Historic, Archive Document Do not assume content reflects current scientific knowledge, policies, or practices. UNITED STATES DEPARTMENT OF AGRICOLTURE UBRARY Booknumber l 0 . ^ n i io BOLLETTINO DELLA SOCIETÀ DEI NATURALISTI . BOLLETTINO VOLUME XXXVII (SERIE II., VOL. XVII), Con 15 tavole (Pubblicato il 10 febbraio 1926) NAPOLI OFFICINA CRÒMOTIPOQRAFICA "ALDI Piazzetta Casanava a S. Sebastiano, 2-4 1 926. INDICE \ ATTI (MEMORIE E NOTE) Riccio R. — Innesti autoplastici di capsule surrenali . . pag. 3 Viggiani G. — La consanguineità al lume delle più recenti vedute della genetica . . > 19 Viggiani G. — Alcune notizie sulla morfologia e sulla biologia della Tropinota hirta , con specialè riguardo ai danni da essa arrecati alle coltivazioni erbacee ed arboree ... » 28 Mazzarelli G. — Osservazioni sulla tromba marina apparsa nelle acque di Cuma il 25 agosto 1923 . . . . » 54 Geremicca F. — Su alcuni prodotti metyleninici . . . . » 63 Imbò G. — Spettri d'assorbimento e conducibilità elettrica delle so¬ luzioni di cloruro di cobalto . » 67 Guadagno M. — Rapporti fra pioggia e vegetazione nella costiera amalfitana . . . . . . . . » 74 Salfi M. — Sul ringiovanimento della Rhopalaea neapolitana Phil. » 85 Salfi M. — Contribuzioni alla conoscenza degli Ortotteri libici - 2. Oothecaria e Saltatorìa di Cirenaica . . . » 90 Fedele M. — Sulle inversioni del movimento vibratile nei Ctenofori. » 95 Guadagno M. — Il tufo trachitico ossidianico di Santo Stefano al Vomero (Napoli) r Secondo contributo alla conoscenza del sottosuolo cittadino . . . ... » 113 Marcucci E. — Rapporto tra la rigenerazione della corda dorsale e . la restituzione delle parti di coda asportate nelle larve di Anfibii anuri . » 126 Wen D. — Precocità di sviluppo e tendenza alla partenogenesi nei Bachi da Seta (Bombyx mori) di razza gialla indigena. » 135 Jucci C. — Bachi terzini e Bachi quartini - Il comportamento ere¬ ditario del tipo di sviluppo larvale nella discendenza di incroci tra razze di bachi da seta a tre e a quattro mute. > 150 COTRONEI G. — Risultati di esperienze sugli Anfibi sull’influenza del sistema nervoso in relazione a nutrizione con tiroide . >164 Cotronei G. — Osservazioni sullo sdifferenziamento nel Coryden- drium parasiticum . » 167 Zirpolo G. — Caso di simbiosi fra Dromia vulgaris M. Edw. e Balanus crenatus BRUG. . » 177 BOLLETTINO DELLA SOCIETÀ DEI NATURALISTI IN NAPOLI VOLUME XXXVII (SERIE II., VOL. XVII). ANNO XXXIX 1925 Con 15 tavole (Pubblicato il 10 febbraio 1926) NAPOLI OFFICINA CROMOTIPOGRAFICA " ALDINA Piazzetta Casanava a S. Sebastiano, 2-4 1926. Bollettino della Società dei Naturalisti in Napoli. ATTI (MEMORIE E NOTE) Innesti autoplastici di capsule surrenali. Ricerche sperimentali del socio Dr. Raffaele Riccio Generalità. Gli innesti nei metazoi hanno attraversato due periodi, un primo, che potremmo chiamare empirico, nel quale i chirurgi e gli osservatori, hanno assistito all’attecchimento in sito di pezzi di tessuto casualmente distaccatisi dall'organismo, ed un secondo scientifico, nel quale fisiologi e patologi hanno cercato di sta¬ bilire le condizioni deirattecchimento. E per vero molto conforto a questi studi di biopatologia sperimentale era dato dagli esperimenti eseguiti in epoche abba¬ stanza remote dai botanici e dagli agricoltori. Gl'innesti nel re¬ gno vegetale sono stati infatti compiuti sempre e con esito fe¬ lice. Qui è notevole il fatto che il portainnesto o soggetto in¬ duce poca o nessuna influenza sull'innesto, che continua a cre¬ scere ed a vegetare come se si trovasse in posto sulla pianta madre: la pianta portainnesto funziona quindi come una matrice dell'innesto. Nel regno animale invece il portainnesto induce non poche influenze sulla vita e sull'ulteriore sviluppo deH'innesto, che in molti casi ha una vita temporanea , perchè sostituito gradata- mente ed incessantemente da nuovi elementi rigeneratisi alla pe¬ riferia di esso. Se si fosse tenuto, dai ricercatori e dai patologi, più conto di queste differenze sostanziali che esistono sull'attec¬ chimento e vita ulteriore dell'innesto nel regno vegetale e in quello animale, è da credere che essi non si sarebbero, talvolta, osti¬ nati a tentare innesti di tessuti su punti che, almeno teorica¬ mente non appaiono i più opportuni per un sicuro successo. _ 4 — Nel regno animale, pertanto, non mancano casi di reale innesto di cellule, di tessuti e perfino di organi, i quali nell'ospite tro¬ vano un terreno atto alla loro vita: la cellula uovo fecondata, nei mammiferi, che aderisce alla mucosa uterina è evidentemente un caso d'innesto di cellula e di gruppo cellulare; la trasfusione del sangue è un innesto reale e temporaneo di tessuto, ecc. La patologia anch'essa dimostrò che cellule neoplastiche po¬ tessero abbandonare la loro primitiva sede di origine e trapian¬ tarsi per la via sanguigna o linfatica in organi vari riproducendo il tipo blastomatoso originale. E per quanto, dato le odierne teorie sul cancro, si debba supporre che queste cellule metastatiche, debbano trovare degli ostacoli alla loro ulteriore vita e sviluppo per parte degli ele¬ menti del tessuto sul quale si sono andate ad impiantare, pure il nuovo ambiente è abbastanza consono al loro progredire, tanto che, spesso, le metastasi, in alcuni tipi di cancro epiteliale o con- nettivale, sono più voluminose del primitivo tumore. Gl'innesti vanno divisi in: innesti autoplastici, inne¬ sti omoplastici, innesti et eroplastici, a secondo che il pezzo da innestare appartenga al medesimo individuo, ad un in¬ dividuo della stessa specie, o di una specie più o meno differente. E’ evidente che gl'innesti autoplastici, presentano le migliori possibilità di successo, rispetto agl' innesti omoplastici e questi ultimi rispetto agli eteroplastici, sempre in virtù del terreno più atto alla loro ulteriore vita e sviluppo. Gl'innesti autoplastici, alla loro volta, possono essere inne¬ sti in sito o in una regione differente del corpo: nell'innesto autoplastico in sito il pezzo da innestare è riposto nel punto dal quale è stato asportato, senza spostamenti nella orientazione. Innumerevoli sono le cause che possono ostacolare l'attec¬ chimento degl'innesti, molte delle quali con perfezionati metodi di tecnica lo sperimentatore ha eliminate , purtroppo però si è ben lungi dall'aver raggiunto quella perfezione che dia l'affida¬ mento a che la maggior parte degl’innesti siano coronati da successo. Ciò che rende di non pratica applicazione questo genere di ricerche è il fatto che gl'innesti eteroplastici non attecchiscono quasi mai, ovvero sono votati ad una esistenza molto transito- — 5 — ria. Infatti è difficile che almeno per l'uomo possa verificarsi la contingenza che contemporaneamente due soggetti si trovino nelle condizioni l'uno di fornire e l'altro di ricevere l'innesto, di po¬ ter prodursi cioè un innesto omogeneo, e, per ragioni ovvie, sol¬ tanto in rarissimi casi, sarà dato di eseguire un innesto autopla¬ stico, principalmente per ricoprire superfici ulcerate con lembi di cute o sostituire pezzi di osso in seguito a resezioni ecc. Le ricerche di Carrel e della sua scuola si sono molto in¬ teressate di questo complesso problema di fisiopatologia, dimo¬ strando la possibilità di tener conservati, e per lungo tempo, in liquidi conservatori (di Ringer, di Locke ecc.) ed in ghiacciaia pezzi di tessuto, i quali posti in opportuna sede, avrebbero do¬ vuto innestarsi e funzionare, mostrando di possedere la primitiva vitalità !). Su questo argomento non è detta l'ultima parola e noi ri¬ mandiamo per esso alla memorie particolari. Anche per l'innesto di cute purtroppo, non poche ricerche tenderebbero a dimostrare che molti innesti clinicamente riusciti subiscano la stessa sorte di funzionare da protezione cioè alla perdita di sostanza, sino a che i processi rigenerativi non finiscano per sostituire gradatamente l’innesto. Infatti laddove i processi ri¬ generativi per la natura delle regioni non sono molto cospicui, spesso l'innesto dopo un tempo più o meno variabile va in necrosi. Ma se per la cute, per le ossa, al clinico poco importa che l'innesto sia attecchito anatomicamente purché funzionalmente si abbia un rivestimento ed un sostegno che assicurino, col tempo, una ri- generazione dei tessuti, lo stesso non potrà dirsi per gli even¬ tuali innesti glandolai, che pur di tanto interesse sarebbero in molteplici affezioni morbose, nelle quali le glandole in parola si mostrassero insufficienti nella loro funzione. Gl’ innesti glandolari vanno poi distinti a secondo che ri¬ guardano glandole a secrezione interna, glandole a secrezione esterna, glandole miste. E' ovvio comprendere come una glandola a secrezione esterna mal possa innestarsi ed attecchire, perchè anche nella migliore delle ipotesi, avvenuto l'innesto cioè, non avrebbe dove versare l) Riccio, R. — Sulla cultura dei tessuti " in vitro „. Pathologica, N. 3. 1924. — 6 - il suo prodotto, essendo fatalmente circondata da una ghiera di tessuto connettivo vascolare che le deve assicurare il nutrimento. Le glandole a secrezione interna, almeno teoricamente, sono quelle che meglio dovrebbero prestarsi a favorevoli innesti; per le glandole miste dovrebbe e potrebbe attecchire quel tanto di tessuto glandolare che è deputato a fornire secrezioni interne. Così posto il problema appare subito, da un punto di vista teo¬ rico, che gl'innesti di glandole a secrezione interna, o quel tes¬ suto di glandole miste che fornisce secrezioni interne, con op¬ portune cautele di tecnica, potrebbero attecchire o fornire all'or- ganismo quelle secrezioni mancanti per insufficienza di cose, de¬ terminata da affezioni morbose o altre contingenze. Ed infatti, almeno per alcune glandole a secrezione interna, i tentativi d'in¬ nesto sono stati coronati da successo; pur troppo però , questi successi per peculiari condizioni, rappresentano più degli esperi¬ menti di laboratorio, anziché tentativi che possono applicarsi alla terapia delle molteplici affezioni morbose. In effetto se conside¬ riamo la struttura anatomica di molte di queste glandole a se¬ crezione interna, notiamo quanto complessa è la morfologia delle loro cellule, quanta grande è la differenziazione in questi ele¬ menti glandolai (es. la tiroide, le cui cellule elaborano nel pro¬ prio citoplasma granulazioni molteplici, indice evidente dell' ele¬ vato grado di loro funzione). La conseguenza di queste premesse biologiche si è che una glandola potrà trapiantarsi sempre che non sia impedito il fun¬ zionamento di essa e sempre che gli elementi di cui risulta for¬ mata, possono essere dotati di un cospicuo potere rigenerativo. Nelle glandole miste , non dovrebbero attecchire che solo quelle zone glandolari che forniscono all'organismo sostanze che vanno direttamente nei vasi sanguigni : così le isole di Langhe- rans, per il pancreas (De Dominicis), ecc. Innesti di glandole surrenali. Numerosi sono stati finora i casi di tentativi di innesti di capsule surrenali compiuti dai varii autori e con successo molto problematico; per il che sembrerebbe doversi venire alla conclu¬ sione che gl’innesti in parola, anche se autoplastici, non siano — 7 — possibili, non per difficoltà di tecnica nell'esperimento, nè per complicanze operatorie, bensì per il fatto che la capsula surre¬ nale, risultando composta di tessuti di varia natura, non presen¬ terebbe la possibilità di rigenerazione di tutti i suoi elementi. In¬ fatti, in seguito alesarne dei preparati istologici del pezzo inne¬ stato, i ricercatori hanno creduto trovare la ragione della morte degli animali nel mancato attecchimento contemporaneo della so¬ stanza midollare e della corticale, tanto che Pende ha emesso la ipotesi “ che la sostanza midollare e la corticale delle capsule sono cosi intimamente collegate tra di loro nella funzione, che un'azione efficace delle cellule midollari non è possibile, se non quando persiste almeno un certo numero di cellule corticali fun¬ zionanti Questo scetticismo moderno è però in contraddizione con quanto avevano ottenuto ricercatori relativamente antichi. Gl'innesti autoplastici di surrene sono stati praticati tanto allo stato embrionale o fetale (Galeotti, Villasanta, Parodi, Taddei, Torrini ecc.) quanto allo stato adulto; sia negli animali (cane, co¬ niglio, cavia, ratto, rana, gatto) che sull'uomo, innesto cadaverico (Hurst, Brown), ed anche dall'animale sull'uomo (Courmon). Hurst ha innestato in un testicolo di addisioniano una surrenale di un neonato poco dopo la morte, ottenendo semplice aumento della pressione sanguigna e del tasso emoglobinico. Brown ha tentato un omoinnesto' cadaverico di capsula surre¬ nale presa da soggetto morto per nefrite, ma l'operato morì do¬ do 42 ore dall'intervento. Courmon ha tentato l'innesto sotto- cutaneo di surrene di cane sotto la cute di un addisoniano, l'in¬ fermo è morto in meno di 24 ore (diversità di specie). Gl'innesti sugli animali sono i più numerosi e sono stati trapiantati, con tecniche varie, nelle più diverse regioni del cor¬ po (sottocute, cavità peritoneale, rene, testicolo, ovaio, milza, fe¬ gato, tiroide, muscoli, regione ileo-coccigea, dura madre ecc.); oltre all'autotrapianto di un pezzo di surrene in tutti questi luo¬ ghi, sono stati tentati anche innesti con cellule surrenali embrio¬ nali in sospensione in soluzione fisiologica (Galeotti e Villa- santa) ed ancora con iniezioni di poltiglia di capsule triturate De Dominicis, Chiarolanza, Meglio ecc.). Risultati negativi hanno ottenuto Anderson , Weiss , Gour- 8 fein, Boinet, Hultgren, Galeotti e Villasanta (innesto embrio¬ nale), Jaboulay, Courmon, Parodi (innesto embrionale), Imbert, Brown, Strehel, Coenen, Chiarolanza e Meglio (innesto adulto ed embrionale), Taddei e Torrini (innesto adulto e fetale) , ecc. Taddei e Torrini hanno praticato gl'innesti di capsula sur¬ renale di coniglio e di feto di coniglio, di cavia e di feto di ca¬ via su rene di coniglio: il risultato, a più o meno distanza, é stato sempre negativo. Qui oltre ai fatti degenerativi, sono stati notati piccoli vacuoli protoplasmatici mai confluenti negl'innesti omo¬ genei; grandi vacuoli proplasmatici che spingono il nucleo ver¬ so la periferia occupando tutta la cellula negl'innesti eterogenei; ogni innesto è stato poi trovato avvolto da una capsula connet- tivale derivante dalla proliferazione del connettivo interstiziale del rene. Chiarolanza e Meglio hanno praticato molti innesti tanto di capsule surrenali adulte, quanto di quelle embrionali in cui serie di cani, conigli e cavie, praticando anche delle inoculazio¬ ni di poltiglia surrenale: risultato sempre negativo. Imbert su 5 esperienze riscontrò una volta degenerazione grassa della sostanza fascicolare, una volta la formazione di una cavità cistica, nelle altre 3 solo connettivo fibroso. Coenen ha operato sui cani praticando l'innesto nella milza: già al 5° giorno però l'organo innestato granuleggiava comple¬ tamente. Risultati dubbii e limitati all’attecchimento della sola sostanza corticale hanno ottenuto: Poll, Schmieden, Parodi, H. e M.me A. Christiani, Busch, Léonard, Wright ecc. Poll ha operato su 58 ratti ed in soli 23 casi ha visto una piccola parte della sostanza corticale conservarsi o rigenerare; in tutti i casi però, la sostanza midollare era distrutta e rimpiazzata da connettivo. Nel 1902, H. Christiani, in collaborazione con M.me A. Chri- stiani ha ripreso lo studio istologico di un simile trapianto; essi hanno visto che " le capsule surrenali del ratto, trapiantate con cura nella cavità addominale attecchiscono sempre, ma la sostanza corticale sola si rigenera in una maniera apparentemente perfetta, la sostanza midollare si atrofizza quasi sempre completamente. Pertanto, negl'innesti frazionati, quest'atrofia non è sempre — 9 — totale, e per qualche tempo si può seguire l’evoluzione di alcuni gruppi di cellule midollari Disgraziatamente questi autori non danno una descrizione ci¬ tologica delle loro osservazioni; i reattivi di cui si sono serviti non sono di quelli che permettono uno studio sufficientemente preciso di un organo così delicato quale le capsule surrenali. Per essi, intanto, l’innesto del surrene non assicurerebbe mai la sopravvivenza del ratto che ha subito la capsulectomia totale. Parodi che si è servito di capsule surrenali embrionali ha avuto anch'egli il limitato attecchimento della corticale; per altro ha .notato che l'innesto, raggiunto un certo grado di evoluzione, viene invaso e strozzato dal connettivo che lo circonda. Qui è da rimarcarsi il fatto però che l'innesto di surrenale embrionale in un ambiente giovane resiste maggior tempo che in ambiente adulto. Busch, Léonard e Wright hanno operato 30 animali, pra¬ ticando innesti di capsula surrenale nella tiroide, nel testicolo, nel rene, sopra cani e conigli, non solo sullo stesso animale, ma da animale in animale della stessa specie: i risultati sono com¬ pletamente falliti nel testicolo e nella tiroide, mentre limitata- mente positivi sono stati soltanto nel caso ove il rene costituiva il tessuto d’impianto. In tutti questi casi e nei precedenti v'è stato assorbimento dell’innesto e la sostituzione da parte del tessuto connettivo; nei casi invero eccezionali di sopravvivenza, degli animali come in alcuni di Busch, Léonard e Wright, v’erano surreni accessori. Gl'innesti completamente riusciti si riducono a quelli di Abe- lous , Schmieden , De Dominicis e Busch ed ai peduncolati di Haberer e Stoerk. Il nostro De Dominicis, nel 1896, ottenne l'attecchimento completo dell'innesto evidentissimo all'esame istologico, ma sen¬ za la sopravvivenza degli animali (cani), tanto vero che pensò -e sostenne come la vera causa di morte per insufficienza surrenale dovesse ricercarsi in una origine nervosa e non tossica. Haberer e Stoerk hanno avuto un caso di animale soprav¬ vissuto sino a 9 anni dopo l'innesto. Busch un solo caso di sopravvivenza su 33 esperimenti; — 10 — Schmieden 4 su 27, ma senza poter constatare l'attecchimento avvenuto. Solo gl' innesti compiuti da Abelous (1892), il più antico dei ricercatori , apparirebbero effettivamente riusciti anche dal lato fisiologico: egli avrebbe distrutto le capsule surrenali di 8 rane, alle quali precedentemente aveva praticato l'innesto capsu- lare alla regione ileo-coccigea. Le rane sopravvissero; 15 giorni dopo distrusse gl'innesti: 6 di queste rane morirono in 3-4 giorni, una settima morì dopo 12 giorni in uno stato di dima¬ grimento notevole, l’ultima sopravvisse ! Ora, a noi, tutti questi ed i precedenti esperimenti positivi non appaiono, ad una severa critica , molto dimostrativi. E ve¬ diamo, in molti casi, la netta contraddizione tra il reperto isto¬ logico positivo e l’avvenuta morte dell’animale per insufficienza surrenale. Gli esperimenti di Abelous e di qualche altro dimo¬ strano in modo incontrovertibile che le capsule accessorie hanno potuto ipertrofizzarsi e supplire alla non semplice funzione sur¬ renale, giacché sarebbe perfino vissuta, e bene, una rana, alla quale sarebbero state tolte le capsule ed in seguito anche l’in¬ nesto attecchito ! Noi crediamo fermamente però che tutta la questione sia nella sostanza midollare, di tanta complessa costi¬ tuzione, la quale difficilmente riesce a trapiantarsi ed a rigenerare. In seguito al che non crediamo inopportuno, anche per comprendere meglio le alterazioni cui va incontro il tessuto sur¬ renale quando si trapianta e le sue eventuali rigenerazioni, ri¬ cordare pochi dati sulla anatomia di questa importante ghian¬ dola endocrina. Prima di passare a quest'altro capitolo, però, dobbiamo do¬ verosamente accennare ad altri innesti omoplastici di surrenale at¬ tecchiti che riguardano un altro ordine di idee e cioè la ripro¬ duzione sperimentale di tumori (ipernefromi) per il trapianto di capsule surrenali di conigli neonati su reni di animali adulti della stessa specie (Durante, Neuhausser ecc.). Tali ricerche sono riu¬ scite positive al solo primo sperimentatore, il Neuhausser che volle, nel 1909, portare un contributo alla teoria dei germi aber¬ rati nei tumori di Conheim-Ribbert ; nessun altro ricercatore però, e sono stati parecchi, è riuscito ad ottenere risultati simili (Taddei, Chiarolanza ecc.). — 11 — Cenno sulla costituzione delle capsule surrenali. La glandola surrenale comincia ad apparire già al 15° giorno della vita endouterina come un abbozzo di tessuto, chiamato sistema interrenale, che nel prosieguo, con differenziazioni, darà origine alla futura sostanza corticale. Verso il 3° mese di vita endouterina in questo tessuto interrenale penetrano propaggini del simpatico addominale che alla loro volta si andranno differen¬ ziando in simpatoblasti e feocromoblasti. Le propaggini del sim¬ patico origineranno la futura sostanza midollare e propriamente i simpatoblasti sarannno i progenitori delle cellule simpatiche della midollare ed i feocromoblasti delle cellule cromaffini. Più che sugli elementi costituenti la sostanza corticale, e più che sulle cellule simpatiche della midollare , le divergenze degli autori sono purtroppo in rapporto alla genesi ed alla funzione delle cellule cromaffini , che per molti non dovrebbero ripetere una origine neuro-epiteliale, ma sibbene epiteliale ed epiteliale— secernente (Diamare): infatti in esse con opportuni reagenti, si possono mettere in evidenza granulazioni speciali, alle quali si attribuiscono i più importanti attributi della complessa secre¬ zione surrenale. Così stando le cose, partendo da un punto di vista dottri¬ nale, un trapianto di glandola surrenale potrà chiamarsi riuscito e funzionante, quando si troveranno floridamente rigenerate sia le cellule corticali, che le simpatiche e le cromaffini. Ricerche sperimentali. Anche noi, da tempo, abbiamo seguito la medesima via trac¬ ciata dagli autori che ci hanno preceduto, compiendo su cani e conigli esperimenti d’innesti autoplastici, omoplastici ed etero- plastici di glandola surrenale. Per quanto riguarda gl’innesti omoplastici e per gli etero- plastici crediamo prematuro esporre i risultati delle nostre ri¬ cerche, che hanno bisogno di ulteriori esperimenti, atti ad avva¬ lorare alcuni punti molto dubbi di questo complesso argomento; invece desideriamo descrivere ora ciò che è avvenuto degli in¬ nesti autoplastici, i quali benché non possono trovare alcuna ap- — 12 — plicazione in casi di insufficienza surrenale pure offrono l’oppor¬ tunità di studiare (nei casi, invero eccezionali, coronati da suc¬ cesso) la rigenerazione dei vari tipi di tessuto di cui risulta com¬ posto questo notevolissimo apparecchio endocrino. Di questi nostri esperimenti riferiamo il risultato soltanto e le considera¬ zioni, tralasciando, per brevità, di riportare l'intero protocollo. La tecnica eseguita è stata di procedere alla ablazione di una capsula surrenale quasi sempre per la via peritoneale, che ci è riuscita più facile e più comoda per dominare il campo operatorio. Innesti autoplastici sottocute ed in cavità peri¬ toneale. — Il primo tempo dell'operazione, quello di toglier cioè una capsula surrenale, sebbene non presenti tecnicamente diffi¬ coltà insormontabili, pure è difficile e non sempre è coronato da successo; spesso gli animali soccombono al trauma operatorio ovvero in un tempo più o meno prossimo per sintomi d'insuf¬ ficienza surrenale. In quattro cani e tre conigli abbiamo asportata una capsula surrenale (la sinistra; abbiamo preferito lavorare sempre su questa per comodità di tecnica, essendo gl'interventi a destra resi più difficili dalla presenza del fegato), indi l’abbiamo trapiantata intera o divisa in due metà sotto cute, in due conigli e due cani; nella cavità peritoneale, in due cani e un coniglio; fissandola in questo ultimo caso con un paia di anse di catgut molto sottili. Di questi animali uno solo è sopravvissuto, resistendo al trauma operatorio e alla deficienza degli ormoni surrenali, ma in esso l'altra capsula è andata certamente incontro ad un pro¬ cesso naturale d'ipertrofia compensatoria. Peraltro, alla distanza di 15-20 giorni dal primo intervento, tutti i trapianti sottocuta¬ nei e nella cavità peritoneale di capsula surrenale erano assor¬ biti e nel punto d'innesto abbiamo sempre osservato noduli di tessuto connettivo giovane nei quali non era riconoscibile nes¬ suna traccia delle due sostanze surrenali. E che l’assorbimento si fosse costantemente verificato, adot¬ tando una simile tecnica, se ne è avuta alla controprova, eseguendo un nuovo intervento di asportazione della altra capsula : gli ani¬ mali, anche sopportando questa seconda operazione, sono morti con la sindrome d'insufficienza surrenale tra i 5-10 giorni. — 13 — Innesti autoplastici in sito. — Per gl'innesti autopla¬ stici in sito la tecnica del primo tempo operatorio è stata la mede¬ sima e come abbiamo accennato in principio, abbiamo preferito sempre il taglio laparatomico mediano, anziché aggredire la cap¬ sula dalla regione lombare. Il secondo tempo che è il più de¬ licato ed esige una emostasi accuratissima, consiste nell’aspor- tare l'organo per via sottocapsulare e rimetterlo in sito, intero o diviso in due metà, assicurandolo sempre alla capsula con pochi punti di catgut. Quando l'animale non muore, in seguito a quest’ operazione o ad insufficienza surrenale , si aspetta a compiere il secondo intervento un tempo variabile tra i 30-45 giorni. La seconda operazione è identica alla prima, con essa si procede cioè alla asportazione dell'altra glandola. Se in questa seconda operazione l'animale non muore (insufficienza surrenale), bisognerà, addivenire alla conclusione, almeno dal punto di vi¬ sta funzionale, che l'attecchimento della prima capsula sia riu¬ scito; giacché non è possibile supporre che nell'animale si sia potuto verificare una tale ipertrofia compensatoria delle glandole accessorie da assicurare una vera funzione surrenale. Procedendo con la tecnica su accennata, noi abbiamo tolto prima una glan¬ dola surrenale poi l'abbiamo trapiantata in sito; abbiamo sotto¬ posto l'animale, in secondo tempo, alla scapsulazione della ri¬ manente capsula: i risultati non sono stati molto incoraggianti, perchè il numero degl'insuccessi è stato cospicuo, sia per il gran traumatismo, sia anche perchè la capsula trapiantata spesso va incontro a processi degenerativi più o meno gravi senza una concomitante rigenerazione di tutti gli elementi dei quali è co¬ stituita. In tale genere di esperienze ci siamo serviti di sei cani e sei conigli. Pertanto, in due casi, gli animali si sono rimessi, dopo un tempo relativamente breve della seconda operazione, mantenendo normali le loro condizioni di salute. Questi due cani (uno di cinque chili , 1' altro di 4 e mezzo) sono stati sacrificati due mesi dopo la seconda operazione, e rispettivamente il primo dopo tre mesi dall'innesto surrenale , il secondo dopo tre mesi e mezzo. Il reperto istologico ha dimostrato, perchè in tali eve¬ nienze la capsula innestata era sufficiente ad assicurare all’orga¬ nismo gli ormoni specifici e necessarii, la ottenuta rigenerazione sia della sostanza corticale che della midollare. Va notato che in — 14 alcuni dei casi in cui l'animale, pur sopportando il secondo atto operatorio , era morto alla distanza di 8-10 giorni , si è potuto sempre constatare l'attecchimento della sola sostanza corticale e degenerazione completa invece della midollare. Osservando le numerose sezioni microscopiche, ciò che col¬ pisce, anche a piccolo ingrandimento, è la presenza di una ghiera di tessuto connettivo che circonda l'innesto , tessuto nel quale decorrono numerosi vasi sanguigni arteriosi e venosi. Questa capsula connettivale manda nell'interno delle gittate che dividono la parte periferica dell'innesto in abbozzi di lobuli, nei quali è situata la sostanza corticale della ghiandola innestata, glandola che riproduce sia nella disposizione che nella morfolo¬ gia, gli elementi surrenali corticali e midollari. Si ha cioè una zona esterna o glomerurale, una media o fascicolata, una intermedia o reticolare ed una centrale o midol¬ lare. Ora poiché la glandola è stata divisa in due metà, nella parte corrispondente alla superficie di taglio la sostanza midol¬ lare si trova a contatto direttamente con la ghiera connettivale, divisa in qualche punto da accumuli leucocitarii. Nell'interno dell'innesto numerosi sono i vasi di neo-formazione e pochi i punti nei quali si vede il tessuto surrenale degenerare ed assor¬ birsi; ancora pochi i punti con infarti emorragici. Le cellule cor¬ ticali hanno 1' apparenza di elementi rigenerati ; presentano un citoplasma finemente reticolare, con qualche inclusione (citopla¬ smatica) cromatofila, ed un grosso nucleo, vescicolare, carico di cromatina: uno o due nucleoli nell'interno del nucleo. Le cel¬ lule midollari si presentano sotto i due aspetti classici di cellule simpatiche (più o meno stellate), con nucleo un pò più piccolo delle cellule corticali, e di cellule cromaffini. Nel citoplasma di questi elementi cromaffini si notano numerosi granuli di fucsino- fili e cromofili, che denotano come le cellule in parola, abbiano gli attributi a poter normalmente secernere gli ormoni specifici, necessarii all’organismo. — 15 — Conclusione. Considerando il reperto istologico e funzionale osservato nelle nostre esperienze, si viene nel convincimento che l'innesto sur¬ renale anche autoplastico sia una evenienza del tutto eccezionale, e che si sia verificato positivo solo in due casi di trapianto i n sito; non perchè si ritenga necessario la sede surrenale alla riu¬ scita di essi, ma perchè tale punto forse è quello che meglio può assicurare all'innesto una più pronta vascolarizzazione e quindi permettere di liberarsi, in un più breve tempo, delle cellule mor¬ tificate e dei prodotti del loro metabolismo, risvegliando invece i poteri rigenerativi, contemporaneamente nella sostanza corticale e nella midollare. L’attecchimento della sostanza midollare per la sua origine neuro-epiteliale è quello che sembra il più difficile a verificarsi, in ispecie per quanto riguarda le cellule cromaffini, che, per la loro complessa funzione, non pare possano essere del tutto sosti¬ tuite da altri organi parasimpatici. B I BLIOGRAFI A. 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Tav. 2. — Capsula surrenale di cane; innesto autoplastico in sito; prelevamento dopo giorni 105. Le gittate connettivali della ghiera di rivestimento sono più evidenti In alto si ha rigenerazione della midollare; nel mezzo e nel basso de¬ generazione della corticale. Colorazione emallume eosina Zeiss 4\c. Tav. 3. — Capsula surrenale di cane; innesto autoplastico in sito; prelevamento dopo giorni 105. Vaso di nuova formazione nell’interno dell’innesto ; rigenerazione del¬ la sostanza midollare. Colorazione emallume-eosina Zeiss 4[dd. Boll. d. Soc. d. Naturalisti in Napoli, Voi. XXXVII — Tav. 1.^' ìfMCINA CROMOTIPOGRAHCA ALDINA - NAPOLI * j Boll. d. Soc. d. Naturalisti in Napoli, Voi. XXXVII Tav. Tav. 3. La consanguineità al lume delle più re¬ centi vedute della genetica del socio Doti* Gioacchino Viggiani (Tornata del 13 luglio 1924) La questione della consanguineità è stata troppo trattata sotto un aspetto tra il misterioso ed il religioso, mentre un' indagine scientifica, seriamente condotta, è stata sempre trascurata. Ora¬ mai però, dal giorno in cui autorevoli e ferventi sperimentatori americani hanno nella esperienza continua e diretta cercato le risposte ai loro quesiti, si può dire che, se pure la questione non è completamente esaurita, tuttavia si è già sulle rotaie della scienza. Le unioni fra parenti, sia nell'uomo che negli animali, sono ri¬ tenute, nell'opinione comune, responsabili di degenerazione e di malattie, indebolimento costituzionale, diminuzione di peso, ri¬ duzione della taglia, sterilità, poca resistenza alle malattie di origine parassitaria, etc. Ha un fondamento biologico questa opi¬ nione ? Si può senz'altro rispondere che nessuna ragione ha vie¬ tato e vieta la pratica della consanguineità per sè stessa nell'uomo e negli animali. La Bibbia, i documenti dei popoli antichi, gli scritti di S. Agostino, le leggi romane, etc. dimostrano chiara¬ mente che furono ragioni affettive, sociali, politiche, e non certo biologiche, quelle che sconsigliarono o proibirono le unioni con¬ sanguinee nell'uomo. Tenendo conto del fatto che l'uomo ha applicato agli animali le sue consuetudini di vita, ci renderemo facilmente ragione della diffidenza avuta nell'eseguire allevamenti più o meno strettamente consanguinei negli animali domestici. Se noi ci rifacciamo alle origini di tutte le razze, varietà e — 20 — specie animali e vegetali, noi constatiamo che la consanguineità ebbe ed ha un posto predominante nella loro formazione. Vo¬ lendo semplicemente accennare alla formazione di razze animali più celebri, per opera della consanguineità, ricordiamo l' origine della famosa razza bovina Durham, creata dai fratelli Colling verso la fine del 1700 per opera di una stretta consanguineità (inbreeding) e di una intensa alimentazione razionale; del cavallo puro sangue inglese e del trottatore russo Orloff; degli ovini Dishley; e di numerosissime razze di volatili domestici. Come ben nota il Cornevin, la consanguineità è di efficacia senza pari nel fissare le variazioni, siano esse dovute a mutazioni o a modifi¬ cazioni prodotte dall’ambiente naturale e artificiale; l'origine dei Merinos a vello setoso di Mauchamps in Francia, dei colombi gi¬ ratori e dei buoi Natos (bovini che hanno una particolare con¬ formazione della bocca per cui la mascella inferiore sorpassa il labbro superiore) è uno dei tanti esempii della fissazione di mu¬ tazioni; mentre il perfezionamento della razza Durham, dei trotta¬ tori russi, e del puro sangue inglese offre tante altre prove per la validità della consanguineità nel fissare modificazioni acqui¬ site, specialmente ad opera della ginnastica funzionale. La consan¬ guineità, quindi nella formazione delle razze, ha tenuto e tiene un posto di prim' ordine, nel quale non potrà essere sostituito da nessun altro metodo di miglioramento. Credo utile fermarmi un po' di più su quello che chiamasi indagine genetica della consanguineità, esponendo innanzi tutto le numerose esperienze eseguite da Darwin a East e Jones sulla pratica metodica della consanguineità e sui suoi effetti control¬ lati al lume dell’ indagine scientifica. Fra le esperienze eseguite sulle piante citiamo quelle di Darwin, di East, di Jones, di Shull e di Hayes, premettendo queste considerazioni essenziali: che cioè le piante offrono un largo campo di studio, sia per la possibilità della più stretta forma di consanguineità (autofecon¬ dazione, e sia principalmente perchè esse hanno una lieve du¬ rata di vita con produzione di gran numero di semi rispetto alla relativamente piccola estensione di terra occupata. Darwin, deci¬ samente contrario alla consanguineità, la quale egli riteneva dan¬ nosa per sè stessa, istituì esperienze comparative fra gli effetti — 21 — dell'autogamia e dell'eterogamia, fra 83 specie appartenenti a 52 generi, per la durata di 11 anni. I risultati di queste, pubblicati nel 1876, portano a delle con¬ statazioni molto importanti, e che in linea di massima smenti¬ vano recisamente l'opinione di credere nefasta la consanguineità per sè stessa. Se infatti si constatò in tutte le piante autofecon¬ date una diminuzione di fecondità e di altezza rispetto alle omo¬ loghe incrociate, pur tuttavia risultò evidente (e a Darwin parve un fenomeno inesplicabile) che queste deficienze, invece di ac¬ cumularsi sulle generazioni successive, si andavano man mano eliminando quando alPautogamia si faceva precedere un’accurata e accorta selezione. Anzi Darwin constatò che le piante autofe¬ condate erano e si mantenevano così uniformi nelle loro carat¬ teristiche, che egli potette far a meno di segnarne le qualità su speciali cartellini. Notevole fu pure la comparsa di una muta¬ zione forte e vigorosa fra la discendenza di alcune piante auto¬ fecondate di Ipomoea purpurea (una convolvulacea molto sen¬ sibile all'azione dell'autogamia), mutazione a cui dette il nome di Hero. Possiamo quindi dedurre dalle esperienze di Darwin che non solo la consanguineità non crea alcun male quando vien pra¬ ticata in piante che ordinariamente in natura si riproducono per mezzo della fecondazione incrociata, ma che essa invece è capace di mettere in evidenza delle forme notevoli e pregiate, delle mu¬ tazioni come quella di Hero; ed infine, di mantenere costanti dette caratteristiche nel susseguirsi di infinite generazioni senza che vigore e fecondità tendano minimamente a diminuire. Le esperienze di Shull furono condotte in America dal 1905 al 1911 sul Mais, pianta che in natura si riproduce per feconda¬ zione incrociata. Benché non fossero state istituite allo scopo di studiare gli effetti della consanguineità, esse portarono, come ve¬ dremo, un notevole contributo alla risoluzione di tale problema. Il fatto che nell'osservare il comportamento di piante di Mais rispetto al carbone ( Ustilago maidis ) fu notato essere le piante autogame meno resistenti agli attacchi di questo parassita delle piante eterogame, fu quello che indusse Shull ad osservare più attentamente questo fenomeno. Egli constatò che il minor vi¬ gore delle piante autofecondate non poteva certo essere origi¬ nato dall'azione della consanguineità per sè, poiché minor vi- — 22 — gore si aveva pure in piante le quali provenivano da genitori forti e vigorosi. Shull notò pure che continuando per varii anni le sue esperienze sulla discendenza si avevano piante che invece di accumulare sterilità e debolezza, si mantenevano costanti nelle loro caratteristiche. Emise in ultimo l'ipotesi, avvalorata dai ri¬ sultati delle sue esperienze, che gl'individui discendenti da una sola famiglia autofecondata fossero tutti omozigoti. Ancora più importanti sono le esperienze di East e Jones eseguite nella Con¬ necticut Agricultural Experiment Station, dal 1905 al 1917. La pianta da esperimento fu il Mais; ne furono studiate 40 varietà e si considerarono 12 caratteri differenti, protraendo la durata delle generazioni autogame fino a 12. I risultati così importanti sono questi : l.° La consanguineità aumenta la variabilità nelle prime generazioni; e avvenendo combinazioni omozigotiche re¬ cessive (le quali sono quelle che generalmente originano i ca¬ ratteri sfavorevoli) si spiegano le degenerazioni che avvengono nelle prime generazioni di autogamia; 2.° Tali degenerazioni, in¬ vece di accumularsi, vanno diminuendo col progredire delle ge¬ nerazioni, mentre le forme che rimangono conservano e tra¬ smettono inalterate le loro caratteristiche, perchè sono omozigo¬ tiche. “ La consanguineità „, dicono East e Jones, " ha tolto la maschera ai caratteri ed essi appaiono secondo il loro merito „. Le esperienze sugli animali, istituite allo scopo di studiare gli ef¬ fetti della consanguineità, sono pur esse numerosissime e netta¬ mente da distinguersi in due gruppi: quelli a risultati prettamente sfavorevoli (Crampe, Ritzeema-Bos, Weisman e Von Guaita), e quelle molto più numerose a risultati completamente opposti ai primi (King, Rommel, Wright e Castle). I risultati del 1° gruppo di esperienze, eseguite su topi, non dànno affidamento alcuno per la poca accuratezza mediante la quale furono condotte le espe¬ rienze, e per il fatto che i soggetti di esperimento erano, al dire stesso di Ritzenna-Bos, deboli, perchè appartenenti a linee impure e male alimentate. Le esperienze invece del 2° gruppo meritano un rapido sguardo. Miss King si può giustamenle ritenere come la iniziatrice di esperienze di consanguineità nel regno animale, condotte scientificamente e razionalmente. Essa iniziò le sue espe¬ rienze partendo da una massa di topi già lungamente allevati in consanguineità, e quindi aventi una costituzione gametica tut- — 23 - t'altro che impura ; cercò di raggiungere le migliori condizioni di allevamento e di nutrizione onde evitare che altre cause aves¬ sero a compromettere i risultati delle esperienze. Quattro topi albini Norway furono i fondatori di 2 linee A e B allevate in stretta consanguineità per 25 generazioni. I risultati furono pie¬ namente sodisfacenti e negarono con la loro evidenza ogni azione nefasta alla pratica della consanguineità. In ultimo posso ricor¬ dare due casi di stretta consanguineità direttamente osservati. A Potenza, in Basilicata, sono stati riferiti questi due esempii di effetti della consaguineità dal Dottor Gavioli, esperimentato allevatore. Egli mi riferì di una razza di cani bracchi Lombardi pesanti, a mantello roano marrone, che fu formata da un ma¬ schio di bellissime caratteristiche, acquistato una trentina di anni fa, servendo come riproduttore nell’ accoppiamento con una bracca di media taglia. I primi figli vennero di media taglia e di forme bellissime; ed essendo stati successivamente questi cani riprodotti in con¬ sanguineità per varie generazioni, i discendenti serbarono sem¬ pre la purezza delle forme e l'omogeneità del manto, mentre la statura andò rapidamente a diminuire fino a raggiungere ne¬ gli ultimi esemplari neppure un quarto di quella posseduta dai primi genitori. A poco a poco la fecondità delle cagne così allevate andò diminuendo in modo che esse non portavano a luce, in parti difficilissimi, più di uno o due cuccioli. In 6 o 7 generazioni la razza si estinse e non lasciò alcuna traccia di sè. E' da notare però che tutti gl'individui, derivati da queste unioni consangui¬ nee, possedevano naso ottimo insieme a tutte le qualità della razza originaria esaltate. L'altro esempio riferito dal dottor Gavioli riflette una razza di bracchi leggieri a manto bianco-arancio, l'ultimo esemplare della quale io ho potuto ammirare ed esaminare, perchè costi¬ tuisce uno dei più fidi amici del dottor Gavioli. La razza sud¬ detta è stata perfezionata mediante la consanguineità ; il dottor Gavioli così mi disse in proposito : “ La prima cagna che ho avuta morì nel secondo parto, avendo avuto quattro allievi nel primo e tre nel secondo. La figlia ebbe un sol parto con tre cuccioli morti ed uno solo vivo — 24 — tuttora, e morì un paio di mesi dopo del parto Tutti e tre questi esemplari, come quello che attualmente possiede il dottor Gavioli, erano di forme perfette e di splendide qualità. La di¬ minuzione della taglia e della fecondità è qui da attribuirsi evi¬ dentemente all'impurezza gametica dei primi genitori di queste razze di cani; mentre l'esaltazione di alcune buone qualità mo¬ stra sicuramente l'effetto costante e benefico della coppia omo- zigotica. La Genetica, che studia la fisiologia della discendenza, è la sola scienza che oggi ci spiega il meccanismo di azione della consanguineità e gli effetti di questa sulle discendenze future. Tenendo presente le definizioni che la Genetica ci dà di indivi¬ dui omozigote ed eterozigote , ci riescirà facilissimo avere una interpretazione soddisfacente del problema della consanguineità. Secondo tale spiegazione, la consanguineità non fa che se¬ parare ed accrescere gli omozigoti, per il fatto che avendosi un numero di progenitori differenti, minore di quello che si avrebbe nell'incrocio, i germi del plasma sono più simili, hanno, cioè una stessa origine e avranno quindi maggiore tendenza a formare coppie omozigotiche per i vari caratteri. La Genetica ha com¬ pletamente spostati i termini del problema della consanguineità, e mentre fino ad ieri si è ritenuto essere l'azione delle consan¬ guineità nefasta, oggi la Genetica c' insegna che quei mali dob¬ biamo addebitarli alla costituzione gametica degl'individui fra i quali si pratica la consanguineità, (costituzione che può essere varia e piena di sorprese specie quando l'origine degl'individui in esame non ci è nota o ci è addirittura oscura, e che solo una prova biologica ci può rivelare) e non ad un influsso miste¬ riosamente nefasto operato dalla consanguineità. Perciò, come in molte altre questioni di biologia applicata, agli allevatori ed agli studiosi s'impone un unico e complesso compito, consistente nell’esame sperimentale della costituzione gametica degli indivi¬ dui delle varie famiglie; dopo il quale, soltanto, noi potremo essere sicuri di affrontare gli effetti di una consanguineità sia pure stretta e continua, perchè la Genetica ci ha avvisati che la, consanguineità in linee pure funziona da preventrice di inqui¬ namenti estranei, ed in linee ibride opera la scissione degli ete¬ rozigoti e la ricombinazione di questi, per presenza di quasi — 25 — tutti gli stessi fattori, sotto una forma costante ed uniforme che è la combinazione omozigotica. Se la consanguineità agisce in definitiva con l'aumentare le linee pure o omozigote, ci potremo chiaramente convincere del meccanismo mediante il quale essa agisce attraverso le genera¬ zioni di individui autogami fra i vegetali, e di individui stretta- mente parenti fra gli animali. I calcoli infatti dimostrano che alla decima generazione di autogamia di individui differenti per un solo carattere (monoibridi) si hanno 2046 omozigoti per 2 eterozigoti. Il Morgan, Eeast, Jones ed altri autori, hanno cal¬ colato che quando si riproducono fra di loro ibridi per 15 cop¬ pie allelomorfiche, la possibilità di avere un individuo puro ri¬ spetto a tutti questi caratteri, è di 1 su 32768; però contempo¬ raneamente questi individui col progredire delle generazioni autogame tendono indefinitamente alla omozigosi. Questi calcoli ci spiegano perchè nel mais, p. es. sono necessarie moltissime generazioni autogame, prima che si formino le linee pure; e ci rende anche conto di tanti risultati sfavorevoli ottenuti nelle prime generazioni di autogamia. Poiché gli animali non possono autofecondarsi, la omozigosità in essi, per essere raggiunta pra¬ ticamente, ha bisogno di un numero di generazioni molto su¬ periore a quello delle autogamie per le piante. Si è calcolato che 17 generazioni di consanguineità stretta negli animali, equi¬ valgono appena a 6 generazioni di autofecondazione nelle pian¬ te. Possiamo perciò ricapitolare queste rapide notizie sulla con¬ sanguineità in questi termini : l.° Il timore e l'orrore della consanguineità nell'uomo sono sorti per ragioni eminentemente affettive, religiose, politiche, economiche e sociali ; nessun fondamento scientifico e nessuna causa biopatologica hanno le disposizioni legislative dei varii paesi civili che vietano le nozze tra parenti stretti ; nè certo può avere un fondamento razionale e scientifico la disposizione del C. C. inglese che vieta al vedovo di sposare la cognata. 2.° Per gli animali le cose sono andate egualmente ; ma poiché non è certo il senso di delicatezza e di affetto che vieta l'incesto negli animali, vediamo praticata la consanguineità stretta, in natura, in molte specie di animali (volatili domestici). 3.° Poiché la con¬ sanguineità ha tenuto un posto importantissimo nella storia di — 26 — alcune razze pregiate di animali e di piante, e poiché la con¬ sanguineità stessa è l'unico meccanismo capace di fissare le mutazioni morfologiche e fisiologiche, l'importanza della consan¬ guineità in Zootecnia non tende affatto a scemare, perchè essendo incessanti e diverse le variazioni a cui sono soggetti gli indi¬ vidui, molte e ad attitudini differenti saranno le razze da ori¬ ginare e da mantenere. 4.° Le numerose esperienze, eseguite nel campo animale e vegetale, hanno dimostrato che il problema della consanguineità è unicamente risolvibile dall'esperimento e dalla prova biologica. 5.° Le esperienze stesse, infine, nei loro ri¬ sultati numerici e biologici, hanno chiaramente messo in evidenza che la sola Genetica può spiegare il meccanismo per cui agisce la consanguineità. Il mistero che pareva avvolgere tale questione è stato perciò definitivamente squarciato. BIBLIOGRAFIA 1. Experiment Station Record. Da Voi. 30 a Voi. 48. 2. Bollettino dell’Istituto Internazionale di Agricoltura Roma. Annate dal 1910 al 1922. Ufficio d’inform. Agr. e di Pat. veg. 3. Rassegna Internazionale di Agronomia. Roma 1923. 4. Anna Foà. — La consanguineità ed i suoi effetti secondo la Genetica moderna. Boll. R. Staz. Gelsicolt. Bachicoltura. Ascoli Piceno, Anno 2, N. 3. 1923. 5. P. Dechambre. — Traité de Zootechnie. Tome I. Charles Amat. edit. 6. H. Zwaenpoel. — Elements de Zootechnie generale et de Génétique animale. Bruxelles, 1922. 7. P. Diffloth. — Races bovines. J. B. Baillère 2, Paris 1922. 8. P. Diffloth. — Chèvres , Porcs et Lapins. J. B. Baillère. Paris 1923. 9. F. Faelli. — Razze bovine, equine, suine ovine , capsine. U. Hoepli. Milano 1917. 10. Fogliata. — Tipi e razze equine. Mariotti, Padova, 1873. 11. Cornevin. — Zootechnie generale. Charles Amat, edit. 12. Ch. 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Nel giugno del 1922 dal Prof. Filippo Silvestri, Direttore dell' Istituto Superiore Agrario di Portici, mi venne affidato lo studio della biologia di un comunissimo Scarabeide, la Tropinota hirta , il quale da varii anni, aumentato a proporzioni straordi¬ narie, reca notevoli danni alle coltivazioni erbacee ed arboree di vaste plaghe della Campania. Dal giugno 1922 al giugno 1924 ho seguito sotto la guida del Prof. Grandi attentamente le osservazioni e le esperienze, le quali sono state scrupolosamente controllate. Non mi son potuto occupare nel presente lavoro del pe¬ riodo della ninfosi per cause varie, ma ciò non menoma affatto il mio lavoro, dato che la ninfosi è un periodo statico della vita postembrionale dell' insetto. — 29 — Morfologia dell' adulto e della larva* a) Adulto. — La Tropinota hirta misura una lunghezza di 9 all mm., ed una larghezza massima, al mesotorace, di 4 a 6 mm. E’ un insetto tozzo, grosso, con ampio pronoto fornito di vistosa carena. Il colore è scuro: va dal nero al verde metallico. Tutto il corpo, ad eccezione del capo e del ventre, è provvisto di una densa e fitta peluria, fulvo rossiccia , che mantenendosi sul corpo rigidamente , dà un bellissimo e caratteristico aspetto a questo insetto. L'uniforme nerore del corpo è rotto da una serie di mac¬ chioline bianche situate sulle due elitre e varianti nei diversi in¬ dividui in quanto a numero, grandezza e disposizione. La disposizione, il numero e la fittezza dei peli variano an¬ che nei diversi individui. Il capo della Tropinota hirta è molto piccolo rispetto a tutto il corpo. E' rettangolare e misura 3 mm. di lunghezza e circa 2 di larghezza. Gli occhi composti vi si trovano sui mar¬ gini dell'occipite e sono di un colore nero lucente. Le antenne, sprovviste di peli, constano di 7 articoli diffe¬ renti impiantati nella torula per mezzo di un grosso articolo ba¬ sale; sul settimo articolo si espandono le 3 lamelle foliari, mo¬ bili sul flagello, caratteristiche di tutt' i Lamellicorni. Il labbro superiore ed il clipeo non sono distinti fra di loro: sono rivestiti internamente dairepifaringe, una membrana poco spessa analoga all' ipofaringe. L'apparato boccale della Tropinota hirtaì presenta allo studio un'importanza eccezionale, sia dal lato scientifico che da quello pratico. Esso è stato da me attentamente esaminato , sì da poter recisamente affermare quanto sto per dire. Prima di iniziare la mia descrizione voglio fare un po' di storia dell'argo¬ mento, così malamente interpretato dal Dr. Vito Zanon di Roma, il quale sostiene che l'apparato boccale della 7>. Risulta quindi una differenza in meno del 7 % per i fiori delle piante visi¬ tate dalla Tropinota', però se si tien conto di tutte le condizioni sfa¬ vorevoli alle quali sono state soggette dette piante rispetto alle a- naloghe controllo, risulterà evidente che questa tenue differenza viene in pratica ed in natura ad essere annullata. Le prime piante, difatti, seminate più tardi di quelle visitate dalla Tropinota, fu¬ rono meno sottoposte all'azione delle frequenti gelate primave¬ rili, e trovarono, inoltre, il terreno molto più ricco di sostanze nutritive, per il fatto che il perfosfato fu dato poco prima della semina delle prime piante. C' è da aggiungere ancora che esse furono seminate alquanto più tardi e scamparono perciò alla vio¬ lentissima grandinata avvenuta l’il aprile scorso, la quale si - 43 — abbattè con estrema violenza sui fiori già visitati dalla Tropinota , e determinò la disarticolazione e l'aborto di molti fra loro, quan¬ tunque già alligati. Le piante controllo, infine, godettero di un'al¬ tra condizione favorevole rispetto alle analoghe: i fiori di que¬ ste ultime, infatti, erano situati alla fine dell'asse della pianta, poi¬ ché le Tropinote mostrarono una decisa preferenza verso i fiori così situati. Al contrario i fiori delle piante controllo furono la¬ sciati integri nel loro numero, ed abbondarono perciò di più verso la base. Ora si sa che i fiori ascellari delle ultime termi- nazioni delle Fave, abortiscono e cascolano quasi sempre prima che siano alligati. Di fronte a tutte queste condizioni sfavore¬ voli le piante visitate dalla Tropinota flirta, ebbero appena il 7% in meno di fiori alligati: dove esiste questa distruzione del pistillo delle fave, se i fiori hanno quasi tutti dato i baccelli ? Si deve inoltre aggiungere che in natura condizioni così assolute come quelle che si sono verificate durante l'esperienza, non esi¬ stono. Da quanto si è esposto si può venire alle seguenti conclu¬ sioni, per quanto riguarda il danno recato dalla Tropinota hirta ai fiori delle leguminose : l.o II danno è indiretto; 2.° Il danno diret¬ to, cioè quello di divorare il polline, è nullo quando si consideri la grande quantità di polline esistente in ogni loggia anterifera, e la piccola quantità necessaria per fecondare ciascun ovulo; 3.° I danni indiretti, recati principalmente dalle zampe del 1° paio, ed, in via secondaria, dal peso del corpo, possono riuscire alle volte piuttosto gravi ed impedire anche la fecondazione dei fiori, sem¬ pre però che si tratti di molti individui di Tropinota, esistenti in una sola pianta; 4.° Si può ritenere che i danni sono molto più ri¬ levanti per le leguminose da giardinaggio che non per le legumi¬ nose da pieno campo, specialmente quando il numero delle Tropi¬ note non è molto rilevante. Rosaceae : Pero, Melo, Susino, Ciliegio, Mandorlo, Pesco, Pru¬ gnolo, Amarena, Biancospino, Rovo, Rosa, Fragola. Sui fiori delle Rosacee la Tropinota hirta si comporta variamente: su alcuni (Rosa) va quando ancora i fiori sono chiusi; su altri, la maggio¬ ranza, va soltanto quando il fiore è schiuso, ma di mattina per tempo prima che altri insetti vengano a contenderle il delicato pasto. Fra le rose preferisce sempre le chiare alle colorate: ho — 44 — avuto l’agio di poter constatare in appezzamenti di rose chiare e colorate, le prime stracariche di Tropinota, mentre le seconde ne erano completamente o quasi prive. Questo tropismo della Tropinota hiria è stato pure osservato dal Prof. De Rosa. A se¬ conda che le rose siano in boccio o già aperte, la Tropinota agisce diversamente. E’ facile riscontrare, in un giardino di rose, fiori più o meno sbocciati, aventi le Tropinote in varie situazioni e cioè alcune che iniziano il sondaggio del fiore, altre che cer¬ cano di forare e strappare i petali per avere a portata di bocca le antere, altre che sono a mezza strada compresse dai petali esterni, ed altre, infine, che facendo pressione in vario modo, cercano di fare aprire il bocciolo quasi schiuso per mettersi a diretto contatto del polline lungamente cercato. Sui fiori delle altre rosacee la Tropinota si reca quando essi sono già aperti; cerca al solito le antere perii polline che con¬ tengono, e lascia integri i pistilli ed i petali. A questo proposito voglio ricordare un Melo di S. Giu¬ seppe Vesuviano (proprietà del Colon. d'Aiello) il quale all’epoca della fioritura era letteralmente gremito di Tropinote nei suoi fiori — tanto che a sbattere l'albero, le Tropinote cadevano pe¬ santemente ed in notevole numero a terra — ed alla maturazione si presentò sovraccarico di mele, dimostrando così nel modo più evidente di non aver subito alcun danno dalla numerosa pre¬ senza della Tropinota hirta. Concludendo quindi per quanto ri¬ guarda i danni recati dalla Tropinota hirta ai fiori delle rosa¬ cee, si può dire: 1° Che il danno è indiretto; 2° Che il danno diretto è nullo; 3° Che i danni indiretti, completamente trascu¬ rabili per le colture agrarie, sono gravi, invece, per le rosacee da giardinaggio, le quali, delicatissime nei loro petali, restano rovinate e necrosate dall’attività della Tropinota. Compositae : Calendula, Crisantemo, Margheritina e varie al¬ tre specie spontanee. Per quanto riguarda i danni recati dalla Tropinota hirta ai fiori delle Composite, si può dire : 1° Che il danno è diretto, al contrario di quello che avviene nelle legu¬ minose e nelle rosacee; 2° Che questo danno diretto è insigni¬ ficante, per quanto risulta dalle numerose osservazioni eseguite su più di mille fiori di Composite; 3° Che il danno indiretto è nullo; 4° Che infine anche qui, come per i fiori delle altre fa- — 45 — miglie, i danni sono più rilevanti se la Tropinota è presente in gran numero e specialmente su piante da giardino. Cruciferae : Senape bianca, Violaciocca, Rucola, Cavoli, Col¬ za, ecc. La Tropinota hirta sceglie i fiori non ancora aperti. Il colore sempre chiaro di questi fiori, e l’odore più o meno in¬ tenso che da essi esala, ne fanno fra i fiori più ricercati dal no¬ stro insetto. Danni limitatissimi, ed al solito, riguardanti il solo polline; il dottor Zanon afferma che a Bengasi le Tropinote com¬ promettano i cavoli da seme : gli orticultori di varie zone della Campania, a quanto mi risulta, trascurano completamente la Tro¬ pinota hirta , non ritenendola che poco o niente dannosa. Mirtaceae : Granato, mirto. La Tropinota hirta è avida dei net¬ tari e del delicatissimo polline dei fiori del mirto, sui quali (Sol¬ fatara di Pozzuoli) essa si trova in discreta quantità: ciò nono¬ stante l’abbondante quantità di polline e di nettare di questi fiori fa sì che l'insetto lasci intatti i pezzi della corolla. Papaveraceae : Papavero rosso e da oppio. La facilissima por¬ tata dell' alimento, e la comodità di stazione sul fiore, fanno sì che è impossibile vedere un fiore di papavero senza Tropinote. I fiori devono essere aperti e le antere mature. Su un fiore di papavero, si contano alle volte vari individui da un minimo di 1 per fiore, si passa ad un massimo di più di 10. E’ naturale che tale cospicua presenza, determini la disarticolazione dei tenui petali , che nel papavero hanno un leggerissimo im¬ pianto. I danni, quindi, recati dalla Tropinota a questi fiori, sono tutt'altro che importanti : soltanto trattandosi di speciali coltiva¬ zioni a scopo industriale, questi danni potranno essere tenuti presenti. Cariofillaceae : Garofano; stellaria. E' il garofano la pianta che è maggiormente danneggiata nei suoi fiorì dalla Tropinota hirta : il danno è al solito, indiretto. Sui garofani chiari a pre¬ ferenza dei rossi e in mancanza di altri anche su questi ultimi, la Tropinota hirta , quando i fiori sono ancora in boccio, si reca su di essi e cerca di penetrare fino agli stami. Non è difficile vedere petali di garofani più o meno dilacerati da questa azione meccanica della Tropinota hirta. E' innegabile, però, che l' in¬ setto, invece di accontentarsi dei teneri petali, si approfonda nel fiore appunto per ricercare il polline, ed il filamento staminale, — 46 — che in questi fiori è particolarmente delicato. Sui garofani già aperti, al contrario, la Tropinota non tocca affatto i petali, con¬ tentandosi degli stami di facile preda. Nelle varie piantagioni di garofani osservate specialmente a Portici, Resina e Torre del Greco, ho potuto constatare che i danni prodotti indirettamente dalla Tropinota Iurta , sono realmente considerevoli e difficilmente eliminabili. Il fatto che l'insetto vada sui fiori appena sbocciati, e che in essi penetri fino al fondo, determina la necrosi dei pe¬ tali, e la deformazione del fiore, e quindi, lo svalutamento com¬ pleto del garofano. Questa constatazione dolorosissima dovrebbe incitare tutt' i floricultori ad eseguire la raccolta degli adulti — unico mezzo di lotta possibile — attentamente e contemporanea¬ mente in ogni regione. Rntaceae : Arancio. Limone, Mandarino, Cedro. I fiori delle auranziacee, così ricchi di nettare, di polline e di profumo, sono fra i più ricercati dalla Tropinota hirta, E’ frequente il fatto di constatare, verso il mese di maggio, questi insetti annidati nel fondo della fauce dei fiori, passare la notte e le ore di forte ca¬ lore in un dolce e ben delicato letargo. Generalmente le Tro¬ pinote aderiscono, nei fiori degli agrumi, fortemente allo stimma; e dalla facile possibilità di determinare un'alterazione della su¬ perficie stessa, ed impedire quindi la fecondazione, fui indotto a osservare più accuratamente e più da vicino questa importan¬ tissima quistione. Intanto da alcuni agrumicultori del Sorrentino io avevo avuto le più disparate affermazioni : alcuni mi affer¬ marono l'assoluta innocuità della Tropinota hirta ; altri invece mi assicuravano che questi insetti recidevano e maciullavano l'intero fiore. A tale scopo il 1° maggio 1923, segnai su tre alberi di agru¬ mi (limone ed arancio) del giardino di Entomologia Agraria, dieci fiori che constatai essere stati visitati dalla Tropinota hirta . Dopo che le Tropinote ebbero lasciato i vari fiori, avvolsi in carta velina ciascuno di questi, in modo da evitare l’influeuza di cause esterne. Dopo tre giorni, essendo sicuri dell'avvenuto alligamento, liberai i fiori dall'invoglio cartaceo, ed il 9 maggio potetti con¬ statare che dei 10 fiori segnati ben 7 avevano il frutticino ab¬ bastanza manifesto. Si può quindi concludere che il danno è di scarsissima importanza. Sui fiori di tutte le rimanenti famiglie la Tropinota hirta, fa — 47 — danni simili a quelli che ho descritto per le altre famiglie bota¬ niche. Per quanto riguarda specialmente le graminacee, ho po¬ tuto riscontrare la Tropinota flirta su piante di mais soltanto, ed in queste, data la loro conformazione monoica dei fiori ho os¬ servato il mio insetto unicamente sulla pannocchia maschile. I danni prodotti a queste piante, sono perciò tutt'altro che rile¬ vanti. Debbo cionostante riportare il fatto, ricordato dal Berlese che cioè nel 1866 nei dintorni di Vienna una formidabile inva¬ sione di Tropinota flirta e Oxythyrea funesta produsse in un campo di frumento, la completa decimazione del raccolto. Da quello che ho esposto posso venire alle seguenti conclusioni : 1° I danni prodotti dalla Tropinota flirta sono generalmente in¬ diretti, non avendo alcuna importanza quelli diretti, per il fatto che ogni antera contiene tanto polline quanto basta a fecondare moltissimi fiori; 2° L'entità dei danni è in istretta dipendenza del numero di Tropinote presenti in una data regione; perchè infatti essendo l'azione della Tropinota principalmente di massa, è l'ab¬ bondanza maggiore o minore di questi insetti, che farà risentire alle colture un danno più o meno rilevante 3°; Le piante colti¬ vate per i fiori, sono quelle che maggiormente vengono com¬ promesse da un eccessivo numero di Tropinota flirta ; 4° Infine non risulta dall' osservazione diretta, e dall'esperienza di labo¬ ratorio, che la Tropinota flirta roda particolarmente il pistil¬ lo dei fiori (Fava) , come invece ha affermato il dott. Vito Zanon. Cause che ostacolano lo sviluppo della Tropinota flirta e mezzi di lotta. Il terreno ed il clima sono le cause dirette della ineguale comparsa annuale della Tropinota flirta nelle varie regioni. Il suolo agisce mediante la sua situazione geografica (montagna, pianura) e la sua vegetazione : così ho potuto constatare una mag¬ giore predilezione della Tropinota per i luoghi collinari, o me¬ glio, per essere più precisi, la Tropinota flirta ai primi tempi della sua comparsa, si mantiene di preferenza nei luoghi bassi, mentre a stagione inoltrata — col declinare della sua vita di a- dulto — va ricercando sulle colline e sui monti la freschezza che — 48 — non trova nel piano. La vegetazione influisce notevolmente nel determinare un maggiore o minore afflusso di Tropinota in una regione: questo spiegherebbe, secondo me la grande ab¬ bondanza del nostro insetto nelle regioni a ricca flora spon¬ tanea e ad intensiva coltivazione (Campania, Piemonte, Tosca¬ na); ed il piccolissimo numero in regioni a flora misera e ad agricoltura pochissimo progredita (Basilicata, Calabria, Sarde¬ gna). Il clima influisce col caldo e con l'aridità; contribuisce alla presenza ed assenza della Tropinota hirta , come del resto di tutti gl'insetti, ed ha anche un ufficio importante ed ancora troppo poco conosciuto, neH'aumentare o diminuire il numero di questi insetti in una stessa contrada. Il fattore principale mediante cui agisce il clima sullo sviluppo delle larve prima, e della vita di adulto poi, è la temperatura, la quale non tanto agisce sulle larve (chè queste possono approfondirsi nel terreno e mettersi, così al riparo) quanto specialmente nel determinare la maggiore o minore attività del ritmo di vita dell'adulto. Il clima influisce ancora sulla generazione ventura: tempo freddo e piovoso nel¬ l’epoca di maggio, determinerà una diminuzione di questi insetti neH'anno venturo, mentre nel modo opposto agirà un tempo caldo e bello. Ciò dipende dal fatto che se il freddo e la pioggia, durante la quale la vita attiva della Tropinota quasi si arresta, si prolungano molto, gli accoppiamenti sono quasi impossibili, e la deposizione delle uova è molto diminuita; gl'insetti finisco¬ no per morire senza aver deposto la totalità delle loro uova, ed in tal caso, la generazione seguente sarà molto meno numerosa. Secondo il dott. Della Beffa, in Piemonte, il fatto che ogni anno, terreni incolti o boschivi vengano dissodati e trasformati in colture agrarie, fa sì che gl'insetti adulti venendo a scarseg¬ giare di piante selvatiche, delle quali potessero vivere, invadano le colture. Fra le cause biologiche che ostacolano lo sviluppo della Tropinota hirta si distinguono i nemici di origine animale e quelli di origine vegetale. Fra questi ho osservato in vari boz¬ zoli contenenti le pupe di Tropinota hirta varie muffe, che ave¬ vano trasformato il corpo della crisalide in un ammasso ifoso, biancastro. L'osservazione non ha potuto essere riscontrata in campagna, nè data la scarsezza del materiale disponibile in la¬ boratorio, è stata possibile qualsiasi determinazione tassonomica — 49 — dei funghi stessi. Fra i nemici di origine animale ho potuto più volte constatare la presenza sotto le elitre di numerosi acari, che però non devono essere affatto dannosi alla Tropinota hirta. Il Fabre infine attribuisce a questi Cetonini dei parassiti delle larve appartenenti agli Imenotteri (genere Scolia) i quali deporrebbero le loro uova nei bozzoli costruiti dalla Tropinota per incrisa¬ lidarsi. Il Prof. Silvestri, nell’intento di poter trovare il nemico diretto della Tropinota hirtaf che, ostacolando la sua diffusione, contribuisse a renderne le sue proporzioni molto ridotte, mi in¬ caricò di eseguire ricerche onde trovare i bozzoli parassitizzati. Mi recai perciò il 6 ed 8 ottobre del 1923 a S. Giuseppe Ve¬ suviano dove, con l'aiuto di due operai ricercai nei vari tipi di terreno, e alle più diverse profondità, i bozzoli suddetti. Non fu¬ rono trovati nè bozzoli sani, nè parassitizzati; ma in varie pro¬ fondità del terreno generalmente affioranti alla superficie — si trovarono numerosissimi adulti in evidente letargo. Risultati egual¬ mente negativi ottennero le mie ricerche eseguite a Portici, Pu- gliano e Vesuvio nei giorni 12, 13 e 14 ottobre. Perciò in queste regioni, i parassiti della Tropinota hirta o non esistono affatto, ovvero sono in numero tanto limitato da riuscire infruttuosa ogni ricerca. Certo è che un ulteriore studio sulla Tropinota hirta , dovrebbe principalmente aver di mira la scoperta dei suoi parassiti; sono perfettamente d'accordo col Prof. Silvestri, nel ritenere altamente importante questo lato della questione biologica agraria. Poiché la lotta più economica, cioè la lotta naturale, non può essere fatta, è necessario che gli agri¬ coltori cerchino quale sia il mezzo meno dispendioso per com¬ battere la Tropinota hirta. Tali mezzi sono: I. Raccolta degli adulti, la quale può essere eseguita a mano, dagli animali e da speciali sostanze, che attirando col loro odore l'insetto, l'uccidono. Senza riportare qui, data l’indole della presente nota, tutte le esperienze dettagliate, eseguite da me in proposito, e le mo¬ dalità della raccolta, devo senz'altro esprimere il parere favore¬ vole per una pratica, che eseguita nei primi tempi della com¬ parsa dell’adulto, può portare in pochi anni ad una riduzione fortissima della Tropinotaì a tali proporzioni, cioè da essere com¬ pletamente trascurabile e niente affatto dannosa. 4 — 50 — II. Piante da richiamo. — A tale scopo si usa di circon¬ dare p. e., il frutteto, con siepi di biancospino, cespugli di sam¬ buco ecc., i quali, attirando sui loro fiori le Tropinote, liberano le piante da frutto da questo insetto. Per i seminati si consiglia di mettere negl'interfilari piante di colza, ravizzone e senape. Naturalmente si dovrà sempre eseguire in un secondo tempo la raccolta della Tropinota , ma si avrà il vantaggio di trovare am¬ massati su pochi fiori un gran numero d’insetti. III. Irrorazione dei fiori con soluzioni vene¬ fiche. — Pur non avendolo sperimentato ritengo questo meto¬ do, almeno per certe colture (Fava, Pisello, Lupino, ecc.) asso¬ lutamente antieconomico ed irrazionale, per il fatto accertato, che la Tropinota hirta , visita questi fiori, quando essi ancora non sono aperti. Tuttavia il dott. Della Beffa crede buone le irro¬ razioni dei fiori con soluzioni venefiche a base di arsenito di calcio e di piombo. IV. Polverizzazione insetticida sui fiori. — Si consiglierebbero delle comuni polveri insetticide, le quali, però data la fortissima resistenza del nostro insetto agli agenti esterni, non avrebbero, secondo me alcuna efficacia. Da quanto ho detto qui sopra risulta evidente che nella im¬ possibilità di eseguire una lotta biologica, conviene, sotto tutt’i punti di vista, la raccolta degli adulti. Giunti alla fine di questo breve studio, si può dire di avere espletato nel miglior modo possibile per me il compito che mi fu affidato tre anni or sono dal Prof. Silvestri. Dei punti oscuri sulla biologia della Tropinota hirta sono stati chiaramente ed indiscu¬ tibilmente messi in luce: così la durata del ciclo biologico e il danno recato alle coltivazioni erbacee ed arboree. Riguardo que¬ st’ultimo punto, sono stato in grado di sfatare funeste leggende create in proposito. Le osservazioni in natura, e le esperienze di laboratorio hanno validamente confermato le mie vedute in pro¬ posito. E' mio dovere di tributare pubblicamente il senso della mia più devota ed affettuosa gratitudine al prof. Guido Grandi, il quale, giornalmente, mi ha validamente aiutato a superare i numerosi ostacoli che si frappongono a chi appena comincia ad indagare i problemi della natura. — 51 — Se imprecisioni di dettaglio, e scarsa durata degli esperi¬ menti possono alquanto menomare il mio lavoro, mi resta la grande soddisfazione di aver recato un contributo non sprege¬ vole alla risoluzione di uno dei tanti problemi biologici che in¬ combono sulle sorti della nostra agricoltura. BIBLIOGRAFIA. 1910-11. Leoni B. — Contributo allo stadio dei Lamellicorni italiani. Riv. Coleotter. Ital., 1910, N. 8-12, 1911, N. 2-3-6- 7. Bertin. — Remarques sur les pièces baccales et V alimentation des coleoptères lamellicornes. C. R. Acad. Se. Paris, Tome 110, N. 19. 1922. Bertin. — V Adaptation des piéces baccales aa regime alimen- taire chez les coleoptères lamellicornes. Mémorie presenté à la Société Linnéenne de Lyon., 22 Mai 1922. 1905. Hardenberg. — Comparative stadies in thè trophi of thè Scara- beide. 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Pn P21 P31 Pi — articoli del palpo mascellare. c — antenna-flagello. b — articolo basale dell'antenna. O — occhio composto. M — mandibola. Ma — mascella. L — labbro superiore. Li — labbro inferiore. Tavola 4. Fig. 1. — Qapo dell’adulto visto da sopra. F — foro occipitale. Fig. 2. — Capo dell’adulto visto da sotto. I — ipofaringe. Fig. 3. — Mascella del 1. paio. C — cardine. S — stipite. L — lacinia. G — galea. Fig. 4. — Mandibola. M — mola. L — lamina 0 spazzola. D — dente. C — condilo. Fig. 5. — Ipofaringe. Fig. 6. — Labbro inferiore. SB — submento. Me — mento. Tavola 5. Fig. 7. — Antenna dell’adulto, a — lamelle, b — articolo basale, c — flagello. Fig. 8. — Zampe del 1° paio, a — anca, tr — trocantere, fe — femore, ti — tibia. ta — tarso, pr — pretarso. Fig. 9. — Zampe del 2o paio. Fig. 10. — Zampe del 3° paio. Fig. IL — Larva. (Finito di stampare il 4 marzo 1925). Osservazioni sulla tromba marina apparsa nelle acque di Cuma il 25 agosto 1923. Nota del socio Dott. Gustavo Mazzarelli (Tornata del 17 agosto 1924) Il giorno 24 agosto 1923 la curva descritta dal barometro registratore del R. Osservatorio Idrobiologico del lago Fusaro presentava un andamento regolare fino alle 3h am. A quest'ora, in cui la pressione barometrica ridotta a zero era di mm. 761,5, aveva inizio una depressione che raggiungeva un minimo di mm. 751,4 alle 6h 30m del giorno seguente, per poi risalire a 759,4 alle 10 del giorno 27. Nel giorno precedente, il 23, si era osservato un passaggio di cumuli e di qualche nembo provenienti da N con velocità moderata, ed il vento al suolo, generalmente del terzo quadrante, era stato debole. Durante la depressione si manifestarono tre temporali, e mentre imperversava il terzo si formò una tromba marina. Non essendo cosa frequente che una tromba passi nelle vici¬ nanze, o almeno in vista, di un Osservatorio munito di appa¬ recchi registratori, non si ha che un piccolo numero di osser¬ vazioni fatte al riguardo. Ho creduto perciò utile, sebbene la meteora fosse passata a distanza dall'Osservatorio, descrivere sia ciò che ho potuto osservare direttamente, sia ciò che è apparso dai tracciati degli istrumenti registratori, tanto più che l'Osser¬ vatorio possiede uno " statoscopio con registratore di temporali,,, munito di cilindro giornaliero, costruito dalla ditta Richard di — 55 — Parigi sulle indicazioni del Prof. Turpain di Poitiers, strumento prezioso nelle osservazioni di tali meteore. La descrizione dei menzionati tre temporali che sono stato costretto a fare considerata da sola presenterebbe uno scarso interesse; ma considerata insieme ad altre osservazioni già fatte in altre località durante il passaggio di trombe, ed a quelle che eventualmente si potranno fare in prosieguo, serve a fornire altri dati sui vari fattori che intervengono nella formazione di queste meteore. Situazione isobarica nelle ventiquattro ore precedenti la tromba* 1923 agosto 24. — Alle 8h : Ciclone sul Mar del Nord ed isole Britanniche (mm. 747). Alta pressione al SW d’Europa e a SE della penisola italica (mm. 763). Pendio da S sull'Europa Centrale. Una saccatura sul golfo del Leone ed una sul Veneto. 1923 agosto 25. — Alle 8h : Il ciclone del giorno prece¬ dente si porta sull'Alto Adriatico (mm. 752). Alta pressione sulla Francia (mm. 766). I tre temporali del 24-25 agosto 1923. Il primo temporale, cominciato alle 19h 45m e terminato alle 23h 30m del giorno 24, era diretto da SW a NE, occupava parte del terzo quadrante, tutto il quarto e una porzione del primo, passando tangenzialmente alla regione del lago Fusaro. Secondo il mio parere dovette essere più intenso al largo sul mare del golfo di Gaeta. Intatti su questa regione fin dal principio del temporale si notò un lampeggiare continuo, con tuoni frequenti ma molto lontani; soltanto sei scariche elettriche, che produssero altrettanti lampi intensi e tuoni secchi, furono registrati sul dia¬ gramma dello statoscopio munito di registratore di temporali. Durante la perturbazione temporalesca di cui si tratta lo statoscopio funzionava col rubinetto aperto, ossia era disposto in modo da risentire le sole variazioni brusche della pressione barometrica. 56 — Sul diagramma di questo apparecchio, durante il primo temporale, ad ogni segno che indica una scarica elettrica, cor¬ risponde una depressione brusca di qualche centesimo di mil¬ limetro, sicché appare una specie di gradinata dell'altezza di circa 4 mm, pari a una diminuzione di pressione di mm. 0,16. Fig. 1. — La tromba alle 8h 55m. Alle 16h 30m la pressione barometrica, ridotta a zero ed al mare, era di mm. 758,0 e si mantenne quasi costante fino alle 21h 45m. La pioggia fu scarsissima, poiché dalle 19h 50m alle 20h ne cadde appena un decimo di millimetro. Prima del temporale, alle 19h , la temperatura era di 26°, 4; dopo la pioggia, alle 21h , era di 23°, 6. Il vento, calmo fino alle 15h , fu debole, con provenienza da SW, fin dopo le 23h . Anche da SW a NE erano dirette le nubi, in prevalenza nembi e cumolo-nembi. Alle 23h 45m, quando da poco si era spenta beco dei tuoni del primo temporale, se ne udì uno forte proveniente da un nembo trovantesi nel terzo quadrante: si avvicinava il secondo. Il cielo era tutto coperto da nembi e da cumuli in modo da fare apparire assai buia la notte. Le scariche elettriche, rade fino alle 2h 45m del giorno seguente , divennero assai frequenti — 57 — dalle 3h 7m alle 3h55m, ed alle 4h finalmente cessavano. L'in¬ tensità massima dei tuoni si ebbe alle 3h 30m. Anche durante questo secondo temporale sul diagramma dello statoscopio ad ogni scarica elettrica corrisponde una de¬ pressione brusca della pressione e complessivamente si ha una diminuzione di mm. 0,36. Dalle 23h 50m del giorno 24 alle 0h 5m del 25 caddero mm. 0,4 di pioggia. La curva descritta dal barometro registratore, sempre in di¬ scesa dalle 21h 45m del giorno precedente, presentò una leggera sinuosità fino alle 3h quando la pressione era di 754 mm. In questo istante si manifestò il groppo, ed infatti la curva baro¬ metrica indica una salita rapida con un massimo di mm. 756,9 alle 3h 50m e si abbassa a 753,4 alle 5h 20m descrivendo così una specie di gibbosità. E nemmeno mancano gli altri caratteri del groppo, infatti la velocità del vento che era in media di 6 km. all'ora, alle 3h diveniva improvvisamente di 26 km.; contemporaneamente l'umidità relativa da 81 saliva a 90; dalle 2h alle 3h si ebbero, insieme a pochi chicchi di grandine, mm. 3,7 di pioggia, la quale aumentò d'intensità alle 3h per poi subito cessare. Dalle 4h al¬ le 6h caddero altri mm. 0,2 di pioggia. La temperatura, che alle 22h della sera precedente era di 25°, 6, si abbassava a 19°, 8 alle 6h 20m del giorno 25. Il grandioso ammasso di cumulo-nembi, costituente il tem¬ porale, era diretto come il precedente da SW a NE, e durante il suo passaggio il vento al suolo subì i seguenti cambiamenti di direzione : NW S W ESE E SE. Più tardi, alle 8h , il cielo era totalmente coperto da cumuli, mammato-cumuli, fracto-cumuli, nembi, fracto-nembi, tutti pro¬ venienti da WSW. Poco dopo le 8h raddensarsi di nembi assai scuri nel terzo quadrante, ed alcuni tuoni lontani facevano ritenere imminente un altro temporale. Però anche questo, come il primo, passò tangenzialmente alla regione del lago Fusaro, e fu più intenso sul golfo di Gaeta. I lampi erano appena visibili; i tuoni ad ec- — 58 — cezione di quattro secchi, furono lontani e prolungati. La pres¬ sione barometrica, ridotta a zero ed al mare, era di mm. 754,0 alle 9h , e di mm. 754,3 alle 10h . Il vento al suolo, del secondo quadrante, si mantenne debole. Caddero mm. 7,6 di pioggia dalle 9h 15,J1 alle 10h . La temperatura alle 9h era di 25°0 e un'ora dopo 20°, 0. L'umidità relativa oscillava tra 80 e 90. Fig. 2. — La tromba alle 8h 58m. Ma il fenomeno più importante manifestatosi mentre si svol¬ geva quest'ultimo temporale fu l'apparizione di una tromba ma¬ rina, della quale mi accingo a parlare. La tromba marina* Alle 8h50m il cielo era sempre completamente coperto da nembi provenienti da WSW, e qua e là apparivano strisce di pioggia. Alle 8h 55m scorsi ad ovest una tromba marina, a forma di cono rovesciato, di colore assai scuro come quello del nembo da cui partiva. La distanza che la separava dalla costa era di circa 15 km. e l'altezza oscillava intorno ai 1500 metri. Questi valori approssimati furono da me calcolati mediante distanze angolari che misurai col sestante e ricorrendo a punti di riferimento della — 59 costa la cui altezza sul livello del mare e la cui distanza dall'os- servatorio era nota. Il piede della tromba era circondato da una specie di ca¬ lice di acqua di mare, di color biancastro, probabilmente schiu¬ moso, che dal basso in alto diveniva sempre più trasparente in modo da sembrare quasi nebuloso. Fig. 3. — La tromba alle 9h 4m. All'apparire della meteora il diametro del calice nel punto in cui era a contatto col mare era di poco inferiore ai 300 metri e battezza raggiungeva presso a poco la metà di quella della tromba. Questa poi nel punto in cui toccava il mare aveva un diametro di qualche decina di metri, e in quello in cui era a contatto con la nube di parecchie centinaia. Dalla nube pendevano inoltre, pre¬ cedendo la tromba, alcune protuberanze coniche, a forma di pro¬ boscide, distanti tra loro qualche centinaio di metri. Alle 8h 58m il calice si era ristretto e la sua altezza si era ridotta circa alla metà di quella primitiva. Le tre protuberanze si erano allungate, e ad esse se ne erano aggiunte altre quattro minori. Alle 9h la tromba si era motto assottigliata, l'altezza del calice era ridotta a meno di un terzo di quella che aveva allo — 60 — inizio del fenomeno, e non erano rimaste che solo le tre pro¬ tuberanze primitive, ma di dimensioni minori. Pochi istanti dopo la tromba divenne sottilissima, e alle 9h 5m spariva d'un tratto insieme alle protuberanze. Prima che si manifestasse il fenomeno, e precisamente alle 8h 40ra , vidi guizzare un lampo, seguito da un tuono prolun¬ gato, nel nembo dal quale poco dopo doveva protendersi la tromba. Contemporaneamente alla sparizione di questa osservai, sempre nella stessa nube, un altro lampo seguito da un tuono secco. Come si può osservare nella terza figura, che rappresenta l'ultima fase del fenomeno, la tromba pochi istanti prima di scomparire aveva acquistata la forma di una S. Non potei calcolare la lunghezza del tratto di mare percorso dalla tromba, perchè questa, apparsa ad WSW, si avvicinava alla costa seguendo questa direzione, spostandosi cioè secondo la vi¬ suale ad essa condotta. Ho ragione di credere che la velocità di traslazione non dovesse essere notevole, poiché non era tale neppure quella del nembo. Quantunque la tromba fosse passata a notevole distanza dall'Osservatorio, appena cessato il fenomeno volli vedere se mai lo statoscopio e l'apparecchio registratore di temporali avessero segnato qualcosa d'interessante. Ed infatti trovai registrata la scarica elettrica avvenuta alle 8h 40m , nonché una depressione brusca di mm. 0,28 avvenuta alle 8h 45m ; alle 9h 5m era segnata una seconda scarica, corri¬ spondente alla scomparsa della meteora; alle 9h 22m ed alle 9h 40m ne erano registrate altre due. All'ultima scarica corri¬ spondeva un rialzo brusco della pressione di mm. 0,36, cui se¬ guiva, circa un paio di minuti dopo, una nuova salita brusca di mm. 0,28. La registrazione avuta presenta un certo interesse perchè credo che questa sia stata la prima volta che una tromba si sia formata nei paraggi di un osservatorio in cui funzionasse uno statoscopio, strumento molto più adatto a indicare le variazioni brusche anche minime della pressione atmosferica che non gli ordinari barometri registratori. — 61 — Si potrebbe dedurre dal grafico che prima dell'apparizione della tromba si sia verificata, in una zona piuttosto vasta, una depressione brusca, il cui valore doveva essere massimo al cen¬ tro, dove dopo doveva formarsi la meteora, e decrescente con la distanza da questo punto, ma non tanto rapidamente da non essere percepita da uno statoscopio lontano parecchi chilometri. Fig. 4. — Fac-simile del diagramma dello statoscopio con registratore di temporali Richard del giorno 25 agosto 1923 dalle 7h alle llh. In alto sono registrate quattro scariche elettriche atmosferiche. Risulta ad ogni modo dalle registrazioni dello statoscopio che depressioni brusche si manifestarono durante i tre temporali, e che la tromba si è formata mentre perdurava l'ultima di esse. Queste le osservazioni che ho potuto fare durante il pas¬ saggio della tromba. Certamente esse sono assai scarse e lungi dal poterne trarre conclusioni sicure; tuttavia possono contri, buire a fornire nuovi dati da aggiungere a quelli raccolti da altri osservatori. Nello specchietto che segue sono riprodotti i dati orari della direzione e velocità del vento durante i giorni 24 e 25 agosto forniti dall'anemometro registratore, a 16 direzioni, a trasmis¬ sione meccanica, costruito recentemente dal meccanico Luigi Fa- scianelli del R. Ufficio centrale di Meteorologia e Geodinamica. — 62 — 24 agosto 1923 25 agosto 1923 Dalle alle Direzione Velocità in km. all’ora Dalle alle Direzione Velocità in km. all’ora Oh lh Calma Calma Oh lh S 4 1 2 II a 1 2 W 6 2 3 II » 2 3 ESE 26 3 4 II ;; 3 4 ESE 19 4 5 » n 4 5 E 9 5 6 II a 5 6 SE 4 6 7 II n 6 7 Calma Calma 7 8 II ìt 7 8 ESE 9 8 9 SE 2 8 9 ESE 4 9 10 SE 4 9 10 ESE 12 10 11 SSE 3 10 11 ESE 6 11 12 WSW 6 11 12 ESE 5 12 13 WSW 5 12 13 NW 24 13 14 WNW 10 13 14 NE 28 14 15 WNW 2 14 15 ENE 40 15 16 Calma Calma 15 16 NW 38 16 17 NW 2 16 17 NW 35 17 18 Calma Calma 17 18 NW 13 18 19 » a 18 19 ENE 13 19 20 NW 1 19 20 N 5 20 21 NW 1 20 21 Calma Calma 21 22 NW 3 21 22 ENE 2 22 23 NW 4 22 23 ENE 1 23 24 S 5 23 24 ENE 1 R. Osservatorio Idrobiologi co del Lago Fusaro (Napoli) y Agosto 1924. Finito di stampare il 25 marzo 1925. \ Su alcuni prodotti m e t y 1 e n i n i c i. Nota del socio Dott. Federico Geremicca (Tornata del 13 luglio 1924) E' da qualche tempo che mi son prefisso di studiare la esa- metilentetrammina sia dal lato puramente teorico che da quello delle sue applicazioni pratiche ed in questa nota preliminare espongo brevemente i primi risultati ottenuti in quest' ordine di idee. Lo studio, come si vedrà, è appena all' inizio, ma per pigliar data, è necessario che io mi affretti a darne comunicazione. Finora ho fatto combinare 1' esametilentetrammina, che per brevità chiamerò metylenina, con varie sostanze sia inorganiche che organiche, ed ho ottenuto una serie di prodotti che raggruppo sotto il nome generale di "Prodotti metyleninici Per quando non ancora esaminati profondamente, pure, te¬ nendo conto dei loro costituenti, si può ritenere che presentano un interesse notevole dal lato farmaceutico. L' analisi è appena ora incominciata e non posso pronun¬ ciarmi ancora sulla esatta costituzione quantitativa; mi limito quindi a dare un primo elenco dei prodotti, indicando a quali usi potrebbero essere adibiti sempre che le loro proprietà bio¬ logiche saranno la risultante di quelle dei loro costituenti, come sarebbe da aspettarsi e come per qualcuno ho avuto agio di provare - 1) Almetylina - Alluminiometylenina. — Polvere bianca, amorfa, insolubile in acqua, con proprietà disinfettanti, astringenti , emostatiche. Si decompone molto lentamente nei suoi costituenti sia in mezzo acido che in mezzo basico. Tenendo conto della scarsissima assorbibilità dei sali di alluminio per mezzo — 64 — del tubo digerente, questo prodotto potrebbe essere usato con molto vantaggio nella disinfezione gastrica, nelle autointossicazio¬ ni, nella dissenteria bacillare, nel tifo, ecc. Contemporaneamen¬ te, Fazione disinfettante non si fermerebbe alle sole vie dige¬ renti, ma si estenderebbe alle varie vie di passaggio della mety- lenina, cioè al rene, alla milza, al fegato, ed al sangue in generale. Anche per via esterna può trovare utile applicazione nella disinfezione delle piaghe specialmente umide e purulenti, dove potrà esercitare anche le sue energiche proprietà astrigenti, as¬ sorbenti e deodoranti. Come emostatico potrà essere anche utilissimo. In generale potrà essere usato dovunque si dovrà disinfet¬ tare, astringere, jdeodorare, ristagnare. Per rendere più vasta e più comoda Fapplicazione del me¬ dicamento, ho da esso fatto due specialità che si basano su due forme solubili, di esso associate ad altre sostanze secondarie. La prima: il " Metan,, è uno specifico per frenare F eccessivo sudore e distruggere il puzzo nella peridrosi fetida. La seconda : la “ Mety- lalina „ è un disinfettante generale liquido, innocuo, astringente ed emostatico che può essere usato con grande vantaggio nei lavaggi ginecologici, blenorragie ; come colluttori, gargarismi, clisteri e collirio e per comuni lavaggi sempre che bisogna disinfettare, rassodare o ristagnare. 2) Jodalmetylenina-Jodalluminìometylenina. — È un prodotto jodico del precedente. Veramente sembra che pro¬ dotti siano due o più, variamente jodurati, ma che una sia la forma più stabile. E' questa una polvere cristallina, insolubile in acqua, di colore bruno olivastro, inodore. Alle proprietà biolo¬ giche del prodotto precedente dovrebbero aggiungersi quelle dello jodo e quindi questo prodotto potrebbe servire come disinfet¬ tante interno ed esterno ed in tutti i casi in cui si deve ricor¬ rere ad una energica cura jodica, come nelFartritismo ed in altre malattie del ricambio. 3) Metylhidrargirina-Mercuriometylenina. — Pol¬ vere amorfa, bianca, insolubile in acqua, ma trasformabile facil¬ mente in un prodotto solubile. Potrebbe essere usata in tutti i casi in cui si deve ricorrere ad una cura mercuriale, sia per uso esterno, sia per uso interno. 4) Metylargina-Argentometylenina. — Polvere cri¬ stallina, bianca, insolubile in acqua, ma facilmente solubilizzabile. Si altera alla luce come la maggior parte dei composti dell'ar¬ gento. Le sue proprietà dovrebbero essere energicamente antitos¬ siche e potrebbero trovare utile applicazione in tutte le gravi in¬ fezioni del sangue; data la spiccata 'azione che la metylenina eser¬ cita sui bacilli di Eberth, potrebbe prevedersi anche un impiego quasi specifico di questo prodotto nel tifo. Potendo trovarsi sotto forma solida o di soluzione il suo impiego può essere molto vasto. 5) Metylstannina - Stan nometylenina. — Polvere bianca, amorfa pochissimo solubile in acqua, alle proprietà spe¬ cifiche della metylenina dovrebbero aggiungersi quelle dello sta¬ gno. Potrebbe perciò esercitare un’azione specifica come disin¬ fettante intestinale nella cura della foruncolosi e delle varie der¬ matiti. Anche per via esterna può esercitare un'energica azione disinfettante. 6) Clorometylstannina - Clorostannome tylenina. — Prodotto cristallino bianco, molto solubile in acqua, contiene in più del precedente il cloro. Data la sua grande solubilità può usarsi per c.olluttori e per iniezioni; sarebbe specialmente indi¬ cato come antisettico astringente. 7) Metylarbutinina. — Prodotto di condensazione del- l'arbutina con la metylenina. Prodotto cristallino bianco lievemente rosato, solubile in acqua. Dovrà conservare le proprietà del glu- coside dell'uva ursina e quella della metylenina. Potrà perciò essere efficacissimo come disinfettante delle vie urinarie e potrà agire sia in mezzo acido che in mezzo basico. 8) Metyleugenina-Eugenolometylenina. — Prodotto cristallino bianco, con lieve odore di garofani. Le sue proprietà dovrebbero essere energicamente disinfettanti e lievemente ane¬ stetiche, o meglio anelgesiche. Si decompone molto lentamente ed incompletamente nei suoi costituenti. 9) Guajametylenina - Guajacolmetilenina . — So¬ stanza cristallina giallo citrino con lievo odore di guajacolo. Dato i suoi costituenti, potrebbe risultare più efficace dello stesso gua¬ jacolo nelle infezioni tubercolari. Questi ultimi prodotti che risultano dalla condensazione di fenoli ed etere fendici con la metylenina, presentano un inte- — 66 — resse particolare e saranno soggetto di accurati studi biologici, giacché i prodotti che si combinano, acquistano una forma molto stabile e non è quindi da escludere che possano perdere le loro proprietà per acquistarne altre: magari anche totalmente diverse, oppure che le loro proprietà vengano ad esaltarsi scambievol¬ mente in modo da dare un prodotto attivissimo. E' ancora molto interessante seguire questo tipo di combinazioni, per vedere quali variazioni nelle proprietà del prodotto avvengono, variando la po¬ sizione ed il numero degli assidrili e dei sostituenti. Infine con i fenoli può ottenersi una serie grandissima di prodotti, alcuni dei quali potrebbero avere delle proprietà importantissime. Così saranno anche di notevole interesse i derivati degli amminofe- noli combinati con la metylenina ed ancora i composti alogenati e metallici di questi. Come si vede è un campo vastissimo che intendo percorrere rapidamente per potermi poi fermare su ciò che avrò trovato di utile. Per ora annunzio che sono in corso di preparazione i pro¬ dotti di combinazione della metylenina col fenolo, cresolo, re¬ sorcina, timolo, isobutilcresolo, isoamilcresolo ed altri ancora. Napoli , Luglio 1924. Finito di stampare il 25 maggio 1925. Spettri d'assorbimento e conducibilità elet¬ trica delle soluzioni di cloruro di cobalto. Nota del socio Dott. Giuseppe Imbò (Tornata del 2 giugno 1925) Fra le soluzioni colorate dei sali inorganici caratteristiche sono quelle del CoCl2, poiché esse presentano spettri d'assor¬ bimento variabilissimi con la natura del solvente, con la tempe¬ ratura e con la concentrazione. Varie sono le ipotesi per la spiegazione del fenomeno. L'Enghel l 2) ritiene che la variazione della colorazione debba dipendere dalla formazione di un composto complesso del sale con HC1 che si ottiene per azione del cloruro di cobalto sul¬ l’acqua. Analoga spiegazione, e cioè che si abbia formazione di anioni complessi, dànno Donnan e Bassett *) i quali studiarono le variazioni degli spettri delle soluzioni alcooliche a basse tem¬ perature. L'Ostwald ammette invece che il cambiamento sia dovuto alla dissociazione della molecola di CoCl2, in quanto che suppone che la molecola dia alla soluzione il colore blu e che l’ione cobalto le conferisca il colore roseo. L'ipotesi che ha in¬ contrato favore presso il maggior numero degli sperimentatori, quali Gladstone 2\; Russel 3), Etard 4), Hartley 5), Von *) Carn. Inst. Washingthon, 60. 2) Phil. Mag. XI V, pp. 418-426. 3) Trans. Rojal Soc. Dublin, Voi. 8, 1900. 4) C. R. 107, 42, 1888. 5) The scientific Trans. Rojal Soc. Dublin voi. 7, 1900, p. 253. — 68 — Babo *), Tichborne 1), Sabatier !), Iones e i suoi collabora¬ tori *) ecc., è che il cambiamento sia dovuto al vario grado d'i- dratazione del sale. Vi è però anche tra questi autori un disac¬ cordo nello stabilire se tale idratazione avviene nettamente o gradualmente. A conferma dell'ipotesi che l'idratazione avvenga bruscamente 1' Etard 2) fece uno studio simultaneo delle curve di solubilità e delle corrispondenti variazioni nella colorazione e trovò che in corrispondenza della variazione nel colore c'era anche una variazione in detta curva. Ad analogo risultato per¬ venne lo Charpy 3) che studiò le variazioni della tensione dei vapori delle soluzioni in esame al variare della temperatura. Lo stesso effetto è stato riscontrato dal Wiedemann e dal Trostk 4) nello studio della conducibilità elettrica delle soluzioni di CuS04; ma 1' Isaachsen ed il Lev 4), ripetendo le medesime esperienze, hanno notato invece che la conducibilità elettrica varia in modo graduale: non potrebbe quindi parlarsi di formazione brusca d'idrati. A chiarire la questione, per consiglio del Prof. Cantone, ho eseguito uno studio simultaneo delle variazioni termiche de¬ gli spettri d'assorbimento e della conducibilità elettrica delle solu¬ zioni di C0CI2. Dispositivo sperimentale. Per le esperienze spettroscopiche mi son servito dell'ordi¬ nario spettro-fotometro del Kruss. Sorgente di luce era una lampadina a filamento metallico smerigliata nella parte anteriore per avere luce diffusa uniforme. Le determinazioni di conduci¬ bilità sono state fatte col ponte di Kohlrausch. Il termostato era una piccola stufa elettrica rivestita di molti strati d'amianto. Esperienze. Le soluzioni da me studiate sono state quelle in acqua, in miscela di acqua ed alcool, di acqua e glicerina, di acqua e aci¬ do cloridrico. l) Cani. Inst. Washingthon - 60, 110, 130, 170. *) C. R. 1891 - p. 699. 3) C. R. 1891 - p. 794. 4) Atti R. Acc. Se. Torino, Voi. 48 — Disp. 6-906-1907. t - 69 — Per la somiglianza fra gli effetti prodotti da variazioni di temperatura e quelli dovuti all’azione degli agenti deidratanti sulle soluzioni in esame, ho studiato le variazioni degli spettri d'as¬ sorbimento al variare del quantitativo di acido cloridrico in una soluzione acquosa. Ciascuna delle soluzioni è stata esaminata varie volte e le determinazioni sono state fatte parte a temperature crescenti, parte a temperature decrescenti. Risultati. Le soluzioni acquose, di piccola concentrazione, quali sono state quelle da me studiate (massima concentrazione 10°/o) presen¬ tano unica banda di posizione media X = 515,5 \i\i che si allarga sensibilmente con l’elevarsi della temperatura. Studiando invece soluzioni acquose con alcool, o con glicerina, con l'elevarsi della temperatura gli spettri si modificano notevolmente nel senso che nascono nuove bande le quali si spostano verso la parte meno rifrangibile dello spettro e si intensificano sino alla completa fusione. Tali variazioni sono reversibili, vale a dire che a tem¬ peratura decrescente si notano le stesse modificazioni ma in senso inverso. Faccio seguire i quadri relativi semplicemente ad una concentrazione per ciascuna delle soluzioni esaminate e propria¬ mente per quelle di cui io riporto più appresso i valori otte¬ nuti nello studio della conducibilità elettrica. Nel quadro riportato Sol. al 2,01 % m miscela di acqua ed acido cloridrico al 33,33 % Sol. al 2,92 % (anidro) in miscela di acqua ed alcool al 75 % Sol. al 2,46 % in miscela di acqua e glicerina al 64,10 % 26o,4 550-488 20° 539-495 50° Limite della ban¬ da dalla parte meno rifrangibile 563 60°-65° 667-653 50°-55° 622 82°-86° 672-662 622 605 623 606 590 80°-85° 711-675 65°-70° 687-658 100°- 105° 689-677 I — 70 — sono segnate: la temperatura iniziale con le bande visibili a detta temperatura, le temperature critiche del colore, come le chiama Iones i), ossia le temperature in cui nascono le nuove bande con le relative posizioni individuate dai valori delle lunghezze d'onde corrispondenti agli estremi o alle posizioni medie se sottili. Facendo variare il quantitativo di acido cloridrico in una solu¬ zione anche abbastanza diluita l'assorbimento raggiunge un mas¬ simo, in modo analogo a ciò che avviene per aumenti di tem¬ peratura, e poi diminuisce sino alla completa trasparenza della soluzione. Tale variazione nello spettro è accompagnata anche da una variazione nella colorazione che diviene prima azzurro¬ intensa e poi incolora con leggera tendenza all'azzurro. La ban^ da 550-488 nelle soluzioni acidulate e la 539-495 nelle alcooli- che oltre a spostarsi verso la parte meno rifrangibile dello spettro, diminuisce in intensità sino alla scomparsa totale. Caratteristici sono gli spettri delle soluzioni coloridriche per la molteplicità delle bande larghe e sottili cui danno luogo. Dette bande scom¬ paiono al diminuire della concentrazione a cominciare dalla più rifrangibile. Nel seguente quadro ne sono riportate le posizioni. Concen¬ trazione P O S I z IONE 4,66 o/0 . 561 549 540-522 505 458-442 1,55 o/„ . 565 549 540-522 0,01 o/0 701-679 667-653 622 606 Al variare della temperatura tali spettri restano per niente mutati. * * * 1 valori ottenuti nello studio della conducibilità elettrica so¬ no segnati nelle tabelle seguenti nelle quali si riportano i va¬ lori inversi delle resistenze ossia valori proporzionali alla con¬ ducibilità. 4) L. c. — 71 — Soluzione acidulata (vedi curva la) Ternp. VALORE inverso della resistenza Temp. VALORE inverso della resistenza A temp. cresc. A temp. decr. Media A temp. cresc. A temp. decr. Media 20° 8,36 8,37 8,36 70° 12,26 ) 25° 8,82 8,86 8,84 70°, 5 • • • 9 f • . . L 13,39 30° 9,32 9,33 9,32 71° 12,52 ; 35° 9,78 9,74 9,76 75° 12,84 * • •) 39°, 5 • • 10,27 • • • 75o,5 • • • r • . . 1 12,71 44° 10,53 \ 76° • • • 12,58 ) 45° • • • 10,66 80° . 12,89 ) 46o 10,70 . . . 1 80o,5 . . . f • • • t 12,90 50° 11,01 11,01 11,01 81o 12*92 . . 4 55° 11,38 11,42 11,40 85° . . . 13,04 \ 60° 11,57 11,78 11,67 85°, 5 • • • 1 13,10 65° 11,93 • • • ) 86° 13,16 ; ; ; ( 65o,5 . . . 12,01 90° 13,44 13,40 7 13,42 66o • • • 12,09 ' 100° 13,79 13,73 13,76 Soluzione alcoolica (vedi curva 2a) 20o 0,140 50° 0,282 0,312 24° • • • 0,168* ) 55o 0,308 0,341 24o,5 ... • • • i 0,164 60° 0,337 0,368 25° 0,161 65° 0,368 0,398 30o 0,184 0,200 0,192 70« 0,397 0,427 35° 0,206 0,226 0,216 75o 0,430 0,451 40o 0,230 0,254 0,242 80° 0,469 0,476 45° 0,256 0,282 0,269 Soluzione IN MISCELA DI ACQUA E GLICERINA (vedi Curva 50° 0,0132 0,0112 0,0122 90° 0,0394 55° 0,0157 0,0136 0,0146 90°, 5 • • • ... 60° 0,0183 ... 91° 0,0413 ... 64o • • • 6,0188 95° 0,0445 0,0425 64°, 5 • • • 0,0201 99° • • • 0,0463 65° 0,0214 ... 99°, 5 ... 70° 0,0249 0,0227 0,0238 100° 6,0487 • • • 75° 0,0285 0,0262 0,0273 102° ... 0,0492 80° 0,0332 0,0301 0,0316 105° 0,0523 0,0517 85o • • • 0,0340 110° 0,0584 0,0565 85°, 5 ... 0,0356 86° 0,0372 . . . 0,294 0,324 0,352 0,383 0,412 0,440 0,472 0,0399 0,0435 0,0475 0,0520 0,0575 — 12 — Le curve negli annessi diagrammi, dove si assumono per ascisse le temperature e per ordinate valori proporzionali ad I/r. si riferiscono ai valori medi. Dall’esame delle curve si rileva che la conducibilità non ha variazione regolare al mutare della temperatura , notandosi dei flessi in corrispondenza alla comparsa delle bande. — 73 - Vengo ora in fine alla causa delle anomalie riscontrate. Una discussione sulle ipotesi che attribuiscono il cambiamento nella colorazione alla dissociazione o alla formazione di aggregati mo¬ lecolari è da escludere perchè tali ipotesi furono già dimostrate da Iones i) insufficienti alla spiegazione del problema. Sembra probabile invece che gli effetti esaminati siano da attribuire alla formazione di bassi idrati a partire dalla molecola idratata di CoCl2 + 6H20. Gli studi di Von Babo, dell'HARTLEY *) ecc., riguardanti l'in¬ fluenza del calore e degli agenti deidratanti sugli spettri d'assor¬ bimento dànno un valido appoggio a detta ipotesi. Un aumento di temperatura produce lo stesso effetto di un aumento nella per¬ centuale di agente deidratante (ac. clor., alcool, glicerina, cloruro di magnesio, cloruro di calcio ecc.) la quale varia da agente ad a- gente e propriamente è in ragione inversa del potere igroscopico di esso. Ciò lascia scorgere l'intimo rapporto tra spettri d'assorbi¬ mento ed acqua di cristallizzazione e quindi la formazione dei detti bassi idrati. Per convincersi poi che tale formazione non sia gra¬ duale basta tener presente i risultalti dell'ETARD, dello Charpy e quelli da me ottenuti dai quali si rileva che nei medesimi stretti intervalli di temperatura si producono le trasformazioni rivelate dagli spettri d'assorbimento e dall'andamento della con¬ ducibilità elettrica 2). Lavoro eseguito nel R. Istituto di Fisica della R. Università di Napoli. Finito di stampare il 25 maggio 1925. 1) L. c. 2) La Gazzetta Chimica Italiana, Anno LI V, Fase. XII, 1924 pubblica una no¬ ta del Prof. Mazzetti C. Studio sulle soluzioni di cloruro di cobalto. Nota 1. L'A. esegue misure parallele di conduttività e viscosità delle soluzioni ac¬ quose di CoCl2 allo scopo di determinare il grado di dissociazione, tenendo presente la non assoluta accettabilità dei valori avuti da Iones e collaboratori negli studi sulla esistenza degli idrati in soluzione. Così conchiude: « Pur con tutte le cautele e limitazioni delle quali ho fatto cenno, si può dai dati pre¬ cedenti desumere che il comportamento conduttometrico delle soluzioni di CoCl2 è in relazione non solo con la ipotesi della idratazione, ma anche con quella della formazione di ioni complessi ». Rapporti fra pioggia e vegetazione nella Costiera amalfitana del socio M. Guadagno Con una tavola. (Tornata del 15 febbraio 1925) In altra mia precedente pubblicazione l) ho indicata una serie di specie che nella Penisola sorrentina, intesa limitata verso est dalla vallata Nocera Vietri, sono localizzate nelle Valli di Amalfi e Minori. Sono specie del più alto interesse fitogeografico che si presentano accantonate in quelle valli, formando colonie piut¬ tosto ricche di individui. Esse sono le seguenti: Woodwardia radicans (L.) Sw. Pteris eretica L. Pteris longifolia L. Carex Grioletii Roem. Pinguicula hirtiflora Ten. Parnassia palusiris L. Ho in quella pubblicazione espresso l'opinione che le prime quattro fossero relitti di antiche flore prequaternarie; ma non mi occorse dare alcun cenno sul meccanismo probabile della loro conservazione; in altro più recente lavoro 2) precisai ancora dippiù tale opinione, riferendomi agli elementi termofili ci- 1) Guadagno M. — La Carex Grioletii Roem. nella Penisola sorrentina. Bull. Ort. Bot. della R. Univ. di Napoli T. V, pag. 288. 2) Guadagno M. — La vegetazione del Monte Nuovo e le sue origini. Boll. Soc. dei Naturalisti in Napoli, a. 1921-922, pag. 238. — 75 — tati (Woodwardia e le due Pteris), considerando le vallate di Amalfi come siti di accantonamento di quelle rare specie, dai quali siti si sarebbero poi diffuse nelle stazioni adatte dell'isola d' Ischia. * * * La terza ultima catastrofe che in meno di 25 anni ha fune¬ stata la bella Plaga amalfitana, avendomi spinto a studiare il pro¬ blema, interessante dal lato tecnico, dell'accanirsi di tali flagelli sulla costiera, m' ha fatto esumare alcuni dati riguardanti il re¬ gime pluviometrico della regione, dati che vennero in mio pos¬ sesso dopo il 1916 e che perciò non furono pubblicati nella la parte della mia “ Vegetazione della Penisola sorrentina „ J) ove (pag. 19-25) sono riportati i dati climatici della regione studiata e delle terre adiacenti. I nuovi dati si riferiscono alla stazione udometrica di Ra- vello, che a cura del Sig. Carlo Lacaita, il noto distinto botanico, era impiantata nella Villa Rufolo, di sua proprietà. La stazione era dotata di un pluviometro a quantità. Le misure, che venivano fatte giornalmente, si riferiscono al periodo 1895-1906. Dallo studio dei dati è venuto fuori quanto avevo intuito ed espresso nella precedente pubblicazione sulla Penisola, e cioè che il regime pluviometrico del tratto di costa Majuri-Amalfi-Posita- no, e di cui Ravello (300 m.) è il centro, fosse del tutto diverso da quello delle zone limitrofe, essendo il tratto amalfitano com¬ preso in un centro di pluviosità completamente anomalo. In effetti per Ravello e per le altre stazioni udometriche vi¬ ciniori i dati riflettenti la pioggia (Q), e la sua frequenza (F), si possono così riassumere. 1 ) Guadagno M. — La vegetazione della Penisola sorrentina. Bull. Orto Bot. della R. Università di Napoli, a. 1916, pag. 133. — 76 — Altezza ^ sul mare m. Località Quantità annua in m/m Frequenza a. in giorni 325 Ravello . . . 1552 80 41 Nocera . . . 1380 91 53 Salerno . . . 965 90 489 Massa Lubrense 871 77 268 Capri .... 778 89 25 Pompei . . . 867 104 120 Napoli . . . 844 112 Se poi paragoniamo i dati di Ravello con quelli di un altra stazione, (e scelgo Napoli che ha gli elementi più completi), a- vremo il seguente comportamento stagionale della pioggia. Stagioni Ravello Napoli Differenze Valori massimi di Q, in mm. per Ravello e valori corrispondenti per Napoli Q F Q F Q F Data Ra¬ vello mm. Na¬ poli mm. Diffe¬ renze mm. Inverno 535 24 283 38 152 -14 8-2-95 91 5 86 Primavera 370 21 207 33 163 -12 30-4-02 109 73 36 Estate 115 10 76 12 39 - 2 13-6-95 117 1 116 Autunno 532 25 278 29 254 - 4 16-9-98 141 9 0 141 1552 80 844 112 La regione Amalfitana forma quindi un centro di pluviosità, paragonabile a quelli noti della Liguria, della Lombardia e della regione dei Laghi insubrici e di alcuni punti della Toscana e delle Calabrie. ) Uragano. A Ravello però, mentre si ha una pluviosità maggiore come quantità, si ha un numero di giorni di pioggia sensibilmente in¬ feriore rispetto a Napoli (80 su 112), ossia le singole piogge sono più intense. Non ho dati sulla nuvolosità e quindi sul numero di giornate serene; queste però devono aver un comportamento analogo nel senso che il numero medio di tale giornate deve esser maggiore sulla costiera che sul versante opposto della Pe¬ nisola sorrentina. Ciò porta come conseguenza maggiore radia¬ zione solare nella regione studiata. La spiegazione di tale anomalia pluviometrica sta, in mas¬ sima, nelhavere la costa, in quel tratto, direzione Est-Ovest, per cui resta esposta a pieno ai venti di Sud e Sud-Est, ossia alle correnti umide del 2° e 3° quadrante. Sta essa spiegazione inol¬ tre nell'elevarsi brusco che fanno i monti da quel lato, talché dalle vette principali, Cerreto (1315 m.) e M. S. Angelo a 3 pizzi (1443 m.) e dal crinale che le unisce, alla costa, intercedono so¬ lamente da 5 a 6 Km. in proiezione orizzontale. Esse correnti poi passano, per dir così, filtrate nel golfo di Napoli, ed in tal modo si spiega lo scarto sensibile (705 m/m in meno) che vi è fra il quantitativo di pioggia caduto a Ravello in un anno e quello caduto a Napoli nello stesso periodo. I minori rilievi della parte degradante della Penisola sorren¬ tina verso la Campanella e di Capri, non sono sufficienti a pro¬ curare tali anomale condensazioni ed il regime pluviometrico resta per quella parte della Penisola e per Y Isola di Capri dell'ordine di quello della restante parte limitrofa del Golfo di Napoli. Un comportamento intermedio hanno Nocera e Cava sulle quali si versano parte delle condensazioni che avvengono per i crinali dell'Avvocata e di M. Finestra. La boscosità delle cime e creste (Cerreto, Faito) coopera a tale maggiore condensazione; tale fattore non indifferente manca invece per le brulle pendici di Massa Lubrense, della Campa¬ nella e di Capri J). l) Non si potrebbe, la forte pluviosità di Ravello spiegare con la maggiore altitudine sul mare di quella stazione. Essa dista dalla Costa di Minori solo 800 m. a volo di uccello ed è ovvio che a Minori Amalfi e nella Ferriera po¬ ste a quota bassa o in riva al mare piova quanto a Ravello da cui distano più o poco meno di un chilometro. — 78 — Dal lato botanico la ricerca, constatazione e determinazione di centri di pluviosità anomali, in regioni a regime pluviome¬ trico conosciuto, può essere invocata per spiegare sia la presenza di specie o raggruppamenti di specie accantonate, sia l’esclusione di altre specie o formazioni vegetali, ovvie invece nel resto di un distretto floristico. Riferendomi alla presenza delle prime, queste possono essere o relitti di antiche flore (autoctone) restate in posto, (nel senso lato della parola), ad indicare che dal loro insediamento in poi nella regione mai venne meno il minimo delle condizioni necessarie all’esistenza loro; o sono nuovi inquilini immigrati in epoca più recente, per disseminazione più o meno longinqua, in stazioni ove tale minimo o anche un optimum di condizioni necessarie, si era conservato o venuto costituendo. Nella lista data, per le piante accantonate nelle vallate di Amalfi, ritengo che vi sieno elementi riferibili sia all'uno che al¬ l'altra origine. La Woodwardia radicans (L.) Sw., la Pteris longifolia L., la Pteris eretica L. e forse pure la Carex Grioletii Roem. j) ap¬ partengono ad elementi termofili, preglaciali, prequaternarii. La Woodwardia radicans è stata trovata fossile nel pliocene di Ma- 4) Aree distributive delle specie indicate. Woodwardia radicans (L.) Sw. Valli di Amalfi, Ischia, Calabria ad Anoia Messinese al Salto dell’Acero; Mascali, Etna al Milo; Spagna nel Santander accantonata " in prof unda rupiurn scissura supra opp. Castro Urdiale „ tal quale come ad Amalfi, (Willk. et Lange Prod. FI. hisp. 1. 10) ed in Portogal¬ lo. Fuori Europa nelle Isole Canarie e poi dall'Imalaia e Nepal alla Cina, sem¬ pre nei siti umidi ombrosi; Giappone, monti delle Filippine, e di Giava nel mezzo della regione delle foreste. America, lato del Pacifico dal 47° parallelo nord (California) fino al Messico ed al Guatemala e Perù. Pteris longifolia L. Largamente diffusa nella regione tropicale e temperata calda dei due emisferi. In Italia ad Amalfi, Ischia, Calabria, Sicilia, sempre accan¬ tonata e localizzata. Africa boreale, Canarie, Spagna presso Granata {in locis humidis, ad fontes, muros acquaeductuum regionis calidae ), cfr. Wilk et Lang Prodr. fior Hisp. 1. 4.); Grecia {in faucibus umbrosis ), Creta. Pteris eretica L. Regione mediterranea dal piede meridionale delle Alpi marittime e Corsica, verso est; Grecia, Creta, Africa orientale, Ponto Lazico, Persia; Asia orientale e meridionale ove è comune, poi Arabia, Abissinia, Giappone, Polinesia, Isole Sandwich, America centrale. In Sicilia la ritroviamo ximieux in Francia e a San Fruttuoso in Liguria, ed ha, nella Woodwardia Raessneriana del Pliocene, una parente prossima ') • mentre numerose specie dello stesso genere furono trovate nel¬ l'oligocene e nel miocene in Italia e fuori. Anche i generi Pte¬ ris e Carex sono rappresentati in Italia da specie del Miocene, anzi una specie del Miocene, la Pteris pennaeformis Hr. è molto simile all’attuale Pteris longifolia. Resta quindi assodato che trattasi o di specie plioceniche od appartenenti a generi mioplicenici che hanno attraversato il pe¬ riodo glaciale. Tale periodo, nel mentre che si manifestava con veri feno¬ meni di glaciazione anche in località a latitudini più basse di Napoli (M. Sirino in Basilicata) * 2), nel mezzogiorno, nelle zone non invase dai ghiacci, si è presentato come periodo di forte pluviosità. Può dedursi che essa pluviosità non sia scesa mai, dacché i Monti d’Amalfi raggiunsero l'attuale altezza sul mare, al disotto del limite occorrente alle esigenze vitali della Woodwardia , e delle Pteris e Carex , mantenendo quelle condizioni di umidità e di calore occorrenti a quelle specie. Dico di calore in quanto che, ad una maggiore precipita¬ zione di acqua corrisponde, in certe stagioni, un maggiore apporto di calorie, che restano poi acquisite al suolo e ciò a prescin¬ dere dal calore proveniente dalla particolare esposizione della costa. Un clima umido caldo, residuo del clima pliocenico, doveva allora esistere e verificarsi in molte altre parti più privilegiate in compagnia della Woodwardia all’Etna, al Milo; viene poi in Sardegna, in Corsica, nella Lunigiana, a Nizza e Portofino e nelle vicinanze del Lago di Como e Lago Maggiore da dove irradia una stazione nel Ticino (Gandria e Locamo), ove trova il suo limite settentrionale. Carex Grioletii Roem. S. Remo, Isola del Giglio, M. Argentaro, Francia meridionale al vallone Donareou, Ponto Lazico presso Rhizè, Valle del Kliut- sch, nella Persia boreale. 4) Cfr. Saporta. — Le monde des plantes , pag. 306. 2) Cfr. i diversi studii del Prof. Sen. G. De Lorenzo sui ghiacciai del Si¬ rino e De Lorenzo e Dainelli : Il Glaciale nei dintorni di Lagonegro in Basilicata , Atti R. Acc. Se. Napoli XVII, Ser. 2» N. 1. — 80 — del bacino mediterraneo, (e bacini secondarii come il Padano) ; talché queste specie, ora ad area ristretta e saltuaria, dovevano occupare nelle adatte stazioni tutta 1' area , certo più vasta del¬ l’attuale. Quando però, nella sua fine, il periodo glaciale è stato ca¬ ratterizzato dall'avvento di un clima di mano in mano più secco, succedente al regime delle piogge, queste specie, in gran parte dell'area attuale del bacino mediterraneo, sotto l'influenza di tale clima xerotermico, sono state fugate, poiché furono in gran parte distrutte le stazioni adatte e mutate le condizioni di esistenza, nelle felci delicatissime, in ispecie nella fase protallica. Esse restarono però accantonate, nei pressi di punti privi¬ legiati, veri asili di rifugio ove, condizioni locali simili a quelle suesposte, mantennero un regime di relativa forte pluviosità, an¬ che durante il periodo xerotermico; regime adatto ad assicurare quel minimo di condizioni necessarie alla vita delle felci in parola. Regime che dovette poi conservarsi ed accentuarsi col procedere del sollevamelo della penisola. Anzi nel caso del fondo della Valle della Ferriera, più che di un minimo di condizioni favorevoli, si può attualmente par¬ lare addirittura di un optimum . Le felci vi raggiungono dimen¬ sioni inusitate. Anche il Capelvenere si esalta e si espande in una vitalità eccezionale (tav. 6). Una ricerca sulla fauna, specialmente malaco- logica ed entomologica nella località, potrebbe, sono certo, dare delle interessanti sorprese. Vere cascate di frondi di Woodwardia (vedi fig. 1), talune lunghe due metri, Pteris longifolie alte 1 metro e mezzo; lus¬ sureggianti cespi di Pteris eretica, alti 70-80 centimetri, fanno della località una delle più meravigliose della regione, e la cui visione compensa a dovizia la fatica che occorre per arrivarvi e per sorpassare la soglia di massi muscosi e stillanti che ne difende l'ingresso verso valle. Nel luglio del 1921 mi trovavo nella località con l' amico botanico Carlo Lacaita, che l’anno precedente aveva esplorato alcune valli dell' Imalaia e del Sickim. L’abbondanza di vapore rendeva la traspirazione difficoltosa e la sensazione di caldo u- mido vi era addirittura tropicale, e poco dissimile, mi assicurava 81 — Tannico, da quella che si prova nel fondo di alcune delle sud¬ dette Valli indiane, ricche anche esse di felci, talora arboree, delle più meravigliose. Fig. 1. — La Woodwardia radicans Sw., netla valle della Ferriera d’Amalfi. Le sopradescritte condizioni udometriche aggiunte a quelle termiche, esaltate dall' esposizione al sud delle Vallate, le quali vengono riparate a nord dai monti, sono ancora appunto quelle che permettono una facile coltivazione di felci arboree ( Dicksonia ) nel cortile della Villa Rufolo di Ravello, sono quelle che fanno di quell' angolo della Costiera amalfitana, la terra ove l'arancio — 82 fiorisce per tutto Iranno, dove quest'albero ritrova quegli opti¬ mum che si verificano nella sua patria di origine, ai piedi del- 1' eccelso Imalaio *)• Il fatto poi che le precedenti felci sono raggruppate in una unica località, e che in altre località, anche si trovano e furono raccolte riunite, osta all' ipotesi, che parrebbe non assolutamente infondata, di un avvento casuale, nel sito, per recente dissemina¬ zione longinqua. Vi osta pure, in certo modo, anche il fatto che^ una di esse, la Woodwardia , si propaga nelle nostre regioni per gemme apicali della fronda e credo, almeno secondo le mie os¬ servazioni, che abbia smesso di propagarsi per spore. Anche il Prof. F. Cavara mi assicura che nell' Orto Bota¬ nico di Napoli la'propagazione di questa felce per spore non s' è mai vista, mentre facile riesce quella fatta per mezzo delle gemme apicali che germogliano tutte in breve tempo. Forse trattasi di un comportamento posto in atto dalla pianta verso i limiti e- stremi della sua area geografica. Le altre due specie, Parnassia palustris L. e Pinguicula hir- tiflora Ten. * 2) le credo insediate sul posto a mezzo della disse¬ minazione longinqua e di più recente avvento. Trattasi di dne colonie eterotopiche. I semi di Parnassia sono capitati in punti ove la permanenza di veli d'acqua fluenti lentamente o l'acidità del suolo, quasi torboso, hanno escluse altre specie e permesso l'attecchimento, lo sviluppo e la conservazione della loro prole, 4) Alle stesse favorevoli condizioni di forte pluviosità ritengo doversi ri¬ portare il bello ed eccezionale sviluppo che raggiunsero alcuui alberi piantati nella villa Rufolo di Ravello, dall'antico proprietario Signor Reid, nell'anno 1850. Di essi un Ccdrus Deodara ha raggiunto l'altezza di m. 20 e la circon¬ ferenza di m. 2,40; un Pinus halepensis l'altezza di m. 23 e la circonferenza di m. 3.60. Infine un Cupresses sempervirens ha raggiunto l'altezza di 23 metri cou una circonferenza di m. 1.20; a un metro dal suolo. 2) Aree distributive delle specie. Parnassia palustris L. Prati paludosi del dominio floristico extratropicale; in Italia dalla regione montana all'alpina, Europa, Caucaso, Asia occidentale e boreale, Giappone, America boreale. Pinguicula hirtiflora Ten. Sulle rupi muscose stillanti, regione montana e subalpina. Penisola Sorrentina, Erzegovina, Albania, Grecia (monte Chelmos, Parnasso, Olimpo) ; Balcani ; Isola Poros. — 83 — che però non si è diffusa, mancando altre stazioni adatte nelle vicinanze. I semi di Pinguicula hirtiflora provengono certo dall'alta montagna. E' noto che in alto, nei monti della Penisola sorren¬ tina, sulle rupi stillanti, si trovano le più ricche colonie di que¬ sta bella Lentibulariacea carnivora. Celebre fra tutte, quella del¬ l'Acqua santa, nei monti di Castellammare, a 1300 m. Le acque fluenti hanno trasportato in basso (a circa 200 m. sul mare), i semi, che si sono poi sviluppati. Anche ai piedi dell'Olimpo tessalo, a solo 150 m., Heldreich raccolse la nostra Pinguicola, certo venuta dalle stazioni superiori che si trovano in quei posti a 1500 metri 1). Non mi sono però fin ora imbattuto in altre colonie di Parnassia, nell'alta montagna della Penisola sorrenti¬ na, dalle quali si potesse supporre una derivazione della pianta amalfitana. In tal modo per la Parnassia , le stazioni più vicine ad Amalfi restano quelle abruzzesi della Majella e della Valle di Fara alle sorgenti dell’ Aventino 2) a 170 Km. circa dalla località amalfitana. Occorre quindi, per spiegare la presenza della Parnassia , pensare all' accidentale avvento di semi nella località, dalle più prossime stazioni appenniniche, che sono quelle abruzzesi, il che non ripugna immaginare dopo gli esempi di disseminazione lon- ginqua da me riportati nel lavoro sulla Vegetazione del M. Nuovo. Potrebbesi però, per questa singolare pianta, anche pensare, che 1' attuale stazione della valle di Amalfi sia l'ultima di tutta una serie, sparse una volta nei superiori monti di Agerola e di Castellammare, quando le condizioni climatiche, durante il gla¬ ciale, permettevano la formazione di pratelli montani palustri, di cui ora si trovano solo poche tracce nella parte più alta della regione, per esempio al Megano ove cresce ancora il Thalictram simplex ; pratelli che possono essere stati le stazioni precedente- mente occupate dalla Parnassia , fugata poi anche essa dal secco del susseguente periodo xeroternico e rifugiata nella stretta zona muscosa del fondo della valle. E’ così che si può spiegare l'enigma, veramente strano, del- h Boissier S. — Flora orientalis, voi. IV, pg. 3. 2) Cfr. Tenore M.- Syll, pg. 155 e 593. — 84 — 1' esistenza , in un piccolo spazio di questa valle di Amalfi, di specie termofili (Pteris longifolia , Woodwardia radicatisi Pteris eretica) e di specie microterme di tipo montano o subalpino (Pinguicula hirtiflora (vedi tav. 6) e Parnassia palustris). Queste due ultime, ed in particolare la prima di esse, si trovano sul posto quali colonie eterotopiche ad un dipresso come la Linaria alpina nelle ghiaie del Po presso Torino. (Finito di stampare il 30 maggio 1925). Boll, della Soc. dei Nat. in Napoli, Voi. XXXIX. Tav. 6. OFFICINA CR0M0TIPO6RAFICA ALDINA- NAPOLI Stazione della Pinguicula hirtiflora Ten. nella Valle della Ferriera di Amalfi. Sul ringiovanimento della Rhopalaea nea- politana Phil. Nota del socio Dott. Mario Salfi (Tornata del 2 giugno 1925) Nel 1843 il Philippi j) descrisse sotto il nome di Rhopalaea neapolitana un' ascidia semplice del Golfo di Napoli dando no¬ tizie sulla sua organizzazione e sulle somiglianze che essa mo¬ strava relativamente alle altre forme di ascidie allora note. In seguito il Roule * 2) (1886) fece progredire le conoscenze su que¬ sta interessante specie di ascidia dandone un'accurata descri¬ zione e correggendo alcuni errori in cui era incorso il Phi-* lippi (1843). E. van Beneden 3) (1887) s'occupa anche di Rhopa¬ laea, ma dal punto di vista della posizione sistematica e delle affi¬ nità morfologiche che questa specie mostra con alcune altre specie descritte dell'HERDMAN 4) (1882) e da questi riunite in un genere particolare Ecteinascidia . Pertanto nella nota del van Beneden si trovano alcune notizie ed apprezzamenti che possono util¬ mente servire come punti di partenza per ricerche ulteriori. 4) Philippi, R. A. — Rhopalaea, ein neues Genus der einfachen Ascidien : Muller's Arch. f. Anat, 1843, p. 45, Taf. 4. 2) Roule, L. — Revision des espèces de Phallusiadèes des còtes de Pro- vence : Recueil Z. Suisse, Tom. 3, p. 209, Tav. 12-15. 3) van Beneden, Ed. — Les genres Ecteinascidia Herd., Rhopalaea Phil. et Sluiteria n. g. : Bull. Acad. Belg. (3) Tom. 14, p. 19. 4) Herdman, W. A. — Report on thè Tunicata collected during thè Voyage of H. M. S. Challenger during thè y ears 1873-76. Part. I Ascidiae simplices : Rep. Vogage Challenger, Zool., 1882, voi. 6, 193 pp. 36 Tav. — 86 — Il Lahille, che già (1887) *) a proposito di una sua nota sul sistema vascolare dei Tunicati in generale incidentalmente accen¬ na ai rapporti sia morfologici che biologici tra Rhopalaea , Dia- zona ed Ecteinascidia , ritorna in seguito (1890) 1 2) ancora sull'ar- gomento e dà notizie dettagliate circa le forme di Rhopalaea delle coste della Provenza, la loro biologia completando poi l'esposizio¬ ne delle sue osservazioni con un breve riassunto circa le affi¬ nità bio-morfologiche delle specie esaminate. Il Seeuoer 3) (1903) riassumendo , fra gli altri i lavori del Julin4) (1899) e del Damas 5) (1899) a proposito delle formazioni epicardiche nelle ascidie semplici accenna varie questioni circa l'importanza dell'epicardio nella gemmazione, occupandosi anche di Rhopalaea insieme con le forme a questa affini (dona, Dia- zona etc.). Circa le forme di Rhopalaea del Golfo di Napoli oltre le notizie contenute nel lavoro del Philippi (1843) e la presenza di Rh. neapolitana segnalata di nuovo nel golfo dal v. Beneden (1887) dà qualche notizia il Lo Bianco 6) (1909) a proposito della biologia e del periodo di maturità sessuale delle specie. * * * Riassumo qui soltanto una parte delle mie ricerche, alcune tutt'ora in corso, su questa forma di ascidia biologicamente e mor¬ fologicamente così interessante, e precisamente di quella parte 1) Lahille, F. — Sur le sy stèrne vasculaire colotiial des Tuniciers : Compt. Rend. Acad. Sci. Tome 104, p. 239. 2) Lahille, F. — Recherches sur les Tuniciers des cotes de Trance. To- louse 1890, p. 263. 3) Seeliger, O. — Tunicata : Broun, Class. Ordn. Tierreich. 3 Bd. Suppl. Lief. 31-36, p. 668,574. l) Julin, Ch. — Recherches sur le developpement da pericarde, du coeur et les transformations de Vèpicarde chez les Ascidies simples : Trav. Stat. Z. Wimereux 1899, Tom. 7, p. 311, Tav. 21-23. 5) Damas, D. — Les jormations épicardiques chez dona intestinalis : Arch. Biol. 1899, Tom. 16, p. 1, Tav. 1-3. .«) Lo Bianco, S. — Notizie biologiche riguardanti specialmente il pe¬ riodo di maturità sessuale degli animali del golfo di Napoli : Mitth. Z. Sta¬ tion z. Neapel 1909, 19 Bd. p. 662. — 87 — delle ricerche che si riferiscono a qualche punto della sua bio¬ logia. « Per ciò che riguarda l’aspetto esteriore è caratteristica la divisione del corpo in due zone distinte: una basale di forma irregolare, che racchiude la massa dei visceri (ansa digerente, gonadi, cuore, etc.) variamente ricoperta da incrostazioni di di¬ verso genere, aderente in vario modo al substrato; l'altra zona, libera di forma più definita, subtetraedrica, contenente il sacco branchiale e gli organi adiacenti, separata dalla precedente parte basale da un istmo più o meno strozzato. Tale condizioni del corpo distinto in due porzioni, di cui una libera mentre l'altra immersa in una massa tunicale informe, richiama la condizione degli ascidiozoi di Diazona violacea Sav. in cui, come è noto, ogni singolo ascidiozoo è immerso per metà nella massa tunicale co¬ mune mentre la rimanente parte del corpo con tutto il sacco branchiale ed annessi sporge liberamente. Ma non tutti gli individui di Rhopalaea e che vengono por¬ tati su dalla draga mostrano la tipica condizione della loro for¬ ma esterna. Tra gli esemplari dragati se ne rinvengono di forme sva¬ riatissime, anzi alcuni nei quali la esteriorità tipica di un indi¬ viduo di Rhopalaea è, direi quasi mascherata dall’abbondanza di monconi e tubercoli tunicali ed altri in cui tutta la parte libera deH'individuo mostra tracce di un incipiente disfacimento ed altri ancora in cui tale parte è scomparsa e più non resta del¬ l'individuo che la zona basale con tutti gli organi (ansa dige¬ rente, gonadi, cuore etc.) posti al disotto del sacco branchiale. Queste apparenze strane che sono frequenti nei vari indi¬ vidui di Rhopalaea hanno la loro origine in una serie di cause per cui si verificano dei fenomeni assai interessanti, che si ri¬ scontrano però anche in altre forme di ascidie: la capacità, cioè, di poter trascorrere un certo periodo di tempo facendo a meno di quello che potrebbe dirsi l’apparecchio vegetativo dell’ indi¬ viduo (sacco branchiale) e traversando una fase di vita latente, fino a che uno sviluppo di nuove attività accompagnate dal ri¬ torno di condizioni d’ambiente normali non restituisca la inte¬ grità degli organi perduti. Per tale processo di restituzione le ca¬ ratteristiche tipiche della forma esterna vengono di solito alterate. — 88 — Altre cause contribuiscono ad alterare la forma delle Rho- palee , quale vari organismi o resti di organismi i quali vengono inclusi dalla tunica (Bivalvi, residui di Balanus etc.) ed anche l’ineguale accrescimento del mantello tunicate stesso. Se le Rhopalee si lasciano in acquario, in breve volger di tempo tutto il sacco branchiale (e gli organi annessi) regredisce, dapprima involvendosi fino a divenire un piccolo grumo di so¬ stanza più o meno colorata in giallo grigiastro. Durante questo tempo probabilmente per opera dei fasci della tunica muscolare sotto ectodermica avviene una separazione netta tra la porzione di organi destinata a perire e quella che dovrà trascorrere il pe¬ riodo di vita latente per divenire parte del nuovo individuo con rinnovato apparecchio branchiale. Generalmente anche un tratto dell'esofago perisce. Intanto la tunica avvolgente gli organi in via di istolisi non segue sincronamente il destino di questi, ma resta ancora vario tempo in sito conservando per più giorni l'aspetto normale bian¬ castro tale da mascherare la sorte in cui incorsero gli organi in essa contenuti. Di solito dopo un certo tempo tale porzione di tunica si stacca e pur essendo isolata resiste ancora vari giorni senza che il principio di una degenerazione si manifesti. Più raro è il caso in cui la degenerazione cominci e continui mentre che ancora esistono dei rapporti di continuità tra la tunica destinata a perire e il resto dell'individuo ancora vivo. Il potere di resistenza della tunica alle avverse condizioni ambientali è infatti, come è noto per le ricerche dì Bancroft ^ (1903) e Della Valle 1 2) (1908) assai elevato. Non raro è il caso che permanendo le condizioni ambien¬ tali sfavorevoli alla ripresa dell'attività biologica, ancora un'altra porzione di esofago ed organi adiacenti e di tunica degenerano riducendo così ancora il volume delle parti vive. Certo tanto più permangono sfavorevoli le condizioni di am¬ biente tanto più lungo è il tempo in cui l'individuo si adatta e 1) Bancroft, F. W. — Variation aud Fusion of Colonies in Compound Ascidians : Proc. California Acad. Se. (3), voi. 3, p. 137, 3 figg. Tav. 17. 2) Della Valle, A. — Osservazioni su alcune Ascidie del Golfo di Nu- poli : Atti R. Accad. Se. Napoli, (2), voi. 13, n. Il, 89 pagg. 5 Tav. -k - 89 — riacquista il potere per reagire e riprendere la sua attività biologica normale. E per condizioni ambientali voglio intendere un com¬ plesso di fattori non perfettamente definibili ma tra cui prin¬ cipalissimi la temperatura e la costituzione dell'acqua. Di regola il potere di resistenza di questi individui di Rhopalaea in vita latente è assai considerevole. La vita dell' individuo è strenua¬ mente difesa fino agli estremi e la sorte che attende questi re¬ sti di fiorenti Rhopalee è nella maggioranza dei casi sempre un ritorno di nuove attività, un ringiovanimento delle manifestazioni vitali con la ricostituzione degli organi perduti. Lo stato di vita latente degli individui di Rhopalaea corri¬ sponde sia dal punto di vista biologico che anatomico agli stadi relativamente comuni a molte colonie di Sinascidie nel periodo di ibernazione o meglio col Della Valle (1908) nel periodo di degenerazione del sacco branchiale. In molte Sinascidie infatti (Distaplie, Didemnidi, Aplididi) ad un certo stato della vita delle colonie si nota nei singoli ascidrozoi la degenerazione e la per¬ dita del sacco branchiale. Mentre però in alcune forme (Dide¬ mnidi) il potere di ricostruire il sacco branchiale è straordinario sì che in alcuni individui se ne riscontrano parecchi, in altre for¬ me (Distaplie) la sorte dell' ascidiozoo in regresso è decisa già dal principio. In questo la perdita del sacco branchiale è rapida ma il residuo dell'ascidiozoo resta in vita ancora finché il pro¬ cesso degenerativo non invade anche questo ed allora dell'anti¬ co ascidiozoo non resta che un gruppo di elementi cellulari an¬ che essi destinati a sparire. In Rhopalaea le condizioni sono differenti perchè, similmente a Diazona i singoli individui in regresso resistono e trascorso un periodo di vita latente riacquistano nuova attività di vita rico¬ stituendo le parti perdute. Napoli , Istituto di Anatomia Comparata ( R . Università) e Stazione Zoo¬ logica . Maggio 1925. Finito di stampare il 20 luglio 1925. Contribuzioni alla conoscenza degli Ortot¬ teri libici - 2. Oothecaria e Saltatola di Cirenaica del socio Dott. Mario Salfi (Tornata del 2 giugno 1925) Ho potuto, grazie al gentile interessamento del Prof. Fr. Cavara, ottenere in esame una serie di esemplari di Ortotteri raccolti in Cirenaica dal Sig. Geo. C. Krugér, del R. Ufficio Agra¬ rio di Bengasi e da questi cortesemente inviatimi. Al Prof. Cavara ed al Sig. Kruqer, vadano qui i miei più vivi ringraziamenti. Di tutte le specie rinvenute nella raccolta nessuna è nuova; una: Rhacocleis annulatus Fieb., viene segnalata qui per la pri¬ ma volta come appartenente alla fauna della Cirenaica. Riservando ad una successiva nota l'analisi degli esemplari che qui indico come appartenenti alle specie Polyphaga Karny Werner, Centromantis denticollis (Lue.), Platypterna tibialis Fieb., Tmethis cisti (Fab.), Acinipe orientalis (Werner), dò qui soltanto l'elenco sistematico delle specie rinvenute. Fam. Blattidae Gen. Polyphaga Brullé 1. P. Karny Werner. 1 cT e 6 $ da Bengasi (XI. 923; I. 924) — 91 — Fam. Mantidae Gen. Centromantis Werner 2. C. detiticollis (Lue.) 1 (f e 8 9 da Bengasi (Vili, e IX. 923) Gen. Pararne les Sauss. 3. P. Heldreichi (Br.) 2 (f da Bengasi (Berka) (III. 924) Gen. Mantis Lin. 4. M. religiosa Lin. 1 Escludendo l'ovatura N. 25 che ricchissima di ac sposterebbe di assai la media: In totale: 53 ac + 32 ap. Computando per metà le ap : 53 + 16 = 69 Rapportando al numero di ovature: 69 : 64 = 1,078 Computanto anche l’ovatura N. 25: Ó9 + 47 = 116 116 : 65 = 1,784 L’indice di partenogenesi è dunque: secondo il 1° calcolo 1,078 secondo l'altro 1,784 facendo media 1,431 Giallo Indigeno B. 8 (sfarfallato 7-7-24). Num. di ovature Num. di uova annerite Osser¬ vazioni a T c V a T P V 1 dv 2 dv 3 3 gs 4 gs 5 ds 6 ds 7 gs 8 dv 9 dv 10 ds 11 gs 12 gs 13 gs 14 2 1 dv 15 ds 16 gs 17 dv 18 7 gV 19 dv 20 gs 21 gs 22 dv 23 3 dv 24 1 dv 25 dv 26 1 gs 17 1 In totale = 18 a Rapportando al numero 'di ovature: 18 : 26 = 0,690 0,690 è l’indice di partenogenesi. BIBLIOGRAFIA 1. Grandori R. — Segmentazione anomala delle uova Partenogenetiche di Bombyx Mori. Bollettino dell'Istituto Zool. della R. Univ. di Roma. Anno 1924, Voi. II. 2. Jucci C. — Su l'eredità del Tipo Metabolico nei Bachi da Seta. I. Il Bivoltinismo. Boll. Lab. Zool. Gen. e Agr. Portici, Voi. 17, pp. 187-318 (e Annali R. Se. Sup. Agr. Portici, pp. 1-134) 1924. 3. — — Bivoltinismo e Partenogenesi nei Bachi da Seta (Bombyx Mori) Rend. Acc. Lincei, V. 33, Ser. 5, 2° Sem., fase. IX pp. 345-8, Sed. 2 Nov. (Pres. 15 ottobre) 1924. 4. — — Vario Grado di Tendenza alla Partenogenesi nelle varie Razze di Bachi da Seta ( Bombyx Mori ) e probabile correla¬ zione col vario grado di tendenza al Bivoltinismo. Rend. acc. Lincei, V. 33, Ser. 5, 2° Sem., fase. 10, pp. 435-7, Sed. 16 nov. (Pres. 15 ottobre) 1924. 5. — — Irregolarità di Ovificazione in Femmini Vergini di Bom¬ byx Mori. Annali R. Istituto Sup. Agr. in Portici, Voi. 20, pp. 1-7, Feb. 1925. 6. — — Sui fenomeni di sviluppo Partenogenetico nelle uova di Bombyx Mori di Razza Bivoltina (Awojiku) di P e 2a Ge¬ nerazione. Annali R. Ist. Sup. di Agr. in Portici, V. 20, pp. 1-5 e 1 tav. Feb. 1925. 7. — — Fecondazione artificiale e Partenogenesi nei Bachi da Seta . Informazioni Seriche. Giugno 1925. 8. — — Sulla Partenogenesi naturale nei Bachi da Seta. Rivista di Biologia (in corso di stampa). 9. Lécaillon — Sur quelques données cytologiques relative s aux phé- noménes de parthenogenèse naturelle qui se produisent chez le Bombyx du Murier. C. R. Acad. Scienc., t. 116, 1918. 10. Teodoro G. — Sulla Partenogenesi nel Bombyx Mori. Atti del Reale Istituto Veneto di Se. Let. ed Arti. Anno acc. 1924 25. Tom. LXXXIV. Parte seconda, 1925. Finito di stampare il 20 Settembre 1925. Bachi terzini e Bachi quartini. Il comportamento ereditario del tipo di sviluppo larvale nella discendenza di incroci tra razze di bachf da seta a 3 e a 4 mute* Nota del socio Carlo Jucci (Tornata del 24 agosto 1924) In tre note airAccademia dei Lincei l) ho esposto succin¬ tamente le mie ricerche sul comportamento ereditario del tipo di sviluppo larvale nella discendenza di incroci tra razze di bachi da seta a tre ed a quattro mute. Queste ricerche hanno un interesse pratico in quanto mi¬ rano a riunire in un ibrido stabilizzato le buone qualità delle due razze parentali, e un interesse teorico in quanto tendono a stabilire le leggi dell'eredità del tipo metabolico. Nel 1921-22 ho studiato la curva di sviluppo dei bachi treotti in paragone a quella delle comuni razze a 4 mute, rile¬ vando profonde differenze metaboliche. Nel 1923 ho allevato la prima generazione di numerosi incroci tra treotti e razze quar¬ tine, ottenendone quasi tutti treotti (meno pochi individui che vennero trascurati): dominanza dunque del carattere del treot- tismo, sia negli incroci a femmine treotti, sia nei reciproci nei quali il carattere delle 3 mute era portato dal maschio: $ Giallo 4) Razze di bachi da seta a tre e a 4 mute : lo studio degli incroci. Rend. Lincei, V. I, ser. 6°, 1° seni., fase. II, p. 683-6, giugno 1925. Sul comportamento ereditario del tipo di sviluppo larvale negli incroci tra bachi da seta a tre e quattro mute. Rend. Lincei (pres. n. sed. del 5 giu¬ gno 1925), voi. II, p. 67. La terza generazione di incroci tra bachi da seta a tre e a 4 mute. Il " numero delle mute „ non è dunque un carattere unitario mendeliano? Rend. Lincei (pres. n. sed. del 5 giugno 1925). — 151 — sferico d Treotti e 9 Treotti d Giallo sferico ; 9 Brianza $ Treot- ti ; 9 Oro cf Treotti e 9 Treotti d Oro; 9 Nippon d Treotti e 9 Treotti d Nippon. Nel 1924 ho studiato la 2a generazione di tre degli incroci: il 9 Oro g Treotti, il 9 Treotti d Oro e il 9 Treotti d Nip¬ pon (bivoltino giapponese). Le ovature isolate hanno dato tutte bachi parte terzini e parte quartini, e quelli sempre, o quasi, più numerosi di questi ; ma in proporzione varie, diverse da ovature a ovature e, tranne per pochi casi, molto distanti dal classico rapporto di 3 ad 1. Sicché se il fatto della netta dominanza (sebbene non pro¬ prio assoluta) del carattere tre mute sul carattere quattro mute nella la generazione dell' incrocio, e il fatto che nella 2a gene¬ razione avviene scissione dei caratteri nella discendenza di ogni ovatura, dispongono a credere che il comportamento ereditario del carattere "Numero delle mute,, sia mendeliano; però i va¬ lori trovati per le percentuali di treotti e di quartini non stanno affatto in accordo coi rapporti mendeliani. * * * Potrebbe dipendere questa discordanza numerica da imperfetta separazione dei fra¬ telli terzini dai quartini nel corso dell'al¬ levamento? Tutte le cure da me poste in questa delicata operazione mi permettono di rispondere: no. Debbo notare tuttavia che nella F2 la detta separazione riuscì molto più laboriosa di quanto avrei potuto immaginare data la netta differenza del tipo metabolico da me rilevata tra razze dì bachi a tre ed a quattro mute. Nei Treotti la la età è un pochina più lunga e le succes¬ sive età notevolmente più lunghe che le rispettive delle razze a 4 mute. La capacità di accrescimento già nella la età è supe¬ riore nei Treotti, diviene di molto superiore nella seconda, e resta ancora superiore nella terza, scendendo nella quarta a di¬ venire uguale o inferiore a quella dei bachi a 4 mute. Compa¬ rati ai Giallo indigeni i Treotti, che avevano alla nascita un peso inferiore, nel corso della la età già li raggiungono, e li supe- — 152 - rano di assai nel corso della seconda e più della terza età. Nella terza età e nella quarta hanno un peso più che doppio del peso dei Gialli indigeni. Ma questi seguitano a crescere in una quinta età e raggiungono, a pieno sviluppo, un peso doppio del peso finale dei Treotti. Rispetto ai bivoltini giapponesi i Treotti hanno già alla nascita un peso notevolmente superiore; nel corso della la e più della 2a e 3a età la superiorità cresce. Nella 3a e nella 4a età i Treotti hanno un peso più che triplo del peso dei bivoltini. Ma questi seguitano a crescere in una 5a età e rag¬ giungono un peso notevolmente superiore al peso finale dei Treotti ]). Ma tra fratelli terzini e fratelli quartini nella seconda ge¬ nerazione degli incroci sembrano un pò meno marcate che tra le razze parentali a tre ed a quattro mute le differenze di tipo metabolico. Già fin dalla prima muta si distinguono bachi che si ad¬ dormentano prima e bachi dopo; ma nè il distacco di tempo nè la differenza di grandezza o accrescimento raggiunto sono abbastanza notevoli da rendere agevole una separazione. Alla seconda muta è più netta una differenza tra i vari individui nella precocità più o meno grande, con la quale entrano in sonno e si svegliano, e nelle dimensioni raggiunte; ma la divisione non è ancora troppo facile nè completa, giacché contemporaneamente nello stesso lotto, una parte dei bachi entrano in sonno, mentre altri mangiano ancora e qualcuno già si sveglia. Di modo che, o bisogna mettere più volte le carte forate e separare ogni tanto i bachi che sono entrati in sonno; oppure mettere la carta forata quando già molti sono in sonno e separare poi, fra quelli saliti a mangiare, gli individui non ancora entrati in sonno e quelli già svegli dalla muta. Per qualche lotto fu eseguita la divisione alla seconda muta; A) JUCCI, C. — Sulla curva di sviluppo del baco da seta. Boll. Lab. Zool. gen. e agr. Portici. V. 16, p. 59-136 e (Annali R. Se. Sup. Agr. Portici, ser. II, V. 18, 1923, 80 pp., 5 tav. diagr.). Jucci, C. — Su V eredità del tipo metabolico nei bachi da seta. I. Il bivol- tinismo. Boll. Lab. Zool. Gen. e Agr. Portici, V. XVII, p. 187-318 (e Annali R. Se. Sup. Agr. Portici, p. 1-134) 1924. — 153 — ma per la maggior parte solo alla terza. Alla terza muta è net¬ tissima la differenza tra bachi che dormono per l'ultima volta (candidati terzini) e bachi destinati a fare una quarta muta (can¬ didati quartini). I primi entrano in sonno molto prima, una giornata circa, sono notevolmente piccoli e piuttosto opachi, non assumendo lucentezza che assai tardi, in sonno già avanzato. I secondi entrano in sonno tardivamente, sono molto più grossi, e presentano assai precocemente — due o tre giorni prima della muta — la lucentezza a maiolica caratteristica delle razze a tre mute (e che probabilmente dipende dal versamento di prodotti escretivi, urici e ossalici, nel tegumento, versamento che costituisce uno dei fenomeni essenziali della muta; di questo vero processo di ringiovanimento che, sbarazzando l'organismo larvale dei prodotti catabolici, gli permette un nuovo sbalzo a - nabolico). Tuttavia neanche alla terza muta fu possibile una di¬ stinzione sicura di tutti gli individui, perchè— se la maggior parte dei candidati quartini entrano in sonno assai prima, e sono già svegli quando i candidati terzini appena entrano in sonno (sic¬ ché è possibile, se qualcuno è sfuggito, separarlo dal letto) — però alcuni individui, evidentemente ritardatarii, piccoli come cand. quartini, entrano in sonno contemporaneamente ai cand. terzini e con questi si svegliano; e allora diviene difficile e pe¬ nosa la separazione, data anche una discreta variabilità indi¬ viduale nelle dimensioni dei cand. Treotti. Anzi parecchi in¬ dividui restati piccoli stanno ancora svegli mentre i Treotti già dormono; e ci si trova nell' incertezza se dar loro un pò di fo¬ glia, della quale approfitteranno subito i più precoci, già mutati, o lasciarli digiuni finché si decidano ad entrare in sonno an- ch'essi rinunziando ad ulteriore accrescimento. Spesso per evi¬ tare questo pericolo di far digiunare bachi che avevano ancora bisogno di mangiare, abbiamo somministrato il pasto quando, sulla stessa carta, dei bachi dormivano, altri mangiavano ancora, ed altri erano già mutati. Data la imperfetta separazione si è dovuto, dopo qualche giorno, venuto il tempo della quarta muta, controllare di nuovo tutti gli individui, per vedere se tutti i bachi separati come cand. quartini facessero veramente una quarta muta, e per separare dai 154 — candidati Treotti i bachi che entravano un’ altra volta in sonno rivelandosi così quartini. Ma per parecchi lotti il controllo e la divisione non pote¬ vano eseguirsi proprio al momento opportuno ; sicché riuscirono anche questa volta, non perfetti ; e si presentò allora la necessità di controllare alla salita al bosco gli individui dei lotti " cand. Treotti „ ad uno ad uno, per riconoscere se fossero veramente Treotti o invece quartini. Fortunatamente la diagnosi era possibile in modo rapido e sicuro basandosi: 1) Sulla dimensione del corpo: i bachi più grossi essendo i Treotti, più rapidamente cresciuti e ancora più avvantaggiatisi rispetto ai quartini, nel mentre questi dormivano e mutavano per la quarta volta. 2) Sulla grossezza del capo: i Treotti presentando una testa notevolmente più piccola, e non solo relativamente alla grossezza del corpo, ma anche in senso assoluto (le dimensioni della capsula chitinosa cefalica restando immutate durante tutta l’età, l'accrescimento avviene soltanto al momento della muta; e il carattere che fa distinguere i recen¬ temente mutati è, oltre la tinta terrosa della cuticola e l'aspetto grinzoso, la testa grossa assai rispetto alle dimensioni del corpo). 3) Sulla lucentezza: i Treotti presentando un caratteristico luc¬ cicore del tegumento, nettamente in contrasto con l'opacità o- cracea dei quartini. Generalmente la diagnosi fatta in base all' esame di uno solo di questi caratteri, viene confermata dall'esame degli altri due; il più sicuro in ogni modo è quello della lucentezza. Anche per i lotti nei quali era stata bene eseguita, tempe¬ stivamente e completa, la separazione dei terzini dai quartini, ho esaminato nei boschi gli ultimi individui, ritardatarii a salire, per verificare se vi fosse tra essi qualche quartino sfuggito alle pre¬ cedenti selezioni. * * * Riassumendo: tutte le cure da me poste nella delicata operazione della cernita dei terzini dai quartini nella discendenza F2 delle o v a - ture allevate isolate, mi permette diesclu- — 155 — dere il dubbio che da una imperfetta sepa¬ razione dei bachi a tre ed a quattro mute possa dipendere la discordanza delle percen¬ tuali trovate dal classico rapporto me n de¬ lia no di 3 ad 1. Questa discordanza dimostra dunque con sicurezza che la scissione dei caratteri nella F2 degli incroci non è mendeliana, che il carattere " numero delle mute „ non è dunque un carat¬ tere unitario mendeliano ? No: un altra obiezione formidabile ci si para dinanzi. Le condizioni esterne di allevamento hanno una grandissima in¬ fluenza sul comportamento ereditario del carattere “ numero delle mute Così, dei lotti allevati nel 1924 per lo studio della F2 degli incroci, per le ovature isolate, tenute in un ambiente piuttosto fresco ed umido — nel quale lo sviluppo larvale si è prolungato notevolmente — la percentuale dei quartini è risul¬ tata parecchio più elevata che per i gruppi di ovature; e tra questi è stata più elevata nei lotti incubati a bassa temperatura (18°) che in quelli ad alta (25°) : in relazione forse più con le conseguenti differenze di condizioni nello sviluppo larvale, che nell'embrionale. E' dunque tutt' altro che infondato il so¬ spetto che il rapporto mendeliano di scissio¬ ne sia stato mascherato dall'influenza di que¬ ste condizioni di allevamento sfavorevoli che avrebbero determinato un aumento grande del nu¬ mero dei quartini. Occorreva seguire nella F3la discendenza dei terzini e dei quartini n e 1 1 a F2. Sopratutto dei quartini, che, dovendo essere, dal punto dì vista mendeliano, omozigoti re¬ cessivi, dovrebbero dare nella F3 bachi tutti a 4 mute; mentre dalla discendenza dei terzini — che dovrebbero essere in parte omozigoti, in parte eterozigoti — è più difficile ottenere risultati chiari e decisivi. Nel maggio 1924 avevo allevato, oltre ai lotti misti, 50 o- vature isolate: di 9 Treotti $ bivoltino N. 1 - N. 24; 'di 9 Oro 0^ Treotti N. 25 - N. 42; di 9 Treotti cf Oro N. 43- N. 50. Da ognuna di queste ovature ottenni bachi terzini e bachi — 156 — quartini ; e, per ciascuna ovatura, accoppiando tra loro rispet¬ tivamente le farfalle terzine e le farfalle quartine, raccolsi in tante celle la discendenza di tutti i fratelli figli di quella coppia genitrice. Nell’aprile 1925 ho incubato il seme, sgranato e commisto, di più ovature deposte da farfalle quartine dei numeri 48 e 49: N. 48, sfarfallati 28-29 giugno gr. 2.720. N. 49, sfarfallati 28-29 giugno gr. 5,250. I due lotti di seme sono schiusi in due giorni, 25-26 aprile, e sono stati allevati separatamente i neonati delle due giornate di nascita, prevedendo 1’esistenza di una correlazione tra i ca¬ ratteri dello sviluppo embrionale (più o meno precoce) e dello sviluppo larvale (a 3 o a 4 mute). * * Stralcio dal mio giornale le notizie relative all’allevamento di questi lotti *). 13 maggio. — Dei N. 48 circa i 2/3 stanno in 2° sonno da ieri: piccoli, evidentemente " candidati quartini „. Oli altri, che ieri mangiavano, entrano ora in sonno, grossi, lucidissimi, certo " candidati terzini „. Qualche quartino, piccolo, è addormentato sul letto dei terzini e qualche grosso terzino è ben riconosci¬ bile tra la massa dei quartini in sonno avanzato. Dei N. 49: a quelli del 25/4 fu somministrato ieri sera il 1° pasto della 3a età. Pochi stanno ancora in sonno sul letto, piccoli, con aspetto di " cand. quartini,,. Invece dei 49 del 26/4 i 3/4 stanno in sonno, piccoli come quartini; gli altri entrano in sonno adesso, grossi, lucidi, certo terzini. Sicché dei N. 49, i primi nati, del 25 4, parrebbero tutti quartini; mentre i secondi nati, del 26 4, danno una grossa per¬ centuale di terzini come i N. 48. *) Ringrazio di cuore il mio caro amico Darwin Wen che, con affettuosa devozione e con intelligente premura, ha seguiti tutti i miei esperimenti di questo anno 1925; a lui debbo le belle fotografie che illustrano ^questa Nota. 14 maggio. — Osservando il lotto dei " cand. treotti „ del N. 48 in sonno, noto una assai grande varietà di dimensioni ; alcuni assai grossi, con aspetto tipico di treotti; altri molto piccoli, come quartini ritardatari. Ma altri presentano grandezza intermedia in vario grado, rendendo probabile la ipotesi di una variabilità individuale, tra la prole, oscillante tra il tipo terzino e il quartino. Fig. 1. — La discendenza F3 dei quartini nella F2. I (1°, e 2°, fila) I terzini stanno in pieno sonno 111°, mentre i quartini sono già usciti dalla 1 1 Ia muta. N. 4: ovatura isolata (l jbl 310) di £ Treotti ^ Involtino, famiglia N. 4. Nati 27/4 (i quartini pesano gr. 0,228; i terzini gr. 0,429). — N. 48 lotto misto di Treotti ^ Oro Nati 26/4. — Fotogr. are 0718 21/5. II (3°, fila) N. 49 : (j) Treotti ^ Oro. I quartini sono già usciti dalla 2a muta, mentre i Treotti entrano in 2°, sonno; i primi pesano gr. 0,0328; i secondi gr. 0,0571). Fotograf. ore 9 del 14/5. Dei 49 del 26 4 stamane i primi 3/4 o 4 5, i quartini, sono svegli; mentre i terzini stanno in sonno avanzato. Però nel lotto dei quartini spicca qualche treotto in sonno (precocemente ad¬ dormentatosi) e nel lotto dei treotti c'è qualche mutato, proba¬ bilmente quartino ritardatario (vedi fotogr. 1, II). — 158 — 17 maggio. — Dei N. 48 mangiano voracemente ambedue i lotti, i " cand. quartini „ come i " cand. terzini M. Così pure dei N. 49 del 26/4. I N. 49 del 25/4 in parte dormono, piccoli, evidentemente quartini ; in parte sono ancora svegli, e tra essi qualcuno è tutto lucido, con aspetto di treotto. Pure, alla 2a muta sembrava che di treotti non ve ne fossero tra i nati del 25/4. 18 maggio. — Dei N. 48 "cand. quartini „ più che metà son restati sul letto in 3° sonno, piccoli, piuttosto opachi. Ma tra quelli non ancora in sonno se ne vedono parecchi piuttosto lucidi, con tutto aspetto di treotti. Evidentemente si completa la distinzione già in gran parte effettuata alla 2a mula. Dei N. 49 del 25/4 oggi, come ieri, parte stanno in sonno sul letto, e molti già svegli, piccoli, quartini. Altri mangiano an¬ cora, assai grossi e lucidi, certo treotti. Si direbbe che tra terzini e quartini dei primi nati del 25/4, corra una differenza minore — perciò manifestatasi con certezza solo alla 3a, e non già alla 2a muta — che tra terzini e quartini dei più tardivi a nascere, del 26/4. 20 maggio. — Dei N. 48: nel lotto "cand. treotti „ la mag¬ gior parte dei bachi mangiano e qualcuno comincia a riapparire lucido: sotto il letto c'è qualche individuo in sonno, piccolo, evidentemente quartino, sfuggito alla precedente selezione per¬ chè ritardatario. 1 " cand. quartini „ sono quasi tutti svegli, usciti dalla 3a muta. Dei N. 49 anche, i " cand. quartini „ son quasi tutti mutati. Tra la massa è nettamente riconoscibile qualche baco grosso, lucido, che entra in sonno ora, treotto precoce. Nel lotto "cand. terzini „ N. 49 i bacili, grossi, mangiano (meno qualcuno in sonno sul letto, certo quartino ritardatario) e cominciano a ridiventare riconoscibili per Treotti, riacquistando la lucidezza caratteristica. — 159 — 21 maggio. — Dei N. 48 “ i cand. treotti ,, grossi, lucidi, sono alcuni ancora svegli , ma i più non lontani dal sonno (vedi fotogr. II). Dei N. 49 i “ cand. terzini „ del 25/4 si stanno svegliando dal 3° sonno, i " cand. quartini „ assai più numerosi, mangiano voracemente. Dei N. 49 del 25/4 i “ cand. terzini „ non dormono ancora, grossi, lucidi (ma meno, mi sembra, che nella precedente età, nella quale la differenza tra terzini e quartini appare più netta); mentre i cand. quartini sono già usciti dalla muta (vedi fotog. II). Fig. 2. — I La F3 del N. 49 : - Giugno 588.34 -Q £ 583.97 n < co o •qrnajps or QN P or in 00 p » — ì 00 o 00 Z 585.77 00 in O' m 00 m or 00 m 0)S0§v CN O t> oT in or or cd 00 m O r- p O' in 0 m CN 00 m OJ 00 m onSnq or CN O P p 00 or co 00 m p JU J-. 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O o" CO O CM c CM CM ' — i *— • ’ — 1 ’ — 1 CM CM CM o o 00 o > . o ’> . O o u TJ ctS c .2 OJ S-h f—i . c _CTS w > C o a. 5 CTS i~ CTS o CTS U~) c CTS § 1 X X X X X X X O E— 03 1 ó OjO »- » co o O • — c < o _ i J— bjo . CTS CTS o c n CU d e l > CTS s- CT3 M CUO c E < c5 N N OJ S_ Uh CO 1~~l *d ■ — ; o . _0J CJ V o DO "c5 © "cS o CTS L_ CTS u- U- U Uh 0- o _ *) I campioni segnati con X l’ho prelevati al mercato di Conegliano Veneto e perciò non ne conosco con certezza la provenienza. — 236 - TAVOLA III. (Anno 1923) Provenienza del cam pione N.° dei giorni impiegati per germinare secondo che i semi sono del tipo reniforme tipo piriforme tipo ovale Laboratorio di Botanica R. Se. Sup. Agr. - Portici . Laboratorio Coltivazione R. Se. Sup. Agr. - Portici . da 3 a 5 da 4 a 7 da 5 a 9 Cattedra Ambul. di Agric. - Napoli da 4 a 6 da 5 a 6 da 4 a 7 Raffaele De Luca, coltivatore-Portici da 6 a 7 da 6 a 9 da 5 a 10 Luigi Sarno - Avellino . da 4 a 5 da 5 a 6 da 3 a 7 Michele Grazia - Acerra .... da 3 a 4 da 5 a 6 da 4 a 5 TAVOLA IV. (Anno 1925) Provenienza del campione Fratelli Sgaravatti - Saonara . . Fratelli Ingegnoli - Milano . . Cattedra Ambulante di Agricoltura Conegliano Veneto .... Fratelli Rui - Treviso .... Paolo Frezzan - Venezia . . . Giulio Scala - S. Vendemmiano . X X X X X X X N.o dei giorni impiegati per germinare secondo che i semi sono del tipo reniforme da 3 a 6 da 4 a 7 da 2 a 9 da 5 a 10 da 6 a 8 da 4 a 5 da 5 a 6 da 3 a 4 da 5 a 6 da 4 a 5 da 5 a 7 da 3 a 4 da 2 a 3 tipo piriforme da 4 a 6 da 5 a 9 da 4 a da 4 a da 5 a da 3 a da 5 a da 2 a da 7 a da 4 a da 7 a da 4 a da 3 a tipo ovale da 3 a 7 da 6 a 7 da 3 a 5 da 6 a 8 da 5 a 7 da 5 a 6 da 5 a 7 da 4 a 7 da 8 a 9 da 3 a 4 da 5 a 6 da 5 a 7 da 4 a 6 — 237 — Dalla Tav. Ili e IV appare manifesto che i semi di tipo reni¬ forme impiegano un minor tempo a germinare. Basandomi, perciò, su queste osservazioni sommarie ho tentata una selezione in base alla forma dei semi, con esito veramente felice. Infatti ho potuto constatare che i semi di tipo reniforme danno piante più robu¬ ste, che accestiscono meglio, con produzione di fusti più alti e che producono più semi, di più elevato potere germinativo. In¬ fatti il 15 marzo 1924 seminai in pieno campo dei semi di me¬ dica in quattro aiuole differenti e, più propriamente, nella prima, presa come controllo, n. 5000 semi scelti a caso, nella seconda altri 5000 semi di tipo reniforme, nella terza n. 5000 di tipo piriforme e, finalmente, nella quarta n. 1000 di tipo ovale. I semi di tipo ovale li separai con gran difficoltà e dovetti scartare un gran numero di semi per separarne mille di tale forma non escludendo, però, che, incidentalmente, ve ne siano capitati alcuni di altro tipo. I dati ottenuti, in media, furono i seguenti (Tav. V): TAVOLA V. (Anno 1924) Tipo di seme N.o semi germinati No piantine ottenute Altezza media dei fusti dopo circa 30 giorni Media dei fusti per ciascuna pianta Produzione seme Semi scelti dalla massa 78 o/0 3900 cm 30 5 abbondante Semi tipo reniforme 80 „ 4000 cm 35 12 abbondantis¬ Semi tipo piriforme 72 . 3600 cm 20 7 simo buono Semi tipo ovale 66 „ 660 cm 25 3 buono Il 15 maggio 1925 ho seminato il prodotto deiranno prece¬ dente facendo fra i semi una distinzione ancora più esatta. Ed in¬ fatti, fra i semi di tipo reniforme ve ne erano alcuni che presenta¬ vano una estremità un pò ottusa e che quindi non potevano dirsi perfettamente reniformi e li ho messi fra i semi imper- — 238 — fettamente reniformi: e così pure fra i semi piriformi ed ovali non sempre si può trovare una perfezione di forma , e quindi è più esatta la distinzione fra semi perfetti ed im¬ perfetti. Ho considerato anche un numero maggiore di semi e cioè: n. 50000 scelti dalla massa quale controllo, n. 59590 per il tipo reniforme perfetto, n. 42540 per il tipo reniforme im¬ perfetto, n. 44780 per il tipo piriforme perfetto , n. 24390 per il tipo piriforme imperfetto, n. 7810 per il tipo ovale perfetto e n. 3050 perii tipo ovale imperfetto. Sebbene per la separazione di un così grande numero di semi io abbia impiegato molte set¬ timane pure non escludo possibili errori dovuti in maggioranza alla stanchezza degli occhi. I risultati sono esposti nella Tavola VI: TAVOLA VI. (Anno 1925) Tipo di seme No semi germi¬ nati N.o piantine ottenute Altezza media dei fusti dopo circa 75 giorni Media dei fusti per ciascuna pianta Produzione seme Controllo . . 90 o/o 45000 da 60 a 80 cm da 2 a 3 Tipo reniforme perfetto . . 94 „ 56015 da 70 a 95 cm da 5 a 6 Tipo reniforme imperfetto 92 „ 39138 da 65 a 90 cm da 4 a 6 E