gem he enna und se PETS ALCUNI DISCORSI SULLA BOTANICA DEL DOTTOR SANTO GAROVAGLIO CAVALIERE DELL'ORDINE BELGICO DI LEOPOLDO Professore di Botanica nella R. Università di Pavia ; Membro effettivo del R. lst residente iluto Lombardo della Società Italiana di Scienze Naturali in Milano; Socio corrispondente della Accademia delle Scienze, e della R. Accademia di Agricoltura di Torino, della Società botanica di Ratisbona, di quelle di Halle, Dresda, Vienna, Parigi; Socio onorario del R. Ateneo di scienze, lettere ed arti di Brescia; Membro del Consiglio Sanitario Provinciale ecc. ecc. ,r Fascicolo I. Edizione II. nn PAVIA TIPOGRAFIA IN DITTA EREDI BIZZONI 1865. i ———- —————= CY FA Saranno 24 discorsi distribwiti in sei ‘fascicoli come seque : Quattro discorsi espongono in breve la Storia della Scienza ; Sei trattano le principali questioni ‘di’ Geografia bo- tanica ; Alvri sei si aggirano su temi di Morfologia, Fisiologia e Tassonomia vegetale ; (La Botanica — Metamorfosi delle Piante — Fillotassi — Il Fiore — Le Nozze delle Piante — I Sistemi). Quattro illustrano particolari gruppi e famiglie ; (Gli Alberi — Le Gonifere — Le Palme — Le Crittogame). Quattro danno la Monografia di alcune specie no- tevoli; (L' Ulivo — La Rosa — L’Albero del Pane — La Ganna da Zuccaro ). i ; ALCUNI DISCORSI SULLA BOTANICA DEL DOTTOR SANTO GAROVAGLIO CAVALIERE DELL'ORDINE BELGICO DI LEOPOLDO Professore di Botanica nella R. Università di Pavia; Membro effettivo del R. Istituto Lombardo, della Società Italiana di Scienze Naturale residente in Milano; Socio corrispondente della Accademia delle Scienze, e della R. Accademia di Agricoltura di Torino, della Società botanica di Ratisbona, di quelle di Halle, Dresda, Vienna, Parigi; Socio onorario del R. Ateneo di scienze, lettere ed arti di Brescia ; Membro del Consiglio Sanitario Provinciale ecc. ecc. Fascicolo I. Edizione II. XA PAVIA TIPOGRAFIA IN DITTA EREDI BIZZONI 1865. a RON "n IHR OOO 1 OLA QUIS VALTER ID da PaIbregg vi asgutga Ibiaolat allo h tru b Ms) (TL «Hb ari r drago sliafriaino TP: if crollo, MITA < GROSUT Labzrui. (a lthte, Anti DL Mea vp L ‘ vasi VP, st Noa sr 1, AA a rà e] Li pat: È AO, D'atodisasi csKX Sukczbiwo £ ES IRC CArvAd, ama ava n ALLI MIEI SCOLARI PSI Iv da i LIB (A MED E pi NT , UST. y TN o Lila SARI to Mex sar Moni Hi tuo? Ti (ALL d RN si Ù Abra pu Lari A 4 rali ì Uda vi I NL, Mini i tara I vl Rea 2 po Dati Wi: ui di ei di) Hg TA ag AUS d dirt vo RCA ai Mora ce sh Ù BERIO PI hi, wir Aflori nin ua e E tolta Ri, gin (î ro E age” Hdi IC] Vi si A Voi, generosi giovani, consacro questi di- scorsi per Voi espressamente scritti, nella speranza. che l’aperto favore, onde li accoglieste dalla viva voce, non debba loro venir meno ora, che sotto gli auspici vostri escono per le stampe alla luce del mondo. Crederei far torto alla gentilezza degli animi vostri se mai dubitassi, che Voi possiate non aggradire un dono, che, piccolo in sè e troppo ina- deguato al debito mio, è non pertanto il maggiore che io vi possa dare a testimonianza dell’ affetto grande, che a Voi mi lega, e della profonda rico-. noscenza che io vi professo. E valga il vero a Voi, Giovani Egregi, vo de- bitore delle più nobili consolazioni della mia vita. Segno da più anni ai segreti assalti d’ uomini sleali quante volte non ebbi altro conforto alle amarezze e. ai disinganni, che la mia coscienza e il favor vostro! : Volge oramai il quinto lustro, dacchè ho. l.onore di attendere alla vostra Istruzione, e in. sì. lungo- 6 spazio di tempo io non ebbi che a lodarmi di Voi per l’assiduità alle scuole, pel dignitoso contegno, per le felici prove date de’ vostri studj. Ma tali ed altre siffatte compiacenze ebbi in comune con molti; questa è però tutta mia, e me ne vanto, voglio dire l’aver io nelle più dolorose prove, che dovessi mai durare, trovato in voi sem- pre caldi, efficaci sostenitori. Nei giorni del peri- colo, quando tanti altri da me beneficati mi vol- gevano le spalle quasi insultando, Voi per contrario mon contenti di darmi pubblica testimonianza di rispetto e di riconoscenza, cogli scritti e colla voce avete difeso il calunniato maestro, perorata la giu- sta sua causa nelle case vostre, ne’ pubblici ufficii, in queste aule stesse della università ticinese, do- xunque in una parola v'era dato il destro di farlo. Il perchè se alla fine la verità venne in chiaro, se alla fine la giustizia trionfò per grandissima parte è merito vostro. Oh perchè non posso com- pensarvi ora che di parole? Tuttavia se il buon volere, se il fermo propo- sito di cogliere con esultanza ogni occasione di at- testarvi la mia eterna riconoscenza valgono qual- che cosa, ardisco asserire, che nell'opera di edu- carvi cuore. e intelletto al bello, al vero, al buono, se non sarò certo fra i primi per potenza; per amore, per zelo non sarò secondo a nessuno. FASCICOLO I. La Botanica Il Fiore Le Nozze delle Piante Le Conifere fio: iva bl use. pp quei ia vara go adi 1 eta PA 0 Por PREFAZIONE I brevi limiti entro i quali, per rispetto al tempo assegnato, si restringe l'insegnamento della Bota- nica nelle Università italiane, fanno a chi è incari- cato di professarvi questa scienza una necessità di tenersi a’ suoi principj fondamentali, e a quelle nozioni posilire, che ne costituiscono la parte tec- nica, od hanno una immediata attinenza coll’ utile pratico, che dalle piante ritraggono le varie profes- sioni della vita. Il perchè, nella esposizione delle dottrine che a questa branca della Storia Naturale si riferiscono, riesce nonchè difficile, direi quasi imposs:bile evitare quella aridità e monotonia di dettato, che accompagnano quasi sempre gli ele- menti di una scienza qualunque. Tuttavia si ingan-- nerebbe a partito chi volesse da ciò argomentare - 10 che la Botanica sia per sua natura una scienza inamena, tutta bronchi e spine, e quindi inetta a procacciare alla mente pur una di quelle nobili compiacenze, che nelle liberali discipline alleviano e addolciscono ogni fatica. Imperocchè, quando altri, liberatosi una volta dalle pastoje dei primi rudi- menti, riesca alla fine a sollevarsi tant’alto da pa- droneggiare la scienza nella concatenazione delle sue parti, ed abbracciarne collo sguardo il tutto insieme meraviglioso, non può tardare ad accorgersi che, come per l'utilità, così ancora per l’amenità di che è suscettiva, la Botanica può gareggiare con qual'altro studio è perciò stesso più lodato. E valga il vero: qual’altra scienza si troverebbe, che prenda più largo campo , più stupendo , più at- traente per inesausta varietà di oggetti; qual’altra, che di più stretto vincolo si congiunga colle più elevate discipline onde risulta il progresso ? Ap- punto per mostrare col fatto ai giovani o tenuti per obbligo, 0 dall’inclinazione condotti a frequen- tare la scuola di Botanica, come in questa scienza l'utilità non si scompagni dalla amenità , dando ‘anch'essa impulso alle più belle facoltà dell’uomo, l'immaginazione e il sentimento, è mio costume di preludere ogni anno al corso delle lezioni, a queste 44 ancora framezzando a volta a volta la trattazione di alcun argomento generale, che, pur adempiendo agli uffici della scienza più severa, non lasci in tutto desiderare il diletto. Di tal guisa trovo di aver accozzato insieme, nel giro di alcuni anni pa- recchi discorsi, o brevi orazioni, in cui vennero, per così dire, a collocarsi naturalmente que’fatti, quelle notizie, delle quali, per l’indole loro, non aveva nel corso ordinario delle lezioni potuto tener conto, o toccato ne aveva così alla sfuggita da non re- starne un concetto chiaro e preciso. Scegliendo ‘pertanto con accorgimento e misura tra i tanti ma- teriali, che mi venivano alle mani, quelli che per l'importanza e piacevolezza loro mi parevano me- glio conducenti allo scopo, avvisai per tal modo potere di leggieri tener lontano quel tedio e quello scoramento, che nelle menti giovanili suole inge- nerare un'istruzione crudamente scolastica, troppo a lungo continuata. Ecco in breve l’origine e lo scopo di queste scritture, nelle quali molto andrebbe errato chi volesse cercare novità di concetti, profondità di dottrina, od anche solo leggiadria e venustà d’ e- locuzione; dappoichè ad altro non mirai, che a dire cose utili, vecchie o nuove non importa, e dirle in 12 modo che ognuno avesse a comprendere nettamente il mio concetto. Siccome pertanto a comporre questi discorsi non fui mosso da vaghezza di gloria, sappia fin d'ora il cortese lettore, perchè non paja che io voglia farmi bello delle penne altrui, che le no- tizie, che qui gli presento, vennero da me quasi tutte studiosamente raggranellate qua e là, secon- dochè venivano acconcie al mio intento, vuoi in opere generali sulla scienza, vuoi nei trattati spe- ciali d’alcuna sua parte, nelle relazioni di viaggi, e perfino ne’giornali quotidiani, e nelle riviste pe- riodiche. Che anzi non disconfesserò d’avere in qualche caso tolto a prestanza non solo i dati po- sitivi e le osservazioni, ma ben anche i concetti e le espressioni, persuaso, che i miei uditori m'a- vrebbero saputo grado, che io porgessi loro i frutti di valenti scrittori, massimamente italiani, in quella medesima forma, colla quale essi li hanno depo- sitati nelle immortali loro opere. Nuila, adunque, o ben poco di mio si troverà in questi scritti, se per avventura non fosse il con- cetto del tutto insieme, e la speciale distribuzione, e l'ordinamento delle parti. Di che nessuno, il quale conosca lo scopo di questi discorsi, vorrà farmi un aggravio, dove apparisca che lo scopo. stesso sia stato raggiunto. 413 Resta per ultimo che io dica, perchè mai, men- tre pur vedeva la pochezza di queste ciarle, mi arrischiassi nondimeno a sottoporle al pubblico giu- dizio. Era, per vero dire, mio fermo proposito, che esse non dovessero uscire giammai dalle aule universitarie, ma dappoichè, cedendo alle gentili insistenze di dotto Personaggio, al quale per sen- timento di stima e di riconoscenza nulla avrei po- tuto negare, ho permesso, che alcuna di esse ve- nisse alla luce, però sotto il velo dell’anonimo, in un riputato periodico di Milano, e a quanto parve, non si fe loro malviso, presi animo a tentare per tutte insieme queste orazioncelle la terribile prova della stampa, nella speranza, che il publico abbia a far loro quella benevola accoglienza, di che ono- rava le maggiori sorelle. | FREPORRI sui la Ì UE ala PIAN Ma dik tn "palio, «dh Ru p Hizodi ; ddu ha sla Mg? sat 1 uno | iù pu } LS ubra n 18 È n A e A e PUOLIL rie Rik ut ti}: giug slo MI (140). (trita di FTA UD | a ite Ta gi niù Mi da 34 | xl . . Mr: là pÈ; roanlia. of (BR ftrre STE ABI R1 190% vd Vasi n i Mrs Mbit 70 [tito afelio si ut. lf vici i dp LA di E, Pi,e } | di , TAO | Vai cp Rita” tà 4 è di, abi do riti A GUERRA Agli 0° A i Ù : : “ager 1 0 RR Megg nt 3 dira a Î A vi dii Alia pù pA4 1 ie sii $ ig SARE TI Ùi.! TSI, pa Li coi ball a sur) Na Just i lac ae 1 tony cru, La, al rate VITARA 4 f i 1000, sla Frigo alora MAGLIE Li i RL ACE VO: PRPANPTO suttanoé spiga: “d ab TVBROO 4 ria Ma RAMI DI dura oca “i, MERA anale RR Ui: Pim ARA SUE) en ig la.d BRA: vibra aaa ui at ti MESURE” î i pi SEARS cene W, bet far AR Te unita od 4 Ti Mini s) TIMBRO E PRI VIGIORE 101, La Botanica Belle, utili, amene sono le scienze Naturali, e bella e utilissima fra molte la Botanica. Ampio quanto l’orbe terrestre è il suo campo: dall’oriente all’occidente, dall'equatore ai poli, non vi ha re- cesso sì ascoso sulla faccia della terra, nè caverna sì impenetrabile negli abissi delle acque, che non alberghi qualche vegetale ricchezza. « Varie d’ a- » spetto secondo il suolo che le produce, l’aere » che le alimenta, il sole che le riscalda, le piante: » colla vaghezza delle forme, colla pompa dei co- » lori, colla soavità dei profumi abbelliscono, ani- » mano e ricreano tutta quanta la terra. » Accon- ciandosi esse a tutti i climi, e a tutte le posture dei luoghi, le vediamo, sotto forma di licheni pol- verosi o fogliacei, rivestire di variopinto man- tello la nudità delle aride rocce; vellutare di mor- bido miusco le grotte ombrose; ravvivare la morta superficie delle acque stagnanti, e delle fangose ma- remme. Quì, pei campi e pei prati, cestiscono in 16 proficui erbaggi; sulle chine dei colli sorgono, pia- cevoli a mirarsi, in viti, gelsi ed ulivi; lassù per gli squarciati fianchi delle montagne giganteggiano in alberi maestosi e secolari, baluardo all’ impeto degli aquiloni, e schermo alle nevi, e alle frane rovinose; le incontri, fedel compagnia, persino sulle gelate vette delle altissime alpi, eremite per- petue, a giocondo temperamento di quella triste e monotona solitadine. Quando poi si considerino i piaceri e le gioje innocenti, che i vegetali ne pro- cacciano; i larghi mezzi di sussistenza, e le svariate maniere di farmachi e di altri soccorsi, che a noi ea tanti altri esseri viventi somministrano; e quan- do si tien conto della somma importanza, che hanno nel mirabile piano della creazione, o come sogliono dire nella generale economia della natura, chiaro ne apparisce, che quella scienza, la quale fa subietto de’ suoi studj le piante, a niun’altra deve riputarsi seconda. Le quali cose, se quanto sono vere, fossero del pari da tutti riconosciute e giusta- mente apprezzate, nor sarebbe d’uopo, che ne spen- dessi io nuove parole in elogio. Ma così essendo, che molto giovi nel porsi a qualunque intrapresa la persuasione del poterne avere profitto; e alli- gnando pur troppo anche tra giovani alunni della Medicina certe contrarie prevenzioni, erronee e fu- neste, non sarà inopportuno, se io mi faccio oggi ‘a dirvi in sommi tratti i pregi di una scienza tutta rivolta a soddisfare i nostri bisogni, a moltiplicare dE7 i nostri comodi, a intrattenere piacevolmente lo spirito, e ad imprimergli la più utile direzione «verso il bello e il vero. E volendo toccare primamente delle pratiche relazioni della Botanica, lungo sarebbe l'esporre i vantaggi, che l’uomo, mercè di quella inteliigenza, che lo sublima su tutta la creazione, ha saputo cogliere dai prodotti vegetali. Bastimi osservare, che ciascuna delle parti, e degli organi di una pianta ci è utile in una sua particolare maniera, col fornirci i mezzi di alimentare la vita, e di ripa- rare alla perduta sanità, e col sommipistrarci in- finite materie e svariati istrumenti per quelle arti ed opere, che servono alla migliore agiatezza in que- sta nostra avidità di bene. Così i semi, i tuberi, e le radici sono il più comune nutrimento di quasi tutti i popoli, e da essi si distillano bevande gra- tissime. — Le foglie, i fiori, i frutti di alcune fanno pascolo o strame agli animali, cotanto neces- sarj all'uomo; da altre caviamo aromi preziosi, balsami salutari, dilicati agrumi. — La corteccia, e il libro colle fibre pieghevoli e bene unite ser- vono a quei leggieri tessuti, che ci difendono dalle ingiurie dell’aria. — Né ci è meno utile il legno. Usato nella costruzione delle case esso ci ripara dalle intemperie ; col benefico calore, che svolge 2 18 abbruciando, ci toglie agli incomodi effetti del freddo; lavorato in diversi modi ci fornisce gli istrumenti adoperati nelle arti e nella agricoltura, le masserizie, che arredano le nostre case, le macchine, che centuplicano la forza umana, e i na- vigli, che sottomettono a noi quell’elemento, che pareva dalla natura interdetto al potere dell’uomo. — Che se infinite sono le professioni, le quali dalle piante traggono materia ai loro usi, principale, e per Voi, o Giovani, sovratutto notevole è l’applica- zione, che di esse può farsi in quell’arte, a cui vi iniziate, e che ha per iscopo di conservare agli uomini, o restituire, se perduta, la sanità. L' im- portanza di botaniche cognizioni pel medico può ‘facilmente valutarsi da chiunque voglia solo consi- derare, che gli elementi d’ogni umano sapere con- sistono precipuamente nella chiara cognizione della identità e diversità delle cose, senza la quale vano è ogni ragionamento, e pernicioso ogni immagi- nare. — Ma perchè in un numero così grande di esseri, dotati di qualità cotanto diverse, quali si contano nel regno vegetabile, possa il medico fare una debita scelta di quelli, che tornano o conve- nienti o proficui al suo scopo, è mestieri, che egli sappia rilevarne i caratteri differenziali, sì, che il buono non prenda insieme col maligno, l'utile col nocivo, e quelle sostanze, che ha a trarre in USO, non confonda con quelle, che ha da scartare, E tali cognizioni appunto ei deriva dalla Botanica,. i 19 nella quale se il medico non sarà sufficientemente addottrinato camminerà sempre alla cieca incon- tro al pericolo di scambiare l’alimento col farmaco, ed amendue col veleno, riducendosi nella pratica ad un puro empirismo, sempre dannoso, quando non è guidato dal lume della scienza. — Non dirò già che tutti coloro che si consacrano al difficile e penoso esercizio dell’arte medica debbano recarsi al fondo dei più reconditi misteri della vita vege- tativa; ma qual è medico che possa, senza sua vergogna e disagio, prescrivere un rimedio tolto ad una pianta, che egli forse appena conosce di nome, e che veduta non ha mai? E non solo il medico, versato nella cognizione dei semplici, sarà meno soggetto all’inganno e all’ errore; ma potrà an- cora cavar dai suoi studj molti altri preziosi am- maestramenti. Noto essendogli, che tutte le specie di un genere di piante, e spesso molti generi di una medesima famiglia, posseggono analoghe qua- lità e virtù, gli verrà fatto di sostituire senza tema di funeste conseguenze a piante rare, esotiche, e perciò costose, altre che crescono vicine a lui, egualmente efficaci e salutari che quelle, ma di as- sai minor prezzo; mentre saprà guardarsi da così fatte sostituzioni per quelle famiglie, in cui la con- venienza dei caratteri botanici nelle vicine specie non consuona colle loro medicinali virtù, e nelle quali, come nelle solanacee, il farmaco qualche volta sta molto presso al veleno. — Ove poi av- 20 venisse, che fosse attribuita a qualche pianta una proprietà sconosciuta per lo innanzi, il medico bo- tanico guidato dall’analogia potrà giudicare della importanza dell’annunziata scoperta, anche senza ricorrere ad azzardate e perigliose esperienze. — Per coloro poi, che le speciali loro indagini portar vogliono nell’astraso campo dell'animale fisiologia, di cui non avvi oggigiorno chi osi negare il grande uso nella stessa ricognizione e cura dei morbi, sarà di non piccola utilità il prendere le mosse nei proprj studj dall’ esame dei fenomeni vitali delle piante, le quali per la maggiore semplicità dei tessuti, e per la uniformità dei mezzi impie- gati dalla natura a raggiungere gli alti suoi fini, più facilmente disvelano all’ acuto scrutatore, le leggi regolatrici dalla divina scienza prestabilite. Non minori attenenze, che colla Medicina e colla Farmacia, hanno le botaniche cognizioni colla Agricoltura, prima e sovrana tra le arti. E per vero è la Botanica, che detta a questa i precetti per migliorare le antiche costumanze, o introdurne di nuove più acconce e lodevoli; è dessa, che dà motivo, e sparge lume, volea quasi dire di ragio- ne, sul cieco uso; che insegna a preparare con- venientemente il terreno, e giusta le varietà sue le erbe opportune seminarvi; è dessa che sulla cono- scenza di ciò, che meglio si confà all’alimento della pianta, svolge l’importante dottrina dei concimi, e addita quelle altre avvertenze e cautele, che 24 mirabilmente conducono alla maggiore bontà e co- pia dei prodotti. Grazie sovratutto ai sussidj della Fisica vegetale, se l’Agraria, emancipata dalle viete abitudini e pratiche, e dai pregiudizj stolti, che la inceppavano, si dispiegò finalmente in quell’ andar franco e sicuro, che oggi veggiamo; intelligente anch'essa, e illuminata, e gloriosa nell’ universale progresso. Egualmente proficua si rese la nostra scienza in ogni tempo nel promuovere quelle altre profes- sioni, dall’eccellenza, e dalla moltiplicità delle quali dipendono principalmente i comedi e le delizie della vita, lopulenza e la floridezza delle nazioni. Im- perocchè, per poco che altri vi pensi, intenderà di leggieri, come un’esatta notizia delle piante per alcuna di tali arti sia pressochè indispensabile ; ad altre serva di rinforzo, di incremento e di lume ; di tutte poi valga ad illustrare e migliorare l’eser- cizio. — E per tacere delle arti meccaniche, i cuì materiali vengono quasi onninamente tolti dal regno vegetale, chi vorrà negare il molto vantaggio che dalla Botanica può trarre l'architetto per conoscere le proprieta dei legni; giudicare quali sieno acco- modati a luoghi secchi, quali agli umidi e acquosi, e quali abbiano tempra di bastare incorrotti per lunghissimo volgere di stagioni? — E al pittore, principalmente ove esso faccia lavoro di paesaggio, la Botanica non è a dirsi solo utile, ma necessa- ria; posto che voglia ritrarre al vero, o almeno: 22 nel verisimile, e non nel falso e nello strano, cer- car pascolo alla fantasia; come già la botanica ri- ceve dalla pittura. mutuo compenso col farsene ritrarre quelle dilicate parti, che o non si ponno conservare, o non acconciamente descrivere con parole. So bene, e confesso io medesimo, che le minute ricerche dei botanici non vanno sempre coronate da così pronti e felici risultamenti, quali finora abbiamo avvertiti. Arduo però a farsi è il passaggio dalle rimotissime cause agli ultimi ef- fetti; dalle leggi e forze infinite della natura alle possibili applicazioni in nostro particolare comodo e profitto; e così nel regno di tutte le scienze in- terviene, che gli usi pratici di aleune scoperte sfug- gano talvolta, e per lunga pezza, ai più diligenti ricercatori. E ciò nondimeno è prezzo dell’opera indagare anche il minuto e l’arcano, per disutile, che apparisca. Ad ogni ente, ad ogni fenomeno vuolsi porre attenzione e studio: imperocchè, es- sendo le combinazioni delle cose innumerevoli, non avvi per avventura verità naturale tanto strania ed isolata, che non possa tosto o tardi essere feconda di prodigiose conseguenze. —— Nè mancano esempi a prova di questo. Quando si cominciò a occuparsi di quelle minutissime pianticelle, che i Botanici de- inominarono crittogame dal modo misterioso di cui si vale la natura a propagarle, non è a dire il poco conto, in che si tennero quegli studii e i cul- tori loro! Chi avesse detto allora che il dì sarebbe 25 venuto, che in quelle sprezzate pianticelle avrebbe pur una volta trovata la scienza la spiegazione di quei terribili flagelli, onde il secol nostro fu mi- nacciato quasi di provare le angosce di quelle spa- ventose carestie, per le quali il medio evo ebbe sì triste rinomanza! Pur così è: da queste crittogame e l'oidio della vite, e il calcino de’ bachi, e il male delle patate, che per poco non disertava in- tere regioni, ripetono l'origine loro, sicchè solo nello studio di queste è da sperarne il riparo. — Per le quali cose tutte, se mal non mi appongo, appare dimostrato, come anche sensibili e per così dire materiali vantaggi ridondino dalla botanica, 0 scienziato che altri sia, o cultore di arti meccaniche e liberali, e massimamente se medico. — Ma po- sto eziandiò che ciò non fosse (come invece è certissimo), non per questo dovrebbe la botanica amarsi meno in grazia dei puri e schietti godimenti, che ne procura, e dei grandiosi concetti a cui ne solleva l'animo. — E qui, o giovani, metto piede in tal campo, che a percorrerlo convenientemente bisognerebbe più forza d’immaginare e maestria di descrivere, che io non mi abbia, ed anche molto più tempo, che non sia concesso e dicevole ad una lezione. E farò come chi, trascorrendo per mezzo a stupende e note meraviglie, le mostra col dito ai compagni, e lascia a loro di compendiarne in un punto, e recarsene al cuore le sublimi im- pressioni. Ovunque si arresti o cammini, può egli 2 l’uomo girare d’intorno a sè lo sguardo senza es- sere gradevolmente colpito da qualche mirabile scena della vegetante natura? Quanta semplicità nei fini! Quanta magnificenza e varietà nella esecuzione! Avvi quadro più ridente e grazioso di quello, che ci para d’innanzi in un bel mattino di maggio la rugiadosa variopinta superficie di un prato novel- lamente vestito; o il biondo ondeggiar delle messi sui campi nel cocente dì della canicola? E contro quel saettare del sollione vi porge ancora riparo la fresca omb:a di un bosco, e morbido sedile un tappeto erboso; e qua vi ricrea l’olezzo fragrante, che tutto intorno a sè sprigiona; qua il gentile susurrare delle frondi commosse; e là sotto il sa- lice, che piega i rami ad accarezzare la limpida onda del ruscello. Sublime è l'aspetto della quer- cia, 0 stia immobile nella calma e gravità de’ suoî lunghi anni, o si agiti e strida sotto l’urto dell’u- ragano, fin che, posato, rialzi la testa, come l’ uom grande oppresso e non vinto dalla sventura. Cupo, malinconioso è il filare dei cipressi, che ti segna le vie della morte, e colle fosche sue ombre cresce tristezza al dolente, che conforta di pianto un’ urna diletta. — E sembra che le piante sieno state dalla provvida mano del Creatore impartite a tutte le stagioni dell’anno per abbellirne ciascuna alla sua volta; a tutte le parti del globo per variarne l’aspetto. La cognizione del carattere vegetativo di un 25 paese, dice Humboldt, è intimamente legata colla storia dell’ intellettuale sviluppo de’ suoi abitatori, e da esso principalmente vuo'si derivare il genio particolare, che distingue la brillante poesia dei Greci dal tetro canto dei nordici bardi, e il no- tevole contrasto tra l'ingegno pronto, fervido, ap- passionato delle genti meridionali, e il temperamento chiuso, freddo, tardo del Lappone. — I fatti, i costumi, gli usi, le credenze di tutti i popoli sì barbari che civili, fanno testimonianza della grande influenza delle piante sull'uomo. Apriamo gli an- nali della storia, e vedremo come dai più remoti tempi egli nobilitasse e divinizzasse di alcune la origine (ponete del giacinto e dell’alloro); altre ne rendesse sacre alle più belle virtù; e in altre amasse simboleggiare i suoi più vivi affetti, e ricercarne persino una espressione, una reminiscenza, un lin- guaggio. — «Si trovò nella rosa l’immagine della » bellezza; nel giglio Y emblema della purità; nella » mammola il pudor verginale, e la virtù modesta e » celata; colla fronda della quercia, dell’alloro, del —» mirto intrecciò l’uomo ghirlande da premiarne il » valore guerresco, da incoronarne il dotto, il poeta, » e la canizie del savio; abbelli di verzura e di » fiori i monumenti dei grandi trapassati e de’suoi » cari; e fece di queste produzioni riverente tributo » alla stessa divinità. » Che se la semplice contemplazione del'e piante è cagione di così soavi emozioni, di così dilicati 26 pensieri anche per chi è straniero alla scienza, quanto maggiori e più nobili saranno i godimenti per colui, che facendo della botanica speciale suo studio, si propone di esaminare, riconoscere e de- scrivere l’infinita serie di esseri, che compongono il regno vegetabile! Qual immenso campo alle ri- cerche, qual fonte inesausta di diletto, e di mera- viglia! E diciam pure, o giovani (chè è d’uopo non iscordarlo) quanti argomenti per risalire col pensiero e cogli affetti al sapientissimo e onnipo- tente Fattore delle cose! I quali studj, appunto per la loro molta va- rietà ed ampiezza, si acconciano a tutte le età, a tutte le condizioni della vita. Convenientemente di- retti servono a rinvigorire le forze fisiche ed intel- lettuali del fanciullo, di cui intrattengono mirabil- mente la curiosità, porgendogli una amena distra- zione agli aridi esercizj delle lingue ed ai rudimenti del calcolo. Cresciuto questi a gioventù, e iniziato nell’arte del comporre, gli somministrano, in luogo della fredda imitazione, proprie e sempre nuove e svariate imagini, e abbondante soggetto per con- giungere alle scelte parole veri e brillanti pensieri; e togliendolo via alle pericolose inclinazioni, e alle passioni funeste, gli serbano puri e schietti i costu- mi, dolce l’animo e tranquillo, sana e robusta nella virtù la persona. All’adulto non meno, sanno aprire una carriera vasta e luminosa, distogliendolo da quell’infido teatro, sul quale combattono con 27 furore gli umani interessi, distruggendo in esso i pregiudizj e gli errori; e procurandogli quella pace del cuore per cui luomo è contento di sè, e di sè stesso diviene amico. Sono pel vecchio grave di anni una sorgente delle più soavi rimembranze; un argomento alle più serie meditazioni sulla su- prema Cagione delle cose, verso cui tanto più for- temente è mosso a sollevare lo spirito, quanto si curva più verso terra debilitata la persona. — Non è pertanto a meravigliare, che la botanica ab- bia destato in ogni tempo, e presso tutti i popoli, e in tutte le condizioni, amore e studio grandissi- mo; che potenti personaggi vi abbiano cercata una distrazione alle cure affannose, retaggio ordinario della grandezza; e gli sfortunati un sollievo alle angustie della avversa fortuna. Non fa meraviglia » se in essa trovarono un abbellimento ai loro 0zj il » sesso gentile, e coloro, che una sorte indipendente » rese felici: e se più di un genio sublime, disgu- » stato dalle astratte speculazioni di una vana filo- » sofia, scese a cercare nelle invariabili leggi, che » reggono la vita del vegetabile, un più sicuro ter- »reno alla bramosia di sapere. » E qual lunga serie vi potrei qui enumerare di appassionati cultori del- l’amabile nostra scienza, e appassionati per modo da postergare per essa ogni altro piacere della vita, e andar incontro a pericoli, a disagi, a certo martirio! Quanto peregrinar di taluni, di molti su per l’erte montagne, sotto a profonde vallée, per 28 entro a scoscesi dirupi, esposti al rigor delle nevi, al raggio cocente del sole, a tutte intemperie delle: stagioni! E quanti ancora non paghi delle vegetali ricchezze, che gli somministra il suolo nativo, se ne recarono in cerca ne’ più remoti e difficili paesi; in climi ignoti ed aspri; fra genti barbare; per sabbie e deserti inospitali per tutto quanto è esteso ed accessibile il mondo! Di questi viaggiatori or fortunati nell’aggrandire il patrimonio delle bota- niche cognizioni, ora vittime, pur sempre gloriose, del loro amore per esse, ne abbiamo non pochi anche recenti, anche tra nostri italiani, come il Brocchi, il Raddi, il Parolini, l’Acerbi, ed altri. E senza questo, che è eroismo di taluni, quanti eccellenti ingegni (e dico contro a que’ tali, che conoscitori di molte cose, ma ignari delle nostre, riputerebbero la botanica cosa da intelletti mezza- ni, non da forti e filosofici) quanti eccellenti ingegni cercarono nel nostro campo materia anche esclusiva alla Joro potenza ed attività, e n’ ebbero mercede di rinomanza grande in tutto il mondo e di gloria immortale! Chi negherà valore e mente sublime (non dirò onore, chè l'universo ha già fatto sua giustizia) a que’ sommi botanici della nostra Italia, al Colonna, al Cortusi, all’Anguillara, al Mattioli, al Cesalpino, a quel Malpighi creatore dell’Anatomia vegetabile, al Faloppio, e al Micheli che nella sa- gacità delle ricerche al dire di Boerhaave, superò. ogni mortale! Nè già soltanto possiamo andar fa- 29 stosi di glorie antiche. Verdeggia ancor la fronda de- gli italici allori, e ne mantengono e accrescon de- coro perenne, sparsi qua e là per tutta la penisola, botanici studiosi ed insigni, stimoli a rincorarvi, modelli a imitare. E voi, giovani egregi, vi rivol- gete a studj medici, pensate fare della medicina e della farmacia la vostra professione; ebbene vi ho detto, e vedrete a giusto tempo di per voi medesimi, di quanta utilità non solo, ma di quale bisogno vi sia la botanica : se cercate sussidj e ornamenti ad altre scienze, alle arti meccaniche ed amene, alla pittura, alle lettere, alla poesia; la botanica ne ha tesoro: se riposo alle cure; se pascolo su- blime ai pensieri e agli affetti; la botanica ne è madre e fonte inesausta. — Amabile scienza è la nostra, e prodiga di sue grazie, e non avara di guiderdoni a chi le si accosti. Lassù nel tempio della gloria ha pur essa il suo trono raggiante di luce, ha corone da dispensare a’ suoi nobili alunni. gbtatiricotà ci vo N sit WTA i 4‘ sera Did renna vira dv Mani 1° foto nil nat re “e dita iu stati 2 qnt Sg Toi piedi: ES îi e fu eur Gad ALA Mar; TODO Gpashohiato et sl; più, Abe Mio ‘TRG Pit) Alte uil isp ital Mib: +e i 4 li d d RE RIME AO, s9R ra U-i Ri: ‘Se a lip Mad (0 LA doi great agg È I a) n È il w x 20/0 Mx Hi sf di 3 pis i 4 DL E uao PALIN É n a. DU bia Wind, AVRAI a “tig do ul fi È d pat) N o; A i oe GISGAE Loi A dat ibi: raid dont rotto SETTI sensi doni e ag ta LA 104 Se) MI d) RT Mg bilga DEC) dara ua ù° i ib do A (SERE, RUPE È. LIS a Pio et URRA Di ao he LAMETN DRE - RIA VAI SU Tei LI PARE pei DI gi no EVI uit r è Valea x Pet, SLOT ea DE Do ar Ya pda (9 0; ì n ipso mit span de Pr "D sa (ZERO, 4 id on Ub: Med: NI wi Il Fiore e gli agenti di natura L'apparato degli organi sessuali nelle piante insieme cogli invogli, onde i medesimi sono contor- nati e difesi, porta il nome di fiore, come tutti sanno. Ella è questa sicuramente di quante ha parti un vegetale la più appariscente, quella che più alletta e rapisce l'occhio de’ riguardanti. E valga il vero, se nelle altre cose discordano le più volte tra loro mirabilmente i gusti e le tendenze degli uomini, in questa de'fiori è tanta la concordia, che ricchi e poveri, dotti e idioti, giovani e vecchi, tutti, chi più chi meno, ne sono vaghi, e dalle bellezze loro, e dalle squisite loro fragranze pigliano diletto. Il perchè non troveresti per avventura uomo di sì grosso ingegno e di sì rozzo costume, che non si piaccia alla vista dei fiori, e che alcuna volta non li abbia desiderati. Imperocchè ai fiori è dato non solo di porgere grato pascolo ai sensi, ma, chè più rileva, di eccitare negli animi nostri, come forse a nessuno altro oggetto si consente in pari grado, que’teneri e gentili affetti, onde meglio si manifesta la bontà dell’umana natura. 32 Laonde degnissimi sono i fiori, che ci intratte- niamo ancora un poco con essi, e dopo averne nelle precedenti lezioni minutamente studiato il mi- rabile artifizio delle parti, e gli uffici importanti che queste adllempiono, non deve certamente riuscirvi dis- scaro, se oggi, innalzandomi a più alte conside- razioni e vedute più generali, io faccia prova di cogliere, se si può, le attenenze, che ha il fiore colla natura che lo circonda, alzando un lembo di quei fitto velo, che copre la misteriosa, ma non per questo meno efficace azione, che luce, calorico, elettrico esercitano sulla breve e fuggevole sua esistenza. A niuno è ignoto, che il fiore comparisce sulla pianta quando questa ha raggiunto il suo pieno sviluppo ed è capace di riprodursi ; onde avviene, che le piante annue lo mettono sola una volta, le perenni non legnose, o come le chiamano vivaci, quando esse hanno già condotto a perfezione il fusto e le foglie, gli alberi e gli arbusti, acquistata che abbiano solidità e durezza. Le parti interne del fiore da bel principio stanno raccolte e quasi ran- nicchiate dentro la boccia con quel mirabile magi- stero, che a suo tempo vi ho svelato; col ridestarsi però dei tepori primaverili, ognuna di esse, in grazia della dilatazione, e del naturale scostamento degli invilappi, che interno la stringevano, viene all'aperto, e man mano districandosi, e dispiegan- dosi assume quella regolarità e perfezione di forme, dI che per legge di natura le è particolare. Lo sboc- ciamento simultaneo, o successivo dei fiori di un vegetale, segna il tempo della sua fioritura, la quale è compiuta, allorchè tutti i fiori sono ‘appassiti, e non ne compajono di nuovi. — Il calore è il prin- cipale motore della fioritura. Esso determina il tempo, in che questa si effettua secondo le diverse sorta di vegetali. Epperò gli individui @'egual spe- cie posti in condizioni conformi, cioè sotto i me- desimi paralleli, allo stesso aspetto di cielo, alle stesse altezze, si adornano di fiori entro limiti di tempo molto vicini tra loro. Quinci avviene per naturale conseguenza, che le stagioni e i mesi e diremo quasi i giorni in ciascun paese abbiano le loro fioriture particolari. Chi pertanto volesse tener conto del succedersi che fanno man mano le diverse qualità di fiori in una contrada del globo qualun- que, potrebbe trovare in quelli tal norma da di- slinguere i varj tempi dell’anno e comporsi, sull’e- sempio del Linneo, un calendario di Flora. Impe- rocchè sebbene sia vero, che la più parte dei vegetabili fiorisce durante la primavera avanzata e la state, non ne mancano però di quelli, che regolarmente mettono il fiore nell’autunno e nel verno. A chi è ignoto, che anche tra noi, in mezzo ai rigori del gennajo, sboccia l’ampio e candido fiore dell’elle- boro nero? Che subito dopo il solstizio d’inverno svolgesi di sotto alla neve il fior della galanta? Chi nel febbrajo, e nel marzo non gustò la soave fra- 5) 4 granza della gentile mammoletta nunzia di prima- vera? Per lo contrario la colchica, la giorgina va- riabile, il crisantemo indiano fioriscono nel più tardo autunno, e fanno bell’ornamento, quello al prato, questi ai giardini, quando più non vi sono altri fiori, e gli alberi già smettono le foglie. Che più? Vi hanno di tali piante, le quali per tal rispetto serbano così fatta costanza, che ogni anno tu le vedi regolarmente fiorire in quel medesimo giorno, d'onde poi i nomi volgari di molte di esse tolti dal santo, o dalla festività, che il calendario segna, e la chiesa festeggia in quel giorno. -— Di tal ma- niera il fiore del Natale, di san Mauro, di san Paolo, . di santa Dorotea, dell’Annunciazione, di Pasqua,. e cento altri, che troppo lungo sarebbe voler tutti ricordare, segnano con bastevole precisione presso: questo 0 quel popolo l'epoca, in cui aprono i primi. loro fiori l’elleboro nero, il sollecione (senecio vulgaris), il pie’ di gallo (eranthis hyemalis) il giacinto d'Oriente, la pulsatilla, la primaverula, la calendola e va dicendo. Nè queste notizie intorno lavvicendarsi de fiori nelle varie specie di. piante sono senza utili applicazioni per l'arte del giardi- naggio, avvegnachè le medesime forniscano all’ or-- ticoltore diligente un facil modo di provvedere a una conveniente e gradevole successione di fioriture per ciascuna stagione dell’anno. Non tutte però le piante, quand’anche durino in vita molti anni mettono fiori. Non poche, massi-- 35 mamente di quelle, che, divelte a forza dal suolo nalivo, vengono obbligate a vivere stentatamente nelle nostre serre, sia natura 0 caso, non importa, restano sterili sempre. Usavi pure intorno ogni di4 ligenza , accarezzale con amore quanto si può , tanto fa, ricusano ostinate di darti alcun fiore, @ se ne recano alcuno, questo non viene a perfetto sviluppo, e cade ben presto infecondo e disutile. Simile all’esule, che ramingo in straniera terra, nè per benignità di cielo, nè per ricchezza e ubertà di suolo, nè per cortesi accoglienze di ospiti gene- rosi confortato, perde lontano dalla patria il natu- rale vigore, e lentamente si consuma inoperoso) impotente. Se, come dicemmo, l’apparizione dei fiori sulla pianta d’ordinario risponde a certi tempi, a certe epoche dell’anno, l’aprirsi e il chiudersi di alcuni di essi si alterna con vicenda non meno regolare nelle diverse ore del giorno. Di quì | ingegnosa idea di Linneo di formarsi un orologio di Flora, come si cera fatto un calendario. Considerando i fiori da tale aspetto il naturalista svedese (dice Dar- win) li divide in meleorici, che si allargano senza norma costante di tempo, or più presto or. più tardi, secondo lo stato umido o secco dell’ atmo- sfera; in fiori tropici, che si aprono al mattino, a chiudonsi avanti sera ogni giorno di guisa però, che l’ora di allargarsi giunge per essi più tempea stiva, 0 più tarda secondo che cresce, o diminuisce 56 la lunghezza del giorno; in fiori equinoziali, che si aprono costantemente ad una certa ora del giorno, e per la più parte si chiudono ad altra ora deter- minata, la quale però varia secondo la stagione ed il grado di latitudine per modo, che dieci gradi di latitudine più verso Settentrione danno una diffe- renza quasi di un'ora. Eccovi alcuni esempj di questi ultimi, scelti tra i fiori più volgari, secondo le osservazioni fatte da Linneo pel clima di Upsal posto a 60 di latitudine Nord. Il dente di leone (leontodon taracacum) s' apre tra le cinque e le sei del mattino, e si chiude tra le otto e le nove. ‘La pilosella si allarga alle sette, e si stringe alle quattro. i! gréspino dei campi (Sonchus laevis) spiega ‘i, fiorellini alle cinque e li serra tra le undici, e le dodici. La lattuga si apre alle sette, e dopo poche ore si chiude. Il cappero di padule (nymphaea alba) allarga il fiore alle sette del mattino per chiuderlo alle cinque del pomeriggio. H fior rancio de’ campi (calendula arvensis) apre i fiori alle nove, e li raccoglie alle tre. D'onde chiaro apparisce potersi di leggeri, raccolti in un dato luogo parecchi di sì fatti fiori, combinare un cotal orologio, che tanto ‘quanto supplisca al comune. Quando poi nella vita tanto passaggera del fio- ‘re, l'alternativa della veglia, (che così chiamasi l’atto dello aprirsi), e del riposo (che è l'atto contrario) mon accada che sola una volta, il fiore dicesi effi- mero. Diurni poi sono quei fiori, che si spiegano ( i) 37. alla luce del giorno, in opposizione ai notturni, che restano chiusi di giorno, e s’ aprono durante la notte. — Che di parecchi di tali fenomeni si avesse contezza già da gran tempo stanno a riprova qui pure i nomi volgari dati a certi fiori, onde abbiamo e la bella di giorno, e la bella di motte, e la re- gina delle motti, ed altri tali nomi che « attestano » l'attitudine del popolo a cogliere il: lato poetico » nelle cose della natura. » E valga il vero « gran » tempo, prima che Linneo ideasse il suo orologio » di Flora, il contadino indovinava le ore del » giorno volgendo gli occhi al prato, ed avvertiva, » senza saperlo, l’inesplicabile armonia, che esiste. » tra i moti di un piccol fiore, e il moto degli » astri, che misurano il passaggio del tempo. » La quale alternativa del giorno e della notte sembra avere uma notevole influenza anche su certe altre condizioni dei fiori. — D’ordinario | odore; che essi mandano, è più manifesto la mattina e la sera, che non sia nel mezzo del giorno, o nel: corso della notte. Ma qui pure, come in ogni altra, cosa del mondo, si avvera non darsi regola senza, eccezione: v'hanno di fatto di tai fiori, che sono odc- rosi soltanto di notte, e dai botanici si ebbero l’epi- teto di (rist? per essere per forma e colore poco ap- pariscenti; tale è il caso del geranio notturno o not- turnino (pelargonium triste); del gladiolo o spadarella, cangiante (gladiotus versicolor); del violaciocco di, notte (hesperis tristis), e d’altri parecchi. I nomi 98 nati fiori cominciano ad esalare il soave loro effluvio verso le cinque pomeridiane, lo conservano tutta la notte, e lo perdono verso le sette del successivo mat- tino. Il cestrum diurnum vien chiamato in tal guisa, perchè è più odoroso il giorno che la notte, men- tre invece il cestrum mnocturnum solo al princi- piare della notte rendesi odoroso. Il catto vaini- glia (cereus grandiflorus), uno dei più bei fiori che si conoscano, spande delicata fragranza, si- mile a quella della vainiglia, dalle ore sette della sera, momento in cui si apre , fino al mattino , chiudendosi allora per non più riaprirsi. i'azione della luce sui fiori è pur causa di altri singolari fenomeni nei medesimi. La cicerbita del settentrione (cacalia. sepientrionalis) , » non » manda odore, se non quando è direttamente per- cossa dai raggi del sole, di modo che, solo col farle ombra, le si può torre sul momento la fa- » coltà odorante. » | Anche il colore dei fiori può variare nelle di- verse ore della giornata. La spaderella a fior can- agiante (gladiolus versicolor) bruna la mattina, si ‘fa verso sera di un azzurro chiaro, e ripiglia nella ‘notte il colore, che aveva il giorno innanzi. Il ‘fiore dell’ibisco vermiglione (hibiscus mutabitis) «da principio è giallo pallido, di poi diventa rossie- «gio, e da ultimo pavonazzo. Il violaciocco varia ibile mette fiori, che, mutando colore da un g'orno «all’altro, sono ora bianchi, or gialli, or celestrini. 8 % ‘99 E poichè abbiamo toccato degli accidenti che “offrono i fiori nelle tinte e negli odori, non sarà senza interesse conoscere anche i rapporti numerici, che si riscontrano tra le varie qualità di colori, e quanti di essi fiori abbiano virtù di tramandare grato odore a petto a quelli, che o sono inodori, o danno «di sè odore spiacente. Le osservazioni di Schubler e Kohler fatte su parecchie migliaja di piante sì nostrali e sì d’ altri climi hanno messo fuori di dubbio, essere il bianco il color dominante nel regno vegetale, avvegnachè sia proprio a forse la quarta parte dei fiori cono- «sciuti. AI bianco tengono dietro per una scala, che decresce a iano a mano, il rosso, il giallo, il cile- stro, il verde, il violetto, il ranciato, e per ultimi il bruno, ed il nericcio. Quanto poi agli odori, considerati nei fiori di una medesima tinta, i nominati autori hanno trova- to, che in cento fiori di color bianco ve ne ha un quattordici all'incirca grati per soave odore, laddove ‘tra le piante, che portano fiori rossi, gialli, verdi, o cilestri le specie olezzanti, paragonate alie inodore, sono rispettivamente nell’ ordine di otto, sette, sei e fino a solo due per cento. D'onde è manifesto, che i fiori bianchi sono a un tempo e più comuni in natura, e i più odorosi. Nè vuol essere taciuto, ‘come i primi fiori, i quali vengono ad abbellire i nostri campi, si pregino di un abbagliante candore. Quando il verno scompare le praterie, gli aiberi, LI 40 gli arbusti d’ogni genere copronsi di fiori bianchi. Di mezzo alle molte migliaja di fiori di questo co- lore, che appajono sui meli, sulle ciliegie, sulle fra- gole e sui peri, appena è, dice Martin, «che |’ occhio possa di luogo in luogo arrestarsi su qualche cima di mandorlo, o di pesco dai fiori rossicci. » Nè vo- gliate credere, che ciò sia fatto a caso. Anche in questo vuolsi riconoscere una sapientissima dispo- sizione di natura. É noto, che il color bianco serba nei corpi più a lungo il calorico, laonde quelle parti della pianta, che biancheggiano, per quantun- que dilicatissime, ponno meglio avvantaggiarsi dello scarso grado di calore, che nei climi freddi e nei temperati accompagna la stagion primaverile. « Ma non sì tosto coll’avvicinarsi della state è cessato un tale bisogno, eccovi spuntare da ogni parte fiori con tinte più cariche. Quà le iridi porporine, là i rossi papaveri, altrove le azzurre aquilegie, i gialli ranuncoli, i fulvi cisti, e di mezzo alle dorate spi- ghe de cereali l’adonide dal fior miniato e tant’al- tre generazioni di fieri variopinti. » E meritano questi fatti tanto più l’attenzione del naturalista, in quanto che appalesano in tutto il creato una mi- rabile armonia di fini e di mezzi, e porgono così, anche nelle minime cose, una luminosa prova della provvidenza divina. Ma altri prodigi ancora ne disvela il grazioso regno di Flora. Evvi una quantità di fiori, perfino tra i più comuni, tra quelli, che a così dire, noi calpestiamo LL) dA ad ogni passo, i quali presentono il vento, la piog- gia, e quante altre mutazioni avvenir possono nell’at- mosfera. Tali sono, per citarne alcuni ad esempio, il fior rancio de’ campi (Celendula arvensis) che si allarga quando il cielo è sereno, ed annunzia il tem- porale col piegare i suoi fiorellini. La cicerbita della Siberia (sonchus sibiricusy se si chiude durante la notte « presagisce il bel giorno, che si avvicina, e » par che ne dica col suo sonno tranquillo, ch’ella » è sicura della dimane. » Gli agricoltori di alcuni paesi, ammaestrati da questi fatti sogliono alle porte della casa appendere a foggia di igrometro i fiori di una specie di carlina, i quali si dischiu- dono nei giorni sereni, e si chiudono ed appas- siscono all’avvicinarsi della pioggia. Molto singolare è pure il fenomeno di lanciar scintille e baleni che si osserva in alcuni fiori. La figl'a di Linneo fu la prima a notare questo fatto nella capuecina (ropaeolum majus). Anche il fior rancio dardeggia verso sera lampi di luce, spesso due o tre volte successivamente da uno stesso fiore e con grande rapidità, di solito a in- tervalli di parecchi minuti. — Quand’egli avviene che molti fiori vibrino simultaneamente la loro luce, questa è potuta vedere anche a notabile distanza. La scintillazione si osserva principalmente nei mesi di luglio e di agosto al tramontare del sole, e per una mezz'ora appresso, purchè l’atmosfera sia chia- 42 -ra. Dopo un giorno piovoso, se Varia è carica di vapori, il fenomeno non ha luogo. Godono di eguale proprietà il giglio rosso (ilium bulbiferum) e il girasole (Relianthus annuus ). In generale sembra necessario per la produzione di così fatta luce il color flammeo, o di un giallo brillante. Su fiori d'altra tinta la scintillazione non venne finora osservata. Dalla rapidità del lampeg- giare o da altre circostanze si può congetturare, ‘che la presenza di qualche poco di elettricità sia la causa del fenomeno; come è probabile, che 1° a- zione combinata della luce, del calorico e della umidità producano quei movimenti, che si appale- sano, non solo coll’aprirsi e chiudersi degli invogli fiorali, ma anche in altri modi. Imperocchè certi fiori pigliano sui loro peduncoli nelle diverse ore del giorno tali posizioni, che pajono seguire il corso del sole, d’onde il nome che si dà loro di eliotropi, «da nQos sole, porn l’atto del voltarsi. — Il feno- meno può agevolmente osservarsi nel girasole (he- lianthus annuus), pianta volgare dei nostri giardini. E vi hanno dei fiori, che presentano perfino ‘apparenza di un moto continuo, per es. certe or- chiciee, nelle quali il labello ergesi e si abbassa al- ternativamente ad irregolari intervalli di tempo, presso a poco come fanno le foglioline laterali nella foglia ternata del lupinello mobile (desmodium gy- trans) -—- Ma io non vi posso oggi tutte svelare le meraviglie dell'impero di Flora; vi sono fenomeni 45 .e movimenti più segreti, e più misteriosi, che lo «stesso grembo del fiore cela al nostro sguardo. Tra non molto vi condurrò in mezzo a questa ama- bile famiglia ad ammirare le splendide secoperte della scienza, quando vi farò assistere a quella gran- de e arcana operazione della natura, a cui diedero i botanici il grazioso nome di nozze delle piante. Per ora basti avervi mostrato, come la sfuggevole vita dei fiori divenir possa oggetto di profonde me- ditazioni pel filosofo. E qual sarà penna, e lingua sì eloquente, che valga a tratteggiare pure in iscor- cio i tanti altri pregi di cui brillano i fiori? L'in- canto che essi spargono intorno a sè ha qualche cosa di così celeste, che può ben essere sentito, non espresso a parole. Generalmente graditi allo sguardo per eleganza e simmetria di forme , per finezza di tessuti, per morbidezza e vivacità di co- lorito, piacevoli all’odorato per olezzo soave, i fiori, più che ogni altra parte del vegetabile, attraggono la curiosità e la simpatia dell’uomo. Quali soavi emozioni, quanti pensieri diversi, non sempre lieti, ma pur sempre delicati, non desta questo nome di fiore in animo ben fatto e gentile? Sono i fiori che annunziano la primavera; sono essi l'immagine più «cara, più ridente della giovinezza; essi il simbolo degli affetti più puri. Di fiori si adornano le chio- me della vergine sposa, di fiori si sparge il talamo nuziale, di fiori l’ospital mensa si abbella. Non pare compiuta la gioja di una festa, nè abbastanza hh gioconda la veglia fra i canti e le danze, se man- chi loro il sorriso e la fragranza dei fiori. Nelle pubbliche pompe di fiori si fanno lieti gli altari, di fiori si inghirlandano le sacre immagini, di fiori si ammantano le vie. — E come si fanno i fiori in- terpreti dei lieti sentimenti nelle prospere vicende, così nelle avverse si associano in certa guisa ai no- stri dolori. Di fiori si copre ii feretro del bambino, che inesorabil morte ha divelto dal seno della ma- dre, di fiori si onorano le tombe dei morti. Il per- chè appo gli antichi, che altamente sentivano la re- ligione delle tombe : » Le fontane versando aque lustrali » Amaranti educavano e viole » Su la funebre zolla, e chi sedea » A libar latte, e a raccontar sue pene » Ai cari estinti, una fragranza intorno » Sentia qual d’aura dei beati Elisi. » (Foscolo i Sep.) Hanno poi anch'essi i fiori il loro linguag- gio, linguaggio commovente, immaginoso, pie- ghevole a tutti i desiderj, a tutti i bisogni, a tutti i sentimenti. Che non dice un fiore, un gruppo bene scompartito e combinato di fiori ad un cuor tenero ed amoroso! È però questo nome di fiore, che in sè comprende tanti, e tanto vaghi e gentili concetti, è dall'uomo tratto a significare tuttociò, che è nobile, bello, eccellente nel mondo fisico e morale; tanto che volendo io lodar voi, egregi. 45 giovani, delle belle speranze che l’aspetto vostro in me risveglia, non saprei pigliare nè più cara, nè più vera imagine altronde, che dai fiori, Voi parago- nando a questi carissimi promettitori d'ogni più de- ‘siderata cosa. VI } i Y v° | ue c ui DI qa LI 4 Y i” : pae é DG vd g ” DI fi dà indi ROTA a, i ntarii DE RIO A To X ontand : vi “n PI LA ax al i * figa bi: \ i Ti LI Tappa DI VTAAE mai di i; [SL VAaI x i Ì 9) \ EE n Li RISE RESTO tar URTI DÀ ili i pt NITE NE N ch . ve î] i FIERO IN La) ir ee ee dai È; ppi: E°, ese Ma La ; Maggi at sani (7 ho) IL, ? Mpa Cla ci La NA SS: Pera HI Pe; del, Ci I Wo pata ) Agia ai sp pie sec Lesa Ra Pt sat por “cis Abr soa tire ci ion | Le nozze delle piante Quando ci facciamo a considerare gli esseri organici, che popolano la terra, e poniamo mente a quel necessario e continuo succedersi in loro di vita, di riproduzione, di morte, alta ammirazione ci prende di codesta sapientissima disposizione della natura, per la quale, mentre ogni cosa che vive, è destinata per sè a perire, pur (tutte cose insieme non periscono giammai, che è quanto dire la spe- cie di tutte perpetuamente si rinnova, e conserva.. La qual legge sì nel regno animale, e sì nel vege- tabile apparisce la medesima con inalterabile co- stanza. Dall’uomo sovrano della natura al ver- me, che striscia nella polvere, dalla quercia superba. all’umile alga, ogni individuo organizzato non ha che il godimento passaggero della vita, e, infino a. che questa gli basti, è portato ad espanderla anche fuori di sè, rifacendosi in nuovi individui della stessa natura, ai quali esso a suo tempo cede il. luogo nell’ ordine delle esistenze. — Il Saturno. 48 della favola, che procrea figli e li divora, simboleg- gia appunto questo principio vitale, questo, che dirò spirito vivificatore della materia, il quale tra- passa incessantemente da corpo a corpo, e di tanto scema agli uni di vigoria di quanto ad altri ne comunica, conservando per tal guisa, a spese degli individui caduchi, la specie imperitura: con sì fatto ordine e modo, che pur esso sempre tramutandosi, nè specie alcuna scompaja, nè alcuna soverchiamente moltiplichi a scapito di altre diverse, e squilibrio dell’universale economia. — Vebbero, valga il vero, specie ne’ tempi antistorici, che andarono per sem- pre perdate, ma di quelle, che gli antichi ricorda- no, niuna si è spenta, nè di quelle, che esistono oggidì, niuna si spegnerà, finchè non si rinnovi alcuno di que’ grandi cataclismi, che mutando fac- cia alla nostra terra, travolsero già quelle prime nella loro rovina. —- Vita, organizzazione e ripro- duzione sono cose tanto intimamente collegate tra loro, chè l'una non si può concepire disgiunta dall'altra, nè per altro aspetto la somiglianza e af- finità tra gli esseri del regno animale e del vege- tabile, sebbene differiscano tanto di struttura e di forma, si appalesa così certa e chiara, come ap- punto in questa facoltà, che hanno comune di po- tersi colla riproduzione perpetuare. Ed anche i modi e le leggi con cui questa riproduzione si effettua sono al tutto somiglianti, se non vogliamo dive i medesimi. Imperocchè la riproduzione sessuale, e 49 la moltiplicazione per gemme e per divisione di parti sono e negl' uni e negli altri le tre diverse maniere con cui si manifesta quella forza generati- va, che vale a propagare e quindi anche a perpe- tuare la specie. Riserbandomi a trattare dei due ultimi modi di moltiplicazione a tempo più acconcio, mi restrin- gerò in oggi a dire della generazione per sessi di- mostrandovi, come ogni pianta a certa età sia abile a produrre altri individui della sua specie, e quali siano gli organi apparecchiati a questo scopo, non che le opere loro; e quanto mirabili le cure con cui natura adopera, perchè gli esseri procreati pos- sano prosperamente svilupparsi. Fra le scoperte, che umano intelletto abbia mai fatte nel vasto campo della fisiologia vegetale, quella dell’esistenza dei sessi nelle piante avanza forse ogni altra per l’importanza delle conseguenze, che ne derivarono. Che nelle palme, e in qualche altro albero a due case, avesse luogo una cotal maniera di fecondazione conforme a quella degli animali, non era punto sfuggito all'osservazione degli anti- chi. « In tutti i paesi, dice Mirbel, dove i vegetabili » di uso comune sono dioici » (ne’ quali cioè il sesso maschile, e il sesso femmineo si trovano scompar- titi sopra due diversi individui, l’uno dall’ altro se- parati) « poco stette il bisogno a chiarire | uomo » delle relazioni, che esistono tra gli stami degli » uni e i pistilli degli altri. Gli orientali sanno da 4 50 » tempo immemorabile che per maturare il frutto: » del dattero e del pistacchio fa di mestieri, che. » gli individui maschi sieno collocati in vicinanza: » degli individui femine. — Troviamo in Erodoto » che a suoi tempi gli Egizj agevolavano la fecon- » dazione del dattero introducendo al tempo dello » sbocciamento alcuni ramoscelli carichi di stami » nelle spate dei fiori pistilliferi, la qual pratica è » ancora seguila sulle coste settentrionali dell’Africa,. » e per tutto l'Oriente. » — Teofrasto accenna pure. a questo fenomeno in più luoghi, come là, dove parla del ginepro e della sterilità dei fiori doppj. — Nè certamente il grande scolaro di Aristotile era il solo fra gli antichi, che, a così dire, divinasse que- sta meravigliosa disposizione deila natura. Si può egli difatti mostrarne più vivamente il presentimen-- to, di quel che si faccia Plinio, quando rapito all’aspetto dei fiori ti esce in questa esclamazione? « Ah sì i fiori sentono anch'essi la possanza: » degli amorosi desii, e quelle vaghe corolle, che » voi ammirate, formano la gioja dell'albero che: » le produce. »! — E a chi non sono noti quei versi di Claudiano? Vivunt in Venerem frondes, omnisque vicissim Felix arbor amat: nutant ad mutua palmae Foedera; populeo suspirat populus ictu Et platani platanis, alnoque assibilat alnus. All’epoca del risorgimento delle lettere il Pon-- tano descrisse in versi elegantissimi gli amori di. 54 due palme coltivate l’una a Brindisi, l’altra a Otranto. Della fecondazione delle palme ragionò pure largamente Prospero Alpino nella sua opera sull’ Egitto. Anche Cesalpino riconobbe il sesso nelle piante dioiche, accordandosi perfettamente coi bo- tanici moderni nel dar il nome di maschi agli in- dividui che portano gli stami, e di femine a quelli, che recano i frutti. Verso la fine del secolo decimosesto Zuliansky estese a tutti i vegetali quel, che innanzi a lui si era creduto particolare di alcuni pochi, e di- stinse i fiori androgini dai diclini, e gli stami dai pistilli. Indi a poco Ray e Camerario con diligen- tissime esperienze misero in piena luce l'atto della fecondazione, e il vero ufficio delle parti, che vi si impiegano. Da quell'epoca in poi la teoria del ses- sualismo diventò volgare in botanica. Combattuta pur tuttavia da non pochi fitologi, ma difesa dalla maggiore e migliore parte di loro, fu poi da Linneo comprovata con osservazioni e argomenti di tal peso da parere incontrastabile. Stringendo il molto in poco eccone la sostanza. Ogni vegetabile di specie sì fatta, che abbia virtù di riprodursi per sementi, va fornito o d’a- mendue gli organi sessuali o almeno di uno; e la struttura, e le qualità dell'organo maschio ‘sì bene corrispondono alla struttura, ed alle qualità della femina, che essi possono operare concorde- mente all'adempimento della funzione generatrice. 52 E si vede per esperienza, che i fiori mancanti di ‘pistillo cadono senza dar frutti, e i pistilliferi non legano, se non collocati in vicinanza dei maschi di piante affini. Così, se ad un fiore ermafrodito ta- gliate gli stami avanti, che si aprano le antere, il pistillo rimane infecondo; nè mai porta semi per difetto di polline, che la impregni, una specie dioi- ca, della quale non si possegga, che l'individuo femineo. Trovate un maschio, e poneteglielo accan- to, e non starà guari a dar frutto. — Si recidano alle piante monoiche tutti i fiori maschi, innanzichè siasi operato il loro aprimento, e tosto ne sarà im- pedita la fecondazione. Ben di ciò fanno fede gli agricoltori, che attestano per fatto costante, come le grosse pioggie, che sopravvengono in sullo schiu- dersi delle antere, turbando l’azione del pulviscolo, mandano a male il ricolto dei grani. — E ponete pur mente al fatto degli ibridi. Allorchè due specie non identiche si fecondano a vicenda, il seme, che ri- sulta da questa fecondazione, ci dà un individuo, che non ritrae nè l’ uno, nè l’altro dei genitori, ma tiene un non so che d’entrambi. La quale mesco- lanza di caratteri, altri appartenenti alla pianta che ha somministrato il polline, altri a quella che ha fornito gli ovoli, dimostra, che vi ebbe reciprocanza d’azione. — Sonvi poi dei fiori, quali le rose, 1 ga- rofani, i ranuncoli, gli anemoni, le violaciocche, ed altri molti, che possono essere abbelliti dalla coltura coll’indoppiamento dei loro petali. Ma un abbelli- dé mento sì fatto torna sempre a scapito degli organi, sessuali, dappoichè, dove tutti i medesimi di. tal guisa si trasformino, il fiore ne diventa infecondo., All’evidente testimonianza di questi ed altri fatti assai ( che per brevità qui si taciono come meno importanti) qual’ uomo sensato oserebbe porre in dubbio tuttavia l’esistenza dei sessi nelle piante? Porre in dubbio l’alto ufficio a che natura desti- nava questo stupendo apparato di stami e di pistil- li? Sono adunque i fiori, giusta la felice espressione di Linneo » altrettanti talami, ove giovani amanti » offrono incessantemente puri sacrifizj ad Amore. » Se non che identico nel fine, vario e diverso apparisce nei modi, onde si compie, questo sapien- tissimo lavoro della fecondazione, vario e diver- so nei fenomeni dai quali viene. accompagnato. Giovi adunque pur di questo toccar brevemente. quel che più rileva. Ella è legge generale nel re- gno dei vegetabili, che la polvere fecondatrice del. maschio arrivar debba immediatamente sullo stimma, perchè l’ovolo acquisti facoltà di germinare. A tale: oggetto basta alle volte la sola forza con cui scop- pia l’antera, sicchè la polvere possa almeno im parte diffondersi sulla stimma; ma la relativa po- sizione di quegli organi in alcuni fiori è tale, che: sembra a prima giunta essere anzi contraria a così fatto scopo. In somiglianti casi la natura accorre I pronta al rimedio con ben acconci provvedimenti. In generale serbano posizione ritta quei fiori, che: 54 presentano gli stami più lunghi del pistillo, laddove pendono vòlti in giù que’, che hanno corti gli sta- mi. Nei fiori campaniformi, come in molti fra i gigli, mercè appunto la detta attitudine della corolla a pendere all’ingiù, quando screpolano le antere, avviene, che il polline cada facilmente sullo stimma. -— Quando poi i sessi sono divisi di fiore, ma però raccolti su di un medesimo pedale, i maschi sogliono occupare un posto più alto delle femine, di modo che il polline, cadendo, possa scontrarsi con queste; come si può vedere , per citare una pianta volgare, nel formentone o grano turco, In altre piante, pure monoiche, i maschi trovansi riuniti in gruppetti accanto e frammisti ai fiori feminei, a mo’ d'esempio negli amaranti. In tutti poi gli stami sono in tal copia, che sovente all’e- poca della fecondazione il suolo appare come colo- rito del loro polline. — A voi anche non è ignoto esservi tra le piante, specialmente poi tra gli alberi, parecchi, nei quali i fiori staminiferi, ed i pistilli- feri di una medesima specie crescono su due di- versi pedali. Trovandosi in loro gli organi genera- tori separati, natura provvide a togliere il danno di sì fatta separazione. Epperò mirabilmente dispose, che gli individui maschi e le femine di tali specie avessero a sorgere per lo più a brevi distanze gli uni dalle altre, e la fioritura loro avvenisse quasi sempre a un tempo stesso per modo, » che i ma- » schi sieno presti a slanciare il polline quando 55 » pronte son pur le femine ad accoglierlo con ef- +» fetto. » E notisi ancora, che così fatte piante fiori- scono d’ordinario prima di mettere le foglie, onde il polviscolo possa tanto più comodamente arrivare mel seno del pistillo. —- A questo aggiungi essere il polline una materia cotanto sottile e leggiera, chè Aa più lieve auretta ha virtù di portarlo a grandi distanze. Certo i poeti cantando gli amori di Zefiro e di Flora vollero leggiadramente accennare alla parte importantissima, che nell'opera della fecon- ‘dazione delle piante è dovuta al vento; onde il Mascheroni nell’invito a Lesbia: DERE E et ANOTCHe E LUrt » Dolci fa il vento sugli aperti fiori » Degli odorati semi, e in giro porta » La speme della prole a cento fronde. Non sempre però gli amori delle piante riescono sì agevoli e tranquilli come questi, che dipinge il poeta. « Mentre di fatto alle falde del monte un lieve » venlicello è bastevole a mantenere tra i fiori di » vario sesso un dolce commercio di volutta, fa » d’uopo invece di tempeste e di uragani per ma- » ritare sovra alti scogli il cearo del Libano col » cedro del Sinai, il palmizio di Tunisi con quello » di Otranto. » Ma di ben altri ancor più meravigliosi accorgi- menti vediamo giovarsi la natura alla riproduzione «de’ vegetali. Così, per esempio, chi non sa es- sere l’acqua grave impedimento all’azione del 56 polline sul pistillo? Or bene: ad ovviarne i tristi effetti le piante aquajole al tempo della fecondazio- ne sollevano fuor delle onde i lero fiori, li schiu- dono alla superficie di esse, poi li sommergono di nuovo quando il felice connubio è compiuto. Tale la ninfea o cappero di padule : tale la vailisneria, una delle piante più comuni nei nostri laghi e fos- sati, e insiememente delle più singolari pel modo con cui in essa appunto si opera la fecondazione. Perchè è da sapere, che nella vallisneria il maschio e la femina fioriscono sevra stelo separato. I fiori femine sono sostenuti da un gambo ravvolto in ispire elastiche, che di tanto si allunga, o contrae, di quanto | acqua si innalza, o si abbassa. I maschi mancano quasi affatto di peduncolo, e stanno allo- gati presso la radice. Così parrebbe a primo aspetto tolta ogni possibilità di contatto tra i due sessi; ma che? ammirate provvidenza della natura! Nella stagione appunto degli amori i maschi, spiccandosi affatto dai sostegni loro, vengono a galla, si aprono, e spinti in varie direzioni dal vento incontrano i fiori femine, e loro si accostano per fecondarli. Ricevuto amplesso maritale, la femina ritorce il peduncolo in ispire più serrate, e ritira i grani da maturare sotto le onde. In altre di queste piante aquatiche, come in qualche specie di ranuncoli, una bollicina d’aria forma attorno al fiore una specie di volta, sotto cui, come dice Martin, « amore cele- bra le sue nozze anche di mezzo alle acque. » 57 « Ma non basta, che gli organi generatori siano nella pianta disposti con quella maestria ed oppor- tunità, che vedemmo, natura volle che , al tempo degli amori ricevessero una insolita energia ed eccitabilità, perchè più pronti fossero ad adempiere l’ufficio loro. Di che piacemi addurre alcuni esempi de’ più notabili fra i tanti, che l'osservazione ebbe a rilevare. Se la capuccina {( ropacolum majus ) prossima a fecondarsi fu veduta mandar lampi di luce; se negli Ar? la temperatura dello spadice, fino a tanto che dura l’ opera della fecondazione , aumenta di molti gradi; in varie altre piante si vi- dero stami e pistilli al più legger tocco appalesare notevoli commovimenti, come avviene di que’ fi- luzzi che sostengono le antere nel fiore del crespi- no (berberis), e delle labbra dello stimma nel fior bocca di leone. — Nè questi moti sono sempre l’effetto di estraneo stimolo, talvolta succedono di per sè, e quasi spontaneamente. Gli stami contra- endosi, ora parecchi insieme, come nella /vasa € nella ruta, ora Vl uno dopo altro, come nella parnassia, ora a due a due, come in certe specie di sassifraghe, si piegano verso il pistillo, lo toc- cano e vi spargon sopra la polvere fecondatrice. Talvolta ancora dassi il caso (come nel fior di passione, nello sfenice e, in modo più segnalato , nella collinsonia) che I organo femineo vada in cerca dei maschi. » Nell'ultima delle nominate piante » il pistillo accostandosi alternativamente quando 58 :» all'una, quando all’altra delle coppie maschili il » fa con tanto impeto e gagliardia, che spesso tocca » i fiori vicini, e sposa infedele, s’ impregna del » loro polviscolo. » — Finalmente i moti dei due or- gani ponno operarsi simultaneamente. L’antera e lo stimma, spinti da ugual desiderio , si movono ad un tempo l'uno verso l’altro per stringersi in dolce «amplesso nuziale. Ma come nel regno animale, così anche in quello delle piante, i movimenti degli or- gani feminei sono i meno frequenti, » quasi un » vago senso di pudore rattenga il sesso men forte, » e al più forte sia serbato di farsi assalitore. » Ma «qui, tuttochè natura ci presenti molte e molte an- cora di cotali provvidenze non meno singolari, non meno stupende, non addurrò altri esempi; chè a sè mi chiama più sottile e arcano subjetto, degnissimo della nostra più particolare attenzione; vo dire .il ‘modo con che il polline accede agli ovetti della femina per sollecitarli a nuova vita, e farli abili al .germinare. Giusta l’idea, che già ci siamo formata dell’or- «ganizzazione del grano pollinico, del tessuto condut- tore del pistillo, e delle altre parti che a quelle si atteggiano, non sarà difficile intendere quanto sto per dire su questo supremo atto nella vita della pianta, seguendo la dottrina dell’Amici, che primo riuscì a squarciare il velo, ond’ era avvolto il mi- sterioso fatto. Riferirò le osservazioni del nostro gran fisico colle parole medesime con cui le fece 59 conoscere ai dotti il Prof. Calamai in una bella me- moria letta alla Accademia dei Georgofili di Firenze nell'adunanza del 2 gennajo 1840. « Allorchè il grano pollinico si è portato sullo » stimma, avviene, dice il Calamai, che dalla parte » più prossima a questo, la membrana esterna del » granello si rompa. Dal pertugio esce fuori |’ in- » terna membrana in forma di budello, che prolun- » gandosi di continuo e con celerità, sì intromette » fra le papille medesime dello stimma, ne dilata » il tessuto, e si insinua e scorre lungo le fila de- gli otricelli, che lo compongono fino all'estremità opposta del tessuto medesimo. Di tal guisa que- » sto budello passa nello stilo, e da esso nell’ovaja. » (Quivi pervenuto non segue no una direzione in- » certa 0 casuale, ma quasi condotto da una sicura guida, da un sentimento, che non può errare, si avvicina agli ovetti, e trovatone uno, s'interna pel micropilo, si spinge fin presso il sacco em- » brionale, ed ivi si arresta......» La materia » cinerea (fovilla) contenuta nel budello stabilisce » in esso una particolare circolazione, che si ef- » fettua dal grano pollinico lungo il budello per » l'uno dei lati sino all'apice; e dal budello » per l’altro lato rimontando sino nell’ interno » del grano stesso, e così via via. » Tale e tanta è l'evidenza di siffatti movimenti, che non solo ne è tocco di grata meraviglia chi fassi per la prima volta ad osservarli, ma gli è tolto ancora 9 s L/ 4 Y 60 ogni dubbio per modo, che pigliar equivoco quanto alla loro significanza non potrebbe. « Il budello » in questo suo tragitto (continua il Calamai) non » Sì apre in nessuna sua parte, e l’apice di esso, » che giunge fin presso il sacco embrionale (per » quanto si è potuto vedere), non lascia fuggire » la benchè piccola porzione della propria materia. » Se non che i movimenti testè citati vanno grada- » tamente diminuendo, finchè dopo un tempo più » o men lungo cessano al tutto. » Arrivato che sia il budello pollinico fin presso al sacco embrionale, si manifestano negli ovoli coll’andar del tempo tutti que cangiamenti, pei quali acquistano virtù di riprodurre un essere simile a quello, che li ha in- generati. | Tale dunque è secondo l Amici il magistero meraviglioso, stupendo, che la natura adopera al fine di perpetuare la specie vegetale mercè l'atto della fecondazione. — Non devo per altro tacervi, o giovani, che questo stesso importantissimo atto della vita nelle piante, non è da tutti i botanici spiegato nel modo, che or ora esponeva. — Una ipotesi recentemente proposta in Germania dallo Schleiden e dall’ Endlicher, mentre accetta i fatti, quali ci sono porti dall’Amici, darebbe loro ben diversa significazione, e tutt'altro ufficio agli organi mercè i quali viene attuata. Lo Schleiden adunque opina, che l’embrione non preesista già nell’ovolo all'entrata in esso del budello pollinico, sibbene 61 ch’ei venga a formarsi da questo nel modo, che or diremo. H budello pollinico, stando allo Schlei- den, penetrato nella nocella, si dilata nella sua parte inferiore, dove tutta si viene a raccogliere la fovilla. Questa poi, organizzandosi forma quivi, a sua detta, l'embrione, il sospensorio del quale sa- rebbe costituito da quella porzione del budello pol- linico, che eccede. La membrana della nocella spinta all’indentro dalla estremità del budello, che vi urta contro, e vi si innichia come tra le duplicature di una saccoccia, fornisce all’embrione, come il luogo adatto, così ancora le materie necessarie al suo completo svolgimento. Molte, e molto gravi sono però le objezioni che si possono movere contro una teoria, che fa del polline l'organo femineo, e dell’ ovario un sem- plice concettacolo ; epperò noi non esitiamo a re- spingerla ricisamente. Osservatori fedeli e diligenti hanno messo fuori di dubbio l’esistenza della ve- scichetta embrionale dentro il sacco dello stesso no- me innanzi ancora, che le si accosti il budello pol- linico, laddove nella estremità di questo non venne fatto trovarne indizio alcuno. Arroge: il budello pollinico non penetra sempre fino alla. vescichetta embrionale; che anzi lo vediamo in molti casi ar- restarsi fuori della nocella e perfino del micropilo. Alla ipotesi divisata dallo. Schleiden si oppone ancora il misterioso fenomeno della Partenogenest, della quale ragion vuole, che io tocchi qui breve- mente, e come a dire di passata. 62 Che alcune piante, specialmente tra le dicline, potessero produrre ovoli atti a germinare senza l’opera del polline fecondatore, è opinione antica propugnata principalmente dal Tournefort, dal Pon- tedera, dallo Spallanzani, più tardi dallo Schellver e dal Henschel, a ciò persuasi dai molti esperi- menti, che fecero in tal proposito nella canape, nello spinaccio e nelle zucche. Circa l'esattezza di così fatte osservazioni si mossero, è vero, non po- chi dubbii in diversi tempi, e da molti botanici ; se non che ai giorni nostri nel meraviglioso fatto della Caelebogyne trovarono esse, quando men si aspettava, validissimo appoggio. È la Caelebogyne una specie di piante dioiche della famiglia della Euforbiacee, della quale si coltivano in Inghilterra. solo gli individui femine. Or bene: cotal pianta, vuolsi fruttificasse più volte producendo semi per- fetti e atti al germinare, senza che mai si potesse scoprire ne’ suoi fiorellini il minimo indizio di an- tera, o di polline. La quale circostanza, dove fosse pienamente accertata, darebbe, come si vede, l’ul- timo crollo alla teoria dello Schleiden. Per amore del vero dobbiamo però confessare che sull’ argo- mento della Partenogenesi avvi molto ancora a di- scutere, molto a investigare. Imperocchè quand’an- che si voglia dubitare dell’ esattezza delle osserva- zioni di Karsten, il quale affarma d’avere veduto nella Caclebogyne ilicifolia de’ fiorellini ermafroditi monandri (Annal. des Sc. Natur. IV Ser. vol. 13) 63 è pur cosa nota ai botanici, che nelle piante alcune volte l’ embrione è surrogato da un bulbetto, il quale, non essendo altro che una gemma, si può: svolgere per bene senza che ci occorra fecondazio- ne; in secondo luogo, anche nel regno vegetabile potrebbe avverarsi quello, che accade in alcuni in- setti, che una sola fecondazione basti a una serie più o meno numerosa di generazioni successive; da ultimo non è fuori al tutto del probabile, che qualche parte dell’ovolo in alcune piante adempia le funzioni di organo maschile; come pare abbia veramente dimostrato pel fico il dotto mio collega, e amico Prof. Gasparrini. Ma ritraendoci da un argomento ancora troppo controverso, e oscuro perchè da esso se ne possano cavare valide conclusioni, rimane ciò non di meno accertato, che la fecondazione col mezzo dei sessi è il modo più generale, di che si valga la natura affine di perpetuare la specie vegetale, adoperandovi quelle cure, che già vi ho fatto conoscere. E valga il vero, in questa importantissima opera tutto è or- dinato, tutto congegnato e disposto meravigliosa- mente ad agevolarne le interne operazioni, a difen- dere la pianta da ogni offesa e disturbo di fuori. -- E avvertite ancor questo. In quel breve, ma solenne momento, in cui Ja fecondazione si compie, una insolita energia, una specie di orgasmo si ap- palesa in tutte le parti del fiore, che vediamo at- teggiarsi nel modo più grazioso, e lusinghiero che 64 a lui sia dato, e spiegare tutta la pompa di sue attrattive. Non moi ceme allora spiccano vivi e brillanti i colori, nè mai più soave è l’olezzo che spande d’intorno. Una vita, direi quasi d’ebbrezza e di voluttà, gira negli organi generatori, che li spinge a slanciarsi fuori di se, e a cercare campo più largo in altri individui. Mentre celebrano gli sponsali, diresti, che anch'esse le piante acquistino senso e intelligenza, anch’esse si accendano di amorosi affetti. Ma, non sì tosto l'arcano magistero è compiuto, ecco cessare negli organi che vi han preso parte ogni sorta di movimento. « Per alcun » tratto essi restano immobili, e come spossati, poi » ripiegando flaccidi, ed avvizziti sovra se stessi, e » col lento risolversi delle fibre accennano alla vi- » cina e inevitabile loro distruzione. » La natura ha conseguito il suo scopo supremo; pera l'individuo, che importa? La conservazione della specie è assi- curata. Se la morte a mano a mano invade i mem- bri di questa grande famiglia , come di tutto ciò che ha vita e organizzazione, la famiglia stessa dura però immortale. Le Conifere Ragguardevoli per bellezze di forme, per mae- stà ed eleganza di portamento, preziose per copia ed utilità di prodotti, le conifere formano un se- gnalato gruppo di piante, che tolse il nome dalla figura conica del frutto, comune al maggior numero delle specie che gli appartengono. Niuna erba, po- chi arbusti, si annoverano. tra esse: la più parte sono alberi, che s' innalzano talvolta a così sublime altezza, che fuor delle palme non trovi per avven- tura altri esseri del regno vegetabile, che possano per tal rispetto pareggiarsi loro. Di solito hanno il tronco sodo, cilindrico, dirittissimo; ampia, pirami- dale, vigorosa la chioma, con rami stendentesi ad angolo retto, e disposti come a ripiani. Hanno fo- gliame di un verde cupo, minuto, ma perenne. Le conifere vivono lunghissima età, e crescono per lo più socievoli. Verso le contrade polari e su pel dorso dei monti, loro stanza prediletta, con nume- rosa schiera d’individui coprono vasti spazj di ter- reno, ornamento ai siti, e largitrici di moltiplici ; 66 vantaggi agli abitatori di quelle aspre regioni. Im- perocchè sebbene alle’ piante di questa famiglia non si possa dare il vanto di fornire materie alimentari a intere popolazioni, come non può negarsi alle palme, ai banani, alle graminacee, alle artocarpee, hanno però quello di servire in vario modo ad al- tri primarj bisogni e comodi della vita. E però sono ben degne le conifere” che noi ci occupiamo al- quanto di esse. Affine di procedere con certo qual ordine gioverà mandar innanzi alle notizie, che ri- guardano gli usi a cui’ servono, quelle non meno importanti, che all’interno loro organamento si ri- feriscono. Cominciamo adunque dall’ esame dei fiori. Poco vistosi e di grande semplicità sono i fiori nelle: conifere. In una medesima specie parte di essi recano solo le antere, parte gli ovetti soltanto : sì gli uni che gli. altri crescono però d’ ordinario su di uno stesso pedale, più raramente su due. Nè per varietà di colori, nè per fragranza notevoli, e mancanti di quella copia di leggiadri invogli, che fanno sì belli e gradevoli all'occhio i fiori delle altre piante, presentano anzi, specialmente nei ma- schi, tanta semplicità e pochezza delle parti, che in una conifera, giusta l’ opinione di alcuni moderni Botanici; devonsi annoverare altrettanti fiori maschi, quanto sono gli stami. Questi poi crescono affatto nudi e spacciati, o veramente trovansi misti in qualche: numero nell’ascella e nella inferior faccia di particolari scagliuzze. Dalla unione di parecchi i) Al di que’ fiori nascono poi certe fogge di amenti, o: gattini, o coni, de’ quali parecchi insieme raccolti: hanno sembianza di grappolo o di spighe compatte, più o meno lunghe. I fiori pistilliferi si compongono per lo più di brattee membranose, nelle ascelle delle quali nasco- no squame consistenti. Ognuna di cotali squame porta alla sua base un pajo di ovetti, o poco più, i quali o si levano diritti, o stanno capovolti. L’ infiorescenza ( modo di aggruppamento ) dei fiori pistilliferi sottostà a molte variazioni, essendo- chè questi ora nascono solitarj, ora sono uniti tra di loro diversamente e aggruppati. I pini e le altre conifere, cui più propriamente conviene questo nome, producono ovetti rovesciati dentro a squame numerose, non altrimenti disposte, che i giri di una spira intorno ad un asse, per- modo che formino veri coni. Nei cipressi e nei gi- nepri gli ovetti sorgono liberi e diritti dall’ ascella di scaglie sparse in molti gruppi, ma poche di numero in ciascuno. Il nasso o albero della morte, i dacridi, la salisburia hanno gli ovetti separati l'uno dall’altro, e attaccati o all’ascella di una squama,: ovvero sul fondo di una particolar foggia di cupola. L'avvertita diversità nella disposizione dei fiori pi- stilliferi fa sì, che se ne ingenerino coll’ andar del tempo frutti di svariata figura e consistenza. Spesso: avviene che somiglino a coni oblunghi composti da squame più o meno fittamente embricate e scom- 68 ‘partite secondo la direzione di una spira, talvolta alquanto discoste e manifestamente staccate, tal al- tra così vicine e rinserrate tra di loro, che pajono ‘ formare un sol corpo. Quando le squame che com- pongono i frutti sono poco numerose, questi anzi- chè la figura di un cono, hanno quella di una sfera traente al rotondo. Tale è il galbolo del ci- presso. Le sue squame, da bel principio carnose, ‘a mano a mano disseccano e si diradano , finchè mature appajono al tutto separate. In alcuni casi, come per esempio nel ginepro, le squame crescendo d'età non solo ingrossano ognor più e divengono carnose, ma fanno appicco tra loro sì, che il frutto rende imagine di una bacca. Lo diciamo allora coc- cola. Nel nasso e negli altri generi, che dicemmo affini al medesimo, quella tal maniera d’ inviluppo o di cupola, ond’era nel fiore contornato ogni ovetto, ‘ ingrossa a segno di formare intorno al seme un corpo carnoso, che fa le veci di pericarpo. I semi, che nelle conifere , rigorosamente par- lando, ponno dirsi nudi, risultano di un embrione di ‘+quasi cilindrica forma, il quale spesso è fornito di più che due lobi seminali (pei pini se ne contano 6, 9, e perfino 45), e di un albume carnoso ed oleoso, che a quello sta d’attorno. Anche la struttura degli organi della vegetazio- ‘ ne nelle conifere è degna di particolare attenzione per una cotale semplicità di composizione, che sa- remmo ben lungi dall’ aspettarci in esseri così 69 giganteschi, e in apparenza cotanto perfetti. Se sì osserva attraverso alle lenti uno o parecchi di quei filuzzi, ne quali o naturalmente, o col mezzo della macerazione viene a scomporsi quanto havvi in queste piante di sodo e di legnoso, si trova che i tubetti, de quali sono formati que fili, qualunque ella sia la parte da cui si levano, hanno tutti una medesima apparenza, e rendonsi notevoli special- mente per certi punti, talvolta sì grandi, che sem- brano veri fori, con assai bell’ordine e simmetria distribuiti sulla loro superficie, e circondato ciascu- no da un’areola più o meno larga. Delle tante al- tre maniere di tubi, quali foggiati a modo di nastro o benda rivolta in spira, quali figurati da anelli, da linee, da strozzature, da reticoli, che riscontransi nel legno degli altri alberi, non presentano le co- nifere il più leggiero indizio, se ne togli forse al- cune trachee (tubetti a spira) nell’astuccio midollare. Le foglie in queste piante sono ordinariamente strettissime , soventi volte cilindriche o lineari, e terminate in punta a modo d’ago. Solo in pochi generi forestieri, come nelle dammare, nella salis- buria, e in qualche altro della medesima sezione, le lamine s’aggrandiscono per gradi fino a raggiun- gere le dimensioni delle foglie comuni. Escono esse o solitarie, o per coppie, o in fascetti di due, tre, cinque e più da una medesima vagina. Ve ne ha poi delle cortissime, e di quelle addossate l'una all’altra come le squame dei pesci e le tegole di. 70 tetti. Così nella tuja e nella sabina. Per la maggior parte rigide, coriacee e di un verde scuro, durano in vita più anni. Non molti sono i generi che in codesta famiglia si comprendono, ed anche di que’ pochi non è sì facile precisare i caratteri distintivi, stantechè muo- vono da differenze, delle quali, attesa la somiglianza che tra di loro esiste, è malagevole far ragione. Ciò non pertanto stimano i Botanici poter dividere sì fatti generi in tre o quattro ordini: le tassinee coi podocarpi, le cipressine, e le abietine. Poco numerosa di specie questa famiglia delle conifere vince però ogni altro gruppo di piante ar- boree nella moltiplicità degl’individui, sparsi ove più ove meno, su tutte le parti del globo. Rare sotto l’equatore e presso i tropici, vanno esse grado grado crescendo di numero verso le regioni fredde d’ambedue gli emisferi, massimamente del boreale, ove s’inoltrano fino al 70° di latitudine. In quella maniera che le frondose selve di castagni, di quercie, di sugheri; che i boschetti di aranci, di limoni, di ulivi, sono indizio di mite clima, me- desimamente i larici, i pini, gli abeti ci ricordano quelle rigide contrade, dove la natura intorpidita non è che breve tempo ravvivata dal calore bene- fico dell’astro del giorno. Sui confini della zona temperata, e della sottoartica le conifere segnano con una larga cintura di dense e tetre foreste l’ul- timo termine della vegetazione robusta e potente, È A ‘al di là della quale più non.fanno che bassi sterpi, o radi arbusti e intristiti; e poi che le conifere le- vansi dal suolo altissime, ed hanno fronda di un verde cupo uniforme, improntano le regioni setten- trionali, alle quali non è concessa altra veste ar- borea, di un aspetto di severità e tristezza, che profondamente riflette sul carattere grave, melanco- mico degli abitatori di quelle contrade. Chi volesse più sottilmente investigare con quale regola e proporzione le 580 specie di conifere in oggi conosciute (chè dopo le.recenti scoperte del Roezl nel Messico tante a un di presso se ne con- ‘tano) si ripartiscono tra di loro la superficie della terra, troverebbe, megiio che. 300 di esse abitare al di qua del cancro, distribuite però su questo spazio con tale misura, che un po meno della metà si raccoglie nel vasto continente dell’ Asia, quasi altrettante toccano all'America boreale e un venti soltanto hanno stanza nella nostra Europa. Nell’al- tro emisfero si annoverano, dal più al meno, 80 specie di conifere, ma spettanti a generi quasi tutti differenti da quelli dell’emisfero boreale. Nè cipressi, nè tuje, nè salisburie, e. ciò che è più mirabile an- cora, nessuna delle moltissime specie di pini, larici, abeti (e sì che di essi ve ne ha più di 480 diverse qualità) oltrepassa, per quanto è noto, il capricor- no. Trionfano per lo contrario nelle terre australi le eutasse, i dacridii, i dammara, i libocedri, i fil- locladi, i podocarpi. Anche. la. patria delle palme, 72 dei banani, delle bambuse, delle dracene, delle felci arboree, la regione intratropicale , vanta parecchi insigni rappresentanti di questa bella famiglia, rac- colti però in maggior copia colà, dove o per l’ele- vazione dei siti, o per altre climatiche condizioni è d’alcun poco temperata l’arsura del suolo. » Que- sto affratellarsi dei pini colle palme non isfuggiva all’occhio perspicace del gran Colombo, che nel diario del suo secondo viaggio annunzia all'amico Anghiera d’ aver veduto con meraviglia in una stessa pianura alternarsi abeti e palme, ed avervi sui monti di Cibao pini (podocarpi) che invece delle solite frutta mettono bacche simili alle axo- rafe di Siviglia (Humboldt). » Stando alle indica- zioni del nominato autore, entro i tropici crescono non meno di 42 specie di conifere, molte delle quali nel Brasile, e più ancora alle Antille. in questa famiglia di piante ve ne ha alcuna, che s'alza tanto da terra, da contendere il primato in grandezza alle stesse palme. Alla smisurata al- tezza di 200 fino a 280 piedi si slanciano nella settentrionale America il pino del Rio Colombia, che ebbe nome dallo sventurato Douglas, nella meri- dionale l’araucaria del Chilì colle foglie ad embrice, la Sequoja gigantea della nuova California, ed al- {re ancora. Amiche dei monti le conifere di rado scendono al piano, nè pare che alla loro tempra molto arrida la tepida aura del mare. Fur non la fuggono affatto. Y \ y w L/ v Li 73 il pino d’Aleppo, quello che ci reca i pinocchi, e il marittimo, crescono spontanei in Sicilia, sulle coste d'Africa, pel litorale della Provenza, nelle isolette del Golfo della Spezia; e i viaggiatori ci raccontano che i più umili poggi dell’isola di Cuba vagamente verdeggiano di pini (pinus occidentalis), e che le pianure paludose della Luigiana sono quasi per ogni dove gremite di cipressi di una specie particolare (il cupressus disticha di Linneo). Ma queste sono eccezioni: il più delle conifere per la qualità del fogliame breve e sottile, per la sodezza del fusto, per la ccpia della ragia, di cui sono impregnate in ogni loro parte, sembra- no mirabilmente conformate a resistere all’ im- peto de’ venti, a sopportare il rigore d’ intensi freddi, e però salgono molto in su pei dorsì delle montagne, disputando alle cupulifere le più elevate stazioni e i luoghi di più difficile accesso. L’abete nelle Alpi elvetiche (5520 p.), il pinus uncinata ne Pirenei, il magnifico cedro deodevara (legno degli Dei) nella gran catena dell Imalaja (al Nepaul 11,000 p.), il pino di Lord Weymouth nelle mon- tagne rocciose degli Stati Uniti, il pino di Monte- zuma, che cresce sulle Ande tropicali del Messico fino a 12158 p. (2000 p. al disopra del cratere dell'Etna) segnano ovunque gli ultimi confini della vegetazione arborea sopra il livello del mare, non altrimenti che verso le regioni iperboree. Nè si tro- verebbe per avrentura albero d’altra famiglia, salvo * 74 la bedolla in Lapponia, che tanto si accosti alla linea delle nevi perpetue, quanto le conifere; quasi le abbia colassù piantate la natura a temperare colla perenne verzura delle loro frondi l’abbagliante ed uniforme luccicare delle nevi. Facciamoci ora a considerar brevemente di quan- ta utilità riescono le conifere, quali pel nutrimento che procacciano all'uomo nei frutti loro, quali pei succhi resinosi che contengono, e per gli usi mol- teplici a' quali il legno loro si presta. I semi del pino domestico, detti pinocchi, hanno sapore gradevole, non dissimile da quello delle nocciuole, e sono assai nutritivi. Oltre all’usarsi soli, o mescolati colle uve di Corinto in molti in- tingoli, soglionsi fare con essi di eccellenti confetti e spremerne olio. Medesimamente veggiamo gli abi- tatori delle Alpi andar ghiotti de’ pinocchi dello zimbro (pinus cembra), mentre nel Chilì gli stro: bili della araucaria imbricata, il più bello, e il più alto degli alberi, che produca il terreno chilese, con- tengono quantità grande di pinocchi, lunghi due pollici, grossi quanto il dito mignolo, che arrostiti non altrimenti che le nostre castagne, alle quali molto si assomigliano nel sapore, ti sono cortesi di saporitissimo cibo. Eccovi d’altra parte il gingo del Giappone colle sue noci, che Ginnan son dette con termine vernacolo, grosse quanto le susine dama- schine. Hanno invero sapore asprognolo, ma lo per- dono se arrostite, per guisa che così ammanite co- ronano degnamente la mensa. 75 La scorza stessa del pino selvatico è tratta ad uso d’alimento dagli abitanti della Lapponia, e nella Svezia se ne fa pane, mescolandola con farina di segale. Delle messe de’ tenerelli rami del pino bianco e del nero abbrustolite giovansi nel Canadà a pre- parare una cotal loro birra aromatica. Pur delle coccole del ginepro, e di altre specie ancora dello stesso gruppo, farai tuo pro in più di un modo, traendone olio, e liquori fermentati o distillati, e tinture medicinali. E come la scorza de’ rami di molte sorte di pini è buona per la concia delle pelli, ove non fanno le quercie; del pari le foglie del cipresso gaggia o di palude, macerate e bollite nell’acqua, somministrano un bagno tintorio , ove la lana dopo tre sole ore di bollitura prende un bel colore di cannella. Dalle naturali screpolature della scorza di molte conifere, o da incisioni fattevi ad arte, e poi rav- vivate a debiti intervalli, gemono ragie o resine utili a comporre vernici, profami, medicine. La tre- mentina, detta di Venezia, cola dal larice; la tre- mentina comune dal pinus picca, il balsamo car- patico e quello del. Canadà da altre sorte di pini; come dal cedro del Libano geme la cedria, di che gli antichi valevansi non solo a difendere dal tarlo le cose più preziose, ma eziandio ad imbalsamare i cadaveri de’ magnati e farne le mummie. Di tali ragie naturali, operando con varj artificj, si preparano 76 il catrame, tanto in uso per impegolare le navi e le corde, la pece greca o colofonia, la pece navale e di Borgogna buone per le saldature e per. gli stucchi, il nero fumo, ed altri utilissimi prodotti. Vantaggi ancor più rilevanti si ritraggono dal legno delle conifere non essendovene per verità di più adatto alle costruzioni de’ grandi edifizii e delle grosse navi, di quello che ci offrono il cedro del Li- bano, il cipresso, il larice, |’ abete, tante sorte’ di pini, diritti che sono e sublimi di fusto, forti, tenaci, sprezzatori delle intemperie e degli anni. Anche di questo gioverà qui dire quel che più rileva. Di grande durata sotterra e fuori alle intempe- rie è il legno del larice, che riesce quindi mirabil- mente aeconcio per palafitte, per condotti d’acqua, per corpi di tromba, per coperture di tetti, e in ogni altra opera che debba, pur messa nell’ acqua, conservarsi per molti anni incorrotta. L’ uomo del Norte, l’alpigiano di larice si fabbrica la mobil casa, di larice le scivolanti slitte; e di larice vo- gliono sieno state quelle tavole famose pei miracoli di Zeusi, di Parasio, di Apelle, quando non era per anco nota l’arte di pingere sulle tele. Nel vanto di resistere alle ingiurie del tempo può coi cedri e coi larici gareggiare il cipresso, che viene attissimo a quante cose sono volute a lungo conser- vare. » Le porte del tempio di Diana in Efeso, che » per 400 anni si conservarono come nuove, e la 77 » statua di Giove Capitolino, che al tempo di Plinio » contava cinquecento cinquant'un anni, sempre sana ‘» ed inalterata, erano fatte di cipresso; come pure » di cipresso erano le porte di S. Pietro in Roma, » che stettero al posto 4100 anni, cioè da Costan- » tino fino a papa Eugenio IV. » Il legno del zimbro, tenero, e di gradevole odore, cede facilmente sotto il ferro dell’artefice, e per ciò s'adatta a dilicati lavori d’intaglio, come ne chiariscono i pastori della Svizzera e del Tirolo, che ne traggon fuori piccole figure d’uomini e d’animali, trastulli da ragazzi, cucchiaj, forchette, vasellini, modelletti ecc. che portano a vendere da per tutto, alcuni de’ quali molto ingegnosi. Al medesimo uso in Germania serve il pezzo (pinus picea), se non che il suo legno ha odore spiacevole. Durissimo per contrario è il legno del tasso, e però eccellente a farne caviglie, denti da mulino, manichi per mazze, forche, forconi, vette di coreg- giato per battere il grano e vergheggiar la lana. Gli antichi se ne valevano per balestre, archi e freccie, onde leggiamo: » Ityraeos taxi cyrvantur in arcus. Virg. Georg. E medesimamente a farne archi i Lapponesi si servono oggidì del mugo, dal quale traggono an- cora queile lunghe suola, di che si giovano per correre scivolando sulie nevi. Insomma non troveresti per avventura lavoro da falegname grossolano o dilicato, al quale non 78 possa acconciamente servire il legno di qualche conifera quando si usi il debito accorgimento nella scelta; avvegnachè quel vantaggio, che a noi pro- cacciano in tali bisogna labete, il larice, il cipresso, la piella, il tasso, per altri popoli è recato dal pino deodara, dal pino rosso di America, dal cipresso gaggia o di padule, dalle araucarie, dalle dammare e va dicendo. Ricco qual è il legno delle conifere di materie ragiose abbrucia a meraviglia. Innanzi che s'in- troducesse l’uso delie candele (invenzione che ri- sale al XIII secolo) del legno de’ pini sfesso per lo lungo valevansi gli antichi a guisa di torcie e fiac- cole, la qual usanza serbasi tuttora in diverse con- trade fra gli abitatori delle montagne. — All’uffi- cio di accender fuoco si prestano anche assai Je pine del pinastro (pinus pinasier), dette perciò dal volgo nell'Italia centrale pine da caminetti. E merita pure di essere avvertito un altro uso di sì fatte piante. Alcune di esse p. e. il tasso, il cipresso, la tuja reggono per modo alle potature da ricevere e ritenere agevolmente quelle qualunque forme, che il bisogno consigli, o voglia dar loro il capriccio, la fantasia, la moda: onde si riducono docili in siepi, in obelischi, in piramidi, in muri di verzura e in altre svariate foggie a vedersi bel- lissime. 79 Le conifere erano tenute in gran pregio e ri- verenza presso gli antichi. Del cedro del libano (il più bello, il più robusto fra gli alberi conosciuti agli Ebrei) fanno spesso menzione le sacre carte. Esso è l’immagine, esso il paragone prediletto ai Re, ai Profeti di quella nazione ogni qual volta vogliono rappresen'are la forza che resiste, la po- ‘tenza che domina, la bellezza e la perfezione delle forme. Nè meno lo hanno celebrato gli scrittori greci e romani. ll suo legno, creduto incorrutti- bile, solevasi adoperare fin dai più remoti tempi ‘a figurare simulacri di numi, venerabili imagini di gloriosi antenati: » Quin etiam veterum effigies ex ordine avorum » Antiqua e cedro. ... Virg. Aen. VII. E ne facevano pure e scatole e tipi e forzieri da riporvi quelle opere, che, meritevoli d’ essere im- mortalate, per ciò appunto con frase proverbiale dicevansi latinamente digna cedro. La resina che scola da quest’albero adoperava- no, come già dicenmo, ad ungere i libri, affin- chè si conservassero lungamente; onde que’ versi d’Orazio nell’arte poetica: » ... Speramus carmina fingi » Posse linenda cedro, et laevi servanda cupresso, e l’altro delio sconfortato Ovidio: » Nec titulus minio, nec cedro charta notatur. 80 Di alcune di queste piante si valevano pure i Romani a simboleggiare i sentimenti e gli affetti dell'animo. Col legno di una specie di pino ((aeda Plin.) preparavansi nelle nozze le fiaccole ardenti, onde rischiaravano il cammino alla novella sposa, che conducevasi festosamente sull’ imbrunire alla casa del marito, e però il latino taeda trovasi usato per figura a significare le stesse nozze: » Quo thalamum eripiat Teucris, taedasque moretur. Virg. Ne giuochi istmici una corona di pino era il premio dei vincitori. E come alla gioja segue d’appresso non rare volte il dolore, alla gloria può tener dietro l’infamia, con opportuna significanza un ramo di questo me- desimo pino sospeso alla porta delle case era . se- gnale di lutto o di disonore. Per un simbolo pari- menti funesto gli antichi riguardavano il cipresso, da loro fatto sacro alle Erinni e agli Dei d’Aver- no. Rami di cipresso si appendevano alle casse fu- nebri, e allè case nelle quali giaceva un defunto. Coronate di cipresso si conducevano all'altare le vittime. Solevansi anche i cipressi piantare davanti i sepolcri e lungo le vie che vi guidavano: » Est urbe egressis tumulus templumque vetustum » Desertae Cereris: juxtaque autiqua cupressus, » Relligione patrum multos servata per annos. Virg. Aen. lib. II. 84 E Claudiano » Tumulos tectura cupressus. n Questa pia costumanza si è conservata, attraverso ai secoli, presso tutte le genti meridionali sulle ‘quali si stendeva un di l'impero di Roma; e la veggiamo tuttora in uso anche tra noi. E per vero se dall'una parte il cipresso col suo aspetto sublime, severo, raccolto è più d’ ogni altro albero adatto a crescer tristezza al dolente, che conforta di pianto un'urna diletta; dail’ altro colla secolare sua durata, colla perenne sua fronda stassi inflessibile a segnare il posto ‘ove riposano le ceneri dell’uom giusto e benefico, e ne ricorda al viandante la memoria, e quasi diresti ne implori il tributo di una lagrima, anche quando per ingiu- ria del tempo distruggitore è scomparsa ogni trac- «cia dell’antico avello, e sul suolo agguagliato e de- serto sorge il rovo e l’ortica. : Macai +06 MEI Ud Ge Lacan i c BI , va 0, da Hi, ì RNA VIE) È DI MIDASTITA si, di deri fà f ® | ORTA TA Ù Ni / mi ii ) x È para! Pia i PI Ce Met, 1 P ab: da lio TAPPETO DT) dal Rn SUFA ipa dr Vas ; pini ‘alh nda Va Îa” fear o) ‘199 iter at osa PI po SE — aprleratioi pio ot i Aia 4 Ri di Ae MTA fiat agita “ei LE Dei Di i Ù i beso iii ua Mad e E AT do Matt Ki d DIR NT BILE ULRICO RE gi s, “al: SOR RL Messier”. 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(1849). (0) Delectus specierum novarum ete. (1838). (6) Enumeratio muscorum in Austria inf. crescentium. Vindobonae 1840. ) Bryologia excursoria ete. Vindobonae (1840). (7 (8) Saggio di un Prospetto delle Piante crittogame della Lombardia ecc. nell'opera « Notizie Natu- rali e Civili sulla Lombardia » del D.r Carlo Cattaneo (1844). (9) Sulle attuali condizioni dell'Orto Botanico della R. Università di Pavia — Relazione — Pavia (1862). L. 12. A . 90 . 50 (10) Della distribuzione geografica dei licheni ‘di Lombardia e di un nuovo ordinamento del ge- nere Verrucaria. Cenni — Pavia 1864. (11) Lichenes easiccati Longobardiae in ordinem systematicum dispositi. D. I-V. Verrucariae uni- loculares et biloculares. Ticini 1864-65. (12) Tentamen dispositionis methodicae Lichenum in Longobardia mnascentium, ‘additis iconibus partium internarum cujusque speciei — Sect. I Verrucarias uniloculares illustrans. — Medio- lani in 4 cum tab. lithogr. II. (15) Alcuni discorsi sulla Botanica Fasc. I. Ediz. II (La Botanica — Il fiore — Le nozze delle piante — le Conifere) Pavia 1865. (14) » Fasc. II. (Gli Alberi — La Botanica appo gli antichi) Pavia 1865... ... » 30. +, nd Ne (15) Sui più. recenti sistemi bianabogibil e sulla' importanza comparativa dei ‘caratteri adoperati in essi per la limitazione dei. generi e delle: specie. Pavia 1865. , 50 ° = ALCUNI DISCORSI SULLA BOTANICA DEL bofron RE SENAPE] DELL’ ORDINE BELGIGO DI LEOPOLDO Professore dî Botanica nella R. Università di Pavia; ; Membro effettivo o) del R. Istituto Lombardo . della Società Italiana di Scienze Naturali residente in. Milano; Socio corrispondente della Accademia delle Scienze, e della R. Accademia di Agricoltura ‘di Torino; della Società botanica di Ratisbona, di quelle di Halle, Dresda, Vienna, Parigi ; Socio onorario del R. Ateneo di scienze, lettere ed ‘arti di Brescia; Membro del Consiglio Sanitario Provinciale ece, cce. Fascicolo II. PAVIA TIPOGRAFIA IN DITTA EREDI BIZZONI 1865. | | | ni Lueto. SANTO GAROVAGLIO | é ore... ga Saranno 24 discorsi. distribuiti in sei fascicoli come seque : | Quattro discorsi espongono in breve la Storia della Scienza ; Sei trattano le principali questioni di Geografia bo- tanica ; Altri sei si aggirano su temi di Morfologia, Fisiologia e Tassonomia vegetale ; (La Botanica — Metamorfosi delle Piante —Fillotassi — Il Fiore — Le Nozze delle Piante — I Sistemi). Quattro illustrano particolari gruppi e famiglie ; (Gli Alberi — Le Conifere — Le Palme — Le Crittogame). Quattro danno la Monografia di alcune specie no- tevoli; (L'Ulivo — La Rosa — L'Albero del Pane — La Canna da Zuccaro ). ALCUNI DISCORSI SULLA BOTANICA DEL DOTTOR SANTO GAROVAGLIO CAVALIERE DELL'ORDINE BELGICO DI LEOPOLD® Professore di Botanica nella R. Università di Pavia ; Membro effettivo del R. Istituto Lombardo, della Società Italiana di Scienze Naturali residente in Milano; Socio corrispondente della Accademia delle Scienze, e della R. Accademia di Agricoltura di Torino, della Società botanica di Ratisbona, di quelle di Halle, Dresda, Vienna, Parigi ; Socio onorario del R. Ateneo di scienze, lettere ed arti di Brescia; Membro del Consiglio Sanitario Provinciale ecc. ecc. Fascicolo II. PAVIA TIPOGRAFIA IN DITTA EREDI BIZZONI 1863. Ù Vena E er E Ta Di a Lar a VE i te, di vin nord bind Vai tai - RARABAINVANNR PR SA da Pa PT Ai not Art | ADIGE MAR AO E tati cant Wd rad; ri ‘bbertpngini Ita stptiagi trg* diga MiA i Riviane Lab SR logie Ro ARIA ) sat pied SALA ripe ‘apt atri part bad ef Nt) dra i rata fap gna Mr ese A UIL ABETI IC Alari sj auapiasti tl) RANE TOE, VERA Td Ai) Ret dI i ati SEL! bot A) (RETI PRA E i < I va î x Near i RSI8' Fx 1 2P AAP) yi Hd At è SR MI ; ni di peg te TAR RN "I ba rata Ù t Ù ‘ ” N bi. } Ù AIATIANA uu dai PEDRRAR IT, » Li nat DI CIECO MARIE k i pira PE pi LPbie COCA SEE bus di AT, À \ "i pi IK go 1 i alata. FASCICOLO II. Gli Alberi La Botanica appo gli Antichi (Gli Orientali — i Greci — E ftomani) pe Ù E OA vil ata dà DIA Lan? MESI GLI ALBERI Gli alberi, quando ne piaccia di pigliare questo nome in tutta quell’ampiezza, che l’uso della lin- gua gli assegna, ci porgono tale un complesso di piante, che il più ricco, il più vario non si potrebbe immaginare. Però l’attento botanico, che punto non si arresta alle prime apparenze ingannevoli, quanto più sottilmente ne viene ricercando i modi, l'abito, le qualità più speciali e costanti, è condotto di ne- cessità a doverne fare non una, ma molte classi 0 famiglie che si chiamino. Le notevoli differenze per- tanto, che ci offrono nella struttura del fiore, e nelle altre parti, che da questo procedono, voglio dire nel frutto e nel seme, recarono i sistematici a scompartirli quali nell’uno, quali nell’ altro degli ordini diversi, onde si compone il regno vegetale, non senza meraviglia dei meno intelligenti, ai quali ‘non par vero che accanto alle più umili pianticelle abbiansi a trovare taluni di codesti giganti della natura, che a giudicarne dal primo aspetto niente hanno che fare con quelle. Tuttavia per quante «differenze rilevanti abbia saputo scoprire la scienza 1 2 tra l'una e l’altra specie di alberi, egli è non per-. tanto indubitabile, che ci corrono tra loro tali so- miglianze, e analogie sì fatte, che non pur possibile, ma utile ancora torna studiarli dapprima tutti in- sieme, e ridurli tutti ad un solo e vasto concetto generale. Considerato di tal maniera il gruppo de- gli alberi, come quello che in se comprende le forme più belle, più robuste, più durevoli del va- stissimo regno di Flora, non può non essere ripu- tato degno di fissare in ispecial modo l'attenzione del naturalista. Imperocchè o si guardi ai vantaggi senza numero, che gli alberi arrecano ai tanti bi- sogni dell’ umano consorzio, o si guardi all’ impor- tanza grandissima, che hanno nella generale econo- mia della natura, o solo alla bellezza e magnificenza delle forme, alla durata portentosa, di che molti fra loro hanno vanto, qual’ altro ordine di piante si troverebbe, che possa comechessia venire con essi al paragone? Qual’altro, che si meriti al pari di esso la nostra ammirazione, e fui per dire la sim- patia, e l'affetto nostro? Arroge: la storia di certi alberi cammina per modo di pari passo con quella dell’uomo, che non se ne può separare senza oscu- rarla. Per essa si ricordano fali e tanti beneficii, che gli alberi recarono all’ uomo sotto le più diverse plaghe, che non è meraviglia, se molti popoli nella loro riconoscenza giunsero perfino a tributare ai più utili e più belli di essi, quegli onori e quel culto religioso, che l’antichità pagana soleva rendere ha) agli Dei, ed agli Eroi creduti benefattori del genere umano. Laonde dopo avere minutamente studiata la mi- rabile organizzazione di questi esseri al lume della più severa scienza, ho divisato di parlarvi oggi delle particolari attinenze, che essi hanno con noi, inquantochè mirabilmente concorrono a soddisfare le necessità, ad accrescere i piaceri e le delizie della vita. Adoperandomi a farvi conoscere a parte a parte i grandi servigi, che gli alberi prestano nei nostri materiali bisogni, non altrimenti, che in quelli di gran lunga superiori dello spirito o morali, spere potervi non pur trattenere per breve ora piacevol mente, ma eziandio non senza qualche profitto per rispetto alla scienza. Per grandi e vari che si vogliano i benefizj che traggonsi da altri ordini di piante, non sono essi a gran pezza da paragonarsi coll’utile e colle commodità, che ci forniscono gli alberi. Le più antiche tradizioni dei popoli ci rappre- sentano gli uomini viventi quasi esclusivamente dei frutti di essi. E sebbene nei tempi che seguirono, gli alberi abbiano dovuto cedere ad umili pianti- celle che il medesimo anno vede nascere e perire, (le gramigne ) il vanto di apprestare il principale alimento ai mille milioni di mortali, che coprono la superficie della terra, ciò non toglie, che alcuni popoli continuano a nutrirsi oggigiorno ancora di 4 preferenza coi frutti e colle sostanze, che dagli al- beri ci sone porti. Basta in certe parti delle Indie la Palma del coco ai pochi bisogni degli uomini, e i naturali delle isole del mare del Sud si ali- mentano quasi unicamente dei frutti dell'albero del Pane, come della farina del Sago gli abitatori delle isole Molucche. I datteri e i fichi formano buona parte del nutrimento dei Persiani, degli Egiziani, degli abitatori della Morea, di quelli dell'Arcipelago greco, e della Barberia, nè più ghiotto cibo delle castagne soccorre ai montanari d’Italia e di Fran- cia. Sulle coste settentrionali dell’Africa, e in qual- che provincia meridionale della Spagna e del Por- togallo, i poveretti in luogo di pane mangiano le ghiande di alcune specie di quercie gentili, che fanno nei loro paesi, principalmente della Quercus Balloia, colle quali macinate a farina , sebbene si abbia un pane tetro e duro, usano nelle carestie sovvenire al bisogno anche le persone agiate. Che diremo poi di quella infinita quantità di frutti pre- giati tanto pel sapore dilicato, e appetitoso delle carni e dei sughi, che ci forniscono gli alberi ad- domesticati? Ognuno sa, come le frutta si amma- niscono in compagnia delle altre vivande, che ser- vono al nutrimento degli uomini, ora schiette, ora condite collo zucchero, ovvero cotte e preparate in cento altri modi. Arroge, come nessuno può igno- rare, hannovi assai frutti, che si trasmutano in spi- titose bevande, quali in vino vogliam dire, quali in 5 sidro e cervogia, quali in aceto, altri che danno a spremere olii preziosi. Ma quando volessi descrivere ad uno ad uno i varii ajuti, che ci porgono le frutta degli alberi, sarebbe miracolo , pur tacendo del resto, che di questo solo dicessi degnamente. Il perchè senza più passo a discorrere della utilità, che ricavasi anche da tali parti che generalmente sono meno apprezzate. È dirò in prima delle foglie. Fino a tanto che le rimangono queste attaccate alla. pianta, oltre all’ esserne un ornamento vaghissimo, sono cortesi agli uomini e agli animali di care om- bre ospitali. « Chi non si meraviglierà, dice Plinio, che solo per averne l'ombra, di lontani paesi sieno stati condotti i platani in Italia? » Cadute che sono avvizzite e secche al suolo, non restano di giovare tuttavia in mille guise, vuoi mantenendo intorno alle sementi, che per entro vi annidano , quel grado, di umidità e di tepore, che le ajuta a germinare , vuoi porgendo ricovero e alimento ad una molti- tudine senza numero di animaletti, vuoi fasciando le barbe delle radici a guardarle dai rigori del verno. Anche allora che macere si disfanno riescono di grande profitto, perchè colle materie, che rendono alla terra, quasi a ricambiarla degli umori di che li nudriva, formano il terriccio vegetale , fomite e alimento a mille generazioni di piante. Nè qui fini- scono ancora i benefizii, che da esse abbiamo. Mentre nelle Indie l’industria dell’uomo delle larghe foglie delle Palme bellamente si giova a coprire come di 6 elegante tettoja le umili case costrutte in legno, di esse a scrivervi sopra, e a farne fortissime funi ; delle foglie d’ alberi nostrali si valgono i nostri con- tadini ad empire sacconi, a farne strame, e per ac- cender fuoco. Non meno utili delle foglie sono i semi. Questi, dopo di averci prestato il rilevante servizio di per- petuare la specie, portano molti altri vantaggi ancora. Parecchi di essi offrono delizioso cibo agli uomini, e sono l’ordinario pasto degli animali. Con alcuni si preparano bevande care per aromatica fragranza, da altri spremesi olio, che serve quì di condimento, là di lume, dove di farmaco all’ inferma umanità, dove a materia di gloria pel pittore, che vuole immortalare le sue tele. Innumerevoli poi sono le sementi, che giovano agli uomini in qual- clie rimedio medicinale, quali per nominarne alcune la noce moscata, il Caffè, il Cacao, il noce del Coco, dell’Areca, e va dicendo. Anche le scorze vengono profittevoli a molti usi. Perocchè altre di esse trovansi utilissime nella concia delle pelli a rammorbidirle, e renderle impe- netrabili all'acqua, altre sono aromatiche, altre medi- cinali, altre sì fatte, che ti danno e tele, e drappi, e perfino dei sottilissimi manichini. Molto singolare per tale riguardo è il Lagetto o legno trina (Lagetta lin- tearia) che è un’arboscello, il quale cresce nelle mon- tagne mediterranee della Giamaica. Componesi la sua sscorza interna, o libro che si voglia dire, di 12 0 44 7 buccie, facili a separarsi l’una dall’ altra. Quantunque molto tra loro diverse per grossezza e tenacità di fibre, tutte sono però forti per modo, che si pos- sono lavare e imbiancare. Di che nasce che si prestino mirabilmente a varii usi secondo la varia natura loro, quali a farne panni, quali tele, quali ancora tessuti di maggiore finezza. Di tali buccie le più vicine alla corteccia forniscono un panno grossolano buono per abiti, mentre le interne ti danno una specie di tela, che a farne lenzuola e camicie può gareggiare colla canape e col lino. Le buccie poi dei ramoscelli più giovani si compon- gono di fibre così sottili e pieghevoli, che vengono molto acconce a prepararne trine, merletti e veli finissimi. Nè meno vantaggiosa è la scorza del moro da carta (Broussonetia papyrifera). Con essa gli abitatori di Otahiti, e di altre isole del Pacifico preparano una sorta di tela non tessuta che usano a ricoprirsi; laddove nel Giappone e in tutte le ‘Indie se ne valgono per la fabbricazione delia car- ta. Chi poi ignora l’esteso uso che nei paesi di montagna fanno del Tiglio comune per la fabbri- cazione delle corde, ed anche di certi cappelli leg- gieri somiglianti a quelli di paglia? Da alcuni al- beri poi, dove tu ne incida in giro la corteccia, ovvero la scalfisca, colano liquori zuccherini, gom- me, ragie, balsami ed altre tali sostanze colle quali si compongono vernici, tinture, profumi, farmachi, e bevande spiritose. Per tal modo appunto l’abete, 8 il larice, il cedro, il terebinto, il lentisco ci procac- ciano la colofonia, la trementina, la cedria, il Tere- binto, il mastice; per tal modo dalla Siphonia ela- stica del Brasile, e da varie specie di fichi si ot- tiene quella gomma elastica, che nella sua meravi- gliosa pieghevolezza a tanti e sì diversi usi si pre- sta. Stupendo trovato in vero, oltre il quale non- pareva si potesse andare, e che pure in questi ul- timi anni fu dalla scienza di gran lunga superato. Ognuno vede che io voglio qui ricordare quella. sostanza fatta oggimai sì popolare sotto il nome di guttaperca, preziosissimo sugo, che ci è fornito da un bell’albero, che cresce nei monti boscosi. delle isolette, che fanno corona alla penisola di Malacca nell'Asia (#sonandra gutta). Le mille ap- plicazioni, luna più utile dell’altra, che l'arte seppe farne in sì breve tempo a pro’ dell’uomo, vanno- incontrastabilmente fra le più belle glorie della. scienza, che noi professiamo, e basterebbero sole, il dirò pure senza tema che altri possa contradir- mi, a sbugiardare e confondere per sempre i troppo leggieri o sfrontati, che gli studj botanici vilipen- dono, quasi ciurmeria o perditempo indegno d'uomo» grave. A molti usi servono pure le radici principal. mente poi per opere da falegname, e per far tinte. Ma servigi assai più rilevanti che da ogni al- tra parte della pianta si hanno dal suo legno. Que- sta materia solida a un tempo e tenace, leggera» 9 ed elastica viene tratta a infiniti usi nelle arti. Chi non conosce gli usi delle vermene, di que’ giovani ramoscelli vo’ dire, che attorcigliati diventano ma- neggevoli al par di una corda, sicchè tu puoi farne ritorte da legar che più ti piaccia? Nè alcuno di voi può ignorare l’uso dei più grossi, meno fles- sibili rami del nocciolo, del castagno, della be- dolla, del vinco, del salcio, che spaccati da imo a sommo servono al bottajo per farne cerchi da ri- cerchiarne botti, tinozze, bigonce, mastelli, e al pa- nierajo per tesserne canestri, zane, sporte, ceste, pa- nieri qualche volta mirabili per eleganza, d'ogni forma e grandezza e finitezza di lavoro! Chi è poi, che non sappia come il legno segato in tavole, squadrato, sfesso, frastagliato, assottigliato, piallato, piegato a forza di fuoco, nelle mani del tornitore, dello stipettajo, dell’ebanista, del carrozzajo, del carpentiere, dello stacciajo, degli staderaj e de’ fab- bricatori di musicali stromenti s’acconci ai bisogni, al diletto dell’uomo in quella guisa che più ne talenta? « Con V’albero noi solchiamo i mari e cer- chiamo lontane terre; con gli alberi edifichiamo i tetti; degli alberi si fecero le statue degli Dei (Pli- nio). » Tra i quali pregi del legno passa però in- nanzi ad ogni altro per importanza quello di ecci- tare e mantenere il fuoco per dare a che che sia quel grado di calore, che si richiede per l’uso al quale vuolsi adoperare. E ciò basti quanto alle re- lazioni che hanno gli alberi colla vita e i bisogni dell’ uomo. 10 Ma vedi beneficio ancor più mirabile, che me- glio accenna la infinita provvidenza, poichè e gli uomini abbraccia, e la natura tutta quanta colle- gandosi colle leggi cosmiche. Schermo poderoso contro il rigor degli aquiloni gli alberi rendono meno inclemente il Cielo delle terre settentrionali, servendo di riparo al freddo; arrestano le nubi e le sciolgono in acqua mercè l'attrazione delle fo- glie, dando così origine alle fontane ed ai ruscelli. Coll’intreccio delle radici rendono consistente il ter- reno sciolto e sabbionoso, sicchè vi possano alli- gnare più dilicate piante. Dalle loro parti verdeg- gianti esalano nuovamente nell'atmosfera le sostanze gazose necessarie alla vita degli esseri organizzati, i quali, perchè Vuno all’altro non iscemi un’ ali- mento da troppi disputato, le più volte si eleggono a così dire quello appunto che dagli altri è respin- to, per guisa che le molteplici famiglie dei viventi vivono sullo stesso suolo in bella fratellanza. E tanto basti a dimostrare l’utilità grande de- gli alberi. Rimane che si ragioni di quelle altre loro qualità, che mentre rapiscono a maraviglia l'immaginazione del poeta, porgono argomento al filosofo di meditare. E qui primeggiano per mio credere quelle due, onde gli alberi vanno distinti da ogni altro gruppo di vegetali, vo’ dire la quasi incredibile longevità, e la grossezza smisurata cui possono arrivare. In tutti i gruppi di piante arboree, si trovano, {i dice Humboldt, esempii di individui di smisurata grandezza, e dell’età di parecchie centinaja, anzi migliaja d'anni. Ricorderò alcuni di questi mirabili monumenti naturali incominciando da cose nostre. Sul monte Etna in Sicilia esiste forse tuttora un Castagno di colossali dimensioni e di lunghissima età il Castagno dei cento cavaili. È tradizione in queil’isola, che venuta Giovanna d’Arragona a vi- sitare l'Etna, sorpresa dal nembo si riparasse col suo seguito di cento Cavalieri sotto questo albero, il quale colla fronzuta sua chioma bastò a scher- mirli tutti quanti dalla pioggia. Di poco per gigan- tesca mole cede ad esso il vanto la Dracena delle Canarie descritta dall’ Humboldt. Il suo tronco roso dal tempo prende nella parte più larga ben 80 piedi all’ingiro, tantochè vi si potè scavare una cappella, intorno alla quale il minuto popolo si rac- coglie per fare preghiere alla sera. Colla Dracena delle Canarie gareggiano il cipresso Gaggia che adombra il Cimitero di S.ta Maria di Jesla nella Provincia di Oazaca al Messico. Cortes nella Rela- zione a Carlo V sulla conquista di quel paese lo ricorda per la maggior meraviglia da lui veduta, e dice, che sotto l'ombra di questo enorme vege- tabile pigliò riposo il suo piccolo esercito. Nè meno mirabile per colossali proporzioni è una conifera scoperta non sono molti anni alla nuova California, che i botanici hanno chiamata Wellingionia (se- quoja) gigantea, e colla quale è bene che noi ci 12 intratteniamo alcun poco. — Seguendo a ritroso una: delle correnti dello Stanislas, dove la Serra Nevada a 5 leghe da Murphy nella Contea di Calaveras forma una svolta profonda, s'innalzano in piccolo tratto di terreno da ben 90 piante di questa We/- lingionia di tanta sterminata mole, che d’innanzi a sì strani giganti estatico il riguardante, e come im- paurito si arresta. I loro fusti perfettamente cilin- driei, e diritti slanciandosi nudi di rami a più di 200 piedi di altezza spiccano a guisa di colonnato dal denso fogliame delle piante circostanti (anch'esse altissime) in quella medesima maniera che tu vedi lungo i nostri prati e fossati il pioppo d'Italia. si- gnoreggiare da Sovrano colla piramidale sua chio- ma sui bassi tronchi dei salici tenuti a capitozza. Il diligente naturalista Remy testimonio oculare volle pure per nostra istruzione e meraviglia mi- surare alcuni di codesti alberi, che abbattuti gia- cevano sul suolo distesi; e noi ne approfittiamo assai volontieri, poichè nulla di più eloquente delle cifre usate a tempo. Pertanto il Bigtree, ossia grand'al- bero (così si chiama il più considerevole, essendo pia- ciuto al proprietario del luogo porre ad ognuno di essi un nome) sopra una circonferenza di 95 piedi si di- stende per 500 in lunghezza, per guisa che sul- l'enorme tronco, fu potuta costruire una casetta con giuoco di birilli. I gruppo di famiglia sì compone di un’ammasso di 26 alberi tra i quali 15 ‘primeggia per colossali dimensioni quello che di- «cono il Padre. Gira esso non meno di 140 piedi, e tuttochè nel cadere siasi scapezzato, prende an- cora 320 piedi per lo longo. Il perchè avvisiamo, che non si discosterebbe dal vero chi facesse l’al- bero nella sua interezza alto ben 425 piedi, con che avremmo un'altezza che di un buon terzo ec- cede la guglia del Duomo di Milano. Za Medre, che figura seconda in quel gruppo, volge 95 piedi, e si sublima 527 dal suolo. Finalmente per non an- dare in infinito, una nicchia, che si sprofonda nel tronco incavato della Capanna del Zio Tom (tale nome porta un'altro di quegli alberi giganteschi), è di tanta capacità, che 25 persone vi possono stare a tutt’agio sedute. Quale può essere l'età di questi colossi arbo- rei? La seienza non ha che dati assai incerti per rintracciarne l'origine, la quale sembra risalire ad un'epoca tanto remota, quanto la formazione della crosta terrena di quel continente. E qui siamo naturalmente condotti a dire del- l’età storicamente comprovata di alcuni alberi non mena celebri per la prodigiosa longevità, che per le dimensioni colossali. A_giudicare dalla grossezza a cui può arrivare la quercia, che è senza con- trasto il più robusto degli alberi d° Europa, non è difficile dimostrare, che qualche individuo tocchi 40 o 42 secoli di età. Narra Plinio come a suoi tempi sorgesse tuttavia sul vaticano un Leccio più 14 antico di Roma, nel quale una iscrizione etrusca in caratteri di rame indicava fino da quai remoti tempi fosse stato quel leccio oggetto della pubblica venerazione. Tassi (Taxus baccata) di 2000 e per- fino di 5000 anni si trovano anche oggidì alle isole Brittaniche. E Labillardiére ne’ suoi viaggi in Siria propende a credere che alcuni cedri da lui veduti sul Libano potessero ben essere dei tempi di Salomone, Al castagno dell'Etna, che ho men- zionato più sopra, danno i botanici da 35600 ai 4000 anni. Nella zona torrida intere foreste di Ce- salpinie, di Swietenie, di Imenee sono per avven- tura giusta la felice espressione di Humboldt mo- numenti di più migliaja d’anni. Ma su quanti al- beri produce la terra per longevità ha la palma incontrastata quel Baobab del Senegal (Adansonia digitata) chiamato per antonomasia l’albero dei mille anni, Basti il dire che Adanson ca'colò che alcuni Baobab da lui veduti non potevano contar meno di 5200 anni di vita, cosa da rimanerne confusa e spaventata l’immaginazione più ardita, dappoichè non dirò la guerra di Troja, e le Piramidi d'Egit- to, ma tutti ancora gli Imperi che si fondarono in Oriente sarebbero di lungo posteriori al primo sor- gere di questi Titani della vegetazione. E sarà chi stupisca veggendo come il carattere monumentale di esseri così giganteschi eccitasse mai sempre negli uomini un sentimento profondo di rispetto, una specie di culto religioso? La Dra- 15 cena di Orotava, il Cipresso Gaggia di Oazaca, il Baobab di Grand-Galarques erano sacri ai naturali del paese, come sacri presso i Greci e i Romani Olmo di Efeso, l'Ulivo di Atene, e il Platano della Licia, come lo è anche oggidì ai buddisti del Cei- lan il Fico d'India di Anourahdepoura. Se vi fate a considerare le tante cosmogenie che la fantasia degli orientali creò alterando, con- fondendo le tradizioni primitive, troverete che alle origini, ai destini della umana schiatta sempre si collega la storia di un qualche albero fatale. Ec- covi nella genesi l’aibero della Scienza del bene e del male « d'ogni altro albero gusti l’uomo li- beramente, questo non assaggi, se nò morrà ». Se- condo un mito dei Persiani nel Zendavesta Dio ha mandato a Zoroastro un sottile Cipresso dal Paradiso, perchè fosse piantato d’innanzi la porta del tempio del fuoco in Cachemyr, dicendo: « per di la essere la strada al Paradiso ». Nell Eden di Maometto tro- vasi l'albero Tuba. All'ombra de’ suoi rami, favo- leggia l’araba leggenda, il cavaliere può cavalcare a galoppo ben 70 anni. Tra le sue frondi anni- dano augelli grossi quanto i camelli, colle foglie ch'ei lascia cadere gli abitatori del Paradiso sì fanno ogni sorta di abbigliamenti; quando spira il vento fra le sue frondi n’escono armoniosi suoni a rallegrare i convitti, e le splendide veglie degli eletti. Tutti gli antichi libri degii Orientali special- 16 “mente delle schiatte semitiche sono pieni di lodi degli alberi. Dagli alberi i prosatori e poeti loro tolgono le più belle immagini, i più acconci para- goni; degli alberi si valgono a simboleggiare gli affetti più puri, i sentimenti più soavi dell'animo. AI bel fusto della Palma leggermente ondeggiante, quando è commossa dal vento, i Poeti arabi para- gonano spesso la persona e il portamento delle loro innamorate. I decantati Cedri del Libano sono per gli scrittori del popolo Ebreo simbolo della potenza, della gloria. Da tempo immemorabile per tutto l'Oriente il Fico è l’immagine più popolare della innocente e beata vita patriarcale, il Gelso dell'industria operosa. E appunto dall'Oriente è a noi venuto il pio costume di ombreggiare col Ci- presso le vie ai cimiteri, col Salice dai rami pian- genti le tombe dei cari estinti. Ma anche in questo i Greci come in ogni altra cosa, che tocchi il bel- lo, a cui li disponeva sì maravigliosamente la na- tura dell'ingegno loro, per vaghezza di compara- zioni, per leggiadria di colori passarono innanzi ad ogni altro popolo della antichità pagana. Non pochi alberi erano nelle credenze di quella nazione «gentilmente immaginosa posti sotto la speciale tu- tela di questo o di quel Dio, a Lui sacri e devoti. Chi non sa che il Pino era dai Greci dedicato a Cibele, il Pomo granato a Mercurio, il Noce e la Quercia a Giove, il Lauro ad Apolline, l Olivo a Minerva, il Mirto a Venere, ed il Pioppo ad Ercole? 17 Era ben naturale adunque, che i Greci dapprima, e poscia ad esempio di essi i Romani traessero gli alberi ad aver parte in tutte le relazioni della vita pubblica e privata nelle più solenni circostanze. In Grecia gli egregi cittadini si coronavano di pieghe- voli ramicelli di quercia; d'alloro si fregiavano le chiome del Poeta e del Monarca, onde il Petrarca l’ebbe a dire « Onor d’ Imperatori e di Poeti », di Pioppo si coronavano gli atleti, mentre le gra- zie ivano liete del Mirto. I carri trionfali, e i tro- fei avevano tutto all’intorno gli ornamenti di frondi d'alloro. L’ Oleandro si donava al vincitore’ nei giuochi olimpici, la Palma al vincitore sul campo di battaglia; simbolo di pace l’Olivo sta nella mano degli Ambasciatori e in quella dei supplicanti. De- gli alberi ancora si giovarono Greci e Romani a interpretare prodigi; degli alberi a spiegare i sogni; dagli alberi traevano responsi ed - oracoli venerati. E a chi non sono note le vocali quercie di Dodo- na, l'oracolo pelasgico più-famoso innanzi che gli Elleni si fossero di tutta Grecia impadroniti ? Isolati e aggruppati gli alberi erano ad un modo oggetto di venerazione e di ossequio, quelli come simbolo di solitaria grandezza, questi come caro soggiorno dei Numi, Haec fuere numinum templa, (Plinio.) e Virgilio cantava; Habitarunt Dî quoque sylvas. Giove, Apollo, Minerva, Venere, Cupido, Bacco ave- 2 18 sano i loro boschi, tagliare i quali era empia cosa: Presso gli Ateniesi ci andava giusta le leggi loro” pena il capo a chi avesse abbattuto un’albero, re- ciso un ramo in un boschetto sacro agli Eroi; e gli Argivi credettero castigo degli Dei la pazzia e- il suicidio di Cleomene Re di Sparta per aver egli fatto appiccar fuoco al sacro bosco di Argos, dove un drappello dei loro sbaragliato si riparava. Nè- meno sacri e venerandi furono gli alberi e le fo- reste ai rozzi popoli del Settentrione. Avevano i- Galli e i Germani sacra fra gli alberi principal mente la quercia, al piede della quale celebravano i sacrificii e le arcane cerimonie del loro culto, e dopo la quercia il sambuco, e il visco parassito, == altri tempi, altre are = come tutte medesima- mente le genti scandinave non ebbero sulle prime- altri tempj che le boscaglie, i tronchi e le cavità degli alberi annosi. Gli Dei di sì fatte nazioni amavano nascondersi agli occhi della moltitudine nel più fitto- delle selve, misteriosamente là, dove non era per- messo ad uomo porre il piede, fuori che ai Druidi o Sacerdoti per attendere alla preghiera. E valga il vero « qual luogo più acconcio (dice il celebre au- tore dello spettacolo della natura, il sig. Planche) qual luogo più acconcio troveresti per elevare i pensieri verso il sommo fattore delle cose di una: oscura antichissima foresta! Il cupo silenzio che regna là entro, la luce del giorno adombrata da. folta verzura, la maestà e la bellezza di tati al» 419 beri secolari ci invitano al raccoglimento e alla meditazione. Contemplando quelle forme colossali cotanto superiori alla nostra piccolezza, noi non possiamo non domandare a noi medesimi, chi ha osato concepire opere sì vaste, chi effettuarle? Chi ha seminati quegli alberi, la cui superba cima tocca le nubi? Chi li fece abbarbicare sì fortemente, che vagliano a sostenersi per lo decorso di più e più secoli contro l’impeto degli aquiloni? Chi apre le catarrate del cielo per farne scaturire le rugiade e le pioggie occorrenti a coronarli d’anno in anno di novella verzura e renderli per così dire immor- tali? Chi se non l’ineffabile divina sapienza crea- trice e conservatrice dell’ Universo e di tuttociò che in esso contiensi? » — Alla vista di questi impas- sibili testimonii delle età che furono, che soprav- vissero invitti a quei terribili rivolgimenti, onde tanti imperi crollarono, tanti sorsero sulle loro rovine, non può fare l’uomo, se pure il suo cuore non è chiuso ad ogni nobile sentimento, ch'ei non in- nalzi un’inno di ringraziamento e di lode a Colui, d’onde gli vennero tanti e sì preziosi tesori. Larita) cose 5, ( Sadler sem mena TILL. 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Studii e sforzi successivi del-, l’uomo e delle età le spingono innanzi quando. purgandole dagli errori, che vi erano serpeggiati,, quando riempiendo le lacune che rimanevano, quan- do finalmente riducendo a miglior ordine, legge e simmetria i materiali preparati dai maggiori. Di ciò, nasce, che recando ogni generazione, ogni secolo. la sua pietra a questo che è comune edifizio, che. è comune patrimonio della umanità, niuno è che. ‘ possa davvero approfondire in una scienza, s'ei. non risalga alle prime origini di essa per quindi, accompagnarne a mano a mano i successivi svola 22 gimenti, che è quanto dire vera scienza non può essere, dove dalla sua Storia tu la disgiunga. Di assai buone cose si troveranno fatte in antico, molte vie additate, per le quali giova incamminarsi; per- fino gli errori, perfino i vaneggiamenti dei grandi ingegni vogliono essere conosciuti, o vuoi per scan- sare gli scogli, nei quali eglino naufragando hanno urtato, o perchè di là stesso, per contrarie argo- mentazioni, si prese soventi volte occasione od im- pulso a luminose scoperte. E ancora per questo modo apprenderemo a stimare convenientemente quelle verità, di cui siamo al possesso, considerando la molta fatica e lo studio che hanno costato; ap- prenderemo a qual punto sieno da cominciare le indagini per progredire oltre quello, che fu fatto avanti di noi, a sceverare il noto dall’ignoto, a non lasciarci abbagliare da sembianze di novità dove è vecchia la sostanza, infine a non correre dietro a futili ipotesi, a sistemi capricciosi, che l’esperienza dei secoli ha già riprovati. Se questo può dirsi delle discipline tutte in generale, vale ancora più nelle scienze naturali, dove l'utilità de- gli studj storici è più diretta e maggiore, essendo che in esse le cognizioni di rado sono effetto del caso, 0 l’opera istantanea del genio, sì bene il ri- sultato di lunghe e pazienti ricerche, di minute 0s- servazioni accumulate a poco a poco, gelosamente ‘ custodite, e poi qual sacro deposito trasmesse dal- l'una all'altra generazione. Interrogare pertanto le 25 “memorie della botanica, o vogliamo dire tesserne in iscorcio la Storia, gli è quanto indagare quella traccia misteriosa, sulla quale si è venuto mano mano costruendo e perfezionando questo nostro scientifico edifizio, che ora si presenta come un «tutto compiuto e bene architettato. Ma innanzi che io entri in materia mi giovi ricordare, non essere intento mio di stendere a ri- gor di termini la Storia compiuta delle condizioni e vicende di questi nostri studj. Altro non mi propongo che tracciarne per sommi capi le epo- che più luminose, contento ad accennare quei fatti soltanto, che ai progressi di questa scienza torna- rono, causa od occasione che fossero, più profitte- voli, e ricordare le cose necessarie a sapersi da chi voglia tener dietro nel corso dei tempi all’ an- damento di questi studj importantissimi ai quali mi sono dedicato. Nulla di nuovo o giovani, nulla di recondito e peregrino vi saprò dire forse mai, e meno ancora in sì trito argomento. Ma tuttavia oltre all utile, oltre quel secreto piacere, che sempre accompagna le ricordanze del passato, soddisferemo insieme an- «che ad un debito di riverenza e di gratitudine verso quei sommi, che ci furono autori e maestri di tutto ehe sappiamo. E voglio sperare e n’ho fiducia, che il gran nome di loro, la fama a cui sono saliti, T aureola immortale che li circonda, non abbiano «a lasciare freddo e indifferente il vostro animo dI generoso, anzi lo scaldi e lo sollevi così alla stima di quella scienza, che fu il loro amore e la loro gloria, come ad una nobile emulazione e proposito di imitarli. Se egli è vero, come tengo verissimo, che quelle scienze debbono supporsi nate anzitutte, le quali versano sopra oggetti, che siano di maggiore biso- gno e di più comune uso per gli uomini, ne segue per necessaria induzione, che la botanica abbia a risalire ai più remoti tempi, tanto da doversi quasi confondere colle origini del genere umano. Impe- rocchè collocato luomo nudo e inerme sulla terra, gli fu forza bentosto cercare negli oggetti naturali sparsi con tanta profusione intorno a lui non solo alimento e il vestire, ma sì ancora quanto gli potesse tornar utile per conservare la salute, per procacciarsi, e sempre più accrescere gli agi e piaceri della vita. Ai quali fini niente di più ac- concio che le piante potresti immaginare, chiaro essendo che di leggeri potevano esse, massime in quella semplicità primitiva del mondo, colle radici, colle foglie, coi frutti, colla corteccia, col legno, cogli umori loro soddisfare largamente ai desider) dell’uomo. E ben ci pare, che a codesta intima at- tinenza delle piante coi nostri primi e più strin- genti bisogni accenni quella antichissima universale tradizione dei popoli, la quale assegna per dimora ai mortali nella fortunata condizione della innocenza un’ameno giardino, ricco e fiorente d'ogni maniera 25 di vegetali. Sì fatta credenza è così comune alle nazioni di razza semitica stanziate nell'Asia centra- le, che perfino il nome scelto a significare quel primitivo soggiorno troviamo presso a poco il me- desimo nel linguaggio d’ognuna. E chi non vede, fa qui notare l'Humboldt molto a proposito, la grande affinità del vocabolo Paradiso, proprio del- l'antica lingua persiana, coll’ebreo Pardés, coll’arabo Firdaus, col siriaco Partés, e col sanscritto Para- désa' adoperati ad esprimere un medesimo concetto ! Ma non fu solo il bisogno, che indusse l’uomo ad occuparsi dei vegetabili, ma quel provvido istinto altresì della curiosità, quel desiderio di conoscere, che in lui pose natura, istinto e desiderio, che lo porta a volgere lo studio, ad esercitare |’ intelli- genza sopra quelle opere stupende di una invisibile onnipotenza, dalle quali è circondato. Laonde es- sendo le piante continuamente tra le mani dell’ uo- mo ragion vuole, che egli dovesse a poco a poco abituarsi a distinguere le une dalle altre per poter sceverare le nocive dalle vantaggiose, prescegliere quelle che meglio potevano servirlo, e mercè l’opera dello ingegno affinarne gli utili prodotti. Di tal maniera nacque la botanica, ma rozza ne’ suoi prin- cipj e limitata quasi esclusivamente alla cognizione empirica di poche piante usuali. Che se ora vo- gliamo discendere a rintracciare nei tempi storici o tradizionali quali fossero le nazioni, che prime tolsero a coltivarla e ad ampliarla, si troverà essere 26 state appunto le più antiche, di cui è arrivata fino a noi la memoria. dl La Botanica appo i popoli d'Oriente i Chi- nesi, gli Indus, i Fenicj, i Babilonesi, gli Egiziani, gli Ebrei. La Storia, che ha suo fondamento nella testi- monianza degli uomini, non ha contezza di alcuna culla primitiva di civiltà. L'Egitto, Babilonia, Nini- ve, la Pentapotamia indiana, la China sono altret- tanti centri luminosi di antichissima coltura, i cui raggi si incontrano e si confondono sull'ultimo orizzonte della scienza storica. Il perchè poco im- porta, che altri nella ricerca delle prime origini di una scienza qualunque pigli le mosse dall’ una piuttosto che dall'altra di sì fatte nazioni; questo è certo ad ogni modo, che niuna è di esse, dove la civiltà non sia tanto antica da farti parere al paragone moderne affatto quelle dei Greci e dei Romani. A noi piace pertanto, come già piacque ad altri assai, incominciare da quel popolo chinese, il cui civile ordinamento precorre di tanti secoli fino il nome dei nostri popoli d’occidente. Solo il popolo chinese, se pure non si voglia fare un'ec- cezione per gli Egizj, può risalire per una serie non interrotta di memorie accertate a suoi prin- ‘cipii. Testimonii scritti della prisca sapienza chinese 27 sono i libri detti King. In questi si racconta che King-Noung, l'inventore dell’aratro e della medi- cina, il quale vuolsi vivesse 3200 anni av. Cristo, avesse tale una cognizione delle piante, che tutte le sapeva disiinguere e denominare. Antichissima presso i Chinesi è l’arte di coltivare le piante e di fave i giardini. Ai tempi di Yu che regnò 2200 anni prima dell’ éra nostra, già era comune nella China la coltivazione della secale, del riso, del sagù e forsanche del Thè e del Baco da seta. Yu è pure creduto l’autore di un'opera enciclopedica di Storia naturale in duecentosessanta libri (il Chan-hay-king) Bella quale con verità e precisione, e non senza eleganza vengono descritti molti oggetti naturali. Rispetto poi ai giardini è cosa storicamente com- provata, che l Imperatore Tessen vissuto 1200 anni av. C., e però contemporaneo alla spedizione degli ar- gonauti alla conquista del velo d’oro, ne fece co- struire uno splendidissimo per raccogliervi e colti- varvi ogni maniera di bellissime e rarissime piante. Sotto altri Imperatori la passione pei giardini nella China fu recata tanto avanti, che si pensò perfino a vestire con foglie e fiori di seta ad arte profu- mati gli alberi, quando questi pel rigore della sta- gione mancavano di quel naturale loro ornamento. Tuttavia. non sapremmo così facilmente indicare quali fossero le piante, onde amavano i Chinesi ab- bellire i giardini; ne’ quali, oltre le già ricordate, quelle, che usavano ai bisogni di una civiltà già tanto avanzata. 28 Se dai Chinesi passiamo agli Indus, che forse li precedono per antichità, poco potremo dire sullo stato di loro coltura, avvegnachè appena da mezzo secolo l’attenzione degli Europei siasi rivolta con speciale fervore allo studio della lingua sanscritta. Sappiamo ciò nuliameno, che anche presso di loro esistevano alcuni trattati scientifici, i quali andarono perduti per la più parte. Il secondo libro degli Upas-Vedas, il più antico e sacro monumento della civiltà dei popoli Indiani, libro che rimonta a quat- tordici secoli av. C., era dedicato quasi esclusiva- mente alla medicina ed alla descrizione degli esseri naturali. La mancanza di storici documenti ne toglie di poter accertare a qual grado di sviluppo fossero venute le scienze di osservazione presso i Babilo- nesi, i Caldei, gli Assirj, la origine delle quali na- zioni si perde tra le favole di tempi oscurissimi. Che però alcune di tali scienze molto avessero progredito tra quelle genti, facile è congetturarlo, quando si ricordino le magnifiche città da essi abi- tate, poni esempio Ninive e Babilonia, e l' esteso commercio che facevano, e lo stato fiorente di lero agricoltura. Di uno speciale amore di questi po- poli per le piante fanno fede i giardini pensili di Semiramide, vissuta 2055 anni prima dell’ éra vol. gare, i quali erano tanto decantati per tutto l’Orien- te, che Alessandro, movendo da Celone ai pascoli di Nisa, si trovò indotto \a deviare dal cammino 29 per visitarli. Senonchè ogni traccia del sapere di questi popoli, come altresì dei Medi, dei Persi, il cui impero ai tempi di Ciro stendevasi dall’ Indo al Mediterraneo, giace sepolta sotto la polve che copre i monumenti di loro grandezza. Appena del persiano Zoroastro sappiamo, perchè Plinio il rife- risce, come abbia scritto un’opera sulla sementa e sulle piante magiche, e leggiamo altresì in Plutarco, che Lisandro spartano trovò Ciro il giovane nel suo giardino di Sardi da lui piantato colle proprie mani. Nè tampoco potremmo assicurare in che Vantaggiassero cotesta nostra scienza le avventurose navigazioni dei Fenicii, che in quelli antichi tempi tutti correvano i noti mari dalle acque della Bre- tagna all'Oceano indiano, mediatori del commercio universale. È da credere ad ogni modo, che que- sta nazione animosa, infatigabile, ingegnosissima, cui dobbiamo il vetro, la porpora, l'alfabeto abbia gio- vato grandemente a diffondere le cognizioni delle piante e dei loro prodotti, tanto più se consideri, che delle tante sue città le più famose per opu- lenza vennero in grido appunto per l'eccellenza in quelle industrie, che dalla nostra scienza traggono loro principale sussidio, voglio dire la nautica, la tintoria, il commercio delle spezie e dei profumi.» Documenti per converso provatissimi ci stanno a testimonianza della estensione e profondità, che nel fatto delle cognizioni naturali vantar. potevano gli Egiziani, la civiltà dei quali fanno risalire a 30 poco meno che cinquemila anni av. G. Vuolsi dare per accertato, che Menes, l’uno dei Re di quella dinastia, che innalzò le piramidi, vivesse niente meno. che 5900 anni av. C. Se così fosse, non potrebbe parere di troppo ardita l'opinione di coloro, che tengono, fossero già percorsi ben 41000 anni di progresso continuato, innanzi giungesse l'Egitto a quella perfezione dell’arte, che la costruzione di quelle portentose moli farebbe supporre. Del resto non è punto dubbio, che gli Egizj furono i primi a tessere il lino e la canape, a scrivere sulle foglie delle palme, a convertire in alimento il grano e l’orzo, a spremere l’olio da semi diversi. L'arte di imbalsamare i cadaveri, cui essi portarono a una perfezione, che in tanto progresso della scienza noi possiamo piuttosto ammirare che emulare, basterebbe a chiarirci, quanto si fossero addentrati nella co- gnizione delle qualità delle piante. Nei geroglifiei scolpiti sui loro monumenti molte specie vegetabili sono rappresentate con tanta esattezza, che la scienza vi trova un perfetto riscontro colle piante viventi. Tali il Nelambio, il Papiro, il Sebesto, la Squilla, il Sicomoro. Gli Ebrei venuti 1715 anni av. C. dalla Meso- *potamia in Egitto, dove per molte generazioni ge- mettero schiavi, s'avvantaggiarono non poco delle cognizioni dei loro oppressori. La Bibbia, mirabile documento della antica loro sapienza, ridonda di preziose notizie sulle cose naturali. E quanto alle 34 piante ad ogni passo ti vengono innanzi e i cedri del Libano, e la vite, e i colti oliveti, e l'odoroso nardo, delizia delle vergini di Sion, e la rosa e il giglio, e il palmizio, e il prezioso papiro. E per dir tutto in poco, fino da tempi immemorabili erano noti agli Ebrei il melagrano, il giuggiolo, lo spin di Giuda, il pistacchio, il terebinto, il mastice, il ginepro, il cotogno, il mandorlo, il noce, il casta- gno, il fico, il leandro, il mirto, il bosso, Valcana, il salcio di Babilonia, il platano d’oriente, il leccio, il cipresso, la palma bdelio; quando poi in grazia dei viaggi intrapresi dai navigli di Salomone, i traf- fichi degli Ebrei si estesero ai vicini popoli del- l'Asia e dell’Africa, vennero anche presso di loro introdotti il legno rodio, V ebano, il sandalo rosso; il legno agalocco, la canfora ed altre droghe ed aromi. Rispetto ai cereali gli Ebrei coltivavano Vor- zo, il frumento, la secale, il farro; fra gli erbaggi principalmente la fava e la lentiechia. A_condi- mento dei cibi adoperavano la cipolla, il porro, il cimino dolce, il coriandolo, l’acoro aromatico, e sa- pevano estrarre l'olio dall’ulivo, e a quanto pare anche dal ricino. Materie a tessere fornivano il li- no, il cotone, il papiro, e tra le cucurbitacee man- gerecce tenevano in pregio il popone, il poponcino di Gerusalemme e il cocomero. 32 Il I Greci. Come cogli Ebrei chiudesi comunemente la Sto- ria delle Scienze naturali appo i popoli dell'Asia, così la Storia di dette scienze appo le genti eu- ropee suolsi cominciare dai Greci, che a noi dal- l'Asia le hanno recate. Vero è che oggimai parrebbe quasi dimostrato dagli ultimi progressi della lingui- stica universale e comparata, e dalla felice inter- pretazione di antichissimi monumenti, essere stata l'Europa in tempi antistorici di una civiltà tutta propria e particolare; vero, che oggigiorno nei monumenti d’ogni maniera, quali di fresco scoper- ti, quali da un pezzo noti, ma solo ai di nostri debitamente studiati e compresi, troppi vestigi ci chiarirono della antichissima sapienza dei Siculi, degli Etruschi, degli Iberi, perchè si possa così alla leggera impugnare codesta coltura anteriore alla greca e alla romana, e però da queste indi- pendente. Senonchè le memorie di essa sono sì confuse, sì rapidamente le due colture l’ indigena e la venuta più tardi d’oriente si mescolarono, si fusero insieme, che oggidì sarebbe impossibile di- stinguere nella meno antica civiltà, che di quelle formossi, gli elementi indigeni e primitivi, da quei che si importarono dal di fuori. Il perchè non vo- dI lendo entrare in questioni, che non si fanno a no- stra materia, crediamo di dover rinunziare alle in- dagini di que tempi troppo rimoti, e contentarci di risalire a quel popolo greco, che posto a cavaliere tra l'Asia e VEuropa in sè raccolse e ricevè (atti per avventura i tesori di quella doppia civiltà del- l'Asia e dell’ Europa. Esculapio, Orfeo, Chirone, Podalirio, tali sono i primi sapienti, dei quali si trovi ricordo nei poemi della Grecia più antichi, e di tutti costoro è lodata la molta cognizione, che ebbero delle virtù delle erbe e delle piante. Massimamente di Orfeo lo ac- certa Plinio nel libro XXV della Istoria naturale “con queste parole: Primus autem omnium, quos memoria novit, Orpheus de herbis curiosius aliqua prodidit. Post cum Musaeus et Hesiodus. Ai tempi poi di Omero, cioè giusta i calcoli più probabili, nove secoli avanti l’éra volgare, le cognizioni dei corpi naturali erano già così diffuse tra i Greci, che il cantore di Ulisse poteva darne rispetto a molti di essi descrizioni, nelle quali non sapresti se più sia da ammirare l'esattezza delle nozioni, 0 l'evidenza e la leggiadria delle immagini. È per restringerci alle piante tu trovi in Omero, che a suoi tempi si coltivavano in Grecia fave e piselli, che dal papiro si traeva materia a far corde, che di frumento, farro, e trifoglio vi si pascevano i ca- valli. Apprendi pure da lui, che negli orti di Al- . cinoo crescevano rigogliosi la vite, il pero, il melo, 6) 67 che Licaone figlio di Priamo usava potare di sua. mano il fico nei giardini del padre, che i compa- gni di Ulisse erano divenuti sì ghiotti dei frutti del loto, che per essi dimenticavano perfino la pa- tria. Altrove il poeta ti narra, che Giove aveva ab- bellita la terra del fiore odoroso della spodarella. e del zafferano, che i prati di Callipso erano smal- tati di viole, que presso al sasso di Leucade gre- miti d’asfodeli, che Elena aveva avuto in dono da. Polidamnia fra l'altre erbe quella nobilissima Ne- pente, la quale ha virtù di cacciare ogni memoria. di tristezza, che Mercurio presentò ad Ulisse l’erba Moly a preservarlo dalla ubbriachezza nel ban- chetto, che gli avrebbe dato Circe, che questa ter- ribile fattucchiera cibava i compagni del figliuol di Laerte col pasto dei porci, le cornie. E da suoi poemi vieni pure a conoscere, che il sepolcro di. Ettione era contornato di olmi, che il letto nu- ziale del Re d’Itaca era fabbricato col legno di ulivo, che a far lance i greci adoperavano il fras- sino, a costruire navigli il larice, pei gioghi il bos- so, per le stanghe e le travi l’abete, che il pioppo è albero amico dell’acqua, che nera è l’interna materia dell’elce, che sacra a Giove è la quercia, che il Cipresso tramanda forte odore, che il pino ha tal tempra da durare sotterra lungamente in- corrotto. Esiodo, che è di poco posteriore ad Omero, nel suo poema didattico dei lavori e dei giorni di molte: 535) importanti cose discorre intorno alle qualità delle erbe. Plinio ne adduce |’ autorità parlando dell’ erba polio, della vite, dell'ulivo, del rovere, dell’asfodelo ; e curioso è quel che gli fa dire delle virtù dello sco- limo. Quest’erba, scrive Plinio, « risveglia la lussuria » secondo Esiodo ed Alceo, i quali affermano, che » quando lo scolimo fiorisce, gli uomini sono pigris- » simi al coito, dove all'incontro le donne ne sono » desiderosissime, come se la natura avesse provve- » duto questo per ottimo ajuto. » Nei cinque secoli, che corsero da Esiodo ad Ip- pocrate, non ebbero a quanto pare altri cultori le piante fuori che i rizotomi o farmacopoli, i geor- gici o geoponici. Era ufficio dei primi andare in cerca delle erbe nei luoghi natii per fornirle ai medici. Rozzi la più parte e idioti, trattavano l’arte loro con pratiche superstiziose, e con modi empi- rici e cerretaneschi, a segno che uno di essi, certo Aristofilo di Platea, osò menar vanto pubblicamente di potere per virtù d’erbe crescere, scemare, ed anche spegnere affatto nell'uomo la facoltà gene- rativa. Tuttavolta non si vuol negare, che pur tra costoro ci avea più d’ uno, che molto addentratosi nella cognizione delle virtù mediche delle piante, studiandosi continuamente per ragion di lucro di trovare nuove stirpi, giovò non poco ad allargare l’ambito di nostra scienza. Nè di questo si potrebbe dubitare, quando sappiamo, che il grande Aristotile fu egli pure nei primi suoi anni rizotomo e far- macopolo. 36 Dentro limiti per avventura più angusti la bo- tanica s'avvantaggiò altresì delle ricerche dei geo- ponici, intesi principalmente a ricavare dalle piante quel più copioso e miglior prodotto, che il sito con- sentiva. Il perchè Aristotile, Teofrasto, Varrone, Co- lumella, Plinio il vecchio ricordano non senza lode i nomi e gli scritti dei geoponici, quali un Andro- zione, un Apollodoro, Gerone da Siracusa, Epicar- vio di Megara, un Filomatore ed altri non pochi. Nè le scuole filosofiche, che più vennero in fiore di que tempi, la jonica, la pitagorica, la socratica si rimasero al tutto estranee ai progressi della bo- tanica. Di mezzo ai vaneggiamenti ed ai vaniloquj di avventate o false ipotesi sulla origine e la na- tura delle cose, sulle trasformazioni di un’ unica materia prima, taluno di que’ saggi giunse a co- gliere il vero, o a vederlo più o meno in nube perfino in quelle scienze, per le quali a voler pro- gredire è più bisogno di osservazioni e di espe- rienze, che non sia di filosofiche speculazioni « Con- » catenando nella mente, dice Humboldt, le investi- » gazioni anteriori si ingenera nei grandi genii la » facoltà previsiva, la quale s’ innalza, come per » virtù di forza ispiratrice ad una specie di divi- » nazione nella scienza vera. Quante opinioni non » vennero annunziate dai filosofi sugli accidenti na- »‘turali senza prove in sulle prime, e commiste a » ‘supposizioni infondate, che poi furono avvalorate » da esperienze, e accertate scientificamente ! » E. 37 valga il vero nei filosofi di quell’epoca troviamo molte importantissime notizie e opinioni assai in- gegnose anche rispetto ai fatti principali di nostra scienza. Giovi ricordarne alcuni in particolare se- guendo per quanto è possibile un ordine cronolo- gico. Però innanzi ad ogni altro dobbiamo qui far. parola di quel sì lodato fondatore della scuola ita- lica, il divino Pitagora da Samo, il quale fu cer- tamente uno dei maggiori ingegni, che abbia mai prodotto il genere umano. Ei visse al di là dai 500 anni avanti la nascita di Cristo, e levò gran. nome di sè non solo nelle scienze morali e nelle matematiche, ma sì ancora nelle fisiche e nella medicina. Degli studii botanici ei molto si dilettò, e vogliono, abbia lasciato dei trattati speciali sulla virtù delle erbe magiche, sui bulbi, sul cavolo, delle quali opere nessuna però giunse fino a noi. Pita- gora fu pure, come è noto, l'inventore del vitto vegetabile o pitagorico, il quale consisteva nell’uso per cibo di radiche e foglie, di fiori e frutti: Se è vero quello che ne riferisce Plinio in più luoghi della sua Istoria naturale, il filosofo di Samo molto commendò per tale rispetto l'uso della Drassica, dell’anice, della senape, sconsigliando invece quello della fava e dell’atriplice. Voleva altresì s' antepo- nessero le vesti fatte di materia vegetabile alle prese degli animali, e rigorosamente proibiva di guastare od offendere alcuna pianta, pel gran utile che danno, e perchè le credeva fornite di anima.. 58 A Pitagora segue in. ordine di tempo Empedocle d’Agrigento, nato nella 80' olimpiade, e forse sco- laro di lui. Poeta, oratore, medico, filosofo, e mago ancora nel giudizio del volgo, Empedocle lasciò scritta un’opera celebratissima di fisica in 3 libri composta di 5 mila esametri, dei quali però non restano che pochi. e sparsi frammenti , in tutto poco più di un 400 versi. Troppo audace, ma pur grande nelle sue ipotesi cercò 1’ origine delle cose nel vario combinarsi di quelle, ch'ei chiama le quattro radici prime Giove, Giunone, Plutone e Nefti, in altri termini acqua, fuoco, aria, terra, che dette poi i quattro elementi servirono fin quasi alla metà del secolo passato ai fisici di facile e comodo mezzo per dare spiegazione di quasi tutti i feno- meni naturali. Come causa al moto degli elementi Empedocle pel primo immaginò l’azione di due forze opposte inerenti alla materia, luna delle quali con poetico linguaggio disse amore, amicizia, con- cordia, l’altra a questa contraria odio, inimicizia, lite. In virtù dell’amore, le particelle simili tendono a unirsi tra loro, e congiungendosi a formare le masse, laddove l’inimicizia opera a disunire le par- ticelle congiunte scomponendo gli aggregati. E di tal maniera fondava la teorica della ripulsione e della attrazione. Originò medesimamente da Empe- docle la famosa dottrina delle periodiche rivoluzioni del globo e della estinzione degli esseri, che d’epoca in epoca lo hanno abitato, la quale dottrina ebbe 59 ‘così luminosa conferma nei trovati della moderna geologia. Da lui deriviamo altresì i primi concetti ‘della Fisiologia vegetale, e parecchie di quelle splen- dide scoperte intorno la vita delle piante, che più comunemente vengono ascritte a merito di Aristo- tile e di Teofrasto. Ricorderò qui le opinioni fito- logiche dell’agrigentino, quali le troviamo registrate nelle opere dei due or ora nominati, nei libri de Plantis di Nicolò damasceno, e nei Placita Philo- sophorum del supposto Plutarco. Al dire di questi autori era opinione di Empedocle, che le piante abbellissero già la superficie della terra, quando questa non era per anco compiuta in ogni sua par- te, nè ancora le girava intorno il sole, nè il giorno ‘ancora era diviso dalla notte. Empedocle insegnò pure, le piante non essere venute bell'e formate d’un tratto, sì bene a membra sparse dapprima, e come a dire a pezzi staccati, poi mano mano con intervalli di tempo assai distanti tra loro essersi accozzati insieme, e riuniti a formare quel tutto che oggidìi ammiriamo. Voleva ancora, che le piante si avessero a considerare come parti della terra in- generate dal relativo calore di questa, nel medesi- mo modo che è parte della madre il feto svoltosi nell’utero materno. Ammise la presenza dei sessi nei vegetali, ma mescolati e confusi. Disse ovipari gli alberi. Intravidde la grande analogia, che corre tra le funzioni vitali degli animali e delle piante, la quale analogia egli non circoscrisse ai soli feno- 40 meni della vita vegetativa, voglio dire al modo di crescere, di nutrirsi, di riprodursi, di ammalare, ma estese altresì alle funzioni di un’ordine superiore concedendo alle piante moto, sensibilità , appetito, e perfino intelligenza , di guisa che a udir lui, tu trovi fiori che si rattristano, erbe che si adirano, piante che si rallegrano e piangono. Nello spie- gare i fenomeni della nutrizione fece gran caso dei pori, che egli distinse in esalanti ed assor- benti, dando speciale importanza alle differenze che ci corrono rispetto alla grandezza, e al modo onde sono distribuiti e ordinati. E appunto nei pori si avvisò d'aver trovata la ragion vera della caduta o permanenza delle foglie, opinando, che quando i pori sono grandi nella radice e piccoli nelle altre parti la pianta assorbisca più di quanto perde, e perciò stesso conservi a lungo verde la fronda, lad- dove per contrarie circostanze la foglia facilmente dissecchi e cada. E basti di Empedocle, di questo grande Siciliano, che a ragione può dirsi Padre e Creatore come della Fisica e della Chimica, così an- cora della Anatomia e della Fisiologia vegetale. Com- paesano e coetaneo di lui fu Acrone fondatore del- l’empirismo medico, che voglion abbia dettate re- gole sul vitto, e ragionato dell’uso di molte piante. Ma i suoi libri sono. perduti, nè ci. resta traccia delle sue speciali opinioni. Di cose medico-botaniche scrissero pure altri due Siculi menzionati da Plinio,. e da Galeno, voglio dire Filistione da Catania au- 44 tore del libro de Diaeta, e Menecrate di Siracusa. Che poi fino da que’ remotissimi tempi grande fosse in quegli isolani l’amore per le piante dobbiamo argomentarlo dal vederne non poche mirabilmente effigiate al vero sulle loro stoviglie, e medaglie. Che se dalla Sicilia, come ragion vuole, ritorniamo in Grecia, eccovi quell’Anassagora, cui deve Atene la prima scuola di filosofia, quivi sorta nel 450 av. C., professare nel fatto delle piante le medesime opinioni a un dipresso di Empedocle, fare cioè an- ch'esso i vegetali suscettivi di allegrezza, di tristez- za, di voluttà, di desiderio, e forniti di anima. Ma fu per fermo opinione al tutto sua, che i germi delle piante vagassero sparsi per ogni dove. nel- l’aria, d'onde poi trasportati dalle pioggie sulla terra vi abbarbicassero e crescessero. Sappiamo di Democrito, quell’acuto filosofo, che tante e così in- gegnose cose immaginò sul conto degli atomi, es- sersi dilettato assai dello studio delle erbe, e più opere aver scritto intorno le medesime. Plinio ne accenna una sulle piante magiche. In altra vo- gliono esaminasse le cagioni dei semi e dei frut- ti, come sembra indicare il titolo riportato da Laer- zio: ma neppure i suoi libri sono arrivati fino a noi. Solo ricaviamo da Teofrasto, che lo combatte, come egli derivasse le tante differenze negli odori e nei sapori dalla diversa figura e disposizione de- gli atomi. E Nicolò damasceno registra quest'altra opinione di Democrito, osservarsi cioè, che crescono 42 rapidamente, ma anche presto muojono le piante, le quali hanno le vene diritte, per ciò che l’acqua ‘e gli umori scorrono troppo rapidamente attraverso i loro canali. Ad Ippone poi dobbiamo d’avere per il primo insegnato, che come la coltura fa dome- stici gli alberi selvatici, così se questa si abbandoni o si trascuri, essi inselvatichiscono di nuovo. Ma ‘certamente i maggiori meriti per l'avanzamento delle cognizioni botaniche sono dovute ai medici. É quan- tunque abbia il tempo distrutte tutte quante le opere anteriori ad Ippocrate, bastano ciò nullameno quelle «del medico di Coo per attestare, quanto estese fos- sero fino d'allora le cognizioni dei greci in fatto di piante utili alla medicina. Non può essere mio intendimento di qui noverare ad una ad una le stirpi, delle quali si fa parola negli scritti d’Ippocra- te, tanto più che essi non sono già, come altri po- trebbe credere, fattura di un uomo solo, sì bene il frutto degli studii e delle osservazioni di sette ge- nerazioni di medici di una medesima famiglia, che pel corso di due secoli e mezzo esercitarono l’arte salutare nella Grecia. Delle 250 specie di piante menzionate nelle opere ippocratiche addurrò qui, perchè più conosciute in grazia dell'uso che se ne fa anche oggidì in medicina, il Cardamomo, il gen- evo, il pepe, la robbia, il galbano, I opoponace, il jusquiamo, la mandragora, il verbasco, la cicuta, il sambuco, la squilla, la ruta, il ranuncolo, la sal- via, la menta, la senape, il guado, la malva, il car- J 45 tamo, l’artemisia, il piretro, la camomilla ed altre sì fatte. Nè si vuol tacere, affinchè sempre più chiaro ‘apparisca quanto di quei tempi si coltivassero que- sti studi, come per testimonianza di Plinio alcuni medici solevano dipingere le erbe, e sottovi scri- verne gli effetti. Non pertanto le notizie più cu- riose e in uno più esatte di Fisiologia vegetale ne porge un libro supposto d’ Ippocrate, ma veramente di ignoto autore, che corre col titolo de natura pueri. Duolmi che la brevità di cui devo studiarmi in questa scrittura non mi permetta di riportarne alcuni brani, massimamente quello splendidissimo, che riguarda lo sviluppo comparativo del feto e del seme. In esso l'autore fa prova d’ingegno così sottile, e tale è la giustezza dei paragoni, che se ne togli alcuni deviamenti, e qualche bizzarra opi- nione, diresti il suo piuttosto lavoro dei nostri gior- ni, che di que tempi antichissimi. Parlando dell’ ac- crescimento in larghezza del tronco ti mette in- nanzi una teoria, che in molti particolari mirabil- mente concorda con quella proposta dal Du-Petit- Thouars, ed ancora recentemente propugnata dal Gaudichaud. Ma io devo rimettere chi ne volesse più sapere alla lettura del libro, che già troppo mi tarda di arrivare finalmente al sommo dei filosofi e natura- listi greci ad Aristotile, il maestro, come l’ebbe a dire il poeta, di color che sanno. Questo grand’ uo- I mo, il cui nome è stampato a caratteri indelebili 4h nella Storia di tutte le scienze vuoi speculative vuoi d’osservazione nacque, come è noto, a Stagira nella nonantesima nona Olimpiade, ossia 581 anni prima dell’éra volgare. Appunto intorno a que’ tempi le cognizioni sulle cose naturali andavano ogni dì più crescendo tra i Greci. Già prima della nascita di Aristotile buon numero di prodotti dell'Asia e dell'Egitto erano venuti a comune notizia dei po- poli d’occidente per la via dei traffici, e per ciò, che ne avevano insegnato alcuni dei loro medici e sapienti vissuti alle corti dei Monarchi persiani e babilonesi. Ma fu veramente nel bel mezzo della operosa vita scientifica dello Stagirita, che le ardite e felici imprese di Alessandro dischiusero que’ tanti tesori naturali delle Indie e delle terre tropicali, allo studio dei quali i Greci si rivolsero con tutto l’ardore e l’alacrità che era propria di quella gente fervida e immaginosa. Le relazioni dei dotti, che seguirono | Eroe macedone nelle rapide sue con- quiste attraverso l'immenso tratto di paese, che dal tempio di Ammone si stende alle sponde del Jassarte, sono piene di preziose notizie, di vivaci dipinture degli oggetti naturali. La contemplazione delle grandiose e svariate forme di animali e di piante, che per la prima volta si offrono all’atto- nito e curioso loro sguardo, mentre li riempie di meraviglia, e li accende di nobile entusiasmo, for- nisce loro altresì le immagini, e i colori convenienti a descriverli con mirabile esattezza. Aridi scrittori, 45 grettamente didascalici, si sollevano a poetici voli, quando ti parlano delle magnifiche palme a ven- taglio e dei leggiadri cespuglj di sempre verdi ban- nani, o ti fanno sostare meravigliato dinnanzi agli alberi giganteschi, alle cui cime non è dardo che arrivi, alle cui foglie non è scudo, che si aggua- gli, e dinnanzi al Bambù che sì leggero di foglie e di stelo, pur d'altezza contende cogli, alberi, e sì gran tratto prende da un nodo all’altro, che puoi farne una barca a più remi, o tratteggiano il fico d’India dall'enorme tronco, al cui diametro appena bastano 28 piedi, che rimettendo radice dalla estremità dei rami così è configurato, che a ragione il chiamano una tenda di foglie sorretta da molte colonne. Mercè dunque l’opera di questi dotti i Greci in quell'epoca sempre mai memoranda pei progressi dell'umano incivilimento vennero a conoscere tra molte altre nuove cose le risaje ir- rigate, l’arbusto del cotone, i fini tessuti e la carta, che se ne preparano, l’oppio, il vino di riso, di palma, lo zuccaro di canna, la lana dei grandi al- beri di bambagia, i drappi di seta, l'olio di Se- samo bianco, quello di rose, la lacca, e varie sorta di aromi e di profumi, che divennero. ben presto oggetti importantissimi del traffico universale. In tanto e così rapido crescere di cognizioni intorno ai corpi naturali fu dunque grande ventura per la scienza che a que’ dì vivesse quel sottilissimo in- gegno di Aristotile, il quale collo scandaglio della 46 analisi seppe dare alle ricerche empiriche de’ suoi contemporanei e scolari un’indirizzo al tutto scien- tifico creando altresì un linguaggio adatto ad espri- mere in modo chiaro ed esatto tutte le gradazioni del pensiero, e le innumerevoli differenze dei mul- tiformi nuovi trovati. E sia ragione al vero lo Sta- girita così ti porge bellamente raccolti e subordi- nati ad un disegno generale que’tanti e sì diversi materiali, che tu ne hai non una farragine di con- fuse notizie, sì bene un vero corpo di scienza con- dotto a sistema, e divisato per forma da poterti essere ottima guida a scoperte affatto nuove. Che se noi vogliamo indagare più da vicino i meriti speciali, che può avere Aristotile rispetto alla Bota- nica, anzitutto dobbiamo lamentare che l'opera sua principale intorno le piante Theoria vegetabilium sia andata perduta, essendo oggimai chiariti apo- crifi i libri di cose botaniche, che da alcuni gli vennero attribuiti. Raggranellando però nelle altre opere di lui quanto può avere speciale attinenza alle piante non possiamo dubitare, che alla sinte- tica e vasta sua mente non fosse riuscito di recar ordine e luce anche in questo campo. Fautore cal- dissimo lo Stagirita del grandioso concetto di una serie continua di esseri naturali, per cui dai sem- plici a gradi a gradi si sale ai perfetti, il suo oc- chio scrutatore e acuto penetrando nell’intimo della organizzazione e della vita si sforza di trovare e mettere in chiaro le molteplici relazioni, che colle- 47. gano fra loro gli esseri creati. La natura, dice egli, passa senza sbalzi dalle cose inanimate alle animate per mezzo di esseri forniti bensì di vita, che ciò. nullameno non sono animali, di guisachè non rav- visi che minime differenze tra quegli esseri, che si trovano collocati molto vicini nella serie naturale. Procedendo ai particolari di tali raffronti Aristotile in un luogo chiama le piante ostracodermi terre- stri, e piante marittime gli ostracodermi, altrove a lui pare di scorgere una grande analogia tra gli insetti e le piante da ciò, che quelli e queste sono abili a moltiplicarsi per divisione di parti. Di così fatti paragoni o ravvicinamenti talvolta acutissimi, tal’altra bizzarri e strani, ma pur sempre ingegnosi ridondano i suoi seritti. Anche le differenze che corrono tra gli esseri dei varii ordini sa Aristotile cogliere con meravigliosa perspicacia, diresti quasi, con sovrumana intuizione. Epperò molti dei carat- teri differenziali da esso stabiliti tra i minerali e le piante, tra queste e gli animali, dopo venti secoli di progressi nelle scienze hanno conservato il pieno loro valore. Per ciò che concerne le facoltà vitali delle piante lo Stagirita dipartendosi in tutto dalle opinioni di Empedocle, di Democrito, di Platone e d'altri filosofi, che volevano gli alberi forniti di sensibilità, di intelligenza, e capaci di appetiti non. meno degli animali, esso non concede loro altra manifestazione della vita della vegetativa infuori. Quanto alla facoltà nutritiva, nella quale comprende: 48 ancora la riproduttiva, avverte, che le piante non si nutrono solo di acqua, ma che si appropriano eziandio le materie contenute nel terreno col mezzo delle radici. Per lui le radici sono alla pianta quel che la bocca e la testa agli animali. Supremo fine della vita nutritiva nel vegetale opina il gran filo- sofo essere la produzione del frutto e del seme, di modo che quanto più imperfetto l’animale, tanto più accostarsi per tale rispetto alia natura del ve- getale. Seme nella pianta, e feto negli animali avere molte analogie tra loro, essere non pertanto diversi per origine e per scopo. Rispetto all’atto generativo ‘nelle piante le opinioni di Aristotile non sono nè così chiare, ne così bene definite quanto quelle sulla nutri- zione. Che anzi sembra, fosse da lui ignorata l’esistenza dei sessi, presa in quel senso in cui è accettata dai moderni Fitologi. Anche del fiore, e della importanza delle parti, che lo compongono, non ebbe lo Stagi- ‘rita concetto esatto. Le sue opinioni intorno la riproduzione si possono riassumere nelle seguenti tesi tolte al libro de generazione animalium. Tutti gli animali dotati di locomozione, che è quanto dire perfetti, hanno, dice egli, il maschio separato dalla femina. In una medesima specie un’individuo è ma- schio, femina l’altro, precisamente come l’uomo e la donna. Nelle piante per converso le due forze sono riunite non essendovi in loro differenze da maschio a femina. Le piante si riproducono da se senza ‘una materia generatrice, ma per una cotal maniera 49 di germe, che dicesi seme. Epperò essere giusta l’opi- nione di Empedocle, che anche le piante depongono uova, avvegnachè l'uovo non sia altro, che un germe, del quale una parte svolgendosi da l’animale, men- tre l’altra gli fornisce | alimento, ciò che appunto succede anche nel seme, di cui parte divien pianta, il resto serve a nudrirla. In quegli animali poi nei quali il maschio è disgiunto dalla femina osservarsi, che entrambi si congiungono quasi a formare un essere solo per l’atto della copula, di guisa che gli animali sono a dirsi quasi piante sì fatte, nelle quali quel, che in ognuna di esse avvi di maschio, sia stato separato da ciò, che pur avvi di femineo. Dal che si rileva, che l'ipotesi di Empedocle della fu- sione dei sessi nelle piante, in cui taluno dei mo- derni ha creduto riconoscere in nube la teoria dell’ermafrodismo vegetale è ammessa a modo di assioma da Aristotile. Se non che il filosofo di Sta- gira crede altresì ad una generazione primitiva 0 spontanea per semplice miscela e fermentazione di materia organica rispetto sì agli animali, e sì alle piante di semplicissima organizzazione. — Non mi di- lungherò più oltre intorno le dottrine fitologiche di Aristotile. Il fin quì detto può bastare a far cono- scere da quale alto punto di veduta egli conside- rasse i fenomeni della vita nel vegetale, e con quanto acume d’intelletto sapesse subordinare i fatti della scienza pratica ai principj di una razionale ‘filosofia. & 50 Ad Aristotile segue immediatamente Teofrasto. nato ad Eresia nell'isola di Lesbo, scolare da prima; di Platone, poi dello Stagirita. Teofrasto scrisse sulla botanica di molti libri, dei quali quelli giunti. fino a noi compendiano a così dire tutto il sa- pere fitologico degli antichi. Principalissima fra le opere di botanica del nostro filosofo si è |’ storia delle piante, la quale componesi di 9 libri, ed è modellata sulla storia degli animali di Aristotile. Ma facciasi luogo «al vero, sebbene il discepolo si studii di camminare sulle orme del maestro, non. sempre gli riesce. L'altra, che si contiene in sei. libri, discorre delle Cagioni delle piante, come dice il titolo. Tale e tanta è l’importanza di queste opere, che stimiamo porti il pregio nell’ interesse della. scienza di scendere per esse ad alcuni particolari. AI che tanto più volontieri ci acciogiamo, in quanto. che ben sono sulla bocca di tutti i botanici, ma, pochi le hanno lette, pochissimi meditate come si vorrebbe; d’altra parte compiuti volgarizzamenti di esse, che io sappia, non abbiamo in nostra lingua, e i sunti che ne diedero l’Haller, lo Sprengel, il Cuvier, e recentemente il Mayer non sono tali da, soddisfarci appieno. Nel primo libro adunque delle Istorie si parla delle parti della pianta, nel secondo della semina, e generazione di esse, nel terzo e quarto degli al- beri, discorre il quinto degli usi e delle bellezze loro, il sesto dei suffrutici, il settimo degli erbaggi,. 54 nell’ottavo si tratta dei cereali, nel nono dei sughi, delle gomme, delle resine, per ultimo nei frammenti, che ci restano del libro decimo, si ragiona delle radici officinali. A tutti senza dubbio passa innanzi per importanza il primo libro, che ne porge ne’ suoi più minuti particolari l’organamento delle piante, che è quanto dire, per usare il linguaggio del giorno, un breve trattato di Notomia vegetale. Qui ti sono poste le basi di quell’ordinamento o classificazione, come noi diciamo, che l’autore viene seguitando nel corso dell’opera. Eccone per sommi capi la so- stanza. Nel vegetale Teofrasto distingue anzitutto gli organi interni dagli esterni. Fra questi ultimi colloca la radice, il caule, i rami, le gemme, la foglia, il fiore, il pedunculo, i viticci. Tali parti, che però non si trovano riunite tutte in tutti i ve- getali, non sono omogenee, ma risultano di altre più semplici la scorza, il legno, il midollo, le quali alla lor volta sono composte dagli organi interni il parenchima, i nervi, le fibre, le vene. Non è sì facile conghietturare quale siasi propriamente il si- gnificato speciale, in che vuole intesi codesti voca- boli di fibre, di vene, di nervi, tanto confuse e contradditorie le applicazioni, che suol farne descri- vendo le varie parti del vegetale, avvegnachè in- dichi con un medesimo nome promiscuamente i fascetti fibro-vascolari del legno, i vasi spirali, i vasi proprj, i condotti resiniferi, le fibre corticali. Ne di questo si vuol far le meraviglie, dappoichè 52 i allora non erano ancor note quelle sottili distinzioni, che l’uso del microscopio e le indagini di tanti dotti vi hanno di poi introdotte. Giusto al tutto è però il concetto, che l’autore si fa del parenchima, che distingue d’infra gli altri tessuti dalla agevo- lezza con cui le sue parti si possono separare, e scomporre, non che dal fatto, che diffuso in tutto l'organismo vegetale prende posto tra le fibre, le vene, i nervi. Quanto all’umore, che è nelle piante, osserva, che non gli fu dato alcun nome generale, ma che però in alcuni casi chiamasi lattice, e la- grime quando indurato produca granelli di resina e di gomma. I nomi di fibre e di vene insegna essere stati tolti da analoghe parti degli animali. L’assorbimento del sugo nutritivo, e la nutrizione della pianta pretende si operino per mezzo delle fibre. Chiama vene le fibre maggiori, e ne adduce in esempio quelle dei pini. Nella distribuzione metodica degli esseri vege- tali, che si legge in questo medesimo libro, Teo- frasto si appiglia quasi eselusivamente agli incerti e malsicuri rapporti di grandezza, di consistenza, come pure agli usi loro, onde poi è condotto a stabilire spartizioni poco naturali, quale si è, a suo dire, quella principalissima di piante formate di fi- bre legnose, sode, e viventi la più parte al di là di un secolo (Alberi), ed in piante di tessitura molle, di consistenza poco soda, alle quali non ba- sta la vita che due anni, od anche solo mesi 0 dò giorni. Se nonchè l’autore stesso ci vuole avvertiti, non doversi pigliar la cosa a rigor di termini, troppe essendo per tal rispetto le eccezioni e le anomalie. Gli alberi poi spartisce in domestici e selvatici, sterili e fruttiferi, con foglie persistenti e caduche. I vegetali erbacei divide in erbaggi propriamente detti, ed in piante cereali, succolente, ed oleaginose. Quanto alla struttura del tronco legnoso ce ne di- visa le molte differenze di consistenza, di altezza, di ramificazione, distingue i tronchi sodi e duri dai molli e sughosi, i forniti di spine da quei che ne mancano, i tigliosi facili a sfendersi e a lavo- rarsi da quelli, che tali non sono. La corteccia ti fa composta di due membrane, l'una superiore od epidermica, l’altra inferiore, interna o principale. Quella insegna poter cadere senza danno dell’al- bero, ed essere surrogata da una seconda conge- nere, che sotto le cresce, non così la corteccia principale, se ne eccettui lo sughero. Non gli sfug- ge ancora, che la scorza liscia e sottile del giovane sughero coll’andar del tempo divien grossa e bu- gnosa. Negli strati del legro la compattezza va decrescendo quanto più sono presso alla scorza, gli interni essere i più puri e tenaci; e poiché sul legno si regge la pianta vuole questo si paragoni alle ossa degli animali. Nel midollo ravvisa niente meno che il cervello della pianta, il germe delle nuove produzioni, la sede dell’umore fondamenta- le, del calore innato. Non ignora, che il midollo.. 54 sta chiuso nel cuore del legno, che esso si com- pone tutto di schietto parenchima, che va strug- gendosi a mano a mano coll’ invecchiare del tronco e dei rami, e che anche senza midollo può in ta- lun caso vivere molti anni vegeta e rigogliosa la pianta. Rispetto alle radici avverie avercene di com- poste, come quelle delle gramigne, e di semplici o fitonose, le une e le altre variare di grossezza, du- rezza, numero di rami e di barbe, taluna affon- darsi più, tal’altra meno nel terreno, questa scen- dere verticale in giù, quella correre obliquamente. Distingue il rizoma serpeggiante di alcune culmi- fere dalle vere radici, e sa che le piante bulbose hanno due radici, il bulbo propriamente detto, e le barboline. Che più? Nè anche il bulbo a suo giu- dizio chiamerai radice, tuttochè vegeti sotterra, chè non è il luogo, sì bene sua special natura, che as- segna l’ufficio di ciascun organo. Non lascia di notare come i sughi della radice siano e più ab- bondanti, e più odorosi, e più energici di quelli di qualsivoglia altra parte. Ricorda eziandio delle ra- dici aeree, che spiccandosi dalle estremità dei rami vengono giù diritte a modo di grosse corde a toc- care il terreno, dove si ficcano colle barbe, e svol- gonsi a nuove piante. Dice le foglie essere com- poste di vene, di fibre, di parenchima. Differenzia le foglie della radice, che per lo più hanno figura rotonda, da quelle del fusto diversamente confor- mate; con che ci sembra abbia voluto accennare D5 alle foglie cofiledonari. Le foglie, aggiunge poi, va- ‘riano all’infinito di grandezza, figura, posizione, con- sistenza, e più d’umore assorbiscono per di sotto, «che non dalla superficie superiore. Passando a di- ‘scorrere dei fiori ti insegna, altri di essi avere ap- parenza di foglie, altri di esilissimi filuzzi, quando essere di un sol pezzo con certe leggeri tacche e prominenze alla parte libera, quando di più pezzi, talvolta di un sol colore, tal’altra di due o più. Semplicissima essere la struttura dei fiori negli al- beri, l’invoglio fiorale o rimanere sulla pianta, o crescere insieme col frutto, o cader prima che que- sto maturi: dal che si ritrae aver egli conosciuto il divario che ci corre tra i fiori superi, e gli in- feri. Ch’egli poi fosse in sul punto di cogliere la vera significazione dell’ovario è manifesto per no- stro credere da quanto asserisce di certi fiori, che allora soltanto danno frutto, quando abbiano nel mezzo un cotal bitorzolo carnoso, dove per con- trario, se questo manchi, ovvero tu l’abbi levato a bello studio, rimansi sterile il fiore. Supremo fine della vegetazione essere la produzione del seme. Questo trovarsi dentro di una carne sugosa (polpa), o di un guscio secco, quando spicciolato, quando in copia. Talvolta mostrarsi il seme nudo affatto 0 vogliam dire senza integumento. Oltre il seme avere i vegetali altri modi assai di riproduzione. I venti, de acque, gli animali favorire la comparsa di certe piante in siti dove non erano state. vedute per lo 56 innanzi. Essere nei vegetali di poderosa virtù il cli- ma, e il suolo, chè quella pianta, che qui ti cresce rigogliosa e produttiva, là intristisce, e si fa sterile, e n’ha gli esempii nelle palme, nel granato, che presso a Babilonia fanno bene a meraviglia, tras- portati in Grecia frutti non danno o cattivi. Ve- nendo a dire del sito e della qualità dei luoghi più confacevoli ai vegetali ci fa sapere, che tra le piante quali si dilettano dei luoghi secchi, aperti, a sola- tio, quali degli umidi ombrosi, quali amare il mon- te, quali il piano. 1 legni degli alberi cresciuti in luoghi elevati aver tempra più soda, più resistente, durare più a lungo. La quale influenza nei vege- tali non giunge tuttavia fino a mutarne natura, € però vuole, che si rimandi tra le favole l’asserzione di taluni, che virtù di terreno valga a far sì, che da orzo nasca frumento, da frumento orzo. Ne tiene abbastanza comprovato, che togliendo agli alberi certe parti diventino al pari degli animali inabili a produr seme. Nei libri che seguono, oltre le cose che a noi parve per tener dietro al logico anda- mento delle idee dovere congiungere ed unire con quelle, che nel primo si discorrono, troviamo ricor- date e descritte di molte piante note a que’ tempi. Dal libro secondo al quarto | autore tratta special- mente degli alberi ed arbusti. Di alberi forestieri alla Grecia ti nomina il fico de’ Bramini, ed un cotal albero d’Egitto, che ha foglie sensibili. Nel capo 2.° del libro 4 trovi la più antica descrizione, 57 che la storia ci ricordi del limone. Molte pur sono le notizie, che ne porge intorno la durata, le ma- lattie degli alberi, le qualità differenti dei loro le- gni, il modo di valersi di questi e di lavorarli, nè scarseggia certo nei particolari circa alla propaga- zione delle piante, vuoi per opera di natura, vuoi per arte. Nel sesto libro discorre degli arbusti mas- simamente di quelli coltivati per ornamento, e dice cose mirabili di quel Silfio della Libia tanto cele- brato presso gli antichi, dal quale si cava un sugo, che di poco si differenzia dall’ assa fetida. Distingue le piante coronarie, che hanno fiori odorosi, da quelle che gli hanno inodori, nonchè da quelle, cui rac- comanda principalmente l’uso, che suol farsi delle foglie loro. Ragiona a lungo della rosa, e dell’olio che se ne ottiene. Nel libro ottavo e nel nono tratta degli erbaggi coltivati, e delle piante selva- tiche, che a questi si assomigliano, come pure di altre piante campagnole senza punto badare all’ uso, che altri può farne. A proposito di una cotal pian- ta, che egli nomina Antemone, precorrendo ad una delle più importanti scoperte morfologiche di que- sti ultimi tempi fa notare, come essa spieghi i suoi fiori non già dal basso all’ alto a modo delle altre piante, sì bene a rovescio, cioè dall’ alto al basso. Di cotesta importante distinzione, che fa Teofrasto tra le infiorescenze centripede e le centrifughe , nessun botanico fino a Link, e a Roberto Brown mostrò di fare quel conto, che si doveva. L°ot- 58 tavo libro è dedicato ai cereali, che ei divide in tre gruppi, delle genuine culmifere, delle bacelline, ed un terzo, che comprende piante differenti da queste e da quelle. Le notizie e osservazioni, che l’autore ci porge in quel libro medesimo intorno la germinazione e lo svolgimento dell’ embrione nei cereali e nelle leguminose, e per la copia e per l'esattezza loro ti faranno maravigliare se guardi ai tempi. Basti dire che appunto da queste idee di Teofrasto fu condotto il Cesalpino a stabi- lire quel suo tanto rinomato sistema, il primo, che al rifiorire delle scienze in Italia vedesse la luce. Nel libro nono, che versa sui sughi proprii, sulle virtù medicate delle piante, sui veleni, sugli aromi, sulle gomme è fatta speciale menzione della mirra, dell’incenso, della gomma, della trementina ed altre cotali; e solo duole, che un tanto ingegno accetti sì alla leggiera quelle favolose relazioni di rizotomi intorno le pretese virtù di alcune piante forestiere. Ma se della credulità soverchia lo scusano in parte i tempi, dai tempi gli ridonda sempre maggiore la lode dei nuovi veri, che a lui pel primo venne fatto di scoprire, o il men che sia, divinare. Perocchè s’ingannerebbe chi si desse a credere, che il suo merito tutto si riduca alle notizie preziose, che ci porge; osservatore e filosofo acutissimo, sempre che gliene venga il destro, tu lo vedi affrontare le questioni più gravi, più astruse, e spargervi sopra a volta a volta maravigliosi lampi di luce; quì di- 59 scorrerla sottilmente sulla forza assorbente delle radici, o sulla natura del seme, là sul fenomeno misterioso della caprificazione, ovvero sulla fecon- dazione artifiziale del Dattilo; quando intorno alle «analogie tra i vegetali e gli animali, che egli rav- visa frequenti e spiccate, come nei rispettivi carat- teri generali, così nella organizzazione, nel modo di crescere, di nutrirsi, di riprodursi sì degli uni che degli altri. Se nonchè per spiegare i fenomeni della vita vegetativa, ligio alle teoriche del maestro, ricorre troppo spesso alla supposta simmetria e pro- porzione tra l’umido fondamentale, e il calor pro- prio di ciascun essere. L'altra opera di Teofrasto intitolata delle Ca- gioni delle piante non è, come taluno si potrebbe forse immaginare un trattato di Fisiologia vegetale, ma piuttosto un manuale d’Agricoltura. Consta come dissi di sei libri. Anche di questi giovi ricordare le cose principali. Nel primo libro l’autore torna sull’ argomento, già discusso nella sua Istoria, della moltiplicazione de’ vegetali, la quale si fa per semi, per generazione spontanea, per separazione di parti, o per bulbilli ascellari, che egli chiama lagrime. Or eccovi a che riesce a mio giudizio l’importanza delle sue opinioni. Sonovi dunque a suo dire ve- getali che si propagano in più modi, e vegetali per contrario ai quali: non è concesso che un modo solo di propagarsi. Il seme, così egli, ti dà imagine dell'uovo, dappoichè e l’uno e l’altro somministrano 60 l’alimento al germe, che si svolge da loro. Le piante domestiche riprodotte per semi di nuovo inselvati- chiscono. Non è probabile che anche gli alberi na- scano per generazione spontanea, come è il caso di alcuni vegetali più semplici, tuttochè siasi ciò potuto credere dell’ olmo e del salice in grazia della picciolezza dei loro semi. Gli alberi resinosi non si rinnovano in altra maniera che per semi. Circa l'innesto, e l’inocchiamento avverte, che il dome- stico vuolsi innestare sul selvatico, non al contra- rio, ed il soggetto essere al nesto o calmo quello, che al seme è il terreno. Parlando dello sbocciare che fanno le foglie e i fiori dalla gemma avverte, che il fenomeno va lento nei sempreverdi, perchè secchi di natura. Reputa oltremodo malagevole lo spiegare il fatto degli agrumi, che mettono continuamente foglie e fiori. Non ignora darsi certi alberi di paesi caldi, che conservano le foglie durante il verno, ma se tu le trapianti sotto più duro clima se ne spogliano. Rispetto alla maturazione del frutto insegna come questa succeda, come di aspri i frutti si facciano dolci, quali cure si hanno ad usare se ii vuoi avere belli e saporiti. La scorza o pericarpio, e il seme di rado maturano a un tempo, perciò che quella serve unicamente a nostro comodo e utile, questo ha da adempiere un fine speciale nella economia della pianta, che lo produce. Nel secondo libro scende a discorrere delle cause naturali, che agiscono sulla pianta. E quì nota come il cielo, il suolo, l’ alimento 64 diversi affrettino, o indugino il comparire, il ma- turare de’ frutti, tornino utili o nocivi alla qualità loro. Se avvenga che gli alberi crescano molto fitti, sicchè non possano essere investiti per ogni banda dalla luce e dall'aria, i medesimi si allungano troppo sottili e smilzi, perdono anzi tempo i frutti, o rimangono al tutto sterili. Gli inverni nei quali abbonda la neve, o cadono frequenti le pioggie favoriscono la vegetazione. Suolo troppo pingue 0 salmastro conviene a poche piante, nuoce al mag- gior numero di esse. È venti freddi se non soffiano di primavera sono benefici. Si agita di poi la que- stione se una specie possa tramutarsi in un’ altra, e d'onde avvenga, che ad alcune piante approdi l'essere vicine, ad altre ne incolga danno. Il terzo libro discorre del potere dell’arte sulle piante, ed è a così dire un codice di insegramenti agricoli. Vi si dice quali piante s' abbiano a coltivare di pre- ferenza, e si fa notare che l’autunno e il co- minciar della primavera sono le epoche più con- venienti per le piantagioni, e le semine. Entrando di poi a parlare della coltivazione degli alberi in generale tocca della scelta del terreno, del modo con che vuolsi lavorare, come e quando si pian- tino gli alberi, a quali distanze l’uno dall'altro si hanno a tenere, non che del loro governo sul luogo di dimora. Insegna doversi letaminare par- camente, inaffiare al bisogno, sarchiare e tener sgombro loro d'intorno il terreno dalle erbe d’ogni 62 sorta. Potagione e diligenze nel farla. Dalle. osser- vazioni ed avvertenze generali passando ai casi par- ticolari si parla della coltura di alcune piante spe- ciali quali sono la vite, la palma, il mandorlo, poi delle erbe coronarie, degli erbaggi, dei cereali o- biade, e delle speciali cure, che richiede la coltiva- zione di quest’ ultime, e dei danni o malattie cui vanno soggette, nominatamente della ruggine, del frumento, e dell’orzo. Libro quarto. Sebbene non pic- ciola parte delle cose, che si discorrono in questo li- bro, servano come di complemento a quelle, che già si dissero nei precedenti, pure anche in questo mate- ria nuova non manca. Così p. e. vi troverai trattato alla distesa delle sementi; quale il tempo di affidarle al terreno, quale il modo; in quali casi meglio giovi il vecchio seme, in quali il nuovo; quanto duri la facoltà germinativa ne semi; come si conservino; confronto tra i semi delle bacelline e delle culmi- fere rispetto all’epoca della semina, al tempo che devono stare sotterra, e a quello, di che abbiso- gnano per maturare; quali tra loro siano di più facile coltura, quali si digeriscano meglio, quali più difficilmente ammalino. Tratta il libro quinto delle turbazioni, alterazioni, anomalie, che possono incon- trare alle piante per cause naturali o per opera del- l’uomo. Adduce l’autore siccome esempj della prima categoria la comparsa dei frutti fuori di tempo, o in sito anormale, la produzione dei frutti di diversa qua- lità su di un medesimo albero, il crescere di una pianta 65 sull’altra, e simiglianti. Per opera poi dell’uomo si può fare, che gli acini dell'uva non contengano noccioli, che un medesimo gambo di vite porti uva nera e bianca, e va dicendo. Chiude il libro con alcune notizie intorno alle malattie delle piante, tra le quali la scabie del fico, la melata, la tuberosità, la gangrena; nè lascia di avvertire come le piante ur- bane e domestiche più facilmente ammalino delle selvatiche. Dei quali malori ricercando le cause crede di trovarle nell’eccesso del freddo e dei caldo, nel- l’azione dei venti, delle pioggie, delle brine, nelle esalazioni malefiche del suolo, nella cattiva qualità dell’alimento. Discorre per ultimo della morte delle piante, sia di quella che avviene per vecchiaja, così portando: la ineluttabile legge di natura, sia della accidentale, che sogliono loro cagionare estrinseche circostanze. Ne qui gli sfugge il fatto notabilissimo, che quelle piante hanno più breve la vita, che più largamente fruttificano. Il sesto libro incomincia con una filosofica discussione su ciò che sia odore e sa- pore. Combatte l'opinione di Democrito, che voleva derivare le differenti qualità degli odori e dei sapori dalla diversa figura e disposizione degli atomi, e tiene per contrario doversene cercar la causa nelle rela- zioni diverse del secco e dell’umido, dei freddo e del caldo. Vuole che ciascuna pianta abbia un suo parti- colare sapore, più manifesto nei frutti acerbi, meno nei maturi, scarso o mancante al tutto nelle parti umide e disseccate. Avverte il fatto verissimo, che. 64 le piante di sapor doice non hanno odor manifesto, mentre le acri e caustiche tramandano odore for- tissimo, nè ignora, che col variare delle ore del giorno suol crescere o scemare l'intensità degli odori. Queste poche cose, che sono venuto più quà più là cogliendo come alla ventura di mezzo alle moltissime ed importantissime, onde vanno ricche le opere di Teofrasto denno bastare, voglio crede- re, a far persuaso ognuno dei tesori inestimabili di pratiche cognizioni, di preziose notizie, che in que’ libri si contengono, e come per essi ci è dato tale un corpo di dottrine intorno la nostra scienza, che può dirsi completo pei tempi. Che se poi ci faremo a considerarne parte a parte i pregi, tro- veremo essere tanti da superare ogni qualunque elogio se ne volesse fare. E primieramente non si potrebbe abbastanza commendare |’ ordinata dispo- sizione dei materiali, la copia e diligenza delle os- servazioni, eleganza del dettato, e sovra ogni altra cosa la profonda conoscenza, che l’autore mostra pos- sedere delle leggi, onde si governa la vita del ve- getale. Che ove si guardi all’indole dei tempi in cui l’occhio non aveva ancora rinvenuto nei vetri quel possente ajuto, che vi ha trovato di poi; nè si sapeva conservare col calore artifiziale le piante dei tropici nelle serre, parrà cosa quasi superiore ‘alla umana intelligenza, che il filosofo di Eresia abbia potuto accumulare un numero sì grande di fatti pe- 65 ‘regrini, di osservazioni esattissime, e dare spiega- zioni così sagaci e ingegnose dei problemi più dif- fieili di Notomia, e Fisiologia vegetale. Scrittore fe- licissimo, eloquentissimo Teofrasto ci ha lasciato altresì di assai belle descrizioni di alcuni vegetali quasi ad esemplare di terso, schietto, elegantissimo stile nel fatto di materie scientifiche. Addurrò a modo di esempio quelle del riso, del Sago, dell’Al- bero del Paradiso, del Banano, della Palma, del Ne- lumbio, del Cappero di padule, del Loto, della Ca- stagna d’acqua. Laonde a buon diritto Teofrasto è salutato dal voto concorde dei botanici di ogni età Padre e Fondatore di nostra scienza; nè certo al- cuno sapresti trovare vuoi tra i Greci vuoi tra i Romani, che più distesamente e sapientemente di lui abbia favellato di cose botaniche sì generali e sì particolari. Che se non può negarsi, che invano cercheremmo ne’ suoi scritti quel fare ardito, quella altezza di concepimenti, quella potenza sintetica, che rapiti maravigliamo nel maestro d’Alessandro, certo è pure che di tal difetto ci compensa generosamente colla vastità della dottrina, colla giustezza nei ra- gionamenti e nelle deduzioni, colla esattezza dei par- ticolari, massimamente poi colla mirabile precisione, e leggiadria del linguaggio scientifico. Molte piante sono pure menzionate negli impa- reggiabili idilii del più gentile bucolico greco, Teo- crito di Siracusa, vissuto poco dopo Teofrasto, cioè un tre secoli avanti Cristo. A dir vero il poeta non 5) 66 ne descrive alcuna per minuto, ma le distingue- con sì acconci epiteti, che senza difficoltà le pos- siamo riconoscere. A scansamento tuttavia di inu- tili ripetizioni stimo bene di passarle in silenzio,. dappoichè ricorrendo quelle piante medesime nei divini carmi di Virgilio, mi porgeranno questi oc- casione di tutte quasi nominarle quando si toccherà. degli studii nostri appo i Romani. Dopo la morte di Teofrasto scienze e lettere in poco d’ora vennero così al basso in quel còn- tinuo tralignare dell’ellenica schiatta, che vuoi nella Grecia propriamente detta, vuoi ad Alessandria di. Egitto, in quel grande asilo aperto alla greca col- tura dalla sapiente munificenza dei Lagidi, non tro- veresti per avventura più un dotto naturalista, che: si possa dire successore non indegno a quei po- derosi ingegni degli Aristotili e dei Teofrasti, dopo, i quali, quasi esitiamo a ricordare i nomi sì poco elequenti di un Attalo Re di Pergamo, di un Ar- chelao, di Mitridate, Nicandro, e talun altro men- zionati da Varrone, da Columella, da Plinio, tanto. più, che se dritto stimi, piuttosto medici e agro-. nomi li chiamerai, che botanici nel vero e gene- rico senso della parola. Ben presto pur quel poco. riflesso della splendida civiltà greca doveva venir meno in Egitto per rifolgorare più possente in Ro-. ma, dove il traevano i fatti del mondo. E colà pure: ci affrettiamo a seguirlo, chè troppa vergogna sa-. 67 rebbe a chi ne rammentò le vicende in sì remote contrade, non si curar poi delle sorti, che ebbe a correre nostra scienza in questa Italia presso quel gloriosissimo dei popoli, che fu la gente latina. 68 III I Romani. I Romani, che volendo stare agli ultimi asserti della scienza sarebbero sorti dalla mescolanza dei Greci coi Galli, furono nei primi tempi, come ognuno sa, poco curanti di buoni studii, tuttochè fino dai primordj loro frequentassero cogli Etruschi, popoli di sì antica civiltà, e delle cose naturali indagatori diligentissimi, Ma quando il corso delle armi ioro li trasse ad invadere trionfanti le terre della Magna Grecia dapprima, poi quelle della Grecia propria- mente detta, fu come si aprissero loro gli occhi d'improvviso, sì li rapì lo splendore meraviglioso di quella coltura, che non aveva rivali, e vergo- gnando della quasi selvatichezza, in che erano vis- suti fino allora, tosto divisarono di appropriarsi il sapere dei vinti. Senonchè mentre le lettere, come più rispondenti alle attitudini loro, sì felicemente allignarono nel nuovo suolo da poter in breve ri- valeggiare coi maestri, le scienze per contrario meno fortunate mai non giunsero a piantarvi salde radi- ci. Il perchè non solo fu negato ai Romani di pa- reggiare in quelle ai Greci, ma neppure del pre- zioso retaggio, che questi lasciavan loro, seppero essi degnamente approfittare. Così per venire alle cose nostre della Storia Naturale si occuparono di 69 quel tanto solamente, che avesse diretta attinenza coi bisogni, coi comodi, e coi piaceri della vita. Non è adunque meraviglia, se della agricoltura, e dell’arte dei giardini, che a queste cose prendono sì largamente, pigliassero tanta cura: il che tornò a vantaggio grande di questi studii nostri, se vero è, nulla potersi immaginare, che più strettamente della coltura dei campi e dei giardini si colleghi colla Botanica. La bellezza e magnificenza dei giar- dini romani è passata in proverbio, e niuno è, che ignori le delizie degli orti Sallustiani , di Tivoli , di Foscolo, di Formio, e cento altri famosi nelle antiche storie, e tutti sanno con che amore i Ro- mani vi coltivassero fiori ed' erbe odorifere d’ ogni maniera, che poi applicavano ai più diversi usi della vita, e nelle più solenni pompe della religione. Fino dai tempi di Catone tanto era cresciuta presso. di loro la passione pei fiori, che fu bisogno porle. un freno con leggi severe. Fu allora divietato il. portar corone di fiori salvo il caso, che il popolo, o per esso il magistrato avesse creduto di dover concedere quell’ onore per alcuna opera egregia ai cittadini. Ma poco valsero le leggi, che, come al solito avviene, di leggeri si trovò modo di frodarle. Però non ci stupisce, che sì fatta passione sotto l'impero trasmodasse sì prodigiosamente da parerti quasi universale pazzia; nè strano ci riesce, che- Nerone, come leggiamo nelle Storie, in mazzi, co- rone, ghirlande, ed altri sì fatti ornamenti di. fiori; 70 sciupasse più milioni di sesterzj. Niente più natu- rale pertanto, che mentre dapprima i Romani nei giardini miravano piuttosto all’utile, che al diletto, saliti poi a grande potenza, il diletto per contrario mandassero innanzi ad ogni altra considerazione; che la smania dei giardini si rendesse così gene- rale, che non v'era famiglia patrizia di qualche nome, a cui non paresse necessario l'avere il suo nei luoghi più ameni e più feraci. Appena si po- trebbe colla immaginazione arrivare alla meraviglia di que’ giardini di quasi favolosa memoria, nei quali vedevi raccolto quanto di più vistoso, di più pere- grino seppe mai desiderare il lusso, la vanità, il capriccio dei padroni del. mondo. Non paghi dei grandi orti alla campagna pensarono i Romani a formarsene un’imagine in miniatura alle finestre dei loro superbi palagi, e impazienti delle lentezze di natura trovarono modo di crearne improvviso nelle pubbliche feste di mirabilmente belli e gra- ziosi. Nè si creda stessero contenti alle piante pro- prie già d’Italia in antico, che anzi cercatori infa- ticabili delle forestiere sforzavansi queste ancora di connaturare al paese nostro. Famoso è l’orto che a tale intento fondava in Roma il greco Castore studiandosi di provvedere a due cose ad un tempo, ai piaceri della vita, ed alla utilità della scienza ; che tanto appunto ci porta a credere la testimo- nianza di Plinio, che rammenta quel fatto, e come foss’ egli solito recarvisi ad ogni tanto per istudiarvi 74 de piante. Che poi della agricoltura si occupassero i Romani con molto amore lo provano il pregio grandissimo in che era tenuta dall’ universale, le lodi che a quella tributavano a gara poeti e pro- satori e più ancora il fatto, che i loro più cospi- cui cittadini recavansi ad onore di coltivare colle mani loro i proprj campi. « Epperò, scrive Catone » nel Proemio de Re rustica, quando i Maggiori » nostri lodar volevano un galantuomo, lo chiama- » vano buon agricoltore, e buon colono; e con sì » fatti nomi credevano essi di onorare ampiamente » colui che lodar volevano. » Qual meraviglia per- tanto, se, espugnata Cartagine, ordinava tosto il Se- nato Romano si traducesse in latino il trattato, che sulla coltivazione dei campi lasciò scritto Magone; trattato, che è l’unico monumento pervenuto fino a noi del sapere di quella potente rivale di Roma? L'opera, che Catone il Censore scrisse intorno alle cose di villa, 4150 anni av. Cristo, e da me or ora men- zionata, mentre sta come prova del primo ringen- ‘tilirsi della lingua del Lazio, fa bella testimonianza della sapienza agricola dei nostri gloriosi antenati. Di agricoltura trattarono altresì i due Saserna, Pa- dre e Figlio, e Gneo Tremelio Scrofa citati da Var- rene, da Columella, da Plinio. Nè molto di poi si occupò del medesimo soggetto quel Varrone, che versatissimo nelle greche lettere, le quali aveva apprese in Atene, vi seppe recare i frutti della espe- rienza e di una erudizione divenuta famosa. Anche 72 Lucio Apulejo, che viveva ai tempi di Augusto, ra-- gionò delle proprietà delle piante, delle quali, se dicono il vero le antiehe memorie, fu pure studio- sissimo il medico di quel medesimo imperatore, quel celebre Musa, cui toccò l'onore, che l’im- mortale Linneo intitolasse dal nome di Lui un ge- nere di piante, che va fra le più belle e le più utili, che si conoscano. E delle piante fu caldo e sapiente osservatore anche Virgilio, massimamente in quel sovrano la- voro, da cui ebbero eterna gloria e campi, e greg- gie, e pastori. Nelle Georgiche infatti, oltre i sani precetti, che ei ci porge sugli orti, sulle opere ru- stiche, la messe, la vigna, la cura degli alberi, e degli innesti, trovi di non poche piante descrizioni sì vere e aggraziate, che le più belle sarebbe vano desiderare. Valgano ad esempio quelle bellissime dell’amello, del limone, del visco. Più spesso an- cora Virgilio al modo dei poeti si compiace di se- gnalare le sue piante con un solo epiteto, ma que- slo è così appropriato, così significativo, e ci porge tale una immagine parlante dell'oggetto, che a chi- chessia riesce agevole il riconoscerlo. E chi non rav- visa a prima giunta i vaghissimi fiori onde si compone il grazioso mazzetto, che Najade presenta ad Alessi! Tibi candida Nais Pallentes violas, et summa papavera carpens Narcissum, et florem jungit bene olentis Anethi, Tum casia, atque aliis intexens suavibus herbis Mollia luteola pingit vaccinia caltha. 75 Che se rimane tuttavia qualche dubbio tra i bota nici, che illustrarono la flora di Virgilio, il Martyn, lo Sprengel, il Fée, il Poiret, il Tenore, il Berto- loni, il Mayer sulla retta interpretazione di poche piante dal poeta menzionate, quanto al maggior nu- mero di esse non corre divario tra loro. Eccone l'elenco quasi che completo. Tra gli alberi trovia- mo nominati dal poeta i seguenti, che io metto qui appunto cogli epiteti, onde gli piacque desi- gnarli; il platano ombroso, l'ardua palma, il faggio dalla larga chioma, il tiglio pingue, il castagno ec- celso, il cipresso ferale, il cedro dall’utile legno, il pino degli orti, l’abete che stanzia su per gli alti monti, il bianco ligustro, il vaccinio dai frutti nereggianti, il mirto amico delle tepide aure del mare, il salcio pieghevole, il duro nocciolo, il bosso docile al torno, il lento viburno, il prugno spino- so, il tardo ulivo, il tasso nocente, il paliuro pun- gente, l’orrido rusco, la vite lenta, l'edera arram- picante, l’ebano nero, i pomi delle esperidi, e l’al- bero dell’ Etiopia, che biancheggia per molle lana. Quanto alle erbe e ai fiori trovansi ricordati da Virgilio Palga vile, Vulva palustre, il mosco, la felce invisa all’aratro, il giunco, che cresce nel li- mo, la canna da padule, l’avena sterile, il Jloglio infelice, il vile fagiolo, il cardo spinoso, la gine- stra umile, la timbra puzzolente, il cerinte ignobi- le, la cicuta fragile, il cicorio dal sugo amaro, il papavero sonnifero, l’oppio verdeggiante, il dittamo 74 porporino , la pallida viola, la verbena pingue, il languido giacinto, l’ibisco gracile, il citiso fiorente, la rosa rubiconda, il serpillo olezzante, il rosmari- no, l’aneto gradevole, l’eileboro, l'aconito, la. scil- da, la mirra, l'incenso. Anche Strabone, che scrisse intorno a que’ tempi la sua Geografia, accennando ai pro dotti naturali dei Varj paesi soggetti al Romano impero, non pure ricorda buon numero di piante, ma di parecchie ‘ancora nota con assai precisione entro quai limiti le possano vegetare felicemente. Il suo nome per- tanto non vuol essere taciuto in una storia per quanto sommaria di nostra scienza. E valga il vero, se Teo- frasto per comune consenso dei dotti è salutato fon- datore della Geografia botanica, a Strabone s'appar- tiene il merito d’avere pel primo fatte conoscere le strette attinenze, che questa ha colla Geografia uni- versale — Del pari non potrei passare al tutto in silenzio Aulo Cornelio Celso, vissuto pur esso durante il regno di Augusto e di Tiberio, autore di quella eruditissima opera delle arti, dove trattò «di filosofia, di rettorica, di tattica, di agricoltura, di medicina. Di essa non rimangono che alcuni capi spettanti all’arte salutare, nei quali, tra le tante altre isquisite e peregrine cose, è fatta altresì menzione di ben 250 piante, che è più di quante ne abbiano ‘nominate Catone, Varrone Virgilio presi insieme. ‘Se non che quel dotto medico non ne descrive al- «una per minuto, nè si occupa di argomenti che 75 «colla fisiologia e notomia vegetale abbiano speciale attinenza. Sulla agricoltura, e sui giardini scrisse poco di poi lo spagnuolo Lucio Moderato Columella un’ope- ra lodatissima, nella quale abbiamo un prezioso te- soro di tutto il meglio che intorno le cose di villa seppero, ed insegnarono Cartaginesi, Greci, Romani. Ne Columella è da confondersi coi semplici com- pilatori. Padrone di estesi poderi, che coltivava con amore ed intelligenza, nel dettare precetti sopra il governo della campagna potè dar conto della espe- rienza sua propria, e con essa vieppiù avvalorarli. Laonde nel fatto della agricoltura Columella è la prima autorità tra i latini, e da lui, come da fonte principale, attinse la numerosa schiera degli scrittori di cose georgiche da Crescenzio sto per dire fino ai giorni nostri. Forti della autorità di Ernesto Mayer noi cre- diamo non dilungarci molto dal vero riferendo a quest'epoca, o poco di poi, i due libri de Plantis, che comunemente vanno stampati colle opere di Aristo- tile. Il sapiente professore di K6nigsberga, che li il- ‘lustrò con un dotto commento, ne suppone autore Nicolò Damasceno, Filosofo peripatetico del primo, 0 secondo secolo dell’era nostra. Strane vicende toc- carono a que’ libri. Dettati da prima in greco, dopo essere stati tradotti successivamente nel siriaco, nel- l’arabo, nei latino, in sul cadere del decimoterzo secolo vennero di bel nuovo voltati di latino in 76 greco. Quest'ultima versione, la sola che noi pos- sediamo, in grazia di que’ tanti volgarizzamenti, e della inettezza dei traduttori ribocca per ogni dove di errori gravissimi di cose, monchè di voci e di locuzioni al tutto straniere al greco idioma. Il perchè lo Scaligero, che si accinse a sottoporre i detti libri a una critica revisione, non si accontenta di conchiudere, come fa di tutta ragione, non poter essere i mede- simi lavoro del grande Filosofo, cui generalmente ve- nivano attribuiti a suoi tempi, ma nega loro eziandio ogni qualunque valor scientifico. In sì fatta sentenza a un di presso s’accorda lo Sprengel, il quale nella sua /istoria rei herbariae parlando di essi esce in queste dure parole. « Nullibi lucidi ordinis amor, nullibi subacta doctrina, nusquam demum gravitas sermonis, ac orationis dignitas apparet. » Ma o io m'inganno grandemente, o i giudizj di questi scrittori sono, se non ingiusti al tutto, certamente troppo severi. Imperocchè per poco che uno si ad- dentri nello studio dell’opera di leggeri gli verrà fatto di scovrirvi di assai belle cose, di cavarne molti utili insegnamenti. La prima cosa egli è fuor di dubbio, che senza di essa noi ignoreremmo in gran parte le opinioni dei greci filosofi intorno la vita e l’organizzazione delle piante, essendo perdute quasi tutte le opere sulle quali fu fatta quella com- pilazione. E perchè poi non vorremo dar merito. all'autore, chiunque si fosse, d’aver saputo tener viva la face della filosofia peripatetica in tempi tristissimi NI per le scienze, quando l'intolleranza burbanzosa de- gli stoici, e il fanatismo de’nuovi credenti volevano sbandito dal campo delle filosofiche ricerche ogni libera discussione, ogni studio puramente razionale? Intanto piacemi qui addurre due brani di quel- l’opera, perchè abbiate per voi medesimi a far giudizio e dell'importanza degli argomenti trattati, e del modo con cui sono svolti. Nell’uno di essi, tolto al proe- mio del libro primo, si discorre dell’anima delle piante; nell’ altro, che sta a capo nono del secondo libro, si accenna in nube a quella ingegnosa dottrina sulle trasformazioni, o metamorfosi degli organi vegetali, che dovea a dì nostri trovare nel Géthe il suo elo- quente espositore. »Vita in animalibus et plantis inventa est, in ani- malibus manifesta apparens, in plantis vero occulta, non evidens. Anaxagoras autem et Abrucalis desi- derio eas moveri dicunt; sentire quoque et tristari, delectarique asserunt. Quorum Anaxagoras animalia esse has, lectarique et tristari dixit, flexum foliorum argumentum assumens. Abrucalis autem sexum in his permixtum opinatus est. Plato si quidem desi- derare tantum eas propter vehementem nutrimenti necessifatem ait. Quod si constet, gaudere quoque et tristari, sentireque eas, consequens erit. Id quoque constare desiderem, an somno reficiantur exciten- turque vigiliis, spiritum quoque et sexum per mi- xtionem sexuum habeant vel contra (Libro 4. Cap.4.) 78 »Antiqui sapientes folia etiam omnia fructus esse asserebant; sed humor tantus erat, quod non ma- turabantur, nec coagulabantur propter apparitionem caloris desuper, et festinationem attractus. solis. Humor ergo, in quem non operata est digestio, al- teratus est folia; nec habent folia aliquam intentio- nem, nisi attractum humoris, et ut sint cooperimen- tum fructuum a vehementia solis ; et ideo oportuit, similiter ut folia essent fructus; sed humor ascendit super ea, et alterata sunt folia, ut diximus. (Libro 14. Cap. 9). » Ma il più celebre dei botanici romani è Pedano Dioscoride di Anazarbe in Cilicia, medico delle ar- mate sotto Nerone. Viaggiò egli l'Italia, la Grecia, l'Asia minore, e le Gallie per studiarvi le erbe me- dicinali e scrisse un’opera, in cui tratta delle virtù di tutte quelie piante, che erano conosciute a suoi tempi. Se grande importanza abbiamo data alle opere di Teofrasto per la storia della botanica generale o speculativa, una non minore dobbiamo attribuirne rispetto alla botanica pratica e applicata agli scritti medici di Dioscoride. Perocchè valga il vero quel tanto di buono e salutare, che si conosceva circa l’uso delle piante dalle sì diverse genti, sulle quali stendeva Roma il suo scettro di que’ tempi, tutto si trova in essi compendiato e raccolto. Nè si vuol credere, che le siano notizie sparse come a caso e scompigliate: ogni cosa vi è collocata al suo posto giusta un metodo razionale fondato sulle speciali 79 attinenze , che gli oggetti medesimi sembravangli avere tra loro; di che tanto più è da lodare, in quanto che erasi usato infino allora generalmente in così fatte rassegne di andar dietro all’ordine materialis- simo dell'alfabeto, che esclude di sua natura ognì sintesi pensata. Epperò nei cinque libri di materia medica troviamo spartiti in gruppi differenti, e questi controsegnati da buoni caratteri gli alberi aromatici ed i gummiferi, le piante oleose, gli erbaggi, i ce- reali, le viti e va dicendo. Certamente chi volesse far giudizio di quel metodo dalle condizioni della scienza oggigiorno dovrebbe riputarlo e molto im- perfetto, e poco naturale, ma quando s'abbia riguardo, come giustizia vuole, al tempo in che fu pubblicato, e allo scopo specialissimo a cui mirava l’autore, do- vremo pure riconoscere e ammirare il tentativo non. infelice di classificare sistematicamente le piante. Seicento o poco meno sono le stirpi vegetali regi- strate nella materia medica di Dioscoride, delle quali non poche oltre il nome latino, e il barbaro se co- nosciuto, recano pure l’indicazione della patria, delle qualità, degli usi, e vanno accompagnate da una breve descrizione. Bisogna però confessare, che a petto a quelle più antiche di Teofrasto le descri- zioni di Dioscoride non reggono nè per precisione di linguaggio, nè pel valore dei caratteri, che si ad- ducono a differenziare oggetto da oggetto. Appunto all’ambiguità, alla insufficienza o inesattezza loro si deve attribuire, se la metà circa delle stirpi anno- 80 verate da Dioscoride non fu per anco potuta chia- rire al tutto, quantunque vi adoperassero intorno ogni diligenza acutissimi ingegni. Che se guardi allo stile, esso ti apparisce pieno di voci e di maniere improprie, disadorno, informe, in somma quale i tempi portavano in tanto abbassamento delle buone lettere presso i Greci e i Romani, quale ancora portava, come confessa egli stesso ingenuamente, la poca cura, ch’ei si prese di studiare la forma, e di limare il suo lavoro, occupatissimo che egli era nel- l'esercizio dell’arte propria. « Esortiamoti dunque, » dice egli nel proemio, insieme con tutti quelli che » questi nostri scritti leggeranno, che non conside- » riate quanto noi siamo eloquenti nel dire, ma la » diligenza e l’esperienza messa nelle cose. » Ne questo ancora si vuol tacere, che non rade volte gli avvenne d’essere tratto in errore dalla confor- mità dei nomi sì barbari e sì latini, e congiungere per forma d’esempio in uno oggetti disparatissimi, e per converso descrivere ripetutamente |’ oggetto medesimo sotto nomi diversi. Le quali mende e imperfezioni non tolgono tuttavia, che la materia medica di Dioscoride sia da risguardarsi, come il monumento più insigne di botanica applicata che ci abbia lasciata l’antichità! Tradotta, compendiata, e chiosata da molti e dottissimi uomini un Mattioli, un Cesalpino, 1 Anguillara, il Colonna, il Maranta tra i nostri e, de’ forestieri un Cordo, un Dodoneo, i Bahuini, il Fuchsio, il Ruellio, e recentemente an- 81 cora illustrata dal Sibthorp, dallo Sprengel, dal Mayer fu essa per dodici e più secoli il codice medico-botanico di tutte le scuole d'Europa e tale è tuttavia in quelle dell'Oriente. Di poco posteriore a Dioscoride è Cajo Plinio Secondo comasco, giusta l'opinione più accettata oggidì, nato l’anno 23 dell’era volgare, vissuto sotto l'impero di Vespasiano e di Tito, e morto vittima del suo amore alle scienze nella fresca età d’ anni 56 in quella terribile eruzione del Vesuvio, che sep- pellì Ercolano e Pompeja. Uomo di facile e pronto ingegno, di assidui e pazienti studii, di varia, ster- minata dottrina Plinio coltivò quasi ogni genere di scienze, ma de’ molti suoi scritti non pervenne a noi che la Storia Naturale, libro vario quanto la natura, vasta Enciclopedia dei Le pon e degli errori dello spirito umano. Chi guarda l'elenco delle opere dettate da Pli- nio su argomenti disparatissimi di storia, filosofia, arte militare, ecc. difficilmente potrebbe indursi a credere siano tutte uscite dalla penna di un sol uomo, quando non si sapesse, quell'uomo essere stato il più laborioso de’ suoi tempi, per non dire di tutta quanta l’antichità. In una lettera a Tacito Plinio juniore racconta dello Zio, che ovunque il medesimo si trovasse ai bagni, in viaggio, a mensa soleva leggere o farsi leggere, dettare o scrivere quasi senza interruzione, pochissime ore concedendo al sonno ed al riposo. Per la compilazione della 6 82 sola sua storia naturale Plinio travagliò 20 anni, consultò ben 480 autori, fece lo spoglio di più che duemila opere; quasi non è scrittore greco o lati- no, vuoi fisico, vuoi medico, geoponico, vuoi anche magico, dal quale non abbia egli attinte notizie fe- dele a quel suo detto, non esservi libro tanto cat- tivo, d'onde non si possa apprendere taluna buona cosa. Udiamo quello, che egli stesso ne scrive a questo riguardo nel proemio. « Ho ridotte in 56 » libri 20 mila cose degne di essere sapute (da » formare più presto tesori che non libri), tratte » fuori da intorno a duemila volumi, dei quali pochi son tocchi dagli studiosi per rispetto della materia non comune, e da cento autori esqui- siti, con la giunta d’assaissime cose, le quali » i primi non seppero, e l'ingegno ha trovate poi. » Delle 57 parti, onde si compone l’ enciclopedia, sedici sono dedicate alla botanica, e di queste principalmente è mio debito qui favellarvi. Mi di- lungherei oltre misura se volessi fare una enu- merazione anche sommaria delle materie trattate in quei sedici libri. Toccherò solo di volo quello, che più importa nel caso nostro. Anzi tutto giovi avvertire, che Plinio per l’indole stessa del suo in- gegno più propria al compilare, che alle filosofiche investigazioni, poco o punto si cura delle cose ge- nerali, che riguardano la vita e |’ organizzazione delle piante. Però è tutto in cercare, in raccoglie- re, registrare quanto di vero, di probabile, di me- “ Db] “ 85 raviglioso intorno gli usi, le qualità, i prodotti dei vegetabili conosciuti a suoi tempi, gli vien fatto di leggere negli scrittori antichi e contemporanei, 0 anche solo di udire dalla bocca del popolo. Dal li- bro duodecimo al decimosettimo delia sua storia Plinio tratta degli Alberi, nel diciottesimo dei ce- reali, nel decimonono degli erbaggi, nel vigesimo primo delle piante pregevoli per la bellezza del fio- re, o come le dicevano i Romani coronarie, dal 22. al 27.° delle erbe medicinali. Affinchè però possiate farvi un concetto più preciso del modo , onde la materia è svolta dal nostro autore, non vi sia discaro, che io entri a questo riguardo in qual- che particolare. Nei libro duodecimo, che è il primo consacrato alle piante, Plinio, dopo uno splendido elogio degli alberi, si fa a ragionare partitamente di quelli, i quali crescono in paesi forestieri, e in- nanzi ogni altro del Platano. Narra d'onde e quando quest’albero fosse recato a Roma, e molte cose prodigiose sa dire di esso. « Questo albero per lo » mare jonio fu prima portato nell'isola di Diomede » (ora isola dei Tremiti) per fare ombra alla sua se- » poltura, di poi condotto in Sicilia, e di là donato » all'Italia fra i primi alberi stranieri. » Passa quinci in rassegna ad uno ad uno gli alberi aromatici delle Indie, del paese Ariano, de’ Gedrosii, dell’ Ir- cania, de’ Battriani, della Persia, dell'Arabia Felice, della Siria, e tesse particolarmente la Storia del- I’ ebano, del fico d'India, dell’albero Pala, del pe- 84 \ pe, del garofano; ci ricorda un certo albero pesti- fero « con foglie d'alloro, il cui odore alletta i ca- valli, di maniera che a prima giunta ebbe quasi a privare Alessandro di cavalleria »; menziona più sorta di gossipini, che hanno le foglie, le quali se non fossero minori, parrebbono di viti, e producono zucche grandi quanto una mela cotogna, le qual, quando sono maiure, si aprono e mostrano palle di seta, onde fannosi vestimenta di grandissima valuta > ricorda altresì le Cine che servono al me- desimo uso. Indi seguono le piante, che producono l’incenso, la Mirra, il Mastice, il Ladano, il Cinna- momo, la Cassia, nonchè varie altre maniere di ‘spezie e di sughi, come il Calamo, il Nardo, il Giunco odorato, l’Ammoniaco, che cogli alberi nulla hanno veramente a che fare. In quello stesso libro, nè ci sapresti scorgere per quale strana associazione di idee ciò avvenga, Plinio scende a parlare dello Sfa- gno, del Maro, e d’altre cotali minori pianticelle. Ma per contrario dagli alberi, che forniscono aromi e cose odorifere, l’autore è condotto naturalmente a ragionare nel principio del seguente libro MII degli unguenti. Dice come essi fossero oggetto di gran lusso, e quando la prima volta vennero in uso presso i Romani. Passa poi a discorrere della patura, delle specie, e dei segnali delle Palme, del modo di piantarle e di farle fruttificare. A_ queste tien dietro una lunga enumerazione di alberi e ar- busti naturali alla Siria, alla Fenicia, all'Egitto, tra. 85 4 quali nomina parecchi di quelli, che producono le gomme. Entra in estesi particolari sul Papiro, ‘sul modo di fare la carta, quando cominciò ad ‘usarsi, di quante specie ce n’abbia, come se ne provi la bontà, e chiude con alcune curiose notizie intorno i libri di Numa. Ragionando degli alberi del monte Atlante si occupa con ispeciale compiacenza del Cedro, nota il pregio grandissimo in che te- neansi da Romani le tavole fatte colla materia di esso, a che alto prezzo si vendessero, e pare mova rimprovero a Cicerone, d’averne comperata una per 40 m. sesterzj. Dette poi alquante cose degli al- beri della Grecia e dell’Asia minore, passa di sbalzo a favellare delle erbe, che crescono nei mari. Il li- bro XIV tratta della natura delle viti « il cui prin- cipato (sono sue parole) è tanto peculiare d’ Italia, che con questo solo par ch’ Ella abbia potuto vin- cere tutti gli alberi delle altre nazioni , solo eccet- iuatine gli odoriferi, » e come elle facciano frutto ; poi delle uve, del modo di governare le vigne, di preparare il vino, e novera ben 50 specie di vini generosi conosciuti dai Romani, 64 di vini contra- fatti, 42 di vini prodigiosi, poi dell’aceto, delle can- tine, e prorompe in una eloquente invettiva contro lo smodato uso di una bevanda, che fa uscire di mente e genera furore, e ne spinge a delitti d'ogni maniera. Dall’ultimo capo di quel medesimo libro ap- prendiamo altresì, che presso alcuni popoli con acqua e biada si fanno bevande, che pajon vino. Nel li- x 86 bro XV Plinio continua ad illustrare gli alberi, che ci danno frutto, e massime l'ulivo. Dice fino a che tempo l'ulivo crescesse in Grecia soltanto, quando cominciasse a spargersi per l’Italia, la Spagna, l'Africa, distingue 45 specie d’alive, insegna il modo di conservarle, e come sabbia a far l'olio, e ac- cenna 48 specie di olio fittizio. Ma per non dilun- garmi all’ infinito bastimi dire, che in Plinio sono menzionate 30 specie o varietà di mele, 12 di susine, 6 di pesche, 42 di pere, 18 di castagne, 29 di fichi, 45 di lauri, 13 di quercie, 10 di noci, 5 di ne- spole, 4 di sorbi, 14 di mirti, 20 di ellere. Che se oltre i frutti alcuni di cotali alberi ne sono cor- tesi di altri vantaggi, il nostro autore non li tace. E però ove parla dei pini non ommette di dire della ragia, e del catrame: quando tratta delle querce accenna eziandio alla produzione della noce di galla, e a suoi usi. Una gran parte del libro XVI ri- donda di utili notizie intorno alle qualità e agli usi del legname, e da esso veniamo a conoscere quali alberi non intarlino, quali non si fendano, quali durino più a lungo, quali convengano ai lavori di ‘architetto, quali a quelli di falegname, quali si. se- ghino in asse, quali siano atti a far fuoco. Nè sem- pre si accontenta Plinio alla osservazione delle cose speciali, a volte ti sa framezzare considerazioni di un’ordine più sublime. E per addurne alcun esem- pio tratto da questi libri medesimi, vedete di grazia «come ei la discorra della concezione degli alberi, 87 «della germinazione e del parto loro, dell'ordine con che fioriscono, e in che tempo; vedete come non dimentica di segnalare gli alberi, che fruttano ogni anno, e quelli che ogni tre; non gli alberi ai quali nasce il frutto prima delle foglie; nè le differenze degli alberi stessi quanto a corpo, ai rami, alla scorza, alla radice; più ancora vi dirà quali cose non ci nascano, quali sì in questo o quel luogo (L. XVI, C. 58); come possano ammalare anche le piante (L. XVII, G. 37); quanto le condizioni di suolo e di clima valgano a far mutare natura agli alberi (L. XVI, GC. 58). Nella costanza. colla quale alcuni di essi sogliono mettere i fiori in certe epoche dell’anno, trova precorrendo Linneo un in- dizio sicuro per differenziare le stagioni. Dei sessi nelle piante ragiona distesamente al capo 7 del L. XHI, e in modo che il più esplicito non si po- trebbe. Eccovi le sue parole: « Gli autori più di- » ligenti scrivono, che tutte le cose generate dalla » terra, comprese le erbe e gli alberi, hanno il ma- » schio e la femmina, e ciò basti aver detto in que- » sto luogo per tutti, ma in nessun altro albero è più » manifesto che nelle Palme. E dicono inoltre, che » le femmine, tuttochè facciano bosco da sè, senza » maschio non possono generare. E aggiungono il » maschio essere ruvido e aspro, e aver ritte le » chiome, e pur col ventilare, e con la stessa pre- » senza, e con la polvere impregnarle. E come abbi » tagliato quest’ albero maschio vogliono ancora, 88 ‘» che le femmine non facciano più frutto. E tanto ‘» può in loro il sentimento di Venere, che hanno » trovato gli uomini come una forma di coito spar- » gendo sulle femmine il fiore e la lana del ma- » schio, e talora anche la polvere sola. » Ma basti oramai di così fatti particolari. Vediamo piuttosto quali siano i meriti di Plinio considerato come na- ‘turalista. Grande dissenso è tra i dotti a questo riguardo. A lui toccò quella sorte medesima, che incontra di solito agli uomini straordinarii, di dover essere cioè quando esaltati oltre il merito, quando contro ogni ragione gittati nel fango. I critici fanno rimprovero al Naturalista di Como di mancar d'or- dine e di metodo nella trattazione delle materie, di troppa fretta nel compilare, di cieca credulità nel- l’accogliere assurde favole già riprovate da suoi predecessori, di avere per vaghezza dello strano e del meraviglioso cavate le notizie da. libri sprege- voli postergando i migliori, di non saper sceverare il vero dal falso, quello che era da scartare, perchè inutile o incerto, da ciò, che solo meritava di es- ‘sere tramandato alla posterità, di errare assai spesso nella interpretazione dei Greci, di non aver saputo discernere il mito dalla realtà, di ripetersi e con- tradirsi. Anche lo accusano di mal talento per avere ‘tolte assai cose da Dioscoride senza pur nominar- lo. Ma come da questa taccia può purgarsi am- ‘mettendo col Mayer, che Dioscoride e Plinio ab- biano attinto alle stesse fonti, d’onde la concor- 89 danza quasi letterale tra loro in più di un luogo, del pari ne sembra, che una gran parte degli er- rori, di che Plinio si appunta, vogliono essere messi a carico degli scrittori, che io precorsero. E seb- bene non si possa negare, che il naturalista romano quanto a vedute generali e potenza di sintesi non raggiunga a gran pezza Aristotile e Teofrasto, è pur forza confessare, semprechè volga l’acume della mente al complesso delle forze, che operano sul creato, all’ ordine, che modera l’universo, gli sgorga dall’animo poderosa, profonda e veramente inspi- rata la parola. Che se la sua storia ebbe sì grande influenza per tutta l'età di mezzo, e anche oggidi trova sì caldi ammiratori, non v'ha di che mera- vigliare, dove si consideri, che molte delle descri- zioni di Plinio sono un modello di precisione e di eleganza, che il suo stile, quantunque ineguale e tal fiata acre e corruccioso, è però sempre vario, ro- busto, ornato, immaginoso e fin sublime, e che tale e tanta è la copia delle notizie, dei fatti, delle os- servazioni depositate nella sua opera, che senza di essa gran parte del sapere antico ci sarebbe affatto ignoto. E dappoichè quasi tutte le opere, che Plinio spogliò, andarono miseramente perdute, quando egli non ce ne avesse conservata a così dire la so- stanza, quanto minor tesoro possederemmo noi e di lingua latina, e di cognizioni naturali ! Non sappiamo chiudere questa epoca della sto- ria antica della botanica senza toccare per ultimo 90 di un lavoro fatto veramente con altro scopo, ma pure di molto pregio tanto per la zoologia, quanto per la nostra scienza, voglio dire il trattato culi- nare, che passa sotto il nome di Apicio. È noto come codesto troppo famoso ghiottone, scialaquati in favolosi desinari da 20 milioni di franchi, non gli rimanendo altro più che due milioni, nel timo- re, che egli avesse a morire di stento, si finisse di veleno. A dir vero il libro, di cui parliamo, piut- tosto che un’opera speciale hassi a dire una com- pilazione fatta, non si saprebbe precisare nè da chi, nè in qual tempo, da varj libri di cucina, 0 ciò che torna lo stesso, un zibaldone di note in uso dei cuochi. Tuttavia, qual'è, merita di fissare l’at- tenzione anche del naturalista, che da esso può ri- trarne quali fossero gli animali e le piante, che negli ultimi tempi della republica, e sotto gli Im- peratori servivano comechè sia ai Romani di cibo o di condimento. Laonde non è a fare meraviglia, se uomini anche dottissimi un Cuvier, il Dierbach, il Mayer vi si affaticarono molto d’attorno per trovare, a quanto si può, nella moderna scienza i nomi e le cose corrispondenti agli oggetti in esso men7ionalti. Ed eccoci oramai al fine del non breve e fa- cile nostro cammino. Imperocchè con Elinio e Dio- scoride può dirsi spenta la luce, che rischiarò la prima epoca di nostra scienza, chiuso il libro delle glorie de’ botanici antichi. D'allora tutto in Roma 94 declinò, anzi precipitò miseramente arte, letteratura, scienze. Poi nelle miserie dell’Impero, sotto il do- minio di tiranni sospettosi e crudeli, inviliti gli ani- mi, fiaccata ogni viriù, anche gli studj languirono, e quasi avresti detto, perdesse fino la natura ogni attrattiva, ed è per ventura, se trovi quà là tuttavia un medico, un ‘agronomo, un poeta, che degnino d’ano sguardo passando le povere piante. Lo stesso « divinissimo » Galeno di Pergamo, oracolo dei Me- dici de suoi tempi (154-200), che pure in più luo- ghi delle sue opere fa obbligo al cultore dell’ arte salutare di dover conoscere per bene le piante, e non poche ne vien nominando, nei tanti suoi scritti non si cura di descriverle, e sa aggiungerne una sola a quelle menzionate da Dioscoride. . Ben presto l’onda dei barbari d’ogni parte ro- vesciandosi sull'Europa travolge nella rovina fino agli ultimi avanzi della Romana sapienza. Quanti secoli dovranno scorrere innanzi che uscita la ci- viltà al fine da quel lento e pericoloso tramescolìo della dissoluzione si ricomponga con altri elementi ! Sostiamo intanto, o Giovani, e abbiamo presente a nostro conforto, che gli ultimi trofei anche della nostra scienza, come già di tutte le altre, li la- sciammo in Italia, li lasciammo quì sul nostro suolo, nell’insigne Naturalista di Como. Passerà il torrente devastatore, dilegueranno le tenebre della barbarie, e allora vedremo sorgere ancor nell’ Italia il sole della rediviva civiltà, e da questa culla dei genj , 92 da questa cima d’ogni sapere. « Magna parens fru- gum, magna virum » rischiarare della nuova sua luce a mano a mano il mondo intero. COLLEZIONI E OPERE BOTANICHE PUBBLICATE DAL PROF. D.' SANTO GAROVAGLIO (1) I muschi rari della Provincia di Como e della * Valtellina in saggi diseccati D. I-XXX (a. 1856- 1846). (2) Lichenotheca italica anche col titolo Lichenes exsiccati Prov. Novocomensis et Vallis Tellinae. Ed. I. D. I-XXIV (a. 1856-44). Edit. Hi. D. I-XLV (a. 1846-49). Le due collezioni sono esaurite. (3) Le felci delia Provincia di Como. D. 1-H. (a. 1856-1840). Como. I e (4) Catalogo di alcune crittogame ecc. P. I. (1837) P. II. (1858) P. Ill. (1845). 3 (5) Delectus specierum novarum etc. (1858). (6) Enumeratio muscorum in Austria inf. crescentium. Vindobonae 1840. È (7) Bryologia ercursoria etc. Vindobonae (1840). (8) Saggio di un Prospetto. delle Piante crittogame della Lombardia ecc. nell'opera « Notizie Natu- rali e Civili sulla Lombardia » del D.r Carlo Cattaneo (1844). (9) Sulle attuali condizioni dell'Orto Botanico della R. Università di Pavia — Relazione — Pavia (1862). . 90 . DO (40) Della distribuzione geografica dei licheni ‘di Lombardia e di un nuovo ordinamento del ge- nere Verrucaria. Cenni -— Pavia 1864. . r (14) Lichenes exsiccati Longobardiae in ordinem systematicum dispositi, D. I-V. Verrucariae ani- 1) loculares et biloculares. Ticini 1864-65. -. 1 (12) Tentamen dispositionis methodicae Lichenum in Longobardia nascentium, additis iconibus partium internarum cujusque speciei — Sect. I Verrucarias uniloculares illustrans. — Medio- lani in 4 cum tab. lithogr. HI. . . (15) Alcuni discorsi sulla Botanica Fasc. I Ediz: IL (La Botanica — H fiore + Le nozze delle piante — le Conifere) Pavia 1869. . . .. è... (14) » Fasc. II. (Gli Alberi, — La Botanica, appo gli. ‘antichi)\ Pavia 1809. uearoo?i «6981 (15) Sui più recenti sistemi lichenologici’ e ‘sulla importanza ‘comparativa dei caratteri adoperati in essì per la limitazione. dei generi e. delle specie» Pavia 1865... . . 060 —& York Botanical Garden Library | QKs1 Caos fasci. “i Il iii arri ner PRE ron ni mecc ohio Setenta nrlrizioricsni