che  è  estensione  ,  e  durata  quello  che  è  durata  ,  sono  sempre 
partecipabili  per  nova  divisione  ,  e  così  la  divisibilità  rimane 
indefinita.  In  questi  generi  dunque  à'indefinilo  ,  i  quali  s'origi- 
nano da  quelle  nature  infinite,  che  sono  parlecipabili  per  divi- 
sione ,  non  e'  è  un  minimo  assoluto  ,  né  un  massimo  assoluto. 
La  mente  dunque  prende  un  quanto  per  supposizione  massimo, 
ovvero  un  quanto  per  supposizione  minimo,  e  si  serve  di  queste 
due  misure  a  determinare  il  limile j  il  quale  così  non  è  altro  che 
un  limite  relativo.  Trattandosi  dunque  di  tali  indefiniti,  si  hanno 
per  essi  due  misure  in  vece  di  una  ,  ma  entrambe  relative  e 
niuna  assoluta. 

Così,  se  per  misura  minima  di  supposizione  prendiamo  un  mil- 
limetro, più  che  i  corpi  s'avvicineranno  in  quant'  alla  lunghezza 
a  questo  limitatissimo,  più  si  diranno  limitali.  — Se  per  misura 
massima  di  supposizione  prenderemo  1'  asse  della  terra  ,  0  il 
meridiano,  noi  diremo  i  corpi  in  quanto  alla  lunghezza  limitati 
in  ragione  inversa  dell'avvicinarsi  alla  delta  lunghezza  dell'asse 
terrestre,  0  al  meridiano. 

Del  pari  si  può  prendere  a  misura  relativa  del  limite  del 
tempo  0  un  minimo  di  supposizione,  come  un  minuto  secondo^ 
0  un  massimo  di  supposizione  come  un  millennio,  e  secondo  che 
il  tempo  s'avvicina  a  quello  preso  pel  massimo  limitato,  0  s'al- 


679 

lontana  da  quello  preso  pel  minimo  limitalo,  avrà  [)iù  o  meno 
di  limite  relativo. 

701.  Queste  due  misure  relative  sono  dunque  possibili  ogni  qua! 
volta  1."  è  limitata  la  parteeipazione  d'una  natura  illimitata  ; 
2."  e  questa  natura  illimitata  può  essere  partecipala  per  divi- 
sione ,  e  però  non  tutta  ,  ma  in  parli.  Tali  nature,  sebbene  in 
sé  stesse  siano  illimitate  e  indivisibili,  tuttavia  nella  partecipa- 
zione si  dividono  in  parli  relalive  agli  enti  che  ne  partecipano. 
Esse  non  sono  tali  che  devano  essere  partecipale  tutte  o  nulla; 
perchè  non  godono  d'una  perfclla  semplicità,  come  l'uno  astratto. 
In  sé  stesse  hanno  due  infinità  —  di  quelle  che  abbiam  dette  uni- 
laterali —  cioè  a  dire  sotto  due  aspetti  possono  essere  considerate 
come  infinite,  come  nature  qualitati\'e ,  e  come  nature  quantita- 
tive. Lo  spazio  e  la  durata,  come  nature  qualitative^  sono  infi- 
nite, e  quest'infinità  si  conserva  in  esse  anche  partecipala,  perchè 
se  non  si  conservasse  ,  sarebbero  annullate  quelle  nature  per- 
dendo la  loro  qualità  essenziale.  Lo  spazio  e  la  durata  come  na- 
ture quantitative  sono  pure  infinite  ,  ma  quest'  infinità  si  perde 
quand'esse  sono  partecipate  :  la  parlecipazione  ,  essendo  finita  , 
comunica  la  sua  Jìnilezza  alla  natura  quantitativa  dello  spazio 
e  della  durata.  Rimane  dunque  la  natura  di  spazio  e  la  natura 
di  durata  anche  allo  spazio  partecipalo  ,  e  alla  durata  parteci- 
pata ,  ma  non  rimane  loro  l'infinità  quantitativa:  ed  è  per 
questo  che  sono  partecipabili ,  poiché  l'alto,  col  quale  sono  da  un 
dato  ente  partecipate,  è  1'  atto  che  impone  limiti  alla  loro  natura 
quantitativa.  Questo  dunque  avviene  perchè  tali  nature  non  sono 
al  lutto  semplici ,  ma  hanno  in  sé  la  detta  dualità  di  natura  quali- 
tativa e  quantitaliva. 

Ma  se  all'  opposto  si  tratta  d'  infiniti  che  hanno  una  natura 
affatto  semplice,  e  che  non  ammette  di  conseguenza  parli,  nep- 
pure relalive  a  chi  ne  partecipa  ,  come  potranno  essere  par- 
tecipali? —  Questo  è  il  caso  dell'  essere  ,  sia  subiettivo  ,  sia 
obbiettivo,  sia  morale.  L'essere,  e  preso  con  astrazione  dalle  sue 
forme  e  preso  colle  sue  forme,  è  sempre  semplicissimo  e  indivisi- 
bile. Ora  noi  abbiam  veduto  che  la  parlecipazione  dell'essere  non 
si  fa  per  via  di  limitazione  e  di  divisione  ;  ma  semplicemente  per 
via  di  presenza  ,  o  se  più  piace  d' insidenza.  Dalla  natura  del- 
l'essere nasce  questa  relazione.  La  presenzialilà  è   cosi   propria 


680 

.dell'essere,  che*  senza  l'essere  non  ce  n'è  più  il  concetto,  come  di- 
mostreremo a  suo  luogo.  Il  termine  reale  dunque  insiede  nell'es- 
sere, e  l'essere  insiede  nel  termine  reale.  Dove  ha  luogo  questa  in- 
sessione reciproca?  Sempre,  come  noi  vedemmo,  in  una  mente.  Ora 
se  noi  parliamo  d'un  termine  reale  finito,  Tessere  che  insiede  in 
esso,  e  nel  quale  .esso*  insiede,  è  Tessere  puro,  privo  de'suoi  ter- 
mini infiniti,  ossia  Tessere  iniziale.  L'essere  iniziale  è  uguale  e 
identico  in  lutti  i  termini  finiti  :  egli  dunque  non  si  divide  né 
si  moltiplica  se  non  per  relazione  ,  cioè  non  si  moltiplicano 
che  le  sue  relazioni  a  cagione  della  moltiplicità  de'  termini  finiti, 
fondamento  di  tali  relazioni.  C  è  dunque  in  ogni  termine  reale 
finito,  concepito  dalla  mente  come  un  ente ,  l'infinito.  E  questo 
spiega  quella  sentenza  d'alcuni  filosofi  ,  che  dicono  «  T  infinito 
esser  per  tutto  ,  tutta  la  natura  essere  involta  d'infinito  ,  ogni 
speculazione  sulle  cose  finite  anche  minime  abbattersi,  se  va  un 
po' avanti ,  in  qualche  infinito  «.  Ma  qual  è  quest'  infinito  che 
si  scontra  per  lutto? 

702.  Noi  abbiamo  veduto,  che  quest'essere  è  virtuale,  appunto 
perchè  nasconde  alle  menti  i  suoi  termini  propri,  e  si  manife- 
sta solo  come  inizio  comune  di  tutte  le  realità  finite.  Mediante 
questa  sua  virtualità  egli  può  essere  partecipato  dal  finito  ,  e 
con  partecipazione  finita  senza  dividersi  ,  né  moltiplicarsi  :  é 
partecipato  tutto,  sempre  tutto,  ma  non  totalmente  ,  perchè  na- 
sconde nel  suo  seno  i  termini  che  gli  sono  propri  ed  essenziali. 

Non  essendo  dunque  partecipato  totalmente,  benché  sia  parte- 
cipato tutto,  resta  luogo  ad  una  partecipazione  limitata,  la  quale 
può  crescere  per  una  serie  di  gradi  indefinita;  almeno  conside- 
rata la  cosa  astrattamente. 

Questo  aumento  di  partecipazione  consiste  nello  svolgimento 
della  virtualità  delTessere,  perocché  quanto  più  Tessere  acquista 
di  termini  nella  mente  umana  —  o  in  un'altra  qualunque^  —  tanto 
più  cresce  la  partecipazione  delTessere  rispetto  all'  attualità  dei 
suoi  termini. 

La  mente  umana  è  formata  dalla  presenza  delTessere  virtuale 
obiettivo  :  in  questo  si  contiene  1'  essere  virtuale  subiettivo. 
Quando  è  a  lei  dato  un  reale  —  un  sentimento^  —  ella  lo  percepisce 
come  ente.  Che  cosa  vuol  dire  percepire  questo  reale  finito 
com'ente?  Che  cosa  vuol  dire  esser  dato  alla  mente  questo  reale 


681 

0  sentimento  finito?  Esserle  dato^  non  vuol  dir  altro  se  non  che 
avviene  questo  fatto,  che  Vessere  subieltioo  virtuale,  che  è  a  lei 
presente  ndl'  essere  obiettivo  ,  da  totalmente  virtuale  che  era 
comincia  a  diventarle  attualmente  terminato  :  il  reale,  che  è  la 
forma  occulta,  si  manifesta  nel  suo  seno,  ma  si  manifesta  entro 
certi  limiti.  Quindi  è  che  la  mente  predica  l'essere  di  quel  reale 
finito  con  verità,  e  così  lo  riconosce  come  un  ente:  perchè  ciò 
che  sente,  .lo  sente  nel  seno  dell'essere  subiettivo,  che  già  pos- 
sedeva virtualmente  nell'oggettivo  e  come  suo  termine.  Così  il 
reale  finito  nella  mente  insiede  nell'essere  ,  e  1'  essere  in  esso 
come  suo  principio,  senza  confondersi,  perchè  l'uno  è  principio 
comune,  l'altro  termine  e  subietto  dello  stesso  ente  finito.  Ma 
poiché  la  virtualità  dell'essere  è  infinita  ,  il  termine  reale  può 
sempre  aumentarsi  ,  o  almeno  la  mente  umana  non  trova  una 
ragione  immediata  per  assegnare  un  confine  al  suo  aumento.  Il 
reale  finito  dunque  partecipa  del  termine  virtuale  infinito,  e  di 
qui  l'aumenlo  indefinito,  concepibile  ne'reali  finiti. 

703.  Se  noi  passiamo  a  considerare  la  partecipazione  finita  del- 
l'essere obiettivo,  troviamo  egualmente  un  indefinito,  cioè  l' in- 
definita progressione  della  scienza  ,  la  quale  cresce  in  propor- 
zione che  l'essere  obiettivo  da  virtuale  si  fa  attuale  colla  mani- 
festazione de'  suoi  termini.  Ma  questo  indefinito  differisce  dal 
precedente  che  appartiene  all'ordine  de'reali,  e  però  dell'essere 
subiettivo,  in  questo  che  i  reali  finiti  partecipano  solo  di  quella 
virtualità  dell'  essere  subiettivo  che  si  riferisce  al  reale  finito 
—  virtualità  che  abbraccia  la  realità  pura  astratta  dall'essere  per 
la  limitazione,  —  laddove  la  mente  finita  partecipa  tanto  di  quella 
virtualità  dell'  essere  che  si  riferisce  al  reale  finito  ,  quanto  di 
quella,  che  si  riferisce  all'essere  assoluto:  ed  è  questo  l'oggetto 
massimo  della  scienza  che  più  o  meno  si  può  conoscere. 

L'essere  morale  poi  non  si  ferma  mai  al  finito,  e  ogni  virtù 
morale  suppone  l'amore  dell'essere  infinito. 

Laonde  l' indefinito^  che  procede  dalla  partecipazione  dell'es- 
sere virtuale,  è  di  tre  sorta: 

1."  L'indefinito  che  nasce  dalla  virtualità  infinita  dell'ente 
finito  (indefinito  subiettivo)  ; 

2."  L'indefinito  che  nasce  dalla  virtualità  infinita  dell'ente 
finito,  e  dell'ente  infinito  (indefinito  obiettivo)  ; 


682 

3.°  L'indefinito  che  nasce  dalla  virtualità  infinita  dell'ente 
infinito  (indefinito  morale). 

Il  limite  dunque  in  queste  maniere  di  quantità  suscettive  d'in- 
definito aumento  e  sempre  posto  dalla  virtuaìltà  dell'essere. 

70'j.  Ora  quale  sarà  la  maniera  di  misurarlo? 

Non  si  dà  una  misura  massima,  perchè  ciò  che  si  partecipa 
è  infinito:  non  si  dà  una  misura  minima,  perchè  quand'anco 
si  trovasse  il  minimo  del  reale,  il  minimo  della  scienza,  il  mi- 
nimo della  virtù,  esso  non  si  potrehbe  applicare  per  l'eteroge- 
neità delle  cose  che  si  volessero  misurare,  giacché  ogni  misura 
domanda  un'omogeneità  tra  la  misura  e  il  misurato.  Onde  chi 
dicesse  a  ragion  d'esempio  che  il  minimo  reale  è  Vestrasoggetlivo, 
in  primo  luogo  si  dovrebbe  cercare  il  minimo  dello  stesso  eslra- 
soggettivo ,  il  quale  non  esiste  ,  come  vedemtno  parlando  del 
corpo  e  della  estensione  partecipata:  di  poi  se  anche  esistesse, 
come  si  potrà  prendere  il  minimo  corpo  o  la  minima  estensione, 
come  misura  dell'anime? 

Conviene  di  più  considerare  di  che  natura  sia  l'eterogeneità 
delle  cose  che  si  tratterebbe  di  misurare:  ella  è  infinita,  E  in- 
fatti la  virtualità  del  [mito  e  la  virtualità  deirinfinilo  distano  infi- 
nitamente tra  loro,  come  dista  il  finito  dall'infinito.  E  però 
anche  la  partecipazione  de'gradi  d'attualità  di  quello  dista  infi- 
nitamente dalla  partecipazione  de'gradi  d'attualità  di  questo. 
Ci  hanno  dunque  degli  indefiniti ,  che  distano  tra  loro  infini- 
tamente. 

705.  Riassumiamo  dunque:  Ogni  qual  volta  l'entità  che  ha 
de'  limiti  è  costituita  dalla  partecipazione  di  qualche  infinito,  si 
dà  in  esso  un  aumento  indefinito. 

I  limiti  di  un  finito  di  questa  natura  non  possono  avere  per 
loro  misura  un  massimo  ,  perchè  il  finito  non  ha  un  massimo 
in  cui  finisca  i  suoi  aumenti.  Essi  dunque,  se  si  riguarda  la 
loro  misura,  si  ripartono  in  generi: 

•1.°  Alcuni  hanno  un  mm/wo  per  loro  misura,  quando  l'au- 
mento si  fa  per  replicazione  e  non  per  divisione  partecipativa  , 
come  nella  quantità  discreta. 

2.°  Alcuni  non  hanno  né  massimo,  né  minimo  assoluto,  ma 
possono  avere  due  misure  relative,  cioè  un  minimo  e  un  mas- 
simo  per  supposizione  ,  e  queste  sono  proprie  di  quelle   entità 


683 

che  partecipano  d'un  infinito  partecipabile  per  divisione  di  parli, 
come  il  corpo,  il  tempo  e  il  moto. 

5.°  Alcuni  limiti  non  hanno  neppure  una  misura  relativa, 
ma  solo  si  può  conoscere  che  l'entità  di  cui  si  tratta  è  più  o 
meno  limitata  senza  un  quanto  assegnabile.  E  questi  limili  sono 
propri  di  quelle  entità  che  si  costituiscono  dalla  partecipazione 
d'un  infinito  che  non  è  partecipabile  per  divisione  di  parli,  ma 
per  virlualilà  esplicata,  sia  poi  il  finito  quello  che  s'esplica  emer- 
gendo dalla  sua  virtualità,  o  sia  l' infinito. 


ContÌ7iuazione.  —  DeW  inerenza  del  limite  secondario. 

706.  La  definizione  universale,  che  noi  abbiamo  data  del  limite, 
si  fu  :  «  ciò  che  manca  in  una  entità  e  di  lei  si  nega  )>.  Abbiamo 
avvertito  che  le  parole  a  e  di  lei  si  nega  m  sono  state  poste 
nella  definizione  per  indicare,  che  «  ciò  che  manca  in  un'en- 
tità »  non  è  limile  in  sé  slesso,  ma  riferito  dalla  mente  all'en- 
tità che  ne  va  priva.  Ma  la  relazione  di  ciò  che  manca  in  un 
entità  coH'entità  non  è  sempre  la  stessa  ;  e  di  qui  abbiamo  de- 
dotta la  terza  maniera  di  dividere  i  limiti  in  generi.  De'  tre 
generi  di  limiti  distinti  su  questo  fondamento,  il  primo  abbiamo 
detto  esser  quello  de'limiti  secondari.  Dobbiamo  dunque  chia- 
rire la  relazione  tra  questo  genere  di  limiti  e  l'ente  a  cui  ap- 
partengono. 

Supponendo  questi  limili  che  preesisla  l'ente,  che  è  il  su- 
bielto  di  cui  si  predicano  ,  essi  hanno  con  esso  una  relazione, 
che  noi  chiameremo  d'inerenza.  Ma  poiché  il  limite  é  sempre 
«  qualche  cosa  che  manca  )>,  rimane  a  vedere  come  qualche 
cosa  che  manca  possa  avere  un'inerenza  a  ciò  che  é. 

Questo  trova  la  sua  spiegazione  nella  natura  della  potenzia- 
lità. Abbiamo  veduto  che  il  limile  secondario  è  limile  della 
causa  potenza.  Cause  potenze  sono  tulli  gli  enti  che  ammet- 
tono qualche  sviluppo  ,  di  qualunque  sia  genere.  Questi  enti 
devono  avere  una  determinazione  compiuta  attuale  ,  senza  la 
quale   non  potrebbero  esistere  ,  ma  oltre  questa  determinazione 


684 

compiuta  attuale  ,  hanno  in  sé  molte  determinazioni  potenziali 
più  0  meno  perfette.  La  determinazione  di  maggior  perfe- 
zione rimove  e  allarga  i  limiti  dell'ente.  Questi  limiti  dunque 
consistono  «  nella  potenzialità  della  perfezione  (parziale  o  totale) 
dell'ente  )>.  La  perfezione  in  potenza  è  un  modo  di  essere.  II 
limite  secondario  adunque  è  un  modo  di  essere,  e  però  non  è 
nulla  ,  ma  qualche  cosa  che  inerc  all'ente  ,  che  è  nell'ente  ; 
perchè  la  potenza  dell'ente  non  è  nulla.  Ma  ciò  che  dicesi  po- 
tenza considerato  come  un  positivo ,  dicesi  Umite  considerato 
dalla  mente  come  un  negativo,  cioè  come  una  mancanza  d'at- 
tualità 0  d'esplicitità.  Questa  mancanza  è  dunque  indivisibile  da 
qualche  cosa  che  esiste  ,  non  è  una  mancanza  pura.  Anzi  la 
potenza  dell'ente  risulta  appunto  dall'  indivisibile  unione  d'un 
principio  positivo  causa,  che  ha  in  virlù  i  suoi  effetti,  e  d'un 
principio  negativo  che  consiste  nella  mancanza  dell'attualità  di 
questi.  Il  Umite  secondario  dunque  è  un  necessario  costitutivo 
della  potenza  dell'ente. 

Conviene  applicare  questa  dottrina  a  lutti  i  generi  inferiori 
de'  limiti  secondari,  e  segnare  la  diversa  natura  dell'inerenza  di 
ciascuno  all'ente.  Noi,  per  non  essere  infiniti,  ci  limiteremo  a 
considerare  solamente  la  natura  dell'inerenza  del  limite  secon- 
dario in  quegli  enti  che  sono  costituiti  da  una  partecipazione 
finita  per  divisione  d'un  infiìiito.  Tali  sono  ,  come  vedemmo  ,  i 
corpi  che  partecipano  dello  spazio.  Quelle  parti  di  spazio  che  i 
corpi  partecipano  non  si  possono  dividere  realmente  da  tutto  lo 
spazio,  ma  con  questo  si  continuano,  perchè  lo  spazio  in  sé  è 
indivisibile.  La  divisione  non  è  che  relativa  ai  corpi  parteci- 
panti e  non  allo  spazio  slesso.  C'è  dunque  uno  spazio  parteci- 
palo finito,  e  c'è  lo  spazio  non  partecipalo  infinito.  I  confini  tra 
lo  spazio  partecipato  e  Io  spazio  escluso  dalla  partecipazione 
sono  le  superficie,  le  linee  e  i  punti.  Questi  confini  escludono 
tutto  lo  spazio  non  partecipato  dal  corpo  stesso.  La  mancanza 
di  tulio  questo  spazio  partecipalo  è  ciò  che  costituisce  il  limite 
complessivo  del  corpo.  Ma  poiché  questa  mancanza  o  esclusione 
è  determinala  dai  detti  confini ,  perciò  questi  stessi  confini  si 
prendono  pei  limiti  de'  corpi  a  questi  inerenti.  Propriamente 
parlando  sono  indicazione  e  determinazione  del  limite  e  non  ve- 
ramente il  limite.  Il  limile  è  tutto  lo  spazio  escluso,  e  i  confini 


C8a 

di  questo  spazio  escluso  sono  identici  ai  confini  dello  spazio 
partecipato;  poiché  i  punti,  le  linee,  e  le  superficie  entro  le 
quali  è  chiuso  un  corpo,  sono  comuni  allo  spazio  partecipato, 
e  allo  spazio  escluso  dalla  partecipazione.  Sono  dunque  la  de- 
terminazione del  limile.  Ma  si  possono  anche  chiamare  que'con- 
fini  il  liinite  virtuale  del  corpo.  Perocché  que' confini  non  si 
possono  concepire,  senza  concepire  implicitamente  lo  spazio  il- 
limitato {Antropol.  156  1 08,  165,  166):  essi  dunque  indicano 
alla  mente  tutto  lo  spazio  escluso  dal  corpo  contenuto  virtual- 
mente nel  suo  concetto.  Quesl'è  dunque  la  ragione  per  la  quale 
i  punti,  le  linee,  e  le  superficie  si  possono  dire  limiti  inerenti 
a  corpi  che  circoscrivono. 


De'  limiti,  anteriormente  a  quali  non  si  concepisce  alcun  ente  reale, 
ma  solamente  qualche  entità. 

707.  1  limiti  secondari,  ahbiamo  detto,  hanno  per  subielto  un 
ente  reale  e  però  lo  suppongono  come  anteriore.  Ma  questo  stesso 
ente  reale,  appunto  perchè  è  subietto  de' limili  secondari  e  si 
concepisce  anteriore  a  questi  ,  dev'essere  limitato.  I  limiti  se- 
condari non  sono  dunque  i  primi  ,  ma  suppongono  degli  altri 
limiti  anteriori  ad  essi,  perchè  suppongono  un  limitato  che  serva 
loro  di  subietto.  Questa  è  quella  proprietà,  dalla  quale  viene  loro 
appunto  la  denominazione  di  secondari. 

Rimane  dunque  a  cercare  quali  sieno  i  limiti  propri  dello 
stesso  ente  reale  in  quanto  si  concepisce  come  anteriore  a'suoi 
limiti  secondari.  Egli  è  chiaro  che  i  limiti  propri  dell'ente  non 
presuppongono  avanti  di  sé  un  altro  ente  ,  poiché  in  tal  caso 
ricadrebbero  nel  genere  di  secondari;  sono  dunque  limiti  che 
entrano  nella  costituzione  dell'ente  stesso ,  non  potendosi  senza 
di  essi  concepire  piij  l'ente. 

A  questo  genere  dunque  appartengono  que' limiti  che  abbiamo 
chiamati  enlitativi.  Come  dunque  i  limiti  secondari  limitano 
solo  V appendice  dell'ente,  così  questi  limili,  che  abbiamo  anche 
delti  cosmologici,  limitano  la  base  dell'ente.  E  se  col  cangiarsi 


C86 

de' limili  secondari  non  perisce  l'enle,  perchè  affettano  solo  le 
sue  aiipendici,  col  cangiarsi  degli  entitativi  è  cangiata  la  base 
dell'ente,  il  quale  perde  la  sua  identità. 

A  questo  stesso  genere  appartengono  anche  que'  limiti  che 
abbiamo  chianìati  trascendenti,  che  escludono  gli  elementi  obiet- 
tivi e  subiettivi  che  costituiscono  l'ente. 

Ventila  che  si  concepisce  precedente  ai  limiti  entitativi  è  la 
potenza  d'un  reale,  che  ha  una  base,  di  averne  un'altra  :  l'en- 
tità che  si  concepisce  precedente  ai  limiti  trascendenti  è  la 
potenza  d'un  reale  che  non  ha  base  alcuna,  e  che  perciò  è  un 
reale  indeterminato  nella  mente  ,  suscettivo  di  acquistare  una 
base  e  così  d'esser  fatto  ente. 

Supposto  r  ente  esistente  co'  suoi  limiti  entitativi  ,  egli  è  il 
subielto  di  tali  limiti  ;  è  un  subietto  che  non  è  antecedente 
ad  essi,  ma  coevo.  Questa  osservazione  già  comincia  a  chiarire 
la  relazione  di  tali  limili  entitativi  coll'cnte  realmente  esistente. 
708.  Noi  dicemmo  che  la  parola  limitazione  si  prende  in  due 
sensi,  0  nel  senso  d'operazione  limitante,  o  nel  senso  di  limile. 
Vedesi  dunque  che,  parlandosi  di  questo  genere  di  limili  a  l'ente 
non  è  l'oggetto  della  limitazione,  presa  questa  parola  nel  primo 
significato  »,  perchè  se  l'ente  fosse  oggetto  dell'operazione  limi- 
tante ,  esso  si  supporrebbe  anteriore  a  questa  operazione;  ma 
soltanto  è  il  a  subietto  della  limitazione  presa  nel  secondo  si- 
gnificato ))  cioè  nel  significato  di  limite,  perchè  questo  non  esige 
che  l'ente  sia  anteriore  al  limite,  ma  solo  esige  che  la  mente 
astragga  dall'ente  limitato  il  limite  e  glielo  attribuisca,  ricono- 
scendolo con  lui  indivisibile. 

La  quale  osservazione  giova  a  rimovere  una  volgare  opinione 
insinuatasi,  con  tant' altre,  nella  filosofia,  cioè  che  talli  i  limiti 
s'impongano  per  un'  operazione  limitante  ,  del  che  nulla  di  più 
falso.  Questo  non  può  aver  luogo  se  non  rispetto  a  que'limiti  , 
il  cui  concetto  si  separa  da  quello  dell'ente  ,  come  accade  ri- 
spello a  limili  secondari,  anteriore  a  quali  si  concepisce  l'ente: 
non  può  aver  luogo  se  non  rispetto  a  questi  e  non  sempre,  né 
necessariamente.  Ma  i  limiti  che  sono  essenziali  all'  ente  non 
s'impongono  all'  ente  per  una  operazione  limitante  ,  ma  per  la 
stessa  operazione  con  cui  si  produce  l'ente,  sia  questa  vegetazione, 
0  generazione,  o  creazione. 


G87 

Voperazione  limitante  dunque  —  parlo  d'una  operazione  separata 
da  ogni  allra  —  non  è  atta  a  imporre  limiti,  se  non  a  queste 
due  condizioni: 

ì.°  Che  l'entità  a  cui  gli  impone  sia  già  un  limitato,  onde 
essa  non  fa  che  restringere  de'limiti  esistenti  —  e  non  produrne 
de'  novi  —  e  tali  limili  possono  dall'operazione  contraria  essere 
anche  allargali  ; 

2.°  Che  ciò  a  cui  s'applica  Voperazione  limitante  ammetta 
parti  per  via  di  partecipazione.  Così  un  corpo  reale  od  imma- 
ginario, un  tempo,  un  numero,  cose  tutte  limitate,  possono  es- 
sere maggiormente  limitate  da  un'operazione  limitante. 

Gli  altri  limiti,  all'opposto,  non  si  producono  da  un'operazione 
limitante,  ma  da  una  operazione  che  produce  ad  un  tempo  l'ente 
e  il  suo  limite  proprio, 

709.  Tornando  dunque  al  limite  essenziale  a  un  dato  reale  esi- 
stente, egli  si  concepisce  insieme  con  esso,  e  però  entra  come 
ingrediente  necessario  a  costituirlo.  Ma  se  la  mente  non  può 
concepire  l'  ente  anteriormente  a  questo  genere  di  limiti  ,  non 
potrà  tuttavia  concepire  d'  anteriore  cosa  alcuna  quasi  materia 
che  viene  limitata?  Sì,  rimane  un'entità.  Quest'entità  è  la  specie 
astratta. 

La  relazione  dunque  che  passa  tra  il  limite  entitativo  e  l'ente 
che  si  considera  come  suo  subietlo,  non  è  di  sola  inerenza,  ma 
è  una  relazione  essenziale  e  costitutiva  dell'ente. 

All'incontro  Venie  non  è  il  suhietto  di  quel  limite  che  abbiamo 
detto  trascendente,  ma  la  realità  che  non  esiste  ancora  se  non 
nella  mente  attesa  la  sua  indeterminazione  ,  che  non  le  lascia 
di  poter  esistere  in  sé.  Il  subietlo  dunque  di  tali  limiti  non  può 
essere  che  quella  realità  e  potenzinlilà  che  trovasi  ne' generi 
inferiori  gerarchicamente  distribuili  fino  al  genere  sommo  :  in 
somma  la  realità  involta  ancora  nell'idea  generica,  dove  manca 
ancora  la  base  dell'ente. 

Limiti  cosmologici  chiamiamo  dunque  quelli  che  la  mente 
divina  impone  alla  realità  indeterminatissima  ,  che  è  nella 
mente  stessa,  per  mezzo  de'quali  ella  si  rende  di  mano  in  mano 
determinatissima,  ed  atta  ad  acquistare  un'esistenza  in  sé.  Que- 
sti limiti  l'uomo  li  trova  ne'gencri  e  nelle  specie.  Se  noi  pren- 
diamo la  realità  indeterminatissima  come  genere  sommo,  ella  è 


C88 

queir  entità  che  si  concepisce  anteriore  a  tulti  questi  limili  e 
che  diviene  il  subiello  di  lutti.  Ora  non  è  ella  questa  un'  ope- 
razione limitante?  Sia  pure,  che  l'operazione  limitante  si  faccia 
or  dalla  mente,  or  da  un'azione  esteriore  ossia  reale;  non  perde 
con  questo  la  sua  natura  d'operazione  limitante. 

Rispondiamo,  che  per  operazione  limitante  intendiamo  quella 
che  non  produce  altro  effetto  che  quello  di  limitare.  Così  se 
da  un  dato  corpo  continuo  si  recida  ,  o  colla  mente  o  colla 
scure ,  una  porzione ,  il  corpo  rimasto  più  piccolo  fu  limitato, 
senza  che  per  questo  egli  abbia  perduto  la  sua  natura  di  corpo 
0  acquistatane  un'altra.  Ma  quando  per  limitare  un'entità  è 
necessario  produrre  una  cosa  nova,  in  tal  caso  l'operazione 
non  è  limitante,  ma  producente,  benché  con  questa  operazione 
producente  anche  si  limiti  l'entità  precedente.  Ora  così  appunto 
avviene  quando  vi  si  limita  il  genere  colla  produzione  della 
specie,  0  la  specie  astratta  colla  produzione  della  specie  piena: 
con  questa  produzione  si  limita  certo  l'entità  precedente,  ma  si 
limita  con  produrre  una  cosa  nova.  Ora  si  consideri  che  cosa 
sia  questa  cosa  nova:  ella  si  divide  in  tre  parti  e  nature: 

i.°  La  prima  quella  che  viene  prodotta  da'  limiti  cosmolo- 
gici, anteriori  alla  specie  astratta,  e  quest'è  materia  della  base 
dell'ente,  la  quale  base  ancora  non  esiste,  è  precedente  alla 
base; 

2.°  La  seconda,  quella  che  viene  prodotta  da  limiti  cosmo- 
logici che  producono  la  specie  astratta,  e  questa  è  la  base  del- 
l'ente formata; 

3.°  La  terza,  quella  che  viene  prodotta  da'  limiti  che  ren- 
dono la  specie  piena  e  pienissima,  e  pongono  le  appendici  del- 
l'ente. 

Quest'  ultima  cosa  prodotta  appartiene  a'  limiti  secondari  e 
fisici,  di  cui  abbiamo  già  ragionato:  conviene  dunque  considerare 
le  due  prime  nature  prodotte  da'  limiti. 

La  prima  di  esse,  cioè  quella  che  è  prodotta  da'  limiti  ante- 
riori alla  base  dell'ente,  non  è  l'ente,  ma  ancora  non-ente: 
la  seconda  poi  è  l'ente  stesso.  Alcuni  dunque  de'  limiti  cosmo- 
logici producono  ancora  una  materia  meno  indeterminata  che 
è  preambula  all'ente,  altri  producono  l'ente  stesso.  Essi  dunque 
non  possono  essere  imposti  con  un'operazione  puramente  limitante, 


(J80 

ma  con  un'operazione  prodacente   o,   aumcntanle  hi  cosa  die  in 
pari  tempo  riceve  i  limiti, 

710.  Di  qui  si  rende  più  generale  quella  distinzione  che  facevamo 
tra  l'obietto  della  limitazione  nel  senso  di  operazione  che  impone 
i  limili,  ^e  il  limile,"  che  è  quanto  dire  ,lra'  i!  subietlo  che 
riceve  i  limiti,  e  il  subietto  de'  limiti  già  prodotti.  Perocché  il 
subietto  che  riceve  i  limili  è  ciò  che  ancor  non  li  ha;  ma  il 
subiello  de'  limili  già  prodotti  è  un  altro,  perchè  i  limili  slessi 
hanno  prodotto  un  subietto  novo  che  prima  non  esisteva,  Go.si 
il  subiello  de'  limiti  della  specie  astraila  è  la  base  dell'ente,  ma 
ì!  subiello,  che  ha  ricevuti  questi  limili,  pririìa  di  riceverli  era 
il  genere  prossimo,  non  la  base  deirenle,  e  non  l'ente,  ma  solo 
materia  jireambula  all'ente  e  alla  sua  base, 

L'eiietUt  dun(]ue  deiro])erazionc  clie  produeendo  impone  i  li- 
mili è  doppio  perchè  aggiunge  e  nello  slesso  tempo  restringe. 
Noi  daremd  di  ciò  una  dichiarazione  maggiore  quando  parleremo 
de'  limiti  ontologici.  Ora  ci  basterà  osservare  che  questo  fallo 
si  concepisce  come  risultante  dalla  concorrenza  di  due  cause, 
cioè  1."  d'una  causa  efficiente  che  è  la  mente  divina;  '2."  e 
d'una  potenza  di  ricevere ,  che  è  la  realità  indeterminala  o 
generica.  In  fatti  la  realità  generica  si  concepisce  come  una 
potenza  delle  specie,  e  la  specie  si  concepisce  come  un  allo 
della  realità  generica.  La  causa  potenza,  abbiam  dello,  è  quella 
che  rimane  il  subietto  de' propri  atti;  se  noi  consideriamo  la 
realità  generica  come  causa  potenza,  ella  comparisce  come  su- 
bietto  delle  specie  che  sono  suoi  atti:  ma  ella  non  è  che  un 
subiello  dialellico  e  antecedente.  Oltre  di  ciò  la  realità  gene- 
rica com'è  conosciuta  dall'uomo,  non  ha  virtù  d'emettere  da 
se  i  suoi  atti,  e  perciò  l'abbiamo  chiamata  «  una  polenza  di 
riceverò  ».  Poiché  la  realità  generica,  fino  che  si  considera  come 
generica,  è  un  indeterminato,  e  l'indeterminato  non  esiste  in  sé, 
e  però  non  può  operare  e  determinarsi  da  sé,  ma  come  esiste  solo 
nella  mente,  così  non  altro  che  la  mente,  come  causa  efficiente, 
può  aggiungervi  quegli  atti  che  lo  determinino.  Deve  dunque 
intervenire  questa  causa  efficiente  a  far  si  che  il  genere  come 
potenza  passi  all'atto  della  specie.  11  genere  dunque  come  ge- 
nere cioè  come  indeterminato  è  polenza  imperfella,  perchè  è 
causa  imperfetta  e  però  è  «  polenza  di  ricevere  i  suoi  alti 
KoSMiNi.  Teosofia.  44 


C90 

piuUosto  che  di  farli  ».   Ma  dopo  che  egli   li  ha   ricevuli  è   su- 
biello  dialettico  e  nnleredenle  de'  medesimi 

7i  1 .  Ora  gli  alti  che  può  ricevere  il  genere,  cioè  la  realità  gene- 
rica, sono  diversi,  e  tali  che  s'escludono  reciprocamente,  allo  stesso 
modo,  come  abbiamo  veduto  parlando  de'limiti  secondari,  e  delle 
varie  determinazioni  compiute  che  può  ricevere  lo  stesso  ente 
S'escludono  reciprocamente,  perchè  ciascuno  di  questi  atticomiìleìi 
e  determinanti  ha  delle  proprietà  contradditorie  a  quelle  degli 
altri.  Posto  dunque  che  ognuna  di  queste  determinazioni,  che  pro- 
ducono un  genere  inferiore  o  una  specie,  sia  esclusiva  di  tutte  le 
altre,  apparisce  cliiaro,  come  con  una  tale  aggiunta  di  attualità  si 
limiti  il  genere.  Ma  che  cosa  diminuisce  questo  limite?  ì/indeter- 
mlnasìone  e  la  potenzialità  di  riccoere  che  ha  il  genere.  Cioè  a 
dire,  il  genere  già  determinato  a  un  modo,  e  cosi  reso  la  specie, 
non  può  più  essere  determinato  ad  altri  modi,  cioè  quella  s|)e- 
cie  non  può  essere  nello  stesso  tempo  altre  specie  per  l'identità 
con  sé  stessa  che  le  è  necessaria.  Limitandosi  dunque  in  potenza 
aumenta  Volto:  onde,  come  vedcmnìo,  limitasi  l'estensione  delle 
idee  coH'aumentarsi  la  comprensione.  Ora  la  potenza  non  è 
già  nulla,  ma  è  mancanza  di  atto.  Pure  se  ogni  atto  mancasse 
non  resterebbe  più  cos'alcuna.  La  potenza  dunque  inesiste  in 
un  atto,  che  in  quanl'è  atto  non  è  potenza.  «  La  potenza  dunque 
è  un  atto  che  può  esser  causa  d'altri  atti  di  cui  esso  è  subietto 
0  antecedente,  e  dialettico,  o  reale  ».  Se  questi  altri  atti  sono 
appendici  deirenlc,  la  potenza  è  un  aito  che  è  subietto  reale  di 
questi  atti  appendici,  ma  se  questi  atti  costituiscono  essi  stessi  un 
novo  subietto  «  la  potenza  è  un  atto  che  può  produrre  altri  atti,  di 
cui  esso  è  subietto  dialettico  e  antecedente  )>  ,e  come*  tale  ,è*  nella 
mente.  Trattandosi  dunque  di  limiti  cosmologici,  questi  sono  posti 
coll'aggiungere  ad  una  potenza  tali  atti,  di  cui  essa  rimane  sola- 
mente subietto  dialettico. 

Se  dunque  l'indeterminazione  e  la  potenzialità  è  qualche  cosa 
di  negativo  e  di  difettoso  ,  converrà  dire  che  1  limili  cosmo- 
logici ,  che  la  diminuiscono,  sieno  qualche  cosa  di  positivo  , 
non  cosa  che  manca;  sarà  mancanza  di  ciò  che  manca,  il  che 
ha  forma  dialettica  di  mancanza,  ma  non  è  vera  mancanza. 

Questo  sarebbe  vero,  se  la  stessa  potenza  non  fosse  qualche 
cosa  di  positivo:  essa  non   è  positiva  in  quanto  all'atto   che  le 


091 

manca,  ma  è  posiliva  in  quanto  può  l'are  o  avore  quest'atto: 
ella  è  un  alto  incipiente  radice  di  moki  atti.  Quando  dunque 
le  si  aggiunge  un  alto  che  la  determina  c'è  un  aumento  e  una 
diminuzione,  1."  c'è  aumento  di  atto;  2.°  c'è  diminuzione  di 
potenza.  Questa  diminuzione  di  potenza  è  il  limite  che  le  vien 
posto,  il  quale  perciò  consiste  nella  mancanza  d'una  cosa  ^nega- 
tiva*. 

E  questa  stessa  condizione,  che  la  potenza  non  possa  arric- 
chirsi di  un  maggior  allo,  senza  diminuir.^  ella  stessa,  è  una 
condizione  che  ha  natura  di  liniile,  essenziale  alla  potenza  me- 
desima, 

1  limili  cosmologici  dunque  son  qìielli  che  s'impongono  dalla 
mente  ad  un'enlilà  anteriore  all'ente  ed  alla  sua  base,  cioè  alla 
realità  indeterminala  che  non  ha  esistenza  che  nella  mente,  e 
s'impongono  per  un' operazione  producenle  un'ulteriore  allualilà, 
e  non  per  un'operazione  semplicemente  limilanle,  avendosi  l'ef- 
lello  della  limitazione  come  una  conseguenza  della  slessa  produ- 
zione. 


SS 


De'  limili,  anteriormente  a  quali  non  si  concepisce  alcun  ente  né 
alcuna  etilità  che  sia  subietto  della  limitazione. 

712.  Ma  come  ha  cominciato  la  limitazione?  qua!  è  l'origine  della 
limitazione  stessa?  Noi  fin  qui  l'abbiamo  supposta  perchè  siamo 
passati  da  un  limitato  a  un  limitato  sempre  più  esteso ,  ma 
però  limitalo,  da'  limiti  delle  appendici  dell'ente  siamo  venuti 
a' limili  propri  della  base  dell'ente  stesso,  da' limiti  propri  della 
base  dell'  ente  siamo  venuti  a'  limiti  della  materia  dialettica 
precedente  all'ente,  cioè  della  realità  indeterminata  e  indeter- 
minatissima. Ma  questa  stessa  è  un  primo  limitato  che  abbiamo 
supposto.  Convien  dunque  spiegarlo  e  mostrare  come  sia  avve- 
nuto il  passaggio  non  d'un  limitalo  a  un  limitato  ma  dall'  illi- 
milalo  al  limitato.  Noi  n'  abbiamo  certamente  parlato  anche 
prima,  sia  descrivendo  la  creazione,  sia  dando  la  teoria  della 
quantità  onlologien  ,   ma   è  necessario  cl»e   ci   ritorniamo   sopra 


C92 

per    chiarire    maggiormente   la   natura   e  !a    nascila,    per   così 
dire,  della  limitazione. 

Varie  questioni  importanti  si  possono  fare  intorno  a  questi 
limili  ontologici.   Le  due  prime  sono  queste  : 

((  1.°  A'  limili  fisici  e  cosmologici,  di  cui  abbiamo  parlato, 
preesiste  qualche  cosa  che  riceve  la  limitazione,  almeno  un'en- 
lili\  nell'idea,  e  quest'entità  già  limitata  ella  stessa;  ma  a' limiti 
ontologici  niente  prcesiste  che  possa  esser  limitato,  non  preesiste 
che  rillimitalo.  Come  dunque  nascerà  questo  primo  limitato  «? 
(i  2.°  Spiegato  come  nasca  il  primo  limitato,  che  è  quanto 
dire  il  primo  suhietto  do'  limiti,  e  ad  un  tempo  i  primi  limili, 
rimane  a  vedere,  se  questo  limitalo  sia  formato  dalla  libertà 
creante,  in  questo  senso,  che  essa  non  abbia  in  produrlo  alcuna 
norma  determinata  ,  ma  possa  esser  fallo  maggiore  o  minore 
indefinitamente.  » 

In  quanto  alla  prima  questione  rispondiamo  che  la  mente  di- 
vina, mediante  quella  operazione  che  abbiamo  chiamato  (nitra- 
zione divina,  può  trarre  il  limitato  dall'illimitato.  E  ciò  per- 
chè questa  operazione  astraente  non  s'esercita  sull'illimitato 
sussistente  in  sé,  di  modo  che  questo  soffra  da  esso  qualche 
alterazione,  o  divisione  o  limitazione;  masuìVillimilalo,  in  quanl'è 
puramente  cognito  alla  mente,  e  non  in  quanto  in  sé  sussìstente 
nella  mente  divina.  E  lo  slesso  illimitato  cognito  non  si  dimi- 
nuisce coll'astrazione,  ma  solo  per  essa  s'aggiunge  un  altro  co- 
gnito che  è  VasiraltOy  il  quale  è  un  pensiero  parziale,  che  non 
distrugge  ma  suppone  presente  il  totale.  Cosi  il  limitato  si  fa 
nella  mente  come  cognito.  Or  poi  la  potenza  divina  lo  vuole,  e 
volendolo  lo  crea,  come  abbiamo  detto  avanti. 

Ma  questo  limitalo,  formalo  nella  mente,  può  essere  più  o 
meno  grande  indefìnitamenle?  E  se  può  esser  |)iù  o  meno  grande 
indefinitamente,  come  la  libertà  di  Dio  lo  determina  ad  una 
piuttosto  che  ad  un'altra  quantità?  Tale  è  la  seconda  questione 
più  ardua  della  prima. 

Cerchiamo  prima  di  collocare  in  piena  luce  la  difficoltà  che 
una  tale  questione  involge. 

7ÌT).  Ogni  finito  dilferiscc  dall'infinito  infinitamente,  li  finito 
dunque,  astrattamente  consideralo,  si  può  concepire  come  atto  ad 
aumentarsi  indefinitamente,  senza  che  saccosli  perciò  all'infinito. 


093 

clic  per  quanto  s'accresca  rimane  sempre  inlìnita  ia  difT'>renza. 
l'crciò  il  finito  non  si  può  trovare  col  diminuire  l'infinito,  né 
l'infinito  coU'accrcscere  il  finito.  Sembra  dnn(jue  impossibile 
trarre  dall'  infinito  il  finito,  percbc  Ira  l'uno  e  l'altro  c'è  un 
abisso  invalicabile:  sono  due  concetti  che  non  possono  aver 
nulla  di  co?nune. 

Ma  suppongasi  possibile  di  cavare  dall'infinito  il  concetto  del 
finito.  Potendo  esser  questo  indefinilamcnlc  aumentato  e  dimi- 
nuito e  dovendo  la  mente  stabilire  il  finito  in  una  determinata 
quantitji  ,  dovrà  la  mente  scegliere  una  determinata  quantità 
Ira  le  quantità  indefinite,  di  cui  è  suscettivo  il  finito  generica- 
mente ossia  astrattamente  consideralo.  Ma  questo  è  impossibile 
per  jtiù  ragioni, 

71^.  Primieramente,  perchè  le  quantità  determinale  possibili  del 
finito  essendo  indefinite,  non  si  possono  mai  avere  in  atto,  ma 
solo  in  potenza:  tale  essendo  la  natura  dell'indefinito,  che  non 
sia  mai  tutto  in  atto.  Ora  le  quantità  in  potenza  non  sono 
quantità,  tra  cui  possa  cadere  una  elezione.  Che  se  si  dice  che 
tutte  le  quantità  possibili  sicno  in  atto  nella  mente  divina  ,  si 
urla  in  un  altro  assurdo  di  ammettere  un  numero  infinito  in 
atto:  poiché  un  numero  infinito  attualmente  presente  alla  mente 
è  un  assurdo,  non  essendoci  numero  che  non  sia  pari  o  dispari 
e  a  cui  aggiungendo  un'  unità  non  si  possa  ridurre  da  j)ari  a 
dispari  ,  e  da  dispari  a  pari.  Di  più  ,  dato  che  questo  numero 
infinilo  di  quantità  possibili  potesse  esser  attualmente  presente 
alla  divina  mente  ,  non  si  vede  come  potesse  fcirsi  una  scelta 
tra  partiti  di  numero  infinilo.  Poiché  scelta  non  potrebbe  aver 
luogo  se  prima  non  si  avesse  paragonato  ciascuno  degli  infiniti 
numeri  a  tutti  gli  altri:  e  poiché  il  parag(mare  un  solo  di  essi 
con  tutti  gli  altri  involge  un  infinilo  numero  di  paragoni  ,  si 
dovrebbe  supporre  che  infinite  volte,  si  tacesse  un  infinito  nu- 
mero di  operazioni  comparative.  11  che  è  già  un  novo  assurdo, 
perchè  dimostra  che  il  numero  che  si  suppose  infinito  può  es- 
sere infinitamente  aumentato,  quando  é  proprietà  dell'infinito  di 
non  poter  aver  aumento  :  dunque  il  numero,  che  si  suppose 
itifinito  ,  non  era  infinito.  Ma  spingiamo  più  avanti  la  dimo- 
strazione. Sujìponendosi  che  infinite  volte  si  fosse  eseguito  un 
infinito    numero   di   paragoni  ,  paragonando  ciascuna  unità  del 


694 

numero  infinito  con  tutte  le  altre  infinite  unità,  di  cui  quel 
numero  consta  per  la  supposizione ,  che  cosa  se  n'avrebbe  V 
Un  infinito  numero  di  risultati.  Converrebbe  dunque  ricomin- 
ciare il  paragone  di  questi  risultati  tra  loro;  e  questo  ci  ricon- 
durrebbe a  rifare  infinite  volte  lo  stesso  numero  infinito  di 
paragoni;  cioè  ci  condurrebbe  in  un  circolo  d'operazioni  infinite 
senza  risultato  alcuno  :  un  infinito  numero  d'  operazioni  condu- 
cendo sempre  ad  un  altro  infinito  numero  di  operazioni,  e  così 
infinitamente.  È  dunque  impossibile  una  scella  tra  iin  numero 
infinito  di  partiti  da  prendersi.  Per  questa  via  dunque  non  si 
può  spiegare  come  la  mente  divina  tragga  dall'  infinito  il  con- 
cetto d'un  finito  determinato  ad  un  quanto. 

Egualmente  assurdo  sarebbe  il  dire,  cbe  la  mente  divina  s'ap- 
pigli  ad  uno  degli  infiniti  Umilati  possibili  a  caso  e  alla  cicca:  pri- 
mieramente, perchè  ciò  ripugna  alla  divina  natura,  per  essenza 
sapiente;  di  poi  perchè  anche  l'operare  alla  cieca  esige  una  ragio- 
ne sufficiente  che  determini  l'operazione  a  un  partito  piuttosto  che 
ad  un  altro,  dai)poichè  fino  a  tanto  che  la  causa  è  indifferente  a 
più  effetti  che  si  escludono,  ella  non  può  produrre  l'uno  piuttosto 
che  l'altro  di  essi. 

Finalmente,  questa  maniera  di  spiegare  il  nascimento  del  con- 
cetto del  limitato  nella  divina  mente  pecca  di  vizio  per  un'altra 
ragione,  cioè  perchè  suppone  quello  che  si  cerca:  suppone  cioè 
infiniti  limitati  possibili.  Ma  infiniti  limitali  possibili  altro  non  sa- 
rebbero, che  infiniti  atti  della  mente  divina,  co'  quali  li  avesse 
trovali;  e  noi  cerchiamo  appunto  come  possa  aver  trovato  il  limi- 
lato  movendo  dalla  presenza  dell'illimitato  a  lei  cognito  per  essen- 
za. La  questione  dunque  non  può  supporre  i  possibili,  perchè  si 
volge  appunto  intorno  alla  prima  origine  di  questi. 

715.  Vedute  le  difficoltà,  affrontiamo  la  questione  studiandoci 
di  evitarle. 

L'oggetto,  su  cui  la  Mente  divina  eseguisce  l'astrazione^  è  Vessere 
(tssolulo  in  quanto  cognilo.  Nell'essere  assoluto  cognito  la  Mente 
distingue  Vesserò  dal  lenninc  dell'  essere  subiettivo,  realità  obictti- 
va. Questa  realità  obiettiva,  divisa  dall'essere  subiettivo,  non  esiste 
se  non  nella  mente,  perchè  è  stata  divisa  per  astrazione  l'esistenza 
subiettiva  ed  iti  sé.  Questa  è  la  prima  limitazione  ontologica. 

Questa  limitazione  priva  la  realità  obiettiva  delle  qualtro  prò 


G9o 

prietà  che  procedono  dall'essere  subiettivo,  cioè  I"  dell'esistenza 
in  sé;  2°  della  durala  in  questa  esistenza:  5°  (hW atdvità  propria; 
4"  e  dell'intelligibilità  d'afTermazione.  Il  primo  limite  massimo  on- 
tologico dunque  consiste  nella  mancanza  di  queste  quattro  pro- 
prietà. 

Mediante  questo  primo  limite  1'  essere  infinito  obiettivo  è 
divenuto,  come  cognito,  un  intlnilo  obiettivo  possibile,  che  si  può 
dire  in  qualche  modo  «  l'idea  di  Dio  ». 

In  questo  «  infinito  obiettivo  possibile  »  c'è  dunque  ancora 
rintìiiilo  ,  ma  virtuale  rispetto  alla  sussistenza.  Quest'  infinito 
puramente  cognito  nell'idea  ,  da  cui  per  astrazione  fu  separala 
la  sussistenza,  è  un'essenza  che  ha  tuttavia  i  quattro  elementi 
da  cui  risulta  la  forma  obieltim  e  che  sono:  I."  (jualità,  2.° 
intelligibilità  obiettiva,  5.°  quantità,  4.°  unità. 

Ora  se  coll'aslrazione  si  rimovono  dall'essenza  infinita,  che  dice- 
vamo, anche  queste  quattro  proprietà  della  realilà.  qual  è  il  cognito 
che  rimane  davanti  alla  mente? 

Non  altro  che  un'  essenza  indcterminatissitna  possibile,  una 
radice  ultima  di  tulle  le  cose,  una  materia  prima,  se  cosi  la  si 
vuul  chiamare^  iìivulla  in  un'idea,  che  è  certamente  quella  che 
abbiam  chiamalo  l'idea  dell'essere  indeterminato,  o  dell'essere  in 
Ufiiversale,  o  dell'essere  possibile,  è  in  una  parola  l'oggetto  dell'in- 
tuito umano.  Conviene  osservare  che  parlando  noi  dell'essenza 
indeterminatissima ,  ne  parliamo  necessariamente  come  veduta 
nell'idea,  ma  prescindiamo  e  facciamo  astrazione  dall'idea  stessa, 
la  quale  costituisce  1'  intelligibilità  cbietliva  ,  che  è  uno  dei 
quattro  elementi  della  forma  obiettiva.  Conviene  osservare  in 
secondo  luogd  che  dicendo  essere  possibile,  diciamo  il  termine  del- 
l'essere e  non  l'essere  stesso,  a  cui  appartiene  l'allualilà:  ma  al 
termine  solo  appartiene  la  possibilità  dell'essere,  perchè  è  quello 
che  può  ricevere  l'essere. 

La  mente  divina  dunque  con  questa  seconda  astrazione  sull'es- 
sere assoluto,  in  quante  cognito,  pone  davanti  al  suo  pensiero 
Vesscre  possibile  privo  di  ogni  determinazione.  La  mancanza  delle 
quattro  determinazioni  obiettive  è  il  secondo  limite  massimo  ontolo- 
gico. 

710.  Forniate  cosi  per  astrazione  dalla  mente  divina  questo  co- 
gnito, vediamone  la  natura. 


696 

Da  quello  clic  abbiamo  dotto  risiijla,  ch'esso  si  può  definire  kuu 
termine  iiidetorminalo  dell'essere  che  può  ricevere  Tessere  ». 
Questo  termine  indeterminato,  essendo  un  cognito,  ritiene  la  forma 
obicttiva.,  ossia  esso  è  nelfidea:  altramente  non  islarebbe  davanti 
la  mente:  ma  la  mente  astraente  fissa  ciò  che  è  nell'idea,  non  l'idea. 
Comincia  dunque  qui  un'altra  serie  d'operazioni  in  senso  opposto 
alle  precedenti,  per  le  quali  la  mente  divina  dall'indeterminato 
procede  al  determinato.  Ma  va  ella  forse  ad  arbitrio  e  per  così 
dire  alla  cieca?  Come  lo  due  grandi  astrazioni,  che  abbiamo  de- 
scritte, non  furono  fatte;  alla  cieca  e  ad  arbitrio,  avendo  spoglialo 
l'assoluto  oggetto  in  quanto  puramente  cognito  delle  determina- 
zioni subiettive  ed  obiettive,  così  la  divina  mente  non  procede 
punto  a  caso  nelle  determinazioni  che  aggiunge  all'esser*?  possibile'. 
ed  ecco  in  che  modo. 

L'essere  possibile  è  «  un  termine  dell'essere  indeterminato  », 
Ora  tutte  le  determinazioni  del  concetto  astratto  di  termine  del- 
l'essere si  riducono,  come  a  somme  categorie,  alle  tre  forme  su- 
preme: la  subietlim,  Vohielliva  e  la  morale;  fuori  di  queste  non  si 
può  andare.  Qualunque  determinazione  dunque  voglia  aggiungere 
la  divina  mente  «  al  termine  indeterminato  »,  j)cr  determinarlo 
conviene  che  si  contenga  in  una  delle  tre  categorie,  di  maniera 
che  il  detto  termine  deve  rimaner  determinato  o  come  un  lermine 
subiettivo,  0  come  un  termine  obiettivo,  o  come  un  lermine  morule. 

Questa  è  una  determinazione  prima,  ma  non  completa,  perchè 
ciascuno  de'detti  tre  termini  è  ancora  un  concetto  universale:  si 
concepisce  il  termine  subiettivo  in  universale  non  costituente 
ancora  questo  o  quell'ente,  e  cosi  si  concepiscono  con  un  concetto 
universale  gli  altri  due  termini,  che  perciò  si  dicono  categorici,  il 
che  esprime  una  universalità  massima,  maggiore  di  quella  d'ogni 
genere.  Per  arrivare  dunque  aircnte  a  pieno  determinalo  conviene 
aggiungere  altre  determinazioni. 

Ora  qual  ò  la  legge  dell'ente  perfettamente  determinato?  —  Che 
egli  sia  da  ogni  parte  uno.  Questa  legge  si  trae  dall'Ente  assoluto, 
l)crchè  egli,  come  vedemmo,  essendo  l'Ente  per  essenza,  Tenie 
primo,  dimostra  in  se  che  è  all'ente  essenziale  Tesser  uno. 

Presupposta  questa  legge,  ne  viene,  che  «  i  tre  concetti  univer- 
sali di  termine  subiettivo,  di  termine  obiettivo,  e  di  lermine  mo- 
rale, potranno  diventar  enti  tante  volte,  quante  volle  potranno 


007 

esser  determinati  in  modo.,  che  diventino  uno  v.  Ogni  qual  volta 
la  mente  potrà  dar  loro  la  perfetta  unità,  ella  potrà  con  ciò  stesso 
concepirli  come  enti  o  possibili,  o  esistenti  in  sé. 

717.  Ora  si  possono  fare  due  ricerche: 

1."  Se  tutti    e   tre  que'  termini  possano  costituire  un  sulo 
uno: 

^2.^  Se  ciascuno  di    essi  possa  concepirsi  in  modo  che  for- 
mino uno. 

Alla  prima  ricerca  si  risponde  afTermali  va  mente;  e  lutti  e  tre 
in  falti  uniti  nell'essere  costituiscono  l'Ente  Assoluto,  ed  infinito  : 
il  quale  è  determinato  appunto  per  questo  che  è  l'Essere  lutto  in- 
tero senza  mancamento  alcuno.  Infatti  non  si  dà  indeterminazione 
dove  non  manchi  nulla.  L'assoluto  tulio  e  il  massimo  determi- 
nante. Determinando  duiìquc  i  tre  termini  a  questo  modo,  e  ridu- 
cendoli così  alla  perfetla  unità,  altro  non  si  fa  che  restituire  quello 
che  era  stalo  tolto  dall'astrazione  divina,  e  riavere  l'Essere  asso- 
luto. 

Rimane  la  seconda  ricerca,  che  è  quella  che  conduce  appunto 
alla  .cognizione  della*  costituzione  dell'ente  finito.  Dimandavamo 
dun(|iic  :  «  Se  ciascuno  de'  tre  concetti  universali  de'  termini 
dell'  essere  può  concepirsi  separatamente  l'uno  dall'altro  come 
uno,  e  così  costituire  un  ente  ». 

A  questo  rispondiamo  ,  che  rispetto  al  concello  del  primo 
termine,  che  è  il  reale  o  subiettivo  ,  può  essere  pensato  dalla 
mente  come  imo,  senza  che  a  comporre  quest'uno  entrino  gli 
altri  due  termini:  iVJa  il  termine  obiettivo  non  può  pensarsi  come 
uno,  se  non  supponendolo  in  una  mente,  perchè  questa  forma  del- 
l'obiettività importa  che  esista  in  una  mente,  la  quale  ha  na- 
tura di  termine  reale  o  subiettivo.  Preso  dunque  il  termine 
obiettivo  da  sé  solo,  senza  che  sia  oggetto  di  ninna  mente, 
perisce,  e  però  non  può  costituire  un  uno  separalo  realmente 
dal  termine  subiettivo  dell'essere.  Mollo  meno  il  termine  morale 
può  concej)irsi  come  uno  separandolo  dagli  altri  due  termini; 
poiché  egli  nasce  dalla  compenetrazione  non  confusa  degli  altri 
due. 

Rimane  dunque  che  il  solo  concetto  del  termine  reale  p(ts- 
sa  esser  determinato  a  parte  in  modo  da  formare  uno,  E  po- 
sciachè ,  se   si   prendono  tutti   e  tre   insieme  i   termini,    e  si 


698 

determinano  come  uno,  se  ne  ha  solo  l'Ente  ififinito,  e  separali 
non  possono  stare  nò  il  termine  obiettivo,  né  il  termine  mo- 
rale, rimane  che  la  possibilità  dell'ente  finito  si  deva  cercare  nel 
solo  termine  rciile,  come  quello  che  solo  può  esser  determinalo 
come  uno  in  separato  dagli  altri  due. 

Consegue,  che  se  v'hanno  enti  finiti,  essi  non  possono  essere 
altro  che  subielii  reali,  e  non  obiettivi  o  morali  come  subielti, 
essendo  il  subietto  «  contenente  e  causa  dell'unità  dell'ente  ». 

718.  Con  questo  noi  abbiamo  già  dato  im  gran  passo:  abbiamo 
trovalo  delle  limitazioni  essenziali,  e  non  arbitrarie  o  casuali 
dell'ente  finito:  poiché  abbiamo  veduto  che  egli  non  può  essere 
né  un  enlc  oggetto  né  un  ente  morale,  delle  quali  forme  egli 
può  bensì  partecipare,  ma  rimanendo  puramente  un  reale. 

Rimane  dunque  nella  mente  divina  il  concetto  d'un  reale 
jìossibile  pienamente  indeterminato  come  un'  essenza  separala 
dall'altre  due  forme.  Il  problema  dirò  così  che  l'eterna  mente 
deve  risolvere  si  è:  in  quanti  modi  il  reale  possibile  indetermi- 
nalo possa  determinarsi  in  modo  da  esser  uno  a  pieno  deter- 
minato. E  in  j)rimo  luogo  è  chiaro,  che  questo  reale  non  può 
più  determinarsi  in  modo  da  esser  un  uno  infinito;  poiché  per 
esser  un  uno  infinito  il  reale  ha  bisogno  dell'altre  due  forme. 
E  che  esso  abbia  bisogtio  delle  altre  due  forme  si  prova  così: 

il  reale  acquista  dalle  altre  due  forme  un  alto  di  realità  che 
non  ha  senza  le  altre  due  forme.  Quindi  privo  dell'altre  due 
forme  gli  manca  una  porzione  di  reale,  e  perciò  non  è  un 
reale  infinito.  Che  la  cosa  sia  così  s'intende  dalla  dottrina  del- 
l'iiisidenza  reciproca  delle  tre  forme  supreme  dell'essere.  Poiché 
per  questa  noi  sappiamo  che  il  reale,  oltre  esistere  in  sé  stesso 
come  forma  suprema  e  contenente  massimo,  inesiste  anche  nelle 
altre  due  forme  come  contenuto.  Questo  modo  dunque  dell'ine- 
sistenza gli  manca  quando  la  mente  lo  vede  separato  dall'altre 
due  forme,  e  quindi  non  é  più  infinito  ma  limitalo.  Di  più 
quand'é  unito  all'altre  due  forme  egli  le  ha  nel  proprio  seno 
come  suo  contenuto;  ma  separalo  da  esse  ha  perduto  questo 
suo  conlenulo  e  però  di  novo  ha  cessato  di  essere  infinito,  e  si  è 
reso  finito. 

Laonde  il  reale  possibile  e  a  pieno  indeterminato,  che  é  nel- 
l'idea divina  come  termine  del  libero  suo  pensiero  e  radice  di 


699 

luUe  le  cose  finite  —  non  radice  di  UUle  le  cose  assolutamente,  —  è 
un'essenza  già  da  sé  limitata  in  più  modi:  I ."  perchè  è  soltanto 
possibile  cioè  priva  dell'essere  subiettivo:  '2."  perchè  è  indeter- 
minata mancandogli  1" unità  propria  dell'ente;  3.°  pt'rchc  le 
manca  quel  modo  di  esistere  che  ha  come  contenuto  dell'altre 
due  forme;  k°  perchè  le  mancano  la  altre  due  forme  come  proprio 
suo  contenuto. 

7i9.  iMa  ora,  prima  di  procedere  oltre  a  vedere  come  e  quante 
volle  questa  realità  possa  esser  determinata  dalla  mente  divina 
per  modo  da  divenire  una,  conviene  che  dichiariamo  ancora 
meglio  che  cosa  ella  sia. 

Quelli  che  hanno  speculato  per  trovare  una  dottrina  ontolo- 
gica —  e  sono  pochi  assai  che  l'abbiano  fatto  di  proposito  e  col 
proprio  pensiero  ,  avendo  tutti  seguito  in  sostanza  Platone  e 
Aristotele  —  sono  risaliti  al  concetto  d'una  materia  prima  per 
mezzo  dell'astrazione  esercitata  unicamente  sulla  realità  esterna 
0  estrasoggcltiva.  Le  stesse  specie,  i  generi,  le  categorie  furono 
tolte  dagli  enti  sensibili  per  astrazione.  Da  questo  nacque  che 
l'ultima  materia  che  restò  loro  in  mano  dopo  tutte  le  astrazioni 
fu  un  vero  caput  mortaum,  un'entità  priva  d'ogni  vita  e  d'ogni 
relazione  coll'intelligenza,  appunto  perchè  la  materia  messa  da 
essi  nel  lambicco  dell'astrazione  era  il  termine  opposto  alla  vita 
e  all'intelligenza,  e  non  l'ente  intero. 

Volendo  dunque  adoperare  l'astrazione  sugli  enti  mondiali  a 
noi  cogniti  per  arrivare  al  concetto  d'un  primo  reale  indeter- 
minalissimo  conviene  condurre  l' operazione  graduatamente,  e 
non  omettere  nulla  di  tutto  l'ente  finito  a  noi  cognito  da  cui 
dobbiamo  astrarre  quell'ultima  radice  comune  che  ricerchiamo. 
A  tal  fine  è  necessario  classificare  gii  enti  mondiali,  affinchè 
niun  genere  ce  ne  sfugga.  La  prima  classificazione  è  questa: 
altri  sono  enti-principio,  altri  enti-termine.  Gli  enti-principio  sono 
intellettivi  o  puramente  sensitivi.  Gli  enti-termine  sono  spazio  e 
corpo.  Ora  egli  è  chiaro  che  gli  enti-principio  e  gli  enti  termine 
sono  di  nature  opposte,  cioè  gli  enti  termine  sono  relativi  agli 
enti-principio,  e  per  questi  soli  esistono.  Egli  e  dunque  mani- 
festo che  non  ci  può  essere  una  radice  comune,  ossia  un'ultima 
realità  comune,  ma  di  comune  non  ci  può  esser  altro  che  la 
forma  dialettica  di  ente:  e  dico  dialettica^  perchè  questa  forma 


700 

veramente  conviene  loro  in  un  senso  equivoco  ;  ma  la  mente 
facendo  astrazione  dall'equivoco  del  significato  considera  1'  ente 
come  fosse  una  forma  comune.  E  questo  è  appunto  quello  che 
ingannò  gli  antichi  filosofi,  i  quali  fo4pdarono  l'Ontologia  sopra 
forme  dialettiche,  che  non  si  possono  applicare  nello  stesso 
senso  agli  enti-principio  ed  agli  enti-termine. 

Cercando  dunque  noi  una  prima  realità  vera,  sebbene  inde- 
terminata e  non  puramente  dialettica,  ci  è  necessario  lasciare 
da  parto  gli  enli-termine  come  posteriori  e  non  partecipanti  della 
realità  prima,  ma  nascenti  in  conseguenza  della  determinazione 
di  questa,  la  qua!  determinazione  le  dà  l'unità  propria  dell'ente. 

Rimane  dun([ue  che  por  innalzare  il  nostro  pensiero  a  trovare 
una  prima  realilà  indeterminata  degli  enti  finiti,  dobbiamo  eser- 
citare l'astrazione  sui  soli  enti-principio  i  quali  sono  intellettivi 
e  sensitivi.  Ma  di  novo  i  sensitivi  sono  posteriori  agli  intellet- 
tivi; poiché,  come  abbiamo  mostrato  ancora,  essi  non  potrebbero 
esistere  tutti  soli  senza  che  ci  fosse  un  ente  intellettivo;  e  non 
sono  enti  completi,  perchè  non  sono  subietti  completi  (,502,  sgg.*). 

Rimane  dunque  che  la  prima  realità  indeterminata  e  possibile, 
che  si  deve  concepire  nella  mente  divina  come  radice  o  germe 
del  mondo,  sia  quella  Dalila  che  si  può  astrarre  dai  soli  enti  intel- 
lettivi come  a  tulli  comune.  Se  dunque  noi  prendiamo  i  costi- 
tutivi dcirenlc  intellettivo  in  genere,  noi  in  questi  costitutivi, 
lutti  indeterminali  perchè  generici,  avremo  il  concetto  di  quel 
reale  primo  che  si  concepisce  dover  esser  stato  nella  mente  di- 
vina, come  fondamento  della  creazione  del  mondo. 

720.  Indichiamo  dunque  i  costitutivi  di  questa  prima  materia 
0  realità  che  dovette  essere  nel  fondo  deiresemplare  divino. 

Il  primo  si  è,  che  l'ente  intellettivo  deve  avere  un'intuizione 
dell'essere  obiettivo. 

Il  secondo,  che  l'ente  intellettivo  deve  avere  un  sentimento. 

Il  terzo  si  è,  che  l'essere  intellettivo  deve  avere  una  volontà 
colla  quale  unisca  armonicamente,  amando,  il  proprio  sentimento 
all'essere. 

Questi  sono  i  tre  costitutivi  dell'ente  intellettivo  finito  in  gene- 
re; e  appunto  l'ente  intelleU'wo  finito  in  genere  è  quel  priuKì  reale 
possibile  indeterminato  che  dovette  trovarsi  nella  divina  mente 
quasi  direi  come  il  primo  rudimento  dell'ente  finito. 


7!U 

Si  dirà,  che  il  primo  coslitulivo,  cioè  l'inluizione  deU'  essere 
obiellivo,  non  soddisfa  alla  condizione  prcaccennala,  di  separare 
il  reale  dalla  forma  obielliva.  ìMa  questo  da  noi  si  nega,  j)erchè 
l'essere  intuito  non  costituisce  un  elemento  ingrediente  del  su- 
bietto  intelligente,  ma  è  cosa  da  lui  diversa  che  le  sta  presente  e 
così  si  dice  che  ne  partecipa. 

Allo  stesso  modo  è  a  dire  del  terzo  coslitulivo,  non  perchè  la 
volontà  non  sia  un  elemento  ingrediente  del  subielto,  ma  perchè 
questa  termina  anch'essa  nell'essere  obiettivo  esterno  al  subietto 
intelligente,  è  questo  il  modo  con  cui  il  subielto  intelligente  par- 
tecipa della  forma  morale,  senza  che  questa  sia  desso. 

Si  dirà  ancora,  che  l'ente  inlelletlivo  fiiùlo  in  genere  non  è 
l'ultimo  indeterminato  tra  i  concelti  del  reale  ;  ma  questa  obie- 
zione ricadrebbe  nell'illusione,  che  abbiamo  già  accennata,  degli 
Ontologi  dialettici.  Concediamo  che  si  può  concepire  un  reale  più 
indeterminato  ancora  che  non  sia  l'ente  intellettivo  generico;  ma 
affinchè  quel  reale  fosse  più  indeterminato  dovrebbe  concepirsi 
non  solo  come  comune  agli  enti  intellettivi,  ma  ad  altri  ancora,  e 
un  reale  comune  ad  entrambi  non  esiste  se  non  in  senso  equi- 
voco, e  però  quantunque  la  mente  gli  applichi  una  sola  forma 
astraltissima,  pure  non  è  un  solo,  ma  due  che  hanno  un  ordine  di 
anteriorità  e  di  posteriorità:  infatti  ogni  qualvolta  una  parola  si 
dice  comune  a  entità  a  cui  essa  si  ap|)lica  in  sensi  diversi,  que- 
sta non  è  una  vera  comunanza,  ma  una  comunanza  o  puramente 
ver!)ale  o  di  pura  forma  dialellica.  Convien  dunque  fermarsi 
all'ente  intellettivo  in  genere  come  realità  prima  nella  sua  mas- 
sima indeterminatezza. 

7^1.  Per  veder  dunque  come  la  divina  mente  possa  procedere  da 
questa  prima  realità  indetcrminata  alle  altre  determinazioni  che 
le  danno  l'unità  propria  dell'ente,  e  quante  volte  essa  possa  esser 
fatta  una,  basterà  considerare  l'indeterminazione  di  ciascuno  dei 
tre  suoi  costitutivi. 

L'intuizione  dell'essere  è  un'indeterminato,  perchè  non  ci  si  de- 
termina quanto  dell'attualità  dell'essere  si  manifesti  all'intuizione 
primitiva  e  naturale  dell'ente  intellettivo.  Quesl'  indeterminato 
dunque  può  ricevere  l'unità  propria  dell'ente  tante  volle  quanti 
possono  essere  i  gradi  dell'attualità  deiresscre  che  si  manifesta. 

Il  senlimenlu  proprio,  che  è  il  secondo  costitutivo,  è  determi- 


70-2 

nato  in  questo,  clie  deve  avere  un  senziente  e  un  sentito;  e 
ii  senziente  lui  già  per  su;i  essenza  Punita  e  la  semplicità,  ma 
il  suo  sentito  fondamentale  può  variare,  e  quindi  1"  ente  che 
risulta  dall'unione  del  senziente  col  sentilo  può  variare  anch'es- 
so tatite  volte  quanti  possono  esserci  sentimenti  fondamentali 
diversi:  e  di  conseguenza  allretlanle  volle  questo  secondo  costi- 
tutivo può  acquistare  l'unità  propria  dell'ente. 

Quanto  poi  al  terzo  costitutivo,  die  è  la  volontà,  essendo  ella 
conseguente  ai  due  primi,  e  già  determinata  come  potenza 
quando  1  due  primi  sono  determinati,  essa  non  aggiunge  altra 
moltiplicazione  agli  enti  finiti  intellettivi  considerata  come  po- 
tenza, ma  potrebbe  aggiungere  una  terza  classe  di  essi,  qua- 
lora si  concepisse  creala  con  una  attualità  permanente  maggiore 
0  minore. 

Dal  che  avviene  che  gli  enti  intellettivi,  concepibili  dal  pen- 
siero umano,  si  compartono  in  tre  classi  diverse  di  generi. 

Entro  questi  confini  dunque  giace  racchiusa  la  possibilità 
delle  determinazioni,  e  la  prima  realità  indeterminata  che  si 
concepisca  nella  mente  divina  come  fondamento  di  lutti  gli 
enti  finiti  possibili.  E  in  lutto  questo  non  c'è  né  caso  né  arbitrio, 
poiché  tutte  queste  limitazioni  dell'infinilo,  in  quanto  cognito, 
fluiscono  per  via  d'illazioni  logiche  dal  puro  concetto  dell'ente 
finito:  dove  la  scienza  d'affermazione  e  quella  d'inluizione  si 
trovano  in  una  perfetta  corrispondenza,  come  esige  il  problema 
dell'Ontologia. 

16. 

Continua  Zi  Otte.  —  Lunilà,  ossia  rimo  vago,  è  data  nella  prima  e 
indelerminala  realità   finita  nella  mente  divina. 

7:22.  Dall'aver  così  accuratamente  descritta  la  prima  e  indeler- 
minala realità  che  Iddio  pose  per  fondamento  all'opera  del  mondo, 
ci  deriva  una  verità  preziosa,  ed  è,  che  quella  realità  non  è 
la  selva,  vXw,  senza  forma  ed  ordine  degli  antichi,  né  il  grande 
e  il  piccolo,  TÒ  [xéya  xal  fjnxpòv,  di  Platone,  né  l'indefinito,  rò  ànsipov, 
de"  Pitagorici,  ma  è  Venie  intellettivo  indeterminato  che  solo  è  tò 
xA^'ctÙTÓ,  mentre  lutto  il  resto  della  natura  è  rò  npiì^  n. 


703 

Se  dunque  questo  primo  reale  finito,  che  compare  per  illa- 
zione logica  nella  mMUe  creatrice^  ò  l'ente  intellettuale  finito  in 
genere,  ne  viene  clic  i!  principio  dell'unità  degli  enti  finiti  sia 
già  trovato,  cioè  coevo  col  primo  recde  indeterminato.  Poiché 
l'ente  intellettivo  è  ente-principio;  e  il  principio  ha  una  perfetta 
semplicità  ed  unità. 

Infatti  ciò  che  nell'ente  è  il  principio,  non  solo  è  semplice 
ed  uno  pel  concetto  slesso  del  principio,  ma  ha  natura  altresì 
di  contenente  di  tutto  il  resto:  contiene  il  suo  termine,  e  così  è 
la  causa  dell'unità  del  suo  termine  e  di  tutto  l'ente.  Così  ab- 
biamo già  dimostrato  che  il  principio  sensitivo  contiene  lo  spazio 
e  il  corpo,  e  contenendoli  dà  loro  il  continuo  [Antropol.  94  i03, 
232  —  IdeoL  1002-100'»)  e  che  il  principio  intellettivo  si  con- 
tiene pure  unificato  col  sensitivo  {Pslcol.   178-180). 

Ma  questo  principio  uno  e  unificante  come  rimane  dunque 
indeterminato?  A  quel  modo  che  può  rimanere  indeterminato 
l'uno.  Il  concetto  dell'uno,  come  abbiamo  veduto,  è  determina- 
tissimo, ma  l'uno  può  replicarsi,  e  può  replicarsi  come  causa 
di  unità  a  ciò  che  si  aggiunge  ad  esso.  L'uno  in  quanto  può 
così  replicarsi  dicesì  Vuno  vago.  Il  princi[)io  dunque  dell'ente  è 
essenzialmente  semplice  ed  uno,  ma  egli  si  determina  variamente' 
secondo  i  suoi  termini,  che  si  riducono^  come  a  somme  classi, 
ai  tre  categorici:  1."  l'essere  oggettivo,  2."  il  sentilo,  5.°  il 
voluto.  Il  principio  costituisce  l'ente  finito  come  uno,  subietto 
puramente  reale,  ma  determinalo  dalla  relazione  con  que' termini 
categorici.  La  diversità  però  degli  enti  nasce  dalla  diversità 
de'  termini,  che  uniti  col  principio  reale  e  proprio  costituiscono 
l'enle.  Questa  diversità  poi,  acciocché  gli  enti  sieno  diversi,  deve 
esserci  fino  dal  primo  momento  in  cui  l'ente  esiste,  e  dee  esser 
tale  che  contenga  in  potenza  tutto  il  posteriore  sviluppo  ac- 
cidentale dell'ente  ,  come  abbiamo  dichiarato  nella  Psicologia 
(iC4  180). 


%  7. 

Cunl'mnii ziom : •— «.  Se  sia  finito  o  infìnilo  il  numero  (le(]li  enti 
finiti  possibili  », 

725.  Trovala  ora  l'origine  deH'unità  dell'ente  fmilo.  hrijual  con- 
siste neiia  natura  d'un  principio  intelìeltivo  che  è  un  puro  reale, 
senza  che  sia  Taltre  due  forme  categoriche,  di  cui  solo  parte- 
cipa, rimarrebbero  a  investigare  l' altre  determinazioni  degli 
enti  si  generiche  che  specifiche,  a  investigare  cioè: 

1."  In  quanti  modi  l'essere  oggettivo  può  rendersi  termine 
di  lui,  senza  immedesimarsi,  cioè  per  via  di  semplice  inlìiilo: 

^2."  Quanti  sentili  fondamentali  ci  possono  essere,  che  vir- 
tualmente comprendono  tutti  i  sentiti  parziali,  a  cui  s' estende 
raltività  senziente  del  principio,; 

5."  Quante  volontà  ci  possono  essere  aventi  un  diverso  grado 
«raltualilà  fondamentale^  primitiva  e  permanente,  conlenenti  in 
potenza  tulle  h;  volizioni  accidentali. 

E  prima  di  tulio  si  presenta  al  pensiero  la  questione:  «  se  queste 
determinazioni  inferiori  costilucnli  gli  enti  finiti,  si  devano  crede- 
re di  numero  intlnilo,  o  finito,  e  perù  se  gli  enti  finiti  possibili 
sieno  infiniti  o  finiti  ». 

Noi  diciamo  che  non  possono  essere  infiniti,  e  lo  proviamo  colle 
seguenti  ragioni. 

i."  Qualora  i!  numero  delle  limitazioni  possibili  fosse  infinito, 
non  polendo  esser  create  tutte,  dovrebbe  intervenire  una  scella 
da  parte  del  Creatore,  e  questa  scella  sarebbe  impossibile,  come 
abbiamo  dimostrato,  trattandosi  di  scegliere  Ira  un  numero  infinito. 
Dunque  per  la  natura  stessa  dell'ente  finito,  non  ci  può  essere 
che  un  numero  finito  d'individui  possibili. 

2.°  Se  il  numero  degli  enti  finiti  possibili  /osse  infinito*,  non 
polendo  essere  creali  lutti,  perchè  ripugna  che  ci  esista  un  nu- 
mero infinito  di  enti,  ne  verrebbe  che  la  potenza  di  Dio  rimarrebbe 
limilala,  e  vinta  dalla  sfera  della  possibilità  delle  cose. 

5."  Ma  né  pure  gli  enti  ne'  concelti  della  mente  possono  esi- 
slere  distinti  in  numero  infinito,  perchè  il  numero  infinito  ripugna 
in  sé  slesso. 


703 

li."  k  queste  si  aggiunge  un'altra  dimostrazione  non  meno 
efficace  e  più  intrinseca.  Poiché  la  prima  è  tratta  dall'impossibilità 
della  scelta  che  dovrebbe  fjre  il  Creatore  se  gli  enti  finiti  possibili 
fossero  infiniti;  la  seconda  e  la  terza  sono  tratte  dal  concello 
astratto  del  numero  che  ricusa  l'infinità  attuale.  Quella  che  vo- 
gliamo aggiungere  viene  dalla  slessa  natura  del  limitalo  ontologi- 
co :  ed  ceco  qual  è. 

Abbiamo  veduto  che  il  limitato   ontologico,  essendo  il   primo 
limitalo,  non  ha  alcun  altro  limitalo  anteriore.  Di  più  anteceden- 
temente al  limite  ontologico  non  si  può   pensare  alcun   ente,   né 
alcuna  entilà  che  riceva  il  limite    Poiché  quest'ente  o  entità,  se 
ci  fosse,  non  potendo  essere  un  finito,  dovrebbe  essere  un  infinito. 
Ma  l'infinito  non  riceve  limili  di  sorte  alcuna,  co'  quali  cgii  si 
cangi  in  un  finito,  poiché  tra  l'infinito  e  il  finito  c'è  una  difftTcnza 
essenziale  e  totale,  per  modo  che  tra  l'uno  e  l'altro  non  c'è  nulla 
di  comune  {Psicol.   1581-1395).  E  quantunque  la  mente  divina 
passi  col  pensiero  dall'infinito  cognito  al   finito,   considerando  il 
termine  reale  del  primo  spogliato  dell'essere  e  conseguentemente 
dell'altre  due  forme  in  cui  l'essere  si  trova,  tuttavia  in  questo  pas- 
saggio non  avviene  alcuna  modificazione  dell'infinito  cognito,  ma 
è  un  passaggio  assoluto  d'un  cognito  ad  un  altro  cognito,  essen- 
zialmente e  totalmente  diverso  dal  primo,  di  maniera  che  il  reale, 
che  rimane  come  oggetto  della  mente  divina  dopo  questo  passaggio, 
il  reale  dico,  che  non  è  più  essere,  è  il  primo  finito  che  dilTeriscc 
dall'infinito  come  il  non-essere  dall'essere.  Ed  è  chiaro  che  il  non- 
essere  non  è  modificazione  né  limite  dell'essere,  ma  è  del  lutto 
un  altro,  escludente  atTallo  il  primo.  Procede  da  questa  dottrina, 
che  la  sostanza  prima,  la  pasta,  dirò  cosi,  da   cui  devon   essere 
cavati  lutti  gli   enti  finiti  possibili,   è  un  primo  finito.  Se  dunque 
tulli  gli  enti  finiti   possibili  sono  cavali,  per  mezzo  d'altre  limita- 
zioni determinanti^  da  una  prima  materia  finita  concepita  nella 
mente  divina,  egli  è  evidente  che  gii  enti  finiti  possibili  non  pos- 
sono essere  in  un  numero  infinito,  ma  finito.  Poiché  il  finito  non 
può  dare  che  il  finito.  Né  questo  ofi'ende  la  divina  onnipotenza, 
poiché  questa  consiste  nel  poter  far  tulio  ciò  che  è  possibile,  non 
l'impossibile  e  il  conlradittorio.  Ora  é  impossibile  e  conlradillorio 
ugualmente  e  che  d'una  materia  infinita  consti  il  finito,  e  che 
d'una  raalerla  finita  si  formino  enii  infiniti.  Dunque  lutti  gli  enti 
Rosmini.  Teosofìa.  45 


706 

finiti  possibili  constano  d'una  materia  finita,  e  anche  il  loro  nume- 
ro di  conseguente  è  finito. 


8. 


Continuazione.  —  //  complesso  degli  enti  finiti  possibili  è  in  sé  stesso 

ordinato. 

724.  Dimostrato  che  il  numero  degli  enti  finiti  possibili  è  finito, 
ne  viene  altresì  ch'egli  sia  ordinato. 

Se  fosse  infinito,  non  si  potrebbe  trovare  in  esso  alcun  ordine, 
perchè  ci  avrebbero  differenze  e  lontananze  tra  essi  enti  infi- 
nite, e  queste  non  sarebbero  tra  loro  commisurabili,  né  potreb- 
bero perciò  essere  collegali,  e  formare  tutl'  insieme  un'  unità. 
In  fatti  nessuno  di  essi  potrebbe  estendere  le  sue  potenze  a 
tutti  gli  altri,  poiché  ciascuno  essendo  finito  non  potrebbe  avere 
de'  rapporti  reali  con  infinito  numero  di  enti.  Che  se  si  ricorres- 
se al  panteismo  —  sistema  già  da  noi  confutato  —  e  si  dicesse, 
che  la  sostanza  di  tutti  gli  enti  finiti  fosse  la  stessa  sostanza 
divina,  ne  nascerebbero  infiniti  assurdi.  Poiché,  onon  esisterebbero 
più  enti  finiti,  ma  tutti  sarebbero  infiniti,  e  più  enti  infiniti  è 
di  novo  un  assurdo,  e  un  assurdo  ancor  maggiore  se  si  pones- 
sero infiniti  enti  infiniti;  ovvero  si  farebbe  che  l'essere  infinito 
fosse  subiello  reale  di  modificazioni  e  di  limiti,  il  che  distrugge 
al  tutto  la  nozione  dell'infinito.  Non  potendo  dunque  gli  enti 
finiti  aver  tra  loro  differenze  infinite  di  realità,  né  potenze  infinite, 
né  rapporti  reali  infiniti,  qualora  fossero  in  numero  infinito, 
sarebbero  privi  d'ogni  contenente,  e  d'ogni  ordine  tra  loro;  e 
questo  costituisce  un  quinto  argomento,  atto  a  dimostrare  che 
l'ipotesi,  che  gli  enti  possibili  sieno  infiniti  di  numero,  è  del 
tutto  erronea  ed  inammissibile. 

All'incontro,  supposto  finito  questo  numero ,  ne  viene  la 
conseguenza  che  gli  enti  possibili  non  solo  possano  ricevere 
un  ordine  e  formare  insieme  un'unità,  ma  ben  anco  che  siano 
già  da  sé  per  la  loro  slessa  natura  e  generazione  ordinati. 

Infatti,  noi  abbiamo  veduto  che  i  primi  e  completi  enti  finiti 
sono  enti  intellettivi,  e  che  gli  altri  sono  a   questi  posteriori  e 


707 

relativi,  e  però  da  questi  stessi  determinali  e  contenuti,  come  i 
termini  sono  contenuti  da'  principi. 

Gli  enti  intellettivi  poi  hanno  tre  basi  di  classificazione,  onde 
si  hanno  tre  classi  di  generi.  Queste  tre  basi  sono  la  parteci- 
pazione fondamentale  dell'essere  oggettivo,  il  sentito  fondamentale,  e 
Vattualità  fondamentale  della  volontà. 

Se  dunque  il  loro  numero  non  può  esser  altro  che  finito,  ci 
sarà  un  numero  finito  di  differenze  nella  partecipazione  fonda- 
mentale dell'essere  obiellivo,  un  numero  finito  di  differenze  nel 
sentito  fondamentale,  e  un  numero  finito  di  differenze  nell'at- 
tualità fondamentale  della  potenza  volitiva. 

Ora  questo  numero  finito  di  differenze  non  potrà  risultare 
che  dal  più  e  dal  raeno^  cioè  da  una  gradazione  finita  di  par- 
tecipazione dell'  oggetto,  di  sentimento,  e  d'attualità  volitiva. 
Tutte  queste  graduazioni  stabiliscono  un  ordine  gerarchico,  sia 
che  si  consideri  ognuna  delle  tre  serie  in  separalo,  sia  che  si 
considerino  due,  o  tutt'e  Ire  ad  una  volta. 

E  le  stesse  tre  serie  di  graduazione  hanno  un  ordine  tra 
loro.  Poiché  la  prima  è  la  principale  nella  costituzione  dell'ente. 
Onde  dato  un  quanto  di  partecipazione  fondamentale  dell'essere 
oggettivo,  che  costituisce  come  il  genere,  la  graduazione  del 
sentimento  fondamentale  costituirà  de'  generi  inferiori:  e  dato 
un  quanto  di  sentimento  fondamentale,  la  graduazione  possibile 
delle  attualità  volitive  fondamentali  costituirà  un  altro  genere 
più  inferiore  e  subordinalo  al  precedente.  Onde  la  prima  base 
di  classificazione  diviene  la  suprema  e  la  contenente  delle  altre. 

725.  E  non  si  creda  né  manco,  che  se  queslo  spiega  come  sieno 
ordinali  tra  loro  i  generi  e  le  specie,  e  gli  uni  connessi  cogli 
altri  per  una  continua  subordinazione,  rimanga  privo  di  spie- 
gazione come  siano  ordinati  per  natura  gli  enti  individui,  e  di- 
ciamo per  natura,  perchè  dobbiamo  noi  ora  lasciar  da  parte  la 
perfezione  acquisita,  che  appartiene  alle  limitazioni  secondarie. 
In  fatti  essendo  le  serie  de'  gradi  di  realità  degli  enti  finite  , 
e  la  prima  serie  che  regge  l'altre  due  essendo  quella  formala 
da'  gradi  di  partecipazione  dell'  essere  obiettivo,  si  prenda  il 
primo  grado  di  questa  serie  cioè  il  grado  massimo  possibile  di 
partecipazione,  e  si  determini  pure  il  sentimento  e  l'  attuahlà 
volitiva  fondamentale  al  grado  massimo:  noi  avremo  con  queste 


708 

delerminozioni  il  tipo  d'un  enle  finito  massimo,  il  quale  non 
polrà  essere  che  unico,  come  una  specie  pienissima,  e  s;ìrà 
questo  il  culmine  degli  Enti  finiti,  che  ne  ridurrà  il  complesso 
ad  una  perfetta  unità.  Poiché  quantunque  i  limili,  come  ahbiam 
detto,  si  pongano  dalla  mente  divina  con  quell'operazione  mon- 
tale che  abbiamo  chiamala  afférmazione  ,  e  non  colla  semplice 
intuizione  delfoggeltu,  e  l'affermazione  sia  di  natura  sua  una 
operazione  che  si  possa  ripetere,  tuttavia  non  si  può  ripetere 
qualora  manchi  un  novo  oggetto,  e  qui  non  si  darebbe  il  caso 
d'un  limitato  maggiore  di  questo  massimo.  Ma  di  questo  più 
copiosamente  tratteremo  nella  Cosmologia. 

Qui  ci  basta  di  raccogliere  la  conclusione  che  risponda  alla 
questione  che  c'eravamo  fatta:  «  Se  le  limitazioni  e  determinazioni 
degli  enti  finiti  si  trov;:sspro  dalla  mente  divina  ad  arbitrio  senza 
ragioni  determinami  ».  E  la  conclusione  clic  risulta  da  tutto  il 
nostro  ragionamento  si  è  la  seguente:  «  Tutto  il  complesso  delle 
limitazioni  e  determinazioni  possibili,  che  danno  unità  e  l'orma  agli 
enti  finiti,  sono  in  numero  finito  e  sono  ordinate  tra  loro:  onde 
tulli  gli  enti  finiti  possibili  si  trovano  dalia  mente  divina  non  per 
opera  d'un  arbitrio  scevro  di  ragione,  ma  per  le  ragioni  intrinse- 
che al  coneetlo  dello  stesso  ente  finito  )>. 

Articolo  XiV. 

La  quiddità  dell'ente  finito  non  è  costituita  da  ciò  che  egli 
ha  di  positivo,  ma  da'  suoi  limiti . 

7"2G.  Dalla  dottrina  che  abbiam  data  de'  limiti  procede  questo 
corollario,  che  «  la  quiddità  dell'ente  finito  non  è  costituita  da 
ciò  che  egli  ha  di  positivo,  ma  da'  suoi  limili  ». 

Per  quiddità  s'intende  «  ciò  che  una  cosa  è  ».  Ora  noi  abbiamo 
veduto  che  tra  il  finito  e  l'infinito  c'è  una  differenza  essenziale  e 
massima,  la  qual  differenza  è  lo  stesso  infinito  tutt'intero:  a  cagio- 
ne di  questa  differenza  il  finito  non  è  ninna  parte  dell'infinito.  Ma 
il  finito  differisce  dall'infinito  a  cagione  de'  limiti.  Pe' limili  dunque 
l'ente  finito  e  quello  che  è;  e  perciò  la  sua  quiddità  ò  costituita 
propriamente  da' limiti,  da'  quali  dipende  la  natura  di  ciò  che  egli 
ha  di  positivo. 


700 

Cosi  pure  abbiam  vedalo,  che  ci  sono  de'  limili,  anteriormente 
a'  quali  non  c'è  i'enle,  di  maniera  die  non  si  può  concepire  quel 
determinato  ente,  senza  concepire  i  suoi  limili.  Se  questi  limili 
non  si  pensano,  non  si  pensa  l'ente  (limite  trascendente),  se  col 
pensiero  si  mutano,  si  muta  l'ente:  questo  perde  la  sua  identità,  e 
un  altro  ente  è  venuto  davanti  al  pensiero  (limili  entilativi).  Il 
limile  dunque  è  ciò,  che  cosliluisce  queilo  che  è  l'ente  finito  o  in 
genere,  o  in  ispecie,  o  in  individuo;  e  perciò  «  il  limite  costituisce 
la  quiddità  dell'ente  finito  »,  e  l'identità  del  limite  costituisce 
l'identità  dell'ente.  I  soli  limiti  secondari  conseguono  all'ente  finito 
e  non  lo  costituiscono. 

E  veramente  dovendo  l'  ente  esser  uno,  il  che  è  quanto  dire 
pienamente  determinato  ,  non  si  concepiscono  possibili  che  due 
maniere  di  determinazioni  atte  a  renderlo  uno,,  altre  infinite,  altre 
finite.  Per  l'uno  infinito  dunque  la  determinazione  complessiva  è 
la  sua  infinità  stessa,  nulla  di  più  determinato  dell'infinità  com- 
piuta da  ogni  lato:  ma  se  manca  quesla  determinazione  consistente 
nell'assoluta  infinità  —  nel  concetto  della  quale  è  una  somma  sem- 
plicità ed  unità,  —  altro  non  rimane  per  costituire  l'uno,  se  non  i 
limili  così  d'ogni  parte  determinati  e  fissi,  che  non  si  possano  da 
niuna  parte  rimovere  da  tutta  l'attività  deli'  ente:  allora  questa 
attività  può  aver  natura  di  principio  che  abbraccia  una  data 
sfera  determinata  di  atti.  Così  si  ha  l'uno  e  l'ente  finito. 

Questi  lim.iti  dunque,  che  rinserrano  l'attività  o  la  potenzialità 
dell'ente  d'ogni  parte,  quasi  dentro  una  sfera ,  sono  quelli  che 
costituiscono  la  quiddità  dell'ente  ,  cioè  fanno  sì  ch'egli  sia 
desso,  e  non  un  altro. 

Dal  che  si  ritrae  questa  formola,  che  riassume  quello  che  ab- 
biam  detto  ,  cioè  «  che  la  quiddità  dell'ente  infinito  è  costituita 
dall'entità,  ed  è  positiva,  e  la  quiddilà  ^dell'ente  finito*  è  co- 
stituita da' limiti  dell'entità,  ed  è  negativa  «.  Un'entità  c'è  dun- 
que anche  nell'ente  finito,  ma  non  è  quella  che  lo  costituisce, 
ha  però  in  lui  ragione  di  materia  ,  di  cui  i  limili  costitutivi 
sono  forma  ;  laddove  nell'ente  infinito  l'entità  stessa  è  forma 
pura  senza  materia. 


710 

Articolo  XV. 

Se  la  prima  realità  finita,  prima  di  ricevere  resistenza  in  sé ,  abbia 
bisogno  d:  essere  determinala  mediante  una  serie  costante  di  diffe- 
renze generiche  e  specifiche,  ovvero  possa  ottenere  una  piena  deter- 
minazione con  un  numero  ora  ìnaggiore  or  minore  di  differenze 
successive. 

727.  La  nostra  mente  distribuisce  gli  enti  mondiali  in  genei'i 
e  specie.  Lasciamo  qui  da  parte  i  generi  puramente  mentali  e 
dialettici,  che  non  appartengono  alla  presente  questione.  Di- 
ciamo che  anco  parlando  solo  de' generi  reali,  noi  concepiamo 
le  cose  mondiali  partendo  da  un  primo  genere  ,  al  quale  ag- 
giungendo una  differenza  veniamo  a  un  secondo  genere  infe- 
riore, e  di  mano  in  mnno  alla  specie  astratta  ,  e  piena  e 
pienissima;  e  solo  quest'ultima  dà  l'uno,  cioè  la  compiuta  deter- 
minazione necessaria  ad  una  entità,  aftinché  ella  possa  acqui- 
stare l'essere   subiettivo  e  così  esistere  in  sé  come  ente  reale. 

Di  qui  nasce  la  questione:  «  se  la  specie  pienissima,  cioè  l'ente 
compiutamente  determinato  ,  possa  trovarsi  dalla  mente  divina 
prima  ,  senza  bisogno  di  percorrere  tutta  quella  scala  di  diffe- 
renze generiche  e  specifiche  :»>. 

Questa  stessa  questione  si  presentò  agli  Scolastici  quando  di- 
mandarono: «se  il  genere  potesse  essere  immediatamente  in- 
dividuato )). 

A  noi  qui  basta  di  dare  una  risposta  generale,  che  veramente 
non  è  una  risposta,  ma  un  principio  per  trovare  la  risposta.  Il 
principio  è  questo. 

«  Ogni  qualvolta  la  somma  realità  finita  può  —  per  mezzo  d'una 
compiuta  determinazione  —  costituirsi  uno,  essa  è  un  ente  indi- 
viduo, che  può  esistere  in  sé  ». 

Quando  dunque  per  costituirsi  un  dato  uno,  ha  bisogno  d'una 
lunga  serie  di  differenze  generiche  e  specifiche  ;  tutta  questa 
serie  é  necessaria  per  arrivare  a  quel  dato  uno.  Ma  per  un  altro 
uno,  non  é  dimostrato  che  sia  necessaria  una  serie  così  lunga, 
e  niente  osta  che  la  serie  sia  più  breve,  o  più  lunga  ,  purché 
s'arrivi  all'uno. 


711 

Se  noi  consideriamo  i  generi  subordinali  come  sono  gli  eslra- 
soggeltivi,  troviamo  che  lo  spazio  è  un  ente  determinato  dalla 
sua  infinità  unilaterale ,  il  quale  non  ha  specie  sotto  di  sé  ,  e 
sopra  di  sé  non  ha  generi  reali,  ma  soltanto  ha  de' generi  men- 
tali 0  dialettici,  qual  sarebbe  il  genere  degli  enti  estrasoggeltivi, 
e  il  genere  della  realità  affatto  indeterminata.  Onde  lo  spazio 
non  si  può  dire  né  un  genere  reale,  né  una  specie  astratta,  ma 
una  specie  pienissima  e  un  individuo  reale. 

La  questione  dunque  «  se  il  genere  si  possa  immediatamente 
individuare  »  é  da  distinguersi  così.  Se  voi  ammettete  per  es- 
senziale al  genere  l'avere  sotto  di  sé  delle  specie  ,  ripugna  il 
dire  ch'egli  si  possa  individuare  immediatamente,  il  che  gli  ter- 
rebbe la  specie.  Se  poi  intendete  per  genere  «  un'entità  che 
non  ha  altri  generi  reali  dello  stesso  ordine  sopra  di  sé,  benché 
non  abbia  specie  »,  niente  ripugna,  che  possa  essere  individuato. 
Se  finalmente  con  quella  questione  voi  intendete  ,  che  quella 
stessa  entità,  che  ammette  delle  specie  sotto  di  sé,  possa  anche 
sussistere  in  sé  ,  in  tal  caso  ,  quella  entità  in  quanto  sussiste 
non  è  più  genere  ,  ma  é  genere  in  quanto  ha  sotto  di  sé  le 
specie,  le  quali  non  può  averle  come  sussistente ,  perché  come 
tale  è  un  ente  individuo,  ma  come  concepito  dalla  mente,  cioè 
come  comune  in  tutte  le  specie.  E  che  questo  possa  essere,  in 
qualche  modo  si  ha  l'esempio  neWanimaìe ,  che  come  genere 
s'applica  all'uomo  e  a' bruti,  e  sussiste  tuttavia  ne'bruti.  Ma  in 
tali  casi  quello  che  si  dice  comune  è  detto  così  con  qualche 
equivocazione,  perchè  Ventila  animale  non  è  identica  nell'uomo  e 
nel  bruto:  poiché  l'animalità  cangia  nell'uomo  di  natura  dall'es- 
sere ella  assunta  dal  principio  intellettivo,  e  però  perde  l'iden- 
tità propria  del  genere  nelle  specie. 

Finalmente  noi  abbiamo  già  di  sopra  (695,  sgg.)  dichiarato  di 
non  vedere  un  intrinseco  assurdo  in  pensare  che  la  massima 
realità  finita  potesse  sussistere  tutta  insieme  in  un  solo  ente 
massimo  ,  il  quale  non  escluderebbe  per  questo  gli  enti  finiti 
minori,  e  però  da  quello  potrebbe  la  mente  astrarne  un  sommo 
genere  di  tutti  gli  altri  enti  finiti  inferiori. 

Questo  cenno  della  quistione  indicata  giova  non  poco  anche 
a  far  intendere  come  V indeterminazione  possa  essere  un  concetto 
relativo,  di  maniera  che  la  stessa  cosa  sia  in   sé  determinata, 


7J2 

e  relativamente  ad  un'altra  indeterminata.  Cosi  appunto  Vanima- 
lUà  può  esser  determinata  in  sé  stessa  ,  ma  considerala  in  re- 
lazione ali'uomo  rimane  sempre  un  indelermìnato  nella  mente  di 
chi  lo  concepisce.  E  così  avviene  die  molte  proprietà  che  con- 
vengono all'Assoluto  e  in  lui  sono  determinate  o  piuttosto  sono 
lui  slesso ,  considerate  in  relazione  cogli  enti  finiti  appariscono 
indeterminatissime,  perchè  prive  di  que' limili  che  sono  i  de- 
terminanti rispetto  agli  enti  finiti.  E  perciò  giustamente  S.  Tom- 
maso osserva  che  i  concelli  universalissimi,  come  l'essere,,  sono 
quelli  che  meglio  convengono  a  Dio. 


CAPITOLO  X. 

Ricapilolazione  e  conclusione. 

728.  Qui  gmnli  possiamo  ritorcere  il  guardo  dando  un'occhiata 
al  cammino  percorso.  Noi  ci  siamo  proposto  di  considerare  Tessere 
in  quanto  è  uno  in  relazione  con  lutti  gli  enti  e  le  entità  che 
cader  possono  nell'umano  pensiero. 

Dopo  aver  fissalo  il  linguaggio  che  ci  conveniva  adoperare 
in  una  investigazione  così  astratta,  nella  quale  il  raziocinio  può 
facilmente  deviare  dal  retto  filo,  e  deviando  anche  un  poco  tra- 
balzare in  un  precipizio  ,  abbiamo  consideralo  prima  l'essere 
qua!  principio  e  qual  contenente  di  tutte  le  cose  conoscibili,  e 
n'abbiamo  dedotto  un  sislema  d'idenlilà  dialcllica,  sostituendolo 
a  quello  dell'unità  assoluta  dello  Schelling.  Con  questo  rimase 
ancora  spiegato  un  fatto  costante  che  offre  la  storia  della  filo- 
sofia, cioè  come  gì' intelletti  speculativi  provino  un  bisogno  ir- 
resistibile verso  l'unità,  e  per  soddisfarvi ,  quando  non  possono 
afferrare  il  vero,  si  vanno  fabbricando  dei  sistemi  ingegnosi,  ma 
erronei. 

Dopo  di  questo  abbiam  preso  a  considerare  l'essere  unico  nelle 
tre  forme  sia  riguardo  all'ente  infinito  ,  sia  riguardo  agii  enti 
finiti.  E  riguardo  al  primo  abbiamo  trovato  che  tra  l'essere  e 
ciascuna  delle  sue  tre  forme  c'è  una  relazione  d'Identità;  ri- 
guardo ai  secondi  una  relazione  di  diversità- 

Abbiamo  sottomessa  all'analisi  questa  relazione  di   diversità  , 


713 

e  abbiamo  rinvenuto  quelle  proprietà  dell'essere  cbe  sono  inco- 
municabili ai  reali  finiti,  e  quelle  che  sono  a  questi  comunicate 
dalla  presenza  dell'essere  stesso. 

Ma  poiché  l'essere  è  identico  colle  sue  tre  forme,  quindi  l'es- 
sere acquista  i  nomi  di  essere  subiettivo ,  essere  obiettivo ,  ed 
essere  morale. 

Noi  ci  siamo  dunque  proposti  di  ricercare  quali  proprietà  co- 
munichi Tessere  subiettivo  ai  reali  finiti  ,  e  le  riducemmo  a 
quattro;  e  di  poi  quali  propricl.'j  comuniclii  l'essere  obiettivo  ai 
medesimi  reali  finiti,  e  le  riducemmo  pure  a  quattro,  che  sona 
loro  comunicale  nella  mente  divina  prima  che  ricevano  l'essere 
subiettivo,  che  li  fii  esistere  in  sé. 

Con  queste  ricerche  svolgemmo  di  mano  in  mano  l'intima  co- 
stituzione, e  l'intrinseco  ordine  (lellVute  finito,  il  che  mise  in 
qualche  lume  i!  processo  creativ<».  jn-l  quale  viene  all'esistenza 
sua  propria  l'Universo.  Questo  ci  obbligò  ad  esporre  in  fine  la 
dottrina  universale  delia  limitazioiie.  come  quella  cbe  costituisce 
la  stessa  quiddità  degli  enti  finiti. 

Ci  trattenemmo  dal  fare  una  ricerca  speciale  intorno  a  ciò 
che  confeiisce  ai  reali  finiti  Vesso.re  morale,  contentandoci  d'av- 
vertire, che  gli  enti  intelb  ftivi  né  partecipano  per  mezzo  della 
loro  volontà.  E  ciò  perché  l'essere  in  questa  forma  non  costi- 
tuisce gli  enti  finiti  a  noi  cogniti  nella  loro  natura,  ma  è  piut- 
tosto conseguente  alla  costituzione  de' medesimi,  e  principalmente 
ne  dà  loro  la  perfezione.  Onde  di  quest'argomento,  di  tutti  ono- 
rabilissimo ,  ci  riserviamo  a  ragionare  più  compiutamente  e  di 
proposito  in  altro  luogo. 


un. 


714 


ERRATA 

CORRIGE 

Pag. 

iò  Linee 

'    2 

la  cognizione 

le  cognizioni 

» 

32 

> 

28 

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> 

34 

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21 

mantiene 

contiene 

9 

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33 

dall'altra 

dall'altre 

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93 

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32 

abbia 

abbiamo 

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98 

» 

33 

non  lui 

con  lui 

» 

99 

fi 

10 

altro  ed  altro 

altro  ad  altro 

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163 

s> 

4 

antimonia 

antinomia 

> 

i71 

ù 

24 

primo  contenente 

primo,  contenente, 

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269 

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32 

perchè  e 

peichè  è 

i> 

282 

» 

32 

l'astrazione 

la  riflessione 

D 

289 

> 

8 

però 

per 

> 

326 

» 

1 

statua  prima 

seconda  statua 

» 

351 

9 

essa 

esso 

I 

365 

8 

novi 

nove 

fi 

464 

38 

per  vero 

per  vero  dire 

» 

511 

16 

immediata  di  cognizione 

di  cognizione  immediata 

fi 

562 

19 

componimenti 

componenti 

fi 

621 

6 

ed  imprestito 

ad  imprestito 

fi 

654 

21 

sé  la  mente 

se  la  mente 

fi 

664 

25 

in  genere 

in  generi 

I 

666 

26 

s'accoglie 

s'accolgono 

S 

667 

fi 

ivi 

reale 

realità 

fi 

ivi 

> 

31 

nel 

pel 

INDICE 


Prefazione '. Pag.      1 

I.  Due  parti  della  Metafisica,  la  Psicologia  e  la  Teosofia.       »  2 

II.  La  Teosofìa  è  pura  scienza,  non  pratica »  3 

III.  Dell'intemperanza  della  speculazione n  7 

IV.  La  Filosofia  teosofica  insiste  in  sé  stessa,  non  prende  nulla 

dalle  altre  scienze,  ed  esclude  ogni  ipotesi  ....  j>  9 
V,  Come  si  distingua  la  Teosofia  dall'altre  scienze  ...  >  10 
VI.         Come  la  Teosofia  si'distingua  dalle  altre  scienze  filosofiche. 

—  Filosofia  regressi\  a  e  progressiva >      12 

VII.         Tre  principi  dello  scibile  umano  :  l'ideale,  il  materiale,  l'as- 
soluto         s       13 

Vili.         Errore  metodico  dell'  Hegel  nel  cominciare  dal  principio 
materiale ,  che  rifonde  poi  gratuitamente  nel  principio 

assoluto >      14 

IX,         La  Filosofia,  e  il  sistema  dello  scibile,  deve  cominciare  dal 

principio  ideale »       16 

X.         Lo  stato  dell'uomo  prima  dell'invenzione  della  Filosofia  non 
è  il  dubbio ,  ma  la  cognizione  comune ,  e  V  ignoranza 

metodica »      17. 

XI.  La  Filosofia  non  coniiucia  col  raziocinio,  ma  colla  rifles- 
sione osservatrice,  e  però  con  un  conoscere  immediato, 
senza  supposizione  di  sorta >      19 


Tifi 
MI. 

xin. 

XIV. 
XV. 


L'fdeologiii  è  la  scienza  che  stnbilisce  il  punto  di  partenza; 
la  Psicologia  e  la  Logica  danno  le  condizioni  materiali, 
e  le  condizioni  formali  delia  Teosofia Pag- 
he scienze  filosollche  anteriori  procedono  con  un  ragiona- 
mento diretto,  la  Teosolìa  usa  d'un  ragionamento  circo- 
lare ma  non  vizioso i 

Continuazione.  —  Tre  parti  della  Teosofia  :  l'Ontologia,  la 

Teologia  e  la  Cosmologia » 

Le  scienze  anteriori  si  possono  chiamare  scienze  comuni , 
la  Teosofia  scienza  arcana j 


20 


21 


LiBiio  m\m 


Il  Problema  dell'Ontologia  —  Proemio 


CAPITOLO      I.  Helazioni  dell'Ontologia  colla  Teologia   razionale, 

colla  Cosmologia,  e  coli' Ideologia »       ?,\ 

Articolo  I.  L'Ontologia  si  dee  distinguere  dalla  Teologia  razio- 
nale, e  a  questa  premettere s      ivi 

»  II.  L'Ontologia  è  necessaria  alla  cognizione  perfetta  del- 
l'ente finito,  onde  si  deve  premettere  alla  Cosmo- 
logia         »      36 

»  Ili.  Differenza  caratteristica  tra  l' Ideologia  e  l'Ontologia, 

riguardata  la  materia  di  queste  due  scienze.   .       »      37 
»            IV.  Differenza  caratteristica  tra  l'Ontologia  e  la  Teologia 
razionale  ,  riguardala  la    materia  di  queste  due 
scienze »      39 

CAPITOLO  II.  A  qual  grado  di  sviluppo  si  presenti  alla  mente  umana 
il  problema:  «  Conciliare  i  modi  apparenti  dell'ente 
co!  concetto  dell'essere  »  ;  prima  forma  del  pro- 
blema ontologico      »      42 

»  III.  Seconda  forma  de!  problema  dell'Ontologia:  a  Tro- 
vare la  ragione  sufficiente  delle  diverse  raanifesta- 
.-ioni  dell'ente  b x     46 

ArT)C01.o  I.  Perchè  l'intendimento  esiga  una  ragione  sofficienle 

delle  diverse  manifestazioni  dell'ente    ....       »      ivi 
i             II.  La  ragione  sufficiente  delle  manifestazioni  dell'ente 
non  può  appagare  l' intendimento  ,  se  non  è  una  , 
necessaria,  oggettiva j»      47 

CAPITOLO  IV.  Terza  forma  del  problema  dell'Ontologia:  «Trovare 
un'equazione  tra  la  cognizione  intuitiva  e  quella 
di  predicazione  j» »      52 


747 

CAPITOLO  V.  Quarta  forma  del  problema  dell'Ontologia:  «  Conci- 
liare le  antinomie  che  appariscono  nel  pensiero 

umano  » »      54 

Articolo  I.  Come  ogni  qual  volta  non  si  trova  l'equazione  tra  la 
cognizione  intuitiva  e  quella  di  predicazione  ,  ri- 
mane un'antinomia  nella  scienza »      ivi 

»  n.  Il  problema  ontologico  si  manifesta  tanto  riguardo  al 

mondo  ideale,  quanto  riguardo  al  mondo  reale,  e 

al  morale »      59 

CAPITOLO    VI.  Quinta  forma  del  problema  ontologico:   «  Che  cosa 

sia  ente  e  che  cosa  sia  non-ente» o      Gì 

»  VII.  Si  riassumono  le  formole  ,  nelle  quali  fu  presentato 

il  problema  ontologico »     62 

»         Vili.  Della  possibilità  di  dare  uu  cominciamento  logico  al- 

rOntologia »      65 

»  IX.  Meccanismo  dell'argomentare  che  adopera  l'Onlologo  »      67 

>>  X.  Del  circolo  in  cui  si  volge  il  ragionamento  ontologico, 

e  come  non  sia  vizioso x       72 

»  XI.  Divisione  dell'Ontologia r,       76 


LIBRO  l 


Le  Categorie »      79 

CAPITOLO      I.  Difficoltà  di  trovare  una  classilìcazione,  che  abbracci 

tutte  le  varietà  dell'essere »      82 

j  II.  Gli  antichi  conobbero  in  qualche  parte  la  difficoltà 
sovra  esposta,  scontrandola  per  via  nelle  loro  spe- 
culazioni           »      87 

Articolo  I.  Primo  aspetto  in  cui  la  difficoltà  appari  agli  antichi  : 
sfugge  ai  generi  degli  enti  la  distinzione  del  reale 
e  dell'  ideale »      ivi 

^  II.  Secondo  aspetto  in  cui  appari  agli  antichi  la  stessa 
difficoltà  e  dubbio  se  le  Categorie  classificavano  i 
principi  degli  enti,  o  gli  enti  stessi s       89 

»  111.  Terzo  aspetto  e  più  diretto,  in  cui  fu  veduta  la  diffi- 
coltà: l'ente  è  fuori  d'ogni  genere »      93 

CAPITOLO   III.  Della  denominazione  di  Categorie. »      95 

*  IV.  Di  alcune  questioni  affini  non  distinte  bastevolmente 

dagli  antichi  filosofi »      99 

i  V.  Questione  dei  principi  o  cause  delle  entità  ...       »     101 


7i8 

G\P1T0L0    VI.  Questione  degli  elementi Pag.  103 

9  VII.  Questione  de' generi  degli  enti »     106 

»         Vili.  Questione  delle  Classi  degli  enti »     109 

»  IX.  Questione  delle  forme  primitive  dell'Essere     .   .       >     111 

j  X.  Come  alle  tre  forme  si  riducono  le  prime  Classi  del- 
l'ente, i  primi  principi,  i  primi  elementi,  e  i  primi 
generi »     113 

*  XI.  Le  tre  forme  dell'essere  somministrano  veramente  le 

Categorie  dell'essere *     115 

»  XII.  Confutazione   degli  Unitari   e   conferma   delle   cose 

dette »     117 

»        XIII.  Della  falsa  via  presa  da  alcuni  filosofi  per  giungere  a 

sciorre  il  problema  dell'Ontologia »     133 

»         XIV.  Della  ragione  sufficiente  delle  tre  categorie  e  forme 

dell'Essere »     134 

»  XV.  Obiezioni »     140 

Articolo         1.  Obiezione  prima.       L'uomo  non  può  trovare  le  di- 
stinzioni, se  non  nell'essere  ch'egli  conosce    .       e      ivi 

»  11.  Obiezione  seconda.    -Gii  enti  razionali  non  sembrano 

cnnipri^si  nelle  Categorie  assegnate »     144 

»  III.  Obiezione  terza.  —  Le  tre  forme  dell'essere  sembra 

rbe  non  possano  essere  categorie  dell'essere  stesso  »      ivi 
CAPITOLO XVI.  Dell'errore  di  quei  filosofi  ,  che  fanno  entrare  nelle 

Categorie  lo  spazio  e  il  tempo »     14G 

*  XVII.  Df>!la  maniera  di  distinguere  una  forma  dell'essere 
dall'altra  ,  e  dell'  inscssione  reciproca  delle  tre 
forme »     147 

»  XVIII.  Della  dottrina  del  contenente  e  del  contenuto  in  uni- 
versale          »     150 

»  XIX.  Della  ragione  per  la  quale  la  trinità  delle  forme  su- 
preme non  toglie  l'unità  dell'essere »     153 

»  XX.  Puinnodamento  del  libro  presente  co' susseguenti;  la 
Trinità  sta  nel  fondo  della  Teosofia,  come  miste- 
rioso fondamento »     154 

Al\Ticoi.O         I.  Nesso  co' libri  che  seguono »       ivi 

»  11.  Le  tre  forme  dell'essere  non  sono  la  divina  Trinità, 
ma  qualche  cosa  che  ad  essa  analogicamente  si  ri- 
ferisce           »     155 

»  111.  La  dottrina  della  divina  Trinità  può  e  deve  essere 

ricevuta  nella  Filosofia k     157 

»  IV.  Postulati  necessari  alle  ricerche  filosofiche  de' libri 

seguenti »    158 


719 


LIBRO  li 


L'Essere  Uno Pag.  i6l 

SEZIONE  I 

Del  linguaggio  Ontologico »    166 

CAPITOLO  I.  Della  necessità  di  distinguere  accuratamente  il  signi- 
ficato di  alcuni  vocaboli  che  s'adoperano  nell'On- 
tologia          »      ivi 

»  II.  Delle  cause  dialettiche  della  moltiplicità  de' significati 
del  vocabolo  essere,  e  d'altri  che  all'essere  si  rife- 
riscono         »     i67 

»  III.  Dei  significati  del  vocabolo  essere,  e  d'altri  che  s'a- 
doperano nell'Ontologia "     171 

Articolo         I.  Definizioni »      ivi 

»  II.  Essere  dell'  intuito,  essere  virtuale ,  essere  iniziale  , 

astratto,  ideale »     172 

>  III.  Significati  del  vocabolo:  ente »     175 

>  IV.  Significati  de' vocaboli  :  entità,  e  cosa «     178 

»  V.  Significato  della  parola  :  essenza »     179 

»  VI.  Significati  delle  parole  :  subielto  e  predicato   .   .       »    185 


SEZIONE  II 


Sistema  delVunità  e  identità  dialettica. 


187 


CAPITOLO  I.  Dell'unità  dialettica.  —  Disogno,  che  ha  l'intelligenza 
umana  di  ridurre  tutto  lo  scibile  ad  un  principio , 
e  come  da'  tentativi  di  soddisfarvi  nacquero  molti 
sistemi  erronei  per  non  essersi  definito  a  sufficienza 
il  significato  dei  vocaboli » 

Articolo  I.  L'antinomìa  dell'unità  e  della  pluralità  dell'essere 
non  si  scioglie  se  non  per  una  dialettica  distin- 
zione di  concetti » 

>  II.  Il  problema  dell'unità  e  della  pluralità  dell'essere 

presso  gli  antichi  Filosofi > 

>  III.  Il  problema  dell'unità  e  della  pluralità  dell'essere 

perchè  non  potuto  sciogliere  dal  Fichte  ...       » 


188 


189 


720 

Articolo 


Articolo 


CAPITOLO 

Articolo 


> 

fV 

§ 

1, 

>. 

2 

Articolo 

V. 

§ 

1 

Articolo 


IV.  Il  problema  dell'unità  e  della  pluralità  dell'essere 

nelle  mani  delio  Schelling Pag.  191 

1.  Lo  Schelling  pone  male  lo  stato  del  problema.   .       »      ivi 

2.  Lo  Schelling  pone  male  le  condizioni  delia  soluzione 

dei  problema »     195 

3.  La  soluzione  del  problema  data  dal  Fichte  e  dallo 

Schelling  non  può  soddisfare »    202 

V.  Come  si  possa  soddisfare  al  bisogno  che  ha  la  mente 

umana  d'unità »     209 

VI.  Ragione  degli  errori,  in  cui  caddero  lo  Schelling  e 

l'Hegel  suo  discepolo »    214 

n.  Sistema  dell'identità  dialettica »     218 

1.  Breve  esposizione  del  Sistema »      ivi 

II.  Come  l'essere  sia  il  primo  determinabile,  il  comune 

(leterminanfe ,  e  l\illmn  determinazione  d'ogni 
entità »     223 

III.  L'essero  inizialo  h.  principio  dolio  scibili',  e  inizio  dia- 

leti'ii:n  (ielle  cosf  tutto )>    227 

Qual  parlo  dell'End?  risponda  -AWesscrc  iniziale.  »  233 
Si  risolve  In  questiono  rispetto  all'Ente  contingento  9  ivi 
Si  risolvo  la  questiono  rispetto  all'Ente  necessario  >  236 
Corollari  importanti.  —  Dall'esposta  dottrina  si  mc- 

colgouo  tre  importanti  corollari »     241 

Primo  Corollario  :  dimoslrnziono  a  priori  dell'esi- 
stenza di  Dio »       ivi 

2.  Secondo    Corollario  :  dimostrazione    a   priori  della 

Creazione ■"     245 

3.  Terzo  Corollario:  l'apprensione  imperfetta  dell'atto 

creativo  all'occasione  delia  percezione  intoilcttiva     »    251 

VI.  Dialettica  di  Platone ti     254 


SEZIONE  UT 


Della  relazione  dell'essere  uno  co'  suoi  termini  in  generale  . 


257 


CAPITOLO 


Articolo 


I.  Di  ciò  che  appartiene  aila  ricerca  che  si  fa  in  questo 
libro,  e  di  ciò  che  appartiene  alla  ricerca  che  ri- 
mane a  farsi  nel  libro  seguente  intorno  alla  mohi- 
plicità  deil'essere » 

I.  Definizione  dell'essere  in  sé  contrapposto  all'essere 
dialettico » 

IL  Principio  della  teoria  deil'essere  uno » 

HI.  Principio  della  teoria  dell'essere  trino » 


IVI 

258 
259 


724 

Articolo       IV.  Di  ciò  che  ci  resta  a  trattare  per  compire  le  ricerche 

abbracciate  da  questo  libro Pag.  260 

»  V.  Osservazione  sul  metodo  ontologico »    262 

CAPITOLO     II.  Della  ricerca  di  ciò  che  l'essere  conferisce  a' suoi 

termini  riguardo  all'ente  assoluto  ed  infinito  .       »     263 
«  III.  Della  ricerca  di  ciò  che  l'essere  conferisce  a' suoi 

termini  riguardo  agli  enti  finiti.  —  Analisi  di  questa 

ricerca »    266 

»  IV.  Che  cosa  ci  abbia  nell'essere  d'incomunicabile  ai  reali 

finiti .^267 

Articolo         I.  Onde  nasca  che  alcune  proprietà  dell'essere  sieno  in- 
comunicabili ai  reali  finiti »      ivi 

»             II.  Sei  prime  proprietà  dell'essere  incomunicabili.    .       »      ivi 
»           III.  Altre  sei  proprietà  dell'essere  incomunicabili  ai  reali 
finiti  :  1.  r  universalità  ;  2.  la  necessità  ;  3.  l' im- 
mutabilità; 4.  l'eternità;  5.  la  semplicità  asso- 
luta; 6.  la  primalilà  assoluta >    270 

»           IV.  Doppia  relazione  dell'essere  alle  cose  contingenti , 
l'una  nascente  dalle  proprietà  comunicabili,  l'altra 
dalle  proprietà  incomunicabili  dell'essere.   .   .       »    273 
»             V.  Delle  proprietà  incomunicabili  e  comunicabili  dell'es- 
sere rispetto  alle  essenze  de' finiti »    274 

CAPITOLO     V.  Quale  sia  la  natura  della  comunicazione  e  congiun- 
zione dell'essere  co' reali »    275 

Articolo         I.  Triplice  relazione  dell'essere  col  reale »      ivi 

»  li.  Relazioni  d'identità »      ivi 

»  III.  Relazione  immediata  e  mediata  di  causa  atto  .   .       »    277 

j  IV.  Relazione  immediata  di  causa  atto,  o  enlificazione     »    280 

»  V.  Antinomìe  che  trovò  Platone  meditando  suU'entifica- 

zione,  e  critica  delle  medesime >      ivi 

»  VI.  Relazione  mediata  di  causa  atto,  o  azione  ...       »    291 

»  VII,  Relazione  di  causa  subietto »    294 

CAPITOLO  VI.  Se  l'essere  riceva  nulla  dalla  sua  congiunzione  co'i'eali 

finiti »      ivi 

»  VII.  Quali  sieno  le  proprietà  dell'essere  comunicabili  ai 

reali  finiti  e  di  questi  predicabili »    299 

SEZIONE  IV 

Di  ciò  che  Vessere  subiettivo  comunica  ai  reali  finiti »    309 

CAPITOLO      I.  Della  prima  proprietà  che  l'essere  iniziale  ed  attuante 

comunica  di  sé  ai  reali  finiti »  ivi 

Articolo         I.  Esistenza »  ivi 

»            II.  Durata »  310 

Rosmini.  Teosofia.  46 


722 


CAPITOLO 

II. 

Articolo 

9 

I. 

lì. 

IH. 

\ 

> 

§ 

IV. 
1. 

> 

2. 

> 

3. 

Articolo 

CAPITOLO 

Articolo 

V. 
III. 

I. 

> 

II. 
HI. 
IV. 

CAPITOLO 

IV. 

Articolo 
> 

I. 
IL 

» 

III. 

> 

IV. 

CAPITOLO 

Articolo 

V. 
I 

III 


Della  seconda  proprietà  che  l'essere  iniziale  attuante 
comunica  di  sé  ai  reali  Uniti,  l'atto  dei  loro  -MiPag. 

Concetto  di  potenza  e  di  atto » 

Concetto  di  virtualità » 

Classificazione  delle  potenze  —  Potenze  in  senso  pro- 
prio e  in  senso  dialettico » 

Dell'essere  considerato  come  potenza  dialettica  .       » 
Se,  e  come  l'essere  considerato  come  primo  determi- 
nabile sia  potenza  dialettica.  —  Dottrina  del  pos- 
sibile         » 

Se,  e  come  l'essere  considerato  come  causa  determi- 
nante sia  potenza » 

Se  l'essere  consideralo  come  ultima  determinazione 
sia  potenza.  —  Conclusione  della  questione.   .       » 
Se  la  virtualità  dell'essere  iniziale  sia  una  limitazione  » 
Continuazione  —  Dottrina  dell'essere  possibile  .       » 
Stato  della  questione  ;  «  come  l'essere ,  in  quanto  è 
primo  determinabile,  possa  esser  potenza  «.   .       » 

Soluzione  della  questione  in  generale » 

Possibilità  dell'ente.  ■ —  Dieci  generi  di  potenze  .       » 
Possibile,  predicato  dell'essere  indeterminato  relativo 

a' suoi  termini  propri  e  impropri » 

Possibile,  predicato  de'termini  dell'essere.  —  Se  i  fi- 
niti possibili  siano  qualche  cosa  di  positivo  :  pos- 
sibilità logica,  possibilità  metafisica  de' medesimi: 
necessità  duplice  dell'essere  assoluto  e  de' finiti 

possibili » 

Continuazione.  —  Dell'atto  considerato  nell'  essere 

indeterminato » 

Ricapitolazione  e  nesso  colla  trattazione  che  segue.    » 
Come  la  potenza  dialettica  opinativa  si  concilii  col- 

l'attualità  propria  dell'essere » 

Come  la  potenza  dialettica  ideale  si  concilii  coll'attua- 

lità  dell'essere » 

Io  qual  senso  abbiamo  chiamato  l'essere  materia  uni- 
versale ossia  primo  determinabile » 

Corollari  importanti  dell'esposta  dottrina ....       » 
Primo  Corollario.  ~  Ragione  ontologica  del  princi- 
pio, che  non  può  esistere  se  non  ciò  che  è  con- 
cepibile        » 

Secondo  Corollario.  —  Non  può  esistere  realmente 
cosa  alcuna  che  non  sia,  non  solo  concepibile,  ma 

concepita  da  qualche  mente » 

Terzo  Corollario.  —  La  creazione  non  può  esser  fatta 
da  altri  che  da  Dio > 


311 

ivi 

313 


341 
342 


346 

350 
351 
352 

ivi 

ivi 

354 

355 


357 

366 
ivi 

367 

370 

379 
394 


396 


IVI 


723 

Articolo      IV.  Quarto  Corollario.  —  Concetto  ed  esistenza  necessaria 

della  libertà  divina Pag.  398 

j>  V.  Quinto  Corollario.  —  L'  Emanatismo  è  un  sistema 

erroneo »      ivi 

K  VI.  Sesto  Corollario.  —  11  Panteismo  è  un  sistema  er- 
roneo         a    399 

i  VII.  Settimo  Corollario.  —  Descrizione  della  Creazione     »      ivi 

»  Vili.  Ottavo  Corollario.  —  L'Esemplare  del  Mondo  non  è 
il  Verbo  divino ,  benché  1'  Esemplare  si  trovi  in 
questo  in  due  modi:  1.»  per  eminenza;  2.»  per 
conseguenza »    i\3 

»  IX.  Nono  Corollario.  —  Il  reale  creato  non  è  il  reale 

divino »     429 

»  X.  Decimo  Corollario.  —  Il  reale  degli  enti  lìniti ,  in 
quant'è  proprio  di  questi  ed  appartiene  alla  loro 
esistenza  subiettiva ,  o  estrasoggettiva  ,  è  fuori  di 
Dio;  ma  nell'Essere  assoluto  obiettivo,  come  obietto 
dell'atto  intellettivo  creatore,  esiste  eminente- 
mente           >    430 

»  XI.  Corollario  undecimo.  —  L'essere  ideale,  lume  della 

mente  umana,  non  è  il  Verbo  divino ,  né  la  divina 
essenza,  ma  una  appartenenza  di  questa  ...       »     444 

B  XII.  Duodecimo  Corollario. — Differenza  tra  i  due  elementi 

del  Mondo,  l'essere  iniziale  e  il  reale  ....       »    447 
CAPITOLO   VI.  Della  terza  proprietà,  che  l'essere  comunica  a' reali 

finiti,  r  intelligibilità  d'affermazione »    456 


SEZIONE  V 

Di  ciò  che  l'essere  obiettivo  comunica  ai  reali  finiti »    461 

CAPITOLO  I.  Della  forma  finita ,  che  l'essere  comunica  al  reale 
nella  mente,  prima  che  esista,  d'una  esistenza  sua 
propria,  l'ente  finito >      ivi 

Articolo         I.  Il  reale  finito  non  può  ricevere  l'esistenza,  se  non  è 

pienamente  determinato »      ivi 

B             li.  Come  l'essere  ideale  contenga  il  principio  della  de- 
terminazione del  reale  finito »     467 

>  III.  Nell'Universo  e  e  qualche  cosa  che  appartiene  all'ele- 

zione del  Creatore,  e  qualche  cosa  che  è  un  conse- 
guente necessario »     477 

>  IV.  Quali  sieno  i  sommi  generi  di  materia  ossia  di  realità, 

di  cui  consta  il  mondo »     478 


724 

Abticolo 

V, 

> 

VI 

> 

VII 

CAPITOLO 

II, 

III. 


IV. 


Articolo 


» 

II 

» 

III 

» 

IV. 

» 

V. 

»  VI. 

j  VII. 

»  vili. 

§  1. 


CAPITOLO     V. 

Articolo        I. 
i.  II. 

*        ni. 

IV. 
»  V. 


»  VI. 

>  VII, 

CAPITOLO  VI 
Articolo        I 


Come  la  mente  divina  potè  trovare  nel  reale  illimi- 
tato i  sommi  generi  delle  realità  di  cui  consta  il 

mondo ...   Pag. 

Di  quanti  elementi  si  componga  la  forma  del  reale 

finito » 

Determinazioni  comuni  ad  ogni  ente  finito,  e  deter- 
minazioni non  comuni » 

Continuazione.  —  Del  primo  elemento  della  forma 
finita  comune  ad  ogni  ente  finito,  la  somma  qualità 

generica » 

Continuazione.  —  Del  secondo  elemento  della  forma 
finita  comune  ad  ogni  ente  finito,  l' intelligibilità 

obiettiva » 

Continuazione.  —  Del  terzo  elemento  della  forma 
finita  comune  ad  ogni  ente  finito  ,  la  quantità  de- 
terminata         » 

Origine  dell'infinità  e  dell'universalità  delle  idee.       » 

Definizione  della  quantità » 

Della  quantità  ontologica » 

Della  quantità  ontologica  astratta » 

Continuazione.  —  Quantità  discreta.  —  L'uno  astratto 
è  misura  assolutamente,  e  non  misurato  :  tutte  le 
altre  misure  sono  misurabili  e  ricevono  l'essere 

misure  da  esso » 

Quantità  cosmologica » 

Continuazione.  —  Concetto  di  qualità » 

Quantità  fisica,  ossia  del  reale  finito  in  sé    .   .    .       t> 
Quantità  del  reale  finito  determinato  considerata  nella 

specie  piena » 

Quantità  del  reale  finito  considerata  ne'  diversi  reali 

finiti  confrontati  tra  loro » 

Continuazione  —  Del  quarto  elemento  della  forma 
finita,  comune  ad  ogni  ente  finito,  l'unità    .    .       » 
Definizione  universale  dell'unità  e  dell'uno  ...       » 
Vari  significati  dell'uno,  che  ammettono  tutti  la  data 

definizione » 

Se  l'uno  si  converta  coH'ente » 

Origine  del  concetto  di  uno  comune » 

Dell'uno  predicalo  d'un  solo  subietto,  e  predicato  co- 
mune di  piti  subietti.  —  Concetto  di  pluralità  e  di 

numero » 

Se  l'essere  ideale  sia  uno » 

Concetto  d' individuo  e  di  comune » 

Concetto  di  tutto,  e  di  parti » 

Concetto  del  tutto » 


479 
480 
483 

484 

485 


488 
ivi 

490 
ivi 

494 


495 
497 
513 
520 


523 

541 
ivi 

542 
543 
544 


546 
549 
551 
555 
ivi 


irò 


Articolo       II.  Concetto  di  divisione  e  concetto  di  parli  ....  Pag. 

CAPITOLO  VII.  Concetto  di  semplice > 

Articolo         I.  Antinomia  tra  l'ente  uno  e  l'ente  composto.       .       > 

»  II.  Una  certa  maniera  di  semplicità  è  essenziale  ad  ogi»i 
ente » 

»  HI.  Concetti  di  composizione,  e  di  composto    ...       » 

!>  IV.  Della  differenza  tra  i  composti  oggettivi,  i  composti 
dialettici  e  i  composti  reali » 

»  V.  Che  per  conoscere  se  un  ente  è  semplice  o  composto, 
e  in  qual  senso  sia  tale,  conviene  considerare  ,  se 
molle  entità  compongano  il  subietto  dell'ente,  ossia 
l'ente  subiettivo » 

»  VI.  Della  semplicità  e  della  molliplicità  considerata  negli 
obielti  come  obietti,  ossia  nelle  idee » 

»  VII.  Della  semplicità  e  della  composizione  dialettica  .       j 

»  Vili.  Del  composto  dianoetico » 

>  IX.  Del  semplice  e  del  composto  ne'  reali » 

i  X.  Continuazione.  —  Dottrina  della  base  e  delle  appen- 
dici degli  enti » 

CAPITOLO  Vili.  Teoria  dell'identità » 

Articolo  I.  Formazione  del  concetto  d'identità.  —  Identità  op- 
posta al  concetto  di  diversità  dialettica,  e  identità 
opposta  al  concetto  di  diversità  obiettiva  ...       t 

»  II.  Difficoltà  che  s'incontra  ne' giudizi  intorno  alla  identità 
degli  enti.  —  Sede  dell'identità.  —  Doppio  genere 
di  questi  giudizi s 

»  III.  Identità  relativa  alla  varietà  estrinseca t 

§  1.  Prima  specie  di  varietà  estrinseca  all'entità  pensata: 
moltiplicità  degli  atti  del  pensiero  :  giudizi  sul- 
l'identità dell'entità  pensata  con  atti  uguali  mol- 
liplici » 

»  2.  Seconda  specie  di  varietà  estrinseca  all'entità  pensata: 
modi  diversi  di  pensare:  giudizi  suH'  identità  del- 
l'entità pensata  con  modi  diversi > 

»              3.  Dell'  uso  che  fa  la  dialettica  dell'  identità  relativa  ai 
due  modi  di  pensare,  analitico  e  sintetico.   .   .       9 
Articolo       IV.  Identità  relativa  alla  varietà  intrinseca » 

§  i .  Regole  generali  per  conoscere  l' identità  degli  enti 
relativa  alle  loro  varietà  intrinseche » 

ì)  2.  Due  specie  di  varietà  intrinseca,  quella  che  consiste 

ne' cangiamenti  che  nascono  nello  stesso  ente,  e 
quella  che  consiste  nella  moltiplicità,  che  si  trova 

nello  stesso  identico  ente > 

Articolo        V.  Concetto  di  diventare ^ 

»  VI,  Della  ricchezza  e  dignità  degli  enti > 


557 
560 


IVI 

561 
563 


564 

566 

577 
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581 

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593 


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599 

605 
607 


609 
612 
649 


726 


Articolo 

VII. 

» 

Vili. 

»     • 

IX. 

CAPITOLO 

'  IX. 

Articolo 

I. 

» 

II. 

a 

IH. 

» 

IV. 

)) 

V. 

;) 

VI. 

» 

VII. 

)) 

Vili. 

Articolo 


IX 

I, 

2. 
3, 

4, 
X. 

XI. 

XII. 

XIII. 

1. 

2, 


Semplicità  dell'essere  assoluto,,  e  semplicità  dell'es- 
sere indoterminato , ^   Pag.  649 

Del  concetto  dell'altro »     652 

llicapitolazione  della  dottrina  dell'uno »    654 

Dottrina  de'  limiti »     q^q 

Ravviamento  del  discorso >,      ivi 

La  differenza  di  limitato  e  d'illimitato  è  differenza 

d'enti »     657 

Origine  ontologica  della  limitazione »    658 

La  realità  inlluita  limitabile  solo  come  cognita:  in  che 

modo  si  dica  imitabile »    659 

Concetti  afìini  a  quello  di  limitazione s>    660 

Dichiarazione  della  definizione  data  della  limitazione 

nel  suo  doppio  significato »     662 

Limite  assoluto,  limite  relativo,  loro  misure  .   .       »    663 
Analisi  della  definizione  data  del  limite,  e  maniera  di 

dedurre  i  generi  diversi  de' limiti »     664 

Prima  classe  de' generi  de' limiti ,  che  è  quella  che 

nasce  dalla  diversità  de'subietti  delle  limitazioni     »     665 
I  sommi  generi  della  prima  classe  sono  sei.   .   .       »      ivi 

Della  limitazione  dell'essere »      ivi 

Della  limitazione  delle  forme  categoriche  e  delle  en- 
tità mentali »    666 

Della  limitazione  degli  enti »    668 

Continuazione.  —  Degli  enti  reali  finiti.  —  Limite 

entitativo,  trascendente  ed  essenziale  ....       »      ivi 
Continuazione.  —  Limite  trascendente  subiettivo  e 

limite  trascendente  obiettivo  :  limiti  secondari.       »    670 
Seconda  classe  de'  generi  de'limiti  che  è  quella  che 

nasce  dalla  diversa  natura  de'limiti  stessi  .    .       »    672 
Terza  classe  de' generi  de'limiti  che  è  quella  che  ha 
per  fondamento  la  congiunzione  diversa  che  passa 
tra  il  limite  e  l'entità  che  ne  è  il  subietto  .   .       »    673 
De'limiti,  anteriormente  a' quali  si  concepisce  un 

ente  individuo  reale  loro  subietto »      ivi 

Continuazione.  —  Onde  l' indefinito  ,  e  perchè  certi 
limiti  si  possono  sempre  piìi  diminuire  senza  che 

mai  s'annullino »    676 

Continuazione.  —  Dell'inerenza  del  limite  secondario  »    683 
De'limiti,  anteriormente  a' quali  non   si  concepisce 

alcun  ente  reale,  ma  solamente  qualche  entità      »    685 
De'limiti,  anteriormente  a' quali  non  si  concepisce 
alcun  ente  né  alcuna  entità  che  sia  subietlo  della 

limitazione »     691 

Continuazione.  —  L'unità ,  ossia  l'uno  vago  ,  è  data 


727 

nella  prima  e  indeterminata  realità  finita  nella 

mente  divina Pag.  702 

§  7.  Continuazione  :  —  «  Se  sia  finito  o  infinito  il  numero 

degli  enti  finiti  possibili  » >     704 

B              8.  Continuazione.  —  11  complesso  degli  enti  finiti  pos- 
sibili è  in  sé  stesso  ordinato »     706 

Articolo     XIV.  La  quiddità  dell'ente  finito  non  è  costituita  da  ciò  che 

egli  lia  di  positivo,  ma  da'  suoi  limiti  ....  »  708 
T)  XV.  Se  la  prima  realità  finita,  prima  di  ricevere  l'esitenza 
in  sé,  abbia  bisogno  d'essere  determinata  mediante 
una  serie  costante  di  differenze  generiche  e  speci- 
fiche, ovvero  possa  ottenere  una  piena  determina- 
zione con  un  numero  ora  maggiore  ora  minore  di 
differenze  successive »     710 

CAPITOLO      X.  Ricapitolazione  e  conclusione i     712 


«.--?y».Q*»U»B'^r^~» 


Con  approvazione  ecclesiastica. 


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