aa ER Pa e Pa pets br na E x e Let Lee 3a DS rei ì _ ANNALI DELLE UNIVERSITÀ TOSCANE = nl TOMO PRIMO D' NI u \ ‘ 6 te dm dI A Mea i A i ore , ARA ANNALI DELLE UNIVERSETÀ TOSCANE TOMO PRIMO TÀ» si ’ Pe de alral. 7re LA ly ver ba as: Sha: : ANNALI UNIVERSITÀ TOSCANE PARTE PRIMA SCIENZE NOOLOGICHE TOMO PRIMO PISA DALLA TIPOGRAFIA NISTRI 1846 i STRO, LAMA A ALI 0 LO è ù , 1° ud a di i "if RE ta IMDF00d00E 3Xr n è Ti AIANZO CIA ARIR) er i LISA p"* , È val Tira ” POTIsi = ha d h 0 dei LI DI II. : RR. UNIVERSITÀ TOSCANE UNIVERSITÀ DI PISA Gran Cancelliere MONSIGNORE GIO. BATTISTA PARRETTI, Arcivescovo di Pisa, Primate della Corsica e della Sardegna, Cav. Gran-Groce dell'Ordine di S. Giuseppe ec. ec. Provveditore Generale MONSIGNORE PROFESSORE GIULIO BONINSEGNI, Cav. dell'Ordine del Merito sotto il titolo di S, Giuseppe. FACOLTÀ DI TEOLOGIA Professore di Sacra Scrittura Dott. LUIGI COCCAPANI. Professore di Teologia Dommatica Dott. Canonico FLAMINIO BARDINI, Governatore del Collegio Ricci, dispensato. Padre GIULIO ARIGONI, Minore Riformato. Professore di Teologia Morale Dott. Canonico DOMENICO PADELLETTI. Professore di Teologia Apologetica Dott. FRANCESCO DAL PADULE, Rettore del Collegio Puteano. Professore di Storia Ecclesiastica Dott. RANIERI SBRAGIA, Canonico Teologo della Primaziale di Pisa. VI Professori Emeriti Monsig. Cav. GIO. BATTISTA Rossi, Vescovo di Pistoja e Prato. Monsig. Cav. GIULIO BONINSEGNI, Provveditore dell’Università . Monsig. CLAUDIO SAMUELLI, Vescovo di Montepulciano. FACOLTÀ DI GIURISPRUDENZA Professore d' Economia Sociale Avv. PIETRO ELISEO DE REGNY. Professore d' Istituzioni di Diritto Romano Avv. FLAMINIO SEVERI. Professore d' Istituzioni di Diritto Canonico Avv. GIOV. BATTISTA GIORGINI. Professore d’ Istituzioni di Diritto Criminale Avv. FRANCESCO ANTONIO MORI. Professore di Pandette Avv. PIETRO CAPEI, dispensato. Avv. PIETRO CONTICINI. Professore di Diritto Canonico Avv. GIUSEPPE CANTINI, Cav. dell'Ordine di S. Gregorio Magno, dispensato. Avv. MARIANO GRASSINI, Canonico della Primaziale di Pisa, Professore di Diritto Toscano Civile e Commerciale Avv. GIUSEPPE MONTANELLI. Professore di Storia del Diritto Avv. FRANCESCO BONAINI, Bibliotecario dell’ Università . Professore di Filosofia del Diritto Avv. FEDERICO DEL Rosso, Supplente. Professori Emeriti Avv. Baccio DAL Borco, Cavaliere e Auditore Magistrale dell'Ordine di S. Stefano P. e M. Avv. TITO GIULIANI. Avv. GIOVANNI CARMIGNANI, Commendatore dell'Ordine del Merito solto il titolo di S. Giuseppe di Toscana, e Cavaliere di seconda .Classe dell'Ordine di S. Lodovico di Lucca. VII FACOLTÀ DI FILOSOFIA E FILOLOGIA Professore di Lettere Italiane Dott. GIOVANNI Rosini, Cav. degli Ordini della Legion d’ Onore di Francia, e dei SS. Maurizio e Lazzaro di Sardegna. Professore di Lettere Greche e Latine Dott. MicHELE FERRUCCI, Supplente. Professore di Lingue Orientali Dolt. GAETANO FANTONI, Canonico della Primaziale di Pisa. Dott. GIUSEPPE BARDELLI, Ajuto. Professore di Filosofia Razionale Dott. LUIGI CORRADINI. Professore di Filosofia Morale Avv. FEDERIGO DEL Rosso. Professore di Storia della Filosofia Dott. SILVESTRO CENTOFANTI. Professore di Storia e d’ Archeologia Dott. MICHELE FERRUCCI. I Professore di Pedagogia Dott. GASPERO PECCHIOLI. Professori Emeriti Dott. Canonico Cav. SEBASTIANO CIAMPI. Dott. Canonico PIETRO BAGNOLI, Commendatore dell'Ordine di S. Giuseppe. Professore Onorario Dolt. LUIGI BoRRINI, Segret. della Soprintendenza agli Studj del Granducato. FACOLTÀ DI MEDICINA E CHIRURGIA Sezione degli Studj teorici. Professore d' Anatomia Umana Dott: GIOVANNI BECHELLI, Direttore degli Stabilimenti Anatomici. Dott. Filippo PACINI, Dissettore e Ripetitore Anatomico. / 1 Dott. Dott. Dott. Dott. Dott. Dott. Dott. Dott Dott VIII ATTO TicRI, Ajuto del Dissettore. Professore di Fisiologia CARLO ARCANGIOLI. : AUGUSTO DIAMANTI, Preparatore. Professore di Patologia Generale ANTONIO BARTOLINI. Professore di Materia Medica e Farmacologia STEFANO STAGI. ONORATO BACCHETTI, Preparatore. Professore d’ Ostetricia VINCENZO CENTOFANTI. Professore di Patologia Chirurgica . ANDREA RANZI. Professore di Patologia e Terapia Medica Speciale, e di Clinica Medica . FRANCESCO PUCCINOTTI. Dott. ALESSANDRO BIANCHI, Ajuto. Professore di Chirurgia Operatoria e di Clinica Chirurgica Dott. CARLO BURCI. Dott Dott Dott Dott. . ANTONIO MARCACCI, Ajuto, ed incaricato d’insegnare la Chirurgia minore. Professore di Veterinaria . FELICE MELCHIORRE TONELLI. Professore dì Medicina Pubblica . Cav. STANISLAO GROTTANELLI DE’ SANTI. Professore di Storia della Medicina CARLO PIGLI. Professori Emeriti Dott. EMILIANO PERETTI. Dott. RANIERI MENICI. Dott. VINCENZIO CAPECCHI, Medico Primario di Sanità in Livorno, Professori Onorarj Dott. Dott. Luci DEL PUNTA, Regio Archiatro e Proposto del Collegio Medico. CARLO BIAGINI. IX Sezione degli Studj pratici, insegnante nell’ Arcispedale di S. Maria Nuova di Firenze. Commissario dell’ Arcispedale con attribuzioni di Provveditore della Sezione Nob. Uomo SciPloNE BARGAGLI, Cav. degli Ordini di S. Stefano, di S. Giu- seppe, dell'Aquila Rossa di Prussia, e Ciambellano di S. A. I. e R. Priore della Sezione e Soprintendente alle Infermerie Prof. PIETRO BETTI, Commendatore dell'Ordine di S. Giuseppe. Professore di Trattati delle Malattie Umane e di Clinica Medica Dott. MAURIZIO BUFALINI, Cav. degli Ordini di S. Giuseppe e di S. Stefano. Dott. CARLO GHINOZZI, Ajuto. Dott. TITO NESPOLI, Ajuto . Professore di Clinica Chirurgica Dott. VINCENZO ANDREINI, Cav. dell'Ordine di S. Giuseppe. Professore di Clinica Chirurgica e di Chirurgia Operatoria Dott. GioRGIO REGNOLI, Cav. dell'Ordine di S. Giuseppe. Dott. CESARE PAOLI, Ajuto-Ripetitore d’ Operazioni Chirurgiche. Dott. Cosimo PALAMIDESSI, Ajuto proevisorio-fiduciario del Prof. Regnoli. Professori di Clinica Ostetrica e di Ostetricia Pratica Dott. PIETRO VANNONI. Dott. Gio. BATTISTA Mazzoni, dispensato dalla Cattedra, Consultore del- l’Istituto Ostetrico . Dott. GIUSEPPE NORFINI, Aggregato all’ Istituto Ostetrico . Professore di Clinica Oftalmojatrica e di Trattati delle Malattie degli Occhi Dott. EMILIO CIPRIANI. Professore di Clinica delle Malattie Cutanee, e di Trattati delle medesime Dott. PIETRO CIPRIANI. Professore di Clinica delle Malattie Mentali, e di Trattati delle medesime Dott. FRANCESCO BINI. Professore di Clinica delle Malattie Veneree, e di Trattati delle medesime Dolt. CARLO DEL GRECO. Professore di Clinica Ortopedica Dott. FERDINANDO CARBONAI. Professore d' Anatomia Patologica, applicata specialmente alla Patologia Medica ed alla Chirurgia Dott. Cav. FERDINANDO ZANNETTI, Supplente. Professore d' Anatomia Sublime e delle Regioni Dott. FERDINANDO ZANNETTI, Cav. dell'Ordine di S. Giuseppe. GiusepPE Ricci Dissettore, e Conservatore del Museo Patologico. Dott. FERDINANDO LECCHINI Dissettore, e Conservatore del Musco Fisiologico. Professore di Chimica Organica e Fisica Medica Dott. GiovaccHINo TADDEI, Cav. dell'Ordine di S. Giuseppe. Dott. SERAFINO CAPEZZUOLI, Ajuto. FACOLTÀ DI SCIENZE MATEMATICHE Professore di Geometria e Trigonometria, e di Geometria Descrittiva Dott. GUGLIELMO MARTOLINI. Dott. FABIO SBRAGIA, Supplente per la Geometria e Trigonometria. Professore d' Algebra Dott. GIUSEPPE DOVERI. Professore di Geometria Analitica Dott. GASPERO BOTTO. Professore d’Istituzioni Fisico-matematiche dell'Arte dell'Ingegnere Dott. GUGLIELMO MARTOLINI, Supplente. Professore di Fisica Tecnologica e di Meccanica Sperimentale Dott. LUIGI PACINOTTI, Direttore del Gabinetto di Fisica Tecnologica. Professori di Calcolo Differenziale e Integrale Dott. FiLiPPO CORRIDI, incaricato della istruzione nelle Scienze fisiche e matematiche degli Augusti Figli di S. A. I. e R. il GRANDUCA. Dott. Gio. MARIA LAVAGNA. Professore di Matematica applicata alla Meccanica ed alla Idraulica . Dott. PIETRO OBICI. Professore di Fisica Matematica, e di Meccanica Celeste e Geodesia Dott. OTTAVIANO FABRIZIO MossoTTI, Cav. degli Ordini di S. Giuseppe di Toscana, e dei SS. Maurizio e Lazzaro di Sardegna. Dott. Dott. Dott. Dott. Dott. Dott. Dott. Dott. Dott. Dott. Dott. XI Professore d’ Astronomia Gio. BATTISTA AMIci, Cav. degli Ordini di S. Giuseppe di Toscana e dei SS. Maurizio e Lazzaro di Sardegna, Astronomo nell’I. e R. Osservatorio di Firenze. i Professori Emeriti FERDINANDO FOGGI. VINCENZIO AMICI. Professore Onorario GAETANO GIORGINI, Cav. degli Ordini di S. Giuseppe e di S. Stefano, Soprintendente agli Studj del Granducato. FACOLTÀ DI SCIENZE NATURALI Professore di Fisica CarLo MATTEUCCI, Cav. degli Ordini di S. Stefano e della Legion d’ Onore, Direttore del Gabinetto Fisico. Professore di Chimica RAFFAELLO PIRIA, Direttore del Gabinetto Chimico. Professore di Mineralogia e di Geologia LeoPoLDO PILLA, Direttore speciale del Gabinetto di Mineralogia e Geologia. Professore di Botanica PieTRo SAVI, Direttore del Giardino Botanico. ATTILIO TASSI, Ajuto. Professore d' Anatomià Comparata e di Zoologia PaoLo SAVI, Cavaliere dell’ Ordine del Merito sotto il titolo di S. Giu- seppe, Direttore Generale del Museo di Storia Naturale. CESARE STUDIATI, Dissettore. GiUSEPPE MARIOTTI, Preparatore. Dolt. Dott. Professore d' Agraria e di Pastorizia Commend. Marchese Cosimo RIpoLFI, Ajo degli Augusti Figli di S. A. I. e R. il GRANDUCA, Direttore supremo dell’ Istituto Agrario, dispen- sato dall’insegnamento. PieTRO CUPPARI, Direttore speciale. xIl Professore di Geografia Fisica Vaca. Professori Emeriti Dott. Cav. GUGLIELMO LIBRI. Dott. GIUSEPPE GATTESCHI. Dott. OLINTO DINI. Dott. Cav. GIUSEPPE BRANCHI. Professori Onorarj Dott. FiLIiPPo NESTI, Prefetto dell’I. e R. Museo di Storia Naturale di Firenze. Dott. GIUSEPPE GAZZERI, Cav. dell’ Ordine di S. Giuseppe. Dott. ANTONIO TARGIONI TOZZETTI. Dott. BALDASSARRE RANIERI PASSERINI. UNIVERSITÀ DI SIBNA Gran Cancelliere MONSIGNORE GIUSEPPE MANCINI, Arcivescovo di Siena, Com- mendatore dell'Ordine di S. Giuseppe. Provveditore e Rettore Avv. Prof. GIULIO PUCCIONI, Cav. dell'Ordine di S. Stefano P. e M. FACOLTÀ DI TEOLOGIA Professore di Sacra Scrittura e di Lingue Orientali Padre GIROLAMO BOBONE, dell'Ordine dei Predicatori. Professore di Teologia Apologetica Dott. CLEMENTE PACHETTI, Canonico della Collegiata di Provenzano, e Ret- tore del Seminario Arcivescovile. Professore di Teologia Dommatica Padre GiroLAMo Bopone, Supplente. Professore di Teologia Morale Dott. GIUSEPPE MATTEI. Professore di Storia Ecclesiastica Dott. RAFFAELLO PuccI-SISTI, Canonico della Metropolitana di Siena. XIN Professori Emeriti Monsignore Giov. DOMENICO MENSINI, Vescovo di Grosseto. Dott. Canonico DOMENICO PADELLETTI. FACOLTÀ DI GIURISPRUDENZA Professore d’ Economia Sociale Avv. FRANCESCO CORBANI. Professore d’Islituzioni di Diritto Romano e di Storia del Diritto Avv. LEOPOLDO PIO CECCARELLI. Professore d’Istituzioni di Diritto Canonico Avv. Proposto FRANCESCO DEI. Professore d’ Istituzioni di Diritto Criminale Avv. PIETRO RAGNINI, Supplente. Professore di Pandette Avv. GAETANO PIPPI. Professore di Diritto Canonico Avv. Cav. Provved. GiuLIO PuccionI, Supplente. Professore di Diritto Toscano Civile e Commerciale Avv. FAUSTO MAZZUOLI, Supplente. Professori Emeriti Avv. PIETRO CAPEI. Avv. FRANCESCO ANTONIO MORI. Avv. Cav. Provved. GIULIO PUCCIONI. Avv. PIETRO CONTICINI. Avv. GIO. BATT. GIORGINI. FACOLTÀ DI MEDICINA E CHIRURGIA Professore d’ Anatomia Umana e Comparata Dott. GIOV. BATTISTA VASELLI, Cav. dell'Ordine del Merito sotto il titolo di S. Giuseppe, Direttore del Gabinetto Anatomico. Dolt. PIETRO DURANTI, Ajuto per l’insegnamento dell’Anatomia Comparata. Dott. GIROLAMO GRIFONI, Settore. Dott. SALVATORE GABBRIELLI, Ajuto. XIV Professore di Fisiologia e di Patologia Dott. ALESSANDRO CORTICELLI. Professore di Materia, Medica e di Farmacologia Dott. FILIPPO CARRESI. Professore d' Ostetricia e delle Malattie delle puerpere e dei bambini Dott. LUIGI CAPEZZI. È Professore di Patologia Chirurgica Dott. GAETANO FILUGELLI. . Professore di Patologia e Terapia Medica Speciale, e di Clinica Medica Dott. FERDINANDO ANTOLINI. Dott. CARLO PUCCI, Ajuto. Professore di Chirurgia Operatoria e di Clinica Chirurgica Dott. ZANOBI PECCHIOLI, Direttore del Gabinetto Patologico. Dott. ERNESTO BAGNOLI, Ajuto. Professore di Medicina Pubblica Dott. ALESSANDRO CORTICELLI, Supplente. Professori Emerili Dott. ANTONIO MATTEI. Dott. Cav. STANISLAO GROTTANELLI DE SANTI. Dott. CAV. GASPERO MAZZI. Dott. ANTONIO BARTOLINI. Professore Onorario Dott. LUIGI DEL PUNTA, R. Archiatro e Proposto del Collegio Medico. COLLEGIO FILOSOFICO Professore di Lettere Italiane, Latine e Greche Dott. Proposto LUIGI NASIMBENI. Professore di Filosofia Razionale e Morale Padre Tommaso PenpoLA delle Scuole Pie, Rettore del Collegio Tolomei. Professore di Geometria e Trigonometria Dott. GIUSEPPE VASELLI. Professore di Calcolo Differenziale e Integrale, e di Geometria Descrittiva Dolt. CESARE TOSCANI, Supplente. XV Professore d'Algebra e di Geometria Analitica Padre GAETANO ANGELONI delle Scuole Pie, Supplente. Professore di Fisica Padre SANTI LINARI delle Scuole Pie, dispensato . Dott. GIUSEPPE PIANIGIANI, Direttore del Gabinetto Fisico. ANGELO BENFATTO BERTONI, Preparatore. LORENZO ILARI, Preparatore emerito . Professore di Chimica Dott. PIETRO TOMMI, Direttore del Gabinetto Chimico. Gio. PoMPEO GRIFONI, Preparatore. Professore di Botanica e di Storia Naturale Dott. Cav. GIUSEPPE GIULI, Direttore del Giardino Botanico, e del Museo dei Fisio-critici. Ab. FRANCESCO BALDACCONE, Preparatore e Conservatore del Museo. Professori Emeriti Dott. PIETRO OBICI. Dott. GASPERO BOTTO. Professori Onorarj Padre STEFANO ORSELLI, delle Scuole Pie. Dott. Cav. GAETANO GIORGINI, Soprintendente agli Studj del Granducato. Dott. LUIGI BORRINI, Segretario della Soprintendenza agli Studj del Gran- ducato. x DIRETTORI DEGLI ANNALI DELLE UNIVERSITA TOSCANE Per le Scienze Noologiche Prof. Bibliotecario FRANCESCO BONAINI. Per le Scienze Cosmologiche Prof. Cav. PAOLO SAVI. - Va O Rea i” dr visione, tte ' Pareri Valla pit v aiusegggl (ei pid alias ge: ARI AR PILE ali ATTO e ta CTR. me mit it ronnaltinetà (1 POFI J lofi Li % NEGLRIy (dI ine ona ae vite it dh a rt IR 34200 reo. AR 3 Pao Ra 5 Viet RI) MTA genti Agora co @;, ot SITI he mari iran belueto vt. atrot rin rei uu itato MAZDITII PO TIVI A; ù Vi sdotia lat Te) opta vi bag I I i Peo ita? igo nierblic in po PROMO OATIO VA DI SLY ai (°15 DA TITT9° 200 cualinnini goa. lati MtRasorgst aMuaoo ChE Bi; 7 i Ù Ù r DT. LAURA ITOXC 1480 POLEIE, frnscon mensa IE b*, LU d < 3 conto dar 109 i dd i i : hi } 9] ì , ) PREFAZIONE Oricstione politica, grave e fortemente agitata a questi tempi, è quella che considera l’ insegnamento, che secondo l'indole d’ogni paese civile vuol esser diretto a procurare la cultura generale e necessaria degl’in- telletti. La disputa non tocca soltanto l’insegnamento che usiamo dire primario e secondario, ma riguarda altresì l'insegnamento più elevato pel quale furono poste per antico le Università degli studi; perocchè appunto su queste, e sopra 1 gradi accademici che vi si ottengono, fino dal millesettecentosettantaquattro parve avere concentrato tutti 1 suoi argomenti lo Smith, quando, con molta efficacia di parole seriven- done al Cullen, intese a mostrare, anzichè l’utile, i danni che vengono dalle une e dagli altri. Mi è ignoto che alcuno modernamente sottoponesse in modo largo a nuovo esame la questione della convenienza dello insegnamento delle Università. Di questo solo ho con- vii che mentre nel secolo decimottavo parvero (4 XVI PREFAZIONE informate da idee altamente progressive le proposte fatte da scrittore solenne ai governanti intorno al miglior modo di promuovere l'istruzione fra i popoli, non mancano alcuni oggidi i quali hanno per fermo doversi lasciare al libero volere de’ cittadini lo sce- gliersi a un tempo insegnatori e dottrine. Coloro che così pensano, guardano, piucchè ad altro, ai giorni di una fresca dominazione, nei quali tutto sottostava all'impero d’un solo che volea trabalzata la Metafisica come le antiche dinastie, e schierati nella mente i concetti come i soldati nelle coorti. Chi conobbe il volere prepotente, fortissimo raffigura a se stesso il carattere di dottrine dettate solo a volontà di chi può, e muove poi grave querela perchè gl’ingegni anche i più eletti son fatti privi per tal modo di quel diritto che pure è in loro, di scorgere altrui alla sapienza. Io non so disconoscere la gravezza di questi mali; ma non per questo posso farmi a credere che un perfetto sistema d'insegnamento debba solo trovarsi là dove tutto è lasciato alla libertà di qualunque si arroghi ufficio d’insegnatore. E in verità, ove tu faccia ra- gione dei pericoli dell'uno e dell’altro modo d’insegna- mento, ti appariranno senza meno più gravi quelli che ha in se medesimo il secondo de’ due modi soprain- dicati; perocchè radamente avverrà che l’imperito il quale cerca dottrina, vaglia di per se solo a rinvenire l’insegnatore meglio adatto: e ciò molto più nel paese ove non chiedansi prove di buon costume e di sapere in coloro i quali si danno a farla da precettori. E poi, PREFAZIONE XIX ancorchè i precettori fossero dei più periti, non sa- rebbe per questo a sperarsi che l’ insegnamento il quale tutto riposa sulla libera volontà dei privati, po- tesse rispondere a ogni bisogno fra i moltissimi che ha la nazione: chè anzi dovrebbesi fortemente temere che, a malgrado di sforzi generosissimi, non potessero mai i privati medesimi riuscire se non se a porne uno siffatto, il quale fosse di troppo manchevole ed imper- fetto. Ciò essendo, pare debba accogliersi di preferenza il sistema d'insegnamento che adesso dicono misto, perchè quivi l’azione di chi governa può riuscir salu- tevole, quando per essa si corregga l'insegnamento pri- vato ov'esso sia meno adatto, si supplisca ove per taluno si accenni alla sua insufficienza. È questo per me il solo modo per cui in uno stato può giungersi ad un sistema d'insegnamento compiuto; nè certo saprei come, go- vernandosi altrimenti la cosa, potesse aversi, oltre ad un insegnamento elementare o primario, un insegna- mento tecnico e scientifico, non che un successivo inse- gnamento filosofico ed erudito, quali veramente si ad- dicono a popoli chiamati da Dio a dare esempio al mondo di civiltà e di gentilezza. Tale è il destino a cui il Prixciee nostro magnanimo conosceva esser chia- mata dai tempi la popolazione Toscana. Ed invero, alle altre glorie del reggimento paterno Ei volle ag- giunta ancora quella di fautore e proteggitore degli studi; e ciò principalmente per quei decreti che fece, nell’anno milleottocentoquaranta, per lo insegnamento delle Università di Pisa e di Siena, e dell’ Arcispedale xXx PREFAZIONE di S. Maria Nuova di Firenze. La fama di tali provi- denze risonò alcerto dovunque; ma e’ par convene- vole che in questi Annali delle Università Toscane, i quali imprendiamo a porre in luce sotto gli auspicj di un tanto Prixcire, se ne dia innanzi a: tutto come l’istoria. Così si farà più durevole la ricordanza del benefizio segnalato, nè alcuno potrà muovere accusa che lo mandassero in oblio per un ingrato silenzio coloro i quali ne dovevano più viva conservar la me- moria . La storia della letteratura italiana ebbe spesse volte a far con lode ricordo degli uomini che illustra- rono le Università di Pisa e di Siena (fondate fino da quando le due città si reggeano a comune); ma non fu mai costretta a deplorare la decadenza di questi instituti: chè a mostrarne grandissima e viva la fama anche nel secolo decimonono, bastano solo i nomi di Paolo Mascagni e di Pietro Paoli. Ma i tempi presenti succeduti ad una età di rivolgimenti politici e seien- tifici d'ogni maniera, sembravano chiedere insegna- mento più ampio di quello per cui si vollero dischiuse colla legge granducale del milleottocentoquattordici le Università di Pisa e di Siena, e la Scuola dell’Arcispe- dale di S. Maria Nuova di Firenze coll’ altra legge del milleottocentodiciannove; onde si posero nel mille- ottocentoquaranta novelli regolamenti, per cui torna- rono a più florida vita gli studi. Gli ordini dei quali favello, statuirono si. abolirebbe ogni studio pratico di PREFAZIONE XXI Medicina e di Chirurgia negli Spedali di Pisa, di Siena, di Pistoja, di Arezzo. Le Università di Pisa e di Siena sarebbero le sole scuole di Teologia, di Giurisprudenza, delle teoriche della Medicina e della Chirurgia, dischiuse per lo Stato. Compiuto insegna- mento di Lettere, di Filosofia, di Matematiche, di Scienze Naturali si avrebbe solamente nell’ Università Pisana. L’Arcispedale di S. Maria Nuova di Firenze verrebbe dato agli esercizj pratici di Medicina e di Chirurgia, a perfezionare gli alunni. Chi vide questi ordini dovè commendarli, perchè alla perfine si ebbero per essi in Toscana dottrine quali volevanle i tempi; siffatto insegnamento di Filologia che ben si addiceva alla patria di Dante, all'asilo dei Greci; precetti di | Filosofia razionale e naturale capaci di ridurre alle menti le ricordanze dei giorni gloriosi di Galileo e dell’Accademia memorabile del Cimento. A quest’alto e nobilissimo fine parve intendesse di fatto chi stabi- liva il disegno e la economia di tali studi fra noi. Ed invero, abbandonati quei sistemi di classazione delle cognizioni umane che furono meno lodati dai sapienti del nostro tempo, parve ritenuta negli ordini di che parlava, come suprema partizione delle scienze, quella per cui si distinguono in noologiche e cosmologiche; partizione non fittizia, ma come uscente di per se dalla natura stessa delle cose: essendochè veramente, ove bene si guardi, ogni scienza si riduce o all’ordine che rivela 1 fatti del mondo fisico e della natura, od al- l'ordine in cui si corrono tutte le vie esplorate dal xl PREFAZIONE pensiero. Non è di questo luogo il giudicare di tale concetto ragguagliato ai tentativi di classazione delle cognizioni umane fatti da Bacone fino ai nostri giorni: a noi solamente si addice il mostrare come per le provvidenze del Privo abbiasi di presente in To- scana uno studio di scienze noologiche e cosmologiche quale lo vogliono i tempi. L'Università di Pisa ha (come dicono oggi) sei facoltà di professori. Le tre prime sono poste per lo studio della Teologia, della Giurisprudenza, della Filo- sofia e della Filologia. Le rimanenti, per | insegna- mento della Medicina e della Chirurgia, delle Mate- matiche, e delle Scienze Naturali. L'Università di Siena ha le tre facoltà; di Teologia, di Giurisprudenza, di Medicina e di Chirurgia, ed inoltre un Collegio Filoso- fico. I professori sanesi ascendono al numero di ven- lotto. I pisani giungono a sessantuno; chè per. questo nome vanno distinti, oltre all’ Astronomo del R. Osser- vatorio, anche dodici professori chiamati a dirigere la scuola di studi pratici di Medicina e di Chirurgia, aperta, secondo che dissi, nell’Arcispedale di S. Maria Nuova di Firenze. La facoltà di Teologia in ciascuna delle due Uni- versità si compone di cinque insegnanti, i quali divi- don tra loro l'ufficio nobilissimo di esporre le dottrine profonde dei dogmi cristiani. Chi professa la Sacra Scrittura posto come ad interpetre della parola rive- lata, mostratane l'origine divina e l’ autenticità, e spiegatala per gli ajuti che dà | Ermeneutica nelle PREFAZIONE XXIII parti che stima più conducenti al suo fine, ne racco- glie quei dati dai quali sorge l’intima cognizione del dogma cattolico, poi dichiarato dal professore d’ Istitu- zioni Dogmatiche, e difeso da quello di Teologia Apo- logetica. L'istituzione di quest’ultima cattedra, dovuta alle nuove provvidenze del Priscire, risponde bene ai bisogni presenti; perchè a sostenere il dogma cattolico contro a ciò che ad esso oppongono Razionalisti, Umanitarj ed altri siffatti, era necessità di chi per ufficio e nelle scuole medesime, giovandosi all’ uopo di qualsivoglia maniera di discipline, discorresse ogni ragione filosofica della divina manifestazione; e che movendo la ricerca dalla nozione dell'Ente, la condu- cesse fino ‘all'esame razionale d'ogni singolar verità formulata nel Simbolo. Le verità di cui favello, son quelle medesime che nelle scuole si dicono dogmati- che; ma la dottrina del dovere in quanto esso ha fon- damento nella rivelazione, è compendio d’altra serie di princip] , la dichiarazione de’ quali fu commessa ad un diverso insegnante (il professore di Teologia Mo- rale), al quale spetta il dimostrare ove la norma sia violata, e come per la ragione e per la fede si de- termini l’ esercizio dell’ umana libertà. Nel che appunto riposa la somma delle dottrine. Sennonchè, a meglio conoscerle, o più veramente a rendersi conto d’ogni mutamento della società chiamata da Dio a custodirle, parve convenevole ritenere un magistero che nell’ Uni- versità Pisana sostenne primo d’ogni altro il celebre Noris, quello della Storia Ecclesiastica; non già pel XXIV PREFAZIONE bisogno che si udissero narrati per minuto i fatti, ma sì perchè si avesse chiara contezza delle origini divine del Cristianesimo, delle vicende della costitu- zione, del conflitto delle dottrine, e dell’azione vicen- devole del principio religioso e del principio politico: cagioni vere di quelle mutate condizioni e di quel moderno incivilimento eristiano che non si rimane 0g- gimai solamente all’ Europa. Per tal modo sì volle provveduto all'istituzione dei Chierici: la quale dovrà dirsi principalmente volta alla speculazione, ove alle dottrine ecclesiastiche si leghi lo studio della Filologia Ebraica e Greca; alla pratica, ove allo studio della Teologia, alla Filosofia Morale, alla Pedagogica ed alla Metodologia si aggiunga quello del Diritto Canonico e Civile: dottrine tutte che debbonsi apprendere da coloro i quali chiedono di esser chiamati dottori nelle facoltà della Teologia e della Disciplina Ecclesiastica . Tale è l'ordine de’ nostri studi in quanto son volti alla scienza delle cose divine, e in questa parte può dirsi esservi uguali discipline nelle due Università. Così è degli studi giurisprudenziali; perchè, all’infuori della Filosofia del Diritto che ascoltasi solo nell’ Università di Pisa, per ogni rimanente sono posti per egual modo nelle due Università: sennonchè nove insegnanti vi son chiamati in quella di Pisa, soli sette nell'altra di Siena. L'insegnamento di cui sono per favellare, non muove appresso noi dall’Enciclopedia e dalla Meto- dologia del Diritto, come in Germania. Esso s’inizia per la Filosofia Morale (il cui professore accenna an- PREFAZIONE XXV cora agli alunni le prime idee di Diritto), e per la Economia Sociale, che non è solo teorica della ric- chezza, ma scienza delle condizioni di convivenza per le quali la società umana consegue il massimo suo benessere. La gravità delle questioni, l'estensione dei trattati furono cagione al duplice insegnamento degli elementi, e di quella che negli ordini rinnovellati fu detta Economia Sociale superiore. Quanto giovi questo secondo ammaestramento a maggiormente educare alla scienza coloro che già sono istrutti nelle prime dottrine razionali del Diritto, come conduca allo scioglimento delle implicate controversie che le idee di tanti inte- ressi sociali fanno sorgere, non è d’uopo il dire. Ma lo studio giuridico, nella parte che attiene al positivo delle dottrine, era principalmente da porsi nel Dritto Roma- no; non perchè le sue norme ci stringano come leggi principali e come parti della vita che noi viviamo, ma perchè quivi sono dottrine adatte ad ogni maniera di civiltà; norme convenevoli eziandio alle presenti con- dizioni. Or questo diritto, ch'è sì gran parte della scienza legale, vogliono i nuovi ordini che debba ap- prendersi in ciascuna Università seguitando due scuo- le. La scuola delle Istitute è dischiusa per chi vuole istruirsi speculalivamente nei principj; e qui viene usato (come piace ai migliori) quel metodo che è nel tempo stesso dogmatico, storico e filosofico. Nella scuola delle Pandette trova l’alunno ben diverso eser- cizio alla mente. Qui fassi applicazione continua dei principj e delle dottrine già apprese, giusta le norme d XXVI PREFAZIONE che ne lasciarono i giureconsulti romani scrivendo. Queste due scuole sono continuazione di altre le quali furono fino da’ vecchi tempi in Siena ed in Pisa; ma una nuova scuola di Giurisprudenza fu aperta nel milleottocentoquaranta per benefizio del Privcree Orto. Qual essa sia, lo dice il titolo di scuola di Diritto Toscano e di Diritto Commerciale per cui va distinta; come risponda ai bisogni presenti, non è chi nol veda. Infatti; se le condizioni dell’attuale civiltà italiana venute dalla luce del Cristianesimo, dall’accoz- zarsi del vecchio elemento latino agl’istituti germanici, mal rispondono a quelle dell’antica, niun dubbio v ha che non fosse mestieri di chi n’ammaestrasse nel diritto vigente della patria e nel diritto commerciale europeo: norme svariate quanto sono i bisogni morali ed econo- mici di un popolo dato ai commerci e alle industrie; erede del nome, dell’attività, dei costumi degli uomini che composero il municipio del medio evo. Quest’ or- dine di principj bene si connette colla scienza del Diritto Criminale, professata ugualmente nelle due Università, che prende a discorrere la natura e le specie dei delitti, la politica necessità ed i mezzi d’in- frenarli: dottrina che si volle spiegata non solo secondo i principj del diritto costituito romano e toscano, ma ancora secondo le massime generali della scienza del diritto costituendo, che dagli scritti dei pubblicisti testè passarono nelle leggi e nei codici dell’ Europa. Le regole del diritto positivo, delle quali ho favel- lato nella giurisprudenza comune, si stringono ad altre PREFAZIONE XXVII norme direttive delle azioni esterne, le quali ripetono le loro origini dal Cristianesimo. La scienza del Diritto Canonico, sorta a gran mole pei continui rivolgimenti della società ecclesiastica, oggimai può dirsi più storia che giurisprudenza, avuto riguardo alle mutate con- dizioni de’ tempi. Non per questo vuolsi meno studiare; anzi è da seguitarsi con tutto l'animo, perchè in essa puoi discoprire origini vere di molti statuti civili d’ Europa, non pochi principj i quali durano ancora nelle leggi de’ popoli. Ora di tali dottrine canoniche ogni nostra Università ha due professori; l’uno per gli elementi, l’altro per più diffusi trattati. Per questa guisa si compie appo noi lo studio dei dogmi; ed in questi soli si stava ogni scienza delle leggi che potevasi apprendere in queste scuole tra l’anno milleottocento- quattordici ed il milleottocentoquaranta. La Storia del Diritto, la quale narra il nascimento e lo svolgersi successivo dei principj, non che le condizioni sociali dei popoli appo i quali vigevano; questa nobile disci- plina, che ricerca le parti più intime del diritto e che ne rappresenta la vita; è dono novello del Priore: dono doppiamente grato, perchè congiunto nell’ Uni- versità Pisana all'istituzione di una cattedra della Filo- sofia del Diritto. Questo sistema scientifico, volto a rintracciare nella natura dell’uomo l’origine e l'indole d'un diritto che sia vera ed assoluta norma de’ suoi esterni liberi movimenti rispetto ai suoi simili, è posto come compimento e quasi epitome d’ ogni dottrina giuridica. XXVIH PREFAZIONE Le scienze sociali, anzi tutte le umane cognizioni riconobbero sempre ogni più valido ajuto dalla Filosofia che n’ è il fondamento e la cima: onde il Galileo glo- riavasi d'avere studiato in essa più anni, che mesi nelle Matematiche. Or questo ajuto non poteva mancare là dove il Privciee che ne reggeva era quello medesimo pel cui favore gli studiosi della natura convennero primamente tra di loro in Italia; il quale a tant’uopo provvedeva regalmente ordinando, si avesse una fa- coltà di Filosofia e di Filologia nell’ Università Pisana, un Collegio Filosofico in quella Sanese. L'insegnamento della Filosofia Razionale si volle in Siena affidato a quel professore medesimo il quale discorso avrebbe le dottrine della Filosofia Morale. Nell’ Università di Pisa, per lo contrario, l’ introduzione alla Filosofia e la spiegazione dei principj psicologici e di ciò da cui risulta la scienza del dovere, furono dottrine com- messe a due diversi insegnanti; a un solo profes- sore poi l’ammaestramento nella Pedagogica e nella Metodologia, per quella affinità che intercede tra la scienza dell’educatore perfetto e quella dei metodi generali e particolari i quali meglio riescono al fine ultimo dello educare. Le scienze d'applicazione delle quali ragiono (la Pedagogica e la Metodologia) ebbero a buon diritto una sede nell'Università la quale vide 1 primi moti della Filosofia sperimentale per gli studi del Galileo; ma sede non dissimile fu giustamente appa- recchiata dipoi (nel milleottocentoquarantadue ) alla Storia della Filosofia, che non poteva più a lungo PREFAZIONE XXIX tacersi la ove gli scritti di Platone erano stati dichia- rati fino dal secolo decimosesto. Io non dirò di qual momento sia tale studio per determinare e valutare ogni passo della ragione, qual si voglia progressione dello spirito. Certo, la Storia della Filosofia non ha la sola efficacia di rappresentare mediante esame critico il vero carattere d'ogni sistema di dottrine speculative, ma è luce che massimamente irradia ogni erudizione e filologia, e il vario e continuo processo della civiltà parallelo a quello della sapienza. Il Collegio Filosofico dell’ Università di Siena, fra 1 professori che lo com- pongono ha quello cui s’appartiene l' istruire nelle Lettere Italiane, Greche e Latine; e quanto alle Lingue Orientali, n'è quivi insegnatore chi professa la Sacra Scrittura; ma nell’ Università di Pisa ben diversi ordi- namenti si osservano. Potendosi in questa sola Uni- versità conseguire il grado onorevole di laureato nella Filosofia e nella Filologia, parve convenevole che qui fosse tal professore il quale ricordasse il magistero che già vi ebbe nel secolo quattordicesimo Francesco da Buti, espositore di Dante; quello delle Lettere Italiane: e che, oltre all’ insegnatore delle Lettere Latine e Greche, quà pure sedesse un maestro tutto volto alle Lingue d’ Oriente. Gli ordini de’ quali parlo, stabilirono, come ognun vede, che per questa parte l'insegnamento sarebbe quale il volle nel milleotto- centoquattordici il Granduca Ferdinando III: sennon- chè si ebbe, con provvidenza al tutto nuova, una cattedra di Storia e di Archeologia; cui veniva pri- XXX PREFAZIONE mamente chiamato quel Rosellini, che, auspice il Prince nostro, peregrinò in Egitto ed in Nubia a far tesoro di quella scienza, della quale lasciava così splendido monumento in un’ opera storica consecrata al nome immortale del Sovrano Magnano che tanto favore prestava agli studi. Tentai di rappresentare l'ordine dato dai rego- lamenti novelli agli studi noologici delle nostre Uni- versità. Ora io debbo entrar a dire degli studi co- smologici, ajutati dal Prixciee con tanta splendidezza da mettere meraviglia in ciascuno. Già dissi come per questi ordini si abbiano, oltre alla scuola dell’ Arci- spedale di S. Maria Nuova di Firenze, tre facoltà di professori nell’ Università di Pisa, una facoltà ed un Collegio Filosofico in quella di Siena. La laurea dotto- rale nelle scienze Naturali e nelle Matematiche si con- segue solo dagli alunni i quali perfezionarono questi studi nell’ Università Pisana. I professori delle scienze Naturali e delle Matematiche del Collegio Filosofico di Siena altro ufficio non hanno fuorchè quello di pre- pararli alle più elevate discipline, o di ammaestrarne intorno alle scienze per essi professate coloro i quali danno opera allo studio della Medicina e della Chi- rurgia. Le seienze cosmologiche hanno tutte per comune loro fine la cognizione del mondo fisico e della na- tura; ma ciascuna di esse ha nel tempo stesso un fine suo particolare, e certi caratteri altresì pei quali si associa più spezialmente ad alcune tra le sue compa- PREFAZIONE XXXI gne, si separa da molte altre. Il D’Alembert volle distinta la Fisica dall’Astronomia, perchè l’una, giusta il suo concetto, era scienza della materia, Valtra del tempo; ed associò poi a quest’ultima la cognizione dell’ Istoria. Già furono notati i vizj. di questo suo modo di ordinare le scienze. Certo, se togliamo a considerare quelle noologiche in rispetto alle diver- sità che vogliono farsi tra le medesime, sembra clas- sazione più d’ogni altra conveniente quella per cui tu separi le scienze le quali propriamente intendono alla cognizione migliore della natura, dalle altre le quali applicano la cognizione della natura stessa al benessere dell individuo, ossivvero all’utile della società umana. Per cofal modo si fa manifesto il perchè dagli ordini novelli si volesse, nelle Università di Pisa e di Siena, separata da ogni altra facoltà quella della Medicina e della Chirurgia; e perchè poi, per le scienze Mate- matiche e Naturali si stabilissero altre due facoltà di professori nella prima, un Collegio nella seconda; di- chiarando aboliti quegli ordinamenti pei quali gl’inse- gnatori delle scienze Matematiche e Naturali andavano aggiunti alle scuole di Medicina, non tanto nelle Uni- versità di Pisa e di Siena, quanto nelle scuole del- l Arcispedale di S. Maria Nuova di Firenze. Codesti ordinamenti erano avanzi di vecchissime consuetudini : perchè, come apprendiamo per le istorie, nelle antiche Università italiane medici, fisici e artisti costituivano quasi sempre un solo collegio di professori. La scienza della Medicina, più empirica che ra- XXXII PREFAZIONE zionale in antico, fu per lunga età nelle scuole toscane principalmente volta alla pratica: anzi, prima del mille- ottocentoquaranta, fu grande desiderio tra noi di quella tanto necessaria separazione che in questo studio è da farsi tra la pratica e le teoriche; ‘e che gli alunni avessero tempi assegnati per istruirsi nella parte spe- culativa, tempi solamente dati all’ esercizio ed alle applicazioni di quella. L'epoca alla quale accenno è ben memorabile per l'eseguita separazione delle scuole. Ed invero, a fare istrutti gli alunni nelle teoriche, ordinavasi ascolterebbero per quattro anni i professori della facoltà di Medicina e di Chirurgia delle Università di Pisa o di Siena; e che quindi darebbero opera allo studio dell’applicazione guidati dai professori quali tengono magistero nelle scuole dell’ Arcispedale di S. Maria Nuova di Firenze; dove (essendo questo il maggiore Spedale che si abbia la Toscana) l’osserva- tore attento potrebbe a suo grado studiare ad un tempo gli umani morbi più complicati e svariati, ed i mezzi più adatti per sanarli. La fondazione di que- sta scuola di complemento e di perfezionamento degli studi della Medicina e della Chirurgia non venne a menomare l'antica fama delle Scuole Pisana e Sanese, perocchè niente ad esse fu tolto di ciò che guida al migliore apprendimento di tali dottrine. E veramente, nell’una e nell’altra, allo studio dell’ Anatomia Umana, di cui fino dal secolo decimosesto lasciò appresso noi così splendido monumento il Falloppio, si volle con- giunto quello dell’ Anatomia Comparata, e si diramo PREFAZIONE xXx l'insegnamento dei fenomeni fisiologici che più giova l’osservare. Codéste discipline porgono le cognizioni necessarie al professore di Patologia Medica Generale, a cui s'apparliene il discorrere la Nosologia Generale, la dottrina de’ fenomeni, e quella più riposta ancora delle cagioni per le quali i morbi si manifestano. Come questa disciplma conduca alle altre della Patologia e della Terapeutica Medica Speciale, confidate, insieme colla Clinica Medica, ad un solo insegnante in Siena ed in Pisa; e come quest’ultimo esercizio della Clinica Medica sia posto nelle scuole ove si apprendono le teoriche a fine di render atti gli alunni, quando che sia, allo studio della pratica, è assai manifesto. Certo, con questo intendimento medesimo si volle ritenuta nelle due facoltà di Pisa e di Siena, per gli ordini del milleottocentoquaranta, la cattedra della Clinica Chirurgica e della Chirurgia Operatoria: al che ap- parecchia in certo modo gli alunni il professore di Patologia Chirurgica; al quale si associa ugualmente, nelle due Università, il professore delle teoriche del- l’Ostetricia, e delle malattie delle puerpere. La Storia della Medicina, che ha per ufficio suo proprio il ricercare le origini e le vicende dei sistemi curativi ed igienici, in ordine al progresso generale delle umane cognizioni, ed in ragione dello stato so- ciale dall’età in che la Medicina medesima era solo empirismo a’ giorni nostri; è insegnamento sì alto, che ben si addiceva allo splendore della prima Università di Toscana nell'epoca avventurosa in cui Lroporno IL. e XXXIV PREFAZIONE ‘ voleva in essa ristorati gli studi. E veramente, tale disciplina può dirsi complemento anzichè introduzione di tutti gli studi teoretici di Medicina e di Chirurgia: ai quali ben si congiungono ( tuttochè siano propria- mente scienze le quali applicano la cognizione della natura alla società, non all’ individuo) la Medicina Pubblica, insegnata ugualmente nelle due Università; e la Zoojatria, che ha maestro soltanto in quella di Pisa. Ciò dicasi ancora dell’ insegnamento della Mate- ria Medica e di quella parte della Farmacologia ch'è volta a far conoscere le virlù 0 proprietà dei rimedi, e il modo migliore d’amministrarli: insegnamento ag- giunto in Pisa ed in Siena alla facoltà medesima di Medicina e di Chirurgia. Le condizioni presenti degli studi delle teoriche mediche e chirurgiche sono certamente quali le doman- davano i tempi nostri: ma dopo l’anno milleottocento- quaranta, non è meno fiorente la scuola dischiusa per gli esercizj pratici nell’Arcispedale di S. Maria Nuova di Firenze. Già in questo Istituto fu per antico tempo lo studio dell’ Anatomia Descrittiva. I muovi ordini del milleottocentoquaranta lo vollero abolito per coloro i quali intendono agli esercizj della pratica; perocchè parve più profittevole per alunni già istrutti nei fonda- menti anatomici, anzichè ripetere dottrine già apprese, lo spiegar precetti d’ Anatomia Patologica Generale e Speciale; e portare ad un tempo l'osservazione non che sopra le degenerazioni organiche, ma eziandio so- pra Je loro deviazioni. Da ciò procedono conseguenze PREFAZIONE XXXV utilissime alla pratica della Medicina e della Chirur- gia: siccome, primo d’ogni altro, lo dimostrò in code- ste scuole, allora prive d’ogni collezione patologica, il Prof. Pietro Betti, framettendo le osservazioni di ché ragionasi agli Elementi della Chirurgia che per lui si dettavano. L’Anatomia Patologica è grande ajuto per chi vuol risalire fino alle cagioni de’ morbi; ma se guar- diamo alla pratica, non avvi forse insegnamento che più giovi di quello dell’ Anatomia Corografica: però sapien- temente era ordinato, nel milleottocentoquaranta, che nelle Scuole di S. Maria Nuova si avesse un insegnante tutto dato a descrivere le regioni de’ corpi umani; a cui spettasse ad un tempo lo ammaestramento in quella parte più riposta della scienza anatomica che consi- dera la struttura interna de’ varii visceri, il modo loro di generarsi; e che i moderni distinguono col nome di Anatomia Sublime. Son questi i principali sussidi offerti a coloro i quali vogliono intendere agli esercizj pratici della Medicina e della Chirurgia nella Scuola di S. Maria Nuova di Firenze: sussidi non meno larghi de- gli altri che ponno attendersi da chi professa la Chimica Organica applicata alla Patologia; non che la Fisica Medica insegnata col medesimo intendimento: magi- sterii con somma provvidenza ordinati per la prima volta in Italia, mercè le nobili dottrine del Prof. Gioac- chino Taddei, in luogo di quelli che in queste scuole medesime si ebbero in altri tempi della Chimica e della Materia Medica; le quali scienze meglio si colle- gano agli studi delle teoriche che non a quelli delle XXXVI PREFAZIONE applicazioni. Queste cose volevansi narrate prima di venire ad additare le discipline tutte che in questa scuola si apprendono. L'insegnamento della Patologia Medica, della Terapeutica Speciale e della Clinica Medica, quello della Patologia e della Clinica Chirur- gica, qui si ebbero sempre; nè vi mancò mai nem- meno lo studio teoretico dell’Ostetricia. Piacque nel milleottocentoquaranta che a quelli dovessero aggiun- gersi non tanto la Clinica Ostetrica e l’altra Clinica delle malattie della mente accompagnata da trattati, ma sì la Clinica e le prelezioni sopra le malattie della cute. Anche la Clinica e le prelezioni intorno le malattie oftalmiche ebbero un loro proprio direttore e maestro, al pari della Clinica e delle prelezioni sopra i mali afrodisiaci; nè si trascurò, per ultimo, la stessa importantissima Clinica Ortopedica. La Medicina e la Chirurgia sono applicazioni della scienza della natura all’utile dell’uomo individuo. Ma, secondo che dissi, fra le scienze le quali vengono sotto la denominazione generale di cosmologiche, altre se ne hanno propriamente intese alla cognizione migliore della natura in se stessa; ben diverse da quelle le quali consistono nell’applicare questa scienza medesima al profitto dell’associazione umana. Le Matematiche, le Scienze Naturali appartengono ora all’un ordine ora all’altro, secondochè si rimangono 0 a mera specula- zione della mente, ovvero intendono ad applicare questa. speculazione istessa al profitto degli uomini. Già venne detto, come nel milleottocentoquaranta si PREFAZIONE XXXVII stabilissero due facoltà di professori nell’ Università di Pisa per questi due insegnamenti, i quali sono confi- dati al Collegio Filosofico in quella di Siena. .L’insegnamento della Geometria e della Trigono- metria, in quest’ultima Università, è commesso ad un professore il quale ha sede nel Collegio Filosofico; ma nell’ Università di Pisa è chiamato ad ammaestrare nell’una e nell’ altra un insegnatore attenente alla facoltà delle Matematiche, al quale spetta inoltre l’istruire gli alunni nella Geometria Descrittiva. La scienza dell’Algebra, quella dell’ Analisi Infinitesimale, la Geometria Descrittiva e l’Analitica, per gli ordini dell’anno milleottocentoquarantacinque sono insegna- menti affidati nell'Università Sanese a due diversi pro- fessori: ma in quella di Pisa le dottrine dell’Algebra, della Geometria Analitica, dell’ Analisi Infinitesimale (taccio per ora di quelle della Geodesia) hanno tre proprii e distinti insegnatori. Ciò non è da dirsi della Meccanica Razionale e dell’ Idraulica Teoretica, le quali s'insegnano nello Studio Pisano da un medesimo professore. Tali dottrine, le quali sono così ampie e sublimi, era desiderio di molti che fossero dettate colla debita estensione ed elevatezza nell’ Università, i cui annali ricordano non tanto la viva presenza del Galileo, quanto i nomi gloriosi del Castelli, del Borelli, del- l’Oliva, veri discepoli di quel sommo. Io non dirò che agguagliasse la loro fama Alessandro Marchetti, il quale fu nell'amicizia del Leibnitz, e spiegò la Meccanica nell’ Università Pisana. Questo solo asserisco, che non XXXVIII PREFAZIONE potevasi introdurre insegnamento per le pratiche ap- plicazioni più fecondo di quello che si volle istituito novellamente nella medesima scuola col nome di Isti- tuzioni Fisiche e Matematiche per l’arte degl’Inge- gneri: perocchè in quello sono precetti per le armature dei ponti, pei ripari dei fiumi, per la costruzione delle vie; ed altre dottrine di grandissimo momento nelle condizioni presenti della civiltà. L'Università di Pisa ebbe in tempo assai remoto maestri d’ Architettura Militare: tra i quali, quel Quintiliano Santarelli Fio- rentino, che Milano ancora rimembra per ciò ch'egli fece in materia di opere idrauliche e di fortificazione. Ma è gloria dei presenti giorni, o meglio del Principe che ne regge, l’insegnamento della Fisica Tecnologica e della Meccanica Sperimentale, che videsi aggiunto nel milleottocentoquaranta alla facoltà delle Scienze Matematiche di questo medesimo Studio. L°’ istruzione pratica nell’Astronomia compiesi, pei nuovi ordini, dal Professore del R. Osservatorio di Firenze. Sennonchè in luogo di tale insegnamento, che fu in altri tempi nell'Università stessa di Pisa, avvi presentemente in questa la cattedra della Fisica Matematica, della Mec- canica Celeste e della Geodesia, da cui si dettano precetti per le principali operazioni (siccome dicono) e pel calcolo delle osservazioni dell'alta Geodesia, as- sociati a qualche sezione di Meccanica Celeste, e avvi- cendati poi da alcuna delle applicazioni dell’ Analisi alla teorica della luce, del calore e dell’ elettricità; dottrine tutte il cui insegnamento non è ancor dive- PREFAZIONE XXXIX nuto generale, e che forse la sola Università Pisana si pregia d'avere. I progressi fatti a questi tempi dalle Matemati- che chiedevano tale restaurazione di studi là dove nacquero il Fibonacci, il Vinci ed il Galileo. Ma fu volere del Princiee che l'insegnamento delle Scienze Naturali si ordinasse sopra tali ampie basi, onde si ottenesse di calcare ed emulare le vestigia dei Gran- duchi Ferdinando II e Cosimo II, non che del Cardi- nale Leopoldo de’ Medici. La cognizione delle pro- prietà dei corpi e delle leggi eterne che le regolano, la scienza la quale guida a determinare la natura intima di esse proprietà (la Fisica e la Chimica), sono discipline nelle quali le teoriche voglionsi legar sempre all'osservazione de’ fenomeni: e però molto provvida- mente fu decretato, che tanto per la parte speculativa, quanto per la parte sperimentale deli’una e dell’altra, si avessero per egual guisa due professori nella facoltà delle Scienze naturali dello Studio Pisano, e nel Col- legio Filosofico di quello di Siena. Ciò non accadeva per questi ordini stessi quanto ad altre discipline. Infatti nell'Università di Pisa si volle un professore tutto inteso alla scienza della Geologia e della Mine- ralogia; e fu poi diviso tra due l'ufficio d’ammae- - strare nella Zoologia (cui si aggiungeva, siccome dissi, l’Anatomia Comparata) e nella Botanica. Erano questi due insegnamenti nell’ Università Pisana fino dai giorni Medicei; e bene ad essi furono visti congiungersi adesso altri novelli magisterii, i cui precetti sono così f XL PREFAZIONE profittevoli all’universale: la Geografia Fisica, l’Agro- nomia e la Pastorizia. Le cose narrate sono testimonianza d’una sin- golare sollecitudine per la restaurazione degli studi superiori. Ma a rendere fruttuosa l’opera per cui la Toscana rivendicava il primato antico, erano richieste altre provvidenze: perocchè a dar contezza intiera del movimento scientifico del secol nostro, più che la voce nuda de’ sapienti, giovano biblioteche fornite a dovizia, gabinetti, musei, orti sperimentali, d'onde puoi avere gran copia non solo d’idee, ma di fatti. Gli ordini dei quali parlo, davano novello lustro a quelli stessi sta- bilimenti che vanta l’ Università Pisana, è già gran tempo; tra’ quali alla pubblica Biblioteca. Sorta da tenui principj nella prima metà del secolo decimottavo; fatta ricca, per munifico volere dell’ Augusto France- sco I, de’ tesori letterarj adunati dal Doni, dallo Strozzi, dal Bonarroti, dai Salvini e dal Gori; accre- sciuta, per benignità di Leopoldo I, delle due biblio- teche Verzani e Malaspina, non che della Grandiana; splendida per le più fresche liberalità dell’ Albizzi, del Fabroni, del Malanima, del Piazzini; la Biblioteca Pisana era. ben meritevole di quei favori pei quali Lrororro II sembrò volerla riporre fra le più fami- gerate d’Italia. Ed in vero, fattone il censo annuale più largo; dischiusala a benefizio degli studiosi, du- ranli i mesi invernali, anche nelle ore notturne; van- taggiatala di sale più ampie nel milleottocentotren- tanove; ordinava il Prince GENEROSO, nel milleotto- PREFAZIONE XLI centoquarantadue, che in essa si riponessero i Disegni originali dei monumenti d’Egitto e di Nubia, delineati nella Spedizione scientifica e letteraria Franco-Tosca- na; e voleva ad un tempo, che a benefizio comune vi fosser racchiuse, insieme ai Manoscritti del Rosellini (dei quali l' Uomo illustre fece dono morendo), tutte le opere archeologiche raccolte da lui, come care delizie dei proprj studi. Così si volgeva a profitto degli stu- diosi che accorreranno nei tempi appresso alle Scuole Pisane ogni testimone della vita intellettiva di quel Sapiente: e bene a questo atto rispondeva il decreto fermato pur ora, per cui si volle che la Biblioteca Comunale Sanese si avesse come stabilimento della Università. Le memorie dei grandi sono fiamma al- l'animo dei generosi: però io penso che sia da atten- dersi largo frutto dagli Alunni dello Studio di Siena, quando riflettano con loro stessi che fondatore primo della Biblioteca, donde traggono così grande dovizia di scienza, era l Economista Bandini; nome non meno glorioso di quello di Paolo Mascagni, di cui i gabinetti Sanesi serbano tultora a comune benefizio le ammi- rande preparazioni anatomiche, per le quali tanto grido egli levava in Europa. Al Mascagni bastava la vita, se non a compiere quel libro per cui auguravasi rinomanza durevole, certo a guadagnarsi grido d’anatomista il più eccel- lente de’ tempi suoi. Non così a Tommaso Biancini € a Filippo Civinini, professori pisani; infelici amendue perchè, morendo ugualmente in età ancora verde, XLII PREFAZIONE dovettero lasciare imperfetto il Museo d’ Anatomia Fisiologica e di Anatomia Patologica, sì umana che - comparata, il quale dischiuso per opera del primo nel milleottocentotrentatre, era stato ampliato dall’al- tro con tante cure. Il Museo di cui parlo, ricco delle anomalie e dei mostri che furono un tempo in quello Reale di Firenze, ebbe nome non volgare fin dal suo nascere per gli studi prolungati e per le pere- grinazioni del Civinini, non che per donativi d’ uo- mini preclari. Tali erano i pezzi patologici raccolti già dal Nannoni, dal Mazzoni, dal Regnoli, dal Zannetti: i calcoli orinarj del Museo Mediceo; i preparati che servirono al Panizza di tipo per le tavole dell’opera sui vasi linfatici; le injezioni del sistema branchiale dei pesci uscite dalle mani stesse dell’ Alessandrini; per ultimo, la raccolta elmintologica di cui fece dono il Catullo, ove sono individui venuti dalla collezione viennese di Bremser, ed altri posti insieme per gli studi del Malacarne, del Renier e del Brera. Per questi ajuti sorgeva il Museo Anatomico Pisano, al quale conviene il nome non tanto di Fisiologico e di Patologico, quanto ancora di Teratologico: e così vedemmo posto ad effetto il desiderio ardentissimo dei sapienti, cui il Civinini studiossi di rispondere scrivendo non solo della origine e dei progressi di quello, ma ponendo altresì a stampa un accurato Indice degli oggetti che lo componevano. Gli seritti di quest’ uomo industrioso valsero a dilatare il nome del Museo Anatomico di Pisa; nè a PREFAZIONE XLI quello Fisiologico di S. Maria Nuova recò nocumento il modesto silenzio dei Fiorentini: perocchè così eccel- lenti cose operarono i suoi promotori e regolatori, che ogni uomo dato alle arti salutari si compiacque di vedere fiorentissimo un Museo, reso celebre fin dal suo nascere per la fama del fondatore; voglio dir del Mascagni. Il Museo di cui favello, ordinato primie- ramente, nel milleottocentotrentanove, dal Prof. Carlo Burci, offre allo studioso, oltre alle mirabili injezioni sanguigne e linfatiche del Mascagni medesimo, alcu- ne preparazioni di Anatomia Umana del Prof. Filippo Uccelli; assai più di Anatomia Comparata quivi riposte dal Prof. Pietro Betti; moltissime dell’uno e dell’altro genere che il Prof. Ferdinando Zannetti può additare a testimonianza del suo buon volere e dei pertinaci suoi studi. L' Embriologia Umana e Comparata si veggono al presente anteposte alla dimostrazione dei principali sistemi organici. Le preparazioni di Ana- tomia Comparata trovano luogo allato a ciascun siste- ma ed a ciascuno apparecchio organico d’Anatomia Umana: dal che non è da dirsi quale e quanto pro- fitto possano trarre gli studiosi. Tale è il Museo Fisiologico Fiorentino; nè dissi- mile è quello Patologico fondato parimente nell’ Arci- spedale di S. Maria Nuova nel milleottocentoventisei: stabilimento ch’ebbe nome in Italia pel generoso animo del Prof. Betti che lo instaurava, e che crebbe ognora di grido per le incessanti cure del Prof. Ferdinando Zannetti, e pel Catalogo ch'egli stesso ne ha dettato. XLIV PREFAZIONE L'ordinamento di questo Museo, quanto alla distribu- zione delle parti alterate per malattia 0 per vizio di conformazione congenita, e quanto alla classazione delle mostruosità, fu fatto secondo le dottrine dei più chiari scrittori d’ Anatomia Patologica e di Teratologia. Così fu resa acconcia alle indagini degli studiosi questa collezione rarissima, la quale vedesi impreziosita ancor più per alcune ammirabili più che eccellenti prepara- zioni in cera del Dott. Giuseppe Ricci e di Luigi Cala- mai, e per non pochi disegni all’acquerello in colori, operati lodevolmente dall’artista Ottavio Muzzi. Il Museo che mi sono ingegnato di descrivere, aprivasi laddove sursero un tempo le scuole dell’ Arci- spedale, che fu pietosa fondazione di Folco Portinari. Stabilito novellamente in Pisa l’ufficio del Professore di Fisica Tecnologica, davasi a questo l’antico gabi- netto degli esperimenti: se ne fondava, pel Professore di Fisica Sperimentale, uno al tutto nuovo e splendi- dissimo. Ciò facevasi scorsi appena novant’ anni dalla instaurazione della cattedra di Esperimenti Fisici: in- dizio luminoso del largo campo che tiene oggidì la scienza dei fenomeni naturali, di non poco promossa dal Prof. Carlo Matteucci; il cui ardore fu precipua cagione a far sorgere, per volontà di Chi impera, il novello Stabilimento, e ad arricchirlo non solo dei rari ed eccellenti strumenti astronomici costrutti già dai celebri artisti Reichenback e Fraunhofer, ma sì d’ogni più squisito apparecchio che stimasi adatto allo sperimentare. Di tanto si accrebbe anche l’insegna- PREFAZIONE xLV mento della Fisica Tecnologica, al quale tutta l’opera sua va consacrando lodevolmente il Prof. Luigi Paci- notti. Ma il benefizio non si rimase poi alla sola Uni- versità di Pisa; chè anche in quella di Siena venne fatto più splendido il Gabinetto di Fisica Sperimen- tale per buon corredo di arnesi e macchine novelle. Frano questi (insieme alle più larghe dotazioni an- nuali ) potentissimi ajuti al progredir della Fisica. Nè minori furon quelli che ebbe da poco in quà l' inse- gnamento della Chimica: in quanto che, a vantag- giarlo possibilmente, e a rendere più duratura la me- moria che il piccolo Laboratorio Chimico del Ma- locchi fu prima cagione alla scienza della Chimica in Toscana, volle l’Aucusro ReenantE, nel milleottocen- toquarantatre (plaudendo ai voti del Prof. Giuseppe Branchi), che si fondasse un amplissimo Laboratorio laddove in prima erano le sale della Biblioteca dello Studio. Così instauravasi la nuova Scuola di Chimica: la quale a questi ultimi anni novello incremento ha ricevuto per le cure animose del Prof. Raffaello Piria, chiamato a succedere al Prof. Branchi; talchè al pre- sente il Laboratorio di Chimica della Pisana Università non lascia nulla da desiderare di tutto ch'è necessario ad imprendere ogni esperimento intorno alla conoscen- za molecolare dei corpi. Poco lungi dal moderno La- boratorio di Chimica, il primo Ferdinando dei Medici concedeva luogo opportuno al Giardino Botanico; ac- cresciuto, nel secolo prossimamente decorso, dal Granduca Pietro Leopoldo, e fatto ricchissimo nel XLVI PREFAZIONE nostro, sotto il reggimento felice del Figlio e del Nerore, così di suolo come di piante, per le solle- citudini ammirande del Prof. Gaetano Savi, grande onore d’Italia: del quale non tornò vano l'esempio a colui che, nato da esso, tiene ora il magistero onde quel sapiente fu così lodato vivendo. Queste parole accennano non pure al prezioso e copiosissimo Erbario che il Savi stesso donava e che accrescevasi per l’al- tro di piante egizie raccolte dal Raddi, ma sì all’am- pliazione del Giardino dal lato settentrionale, decretata nel milleottocentoquarantuno; per cui la nuova super- ficie del suolo aggiunta al Giardino istesso ( sulla quale vivono fin d’ora piante elettissime), è ben presso, per la estensione, alla metà di quel terreno che per antico era dato alla cultura, come allora dicevano, dei semplici. Il Giardino Botanico di Pisa, le cui vicende nella storia delle scienze si legano al nome d’ Andrea Cesal- pino, era meritevole dell’alto favore che ottenne, sol che si abbia riguardo al vanto di priorità, a cui non invano esso aspira sopra ogni altro d’Italia. Ma di eguale parzialità era ben degno il Museo di Storia Naturale, aperto agli studiosi nel millecinquecento- novantuno da quel raro uomo del Padre Francesco Malocchi, inanimato dal molto amore che il Gran- duca Ferdinando I portava alle scienze. Il Museo Pisano ebbe nome d’insigne fin da quando lo visitava il Peirescio; e Francesco IL Imperatore provvide assai bene, nel millesettecentoquaranta, alla quasi spenta PREFAZIONE XLVII sua fama. Se non che, fondatore più che ampliatore di esso vuolsi chiamar giustamente l’ Auusto Sovrano che adesso impera. Ed in vero, Egli molto si piacque di assecondare lo zelo ardente del Prof. Paolo Savi, chiamato a leggere le Scienze Naturali nell’anno mil- leottocentoventiquattro , e di compiere a un tempo la munifica opera del Genitore Augusto: il quale ferma- va, nel milleottocentoventitre, che dovessero sorgere dalle fondamenta tre sale (una delle quali molto am- pia) dal lato meridionale del Museo, per accogliervi la copiosa raccolta d’Uccelli nostrali, di Mammiferi e d' Insetti che il Savi stesso aveva formata. Erano questi ben tenui principj, quando si abbia riguardo all’am- piezza cui veggiamo ora condotto lo Stabilimento: pe- rocchè le preparazioni di animali, e soprattutto di Vertebrati, delle quali il Prof. Savi si fece ad ar- ricchirlo, hanno vera e grande importanza sia per l’ar- lificio stupendo con cui vennero condotte, sia per la rarità delle specie, che si attirano l'ammirazione di tutti coloro che concorrono ad osservarle. Per tal modo, di angusto ch’esso era innanzi, vedesi ora grandemente ampliato, sino a poter contenere in otto sale di non comune magnificenza ( edificate insieme alle ampie e bene instrutte officine per le dissezioni, e preparazioni zootomiche , volendolo il Priveree GENE- roso; nel milleottocentoquarantuno) le rieche abben- chè nuove collezioni d’Anatomia Comparata, aggiunte alle raccolte Zoologiche e di Mineralogia le quali tengono non poca parte di questo Museo, che già fu g XLVII PREFAZIONE di quattro sale, e che ora venne ampliato fino a venluna. Lo Stabilimento del quale parlo ottenne rino- manza nei giorni Medicei pei Minerali, pei Fossili, per le Conchiglie, per gli Zoofiti ; e fino dal milleset- tecentoquarantasette fu meraviglia d’ogni studioso la collezione delle Conchiglie del Gualtieri, che vi è ser- bata pur ora. Ma è maggiore di assai la fama onde si fregia a questi giorni per la collezione Geologica, forestiera e toscana, di che il Savi potè arricchirlo nelle sue tante peregrinazioni: alla quale la munificenza Reale ha fatto, in questi ultimi anni, aggiugnere la raccolta dei prodotti vulcanici dell’ Italia meridio- nale, frutto di molti anni di fatiche del Prof. Leo- poldo Pilla, la più copiosa di siffatto genere che sia in Europa. Insieme con questa vi è benanche collo- cata una raccolta di tutti i fossili principali del suolo Napoletano, recata dal Professore medesimo. Nè qui si rimangono gli acquisti novelli delle preziosità di tal sorta. Infatti, il Prof. Pilla va d’ora in ora adu- nando larga copia di fossili terziarj, dei quali il no- stro suolo è sì ricco. Oltre a queste patrie raccolte, vanno poi semprepiù ampliandosi, in ciascun anno, le collezioni generali di Mineralogia , di Geologia e di Paleontologia, che tanto sono necessarie in un paese il quale, per la sua ricchezza minerale, può chiamarsi la Sassonia d'’ Italia. Il Museo Pisano surse e si accrebbe, come ve- demmo, per munificenza non comune di Principi: non PREFAZIONE XLIX così l’altro dell’Accademia dei Fisiocritici, unito al- l’Università di Siena; perocchè questo ebbe vita, nè solo vita ma fama, dal raro amore di cittadini e di studiosi: ai quali, io credo, fu potente stimolo |’ esem- pio di Pirro Gabrielli (l'inventore dell’ Eliometro), che nel milleseicentonovantuno primamente fondò quel- l'Accademia. Le collezioni delle quali è ornato il Museo che ad essa appartiene, hanno tutte rari pregj : ma se guardiamo al profitto che gli studiosi possono farne, mi sembrano degne di particolar menzione quella dei Minerali che donò il Prof. Bartalini, non che l’altra di piante crittogame dovuta alle cure del Dott. Francesco Valenti. Taccio della raccolta delle Conchiglie microscopiche, o fossili, procurata da quel singolarissimo uomo del Padre Ambrogio Soldani, (ed accresciuta ai tempi nostri per gli studi di due bene- meriti Professori, il Ricca ed il Mazzi) perciocchè di questa hanno conoscenza inliera quanti lessero per entro all’opera insigne ch'egli dettavane. La Filosofia, alta e venerabile in se medesima, lo diviene maggiormente quando si fa dottrina nazionale e civile; perchè allora soltanto si vede che gli errori comuni cessano di affliggere il mondo, e che la sa- pienza opera giusta il volere da cui deriva. Cotal verità, confermata dall’ esempio e dagli scritti di tanti saggi, non ha conferma più splendida di quella che ottenne nell’età nostra, pel mutarsi che in essa fece l’Agronomia, da sola pratica di braccia inesperte, in scienza sperimentale degna dei primi onori, o tu con- L PREFAZIONE sideri i mezzi di cui si avvale o tu riguardi al fine sociale cui intende; la sussistenza ed il più prospero vivere degli uomini. Già corse un tempo in che la cultura dei campi fu religione, ch'è quanto a dire filosofia. Quello che videro gl’ Itali primi ed i Ro- mani ancor rozzi, può dirsi adesso come rinnovel- lato; perciocchè siccome quelli usarono deputare alla miglior cultura dei campi un sacerdozio tulto speciale, così noi vedemmo chiamato a seder tra i filosofi chi può solo ammaestrarne dirittamente intorno alle cose rurali, e divellere le male pratiche che più nuocono al prospero vivere dei campagnuoli; tal precettore, io voglio dire, che conforti la parola sua per lunga espe- rienza di fatti e di fenomeni naturali. L’ Agronomia diviene in brev'ora dottrina niente proficua e inattesa, se colui che n’ è maestro non congiunge alla voce il precetto ancor più autorevole del continuo sperimen- tare; e bene lo dimostrò più che altri il Marchese Cosimo Ridolfi, pel quale la Toscana ha pur essa il suo nome da aggiugnere all’eleneo glorioso in cui s’incon- trano quelli di Thaer, di Schwerz, di Fellemberg, e di Dombasle. L’ Istituto di Meleto fu gran benefizio per lui recato: consiglio sapiente di Chi impera, chia- mare il fondatore di esso a leggere Agronomia nella Università di Pisa, allorchè questo studio da prima istauravasi, nel milleottocentoquaranta ; ma se guar- diamo allo scopo civile che aver deve lo insegna- mento, non so se meglio mai fosse raggiunto siccome fu quando il Ridolfi, assecondando gl’impulsi gene- PREFAZIONE LI rosi del Privcire ottimo, prese ad ordinare le cose dell'Istituto Agrario Pisano. Ed infatti in questa scuola di patria Agronomia, la più compiuta che ora vanti l’Italia, non avvi cultura di piante o d’erbe, di che non siavi fatta diligenlissima prova; nè rusticale fac- cenda che conduca a far buona masserizia la quale veggasi intralasciata. La naturale postura dei terreni di questo Istituto non concede, è vero, di far saggi speciali delle coltivazioni di monte e del modo mi- gliore onde si allevano i boschi; ma qui puoi vedere non dirò solo quali sieno i più convenevoli usi quanto a cultura orticolare, come si custodisca l’ovile, quali cure chieda il baco da seta, infine per quali artific] si ottengano gli arnesi ruslicali i più perfetti, di cui può utilmente avvalersi il colono. Queste arti son tutte bellissime e sommamente proficue perchè conducono alla miglior cultura dei campi, d'onde viene tra i popoli prosperità non manchevole; ma non sono certo meno salutari le pratiche per le quali l'Istituto di Veterinaria si volle aperto ad ognuno. La cura e l'igiene degli Animali destinati ai lavori campestri, e di quelli stessi i quali servono agli usi economici nelle città dev'esser pensiero incessante di chi ami veder prosperevole il censo domestico, lo stato fio- rente per famiglie non disagiate; ond’è da dirsi che sia per venirne benefizio non tenue dalla Clinica Zoo- Jatrica e dalla Mascalcia, che vedemmo aggiunte al nuovo Istituto . LII PREFAZIONE Tentammo di rappresentare le condizioni presenti degli studi nelle due nostre Università di Toscana, guardando principalmente alla memorabile restaura- zione dell’anno milleottocentoquaranta, che sarà glo- ria vera del Prixcire che la volle, lode durevole dei Sapienti che l’ajutarono, e sopra ogn’altro del Cava- liere Gaetano Giorgini moderatore supremo dei nostri studi, che favorivala con opera più che efficace. Tale restaurazione rese paghi assai desiderj, questo princi- palmente: di vedere, 10 dico, dischiusa per la genera- zione che sorge una fonte viva di civile filosofia; per cui, ognuno che il voglia, potrà scompagnarsi dal volgo e assecondare virilmente le mutazioni felici che di tempo in tempo trae seco stessa l’umana perfetti bilità. L'ufficio di chi è chiamato a proporre altrui le discipline scientifiche fu malagevole sempre; mai però come adesso, perchè in questo incredibile movimento d'idee e di fatti può solo compiersi un tale ufficio quando alla parola viva si associ l’opera più grave ancora della scrittura, per la quale i principj luminosi latamente si spargono, e l’influenza dei sapienti non si arresta al paese ed all’età in che si vivono. Altri dica come noi sovvenissimo a questa grande. sociale necessità. In qualsivoglia modo con tale consiglio tol- ghiamo a recare in pubblico, stretti tutti come da una medesima fede, i presenti Annali delle Università Tosca- ne. In essi, per quanto è in noi, troveranno luogo quelle scritture che stimeremo conducenti a dimostra- re il progredire continuo della scienza universale del PREFAZIONE LUI pensiero, e quello poi che l'osservazione sagace dei fenomeni della natura tuttodì ne discopre a chi gl’in- daga attentamente. Noi confidiamo che gl’ Italiani tutti sapranno tenerci grado di questo assunto come di quello che muove da carità della patria comune; e che saranno lietissimi di ripetere, che anche di tanto eccitamento agli studi nella Penisola fu autore preci- puo Lrororro II Principe nostro magnanimo, uno dei più generosi proteggitori che mai abbiano avuto le scienze. Dr Do, hl peg I rn Da, gi ant MPA IT. LS - fn actigv: at i Er ctipcitenii deb tan can sii ire DEL METODO DI ESPORRE IL DIRITTO ROMANO NELLA SCUOLA DELLE INSTITUTE E NELLA SCUOLA DELLE PANDETTE DISCORSO DEL PROF. PIETRO CAPEI —_ ELI Dalla scuola delle Institute trasferito in questa delle Pandette, parmi, o Signori, ch'io non potrei nè dire più cortese addio alla cattedra per me già retta negli anni trascorsi, nè meglio inaugurare la mia venuta a questa che or debbo reggere, se non mostrando come nell’insegnamento del Diritto Romano privato adoperino i valentuomini della nostra età nell’una e nell’ altra scuola dello istesso diritto. Sì perchè da un lato renderò ragione di quanto, sulle orme loro, già praticai leggendo nelle Institute; e perchè dall'altro vi si farà palese quale sia per essere il per- petuo metodo ch’io mi sono proposto di seguitare nello esporvi, se il benigno Iddio me lo consenta, i Libri delle Pandette, que- sta inesausta e principal sorgente del Romano Diritto. 2. Coloro i quali espongono la scienza del gius privato, sia qualsivoglia la scuola in che si adoperano, trattando la materia istessa, hanno certamente ed in gran parte a comune gli stessi doveri. Definire che sia la scienza del Diritto; aprirne le di- verse fonti; distinguerne per più chiara intelligenza le parti principali e le materie, che sono: la capacità giuridica delle per- sone; i diritti istessi che in forza di capacità siffatta è dato loro di esercitare nella umana società; finalmente indicare i mezzi 0 1 2 CAPEI le azioni con che gli uomini consociati fanno valere i propri diritti, allora quando offesi o non rispettati: è questo, o Signori, un obbligo che vuolsi parimenti adempiere e nella scuola delle Institute e nella scuola delle Pandette. Diverso peraltro è il metodo, diverso il tenore dell’insegnamento nell’una o nell’al- tra scuola, onde i discepoli venendo da quella a questa non si abbattano inutilmente alla esibizione di un quadro istesso, quan- tunque disegnato e colorito in tela più vasta. No, o Signori; passando dall’ una all’altra scuola non si viene alla rappresenta- zione della scena istessa in campo più largo. Per contrario il campo rimane e di necessità rimane sempre il medesimo; la rappresentazione è quella che cangia. E dal figurato linguaggio venendo al proprio, dirò brevemente; che nella scuola delle In- stitute propongonsi gli elementi, i principj di nostra scienza, e nella scuola delle Pandette spiegasi l’arte di applicargli agli umani bisogni. 5. Ma come mai, direte, in una scienza eminentemente pratica e del tutto volta a satisfare le necessità della social con- vivenza, come e perchè si separano nelle scuole i principj dalle applicazioni del Diritto? La ragione, o Signori, di una siffatta separazione ha radici molto profonde, nè io saprei ragguagliar- vene quante volte non vi piacesse di meco intender l’animo a quello avvicendarsi e svolgersi del Diritto e di sua scienza, che ci si disvela per la istoria dei tempi e dei popoli. Quando, o Signori, giovani sono le nazioni, nè molto avanzate ancora nelle arti multiformi e nel camino di civiltà, noi vediamo come ogni positivo diritto e vive e spira quasichè parte dell’animo e degli organi costitutivi il popolo del quale è proprio; e che nella po- polar coscienza indissolubilmente fra loro si collegano e si con- fondono le norme del dritto con le sue applicazioni ai giornalieri bisogni, nelle quali si fa manifesto; onde principj e applicazioni compongono siccome un tutto inseparabile e solo. Ma quando un popolo, vivendo una lunga vita, cresce in civiltà, crea, mol- DEL METODO DI ESPORRE IL DIRITTO ROMANO 5 tiplica, modifica, trasforma o cangia in infinito gli oggetti su che ne cade l’attività e la industria, i suoi bisogni aumentano trasmodatamente; e quindi, perchè a tutto bastino le sue forze, egli è mestieri accresca e acceleri la propria attività, distri- buendo il lavoro e sè dividendo in classi, ciascuna delle quali adoperi all’una o all’altra delle funzioni che fu destinato a com- piere dalla provvidenza. Sorge allora di mezzo al popolo in un coi Legislatori la classe dei Giureconsulti, chiamata ad esercitarne le funzioni tutte nella operosità giuridica, a custodirne insomma a svolgerne ed applicarne il diritto. Al sorgere peraltro di que- sta classe e di mano a mano che si rende in questa più delicato ed acuto il senso giuridico, d’altrettanto s’intorpidisce e langue nell’universale. Non più pertanto nel suo vivace tessuto organico di norme e di applicazioni elaborate nella popolar coscienza si manifesta il diritto o si comunica per pratiche universali e familiari a tutti gl’individui della nazione. Caduto in mano di una classe, che, per quantunque stia dentro il popolo, separa- tamente esercita quelle funzioni che le sono proprie e agli altri pressochè ignote, è giocoforza che, coloro i quali vogliono par- teciparvi, a lei rivolgansi per ammaestramento, siccome accade in ogni arte, in ogni disciplina che vuolsi apprendere. E sulle prime i giureconsulti, ruvidetti ancora, adoperano nella guisa istessa che per lo avanti era popolare; addottrinando gli stu- diosi della giurisprudenza col fatto e con le pratiche, ossia mo- strando quali nelle controversie e ne’ forensi negozj, che loro tuttogiorno occorrono, siano le norme da seguitare perchè accolte come verità giuridiche nella città. Ma quando in processo di tempo aumenta il fiore della civiltà, i giureconsulti eruditi che or sono delle filosofiche e dialettiche discipline, dan vita ad un nuovo magistero; e scorgendo come il diritto, quantunque punto non sia una disciplina meramente astratta o speculativa, ma siv- veramente un corpo indivisibile di norme e di applicazioni agli usi della vita sociale, può nondimeno trattarsi e come scienza 4 CAPEI di principj e dottrine, e come arte pratica di satisfare ai bi- sogni della social convivenza, ne dividono in due parti o sta- dj lo insegnamento: e muovendo dal semplice al composto si fanno prima ad esibirlo ne’ suoi puri elementi come scienza, e di poi nelle sue applicazioni come arte; rivelando la critica virtù per cui le norme nello stato accolte per verità giuridiche acconciansi alla satisfazione degli umani giornalieri bisogni. Tale, o Signori, è la cagione del doppio insegnamento in gius, rica- vata in parte dalla necessità delle umane cose e in parte dalla istoria; poichè quanto adombrai finora rende fedele immagine di quello che in proposito accadeva appresso i Romani. 4. Con le cose insin qui discorse abbiamo veduto come e perchè siavi un insegnamento del Diritto; e perchè di questo insegnamento abbianvi due separate scuole, che una delle Insti- tute e l’altra delle Pandette. Vi ha un insegnamento del Diritto: perchè nelle società cresciute ad un alto segno di civiltà, il patrimonio di ogni umana attività non resta altrimenti comune o indiviso, e la giurisprudenza non è più in mano dell’universale, ma divien partaggio di una classe sola, de’ giureconsulti, ai quali non può a meno di non ricorrere chiunque voglia venirne al possesso. Vi hanno due stadj o scuole di questo insegnamento: perchè più agevole sia renduta la comunicazione della giurispru- denza, o affinchè nella prima se ne imparino speculativamente i principj e gli elementi che la compongono, e dipoi veggiasi nella seconda come sieno governate in pratica le applicazioni ai casi di que’ principj o delle apprese dottrine. Resta pertanto che si dica quale sia il metodo di speculativamente apprendere i principj di nostra scienza nella scuola delle Institute, e quale il metodo di comunicare l’arte di applicare quei principj ai fatti nella scuola delle Pandette. 5. Se la scuola delle Institute ha per iscopo di mostrare quali sieno gli elementi costitutivi del Romano Diritto, corre spontaneo alla mente il pensiero che in questa certamente rap- DEL METODO DI ESPORRE IL DIRITTO ROMANO 5 presentar si debbono le giuridiche instituzioni create nella città romana e le positive norme di ragione quivi dettate per gover- nare e reggere le relazioni della vita sociale; evitando da un Jato di penetrare nelle complicazioni che pur troppo occorrono nelle giuridiche instituzioni, relazioni e norme, e procacciando dall’al- tro assai diligentemente che di ciascuna e tutte quante le mede- sime sia dispiegato almeno il genuino teoretico aspetto. È vero che nelle institute di Giustiniano così non procede la cosa: ma se si consideri che invano si attribuirebbe nome di scienza, di perfetta scienza, a quella dottrina che non constasse di tutte le sue parti; che meno dotti e men felici erano i tempi in che quell’ Imperatore ordinava un Corpo di Gius Civile, e molta la furia sua di cacciar fuori e Pandette e Institute nell’anno della vittoria Persica ond’erasi tanto inebriato; che i compilatori per aderire alla materia accolta ne’ libri elementari degli antichi giureconsulti ne smarrirono lo spirito, onde non videro come, per completare la esibizione della scienza nella sua teoretica forma, era mestieri; e sì di aggiungere alle antiche le muove instituzioni e norme o surte o avvalorate nel tempo; e sì di nulla omettere di quanto all’intiero corpo di quella scienza si riferiva; non vorremo lasciarne disviare dall’imperiale esempio, e riterremo invece che nella scuola delle Institute tutti offerir si debbano gli elementi di nostra scienza, se veramente vuolsi che gli studiosi ne comprendano l'aspetto e la idea. 6. Ma basterà, leggendo nelle Institute, di francamente esibire tutti gli elementi del gius romano privato quali ora gli Veggiamo, e quasichè tali sieno stati sempre nelle diverse età di quel popolo illustre? O esponendo que’ principj gioverà eziandio di raccontarne le origini ed i rivolgimenti per che passarono prima di fermarsi nello stato presente? 0, in esponendo que’ principj, in rappresentando le loro origini ed i mutamenti, sarà oppor- tuno, a disciplinar viemeglio gli studiosi, di avvisare come ed in quanto le instituzioni e norme del gius romano si raffrontino 6 CAPEI EE alla ragion naturale, e quanto se ne discostino per la indole pro- pria e speciale al popolo che si costituì quel diritto? O final- mente, lasciate da banda le contemplazioni storiche, sarà più sano consiglio di proporre i detti elementi quali or si trovano nel corpo giustinianeo, e raffrontargli unicamente a quelli che scaturiscono dalla ragion naturale e dalle necessità de’ nostri tempi; 0, se vuoi, di proporre innanzi tratto quali sieno gli ele- menti della razionale giurisprudenza, e di mano in mano vedere e quanto vi consentano e quanto se ne appartino i principj del Romano Diritto? 7. Ardua, o Signori, e molto controversa è la quistione in oggi tra’ dotti; alcuni de’ quali si misero per l’una ed altri per l’altra via, ed anco nelle andate età noi la scorgiamo diversa- mente risoluta secondo la diversità de’ tempi. Nella età de’ glos- satori, che corse dal principio del x a quasi tutto il secolo xm, esibivansi nella scuola delle Institute i puri elementi del Romano Diritto, quali si stanno ordinati nell’imperial volumetto. Vero peraltro è bene che non per elezione, ma per le necessità cui soggiacevano, così operarono quegli antichi riparatori di nostra scienza. Nati in giorni ne’ quali erano spenti e languentissimi i buoni studj, scarse e per la più parte ignote le opere de’ classici giuridici o non giuridici latini scrittori, poco indagar poterono le origini e le sembianze istoriche del Romano Diritto. E poichè guaste dall’altro canto erano in tutto le filosofiche discipline, non poteron loro sopperir le forze per elevarsi nella scienza del diritto sopra gli studj del positivo e signoreggiarlo con la ragione; onde ogni loro studio si riversò nello sviscerare que’ soli elementi che avevano a mano, e a ciò intendendo con tutto l'animo tal di- spiegarono un incomparabile critico magistero, che nostra colpa e nostro danno sarebbe se ci difettasse il senno di adoperarlo all’acquisto delle molte utilità che oggidì pure se ne possono ricavare. Ai glossatori seguitarono i dialettici, i quali tennero l'impero nella giurisprudenza per tutto il secolo xiv e xv. Ma DEL METODO DI ESPORRE IL DIRITTO ROMANO 7 costoro, perduti dietro l’arte di sottilizzare in giurisprudenza con l’ingegno loro, corruppero la sana logica, smarrirono la via di adeguatamente appropriarsi i veri che in tanta copia abbon- dano nel Romano Diritto, si tennero come ciechi in mezzo alla nuova luce che sfolgorava loro dinanzi agli occhi per le tante sco- verte di classici latini scrittori lamentati innanzi come perduti; e, se ne togli alcuni pochi, come ad es. e Bartolo e Baldo, ai quali la bontà dell’ingegno non consentì che si pervertissero nell’ uso immoderato dell’arte dialettica e gli avviò a ridurre in ferma concordia co’ principj della ragione e della naturale equità pa- recchi elementi del positivo diritto, agli altri tutti non toccò nella istoria della risorta giurisprudenza se non la trista rino- manza di averla fatta scadere dal sublime grado, in che di lancio avevan saputo collocarla i suoi primi restauratori e maestri. Dopo i dialettici vennero poi que’ giureconsulti che, rivolgendo in pro della scienza i lumi delle nuove lettere, tolsero nome di eleganti, di eruditi, di culti. Per essi, nella scuola delle Institute, alla esposizione degli elementi si vide intessere gradatamente ancora il discorso delle origini e dei rivolgimenti loro; ma non sempre quella intessitura si lavorò nel modo più proprio ed acconcio. Oltracciò non tutti adoperarono in questa guisa. Molti si conten- tarono di esibir nudi quegli elementi, e così nacque nel xvi se- colo e si mantenne ancora nel seguente la prima divisione di metodi nello insegnamento delle Institute. Col progredire intanto che al cadere del xvm e per tutto il prossimo passato secolo fecero le filosofiche discipline, fra le quali tanta e così nobil sede occupa il gius di natura, non potè non sorgere il desiderio di raffrontare ai dettami che si consideraron proprj del gius di natura o della ragione filosofica le instituzioni e norme del po- sitivo diritto. E quindi un nuovo metodo, praticato, ma parca- mente, ancora nella scuola delle Institute, di raffrontare ai razio- nali e filosofici gli elementi del Romano Diritto; ora esibiti quali si trovano nello stato attuale, ed ora logicamente e per ordine 8 CAPEI di tempo rappresentati nell’orbe successivo di loro origini, mu- tazioni e soste. 8. Or se non meno di quattro sono i diversi metodi già se- guitati o che si seguono nella scuola delle Institute, a quale vor- rem noi dare la preferenza? Le verità, o Signori, non sono tutte così assolute, che quegli il quale è chiamato a pronunciare possa speranzarsi di rendere una sentenza buona per tutti i luoghi, per tutti i tempi, per tutte le persone. Vi sono ancora delle verità relative e che han valore dalla posizione, dalle circostanze e dagli accidenti. Dico pertanto come secondo i casi particolari e al genio e all’attitudine di chi regge la scuola, alla indole ed alla instruzione della studiosa gioventù alle sue cure affidata, può molto saviamente farsi dipendere la scelta dell’uno, o del- l’altro metodo; e così ora potrà preferirsi il dogmatico, ora il dogmatico-istorico, ora il dogmatico-filosofico, ed ora finalmente il dogmatico-storico-filosofico. Ma quando per sua propria natura chi fu chiamato a quell’insegnamento non si conosce inabile a tutti contemperatamente usare i mezzi che nelle diverse età e nelle varie condizioni degli studj si segnalarono da’ più valenti cultori come efficaci ad avanzare la scienza, a comunicarne il pieno possesso; quando la gioventù che ne circonda è figlia di un popolo ingegnoso e grande, bene allevata ed instruita in lettere ed in filosofia, e così disposta a facilmente ricevere quelle più elevate dottrine che si apparano nelle università degli studj; mi sembra invero che il miglior metodo di dettare giurisprudenza nella scuola delle Institute quello sarà, che, comprendendo in giusta misura il triplice suddetto elemento, congiungerà la espo- sizione de’ principj tutti del gius positivo con la istoria delle ori- gini e delle vicende di que’ principj e delle instituzioni che son tipo alle giuridiche relazioni tra’ privati e col filosofico raffronto ai dettami della retta ragione ed ai bisogni veri della social con- vivenza; insomma, che ottimo riuscirà quello ammaestramento che ad un tempo sia e dogmatico e storico e filosofico. DEL METODO DI ESPORRE IL DIRITTO ROMANO 9 9. Ed invero: se nella scuola delle Institute debbonsi, per universal consenso, tutti esibire gli enti creati dal Romano Diritto e le norme che a questi enti si riferiscono; se, dall'altro canto, io vi dirò col sapientissimo G. B. Vico, egli è impossibile di bene avvisare e comprendere la natura e gli elementi delle cose senza conoscerne i nascimenti, le guise, le mutazioni; come vorremmo noi, Signori, venire in chiara e certa intelligenza degli enti e delle norme del romano o d’altro qualsivoglia diritto, senza rimontare alle sue origini, senza investigarne le vicissitudini e le trasformazioni nelle diverse età coll’ ajuto della istoria? Forse ed a mala pena lo potrebbe quegli che fosse dotato del più squisito ingegno, nella guisa appunto che un eccellente dottor fisico, se dotato di rara sagacità e di grandissimo acume di mente, vi dirà qual sia la costituzione di una provetta persona che alle sue cure per la prima volta si presenti e commetta. Ma pognamo che quel valente medico avesse conosciuto il soggetto nella infanzia, e lui trattato nella adolescenza e nella gioventù; con quanta maggiore facilità e fiducia in se stesso procederebbe nel suo giu- dizio e nelle sue cure; poscia che certo ed aperto sarebbegli e quali elementi, nascendo, sortito avesse dalla natura e quale in ogni età della vita ne fosse stato l’organico temperamento, che il tempo può avere modificato e trasformato, ma non mai mu- tato e tolto all’intutto? Ora: lo stesso che del corpo di un uomo egli è del dritto di un popolo. Le vicende de’ tempi possono in verità modificare e trasformare, ma non mai cancellare o di- struggere quegli elementi che sortì in origine. E come il tempe- ramento organico di un uomo è più chiaramente manifesto al fisico che lo avvisò seguitatamente nelle diverse stagioni della vita; così miglior notizia della natura organica del gius di un popolo possederà quel giureconsulto, che potè e seppe contem- plarlo ne’ varj momenti di sua esistenza; nella nascita, nella infanzia, nella adolescenza, nella gioventù, nella matura età, ed in fine nello stato presente; ed egli solo, che a dover ne conobbe 9 dl 10 CAPEI il nascimento, le guise, le mutazioni, potrà con piena sicurezza rivelare nella scuola delle Institute i genuini principj ed ele- menti che lo compongono. 10. E qui vuolsi, a scanso di errori o di equivoci, porre una solenne avvertenza. Allorquando parlasi di adoperare la istoria, per viemeglio penetrare negli elementi costituenti il gius particolare ad un popolo, e’ s'intende quello apparato di filolo- giche cognizioni che si acquistò indagando quale nel corso dei tempi fosse la diversa sostanza, quale la diversa forma interiore del diritto di un popolo, e che quindi veramente addentransi nelle viscere del subietto; non già delle altre che ne toccano e ne trasvolano le sembianze e gli abiti esteriori. Non sempre infatti è istoria del diritto quella che a prima fronte rassembra tale, e da Iei molto accuratamente vuolsi appartare la mera erudizione. E difatti: la istoria del diritto penetrando nelle sue viscere e ricercandolo ne’ suoi elementi ne è come l’anima, poichè la vita e la natura organica del diritto istesso rivela. La erudizione che si aggira intorno alle sembianze ed alle fogge esteriori è come una nenia flebile che canta le laudi di cose morte, di vecchie popolari fantasie che usciron di moda. La istoria per- tanto del diritto avvantaggia la scienza, perchè ne esprime la vita; la erudizione invece, abbracciando cose morte, cadaveri, frappone inutili ingombri nella via di raggiungerla. Guardisi pertanto il giureconsulto dallo scambiar la istoria con la erudi- zione. Sia, se così gli genia, erudito, e ne avrà merito; ma non presenti agli studiosi, insegnando, se non la istoria o la vita del diritto, e lasci da banda ogni dicerìa di spoglie vuote ed inbal- samate. Ed in opposito: coloro i quali mostrano di avere unica- mente in pregio il dogma attuale e la filosofia, cessino una volta dal porre in fascio e storia ed erudizione; diversamente ei condurranno in sospetto non sieno di buon conio que’ dogmi che improntarono senza l’ajuto della istoria e che bene acco- modata alla positiva giurisprudenza riuscir non possa una filo- DEL METODO DI ESPORRE IL DIRITTO ROMANO 11 sofia dedotta da solitarj pensieri e non soccorsa da lunghe me- ditazioni sovra il civil corso delle nazioni. 11. Come poi alla esposizione dei dogmi del positivo diritto vuolsi per lo Institutista congiungere da un lato la sua istoria, così gli è mestieri dall’altro di non punto trascurarne la critica filosofia. Imperocchè, se la istoria ci palesa la vita e la natura organica del positivo diritto, la filosofia, la critica razionale ci porta a conoscere e giudicare la bontà relativa di sue institu- zioni e norme; e se le une o le altre sono veramente, secondo ragione, acconce alla social convivenza, o se abbisognano di conversione. Vero peraltro è bene che per questa parte, e s'io non vada di gran lunga errato, anco più gravi che non per coloro i quali leggono nelle Institute sono gli ufficj di coloro i quali governano la scuola delle Pandette, di che or mi resta a discorrere. 12. In questa superiore scuola, o Signori, lo abbiam già detto, scopo non è di offerire colorita in tela più vasta la scena istessa che vi si spiegava nella scuola delle Institute. No: qui non trattasi di offerire ingrandite agli occhi degli studiosi, nelle teoretiche e nude loro sembianze, le giuridiche instituzioni e norme, accomodate alle relazioni della vita sociale. Certo; anche nella nostra scuola è necessario di richiamare incessantemente alla memoria degli uditori quella teoretica esibizione, posciachè in essa mettono radice e indi si dipartono le più riposte dot- trine che apparar si deggiono nella scuola delle Pandette; ma non può quella segnalarsi come precipuo scopo al nostro inse- gnamento, se veramente vuolsi che sia progressivo. Qui deb- bonsi mostrare invece nel concreto loro più vivo e muovente aspetto quelle dominatrici norme di ragione, che, acconciandosi alle più svariate creazioni o instituzioni del gius positivo, ne costituiscono come la parte generale che tutto abbraccia e per ogni dove ricorre; qui schierare dinanzi agli occhi degli studiosi, in quelle tante e così diverse complicazioni che tuttodì rive- 12 CAPEI stono nella social convivenza, le civili relazioni de’ privati tra loro, e rivelare il critico magistero onde assennatamente, nella applicazione ai fatti, si contemperano le norme di civil ragione, e per mantenere fra gli uomini consociati la santità e la ugua- glianza de’ respettivi diritti, e per fare a tutte la dovuta parte e niuna offendere delle giuridiche instituzioni, cui simultanea- mente metton capo quelle relazioni così complicate. E per chia- rir viemeglio il mio intendimento legga chi vuole nei Digesti il celebre frammento frater a fratre (L. 58. D. de cond. indeb.) ad altro effetto dal Savigny allegato nel suo Sistema dell’odierno Romano Diritto, e vedrà come, per un contratto di mutuo tra due fratelli viventi sotto la stessa patria potestà, di che pagamento fecesi morto il padre e poscia volle ripetersi siccome indebito, vengano a complicarsi in fatto le instituzioni e le dottrine della patria potestà, del peculio e respettiva deduzione di ogni debito che lo gravi, della eredità e della condictio indebiti, e saprà allora di quanto artificio, di quale virtù squisita sia duopo per contemperare ne’ casi dottrine così semplici in teorica come quelle della condictio indebiti; ed in che guisa nella scuola delle Pandette rivestir possano sembianze all’intutto diverse da quelle che a lui mostrarono nella scuola delle Institute. 15. Questo artificio poi, questo magistero per applicare adeguatamente ai casi più complicati le norme di civil ragione, tanto non dipende dalla piena e materiale conoscenza delle me- desime, quanto e più principalmente dall’uso e dal possesso delle severe logiche discipline, della istoria del diritto e della critica filosofia: ed invano agognerebbe al nome di giureconsulto chiunque, adoperando nelle pratiche della vita sociale, non pos- sedesse o insegnando non s’ingegnasse di comunicare agli altri, quell’uso. 14. E a dir vero: se parte propria del giureconsulto non è di creare ma di custodire il gius vigente nella nazione e additar le guise di svolgerlo e applicarlo alle emergenze dei casi ; DEL METODO DI ESPORRE IL DIRITTO ROMANO 15 ufficio innanzi tutto del medesimo sarà di dedurre ed aprir come, logicamente, a tutte le conseguenze loro con bella armo- nia si traggano le norme dello stabilito diritto. Nel che maestri veramente incomparabili ci si appalesano i romani giurecon- sulti: i quali, calcolando per così dire con le idee giuridiche, tal somma di verità presentano ne’ loro responsi che non può l’animo non acquietarsi in quelli: e la elegantia juris, com'essi esprimonsi, o la perfetta consuonanza della deduzione alle pre- messe, è quel costante canone di criterio, quella perenne ed infallibile riprova onde convincesi la bontà e saldezza del razio- cinio con che procederono. 15. Ma la sola arte logica non basta per acconciare ai fatti gli elementi del positivo diritto. Nella successione de’ tempi alcuni di quegli elementi che stanno nelle leggi e nei costumi di un popolo vengonsi ad alterare, modificare o spegnere pe’ muta- menti de’ popolari bisogni, e muovi tutto dì ne sorgono i quali cercano di sostituirsi invece loro. Ora se il giureconsulto dee custodire il nazionale diritto e rappresentare la parte che farebbe il popolo, ove tuttora esercitasse le proprie giuridiche funzioni, uflicio incessante del medesimo, se far non si voglia reo di par- ricidio, questo sarà; di rispettare dall’un canto que’ primitivi antichi elementi che sempre durano nella vita del popolo, rele- gando i caducati nella sua istoria; e di fomentare dall’altro e coordinarvi sapientemente i nuovi che sorsero nel tempo. Ed in ciò ancora portentoso è il magistero dei romani giurecon- sulti, i quali con tanto senno seppero accoppiare i giuridici elementi tramandati dai maggiori, ai nuovi, che nelle diverse età vissute da quel gran popolo si manifestarono, da sopperir mai sempre alle sue necessità senza parere di menomamente alterarne il primitivo diritto: tanto, se varia è in parte la materia e la forma, uno è sempre lo spirito, una la vita che seppero man- tenergli! Or questo insigne magistero che i Romani adoperarono per isceverare lo storico dall'attuale diritto, dee molto diligen- 14 CAPEI temente rappresentarsi nella scuola delle Pandette, avvegnachè maggiore sia la necessità di bene e sapientemente adoperarlo ai dì nostri. E la ragione è facile, manifesta. Il Diritto Romano che qui si apprende, non è, come fu per essi, parte della respirata vita popolare. Quantunque nato nelle nostre contrade e qui lun- gamente vissuto, nondimeno ei venne come a perire quando le nordiche invasioni ci precipitarono nel fondo di ogni umana miseria, e spensero l’antico e glorioso nome italiano. Dileguossi invero a poco a poco la notte di tanta immanità e barbarie, e noi risorgemmo; ma popolo imbastardito pe’ turpi e feroci am- plessi di nefarie genti, che della antica sua vita serbava appena un po di sangue e la erucciosa memoria della passata grandezza. Riabbracciammo sì come prima potemmo, e quasi arca sacra della italica ragione, i volumi del Romano Diritto: ma quel diritto non era più nostro; e tanto avea cessato di formar parte della vita popolare, che oramai decorsero quasi otto secoli da che su quelli studiò incessantemente il fiore della nazione, e nondimeno ci fu impossibile di tornarlo intieramente nostro come fu prima! Que? volumi adunque e’ son da noi ricevuti, perchè molta sapienza ed arte contribuir ci possono per ajutarci negli attuali nostri biso- gni; postochè il diritto in quelli raccolto, svoltosi nel corso di ben xn secoli, ha insegnamenti adatti ad ogni maniera di civiltà; ma non perchè le norme sue ci stringano siccome quelle di popolare diritto. A noi pertanto più che ai romani giurecon- sulti è necessario di acume critico per isceverare lo storico ele- mento da quello che veramente dura nella vita presente e che solo vuolsi applicare alle necessità della attuale social conviven- za. In ciò poi l’uso, il possesso e il frutto della istoria del Romano Diritto diversifica nella nostra scuola da quello onde ci avvantag- giammo nella scuola delle Institute, che, in questa, rappresen- tandosi in teoretica e semplice guisa i diversi elementi che lo costituirono o modificarono nella successione dei tempi, giovò precipuamente a rivelarne il complesso e le vicende; nella scuola DEL METODO DI ESPORRE IL DIRITTO ROMANO 15 poi delle Pandette, trattandosi di applicare ai casi i conosciuti e adeguati principj, serve innanzi tutto a ben discernere e collocar da banda quegli elementi che più non si confanno agli attuali bisogni. Così, per causa di esempio, nello stesso Corpo Giustinianeo, che tutto sembra ricevuto nelle odierne pratiche, non solo appartar dovremo come puramente istoriche le dot- trine relative alla schiavitù, al colonato ed alla stipulazione, ma quelle eziandio toccanti alla infamia e (in parte) alla capitis diminutio minima ed altre assai, come recentemente dimostrava il Savigny nel suo Sistema dell’odierno Romano Diritto, e me- glio vi sarà palese perdurante il corso di nostre lezioni. 16. Ma se la istoria del diritto giova, o Signori, a scru- polosamente separare lo elemento che trapassò dall’altro che sodisfà tuttora agli attuali bisogni, la filosofia del gius positivo reclama più ampia parte ne’ nostri studj, e perchè ne regola le applicazioni ai casi e perchè disvela quali ne sieno le conver- sioni che si debbono sollecitare. E veramente se nome di dritto merita soltanto id quod semper bonum ac aequum est, se il gius altro non è se non l’ars aequi et boni, a quale altra scorta, in fuori di quella filosofia che vien contemplando i razionali prin- cipj del gius, vorremo apprenderci per conoscere se le norme del buono e della ugualità dei diritti furono da senno seguitate nel gius positivo? Onde ricaverem dottrine nei casi ambigui o nel silenzio del gius positivo per dirimere adeguatamente le controversie nelle nuove ed inopinate giuridiche relazioni che tratto tratto sorgono nella umana società? E non è tutto. Ogni positivo diritto ha nella sua attualità un doppio elemento: l'uno giuridico-morale o razionale, e l’altro giuridico-economico. Certo nel gius romano, che toccò l'apice di sua grandezza nel fiore della umana civiltà, molte non possono occorrer norme giuridico- morali o razionali che desiderar si debba di veder cangiate, nè senza causa ricevè dall’universale il nome di Scritta Ragione: anzi dobbiam guardarci che l’uso troppo frequente della filo- 16 CAPEI sofia del diritto non cagioni lo sconcio a che portò l'abuso della dialettica, cioè una diminuzione dell’arte critica e delle forze di ben penetrare e intendere il gius positivo. Ma non così ri- spetto alle norme giuridico-economiche. Instabile e mutabilis- simo essendo il loro elemento, accade che ad ogni mutare delle condizioni economiche sia necessario ancora di cangiar le norme di provvedere agli attuali bisogni; nè certo da Gajo o Papi- niano vorremo apprendere le formule di governare le nuove civili relazioni germogliate per le società anonime ed altrettali, per l’applicata forza del vapore, per le vie ferrate e per le macchine venute a competenza con la umana attività; potremo sì chieder loro il magistero per trovare quelle formule e norme; ma le norme istesse, no, non le ricaveremo dai loro dettati: uopo sarà di cercarle nella presente vita del popolo, nella ra- gione de’ nostri tempi. Così la critica filosofia del gius positivo è un rivelamento, a dir così, necessario nella scuola delle Pan- dette, se qui veramente vuolsi insegnare come i principj della scritta ragione acconcinsi ai bisogni della vita sociale, e indi- rizzare la gioventù alle buone pratiche del gius positivo. 17. Raccogliendo pertanto in brevi parole le cose infin qui discorse rispetto al metodo da seguitare nella scuola delle Pandette, avremo: che segno e mira dei nostri studj questo esser dee, di apprendere come le giuridiche instituzioni e norme con- temperare e congegnar si vogliano nelle applicazioni alle diverse e più intricate relazioni de’ privati tra loro; di rendere la mente accorta a svolgere e logicamente trarre a tutte le più svariate conseguenze loro i ricevuti principj di ragione; a conservar da un lato gli antichi e ognor vigenti giuridici elementi senza sof- focar dall’altro, ma sì con bella armonia congiungervi, i nuovi che alla giornata sorgono appresso il popolo; a sceverare gli storici dagli attuali; a dominare il tutto con la filosofia, così per giudicare se le stabilite norme del gius positivo convengano alle razionali ed ai presenti bisogni della nazione, come perchè, DEL METODO DI ESPORRE IL DIRITTO ROMANO 17 laddove quelle non vi consentano, ci sia possibile sostituirne 0 innestarne di nuove che veramente soddisfacciano alla ragione ed alle economiche necessità dei tempi, ed il giureconsulto abbia per tal modo adempiuto in terra alla sua grave e nobilissima vocazione. 18. E dai precetti venendo agli esempj non vi rincresca di soffermarvi un poco, e rimirare come nelle diverse età, dopo la risorta giurisprudenza, a tali uflicj venisse satisfatto nella no- stra scuola. I glossatori, scarsi come già dissi di buone lettere e di filosofica suppeliettile, troppo non valsero a sceverare gli storici dagli attuali elementi, nè a dominare con la filosofia il Romano Diritto. Ma tutti intesi a sviscerarne e compararne le . più riposte dottrine e a non dimenticar veruno de’ tanti responsi in che que famosi giureconsulti le applicarono alle emergenze dei casi, poterono con gli stidj loro raggiungere, praticare, e rivelare agli altri il magistero di applicare ai fatti più intri- cati gli stabiliti principj di ragione, siccome è palese per gli stupendi esegetici lavori che ne han tramandati. Non così nella età dei dialettici. Pervertito l’ingegno nella sottilissim’arte di sminuzzar le cose, presi di cieca venerazione per le chiose dei predecessori e di una ardente smania di riferirne diffusamente e crivellarne le opinioni, quasichè fossero sorgenti del Romano Diritto, mancaron loro il tempo e le forze di considerare e ordi- natamente aprire in tutte le loro parti quelle vive e vere sor- genti: onde professori e discepoli più non mirarono nelle sue schiette e genuine sembianze il corpo del Romano Diritto, e molto meno l'animo che le muove. Germogliarono pertanto di nuove teoriche, di che se alcune per una rara felicità de’ loro autori durano anche ai dì nostri in pratica, la più parte anda- rono dimenticate; e a Dio fosse piaciuto che non avesse per- severato intanto nella scuola delle Pandette il mal uso per essi introdotto di esibire soltanto in parte quell’aureo volume, onde la nostra Scuola prende suo nome. Più felice invero fu la se- 5 18 CAPEI guente età dei culti; i quali applicando l'animo nello studio delle latine restaurate lettere e facendo tesoro delle notizie toccanti alla romana giurisprudenza, che in copia abbondano negli scrittori contemporanei, si ricondussero per un canto al- l’uso d’investigarne dirittamente le genuine fonti, e si trovarono forniti dall'altro de’ necessarj filologici sussidj per viemeglio penetrarne l'intimo spirito e per isceverar lo storico dall'attuale elemento, spianando così la strada anche al dominio della filo- sofia; perchè allorquando siam fatti accorti quali vicende e quali rivolgimenti, nel corso dei secoli ed al variare della civiltà presso alle genti, provi e subisca il gius positivo, spontanea nasce nel- l'animo la idea di considerare, se i ricevuti principj di diritto sieno alla ragione conformi e se adattati alle condizioni econo- mico-civili della presente età. 19. Bene adoperarono pertanto e nei libri e nella nostra scuola i culti interpetri del Romano Diritto. Sennonchè l’uso de’ nuovi sussidj scemando il tempo di esibire agli uditori tutte le parti e le dottrine delle Pandette, nuove forme immaginaronsi d'insegnamento e nel passato e nel presente secolo per soppe- rire alla necessità di tutto rappresentare nella nostra scuola il corpo del Romano Diritto. Seguitando alcuni l'ordine istesso delle fonti ed altri abbracciando un ordine più logico, ridussero in sistema e compendiarono in brevi volumi la dottrina del- l'universo gius romano o delle Pandette, e così la esposero nella scuola. Ma, sio mal non mi appongo, urtarono in un doppio scoglio che si vuoleva diligentemente evitare. Perchè; ridotte per una parte ad elementi e come a nuda teorica le dottrine che contengonsi nelle Pandette, invece di rappresentare le applica- zioni de’ principj ai fatti, più non si vennero ad esibire nella nostra scuola se non dottrine pressochè astratte o insomma la scena istessa, colorita in tela più vasta, che fu già spiegata nella scuola delle Institute; e dall'altra parte poi quell’offerire espressa e ridotta in succo la scienza dei romani giureconsulti ha operato DEL METODO DI ESPORRE IL DIRITTO ROMANO e. 19 ed opera di continuo che gli uditori, contenti alle fatiche de’ loro maestri, poco si facciano a direttamente investigarne i responsi, onde non valgono ad acquistare il senso e l'abito che, per ap- plicare ai casi le norme del gius ricevuto, così fino e squisito possedevano quegli antichi giureperiti. È vero che i più moderni maestri mai non si stancano di ripetere nella scuola il salutare avvertimento d’interrogare incessantemente quelle vive e vere sorgenti di nostra scienza: è vero che ne’ loro scritti essi dimo- strano di praticare in fatto i moniti della scuola; ma que’responsi di rado venendo letti dalla cattedra non s’inocula ne’ discepoli la volontà di seguitar precetti bastevolmente non confortati dal vivo e parlato esempio, e si abbandona al tempo, alla necessità ed alle particolari disposizioni l'acquisto di un abito che, nelle umbratili controversie. della scuola; dovrebbono aver contratto coloro i quali sono destinati a scendere nella tumultuosa arena de’ forensi giudizj. 20. Quale pertanto, sento richiedermi, quale sarà il metodo che dovrem tenere nella nostra scuola? Quando, o Signori, le umane cose vestono di nuove forme, raro è che sieno figlie del capriccio e non della necessità presente: e coloro i quali, chia- mati all'insegnamento, tal non si sentono vigorìa d’ingegno che aprir gli possano di nuove ed intentate vie, senno è si accomo- dino delle presenti, e sè beati estimino se nel passaggio loro pos- sano tributarvi qualche lieve miglioramento. Calcando pertanto le orme dei moderni, io vi esporrò, o Signori, ridotta in logico sistema la dottrina delle Pandette distinta in due parti principali, che l’una appellano generale, svolgendo, siccome fa, quelle insti- tuzioni e norme di gius che ricorrono pressochè in tutte le re- lazioni della vita civile e nella trattazione dei diversi diritti o facoltà dei privati, e l’altra speciale, perchè dice in particolare di que’ diritti, o delle facoltà degli uomini consociati. Sennon- chè nella parte generale non verranno esposte tante materie quante sogliono talora occorrervi appresso i moderni, i quali 20 CAPRI non di rado tennero come toccanti ad ogni ramo della Giuri- sprudenza alcune dottrine che dimostransi generali soltanto per l’uno o l’altro de’ suoi diversi rami, e che però reclamano la loro sede nella parte speciale e respettivamente in capo ad ognun de’ medesimi. E venendo, dopo la generale, a questa parte spe- ciale, fedele ai moderni ed in opposizione a quanto praticai, non senza ragione, nella scuola delle Institute, dirò prima delle cose e dei diritti cadenti su quelle; poscia delle obbligazioni, e final- mente dei diritti di famiglia di ogni maniera e della eredità; congiungendo sempre alla teoretica e sintetica esposizione delle dottrine la esegesi delle fonti, o sia l’analisi de’ più celebri tra i responsi dei Giureconsulti e i placiti degli Imperatori, acciò vi sia manifesto di che guisa vengano a complicarsi nella vita sociale le relazioni de’ privati tra loro, le norme e institu- zioni del civile diritto; e quanto sia squisita e delicata l’arte onde fornir si vuole il giureconsulto chiamato a comporre le private controversie, e far sì che la sua ragione sia renduta a ciascuno e a tutti nella nazione. Vero è che la esegesi delle fonti troppo ne condurrebbe per le lunghe se uso strabocchevole della medesima fosse fatto nella scuola, e molti sarebbero gli anni che dovreste dimorarvi se per tal modo vi dovesse tutta venire esposta la dottrina delle Pandette, ch'io mi sono proposto di esaurire nello spazio di tre anni accademici. Ripristinando per- tanto l’uso del chiaro ed onorando mio Predecessore, io mi contenterò, o Signori, di soltanto additarvi la più parte delle questioni che occorrono e dei responsi che le risolvono nelle Pandette, affinchè vogliate anche da per voi stessi esercitare la forza dell'ingegno nella esegesi di que’ responsi e in- ritrovare la ragion vera che mosse a dettargli; e stretti poscia in ami- chevole consorzio vorrem diligentemente esaminare i prodotti delle reciproche fatiche nostre, rinnovellando in tal guisa le hore sabbatine che negli andati tempi partorirono egregi e sa- poriti frutti nelle italiane università. Così, o Signori, voi sarete DEL METODO DI ESPORRE IL DIRITTO ROMANO 21 le mie ali al corso che dobbiam battere insieme verso alla nobil meta che ci siamo fermamente proposti nell’animo di toccare, ed è; di spendere la vita nostra in servigio e a decoro della ca- rissima patria, che il pietosissimo Iddio voglia presto-liberare dalle gravi calamità sotto alle quali or giace oppressata (1). (1) Questo discorso fu recitato il di 13 di Novembre 1844, quando le nostre campagne erano tultora disertate dalla calamitosa inondazione dei 5 del mese predelto. | lil i, "i “* FOLCSZZONIO dit RI allsb dba à Solid < J CT rodi 129] tar RitITt 9 Vioti A STD steezii Ter i i di ia des È “i n sa Ù > sota } y oo + folla Ale ct #e | Ci. npervari. ia WE ib di olalizoa HI 460 st "ito: 1, GA sito sel “stabittà adito “ano È) d» SIA n ALCUNE OSSERVAZIONI DI ROSSHIRT SOPRA LA DOTTRINA DEL DOLUS ( Estratte dal nuovo Archivio di diritto criminale, pubblicato da Konop4K, MitTERMAIER e RossninT, tom. VIII. parte 3). — eV Er E pregio dell’opera contemplare l'essenza del dolus, scevra dalle idee della scuola, tanto più che esso penetra così gene- ralmente nelle azioni umane, che ogni uomo, come agente, non dee che esaminar sè medesimo per giugnere a percepirlo distintamente. Ogni azione ha e deve avere un fine di amor proprio. Imperocchè ogni azione può meritare considerazioni morali e giuridiche solamente in quanto è libera; nè la libertà di essa può concepirsi senza che si presenti la individualità dell’agente, la quale sta nel fine particolare, ch’ei si prefigge, e nella con- dotta particolare, con cui si dirige al medesimo. Se si prende a comparare lo scopo dell’agente con la legge etica e giuridica, apparisce tosto, se questa lo approva, o lo condanna. Di qui la distinzione, che faceano i Romani, del dolus bonus e del dolus malus. È bensì da notare, che nella parola dolus, secondo la sua greca origine, si racchiude sempre qualche cosa di segreto,-di occulto, di simulato, onde procede, che alcuno venga indotto in errore. E siccome lo spingere al- cuno per via d’inganno a risentire un pregiudizio è generalmente fatto riprovevole ed ingiusto; così solamente in virtù di circo- stanze speciali può avvenire, che esso non debba riputarsi im- morale . 24 ALCUNE OSSERVAZIONI L'inganno e la violenza sono certamente le due forme generali dell’ingiustizia: ma se per eccezione un atto inganne- vole o violento merita scusa agli occhi della legge giuridica, o perchè 1.° in molte relazioni della vita civile fa di mestieri per- mettere qualunque attrito scambievole di forze intellettuali per animare l'industria (1), o perchè 2.° nello stato di guerra, o di privata aggressione, la necessità della difesa costringe ad op- porsi (2); sorge il proprio significato del dolus bonus, e si vede come in condizioni diverse sia giusta l’espressione dolus malus (3). Per altro e nel dolus bonus, e nel dolus malus, l'essenza del dolus si ritrova nello stato subiettivo dell’agente, o prima che operi, o nel tempo che opera, e specialmente quando prende a considerar l’influenza, che la sua azione potrà eser- citare sul mondo esteriore, e poscia sulla sua propria persona. È consueto desiderio dell'agente, che quella influenza riesca utile a lui, ancorchè il mondo esteriore non debba averne van- taggio. Che pel mondo esteriore rimanga un segreto l’azione, 0 almeno l'agente, è un secondo desiderio assai naturale di lui. Per sodisfare a questo desiderio, è necessaria la simulazione, con la quale è connessa l’astuzia. Ma l’astuzia è una figlia dell’intelletto; dunque il dolus nel suo giusto sviluppo ha sempre la sua sede nell’intelletto. | Ma il dolus, che nella significazione di astuzia può sempre esser bonus, diventa malus quando l'agente sa di operare im- (1) «Quoniam veteres dolum etiam bonum dicebant, et pro solertia « hoc nomen accipiebant » (1. 1. $. 1. D. de dolo malo). «In prelio emtionis et venditionis naturaliter licere contrahentibus « se cireumvenire » (1. 16. $. 4. D. de minoribus): al qual proposito nota la Glossa în pretiis, non vitiis rerum. (2) « Et maxime si adversus hostem latronemve quis machinetur » (1.1. $. 5. D. de dolo malo). (5) Della parola dolus non si sono serviti solamente i Giuristi, ma ancora altri scrittori. (V. Cic, De Off. II. 14. Top. 9.— Liv. XXXVI. 11.— Terent. Eunuc. II. 5. 9). SOPRA LA DOTTRINA DEL DOLUS } 25 moralmente ed ingiustamente, e si lascia non ostante determi- nare al fatto, o dalla passione, o dalla malvagità del suo animo. Si rileva da questa analisi, che appartengono al dolus malus i seguenti caratteri: 1.° Ja brama dì conseguire qualche utilità, mediante un’azione, ancorchè altri dovessero risentirne pregiu- dizio; 2.° la cura di operare in maniera, che i pazienti non si oppongano affatto, o non si possano almeno opporre quanto esi- gerebbe il loro interesse; 3.° la coscienza dell’illecito di quella brama e di questa cura nella specialità dell’azione. Considerando il primo di tali caratteri si può intendere facilmente che cosa si debba pensare del dolus malus spiegato per voluntas nocendi. Sì fatta dichiarazione presenta solamente quella parte del detto desiderio, la quale si riferisce al mondo esteriore: nè ciò si è fatto senza ragione; perchè ordinariamente è permessa ogni utilità, che uno si può procacciare senza altrui nocumento. Non si dee per altro pretendere d’interpretare il dolus malus, come voluntas nocendi, sull’autorità dei frammenti del diritto romano; perocchè questi, a motivo della debol na- tura di tutto ciò che è frammento, non fornirebbero nervo suffi- ciente alla prova. Nella 1. 1. Cod. ad Leg. Corn. de sic. sta scritto in vero: « Crimen enim contrahitur, si et vOLUNTAS NO- « cENDI intercedat. Ceterum ea, que ex improviso casu potius « quam fraude accidunt, fato plerumque, non nox®e imputan- « tur »: ma chi potrebbe riputar decisivo questo passo, quando dalla Mosaicarum et Romanarum legum Collatio tit. I. 56.8 e 9, si raccoglie, che il medesimo è passato nel Corpus Juris dal Codice Gregoriano, nel quale si legge occipeNpI in vece di NOCENDI? (1) (1) Neppure dalla I. &. $. 1. D. ad L. Aquil. si può ricavare alcuna prova, quantunque in quel frammento, e all'agente doloso, e al colposo si assegni lo stesso oggetto — qui nocere voluit, e qui nocere noluit. — La Legge Aquilia in fatti si riferisce al damnum eorpori corpore datum. 26 ALCUNE OSSERVAZIONI Pigliando in esame il secondo degli accennati caratteri, si presenta l’idea della simulatio, rispetto alla quale bisogna, che non ci lasciamo sfuggire una distinzione importante. È naturale, che chiunque vuol nuocere altrui ricerchi ed afferri le circostan- ze, nelle quali crede di potere più agevolmente conseguire il suo fine. Così adopera in fatti ancora colui, che può disporre di forze maggiori dell’uopo. Il ladro si asconderà sempre nel luogo il più adattato; il sedizioso indagherà sempre con grande accortezza il momento più opportuno ad irrompere; lo stupra- tore violento sorprenderà sempre più scaltramente, che potrà, la sua vittima: ma questo dolus, che trapassa in aperta violenza, è diverso da quello, che intende a raggiugnere la sua meta per la sola via dell'inganno. Imperocchè se la potenza psicologica concorre con la meccanica a perfezionare il furto, Ja sedizione, e lo stupro violento; la sola potenza psicologica non basta poi ad indurre un altro in errore, avvegnachè l’ errante conservi la sua libertà anche mentre non impiega la virtù della sua intelli- genza per conoscere ed evitare l’inganno. Ora il dolus, che esternamente si serve della finzione e della scaltrezza per ec- citare all’errore, non è più solamente intenzione, ma ancora azione, e si appella rrRope. Ed i Romani usavano del vocabolo dolus anche nel senso di frode, come azione; volendo così mo- strare, che nella frode i mezzi dell’azione sono onninamente corrispondenti all’ occulto carattere dell’ intenzione. Di che fa testimonianza Ulpiano nella'1. 2. $. 8. D. vi bonor. rapt.: « Doli « mali mentio hic et vim in se habet; nam qui vim facit, dolo « malo facit: non tamen qui dolo malo facit, utique et vi facit; « ita dolus habet in se et vim: et sine vi, si quid caLLIipE ad- « missum est, aeque continebitur ». Viene a dirci lo stesso anche la definizione testuale della frode: dove per altro è di- chiarato ancora lo spirito affatto eguale dell’intenzione e del- l’azione. « Itaque ipse sic definiit, dolum malum esse omnem « CALLIDITATEM, fallaciam, machinationem, ad circumveniendum, SOPRA LA DOTTRINA DEL DOLUS 27 « fallendum, decipiendum alterum adbibitam » (1. 1. 5.2. D. de dolo malo). Quando i Romani si accorsero in seguito, che la loro giurisprudenza, per significare la frode, abbisognava di una propria espressione tecnica, la formarono col vocabolo stellio- natus (1). Al qual proposito importa notare, che l'intenzione di nuocere conchiude nel diritto romano, con impercettibile differenza, il sistema delle pretensioni civili e delle persecuzioni penali; perchè l'actio de dolo è la più sussidiaria di tutte le azioni, ed il crimen stellionatus è l’ultimo anello della catena dei delitti: « Ubicumque igitur titulus criminis deficit, illic « stellionatus objici emus » (1. 5. $. 1. D. de stellionatu). La coscienza dell'illecito, terzo carattere dell’idea, conte- nuta nel vocabolo dolus, può essere, come qualunque altra co- scienza dell’uomo, 0 pienamente illuminata e chiara, od offu- scata dalle nuvole, che per avventura diffondano sopra di essa le passioni, che commuovono l'animo. Se tanta è la tempesta degli affetti, che di coscienza non si possa affatto parlare, l’at- tributo d’involontaria vien dato esattamente all’azione: ma tutti sanno, che le parole negative sogliono sempre significar qual- che cosa di relativo ai contrapposti, che si contengono nelle parole positive corrispondenti. Non è dunque meraviglia, se l’adiettivo involontario ora è stato adoperato come contrapposto a qualsivoglia coscienza, ora come contrapposto a quella co- scienza illuminata e chiara, che suol esprimersi con le voci PROPOSITO, @ PREMEDITAZIONE. Chi non ha la coscienza piena- mente chiara non può in vero dar vita ad atti intieramente volontarj: ma se d’altra parte non ha perduto affatto la coscienza di sè, e si lascia condurre dalle sue passioni a dimenticar sè medesimo e l’ordin civile, merita, se non altro, almeno il rim- provero di leggerezza. La qual cosa fu bene avvertita anche dagli antichi: i quali, quantunque ponessero i fatti illegali, . (1) MarTHARUS de criminibus ad tit. de stellionatu_S. 1. 28 ALCUNE OSSERVAZIONI animati dalla passione, nella classe degl’involontarj, prescrissero per altro una espiazione a chi gli avesse commessi. Se non che fra il propositum (piena coscienza) ed il casus (assoluto difetto di volontà, e perciò ancora d’ imputabilità) sono due stati intermedj: l’uno de’ quali è caratterizzato dalla pre- senza dell’affetto, che incita al male; l’altro, dall’inavvertenza di quelle circostanze, che l’uomo non dee mai perder di vista, se non vuol trovarsi condotto a dispiacevoli conseguenze. V’ ha di comune in amendue questi stati, che V’ agente non piglia di mira un determinato successo ingiusto: ma in quello è spinto al delitto dalla sua natura sfrenata, generalmente malvagia, e non gli manca che la coscienza speciale dell’indole e dell'esito della sua azione; in questo il male non sarebbe avvenuto, se egli non avesse spensieratamente omesso di volger lo sguardo alle con- suete vicende della vita umana. La colpa di questi due agenti non solamente differisce di grado, ma ancora di qualità. L’omi- cida d’impeto in fatti vuole la distruzione del suo avversario, benchè non pensi al motivo per cui la vuole, nè al modo, col quale può meglio conseguirla, nè agli effetti, che sono per deri- varne: mentre all’opposto in chi uccide per inavvertenza non si scopre nemmeno una volontà generalmente malvagia; in quanto che il suo mancamento consiste soltanto nell’aver prodotto un effetto nocivo, che egli avrebbe potuto e dovuto evitare. E quindi è assai naturale, che di questo agente non si sia potuto dir altro, che in co culpa est; onde la culpa si. è contrapposta al dolus. Intanto, per intendere le maniere di vedere di tempi e di popoli diversi, fa d’uopo stabilire due cose: la prima è, che, se la malvagità del fatto si fa consistere nell’intenzione, la culpa appartiene certamente alla classe degli atti involontarj: la seconda, che la culpa differisce sempre da ogn’altro fatto imputabile; perchè l'agente non ebbe coscienza, nè particola- re, nè generale, dell'effetto della sua azione . SOPRA LA DOTTRINA DEL DOLUS 29 Di qui conseguita, che, quando si parla di delitti, non si può avere in vista che il dolus; comechè il delitto possa giuri- dicamente considerarsi soltanto quale azione preordinata al suo fine: conseguita inoltre, che la piena e particolare coscienza di tutte le circostanze del delitto è più vicina alla volontà general- mente malvagia, che s’infiamma nell’ardore della passione, di quello che alla semplice culpa; e che perciò è ragionevole con- trapporre alla culpa i due stati, rappresentati dal vocabolo dolus. La nostra indagine ci ha condotto a riconoscere distinzioni note da lunghissimo tempo, ma forse con qualche maggiore esattezza nella loro connessione: dee spianarci per altro ancora la strada ad intendere più facilmente i principj di alcune an- tiche e moderne legislazioni intorno al dolus, ossia rispetto al volontario ed all’involontario. Che se noi ci ristringeremo a parlare del dolus e della culpa solamente nel tema dell’ omici- dio, vogliamo avvertiti i lettori, che non solamente tutte le legislazioni hanno sviluppato la presente dottrina principalissi- mamente a riguardo di questo titolo, ma che ancora una vera filosofia del criminale diritto conduce per avventura a stabilire, che il contrapposto di dolus,e di culpa non ha vero valore, che nell’omicidio, e che in tutte le altre specie di delitti dovrebbe escludersi dai criminalisti ogni quistione di culpa. So bene, che nello stato attuale delle cose questo pensiero avrà l'apparenza d’un paradosso ; so bene, che i pratici si debbono accomodare alle massime giuridiche dominanti: ma so ancora, che è debito della scienza il notare le viziose direzioni di un principio fon- damentale. Ove si percorra la serie delle singole azioni punibili secondo i trattati più accreditati di diritto criminale comune, 0 secondo qualunque dei codici criminali moderni, riuscirà age- vole determinare in quale dei delitti speciali si lasci ben rafli- gurare la culpa, e la mia opinione troverà dei seguaci. In grazia delle astrazioni, alle quali si sono abbandonati, forse soverchiamente, i giuristi, si è parlato di un dolus inde- 30 ALCUNE OSSERVAZIONI terminato ed eventuale, e di un dolus indiretto e misto con la colpa, dimenticando poi di considerare la varietà della dire- zione dolosa secondo la natura particolare delle singole azioni delittuose. Io non voglio qui addurre che alcuni esempj del dolus ex proposito. Il propinator di veleno dee, nella piena coscienza della propria azione, pensare, che anco persone di- verse da quella, che egli vuol render vittima del suo misfatto, possono gustare il veleno, e perire. E se egli specialmente ha posto la sustanza venefica in modo, che essa sia accessibile a più, chi potrebbe parlare di una semplice culpa, se ha gustato il veleno, ed è morto, un individuo diverso da quello, contro cui si era diretta l’intenzion dell'agente? Se l’avvelenatore ha voluto il fatto in genere, non dovrà riputarsi, che abbia voluto anche le conseguenze affatto naturali di esso? Dov'è qui la necessità di far l’astrazione di una specie particolare di dolus, quando non si tratta che della relazione concreta dell’avvele- namento? — Nell’incendio, che non trapassa in un altro delitto, il dolus è ordinariamente animato dalla brama di vendetta (inimicitiarum causa). La brama di vendetta, sebbene possa occupare anche un animo freddo, d’ordinario è bollente, e l’azione vendicativa suol esser portata ad effetto, quando l’ar- dore, che già esisteva, ha ricevuto nuovo nutrimento da qual- che circostanza. Ma, tuttochè nell’incendiario non sia dato di ravvisare la raffinata malizia dell’avvelenatore, potremmo ge- neralmente asserire, che il suo dolus sia ex animi impetu? Chi racchiude il desio di vendetta nel cuore, e vuole sfogarlo me- diante un'azione determinata, della quale ha coscienza, è un dolosus ex proposito, ancorchè ponga la mano all’opera nella commozione dell’animo. Lo spirito del sovvertitore dell’ ordine pubblico può esser pieno di sentimenti splendidi e generosi: ma egli ha il torto di voler calpestare i diritti attuali dello Stato e dei singoli, per dare troppo presto la vita ad institu= zioni, che saranno forse introdotte dai secoli avvenire con ge- SOPRA LA DOTTRINA DEL DOLUS t53 | nerale consentimento. Ma intanto il suo dolus è più formidabile di quello dell’avvelenatore e dell’incendiario, perchè contiene il disprezzo dei diritti di tutti (Rostilis animus); e si vuole irremissibilmente reprimere, qualunque sia il riguardo, che i sentimenti dell’agente potessero altresì meritare.— Nel furto si presenta, come dolosa direzione del delitto, l’animus Zucri fa- ciendi. — Chi proseguisse queste direzioni del dolus nei singoli delitti, si sbigottirebbe, se volesse prendersi pensiero del- l’astrazione: eppure qui si è parlato del dolus solamente come piena coscienza del propositum. Ed appunto perciò io stimerei molto opportuno richiamar l’attenzione, nella generale esposi- zione della dottrina del dolus ex proposito, a queste direzioni concrete, e di procacciare in tal modo all’idea dolus la propria sua vita. Rivolgiamoci adesso a cercare, come l’animi impetus e la culpa sì contrappongano al propositum, ed occupiamocene sola- mente secondo vedute positive, che si riferiscano all'omicidio. AI qual effetto riuniremo le massime di alcuni popoli antichi con quelle di qualche nazione moderna, non già col superbo pensiero di presentare un trattato storico-giuridico su questo delitto, ma solamente imitando gli studiosi della vetusta archi- tettura, che da pochi avanzi rispettati dal tempo s’ingegnano di ricavare il disegno di qualche parte d’un rovinato edifizio. Rispetto ai popoli antichi, esporremo solamente i principj del diritto ebraico, ateniese, e romano: rispetto ai popoli moderni, esporremo solamente i principj del diritto germanico. Benchè fra gli Ebrei ed i Greci passassero pochissime relazioni politiche e commerciali, le loro vedute giuridico-cri- minali si combinarono in moltissimi punti. i Il diritto ebraico segnalò il propositum nell’omicidio com- messo per odio, od inimicizia (1), per via d’astuzia e d’insi- (1) «Si per odium quis hominem impulerit, vel jecerit quippiam in « eum per insidias, aut, cum esset inîmieus, manu percusserit, et ille mor- 52 ALCUNE OSSERVAZIONI die (1). All’opposto le espressioni senz’odio e senza inimicizia (2), senza intenzione (3), per disposizione divina (4), significano il difetto di premeditazione. Qui dunque non si trova che la di- stinzione del volontario e dell’involontario, e nell’involontario si comprende tanto la culpa che il casus. Ma da ciò non è per- messo dedurre, che il diritto ebraico esimesse da ogni pena l'omicidio colposo; perchè anzi è dichiarato reo chi occasiona per negligenza lo spargimento del sangue (5): e soggiaceva alla morte, se non pagava il prezzo del suo riscatto, il padrone, che conosceva la pericolosa natura del bove, che aveva ucciso un uomo (6). Di più l’uomo, che per semplice improvidenza, 0 casualmente, avesse ucciso con un instrumento fuggitogli di = « tuus fuerit; percussor homicidii reus erit: cognatus occisi, statim ut in- « venerit eum, jugulabit » Num. XXXV. 20. 21. « Si quis autem odio habens proximum suum, insidiatus fuerit vite « eius, surgensque percusserit illum, et morluus fuerit, fugeritque ad unam « de supradictis urbibus, mittent seniores civitatis illius, et arripient eum « de loco effugii, tradentque in manu proximi, cuius sanguis effusus est, « et morielur » Deut. XIX. 11. 12. (1) « Si quis per industriam occiderit proximum suum, et per insidias: « ab altari meo evelles eum, ut moriatur » Exod. XXI. 14. (2) « Quod si fortuito et absque odio et inimicitiis, quidquam horum « fecerit....liberabitur innocens de ultoris manu, et reducetur per sen- « tentiam in urbem, ad quam confugerat, manebitque ibi, donec sacerdos « magnus, qui oleo sancto unclus est, moriatur » Num. XXXV. 22. 25. 25. (5) « Decernite que urbes esse debeant in presidium fugitivorum, qui « nolentes sanguinem fuderint » Num. XXXV. 11. (4) «Qui autem non est insidiatus, sed Deus ilum tradidit in manus « eius, consliluam tibi locum, in quem fugere debeat » Exod. XXI. 15. (5) «Cum eedificaveris domum novam, facies murum tecti per cir- « cuitum: ne effundatur sanguis in domo tua, et sis reus labente alio, et in « praeceps ruente » Deut. XXI. 8. (6) «Quod si bos cornupeta fuerit ab heri et nudius terlius, et conte- « stati sunt dominum eius, nec recluserit eum, occideritque virum, aut mu- « lierem: et bos lapidibus obruetur, et dominum eius occident. Quod si « prelium fuerit ei impositum, dabit pro anima sua quidquid fuerit postu- « latus » Exod. XXI. 29. 50. PS SOPRA LA DOTTRINA DEL DOLUS dò mano un suo simile, dovea riparare ad una delle sei città di refugio, ed ivi rimanersi, finchè per la morte del sommo sacer- dote non venisse l’amnistìa: e quando mai ne fosse partito prima di questo tempo, il vendicatore del sangue potea dargli impunemente la morte (1). Ma che disponeva poi il diritto mosaico rispetto agli omi- cidj commessi nell’impeto dell’ira, e per occasione di risse? Era questa uccisione volontaria, od involontaria? Che l’autore di essa si contaminasse di omicidio, è cosa certa: ma il con- siderare questo delitto come premeditato, o no, spettava al giudizio concreto; onde si vede il perchè questo punto non si trovi specialmente toccato nelle leggi mosaiche. Lo stesso si raccoglie ancora dal conto, che in quelle si vede fatto dei mezzi, coi quali era stata eseguita l’uccisione: «Si quis FERRO percus- « serit, et mortuus fuerit qui percussus est.... Si LAPIDEM « jecerit, et ictus occubuerit ....Si LIGNO percussus interie- « rit.... Si per odium quis hominem IMPULERIT, vel JECERIT « quippiam in eum....Si MANU PERCUSSERIT, et ille mortuus « fuerit » (Num. XXXV. 16-21): onde si può conchiudere, che l'agente, quando non aveva la piena coscienza delle conseguenze della sua azione, non si considerasse come omicida ex proposito, ma venisse trattato come uccisore senza premeditazione. La pena dell'omicidio premeditato era irremissibilmente la mor- te: « Sanguinem animarum vestrarum requiram de manu cun- « ctarum bestiarum, et de manu hominis . . . . Quicumque effu- « derit humanum sanguinem, fundetur sanguis illius: ad imagi- «nem quippe Dei factus est homo » (Gen. IX. 5. 6): e niun prezzo di redenzione potea liberare il reo da tal pena: «Non « accipietis pretium ab eo, qui reus est sanguinis; statim et « ipse morietur » (Num. XXXV. 51). Da questa breve esposizione rilevasi, che il diritto ebraico (1) Deut. XIX. 1—15. Num, XXXy. 26. 27. 34 ALCUNE OSSERVAZIONI ‘ non prendeva effettivamente il dolus, che nel senso di propo- situm, e riguardava tutti gli altri omicidj come involontarj. Ogni omicida per altro si macchiava di delitto di sangue, salvo colui, che uccideva come ultor sanguinis, o che dava la morte al ladro effrattore, sorpreso in tempo di notte (1). In questo diritto le due capitali direzioni del volontario e dell’involontario si tro- vano assai ricisamente separate fra loro, comechè non si am- mettano in alcuna di esse nè distinzioni, nè ravvicinamenti. Sopra la medesima base del volontario e dell’ involontario era fondato il sistema degli Ateniesi: i quali significavano ap- punto il volontario con la parola d54:5, ora usata sustantiva- mente, ora convertita in verbo, tanto semplice, che composto. Asàos in senso di dolus si trova in Erodoto IX. 90: dododv, frau- dulenter agere, nello stesso scrittore I. 212: dolopovia, codes dolo facta, in Aristotele Ethie. Nicom. V. 2: dolopovetatar, codere ex proposito, in Demostene de falsa legatione pag. 401. lin. 26. ed. Reiskii. Quest omicidio, come è stato dimostrato da Augusto Mathiae in una special dissertazione De judiciis Atheniensium ad ceedem spectantibus, era stato posto dagli Ateniesi in cima a tutti i delitti. Doveva essenzialmente giudicarlo il consiglio dell’Areopago, ed applicargli Ja pena di morte. Se non che l'omicida poteva andare volontariamente in esiglio, e, quando avesse pagato il riscatto (%ropovia) ai congiunti dell’ucciso, gli era permesso di ritornare. Tutti gli altri omicidj si compren- devano sotto il nome d’involontarj (pévor &xodor:), e si porta- vano alla cognizione di altri tribunali. Gli omicidj derivati da ferimento e da rissa appartenevano al tribunale éri raMadiw (2), al quale spettavano anche quelli, su cui nasceva dubbio di com- petenza. Il tribunale éri delgi (3) decideva di quegli omicidj; il cui autore, confessando volontaria 1 azione, sosteneva di averla (1) Exod. XXII, 2. 3. (2) Matthiae, I. c. p. 150. (5) Ivi, p. 151. SOPRA LA DOTTRINA DEL DOLUS 35 commessa con diritto: come se avesse ucciso l'avversario nel calor della lotta, o l’adultero sorpreso in flagranti. Il tribunale éri mpvravetm (1) conosceva degli omicidj immediatamente pro- dotti da cose inanimate. Sembra, che simili procedure fossero dirette a verificare, se di que’ fatti sciagurati potesse attribuirsi la colpa ad un uomo, e a dimostrare insieme, che, quando una vita umana è rimasta immolata, la ricerca giudiciale è sempre abbastanza importante. È noto inoltre, che in Atene si faceva giustizia anche delle pietre, dei ferri, e dei legni, ond’ era stata cagionata la strage dell’uomo, gittando que’ materiali stromenti al di là de’ confini dello Stato ( Heschines in orat. adv. Ctesiphon- tem). Coloro, che avessero esercitato una qualche influenza in simili stragi, doveano, come tutti gli uccisori involontarj, soffrire almeno per un anno l’esiglio, e riconciliarsi, prima di ritornare, coi congiunti dell’ucciso: e dove avessero fatto ritorno prima del tempo, e senza essersi riconciliati, potevano impunemente mal- trattarsi in qualunque maniera (2). Quelli finalmente, che ritor- navano dall’esiglio volontario senza aver purgato col riscatto l'omicidio premeditato, venivano giudicati da un quarto tribu- nale speciale év ppearzdi (3). Da questi pochi cenni risulta, che si faceva ancora in Atene una rigida distinzione fra l'omicidio volontario (éxod10s) e l’in- volontario (&xodz0s), e che, quand’anche l'omicidio involontario si presentasse al tribunale sotto forme diverse, l’autore del reato soggiaceva pur sempre alle medesime conseguenze giuri- diche. Come appresso gli Ebrei, non si dava neppure in Atene alcun peso al casus, e si presentavano certe specie di Romici- dium permissum. Fra il vero propositum e l’impetus si faceva piccola differenza come nel diritto mosaico: ma la redenzione della vendetta del sangue era sempre ammissibile in Atene. (1) Matthiae, 1. e. p. 152. (@) Ivi, p. 169. 3 (5) Ivi, p. 155. 36 ALCUNE OSSERVAZIONI Quindi potemmo. a buona ragione asserire, che fra il diritto attico e l’ebraico la somiglianza de’ principj è grandissima. Vediamo adesso qual differenza di massime separi il mondo orientale dall’ occidentale. Per ciò che riguarda il diritto romano ho notato altrove, che, rispetto agli omicidj dolosi, l’ottima di tutte le fonti è la Collatio legum Mosaicarum et Romanarum. Si può certamente concedere, che il diritto romano abbia qualche punto di con- tatto col mosaico e con l’attico, in quanto che ancora nel primo l’idea di dolus è direttamente contrapposta a quella di casus, e la culpa vien riferita sotto il casus: ma i Romani per altro an- darono più oltre, e gettarono così le basi delle dottrine giuri- dico-criminali tuttora dominanti. 1) Essi in fatti ammisero un fam, e lo contrapposero a nora, culpa, imputatio. « Si modo, pro quo libellum dedistis, « non dolo preestitit, mortem minime perhorrescat: crimen « quippe ita contrahitur, si et voluntas occidendi intercedat. - « Ceterum ea, que ex improviso casu potius, quam fraude ac- « cidunt, fato plerumque, non noxe imputantur ». Mosaic. et rom. legum coll. tit. I. $. 9. Quindi l'uccisione casuale (fato) andò nel diritto romano affatto impunita. Inoltre è notevole, che presso i Romani la pena non ebbe lo scopo di purificare il delinquente, ma quello di una reazione per parte della respublica. 2) I Romani distinsero il dolus, contrapposto al fatum, in delictum ex proposito, ed in delictum ex impetu (1). La qual distinzione è degna che sia particolarmente osservata nel diritto dei popoli occidentali. Essa, come si rileva ancora dalla gene- rale espressione delinquitur di Marciano, non si riferiva sola- mente all’omicidio. In fatti, se uno giurava per la vita, o pel genio del princeps, l’importante stava nel determinare, se ciò (1) Marcian. |. 11. D. de pornis. SOPRA LA DOTTRINA DEL DOLUS Eri era stato fatto consulto, cioè con la piena scienza della falsità del giuramento, o se vi era intervenuto quidam calor vel impe- tus: e solamente nel primo caso era proponibile il crimen ma- gestatis (1). Ma d’altra parte la distinzione di Marciano non sì può dire assolutamente generale; perchè tutti sanno, esservi dei delitti, che si posson commettere solamente consulto, 0 proposito. Si fece bensì per mezzo di essa un gran passo per migliorare la dottrina dell’imputazione. 5) I Romani separarono la culpa dal casus, in conse- guenza dei loro sottili sviluppi di diritto civile sopra il risarci- mento del danno. Per altro considerarono sempre la culpa sotto il solo aspetto della indennità; perocchè intesero a distinguere l’jus publicum dal privatum con maggior precisione d’ ogni altro popolo. Nei fatti meramente colposi la respublica aveva interesse a reagire, solamente perchè venisse riparata l’inju- ria, risentita dall’offeso. Di più nella maggior parte dei delitti le solenni espressioni delle leggi, che li contemplavano, impe- divano di considerare la semplice culpa come obietto di crimi- nale diritto. Quelle leggi in fatti dicevano « Qui, quaeve poro MALO etc ». E ciò stava in perfetta coerenza col noto principio di diritto romano, che il delitto e la pena dovesse misurarsi secondo la volontà, e non secondo il successo. Sebbene dun- que i Romani distinguessero in generale la culpa dal casus, nol fecero per la pubblica punizione di quella, ma per le sole con- seguenze di diritto privato. Il che si può dedurre ancora dalla dottrina del damnum injuria datum. 4) Solamente nell’uccisione dell’uomo parve in processo di tempo ai Romani, che la /ascivia e la luxuria non fosse assolutamente scusabile in faccia al diritto criminale. « Cum « quidam per LASCIVIAM causam mortis preebuisset, comprobatum « est factum Taurini Egnatii Proc. Betice a Divo Hadriano, (1) Cuyac. in observ. lib. II. obs. 19. 58 ALCUNE OSSERVAZIONI « quod eum in quinquennium relegasset ». Coll. leg. mos. et rom. tit. I. $. 11. Questo principio per altro non stette in ar- monia col generale sistema primitivo, ma fu piuttosto un prov- vedimento di politica nel senso, in cui i Romani dicevano mali exempli res est. Esso bensì può certamente giustificarsi, ram- mentando che s’applicava soltanto per eccezione al massimo dei nocumenti, onde sono passibili i singoli, e che la culpa non meritava attenzion criminale neppure in alcuna delle tante forme del delitto în rempublicam ipsam. Dalle quali osservazioni spontaneamente discende, che il diritto romano, e per l’acutezza del suo sviluppo, e per la giustezza delle sue conseguenze, merita anche qui la corona. Senza entrare adesso nelle massime dell’ antico diritto ger- manico, che pur sono di gran momento per conoscere, come in virtù di esse la maggiore importanza fosse attribuita all’ esito esterno, ed alla obiettiva apparizione del fatto (1), e come sotto questo aspetto il vigente diritto criminale ha una base vera- mente istorica; io voglio qui limitarmi ad accennar solamente, che la nostra scienza e la nostra legislazione è andata spesso tropp'oltre, e quali miglioramenti potrebbe in essa introdurre il tempo avvenire. 1) In Germania si è fondata la dottrina dell’imputazione sopra la differenza, che passa fra il dolus e la culpa, mentre si sarebbe dovuto darle per base primaria la distinzione fra il dolus e il casus, fra il volontario cioè e l’involontario, l'uno e l’altro considerato nella respettiva sua forma più compatta. Da ciò procede, che nello sviluppo ulteriore della materia si rende necessario mostrare, che molti fatti, che non sono avvenuti dolose, non si debbono nemmeno considerare come puramente casuali, e che possono quindi apportare giuridiche conseguenze penali. (1) Che il comun diritto criminale italiano ha tenuto dietro in questa parte piuttosto alle dottrine del diritto germanico, che a quelle del diritto romano, è un fatto certo, e meritevole di speciale attenzione. SOPRA LA DOTTRINA DEL DOLUS 59 2) Si è trattato del dolus e della culpa come nel diritto civile, nel quale domina a questo riguardo una veduta onnina- mente opposta. Nel diritto civile in fatti ogni culpa è impor- tante, e singolarmente la culpa lata, alla quale appartiene anche il dolus. Ma non si può certamente innalzare sulla medesima base il diritto penale: dov'è mestieri prendere il punto di par- tenza dal propositum e dal dolus, cioè dalla voluntas, ed am- mettere come punibile l’invotontario solamente per eccezione. 5) Le speculazioni dei moderni, per quanto sieno piene di merito, si rivolgono semplicemente a giustificare quello che si è tenuto precedentemente per vero: ma questa tendenza non è senza difetti; perchè rende impossibile la trattazione critica, e la propria comprensione della cosa, e recide inoltre nel suo principio qualunque dilucidazione istorica. 4) Sebbene lo sviluppo del dolus abbia certamente pro- gredito assai nel, diritto germanico, e perchè si è più esatta- mente definito lo spazio della premeditazione, e della precipi- tazione, e perchè si sono esposte con maggior precisione le singole direzioni del dolus in genere; si è commesso per altro l'errore di tener sempre queste idee nel campo delle generalità, onde son derivate astrazioni, che stanno sovente in contradi- zione con la vita reale, e per conseguenza teoriche, le quali in certi punti riescono false. Queste osservazioni non hanno altro scopo, che quello di mostrare, come la scienza abbia fatto notabili avanzamenti nello sviluppo dell’idea, contenuta nel vocabolo dolus, e come, d'altra parte, ad effetto che la medesima si conservi fedele alla verità, sia necessario procedere in guisa, che piè non si metta nel nuovo, senza aver prima considerato accuratamente l'antico. F. A. Mor. da BU i dae ignim te ‘ fp ia ci ne UL. n La» Mini bt w Fe0t sone Di le a’ vat tel hl dari prnndi I “ap Dil. Bia. ironia A Sdi = ; ioni coat RIGGN) va dar ; A caro i DA gusti Di « (+ 2000 ‘ i Spiga. PRE ci Ge? È JA “def w Si SULLA VERITA DELLE COGNIZIONI UMANE RICSRGNS 2ILOSOZIEHE DI SILVESTRO CENTOFANTI _ Re —_—_ A $ tto CARE Ha: ? Roi È ® AO ea 4 - gres sr pe Na Lusi & panà la ù cult: adiara., e} hdi tei ALL’ILLMO e REVERMO MONSIGNORE CAV. GIULIO BONINSEGNI PROVVEDITORE GENERALE DELL’I. E R. UNIVERSITÀ DI PISA Voi amate e coltivate la filosofia; io debbo pubblicamente illustrarne ed insegnarne la storia: siete la persona eletta a promovere è mighoramenti di que- sta insigne Unisersità Pisana, e a provvidamente rego- larla; ed io vorrei che di qui movesse la vera e grande restaurazione delle discipline filosofiche nell’ Italia. Or eccovi alcune mie ricerche intorno alla verità delle cogni- zioni umane. Com'io l'abbia scritte, non so. È lavoro di cinque giorni; onde non vorrà essere troppo severa- mente giudicato da coloro che alle profonde arti del sapere congiungono quelle eleganti del bel dire italiano. Ma le cose, di che ragiono, erano in me molto antiche, e or sono quasi le prime prose di un vasto edifizio dise- gnato da molto tempo nel mio pensiero, e apparecchiato di materia nelle mie carte. Graditele con l’opuscoletto, che ad esse consequita, a perpetua testimonianza del- l’amicizia e della stima che vi professa il vostro Pisa 12 Febbraio 1845 S. CENTOFANTI. SULLA VERITÀ DELLE COGNIZIONI UMANE RICERCHE FILOSOFICHE I S. I. Introduzione. Ne giornale napoletano, 72 Progresso, pubblicai, parecchi anni sono, alcune mie considerazioni Sulla prova filosofica della realità esteriore, alle quali dovevano conseguitare alcune altre Sulla verità obiettiva delle cognizioni umane. Impedito da molte occu- pazioni e fastidii, non ebbi più l’animo inteso al compimento del mio lavoro secondo che l’avea concepito. Ma la parte già pubblicata può anche stare da se, come quella che fu critica- mente ordinata a esaminare le prove della realità esteriore scritte dall’egregio Conte Mamiani: questa, che ora faccio di pubblica ragione, naturalmente risguarda, e per congiunzione di origine e per omogeneità di argomento, alle considerazioni già stampate nel Progresso, ma insieme è cosa che ha in se stessa la debita integrità, e filosoficamente appartiene alla teo- ria generale dello scibile. Dell’importanza adunque, nè della difficoltà di questo ar- gomento non dirò parola: i nobili pensatori necessariamente le veggono; e coloro che mai non cercarono lume a scoprire i fondamenti, nè a conoscere la forma della scienza, o debbono saviamente astenersi dalla folle presunzione di non fondati giu- dizi, o modestamente apparecchiarsi alla soluzione di questi ardui problemi (1). 46 SULLA VERITA DELLE COGNIZIONI UMANE SEUI Intendimento generale dello scrittore. Con questo nostro lavoro non ci argomentiamo di dare una compiuta prova dello scibile, ma vogliamo introdurre alla teoria di esso, che daremo a suo tempo nella nostra filosofia. Però non adoperiamo come coloro, che, presumendo di cono- scere l’intiero ordine delle cose intorno alle quali ragionano, se ne spacciano sicuri insegnatori al minuto popolo degli stu- diosi; ma come quelli, che, non assicurandosi a vantarsi pos- sessori della verità, con grande amore la cercano, e propongono le osservazioni e conclusioni loro alle menti non preoccupate,, e capaci di soda dottrina, e forli ai temperati e circospetti giudizi. Moviamo dalle prime e necessarie ragioni delle cose, non coi dommi anticipati di un sistema ambizioso; e facciamo uso di un linguaggio, non servilmente preso dalle scuole, ma accomodato alla essenza o qualità dei veri che via via ci risplen- dono innanzi. Insomma reputiamo anteriore a tutte le insegnate filosofie, o che sono proprie dei sapienti, il senso comune del- l'umanità; e in queste testimonianze della natura poniamo il criterio a tutto il nostro discorso, per indi elevarci a quella sommità ove l'intelletto umano quieta, dopo le ben durate fati- che, nell’idea profonda della scienza. Con queste arti vorremmo temperare alcun poco la cre- scente baldanza degli ontologi, che, anche nell'Italia nostra, trascorrono nella sintesi di poemi filosofici, e avviare i potenti ingegni alla vera e splendida rigenerazione della nostra sapienza nazionale. Alla piena distruzione del sensismo non bisognano oggimai nuovi colpi: nè io certamente sono, o potrei essere, av- verso all’ontologismo, chi ben comprenda e non abusi il valore di questo nome. Ma il secolo, desideroso d’idee sintetiche e RICERCHE FILOSOFICHE 47 ricco storicamente di gran patrimonio filosofico, con puerile curiosità va dietro alle mirabili promesse dei fabbricatori di sistemi, e turba il pacato cielo della scienza con l’intemperie e col rumore delle bugiarde parole. A fuggire queste fallacie determiniamo bene la natura dell nostra ricerca deducendo dal necessario valore delle voci, onde l’abbiamo denominata, le prime e certe nozioni della cosa di che dobbiamo ragionare. Noi vogliamo sapere se la cognizione umana è per sua natura capace o incapace di verità, che è quanto dire, se la verità può esser conosciuta dall'uomo; problema, come tutti veg- gono, dalla cui soluzione dee venire la certezza o la incertezza a tutto lo scibile, e senza la cui soluzione dottrina della scienza non vi può essere, e tutta la filosofia è una supposizione, 0 anche una chimera. In ogni tempo gli uomini dalle illusioni dei sensi, e dagli errori o dalla impotenza della ragione furono tratti a esaminare questi stromenti della conoscenza, e così ebbe origine la scepsis o la critica dell'umano intelletto. Para- gonare lo scetticismo antico con quello moderno, sarebbe opera mal consenziente con la natura e coi fini di questa ricerca, e che non potrebbe utilmente farsi senza discorrere comparativa- mente il processo storico e gli scientifici principj 0 il filosofico valore dell’uno e dell'altro (2). Basti qui l’avvertire che il criti- cismo di Kant avendo con nuove arti distinto i subiettivi dagli obiettivi elementi dello scibile, con questo sistematico lavoro come ha mutato gli ordini della scienza, così ha dato altri argo- menti e vigore allo scetticismo moderno. Tutta la grande agita- zione del nostro mondo filosofico, e molte le produzioni de’ più alti intelletti hanno il chiuso o visibile fondamento loro in una logica procedente dalla filosofia critica: e l'insufficienza di tutte queste dottrine dee farci accorti a prendere un’altra via. Lo che ci ingegneremo di fare recandoci al di là di tutte le scuole filosofiche, e procedendo coi necessari lumi del buon senso, e come interpreti sinceri della natura. 48 SULLA VERITA DELLE COGNIZIONI UMANE Conoscere, importa inevitabilmente tre cose: 1.° una so- stanza, una forza, un subietto conoscitore; 2.° un obietto che sia materia di cognizione; 5.° e ciò che nella mente conoscitrice costituisce questa cognizione medesima. La cognizione è nel- l’anima, e ad essa unicamente appartiene: l’ obietto conoscibile può esser fuori e dentro di lei. Se è fuori, è una cosa al tutto separata, e più o meno indipendente dal subietto conoscitore: se dentro, è un senso, una idea, un fatto insomma così proprio del subietto che fa parte della di lui vita e con essa natural- mente si confonde. Dicesi oggetto questo fatto interiore quando la mente si distingue per siffatto modo da lui, che lo contempla siccome esposto alla di lei osservazione e non perde la coscienza di possederlo dentro di se. Quanto contribuisca a render pos- sibile questa osservazione interna ovvero obiettivazione del pen- siero l’uso dell’articolato linguaggio, non è questo il luogo da dichiarare, e i sapienti veri lo sanno. Se l'oggetto è fuori del- l’anima, non può questa non vedere l’intervallo ond’è separata da lui, o presto impara a circoscrivere la sua individua persona fra tutte le cose che la circondano, e per necessità indeclina- bile le reputa estrinseche alla sua propria esistenza. In questa duplice posizione dell’obietto l’anima si distin- gue sempre da esso, ma in differente forma: perchè ella distin- guesi dall’obietto interiore per un atto di riflessione aiutato dalla parola, e non cessa per questo di reputar quell’obietto siccome cosa che anche sia congiunta con lei e che natural- mente le appartenga; ma non deve esercitare la sua attività, 0 presto cessa di esercitarla per vedersi e credersi, non dico distinta, ma separata dall’obietto esteriore, e per averlo sic- come cosa che non le appartiene. Ciò è poco. L'oggetto interno è massimamente in balia della di lei attività cogitativa: lo ri- produce, lo abbandona, lo modifica, lo combina, lo cambia con altri; e quando avvenga ch’ella non possa compiere queste operazioni con la libertà consueta, non ne reca la cagione RICERCHE FILOSOFICHE 49 all’obietto, ma la cerca principalmente in se stessa. Lo che non può dirsi dell’obietto esteriore. Poi, fra la natura di queste cose esterne e quella degli umani pensieri la differenza è gran- dissima: e l’anima conoscitrice la vede. Gli organi, pel cui ministero le percepisce, furono specialmente appropriati a que- sta percezione, e non sono i medesimi coi quali percepisce 0 intuisce gli oggetti interiori. — Sicchè trovasi quasi posta in mezzo a due mondi, uno corporale, l’altro ideale: quello diviso da lei, questo con lei stessa congiunto: ed entrambi diversa- mente esposti alla sua osservazione. Or qui cominciano le considerazioni importanti. Il mondo corporeo è per verità diviso da quello ideale; e tanto se ne diparte, quanto tutti più o meno sanno per necessaria espe- rienza: ma s'egli se ne allontana quanto corre dall’essenza dei corpi a quella dello spirito, non perciò esclude quella analogia 0 rassomiglianza che può intercedere fra un modello e una copia; fra una cosa vera e un'immagine. Noi qui ragioniamo secondo le testimonianze della natura, e la comune opinione degli uo- mini, e coll’intendimento di risolvere le diflicoltà che indi po- trebbero esserci opposte. Però non sia chi chieda fuor di tempo la giustificazione o la prova di ciò che necessariamente assu- miamo per divenire appunto a questa prova che or non può darsi. Fra i due mondi adunque, essenzialmente diversi, par che sia ad un tempo una certa necessaria corrispondenza. Im- perocchè s'io mi sto esposto all’azione de’ presenti oggetti cor- porei ho di essi quella notizia che pienamente m'è testimonio di questa loro presenza. Ma se mi sottraggo alla loro azione, e dentro me stesso vo rimemorando la notizia, che già ne ebbi acquistata, non posso non sentire la diversità di questi due fatti. E nondimeno fra questi fatti trovo una corrispondenza che non potrei negare o dissimulare a me stesso, e per la quale io debbo recare il secondo al primo, e vedere in quello la riproduzione più o meno fedele di questo, tranne le condizioni Pi 4 50 SULLA VERITA DELLE COGNIZIONI UMANE compagne alla percezione immediata dell’obietto sensibile. Sono adunque nel mondo psicologico alcuni obietti che corrispon- dono a quelli del mondo corporeo, e che spiritalmente li rap- presentano. Tale essendo la natural posizione dello spirito umano per rispetto alla conoscibilità delle cose prima che nasca il dubbio filosofico o l'argomento esplicatore di questi fatti, sommamente importa cercar bene addentro nella natura loro, e trarne in luce, quanto richieda il nostro istituto, tutto il riposto valore. La prima volta che un oggetto si offre alla percezione ovvero osservazione dell’uomo, questi non dirà di averlo già conosciuto, ma in quella prima idea che ne prende farà fonda- mento ad ogni sua cognizione. Perchè vedutolo, n’ebbe notizia: e qual volta torni ad osservarlo, egli ne parlerà siccome di cosa che già gli fu nota. Così dicendo si presuppone sempre che la cosa offerta all’osservazione sia conoscibile allo spirito umano, e che lo spirito umano abbia le facoltà richieste a que- sto conoscimento; si presuppone che l’atto dell’osservare sia debitamente esercitato, e che la cognizione che indi risulta sia piena e sincera. E queste presupposizioni sono la opportuna e inevitabile confessione di certe necessità primitive, alle quali l’anima obbedisce nell’acquisto delle sue cognizioni, siccome a leggi che la governano. Gli oggetti adunque, così interni, come esterni, importano cognizione allo spirito umano poichè furono primamente osservati e sperimentati; ma quando egli ne acquista la cognizione, è tutto nella percezione loro: e sola- mente parla di questa cognizione, ch'egli ne abbia acquistato, quando il nuovo pensiero di questi oggetti naturalmente lo porti a farne riferimento a quella prima notizia che ne possiede. Però ogni cognizione umana contiene necessariamente in se questa ragione di riferimento a un fatto anteriore, che è quello da cui originariamente è derivata. Dal che si raccoglie che in questi fatti primi, dai quali RICERCHE FILOSOFICHE 51 procede ogni cognizione, il subietto conoscitore ha il natural criterio a giudicare della verità delle cose. Finchè un obietto, sia esterno, sia interno, non si è offerto alla percezione dell’anima, ella non lo conosce. Quando prima- mente V ha percepi'o, ne ha cognizione; ma non dice ancora, e non può dire, egli è vero. Bensì dice, egli esiste, desumendone l’esistenza dal percepirlo: e lo afferma esistente in lei, se l’o- bietto è spiritale o interiore; esistente fuori di lei, se appar- tiene al mondo dei corpi. Ma poichè a quel primo conoscimento susseguono le altre osservazioni di quell'oggetto, e l’anima, memore della notizia antica di esso, vi riferisce la nuova, e scopre che l'una si ragguaglia con l’altra; allora in questa loro corrispondenza trova la ragione del vero, e attribuisce questa ragione alla nuova idea, perchè dessa dall’antica non si di- scorda. Laonde alle cose tutte, considerate semplicemente in se, senza riferimento nessuno alla cognizione umana, non si conviene, nè mai potrebbe convenire, come alcuni ciecamente avvisano, l'attributo di verità, ma quello unico di realità o di esistenza. A questa realità poi od esistenza può benissimo con- venire quell’attributo, in quanto è appresa dal subietto conosci- tore, il quale, così apprendendo e giudicando, potrebbe ingan- narsi. Ma la cosa, fuori della percezione dell’uomo, 0 è, o non è. Se è, tutta la sua verità è nel fatto della sua positiva esi- stenza, vale a dire non è verità se non per rispetto alle possibili dubitazioni o giudizi dell’uomo che ne ragiona; onde ci si fa manifesta l’improprietà di questo linguaggio. Se non è, ogni materia di ragionevole discorso ci manca, e qui non si può aggiunger parola. Fuori dell’uomo adunque è l'ente e checchè altro esiste nel mondo: la verità è una ragione fra le cose co- noscibili e la mente conoscitrice, e la proprietà più bella della cognizione umana, la quale perciò è vera perchè potrebb’es- ser falsa. Ma sono alcuni i quali stupidamente rifuggono da cosiffatta 52 SULLA VERITA DELLE COGNIZIONI UMANE conclusione, spaventati dalla distruzione di ogni verità che indi veggono inevitabile. Imperocchè se il vero appartiene unica- mente alla cognizione, e la cognizione è dell’uomo, come l’ uo- mo può arbitrariamente e follemente procedere ne’ suoi pensieri, così credono che debba intervenire della verità, alla quale però manchi il saldo suo fondamento. Certamente che l’uomo possa facilmente errare, io lo veggo anche in questi matti ragiona- menti: ma que’ meticulosi non veggono che se la cognizione umana è capace di falsità, l'ente e l'esistente necessariamente si restano quello che sono fuori dell’arbitrio dell’uomo, e che in essi la verità della cognizione ha il suo fondamento certo e immutabile. Non veggono che al di sopra di tutti gli arbitrii, e stoltezze umane sono le leggi fisse e la sapienza della natura, dalle quali il nostro pensiero non potrebbe mai emanciparsi impunemente nè ribellarsi. Gli oggetti esterni non son creati dall’ uomo, non possono essere trasmutati in altri, non sono offerti alla sua percezione dal libero arbitrio di lui; il quale di- scorre, secondochè meglio gli aggrada, le vie del pensiero, ma giunto alle cose poste dalla onnipotenza creatrice, quasi a mo- delli delle sue idee, necessariamente si arresta: è spesso traviato od illuso dalla fantasia, dai sensi, dalle passioni e anche dalla mente ragionatrice, ma in questi errori non pone il criterio del vero, e se ne ravvede. Svelano adunque con semplicità invo- lontaria la viziosa costituzione del loro intelletto, o indebita- mente confondono le idee con le cose (3). I pensieri dell’uomo o sono considerati in se stessi e come puri fatti del mondo psicologico senza riferimento ad altri og- getti dei quali siano l’idea, o con questo riferimento. Nel primo caso hanno la loro realità di esistenza come tutti quelli del mondo fisico; e la notizia, che la mente umana ne prende, può esser vera 0 falsa secondochè l’ osservazione intellettuale drit- tamente o tortamente si eseguisca. Nel secondo caso questa verità è da desumersi dalla loro proporzione o corrispondenza RICERCHE FILOSOFICHE 55 con l'oggetto che rappresentano. Talchè concludendo, così pos- siamo raccogliere la dottrina esposta in questo nostro ragiona- mento, e determinare la natura della questione che vorremmo risolvere: Tutte le cognizioni umane presuppongono alcuni oggetti dai quali originariamente procedono, e questi oggetti sono inte- riori od esterni. Compiesi la percezione di questi oggetti con leggi non mutabili dall’arbitrio dell’uomo, e in questa immuta- bilità loro e nella precedente esistenza dell'oggetto conoscibile è il fondamento certo della verità della cognizione che ne ri- sulta. Finchè dura la percezione dell’oggetto presente, la co- gnizione non esiste ancora, ma viensi acquistando. Poichè l’og- getto è rimosso, l’anima con la notizia di esso ha la consape- volezza di averlo avuto esposto alla sua percezione, e a questa presenza antica, se mi si concede cosiffatta espressione, reca sempre la notizia che ne conserva, siccome copia verso il mo- dello. Ragionando di cose, che attualmente vede, l’anima non crede d’ingannarsi, quando la sua osservazione sia fedele, e conformi a questa procedano i ragionamenti che intesse. Che se parli di oggetti non presenti alla sua osservazione, ella di- scorre le nozioni che già n’ebbe acquistato, e misura la giu- stezza dei suoi giudizi sulla certa fedeltà delle percezioni fatte. Dire che l'oggetto presente è vero, ella non potrebbe mai se non per rispetto ad alcuna sua dubitazione 0 supposto falsi: ma l'oggetto, fuori della percezione dell’anima, semplicemente è, o non esiste. Onde la verità è condizione, proprietà, attributo, che unicamente appartiene alla cognizione umana: e qualvolta si attribuisca alle cose, ciò è per abuso di linguaggio consentito dalla consuetudine universale, e procedente dalla impossibilità di separare a/ {utto l’obietto dalla percezione, e dall'idea dello spirito. Ciò posto, qual sarà il fine che vorremmo attingere, quale la natura di questa nostra ricerca? Se le notizie prime degli oggetti, tali sono quali debbono 54 SULLA VERITA DELLE COGNIZIONI UMANE essere; se, rimossi gli oggetti, i memori pensieri corrispondono a que’ primi concetti; se la ragione, movendo bene da questi fondamenti, seguita i suoi discorsi con necessario ordine di con- clusioni: ciò basta o dee bastare al volgo degli uomini, e al comune dei pensatori. Ma il filosofo non se ne contenta. Pro- vare la verità dello scibile, tanto è per lui, quanto trascendere il fatto primo da cui la cognizione comune ha cominciamento, ed in cui naturalmente si fonda. Or questo fatto è l’ immediata intuizione dell’oggetto; imperocchè, tolte le cose, manca la ma- teria alle percezioni dell'anima, e cognizione non è possibile. Due mondi diversi offrono oggetti alla intuizione dell’anima; il mondo psicologico, ovvero ideale, e quello fisico. ‘Trascendere il fatto interiore dell’intuizione dell'idea, domanderebbe la so- luzione di un problema diflicile, quello dell’origine delle idee, o l’adeguata risposta al quesito, se le idee veggonsi in Dio, 0 sono fatti maturali della vita cogitativa dell’uomo. La greggia dei temerari discorritori, che, come pecore matte, corre preci- pitosa dietro all’esenîpio di alcuni possenti ingegni, si arram- pica per queste dirupate cime senza veder gli abissi che pur vi sono, e ciecamente vi trabocca chimerizzando. Noi che non presumiamo dottrine, ma ci argomentiamo di trovarle, e che ci moviamo coi primi veri necessariamente testimoniati dal senso comune, per terminare, quando che sia, nella scienza, ci tempe- reremo per ora dall’ agitare quelle forti questioni. Ma perocchè senza una buona soluzione di esse neanche questa, che ora pro- poniamo, potrebbe divenire una piena dottrina, verremo a quelle in altra occasione. Intanto, esclusi gli oggetti interiori, restano gli esterni; e per rispetto a questi, si vorrebbe trovar via per salire oltre il fatto primo della lor percezione. Ma come mai?.. come, io ripeto, se l’uomo, per sapere che.le cose. esistono, dee percepirle, e al di la di questa percezione non può recarsi per quindi vedere l’obietto in se, fuori di ogni elemento ideale, e giudicare se la nozione, ch'egli naturalmente ne prese, in RICERCHE FILOSOFICHE 55 verità corrisponda alla natura di quell'oggetto! ... Noi siam tratti irresistibilmente a credere che questa corrispondenza ci sia: ma chi giunse a provarla? chi trascese i confini dell’idea ragionando dei corpi, se tuttociò che egli può ragionare di essi procede dall'idea stessa che gli dà lume a conoscerli? Eppure questa è l’ardua prova che ragionando si vorrebbe vincere. Senza di che tutte le scienze fisiche hanno la loro base in una necessaria presunzione, e la filosofia non ha possibilità di esistenza. Determinata bene l’indole della questione, vediamo se ci succedesse mai di risolverla. S. IM La verità delle cognizioni sensate è dimostrata. Quel che altri abbia fatto per sodisfare alle istanze degli scettici, è cosa della quale debbo parlare nella istoria della filosofia, e qui non richiesta all'uopo di queste ricerche. Cer- tamente il nostro divisamento una storica e scientifica propor- zione con lo scetticismo moderno vorrebbe averla; di che giudi- cheranno i sapienti. Ma in tutte le questioni metà della fatica è evitata, e già ottenuta metà del successo, quando colui che si accinge a risolverle seppe proporle nel modo più conforme alla verità incognita che vorrebbe scoprire. Questa conformità dap- prima è quasi un felice presentimento del vero; poi è una lo- gica anticipazione di esso, quando, oggimai ritrovato, non po- tresti parlare del modo di trovarlo senza indicare quell’unica via che a lui dirittamente conduce. Ma proponendo la nostra questione, noi ci siamo chiusi, per così dire, in un circolo, dal quale sembri impossibile uscire. A fronte di cosiffatte diflicoltà la turba de’ curiosi e de- gl’ignoranti inarca le ciglia stupidamente maravigliando, e recasi nell’aspettazione grande di atlantici contendimenti di forze, di 56 SULLA VERITA DELLE COGNIZIONI UMANE prodigiose arti, di strepitosi effetti. Venga il savio, e pronunzi la semplice parola che quelle diflicoltà disgombra, e che age- volmente fa passare le menti al termine che reputavasi inacces- sibile: e la turba non valuterà l’effetto dalla forza vera che lo produsse, ma dalla facilità dell’ operazione, e non lo dirà stu- pendo perchè nacque impotente ad operarlo. Di cosiffatte pa- role, emule di quella creatrice, noi non possiamo essere proffe- ritori: ma frattanto ne diremo una, che ci mostri la possibilità di un varco là ove pareva essere una linea insuperabile. Tra- scendere i confini dell'idea non è conceduto all’ uomo nella percezione del mondo fisico: e al di là dell'idea sono gli oggetti. Ma s' egli non può con sicurezza affermare che le nozioni che indi acquista corrispondono alle proprietà naturali di quegli oggetti, crede peraltro che questi oggetti vi siano, nè contro la sua cre- denza addurremo le istanze degli scettici, alle quali fra non molto sufficientemente sodisfaremo. Or se le cose, poste al di fuori della cognizione, ma che furono materia di essa, potessero essere in- terrogate dall’uomo e rispondere che veramente quella sua co- gnizione concorda con la natura loro, non avremmo noi in cosif- fatta risposta gli argomenti richiesti a risolvere la proposta que- stione? La parola che qui abbiam detto toglie la nostra investi- gazione a quella vaga incertezza in che dapprima quasi irresoluta si agitasse, e la indirizza verso un determinato scopo, che po- trebb'esser quello al quale studiosamente intendiamo. Osservate i corpi costituenti questo mondo visibile: le stelle del cielo, i tre regni della natura qui in terra. Quegli splendidi astri narrano in loro linguaggio la gloria del Creatore; i minerali ed i vegetabili mettono anch’ essi i loro proporzionati suoni a compiere il concento della vita universale: ma non rispondono esplicitamente alle interrogazioni del filosofo che vuol certificarsi della verità dello scibile. Resta il regno animale, e di qui verrà il responso della natura necessario a stabilirne sopra basi incon- cusse la scienza. RICERCHE FILOSOFICHE 57 Lascinsi tutti gli altri animali, e si scelga l’uomo a subietto delle nostre considerazioni. L'uomo, essendo nato alla cognizio- ne, nella forma della mente ha preparata evquasi direi disegnata quella dello scibile; e in tutta la organizzazione del corpo ha i mezzi accomodati ad acquistarlo, e a testimoniarsene la verità nativa ed irrecusabile. Imperocchè due piccoli mondi, quello ideale e quello materiale, uniti insieme coesistono nell’integrità della sua individua esistenza: e fra questi due mondi l'armonia, la corrispondenza, la reciprocità, sono così profondamente in- time e inevitabilmente note, che dubitare di questo fatto sa- rebbe un dubitare della vita. L’uomo ha la sua spiritale perso- na, e n'è così certamente consapevole, che da questa coscienza di sè gli si deriva ogni altra certezza. Ha la sua persona corpo- rale, e n° è così necessariamente certo come dell’altra: e se le distingue, non però le separa, ma le percepisce insieme con- giunte nell’unità del suo essere. Apparecchiato di molte mem- bra, e capace di movimenti diversi, egli è uno e molti ad un tempo: e raccogliendosi a suo bell’agio nel penetrale dell’ ani- ma, di là contempla le varie parti del suo composto organico, e se ne rende ragione come di cose estrinseche al centro in cui si raccoglie, ma non divise da lui. Quindi sente di avere e piedi e gambe e petto ec mani, e checchè altro in essolui si ritrovi, e a confermare questo testimonio della coscienza aggiunge prove che vincono ogni qualunque dubitazione. Perchè se potesse mai dubitare d’ingannarsi credendo di avere la mano destra, egli move la sinistra a cercarla, e là trova là dove reputava che fosse, e con nuovo esperimento verifica il senso antico che già ne aveva. Quindi veggendo che questo sentimento e pensiero, che naturalmente ci possiede di tutto il suo corpo e delle con- dizioni sane od inferme di esso, è l’atto stesso della vita, trova ripieno quell’intervallo che parea dividergli il mondo ideale dal fisico, e nella costituzione della sua antropologica persona vede l'uno esser misura dell'altro, e la qualità della nozione corri- 8 58 SULLA VERITA DELLE COGNIZIONI UMANE spondere necessariamente all'oggetto. Le quali prove potrebbero essere fin d’ ora suggello di disinganno agli scettici, Ma l’uomo solitario ha solamente cominciato quest’ ordine di poderose prove: l’uomo in comunicazione con l’ uomo debbe compirle. Io esisto, e sento di esistere, e posso pensare e penso questa mia esistenza e questo mio sentimento di essa: e pensie- ro, sentimento, esistenza qui sono tanto una sola e medesima cosa, che costituiscono l’ indivisibile unità del mio essere. Un altro essere della mia specie a me si avvicina, sicchè le due nostre persone, l’una all'altra presenti, sono contemporanee alle due percezioni d’entrambi. Egli ha la percezione di un corpo, ed io similmente di un altro: egli per quella sua perce- zione ha la notizia di me che gli sto davanti, ed io parimente di lui. Queste due notizie sono fatti appartenenti al mondo ideale: per queste idee l’uno e l’altro sappiamo che un obietto di una certa forma, e in un certo atto ci sta dinanzi: ma queste nozioni ci sono elle veramente fedele rappresentazione della realità di un presente oggetto, e corrispondono alle proprietà naturali di esso? À potere asserire questa realità e questa corrispondenza era necessario trascendere i confini dell'idea, e fuori della per- cezione afferrare l’obietto puramente in se, e paragonarlo poi con l’idea. Lo che mostrossi impossibile allo spirito umano. A vincere cotanta difficoltà, e uscire in qualche modo da questo circolo pensammo che potesse bastare la testimonianza dell’ og- getto, qual volta, interrogato da noi, potesse consapevolmente rispondere. Ed ecco ora l’ oggetto risponde; ecco felicemente trasceso il circolo del mondo ideale, e fra l’idea e i corpi aperta una comunicazione intima e necessaria che valga a certificare la corrispondenza dell’ una con gli altri. Io sono spirito, e insieme son corpo: e così son certo del- l’esistenza delle mie idee, come di quella delle mie membra: ho in animo di chiudere un occhio, e lo chiudo: e così son certo di quel mio spiritale intendimento come della sua materiale RICERCHE FILOSOFICHE 59 esecuzione. L’ altr uomo che mi sta innanzi vede questo mio atto, e per accertarsi che non s’ inganna nella percezione del fenomeno, mi domanda se veramente abbia chiuso quell’ occhio io che debbo esser consapevole in me medesimo di aver voluto eseguire quell’ atto, e di averlo realmente eseguito. Ed io gli rispondo che quello veramente fu il voler mio, quello il movi- mento da me corporalmente recato ad effetto. Qui la certezza dell’ intimo sentimento dal petto di colui, che naturalmente la possiede, si travasa artificialmente nel petto di un altro, che n'era privo, e con tanta fedeltà e sincerità vi passa che in am- bedue è comune irrefragabile testimonianza del vero. Per qual mezzo si effettua questo miracolo? Per mezzo della parola. In questa pertanto cadono ora le nostre ricerche per dare alla no- stra prova tutta l’ evidenza di una dimostrazione matematica. GIRA Continuazione . L'uomo che parla, prima ha pensato: e il suo pensiero essendo parlato prende corpo e si manifesta in forma sensibile; prende corpo aereo, lieve, veloce, degno di un essere spirita- le, ma corpo. Nè dall’ idea parlata a questo suono che la signi- fica è discontinuità od intervallo; ma l’anima, che concepì l’idea e che volle esprimerla, ebbe consapevolezza e certezza intima di quel suo concetto ed intendimento, e recando il corpo ad ese- guire l’inteso effetto secondò ai vincoli organici che la congiun- gono con questo corpo, e fu accompagnata da continuità di senso in tutto questo processo di moti. Poi quando nelle artico- lazioni degli stromenti vocali la parola ebbe preso la configura- zione già divisata e suonò nelle vibrazioni dell’ aria, 1’ anima, che l’ avea disegnata prima dentro di se e sapeva troppo bene quel ch’ ella era, la riebbe estrinsecata nella forma aerea perce- 60 SULLA VERITA DELLE COGNIZIONI UMANE pendola per la via dell'udito; e comparando questa forma ester- na e corporea con la forma spiritale ed interna, trovò che nel- luna e nell’ altra la parola si restava sempre uguale a se stessa conservando essenzialmente la sua identità. Or questa parola, che prima fu disegnata nel mondo psicologico e poi fu espressa in quello fisico, è l’ informazione viva e quasi l' incarnazione dell’ idea che vuol comunicarsi fra gli uomini. Cosicchè in que- sto fatto maraviglioso non solamente noi abbiamo l’ obietto che è materia di cognizione alla mente conoscitrice, ma un obietto che è la forma corporea di un pensiero, e la significazione intesa di questo. E però nello spazio in che suonano le parole potresti dire essere un mondo fra quello puramente materiale e quello intellettuale; mondo configurato dall’arte umana, e nel quale l'oggetto fisico, che è materia di cognizione, vi prese forma es- sendo già cognizione egli stesso nel mondo ideale. Onde non so- lo ha le condizioni richieste a trascendere i confini dell’ idea ac- ciocchè trovisi in esso la prova dello scibile; ma nella condizione medesima della sua prima formazione ha consumato l' effetto di quel trascendimento che dapprincipio ci parve cosa impossibile ad effettuare. Queste cose che dette a modo di conclusioni scientifiche son difficili ad esser comprese per la profonda atten- zione che domandano, diverranno apertissime a tutti per le se- guenti dichiarazioni. Costituito di fronte agli oggetti fisici, l’uomo sente di os- servare un mondo che non è sua fattura. Onde non li conosce come Colui che li fece, il quale già sapeva quel ch' ei si fossero prima di averli fatti. Perciò accetta necessariamente quelle cose com’ elle sono; e per conoscerle dee con attenta considerazione osservarle; e primamente osservandole si resta sempre al di quà di esse finchè giunga a saperne la costituzione e la genesi, € così a dominarle con l'intelletto: scienza, che è circoscritta den- tro limiti non molto larghi. Acquistata questa signoria intellet- tuale, presuppone sempre che la sua cognizione corrisponda alla RICERCHE FILOSOFICHE 61 proprietà ed essenza delle cose; ma non potendo varcare i con- fini dell'idea non può afferrare l'oggetto puro in se, e giustifi- care la cognizione con la testimonianza dell’ oggetto medesimo. Nell’ ordine dell’umana loquela non è così. La parola, che pure è oggetto sensibile, prima di essere articolata ed espressa, fu pensata, ed ella stessa è la sonora immagine di un pensiero. Concepita dallo spirito prima di prender forma cor- porea, era da esso perfettamente saputa, e però materia di co- gnizione, e cognizione ad un tempo: e tal si resta poichè suona estrinsecata nell’aria. Imperocchè, fattasi corpo aereo, appar- tiene alla categoria di tutti gli altri suoni o romori che fanno impressione sulle orecchie dell’ uomo: vale a dire è un oggetto anch’ essa del mondo fisico. Ma su gli altri suoni non formati dall’arte umana cadono le medesime considerazioni che abbiamo fatto su tutte le cose corporee, le quali son conosciute dall’ uo- mo perchè le osserva, ma che non testimoniano la verità della cognizione umana con opportuna risposta. E la parola, al con- trario, risponde. Perchè suonando nell’aere, e come un oggetto del mondo fisico venendo a percuoter le orecchie dell’uomo che l’ha formata, è da lui percepita: e questa percezione dà all'uomo la notizia di quel dato suono che lo percosse; la notizia di un oggetto fisico costituito fuori di lui. Ma l'oggetto fisico entrando per la percezione nell’ anima trova in questa la forma primitiva di se, cioè la parola pensata prima di essere espressa; e sommi- nistrando materia a comparazione, è trovato corrispondente al modello, e così la seconda cognizione è parificata alla prima. Il perchè l’anima veggendo uguale la nozione della parola, oggetto fisico, alla antecedente nozione della parola, oggetto intellet- tuale, in questa loro adeguazione o identità ha la certissima prova che la percezione dell’ oggetto sensibile non fu fallace, e scopre la verità della cognizione acquistata. L’ anima adunquè in questo mirabile processo di cose rappresenta due parti: da prima è superiore all’ oggetto, e disegnatrice di esso nel suo 62 SULLA VERITA DELLE COGNIZIONI UMANE pensiero; poi è inferiore ad esso in quanto dee sottoporsi a ri- ceverne la impressione come le accade semprechè voglia, 0 debba percepire ogn’altra cosa del mondo fisico. Nel primo caso l’idea, o la nozione è anteriore all’ oggetto intellettuale che indi si modella: nel secondo è posteriore all’ oggetto fisico che suona esternamente all’ udito. Ma perocchè l’ uno e 1 al- tro oggetto sono comunemente effetti dell’arte umana coadiuvata dall’ esterna natura, e l’ anima che gli opera è continua nella coscienza di queste due operazioni, e paragonandoli nella indi- visibile unità del suo essere gli trova l’ uno all’ altro corrispon- denti, per questa identità sostanziale de’ due oggetti dritto è concludere che le leggi che governavano l’ acquisto delle cogni- zioni del mondo fisico oggimai furon vinte, e più non conten- dono il varco del limite fatale che sembrava insuperabilmente opporsi alla prova filosofica della verità dello scibile. Perchè se l’anima, per rispetto alla parola articolata ed espressa, resta perpetuamente, con la nozione che ne prende, inferiore ad essa, come quella che non può trascendere il confine di questa sua idea; ella già era al di sopra di questo medesimo oggetto prima che fosse formato, come quella che I’ ebbe pensato avanti di fisicamente eseguirlo. E la nozione dell’ oggetto intellettuale rimanendo in essa come paragone che debba mostrare la verità dell'oggetto fisico, non così tosto la parola corporalmente estrin- secata ritorna al punto in che fu modellata, che la sua identità col modello con evidenza necessaria si manifesta, e la prova dello scibile è consumata. S. V. Un’ obiezione, e risposta: altre considerazioni opportune. Tutto bene! potrebbe dire un ingegno acre e difficile; ma se l'illusione fosse necessaria in tutte queste operazioni del- RICERCHE FILOSOFICHE 65 l’uomo!...E questa è la sola obiezione che possa farsi al nostro ragionamento. Ma se l’ illusione, io ripiglio, fosse necessaria im queste operazioni dell’ uomo, bisognerebbe tenerla per verità, | perchè quella è la condizione comune, normale, necessaria di tutto il genere umano. E la risposta è più che sufficiente a convincere la vanità, e l’ ambiziosa puerilità di così fatte obie- zioni. Ma quando siamo dalla parte del vero, le ragioni sempre soperchiano: onde a quelle già scritte vogliamo aggiungere que- ste ancora più forti. Possa pure illudersi l’uomo solo che seco stesso semplice- mente conversa: ma un altro, due altri, tre, quattro, dieci mi- la, tutti gli altri insomma, che abbiano commercio di loquela con quello, non patiranno appunto della stessa illusione di lui, ma ciascuno cadrà in inganno secondo le private proprietà della sua natura. Che se così non fosse, tutte le vite umane si ridur- rebbero ad una, o la comune condizione escluderebbe, come già fu detto, la possibilità dell’inganno, e paleserebbe nell’obie- zione un cieco ribellamento dalle leggi ordinarie della natura, e l’impotente conato di cercare la verità. dello scibile in un mondo che non esiste. Che è l’occulto vizio del Pirronismo; onde le matte presunzioni di questi visionarii rompono tutte contro la salda immutabilità dell’ ordine reale, in cui 1’ uomo pensa ed eseguisce il pensiero. Sia dunque, non uno, ma quanti uomini si vogliono, a fronte di un altro il quale compia con loro quegli effetti medesimi in che trovammo la prova della verità dello scibile. Colui che parla è al di sopra dell’ oggetto, che a tutti comunemente suona il pensiero che debbe significare; e gli sovrasta, perchè ne fu prima il disegnatore intellettuale, poi il fisico formatore. Egli ha intenzione che la sua parola, quale fu pensata nell’ anima, tal risuoni nell’ aere alle orecchie degli ascoltanti: e a suo giudizio risuona. S' inganna egli nel credere che l’obietto fisico consuoni coll’obietto ideale? Ma tutti gli al- tri, che lo ascoltano, non saranno certo malati di una medesima 64 SULLA VERITA DELLE COGNIZIONI UMANE frenesìa: essi non pensarono a profferire quella parola: non si mossero ad atto, che possa reputarsi ispirato o forzato da pas- sioni o preoccupazioni, o altre necessità psicologiche alle quali servilmente cedano. E tutti gli altri percepiscono quest’ oggetto come l’ uomo che lo formò, e ne ritraggono una medesima co- gnizione, che è quella appunto del pensiero che voleva essere comunemente significato. Adunque la prova dello scibile che raccogliemmo certissima studiando 1’ uomo che parla solo con se stesso, la troviamo ora mirabilmente confermata dagli effetti os- servabili negli uomini che ascoltano l’ uomo che parla, e l’obie- zione fatta non richiede che più lungamente la combattiamo. Ma il fatto, da cui abbiamo tratto la più convincente conferma alla verità della nostra dimostrazione, merita un esame più dili- gente e profondo. L'oggetto che nell'esempio proposto, viene alla percezione auriculare degli uomini, ha questa sua proprietà che egli è corpo e idea, o suono e segno ad un’ora. E coloro che lo ricevono lo prendono come segno, nell'atto éhe l’ascoltano come suono; e lo valutano riferendolo all’ animo di quello che lo produsse. Ma se lo percepiscono qual segno, come vien fatto a loro di at- tribuirgli quel valore stesso col quale fu adoperato dall’ uomo parlante? Ciò interviene perchè quell’ obietto non giunge nuovo alle loro orecchie, ma più volte essi medesimi lo usarono a si- gnificare presso a poco una medesima idea. Virtualmente adun- que erano anch’ essi al di sopra di quest’ oggetto quando prima si offerse alla loro percezione, e però hanno insieme la cogni- zione di lui in quanto è idea, e di lui in quanto è corpo. Il varco fatale, che sembrava chiuso a poter provare la verità della cognizione umana, qui ancora era anteriormente trasceso, per- chè l'oggetto fisico, che abbiamo tolto ad esaminare, essendo un effetto dell’arte umana, necessariamente è dominato dall’idea, e sì resta al di sotto di tutte Je menti, che lo percepiscono, per la ragione che ogni operazione dell’ arte ha sempre il suo ante- rior modello nel mondo ideale. Ri RICERCHE FILOSOFICHE 65 Ma se l’idea necessariamente antecede all’obietto in que- sto mondo del verbo umano, e se la parola, che è l’ obietto, vien formata e ordinata a significare fra gli uomini le loro idee, come mai cominciossi la significazione di queste, che, standosi chiuse nei penetrali della mente, non possono essere comunica- te; e avendosi a comunicare con gli appropriati segni, doman- dano la previa loro cognizione? A ciò aveva anteriormente provveduto la sapienza della natura; la quale, fabbricando gli, uomini sopra un tipo comune, gli dispose mirabilmente ad inten- dersi. E prima ch’ ei cominciassero l’artificiale linguaggio aveva ella medesima precorso a questo stupendo lavoro con certi altri segni suoi proprii già preparati nella costituzione del corpo, e in quella insieme dell’ anima. Ma in qualunque modo ciò fosse, qui si vuol considerare che moltissime idee, prima di essere si- gnificate per la parola, furono acquistate per le percezioni degli oggetti indipendenti dall’ arte umana e che appartengono al mondo fisico. Ond’ esce una nuova e bellissima testimonianza renduta dalle cose stesse alla verità delle cognizioni che se ne hanno. Infatti, quand’ io parlo con altri, due idee ho nella mente ad ogni parola ch'io formo ed esprimo; l’idea della pa- rola medesima e quella della cosa ch'io voglio significare. Or questa idea essendosi in me ingenerata per la percezione di un oggetto esterno e corporeo, è indipendente per sua natura dalla voce con la quale la significo, e solamente vi sta congiunta dopochè fu per essa significata. S° io la dico ad uomo, che non ebbe l’ immediata percezione della cosa alla quale è correlativa, egli non potrà intendermi, o malamente m° intenderà, o dopo certi analoghi schiarimenti; onde quell’ immediata percezione dell’ oggetto è la condizione richiesta alla piena e verace intelli- genza della idea significata per la parola. Pertanto nell’ uomo che mi ascolta, e che convenevolmente è disposto ad intender- mi, preesiste l’idea della cosa di che gli ragiono, la quale nacque nella sua anima anteriormente all’ uso del vocabolo or- 9 66 SULLA VERITA DELLE COGNIZIONI UMANE dinato a indicarla. Jo dunque che parlo, e l’uomo che mi ascolta abbiamo ciascuno la nostra idea acquistate sensatamente comu- nicando col mondo esteriore: non è la parola che fa intender la idea, ma l’idea che fa intendere la parola, che perciò adempie la funzione di segno: e così abbiamo comunicazione di pensiero fra noi. Spesso accade che ciascuno attribuisca alla parola un valore privatamente conforme alla nozione che gli sta nell’ani- ma, e che l'uno e l’altro suppongano d’intendersi perchè usa- ‘no un segno comune, e realmente non s’ intendano perchè il concetto dell’ uno non corrisponde a quello dell’ altro. Ma più spesso accade che realmente s’intendano. Che se non fosse, anche l’uso comune di un medesimo segno sarebbe razional- mente impossibile, la vita umana non avrebbe ordine nè magi- stero, tutto sarebbe una inestimabile falsità. Dal che si conclu- de, che la parola non solo dirittamente, e considerata quale oggetto sensibile, ma obliquamente, e considerata qual segno di idee raccolte dalle altre cose del mondo fisico, ci prova sempre la verità della cognizione umana. Perchè ogni commercio intel- lettuale intorno a queste medesime cose sarebbe impossibile fra gli uomini, se le nozioni che essi ne hanno anteriormente all'uso dei nomi, realmente non corrispondessero al lor valore obiettivo. DI S. VI La nostra prova ha valore per tutto l'ordine delle cognizioni sensate. Le ricerche, che fino a questo termine ci hanno condotto, dapprima parevano impossibili a cominciare. Imperocchè, posta la questione, quasi ci trovammo chiusi in un circolo, da cui fosse disperata opera tentare l’uscita. Drizzammo allora l'occhio della mente verso un fatto il quale fosse soggetto alla condizione comune a tutti gli altri dentro quel circolo contenuti, e nel RICERCHE FILOSOFICHE 67 tempo stesso per un particolar privilegio ne fosse immune . Dalla cui scoperta dovea certamente dipendere la soluzione del difticilissimo problema. E noi trovammo questo fatto privilegiato nell’ umana parola; e dall’analisi accurata di essa deducemmo la prova della verità dello scibile. Ma questa prova debbe tanto valere quanto si stende la ragione del fatto dal quale fu desunta, o puossi legittimamente applicare a tutte le cognizioni del mon- do fisico? I suoni van diretti all’ udito: la parola è una specie di suoni prodotti dall’arte umana. Quel che si dice di lei, potrà dirsi di tutte le cose esposte alla percezione dell’ uomo? Stu- diandola a dover provare la verità della cognizione. trovammo in essa le proprietà comuni agli oggetti sensibili congiunte con altre a lei privatamente appartenenti, e perciò la recammo in esempio che stesse in luogo di tutti quegli oggetti. Ch’ ella debba perdere generalità di valore perchè solamente è per- cepita col ministero dell’udito, non credo; quando veggo che l ingegno umano seppe renderla visibile all’occhio, e può darle figura e rilievo sicchè per mezzo ancora del tatto sia percepi- bile. Nuocerle il provenire dall’arte umana, non dovrebbe; perocchè l’arte adopera sempre nella natura e con la natura, dalla cui sapienza originariamente è preparata. L'uomo per legge cosmica di creazione è una forza o un sistema di forze simile a tutte le altre: ha un corpo come gli altri corpi che esistono, e compiono i loro moti nell’universo. Se opera effetti simili ad altri che sono nel mondo corporeo, perchè di questi si dovrà fare una ragione, ed una distinta di quelli? Anzi se gli effetti operati dall'uomo alle proprietà comuni con gli oggetti sensibili ne congiungano inseparabilmente altre particolari, onde il filosofo debba presceglierli alle sue speculazioni, non avremo noi in quella inseparabilità di condizioni un convenevole fon- damento per argomentare anche delle altre cose quello che si afferma ragionando della parola? Nè lo spirito umano per una singolare eccezione potrebbe acquistare la conoscenza vera di 68 SULLA VERITA DELLE COGNIZIONI UMANE certi oggetti, e per rispetto a tutti gli altri esser privo di que- sta facoltà. Suoni una parola o canti un uccello, le leggi della percezione nell’uno e nell'altro caso si restano perfettamente le stesse; di che ciascuno è abbastanza consapevole per certa esperienza. Nè se la parola non potesse rendersi visibile nei libri, nè tangibile in pietra od in legno, e fosse oggetto unica- mente sensibile all’udito, dovremmo credere privilegiato questo senso su tutti gli altri, sicchè gli altri tutti fossero inevitabil- mente fallaci, questo solo fosse condizionato ad essere annun- ziatore del vero. Tutti i sensi esterni insieme appartengono ad una stessa persona; e come ciascuno fu particolarmente organato a far possibile la percezione di certe cose o proprietà delle cose, così tutti debbono concordare in questo: che le percezioni per loro fatte possibili importino la verace cognizione delle cose percepite. Quando a fornire all’ uomo questa cognizione sensata fossero tutti in una maniera sola ordinati, e la sola differenza loro consistesse nel servite più o meno perfettamente a que- st'una e medesima percezione, non parrebbe allora fuor di ra- gione che al senso, il quale più eccellentemente compisse que- sta funzione, fosse da natura appropriata la virtù di essere il solo fornitore delle veraci conoscenze. Ma quando veggiamo diversamente distribuiti gli uffici della sensata nostra comuni- cazione col mondo esteriore, e la vista, l’udito, il tatto, l’odo- rato, il gusto aprir ciascuno una via da se a questo misterioso commercio, dritto è concludere che se un senso fu scoperto indubitatamente verace, anche tutti gli altri, rettamente usati , non debbano essere menzogneri, e la ragione della nostra prova doversi estendere a tutte le cognizioni del mondo fisico. A sostentar la forza di queste ragioni concorrono quelle che possono trarsi dagli oggetti percepiti. I quali non furono co- sì creati, che a ciascun senso dell’uomo, che li percepisce, cia- scuno di essi dovesse totalmente esser materia di percezione, e un ordine di oggetti congeneri fosse unicamente conoscibile per RICERCHE FILOSOFICHE 69 mezzo della vista, un altro per mezzo dell’ udito, e così i rima- nenti. No certamente; ma un solo e medesimo oggetto offre la conoscenza di se per la via di tutti i sensi, e insieme può essere odorato, gustato, toccato, udito e veduto. Laonde sarebbe dis- ordinata stranezza che quella cosa, che per via dell’ udito può e debb’essere veramente conosciuta, non potesse poi nè dovesse col ministero degli altri sensi. Ciò è da noi considerato come ragione che non patisca difficoltà; perchè se la parola è oggetto sensibile che non può essere nè odorato, nè gustato, basta an- che solamente che debba essere percepito per la via dell’ orec- chie. Imperocchè la percezione auriculare di questo suono non importando singolarità di funzione che la differenzi da tutte le altre percezioni dei suoni, necessaria cosa è che quello che si predica di lei debba predicarsi di tutte le percezioni dei suoni. Di che conseguita che la ragione che vale per ogni percezione di questa specie, considerata in se, debba valere ugualmente per rispetto a tutte le cose che possono essere conosciute ascol- tando. Puossi adunque, senza proceder più oltre con questo nostro ragionamento, a buon dritto concludere, che la prova per noi scoperta e dedotta da alcuni oggetti che per mezzo dell’udito sì percepiscono, generalmente vale per tutte le cognizioni sen- sate. Onde la scienza del mondo fisico ha il suo saldo e filo- sofico fondamento contro tutti gli assalti degli scettici. Per questa necessaria conclusione anche tutte le risposte ragione- volmente fatte a quegl’impugnatori della conoscenza, ma senza legittimarne la forza colla critica della ragione, riprendono que- sta forza loro al paragone della nostra prova, e tacitamente presidiano la verità dello scibile quanto da essa prova ponno essere giustificate. Questa ricerca essendo indirizzata a trovare, e dimostrare una verità fondamentale appartenente alla teoria del sapere, non a porre in luce tutti i principii di questa sublime dottri- 70 SULLA VERITA DELLE COGNIZIONI UMANE na, non è del presente istituto passare dalle percezioni delle cose sensibili all'ordine delle pure idee, mostrare la connes- sione del sensato col razionale, e giustificare criticamente la scienza che si deduce da quelle nozioni prime del mondo este- riore. Basti l'aver posto ed assicurato il gran fondamento, che le percezioni sensate son vere. Passato il periglioso abisso, che pa- rea frapporsi fra l'esterno obietto conoscibile e il subietto cono- scitore, quell’X incognita che fu la disperazione e la morte della Filosofia critica, e delle altre derivate da lei, trasmutasi in luci- dissima cosa, e questo lume della verità che nuovamente ci risplende dal fisico universo, rinnuova anche le condizioni a tutta quanta la dottrina filosofica. Per comunicare con le cose, che sono fuori di noi, fummo apparecchiati degli stromenti con- venevoli i quali drittamente compiono il loro ministero: e per osservare e conoscere il mondo interno del pensiero, abbiamo altri fedeli stromenti a ciò provvidamente potenziati. Se una luce divina brilli nel nostro intelletto anche dalle forme delle cose, e se le nostre idee siano una partecipazione o intuizione di questa intelligibilità divina, è questione da lasciarsi ad altra opportunità, nè qui necessita l’agitarla. Legittimate le testimo- nianze de’ sensi esterni, e schiuso il varco sicchè il fiume della verità, senza opposizioni fondate di scetticismo, si reciprochi con purezza di onde fra il mondo reale e quello ideale, l’uomo può a buon dritto percorrere il gran mare dell'essere con alle- gra fiducia filosofando, e di sempre nuovi argomenti acere- scendo e consolando la vita. Dalle quali considerazioni, che di sè bello e caro nutrimento confortano le più nobili speranze della faticosa umanità, passeremo ad altre che viemeglio inalzino il nostro animo, e con più profondo concetto aprano la grandezza e l’ubertà del trattato argomento. RICERCHE FILOSOFICHE 71 S. VII. Conseguenze. La filosofia è in verità una maga miracolosa, la quale, toc- cando le cose che più sono usi gli uomini a riguardare, par trasmutarle in altre da quelle che si mostrassero. E questa ap- punto è la sua virtù. Il volgo dei riguardanti non vede se non la superficie di questo mondo sensibile, 0 poco più innanzi che le prime apparenze: e il volgo degli studiosi, che troppo spesso ardiscono appellarsi scienzati, usa le facoltà conoscitive come porta l impeto di natura, e la consuetudine della scuola, ma non si reca indietro a cercare le fonti della conoscenza e a sco- prirne la sincerità originale. Indi incontra che tutta la loro dottrina non sia le più volte altro che un meccanismo di memo- ria e una furberia sensuale ed intellettuale: ma il senso gene- roso delle cose, l'intelletto largo e profondo delle universali verità e dell'ordine loro, la bellezza insomma e l’ energia della vita grandemente scientifica non sogliono essere il domestico patrimonio di questi, non mariti della sapienza, ma adulteri. E con vanità puerile superbiscono nella lor povertà, e non la sen- tono, o ciecamente se ne compiacciono. Però quando viene la filosofia e con la maestra mano alza il velo che copriva agli oc- chi profani la schietta sembianza della verità riposta, un gran numero di fatti che prima passavano inosservati rivelano il loro profondo valore, e par che accendano la vista ai ciechi che la ignoravano. È antichissimo vizio della mente umana mal badare alle cose che più le son consuete, e cercare il vero tra le nuvo- le, o fingerlo poeticamente edificando; il quale abita natural- mente con lei, e vuol essere investigato, non poctato. Ond’ io richiamerò sempre i coltivatori della filosofia allo studio dei fatti primi e dell’ordine in che fermamente si stanno. Qui troveranno 72 SULLA VERITA DELLE COGNIZIONI UMANE la base immota, e rispettabile a tutti, della verace scienza: di qui procederanno con sicuro discorso per tutte le vie della os- servazione e speculazione scientifica, e ammaestreranno gli uo- mini e daranno lume alla civiltà. Ma per grande nostra sventura, come le moltitudini laboriose, o gli scienziati meccanici servil- mente cedono alle necessità regolatrici dell'umano discorso, non istudiano la natura di queste leggi, così coloro che pro- priamente si danno alla filosofia, e che dovrebbero conoscere e volere eseguire gli ardui doveri di questo sacerdozio della dot- trina, o vanno a cerca di prodigiose teorie, o servono all’ambi- zione degli altrui sistemi, o diligentemente languiscono nell’ozio- so lavoro di eclettiche rapsodie. E l’arte vera del filosofare aspetta i forti ingegni che la professino. Concittadino di Gali- leo, non fabbricherò mondi con la facile audacia del Cartesio 0 dei filosofi tedeschi, ma con fondate dimostrazioni cercherò la spiegazione di quello che esiste e che fu creato da Dio, quanto spetti alla ragione dei miei studi. E a far vedere l’ eccel- lenza di questo metodo condurrò ora i miei lettori ad alcune grandi, anzi mirabili conseguenze, che di necessità procedono dalle verità pur dianzi discoperte e certificate. Che se gli uo- mini, come dicevano i buoni sapienti antichi, cominciarono a filosofare dal maravigliarsi, è utlicio della filosofia insegnare la maraviglia di quelle cose che per essere sempre presenti all’ani- ma nostra ci trovano stupidi a veracemente sentirle. Epperò chi voglia fruttuosamente filosofare non corra con folle presunzione’ innanzi, ma con prudente sapienza ritorni indietro. Così non presupporrà i fatti primi, ma li studierà per recarvisi al di sopra coll’intelletto: non sognerà leggi e principii con fantasti- camento da infermo, ma troverà quelli che effettualmente sono: non ci regalerà (4) se stesso, ma c’ interpreterà la Natura. L'uomo adunque è capace di scienza vera! Che bella, che grande, che divina facoltà non è questa, e di quale augusta dignità, di qual glorioso splendore non ci apparisce rivestita - RICERCHE FILOSOFICHE 75 l’anima nostra per così magnifico privilegio! Bisogna aver pen- sato bene tutta la forza apparente dello scetticismo, e tutta la debolezza necessaria della ragione, conoscere la storia dello spi- rito umano, essere insomma filosofo, per intendere il valore scientifico di questa conclusione e gustare la intima dolcezza che vi è contenuta. Esistono dunque (ripetasi ora con sodisfazione certa ed indestruttibile ) esistono veramente al di fuori di noi tutte le innumerevoli cose che costituiscono l’ universo fisico: e il più riottoso ed ostinato scettico dee cedere alle prove che se ne danno. L'anima nostra informa il corpo, ov è posta, col na- tivo sentimento e con la notizia dell’umana persona; sentimento e notizia nei quali la vita di ciascuno di noi è circoscritta e misurata, e che per essenzial differenza son divisi da tuttociò che è sensazione o notizia delle cose esteriori. Questi oggetti del mondo, nel quale fummo nati e viviamo, da ogni parte ci stanno o ci si movono intorno, sicchè perpetuamente siam s0g- getti alle loro operazioni. Il perchè l’anima che sente sè e tutto l’uomo, ed ha coscienza di questo intimo senso, non può con- fonderlo con quello diverso degli oggetti esterni, nè con le no- zioni che le ne vengono: onde perpetuamente dice sì e no affer- mando se medesima e niegando di essere una cosa stessa con le altre che dal di fuori le si danno a conoscere. Questo gran fatto, che è quello di tutta la vita dell'anima, comprende in se tutte le ragioni che sciolgono le difficoltà degli scettici, e basta a quietare l'intelletto del filosofo. Imperocchè le argute sotti- gliezze dei ricalcitranti alle necessarie e solenni testimonianze della natura somigliano molto alle cavillazioni de’ causidici, e non hanno peso nel concetto di coloro che sentono la maestà della scienza e conoscono le profonde origini di essa e le super- ficiali di tutte quelle stolte contradizioni. Ma l’anima non sola- mente niega l’ identità di ciò che è lei con ciò che è del mondo esteriore; imperocchè per questa cognizione negativa ella non potrebbe trarre la scienza dalle cose che le esistono intorno: 10 74 SULLA VERITA DELLE COGNIZIONI UMANE afferma anche implicitamente che esistono, e indi crede di co- noscere quel ch’ elle sono verso di lei. La filosofia si è trava- gliata e tormentata fino ai nostri tempi intorno a questo termine fatale, e molti tuttavia stimano che le nostre idee ci mostrino in verità l’esistenza degli oggetti esterni ed abbiano certa cor- relazione con essi, ma non trovano ragioni per dover credere che la nozione che ce ne danno sia veramente la rappresenta- zione o intuizione spiritale del loro valore. Però se ci fosse venuto fatto di provare che quel che sentiamo e veggiamo delle cose è la verità di ciò che esse sono in se per rispetto a noi, avremmo dato alle discipline nostre notabile accrescimento, ed aperta la sicura via alle future speculazioni degl’intelletti . Ma da questa filosofica esultanza onde ci rivolgemmo ai contesi dominii della scienza quasi a riprenderne per imprescrit- tibili diritti il possedimento, rechiamci più innanzi a ponderare il recondito valore di questa nostra facoltà di conoscere. Se l’anima è capace di conoscenza vera, è adunque un centro in cui tutte le convergenti cose quasi direi si trasmutano in obietti ideali esprimendo e rivelando quel ch’esse erano; è uno specchio in cui si riflette l’immagine dell’universo. E se la mia vita è una continua consapevolezza di quella generale del mondo, fra la costituzione dell’una e quella dell'altro havvi adunque una analogia, una reciprocità, fors’ anche una identità necessaria, ond’io legittimamente m’inalzo a un’altra identità più sublime, a quella dell'Ente e dell’Idea assoluti. Imperocchè se le proprietà, l'essenza, le leggi, l'ordine di molte cose di- ventano alcun che dell'umano pensiero, o se in altro misterioso modo la verità loro nell’ umano pensiero realmente si manifesta, uopo era che fra il mondo e l’anima fosse tal cognazione ori- ginaria, che l’unità di questa, ordinata a raccogliere spirital- mente in se la moltiplicità di quello, si convenisse anticipata- mente con la forma dell’ordine, o ch'ella fosse disposta a conformarsi posteriormente alla ragione dell'ordine universale. RICERCHE FILOSOFICHE 75 Or come mai questo miracolo? Nella formazione prima dell’anima umana si conchiuse forse tutto il valore cosmico dell’antecedente natura?... o Dio creò l’anima e il mondo sul modello di una medesima idea? E se la forma dell’anima corrisponde original- mente a quella del mondo, nel continuo atto della sua vita intellettuale si ripete forse psicologicamente il processo o si esprime l’arcano della sua formazione o creazione primitiva? ... Queste ed altre sono le conseguenze grandi, anzi mirabili, che spontaneamente procedono dalla verità per noi dimostrata: qui il filosofo sente l'eccellenza dell’uomo, e scopre in esso la luce eterna che lo illumina, e dalla presenza di questo lume incorruttibile argomenta la santità dell’essere umano e la ri- spetta e la teme, e vede che il nostro destino è di eseguire, vivendo, la forma comunicata della divinità meno imperfetta- mente che si possa, e nella religione trova il sublime compi- mento della sapienza. Ma raccogliamo ora brevemente le nostre considerazioni sopra una conseguenza, che massimamente merita in questo nostro lavoro di esser valutata. Aperta filosofando la comunica- zione fra il mondo reale e quello ideale, e in questa verità dello scibile trovata la cognazione fra l’uno e l’altro, il fatto empirico, da cui ricavammo la prova giustificatrice della cono- scenza, ci ha condotto a un altissimo ordine di prove, che nel linguaggio nostro diremo ontologico, perchè partecipa dell’es- senza e della costituzione organica dell’universo. L'uomo, che dapprima considerammo senza sapere per quali vincoli si con- giungesse con gli altri esseri, l’abbiam trovato così intimamente connesso con tutto ciò che esiste, che tra la forma dell'ordine universale e quella della sua anima è una nativa rassomiglianza o forse un'identità misteriosa. Il fatto empirico si trasmuta adunque in ragione ontologica, vale a dire ha la prova e la giu- stificazione necessaria in se stesso. E quando dico il fatto, non parlo più di quello particolare, da cui deducemmo la prova della 76 SULLA VERITA DELLE COGNIZIONI UMANE verità delle cognizioni umane. Parlo oggimai in forma genera- lissima e complessiva, e con questo nome comprendo tutti i fatti nei quali si compiono tutte le nostre percezioni del mondo sen- sibile. Ricavammo noi quella prova dal fatto a sodisfazione cri- tica della scettica ragione: ora si dice che tutte le percezioni, onde l’uomo ha notizia giusta delle cose, son prova necessaria a se stesse, nè lo spirito umano, cosmicamente ragionando, po- trebbe andare più innanzi di questi fatti a giustificare la cogni- zione. E ciò è tanto vero, che i ragionamenti degli scettici, chi sapesse profondamente esaminarli, peccano tutti per una inevi- tabile petizione di principio; i quali presuppongono sempre la verità della cosa che impugnano, e son composti di elementi procedenti da essa, oltre la quale non è conceduto allo spirito umano di sollevarsi. Però il fatto, che pareva empirico, è sostanzialmente ontologico; ma di quella ontologia sana, che non confonde le idee con le cose, e non avvera le astrazioni fuori della mente che le fa. E tutto lo sforzo della filosofia riducendosi da ultimo a doverlo accettare come lo accetta per cieco impeto di natura il volgo degli uomini; ad accettarlo, dico, riconoscendo in esso la legittima e necessaria prova che lo giustifica, lumino- samente ne dimostra che la sublime scienza e il senso comune mirabilmente concordano, per la stessa eterna ragione, onde l’empirismo sano, e l’ontologismo vero non sono l’uno dall’altro per necessaria nimistà ripugnanti, ma vicendevolmente si pre- suppongono, e l’uno all’altro conducono. S. VII. Spiegazione . Ma come il fatto può esser prova a se stesso? dirà taluno, anzi tutti, che non sanno pensare le cose organicamente nel- Ordine. Diasi lume a dichiarazione di questo punto. RICERCHE FILOSOFICHE 77 Quando ci recammo a considerare l'oggetto che potesse provarci la verità dello scibile, noi eravamo al di sotto di: esso, come quelli che non lo conoscevamo bene, ma volevamo piena- mente conoscerlo. Poichè ci fu noto, non lo vedemmo più, se- parato da tutti gli altri, nella sua singolarità o specialità soli- taria: lo vedemmo congiunto con tutti gli altri appartenenti alla cognizione sensata dello spirito umano, e nella verità della co- gnizione scoprimmo il vincolo generale ed organico, onde l’uomo è connesso con tutto il mondo e se ne fa il vivente esempio nella sua idea. Per questa magnifica conclusione il fatto, che dapprima era in se stesso un obietto privatamente empirico, si eguagliò di valore agl’intendimenti e alle scientifiche arti della ricerca; mentre dall'altra parte l’uomo che, per rispetto alla scarsa nozione che ne aveva, era al di sotto di esso, ne misurò la importanza con la notizia che n'ebbe novamente acquistato: e in questa adeguazione di valori consumossi la trasmutazione dell'idea empirica nell’idea filosofica. Quindi anche la natura della questione (lo notino bene i pensatori profondi ) cangiossi in altra da quella che prima era. Domandavasi se l’uomo fosse capace di cognizione obiettivamente vera, perchè s’ignorava se in effetto potesse provarsi questa capacità. Provata, la questione prima fu sciolta; e dall’essenza della soluzione ci risultò questa conseguenza molto semplice agl’imperiti, e sublime al filosofo: che se l’uomo è naturalmente capace di cognizione vera, egli fu creato appunto a conoscere. Di guisa che la cosa, su cui cadevano le dubitazioni forti o per meglio dire stolte dei falsi sapienti, sella mai fosse possibile nell'anima umana, ci si rivelò necessaria nella costituzione del mondo siccome quella che ap- punto fu creata e ordinata ad avverare cosmicamente la cogni- zione. Dubitare adunque della possibilità del fatto, è voler ne- gare l’esistenza di ciò che è per consentimento e cooperazione dell’universo. Spiegare il fatto in se stesso e nella vita psicolo- gica dell’uomo, è servire alle necessità della mente e prov- 78 SULLA VERITA DELLE COGNIZIONI UMANE vedere opportunamente alla scienza. Accettarlo per la cosmica necessità che ce lo fa riconoscere, è un vedere ed un affermare, secondo le arti della verace, ma non saputa ontologia, ch'egli obiettivamente è, e che perciò nella realità di Natura è prova necessaria ed assoluta a se stesso. Quindi il volgo degli uomini non s’inganna a crederlo quasi per fatalità inevitabile: e questa semplice credenza di tutta quanta l'umanità è nel sistema cosmico, e secondo i det- tami di questa nuova ontologia, organicamente simile alle cre- denze ingenerate nei filosofi dalle dimostrazioni della ragione. Imperocchè se il filosofo, a spiegare e giustificare il fatto, s'î- nalza sopra di esso alla contemplazione dell’ordine universale, non per questo può trascenderlo organicamente mai in tutte le sue ricerche e considerazioni. Perchè, tolto quello, cessa anche ogni possibilità di conoscenza; vale a dire cessa anche l’uomo, ovvero dalla eccelsa condizione di essere ragionevole è giù bal- zato a quella dei sensitivi animali. Onde un’altra volta si argui- sce la fatuità degli scettici, i quali impugnando il fatto son costretti sempre a presupporlo: e presupponendolo, loro mal- grado lo accettano: e accettandolo contro lor volontà, confessano la sapienza organicamente viva nella natura, e l’impotenza loro che indarno se ne ribellano. Ss. IX. Della questione suprema che indi risulta. Questo nuovo modo di filosofare troverà forse difficili e ritrosi gl’intelletti preoccupati e mal temperati; ma dovrà non dispiacere ai ben disposti e forti e sinceri; tanto mi sembra essere schietto, necessario, evidente! Lasciamoci adunque con- durre alla sapienza profonda che è nelle cose; e a compimento del presente nostro lavoro accenniamo brevemente alla suprema E rx ">" (inn Mani RICERCHE FILOSOFICHE 79 questione, che dalle conclusioni poste risulta. Lo che sarà nuova e bellissima prova della bontà di questo nostro filosofare. Perchè quando la serie degli oggetti che tu discorri ti leva per logico ascendimento ai più alti e fecondi argomenti che mente umana possa trattare, in questa ubertà del tema, che ti si fa innanzi spontanea, hai luminosa dimostrazione della virtù delle arti con che lo ragioni. Vedemmo l’uomo non solo esser capace di conoscenza vera, ma formato teleologicamente a conoscere: e la cosa sulla cui possibilità si dubitava, trovammo essere un fatto ontologi- camente nell'Ordine. Ma se ad effettuare la cognizione del mondo nel mondo fu creato l’uomo, come fu cosmicamente pos- sibile questo effetto? Ecco la questione, ricchissima di tutte le più ardue questioni filosofiche, che risulta da ciò che di sopra abbiamo concluso. Ritengasi che prima cercammo ed esaminammo empirica- mente il fatto; poi lo inalzammo a condizione ontologica, 0 per meglio dire ne studiammo l’ontologico valore. Ora se ne vorrebbe conoscere la possibilità cosmica o. l'esecuzione orga- nica nel sistema dell’universo. La nostra logica non si allontana mai dalle cose, e dalle cose stesse è inalzata all’ultimo problema che possa in ogni tempo esser proposto alla scienza filosofica, e che non sarà mai pienamente risoluto. Il fatto è: l’uomo vera- mente conosce: e tutte le verità, che, investigando la natura, raccoglie, sono in alcun modo una spiritualizzazione del mondo nell’anima umana, e una partecipazione dell’anima alla vita ge- nerale del mondo. E tuttociò è dall’uso delle potenze conosci- tive. Spiegare la possibilità cosmica di questo gran fatto, sa- rebbe un intendere, anzi presupporrebbe avere inteso il sistema dell'universo. Onde si vede la parte insolubile dell’ ultimo pro- blema della filosofia che tutti gli altri comprende. Ma si vede ancora che tutte le scienze perpetuamente si affaticano, quasi sempre senza pensarci, ad agevolarne la possibile soluzione; e 80 SULLA VERITÀ DELLE COGNIZIONI UMANE che perciò tutte hanno i loro fondamenti nella filosofia, e a trasformarsi in essa naturalmente aspirano. Imperocchè da una parte a ciò dee condurre lo studio profondo dell’umana, dal- l’altra quello della universale natura. E così procedendo, le cose son sempre scala al ragionamento. Ma i sapienti tedeschi pongono a priori l’idea, che anticipatamente contiene la spie- gazione del grand’enimma cosmico; indi si recano a interpre- tarlo. Cosicchè le loro ambiziose filosofie cominciano con una tesi arbitraria per finire in una ipotesi necessaria. Dalle quali assurdità dee temperarsi il senno italiano. Due mondi s'incontrano insieme e coesistono nella vita dell’uomo; uno materiale, l’altro ideale o spiritale. Se consi- derate questi due ordini di cose nella separata esistenza del- l’uomo, egli nasce col sentimento e con l’incoata notizia di se. Qui l'unione de’ due mondi proviene da legami organici così intimi e stretti, che il sentimento e l’idea debbono essere i misuratori necessari delle condizioni del corpo; di che tutti gli uomini hanno in loro stessi la continua esperienza. Credete voi che a produrre la mirabile scintilla del sentimento la dedalea Natura abbia fabbricato la macchina del corpo umano, sicchè quello debba dirsi un fisico effetto di questo? Ma anche secondo questa bassa opinione che ci digrada alla condizione al tutto mortale del bruto, il sentimento, che è verace e nativo misuratore di ciò che appartiene all'uomo corporeo, non potrà essere fal- lace testimone di ciò che esiste fuori dell’uomo, e che gli si offre a percepire. E noi che dopo aver provato la verità della cogni- zione abbiamo il diritto filosofico di accettare le sane testimo- nianze de’ nostri sensi, noi desumiamo ciò dalla nostra esperienza e da quello che veggiamo accadere fra gli animali e le cose. Laonde se il senso è verace con noi anche per rispetto al mondo esteriore, ed è un ultimo effetto del composto organico, pur vorrebbe inferirsene che questo nostro corpo è in verità quasi una ripetizione cosmica del sistema, e un piccolo simulacro della RICERCRE FILOSITICRE s1 vita del mondo. Ma se k nce intellettuzle che risplende al di sopra del sentimento è il divino privilegio d'una sostanza sinco- lare creata appositamente a fruiria, secondo questa più sa. più nobile, più consolante credenza non vedrassi nel corpo umano se non lo stromento proporzionato, e il compaone ar- monioso dell'anima. nella quale la forma della verità si suesella perchè F'onnipotente Artefice del mondo e di lei ao Fuma e Faltro sul modello d'una medesima idea. Non basta. Confon- dete voi Dio e le cose per modo, che Funo e le altre abbomo la medesimezza loro nella unità di una sostanza. che è fl prin- cipio eterno ed il fine di tutti i moti e di tutta la vita dell'uni- verso? Anche secondo questa falsa ed empia opinione kb nostra prova dello scibile si rimarrebbe salda cd irrepogimbile, k quale è fondata sopra fatti che fontalmente procedono da queste cause cosmiche primordiali; ma, come dicemmo, ha anche kh sua necessaria giustificazione in se stessa. Laonde si vede per quali vie, considerando luomo, 0 cer- cando FEssere in se, possa discorrere lo spirito umano all soluzione dei problemi che via via gli son gradi fino all'ultima - questione di che or2 parliamo. Ma quando lo spazio aperto all speculazione è così incommensurabile come questo, legsermente © animosamente fidarsi acli ambiziosi voli della mente è grave pericolo. Il perchè la nostra oniolicia. da una parte si conforma a quella locica suprema di tutta quanta la scienza. che è l'eterno procedimento della razione nell'universo idezle, dall'Atra ba proporzioni cosmiche con quell possibilità di cocmimone reale a che fa sortito Fumano intelletto in questa terra, civé nel inozo stituzione del mondo. Imperceché se proporzionati al pesto, che occupa Fuomo nell'Ordine, sono Fuso dell sm aîtimità, e gli effetti che debbono consecuitarne alla vita universale. anche la sua virtù intellettiva e tutta la scienza, ch'egli possa acquistare, debbono cosmicamente esprimere una analeca pro perzione. 11 82 SULLA VERITA DELLE COGNIZIONI UMANE Queste ed altre consimili sono le idee che si fanno innanzi al filosofo, il quale per la via da noi tentata, provando o argo- mentandosi di provare la verità dello scibile, sia indi levato dalle necessità razionali del discorso alla questione suprema della possibilità cosmica di quella verità; questione che ad ogni nuova epoca della scienza si rinnova, e che però in alcuna guisa può esser detta l’interminabile compimento di tutta l’u- mana filosofia. CONCLUSIONE Chiunque ha pratica del mondo intellettuale dee sapere o poter sapere, senza molte difficoltà, che anche le idee alie- nissime dal vero e prodigiosamente assurde rendonsi credibili all'uomo, e son credute, e con ostinatezza e con rabbia propu- gnate col divenirgli familiari e proprie per lunga consuetudine di discorso. Prima di volare per gli altissimi spazj della specu- lazione con le ali delle generalità somme e delle astrattezze metafisiche è adunque gran senno imparare a camminare con sicurezza scientifica sul saldo terreno delle cose, che a tutti essendo sensibili e conoscibili, necessitano le percezioni quasi identiche in tutti, escludono le contrarie disputazioni, e fermano la comune opinione e la fede filosofica. Lodo le nobili fati- che dei generosi, che, guardando al bisogno della nostra Italia e secondando al nativo loro genio, entrarono nelle più eccelse vie della scienza, e ci diedero ideali sistemi più o meno ma- gnifici. Ma, a meglio provvedere al bisogno nostro, era ottimo divisamento profondamente considerare le generali condizioni del pensiero filosofico nella Italia, e da questi termini istorici movere alla grande istaurazione della nazionale filosofia. Queste condizioni, ch'io chiamo generalmente istoriche, distinguonsi per tre ragioni di cose: 1.° la tempra particolare degl’ intelletti italici in questa bellissima parte della terra, e gli effetti cagio- RICERCHE FILOSOFICHE 85 nati all’uso della ragione dal genere comune del nostro viver civile. 2.° I primi indizi, rudimenti, preparazioni alla filosofia che necessariamente sono negli usi, ne’ costumi, nelle opinioni, nelle tradizioni, nell’anterior coltura de’ popoli, e massimamente nella lingua. La cui costituzione vuol esser considerata per ri- spetto alla logica della scienza, e come stromento dato a filoso- fare. Poi, i fatti primi, così interni come esterni, che forniscono il perpetuo subietto agli studi filosofici, essendo offerti all'uomo dalla sapienza della natura, sono anche dall’uomo naturalmente percepiti e in alcuna forma ragionati. Ond’hanno i loro nomi, i giudizi primi, le induzioni e deduzioni conseguenti nella lingua del popolo, e nella popolare letteratura. E questo lavoro pri- mordiale del senso comune delle nazioni è grandissimo fonda- mento, e debb'essere, alla profonda e forte edificazione di una filosofia nazionale. 5.° La storia accurata ed intera della italiana filosofia quant'ella è stata nei decorsi ed è nel presente secolo in se medesima, e ne’ suoi rispetti con tutte le altre scienze, colle lettere, colle arti, con la religione, con la civiltà del paese. Delle quali cose non facemmo nulla, o poco, a somma nostra vergogna. Volendo io dunque, secondo la scarsa possibilità mia, cooperare a questo filosofico risorgimento degli studi italici, a che portavami sino dalla prima eta giovanile una forte necessità di natura, pensai che questi dovessero essere i termini storici lasciati dalla nostra antecedente vita al fruttuoso esercizio della futura. E di qui mossi alla istaurazione. — Ma parendomi che l’arte dell’osservazione filosofica, da troppi ignorata, dovesse aprire le nuove vie della scienza senza preoccupazioni nè pre- ordinazioni logiche, mi son temperato da ogni uso di recondita o non mia propria dottrina che domandasse sistematica dichia- razione, ed ho parlato con un linguaggio, non formato secondo i dommatici principii di una scuola, ma accomodato alle condi- zioni intellettuali di tutti che amano la verità e la ragionano con le formole del naturale buon senso (>). 84 SULLA VERITA DELLE COGNIZIONI UMANE A fare di queste ricerche un compiuto lavoro, sarebbe stato bisogno dar lume intero alla spiegazione del fatto, che prendemmo ad esaminare, con la filosofia del pensiero e con la scienza ideale, e aprirne ed applicarne il valore per tutto l’or- dine della teoria dello scibile. Ma questo non poteva esser lavoro da poche pagine. Fu nostro intendimento di offrire al pubblico un frammento, del quale peraltro apparissero le native con- giunzioni coll’ intero corpo della filosofia. E certo, provata la possibilità della conoscenza vera nella mente umana, è posto il fecondo germe, da cui abbia necessaria esplicazione tutta la dot- trina della scienza. Se vha un empirismo, che non ripugni da un ontologismo sano e conduca a un dommatismo certo, che è quello necessario della cognizione scientifica, o molte filosofie son fallaci, o la nostra se ne differenzia per proprietà specifiche e caratteristiche. Se fra le sublimi teorie e il senso comune scoprimmo tanta reciprocità di ragioni, che le ultime conclusioni di quelle per necessità si riducano alle prime e ingenue testi- monianze di questo, il circolo della scienza forse potrebbe non esser più un labirinto inestricabile, e la ragione umana indiriz- zarsi a nuovo e grande riordinamento del mondo enciclopedico. Insomma se questo lavoro è un frammento, è anche il pro- gramma breve di un’intiera filosofia. Ma ciò che massimamente desidera l’attenzione degli stu- diosi è il metodo con che questa filosofia è costituita, e che ‘ insieme procede dalla sua profonda costituzione. Conoscere e spiegare quello che è: ecco il grande ufficio del filosofo; il quale però non dee fare, come a molti incautamente succede, ma trovare la scienza, che è la sorte di pochi. Subietto ed obietto vogliono essere l'uno a fronte dell'altro, sicchè la co- gnizione possa acquistarsi: e la reale esistenza dell’obietto dee potersi provare alla ragione di tutti come quella del subietto conoscitore. Però la cosa, di qualunque natura ella siasi, è ve- race iniziatrice della conoscenza vera: e se alla ragione della RICERCHE FILOSOFICHE 85 scienza sono necessari oggetti immutabili, prima si avveri la sussistenza loro e poi se ne parli. L'ordine obiettivamente ontologico precedendo all’ordine subiettivamente ideale della scienza umana, lo spirito è in una posizione subalterna quando comincia a filosofare, come quello che per necessaria ignoranza è al di sotto degli oggetti che primamente osserva. Gli oggetti inferiori presuppongono i superiori: nè potrai scientificamente parlare delle cose infime di questa scala obiettiva, se non avrai conosciuto quelle più alte. Ma a sodisfare a queste occorrenze ne cercherai gli argomenti comunicando di sensi o di mente, o dell'una e degli altri insieme, coi presenti oggetti, e sempre facendoti il rappresentatore della ragione di tutti, sicchè per vizio di tue private intellezioni non patiscano difetto di verità comune le conclusioni filosofiche. Quel che è primo all’osserva- zione sensata degli uomini, spesso è ultimo nel sistema della natura: ma tutti questi fatti sono la continua evoluzione nel tempo dei germi eterni, e ripercuotono per tutte le parti al- l’anima che gli osserva il lume della sapienza eterna onde furono generati. Quindi cercando la verità si comincia dalle prime apparenze obiettive, secondo le possibilità della mente inve- stigatrice; che è ordine inverso a quello della evoluzione cosmica delle cose. Trovate le verità, che possono dar forma alla scienza, si costituisce questa imitando il processo della sapienza creatrice nella costituzione o conservazione dell'universo. Talchè 1’ analisi subiettiva presuppone la sintesi obiettiva: e la sintesi subiet- tiva è la ripetizione ideale del processo della creazione divina, quando questo processo fu discoperto. Con questo metodo abbiamo investigato il vero; con questo, ordinata la nostra filosofia: questa ci sembra la buona strada, chi voglia non ambiziosamente, ma fruttuosamente filosofare. Ponendo ontologicamente l’ obietto nel mondo ideale si può credere di essersi levato a maggiore altezza, e di procedere col metodo della vera scienza; ma si corre anche pericolo di 86 SULLA VERITA DELLE COGNIZIONI UMANE supporre cosa la nostra idea, e di fare la scienza con la scienza; che tanto vale, quanto aggirarsi viziosamente in un circolo con oziosa fatica e magistero ingannevole. Non condanno qui con anticipata sentenza questa filosofia, la quale aspetta profondo esame e confutazione ineluttabile, o dimostrazione certa ed evidente. Vorrei anzi che in effetto la verità sua potesse dimo- strarsi, sicchè a tutte le menti sane fosse bella necessità l’ac- cettarla. Ma fortemente temo i pericoli delle splendide illusioni. Pertanto s'io non m'assicuro a riprovare assolutamente cosiffatte dottrine or che qui non posso cercarne nè valutarne le ragioni sostanziali nè i procedimenti metodici, spero che anche le mie idee, più presto accennate che dichiarate in queste ultime pa- role, debbano meritarsi una simile temperanza dai giudizi troppo immaturi. Quando avrò fatto percorrere ai miei lettori italiani la lunga via da me tenuta filosofando, e l’intero ordine delle mie dottrine sarà conosciuto, allora anche la loro differenza da quelle di altri potrà a questo paragone. critico esser trovata giusta o fallace. Ed io allora, rivolgendo l’occhio all’opera mia e con critica severa e continua discorrendone le ragioni orga- niche, ne perfezionerò, quanto le mie forze il comportino, il sistema necessario, e ne trarrò la logica certa con la quale debba essere ragionato. S'io avessi voluto mostrare l’importanza della verità che ho scoperto, mi abbondava la materia a scrivere un libro. Lo che riserbo ad altra occasione. Conoscono troppo bene i colti- vatori di queste nostre discipline la storia della moderna filo- sofia: e quel che ad essa importi la nostra prova dello scibile sapranno comparativamente determinare. Movano pure dal dub- bio Cartesiano seguitando fino al sensismo del secolo decimot- tavo: passino dallo scetticismo di Hume alla scuola di Reid e a quella di Kant, e giungano all’illustre Gioberti; il quale, cri- stianamente platonizzando, ha traslatato la questione dal mondo corporeo nel mondo ideale, e nella dottrina dell’ intuito ha con- RICERCHE FILOSOFICHE 87 servato la percezione scozzese dell’obietto. Notando e giudi- cando bene tutti questi procedimenti. dello spirito umano, po- tranno criticamente dire quello che valga la nostra prova alla dottrina delle cognizioni sensate, e discorrerne i necessari effetti all'intera scienza filosofica . Finisco col fare una considerazione che mi sembra molto opportuna. Gl investigatori della natura fisica giornalmente al- zano le incessanti voci ad annunziarci le loro scoperte. Un verme, un’ erba, un’accidentalità fenomenica, la più lieve mi- nuzia bastano a dar materia ai loro discorsi, e quando siano osservazioni nuove, a meritar loro il nome di scienziato e molta celebrità. E troppo spesso tutta questa scienza è congiunta con una infantile ignoranza delle arti prime della verace cultura intellettuale. Nè io scrivo queste verità ad attenuare il valore delle discipline fisiche, certamente degne di sommo pregio, nè a discredito di coloro che le professano; ma a far meglio sentire l'eccellenza di quelle razionali. Sia dunque permesso anche a noi parlare delle nostre scoperte: e imparino gli uomini ad averle tanto in onore, quanto il mondo del pensiero è più diffi- cile a investigare che quello dei corpi, e a questo mirabilmente sovrasta. oil a egrtay e chase pra : dt Linger stes) !. annie drtrità, " RAitolt sali n am PREME VIET bove dt Le È > spit pata IBMIY int tren * Ur: afuifoso vt sf Bpemiiamanie- ts: 14 ves pina Sua De peo prot natali” abileta: A LTORIOATIO Rittal Dali? : Pia br MU ILA sissi gm im nera ‘vio lg n PretPezoa coder patio id Main se W ART È fut cirerigioae asini rg | Rita odo, ra cÉ La “agito altabo Vos! dn ds farutaltà a Alani na st Di Simairtab ti Mibtesi pio riga gir Pea Wiernn nt Pi: i “d vat vi pr ite: ia Ad i da n yo tot o îi idol antro mefpacisat: dia cib slgliena; ; slogg) i 3 bm sanetmozi bf aninaqurit gi: mirifanee “arcate altotita SOS «ltd site 4 ‘ossia Tp abati Meno ipo tare nr da idioti ni nti usi di î Mo i MA ta Note PES UVA e) N E ci aa A iti se 9A Ù A e Ù 5 Nu; Ti i! .; n ; ù a”) Li «PURI SR AD x PERI Sr: i pair VA ti; pr pu 16 Ù E, Li e, densi » & ù } N ra #+ 'r i pela 89 (1) Quelle nostre Considerazioni furono stampate nel 1856. V. Pro- gresso, N.° 50. — Novembre e Decembre. (2) Lo scetticismo è qui da noi larghissimamente considerato: però parlasi anche di scientifici principii, nei quali possa aver fondamento. (3) Coloro che alla parola verità attribuiscono un valore al tutto obiettivo, o confondono l’idea con la cosa senza avvedersene, o non deb- bono potere esprimere se non l'essere puro delle cose. Ma dire che la verità è quello che è, moltissimo vale ontologicamente parlando: fuori di questo supremo concetto, è quasi professione di perpetua ignoranza. Imperocchè sio delle cose non sappia dire altro se non ch’elle sono, non troverò per- sona che voglia sapermi buon grado di questa cognizione ch'io dovessi darle; nè potrò averne cognizione alcuna finchè io non vegga in che con- sista quella verità loro e possa spiegarla ad altri. Il valore ontologico della parola e l’uso volgarmente obiettivo di essa anche in discorsi che nulla sanno d’ontologia, mostrano le origini teologiche di quest’uso comune, quan- do Ja sapienza cristiana fu educatrice della nuova umanità europea. Ma il filosofo dee separare la storia dalla scienza, e nella scienza esattamente distinguere i procedimenti buoni dai falsi. Ogni pensiero e parola nostri presuppongono il loro oggetto, al quale abbiano riferimento; ma come nella intuizione immediata di esso non lo separiamo da questa, ma dell’una e dell'altro facciamo una sola e medesima cosa, così non ci guardiamo da simili confusioni nei susseguenti discorsi; perchè l'oggetto in tanto esiste per noi, in quanto l'abbiamo nella mente e nella parola. Ma attribuire alle cose quello che unicamente appartiene alle nostre idee, scientifica- mente nuoce: nè l’ontologica dottrina potrebbe con molto profitto giusti- ficare l’uso puramente obiettivo del vocabolo di che è controversia. — Dio è verità, anzi la verità assoluta; il quale è l’Ente assoluto. Ma qui an- cora badiamo bene di non confondere le nostre idee con la cosa. L’ Ente assoluto, obietlivamente considerato in se, è quello che è: e non può 12 90 essere da noi conosciuto. Però chi rigorosamente parli, non lo dirà nè vero nè falso, come quello che trascende per ineffabilità di essenza tutti questi confini determinati o determinabili dalla mente conoscitrice. Egli è! Nè altro può dirsi. Onde alla cognizione puramente umana è termine inac- cessibile. Adunque dicendosi, che Dio è verità, si parla sempre secondo le possibilità e necessità dell’ umano discorso; lo che importa, più o meno, con- fusione dell’ idea con la cosa. — Resta, che da questo termine supremo vo- glia dedursi originariamente la scienza, come da esso ogni altra cosa ha fon- talmente principio e ad esso ritorna. Ma qui i pericoli di quelle confusioni logiche sono ancora più grandi; perchè, dopo esser salito a quel termine per le vie solamente possibili all’umana ragione, tu dimentichi questo ante- riore discorso: e mentre adoperi gli elementi razionali che, facendolo, avesti raccolto, presumi di trarli primitivamente dall’ Obietto con un pro- cesso identico a quello della creazione divina. Or io non dico che di qui non proceda anche la possibilità obiettiva della scienza: dico che fuori dello spirito non v'è scienza, ma ordini di cose, e l’ Ente che è; e che voler trascendere tutte le idee umane per fondare la scienza con l’ Ente in se, è un rinnegarla nell’atto che si crede costituirla, e un sostituirla all’Ente nell’atto che la si vorrebbe dedurre da lui. Dirassi che Dio è l'Ente insieme e l’Idea: e che quest Idea è la Verità assoluta: e che tutte le verità da noi conosciute non sono altro che l'intuizione più o meno difettiva di quella. E dicasi pure! Ma a poter fare fondamento certo in questa dottrina, bisognerà prima evidentemente dimostrare ch’ ella non risulta dall’obiettivazione dell’idee che la costituiscono, o che, per rispetto alla scienza che può l’uomo possedere, sia qualcosa più che una mera obiettivazione d'idee. (4) E troppo spesso ce lo fa pagare assai caro. (5) Questa mia nuova dichiarazione debb’ essere norma logica a coloro che mi leggeranno, sicchè procedano con quella virtù discretiva, che mi- sura sempre il valore delle parole adoperate su quello necessario delle cose di che si ragiona. Così, per esempio, nel paragrafo II. là ove si dice che l’obietto interno è massimamente în balìa dell’ attività cogitativa dell’uomo, ogni savio lettore saprà misurare questa facoltà dell’anima con la possibilità della cosa. CARTA LONGOBARDA DELL'ANNO DCCLMI PRECEDUTA DA UNA LETTERA AL MARCHESE GINO CAPPONI E SEGUITATA DA UNA ILLUSTRAZIONE DEL PROF. P. CAPEI Al Marchese Gino CAPPONI. Firenze. A Voi, ottimo Amico, che cortesemente m’indirizzaste in pubblico le vostre così lodate Lettere SOvRA LA DOMINAZIONE DE’ LONGOBARDI IN ITALIA, è dover mio d’intitolare adesso una Carta Longobarda dell’anno DCCLXII che per la prima volta viene prodotta in luce e dichiarata quel meglio che per me si poteva. Non che in tal modo io reputi d’essermi sdebitato dell’ obbligo di contraccambiare alle vostre lettere, quando saranno ultimate; ma, dando fuora di presente un documento della età Longobarda, mi parve di non potere senza taccia d’ingratitudine non decorarlo del nome di Voi, che, ultimo per tempo e non già per dottrina o per ingegno, vi faceste a trattare quell’arduo e spinoso argomento. Trovasi questa Carta nel celebre Archivio di monumenti raccolti già dal Canofiico Raffaello Roncioni, le cui sTORIE PISANE furono testè pubblicate nell’ARcHIVIO STORICO, illustrate ed arricchite di preziosi e ignoti documenti dal dottissimo ed amicissimo nostro Prof. Bonaini. A questo mio Collega per me si dee la notizia di quella Carta, a’ suoi conforti se presi animo a trascriverla e dichiararla; 92 all’egregio e culto Cav. Francesco Roncioni, suo liberalissimo possessore, se potei trattarla e studiarla a bell’agio. Nè mi è doluto di essermi per qualche tempo rimosso dagli studj che mi sono propri per portarvi sopra le mie fatiche: imperocchè, quantunque delle molte questioni, intorno alla condizione dei Romani vinti dai Longobardi, agitate dagli eruditi ai dì nostri, niuna per la medesima sia rischiarata; nondimeno indi si trag- gono alcune non ispregevoli notizie, e segnatamente poi (se sciolsi a dovere una sigla) di un nuovo e più certo maggior- domo in Corte dei Re Longobardi. Vogliate dunque accogliere di buon animo quella Carta e le poche disadorne parole di che era dato accompagnarla Di Pisa il dì 5 di Aprile 1845 Al vostro affez."° Amico P. CAPEI. T CHARTA LANGOBARDA AN. DCCLXII. In tabulario Roncioniano Pisis sub n TI. In nomine d(omi)ni dum ex juss(ione) domni preecell, (entissimi) desiderii regis resedissemus nos ill (ustri) bus veris (!) Gisilpert de berona (?) bursio manl ©) |X et arsiulf gast(aldius) ticino in sacro palatio ibique vene- runt in nostri presentia tarso gasind (ius) domni regis civi (tatis) (Î) pistoriens (is) qui causa rodtrude | perage- bat; nec non et alpert de civi(tate) pisana. dicebat ipse tarso quia tu alpert contra ordine(m) introisti in res q(uon)d (am) auriperti | germani tui eo quod ipse germa- nus tuus per cartul(am) sue ordinationis instituit exe- nedochio in alimoniis et subsidiis pauperum | et statuit (1) idest: viris. (2) idest: de Verona. (3) Majordomus. V. in illustratione. * Hrec et insequentes lineole perpendiculate finem et exinde caput versuum chart@e demonstrant. 7 (4) Malui « cipitatis » quam «cigis »: nam sigla haec «civz» que in tertia linea pro « civitate » ponitur ; denuo in linea quinta occurrit, ibique indubie « cipitatis » legendum est. Cf. Lupi Cod. Dipl. Berg. 1, 527 et not. VIII. m. 10 % ut per pontificem civitatis) pisane rectum et guvernatum fieri deber(it) absque neglegentiam et si ipse neglegeret rectum |fierit per ipsa rottruda ideo ut dixi tibi res ipsas nihil pertenit et debis cas nobis relaxare et justitiam facere; acc® (5) c(ont)ra responde bat ipse alpert Ni- hil mihi impedit si ipse auripert judicatum fecit de suis rebus aut exenedochium quia ecce exemplar (cartu)le| convenentie quam ipse auripert mec.(um) factam habuit ut si sine filios legitimos unus de nobis ab ac luce de- cederit unus alteri | deberemus succedere et quia ipse auripert sine filios decessit ego illi succedere debeo; re- plecabat adversus eum tarso de |exemplar quam osten- dis mihi non impedit quia autentica exinde non habis et nec per thinx est facta nec per launichild star(e) | non potuissit eliamsi autentic.(am) de inde habuissis Nam ecce exemplar de ipso judicato auriperti qualit(er) ipse res suas (6)....|in pauperes largibit stare legibus debit , asserens iterum adversus eum ipse alpert sì istam (car- tul(am) quia non autentic (am) (?) | stare non debit. tu (5) Pergamena charta hic paullisper corrosa est. Desunt autem duo tresve litere: nec quid reponendum sit salis scio. (6) In ore extremo, cum in hac tum maxime in duabus segg. lineis, charta pergamena lacera est. Censeo autem nihil aut « omnes » hic excidisse . (7) Literze enim fere decem et octo desiderantur. 95 larso quomodo ista exemplar judicati stabelire velis(®) respondebat adversus eum (:terum tarso) ($) | exemplar stare debit quia judicatum ipsum factum fuit et per preceptum domni aistulfi regis firmatum. Tune | nos s(upra) s(crip)ti judecis dum omnem eorum audissemus altergationis fecemus nobis relegere ipsa exemplar or- dinationis | quam auripert fecerat ubi legebatur quod de rebus suis senedochio esse statueral et rectum fierit per rodtrudam et lijcentiam haberit ipsa de mobelibus rebus vel usumfructum in die obitus sui dare pro ani- ma sua et qualragenta nomina | homenis livertarit , Simul et fecimus nobis relegere illam exemplar conve- nentize quam alpert ostendebat ; | et dum per ambarum partium monimena et altergationis causam ipsam inqui- reremus paruit nobis rectum | ut illud judicatum quod pro anime sue remedium quod (°) auripert fecerit stare deberit et esset exenedochio sicut | ipse statuerat et non haberit adversus ipsum exenedochio aliquid quod rep peter (ib) quia ejus cartul (am) quamquam | exemplar tantummodo essit et autentica exinde non haberit stare (8) Ita, ex his que in praeced. linea «iterum....alpert » leguntur, censeo scriplum fuisse: deerant autem literee fere decem. (9) Rectius: «quondam». Ex hoc autem sphalmate chartam nostram non autographam sed antigrapham esse suspicari potest. 25 96 nullomodo deberit quia nec per garatihix) | nec per launichild factam non erat sicut edicti contenit textus. Cum autem in supradicti princepis presentia | conjunxe- semus omnia et per ordine (m) rettulemus altergationem eorum simul et quod monimena ipsa conjtenebatur; placuit pietati ejus quod nos recte dedissemus judicium. Et adhuc ipse princeps | dixit nobis quod judicatum ipsum vedissit et per ejus rogum domnus aistulf eum per suum prejceptum firmassit unde qual(ter) in no- stri presentia actum vel defenitum est presentem noti- lia judicati leontace notario facere admonuemus Ft ego petrus per ipsius dictato scripsi anno domi[norum nostrorum desideri et adelchis regibus in d(e)i nomine sexlo el tertio per indict.(ionem) quintadecima fel (iciter)| Signum ('°) manus gisilpert qui hunc judicium dedit| Signum (!9) manus bursioni mad (!1) qui hune judicium dedit | Signum (!9) manus arsiulf gast(aldionis) qui hune Judicium dedit | (In tergo, aliena et paullisper recentiori manu, scriptum est) Exemplar de judicato tempore Desiderii. (10) Signa desunt. Cf. not. praeced. (11) Majordomi. V. s. not, 5. SA PA AU; vga x pars vi AS slavi Let PIRO ATI | pre pata È Gui be; patata) SESTANILA IO Vic UTO i Py 2 e n e È n ri pi Lpd LE) dI, VIA "ile. : è <: - pe pati ao cy wi tali prgn ì dat) uN ai rr me REI SESTO, DIARIO IEEE Nic 20 for dd + . po Aa {i Lisonood lei 9a leclynei ni ue Bohr a NS, | o9u BP las Ji ETA WnerSbol prc AEG frene - li aloe a voor aloe Me | pero Mi Cdl fia MINA evil ZAR Pohatoh 7 lille vl, logs, cite SR Leo Rc volto Torlo ZIA Sri u, [reno (boa la Do > 10 si erualogne Consonni dda ’ Vr, si 20 Mm nd, 97 ILLUSTRAZIONE Semplice molto è la dichiarazione delle cose contenute in questa Carta Longobarda dettata nell’anno 762, quando regna- vano Desiderio e Adelchi nell’anno sesto e terzo della respettiva loro dominazione (1). Auriperto ed il fratello Alperto della città di Pisa avean passato tra loro una privata convenzione per iscritto; che a quel d’ essi il quale morisse senza figli succedesse l’altro. Sen- nonchè Auriperto, con altra sua disposizione (judicatum, cartula ordinationis) ordinò, che di tutte le sue cose s' instituisse uno spedale per distribuire pane (alimonia) e sussidj ai poveri; in- combenzandone il pisano pontefice 0, in caso di negligenza per parte di lui, Rottruda che fu probabilmente sua donna; cui at- tribuì licenza di elargire o parte delle cose mobili o 1° usofrutto al dì della sua morte per l’anima sua; e diede inoltre la libertà a quaranta uomini o servi (2). Morto però Auriperto, il fratello Alperto, fidando nella privata convenzione già con lui fermata, ne occupò le sostanze; e, posciachè il vescovo pisano non si presentava a propugnare le ragioni dello spedale, uscì fuora Rottruda e ne mosse lite ad Alperto. Questa lite si agitò in Pavia nel regio palazzo, dove sederon giudici Giselperto da Verona, Bursio maggiordomo e Arsiulfo gastaldo, e comparvero Tarso da Pistoja, gasindio o convitato del Re, come procuratore di Rot- truda, ed Alperto suddetto della città di Pisa. Ecco poi la guisa in che la causa venne trattata. Tarso, appoggiandosi alla (1) Non credo di dovermi dilungare intorno al diverso modo con che appariscono segnati i primi anni del comun regno di Desiderio e Adelchi, perchè lungamente di ciò favellano gli eruditi, V. per es. Fumagalli, Codice S. Ambrosiano pag. 54 e segg. (2) Così mi sembra debbano costruirsi Je parole alcun che intricate delle linee 16—18. 15 98 disposizione (judicatum) di Auriperto, che delle proprie cose avea fondato uno spedale nella guisa predetta, invitava Alperto a rilasciare quelle sostanze, siccome ad esso non pertinenti. Ma rispondevagli Alperto; di non trovare impedimento a ritenerle nello aver disposto Auriperto che delle sue cose si fondasse uno spedale, atteso la convenzione passata col fratello, e della quale esibiva uno esemplare, che il superstite di loro succedesse al- l’altro che fosse morto senza figli. Replicava Tarso peraltro; non valer punto lo esemplare oppostogli della convenzione; sì perchè questo esemplare non era autentico, e perchè la convenzione non era stata pubblicamente fatta per via di donazione (thinx ), nè prestandosi tampoco le parti, acciò fosse irretrattabile, quel picciol dono, che appellavasi /aunechild; onde la convenzione non avrebbe potuto stare, nemmeno se desso Alperto si fosse trovato in grado di esibirne autentico esemplare: intanto produ- ceva Tarso ancor egli dal canto suo uno esemplare della dispo- sizione (judicatum) con che Auriperto aveva elargito ai poveri le proprie sostanze, e concludeva doversi stare alle leggi. Stretto Alperto da queste ragioni, accortamente procacciò di ridurre ad un punto solo, cioè alla autenticità dei documenti, dall’una e l’altra parte prodotti, ogni questione tra loro, dicendo; che se lo esemplare della convenzione per lui prodotto non dovea con- tare, perchè non autentico; ei non sapea davvero come Tarso potesse fondarsi dal canto suo sull’esemplare esibito della dispo- sizione di Auriperto. Ma francamente replicava Tarso che questo esemplare era valido, perchè quella disposizione (judicatum) era stata certamente fatta e perchè Re Astolfo aveala convalidata. Allora i Giudici, udite quelle altercazioni, si fecero rileggere e lo esemplare della ordinazione di uno spedale fatta da Auriperto, e lo esemplare della convenzione esibito da Alperto, e senten- ziarono: doversi stare alla disposizione (judicatum) e rigettarsi come invalida la convenzione; e perchè lo esemjlare della me- desima non era autentico, e perchè non fatta nè per garathinz 99 nè per launechild, come vuole l’Editto di Rotari (3). Che anzi, recalisi que’ giudici in presenza del Re, ed espostegli le ragioni addotte dalle parti e il contenuto dei documenti, dichiarò il principe aver essi drittamente sentenziato; e soggiunse, aver già lui veduto da sestesso la disposizione (judicatum ) di Auriperto, e dato preghiera ad Astolfo suo predecessore acciocchè volesse convalidarla. Laonde i giudici ordinarono al regio notaro Leon- tace di stendere il documento di questo giudicato; che in effetto, a dettatura di lui, fu scritto da Pietro notaro subalterno. E un esemplare sincrono di tal sentenza, disteso forse dalla stessa mano di Pietro a guisa di duplicato (4) e che però difetta dei segni o delle croci de’ giudicanti, è quello che si custodisce nel celebrato Archivio Roncioni in Pisa e che di presente in questi Annali, a quanto io sappia, per la prima volta vien pubblicato. Ora: dei giudicati proferiti ai tempi de’ Re Longobardi, e massimamente poi nel regio palazzo loro in Pavia, non si pos- siede in pubblico tanta dovizia, che questa Carta disperar debba liete accoglienze. Certo: delle molte e più gravi questioni, intor- no alle quali i moderni scrittori di cose longobardiche si scin- dono in diverse sentenze, niuna per essa vien risoluta; e vano, starei per dire, sarebbe stato sperarlo. Ma non per questo scarse o irrilevanti bansi a dire le notizie che ne scaturiscono. E, poichè ci si para innanzi nellà prima e nella penultima (3) L. 172-175. Roth. LL. Liutpr. VII. L. 4. (4) Non ignoro che la parola « exemplar» apposta sul tergo della nostra Carta significa copia (V. anche la nota 9 apposta alla Carta). Come per altro la parola « exemplar » non vi si legge in testa, e di persestessa la Garta apparisce sincrona e scrilta in caratteri separati e nitidissimi a guisa di molti autografi della stessa età riferiti dal Brunetti; nè s'intende cuî bono potesse, qualche tempo dopo, morto Alperlo e a patrimonio di Auri- perto distribuito ai poveri, bramarsi copia di questa sentenza, non ho voluto dissimulare questo mio sospetto di un duplicato autografo; che, fondato o non fondato, non toglie e non aggiunge nulla alla sincerità della Carta medesima. 200 linea, diciam subito come un nuovo e più certo maggiordomo in Corte dei Re Longobardi si viene per essa a conoscere in Bur- sio, il secondo de’ giudici qui ricordati; se col Mabillon, il Mu- ratori ed altri insigni storici e paleografi io m° abbia adeguata- mente decifrata la sigla « Mad» che tien dietro al nome di Bursio, come già dopo il nome di Faulone occorreva in ‘quel Diploma lucchese dell’anno 686 dato da Re Cuniberto, che fu veduto dal celebre Fiorentini e da lui poscia lamentato come perduto (5). E già scrittori di molta fama aveano avvisato la ne- cessità di credere che presso ancora i Re Longobardi fosse un ufticiale, il quale governasse i gasindj e avesse giurisdizione so- vra di loro (6). E, forse appunto perchè gasindio era il procura- tore di Rottruda, noi vediamo nella nostra carta seder tra’ giu- dici Bursio il maggiordomo. Ad ogni modo poi che presso a’ Lon- (5) Mabillon in Annal. Ben. T. I. in Adpend. Muratori Antig. m. ae. Diss. 65. T. V. col. 567 e 568. Brunetti Cod. Dipl. tosc. S. I. pag. 242, 282. Bertini in Memorie e Documenti per servire alla storia del Ducato di Lucca T. IV. pag. 275, nota 24; ‘e in Appendice Docum. di N.° XXXII. Oltre Faulone che per età si presenta il 1.° altri maggiordomi conosciuti dei Re Longobardi sono 2.° Ambrogio, maggiordomo di Liutprando mentovato in una carta Aretina apografa pubblicata dall’Ughelli Italia sacra I, 410, ma che lo stesso Ughelli e il Savigny, Storia del Diritto Romano nel medio ero I c. 4 nota 101, reputarono falsa, e il Fumagalli Antichità Longob. Mil. I, 98 e il Brunetti op. cit. pag. 428 ebbero per sincera. 3.° Ratperto maggiordomo dello stesso Liutprando che s'incontra in altra carta antica (apografa ) del- l’a. 715 pubblicata parimente dall’Ughelli e dal Muratori in Diss. 74 T. VI. col. 584 che ne dimostra la verità e dal Brunetti ibid. pag. 450. 4.° Final- mente Bursio nostro maggiordomo del Re Desiderio e di tutti più certo, sic- come quel solo il cui nome possa da tutti vedersi anch’ oggi in un autografo o almeno pressochè sincrono monumento. Che poi la sigla Mad debba qui sciogliersi in una così lunga parola come majordomus me ne convince an- cora la soverchia lunghezza della codetta che taglia la sigla istessa, perchè nella nostra Carla la codetta è più breve o più lunga secondo che più o meno sono le lettere omesse. (6) Leo, Vicende della costituzione delle Città Lombarde, traduzione del Conte Cesare Balbo pag. 57, nota 2. GÎ. Muratori Antig. Diss. 4. 101 gobardi non fosse il maggiordomo in tanta preminenza, quanta questo ufliciale ne teneva nella signoria de’ Franchi, lo fa con- spicuo il silenzio della storia e lo conferma adesso il tenore di nostra Carta, la quale in entrambi i luoghi ci presenta la persona e il nome di Bursio maggiordomo dopo Giselperto da Verona; lo che per fermo non troveremmo, se Bursio avesse rivestito una dignità superiore (7): che se poi ci piacesse di sapere chi sia quel Giselperto, il cui nome è preposto a quello di Bursio; noi lo avremmo da Paolo Diacono, il quale narra come a’ suoi giorni un Giselperto, che fu vanarello e tristo Duca di Verona, turbò il sepolero di Alboino, ne rapì la spada ed ogni altro ornamento, e poi vantossi di aver visto Alboino (8). Nè meno degna di osservazione è la circostanza che nella nostra Carta Tarso gasindio del Re « qui causa(m) Rottrude per- agebat » sembra essere un semplice procuratore o attore, e non già mundualdo di Rottruda. Da questa circostanza, infatti, e ad onta che i nomi delle parti sieno prettamente longobardi, sor- gerebbe non lieve dubbio se Rottruda fosse o longobarda o ro- mana (9); se Tarso suo procuratore fosse de’ gasindj maggiori o (7) Anche nella sentenza di Liutprando, confermatoria della prece- dente dei 5 Luglio 715, non solo Ratperto maggiordomo viene dopo parec- chi altri giudici, ma tiene persino l’ultimo luogo (V. cit. nota 5). Non so poi perchè il Leo non si appoggiasse nè a questa Carta, nè al Diploma di Cuniberto che apertamente ne favorivano lo assunto della necessità di un maggiordomo appresso i Re Longobardi. (8) De Gest. Langob. Il, 28 ad fin. « Hujus (Alboini) tumulum nostris in diebus Giselbertus (al. Gislepert) qui Dux Veronensium fuerat, ape- riens, spatham ejus et si quid in ornatu ipsius inventum fuerat, abstulit . Qui ob hane causam, vanitate solita, apud indoctos homines Alboin se vi- disse Jactabat ». (9) L. 205 Roth. LL. Liutpr. VI. L. 74 in fine. E avvertasi che la causa toccava lo interesse della stessa Rottruda, cui si erano lasciati i mobili e l’usofrutto postochè poteva disporne. Del resto è da notare che nelle Carte longobarde quando alcuno interviene come Mundualdo per le donne, tal qualità si esprime sempre (ov’io non m’inganni) con apporre quel pre- dicato, e non già per circonlocuzione. 102 minori (10), e tra questi ultimi si contassero alcuni discendenti dalla schiatta de’ vinti Romani (11); e finalmente se lo stesso Alperto della città di Pisa fosse anch’ egli o longobardo o roma- no: dubbio che rispetto a lui si rafforzerebbe, laddove potesse aversi buona cagione di raffigurarlo in quell’ Alperto medesimo, che nell’anno 757 scriveva come notaro la famosa Carta pisana di Rachi frate e re (12). Poichè, a qualificare tutti costoro per longobardi, non mi parrebbe invero bastante il rilievo che la convenzione passata tra’ due fratelli Auriperto ed Alperto venne dichiarata invalida, meno per difetto di esemplare autentico che nori delle simboliche forme prescritte nell’Editto di Rotari: gravi e fondati dall’un canto essendo i sospetti di coloro i quali, per la più parte almeno, reputano territoriale l’ Editto; nè sembran- do per l’ altro inverosimile, che anco i vinti Romani, i quali in ogni età ebbero di solenni forme per le donazioni (mancipatio, in jure cessio, insinuatio) ora le avessero per maggiore comodità o cautela scambiate con quelle de’ vincitori (15). Ed oltracciò; perchè mai la disposizione di Auriperto abbisognò ella d’essere confermata da Re Astolfo? Forse perchè da sano e non infermo e privatamente aveva egli disposto a vantaggio dei poveri e in rimedio dell’anima sua (14), o per qualche altra più riposta ca- gione? Non vuole intanto mandarsi in silenzio che la convenzione tra’ due fratelli, onde il superstite di loro succedesse all’ altro che fosse morto senza figli, potrebbe anch’ essere una imitazione (10) LL. Liutpr. VI. L. 9. (11) Dubbio che molto crescerebbe se nella Carta la lezione « cipis pistoriensis » si fosse potuta anteporre a « civitatis » (V. nella Carta, nota 4) perchè quando Paolo Diacono V, 39. IV, 21. 53. allegato dal Leo op. cit. pag. 45 nota 5, chiama ciges i longobardi abitatori delle città, è da sospet- tare che ostenti latina eleganza. - (12) V. Brunetti op. cit. P. 1. pag. 562. (15) LL. Liutpr. VI. L. 57 (de scribis). (14) LL. Liutpr. I. Leg. 6. ——_——_—__————————_———_ty———_——___————_—————————_——————2zzn_m0____ 211111 l1111111_t_trr7_—t—_—mÈÈt — 105 del così detto testamento reciproco, assai limitatamente permesso nella precedente età imperiale (15), e aggiuntavi la condizione « si sine liberis » conosciutissima in romano diritto. Ma, in tutto ciò, la pensi ognuno come la crede; potendo invece con- ghietturarsi che la donna fosse longobarda e stesse sotto il mundio del Re, e questi ne commettesse ad un gasindio la di- fesa in giudizio. Anche la ricchezza non piccola è da notare del patrimonio lasciato da Auriperto, posciachè a non meno di quaranta uomini in servile condizione voleva egli donata la libertà. Nè vorremo troppo rammaricarci perchè non detto se quegli uomini fossero o schiavi propriamente tali, o coloni romani, o massari, o aldj ec.; quasichè in tal caso si fosse potuto plausibilmente dedurne se longobardi o romani originarj del regno dovessero dirsi ed Auriperto e il fratello e Rottruda: essendo invece o molto ragio- nevole a credere o sempre lecito di sospettare che tra longobardi e romani, a qualsivoglia condizione ridotti, vi fosse commercio o facoltà di reciprocamente comprare e vendere i beni stabili con le persone ad essi per qualunque modo attenenti; cosicchè le varie qualificazioni de’ servi ed altre dipendenti persone parmi non debbano reputarsi come un infallibile argomento per deter- minare la schiatta del possessore (16). Nè meno preziosa mi sembra la notizia uscita dalla propria bocca di Re Desiderio, il quale ci dichiara; aver lui veduto la disposizione (judicatum) di Auriperto e dato preghiera al prede- (15) Lo fu in origine ai soli soldati, L. 19. C. de pactis (II, 3); ma che a malgrado la inefficacia si praticasse alle volte tra privati lo attesta con parecchie altre la detta legge. Dipoi fu permesso ancora tra’ conjugi. V. Const. Nov. Valentiniani de testamentis, p. Cod. Theod. (16) AI più potrebbe rimanere il dubbio se per cotal vendita ad un romano restasse il mundio alienato. Ma siccome il romano, marito, poteva comprare il mundio sulla donna longobarda LL. Liutpr. VI. L. 74, non saprei vedere il perchè non potesse acquistarlo ancora sugli aldj, massari ec. 104 cessore Astolfo acciò volesse convalidarla. È noto, infatti, es- sersi giù disputato molto per gli eruditi, se Desiderio, avanti di salire al trono, fosse mai stato Duca di Lucca ed anzi di tutta Toscana. Ed ora che noi sappiamo aver lui veduto la disposizione di Auriperto ed essersi interposto presso quel Re, onde la con- fermasse, possiamo con qualche verosimiglianza conghietturare che Astolfo Re lo avesse inviato ad esercitare un potere, straor- dinario almeno, in questa nostra provincia, 0 qualche altra volta o, se vuoi, molto più tempo innanzi che già non consentivano di credere le parole di Anastasio Bibliotecario, il quale ce lo addita mosso appena a queste parti quando egli udiva la morte del Re (17). E finalmente, venendo alle persone de’ giudici e de’ notari in questa Carta ricordati, terminerò con dire che in Giselperto già ravvisammo un famoso Duca di Verona, e che di Bursio il maggiordomo ed Arsiulfo il gastaldo non mi occorse altrove menzione; forse perchè in proposito non adoprai la diligenza propria degli eruditi. Ed anche di Leontace, da noverare adesso tra’ principali regj notari, non apparisce, per quanto io mi sap- pia, il nome nelle carte dettate nel palazzo di Re Desiderio. Vi apparisce peraltro il nome di Pietro notaro subalterno (18) che attesta di avere scritto la carta medesima; della quale, per sodi- sfacimento degli eruditi che vogliano instituir confronti (19), cre- demmo di dover qui annettere l’ectipo fedelissimo. (17) Anastas. in Stephani vita — Fragment. Longob. historie ete.; in Scriptor. Rer. Ital. T.1. p.II. pag. 115. Muratori Annali d’Italia all'anno 756. (18) V. Fumagalli, Cod. S, Ambros. pag. 56. (19) V. sopra, nota 4. CENNI DI UNA MONOGRAFIA DE’ DELITTI E DELLA SUA APPLICAZIONE PRATICA ALLA LEGISLAZIONE ED ALLA GIURISPRUDENZA PENALE DEL PROF. CAV. COMMENDATORE GIOVANNI CARMIGNANI 14 DERE EIA REINA TORTI TALI RE Primo ne medium: medio ne discrepet imum. Hor. Epist. ad Pison. v. 152. Le scienze naturali con prodigioso progresso vanno ogni dì aumentando il tesoro delle cognizioni umane, ed allargando la sfera delle loro scoperte. Questo fatto risveglia una nobile emu- lazione ne’ coltivatori delle scienze, le quali hanno nome di morali e giuridiche. Le prime studiano la materia inorganica la quale docilmente si presta ai tentativi della sperienza, e ad essa presenta uniformi e costanti fenomeni; ma appena si affac- ciano alla materia organica, questi vantaggi diminuiscono. La vita ed i movimenti co’ quali ella si manifesta sono un segreto di cui la natura è stata gelosa, sembrando aver detto che chi non ha il potere di darla non dee aver la presunzione e l’ orgo- glio di saper ciò che ella è. Kant, il quale ha ravvisato nella Fisica e nella Chimica il possibile di elevarsi da un punto empirico e prettamente spe- rimentale a un punto eminentemente scientifico di metafisica apodittica verità, non ha parlato della Medicina, la quale, a quel punto coraggiosamente spingendosi, si è circondata di sistemi, tra i quali, più infelici della messe di Cadmo, non è rimasto nel combattersi l’uno coll’altro un superstite. 108 CARMIGNANI Ove movimenti si scorgano, l’effetto de’ quali apprendasi o nocivo o giovevole all'uomo, la sua ragione si sveglia e trae dalla sua combinatrice attività le norme e le regole per le quali que’ movimenti, se a lui nocivi, impediscansi; se giovevoli a lui, se ne favorisca e se ne protegga la libertà . Questa grande e salutare missione della ragione umana sì scorge in tutto il vasto regno della natura: dai movimenti de’ luminosi corpi celesti ai movimenti dell'insetto, che il solo microscopio rende visibile. Ma le difficoltà di questa missione a dismisura crescono quando si tratta di bene apprezzare i complicati, e spesso in- definibili movimenti prodotti ne’ corpi politici dagl’istinti della sociabilità e della industria, dai bisogni e dagli interessi che ne derivano, e dalle passioni, or fuoco animatore che dà a tutto vigore ed energia, or fuoco divoratore che tutto disordina, 0 tutto scompiglia: esaminandoli per la influenza che essi, come movimenti, esercitano o in promuovere o in distruggere la in- terna sicurezza, e la interna prosperità, e però sul vitale prin- cipio delle convivenze umane. Tommaso Hobbes ha chiamato i corpi politici animali arti- ficiali: espressione la quale involve contradizione perchè se in un complesso di parti si suppone animalità, è impossibile con- cepire che l’arte e non la natura formi un corpo animato. Hobbes dunque ha fatto del corpo politico un automa, il quale per aver movimenti ha avuto bisogno d’un artefice che gli pro- duca e gli regoli, come abbiam veduto operarsi negl’ingegnosi meccanismi di Kempel, di Vaucanson, e del nostro Morosi. Ma la espressione dell’ Hobbes era coerente al suo detestabile e brutale sistema, insegnando che senza un despota e senza schiavi un corpo politico esistere non potesse. È stato più volte detto, che i delitti sono malattie del corpo politico; lo che presuppone che si conosca un corpo politico in perfetta salute, e in che il suo principio vitale consista. La CENNI DI UNA MONOGRAFIA DE’ DELITTI 109 esperienza al contrario ha mostrato, che i delitti in maggior numero si manifestano là dove il principio vitale del corpo po- litico, non che malato, è prossimo all’agonìa: la qual cosa con- durrebbe a credere che i delitti, anzichè essere le malattie del corpo politico ne sono piuttosto una conseguenza. Si segnano epoche nella storia, nelle quali il vigore del principio vitale del corpo politico ha operato il prodigioso effetto di rendere i delitti rarissimi, e il più prodigioso di non udirne alcuno in non breve lasso di tempo. L’analogia discernibile tra il male politico del delitto e il male fisico del corpo umano potrebbe forse consistere nel ri- schio che nell’uno e nell’altro si ha di rendere il rimedio peg- giore del male. La medicina curativa del delitto è nella pena; ma la scienza ondeggia tra l’emetico ed il salasso: l'uno col rigettare dalla società il delinquente togliendogli per sempre la libertà, l’altro nel versare il suo sangue uccidendolo; lo che rende irreparabile l'errore nella punizione dell’innocente. Op- portuno o non opportuno sia il rimedio destinato a medicare il male del delitto, un nuovo male possibile si presenta nel metodo che la legge stabilisce per la sua applicazione ai casi delittuosi. La legge può riposare sull’intimo convincimento del giudice quanto alla credibilità della prova, e potrà forse farlo anco in ciò che concerne la valutazione del maggiore o minore concorso della volontà al delitto in chi lo commesse; ma non potrà fare altrettanto in ciò che concerne il determinare ne’ respettivi pratici casi il titolo del delitto, almenochè non converta in legislatore il giudice, il quale altra autorità aver «non può che quella di applicare la legge. Per ovviare a questo male inerente al rimedio che la legge ha scelto a quel del delitto, e ad impedire il quale la morale, la giustizia, e la buona politica hanno un eguale interesse, che può fare la legge? Porre ogni cura possibile nel dare ai delitti un carattere distintivo tale, che renda razionalmente impossi- bile che l’uno si confonda, e si scambi coll’ altro . 110 CARMIGNANI Un pregiudizio che onora bensì la natura umana, ma che è pregiudizio pur sempre, fa sì che tutti si credano abili a giu- dicar de’ delitti, come tutti si credono abili a giudicare medi- camente delle malattie. Questo pregiudizio nasce da un prin- cipio a noi connato, il quale ci porta all'amore dell'ordine e ci fa concepire aversione al disordine, ed alle simpatie, le quali ci fanno, per così dire, escir da noi stessi, e trasformarci in chi per un disordine soffre. Ma questo modo di giudicar de’ delitti partendo dal sentimento ha tutta la sua cecità, e la ragione vi ha poca influenza. Fra i sentimenti in noi connati avvi il principio di appro- vazione di ciò che è moralmente buono, e di disapprovazione per ciò che è moralmente malvagio, e vi ha l’amore per ciò che è giusto. Eppure nè il principio morale nè il principio di giu- stizia sono le guide migliori per giudicar de’ delitti. Il primo, rigido ed esagerato, indusse gli stoici a sostenere che ne? delitti non fosse differenza di gravità. Come è fuor di Canopo, diceva Zenone, colui che ne è distante uno stadio al pari di chi ne è distante per lo spazio di mille, così chi è fuori della linea del- l’onesto e del giusto è malvagio, qualunque sia l’azione turpe che egli ha commessa. Il principio di giustizia non conduce ad errori sì grandi; ma la regola della eguaglianza, sulla quale ogni sua applicazione si aggira, lo spinge al dritto Radamanteo, al talione. La ragione pura, ne’ concetti della quale risiede l’apo- dittica verità: la stessa pura ragione nel giudicare del male del delitto e del suo rimedio è soggetta ad errore. La filosofia di Kant, tarda nepote per linea retta della Pitagorica, ha rinno- vato a’ dì nostri, nel giudicar de’ delitti, il talione giuridico concepito dal Filosofo di Samos. Gli antichi o non ebbero leggi, o ne ebbero poche e bre- vissime. La legge allor non scriveva: contenta di parlare nel giudice magistrato, all’arbitrio del quale era il giudicar del delitto e del delinquente. È ‘certamente questo modo di giu- CENNI DI UNA MONOGRAFIA DE’ DELITTI 111 dicare spedito ed economico nel tempo stesso: ma i tempi, le opinioni, e gl’interessi de’ corpi politici son cambiati. La semplicità d’una società nascente può dare all'autorità d’un uomo l'autorità della legge, perchè, formatasi colla prima ri- unione delle famiglie, le abitudini domestiche avendo assuefatto i figli all’autorità d’un padre, poterono render docile il cittadino alla illimitata autorità del magistrato. Ma venne il Presidente di Montesquieu, e scrisse che un delinquente colpito dalla legge non dall’arbitrio di chi giudica è più libero d’un Pascià di Turchia (1): Tanto mutar può lunga età vetusta! La indole ed il carattere del delitto hanno una influenza innegabile sul calcolo de’ gradi d’imputazione, e sul calcolo della prova. Comecchè i sentimenti tutti sieno soggetti ad esa- gerarsi, e sia il convincimento intimo di chi giudica più un sentimento che un raziocinio, può avvenire che la libertà, che a questo modo di giudicar del delitto concede la legge, oltrepassi i suoi limiti, e dall’arbitrio concesso per la valutazione della prova e de’ gradi d’imputazione si estenda ancora al titolo del delitto. Se ogni specie delittuosa ha un carattere certo e ben definito dalla legge, questo pericolo è facilmente evitato. La falsa applicazione della legge dà al condannato un rimedio straordinario da esperimentare a propria salvezza. Un filosofo Inglese, il quale colle sue opere in filosofia razionale ha illustrato il secolo decimonono, sebbene confuta- tore dell’ Helvetius in tutto ciò che le sue opere hanno di con- trario alla sana morale, lo encomia per la precisione che egli ha posta nel dare la classazione e la nomenclatura alle diverse tempre che l'ingegno dell’uomo presenta a chi attentamente vuole osservarle (2). (1) Esprit des lois, liv. 10. chap. 2. (2) DUGALD STEWART, Histoire abrégée des sciences métaphysiques, morales et politiques, part. 3. pag. 55. 112 CARMIGNANI La classazione de’ delitti, unico mezzo per assegnare a ciascun d’essi un distintivo carattere, lo che è l’unico criterio per avere un buon sistema di proporzione di pene, è la parte la più imperfetta e la più difettosa de’ trattati di dritto cri- minale. Se si apre e si svolge il trattato del De Angelis, il più diffuso e minuto che si abbia, sembra di porre gli occhi sul caos. Vi son tutti gli elementi per una creazione, ma tutti di- sparati, segregati tra loro, tutti gli uni con gli altri confusi Frigida pugnabant calidis: humentia siccis: Mollia cum duris: sine pondere habentia pondus. Oltracciò l’opera del De Angelis, suggerita a lui da quanto gli aveva insegnato la pratica, è mancante di molte specie delit- tuose che una classazione sistematica, guidata dal criterio che ella dee avere, lo avrebbe condotto a conoscere. Questo criterio fu nell'opera del Beccaria e nel tempo nel quale fu pubblicata, un lampo fuggitivo in mezzo alle tene- bre, che apparso abbagliò, ma non illuminò chi la lesse. Questo lampo fu luce nell’animo del compilatore della nostra Toscana legge del 50 agosto 1795; e che fosse un buono e retto cri- terio quella legge lo dimostrò dando il loro vero valore politico ad azioni nefandamente turpi bensì, ma non di grave danno alla società. Beccaria dette l'embrione, ma non lo sviluppamento d’una metodica classazione delle azioni delittuose. Il concetto di Bec- caria non dà verun lume per l'ordine che le specie delittuose debbon tenere nelle sue classi, e la caratteristica che dalla nomenclatura debbono avere. Quel concetto traccia un gran cerchio nel quale è circoscritto l'ufficio caratteristico della po- litica, onde coll’ufficio di altre scienze direttive delle libere azioni degli uomini non si confonda; ma nello spazio che quel cerchio racchiude niente vi è scritto. Bacone ha detto che tutti i fenomeni visibili e sensibili dell’universo materiale hanno un ordine per leggi ad essi ine- CENNI DI UNA MONOGRAFIA DE’ DELITTI 115 renti, e ne hanno uno nelle leggi dell'intelletto in perfetta consonanza tra loro. Questa idea, la quale deduce le cognizioni umane dalla osservazione e dalla sperienza, e procede in ordine inverso a quello della filosofia trascendentale, incoraggia all’esa- me attento di tutti i fenomeni che i movimenti di ciò che esiste presentano per rintracciare il modo’ col quale que’ movimenti possono essere rivolti a procurare la prosperità, e la sicurezza de’ corpi politici. Il profitto col quale le scienze naturali procedono, consiglia a ravvicinare quanto è possibile ai lor metodi quelli delle scienze morali e politiche. Le classazioni e la nomenclatura de’ bota- nici hanno poderosamente contribuito a rendere più estesa, e più utile la cognizione de’ vegetabili. Se fosse possibile di dare ai delitti i caratteri di classe, d'ordine, di sezione, di genere, di famiglia e di specie, e pur quelli di varietà, per i quali sette caratteri i botanici hanno un me- todo pronto e sicuro per conoscere gli oggetti individui delle loro ricerche, sarebbe trovato il modo di dare a chi giudica e a chi accusa o difende un manuale pratico, coll’ ajuto del quale i titoli di delitto, e il grado della lor gravità relativa sarebbero senza timore di equivoco, o d'errore determinati. Ma per venire a capo di questo utile tentativo convien trovare l'analogia che più avvicina per i suoi caratteri estrinseci le azioni delittuose alle piante nocive. Questa analogia non si presenterebbe se si adottasse il concetto, che i delitti sono ma- lattie del corpo politico come sono le fisiche del corpo umano. Si è giunti a stabilire una classazione ed una nomenclatura delle mostruosità per le quali la natura, quasi con apparente contra- dizione con se medesima, sfigura il corpo dell’uomo nell’atto stesso del suo primo concepimento nell’alvo materno (4): e (1) GEOFFROY SAINT-HILAIRE, Histoire générale et particulière des ano- malies de l’organisation chez l'homme, et les animaua. Bruxelles 1828. 15 114 CARMIGNANI sebbene il delitto possa comparire una mostruosità nell’ ordine e nella disciplina sociale, l'analogia si potrebbe sostenere come metafora, ma non avrebbe nè punto di fatto nè punto di ragione al quale appoggiarsi. Il delitto considerato per le cause che lo producono può dirsi una pianta parasita, un animal parasito del corpo politico. Molte e visibili sono le somiglianze tra l'una e l’altra cosa. Non bisogna credere, coll’Hobbes, che l’uomo nasca con una naturale inclinazione al delitto. L'uomo nasce macchiato di colpa in faccia al suo Creatore, ma non nasce delinquente in faccia alle creature a lui simili. Qui mali sunt, disse Petronio, non fuere matris ab utero nati (1). Delitto senza tentazione a commetterlo non si dà. La società formandosi, crescendo, e perfezionandosi, crea co’ mezzi di agio e di comodo che ella di sua natura produce, le tentazioni, come la pianta utile nel suo svolgersi dal germe e nel suo crescere, fa svolgere dal suo germe e crescere la pianta parasita che la estenua e la di- strugge. La ineguaglianza delle condizioni necessarie alla di- visione del lavoro, sorgente unica delle sociali comodità, e de’ progressi della civiltà che ne derivano, ponendo maggior somma di godimenti da un lato ed una minore dall'altro, eccita le passioni alle quali quest'ordine sembra un disordine. Nella proporzione che gli uomini si avvicinano tra loro nascono le simpatie e le antipatie reciproche, le collisioni degl’interessi, de’ quali, non senza ragione, sebbene con esagerazione sover- chia, disse il Voltaire Et l’intérét enfin père de tous les crimes; lo che meglio sarebbesi detto dell'interesse facile a divenire Amor sceleratus habendi. Il dritto di proprietà, vero produttore dell’aggregazione politica, non nasce e non sì stabilisce senza trarsi dietro la nascita del (1) Satyricon, pag. 88. CENNI DI UNA MONOGRAFIA DE’ DELITTI 115 delitto di furto, e di tutti gli altri delitti che sotto nomi diversi sono la cosa medesima. Niente vi ha di più sacro e di più rispettabile dell’ ordine delle famiglie. Esso è un bisogno della natura e un bisogno della civil società, e coll’ordine della società perfezionasi. Ma è coetaneo al suo nascere quello de’ delitti che lo cospurcano, e lo sconvolgono. Ogni sociale stabilimento mentre favorisce la umana perfet- tibilità fa, nascendo, un divieto agli umani desiderj e alle uma- ne passioni, e fa nascere dietro a sè la tentazione di frangerlo Nitimur in vetitum semper: cupimusque negata. Il fatto complicatissimo della natura nella formazione delle società civili, nella quale complicanza lo stesso ingegno umano trovasi involto, ha fatto nascere opinioni diverse relativamente alla loro influenza sulle sorti e sulla condizione degli uomini, e molti inutili sforzi per darne spiegazione per mezzo di esempj. La società, sconvolta in certe epoche della storia dal delirio delle passioni politiche, ha fatto nascere il funesto sistema dell’ Hobbes. Una falsa maniera di giudicare del lusso animatore della industria e delle arti ha fatto nascere lo scandaloso sistema del Mandeville. Un esagerato sentimento d'indipendenza, in- compatibile colla gerarchia delle condizioni, senza la quale so- cietà civile non potrebbe essere, e gli abusi oppressivi, ai quali talvolta si abbandona pazzamente il potere, fecero nascere il sistema di Rousseau, e le sue simpatie per la vita selvaggia, perdonabili a Tacito il quale aveva sotto i suoi occhi il dispo- tismo dell'Impero Romano, e la corruttela “del costume che il dispotismo aveva per tutto il mondo romano diffusa. Gli esempj co’ quali si è tentato di spiegare il complicato fatto della civil società, sone stati suggeriti o dall’interesse del potere o dall’interesse di sistema. Tito Livio nel libro secondo delle sue Storie, narrando il poco credibile fatto della fuga della Plebe di Roma, irritata contro i Patrizj, al monte Aventino, ri- 16 CARMIGNANI ferisce l’apologo col racconto del quale Menenio Agrippa calmò la popolare irritazione, e ripopolò la deserta città. L’apologo dava al corpo politico la forma medesima del corpo umano. Il ceto patrizio era rappresentato dal ventre: la plebe dalle altre, membra. Il principio vitale era collocato nelle forze digestive del ventre, per le quali il cibo, passando allo stato di chilo e quindi di sangue, diffondesi a mantenere in stato di salute e di forza tutte le membra: in guisachè, sebbene senza Vuflicio de’ piedi che conducessero a cercar l’alimento, delle mani che lo prendessero, della bocca che lo ricevesse, e de’ denti che lo triturassero il ventre non potesse pascersi, neppur le membra che a lui, considerato come viscere parasito, porgevano il cibo avrebbero potuto reggersi, ed estenuate e languenti avrebbero pagato caro il ribellarsi contro di lui, e il negar di fornirgli alimento (1). Collocare il principio vitale del corpo politico in un viscere che è la sede della voracità e de’ consumi, non è discreto. Avvengono nel corpo umano accidenti pe’ quali il ven- tre chiede cibo e lo strugge senza che le membra ne godano, restando deboli, emaciate, e coperte del pallor della morte. Il paragone dell’ Hobbes attribuisce all’arte l'opera della natura, e pone le sorti dell’aggregazione politica alla balia del- l'artista. Il Mandeville esemplificando il corpo politico col ronzante alveare delle api, ha più cercato di dare un titolo alla sua opera il quale invogli la curiosità a leggerla, di quel che abbia inteso con quell’esempio di spiegare il fatto della civil società. Finchè la sua opera sarà letta ella ecciterà la nausea d’ogni uomo fornito di senso morale, avendo egli esemplificati i vizj ne’ quali fa consistere il principio vitale delle aggregazioni sociali con i lavori d’insetti sì nella loro industyia meravigliosi, da aver fatto nascere il verso notissimo di Virgilio Igneus est illis vigor, et ceelestis origo. (1) Tir. Liv. Histor. lib. 2. cap. 52. CENNI DI UNA MONOGRAFIA DE’ DELITTI 117 Del Rousseau non è da parlarsi, avendo egli asserito esser lo stato a cui la natura destinò l’uomo l'andare ramingo ed errante pascendo col volto a terra e su quattro gambe a guisa de’ bruti l'erbe de’ campi, o il rampicarsi sugli alberi, e saltare dall'uno all’altro a guisa degli scoiattoli. La società civile è una Sfinge che non ha ancor trovato l’Edipo che ne discifri l'enigma. Il cambiamento de’ singoli individui in corpo politico si effettua per una legge di affinità, come per questa legge medesima si vedono in Chimica più corpi formarne uno, nel quale è difficile di ravvisare le qualità e i caratteri che aveano quelli che hanno in esso subìta una fusio- ne. È curiosa cosa, e dolorosa in un tempo, leggere i sistemi ideologici scritti per regolare la società, quasi la ragione possa 0 cangiare o distruggere i fatti della natura anzichè dar loro il miglior possibile ordine. Comecchè la pena sia l'atto il più formidabile e il più rumoroso della giustizia sociale, chi ha la società civile nelle sue idee anzichè studiarla ne’ fatti si lam- bicca il cervello in teorie aeree sulla origine e sul titolo del dritto di punire: non scorgendo che tutte le scienze direttive dell’uomo, come sopra fu osservato, se lo arrogano: nè si può in questa materia fissar cosa alcuna, se non di assolutamente certo, almeno di più probabile, senza aver prima determinato di qual criterio convenga far uso. Se si ammetta, come pur conviene ammettere, che la ragione della pena è nella indole de’ delitti, nasce la necessità di bene apprezzarla: e se il delitto nasce da una esagerazione di quegli appetiti medesimi dai quali nasce la società, egli è evidenté che senza conoscere la società non si può ben giudicare nè del delitto nè del modo di preve- nirlo prima che sia commesso; 0, commesso, giustamente punirlo. Beccaria scrisse « Se vi fosse una scala esatta ed universale « delle pene e de’ delitti, avremmo una probabile e comune « misura ...del fondo di umanità o di malizia delle nazioni ». Il linguaggio del Beccaria è, come sempre suol essere, non 118 CARMIGNANI chiaro abbastanza. Quella parola universale lo spiega. L’esimio filosofo ha voluto dire, che se si avesse una indicazione metodica e ragionata de’ delitti e delle pene dedotta dalla natura della civil società, i fondamentali caratteri della quale sono per tutto gli stessi, si avrebbe in essa il misuratore del grado di defe- renza della legislazione de’ popoli ai dritti della umanità, e di quanto rigore fa duopo per difenderla dalla malvagità del de- litto. Beccaria scriveva quelle auree parole in un secolo al quale niuno oserebbe far rimprovero di barbarie, e quelle parole non si erano da alcuno udite avanti quello scrittore. Nella comune opinione, per tutto ove le arti e il commercio fioriscono si crede giunta la civiltà al suo più alto grado di perfezione. Se i pro- gressi della ragione non vanno paralelli a quelli della industria, la civiltà umana, giunta colle arti e co’ commerci fin dove l’in- gegno umano può spingerla, esaminata nel suo generale carat- tere, non differirà molto da quella de’ castori, delle api, e de’ termiti fabbricatori di moli imitanti le piramidi ne’ deserti piani dell’ Affrica. Bacone ha segnalato l'apice della civiltà umana in un'epoca nella quale l'umano sapere acquisterà carattere di potenza. I progressi scientifici nelle materie politiche più che in altro nella legislazione criminale son segnalabili. Ma Beccaria nelle sue idee sulla origine, e però sulla naturale indole della civil società pagava un tributo ai pregiu- dizj filosofici del suo secolo. Que’ pregiudizj consideravano la società civile come l’effetto d’una volontaria convenzione degli uomini conviventi in moltitudine tra di loro: que’ pregiudizj parlavano dell’ingresso degli uomini in società facendo partenza da uno stato di natura senza leggi e senza governo, come se si fosse trattato dell’ingresso d’individui da una piazza in un fab- bricato. L'uomo porta in sè l'embrione della convivenza co’ pro- prj simili, e della perfezione di questo stato. Come il nascere e il crescere dell'individuo non dipende dalla sua volontà, così dalla sua volontà non dipende l’essere, come Platone e Ari- CENNI DI UNA MONOGRAFIA DE' DELITTI 119 stotele si esprimevano, animale politico (1). La sociabilità è una specie di fato della umanità, e si può senza timor di sbaglio applicarle ciò che i fatalisti dicono dell’uomo intelligente e li- bero « Fata volentem ducunt: nolentem trahunt ». Ma quegli scrittori medesimi i quali ravvisarono nella so- cietà civile un’opera della natura sbagliarono strada, e vaneg- giarono. Il primo che tra i moderni si avviò con buone e rette intenzioni in questa ricerca, pensò d’esservi riuscito col dire che i legami di parentela delle famiglie conglomeratesi in mol- titudine sopra un determinato spazio di suolo divenivano il cemento sociale (*), mentre ogni meno accorto può scorgere che delle relazioni sociali d’uomini insiem conviventi, e delle rela- zioni di sangue tra gl’individui della stessa famiglia poste a confronto tra loro, può dirsi assai più che il dire Est inter Tanaim quiddam socerumque viselli. Le dotte e ingegnose fatiche del Ferguson, del Millar, e dell’ Home o Lord Kaimes, per tessere una storia naturale della società sono incomplete al bisogno: eccellenti per conoscere le cagioni delle prime riunioni degli uomini in convivenza reci- proca, non sono adeguate alla cognizione della società giunta alla propria maturità. Che anzi leggendo quelle opere si corre rischio d'’imbeversi di pregiudizj pericolosi per bene apprezzare il vero momento di azione che la legislazione criminale deve esercitare sull’ordine sociale. Certi caratteri della natura umana nelle prime fasi della sociabilità possono esser presi per carat- teri permanenti e durevoli, e far credere che la disciplina de’ popoli nomadi e pastori può esser buona per i popoli agri- coli, e ingentiliti dalle arti e dal commercio, lo che sarebbe gravissimo errore. Eppure le tracce di questo errore in molte (1) Zio» rolttizòv. È da vedersi su questa frase una dotta nota del Barbeirac a Puffendorf, Le droit de la nat. et des gents, liv. 7. chap. 1. S. 5. not. 3. (2) I. F. HogrniUS, De cipitate, lib. 1. cap. 4. S. 6. 120 CARMIGNANI legislazioni s'incontrano, e questo errore poi diffondendosi e pre- sentandosi sotto forme diverse fa credere ad uomini di squisito e savissimo senno che ogni popolo abbia bisogno di una legi- slazione criminale proporzionata al suo carattere, come una scarpa la quale deve esser proporzionata al piede di chi la porta, non riflettendo che la legislazione criminale anzichè essere dominata da ciò che si crede essere il carattere di un popolo, è all'opposto destinata, ed atta a formarlo. Ciò che fu detto fin qui non è un+inutile digressione da quanto fu annunziato doversi dire di una monografia delle azioni delittuose. Comecchè la parola avvicini la scienza criminale al carattere delle naturali dottrine, conveniva dimostrare non che il possibile la necessità di questo avvicinamento, e chiarire come la scienza che guida a conoscere la indole del delitto e del modo di preservarne la società forma parte della cognizione della sua natura, come questa cognizione forma parte della storia naturale del genere umano. Il fatto della ‘matura nella formazione de’ corpi politici non può meglio essere spiegato che per il loro generale carattere di persone morali capaci, per indole della loro struttura, di pensiero e di azione, ed in modo che luno e l’altra pene- trando in tutte le parti che gli compongono, producano e pro- teggano la umana perfettibilità, al grande scopo della quale sono dal voto della natura costituiti. Il corpo politico non ha analogia col corpo umano che per gli organi ne’ quali hanno sede il pensiero e l’azione: gl’individui che gli compongono divengono mezzi e fini di sicurezza pubblica e di pubblica prosperità; lo che essere non potrebbe se essi restassero nel modo di acquistare, e di esercitare i lor dritti nella loro respettiva singolarità. Le affinità coll’azione delle quali la natura crea con singoli individui la persona morale del corpo politico, opera nell'interesse di tutti una fusione degli uni nell'altro. Nella cognizione di queste affinità consiste quella CENNI DI UNA MONOGRAFIA DE’ DELITTI 121 della meravigliosa epera della natura nella formazione de’ corpi politici; ma la loro fusione nella persona morale gli fa perdere ogni influenza diretta nel suo pensiero, e nella sua azione. Se queste sole aflinità, soli istinti produttori dell’aggrega- zione politica, la loro docilità ai consigli della ragione non avessero nello svolgersi e nell’operare sofferti turbamenti ed incontrati ostacoli, il solo pensiero della persona morale neces- sario a dirigere sarebbe bastato. Ma allato agl’istinti la natura collocò le passioni: cieche forze, le quali alla sola forza obbe- discono. Di qui la necessità di una forza la quale difendesse il pensiero e l’azione della persona morale dalle passioni che, cieche nell’agire, si muovessero a sovvertire l'organismo dal quale derivano: o tanto non osando si volgessero a scomporre e sovvertire l'ordine stabilito per assicurare agli aggregati indi- vidui il godimento pacifico de’ dritti, l'acquisto e l'esercizio de’ quali è loro dall’ordine della civil società guarentito e protetto. Ma instaurando una nuova maniera di esporre con con- notati caratteristici le azioni delittuose, giova dir poche parole della nomenclatura. Lucrezio (1), Manilio (2), Seneca (5) fra gli antichi notarono la necessità di trovar nuovi nomi a nuove combinazioni d’idee. Tutte le scienze cercarono nella lingua greca il modo o di significare concetti che l'ingegno umano ha per la prima volta creati, o oggetti nuovamente scoperti; o di esprimere con più compendiosa formula una serie di cognizioni scientifiche. Se ve ne ha un ramo nel quale convenga o non far uso di questa grecità, o di farne un uso quanto è possibile più sobrio, ciò conviene alla scienza che indaga il modo di fissare il vero re- (1) Lib. LL è». 157. (2) Lib. III. v. 59. (5) Epist. 58. 16 122 CARMIGNANI spettivo carattere de’ delitti, e il grado di rigore col quale cia- scun d’essi vuol essere represso. La nomenclatura del dritto civile può senza alcuno inconveniente essere sconosciuta dal popolo, perchè negl’impegni civili nessun s' inoltra senza prima consultare il causidico. Ma la nomenclatura del dritto penale vuol esser tale, che il popolo senza lo Scapula o lo Screvelio Ja possa intendere, essendo il codice de’ delitti e delle pene il testo delle condizioni sotto le quali la società concede al citta- dino ed al forestiero la sua protezione. La parola monografia, tolta dal greco, è la sola che le scienze della sicurezza sociale possan permettersi: più per mo- strare che i caratteri di ciascun delitto possono essere deter- minati e descritti colla precisione colla quale i naturalisti de- scrivono quelli degli oggetti delle loro ricerche, ché per un vano sfoggio di grecità. Alcuni scrittori trattarono de’ delitti in modo da essi creduto nuovo, perchè espressero certi loro pii generali caratteri con greche frasi. Ma qual necessità vi sa- rebbe, o come sarebbe possibile farsi intendere non che al popolo alla comune de’ lettori, facendo de’ delitti una classe col titolo di Paranomia, che i cartelli de’ circolatori farebbero scam- biare con annunzj di Paronama, e suddividendoli co’ caratteri di Adicemia, Amartemia, ed Apitia? (1) Conviene che la nomenclatura sia tale, da dipingere quanto è possibile il carattere del delitto desunto da quello del danno che esso arreca alla società. Questo modo di esprimere il carat- tere dell’azione delittuosa invita la opinione pubblica «a far (1) Così praticò Giuseppe Raffaelli nella sua /Nomotesia penale ( Na- poli 1824, in quattro volumi). Allorchè il Raffaelli pubblicò la sua opera gli fu scritta una lettera anonima, nella quale fu tacciato di pedante, ed esortato a non farsi senza necessità disertore dall’idioma Italiano. Egli volle rispondere, ma il rimedio fu peggiore del male. La sua nomenclatura greca non ha avuto accoglienza nel Dizionario tecnico-etimologico-filologico del- V Ab. Marco Aurelio Marchi (Milano 1828 e segg. in 4.°) CENNI DI UNA MONOGRAFIA DE’ DELITTI 125 causa comune colla legge penale, non lasciando luogo a pensare che il legislatore abbia creati delitti, e sanzionate pene a ca- priccio, e nell'interesse del proprio potere. Nè i delitti possono essere in un solo punto di vista con- siderati. La loro natura: la loro indole di piante parasite della società: il modo diverso o di pensiero o di azione col quale l'autorità governativa è obbligata a considerarli, fanno sì che tutta Ia delittuosa materia non sia indistintamente suscettibile di una monografia. Hanno le piante parasite i lor germi nel terreno ove la natura fa crescer le utili; i quali germi se non possono total- mente distruggersi, possono però dalla industria umana o dimi- nuirsi ove si annidano, o appena sviluppati recidersi. Lo stesso de’ delitti, piante parasite della civil società, si può dire. Estir- ‘ parne i germi, recider la pianta parasita nel suo primo svilup- x pamento è oflicio di quella parte della legislazione criminale, che ha nome di polizia: nome col quale Aristotele designò in genere l’arte di ben governare la società. Tutti i provvedimenti, sebben vestiti di pene, i quali mi- rano a estirpare i germi de’ delitti, o a reciderne il primo svi- luppamento, comecchè il delitto non siasi ancora formato e non abbia turbato l'ordine sociale, non appartengono al codice de” delitti e delle pene, ma ne prevengono l’azione. Come il botanico distingue la descrizione della pianta giunta alla sua piena maturità dalla storia naturale della sua nascita e del suo incremento, così il politico distingue la de- serizione del delitto già nella sua consumazione formatosi, e la storia naturale del suo star come germe nelle passioni, dal moderato calor delle quali prendono moto ed attività gl’istinti produttori della civil società, siccome delle cause, delle occa- sioni, e de’ fomiti che danno al germe delittuoso il suo primo sviluppamento. x Non sono queste utopie. Tutto ciò è necessario studio 124 CARMIGNANI della natura dell’uomo, e del naturale suo stato di convivenza co’ proprj simili. Una storia naturale completa della civil società è ancora da farsi. Col solo senso morale si conosce il delitto, e si ha ricorso alla pena. Se tutta la suppellettile dottrinale relativa ai delitti e alle pene si riducesse ai moti spontanei del senso morale, la civiltà umana si arretrerebbe di venti secoli. La scienza del buon governo è difficile, ma non impossibile a costruirsi. Il suo carattere di filosofia pratica, se la separa e la distingue dalla filosofia speculativa non le toglie la sua scientifica indole. E sia pure che ella, più che il nome di scienza, meriti il nome di arte. Il nome di scienza è stato negato alla medicina: e ciò non pertanto ella forma un importante ramo delle cogni- zioni umane. Presso gli antichi la servitù domestica e la politica facevano la macchina sociale più semplice. La libertà civile, effetto della civiltà moderna, Vha resa più complicata e più difficile a ben conoscersi, e a vigilarne tutti i movimenti. Vi è una disciplina sociale che non si crea eol timor della carcere e della galera, il quale per esercitar la sua forza morale ha biso- gno che i delitti siano di già stati commessi. Ma questa disci- plina sociale, annunziandola, è come Cassandra « wnquam non eredita Teucris ». La disciplina sociale non è la militare, la quale abbia a prescrivere a chi vive in società gli atteggiamenti edi moti che la militare prescrive ai soldati. Ella consiste nel conoscere, e saviamente determinare i limiti oltre ai quali la libertà naturale dell’uomo non possa estendersi, perchè al di Tà di questi limiti o è lesione della libertà altrui, o vi è la causa e la occasione di commetter delitti. Una monografia è possibile nel codice che enumera e de- scrive i delitti: non è praticabile in un codice di polizia. La razional differenza di questi due sistemi doveva esser qui ram- mentata, ma non è questo luogo opportuno a farla più estesa- mente conoscere. Se si considera che senza la forza che difende tutte le CENNI DI UNA MONOGRAFIA DE’ DELITTI 125 esistenze sociali sarebbero minacciate della lor distruzione, ap- parirà evidente che tra i delitti il più pericoloso e il più temibile è quello che si dirige a distruggere quella forza. La persona che nel corpo politico tiene, muove e dirige codesta forza, è come il cuore nel corpo umano, per il quale il sangue a tutte le sue parti diffondesi, e ne alimenta e mantiene il principio vitale: di guisa che per un colpo in esso vibrato, ogni moto Vitale cessa e si estingue. L’ambizione, le passioni politiche sono ordinariamente le cause di questo delitto. Esso ha un carattere distintivo nelle sue cause produttrici, e negli effetti da esse prodotti. Le azioni le quali presentano queste cause e questi effetti hanno un co- mune carattere di classe, e questa classe è la prima e la più segnalabile nel novero e nel prospetto delle azioni delittuose. Si suole ai delitti di questa classe dare il titolo di politici; il qual titolo è venuto in uso dacchè le rivoluzioni, e la con- quista, esponendo i governi a frequenti vicissitudini, sparsero una specie di scetticismo sui tentativi diretti a cambiarli, e consigliarono i partiti a dare alle loro imprese i lor nomi. Dell’errore del titolo s'imbevvero anco le scienze, e non senza contradizioni, come avvien sempre quando si è nella via dell'errore. Alcuni non fecero distinzione tra il delitto che sovverte il governo, e il delitto che offende la società; e comec- chè lo stato di società sia lo stato naturale dell’uomo, e però in lui indistruttibile, impugnarono la legale entità del delitto politico (*). Altri considerarono tutta la società nel governo, € chiamarono stato sociale la forma che il governo, costituendosi, assume (2). Queste contradizioni erano cagionate dal non aver bene ed attentamente esaminata la natura de’ corpi politici. La loro (1) Lucas. (2) SISMONDI. 126 CARMIGNANI struttura organica, per effetto degl’istinti che l’ Autore della na- tura ha posti nel cuor dell’uomo, non cangia nè può mai can- giar di forma perchè gl’interessi sociali sono su tutta la terra gl’istessi. Al contrario il governo come combinazione di forze, è suscettibile di tante forme quante sono le circostanze, le vi- cende, le relazioni di popolo a popolo, e le località che le ren- dono più atte e più opportune o alla interna, o alla esterna difesa; lo che fece dire a Cicerone, niente esservi in questa materia che per essere rettamente e stabilmente composto sia alla portata della umana ragione (1). Da queste considerazioni nasce la necessità di distinguere i delitti contro i depositarj e regolatori della forza pubblica, e i delitti contro la società. La costituzione di una forza destinata a resistere alle pri- vate converte il corpo politico in stato; intendendosi, secondo- chè gli scrittori di dritto pubblico insegnano, designare con questo nome tutti gli elementi che lo compongono, sia perso- nali, sia territoriali, come costituenti una forza che distingue come forza una nazione dall’altra (2). Lo stato è dunque un modo necessario di difendere la società: è nella società, ma non è la società. Il delitto che tende a sovvertirlo è tanto più temibile in quanto lo stato, come forza, può essere da una forza rivale distrutto; mentre la società come stato naturale dell’uomo, non può da forza umana di- struggersi: nuova ragione per porlo nella classe prima e più elevata delle azioni delittuose. Considerate le cose in questo punto di vista, il vero titolo di questo delitto è di delitto di stato . Questo delitto è una guerra: il delitto contro la società è un disordine. Il primo in certe circostanze ed in certi casi (1) De Repub. Ed. Ang. Majo, lib. 2. cap. 25. 55. (2) DE FELICE Dictionn. univ. de just. nat. et cip. vol. 6. p. 115. col. 2. CENNI DI UNA MONOGRAFIA DE’ DELITTI 127 autorizza la forza pubblica a difendersi con difesa diretta, vale a dire atterrando l’armato nemico che combatte sulla piazza pubblica contro di lei per distruggerla: avvertenza dall’ Antonio Mathaeus già fatta (1). Il secondo non producendo irreparabile male autorizza alla difesa indiretta colla legal punizione del delinquente. Interessi privati, e non passioni politiche o am- bizioni sono la causa del delitto contro la società. Il carattere de’ delitti contro la società non desumibile dalla causa, vuol desumersi dall’indole dello stabilimento che sovvertono come destinato a guarentire il modo regolare e legale dell’esercizio de’ dritti: è loro applicabile la regola, che allorchè in un delitto vi ha, come i criminalisti si esprimono, più nell’effetto che nell’affetto, esso dall'effetto prende il suo titolo. Questo ca- rattere diviene di classe, la seconda dopo quella de’ delitti di stato. Se la parola politico esprime una qualità a molti comune, comecchè il convivere in moltitudine sia lo stato naturale degli uomini, ragione vorrebbe che ai delitti compresi in questa classe seconda si dasse il titolo di politici: se i nomi radicati negli usi e nelle abitudini, e, ciò che è ancor peggio, ne’ pre- giudizj scientifici, potessero subir cambiamento. Se i singoli de’ quali si compone il corpo politico non son più nella respettiva singolarità un tutto di per sè stante, ma divengono parti di un tutto di diversa morale natura tra loro, le offese che loro minacciano le passioni nemiche dell’or- dine, e che al corpo politico come piante parasite si attaccano, non possono esser considerate come offese private, ma voglion considerarsi come offese sociali. Questa osservazione esime dal- l’assumere la complicata ricerca diretta a spiegare la duplice natura, ossivvero la vera natura del male politico che il delitto produce; ricerea che il Beccaria, non inteso dal Fachinei e (1) Ad lib. 48. dig. tit. 2. cap. A. num, 2. ad fin. 128 CARMIGNANI dal Renazzi, esaurì con una sola e semplice formula, e che ha servito di testo al Bentham per un’analisi ingegnosa sì, ma di esito non esatto. Le offese ai dritti, ai sentimenti, alla quiete de’ singoli non escono dal novero delle piante parasite del corpo politico, ma ne formano una terza classe, la quale potrebbe aver titolo di delitti contro le guarentigie sociali . L’aver determinate queste tre classi e i loro caratteri potrà sembrare opera che alla monografia non appartiene. Certamente le monografie de’ naturalisti non fanno menzione, nel descrivere gli oggetti delle loro ricerche, nè del carattere di classe nè di quello di ordine, o di sezione, o di genere, o di famiglia; ma ciò fanno per non ripetere inutilmente ciò che essi suppongono a quello per il quale scrivono di già noto. Una monografia delle azioni delittuose, comecchè sia nuovo il tentativo per farla, non può esimersi dal premettere la indicazione de’ caratteri, i quali al legislatore ed al giureconsulto debbon servire di connotati per determinare la vera indole e la vera sede designante la gravità relativa de’ delitti in un codice sistematico. Il tentativo di avvicinare il sistema descrittivo delle azioni delittuose alle monografie de’ naturalisti scuopre una divergenza soverchia nella classazione del Beccaria. Avviene allo spirito umano in una ricerca nuova, ciò che avviene all'occhio al primo aprirsi alla luce. Gli oggetti si scorgono tutti in un gruppo gli uni non distinti dagli altri: il tatto insegna a conoscere le loro respettive individualità. Così lo spirito umano al primo fissarsi sopra un oggetto complicatissimo di ricerca non conosce imman- tinente gli oggetti di diversa natura che lo compongono. La terza classe del Beccaria comprendendo delitti che egli fa consistere nell’offender le leggi, le quali o comandano o vietano in vista di un maggior bene che si propongono di pro- durre, non ha niente di comune colle tre classi indicate qui sopra. L'offesa, per servirsi di frase usata nel fòro, è un danno CENNI DI UNA MONOGRAFIA DE’ DELITTI 129 emergente. Le azioni comprese dal Beccaria nella sua terza classe sono un lucro cessante. La opinione del Castrense, il quale parificò luna e l’altra cosa, ottima nelle materie com- merciali, non può essere ammessa nelle penali. Fu già osservato che la materia della polizia non può trattarsi col metodo della criminale propriamente tale. Le trasgressioni sono di un’indole affatto diversa da quella de’ delitti: la legge, nel crearle, ha uno scopo diverso da quello che ella ha nel designare le azioni delittuose: le pene delle une hanno una ragione: ne hanno una diversa le pene delle altre. Le prime non hanno carattere di piante parasite nocive alla pianta utile del corpo politico. Gli antichi Romani, indossata la veste candida, per mostrare al popolo di chiedere i suoi suffragj onde esser prescelti alle cariche dello stato, usavano di aver seco il nomenclatore, per- chè incontrando individui i quali ignoravano chi fossero e donde venissero, suggerisse loro il lor nome per salutarli come uomini a lor pienamente cogniti. Non altrimenti avviene ai criminalisti co’ loro trattati dei delitti e delle pene, puri e pretti nomencla- tori di oggetti de’ quali in quei trattati non si conosce la ori- gine, e la vera indole, nè si danno le ragioni della loro disposi- zione. Siamo per quei trattati sul fiume Lete, sul quale Mercurio col caduceo chiama da una riva le ombre che giungono a caso le prime sull’altra. La classe de’ delitti di stato non può averne, sotto qualsisia governo, il medesimo numero, e della stessa natura. Ove i po- teri che nel loro complesso costituiscono Ja sovranità sono divisi, le specie delittuose crescono di numero, e molte presentano una loro speciale natura. I delitti, come piante parasite del corpo politico, si attaccano alle diverse parti che lo compongono. Possono essere i delitti di stato prodotti dalla causa medesima; ma gli effetti che essi producono e i mezzi necessarj a produrli sono diversi. Il potere esecutivo può essere assalito senzachè il legislativo lo sia, e viceversa. La diversa indole de’ diversi 17 150 CARMIGNANI organi del potere produce una diversità de’ delitti che tentano d’indebolirli, o distruggerli. Il potere unico nella democrazia ha una diversa colloca zione da quella del potere unico nella monarchia assoluta. I delitti contro l’una non possono colpire come i delitti contro dell'altra. Il potere è, nelle società umane, una fortezza di varia costruzione per difendere l’azione degl’istinti che la producono ; ma questi istinti e i loro prodotti sono per tutto gl’istessi. Il Renazzi contemplò la fortezza, e credè che in essa fosse rac- chiusa la società, quando dalle diverse forme di governo de- dusse l’aforismo «nove leges, nova crimina », adducendo l’esem- pio di Bruto e di Cassio encomiati nella repubblica, e dello storico Codro punito sotto l’impero per avergli chiamati gli ultimi de’ Romani (1). Potè il potere, regnando Tiberio, essere in cattive mani: potè essere in ottime in tempo della repub- blica: ma il potere fu sempre lo stesso. Quanto alla indicazione delle specie delittuose che tendono a sovvertirlo, la forma del governo fa nascere in esse varietà come ne nascono nelle piante parasite, e nelle piante utili, le quali, sebben producenti il frutto medesimo, si distinguono per la forma particolare colla quale si mostrano . La monografia del delitto di stato deve scegliere una forma determinata di governo per costruirsi, e tra i governi semplici la monarchia assoluta è quella che più si presta a fornirne il modello. Giova osservare lo stato di confusione in cui, per mancanza di una metodica ed esatta monografia, si trovano le specie del delitto di stato negli scritti de’ culti e pratici giurisperiti. Niun può negare ad Antonio Mathaeus tra i giurisperiti culti il primo, e più cospicuo posto di onore. Questo scrittore dottissimo, del quale potrebbe dirsi ciò che il Gibbon disse del (1) Elem. jur. crim. lib. 1. cap. 2. S.11. CENNI DI UNA MONOGRAFIA DE’ DELITTI 151 Gravina, avere scritto con classica latinità, instaura la enume- razione de’ delitti majestatici coll’ osservare che, all’ effetto di bene istituirla, sarebbe necessario enumerare ed esporre tutte le funzioni o dritti della sovranità, per conoscere le specie de- littuose che gli sovvertono: ma cangia in un tratto linguaggio: rimanda quanto ai dritti sovrani a Bodino, e quanto alle spe- cie delittuose dichiara volersi tenere alla nuda interpetrazione dell’editto perpetuo, sebbene, parlando delle pene, diverga al dispotismo imperiale e a suoi più feroci sintomi nella illaudata L. quisquis 5. Cod. ad Leg. Jul. majestatis (1). In questo modo di concepire i delitti di stato è errore palpabile. Si dà in vero a Bodino la gloria di aver il primo con- cepita la distinzione di più poteri, che nel loro complesso costi- tuiscono la sovranità; gloria che l’Haller nella sua (invero poco apprezzabile ) Restaurazione della scienza politica gli ha rivolta a rimprovero. Ma non tutti questi poteri costituiscono la forza, che contro al delitto di stato bisogna difendere. Henrion De Pansey più sagace di Bodino, e potrebbe anco dirsi del Monte- squieu, ha nel potere esecutivo distinti tre diversi poteri: l’ese- cutivo propriamente detto: il giudiciario, e l’amministrativo. Il primo difende: gli altri due regolano la società. Il delitto di stato dirigesi contro al primo: i delitti contro al poter giudi- ciario, e all’amministrativo sono delitti contro la società, non contro al potere sovrano. Chi direbbe che l'offesa al giudice: la resistenza a’ suoi ordini: la effrazione del carcere siano delitti di stato? Anzi è osservabile come appunto il non aver saputo 0 voluto distinguere i delitti contro al sovrano e i delitti contro la società, ha condotto all’errore di noverare tra i delitti di maestà l'offesa al magistrato (2) e la effrazione del carcere (9). (1) Ad lib. 48. dig. tit. 2. cap. 2. num. 1. (2) Vedasi ANT. MATH. ad lib. 48. dig. tit. 2. cap. 2. num. 8. (5) ANT. MATH. loc. cit. num. 21. 152 CARMIGNANI Numerosa è la schiera de’ pratici forensi che si accinsero ad enumerare le specie del delitto di stato. Esercitarono in questo assunto la loro penna il De Afflictis, Giovanni De Plata, Enrico Bocero, Niccola Reusner, Pietro Keig, Girolamo Gigas, il Follero, il Deciano, il Bajardo, e Prospero Farinaccio. Il Farinaccio enumera ventitre specie: il Bajardo va più oltre, e ne enumera quarantacinque: ma amendue a guisa di casisti. Il Farinaccio osa elevarsi alla nozione del genere, e da quello fa discesa alle specie. Ma il suo tentativo di volo è quel dello struzzo, il quale non si alza un palmo da terra. Si possono, nella classe de’ delitti di stato, concepire due ordini, desunti dalla diversa qualità del danno che essi produ- eono dirigendosi contro al potere: 1.° Gli atti contro la sicurezza interna. 2° Gli atti contro la esterna sicurezza dello stato: due caratteri d'ordine da non potersi confonder tra loro. Nelle monarchie costituzionali i delitti di stato oltre al carattere d’ordine ne hanno tre di sezzone: 1.° Contro la personale sicurezza delle persone investite della sovranità. 2.° Contro i poteri supremi dello stato come esercenti per delegazione l'autorità esecutiva. 5.° Contro le guarentigie costituzionali. Nella monarchia assoluta i delitti di stato hanno due soli caratteri di sezione: 1° I delitti contro la personal sicurezza del monarca d'effetto immediato. 2.° I delitti simili d'effetto mediato. La opinione che il potere assume della propria prerogativa induce una grande varietà nel titolo del delitto di stato. Questo titolo è andato soggetto a vicende, che la sola storia può esporre. Le produzioni della natura hanno caratteri certi invariabili, sic- chè i nomi che loro si danno non ne possono alterar la indole. CENNI DI UNA MONOGRAFIA DE’ DELITTI 155 Ma le creazioni della politica possono variar d'indole e di carat- tere per solo effetto de’ nomi che loro si appongono (1). Una digressione storica su questo proposito è necessaria: perocchè la determinazione del più acconcio titolo del delitto si connette colle vicende alle quali, come fu qui sopra osservato, va soggetto il potere destinato a formare la forza defensiva della società (2). I caratteri di genere de’ delitti di stato, compresi nella prima sezione, si desumono dalla diversità delle persone sulle quali cadono, e dal maggiore o minor grado d’atrocità colla quale commettonsi . La monografia, dopo essere scesa dai caratteri di classe a quelli di genere, colloca nel primo e partitamente descrive in tutti i loro elementi d’ intenzione e di esecuzione le specie seguenti: 1 La uccisione del monarca, o della sua consorte, © dell'erede presuntivo della corona (5). 2.° Il semplice lor ferimento con arme bianca, ancorchè denunziato senza pericolo. 5.° Il semplice attentato a ferire, divenuto specie delit- tuosa in questo genere di delitti. (1) Le opinioni esagerate sulla enormità del delitto di stato hanno un esempio ne’ criminalisti. Il Carpzovio ha contato in esso sette ingredienti di abominazione: fra gli altri il peccato contro natura. Praxis rer. crim. saron. part. 1. quest. 41. num. 2. (2) Il Cav. Filangieri, Scienza della legislazione, lib. 5. part.2. cap. 45, instaura con gran fiducia di pieno successo questa impresa storica. Egli si giovò molto del cap. 29 dell’opera De Judiciis del Sigonio. Più ricchi e più esatti, quanto al dritto romano, sono il Kennis, il Dieck, e l’Haubold. Ma dal dritto romano in poi il titolo del delitto è mancante di storia. Un saggio ne sarà dato nel prossimo volume di questi Annali. (5) Quanto alla moglie del monarca, la opinione non è pacifica. La combattono il Simner, il Berger ed altri citati dal Boemero Elem. jurispr. crim. pag. 269. Tito Livio narrando della uccisione del Re Nabide a Sparta per la mano di Alessandro Etolio, dipinge l'orrore che accompagna il pro- getto delittuoso nel cuore e nella mente di chi Io medita « Collegit et ipse « animum confusum tante cogitatione rei ». 154 CARMIGNANI 4.° L'attentato commesso con esplosione o di arme da fuoco, o per mezzo di macchina disposta a scagliare a tempo determinato projettili atti ad uccidere: o con preordinazione di mina. 5.° I preparativi per attentare a seconda de’ mezzi usati per farlo, segnalabili anch'essi come specie delittuose . 6.° I diversi gradi di complicità di cui si rendon colpe- voli coloro, i quali, non incaricandosi di atti in cui consiste la consumazione del delitto, contribuiscono colla opera loro a renderla o più facile, o più pronta, o più certa. In queste specie delittuose le più nobili e le più controverse sono: 1° La non rivelazione della notizia del progetto delit- tuoso avuta in tempo utile a farlo (1). 2.° La ricettazione de’ delinquenti, e de’ mezzi da essi preparati al delitto, o avanti, o dopo la sua consumazione (2). Ne? delitti o contro la società o contro le guarentigie che ella fornisce ai privati ed alle famiglie, la determinazione del titolo del delitto non si estende a quella degli atti di attentato e di complicità. In questi delitti il pensiero, ancorchè manife- stato, di commetterli, non è delitto (3): l'atto, ancorchè prepara- (1) A questa specie appartiene la L. Metrodorum 40. dig. de penis, nella quale il Giureconsulto Paolo è buona scorta. Il sig. Dupin maggiore fece, nella causa de’ tre Inglesi riceltatori del Lavalette, belle frasi, ma non bellissimi ragionamenti: vedi Barreau Francais vol. 1. pag. 355, e SAINT- EbME Causes célébres 5.° serie, vol. 2. pag. 97. (2) A questa specie delittuosa si riferisce il celebre dissidio fra il Bartolo nella L. utrum num. 5. dig. ad Leg. Pomp. de parricid. e il Baldo nel suo cons. 54. lib. 1. La opinione del Baldo che la sola notizia non rivelata non costituisce il delitto di stato, fu seguita dall’Alciato, da Alberigo Gentile, dal Gotofredo, da Antonio Mathaeus, tra i culti; e tra i glossatori dal Saliceto e da altri. Una legge di Atene puniva come delitto di stato il silenzio. Licurg. în orat. contr. Leucratem, pag. 219. Lo che mo- stra, che il potere si esagera anco nelle democrazie. (5) Chiaramente lo espresse il Giureconsulto Trifonino nella L. 225. dig. de verb. significatione. CENNI DI UNA MONOGRAFIA DE’ DELITTI 155 torio, è, e dev'essere impunito (1), e solo può risvegliare una più o meno giusta apprensione della polizia. In questi delitti il grado maggiore o minore di suscettibilità al timore di chi può esserne offeso non ha alcuna influenza nella valutazione giuri- dica dell’azione. Nel delitto di stato questa suscettibilità è grande in chi è investito del potere sovrano. La storia rammenta e nota alcuni animi superiori i quali forti non solo de’ mezzi materiali di cui possono disporre, ma forti eziandio nella coscienza o di eser- citare il potere a vantaggio de’ popoli, o dell’ascendente che seppero acquistarsi sulla opinione pubblica, considerarono gli attentati contro essi commessi imprese miserabili e pazze, degne di essere più disprezzate che vendicate. Narra il Busbequio che l’Imperator Solimano chiamato a sè un Ammiraglio che aveva cospirato contro di lui, gli disse: « So ciò che tentasti contro di me: ‘disprezzo il tuo tentativo, e lo lascio impunito. Ti giudichi il giustissimo vindice delle sceleraggini, Dio » (@). Un Re di Svezia, avendo un tal Magno capitano de’ suoi eser- citi tentato di ucciderlo, lo chiamò a sè e gli disse: « Tu volevi dunque insidiosamente sterminarmi? — Che me ne domandi?, rispose il Capitano, nè l’animo, nè il braccio, nè il ferro mancaronmi: mancò a me la fortuna, che te dall’atto salvò ». Il Re sorridendo di compassione, lo licenziò, e lo lasciò impunito (3). La Riforma criminale Toscana del 50 novembre 1786 ci esime dal citare esempj stranieri. Ella valutò il delitto di stato per le reali ed effettive sue forze, non come soggetto di più o meno grande apprensione di chi regna. (1) Lo notò Ulpiano nella L. 21. $. 7. dig. de furtis. Trifonino ed Ulpiano espressero due regole di senso comune. Per ‘non applicarle al delitto di stato bisognerebbe dire che il retto giudizio di questo delitto sa- rebbe un giudizio o senza, o contro il senso comune. (2) ScIPIONIS GENTILIS, De conjurationibus, pag. 95. (5) Scipione Gentile riferendo questo fatto, disapprova l’ atto magna- nimo di quel Re. Loc. cit. pag. 32. 156 CARMIGNANI Questa apprensione giunge talvolta all'eccesso, e gl'Impe- ratori Arcadio ed Onorio, meschini e debolissimi figli del grande Teodosio, ne sono una prova. Questa apprensione suggerisce a chi ne è invaso il desiderio di sopprimere il delittuoso progetto appena nel pensiero respira; e vuole nel pensiero colla pena sopprimerlo Cuncta ferit qui cuneta timet (1). Or non che l’attentato e la complicità, anco l'atto prepa- ratorio ha tutto nel pensiero il delitto. Ma questo pensiero può ben muover la volontà cangiandosi in desiderio, nè i desiderj scuotono i troni (2). L’atto della volontà, nascoso sempre come desiderio ne’ ripostigli dell’animo, diviene poi causa de’ moti del corpo; e questi moti, sebben pieni del pensiero delittuoso, delitti ancora non sono. Se il delitto di stato è da considerarsi come forza rivale della forza sovrana, convien misurarlo nella sua forza reale, non nella sua forza di pensiero; e» per tenersi più lontani che sia possibile dal valutarlo in questo secondo aspetto, conviene con precisione determinare i gradi della reale sua forza, e considerarli non come attentati, ma come specie de- littuose; inquantochè come attentati considerandoli, può chi giudica credersi autorizzato a valutarli per la maggiore o minore energia del pensiero delittuoso (5). (1) Andrea d’Isernia illustrando la L. quisquis 5. Cod. ad L. Corn. de sicariis, inslituì la giurisprudenza penale del pensiero. Malteo De Affli- ctis la continuò. Del merito di questi lavori può giudicarsene da ciò che nel riferirli dice il Gentili nell'opera sopracitata. (2) Dichiarano impunibile la manifestazione del desiderio il Bajardo ad Clar., il Bertazzòlo ed altri citati dal Farinaccio quest. 115. num. 251. Blackstone riferisce la condanna a morte di un gentiluomo, il quale avuta la notizia che il Re cacciando aveva ucciso un cervo che egli, ridottolo a domesticità, grandemente amava, si espresse: « Vorrei che egli ne avesse avute le corna nel ventre ». Lib. 4. chap. 6. pag. 224. della trad. frane. (5) Un esempio di questo pericolo l’ offre Prospero Farinaccio, quest. 116. num. 147, il quale colle ispirazioni della L. quisguis dichiara delitto di stato perfetto nella sua specie il solo affetto, senza curar l’effetto. CENNI DI UNA MONOGRAFIA DE’ DELITTI 157 Le specie indicate ne’ numeri 1, 2, 5, 4 non hanno diversità d’imputazione e di pena. Minor grado d’imputazione e di pena è da attribuirsi alle specie comprese nel n.° 5. Come nell’attentato non è da parlare della maggior vici- nanza 0 di luogo o di tempo alla consumazione, ma del mag- giore o minor pericolo che al soggetto passivo minaccia il mezzo adoprato per giungervi, così avviene nella complicità. È facile la distinzione tra il delinquente principale e il delinquente accessorio, tra la correità e la complicità propriamente detta. Le parole stesse le ‘due diverse cose significano. Nella correità le due volontà facinorose son divenute nell’agire una sola e medesima volontà. Nella complicità una volontà facinorosa, sorta sola e spontanea, ha sollecitate e chiamate altre volontà a con- tribuir nuovi mezzi a quelli che ella apprestò per consumare il delitto. Complico: simul plico, dissero i Latini. La sola gram- matica bastava a decidere le lunghe e gravi controversie, che la complicità, quanto a stabilire il giusto modulo della sua impu- tazione, avea fatto nascere. Ma nella complicità come nell’attentato è tutto ed intero il pensiero delittuoso. La suscettibilità del potere da un lato, e il principio morale dall’altro, il quale punisce la contaminazione del cuore come quella della mano, hanno piena questa materia di perplessità, resa più complicata dalle interpetrazioni tra loro contradittorie della parola consezis della funesta leg. quisquis. Nel delitto di stato la complicità deve avere i suoi gradi, come l’attentato ed i gradi in quella come in questo debbono convertirsi in specie delittuose, le quali designino la diversa dose di pericolo che il complice ha cagionato allo stato. Que- st opera non può ottenersi se non con un’ esatta monografia delle diverse frazioni di contributo che il complice ha conferito alla consumazione. Per questa maniera la descrizione monogra- fica può render palpabili gli errori ne’ quali sono incorse molte legislazioni di Europa. 158 : CARMIGNANI La monografia delle specie delittuose formate dai gradi del- l'attentato e della complicità, può anco essere di utile scorta alla polizia per regolare i suoi giudizj e le sue giuste apprensioni sulle persone e sulla loro futura condotta, le quali con vario grado di audacia si sono implicate nella materia delittuosa. Nel secondo genere della sezione prima sono comprese e descritte le tre diverse famiglie di azioni delittuose. La prima famiglia comprende atti di forza aperta e palese, animati da intenzione diretta a cambiare, o usurpare il potere sovrano. La seconda atti di forza clandestina animati dalla inten- zione medesima. La terza delitti consistenti in parole o pronunziate, 0 scritte, o stampate con animo o di avvilire e screditare il po- tere sovrano, o di diffonder massime e principj sovversivi della costituzione dello stato. Il titolo di semplici cenni dato a questo lavoro, non per- mette che si enumerino e si descrivano le specie delittuose da comprendersi in queste tre famiglie. La loro retta determina- zione però è della più grande importanza, essendo da ponderare in ciascuna il grado o maggiore o minor di pericolo che esse allo stato minacciano. La prima famiglia comprende la Fazione, di cui il solo Gotofredo nel suo dotto comento alla celebre leg. quisquis diede una nozione precisa: la sedizione: il tumulto. La famiglia seconda, comprendendo le prodizioni delle quali si rendono rei i delegati del potere: le congiure: le cospirazioni: le riunioni segrete, e le associazioni senza la saputa e l'assenso del Governo, presenta alla monografia un lavoro difficile e delicato. Antichi, solenni e spaventevoli riti hanno reso il nome di congiura esecrando. Le menti le più elevate, e i governi più forti, hanno ceduto a questo fascino che il nome risveglia, ed il secolo nel quale viviamo ha veduti codici ne’ CENNI DI UNA MONOGRAFIA DE’ DELITTI 159 quali un semplice e breve colloquio tra due persone è stato dichiarato capitale delitto. Il Saliceto, l’Odofredo, lo Zabarella, il Bosio riferiti dal Farinaccio (1) insegnarono, non esser ne- cessario a costituir la congiura l'intervento del giuramento: lo che, facendo mancare una delle più notabili tracce caratteri- stiche del delitto, ne facilitò la prova e quindi gli equivoci ai quali, come Blackstone osserva, va soggetta la interpetrazio- ne delle pronunciate parole (2). Si fece di più: l'orrore che si aveva pel giuramento applicato ad opera sanguinaria e ne- fanda, si rovesciò tutto contro l'interno animo del congiurato. I criminalisti si abbandonarono ‘a queste prevenzioni nel dare in modo assoluto e generico alla congiura un carattere spaven- tevole argomentando dalla mole del pensiero alla mole del fatto, ed al suo pericolo, e tutto il delitto nel pensiero considerando. Bonifazio de’ Vitalinis colloca nel pensiero tutta la definizione « facinorosa spirituum conceptio » (3). Il Gigante, tale di nome ma ne’ suoi scritti pigmeo, non dubita di dare all’animo del congiurato il carattere del diavolo « maligno spiritu insur- gere » (4). Più equo e più giudizioso il Giureconsulto Paolo avvertì: « In reum majestatis inquiri prius convenit QUIBUS « oPIBUS etc. » (5). E il Giureconsulto Modestino si espresse: « Nam ob personam spectandam esse AN POTUERIT FACERE » (6). I troni non si sovvertono col far de’ castelli in Spagna (7). (1) Quest. 115. num. 117. (2) La Glossa alla L. quisquis volendo qualche cosa di più della espressione del pensiero, volle che l’animo si esternasse fino al giuramento. FarIN. quest. 116. num. 152. (5) In Clement. Pastoralis, De sent. et rejudic. (4) Il Giureconsulto Antonio Contio per dare alla congiura un più ter- ribil colore ne cerca il lipo in quella di Lucifero e degli altri angeli ribelli. (5) Lib. 5. Sent. tit. 29, S.2. j (6) L. 7. $.5. dig. ad L. Jul. majest. (7) Niccolò Machiavelli ne’ suoi discorsi su Tito Livio, lib. 3. cap. 6., ha un trattato sulle congiure degno di esser letto da chi deve stabilirne la prova e la pena. Si può dire, in materia di congiura, del Machiavelli « experto crede Roberto ». 140 CARMIGNANI Non meno diflicile e delicato è il descrivere il delitto di stato in parole o pronunziate, o scritte, o stampate. Blackstone il quale ha trattata questa materia, parlando delle parole pro- nunciate ne ha in tesi troppo generica esclusa ogni e qua- lunque imputazione. Ma gli esempj di pronunciate parole che egli: allega sono dettate o da impeto d’ira, o da giusto dolore. Non è invero da parlarsi delle semplici maldicenze, dopochè il titolo di maestà in specie è stato bandito dal foro. Il Giurecon- sulto Modestino, il quale fu sì giusto e sì giudizioso nel giudicare delle parole nel titolo di maestà, non le esentò tutte da impu- tazione (1). Parole, sebbene semplicemente pronunziate, se lo sieno in pubblico luogo, dirette a concitar la moltitudine alla sommossa, non possono andare esenti da imputazione. L'effetto simpatico delle parole è certo, sebbene indefinibile. Le circo- stanze, le abitudini lo determinano. Narrano i viaggiatori, che nella Isola di Giava i Negri alla voce d’un loro simile che grida amoch, amoch, che significa ammazza, ammazza, entrano in furore, corrono forsennati per le vie armati di pugnale, e truci- dano quelli che incontrano (2). Il Deciano, riferito dal Fari- naccio (5), narra aver difeso un certo Paride, il quale anzichè farsi, come l’antico, giudice della bellezza, si eresse in giudice d’un atto sovrano del Duca di Mantova, e chiamò gridando rovina, rovina il popolo del castello di Asola alla sommossa (4). (1) L. 7. S.5. dig. ad L. Jul. mujest. (2) ‘Tertulliano disse «sì non armis, saltem lingua ribelles sunt» ad Orat. lib.1. cap. 17. — Cicerone disse «cujus lingue quasi flatellum redi- tionis etc.» Orat. pro Flacc. cap. 25. — Il Tomasio scrisse una dissertazione col titolo = De homicidio lingue =. Dissert. 41. vol. 2. (5) Quest. 115. num. 186. (4) Per la teorica di Baldo nella L. 1. S.1. dig. ad L. Jul. majest. accolta dal Capicio, dal Saliceto, e da tutti gli altri forensi, le parole con- citatrici alle armi contro al Governo qualificano gli autori della sedizione se ella è avvenuta. Ma se la sedizione non scoppiò, le parole debbono restare impunite? ‘ui . CENNI DI UNA MONOGRAFIA DE’ DELITTI 141 Narra Senofonte (1) essere stato accusato Socrate di aver in segreto con allocuzioni eccitata la gioventù ateniese a di- sprezzare lo stato della repubblica, e a rovesciarlo. Determinare ne’ limiti della necessità della difesa del potere sovrano il de- littuoso carattere delle parole o scritte o stampate non è facile impresa. Lasciare all’arbitrio di chi giudica questa determina- zione è cosa alla civil sicurezza pericolosa. Un'occhiata che il Legislatore dia alla lunga serie de’ delitti indicati per classe, per ordini, per sezioni, per generi e per famiglie, può essere utile a fissar le idee in questa importante materia. Difendere la sovranità in un individuo dal pugnale di un assassino, è più difficile che difendere da una invasione, o am- biziosa o nemica, uno stato. Il fuoco delle passioni politiche nascosamente serpeggia. È piùdiflicile fermarlo nelle scoperte sue tracce perchè non esploda in vulcano, che conoscere i mo- vimenti di un nemico che si presenta armato sulla frontiera. I delitti contro la esterna sicurezza di un corpo politico esigono circostanze che in tutti gli altri delitti non si verificano. E neppur tutti i tempi sono a questi delitti stagione opportuna, avendo essi bisogno de’ tempi di guerra, e di contesa di prero- gativa tra stato e stato. Apprezzando la lor vera indole nella relazione che essi possono avere col principio vitale della società civile facilmente si scorge che ad essi soli si applicano i ragio- namenti co’ quali alcuni scrittori hanno impugnata la entità giuridica del delitto politico che noi chiamiamo delitto di stato, su di che non possono questi pochi cenni intrattenersi per dimostrare che i delitti di questa seconda classe più che alla società al potere interessano. I processi del Maresciallo Biron, di Ringone, e Fregoso ed altri di simil natura, segnano le pagine della storia con caratteri di umano sangue sparso senza necessità . (1) Memorabil. lib.1. cap. 2. 142 CARMIGNANI Oltracciò un codice penale che col suo generale carattere voglia mostrare di aver rispettata la umanità non può mostrarsi prodigo di supplizj per delitti, la rarità de’ quali fa sì che il rigore se apparisce come bisogno d’un sospettoso potere, non ha però grande appoggio nelle simpatie sociali, difficili a suscitarsi per avvenimenti di lontano e difticile evento. Queste osservazioni preliminari all'ordine secondo de’ de- litti di stato sono dirette a mostrare che il grado della loro imputazione non può stare in pari linea con i delitti del primo. L'ordine secondo della classe de’ delitti di stato dividesi in due sezioni: I. L'una comprende gli atti di connessione necessaria col pericolo del potere sovrano; II. L'altra gli atti di connessione meramente possibile . La sezione prima contiene due diversi generi di delitti: 1° Delitti di funzionarj pubblici. 2° Delitti di semplici cittadini. In questi delitti, specie de’ quali sono tutti gli atti di pro- dizione della patria per darla al suo nemico per la parte di depositarj delle sue forze o de’ suoi segreti: o per la parte di private notizie date al nemico, corrispondenze segrete e dan- nose allo stato, spionaggio, riunioni d’armi e d’armati, e simili: atteso il più ristretto numero degli atti co’ quali possono esser commessi, la monografia ha da descriver ristrette famiglie, e passa più sollecitamente dalla indicazione del genere alla enumerazione delle specie delittuose. Inoltre questi delitti presuppongono Stati, che per la lor forza e per la lor posizione relativamente agli altri possano essere esposti a rivalità o di potere o di commercio, e in apprensione abituale di guerre. Lo stesso carattere hanno i delitti del secondo genere, come la violazione del dritto de’ neutrali in tempo di guerra, l'armamento di predatori senza lettera di marca, la pirateria, la violazione del salvocondotto o altre simili specie; alcune delle CENNI DI UNA MONOGRAFIA DE’ DELITTI 145 quali il Cav. Filangieri, sulle tracce del Blackstone, ha intitolati contro al gius delle genti: frase ideologica che ha applicazione difficile alle relazioni delle nazioni tra loro, le quali relazioni vorrebbero esser significate con diversa terminologia. In ogni peggiore ipotesi se si ammettesse una serie di azioni delittuose col titolo di sovversive del gius delle genti, converrebbe anco ammettere la distinzione che Grozio fece di questo gius in primario, ed in secondario: considerando l’uno come la legge morale applicata alla condotta de’ popoli tra loro nel modo medesimo con cui si considera tra individuo e indi- viduo, e considerando l’altro come derivante o dalle consue- tudini, o dai patti che le nazioni stabiliscono tra di loro. Ma nel primo riguardo, oltrechè la legge morale nel suo variare di applicazione dagl’individui alle nazioni dovrebbe necessariamente subir variazioni non poche nel sistema de’ suoi principj, ella stando nel cuor di tutti non sarebbe suscettibile di testo scritto, ed avendo sanzioni sue proprie non ne po- trebbe aver dalla legge. Sono encomiabili gli Scrittori, i quali tentarono di stabilire una unione razionale e pratica tra la morale e la politica. Ma questo assunto, oltre al titolo consola- tore che ha, non presenta ancora idee degne di fissar l’atten- zione di chi studia le scienze sociali. Nel secondo riguardo il gius delle genti consuetudinario non potrebb'essere per altre ragioni adottato per vestir di sanzione le infrazioni che se ne facessero. Resterebbe il gius delle genti derivante dai trattati, al quale Mably dà il titolo di Dritto pubblico d’ Europa. Ma poichè le infrazioni del gius delle genti, come Blackstone le considera, non sono nè debbono esser punite per la loro moral pravità, ma lo debbono essere per il pericolo in cui pon- gono lo stato, al quale il delinquente appartiene, di suscitarsi nemico lo stato al quale appartiene l’offeso, la lor vera deno- minazione sembra esser quella di delitti contro la sicurezza esterna dello stato: la qual denominazione esime da tutte le 144 CARMIGNANI difficoltà che circondano l’antica di delitti contro al gius delle. genti. ti Una estensione maggiore che a questi cenni potesse darsi porterebbe più oltre la precisione nel designare i caratteri di famiglia di questi delitti, desumendo questi caratteri di fami- glia dalle circostanze che potendo rendere più facile l'abuso della forza a danno di esteri individui, porgono motivo alla legge di una maggiore severità. Converrebbe, a modo di esem- pio, dividere in due separate e distinte famiglie la violazione de’ dritti giurisdizionali dello stato estero, e la violazione o della sua sicurezza o della sua prosperità ne’ suoi stabilimenti, di qualunque natura si siano, che fuori de’ limiti dello stato sono dai trattati protetti. Niuno negherà che il metodo di determinare i titoli di delitto per una serie di caratteri che da quello di classe scenda a quel di famiglia, come i botanici praticano descrivendo le piante per meglio e più facilmente conoscerle, e non confondere le une colle altre, fornisce al legislatore un procedimento ana- litico il più acconcio a dare ai delitti il più giusto ed adeguato grado d’imputazione, e di adeguato modulo di punizioni ai delitti, per quanto è possibile, corrispondenti. Noi non diremo col Moralista Cinese, che la pena segue il delitto come l'ombra segue il corpo. Questa sentenza designa 0 le pene morali ne’ rimorsi de’ commessi misfatti, o Je naturali negli sconcerti di salute che vengon dietro agli abusi delle cose appetibili: sebbene il secolo decimonono abbia veduto (e senza sorpresa ) riproporre sotto apparato scientifico i principj del Cinese Confucio. Non vi ha nè proporzione, nè relazione sensitiva tentabile tra il delitto e la pena. Le lezioni della vendetta non posson essere lezioni legislative. Quanti fisici mali sovrastano alla uma- nità! La natura mutila, pone le membra dell’uomo sotto il peso delle rovine, colpisce mortalmente la testa, la recide, e prepara CENNI DI UNA MONOGRAFIA DE’ DELITTI 145 la sepoltura ai viventi. Ma tutto questo la natura non fa per difendere l’ordine de’ corpi politici, e si sbaglierebbe strada imitando nel punire il suo modo di devastare. Se si scegliessero pene, l’azione delle quali colpisse il corpo del delinquente, converrebbe, per applicarle nelle pro- porzioni segnate dalla monografia de’ delitti, imitar la natura nelle sue anomalie all’uomo funeste. Se si scelgono pene l’ a- zione delle quali si eserciti nel tempo e non nello spazio, comec- chè il tempo fornisca quante frazioni si vogliono, nasce una monografia delle pene come ne è nata una de’ delitti. È una idea filantropica e santa quella che si propone di fare scendere il pentimento nel cuore del delinquente, È un grande inganno però il credere che questo salutare scopo possa ottenersi con metodi i quali di penitenziarj non hanno altro che il titolo. Quanto più isolerete un individuo perchè si raccolga tutto in se stesso, più lo tormenterete; e la natura d’ ogni essere sensitivo lo spinge a rivoltarsi contro tutto ciò che lo tormenta, e ad odiarlo. Come è sperabile che il pentimento na- sca in un animo in stato di reazione contro al modo che si usa per farlo nascere? Il pentimento può fingersi più facilmente che aversi. Dio solo può esigerlo: gli uomini altrettanto non possono. Ma il principio penitenziario non sarebbe compatibile colla graduabilità della pena. Ella deve essere dalla legge pre- stabilita. Come stabilirne i gradi proporzionandoli allo scopo del pentimento? Chi farà al Legislatore conoscere in quanto tempo, secondo i diversi delitti, può ottenersene il pentimento? Chi potrà determinare l’effetto maggiore o minore che il metodo può ottenere secondo la diversa tempra degli animi, e de’ caratteri de’ delinquenti? Tutte queste cose si osservano per dimostrare che un si- stema penale graduabile a seconda di un’ esatta monografia dle delitti, che la prudenza e la giustizia con voto eguale desi- derano, non può trarsi dai metodi accennati qui sopra. 19 146 È CARMIGNANI Non è dunque il proporre, e il tentare una esatta e me- todica monografia de’ delitti il chiamare, come i circolatori di piazza, il pubblico a vedere una destrezza di mano o di gambe. È piuttosto il più convincente modo di dimostrare la necessità di adottare il domma della dolcezza delle pene: perchè le puni- zioni di effetto fisico non potrebbero adattarsi ad una mono- grafia delle azioni delittuose: mentre mirabilmente vi si adat- tano le punizioni di effetto morale, le quali rispettando la umana sensibilità, e privando della sua natural libertà il delinquente, gli danno tempo e motivo a riflettere su i suoi veri interessi, in una più regolare condotta con i suoi simili e colla società. Ma per ottener questo effetto non. bisogna alla privazione della libertà aggiunger metodi, che colla buona intenzione di purificar l’anima de’ delinquenti convertano la custodia in fisica, 0 mo- rale tortura. Il lavoro è l’unico espediente che le umane ve- dute possono adoprare per dare all’uomo la morale di cui la disciplina sociale ha bisogno. Il vero pentimento non va all’uomo ma va a Dio, alla infinita saviezza del quale convien lasciarlo. Una monografia penale dev’ essere opera succedanea alla monografia de’ delitti. I medici non applicano il rimedio mentre studiano la natura del male, ma l’applicano quando l’hanno ben conosciuta. In egual modo il legislatore stabilisce bene la vera indole de’ delitti, e i gradi delle loro respettive gravità, prima di stabilire il ricettario penale e la scelta degl’ingre- dienti che debbon comporlo. Un altro grande vantaggio del metodo sopra indicato è quello di abituare a giudicar de’ delitti non colle leggi del sen- timento, ma con quelle dell’intelletto; lo che Claudiano cantò, approssimare i Sovrani alla divinità. Dis proximus ille est Quem ratio non ira movet: qui FACTA REPENDENS Consilio punire potest. CENNI DI UNA MONOGRAFIA DE’ DELITTI 147 Si è all’inferno con Tiberio il quale, al dire di Tacito, studiavasi di ritardar la morte dell’individuo per dare spazio maggiore ai tormenti. « Morlemque longius în puniendis quibus- « dam, si natura permitteret, conabatur extendi » . Si è in cielo quando si legge nell’Antologia l’ epigramma dell’ Imperator Leone detto il filosofo, il quale desiderò che le battaglie delle fiere del Circo divertissero il popolo, ma non uccidessero un uomo; e più lo si è quando si legge l'umano voto d’un regnante, espresso in que’ versi Ne videam ullius crudeli morte perempti, Cum teneam placidi solium Jovis, aspera fata. Nè meno utile è il metodo delle monografie criminali a chi giudica, risparmiandogli di porre troppo sulla propria coscienza, e sgravandosi della parte maggiore del peso del suo uffizio sulla legge alla quale obbedisce. Una esatta e perfetta monografia criminale non può essere l’opera d’un giorno. Gravi e profondi studj della natura del- l’uomo e de’ corpi politici richiedonsi per avere un lavoro quale lo stato intellettuale della età nostra, e la civil sicurezza che è nel voto e nel bisogno di tutti, desiderano. I cenni che qui ne sono stati dati, più che un saggio di quanto è da farsi sono un invito ed un eccitamento a fare. Non è neppure di questi cenni da dirsi Est quiddam prodire tenus si non datur ultra. la i MU e dii | PRTLIZO ‘n agetad dl È, ponga, if ate fe; dinamo cent i RI palboon:sralp i detratto ta è pernciygi viprplalon gsrianigiogi asi Ù Aid eli b . alias denidisotiilao po di, 0» csi 4 adipe saizolanpon li argeaiti avilptivioà: lobi bat coltob sibyitatad | di origini fi apuoi ie obadup È lab afiaiig: seni 046 otra ny pamt ica e nu (etto SU ni caenipà gr anorgoti agiata _ la ir iron gen TOA AVaberto seniblio remain ovini ta) È) F Sg ze E iso cirie sedia eni te c Ma sugo PETIT saferagitom allobo ofiosqun di 4 alito carienti VM Lu Vioangiasoa.fingnigcalige, aggo»! 81104. it igolimgiceregii ‘1 Wliimenicie ot. dal 0296) drlbcongiggnoa otrog alleò (isolana Ù i sto Mirtomai Wripento dvi pride svga A ETSETATATt MICITTÌ proveitib@imanionei sMstrss ti ‘aa dolvi eoprgo-silobvipatei.ifgalorglo penripiemen » — sfuppe otevst aucaname 19t) inutodoicnin isititog trp tab 4 adriana tivi dif 40 etion 610 elle aletMofistod ed toprsda invasi È aberbbisz siblatzità arrzozid oi TERE NIN ORA LGIURITI RIC. stage ou alati. sid 126280 iesup iD ‘prattena falli al; migssistiao asia MUUCINCIT ©n 7 7 dn cbritàgo on gf pra sato san (entrar patto area ca o i i a a he; sogna + le V ‘ x | i +1 ha vt e î P. î incl le dda 5; lu (Immidia ro rete LE GLOSSE LATINE DI LUTTAZIO PLACIDO GRAMMATICO ACCRESCIUTE ED IN PARTE EMENDATE PER UN NUOVO CODICE DEL SECOLO XIV PER CURA DEL DOTT. GIUSEPPE CORSI (°) -__s900e—— Tra le opere antiche di sacra e profana letteratura, che Sua Eminenza Reverendissima il Cardinale Angelo Mai pubblicò nella Serie dei Classici Autori, stampata a Roma dal 1828 al 1858, sono le Glosse latine di Placido Grammatico, tratte da quattro Codici della Vaticana Biblioteca, e date in luce nel 5.° volume di quella gran Collezione. Il loro titolo è questo: InciPIoNT GLOSSE -— PLACIDI GRAMMATICI — PRIMO PER A LITTERAM. Ma comparendo esse in quella prima edizione sparse di errori gra- vissimi, colpa dei codici nè antichi molto, nè in veruna guisa corretti che soli avevanle somministrate (1), facea bisogno, per- chè arrecassero. qualche vantaggio, che, colla scorta di nuovi testi emendati, fossero ridotte al genuino e vero lor senso. Nè a ciò fu tardo nel provvedere l’istesso illustre Editore; imper- ciocchè trovato a sorte fra i membranacei della Vaticana un Glossario di vasta mole da riferirsi al secolo xr, raro non tanto ; per la moltiplicità della materia, quanto per il testo emendato e per la elegante scrittura, e che quasi in numero duplicate e da molte mende corrette offriva ancora le Glosse di Placido (2); stampò nel 6.° volume della medesima serie quelle mancanti (*) Presentato dal Prof. P. Capei. (1) Classicor. Auctor. T. 6. Editoris Monit. p. 553. e T. 5. Editoris Pref. pag. 9. (2) Classic. Auct. T. 6. Editor. Monit. p. 555. 150 alla pubblicata edizione, e aggiunse per l'altre al fin d'ogni lettera molte e notabili correzioni. A questa ristampa fu dato il titolo che segue: PLACIDI GLOSSE — VALDE AUCT® ET EMENDATE. E perchè nulla di ciò che era noto intorno all'Autore ed all'Opera più rimanesse a desiderarsi, l’insigne Editore premise che il nostro Placido, mitografo e grammatico, era di nome Luttazio (1), benchè avesse in prima stimato che si chiamasse invece Lattanzio (2); che era nativo di Gallia, e che professò la fede del Cristianesimo (9). Aggiunse autorevoli testimonianze a dimostrare il pregio di queste glosse, ch’ei giudicava scritte da Placido nel commentare autori diversi, e che, quantunque scorrette e mutilate, bene avvisò di riporre tra le produzioni dei classici (4): e finalmente, coll’apporre al testo brevi note qua e là dove mostravasi più corrotto, pensò a purgarlo di alcuni errori tra quei moltissimi che lo deturpano (9). Ma in ciò non parve a quell’eminentlissimo Personaggio e primo vivente lu- minare della greca e latina letteratura, di dovere insistere con grande impegno; perchè osservò come a quest'opera si sarebbe facilmente tolto ogni pregio, sostituendo a quei modi semplici e primitivi del familiare linguaggio le voci usate dagli scrittori e dai retori, e distrutto inoltre, coll’alterar le parole, tutta la forza dei paradossi (6). Talchè, non bastando il Glossario antico Vaticano a gran pezza per rendere netta e sicura. la lezione delle Glosse di Placido, e niuno osando porre la mano a tal opera, elle si trovano infino a qui non poco alterate e corrotte, (1) T. 6. Edit. Monit. p. 553. (2) T. 7. Edit. Prof. p. 8. (3) T. 6. Edit. Monit. p. 553. Giov. Alb. Fabricio, nella sua 2:- blioth. Latina med. et inf. aet. dice che Placido si chiamava Luttazio, che era cristiano, e che visse dopo Boezio e dopo il poeta Sedulio; e non lascia di distinguerlo da Lattanzio Celio Firmiano discepolo di Arnobio, che scrisse dopo l’anno 500 di Gesù Cristo. V. Fabricio Op. cit. lib. xt. Su ciò può vedersi anche il Bandini nel suo Catalogo dei MSS. delle Bibliot. Laur. Gaddi e di S. Croce, t. 5. p. 618. (4) Tomi 3. e 6. nelle due citate Prefazioni . (5) Uno dei quattro Codici della Vaticana appartenne a Fulvio Orsini, che prese a correggerlo; ma disperando di riusciryi, non vi appose che congetture. Class. Auct. T. 6. p. 555. (6) T. 3. p. 478. nota (1). lòl e in molta parte mancanti per ciò medesimo della sperata utilità. Mi godè pertanto l’animo oltre ogni dire quando mi av- venni, senza cercarlo, in un Codice che queste Glosse contiene, simiglianti nel totale a quelle che si conservano nei primi quattro della Vaticana, ma in varii luoghi differenti molto e più esatte. È questo un volume in pergamena in 4.° di carte scritte 123, colla prima pagina adorna di ricche ed eleganti miniature, dan- neggiato moltissimo, perchè stato fin qui mal custodito, e che, divenuto adesso di mia proprietà, da me si conserva dili- gentemente. Esso contiene due opere: una Grammatica in latino della lingua latina, di che non è qui luogo a parlare, e le Glosse di Placido Grammatico. Volendo far congettura circa la antichità del mio Codice, dirò parermi che le due opere sieno state scritte in due tempi diversi, ed unite poscia in un corpo per l’attinenza che hanno tra loro. fo penserei che la Gram- matica non eccedesse il secolo xv, benchè certamente debba riporsi verso il principio di quello, e che le Glosse fossero scritte intorno al secolo xiv. Fan chiara fede della maggiore antichità delle Glosse i nessi e la forma dei caratteri, più antichi molto che non quelli della Grammatica, e per la età in parecchi luoghi sbiaditi e pressochè spenti: dal che deriva che alcune pagine di tal Glossario sono leggibili con grave pena, e che molte parole non si discernono affatto, mentre che facile e sicurissima è la lettura della Grammatica. Nè d’ogni pregio è privo del tutto il mio Codice, benchè in altri cinque della Vaticana sian contenute le Glosse del- l’istesso Grammatico. Per questo infatti si è conosciuto l’autore intorno a cui furono esse composte, cosa dagli altri codici non riferita, dichiarandoci il titolo che sono dirette a illustrare le Commedie di Plauto; oltracciò da molte sue parti si rileva una più corretta lezione, senza scemare il vantaggio della rarità dei vocaboli. È lungi invero esso pure dall’esser privo di mende; ma considerando che la sua lezione, in diversi luoghi sicura, purga da molti e gravissimi errori quella seguìta dall’Eminentissimo Cardinale, e che dove pure è dubbiosa @ scorretta può dar 152 nuovi ajuti ad un futuro ed abile correggitore di tale opera, si è giudicato che col pubblicarne le voci in cui si allontana dai Manoscritti della Vaticana, dovesse aumentarsi il valore di que- ste medesime Glosse, e farsi util cosa per gli eruditi, e pe’ les- sicografi della vastissima lingua latina. Intorno al che giovi notare soltanto che nel Dizionario ultimamente arricchito, e mandato in luce dal Furlanetto, è stato in principio citato il Glossario di Placido; ma le sue Glosse poi furono molto rara- mente poste a profitto, lo che dee forse attribuirsi agli errori, che rendono incerta la massima parte di quelle voci. Mi resta a dir brevemente del modo usato in questo con- fronto, da me fatto tra la edizione citata di tali Glosse in 7. 3. Classicor. Auctor. e il nuovo Codice. Non volendo copiare i due glossarj, grande ed inutile ripetizion di materia, ho d’ogni glossa citato sempre la prima voce quand’anche in essa niuna diversità si ritrovi, perchè sia più facile di rinvenire a quale si apportano le varianti; ed ho trascritto poi solamente quelle parole in cui sta riposta la differenza, sempre indicandone con punti intermedii la connessione. Le note segnate per numeri arabi sonosi tratte con esattezza dall’ edizione dell’ Eminentissimo Cardinal Mai; e le altre indicate con lettere iniziali sono state aggiunte da me medesimo o per dichiarare le cose di qualche rilievo, o il più delle volte per riferire la lezione dell’antico Glossario Vaticano. Ma importa qui di osservare che nulla si è preso di tal Glossario, da quelle correzioni in fuori che nella ripetizione del Tomo 6.° si trovano apposte a ciascheduna lettera in calce, perchè questo sembra essere stato il modo dall’Editore stesso tenuto; essendomi io fatto un pregio di seguitare anche in ciò l’orme di tanto maestro. Sono mancanti al mio Codice diverse voci comuni ai quattro della Vaticana, e di queste era inutilejche si parlasse; ma alcune in esso s'incontrano che sono a quelli ignote del tutto, e queste si pongono, insieme accolte, dopo il confronto di tutto il Glossario. Quatuor Vaticani Godices. Incipiunt Glossa PLACIDI GRAMMATICI Primo per A litteram. Adscivit sibi, adiunxit sibi alienum quod non habuit. Aedituus ..... Editissima vero loca monophthonga. Alterutra pars, utraque pars. Aethra ....unde aetheria sidera di- cimus .... eelther generis mascu- lini.... quem quidam Deum ma- gnum vel ejus regnum dicunt. Alterutrum, aut illud aut utrumque significat: magis duas partes ha- bet. Altilitate .... Autumant, efferunt.... Auspicium ....Est et auspicium quod aves animalibus paganis auguri- bus demonstrant.... Acta....idest in litore.... Ausim, verbum est promissivi modi: ut sì dicas, ausim dicere: cujus est verbi prima persona audeo, et dicit ausim, ausis, ausit vel audet. Arctos.... trionali . Amphitrite est Dea maris, matrona Nepluni. Adolevit.... Adoleo enim .... unde adulti dicun- tur iuvenes in flore xetalis et in- cremento ipso positi. Ergo pro stella septen- 155 Novum Codex. Incipiunt Glosse LUCTATII PLACIDI GRAMMATICI IN PLAUTI COMEDIAS Per A litteram. Ascivit sibi, ad vim sibi alienum quod non habuit. Aedituus .... Aeditissima vero loca montosa . Alterutra pars: veraque pars. Aethra .... Ethera sydera dici- mus.... ethera generis mascu- lini.... quem quidam Deum ma- gnum, vel ejus regnum dicitur. Alterutrum, aut illud aut utrumque significationes magis duas partes habet. Altilitare .... Autumant, afferunt.... Auspicium.... Est autem auspicium quod aures animalibus paganis au- ribus demonstrat....A). Actues....id est in littora .... Ausum verbum est promissivi modi: ut sì dicas, ausum dicere: Ausum a cereritate cujus est B) verbi prima persona; audeo dicit ausum, ausis, ausit vel audet. Arctos....ergo procellis septentrio- nalis. Antphitrites est Dea matris matrona Neptuni. Adolevit .-.. Adoleo enim. ...unde adulti dicuntur juvenes flore @eta- tis, in cremento ipso posili. A) Glossarium Vet. Vatic. Auspicium, quod aves paganis auguribus demon- strant. B) Glos. Vet. Vat. .... prima persona audeo dicilur ausim.... 154 Quat. Vat. Codd. Adorea, laus de adore, id est laus bellica. Adsenti@....ut si quis tibi de ali- qua re dicat, et tu illi adsentias, ipse res adsentie nuncupantur. Achates lapis est veluti galbanei co- loris, in Achate fluvio Sicilia plu- rimo nascens, ad gratiam perti- nens, et Veneri consecratus. Aporria, grgecum nomen .... Apage, abscede et vade, Adsulentes, adsilientes. Artissime commisit 1), artissime col- ligavit: commissure enim coniun- ctiones dicuntur sive ligamina. Agerruncassint, avellerint vel aver- terint. Adsciscenda, adiungenda. Abrupta sanctio, aperta lex dicitur. Artaba .... Arrogant, addunt. Abuti duas res significat, modo con- temnere .... Ante me....sic et ante vadit, quasi antecedit: et non-possum dicere in antecedit, in ante vadit, et ab ante me fugit. Age accipit dum, et fit una vox age- dum. Ergo dum nativa particula. Adverbium hortantis est: vel pro cito ac modo. Ad manticulandum, ad dolum et stro- phas excogitandum. Ad incitam 2), ad extremam fortu- nam. Adoria, gloria vel bona fama. Ancre, intervalla arborum. 1) Codd. quo non sit. 2) Codd. 4. ad inatam. Nov. Cod. Adorea, panis de adore, et laus bel- lica. Adsenti@ ....ut si quis tibi aliquam rem dicat, et tu illi, adsententias nuncupantur. Achates lapis est veluti gabam coloris in Achate fluvio Sicili®@ A) plurimo nascens, ad gratiam pertinens, et veri consecratus. Apona, grecum nomen .... Apage, absede et vade. Adsulentes, adsi si lentes. Aptissime, quo non sit B) arectissi- me colligavit; commissure enim coniectiones sive ligamina. Agerum casis, avellerim averterim. Adsciscenda sanctio, lex dicitur. Artaa.... Arrogant, adant. Abuti duas res significat, modo con- tendere.... Ante me..... Sic et ante vadit €) quam ante cenam, ut non possum dicere in ante cedit in ante vadit, ab ante me fugit averbium hortan- tis est. Accipit aut fit D) una par agendum; est ergo dum hortativa particula . Admanticulandum, ad dolos et sero- phas excogitandum E). Adinatam, ad extremam fortunam. Adorea, gloria vel bona fama. Augere F), intervalla arborum. A) Glos. Vet. Vat...... plurimum na- SCENS +... B) Ita Nov. Cod. linea subter posita. C) Glos. Vet. Vat. sieut antevadit. D) Sic Nov. Cod. E) Glos. Vet. Vat. ercogitandas. F) Ibidem legi potest angere, int O_o Quat. Vat. Codd. Antiquare, que inaugurata 1) sunt... Armillum, vas vinarium, unde anus ad armillum. Addimenta, adiectamenta . Avido, cupio: unde aviditas avaricia. Adfurcillavi, labefactavi .... Autumant, dicunt, loquuntur. Apluda, furfurina, alii panici: quasi ductam a potu, 7ny dictam. Ad exitiarium, conspirationum, fac- tionum. Arusedentes, cireumsedentes. Annitas .... Actum, iter vicinale quatuor pedes latum, quo iumenta agi possunt. Antes 2), convalles, aut arborum in- tervalla. Arnanti, prementi .... Ad incitas, ad summam .... Antegenitos dogmazare, qui negavit quemque sapientiorem .... Agrippe, qui pedibus .... Aberruncando .... Aviditer, avide. Adiuctare .... Artitus, artibus edoctus. Asisua, petauro, pernice. Aeruscans, aes minutum. Austrare, humefacere .... Ausculatus, osculatus. Amui, servi. Anus estuosa, quod in modum èes- tuantis maris .... Altiplicem .... Ambronem, perdite 3) improbita- I ARBS Agonie ....Hostie autem que ab hostimento, idest @quamento .... 1) Codd. 4. Inaugures. 2) Cod. 1. Ancres. Supra Ancre. 5) Codd, Probite, Nov. Cod. Antiquare, que ante in augures sunt.... Armillum, vas vinarium, unde antis ad armillum. Addumenta A), adiectamenta. Avido cupis; unde aviditas avarilia. Adsurcillavi, labefactavi .... Autumant, dicunt locutus. Apluna fufurinam. Alii pannicique ductam a potu, a page dicitur. Ad exiciarium, conspirationem flac- tionem. Arsedentes, circum sedentes. Anitas ....B) Actum inter vicinales quatuor pedes latum, qua jumenta agi possunt. Antes, convales aut arvorum inter- valla. Arnami .... Adiunctas ad summam .... Ante genitos docmandare qui quem- quam sapientorem . ... Agrippe, quibupedibus ee... .. Aberunxando . . .. C) Aviter, avide. Adiutare .... Arcitus, arcibus edoctus. Assi sua et auro pernice. Aeruscus est minutum. Austrare, ulme humide facere .... Ascultatus, osculatus. Acnui D), servi. Anus estuosa, quod in modum arci maris .... Altriplicem.... Ambronem, probite inprobitatis . . . . Agonie .... Hostize autem eque ab hostimento idest quiamento, vel A) Glos. Vet. Vat. Additamenta. B) Aliter legendum Avitas. C) Glos. Vet. Vat. Averruncando. D) Num Acuni? Quat. Vat. Codd. Antiqui etiam peregrinos et pari jure viventes, hotes dicebant. Incipiunt per B litteram. Blattit.... Batioca, patera argenti ad sacrifi- candum. Bibinare 1), sanguine inquinari: bibi- narium autem est .... Boa, vehemens rubor.... Bobinator, tricosus, et inconstans. Bubum, senium, languorem 2). Bardum, hebetem, stolidum, breten- dum, Bellica ....superiacerent eam ha- Sta... Bombinari, combicare .... Babylona, principale civitatis nomen est, ut Troia. Babylonia vero .... Beli multi fuerunt, preecipue rex As- syriorum Babylone ; et Grecorum alter. Blaterare, corrupte et perperam rem loqui, ut non magis fari secus quam ebrius delerare credatur. Incipiunt per € litteram. Commata, sunt parliculee sic grece dicte, que nex® faciunt colam.... Cancrarium .... Centurias..... eliam ipsi in specu- iBacovo isti quos sub 3) subesse diximus.... Carocophilum .... vulgus cariopha- lum .... Caro enim sie scribi- mus per. 0. Casus empedocleus. Empedocles phi- losophus agrigentinus .... 1) Festus, Bubinare. 2) Codd. 5 Anguorem: 1. Angorem. 5) Codd. sub se. ì Nov. Cod. quod .... Unde eliam anliqui pe- regrinas et pari jure viventes adeo usque fieri quod est propilios pre- ter antiquos agebant. Incipiunt Glosse@e per B litteram. Blactit.... Bactioca, patera argenti ad sacrifi- cium. Binare sanguinem autem est.... Baba, vehemens rubor .... Babinator, tricosus et inconflatus. Bubum, senium angorem. Bardum, gebetem, stolidum, breten- dum A). Bellica..... superiacerent eam ha- stam.... Bombinari, combuare .... Babilonia, principale civitatis nomen est, ut Troia. Babilona vero.... Beli multi fuerunt, precipue rex Assyriorum et Grecorum; alter precipue Babylone. Blaterare, corrupte et properam rem Joqui, ut non magis fari secus quam ebrius delirare credatur. Incipiunt Glosse per C litteram. Commata sunt particule sun B ) grece dicte quae noxe faciunt co- lam.... Cantrarium . . .. Centurias....etiam ipsi in spiculis positi....isti quos sub se dici- MUSs.... Corocophilum C)...vulgus cariophi- lum dicunt. Caro enim sic scribi- mus per .a. Casus emipedicleos. Empedocles phi- losophus Agrigentinas.... A) Glos. Vet. Vat. Bratendum. B) Aliter Sim. C) Glos. Vet. Vat. Carcophylum. Quat. Vat. Codd. Chirrearum . ..... Crepido, axis .... Compita.... ad unum locum.... Chelydri, genus quoddam serpentis. Cuniculi, genus quoddam agrestium animalium, quod canum indagine coneludi consuevit speluncis. Clapus, interdum gubernaculum. Cariosi.... et a putredine redacti. Cidaris.... valde mundum. Chlamys, vestis purpurala. Cymba, Isidis 1) navis. Classicum canit, celeuma navis dicit. Cetarii. Cete dicilur genus maxime belu@ ....liquemanarii.... Cocytos amnis, flumina ignea apud in- feros, idest in barathro. Complices sunt qui uno peccato vel reatu aut crimine iuncti. Ccespites, fruclices, et scribimus diphthongum. ) Congesta.... ut faba .... Coèrciti, vindicati, id est in quibus crimen punitur.... Consulto, a consulendo tractum est... Censorii .... Crea, stercus.... Creper@, res incerte dubieque, unde et crepusculum. Coniecere, coescere. Casinar, senex. 1) Codd. Jovis. 157 Nov. Cod. Clirrearum A).... Crepidos axis B).... Compita....ad unum bonum.... Cheli dicuntur idiri genus serpentis quoddam. Cucumuli, genus quoddam agrestium animalium; quod canum indagine concludi consueverit in speculis. Clavus, interdum acutus, interdum gubernaculum. Cariosi..., et putretudine redigenti. Cidarium ....valde nudum. Clamis, vestis purpurea. Cimba, Jovis navis. Classicum canit, celenna navis di- cit C). Cetarii..Cele grece genus dicilur maxime belu® D)...liquenarii .... Concitos omnes flumina igne, idem apud inferos barathro. Complices sunt qui uno peccato vel realu aut crimine iuncti sunt. Ad malum; ad bonum vero, non dici- mus complices. Cespites, frulices, et scribimus per - diphtongum. Congesta ..., ut farra E).... Coerciti, vindicati, id est in quibus crimen ponitur. Consulto, a consulendo et ractandum est... ; Censorei F).... Cirea, stercus. Crèpere, res incerte, unde et res- pulum. Coicere, coijcere, coescere. Calsinar, senes. A) Glos. Vet. Vat. Cirrhearum. B) Glos. Vet. Vat. Crepido sari. C) Glos. Vet. Vat. Celeuma nautis canit. D) Glos, Vet. Vat. Genus marine belue. E) Glos. Vet. Vat. Sara. F) Glos. Vet. Vat. Censores. 158 Quat. Vat. Codd. Crapula, cruditas lenis. Cossos, vermiculos qui in materia nascuntur. Calvitium, meror. Calpar, vinum quod primum leva- tur e dolio. Contumias, contumelias. Caudeam vinceam, quasi vinceam caud®, et scirpum dicunt et tibin. Coniector, coniectur®e peritus id est preedivinandi. Corineos, acervos quos rustici ex congerie lapidum faciunt. Corneta, locus quem nune ex parte magna templum Jovis occupavit. Carenatoribus, lanariis, quia cariunt id est cardicant. Clunaculum ....quod clunibus reli- galur.... Confeditos, fodere copulatos. Cadula, frusta ex adipe.... Coculis, aereis vasis, a coquendo. Vel assulis aridis glebis terre.... Choum, naturam universam .... Comegit, coegit. Cum primis, in primis. Colore, corpore vel cute. Capere, incepere. Censio, multa qua citatos si non pon- derum afficiebat censor. Nov. Cod. Crepula, crudelitas lenis A). Cossos, vermiculos qui in materia sunt. Calvicium, meror. Capar, vimem quod primum labatur Edulio. Contunsias, contumelius. Caudeam vinceam, quod vinceam caude et mergat dicitur et surpum et tibim. Coniector, coiectare est preedivinare. Carmenos, acervos quos rustici ex congerie lapidum fatiunt B). Corneta, locus quem hune ex parte magna templum veios occupavit. Carere natoribus lanariis quia ca- riunt, idest carpunt, dividunt. Clunaculum....quod clunes religa- tus.... Confeditos fodere copulatos, quo- niam eminere coniuges vomeri usi- tatum. Cacluda, frustra cada.... Coculis zeneis C), vasi a coquendum vel assulis aridis glebis terra D)... Chaum, id est naturam universam E).. Contegit, coegit. Comprimus, in primis. Colere, corpore vel cure. Cepere, incipere. Censio, multa qua citatos, si non ponderum, afficiebam F) censorG). A) Ibidem legi potest: Zevis. Glos. Vet. Vat. lienis. B) Glos. Vet. Vat. Cormeos. C) Nov. Cod. eis. D) Glos. Vet. Vat. ad coquendum, vel assulis aridis. C@spitibus glebis . E) Glos. Vet. Vat. Chaum. F) Nov. Cod. afficiebà: quod signum, toto opere, m aut n indicat. G) Glos. Vet. Vat. Si non aderant, affi- ciebat. Quat. Vat. Codd. Comptula, apte ornata .... Cancros, calcellos. Carisa, vetus lana percalida, unde et in mimo fallaces ancille catacarisia appellabantur. Controversam ruinam sive pugnam, cum.... Crastinam, dilatam: a crastino.... Celitus, a celo; quomodo divinitus a Dei appellatione. Clataculum.... Conticinio, tempore! noctis, galli can- tu, quando cecinit et conticuit. Ciarum, doctarum. Calorem faciet.... Caperassere, inrugare, contrahi. Conspicio .... Clade, clam, vel occulte. Continari, congredì vel coire.... Cotialis collis, nunc lacus Fundani 1), est dictus a Catio loco. Crepero .... Carinator, maledicus, conviciator. Conducibile .... Consulta, consilia , placita. Cluram vel clurum, simium, cerco- pithecum. Consatius, magnus, e conlatio factus. Caltulum, cinguli genus, a coacto lare calle. Catum puerum, catam 2) puellam; si hoc genere dicti usi sunt antiqui. Connigere, oculos.... Cabonum....quem caballum .... 1) Codd. 4. funditur. 2) Codd. 4. ductam., 159 Nov. Cod. Comptula, apta et ornata... Cancros, cancellos. _ Carisa ventus lana A) percallida , unde et in modo fallaces arvalle atacharisia apellantur. Controversam ruinam, cur aut B)... Crastinam, dilatam ac crastino ... Celicus a ccelo, quomodo divinus Deo appellatione C). Clacaculum .... Conticinio tempore noctis, gallum cantum D) cecinit et conticuit. Ciarum E) doctorum. Colorem facies .... Capessere, in ruga gassere, contrahi. Conspiceo . ... Cladem, clam vel oculte. Continuari, conceredi vel coire .... Cacialem colem ubi nune lacus fun- ditur F), et dictus a catio loco. Crepeio .... Corinator, maledictus convictor. Condubilem .... Consulta concilio plena. Cluram vel glurum, sin alias ureo- phitecium. Compacius magnus enim compactio factus. Calculum, cignali genuum a coactio G) lare calce H). Catam puerum ductam puella; sic hoc genere dicti usi sunt antiqui. Coniicere, oculos .... Cabanum....quem gaballum.... A) Glos. Vet. Vat. Vetus lena percallida. B) Glos. Vet. Vat. Controversa ruina, ruina sive pugna, cum aut non .... C) Glos. Vet. Vat. sine voce appellatio- ne, referens alias ut Quat. Cod. Vat. D) Glos. Vet. Vat. post galli cantum. E) Glos. Vet. Vat. Catarum. F) Glos. Vet. Vat. funditur. G) Incerta in Nov. Cod. lectio vocis lare. H) Glos. Vet. Vat. a coacto loro dictum. 160 Quat. Vat. Codd. Incipiunt per D litteram. Damium.... Diaquilii, inferi. Aquilosi.... Deligare, deferre .. Desudatum, sudore transaclum. Demulganti, defringenti, vel subi- genti 1). Dissertum, dispositum, digestum. Domuîtionem . ... Depegisse...a pagendo .. segisse a paciscendo. Dracumis .... .vel tran- Decumane, maxim®, a fluctu decimo. Dismirando .... Depelliculari . ... Demisso, devito . ... Devirium.... Disliquida, disperspicua, idest que liqueat esse .... Demum, tum deinceps. Deliquio, oblivio. Divinum, cum impediunt sacrificia actionem.... Dedecet, dispuditum, puduit, fuit. Destrictus, sine .n. scribimus, non destrinctus. Est autem destrictus adtentus, vel severus ac non solu- tus et lenis. Delibutum, dicimus., rubor .in ceromate... Dubium quin.... Dryocolaptes ....cristam habet.... Dispercite .... Dididit, dispersit, divulgavit: ut, tua terris didita fama. Deciscere .... Derivatio....aquarum.... Degluptus, pelle exutus, idest cute spoliatus. 1) Codd. 5, sub igni. Nov. Cod. Incipiunt Glosse per D litteram. Domium.... Diaquili, dii inferi. Aliquosi.... Deligavere, defferre .. Desudatum, sudore nansactum. Demulganti, defringenti vel sub igni. Disertum, diposite, digeste. Domum item .... Depegisse defixisse, a pangendo.... ut transegisse a pasiscendo. Dachruntis ... Decumane, maximo a faclu decimo. Desmirando ... Depellicurari . ... Dimisso, devito A).... Deiurium B).... Disliquidos, disperspiquis, id est de- lique et esse. Demum, tum tum ‘deinceps.. Deliquo, oblivio. Devimum, cum impediunt auspicia aclionem.... Ducet, det dispuditum, puduit, robu sint. Destrictus sine enim scribimus non destinetus; est autem destrictus atlentus et severus ac non solule enim lenis. Delibutum, dicimus.... terni Dubium quid. Driocalaptes.... betta: Dispecîte C).... Dididit, dispersit, eria dedit fama. Desciscere .... Dirivatio....aliquarum.... Deduptus, pelle exuptus idest. incereuma- cristam ibidem ha- divulgavit; inde A) Glos. Vet. Vat. Demusso, dubito. B) Glos. Vet. Vat. Deiurium. €) Glos. Vet. Vat, Dispertite. Quat. Vat. Codd. Dedere, est a dedilione dictum. Dedicio.... Deicida.... Desecare .... Incipiunt per E litteram. Elephans, nulli dubium est quod .p. et .h. solitum scribi, non per f. Esper vero sine .x. nihil est. Expiavit,....inimicissime .... Excreamentum ....Item sementum virile .... Examissim.... Expudet, est quasi pudet. Examussim, integre ...musis.... Exerte....excercere.... Ergastula,...ubi damnantur noxii... Elogium, elogia.... imaginis, elogia dicuntur. Echo ....resultat offensa, ac resonat. Eo ingenio, ea natura, Ingenium pro natura posuit. Erugo....non ab aeramento. Eaxcivit, excitavit. Examussio, inquiro .,.. Expopulariter jactas, id est apud po- pulum vel more populi vulgoque jactas. 161 Nov. Cod. Dederes A), est ab editione dictum. Deditio .... Decica.... Defacare B). ... Incipiunt Gloss@ per E litteram. Elephanus nulli dubium est quod per -p. et per .h. solidum scribitur, qui non per .f. ut pro fratre potius di- cimus et propter fratres; sed si volens pro fratre sic invictus pro- pter fratrem. Espes vero sine .x. nichil est. Expiavit,....minutissime .... Excreamentum...Item creamentum virile.... Eaxmusim C).... Expudet, ex quasi pudet. Examussim, integre .... mussis.... Exerte.... Exerere D) enim proferre est et ex- pedire. Ergastula...ubi dominatur roxii E).. Eulogium eulogia....imaginis, eulo- gia dicuntur. Eccho....resultant ostensa ac reso- nat. Appellatus est ut Herculem patrem, Castorem et Pollucem: Agani dicitur. Eo ingenio, ea natura omnia gene- rans. Ingenium pro natura posuit. Erugo ....non ab eromenta. Excivit, excivitavit. Examussim inquiro.... Expopularint jactas et te apud po- pulum vel more populum vul- gaes F)jactas. A) Glos. Vet. Vat. Dedere se, a deditione dictum. B) Glos. Vet. Vat. Defecare. C) Glos. Vet. Vat. Eramussim. D) Glos. Vet. Vat. Ezerere. E) Ita Nov. Cod. F) Ita Nov. Cod. 162 Quat. Vat. Codd. Equininam.... Efficientia, a faciendo dicta. Expliciunt ....explicuit homo opus suum. Elogia, laudes enucleate. Item ar- cana vel mysteria Deorum. Ewitiabilis ....enim exitiabilem lo- cum.... Effafilatus, exero thumero 1), id est extra filium 2) manu, id est extra proferens. Exitam, finitam, exactam. Era 5) domina: eritum dominum. Elabore animi, figurate pro animi la- bore. Excetra, multiplex in rediveam re- dilebeam 4), quee nanne significat. Excrocollum.... Ergo causa, vel aperta. Egregius, ereclus, evigil. Exdorsuandum, indicandea 5). Experitus, non peritus, id est extra peritiam positus: sicut expers, ex- tra parlem. Exciterit, expavi vero exeruero. Exfigurari, expurgare est. Eccere, eccetilis, jurerando parcere. Emussitatos .... Exipitandum, dicendum, oscitandum. Exanclata.... Extraneam, aborlivam, quia pluri- mum abiciunt extra. Exhanterantibus .... 1) Num ererto humero? 2) Ita Codd. 5) Sine h. etiam in aliis auctoribus. 4) Ita Codd. 5) Ila Codd. 4, Nov. Cod. Exquinam .... ; Efficientia, efficio a facienda dicta. Expliciunt . C. Explicuit hoc opusculum. Eulogia, laudes enucleate. Item ar- cana et ministeria dicuntur. Ecxitiabilis....enim exiliabilem et locum.... Exasilatus ex ero thamero. Id est extra filum manu, id est proferens. Exitam, finitam A), exactam. Era, domina. Erum dominum. Elabore, cum figurat, et pro animi labore. Excetra, multiplex in redineam re- didebam, qu® inane significat. Ecrocollum.... Ergo, causa vel opera. Eqregius, electus e gregie. Exdorsuandum. Experitus, non peritus, sed extra pe- ritiam. Epositus, sicut Expers, extra partem, vero exenero. Exfugare, espugnare est. Eccere eccelilis, jure jurando par- cere. Emusitatos..... Exuspirandum B), dicandum, osci- tandum. Exantlata .... Extraneam, abortivam, plurimum extentiee obiiciunt extra €). Exhaurientibus. A) Ibidem legere licet funtam. B) Glos. Vet. Vat. Ezippitandum, hian- dum, oscitandum, C) Glos. Vet. Vat. plurimum ezerticia abiciunt. Quat. Vat. Codd. Incipiunt per F litteram. Fugator, expulsor. Falla, fallacia, artificii subtilitas a fauco dicta. Favicora ....Tarquinio fabros.... victu miserunt. Faragonota . ... Favisse, foss®.... que.... Forco, quam nunc falliscum appel- lamus....ferianda.... Ferocientes . ... Favonium ....a vento collectum. Flatellis, sordium glomusculis. Flagratores, qui flagris conducti ce- dunt. Formitat, formitibus exassulat. .cavate .. ..si Fratrarent, turguerent.... Fugitira, aquee que fluunt ex rivo publico, indeque prehenduntur.... quis ac non.... Fluxus ....quod fluxum vocant. Facessite....Facite dicimus; et fa- cessite, recedite 1). Feneuris, cum .a. Fedicule, sunt ungul® ..... apud Persas. Festinate, aclutum 2).... Fetutina, res fede .... Fornicem, mechiam 5). Fastidiosum, renidens vel pro adri- dens vel consenliens vel ridens. Renidens enim.... Futura....predicant. Ferrugo . ... nigrioris. Federa....que post bellum ad pa cem redeant. Fatesceret 4), abunde aperiretur. 1) Codd. recedimus. 2) Codd. aucto, vel acto. 5) Cod. 4. mohetiam. 4) Fatisceret. 165 Nov. Cod. Incipiunt Gloss@ per F litteram. Fugator, exulsor, artificii subtilitas. Falla: facili fallacia, a faneo dicta. Favicora....Tarquinos fabros.... victu miserum. Faragonata .... Fapises pectus, foss®e....cavata.... si qua.... Forco, quam nunc fallis appella- mus....ferienda.... Ferocicuotes A). Favonium ....a vento collecto. Flatellis, sordium glombusculis. Flagratores tibicinis, a flando, qui flagris conducti. Formitat, formitibus et osculis ca- dunt. Fratrarent, turgerent.... Fugitire, aque pluunt ex rivo pu- blico, neque deprehenduntur .. .. quis nec.... Flucuas.... quod fluxum dicitur. Facessite....facite et facessite re- cedimus. Feneutis cum .a. Fedicule, sunt vigili... .ad Persas. Festinate, aucto, cito.... Fetutina ros fede. ... Fornicem, moleciam. Fastidiosum, pro renidens vel pro " adnitens, vel consentiens vel ri- dens. Fenideus enim. ... Futura ....prediant. Ferrugo .... nigrionis. Federa ....qu® post bellum ad pac- cant B). Fatiscere, abunde aperirent. A) Aliter legi potest ferocienotes. B) Glos. Vet. Vat. Post bella ad pacem veniunt. 164 Quat. Vat. Codd. Incipiunt per G litteram. Glaucus....a canitie fluctuum. Grates, sunt gralie.... Guorum, qui peritiam. . ®. Genuinorum dentium, proprie ulti- morum. Gallus, pullus gallinacius. Galliciciola cortice .... Grasascela . ... Gramis, gremis, que sunt piluite oculorum. Gnari cantionum sermonum. Gralle, pertice 1), ad quas cruribus colligatis ambulantes, grallatores 2) dicuntur. Gnoritur, cognitum sive. ... Glomerum.... Incipiunt per H litteram. Heroes dicuntur...vel ceelo digni... Mulier vero heroine, vel heroina, aut herois 5), ut Lemnias. Honoripetes ....ut dicimus heredi- petas.... Hiulca.... Hovis, est quem.... Hosirim....etiam eoum solem vo- lunt, f0s sive.... Hesculapius, Asclepius... . Harenam, ut hasas, nos aras; et la- ses, quos nos lares dicimus. Hariolatus est, divinavit, coniectavit. Hastinate, cava staca 4). Habitior.... Herasintima .... diminutio dicuntur. 1) Codd. conloqui parcitis. 2) Gravatores. 5) Codd. heroas. Num heroias ? 4) Ita Codd, 4. stacta? aut pastinaca ? Nov. Cod. A) Glaucus....a canitate fluctuum B). Grates, due sunt grati .... Gnari, qui peritiam.... Genwinorum, proprie ultimorum. Gallus, pullus gallinaceus. Galliciola cortice C).... Gravascella .... Gramis genus, que sunt piture oc- culorum. Gnari cantionam sermonum colloqui perficis ad quas colligatis eruribus ambulantes Gralatores dicuntur. Gnoritur, cognitum sibi .... Glamerum.... Heroes dicuntur.....vel hedo di- gni D)....Mulier vero heroinas aut heroas ut lempnias. Honoripet@ ....ut dicimus Heredipetes. ... Hiusca.... Heous, est quem... . Hosirim .... Heoum solem volunt earum sive .... Hoesculapius, a sole pius.... Hasenam, ut has asas, nos aras la- seos, quos nos lares dicimus. Hariolatus est, divinavit, concertavit. Hastinate, cava E) staca. Habitio.... Herasintima ....diminutio ille di- cuntur. A) Hic, et exinde deest titulus litterarom. B) Pagina pene omnino deleta, male legi potest. €) Glos. Vet. Vat. Gallicula cortex. D) Glossa hujus ‘vocis, minime tota le- gibilis. E) Aut cana. Petar CA enne. i Quat. Vat. Codd. Hosita, :equata, lenita. Hellui, crapula veterani .... Horno, anno. L Hirudo, sanguisuga. Herm@, simulacra sunt... . Hermes, idest.... Hiatus proprie....aperilionem, mon- strat..... inhiare, intendere ali- quid....dicamus aruspicem in exta inhiare. Hydra...in Lerna palude provincie Arcadi, Incipiunt per I litteram. Infamia....nam si neutro dicas, ut verbi gratia infamia .... Iudea 1).... Indagus .... participia sunt, cum ut tantum. Inguen, inguinis, generis neutri est, partes corporis pudend®. Inguinis vero in latino nomen est. Inclaudicabilis, et inclausibilis.... Ianuarius ....quasi mundi .... Ianus, autem ....et preeterita vel futura....quia limes et ianua .... quia ianuarium diis superis, fe- bruarium diis manibus consecra- verunt. Ergo februarius a Deo Februo idest Plutone. Mensis fe- bruarius dictus est a natura fe- re:2),..% Intendere ..... abducere. ... inten- ditque locum sertis... Aut cedere, aut iniuriam.... Incubitus .. .. alieno optando. 1) Codd. 5. Indea. 2) Ita Codd, 4. Nov. Cod. Hostita A), equata, linita. Helluli, pro crapula veterani B).... Horno, annuo. Hirundo, sanguifuga. Herme, simulacra sum. ... Hermos, id est.... Hiatus proprie....aperiltionem mon- stravit...inhiare, intercedere ali- quid ....dicamus aruspicem ein extra inhiare. Hydra....lerna palude, provincia Arcadi. Infamia....nam si in neutro dicas, ut verbi genera infamia. ... Indea.... Indagus....cum .a. ut tantum. Inguen inguinis, generis neutri no- men, partes corporis juxta puden- da, Inginis modo in latinum nomen est. Inclaudicabilis et inclausabilis.... Ianuarius....qui mundi.... Ianus autem. ..qui limes et janua... qui Januarium diis superis; Fe- bruarium diis manibus C).... car ergo Februarius a Deo Februo, idest Plutone mensis februa dictus est, nam febre .... Intendere .... obducere D)....inten- ditus locum sertis E) .... aut iniu- riam.... Incubitus....alieno aptando F). A) Glos. Vet. Vat. Hostita. B) aut veteravi. C) Lacuna in Nov. Cod. D) Glos. Vet. Vat. Obducere. E) Glos. Vet. Vat. Aut cedem. F) Glos. Vet. Vat. Sive ab incendo, sive aliena cupiendo. 166 Quat. Vat. Codd. Incola dicitur qui aliquem locum ad se pertinentem incolit. Ilitus, linitus. Iubenale pharos.... Indiges....hemitheus... ab indigendo divinitate ... indiguerint tamen... quidam indigentes Deos.... 1) In eterne ....fuit datus.... con- slabilitus 2). Infule sunt ornamenta .... Inextricabile, quod numquam fini- TUT... Insignit, insigne facit.... Immensorum \hesaurorum ....im- mensuum dixit. Infersisti, replesti. In speculis ....in visibus. Infercis, reples. Impreiudicata . . .. Ingeri, est offerri.... Impulsas, ....impulsari fascem di- cimus.... Ibulsis 3), idest illis. Iudace antebat 4).... Impubem, investem, sine barba. Iuvencam, iuvenem puellam. lugi Iunoni, a qua vicus iugarius... Infellicare . . ..infligere. Iterant, dicunt, indicant. 1) Ita Codd. 2) Codd. Constabilius. 5) Ursinus in margine, ait: fortasse élli- bus, sicut hibus. 4) Ita Codd, 4. i B) Glos. Vet. Vat. Juvencula pharos, sem- Nov. Cod. Incola dicitur qui aliquem locum in- colit. Pan vero est quem pagani deum dicunt, vel Incubum appel- lant, privis pedibus, leva virgam tenentem; quem quidam volunt rerum et tolius nature deum: un- de pagani qui omnia appellant... . A) Ilitus Iinilus. Iube nalepharos B).... Indiges..... emithius.....ab indi- gendo divinitatem. . .. indiguerint dicuntur tamen .... quidam indi- geles Deos.... In eterna ....fundatus.. bilitus. Insule sunt ornamenta . ... Inextricabile, jure solubile, quod numquam finitur: facit adverbium Inextricabiliter. Insignit, infacit.... Inmenseum thesaurorum ..... in- mensium dixit. Infarsisti, replevisti. In speculis....in vicibus. Infertis, reples. Impensa .... et scribitur per .n. Pre- iudicata, non judicata, non aucta. Ingeri, est aufferri.... Impulsas, impositas C).... Impulsari facem dicimus.... Ibussis, idest illis. ludace ante ibat D). ... Impubes, sine barba. Iugencam, iuvenam puellam. Iugi Iunoni, a qua unus Iuganus.... Infelicare . ...infligere E). Interant, dicunt, inducant. .. consta- A) Ita Nov. Cod. per vivens. C) Glos. Vet. Vat. impulsus, impositus. D) Glos. Vet. Vat. /dace ante hoc. E) Glos. Vet. Vat. Infelicare — affligere. Quat. Vat. Codd. Inciente, innitente . . . proximos quos- queste. Ingluviem, Cornutus ventrem, Plinius edacitatem. Iaculatores 1), dictum.... Inmoene.... Jecore, iocinore. In fermento, est intra 2) fermentari, idest taciter, dissimulanter intra serunt. Indu te 3).... Infindis.... Impitus, implicitus.... Intercus, hydrops. Incipiunt per L litteram. Ludicrum, spectaculum, ludibrium. Lemurum.... Laudare, nominare vel referre. Litumos....inritam 4). Lustris .... libidinumque causa sece- debant. Lacessam, vocabo. Larundam .... Laterna....quasi ab unculis et gu- larum adfixas extendent. Luculentasset.... Luncuns, nominalivus cos 5). Lucunti, genere neutro ....L. men- tus 6) autem....cimices non lecti genialis, sed scandaphil®.... Lepidus....Facetus vero.... Libitina, est Dea paganorum, quam quidam Venerem.... gloseimati- Lastrigon@ .... 1) Codd. Zani labor serviam. 2) Codd. Iter Infermentari. 5) Ita Codd. 4. 4) Codd. 4. in ritum. 3) Glossematicus. 6) Ita Codd. 4,‘ 167 Nov. Cod. Inciente, in intente . .. proximos quo - que.... Ingluviem, Cornutus venirem plenius edacitatem. Iaculabor servium, dictum.... Immune .... Iecore, iecinore. Infermento er iter infermentari, idest taciter ad simulanter A).... Indute.... Infidis B).... Impitus, implicatus.... Inerens, inops. Ludricum, spectaculum, ludibrio. Lemorum.... Laudare, nominare et referre. Litumos....in ritum. Lustris....C) libidinumque causa se credebant. Lacessam, vacabo. Larunda.... Laterna....qui ab vinculis et gula- rum ad fixas extendent. Luculentassat . ... Luncus, nominativus gloseimatidos D). Lucunti, generis neutri.... vel neu- tri autem ....E) cunices lecti ge- nialis, sed Gandapile.... Iepidus....facetus modo.... Libitina est Dea paganorum, libidi- nis Deam, quam quidam Vene- Temi Lestrigones .... A) Huc usque legitur. B) Glos. Vet. Vat. infindis (sic) ingens obitus. C) Glos. Vet. Vat. libidinandique causa. D) Glos. Vet. Vat. Glossematicus lucens. E) Forsan cimices. 168 Quat. Vat. Codd. Libare...conlingere...invitatus... vel potione sumat, non valde.... Lymphari....Sunt quidam qui di- cunt lymphaticos. ... Liventia ... ab eo quod dicitur livet. Lampeno, stelle sic dicle. Liniamenta ....liniamenta appellant singulorum locorum in imagine, vel impressiones.... Locis his....fosse@ enim herb® di- cuntur...multitudine dentium 1)... Labyrinthus ....Dadalus artifex. Lomentis, laquearibus. Lacteus.... que in sero videtur quasi alba....refertum..... alii viam esse quam ....et ex splendoris ipsius transitu ita lucere. Ludibrium ....res que ludo .... Modo eliam.... Loculos....ut loculos dicamus.... Lemniscata...nomen productivum... Incipiunt per M litteram. Munifica....dicitur qui alicui.... munifica Sicilia .... Macte ....alicui optantis.... Murex ...nominatur . .. inficitur .. . petre in litore similes muricis hujus, acutissime . . .. Mysta, idest mysterii auctor. Sum- mysta, qui sub eo est. Mithra ...capitis. (Intestinaque sor- des crevit: unde ematiciarii di- cuntur qui eadem tractant aut ven- dunt 2). 1) Codd. 4. denti. 2) Comma translaticium. « Nov. Cod. Libare...contigere ...invitatur... vel polione non valde. .... Lymphari ....hunc quodam qui di- cunt Ilymphatico .... Liventia....ab eo quod livet. Lampene, stelle que sic dicte. Liniamenta ....liniamenta singulo- rum in ymagine, vel impressio- nes... Locis his....fosse enim herbi dicun- tur....a multitudine danti.... Labirinthus ....Didalus artifex. Laurentis, laquearibus. Lacteus....qua A) in sero videtur qui alba ..... se festum ....alii modo viam esse, qua....et orum splendere splendoris ipsius transitu ita lucere. Ludibrium..... res ludo....modo etjam.... Luculus....ut locus dicimus .... Lemniscata . .. nomen producti pro- ductivum .... Munifica ....qui aliqui.... muni- fica recilia.... Macte....alicui optanti.... Maurex ...nominantur. ... inficiun- tur....petre in leone similes nu- trices hujus, accusalive.... Mixta, grecum est, id est musceri autor, sumistra qui sub eo est, vel verbis blandis dele in ream a multo id est melle, quod acceptum lenire fauces dolentes, aut opple- tum sordibus stomachum solvit. Mirta....capitis. Intestinaque sor- des crevit, unde. Mitrariù dicuntur, qui eadem tra- ctant, aut vendunt. A) Glos. Vet. Vat, que in sphera videtur. Quat. Vat. Codd. Morbus regius, genus morbi, quem moris sie nuncupandi quia tanto potior est... Medullitus, capitque 1)... . detenti. Mordicus tenens, morsu quasi tenens. Moliri conamen, est aliquid .... Magmentem, alii pinguissimum ex- cernere: alii secunda prosecta.. ... Multi facere, magni facere. Mennicare 2)...dictum a menis 3)... Multi e quibus 4).... Mulleo, calciamenti genus .... Marspiter .... Mu 5), adhuc consuetudine est. Macie, maciei, infesta re 6). Molecrum, quem Greci ps)expov di- cunt. Male consultum habeat, male consu- lat, et male cogitet. Manducum, laneam.... que solet circensibus malas movere, quasi manducandum. Incipiunt per N litteram. Non quitum, non impetratum. Nefredem, infantem nondum 7).... Noxit.... Nenie, ineptie 8), alias carmen mor- tuorum 9). Negligens....Nam Gaius.... posi- tum.... 1) Ita Codd. 4. 2) Urs. munn. 5) Urs. Muniis. 4) Ita Codd. 4. 5) Itali dicimus mo”. 6) Codd. infestare. Num pro iufestari ? 7) Codd. nudum. 8) Cod. 1. nemeim finem. — Codd. 2, nenieni . 9) Codd. 4. carnem mortuum, 169 Nov. Cod. Morbum regium, genus quod morbi sic nuncupanti qui tanto palior et... Medullitus, capitque A).... derenti. Mordicus tenens, morsu qui tenens. Moliri, conari, et aliquid.... Magnientem . alii pinguissimum ex cete, alii secunda profesta .... Multa facere, magnifacere. Municare ....dictum a muniis, idest operibus. Multi equibus .... Mulleas, calcium mentigerum B).... Maspiter.... Mu, adhuc consuetudine est C). Mi de nugis dicimus. Macie, maciei infestare. Malocrum mox quem greci milon dicunt. Maleam stultivi habent, male consultat et male cogitat. Manducum, lineam .....que sole ludis circensibus malas movere. Non quitum, non imperatum. Nefrendem, infantem nondum .... Nozxiat.... Nemenifinem, alias carnem morluum. Negligens ....nam gravis .... posi- » lam.... A) Glos. Vet. Vat. medullis capti. B) Num mentigex ? €) Haud certa lectio, 19 19 170 Quat. Vat. Codd. Nupti@ ..... ab obnuendo puelle (sponsique) capita dicuntur con- nubes. Nothus....cui contrarius est spu- rius.... . Nihilo setius.... Nucispineum...rustici nudipineum... Nepa ....nepotatio pro luxuria . . .. Numeros omnimodos ..... plectro, nervo dicit....numeris aut eribus constat....alii enneachordon.... Incipiunt per O litteram. Oeconomia.... Didonem Trojanorum rex, hac disposilio.... Obstruere....sive hominem. ... sive locum.... Opobalsamum , dicimus succos bal- sami, et, ni fallor, opus sucus di- citur. Orgia...ut Liberi...Opyv:z autem... Opipare.... Occidio dicitur generis feeminini; heec occidio: id est quando multi .... Ornos....at vero.... Occasio ... opportuna se prebuit... Obesse, nocere est .... Offa....siinoscani....illico.... Obstipusculus, inclinato capite .... Obvenisse nisum canimago 1), pro- verbium in eos. ... Offutiarum, fallacium....ab offi- ciando .... Obarbas.... arbo.... quia primus aratri 2) cireumductus.... murus appellatur. Oblegatum, iniuncetum. 1) Ita Codd. 2. Alii 2. camimaga. 2) Codd. aratro. Nov. Cod. Nuptie ....ab nubendo puelle ca- pita dicuntur connubes, unde tra- ctum est per .b. Scribuntur tamen per .p. quia .p. littera milior est quam .b. Nothus....cui contrarius est spur- tius.... Nichilofecius.... Nucis pirreum....rustici mudi pir- reum.... Nepa .... Nepotatio per luxuriam .... Numeros omnimodo .... plectro nu- meros dicit.... numeris aut nervis constat....alii Enna cordon.... Oeconomia . .. Didonem Trojanorum regem, nec dispositio . .. - Obstruere ...si hominem...si locum. Opobalsamum, dicimus succos bal- sami, el infallor. Opus, dicimus succum. Orgia....vel liberi .... Orgi autem.... Oppipare .... Occidio dicitur genere foeminino, hiec occidio, quando multi .... Ornos....al modo.... Occasio...opporlunam se prebuit... Obesse, noscere est.... Offa....si os cani. ...illico.... Obstipeculum, inclinatio caput. Obvenisse visum caninaga, prover- bium est in eos.... Offutiarum, fallatium..... ab offa- ciendo .... Oburbas.... Orbo ....qui primus aratro cireum- dactus....murus appellabatur. Oblegatum, invictum.... Quat. Vat. Codd. Obstrulenta, appetenda. Oculati 1), presentis; ab oculis 2). Obdet, obiciet, suggesserit. Incipiunt per P litteram. Perpetuare.... Plotoris.... Parietinas, parietum ruinas. Porcam.... Portum....petitum. Pollubreo, tulleo. Pullum, puerum in amoribus. Unde Rome Q. Fabius eburnus quod na- tlibus fulguratus- erat, pullus Jovis dictus est. Pataginem.... Postliminio, idest qui recessisset et redisset iterum. Peao, fuste.... Plaudant corvi, scilicet.... Pytho, pythonis cum .y. scribitur. Pedor..... longusque in carcere peedor. Pueras ....item puellos... aliquem turpem virum et.... Pronuba....nubentem.... Pulvinus . ...pulvinaris . ... privati hominis.... vel culcitra. Perduelliones4 ...duellum.... Protellata, distillata. Posthumus....post humum.... Promulgatum est..... in omnium noliliam.... Pellacias.... Pila si brevis .p. ...si .p. longa.... Phalarica@ .... Pseudomeni...adserere: ut diximus de philosophis, qui dicunt, si dico © commenta et mentior 3), verum dico. 1) Codd. 4. opulato. 2) Codd. 4. ut apulis. 5) Codd, 4, Mentarii et mentitur. 171 Nov. Cod. Obstrulenta, oppetenda. Opulato, presentis ut apulis. Obdet, obijciet, fugerit. Peppetuare.... Plotos.... Parietinas, parietum minas. Poncam.... Portum....petium. Pollubreo, iulleo. Pullum, puerum in amoribus, id est rhetoris qui Rom®e; unde quis- quis A) Eburnusque natibus, figu- ratus erat, puellus dictus est. Pitiginem.... Post limininio, id est qui rececisse deccedisse horum. Pedo, fusto .... Plaudant corvi, sed... . Pytho, pythonis sacrum scribitur. Pedor....longus in carcere pedor. Pueras..... item pueros..... ali- quando turpem et.... Pronuba ....nubente.... Pulvinus ....pulvinaria B).... pri- vali nominis ..., vel culcitral. Perduelliones .... Puellum.... Protelata, dilata. Posthumus....post humus C).... Promulgatum est .....in omnium nunciam.... Pellatias.... Pilas si brevi .pi. ... Si .pi. longa... Palerice.... 3 Peusomeni .... ad ferre: ut dicimus de philosophis qui dicuntur sedi- comentarii, et menlitur verumdico. A) Forsam quamvis. B) Glos. Vet. Vat. pulvinar pulvinaria. C) Glos. Vet. Vat. adde postr. Posthuma puella similiter dicta. 172 Quat. Vat. Codd. Pegma ....machinamenti in... arte mecharica.... Psceudotyrum...,semotum est. Piacularia, sacrilega . ... Pignora....inler se.... Pinnate ....vincula retiarum, ex- tensique funes.... Incipiunt per R litteram. Redubie ....senescunt ..... quasi ‘quibus exuli.... Resultatio ....itemresultare....re audiri. Residuus, quasi tardus. Reduncum, quasi . ... Redimie .... Rivales qui quasi de uno .... Renidenti....splendenti, item flo- renti .... Refervit, iterum recaluit. Incipiunt per S litteram. Sublinginum . .. . transonans, qui sub lingua .... Sacrum ....Item consecravi....sa- cre panduntur und®..... ulcus horribile. Suppliciter legimus et....pro ad- verbii qualitate. Ergo huic ... quia cuphoniam offendit..... precipi- tanter dicimus quam pre®cipiler. Spondolus, est internodium . ... vel imo .... est ex desertis .... et emi- net, tumes. Sapphirinus .... lapis sapphirus .... Suggillare . . “suggillo .. .suggillor... Nov. Cod. Pegma...madrinamenti ut.... arte mechanica .... Pseudotorum.... semotum est a pu- blico. Piacularia, sacrilegia .... Pignora....interesse.... Pinnate ....vincula retium, exten- sisque funes .... Reduvia ....senescentes . . . quibus exuti.... Resultatio .... Resultare....recoaudiri. Residuus, qui tardus. Reduncum, qui.... Redimite.... Rivales qui de uno.... Renidenti...splendenti ut florem.... - qui a Refervit, iterum recoluit. Sublinginum . . . ligna.... Sacrum ....Inter consecrari .... sa- cre panduntur porte A)....vul- cus horribile. Suppliciter legimus in B)....pro adverbio ergo huic ....qui eu- phonia offendit.... precipitanter quam precipiter. Spondilus est intermodium....vel ymo C)....est exdesertis....et eminet, tumens. Saphirinuis . ...lapis saphirinus . ... Sugillare....sugillo ... sugillor. . . . transonas qui sub A) Glos. Vet. Vat. Sacre panduntur porte. B) Glos. Vet. Vat. Suppliciter, non sup- plicanter. C) Glos. Vet. Vat. nomen non ex de- sertis. Quat. Vat. Codd. Senatus ....romanus a .... tercii cla- rissimi ....quarlum aliquod genus non 1) est. Sublevi .... Resignavi est quod dici- tur....Item sublitus dicitur cui imposture fiunt, qui decipitur.... Sublegi est te ....et alius ex oc- culto .... Sîistentes....aquam fluviis..... si- gnificare consistentes . . . . Gonstitit in digitos.... e contra in litore sistit. Scena ....alicujus carminis quod di- gnum sit ... vel deorum res alto... Supremi ....et imi....autem oc- cultarii.... Soritica 2) est.... Zwpd: grece . . .. in hoc acervo.... Sphera c... Separata, discreta. Subsistentia, dicuntur vel constituta, vel fixa. Supertietur, superiacietur .. .. Sanctuarium .... Scurrilitas ....quasi velut.... Spurium, baplisma . . .. Suppetit .... Sacrilegium . . . . legere enim .... Incipiunt per T litteram. Tedet, tediosum vel salis odiosum. Trutina ....statera lanam, vel exa- minamus filum. Teloneum, telonearius .... Tempestum, opportunum. Trux, sevus. Tabes, orbor 3) sanguinis. Tabe ....Tabescunt....qui...ve- niunt. 1) Deest non in Codd. 5. In 1. superad- ditur. 2) Codd. 4. Socratica. 3) Ursinus corr. rubor. 175 Nov. Cod. Senatus....romanusest a... .tertii clarissimi. ... quartum aliquod ge- nus est. Sublevî . ..resignavi hoc est. . . Item. Sublinum dicitur cui inposturas fiunt, qui decipiuntur. Sublegi et te....et alius exalius ex occulto .... Sistentes .... aquam in sfluviis.... significare pro consistens. . . . Con- sistit in digito.... et contra in li- ctore sistit. Scena ....alicujus criminis que di- gna sit....vel deorum resulto.... Supremi .... et injusti .... autem occultari . .. . Sorites est.... Soros grece . ...in hoc arvo.... Spera. ... Separata, pro separant, et descreta. Subsistentia, vel constituta vel fixa, vel ex quibus alique res subsi- stunt. Suppertietur, superiacet .... Sanctuaruum. .. . Scurilitas . ...qui velut.... Spurium nummisma . ... Supperit . .. Sacrilegium ....Segegere enim .... Tedet, tediosum salis odiosum. * Trutina ....steram lanam, et exa- men filum. Teloncum, thelonearius . ... Tempestum, oportunum. Trux, scevus. Tabes, arbor sanguis. Tabe....Tabescunt et qui. ... niunt. eve- 174 Quat. Vat. Codd. Tenax, est inter avarum et medie arrogantem. Incipiunt per V litteram. Vernales fructus . .. . Vernalis a verno tempore dicitur. Nov. Cod. Tenax, est inter avarum et A)... —_—_& Venalis fructus .... Vernalis, a verno tempore dictus. Finiunt Glosse Luct. Plac. Grammatici. Aristophanes, nomem poet. Accurate construenz. Agunne. Babilonia, civitas et provincia. Damium, bone Dee sacrum. Eritio, dominatio. Facetus, modo jocos gestu et factis commendat, a faciendo dictus. Subsistentia dicitur vel constructe fixa, vel ex quibus alique res sub- sistunt, ut dicimus substantias det, si elementa quibus factus est mun- dus velimus substantias dicere. Thos, deus est; atho dicitur qui ca- ret Deo. A) Voces nempe div. sed non legib. STORIA: DEL DIRITTO ROMANO NEL MEDIO BVO (GESCHICHTE DES ROEMISCHEN RECHTS erc.) DI F. C. DE’ SAVIGNY Articolo VI sopra il Vol. VI, pagg. x1v e 760. Berlino 1851 DEL PROF. PIETRO CAPEI (‘). —T 02860 In questo VI ed ultimo volume della sua celebratissima istoria rappresentansi dall’ illustre autore le sorti dello studio in romana giurisprudenza e le vite de’ più notevoli tra’ suoi cultori ne’ se- coli xIv e xv. Cap. XLVII. — Prospetto dei secoli xrv e xy. La nuova e fruttuosa vita che la romana giurisprudenza avea Fipreso nel xn secolo inlanguidivasi mortalmente nel xm; si ristorò poi d’al- quanto nel xiv, in modo peraltro che molto ne restò scemato il valore antico; sennonchè tanto le bastò per serbarsi a più felici tempi e ne’ quali potè ancor essa ringiovanire, partecipando al moto che suscitò in Europa il rinascimento di tutte le scienze. Le cause per le quali nei secoli xm e xiv la giurisprudenza venne a scadere furono: innanzi tutto, la degenerazione della (*) De' primi cinque volumi di questa istoria da me si diedero, or sono parecchi anni trascorsi, altreltanti articoli o estratti inseriti nella An- tologia di Firenze ai numeri 91, 97, 101, 106, 156 e 145. Cessato ch’ ebbe di comparire in luce quel Giornale nel 1853, mi mancò modo di presentare al pubblico l’ultima parte del mio lavoro; e molle grazie per me si deb- bono ai Direttori dei nostri Annali, i quali degnaronsi di riceverla onde il mio lavoro fosse una volta compiuto. 176 STORIA DEL DIRITTO ROMANO NEL MEDIO EVO vita pubblica ne’ Comuni italiani, i torbidi e le tirannie che ne seguitarono; onde i giureconsulti, più raramente chiamati al maneggio de’ pubblici negozj e di ora in ora costretti a tramu- tarsi d’una in altra città, molto perderono della necessaria quiete e della personale dignità, quantunque venissero alle volte condotti nelle scuole con larghi stipendj, e ricercati de’ loro consigli nelle private dispute e nelle contese che furono tra papi e imperatori, tra papi ed antipapi: oltracciò i giureconsulti di quella età punto non procacciarono da un lato alla scienza loro i sussidj che ricavar potevano dalle notizie così della istoria come della classica e della patria letteratura, diffuse allora in tutta Europa per virtù dei tre sommi toscani Dante, il Petrarca ed il Boccaccio; e peccaron dall’altro e grandemente peccarono di giudizio negli studj filosofici, applicando alla giurisprudenza l’arte dialettica o i sottili modi di argumentare per distinzioni e suddistinzioni, ampliazioni e subampliazioni, limitazioni e sub- limitazioni, illazioni e subillazioni; introducendo così la peste di sminuzzare e triturare in guisa ogni pensiero ed ogni regola di gius, che quando si è giunti al fondo più non si sa che cosa trattavasi sul bel principio, e, invece di un oggetto palpabile e chiaro, viensi a tenere in mano tanti grani di polvere! Nacque da ciò che le teoretiche dottrine in giurisprudenza riuscirono triste in questa età, e che ogni valore e fiato di scientifico spirito riparò, per le necessità della vita sociale, appresso i pratici, a quali toccò la gloria di aver serbato in vita la scienza. E non è tutto. Come già nelle scuole la fama acquistata dalla glossa avea fatto che i professori più presto attendessero alla mede- sima che non al testo delle leggi, così di presente il male ag- grava per lo strabocchevol conto in che s'ebbono le opere di Cino, Bartolo, Baldo, ed altri scrittori. Laonde, cessata ne’ pro- fessori ogni originalità d’investigazioni, l'autorità de’ predeces- sori, gonfiata per l’errore dei pratici intorno al pregio della opinion comune, addiventò predominante, ed ogni cura fu spesa STORIA DEL DIRITTO ROMANO NEL MEDIO EVO 177 in rappresentare le opinioni altrui; tantochè ogni merito or dee misurarsi dalla chiarezza e il metodo in ordinare il caos delle citazioni; malvezzo che per sin dentro al secolo xvi ritardò, e di non poco, in molte scuole lo avanzamento della giurispru- denza. A queste cause generali di decadenza unironsi in parti- colare; lo abbassamento della scuola di Bologna, dove tener cattedra e formar parte della facoltà diventò un favore ristretto ora agli originali bolognesi ed ora a poche famiglie; il divieto ai sudditi di un principe di trasferirsi nelle Università di un altro; e l’obbligo imposto ai professori, stipendiati adesso dal pubblico, di limitare le loro lezioni ad una assegnata materia, a pochi libri o titoli del testo, eccitandogli per tal modo a trascurare le altre e così a stremare le proprie forze, logorate e sperse dal mal costume di correr dietro le opinioni altrui e d’infarcirne così strabocchevolmente le loro lezioni, che ne re- stavano impediti a interamente esporre anche quella parte del testo che a ciascun di toro erasi confidata. Avventuratamente peraltro rimasero in piè le disputazioni tra professori, le quali, se non di rado cagionarono degli odj riprovevoli infra di loro, nondimeno giovarono ad aguzzare gl’ingegni e a mantenere in vita la scienza. Gli scritti teoretici di questa età sono prolissi, privi di originalità, e consistono per la più parte in Commentarj alle diverse fonti del Romano Diritto, la cui forma è tale che, se mi togli i più rilevanti, mal, si discerne se vennero dettati o. come libri o come lezioni. I lavori pratici poi presentano adesso minor numero di Questioni preparate per le dispute nelle scuole; maggiore di Consigli o pareri dati in cause forensi. E quì vuolsi notare che, se ne’ medesimi sta quanto di meglio e più originale abbiamo da questo periodo di tempo, buona parte però ne muove da giureconsulti che tennero cattedra come Cino, Bartolo e Baldo; ai quali lo avere speso negli affari non breve spazio della vita loro concedè l'acquisto di molti pregi, dei quali difettano gli altri cattedratici. Le opere poi di tutta Vetà 25 178 STORIA DEL DIRITTO ROMANO NEL MEDIO EVO in discorso meritano anche ai dì nostri non lieve attenzione per la istoria dei dogmi, essendochè buon numero delle teoriche seguitate alla giornata abbiano in quelle la radice loro, nè poche notizie indi si traggano per la storia letteraria e dello stato pubblico di que’ tempi. Sennonchè, troppo or crescendo il numero degli scrittori, il nostro autore si ristringe a rappre- sentare le vite de’ più ragguardevoli, relegando i minori in quell’indice alfabetico che costituisce la Appendice I. di que- sto volume. Cap. XLVII. —- Giureconsulti francesi al principiare del secolo xrv. Al cominciare del secolo xiv parve che in Francia volesse stabilirsi una scuola di valenti professori in diritto, ed in Italia ancora le opinioni di questi oltramontani vennero in voga, tanto più che loro spianava la via il favore onde or gode- vano le forme dialettiche. Tali furono I. Pietro da Bellapertica o Belleperche, castello da esso edificato presso a Lucenay di Villanuova nel Borbonnese, ove nacque di bassi genitori. Discepolo di Jacopo de Ravanis, fu lungamente professore di chiaro nome in Tolosa ed in Orleans. Nell'anno 1500 intervenne al giubileo di Roma, e disse una lezione in Bologna udita da Cino (1). Fu poi decano in Parigi, vescovo di Auxerre nel 1506 e guardasigilli, e quindi can- celliere di Francia ai tempi di Filippo il bello. Morì nell’an- no 1508, e fu sepolto nella chiesa di Nostra Donna in Parigi (2). Scrisse egli 1.° Quarantanove ripetizioni sopra il Digesto vecchio e cinque libri del nuovo che si hanno a stampa. 2.° Un Com- mentario al Codice, con più trenta spicciolate ripetizioni che vanno unite alle altre intorno al Digesto. ò.° Un Commentario» ma non completo, alle Institute e di che si hanno parecchie (1) Cinus in L. Un. C. de sentent. q. p. eo q. int. num. 6. Bartol. ibid. (2) Gallia christiana, T. XII. pag. 515. CÎ. Duchesne Hist. des Chan- celiers. Paris 1680, p. 254. STORIA DEL DIRITTO ROMANO NEL MEDIO EVO 179 edizioni. 4.° Aure@ queestiones. 5.° Brocarda. 6.° De missione in possessionem. 7.° Consilia, e Singularia. 8.° De feudis: libro che non è se non un plagiato a danno di Martino Sillimani. II. Guglielmo da Cuneo provenzale (3) studiò in Bologna, fu professore in Tolosa ed in Orleans, e finalmente vescovo. Contemporaneo di Cino e collega del Card. Bertrando, morì per la peste del 1548. Il Diplovatazio loda i Commentarj di lui al Digesto vecchio (*) e al Codice, l’ultimo de’ quali è stampato (Lugdun. 1515). Lasciò eziandio due trattatelli che si hanno a stampa, De muneribus, e De securitate. III. Pietro di Jacopo nato ad Aurillac in Provenza fu professore in Monpellieri. Sembra che udisse Francesco di Ac- corso, e nell’anno 1511 diè fine alla sua maggiore opera inti- tolata Practica, e di che si hanno parecchie edizioni: insegna il modo di comporre il libello o l’azione, e fa gran conto di Azone. Meno rilevante è l’altro suo scritto, che pur corre a stampa, De arbitris et arbitratoribus. IV. Gio. Fabro della diogesi di Angulemme insegnò prima in Monpellieri e poscia diedesi al foro. Fu siniscalco a Rochefoucault nell’ Angummese, ma non fondata è la notizia che diventasse cancelliere di Francia. Fiorì nella prima metà del secolo xrv. Hannosi di lui due notevolissime opere, cioè 1.° Un (35) Diplovataccius num. 145. CR Coquille Hist. du pays de Nivernois. (*) Nella Biblioteca Felini in Lucca esiste tanto questo Commentario inedito al Digesto vecchio quanto l’altro al Codice che hassi a stampa, am- bidue contenuti nel MS. segnato di num. 375. Il primo, e che incomincia con le parole riferite dal Diplovatazio, va dal principio del digesto insino a tutto il libro V. tit. de Reredit. petit. Seguita dopo un breve spazio in bianco dove è notato: explicit liber XI de judictis: incipit liber xrI de rebus pmis (sic) creditis sì certum petatur et condictione: e continua insino al lib. xv. tit. de în rem verso; e quì si nota che: explicit lectura dni G. de Cuneo super digestum vetus. Inoltre, con caratteri aleunchè più recenti, ivi soggiungesi: explicit lectura dni Cini. I caratteri del MS., che si compone in tutto di fogli 167, sono del secolo xiv. (Nota dell’ A. dell’ Articolo). 180 STORIA DEL DIRFTTO ROMANO NEL MEDIO EVO Commentario alle Institute, dove al titolo de actionibus inserì e chiosò l’arbor actionum di Giovanni per divulgarlo in Francia. 2.° Un Breviario al Codice. V. Odone Senonense o di Sens nella Sciampagna fu pro- fessore in Parigi e avvocato. Visse al principio del xv secolo, perchè nel 1501 scrisse la sua Summa de judiciis possessoriis, di che si hanno non pochi MSS. ed una edizione ( Magun- tie 1556 ), opera oltre il dovere encomiata dal Diplovatazio. Cap. XLIX.— Giureconsulti Italiani al cominciar del secolo xrv. I. Riccardo Malombra di Cremona, scuolare di Jacopo d'Arena, fu professore in Padova almeno dal 1295 al 1510. Nel 1514 era in Venezia consultore della Repubblica, e là di- morava ancora nell’anno 1520. Fu poi professore in Bologna col Buttrigario, Jacopo da Belviso e Ranieri Arisendi, cioè dopo l’anno 1519, e quì fu dalla Corte Pontificia perseguitato reo di eresìa, perchè difendeva il traffico co” Saraceni e aderiva a Lodovico il Bavaro ed al Marchese d'Este. Tornò poscia in Ve- nezia dove morì nell’anno 1554, e fu tumulato in San Giovanni e Paolo. Pregiato assai da’ contemporanei e dai successori, com- battè e derise il tristo metodo dialettico nell’insegnare la giuri- sprudenza; fu decorato de’ titoli di cavaliere e conte, e lasciò dopo di se due più famosi discepoli Alberico e Gio. di Andrea. Dicesi che scrivesse Commentarj ai diversi volumi del Diritto, e certo poi sopra il Codice. A lui si attribuiscono questioni e con- sigli, dall'uno de’ quali derivò una teorica insino a’ dì nostri celebre nel foro (1); e se non distese gli statuti di Venezia, fu al certo richiesto de’ suoi consigli per un lavoro intorno ai medesimi (4). (1) V. Fierli Celebriores DD. Theorice p. 11. Theorica Richardi Ma- lumbre pag. 141. seq. Florentite 1801. 8.° (4) Diplovataccius num. 154. Foscarini Della Letteratura Veneziana. Tom. I. p. 17-18. e p. 41. STORIA DEL DIRITTO ROMANO NEL MEDIO EVO 181 II Oldrado da Ponte di Lodi udì Jacopo d’ Arena e Dino. Negli anni 1502 e 1505 era assessore in un tribunale di Bologna e poscia fu professore in Padova, almeno per gli anni 1507-1510. Lesse anche in Siena in un con Jacopo da Belviso, per la cui rivalità ed opera ne fu sbandito; onde si tramutò in Monpellieri. In tempo parimente incerto dovè leg- gere o in Perugia o in Bologna, posciachè Bartolo, il quale studiò soltanto in quelle due scuole, lo accenna tra’ suoi maestri. Finalmente passò egli come avvocato concistoriale alla Corte Pontificia in Avignone, dove morì nell’anno 1555. Oltre di Bartolo, suoi scolari furono Alberico e il Pastrengo; ebbe ami- cizia con Gio. di Andrea, ed invano ammonì il Petrarca di abbandonare la poesia per la giurisprudenza. Lasciò egli 1.° La- vori esegetici specialmente intorno all’Inforziato, al Codice e al Libro de’ feudi. 2.° Questioni, che adoperavansi in Padova per le dispute nelle scuole. 5.° Consigli in numero di 559, che ne hanno fondato la fama ed hannosi a stampa. 4.° Parecchi trat- tatelli, uno de’ quali discorre de legitimatione. II. Jacopo da Belviso nacque in Bologna di ragguarde- vole famiglia, ed ivi fu scolare di Francesco d’Accorso e Dino. Lesse in patria negli anni 1296 e 1297 come baccelliere, ma non potè conseguirvi il grado di dottore, sì per essere dei Lambertazzi e per non avere stretta parentela con verun mem- bro della facoltà; lo ricevè pertanto in Aix alla Corte di Carlo TI Re nel 1297, e venneglis confermato in Napoli nell’anno 1298 o 1299. Quì egli professò con lo stipendio di 500 fiorini, e nell’anno scolastico 1501-1502 leggeva sul Digesto vecchio. Fu poi consigliere del Re e giudice della Gran Corte. Intorno all'anno 1505 tornò in Bologna, e dopo molte pene vi fu rice- vuto, dietro una nuova promozione, a dottore: grado che quindi conseguì tre volte. Sbalzato dalle fazioni nel 1506 riparò a Padova, quindi a Siena; nel 1508 ottenne cattedra, e nel 1509 cittadinanza in Perugia con soldo di 200 fiorini. Nell'ottobre 182 STORIA DEL DIRITTO ROMANO NEL MEDIO EVO poi del 1509 tornava in Bologna, ma ne era assente negli anni 1511 e 1515; dal 1516 al 1521 dimorò in Perugia; in questo ultimo anno tornò a Bologna e fu con la sua famiglia accolto nella «parte dominante de’ Geremei. Da quindi in poi visse onorato e quieto, e adoperato negli affari più rilevanti del Comune: ebbevi a scolare Bartolo, e prese parte nella promozione di lui. Morì nei primi di gennajo 1555. Scrisse egli 1.° Un Commentario all’ Authenticum (Lugd. 1511 £.°) onde rilevasi che possedeva ancora le novelle non glossate e da lui descritte in fine dell’opera. 2.° Un Commentario ai libri de’ feudi, lavorato intorno al 1510. 5.° Practica criminalis. 4° Queestiones s. di- sputationes. ‘5.° Solutiones contrariorum et brocardorum insolu- torum a glossatore, e sono disutilissime aggiunte alla glossa. 6.° De excomumicatione. A lui si attribuisce ancora un trattato De primo et secundo decreto, ma è di Jacopo Baldovini. V. Jacopo Buttrigario nacque in Bologna intorno al- l’anno 1274, ed ivi era notajo nel 1295. Leggeva nel 1507, ma non fu promosso a dottore avanti l’anno 1508, o 1509. Morto il Belviso fu riputato il primo tra’ professori bolognesi; da lui fu promosso Bartolo suo famoso scuolare. Morì nella peste dell’anno 1548. Le opere esegetiche di lui, e per le quali di- mostrasi la peggiorata condizione degli studj, sono 1.° Lectura in Digestum vetus. 2.° Lectura in. Codicem, e si hanno a stampa. 5.° Una esposizione del titolo de actionibus delle Institute. Se ne hanno ancora. 4.° Questioni e dispute. 5.° Trattatelli di niun valore, parte de’ quali stampati, come De dote, De renuntiationi- bus, De testibus (5). Cap. L.— Cino (Guittoncino) nacque in Pistoja nell’anno 1270 da Francesco di Guittoncino Siniboldi e Diamante di Bonaven- tura di Tonello. Del tempo e luogo de’ suoi studj è certo sol- tanto che nell’anno 1500 assistè in Bologna alla lezione che, in (5) In Tractat. unio. juris. V. Mazzucchelli p. 1912. Fantuzzi p. 398. STORIA DEL DIRITTO ROMANO NEL MEDIO EVO 185 passando, vi tenne Pietro da Bellapertica. Suoi maestri furono Dino, o in Bologna o in Pistoja, Lambertino de’ Ramponi in Bologna e probabilmente ancora Francesco di Accorso. Per la sua promozione scelse egli Lambertino, passò l'esame, e fu ‘ licenziato tra l’anno 1299 e il 1504; ma non presentossi po- scia nè mai all’altra promozione solenne pel grado di dottore. Di questi tempi fece dimora in Francia; nell’anno 1507 vedesi come assessor civile nel tribunale di Pistoja. Costretto a lasciare la patria per la furia delle parti errò per la Lombardia e per lé montagne di Pistoja, dove riposò appresso Filippo Vergiolesi, capo di parte bianca, la cui figlia Selvaggia amò e cantò ne’ suoi versi. Maritavasi intanto a Margherita di Lanfranco degli Ughi, e n'ebbe un maschio e quattro figlie. Calato che fu in Italia Enrico VII, Cino si attaccò più che mai a’ Ghibellini; e quando Lodovico di Savoja scortato da un esercito Imperiale trasse a Roma e se ne fece senatore, Cino, nel 1510, gli prestò ufficio di assessore. In che anno partisse di Roma e dove riparasse non lo sappiamo; verosimilmente visse alcun tempo in Napoli. Intorno alla metà dell’anno 1512 si diede egli alla vita scien- tifica e cominciò a scrivere, o fosse in Napoli o in Pistoja 0 altrove, non mai per certo in Bologna, un suo Commentario al Codice che compiè gli 11 di luglio 1512. Cinque mesi dopo finita l’opera, Cino, che contava allora 44 anni, ricevè in Bolo- gna il dottorato e da quindi ip poi si consacrò alla cattedra. Nel 1518 fu condotto per tre anni in Trevigi; dipoi nel 1521 con soldo di fiorini 200 fu chiamato a Siena, dove con Andrea Pisano e Federigo Petrucci insegnò insino all'anno 1525 e quindi per molti anni in Perugia, ove con l’andar del tempo ottenne ognora più larghi stipendj (6). Nell'anno 1554 rifiutò il gonfalonierato di Pistoja ed accettò la cattedra di gius romano in (6) Ciampi, Vita e Memorie di M. Cino. Pistoja 1826, pag. 158. Ver- miglioli, Bibliografia storico-perugina. Perugia 1825, pag. 36 184 STORIA DEL DIRITTO ROMANO NEL MEDIO EVO Firenze, dove morì ai 24 di decembre dello stesso anno dopo aver fatto nel dì precedente il suo testamento, onde apparisce che non era scarso di ricchezze; fu sepolto in un magnifico monumento che tuttora ammirasi nel Duomo di Pistoja. Il più famoso de’ suoi scolari fu Bartolo; amicissimo a lui Gio. d’ An- drea; Dante e il Petrarca lo amarono ed onorarono. Opere di lui sono 1.° Lectura super Codicem, di che hannosi MSS. e varie edizioni. In questa Cino confessa di aver mirato a propagare le opinioni de’ moderni e segnatamente quelle di Jacopo de Ra- vanis e di Pietro da Bellapertica, il cui metodo dialettico è da lui talora seguitato, non così peraltro che debbasi giudicare seguace della scuola francese, essendochè quì spiri una virtù sua propria ed una assoluta indipendenza da loro. Di fatti ed . una sana intelligenza del gius, bene accomodata alla pratica, e molta originalità di pensieri, quanta almeno dopo Accorso più non si trova in altri scrittori, contraddistinguono questa opera siccome quella che fu condotta in un tempo nel quale Cino non era vincolato ad alcuna Università, ma versava tutto ne’ tribu- nali e nelle faccende di stato in più e diverse contrade, onde fu posto in grado di rafforzare le sue opinioni con gli statuti di varie terre e con la pratica de’ tribunali; inoltre egli vi dimostra molta perizia nella classica letteratura, e già notammo come citò due luoghi di Gajo (7). 2.° Lectura super Digestum vetus. Questa opera è di assai minor pregio che non l’altra sul Codice. Il MS. che se ne serba in Vienna e le edizioni a stampa concordano in dimostrare che contiene unicamente la esposizione del I. libro, dei primi 9 titoli del IL, e il primo titolo del XII, cui nel MS. Viennese aggiungesi una ripetizione alla L. Gallus D. de liberis et posthumis. Ma il Caccialupi avvisa che ad ogni resto del Digesto vecchio Cino scrisse come brevi giunte alla glossa d’Accorso, le quali mancano nel MS. e nelle edizioni. Chiaro (7) V. vol. II. pag. 467 o il mio Art. II. al vol. IN. pag. 52. STORIA DEL DIRITTO ROMANO NEL MEDIO EVO 185 peraltro è dalle testimonianze del Diplovatazio (n.° 14) come egli dettò eziandio una diversa e compiuta lettura intorno al medesimo, di che non resta vestigio. D.° De successionibus ab intestato, che trovasi in molte collezioni di trattati. 4.° Additiones alla glossa sopra tutti i diversi libri del gius, e sono inedite. 5.° Consilia, parimente inediti. Intorno alle opere di Cino ag- ransi «) singularia Cini, che Antonio da Pratovecchio attesta di aver composto, ma non si trovano: {) ad Cinum Pistor. addi- tiones di Pompeo Battaglini Napolitano (8). A tutti finalmente è noto in qual fama salisse Cino per la eleganza delle sue poesie; eleganza che cercheresti invano ne’ suoi lavori giuridici. Cap. LI.— Giovanni d'Andrea, canonista è vero, ma che non può mandarsi in silenzio nella istoria del Diritto Romano, atteso le sue dottrine intorno al processo de’giudizj ed i servigi da lui renduti alla istoria della giurisprudenza, nacque in Mugello fuori di matrimonio di Andrea e di Novella, probabilmente poco dopo l’anno 1270, e si cognominò da S. Girolamo per la sua devo- zione a quel Santo. Il padre insegnò grammatica in Bologna e dipoi, circa l’anno 1280, vi si fece prete. Ultimo mae- stro di Giovanni in grammatica fu Bonifazio da Bergamo che udì in Bologna, dove sotto Egidio attese ai Decretali. Applicò l'animo per qualche tempo alla teologia sotto Giovanni da Parma, e non aveva ancora dieci anni interi, quando da un ripe- titore datogli dal padre ebbe la esposizione di una decretale (9). In diritto, romano suoi precettori furono Martino Sillimani e Riccardo Malombra; nel canonico oltre Egidio udì anche Guido da Baisio, l’Arcidiacono. Passò la gioventù nella miseria, se non in quanto Rinaldo degli Ubaldini, il cui figlio esso instituì, diedegli qualche soccorso, e a suo malgrado e per le cure del Baisio, il quale si prestò gratis alla sua promozione, fu addot- (8) Neapol. ap. Dominicum Tabanellam in f.° — V. Ciampi, p. 71. (9) Zo. Andre@ Novella in X, €. cum apud, de sponsal. (IV, 1). 24 186 STORIA DEL DIRITTO ROMANO NEL MEDIO EVO torato. Come professore, segnatamente in Decretali, comparisce in Bologna nell’anno 1502 e nel successivo anno in Decreto. Nell'anno 1507 era professore in Padova, d’onde al cadere del 1509 si ricondusse a Bologna e quì rimase lettore insino alla morte, nè mai se ne dipartì se non per qualche temporaria occorrenza. Molta fu allora la fama che conquistò come professore e come scrittore, molta la deferenza ch’ebbesi verso lui come cittadino ne’ più rilevanti affari di quella patria. Si dimostrò sempre zelante partigiano della pontificia dominazione in Bolo- gna, e, ritornando da una legazione a Papa Giovanni XXII in Avignone, colto da’ Ghibellini presso Pavia, fu sostenuto otto mesi in prigione, derubato del suo viatico, che sommava a 1285 fiorini, e dovè riscattarsi con altri 4000; ma, tornato a casa, il Comune lo ristorò di ogni perdita, e s'ebbe un feudo dal Papa. Morì al tempo della peste il dì 7 luglio 1548, e fu sot- terrato nella Chiesa dei Domenicani dove si conserva l’antica sepolcrale inscrizione, ma il monumento che vi si vede è opera del secolo xvi. Donna sua fu Milancia che molto onorò e con- sultò perfino ne’ suoi lavori scientifici. Ebbe quattro maschi e quattro figliuole. De’ primi Buonincontro, che fu professore insiem col padre e venne decapitato nel 1550 per aver parte- cipato ad una congiura, e Federigo instituì eredi universali nel suo testamento. Un altro, probabilmente Girolamo che fu arcidiacono a Napoli, gli nacque fuori di matrimonio. Delle quattro figlie tre maritaronsi a tre conosciuti professori, Gio- vanni da Sangiorgio, Filippo de’ Formaglini, Azone de’ Ramen- ghi. La quarta, Novella, da cui denominò il suo Commentario sovra i Decretali, usò di far lezione per suo padre allorchè infermo, ma velata, onde la sua bellezza non distraesse gli scuo- lari. Giovanni adottò ancora per figlio Gio. Calderino canonista. Tanto fu egli onorato, che la città esentollo con la sua discen- denza dalla osservanza degli statuti della Università, per cui certe relazioni co’ cittadini erano vietate ai membri della mede- STORIA DEL DIRITTO ROMANO NEL MEDIO EVO 187 sima. Fu pio, elemosiniero e largo di doni alle Chiese, e visse molto duramente gli ultimi suoi venti anni per espiare i falli della gioventù: lasciò non poche ricchezze. Oltre che Guido da Baisio ebbe egli per molto amico Cino: Papa Giovanni X.XII fu suo benevolo e benefattore; aderì molto al Card. Bertrando, cui dedicò l’opera sui Decretali; fu famigliare di Ugo Re di Cipro e Gerusalemme, che ne leggeva avidamente gli scritti; tre lettere a lui dirette dal Petrarca dimostrano una affettuosa re- lazione tra loro. Molte sono le opere di lui, alcune delle quali maggiori ed altre minori. Vengono tra le maggiori 1.° Novella in Decretales ed esibisce un esteso Commentario a’ cinque libri dei Decretali, tenuto sempre in gran conto e di che si hanno parecchi MSS. e molte edizioni. 2.° Glossa in Sextum, la quale fu preferita alle contemporanee di Guido da Baisio e di Gio. Monaco e apposta come ordinaria al Sesto delle Decretali. Si ravvisa dal suo prin- cipio: Quia preposterus est ordo. 5.° Novella in Sextum. Giovanni di Andrea non contento della anzidetta glossa praticò due modi per migliorarla. Vi fece innanzi tutto delle giunte (additiones ) principalmente dietro le Clementine pubblicate nell’intervallo; e questa è quella edizione di lui che ne abbiamo ne’ MSS. e per le stampe. Sennonchè questa glossa parendogli imperfetta, diè mano a un altro lavoro intitolato: Novella ad Sextum: e che in- comincia per le parole: Cum eram parvulus loquebar ut parvulus: appunto per distinguerla dalla precedente sua glossa. Anche di quest'opera se ne hanno adesso più MSS. e non poche edi- zioni; ivi non si commenta il titolo de regulis juris per la ca- gione che or sono per dire. 4.° Questiones mercuriates, 0 di- spute del Mercoldi. Materia a ognuna di siffatte questioni forni- sce un luogo tratto dal titolo de regulis juris e disposto per ordine alfabetico delle iniziali: quì dunque trovasi un Commen- tario al titolo de regulis juris, e si rende chiaro il perchè ne manca la Novella al Sesto: se ne hanno molti MSS. e molte 188 ‘STORIA DEL DIRITTO ROMANO NEL MEDIO EVO edizioni. 5.° Glossa in Clementinas: fu composta nell’anno 1526, ed è la prima chiosa a quel libro di leggi, cui ne” MSS. e nelle edizioni trovasi aggiunta come ordinaria. 6.° Additiones ad Du- rantis speculum: opera rilevantissima per la storia letteraria del diritto, e che l’autore scrisse e compiè nell’anno 1546 da vec- chio, ed il cui pregio non resta per noi diminuito dai numerosi plagiati che vi occorrono in danno de’ predecessori e contem- poranei. — Le opere minori sono 1.° Summa de sponsalibus et matrimoniis, talvolta intitolata ancora: Summa super quarto libro Decretalium; da lui scritta il primo anno che tenne cattedra. 2° Summa de consanguinitate, s. lectura arboris consanguinitatis; ed è un pezzo staccato della precedente operetta. 5.° Ordo judiciarius s. processus juris che incomincia: Antequam dicam de processu judicii. 4.° Summa super secundo libro Decretalium, ed incomincia: Judicium est actum trium personarum. 5.° Hiero- nymianus s. vita S. Hieronymi. Anche diverse altre operette si hanno di lui (19). A torto però gli si attribuiscono: Questiones feudales, e un libro intitolato: Suffragium Monachorum da lui stesso rammentato con molto spregio. Cap. LIT. — Alberico da Rosciate nacque di umili genitori in quel luoghetto presso Bergamo, e studiò in Padova sotto Riccardo Malombra e Oldrado. Si addottorò, ma non si diede allo inse- gnamento e visse in Bergamo come avvocato, esercitato ancora ne’ pubblici negozj della patria, tantochè fu membro di una Commissione per rivederne gli statuti. Entrò quindi al servizio di Galeazzo Visconti signore di Milano e continuollo appresso di Luchino e Giovanni Vescovo di Novara di lui fratelli e suc- cessori nella signoria, da’ quali nell’anno 1540 fu inviato in Avignone a Papa Giovanni XXII. Negli ultimi suoi anni abban- donò la pratica per dar mano con quiete a’ suoi lavori esegetici: nel 1350 andò co’ figli al giubileo di Roma: morì poscia nel 13594, (10) Mazzucchelli, p. 700—701. Fantuzzi, p. 254-256. STORIA DEL DIRITTO ROMANO NEL MEDIO EVO 189 e fu sepolto nella Chiesa de’ Benedettini nei subborghi di Ber- gamo, lasciando di se grandissima fama appresso i pratici. Di lui si hanno a stampa 1.° Opere esegetiche e molto prolisse alle tre parti del Digesto, che per la forma sembrano come addizioni alla glossa, spigolate negli scritti dei predecessori e de’ contem- poranei (tt), e al Codice. 2.° Opus Statutorum, ed è una colle- zione di molte questioni in che s'interpetrano luoghi singolari di leggi municipali. 5.° Dictionarium, ed è un lavoro senza me- todo che esibisce un repertorio di regole giuridiche; un effet- tivo dizionario; e finalmente un registro o indice di. passi del Corpus juris. Alberico scrisse due opere di tal fatta che una al gius civile, e un’altra al canonico. Vennero poi rifuse in' una sola da incognita mano, e questa è la forma in che le abbiamo di presente. Varie edizioni contengono eziandio due trattatelli di Alberico: de ortographia: e: de accentu. 4.° Una versione italiana del Commento latino di Jacopo della Lana a Dante. Le opere giuridiche di lui peccano assai dal canto del gusto e del criterio, e mostrano un progresso nel decadimento della scienza; sennonchè maggiori ne sarebbono i difetti ove Ia continua pra- tica degli affari in che visse non lo avesse trattenuto e datogli opportunità di mescervi molto della istoria e della pratica del gius a’ suoi giorni, che le rende curiose e instruttive e dà loro certa somiglianza agli scritti di Cino, quantunque siano lontane dall’avere altrettanto d’intimo pregio. Cita egli frequentemente i predecessori e contemporanei, come Odofredo, specialmente nel Commentario al Codice, Dino e Oldrado in quello all’ Infor- ziato. In molti de’ suoi scritti rammenta Gio. d’ Andrea e Bar- tolo, e in quello sopra gli statuti parecchi ignoti giuristi. No- (tf) Tanto il Savigny rileva rispetto all’ Inforziato. Ma anche nelle altre parti del Digesto il Commentario di Alberico serba la stessa indole, siccome ho riscontrato nella edizione che tutte le comprende. Lugd. 1545 per Georgium Regnault. È da notare essere nel Digesto vecchio interpolata una ripetizione Rayneriî de Forolivii ad L. omnes populi (1,1). 190 STORIA DEL DIRITTO ROMANO NEL MEDIO EVO tevole è l’attenzione di lui alle fonti del Diritto, assai maggiore che non quella a’ suoi dì praticata: possedeva egli congiunti nello stesso manoscritto l’ Authenticum e Giuliano, e da quello cita parecchie non glossate novelle. Nelle politiche opinioni mostrasi aderente, ma senza offendere la moderazione, alla parte Imperiale . Cap. LITI. — Bartolo nacque in Sassoferrato, duchèa di Urbino, nel 1514 da Francesco di Buonaccorso; sua madre chia- mavasi Santa. Ebbe due fratelli; Buonaccorso che egli stesso addottorò e Pietro. Il cognome della famiglia presso alcuni è Severi, presso altri Alfani, e credesi portasse il primo insino all’anno 1575 e poi dopo l’altro (11). Suo maestro in fanciul- lezza fu Frate Pietro da Assisi che lo instituì sì bene da capa- citarlo a imprendere di quattordici anni i suoi studj in giuri- sprudenza sotto Cino in Perugia; studiò dipoi in Bologna ap- presso il Buttrigario, Ranieri, Oldrado e il Belviso. Di 20 anni tenne ripetizioni e dispute, e poscia ai 10 di novembre 1554 fu promosso a dottore. Nè solo nella giurisprudenza, ma l'animo applicò eziandio alla geometria, sotto Guido da Perugia, alla lingua ebraica ed alla dialettica. Per cinque anni dopo laureato attese da se solo agli studj, e nel 1558 ottenne in Bologna la cattedra del suo precettore Ranieri: ignorasi per altro se la cuoprì, o in ogni modo per brevissimo tempo, tantochè ne tacque Baldo suo discepolo, il quale ce lo mostra in prima as- sessore a Todi, e poscia, nè si sa quando, in Pisa, dove tenne fermamente cattedra per la prima volta e quindi in Perugia. In Pisa cominciò le sue lezioni nell'autunno del 1559 con lo stipendio di 150 fiorini; fu collega del suo precettore Ranieri, e abitò dove ora sorge la casa del soppresso Collegio Ferdinando come appare dalla inscrizione che vi è collocata; nell’anno 1545 lo troviamo tramutato da Pisa a Perugia, dove acquistò fama di (11) Vermiglioli p. 17, dietro Pellini Storia @ì Perugia 1, 970. STORIA DEL DIRITTO ROMANO NEL MEDIO EVO 191 primo professore in Diritto di tutta Italia, onde colù correvasi da ogni parte per ascoltarlo. Nell'anno 1548, a prece della Università, esso e il fratel Buonaccorso furono donati della cit- tadinanza, e in particolare di lui vantaggio si derogò allo statuto che ad ogni cittadino vietava di essere professore stipendiato della Università. Nel 1555 fu inviato oratore di Perugia a Carlo IV Imperatore in Pisa, il quale, accordati a quella città diversi privilegi e un diploma di conferma a quella Università, diede uno stemma a Bartolo e sua famiglia, nominollo suo con- sigliere, ed elargì al medesimo e suoi discendenti la facoltà di legittimare i loro scuolari e dichiarargli majorenni. Morì Bartolo in Perugia nel mese di luglio 1557 ‘in età di anni quaranta quattro e fu sepolto in S. Francesco, dove in posteriore età gli fu alzato un superbo monumento con la inscrizione « Ossa BartoLI ». Ebbe a prima moglie e per breve tempo una Anco- nitana e di poi Pellina di Bovarello da Perugia, che a lui so- pravvisse. Lasciò superstiti due figli maschi e quattro figliuole, e dal testamento che scrisse un.anno prima di morire rilevasi che possedeva non tenui ricchezze. La sua biblioteca compo- nevasi di trenta volumi giuridici e trentaquattro teologici, da lui lasciati al Convento degli Olivetani in Perugia, d’onde un monaco gli avrebbe involati e trasferiti a Napoli. Vuolsi che Bartolo avesse poca memoria, e che l’amico e collega suo Fran- cesco Tigrini lo ajutasse a trovare le leggi; narrasi inoltre che facevasi pesare il cibo per non offendere l’intelletto. La cele- brità di Bartolo grandeggia sovra quella di ogni altro professore in gius del medio evo; contemporanei e posteri, ed anche |’ Al- ciati, lo arîimirarono come il primo degli interpreti, quantunque ne contraddicano talvolta le opinioni e diengli taccia di truffe e plagiati. Nè lo straordinario rispetto a Bartolo si limitò nelle scuole, ma si estese a’ tribunali e perfin dentro le leggi. Le sue opinioni ebbero vigore di legge in Ispagna ed in Portogallo, dove i Commentarj di lui si volgarizzarono in un col testo e la 192 STORIA DEL DIRITTO ROMANO NEL MEDIO EVO glossa, e nella Università di Padova si fondò appositamente una cattedra intitolata: Lectura textus, glossoe et Bartoli. Cotanta nominanza vollero spiegare alcuni facendolo autore d’un nuovo metodo di trattare la giurisprudenza, cioè il dialettico e scola- stico; ma di questo nè fu egli autore nè lo adoperò smodata- mente, ed anzi con misura e criterio; altri poi dicendo che esso commentò primo tutte quante le parti del diritto, lo che è aper- tamente falso; la celebrità di lui provenne, secondo il Savigny, dall’aver esso ravvivata con originali e nuovi concetti la esegesi delle fonti giuridiche, divenuta dopo Accorso una languente tradizione di cose morte, e si accrebbe inoltre per la vivacità e lo spirito ond’egli animava le sue lezioni e dispute come è manifesto per gli scritti di lui, laonde i suoi scolari ne diffusero le lodi per tutta Europa. Del resto se egli pecca un po’ meno dei difetti proprj di quella età, non è peraltro che ne vada all’intutto scevro: poichè non seppe, come gli antichi glossatori, tenere costantemente l’occhio sopra il testo, s'implicò troppo nella massa informe della giuridica letteratura che alla rinfusa conteneva del buono e del tristo, e in parte lo contaminò. Così di pregio e per gusto sta Bartolo molto al disotto de’ glossatori; nondimeno le opere di lui voglionsi leggere e per la originalità de’ pensieri e per l'autorità che le opinioni di lui ebbero ap- presso i posteriori giuristi, e, in parte ancora, perfino in questi ultimi giorni. Nelle politiche opinioni aderì egli alla parte guelfa, ma molto moderatamente; chè anzi in uno de’ varj luoghi ne’ quali tiene per la donazione di Costantino alla Chiesa, dice di farlo come uom che vive in città amica al Pontefice (12). Le opere di Bartolo furono stampate, prima alla spicciolata e poscia in collezione; e di una edizione in questa ultima forma (Venet. 1521) si rendè molto benemerito il Diplovatazio. Le più recenti distinguono quelle opere in undici parti; le prime dieci (12) Bart. in Dig. vetus, Rubr. num, 14. STORIA DEL DIRITTO ROMANO NEL MEDIO EVO 195 delle quali esibiscono la esegesi aî varj libri del gius e V'ultima s'intitola: Consilia, Queestiones, Tractatus. Della legittimità di molte delle cose racchiuse in questi esegetici lavori di Bartolo assai si dubitò anche in antico, e tra gli altri da Giasone, ma non pare con buone ragioni. 1.° Digestum vetus. Nel commen- tario su questa parte del Digesto principalmente si pretende esservi cose a tutt'altro appartenenti che non a Bartolo; ma il Savigny combatte questa opinione e dimostra che soltanto i luoghi nominatamente ascritti ad un autor diverso da Bartolo non sono di lui, cioè la ripetizione alla L. Barbarius 5. D. de officio pretorum, che è di Baldo, e alla L. si quis 6. D. de edendo che è di Niccolò genero a Bartolo. 2.° Infortiatum. Di questo commentario Giasone istesso difende la legittimità contro il Saliceto; sennonchè al libro XXVII, oltre la lettura di Bartolo, havvi un’altra lettura che nelle edizioni ancora viene attribuita a Niccolò ( Spinelli) da Napoli. 5.° Digestum novum. La legit- timità di questo commentario non è disputata; anzi il Diplo- vatazio afferma che oltre questa ordinaria lettura, altre ce ne aveva Bartolo dettate in forma di addizioni alla glossa, e che ‘incominciano: Novazio novi operis. 4.° Codex. Oltre alla lettura di Bartolo nella più parte de’ luoghi altra se ne trova in questo commentario di Francesco Tigrini. E quì ancora il Diplovatazio ricorda altra lettura di Bartolo in forma di giunte alla glossa, e che incomincia: Hanc legem intendo vobis repetere solemniter. 5.° Tres libri. Nella prefazione Bartolo narra di avere scritto questo suo commentario per refocillarsi con qualche cosa di nuovo per lui e per gli scuolari di una malattia che avevalo impedito di leggere. Giasone e il Diplovatazio dicono, non senza colore di verità, com’egli conducesse il lavoro insino al titolo: De perieulo corum cc. (XI, 45) e che ogni resto (salva la in- terpretazione della Z. 1. C. de dignit. (XII, 1) che pure è di Bartolo ) sia di Conte da Perugia. 6.° Authenticum. Giasone e il Diplovatazio negarono sia di lui quello che si dà come suo, per 25 194 STORIA DEL DIRITTO ROMANO NEL MEDIO EVO le differenze dello stile e per le citazioni del decreto di Graziano che altrove presso lui non occorrono; ma queste ragioni sono insuflicienti e troppo generali per appagare, e dall'altro canto anch’ essi confessano che vi scrisse sopra un commentario. 7.° Institutiones. Il commentario a queste non è per certo di Bartolo, ma di Bartolommeo da Novara, il quale vi cita perfino il suo maestro Giovanni Faber. 8.° Consilia. Le prime edizioni ne contengono 244. Quella poi del 1588 ha inoltre un secondo volume con altri 117 Consigli pubblicati verosimilmente per cura del Diplovatazio, il quale disse di averne posseduti dimolti inediti e che aveva in animo di mettergli in luce. Della loro legittimità non si è mai disputato, quantunque siavene trame- scolati per caso alcuni che, per le sottoscrizioni appostevi, si dimostrano d’altri e non di Bartolo. Nella veneta edizione del- l’anno 1615 se ne aggiunsero altri trentotto. 9.° Questioni. Nelle più antiche edizioni ve ne ha diciotto, e ventidue nelle più recenti che si tennero sempre come di lui. 10.° Trattati. Sono circa una quarantina, di poco rilievo e non tutti di Bar- tolo, o per lo meno è dubbio che siano. Toccano alcuni al gius pubblico o dello stato: altri al gius criminale, e fra questi vuolsi segnalare quello che s'intitola: Glossa in extravagantes « ad re- primendum» et «qui sint rebelles» avvegnachè scritto da lui poco prima di morire, e vi parli delle beneficenze usategli da Carlo IV. Altri poi referisconsi al gius privato, fra’ quali è notevolissimo quello che ha per titolo: De /luminibus s. Tyberiadis, che scrisse in villa nell’autunno del 1559 con l’ajuto del suo maestro in matematiche per la parte toccante alla geometria. Altri final- mente risguardano al processo de’ giudizj e di questi vogliono mentovarsi quello inscritto De testibus, da lui lasciato imperfetto e non di meno avuto come uno de’ suoi capi lavori; e la: Que- stio inter Virginem Mariam et Diabolum: siccome quella che a malgrado la sua goffaggine ebbe dei pedanteschi imitatori nelle scuole anco negli anni di che abbiam viva la ricordanza. In STORIA DEL DIRITTO ROMANO NEL MEDIO EVO 195 Biblioteca Barberini a Roma veggonsi lettere attribuite a Bar- tolo. E il trattato: De tabellionibus: stampato tante volte sotto il nome di lui, non gli appartiene. Dagli scritti di Bartolo scatu- riron poi compendj e lavori di altre persone, cioè : «) Singularia Bartoli. 6) Chr. Nicelli Placentini: Argumentum concordantiarum contrarietatum dii Bartoli. Lugd. 1515. 7) Distinetiones Bartoli ed. Mar. Socinus. Basil. 1566. d) Repertorium Bartoli auct. An- tonio Mincuccio de Pratoveteri. ) Apostille Bartoli e sono del Tartagni. n) Summaria Bartoli, cioè que’ passi delle sue opere apposti, non sappiam da cui, al testo del Corpus Juris. 8) Ca- sus breves în Dig. vetus, che trovansi tra quelli di Gio. Turnoux- Cap. LIV. — Contemporanei di Bartolo furono: I. Ranieri da Forlì, al cadere del secolo x nato in questa città della cavalleresca schiatta degli Arisendi, la quale tenendosi a parte guelfa ne fu con questa sbandito; onde Ra- nieri visse da giovane assai tempo in Ravenna. Nel 1519 inco- mincio a leggere in gius e nel 1524 sul Digesto nuovo con soldo di lire 100 in Bologna ov'ebbe colleghi il Belviso, il Buttrigario e il Malombra, e discepolo Bartolo. Nel 1554 vi leggea l’In- forziato. Nel 1598 la Università, bandita a tempo, venne da lui ridotta in Castel S. Piero, ma in quell’anno medesimo accettò cattedra in Pisa ove la tenne insino all’anno 1544. Quì ebbe a collega Bartolo, e si calmò, come sembra, l’animosità vegliata tra loro, posciachè Bartolo ne parla sempre con amore e con lode. Da Pisa tramutossi in Padova e vi dimorò il resto de’ suoi giorni, implicato in acri contese col suo collega e gia discepolo Signo- rolo degli Omodei. Morì nel 1558, e fu sepolto in S. Antonio dove serbasi il suo epitaffio. In che conto lo si avesse come professore lo dimostrano le lodi di Bartolo e di Alberico; suo figlio Assendino fu ancor egli lettore in gius. Opere di lui testi- ficate dal Diplovatazio sono 1.° Lectura super Dig. vetus tenuta in Padova l’anno 1555. 2.° Lectura super Infortiatum detta in Bologna nel 1554. Lectura super Dig. novum in forma di addi- 196 STORIA DEL DIRITTO ROMANO NEL MEDIO EVO zioni (15). 4.° Un Commentario al Codice. 5.° Altro Commen- tario al libro de’ feudi. 6.° Non poche Ripetizioni che si hanno a stampa nelle raccolte di questo genere. 7.° Un trattatello De substitutionibus che si ha ms. 8.° Consigli sparsi nelle raccolte e segnatamente tra quelli del suo emulo Omodei. 9.° Una Somma sul modo di argumentare. 10.° Propositiones majores et minores o cose notevoli in più luoghi del Romano Diritto. 11° Singularia che vanno alla rinfusa con quelli di Dino. II Francesco Tigrini da Vicopisano cui non mancarono i primi onori nel suo Comune di Pisa e ne fu anziano, a quanto sappiasi, almeno sei volte dall'anno 1555 al 1545, ebbe quì cattedra di que’ tempi, posciachè fu maestro a Baldo, il quale compiè suoi studj nel 1544. Dipoi, tra l’anno 1545 e il 1548, venne in Perugia come lettore perchè in quest’ultimo ivi si vede come tale segnato tra’ testimonj alla Carta di cittadinanza con- ceduta a Bartolo suo intimo amico; diè sovente insiem con lui de’ pareri, e già si disse come lo soccorreva della memoria e che una volta per levarsi un dubbio fecero consultare in Pisa il MS. delle Pandette. Dimorò in Perugia insino all'anno 1555, richiamato che fu a leggere in patria con lo stipendio di fio- rini 200; sennonchè nell’anno 1559, venuta la città in penuria, lo si licenziò con gli altri stipendiati professori, e sembra poco dopo morisse. Scuolari suoi più celebri furono Baldo co’ fratelli Angiolo e Pietro. Degli scritti di lui rimangono soltanto frammenti, e delle sue letture ricordate dal Diplovatazio ai libri ordinarj del gius pochi passi frammisti alla lettura sopra il Codice di Bartolo. E tra’ Consigli di Bartolo ve ne ha di quelli che Fran- cesco o diede solo o insiem con Bartolo, come nelle Napolitane leggi occorrono parecchie note di lui. II. Guglielmo da Pastrengo veronese, contemporaneo di (15) Probabilmente quella che corre a stampa. Lugd. ap. A. a Porte et. A. Vincentium, 1525. Di STORIA DEL DIRITTO ROMANO NEL MEDIO EVO 197 Bartolo ma lungamente sopravvissutogli, fu già ricordato come uno de’ primi scrittori della storia letteraria del Diritto, e se ne notarono i pregi e i difetti. A lui peraltro è dovuto luogo ancora tra’ giureconsulti, in quanto l’opera sua dimostrasi la prima ap- positamente fatta per contribuire alla istoria dell’antico Romano Diritto, e a malgrado di molti errori esibisce delle particolarità tutte sue proprie e non pochi materiali per la illustrazione delle fonti, segnatamente del Digesto; onde non senza meraviglia dee rilevarsi che non fu punto apprezzata nè posta a profitto sia da’ contemporanei o dai successori: tanto è vero che inutili rie- scono i soccorsi offerti al progresso della scientifica instituzione insino a che non giunge la maturità de’ tempi, ne’ quali si ha capacità e bisogno di trarne vantaggio. IV. Luca della Penna o Città di Penna negli Abruzzi nacque di ragguardevole famiglia, spenta nel decorso secolo, e visse intorno alla metà del xrv. Studiò in Napoli, e vi fu addot- torato nell’anno 1545 (14). Visse, per quanto sembra, come avvocato e giudice in patria, dove morì e fu sepolto in chiesa di ‘S. Francesco. Giureconsulto degno di memoria pel diligente suo Commentario agli ultimi tre libri del Codice che abbiamo a stam- pa, la cui origine egli discorre nel proemio, e che si contrad- distingue dagli altri lavori del tempo per l'occhio costantemente avuto al testo delle leggi da lui di fatto illustrate, pel suo stile e per l’uso degli scrittori non giuridici e segnatamente Isidoro, Papia, il dizionario di Ugo od Uguccione e gli antichi poeti: finalmente è notevole ancora per l’abominio che professa del gius longobardo, cui vorrebbe come peste sbandito. A lui si attribuisce inoltre 1.° Un libro de juris interpretatione che (14) Suoi precettori, ma non si sa se altrove, furono Enrico Accon- ciagiuochi (Acconzajocus) da Ravello e Simone da Borsano o Bursiano che morì nel 1581, arcivescovo di Milano e cardinale. Cita come contemporaneo e giudice di un suo parere Bartolo, commentando la L. Un. €. qui se de- ferunt (X. 3). 198 STORIA DEL DIRITTO ROMANO NEL MEDIO EVO avrebbesi ms. nella Biblioteca di Bologna. 2.° Quel lavoro nella Biblioteca di Leida che s'intitola: Lucas de Penna in Va- lerium Maximum, quem librum dedicat Gregorio PP. e che sarebbe Gregorio XI. 5.° Commentarj alle Napolitane leggi, ma, più presto che note da lui fatte alle medesime, sembrano citazioni per altri ricavate dal suo Commentario ai tre libri del Codice. Cap. LV.— Baldo e la famiglia Baldeschi. Di Francesco degli Ubaldi (oggi Baldeschi nobile perugina famiglia) professore in medicina e signore di parecchie castella, nacquero Baldo, verosi- milmente nell’anno 1527, uno de’ più famosi giureconsulti del medio evo, Angiolo e Pietro professori in gius ancor essi di non picciol conto. Studiò Baldo in Perugia e Pisa quasi che fanciullo in diritto, e tale disputò con Bartolo sovra un luogo del Dige- sto (15); ai 15 anni avea tenuto una ripetizione (16). Suoi precet- tori furono prima Gio. Pagliarense, poscia Francesco Tigrini e finalmente Bartolo (17): in diritto canonico udì Francesco Petrucci da Siena (18). Si laureò in Perugia nell'autunno del 1544 es- sendo Bartolo suo promotore, e tosto mosse a Bologna passando per Siena dove tenne con molta lode una disputa, cui fu pre- sente Bartolo. In Bologna lesse non più che insino all'anno 1547; poscia in Perugia, e se ne ha parecchie notizie insino al 1557 (19); e intanto fu egli uno de’ cinque Sapienti che invigilavano alla Scuola del Diritto, ora giudice della città, ambasciadore e vicario al Vescovo di Forlì che viveva in Perugia, ed ebbe a discepolo il Belforte, che fu poi papa Gregorio XI. Tenne (15) Castrens. in Dig. vet. L. 27. $. 4. D. de inoff. test. (16) Angel. in Dig. vet. L. 1. $.5. D. de postul. Baldus in xv anno repetiit L. Centum Capue. i (17) Bald. in Z/ de feud. cap. Vasallus. (18) Bald. in Cod. L. 49. $. 1. de Episcop. num. 5. (19) In questo tempo fu collega di Bartolo, e pare che tra loro an- dassero d'accordo. Che poi in una disputa avuta con questo suo maestro falsificasse un luogo delle Pandette è favola che non ha fondamento. STORIA DEL DIRITTO ROMANO NEL MEDIO EVO 199 quindi cattedra in Pisa nell’anno scolastico 1597-1558 (20) e po- scia in Firenze, dove ottenne la cittadinanza, dal 1358 al 1364, come appare da due ripetizioni quivi tenute ne’ primi due di questi anni; che anzi nel secondo gli nacquero due gemelli in Firenze, e nell’ultimo vi ha per lui una lettera del Comune di Firenze, la quale, tributandogli molte lodi pel suo insegnamento, dichiara di non volerne impedire il ritorno in patria. Quì egli fu nuovamente lettore dal 1564 al 1576, vi comprò casa insieme a’ fratelli, e tornò ad essere impiegato ne’ pubblici negozj. Tra le altre fu nel 1570 mandato oratore in Bologna a papa Gre- gorio XI, edivi tenne una ripetizione che abbiamo tuttora (21). Recavasi poscia a Padova e quivi stiè dall’anno 1576, inaugu- rando le sue lezioni in una disputa tenuta il dì 18 marzo, in- sino all'anno 1579 e segnatamente ai tre di novembre, lasciando così interrotto l’anno scolastico (22). AI finire pertanto dell’an- no 1579 tornò egli a leggere in Perugia dove nell’anno 1580 lo vediamo adoprato ne’ pubblici negozj, e così perfino all’an- no 1590 nel quale accettò la cattedra offertagli in Pavia da Gio. Galeazzo Visconti con 1080 annui fiorini di stipendio, quantunque nell’anno precedente si fosse obbligato a leggere in patria per un altro triennio. Passando a Pavia tenne in Milano alcune ripetizioni, e vuolsi che in Pavia riformasse gli statuti della città dove sali a tanta rinomanza che si prescrisse agli (20) V. il decreto della Repubblica Pisana. riferito negli opuscoli del Calogerà T. 25. p. 44. — Cf. Fabroni Historia etc. I. p. 52, il quale reputa che l’anno qui segnato sia il pisano e non il comune, non avvertendo che îl Fabrucci per più chiarezza avea già ridotto l’anno pisano al comune. (21) MS. 585 della Biblioteca di Perugia. (22) Che nell’anno 1578 Baldo leggesse in Padova lo prova una disputa di lui al S. Què propocavit con la data Padu@ 1578 mense martii inscritta: Disputatio Baldi de vi turbativa, e impressa Altorphii 1586 in 8.° | E della sua presenza in detta città a tempo rotto nel 1575 attesta il Com- mentario di Baldo alla L. 5. C. de indicta viduitate in fin. Ej. lectura su- i per VI. Cod. per Jo. de Colonia et Nic. Jenson. 1480. 200 STORIA DEL DIRITTO ROMANO NEL MEDIO EVO esaminandi di ricevere oltre agli ordinarj promotori o Baldo 0 un famoso canonista che dipoi fu vescovo di Vicenza (25). Del- l’anno 1595 si conserva la sua lettura in Pavia sopra alcuni libri del Codice; e dal 1597 al 1400 ivi lesse sul Digesto vec- chio con 1200 fiorini di stipendio; sennonchè nel 1598 passò temporariamente con quella scuola di diritto a Piacenza dove leggea nel 1599. Ma dentro quest’ anno tornò in Pavia e fecevi il suo testamento nel 26 di ottobre, e quì moriva ai 28 di Aprile del 1400 nella età di anni 75 e fuvvi sepolto in S. Francesco, d’onde il suo monumento fu poi levato non sono ancora molti anni, c posto in uno de’ loggiati della Università accanto all’altro bellissimo dell’Alciati. Di Baldo nacquero tre figli e giurecon- sulti Zanobi (24), Francesco e Bartolommeo a’ quali lasciò un pingue retaggio (25). Chiari tra’ suoi discepoli furono Pietro Belforte o papa Gregorio XI; Pietro Ancarano; il Cardinale Zabarella; e sopra tutti Paolo di Castro. Paragonato a Bartolo, Baldo si reputò di maggiore acume e sottigliezza, ma di minor virtù nel penetrare il vero delle cose: gli si attribuiscono più assai difetti, nè mai presso l’universale ebbe uguale celebrità quantunque più vaste fossero le cognizioni di lui che non solo seppe ma professò eziandio il diritto canonico. Adoperato le mille volte negli affari e nelle ambasciate del suo Comune fu quì consulente de’ più ragguardevoli tra’ Corpi d’arti e mestieri, _ e strette furono le sue aderenze alla Corte di Roma. Da papa Gregorio XI, già suo discepolo e ch'egli avrebbe instigato a (25) Gio. da Castiglione secondo il Diplovatazio V. Chr. Portius in II. pr. Lib. Inst. S. 15 de exeusat. num. 5. 24) Zanobi vuolsi dal Panciroli che fosse vescovo di Città di Castello (Mazzucchelli Vite ec. p. 148. nota 21). Il Diplovatazio lo appella dottor di leggi e cavaliere aurato. (25) Il Tartagni in rubr. tit. Dig. de vulg. subst. attesta come detto dal Gumano che lo udì da Baldo medesimo, aver lui guadagnati 15000 ducali de’ suoi pareri intorno alle sostituzioni, STORIA DEL DIRITTO ROMANO NEL MEDIO EVO 201 lasciare Avignone, vuolsi ottenesse giurisdizione sulla città di Castro. E nel 1578 difese da Padova i diritti di papa Urbano VI di lui successore contro l’antipapa Clemente nel suo voto: De schismate, che corre a stampa nel Commentario di lui al Co- dice (26): e durando lo scisma il Papa chiamollo nel 1580 da Perugia a Roma, dove per lo stesso effetto giungeva ancora Gio. di Lignano da Bologna, e quì scriveva un secondo voto in difesa del Papa (27) che lo rimunerava di un castello ( Festina ) nel contado di Gubbio. Traviati dagli scritti di parte de’ seguaci dell’antipapa, crederono alcuni che Baldo dettasse voti ancora in favore di lui; taccia apertamente falsa; perchè di questi voti niuno si additò mai, nè se ne vede menoma traccia. Delle opere di Baldo più rilevanti sono 1.° La Esegesi alle diverse fonti del gius civile così giustinianeo, come di due delle appendici al medesimo, cioè al libro de’ feudi ed alla pace di Costanza. Negli scritti intorno ai libri giustinianei sempre più rilevasi l'errore de’ tempi di considerarne, senza buona cagione, alcune parti come più importanti delle altre che trovansi intiera- mente omesse: in Baldo omettesi la più parte del Digesto nuovo e dell’Inforziato. Anche la illustrazione del Codice non è com- pleta (28). Il Commentario al libro de’ feudi lo dettò Baldo in Padova nel 1591 quando correvan già quarantasette anni da che egli era professore. È questo uno de’ lavori più capitali di lui, onde un collettore estrasse que’ così detti Casus breves di Baldo, raccozzando le prime linee di ciascun titolo e paragrafo di quel commentario. Diverso da questo è l’altro lavoro intitolato: De feudis additiones, condotto da Baldo in aggiunta al libro del (26) Sotto il titolo: De edieto D. Hadriani ete. (VI, 55). (27) In Rainaldi Annales, T. VII p. 615—G51. (28) Dalla minore eleganza dello stile deduce il Diplovatazio non essere di lui il Commentario alle Institute. Ma la sigla Ba/., che occorre spesso per entro a quelle, sembra al Savigny fondamento bastevole per averlo come scritto da lui. 9 202 STORIA DEL DIRITTO ROMANO NEL MEDIO EVO Sillimani sovra il gius feudale. Il Commentario alla pace di Co- stanza lo scrisse in età anche più provetta, e nelle glossate edizioni sta come chiosa ordinaria a questa Appendice. Da queste fatiche di Baldo si ricavarono, in parte almeno, que’ Sommarj che non di rado nelle edizioni occorrono ad alcune parti del Corpus juris, segnatamente al Codice e al libro de’ feudi. 2.° La Esegesi alle fonti del Dritto Canonico, cioè la sua lettura ai primi tre libri delle Decretali. 5.° Consigli in cinque libri. 4.° Le Opere maggiori intorno alla procedura, cioè le ampie Giunte allo Specu- lum del Durante; la Practica o Practica judiciaria, libro certa- mente suo, ma non si sa per qual parte; poichè nella edizione . del 1515 termina con la dottrina degli appelli, e in quella del 1528 seguitano molti altri capi senza indicazione che sieno altrui, eppure non sembrano di Baldo; e la conclusione del- l’opera, abbracciandola in tutte le sue parti, rende semprepiù incerti intorno a tutto il lavoro. Finalmente 5.° scritti minori, e sovra materie particolari di Baldo sono; quello che è perduto: De juris doctoribus: e De commemoratione; il trattato De pactis: la disputa: De vi turbativa: ed altri opuscoli sparsi per la gran collezione de’ trattati (29). Quel libro poi De statutis che si at- tribuisce al medesimo, altro non è se non una raccolta in ordine alfabetico de’ varj luoghi di Baldo relativi agli statuti, fatta da Sigismondo suo pronipote. II. Angiolo fratello di Baldo nacque nel 1518. Di anni 17 incominciò suoi studj in diritto, e udì Francesco Ti- grini, Bartolo e Baldo: avvocato ai 20 anni, si addottorò di 24 e nello stesso anno (1551) ebbe cattedra in Perugia e a colle- ghi Bartolo e Baldo. In questa cattedra, ma non senza qualche (29) Cioè: de tabellionibus (T. 5. p. 1): de testibus (T.4): de con- stituto (T.6. p. 1): de syndicatu (T.7): de substitutionibus (T.8. p.1): de inventario (T. 8. p. 2): de carceribus; de questionibus (T.11. p. 1): de exceptionibus (T.12): de jure protimiseus (T.17).Il libro: de statutis trovasi nel T. 2. f. 86—157. STORIA DEL DIRITTO ROMANO NEL MEDIO EVO 205 intermissione, perchè nel 1565 fu assessore in Bologna, nel 1584 podestà in Città di Castello, durò insino al 1584; quando per gli sconvolgimenti di quella patria fuggi, ed assente fu per cin- que anni relegato in Padova, dove ottenne una lettura ordinaria e vinsegnò dall’anno 1584 infino al 1586, in cui divenne vicario del Vescovo di Arezzo, e, avendo così rotto il bando, nel 1587 vennegli rinovata la pena. Nel 1588 era professore a Firenze e quindi in Roma d’onde si trasferì a Bologna, ove lesse dal 1591 al 1594. In quest'anno, liberato dal bando e ristorato d’ogni danno sofferto, tornò in patria ove adoperò ora nella cattedra ed ora ne’ pubblici affari. Nel 1598 ebbe divieto di assentarsi dalla scuola; nondimeno tornò in Firenze e dimorovvi negli anni 1598 e 1599. Da quindi in poi non si ha più novella di lui nè della sua morte dai contemporanei; sennonchè per molti posteriori documenti, che sono in Perugia, sembra morisse in patria nel- l’anno 1407 (50). Scrisse Angiolo, 1.° Intorno alle diverse fonti del gius civile, eccetto che le Institute. 2.° Consigli. 5.° Trattati speciali. 4.° Dispute. 5.° Ripetizioni. IIL Degli altri Baldeschi. Pietro, il più giovane de’ fra- telli di Baldo, insegnò in Perugia dritto canonico; poi dopo fu lungamente avvocato concistoriale in Roma e quindi nuova- mente professore nella sua patria. Se ne hanno a stampa non pochi lavori. Della discendenza di questi tre fratelli parecchi vennero in qualche rinomanza o come professori o come scrit- tori, i quali per la somiglianza de’ nomi si scambiarono co’ loro maggiori. Ma non solo tra loro; Baldo e i Baldeschi non di rado si confusero eziandio con Angiolo e Baldo di Angiolo de Perigli e. Baldo Novello (Bartolini ) i quali, perchè perugini, vengono più spesso indicati per la patria che non il cognome; onde assai volte è malagevole distinguer questi da quelli, e così ne’ mss. come nelle edizioni le opere degli uni non di rado attribuisconsi agli altri. (50) Bini pag. 110. Vermiglioli I. pag. 104, 204 STORIA DEL DIRITTO ROMANO NEL MEDIO EVO Cap. XVI. — Metà prima del secolo xv. I. Bartolommeo da Saliceto di antica bolognese famiglia cognominata dalla villa Saliceto, quattro miglia discosta da Bolo- gna, fu nipote e discepolo di Riccardo da Saliceto lettore in gius della stessa casata. La prima sicura notizia che abbiamo di lui è dell’anno 1565 in cui si nomina come professore in Bologna, dove occorre eziandio negli anni 1564, 1565 e 1570, quando il Cardinale Legato fratello di papa Urbano V lo licenziò perchè desse luogo a più giovani professori; onde tramutossi in Padova, e quì lesse dall'anno 1570 al 1574 e scrisse nell’anno 1575 il libro IX del suo Commentario al Codice. Tornato quindi in patria, ivi ricordasi o come adoperato ne’ pubblici affari o nel- l’albo de’ stipendiati professori insino all’anno 1589, in che prese parte alla congiura per tradire la patria in mano di Gio. Galeazzo Visconti; e quantunque per causa di sua fama gli si risparmiasse la vita e lo esilio, nondimeno per vergogna e dolore fuggì da Bologna a Ferrara, dopodichè fu bandito e confisca- togli i beni. Nell'anno 1591 era in Ferrara membro della nuova Università, durata insino al 1594. Nel 1598 fu richiamato a Bologna e l’anno appresso nuovamente bandito, onde tornò in Padova, dove abitò in convento dei Domenicani e compievvi neli’anno 1400 il suo Commentario al Codice. Ebbe anche adesso luogo tra’ professori, come appare dalle notizie che re- stano di sue lezioni e della parte presa nelle promozioni degli anni 1400 e 1401. Nel 1405 rientrò in Bologna, e quì lo si vede insino al 1409 registrato nel sillabo de’ professori. Morì ai 28 decembre del 1412, e si conserva il suo testamento del 1409 e il codicillo del 1410. Illustri professori tra’ suoi discepoli furono il Fulgosio, Alvarotto, Pietro d’ Ancarano e lo Zabarella. Restano di lui 1.° Un Commentario al Codice che è l’opera sua maggiore, diligentemente scritta in forma di libro, e non già cavata da’ quiderni di sue prelezioni. Narra egli come commentò prima il libro IX in Padova nel 1575; poscia in Bologna nel 1582 si STORIA DEL DIRITTO ROMANO NEL MEDIO EVO 205 fece dal I° libro e proseguì la fatica insino al libro III tit. 35; quindi lavorò in Ferrara insino al titolo 18 del libro VIII, e finalmente compì l’opera in Padova nel 1400. Ce ne ha parec- chie edizioni. 2.° Un Commentario al Digesto vecchio che va pure a stampa ed abbraccia la seconda parte di questo volume, cioè i libri XII-X.XIV. tit. 2. 5.° Consigli. 4.° Ripetizioni. 5.° Una dissertazione De mora: e occorre nella gran Collezione de’ trat- tati (01). A torto poi gli si attribuiscono un libro: De usw feu- dorum: ed una raccolta di lettere di più tardo scrittore che s'intitola: Barth. Saliceti et Lud. Regi Epistole ad Augustinum Mapheum. II. Raffaello Fulgosio nacque nel 1567 di nobile famiglia in Piacenza; studiò in Bologna sotto il. Saliceto e il Castiglione. Nel 1589 fu professore in Pavia, e dieci anni dopo passò per breve tempo in Piacenza con quella facoltà di gius. Nel 1407 ottenne con molto onore cattedra in Padova; e siccome nel 1409 fu invitato a Parma, il Senato Veneto lo ritenne in Padova au- mentandogli lo stipendio. L’anno seguente recossi al Concilio di Costanza dove lo si trattò con molto rispetto, e dopo il ritorno fu spesso chiamato a Venezia per le più gravi consulte. Morì nel 1427 in Padova di anni sessanta, e nella Chiesa di S. Fran- cesco gli s'inalzò un magnifico monumento. Si contraddistinse il Fulgosio non per un metodo che gli fosse proprio, ma per la singolarità delle sue opinioni nelle giuridiche dispute; opinioni che vuolsi accattasse dal Castiglione suo precettore (52). Restano del Fulgosio 1.° Un Commentario al Codice in due parti: opera più completa e meglio ordinata che non la più parte delle con- simili, e perciò dimostra esser quella un libro e non il testo di sue prelezioni. 2.° Un Commentario al Digesto vecchio, e 5.° al (51) T. 6. p. II f. 411-415. (52) Fulgos. in Cod. L. 6. de obl. et act. (TV, 10). Lugd. 1547. — Jason. în Dig. vet. L. 1. de pactis. 206 STORIA DEL DIRITTO ROMANO NEL MEDIO EVO nuovo. 4° Consigli che dal Rittershus arricchironsi di una giunta (95). II Giovanni da Imola de’ Niccoletti nobil famiglia, fu figlio di Niccolò; al quale, recatosi di buon’ora in Bologna, può essere che quì nascesse Giovanni ivi discepolo di Francesco Ramponi e Gio. da Lignano. Laureato in utroque nel 1597 ebbe, con dispensa, cattedra di gius pontificio negli anni 1599-1400. Nel 1402 fu professore in Ferrara; nel 1406 lettore ordinario in Padova di Decretali; tornò poco dopo in Bologna, dove si scorgono vestigie di lui dal 1416 al 1422, e quì gli bruciò la casa con una biblioteca di 600 volumi, a restaurare la quale fu soccorso dal pubblico. Padova lo raccolse un’altra volta, poscia che nel 1450 ivi gli si vede cresciuto lo stipendio. Morì in Bo- logna; fu depositato prima in Chiesa di S. Domenico, e tumulato in seguito nel sepolcro de’ Garisendi. Celebri lettori de’ suoi scolari furono Mariano Socino, Lodovico Romano ed Angiolo Aretino. Di lui si hanno 1.° Commentarj al Digesto nuovo e al- l’Inforziato. 2.° Un Commentario ai primi tre libri delle Decretali e un altro alle Clementine che corrono a stampa. 5.° Altro Com- mentario al VI citasi dal Diplovatazio. 5.° Consigli. 4.° Opuscoli, p. es. De appellationibus. 5.° Ripetizioni. IV. Paolo di Castro nacque di picciola e povera gente : udì Baldo in Perugia e il Castiglione non si sa dove. Addotto- rossi in Avignone, e là incominciò ad insegnare; fu dipoi pro- fessore in Siena nel 1590 (54); dal 1594 al 1412 in Avignone; finalmente in Padova dal 1429 insino alla morte. Degl' intervalli di sua erratica vita sappiamo, senza poter dirne gli anni, che fu per qualche tempo auditore in Roma del Card. Zabarella arci- vescovo di Firenze, ed in Firenze vicario generale di lui con pontificia dispensa perchè ammogliato: e quì, secondo il Diplo- . (35) Consilia posthuma (n.° 58) ed. C. Rittershus. Amberg® 1607. (54) P. Castr. in Infort. L.1. sì filius heres D. de liber. STORIA DEL DIRITTO ROMANO NEL MEDIO EVO 207 vatazio ed il Panciroli, sarebbe stato anche lettore in gius; ma di ciò nulla dicono gli scritti di lui, onde sappiamo invece che par- tecipò alla riforma degli statuti di quella città. Finalmente fu egli professore in Bologna ov'ebbe a collega Gio. da Imola, ed in Perugia ancora, dove dimorò, probabilmente ebbe cattedra (35). Morì in Padova ai 20 di luglio 1441 (56) e fu tumulato ai Servi, dove un suo nipote fecegli erigere un monumento la cui inscri- zione dà molti particolari della sua vita. Parecchi de’ suoi sco- lari furono poi egregi professori, ad es. il Cipolla, il Tartagni e il Mencucci. Fu Paolo uomo di rigida e timorata coscienza, come rilevasi da’ suoi consulti e dalle ammonizioni agli scolari negli altri suoi scritti (37), e vi ha traccia di sue critiche fatiche intorno alle fonti del gius, avendo lui consultato un antico avi- gnonese MS. delle Pandette e conosciuto la Epitome di Giuliano delle Novelle che loda come più breve e più chiara, onde opina potesse muovere dallo stesso Imp. Giustiniano (98). Ebbe un figlio, Angiolo, e diversi de’ suoi discendenti che parimenti si segnalarono come professori in diritto. Il Castrense lasciò 1° Commentarj a’ tre Digesti molto più completi che non quelli di altri contemporanei, e al Codice la cui prima parte abbraccia soltanto i primi quattro libri e la seconda il VI e il VII, come (35) P. Castr. in Auth. ad hee C. de judic. — in Cod. Cons. hec que necess. n.° 10. L. Un. de înoff. dot. Auth. qua in provincia, ubi de criminibus n.° 5. — in Cod. L. 26. de inoff. test. n.° 5. (56) Vuolsi comunemente morisse nel 1456 o nel 1457. Ma che egli leggesse nel 1459 lo dice da se medesimo nel suo Comm. in Cod. L. 2. de rescind. vend. n.° 4. e in Cod. fin. L. IV. In un digesto vecchio di Monaco (n.° 1. dalla Biblioteca di Frisinga ) leggesi nel foglio a guardia: « No. hic. quod famosissimus juris utriusque monarcha dominus et preceptor meus Dious Paulus de Castro obitt MCCCCXXXXI terltiodecimo Kal. Aug. die mercurii hora XXII ». (57) Gastr. Cons. p. I. Cons. 121. — In dig. Vet. L. 16. L. 17. de negot, gest. n.° 17. (58) V. Cepolla Repet. Auth. sed novo jure C. de sero. fugit. n.° 15. ( Repelitt. Lugd. 1555. vol. 8). 208 STORIA DEL DIRITTO ROMANO NEL MEDIO EVO appare dalle edizioni e si ritiene ancora dal Diplovatazio. Qual complemento de’ Commentarj possono aversi alcune ripetizioni di lui che vanno a stampa (99). 2.° Consigli. V. Antonio Mencucci nacque nel 1580 a Pratovecchio in ‘Toscana, ond’egli è più comunemente detto Antonio da Prato- vecchio (40). Avuti i primi rudimenti in patria, si recò egli di venti anni a Firenze per istudiarvi le lingue morte e la filosofia. Furono poi suoi maestri in gius Floriano da S. Pietro in Bolo- gna e Paolo di Castro, ma non si sa dove. Ne’ pubblici negozj comparisce per la prima volta al Concilio di Pisa nel 1400, ov'egli giustifica in un voto la deposizione dal trono dell’Im- peratore Venceslao, e così sta contro la parte del Pontefice. Nel 1410 conseguì cattedra in Bologna, e a malgrado molte intermissioni la occupò parecchi anni avanti di essere addotto- rato. L’Imp. Sigismondo lo invitò e lo accolse onoratamente al Concilio di Costanza, decorandolo della dignità di conte e di consigliere del S. R. Impero. Negli anni 1419 e 1420 leggeva in Bologna; nel 1422 ebbe con un professore di Siena una letteraria disputa intorno alla lezione di un luogo delle Pandette, per cui ne fece riscontrare il testo pisano che avea conosciuto in Pisa. Nel 1424 fu di anni quarantaquattro dottorato in gius civile, e quivi leggeva ancora nel 1428, quando ultimava il suo lavoro sovra il gius feudale. Nel 1451 lui si vede in Firenze adoperarsi a correggere gli statuti della Università e il suo gius feudale e stringersi alla parte di Cosimo de’ Medici, che nel- (59) Nelle grandi Collezioni di Ripetizioni T. 1, 6. 7. ce ne ha quattro, ed una nella Repetit. X. Legum. Paris. 1509, 8.° f. C. (40) Il Maccioni nelle sue Osserpazioni sopra il diritto feudale, con- cernenti la storia e le opinioni di Antonio da Pratovecchio; Livorno 1764, p. 9 e 10, vuole che il casato di lui sia Minucci, così chiamandosi da se stesso ne] suo libro del gius feudale. Ma potendo esservi incorso errore di copia, sembra doversi in ciò preferire la lettera di cittadinanza concedultagli in Bologna ov’ egli è chiamato Drum Antonium olim Marci de Minichutiis de Pratoveteri, riferita dal Fantuzzi p. 98. 105. STORIA DEL DIRITTO ROMANO NEL MEDIO EVO 209 l’anno 1455 donogli una bella casa. Negl’intervalli poi ora fu professore in Padova ed ora in Siena, e nel Concilio di Basilea, non si sa in che anno, trattò negozj di più maniere per l’ Impe- ratore, il Re di Napoli nelle sue dispute feudali col Papa, e la Repubblica di Venezia. Nel 1458 tornò nuovamente professore a Bologna e vi fu laureato in gius canonico nella età di anni cinquantotto; nel 1459 ottennevi cittadinanza. Dal 1440 in poi insino all’anno di sua morte occorre sempre nel catalogo dei professori, e per molti documenti rilevasi che gli stipendj se ne aumentavano gradatamente e che nell’anno 1456 ebbe facoltà di scegliere la materia di sue lezioni, mentre gli altri professori dovean tenersi a quella che dava titolo alle loro cattedre. Tali erano le onoranze da lui ricevute in Bologna quando, oramai vecchissimo, vi sperimentò il più avverso destino. Nell'anno 1468 due figli suoi commessero un omicidio, ond’egli con tutta la famiglia venne bandito dalla città, ed in quell’anno istesso morì in esilio di anni ottantotto. Antonio da Pratovecchio fu uomo di molte lettere, ma le opere di lui poco se ne avvantaggiarono; laonde per questo canto troppo non si distinguono dalle altre de’ contemporanei. In gioventù tenne le parti dello Imperatore, dipoi quelle del Papa. Suo discepolo e amico fu Francesco (Accolti) Aretino. Scrisse 1.° Commentarj a’ tre Digesti secondo il Maccioni (11) che sarebbero rarissimi, cosa non poco singolare (41) Un Commentario all’Inforziato, come da se veduto in Biblioteca di Lucca e impresso s. I. et a., cila il Maccioni nelle sue Ossereazioni ee. p- 26 nota 4. Gita inoltre de’ luoghi a’ tre Digesti senza notare onde gli tragga, se da mss. o edizioni, nella appendice pag. 27, 52, 55, 59. Il Lipe- nio pag. 745, 744 cita Comm. in Infort. Bonon. et in Dig. Nov. Bonon. Il Diplovatazio ne tace e il Panzer non riferisce edizioni. Tanto il Savigny pag. 262, testo e note. *) Esaminato diligentemente da per mel Catalogo della Biblioteca Felini vidi ricordati soltanto e riscontrai in effelto non più di quattro lavori di Antonio, cioè: AI n.° 52 il Lewicon Juris che il Maccioni distingue dal Repertorium aurcum. Al n.° 512 Repertorium aureum in Bar- tolum impressum sine loco et anno. Al n.° 406 un Consiglio. AI n° 427 la 27 210 STORIA DEL DIRITTO ROMANO NEL MEDIO EVO in autore di tanta fama! 2.° Consigli: parecchi de’ quali o stansi nei MSS. o sparsi fra quelli di altri legisti e segnatamente di Alessandro da Imola. 3.° Tractatus Quartarum; cioè, verosimil- mente, sulla Falcidia ec. 4.° Repertorium Bartoli che il Mac- cioni, seguitato erroneamente dal Fantuzzi, distingue in due opere; una delle quali sarebbe un Repertorio o vocabolario giuridico e l’altra un Repertorio a Bartolo, mentre esse formano un corpo solo come già avvisarono il Diplovatazio, il Panciroli, il Mantua ec. 5.° Repertorium Baldi che secondo il Maccioni (pag. 26) sarebbe stampato. 6.° Un Riordinamento de’ libri sui feudi, lavoro che serbò insino a noi il nome di Antonio. Ordinò egli l'antico testo in VI libri e 25 titoli (42) e apposevi non la glossa ordinaria di Accorso ma quella precedente di Jacopo Colombi, che non curò di acconciare alla nuova disposizione del testo. 7.° Osservazioni e note al gius feudale. 8.° Singularia Cini. Cap. LVII. — Metà seconda del Secolo XV. I. Alessandro, di Niccolò, Tartagni da Imola nacque nel 1425 o nel 1424 (45). Suoi precettori furono Gio. da Imola, Gio. de Anania, Angiolo Aretino e Paolo di Castro. Laureato nel- l’anno 1445 in Bologna, ivi era nel seguente vicario ed assessore recompilazione de’ Libri feudorum, MS. stupendo e adorno di bellissime mi- niature. Di un Commentario all’Inforziato non mi occorse la menoma trac- cia, ed è notabile che lo stesso Maccioni non segna il Codice Feliniano in che lo avrebbe veduto; mentre citando gli altri Javori del Mencucci riferisce appunto gli stessi Codici esaminati in Lucca dall’estensore del presente Arlicolo. (42) Antonio dedicò l’opera alla Università di Bologna, la quale sì adoperò con l’ Imperatore Federigo IM acciò confermasse questo lavoro, come glie ne diè preghiera Antonio medesimo. Ma lo Imperatore lo approvò e raccomandò soltanto per l’uso nelle scuole. Se ne ha più mss. e due edizioni Argentor. 1625 App. ad Schilter Cod. j. Alemann. feud. 4° Ar- gent. 1728 in f.° (45) Secondo la sua inscrizione sepolerale che lo fa morto nel 1477 di anni cinquantatre. Ma siccome Gio. da Imola morì nel 1456, ne verrebbe che di dodici anni studiava in diritto, Jo che non ha tfoppo di verosimiglianza. STORIA DEL DIRITTO ROMANO NEL MEDIO EVO 211 al Conservatore della giustizia. Dal 1450 in poi tenne cattedra in diversi luoghi; in Pavia nel 1450-1451; in Bologna dal 1451 al 1457; in Ferrara dal 1457 al 1461; nuovamente in Bologna dal 1461 al 1467; in Padova dal 1467 al 1470, ove incontrò dispute di precedenza col Cipolla suo concorrente e collega; finalmente di bel nuovo in Bologna dal 1470 al 1477 anno della sua morte, e quì fu sepolto in un superbo monumento erettogli nella Chiesa de’ Domenicani. Uomo di miti costumi, astenevasi dal render voti criminali contro gl’inquisiti; ebbe più diligenza che non ingegno, e difettò eziandio di memoria. Inveì contro la prosa italiana ed il Boccaccio suo fondatore, perchè se ne impa- ravano soltanto inezie.ed amori. Lasciò scolari di molta fama, Giasone, Bartolommeo Socino, il Bolognini e Lancellotto Decio. Del Tartagni si ha: 1.° La sua Esegesi al Romano Diritto stam- pata in raccolta dietro i quiderni delle prelezioni: nel Digesto vecchio e nel Codice vi hanno di grandissime lacune. Diversa da questa collezione è l’altra inscritta: Alex. Tartagni ad fre- quentiores ff. titulos Venet. 1595, e pubblicata da Gio. Battista Ferretti nipote di Matteo Vico sovra i quiderni che questi, sco- lare per sette anni e convittore che fu del Tartagni, aveva co- piati. Questi Commentarj sono molto cattivi e pieni de’ vizj del tempo. Il Tartagni fece postille ancora agli scritti di Bartolo che s'incontrano nella, più parte delle nuove loro edizioni. 2° Esegesi al Dritto Canonico. Cita il Panzer una antica edi- zione del Commentario di lui in Z47. Decretal. (Bonon. 1485); il Fabricio un Commentario al VI ed alle Clementine. 5.° Consigli partiti in VII libri e sono la migliore delle sue opere, anche ai dì nostri assai consultata. 4.° Opuscoli: incerto è peraltro se quello: De actionibus, sia di lui o di Giasone. II. Bartolommeo Cipolla udì in Bologna Angiolo Aretino e Paolo di Castro, fu dottorato nel 1446. In Ferrara nel 1450, e dal 1458 in poi fu professore in Padova. Decorato, ignorasi in che circostanza, del titolo di conte e di cavaliere, invanì al 212 STORIA DEL DIRITTO ROMANO NEL MEDIO EVO segno di avere molte dispute di precedenza col Tartagni suo collega. Nel 1466 dimorava in Roma e quì fu avvocato conci- storiale; sennonchè tornò di buon’ora in Padova dove nel 1470 la seconda e quattro anni dopo teneva la primaria cattedra in gius civile: ivi morì nel 1477. De’ diversi trattati da lui scritti i più rilevanti sono: 1.° De’ dogmatici: quelli 2) De servi- tutibus urbanorum prediorum. £) De servitutibus rusticorum pre- diorum; usati ancora ai dì nostri. 7) De usucapione. è) De simu- latione contractuum. 2.° Dei pratici, i Consigli, il trattato delle Cautele; e parecchi opuscoli che occorrono nelle grandi collezioni di questo genere (44). Il Diplovatazio gli ascrive ancora de’ com- mentarj sui libri ordinarj del gius, e sovra il titolo de verborum significatione (‘). III. Gio. Battista Caccialupi da S. Severino nella Marca di Ancona studiò nell’anno 1441 in Perugia sotto Angiolo de’ Perigli e Giovanni di Pietruccio da Monte Sperello. Fu pro- fessore in Siena (**); incerta è ogni altra notizia della sua vita; (44) V. p. es. Tractatt. univ. juris. T. I. e T. XVI. (*) Iugler accenna a edizioni delle sue Opera. E difatti io conosco quella Lugd. 1577 sumptibus Philippi Tinghi Florentini, che oltre il testè detto Commentario de verbdor. et rerum signif. esibisce anche Commentaria in titt. de Edilitio Edicto et Redhibitoria actione, pag. I. et seqq. Che anzi ho veduta ancora la edizione principe del Commentario de Edil. Edict. Venet. 1550, il cui principio appella ad altri suoi lavori esegetici (forse prelezioni ) sovra gli antecedenti titoli del Digesto. (**) Volendo schiarire alcun poco le notizie intorno al Gaccialupi mi rivolsi al mio erudito amico sig. Giuseppe Porri tipografo di Siena, onde instituisse delle ricerche in quell’Archivio delle Riformagioni. Da lui per- tanto e dall’egregio e dotto sig. Dolt. Gaetano Milanesi ottenni Je seguenti notizie. I « libri delle Deliberazioni del Concistoro » attestano come nel mese di marzo e aprile 1451 e 52 Gio. Battista da S. Severino eccellentissimo Dottore era giudice delle Riformagioni in Siena. Per deliberazione de’ 25 di ago- sto 1452 è raffermato in quell’ufficio e condotto per la prima volta a leg- gere nello Studio di Siena, con l’annuo stipendio di fiorini 60 di lire 4 per fiorino, e in quello studio lo vediamo perseverare insino all'anno 1461. Sennonchè nell’anno 1456 lo stipendio cresce a fiorini 100 *‘o tire 400; STORIA DEL DIRITTO ROMANO NEL MEDIO EVO 215 Bartolommeo Socino suo discepolo grandemente lo encomia. Scrisse egli 1.° De modo studendi nel 1467 in Siena, libro assai curioso per le notizie letterarie di que’ tempi. 2.° De pactis, ed è un trattato distinto in quattordici questioni e da lui scritto nel 1468 per completare in proposito le sue prelezioni inter- rotte in Siena dalla peste (**). 5.° Parecchie «ripetizioni sparse nel 1458 a fiorini 150 o lire 600; nel 1460 a fiorini 160. Intanto il Caccia- lupi continuava sempre ad esser giudice delle Riformagioni. Dal 1461 al 1480 non si ha in que’ libri più notizia di lui. Ma nel dì 4 di aprile 1480 (V. Balia Tomo XVII ) lo troviamo nuovamente, con molti altri dottori e maestri, condotto a leggere per dieci anni in Siena con lo stipendio di fio- rini 500, o lire 1200 che è il maggiore di tutti, perchè degli altri chi ha più paga riceve 250 fiorini, e chi ne ha meno 25. Nel 1485 peraltro il Caccialupi straziato il cuore per la furia delle parti che desolavano questa sua seconda patria, Siena, in che avea dimorato trent’anni, partissene; e nel dî ò novembre di quest’anno salito in arringo dopo avere esortato i cittadini a cessare dagli odj e dalle dissensioni domandò licenza, e inginocchiatosi chiese perdono a tutti d’ogni suo trascorso. Ecco le parole del Tizio di lui scuolare, nelle Storie Sanesi inedite e secondo la copia delle medesime esistente nella Sanese Biblioteca, T. V. pag. 458. « 1485 — Die Novembris « tertia .... Subinde autem Joannes Baptista Caccialupus e Santo Severino « Jurisconsultus celeberrimus, qui annis triginta in urbe Senensi fuerat et « magna audientium attentione legendo atque interpretando jus civile pri- « marium post Franciseum Arretinum cathedre locum tenuerat, ita ut etiam « judicis reformationum functus officio fuisset, quem nos quoque precepto- « rem fere biennio audivimue, cum ex urbe Sena migrare decrevisset civibus « desolata, ea die ambonem conscendens luculentam habuit orationem reipu- « blice ac civitatis conservationem hortatus, pluribus in medium rationibus « adductis, ita ut omnium ora in se conversa haberet et que intulerat miro « suaderet eloquio. Oralione interea dimitti se et dari a Senensibus veniam « efflagitavit, flexisque genibus coram decurionibus universis ut sibi igno- « scerent deprecabatur ». Vuolsi poi notare che Je opere di lui veggonsi stampate in Siena successivamente negli anni 1484—1494, mentre egli era passato avvocato concistoriale e lettore di gius pontificio in Roma non più tardi dell’anno 1485 e quì moriva nell’anno 1496, come appare dall’ « Elogio » re- centemente scrittone da Monsig. Gio. Carlo Gentili (Macerata 1844, 8.° p. 56). (***) È noto che in occasione di peste le Università Italiane si tra- sferivano da una città all’altra, e i Comuni Toscani ordinavano che si tra- sferissero in altra terra del loro comune. Ecco in proposito quanto si trova 214 STORIA DEL DIRITTO ROMANO NEL MEDIO EVO per le grandi collezioni delle medesime, e di che una raccolta in tre volumi fatta negli anni 1459-1464 sta manoscritta in Siviglia. 4.° Parecchi trattatelli che occorrono nella collezione de’ trattati. Il Diplovatazio ascrivegli inoltre commentarj sopra i libri ordinarj del Diritto. IV. Francesco Accolti di Arezzo (Aretinus) nacque in- torno al 1418. Discepolo in lettere del Filelfo, udiva in gius Antonio da Pratovecchio non si sa quando nè dove. Dedicatosi allo insegnamento fu prima professore in Bologna tra l’anno 1440 ordinato in Siena ( Filze Concistoriali T. 298) nell’anno 1417. «In nomine « Domini etc. Magnifici Domini et Capitaneus populi cum vexillifero, magi- « stris et quatuor e sapientibus studii. Quod cum per formam conducte « doctorum studii caveatur quod si casus peslilentie eveniat in civitate Sena- «rum quod tunc dictis doctoribus assignetur quidam locus determinatus « ubi non sit pestilentia, et ubi debeant legere doctores predicti; et viso « quod jam pestilentia incepit in civitate Senarum ex quo dicti doctores et « scolares volunt discedere etc. (ordinarono ) — Quod dicti doctores vadant «ad standum et legendum in civitate Masse sive in castro montis Ylicini « et primo ad Massam, donec locus ille fuerit sanus et si pestis evenerit « vadant ad montem Ylicinum ». Anche più completa è la notizia della Sanese Università in Lucignano mia patria, accaduta nell’anno 1450. (V. Filze Concistoriali T. 574). «A. 1450: die 21 Junii, Martis. Antedicti magnifici « Domini etc. decreverunt eligere et eligerunt Bartholomeum dùi Thomasii «de Agazaria qui vadat Lucignanum Vallis Clanarum, ad providendum « stantias pro studio transferendo in dicto castro, cum duobus equis. — « Die 25 Junii: Omissis etc. Antedicti magnifici Domini etc. convocati una cum vexillifero, magistris et sapientibus studii, absente Domino Bartho- « lomeo dùi Thomassii, concorditer decreverunt, quod sit remissum dictis « sapientibus, quatenus possint, posse facere edicta quod omnes doctores « vadant Lucignanum Vallis Clanarum ad legendum in dicto castro prout « eis videbitur. Item quod omnes doctores qui non iverint ad dictum ca- « strum amictant salarium exceplis illis qui habent licentiam a dictis sapien- « libus ete. ete. — (Filze Concistoriali a. 1459 T. 575). Die Veneris 4 Au- « gusti: Omissis etc. Altendentes quod pestis inceperit in terra Lucignani « Vallis Glanarum, ubi translatum erat studium, deliberaverunt quod omnes « doctores salariati in studio Senensi possint ire et stare in quascumque « lerras civitatis et territorii Senarum pro libito eorum dummodo non exeant « territorium Senense. ( Comunicati dal mio ottimo amico G. Porri ). a STORIA DEL DIRITTO ROMANO NEL MEDIO EVO 215 ed il 1445, poscia in Ferrara e non più tardi del 1447, e quì nel 1450 ottenne uno stipendio di lire 900 che nello stesso anno, in grazia di sua celebrità, il Marchese Leonello gli au- mentò insino a lire 1200 (45), e per anni cinque; sennonchè noi lo vediamo prima che scadesse il quinquennio insegnare in Siena; d’onde nel 1457 ritornò e stette per quattro anni, con lo stipendio istesso, in Ferrara. Dimorato poscia per qualche breve tempo in Roma e in Firenze, si condusse a’ servigi di Francesco Sforza Signore di Milano e stettevi dal 1461 al 1466; nel frattempo fu inviato oratore in Roma a papa Paolo II, ed abbiamo a stampa il discorso che tenne al medesimo. Questo Pontefice lo decorò del titolo di cavaliere. Nel 1466 tornò professore in Siena e stettevi insino al 1479; sennonchè, nel- l’intervallo, per comando di Sisto IV venne una volta in Roma, non senza speranza di conseguire il cappello cardinalizio, e forse per essergli fallita questa speranza scrisse contro il Pontefice, che nel 1478 avea posto l’interdetto sulla Repubblica di Firenze e Lorenzo de’ Medici, un fiero parere che procacciogli di gravi persecuzioni, com’egli scrive allo stesso Lorenzo: ma Siena lo protesse ricusando di consegnarlo alle mani del Duca di Calabria che ne facea la domanda. Da Siena, per opera di Lorenzo, tramutossi in Pisa nel 1479 e quì stette insino alla sua morte; ma il suo stipendio, che- era di 1400 fiorini, fu ristretto nel 1485 a soli 800, attesochè la vecchiaja non consentivagli di tenere più di una lezione per settimana, e dispensato che fu nel 1484 ancora da quella non gli fu punto diminuito quello stipendio. Morì egli tra il mese di novembre del 1485 e il marzo del 1486 celibe e con ampie facoltà (46). De’ suoi discepoli si segnalarono il Ruino, il Felini e Bartolommeo Socino. Contemporanei e (45) Tiraboschi T. 6. L. 2. G. 4. ragguaglia questa somma a 500 zecchini. (46) Fabroni vol. I. p. 255. 216 STORIA DEL DIRITTO ROMANO NEL MEDIO EVO posteri salutarono Francesco come principe de’ giureconsulti della età sua, encomiaronlo di aderire al testo e non all’autorità degl’interpetri, e di essere familiare ad ogni maniera di scienze lettere ed arti, filosofia, teologia, musica, poesia: cose tutte che punto non si scorgono nelle opere sue giuridiche, tanto era po- vera la veste tradizionale in che quelle allora addobbavansi! Epperò molti fecero di Francesco Accolti due soggetti diversi ; letterato uno e filosofo, l’altro giureconsulto. Alla celebrità di lui sembra aver conferito molto il fuoco che metteva nelle pre- lezioni e nelle dispute allora usitate. L’ingegno di lui peraltro sembra non fosse così accomodato alla pratica come alla teo- rica (47). Opere giuridiche di Francesco, e tutte a stampa, sono: 1° Commentarj ai libri del gius civile che derivano da copie di sue prelezioni, nelle quali illustrò a brani o l'una o l’altra delle giuridiche fonti; niuno de’ contemporanei avendo più d’esso abusato il tristo metodo di sostar troppo lungamente sovra alcuni titoli del testo a scapito degli altri. Così; del Digesto vecchio tratta unicamente la seconda parte, e dal libro XII non la conduce oltre il titolo Mandati XVI, 1. Nell’Inforziato va insino al libro XXX e non ne espone nemmen tutti i titoli. Del Digesto nuovo tratta capitalmente tre titoli soli; de adqui- renda possessione; de verborum obligationibus; de duobus reis. Del Codice espone una discreta parte, ma non più oltre del VI libro. Alle Instituzioni scriss'egli Casi inseriti in molte delle antiche edizioni di quelle. 2.° Commentarj sovra le Decretali, e sono dello stesso tenore. 3.° Consigli. 4.° Ripetizioni e Opuscoli. Di sue opere letterarie, rinviando al Mazzucchelli, ricorderemo soltanto le greche traduzioni stampate delle lettere di Falaride e Diogene, e le correzioni ad alcuni luoghi della versione fatta (47) Nevizan. Sylva Nupt. lib. 5. S. 61. Diplovat. n.° 265. «In agilibus autem mundi nihil valebat quantumeumque doctus fuerit, et sibi dicebat Avgelus de Aretio; aliquando est bonum non habere tot leges et habere aliquod de agilibus mundi ». STORIA DEL DIRITTO ROMANO NEL MEDIO EVO 217 da Burgundione delle Omilie del Crisostomo su Giovanni Evan- gelista; versione che a torto per alcuni è attribuita all’Accolti (48). V. La famiglia dei Sozzini. De’ ragguardevoli soggetti di questa nobile sanese prosapia quegli che solo si segnalò ve- ramente in giurisprudenza fu Bartolommeo; altri però vi ven- nero parimenti in fama, e quindi giova distinguergli acciò non sieno confusi tra loro. Muriano seniore nacque nel 1401, e morì nel 1467. Fu professore in patria, ed una volta oratore per essa in Roma. Scrisse 1.° Sopra i Decretali. 2.° Consigli che a stampa trovansi uniti a quelli di Bartolommeo. .° Opuscoli intorno a’ Decre- tali (49). Enea Silvio Piccolomini, che fu papa Pio II èd amico suo, lo ritrasse come uomo che possedeva ogni arte ed ogni scienza (50). Bartolommeo di Mariano nacque in Siena nel 1456. Stu- diò in patria sotto il padre e Tommaso Dotti, poscia in Bologna sotto il Tartagni ed il Barbazzi, e in Pisa sotto Francesco Are- ‘tino. In Siena era egli professore certamente nel 1471. Passò . a Ferrara in quest'anno onde fuggì nel 1475; e tenute dispute in Padova, Pavia e Torino recossi a Pisa ov ebbe cattedra, non senza molte intermissioni, insino al 1494. Uomo torbido e rotto fu sempre in contese co’ suoi colleghi, e urtò: persino i Priori della città e i Curatori dello studio. Invece di servire la catte- dra un’ora intiera per volta, ci stava appena mezz'ora. Intento sempre agli affari pubblici di Siena sua patria, che conferivagli ora ambasciate ed ora il Capitanato del popolo, accadde che scontento una volta di quel governo radunò soldati in Pisa e colù recatosi disfecelo violentemente. Nel 1488, negata che gli fu licenza di lasciar lo Studio pisano, fuggì segretamente a Siena (48) Audifredi Edit. Romane sec. xv. p. 60. (49) Tractatt. Un. Jur. V. IM. 1. T. IV. T. XIV. (50) Lib. I. Epp. ep. 112, 115, 59. 278 STORIA DEL DIRITTO ROMANO NEL MEDIO EVO e di quì cercò cattedra in Padova; ma tirato ad arte nel terri- torio fiorentino fu preso e sarebbe stato come reo di crimen lese appiccato, se allo zelo della Repubblica Sanese, del Papa e di Lorenzo de’ Medici non fosse riuscito nel 1490 di cavarlo di carcere a patto che tornasse a leggere in Pisa, dando una cau- zione di 15000 fiorini e la mallevadorìa di molte persone. Lo che, congiuntamente al dono di un fondo fattogli dal Comune di Firenze per trattenerlo in Pisa, dimostra in qual conto foss’ egli osservato. Ma nel 1494 avendo lui sospinto i Pisani a ribellione e a gettarsi in braccio di Carlo VII, dovè in que’ torbidi lasciar Pisa per sempre (*). Così dal 1494 al 1498 fu professore in Bologna, salvo gl’intervalli che adoperò nelle ambascerìe e nelle pubbliche faccende di Siena. Passò quindi in Padova come pro- fessor primario e con lo stipendio di 1100 fiorini all'anno, e stettevi insino al 1501 e finalmente tornò in Bologna dove dopo avere insegnato-per altri tre anni divenne mutolo, onde Mariano suo nipote, il giovane, lo ricondusse a Siena e quì morì nel- l’anno 1507 in tanta miseria che fu sepolto a pubbliche spese. Come lettore ebb'egli altissima fama, e così cercavasi la appro- vazione di lui che più di cinquecento scolari vollero da esso il grado di dottore. Dal poco che avanza di sue esegetiche prele- zioni può dirsi come non si dilungano da quelle de’ contempora- nei; nondimeno in alcuni luoghi occorrono dei tentativi inverso l’arte critica e co’ sussidj ancora dellà classica letteratura (51). I grandi uomini di quella età tributarongli altissima venerazione, e il Poliziano chiamavalo ceatis sue Papinianus. Torbido, rissoso, (*) Giò fu il 18 decembre 1494. Memoriale di G. Portoveneri.cuojajo nell’ Archivio Storico To. VI. P. II. pag. 295. «E a di 18 di detto se n’ andò « da Pissa Messer Bartalomeo Sossini di Siena, dottore luminarissimo legisla «in Pissa ben anni circa ventuno con salario di ducati mille l’anno di salario, « perche si diciea essere il primo dottore d’Italia ». (51) V. p. es. Repetit. in L. 5, $.2. D. ad L. Falcid. Bonon. 1498 in Preefat. STORIA DEL DIRITTO ROMANO NEL MEDIO EVO 219 » scialacquatore e dedito al giuoco, era per l’altro canto amico di verità e giustizia e pronto a riconoscere apertamente il merito anche degli emuli. Restano di lui 1.° Scritti esegetici intorno al Romano Diritto e, giusta il Diplovatazio, sovra i libri ordinarj e inoltre sulla. prima parte dell’Inforziato, ma verosimilmente ri- stringonsi a pochi titeli all’Inforziato più ch’altro spettanti. Hanvi eziandio Ripetizioni ad alcuni luoghi spicciolati di quei libri, sparse in varie edizioni ricordate dal Panzer. 2.° Consigli o mescolati o uniti a quelli di Mariano seniore. Gli si attribuisce a torto anche un tristo lavoro inscritto: Opus fallentiarum et regularum. Mariano giuniore figlio di Alessandro fratello di Barto- lommeo nacque in Siena nel 1482: studiò in Bologna sotto lo zio e quì si dottorò di anni ventuno. Fu successivamente pro- | fessore in Siena, in Pisa, di bel nuovo in Siena, Padova e Bolo- gna dove morì nel 1556. In Bologna subentrò all’Alciati ed ebbe due famosi scolari Antonio Agostino ed il Panciroli. De? suoi lavori tengono il primo posto i Consigli che l'epiteto dato a lui di giuniore distingue da quelli del suo avo Mariano senio- re. Lelio figlio e Fausto nipote di lui ‘han quella fama che tutti sanno per le loro teologiche scisme. VI. Lodovico Bolognini nacque in Bologna nel 1447 di nobil famiglia e vistudiò presso il Tartagni e si laureò in ragion civile nel 1469, in canonica nel 1470 e poscia fu ricevuto membro di ambidue i collegi di dottori. Dal 1469 in poi tro- vasi registrato tra' professori in patria, non senza però molte e non brevi intermissioni, giacchè negli anni 1475 e 1474 fu professore in Ferrara. Rivestì in patria ragguardevoli uflicj; ebbe da Carlo VIII Re di Francia e da Lodovico Sforza titolo di con- sigliere; cuoprì in Firenze ragguardevoli cariche; e, congiunto com'era ai pontefici Innocenzo VIII e Giulio II, fu avvocato concistoriale e designato senatore di Roma, e non rade volte oratore inviato dal Papa e da Bologna alla Corte di Carlo VIIL 220) STORIA DEL DIRITTO ROMANO NEL MEDIO EVO ‘Recatosi a Roma in una di queste legazioni per ricevere lol in- struzioni morì, tornando, a Firenze nel 1508. Fu pio, elemosi- niero e generoso verso i Domenicani di sua patria, presso a’ quali dimorò più volte e fabbricò una biblioteca, cui legò morendo i suoi libri. Rispetto alla scienza egli dimostrasi ne’ suoi lavori. scarso di sana intelligenza, di gusto e di fondate cognizioni; é se nella sua boria avesse potuto dar mano agli altri che divisò, per applicare alla giurisprudenza la critica filologica di che aveva udito parlare, avremmo ancora più aperti segni di sua dappocaggine (52). Gli scritti del Bolognini sono: Interpretazioni di parecchi luoghi del Romano Diritto, e occorrono o nelle rac- colte di Ripetizioni o separate (55): Consigli: alcuni lavori toc- canti il gius canonico: un Commentario al falso Diploma con che Teodosio avrebbe fondata la Università di Bologna (54): Anno- tazioni alle opere che pubblicò di altri giureconsulti. Queste fatiche del Bolognini sono di così lieve momento, che per esse non avrebbe nome nella nostra istoria. Ma le collezioni da lui preparate per la critica filologica delle fonti di gius romano ebbero, per accidente, tanta voga, e massime per cinquant'anni dopo la sua morte, da non potersi preterire di farne parola. In quella Biblioteca che si è detta, fabbricata da lui presso i Do- menicani di Bologna, trovansi cinque MSS. toccanti alle fonti del gius nostro. L'uno segnato B. IV. 67 ha per secondo titolo: Liber autenticorum grecus, editus nuper ( posciachè a ciò lo avea preparato) per D. Lud. Bologninum: ed è una copia per esso fatta del fiorentino codice in greco delle Novelle. Servi poi di fon- damento alla edizione Aloandrina delle medesime. Gli altri quat- (52) A. Augustinus Emendatt. II, 3. IV, 16. Cf. Brenkmann. Hist. Pandectar. p. 522—524. (55) Interpp. nove in J. Civ. Bonon. 1494: e Interpp. ad omnes ferme leges. Bonon. 1495. (54) Stampato Bonon. 1491. Cf. Diplovataccius n.° 299. Orlandi ( Scrittori Bolognesi ) pag. 192. STORIA DEL DIRITTO ROMANO NEL MEDIO EVO 221 tro MSS. riferisconsi alle Pandette, di che il Bolognini avea di- visato una critica edizione basata sul MS. fiorentino e già pisano di quelle (55). Di essi quello segnato B. IV. 65 è un grosso q te] to] volume che contiene la collazione fatta alla rinfusa del MS. fio- rentino e in guisa da potersi raffrontare a qualsivoglia edizione delle Pandette. L'altro segnato B. IV. 64 è inscritto: Originalis libellus castigationum inter Pandectas originales et communes libros transumptos manu propria D. Lud. Bolognini: ed è un grosso volume distinto in tre parti (Dig. vetus, Infort. novum) dedicato all’Arcidiacono Bentivogli di Bologna, ed esibisce emendazioni a molti luoghi delle Pandette, messe al netto e pronte per la stampa. Il terzo B. IV. 66 intitolato: Zud. de Bol. Discordantie Pandectarum: è un volumetto pronto ancor esso per la stampa, e contenente le emendazioni de’ greci passi delle Pandette. Il quarto finalmente B. IV. 68 ed inscritto: Pandectarum origina- liwm Libri L nuper editi opera cl. D. Ludovici Bolognini de Bo- lonia: doveva essere il ms. per la stampa delle Pandette, cui precedono 1.° Un privilegio di Giulio II dei 50 decembre 1507. 2.° Una dedica a quel papa e la storia del rinvenimento di esse in Amalfi. 5.° Altra dedica ai Professori Bolognesi, ripetuto il fatto di Amalfi. 4° Bolognini de ortographia Pandectarum ad- monitio. Vien dietro il testo delle Pandette, ma per insino alla L. 11. D. de legibus (I, 3), onde esibisce appena il principio del meditato lavoro. Seguitano finalmente delle osservazioni critiche sovra parecchi titoli del Digesto e del Codice, e non di rado con- tengono intiere costituzioni. A udire il Bolognini, fondamento di cosiffatta critica impresa stato sarebbe una collazione per lui (55) Egli se lo era proposto insin dall’ anno 1488 quando diè mano ad un Commentario della L. 4.$. Cato 1. D. de verb. obl., stampato poi ripe- tutamente in Bologna nel 1490. Difatti in quella occasione si rivolse a Lorenzo de’ Medici per aver copia della fiorentina lezione, e il Poliziano inviandogliela encomiollo di sua critica solerzia, non senza augurare che della guisa medesima adoperassero gli altri giureconsulti . 222 ‘STORIA DEL DIRITTO ROMANO NEL MEDIO EVO medesimo fatta del MS. fiorentino durante sua lunga dimora in” Firenze: sennonchè Antonio Agostino assevera essersi il Bolo- gnini ristretto a copiare la .collazione già fattane dal Poliziano, “senza nemmeno riscontrare il MS. laddove le parole del Poli- ziano potevano condurlo in errore, di che, fra gli altri, diede un solennissimo esempio che trasse poscia in inganno il dotto Aloandro (56). Vuolsi poi attribuire alla prematura morte del Bolognini se tutto questo lavoro non vide la luce; ed alla proi- bizione data nel testamento, che niuna copia si levasse dalla” biblioteca per lui donata ai Domenicani, se i riscontri clande - stinamente fatti dal Fradino e dall’ Aloandro sovra i lavori cri- tici testè descritti del Bolognini per la fiorentina lezione delle Pandette giammai non furono riferiti a quelli. VII. Lancellotto e Filippo Decio nacquero di - Tristano nobile da Decio che viveva in corte di Milano. Lancellotto, edu- cato per la giurisprudenza, studiò sotto il Tartagni, fu né 1464 professore in Pavia, nel 1475 in Pisa, d’onde tornava a Pavia nel 1485, e quì rimase insino alla sua morte occorsa nel 1503, Fu d’indole gentilissima, di delicata coscienza, e professore molto pregiato, ma senza levarsi in gran fama. Restano di lui parecchi lavori e segnatamente de’ Commentarj al Digesto vec- chio, all’Inforziato e al Codice. ‘ Filippo nacque in Milano a Porta Ticinese in cittadella (56) Nel MS. fiorentino L. 17. S. 5. D. de hered. inst. è scrilto così: « Quod si quis dupondium distribuit et terlium sine parte instituit, hic, non in alium assem sed, in trientem venit, ut Labeo IV posteriorum scripsit, nec Aristo vel Aulus (L. Paulus) utpote probabile notant ». Il Poliziano poi seguitando, aggiunse di suo: « Aristo et Paulus scripta Labeonis notaverunt, proque probabilibus accipit Ulpianus, que ab eis notata non sunt ». Ora il Bolognini prese la chiosa del Poliziano per una variante del MS. fiorentino e la inserì nella sua collazione: sicchè 1’ Aloandro ingannato, dopo la parola notant del testo, pose ancor egli nella sua edizione, aggiuntavi la copulativa sed et, le parole del Poliziano Aristo et Paulus ete. Ma, sagace com’ egli era, notò in margine: verba compilatorum. Li STORIA DEL DIRITTO ROMANO NEL MEDIO EVO 225 nel 1454, e da suo padre fu instituito alla vita di corte e ornato di tuttociò che potea renderlo un compiuto gentiluomo; ma, per la peste scoppiata in Milano, essendo lui di anni diciassette, riparò presso il fratello in Pavia e diedesi a studiare in giuri- sprudenza sotto il fratello, Giasone e Jacopo dal Pozzo (Puteus). Nel secondo anno de’ suoi studj si ardì a tenere una pubblica disputa che suscitò la maraviglia di tutti gli astanti; nel terzo accompagnò il fratello a Pisa e tosto vi tenne parecchie pubbli- che dispute in presenza di Baldo Novello, del Corneo, del So- cino ec., e piantò la base di sua sì grande rinomanza; quì fu dottorato nel 1476 e pel favore di Lorenzo de’ Medici ebbe grado di lettore nelle Institute, ove dispiegò immantinente quelle doti che lo renderono in seguito così famoso e agli altri molesto. La elegante forma nel porgere, il bellissimo ingegno nel disputare lo facca presso agli scuolari maggiore dei colleghi, i quali lo invidiavano, temevano, odiavano. Niuno voleva essere suo con- corrente; molti si ricusarono d’essere professori con lui, e lo stesso Socino minacciò di abbandonare la Università ove gli fosse dato per concorrente il Decio, siccome gli scuolari bra- mavano; onde lo si diè al Felino, il quale, di amico suo che era, indispettito si dilungò da Pisa. In questi frangenti i Curatori dello Studio non sapeano come provvedere; laonde il Decio nel 1481 lasciò Pisa e accettò cattedra in Siena, dove prima in canonica e lesse poscia in ragion civile dal 1484 al 1487, non senza una lunga intermissione: perchè recatosi di quel tempo a Roma fu da Innocenzo VIII designato auditore di Ruota e ricevè gli ordini minori. Sennonchè biasimato dal padre e dal fratello di tirarsi a prete, e uggito dall'obbligo di recitare il breviario ricusò il posto esibitogli, ritenendo il titolo, e tornò a Siena (57); ma vi fu assalito dalla invidia de’ colleghi per la preminenza di grado e di stipendio da esso ottenuta, e poco stante da un rivol- (57) Boeza in Vita D. Phil. Dectì. 224 STORIA DEL DIRITTO ROMANO NEL MEDIO EVO gimento di governo nella città; cose tutte che lo indussero nel desiderio di mutare la stanza. Ora avvenne che il Felino, il quale a causa di lui avea lasciato lo Studio di Pisa, interrogato dai Curatori chi dovessero invitare a cuoprirne la vuota cattedra propose il Decio come: il maggior valentuomo d’Italia, e mosse incontro al medesimo per sollecitarlo a ciò. Così tornava il Decio professore in Pisa nel 1487, e vi stette, salvo le accidentali interruzioni per la guerra e la peste, insino al 1501, travagliato sempre per le gelosie degli emoli e peggio poi dal malgoverno de’ Curatori di trabalzare ogni anno i lettori da una cattedra all’altra senza considerarne l’attitudine e il genio; nondimeno egli si prestò sempre, e non trascurò mai di un’ora i proprj do- veri. Nel 1501 passò lettore in Padova di gius pontificio, e colà visse nella amicizia de’ colleghi Gio. Campeggi, Carlo Ruini ec., tenendovi; e di frequente, innanzi alle civili autorità, acclama- tissime dispute. Fu poi nel 1505 chiamato lettore a Pavia dal Re Luigi XII, e vi tenne cattedra di ragion canonica insino al 1512 con lo stipendio di fiorini 2000. E quì agitò contese con Gia- sone suo collega e già maestro, e fu contro sua voglia implicato in un politico negozio che gli partorì delle aspre vicende. In- sieme a Giasone, Francesco Curzio e Paolo Pico ebbe carico di provare in-un voto esservi giusta causa di convocare contro papa Giulio II il Concilio pisano del 1511, cui dovè assistere prima in Pisa e poscia in Milano: ma quantunque si astenesse d’ogni biasimo verso il Pontefice fu scomunicato, e dovè riparare in Asti e quindi in Alba di Piemonte. Entrati intanto gli Sviz- zeri in Milano, la sua casa, tutti i suoi scritti e la biblioteca di oltre a 500 volumi andarono a sacco, ed una sua figliuoletta di dieci anni, se non rapita dal chiostro, fu per lo meno derubata di ogni avere, mentre egli per Gap e Grenoble riparò a Lione ospitalmente ricevuto da per tutto e accompagnato da’ suoi sco- lari. Anche il Re lo accolse molto benignamente e lo creò con- sigliere in parlamento di Grenoble, e fu ad un’ora eletto profes- STORIA DEL DIRITTO ROMANO NEL MEDIO EVO 225 sore in Valenza, dove il numero degli uditori, da venticinque che erano, presto salì a quattrocento, e gli abitanti sommamente onoravanlo. In sin che Giulio II visse mai non si lasciò placare dalle sue instanze; ma poi dopo Leone X. già suo scuolare levò l’interdetto al Decio, -che, protestandosi innocente, abiurò lo scisma; e, ricusata la cattedra in Roma dal Papa offertagli, passò co Fiorentini contratto per tornare a Pisa nel 1515. Ma, recu- perata Pavia da’ Francesi, quivi riprese il Decio la sua lettura, ebbe grado di senatore in Milano e la cura della Università; nella quale però si tenne soltanto dall’autunno 1515 alla Pasqua del 1516, perchè, accostandosi a quelle parti Massimiliano e gli Svizzeri, riparò egli a Firenze ed in Pisa, dove accettò finalmente nell’anno 1517 una cattedra in gius romano e diede agli studj in gius nella Università una forma, osservata con pochi cangia- menti insino a’ giorni prossimi a questo, e di che difficilmente poteva idearsene una peggiore: ma era quella allor praticata (98). In Pisa dimorò almeno insino al 1525. Insegnò finalmente in Siena dal 1528 al 1556, e quì sembra uscisse di vita (59). Nel Camposanto di Pisa vedesi quel magnifico sepolcral monumento che da sestesso fece scolpire e apporci una inscrizione che di- stesamente ragguaglia de’ suoi titoli e meriti. Scuolari di lui segnalati; tra’ politici furono Papa Leone X, Cesare Borgia, e Francesco Guicciardini: tra’ giureconsulti, Gio. Corasio ed Emilio Ferretti. La fama di lui splendè più presto per la vivacità, dignità e l’ingegno di che adornava le sue lezioni e le dispute che non per le opere da lui scritte, e sono 1.° per la ese- gesi del gius civile: un Commentario sovra il Digesto vecchio e il Codice, che ne abbraccia picciolissima parte ed ha minor merito; e ad altro Commentario al titolo de regulis juris, che è (58) Fabroni Hist. vol. I. p. 122—124. (59) De Angelis Biografia degli Scrittori Sanesi T. I. p. 266. Corasit Arrestum Tholosarum. Annot. 55. in Opp. T. II. p. 781, dove dice di essere stato dottorato dal Decio in Siena nell’anno 1556. 226 STORIA DEL DIRITTO ROMANO NEL MEDIO EVO il migliore de’ suoi teoretici scritti. 2.° Per la esegesi del gius canonico, un Commentario sovra î Decretali. 5.° Consigli: sette- cento de’ quali furono da lui stesso raccolti e dedicati al Card. Arcivescovo di Narbona. 4.° Finalmente parecchi Opuscoli . Cap. LVIII. — Giasone nacque fuori di matrimonio in Pe- saro di Andreotto del Maino magnate milanese bandito, ma che, poco stante, tornò in patria. Studiò Giasone in Pavia dove menò sulle prime sregolatissima vita, ma poscia si emendò; ebbevi a precettori il Tartagni, il Puteo, e Girolamo Torti; e dall’an- no 1467 al 1485 vi fu professore. Passato quindi in Padova vi dimorò dal 1485 al 1488 con provvigione di ducati 800, e quì ebbe a discepolo il Diplovatazio. L’anno dipoi venne in Pisa con uno stipendio di fiorini 1550; ma finito l’anno, e a malgrado che avesse raffermato il contratto pel seguente, tornò a Pavia l'autunno del 1489, e quì si tenne per tutto il resto della sua vita. Sennonchè, dopo avere insegnato un anno, colto da debo- lezza negli occhi non potè leggere per nove anni; ritenne però l'ufficio e cuoprì le più rilevanti cattedre della Università, se- gnatamente quella del Digesto vecchio, con provvigione di 2250 fiorini, e continuò a partecipare alle promozioni, vivendo però più ch’altro in campagna, dove intese a ordinare e mandare in luce i suoi scritti, o adoperato nelle solenni occasioni e amba- scerìe a dire orazioni, la più parte delle quali si hanno stampate. Conquistato che fu Milano da Re Luigi XII sollecitò questi di persona Giasone a riprendere sue lezioni, epperò donogli in feudo vitalizio il Castello di Piopera, che da un francese gli fu poscia rapito. Tornò dunque Giasone a leggere, e dipoi vediamo che dal 1511 al 1519 tenne cattedra sul Digesto vecchio. Nel 1507 Re Luigi reduce vittorioso da Genova onorollo di sua presenza, in compagnia di cinque cardinali e cento gentiluomini, ad una lezione, nella quale diftinì doventare ereditaria la dignità di ca- valiere da un Re largita per gloriose gesta sul campo della bat- taglia. Morì Giasone nel 1519 di anni 84, e fu sepolto in S. Gia- STORIA DEL DIRITTO ROMANO NEL MEDIO EVO 227 como di Pavia, dove insegnò per quarantotto de’ cinquantadue anni che esercitò l’ufticio di professore. Visse celibe (ma ebbe un figlio naturale ) e ricolmo di onori da tutti i sovrani suoi, e fu dall'Imperatore creato cavaliere e conte palatino. De’ suoi molti scolari celebratissimo e di lui maggiore fu I’ Alciati suo concittadino. Ebbe Giasone più diligenza che non ingegno, come è chiaro per gli suoi scritti: ma il dignitoso portamento nella scuola, molta facondia ed una ornata e piacevole maniera di porgere procacciavangli il genio e la attenzione degli uditori. L’Alciati scusavasi per tre cagioni di averlo tanto encomiato: e primieramente; perchè avea renduto accessibili le sparse opi- nioni di mille e mille scrittori con ordinarle e chiaramente esporle; perchè avea fatto montare da tre o quattro ducati a cinquanta, a cento e più il prezzo di un voto; e finalmente perchè il soldo de’ professori che in avanti era di due o tre cento ducati fu per lui condotto sopra il migliajo, onde i giu- reconsulti procacciarono una onorevole indipendenza (60). Del resto Giasone, avendo mirato a raccorre ne’ suoi scritti quanto di meglio potea bottinarsi da quelli dei predecessori e contem- poranei, chiude mirabilmente la età in questa istoria discorsa, come il suo discepolo Alciati, significando un grato animo al precettore, apre amichevolmente il varco ad un’ era novella. Scrisse Giasone e-si hanno a stampa 1.° Commentarj ai tre Di- | gesti, compilati pressochè interamente sovra le sue prelezioni e che, secondo il solito, presentano di grandissime lacune. 2° Un Commentario al Codice, ricavato anch'esso dalle prele- zioni, e, come quello al Digesto vecchio, è dedicatò con parole di molta adulazione a Lodovico Sforza. La prima parte cessa col titolo familie erciscundae (HI, 56) e la seconda abbraccia soltanto una porzione del VI libro, e per giunta la dichiarazione di due testi staccati (61). Sta come appendice alla prima parte (60) Alciati Parerga L. 5. c. 26. (61) Auth. Res que C. Comm. de legat.—L. Si quando G. unde vi. 298 STORIA DEL DIRITTO ROMANO NEL MEDIO EVO del Codice un commentario al titolo de jure emphyteutico, ed altro seguita sovra 1 Usus feudorum. 3.° Consigli. 4.° Un trat- tatello De actionibus, ma è dubbio se sia o del Tartagni o di lui, o un plagio di questo a quello. *5.° Apophtegmata s. singularia juris. 6.° Discorsi. 7.° Poesie italiane impresse nel libro in- scritto: Sepolcro della ill. signora Beatrice di Dorimbergo. Bre- scia 1568. i Cap. LIX. — I Precursori. La nuova Scuola, che chiamò in ajuto e ad emendare i difetti della giurisprudenza adoperò la storia e la filologia, instituita in Italia dall’ Alciati, in Germania da Ulrico Zasio, prese le mosse dagli scritti loro pubblicati che furono correndo il secondo decennio del secolo xvi. Sennonchè alcuni precursori del mutamento e della liberazione di nostra scienza dai ceppi scolastici eransi già mostrati, e di loro or giova discorrere. I. Ambrogio de’ Traversari, nobilissima gente, nacque in Portico nella Romagna toscana nell’anno 1586; fu discepolo del Crisolora, vestì in Firenze nel 1400 l’abito Camaldolense, e quì visse trent'anni famigliare agli uomini più ragguardevoli e dotti nelle scienze, di che fu studiosissimo. Nel 1451 divenne gene- rale dell’Ordine e da quindi in poi esercitò la operosa vita ora in visitare i monasteri soggetti, ora in imbasciate all’ Imperator Sigismondo, ed ora ne’ Concilj di Balisea e di Firenze. Ed anche nella quiete del suo chiostro non dimorava in ozio; im perciocchè continuamente adoperò in raccoglier libri, tradurli, scambiar notizie con gli amici e soprattutto in diffondere la cognizione della classica letteratura insino al giorno di sua morte, occorsa nel 1459. Ora; scrivendo lui a Mariano Porcio, che av- viavasi alla giurisprudenza, gl’inculca la necessità di mirare di- rittamente alle fonti del Gius Romano, e per la loro eccellenza, e per esser quelle un poderoso ramo della antica letteratura, e per non cadere nella barbarie de’ giureconsulti contemporanei (62). (62) Ambrosii Camaldul. Epp. Lib. V. n.° 18. STORIA DEL DIRITTO ROMANO NEL MEDIO EVO pr) II. Niccolò Niccoli fiorentino e contemporaneo del P. Ambrogio avea divisato di transcrivere ‘per Francesco Barbaro veneziano i greci luoghi delle Pandette, ma ne fu impedito per la gelosia con che in Firenze custodivasi quel MS. (65). III. Maffeo. Vegio nato in Lodi nel 1406 fu educato in Milano; attese poscia in Pavia specialmente alla poesia latina ed alla giurisprudenza per comando de’ suoi: dopo avere inse- gnato qualche tempo in Pavia cuoprì in Roma cariche ragguar- devoli, caro che fu ad Eugenio IV e Niccolò V. Morì nel 1458, e fu sepolto in S. Agostino. Lasciò molte opere morali, ascetiche e di poesia latina; finalmente un Lessico giuridico (De verborum significatione ) di picciol valore, e in che si spiegano senza ordine o scelta molte voci delle Pandette, e fu impresso con ordine alfabetico. Vuolsi però notare come il primo libro di tale natura e perchè nella dedica all’ Arcivescovo di. Milano mostra Maffèo il suo dispregio per tutta la scuola del medio evo, e biasima Triboniano per aver levati di luogo, recisi e renduti oscuri gli scritti de’ classici giureconsulti, onde hassi a riputare il primo degli Anti-tribonianisti (64). IV. Lorenzo Valla nacque in Roma circa l’anno 1400, e quì moriva nel 1457 dopo avere operosamente vissuto tra gli restitutori delle antiche lettere. Nelle sue filologiche ricerche (Elegantiar. latine lingue libri sex) toccò egli le fonti del gius (L. 6. c. 56-44) non senza biasimare la lingua degli antichi giureconsulti, di che poscia lo ripresero acerbamente i moderni legisti (65). V. Angiolo Poliziano, nato in Montepulciano nel 1454 e morto in Firenze nel 1494, da quel grande filologo che era, (65) Ambrosii Camaldul. Epp. Lib. VI. ep. 7. (64) Ce ne ha una sola e rarissima edizione fatta a Vicenza nel 1477 : due MSS. in Parigi; uno in Venezia, e un altro a Milano. (65) Cf. Opuscula varia de latininate Jurisconsultorum veterum. Ed. C. A. Duker. Traj. 1761, 4.° 250 P STORIA DEL DIRITTO ROMANO NEL MEDIO EVO non potea trasandare le fonti del gius, parte Filevanitissima della romana letteratura, e venne anzi in desiderio di mondarle con l’ajuto della filologia. La morte tolsegli di colorire sì bel dise- gno. Nondimeno e quel che fece, e l'autorità del nome, e lo spirito per lui svegliato vogliono che la storia della giurispru- denza ne inseriva il nome con affetto di grata riverenza. Delle sue opere impresse i luoghi da ricordare per noi sono: 1.° La descrizione del MS. fiorentino ( Miscelt. e. 41. Epistot. L. 10. ep. 2.) 2.° La enumerazione degli antichi Giureconsulti secondo l'indice fiorentino (Epp. L. 5. ep. 9). 5.° La emendazione della const. omnem e di parecchi luoghi delle Pandette secondo il MS. fiorentino (Miscell. c. 95. 78. 82. 95. 41. Epp. L. 11. Ep. 55). 4.° Uso delle Pandette per la ortografia (Miscell. e. 77). 5.° Della parafrasi di Teofilo (Miscell. c. S4. Epp. Lib. 10. ep. 4). Ne’ manoscritti di lui vedonsi compiuti in parte gli altri e più vasti suoi disegni che erano di un Commentario critico e filologico alle fonti del gius, e di una edizione critica delle medesime, per cui sarebbesi giovato de’ consigli e dell’opera di B. Socino, e forse avrebbevi congiunto il Commentario predetto. Tutto poi lo apparato a questo proposito si scrisse da lui sul margine de’ tre digesti che possedeva di edizioni diverse e che raffrontò al MS. fiorentino (66). In esaminandoli, molto incompleta scor- gesi la collezione delle varianti e non iscevra di errori; le in- scrizioni che tutte trovansi nel. testo fiorentino vengono tra- scritte appena infino all'ottavo titolo del IV libro, colpa forse della gelosia con che quel testo sérbavasi, e non è inverosimile - (66) Gioè: Dig. vetus. Venet. 1489, che il Poliziano dichiara in fondo di aver terminato di collazionare ai 19 di luglio 1490 a mezz’ ora di notte. In- fort. Venet. per J. et G. fratres Forolivienses 1485, senza firma del Poliziano. Dig. novum. Venet. per Bernard. de Novaria etc. 1485 11 maji, che egli dichiara aver finito di collazionare ai 29 di agosto 1490 a ore 21. Cf. Ban- dini Ragionamento istorico sopra le collazioni delle fiorentine Pandette fatta da Angiolo Poliziano. Livorno 1762, STORIA DEL DIRITTO ROMANO NEL MEDIO EVO 251 che se il Poliziano avesse vissuto e potuto pubblicare le sue fa- tiche, avrebbe riempito i vuoti e corretto gli errori. Di questo apparato si giovò dipoi, ma senza giudizio, il Bolognini, agli scritti di cui si attinsero le fiorentine varianti pubblicate prima dal Fradino în Dig. vetus (Lugd. 1510) e poscia più largamente dall’Aloandro nella sua squisita edizione delle Pandette ( No- rimb. 1529) e vi attinsero verosimilmente ancora l’Alciati e forse il Crinito, il Baisio e il Budèo (del solo Antonio Agostino essendo certo che usò gli scritti e del Bolognini e del Poliziano, e il MS. fiorentino ) dando così saggio di quanto si compiè poi nella Taurelliana edizione del fiorentino testo delle Pandette. VI. Pomponio Leto 0 Sabino nacque in Calabria nel 1428 di un signore della principesca gente dei Sanseverino. Discepolo del Valla e lettore in Roma, ove morì nel 1498, fu zelantissimo della antichità e in discuoprir tesori della classica letteratura . Il suo opuscolo: De romanis magistratibus, sacerdotiis, jurisperi- tis ( magro estratto della L. 2. D. de origine juris) et legibus ad M. Pantagathum non consente ai nostri di mandarlo in si- lenzio. VII. Aimaro du Rivail (Rivallius) signore de la Rivalière, figlio di Guido che fu presidente a S. Marcellino nel Delfinato, nacque dopo la metà del secolo xv, fu consigliere al parla- mento di Grenoblè e morì certamente dopo l’anno 1555. Di sue opere dee quì ricordarsi quella più volte impressa, ed in- scritta: Civilis historie juris s. in XII Tab. Leges Commentario- rum libri V. Historiae item juris pontifici liber singularis. Essa è notevole e commendabile siccome un primo tentativo di storia del diritto; ma la esecuzione è molto meschina e ne’ frammenti delle XII Tavole molti ne ricevè degli spurj. VIII. Elio Antonio Nebrissense ossia di Lebrija o Lebrixa în Andalusia nacque nel 1442; studiò prima in Salamanca, poscia in Bologna, e in patria restaurò le umane lettere. Fu professore in Salamanca, quindi in Alcalà, dove morì nel 1522. Di molti 252 STORIA DEL DIRITTO ROMANO NEL MEDIO EVO suoi scritti e come grammatico e come lessicografo, quello sì riferisce a noi che ha per titolo: Enigmata juris civilis ab Ant. Nebrissensi edita. Magistratuum nomina a Pomponio Leto. Ejusd. Ant. Nebriss. Observationes quedam. Ciceronis Topica ad jus civile accomodata. E in fine: Explicitum Salmantiea id. Oct. a. 1506. In questa edizione vien prima la Topica di Cicerone, seguitano poi le fatiche del Nebrissense. Poi dopo lasciò la Topica e im- presse il proprio lavoro (in seguito più volte riprodotto per le stampe) inscrivendolo: Sanctissimi juris civ. Lexicon ab Ant. Nebrissensi adversus insignes Accursii leyuleiù errores editum. Antuerpie ex off. Jo. Griphei anno 1527. Parte capitale del- l’opera è un breve dizionario delle voci che occorrono ne' libri del gius, nè molto è ciò che tocca agli errori della glossa; è un libro insomma di picciolissimo valore e che non merita le lodi all'autore date dal suo spagnuolo biografo (67). IX. Alessandro da Alessandro discepolo del Filelfo, dis- gustato dagli abusi nel far giustizia lasciò la avvocazione. Nato in Napoli nell’anno 1461, morì in Roma nel 1525. Poco avanti la sua morte uscì fuora la famosa opera di lui: Genialium die- rum libri sex. Rome 1522, tenuta poscia e commentata sic- come classica. È condotta sovra il disegno delle Notti di A. Gellio e fra le altre tratta di molti luoghi delle Pandette, e più specialmente rispetto alla lingua. Notevolissima è la restituzione delle XII Tavole quivi tentata con criterio, essendovi accolta la più parte de’ genuini frammenti, pochi degli spurj; cosa per esso onorevole e insino al dì d’oggi non rilevata a dovere (68). (67) J. B. Munoz da Lebrija. Madrid 1796. Ve ne ha un estratto in: Chardon de la Rochette Méelanges de la critique V. 2. pag. 198—221. Paris 1812. — Sotto le opere del Nebrissense stanno ancora alcune: Obser- vationes juris. E si vuole che scrivesse inoltre: Adnotationes in Pandectas: ma non vi ha ragione di crederlo. Cf. Nicolai Antonii Bibl. Rispana nove TT. 1. pag. 152—159. e segnatamente pag. 158. (68) In Lib. VI. c. 4. Cf. Dirksen Frammenti delle XII Tavole pag. 27. STORIA DEL DIRITTO ROMANO NEL MEDIO EVO 255 X. Pietro Egidio di Anversà scolare di Erasmo nacque nel 1486, e morì in patria l’anno 1555. Fu il primo a pubblicare nel 1517 una raffazzonata particella di gius antejustinianeo, una cioè di quelle somme in che nel medio evo si compendiò il Breviario Visigotico. XI. Pio Antonio Bartolini si raccomanda per un opu- scolo inscritto: Corriguntur in hoc opusculo rxx loca in jure civ., et septem legum novce et vere sententie aperiuntur: è dedicato a Fr. Aldevrando, uno dei XVI della Repubblica di Bologna, il quale, avendo coperto questa carica dal 1488 al 1506, deter- mina l'epoca in che fu composto quel libro. Le emendazioni fondansi sopra conghietture unicamente dedotte dalle voci usate; nè la impresa merita scarsa lode per la età in che venne tentata. XII. Bartolommeo- Raimondi, sul cadere del secolo xv, preparò una edizione critica delle Pandette con delle note filo- logiche (69). XIH. Niccolò Everardi nacque nel 1462 a Gripskerk presso Middelburgo in Zelanda. Studiò a Lovanio e quì fu dot- torato nel 1495. Cuoprì diversi gradi nella giudicatura e final- mente fu presidente nel supremo tribunale di Malines, dove morì nel 1552. Ragguardevolissima è la sua opera intitolata: Topica s. de locis legalibus. ( Lovan. 1516), nella quale criticamente esamina le argomentazioni più rilevanti ed ovvie ne’ giuristi per fermarne i limiti nell’uso pratico. Nei Preambula pone le dot- trine generali della logica legale: nella parte speciale cento luoghi, che nelle seguenti edizioni porta a centotrentuno. Libro insigne per la forza adoperata in rompere con la libertà del pensiero i ceppi dalla giurisprudenza imposti, appoggiandosi agli antichi e specialmente a Cicerone, Boezio e Quintiliano, de’ quali si giova solo per suscitare filosofici pensieri (e in ciò distinguesi dagli altri riformatori ) e non già per alterare lo (69) Cataneus ad Plin. Epp. Lib. IX. ep. 27. in fin. 254 STORIA DEL DIRITTO ROMANO NEL MEDIO EVO aspetto istorico della giurisprudenza, ma sì per ravvivarlo e pu- rificarlo; onde per questo lato sarebbe divenuto capo di una nuova scuola, se altri lo avesse seguito. Raffrontata a quella de’ glossatori l’opera sua rassomiglia a quelle che s'intitolano Brocarda: sennonchè queste esibiscono regole superficialmente considerate per vere, mentre egli non ne pone alcuna senza averla bene esaminata e fondata, epperò merita preferenza. Scrisse ancora Consigli (70). Cap. LX. — Considerazioni finali. Giunti al termine di nostre istoriche investigazioni non sarà senza frutto di volger: prima lo sguardo ne’ tempi trascorsi, per dirizzarlo poscia nel- l'avvenire. Quali si fossero i lavori de’ Professori in gius insino _ alla metà del secolo xm già procacciammo di rappresentarlo. in un breve prospetto (71), onde si scorge quali sussidj erano approntati per le seguenti età. Ma le fatiche di que’ primi tempi giacevano in manoscritti e molto di necessità se ne dovea perciò trasandare, e molto levar di seggio dalle opere posteriori. Vuolsi non pertanto notare quali de’ lavori antichi serbaron pregio anche nelle discorse età susseguenti. Per la esegesi de’ libri dî gius romano la Glossa di Accorso continovò ad aversi quasi come una nuova fonte di dritto, e mandò in dimenticanza le partico- lari de’ suoi famosi predecessori. Oltre la glossa poi ebbonsi, tra le nuove opere, in venerazione altissima gli scritti di Cino, Alberico, Bartolo, Baldo e Giasone; in conto alcunchè minore gli scritti del Saliceto, del Fulgosio, del Castrense, del Tartagni, di Francesco Aretino e di Filippo Decio. Per le opere dogmatiche e sistematiche è da notare com’esse avrebbono dovuto crescere (70) Francof. 1577, da non confondersi con quelli di Niccolò Everardi ìl giuniore de’ due professori di questo nome che furono ad Ingoldstadt, e pubblicati Auguste 1606. È dubbio se sia di lui l'opuscolo: De legibus precipuis studioso perdiscendis che sta nella Cynosura del Reusner P. I pag. 162—164. (71) V. Artic. V. P. I. pag. 26. | lega STORIA DEL DIRITTO ROMANO NEL MEDIO EVO 255 di molto, se la scienza si fosse serbata in fiore e in progresso. Ma queste che nella precedente età scorgemmo e numerose e varie, e dar luogo ad una collezione di somme per l’uso della scuola diminuiscono invece di numero e di bontà, onde appena possono segnalarsi i trattati di Bartolo, alcunchè di Baldo e soprattutto diversi scritti del Cipolla. Degli antichi teoretici libri intorno al processo ne’ giudizj e dei Formularj la più parte ven- gono in oblivione, e appena restano in qualche onore Tancredi e Roffredo; di uso universale ora facendosi lo Speculum del Durante con le giunte di Gio. d’ Andrea e di Baldo: sennonchè gli scritti di Rolandino mantengonsi lungamente in credito ap- presso i notari. Per contrario: i Consigli, che dagli antichi e rinomati Professori davansi è vero ma di rado, ora appariscono ceme una manifattura in giurisprudenza intorno che i Professori spendono il meglio di loro forze, onde gli stessi autori si fanno ad esporgli e ordinargli in libri; nè immeritata è invero la molta riverenza che loro sì tributa anche ai dì nostri. De’ Consigli più celebrati sono quelli dell’Oldrado, di Baldo e del Tartagni; seguitano gli altri di Bartoloj del Saliceto, del Fulgosio, del Castrense, di Francesco Aretino, de’ Sozzini, di Filippo Decio e di Giasone. In questo stato di cose è manifesto che le sorti della giurisprudenza vuolevano di necessità, mutazione. E per ventura; i progressi fatti al cadere del xv secolo in ogni ramo di scientifica erudizione, e la invenzione della stampa che ren- deva accessibili i classici scrittori e poneva in grado di tutti conoscerli, raffrontarli e condurli al servigio della giurispru- denza, agevolarono la riforma che finalmente avvenne nel se- colo xvi. La quale non si compiè in un’ora: imperocchè molti le si scuoprirono avversi; e que’ medesimi i quali ne’ loro scritti eransi fatti autori del nuovo metodo, come l’Alciati e lo Zasio, tenevansi nelle scuole all’antico, onde una buona generazione dovè passare prima che ne fosse interamente cacciato. Assai però si dilungherebbe dal vero chiunque accogliesse in se la 256 STORIA DEL DIRITTO ROMANO NEL MEDIO EVO opinione che tutti gli scrittori all’Alciato anteriori debbano te- nersi in niun conto, e che nel secolo xvi la nostra scienza toc- casse l'apice di sua perfezione, sicchè niun’altra parte ci sia toccata in sorte se non questa di leggere gli autori di quella età, riempirne i vuoti e migliorarne la forma. Poichè, a dir vero, ogni uomo, per grande che sia, come ogni secolo vede sempre e di soverchio vede le cose da un canto solo; e chi vuole dominare la scienza dee dappertutto cercar modelli ed ceccitamenti al pensiero, e connettere il presente al passato senza sgomentarsi nè dei difetti nè della sparuta forma che non di rado oscurano sostanzialissimi pregi, e in fin de’ conti tutto quello e quanto da una scienza producesi nel suo graduale -e lento svolgimento. costituisce come un solo organato corpo, di che niuna parte può ben comprendersi ove non se ne avvisi la relazione con le altre, nè si prenda le mosse dal considerare quale esso era nel suo nascere, e non si accompagni poscia gradatamente in ogni con- tinuato avanzamento della sua vita. Al quale effetto la istori@ de’ dogmi rivelasi per ogni lato della maggiore importanza: e la storia de’ dogmi ha suo fondamento sovra la storia letteraria, nella guisa appunto che la filologia lo ha sulla grammatica; ra- gione per cui fu essa in questi volumi diligentemente ricercata e proposta, massime per quella parte che tocca al novero ed alle note caratteristiche delle opere quì discorse, e delle quali non pure le buone, ma eziandio le meno buone furono ricor- date; onde ciascuno collocandovisi, a così dire, nel mezzo, ivi si trovi come nella sua propria sede, e signoreggiando il tutto veda e attribuisca ad ogni cosa il genuino e proprio valore. Al VI ed ultimo volume di che ho terminato adesso di fa- vellare traggono dietro otto Appendici; la I.* delle quali esibisce in ordine alfabetico un Prospetto de’ Giureconsulti che fiorirono ne’ secoli xy e xy, onde non sembrassero dimenticati + quelli di che non è discorso dentro la Istoria. Le tre seguenti toccano a Bartolo; cioè la II.* al suo professorato in Bologna, la III.* al STORIA DEL DIRITTO ROMANO NEL MEDIO EVO 257 professorato in Pisa, la IV.* all'anno di sua morte. Riferiscesi la V.* all'anno in che nacque Bartolo, e la VI.* ad una prova d’ingegno fatta da Filippo Decio; mentre la VII.* rappresenta la epistolare corrispondenza tra papa Giulio II*e il Decio me- desimo: discorre finalmente la VIIL® dell'ultima dimora di Gia- sone in Pavia. Alle Appendici seguitano correzioni e giunte ai precedenti volumi, e poscia vengono 1.° Un Indice delle cose contenute. 2.° Un Indice degli autori rammentati. 5.° Un Catalogo delle fonti di gius addotte nel corso dell’opera. x Col presente VI ed ultimo Articolo si è per me compiuta la analisi di un’opera grande di merito e di mole, e per la quale il suo chiarissimo autore ha vanto di solenne istorico in romana giurisprudenza, nella guisa istessa che per molte Dissertazioni | egregie e pel suo « Sistema dell'odierno Diritto Romano» si dimo- strò in essa l’emulo del Cujacio. E appunto al secolo in che fioriva questo impareggiabile scrittore termina la storia del sig. De’ Savigny, e quì termina perchè a lui non parve giunto ancora il momento di toccar l’era de’ culti Interpreti del Romano Di- ritto, siccome quella che tuttavia seguita il proprio corso, nè sembra punto vicina al suo fine. La qual cosa è molto avven- turatamente vera; imperciocchè al dì d’oggi, come ne’ tre secoli precedenti, niuno è che non provi.la necessità di congiungere la storia e la filologia agli studj in romana giurisprudenza. Non- dimeno a me sembra, che nella sempre più fiorente scuola dei Culti siasi, al cadere del passato secolo, operato una quanto uti- lissima altrettanto grave mutazione rispetto alla forma, e in parte ancora alla sostanza, sia nel trattare e più principalmente poi nell’insegnare il Romano Diritto; onde l’era de’ Culti possa di- stinguersi in due parti, una delle quali è come adempiuta e cadde nel dominio della Istoria, e l’altra che surta è appena da 258 STORIA DEL DIRITTO ROMANO NEL MEDIO EVO mezzo secolo ed ogni dì guadagna in vita e vigore. Ed invero: prima che volgesse al suo termine il secolo xv, così ne’ libri come nelle scuole, il diritto Giustinianeo non si avea soltanto per base di nostra scienza, ma quindi prendevansi eziandio le mosse ‘ in esporla; onde le origini e le antichità, quasi meramente fos- sero eruditi episodj, intercalavansi alle materie trattate, nè ricer- cavansi con troppo acume di critica filosofia; epperò più scarso era il profitto ricavatone, e non lieve ad otta la confusione che generavasi nelle menti degli uditori e forse ancora de’ precettori. Ma come appena l’Hugo e quindi l’Haubold e il Savigny co- minciarono ad esporre le dottrine di nostra scienza, prevalse “nelle scuole e ne’ libri un nuovo metodo logico e cronologico, per cui se ne dimostra prima le origini, poscia e gradatamente le vicissitudini, e in fine l’ultimo stato, quale si ravvisa ne’ libri e le novelle costituzioni di Giustiniano. Or quanto la nuova e più adeguata forma di studj abbia animato e a dissotterrare nuove fonti di romano diritto e ad arricchire la nostra erudita scienza di rilevanti opere, non poco diverse dalle antecedenti e adorne di’ più squisita critica filosofia, così nell’aprire le uni- versali origini del Diritto come le speciali del romano, tutti lo vedono e sanno. Laonde non mi sembra punto temerario il voto col quale or pongo termine a questa serie non breve di analitici articoli; che un qualche Valentuomo, seguitando le orme così bene impresse dal Savigny, facciasi a tessere la narrazione isto- rica delle vite ed opere de’ più valenti Interpreti che per tutta Europa fiorirono nella prima anzidetta parte della era de’ Culti, e piacciasi di condurla insino alla seconda parte della era istessa, aperta nei dì nostri dal testè lodato triumvirato illustre, o in- somma insino a quella, che, prendendo nome: dalla regione ond’ebbe origine e vita, comunemente appellasi Scuola Istorica della Germania. RAGIONAMENTO ANTORNO ALLE SOCIETY COMMERCIALI DEL PROFESSORE GIUSEPPE MONTANELLI Il contratto d’associazione non fu, come quello di cambio, un prodotto della civiltà primitiva; ma nacque quando apparso l'elemento commerciale nella vita dei popoli, fu spesso neces- sario che le forze economiche individuali si unissero per conse- guire il fine proposto alle speculazioni private. Onde possiamo a buon dritto. affermare, che sebbene non da soli mercanti, nè per soli fini mercantili adoprato, esso doveva al commercio la propria origine, e il proprio incremento. Ma la società mer- cantile non diveniva istituzione avente caratteri che da ogni altra la distinguessero, se non che nell’uso commerciale mo- derno. Invenzioni del quale furono e le Ditte Sociali, .e le Acco- mandite, e le Azioni e le Anonime. E l’anonima specialmente segnava un’ epoca nuova nella storia del contratto di associazio- ne, imperocchè in lei si effettuava quella emancipazione completa della personalità sociale dalla personalità individuale, di cui forse non fu finora apprezzata tutta l’importanza giuridica. Ai progressi del contratto d’associazione nell’uso della vita commerciale moderna non rispondevano peraltro quelli della direzione legislativa che ad esso fu data, e ogni giorno, checchè ne dica il Troplong, si fa sentire più vivo il bisogno d’una correzione del titolo 3.° del libro 1.° del Codice di Commercio. 240) RAGIONAMENTO FE. L'Ordinanza di Luigi XIV del 1675 prendendo di mira le società mercantili, si limitava a imporre loro l'adempimento d’alcune formalità, a ordinare l'obbligazione solidale di tutti i socii per i debiti contratti in nome della società, a restringere l'obbligo dell’accomandante dentro i termini delle quote comu nicate, a prescrivere il giudizio arbitramentale per le questioni nate fra i socii. Il Codice di Commercio andò più oltre, poichè in esso il legislatore seguitando il sistema della codificazione non solo diede precetti a cui le private volontà si dovessero uniformare, ma somministrava definizioni, divisioni, risoluzioni di casi, che sotto l’impero dell'Ordinanza erano abbandonate alla libera investigazione della scienza. Furono distinte dal Codice tre specie di società mercantili, cioè le società in nome collettivo, accomandita, e l’anonima. Oltre di queste fu riconosciuta l'associazione in partecipazione, e di ciascheduna si determinava il carattere, e le principali questioni agitate dalla giurisprudenza anteriore verano risolute. Talchè il titolo 5.° era ad un tempo legge e teorica delle società mercantili . i Ora il primo difetto di questo titolo consisteva appunto nell’oltrepassare i limiti naturali segnati alla competenza del legislatore, invadendo quelli della giurisprudenza. Dal che de- rivavano funeste conseguenze e alla scienza, e alla vita. La scienza nell’ esame dell’istituzione non poteva più abbandonarsi alla libera ricerca della verità, dovendo accettare i canoni san- zionati dal Codice ancorchè li riconoscesse erronei. La vita economica era costretta a temperarsi dalla produzione di nuove combinazioni, per timore che non rispondendo a quelle già con- template nei tipi legislativi restassero fuori della legalità. Ne è questo il luogo di dimostrare quanto riesca sempre a INTORNO ALLE SOCIETA COMMERCIALI 241 danno del diritto positivo dei popoli la confusione dell'elemento | scientifico coll’elemento dottrinale, il primo dei quali è preroga- tiva del giureconsulto, il secondo del legislatore. Contro siffatta confusione dissero abbastanza i nemici della codificazione, ai quali :troppo spesso furono attribuite intenzioni che mai non ebbero, quasichè ripudiassero l'elemento legislativo, mentre lo dichiaravano solo necessario a costringere la volontà, e inop- portuno a dirigere il ragionamento giuridico. - Soprattutto le classificazioni dei fatti economici immobilizzate nella parola del. legislatore, grandemente pregiudicano al libero svolgimento del- l’attività creatrice: La quale potendo sempre al conseguimento d’uno stesso fine aggiungere nuovi mezzi, non consente che la classificazione delle specie già prodotte chiuda il varco alla ma- nifestazione delle possibili. E ciò non avviene se ella resta nei termini della scienza, la quale storicamente seconda alla mobi- lità progressiva degli umani interessi. Ma appena il legislatore se ne impadronisce la storia si trasforma in domma, e ciò che fu diventa la misura di ciò che deve essere. Così, a cagion d’e- sempio, ora che il Codice di Commercio ha detto non conoscere | che quattro tipi d’associazione mercantile, a quella potenza d’invenzione economica che produceva questi tipi non è con- cesso generarne altri senza sfuggire alla legalità. — Ebbene! se il legislatore avesse fatta la classificazione quando esistevano solamente la ditta sociale e V accomandita, anonima non sarebbe nata. Ometto d’'osservare che la scienza è costretta a renunziare al bisogno che ha di trovare classificazioni sempre più esatte, dacchè la legge consacra una CLASSIFICAZIONE MODELLO. Ma questi inconvenienti, taluno opporrà, non sono abba- stanza compensati dai vantaggi che reca una teorica delle società mercantili sottratta all'impero fluttuante delle opinioni, e con- sacrata dall’ autorità suprema dello stato? Pur troppo una delle grandi illusioni della codificazione si fu quella di poter troncare Je mille teste all’idra dell’umano 31 242 RAGIONAMENTO litigio; rendere inutile la giurisprudenza; somministrare ad ogni cittadino una norma sicura, seguendo la quale potesse fare a meno degli avvocati e dei tribunali. Bellissimo divisamento, a cui non mancava altro che la possibilità dell'esecuzione! Dopo che il titolo 3.° del Codice di Commercio promulgò una teorica delle società mercantili, forse non nascevano più questioni di società fra i commercianti? Forse le opinioni dei giureconsulti erano meno divise? Tutt'altro. — Le formule teo- retiche somministrate dal codice si rivelavano insufficientissime a soddisfare alle esigenze della pratica. Si domandava se una tale società dovesse o no considerarsi come società mercantile . E il codice non dava risposta. Si domandava se tale o tal altro patto fosse contrario all’essenza della società in nome collettivo, in accomandita; o anonima. E il codice mon dava risposta. Si domandava quale fosse l'estensione dei poteri del gerente. E il codice non dava risposta. Si domandava quali fossero le at- tribuzioni del liquidatore. E il codice di liquidazione non faceva parola. — Insomma molti erano i problemi dal codice non preve- duti, ai quali era necessario applicare i criteri della scienza spon- tanea. Da ciò derivava che una parte delle dottrine dalle quali è attualmente governata la società mercantile avessero la san- zione legislativa, un’altra parte appartenessero alla scienza in- dipendente; e contro le une ancorchè erronee non fosse dato protestare, mentre le altre potevano essere liberamente discusse, e corrette. Contradizione evidentissima! Credere poi che la sanzione legislativa faccia. un bene rimuovendo dalla risoluzione dei problemi giuridici il conflitto delle opinioni, è una delle più stolte idee che possano capire in umano intelletto. Primieramente bisognerebbe che il legisla- tore potesse prevedere tutti i problemi possibili, e somministrare per ciascuno una formula da seguitarsi nella loro risoluzione, lo che non è da sperarsi. Secondariamente non è permesso al- autorità legislativa violare quella logica necessaria alla quale \.d INTORNO ALLE SOCIETA COMMERCIALI 245 la giurisprudenza, come ogni altra scienza, va soggetta nella formazione delle sue dottrine. O la dottrina .sfolgora di evidenza assiomatica, e il consenso di tutti coloro che professano -la scienza esiste nel seguitarla, senza bisogno del comando so- vrano; 0 è ancora controversa in guisa che l'elezione fra opi- nioni contrarie sia intellettualmente possibile, e coll’imporre un’ opinione a preferenza di un’ altra il legislatore soffoca la libera respirazione del convincimento individuale, e crea una unità fittizia in luogo di quella vera unità che 0 più presto 0 più tardi sarebbe nata, se la ricerca del vero fosse stata ab- bandonata alla libertà della discussione. Guai se la varietà delle opinioni seientifiche dovesse essere considerata come una sven- tura! S’invocherebbe a poco a poco il legislatore non solo per la giurisprudenza, ma per tutte le altre discipline, e questa iniziativa dell’ autorità politica sostituita alla libertà degl’ inge- gni sarebbe la morte dello spirito umano. In una correzione del titolo 5.° del Codice di Commercio, chi volesse far buona riforma, dovrebbe adunque cominciare dal restituire alla giurisprudenza tutte quelle formule descrittive o direttive, che furono dal legislatore indebitamente usurpate. Nel Consiglio di Stato, quando il titolo si discuteva, non mancò voce che timidamente protestasse contro l'invasione del campo dottrinale. Ma quella voce non fu ascoltata, nè allora i limiti | fra la scienza e la legge erano stati ricercati, come lo furono di poi. Reca però meraviglia che nuovi codici di commercio nei tempi posteriori nascessero, senza che a riparare a questo vizio radicale fosse neppur per ombra pensato. XII. Il legislatore è nel proprio campo quando sottopone le società mercantili all'adempimento di certe formalità. Le quali senza dubbio tutta volta che siano stimate necessarie debbono ZA RAGIONAMENTO essere con precetto legislativo sanzionate. Ma questa necessità esiste ella veramente? . Per lungo tempo le società fiorirono nel commercio senza che alcuna solennità fosse richiesta per la Toro formazione, 0 pel loro scioglimento. Stipulato il patto che dava vita all’asso- ciazione, erano i commercianti liberi di aflidarlo a qual prova meglio loro piacesse; e se per lo più se ne faceva testimone la scrittura, questa poteva anche mancare, nè tal mancanza toglieva nulla all’ efficacia del patto sociale.*Era dell'interesse dei com- mercianti far nota l’associazione, ma nessuna solennità di pub- blicazione si esigeva. E così vanno tuttora le cose in America, ‘e nell’Inghilterra, dove le associazioni commerciali. fioriscono sciolte da ogni legame. i L'idea di sottoporle all'adempimento di certe formalità nacque in Francia, e si propagò ovunque la legge commerciale francese era adottata. Fino dal 1569 si obbligavano gli stranieri che volessero istituire compagnie nel territorio francese a ren- der pubblica mediante il registro questa loro contrattazione. La legge non era osservata, ed Enrico IV richiamandola in vigore estendeva l'obbligo anche ai nazionali. I parlamenti lottarono | contro tal precetto, e riescivano a metterlo fuor d’uso, quando l’Ordinanza di Luigi XIV del 1675 con maggior rigore delle leggi precedenti lo rinnuovava. La quale non si limitò a co- mandare la prova per mezzo di scrittura, e la pubblicazione ‘ dell’estratto sociale, ma dichiarò nulle sia quanto ai socii, sia quanto ai terzi, tutte quelle società in cui siffatte forme non fossero scrupolosamente osservate. Il Codice non fece che rico- piare il disposto dell'Ordinanza temperandolo solo rispetto alla nullità, che volle si verificasse unicamente rispetto ai socii. La furba dei Commentatori levava al cielo questa parte delle disposizioni del titolò 5.°, facendo, per così dire, dipendere da esse la prosperità delle associazioni commerciali, anzi di tutto il commercio. Ma a siffatta opinione apertamente contra- INTORNO ALLE SOCIETA COMMERCIALI 2455 stavano, e il fiorire delle associazioni libere da ogni impedi- mento, e i conati del costume e della scienza diretti a sfuggire ‘alla pena da cui le formalità richieste erano sanzionate. Il cele- bre Savary che ebbe parte nella compilazione dell’ Ordinanza del 1675, dieci anni dopo emetteva un Parere alla lettera del- l'Ordinanza contrario. Nessun magistrato francese prima del codice avrebbe - osato dichiarar nulla una società, solo perchè non esisteva la prova scritta, o ne mancava la pubblicazione; e anche dopo il codice più volte davanti ai tribunali francesi si tentò immolare il rigore. della legge alle esigenze dell’ equità. I quali fatti mostrano evidentemente la repugnanza che il «disposto legislativo incontrava nella ragione delle cose. Impe- rocchè è difficile che il pubblico consentimento, e la scienza dei magistrati non cooperino a èseguire le volontà dei legisla- tori, quando esse rispondano a una necessità imperiosa del viveré civile. Nè io prenderò a discutere se meglio sarebbe che in una riforma del titolo 5.° le formalità summentovate sparissero; ma quando pure debbano restare, ciò che mi sembra fuor di dubbio si è, che la tutela della loro osservanza non sia affidata ad una sanzione di nullità, la quale ha contro di sè e i principii della logica, e i dettami della morale. Non consente la logica che si dichiari nulla una contratta- zione, solo perchè i contraenti non ne presero nota, o non la manifestarono al pubblico con certi modi anzichè con certi altri. Difatti qual è il fondamento razionale delle nullità nelle con- trattazioni dei cittadini? Elleno saranno dichiarate nulle, o per- chè non hanno naturale esistenza, o perchè essendo contrarie all'ordine della città, quantunque dotate di vitalità naturale non possono aver la civile. Così per. la prima ragione è nullo: il contratto stipulato con persona la quale non ha capacità di contrattare, come quello che ha l'apparenza, ma non la verità dell'essere; e per la seconda è nulla una convenzione che tra- 246 RAGIONAMENTO sferisca dei beni nelle manimorte, come quella che fu dalle leggi vietata. Ma dacchè la contrattazione esiste naturalmente, e non trova nascendo ostacolo nella legge, è assurdo annullarla sola- mente perchè la di lei manifestazione esteriore non s’ atteggiò a un certo modello. Dichiarare la nullità in questo caso, è lo stesso che dire NON FU, ciò che non si può negare ESSERE STATO. Ma i cittadini, si dirà, sanno che la legge ha prescritte certe forme alle loro contrattazioni, sanno che se non le osser- vano la contrattazione è nulla. Talmentechè in ogni contratta- zione stipulata senza le richieste formalità si verifica appunto quel difetto di vitalità civile, che secondo la nostra teorica è una causa legittima di nullità. Ma il dubbio rimané agevolmente, dileguato, ove riflettiamo che quando il legislatore scomunica dall'ordine civile una contrattazione, deve trovare la ragione della censura nell’essenza della medesima, nè può arbitraria- mente procedere. Ora nell’essenza d’una società mercantile che non prende la scrittura per documento della propria esistenza, che cosa vi è d’avverso all'ordine pubblico, onde legittimamente possa essere annullata? Sia pure una colpa dei contraenti l’omettere le solennità opportune a meglio costatarne l’ esistenza. La pena dovrà colpire l omissione, ma non dichiarare illecito ciò che è di sua natura lecitissimo. I difensori della nullità per essere conseguenti sono. costretti a sostenere che la scrittura e la pubblicazione appartengono all’essenza delle società mercan- tili, quasichè l'essenza delle cose possa dipendere dall’arbitrio dell’uomo! Neppure la morale consente che le accennate formalità siano guarentite dalla sanzione delle nullità, essendo eminente- mente immorale che un individuo il quale contrasse un obbligo possa esimersi dal medesimo, invocando la legge a propria di- fesa. Avviene che più mercanti abbiano formata veramente una società! Sull’esistenza di lei non si muove dubbio; ma perchè non si era scritto o pubblicato solennemente il patto sociale, INTORNO ALLE SOCIETA COMMERCIALI 247 colui al quale non torna altrimenti ‘seguitare nella società, dice un bel giorno ai propri compagni: — Io ho diritto di disdire alle mie promesse —....1 tribunali son costretti a dargli ragione! E se ciò sia senza scandalo, ciascuno può giudicarne. Nella compilazione del Codice di Commercio vi fu chi invece della nullità propose un’ ammenda; partito molto più equo e razionale, ma che non fu seguitato. IV. Verso la società anonima il legislatore fu più severo che colle altre, esigendo in essa l'autorizzazione governativa. Prima del codice esistevano società per azioni, e godevano il privilegio del governo. La rivoluzione francese abolì questi privilegi; ma quando il codice si discusse fu domandato se convenisse ab- bandonare alla libertà dei privati la formazione d’una società la quale col titolo d’azioni mette in circolo dei nuovi valori; e in tal discussione le opinioni erano divise, poichè Treilhard pen- sava doversi nell’anonima esigere l’autorizzazione governativa solamente quando per la natura delle sue intraprese avesse cor- relazione coll’ordine pubblico, mentre Regnaud, la cui opinione | prevalse, vedeva in ogni anonima indistintamente pel solo fatto | | della circolazione delle azioni l’ordine pubblico interessato. Per altro il codice dopo aver subordinato la formazione dell’anonime all'autorità sovrana, non sì mostrava del tutto conseguente a se stesso, permettendo l’azione ‘anche nell’accomandita. Che se il pericolo della libertà derivava dall’azione, perchè l’ accomandita per azioni andava esente dalla censura? Im questo fu molto più conseguente il Codice di Commercio piemontese che volle l au- torizzazione non solo per l’anonima, quanto per l’accomandita «il di cui capitale fosse diviso in azioni. I Giureconsulti in generale approvarono la servitù del- l’anonima. Non così adopravano gli Economisti, alla maggior 248 RAGIONAMENTO parte dei quali l'autorizzazione governativa sembrava un grande ostacolo ai progressi di tal società. Sicchè il problema vuol essere dalla scienza discusso, onde in una riforma che sia per farsi del titolo 3.° il legislatore trovi anche su questo articolo spianata la via. i Non fa mestieri di molta riflessione per capire che la ne- cessità dell’autorizzazione è grandissimo incaglio alla libertà dei commercianti, e non può non esser causa che l’anonima sia da loro radamente adoprata. Senza di essa appena concepito il progetto, si darebbe opera alla riunione dei capitali, e quel fervore che sempre accompagna i principii d’una speculazione non avrebbe tempo di raffreddarsi. Ma, come saggiamente os- servava il sig. Carlo Coquelin in un bellissimo Articolo sopra le società commerciali, inserito nella Revue des deux Mondes del- l’anno 1842, la formazione dell’anonima pone fino dal comin- ciamento i fondatori in un circolo vizioso, dal quale non sanno in qual modo escire. Essi hanno bisogno ad un tempo della cooperazione dei capitalisti, e dell’autorizzazione del governo. Ma a chi s’indirizzeranno per i primi? I capitalisti vogliono che | loro si parli non d’un progetto tuttora per aria, ma d’un pro- getto che abbia una base, e che possa essere eseguito. Ora la condizione indispensabile all’eseguimento d’un progetto che dà vita ad un’ anonima, è l'autorizzazione governativa. Quindi sa- rebbe necessario che i fondatori della società volgendosi ai capitalisti fossero già di questa autorizzazione provveduti. Ma il governo per autorizzare un’anonima chiede che essa abbia il capitale occorrente all’ esecuzione dei suoi disegni. E se i fon- datori volgonsi al governo prima che ai capitalisti, come po- tranno, nella maggior parte dei casi, ottenere l'autorizzazione? Tale è la difficoltà che impedisce a più di un’anonima di esiste- re. Si aggiunga che nel movimento commerciale vi è sempre il, | bisogno di riescir presto a un resultamento definitivo, e la so- spensione gli è contraria come la morte alla vita. Si aggiunga INTORNO ALLE SOCIETA COMMERCIALI 2AA9I che ogni domanda d’autorizzazione esige e spese e tempo. Oltredichè l’idea di comparire davanti a giudici spesso incom- petenti a conoscere le probabilità della riuscita d'una specula- zione, naturalmente agghiaccia e spaventa i più fervorosi fon- datori d’anonime. L'esperienza conferma queste verità. Imperocchè dopo la compilazione del Codice di Commercio scarsissimo era il numero delle anonime, di fronte a quello che sembrava promettere la loro mirabile struttura. E per lo più si adopravano per quelle sole intraprese alle quali, anche indipendentemente dall’anonima, l’autorizzazione governativa sarebbe stata necessaria, come co- struzioni di ponti, di strade ferrate, e così via discorrendo. Ma l’esecuzione di tutte le imprese di minore importanza si affidava alle accomandite per mezzo d'azioni, le quali divenivano una forma bastarda che non aveva nè i vantaggi dell’anonima, nè quelli della vera e propria accomandita. Un gerente indefinita- mente responsabile è necessario nell’accomandita, che perciò appunto si distingue dall’anonima, dove tutti i socii sono obbli- gati soltanto dentro i limiti della quota comunicata. Ora per soddisfare a questa esigenza si nominava un uomo di paglia che, non avendo patrimonio, offriva tale responsabilità che si risolveva in un’ apparenza. E così nel fatto il solo credito della società era come nelle arionime costituito dal patrimonio degli azionisti, i quali però non avevano il diritto di poter revocare il man- dato del gerente, e dovevano accettarne l'assoluto potere. E questa balìa d’uomini, per lo più avventurieri e immeritevoli d’ogni fiducia, fu causa di molte rovine; e non è da meravi- gliare se il Governo Francese nel 1858, spaventato dagl’incon- Venienti dell’accomandite constituite per mezzo d’azioni, ne facesse proporre dal Ministro Barthe alla Camera dei Deputati l’abolizione. L'autorizzazione richiesta nelle anonime era evi- dentemente la causa principale di questo vizioso indirizzo del movimento economico. (i 19 250 RAGIONAMENTO Pure se veramente un’ imperiosa necessità la richiedesse, convengo che le accennate ragioni non dovrebbero bastare a bandirla dal codice. Ma resta a vedere, se i motivi che si ad- dussero per provare questa necessità, abbiano solido fonda- mento. Giova distinguere le ragioni che fecero prevalere il prin- cipio dell’autorizzazione nella discussione del Codice, da quelle che furono in seguito recate in campo dalli scrittori. I compilatori del Codice si persuasero della necessità del: l'autorizzazione dell’anonima per due principali motivi: 1.° per- chè essa era una istituzione recente, 2.° perchè nell’emissione delle azioni vi era il pericolo di quella frode commerciale che si chiama agiotaggio. Li scrittori ne aggiunsero altri due, di- cendo: 1.° Che l’anonima era una deviazione dalle regole del diritto comune, e perciò voleva esser munita di speciale pri- . vilegio. 2.° Che mancando in essa la guarentigia della respon- sabilità personale, era necessario fornirle un’altra guarentigia coll’approvazione della pubblica autorità. Nessuno di questi quattro motivi può bastare a mantenere nella riforma del titolo 3.° il principio d’autorizzazione. E per cominciare da quelli che trovarono accoglienza nella discussione del Codice, reca in verità maraviglia come a sotto- mettere l’anonima alla censura potesse farsi valere la di lei no- vità. I fatti nuovi apparsi nella vita economica debbono certa- mente provocare l’attenzione dell’autorità suprema dello stato, la quale è obbligata a vietarli se avversino all'ordine, e in ogni altro caso deve permetterli. Ma la novità d’un fatto del quale non si può mettere in dubbio l’innocuità, non sarà mai una ragione onde si riguardi con diflidenza, e se ne renda difficile la produzione. E che altro è l'evoluzione dell’incivilimento se non che un'apparizione continua di novità? Guai se invece di favorire l’innovazione si fosse combattuta! Noi saremmo tuttora all’epoca in cui cibo dell'umanità erano le ghiande della foresta, INTORNO ALLE SOCIETA COMMERCIALI 251 nè la terra presenterebbe oggi quello spettacolo maraviglioso per cui, se i primi nostri padri ritornassero in vita, la crede- rebbero un pianeta diverso da quello che fu testimone delle prime loro fatiche. E pur troppo l’avversione alla novità fu propria di tutti gli ordini politici fondati sul privilegio o sul- l'errore, ai quali ogni mutazione delle presenti condizioni fa naturalmente paura; ma nè questi ordini politici erano quelli fra i quali il Codice di Commercio nasceva, nè le paure d’una casta o d'un despota possono essere buone ragioni di scienza. Più in apparenza fondato fu il timore della frode nella emissione delle azioni. — Ma in realtà neppur questa era una ragione, onde l’anonima fosse sottoposta all’odioso regime della censura. — Difatti, supponghiamo che l’impostura architetti un progetto privo interamente di base — imagini un’ impresa la quale non può avere successo, col fine di seroccare dei denari alla credulità, emettendo azioni che siano pagate a contanti, e che realmente non hanno nessun valore. O il progetto è tale che non ha veramente nessuna plausibilità di successo, e l’opi- nione pubblica ne fa giustizia, e non trova avventori. O il pro- getto è architettato in modo che l'opinione pubblica possa restarne ingannata, e in quella guisa che s'inganna l'opinione pubblica è ben facile che ci resti anche l'autorità governativa. La quale non può esigere certamente nella dimostrazione della solidità d’un progetto una certezza matematica, impossibile nelle cose morali, ma deve appagarsi di quella probabilità di cui non Wi è miglior giudice della pubblica opinione. E certo se le nostre società fossero tuttora in uno stato di minorità, esigere la tutela governativa anche per preservare i privati dalle fandonie dei ciarlatani, sarebbe cosa lodevolissima. Ma dove l'opinione pub- blica è regina delli stessi governi, dove la direzione delle forze private non muove solamente dal bullettino delle leggi ma dai pulpiti, dalle cattedre, dalle tribune, dai giornali, dai libri d’ogni specie, per salvare qualche imbecille dal pericolo di 252 RAGIONAMENTO rovinarsi non è dato inceppare il movimento d’una delle più grandi istituzioni del commercio moderno. Almeno poi la cen- sura governativa salvasse veramente le anonime dall’agiotaggio! Lo che non accade, perchè esso più che all’epoca dell'emissione delle azioni è temibile in quella della loro circolazione, e quindi anche le anonime autorizzate ci rimangono esposte. Malepeyre e Jourdain nel loro Trattato delle società com- merciali non contenti delle ragioni summentovate, ne propo- nevano una nuova, la quale, come accennammo, consisteva nel derivare la necessità dell’autorizzazione governativa dall’essere l’anonima una deroga ai principii del diritto comune. Non può esistere, si diceva, società senza responsabilità personale dei socii; l’anonima non conosce responsabilita personale; dunque perchè abbia vita si richiede il consenso dell’autorità a cui solamente è permesso assolvere i cittadini dall’osservanza del diritto comune. Tale argomento non meriterebbe confutazione se non ve- nisse da autori i quali hanno celebrità nel foro commerciale, e se disgraziatamente non fosse una nuova testimonianza delle im- perfette nozioni che la maggior parte dei giureconsulti pratici hanno tuttora intorno all’indole, e alle funzioni del diritto positivo. Che in secoli di dispotismo, o d’ignoranza si considerasse il diritto comune come una creazione arbitraria, pazienza! Ma tal bestemmia è ella tollerabile nel secolo decimono? Il diritto comune non è altro che la ragione applicata al governo della società; e siccome le leggi della ragione non possono essere violate dall’arbitrio, così non vi è caso che la regola possa es- sere legittimamente conculcata; nè vuolsi considerare come de- viazione dalla medesima ciò che spesso ne è o la correzione, o il progressivo svolgimento. Dimodochè se veramente l’ anonima fosse una deviazione dal diritto comune l’autorità politica non potrebbe autorizzarla, perchè autorizzando siffatta deviazione approverebbe l’ingiustizia. INTORNO ALLE SOCIETA COMMERCIALI 205 Ma l'errore dipende dal riguardare il diritto comune come un sistema immobile il quale sia giunto al suo compimento ad una data epoca della società umana, sicchè l'elaborazione giu- ridica dell’epoca posteriore si riduca o a usarlo come un mobile antico, o a raffazzonarlo a seconda delle nuove esigenze. Ciò apparisce falsissimo ove si rifletta che la grand’opera organica della formazione del diritto positivo dei popoli non può mai dirsi compiuta, come quella che dee secondare all'evoluzione della vita nei popoli stessi. Onde i fatti nuovi al governo dei quali le formule antiche non sono applicabili, danno origine a nuove formule le quali non appartengono meno al diritto comune di quelle preesistenti. Così la società anonima era un nuovo tipo di società, e l’idea giuridica che ne esprimeva l'essenza, aveva col diritto comune preesistente quei rapporti medesimi che il diritto enfiteutico all’apparire del contratto d’enfiteusi ebbe col contratto di locazione e di vendita di cui fu espli- cazione. Resta il solo obietto della mancanza della responsabilità personale, sul quale, specialmente negli ultimi tempi, molti si appoggiarono. Se la responsabilità personale avesse, quanto a coloro che contrattano colla società, un valore distinto dalla capacità eco- nomica degl’individui nei quali si trova, comprenderemmo come si potesse invocare per l’anonima a cui manca una guarentigia diversa dal capitale che ella possiede per far fronte alle pro- prie obbligazioni. Ma in sostanza in che si risolve l’ obbli- gazione delle persone, se non che nell’obbligazione del patri- monio del socio? E che importerebbe a colui il quale diede i propri danari alla società, d'avere obbligato il socio, quando gli Mmancassero i capitali per pagare? Che gl’importerebbe di spe- rimentare perfino contro di esso l'arresto personale? Il credito d’una società in cui esiste responsabilità personale nasce dalla fiducia dei terzi nella supposta ricchezza dei socii. Ora tutta la 254 RAGIONAMENTO differenza fra l’anonima e le altre società consiste in questo, che il patrimonio esposto agli obblighi della prima è conosciuto dai terzi, mentre quello delle altre è solamente supposto. Dal che è facile inferire che se un paragone deve istituirsi fra garanzia e garanzia, maggiore sotto questo rispetto è la garanzia dell’anonima che delle altre società, essendo assai meglio con- trattare con chi ci manifesta la sua capacità patrimoniale, che con chi la tiene celata. Emancipando l’anonima si renderà inutile la questione suscitata in Francia nel 1858 dal Progetto del Governo d’abolire l’accomandite per azioni, poichè, come già avvertimmo, la gran- de affluenza del commercio verso le accomandite per azioni na- sceva dagli ostacoli opposti all’anonima, nè esse altro non erano che anonime travestite. V. Le riforme che noi proponghiamo restringono oltremodo il campo della legislazione nel governo della società mercantile. Ma quanto diminuisce l’importanza della legislazione, altrettanto cresce quella della scienza spontanea. Nè qui è inopportuno osservare quanto male s’appongono coloro i quali cominciano a lagnarsi dei principii liberali di cui il secolo decorso fu nelle cose economiche generoso banditore, avvisando che i popoli siano destinati ad entrare in una nuova fase d’ordinamento so- ciale, in cui l’opera dei legislatori sarà sommamente necessaria. Noi siamo lontani dall’impugnare i servigi immensi che la legi- slazione ancora può rendere; ma pensiamo altresì che questi servigi consisteranno più nell’abolire le istituzioni che non con- vengono alla nostra civiltà, di quello che nel crearne delle nuove. L’opera organica delle società di cui siam parte, non può effet- tuarsi colli stessi argomenti che servirono all’edificazione del- l’ordine nelle società primitive. Allora le individualità creavano i popoli; ora i popoli creano le individualità: Allora il legisla- INTORNO ALLE SOCIETA COMMERCIALI 255 tore era ad un tempo sacerdote, giudice, filosofo; ora tutte queste funzioni sono distinte. Talchè non è vero che lasciando la legge il movimento economico alla sua naturale libertà, esso resti senza direzione; ma la direzione è traslocata, movendo da altre forze le quali hanno comune colle politiche il governo delle nazioni. Le teoriche della società mercantile svincolate dalle pa- stoje della codificazione, risponderanno, meglio di quello che non abbiano fatto finora, alle importanti questioni che indirizza loro il commercio, giovandosi dell’ajuto d’una scienza, di cui sventuratamente è tuttora fra i giuristi il numero dei coltivatori Sì scarso. Come si distingue la società mercantile dalle non mercantili? Ogni società ha essa necessariamente una personalità? Quali sono i limiti che la libertà dei contraenti non può oltrepassare nella stipulazione del patto sociale? È consentaneo alle ditte sociali limitare l’uso della firma comune? Alle accomandite che gli accomandanti circoscrivano i poteri del gerente? Alle anonime che i mandatarii ammini- stratori siano costituiti irrevocabili? Il gerente dev’ essere considerato come un mandatario? Gli accomandanti sono esclusi dalla gestione solamente nell’interesse dei-terzi, o anche in quello del gerente? Il liquidatore è parificabile al gerente? L’accomandante è esposto all’azione diretta dei creditori? Questi, ed altri problemi, affatto indipendenti dal Codice, non saranno debitamente risoluti, finchè una teorica fondamen- tale non abbia posta in chiaro l’idea primigenia che diede vita alla società mercantile, e i successivi acquisti che ella andò di mano in mano facendo. Nè a ciò bastano chiose di testi, inven- tarii di decisioni, sgranate notizie di date; ma si richiede quella filosofia storica la quale penetra dentro alle istituzioni, e ricerca la loro origine, e le loro fasi ideali. ° Ma core E delfoate ia di 1 0 PICERATÀ de I I SIITCIONI pada: (I Avid alterati ui dela denaro VICINA ‘sb dbirortin ieoaiette. sodi ni sat jalsoivo tibia Detta di e nn «ifatip» 125) " abpeat za che ili ato: 20 Îo asabià I tip'allato stilosiiva line sitsiina alfab ernia ì È 'ado) Gitbap #6 dipen ronmerobirogeit \ocnissotitvi da MET, 40 sasiaiboi to anditzdop Atimttogini alle. ciro; atel.0n À Mis! 16, andoisa: si diff Hob. iopearois Girando A (È -liadiavizio) ini orme ti ideiisy ii msi evosva srt ra sa Mies dl ber us sa Sicaiita PROEL 5 > iraonda Uni illabitiibn sasiooe el ouggiszilà ina : » bagtilizaodtaq sio dInsirisitazza 929 -sre9 “ gel Stoigog ing) cd pe odi iidertaoo Db sirodif.si odo itimil. i omo: itnu@e s + Splsiabe 0Neq fab sqvitstingita sllon È ciari a FSp sent omai ant sirio sob ‘atti rossa A omtevinsinidrio Unbtiazinose itgsodo oftiimmoniza là e foina steribanenn d bitorvtdivo ci bll.» rider. 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Il genere umano, distinto in varie genti o schiatte, sparso sulla superficie della terra abitabile, ordinato a compiere un suo ufficio cosmico fra le altre forze della natura, nacque con certe sue facoltà richieste all'adempimento di quell’ufficio; e quan- d’anche da principio non avesse conosciuto l’alto fine a che dovesse aspirare, pur si sarebbe mosso verso di quello, come in tutta la continuità del suo corso vi aspira sempre per impeto e sapienza suoi propri, e per le leggi comuni dell'ordine univer- sale. Prima adunque che l'umanità, venuta a cognizione, per sociali commerci, di tutta, o quasi di tutta se stessa, cominci nel mondo la sua verace vita, ella offre la sua esistenza, le sue va- rietà etnografiche, le sue posizioni geografiche, le sue potenze, i suoi fini e una moltiplicità di storie sempre più larghe alle meditazioni del pensatore; il quale da tutte queste cose, ante- riori all'operazione umanitaria, raccoglie una logica fondamentale alla filosofia della storia tutta quanta. Chi poi trascenda la lun- ghissima serie dei fatti, che sono la materia trattata dagli storici, e si rechi a considerare il genere umano qual uno degli elementi primordiali del presente sistema cosmico, e prima ch'egli cominci l’esplicazione di se nello spazio e nel tempo, ha quasi fra le mani 55 258 UNA FORMOLA LOGICA un germe, nel quale sia anticipatamente chiuso tutto l'ordine dei fenomeni che si manifesteranno nel suo svolgimento posteriore. Ma chi oserebbe, unicamente fondandosi in queste nozioni anti- cipate, pensare e scrivere a priori la storia dell'umanità? Questa storia dovrebb’ essere necessaria, senza di che non se ne po- trebbe preconcepire il procedimento con l’infallibile esattezza, con la quale i matematici prenunziano i moti del cielo, nè rac- contarla con quella verità che ne costituisce il pregio più bello e più essenziale. Ed essendo in tutte le sue parti necessaria, sa- ‘rebbe inevitabilmente fatale; che importa l’esclusione della liber- tà dalla nostra vita. Laonde non potendosi realmente fare una storia dell’umanità « priori, nè anche giova ragionarne. Ma se la continua esecuzione delle sorti umane non vuolsi recare a fata- lità, non per questo è da reputarsi un cieco e travaglioso corso senza ragione e senza scopo, quasi scherzo della fortuna. L'uomo e quindi l’ umanità, ha, come già dicemmo, le certe sue leggi e il fine prestabilito, al quale indirizzi le sue libere operazioni; ha il dovere d’indirizzarle a questo suo fine, e il diritto di re- pugnare alle forze che glie ne contrariassero il giusto consegui- mento. Di che sorge una teoria dell'umanità anteriore alle nar- razioni della storia, e filosofica ragione di essa. Intorno alla quale sono da fare due capitalissime considerazioni. 1.° Questa dottrina se dommaticamente precede a tuttociò che sia narrato dalla storia, perchè è desunta da leggi e preordinazioni di cose che regolano sulla terra tutto il processo dei secoli umani, non perciò si vuol eredere che senza il:profondo studio dei fatti isto- rici sarebbe possibile a porre ed insegnare. 2.* Le ragioni e i principj che la costituiscono sono l’ideale misura di ciò che nella vita è costante, immutabile, necessario, e il filosofico eri- terio per giudicarne il bene ed il male; sono l'eterna idea della storia umanitaria, a cui tutte le storie particolari o generali ren- dono perpetua testimonianza, e con diverse proporzioni risguar- dano. DELLA FILOSOFIA DELLA STORIA 259 Così parlando della filosofia della storia noi presupponiamo tutte le genti preordinate ad aver commerci e interessi di civil- tà fra loro, e in tutte le società parziali vediamo quasi gli sparsi frammenti o la preparazione di quella società catolica, che, an- che non costituita dalla sapienza nostra, è sempre intesa, e sarà sempre meglio effettuata dalla sapienza divina. Ci fondiamo adunque in un concetto scientificamente sintetico di tutte le cose umane, e perciò parliamo di umanità: troviamo nella essen- ziale costituzione di essa, argomentiamo da’ suoi legami con le altre forze mondiali le necessità e leggi primitive che la portano a un termine provveduto: e valutando la mirabile armonia tra questo fato che antecede alla vita umanitaria, e la spontaneità e libertà della posteriore evoluzione di essa, conchiudiamo tutti i nostri concetti intorno alla filosofia della storia nell’idea eterna della possibilità di essa e delle leggi universali e costanti dalle quali è dominata. Ma di questa anticipata ragione di cose sto- riche non fu nostro proposito di porre e dichiarare la formola logica nel presente opuscolo. Ciò facemmo nelle lezioni per noi premesse, a modo di scientifica introduzione, al nostro insegna- mento pubblico, e ciò vedrassi, Dio concedente, con l'ampiezza convenevole discorso nel libro destinato ad argomento così su- blime. La formola logica, che sarà esposta in questo libretto, appartiene a quella medesima filosofia di che fin quì abbiamo ‘ragionato; ma è desunta dall'ordine posteriore dei fatti, che secondano alle cosmiche preordinazioni della vita umana, e via via ne consumano la dinamica esplicazione . Entrando per una via, che potrebbe parere empirica, cer- cheremo se i fatti avessero la potenza logica di alzare il nostro intelletto a quella idea filosofica, che è il domma immutabile di tutta la possibilità della storia. Ma non porremo a materia del nostro discorso le cose appartenenti alla storia antica o a quella moderna, a quella d’Italia, o a quella d’Inghilterra, di Germa- nia 0 di Francia. Imperocchè la nostra mente potrebb’ essere 260 UNA FORMOLA LOGICA impedita da questi limiti, la quale cerca e dichiara una formola logica universale. Non osserveremo le belle membra di un corpo robustamente virile, non le esterne prove delle sue forze; ma indagheremo lo spirito occulto che lo avviva, e il perenne e ne- cessario processo di questa interna vita, di cui l’ esteriore è il simbolo o l'ombra. E non vorremo sodisfare agl’ inerti desiderj dei ragionatori volgari delle cose, ma alla profonda ragione de’ sapienti, e svegliare gl’ingegni italici alle veraci arti dell’alto filosofare. Che se realmente ci succedesse di ascendere per la via de’ fatti ‘all’altezza alla quale aspiriamo, avremmo un’altra volta riconciliato l’esperienza con la ragione: mostrato la fallacia di queste terminologie difettive delle scuole: risoluto uno scien- tifico problema, e preparato a tutte le istorie un comune prin- cipio che le congiunga verso l’ eterna idea, di cui sono le parti- colari e più o meno scarse o piene rivelazioni: dato un docu- mento letterario, che, per le sue applicazioni, possa divenire un organo di civiltà. S. II Posizione della formola. Ogni cognizione posseduta dallo spirito umano presuppone necessariamente una cosa a cui ella risguardi, e della quale sia Ja logicale o ideale misura. La storia, grandissima e nobilissima parte dello scibile, è anch'essa correlativa all'ordine delle cose, che forniscono materia alle sue veraci narrazioni: e perocchè queste cose son da essa proposte alla considerazione dello spirito, il quale aspira ad intenderle più pienamente che gli sia possibile, per questo essa è disposta per sua propria indole a divenire scienza, e virtualmente in se la contiene. Conciossiachè ogni umana cognizione abbia in se naturalmente un fecondo germe, che, debitamente coltivato, fruttifica in forma di scienza (1). Queste poche idee, alla cui verità non saprei bene chi po- « DELLA FILOSOFIA DELLA STORIA 261 tesse con ragionevolezza repugnare, ci fanno concepire speranza che l’idea storica ci debba inalzare fino all'idea filosofica, alla quale intendiamo. Ma come proporremo noi cosiffatta formola, la cui virtù ci debba elevare fino a questa filosofia della storia? Il fatto è il termine dal quale movono le nostre ricerche; per- chè, tolto il fatto, anche la storia non ha materia da trattare, cioè non può esistere. Considerando il fatto con questa veduta razionale, noi già gli attribuiamo un valore filosofico; imperoc- chè non parliamo quì di alcun fatto particolare, ma di tutti quelli che possa narrare la storia, e raccogliendoli tutti sotto un aspet- to, gli riguardiamo logicamente siccome condizione necessaria sicch’ ella abbia realmente esistenza. Però se l’ idea del fatto storico è il punto, dal quale moveranno le nostre indagini, e se quello, a cui debbono sublimarci, è l’idea della possibilità filosofica dell’umana storia nel mondo; facil cosa è dedurre da questi due estremi una formola, la quale sodisfaccia alla presente nostra occorrenza. Perchè noi dovremo dichiarare se sia conforme 0 contrario alle leggi della nostra ragione, e alle necessità obiet- tive delle cose, logicamente ascendere a questa difficile altezza. Adunque inalzare il fatto storico a grado di possibilità filosofica è la posizione della formola, alla cui sufliciente dichiarazione saranno consacrati i seguenti nostri ragionamenti. S. II Del fatto e della possibilità. Il cammino che hassi a percorrere è grandissimo, ma a noi la qualità dell’assunto preso fa precetto di percorrerlo presto, occupando in brevi tratti uno spazio aperto per lunghi moti. Procureremo di non interrompere la continua serie delle cose, com’ è dovere di logica non fallace, ma intera; di trarre in luce il valore profondo di quelle principali; e di preparare la cogni- 262 UNA FORMOLA LOGICA zione di tutte le altre, che indi seguono a compimento del loro ordine necessario. E prima determiniamo bene le idee di fatto e di possibilità, che sono i cardini veri della proposta formola. Tuttociò che dalla mente umana è considerato siccome cosa operata da una o più forze condizionate ad eseguirla, e alla cui esecuzione o generazione nulla manchi, dicesi un fatto; il quale però è cosa effettuale, posta fuori dello spirito, e attual- mente esposta alla sua osservazione; cosa che oggimai appartiene al passato ed è irrevocabile, e nella quale, però che è irrevoca- bile e positivamente stata, l’azione dell’uomo non possa indurre trasmutazione di alcuna specie. Pertanto, apprendere un ogget- to, in quanto semplicemente esista, alla nozione sincera del fatto non basta. Imperocchè, come nell’ordine delle realità, al quale naturalmente appartiene, non avrebbe mai avuto origine senza certi impulsi e forze appropriati e disposti ad operarlo; così nell’ordine ideale, che è quello delle umane cognizioni, non è mai pienamente appreso, chi non lo rechi alle forze che l’ab- biano generato, o alle cagioni per le quali sia stato possibile a generare. Onde nell’idea del fatto è implicitamente quella della possibilità sua, e vi è per una necessità indeclinabile che porta lo spirito o prima o poi a ricercarla (2). — Anche le idee son fatti, chi vegga in esse una semplice produzione della mente. Ma la solidità o vanità loro essendo misurata sulla corrispondenza che abbiano cogli oggetti reali ai quali risguardano, o sulla possibi- lità loro ad essere effettualmente eseguite, quando questa possi- bilità e quella corrispondenza elle non mostrino, sono avute in luogo di chimere, e il loro nome usurpato a denotare questi concetti insussistenti. E le cose, la cui certa esistenza è già un fatto, con questo vocabolo sono anche nominate per contrap- porle alle idee false o chimeriche. Il fatto adunque, quanto alla sua materiale sussistenza, ha un valore al tutto obiettivo che dalla mente conoscitrice debbasi accettare com’ egli è, e che non aspetti altro al suo compimento. DELLA FILOSOFIA DELLA STORIA 265 Dall'altra parte l’idea di possibilità presuppone quelle di sostanza, di forza, di causa, e anche di esecuzione, e di effetto, senza di che non potrebbe mai concepirsi, 0 imperfettamente: presuppone insomma una 0 più cose, nelle quali sia virtualmente contenuta e dalle quali abbia a proceder quell'altra, che ap- prendiamo siccome possibile. Di che si raccoglie, questa idea ‘ essere non così facile a pensare come quella del fatto, a cui però logicamente sovrasta. Imperocchè chi prima non sappia come certi naturali o artificiali effetti sogliono essere operati, non può venire all'idea della possibile operazione di altri effetti consimili. Onde la cognizione di molte cose che già furono gli è necessaria, e tutti i tempi egli dee dominare con la mente, la quale dal punto presente della sua vita usa i frutti dell’espe- rienza acquistata e preconcepisce un termine, a cui non giun- sero ancora i moti delle cose. Questa veduta razionale non es- sendo dominata da una necessità, da cui inevitabilmente deb- bano procedere i preveduti effetti, non guarda ad essi per modo che le appariscano in ogni loro parte determinati. No; ella ti fa signoreggiare più o meno dall’alto le preconcepite cose: non esclude i concetti di altre possibilità omogenee: e quanto più Vasto è l'ordine di questi oggetti e larga la tua capacità a divi- sarli, con tanto maggior libertà di pensiero e pienezza di veri- simiglianza idealmente eseguisci questa anticipazione del futuro. Onde la facoltà di rappresentarsi nella mente i possibili è poe- tica e filosofica a un tempo: poetica, perchè richiede lume di fantasia a vedere le forme delle cose, e virtù formativa a pre- venire imitando il corso della natura o dell’arte umana; filosofi- ca, perchè dal termine da cui si muove fino a quello nel quale si ferma, che è l’effetto preconcepito, segue un ordine continuo di ragioni che fedelmente corrisponda a quello delle cose, cioè alla sapienza naturale o artificiale con che furon prodotte. Quì adunque la mente umana non è circoscritta dentro i certi e | sempre angusti confini del fatto che sia materia alla sua perce- 264 UNA FORMOLA LOGICA zione: è collocata fra due termini che hanno correlazione fra loro, ma ch’ ella può l’uno all’altro avvicinare o allontanare con molta libertà. Da un lato vede o pone le cagioni e le forze ri- chieste e apparecchiate ad operare; dall'altro, la consumazione futura degli effetti. Or sella pone, seco stessa liberamente ragio- nando, quelle forze e cagioni, discorre un mondo immenso di possibilità ideali al quale solamente siano confine le necessità essenziali delle cose e la necessità suprema: ma se le cerca nella esterna natura, vede l’apparecchiamento loro ad eseguire una 0 più cose determinate, e facilmente confonde il concetto di pos- sibilità in quello di necessità inevitabile, quando al procedi- mento di quelle forze non possa non seguitare il preparato ef- felto. Con queste nostre considerazioni siam dimorati al di sopra dei fatti speculandone nelle cause e forze generatrici la esecu- zione possibile: e dopo avere ragionato di quella possibilità a che è tratta la mente dall’osservazione della cosa operata, ragio- nammo di quell’altra che antecede agli effetti che seguiranno. Secondo i concetti che più comunemente ritornano nel discorso delle umane cose i possibili son raziocinati per rispetto alle ca- gioni determinanti piucchè per rispetto alle potenze operatrici (5). Onde spesso la nozione volgare di possibilità equivale a quella di mera eventualità. Ma era nostro ufficio di scrutare intima- mente questa materia guardando in ciascuna cosa al processo de’ moti ond’ ella potè o potrebb’ essere effettuata. Al che si aggiunga pure, com'è richiesto, la cospirazione generale delle cause nell’ordine di natura; senza il qual concetto neppur quel- l’altro sarebbe pieno. E da tuttociò si raccolga la natural con- giunzione fra la possibilità e la necessità per tutti i procedimenti dinamici della vita cosmica. Chè non ogni cosa possibile è neces- saria in se stessa; ma ella non esclude la necessità, anzi la pre- suppone e l’aspetta: e la cosa che fu poi necessariamente fatta, tanto più facilmente dovette prima esser possibile. DELLA FILOSOFIA DELLA STORIA 265 A far meglio intendere il nostro pensiero si consideri che tutto l'ordine dei fatti e delle possibilità naturali fa passare lo spirito umano da queste a quelli, e da quelli a queste con per- petua necessità di ragioni reciproche, finchè da ultimo egli non si arresti nella Cosa che non fu fatta, ma è, e nel cui essere increato s'inizia la creazione di tutte le altre, e dalla cui neces- sità primordiale, anzi eterna, dipende l'effettuazione di tutti i moti del mondo. Di guisa che, come tutti i fatti reali ci solle- vano alla loro anteriore possibilità, vale a dire a una regione più pura e sempre più altamente ideale, così tutte le possibilità pen- sate ci sollevano alla necessità dell'Ente, che è: e la logica umana, chi la consideri nella sua pienezza, cioè di fronte all’ universa- lità delle cose, è una continua scala che necessariamente porta i pensieri della scienza quasi a posarsi sotto l’ala di Dio. Or come sarebbe cieca petizione di principio, cercare origini e successioni di cose là dove unicamente è l'eterno e l'assoluto, in cui quello che è già era, e quello che sarà già è stato, così ogni fatto eseguito nel tempo, cioè tutta l esplicazione dinamica della natura è una fedele e mobile immagine della Cosa sempi- terna, da cui ogni possibilità e realità proviene. E lo spirito che vedeva antecedere al fatto la possibilità, e che da una possi- bilità via via fu, portato a un altro fatto o cosa anteriore da cui quella dipende, si trova chiuso in un circolo la cui contenenza fedelmente esprime l’ordine e il processo della natura nell’uni- verso. Ma acciocchè altri non vada errato per incauta confusione d'idee, è da fare un’ avvertenza importantissima. Se ogni fatto nella vita del mondo è realmente preceduto dalla possibilità di essere, egli è certo ancora che questa ha un Valore assai subiettivo; la quale veramente è un’ idea. E per fermo, tolta la mente che vegga disposte cause e potenze alla esecuzione d’ un effetto, e che di questo effetto abbia la cono- scenza anticipata, anco la possibilità sparisce, o solo rimangono obiettivamente, cioè fuori dell'intelletto umano, quelle forze ap- 34 266 UNA FORMOLA LOGICA parecchiate all’operazione. Imperocchè quest’effetto vuole pro- cesso continuo di moti, e quantunque abbia in se le condizioni accomodate a potervisi e dovervisi distinguere i tre momenti es- senziali del tempo, non però questa distinzione è fatta quando manchi un esterno osservatore di quel processo continuo. Con questo spettatore, che è lo spirito, la natura ha raddoppiato se stessa: il perchè, mentre da una parte si opera la produzione dell’ effetto, dall’altra se ne ha o se ne può avere contempora- neamente l’idea. Ma non potendo chi osserva una cosa non avere nel tempo stesso anche la coscienza della sua propria vita, il cui sentimento è sempre per lui un momento attuale, egli a questo termine certo e sempre nuovo ragguaglia perpetuamente le no- zioni che acquista delle cose esteriori, ed applica ad esse le ragioni del tempo, che indi paragonando distingue. Quando l’effetto è generato, la natura ha compiuto il suo ufficio; la quale non si volge indietro a confrontarlo con l’antecedente disposi- zione delle cause e delle forze operatrici. L'effetto è: e ciò basta alla fisica vita del mondo. Ma nell’ ordine ideale lo spirito, contemplatore della natura, non percepisce il fatto, che non lo apprenda siccome cosa che sia stata possibile prima che real- mente fosse; ond’ egli si reca ad un tempo anteriore alla pro- duzione di esso, e di là estende questa possibilità ai tempi che seguiranno. Adunque il circolo, nel quale è costituita la logica umana discorrendo tutte le cose generate nel tempo, risulta dalle leggi arcane onde lo spirito comunica con le cose che sono con esso lui nel mondo: e nella vita del pensiero, che si deduce trai fatti e le possibilità naturali, ci apparisce quasi riflessa l’im- magine della Cosa necessaria ed eterna. 0 DELLA FILOSOFIA DELLA STORIA 267 S. IV. Giustificazione critica della formola. Poste queste fondamentali dottrine, noi ora possiamo cri- ticamente giustificare la proposta formola. Imperocchè se a po- tere scoprire le leggi e il processo organico della logica della storia, ci parve dover essere nostro uflicio inalzarci dal fatto alla possibilità, uopo era trovare tra questa e quello tal neces- sità di reciproche ragioni, che per serie non interrotta ci faccia- no percorrere tutti gli ordini delle cose. E ciò appunto abbiamo trovato. Cosicchè a scoprire e determinare la logica universale della filosofia della storia bisognerà fare di quelle ragioni tra il fatto e la possibilità una via di generalissimo e pieno discorso che dal fenomeno ci conduca fino alle necessità cosmiche primor- diali: e lo scoprimento e la determinazione di questa logica ci rivelerà il magistero ideale, onde la storia possa trasmutarsi in iscienza. Nè a taluno sembrasse che noi quì per troppa vastità di concetti confondiamo il tema speciale delle cose umane con quello dell’esistenza universale. Ma piuttosto consideri che noi scientificamente congiungiamo l’uomo con la natura, come l’uno e l’altra erano già congiunti per ordinamento di creazione; pensi che le forze, i fini, le leggi della vita, tutta la possibilità della storia giace riposta nella umana essenza e nelle preordinazioni naturali ad eseguirla; e che se la nostra logica è vera, ella per- petuamente insegna a salire dal fatto alla possibilità, cioè alle preordinazioni ond’esso è poi effettuato, così prossime come remote, così infime, come supreme. — Resta un’altra difticoltà, che prima di venire alla esposizione del nostro magistero logico vuolsi rimovere, anzi radicalmente distruggere. Parlasi di elevare il fatto storico a grado di possibilità filoso- fica: ma se il fatto è cosa oggimai eseguita e che ha certa ed mus. UNA FORMOLA LOGICA immutabile esistenza, e se la possibilità è solamente una ideale anticipazione o un reale apparecchiamento del futuro, come ci succederà di mutare il fatto da quelle sue condizioni positive, da quella sua realità che appartiene al passato irrevocabile? 0 quando mai ci succedesse di mutarlo, non lo ridurremmo noi a più basso stato, anzichè degnarlo a più alto, i quali dall'ordine delle cose effettuali lo faccian passare a quello delle cose me- ramente possibili? A vincere questa difficoltà, che ci oppones- sero i discorritori troppo facili, basterà trarre in luce le ragioni che già si stavano chiuse nei nostri intendimenti e nel concetto sostanziale di questo nostro lavoro. L’uso che vogliamo e possiamo fare delle cose istoriche è logico, non fisico: nè la storia che ci reca innanzi i fatti, intorno ai quali versa questo nostro ragionamento, ce li reca in altra forma che in quella dei suoi racconti. Le cose effettuali stannosi la nel campo della vita, ove i secoli umani praticamente si con- sumano: nei libri storici sono le memorie, le nozioni, le idee delle operazioni dell’uomo, e di quelle noi ragioniamo. Imalzare il fatto storico a grado di possibilità filosofica, non suona adun- que un’ azione che vogliasi fisicamente esercitare sopra cose già consumate, e che debbonsi scrupolosamente conservare nella loro verità nativa; significa un’operazione mentale sopra oggetti di cognizione, ed equivale a quest'altra frase o formola: inalzare l’idea del fatto storico a quella di possibilità filosofica; V idea pu- ramente empirica, a quella razionale ed altamente scientifica. E non importa no una distruzione dell'idea primitiva del fatto, ma un perfezionamento di essa. Cosicchè la storia si resta inalterata ed intera con tutte le cose umane che materialmente la costitui- scono, e nel tempo stesso è logicamente interpretata, e quasi da corpo sublimata a spirito, a formazione di scienza. Parlandosi generalmente del fatto storico, si parla della storia tutta quanta, o di tutto quell’ordine di cose, al quale, secondo le varie opportunità o esigenze del nostro ragionamento, DELLA FILOSOFIA DELLA STORIA 269 abbia risguardo quella nostra parola. Ma l’idea del fatto, sia generalissima sia particolarissima, ha sempre un valore più o meno riposto e che della sua stessa profondità si fa velo agli occhi volgari. I quali veggono i presenti oggetti alla spicciolata, e le più aperte connessioni loro, non l’ordine recondito nel quale sono vastamente concatenati. Scoprire queste profonde ragioni del fatto, ed avverare in questa logica sostanziale la nuova on- tologia della storia, è ciò che vuolsi fare con la dichiarazione della nostra formola. Questa è la giustificazione critica che ad essa necessaria- mente risulta dalle cose ragionate di sopra, e questa sua neces- saria giustificazione ce ne discopre ad un tempo tutta la virtua- lità filosofica. fo VE Per quali gradi dall'idea puramente empirica si ascenda fino all’idea filosofica. La prova della verità reale, che abbiamo dato nell’antece- dente opuscolo, oggimai ne assicura a fondare ogni nostra teoria nel gran principio là stabilito: che lo spirito è cosmicamente naturato a conoscere il mondo, e che perciò la cognizione, per modi convenevoli acquistata, è necessariamente vera. Così tutte le diflicoltà e opposizioni e ripugnanze cieche fra l'ordine reale e quello ideale spariscono: non prende il pensiero le sue forme, che anche gli oggetti esterni, e massimamente poi la parola, Non conferiscano a questa sua formazione: ragione ed esperienza sono fin da principio disposte a concordarsi insieme, e in ogni concetto e per ogni via di discorso umano, almeno occultamente, si accompagnano: e la filosofia da una parte è la dottrina della scienza, dall'altra la scienza universale della natura. Queste no- stre teorie che mutano radicalmente e forse risanano le viziate condizioni dello scibile filosofico, non vogliono essere esposte in 270 UNA FORMOLA LOGICA piccol volume, nè quì ora si potrebbe. Ma ricordarne la scien- tifica potenza e la ragione sistematica pur si doveva prima di por mano alle cose che avremo a trattare. Tornisi adunque alla nostra formola. -— Noi l’abbiamo scientificamente posta: ne abbiamo dichiarato i termini fondamentali: l'abbiamo critica- mente giustificata. Sicchè sappiamo, doversi percorrere una scala _ logicale, il cui ascendimento importi la trasmutazione dell’idea empirica in quella filosofica. Ma con qual magistero l’ascende- remo? E quali e quanti gradi dovremo in essa determinare? Queste sono le cose che ora domandano lume, che sufficiente- mente le manifesti. Ben comprendono i filosofi, che noi quì non parliamo di ciò che facciano i più nobili storici, quando, raccolta e con molto studio considerata la loro materia, vi applicano l’ ingegno che la informi. Hanno sì nella mente il modello della forma a che la conobbero disposta, e nel cui segno vogliono che traluca la virtù e la bellezza dei loro concetti; ma al di là di questi non si sollevano. Potrebbero farlo alcuni di loro, se il tempo oppor- tuno fosse quello: i più usano convenevolmente le facoltà men- tali, ma ignorano le leggi, alle quali nell’usarle obbediscono. | Ma noi ora dobbiamo attendere a queste leggi, e distinguere e determinare certi punti luminosi, nei quali la dialettica trovi i necessari principj a dedurne poi le principali forme della storia. Però non affaticheremo indarno la speculazione tra le accidenta- lità e dietro al corso del pensiero individuale, ma guarderemo al pensiero universale dell’ umanità, e alla via necessaria e con- tinua ch'egli segue dalle prime apprensioni del mondo fisico fino alle più alte verità del mondo intelligibile. Chè noi non fac- ciamo dello spirito un solitario pellegrino (utopia di filosofi tedeschi) sequestrandolo dalla natura con violenza impotente. I gradi adunque della nostra scala logica saranno quasi eerte epo- che del pensiero, che raccolgano in se il valore sparso di mol- tissime vite e tempi, e che in mezzo a questa mutabile molti- DELLA | FILOSOFIA DELLA STORIA 271 plicità e successione di cose rimanendo sempre le stesse, abbia- no la scientifica verità delle idee eterne, e perpetua testimo- nianza e dichiarazione da tutti i secoli umani. Primo grado. Il fatto, come già dicemmo, è il termine dal quale movono le nostre indagini, e nel fatto dobbiam trovare le condizioni logiche che Io rendano il primo grado della nostra scala. Fan- ‘ciulli, nazioni rozze e semplici, sapienti che ignorino uno o più oggetti fisici, dalla sensibilità esterna delle cose cominciano necessariamente a conoscere. E la stessa cognizione degl’intel- ligibili richiede l’intuizione dell’oggetto nuovo, che sia presente allo spirito. Il perchè, apprendere o intuire immediatamente l'oggetto, è fondamento primo ad ogni conoscenza: e noi, che consideriamo la vita generale del pensiero nel mondo, e mo- | Viamo dalle percezioni empiriche, cominceremo generalmente risguardando al gran fatto cosmico, all’ Obietto universale. Quando l’osservatore è nuovo al conoscimento, non avendo lume anteriore che lo rischiari, dee trovar questo nelle cose che primamente osserva, e nelle sue native disposizioni a percepirle. Indi in ogni percezione nuova brilla questa viva luce che si riflette fra l'oggetto e lo spirito, e che manifesta l'oggetto co- m' egli è nella sua forma esteriore, e lo fa accettare dallo spirito come gli fu offerto dalla natura. L'uomo sa di non aver creato le cose: da quali forze, per quali cause, con quali procedimenti Sieno state fatte, qual sia la loro interna costituzione, non l’ eb- be ancora investigato: vede la loro esistenza effettuale, vede il fenomeno, e le giudica ad una ad una nella notizia prima e positiva che ne prende, la quale ha la sua misura propria in se stessa. Questo conoscimento, come ognun sente, è limitatissimo, ma fondamentale: e quì noi dobbiam porre il primo grado della nostra scala, il quale veramente consiste in questo conoscimento 272 UNA FORMOLA LOGICA fenomenico, in questa accettazione positiva ed inevitabile del- l’obietto presente, di cui s'ignora la formazione . Se, a maggior pienezza di concetto filosofico, raccogliere- mo gli sparsi fatti, appartenenti a questo primo grado, in un fatto solo che tutti li comprenda, comprenderemo anche noi con intelletto più profondo la verità che si cerca. Già, qual cosa primamente l’uomo percepisca, ella è cosa del mondo; nè fuori del mondo va separata, per essere circoscritta in quella sensibile percezione. E tutte cose nel mondo hanno vincoli necessari ed ordine giusto fra loro, sicchè la Sapienza eterna se ne debba affermare contenta: e il più fuggitivo fenomeno rivelerebbe quest'ordine, da cui sembra spiccarsi ad arbitrio di fortuna, chi sapesse intenderlo nel sistema che lo manda via quasi a scher- zare leggiadramente sulla sua superficie. Poi, luomo, che inter- _ rottamente riceve dentro di se le spicciolate immagini dei cor- pi, non ha egli già nell’anima l’intera e prodigiosa Immagine del gran mondo, quanta potè entrargliene nella fantasia dal luo- go della sua nascita? Nulla di più magnifico e forte e maravi- glioso della prima venuta dello spirito nella luce della vita, a fronte dell’immensità dell’Obietto cosmico, quando se ne intenda ! bene tutta la verità scientifica. Di questa rivelazione sublime, che si compie nel processo della vita universale, sono sparsi e difettivi esempi gl’incessabili mascimenti delle umane vite, in ciascuna delle quali si rinnova sempre il miracolo di che ragio- niamo (1). Errano i filosofi, e specialmente i tedeschi, reputando l’unità, la necessità, l’infinità, ed altre idee congeneri a pura genesi razionale, quasichè l’ esterno Obietto non avesse contri- buito a generarle. Imperocchè il mondo insieme le fa concepire. e le inspira, e senza la presenza sua sarebbero rimaste una mera possibilità della mente. Quindi l’uomo non percepisce co- sa, che non la rechi per segreta necessità al gran tutto, a cui la vide appartenere, e del quale ha una notizia confusa, inde- terminata, misteriosa, ma già piena di tutte quelle verità ideali, DELLA FILOSOFIA DELLA STORIA 275 che poi dalla riflessione saranno tratte fuori in forma intelligi- bile, e date alla ragione che le usi. E non gli nuoce, essere dal- l’un de’lati radicalmente unito con la natura; dall’altro, esserne disciolto, e qua e là potersi rivolgere ad osservare checchè gli piaccia, così discordandosi nelle sue osservazioni dall’ordine delle cose. L'unità personale del suo spirito supplisce bene a questo difetto; la quale ricongiunge e separa e ordina le notizie sparsa- mente raccolte, non più secondo il succedersi delle sensibili apprensioni, ma in conformità degli oggetti simili o differenti che furono appresi. Pertanto in questo primo grado, che è quello della semplice accettazione del fenomeno offerto, la facoltà razionale non dor- me. Non dico la ragion pura, che certamente allora non ha le forme sue proprie, dico la virtù razionale: e questa, provveduta di copia spiritale dai sensi e dalla fantasia, si argomenta intorno alle cose e grossamente le ragiona. Or supponete che la perce- zione del fatto puro, di che ora parliamo, importasse una per- petua adesione dello spirito intorno a quello: tutto si ridurrebbe ad una infeconda e permanente affermazione del fenomeno. Ma l'infinito impeto della vita cosmica non comporta questa cessa- zione: e le apparenze delle cose perpetuamente mutano, fatte esser veloci dalla necessità che le produce: e l’ osservatore, via via staccandosi.dalle cose, induce fra l'una e Valtra, ed anche fra se e se medesimo intorno ad una, certi intervalli o tempi in cui ricupera se stesso. Il quale con libertà e con veduta sempre nuova rivolgendosi a quegli oggetti e la sua vita consertando fra loro, con logica opportuna e proporzionata li discorre. Or tutto questo discorso, chi ben lo stima, non è altro che inalzare l’idea del fatto puro a quella di una possibilità primiera, che nel caso nostro è mera eventualità. Diamo lume al ragionamento con un esempio, il quale essendo l’infimo, che si possa addurre, basti ancora per tutti gli altri che Jo comprovano. Effettuatasi la percezione di un oggetto, l’anima che già 55 274 UNA FORMOLA LOGICA era tenuta ferma dentro i termini di questa sua percezione, e — che tanto seppe dell’uno, quanto trovò nell’altra, esce fuori di que’ confini e torna all’antica notizia di se, la quale natural- mente congiunge con quella dell’oggetto pur dianzi percepito. Trova adunque nella sua vita un tempo anteriore a quello in che acquistava il conoscimento dell’oggetto, e facendo di questo un riferimento tacito a quella sua condizione antecedente, non può non desumerne la possibilità del fenomeno, che veramente fu perchè dovè e potè essere, e considerarlo oggimai come una possibilità intervenuta. Che se prima non le fu noto, e poi essa lo conobbe, necessariamente ella trova nel fatto suo la possibi- lità perchè questo fosse: ed è tanto unita con l’oggetto nella notizia che ne conserva, che quello che pensa e dee pensare dell’una riferisce anche all’altro, o è portata a riferire. Questo ella fa più o meno implicitamente in se stessa per necessità della sua natura razionale, quantunque non usi pienamente la rifles- sione a scoprire tutti gli elementi di questi suoi impliciti giu- dizi. Ma questo è per fermo il logico valore di cosiffatte sue condizioni. Con questa necessità mentale, onde l’idea del fatto puro acquista libertà e logico valore in quella di possibilità, mirabil- mente consentono, come abbiamo già notato, le altre necessità esterne, onde tutte le apparenze delle cose non dimorano in un medesimo stato. Tutto il mondo è un immenso sistema di forze e di moti infaticabili, che anche ai sensi dell’ osservatore con simbolico linguaggio significa ciò che la mente dirà essere causa ed effetto. Cosicchè in questa prima epoca del pensiero, il quale così accetta il fenomeno come dalla natura gli è dato, e che per sua propria attività non si recherebbe tosto ad indagarne le ori- gini, è al tutto impossibile ch’ egli vegga le cose in una succes- sione assolutamente pura, quando l’attività del mondo, che le muta sempre fra passioni ed azioni reciproche, è un principio di causalità, continuo e maraviglioso a manifestare se stesso. DELLA FILOSOFIA DELLA STORIA 275 Pomi che l’uno dopo l’altro cadano a lievi colpi di vento, gocce di acqua che da muscoso antro distillino a certi intervalli, pare che non dovrebbero indurre nel pensiero altr’ ordine, che quello della successione loro. Ma anche fra quei colpi del vento, e l’esserne crollati i rami e lo staccarsene delle poma v' ha congiunzione; e la regola, che serba quell'acqua distillando, ti fa presto cercare a quel succedersi delle gocce una causa, che misuri e quasi riempia i loro intervalli. E i regni vegetabile ed animale? La sola vita delle piante non è una serie di fenomeni che si svolgono l’uno procedendo dall’altro, e che mostrano di- segnato al pensiero senza interrompimento un ordine necessario di cause e di effetti? Lascio che l’uomo stesso è un sistema ‘organico e vivo di causalità; il quale pensa, vuole ed eseguisce, perpetuamente consapevole di esser forza e cagione, e di operare preconcepiti effetti, senza separarsi mai dalla sua unità co- stante. Tanto errava lungi dal vero l’intendimento dell’ Hume! Tanto ne’ procedimenti della moderna filosofia troppo piccole cause hanno talvolta generato troppo grandi moti intellettuali! Ma se le apparenze si cambiano, il grande Obietto cosmico fer- mamente resta: e fra quelle e questo rigirandosi lo spirito e seco stesso agitando le notizie prese, in vario discorso le combina, ed ora logicamente le ripete ed ora vi s'infutura; continuo an- ch'egli in queste sue operazioni. A riprodurre il passato, egli dee avverarne la possibilità subiettiva: a rappresentarsi il futuro dee concepirlo come possibile. L'atto presente della vita cogi- tativa è fondamento sempre nuovo a questa esecuzione di umano discorso: e nel verbo, perocchè gli è capace di tutti i tempi, Veramente si esprime, come dichiarerò meglio in altro luogo, la forma della ragione. Chè là dove non fosse possibile questa varia combinazione di tempi, ivi sarebbe chiusa la via ad ogni ragionamento. Il quale non solamente ha ordine subiettivo, ma insieme obiettivo; e non istandosi fermo alla semplice afferma- zione del fatto presente, procede a somiglianza della natura, il 276 UNA FORMOLA LOGICA cui corso è una necessaria effettuazione di possibili, una perpe- tua catena di cause e di effetti. Però se a questa prima epoca fondasi sempre il pensiero nella pura accettazione del fenomeno, trova anche nella sensibile esplicazione di questo quasi prepa- rato il modello alla sua logica nei varii ordini delle possibilità che gli succeda di pensare: possibilità estrinseche, eventuali, ipoteticamente empiriche; ma possibilità. — Levarsi con altra ala dal fatto puro al ragionamento, sarebbe indarno. Lo spirito in questo grado della nostra scala quanto meno conosce le cause più vere, quanto più si aderisce con senso in- namorato o con servilità meccanica agli effetti, tanto più è ro- busto e libero a interpretare la natura con fantasticamenti mi- rabili, e a ciecamente crederli con fede ineluttabile, a sodisfa- zione d’istinti arcani, a preoccupazione di grandi verità future: licenzioso nella servitù. Ovvero è specchio tanto sincero della diversa sensibilità del fenomeno, che la possa rendere altrui con ingenuità inarrivabile. Secondo yrado. Congiungere il nostro problema dialettico con quelli più grandi e vitali della scienza filosofica era nostro ufficio e propo- | sito; imperocchè anche la filosofia è una logica universale. Però non si scandalezzino i semplici di questi nostri procedimenti, chè certamente non son fatti per loro: e i degni coltivatori delle discipline istoriche veggano di qual mondo scientifico rasentano i confini con le penne del loro ingegno, anzi qual mondo igno- rato portano con se, e sentano desiderio di conoscerlo. Adun- que, di questa nostra logica, che si fonda nella teoria della possibilità, abbiamo determinato il primo grado. Non sono le categorie di Kant; forme vuote dell’intelletto: sono epoche del pensiero, che dalle notizie fenomenali ascendendo alle idee della scienza, effettua dentro di se con perfezione sempre maggiore la DELLA FILOSOFIA DELLA STORIA 277 nativa possibilità di questa, e via via la conforma alla sempre più alta possibilità delle cose; sono la formazione e la genesi del verbo temporale della ragione sempiterna. Ma determiniamo ora il secondo grado. Dalla sensibilità esterna delle cose lo spirito naturalmente passa a cercarne la interna costituzione. Che se nella prima epoca con facilità trascorre ad immaginarne le cause, o ne immagina molte obiettivando se stesso, è anche provocato dagli oggetti reali a penetrare con l'intelletto nell'ordine dei moti generatori, e nel composto in che quelli prendono forma, ed esistono. Quì la nostra scala, larga oltre misura alla base, comincia a ristringersi; perchè scema il numero di coloro, che sono disposti a salire a questo grado, o che sollevati dalla possanza altrui sappiano man- tenervisi. — È egli possibile che ciò intervenga o sia fatto? spesso domandano gli uomini ciascuno da se, o fra loro. E con questa domanda sol vorrebbero sapere se le cause determinanti realmente determineranno la volontà e quindi le forze del corpo umano ad eseguire una data cosa. Non guardano alla possibilità della esecuzione fisica; chè ben sanno, chi generalmente consi- deri, come si compiono le umane operazioni. Ma noi ora parlia- mo di questa esecuzione fisica: conciossiachè non cerchi ora lo spirito di sapere se natura opererà o no certi effetti, la cui ge- nerazione gli sia conosciuta; ma debba voler conoscere questa generazione, cioè come certi effetti già consumati abbiano potuto avere esistenza. Adunque tutta la logica di questo secondo grado conchiudesi in questa domanda che lo spirito, essendovi giunto, dee fare a se stesso: la formazione di questi oggetti, esposti alle Inie investigazioni, come fu possibile? E tutta la virtù logica del primo grado ha fatto capo nella necessità razionale di questa domanda. Imperocchè chi ben distingua le operazioni dello spi- rito nel grado precesso, certamente conosce ch’ egli prima ap- prende la semplice esistenza delle cose, poi le discorre confor- mando il pensiero alla mutabilità de’ fenomeni e all’azione ma- 278 UNA FORMOLA LOGICA nifesta delle forze che li producono. Lo che vuol dire che da principio egli è al di sotto o al di quà dei fatti, come quello che ne sa nulla e comincia allora a conoscerli; epperò gli accetta come sono, e non ha altro criterio a giudicarli se non la perce- zione stessa in cui ne trovò il primo conoscimento. Poi avendoli più volte e variamente discorsi secondo le varie apparenze loro o i propri suoi bisogni, ha raccolto tanti argomenti, quanti ba- stassero a porlo al di sopra di essi, a fargli sentire l'insufficienza di quelle notizie fenomenali e sue spiegazioni sensate e fanta- stiche, e quindi a concepire la domanda che dianzi abbiamo proposto. Di quì risulta che questa possibilità seconda non è, e non può essere estrinseca, eventuale, ipoteticamente empirica, come la prima. Ma è invece, e debb’essere, intrinseca, fisicamente ovvero organicamente necessaria, e razionale: è il processo for- mativo delle cose contemplato non nell’effetto, ma nelle cause e forze coordinate ad eseguirlo; è l’idea che lo spirito abbia 0 che voglia acquistare della formazione fisica di esse. A questa possibilità abbiamo in sostanza risguardato sempre e risguarde- remo in questo nostro opuscolo, come a cosa fondamentale, e_ che par confondersi con la natura medesima degli effetti: ma ora la scopriamo nelle sue origini. Lo spirito, condizionato a fare a se stesso la domanda che proponemmo, vede il fatto fuori di se, e lo accetta come soleva fare nella prima epoca, ma vuol saperne la possibilità fisica, cioè si leva con l'intelletto al di sopra di esso precorrendone alla formazione, e chiede come potè essere effettuato. Per sodi- sfare a questa occorrenza, egli o ne studia ordinatamente il com- posto e la forma interiore, o vede le cause disposte a generarlo e assiste all'esecuzione dei moti generatori: prima valendosi delle sole facoltà native, poi armandosi di stromenti artificiali. Questa cognizione non è subito così giusta nè così piena, come appresso diventa o può diventare; e a perfezionarla giova gran- x DELLA FILOSOFIA DELLA STORIA 279 demente il paragone non intralasciato mai di queste cose fra loro e delle idee che indi l’uomo ne acquista. Noi per altro con- sideriamo ora ciascuno oggetto specificamente in se; e tanto at- tribuiamo a que’ paragoni, quanto debba conferire a dar giu- stezza e pienezza alle nozioni proprie di questa epoca. Impe- rocchè per ascendere a vedute più generali, vuolsi prima esa- minare ciascuna cosa da se: e appunto in questa cognizione specifica, che se ne raccoglie, poniamo veramente il secondo grado della nostra scala dialettica. Ogni operazione intellettua- le, che abbia cotal valore, appartiene per sua propria natura ‘a questo grado del pensiero universale, quantunque nelle diffe- renti vite delle umane persone possa correre fra l’una e l’altra operazione uno o più secoli. Ma non fa difficoltà questa lonta- nanza di tempi, quando per l’identità loro tutti quegli atti. ri- duconsi necessariamente ad uno; il quale solo appartiene alla scienza, e costituisce un’ epoca alla di lei storia necessaria, ed ha ordine progressivo con l’epoca che antecede e con le altre che vengono dopo. Ma lo spirito che per quelle varie arti d’investigazione ab- bia trovato gli elementi integrali di alcune cose, e il processo che segue natura a formarle, e questa loro forma interiore, en- tra in una nuova via di discorso e vi si conduce con le leggi stesse onde si compie la produzione naturale di queste cose. E come nel sottoposto grado i suoi ultimi concetti si fermavano nelle idee dei generi, non purificate ancora nè determinate bene dalla riflessione, e fatte nascere dal bisogno e conservate dalla parola; così vi si fermano in questo grado superiore. Ma laddove in quello l’idea specifica aveva la sua misura nella forma este- riore degli oggetti, ora nella forma interna è riposta. La quale Valendo sempre, come quell’altra, per tutti gl’innumerevoli in- dividui appartenenti ad un ordine, è veramente la potenza lo- gica che per mille modi si effettua nei ragionamenti che indi si facciano. Chè la natura non si sta immota nelle esistenze parti- 280 UNA FORMOLA LOGICA colari, ma ne fa passare la forma dall'una all'altra, e così ha moto e mutamento perpetuo, e conservazione e stato: e lo spi- rito, conosciuta la formazione di una cosa, conosce insieme quella di tutte le altre del medesimo genere, e in quell’ idea necessariamente posa. Quindi a quella guisa che nella natura tutte queste forme particolari sono possibilità più o meno neces- sarie, che di mano a mano si avverano a conservare e variamente individuare la forma prima e comune che è quella specifica; così l’idea di questa forma nello spirito umano contiene radical- mente in se la possibilità logica di tutti i concetti e giudizi particolari intorno alle cose di uno stesso ordine, e anticipata- mente le misura. Infatti, intesa la formazione di un oggetto nelle percezioni che ne abbia, lo spirito esce da questi termini posi- | tivi, nei quali il conoscimento primo è dato dalla natura ed è logica misura a se medesimo; e non può ragionare di altri og- getti congeneri, che non li ragguagli tutti al tipo ideale che n'ebbe raccolto in quelle percezioni, ed ha in esso la maggiore necessaria e costante ad ogni suo sillogismo. Imperocchè ragio- nare di una cosa senza conoscerla, sarebbe disperata impresa. | Ond’egli doventa idealmente artefice, come effettualmente è la natura: la quale se nelle forme prime delle cose ha le condizioni richieste a continuarne la generazione, anch'egli ha la possibilità | de’ suoi futuri ragionamenti in quella idea specifica che logica- mente gl’ inizia. La cognizione di questa interna forma basta alla sua pro- pria spiegazione; perchè la virtù generatrice che tal forma ese- guisce nelle cose, la fa parimente comprendere alla ragione, sicchè al tutto ne sia sodisfatta. Poste certe forze esecutrici, po- ste certe cause determinanti e certe opportune circostanze, tutto nella composizione di un corpo fu necessario: e questa necessità posteriore era preparata da un’ altra anteriore, alla quale obbe- discono anco quelle forze e quelle cause. Poter fare e dover fare, non sono due cose nella natura; come la volontà di Dio è = DELLA FILOSOFIA DELLA STORIA 281 creazione. Ma le nozioni di queste cose prendono qualità nello spirito dalle sue proprie condizioni, e principalmente dalla sua libertà a ragionarle. Adunque la logica in questa seconda epoca del pensiero ha il suo radicale principio nella possibilità razionale, corrispon- dente a quella fisica, che abbiamo dichiarato, e che consiste nella riducibilità necessaria di tutte le nozioni spicciolate dei fatti all’idea della loro forma specifica e sempre identica. In questa vede lo spirito la possibilità perenne delle loro infinite ripetizioni: non si reca più ad interpretar la natura immaginando se nelle cose e le cose in se con concetti maravigliosi nè con fede cieca per fatalità d’istinto: non ne aspetta più i fenomeni con timore o speranza superstiziosi. Signoreggia coll’intelletto molti tempi della vita cosmica: e sentendosi razionalmente forte nelle necessità dell’ordine conosciuto e ricco di verità feconde, ripudia con superbo disprezzo le credenze generate per neces- sità licenziosa; e dopo aver servito al senso ed alla fantasia serve all’orgoglio della ragione, e vi s'inaridisce per abuso di logica positiva e troppo amore di cognizioni interessate, o vi si nobilita per altezza d’intendimenti e per coscienza della propria dignità . E reputandosi a felicità grande questo suo privilegio di pene- trare nei processi della sapienza creatrice, esclama con bella sodisfazione : Felix qui potwit rerum cognoscere caussas! che può storicamente applicarsi a questa seconda epoca del pen- siero umanitario. Terzo grado. Bello è conoscere la natura delle cose: ma dentro questi termini non quieta la mente investigatrice; la quale vorrebbe anche interpretare il grand’ enigma dell’essere. Però veggendo da per tutto continue connessioni, seguita questi legami degli oggetti quanto mai possa, e penetrando sempre più innanzi nel 56 282 UNA FORMOLA LOGICA sistema delle cause e delle forze cosmiche, sente che a me- glio intendere i loro effetti bisogna aver compreso assai larga- mente questi ordini etiologici, e dinamici. Il perchè, dopo esser passata dalla possibilità puramente empirica a quella razionale, ascende sempre più innanzi finchè pervenga alla possibilità scientifica. Questa è la terza epoca del pensiero e il terzo grado della nostra scala; e di questa ora ragioneremo . I fatti, da cui muove lo spirito in questo suo procedimento che dalle diversità individuali riduciamo a eterna verità univer- sale, e da cui movemmo anche noi in questa nostra ricerca, non cessano mai di esser presenti per cognizione che si acquisti d'interni ordini. Imperocchè la prima notizia empirica 0 feno- menale è presupposta sempre dalla cognizione organica delle forme specifiche che si acquista nel secondo grado, e questa è contenuta dalla terza che abbiam chiamato scientifica. V' ha certamente nel sistema dell'universo una progressione di esi- stenze: altre infime, altre superiori, ed altre supreme. Ma questa progressione vorrebb’ esser compresa nel circolo della vita cosmica, in cui tutto ha reciprocità e coesistenza per ne- cessità primigenia. Quello che apertamente veggiamo egli è questo: che l’unità del mondo s’ingrada e si digrada per una inestimabile moltiplicità di cose individue, ciascuna delle quali è anche una distinta unità in se medesima, mentre con le al- tre si concorda nell’unità del gran tutto. E di queste cose par- ticolari, quante ne conosce, o ne debba poter conoscere lo spirito umano, abbiam recato la cognizione specificamente or- ganica al secondo grado della nostra scala. Ma se nelle cose vha un ordine progressivo, il valore specifico di alcune non potrà essere ben compreso, chi non guardi anche ad altre la cui virtù ed azione più generale alle sottoposte si distenda: e se tutto è intimamente connesso, dai confini delle specie e dei generi dovrassi trapassare a coordinazioni più larghe e più sostanziali, non giù secondo le apparenze fenomenali, ma se- DELLA FILOSOFIA DELLA STORIA 285 condo i processi formativi nell'organismo cosmico. Con questa superior veduta lo spirito non solo scopre verità che prima gli erano ignote, ma intende meglio quelle che aveva scoperto, e con esse i fatti primi, dai quali comincia sempre la cognizio- ne. — Osservate, in grazia di esempio, la circolazione, la re- spirazione, la nutrizione, il moto spontaneo, la facoltà di senti- re ec.: varie specie di fatti, che appartengono insieme ad un si- stema corporeo. Se voi mi spiegate ciascuna di queste cose da se, siete ben lontano dall'idea scientifica: se ordinate il vostro di- scorso secondo le più intime connessioni di questi fatti, movete un passo più innanzi. Ma fin quì non avrete trovato un prin- cipio, da cui dipendano tutte le potenze della vita e tutti gli | effetti; un principio degno di questo nome, cioè anteriore o superiore alle cose, delle quali mi sia dichiarazione compiuta; quel principio, per cui non solo debba dirsi, che il corpo animale non è vivo perchè respira, e sanguifica, e si nutrisce e si move, e si riproduce, ma ancora che tutte queste funzioni ed operazioni eseguisce perchè vive: in somma il principio della vita. Senza di che mi darete fisiologie, che saranno un aggregato di cognizioni empiriche, un apparente sistema di cognizioni più o meno razionali; ma vero sistema fisiologico, vero ordine scientifico, vera scienza della vita non mi darete: alla quale manca sempre il suo necessario principio. Or quì si noti che tutti gli effetti e Ie cause e le forze dipendenti da un principio superiore e organicamente posti e generati in un sistema, di cui quel principio costituisca la forma gene- rale, non potrebbero fuori di questa essere quelli che sono nè come sono; ma anche questa senza di loro non sarebbe. Co- sicchè nel disegno primo della natura, che procede sempre in se medesima ricircolando, non v' ha anteriorità di esistenza più dall'una parte che dall'altra. Ma la forma del sistema rimane, i fatti si rinnovano: onde quella sempre antecede, questi sembrano essere e sono posteriori, ma secondo quella necessità primitiva 284 UNA FORMOLA LOGICA e reciproca, per cui se nella forma organica del sistema è il vincolo generale di tutte le cose particolari che vi sono conte- nute, queste sole, e non altre, erano potenziate ad avverare quel vincolo nel loro ordine sistematico. Voi trovate questo circolo e procedimento di natura nell’uomo, la cui forma vera, anzichè essere un ultimo effetto dei moti che cominciano con la fecondazione, è necessariamente presupposta da tutti questi mo- ti, i quali furono ordinati ad eseguirla, e con sapienza fatale la eseguiscono (4). Poi tutti i cangiamenti che patisca il corpo, tutte le innovazioni che vi s' inducano, non distruggono mai, fin- chè la vita perseveri, quella forma effettuata, che perciò si resta sempre anteriore a questa diversità di fenomeni. Finalmente, qualunque siasi il modo e la legge ond’ ella era già da natura preparata prima di prendere esplicazione e figura effettuale nel- l’uomo nuovo che nasce, l’uomo antico, cioè l’uomo anteriore, che di generazione in generazione vi conduce fino all'uomo non generato ma creato, era nei genitori di quest'uomo nuovo, che contenevano lui nel germe e che lo fecero passare a separata esistenza. Laonde, a farne ben comprendere il principio della umana vita, tutta l’ umanità non basta; ma vuolsi generalmente cercarlo (se con pieno effetto, non so) nel sistema cosmico, e nella proporzione organica fra noi e l'universo. Perciò Ippocrate, a poter conoscere la particolar natura dell’uomo, dicea necessa- ria la cognizione di quella universale: e così poneva il fonda- mento grande alla vera filosofia della medicina; di che parlai largamente nelle mie pubbliche lezioni. Ma trovato il principio, è anche trovata tutta la logica scientifica di che si debba fare uso; la quale per continue ra- gioni si deduce da quello, e con giusta misura si compartisce fra tutte le cose, che siano materia al sistema ideale che indi si forma. Imperocchè egli è l’idea suprema, che per l'altezza sua sovrasta a tutte le altre, e che per la sua immutabilità presunta vorrebbe restare sempre la stessa. Ma come le inferiori cogni- DELLA FILOSOFIA DELLA STORIA 285 zioni condizionarono la mente a salire a questo concetto supre- mo, così organicamente sono necessarie alla sua sussistenza, e coeve scientificamente con lui. Per altro esso vale per tutte; ed esse, ciascuna per se: egli è il primo a dover essere presuppo- sto, e l’ultimo ad essere costituito; elle servono tutte insieme alla sua necessaria posizione, e via via servirono alla sua genesi progressiva. Laonde in lui è veramente la forma della scienza, e il vincolo scientifico di tutte queste cognizioni: in lui s' inizia, in lui si termina tutta la possibilità logica di questa terza epoca del pensiero, alla cui più minuta dichiarazione danno lume le cose che dicemmo intorno alla dialettica delle due epoche an- teriori. L'idea scientifica, che quì abbiamo espressa, è tanto con- traria alle dottrine comunemente professate nelle scuole filoso- fiche, che non so qual buono effetto potrà operare nelle menti preoccupate: ma sembrami tanto conforme alla ragione delle cose, ch'io spero che dovrà vincere con la forza necessaria della verità. Tutti i principj dommatici che possa mai porre la scienza e sillogizzare, e che altri creda produzioni pure dello spirito, non mi so bene qual privilegio scientifico si abbiano nel mondo delle idee, che anche non sia posseduto da quel sistema di leggi e forze, da quella forza, :da quella sostanza, da quel principio, da cui dipenda in natura un intero ordine di cose o tutte le cose. Questi dommi poi e produzioni pure dello spirito, insomma tutti gli a priori di che tanto si ragiona, e che certamente sono for- me subiettive, non mi so bene come sarebbero mai venuti all’es- sere senza l’ostetricazione della natura esterna, o se venissero per doversi restare impotenti e solitarie forme subiettive, e non piut- tosto a interpretazione della stessa natura, balia e madre. Ma delle origini e dell’indole di questa logica generale ed essenziale delle scienze parlerò fra poco, se Dio lo concede, in altro libro, a cessare la stolta autorità delle bugiarde dottrine. Pertanto una mirabile concordanza si alterna fra gli ordini 286 UNA FORMOLA LOGICA naturali delle cose e quelli della scienza. E se ogni scienza so- stanzialmente sussiste nel sistema delle idee generali, e nel- l’idea prima, che in se raccoglie il valore di tutte e con debite proporzioni lo fa ritornare a ciascuna perfezionato nella consa- pevolezza di quel sistema, non si sta così oziosamente aggomito- lata e beata in se stessa, che anche non isvolga sillogizzando la sua possibilità razionale nei pensieri delle menti individue, vaga di prendere atto e di esercitarsi e sperimentarsi là dove mo- vesi il fuoco inestinguibile e appariscono le forme della vita. Così le forze e le necessità o leggi della natura, che corrispon- dono a quelle idee generali, non dormono inerti nella loro co- stituzione organica; ma incessabilmente operano, e con sillogismi effettuali avverano senza fallo la dialettica loro sistematica di- | versificandosi e rivelandosi nella infinita produzione dei feno- meni. Il perchè, l’idea del fenomeno è così strettamente con- giunta con l’idee pure della scienza, che non vedere o negare questa intima connessione, è cecità metafisica o insensata repu- gnanza . Ma prima di giungere a questo terzo grado dal secondo, _ l’intervallo è lungo e pericoloso. Chi si arresta ad un punto, chi ad un altro: e questi termini intermedii sono numerosissimi. Pochi hanno il senso profondo, la nozione vera della forma scien- tifica; e i più stannosi contenti all’uso prudente della ragione: a pochi succede di trovar quella forma comunicando con le cose. E coloro poi che per grandezza d’ingegno filosofico l’ebbero già disegnata in loro stessi, facilmente fanno servire le cose a questa idea anticipata, e fabbricano la scienza coi loro concetti. Le molte cognizioni razionali e fin quelle puramente empiriche, già raccolte nei sottoposti gradi, e l'educazione che indi venne allo spirito, agevolano la sintesi di questi ideali sistemi, che spesso mancano di verità reale. E quelli ancora, i quali hanno base nella natura, non rimangono se non quali monumenti del pensiero che la storia conservi e dichiari, e son cacciati via dai DELLA FILOSOFIA DELLA STORIA 287 nuovi che soprarrivano e che durano alcun tempo con onore nelle occupate sedi. Perchè lo studio sempre più profondo e più largo delle cose manifesta la verità con luce sempre più splendida e muta gli ordini del sapere; o gli abusi del sapere e le corruzioni della civiltà alterano talvolta ed oscurano gli aspetti del vero già discoperto. Ma senza que’ sistemi rifiutati e questi errori e vizi non progredirebbe lo spirito umano: e la forma generale della scienza, l’idea scientifica, che è condizione ne- cessaria al pensiero per trovar luogo nel terzo grado, e lo stato e la vita sua di quest’ epoca, immancabilmente resta. Imperoc- chè la filosofia, in quanto è semplice dottrina dello spirito, ha trovato allora e determinato questa forma organicamente scien- tifica, concordandosi con le scienze della natura. Quarto ed ultimo grado . Noi adunque venimmo ad un termine, in cui anche l’idea filosofica ha avuto il primo suo nascimento. Ma perchè dessa pongasi nel quarto ed ultimo grado della nostra scala, al quale ora ascendiamo, vuolsi opportunamente dichiarare. L'idea filosofica, in quanto è forma scientifica della dottrina dello spirito, non si differenzia dalle idee formali delle altre scien- ze se non per la differente qualità dell'oggetto, dalla cui intima e piena considerazione e spiegazione si raccoglie. E quest’oggetto è lo spirito stesso o il pensiero. Ma laddove ogni sistema di cose naturali, oggetto di scienza, non è interpretato dalla ragione in- Vestigatrice per trovare in lui la forma generale dello scibile, ma sì veramente o primamente per acquistarne la cognizione or- ganica, lo spirito non può far sè oggetto di una speciale scienza, che anche non trovi in se stesso la forma generale del sapere; imperocchè egli cosmicamente nacque a dover essere anche que- sta forma. Ma doverlo essere non basta, s'egli non lo com- prenda, e se con questo intelletto non si conduca a ordinare 288 UNA FORMOLA LOGICA lo scientifico universo recandone le varie parti all’ unità di un comune principio. Nel terzo grado ogni scienza si stava da se: ora non possono più contentarsi ciascuna nel suo proprio siste- ma, nè del suo principio, ma debbono conformarsi insieme ed organizzarsi alla ragion comune di un principio, che di questa loro conformità e costituzione organica abbia in se la possibilità necessaria e la legge. Però se la loro forma antica rimane nel terzo grado, la sostanza loro è inalzata al quarto ed estremo; 0, _ per parlare con più esattezza, elle conservano nel terzo grado la forma che con esso si conviene, e prendono nel quarto la nuova e più perfetta, alla quale naturalmente aspiravano. La conservano nelle menti che non sanno sollevarsi più in alto: la prendono per la virtù di quelle altre più generose che a quest’al- tezza si sublimano. Ma sempre meglio vede chi sa pensare, che ciò, che propriamente si appartiene ai gradi inferiori, nei su- | periori non si perde; e che nell’ ultimo è conchiuso il valore ideale di tutti quanti. Lo spirito che si conosce condizionato ad esprimere in alcuna guisa la forma assoluta della verità, e a ragguagliare a questa | forma enciclopedica tutto lo scibile, non può con legittimità usare questa facoltà sua e cognizione, se non abbia convenevol- mente posto, e sufficientemente risoluto il problema fondamen- tale della scienza. Chè altramente non avrebbe diritto filosofico a questo grado supremo della nostra scala. Come questo pro- blema sia stato risoluto nelle altre scuole non rileva quì ricer- care: noi lo abbiamo risoluto con la stessa necessità che lo ebbe preparato nel mondo, scientificamente adoperata. Onde cotal soluzione dovrà bastare ad ogni mente, che non presuma di essere più forte nè più sapiente di questa necessità organica. Alla quarta epoca del pensiero venimmo dunque con siffatte no- stre arti, e volentieri lasciamo che altri vadaci con le sue. Ma condizione a pervenirci è la coscienza di questi poteri della ragione e del legittimo ufficio della filosofia, la quale per noi è DELLA FILOSOFIA DELLA STORIA 289 la scienza del pensiero, e quella insieme dell’ente, cioè la scien- za prima, in che ogni altra abbia radice profonda e certi prin- cipj organici, e la scienza ultima, in che tutte le altre abbiano 1 loro organici legami e termine e perfezione. Laonde tutto l’orbe della conoscenza sta sotto l'autorità sovrana, lo dirò con la frase di Dante, di questa eternale imperatrice; e tutta la via logica, percorsa fino a questo punto più alto, era preordinata a metter capo nell’idea filosofica. Ma non dimentichiamo mai che alla generazione di questa idea, forma pura della pura scienza del pensiero, diede argomenti ed ajuti la natura esterna, coi quali potè lo spirito convenevolmente educarsi, e al paragone delle cose, che fu sortito a conoscere, farsi noto a se medesimo: onde risulta quella bella verità istorica, che la filosofia ha sempre una necessaria proporzione con le altre scienze, quando.i commerci intellettuali non sieno impediti fra gli uomini. Nè si creda che questa filosofia, per avere necessità di origine e scientifica suf- ficienza e costanza in se medesima, debba fondarsi con presun- zione e astrazione impotenti nell’ Assoluto. La nostra muove sin- teticamente dall'uomo nell’universo, e sa fin da principio, che, dovendo essere scienza dello spirito, sarà anche ontologica dot- trina, e la logica organica di tutto il sapere umano. Nel primo caso lo spirito ed il pensiero in se, e l'Ente per rispetto al pensiero, sono l’obietto, intorno al quale ella specula, com- prendendolo intero, e determinando se stessa secondo quella pienezza sostanziale e ordine di vita intellettuale nel mondo. E circoscritta dentro questi termini giusti, se assume alla sua costituzione quel principio che trova nella natura della cosa, alla quale risguarda; trova anche l’ Assoluto tra le necessità ra- zionali e ontologicamente lo accetta; ma sa temperarsi dal porlo con difettivo e perciò arbitrario concetto, e ne ragiona dichia- rando la genesi eterna delle idee, e dimostrandole legittime e autorevoli testimonie della verità dell’Obietto eterno. Nel se- | condo caso procede con simile temperanza. Non crede di aver Ì aq | 290 UNA FORMOLA LOGICA compreso questo Assoluto; che tanto sarebbe, quanto sapere il mistero del mondo e aver finito la scienza: ma le scienze tutte accettando com’elle sono, ne considera e ne raziocina i principj ed i sistemi, e dai loro ordini logici deduce una logica comune, una scienza superiore, nel cui sommo principio ab- biano tutte legame necessario e dichiarazione suprema. E que- sto suo lavoro non solo logicamente vale al pensiero, ma gran- demente giova per l’universa cognizione delle cose. Imperoe- chè quel principio non risulta pure da virtù di idee generali e di metodo filosofico, ma è tratto dal profondo delle verità reali, più intimamente perscrutate e fatte lume l'una dell’ altra alla presenza degli oggetti, tra le cui connessioni furono investi- gate. Onde la scienza generale della natura di molto se n’av- vantaggia; e la filosofia che in siffatto modo ordina il mondo dello scibile con legislazione necessaria, sempre più avanza verso quell’ unico ed eterno Principio, da cui dipende la natura e il. pensiero, e che del suo splendore fa ombra agli occhi che inten- dono a contemplarlo. Il perchè dovendo con forte sobrietà di senno arrestarsi, presupponendolo sempre e non potendolo mai pienamente interpretare, le basta di riconoscerne la necessità assoluta, ed ha compenso grande a quella sua impotenza nel riverbero infinito di questa increata luce pel duplice universo ideale e corporeo. Se ogni scienza adunque logicamente si muove intorno al suo proprio principio, che contenga in se la ragione anticipata di qual cosa ella discorra, la filosofia, in quanto è scienza delle scienze, le riduce tutte sotto la legge di un comune principio, che raccolga in se e perfezioni tutte quelle logiche particolari. | Lo che vuol dire che tutte le cose o fatti, che possa o debba spiegare una scienza, non prima sono spiegati, che doventano idea, la cui necessità e possibilità scientifica è nel principio regolatore e generatore di questa logica che gli spiega. E quando la filosofia dal vertice sommo, da cui regge il mondo delle co- DELLA FILOSOFIA DELLA STORIA 291 gnizioni, pieghisi anch'ella a interpretare il fenomeno, dovendo giudicarne il valore con una idea degna di se, cioè consapevole di tutti i sottoposti ordini scientifici, non può non levarne la nozione alla sua propria altezza, e quindi farla partecipe di tutte le ragioni di quegli ordini, quante ne possono entrare nella capacità di lei. Anzi il fatto era già partecipe di tutti questi valori per disposizione di natura; imperocchè la nostra filosofia non vuol essere una pura idealità sublime piucchè una realità positiva. N’era già partecipe, e gli osservatori volgari lo ignoravano. Ma lo spirito penetrando per le intimità delle cose e traendone fuori la scienza, potè rivelarne quel recondito va- lore; lo che pienamente fu possibile poichè il mondo filosofico ebbe ordine organico sul fondamento del mondo vero. Cosicchè allora che l’idea del fatto fu alzata a partecipare della ragione scientifica e filosofica, divenne una logica possibilità nel princi- pio supremo d’ogni scienza, e là ottenne quella sua ultima per- fezione, alla quale miravano queste nostre ricerche. In questa sua quarta ed ultima epoca il pensiero non solamente raccoglie in se le verità sostanziali trovate e posse- dute nelle precedenti, ma riscontrasi con la prima in forma de- gna di considerazione. Quello che là fu presentito, fantasticato, quasi vaticinato dalla mente, consapevole, ma senza esplicita parola, dell’arcano del mondo, o nata a meditarlo e, quanto le debba bastare, ad interpretarlo, ora è razionalmente interpre- . tato e discorso. Il perchè in quest'epoca, che è quella delle idee universali ed organiche, le religioni antiche (parlasi sempre delle false) cadono o patiscono trasformazioni forti: gli ordini | pubblici si rinnovano: l’idea esercita una possanza immensa | nella vita: e le dottrine, come nel terzo grado, incalzano le dottrine, e tendono a perfezioni talvolta impossibili a conse- guire. Ma se, a dare all'idea filosofica una perfezione reale € sempre maggiore, era necessario mutarne spesso le condizioni, x la sua essenza radicale è immutabile; e su questa sommità lo 292 UNA FORMOLA LOGICA spirito si resta a contemplare in piena libertà e fino all’ultimo orizzonte il cielo della verità infinita che lo illumina. Considerazioni sul processo logico che abbiamo determinato. Salimmo la nostra scala dialettica dal primo fino all'ultimo grado, e quello, che pareva difficilissimo a fare, abbiamo tro- vato essere necessario. L'idea puramente empirica o fenomenale ci condusse alla razionale: la razionale, alla scientifica: la scientifica, alla filosofica. E per tutti questi gradi, che pur sono epoche nella vita del pensiero universale, e nei quali il pensiero fu considerato non solamente in se, ma in relazione all’ Obietto esterno dello scibile, l’idea prima e fondamentale del fatto levossi a quella di possibilità sempre più alta, la finalmente giungendo ove ogni possibilità si termina nella necessità iniziatrice di tutte cose, e nell’umano concetto dell’ Assoluto. Il quale inalzamento progressivo vedemmo operarsi per una logica necessità, intrin- seca così nello spirito come nelle cose, ed effetto e riverbero di quella sempiterna che è l’alfa e l’omega di tutto il sistema cosmico. Noi adunque ascendendo la nostra scala scoprimmo il necessario processo della vita ideale nel mondo e la conformità del processo dinamico ed etiologico del mondo con la dialettica dello spirito. Il fatto, fuori e dentro al pensiero, si sta, sempre congiunto con tutto il sistema intellettuale o reale in che fosse operato, quantunque sia un fenomeno ultimo, un’accidentalità che non torna. V'ha nel circolo dell'universo (e noi già lo no- tammo) una progressione, come di sostanze o corpi, così di cause e di forze, le quali perocchè operano l’una sull’altra, presuppongono una cognazione intima e primitiva, sicchè, ove non siano riducibili tutte ad una, pur debbano con legge mira- bile consentire a ordine ed unita. Quindi anco le cause e forze più superiori, senza la cui cooperazione il remoto effetto non sarebbe, sono cose come le altre, o risultano da profonda cospi- DELLA FILOSOFIA DELLA STORIA 295 razione e simpatia di cose, verso le quali quell’effetto è una possibilità più o meno necessaria. L'ordine adunque delle pos- sibilità è progressivo come quello delle sostanze cosmiche; ma ciascun fatto, a qualunque grado della nostra scala si appar- tenga, ha in esso la possibilità sua propria e prossima, la quale, secondochè ragionammo, essenzialmente consiste nelle potenze naturali ordinate ad eseguirla e nell'attuale processo della sua esecuzione. Epperò dicemmo che l’idea della possi- bilità fisica è sostanziale in questo nostro discorso. Ma quando ella si compia ha insieme le sue ragioni superiori in quell’altre cause e forze, ond’è immediatamente e fisicamente possibile il compimento di altri fatti superiori. Diguisachè chi muova dal fatto infimo e salga la scala cosmica a più sostanzialmente com- prenderlo, lo vede preparato, condizionato, necessitato ad es- sere in un sistema sempre più profondo e più largo; ma deve anche porre certi termini giusti a questa sua considerazione, se non voglia perdersi in un abisso. E con tuttociò è sempre vero che senza la cognizione del Tutto, cognizione piena ed assoluta di niuna parte non si possiede. Ma noi che abbiamo parlato del fatto fenomenico e transitorio, che va e torna con sempre nuova mutazione di accidenti, dovevamo mostrare che, a dar consi- stenza all’ idea di esso, era bisogno indagarla nelle cause e nelle forze generatrici; che tanto importa, quanto contemplarla nella sua possibilità, anteriormente disegnata nelle preordinazioni di natura. Epperò nella dottrina del possibile trovammo e legitti- mamente riponemmo la logica, ci si conceda questo linguaggio, effettuale ed ideale di essa natura e dello spirito. Ogni fatto adunque, chi voglia intenderlo, vuolsi recare alla sua possibilità, cioè all’ordine delle cose, fra le quali fu generato: e chi nel fatto particolare non sa vedere la forma del genere, l’individuazione di una legge, la ragione dell’ordine, la verità scientifica, non è filosofo. Ma la verace filosofia, dal som- mo grado dello scibile misurandolo nell’idea sua propria, reca 294, UNA FORMOLA LOGICA all’atto la possibilità della sua dialettica, come la natura effettua in esso un'ultima possibilità de’ suoi moti. Così la nostra formola è in verità quella scala, che per tutto l'ordine del mondo debbe costantemente condurci di cosa in cosa fino alle sue eterne fon- damenta: e rappresentandocene il processo esplicativo, esprime da ultimo una relazione cosmica tra il finito e l’infinito, fra il condizionato e l’assoluto, fra il temporale e l'eterno, fra il mon- do e Dio; e sublima filosoficamente la scienza alle fonti arcane della rivelazione teologica. Lo spirito, inalzatosi a sublimità così profonda, è tanto al di Jà del puro ordine fenomenico, che vede queste varietà corporee quasi ombre vaghe o simboli brevi che via via si dileguano. Ma egli sa che quelle apparenze fugaci co- stituiscono un fatto necessario a continuare la significazione tem- porale dell’ente sempiterno. Sa, che tutta la scienza umana ha un suo primo fondamento nel luogo che ci fu sortito nell’ uni- verso; e che, quantunque egli e la natura procedano con un certo parallelismo nella simultaneità continua del loro corso, pure ciò, che fenomenalmente è primo alla di lui osservazione sensibile, è posteriore a moltissime altre cose nella evoluzione della vita co- smica, aperta a quella sua osservazione. Come ciò, che fu primo nell'uso ch'egli fece attualmente di sè, era ultimo nella costitu- zione della sua forma e nel primitivo disegno del pensiero; ulti- mo, dico, di dignità. Dal che si conclude, che se la storia del mondo si devolve in un circolo, a rendere immagine del Prin- cipio assoluto, nel quale s'inizia e verso il quale si riconduce, questo circolo raddoppiasi per modo misterioso nella vita del pensiero. Onde, come il fatto presuppone sempre e testimonia il principio, così l’a posteriori, chi rettamente consideri, presup- pone e testimonia l’a priori; ma l'uno e l’altro alternandosi tra la natura e lo spirito, indi conseguita che si concordino per una reciprocità di ragioni necessarie, che gli fa coevi nel circolo delle cose e in quello della scienza. Noi adunque abbiamo risoluto l’arduo problema che ricon- DELLA FILOSOFIA DELLA STORIA 295 cilia l’esperienza con la ragione: abbiamo trovato la possibilità della scienza storica, movendo empiricamente dal fatto, e de- terminato i punti cardinali al ragionamento che ci resta a fare. Imperocchè se questi sono i gradi della scala eterna, che per- corre il pensiero sillogizzando il mondo e se stesso, quattro saranno le idee della possibilità, alle quali dovrà essere inalzata quella del fatto storico, sicchè divenga filosofica. E secondo questa quadruplice distinzione d’idee noi troveremo quattro principali forme istoriche, alle quali possano e debbano ridursi tutte le altre. S. VI Del fatto umano in se e nella storia. Se quello che abbiamo dichiarato è il costante procedi- mento del pensiero universale, la storia dell’umanità non dovrà | procedere con altra legge; imperocchè nell'ordine delle sue nar- razioni ha rappresentazione monumentale la continua vita dello spirito. Ma ogni principio, identico in se, proporzionasi sem- pre alle cose che della sua virtù s’informino, e in tutta questa varietà di proporzioni via via manifesta la verità del suo valore interminabile. Onde, a potere applicare, anzi intendere, il no- stro nella storia dell'umanità, uopo è prima valutare la natura della.cosa, che in forma sua propria ce lo debba rendere mani- festo. Molti ordini di fatti umani sono possibili a distinguere, ma tutti quelli di che ragioniamo noi, e che racconta o può raccon- tare la storia, hanno questa. comune proprietà, che procedono da volere più o meno libero dell’uomo che gli eseguisca. E l’uo- mo, o che si mova di primo impeto o per passione pensata, per entusiasmo, o per interessati o generosi e pacati divisa- menti, ha sempre la cognizione anticipata di ciò che si rechi a fare, o la cognizione compagna del fatto; salvo rarissimi casi. 296 UNA FORMOLA LOGICA Ma il più profondo a deliberare ed il più avveduto ad operare non sempre sa tutti i motivi interni che ve lo inducono, nè della sua operazione potrebbe sempre dire tutte le conseguenze. Per- chè noi siamo natura misteriosissima, e al di là del punto, dal quale ci splende il lume interiore a farne vedere quello che sì faccia, si resta un fondo tenebroso, in cui gl impulsi nativi della volontà troppe volte si nascondono all’occhio che più sia penetrante. E le cose nostre fuori di noi fanno parte di un si- stema più o meno vasto e complicato, che è quello della vita fra privati e privati, o della civiltà di un popolo, o di molti, o di tutti. Laonde si raccoglie, i fatti umani difficilissimi essere a giudicare con pieno conoscimento. E contuttociò, per l'identità della nostra comune natura, hanno sempre in chi gli osserva un giudice mirabilmente pronto, o rade volte riposato e rispettivo ad esaminarli e darne sentenza. E quanto più ci sembra di avere la facilità grande a comprenderli, tanto più la considerazione matura sarebbe necessaria, chi vegga le cagioni di questa cere- duta facilità. Imperocchè delle cose, che non sono umane, non abbiamo precedente notizia in noi, che da principio ci sia lume a conoscerle, le quali furono fatte da altri; ma di quelle operate dai nostri simili già la possediamo per quella egualità di natura, onde non ci riesce aliena nessuna cosa che ad uomo si appar- tenga. Quindi troppo spesso interviene che i fatti altrui giudi- chiamo alla misura delle cause o intenzioni che ci fanno eseguire i nostri, e che s'incorra in errori turpi e pregiudicevoli. — Questa adunque è la differenza che quì vuolsi notare tra le cose umane e quelle della esterna natura: che le altre dapprima ci sono ignote; ma le nostre debbono esser note alla persona che _ le opera: e alle persone, che le osservano o ne ascoltano la nar-, razione, sembrano agevolissime a intendere e giudicare. Da ciò si deduce che gli ordini delle possibilità, nelle quali or dovremo ritrovare i gradi della nostra scala, non apparten- gano più al mondo esteriore, a cui risguarda lo spirito per cono- DELLA FILOSOFIA DELLA STORIA 297 scerlo e riprodurlo nel suo pensiero; ma al mondo proprio di lui, dal quale egli si estrinseca a dar corpo all'idea praticando- la. Condizione adunque nei fatti umani, a potere trovar luogo nella storia, è la loro sensibilità effettuale, che importa estrinse- cazione del pensiero. E in questa necessaria condizione ci si ri- velano due altri loro valori: uno dei quali socialmente è proprio della vita nostra; l’altro è fisicamente del mondo. Perchè l’idea umana ordinata a conoscer le cose, e ad essere effettuata in cose, non prima ha esecuzione in un fatto, che acquista un valor sociale, comunichevole anche a tutta l'umanità; e nel tempo stesso appartiene alla natura universale, come quella che viene in luce per l'adempimento di un ufficio cosmicamente prepara- to, e si congiunge cogli effetti generali del dinamismo cosmico. Questi tre valori son fra loro congiunti per sì profonda recipro- cità di ragioni, che torni impossibile parlare dell’uno senza par- lare insieme degli altri, e che solamente nella nozione sintetica di tutti si possa comprendere quello che distintamente è ciascuno: e costituiscono quasi tre vedute, aperte alla nostra speculazione filosofica, secondo le quali si debba ora indagare la intima ra- gione del fatto umano, e suflicientemente spiegarla. Ma quì pre- go i miei lettori a penetrare quanto più innanzi possano ne’ miei intendimenti, perchè quì il magistero della mia logica organica per necessità radicale dovrà palesarsi. . Il fatto, di che ora ragioniamo, è un concetto della mente, il quale comprende in se tutte le cose che uomo abbia fatto, o possa fare nell’ampiezza dei tempi, che abbia raccontato l’isto- ria, 0 possa mai raccontare. Non è un’astrazione pura, che, Fisguardando alla semplice essenza delle operazioni umane, non corrisponde più all’una che all’altra in particolare, ma s° inalza generalmente su tutte avendo raccolto in se e conservato sol — quello che sostanzialmente in tutte si ritrova, e che sempre ri- mane. E neppure è una mera idea collettiva, una sintesi men- tale di tutte le cose umane, che diversamente mostrino quel tri- 58 298 UNA FORMOLA LOGICA plice loro valore che distinguemmo. Ma egli è una idea organi- ca, che risguarda alla comune natura di queste cose, e che tutta la moltiplicità loro, consumata e consumabile, reca a quella preordinazione cosmica, a quella legge, a quel fatto primo, on- d’ esse furono originalmente possibili ad avere effetto. Questo nostro adunque non è un concetto puro, alla cui singolarità ov- vero unità logica, non corrisponda nulla fuori dello spirito che lo forma, o che abbia solamente negli esterni obietti le occa- sioni e i fondamenti della sua formazione. Corrisponde al singo- lar valore del grand’atto creativo, onde l’uomo primamente ebbe luogo nel sistema universale delle cose, e in tutti i secoli dell’umana vita vede l'effettuazione continua di ciò, la cui pos- sibilità non poteva non essere contenuta nella ragione cosmica di quel grand’atto, nel quale sostanzialmente fu espressa la proporzione dell’umanità con l’ordine generale del mondo. Con- cepire questa nostra idea senza por mente al corso di que’ se- coli umani, cioè alle cose nostre realmente eseguite, non avrem- mo potuto: ma s' ella perciò è posteriore a questa esecuzione di fatti, ha insieme una logica virtù anteriore a tutte le nozioni che ad essi corrispondono; la quale si fonda nella cosmica ragione e atto sovrumano onde l'umanità fu cominciata ed ebbe facoltà e vie a continuare nella Natura. Il perchè in lei si congiunge la cognizione anticipata del valore essenziale dei fatti umani, e quella che dipoi si raccoglie dalla loro osservazione empirica: e questa congiunzione si compie per una necessità intrinseca della nostra logica, che, conformandosi all’eterna sussistenza del- l'Ente, ne scopre la riflessa immagine nel circolo delle cose, e concilia l’esperienza con la ragione, e il senso comune con la scienza. Or tanta è la forza di questa dialettica, ch' ella, per le ragioni organiche che reciprocamente desume dall’ordine reale e da quello ideale, saprà dedurre dalla pura essenza del fatto umano la dottrina filosofica della storia; vale a dire il necessario processo, la necessaria partizione, il necessario sistema di essa: DELLA FILOSOFIA DELLA STORIA 299 una dottrina, che abbia le sue leggi e ragioni anteriori nelle idee scientifiche, e la sua giustificazione e confermazione poste- riore nei fatti; che provi le imperfezioni e il vizio radicale delle logiche finquì adoperate dai filosofi, e mostri la verità eterna della logica divina nella storia dell’umanità. Valore psicologico del fatto umano. Cominciamo da quel valore del fatto umano, che anche è condizione necessaria alla esistenza degli altri due; da quello che diremo dinamico o psicologico, imperocchè egli si avvera nell’ estrinsecazione ed esecuzione di una idea. Ogni uomo ha le sue particolari attitudini, sicchè più felicemente compia certe operazioni che certe altre, ed occupa un proprio suo luogo nel- l’ordin sociale. Alcuni trovano prima le arti; altri poi sanno migliorarle: e così interviene nelle scienze. E chi fonda imperi, chi dà leggi ai popoli, e muta le sorti alla civiltà ec. Ma tutte le cose, quante sino ad ora ne furono operate, e quante nel futuro ne saranno dagli uomini, tutte procedettero, e dovranno procedere dallo spiritale principio che arcanamente ci avviva. Il quale comunica con tutti gli oggetti: supera tutti i confini e ravvicina tutti i tempi: prende tutte le forme: tende a com- prendere tutti i veri, e a signoreggiare tutte le forze: è termine al processo della natura corporea e sensitiva, e ne comincia un altro più sublime: e nella sua capacità infinita rauna fantastica mente e idealmente tutto ciò che vede nel mondo fisico, e ne fabbrica un altro suo proprio, e lo celebra, e lo abbellisce di luce, di aspetti, di armonie, di verità, di felicità, di amore, 0 lo perturba e contrista di passioni, di fallacie, di scellerag- gini, di miseria. E quasi vorrebb’essere principio e fine a se stesso. In questo concetto dell’uomo incorporeo raccolgasi me- ditando l’attento leggitore, e questo ritenga a lume delle cose che saranno discorse. Quì egli troverà che alla nostra posizione 500 UNA FORMOLA LOGICA cosmica nel sistema della natura ha convenienza giusta la nostra superiorità dinamica; alla nostra universalità conoscitiva, la nostra libertà e capacità morale; e a questa legge di nostra vita, l’indole mista delle nostre azioni, il nostro bene ed il nostro male, quello che è nella pratica, e quello che dovrebb’ essere in conformità della regola, e il conseguente carattere della sto- ria. Or noi ragioniamo del fatto umano per rispetto a queste alte qualità o condizioni dello spirito, e dobbiam cercare e dichiarare la legge, secondo la quale la forma interna dell’uomo temporalmente si effettua nel processo esteriore della vita. Le idee organicamente sintetiche, in che si fonda questo ragionamento, risguardando alle preordinazioni cosmiche, alla singolarità degli anteriori principi, onde le cose sono possibili, e alla totalità di queste già consumate e da consumarsi, anche il nostro concetto della operazione umana quinci corrisponde alla virtualità dello spirito, argomentata dalla sua individua natura, quindi alla somma de’ suoi effetti nell’umanità: e vi dee corrispon- dere per una necessità logica, risultante dal sistema organico del mondo. Nostro ufficio adunque è di scoprire questa necessaria corrispondenza fra la possibilità anteriore, recata al suo partico- lare principio, e la realità posteriore universalmente effettuata; che importi il conoscimento scientifico della legge, onde la vita umana ha la sua esplicazione dinamica. Qualunque siasi l'ipotesi o dottrina, che altri abbia con- cepito, o professi intorno alla formazione dell’uomo, questo ine- vitabilmente da ognuno dovrassi concedere, che la umana natura ha una sua proporzione cosmica con la natura universale, e che nella sua forma primigenia ebbe ordinamento il processo evo- lutivo della sua vita. Ma questa forma specifica, anzichè essere assolutamente chiusa in un individuo, fu con certa misura com- partita fra l’uomo e la donna: e così quello che anteriormente era unito nella preparazione fondamentale, o disegno primo, fu separato in questa duplicità di persone, che continuassero la DELLA FILOSOFIA DELLA STORIA 501 moltiplicità del genere, e lo stringessero con vincoli perpetui e con fatale impulso lo ritraessero verso la primitiva unità. Senz’al- zar la mente a questa unità anteriore, qualch’ ella si fosse, non si può comprendere la posteriore e mirabile convenienza fisica fra quelle persone. così divise, nè la tendenza che necessaria- mente hanno a ricongiungersi. E nel duplice aspetto, in che si offre all'occhio del pensatore questa radicale costituzione della umana specie, egli scopre il disegno organico della cosa che volea dichiarare. Imperocchè da una parte egli vede la forma eterna dell’ umanità: dall’altra questa medesima forma effettuata nel tempo, e temporalmente potenziata e disposta a compiere il suo destino. Nella prima è congiunto, simultaneo, intero e perfetto ciò che nella seconda è diviso, successivo e progressi vo, e sparsamente imperfetto; ma l’una è l’immagine dell’altra: _ e nel momento cosmico, in cui la prima s'immaginò corporal- mente nella seconda, tutto l’ordine delle cose dovea consentire col grand’ atto creativo e preparare la possibilità del posteriore svolgimento all’eterno valore chiuso spiritalmente nell’uomo. Adunque a somiglianza di queste due forme, anzi della legge onde l’una fu divisa e individuata nell’altra, dee avere effetto il temporal processo dell’umanità. E perocchè lo spirito rimase in- dividualmente erede di quel valore, ed egli solo corrisponde in alcuna guisa alla pienezza della forma prima, da lui vedremo di- ‘pendere l'adempimento di quella legge, e così acquisteremo quella nozione del valore psicologico del fatto umano, alla quale intendono queste nostre ricerche. Chi guarda alle sole apparenze non vede altro nel mondo umano che le esteriori persone; ma chi le osserva un poco più addentro, scopre tosto senza difficoltà, che una vita raccoglie in se il valore sparso di molte, e che molte stanno sempre a fronte di ciascheduna. Lo che vuol dire, che la specie va di conserva con l'individuo: ma l’individuo, solo da se, non avrebbe se non uso e coscienza difettivi delle sue facoltà, quando pure 502 UNA FORMOLA LOGICA potesse sussistere. Checchè lo spirito adoperi estrinsecandosi da vite individuali, non va perduto per le altre persone che ne possono esser partecipi: e tuttociò che resta nelle istituzioni, nelle opinioni, nelle arti, ne’ costumi, in tutta la civilta di un popolo, è la forza morale della specie, è il genere umano che proporzionatamente ammaestra, signoreggia, dà impulso, trat- tiene, giova, nuoce ai singoli uomini, e con loro agita e vien consumando i comuni destini. Dall’ altra parte un uomo solo certamente non fece le innumerevoli cose, che può narrare la storia; ma neppure tutti gli uomini avrebbero potuto operarle, quando fossero stati altri da quelli che erano, cioè privi del dinamico principio della loro vita intellettuale. E tuttociò che fu fatto, o che possa mai farsi dagli uomini dovendo recarsi a questo principio che adopera individualmente in ciascuno, niuno dirà che il valore psicologico di tutte quelle operazioni assoluta- mente soverchia le potenze di un uomo solo se non per la bre- vità di sua mortale esistenza. Altrimenti sarebbe un rifiutarle alla causa stessa, da cui fontalmente derivano. Quando si dice che un uomo solo non può valere a gran pezza la somma di tutti gli altri, si pronunzia una verità molto semplice ed evidente, ma non si oppone l’individuo a cosa che gli sia contraria, anzi in tutta questa somma di uomini si ripete tante volte l’indivi- duo quante sono le persone che la costituiscono. E. separandolo in cotal guisa per farne paragone con tutti gli altri, si fa tal comparazione che reciprocamente debba valere, ad uno ad uno, per tutti. Conciossiachè non si abbia una certa e inevita- bil ragione di separare più questo che quello; nei quali tutti comunemente è l’ umanità. Compiesi questa separazione per morte naturale o violenta; casi, nei quali ciascuna persona è determinata da una necessità fisica o politica o per altra certa cagione. Ma la comparazione scientifica dell’uomo individuo con l’umanità non servendo a necessità che la fermi sopra un capo particolare, necessariamente si fonda in una ragione gene- DELLA FILOSOFIA DELLA STORIA 505 rica e sintetica, che ha forza reciproca per tutti, e che, se in tutti via via si avverasse, importerebbe l’esclusione di tutti gl’individui dal genere umano e la logica cessazione di que- sto. Stupenda conseguenza, la cui virtù dialettica largamente si stende per tutto l’ordine morale e politico a informarne e per- fezionarne le veraci dottrine! Conseguenza, che luminosamente ci mostra la sostanziale eccellenza dell'individuo. Che se l’uma- nità s’ inizia in un primo uomo, ha radicale inerenza in tutti e tal costanza di sistema indissolubile, che torni impossibile sepa- rarla arbitrariamente da un solo, senza privarla insieme di tutti, e quindi affatto sterparla.— Ove poi si consideri l'umanità, non per rispetto alla totalità degli uomini, ma nell’esplicazione ed esecuzione di ciò che in tutti noi è veramente umano, e l'essenza nostra e natura, allora la veggiamo disegualmente compartita in ciascuno. E fuori delle persone individue ella ha una certa for- ma monumentale negli ordini della civiltà comune, e in tutti gli stromenti e le opere della sapienza umana. Le quali cose come provennero dai singoli uomini, così tutte servono a loro uso e profitto, e senza di essi sarebbero simboli vani; curie, templi, ginnasi, biblioteche, musei, città senza abitatori, muti sepolcri. Così l’uno e i molti, il presente e il passato, le sparse forze e gli ordini delle cose concordevolmente conferiscono all’ espli- cazione dinamica della vita umana. E lo spirito, idolo dell’eter- nità, come sapientemente disse Pindaro, ma quì soggetto alle leggi del tempo e dovendo brevemente usare se stesso nelle Umane persone, aspira da ogni parte a integrarsi alla perfetta forma della sua unità nativa continuando la sua grand’ opera fra gl’individui ed il genere. Che è legge fondamentale e costante a tutto il corso dell’umanità, e idea organica e sostanziale a tutta la filosofia della storia. Quindi nel nostro concetto del fatto umano si riverbera la luce del magistero divino, onde nella forma dell'umanità fu preparato il processo dello spirito sopra 304 UNA FORMOLA LOGICA la terra, e quello della civilta che avanzando si effettua nella estrinsecazione del pensiero: e alla grandezza scientifica di que- ste dottrine non abbisognano intendimenti avversi alle nature individuali, sicchè lo spirito più presto debba dirsi ad esse par- tecipato, che propriamente o privatamente dato. Siamo così alieni dal panteismo, come dalle astrattezze vane: e conciliando il concreto col generale interpretiamo la verità profonda nel- l’ordine delle cose. Ma ciò non basta. Che se questa cooperazione, questi ri- scontri, questa vicendevolezza di legami fra l’uomo e l'umanità sono necessari e profondi, egli è parimente vero, che ora ci colpisce di vivo splendore la dignità e la prestanza delle singole persone, nelle quali adopera lo spirito; ora ci contrista e ci umilia la loro debolezza e fugacità di fronte al saldo vigore e alla perpetua giovinezza della specie. La quale d’altra parte se indefettibilmente persevera, pur tuttavia non rimane la stessa, ma sempre si muta di uomini e si rinnuova. Di che parrebbe conseguitare la necessaria vanità di tutte le cose umane, e un vizio organico, un’ antinomia fra le preparazioni e gli effetti co- smici. Ma questa, che par contradizione, è grande armonia e forte e solenne mistero, e leva il nostro intelletto verso una verità sublime, che termini il valore psicologico dell’umana operazione. E noi, dopo aver veduto come il processo dello spirito nelle vite individuali e in quella dell’umanità perpetua- mente tende a ridurre la moltiplicità posteriore all'unità primi- tiva, dobbiamo ora cercare in questo processo la necessaria convenienza fra la legge eterna e la temporale, e, quanto lo ri- chieda il nostro assunto, le ragioni di quell’armonia e i fonda- menti di quella verità misteriosa. Se, a spiegar bene il valore dinamico del fatto umano, dalla considerazione dell'individuo dovemmo passare a quella del genere, ben si sente la reciprocità degl’indissolubili legami fra questo valore e gli altri due dei quali fra poco ragioneremo. DELLA FILOSOFIA DELLA STORIA 505 Ma ora, che si vuol fare una comparazione di cose più sostan- ziale, distinguasi il nostro dinamismo interiore dall’ esteriore; il pensiero in se, dal pensiero sensibilmente estrinsecato; il mon- do invisibile dello spirito, da quello che continuamente n’ esce e si effettua nella pratica della vita. L'uomo non può esser corpo, che anche non sia anima; onde fra lun mondo e l’altro dee mutuarsi una certa intima e costante corrispondenza. Ma laddove nel primo il tempo sembra perdere le sue ragioni o la loro forza migliore, sembra nell'altro con necessità imperiosa universalmente esercitarle. Perchè, pensare il cibo, le vesti, le dimore, i viaggi, i negozi civili, e checchè altro si debba-0 si vo- glia, non importa alla vita dello spirito se non questi soli pen- sieri. Ma nella vita corporea bisogna eseguirli: e l’esecuzione è più o meno lunga, difficile, e talvolta inefficace e vana. Altro tempo fu dato alla disciplina delle forze, altro alla preparazione | degli stromenti, altro all’aspettativa delle opportunità. Onde i limiti, le divergenze, i contrasti, gli ostacoli, le rassegnazioni servili, insomma il regno della necessità materiale e temporale, per tutto. Eppure non potendo questa per se medesima sovra- stare, la quale è contingente e secondaria, da un’altra legge più antica è ultimamente vinta e dominata, la quale verso la forma' eterna, quanto meglio possa, la raddrizza e la riconduce. Ese- guire nel più breve tempo la maggior somma di cose, e più frut- tuosamente e perfettamente che sia possibile: questo è il per- petuo problema che l’arte umana in mille guise diverse si ar- gomenta di risolvere, esercitandosi nel mondo corporeo. Nè a cosiffatto problema ella intende per suo libero arbitrio o fortu- nato ritrovamento; ma portata da quella legge di che parliamo. Operazioni, virtù, magisteri, che, a farle e ad acquistarli, do- mandarono lento tirocinio, e molta esperienza, diventano una disposizione abituale, e con prontissima agevolezza si adempio- no. Quella statua, quel tempio, quell’ordegno, che valsero tanta disciplina e pensamenti e lavoro ai loro artefici, eccoli là che 09 506 UNA FORMOLA LOGICA vi mostrano in un solo aspetto un lunghissimo: processo di cose e storia d’ingegni. Ponete mente a fatti più generali: alle leggi, a tutte le istituzioni, a tutto l’apparecchiamento istrumentale alla civiltà di un popolo. Quanta età di rozzezza non sentita, quanta di coltura acquistata, quante guerre combattute, e muta- zioni politiche, e innumerevoli prove di braccia e di senno, pri- ma di venire a quelle cognizioni, a quelle arti, a quelle con- venzioni, a quegli ordini, a quei principj, che poi” diventan coevi, e rimangono nel sistema della cosa pubblica, e nelle pra- tiche e nella coscienza dei privati! E di quì essi prendono for- ma e si conchiudono in una deliberazione, o prorompono in un atto, in una parola magnanima che ferma i destini di un’ epoca! Laonde si raccoglie, che, se il mondo esterno dell’umanità, uscito da quello interiore dello spirito, vien sottoposto alla legge del tempo fra le limitazioni corporee, continuamente aspira per fatale impulso a riconformarsi alla forza eterna che lo produce. O in altri termini: che l’educazione dell'umanità si effettua re- capitolando sempre l'evoluzione della vita nell'unità e perpetuità dell’ idea. E quanto meglio avvicinasi a questa forma, tanto più s' avvantaggia di perfezione. Perchè la vera sapienza civile è quella che negli ordini di una nazione sa più felicemente con- giungere le ragioni appropriate a que’ certi luoghi ed uomini con quelle generali ed inerenti all’umana natura, le economiche con le poetiche e gli ornamenti della pace coi presidii della guerra, la politica con la morale, la religione con la scienza, il passato col futuro, e tutto l'ordine della umana vita con quello dell’uni- verso. Che è sovrastare a tutte le parzialità difettive, ravvici- nare le distanze, riepilogare i tempi, avverare la forma eterna, quanto le cose corporali il comportino. Ma nel mondo interiore le angustie e le diflicoltà materiali non ci stringono. Avrete fatto un lungo ragionamento, esposto anche un intero sistema di dottrine, e tutte queste cose già si stavano unite in un vasto concetto, o nella profonda coscienza DELLA FILOSOFIA DELLA . STORIA 307 della vostra vita cogitativa. Quell’anima che fu Cesare, o Dante, o Aristotele, già conteneva nelle sue potenze native uno di que- sti grandi uomini futuri, e dopo avere occupato il regno de’ po- poli, o della poesia, o della scienza, raccoglieva in un senti- mento, in un pensiero unico tutta la magnifica esplicazione nel tempo del suo essere primigenio. V° ha certamente gran disu- gualità dinamica fra gl’ingegni: ed in una medesima natura, in- colta o educata, infeconda nelle intellezioni abituali, o abituata e forte alle ricche creazioni, e alle mirabili comprensioni, la sin- tesi mentale è proporzionatamente diversa. Ma in tutte è indivi- dua l’unità della mente; e l'esercizio della vita, sempre attuale. Cosicchè la forma eterna, esemplata nella spiritale persona, perpetuamente resta in quella unità; e da un’altra parte nel suo atto vitale perpetuamente ha processo: mezza fra la legge sua propria, e quella del tempo. Il quale avendo in essa le sue ra- dici, non potrebbe convenevolmente mettervi fronde, se dal mondo corporeo non gli venisse alcuno appropriato argomento a ramificare. E questo è la parola; con la quale tacitamente di- scorriamo per certe distinzioni, e modi, e figure e congiunzioni l’intelligibilità dello spirito, o delle cose nello spirito, tuttavia intero e consapevole di se stesso. Questo discorso poi tanto più è pieno e perfetto, quanto meno si dilunga dagli essenziali pri- vilegi della forma viva che in lui si ripete e determina: non di- stante da quelli nelle vite razionali; negli uomini sensuali, ver- gognosamente lontano. Per questa più intima comparazione di cose le differenze fra la vita interiore dell’uomo e quella esteriore non cessano; Ma scopresi dall’una parte e dall'altra il diverso impero di una medesima legge. Imperocchè se lo spirito, estrinsecandosi nella esecuzione del pensiero, dall'unità costante passa alla divi- sione ed alla moltiplicità; dall’attualità presente, alla successio- ne, alla deduzione, al progresso; dalla sua libertà e vicinità al- l'eterno ed all’infinito, alla servitù fra le cose corporali, limi- 308 UNA FORMOLA LOGICA tate, e fuggitive: egli a vicenda si argomenta sempre di ritor- nare da questa inferior condizione verso la prima nel mondo esterno dell'umanità. Cosicchè la legge, dalla quale dipendono questi due ordini dinamici, si mantiene uguale a se stessa cor- rendo e ricorrendo dall’uno all’altro e dall’altro all’uno con in- verso procedimento di moti. Nè in cosiffatti ordini ha vigore per _ la sola identità del principio, ond’essi comunemente hanno pro- venienza; ma e perchè vale generalmente in tutto il sistema co- smico, quantunque.in cotal principio massimamente di se stessa quasi direi si compiacque. L’individua essenza d’ogni natura, le sintesi organiche ed inorganiche di tutti i corpi, la coesisten- za loro e l’attuale armonia di tutti i movimenti nell’immensità dello spazio sono l’universa immagine dell’Unità assoluta che vi si specchia, e che del suo alito ineffabile le vivifica e le conser- va: elle, ciascuna da se e transitorie nella contemporaneità del sistema; ed essa, indivisibile sempre e costante nella sua infinità senza tempo. Ma nel molteplice e nel finito essendo inevitabili l’esplicazione dinamica e il temporal processo delle cose, biso- gnava ragguagliarli a quella forma che v' introducesse una simi- litudine dell’eterna vita. E così fu ordinato nel duplice mondo umano. Che se quell’esterno è disegnato prima nel pensiero, cui via via egli configura, e sparsamente rappresenta, anche l'evo- luzione psicologica era necessaria alla costituzione di quello in- terno, nè senza esterni ajuti verrebbe mai a compimento; peroc- chè l’uomo nacque all’umanità, e l'umanità serve e coopera al perfezionamento dell’ uomo individuo. Indi fra lun mondo e l’altro si perpetua una reciprocità di azioni e di effetti, la cui bontà vuol misurarsi sulla sua maggiore o minore conformità con la legge che la necessita. Noi adunque siam giunti al termine, ove attendevaci la verità misteriosa, di che toccammo, scientificamente condizio- nata a considerarla. La legge, che abbiam veduto signoreggiare organicamente DELLA FILOSOFIA DELLA STORIA 509 intto il creato, acquista nell’umana natura un valore specifico, procedente dalla coscienza che ciascuno ha di essa, e dalla li- bertà, ond’ è dotato, di eseguirla con fedeltà costante, o di ri- bellarvisi e dispregiarla con vano e stolto contendimento. Fin- chè una vita perseveri, l’ordine di tutte le sue operazioni è continuo, nelle quali ha deduzione diversa un medesimo princi- pio dinamico: e questo vincolo, che congiunge anche quelle ac- cidentali e le più perverse e disordinate, il diresti un perpetuo filo cui porga all'uomo una sapienza sempre presente, a ricor- dargli la legge, a ricondurlo alla regola, a fargli ritrovare l’unità e la costanza dell’ordinato e verace vivere. Onde quello che nelle altre cose si adempie per necessità che non falla, in noi fu proposto alla ragione, acciocchè divenisse legge morale e do- vere: e se ogni cosa ha correlazioni con tutte le altre, e cosmi- che potenze inestimabili senza saperlo, l’uomo, che può e dee conoscer se e le altre cose, può ancora e deve usare con questo conoscimento, in che gli si universalizza la vita, tutto se stesso, a partecipazione sempre meno difettiva della forma eterna. Ma l’uomo intende la legge, e vede lo scopo, e sente il dovere di raggiungerlo, e raramente vi si accosta, e mai no ’l raggiugne. Perfezioni speciali veggonsi ora in questo, ora in quello: niuno espresse la perfetta idea dell’umana eccellenza. Pongasi pure da parte ogni abilità, ogni operazione che serva ad incremento di prosperità, di agi, di delicatezze, in somma tutte le arti della civilta materiale. Farsene separazione assoluta dall’ottima forma della vita veramente non si potrebbe; perchè tutto nelle cose umane ha connessioni intime e non interrotte; per tutto regna la legge dello spirito; e senza moralità, tutte le più magnifiche apparenze dell’incivilimento sono deplorabili inganni. Ma pur sì pongano tutte queste perfezioni in disparte, e unicamente si | risguardi a quella dell’uomo incorporeo. Chi vide mai in crea- tura umana la forma intera della perfezione morale ed intellet- tuale? Lascio che la stessa virtù presuppone molte volte e mali 310 UNA FORMOLA LOGICA ed ostacoli che ne domandino l'esercizio. Ma l’amore schietto, generoso, indefettibile del verace bene, la cognizione piena di questo bene che anche è verità sempiterna, la conformità fedele a questa ragione dell'ordine, l'adempimento di questa possibi- lità di vita, di questo dovere, di questa legge organica, inde- clinabile, inerente alla nostra natura, quando mai lo veggiamo in un uomo? Sarebbe forse questa legge ordinata ad avere ese- cuzione intera non già nell’individuo, ma solamente nel genere? Ma prima, ella fu impressa nell’individua costituzione di ogni uomo: ogni uomo fatalmente vi obbedisce: e chi ne perdesse la coscienza non sarebbe più uomo. Poi, tutti gli sparsi e difettivi esempi che qua e là se ne potessero osservare e raccorre, non avrebbero integrità se non nell’idea che indi ne fosse composta; non sussistenza ideale, se non nelle menti individue, nelle quali troverebbero luogo a dar loro un vano tormento. Chi adunque dirà che quello che in ciascuno di noi è possibile per fatalità nativa, non sia indirizzato a termine convenevole? Che quella legge che universalmente regna con obbediti imperii e che nel- l’uomo ha vigore in modo proporzionato alla di lui superiorità dinamica, debba restarsi in lui solo non al tutto adempiuta? Dritto è adunque, anzi necessario, ch’ ella non sia indarno costi- tuita e proposta; che la perfezione disegnata nella nostra anima venga a pienezza di forma; che la inestinguibile notizia che ne abbiamo non sia un puro concetto subiettivo, un paralogismo, una assurdità della ragione, una incredibile menzogna della natura. Alla forza di queste ragioni cedono le difficoltà contrarie, le antinomie apparenti spariscono, e il fatto umano puro e senza nebbie mostrasi alla nostra veduta nell’ampiezza luminosa di quello spazio, che ce ne faccia comprendere tutto il valore psi- cologico; il quale non potendosi terminare in questa vita terrena dell’individuo, dee potere aver compimento in una seconda vita che sodisfaccia alle preparazioni della sapienza creatrice. Nè DELLA FILOSOFIA DELLA STORIA 311 per questa più alta destinazione niuna discordanza sostanziale s' induce fra il mondo interno dell'umanità e quello esterno, sicchè l'uno debba ragguagliare i suoi ordini dinamici ad una forma, e l’altro ad un’altra: anzi ora finalmente ci si fa sentire il concento pieno delle loro proporzioni e corrispondenze. Impe- rocchè l'umanità dee argomentarsi di sensibilmente esprimere quì in terra, con la cooperazione di tutte le individue persone, quella forma di perfetta vita, che uno spirito solo, ove non fosse impedito da limitazioni di tempo e di luogo, potrebbe eseguire in se per privilegio della sua propria natura che in se la contiene. E par molto conforme alle leggi dell'Ordine universale, che in ciascun uomo così spiritalmente apparecchiato debba, quando che sia, aver compimento questa possibilità di perfezione che gli risulta dalle intime condizioni della sua essenza. Nè quì valutasi il fatto umano alla misura della sua esecuzione corporea; chè in tal caso non può certamente operarsi da un uomo solo ciò che tutti gli altri hanno fatto e faranno. Parlasi del suo valore dina- mico, psicologico, spiritale, cioè della perfezione propria del- l’uomo interiore; e alla somma di tutte le cose, che veramente importano accrescimento e appartengono alla sostanza di questa vita non corporea dell'umanità, diciamo essere larghissimamente capace l’anima immortale di un uomo solo. Di che si raccolgono questi due grandi teoremi, e già per noi verità assiomatiche, alla filosofia della storia: 1.° Che l'evoluzione dell'umanità compiesi fondamentalmente tra l'individuo ed il genere ad avverare nel tempo l’unità e la forma eterna dello spirito, e che di quì ri- sultano tutte le leggi che meglio possono regolarla a consegui- mento del proposto fine. 2.° Che questa sua temporale evoluzione non possa essere secondo le proprie sue leggi eseguita senza che importi una sempre maggior perfezione dinamica alla vita indi- Viduale e che la condizioni a un ordine di vita più degno. — Nella qual dottrina abbiam posto i fondamenti dialettici a scien- tificamente giudicare nella storia anche le opinioni o credenze 312 UNA FORMOLA LOGICA religiose intorno alle nostre sorti ultraterrene, anche le opera- zioni ed istituzioni che ci hanno riferimento. Questo è il valore psicologico del fatto umano organica- mente desunto dal suo necessario principio. Or si vuol conside- rare la social natura di questo fatto, cercando s’ egli avesse mai una preordinazione, una tendenza primigenia, una essenziale necessità dialettica a divenire umanitario. Valor sociale. Notisi dapprima questa bella proprietà d’ogni nostra ope- razione, ch’ ella non così privatamente è dell’ uomo che la ese- guisca, che agli uomini che la osservano non faccia tosto sentire una sua certa e più o meno intima convenienza con la loro vita. Fummo nati a convivenza ed umanità con sì fatale e maravigliosa | disposizione di potenze, d’istinti, di bisogni, che non possiamo vedere operazione di un nostro simile senza farne un giudizio che sia profondissima confessione della nostra identità di natura e socievolezza. Se poi si pensano bene i vincoli originarii di questo umano consorzio, più pienamente si veggono le recondite cagioni della cosa, di che ora investighiamo il valore. Non per- severa Ja specie per forza esterna, che via via la rinnovi: ella stessa immediatamente coopera alla sua conservazione conti- nuando il processo della creazione prima nelle generazioni se- conde, e in varia forma imitando e ripetendo nel tempo quel che eternamente fu consumato. Ond’ ella contempla ed ama in se la sua propria immagine, che pure internamente risplende di una luce divina, e comunica di cuore e di mente tra persona e persona con tal necessità di reciprocazione, che di mille vo- lontà, di mille interessi, di mille forze può fare e fa realmente un interesse comune, una forza sola, una volontà. Adunque nella natura sociale del fatto umano ha conclusione ed espressione la medesimezza della nostra specie, la sua virtù conservatrice, la DELLA FILOSOFIA DELLA STORIA 515 reciprocità de’ nostri commerci estetici, intellettuali, civili, in- somma tutte le potenze e cause prime, e sostanziale apparecchia- mento alla conseguente vita dell'umanità, e questa sua vita effet- tuata. Imperocchè, a misurare con pienezza questo valore, non si può dar luogo ad arbitrarie limitazioni: e trovato il principio, ond’ esso procede, siam portati ad estenderne la virtù radicale a tutta la possibilità degli effetti. Quindi il fatto particolare, in cui primamente si osservi questo valore, inevitabilmente ci con- duce alla sintesi suprema in cui tutti son contenuti. E perocchè questo progresso logico non si compie per semplice necessità subiettiva o per libera aggregazione di oggetti, ma è la necessa- ria esplicazione della necessaria fecondità di un principio, che ha sussistenza nell’ordine delle cose, indi è manifesta la ten- denza o per meglio dire la intrinseca preordinazione del fatto puramente umano a divenire umanitario, come l’uomo indivi- duo ha in se tutti i germi dell'umanità, e solamente in questa e con questa può aggiungere in terra a quell’ ottima condizione di vita, a che fu destinato (5). Quel che abbiamo argomentato e anticipatamente dedotto dalla natura sociale del fatto umano, è posteriormente confermato dall’idea istorica di esso. Nei primordi l'umanità era tutta nel- l’uomo, e poi negli sparsi uomini e nelle genti. Ma queste genti sparse, che non sapevano più nulla l’una dell’altra, e che do- Veano così trascorrere e allontanarsi sulla superficie del globo a | prenderne possesso, e ad esercitarvi il legittimo dominio, per vie diverse obbedivano tutte disegualmente a una legge comune, che or più presto, or più tardi portolle a ritrovarsi, a ricono- scersi, a ricongiungersi con vincoli di civiltà comunicata e di frequenti commerci. Cosicchè le ambizioni feroci dei guerrieri, le libidini avare de’ mercatanti, le curiosità de’ viaggiatori, le migrazioni de’ popoli, la fame, l'industria, la politica, la scienza, insomma tutti i moti della vita, fatalmente cospirarono, e tut- tavia cospirano, per ordinamento di una provvidenza che chiuse 40 514 UNA FORMOLA LOGICA il suo sapiente magistero nella natura sociale dell’uomo, e che via via da essa sì devolve, ad avverare l'umanità nel mon- do. La quale, finchè gli uomini e le nazioni non comunicano di operazioni e d’ interessi, non può avere esistenza. E che oggi- mai ella sia mirabilmente avanzata e più sempre avanzi a intera consapevolezza ed uso di se con regolari e facili ed universali | comunicazioni fra i vivi, e con la superstite memoria del passa- to, ben lo veggiamo in questo nostro secolo, e ce ne sono am- plissimi testimoni il vapore e la stampa: l’uno destinato a con- sociare, a dividere, a moltiplicare tutte le forze umane, ed i | loro effetti; l’altra, a perpetuarne 1’ idea. La storia adunque evidentemente conferma la speculazione scientifica; e se tale positivamente ella è stata e sarà, quale do- veva essere, noi già siamo condizionati a partirla per le sue epoche principali e necessarie. La prima ha compimento quando lo spirito, dopo tanta dispersione e inconsapevolezza di genti e di umanità, dopo tante tirannie imposte e servitù tollerate, dopo — tante rivalità d'interessi e lotte sanguinose e distruzioni e risto- razioni e allargamento di civiltà, acquisti finalmente tal coscienza — di cose umane, che basti a fargli conoscere l’angustia, l’ immo- — ralità, la nocevolezza delle antipatie fra le schiatte, dei privilegi politici, delle nobiltà e ignobilità de’ popoli, e di tutte le con- suetudini e dottrine morali, giuridiche, religiose, ragionate e co- stituite dentro certi confini di luoghi, di uomini e di società par- ziali; e a concepire ed annunziare un principio nuovo di una civiltà nuova ed universale, sostituendo a tutte le singole nazioni il genere umano, e congiungendo questa sintesi umanitaria con le leggi del mondo e con la ragion divina da cui elle dipendono. In questa grand’epoca tutta la terra non è anche scoperta, tutta l’umanità non è ancora nota a se stessa; ma ella comincia ad operare come se tutta storicamente si conoscesse, e per tutta la terra abitata le fossero consuete le vie: comincia con quel dom- matico principio dell’egualità, e fratellanza fra le genti, e della I DELLA FILOSOFIA DELLA STORIA 315 sovranità della ragione eterna, il quale muta radicalmente le con- dizioni morali della vita e v' infonde un sacro alito di amore, un senso vivo di giustizia, un bisogno di spiritualità sublime, un magnanimo disprezzo delle cose mortali, e un intelletto nuovo di quelle celesti, e una libertà, un entusiasmo, una virtù così pura, che al tutto poi non si spenge neppure nelle età più intene- brate e corrotte. Imperocchè in quest’ epoca sorge magnanima- mente lo spirito contro la materia e la forza irrazionale a pro- mulgare la sua legge, e, combattendo lungamente e vincendo, ordina la sua invisibile città in mezzo al mondo delle nazioni, e avendo disposta la civiltà umana a progredire verso il termine provveduto infaticabilmente la guarda dalle corruzioni irrimedia- bili. Così l’umanità avanza alla seconda sua epoca, in cui tutta la terra è conosciuta, tutti i popoli in comunicazione fra loro, e tutte le forze servono alle combinazioni del pensiero, e i più nobili e fruttuosi pensieri dell’umanità possono metter capo nel- la mente di un uomo solo. Questo è il tempo delle scoperte fisi- che, delle invenzioni tecniche, della scienza applicata alla vita, dell’onnigena produzione delle utilità sociali, sicchè la ragione interessata e la sensualità elegante sembrino essere i numi e i tiranni del mondo. Ma di ciò non si lamentino troppo i semplici, nè troppo i magnanimi si sdegnino, ma sempre più coraggiosa- mente pugnino contro l’inimico, sicuri della vittoria. Perchè lo spirito, che nella prima epoca, a dar fondamento saldo al futuro suo regno, parve con eccessivo aborrimento alienarsi dalla ma- teria, ora compie un altro suo ufficio intimamente discorrendo per tutta questa civiltà materiale, e l’agita e l’informa di se in ogni parte, e le aggiunge ali a signoreggiare il tempo e lo spazio, € introduce molto dell’eterno nella costituzione organica di essa e ne suoi procedimenti dinamici. Il genere umano avendo allora piena coscienza di se quanto basti a quelle sue condizioni, com- pie nelle nazioni, e pel ministero di coloro che le governano, l'operazione sua propria, ch’ è quella umanitaria, fondandosi in 316 UNA FORMOLA LOGICA sintesi ideali di tutti gl’interessi politici, nell’ordine stabilito alle comunicazioni fra gli stati, e nella comune sostanza dell’incivi- limento universale. Abbiamo determinato la natura di queste due grandi epo- che umanitarie risguardando anche opportunamente alla storia; | ma alla distinzione loro bastava quella nozione anticipata del fatto umano, onde vedemmo la possibilità del suo valore sociale, e la sua fatale preordinazione a pienamente esplicarlo. Il perchè l’a priori concordasi sempre con l’a posteriori in questi nostri ragionamenti ed investigazioni filosofiche, e l'organismo della nostra logica con quello della natura. L'idea antecede alle libere operazioni dell’uomo; ma noi già notammo che in ogni suo fatto v ha sempre una parte oscura che s' invola alla di lui comprensione: e le native disposizioni e i se- greti impulsi ond’egli recasi ad operare dipendono da una sa- pienza troppo anteriore e superiore alla sua. Indi alla prima epoca non poteva avanzare il genere umano per cognizione sua propria ed intera che ne avesse, o per divisamento che ne avesse preso. Ma giunto a questo termine, era condizionato a preporre all’ope- razione futura l’ idea convenevole, e dommaticamente la prepo- se. Questa idea catolica, e però veramente umanitaria, conte- neva in se il gran principio dell’ unità della specie e della asso- luta signoria dello spirito, e fu lume providamente dato alla posteriore evoluzione delle sorti umane, il quale riverberossi anche tra i pensieri e sulle vie degli arditi viaggiatori e scopri- tori delle terre incognite. Finite queste scoperte, il processo del fatto umano, quanto alla estensione che dovesse esser percorsa, è compiuto; e per questo rispetto non restano a determinare altre epoche alla storia dell'umanità. Questa allora converte i suoi moti dalla superficie alla immensa profondità della sua interna vita, e con la rapidità delle comunicazioni comincia un nuovo svolgimento più intimo o sempre più largo al valor sociale delle sue operazioni, e quindi una nuova era all’incivilimento. Peroc- DELLA FILOSOFIA DELLA STORIA 517 chè lo spirito dee far prova di tutta la capacità della materia a riceverne la virtù informatrice, e a significarne, per nobilitazione avuta, l’artificioso impero: e dopo averla trovata scarsa alle sue posse e alle sue sodisfazioni più vere, dee quasi uscirne vitto- tioso a ricuperare tutto se stesso. E tornando là, onde si mosse a promulgare la sua legge e il domma della cognata umanità, dee conciliare la sua città invisibile con quella visibile e terrena, e armoniarle l'una nell’altra a quella forma che fu perfetta fin da principio. Lo spazio aperto a questa consumazione di cose stanca la veduta del filosofo, che se le rappresenta vaticinando: ma chi non vede che quella conversione di moti dalla superficie alla pro- fondità, quella necessaria, e perpetua e interiore operazione che far deggiono gli uomini cogli uomini, le nazioni con le nazioni, l'umanità con tutta se stessa, chi non vede, io diceva, che tutto questo regresso progressivo (se cotal frase mi si consente ) non può semplicemente essere una oziosa ripetizione di atti infecon- di, un codardo sodisfacimento di prevalente sensualità, una scienza corrompitrice, un costante e sistematico contrasto fra la presente possibilità del bene e la ripugnanza ad operarlo, egli è piuttosto un cieco, che un savio estimatore delle cose umane. Adunque le epoche fondamentali, in che la filosofia fac- cia partizione dell’istoria, sono due. Tutte le altre hanno in quelle la loro preparazione, e potranno essere determinate se- condo i più cospicui e sostanziali procedimenti dell’ umanità, che si move dentro se stessa ad esprimere, anche senza volerlo, ‘la forma dello spirito. Quantunque il nostro discorso debba starsi contento al di quà de’ termini del soprannaturale, poco accessibili alla uma- na ragione, contuttociò la nostra filosofia così naturalmente si concorda con le grandi verità rivelate, e il cristianesimo è . tanta parte della storia umana, che sarebbe grave mancanza non aggiungere anche questo suggello alle nostre conclusioni specu- lative. E quale de’ miei lettori non avrà già notato nel suo pen- 018 UNA FORMOLA LOGICA siero questa felice concordanza dell’autorità mondana con la divi- na? Lascio l’uomo primo, nel quale, secondo le tradizioni sa- cre, è fisiologicamente contenuto il genere umano, e quasi le- gato in un volume il domma della sua futura istoria. Ma quando la pienezza dei tempi era tale, che l'umanità dovesse veramente poter succedere alle singole nazioni, quello fu il termine giusto, in cui la stessa Possanza eterna, che primamente ebbe dato al fatto umano la virtualità ad esser poi umanitario, intervenne con la parola redentrice e legislatrice a separare il mondo an- tico dal nuovo. E a questa separazione istorica si conformano gli annali delle genti rigenerate, alle quali furono commendate le sorti dell’universale incivilimento. E noi queste cose scrivia- mo, non solo per mostrare la gravitazione dell’antichità verso il cristianesimo, e il necessario regno dell’idea cristiana nelle età conseguenti; non solo per far sentire la convenienza scien- tifica ed istorica fra ciò che è cristiano e ciò che noi diciamo umanitario; ma e per ricordare a tutti coloro che sanno di avere in petto anima italiana, che quel gran termine, in cui l'umanità successe dommaticamente alle nazioni, è cristiano in- sieme e romano. E che Roma, erede del mondo antico, è la misteriosa fondatrice, e la veneranda madre di quello moderno. Che se tutta la civiltà progressiva è dalla cristianità, per fermo il verace scopo, a cui tende l'immensa agitazione di queste umane cose, non potrà essere attinto senza il risorgimento ita- lico, senza nuove glorie della città eterna. Chi altramente giu- dica, o con altre norme si governa nella pratica, può essere in- darno generoso, ed è impedito dell'intelletto a conoscere il corso dell'umanità, e i destini della nostra patria. — Gli altri scrivano sulla storia dell’umanità le loro filosofie: noi preparam- mo questa umanità alla storia, e rendemmo possibili queste filo- sofiche dottrine. Carattere generale della creazione è l’infinitezza; imperoe- chè il creatore è infinito, e quand’ anche egli la limitasse nel- L'» DELLA FILOSOFIA DELLA STORIA 519 l'ampiezza esterna dello spazio, la continuerebbe nella sua eter- nità. E se in ogni particella della materia v’ ha una possibilità immensa di combinazioni ed effetti cosmici, grandi e nativi sono nell'anima nostra il bisogno, il sentimento, la partecipazione ideale dell’ infinito. Però in tutte le cose umane necessita sem- pre distinguere quello che fu da quello che poteva o sarebbe dovuto essere. Quante facoltà non disciplinate! quanti ingegni negletti! quanta vita giornalmente perduta, e miseramente mor- ta! La libertà conceduta all'uomo, miracolo nell’ordine fisico a fondamento ed esecuzione dell’ordin morale, troppo spesso torna a danno dell’uomo medesimo, che stoltamente ne abusa, e im- pedisce la esplicazione sana e non interrotta di quel valore psi- cologico, che quasi infinito può derivare al fatto umano dal di- namico principio che in esso si manifesta. Onde a contrappesare questi abusi e danni nelle individue persone era necessario or- dinarle a cooperazione comune; e così il valor sociale con pro- vida sapienza fu aggiunto allo psicologico, acciocchè quello che fu disegnato nella costituzione spiritale del primo uomo, e che la ragione apprende per necessario e continuo in questa prepa- razione organica, ma che per la condizione delle cose finite non poteva essere effettuato da un uomo solo, fosse l’opera progres- siva, quantunque da luogo a luogo interrotta, di molti, e ulti- mamente l’opera di tutti, o fra tutti. Con altra legge la tempo- ral natura non può essere specchio dell’eterna, nè con altro piede cammina questa nostra vita civile sopra la terra. Valore cosmico. Ma chi non guardi anche al valore cosmico, l’idea del fatto umano non è compiuta. Or quì primamente si vuol notare, che la stessa esecuzione del fatto, che essenzialmente consiste nella estrinsecazione del pensiero, importa adempimento di un ufficio cosmico. Imperocchè l’idea, implicitamente consapevole del 520 UNA FORMOLA LOGICA mistero del mondo, e sortita, quanto umanamente possa, ad interpretarlo, appartiene allo spirito: e l’uomo, essere spiritale e materiale, costituisce il supremo grado nella scala delle esi- stenze telluriche. Onde, come tutto il processo creativo nella natura corporea quì si conchiuse nell'uomo, illuminato dall'idea; così con questa, che brilla sulla cima ove quella creazione ebbe termine e fu conchiusa, comincia un regresso di moti, coi quali la vita cosmica, ritornando sopra di se, intende anche al perfe- zionamento delle altre cose corporee. Quì adunque l’ uomo in | duplice aspetto ci viene innanzi. Dall’un de’ lati, come indivi- duo, che è soggetto alla pura legge dello spirito e che dall’altez- za, in che lasciollo l’ atto creativo, dee seguitarne il processo | elevandosi a spiritualità sempre maggiore e verso superiori esi- stenze: dall’altra, come membro della società umana e congiunto con tutta la natura fisica, e che dee avverare nel tempo l'eterna virtù dell'idea applicandola alle creature inferiori. Fra l'una e l’altra sua condizione ed uffici il nesso è profondo, i quali radical- | mente gli si congiungono nella unità della sua forma antropolo- gica, e a vicenda si aiutano e son coordinati ai loro fini con maravigliosa armonia. La necessità di estrinsecare il pensiero nell'operazione è tanta, che, non effettuata, lascerebbe l’uomo senza società e senza disciplina nè educazione. E dovendo l’uo-_ mo estrinsecare il pensiero, adopera socialmente a perfeziona- mento suo proprio, ma adempie insieme una legge cosmica; perchè l’idea, nella cui preparazione dinamica fu chiuso il sin- tetico valore della creazione anteriore a produrre la convene- vole cognizione del mondo, dee anche tornare al mondo che se ne giovi come di forza inestimabile, che tutte le altre nella sua capacità aspira a raccogliere. Quindi mentre l’uomo indi- viduo e l'umanità avanzano con esplicamento ed uso sempre più largo delle potenze loro, la esterna natura è vinta dal senno e dall'industria umani, e serve a nostra sodisfazione ed è miglio- rata in se stessa. Avvegnachè la ragione non sia facoltà stranie- DELLA FILOSOFIA DELLA STORIA 521 ra, ma organica nel sistema mondiale: non ristretta ai partico- lari, come la sensazione, che ciascuno oggetto apprende da se, e l’uno non sa combinare con l’altro; ma universale, e che ve- dei legami delle cose, e ne comprende l’ordine necessario. Or nelle altrui filosofie questa interpretazione razionale dell’ordine può essere una presunzione scientifica o non criticamente giu- stificata; ma nella nostra la conoscenza, che uomo abbia delle cose, ha la sua verace prova nella necessità cosmica della sua esistenza medesima, ed è fondamentalmente assunta qual verità incontrastabile. Onde l’azione che move dallo spirito e si ferma nella natura, era da questa quasi aspettata, e alle convenienze che fra l'uno e l’altra intimamente corrono, non può non cor- rispondere, e ottimamente vi corrisponde. E così quello che la nostra mano, guidata dalla mente, opera sulla materia organica ed inorganica, domando animali, coltivando terre, migliorando insomma le cose e facendole belle, è bello e buono anche nella natura, e alla vita generale della natura. E l’uomo che, privo i di queste cose, non sarebbe potuto vivere, e che le trovò dispo- | ste a patire il suo sapiente impero, conformasi con la sua arte e coopera al divino Artefice, e fedelmente eseguisce le inten- zioni antiche della Provvidenza. | Falsa adunque è la sentenza di coloro, i quali scrivono, le creature inferiori essere ordinate teleologicamente all’ uomo; l’uomo, costituito sulla sommità di questa vita tellurica, non avere un superiore, e quindi un fine a cui debba servire: falsa, io dico, per ciò che non è pienamente vera. Imperocchè chi ab- bia l'occhio acuto alle profonde ragioni delle cose facilmente Vede, che o bisogna assolutamente escludere le cause finali dal mondo; o che, scientificamente confessate, elle rendono im- possibile il concetto sano di una esistenza, che alle leggi loro Non sia sottoposta. La quale certamente non troverebbe luogo în un ordine, con cui le condizioni organiche non avesse neces- saria convenienza. Nascono queste fallacie dall’attribuire astrat- 41 522 UNA FORMOLA LOGICA ; tamente all’essenza incorporale dell’uomo l’integrità della umana natura e dall’ applicare all'operazione corporea quello che fu dedotto dalla semplice considerazione dello spirito. Ma questa nostra natura è insieme anima e corpo; e finchè ella abbia luogo convenevole, e possa usare se stessa sopra la terra, ove la coor- dinazione delle cose necessariamente implica vicendevole dipen- denza fra loro, e la ineguaglianza dei loro valori necessita una graduazione di fini, ella, vivendo e operando, sarà anche dovuta alla terra. Procedasi adunque con pienezza di concetti al dritto discernimento delle cose, e dalla forma dell’ ordine cosmico rac- colgasi la giusta idea di questa graduazione teleologica. La natura non ha tal sistema, che le esistenze inferiori siano intieramente dovute alle superiori; ma in se medesima si ravvolge avanzando e tornando indietro con inversa reciprocità di moti che importino costante e sempre nuovo esplicamento di vita. Chi dirà, l’uomo essere tal signore assoluto delle sottoposte cose, che tutte queste debbano semplicemente servire a Jui? Ma egli pur dee servire al bisogno che ha di loro, e chinarsi ad usarle, e render loro quello che ne prese a propria conservazione. E quando nella sua costituzione corporea si potessero scoprire i segni delle or- ganizzazioni inferiori, anche questa prova organica della sua su- periorità pur sarebbe parziale, e rimarrebbe sempre vero ch'egli e tutte le cose con lui furono ordinati a fini più alti; a quell’Uno a cui tutte vivono, e che in se contiene i circoli della natura, e in alcuno non è circoscritto: A gloria di Colui che tutto move. Ma questa teleologica dottrina, alla quale siam giunti, e che dee far compiuta la nostra comprensione del fatto umano, e’ intro- duce ora nell’ordine sintetico dei tre valori, che in esso partita- mente considerammo. + DI) DELLA FILOSOFIA DELLA STORIA I Si Ordine teleologico dei tre valori del fatto umano. La dottrina delle cause finali è falsa quando l’uomo attri- buisce fanciullescamente i suoi intendimenti alle cose o ne vede l'ordine in quello delle sue idee: è vera e necessaria quando ha fondamento e misura nella scienza cosmica; la quale prima di- strugge le teleologie fallaci e anche generalmente le rifiuta; poi vi ritorna, e fondatamente le accetta per quella legge che le rende inevitabili così nel mondo ideale, come in quello reale. Adunque, qual sarà il teleologico principio, a cui ora debbe inal- zarsi il nostro intelletto? Quello stesso, da cui vedemmo dipen- dere tutta l'evoluzione della vita umana: ma, a farne dichiara- zione opportuna, prendasi un esempio da questo nostro pianeta. La necessità, che fatalmente lo porta a compiere le sue rivolu- zioni intorno al sole, è condizione organica alla possibilità di tutta la vita tellurica: ed egli non l’acquista girando; ma ella preesiste sempre ad ogni suo nuovo giro, e in tutti questi moti perseverando si effettua. Se alcuno stoltamente nieghi la provida disposizione di questa legge, l’antiveggenza ideale, un finale in- tendimento della sapienza creatrice; ad ogni modo dovrà rico- noscere in questo fatto il termine di tutti i moti necessari a co- stituirlo, i quali però inevitabilmente tendevano a conchiudere tutto il loro valore in lui, ed a cominciare tutta quella possibilità di vite sul nostro globo terraqueo. Quì adunque abbiamo un fine e un principio per una necessità reciproca, che così vale dall’un de’ lati, come dall'altro. Ciò è poco. Se la presente costituzione della terra presuppone tutto l’anterior processo delle cose, e rappresenta il valore delle forze e dei moti, che in questo effetto sì consumarono, manifesto è che ciò che fu lontano si congiun- se, ciò che ebbe successione venne a coesistenza; e la natura, posizione e rotazione del globo furono tal fatto cosmico che an- ticipatamente conteneva in se tuttii possibili effetti, che a pic- 524 UNA FORMOLA LOGICA cole e grandi distanze di tempi e di luoghi indi procederebbero. Moviamo un passo più innanzi. Ogni corpo, ogni natura indivi- dua, per ciò che era richiesto a costituirla, basta a se essen- zialmente; la quale già esiste. E s'ella fosse per necessità sua propria, sarebbe anche fine a se stessa, o escluderebbe ogni ragione di mezzo e di fine, cioè sarebbe lente assoluto, l’unità che tutto comprende, e da cui tutto procede. Non avendo un tanto privilegio, ella, che non può essere unica, necessaria- mente coesiste con altre, com’ essenzialmente, se così posso esprimermi, coesiste in se stessa. Ma tutte essendo congiunte, l’una è ordinata all’altra, e tutte fra loro, e alla vita generale del mondo, e a Chi lo move e governa. Dal che si vede che l’idea del mezzo e del fine radicalmente proviene dalla con- tingenza, moltiplicità, dipendenza vicendevole, e ordine delle cose, e che corrisponde a una legge organica universale. Che là ove non fosse estensione corporea, nè molteplici esistenze, ma unità assoluta, ivi sarebbe la pienezza eterna dell’ Ente, la suf- ficienza intera, l'esclusione necessaria d’ogni mezzo e d’ ogni fine e d’ogni principio. E si vede che il mondo ha moto, per ciò, che niuna sua parte può bastare a se stessa, e che ciascuna dee servire alla vita del tutto. Ma si ritrova altresì che tutto è esem- plato alla forma dell'Ente eterno, la quale organicamente par- tecipata e coeva nei fondamenti e nella costituzione dell’Ordine, temporalmente si devolve nel processo effettuale della natura. Laonde si conchiude che alla norma di questa legge universale dee procedere la gran catena dei mezzi e dei fini per tutti i si- stemi delle cose. — Quì adunque abbiamo il teleologico princi- pio, alla cui suprema ragione debbasi recare i valori del fatto umano, e seguitarne con l'intelletto l'ordine necessario. L’immenso spazio, nel quale dovemmo considerare l’espli- cazione dinamica della nostra vita, anch’ ora tornaci innanzi, @ parte ce la fa vedere sopra la terra, parte ce la fa argomentare al di la dei termini terreni: Che se oltre questi ella debbe per- 0 DAI n) i DELLA FILOSOFIA DELLA STORIA 525 severare, certamente ad un fine sopramondano gravitano le pre- ordinazioni individuali, e ad esso naturalmente serve la legge della nostra possibile perfezione: come al punto, che divide la prima dalla seconda vita fatalmente tendono e si consumano i moti del dinamismo corporeo. Là adunque abbiamo un termine teleologico, a cui non può non risguardare la storia, quando anche la natura per propria necessità vi risguarda. Ma l’umani- tà, continuando la sua durata nel tempo, ci si mostra quasi emula al perseverar degli spiriti che via via se ne partono; quasi intesa ad eseguire con la cooperazione di tutti quello che ciascuno possa diventare in una più alta esistenza. Or noi cono- sciamo come la nostra virtualità si svolga e si adempia fra gl’in- dividui ed il genere: sappiamo quanto alla perfezione interiore sia necessaria e conferisca quella esteriore: e che ad una stessa legge si conformano con procedimento inverso i due ordini di- namici, capaci di quelle due perfezioni. Per queste mirabili re- ciprocità e concordanze scopresi la necessaria armonia fra i presenti nostri destini e quelli che altrove ci aspettano, sicchè religione, scienza, civiltà non possano mai l’una all’altra giu- stamente repugnare, e la teleologica dottrina, che ora breve- mente esporremo, debba essere il convenevole compimento di quella che la precede. Ed essa, oggimai preparata dalla scienti- fica ragione del fatto umano, sarà l’interpretazione dell’ ordine che la sapienza creatrice divisò nella nostra stessa costituzione e nei fondamenti delle cose; sarà l’idea esemplare, non l’idea storica, della vita. Perchè troppo spesso i fini liberamente intesi dall’uomo non corrispondono bene a quelli provveduti nella na- tura, i quali poi prevalgono sempre e rimangono. Ma il fatto umano procedendo da preordinazioni cosmiche anche quando miseramente se ne discorda, senza il conoscimento di questi oggetti immutabili non potrebb’essere nella storia con legittimo eriterio giudicato. Nell'uomo interiore e nell’esteriore varie sono le facoltà, 326 UNA FORMOLA LOGICA varie le operazioni: quali più alte, quali meno, quali più libe- re, quali più servili; ma tutte ordinate alla costante unità, da cui move, a cui si riflette e converge tutta l’ irradiazione della vita. Quest’ ordine gerarchico, teleologicamente desunto dalla co- stituzione dinamica dell’uomo individuo, è fondamentale; e l’uo- mo che lo prendesse a norma delle sue azioni volontarie, offri- rebbe certamente l’esempio dell'ottima vita: ma fuori della co- operazione sociale, o quando l’arte umana non abbia un sufficiente impero sulle cose esteriori, non può vedersi avverato. Or chi dicesse con assoluta sentenza chela società è fine a tutti i sin- goli uomini, pronunzierebbe un detto non abbastanza chiaro, e in parte falso, e sommamente pericoloso. Perchè ogni uomo fu ordinato a società non a fine ch’ella puramente esistesse: e tolti coloro, che a lei furono ordinati, anch'ella sparisce: e conside- rata in quanto ha conclusione e persona politica nello stato, troppo spesso interviene che la costituzione e il reggimento della cosa pubblica non siano conformi agl’intendimenti veri della natura, o importino una suprema ingiustizia. Ma chi dicesse che la so- cietà è mezzo e fine ad un tempo per necessità radicale, che cosmicamente si alterna fra lei e i singoli uomini consociati, par- lerebbe con dirittissimo senno, e porrebbe il fondamento saldo all’universa scienza giuridica. Perchè, originalmente preparata in ogni uomo, da tutti poi in varia forma, secondochè luoghi e tempi _ richieggono, è costituita; termine, al quale era dovuto il vivere di ciascuno. Ma non prima questo termine fu raggiunto, che anch’ esso è dovuto a coloro che l’attinsero e insieme lo posero, i quali vi abbiano gli argomenti appropriati a convivenza degna della essenza loro e destinazione. Che se la città dinamicamente sovrasta di troppo intervallo alle forze dei privati, non per que- sto ha ragione di cangiare questa sua prevalenza in un dritto: ma tutte le ragioni ch’ ella possa legittimamente usare verso i consociati le debbono derivare dai fini ai quali serviva natura nel prepararla; e ogni forma politica novamente adattata alle DELLA FILOSOFIA DELLA STORIA 527 mutabili opportunità che la domandano, vuol sempre avere la sua intima convenienza con la forma antica già disegnata in quella naturale preparazione. Pertanto la teleologia che risulta dalle necessità sociali non va contraria nè assolutamente prevale a quella che può dedursi dall’ordine delle nostre potenze indi- viduali, ma fu destinata a questa e con proporzionata efficacia dee agevolarne e regolarne l’ esecuzione. Dicasi lo stesso delle cause finali, che legano l'operazione umana al general sistema della vita tellurica. Imperocchè l’uomo così non si vale delle esterne cose, ch’ elle debbano assolutamente conformarsi al suo uso e bisogno; ma dee accomodare anch’ esso le sue azioni ed intendimenti alla loro natura e alterabili condizioni. Il quale, potendosi frapporre con l’intelletto di corpo in corpo, indi se- | guita una via di discorso in cui discopre e raccoglie le loro intime e scambievoli ragioni, e imita con la sua arte i procedimenti della sapienza creatrice. Così quanto meglio la nostra operazione tecnica armonizza coi fini dell’ordine generale migliorando e per- | fezionando le cose con la virtù dello spirito, tanto meglio e più - largamente provvede ai bisogni di nostra vita e serve 0 può ser- vire ai fini preparati in questi bisogni. E quanto la prosperità | civile, che di quì proviene, è più grande, e la gente umana più numerosa e forte e disciplinata ed operativa, di tanti più | argomenti la società si avvantaggia a conseguire l'alto fine a che fu indirizzata. Per questa prima delineazione dell’ordine teleologico noi Veggiamo i tre valori del fatto umano necessariamente coesistere | nelle preparazioni organiche del sistema cosmico, e scopriamo il vincolo che necessariamente si ricambia fra loro, sicchè le cause finali di un solo non possano avverarsi ne’ loro effetti senza la compagna effettuazione delle altre. Laonde si arguisce la stol- tezza e impotenza di quelle eccessive dottrine, le quali o vorreb- bero tutta la vita degli uomini unicamente spesa nel procaccia- mento e godimento delle utilità materiali; o aborrente da queste 528 UNA FORMOLA LOGICA cure mondane e puramente intesa a perfezione di spirito. Qua- sichè la perfezione dello spirito, non corroborata dalla scienza, sia altro che un’aspirazione mistica, una visione fantastica, una bontà fanciullesca, o possa mai essere intera; e che le cognizioni trovate ed applicate nel mondo corporeo non valgano ad incre- mento e perfezionamento di vita razionale. Nè meno errano quegli altri, i quali pongono nella solitudine la pace ed il bene eterno delle individue persone disdegnando la società, o quelli che stimano assolutamente avverse al viver civile le virtù reli- giose dei solitarii. Tutti questi ordini di cose son quasi membra di un corpo solo, la cui ottima disposizione ed atto risultano dalla giusta misura con che quelle parti son fra loro distribuite e proporzionate a costituirlo. Arti, scienze, civiltà, virtù, reli- gione (giovi incalcarlo bene nelle menti) son coeve nella prepa- razione organica del vivere umano, e per intrinseca reciprocità | di legami si presuppongono, si aiutano, si sostengono, fanno or- dine indissolubile. E secondochè fu preparato, procede e dee procedere l'evoluzione della vita: e ciò ch’ è bene alla present introduce a quello della futura. Ma ogni creatura, quantunque sia ordinata a fini anche estrinseci ad essa nel sistema dell'universo, per se medesima, e in quanto ha esistenza sua propria, è naturalmente centro e fine; perocchè in lei si conchiuse il processo dei moti che furono ne- cessari a formarla. E ciascuna cosa, o sia una sostanza irre- solubile in elementi, o un composto di sostanze elementali, ha, per rispetto alle altre cose, una irreducibilità sostanziale finchè conservi la sua forma individua, come quella che non potrebbe divenire interamente ad altre o esser tutta di altre, senza ces: sare di esser lei. Però le nature individue son limiti e centri nell'ordine teleologico dell'universo: e in questi centri e fra questi limiti si appuntano e si ripercuotono tutte le forze, per la cui consenziente operazione la vita mondiale ha processo. Che se non vi fossero differenze nè resistenze, mancherebbero ad ogni “ È DELLA FILOSOFIA DELLA STORIA 329 dinamismo i richiesti argomenti, e regnerebbe per tutto una profonda quiete. Ma dall’antagonismo necessario delle forze ri- sultando una necessaria armonia, ed essendo elle organiche nel sistema cosmico ed artefici delle esistenze che vi si mutano, in- di conseguita che l’ordine teleologico abbia medesimezza con quello dinamico, e che in lui si misuri. Il quale fontalmente procedendo e ultimamente ritornando alla Onnipotenza assoluta, vince e porta con se l’irreducibilità transitoria di tutte cose con- tingenti, e fa servire i loro fini subalterni a quella viva Unità che è fine supremo ed universale perchè fu necessario principio. Adunque dentro quest’ordinamento organico ogni finita esistenza ha il principio de’ suoi fini privati nella sua singolarità separata, secondo la quale esercita anche fuori di se le potenze sue pro- prie, o patisce l’azione delle altre, con chi debba concordarsi disposizione ed istinto ha nativa consapevolezza, non può non continuarli nelle sue azioni libere, o secondarvi e conformarvisi; : di moti, di funzioni, di effetti. E l’uomo, che di questa radicale i quali gli si confondono con la sua individua persona. Di che risulta che, operando sulle cose insensate o sugli animali, egli | ponga sempre se stesso a scopo d’ogni suo imprendimento, e solo obliquamente serva ad un fine estrinseco per le necessità dell’ ordine universale: operando sugli uomini, debba averne il loro consentimento o presupporlo secondo la legge eterna del bene; e cooperando con loro, non possa, senza rispetto della persona altrui, porre il termine dei divisati fatti nella sua pro- pria. Imperocchè fra lui e gli altri esseri del mondo non corren- do reciprocità di commerci, quinci e quindi accompagnata da coscienza e da intelligenza, ciò che vale dall’una parte non può Valere, nè esser fatto valere, dall’altra, per convertibilità di ra- gioni. Ma là dov’ è ugualità di natura e comunicazione di pen- sieri, ivi tutte le ragioni teleologiche, che procedono da indivi- duità personale, debbono valere così dall’uno, come dall’altro lato; quando il fondamento, che un uomo ponga innanzi a so- 42 390 UNA FORMOLA LOGICA stentarle, è quello stesso onde l’altro possa e debba sostentare le sue, e la facoltà di conoscerlo è comune ad entrambi. Questa sociale reciprocità misura doveri e diritti non solo fra privati e privati, ma fra città e cittadini: ed ha tal potenza scientifica, che quando, non dico in questo, ma in altro libro Pavrò suffi- cientemente dichiarata, avrò forse mutato, se l’amore del bene non m' illude, le condizioni a tutte le discipline giuridiche, e dato in Italia alla sapienza civile le inconcusse sue basi e la sua _ verace dialettica. Niun uomo adunque può esser fine assolutamente ad un altro: e se ciò sembri essere per devozione passionata o magna- nima, per interesse, per corruzione, per violenza, l’errore of- fende alla verità, o la stoltezza è uguale al disordine. Ma la società essendo la condizione richiesta all'adempimento degli umani destini, e lo stato naturale dell’uomo, che debba perfe- zionarlo con l’arte, tutti i valori del fatto umano vogliono es- sere nella cooperazione sociale principalmente considerati, la quale così li termini in una ragione cosmica, come già furono in una cosmica necessità cominciati. In cotal sistema, che è quello del perfezionamento reciproco, e della continua educa- | zione dell’umanità, procede il viver comune per una grande scala dinamica, i cui gradi non possono esser determinati ad arbitrio, ma conformemente ai fini già intesi nella preordina- zione di questa possibilità immensa di cose. Qual sarà dunque il criterio, col quale si possa distinguere l'altezza e la bassezza e tutta la distribuzione graduale di questi uffici? Quale la legge, che ad altri giustamente imponga di restarsi negl’infimi luoghi, altri faccia ascendere fino ai supremi, e tutti reciprocamente sospingersi ed avanzare, per generale cospirazione di cause, ver- so l'ottimo fine al quale nacquero destinati? Quì si sente che la dottrina dell’ordine teleologico è quella del vero ordin sociale, e che nell’idea eterna, modello assoluto del fatto umano, dovea quietare in questo ragionamento la nostra filosofia della storia. Il np» DELLA FILOSOFIA DELLA STORIA 551 criterio non può discordarsi da quello che si vuol trovare nella gerarchia organica delle potenze individuali; imperocchè secondo l’apparecchiamento delle forze vive dee avere effetto tutta l’espli- cazione della vita. La legge è nella dignità e libertà delle morali persone, nella forma necessaria della città, e nei doveri dell’au- torità governativa che indirizzi la società al preordinato suo fine; cioè in questo medesimo fine cosmicamente valutato. Diciamo dell'una e dell’altra cosa a giusto compimento di questa nostra dottrina. Comprendasi tutta l’attività, tra spiritale e corporea, del- l’uomo in un concetto sintetico, che corrisponda alla integrità di una vita individua, e se ne faccia considerazione teleologica alla misura di questa reciprocità fra il corpo e lo spirito. Certa- mente una finalità organica ti porta a riferire il corpo al senso; il senso alla fantasia; la fantasia ed il senso agl’istinti ed agli appetiti, e reciprocamente; gl’istinti, gli appetiti ed ogni altra cosa all’intelletto, alla volontà, alla tua anima razionale, che nell’idea trova il termine d’ogni sua operazione. Se tu corporal- mente adoperi, termine immediato d’ogni tuo atto è la sensa- zione: e se nelle dilettazioni materiali poni bestialmente il fine della tua vita, non prima sei costretto ad interromperle, che il senso, già vivo e presente, ti si trasmuta in immagine, ed in me- more pensiero. Tutti i fantasmi poi sarebbero nulla all’opera del discorso, senza la notizia delle relazioni e degl’intimi valori delle cose. Sicchè all’intelletto è dovuta la fantasia, come gli si deb- bono ed appetiti ed istinti; e termine all’uso dell’intelletto è l’ot- tima forma della ragione e la scienza di un supremo vero, da cui tutti gli altri dipendano. Questo processo evolutivo della spiri- tualità umana, di cui tutti più o meno abbiamo la interiore espe- rienza, radicalmente si compie per una necessità che il fa rivela- tore della nostra costituzione dinamica e della legge nativa ed immutabile, che governa e dee governare le nostre operazioni. Però non vuol essere concepito in guisa, che i gradi, pei quali 352 UNA FORMOLA LOGICA trascorre, possano stare ciascuno da se come i termini di una via, che continuamente avanza, e che una volta sola debba esser percorsa. Anzi egli si ripete nel circolo, in che la vita, quasi ravvolgendosi intorno a se stessa, ha esecuzione continua, e fa- talmente erompendo dal nostro sistema dinamico a esercitarne la legge organica, ci manifesta quella dell'ordine teleologico che vi è contenuta. Quest’ordine adunque ivi fu preparato ad esplicarsi per varie età, avvicendandosi fra il corpo e lo spirito, fra la spe- culazione e la pratica, sicchè lo spirito sempre prevalga sul cor- po, e nelle operazioni spiritali la ragione e l’idea. Imperocchè senza dottrina nè principj anco gli affetti generosi son ciechi, e false le virtù o perigliose: e l’idea, che ultimamente si termina nell’Assoluto, stacca il fine della vita dalla persona intellettuale, e lo pone nel principio del bene universale e di tutte le morali armonie. Fatto l’uomo con questo sistema organico e così apparec- chiato all’azione, quello, che nella di lui conformazione era pri- mo di dignità, doveva essere ultimo di esplicamento. Conciossia- chè le inferiori potenze, che furono ordinate alle superiori, deb- bano esser mezzi e via al possibile uso di queste, e però ante- cederle di svolgimento e di operazione. Epperò ultima ad essere pienamente adoperata è la ragione pura; ultima ad essere rag- giunta e compresa è la pura Idea: nelle quali l’ uomo è meglio sciolto dalle limitazioni corporee, più vicino alla divinità, più partecipe dell’eterno, e più signore di se e del verace suo fine. Imperocchè egli, che in tutte le cose può intellettualmente tra- smutarsi o raccorle tutte nelle sue fedeli rappresentazioni, ha una forma viva che si conviene con quella dell’universo. E a somiglianza di questa preparazione primigenia dovrebbe proce- dere il libero uso del suo dinamismo spiritale. Che s’egli vive più nella sensazione limitata, che nell’idea immensa; se non dà a ciascuna sua facoltà quella forma migliore a che la conobbe disposta, e tutte non le compone a gerarchico sistema secondo î * È lede DELLA FILOSOFIA DELLA STORIA 355 le loro dignità native; se non le usa secondo una sintetica ra- gione, raccolta da questo loro ordine armonioso, e da tutti i tempi della vita anticipatamente discorsi: va contro ai fini della natura, offende alla sua legge naturale, muore senza aver sen- tito, conosciuto, esercitato tutto se stesso. Pertanto, ciascuno ha dinanzi aperto il suo spazio a deter- minare i fini che possa convenevolmente eleggere alle sue ope- razioni: e tante possono essere le perfezioni umane, quanti sono i temperamenti dinamici, e le discipline loro, e gli usi accomo- dati alle condizioni ed all’opportunità del viver comune. Basta che siavi sempre una idea sistematica, corrispondente alla unità ed integrità della vita, in cui questa abbia avuto il suo ordine giusto. Le forze in ogni nobile anima adoprano con reciprocità di servigi e d’imperi, ma sottoposte sempre alla imperatrice su- | prema: e perpetuamente aspirando all’ottimo fine, pur si vol- gono indietro a cercare nella comoda e tranquilla sussistenza le condizioni appropriate a compiere il loro destino. Ed ove sover- | chiasse alcuna per viziosa preponderanza, bisognerebbe premerla | verso quella egualità temperata che è bellezza, felicità, e perfe- zione. Quando la vita fu ordinata a questa forma, anche le azioni più servili prendono un certo abito di decoro, e vogliono essere | valutate secondo la ragione del sistema, al quale comunemente appartengono. Applichiamo ora questo necessario criterio alla società. . Come non ogni uomo ha con tal pienezza organate le facoltà, da ni Venire in eccellenza d’ogni arte umana; così ogni vita indivi- duale è un simulacro più o meno difettivo della vita sociale. Sicchè diresti, l'umanità essere disegnata e quasi abbozzata nel- l’uomo; e la forma del perfetto uomo, altrove che nell’umanità, non potersi ritrovare. Il tipo di questa perfezione dall'una e dall'altra parte è lo stesso: i modi dell’esecuzione, proporziona- tamente diversi. Servigi personali, arti meccaniche, mercature, amministrazioni, tutta la produzione immensa delle utilità ma- 354 UNA FORMOLA LOGICA teriali certamente occupano i gradi inferiori nella grande scala dinamica del vivere consociato. Al di sopra stanno le funzioni civili formalmente e legittimamente ordinate a regola comune di questi interessi e convenzioni private. Poi, tutto il sistema degli uflici pubblici. Ultimamente, l'operazione che si termina nella rappresentazione del bello, e quella che si adempie nel ritrova- mento e godimento del vero, vale a dire nella partecipazione puramente spirituale di ciò che è. E regina delle scienze è la filosofia, alle cui superiori dottrine servono tutte le altre, come le forze limitate a quelle che reggono l’universo. Il prete, vera- mente degno di questo nome, s'inalza sopra la sommità della sapienza umana, intende l’occhio della mente divina alle verità soprannaturali che sono l'eterno desiderio dei nostri cuori e il necessario supplemento della nostra ragione, e congiunge mi- steriosamente la terra col cielo. Soli i codardi che poltriscono vituperosamente nell’ozio, languiscano essi in molli piume, 0 pi- tocchino tra le sozzure plateali, non partecipano alla coopera zione sociale, e dovrebbero esservi con efficaci arti richiamati. Ai quali sono molto vicini i miseri fabbricatori delle vanità pia- cevoli, e tutti i corrottissimi trastullatori delle genti corrotte (6). Ma se tutte le operazioni umane sono destinate le une alle altre, e tutte con mille obliqui giri pur costituiscono un ordine graduale e continuo, non si vogliono confondere con le persone che le eseguiscono, sicchè parlando di quelle s'intenda anche indistintamente di queste. In cotal sintesi organica tutte le ope- razioni integralmente coesistono: tutte le forze hanno collega- mento indissolubile, e sono fra loro solidalmente obbligate: e alle persone che le posseggono e che, obbedendo alla legge mo- rale, le compiono, una eguale stima è dovuta per la egualità della loro natura, per la comune necessità che le consocia, per l’alto fine a cui tutte concordemente risguardano o dovrebbero risguardare. Perchè la sufficiente o copiosa produzione, e la equa distribuzione de’ beni materiali fonda, prepara, agevola 0 225% re DELLA FILOSOFIA DELLA STORIA 159) dee agevolare il perfezionamento spiritale, e la luce della scienza si diffonde senza invidia dall’alto alle parti più lontane, e vi suscita la virtù e la sostenta. V’ ha per fermo una propor- zione e convenienza fra il genere delle cose, alle quali diasi opera, e la nostra vita interiore. L’agricoltore illuminato, che passa i giorni operosi nei campi, gode la bellezza sempre varia della presente natura; gode una semplicità beata lontano dalle contaminazioni servili delle città depravate; e mentre provvede ai bisogni primi del vivere umano, alimenta l’anima di quelle pure dolcezze, che caramente giovano a renderla nota a se stessa. Ma il mercatante è perpetuamente stretto da occa- sioni e pericoli di venalità, di menzogna, di sordidezza e di tutte quelle arti che spengono il sentimento della bontà sincera sotto la fallacia di astute apparenze, e stupidamente vi super- biscono. Onde i sapienti antichi alla coltura della terra favo- rivano; le industrie mercantili giudicavano con severità disde- gnosa. Peraltro, le buone nature vincono questi ed altri peri- . coli, e l’uomo non è tutto nelle produzioni dell’utile. L’avvo- cato, che, trattando cause, fa servire la scienza alle bisogne ci- | vili, la ritrova poi dentro di se; e quanto meglio sa staccarsi dai i | | meccanismi pratici e sublimarsi alle verità immortali, tanto più nobilmente può esser mezzo ad altri e fine a se stesso. Perchè in ciascuno si riflette l’immagine più o meno scarsa della vita comune: e se ciascuno secondo la qualità delle sue occupazioni prende luogo nella scala dinamica della società, niuno può dirsi superiore, o dee credersi inferiore ad altri in quanto sa di es- sere uomo, cioè una morale persona: niuno veramente è servo o padrone; ma tutti fratelli, tutti figli di un medesimo padre, e consociati ad un medesimo fine. Pur troppo quella proporzione che notammo fra gli esercitati uffici e la forma interiore dell’uo- mo, fa sì che coloro, le cui opere son mezzi assai subalterni, facilmente servano agli esecutori di operazioni più nobili! Ma la virtù dell'idea, prima separando, poi ricongiungendo, penetrerà 556 UNA FORMOLA LOGICA a poco a poco per tutti gli ordini sociali; e quelli che negl’infi- mi gradi si travagliano, scossi ed illuminati, solleveranno, quan- do che sia, la depressa anima, e la dignità nativa rivestiranno. Penetriamo anche più addentro in questa nostra materia. Tutte le operazioni umane essendo un sistema, che si deduce e s'ingrada secondochè s’inalza la scala dinamica della vita, quinci prendono connessione negl’interessi e per la mutabile prevalenza delle forze esecutrici, quindi nell’intrinseco processo della loro esecuzione graduale. E alla duplice ragione di queste cause si conformano gli ordini dei mezzi e dei fini. L'operazione dell’ar- tefice, che fabbrica armi al guerriero, è dovuta a questo che com- batta in difesa della patria: e a quell’operazione naturalmente servono, e sono mezzo necessario, il trovare e l’apparecchiare la materia, su cui ella sia esercitata. Ma se il fabbro voglia acqui- stare il metallo non suo, e il guerriero le armi, l'uno e l’altro debbono estrinsecare i loro intendimenti, e concordarsi di vo- lontà con chi possegga l'oggetto desiderato per una reciprocità di ragioni, che è la sostanza giuridica di questa convenzione e la consumazione intima di questo grand’atto sociale. Adunque, dopo aver distinto le azioni umane dalle morali persone che le compiono, e trovate quelle a diversi gradi della scala dinamica, e queste indifferenti fra loro per egualità di natura, troviamo ora una essenzial differenza fra tutte le operazioni: e in quelle, nelle quali la forma sociale ha espressione specifica, scopriamo tal ca- rattere di razionalità, di finalità concorde, e di umanità neces- saria, che debbano dirsi proprie di tutti gli uomini, mentre le altre si possano dover dire privatamente di alcuni. Venuti a questo punto con la nostra investigazione, rap- presentiamoci nella mente gli uomini quali separate nature, ma di un medesimo genere, ciascuna delle quali sia centro naturale a se e niuna possa bastare a se stessa: e tutte siano portate da necessità irresistibile ad aver commerci fra loro gravitando verso un centro comune, in cui trovino la legge della loro necessaria DELLA FILOSOFIA DELLA STORIA 397 concordia. Quali saranno le cose più propriamente destinate a questo centro sociale? Togliete il riscontro di due forze, il du- plice intendimento ad un fine, l’acquiescenza di due volontà in un accordo, la giustizia delle ragioni in che questo accordo ha la sua necessità bilaterale: e non solamente atto sociale non è pos- sibile, ma e non avete più società. Perchè s'io che son persona e forza separata dall’altre, e consapevole di me e di loro, non mi concordo con esse che hanno facoltà native corrispondenti alle mie, nè desse con me si concordano, niuna convenzione sarà mai fatta tra noi, e la guerra sarà lo stato che indi ce ne con- | seguiti. Laonde il viver sociale ha in verità specifico atto ed es- senza in una reciprocità di commercio spiritale, onde i valori delle persone separate possono essere misurati così dall’una par- te, come dall'altra. E in quest’atto la volontà umana è portata a manifestare la sua nativa moralità: la ragione diventa giustizia: Tr, e il dovere e il diritto sono i vincoli naturalmente ordinati a congiungere in civile consorzio l’umana generazione. Ciò posto, possiamo ora stringere nelle sue necessarie conclu- sioni la prima parte di queste nostre ricerche. 1.° L'ordine teleo- logico delle operazioni ha nativo fondamento nel sistema gerar- chico delle potenze umane; e dall'uomo solo, che a se non basta, allargandosi ed intrecciandosi fra gli uomini consociati, s'ingrada e prende forma nel sistema delle forze e delle operazioni so- ciali secondo la legge di quella sua preparazione fondamentale . 2.° Sono in alcuna guisa gli uomini nella società quello che le facoltà nell'uomo: i quali in essa coesistono, non esercitano cia- scuno i medesimi uffici, non salgono agli stessi gradi; ma, co- Îmunicandosi a vicenda il proprio valore, mantengono fra le loro operazioni tal reciprocità di ajuti, che niuna possa essere esti- mata fuori di questa partecipazione alle correnti del pensiero estrinsecato, e tutte mostrino, quantunque a diverse proporzio- Ni, i segni di un comune dinamismo, e quasi una germanità ne- cessaria. 5.° Le ragioni teleologiche di questa cooperazione so- 45 | | 358 UNA FORMOLA LOGICA ciale da un lato si conformano gradualmente al processo esecu- tore degli effetti; dall’altro, agl’ interessi, ai bisogni, alle forze delle persone esecutrici: e le persone, non potendo mai perder se stesse nella società del vivere, e però rimanendo centri a tutte le finalità delle cose, debbono poter trovare una legge alle ‘loro comunicazioni e concordarsi insieme a regolare convivenza. 4.° Per questa legge, che si compie fra persona e persona go- vernandone i commerci alla misura di una ragion comune, la libertà morale, l’inviolabilità, l’egualità delle umane nature è consacrata nel gran principio della reciprocità sociale, e nella religione della giustizia; e questo principio ordinatore della so- cietà umana rivela la sua forma specifica. 5.° Quella reciprocità | di commerci (e questa è corollario delle precesse conclusioni) i dovendosi estendere a tutti gli effetti della cooperazione sociale, _ bisognava trovare una misura comune di tutti i valori comunica- _ bili, la quale, per versatilità sua propria, si ristringesse, si am- — pliasse, in se medesima si ripetesse, e fosse incorruttibile, pro- porzionandosi a tutti i bisogni della vita e secondando al corso degl’interessi e alla prevalenza delle forze consociate. E questa. fu la moneta; che può dirsi la parola materiale, ordinata a rap- presentare, a comunicare, a spicciolare, a integrare, a moltipli- care, a generalizzare tutti i valori sociali, quasi emulando alla parola intellettuale, sicchè per tutto la materia servisse allo spi-. rito e all’universalità dell’idea. 6.° Fondato sulle necessità che abbiamo discorso, e procedendo con questi metodi, l'ordine te-. C) leologico mette capo in quello giuridico, e diventa il principio organico, la ragion costitutrice della città. Fin quì considerammo il sistema delle operazioni, degl’in- teressi, e dei fini delle persone congregate, senza por mente alle differenti forme degli stati: or dobbiamo investigare le ragioni organiche della forma vera, seguitando col nostro discorso la dia- lettica della Sapienza eterna che la preparava. E cominceremo da questa grandissima conclusione, nella quale terminammo le DELLA FILOSOFIA DELLA STORIA 359 superiori ricerche: l'ordine teleologico, che ha inerenza in quello dinamico, trasmutarsi nella vita sociale in quello giuridico; e in questa necessaria trasformazione metter capo tutti i bisogni, tutti gl’interessi, tutti i valori, tutte le ragioni delle forze conso- ciate. Sicchè non prima questo elemento organico della civiltà viene in luce, che raccoglie in se iutti gli effetti della:comunica- zione dinamica anteriore, ed è disposto a portarli seco e cumularli nel centro dell’unione politica. Dopo di che distinguasi la società naturale dalla civile, cioè dall’ artificiale ordinamento della cosa pubblica: la prima delle quali precede sempre alla seconda; e questa allora ha principio, che quella è politicamente organizza- ta, e che una legge è promulgata a vincolo e regola universale. La società adunque prepara la città, e in essa ultimamente si termina: e non con alcune parti soltanto, ma con tutte; quando » essa non trovammo cosa che possa essere valutata da se, ma tutte abbiano intima, e continua partecipazione a un fondo co- constata mune di discorso e di vita. Il perchè nel centro dell'unione po- litica tutte Je ragioni giuridiche, sparse ed imperfette nell’ area del circolo sociale, son realmente cumulate in una ragione som- ma ed intera da quella stessa necessità ond’era inevitabile que- sto congiungimento, e che le trae dalla possibilità di tutte le operazioni civili e dall'anima di tutti i congregati, e in quella suprema ragione le consolida e perfeziona. Quì adunque gli arbi- trii, e le limitazioni spariscono: gl’interessi, i tempi, i doveri e i diritti armonizzano ed hanno conclusione in un punto. Senza di che l’idea di consociazione politica torna impossibile a con- cepire: e alla creazione di questa grande idea ben si vede che intendeva cosmicamente tutta la dialettica della natura. Ma non confondasi mai la preparazione organica di questa ragion co- mune, di questo supremo diritto e dovere reciproci con l’effet- tuale costituzione della città, e molto meno con le persone che salgano a governarla. Là è Dio che ordina le cose all’ottimo fine: | quaèl’uomo che ciecamente può repugnare, e che troppo spesso 340 UNA FORMOLA LOGICA repugna alle preordinazioni teleologiche della vita. E così distin- guendo, ben s'impara a recare la società civile a divine origini, e a congiungere scientificamente l'umanità con l'universo, e non si attribuisce nulla al principio jeratico o laicale della tirannide. E si cessano dalla radice le grandi stoltezze lungamente chiac- chierate intorno al gius divino, ed alla volontà e sovranità del popolo e delle nazioni: diritto, che invece è un mero principio, una legge dell’ordine, la quale non s'incarna mai, nè mai può incarnarsi in un uomo; e sovranità e volontà, che tanto valgono, quanto sia necessario a impedire o distruggere quella incarna- zione mostruosa (chi si argomentasse di effettuarla) e che, di- scordandosi da quella legge o principio, son puri nomi e disor- dine. Adunque la necessità dell’ordin politico conchiude tutte le ragioni degl’interessi sociali, divenute giuridiche, in quella ra- gion suprema che è il diritto pubblico della città, e la forza autonoma che la fonda. La quale ed il quale, però che sono som- ma moralità, somma giustizia, e somma utilità, cioè contengono tutti i beni della società naturale e possono dividerli e molti- plicarli con la scienza del numero politico, si concordano sem- pre per loro propria natura con la prosperità, coi giusti voleri, con la libertà vera, con tutte Je ragioni dei privati. O solamente stanno contro ad alcuno, quando egli non sappia rispettare gli al- trui diritti, e voglia esagerare i suoi fuori del centro dell’unione con immoderate disorbitanze. Nè quel sommo diritto, che rauna in se tutti quelli dei congregati, presuppone un deposito, idea materiale e ridicola messa in onore dai Francesi e dagl’infrancio- sati nel secolo passato, o importa una cessazione di questi diritti particolari; ma lascia ch’essi in effetto sussistano là ove natural- mente sono, e li raccoglie in se per una forza cosmica, anteriore a tutte le volontà dei presenti, e che comprende anche quelli delle generazioni a venire. Imperocchè non sia questo un dritto posto ed esercitato dagli uomini, ma quello eternamente inteso DELLA FILOSOFIA DELLA STORIA 541 nelle preordinazioni, e nei fini della natura, ed inerente nelle necessità delle cose. Di che procede ch'egli debba essere pre- supposto anche quando è ignorato e violato; e che tutti gli sta- bilimenti di città umane, e tutti i governi, niuno de’ quali fu mai la fedele immagine di quel modello intero, abbiano presunto sempre e presumano di essere quella immagine; e adoprino con l’autorità piena, e con una opinione d’infallibilità, che in lui solo risiede ed è certezza. Costituita la città, la società naturale non cessa; la quale fu la materia preordinata a prendere questa forma civile: e per quanto l'impero della legge politica debba stendersi a tutto il corpo sociale, pur la sua universalità necessariamente si pro- porziona ai modi, ond’ ha esplicazione la vita, che è sempre una possibilità che si effettua. E società naturale e città, teleologi- camente paragonate fra loro, ci rivelano il magistero dialettico della Sapienza divina nell’organismo di questo sistema giuridico. Infatti la società, come già scrivemmo, è fine e mezzo dell’uo- mo, che in essa viene a capo dell’esistenza, nè fuori di essa potrebbe sussistere: e la città è fine e mezzo della società, che, senza ordini nè leggi comuni, non avrebbe fecondo vigore, non verrebbe a prosperità sicura, non sarebbe società verace. E però che dal proprio suo peso ella è tratta a questo fine politico, a questo centro dell’ unione, in che trasformasi nella città, perciò appunto conchiude in quel termine o centro tutte le sue ragioni dinamiche e giuridiche, sicchè egli sia la ragion suprema ed in- fallibile, il supremo diritto, e la forza cosmica, o fondatrice e conservatrice dell’ordine pubblico. Ma questo diritto per neces- sità organica è insieme un dovere; imperocchè la città non è fine assoluto, ma fine e mezzo della società, la quale, convenevolmente costituita e governata, possa bastare a se stessa, e al destino degli uomini congregati. Quindi concorrendo tutta la società a costi- tuire quel diritto, e questo diritto essendo dovuto alla società, necessaria cosa è, per queste preparazioni organiche, che anche 342 UNA FORMOLA LOGICA la città sia costituita da quella stessa che in lei si termina, e che, presa forma, non possa mai esercitare il suo diritto senza la reciprocità del dovere, con cui si misura. Nel che scopriamo il fondamento divino ed incontestabile della separazione de’ due sommi poteri dello stato; quello che trae le leggi dalle condi- zioni delle cose, e quello che le sanziona e che le eseguisce: scopriamo tutti gli elementi razionali e giusti dell’ordin politi- co. Ma a far meglio comprendere la legge che organicamente governa questa preparazione dell’ordin civile, giovi il conside- rare che se la società si conchiude nella città, che è il necessa- rio suo fine, questo fine è il principio di quell’ordine, che indi si estende a tutto il viver sociale, e che nelle sue forme, e con la sua virtù lo ricomincia e conduce. Cosicchè le ragioni giuri- diche, che già correvano fra gli uomini nella società naturale e che però precedettero di tempo alla ragion politica che tutte in se le raccolse, diventarono posteriori ad essa quando la città fu costituita, ed elle nel centro dell’unione ebbero contemporaneo perfezionamento e sistema, e così perfezionate e regolate quasi refluirono per tutto il corpo sociale. Al modo stesso, che il buon senso naturale di ogni uomo si termina nella ragione; la quale, inalzatasi a perfetta forma scientifica, indi riduce alla sua mi- sura tutti i pensieri, e comincia un nuovo ordine di vita intel- lettuale. Ma prima che la preparazione cosmica della civiltà avesse esplicazione nel tempo, forma politica e materia sociale si stavano insieme nel disegno eterno della onnipotenza creatri- ce. E però che l’idea politica, che quì abbiamo dichiarato, ha virtù di scientifico principio da cui dipende la possibilità di tutti i conseguenti ragionamenti, ognun comprende la inevitabile con- cordanza fra l'a priori e l’a posteriori che di quì proviene alla sapienza giuridica ; la concordanza fra questa dottrina e tutta la nostra filosofia. Lo storico che sa inalzare la mente a questa scienza cosmi- ca della città, anteriore a tutte le istituzioni, ha il criterio certo DELLA FILOSOFIA DELLA STORIA 045 ed universale per giudicarle, e vede in esse il molteplice conato dell’arte umana, applicata a risolvere il gran problema dell’ordine pubblico. Che è la parte più bella e più fruttuosa nel dramma della civiltà, mutante forme e modi per l’ampiezza della terra e col. procedere dei secoli, e che riduce tutta la filosofia della storia a un perpetuo documento giuridico. Ma le difficoltà furono sem- pre grandissime, nè potranno mai con pieno successo esser vinte, se non allora, che la cognizione di tutti i comuni interessi, e dritti e doveri, e beni attuali ed altri possibili sia un fatto necessario nella coscienza dei popoli ed allo stato. A noi, che quì interpre- tiamo i divisamenti della Sapienza eterna, basti aver posto quel- l’irrepugnabile principio: che il dritto politico ha radical sussi- stenza nella necessaria reciprocità di un dovere, la quale adegua l’uno con l’altro, e che a poter legittimamente valere, siccome ragione pubblica, debb’essere somma giustizia, cioè non discor- darsi nel fatto dalla sua entità metafisica. E questo dovere e di- ritto hanno ultima conclusione in un fine, che a tutti gli altri so- vrasta, e che è meta suprema a tutti gli effetti della cooperazione sociale, e quindi della città. Ch’ella non essendo, no, semplice- mente preordinata a prosperità e sicurezza, che è materialismo politico, ma dovendo con siffatti mezzi avverare la maggior perfezione possibile nella maggior quantità possibile di uomini, vuole avanzare col buono ordinamento della cosa pubblica, e col moto regolarmente impresso alle forze verso l’altezza di quel gran fine, traendo seco a convenienti distanze tutte le membra del suo corpo artificiale. Questa è la degna idea che uomo deggia avere della società umana, e che ce ne fa sentire il profondo valor morale e quasi dissi la santità religiosa: e con questo concetto degnamente si compie la seconda ed ultima parte di questa teleologia giuridica. Perchè non tutti posse- dendo le naturali disposizioni ad inalzarsi a quell’alto segno, dee l'autorità governativa sgombrare ed agevolare le vie alla educazione di tutte le forze, sicchè i magnanimi possano attin- 544 UNA FORMOLA LOGICA gerlo. Onde importa, non solo che la popolazione crescente, e la produzione e distribuzione delle cose utili abbiano giusta proporzione fra loro; ma che l’alto fine, al quale debbono servire, sia conosciuto, e chiaramente determinato e proposto: che l'opinione generale inalzi le anime alle sodisfazioni più nobili: e che tutti gl’ingegni e moti della macchina politica così armoniosamente si premano verso quella difficile altezza, e fedelmente corrispondano alle preparazioni di natura, che ciascun consociato, esercitando quanto meglio possa le sue fa- coltà, occupi il luogo che gli è dovuto, e î migliori sempre pre- valgano. Imperocchè la libertà morale delle persone è pro- prietà sacra ed inviolabile, che limita i poteri del legislatore, il quale non può far violenza alle forze umane che aggiungano alla desiderata perfezione, ma dee con sapienza opportuna ed efficace indirizzarvele. La costituzione castale ci offre un ordinamento di città, una partizione di civili uffici forse modellata sul siste- ma gerarchico delle potenze individuali; ma l’idea scientifica, abusata dai più forti, valse un funestissimo vizio organico a tutto il corpo politico. Perchè indi fu chiusa la via alla libera esplicazione della virtualità umana, e l’aristocrazia del merito anticipatamente soppressa con quella del privilegio. La quale sotto mille aspetti, e con certi temperamenti, universalmente persevera. Ma da un’ altra parte, la libertà non basta, se la ci- viltà è difettiva. Piccole repubbliche mercantili son facil preda de’ popoli guerrieri: e popoli massimamente intesi alla guerra e chiusi ai più dolci sensi dell'umanità, o cedono ad altri più fe- roci e più fortunati, o lasciansi conquistare ai vizi; e guasti e in- fraciditi periscono. Come tutte le potenze dell’uomo proporzio- natamente disciplinate ed esercitate conferiscono all'ottima con- dizione della vita; così tutti gli elementi dinamici della società umana vogliono essere con tal senno contemperati e messi in azione, che ordine e libertà, anzichè repugnare fra loro, si con- cordino, e la cooperazione sociale debba procedere alla proposta DELLA FILOSOFIA DELLA STORIA 345 meta per quella necessità di ragioni, ond’ ella corrisponde alle preparazioni di natura. Che se questa meta consiste in un tipo, in una idea, piena di tutti quegli elementi o valori dinamici della società, in somma, in una possibilità che è dovere; e se la deter- minazione di questa idea non può esser fatta se non dalla mente dei magnanimi, nè da altri ‘che da questi può esser sentita la bellezza, raggiunta l'altezza, insegnato a vincere la difficoltà di questo supremo dovere, ben si vede a quanta larghezza e gene- rosità d’istituzioni sia destinata la società dal Creatore, e come l'ottimo fine, di che parliamo, sia veramente la necessaria corona di tutte le giuridiche ragioni e di tutte le guarentigie politiche. Perchè lo stato, non potendo giustamente essere scopo a se stes- so, indi è costretto a uscire perpetuamente fuori di se risguar- dando al termine, a cui il vivere consociato con poderosa disci- plina e giusti ordini vuol esser condotto. Onde il dovere del go- verno anche nella pratica è fondamento al suo dritto. E le due forze, apparentemente contrarie e pur disposte a necessaria con- cordia, fra le quali ha perpetuo procedimento la civiltà, van composte a bella e feconda conciliazione: dico una forza d’iner- zia e conservatrice, ed una sempre attiva e rinnovatrice; il pas- sato che vorrebbe misurare il futuro, e l'esecuzione di un futuro che sfugge sempre alle misure consuete; l’ordine che aspira alla immutabilità costante, e l’impeto della vita che muta arti, dot- trine, usi, costumi, interessi, uomini; il popolo che dalle neces- sità degli ordini nuovi fa scoppiare le rivoluzioni, e il governo che dee prevenire le rivoluzioni con l’ opportunità degli ordini nuovi. Questa dialettica, desunta dalle ragioni organiche delle cose umane, è anche un’ontologia cosmica, la quale esclude ogni difetto, ogni arbitrio, ogni male, però che procede secondo le preordinazioni e gli eterni intendimenti del bene. Ma la storia ci rappresenta le continue e diverse prove delle nazioni, intese a risolvere il gran problema della civiltà scarsamente interpre- 44 046 UNA FORMOLA LOGICA tando questa teleologia divina, o da lei ribellandosi per malva- gità ed istoltezza. E l'ignoranza è privazione del vero; e l’immo- ralità, l'ingiustizia, il delitto sono nella pratica quello che nella teorica il paralogisma, il sofisma, l'assurdità: cioè negazioni pure, così la prima come i secondi, per rispetto all’ontologia dell'Ordine vero, e quindi senza niun valore positivamente scien- tifico. Io non debbo quì reprimere la folle baldanza di coloro che non avendo mai cercato la necessaria connessione tra il fatto e il domma del vivere, osano cinguettare di cose umane e di ci- viltà: ma dirò, la civiltà cristiana dover essere immortale avan- zando sempre a maggior perfezione, perchè in essa l’idea esem- plare della vita non si disgiunge mai dalla pratica, la teleologia divina redarguisce le aberrazioni di quella umana, la Chiesa è nella società e la società nella Chiesa. Le quali cose non sareb- bero piaciute molto agli economisti nè a’ filosofi del secolo pas- sato; ma debbono piacere ai presenti, come piacquero e piace- ranno sempre ai sapienti veri e agli uomini non corrotti. L’idea cosmica della civiltà, che abbiamo dedotto dalle pre- parazioni e dai fini della Onnipotenza creatrice, come sovrasta naturalmente a tutte le cose di che la storia è narratrice e ne contiene anticipatamente il giudizio necessario, così vuolsi ap- plicare da uno a tutti gli stati, acciocchè diventi la dottrina giuridica della civiltà universale. Lo che faranno i dotti leggi- tori a convenevole compimento di essa. Sintesi di queste nostre dottrine. Noi ora volgendoci indietro a considerare il processo di questo nostro ragionamento dobbiamo raccoglierne la sostanza in sintesi breve. Tre valori distinguemmo del fatto umano: e in quello psicologico o dinamico vedemmo l'esecuzione della in- tera virtualità dello spirito, e ne determinammo le leggi princi- pali. Vedemmo, a questa esecuzione, che si effettua tra l’indi- DELLA FILOSOFIA DELLA STORIA 547 viduo ed il genere, esser condizione necessaria la estrinsecazione dell’idea, e quindi la cooperazione dell'umanità tutta quanta: ma, inalzatici dai fatti alle forze, ond’ essi procedono, e distinta la parte materiale ed esterna dalla essenza intima del dinamismo umano, trovammo fra l’individuo ed il genere una possibile ade- guazione di valori, e conciliando il concreto col generale potem- mo quinci comprendere nel nostro concetto delle cose umane la loro totalità assoluta, quindi risguardare all’unità del principio che le opera, e nella reciproca misura fra questa unità e quella totalità scoprimmo una verità profonda che fosse incremento alla scienza. Passammo a ragionare del valor sociale del fatto umano: e nell’estrinsecazione dell'idea, che prima era stata considerata qual necessaria condizione a recare ad effetto la virtualità dello spirito, ci si fe’ manifesta la necessità sociale che ordina quel fatto a diventare umanitario. Quindi, dopo aver determinato le leggi, secondo le quali si compie l’esplicazione dinamica del- l'umanità, determinavamo le epoche principali in che lo spirito effettua tutta la socialità della vita. E come dichiarando quella esplicazione presupponemmo sempre questo vivere consociato, fuori del quale essa non potrebbe avere effetto; così discorrendo l'evoluzione della socialità presupponemmo sempre tutto il valore psicologico delle forze che la eseguiscono. Ma l’uomo non pure adopera sull’uomo e coll’uomo, nè tutti gli uomini fra loro, ma sulle cose e con le cose che servano alle occorrenze della vita e della civiltà. Onde nell’ estrinseca- zione dell’idea, intesa a signoreggiare la natura, trovammo il terzo elemento che ci mancava a far compiuto il nostro sintetico concetto delle cose umane. Dicemmo cosmico questo valore, li- mitando allora il senso della parola alla necessaria proporzione fra la nostra arte e l'esterna natura; e nella necessità di questa proporzione avendo ritrovato quella medesima nella quale ha fon- damento la verità della cognizione, congiungemmo la civiltà con ‘ 348 UNA FORMOLA LOGICA la scienza, la provvidenza umana con la divina, e scoprimmo un’ altra volta le convenienze organiche fra le idee e le cose, fra gli ordini della nostra vita e quello dell’universo . I tre valori del fatto umano in questa prima delineazione mostravano le toro reciproche ragioni per tutta la pienezza della loro esplicazione effettuale: ma ‘questo era una comprensione sistematica della cosa com’ ella realmente ha processo storico, non la determinazione dei fini a cui questo processo debba essere indirizzato, non l’ideale modello della vita, non il cosmo del- l'umanità consociata, che abbia conformità con quello della na- tura e di Dio. Mancava adunque alla nostra dottrina una se- conda parte che la compisse. Già l’avevamo scientificamente preparata nella prima, e già avevamo veduto, la legge del vivere umano conchiudersi in una possibilità che è dovere: dovere, appreso dalla mente; possibi- lità, che presuppone l’uso e che è misura razionale della insita libertà della mente. Però il nuovo ordine delle nostre ricerche s'iniziava in questa libertà dello spirito per una necessità radi- cale, che la manterrebbe sempre presente per tutte le vie del- l’umano perfezionamento. Dalle leggi scoperte nelle preordina- zioni e nel sistema effettuale delle cose essendoci recati a consi- derare i fini corrispondenti a quelle preparazioni e leggi, vedemmo l'ordine dinamico sostanzialmente unito con quello teleologico; e i fini delle operazioni, naturalmente posti nelle individue persone ove sono le forze esecutrici, raccogliersi tutti nella cooperazione sociale; ultimo argomento alle nostre considerazioni. Quì la dia- lettica divina, organica al sistema dell'universo, ci rivelò le vie ch’ ella tiene a poter condurre l’umanità all'ottima forma del vivere, e le arti accomodate ad esprimerla. Se l'ordine teleolo- gico, congiunto sempre con quello dinamico, non potesse avere, anzi non avesse una legge che lo governi, conveniente alla na- tura dell’uomo e a quella della società, non sarebbe ordine, ma scompiglio; perchè niun freno razionale avrebbe l’uso delle DELLA FILOSOFIA DELLA STORIA 549 forze, ce in balìa de più forti si rimarrebbero assolutamente le cose umane; antichissima e non cessata, quantunque diminuita, calamità del mondo. Ma questo freno e legge vi sono: e l'ordine teleologico trasformasi in ordine giuridico, e diventa il principio organico dell'ottima civiltà a tutta l’umana consociazione . Così nella teleologia sociale trovammo la dottrina del vero ordine pubblico: e l’idea della perfezione, che deducemmo dal sistema dinamico delle persone individue, vedemmo come possa diventar modello alla società, e fine alla cooperazione de’ con- sociati, e criterio a giudicarne le azioni e gl’intendimenti, che pur di rado vi si conformano. L'autorità governativa ha in que- sto fine il supremo suo dritto, e il supremo dovere: la disciplina civile, le sue norme migliori: la città, la sua legge: la società, il fondamento divinamente dato a tutte le guarentigie politiche: tutta l’umanità, l'ideale modello della sua vita. Seguendo il processo di questa idea finale, esemplare, ed organica dall'uomo individuo a tutta l’umana famiglia, si scopre quello della Sapienza eterna, che ordinava nel mondo corporeo e nel tempo il perfezionamento della nostra vita col mezzo della ragione e della libertà dello spirito. Sente l’uomo la sua digni- tà, e può intendere a grande eccellenza quando ha vinto la natura esteriore, la quale serva a’ suoi fini; vittoria ch’ egli con- seguì con la mente, ed impero che argomenta la libertà di chi l’usa. Ed egli può dar forma al suo vivere alla misura di una legge, di un tipo, di una idea sistematica che sia ragion diret- trice di tutte le età, e di tutte le operazioni, quando possiede ì frutti di lunghe esperienze, ha domato le sue passioni ed in- clinazioni perverse, è signore delle sue voglie e delle sue facoltà, insomma ha vinto se stesso: e con questa vittoria sa trovar luogo giusto tra le forze altrui, e con libertà legittima armonizzare ad esse d’intendimenti e di azioni. Dicasi lo stesso delle civiltà. Quella sintesi di tutte le ragioni giuridiche, non fatta dall'uomo, ma preparata nelle necessità organiche delle cose, e che costi- 300 UNA FORMOLA LOGICA tuisce la somma moralità, la somma giustizia, la ragione universale della città, è una idea perfetta, una comprensione ontologica, un punto divisato dal Geometra onnipotente, una presenza della for- ma eterna che raccoglie in se tutti i tempi e tutti i valori della società, e che da questo centro ne ricomincia l'evoluzione. E quando questa ragione fosse religiosamente osservata, niun diritto patirebbe offesa, niun dovere giacerebbe trascurato, ogni arbi- trio, ogni violenza cesserebbero, e la libertà sarebbe la misura dell’ordine pubblico e della vita. Applicate il principio della re- ciprocità, fondatore di quell’ordine, a tutti gli stati. Questa ra- gion suprema, nella quale giuridicamente la società si termina per ricominciare giuridicamente nella città, e nella quale però s'individua la persona morale del corpo politico, non sarà più un. principio d’individualità civile contrario alle civiltà esterne; un principio di prepotenze, d’ingiustizie, di mali: si ripeterà tante volte, quanti sono gli stati, per cumulare in un punto unico tutti i dritti e i doveri dell’umanità: alternerà fra tutte le nazioni la sua virtu giuridica e razionale: fonderà la loro indipendenza con- giungendole con vincoli di fratellanza e di pace: sara un'ultima libertà, un’ ultima vittoria dello spirito, un’ultima forma dell’eter- | no nel mondo e nei secoli umani, che anticipatamente ne ha giudicato le ragioni, e conciliato gl’interessi ad.un ultimo fine. Il quale, perocchè non sarà forse mai appieno, o sarà tar- dissimamente raggiunto, lascerà sempre un grandissimo spazio aperto all’antagonismo delle forze, ed ai possibili trionfi della ragione e della libertà. Ma se da questo tipo di civiltà e perfe- zione siamo spaventosamente lontani, non per questo è da cre- dere che la legge che regola, quantunque male obbedita, il pro- cesso storico della nostra vita, sia differente per sua natura da quel modello ideale. La differenza è dal più al meno, anzi dal pochissimo al tutto: la legge, dall’una e dall’altra parte, è la stes- sa. Eluderla al tutto, o senza niuna riserva calpestarla, sarebbe impossibile: tutti i secoli dell’ umana generazione necessaria- DELLA FILOSOFIA DELLA STORIA 551 mente la testimoniano: la rispettiamo anche a malgrado nostro, e sempre meglio vi obbediremo. Ch’ ella è sempre con noi, e noi chiaramente la veggiamo' a dover giudicare le azioni degli altri uomini: e non averla compresa, e parlare di cose umane, è anzi follia ed insensatezza, che presunzione ardimentosa. E però fra l’ordine reale e quello ideale dell'umanità non è ripu- gnanza di principii organici; e come la storia è disposta a di- ventare scienza, così la scienza contiene in se tutte le ragioni, tutta la sostanza intima della storia. Ma prima di chiudere questa teleologica dottrina siami per- messo procedere alla sua futura perfezione con la feconda verità di queste sentenze: Fra la costituzione dell’umana natura e gli ordini della sua esplicazione dinamica debb’essere una sostanziale corrispondenza: onde nell’ordinato corso di questa ha necessaria (espressione la forma essenziale di quella. Lo spirito, artefice del mondo dell’umanità, si conviene con la forma dell’universo: onde nel processo che segue natura nella organizzazione dell’uo- mo dee poter essere investigato quello che fu necessario a co- ismicamente esprimere questa convenienza e proporzione fra lo spirito e il mondo. L'ordine dinamico e l’ordine teleologico, quello teleologico e quello giuridico riduconsi ultimamente nel sistema delle preparazioni cosmiche ad uno solo; che è quello in che lo spirito debba esercitare la sua virtualità conformemente alle leggi eterne che la governano: onde fra le vie ch’ egli tiene ‘a ridurre quegli ordini l'uno all’altro, rigirandosi fra l’uomo e la società, fra la società e la città, e dalla città tornando alla so- Gietà per finire nell’umanità e nell’uomo, e le vie tenute dalla divina dialettica a esprimere la di lui proporzione col mondo, non può non intercedere una analogia fedele e profonda.... Le quali anticipazioni della scienza lascio all’opera degli altissimi ‘pensatori, e specialmente italiani. I filosofi tedeschi, sequestrandosi dalle cose, e pur tutto abbracciando col pensiero assoluto ed infinito, ne cercano la 502 UNA FORMOLA LOGICA necessaria evoluzione, e trovano la scienza nelle necessarie de- terminazioni e leggi di esso; astrazioni arbitrarie ed impotenti a fondare la vera sapienza filosofica. Noi, con prova fino ad ora non tentata, astraendo il nostro ragionamento da ogni storia po- sitiva, nella considerazione pura del fatto umano abbiamo tro- vato, o mostrato potersi trovare la dottrina intera e verace del- l'umanità, e dato la sua necessaria dialettica alla filosofia della storia. Del fatto wnano nella storia. Ma dopo averlo contemplato in se, contempliamo ora quel fatto umano nella letteraria condizione a che lo trasmuta l’opera | del narratore. Confondere la storia dell’umanità con quella del mondo, le ragioni della storia con la vita dell'umanità, le cose nella x . vita con le cose nei libri, è sapienza nebulosa che non vorrei veder seguitata sotto questo sole che sì largamente c’ illumina. Certamente i fatti umani debbono essere con fedeltà religiosa raccontati: nè, presi dalla vita e collocati nel libro, possono mai perdere, per loro stessi, que’ valori che prima avevano, nè quelle leggi, nè quell’ordine con le quali e nel quale ebbero esecuzione. Certamente quello storico sarà migliore, il quale, piucchè altri, sappia conoscere quelle leggi, .e seguitare quel- l'ordine, e porre in luce que’ valori. Ma questa non è la que- stione, di che si disputa. Il fatto, non prima è traslocato dalla vita nella storia, che vi acquista forma, valori, ragioni, che non aveva, cioè passa ad una esistenza nuova molto diversa da quella antica: anzi non prima entrò in una mente, che trasmutossi in immagine ed in idea. E quì fa parte della vita intellettuale di un uomo, che le più volte non ne fu l’esecutore nè il presente testi- monio; trova luogo fra gli altri pensieri e cognizioni di lui; può essere giudicato bene o male, con veraci parole esposto o falsifi- cato. Ma lasciando i vizi e le corruzioni istoriche, inconciliabili deg AT DELLA FILOSOFIA DELLA STORIA 959 con la scienza, la quale solamente ragiona di ciò che è, pongasi attenzione a questa esistenza letteraria a che passano le cose uma- ne nelle narrazioni e nei libri. Nel campo della realtà gli ope- ratori, chi largamente parli, sono innumerevoli; città, popoli interi, l'umanità: in quello delle rappresentazioni istoriche il narratore quasi sempre è uno, quantunque già preparato da mol- ti. Là anco quella parte delle operazioni, che sfugge al cono- scimento della stessa persona che le eseguisce, ha il suo neces- sario valore, ed è giudicata dalla natura e da Dio che guidano gli uomini ai termini destinati: là, per queste preordinazioni e fini e necessità organiche, scorre e si rigira fra tutte le cose un intrecciamento di legami maravigliosi, che le congiungono a sistema indissolubile, danno a ciascuna una importanza secondo l’ordine di queste ragioni intime, e la conservano nella somma | degli effetti dinamici, che da questa immensa agitazione e con- trasti e armonie risultano alla vita generale, e privatamente ad ogni spirito. Quà moltissimi fatti, cause, potenze, circostanze, ‘origini, sono ignorate: e la sapienza di un uomo sta in luogo di quella degli altri uomini e della natura e di Dio: e l'ordine dei fatti, diventati idee, procede secondo certe necessità logiche, e “arti di umano discorso, e intendimenti e dottrine e capacità personali. Poi considerate bene voi stessi quando trattate i vo- stri affari, siete a fronte de’ vostri simili, esercitate le vostre forze nella società del vivere. L’affetto e l’interesse individuale son guida così naturale delle vostre azioni, che pochissime volte saprete dominarli, o solamente i pochi sapranno così bene, che quest'impero non sia meramente una dilicata dissimulazione. Perchè allora ciascuno di voi è persona che dinamicamente prova la singolarità del suo essere, e conformi a questa disposizione necessaria dee produrre gli atti in che usa se stesso. Ma quando leggete una storia il vostro animo, salvo alcuni casi, è tranquil- lo: la ragione predomina: il sentimento individuo naturalmente serve alla generalità dell’idea. La qual disposizione dovrebb” es- 45 > 504 UNA FORMOLA LOGICA 0 ser quella eziandio dello storico: e quale se ne rimova, o non sappia prenderla, è indegno d’impugnare lo stilo e di vergare | quelle parole che unicamente son dovute alla verita, che a tutti appartiene. 1 Queste differenze realmente vi sono, e sì volevano valu- tare, e non sembrano essere cosa lieve. Ma chi le pensi bene, — potrà ridurle da ultimo a bella conciliazione; e per esse non perdono le cose umane punto di dignità nella storia, nella quale anzi salgono a migliore eccellenza. E per fermo il termine, chele divide fra questa e la prima lor condizione, non prescrive, non impedisce la continuazione di quella stessa legge che ne regolava cosmicamente il corso nella vita. Imperocchè lo spirito, che già | estrinsecossi nell’eseguirle, or quasi se le riprende raccoglien- dole dentro di se per meglio farle simili alla sua eterna natura. E s’egli nacque a poter conoscere tutte le cose, certo alla co- | gnizione di quelle umane fu particolarissimamente ordinato e di-. sposto, le quali da lui stesso procedono. Onde non vuolsi repu- | tare a impotenza della storia quello che è, o può esser difetto î degli storici o privi di notizie, o negligenti a cercarle, o poco. sapienti a giudicarle. Ma quanto più le arti e gli studi umani prendono ampiezza e progrediscono, tanto meglio la storia com- pie il suo nobile ufficio, ed ammaestra la vita, rintegrandone el conservandone la realità dissipata. Sicch’ ella era necessaria e destinata a raccòrre in un uomo i valori dinamici di molti, e a recapitolare i secoli in tempi brevi; che è la legge, onde lo spi- ‘ rito reca ad effetto la sua virtualità immensa agitandosi fra gl’individui ed il genere. Senza questo inalzamento delle cose umane a perpetuità spiritale, e loro ritorno dalla storia alla vita, neppure i disegni nè i giudizi della Natura o di Dio non sareb- bero bene adempiuti, nè potrebbe l’uomo investigarne l’appa- recchiamento e l'esecuzione continua. Così la storia sovrasta e giova mirabilmente alla vita: e colui che la scrive, se avrà studiato bene la natura delle cose di Li ua RE DELLA FILOSOFIA DELLA STORIA 305 che dee ragionare, conoscerà che il mondo umano da due prov- videnze è governato; dalla Sapienza creatrice degli uomini, e dallo spirito di questi che lo edificano: e che gli effetti che vi si compiono, non vanno mai a lieto fine se non quando la sapienza umana da quella divina non si discorda. Ma interpretare le vie di questa, fu sempre opera difficile e spesso pericolosa; nè il sa- vio vorrà tentarle prima di avere inteso e determinato, quanto meglio possa, gli ordini della provvidenza umana. Che sarà un dichiarare in alcuna parte anco i procedimenti di quella e i suoi profondi consigli. Qualunque siasi il divisamento dello storico, dover suo sarà sempre di conformare alla qualità delle cose il suo pensiero, e.di abbracciarne tutto l'ordine in un concetto sinte- tico. L'uomo che opera oggi, e i suoi contemporanei che lo giu- dicano, hanno dietro a se i secoli vivuti dalla nazione di che son figli, e sanno o possono sapere per quali vincoli si congiungano que’ fatti con lo stato presente della vita comune: ma prevederne tutto il valore nella futura non possono. Ha questo corso di cose certi cicli, o periodi, dalla cui piena comprensione dipende l’in- telligenza delle particolarità, che altramente sarebbero quasi pro- posizioni sparse o parole solitarie in questo volume della vita. Come a veder bene una continua pianura vuolsi ascendere il col- le, che ce la faccia signoreggiare col guardo; così gli anni, che passano, rendonsi l'uno all’altro testimonianza con parole che poi sì congiungono in frasi, e levano in alto la mente di chi le rac- coglie, e la condizionano a contemplare con pienezza la verità istorica. Però lo scrittore che vuol narrarla, determina prima l'estensione della materia, e distingue i tempi che dovrà discor- rere, e a questa fondamentale disposizione di cose attempera poi le sue idee e la forma della rappresentazione. E le cose narrate con queste arti necessarie acquistano quel nuovo valore che sola- mente hanno nel libro; nel quale tutte si danno vicendevolmente lume, e si collegano per tutta la tessitura del discorso, sicchè allora veramente hai finito di comprenderle che sei giunto al ter- 306 UNA FORMOLA LOGICA mine in che la narrazione si quieta. Il perchè la ragione illustra- trice di tutti i particolari dell’opera è nel concetto sintetico dello storico; concetto che precedette all’esecuzione sua, ma che tu non comprendi bene prima di aver percorso tutte le cose, nel cui ordine fu distribuito ed espresso. Questa idea sintetica è più o meno profonda secondo la diversità delle materie, la maturità _ degli studi, e la tempra degl’ingegni; ma com’ ella è sempre la legge regolatrice di tutto il lavoro dell’arte, così da.essa general- | mente procede l’effetto estetico e razionale che indi s’ induce nelle anime dci lettori. Quì tutti i pensieri dello scrittore si rac- colgono a prender forma convenevole, e ad esservi proporzio- natamente misurati: di quì passano nel discorso storico, quasi possibilità intellettuali via via recate a esistenza letteraria con l'argomento della parola. E quanto sia grande la virtù di questo | concetto fondamentale, ben lo mostrano le storie altamente pen- sate ed eloquentemente scritte, e lo sanno coloro che a questa dolce forza debbono lasciarsi vincere con piacere maraviglioso. Così il narratore è artefice di un mondo ideale, in cui la verità della vita rende immagine del mondo reale, trasmutato da corpo a spirito nel tempio della memoria. Adunque non confondasi mai la vita umana con la storia, nè la storia dell’umanità con quella del mondo, quantunque an- co nell’umanità abbiano vigore le leggi cosmiche, e sia ufficio dello storico rappresentare la vita secondo queste leggi che coll ne fanno intendere profondamente l’ordine ed il processo. i S$. VIL / Forme istoriche, che son gradi fino all’idea filosofica, e alle quali tulte le altre son reducibili. Le nostre dottrine filosofiche non sono, nè dovevano esse- re, invenzioni o concetti puri del nostro spirito, ma verità reali DELLA FILOSOFIA DELLA STORIA 597 e necessarie; ond’elle già si stavano più o meno confusamente nella coscienza di tutti, ed anche apparivano nell'uso delle fa- coltà umane, chi avesse lume a riconoscerle. Ed ora che dobbiam dire di queste forme istoriche, alle quali tutte le altre son redu- cibili, potremmo similmente ritrovare l’ apparizione loro nella pratica degli scrittori, quantunque le più volte per modi imper- fetti, e non secondo una ragione scientifica. Al che peraltro lasce- remo volentieri che altri faccia l'applicazione di queste teorie; perchè non fu nostro intendimento scrivere un libro di lettera- tura o di erudizione, ma di porre i fondamenti di una scienza, che anche preparasse altri logicamente a scrivere questo libro sull'arte storica, e sulle storie fatte così dagli antichi, come dai moderni per tutte le parti del mondo civile. Pertanto le forme, delle quali ora parleremo, son forme logiche; sono le forme pro- | prie del pensiero umano che dagl’infimi o primi lavori storici s'inalza per continuo ordine fino agli estremi e supremi; ma for- me organiche ed interiori, dalle quali dipendono, e con le quali debbono avere necessaria corrispondenza quelle esteriori. Or noi quì non avremo a cercarne nè dichiararne la natura dialettica, che già determinammo percorrendo i gradi di quella scala, che - dalla idea empirica conduce lo spirito fino alla filosofica. Osser- veremo quel processo eterno ed universale dello spirito in questo campo della letteratura istorica: mostreremo la convenienza di queste forme con quei gradi: congiungeremo la logica della storia con quella di tutta la scienza; i secoli del pensiero istorico con le epoche fondamentali del pensiero umanitario. Alla qual gran- dezza e vastità di concetti desidero che aprano le ali dell’ingegno i giovani italiani, e con forti studi vi si apparecchino. Ma prima di venire a ciò era nostro uflicio chiarire le ragioni intime della cosa che è materia alle narrazioni della storia, e in cui Ia nostra formola, espressione di una legge cosmica, potesse dalla univer- salità sua convenevolmente restringersi e prendervi il suo valore specifico. Ed ella passando ora di forma in forma, pur manterrà 508 UNA FORMOLA LOGICA la sua essenza inalterabile, ed esprimerà nella storia l’ evoluzione dialettica di quella legge eterna, che, reciprocandosi fra il mondo e lo spirito, si manifesta nel tempo, e dal tempo ritorna verso l'eternità che le è propria. Prima forma istorica. Se il primo grado della nostra scala fu l’empirica accetta zione del fenomeno, la prima forma istorica dovrà consistere nella semplice narrazione del fatto. E conformi a questa neces- sità ontologica, che ci anticipa le notizie delle cose, furono in verità i primi lavori storici. Perchè ad ogni città e nazione, che metta novamente il piede nella strada letteraria e le sue me- morie voglia conservare, annali, cronache, o qual altro nome si usi a significare una mera nota, o raccolta, o digiuna indica- zione, anzichè racconto, di cose intervenute, cominciano sem- pre la storia; puri fatti, che, senza l'intervento dello spirito che li ragioni, son proposti alla curiosità umana e debbono spiegarsi ed illustrarsi fra loro. Quì ci torni a mente quella differenza fondamentale, che già trovammo tra le cose operate dall'uomo e quelle operate fuori di lui. La Natura, inalzata nel processo creativo fino alla vita umana, vi si raddoppiò nella coscienza di se; onde la legge del mondo sovrasta sempre nelle cose nostre per rispetto alle altre, nelle quali non era giunta a tanta eccellenza, quantunque nella cognizione, che ne prenda lo spirito, ella proceda sempre per gradi corrispondenti così dall’ una, come dall’altra parte. Noi adunque, che ignoriamo dapprima la possibilità fisica delle cose che non facemmo, non possiamo non conoscer le nostre: e l’ac- | cettazione empirica del fatto umano ha sopra quella degli altri oggetti questa superiorità, che le proviene da quel necessario co- noscimento. La quale, continuando, s'inalza per tutti gli altri gradi della scala dialettica, e vi esprime la proporzione della De - DELLA FILOSOFIA DELLA STORIA 559 legge cosmica rappresentata dalla formola, fra l'umanità e le altre parti della Natura. E le cose della vita, passando nella storia a condizione meramente ideale, vi acquistano quell'altra dignità più grande, che già conosciamo. Imperocchè i monu- menti delle lettere aprendo commerci fra i secoli, fanno sì che le cose operate da una o più generazioni mettano capo in un punto, e sieno comunicate ad un’ altra, anzi a tutte, che vi fac- ciano il fondamento, o vi prendano norme ed aiuti alle loro ope- razioni. Lo che non fa contro a quello che dicemmo del sistema di queste cose umane inteso e governato dalla Sapienza eterna, anzi mostra i procedimenti di questa sapienza stessa nelle arti dell’uomo. Adunque le memorie dei fatti cominciano ad essere con- servate nei primordi della civiltà de’ popoli, la quale così fa nascer la storia, come senza storia non potrebbe sussistere. In- segnate dal bisogno, e fatte all’uso di quelli stessi che operarono i fatti, e che son figli di una patria comune, non domandano quelle cronache ragionamenti che le rischiarino. L' illustrazione loro è negl’istituti, nelle costumanze, nelle opinioni, nelle tradi- zioni orali di quella cittadinanza. Un cenno solo basta a indicare _ moltissime cose: la mente di chi legge riempie le lacune tra av- i | venimento ed avvenimento: uomini diversi possono scriverle senza che ne patisca offesa la forma della storia; la quale, non anche venuta a distinta e sua propria esistenza, anzichè da uno storico, è fatta dalla società che se ne vale a suo documento. Ma da questo primo abbozzo uscirà a poco a poco l'ottima forma di queste narrazioni contente alla fedele conservazione dei semplici fatti. Perchè se questi hanno tutti congiunzioni fra loro, sicchè l’uno conferisca alla intelligenza dell'altro, lo sto- rico, anche non cercandone le cagioni che gli spieghino, tanto meglio li farà comprendere ed userà l’ arte sua, quanto più fe- delmente seguirà il filo del loro sensibile processo, e saprà con pienezza raccontarli. Lo spazio ed il tempo, la geografia e la 560 UNA FORMOLA LOGICA cronologia gli son duplice guida secondo questa consumazione e successione fenomenica di avvenimenti. E ad interromperne e riprenderne il corso, i più importanti e principali opportuna- mente lo avvertono. Ma d’intendere a tempo questa eloquenza muta non a tutti con felicità succede, quando la copia delle cose è molta, e diversa, e intrigata o minutamente dispersa. Può e dee talvolta il savio scrittore, a trovarne e seguitarne l’ ordine più vero, più bello, più efficace, penetrar con la mente inda- gatrice anche nelle più intime cause. Basta che ciò si resti un segreto fra i lettori, consapevoli, ma non per colpa del libro, e lui, inteso sempre a rappresentare, non licenziantesi mai a ra- gionare. I narratori sincroni, e primitivi, vivamente inspirati dalla coscienza della vita comune, e illuminati dalle presenti cose, trasfondono questo senso intimo e chiaro intelletto nelle parole che usano, e danno alle loro scritture quella ingenuità, quella verità, quella evidenza, quella efficacia, che non appar- tengono se non ad una età del pensiero umano, che virginal- mente si schiude in questo suo primo fiore. Ma lo spirito che nella via letteraria abbia salito anche gli altri gradi della no- stra scala dialettica, può da questi ritornare ai più bassi con le facoltà disciplinatesi in quell’ascendimento intellettuale. Quin- di le storie meramente narrative o descrittive si fanno anche nei secoli di gran sapienza filosofica, opportunissimi a esprimere la forma istorica più sublime; perchè in ogni tempo vi sono ani- me quasi modellate sulla stampa della semplicità primitiva, e schiettissime a rappresentare le cose con mirabile ingenuità di discorso. Anzi quì consiste radicalmente la storia. Chè senza fatti ella non è possibile: e nell’ordine intero dei fatti veri, cioè necessario, continuo, dedotto dalle intime cause, sta la sua pro- pria ed ultima perfezione. Peraltro, egli può intervenire, che, mutate le istituzioni, le usanze, gl’interessi, le idee, insomma le condizioni tutte del vivere, chi da lontano pensa e prende a narrare i fatti di un’altra età possa rappresentarseli simili a DELLA FILOSOFIA DELLA STORIA 561 quelli fra i quali è nato, e che gli sono profondamente consueti. Ond’egli, a fuggire questa discordanza disconvenevole, dee fare grandi studi ravvicinando, deducendo, immaginando, e ricolo- rando cose sparse e defunte, ed apparenti solo nell’ombra delle memorie. E contuttociò agli storici veramente primitivi, quan- tunque imperfetti, riman sempre il pregio di un candore, di una innocenza letteraria, di una grazia nascente, che spesso cede alla rozzezza, ma che basta a distinguere questa forma nata da quelle posteriormente fatte. Già notammo che in questa prima sua epoca il pensiero umanitario è massimamente nelle apprensioni sensibili, e nelle rappresentazioni fantastiche, alle quali serve la ragione, e con le quali si argomenta d’interpretare i fenomeni. Però anco la storia, ove non sia una nuda cronaca, prende forme poetiche e si accompagna di favole, o va perduta nelle finzioni. E quì an- cora l’autore principalissimo è il popolo, o le aristocrazie che lo governano. Lo storico ed il poeta, così preparati, verranno a singolarità di eccellenza loro propria più tardi: e l’ingenuo nar- ratore dei puri fatti coglierà la palma della sua arte nascondendo mella schietta eloquenza loro tutta la sapienza ch'egli possiede. Il fondamento logico di questa forma di storia è nella pos- sibilità empirica dei fatti (di quella fantasticata ad arbitrio non occorre quì ragionare) sinteticamente raccolta dal loro ordine naturale. Leggete un racconto di cose umane, le quali vi siano ignote, o non abbiano somiglianza con quelle che conoscete. Da principio vi sentite rimossi dalle condizioni abituali del vostro pensiero, e quasi trasportati ad un’altra vita. Poi un fatto dà lu- me ad altri, sicchè cominciate a capacitarvene. Vi vengono in- nanzi luoghi, uomini, leggi, opinioni che mirabilmente acereseo- no quella luce; e voi trovate essere naturalissimo quello che pri- ma vi pareva strano, e niuna oscurità più vi arresta, e benissimo comprendete ogni cosa. Lo che vuol dire che di tutti i valori di questi fatti vi risultò nella mente una idea sintetica, che ve ne 46 362 UNA FORMOLA LOGICA perfezionò le possibilità particolari in una comune. Onde il’ sa- piente storico ordina con tali accorgimenti la sua narrazione, che nulla manchi alla piena intelligenza che se ne voglia acquistare. E così la nozione circoscritta, spicciolata, difettiva di ciascuna cosa da se ha la convenevole perfezione in questa idea sintetica, che è forma logica, modello a quella letteraria, e che superando i limiti di un tempo solo, e di uno spazio determinato, è già un concetto razionale che tende a sollevarci al secondo grado della nostra scala dialettica, applicata alla storia. Seconda forma. Se condizione a intender bene una cosa è conoscerne la possibilità naturale, cioè sapere com’ ella fu fatta, e possa esser | fatta di nuovo, questo conoscimento non si adegua sempre al- l’identità di una sola misura; imperocchè a cosmicamente inten- dere la possibilità fisica di una sola cosa, bisognerebbe avere interpretato il mistero del mondo. Noi di sopra abbiamo parlato dei fatti umani semplicemente guardando alla loro realità sensi- bile, che, importando estrinsecazione d’idea, ha in questa il lume sufficiente a farla comprendere. Ma ora, che mutiamo uno passo più innanzi, dobbiam parlare della proporzione etiologica dî | questi fatti con quella che vedemmo essere possibilità razionale per rispetto alle cose della natura. Saliti all’ordine delle cause, . non dimentichiamo per queste i fatti; i quali anzi ci son presenti in questo secondo grado, e nel concetto della loro: possibilità empirica, che già possediamo, ci condizionano a trovare la pos- sibilità etiologica, da cui l’altra fu preparata e generata nella na- tura, ma fino a quì non saputa da noi. Sicchè la cognizione del fatto, chi generalmente consideri, precede alla cognizione delle cause; ma queste, che naturalmente precedettero al fatto, non prima sono scoperte dallo storico, che rovesciano, mi si conceda Ja frase, i tempi di quelle cognizioni, e così restano anteriori al fatto nella mente di lui, come furono nella vita. DELLA FILOSOFIA DELLA STORIA 565 L'uomo parte opera con libertà, parte per necessità nati- va; con certe facoltà, con certe disposizioni, con certe leggi, che già erano in lui quando prima si mosse all’operazione vo- lontaria. E la stessa volontà, chi non cerchi in essa il perfezio- namento datole dalla ragione, ma vegga una forza primitiva, e la tempra particolare di questa forza, è un fatto anteriore ad ogni uso di libertà, e che l’uomo dee accettare come fu posto. Di quì derivano due ordini di cause, alcune delle quali, come notammo a suo luogo, sono apertissime all'operatore, altre ignote. Chiaris- simamente egli vede i suoi intendimenti; le più volte non vede gl’impulsi segreti che lo fanno aspirare al proposto segno. Alle cause finali risguarda massimamente lo storico; perchè non va- lutando i fini, le cose umane non si capiscono nè si possono legittimamente giudicare. Ma risguarda anche alla natura dei | personaggi più cospicui, e quindi alle cause efficienti o impellenti | all’azione, talvolta oscure all'operatore. Non basta. La terra na- tale, la famiglia, la società, il secolo, tutte le condizioni esterne all’umana operazione, degna di perenne memoria, costituiscono un’ altra serie di cause, senza la cui considerazione sia impossi- bile trovar la ragione dell’istoria. L'andamento del viver comune ha sempre una necessaria ed intima convenienza con la coor- dinazione generale di quelle cause: e chi sa proporzionarsi ai tempi, o validamente repugnare, va innanzi con le cose e anche le signoreggia, o le muta, o cade vittima generosa o impruden- te. Ma senza conoscere quell’ ordine, non s’ intende la possibilità nè la necessità di quel successo nè di quella caduta. E quì an- cora a conoscer tutto, molte difficoltà stanno contro: e il perso- naggio storico se largamente e profondamente vede, oltre certi termini non trascorre. Il fatto rimanendo sempre la materia presente dello storico, e la serie delle cause distendendosi per tanto spazio, quanto abbiamo veduto, vorrebbesi determinare il punto a che debba rimanersi contento chi le ragiona in questo secondo grado della 564 UNA FORMOLA LOGICA scala dialettica. Che sarà anche un determinare la proporzione fra la possibilità etiologica dei fatti umani e la possibilità razio- nale delle cose contemplate nella natura. Ma questo punto è mobile fra l’idea puramente empirica e l’idea scientifica; e quante volte si muti, a tanti modi di questa seconda forma isto- rica dà nascimento. Le cause prossime impreteribilmente deb- bon esser chiarite: e quando bastino alla ragione della storia, che si abbia divisato di scrivere, si può non correr più avanti. Però lo storico pone sempre questo punto a se stesso nel disegno del suo lavoro. I fatti, come già dicemmo, spiegano i fatti per le con- giunzioni necessarie che hanno fra loro; coi quali molto spesso si confonde la questione delle cause, come tutto il sapere umano ri- ducesi ultimamente a storia. Lasciare gl’inutili, sa ogni scrittore che ha pensato intimamente la sua materia: e di quelli, che re- stano nel sistema della narrazione, alcuni possono domandare in- vestigazioni recondite a poter essere razionalmente dichiarati. La _ storia dei Greci e dei Romani rappresentava e facea conoscere la vita pubblica, le geste della nazione, gli ordini, i procedimenti | della civiltà secondochè alla costituzione di questa si convenisse. E come la qualità e la copia delle cose doveano esser degne di quel suo uflicio, così la ragione, ch’ella dovesse darne, non po- tea non essere accomodata a quella loro natura. Noi ora l’abbia- mo allargata, quanta è l’ampiezza di tutte le cose umane; im- perocchè il Cristianesimo non facendo distinzione fra uomo e uomo, e consacrando il lavoro, ha rigenerato la vita e fatto sor- gere una nuova istoria. Per questa maggior larghezza, anche alla ragione istorica son cresciuti spazio e difficoltà per ogni investi- gazione di cause. Le forze della natura che ci obbediscono, e tutta la parte istromentale di questa nostra civiltà industre e mer- cantile, ond’ è sì grande la produzione delle cose utili, e inesti- mabile la complicatezza degl’interessi, rendono quelle difficoltà, dirò così, più difficili. Nè radicalmente le cessa, ristringere il campo della narrazione, scegliere un particolare argomento. Per- DELLA FILOSOFIA DELLA STORIA 565 chè ogni oggetto storico, tratto da questa nostra vita, vien par- tecipe del general valore di essa, nè, fuori di quel sistema che gli diè origine, può esser compreso. Ma districare tutta questa selva non è bisogno a questo nostro ragionatore di cause, le cui parole hanno un perpetuo commentario nella coscienza dei leggitori contemporanei, ed ai futuri possono essere illustrate da moltis- sime altre memorie che la stampa conserva. A lui si appartiene discorrere queste cause quanto debba bastare a spiegare i fatti ch'egli racconta, e allo scopo da essolui inteso nel raccontarli. Laonde si raccoglie che la ragione dovendo servire ai fatti, non può esercitare sopra di essi tale autorità, che da questa sua si- gnoria risulti la forma specifica alle istorie, di che quì parliamo. Anzi cotal forma procede da quella dipendenza e convenienza — che ha la ragione con le cose, semplicemente ordinata a dichia- rarle. Che s' ella assolutamente sovrastasse, già saremmo nel terzo grado della nostra scala dialettica. Trovata questa nota specifica, abbiamo anche scoperto la proporzione fra la possibilità etiologica nella storia e la possibi- lità razionale nella natura. Perchè se di questa trovammo il prin- cipio in quello della causalità effettrice, interpretata secondo che le singole cose domandassero, non escludemmo, anzi pre- supponemmo sempre il loro ordine naturale, ma senza attribuirne la cognizione sistematica allo spirito. E nella storia i fatti essendo "ora norma alla investigazione delle cause, e le cause trovate re- golando la veduta dello storico nella considerazione dei fatti, indi risulta fra questi e quelle una necessaria contemperanza che determina questa seconda forma e la sua proporzione dialettica con la possibilità razionale nell’ interpretazione della natura. L'arte del narratore, anche quando non ha trasceso i termini del primo grado, e segue l’ordine fenomenico delle cose, pur dee provvedere a se stessa con certi argomenti, i quali non bisogna- Vano alla esecuzione di quelle. Conciossiachè non si contemplino quì gli oggetti per semplicemente intenderli com’essi furono fuori 066 UNA FORMOLA LOGICA di noi; ma si prendano a materia, che lo spirito debba conve- nevolmente trattare ed informare sicchè acquisti letteraria esi- stenza nel libro. Non cessa un popolo di esercitare in casa i civili uffici per guerre che combatta al di fuori; e può nel tempo stesso a gran distanze di luoghi compiere operazioni degnissi- me che se ne conservi memoria. Ma se lo storico vede con l’occhio spiritale tutti questi oggetti che contemporaneamente gli appariscono nello spazio, non può rappresentarli nella storia con parola che si adegui a questa veduta dell'intelletto. Il perchè dovendo dire in più tempi quello che intervenne in un solo, provvede a questo bisogno con le sue arti, e accomoda l'ordine delle cose alla ragione del suo discorso. Alla quale, troppo più che nella prima forma istorica, necessariamente serve nella seconda. Gli operatori sparsi in molti luoghi, hanno cia- scuno individua persona, e proprio valore, e privati interessi: ma v è anche l’interesse della patria comune, vi sono i comuni consigli, il comune scopo, la coordinazione de’ mezzi, il consen- timento dei moti, la suprema direzione di tutte le forze. Cosie- chè lo storico trova sempre qua e là certi centri, nei quali ha. principio l'attuazione delle cause, e da ultimo si raccoglie la somma degli effetti diversi. E trovato Vl’ ordine delle cause, quante bastino a spiegare i fatti ch’ egli vuol raccontare, fonda in quello il sistema della sua narrazione, distribuendo la sua materia per parti e luoghi e tempi razionalmente opportuni. Che. s'egli è solo a narrare di fronte a moltissimi che furono ad ope- rare, anche le cose che già si stavano qua e là divise nella va= stità dello spazio e nella successione degli anni, ritornano a congiunzione nella sua mente; e incontrandosi e ripercuoten- dosi e mostrando tutti i loro aspetti ed intimi valori in questo. punto unico, che in se le agita e le comprende, gli rivelano molta sostanza loro e vicendevoli legami che giacquero ignoti alle per- sone stesse che le eseguirono. Proporzionate le cause ai fatti, @ intesi e compartiti i fatti secondo la ragione e l’ordine delle DELLA FILOSOFIA DELLA STORIA 567 cause, egli in questa sintesi ideale ha preparato alla sua materia la possibilità logica cioè la nuova forma, a che la inalzerà nella storia. Ma da questo al terzo grado grande è l'intervallo: perchè l’idea scientifica sovrasta per se stessa ad ogni circoscrizione di tempi e di luoghi, come quella che è necessaria, universale, ed eterna; e quì la libertà dello storico, frenata tra le cause ed i fatti, può solamente trascorrere a distribuirne i certi tempi ed i certi luoghi secondochè meglio domandi la certa razionalità del racconto. Laonde si raccoglie che spiegare è fatti non importa filoso- fia della storia, ove altri non rechi questa spiegazione alle leggi generali e costanti della vita, e a sistema scientifico. Quanto la | materia è più vasta, di tanto certamente si allarga quella libertà di ragionamento allo scrittore; il quale, dovendo stringere in ‘un pensiero tutte le cose che si apparecchia a percorrere, vede ‘crescersi in proporzione della moltiplicità loro le intime fila ra- zionali della tela che intesse. Ma come queste cose furono ope- tate da alcuni uomini che potevano anche non esistere, e occu- parono per poco un determinato luogo nello spazio, così le ra- gioni e cause loro quì non hanno un valore che si stenda oltre que’ limiti. Vero è peraltro che la grandezza della materia è mi- sura alla razionalità della storia non solo per la moltiplicità de’ fatti, ma principalmente per la qualità loro, e per la quan- itità e nature delle persone. Chè là ove la presenza dell’uma- Dità è meno difettiva, ivi la legge dello spirito più manifesta della sua eternità nella vita. Però dalla biografia alla storia universale allargasi il discorso de’ narratori come il processo della natura dall’uomo all'umanità; e giunto a questa, prelude spontaneamente alla scienza. Al che l’ordine evolutivo della | letteratura istorica rende bella e necessaria testimonianza. Dopo | l'epoca di Alessandro, dopo certi, più presto presagi, che | scarsi esempi di alcuni scrittori greci, Polibio è il primo, che, 568 UNA FORMOLA LOGICA aiutato ed ammaestrato dalle cose, dia opera nel mondo pagano ad una storia universale; idea la cui possibile generazione è romana. E quando il cristianesimo promulgò il domma della cognata umanità, rimosse tutti i confini alla veduta dello storico e trasmutò la scienza in un fatto. Imperocchè la costante per- fezione della legge e la mutabilità delle cose umane, la dottrina e l'esempio furono così congiunti nella civiltà de’ popoli rigene- rati, che dovesse tornar difficile farne la storia senza scientifica ragione. Ma invece impedirono o ritardarono questo effetto la difficoltà di adeguare la vita alla sublimità della legge, e le parti di quella dottrina che alla mente dei mortali si restano impene-. trabili. E contuttociò lo storico di questi popoli ha perpetua- mente innanzi un elemento scientifico, ch’egli possa adoperare siccome un fatto. Distinguere ad una ad una tutte le storie di questo secondo genere, non è nostro ufficio. Ad ogni punto che trascorra la li- nea che sale dal primo grado al secondo, può lo scrittore tro- var luogo all’ uso della sua arte; può moltiplicare le varietà di questa seconda forma combinando le ragioni che corrono fra quelle altezze intermedie. E quasi tutte le opere istoriche ap- partengono a questo genere molteplice, che si rimane essenzial= | mente uno nella forma logica, fondamento e misura alla possibi- | lità etiologica delle cose che nell’ordine della narrazione insieme. si congiungono. Etopee, concioni, discussioni deliberative, consi- , gli sono argomenti più o meno opportunamente adoprati a chia-. rire questa possibilita etiologica de’ fatti, o che riducono a razio- nalità retorica l'elemento poetico che vedemmo talvolta pre- dominare nella prima forma, introdottovi da natura. O se l’au- tore, senza rappresentazione drammatica, discorre pacatamente in persona propria le cause delle azioni e degli eventi, e spiega le origini, gl’incrementi, le mutazioni, le ruine, i risorgimenti delle civiltà; anch'egli, così ragionando, mostra le possibilità e necessità segrete del corso apparente delle cose, e con logica DELLA FILOSOFIA DELLA STORIA 569 virtù più severa ci distacca dalle anguste circoscrizioni di questi oggetti sensibili, e ce li fa valutare e comprendere nella dedu- zione delle connesse idee. Mostrasi intera questa seconda for- ma quando a nessun fatto manca la sua spiegazione; tutte le | spiegazioni son vere, e, lasciate dallo storico, son date dalle cose; e dalle cose e dallo storico ci viene un ‘ordine di cogni- zioni che abbia principio, mezzo e fine, cioè costanza e sufli- cienza in se stesso. Di che risulta che la giusta integrità e bel- lezza di questa forma può veramente essere espressa nella storia generale di un popolo civile ed illustre. Quì il vivere umano fa spettacolo di tutto l’ esercizio delle sue forze; e quì tutte le sue parti avendo corpo e sistema, si rendono lume -a vicenda, e dalla mente di colui che le abbia profondamente comprese discorrono in una narrazione, che, fondatasi nella loro costituzione organi- a ne imita drammaticamente il movimento dinamico e l’esplica- zione. Conversioni politiche dello stato, agricoltura, industrie, navigazioni, commerci, imprese militari, belle arti, lettere, scienze, religione di un popolo, chi le consideri ciascuna cosa da se, non finisce d’intenderle. E considerate insieme, rivelano allo storico le profonde cause dei loro prosperi o infelici successi, e gli fanno eleggere luoghi e tempi e materia secondochè meglio si convenga con queste ragioni organiche dei loro diversi proce- dimenti. Ma anche questa istoria generale necessariamente in- trecciandosi con quella di altri popoli par che desideri di non esserne separata. Dimodochè quella stessa legge cosmica che da un primo fatto umano ci condusse a tutta l'umanità, ci conduce ora dalla storia di una nazione, fuori della quale non potrebbe ‘intendersi quella di un uomo solo, alla storia universale. Oltre î cui termini operazione umana più non si trova; e la quale, però che tutto contiene, è capace di tutta la perfezione possi- bile a questa seconda forma, e non la diresti inferiore all'altezza dell'idea scientifica. Ma quì occorrono alcune considerazioni Opportune. di si 370 UNA FORMOLA LOGICA La vita dell'umanità essendo ordinata ad un degno fine, e procedendo verso di esso con certe sue leggi, offre in tutti i suoi andamenti all’osservatore una serie di fatti, che abbiano la loro necessaria e suprema ragione in quel fine ed in queste leggi. Ma a poter vedere questa ragione bisogna conoscere quel provido ordinamento di vita: e lo storico, il quale non abbia mente ad intenderlo, o non si applichi ad interpretarlo, narra i fatti che son pieni di questa sapienza organica e la lascia chiusa sotto le loro ombre fermando l’intelletto nelle cause più o meno par- ticolari, ond’ essi procedono. Potrebbe, anche restandosi al di | sotto di queste alte contemplazioni, da tante cose, che diversa- mente mostrano l'identità dell’umana natura, raccoglierne le ragioni comuni, scoprirvi un ordine segreto o una general ten- denza a cosiffalto sistema, avvicmarsi all’ idea scientifica. Ma quì neppure sarebbe assai l’intendimento e l’opera dello stori — co. Perchè nella vita nostra le destinazioni cosmiche furono mi- ‘ rabilmente contemperate con la libertà delle individue persone; _ Ja quale, come di rado conformasi con esattezza alle preordina- zioni ed ai fini eterni, così non procede nel tempo con una re- gola che abbia la costanza e la perpetuità necessarie alla scien- za. Quindi tutta la copia delle cose intervenute, nè tutta la serie i X LI seninai delle cause, ragionate dentro i termini positivi di ciò che fu, non bastano a dar valore scientifico alla storia universale finch' ella non si levi alle leggi cosmiche, alle possibilità e cause univer- sali, alle ragioni anteriori ad ogni fatto particolare e presenti sempre per tutto. Che se nel processo del vivere umano queste leggi eterne fra molte obliquità ed aberrazioni e contrasti pur. si manifestano ed hanno effetto, niuno dirà che questo effetto sia pieno finchè l’umanità è in via e però non giunta al fine già destinato. Per la quale imperfezione anco la storia universa- le, unicamente contemplata ne’ fatti e nelle cause loro, è neces- sariamente al di quà della sua pienezza scientifica. La più bella, la più fruttuosa, la più magnifica, la più _ DELLA FILOSOFIA DELLA STORIA 571 necessaria istoria di tutte è certamente la romana. Prima una città: poi l’Italia, l'Europa, l'Affrica e l'Asia. E l’interna espli- cazione degli ordini politici e di tutta la civiltà, combattuta, robustamente lenta, come quella di una pianta vigorosissima, e simile di grandezza alle lotte esterne, al corso trionfale delle conquiste, alla signoria del mondo. Prima il mondo pagano: poi quello cristiano. E tutto il passato congiunto con tutto il futuro dell'umanità. Chè là dove le cose mancano, ivi è la pre- senza necessaria dell’Idea; dove l’uomo non vorrebbe andare, ivi Iddio già era e lo aspetta. Pertanto, checchè in questo grado di pensamento istorico possa esser materia alle arti dello scrittore, è considerato secon- dochè mostrossi circoscritto ed ebbe processo nello spazio e nel tempo. E la determinazione delle cause ha perpetua misura dentro questi limiti; le quali furono precisamente quelle richie- ‘ste ad operare que’ certi effetti. La mente, discorritrice di tante cose e seguendone l’ordine etiologico, trovasi levata a signoreg- giarle, ne rauna le sparse ragioni, e le distribuisce nel sistema della narrazione con una sapienza giusta fra ciascuna parte ed - il tutto. Ma non arriva fino all'altezza scientifica. Imperocchè la possibilità razionale de’ fatti, ch’ella raccoglie dalla compren- sione sintetica di tutte le loro cause, quantunque sovrasti per la generalità sua a tutte le particolari limitazioni di que’ luoghi, di que’ tempi, di quegli uomini, di quelle azioni, di quelle isti- tuzioni, di quelle opinioni, di quegl’interessi, di quegli eventi, ciò nondimeno è pur sempre proporzionata alla somma loro, nè oltre siffatti termini si distende. Questa adunque è la forma lo- gica di questo secondo genere di storia: al paragone di questa idea vogliono essere giudicate quasi tutte le storie fino ad ora scritte e che tutto giorno si fanno. 572 UNA FORM@LA LOGICA Terza forma. Il volgo degli uomini dimora con tanta servitù d’intelletto nelle cose fra le quali agita abitualmente la vita, che, a staccarlo da queste consuete cose, a fargli subito trovar consistenza nelle idee generali, nei principii, nelle possibilità scientifiche, sarebbe necessaria una forza miracolosa. Privo di dottrina e quasi tutto nell’assiduo lavoro, quanti meno pensieri ha dentro di se, con inerzia tanto più cieca e confidente si aderisce a ciò che esterna- mente vede o è solito di operare; sicchè l’uso ch'egli fa del suo | spirito è una mobile rappresentazione di queste cose esterne mi- micamente eseguita e via via ritornevole. E questo volgo è di molti colori e numerosissimo. Ma nondimeno, movendosi sempre fra un tempo, che non è più, ed un futuro, che potrà o dovrà essere, e in mezzo ad oggetti, che incessabilmente si mutano, ferma anch'egli il rozzo intelletto in certe forme di possibilità | ideali, che sono il fondamento e la misura di tutta la sua logica modellatasi e discorrente sul mondo esteriore. Che vasto inter- vallo da queste forme, incostanti fra gli scontri e i cangiamenti delle cose e delle loro immagini, eppur positive, anguste, incon- sapevoli di se stesse, e le idee pure, immutabili, universali della. scienza! Le quali son così superiori a tutte le possibilità etio- logiche determinate alla misura dei fatti, che la storia universale con queste sole ragioni non le raggiunge. Noi adunque dall’uo- mo e dagli uomini certi, e che sensibilmente appariscono nello spazio, passiamo ora all'uomo universale, che non si vede e che solo realmente sussiste, così in ciascuno di quelli, come in tutti i loro simili: passiamo alle possibilità generalmente necessarie, | aus ti mteii alle leggi, alle ragioni, che valgono per ogni persona ed in ogni tempo ed in ogni luogo: insomma, a ciò che intrinsecamente è proprio dell’umana natura. E se tutte le cose che mai racconti la storia, ragionate con la dialettica del secondo grado, non pos- DELLA FILOSOFIA DELLA STORH 575 sono mai venire a intera forma scientifica; la logica, che in questo terzo vuol essere adoperata, necessariamente aspira a tro- vare in ciascun fatto un valore scientifico. Ma quì le difficoltà da molte parti ci stringono: e noi ora dobbiam mostrare come questa forma scientifica possa avere esecuzione nella storia. Vedemmo, la legge della natura umana esser doppia: affet- tiva e razionale; fatale ed accettabile. Onde l’uomo, quasi posto in mezzo a questi due imperi, dovrebbe conciliarne le ragioni nella sapiente armonia della vita. S'egli adempisse costantemente il suo arduo ufficio, conformerebbe le azioni ‘ad una norma buona eternamente per tutti, c però mostrerebbe in esse il valore di un principio scientifico. Ma anche le azioni sue che si dilungano da questa norma, hanno la loro legge, che è quella massima- mente affettiva ed istintiva; la quale, comecchè in ciascun uomo diversamente operi, pur non si aliena mai da se stessa. Adunque, dall'uno e dall’altro suo aspetto la natura umana, principio di tutte le cose narrate dall’istoria, riscontrasi con l’idea scienti- fica: e quest'idea, applicata alla storia, dovrà aver con essa quelle medesime congiunzioni e convenienza, che la legge, la quale con duplice impero governa la natura umana, ha con le operazioni degli uomini. . i Da ciò si comprende perchè la storia non possa nè debba essere assolutamente una scienza pura, e si comincia a vedere ‘come e quanto possa e debba parteciparne. Il capitano che in- cita con animosi detti i soldati a combattere contro l’inimico, nella storia è sempre un uomo certo, che ha nome ora Scipione, ora Cesare, ora Pompeo: e la sua orazione è un fatto appro- priato a certe opportunità e circostanze, le quali bastano a farlo comprendere senza confonderlo mai con un altro di questo ge- mere. Ma principio comune a questo e a tutti gli altri fatti con- generi è la potenza della parola, che dal petto dei prodi esce ardente nella fiamma dell’eroismo, e la trasfonde in tutte le anime capaci ad esercitarlo. Il qual principio sovrastando a tutte 074 UNA FORMOLA LOGICA le singole persone, luoghi e tempi determinati, dura univer- sale quanto l'umana natura; e chi lo consideri per rispetto a tutti i fatti di questo genere, vi trova la possibilità originaria, della quale essi furono e saranno la diversa consumazione. Vero è che, tolte le singole persone umane, anche quel principio ir- reparabilmente sparisce. Ma ugualmente egli è vero, che senza questo elemento essenziale l’umana natura non sarebbe intera, il quale, fra tutte le rinnovazioni della vita, e le diversità dei costumi, indeffettibilmente rimane. Laonde come fu necessario alla piena formazione dell’uomo, così è sempre anteriore agli effetti che uomo possa operare usando le proprie forze, e sempre A presente ed attivo alla produzione di quelli che gli si debbono — attribuire. Pertanto non v'ha cosa, non v’'ha fenomeno, per lieve i; ed accidentale che sembri, che non sia indizio di leggi e cause 5 generali e permanenti, e che però non possa essere scientifica» — mente valutato. Rappresentatevi nel pensiero un mondo senza distinzione di corpi, senza moto, senza produzione di effetti. Ec- covi una massa inanimata ed inerte. Provate a rappresentarvelo 4 con le sue parti e leggi e forze, ma senza effetti. E sentirete la stoltezza, la contradizione, l'impossibilità profonda di questa vostra rappresentazione. Cosicchè posto il sistema dinamico del mondo, sono insieme presupposti gli effetti per necessità inevi-. tabile: e come quelle forze e cause e leggi hann' ordine gene- rale e costante, così questi effetti son l’ordinata esecuzione della virtualità cosmica contenuta in quel sistema fin da principio. Se‘ considerando i fenomeni vi state contenti alle immediate cagio- ni, se ne circoscrivete il processo esecutore dentro i limiti della forma particolare che ne risulta, insomma se vedete la cosa pre- sente, divisa dalle altre, mutabile e transitoria, e non la cosa nell'Ordine e preparata e governata da quelle che non si can- giano; voi non intendete il linguaggio cosmico, non sapete co- me la vita universale prenda atto nella figura che vi viene ine nanzi, nè quello che importi quest’ atto alla vita universale, DELLA FILOSOFIA DELLA STORIA S75 quanto è concesso ad uomo d’ interpretarla. Adunque per la legge eterna, onde la sussistenza della Forza necessita la possi- bilità e la produzione dell’Effetto, non v'ha cosa operata che non abbia un valore organico al sistema dell'universo; e le opera- zioni libere hanno in questa loro libertà l’antecedente prepara- zione, che le congiunge con l'ordine universale. Imperocchè l’uo- mo debb’ essere il sublime autore della verace sua libertà; ma già questa era preparata nella costituzione di lui, ed egli nel continuo corso del vivere si fonda sempre in questo fatto ante- riore, cosmicamente congiunto col sistema organico della natura tutta quanta. Pertanto, lo storico che pose il piede spiritale, se così posso esprimermi, sul terzo grado della scala dialettica, non osserva più le cose come soleva fare nei gradi inferiori. Ha su- perato le tenebre che si opponevano a vedere lo spazio degli anni eterni, e quì contempla il fatto umano germogliante da quelle radici che non inaridiscono mai. La battaglia di Marengo fu guerreggiata in luogo, e in un tempo e fra uomini che non si possono confonder con altri: ma i destini che furon vinti in quel grandissimo fatto avevano tanto valore, che anche gli sto- rici che non s'inalzano all'idea scientifica, anche i volgari chiac- chieratori degli umani avvenimenti sono ammaestrati da una profonda necessità, alla quale stupidamente servono, a conside- rarlo e giudicarlo in una latitudine ideale che abbia proporzione con la grandezza e copia delle cause e con quelle degli effetti. Parlerò altrove dello spazio e del tempo secondo la convenienza cosmica delle ragioni loro subiettive ed obiettive. Quì basti il considerare che più lo spirito penetra nella natura, nelle potenze, nella genesi di una cosa, più vede allargarglisi i termini di luogo e di tempo nei quali già l’ebbe osservata, e via via condurlo al- l’immensità. Nè eiò vuol dire che anche quella cosa gli debba andare in dileguo. Vuol dire ch’ella è connessa con le cose tutte | nel sistema del mondo; e che a poterne veramente determinare 576 UNA FORMOLA LOGICA il particolar valore bisogna comprenderne quello generale: vuol dire che coloro i quali solamente risguardano al primo, e che si arrogano con presunzione stolta il vanto di giudicar bene le cose perchè si fondano nella loro solidità materiale, sono i più inde- gni di ragionarne: vuol dire che ogni fatto storico ha una scien- j tifica importanza o può essere valutato secondo una ragione scientifica, dal cui conoscimento ed uso procede la forma della quale ora parleremo. 4 Tucidide, che, scrivendo la storia della guerra Peloponne- siaca, dal presente spettacolo delle discordie e calamità greche s’inalza col sapiente intelletto a una legge della natura umana, che debba valere in ogni simile condizione di vita, e per questa idea universale e costante vuole che la sua narrazione sia un documento eterno ai popoli ed agli stati; Tucidide certamente accenna con questo suo intendimento ad una storia che abbia scientifica ragione. E il Machiavelli, acutissimo osservatore e profondissimo ragionatore politico, ricavando regole generali dai fatti e trasformando l’esperienza in dottrina, supera anch'egli i confini dei pensamenti volgari, e leva seco la storia alla dignità della scienza. Anzi egli fa lavoro troppo più alto di quello dello storico greco. Il quale pone con severa brevità il suo principio. scientifico; ma senza applicazione dommatica, senza dedurne i sistema organico, la forma interna ed esterna della sua opera: e segue il corso degli avvenimenti con monotona servilità. Lad- dove il Segretario fiorentino signoreggia ne’ suoi Discorsi i fatti. con la ragione, e così fa servire la storia alla scienza. Poi nè l’uno nè l’altro non estendono la loro veduta fino all'idea esem- plare della vita, e procedendo con questi concetti difettivi e simamente attendono alla parte men generosa della legge umana: quantunque Tucidide, migliore in questo del Machiavelli, con dannando i disordini greci mentrechè gli reea alla universalis sima e ritornevole loro cagione, nobilmente mostri. di rispet= tare la sovranità della legge morale. Ma Senofonte nella, suà | DELLA FILOSOFIA DELLA STORIA 377 Ciropedia prima pone l'ordine fondamentale delle cose secondo l'ottima forma del vivere: poi ne segue il processo storico, che ha la sua ragione e spiegazione in quell’ Idea della civiltà persiana e nella conforme educazione del principe, il quale ne dee mo- strare l'efficacia ed esprimerne la bellezza operando. E Polibio in tutte le conquiste e nella signoria universale del più gran popolo della terra vede il premio dovuto all'ottima costituzione - della città romana; che però è l’idea scientifica, ragione a tutte le cose istoricamente raccontate. Ma questi esempi son tuttavia scarsi alla perfezione di questa forma. — Ogni uomo contiene in se quello che immuta- bilmente e generalmente è proprio della essenza di tutti, e quello che lo fa singolare dagli altri; ond’egli non eseguisce azione, il cui valore non si congiunga con tutte le altre cose che sono sue in quanto ha persona propria, e con le leggi e con l’or- dine dell’umana natura. Ed ogni corpo politico, ogni nazione contiene più o meno gli elementi essenziali ed immutabili della civiltà, ed umanità comune, e le sue particolari istituzioni, le sue forze, e le forme e l’atto della vita suoi propri. Sicchè cia- scuna sua operazione ha un valore circoscritto di tempo e di luogo, di mezzi, d’intendimenti, di effetto, ed un valore gene- ralissimo, il quale da una parte si congiunge con tutto l’ordine della sua propria vita, dall’altra con la sostanza della civiltà ed Umanità comuni. In questo terzo grado della nostra scala lo sto- tico essendo condizionato a vedere le cause e le potenze che non patiscono angustie di limiti, ma che si stendono libere, conti- nue, perseveranti per la generalità del vivere umano, deve an- che narrare i fatti che meglio abbiano proporzione con quelle. Non che le possibilità etiologiche conosciute nei gradi sottoposti bastino sole per se ad inalzarlo a questa veduta. Deve acqui- Starla con altre arti e studi: penetrare nelle segrete e diflicilis- sime cose: far tesoro di gran dottrina. Ma senza quell’anterior | cognizione di fatti e di cause egli non potrebbe avanzare a sì 48 378 UNA FORMOLA LOGICA arduo lavoro di spirito; le quali però gli furono necessaria con- dizione a vedere questo nuovo sole della verità che senza tempo — risplende. Le idee scientifiche, nelle quali fonda tutto il suo di- scorso, risguardando a principii, a leggi, a forze, a cagioni che perpetuamente durano, per necessità precedono sempre ad ogni cosa ch’ egli descriva. Ma non avendo elle applicazione per lui fuori di questi fatti, che son materia alle sue narrazioni, e nei quali vennero a determinazione distinta, indi è manifesto il ne- cessario congiungimento della verità scientifica con la verità isto- rica, e il modo e il punto col quale, e nel quale si effettua. Senza questa individuazione delle verità generali sparirebbe la storia, rimarrebbe solo la scienza. E dovendo l’una starsi con l’altra, sì fattamente che l’idea storica serva, la scientifica regni, era bisogno che questa, la quale per se medesima sovrasta a tutti i confini, si mostrasse appropriata a terre, a secoli, a genti, a istituti, a forme, a interessi determinati e che non vogliono esser confusi con altri. Al che Senofonte pensando, individuò l'ottima idea, ch’ egli seppe concepire della civiltà umana, negli ordini costumanze di Persia con licenza forse troppo poetica. Onde “non si dee così mescolare la verità scientifica con quella istori- | ca, che l’una non si possa distinguer bene dall'altra, o malage- volmente si possa, e ch’ elle vicendevolmente si offendano. Ciò posto, ritengasi sempre che fra tutti i gradi di questa nostra scala v' ha continuità di processo, sicchè quello che ne- gl’inferiori fu consumato così nei superiori non si perde, come fu preparazione a salirli; e che da questi più alti si può discendere meglio disciplinati a rioccupare i più bassi. Il perchè, quando lo storico potè collocarsi sopra il terzo, già conosceva tutte le. cose umane quante nel primo grado se ne dovessero semplice- mente raccontare, e tutte le cagioni loro investigate nel secondo. E per la stessa ragione coloro, che or vorranno leggere le sue opere, debbono essere convenevolmente apparecchiati ad inten- derle con le cognizioni acquistate nei libri, scritti secondo le lasciali DELLA FILOSOFIA DELLA STORIA 379 altre due forme. Ciò era necessario, perchè se l’idea scientifica dovesse applicarsi e dimostrarsi per ogni fatto, quanti ne ha già narrati e spiegati la storia, il lavoro sarebbe fastidiosissimo e in- terminabile. Ma l'essenza di questa idea essendo similissima alla forma pura dell’eterno, distende le sue ragioni per tanta am- piezza, che moltissime cose son necessarie a testimoniarla; ed ella così le penetra e le concilia, e ne raccoglie i valori in uno, . che ne ristringe la moltiplicità a poca sostanza, e di questa mas- simamente si compiace, e lascia volentieri che nei sottoposti gradi se ne ritrovino le certe e copiose testimonianze. Quindi il discorso dello storico presuppone questo riducimento della sua materia a quelle sole parti, che dovettero in se conchiudere il valore di tutte le altre scientificamente ragionate : e questi ele- menti storici così ristretti, son poi dalla stessa scientifica ragione ordinati nella forma che dobbiam dire. E primieramente si consideri, che alla integrità di questa forma par che richiedasi almeno la storia di un popolo. L'uomo, quantunque grande e a grandi uffici collocato, ha facoltà limitate, tempo breve ad usarle, nè in tutti i loro usi può venire a uguale eccellenza. Ma la vita dei popoli è immortale o lunghissima: si | differenzia per innumerevoli nature e si esercita per tutte le loro | forze: comprende tutti gl’interessi: esprime con sufficiente figura | Rumanità. Conquistatori, ordinatori di stati, uomini insomma | che governarono i destini di una o più nazioni, non hanno altra storia da quella delle genti alle quali imperarono. E questa istoria o somministra tutti gli elementi richiesti a un sistematico @ pieno ordine, che esprima l’idea scientifica della vita uma- na; 0 a cosiffatta ragione intera debbono essere, comecchè scar- sì, sostanzialmente ragguagliati quegli elementi. Imperocchè lo scrittore, che movesi ad applicarla, sorge in tempi nei quali la dottrina delle cose umane aggiunse a maturità virile. Sicchè laddove i fatti son difettivi per rispetto alla pienezza di questa dottrina, per questa sola se ne conosce il difetto, e solo con 380 UNA FORMOLA LOGICA questa possono essere sapientemente estimati. Nè le nuoce, sella abbia sempre una proporzione istorica con la coltura ge- nerale del secolo nel quale sia professata, e se però non le suc- ceda di essere così perfetta, che in lei quietino le menti come nella verità assoluta. Anch’ essa dee progredire con le altre co- gnizioni umane: basta che in ogni tempo abbia dignità e natura scientifica. Lo scrittore adunque che la trasse dalle ragioni eterne delle cose e che si giovò, a comprovarla, di molta umana esperienza, sa benissimo per quali convenienze o disconvenienze possa esser misura e criterio agli oggetti che debbono esserle pro- va monumentale. E trova in lei il principio organico, col quale egli disponga, e divida, e ordini la materia istorica, che esprima nell’accomodata forma le sue intime analogie con quel principio scientifico. Prime vengono le istituzioni, considerate secondo le loro proprietà sostanziali e conseguenti congiunzioni nell'ordine | necessario della città, aeciocchè l'ottima idea sia ragione del fatto: indi, il processo della vita nazionale, recato al necessario sistema delle forze consociate, acciocchè manifesti le verità o le assurdità che contiene, e dia origine a un andamento di storia scientificamente composto. Se l’autore non estende il suo divi- samento a tutta la vita di un popolo, già avrà veduto anco della parte che ne tolse a trattare il giusto luogo ch’ ella occupa nel sistema da cui egli la separava, già l'avrà giudicata fra gli altri membri di questo corpo sociale, e di quì tratto le norme a ben. condurre la sua opera. Se poi abbraccia con vasto concetto tutte le parti organiche, tutta l’esplicazione dinamica della civiltà e della vita di un popolo, per questa maggior pienezza del suo lavoro l’idea e le cose potranno meglio corrispondersi di ragione e di prove, e la scienza più felicemente entrare nella ‘capacità della storia. I fatti umani, figliuoli dello spirito, ch’ è forma di verità universale, erano per natura loro disposti a rendere que- sta forma sublime. Onde lo storico non imprime con potente arbitrio il segno ideale in una materia avversa o indifferente a DELLA FILOSOFIA DELLA STORIA 581 ‘riceverlo; ma trova 0 presuppone fuori di se un @ priori, se non sempre reale, sempre possibile, il quale egli debba attemperare nelle fedeli armonie del discorso con l’altro in che ragionando si fondi. L'organismo del corpo politico e l’identità dell’umana natura contengono necessariamente il principio dell’unità supre- ma; a che ogni cosa debba avere riferimento. Del che se non vorrai porre l'esplicita dottrina, farai la storica esposizione con sì accorta dissimulazione di sapienza, che altri debba poterla rac- cogliere dalle ragioni delle cose, e da tutto l'ordine del raccon- to. Le storie di questo genere essendo quelle de’ fatti più co- spicui, più sintetici, più sostanziali, debbono rappresentare il corso della dialettica divina nel dramma dell'umano incivilimen- to. Si vuol conoscere l'educazione e l’uso delle forze: la società che prepara gli ordini dello stato,:e lo stato che governa bene 0 male la società: le cognizioni pratiche ei beni materiali e le virtù che si aiutano o nimichevolmente si offendono: la vita che si trasforma in idea nelle rappresentazioni letterarie ed artistiche: la sapienza che termina i moti del dinamismo sociale, e che da questa cima ritorna a migliorarlo con autorità iniziatrice: la reli- gione che apre e chiude i massimi cicli della civiltà: insomma tutte le vie dello spirito, che tra il mondo esterno ed interno dell'umanità congregata compie con certe leggi i suoi destini nel mondo. ‘© Ben s'intende che senza la cognizione di queste leggi sa- rebbe nulla dell’esprimere cotal forma d’istoria. La quale sarà giunta a gran perfezione, quando altri l’avrà fatta essere la sto- ria giuridica del viver civile de’ popoli. Imperocchè già vedemmo che l’ordine teleologico sostanzialmente si conchiude in quello giuridico. Quanto i moderni istorici dell'umano incivilimento si accostino a questa forma o se ne dilunghino, lascio che altri lo giudichi: solamente non ometterò di dire che l’Italia già fu posta su questa via dalla sapienza del Vico. Ma verrà tempo che le | istituzioni politiche proporzionate al mirabile accrescimento delle 582 UNA FORMOLA LOGICA potenze umane e sempre più degne degl’intendimenti dell’On- nipotenza creatrice, e l’evoluzione dinamica dell’umanità fattasi meglio manifesta secondo le sue necessità organiche, agevole- ranno i concetti degli scrittori verso la perfezione di queste isto- rie. La città divina e quella umana non vennero ancora a quel- l’armoniosa cooperazione a che furono destinate: e l’industria, le leggi, le lettere, le scienze, la religione, ogni cosa aspettano sintesi istoriche, nelle quali ciascuna occupi il luogo che le fu assegnato dalla Sapienza eterna, e sia paragone al fatto suo pro- prio nella realità della vita. L’autore che così organicamente congiunga la scienza con la storia, non distruggerà i differenti aspetti delle cose, quasi co- stringendole ad una sembianza uniforme. Serberà ad ogni popolo e ad ogni età il suo costume ed i suoi colori, applicando l’idea scientifica secondo che fosse possibile ad eseguire. Che se i fatti, non dico di una sola nazione, ma anche di tutte, sono scarsi a perfettamente testimoniarla finchè l’umanità tuttavia procede al | prefisso segno, non per questo ella è meno assoluta in se stessa. Onde, posta a principio di unità organica nella composizione del | libro, logicamente impera a tutte le cose che vi son discorse, e ne riduce le ragioni particolari alla necessità delle sue ragioni generali, com’ elle nella vita furono o potevano essere l’argo- mento effettuale di una legge, che sotto certe condizioni vi si espresse, o che poteva esservi individuata ed espressa. Imperoc- chè questa legge dello spirito, autore de’ fatti umani, essendo legge di libertà, la quale, quando è verace, concordasi con la mo- rale necessità del dovere, e, quando è fallace, accusa la necessità della natura irrazionale, anco l’idea scientifica che vi risguarda _ dovea dimostrarne l’essenza. Ma nell’uno o nell’altro caso una necessità, una legge, un principio è in relazione cosmica (quan- tunque non anche avvertita) coi fatti che ne discendono, o che vi s'inalzano per modellarvisi ed eseguirlo; i quali, prima di es- sere consumati, erano una possibilità nelle preordinazioni e coor- \ DELLA FILOSOFIA DELLA STORIA 085 dinazioni delle vite individue e di quella generale: quando ve- niano consumati esprimevano quella necessità, o norme: e dopo la consumazione loro sono appresi dallo spettatore sapiente come una possibilità effettuata, e giudicati alla misura di que’ principii. Nel libro poi, in cui tutto procede secondo una prima disposi- | zione di dottrine organiche, generali, costanti, i fatti, o per me- ri o glio dire, le idee dei fatti, che indi seguano nella narrazione istorica, come debbono essere riferite quelle ragioni scientifiche, così hanno in esse la legge, o necessità comune della loro possibi- lità logica, la quale diversamente mostrano determinata via via che, le une alle altre succedendo, si collegano nel corpo e nel- l'andamento dell’opera. Ed or può notarsi la proporzione fra questa forma e il terzo grado della scala dialettica. Un sistema di cose naturali ha leggi che vi si adempiono per fatalità inalterabile, quantun- que gli effetti, in ch’elle appariscono, perpetuamente non duri- no: e l'ordine delle cognizioni, che vi risguarda, scientificamente aspira alla stessa immutabilità perpetua, quantunque possa esser distrutto da altri che salgano posteriormente in onore. Ma nel- l’uomo per la duplicità delle sostanze che lo costituiscono, la . legge del vivere, obietto dell’idea scientifica, parte ha esecu- zione necessaria, parte si rimane non adempiuta. Onde allo sto- rico, che in questa idea faccia il suo fondamento, si appartiene di compiere un doppio ufficio, discorrendo le cose operate se- condo il loro ordine necessario, e alzando la mente a quelle che si fossero dovute e potute fare. Cosicchè quelle norme di ‘moralità e di giustizia, quel tipo del bene, quella perfezione possibile, che sempre accompagnano il vivere umano come lam- pi fuggitivi e ritornevoli, egli, da opinioni sparse e difettive che pur si fossero, dee rintegrarli nel domma scientifico, che sia lume permanente con distribuzione giusta per tutto il libro. E questa possibilità di perfezione, logicamente effettuata a fondare îl sistema organico della storia, misura la superiorità della scien- 584 UNA FORMOLA LOGICA za del mondo morale su quella del mondo fisico, ed esprime la proporzione cosmica fra il terzo grado della scala dialettica e questa forma istorica. Imperocchè l’uomo è natura tanto intrin- secamente e generalmente dominata dalla parte migliore di que- sta legge, che non solo chi non vi facesse attenzione non po- trebbe concepire l’idea scientifica della vita, ma, attendendovi bene, vede gravitare tutte le forze e interessi umani da questo lato, ed ha profondi argomenti a intimamente conoscerne l’or- dine necessario, e quindi a ragionarne con ottimo senno. » Ma restano a determinare due condizioni, senza le quali la storia di un popolo, che abbiam detto essere materia sufliciente a degnamente stamparvi il segno ideale di questa forma, non potrebbe renderlo. E l’una è nell'evoluzione del viver civile di ciascuna nazione; l’altra nelle relazioni giuridiche ch’elle abbian fra loro: l'una, interna; l’altra, esterna. Come il formarsi, il cre- scere a perfezione, il deperire, il dissolversi dei nostri corpi si effettua con certe leggi inalterabili; così interviene delle civiltà de’ popoli. De’ quali niuno potrebbe intender le storie, che non movesse dalle prime origini, non ne seguitasse l'incremento, le mutazioni, e non sapesse se questi cangiamenti debbano anch’es- sere corruzioni o ritorni di barbarie inevitabili, o possano com- piersi per certi cicli di civiltà che continuamente si allarghino. Chi scrivesse la storia di un grand’ uomo alla ragione di questa terza forma, applicherebbe l’eterna idea della perfezione perso- nale a questa vita individua seguitando le proporzioni perpetue fra il necessario processo della natura e quello dell’arte umana, fra ciò che l’uomo realmente fece e quello che avesse dovuto e potuto fare. E come non potrebbe comprenderla fuori della s0- cietà e del secolo, ai quali il suo personaggio appartenne, così dovrebbe circoscriverla dentro i termini irrevocabilmente posti dalla Natura. Ma la vita delle nazioni che persevera fra l’indi- viduo ed il genere par destinata all’immortalità: onde lo storico che la partisse per certe età corrispondenti a quelle delle vite né DELLA FILOSOFIA DELLA STORIA 585 | particolari, dovrebbe aver trovato in questa distribuzione di cose il processo organico che lo spirito fatalmente ripete in tutte le sostanziali trasformazioni dell'umano ‘incivilimento. Altramente farebbe opera inetta. Ma per quanta estensione discorra i tempi di un corpo sociale, egli trova sempre certi termini necessari, dentro i quali l’idea scientifica abbia intera determinazione e | testimonianza. Lo che non avrebbe effetto se anche la seconda delle due condizioni che dicemmo non fosse adempiuta; cioè s’ egli non volgesse l’occhio alle congiunzioni di questo con altri corpi politici. Nè io parlo di congiunzioni valutate unicamente secondo la legge dell’utile; parlo delle congiunzioni giuridiche, e di quella legge del giusto che, non discordandosi mai da se stessa, si at- tempera a tutte le esigenze ed opportunità dei sociali interessi e li fa giudicare alla misura dell’utilità universale. Però la vita di È ogni popolo vuol essere studiata e contemplata in quel sistema più largo di civiltà comune, che basti a scientificamente spiegarne il L processo dinamico in se, e l’atto sociale con gli altri popoli. E così le leggi generali ed immutabili si mostreranno adempiute in un ordine convenevole di effetti, che tanto è a dire quanto che la possibilità logica delle cose raccontate avrà continuo fonda- mento nella necessità radicale dell'idea scientifica. i Quarta ed ultima forma. I fatti, sensibilmente osservati secondochè di mano a mano appariscano nello spazio e nel tempo, e narrati con arti acco- modate a quella loro apparizione sensibile, son grado necessario | alla mente che debba recarsi a investigarne e determinarne le ‘| «cause. Le cause scoperte levano la mente al di là dei fatti em- | piricamente appresi, e con questa anteriorità di veduta la con- | dlizionano a ordinarne i tempi, e distribuirne i luoghi secondo || Pagioni più sostanziali, e ad interpretarli razionalmente dentro «| «questi termini, ma con un progresso che via via conchiude i 49 086 UNA FORMOLA LOGICA valori di molti in pochi, e gli sparsi e infiniti particolari riduce alle generalità reali, alle potenze organiche così naturali come ar- tificiali, e fino alle leggi loro, ma non sistematicamente contem- . plate. E per fermo un ordine politico, una regola civile, una via di commerci son cose particolari, chi le consideri ciascheduna in se, e generalissime per rispetto agli elementi di che son composte, alle operazioni che vi si conformano e agli effetti che ne deriva- no. Le potenze e le /eggi, naturalmente date, e artificiosamente poste, dell’uomo con se e con gli altri, di un corpo sociale con se, e delle nazioni e degli stafi fra loro, inalzano lo spirito a una regione più pura, nella quale egli trovi l'ordine delle verità immortali della scienza e dalla quale scopra i fatti degni di questa luminosa speculazione. Qual sarà il passaggio che dall'idea scien- | tifica or faremo alla filosofica, termine supremo in che dovesse posarsi tutta l’ardua fatica di questo nostro discorso? Abbiamo veduto che l’ascendimento di forma in forma istorica fondasi nelle necessità native, onde sostanzialmente si | effettua il processo dialettico dell'umano pensiero: il quale se giunto ad un grado della sua scala può compiervi in molti modi l'operazione che ad esso specificamente è dovuta; se, dopo esser salito ai superiori, può ridiscendere agl’ inferiori ed usarvi le sue arti con più felice magistero, non vuol esser giudicato da queste possibilità ‘estrinseche ed accidentali per rispetto a quel suo ascendimento di grado in grado. Imperocchè ciascuno di questi nella vita dello spirito è una possibilità, che debba com- piersi in una operazione specifica secondo una necessità preor= dinata: e scoprire la via onde queste necessità primamente ven= gono a consumazione e forma, era mostrare il processo organico di tutta la dialettica della letteratura istorica, e dichiarare la dottrina contenuta nella posizione della nostra formola. Scrivere la storia di tutte le cose umane non importa necessità d’ idea essenzialmente scientifica: e chi asseverasse, che venire a que- sta nel terzo grado assolutamente presuppone il conoscimento DELLA FILOSOFIA DELLA STORIA 587 di tutte quelle cose, direbbe impossibile quella forma scientifica finchè non cessi l'umanità sulla terra. V°ha in questi concetti un lume di verità profonda, che domanda occhi molto esercitati ad esser pienamente veduta. Perchè se la storia universale prelude naturalmente alla scienza, la scienza, quantunque intesa a costante immutabilità, pur sempre avanza a maggior perfezione; e noi fra poco dimostreremo, il fatto e l’idea essere ugualmente necessari ‘alla forma filosofica, nella quale ha perfezionamento quella scientifica. La natura umana e gli elementi essenziali dell’inci- vilimento rimanendo per tutto gli stessi fra le infinite diversità delle persone e degli stati, levano l’intelletto che vi contempli, \ ai grandi veri, al cui necessario stabilimento non bisogna il te- stimonio di altre diversità. Però l'universalità dell'idea scienti- O fica, a che primamente si giunga nel terzo grado, è fondata nella necessità sua logicamente intesa nella immutabilità dell’ obietto. | Il quale conferirà senza dubbio a perfezionarla, sempre più ri- velando del suo interno valore nella moltiplicità delle cose, ma gia nell’atto del pensiero scientificamente si manifesta. Quindi le dottrine della vita, più o meno ben sapute dagli uomini, e che nel sottoposto grado fossero sparsamente ‘applicate dallo | storico secondochè opportunità richiedesse, nel terzo trovarono | connessione nella necessità che le fa credere eterne ed univer- i sali, e con intendimento sistematico furono organicamente appli» cate. Ma come questa loro universalità era anzi presunta, che | comprovata, e più presto concepita che ritrovata, così l’idea | scientifica, circoscritta in quelle certe cose ch’ ella ordinò e di- | chiarò recandone la possibilità alle sue ragioni necessarie, quasi | lasciava una parte di se nelle tenebre naturalmente disposta a | wenire in luce. «Se lo spirito obbedisce a queste leggi in questi personaggi | istorici, e nella civiltà di questi popoli di chio ragiono, per fermo | in persone di ugual natura, in civiltà procedenti da simili prin- | cipj, ea simili fini indirizzate, per mutare di uomini, nè di tem- 088 UNA FORMOLA LOGICA pi, nè di luoghi, non si alienerà mai da se stesso. Ma se i fatti esistono a comprovare queste mie conclusioni, non dovrò io di questa testimonianza certa avvalorarle? Se questa nazione non è la sola, non è la prima di tutte le altre; come potrò io non segui- tarne le congiunzioni con le altre, come non accostarmi alle ori- gini da cui tutte comunemente derivarono? O forsechè queste origini loro furono elle differenti? Se l’umana natura in se, se il dinamismo civile de’ popoli, in separate condizioni posti, proce- dono per queste vie, che saranno essi, ehe furono essi realmente nel mondo delle nazioni? E che è questo mondo delle nazioni, che è lo spirito umano nel sistema dinamico dell’ universo?... Sente subito chi ha fior d’intelletto, che a queste intime interro- gazioni e questioni diviene necessariamente colui, il quale siasi inalzato nel terzo grado all’idea scientifica della istoria. E que- stioni cosiffatte come prorompono da quella idea, così chiara- mente dimostrano; lei essere la condizione dialettica a poter salire fino all’idea filosofica. 1 Nè altri opponga, che siffatte questioni stavansi tanto 0 quanto contenute nel principio dal quale logicamente risultano; perchè lo starvi imperfette è poco alla scienza; lo starvi impli=. cite, meno, 0 vicinissimo al nulla. E l'assunzione fatta di quel principio scientifico istoricamente prova la verità che diciamo, se già lo applicavano gli scrittori primachè fra tutte le nazioni. fosse aperta la via, e quando le tradizioni primitive giacevansi alterate e in lunga dimenticanza e di cotali questioni essi non si accorgevano o non ne vedevano la ragione sintetica. Nè ch'egli realmente e idealmente è imperfetto: perchè ogni scienza sul primo suo nascere non vanta mai una maggior perfezione, ed egli appunto l’aspetta dall'idea filosofica, alla quale primamente. introduce, e da cui secondamente gli viene quella pienezza di dottrina, che non si divide mai da se stessa per ogni uso o cir= coscrizione che se ne faccia. Noi adunque giungemmo a quella sommità ideale, ove l’uo= DELLA FILOSOFIA DELLA STORIA 589 mo universale ed invisibile all'occhio del corpo ci apparisce vivo alla mente nell’umanità tutta quanta; ove l’umanità e lo spirito, che vi si agita in un gran sistema dinamico, sono un grandissimo elemento nella vita generale del mondo; ove il più sfuggevole fatto umano, ed ogni ragione istorica ci si mostrano indissolu- bilmente congiunti con tutti i fatti, e con tutte le ragioni per una cosmica necessità primordiale che è l'autrice e fondatrice organica della filosofia della storia. Discorrete col veloce pensiero tutte le umane cose onde abbiate notizia, o che possiate mai immaginare. Ciascuna pre- suppone la persona, alla quale appartenga: ogni persona ha forze corporee e spiritali, adopera con certe leggi, è partecipe della specifica forma dell’uomo. Sia pure l’intendimento vostro di considerare la cosa in quanto ella vi dà dimostrazione di se e di Si alla singolar persona che ne sia stata esecutrice, sen- | za por mente nè alle recondite cagioni, nè a quelle forze, nè a ‘ quelle leggi, nè a quella forma comune di tutti gli uomini. Così volgarmente fate: ma per queste vostre astrazioni, (al volgo sembrano concretezze salde) non cessano in verità di esservi presenti tutte le altre cose che nella considerazione vostra fu- rono trascurate. Il perchè una medesima operazione umana può esser da voi osservata o contemplata dal primo, dal secondo, o dal terzo grado della nostra scala, secondochè mutiate divisamento, ed ella sempre vi offre aspetti degni del vostro sguardo, e senza discontinuità, nè alterazione sostanziale. Ascesi all’ultimo grado, nè la sua forma sensibile, nè quella psicologica, nè l’uomo indivi- duo, nè quello universale più non vi bastano. Voi tuttociò con- giungerete con la legge cosmica, onde la natura umana è un ele- | mento organico nel sistema dell’universo: e ben vedete che senza | questo fatto primitivo ed integrale, onde l’uomo è necessario nella presente costituzione del mondo, nessunissimo umano fenomeno apparirebbe nella capacità dello spazio. Adunque, in ogni fatto appartenente alla nostra vita, e sia pure accidentale e lievissimo, 590 UNA FORMOLA LOGICA questa cosmica necessità organicamente, sostanzialmente, inevita- bilmente vige; necessità seconda, necessità posta e non increata, ma necessità effettuale e costante, se prima l'universo mondo non si dissolva e sia distrutta l’umana generazione. E allora non vi sarà certamente più luogo a parlare di filosofia della storia. Ma finchè il presente ordine di tutte cose perseveri, quella ne- cessità organica, effettuale ed universale comunicherà ad ogni cosa nostra un valore cosmicamente profondo, che la congiunga con tutte le altre provenienti dalla umana natura. Cosicchè il più barbaro e superstizioso uso dell’ignorata America era anticipa- tamente collegato dalle mani invisibili di questa necessità o di- vina provvidenza con quelli della civile Europa: e il più fievole suono di voce, e sola una fuggitiva parola, nei giudizi di questa dialettica cosmica equivale alla creazione ed all’ esistenza di tutta l'umanità. Questo adunque è il legame universale, che, quasi uscendo dalle viscere del mondo, ebbe strinto occultamente a sistema le cose umane molto innanzi ch’ elle si scontrassero insieme e si congiungessero..Le quali così procedendo adempivano quel fato antico, di che ciascuna era partecipe. E di quì move la filosofia a rifare la logica della istoria; non distruggendo, ma perfezionando ne’ suoi sintetici concetti tutte le ragioni fino a questo termine investigate e sillogizzate: e quì il fatto umano scopresi degno di quella logica. Imperocchè egli divenendo allora nella mente del pensatore il preordinato testimonio dei principj organici e delle leggi generali da cui radicalmente proviene, 0 sistematicamente dipende, mette fuori la necessaria eloquenza che in lui taceva, e rivela la sapienza eterna giù nel tempo eseguita. Divisato prima nelle anime, e poi operato dalle forze corporee, fu dallo storico pri- ma sensibilmente raccolto, e poi attribuito alle sue interne ed anteriori cagioni. Onde i tempi della letteratura istorica comin- ciano con un ordine contrario al processo evolutivo della vita, ma per conformarsi a questo e là finalmente compiere la confor- | È è —— T n DELLA FILOSOFIA DELLA STORIA 591 mità loro, ove scienza e vita hanno comuni origini. Pertanto tutte le cose umane essendo interpretate secondo il loro valore cosmico non perdono gli anni, nè i luoghi nei quali furono con- sumate, nè son tolte alle persone che le eseguirono: ma con di- versa nota concordemente esprimono la virtualità primitiva del- l’uomo eternamente preparato, e in questa idea, in che le con- templa insieme il filosofo, son coeve di verità necessaria. E il filosofo che studiandole ad una ad una ne conobbe i varii ordi- ni, procedimenti, e ragioni intime, e connessioni generali, e sistemi, trova ora la primordiale necessità che cosmicamente le collega, e veggendo conciliato da essa il generale col particolare, l’esperienza con la ragione, il reale con l’ideale, quì si ferma come sopra salda base, e fra il tempo e l'eterno contempla Dio nell’umanità, e la scienza dell’umanità nella storia. n Di che conseguita, così essere impossibile pienamente e | profondamente intendere le cose umane senza questa filosofia, come, senza quelle cose, lei medesima non poter sussistere. Ch° ella professa dottrine, le quali certamente non sono istoria; ma le cercò tra i fatti che la storia racconta. Sovrasta ad essi con l'eterna veduta; ma i principj in ch’ella si fonda, risguar- dano alle fonti cosmiche, onde la vita umana ebbe discorri- mento nel tempo. E con la necessità delle sue ragioni universali ‘abbracciando tutte le storie delle nazioni e quella dell'umanità già narrate, e spiegate nei tre gradi inferiori, e rendendo anco gli ultimi effetti alle cause prime, parifica l’a posteriori coll’ a priori nella reciproca identità tra il fatto e l’idea, e chiude il cir- colo della scienza. Ma queste dottrine fondamentali avranno lume dalle conse- guenti, alle quali ora discenderemo. La legge cosmica, che ne- cessita l'universalità delle cose e delle ragioni, è il principio gene- ratore di questa quarta ed ultima forma istorica, a cui però non bastano le nazioni, ma è degna materia la vita dell’umanità. E venute tutte le cose umane nella ragione della storia, anco la 592 UNA FORMOLA LOGICA necessità cosmica, che al più piccolo fatto attribuiva universalità di valore, è sodisfatta; perocchè abbia ottenuto nel tutto quel che facea presupporre o argomentare anco dalle menome parti. Le quali se oggimai debbono essere contemplate secondochè ri- chiegga l’idea filosofica, non però il debbono a preferenza delle altre maggiori e del tutto col quale stanno congiunte, ma in proporzione della loro importanza in questo universal sistema di cose. Laonde si scopre con qual temperamento voglia applicarsi il principio logico di questa filosofia. L’universalità non più es- sendo una possibilità preordinata, ma un fatto, cioè tutte le cose umane intervenute, anco il principio che la necessita debbe pro- porzionare la sua autorità alla ragione di questo fatto che tutti in se li raccoglie, non di quella possibilità, o di piccoli fatti sparsi. | Vero è che neppure tutte le cose, quante possa in ogni tempo abbracciarne con la cognizione uno storico, non corrispondono mai con pienezza alla universalità loro organicamente preparata nel principio dal quale procedono. Perchè, come già notammo, | umanità è tuttavia esecutrice della virtualità che le fu eterna- mente sortita. Ma l’idea filosofica supplisce al difetto delle cose, la quale dee concordarsi di valore ontologico col principio cosmico in ch’ella si fonda. Quindi l’opera dello scrittore comincia con- formando tutta la copia dei fatti umani alla misura di quella idea fondamentale, e cercando in essi e fra essi quelle ragioni più sostanziali e necessarie e perpetue che meglio si convengano , con l'universalità de’ suoi intendimenti. Non ha più confini an-. gusti che lo ritengano: scorre con l'occhio dello spirito sopra una estensione spaziosissima: e vede tutti i legami, tutti i rispetti, tutti gli ordini delle operazioni umane. Compensa i mali di un secolo coi beni di un altro: spiega la vita di una nazione con le vicende di molte; le sorti delle civiltà particolari, l'educazione del genere umano, le stoltezze degli uomini con la provvidenza divina; tutte le storie particolari con quella universale, e questa con quelle. Conciossiachè egli debba ridurre la sua materia alla DELLA FILOSOFIA DELLA STORIA 395 scientifica unità del principio assunto, ma non facendole violen- za, non alterandola dalla sua natura con prepotenza di ragione dommatica. Il fatto e l’idea in questo sistema nostro necessa- riamente concordano, quando l'artefice della forma è sostanzial- mente lo stesso che fu produttore della materia. Ma coloro, i quali non seppero vedere nel fatto la sua importanza scientifica, corrompono la verità istorica con l’idealità filosofica, interpre- tando arbitrariamente le cose umane a comprovare i loro ipote- tici sistemi. Questa logica, di che ora mostriamo i procedimenti e che da | noi è professata, avendo ricondotto le umane cose tutte quante | alle loro origini e leggi cosmiche dopo averle intimamente per- serutate e dichiarate al di sotto di questa sommità razionale, ben | possedeva gli argomenti richiesti alla universalità di que’ supe- # principj, la cui presenza necessaria indi sa vedere in ogni fatto particolare. Ella usa in questo supremo grado con ordine @ con pienezza scientifica le cognizioni, in che le traluceva inter- rotto e adombrato il lume della verità eterna: non le ripudia | con disprezzo stolto. Passare dalle diverse forme del mal mo- rale alla questione delle sue origini e perfezionarne la dottrina con la teodicea, non vale imparare a conoscere le turpitudini ‘umane. Provare la credibilità della genuina tradizione religiosa anche con l’assurdità delle religioni false, non implica igno- ranza di quella tradizione vera. O se di ciò non vuol parlare il filosofo (e certamente deve), dirà egli inutile o insussistente la dottrina della civiltà ch'egli avea dedotto dalle ragioni delle ‘| cose prima di comparare tutte le civiltà fra loro, prima di con- N templarvi l'esecuzione di un’ idea divina o di una preparazione | cosmica? Tutte le parti adunque dell'umanità, già sparsamente considerate, rendevano suoni, nei quali fosse divisa e dispersa l'armonia del tutto. Ora quest’armonia si rintegra, e profonda- mente risuona nei concetti e nelle parole dello scrittore. | In questo gran teatro, in che si mostrano le nazioni per | | 50 394 UNA FORMOLA LOGICA essere giudicate dai sapienti spettatori, ciascuna dee far vedere quello che abbia fatto per la vita dell'umanità. Di quì sintetica- mente le osservano i loro giudici: fino a questo centro logico debbono giungere i loro valori e ragioni istoriche. Ma quello che non vi giunge, fu preparazione, fu aiuto, fu condizione a pervenirvi: educazione di uomini, formazione di stati, interessi locali, e certe produzioni, e guerre, ed ogni altra cosa non trascorrente oltre brevi confini, e non conducente ad effetti du- revoli, eppur non inutile, quantunque da lontano, al bene uni- versale. Altre potevano anche non essere o furono semplice- mente ritardo, impedimento o distruzione di beni; insomma abuso di libertà, schiavitù della mente, ignoranza e malvagità. Le quali, come sono presenti per tutto, così non vogliono dalla filosofia della storia essere trascurate, ma recate alla necessità organica, 0 provido ordinamento dell’ antagonismo dinamico per. tutto il processo della vita umanitaria. Chè il difetto, la dismi- sura, la negazione inevitabilmente entrano là dove la perfezione non è da natura, ma per acquisto; non una prerogativa, ma un dovere. E senza questo elemento negativo sì, ma cosmicamente. valutabile, la logica di questa filosofia sarebbe manchevole. Così da una parte ella riguarda al bene positivamente operato; dal l’altra, alla inerzia, alle fallacie, alle opposizioni, ai mali: e que- sti considera quanto basti a pienamente comprendere l’esercizio delle forze; quello, a comprendere il miglioramento progressivo; e l’uno e gli altri, la consumazione dei destini dell’umanità. Onde Ì soltanto ciò che necessariamente resta e universalmente può va- lere a continuo incremento del nostro viver comune, costituisce la propria e verace materia in ch’ ella debba imprimere ed espri- mere la sua istorica forma: il resto, che per le altre istorie è già noto, fondamentalmente lo presuppone, o suflicientemente il discorre a trarne fuori quella materia universale, argomento € testimonio alle sue conclusioni. Non che il dramma dinamico de’ vari popoli non debba essere istoricamente e secondo i suoi DELLA FILOSOFIA DELLA STORIA 59% tempi seguitato a mostrar l’opera di ciascheduno in quello gene- rale dell'umanità: ma questa vuol essere l’unico protagonista vero sulla grande scena del mondo. Prima, annunziato, intrave- duto, preparato: poi, sempre più presente ed operativo. Spetta- colo in verità magnifico, e degno che Dio medesimo vi si contem- pli! Questo altissimo dramma rivela in tutto il suo movimento le vie tenute dallo spirito a eseguir la sua legge chiuso in circoscri- zioni corporee, agitandosi fra i corpi, e lottando sempre e trion- fando, vago di libertà. Rivela le nuove potenze che nella conso- ciazione delle forze primitive via via si aggiungono alla vita: e l’azione dell'idea che via via trasmuta le cose umane e le perfe- ziona. Le generazioni passano: restano le arti, le scienze, gli or- dini, le memorie della civiltà, gli esempi. E il mondo ideale in cui si trasforma, in cui rimane quello della realità materiale, — perpetuamente si riversa, e si divide, e s' incarna, e si accresce nel campo dell’applicazione, e poi si rintegra dalla moltiplicità ritornando all’unità nello spazio eterno, ove s'imparadisano gl’in- telletti. Il principio organico, onde move tutta questa evoluzione dinamica dell'umanità, il fine cosmico al quale providamente sia indirizzata, e le leggi costanti e generali con che si eseguisce, sono le tre grandi basi logiche di questa filosofia della storia, che avendo conciliato insieme l’a priori e l'a posteriori, imita i procedimenti della dialettica divina e scopre in tutte le circola- zioni della natura la presenza dell'Ente. Ma però che quel fine ‘era già inteso nelle preordinazioni organiche, e di quì vengono lle leggi necessarie a condurre tutta l'esecuzione della vita, chiara cosa è, que’ fondamenti logici ridursi ad una idea cosmicamente prima, da cui dipenda la possibilità filosofica di tutte le cose col- legate nell’ordine del discorso, e la forma sostanziale di cosiffatto genere di storie. La luce a poter vedere questo principio organico esce dai più reconditi penetrali della sapienza; onde par convenevole che a coloro i quali edificarono un sistema filosofico massimamente 396 UNA FORMOLA LOGICA si appartenga il possedimento e l’uso di tal principio. Ma l’am- bizione speculativa mal si cangerebbe in un privilegio o in un dritto: e l’amore di novità vuol sempre temperarsi o concordarsi con quello del vero. La filosofia che tutto abbraccia co’ suoi con- cetti, che tutto reca alla ragione di un principio unico, genero- samente serve alle necessità razionali dello spirito, ma forse oblia con bella presunzione i limiti posti alle cognizioni umane. V” ha certamente un Principio unico del sapere, come vi debb” essere delle cose: determinarne assolutamente l'essenza, circoscriverlo in una idea intera, usarlo con vero dritto scientifico nella inter- pretazione dell’ordine cosmico, vedemmo essere disperata im- presa. Alla filosofia della storia basta il conoscere che il cosmo dell’ umanità sulla terra è opera della Mente; che fra questa forza ordinatrice del mondo delle nazioni, e quella ordinatrice. del mondo intellettuale è identità di sostanza; che a farne il principio organico, di che quì si ragiona, uopo è trascenderne tutta l'evoluzione effettuata nel tempo, inalzarsi alle leggi eterne, congiungerlo quanto meglio si possa con gli elementi dell’Ordine universale, coi disegni della provvida Onnipotenza, e con questa | anteriorità di cause far che si riscontri tutta la posteriorità degli effetti. Ma giovi inculcarlo bene: chi vola a questa cima sull’ala di una idea assoluta e concepita @ priori, obliandone ovvero ignorandone la genesi ed il valore, pone quel suo concetto in luogo dell'entità reale, e si argomenta indarno con vaneggia- menti sublimi. La sapienza filosofica, che noi proponiamo al- l’Italia, ontologicamente si fonda nella costituzione del mondo divinamente governato, ed ha una proporzione cosmica col posto. e cogli uffici a che fu sortito lo spirito umano nel dinamismo della vita universale. Adunque, elevare il fatto storico al grado di possibilità filo- sofica è contemplare e spiegare, quanto sia lecito a mente sa- na, la storia dell'umanità nel sistema dell’universo, dopo averla studiata e interpretata nelle cose tutte che la costituiscono; che DELLA FILOSOFIA DELLA STORIA 397 è la verace via a rettamente filosofare. E qual che siasi l’idea nella quale si ordini il nostro edificio storico, ella potè essere degno principio perchè fu legittimo fine, cioè necessaria conclu- sione di tutte le ricerche fatte nei gradi inferiori. Ha lo spirito le sue leggi, e filosofando esercita un proprio suo privilegio; il quale peraltro era anticipatamente messo in armonia con le leggi della natura. Sicchè fra l'adempimento di quel suo ufficio e i costanti ordini delle cose dee sempre avverarsi la necessaria cor- rispondenza. Salito per la scala dei fatti al di sopra di essi, egli ne vede la possibilità cosmicamente preparata, la quale via via si effettua nei procedimenti dell’umanità secondochè necessità e li- bertà movano le forze all’operazione. Nè questa possibilità uni- versale, concetto puro della ragione, che antecede a tutte le azioni che uomini eseguiscano, semplicemente risguarda alla | virtualità umanitaria considerata nel principio organico che la costituì generalmente con l’umana natura nel mondo: ella così è presente in ciascun uomo, come nella costituzione di ciascuno di noi è la possibilità vitale di tutte le sue azioni: ella è nelle leggi di questa nostra natura partecipatesi fra tutti: e fa trovare al filosofo in queste ripetizioni e moltiplicazioni dell’uomo non | nato, ma creato, le seconde immagini di quel principio, nella cui Tagione universale ed eterna egli ricongiunga tutte quelle sparse possibilità, e vi scopra l'ordine dei fatti indissolubilmente uniti in quello delle forze esecutrici che riproducendosi si conservano. La scienza della natura dee poter provare la verità obiet- tiva delle sue dottrine. La scienza delle cose umane è necessa- Fio argomento a provare la verità di quelle della natura: e la filosofia della storia, congiungendo le cose umane con tutte le altre del mondo, perfeziona le idee, così dell'una, come dell’altra scienza, che anch’ elle son materia alle sue considerazioni; e sovrastando a tutte le province dello scibile, comparte o alterna il suo regno con la storia della filosofia, e fra il passato e il futuro illumina le vie, e quasi è scorta ai fati dell’ umanità che sì avanza. 598 UNA FORMOLA LOGICA S. VII Conclusione: e degli studi istorici nell’ Italia. Scrivendo questo mio opuscolo quasi mi nascea pentimento di avergli applicato il titolo di Formola: ma la stampa venia fermando le mie parole di mano a mano ch'io le avessi scritte; sicchè il pentirsi era tardi. Non già che mi cogliesse una subita avversione verso quel nome, o ch'io sentissi di non averlo potuto usare: non ch'io non ami, e non ammiri, quant’altri mai, il for- tissimo Ingegno che ha dato all'Italia una sua Formola filosofica: ma l’accennare anche coi nomi a quello che altri abbia fatto, non | fu mai il mio vizio nè il mio piacere, e questa volta mi trovai imitatore d’una voce quasi senza volerlo. Nel carnevale del 1844 parlai dalla catedra di questa mia logica della storia, e le ne- cessità o ragioni del discorso mi fecero usurpatore di quel voca- bolo. Promisi fino da quel tempo che avrei consegnato alle ita- i liane lettere quelle idee da me ragionando esposte, e nell'Aprile | del 1845 brevemente le scrissi. Ed in lavoro breve e fatto prin= _ cipalmente pei giovani, mi pareva che quel titolo potessi lasciar= lo. Ma ora che da quel primo imperfettissimo lavoro è nato quest'altro, non mi so bene se più imperfetto, ma certamente | fatto per uomini maturi, e certissimamente più lungo, provo un certo mio proprio rammarico di non potervi mutare il titolo, nè altro compenso trovo a questa impossibilità, se non quello di ve» der gastigato dal caso quel mio antico ed ostinatissimo bisogno di andar sempre da me e solo in tutti i miei studi. Eccomi adunque, mio malgrado, autore di una formola: e î di formola lasciata e ripresa, e scritta a frammenti secondochè l’incerta salute lo permettesse, e stampata (siamo ora al 18 Gen- najo 1846) uscente appena dalla mia penna. Qual ch’ ella sia, non vo’ abbandonarla alle discrezioni altrui senza rivolgerle pri DELLA FILOSOFIA DELLA STORIA 399 ma un mio ultimo sguardo, sicchè gl’intendimenti avuti nel con- cepirla e nell’esporla io medesimo debba sapere di aver pale- sato în effetto. L'idea pura della necessità assoluta, che seco involve quella dell'Ente eterno, è l’ultima, nella quale, percorrendo amalitica- mente tutto se stesso, e potendo, anche tutta la natura, debba fermarsi lo spirito; e quindi la prima, con la quale sinteticamente debba ordinare la scienza. Ma vedere la necessità assoluta del- l’Ente non equivale a conoscerlo: e tuttociò che esiste al di quà di esso e dell’assoluta necessità ch'egli sia, come non aveva radi- calmente in se la ragion sufficiente di quella esistenza, così da principio non era altro che una possibilità; e chiamato ad esiste- re, fu una possibilità effettuata. Chi altramente pensi dee far valere la legge della necessità assoluta per tutti gli ordini delle cose, e sapere spiegare cosmicamente la libertà umana, che in questa sua dottrina sarebbe impossibile a mantenere. Tutto adunque che non è JEnte eterno, fu eternamente possibile; e condizione richiesta a comprendere come fu fatto, è cercare que- sta possibilità organica nel sistema della natura che in se la ri- pete. Però le cose fatte, intimamente s'intendono: dell’increato non si può ragionare se non per gli effetti. La nostra formola ‘adunque, che move dal fatto infimo per inalzarsi fino alla possi- bilità suprema del mondo conoscibile, è la necessaria espressione della legge cosmica onde V’eterno si manifesta nel tempo. Imperoc- chè senza possibilità non vi sarebbe moto, nè vita, nè corpi di- stinti, nè le connessioni loro: ma tutto sarebbe già consumato nell'unità dell'Ente assoluto e nell’irrevocabile eternità. Pertan- to, così l’ordine di natura, come quello delle cognizioni umane si deducono tra i fatti e le possibilità continue (quel che sieno queste possibilità nelle cose già lo dimostrammo) sotto l’ impero di una necessità seconda o ipotetica 0 contingente, ma necessità; la quale, originandosi dalla prima, vale sostanzialmente mella co- stituzione del mondo e ne reca all’atto la virtualità universale. 400 UNA FORMOLA LOGICA Quindi ogni possibilità che abbia esecuzione, partecipa media- tamente del suggello eterno, quando ogni processo dinamico, quantunque volontario, ha le certe sue leggi, e compiendosi, ne- cessariamente si compie. Sicchè anche la libertà in necessità si trasforma (7). Con questo principio organico ci apparecchiammo a fon- dare la nostra logica, e quindi la nuova e verace ontologia della istoria. Nostro intendimento era conciliare l’ esperienza con la ragione, e mostrare la intrinseca corrispondenza fra l’idea e la cosa dichiarando la potenza scientifica del fatto nella vita del- l’umanità. Quindi la nostra questione dialettica domandava una soluzione che si convenisse con quel nostro divisamento: e ser- bando questo suo special valore pur congiungevasi inevitabil- mente con quella di tutto lo scibile filosofico. Lo spirito adun- que, trovatore e possessore della scienza, ci appariva dapprima siccome quello che fosse cosmicamente naturato a possederla: poi, 1.° di fronte alle cose esterne e all’immenso Obietto mon- diale, 2.° nel mondo dell’umanità, 5.° nella storia che a lui si appartenesse ridurre sotto l'autorità della filosofia. Fra questi tre ordini di cose il legame è continuo e profondamente neces- sario; perocchè anche l’uomo, e con esso lui lo spirito che lo avviva, fa parte integrale del sistema dinamico del mondo, e fab- brica quello delle nazioni civili, ed è il narratore delle sue ope- re. Laonde una medesima legge, organica a quel sistema univer- sale, dee aver compimento per questi tre ordini con processo sempre più alto, la quale sia la ragione sostanziale della nostra dialettica, e ne ragguagli il corso a quello della dialettica divina nella vita e nel governamento dell'universo. Di fronte alle cose, lo spirito che sa di non averle fatte, ma che sa ugualmente di esser nato ad interpretarle, trova nella sua essenza o la {ransw stanziazione (ci si conceda l’uso di questa voce) della natura corporea nella natura intellettuale, operata dall’ Onnipotenza creatrice fin da principio, o l’espressione organica delle neces- DELLA FILOSOFIA DELLA STORIA 401 | sarie convenienze fra l’una e l’altra, eseguita e che tuttavia . sì eseguisce nelle sempre nuove creazioni di lui medesimo. Il perchè interpretando il mondo egli è condizionato ad effettuare la sua esplicazione dinamica: e compiuta con questa anche la sua logica evoluzione, egli subiettivamente è giunto fino all’idea, e il mondo obiettivamente gli si è aperto fino alla realità, filosofi- che. Determinare i gradi di questo processo intimo e sostanziale che sempre ritorna (imperocchè in esso si avvera la legge di che Tagionammo ) tanto era, quanto determinare le epoche eterne del pensiero: e noi che volevamo e dovevamo fondar dottrina universate, le considerammo nella vita dell'umanità, la cui ca- pacità scientifica indi fu essenzialmente misurata con la dialet- tica potenza di quella legge. Risoluto il primo problema per rispetto alle cose nella na- tura, ben potevasi applicar l'ingegno al secondo. Chè già nel | circolo, che perpetuamente si ripete tra le cose e lo spirito, ave- _vamo scoperto coevi l’a posteriori e l'a priori negl’intendimenti cosmici, conciliata l'esperienza con la ragione, renduto al fatto e all’idea la reciproca necessità che gli avvince. Adunque par- lando del fatto umano, materia delle narrazioni istoriche, pote- Vamo indifferentemente cominciare donde meglio ci piacesse, quando lo contemplavamo in quel disvelato circolo in cui la legge posta dall'Ente eterno configura temporalmente se stessa, mezza fra la materia e lo spirito. E noi ci collocammo fra le preordi- nazioni prime, e i fini provveduti nella costituzione del mondo, e da questo centro considerammo la materia istorica, cioè il fatto umano, fuori di ogni forma particolare di uomini e di na- zioni, d'ogni varietà o colore di luoghi, d’ogni consueta compu- tazione cronologica, ma semplicemente guardando alla terra ed alle epoche necessarie dell’umanità; lo considerammo, io dice- va, qual esecuzione pura delle leggi costanti dello spirito, che agita i suoi destini fra l'individuo ed il genere, e ne stabilimmo i ontologicamente la dialettica dottrina. Senza di che non avrem- 51 402 UNA FORMOLA LOGICA mo potuto legittimamente dichiarare l'ufficio di questa logica ra- gione nella filosofia della storia. L'idea dell’ eterno Vero, che già vedemmo terminare la disciplina o esplicazione razionale dello spirito umano nella interpretazione della natura, quì ci riapparve sulla cima del sistema dinamico di tutta la vita così per rispetto alla possibile perfezione delle persone individue, come per rispetto a quella de’ popoli e del genere umano. Lo che arguisce che nel mondo dell’ umanità l’idea vuol trasmu- tarsi în un fatto, come già nelle cose fu preparata alla scienza; che da esse la raccolga: e significa i ritorni della legge cosmica nel circolo in ch’ella sempre più largamente si confpie. Più bella nè calzante dimostrazione della nostra tesi non potea ve- nirci dalle necessità organiche degli oggetti che togliemmo a ragionare, nè con miglior notizia della virtualità scientifica del fatto umano potevamo recarci a fondare alla storia questa sua. logica. Ma quì avverta bene il savio leggitore, che nella contem- plazione del vero non ponevamo così assolutamente il termine” supremo dell’umano dinamismo, che ivi lo spirito dovesse arre- starsi. No; quello è il termine, oltre il quale non si può andare; ma da quella sommità è necessaria perpetuamente la discesa. Imperocchè nella verità si svolge, si edifica, si fa beata o ha. contentamento la vita; ma chi non la praticasse, sarebbe nulla di tutto questo edificamento e felicità. Lo spirito dalla materia torna all'idea, e dall'idea alla materia, a perfezionamento conti- ; nuo e di lui proprio e del mondo. Se il fatto nella vita dell'umanità era ordinato a convenevol= mente esprimere la suprema dignità dell'idea, a questa medesima sommità dovea naturalmente tendere ed essere sublimato nella storia dalla virtù della mente, moderatrice di quella vita, ed autrice di questa istoria. E questa fatalità dialettica la vedemmo indeclinabilmente adempiuta. Dalle prime forme istoriche fino all’altissima, la via è senza interruzione e necessaria. Nè, finchè non si giunga all'idea filosofica, s'intende bene il fatto, nè senza DELLA FILOSOFIA DELLA STORIA 405 il fatto ci sarebbe quella filosofia. Narrare tutte le cose umane torna impossibile. La moltiplicità immensa de’ particolari ristrin- gesi sempre in alcuni de’ principali e più cospicui, che conten- gano il valore di tutti e ne rendano sufficiente argomento. E così essi sensibilmente rappresentano i generi. Poi di mano a mano che dai fenomeni si passa alle cause ed alle leggi, la necessità logicale di questo ristringimento gradatamente si ac- cresce. La prima forma ci offre la pura immagine del dinamismo esterno della vita, la estrinsecazione, la sensibilità dell’idea. Pe- netriamo con la seconda sempre più nel dinamismo interiore, ma contenendoci al di quà delle leggi, o non applicandole con si- stematica ragione. Veggiamo cose che potevano anche non essere, o non cerchiamo s’ elle dovranno ritornare con questa medesi- mezza. Ma nella terza e nella quarta forma il fatto è contem- | plato nella natura umana, nelle potenze e nel sistema organico della civiltà, nelle preparazioni e ne’ fini della Ragione e Prov- videnza eterne. E l’idea nella storia corrisponde all'idea nelle cose. Ma di quanto le cose restano inferiori alla conosciuta al- tezza della legge cosmica nella vita, di tanto vi si conforma l’idea filosofica espressa nella storia. La quale però a quella sovrasta: siechè, ne' tre ordini che percorremmo, la natura, l'umanità, e le lettere narratrici della vita umana, la legge cosmica, la legge dello spirito, la legge dialettica espressa nella nostra formola via Via s'ingrada sempre più in alto, da ultimo adeguando il fatto, cioè il lavoro istorico, alla perfezione dell’idea. .Cosìnoirisolvemmo un problema appartenente alla dottrina della scienza, fondammo una dottrina delle cose umane, e ne fondammo un’altra a tutta la letteratura istorica congiungendone la necessaria dialettica con quella che perpetuamente regola l’esplicazione razionale del pensiero umanitario: e queste tre dottrine vedemmo dipendere da un comune principio. In ogni nazione, la cui civiltà e coltura abbiano indole propria e possano venire a maturità, gli scrittori percorreranno i gradi delle for- 404 UNA FORMOLA LOGICA me istoriche secondochè da noi sono stati determinati. E chi os- servi il migrare, e il posarsi, e i commerci de’ popoli, le tradi- zioni, misture, estinzioni, risorgimenti degli ordini politici, delle arti, delle industrie, delle cognizioni secondando al corso evo- lutivo dell'umanità, egli in tutta questa grand’ opera dell’edu- cazione universale che continuamente si adempie sotto il magi- stero della divina Provvidenza, trova la dialettica della storia proporzionarsi sempre a cosiffatto adempimento di vita e non dipartirsi mai dalla scala del suo graduale processo. In questo mio opuscolo io potea soltanto porre fondamenta | forse salde, schiuder vie non battute, stimolare possenti ingegni che nella Italia nostra rilevino dalla bassa loro condizione le disci- pline filosofiche. Alcun vocabolo nuovo usai con libertà necessa- ria, ma pudica: ed uomo che abbia senso squisito delle parsi- monie, ma lavori di seconda mano, potrebbe qua e là ristringere a brevità più sugosa quello che nella prima e calda compren- sione della verità immensa proruppe fuori senza studioso rispar- mio, 0 per le interruzioni dell’opera talvolta ritornò nei con- cetti. Ma in piccolo spazio credo di aver chiuso materia per molti e lunghi e fruttuosi pensieri, e spero anche che questi semi, accolti con amore dalla generazione nuova, verranno, quando che sia, a lieta messe. . Ì La spontanea chiarezza del discorso potrebbe talvolta im- pedire ch'io fossi pienamente inteso; la quale così fa correre senza considerazione molti leggitori, come le intime difficoltà. non superate da scrittori estrinsecamente forti levano i semplici a certa stupida opinione di profondità e di vigore intellettuale. E potrebbe anche falsificare i miei intendimenti ne’ concetti altrui Ja mia temperanza da ogni sistematica determinazione di linguaggio scientifico. Guardi acutamente chi legge alla natura delle cose ragionate, e penetrando bene nella sostanza e ordini. loro indi raccolga la riposta luce a circoscrivere i giusti sensi. delle parole. A me, se la vita nè la salute non mi manchino, si DELLA FILOSOFIA DELLA STORIA 405 appartiene ora di fare un’ analisi nuova dell’umano pensiero, e di tutti i suoi stromenti logici, e quindi movere alla sintesi or- | ganica delle mie dottrine filosofiche intorno alla scienza, all’arte, | alla vita, alla storia. Quel che fu leggermente indicato e comin- ciato nel primo di questi due opuscoli, dovrà allora essere inte- ramente dichiarato, e mantenuto di fronte all’idealismo ed allo scetticismo, e divenire a compiuta teoria del sapere (9). Vorrei frattanto che da questi primi cenni i desiderati effetti derivas- sero, e che l’Italia con moltiplicato ardore si levasse ad occu- pare i più alti seggi del regno intellettuale. Conosco le ritrosie ignave, le discipline molli e false, la verginità scientifica dei nostri conservatori ed accrescitori delle infeconde amenità lette- rarie: ma tempo era di scuotere questa boriosa inerzia, di for- marsi ai vasti e severi studi, di non darsi discepoli a scuole tede- sche nè inglesi nè francesi, di tornare ad essere quelli che fum- mo stati, e degni che altri ci osservino, c’imitino, ci raccontino. Quanto alle discipline storiche, dobbiamo grandemente congratulare a quella buona fortuna che or le fa coltivare con bella e fruttuosa emulazione e cospirazione d’ingegni e di fati- che. Cercare e pubblicare tutte le cose che tuttavia si giacciono sepolte negli archivi e nelle biblioteche, e che veramente im- portano incremento positivo di cognizione istorica; introdurre in tutta la storia una sintetica ragione che luminosamente la spie- ghi e scientificamente la congiunga con le più sublimi teorie: ecco le due somme ed opposte strade, che, ricorrendo sempre tra il fatto e l’idea, compiono il giro di questi studi, e vogliono essere con senno e perseveranza esercitate a perfezionarli. Ed io quì veggo una crescente frequenza di moti. Ma la curiosità de’ documenti inediti può facilmente degenerare in superfluità laboriosa e puerile; e la ragione filosofica non solo vuol essere Uguale all’ altezza della sapienza moderna, ma generosamente applicata con animo italiano. Fra questi due termini estremi spazia largamente il campo 406 UNA FORMOLA LOGICA de’ temi istorici che vorrebbero esser trattati. Imperocchè le materie medesime che già dai nostri padri ebbero lume di let- tere, son capaci d'’ illustrazione nuova, ed altre possono trarsi dal fondo antico con miglior veduta razionale, con più profonda distribuzione di oggetti, e ordini di lavori. Congiungesi la nostra istoria per molteplici e maravigliose fila. con quella dell’umani- tà; e tanta è la copia della vita, la quale, anco dentro i soli confini dell’Italia, faccia vario spettacolo di se all’occhio del- l’investigatore, che le forti penne mancherebbero più presto all’opera, che le cose agli scrittori. Ma duolmi di dover dire, che quello, che principalmente vorrebbe farsi, da pochi è ben saputo; che le diligenze meccaniche, le minuzie gracili, le mez- zanità servili tuttavia son molte; che a troppi manca quella co- gnizione adeguata degli elementi sostanziali, delle potenze, dei fini, di tutta la costituzione organica ed esplicazione preordinata | dell’umano incivilimento, onde in ogni secolo, popolo, ragione di fatti tu scopri quello di che si debba scrivere, e sai valutarlo con superiorità di mente, e con sapienza vera. — Che valsero elle e che valgono tuttora le leggi romane alla civiltà del mon- do? — Quali argomenti porse l’uso del latino alla formazione delle civiltà e letterature delle moderne nazioni; e qual fu. l’azione della letteratura nostra sopra le altrui? — Che fu il pa- pato alle sorti del cristiano incivilimento? — Che fu il clericato | alla nostra scienza, e al nostro costume? — E la nostra istoria , economica per qual continuo ordine di ragioni si connette con quella della nostra coltura intellettuale? — E chiesa e stato con. quali proporzioni giovarono o ritardarono l'educazione dell’uma- nità italica? Una storia del guelfismo e del ghibellinismo nostri secondo la teorica ragione di queste due sette; una storia com- parata delle nostre istituzioni politiche; una storia del nostro diritto pubblico, delle nostre civiltà particolari, della nostra ci- viltà comune giuridicamente considerate, chi ce le diede? — Chi scrisse quella delle illustri donne italiane? — Chi quella A il DELLA FILOSOFIA DELLA STORIA 407 generale dell’arte, deducendone il poetico principio dalle intime condizioni della nostra vita, e seguitandone la varia esplicazione nelle varie sue forme dalle moderne origini di essa fino ai tempi presenti? — Chi quella della nostra sapienza filosofica?... Ac- cenno a questi argomenti secondochè mi vengono innanzi, e potrei discorrerne un lunghissimo novero a salubre ricordanza delle cause per che furono trascurati, a rampogna della nostra inerzia, a eccitamento della gioventù studiosa, che magnanima- mente sorga, e impugni lo stilo istorico, e faccia nota a se stessa ed al mondo questa ricchissima, e sempre inconsapevole di se, e sempre mal conosciuta Italia. Tutti i fatti degni di memoria debbono essere certamente narrati e conservati: ma alla sostanza, agli ordini occulti, allo spirito, all'idea vuolsi massimamente risguardare, e in questi penetrali cercare la ra- gione delle esterne cose, e di quì dedurla alla intera spiega- zione del nostro viver civile, alla grande rinnovazione della no- Stra istoria. Senza queste più intime ricerche, e soluzione di problemi intentati non avremo mai quella coscienza piena di noi medesimi che ci sia regola e lume a continuare con integrità di consentimento dinamico l’egregia opera del nostro sociale perfezionamento: non iscriveremo libri che passino il mare e le alpi, e meritino l’attenzione universale: rimarremo nella storia “quelli che fummo nella vita; spezzati, deboli, non grandi per disperdimento di forze. Ma sommamente rallegra una italiana anima dover confessare e sperare che a questo miglioramento di studi intendono ora molti, e che più altri vorranno intendere, ammaestrati dall’esempio e spinti dalla general direzione dello scibile umano. La filosofia della storia ha illustri coltivatori, e portuni applicatori ed interpreti dell'idea catolica. Così potesse riuscire di alcuna utilità la mia Formola dopo le fatiche di questi ! nobili ingegni! | 408 T' €D "N° “ x- —s_- AVVERTENZA. A correggere gli errori commessi nel progresso numerico delle seguenti Note, si è provveduto col porre di fronte alla cifra vera quella sbagliata, e indicare la pagina in che fu com- messo lo sbaglio. —___ es H ? * (1) Se ciò non fosse, neppure scienza non vi sarebbe. Che se la pos- sibilità di essa procede dalle native disposizioni e poteri della ragione, neces- saria cosa è che ogni cognizione, com’ è capace di razionalità, così possa anche divenire a forma scientifica. Ma separare le cognizioni puramente razionali da quelle puramente sensate ed empiriche, sicchè fra le une @ le altre resti quasi un vuoto intervallo, è spezzare logicamente con impo- tenza filosofica la impartibile unità dello spirito, o presumere fin da princi- pio che fra l'ordine reale e quello ideale non sia cognazione, analogia, co- municabilità nessuna; che tanto vale, quanto negare Ja possibilità della scienza vera nell’atto che se ne vuol porre le fondamenta. E credere che la ragione, anco differente per sua natura dalle facoltà estetiche, sia ordinata scientifica, è lemerità irrazionale. (2) Una delle più belle e feconde questioni che possano agitarsi nelle scuole filosofiche è quella del possibile; che da noi è quì toccata secondochè — domandava la ragione del libro. I giovani studiosi farebbero bene a parago- nar questa nostra dottrina con le altre analoghe de’ sapienti antichi e | moderni. È (5) Gli uomini, parlando delle operazioni de’ loro simili, più natu- ralmente guardano alle intenzioni, che possono ignorare, e meno ai modi dell'esecuzione che facilmente sanno, 409 (4) (1) pag. 272. La schietta e intera comprensione di questo concetto risulterà dal sistema delle idee discorse in questo nostro lavoro. Onde i troppo facili leggilori non corrano a conclusioni anticipate. (5) (4) pag. 284. Quando parliamo di questa sapienza organica, di que- sta dialettica divina nelle cose e nell’ordine della vita universale, non voglia- mo confondere Dio col mondo, nè attribuire alla natura le idee dello spirito umano. Lo che basti aver notato una volta per tulte. ) (6) (5) pag. 515. Coloro che non avendo consuetudine coi filosofici _concetli trovassero malagevole a intendere questo nostro, avranno lume sufficiente più innanzi là dove sarà parlato della quarta ed ultima forma istorica. Pensino intanto che se il processo delle cose umane conferma « po- ‘steriori la verità di questa nostra idea, ella anticipatamente si potea racco- gliere dalla preordinazione organica di quel processo; e che, per rispetto a questa preordinazione, niuna cosa umana può esser considerata da se, che anche cosmicamente non involva la sua necessaria congiunzione con le altre: le quali tutte fontalmente procedono da un comune principio. Pertanto male ‘argomenterebbe colui, il quale, fermando la sua attenzione sopra un fatto particolare, in questo solo cercasse la prova empirica della nostra idea. Con ual diritto logico lo avrebbe scelto a preferenza degli altri, quando tutti, diversamente sì, ma comunemente furono preordinati, quando tutti disegual- ‘mente sì, ma comunemente contribuirono e contribuiranno allo stabilimento «di quella prova? Però il nostro concetto dovea essere assolutamente sinteti- co: e il processo del fatto umano, che in se raccoglie tulli i fatti particolari, ‘è necessaria testimonianza empirica della verità speculalivamente concepita @ priori. : (7) (6) pag. 554. A scanso di errori e di obiezioni frivole, dislinguansi le funzioni, che via via sono esercitate in questa scala dinamica del viver «sociale, dal sistema organico della civiltà a cui elle appartengono. Come il verno non comprende tulta la società, dalla quale anzi deriva, e alla quale i dovuto, così non si vuol confondere l’uomo pubblico con la cosa pubblica, ‘che troppo più vale di lui. Tutte Je operazioni delle forze consociate sono ultimamente dovute alla società, e la società è ordinata ad agevolarne la possibile perfezione: e in questo concelto sintetico ha fondamento il nostro discorso, e secondo questo concetto vuol essere intesa la distribuzione gra- duale degli umani uffici. — Ma l’uomo pubblico, ripiglierà taluno, dee forse rvire al poeta, al letterato, al filosofo? — Voglia egli o non voglia, se ’I da egli o non lo creda, certissimamente serve; e se abbia in petto spirili generosi, serve con nobile sodisfazione, e talvolta con gloria. Mirabili ingegni risplendono di viva luce anche fra le tenebre della barbarie, o ne’ primordi della coltura intellettuale: ma noi quì parliamo delle cose umane venute a certa pienezza di civiltà, e secondo l’idea integrale del loro sistema organico. Istituzioni buone, e buona amministrazione civile naturalmente presuppongo- 52 410 no cognizioni possedute e istruzione, e naturalmente conducono a letteratu- ra, a sapienza, a esercizio delle facoltà migliori, come a splendida cima, e termine giusto di tutta la sociale cooperazione. Che se le lettere rappresen- tano la società, certamente questa nel sistema dinamico delle cose umane era ordinata a quelle, siccome a nobilissimo fine. E gli uomini non indegni di governare la cosa pubblica trovano anch’ essi nella comune scienza il fine più alto delle loro operazioni e pensieri, o sanno felicemente congiungerlo con quello della vita pratica. Ciò è poco: essi servono al bene di un popolo; i sapienti ammaestrano e giovano l’ umanità tutta quanta. Finalmente, può uno scrittore offendere alle leggi della sua patria e cadere sotto potestà che lo giudichi; ma il giudice che lo condanna, non esercita sopra di lui una sua propria autorità, ma un diritto della società offesa. — Non trattasi quì di rispetti fra persona e persona in quanto semplicemente elle sono uomini (in tutti vale una comune egualità di natura ): traltasi di gradi fra opera- zione ed operazione. (8) (7) pag. 400. Prima di movermi a dover camminare, era in libertà mia farlo o non farlo. Camminando, non posso non fare quello che già libe- ramente volli. (9) In quest’ opuscolo io non altro volli fare, che porre e dimostrare una verità fondamentale, su cui potesse edificarsi una necessaria dottrina, | Per quella dimostrazione, un solo e medesimo fatto, testimoniato dal senso intimo così per rispetto al mondo reale come a quello ideale, prova la preordinata comunicazione fra l’uno e l’altro, e fonda radicalmente la verità della cognizione umana. Laddove nella Critica della ragione pura tutti gl’intendimenti dello scrittore, tutta la sostanza del discorso procedono | dalla fallacia di un preconcetto, secondo il quale le facoltà conoscitive son considerate fuori dell’ordine delle cose; onde poi necessariamente risulta l'impossibilità della scienza vera, e l’ idealismo trascendentale. Il Kant adun- que fece fondamento in una astrazione arbitraria, presupponendo fin da principio un cieco intervallo, una disgiunzione, una disarmonia assurda tra l’idea e la cosa, quando dalle leggi dell'Ordine dovea essere sinteticamente ammaestrato, anzi portato fin da principio a supporre una profonda armonia organica tra lo spirito naturato a penetrare per le intime ragioni degli og- getti, e gli oggetti esposti alla penetrante ragione dello spirito. A noi che moviamo da questo sintelico concetto dell’ Ordine, e che tra il fenomeno e l’idea scientifica dobbiàam presupporre un vincolo necessario, bastava per ora dimostrare la verità obiettiva delle cognizioni sensate. PER LA SOLENNE APERTURA DEGLI STUDI NELLA: I, e R, UNIVERSITÀ DI PISA IL GIORNO XI NOVEMBRE MDOCCXLV ORAZIONA DI GIOVANNI ROSINI — 0980 Tornando, dopo tanti e tanti anni, a porre il piede in questa stanza; volgendo il guardo a queste pareti; e alzando gli occhi a questa volta, che non avrei mai sperato, che risonar dovesse di nuovo alle mie parole: quali imagini, quali affetti, e quai rimembranze non mi si debbono andar destando confusamente nell'animo? E prima di rivolgermi a quello, che per ragione d'ufficio dire io vi debbo; come difender mi posso dall’impulso, @ quasi direi dalla necessità di comunicarvi quello che io sento? Nè fiori sono questi di vieta rettorica, cercati e raccolti da memorie più yiete; sono la sincera espressione del cuore pieno e commosso; trovandomi nello stato di colui, che dopo lunga peregrmazione tornando in patria, si rivolge ai luoghi che il videro nascere; respira l’aura della terra in cui crebbe; e cogli occhi cerca le persone, che lo scorsero nei primi passi del cammin della vita. E così essendo, qual pensiero esser potrebbe mai più do- loroso di questo? e qual materia per me più importante, e agli | orecchi vostri più cara, trovar potrei, per intertenervi questa 412 ROSINI mattina; che ad ogni momento non venisse a: turbarmi e a contristarmi l’idea, che per quanto io rivolga intorno lo sguardo, e lo arresti su ciascuno di Voi, nessuno mi presenta l’imagine di uno pur di quei tanti, che ricchi di gloria e di fama, erano anco fiorenti di età (1), quando io per la prima volta inalzai la: voce fra queste mura; che cortesi mi furono d’incoraggiamenti e consigli; e che ad uno ad uno ho veduto mietere dalla falce di colei, che ad alcun non perdona, che di verun si dimentica; e che ogni giorno mi ripete all orecchio, che dell'antica fami- glia non rimango che io solo. Desolante solitudine morale! che toglie al cuore gli affetti, il riso alla gioja, il moto alla vita; ed ha per fin la possanza di trasformare le città più popolose in deserti. Così la crudele fatalità, che pesa sulla umana schiatta, se le concede un lungo corso di anni, l’avvelena di arcani dolori. Pur, cacciando dalla mente le triste imagini, e la fantasia suscitando alle liete; se con altri sensi a Voi di nuovo mi ri- volgo, ch'è quello, che mi si offre davanti? Per benefizio della Provvidenza; per munificenza d’un Sovrano MagNnANIMO; e per consiglio di Coloro, che benemeriti agli studi nostri presiedono; circondato io mi veggo da un tal consesso di sapienti, che tali non ne ha mai vantati, nè in tanto numero, l’Università nostra ne’ suoi più floridi tempi. E sanno quanti mi ascoltano, che questo è il vero semplice e schietto. Sicchè, Colleghi amatissimi, di che poss’io conveniente- mente parlarvi, colla speranza, che se la benevolenza vostra si presta ad udirmi, possa io rispondere all’espettazione che m’at- tende? Come aver potrei la baldanza d’insegnare a Voi qualche cosa? Nessuno accagionar mi vorrà d’un orgoglio, che mai certo non ebbi; e le cui lusinghe segrete, se anche talora insidiosa mente nei nostri primi anni ci assalgono: credete a me, che come sogni spariscono; allorchè si conosce a prova quanto ristretta è la mente dell’uomo, a fronte della rinnovazione * ORAZIONE 415 continua, e della disperante immensità del sapere. Di che dun- que poss’ io convenientemente parlarvi? In tanto chiara ed aperta difficoltà, raccogliendo i miei pensieri, parmi che a parlar non mi resti se non se di quel poco ch'io vidi, e che, a cagion dell'età, Voi non vedeste: di quello, che non si legge nei libri, e che vive solo nella memoria di chi ne fece parte: nella ferma fiducia che da Voi ponderato, ne risulti qualche lume, a benefizio della generazione avvenire. Pressochè tutto nello spazio di 50 anni è cangiato: ma la mente, l’anima, e il cuore dell’uomo non cangia: sicchè ten- terò, se in quanto sono per dirvi, si trovi pur qualche cosa tra quelle, che occupano la mente, inalzano l’anima, o toccano il cuore. Allorchè, terminati gli umani studj, apersi le prime carte dei libri, dove sono i rudimenti della dialettica e della geome- tria, tutta rivolta era la patria nostra verso la letteratura e la poetica. Lo stato delle romane città, descritto da Cicerone al principio dell’orazione per Archìa, parea rinnovato fra noi. Molti erano gli uomini istrutti: la cultura si vedea sparsa nel sesso gentile: questa serviva di grande stimolo ai giovani per ornare l'ingegno; e il privilegio della bella lingua si manteneva in tutto il suo candore anche sulle labbra del popolo; non es-. sendo venuta la straniera dominazione, colla mescolanza de’ suoi modi, a turbarne la purità. Dopo la morte del Filicaja e del Redi, questa universalità di lettere, che fra noi si vedeva, era opinione comune, che si dovesse principalmente a Tommaso Crudeli, bell’ingegno, se mai ve ne furono; che non poco fece in vero, ma che più fatto ‘avrebbe, se al momento di produrre i frutti maturi, un’invida scure non ne avesse anzi tempo atterrata la pianta. Pure, a lui (morto nella giovane età di 42 anni) pochi ora sanno doversi il primo passo per la riforma del teatro comico, eseguita poi con tanta felicità dal Goldoni (2). Mentre la Scena 414 ROSINI Italiana, non ostante l’apparizione in Francia del Moliere, tro- vavasi nelle mani degli Scaramuccia e degli Zanni; mentre il Convitato di pietra, e Rinaldo di Montalbano richiamavano la moltitudine in folla (3); conobbe il Crudeli quanto indegne fos- sero di un popolo incivilito quelle mostruosissime farse: ma non sentendosi l’animo, nè trovandosi forse in istato di tentare una riforma, indicò la via di ottenerla. Egli procurò la versione del Vanaglorioso di Destouches, allora vivente: ne fece in Firenze per la prima volta eseguire la recita; e per quella scrisse un Prologo (4), in cui tutti espose i difetti della Commedia Italiana di quel tempo. Così mostrò quel raro uomo col fatto, che se il Saggio (5) non può sempre far argine al pubblico errore, contro le arti avvilite ed oppresse; può indicare i mezzi di ripararci; dal tempo e dalle circostanze invocando un migliore avvenire. Nè a ciò contento, (poichè non solo era poeta ma filosofo, come lo mostra il suo rifiuto, per non perdere l'indipendenza, di condursi alla Corte di Napoli dove l’invitava il nostro Ta- nucci) sapendo che agli uomini si annunzia più facilmente la verità, sotto il velo della finzione, scrisse poche ma eleganti ed argute favole, che le molte del Pignotti han fatto dimenticare, ma che restano sempre a far prova d’esserne state il modello (6). | Questi meriti sono incontestabili; e dissimulati non erano allora. Alla memoria d’un uomo sì benemerito, si univa quella + d’un Ingegno eminente, che uno fu dei luminari di questa no- stra Università. Chiunque non è digiuno affatto della storia letteraria, intende ch'io parlo di Tommaso Perelli. Morto da varj anni, pur non ostante sopra ogn’altra ne risonava gloriosa la fama (7) benchè poco lasciato avesse alle stampe per eternarla. Cultore ardentissimo delle Muse, ma destinato dal padre alle Leggi, cui s'era dato per obbedienza; dopo la morte di lui, con alacrità si volse alla medicina. Ma nell'arte di Galeno, non trovando, ORAZIONE 415 come dir solea, pascolo sufficiente all’ingegno: si consacrò final- mente con tutto l’ ardore alle matematiche; le quali accoppiando alle lettere, si perfezionò sotto il Manfredi, che gli fu per un tempo maestro nell’une, come splendido esempio nell’altre. Nobile disertore di Giustiniano e d’Ippocrate, come Ovi- dio, l’Ariosto e tanti altri, si trovò possedere con estensione uguale l'intelletto e la fantasia. Coltivando l'uno e l’altra, per privilegio a ben pochi concesso, potè cogliere due corone, che molti e molti invidiarono, e che parea non curare egli solo. Cosa strana sì ma pur vera: ed unica forse nella storia del sapere. Mentre gli uomini per la più parte agli studj si danno per de- siderio di gloria; egli di tutto facea per fuggirla. ia «Ma la gloria e la fama per così dir l’inseguivano quanto egli più si adoprava per allontanarsi da loro: finchè per univer- ale consenso, morto il Manfredi, egli ne fu dichiarato l’ erede. se Nessuno certamente più lo meritava di lui. Ma (8) lascio a parte il matematico, per non parlare che del letterato. Dotto nella greca favella, interpretò il primo e stabilì chiaramente l’era dell’Iscrizione Naniana (9), ch'era stata un | mistero per tutti: dottissimo nella latina, scrisse in quella, con isquisita eleganza; e se debbono riguardarsi come linee, nei grandi quadri della letteratura, le brevi carte che ne restano; forza sarà di convenire che linee sono tirate dalla mano di Apelle. A lui dintorno i giovani vedendo come, in mezzo ai diffi- cili studi delle scienze, dava opera all'arte di scrivere; si per- suadevano agevolmente della somma importanza di quella: in essa spendevano le loro vigilie; a lui ne sottoponevano i saggi; e alla prima metà del secolo, la via preparavano a quegli scrit- tori, che risplender dovevano nella seconda. Da tutto questo, dovrà parere agli spiriti superficiali che altri risultati aver non dovessero sì fatte cure, fuorchè la grazia e l'eleganza delle parole: ma ben altri più gravi, ed assai più Che nonsi pensa, ne apparecchiavano gli avvenimenti. rd 416 ROSINI Alle dimostrazioni della patria nostra rispondeva dopo la morte del Crudeli (10) con pari zelo, e con maggior forza d’in- gegno, Milano; che già dalle prime Odi del Parini balenar ve- deva l’aurora d’una nuova poesia, di nuovi costumi, e d’una nuova civiltà (11). ‘ L’ode di lui sulla Musica, dove si tuona contro l’obbrobrio | degli eunuchi; la Recita dei versi, dove si dannano all’igno» minia le poetiche scurrilità; l’Innesto del vajolo, dove si com- battono gli oppositori a quella salutar prescrizione; stanno a far fede del vero: come nell’apparizione del Mattino, avvenuta nell’anno 1765, si ha la prova che la poesia ravvolta in filoso- fica veste diresse gli studj filosofici dei famosi Autori del Caffè, Frisi, Verri e Beccaria (12), i quali, nei loro scritti, gettarono i le prime basi d’un rinnovamento sociale. E come ciò potrebbe impugnarsi, quando si rifletta, che — da loro fu immaginato e discusso, e che quindi dal Beccaria si compose e si diede in luce il famoso libro Dei Delitti e delle Pene? qual pegno mai più prezioso fu offerto alla civiltà? qual prova più splendida della gentilezza dei costumi? e qual omaggio più diretto alla patria nostra, che innanzi ad ogn’altra |’ aveva praticate e promosse? use] Così ponevasi in evidenza il consorzio della civiltà al lettere, delle lettere colla filosofia, della filosofia col diritto; e così l’Italia, che insegnato aveva nel secolo decimoquarto Poe- , sia, nel decimoquinto Erudizione, nel decimosesto Belle Arti, € nel decimosettimo Sapienza; ora nel decimottavo (15) col Libro dei Delitti e delle Pene, all’ Europa insegnava Umanità, Cle- menza, e Giustizia. rd Inalzò sull’Olona il Beccaria la gran face, che illuminar dovea l'universo; e il primo a rischiararne le leggi fu il Gran duca Pietro Leopoldo fra noi. A terra le scuri e i patiboli! gridò quel Sovrano filosofo dalla solitaria sua stanza (dove il Sole ogni giorno trovavale ORAZIONE 417 desto a vegliar sui bisogni dei popoli): e all'istante, nella corte del Palazzo del Bargello, tinta e macchiata di tanto san- gue generoso e innocente, si arsero, al suo comando, le travi, le ruote, le funi, e gli strumenti tulti numerosi delle nefande torture. | Battea le mani festosa, e applaudiva Firenze a que’ nuovi fuochi d’insolita gioja; le cui fiamme inalzandosi verso il cielo, parean giungere fino ai piedi della Divinità, per dimandar per- dono di tante vittime della barbarie, dell’ignoranza e della tirannia. Bel vanto, egregi Uditori, bel vanto, d’aver colla nostra cultura preceduto e dato impulso a Milano: d’avere i primi adottato i principj di quegli uomini benemeriti e saggi; e di | avere i primi protestato all’ Europa contro lo spargimento del- l'umano sangue, colle nostre mani accendendo in Firenze il | rogo dell’espiazione (14). D'allora in poi propagossi, e fu generale in Europa la voce, che fra i popoli tutti fosse questo nostro il più mite: che tale, come abbiam veduto, divenne, per essere stato il più colto. «Ed a così mantenerlo in appresso, mi sembra, che con- ‘corressero tre principali cagioni. La prima fu la dottrina e la moralità con cui venivano composti i Giornali. E quale in fatti è il vero scopo di essi? D’annunziare le utili scoperte; di presentar l’analisi sincera delle opere, che , non possono aversi dai più; d’applaudire al merito; d’accen- nare i difetti; d’incoraggiare i timidi; e dar consigli ai traviati. Questo, sull'esempio d’Apostolo Zeno, del Muratori, e del Maffei, facevano in Pisa il Fabroni, il Bianucci, il Lampredi (15): e chiari n’apparvero gli utili effetti. Togliete da un tal ministero la morale; togliete la dot- | trina: e giudicate delle conseguenze. La seconda causa fu il concorso simultaneo di tre Toscani 55 418 ROSINI Poeti, due dei quali trattando argomenti popolari, ed uno scri- vendo con squisita eleganza, mantennero il gusto, e spronarono gl’ingegni all’emulazione. Furono questi Salomone Fiorentino, Lorenzo Pignotti, e Giovanni Fantoni. Di essi ho detto altra volta; ma è forza che torni a parlarne. I versi del Fiorentino per la morte d’una sposa adorata, espressi con affetto, e dettati con facilità si fecero strada dagli orecchi nei cuori per invitare le anime gentili a sparger lagrime sulle tombe delle persone care ed amate. Appresi da molti a memoria, si udivano sovente ripetere, come avvenne molti anni dopo a quei del Basville. Il genere scelto dal Pignotti lo mise alla portata di ogni classe di lettori: fu acclamato fin da principio come caposcuola: e 28 edizioni delle sue favole, fattesi lui vivente, dicono assai più di qualunqu’altra parola (16). Troppo si tenne alle costumanze latine, troppo alle frasi. d’Orazio, nell'espressione delle sue sentenze, il Fantoni: sicchè per la verità, come per le allusioni dee cedere all'evidenza del Parini; ma quanto egli scrisse sull’ingratitudine dei grandi, sulla corruzione dei costumi, sulla tranquillità della vita, e sul- l'amor della patria, posero per gran tempo i suoi versi nelle. bocche di tutti. 3 Sicchè, dopo il già detto, potra contrastarsi sul maggiore, o minor merito di questi scrittori; ma non impugnarsi la parte + che presero a tener vivo nella moltitudine l’amor delle letto colla propagazione dei loro versi. Ma più d’ogn’altra causa, quella che giovò maggiormente alla universal cultura fra noi, (benchè sappia di non mancar di avversarj) pur francamente asserisco essere stato il frequente esercizio del Canto Improvviso (17). E a stabilire la verità di questa opinione, comincerò dal | richiedere quali furono al cader del secolo scorso i principali poeti italiani . ue ORAZIONE 419 Nessuno vorrà certamente contendere il primato al Parini, al Monti, all Alfieri. Or bene, ciò posto, apriamo i lor libri, e leggiamo. Il Parini, rivolgendosi all’improvvisator Ferroni, gli cantava, che il vero espresso dalle sue labbra splendeva di tante bellezze, che gli parea d’udire Apollo (18), e vederlo sotto le sue sembianze: il Monti diceva alla Bandettini, che il diletto e la pietà, l'eleganza e la schiettezza del suo cantar peregrino lo rapivano fuor di se stesso (19): e l’ Alfieri finalmente, alla stessa rara Donna, con iperbole sì, ma con espressione di verità, quasi giurava ; « Che di splendida palma io mi torrei « Pe’ suoi carmi impensati andarne onusto, « Più ch'io non speri de’ pensati miei. Or se un Parini, se un Alfieri, se un Monti riconoscevano il merito, e provavano straordinario diletto a udir quei canti ispi- rati; all'ombra di sì grande autorità, potrò stabilire che contro le obiezioni stanno i fatti. E questo io dico pel merito intrin- seco; che in quanto alla parte immensa che il canto improvviso aver potè nella cultura della moltitudine, non è da disputarsi ; considerando, che per ben comprendere quello che potea dilet- tarla, dovea la moltitudine naturalmente istruirsi: e che l’istru- zione così diffondevasi dal gentiluomo e dal ricco fino all’arti- giano ed al povero. Nessuno impugna che sia vaga e passeggiera quest'arte; ima lo stesso non avvien della musica, i cui portenti cessano col cessar della voce dei sommi (20) cantori? Non tutte le arti possono lo stesso. In mezzo ai dolori sempre crescenti della vita, l’uomo è spinto a cercare i diletti: e fra essi veruno io ne conosco, che al par del Canto improv- Viso, lusinghi l’orecchio, sollevi l'immaginazione, appaghi la mente, e riempia di palpiti il cuore. E poichè quest'arte può dirsi pressochè perduta oggigiorno, te}e]o) non vi spiaccia, io ve ne prego, di risalir meco due genera- 420 ROSINI zioni: e figurandovi d’esser presenti a quelle mirabili Dro prestar l’orecchio attento ad udirmi. Padroni della frase e della rima, che pronte si offrivano alle loro labbra, come sulla tavolozza le tinte al pittore; non appena quei sommi Maestri udivano pronunziar l'argomento, pel subietto del canto loro, che scorrevano in un istante, si richiamavano a memoria, e sceglievano i fatti più importanti, su cui doveva quello aggirarsi (21). Dividevano l'economia del componimento nel principio, nel mezzo, e nel fine: ne riempievano in mente gli spazj colle idee principali; si affidavano alla immaginazione per le acces- sorie: nè il musico, che il canto accompagnar doveva coll’ istru- mento armonico, avea terminato il ritornello, che il Poeta era pronto. Il conticuere omnes, intentique ora tenebant di Virgilio rin- novavasi in tutti; mentre il Deus ecce Deus della Sibilla si facea manifesto in un solo. Era l'argomento di soggetto gentile? Ed ecco esposti colle più belle invenzioni della Greca Scultura, i delicati concetti della Greca Antologia; e colle imagini degli antichi Poeti, le fantasie rappresentate in colori dal Coreggio. Amore cavalca un leone, ne doma la forza col suono della. lira, e lo guida con quello a suo senno. — Una Bella, dopo. l'ottavo suo lustro, depone sull’ara di Venere lo Specchio, per . non vedervisi più com’ella è, dopo esservisi tante volte vagheg- giata com’ era. — Mercurio istruisce Amore nelle lettere, per indicare come si scende nell'animo del leggiadro sesso con soavi ed ornate parole: e con peregrina invenzione, Venere si rap-. presenta colle ale, per far manifesto che una donna degna ve- ramente d'affetto, non abbassa l'ingegno dell’amante, ma lo solleva e lo spinge ad acquistar quella gloria, di che farà parte ella stessa (22). Era l'argomento di soggetto amoroso? E Anacreonte, Ora La De ORAZIONE 421 zio, Tibullo, ed Ovidio, ne offrivano i fiori, se spargere si dovevano sopra scene liete e ridenti: ma se patetica e mesta n'era l’istoria; ecco i dolori della Medea di Apollonio, del- l’Arianna di Catullo, della Didone di Virgilio, della Francesca di Dante, dell’Isabella dell’ Ariosto, della Clorinda del Tasso, trasformati, o modificati con altre immagini, con altri concetti, con altre parole, ma non con altri sentimenti; perchè l’amore infelice ha mille modi per esprimersi, e un modo solo per com- piersi. L'amore, quando è grande, è la vita; e dee terminar la | vita con lui. | Era l'argomento di soggetto sublime? E quanto di bello e glorioso fecer gli uomini, dalli Spartani alle Termopoli sino agli sforzi magnanimi. dei moderni Greci: quanto di straordi- nario colle nazioni vicine, o lontane, nelle armi e nelle leggi Bpperarono i Romani; quanto di poetico presentano gli avveni- menti variatissimi del Medio Evo; quanto gli storici scrissero, quanto i poeti cantarono, per inalzar gli animi e spingerli ad eroiche imprese; tutto era offerto alla memoria dei provetti, alla compiacenza dei maturi, all’emulazione dei giovani, e alla ma- raviglia di tutti. Era in fine l’argomento di religioso soggetto? E nell’im- mensità di quel campo, la messe da gran tempo era fatta. I Pittori avevano preceduto i Poeti: e a lor non restava che a ravvolgere in frasi eloquenti quel che Raffaello, Michelangelo e gli altri avevano rappresentato in parlanti colori. La Divisione della luce dalle tenebre, la Creazione dell’uomo, e la Cacciata dall’Eden; il Mar Rosso, la Colonna di fuoco, ed il Sinai; Betulia, Nabucco, e Sennacherib, presentavano tanta ricchezza di poesia, che il Cantore sgomentar non si doveva per l’inven- zione, ma trovarsi imbarazzato per la scelta. Succedeva il Cristianesimo coi miracoli, colle. parabole, colla unione delle due nature sul Tabor, col sacrifizio misterioso sul Golgota, fino alla discesa del Divino Spirito in terra, per i 422 ROSINI iscioglier la lingua di poveri pescatori; che umili, a piedi, e armati della sola parola, partivano dalla Giudea per la rinnova- zione del mondo. Allora sì che il Cantore si convertiva in Profeta; e potea colle grazie del Petrarca ornare la semplicità degli Evangelisti, e colla maschia eloquenza di Dante, stare a fronte a Mosè. Ma che dirò io (fra i cento religiosi argomenti, che udii cantarsi) del più diflicile sì, ma del più maestoso e tremendo? Di quell’argomento unico, a cui pensar non può l’uomo, senza i raccapriccio e terrore; e che ancor dopo un mezzo secolo, come | un eco lontano, par chie mi risoni all’ orecchio? i Al rimbombar delle angeliche trombe, che dai ql i venti spirando, chiamano i morti al giudizio, ecco a poco al poco prender carne risorgendo, e tutta intera rinnovellarsi la schiatta di Adamo. Il sole, la luna, le stelle, balenando ad ora ad ora dan segni che son già per estinguersi; e l’aria l’acqua e terra stanno per esalar l’ultimo fiato (25). Ki. Cadute son le corone, spezzati gli scettri, sepolti i monu- | menti, le palme della gloria disperse, tutte le umane grandezze — nel nulla: e sulle sembianze incerte ed esterrefatte d’una mol- titudine (al cui novero mancan le cifre) vive più non riman- gono che la Speranza, e la Disperazione, pendenti dalle labbra del Giudice; che; in un vortice immenso di luce, sta col braccio | inalzato per fulminar la sentenza. tì Convertite in sublimi versi quant’io nell’umil prosa vi nar-. ro, e immaginate l’effetto. a Se l'esercizio di questi veri portenti meritasse d’esser con= servato per maggior lustro e splendor dell’Italia, giudicherete nel vostro senno; ma tali non si operavano che dai pochissimi sommi . s Dietro a loro venivano, e non senza pregj, i minori; che se non giovavano all'incremento dell’arte, servivano alla sua diffusione. Con essa si conservava la cultura; che più miti avendo fatto i costumi, permise di render più miti le leggi. Po) ORAZIONE 425 Nè questo vincolo potrà mai negarsi, finchè resterà pagina di storia; nè questo vanto a noi potrà con ragione contrastarsi, finchè la memoria vivrà del Granduca Pietro Leopoldo; il cui simulacro, eretto in questa città dalla riconoscenza (24), pare | che, dall’alto del suo piedistallo, tacitamente protesti contro i monumenti etevati ai Principi dall’adulazione. Ma di adulazione io non temerò di macchiarmi, se dirò che sulle orme del grande Avo, il savio PrincIPE che ci governa, riconoscendo il legame che unisce gli umani studi alle leggi umane, ha nell'Università nostra inalzato le Lettere ad onore novello . Instituendo di esse una Facoltà, che indipendente dalle altre, ne stabilisca i principj, e ne diriga l'esercizio; mostrò l’importanza in che le tiene, la dignità che meritavano, e la tima che loro professa. Quindi a Voi rivolgendomi,, certo sono di trovar plauso ed assenso, rendendogli a nome di tutti le più larghe azioni di grazie in tributo. Ma di pari passo, colla compiacenza e colla gratitudine, Colleghi amatissimi, abbastanza intendete, che vanno gli obbli- ghi vostri. Come gli studi letterarj decaddero, penoso a dirsi e lungo sarebbe. Per sorte però non son essi già da crearsi; ma, simili a piante ingombre di triboli e di spine, han solamente bisogno di una mano possente, che li mondi, e ripongali in fiore (25). Poichè ne avete la forza e l’arbitrio, abbiatene Vardi- mento e la volontà. Nella vostra coscienza è riposto l’ avvenire: mon ne fate dunque fallir le speranze. Di ciò vi prego, vi scongiuro, vi supplico: e mi confido che al vento disperse non andranno le mie preghiere; conside- rando che questi sono gli ultimi accenti, che a Voi tutti nel fior dell'ingegno e degli anni; rivolge una vita che manca, e una voce che giù si estingue. Ma che, rianimandosi, ancora per volgermi ai Giovinetti, che bella corona mi fanno; col più vivo ardore proseguo . 424 ROSINI, Discendenti dei Guicciardini, dei Machiavelli, degli Ala- manni e di tant’altri, Per cui d’oro rivolge Arno le arene, come il Poeta cantò; molto attende Italia da Voi, se degni esser volete di quei grandi, di cui godete il retaggio. Aperta dinanzi avete la gloriosa carriera; e mio sarebbe l’incarico di condurvi all’arringo; e di servirvi di guida. Un’ antica gemma intagliata, con sottile allusione agli studj,, rappresenta Dedalo nel Laberinto, in atto di appiccar le ali al dorso del figlio, prima di precederlo nel cammino (26). Ed io ben sarei pronto ad imitarne l'esempio; chè di lui non mi manca nè la pazienza costante, nè l’affetto paterno, nè il desiderio ardentissimo di farvi dotti e famosi. Ma una voce i più possente all’orecchio mi grida che in questa città troppo vive sono le memorie di due sommi Uomini, che vimpenneranno — al tergo le ale, con ben altro magistero, che la debile mano mia non farebbe. Ad essi dunque ne cedo l’ufficio; e certo. sono, che dal Laberinto dell’Ignoranza (mi si perdoni lima-. gine ) assai meglio di me vi guideranno a gloriosissimo porto. E sia primo il gran Galileo (27), che ogni giorno vedete, nel. suo simulacro, assiso in mezzo di voi; che discepolo come voi. calcò già queste pietre; che come voi studiò dialettica. e geo- metria nelle nostre scuole; che salendo giovinetto la cattedra, stabilì le leggi del moto; ma che, troppo dagli altri distante, È dopo aver con un fragile vetro scoperto ignoti mondi nel firma= mento; nuovo Giosuè, arrestò il Sole nel suo corso; e coi calcoli spezzò le ruote del cocchio, che si aggirava da tanti se- coli per gl’immensi campi del cielo. Che se l’altezza di sì gran volo sgomentavi, se la luce di tanto Genio v'offusca; dal cielo scendendo alla terra, vi pren: derò ben volentieri per mano; e come in devota peregrinazione alla porta vi condurrò dell’ Albergo, dove nel 1781 Vittorio Al fieri venne a prendere stabil dimora fra noi (28). ORAZIONE 425 E qui, vi dirò, per dar nerbo al suo scrivere voltava in italiano Sallustio: qui al giudizio dei Sapienti sottoponeva i primi saggi di quelle Tragedie (29), che sono adesso nella mente di tutti: e qui componeva quel suo Panegirico di Plinio a Tra- jano, per far degno il Principe dello Scrittore, e lo Scrittore del Principe. Veneratene dunque le soglie: destatene in voi la rimembranza: ed egli sia la stella polare, che vi serva di scorta in questo mar della Gloria, sparso di tanti scogli, e gravido di tante tempeste. Egli da noi partendo, dopo lungo soggiorno, giunto al sommo dell'Appennino, si rivolse a salutarci con quelle famose parole: Deh! che non è tutto Toscana il mondo! parole, che acchiudevano il pensiero grato dell'animo nel so- | Spiro estremo del cuore. Egli fra noi lasciava la lingua, che atticizzando sonava sui labbri pur della plebe: lasciava la gentilezza, di che adorni eran tutti: lasciava la poesia, che più bella gli appariva sotto questo bellissimo cielo. A Voi dunque, Giovani valorosi (e possano queste volte ripetere le mie parole con eco infinito) a Voi raccomando l’ere- dità, che ai vostri Avi, partendo, invidiava l’ Alfieri, della lin- gua, della gentilezza, e della poesia. 426 (1) L'Autore fu aggiunto all’ Università nel 1803, e fatto Professore nell’anno seguente. (2) Non ostante i suoi difetti, resta il primo fra noi. So bene, che | non può paragonarsi con Moliere, ma la sua fecondità sembra maravigliosa. (5) Ed io ne sono stato testimone. La moralità del D. Giovanni, e la __ nobile povertà di Rinaldo, caduto in disgrazia dell'Imperatore, venivano de- | turpate da tante buffonerie, che avvezzavano la moltitudine ad applaudire quello che nol meritava. È (4) Si può vedere tra le sue opere. Quella tentata dal Crudeli è l’uni- ca, o almeno la miglior via, di ricondurre il gusto allorchè si è guastato, Ma tante condizioni, e tutte importanti, si richiedono per ottenere l’inten- to, che senza un teatro comico stabile in Italia, è presso a poco inutile qualunque tentativo . i (5) Allusione alla sentenza del Ceretti: « Contro il pubblico errore alle arti oppresse « Argine è il Saggio. (6) Si legga quella del Gatto giudice, imitata dal La Fontaine. (7) Di questo raro uomo scrisse l’egregio G. B. Niccolini, nella breve sua Biografia del Sarchiani « Che in sè raccolse tanto di scienza, quanto — « diviso in molti uomini basterebbe perchè fossero tutti dotti e famosi ». (8) Sui meriti suoi matemalici, vedasi l’ Elogio scrittone dal Pignotti. (9) Per l'offerta fatta da Ecfanto ad Apollo di un Tripode fabbricato da Trifone. (10) I Crudeli nacque a-Poppi in Casentino nel 1703, e morì nel 1745: il Parini nacque ne! 1729, e morì nel 1799. (11) E nuova fu la poesia del Parini, poichè, lasciando gli argomenti comuni, trattò gli utili e i filosofici. (12) Se ne possono vedere gli utili argomenti, negli articoli che si ristamparono. Gli autori del Caffè furono il Beccaria, il Frisi, i due Verri, il Franci, il Visconti, il Colpani, il Longhi, il Lambertenghi, il Secchi, e il Baillon. ” | | 427 (13) Quando si pubblicò nel 1765 quel libro famoso, in Francia si arrotava; e si continuò per molli anni. (14) Ognun sa che i Consiglieri del Granduca Pietro Leopoldo, in quel tempo, erano i famosi Pompeo Neri, e Angelo Tavanti, ambedue Toscani. (15) Si consultino i giudizj del Giornale dei Letterati, e si veda se la posterità non gli ha presso a poco tutti confermati. Si vedano quelli della più parte dei Giornali che or si stampano, e si giudichi se non è giusta la sentenza dell’ egregio Niccolini già nominato, che nella Prefazione alle Prose del Becchi scrive: « Non mai fu tanto dolorosa e vile la .condizione delle wa lettere, or più d’ogni merce bassamente venali; e fatte per pazza arro- ««ganza e stupida brutalità ‘così irriverenti ai sommi, e lusingatrici de- .« gl’imi; chè>puoi ;trovar l'elogio «di mediocrissime poesie accanto ai ibia- « simi dell’Ariosto e del Tasso: ond’ è omai giunto il tempo, che qualunque « abbia dignità, o almeno pudore, debbe sdegnarsi di esser lodato ». (16) E dopo morte altre ancora. (17) Rispettando le opinioni altrui, narro quanto ho inteso, e siccome ì versi improvvisi del Gianni, e della Bandettini furono trascritti, e dati alle stampe, lascio i lettori giudici della questione. (18) Ecco i versi, dando l'argomento dell’ Estro. « Tu l’arcano, ch’io cerco, esponi al giorno, « E mentre il ver dalle tue labbra espresso, « Splende di grazia, e di bellezze adorno; « Crederò di veder lungo il Permesso, « Fra il coro delle Muse accolto intorno « Parlar delle sue doti Apollo stesso. (19) La bella Ode del Monti, per la Bandettini, comincia: « Nembo di guerra intorno freme e morte ec. (20) E pur giunse la fama sino a noi di Terpandro, di Timoteo, e di Tirteo. (21) L'argomento si dava dalla viva voce di uomini onorati, sulla fede dei quali non poteva esser dubbio. Il metro davasi ugualmente; e quan- do si chiedevano ottave, la desinenza del primo verso era data dalle Signore in giro. Adesso gli argomenti si danno in iscritto, e la più parte dagli amici, © protettori del Poeta. Il resto sì comprende agevolmente . (22) Il Tasso ha un concetto simile, che fu ripetuto dall’ Alfieri nella Vita. (25) V. la Lettera XXII fra le Pittoriche del T. II. (24) Quarant'anni dopo la sua morte. (25) A questo: luogo non aggiungo che le seguenti brevi parole di Giacomo Leopardi, nel suo Discorso sulla fama avuta da Orazio presso gli Antichi. « Incomparabili e soli autori di bella letteratura furono in tutta 428 « l’antichità i Greci e i Latini: e possa chi lo nega rimanersi eternamente | « nella beatissima opinion sua ». Chiunque ha senno tiri la conseguenza. (26) Il Gori la pose intagliata nel frontespizio della sua versione di Longino. (27) Scolpito dal Demi, e inaugurato in occasione del primo Con- gresso degli Scienziati nel 1859. (28) In Via S. Maria. (29) Quantunque in un momento di mal umore dettasse |’ Alfieri quel suo Epigramma, che comincia « Io Professor dell’ Università ec. scrivendo al Lampredi, nell’inviargli il 1.° volume delle Tragedie. della prima edizione di Siena, gli dice: « Ella nel vederle informi ancora, si è « compiaciuto di lodarle. Crederei che siano fatte più degne di lei, oggi- « mai ». E le correzioni fatte dal MS. alla prima stampa eran nulla, in paragone di quelle fatte poi nella edizione di Parigi. MEMORIE INEDITE INTORNO ALLA VITA E AI DIPINTI DI FRANCESCO TRAINI E AD ALTRE OPERE DI DISEGNO DEI SECOLI XI, XIV E XV RACCOLTE E ORDINATE DA FRANCESCO BONAINEI x ESILIATO OLIO IEEE ROIO FOLIO TORTO OL RIO La storia delle Arti del Disegno progredì grandemente a questi tempi per gli studj forti e prolungati di molti, ed è vanto del nostro secolo l’ardore posto ugualmente dai paesani e dai forestieri nel far serbo di tutto quello che può porre in miglior - luce le vicende alle quali le arti medesime andarono soggette in Italia. Io non voglio contendere che il primo impulso a seguitare questi studj con ardore venisse dal Lanzi; pure a me sembra che la maggior parte di lode debba cedere al celebre nostro Prof. Ciampi, come quello che per le sue Notizie sulla Sagrestia Pistojese fece conoscere per il primo tutto il prezzo che hanno nella storia delle arti i documenti dei quali sono così doviziosi ì nostri archivi, e che ricondusse per questo modo gli studiosi Nella via donde si erano anzi tempo partiti. Il Ciampi operò prima che l’Italia fosse disposta; ond’è che il nobile esempio di tanto uomo non valse neppure ad incuorare due laboriosi e pazienti indagatori di monumenti di arti, il Romagnoli e l’Arri- Vabene, delle fatiche de’ quali i nostri non avrebbero gustato alcun dolce ove non si fosse fatto a dar loro pubblicità un 452 BONAINI Danese, il dottor Giovanni Gaye, mancato a noi nel fervore degli anni e degli studj. La fama di che il Carteggio d’ Artisti del Gaye confortava il suo nome, ed il grido che levarono presso alcuni le Ricerche sopra le Arti e gli Artisti del Rumhor valsero ad infondere qualche spirito nei nostri; e bene lo mostrano le Memorie Originali Italiane risguardanti le Belle Arti del Gualandi ove sono documenti assai pregiati, a raccogliere i quali dette grandissima mano il pittore Carlo Ernesto Liverati, tolto pur esso, come il Gaye, al progresso di questi studj quando più facea bi- sogno dell’indefessa sua opera. Questi nobili esempi furono utili documenti per alcuni (1), e volle la mia buona fortuna che riu- scissero profittevoli ancora a me, che già da più anni mi sono dato con tutto l’animo ad adunare notizie storiche d’ogni ma- niera, parte delle quali presi già a pubblicare nell'Archivio Sto- rico Italiano (2), sol come saggio di quelle maggiori che daran materia ad opere non meno gravi. Se non che io provo fin d’ora il bisogno di recare in pubblico certi documenti capaci, per quel che stimo, di rischiarare in qualche parte l’istoria delle Arti, allinchè se ne giovino, se pur lo vogliono, gli studiosi. Per essi potrà emendarsi prima d’ogn’altro scrittore il Vasari, poi alcuna cosa ancora che fosse scritta più modernamente da chi parlò dei dipinti del Traini, di Simone di Martino (volgarmente il Mem- mi), infine di Taddeo Bartoli sanese. (1) Merita sopra ogni altro di essere qui ricordato con lode il P. Vin- cenzo Luigi Marchese, che compieva pur ora un’ opera lodatissima sopra gli Artisti Domenicani, ricca di preziosi documenti. (2) Tomo VI. Sono in esse comprese, oltre alle Storie Pisane del Ron- cioni serilte nel secolo xvI, molte Cronache contemporanee, che verranno in breve succedute da un Codice diplomatico di documenti inediti, e dal Re- gesto di tutte Je Carte pisane le quali trovansi a stampa. MEMORIE INEDITE DI DISEGNO 455 CAPITOLO LI. DI FRANCESCO TRAINI, E DI UNA SUA OPERA DI PITTURA NOVELLAMENTE DISCOPERTA. Il Vasari scrivendo di Andrea Orgagna giunto a quel luogo ove cadeagli in taglio di dire della scuola di pittura che credè fondata da esso, dopo di aver narrato come fossero suoi discepoli in quest'arte « Bernardo Nello di Giovanni Falconi | pisano che lavorò molte tavole nel Duomo di Pisa, e Tommaso . di Marco Fiorentino che fece, oltr’a molte cose, l’anno 1592 una tavola. ...in S. Antonio » (1) di questa stessa città, (opere | che ora cercansi invano) soggiunge che fra quanti l’Orgagna ammaestrò nel dipingere, niuno fu più eccellente di Francesco Traini, il quale in una sua tavola, di che dovrem dire fra non molto, vinse di gran lunga il maestro (2). Questa egregia lode del Vasari fu la sola parola di storico antico che salvasse dalla | dimenticanza il nome venerabile del Traini, dacchè di esso facque poi ognuno, perfino il Baldinucci, il quale tornando a serivere dopo il Vasari dell’Orgagna, non mandò dimenticati — Bernardo Nello di Giovanni Falconi e Tommaso di Marco Fio- | rentino, abbenchè artisti giudicati dal Vasari, quasi direi, doz- zinali ed inferiori al maestro (5). Il Pelli fu più conseguente, perocchè dettando un breve elogio dell’Orgagna; dopo di aver detto di quel grande stimò bello il silenzio di qualunque pittore il quale uscisse dalla scuola di lui (4). Non così il Da Morrona. di î (1) Vasari, Opere annotate dal MONTANI e dal MASSELLI. Firenze 1852—1858. 8.° 7. /, 172. (2) VASARI 7, 172. i (5) V. BaLpinucci, Delle Notizie de’ Professori del Disegno annotate i dal Manni. //, 155. (4) Elogi degli Uomini IHlustri Toscani. Lucca 1771. 8.° I, CCXVII—CCXXII. 55 | | | il 454 BONAINI Illustrando i monumenti della chiesa nostra di S. Caterina parlò — del Traini, ma non trovò sillaba da aggiungere al poco che già ne aveva scritto il Vasari (1). Era serbato al Lanzi il riporre in î qualche guisa in onore l’artista singolare, giudicandolo, siccome — scrisse, molto superiore al maestro, e però assai diverso da Mariotto nepote d'Andrea e da altri mediocri i quali, insieme | a Bernardo Nello di Giovanni Falconi, usciron da quella scuola che l’Orgagna, secondochè è scritto, aveva aperta in Firenze (2). AI Lanzi tenne dietro per ultimo l'illustre Rosini; ma come quel- lo che può sprezzare ogni servilità ne’ giudizj, uno ne portò del | Traini per cui puossi ora meglio conoscere fino a qual segno giovasse all'incremento dell’arte questo pittore (9), di cui volle la sorte, or non ha guari, che io discuoprissi nel nostro Seminario Pisano la miglior parte di una tavola della quale in tutti è silenzio fuorchè nel Vasari (4); e per di più della derrata certe memorie scritte di bella autenticità, capaci di dimostrare ap- puntino a qual anno del secolo xiv appartenga l’Artista mirabile, che il Lanzi, come ben riflette il Rosini, senza fondamento di sorta alcuna asserì essere stato fiorentino (5). (1) Pisa illustrata nelle Arti del Disegno, ed. 2.* III, 106. (2) Storia Pittorica dell’Italia, ed. 4% Pisa 1815—1817. 8.° 1, 44, (3) Storia della Pittura Italiana, II, 86—88, 95, 94. (4) Potrei ricordare oltre il Ticozzì, del cui giudizio accaderà di parlare in appresso, assai scrittori i quali discorsero del Traini più o meno + largamente, senza però discostarsi dal Vasari, Sono di questi l'A. dell’Elo- gio dell’ Orgagna riportato nella Serie degli Uomini i più, illustri nella pi tura, scultura e architettura (Firenze 1769—1775. 4.° I, 55), e lo scritto! e del Supplemento alla Serie dei trecento Elogi e Ritratti degli Uomini i più illustri in pittura, scultura e architettura, ossia Abecedario Pittorico, Fio renze 1776. 4.° 7, 455. Ad essi possono aggiungersi coluì il quale dettò le: Memorie de Pittori Messinesi (Messina 1821. 8.° p. 5) e l'illustre G. B. NiccoLINI. V. Opere in Prosa. Prato 1841. 8.° p. 50. (5) Lanzi /, 44. Rosini Z7, 86. Il dotto mio amico sig. Carlo Mila- nesi, cuì fecì preghiera di esaminare il vecchio libro ms. della Compagnia de' Pittori Fiorentini, posseduto dal lodatissimo annotatore del Vasari sig. MEMORIE INEDITE DI DISEGNO 455 L’opera, onde parlo, è quella medesima che il Vasari narrò aver fatto il Traini per un Signore di casa Coscia. Era }°11 di febbrajo di quest'anno 1846, allorchè ne rinvenni, per — sorte, due parti (quelle ove sono otto piccole storie) in una stan- | za terrena del Seminario. Già da due anni rovistando nei conti dell’operajo Giovanni Coco, i quali sono nell'Archivio dell’Ope- ra del Duomo, io aveva letto aver egli fatto pagamento al Traini il Vasari, non accolsi nell'animo neppure il sospetto che quella tavola fosse diversa dal dipinto del S. Tommaso d’ Aquino. Giuseppe MASSELLI, mi avvisa non esser giunto a rinvenirvi il nome di Fran- cesco Traini. Questi sono, secondo un tal codice, i piltorivi più antichi, i Francesco Pardi ...... ". + 1540 | Francesco: Boni... ....... . 1571 Francesco Cennamella. . . .. 1542 | Francesco Bondanza . . +... . 1548 Francesco Consigli. . . . . +. 1540 | Francesco Cialli. ......... 1544 Francesco di Maestro Giotto . 1541 | Francesco Pucci ......... 1587 Francesco Berlini ....... 1540 | Francesco del Maestro Niccola . 1548 Francesco Corsellini. ...., 1540 | Francesco Bartoli... .... . 1565 Francesco Vannini. ...... 1540 | Francesco Neri . .... RA G68 Penso che piacerà agli eruditi il leggere a questo luogo una congettura gegnosa che fa il DEL MIGLIORE, in certe aggiunte e correzioni mss. alle Vite Vasari, le quali posson vedersi nella Magliabechiana. « Ho dubitato (egli ìve ) che il casato di costoro ( Orgagna) fosse de’ Traini, e che quel Fran- cesco Traini nominato di sopra fosse di questa agnazione, non conosciuta tale all'aubre ( Vasari); e questo dico perchè Mariotto, nipote di Andrea, e liuolo di Bernardo di Cione, si chiama anch’ egli de’ Traini, famiglia anti- a che ha avuto cariche e onori nella Repubblica. Non sarebbe gran fatto: olte famiglie usarono invece di casato il nome del padre o dell’avolo, e asciarono il casato antico, massime quando un di quelli, o padre o avolo, era reso di nome per qualche azione o virtù nel pubblico ». Io debbo per grazia di tale notizia non tanto all'ottimo sig. Milanesi testè ricordato, quanto al sig. Carlo Pini, artista e conoscitore profondo dell’istoria dell’arte. 456 BONAINI fine di persuadermi che le partite di libri di spese dell’operajo Giovanni Coco accennassero alla tavola del S. Domenico, non. all’altra del S. Tommaso. Scrivo di queste cose perchè si conosca da ognuno come avvenisse la mia scoperta. Ma la lode di essa non debbe venire a me per intiero; chè il vanto d’avere additato i due altri dipinti i quali in antico composero il quadro debbe cedere tutto a chi pubblicò il Catalogo degli oggetti d’arte della nostra - Accademia nel 1857, inquantochè in quella scrittura additò che fra gli altri dipinti della nobile collezione eravi un S. Do- menico del Traini ed un Divin Salvatore ugualmente colorito | da esso, non sospettando, è vero per altro, che potessero avere appartenuto al quadro descrittoci dal Vasari (1); cosa di cui fu | primo a farmi accorto l’egregio sig. Carlo Pini di Siena, tosto- chè io gli ebbi fatto conoscere le due parti laterali, le quali avea discoperte nel Seminario. Il Vasari prende a descrivere il quadro per questo modo. « Francesco Traini (egli dice)....fece per un Signore di casa | Coscia, che è sotterrato in Pisa nella cappella di S. Domenico | i della chiesa di S. Caterina, in una tavola in campo d’oro, un S. Domenico ritto di braccia due e mezzo, con sei storie della vita sua che lo mettono in mezzo molto pronte e vivaci e ben colorite » (2). Così il biografo, ma non esattamente. Infatti sono molti gli errori ne’ quali è incorso scrivendo per quest forma. So che non avvi errore in ciò ch’ ei dice della misura | del S. Domenico, che l'altezza di esso ragguaglia assai bene 2 (1) PoLLoni, Catalogo delle Opere di Pittura, Modelli in /gesso ed altri oggetti riuniti nell'I. e R. Accademia di Belle Arti. Pisa 1857. 8.9 pag. 15, 21. Varie opere di pittura conservate nella nostra Accademia vengo no in questo scritto attribuite in mal punto al Traini. Vorrei peraltro che gl Arlisti togliessero ad esaminare il piccolo quadro del S. Tommaso d’ Aquino che si dà come opera di questo stesso pittore. (V. il predetto Catalogo, p. 17 (2) VASARI 7, 172. MEMORIE INEDITE DI DISEGNO 457 $ quella che viene indicata, siccome vedremo; ma le storie o fatti $ del Santo dei quali tocca non sono sei, sibbene otto di numero, —_ dacchè si vedono a quattro a quattro distribuite ne’ due com- partimenti. Se non che non svelai tutto l'errore. Quello in che il Vasari si mostra mal conoscente si è l’aver supposto che la | tavola fosse fatta per volere di uno di casa Coscia, znentre non ‘avvi dubbio che fosse allogata al Traini da Giovanni Coco ope- rajo del Duomo, il quale dovè porre ad effetto le cose ordinate da Albizzo delle Stadere de’ Casapieri, come oltre alle carte (1) ben lo dimostra quest’iscrizione, che appare chiarissima nella | parte inferiore del quadro. Hoc * OPUS * FACTUM * FUIT : TEMPORE * DOMINI * JOHANNIS : COCI \OPERARII © OPERE * MAIORIS © ECCLESIE : SANCTE * MARIE * PRO COMUNI * PISANO . PRO * ANIMA * DOMINI * ALBISI : DE * STATERIS DE * PE....... SUPRADICTE - FRANCISCUS * TRAINI * PIN * (2): Ma qui gioverà, a me sembra, il cercare alcuna cosa dei due i quali apprestavano occasione al Traini di porre a prova ingegno maraviglioso, più che per appagare certa vana curiosi- tà, per quel bisogno che dee sentire ogni animo bennato di pro- fessar gratitudine a coloro che usarono della fortuna in pro della ligione e delle Arti. Giovanni Coco, l’operajo che allogò al (1) V. Docum. 1, III, V. (2) L'iscrizione è in caralteri del tempo sopraccarichi d’ abbreviatu- re. Facilmente si seuopre che fu di colore ceruleo al pari dell'altra che sta sotto alla figura del S. Domenico, ch”è nell’ Accademia; ma venne ad essa ‘agevole vedere come il Vasari confuse Giovanni Coco operajo con quel Ma- ino di Giovanni Coscia di Napoli (V. sotto, p. 495) la cui lapide: sepolcrale, | con basso rilievo di bella maniera rappresentante il defunto compiutamente armato da cavaliere, vedesi nella chiesa, e porta questa iscrizione: HIC * JACET * CORPUS * DOMINI © MARINI * MAGNIFICI * MILITIS î OLIM * DOMINI © JOHANNIS * COSSE * DE * NEAPOLI * QUI © OBIIT AD * Mt CCCC * XVII * DIE ? XXVII * MENSIS * OCTUBRIS ® m. 458 BONAINI Traini il dipinto, fu uomo di legge (1). Ebbe ufficio di Anziano del popolo ben cinque volte, e pare lo tenesse per guisa da con- ciliarsi opinione nel pubblico d’uomo. non solo pratico, ma inte- gerrimo (2). Sotto la sua amministrazione venne scolpita Ja statua di Nostra Donna sulla porta reale del Duomo, non saprei dire da quale artefice (3), e per suo eccitamento Tomeo o Tommaso dipintore figliuolo di Betto coloriva un’ imagine di S. Cristoforo. nella stessa chiesa, la quale oggi cercherebbesi invano (4). Al (1) Me lo fanno chiaro i documenti nei quali è detto Judex (giuris- perito ), e lo congetturo altresì per questo legato che fece nel testamento. suo del 19 agosto 1546, carla che può vedersi nell'Archivio Diplomatico di Firenze. « Item judico et relinquo de bonis meis pro anima mea donne Becte nepoti mee moniali monasteriù Sancte Anne Digestum meum Novum — sibì dandum incontinenti post mortem meam ». | (2) Fu sempre priore degli Anziani pel quartiere di Chinseca. Tenne questo ufficio per la prima volta ne’ mesi di marzo e aprile 1551 quando fu capitano del popolo Filippo de’ Brancaleoni del Monte Della Casa, e vi fu assunto di bel nuovo nell’anno susseguente nei mesi di novembre e dicem- | bre, allorchè al Brancaleoni era succeduto Branca Gentile da Carticeto. Il suo terzo priorato spetta al novembre e dicembre del 1556. Era allora capitano del popolo Giannotto di Francesco d’ Alviano. I due» ultimi priorati sono l'uno del settembre e ottobre 1558 (capitano del popolo Ceccarone da Massa), l’altro del settembre e ottobre 1340, mentre fu capitano Cecchino Vessi d’Alviano. (V. Brepe Vetus Antianorum Pisanae Civitatis cc. 66, 71, | 85, 89, 94. MS. di N.° 1055 dell'Archivio della nostra Comunità di Pisa). Eletto operajo nel 1342 dopo Michele Scacceri, che tenne per brevissimo i tempo questo grado, egli lo ebbe fino al 1546. Il suo corpo fu sepolto nel Camposanto, giusta la volontà che egli aveva espresso, per questa guisa testando: « Judico corpum ‘meum sepeliendum ‘in Camposaneto Pisane Majoris Ecclesie indutum veste de canapaccio ad modum cappe quam portant bactuti Civitatis Pisane ». (5) Docum. VI. Avverta il lettore, che tutti i documenti ch'io reco in luce sono secondo l’Era Pisana, la quale incominciava dal 25 di marzo e computava sempre l’anno corrente; a differenza della Fiorentina, che compultava l’anno scaduto. V. BRUNETTI Codice Diplomatico Toscano. Firenze 1806—1855. 4.° JI, 29. (4) Docum. IV. Forse fu posta nel luogo istesso ov’ era già altra statua di Nostra Signora, di cui scrisse per cotal modo un antico cronista da me , MEMORIE INEDITE DI DISEGNO 459 bizzo Delle Stadere (ramo de’ Casapieri, che così si disse dal diritto che aveva su’ pubblici pesi), la benedetta anima che volle si erigesse la cappella di S. Domenico, fu spirito più elevato, uomo veramente adattato ai. negozj pubblici. Inviato da’Pisani al convegno di Volterra allorchè fermossi la pace tra i Comuni di Toscana e quelli di Lombardia, com'è nelle storie (1), ebbe novello carico di ambasceria quando nel 1525 si volle trovare chi fosse adatto ai maneggi politici e che sapesse star saldo anche dinanzi a Castruccio (2). Era il nostro Albizzo uomo tutto spirituale e perciò devotissimo de’ frati Predicatori, trai quali allora vivevano non pure F. Taddeo Dini da Firenze e _F. Ranieri da Rivalto solenni teologi, ma que’ due lumi della | favella F. Bartolommeo da S. Concordio e F. Domenico Cavalca; î quali tutti gratificdò di legati siccome poveri del Signore. pubblicato, narrando i fatti del 1522: « E funno terremuoli grandissimi, e | cadde la imagine della Nostra Donna, che era di marmo, in sullo fronte- spizio di Duomo » R, SARDO (Arch. Stor. Ital. VI. P. 1,104). (1) Roncioni Istorie Pisane lib. 15. ( Arch. Stor. Ital. VI; 715, 714). (2) Lo altesta il Roncioni nell'opera ms. Delle Famiglie Pisane — Famiglia Casapieri; lavoro di cui feci già parola, e che sono adesso per pubblicare. (V. Arch. Stor. Ital. VI. P.I. pp. xx, xxI, P. II. pp. XIV; XV). n nostro storico parlò altresì di una precedente ambaseeria di Albizzo a — Castruccio inviatagli dai Pisani quando conveniva celare gelosamente lo sde- gno che bolliva fortissimo in loro, per le mene che aveva falle con Coscetto Dal Colle affine d’insignorirsi di Pisa. « E perchè Castruccio (egli scrive)... aveva preso la guerra con il popolo fiorentino, giudicarono non esser bene il dimostrarsegli nemici: e serbando ad altro tempo il farne vendetta, poten- do e venendo loro l'occasione; mandarono Albizi Statere, Mense da Vico, Giovanni Tegrini (cavalieri e dottori), Simone Stefani e Leopardo Morrona, per loro imbasciatori a Castruccio, offerendogli gente e danari, perchè Uscisse in campagna a danno de’ Fiorentini » Zstorie Pisane p. 721. Qui credo - bene avvertire aver vissuto a questi giorni medesimi un altro Albizzo dello Sesso casato; che professò la regola degli Agostiniani dopo di aver condotto Vila coniugale. Di ciò me ne rendono avvisato due carte inedite dell’ Archivio della Curia Arcivescovile, l’ una del 2 gennajo 1531, l’altra del 3 aprile 1534, non che il testamento del nostro Albizzo. V. Docum. I. m. 440 BONAINI . Do fra i documenti il testamento di esso (1) perchè sia dure- vole memoria delle grandi liberalità che usò, e dell’ardente amor suo per la conservazione de’ nostri sontuosi edifizj posti pel culto, a pro de’ quali volle che tutte alla perfine cedessero le sue molto larghe facoltà. Per tal modo in quella età i cittadini solevano usare del censo loro, e così operava colui che fu occasione al Traini di farsi ad una prova, siccome è quella che ne lasciò | nella tavola di cui parliamo, così stupenda nell’arte. La tavola in discorso fu al Traini allogata dall’ operajo Coco per centodieci lire di denari pisani e non più. Quando vi si adoperasse attorno, in qual anno la lasciasse compiuta, la storia dell’arte lo dirà d’ora innanzi. Oltre all'iscrizione già riportata vengono adesso in luce tre partite di spese tratte dai | libri dell'Opera del.Duomo, per le quali è fatto chiaro che nel 24 aprile 1544 il lavoro era bene incamminato, e che nel 9 lu- glio 1545 vedevasi già presso al suo termine; se pur non vuol. dirsi che lo fosse fino dal 15 gennajo antecedente. Ed infatti nell’aprile del 1544 e nel gennajo dell’anno appresso furono pagate dall’operajo Giovanni Coco a Francesco dipintore condam Traino da prima diciotto lire e dodici soldi, poi sessantasette altre lire come parte della mercede stabilita « per dipintura una taula la quale a lautare di Messere Albiso dele Statee... a Santa Chatalina », e nel luglio successivo F. Stefano « del- l'Ordine Predicatori » ebbe tre lire e due soldi « per fare. uno palio di setta dinasi alautare et ala taula che de in sue lautare di Messere Albiso dele Statee in Santa Chatalina (@) ». Ciò rende palese che nel 9 luglio 1545 la tavola condotta alla perfezione vedevasi già sull’altare. Or ripensando un poco a (1) Docum. I. (2) Docum. II, III, V. Fra Stefano Dei Pungilupi, cui dall'oporali vien fatto il pagamento del pallio di seta, era sagrestano della chiesa, come narra la Chronica Antiqua S. Chatarinae S. 229, da me pubblicata nell’ Archivio Storico Italiano VI. P. 1I, 598—595. MEMORIE INEDITE DI DISEGNO 441 queste notizie, assai conclusioni a me sembra possano cogliersene e tutte nuove; e questa per prima, vo’ dire, che il pittore nostro fosse nato di un tal Traino, e che perciò il Traini che leggiamo nell’iscrizione sia nome del di lui padre e non casato di fami- glia (1). Giò giovi ad emendare il Vasari e coloro i quali scris- sero nei tempi appresso, abbenchè, per non contraffare alla pra- "tica oggimai invalsa, noi stessi abbiamo usato chiamar Traini il pittore che veramente fu detto solamente Francesco, ossivvero — Francesco di Traino, e non in altro modo. Questa è lieve emen- dazione, io lo vedo; ma è pur voluta, ed io volentieri V' ho qui | posta fissando l'occhio all'esempio del Della Valle, che scrisse più largamente assai di quello che per me siasi fatto, acciocchè ‘osse manifesto l’ errore di chi disse Simone Memmi l'artista che veramente fu chiamato per ognuno a’ suoi giorni Simone di Mar- no (2). Ma di ciò fu detto abbastanza. L'altra conclusione e più grave, la quale viene dai documenti che io ho tratto fuori, | parmi sia questa: che non più il Traini potrà dirsi uno di quelli, i quali s’istruirono nel dipingere nella scuola d’ Andrea Orgagna. « Costui (scrive il Vasari di Andrea) cominciò ancora é fanciulletto a dar opera alla scultura sotto Andrea Pisano, e se- guitò qualche anno; poi essendo desideroso, per fare vaghi com- ponimenti d’istorie, d'essere abbondante nell’invenzione, attese | con tanto studio al disegno, ajutato dalla natura che volea farlo universale, che, come una cosa tira l’altra, provatosi a dipingere coni colori a tempera e a fresco, riuscì tanto bene con l’ajuto di Bernardo Orgagna suo fratello, che esso Bernardo lo tolse in | compagnia a fare in S. Maria Novella (di Firenze) nella Cappella |a 4 . (1) Così lo vedo denominato anche appresso il Ciampi (Notizie in- edite della Sagrestia Pistojese de’ Belli Arredi. Firenze 1810. 4.° p. 117) là dove presenta una serie di pittori ricordati ne’ monumenti riferiti nelle sue dissertazioni, o pure in altre carte che gli fu dato vedere. (2) V. Giornale de’ Letterati di Pisa del 1784. LIII, 24V. — Lettere Sanesi sopra le Belle Arti. 11, 82. 442 BONAINI maggiore, che allora era della famiglia de’ Ricci, la vita di No- stra Donna » (1). Ciò avvenìa solamente nel 1550 (2). Vedano i pittori se lo stile del Traini, tutto simetrico nell’aggruppare e tutto gajo nei colori, convenga in qualche cosa colla pratica dell’Orgagna « che nel comporre è meno ordinato, nelle mosse — men regolato che i Giotteschi; e che cede loro nelle forme e nel colorito (3) ». Certo non avverrà facilmente ch’ io pensi che un pittore sì stupendo e sì pratico qual esso era nel 1544, fosse discepolo a tale il cui nome apparisce sol fra i professori di cotal arte nel 1550 (4); e, quello che è più, che si fa all’opera, che al- lora conduce, ajutato dal fratello Bernardo, o più veramente che si fa a dipingere in sua compagnia quale artista minore. Come credere poi che Andrea avesse discepoli nel dipingere prima del 1558, se solo in quest'anno si matricolò per pittore? (5) Ma sebbene questo non fosse, altre ragioni validissime ver- (1) Vasari 7, 169. (2) BaLpinuceI 17, 125. (3) Lanzi I, 45, 44. (4) BaLpinucci 27, 125. Il Ciampi ( Notizie inedite ec. p. 117) scrivendo. di documenti da esso veduti, nei quali è menzione di pittori e di opere loro, accenna che nel 1541 Francesco q. Traino dipinse un gonfalone per Ja fra-. ternita delle Laudi di S. Maria Maggiore. Se quest'opera fu per il nostro Duomo, come io penso, si avrebbe ragione di supporre che il pittore fosse già tra di noi nel 1541. Forse alcuno direbbe che questa notizia, unita alle _ altre per le quali è chiaro che il Traini era in Pisa nel 1544, condelee a cre- derlo pisano. Io per altro non oso di asseverarlo, quantunque possa affor- zare la congettura l'assoluto silenzio che osservo ne’ monumenti intorno alla di lui patria. (5) Lo attesta il BALDINUCCI Z7, 125. Negli Statuti deì Pittori Sanesi, cap. 50, così si dispone: « Anche è ordinato che neuno tengha alchuno gignore overo discepolo o vero alcuno altro a imparare o a fare l’arte de li depin- tori in buttigha overo altrui, già se non fusse sottoposto et abbia iurato a la decta arte et a la università, et se non à dato quello, che ne lo statuto de la decta arte si contiene » (DELLA VALLE, Lettere Sanesi 1, 149. GAYE, Car- teggio inedito d’ Artisti dei secoli x1v, xv, xV1. II, 14). Uguale disposizione dovette essere senza meno anche negli Statuti dell’arte dei pittori di Firenze. MEMORIE INEDITE DI DISEGNO 443 rebbero a persuadercene. Dal 1520, nel qual anno dicesi nato l’Orgagna (1), al 1544 corrono soli ventiquattr’ anni. Ora e’ pare incredibile che in periodo di tempo sì breve ed in età così fresca potesse l’Orgagna crescere grande maestro nella scultura sotto di Andrea Pisano, e profondarsi poi tanto nella pratica del dipingere, da aprire egli medesimo una scuola di pittura ca- pace di produr tali artisti da farne maravigliare ciascuno pel lungo uso che mostrano del disegno, de’ colori e d’ogni difli- coltà di quest’ arte, com’ era il Traini quando l’operajo Giovan- ni Coco allogavagli la tavola di che parliamo. Sennonchè qui | giova avvisare all’origine dell'errore. Il Vasari nel descrivere la tavola del S. Tommaso d’ Aquino, narra che fra i papi il Traini ha posto il ritratto di Urbano VI (2). Vi era allora, come di pre- | sente, il brutto cartello appiccato da mano moderna al manto 0 piviale d’ignoto, e privo affatto d’ogni insegna di pontefice, e su cui leggi le parole Urbanus Sexrtus Pisanus con tali forme che male ritraggono dell’antico? Io voglio credere che non Vi fosse tale goffaggine. Certo torna meglio il pensare che la sconcia leggenda sia stata aggiunta dopo l’incendio del 1650, dietro l’erronea credenza, che nacque forse in principio dal 4 * (1) BaLpinucci 77, 122. Questo scrittore è seguitato dal Montani nelle “note al Vasari /, 175. Il ch. G. B. NiccoLINI ( Opere în Prosa p. 45) si allarga molto sopra questo punto di critica, e segue anch'esso l’opinione del Baldi- mucci. Al ch. Prof. Rosini (Storia della Pittura Italiana 1I, 72) è pia- ciuto seguitare altro avviso. Egli crede nato l’Orgagna nei primi dieci anni del secolo xt, perchè stima che dipingesse nel Camposanto prima di Simone di Martino (il Memmi comunemente ) che vi operò, giusta il suo detto, ne] 1554 e nel 1535. Non so qual giudizio siasi portato sull’opinione di uomo così Yaloroso. I fatti addotti dal Baldinucci a me pare che dissuadano fortemente dal seguitarla. Del resto, mentre egli crede nato l’Orgagna nel primo de- cennio del secolo xuI, fuvvi altri (il Piacenza) il quale asserì che alla data posta dal Baldinucci e seguitata dai più debbono aggiungersi nove anni an- cora. V. BaLDINUCCI, ed. di Torino 1768—1770. 4.° I, 244. (2) Vasari /, 172. | | 444 BONAINI volgo che non s occupa più che tanto d’istoria, e che solo erede. quello in che trova appagata la boria di municipio (1). Sia. pur che il Traini vivesse nel 1578, anno in cui fu eletto pon- tefice Urbano VI, trentatre anni dopochè avea colorito pei frati di S. Caterina la tavola del S. Domenico. Vorremo credere per questo che dopo un intervallo di trentatre anni fosse chiamato di bel nuovo a dipingere dai frati nella lor chiesa, e che la maniera e lo stile di pittore così provetto potesse in tutto rispondere alla v prima? E poi, come credere che i frati pensassero, tosto dopo | l'elezione d’ Urbano, ad ordinare la tavola, e che per onorare il | pontefice lasciassero che fosse dipinto tra molti senza distintivo di sorta alcuna? Lo avrebbe fatto il Traini uso a serbare il decoro | per guisa, che dipinse Innocenzo IMI colle insegne di pontefice | anche quando lo figurò adagiato sul proprio letto ed immerso nel sonno? Avrebbero potuto ordinare i Domenicani di Pisa che ve- È nisse dipinto il pontefice Urbano quando nell'Ordine erano molti i seguaci dell’antipapa Clemente VII, e che capitanavagli frate î Elia da Tolosa loro maestro generale? (2) Perchè non credere | piuttosto che i frati ordinassero al Traini il dipinto del S. Tom-_ maso tostochè videro il felice riuscimento del primo; quando vi- veva tra di loro, per tacer d’ altri, F. Bartolommeo da S. Con- cordio grande maestro di scienza divina e profana, e per ciò solo capace di guidare la mano dell’artista in un’ opera che chiedeva | tanta dottrina? Vorremo noi dire ch’eglino ordinassero la tavola DI (1) Una narrazione dell’incendio lasciataci da un contemporaneo è dal me pubblicata nelle illustrazioni alla Cronaca di questo convento. Arch. Stor. Ital. VI. P. Il, 406-408. Perì per tale infortunio la tavola del S. 4 Tommaso d'Aquino, colorita in Roma dopo, il 1654 da Alessandro Cominotti d’ordine di Giuliano Viviani pisano vescovo dell'Isola, poi eletto arcivescovo di Cosenza. « Fu allora (scrive il biografo del Viviani )...che Cosimo ed Urbano Viviani nepoti del vescovo fecero restaurare l’altare, e vi collocarono la presente antica tavola dipinta da Francesco Traini». Memorie d° illustri Pisani. III, 545. (2) V. Memorie d'illustri Pisani. 1V, 195. j MEMORIE INEDITE DI DISEGNO 445 quando mancavano loro perfin le spese della famiglia, e quando la carità dei devoti vedevasi siccome spenta? Ed era così in quei tempi. I miseri frati nel settembre del 1580 doverono vendere certi loro terreni di Cisanello (contado nostro) per cinquecento ventotto lire ed otto soldi « pro convertendo prae- tium (son le proprie parole dell’ istrumento) in emptionem vietua- lium, videlicet vini necessarii ad ipsorum fratrum vitam,...... cum cleemosynae et charitates defecerint in Civitate Pisana, et unde vivere et emere vina non habeant ». Così in questa carta inedita | che già fu del convento, e che venne, posso dire per sorte, n mie mani (1). p? Chiarito per cotal modo come non convengano i tempi per forma da poter dire che il Traini sia stato discepolo dell’Orga- na, veggomi ora condotto naturalmente a parlare del quadro del S. Domenico di cui avvi una parte, siccome dissi, nell’Acca- — demia di Belle Arti, un’ altra nel Seminario. Su di che converrà (1) Carta dello Scrittojo del Seminario N.° 152. Fra gli altri riscontri È. indigenza in che allora erano caduti i nostri frati, e dalla quale vennero ; afflitti anche ne’ tempi successivi, parmi bellissimo indizio quello che può desumersi da una carta volante aggiunta al libro di conti di N.° 82 dell’Ar- Merito dell'Opera del Duomo, ove si dice: «Io frate Tomazo da vico essendo | priore del convento di sancta Catalina ricevettj inpresto per grande carità da ppesser Parazone grasso operaio dela chiesa maggiore o vero del duomo di CR linfrascritti denari con alcuni pengni. Cioè che « In prima addi xxnI di maggio anno domini 1586 fiorini xxx per li "quali elli per sengno et pengno ae uno calice del convento lo quale calice ae in del piedistallo la imagine del crocifixo et dimolti autri sancti come ‘appare in del libro dela borsaria del decto convento per mano di frate Gio- vanni danagna borsaio del convento ad fogli 66 ». & « Item anno 1586 addì xxm doctovre ricevetti inpresto per lo dicto ‘convento dal decto messer Parazone fiorini cento come appare in del sopra- dieto libbro per mano del detto frate Giovanni ad fogli 73 ». « Item lo decto die ricevetti vino delba dallui lo quale montoe in tutto e così li rimanemmo addare fiorini XLVII ». « Per li dicti Centoquarantotto fiorini elli ae per pengno lo fregio del- l’ariento dellautare maggiore ». 446 BONAINI che io mi distenda non poco e perchè il Vasari ne ha dato la descrizione la più manchevole che mai dir si possa, e perchè questo quadro del S. Domenico è uno de’ più perfetti e de? più rari dipinti del secolo xIv, perfettissimo e rarissimo anzi quando si pensa che il Traini era sì stupendo pittore nella prima metà di quel secolo, e che non venne, come fino a qui fu creduto, dal magistero grandioso di un Andrea Orgagna, che parve pittore tremendo ed imitabile perfino al Buonarroti. Già il Rosini (1) disse sublime il concetto del quadro del S. Tommaso d'Aquino: vero monumento del sapere maraviglioso degli artefici di quella età, e dimostrollo tale contro il torto vedere del Vasari e del Lanzi. Per siffatto giudizio troverà fede, io non ne dubito, la parola nostra, che non potè essere avvalorata, come pur sa- rebbe d’ uopo, da una rappresentazione qualunque de’ soggetti; - perocchè bramosi di far conoscere al più presto la scoperta, non potemmo aggiugnere ugualmente alla presente scrittura gl’ inta- gli, nei quali spero darà bella prova di se il sig. Giovan Battista î Gatti uso a riprodurre ne’ suoi rami, più che le linee, il senti. mento e l’affetto che spira dalle opere dei nostri cari pittori dei i secoli xIV e xv. Y Il quadro del S. Domenico è in altezza tre braccia e due quattrini, qualora si tolga a misurare dal centro; quattro braccia undici soldi e due quattrini in larghezza, misurato in totalità. Forse fu di altezza maggiore perchè e’ potrebbe credersi che il - Traini, secondo l’uso di quella età, vi aggiungesse ancora il gradino che ora manca all’intutto. Son quattro le tavole. Quella che tiene il mezzo e su cui è dipinto il Santo Patriarca è di tre braccia e due quattrini in altezza, siccome fu detto; in larghezza è di un braccio sei soldi e un quattrino, non compresa la tavoletta triangolare che vi è sovrapposta, la quale è di misura in altezza di un braccio. Le due tavole laterali sono in altezza (compresa (1) Storia della Pittura Italiana. II, 86, 87, 95. MEMORIE INEDITE DI DISEGNO 447 ciascuna piramide) due braccia undici soldi e due quattrini; in larghezza un braccio dodici soldi e due quattrini ugualmente. Già dissi come siano otto le storie del Santo, cioè quattro per ciascun compartimento. Ora soggiungo che ciascuna è dipinta in campo d’oro in un compartimento non maggiore di sedici soldi, e che sopra le due, l’una sull’altra ricorrente, l'occhio scorge piccola piramide ove in tredici soldi di spazio campeggia, sopra fondo pure di oro, una mezza figura di profeta. Tal’ è Ia tavola del Traini, non sopraccarica per intagli arabescati alla tedesca, ma tutta bella per sobrietà e semplicità d’ornamenti, bellissima anzi perchè senza pure un’ ombra di profano ritocco, e perciò | così viva, che ti pare pur ora uscita di mano all’artefice. __— Tale è Io stato in generale della tavola, e così appare ad / gnuno, solo che si faccia a riguardare il S. Domenico, che è tato dal Traini colorito diritto in piedi, per altezza quasi che al naturale e, per quanto io tengo, in ogni sua parte secondo le tradizioni (1). Il volto tra il severo e il piacevole: i capelli rossicci, ma tagliati a guisa di corona secondo l’uso de” frati: la - barba rasa. Nella destra il giglio fiorito, simbolo di purità; nella sinistra il libro aperto col motto: Venite filiî, audite me timorem Domini docebo ea a significare che il Santo Patriarca fu maestro dell'Ordine, com’ è nell’antico dipinto di S. Domenico Maggiore di Napoli e nel mosaico della Minerva. La mano sinistra, che ‘appare tutta intiera e distesa, è candidissima e snelletta, fatta. I di (1) Suor Cecilia Romana, che prese l’abito religioso dalle di lui mani, ‘così lo descrisse: « Fuit autem forma B. Dominici hujusmodi. Statura me- diocris, tenuis corpore, facies pulcra, et parum rubea, capilli, et barba mo- dicum rubei, pulcer oculis. De fronte ejus, et inter cilia quidam splendor Fadiabat, qui omnes ad suî reverentiam, et dilectionem attrahebat. Semper hilaris et jucundus permanebat, nisi cum ad compassionem pro qualibet af- flictione prorimi movebatur. Manus longas, et puleras habebat. Magnam vocem pulcram, et resonantem habebat. Nusquam fuit calpus, sed coronam | rasilem totam integram habebat paucis canis respersam ». Ap. Annal. Ord. Praed. App. I, 265. Li 448 BONAINI così, che mi piace credere che il pittore seguitasse anche in questo le tradizioni. Quanto ad ogni rimanente tutto è decoro e bellezza. Belle, abbenchè rare, le pieghe del cappuccio e della cappa; più belle ancora quelle dello scapulare e della tonaca, le quali per poco diresti che sono vere. Il modo di posare in questa figura non è ridotto sì al buono com'è nei dipinti di Giotto, che in questo può veramente dirsi avere insegnato a Masaccio; ma non avvi neppure ombra di quella vecchia maniera — goffissima, per la quale tutte le figure apparivano poste nei qua- dri come in punta di piedi. Per tal guisa il pittore faceva mostra di sua grande perizia in questo dipinto, sotto cui tuttora può leggersi per ognuno: SANCTUS DOMINICUS PATER ORDINIS PREDICATORUM. La figura del Santo, che ho cercato di rappresentare con parole, è veramente buona e perfetta; ma non cede ad essa. in bontà e perfezione la mezza figura del Redentore, che il Trai ni disegnò perchè fosse sovrapposta alla prima; chè in essa non. è solamente bello il colore, ma divina veramente la maestà del volto, e più che nobile l’atto del benedire per cui tiene inalzata | la destra. Quante diflicoltà non dovette egli vincere per mostrarsi. tutto spontaneo nella invenzione in un soggetto figurato le mille volte non pur nelle tavole, ma ne’ mosaici, ne’ vetri, nelle scu n ture de’ mezzi tempi! E pure il Traini e’ ti sembra veramente. tale, che per nulla risente di gretta imitazione; sebbene sia me- © stieri asserire che in tutto egli operò osservando al tipo anti- chissimo venutoci, io credo, dall’arte bizantina. Ma egli è tale quando dipinge, che mostrasi indipendente ove altri furono servili, ed è poi grande anche là dove l'argomento pare ser- bato solamente a Raffaello: come lo fan vedere Ezechiele, Da- niele, Isaia, Geremia, i quattro Profeti sovrapposti ai miracoli 0 storie del Patriarca. E veramente è cosiffatta bontà in queste pitture, tale il carattere che mostrano i volti dei personaggi rappresentati, da lasciare convinto ciascuno il quale si faccia a x MEMORIE INEDITE DI DISEGNO 449 mirarli dappresso, che ove egli fosse vissuto ai tempi nei quali l’arte toccò la perfezione avrebbe agguagliato i migliori non pur nel disegno e nel colorito, ma in una più nobile facoltà ancora, nella potenza vo’ dire di rappresentare i soggetti a seconda | ch’eglino chiedono. Ciò fece per eccellenza, a me pare, quando prese a dipingere le otto storie di S. Domenico, ove fu studiosis- simo non pur d’un corretto disegno, ma ove usò de’ colori ‘più fieri che mai adoperi l’arte, e tutti ricercò i sentimenti del cuore rappresentando passioni e avvenimenti d’indole così varia; che appena sembra credibile gli abbia potuti adombrare colle tinte un uomo solo. Ciò meglio apparirà adesso per la descrizione minuta che sono per fare di ciascuna di esse. | Niccola Pisano chiamato a Bologna per scolpirvi l'arca di _S. Domenico, prese a disegnare, con magistero mirabile per ge: età, varj fatti della vita del Santo; ma reso accorto, cre- *d’io, dalla pratica e dal forte suo ingegno, trascelse molto oppor- ‘tunamente quei soli nei quali lo artifizio dello scultore poteva «dar prova splendida di se. Ciò che fece Niccola sembra non Jo potesse il Traini; il quale astretto a servire, io mi penso, all’in- tendimento devoto di Albizzo Delle Stadere, o di qualsivoglia altro che siasi, dovette applicarsi anche a quelli argomenti nei quali l’arte, per qualunque sforzo che faccia, non si adopera con molto pro per aggiungere il vero suo fine; se pur non vuol cre- dersi (com'è veramente) che il pittore cristiano dà prova certa di suo magistero la dove pone con i colori innanzi agli occhi de’ riguardanti fatti bellissimi di religione. Or questo sembra aver pensato il Traini; perocchè non ebbe a disdegno di colo- fire certe azioni del Santo, che altri come meno adatte avrebbe ered’io tralasciate, o perchè meno pratico di lui di quel più che possono i colori a preferenza della scultura, o più veramente perchè male inteso di quel diverso fine che prese l’arte del di- segno fino da quando, caduta la vecchia fola del paganesimo, la sì volse a trattare soggetti cavati dalle istorie della Chiesa, per 57 450 BONAINI cui ne venne che l’arte non fu solamente occasione al diletto, ma strumento potentissimo di direzione morale, di perfeziona- mento cristiano, di santi e celestiali pensieri. Io non voglio qui. farmi a mostrare (e ben lo potrei) che Greci e Romani, per non dire di altri antichi, nel rappresentare i lor numi e le favole loro praticarono un'arte la quale fu jeratica veramente. Questo solo io voglio affermare : che meno spesso di quel che credesi dai volgari, le arti furono allora strumenti di voluttà; perocchè que- sti vecchi più di frequente ne usarono ad incitare gli animi alla virtù, testimone il Pecile, per cui ebbero fama non peritura i liberatori di Grecia. Tale fu l’uso che secoli non cristiani fecero delle arti: uso lodevole certamente, dappoichè aveva sua radice _ negli spiriti generosi di que’ popoli come ebbe in appresso la radice sua l’arte cristiana, rinnovellata nel bisogno ineffabile che ha la mente del redento da Cristo di sollevarsi perfino al cielo. E questo alto intendimento ebbe il Traini; il Traini, dico, che” sì diede a dipingere alcune azioni dell’agricola che Cristo elesse. all’orto suo per ajutarlo (1), delle quali non so se di più alte a ridestare la fede vedesser quei secoli che furono tutti contami- nazione, è vero, ma pure abbelliti da vigorìa di crescenti istitu-. zioni volte a render santo il costume e a ritrarre gli uomini a. quel primo zelo evangelico, di cui fu come specchio non pur Do- menico, ma quegli ancora del quale Dante ebbe a dire, che la vita mirabile meglio si canterebbe in gloria del cielo (2). Così ope- + ravano i pittori nella età nella quale l’arte stringeva nodo sal- dissimo colla fede; così ajutavano anch’ essi la nobilissima opera del riordinamento del mondo. Le considerazioni sulle quali mi allargai dovevansi mandare innanzi a quelle dichiarazioni minute che or voglionsi fare degli otto dipinti dei fatti del Santo, trai quali vien primo nell'ordine (1) DANTE Parad. XII. (2) DANTE Parad. XI. MEMORIE INEDITE DI DISEGNO 451. - . quello della Natività, in cui il Traini aggruppò come due storie. Giovanna Aza, madre avventurosa, placidamente assorta nel son- no, sta sotto* coltre. Posa sul di lei letto vagamente addobbato, un cagnuolo con fiaccola accesa nella bocca. Artifizio bellissimo! Il pittore viene così a dimostrare che ...come fu creata, fu repleta ” Sì la sua mente di viva virtute, ; Che nella madre lei fece profeta (1). Chi direbbe mai che fu migliore artista il Lombardi, vissuto nel secolo di Raffaello, allorchè scolpì sull’arca di Bologna la stessa | Giovanna Aza tutta languente per le tollerate doglie del parto, e con due ancelle dappresso? (2) Gli argomenti cristiani si | piacciono di una sublime semplicità, e non è fatto per essi ciò ‘che sa troppo di umano. Quanto amore non spira da quelle due femminette, che il Traini colloco acconciamente sul dinanzi di questo quadro! Esse son tutte preste a soccorrere al bamboletto il quale nacque pur dianzi, e che già sai dover essere gran santo per l’aureola de’ beati che ne fregia la testa. L'una Jo sorregge dolcemente entro il vaso in cui è posto per la lavanda, l'altra le «sta dappresso e con atto amoroso appresta un bianco pannicello. Quanta cara dolcezza, quanta beltà nei loro volti! Neppure una «mossa che sia troppo sentita e sforzata. Tutto è semplicità, tutto ‘è grazia. Ti avvedi appena che il pittore ha disegnato due fatti ‘anzichè uno, appena ti offende certa mancanza di prospettiva (1) DANTE Parad. XII. Fra Giordano, nella vita di S. Domenico, scrive « Matri antequam ipsum conciperet in visione monstratum est quod catulum | gestaret in utero qui facem ardentem in ore portabat, et de ventre egrediens "omnem orbem succendere videbatur » ( Ap. Annal. Ord. Praed. p. 9). Benve- ‘nuto da Imola nel Comento a Dante, come il poeta, pone la Visione durante la gravidanza: (ap, MURAT. Ant. Ital. Med. Aev. I, 1260 ). Il Traini ha molto ingegnosamente unito la Visione alla Natività. | (2) V. Davia Memorie Storico-Artistiche intorno all’Arca di S. Do- | menico. Bologna 1858. 8.° p. 59. | 452 BONAINI che pur dobbiam lamentare, quando guardiamo fissamente ad letto che vedesi collocato nel fondo del quadro. Ciò svela essere stato il Traini artificioso pittore. La filo- sofia nel disegno è forse di molti artisti? Questo chè di sublime, d’incomunicabile, fu privilegio di molte anime? Quante volte. il colorito robusto ed il corretto disegno non fecero perdonare un pensiero meno nobile? Grande artista è il Traini, che coglie lode anche ove altri suol cadere nel biasimo. Ciò si vorrà ripe- tere, io penso, qualunque volta dal primo dipinto dei fatti di S. Domenico noi ci rivolgeremo a considerare il secondo. Rappre- sentare in pittura o in scultura la visione di papa Imnocenzo IM fu sempre di grave pericolo per gli artisti (1); ma non per que- sto egli mostrasi così scuorato da cedere alle innumerevoli dif- l ficoltà. Pongasi mente a tutti gli accorgimenti dei quali usa. Nel fondo della tavola, sotto tre archetti sostenuti da mensole e sor- } montati da un attico di forma gotica e da quattro gugliette, avi. un letto ricchissimo per ampio padiglione di stoffa a cortine. pendenti. Posa sovr’ esso nobilmente disteso papa Innocenzo, e. ben puoi distinguerlo alla tiara la quale orna la di lui testa, al- l’ampio manto pontificale che lo ricuopre. Niuno può appres-_ sarsi a lui perchè, secondo l’uso dei grandi di quell’età, stanno a guardia di sua persona due cubiculari, che il pittore figurò. con atto molto naturale, come soprappresi dal sonno e seduti sopra il suppediano. Sul dita la visione miracolosa. La Chiesa . Lateranense non grava gli omeri di S. Domenico, ma esso. oppone con atto più nobile le proprie braccia alla rovina del- l’edifizio. Chi non direbbe il Traini nostro artefice d’ intelletto. più sano di F. Guglielmo da Pisa, che pur fu guidato nell’ opera e forse ajutato da Niccola? Nell’arca di Bologna papa Innocenzo « alza la sinistra mano in atto di stupore e di spavento, nel vedere in sogno la Chiesa del Laterano presta a precipitare; nel (1) MARCHESE Memorie ec. 1, 90. MEMORIE INEDITE DI DISEGNO 455 mentre che Domenico, sottoposti gli omeri a un angolo dell’edi- ficio, ne impedisce la rovina » (1). Ov' è in questa rappresen- tanza l’effetto della visione, la quale parte dal cielo? Perchè atterrito Innocenzo, se il Laterano che crolla è fatto salvo dal- l’omero potente di S. Domenico? Perchè non esprimeva l’arti- sta, come pur lo dovea, la calma e la fiducia che il segno divino mise pure in un attimo nell’ animo del papa? Bene sa farlo il Traini. Innocenzo nel suo dipinto è tutt'altro che colto da spa- vento. La celestiale visione lo esalta, lo rassicura, e la calma e la letizia dell'animo gli stanno sul volto. Egli dorme, facendo mobilmente guanciale della destra mano al suo capo; ma il sonno che lo grava è sonno del pastor delle anime nel momento in cui è rassicurato che la Chiesa di Dio non mancherà, perchè rse il grande dottore itato a circuir la vigna, % » Che tosto imbianca, se ’l vignajo è reo (2). «Il Traini è sì grande artefice in questa storia; ma per me cresce maggiormente il suo vanto per l’altra, che è terza nel- ordine, che in questa gli è forza emulare Niccola Pisano e ‘venirgli a pari in uno dei composti suoi più lodati, voglio dire mell’apparizione degli apostoli S. Pietro e S. Paolo, ch’ei vide mel Laterano. Quando un soggetto fu maestrevolmente rappre- sentato per un artista eccellente, più che il conforto, grande è lo sgomento che provano gli scultori e i pittori, i quali debbono farsi a porcelo sotto gli occhi come rinnovellato; perocchè è malagevole al sommo per essi il temperarsi tra la licenza e la servilità, due mali gravissimi ne’ quali caddero non pure i me- diocri, ma i sommi. L° ii de’ marmi greci e delle scul- (1) Davia p. 25. | (2) DANTE Parad. XII. 454 BONAINI di lui maniera, siccome fu scritto, certo carattere di statuino, e _ rese le sue pitture men belle per alcuni difetti che pur vi sono, _ quale si è quello che le figure appaiano troppo colossali a petto alle architetture dei fondi; cose tutte avvisate benissimo dal Conte Selvatico, là dove discorre de’ freschi della Cappellina de- | gli Scrovegni di Padova (1). Ma gli errori dei grandi sono pre-_ cetti a coloro i quali si sentono da tanto da sapere stimare ove. si debban seguire, e quando sia che torni conto di discostarsi dalla costoro imitazione; e questo si vide, a me pare, nel Tràini il quale, senza niente falsare il concetto di Niccola Pisano, in questa storia dell’apparizione degli Apostoli, la colorì per siffatto — modo, da mostrarsi pittore originale anche là dove è da crede aver egli molto guardato al marmo di Bologna. I due Apostoli stanno diritti in piedi sopra il largo ripiano, ch'è base e gradino. per cui si ascende alla Basilica Lateranense: bellissima chiesa a forma di croce greca, architettata, come dovevasi, con bell grazia e semplicità. In questo il pittore operò molto diversamente | da Niccola Pisano, che per l’angustia dello spazio dovè figurare piccolissima la fabbrica della Basilica (2); mentre il Traini l’ha disegnata di proporzioni giustissime, tali da accennare ad un vero miglioramento dell’arte. Tale miglioramento appare eziandio nell due figure dei santi Apostoli. Il primo, S. Pietro, presenta in bel modo colla sinistra mano a S. Domenico, che sta genuflesso, la. verga o bastone come a capo dell'Ordine, benedicendolo colla destra, nell’atto medesimo che S. Paolo gli porge il libro degli Evangelj perchè si rechi a spargerne la semenza pel mondo. 4 per me credo che a questo raro dipinto guardasse assai il B. Gio-. i. (1) SeLvatIco Osservazioni sulla Cappellina degli Scrovegni nell’Arena di Padova, e sui freschi di Giotto in essa dipinti. Padova 1856. 8.° pp. 87-89. (2) V. la tavola di N.° 4 aggiunta al tom. IL. della Pisa illustrata del DA MoRRONA, non che la tavola di N.° 52 fra quelle risguardanti la Scultura aggiunte alla Storia dell’Arte del D AGINcOURT, e l’altra di N.° 9 della Sto- ria della Scultura del CICOGNARA . d A MEMORIE INEDITE DI DISEGNO 455 vanni Angelico, che forse venne talvolta in questa nostra città, ‘ quel pittore il cui nome è sì alto, e che solo parve innamorato delle cose di paradiso. Ed invero, bene ti accorgi che l’artista ha voluto porti dinanzi agli occhi non cosa umana, ma divina Visione. Le teste degli Apostoli niente hanno di volgare; e, lasciato ancora il pregio d’essere perfettamente modellate, tu vedi in esse alla prima il carattere de’ due principali propagatori del Cristianesimo. Così è d’ogni rimanente, anche quando si consideri solo pel lato del meccanismo e del disegno. Belle e — corretto infatti sono l'estremità, morbide e vere le pieghe dei amanti e delle tuniche. Per poco taluno direbbe che questo — pittoro tiene assai del bellissimo piegare e panneggiare di Giot- to, il quale pervenne, come ognun sa, in questa parte difficile dell’arte ad un segno così singolare e così alto. Queste bellissime doti della terza istoria che il Traini dise- Mò non mancano neppure alla quarta, nella quale è figurato l'esperimento meraviglioso de’ libri ortodossi fatto dal Santo, a confusione di certi eretici, in Montreal o, se pur vuolsi, a Faj- aux (1). Perfettissimo è per me questo dipinto, abbenchè po- ‘tesse in esso desiderarsi la copia e la ricchezza della composi- Zione, per cui ognora fu tanto ammirato il bassorilievo di Niccola ch'è nell’arca di Bologna. Anche qui il Traini ne volle dar sag- o di sua molta perizia nell’architettare le fabbriche, dacchè # all’edifizio che fa bella mostra di se alla sinistra) gli piacque dipingere alla destra una chiesa adattata molto inge- \ gnosamente, sul cui ripiano laterale vedesi S. Domenico segui- tato da un compagno che accenna al libro, il quale rimane in- | tatto e sospeso in mezzo al rogo che arde.per lo esperimento - \dinanzi alla porta dell’edifizio. La figura del Santo è lodevole, - \molto naturale l'atto del fraticello che gli sta come da costa, (1) Il prodigio operato dal Santo a Montreal fu ripetuto a Fajnaux. Annal. Ord. Praced. I, 155—158. 456 BONAINI che fissa gli occhi nel cielo, quasi voglia dirti che per volere ‘ divino avvien quel prodigio. Mirabile potenza dell’arte eristia- na, che con un sol atto del volto sa esprimerti ciò che l’ani- ma sente! Sennonchè, mentre così il pittore sa mostrare tutto il gaudio celeste che traluce da’ volti di coloro i quali son fatti certi del glorioso trionfo della fede, per altra parte non è arti- sta meno felice là dove figura la perfidia, il dispetto ed il crue- cio, che a gran pena comprimono entro gli animi loro gli Eretici. Due di essi hanno aspetto rigidissimo su tutti, e tu puoi distin- guerli alla barba prolungata che cade lor dalle guance. Quello che è posto nella parte anteriore si direbbe imitato felicemente dall’ eretico di Niccola Pisano, ch’ è nella storia di Bologna, e ch’ egli ritrasse da uno de’ re barbari prigionieri i quali sono nel Campidoglio, sul volto del quale sta veramente, come fu. detto, avvilita ferocia (1). Ma il modello primo da cui viene que-. sta figura appena si rintraccia da chi è molto perito nell’arte, quando si dia a guardare questo quadro del Traini: tanto è il magistero, che il pittore ha posto in atto per sfuggire la colpa di servilità nell’imitar la scultura, magistero sopra ogni altro difficile, ed in cui sta veramente la perfezione dell’arte. Le quattro storie, delle quali andai ragionando, sarebbero bastevoli ad assicurare al Traini un altissimo luogo fra i dipin- tori del secolo xv; ma a confermarci in questa opinione ne suc- cedono ora altre quattro, e prime fra queste la storia ov'è dipinto” il giovine Napoleone nepote al cardinale Stefano de’ Ceccani di Fossanuova, richiamato in vita a Roma per le orazioni del Santo, secondochè lasciò scritto Suor Cecilia monaca di S. Sisto (&). Ecco per una volta ancora il pittore nostro al confronto con Niccola Pisano, ed eccolo nelle dure strette di doversi mostrar nuovo in un soggetto, in cui parve cogliesse tutto il bello e il| (1) DAVIA pp. 17, 18. (2) Miracula S. Dominici, ap. Annal. Ord. Praed. App. 1, 248-250. È “MEMORIE INEDITE DI DISEGNO 457 peregrino lo scultore eccellente (1). Il giovine Napoleone, tutto lacero, tutto pesto dalle ferite, è corpo morto. Amici e congiunti (ma senza troppo affollarsi) gli sono attorno in atti pietosi e di i grande mestizia, tra i quali tre tu ne vedi più disacerbati degli altri, per la pietà ch’ è ne’ loro volti e per gli atti di dolore che fanno. Io non so se altro artefice disegnasse mai terribili figure ‘siccome son queste, nelle quali è vivamente espresso un dispe- _ rato dolore. Quanta fecondità è in questo pittore! Qual arte mirabile di esprimere un solo affetto in mille modi! Vedesti «mai un lagrimare più vicino alla verità di quello delle tre fem- mine, le quali coi capelli disciolti circondan l’estinto? Quanta . evidenza in ogni atto di colei che sta genuflessa, e che tien chiuso il suo volto nelle mani a far rintoppo alla piena del | pianto che le trabocca dagli occhi! Bene è questa scena di com- passione indicibile, come lo è d’indicibile letizia 1’ altra che | puoi osservare alla destra (2). Napoleone rivive per la preghiera del Patriarca, e S. Domenico istesso è colui che lo ridona all’amplesso del Cardinale di Fossanuova, dinanzi a cui il nepote inchina le ginocchia. Grandiosa è la figura del Cardinale, ma per me è ben lontana dalla maestà di quella del Santo. Sen- nonchè tutto in quest'opera è perfetto. Splendido il colore, cor- Tetto il disegno, tutto infine di una bontà, che anche gli artisti ‘presenti potrebbero invidiare a questo secolo. «Il soggetto rappresentato dal Traini nella quinta storia, della quale fino ad ora presi a favellare, aveva a così dire alcune norme artistiche in ciò che per Niccola Pisano erasi fatto; ma non è così dell’altro, che il Traini medesimo ci ha posto sotto gli occhi nel sesto componimento; chè quivi è pittore tutto nuovo, (1) V. DAVIA pp. 17, 50, e la tavola di N.° 8. del CicocNaRA. (2) Sono innumerevoli gli esempi di scultori e pittori i quali unirono due o più fatti in un quadro solo. Niccola Pisano lo fece ancor esso nell’Arca _ di S. Domenico (V. le tavole ricordate alla not. 2 pag. 454), cosa che il CICOGNARA non avverti, ma che ha bene avvisato il DAVIA, p. 51. 58 458 BONAINI non sapendomi io che alcun altro prima di lui lo trattasse. Il miracolo che fu tema al dipinto si dà come avvenuto, dai più, nel 1211; pure non anderebbe errato, io mi credo, chi lo ripor- tasse al 1217; perchè essendosi visto quando Simone di Montfort assediava Tolosa, non può dirsi con certezza se ciò fu nel primo assalto o più veramente nel secondo, quando cioè si rifece con maggior impeto a percuotere questo nido d’Albigesi (1). Quaranta pellegrini (pochi più, pochi meno) lasciata l'Inghilterra per scio- gliere il voto, quando il Cielo lo voglia, a Sant’ Jacopo, son presso a Tolosa ch'è stretta d'assedio. Uomini di Dio credereb- bero contaminarsi se vi ponessero il piede, ond’è che a tra- ghettar la Garonna si aflidano a piccolissima barca, la quale è già — sommersa nelle acque nell’atto stesso che l’ultimo pellegrino vi è asceso. Chi sovverrà ai miseri i quali sono sommersi? Invano si affannano per ajutarli quanti accorsero alla riva chiamativi da gridi acutissimi. Uno solo lo potrà, S. Domenico, che pregava testè molto fervidamente nella chiesa vicina (2). Quanto mira- (1) V. Ann. Ord. Praed. I, 239—290, e più specialmente DE Vic e VAISSETE Histoire Générale de Languedoc, avec des notes et les pièces justi- ficatives commentée et continuce jusqu'en 1850 etc. par DU MÉGE. Toulou- se 1842. 8.° V, 172—175, 274—277 segg. (2) TEODORICO APPOLDIENSE, autore di una vita di S. Domenico dataci dai Bollandisti, così narrò questo avvenimento: « Cum autem vir christianis- simus Comes Montisfortis cum Cruce-signatis obsideret Tholosam, venerunt peregrini de Anglia, Sancti Jacobi volentes limina visitare: qui propter excomunicationem vitantes Tholosam, navem modicam intraverunt, ut flu- pium pertransirent; prae multitudine autem (nam fere quadraginta erant ) absorpta est navis, et submersi sunt omnes, ita ut nec eorum capita appare- rent. Erat tune ibi orans în ecclesia vicina juxta fluvium sanctus Dei Do- minicus, qui ad clamorem percuntium et circumstantis exercitus excitatus, festinus accurrit, vidensque proximorum periculum, compassione permotus, toto corpore prosternitur, expansisque in modum crucis manibus, flens ama- rissime, clamavit ad Dominum, ut suos peregrinos liberaret a morte; et post pusillum surgens ab oratione conversus ad fluvium, sumpta de Deo fiducia, imperavit dicens: Praecipio in nomine Christi, ut ad ripum omnes veniatis. MEMORIE INEDITE DI DISEGNO 459 bile pittore è il Traini! S. Domenico, seguitato da due frati dell'Ordine compagni suoi nella preghiera, è presso alla riva. Chi direbbe mai che fosse rappresentato altra volta in modo più vivo e più grandioso il Patriarca de’ Predicatori? Niuno certo, dacchè non vidi mai una figura in cui fossero maggiore nobiltà di aspetto, atti più veri, e più dappresso a natura. L’arte non trova cosa da emendare, chè tutto ha in essa carattere di una somma prontezza e verità. Così è dell’altro pregio della corre- zion del disegno, pregio di cui si abbella la composizione tutta, e principalmente in quella parte ove il pittore ha ritratti i miseri pellegrini, i quali con mille svariate attitudini, ma tutte vere, si danno a guadagnare la riva. Anche qui egli mostrò scienza gran- dissima degli affetti. I pellegrini sono uomini appena tolti di bocca alla morte; ma l’espressione e l’affisarsi dei loro volti in quello di S. Domenico, il baciarne le piante, lo stringerne le ginocchia che per alcuno di essi si fa, bene ti mostrano come conoscano eglino, che gli fece salvi la preghiera dell'Uomo ca- rissimo a Dio. Tale è il sesto quadro. Nel settimo è cosiffatta rappresen- tazione, che par chiedere in chi dipinge ingegno ben diverso; perocchè mentre nel precedente faceva bisogno di chi sapesse dar conto di mille passioni vivissime, di mille atti, di mille moti; in questo, di che sono per favellare, vi voleva un’ anima che tanto potesse sollevarsi alla quiete beata delle cose celesti, da ritrarre non un fatto terreno, ma visione di paradiso. E tale nella pittura del Traini è il sogno miracoloso ch’ebbe F. Guala priore di Brescia, poi vescovo di quella terra. Nell’alto de’ cieli Mira res; sed ab eo facta, qui facit mirabilia magna solus! Statim ad hanc vocem omnes, qui submersi in aquis tanto tempore latuerant, cunctis videnti- bus, qui ad tam triste spectaculum aderant, super undas apparuerunt. Tunc undique accurrentes extendentesque eis lanceas et hastas, universos de flucti- bus incolumes eduxerunt, clementiam Salvatoris, et sui almi confessoris Do- minici merita praedicantes ». Ap. Bolland. August. IV. tom. I. p. 572. 460 BONAINI tu vedi Cristo e la Madre, e l’uno e l’altra sorreggono colle lor mani due scale, le quali posano sul corpo di S. Domenico, ch’ è disteso sul suolo. Per esse discesero già due vaghissimi Angeli, i quali ora risalendone i gradi, son tutti intenti a portar fino in cielo una sedia, che meglio diresti piccolo trono, su cui sta con mani giunte ed in devota attitudine un fraticello de’ Predi- catori (con che si volle figurare l’anima di S. Domenico), tutto a seconda della visione. Narra Frate Umberto V. generale del- l'Ordine (1), che il priore di Brescia soprappreso dal sonno ebbe la divina manifestazione essendo asceso sull’alto del campanile della chiesa. Il Traini, studiosissimo per quanto potè di segui- tare la storia, ne fa vedere F. Guala nel sonno, e ben si scorge fissando l'occhio a traverso alla finestra gotica di una fabbrica architettata con buone regole di prospettiva, la quale sembra un dormentorio del convento. Così, senza abbandonare di troppo la verità, il pittore mostrò conoscere tutto ciò che addimanda la convenienza dell’arte e quella nobiltà cui dee guardare chi la pratica, se pur brama di ottenere fama durevole. (1) Questo fatto è raccontato da F. Teodorico. (V. Bolland. loc. cit. 1,602). Il Traini, per quanto a me pare, seguitò più veramente la narra- zione di Frate Umberto « Eadem die, cademque hora defunctionis B. Dominici Fr. Guala ejusdem ordinis tune prior Brixiae, postmodum autem ejusdem civitatis episcopus, cum se in loco campanilis fratrum in Brixia paullulum reclinasset, levi quodam depressus est somno, viditque interioribus oculis quasi aperturam quamdam ‘in coelo; per aperturam vero illam submittebantur candidae due scalae. Summitatem unius scalae manu tenebat Christus Do- minus, summitatem vero alterius Mater ejus. Angeli autem lucis discurre- bant ascendentes, et descendentes per eam. Et ecce inter utramque scalam sedes posita erat in imo, et super sedem sedens. Et qui sedebat similis erat fratri habenti faciem velatam caputio, quemadmodum moris est fratres mor- tuos sepeliri. Trahentibus autem paullatim scalas illas Christo Jesu, et Matre ejus, trahebatur et sedes pariter cum sedente, donec psallentibus An- gelis coelo illatus est. Receptis igitur in coclum scalis, et sede, et co, qui în sede fuerat collocatus, coelì apertura clausa est, visioque disparuit». Ap. Annal. Ord, Praed. App. I, 297, 298. re.xArxTYTo-o-o—tf1*' —————————————@ — MEMORIE INEDITE DI DISEGNO 461 La nobiltà per cui risplende questo dipinto è, a mio senno, maggiore nell’ultimo di essi che or sono per descrivere, nel quale l’artista ha figurato la traslazione del corpo del santo Patriarca, avvenuta nel 1255. Narrano gli annali dell'Ordine che questo si vide quando i Frati Predicatori erano convenuti in gran numero a Bologna pel Capitolo generale. Vi accorsero come a grande festività della Chiesa, l'Arcivescovo di Ravenna, il Vescovo di Modena e più altri prelati della Cristianità, perchè così ordinò il Pontefice d'allora, Gregorio IX (1). Tutti questi si vedono nella pittura del Traini in ricchi abiti pontificali attorno alla bara su cui posa la spoglia incorrotta di S. Domenico. Alcuno è genu- flesso, alcuno sta come in grande ammirazione, quasi voglia esprimere che quel corpo fu veramente albergo d’anima santa. Altri bacia le vesti, altri le mani, come preziosa reliquia; tutti in atti, in sembianti di tal devozione, che non potrebbe mai esprimersi maggiore. Certo niuno dirà dipinte ma vive queste figure, nè meno vive le altre de’ ciechi, degli attratti, de’ pove- relli infine che stendono le loro braccia a chi tanto gli amò mentre visse, e che son posti nel davanti del quadro. Nel fondo di esso vi ha lunga fila di Frati Predicatori con torcetti nelle mani, intenti a cantare le preci della Chiesa cogli atti i più veri e i più naturali del mondo. Niuno chieda se le regole di un castigato disegno furono osservate, se il colorito sia lodevole. Io non so qual altro pittore di questi tempi possa per tali doti vin- cere la prova quando venga posto a paragone col Traini (2), di (1) V. BOLLAND. IV. Aug. I, 525, 526. (2) Lo ScHoRN che annotò e tradusse il Vasari in tedesco; lavoro proseguito dal Fòrster, e condotto fino ad ora a cinque volumi (Stuttgard ‘e Tubinga 1852—1845), prese così a discorrere del Traini e delle opere maggiori di esso, delle quali abbiamo memoria: « Il primo menzionato qua- dro (esso dice) rappresentante S. Domenico, non trovasi più nella chiesa di S. Caterina, per quanto emmi noto; ma quest ultimo descritto (il S. Tom- maso) è ancora allo stesso luogo, ed è di una esecuzione ardita e vigorosa». 462 BONAINI cui forse avverrà che alcuno più avventuroso possa discuoprire altri dipinti; chè per me non so persuadermi che un artefice così eccellente e perfetto, giudicato superiore all’Orgagna me- A taluno potrà sembrare che il Ticozzi non abbia giudicato in tutto del nostro pittore come dovevasi, là dove parlò della tavola del S. Tommaso d’ Aquino. «Ho descritto ( esso scrive) succintamente questo dipinto, onde mostrare che prima del Traini niun artista, e non escluso lo stesso Giotto, aveva concepita una così dotta invenzione, che altronde comprende lo stato degli studj letterarj e teologici, e le opinioni dominanti nel secolo xIv. Con- vengo che a ragione gli si dà colpa di non aver conosciuto l’ arte di aggrup- pare le figure, di aver dato pochissimo rilievo alle figure, ed azione fredda e forzata; ma questi che pur sono grandi difetti, lo sono piuttosto del ‘tempo e del pittore il quale colla verità e dottrina di copiosa invenzione, e colla evidenza dei volti aprì la via a coloro che provveduti d’inventore ingegno aspirarono ad uscire dalla circoscritta sfera dei quattrocentisti, e si rese con ciò sommamente benemerito dei progressi fatti dalla piltura nel susseguente secolo » Dizionario degli Architetti, Scultori, Pittori ec. Milano 1855. 8.° Z//, 427. Lo scrittore delle Memorie deî Pittori Messinesi, stampate a Messina nel 1821, vuole che Jacopello di Antonio da Messina si perfezionasse nell’arte o nella di lui scuola, o in quella di Andrea Orgagna. Ei potè crederlo, essendo stato di avviso che la tavola del S. Tommaso fosse dipinta intorno al 1598. In qualunque modo voglionsi qui riportare le cose da esso ragionate intorno al quadro che Jacopello disegnò per la chiesa di S. Domenico, perchè sono bellissimo argomento della rinomanza cui è il Trai- ni salito presso gli scrittori di Belle Arti. « Dipinse egli ( così prende a dire d’Jacopello di Antonio) la famosa tavola di S. Tommaso d'Aquino, che disputa tra i dottori dentro un tempio decorato di magnifica architettura, piena di finissimi rabeschi, quale si conserva nella chiesa di S. Domenico. Figurò quivi il Santo seduto in distinto seggio, fra molti vescovi e cardinali, in atto di ragionare sul mistero della Trinità, come si osserva dalla mossa delle sue dita. — Non ancora erasi arrivato a conoscere, che lo scopo delle belle arti è l'imitazione della bella natura, ed in conseguenza le fisonomie delle figure sono veri ritratti, quali sebbene siano pieni di affetto e di espres- sione, mancano di sceltezza, e nobiltà. È ammirabile sopra ogni altro la dili- catezza colla quale sono toccati gli angeletti che ivi scherzano, e la semplicità del panneggio a larghe pieghe, scevre di quella gotica secchezza che si scuopre ne’quadri di tal’epoca. — Il medesimo soggetto, anzi la medesima composizione fu dipinta da Francesco Traini scolare dell’ Orgagna, verso il 1598; non sembra quindi fuor di proposito che il nostro Jacopello, dopo MEMORIE INEDITE DI DISEGNO 4635 desimo, ne lasciasse solamente queste tavole, e che tutto quello ch’ei fece lo disperdessero' gli uomini. ni ver appresi i principj dell’arte nella sua patria, sia stato nella scuola del- % Orgagna, e ritornato in Messina abbi fatto mostra delle sue cognizioni, ’esecuzione di questo quadro. M'induce a ciò credere la rarità in cui rano allora le stampe, essendo quest’ arte nella sua prima infanzia, e non va egli per conseguenza eseguire tale pittura senza vedere cogli occhi prj il quadro del Traini. È una disgrazia che quest’ opera insigne sia n” 464 BONAILNI CAPITOLO II. DI UNA TAVOLA ATTRIBUITA A SIMONE E LIPPO MEMMI. I Frati Domenicani nei primi due secoli del loro Ordine ebbero scultori assai pregiati, come fu F. Guglielmo da Pisa (1), e architetti meravigliosi, quali i due conversi F. Sisto e F. Ri- storo: ma nell'arte della pittura (qualora se ne tolgano'i vetri) pare che non potessero menar vanto d’artisti ugualmente valo- rosi; ond’è che per nobilitare di freschi e di tavole le loro chiese bellissime furono usi ricorrere ai migliori pittori non claustrali del loro tempo, siccome fecero i nostri Frati di S. Caterina, i quali vollero opere di Margheritone d’Arezzo, del Traini e di più altri, delle quali qui non monta il discorrere. I dipinti di costoro andarono perduti per la più parte, nè vi ha più grande dolore per chi ama davvero, come noi amiamo, l’Italia e le Arti, quanto l’acquistare giornalmente dolorosa certezza della barbara dimenticanza in che si tennero. Sebbene, come nelle cose umane addiviene, questa dimenticanza medesima fu talora cagione per cui poterono alcuni venir salvi perfino a noi; lo che, per non dilungarmi di troppo dal mio proposito, io dico dell’antico qua- dro dell’altar maggiore della chiesa summentovata. Scrivo di queste cose perchè non vadano errati coloro che leggendo nel Montani, annotatore del Vasari, trovassero scritto che que- i st’ opera fu consumata nell’incendio ch'ebbe a soffrire questo tempio nel secolo xvn (2). Era allora rimossa già dall'altare, e ; custodivasi nel convento. Abbandonata dai Domenicani 1’ antica (1) Le opere di F. Guglielmo furono lodevolmente illustrate, or non ha guari, dal ch. P. MarcHEsE (7, 75—115 441-443); ed io stesso ho avuto poi luogo di scriverne annotando la Cronaca di S. Caterina. V. Arch. Stor. Ital. VI. P. II, A67—A74. (2) VASARI Z, 165. V. sopra p. 444, not. 1. x MEMORIR INEDITE DI» DISEGNO 465 dimora (nel 1787) passò, com'è di presente, insieme ai codici tra Je cose preziose del Seminario Arcivescovile. H Vasari narrando i fatti di Simone e Lippo Memmi, ne ha seritto per questo modo: « Costui ( Lippo Memmi) sebbene non fu eccellente come Simone, seguitò nondimeno, quanto il potè più, la sua maniera, ed in sua compagnia fece..... a’ Frati Predicatori di S. Caterina di Pisa la tavola dell’altar maggio- re » (1). Pare seguitasse in tutto il Vasari il nostro Tronci in certa opera inedita sulle Chiese di Pisa, che congetturo scrivesse intorno al 1645; inquantochè là dove e’ parla di S. Caterina, così prende a dire: « Erano in detta chiesa molte pitture di va- lenti uomini antichi. L’ancona dell’altar maggiore di Simone e Lippo Memmi sanesi » (2). AI Baldinucci, tengo, piacesse altro avviso; perocchè, detto come Simone fosse ajutato da Lippo nel dipingere il Capitolo di S. Maria Novella di Firenze, e in altre opere, soggiugne: « Dipinse a fresco (Lippo) nella chiesa di S. Croce. Fece una tavola a tempera, che allora fu posta all’al- tar maggiore della chiesa di S. Caterina di Pisa » (5); lo che viene a dire, se pur non erro, che a mente di esso la tavola di cui parliamo fu tutta opera di Lippo, non di Simone. Il Lanzi nulla disse di questo quadro. Non così il Da Morrona. E vera- mente attenendosi egli al Baldinucci (sebbene non lo ricordi), mostrò crederlo opera del solo Lippo (4); opinione priva di fon- damento storico pei meglio intendenti, dacchè il Rosini non de- gnò neppure guardarvi (9). Siffatte furono le sentenze seguitate fino ad ora, che niuno v'ebbe il quale scrivesse essere la tavola (1) VASARI 7, 161. (2) Descrizione ms. delle Chiese, Monasteri e Oratorj della città di Pisa, p. 47. Anche il DELLA VALLE mostra essere di uguale avviso. Lettere Sanesi II, 106, 107. (3) BaLpiNUcCI 17, 70. (4) Pisa illustrata 111, 102. 105. (5) Stor. della Pitt. Ital. II, 119. 59 466 BONAINI in discorso opera di Simone solo; lo che, a me pare, si sa- rebbe potuto credere anche osservando solo alla grandiosità ed eccellenza del lavoro. Tale è l'opinione ch’io ebbi sempre, e facilmente mi accadde di potermi in essa confermare; perchè fattomi dappresso a questo dipinto, vi potei leggere sotto la fi- gura della Vergine, come già avvenne al ch. Dott. Forster di Monaco (1), quest’ iscrizione: SYMON DE SENIS ME PINXIT. La notizia ch'io do toglie fede a quanto discorre il Vasari (2); ma la sua narrazione vien meno anche per altro lato; perocchè negli Annali mss. del convento si dice che fu opera di Simone, aggiu- gnendosi ancora che ne procurò questo grande ornamento alla chiesa F. Pietro converso nel 13520. Ed invero, là dove si narra del priorato di F. Tommaso da Prato trovansi queste parole: « Huic ( F. Bartholomaeo de Vallecchia) proximus in prioratu fuit Frater Thomas Pratensis qui ab anno 1520 usque ad 1524 prae- fuit... Tempore suo statuit tabulam in majori ara, quae tune pul- cherrima censebatur necdum renata pictura, manu Symonis Senensis qui inter suae tempestatis pictores primas tenuit, de quo Franciscus Petrarca: Quando venne a Simon l’alto concetto » (3). E nel luo- go ove si racconta di F. Pietro « Frater Petrus conversus in sacra- rio nostro cui ministrabat multas sacras vestes fieri procuravit. (1) Anche di questa notizia debbo professarmi grato ai miei benevoli amici Carlo Milanesi e Carlo Pini. (2) Quando Simone e Lippo dipinsero in comune, furon soliti apporre amendue i loro nomi all'opera. Del resto non ho documenti per contradire a chi sospettasse che nel 1520 Lippo non avesse per anche dipinto in com- pagnia di Simone, osservando esser eglino divenuti cognati solamente nel 1525, pel matrimonio contratto da Simone in quest'anno con Giovanna di Memmo di Filippuccio. V. DELLA VALLE Lettere Sanesi Il, 82. 85. (3) Annal. mss. Consentus S. Catharinae de Pisis, p. 9. Di questo MS. che si conserva nella Biblioteca del Seminario, e che ora do in parte alle stampe, ho scritto assai largamente nell’ Arch. Stor. Ital. VI. P.I. p. XXIX P. II, p. XIII e xIV. tg MEMORIE INEDITE DI DISEGNO 467 Ipso etiam urgente et instante tabula quae nune est in ara majori ibi posita fuit anno 1520 » (1). Queste due testimonianze gui- dano, mi sembra, a deduzioni affatto nuove. E veramente se deve credersi che Simone dipingesse nel Camposanto Pisano (del che forte per alcuno si dubita), e che ciò fosse fatto tra il 1554 e il 1555 (è), non potrà omai più seguitarsi la narrazione del Va- sari, il quale disse che la tavola per S. Caterina fu disegnata do- pochè rimaser compiute le tre storie di S. Ranieri, ma dovrà dirsi colorita invece un quattordici anni innanzi. Per questo modo cade Ja difficoltà veduta bene dal Rosini; nè sarem più costretti ad associar, com’ ei fece, in tutti i lavori di Pisa Lippo Memmi a Simone; perocchè, ritenuta la nuova cronologia, non è altrimenti (1) Annal. mss. p. 42. Nella Cronaca antica, da me pubblicata, S. 153 dicesi solamente « Tabulam praetiosam procuravit fierî majoris altaris ». Sog- giungesi poi in questa stessa Cronaca, che F. Pietro « Transipit Bononiae de hac vita vadens Venetias ut fierî faceret crucem magnam de lapide cristal- lino» Arch. Stor. Ital. VI, P. Il, 500. Nelle mie annotazioni alle Istorie Pisane del RoncionI ( Arch. Stor. Ital. VI, 719) feci conoscere la seguente memoria, che si legge nel Brere Vetus Anthianorum allato alla tratta degli anziani pei mesi di settembre e ottobre 1521 pisano, e 1520 comune: « Tem- pore quorum Anthianorum fuerunt pictae spetiosae figurae Beatae Mariae Virginis, sanctorum Johannis Ecangelistae, Johannis Baptistae, et Ranerii Pisani, în sala Antiianorum ». Vorrei poter dimostrare che l’arlista, il cui nome è taciuto, fu Simone di Martino; ma le provvisioni degli Anziani di questo tempo andarono perdute. Altri non sarebbe, io penso, così ritenuto nell’ affermare ch'egli ne fosse l'artefice, perchè non mancano a ciò belle congetture. Infatti non solamente Simone, dopo la tavola di S. Caterina Ja- vorata nell’anno innanzi, doveva essersi guadagnato gran nome appresso i Pisani; ma aveva molto grido in questo tempo per opere somiglianti a quella della sala degli Anziani fatte nella sua patria. Il DELLA VALLE avverte che fino dal 1319 aveva lavorato nella casa dei Nove, e soggiunge che circa il 1520 ‘aveva dipinto un Crocifisso per la cappella di questa magistratura, e che nell’anno successivo aggiustò la figura della Madonna che era dipinta nella sala del palazzo. Lettere Sanesi II, 88. (2) Rosini Z7, 108. Il DELLA VALLE crede che Simone dipingesse in Camposanto prima di Giotto. Veggansi i di lui argomenti nelle Lettere Sa- nesi II, 89. 468 BONAINI ‘mestieri di dir tutte condotte quelle opere di disegno nel breve giro di due anni (1). Ma di tutto questo basti per ora. Qui, più che altro; giudico convenevole il venire a descrivere quest’ opera non avendolo fatto chi parlò di Simone, e perchè poi si ponga in aperto se in tutto o in parte solo si conservi, e se siano meri- tate le lodi che fa di essa F. Domenico da Peccioli nella Cro- naca ms. di S. Caterina, il quale non dubitò di chiamarla opus praetiosissimum. Il ch. Prof. Rosini ha avvertito che se ne vedono tuttora i resti nelle stanze del Camarlingo del collegio di S. Caterina, già convento dei Domenicani (2); e questi resti sono certo le maggiori e le migliori parti del quadro. Infatti, oltre a una pic- cola cuspide, sei sono i grandi compartimenti che tu costà puoi vedere; chè di uno solo (di quello che ne offre la figura del S. Giovan Battista ) è ricca l'Accademia di Belle Arti; dipinto in- torno al quale il Rosini stette in forse se facesse parte dell’altra tavola che Simone insieme a Lippo, secondo il Vasari, dipinse per S. Paolo a Ripa d’Arno (5). Io non amo cercare quando la ta- (1) Rosini 77, 119, (2) Stor. della Pitt. Ital. II, 119. Chiamasi anche Collegio il luogo antico dei Domenicani perchè, oltre al convitto degli ecclesiastici, è ad esso unito un istituto di educazione pei giovani secolari. (3) Stor. della Pitt. Ital. II, 119. La narrazione del VASARI (7, 160) può a taluno non riuscir chiara bastantemente, perchè dopo di aver detto che la tavola di S. Paolo a Ripa d’ Arno fu opera di Simone e di Lippo, aggiugne, parlandone come di cosa allora esistente e veduta da lui, che Lippo vi aveva posto il suo nome. Ciò potrebbe giustificare in qualche modo il BALDINUCCI, presso cui sono queste parole: « In S. Paolo a Ripa d'Arno fuori della stessa città (.di Pisa ) colori ( Lippo ) molte cose, e fra queste una tavola pet l’al- tar maggiore, ove figurò Maria Vergine, S. Piero, S. Paolo e altri Santi » Delle Notizie ec. II, 70. Ognuno vede 1’ errore del Baldinucci, che dice es- sere il S. Paolo a Ripa d’ Arno fuori di città. Anche il TRonci {dette per opera di Lippo la tavola di che parliamo! Descrizione ms. ec. p. 155. Così il DA MORRONA Pisa illustrata III, 501; così il LANZI Storia Pittorica del- l’Italia I, 514. Di MEMORIE INEDITE DI DISEGNO 469 ‘vola del S. Giovan Battista fosse separata dalle altre: questo so bene, che essa venne ad arricchire l’ Accademia cogli altri di- pinti d’antica scuola posti insieme dal Decano Zucchetti, al pari del superbo gradino di questo quadro, ora ridotto a sei pezzi (1), giudicati nel Catalogo a stampa degli oggetti d’arte della nostra Accademia opere del Traini . La tavola di Simone, secondo l’uso che correva in quei giorni, fu da esso composta per laccozzo di tanti quadri quante sono le figure principali; e giusta Ja mente sua il centro dovè essere occupato dall'asse su cui è dipinta in campo d’oro la mezza figura della Vergine col Divin Figlio nelle braccia. Caris- sima e rara pittura sarebbe questa, se gran parte di venustà primitiva non fosse scomparsa sotto il pennello che osò ritoc- carla; pure rimane assai grazia in quel volto, tanta parte non tocca delle carni e delle vesti del Divino Infante, da mostrar ‘vero l'elogio che il Vasari fece di Simone, allorchè lo disse | (ipintore eccellente e singolare ne’ suoi tempi (2). Le figure delle quali io parlo sono in grandezza ben presso al vero, e così pure le altro sei le quali appartengono al medesimo ordine, ove dovet- tero essere prime e collocate ai due lati della Vergine quelle dei Santi Giovanni Battista e Giovanni l' Evangelista, e preceder le altre della Maddalena e di S. Caterina delle Ruote, siccome penso che fossero ultime fra tutte, quelle del S. Domenico e del S. (1) Ignoro qual sia stata la sorte di uno dei pezzi laterali, che doveva contenere due piccole mezze figure. In quello che tenne il centro son coloriti il Divin Redentore (mezza figura nuda, che ti si mostra dalla cin- tola in su nel sepolcro), la Vergine e S. Marco. Nei rimanenti poi pos- sono scorgersi, a due a due, S. Appollonia con S. Stefano Protomartire; S. Tommaso d’Aquino con un santo vescovo, forse S. Agostino; S. Agnese con altro Santo, distinto per abiti vescovili, che potrebbe credersi S. Am- brogio; la Maddalena con altro Santo, pure distinto per abiti episcopali, ch'io credo S. Niccolò; infine l'Evangelista S. Luca con un santo pontefice, che giudico S. Gregorio Magno. (2) VASARI 7, 159. 470 BONAINI i Pietro Martire. Ciascuna di esse è adorna di bei pregi; chè il pittore è grandioso nelle teste e nei panni, com'è robusto e fluido nel colore. Su tutte parmi bellissima la S. Caterina, perchè in essa è grande maestà di sembiante accoppiata a tanto nobile ric- — chezza di vesti, da farne meravigliare anche adesso quanti pren- dano a riguardarla. I sei Profeti, tra i quali è il Re David, co- loriti nelle cuspidi laterali, il Cristo ch’ è in quella del mezzo hanno tanto carattere nelle teste, da sembrare appena credibile che fosser dipinte così variate, così vere quando l’arte non aveva anche toccato la perfezione; lo che vuolsi dire eziandio di quelle de’ due Arcangeli (Michele e Gabriele) e delle altre de’ dodici | Apostoli, ov è tanta bontà di disegno, di rilievo e di tinte, da far- ne onoratissimo il nome di qualunque artefice le dipingesse an- che oggi. Certo in questa tavola se chi la condusse si mostrò meraviglioso nelle grandi figure, non apparve inferiore artefice nelle minori. Qual lode invero non si darebbe, in qualunque secolo, alle piccole imagini dei Santi le quali sono nel gradino? Potrebbe mai farsi opera più perfetta del Redentore e del S. Marco? A chi non reca meraviglia il S. Agostino e quella rara figura della Maddalena? In tutte è perfezione di disegno, pre- ziosità d'esecuzione, e, ciò che più vale, quel carattere di verità, per il quale ti sembrano non dipinte, ma vive. MEMORIE INEDITE DI DISEGNO 471 CAPITOLO II. NOTIZIE SUGLI AUTORI DI UNA TAVOLA DELLO SPEDALE DI PISA, CHE SI VOLLE ATTRIBUIRE A TADDEO BARTOLI SANESE. Discorsi a lungo della tavola di Simone affinchè, riposta in | onore e ridotta in un sol luogo da chi lo può, non sia più che se ne debban cercare sparsamente (come ora avviene dell’ altra del Traini), quasi membra di corpo dilacerato, le parti che la composero. Sennonchè detto così di questa, e’ mi fa d’uopo venire a ragionar d’altra tavola la quale abbella tuttora il nostro | Spedale di S. Chiara, e che i periti dell’arte giudicarono stupenda per l'età in che fu fatta. Vedasi, se ne aggrada, assai ben deli- — neata nei monumenti del Rosini, il quale la vuole di Taddeo | Bartoli (1). Su*di che io non posso seguitare il suo avviso, men- (1) V. Tav. 29. Ecco il giudizio ch'egli ne fa: « Delle cose che (il | Bartoli) lavorò in Pisa perdute son quelle operate a fresco, meno alcuni frammenti del Camposanto; ma resta la bella tavola nella sagrestia di S. Chiara, che ho fatta intagliare, e che parmi essere uno de’ monumenti più rari ed importanti di quell'età. Grandiose le figure, variate le arie delle teste, ben disposti i panni, vivo il colorito, annunziano già pel secolo av- venire un'era novella ». Stor. della Pitt. Ital. II, 189. Il CIAMPI, per nuovi documenti discoperti, avea già mostrato che Ja Vergine incoronata dipinta nel Camposanto, attribuita dal Vasari a ‘Taddeo Bartoli, e di cui adesso non abbiamo che resti della preparazione, fu lavoro di Pietro da Orvieto. Noti- | Zie ec. pp. 97. 98. 150. Questo fatto non potè rifiutarsi dal nostro DA MOR- —_RONA che ne fece accenno nella ristampa della Pisa illustrata II, 218. 219, accogliendo ciò non pertanto molto avidamente la congettura del Ciampi ìstesso, il quale disse che Taddeo Bartoli fu probabilmente autore dei re- Slauri. Chi fosse bramoso tra noi di vedere qual pittore fosse il Bartoli, può esserne pago quando abbia agio di osservare la Vergine ed altri resti della tavola spettante già alla chiesa di S. Francesco, ora del sig. Franco» che è quella stessa di cui parlò il DELLA VALLE, Lettere Sanesi 1I, 195, 194, e che ricordò dopo di lui il DA MorRona ZZ/, 59, 60. La figura del S. An- drea è pressochè simile all’altra del medesimo apostolo, la quale si vede in 472 BONAINI tre ove le carte parlano chiaro linguaggio è mestieri por giù le congetture, com’ è questa sua, che la tavola di che diciamo venga dal Bartoli; cosa non sospettata mai dal Vasari, dal Baldinucci, dal Lanzi, dagli uomini più reputati, infine, i quali scrivessero della pittura (1). Ciò io affermo colla certezza di poter vincere la prova, certezza che deve aversi quando si vuol contrastare ad uomo sapiente e di grido com'è il Rosini: nè certo mi sarei fatto mai a tentativo sì malagevole ove non avessi trovato, non dirò solo il contratto per cui ordinavasi il quadro, ma i riscontri dei pagamenti della mercede, pei quali è tolto ogni sospetto che . il dipinto fosse ordinato, ma non eseguito. Le carte, delle quali parlo, io le rinvenni nel protocollo del notajo Pupo di Puccino da Calci, ch'è nell'Archivio dello Spedale; e fra esse mi apparve prima di ordine, com’ è di tempo, la convenzione del 27 apri- le 1402 che fece Tommaso del fu Tieri da Calcinaja procura- tore del pio luogo, quando si volle ornare il maggiore altare di S. Chiara (2). Due, secondo la convenzione, furono i pittori (che forse tra essi eravi società, come dicono, d’arte) ai quali si volle allogata la tavola; ma ogni opera di figura si pattuì dovesse farsi da Giovanni del fu Piero da Napoli, mai da Martino già figliuolo di Bartolommeo (Bolgarini) da Siena, che poteva per altro adope-. rarsi dal compagno per ogni rimanente (5). Io mi do a credere S. Martino all’altare detto = della dottrina cristiana =, su cui è posto il Groci- fisso che al Tempesti parve simile in tutto a quello di Giunta, al Rosini di maniera greca. Mem. d’ill. Pis. I, 259 — Stor. della Pitt. Ital. I, 84. Sono i della stessa mano in quesl’altare (e, come a me parrebbe, del Bartoli) le altre tre figure dei Santi Bartolommeo, Cristoforo e Agostino. Ma di questo giudicheranno a dovere gli artisti, i (1) Il DA MORRONA ne tace affatto nelle due edizioni della Pisa #llu, strata, e nell'altra sua opera: Pisa Antica e Moderna. Pisa 1821. 8.° (2) Docum. XIV. (5) In questi tempi non eravi arte meccanica connessa colla pittura, che non venisse praticata nelle botteghe dei pittori anche i più insigni, V. SELVATICO Pensieri sull’ Educazione del Pittore storico odierno italiano. Padova 1842. 8.° pp. 100, 101. MEMORIE INEDITE DI DISEGNO 475 che a molti riuscirà oscura la ragione del patto, essendochè non sia da dirsi (come verrà dimostrato) che Giovanni di Piero da Napoli fosse seguitato nell'arte con passi ineguali da Martino fi- gliuolo di Bartolommeo Bolgarini. Ma, per tornare a’ patti fer- mati coi due pittori, al primo, del quale dissi, ne vennero alcu- ni di seguito; e questo, tra gli altri, che renderebbero perfetta l’opera nello spazio di soli otto mesi (dal 1.° maggio a tutto il decembre), togliendo su di loro le spese, senza maggior ricom- pensa di novantacinque fiorini d’oro. La somma di che parlo era mercede, o meglio premio, di magnifica opera; perocchè, come mostra il contratto, dovevan dipingersi nella tavola, oltre alla Vergine col Divin Figlio, dall’un lato S. Agostino e S. Giovanni Battista; dall’altro S. Giovanni Evangelista e S. Chiara; al di so- pra la Trinità, fiancheggiata da Maria e dall’ Angelo; nel gradino gli Apostoli, otto Profeti e due Serafini. Così fermavasi nel 27 d’aprile. Nel 5 maggio i pittori erano all’opera; e ciò mi si fa manifesto per la carta che accenna al pagamento di quindici fiorini che sborsavansi loro dal Rettore dello Spedale, giusta le cose stabilite, fra le quali vi era che questa somma appunto si pagherebbe come prima rata del prezzo, ogni qual volta il lavoro fosse incominciato (1). Il contratto non dice qual parte di prezzo doveva venire nel secondo pagamento; ma vi è ragione di crede- re che nel 25 agosto ogni opera d’intaglio fosse come perfetta, | perchè in questo giorno il Sindaco dello Spedale pagava ai due artisti la seconda rata di trenta fiorini, in moneta del paese; lo che, secondo il contratto, doveva farsi quando la tavola fosse al punto d’essere inorata (2). Con queste memorie si pone in aperto che il lavoro fu ordinato a Giovanni da Napoli e a Mar- tino da Siena, e da essi preso a condurre. Nè mi sconfortano dal seguitare questo avviso le infruttuose ricerche che feci della (1) Docum. XV. V. anche Docum. XIV. (2) Docum. XVI. V. altresì Docum. XIV. 60 474 | BONAINI carta dell’ultimo pagamento; avvegnachè in difetto di essa ne soccorre assai bene il libro di cassa dello Spedale, conservato tuttora nell’Archiyio (1). Or sotto l’anno 1402, ov'è menzione dei creditori, si legge che a Giovanni del fu Piero da Napoli devono pagarsi novantacinque fiorini d’oro « per una taula che lui di- pinge; » e sotto l’agosto del 1404 è notato che li si debbono due altri fiorini « per dipintura del muro e altre cose quando si mise la taula » (2). Ciò rende chiaro, a mio senso, che Giovanni di Piero e Martino condussero a compimento l’opera loro; ed in tale opinione anche più mi confermo quando prendo a considerare che nell'agosto del 1404 avevano ottenuto il pieno pagamento della mercede pattuita, secondo ch'io dissi, in novantacinque fiorini d’oro (3). Sebbene ad infievolire questi argomenti, volti a mostrare che la tavola di S. Chiara è di mano di Giovanni di Piero da Napoli ajutato da Martino da Siena, non di quella di Taddeo Bartoli; potrebbe alcuno proporre alcune dubbiezze le quali torna utile dileguare. Se la tavola è quella stessa che fu dipinta da Giovanni e da Martino, come mai si desiderano a questi giorni nella medesima, non che i dodici Apostoli, i Pro- feti e i due Serafini? Perchè vi sono al di sopra due mezze figu- re degli Evangelisti S. Marco e S. Luca, in luogo della Trinità e della Vergine, che insieme all’Angelo (secondo il contratto) vi dovevano essere disegnati? Facile è il vedere per qual modo possano risolversi l’una e l’altra difficoltà. Le figure degli Apo- stoli, de’ Profeti, de’ Serafini andaron perdute quando fu tolto di mezzo il gradino su cui eran dipinte; e i due Evangelisti ten- gono il luogo della Trinità, della Vergine e dell'Angelo, per (1) Il Dott. Carlo Tempesti, diligente Archivista dei RR. Spedali, fu primo a darmene nolizia e a pormi soll occhio le partite in esso comprese, delle quali sarò a discorrere: mi è grato professarli in pubblico la mia riconoscenza. (2) Docum. XVII. (5) Docum. XVII. MEMORIE INEDITE DI DISEGNO 475 quel variar di pensiero ch’ è sì frequente ne’ grandi pittori come ne’ mediocri, e che muove talora dal volere dei committenti. A chi ha qualche pratica dell’istoria delle arti non giungeranno per certo nuove queste mie conclusioni. Giovanni di Piero da Napoli e Martino di Bartolommeo da Siena vissero tra di noi per assai tempo, e vi condussero altre opere di pittura oltre a questa dell’altare di S. Chiara. E ve- ramente a quanto mostra il libro di cassa gia menzionato, il Mae- stro o Rettore dello Spedale compiacendo, penso, ad un’oblata, nel marzo del 1405 (non saprei se giusta il computo pisano o comune, essendo silenzio del giorno) poneva tra i creditori il pit- tore Giovanni per cinque fiorini e trentacinque soldi « per una figura grande di tela la quale ebbe Mona Francesca, cioè per dipintura » (1). Ecco nuova memoria di un’opera fatta da Gio- vanni; ma a questa è bene da aggiugnersene un’ altra ancora, quella, io diceva, di quattro finestre ch’ei preparò per la camera — del Rettore dello Spedale medesimo, e da vantaggio di altre due per la cancelleria di questo luogo di carità (2). Il documento non dice come tali finestre si fossero, ma posso ben credere che Gio- vanni vi 'disegnasse figure sopra tela incerata; chè così fece un Neruccio pittore della parrocchia di S. Niccola nel 1570, chia- mato a colorire quattro finestre della casa dell'Opera del Duo- mo, secondochè ne ho certezza pel documento datoci dal Cibra- rio (3). Niuno argomenti da questo che Giovanni di Piero da Napoli si avesse in conto appo noi di pittore dozzinale e da poco, perchè nell’età di cui dico disegnatori eccellenti ornavano di pitture non che le finestre, le targhe da guerra, da giostra, le selle da cavalcare, nella guisa stessa che arricchivano di figure gli armadi, le panche, le casse e ogn’altro attrezzo di casa; « chè (1) Docum. XVII. (2) Docum. XVII. (3) Economia Politica del medio evo, ed. 2.* III, 544. Ha errato il Ciampi credendo che queste finestre fossero di vetri. Notizie ec. p. 96. 476 BONAINI il rozzo secolo non discerneva per anche la nobiltà della pittura, e diceva maestri quelli che ora nominiamo professori, e botteghe quelle che ora chiamano studii » (1). Giovanni e Martino ebbero, a quanto io penso, la loro bottega nella parrocchia di S. Felice (2); nè furon sempre grandiosi i lavori ne’ quali vennero adoperati, dappoichè Martino nel 1404 per aver dipinto trenta figure per lo Spedale non ne ricevè altro prezzo che di quindici soldi per ognuna, mercede certo più dicevole ad un meccanico che a professore d’arte liberale (5). Di quest’ opera tutto scomparve fuorchè la memoria ch'io ne trovai; ma resta un dipinto che fece Giovanni per volere di certo Stefano Lapi, devoto, io mi penso, di Suor Chiara Gambacorti; di colei voglio dire che fu figliuola al Magnifico Messer Piero, e che ottenne dal padre di mutare in sacro ritiro di monache Domenicane i giardini della famiglia, ove già fu veduto l’imperator Carlo IV, e prima di esso lavo suo Arrigo VII di Luxemburgo; quando gl’ Italiani (stolti!) sperarono che discendesse di terra in terra mettendo pace do- vunque, quasi fosse Angelo di Dio. Il Lanzi avvisò che fu raro in questi secoli l’uso della tela pei quadri, quantunque scrivesse d’averne veduto non uno solo in tela a Firenze, assai più a Ve- nezia e a Bologna (4). La pratica di Giovanni da Napoli mostra quest’ uso anche più universale. Ed infatti, in tela e non in ta- vola egli dipinse la figura ch’ ebbe madonna Francesca, e colorì in tela parimente il quadro del monastero di S. Domenico, che vidi appeso alle pareti della chiesa interna delle monache, come lo vide primo il Da Morrona (5). L’opera di che parlo, colorita a tempera, è di cinque braccia, tolti quattro quattrini, in altezza; di tre braccia :e due terzi pel largo. Nella parte inferiore della (1) Lanzi Z, 54. V. anche p. 56. (2) Docum. XIV. (5) Docum. XVII. (4) Stor. Pitt. dell’Italia I, 56. (5) Pisa illustr. II, 527. MEMORIE INEDITE DI DISEGNO 477 cornice del quadro leggesi questa iscrizione: FACTUM . FUIT . TENPORE . SORORIS . CLARE . PRIORISSE . ISTIUS . MONASTERI . ANNO . DOMINI . MCCCCV . FIERI . FECIT . STEPHANUS . LAPI . DOMINI . LAPI . ROGATE . DEUM . PRO . EO . JOHANNES . PETRI . DE . NEAPOLI . PINSIT . (1) Semplice molto, e forse tale che alcun direbbe volgare, è la composizione di questa tela, a cui più che la età, a quanto mi venne narrato, al principio di questo secolo fece onta una mano inesperta. Nel mezzo Cristo Signore pendente dalla croce; ai lati la Vergine e S. Giovanni Evangelista; ai piedi del tronco S. Francesco d'Assisi in ginocchio, il quale lo stringe con certa compunzione: tutte figure in grandezza simili al vero. Sul da- vanti poi altre due piccole figure di devoti genuflessi alla croce. Io non credo di errare qualora affermi che il nostro pittore volle rafligurar se medesimo nella seconda di esse, che si distingue dall’altra, la cui testa è coperta dal mazzocchio, per la veste bianca e per le braccia le quali tiene incrociate sul petto (2). (1) Il Da MoRrRoNA 2/7, 527 l’ha riferita, ma erronea e mutilata. (2) Nella collezione dell’Accademia di Belle Arti avvi altro quadro di cui tacque il Da Morrona, e che già fu di questo stesso monastero. PoL- LonI Catalogo ec. p. 34. Arlisti valenti si uniscono a me nel giudicarlo opera del nostro pittore Giovanni, ajutato forse da Marlino. Rappresenta lo Sposa- lizio di S. Caterina V. e M. Bella e largamente dipinta è la Nostra Donna, la quale tiene ‘sulle ginocchia il Bambino Gesù, da cui vien porto con molta grazia alla Santa l’anello con la:mano sinistra, mentre tiene stretto nella destra un piccolo augelletto. Sul davanti del quadro avvi la stessa figurina genuflessa e in veste bianca, che osservai avere Giovanni dipinto nella tela della Grocifissione; credo per raffigurare se medesimo. L'iscrizione inedita del tempo dice: MCCCCIIII. APRILE . FU . IL . MESE . PREGHIAMO . DIO .:PER . CHI . FA . LE . SPESE. L'epoca del quadro, l'avere appartenuto allo stesso monastero pel quale Giovanni dipinse la Crocifissione, la piccola figurina in veste bianca, che vi è disegnata; tutte queste circostanze, unite alle considerazioni delle quali di sopra toccai, faranno accogliere, io spero, con favore questa opi- nione ch'io annunzio pel primo. 478 BONAINI Ho parlato di Giovanni di Piero assai per disteso perchè mi parve convenevole richiamare a nuova vita la quasi spenta memoria di un pittore, il quale fece a’ suoi tempi opera che al Rosini parve degna del Bartoli; e perchè d’ altra parte ne tac- ciono al tutto gli scrittori della storia della pittura. Alcuno vor- rebbe ch'io muovessi forte lamento contro il De Dominici pel suo silenzio, e che mi unissi a quei molti che si compiacciono di chiamarlo scrittore poco esatto. Già fu confessato dai Napoletani medesimi come sia grande povertà di notizie quando si guarda ai principii della pittura ristorata appo loro. Ma sia pur che ve ne fosse ricchezza, non per questo io vorrei dir negligente lo storico; essendochè le memorie che abbiamo intorno a Giovanni di Piero, oltre all'essere attinte in straniero paese, di questo solo forse ne avvisano, che il padre suo ne venne da Napoli; nè danno mezzo d’ altronde di fissare con certezza se il figliolo ebbe vita nella città che vide nascere il padre, e se veramente s' istruì nelle scuole ch’ erano aperte colà fino da’ tempi di Carlo il Vecchio, come fu quella di Tommaso di Stefano, oscurata poi dalla grande fortuna dell’altra di Giotto, che la dischiuse quando Roberto, nel 1525, chiamollo a dipingere in S. Chiara (1). Altri giudicherà qual pro abbiano fatto a Giovanni di Piero gl’inse- gnamenti de’ sommi maestri del secolo xrv, e a quale scuola ei desse il suo nome; chè questo solo io mi proposi quando tolsi a parlarne; di dimostrare, dico, anche per tale esempio, quanto vadano errati coloro i quali gridan pel mondo che la storia del- l’arte ha omai ferme basi, e che dal molto affaticarci che noi facciam per gli archivi non può venirne altro frutto che qualche nome d’ignobile dipintore o scultore, e nulla più. Le false opi- nioni allora solo si sradicano quando si contradicon per fatti bene accertati; però è grave colpa il tacere di quelli che come più luminosi riescono meglio ad abbatterle, specialmente ov’ essi siano domestici. (1) LANZI 77, 278—280 e segg. MEMORIE INEDITE DI DISEGNO 479 Scrissi assai diffusamente di Giovanni di Piero da Napoli, e dissi alquante cose altresì di Martino di Bartolommeo da Siena, ampliando in certo modo ciò ch’erasi detto di lui con troppa concisione dal Lanzi. Narra questo scrittore che Martino nacque da Bartolommeo Bolgarini discepolo di Pietro Laurati, Per tal guisa esso mostra di seguitare l'autorità di un maposcritto di Giulio Mancini, in cui si attribuì a Bartolommeo questo casato, in luogo di quello di Bolghini che gli dette il Vasari nella prima edizione delle Vite, e di Bologhini per cui lo distinse nella ristampa successiva di tal’ opera (1). Il Lanzi stette pago a scrivere dei dipinti che Martino fece per Siena; l’uno dei quali andò perduto, voglio dire quello della traslazione del corpo di S. Crescenzio, già disegnato nel Duomo (2). Egli avrebbe potuto dire alcuna cosa eziandio delle opere che Martino lasciavane in Pisa; perciocchè fino dall’anno 1795 il Da Morrona erasi dato vanto di aver rinvenuto nello Spedale dei Trovatelli una tavola di questo pittore, senzachè per altro si facesse a descriverla (3). Quest'opera, che Antonio della famiglia da Sancasciano allogava a Martino (4), pende tuttavia dalle pareti di una stanza contigua (1) Lanzi Z, 518. V. la Nota del MonTANI al Vasari Opp. 1, 141. (2) Storia Pittor. dell’Italia I, 528. Quello che ne abbia, ch'io mì sappia, scritto meglio e più largamente è il DELLA VALLE nelle Lettere Sa- mesi II, 251-253. Il dotto mio amico sig. Tommaso Gar, uno degli editori delle Relazioni degli Ambasciatori Veneti (VII, 360), ora torna a dircene alcuna cosa. (3) Pisa illustr. ed. 1.3 III, 266. (4) Si raccoglie da questa iscrizione (rifatta, io credo, sull’antica) che vedi nel quadro, e che vien riferita dal DA MoRRONA 277, 255, 254. HOC * OPUS “ FIERI * FECIT © S * ANTONIUS * DE * S * CASSIANO * MARTINUS * DE * SENIS * PINXIT * A * D * MCCCCHI * Antonio da Sancasciano appartenne alla illustre famiglia che dette molti consoli al Comune nostro nel xIl secolo, e tra questi quel Lamberto Grasso da Sancasciano, che prestò mano a comporre e confermare il Costi- tuto Pisano nel 1161. Il nostro Antonio da Sancasciano è quello stesso di cui ci parla R. SARDO nella Cronaca cap. 212. (Arch, Stor. Ital. VI. P. 11, 221), È poi di questa stessa famiglia quel Piero di Giovanni che dopo di essere m. 480 BONAINI alla chiesa. In essa il pittore ha colorito su campo d’oro, nel compartimento che occupa il centro, Nostra Donna (mezza figura) col Bambino Gesù nelle braccia, e dal lato destro poi altra mezza figura di S. Giovanni Battista; dal sinistro una mezza figura ugualmente esprimente l’Apostolo S. Bartolommeo; allato ad essa S. Dorotea, che tiene nella mano un bacino su cui ardono due fiammelle; infine, da costa al S. Giovanni, una mezza figura di S. Antonio Abate. Il gradino fu ridipinto, a quanto pare, da spre- gevole meccanico, in tempo da noi non lontano; ma sono intatte e quali uscirono dalle mani dell’artefice primo le cinque mezze fi- gurine, le quali campeggiano nelle cuspidi poste sull’alto. Cristo Signore in atto di benedire colla destra, colla sinistra tenendo aperto il libro degli Evangelj, è nel mezzo. Vengono poi di seguito S. Caterina vergine e martire, Sant’ Jacopo Apostolo, S. Pietro e S. Agata. L’opera tutta di questa tavola, abbenchè offesa da ritoc- chi nella parte più nobile, quali sono le maggiori figure, disvela in Martino un artista ch’ ebbe pratica lodevole di dipingere, e che si piacque dei larghi contorni e di un colorito robusto. An- che osservando solo a questo dipinto, noi dobbiam confessare non esserci agevole il discuoprire la cagione vera per cui si volle pre- ferita la mano di Giovanni di Piero da Napoli a quella del Bol- garini, per le figure da farsi nella tavola dell’altare di S. Chiara. L’oscurità che posa sopra questo fatto, anzichè dileguarsi divien maggiore, a me sembra, per la scoperta che or sono per annunziare, fatta novellamente da me nella nostra terra di Casci- na poco lungi da Pisa, di un’ opera forse la più grandiosa che mai facesse Martino (1). Presso la porta che dicono Fiorentina stato ambasciatore nel 1497 a Cesare, lo fu nel 1499 alla Repubblica di Venezia, e nel successivo anno 1500 al Re di Francia. RoncionI Delle Famiglie Pisane — Famiglia Da Sancasciano. (1) Giò avvenne nella mattina del 51 maggio di quest'anno 1846, es- sendosi a me associati i due valenti artisli sigg. Giovan Battista Gatti e Remedio Fezzi. MEMORIE INEDITE DI DISEGNO 481 sorge una chiesa (ora profanata) sacra al nome di S. Giovanni Battista, che chiamarono in altri tempi la Magione, perchè fu de’ Cavalieri Gerosolimitani (1). È lunga presso a ventiquattro braccia, larga undici e un terzo, alta diciotto. Già fu tutta bella e vaghissima per affreschi a chiaroscuro e a colori. Tace di essi, a quanto io sappia, ogni scrittore di nome fuorchè l’ Orlandini Zuccagni, il quale gli dice opere del Luini (2). D’onde muova tale opinione non saprei dirlo facilmente. In qualunque modo sarà mestieri adesso porla in non cale; perocchè fattomi a guar- dare da vicino gli avanzi dell'iscrizione che fu apposta sotto la maggiore pittura, vi potei leggere: e, RIS DE CASCINA ANNO DOMINI M[CCC]LXXXXVI (5) ...... MARTI[NUS] [BARTO]LOMEI DE SENIS PINSIT TOTUM [OPUS] ISTIUS ECCLESIE SANTI JOHANNIS BAPTISTE. L'affresco che ha sotto di se questi resti dell'iscrizione occupa l’intiera parete che sta di fronte all'ingresso, ed è di undici braccia pel largo, di altezza proporzionata. Assai parte di esso perì, più che per la lunghezza del tempo, per la barbara incuranza, io mi do a credere, degli antichi commendatarj del- l'Ordine, che fu gravemente sgridata dall'arcivescovo Carlanto- nio Del Pozzo fino dal 1596 (4). Qui Martino di Bartolommeo ti (1) Ora è proprietà della famiglia Jacoponi—Marrante. (2) Atlante geografico fisico storico del Granducato di Toscana, tao. XIV. (3) Il numero VI è quello solo che resta dubbio, essendovene rimaste troppo languide ‘tracce. Ho poi supplito la parola opus. (4) Lo raccolgo dagli Atti di Visita esistenti nell'Archivio della Cu- ria Arcivescovile, N.° 26. 2.° p. 88. Erane allora commendatario F. Giacomo De’ Lucci fiorentino. L’arcivescovo Giuliano De’ Medici ebbe in seguito a riprendere di maggior negligenza uno dei successori del De’ Lucci, Uber- lino De’ Ricasoli di Firenze, cavaliere pur esso dell'Ordine Gerosolimitano, Visitando la chiesa nell’8 gennajo del 1623 fece invero questo decreto: « Che si faccia un’invetriata—Che si levi il pulpito et si chiuda il muro—Et che si:faccia un baldacchino di tela dipinta et ‘si restauri la facciata dell’altare a mano diritta et si restauri la porta », Atti dî Visita N° 42. 2° p. 47. 61 482 BONAINI si mostra pittore non dei mediocri, ma dei maggiori del tempo suo; perocchè appare grandioso nella figura del Cristo affisso alla croce, non che in quelle de’ due ribaldi dannati com’ esso alla morte, e nelle altre dei circostanti i quali sono presso al Signore che agonizza. Le donne pietose le quali sostengono la Vergine, che vedi fuori dei sensi per la pienezza dell’ango- scia, non hanno per nulla quegli atti e quei volti volgari che tanto dispiacciono ai più savi nella Crocifissione, che dicono di Buffalmacco (1); ma il loro dolore ha certa nobiltà, e quello soprattutto della Vergine è dolore di colei che fu Madre di Dio. Quanto diverso non ti si mostra in questo soggetto l’ Artista Sanese se tu lo poni a confronto con Giovanni di Piero, che pur colorì la sua tela per S. Domenico assai dopo di lui! In questa tu vedi esilità di parti, freddezza di composizione, languido co- lorito. Nella Crocifissione di Martino larghi e ben condotti i con- torni delle figure, muovimento ed azione più che lodevoli, infine bellezza e venustà di colore da farne vaga mostra di se anche di presente, a malgrado delle ingiurie recate a quest'opera dagli uomini e dal tempo. Tale è la Crocifissione, il maggiore tra gli affreschi di que- sta chiesa. Altri quattro un tempo ve n’ ebbero al di sotto di essa; oggidì non ne avanzan che due, il Battesimo di Cristo ed il Banchetto di Erode, ove recasi il capo reciso del Battista (2). An- che qui Martino ha bellissima pratica, non però tale da vincerla su quella di cui fece pompa nei quattro ordini d’affreschi i quali ricorrono attorno alle tre rimanenti pareti. Le pitture che io prendo a descrivere rappresentano tutte fatti narrati nell’An- tico Testamento; e muovendo da quello, che è massimo, della In tutte le visite degli Arcivescovi successivi non è fatto più ricordo di questa chiesa; ma vivono nella terra uomini, i quali rammentano che presso a un cinquanl anni fa era sempre destinata al culto. (1) LANZI /, 41. (2) Nel 1625 pare che fossero già perduti. ( V. nota 4, p. 481). MEMORIE INEDITE DI DISEGNO 485 Creazione, proseguono fino al Giudizio di Salomone secondochè narrano i Libri Santi. Le rappresentazioni della parete a levante appena serbano in qualche parte piccoli resti di quel che furono; ma quelle che il pittore disegnò nella parete di ponente, e che proseguono per ventiquattro braccia in lunghezza, sono appena tocche; talchè puoi conoscere di qual magistero mirabile fosse capace Martino nel farsi a quest'opera, in cui sprezzò ogni leno- cinio di colore, conducendola solo di chiaroscuro. Le iscrizioni dettate italianamente, e che sono sottoposte a ciascuna istoria, dichiarano assai bene ogni fatto rappresentato; ma ove siffatte dichiarazioni mancassero, non ci sarebbe per questo meno aperto ciò che il pittore volle rafligurarci. Bella ed oltremodo grandiosa è la figura sedente di Dio Creatore del cielo e del sole: lodevole pittura quella del sacrifizio di Caino e di Abele: pietosa scena l'uccisione del secondo: alta rappresentazione l'inchiesta del Si- gnore al fratricida; ma su tutte sono bellissime la costruzione dell’ Arca e la rappresentazione di varii accidenti della consorte di Abramo caduta in potere del Re degli Egizj. Alcuno nel vede- re tanto disegno in questi affreschi, così bello il piegare delle Vesti e così largo, cotanto ricco e svariato il comporre, appena sa credere che si facessero nel secolo xiv; e muove assai dubbj perchè io pensi con esso che debbansi a dipintore più valoroso di quel che fosse Martino. Io non oso negare che altri potesse ajutarlo, ascondendo poi al tutto il suo nome; e forse avvenne in quel secolo che un pittore più pratico del nostro artista, non avesse a disdegno di operare con esso come di seconda. Non era forse così quando il Bolgarini medesimo parve contento che Gio- ‘vanni di Piero fosse il solo autore delle figure della tavola di -S. Chiara? Noi, i quali conosciamo oggidì l’opere del Sanese, non vorremo dirlo per questo artista da cederla a Giovanni. Sono queste parte mie parte altrui congetture, sulle quali chiedo por- tino giudizio coloro che più sanno delle arti; chè questi penso d'ora innanzi trarranno a visitare la chiesa di S. Giovanni Bat- 484 i BONAINI tista, che quanto a me stimo una delle opere grandiose di pit- tura che si facesse nel secolo xiv. Assai parti dei chiaroscuri delle pareti andaron perdute, siccome dissi; ma non avvenne così de’ chiaroscuri delle due volte le quali furono murate, come si esprimono gli architetti, a modo di crociera a cordoni. Nella prima, che è quella sotto cui già stette l’altare, appajono da quattro vani rotondi gli Evange- listi coi loro simboli: mezze figure maggiori del vero; nell’altra mostransi per egual modo i quattro Dottori della Chiesa. Fanno corona a questi nell’una e nell’altra molte figure, minori assai per grandezza, e si mostrano anch’ esse dai vani o trafori che vi sono, tra le quali possono distinguersi bene quelle dei Pro- feti. Ma non è qui ove più vuolsi ammirare il pittore. L’opera di Martino in che sembra mettesse più amore dipingendo in , questa chiesa (se non vogliamo dir sue le storie di chiaroscu- ro), è quella delle figure a colori le quali disegnò nelle due pareti laterali, e nella terza nel cui mezzo è la porta. Appena oggidì possiamo ammirare la bontà del S. Giorgio a cavallo che trafigge il dragone, colorito all’un de’ lati della porta medesima; perchè questo dipinto ebbe gravi danni a soffrire, non però uguali a quelli della pittura del lato opposto, della quale è scomparsa ogni traccia. Sorte migliore provarono le figure dei Santi disegnate dal Bolgarini (in grandezza simili al vero) nelle due grandi pareti laterali; chè delle venticinque ne rimangono sedici e alcune appena tocche, cosicchè ne dobbiamo meravi- gliare quando si pensi che furono dipinte or fa un quattro secoli e mezzo. L'artista le adattò in alcuni tabernacoli disegnati con ornamenti di colonnette a spirale. Nella parete di levante colo- rivane dodici oltre a due piccole mezze figure, delle quali ap- pena rimangono vestigi nel pilastro; undici sole (tranne il S. Mi- chele ch’ è nel pilastro opposto) ne disegnava in quella ch'è a ponente; perchè avendo dovuto dar luogo ad una finestra, vi potè solo ritrarre al disotto il pio Fondatore genuflesso alla Cro- MEMORIE INEDITE DI DISEGNO 485 cifissione, o più veramente al S. Giovanni Battista, ch'è la prima figura di quest'ordine. L’imagine del Precursore, di che parlo, dimostra in chi la condusse molta pratica di disegno e di tinte; ma non sono a dirsi inferiori in bontà il S. Paolo Apostolo e il S. Lorenzo che succedono a questa; e sono poi bellissime doti quelle onde risplende la figura di S. Stefano re d'Ungheria che viene appresso. Il S. Onofrio Eremita, adusto, seminudo, con capelli sparsi e con tralcio di albero all’ombelico è veramente l’antico padre del deserto. Il pilastro sottoposto all’arco, per cui si uniscono le due volte, ha dal lato occidentale un vago S. Mi- chele con bilancia librata, ove ne’ piattelli, a dimostrare i destini dell’anime, colorì due piccole figurine nude, l'una delle quali es- sendo leggiera fa che il piattello si sollevi, mentrechè l’altra non solo lo fa discendere col gravarlo di troppo, ma è come in atto di precipitare a capo fitto verso la terra. Tutte queste mi sem- brano figure condotte con gran magistero. Ma se alcuno, accen- nando a quelle che succedono all’ Arcangelo, volesse chiedermi - quali fra le altre ne sembrin migliori, non starei certo dubbioso nel dire che oltre alla prima del S. Cristoforo, maschia vera- mente e grandiosa, sono a pregiarsi, più che quelle del S. Nic- cola, di S. Agata, di S. Caterina, il S. Antonio Abate, in cui Vedi bellissime masse, e la Nostra Donna che ha il Bambino Gesù sulle ginocchia. Quanto a me questa della Vergine parmi cosa da porsi tra le più belle e pregiate che mai facesse Martino pittore, di cui vado lieto di avere accresciuto in qualche guisa la fama, pubblicando notizie fin qui sconosciute (1). (1) Essendomi proposto, nello scrivere delle opere del Bolgarini, di | prendere per mia guida i soli documenti certi, ho dovuto tacere d'ogni lavoro che potrebbe ad esso attribuirsi, guardando solo alla maniera del pittore. Sono di questo numero (se ne piace seguitare il giudizio d’ artisli molto pratici) due quadri i quali vedonsi tra di noi, voglio dire una Depo- sizione di Croce posseduta dal sig. Dott. Jacopo Balatresi, alta due braccia e un quinto, e larga un braccio e sette soldi; e due piccoli quadretti della collezione del sig. Moisè Supino, nell’ uno dei quali è dipinto l’ Angelo Ga- briele, nell’ altro Ja Vergine Annunziata. 486 BONAINI APPENDICE Proposi di scrivere alquanto distesamente sopra alcuni pit- tori i quali ebbero maggior grido nei secoli xrv e xv: ho fiducia che le memorie recate in mezzo siano per tornar grate a ciascu- no. Ma vi sono molti i quali insegnano non essere storia dell’arte quella la quale si rimane a narrare ciò che fecero i sommi uo- mini, perchè vogliono. costoro essere ufficio d’ istoria perfetta l’accennare ugualmente ai tempi felici e ai meno prosperi, ed il narrare del pari le cagioni dei progressi, come quelle della decadenza, o del niuno avanzamento degli ingegni. Chi non adopera per tal forma pare a questi molti non adoperi bene, e però che non siano a sprezzarsi, come alcuno vorrebbe, le me- morie degli artisti, le quali a prima giunta potrebbero sembrare meno splendide. Per esse infatti tu conosci certe condizioni del- l’arte, le quali altrimenti ne rimarrebber celate, e ti si rende piano il giudizio dell'influenza che ebbero sui contemporanei e sui posteri i maestri salutati da ognuno siccome degni dei primi onori. Tali pensieri furono quelli dai quali ho tolto il consiglio di divulgare anche alcune altre memorie inedite di Belle Arti, le quali potei porre insieme per le lunghe e continue mie indagini. Fra queste il lettore ne troverà alcuna di tal pregio, da non cedere facilmente a quelle medesime che feci conoscere di sopra. Di siffatto genere, a mio credere, son le prime che adesso suc- cedono intorno a tre nostri celebratissimi artisti del secolo xrv. MEMORIE INEDITE DI DISEGNO 487 a Della vera patria d'Andrea detto comunemente Pisano; di Nino e di Tommaso, e di certe loro opere di disegno fino a qui non ricordate. Firenze fu la terra dei grandi pittori tostochè le Arti rialzaronsi dal comune avvilimento; ma se Pisa non ebbe que- sto favore da’ cieli, n’ ebbe a dir vero un altro che non fu meno grande; perocchè si dischiuse presso noi intorno al mille una scuola di scultura che fino d'allora parve vincere ogn’ altra (1), e che fiorì poi grandemente quasi per due secoli. Ciò riduce al pensiero i nomi gloriosi di Niccola, di Giovanni, di Andrea, e il non meno glorioso nome di Nino. Le opere di quest’ultimo artista a dir vero son poche, ma pur preziosissime per la condotta, sia che tu guardi alle stupende di S. Maria della . Spina, sia che tu prenda a considerare da vicino la Vergine Annunziata e l'Angelo Gabriele, voglio dir le due statue le quali sono in S. Caterina. Di questo scultore parlarono assai gli scrit- | tori delle arti seguitando in tutto il Vasari, del quale è la sen- | tenza, che « Nino cominciò veramente a cavare la durezza dai | sassi e ridurli alla vivezza delle carni» (2). Io potrò dirne al- cuna cosa di più, perchè la sorte mi concesse di ritrovare un documento ove non pure è parola di lui, ma di Tommaso e d'Andrea. Il documento, del quale prendo a favellare, è una | provvisione degli Anziani nostri del popolo fatta nel 5 decem- bre 1568, dopochè levatasi a romore la terra, erasi gridato, com’ è in un cronista: « Muoja lo traditore di Messer Giovanni Dell’Agnello de’ Conti » (3). La caduta di costui, che fu primo (1) Cicocnara Storia della Scultura in Italia, ed. 2.* 8.° III, 102, 105. @) Opp. 1, 144, 145. (5) R. SarDo Cronica Pisana; cap. 145. ( Arch. Stor. It, VI. P. 11,165). 488 BONAINI ed ultimo Doge di Pisa, fu rovina di uomo che « pigliò la signo- ria a giornata come tiranno » (1); però, creati dagli Anziani sette cittadini perchè ponessero in comune i di lui beni (2), videsi statuito che l’oro da cavarsene si userebbe a pagare gli enormi debiti che lasciava, e a ristorare in qualche parte quei miseri i quali furono segno di mille crude avanìe per la superba domi- nazione. Filippo Villani ebbe a dire, parlando del reggimento del Dell’Agnello, che se vi fu signoria fastidiosa e prima di bur- banza, quella fu dessa (5); ed a ragione. Era il Doge di Pisa vano all'eccesso; faceva gran pompa d’ornamenti; cavalcava con verga d’oro nelle mani « e quando tornato era al palagio si mettea alle finestre a mostrarsi al popolo come fanno le reliquie, con drap- po a oro pendente, tenendo le gomita sopra guanciale di drappo ad oro; e patia e volea che come al papa e all'imperatore le cose che gli si avessero a esporre innanzi, gli si esponessero gi- nocchione » (4). Ora costui, che fu uomo di tal fatta, pare che | avesse questo per suo primo pensiero; invitare valente artefice a disegnargli un palazzo. Però, rovinate le case che Pietro Gam- bacorta aveva nella parrocchia di S. Sebastiano delle Fabbriche Maggiori, dette ordine all’orafo Tommaso già figliuolo di Maestro Andrea da Pontedera (dal che vediamo qual fosse la vera patria del grande artefice che si disse Pisano) d’apparecchiarne il dise- gno, ed a questo comando l’artista mostravasi tutto presto (9). (1) Filippo VILLANI Cronica Fiorentina XI, 101. V. le mie Note al Roncioni Istorie Pisane ( Arch. Stor. Ital. VI, P. I, 891). (2) R. Sarbo loc. cit. ne recita i nomi, (3) F. VILLANI Cronie. Fior. loc. cit. (4) FiLIPPO VILLANI loc. cit. V. le mie Note al Roncioni Ist. Pis. loc. cit. (5) Docum. VII. VIII. La principale professione di Tommaso fu quella di orafo, ma niuno lo disse fin qui. Lo dimostrano questi docu- menti ricavali dall’inventario dei beni dell'Opera del Duomo fatto dal- l’operajo Lupo degli Occhi, cui Tommaso fu testimone: « Actum Pisis dn Cancellaria sive apotheca in qua tenentur libri et acta dicte opere etc. pre- sentibus henrico q. Pilistri de sancto pietro et Tomaso aurifice. condam MEMORIE INEDITE DI DISEGNO 489 Di quest'opera gettaronsi solo le fondamenta (1), e Tommaso addimandò la mercede pel disegno, del quale il Doge niente gli aveva sborsato; e fu poi astretto a riscuotere, dopo la di lui deposizione, il pagamento di ciò che esso dovevagli per l’opera di un cimiero o berretto ducale di gesso, e perchè disegnò una sedia alla regale, che eseguita in marmo col più fino lavorò, doveva collocarsi nellà tribuna maggiore del Duomo, aflinchè l’uomo superbo vi si mostrasse in tutta la pompa (2). I cronisti i quali lasciarono ricordi delle follie del Dell’ Agnello tacquero al tutto di queste cose, che ora sappiamo per le carte che pongo in pubblico. Certo fu condizione ben dura quella di Tommaso, di dovere impiegar l’arte propria per compiacere a vanità così stolte. Questa è la sorte di chi vive in tempi corrotti, ne’ quali l’arte in mezzo alle tristizie dei grandi ed alle viltà dei soggetti altro sicuro asilo non trova che quello solo che ad essa porge la Fede, sempre presta a distaccare le menti dalle abominazioni del secolo. Conforto di simil fatta lo ebbe qualche volta Tom- maso, siccome fu quando era chiamato a scolpire la tavola per la chiesa di S. Francesco (5), che ora vediamo nel Camposanto, allorchè i cittadini lo adoperarono pel compimento del Campa- — nile del Duomo (4); che se ciò non fosse avvenuto, sarebbesi | magistri Andree de pontehere de cappella sancti laurentii de Rivolta etc. te- stibus ad hec rogatis et vocatis dominice Incarnationis anno MCCCLXVIII. Indictione VI. quarto decimo kalendas Martii — Actum Pisis in domo ope- re etc. presentibus henrico condam pilistri etc. et Tomaso aurifice quondam magistri andree de Pontehere scruptore (sic) lapidum de cappella sancti Lau- rentii de Rivolta testibus etc. Domine incarnationis anno MCCCLXVIII. Indictione VI. quartodecimo kal. Martii ». Arch. dell'Opera, lib. N.° 1047. (1) Docum. VIII. L (2) Docum. VII. (3) Vasari 7, 144. — BALDINUCCI 2/, 78. (4) VasaRI loc. cit. — BALDINUCCI loc. cit. Il Marangone, che ho pub- blicato secondo un Codice della Biblioteca dell'Arsenale di Parigi, dopo di aver delto che le fondamenta del Campanile vennero gettate nel 9 ago- sto 1174, credo dalla Incarnazione, aggiunge: « Sequenti anno factus gradus 62 490 BONAINI detto che la sorte lo aveva serbato a fare eterna ogni sozzura del proprio tempo. Margherita moglie del Doge ci è solo nota qual femmina che prese a dileggio la pudicizia (1). Pure anche a nome sì infame dovè nella storia andare unito quello di Tommaso; perchè, venuta a morte costei quando il Dell’ Agnello contristava ancor Pisa colla dominazione, ordinava il marito che avesse no- bile tomba nel Duomo e che ne fosse scultore Tommaso (2) istes- so. Ordine nefando era questo. Per tal modo si voller confuse le ossa di chi fu infame e di chi fu generoso nel mondo; chè, senza disputar di principj, fu bruttissimo atto il mescolare insie- me gli avanzi di femmina così spregevole e quelli de’ forti i quali caddero nella giornata di Montecatini (3), e quei medesimi d’Ar- unus in circuitu». ( Vetus Chronicon Pisanum, Arch. Stor. It. VI. P. II, 69). Ho scritto altrove che due carte, l’una dell'Archivio Diplomatico, l’altra del- l'Archivio Capitolare della Primaziale, confermano ciò che dissero i croni- sti sul tempo della fondazione. Ne’ miei Diplomi aggiunti alle Storie Pi- sane del Roncioni, ho riferito il testamento che nel 5 gennajo 1172 fece Berta vedova di Calvo devota della Primaziale, nel quale dispose: « Judico opere campanilis petrarum Sancte Marie solidos sexaginta». Non omisi di avverlire che per tale disposizione può ben congetturarsi « o che esistesse un più antico campanile in luogo di quello edificato nel 1174, giusta fo stile pisano; o sivvero (lo che parmi più probabile ) che alla fabbrica del Cam- panile che attualmente ammiriamo, si fossero volti i pensieri dei cittadini assai tempo innanzi che se ne gettassero le fondamenta ». Arch. Stor. It. VI, P. II. Sez. II, 52. (1) F. VILLANI Croniec. loc. cit. (2) Docum. VII. Fu distrutta nell'incendio. — RONCIONI Zst. Pis. (Arch. Stor. Ital. VI, P. I, 115). (5) Lo apprendiamo dai documenti che trovai nel libro d’ Entrata e Uscita dell'Opera del Duomo di questi tempi « Lupus caput magistrorum suprascriptus sua sponte confessus fuit se recepisse et apud se habere a suprascripto ser Necto camerario libras vigintiquinque denariorum pisano- rum pro eundo Carrariam ad emendum marmora pro faciendo fieri sepul- turas Principo et aliis corporibus qui sunt in ecclesia de quibus se etc. Et inde eum etc. Actum pisis in palatio nopo in quo retinentur curie presenti- bus Jacobo quondam Gerardi de Sancto Ylario notario et Ser Mazino con- verso dicte opere testibus ad hec rogatis D. J. A. MCCCXVI. Indictione XIII, die XX octobris ». MEMORIE INEDITE DI DISEGNO 491 rigo VII (1). Ma rade volte gli artisti possono nella lor vita eter- mare le sembianze di Dante, o dipingere a neri colori il Duca ‘d’Atene e Messer Cerrettieri. E veramente pari alla sorte di Tommaso era quella di Giotto o Giottino pittore il quale viveva nel 1568, essendochè ancor esso dovè servire colla divina arte sua alle viltà di que’ tempi. I libri dei conti dell’Opera del Duo- mo del 1568 registrano una spesa di settanta fiorini, dati a ‘questo artefice perchè dipinse due scrigni da offerirsi in dono ‘alla Doghessa Margherita. (2). Così venuti tempi corrotti i ne- ‘« Die sabbati die xrrt Januarij». « Magister Lupus caput magistrorum coram me Andrea motario et testibus infrascriptis habuit et recepit a suprascripto camerario — libras vi- gintiquinque denariorum pisanorum pro pretio lapidum apportatorum de Carraria pro faciendo munimenta in ecclesia Corporibus apportatis de exer- citu Montis Catini. De quibus se etc. Et inde cum ete. Actum pisis in una domorum suprascripte opere presentibus Lone quondam Bencuieni et Lan- dus (sic) etc. testibus ad hec D. J. A. M CCC XVI. Indictione XIII. die sabbati XVII Januarij ». (1) Faccio voti, insieme all’ illustre sig. Alfredo Reumont, nome co- tanto caro all'Italia, perchè la tomba d’Arrigo, trasferita modernamente nel Camposanto, sia restituita al Duomo ove gli antichi Pisani la collocarono. (2) Questa memoria, della quale fu primo a darne accenno il ch. — GigraRIo nell’ Economia Politica del medio evo, ediz. 2.2 IMI, 572, trovasi nel libro di N.° 51 d’Entrata e Uscita dell'Archivio dell'Opera del Duomo: «Item dixit dictus dominus henricus ( Pilistri factor opere) se dedisse de su- prascriptis denartis ser piero de Calcinaria notario Curie Conservatoris libras septuaginta denariorum pisanorum expensas in duobus scrineis emptis a Giotto pictore pro donando domine Dughesse ete. Actum in Cancellaria dicte ‘opere etc. anno millesimo trecentesimo seragesimo nono Indictione sexta seto kal. Aprilis». Con tal documento si accorda anche il ruolo dei pit- tori fiorentini ove si trova, secondo che me ne porge notizia il valente mio amico C. Milanesi, Giotto di Muestro Stefano dipintore [M CCC]LXVIII. ‘Questo dato istorico avvalora la mia congettura, che il ch. Cibrario non ha sdegnato d’accogliere fino dal 1842, che il Maestro Giotto di cui parla il documento pisano sia il Tommaso di Stefano, detto Giottino . Del resto torna utile aggiungere qui ciò che scrivevami, or fa qualche tempo, l’ ottimo Milanesi medesimo. «Per me questo Giolto è il Tommaso di Stefano detto Giottino, imperciocchè nel ruolo citato non trovo registrato nessun Tom- 492 BONAINI poti disperdevano l’oro che acquistarono gli avi col loro sangue, e così facevasi onta al pietoso intendimento di molti i quali ave- vano voluto che le loro facoltà dovessero usarsi dai posteri per conservare e fare ognora più belli i sacri edifizj, pei quali la città di Pisa andava così lodata pel mondo. Tommaso dovè servire a chi era tiranno ed oppressore della patria; e n° ebbe, io penso, dolore. Ma dolore più vivo fu quello (io mi credo) di Nino, spirito più elevato, che nacque com’ esso di Maestro Andrea da Pontedera e che fu scultore ed orafo insieme (1). A costui faceva ordine il Dell’ Agnello, come a maestro sopra ogni altro eccellente nel proprio tempo, d’apparecchiargli il sepolero. La mano di Nino dovè inchi- narsi fino a scolpirlo; perocchè quest’ opera, che fu stupenda, videsi posta di fatto all’esterno della chiesa di S. France- sco, presso alla porta per la quale andavasi al primo clau- stro (2). Ignoro di qual mercede il Doge promettesse volerlo ricambiare. Ciò solamente mi è noto, che il Dell’Agnello anche per tal lavoro rimaneva debitore di prezzo quando i suoi beni vennero posti in comune. Ed invero gli Anziani colla loro prov- visione dell’8 decembre 1568 fermavano che venissero pagati ad Andrea figliuolo del già Nino scultore, o altrimenti a Tom- maso pel nepote, venti fiorini d’oro per ciò che restava ad aversi del prezzo del sepolcro che Nino aveva lavorato pel Do- ge (3). Questo documento è di gran pregio perchè disvela, fra le altre cose, che Nino era già morto al cadere dell’ anno 1368, e che perciò non è da credersi altrimenti a coloro i quali dicono maso figliuolo di Stefano; e credo che il vero nome sia Giotto, e perciò con questo e non con altro sia stato segnato nel libro dell’ arte. Ammesso ciò, non regge altrimenti l’asserzione del Vasari che lo dice morto nel 1556; dappoichè nel 1568 è ascritto all'arte ». (1) Docum. VI. 2.° (2) Docum. VII. (5) Docum. VII. è bit MEMORIE INEDITE DI DISEGNO 495 che alcun’opera di questo scultore fosse segnata coll’anno 1570. Il Vasari indusse ogn’altro in errore scrivendo per questa forma, nella vita d'Andrea Pisano: « Fece ancora Nino (egli dice) per un altare di S. Caterina, pur di Pisa, due statue di marmo, cioè una Nostra Donna ed un Angelo che l’annunzia, lavorate siccome l'altre cose sue con tanta diligenza, che si può dire ch’ elle siano le migliori che fussino fatte in questi tempi. Sotto questa Ma- donna Annunziata intagliò nella base queste parole: A dì primo febbrajo 1570; e sotto l'Angelo: queste figure fece Nino figliuolo d'Andrea Pisano » (1). Il Vasari non dice di aver letto queste parole, che il Da Morrona fino dal 1792 notò non vedersi altri- menti nelle basi delle statue (2); però mi reca stupore che il Cicognara ce ne abbia parlato come di cosa ch’ebbe sotto gli occhi egli stesso, e di cuì ognuno può farsi certo quando lo vo- glia (5). Non so che pensare delle iscrizioni. Forse vennero ag- giunte alle statue assai dopo la fine del secolo xrv, allorchè delle antiche memorie del convento i frati poco o nulla sapevano. Io congetturo che fossero di questa fatta i religiosi ai quali forse il — Vasari si volse per essere istrutto intorno alla storia delle opere . d’arte di questa chiesa, perchè altrimenti non so comprendere com’ ei potesse narrarci che Nino faceva le statue dell'Annunziata e dell’Angelo per un altare di essa, quando, se non altro, una carta del convento (chè allora forse non erano scritti gli Annali ) stava a mostrare che tutto questo erasi passato bene altrimenti. Il lettore può veder questa carta, quale la trascrissi dall'originale, nella serie dei documenti (4). Per essa si apprende che le sta- tue di Nino furon da prima nella chiesa di S. Zenone, antica (1) Opp. I, 144. Il BaLpINUCCI dice, nella vita di Nino, « Similmente (scolpì) in S. Caterina una Vergine Annunziata, alla quale diede compimento l’anno 1370 » Notizie ec. II, 165. (2) Pisa illust. ed. 1.° II, 224. (3) Stor. della Scult. Ital. III, 421, 422. (4) Docum. XVIII. 194 BONAINI Badia dei Camaldolensi, e che vennero poi comprate col de- naro de’ battuti di S. Gregorio, i quali vi convenivano per le pratiche di religione. Come tutte le società dei battuti, così questa andò dispersa quando la Repubblica cadde. Ma venuto il 1408, strettisi insieme i pochi che n’ erano rimasti, disegna- rono di tutti consecrarsi ad opera santa; però chiesero ai Do- menicani l’Oratorio del SS. Salvatore, fondato presso Ja chiesa di S. Caterina, già stanza degli antichi disciplinati di F. Gior- dano, coll’intendimento di valersene per ospedale o peregri- nario pei poveri. La domanda meritava di essere accolta, e lo fu; chè nel convento vivevano allora uomini ragguardevoli per la virtù e per la sapienza, fra’ quali F. Domenico da Pec- cioli che scrisse Ja cronaca di questi frati, così preziosa per le memorie che serba, e F. Simone da Cascina che prese a prose- guirla; quando F. Domenico venne a morte, piucchè per gli anni, per il dolore di veder serva la patria (1). I disciplinati di S. Gre- gorio oltre all’Oratorio, che volevano mutare in ospedale, pattui- ron coi frati che potrebbero avere anche buona porzione del- l’orto posto presso alla chiesa; obbligandosi a un tempo di co- struire a loro spese in S. Caterina, alla sinistra presso alla porta, un altare dedicato al nome del loro Patrono, su cui riporreb- bero le statue dell’Annunziata e dell’ Angelo; e per di più sti- | pularono di pagare in ciascun anno al convento un censo di tre fiorini d’oro. Son questi i patti più notevoli; e certo ebbero se- guito, perchè l’Annalista Anonimo del convento così lasciò scritto: « Hujus prioris (F. Salvatoris Cristophori Pisani) tempore confra- tres Sancti Gregori a conventu habuerunt locum societatis Sancti Salvatoris tune desertum, cisque concessa fuit ara Sancti Gregorii in qua signa marmorea Gabrielis Arcangeli et Mariae Virginis statueruni 20 Februarii anno 1409, ex quo apparet locum illum (1) V. le cose che ne ho discorse nell’Arch. Stor. Ital. VII. P. I, P. XXVII-XXIX. P. II, p. XII, XX. MEMORIE INEDITE DI DISEGNO 495 sociclatis nostrum esse; nec emerunt si gratis cis petentibus con- cessus fuit » (1). Ciascuno vede come debba correggersi 1’ Anna- lista in qualche parte, mercè l’ajuto del contratto del 16 feb- brajo 1408. Del rimanente la Compagnia di S. Gregorio non durò per molto tempo. Nel secondo priorato di F. Lodovico Mancini, che governò il convento dal 1452 al 1487, ridottasi a non avere che: un solo fratello; chè gli altri tutti erano mancati per morte, vistosi ancora questo presso al termine della vita, ne donò tutti i beni (2); ond’è che per quest’ atto i Domenicani divennero | proprietarj delle due statue dell’ Annunziata e dell’Angelo, le quali vedonsi di presente presso all’altare ov’ è la tavola di F. Bartolommeo, e che tutti riguardano a ragione come bellissime opere di Nino. d + (1) Annal. ms. p. 15. (2) « Rursus F. Ludopicus ad prioratum rediit anno 1452, totoque î vitae suae tempore hanc tenuit sedem usque ad annum 1487.... Bibliothae- cam quae nunc extat aedificavit Pisis nulli tune temporis secundam, in pro- vincia nostra paucas habentem similes aut pulcriores. Claustrum majus la- teritio pavimento stravit quod eatenus stratum non fuerat. Sacellum S. Dominico dicatum instauri a D. Johanne Coxa Neapolitano, ejus Marini qui ibi jacet nepote, curavit, superducta testudine et parietibus calce litis et dealbatis et lateritio strato pavimento; cui et ipsum sacellum donavit, quod olim S. Simoni dicatum et constructum fuerat a Simone a Camulliano | pisano cive. Huius etiam tempore societas S. Gregorii, si societatem unus facit (namque consocii praeter unum diem clauserant extremum) omnia bona sua mobilia et immobilia conventui nostro donavit ». Ann. ms. p. 16. . 496 BONAINI S. IL Dell’arte degli Orafi in Pisa, dei loro lavori e statuti, e di un’opera di Turino di Sano orafo sanese. I Pisani, così lodati da tutti per l’arte della scultura, eb- bero ancora tra di loro nei secoli xrv e xv, e fors’ anche innanzi, orafi eccellenti (1): ma se giunsero a noi le notizie di molte ope- re di quest'arte, ci rimangon nascosti quasichè sempre i nomi dei loro autori. Il Ciampi potè dimostrare che Ja figura d’ argento del Sant’Jacopo di Pistoja, che il Vasari attribuì a Leonardo di Ser Giovanni da Firenze, fu di un nostro maestro Gilio che la- voravala tra il 1549 e il 1555 (2); ma non seppe poi dirci per quali nomi si distinguessero i due compagni di quest’orafo, i quali Jo ajutarono. Parlai già di Nino e di Tommaso figliuoli di Andrea Pisano e gli riposi fra quelli che praticarono l’oreficeria, giovandomi all’uopo di documenti di fede indubitata (3). Quanto a Coscio della cappella di S. Felice e a Simone detto Baschiera, dirò che furono orafi di gran fama se vennero scelti insieme a (1) Forse potrebbe credersi avo dell’orefice Coscio, chiaro per la sua perizia nel secolo xiv; e del quale occorrerà di parlare in seguito, un altro Coscio di cui vennero oppignorati nel 1274 gl’istrumenti dell’ arte per inte- resse di Bonajuto altro orefice, come fa vedere questo documento che rica- vai dal protocollo di N.” 405 dell’ Archivio dei nostri Spedali « Guisus nun- tius pisani comunis de parabola et mandato domini Bulionis Judicis et as- sessoris pisani comunis f{misit et induxrit bonaiutum aurificem de cappella Sancti Laurenti de Chinsica in tenere et possessionem contra Coscium au- rificem de cappella Sancti Sixsti limettarum vecciarum ab aurifice et Rin- brunitorum duorum et unius cultellettì et trium pariorum de tanaliis ab aurifice et unius pariî de cizoriis quasi fractis et quatuor martellorum veterorum ab aurifice et unius incudinis ad clavandum et unius cassettine scoperte în qua erant suprascripte res etc. n. | (2) Notizie inedite ec. pp. 74. 77, e la fig. di N° 2. tav. 4. (5) V. pp. 489. 490, e Docum. VI. 2.° MEMORIE INEDITE DI DISEGNO 497 predetto Nino d'Andrea, per lavorare le figure d’argento della tavola dell’altar maggiore del nostro Duomo dall’operajo Bonag- giunta Maschari (1). Già il Ciampi aveva avvisato che a Coscio erasi data a restaurare la grande zona d’argento che cingeva all’esterno nei giorni solenni la Chiesa Maggiore; e che certo Pietro d’Antonio nel 1456 aveva fatto due busti, parimente in argento, per l’altare della Sagrestia de’ Belli Arredi di Pistoja (2). Non rimangono memorie di lavori fatti da Maestro Antonio d’Ja- copo; ma voglio crederlo assai valente nell’arte di orafo, se la Signoria di Firenze, nel 28 febbrajo 1461, lo scelse ad Operajo | non solo del Duomo, ma del Camposanto e del Campanile, come è espresso nel documento datoci dal Gaye (3). Sebbene più che ‘queste cose, già note in gran parte agli.eruditi, intorno alla | oreficeria pisana, torna conto il discorrere delle opere d’ar- gento e di smalto, che nel 1569 o in quel torno erano nel te- ssoro della nostra Chiesa Maggiore (4). Io voglio credere che fos- sero per la più parte condotte da orafi del paese: solo mi pare opera forestiera quella che già portò l’ arme dei Fieschi di Ge- nova; la statua, dico, della Vergine col Bambino Gesù nelle brac- cia, nella cui mano era una pisside lavorata in argento e poi dorata. I Fieschi, in questi tempi di gare, col dono, che credo facessero alla Chiesa Pisana, accesero gli animi de’ cittadini ad emularli; ond’è che il tesoro della chiesa medesima divenne più copioso per molti calici, la più parte dorati e smaltati, sui quali erano le armi di famiglie molto illustri. L’inventario che ne dà la notizia fa ricordo di un calice smaltato, su cui wedevansi le armi dei Benigni e dei Seccamerenda; ma vi furono altre casate, ognuna delle quali ne dette al tesoro uno che di- stinguevasi per l’armi loro proprie, quali furono i Murci, i Da (1) Docum. VI. 2.° (2) Ciampi loc. cit. pp. 81, 82, 140. (3) Carteggio inedito d’Artisti ec. I, 564. (4) Docum. IX. 498 BONAINI Fauglia, i Del Fornajo, gli Scorcialupi, i Ripafratta, i Da Ca- prona. La liberalità di questi grandi dette occasione agli orafi pisani di perfezionarsi nell’arte del cesellare, dell’incidere e dello smalto; ma impulso maggiore l’ebbero i nostri artefici, in qualche modo, mercè i Benetti e i Lanfranchi: perciocchè i primi arricchirono il Duomo di due calici smaltati su’ quali era- no le armi loro; i secondi ne donarono uno d’argento inorato, smaltato, e per di più coll’armi della casa, alla chiesa stessa, ed un altro ne dettero poi al tutto eguale all’altare di S. Don- nino, eretto nel Battistero. Colo Galletti, Michele Del Lante, e perfino certo Lapùccio feneratore fecero anch'essi donativi di calici, adornati delle loro armi, alla Primaziale; e l'arcivescovo Dino da Radicofani, che stette sulla sede pisana dal 1342 al 1548, ne lasciava pur esso uno d’argento smaltato, del peso di cinque libbre ed undici once. Forse quest’ultimo calice non fu opera d’orafo del paese, perchè Dino prima di essere arci- vescovo nostro fu patriarca di Grado, d’onde passò alla sede di Genova; cosicchè può supporsi che quivi appunto e fors'an- che in Avignone, ov'erasi recato nel 1542, si provvedesse di questo calice. Ma più che il calice di cui parlo, impegnato. poi a certo Bartolommeo Gaitanelli, e più che l’altro che usavano tenere gli arcivescovi (smaltato, e di tre libbre di peso) vuol qui ricordarsi un secondo calice del nostro arcivescovo Dino, non so se fattura pisana, del quale trovai fatta memoria. Pare che fosse smaltato nel gambo. Sul piedistallo aveva altri sei smalti con alcune figure, che non sappiamo quali si fossero. Al- — tro calice, ricco di sei smalti ugualmente, aveva dato all’ altare di S. Gregorio un maestro Ligio; ma quanto a questo; operato probabilmente in Pisa, ci è noto di più che vi si vedeva al diso- pra la Vergine col Figliuolo Gesù nelle braccia. Lavoro pisano mi piace credere il calice che il prete Buonaggiunta donò al- l’altare di Tutti i Santi del Camposanto; ma quivi le figure e le armi voglionsi credere di cesello, e certo bellissime. perchè il il | | | MEMORIE INEDITE DI DISECNO 499 calice.era d’argento dorato. Ma d’altri calici, lavorati di smalto, oltre ai rammentati, vedevasi ricca la nostra celebratissima Chie- sa. Tali erano i tre, sull’uno de’ quali stavano armi a liste bian- che ed azzurre; l’altro, ove vedevi un’arme con stelle; l’ultimo infine, che aveva nel gambo un leone giallo adattato in campo vermiglio. Voglio credere che fossero opere d’ orafi nostri, come lo era, io tengo, un altro calice sul cui piede leggevasi una certa scrittura. Mi passo di accennare ad altri calici di lavoro meno perfetto, i quali nel 1369 stavano nel tesoro della Chiesa Primaziale. Certo è che in tutti ascendevano a quarantuno, se pur non erro. Nei grandi bisogni del Comune, come argomento per alcune note di mano più recente le quali sono nell’inventa- rio, furono per la più parte impegnati, e tra questi il calice di Colo Galletti, a’ Frati di S. Francesco; molti altri a certo Nicco- .lò, orafo di professione. Già vedemmo come i Frati di S. Caterina nel 1585 fossero in eguali necessità. Infatti allora fu che dettero in pegno a Parazone Grasso operajo del Duomo, da prima per trenta fiorini il calice d’argento che portava sul piedistallo l’ima- gine del Crocifisso e le figure di molti Santi; in appresso per altri centoquarantotto fiorini, dei quali esso era creditore, il fregio 0 paliotto d’argento dell’altar principale (1). Io congetturo che l’una e l’altra opera fossero uscite dalle mani de’ nostri orafi. I lavori di smalto, oltre all'essere ornamenti di calici, se guardiamo all’inventario del Duomo, servirono ad abbellire an- cora due turriboli d’argento dorato, non che ad una navicella d’argento, indorata essa pure. L'uno de’ turriboli (quello, io mi penso, ch’ebbero in pegno i Frati Minori) montava a una libbra e nove once di peso; l’altro, che passò nelle mani di Bartolom- meo Gaitanelli, ch’ebbe (già lo vedemmo) in pegno anche il ca- lice dell’arcivescovo Dino, giungeva a cinque libbre, quattr’once e mezza; ed era poi, come si esprime il documento, pulcherrime (1) V. sopra, p. 445. 500 BONAINI laboratum. Di vago lavoro e perfetto dovettero essere ancora i due bacini d’argento, l’ uno dei quali passò nelle mani de’ Frati di S. Francesco, perchè in ognuno di essi vi si vedevano alcune figure incise, io credo, e dorate. Ma fra i lavori più belli d’ orefi- “ ceria annoveravansi in quei tempi, io non ne ho dubbio, due re- liquiarj lavorati tutti in argento. L’uno rappresentava la Chiesa Maggiore, e giungeva al peso di trentotto libbre; l’altro, che non sappiamo qual peso avesse, ritraeva in tutto il Campanile pen- dente, e serviva a custodir le reliquie dei Santi Efeso e Potito patroni della chiesa. Di pregio grandemente minore fu senza meno Ja cassetta destinata alla giornaliera custodia della reliquia del braccio di S. Andrea, e i due reliquiarj, chiamati ciborj, ne’ quali furono riposte le teste di S. Ranieri e di S. Giovanni Crisostomo. Nel primo il maggiore ornamento era la croce d’argento con pietre, che vi si vedeva sovrapposta; nell’ altro la piccola croce collocatavi ugualmente sull’ alto. In quale stima si avesse poi il braccio d’argento dorato entro il quale usavano racchiudere, nelle grandi solennità, la reliquia già ricordata del- l’Apostolo S. Andrea, facile è il conoscerlo. Fra le croci che si vedevano nella sagrestia ebbero maggiore stima delle altre, io ne son certo, queste cinque. L’una servì come di reliquiario al Le- gno Santo. Era d’argento dorato e smaltata, ed aveva l’orna- mento d’una figura, cesellata in argento essa pure, rappresen- tante Cristo, 0, come allora dicevasi, la Maestà. Dall'altra, che sappiamo essere stata d’argento dorato con smalti e con bottoni di rame, messi pur questi ad oro, pendeva Cristo Signore, figura di tutto rilievo, e, come io penso, d’argento. Più preziosa era la terza, abbenchè dorata solamente in parte. In essa oltre al Cri- sto pendente eranvi figure in argento rilevate, coll’ ornamento di più bottoni di cristallo e d’argento messi a oro. Ma una delle più nobili forse fu quella che portava nel piedistallo, d’ar- gento dorato, le armi di Ser Benencasa di Castel di Castro (in Sardegna), perchè il tronco suo era di corallo, e.il Cristo poi MEMORIE INEDITE DI DISEGNO 501 d'argento indorato. Altra grandissima croce d’argento, do- rata ugualmente, avevasi pure: e questa, oltre all’imagine del Crocifisso in rilievo, mostrava alcune altre figure dai lati, e certe pietre e smalti nel piedistallo. Tutte quest’opere d’orefi- ceria dovettero giudicarsi maravigliose; ma non credo sì avessero come sfornite di pregi la bussola o scatola d’argento dorata per l’ostia sacra, su cui stavano le armi dell’arcivescovo Ruggieri; lo smalto d’argento dorato, sul quale era l’Annunziata contornata da sei gemme. Lo stesso dico dello smalto « dariento dorato con gemme sei le tre biadette et laltre vermiglie smaltato con Janon- tiata et con langelo con larme di Mighele dal poggio »; della mitra ornata di perle con smalti e gemme, la quale fu dell’insi- gne arcivescovo Simone Salterelli, morto nel 1542; del pastorale d’argento dorato vago per smalti; per ultimo del bastone (forse del primicerio) parimente d’argento, con pomo smaltato di ar- gento dorato e con ghianda sfogliata; tutti oggetti d’ oreficeria i quali spettavano al Duomo. Nè minore ricchezza di materia e di arte avevano le sei corone, delle quali adesso terrò proposito. La più piccola, d’argento dorato con pietre e bottoni d’argento ugualmente, ponevasi sulla testa della statuetta della Vergine collocata sul banco ove si facevan le offerte nella festività del- l’Assunta (1). L’altra, chiamata grande nel documento, d’argento essa pure, era circondata di perle e di pietre, e per di più nella cupola, che si elevava nel mezzo, aveva alcuni fiori formati da perle d’argento miste ad altre perle buone e grosse. Non so se (1) A proposito di questa corona, ecco quanto trovasi nell’inven- tario dell'operajo Lupo degli Occhi (p. 62): « Ztem dico et confiteor me îinvenisse in bonis dicte opere coronettam unam parvissimam de argento cum aliquibus perlis que ponitur în capite figure Virginis Marie de mar- more consuete stare in maiori ecclesia ad prosperam Incoronate». Ed in appresso « Coronettam aliam de argento magis parvuculam cum aliquibus perlis parvis que ponitur in capite Domini nostri Ihesu Christi que tenet în brachium (sic) dieta Virgo Maria de marmore ». 502 BONAINI questa corona servisse all’ Annunziata. Questo solamente»mi è noto, che per ornamento di essa avevansene tre. Una, che fu involata all'altare nel 1575, era d’argento dorato, ed oltre alle perle andava ricca di pietre bianche, gialle, azzurre e vermi- glie. Le due altre voglio crederle ugualmente d’argento, ma non dorate, abbenchè ricche esse pure di perle e pietre; assai dissimili, mi pare, amendue dalla corona che usavano porre sulla figura del Salvatore, ov'erano, oltre alle pietre e alle perle, anche bottoni d’argento indorati. Questi oggetti preziosi furono nella sagrestia della Chiesa Maggiore nel 1569, come altre opere di oreficeria di minor pre- gio,-per le quali basterà leggere l'inventario. Tal documento indica, tra gli oggetti dati in custodia ai due sacrestani, fal- lere victoriosissimi principis domini Henrici Imperatoris et equi sui (1). Credo che questi ornamenti d’Arrigo VII, e del cavallo + (1) Negl'inventarj della Sagrestia del Duomo, esistenti nell’ Archivio del Capitolo (filza Q), s'indicano anche questi oggetti, i quali appartenne) all'imperatore Arrigo VII. « Palia tredecim cum armis domini Imperatoris Henrici». « Bancales quinque virides de sirico cum armis Imperatricis et Im- peratoris Henrici ». « Petias quatuor ad modum bancalium vermilias in quibus sunt rac- chamata capita Imperatorum et Imperatricium ». « Petias quatuor de sindone vermilia ad cortinam cum armis Impe- ratoris et Imperatricis ». « Cortinas quatuor magnas laboratas auro lucensi cum aquila maxi- ma nigra in qualibet que olim fuerunt domini Imperatoris Henrici ». « Antiphonarium unum in nota Francischa quod fuit illustrissimi ac serenissimi Principis domini Imperatoris Henrici copertum de corio nigro stampato et incipit in secundo follio Tollite porlas et finit in penultimo Deo. A.» Negli stessi inventarj trovai questa nota, degna di ricordo: « Cultram unam de sirico vermilio ultramarinam laboratam in auro cum camellis et imaginibus et circumdatam viridi sindone olim Imperatoris Frederici ». Di queste notizie, ugualmente che dei documenti tutti ricavati dal- MEMORIE INEDITE DI DISEGNO 505 | su cui saliva fossero d’argento, perchè così conveniva all’al- | tezza di tanto principe, e perchè altrimenti non si sarebbero riposti tra le cose preziose del Duomo. Forse stavano appesi presso la di lui tomba, come credo appesa all’altare dell’ An- nunziata una cintola donata da Gaetana vedova di Francesco Leoli per l’anima d’Antonia, già moglie di quel Ser Neri Bottari che penso fosse dell’illustre consorteria dei Lei (1). Era questa cintola tutta smaltata: aveva nella cascata un’ aquila di rilievo, ed in-tutto ascendevane il peso a due libbre e mezzo, più diciotto denari. Non saprei qual peso si avesse la cintola offerta dalla consorte di Tommaso di. Lapo, su cui erano ornati d’argento modellati a modo di G, simili in questa parte a quelli di un’ altra cintola, sulla quale vedevi per di più alcuni smalti nella fibbia ‘e nella cascata, oltre a due figure l’una di femmina, l’altra viri- . le. Cintoletta assai vaga parmi fosse quella offerta all’altare per ‘salute dell'anima della figliuola.da certa Isotta, perchè anche questa aveva i suoi smalti nella fibbia e nella cascata. Gli orna- ‘menti descritti stavano rapportati sopra una zona di seta; e così vera di quelli di altra cintola, bella per smalti fatti a guisa di spranghe e di volti, ch'io credo umani, e per le armi dei Secca- ‘merenda e dell'Ordine dei Gaudenti, forse perchè il donatore fu ‘di questa milizia. Se non che vi erano altresì due nuove cinto- le, che torna bene il rammentare. Una fu quella che donò all’In- coronata donna Nece, moglie di Gano Scotto da Varna. Pesava ‘sole undici once, ma avea due smalti su’ quali potevi scorgere un Santo ed una Santa. I lupi, i cervi, i cani e le altre bestie ‘\ erano intessute ad oro nel nastro (è). Ben diversa era la cintola ‘l'Archivio Capitolare, io son debitore all'ottimo mio amico il Canonico Fro- sino Luigi Frosini, da cui attendono con fiducia gli studiosi delle patrie | Memorie il completo riordinamento di tale archivio. ; IO (1) Lo argomento da quanto è avvertito nella Cronaca di S. Caterina | $. 221. (Arch. Stor. Ital. VI, P. 1I, 551). bi (2) Quest’ arte di tessere i nastri a figure pralicavasi‘in Pisa, come | 504 BONAINI grossa, donata dalla consorte di Puccio Malcondime. Sopra un tessuto di seta verde e d’argento ricorrevano le due lettere G ed A, e in mezzo all’una ed all’altra eranvi certi smalti. Presso alla fibbia stavano due fiyure di Angeli smaltati; l’uno avea nelle mani un vaso di gigli, l’altro piccola corona. La cascata presen- tava una figura virile, ancor essa con una corona. Questa cintola l’ebbe il Priore di S. Pietro in Vincoli. Le altre per la più parte furono poste nelle mani dell’orefice Coscio per farne vendita, tranne alcune che si dicono alienate dal prete Giovanni da Gello, da quello stesso che fu sagrestano del Duo- mo fino al giugno del 1569. Avvenne, io credo, così di quella cintola, chiamata grande nell’inventario. Sopra zona di seta ver- miglia stavano in essa alcune figure di rilievo d’argento dorato, _ con ornamenti di perle e di pietre. Il peso elevavasi ad otto lib- bre compresa la fibbia su cui fu cesellata la Nunziata, anch’ essa _ con ornato di pietre e di perle. Non molto diversa da questa fu la cintola, di una libbra di peso, involata all’altare della Nunziata _ nel 1575; sennonchè, oltre agli smalti, erano quivi le armi de’ Nobili Malcondime e di Guidone Ajutamicristo. Un'altra cin- tola ancora è indicata nell'inventario del 1571, quella medesima che venne data all’orafo Niccolò (forse figlinolo di Coscio) pro smaltu Spiritus Sancti; ma questa, che fu d’argento dorato, aveva smalti e figure, e le sue estremità erano chiuse da due Angeli, avente l’uno una spada in mano, l’altro un ramo d’olivo. Sebbe- ne, più che tutte queste, chiede da noi alquante parole la cin- raccolgo dalla convenzione del 26 luglio 1554 comune, la quale trovasi nel protocollo d’ Andrea di Pupo da Peccioli altra volta ricordato. Giana moglie di Spinello, puerorum doctoris, conviene con Giovanni di Ciacco di ricevere la di lui figliuola Andreuccia «ad discendum artem texendi fregios et fectas», promettendo di più « fideliter et prudenter et discrete instruere et docere tex- turam fregiorum et fectarum sericarum et aurearum simplicium et aliorum în quibus conficiuntur et conteruntur picture sive figure similium et diver- sorum colorum et lictere et varie sive diverse et similes figure ». MEMORIE INEDITE DI DISEGNO 505 tura, che soleva circondare tutto il Duomo all’esterno nelle grandi solennità. Era di seta rossa, tutta con ornamenti d’ar- gento dorato. In qual pregio si avesse lo fa vedere il costume di custodirla nel tesoro pubblico, e nel palazzo istesso di resi- denza degli Anziani (1). Quando lo Stato era in gran debiti fu data in pegno, poi d'ovè perdersi. Un antico Cronista narra che i Gambacorti la distrussero per usare dell’argento (2). Certo è (1) Nell’inventario che fece l’ operajo Lupo del già Vanni Degli Oc- ehi, più volte citato, così si descrive (p. 62): « Cintulam unam de argento deauratam cum fecta vermilea et fibria de sirico que cingit circumcirca majorem pisanam ecclesiam Sancte Marie în festis pasqualibus hoc modo videlicet quod cum elevatur exinde portatur ad cameram pisanî comunis ubi est cassone în qua (sic) tenetur dicta cintula et aliter non». Ciò nel 16 febbrajo del 1568. Nel 15 decembre dell’anno appresso si pagano otto soldi « duobus portatoribus qui portaverunt cintulam magnam argenteam dicte majoris ecclesie de camera pisani comunis ad ipsam majorem ecelesiam în vigilia Assumptionis Virginis Marie.... et postea reportaverunt ad cameram pisani comunis suprascripta die». Che questa camera o tesoro fosse nel palazzo degli Anziani lo dice un successivo documento, che s’ incontra esso pure nell'Archivio dell'Opera del Duomo, nel libro d’Entrata e Uscita N.° 55. (2) «Ora vi voglio contare della Cintura si mette al Duomo intorno intorno, la quale cintura si tenea in sur una asta grande, e questa sopra alle gradole intorno al Duomo con grande riverensia e con molti salmi e col laudamus e con gran divotione; non si vidde mai più nobil Cintura ne più ricca cosa che questa, e per tutto il mondo era il nome suo, e d’ogni città veniva la giente a Pisa per veder la ditta Cintura della Vergine Ma- ria, la qual Cintura Ja presero quelli contra della fede, cioè li Gambacorti, li ladri traditori di Pisa assimiglianti a Gano, de’ quali tutti quelli che s'impacciorno a ditto male, per miraculo di Dio, tutti capitorno male, e ne mori assai di mala morte, e avisando ciaschuno come la fecero disfare e fecero dare della corda al Sagrestano del Duomo perche non volea dare la Cintura e li Calici e altre cose di argento ....E quando fecero disfare e schiavare la detta Cintura solo li chiodi piccholi valevano più di trecento fiorini; e era Ja fibbia e ’l puntale ciascuno di loro un braccio e mezzo; e li dilti traditori tra di loro fenno la stima della dilta Cintura che valeva me- glio di ottomila fiorini ». Cronica Pisana ms., presso BoRGo DAL BoRrGO Dis- sertazione istorica sopra le Pandette Pisane. Lucca 1764. 4.° p. 66. — V. anche Tronci Memorie istoriche della Città di Pisa, p. 271. 64 506 BONAITNI” che i cittadini ne lamentaron la perdita come di cosa caramente diletta. Sulla bocca di un congiurato, che voleva scossa la ser- vitù di Firenze quando Niccolò Piccinino stava contro a quel Comune, suonarono un giorno queste parole, riportate dal Ca- valcanti: « Vedete (disse agli adunati) che tutte le nostre digni- « tà, quali alle loro cagioni, e quali con le loro forze (i Fioren- « tini) ci hanno tolte; e fatte torre le origini delle vere leggi, le « quali alluminano gl’intelletti degli uomini: io dico delle Pan- « dette. La sacrata cintura, alle loro colpe, ci convenne impe- « gnare, e quella a nostro malgrado abbiamo perduta » (1). I lavori d’ oreficeria de’ quali ho parlato mostrano bene la perizia dei nostri artefici (2); ma forsechè ci appariranno ancora (1) Istorie Fiorentine. Firenze 1838. I, 411, 412. Dobbiamo saper grazia al ch. Filippo-Luigi Polidori di averle poste in luce. (2) L’inventario più volte citato di Lupo degli Occhi operajo del Duomo ricorda oggetti, l’ indicazione de’ quali può servire alla storia di quest arte. « Nappi duo de argento cum literis Opere — Cusleri sedecim de argento parvi — Sigillum unum argenti magnum cum literis Opere». — Anche in un inventario privato fatto nell'agosto del 1526 comune, e regi- strato nel protocollo di Niccolò da Pisa (riposto ora nell'Archivio dei Con- tratti di Firenze al N.° 93) vidi indicati « Cuslierî duodecim de argento cum guaina — Fregiatura una muspillorum de argento deaurata ad amandu- las.... Ghirlanda una de argento facta ad rosas.... Cintula una de auro fridulata de argento inaurato a muliere. Cintula una de argento filato inaurato cum fibbula et bendella spessatis ismaltata smalto.... Corona una perlarum ad cancaros de argento a muliere. Muspilli duodecim de argento albi de ambra a muliere. Anulus unus de duro cum pietra diamantis a muliere...., Anulus de auro a pietra smeraldina.... Anulus de auro a pietra granata intagliata et signata signo leonis.... Fibbiatura una perlarum facta ad farsaglias (?) a muliere. Guerlanda una de argento deaurato ad conca. relli a donna»? Nel Breve ms. del Gomune del 1286 è vietato alle donne di portare in capo corone d’ argento, d’oro, di perle, di usare di spilli con perle, e di ornarsi con scagiali o cinture, in cui fossero o semplici ornati d’argento o d’argento dorato superiori per il peso ad una libbra. Non sì lascia di aggiungere doversi astringere gli orefici, con giuramento, a non fabbricare le corone di che parlammo, sotto pena di venticinque lire; ed è espresso ancora che i Potestà e Capitani (il Conte Ugolino e Nino di Gal MEMORIE INEDITE DI DISEGNO 507 più valenti se ci volgeremo a considerare i lavori a’ quali ne- gl’inventarj del Duomo è dato nome di smalto, e che credo ser- vissero nelle messe solenni pel bacio di pace del clero. Erano nel tesoro del Duomo tra il 1569 ed il 1578. Uno di tali lavori (e fu quello appunto che donò Giovanni Ghelini vinajo) d’ar- gento dorato con smalti, pesava una libbra, cinque once, tre quarti e sette denari, e mostrava le imagini dell'Annunziata e del Salvatore. L'altro, diviso in tre parti e di una libbra di peso, distinguevasi per le armi de’ Gambacorti e per la figura della Vergine. Di peso al tutto uguale a quest’ultimo era quello su cui potevansi osservare lo Spiritossanto e gli Apostoli; ma molto inferiore poi, perchè di sole sei once, era un ultimo sul quale lura ) procureranno toto posse che l' Arcivescovo (era allora Ruggieri) av- valori simili leggi per un decreto di scomunica. Ordini quasi somiglianti a questi son ripetuti nello Statuto o Breve del 1505; ma in questo si permette alle donne di portare fibbie d’argento anche dorate, e bottoni d’ argento o d’ambra, ma solamente avanti il petto e a una fila. (DAL BoRco Dissertazione epistolare sull’origine dell’Università di Pisa. Pisa 1765. 4.° pp. 69—71). Da questi ordini possono ricavarsi notizie non inutili sui varj lavori d’ ore- ficeria che si facevano allora per compiacere alla vanità delle femmine; come altre notizie si possono avere pei nuovi regolamenti suntuarj (inedi- ti) fatti nell'agosto del 1549, quando era potestà Francesco di Ugolino da Gubbio. Nell’ uno è detto « Nulla mulier civitatis Pisarum etc. audeat etc. tenere in capite etc. sertum sive cerchiellum seu aliquod ornamentum capitis de auro vel de argento vel perlis sive de auricalco deaurato vel stagno de- argentato ambra corallo seu cristallo etc. vel gimbolam mec aliquod aliud sertum vel frontale etc. nisi frontale de catenellis deauratis et non deauratis de argento ponderis uncie unius et dimidie argenti etc.» Da questi ‘stessi ordini si raccoglie che venivano portate catenelle d’argento dorate e non dorate alle maniche, bottoni d’ ambra e d’argento alle vesti. A prevenire poi le frodi, in altri ordini suntuarj inediti del secolo xiv, ma mancanti di data, i quali sono nell’Archivio della Comunità N.° 1148, si dispose contro ‘gli orefici « Quod quicumque aurifex qui fecerit aliquam cintulam quam non marcaverit et si marcaverit et marcaverit pro minore pondere argenti quam sit ipsa cintula in fraudem dicti capituli puniatur et condempnetur în libris quinquaginta denariorum pro qualibet vice ». 508 BONAINI vedevasi il Salvatore nel mezzo, circondato da piccole teste d’Angeli e da due figure. Queste cose ne fanno comprendere ‘che nel secolo xv l’arte degli orafi era dai Pisani assai seguitata (1). E veramente dagli (1) Mentre dal 1287 al settembre del 1406 due sole volte furono visti pittori essere di governo tra gli Anziani del popolo, gli orefici al contrario vi furono ammessi per trentadue volte. Eccone i nomi, giusta i tempi della loro tratta, coll’ indicazione ancora dei quartieri di Ponte, Mezzo, Fuor di Porta e Chinseca, cui appartenevano. . Lupus M. 1505. Mar. — Apr. . Bonajuneta de Pectori K. 1514. Mar. — Apr. . Vannes de Cascina K. 1555. Mai. — Jun. . Paulus Vannis K. 1555. Mar. — Apr. . Paulus de Cascina K. 1541. Jan. — Febr. V. N.° 4. . Raynerius Pucci M. 1552. Mar. — Apr. . Coscius q. Gaddi M. 1555. Jan. — Febr. . Neruccius Pucci M. 1554. Jul. — Aug. V. N.° 6. . Vannes de Cascina F. 1560. Sept. — Oct. V. N° 5. 10. Bartholomeus Thomei K. 1566. Apr. — Maui. 11. Pierus Martini de Lari F. 1567. Oct. — Nov. 12. Coscius Gaddi aurificis prior M. 1568. Apr. — Mai V. N° 7. 15. Ceus Becti prior M. 1568. Aug. et diebus quinque Septembris. 14. Bernardus q. Neriî M. 1571. Mar.— Apr. 15. Vannes Henrici M. 1572. Mai. — Jun. 16. Johannes Michaelis M. 1575. Mai. — Jun. 17. Colus Nucciù M. 1574. Jan. — Febr. 18. Loctus Ser Johannis Bartolocti M. 1575. Nov. — Dec. 19. Dominicus Ser Neriù M. 1576. Sept. — Oct. 20. Gherius Ser Andree M. 1578. Mar. — Apr. 21. Pajus Nocchi K. 1578. Mai. — Jun. 22. Michael Cini F. 1579. Jul. — Aug. 25. Nicolaus Cosciù M. 1579. Noo. — Dec. 24. Andreas Nardi K. 1584. Sept. — Oct. 25. Paulus Francisci F. 1585. Mar. — Apr. 26. Johannes Ser Laurentii Salvi F. 1585. Jul. — Aug. 27. Johannes Turellini F. 1589. Nov. — Dec. + 28. Antonius Jacobi F. 1595. Jan. — Febr. 29. Franciscus Mactei P. 1597. Mai. —Jun. 50. Franciscus Grilli F. 1402. Jan. — Febr. © DON] Sì Cia dI 19 = MEMORIE INEDITE DI DISEGNO 509 orafi ha tolto nome una via, che ancora abbiamo nella città, e da questi medesimi artefici fino di quel secolo, e forse innanzi, aveva nome altro sito, per cui transitarono nel 1555 l'Imperatore Carlo IV ed il Cardinale d’Ostia che dovea incoronarlo, quando quel primo lo accompagnò fino al palazzo arcivescovile (1). Nel secolo di che parlo gli orafi come i pittori formavano collegio soggetto alla mercanzia, com'è nel Breve de’ Mercanti che met- terò in luce cogli altri statuti destinati a reggere in altri tempi il vecchio nostro Comune. A chi domandasse se gli orafi pisani nel secolo xiv avessero uno statuto loro proprio, come già l’ebbero quelli di Siena, non saprei che rispondere. Ed invero, per quante ricerche io facessi non potei fino ad ora averne con- tezza; ma solamente mi avvenne di discuoprire uno statuto dei 51. Andreas de Varna M. 1405. Sept. — Oct. 52. Gerardus Machei F. 1405. Mar. — Apr. Giglio fu consigliere del Consiglio minore degli Anziani pel quartiere di Ponte, insieme a Michele orefice, pei mesi di luglio e agosto del 1558 (Archiv. della Comunità. — Provpisioni degli Anziani N.° 1148). Giovanni del fu Michele orafo, che fu Anziano (come osservammo) nel 1575 per il quartiere di Mezzo, essendo della Parrocchia di S. Felice, nel 25 gennajo del 1575 fece lascito con suo testamento alla Primaziale e al Batlistero. È notabile quesl’alto per l’ assistenza di cinque orefici come testimonj. Due di essi ci sono ben noti, e sono Gherio del fu Andrea della cappella di S. Andrea Forisporte, che poi fu Anziano del popolo per il quartiere di Mezzo nel 1578; Bartolommeo del fu Tomeo o Tommaso della cappella di S. Cristoforo in Chinseca, Anziano (come vedemmo) nel 1566. Gli altri orefici, testimonj a quest’atto, sono Corsino del fu Canlino della cappella di S. Andrea Forisporte, Matteo del fu Neri Enrici della cappella di S. Barnaba; infine Cionello del fu Buonconte, che abitò in quella di S. Felice. Queste notizie vengono tolte dalla particola del testamento che si conserva nell'Archivio Diplomatico di Firenze, fra le carte della Primaziale Pisana; alla qual serie appartiene anche un atto di procura che fece nel 25 aprile precedente un altro orafo, voglio dire Jacopo del fu Ser Dato, quello stesso che divenuto poi Operajo del Battistero, fece (come vedremo) le spese della statua lavorata da Turino di Sano. (1) R. Sarbo Cronaca cap. 27. ( Arch. Stor. Ital. VI. P. II, 124). m, 510 BONAINI nostri orafi del 1518, composto da Ranieri di Guiduccino, da Michelangelo di Francesco da Lari e da Olivieri di Filippo Della Chiostra orafi tutti a ciò deputati, siccome si dice in esso statuto, per non trovarsi il Breve, sotto il quale insino a qui detta arte s'è governata. Ciò ne rende avvisati dell’esistenza di uno statuto più antico, che resse questi artefici. Tale statuto dovette senza meno escludere dall’esercizio deli’oreficeria qualunque la volesse prati- care senza matricola; ma il divieto, di che parlo, molto probabil- mente fu ristretto ai lavori soli d’oro e d’argento, non alle altre opere attorno alle quali in quella età gli orafi erano soliti di affa- ticarsi. Forse era così, e fors' anche gli statuti dell’arte tacevano quando giovava al Comune di aflidare il lavoro a qualche artista eccellente, abbenchè forestiero; lo che avvenne, io credo, tra noi nel 1595, allorchè Turino di Sano orafo sanese fu condotto a lavorare pel Battistero da Jacopo di Ser Dato orafo nostro, che n'era operajo. Il documento da cui abbiamo la notizia fa conoscere che Turino di Sano fu chiamato a compiere una sta- tua di rame di S. Giovanni Battista da porsi, come io penso; sul fonte battesimale, che altri avea lasciata incompiuta (1). L’Operajo nel suo libro di conti fa ricordo che la fabbrica non aveva in pronto il denaro per la mercede dell'artista, e sog- giunge che gli Anziani a veder compiuta la statua gli fecer co- mando di prendere ad imprestito fino a cinquanta fiorini d’oro, dei quali per diciotto mesi dovè pagare l'usura a ragione di quattro fiorini, diciassette soldi e sei denari all'anno. La mer- cede destinata a Turino di Sano non fu certamente tenue, per- chè oltre all’ avergli pagato l’Operajo sessantasette fiorini a titolo di mercede, ne dovè spendere altri sei per toglier di pegno il mantello della di lui moglie; lo che rende chiaro che il nostro artefice, per quanto valente, trovavasi allora in molto umile for- tuna. La statua, secondo l’uso del tempo, venne dorata, e forse (1) Docum. XIII. MEMORIE INEDITE DI DISEGNO 511 a condurre quest'opera si chiamarono Jacopo detto il Gera pit- tore, del quale più sotto scriverò alcuna cosa, e certo Coco, pittore a me sconosciuto. Il documento soggiunge che furono date al pittore Turino quindici lire e quindici soldi « per dipi- gere lo trabenaculo e metere a oro lo quale istae sopra la fotte di sagiovanni ». Turino qui ricordato è il pittore della cappella di S. Eufrasia, detto altrimenti Turino di Rigoli, il quale indorò e dipinse, tre anni innanzi, la statua della Vergine posta sopra la porta del campanile del Duomo, e che disegnò ancora un qua- dro per la chiesa di S. Cristina (1). Condottosi a vivere fino al 1459, ebbe nel 51 luglio di quell’anno la rimunerazione di tre lire dall’operajo Giuliano del fu Colino di S. Giusto, perchè dipinse un giglio grandissimo (arme di Firenze ) nella bandiera che allora tenevasi sull’alto del Duomo in tutto il mese d’agosto, a solennizzare la festività dell’Assunta (2). Ignoro se Turino di Sano avesse anch'egli vita così lunga. Comunque sia, quest’orafo sanese si ebbe in conto di artista valoroso. Nel 1415 i suoi con- cittadini gli davano a fare una statua d’argento pel loro Duomo, e nel 1414 egli prendeva a lavorare una storia pel fonte bat- .° (1) Ciampi Notizie ec. p. 118. (2) «MCCCXXXX. XXXI Julij. — Magister Turinus pictor condam Vannis de Riguli cipis pisanus habuit et recepit a me Juliano (q. Colini de Sancto Justo ) operario etc. pro eius mercede pro pictura unius magni gilij quod pinxit in una magna banneria que noviter fieri fecit pro illam faciendo poni et teneri ligatam et rectam super ecclesia maiori (sic) aput melam per totum mensem Augusti pro honore gloriosissime Matris Virginis Marie mo- re solito libras tres » (Libro di Conti dell'Opera del Duomo N.° 151, p. 79). Altro lavoro.gli aveva allogato 1’ Operajo, di cui ebbe pagamento nel 1.° luglio, come leggesi nello stesso Libro d’ Entrata e Uscita p. 76. « Mugi- ster Turinus Vannis de Riguli civis pisanus pictor habuît et recepit a me Juliano operario suprascripto etc. grossos quattuor pro cius mercede pin- gendi et colorandi Virginem Mariam et cius Filium que (sic) tenetur su- per banco candellectorum in ecclesia maiori etc. ». Era questa la statuetta di marmo, di cui feci menzione in addietro. 512 BONAINI tesimale del suo bel S. Giovanni (1). Non so cosa fosse della statua, ch’egli perfezionò pel nostro Battistero pisano; forse fu distrutta quando nel 1520 ve ne pose una nuova l’operajo Lo- renzo d’ Jacopo Dell’ Ancroja, la quale vogliono sia lavoro (di poco pregio) d’alcuno dei discepoli di Baccio Bandinelli (2). 6. III Di una tavola Bizantina dell’undecimo secolo. Molte cose pregevoli possono vedersi fra noi da chi prende a considerare per minuto la collezione di oggetti di belle arti, che ha posto insieme con grande amore il sig. Moisè Supino; e fra queste una tavola bene antica. Il quadro di che parlo (colo- rito all’encausto sopra asse di cipresso coperto di tela, preparata a gesso e poscia inorata) è in altezza di un braccio e tre quar- ‘ ti, di un braccio e un dodicesimo in larghezza. In esso vedonsi seduti sopra magnifico trono, posto assai bene in prospettiva, alla destra il Divin Padre, il Redentore alla sinistra. Ha questi il libro delle Scritture aperto nell’una mano, ed amendue poi tengono la diritta sollevata in atto di benedire. Sull’uno e sull’altro, i quali posano i piedi sopra sgabelli quadrati, sta lo Spiritossanto simboleggiato, secondo l’uso della Chiesa Greca e Latina, sotto figura di colomba raggiante. Nel piano inferio- re, ovè dipinto un colle con piccole pianticelle, vedonsi come distesi i due profeti Isaja e Daniele, l’uno di faccia all’altro, ma colle teste loro sollevate per modo, da dimostrare che sono contemplatori del mistero cristiano della Trinità. Osser- vando attentamente tutte queste figure si vede di subito che (1) Son debitore di questa notizia importante agli ottimi Carlo Mila- nesi e Carlo Pini, dai quali attendiamo con impazienza la pubblicazione di una raccolta di documenti inediti intorno alle Belle Arti. (2) DA MORRONA 7, 589, 390, MEMORIE | INEDITE DI DISEGNO 515 l’arte greca non seppe declinare mai tanto, da non serbare segni chiarissimi dei modelli superbi pei quali in antico fu tanto celebre. Il disegno del Divin Padre e del Redentore è fiero e robusto. La testa dell'uno ha gran carattere di mae- stà: quella dell'altro dolcezza divina ed: amabile, abbenchè il colore delle carni sia fortemente bronzino in ciascuna. Il pit- tore non sfuggì di disegnare i piedi delle figure; anzi gli fece . tutti vedere, perchè ebbe perizia da condurli con lode. Minor felicità egli mostrò nell’arte, tutta nostra, di piegare i panni, abbenchè gli colorisse con bel contrapposto di tinte: tutti bianchi nella figura del Padre: in quella del Figlio di colore eremisi nella tunica, di un forte turchino nel manto: Qui gli nocque il guardare alla pratica dei suoi antichi. Ed invero, come direbber gli artisti, le pieghe di queste vesti sono trite soverchiamente, come lo sono non di rado nelle statue e nei bassirilievi anche de’ bei tempi dei Greci. Questo difetto è minore nelle vesti dei Profeti. In questi due personaggi se x | mon vi è varietà di moti, avvi varietà di volti; chè quello d’Isaja, oltre alla barba prolungata, ha molto del severo; men- tre quello imberbe di Daniele è più dolce, siccome conveniva a colui che prese a profetare in giovinezza. Appresso a Isaja vi . ha lungo cartello, su cui sta scritto un luogo delle sue profe- | zie. Uguale cartello è posto ‘vicino a Daniele. Da tutto ciò si raccoglie che l’artefice fu valoroso per la età in che viveva. Niuno pensi esser egli stato di quei Greci i quali usaron con- dursi a lavorare in Italia. Quest'opera è bizantina schietta- mente. Nella parte inferiore del quadro, dopo alquante lette- re le quali sono sì guaste da non offerire alcun senso, leggesi MIXAHA KANISZKA. Se costui fu l’artefice, possiamo dedur- ne quando vivesse. Le molte iscrizioni del quadro sono tutte in caratteri unciali quali gli usavano i Greci nel decimo secolo e nel primo scorcio dell’undecimo: in tutto simili al saggio che ne 65 514 BONAINI dà il Montfaucon (1). Altro riscontro, e forse più valido, della età del lavoro, si ha per la tavola del D’Agincourt (2) ov'ei riprodusse il quadro del Cristo assiso tra i due apostoli S. Pie- tro e S. Paolo, che vide in Roma in S. Stefano Rotondo, ove vogliono lo portassero monaci greci. Anche in quest'opera, che il D’Agincourt sta in forse se sia dell’undecimo o del dodi- cesimo secolo, le lettere sono in tutto uguali a quelle della no- stra. Non so cosa sia del colore. Certo questa tavola della colle- zione del sig. Supino può dirsi più uguale che simile all’altra di Santo Stefano se guardiamo alla figura del Cristo, ove è grande finezza e diligenza di lavoro; pregio bellissimo nè meno raro dell'altro per cui risplende, voglio dire di non sembrare neppur tocca dalle ingiurie del tempo. 6. IV. Di alcuni pittori pisani contemporanei di Cimabue e di altri è quali vissero nel secolo xIV, fino a qui sconosciuti; di Giovanni di Niccola, e d’alcune opere di Roberto, d’Jacopo detto il Gera e dî Andreoccio di Bartolommeo da Siena. L'elenco dei pittori pisani vissuti nel secolo xtv potrebbe accrescersi d’assai, se fossimo certi che dipintore valesse sempre in quella età quel che vale nella nostra (3). Ciò ne consiglia di (1) Paleografia Graeca. Paristis 1708. 8.° pp. 515, 514. (2) Pittura N.° 85. (3) Non riusciranno inutili, io credo, queste notizie abbenchè appar- tengano ai due secoli i quali precedettero il xiv. Nella Biblioteca della nostra Certosa di Pisa si conserva un Messale, di scrittura del secelo xII, conside- revole per due miniature. La prima offre il Redentore sedente eol libro della Scrittura Divina aperto nell’ una mano, coll’altra sollevata in alto di benedire. Questa miniatura ha nei lati gli Evangelisti, tre di essi con teste d’animali come poi gli dipinsero Barnaba da Modena e Spinello Aretino. Nella seconda miniatura è colorita la Crocifissione. Oltre alla figura del Re- MEMORIE INEDITE DI DISEGNO 515 andare assai ritenuti nell’ammettere o nell’escludere alcun arte- fice da questo numero, perchè a giudicarne a dovere non sono neppure indizio, siccome notammo, tutte l’opere che lasciarono. dentore confitto con quattro chiodi alla croce, qui possono osservarsi ai lati la Vergine Maria e S. Giovanni Evangelista, al di sopra due mezze figure di Angeli. Hanno questi nelle mani loro panni destinati a tergere le lacrime. Non ho mai dubitato che l’artefice sia italiano, perchè non vi ha neppur l'ombra in tale opera della maniera goffamente servile de’ miniatori bizan- tini di questo tempo. Nel monastero di S. Vito, cui già appartenne questo codice, ebbesi in altri tempi una Bibbia in pergamena, divisa in quattro vo- lumi in foglio masimo, e questa pure può vedersi di presente nella Certosa. È ricca di grandi leltere miniate e poste ad oro. Fu fatta di elemosine, e le dettero, per il bene delle loro anime e per congiunti trapassati e viventi, devoti d’ambo i sessi, e perfino fornai, fabbri, e pescatori. Nei Diplomi i quali fanno seguito al Roncioni ho posto l’atto originale del 10 ottobre 1169 trovato da me in fine del codice ove fassene ricordo. Secondo questo docu- mento chi miniò le lettere fu un Alberto da Volterra, scriptor de licteris ma- joribus de auro et de cotore. (Arch. Stor. Ital. VI. P. 1I. Sez. II, 44—46). Non oso dire che esso sia l’autore delle due miniature del Messale già men- zionato, perchè so che in questi secoli i miniatori propriamente detti furono diversi dai miniatori calligrafi. Forse sono di Alberto le lettere (al tutto si- mili a queste) le quali adornano due Codici in pergamena in foglio massimo contenenti i Morali di S. Gregorio, che vidi già nella pubblica Biblioteca di Volterra, e che nel Catalogo inedito dei MSS. vengono giudicati in mal punto del decimo secolo. Di Giunta e di alcuni altri pittori pisani dei secoli xl e xl è stato scritto tanto largamente, da togliere adesso ogni necessità di parlarne; tanto più essendomi proposto di accennare solo a quei fatti, i quali nella storia delle Belle Arti rimasero fin qui inavvertiti. Or, se non m’inganno affatto, parmi che sia di questo numero quello di cui dà contezza un frammento, inedito in gran parte, dello Statuto del Comune -Pisano fatto nell’anno 1275, scritto essendo potestà per la seconda volta Savarigi di Villa da Milano. In uno de’ frammenti del Libro quarto, al capitolo De Festivitatibus Gloriose Virginis Marie celebrandis, così giura il Potestà « Et..... ymagines Beate Marie Virginis et aliorum sanctorum que sunt depicte supra portas civita- tis pisane quotiens necesse fuerit faciam reparari et renovari de bonis pi- sani comunis sì extinte fuerint ». Ciò dimostra che alcuna almeno delle ‘porte della città era in questi tempi ornata di figure, e che queste erano sì vecchie, da doversi pensare fino d’ allora alla necessità di una possibile riparazione. È poi da notarsi che altre porte della città n'erano prive affatto, 516 BONAINI Questa dichiarazione torna utile ora che debbo entrare in parole di alquanti pittori pisani del secolo xrv contemporanei di Cima- bue, ignorati fin qui (se uno solo se ne toglie), dei quali non rimangono le opere, e che posso far noti o pei nomi soli o per memorie di tali lavori che potevano perfezionarsi molto proba- bilmente ancora da meccanici. Vanni figliuolo del fu Bono, che abitò nella parrocchia di S. Lucia de’ Ricucchi, è primo tra questi pel tempo. Nel feb- brajo del 1502 riscuoteva nove lire di denari pisani minuti per la pittura della stanza della compagnia d’arme della Cerva Ne- ra (1). Ciò potei osservare svolgendo nell'Archivio dei Contratti perchè in un frammento dello stesso Statuto, ed appunto nel capitolo De Festo Gloriose Virginis Marie, sì giura dal Potestà medesimo « Et cogam st placuerit Antianis infra sex menses ab introitu mei regiminis camerarios pisani comunis pingi facere convenienti pictura supra quamlibet portam civitatis pisane per quam habetur introitus et ewitus figuram Gloriose Vir- ginis Marie et Sancti Petri et Sancti Marci ». Questa disposizione non ebbe (io credo) il suo effetto, abbenchè rinnuovata dal Conte Ugolino di Dono- ratico e da Nino Giudice di Gallura, in quei giorni potestà e capitani del popolo, nello Statuto del 1286, ed abbenchè parimente ripetuta nello : Sta- tuto del Comune del 1505. Si raccoglie ciò non pertanto da essa quali fossero le figure dipinte sulle altre porte della città. La carta di N.° 1110 dell’ Archivio Arcivescovile non contiene Ja menzione del pittore Bindo di Ciucco di Bindo, come legge il Ciampi; ma dice « Giucchus pictor filius Bindi Giucchi pictoris de cappella Sancti Jacobi de Speronariis ». Ecco la memoria di due pittori pisani del secolo x. Ciò dico perchè il Ciampi errò ascrivendo al 1500 il documento che appartiene agli ultimi dieci anni del milledugento. V. Notizie inedite ec. p. 117. (1) Protocollo N.° 462. p. 25. « Vannes condam Boni pictor de cap- pella Sancte Lucie Ricucchorum fuit confessus Francardo condam Ugolini operario societatis Cergiorum Nigre (sic) pro pictura rapothece diete societa- tis se recepisse ab eo‘pro dicta societate libras novem denariorum pisanorum — minutorum renuntiando ete. quam cete. de quibus etc. et ipsum etc. Actum Pisis ante ecclesiam Sancti Leonardi in. Pratuscello presentibus Mone cor- donario condam Bonediei et Gamello condam Periciolis Ghamelli testibus ad hec rogatis MCCCII, Indictione XV. VII. Idus Februarii ». Non può esservi dubbio che Gavoccio (che il Ciampi disse erroneamente Ganaecio) x PI ri | | MEMORIE INEDITE DI DISEGNO 517 di Firenze i protocolli del notaro pisano Chiaro d’ Andrea, ov'è ricordo anche di Colino pittore, al quale nel 16 giugno suc- cessivo il camarlingo della compagnia de’ Piovuti (1) pagava Notizie ec. p. 90, e che lavorò al mosaico della tribuna maggiore del Duomo, fosse pittore, perchè così è chiamato in questo documento del libro.d’Entrata e d’Uscita di N.° 2. p. 126. « Gavoccius pictor pro diebus vr minus una hora trium denariorum ad rationem denariorum vinti per diem soldos 111 den. 71». Altrove è detto puer, laborator e anche famulus pp- 150. 155. 141. 151. È molto probabile che fossero pittori anche Barile, Cagnasso, Pogavansa e Parduccio, i quali lavorarono con Cimabue al mo- saico istesso, indicati in questi documenti inediti. — Barile (de Duomo) qui laborat ad Magiestatem pro una die et duobus tertiis ad rationem den. VIII per diem sold. 1 den. xr. — Cagnassus laborator ad dictam Magiestatem pro diebus ITIT et medio quibus laboravit ad dictam Magiestatem ad ratio- nem suprascriptam (den. viti: per diem) sold. 111. den. 111. — Parduccius de dicta cappella (de Duomo) pro diebus quatuor quibus laboravit ad di- ctam Magiestatem ad rationem denariorum virtt per diem sold. 111. — Parduccius puer pro uno centenario et medio scaccorum de lapide limato- rum ab eo pro Magiestate den. vitti. — Pogavansa pro diebus IIII supra- scriptis quibus laborapit ad dictam Magiestatem ad rationem denariorum x per diem sold, r1r den. 1111. — Lib. cit. pp. 150. 156. 148. 152. — Se tutti questi furono pittori, gli credo senza dubbio pisani, come credo pisano Tu- retto già ricordato dal Ciampi, che fu tra quelli che lavorarono al mosaico. Intorno a questi tempi Turetto lavorò anche alla fonte di S. Stefano presso al Porto Pisano, come ricavo dal libro d’Entrata e Uscita dell'Opera del Duomo N.° 5, p. 241. « Turectus pictor pro aliquibus bicceris pictis in quo- « dam lapide posito apud fontem de sancto Stefano vie portus pro dicta opera soldos 111», Fra i pittori adoperati in questi giorni dai Pisani trovo anche un Vanni di Siena. Credo che fosse padre del celebre Andrea di Vanni. ‘« Vannes de Senis pictor pro pretio auri missi ab eo in figura sancte ma- tie et cius filiù posita supra portam maioris ecclesie et pro suo ‘magisterio îbi facto libras vIIII sold. XIII.» Lib. cit. p. 265. (1) Questa compagnia d'arme non la trovai indicata fra le molte altre delle quali è menzione negli Statuti. Da un documento del 17 agosto 1302 comune, 1505 pisano; che incontrasi nello stesso protocollo di Chiaro d'An- drea, si ha notizia del luogo ove soleva adunarsi. In esso il camarlingo della Società paga tre lire e dieci soldi per un pino « et reducitura ipsius pinî positi et plantati in via Sancte Marie prope apothecam suprascripte societa- tis occasione festivitatis Sancte Marie mensis Augusti sicut consuetudo ipsius societatis est et fuit jam est diu annuatim tempore ipsius festivitatis ». 518 BONAINI sole tre lire perchè colorì certi palvesi (1). Colino nacque di un tal Bordone, pittore ancor esso. Di ciò mi rende testimonianza non pure il documento medesimo del giugno, ma altro docu- mento ancora del 6 agosto. Per esso tu vieni a conoscere che Bordone non era sì vecchio da non poter praticare l’arte sua, giacchè dipinse ancor esso venticinque palvesi per la stessa compagnia, e n’ ebbe mercede di due soldi e poco più per cia- scuno (2). Questi pittori gli avremo come volgari, qualora si pensi che Giotto si tenne come schernito quando certo arte- fice grossolano gli portò un suo palvese a dipignere, com’ è nella novella di Franco Sacchetti (5). Ma vuolsi riflettere che forse avvenne che maî si recasser palvesi a dipingere a Giotto, perch’ egli era stimato massimo pittore nel suo tempo, e quasi sempre adoperato dalle repubbliche e dai re. Ciò mi fa gran- dissima forza allorchè penso che in questi giorni medesimi nei quali la compagnia de’ Piovuti faceva dipingere palvesi nella bottega di Bordone e di Colino, altri palvesi ancora faceva dise- gnare colle sue armi nella bottega di Vittorio, pittore che dimo- rava nella parrocchia di S. Simone di Porta a Mare. Il docu- mento del 29 agosto 1505, da cui tolsi questa notizia, dice an- cora che Vittorio ebbe a dipingere i muri per cappellas supra- scriptae societatis (4); sennonchè ho eziandio migliore argomento (1) « Colinus pictor filio (sic) Bordonis pictoris fuit confessus Bal- duccio Botege olim Camarlingo societatis Piovutorum inde eum interroganti se recepisse et apud se habere ab co libras tres denariorum pisanorum pro piclura pavensee (sic) diete societatis de quibus etc. et ipsum ete. MCCCIII. Indictione XV. XVI. hal. Juli. (2) È detto figliuolo del fa Buoncristiano. Il camarlingo della società gli paga cinquantadue soldi, com'è nel documento, « pro salario picture pa- vensis (sic) vigintiquinque armorum dicte societatis ». Protocollo cit. p. 42. (3) Novella 65, riferita ancora dal VASARI nella vita di Giotto. V. Opp. 1, 124, 125. ' cont (4) Protocoll. cit. p. 46. Non erano affatto ignobili le pitture che si facevano in Pisa sulli scudi, targoni e palvesi. Lo abbiamo dall’ inventario MEMORIE INEDITE DI DISEGNO 519 per credere che fosse artefice assai valente, poichè Vittorio non solamente nacque di Francesco pittore pisano, capomaestro del mosaico della tribuna maggiore del Duomo, prima di Cimabue (1), ma fu suo ajuto principale in quest'opera stessa, una delle più grandiose, se non delle più perfette, che si vedessero a quei tem- pi. Francesco operava con certo Lapo suo fattorino, e riscuoteva la stessa mercede di dieci soldi al giorno ch’ ebbe poi Cima- bue (2): con certo Sandro, suo fattorino ugualmente, operava Vittorio; però vuolsi tenere che nel 1502 ei fosse artista assai provetto e valente, e come tale reputato da tutti (5). Molti di- cono che i monumenti antichi debbonsi porre in luce solo in quelle parti le quali possono giovare alla storia. Ancor io sono di questo avviso; ma più volte dovei convincermi che tornano del 1527 gia ricordato « Pagenses duo depicti de pictura ab aquila. Targo- ne.... depictus ad martellos.... Scutum depictum pictura armorum videlicet leonîis coloris vermilei ad sbarram per medium dicti scuti ». (1) Ciampi Notizie ec. pp. 89, 144. Si corregga il Rosini, il quale dice che Francesco vi lavorò dopo Cimabue. V. Storia della Pitt. Ital. 1, 258. Quali fossero i soprintendenti posti dal Comune per sorvegliare a quest’ope- ra lo mostra questo documento che il Ciampi riportò mutilo ed errato non — solo nei nomi, ma in ogni altra sua parte. « Uguccio Grunei et Jacobus Mur- Cius positi et constituti a comuni et pro comuni pisano super fieri faciendo ‘magiestatem super altare maioris ecclesie pisane civitatis corum sponte coram me suprascripto Ugolino notario ete. confessi fuerunt se habuisse et rece- pisse a suprascripto domino Burgundio operario dante et solvente pro dicta Opera et de pecunia et bonis dicte opere libras Centum denariorum pisano- rum minutorum pro expendendo cas in opere dicte majestatis in dicta ma- tori ecclesia de quibus se etc. et eum etc. Actum pisis in apotheca domus domini Gerardi Fazeli presentibus henrico malpillio de sancto petro ad vin- cula et Fatio condam Jannis testibus ad hec rogatis die XVI. hal. februarii (MCCCI) » Libro d’ Entrata e Uscita dell'Opera del Duomo N.° 2, p. 165. Ho scritto altrove delle due famiglie dei Del Grugno e dei Murci, delle quali furono i due operai. V. le mie annotazioni alla Cronaca di S. Cate- rina (Arch. Stor. Ital. VI. P. II, 405. 449. 450). (2) Ciampi Notizie ec. pp. 90. 144. (5) Ciampi Notizie ec. p. 144. R 520 BONAINI bene spesso più utili le parti di un documento le quali furono troncate, di quelle medesime che vennero prodotte. Il Ciampi ne dette mutile le notizie di Vittorio, di Turetto, di Tano, di Michele ec., tutti pittori i quali lavorarono, insieme a Fran- cesco, all'opera del mosaico prima di Cimabue; e così tolse ai leggitori il modo di argomentare del valore e del nome ch'ebbe ciascuno di essi nel proprio tempo. Ciò adesso potrà’ farsi. Ed invero datemi a leggere attentamente, fino dal 1858, i libri dei conti i quali sono nel nostro Archivio dell'Opera del Duomo, ebbi cura di notare come al nostro Vittorio pagavansi quattro soldi per giorno, con di più nove denari pel fattorino Sandruc- cio, fattorino da cui non erano assistiti nè Tano nè Turetto i quali riscuotevano soli tre soldi, e molto meno quel Ghele o Mi- chele che pure è detto pittore, e che abitò la cappella di S. Mar- gherita, cui davasi ogni giorno un soldo e mezzo per tutta mer- cede (1). Godo di poter dare queste notizie perchè mi sembrano (1) « Victorius eius filius ( Francisci) pro diebus quatuor quibus ipse et Sandrus eius famulus stetit ad faciendas dictas picturas ( magiestatis) ad rationem soldorum 1111 et denariorum vini per diem . soldos XVII». « Tanus pictor de via sancte marie pro diebus duobus quibus stetit ad dictas picturas faciendas ad rationem soldorum 111 per diem. . soldos VI». « Turettus de maiori ecclesia pro diebus quatuor quibus stetit: ad dictas picturas faciendas ad suprascriptam rationem + + soldos XI». « Ghele de sancta margarita pictor pro diebus 1111 quibus stetit ad — dictas picturas faciendas . . . ... +... + + + + + soldos VI». Potrebbe alcuno sospettare che, parlandosi qui sempre di opera di pittura, fosse dato mano al mosaico soltanto quando Cimabue successe come capomaestro a Francesco; ma questo dubbio è tolto dalle due partite seguen- ti, le quali s'incontrano prima di quelle nelle quali è ricordato Cimabue me- desimo. « Tanus etc. quia ivit pro oleo linseminis ad villam de Ceuli Sancti Miniatis ad operandum eum ad dictam Magiestatem ete. — Bectus Torscel- lus condam Pelegrini de Sancta Cecilia etc. habuit etc. a suprascripto do- mino operario pro vitro. innorato quod facere debet pro ponendo eum ad Magiestatem predictam de pretio quod habere debet de vitro innorato operato et operando ad dictam Magiestatem videlicet pro libris ccc ad rationem sol- dorum 111 et denariorum ri per libram ete. »; Libro d’Entrata e Uscita dell’ Opera N.° 2, pp. 241. 244. 245. MEMORIE INEDITE DI DISEGNO 521 capaci di rialzare, un poco almeno, la fama di Vittorio; e certo sarei lieto di poterne produrre d’uguali, se qualche cosa potessi qui porre di più, oltre a due nudi nomi, quali sono quelli d’Ala- to di Buonaccorso e di Geppo di Aldobrandino, pittori amen- due dimoranti nella cappella di S. Niccola, del primo de’ quali è ricordo in un documento dell’11 novembre 1502, del secondo in altro documento del successivo febbrajo (1). La carta ove si parla di Geppo contiene una promessa che vien fatta ad esso da un certo Vanni figliuolo di famiglia. Volendolo Dolce suo padre, fabbricatore di cassette da corredi, distogliere dal giuoco dei dadi, dietro cui (a quanto sembra) andava perduto, gli fa pro- mettere a Geppo pittore che darà ad esso una dozzina di tali cas- sette qualunque volta arrischi denaro a questo giuoco o per se E) per altrui (è). Ecco tutto quello che può dirsi di esso; solo questo può aggiungersi, che viveva ancora nel’14 dicembre 1556 (5). Ciò non era di un Vivaldo pittore, parrocchiano esso pure di S. Niccola, perchè in un documento del 1504 si dà come morto (4). Non so quello che fosse di un Paganello pittore il quale visse in questi tempi medesimi (1504), e che dimorò nella stessa cappella (5): questo so bene, che Betto di . Vanni dipintore della cappella di Sant Jacopo degli Speronaj e padre di Tomeo che dipinse nel Duomo il S. Cristofano, veniva X (1) Protocollo cit. pp. 56, 68, 69. (2) « Johannes dietus Vannes cassettarius filius Dulcis cassettarii de cappella sancti Laurentii Pellippariorum cum presentia consilio consensu et gussu etc. suprascripti sui patris etc. promisit Geppo pictori filio Aldobran- dini de cappella sancti Niccoli toto tempore vite sue non ludere vel ludi fa- cere per se vel per alium ad aliquem ludum tassillorum in quo vincatur vel perdatur aliquis denarius vel alia res et cotiens (sic) contra fecerit ete. pro- misit suprascripto Geppo dare et solvere dosinam unam cassettarum ad coredorum etc. MCCCIII. Indict. 1.8 XII. kal. Martii». Prot. cit. pp. 65; 69. (3) Carta sparsa dell'Archivio della Curia Arcivescovile. (4) Prot. di Chiaro d’Andrea, p. 76. (5) Protocollo cit. p. 86. 60 522 BONAINI a morte scorso il 24 gennajo 1544 (1). Ciò avea luogo quando in Pisa viveva aleun altro che praticava l’arte di dipingere. Le carte ricordano certo Gaddino pittore della cappella di S. Nic- cola, pel quale, nel 4 marzo 1561, il figliuolo entrava in pos- sesso di centoquattordici libbre d’azzurro, ed un Giovanni del Sese che fu anziano del popolo nel gennajo e febbrajo 1572 (2). Il Ciampi fu primo di tutti a render noto che Giovanni di Niccola nel 1560 aveva lasciato il suo nome sopra una tavola di S. Giovanni Battista, la quale fu in altri tempi nella chiesa di S. Pietro in Vincoli (3). Questo pittore è senza dubbio quel- l’Johamnes Nicole pictor che fu eletto consigliere del Consiglio maggiore del popolo pei mesi di luglio e d’agosto del 1558 (4), e che colorì la tavola dello chiesa di S. Marta dataci dal Rosini (5). Chi fosse Niro de’ Visconti, che vedo chiamato pittore; ‘se ap- partenesso all'illustre casata da cui già venne il Giudice gentile di Gallura, io Jo ignoro; ehè oltre al suo nome solo di questo ho contezza, ch'egli non viveva altrimenti venuto l’anno 1585 (6). Giò non era di un Tone o Antonio di Manno, detto dipintore ugualmente in una memoria del 1596, ove si dà come vivente (7). (1) Arch. dell'Opera del Duomo. Lib. di Conti N° 18. p. 8. V. sopra, - (2) Carta sparsa dell'Arch. della Curia Arcivescovile. — Breve Vet. Ant. p. 104. L (5) Notizie inedite ec. p. 117. — Da MoRRona Ed. 2. II, 455. (4) Arch. della Uomunità, — Provvisioni degli Anziani N.° 1148. Fra i colleghi di Giovanni pel Consiglio maggiore trovai anche Franciscus pictor | de Valterris. Ciò dimostra che Francesco dimoravasi in Pisa molto tempol prima che lavorasse nei Camposanto, lo che avvenne nel 1570. V. CIAMPI — Notizie ce. p. 98, v . AZZ I documenti sono adunque ben lungi dal confermare? i voglio dire, che Giovanni H 1 le pa cio cne 1 ie, di Niccol rcora ki | Stor. della Pitt. Ital. 1, 260. Il celebre scultore hitetto venne a. morte nel. 1520 >) Arch. dell'Opera del Duomo. Lib. di Conti N: 66.p. ‘11; reh pa Duomo. Lib di Conti NP 9.p. 4 MEMORIE! INEDITE DI DISEGNO 25 Ma posli..costoro in. dispiarto, «ltri pittori di maggior nome vo- glionsi aggiungere, e tra questi primamente un Roberto, no fino ad ora solamente pel nome (3). Di costui trovo ricordo in um 3 libro di conti dell'Opera del Duomo dell'anno 4589. I Iavoro per cui egli è condotto è la pittura dl Collegio Ferdinando, della quale colorì molte parti, e tra questo 5 ? i Pertis H la sala (2). Già dissi come pittori eccellenti non rifiutassero allora lavori, che. oggidì sprezzerebbero i mediocri. Certo se la merce- de può esser misura del valor dell’artefice, deve ben dirsi che P ) Roberto fosse pittore piucchè volgare; perchè, oltre alle spese D ” 9 di vitto e di colori, riscuote appunto il doppio di que! salario che ? PP PP I al principio del secolo stesso davasi a Cimabue per l’opera di | mosaico che fece nella tribuna maggiore del Duomo (5). Alcuno dirà che la cagione della considerevole differenza è riposta nella mutata condizione dei tempi e nel prezzo più vile che ebbe il ella torre de Familiali, poi metallo dopo il 1502; ma non per questo vorrò cambiare opi- nione. Infatti mentre a Roberto, oltre ad una lira di mercede, sì pagano in ciascun giorno due soldi e quatiro denari per prov- sei sà d — vedersi di pane e di vino, a Jacopo del fn Michele detto il Gera | vengono date, nove anni appresso, trenta live e non più pei — altrettapte figure che egli dipinse attorno alla cupola del Duo- mo. Non posso credere che quest'opera fosse dozzinale, perchè nel documento che si legge nel Ciampi si dice che venne fatta ad decorem ct pulcritudinem ipsius ecelesice (4). E poi, quale arte- | fice fosse il Gera noi possiamo vederlo; perocchè oltre ad una sua tavola la quale trovasi nel monastero di S. Matteo, altra ‘ancora ne abbiamo nell’Accademia di Belle Arti (5). Taccio della prima perchè assai ne fu scritto; e quanto alla seconda sarò con- (0) Ciampi Notizie ec. p. 117. (2) Docum. XII. (5) Docum. XII. — V. CiamPI Notizie ce. (4) Notizie ec. p. 151. (5) DA MoRRONA ed. 1. 1, 419, ed. 2° 17, 454. — Rosini 45, 181 124 BONAINI tento di avvisare che in essa il Gera coloriva la Vergine in trono eol Divin Figlio, con ai lati S. Maria Maddalena e S. Caterina vergine. e martire. Le figure di questa tavola sono assai minori del vero. Bello è il volto di Nostra Donna: bello e tutto fan- ciullesco il movimento del Figlio, il quale tenendo disteso il braccio destro, mostra guardare molto attentamente ad un au- gelletto che ha sulla mano. Quest'opera soffrì gravi danni per la incuria di coloro che la possedettero in prima (gli Agosti- niani di S. Niccola), pel cattivo restauro che appare soprattutto ne’ panni. Sotto di essa sta scritto: JACOBUS - DICTUS - GERA * ME * PENSIT * Dicendo del Gera ho parlato di artista pisano che vi- veva nel 1595 (1). Or fra gli artisti forestieri i quali furono chiamati ad operare in Pisa in questi tempi, conviene ch'io ricordi un Andreoccio di Bartolommeo da Siena che fece pitture per due armadi della chiesa di S. Martino in Chinseca, e, per quanto sappiamo, anche la tavola di un altare. Delle fatiche di . esso rimangono solamente quelle che fece per ornamento del- l'armadio, su cui, in lettere incavate nel legno e poscia dorate, vi è questa iscrizione inedita: ISTA * DUO * ARMARIA * ET * ALTARE * FACTA © FUERUNT TENPORE - SER * JACOBI © DE * LORENSANA © SIMONIS SARDI * BANDINI * PORCARI ’ ET - BARTHOLOMEI * TINEOSI OPERARIORUM * ECCLESIE - SANCTI * MARTINI - CHINSICE QUE * FECIT * MAGISTER © ANDREOCCIUS * BARTOLOMEI * DE SENIS * ANNIS : DOMINI ° MCCCLXXXVIII * ET + MOCCLXXXX - L’armadio è di braccia cinque e tre quinti in lunghezza, in altezza intorno ad un braccio. I dipinti d’Andreoccio sono in campo d’oro, ed occupano i sodi posti nell'interno. Cinque stan- no di fronte; due ai lati. Il dipinto del mezzo rappresenta Cri- sto, mezza figura, col globo nell’una mano, coll’altra inalzata in (1) Docum. XII. Pi MEMORIE INEDITE DI DISEGNO 52) atto di benedire. Il quadro che succede alla sinistra ha la Ver- gine col Bambino Gesù, il quale ha sul dito un augelletto; l’al- tro che si vede alla destra ha S. Giovanni Battista, tutte (meno il Divino Infante) mezze figure. Succedono S. Pietro e S. Ja- copo Apostolo, mezze figure ugualmente, come lo sono S. Paolo e S. Andrea i quali trovansi ai lati. Questo lavoro di Andreoccio è ben conservato, e, per som- . ma ventura, non ebbe bisogno di restauro. Il far del pittore è piuttosto secco che grandioso: la fluidità del colore non molta; pure avvi carattere di verità nelle teste, e quella vivezza di tinte per la quale i Sanesi si procacciarono tanta lode. Alcuno vor- rebbe pittura di Andreoccio anche quella della volta della cap- pella (dimenticata da quanti scrissero delle arti pisane ), ove non ha guari fu posto l’armadio di che parlava. Io non oso affermar- lo, essendo massima antica ripetuta da un valentuomo de’ nostri giorni: « Che il darsi a indovinare il nome di un pittore senz’ al- tro sussidio che i propri occhi, è professione più incerta e più soggetta ad errare d’ogni altra, eccettuata la Medicina » (1). AI- tri forse non sarebbe sì schivo. Ed invero tutto in questa pittura ha, come dicono, il fare della scuola Sanese, e quell’andamento poco libero e poco largo che già osservavamo in Andreoccio. Il fondo della volta, che fu costrutta a botte, è colorito di oltre- mare con trafori alla gotica. Appare nel mezzo di essa Cristo Redentore in atto di benedire; figura intiera, in grandezza si- mile al vero. Prossimi a lui sono i quattro Evangelisti, mezze ‘ figure, e chiudono infine la volta medesima i dodici Apostoli, | mezze figure ancor questi (2). Ho voluto tenerne discorso per- chè se ci è ignoto il pittore, non ci è nascosto l’anno (1595) (1) Asazzi Descrizione della Cappella Rinuccini di S. Croce, aggiunta ai Ricordi storici di Filippo di Cino Rinuccini. Firenze 1840. 4.° p. 510. (2) In una delle pareti di questa cappella appajono molti avanzi di due quadri a fresco barbaramente scialbati in altro tempo, e che si annunziano \ a'miei occhi per opere di dipintore assai valoroso. 526 BONAINI nel quale questo lavoro fu condotto a termine. Lo abbiamo dalla iscrizione inedita che vedesi tuttora in una delle pareti: XX HOC © OPUS © ISTIUS * PINCTURE © TOTIUS - ISTIUS VOLTE * FECERUNT © FIERI - SER * PIERUS © NOTARIUS QUONDAM ‘© SER * BETTI - NOTTI - NOTARI © DE CALCINARIA © PISANUS - CIVIS - DOMINA * KATALINA © EIUS UXOR - ET * JOHANNES * FILIUS » EORUM * PRO * ANIMABUS GUALTEROCTI - COLLUCCI © DE - LUCA * ET - TOCTI EIUS * FILII - HIG * SEPULTORUM © ET : PRO - ANIMABUS SUPRASCRIPTORUM - SER © PIERI * DOMINE * KATALINE - ET JOHANNIS * IPSORUM * HEREDUM * D + J- A * MCCCLXXXXV INDICTIONE © III ©» DE * MENSE © JANUARI © SV. Di una tavola di Luca di Tomè da Siena, e di alcune pitture di Barnaba da Modena, di Cecco di Piero da Pisa e di Andrea da Firenze. i Luca di Tomè, o di Tommaso da Siena, fu discepolo del Berna (1). Nella nostra Accademia di Belle Arti, come ne avvisa il Rosini (2), ne abbiamo una tavola. In essa sono Cristo croci- fisso: in alto il Divin Padre: sotto la eroce la Vergine e S. Gio- _ vanni Evangelisia. Il Rosini la dice opera mediocre per ogni conto; sentenza severa, ma in parte giustissima, essendochè quest opera manca di morbidezza. La volli ricordare perchè tacquero di essa il Vasari ed il Lanzi, perchè è da riporsi tra i lavori certi di questo pittore che, come dice il Vasari mede- simo, « dipinse in Siena e in tutta Toscana molte opere », e perchè ha questa iscrizione inedita: LUCHAS * TOMME - DE * SENIS - PINXIT * NOC... MCCCLXVI - (1) Vasari /, 184. (2) Storia della Pitt. Ital. LL, 185. MEMORIE INEDITE DI DISEGNO 527 Da ciò apparisce che questa tavola fu lavorata nell’anno antece- dente a quello in cui Luca condusse l'altra, veduta dal Della Valle e dal Lanzi presso i Cappuccini di S. Quirico (1). Il giudizio che il Rosini ha dato di Luca non è troppo dis- simile da quello del Lanzi. Ma il Rosini si separa, posso dire, da tutti allorchè viene a parlare di Barnaba da Modena (2), pittore di cui il Tiraboschi fu primo a darne contezza (5). La tavola di S. Francesco di Alba, esprimente la Vergine col Bambino Gesù, e che andò perduta all’atterrarsi di quella chiesa, oltre al nome di questo pittore aveva la data del 1577 secondo il Tiraboschi, del 1557 se ne piace aver fede al Della Valle (4). Forse errò questo secondo. In qualunque modo vuolsegli sapere buon grado della notizia che davane di un’altra tavola di Barnaba, ope- rata da esso pei Domenicani di Rivoli, simile pressochè in tutto alla prima. Il Lanzi parlò brevemente di Barnaba quando scrisse della scuola Modanese, avvertendo « che a giudicarne dalle ope- re quà e là sparse, ne visse lontano » (5). Tale osservazione ri- vela bene tutto il senno dello scrittore. E per verità abbenchè sia nascosto per qual luogo il nostro Barnaba colorisse la tavola dataci dal D’Agincourt (6), e che porta la data del 1574, vi sono buone ragioni per credere che fino dal 1567 avesse lavorato in Bologna; perciocchè fu in questa città che già si vide una sua tavola con questa data; opera della quale io potrò dire alcuna cosa, grazie alla cortesia dell’ erudito sig. Marchese Giuseppe (1) Lettere Sanesi Il, 118.— Storia Pittorica dell’Italia 1, 519. (2) Storia della Pitt. Ital. II, 227. (5) Biblioteca degli Scrittori Modanesi VI. P. 1I, 476. Storia Pitto- rica dell’Italia IV, 29. V, 554. 559. — V. anche VERNAZZA Notizie Patrice spettanti alle Arti del Disegno, p. 9. (4) V. la Prefazione al tom. XIV del VASARI, ed. di Milano del 1811. (5) Stor. Pitt. dell’Italia IV, 29. Ne scrive più a lungo nella scuola Piemontese, V. 504, 555. (6) Tav. GXXXHMI tra quelle relative alla Pittura, 528 BONAINI Campori di Modena (1). Vedesi ora nell'Istituto Artistico di Staedel a Francfort sul Meno. In questo raro e prezioso qua- dretto, che il Marchese Campori osservò ben d’appresso, il pit- tore colorì su fondo d’oro ed a tempera la Vergine Beatissima (mezza figura), la quale tiene nelle braccia il Divin Figlio. Nei volti, a quanto dicesi, tu non desideri espressione. Il dipinto in generale è grandioso: le tinte sono trasparenti e vivissime. Nell’aureola che circonda la testa di Nostra Donna son que- ste parole: Ave Maria gratia plena, Dominus tecum. Al disotto sta scritto: BARNABAS © DE * MUTINA * PINXIT - MCCCLXVII * Barnaba, a quanto credo, operò da prima tra’ suoi e nella vicina Bologna; ma date prove egregie d’ingegno venne con- | dotto a dipingere in paesi ancor più lontani. Delle opere ch’ ei lasciava in Piemonte dissi già alcuna cosa; ora aggiungo che nel convento di S. Domenico di Torino fu discoperta un’altra tavola di Barnaba sconosciuta fino al presente. Di essa dette notizia te- stè l'illustre Cav. Cibrario serivendone al ch. sig. Carlo Borghi di Modena (2). Anche in quest'opera Barnaba disegnò la Vergine Beatissima col Pargoletto Gesù. Dal collo di esso pende la zanna di corallo che usano portare i fanciullini (com'è in altra tavola È di Barnaba che vedesi nella nostra Accademia di Belle Arti e della quale dirò fra non molto), e dall'una delle sue mani è retta una benda o cartoccio, su cui è scritto: Beati qui audiunt verbum Dei et custodiunt illud. Il dipinto (scrive il Cibrario) è duro, secco, tagliente; i panni sono ben condotti, come pure gli altri accessorj. I colori belli e vivacissimi. A piè di esso avvi que- sta iscrizione in lettere d’ oro: Y BARNABAS * DE > MUTINA © PINXIT * MCCCLXX © (1) Debbo ad esso gran parte delle notizie delle quali mi son gio- vato scrivendo di Barnaba, e riconosco anche questo favore dalla media- zione del mio ottimo amico Carlo Milanesi . (2) La lettera è dell’8 giugno decorso, e di questa notizia ancora mì professo grato al sig. Marchese Campori ed all'ottimo Milanesi. MEMORIE INEDITE DI DISEGNO 529 Il Da Morrona vide due quadri col nome di Barnaba, ma senza data, nella nostra chiesa di S. Francesco (1): al presente ne rimane uno solo, quello riposto nel tabernacolo di casa Zuc- chetti presso la porta maggiore, alto un braccio, sette soldi e un quattrino; largo un braccio e due quattrini. Questo quadro è meno grandioso dell’ altro che andò perduto: perciocchè mentre in quello vedevansi la Vergine Incoronata, S. Francesco, S. Lo- dovico, S. Antonio da Padova ed .il Beato Gherardo, qui vedi soltanto una mezza figura di Nostra Donna, che nutrisce col pro- prio latte il Divino Infante. Quattro Angioletti, de’ quali appajono le sole teste condotte con gran diligenza, mostrano sostenere la tenda rossa rabescata ad oro, su cui campeggiano le figure prin- cipali racchiuse in un tabernacolo con arco a sesto acuto. In due vani rotondi superiori son dipinte in piccolissime forme le due mezze figure della Vergine e dell'Angelo che l’ annunzia. Quan- do nient'altro restasse di Barnaba, questo solo dipinto farebbe ragione della pratica lodevole dell'artista.» Qui tu non trovi solamente molta correzione di disegno nelle parti nude del Bambino Gesù, ma puoi dir ottimo l'impasto delle carni della Vergine, e soprattutto vivo ed ardito il colore in ogni sua parte. I pregi di questa pittura la farebbero tra di noi ammiratis- sima, se non fossero come oscurati da quelli onde risplende la parte di mezzo di un’ ancona alta tre braccia e dodici soldi, lar- ga un braccio e tre quarti, un tempo del monastero di S. Gio- vanni de’ Fieri, ora dell’Accademia di Belle Arti (2). In essa ve- (1) Pisa illustr. ediz. 1.2 III, 75. (2) Il DA MorronA ne tacque affatto nella prima edizione della Pisa illustrata; ma nell’ediz. 2.* III, 255, 254 ne disse alcuna cosa. A quel- l) epoca (1812) vedevasi in Camposanto nella cappella dell’ arcivescovo Del Pozzo. Egli fu poco esatto nel riferirne l'iscrizione, che, per essere il qua- | dro mancante delle due parti laterali, dice così: BARNABAS * DE * MUTINA © ME © PINXIT * **** CIVES * ET * MERCATORES * PISANI * PRO * SALUTE * AN**** 67 550 BONAINI desi la Vergine Beatissima seduta sopra il trono col Divin Figlio diritto in piedi sulle di lei ginocchia, avente nelle piccole mani un largo cartello ov’ è scritto: Sî quis vult venire post me abneget semetipsum ete. Otto Angeli fanno come corona. Due di essi (figure intere) stanno genuflessi nella parte anteriore con cartelli spiegati nelle mani, nei quali sono questi motti delle Scritture: Magna et mirabilia sunt opera tua, Domine, ete. — Beatus qui vi- gilat et custodit vestimenta sua etc. Artisti valenti lodarono molto quest’ opera perchè dipinta con molta grazia di colorito, non disgiunta da vivacità e forza di chiaroscuro, e soprattutto da quella bellezza di forme (quando si guarda alle teste) che tanto vale a farne commendato il pittore. Nell’annotare le Zstorie Pi- sane del Roncioni pubblicai, or non ha guari, un documento tratto dall'Archivio dell'Opera del Duomo, per cui forse potrà esser detto d’ora innanzi aver io accresciuto di non poco la fama di Barnaba da Modena. In esso così si legge: « MCCCLXXX. Maestro Giovanni di pessino da Lucha ebe a di due di giùngno per una andata che fe a Genova a maestro bernaba dipittore. che dovesse venire a Pisa per fare la storia di santo ranieri pisa- no, per andare e per tornare a Genova, lire tre e soldi die- ci » (1). Ho forte sospetto che qui si parli del Pittore modanese, e che la storia di S. Ranieri, di che si favella, sia alcuna di quelle del nostro Camposanto, le quali vanno sotto nome d’ar- tista di maggior fama, forse di Simone di Martino, volgarmente il Memmi. Il documento che pubblico di presente (2) può di- struggere il dubbio che Barnaba non avesse per anche posto mano al lavoro allorchè l’Operajo l’invitava a trasferirsi in Pisa, perchè in esso si dice che Maestro Giovanni da Lucca fu-man- dato a Genova a Maestro Barnaba « ut venire! ad complendum storiam Sanete Raynerii » . (1) V. Arch. Stor. Ital. VI. P. 1, 950. (2) Docum. XI. MEMORIE INEDITE DI DISEGNO bol Alcuno dirà che Maestro Barnaba ne venne a compiere la pittura che altri avea cominciato, come già fu di Antonio Vene- ziano. Ciò potette accadere; ma non per questo si verrebbe a togliere il nome di Barnaba dall'elenco glorioso dei pittori del Camposanto, nella guisa medesima che tu vi trovi quello di Cecco di Piero nel 1570 dapprima (1), poscia nel 1579, secon- dochè mostra un documento da me discoperto nell’ Archivio del- l'Opera del Duomo, ove si dice che fu impiegato « per rachon- ciare in champo santo le dipinture delonferno guaste per li ghar- zoni » (2). Che Cecco fosse pisano ne dette notizia il ch. Prof. Ciampi, il quale parlò brevemente di una sua Natività, la quale videsi in altri giorni nella chiesa di S. Pietro in Vincoli (3). Que- st'opera, che or più non abbiamo, era del 1586. Il Da Morrona scrivendo nel 1812 della chiesa di Nicosìa presso Calci diceva: « Or vedesi l’ antica imagine della Madonna col Bambino messa in mezzo da due Santi, sulla porta della chiesa » (4). Quest’ ope- ra di Cecco di Piero di presente conservasi in Pisa, in parte (la Madonna) presso il pittore sig. Remedio Fezzi, in parte (le due figure laterali dei Santi Giovanni Battista e Bartolommeo Apostolo) presso il Marchese De-La-Tour-Dupin dimorante tra noi. L'iscrizione la quale dimostra che fu opera del nostro ar- tefice leggesi sotto la Vergine, e così dice: CECCHUS * PETRI * DE * PISIS - ME * PINSIT * A * D‘ MCCCLXX © ** (5). = Non manca questo dipinto di pregi; chè nella testa della Vergine è assai commendevole il far dell’artista, come nei volti (1) Ciampi Notizie ec. p. 96. (2) Lib. di Conti di N.° 56. p. 105. — RoncionI Istorie Pisane (Arch. Stor. It. VI, P. 1, 950). (5) Ciampi Notizie ce. p. 96.— V. anche DA MorRrona 77, 454. Niuno disse fin qui che Cecco di Piero fu Anziano del popolo pel quartiere di Ponte nei due mesi di gennajo e febbrajo 1580. Lo raccolgo dal Breve Vetus Ant. p. 225. (4) Pisa illustr. III, 415. 4 (5) Gli ullimi numeri sono perduli. 552 BONAINI dei Santi, nei quali trovi molta verità d’espressione, abbenchè . poca correzione di disegno. Bello, vivissimo è il colore usatò nei panni del S. Bartolommeo; e la veste di S. Giovambattista, quantunque rozza, rende ben conto del nudo che cuopre. Il Bambino Gesù sta diritto in piedi sulle ginocchia della Madre e fa segno di benedire colla destra, mentre colla sinistra regge un cartello spiegato, sul quale è il motto: Zg0 sum Zua mundi, via, veritas et vita. Questo quadro nella parte del mezzo è alto due braccia e cinque soldi, largo un braccio solo ed un ‘soldo; nelle due tavo- le laterali poi ha di altezza un braccio e cinque sesti, due soli terzi di braccio per il largo. Di minori dimensioni è la parte di mezzo di un’ altra ancona dello stesso Cecco di Piero, ancor essa della collezione del sig. Fezzi. In questa l'altezza non supera il braccio e cinque sesti, come la larghezza non va oltre i diciotto soldi. Anche qui può vedersi la Vergine in trono col Bambino Gesù sulle ginocchia che benedice colla destra, e che nella si- nistra tiene il cartello, su cui è scritto: Venite ad me omnes qui laboratis ete. Molti ammirano in questo dipinto maggior traspa- renza di tinte che nell’altro, più grazia ne’ volti delle figure. AI disotto di esso sta scritto: CECCHUS * PETRI * DE » PISIS * ME - PINSIT * A > D * MCCCLXXX"**(1): I nuovi documenti da me scoperti iî quali parlan di Barnaba avvalorano il dubbio manifestato a' giorni nostri da artisti valo- rosi, che le storie di S. Ranieri del Camposanto non siano per niente dipinte da Simone di Martino (il Memmi) da Siena. Ora tal dubbio si fa più grave per queste notizie, che trovai in altro documento fin qui ignorato (2). Nel 15 ottobre del 1577 l’ope-. rajo del Duomo nostro di Pisa Lodovico Orselli sborsò cinquecen- toventinove lire e dieci soldi al pittore Maestro Andrea da Fi- (1) Forse vi fu qualche numero successivo. a (2) Docum. X. ti “ MEMORIE INEDITE DI DISEGNO 505 renze « pro pictura storie Beati Ranerti, pro residuo diete storie ».. Il pagamento si fece nella casa dell’ Opera ove Andrea dimorava, situata allato al Camposanto; e la considerevole somma fu pagata secondo il contratto che Pietro Gambacorti aveva scritto di sua mano. Ciò rende testimonianza che Andrea era pittore di molta celebrità, e forse ancor meglio lo manifesta il distinguersi pel solo nome di Maestro Andrea da Firenze. Nell’inventario dei be- ni dell'Opera fatto in questi tempi, descrivendosi la casa di cui già parlai, si soggiunge che vi faceva dimora Magister Andreas de Florentia pictor opere. Chi si tien pago a quanto affermano il Va- sari e il Baldinucci non vorrà neppur dubitare che questo Mae- stro Andrea, il quale dette finita la storia di S. Ranieri, possa essere altri che l’Orgagna, vissuto, come affermarono quelli scrit- tori, fino al 1589 (1). Ma diverso giudizio noi dobbiam farne. E in verità, sebbene sia da dirsi che il Manni non usasse di baste- vole diligenza quando pose la morte dell’Orgagna nel 1575, è ciò non pertanto indubitato che questo pittore aveva chiuso la vita innanzi del 17 gennajo 1577, e perciò più di otto mesi prima che Maestro Andrea da-Firenze ricevesse il saldo della storia di S. Ranieri, che dipinse qui in Pisa (2). Il libro della Compa- (1) Vasari Opp. I, 472. — BaLpinucCI Notizie ec. II, 122. (2) Dubitando che il Manni nel riferire il documento per cui potè scrivere che Andrea Orgagna nel 1575 era morto non avesse usato di baste- vole diligenza, chiesi ai miei amici Milanesi e Pini di ricercare il protocollo di Ser Giovanni di Ser Francesco Buonamichi, dal quale il Manni stesso lo aveva tratto. Vedrà il lettore qual fondamento avesse il mio dubbio, leg- gendo per inliero la carta come ora fu trascritta; e ne raccoglierà al tem- po medesimo che Andrea Orgagna lasciò, morendo, non una sola figlia, ma due, contro la opinione che venne a stabilirsi dietro la carta riportata solo in parte dal Manni. V. la nota del MonTANI al Vasari Opp. 7, 174. «Item annis (MCCCLXXVI) indictione et die decimoseplimo mensis Januarii actum florentie in populo “saneti Laurentii presentibus Johanne Trancisci de Montelatico populi sancti Ambrosii Salvi Nuti corazzarii po- puli sancti.... de Florentia testibus ad hec vocatis et rogatis. Domina Francisca vidua filia olim Bencini Acczucij et umor olim Andree olim Cionis “2A 554 BONAINI gnia de’ Pittori fiorentini anzichè darci mezzo di determinare qual fosse veramente l'artista di cui è parola nel documento, ci avvolge in grandi incertezze ponendoci sott’ occhio assai pittori distinti pel nome di Andrea, e vissuti in questi tempi, Tali sono Andrea Bonajuti del popolo di S. Maria Novella; ricevuto nella compagnia nel 1574; Andrea di Nuto del popolo di S. Maria in Verzaja, e Andrea di Currado del popolo di S. Ambrogio; il primo ammesso nel 1577, il secondo nel 1579, Anche il Ferri del popolo di S. Reparata, che fu della com- pagnia fino dal 1547, è distinto per questo nome, come il Del Passano del popolo di S. Michele Berteldi, che vi si ascrisse nel 1565, non che il figliuol di Puccino il quale faceva il suo ingresso nel 1567. Andrea Ristori del popolo di S. Pancrazio, fu ammesso, è vero, alla compagnia fino dal 1555, ma potè anch’ esso dipingere in Pisa intorno al 1577, essendo stato cer- tamente in vita fino al 1592, essendochè in quest’ anno si fece il sepolero in S. Maria Novella di Firenze, coll’iscrizione SEP » ANDREE * RISTORI « PINCTORIS * DE * MUGELLO * ET FILIORUM © ANNO © DOMINI * MCCCLXXXXII (1). pictoris populi Suncti Laurentii de florentia et Domina Tessa filia olim dicti Andree et uxor Ruggerij.Benedicti dicti populi Sancti Laurentii et Domina Romola filia olim dicti Andree et uxor Christofori Ristorj populi Sancti Fridiani de florentia et quelibet earum constitute ete. petierunt a me Johanne | notario antedicto eis et cuicumque carum dari et decerni in carum et cujus- que earum legiptimum mundualdum Christofanum Ristorj predictum. Qua- rum petitioni favens ego Johannes motarius antedictus habens auctoritatem dandi mundualdos tam a romano imperio quam a comuni florentie dictum (hristofanum presentem et volentem dictis dominabus et cuique carum pre- senti el petenti dedi et decrevi in carum cuiusque carum mundualdum le- giptimum omnia per cas petita. Et mea etc. auctoritate etc. » Protocollo di Ser Giovanni di Ser Francesco Buonamichi da Firenze, nell’ Archivio dei Contratti di Firenze c. 66. L'epoca del documento è secondo lo stile fio- renlino, (1) V. MoRENI e Fineschi Notizie dell’antico Cimitero di S. Maria Novella, p. 87. Anche di queste notizie mi professo grato agli amici miei Garlo Milanesi e Carlo Pini. vee MEMORIE INEDITE DI DISEGNO D50] I nomi di questi pittori, non che i ricordi delle opere da essi perfezionate, si cercherebbero invano nel Vasari, nel Bal- dinucci, e, a quel ch’ io sappia, in quanti sono scrittori i quali dettarono memorie sulla storia delle arti. Il Ciampi medesimo, che fu primo ad additarci i documenti dell’ Archivio dell’ Opera della Primaziale nostra, tralasciò ogni menzione di Andrea da Firenze nel catalogo dei Pittori, che compose per le carte le quali vide. E pure erane ricordo, come osservammo, bene in due luoghi. Ciò giovi a farci intendere in qual conto debbansi avere gli eruditi, i quali usano porre la maggiore diligenza pos- sibile nel ricercare quel che contengono le antiche scritture. ee. I RE ZIO die con sf dbsoner a Sao air dip ning o Tri dan ran fia otranto avra it icfppa itolimeraneo anogindega gran onda le ariano are alob nino? cl'ussrrensa suoggbpiti h_ojvidoi4/Holi aspogtinoie io tt ba PIT MI: 'S° ii ssh ib goin ere tici ai ele riaoti sbpiiamnerdici * e ‘ ‘ Pi s i stat sinsa dasggioo mila folk 00 ago niv'atini è nera Fra LIA MI FIDI PARI) PIT] ; è nadd MT DIN vi i TR SLE. PES) Mi i TI i MASTRO Molanea: +0:siger ogsarssi "| b t| pad lito Meo vi VITETENAI ERI PERO, Suoli AMATA x È - sv N Ù x x Re k ù A i A i k nd DOCUMENTI Testamento di Albizzo Delle Stadere (de’ Casapieri), nel quale istituita erede VOpera del Duomo di Pisa e lasciati molti legati più, ordina sia fatto un altare o cappella nella chiesa di Santa Caterina dei Domenicani. 1556. 25 Gennajo. (R. Archivio Diplomatico di Firenze — Carte dell'Opera della Primaziale di Pisa). h nomine Domini amen. Quoniam testamentum est testalio mentis de eo quod quis post mortem suam de bonis et rebus suis fieri velit ideo ego Albisus de Stateriis filius condam domini Guillelmi De Stateriis (1) de Cappella Sancti Clementis (2) corpore mente et intellectu Dei gratia sa- mus existens limens casum humane fragilitatis ne ab intestato decedere valeam volens mihi et mee anime providere cassando et irritando omne ‘aliud testamentum codicillos et ultimas voluntates a me conditum conditos et conditas rogalum et rogatos per quoscumque Notarios quocumque tem- pore sub quibuscumque datalibus non obstantibus aliquibus verbis deroga- toriis in eo et eis appositis vel scriplis et istud presens meum testamen- um in omnibus confirmando sic testor et de bonis meis meam ultimam voluntatem condo ordino et dispono. In primis quidem si me mori con- (1) V. sopra, pp. 458—440. (2) Il Tronci, che dettò la Descrizione ms. delle Chiese intorno al 1643, ui. ; n c È _ dice (p. 1) « Vedevasi (la chiesa di S: Clemente) dove oggi è la casa degli eredi d’Jacopo Monti ». È ; 68 558 BONAINI apud Ecclesiam Sancte Katerine de Pisis (1) cum habitu fratruum Pre- dicatorum (2). Item judico in die mei obitus expendendas arbitrio infra- scriptorum meorum fideicommissariorum libras centum quinquaginta dena- riorum pisanorum. Item judico et dari volo de bonis meis pro anima mea in die septimi et trigesimi (5) mei expendendas etiam arbitrio infrascripto- rum meorum fideicommissariorum libras quinquaginta denariorum pisano- rum. Item judico Conventui fratruum Predicatorum Sancte Katerine pre- dicte pro missis canendis pro anima mea libras quindecim denariorum pisa- norum. Item judico Conventui Fratruum Minorum Sancti Francisci (4) de Pisis pro missis canendis pro anima mea libras duodecim denariorum pisa- , norum. Item judico Conventui Fratruum Heremitarum Sancti Nicoli (5) de Pisis pro missis canendis pro anima mea libras quinque denariorum pisano- rum. Item judico Conventui Fratruum Sancte Marie de Monte Carmelo de Pisis (6) pro missis canendis pro anima mea libras quinque denariorum pisanorum. Item judico Monacis Sancti Domnini (7) pro suprascripla occa- (1) Di questa chiesa, fondata da F. Uguccione Sardo, inviato a Pisa da S. Domenico per stabilirvi l Ordine de’ Frati Predicatori, ho scritto a lungo nelle Note alla Cronaca di S. Caterina. ( Archivio Storico Italiano VI. P. II, 405—408).— V. anche DA Morrona Pisa illustrata ec, INI, 90—112. (2) Era uso in questa età che i secolari venissero spesso sepolti coll’ abilo dei terziarj:d’alcuno degli ordini mendicanti che più avevano in devozione. (5) La Crusca ha trigesimo e trentesimo in questo senso, ma tralascia ìl vocabolo settimo. Del trentesimo parlò il MANNI Storia del Decamerone, p. 235. V. principalmente DucanGE V.® Septimus, Tricenarium. : (4) Sulla chiesa de’ Frati Minori, edificata nel xm secolo, può vedersi quello che ne ha scritto il DA Morrona Pisa illustrata ec. III, 46—90. (5) Dicono che questa chiesa, retta ancora di presente dagli Agosliniani, venis- se fondata nel 1000 o nel 1001 dal Marchese Ugo. Primi ad averla furono i. Monaci di S. Michele di Verrua; ma nel 1294 (scrive un cronista che ho pubblicato ): «li frati eremitani per denari li caccionno ». R. SAnDo (Arch. Stor. It: VI. P. HI, 95). (6) I Frati del Carmine dimorarono fino al 1558. in Cafaggio, presso ta cito tà; ma nell’anno di cui parlo ebbero stanza nella chiesa. di S.. Maria, che si era presa a edificare in Pisa-fino dal 13525. Il Vasari narrò che vi si vedevano opere — di Masaccio. Opp. 1; 250. (7) Creidesi che fossero Cintero:Suar; Di presente la loro chiesa serve ai religiosi Cappuccini, ed è posta fuori della città dal ‘lato meridionale . MEMORIE INEDITE DI DISEGNO 1559 sione libras. quinque denariorum pisanorum. Item judico fratribus Sancti Cataldi (1) pro anima mea libras tres denariorum pisanorum. Item judico pro anima mea hospitali Sancti Iuliani (2) libras duas denariorum pisano- rum. Item judico pro anima mea Domnabus Sancti Iohannis de Carraria Gonnelle (5) soldos viginti denariorum pisanorum. Item judico pro anima mea Domnabus Sancte Marie de Valverde Pisane Civilatis (4) soldos viginti ‘ denarioram pisanorum. Item judico pro anima mea trovatellis Sancti Spi- ritus (5) libras duas denariorum .pisanorum. Item judico pro anima mea trovatellis Sancti Dominici (6) libras duas denariorum. pisanorum. Item judico pro anima mea Domnabus Misericordie de Spina (7) libras tres dena- riorum pisanorum. Item judico pro anima mea Domnabus Sancti Asnelli (8) soldos viginti denariorum pisanorum. Item judico Domnabus Sancti Mathei pro anima mea libras sex denariorum pisanorum (9). Item judico pro anima mea Domnabus Sancti Bernardi (10) libras quinque denariorum pisanorum. (1) Erano dei Crociferi. (2) Era aperto nel borgo di S. Marco in Guatolungo. (5) S. Giovanni di Carraja Gonnella era uno spedale di donne ricordato in più documenti, e specialmente in uno del 15311. (4) Erano Domenicane, che passarono in citta da S. Maria di Valverde di Buti. Dimoravano in via S. Egidio. (5) Vedevasi nella parrocchia o cappella di S. Marco in Guatolungo. L’Ar- civescovo Ruggieri nel 27 luglio 1294, essendo questo spedale in gravi necessità, accordò alcune indulgenze a coloro i quali lo soccorrerebbero con elemosine. V. la lettera in DAL Borco Diplom. Pis. pp. 18, 19. (6) Questo spedale, posto in questi tempi in via Calcesana, tolse il nome suo dal B. Domenico Vernagalli monaco Camaldolense di S. Michele in Borgo, che lo fondò al principio del secolo xm. (7) Erano Domenicane, che poi il Cavalca trasferì in S, Marta. Ne ho dello assai cose nelle Note. alla Cronaca di S. Caterina (Arch. Stor. Ital. VI. P. Il, 515, 514). (8) Erano oblate dello spedale detto ancora di Osnello, situato nella stessa via ov'era l’altro di S. Giovanni, di cui parlai qui sopra alla nota 3. Il luogo dello spedale d’Osnello fu poi mutato in chiesa e monastero di S. Bernardo. Lo hanno di presente le monache Cappuccine. (9) Ora dimorano in questo monastero le monache Cisterciensi. La fonda- zione risale al 1027. (10) Questo monastero, ora distrutto, era presso Ja ciltà, 540 BONAINI Item judico Sorori Lape Abbatisse Monasterij omnium Sanctorum (1) libras quinque denariorum pisanorum. Item dico et volo quod per infrascriptos meos fideicommissarios ponatur et poni debeat pro anima mea in hospitali Novo Misericordie (2) de Pisis ad opus et utilitatem pauperum dicti Hospi- talis unus Jectus fornitus fiendus de novo valentie librarum vigintiquinque denariorum pisanorum. Item judico pro anima mea Domnabus Saneti Augu- stini (5) libras duas denariorum pisanorum.. Item judico pro anima mea” Domnabus Sancte Crucis de Fossabandi (4) libras quindecim denariorum pisanorum. Item judico Opere Conventus Sanete Crucis predicte libras de- cem denariorum pisanorum. Ilem judico pro anima mea Domnabus Sancte Anne (5) libras duas denariorum pisanorum. Item judico pro anima mea Domnabus omnium Sanctorum libras quinque denariorum pisanorum. Item judico Opere Ecclesie Sancti Iohannis Baptiste (6) pro anima mea libras tres denariorum pisanorum. Item judico Domnabus Sancti Stefani de ultra Auzarem (7) pro anima mea libras tres denariorum pisanorum. Item judico pro anima mea unicuique Heremile Civitatis Pisarum et burgorum et sub- (1) Il monastero di Tutti i Santi era fuori di Porta a Mare, nella parroc- chia di S. Giovanni al Gaetano, (2) Di questo spedale, detto di papa Alessandro, dal nome di Alessandro IV che ne comandò ai Pisani la fondazione quando. chiesero di essere assoluti dalle scomuniche nelle quali erano incorsi pel favore prestato a Federigo II; in grazia del quale fecero, com'è noto, prigioni alcuni cardinali ed altri prelati che recavansi al concilio di Lione, ne ho scritto assai per disteso nelle mie Note al RoncIoNI Istorie Pisane (Arch. Stor. Ital. VI. P. I, 545, 544). (3) Erano Domenicane, Il monastero si disse di S. Agostino di via Romea. Sorgeya nel subborgo di S. Marco alle Cappelle. (4) Erano Domenicane, le quali ebbero la chiesa ove ora hanno stanza i Minori Osservanti. La fabbricò F. Bartolommeo Dal Cantone, priore e lettore illustre dello stesso ordine, conforme è scritto nella Cronaca di S. Caterina (Arch. Stor. Ital. VI. P. II, 494). (5) S. Anna al Renajo (monastero e chiesa ora distrutti) nel subborgo me- ridionale della città. (6) Il Battistero. Dell’opera di esso do alcune notizie nelle Note ai Diplomi che pubblico di seguito al Roncioni, ( Arch. Stor. Ital. VI. P. II Sez. II, 52, 53). (7) Non rimane il monastero ch’ebbe questo nome, ma abbiamo tuttavia la chiesa situata poco al di fuori della porta che dicono a Lucca. — MEMORIE INEDITE DI DISEGNO 541 | burgorum ejus et vie Sancti Petri ad Gradus soldos quinque denariorum pisanorum (1). Item dico et volo quod per infrascriptos meos fideicomis- sarios ematur et emi debeat unus Calix de noyo valoris librarum quadra- ginta denariorum pisanorum numquam vendendus vel alienandus et detur et ipsum judico pro anima mea Fratribus Minoribus Sancti Francisci de Pisis pro celebrando cum eo divina officia. Item judico Junetino olim famulo 7meo vel eius heredibus scilicet filiis vel filiabus ex eo legiplime descen- "dentibus libras centum denariorum pisanorum. Item judico pro anima mea | Rainerio Tagliaferro in adjutorium Passadij generalis fiendi ultrà Mare libras | decem et seplem denariorum pisanorum (2). Judico pro anima mea Opere _Ecclesie Sancte Marie de Ponte Novo (5) libras duas denariorum pisano- tum. Item judico Opere Ecclesie Sancle Marie Novelle de Ponte ad Ma- ‘re (4) pro anima mea libras duas denariorum pisanorum. Item judico pro : * (1) Lungo le mura della città, nei sobborghi e nella via di S. Piero a Gra- ‘do (chiesa alla quale molti recavansi a quei di in sacro pellegrinaggio) eranvi assai penitenti racchiusi in celle od ergastoli. Talvolta i devoti usavano costruire alcuna tali celle a loro spese, come fece Oliviero Maschione, di cui dovrò parlare fra non molto dicendo dello spedale che fondò. Infatti nel di lui testamento così si e: « Et idem dico de quatuor fraticellis mansuris in quatuor cellis meis positis L ope predictum hospitale quibus provideatur de quatuor lectis ut supra et dico et volo quod singulo die veneris dicti temporis per meos heredes detur cuique ipso- fraticellorum pro pane et vino sol. 1». (2) I lasciti per la Crociata di Palestina anche nel xiv secolo durarono ad frequenti. Talvolta alcuno disponeva che a spese della sua eredità un soldato oyesse recarsi in Terrasanta, essendovi il passaggio, e servirvi nell’esercito per un ‘anno o più, dopo di essersi presentato al Legato pontificio. In più documenti del- l’Archivio dei Contratti di Firenze vidi fatto un legato da una femmina perchè s’in- e un soldato alla Crociata che bandì Bonifazio VIII « contra perfidos Colum- D. N (5) Fa poi detta S. Maria della Spina nel xy secolo, dalla reliquia della Spina del Signore che vi fu posta in venerazione. Il nome più antico di S. Maria di Pon- lenuoyo, che ha in questo documento, l’ebbe dal ponte vicino, it quale vedevasi e verso la meta del secolo xv, come si ha dalle Memorie di Goro di Stagio Dati riferite dal TArgIoNnI Relazioni di Viaggi per la Toscana II, 88. (4) È distrutta. RANIERI Sarpo, narrando i fatti del 1552, scrive: « Fecesi S. Maria del Ponte a Mare » Cronaca Pisana cap. 76. (Are. Stor. Ital. VI. P. II, 108). 542 BONAINI anima mea infirmis Sancti Lazari (1) dandas eis manualiter et non aliter per meos fideicommissarios libras duas denariorum pisanorum. Item judico et dari volo de bonis meis societati Admannatorum de Pistorio (2) flore- nos decem de auro quos dictus dominus Guillelmus olim pater meus con- fessus fuit dare debere ipsi societali in suo testamento seu codicillo et si non appareret persona legiplima dicte societalis seu olim capitum ejus vel majoris partis olim capitum et principalium ejus quibus seu eorum procu- ratori legiplime dari possint volo quod dentur infra annum postquam de- | cessero per meos fideicommissarios pauperibus Christi pro animabus illorum quorum fuerunt. Item judico et dari volo de bonis meis anuatim incipiendo | a die mei obitus pro anima mea et meorum parentum Ecclesie Sancti Gle- mentis Pisane Civitatis libras trigintaquinque denariorum pisanorum. sol- vendas et dandas de pentionibus meis percipiendis et recolligendis, pro parte mea de redditibus et introhitibus domorum et apothecarum de Embu- lis de seta et de sendadis (5) cum hoc honere tenore et condictione scilicet quod pro predictis reddilibus et judicio rector dicte ecclesie Sancti Clementis qui est ibi et pro tempore erit teneatur et debeat continue et in perpetuum tenere in dicta ecclesia unum sacerdotem ultra alium si quem — x (1) I lebbrosi. Erano ricevuti nello spedale contiguo alla vecchia chiesa di S. Lazzaro, situata fuori di Porta a Lucca. (2) Su questa società di ricchi mercanti è da leggersi un’ erudila osserva- zione del ch. Filippo-Luigi Polidori nelle Note ai Ricordì di Oderigo di Credi. (Arch. Stor. Ital. IV, 95). (5) Erano detti così, dal Greco, i portici sotto i quali in Pisa si faceva ven- dita delle stoffe e degli zendadi, tessuti di seta di un genere più sottile. Pare che le botteghe degli emboli della seta si tenessero come a pigione dalla società degli n° embolai, a differenza di quelli ove si vendevano gli zendadi, perchè ciascuno che facesse mercanzia di questi tessuti pagava la pigione da se stesso. Lo raccolgo dal "4 Libro di Conti dell'Opera del Duomo N.° 18 pp. 22, 58. a MCCCXLY sabato a di xx di Iuglo. Jacopo di ser bindo metefuocho chamarlingo dell’embulai die lo soprascritto di per pigione dell’embuli de la setta per parte domini Albisi de sta- tee libbre xr. s. vini, den. 11. per messi vi finiti in chalende magio MCOCCXLYV a ragione di libbre xx. s. xvin. den; ini. lanno ». E più sotto (p. 58) «Ser Biagio _ de le brache die per pigione di due boteghe poste in dell’embuli dele sendada È per la parle che contingea a domini Albiso de statee per uno anno finito in cha- lende novembre MCCCXLIIM a libbre 11, s. x. per ciaschuna botega ». . MEMORIE INEDITE DI DISEGNO 545 ìbi tenere tenetur qui Sacerdos in dicta ecclesia horis debilis et solilis ce- lebret et celebrare debeat missas et alia divina officia pro salute anime mee et meorum parentum. Et si dictus rector ipsum sacerdotem non tene- ret ad predicta tune et in dicto casu predieta omnia judico Opere Ec- clesie. Sancte Marie Majoris Ecclesie Pisane Civitatis operarius cujus idem facere teneatur et cum honere suprascriplo. Item judico Nerio et Lemmo germanis filiis fratris Albisi de Stateriis (1) totam meam partem de’ petiis terrarum cum domibus patrimonialibus tantum positis in Cappella Sancti Clementis quae tenent caput in flumine Arni aliud caput in alia via Jatus in Classo de sendadis aliud lalus in terra et domo Nerij Borghinj et . de Trurri vocata Turris de Brachis et de alia Turri vocata Ferrante in, qua i, tenentur taberne et de vacuo ubi etiam tenentur taberne quod coheret $ Casalino heredum Judicis Gallure (2) et quod est commune Nobilium do- i mus Casapieri (5) et partem meam introhitus et honoris Staterarum cet | lotius'eius quod exinde recolligitur et recolligetur in futurum a vectora- bA libus et aliis portantibus mercantias et a ligatoribus somarum (4); ita tamen et cum hac condictione et hoc honere et non aliter: scilicet quod ipsi. Ne- rius et Lemmus teneanlur et debeant pro prediclis dare meis fideicommis- | sariis libras sexcentas denariorum pisanorum scilicet in primo anno a die N mei obitus computando medietatem dictarum librarum sexcentarum et in | secundo anno aliam medietatem; et si sic non solyerint ut supra dictum est eis judicata predicta revertantur et reverti debeant ad operam eccle- sie Sancte Marie Majoris Pisane Civitatis. Item judico sorori Guide filie ente domini Raineri Jannis libras vigintiquinque denariorum pisano- “rum. Item dico Let. volo quod quam cilius et: inmediate post. mortem eam non fiat et ‘fieri debeat in ecclesia Sanete Katerine de Pisis unum altare. seu, cappella, 2] Ingria divina officia celebrentur pro anima mea CLN 1) Questo gio Delle FALL sì rese frate SI secondoché” dissi alla D. 459. î poent. 04 , ui _(®) Nino' Vispentti, il celebre Giudice. di Gallura; c sr | da ©) Il stestatore, come avvisai ‘a p. 459, era della consorieria de’ Casapieri. 4 ora Lo consorti nel medio evo erano usi di ritenere assai proprietà «in comune. Non oso asserire per altro che questa. casa comune corrispondesse agli alberghi di Genova e agli: ‘ospizj di Chieri. SIC) V. sopra, p. 459. : : : ha fu (5) Questo è l’altare, n°) quale il Traini dipinse la obi ‘di S... Domenico. 544 BONAINI et meorum parentum in cujus constructione et hedificatione expendan- tur et expendi debeant de bonis meis libre quingente denariorum pi- sanorum et tam pro Calice quam pro missale (1) et aliis paramentis de novo emendis sine aliqua defalcalione hec dicte ecclesie judicando. Ilem judico pro anima mea pro camiseis et gonnellis dandis in villa de Titignano (2) libras septuaginta denariorum pisanorum. Item judico Van- nello Capascio de Tilignano libras decem denariorum pisanorum. Item ju- dico Octaviano et Gaddo et Neapoleoni germanis filiis condam domini Rainerij Jannis nepotibus meis libras septingentas quinquaginta denariorum pisanorum in una parte et in alia parte florenos quinquaginta de auro quos mihi dare tenentur ex causa mutui vel alio modo per cartam inde rogalam à Francischo Notario de Calcinaria quocumque tempore sub quo- cumque datali vel ab alio notario et in alia parte florenos viginliduos de auro quos etiam mihi dare tenentur sine carta videlicet pro omnibus hiis quae petere possent quacumque occasione et quocumque modo in he- reditate et bonis meis quas et quos nolo eos eas et eas habere nisi fa- ciant tune in solutione earum eis fienda generalem finem fideicommissariis Ù meis de omni et toto eo quod petere possent in hereditate et bonis meis et quas nolo quod habeant ullo modo si contra hoc testamentum aliquid opponerent vel opponi facerent vel aliud peterent nisi quod supra eis ju- : dicatum est cum hac condictione et hoc honere videlicet quod domna Man- fredina germana eorum et filia condam suprascripli Domini Rainerij gandere — ni possit et debeat ipsis libris seplingentis quinquaginta denariorum pisanorum et ipsorum fructibus seu redditibus inde ex eis quocumque modo perve- PI niendis et percipiendis et habendis donec ipsa domna Manfredina ssteterit quod non habuerit penes se possessionem suorum iurium dotalium de Se-. nis prout de jure habere debet secundum formam suorum instrumentorum a dotalium. Et in dicto casu. Domna Mapnfredina de. ipsislibris septingentis: quinquaginta denariorum pisanorum sit et‘esse debeat usufructuaria dicto tempore et eo modo ut supra diclum est; et inde a diclis suis germanis vel ab aliqua alia persona dicla Domna Manfredina non possit' vel debeat .. È ; i Li 7 (1) I Messale fu fatto scrivere da certo Nino di Paccetto di Benintendi della , parrocchia di S. Viviana, come raccolgo dai pagamenti che a. lui vennero fatti non tanto dall’operàjo Francesco Coco, quanto dall’operajo Buonaggiunia Acalli. Libri di Conti dell'Opera del Duomo NN. 18, 19. : 1 (2) A quattro miglia. da Pisa, dirimpetto alla badia di S. Sayino a Montione. MEMORIE INEDITE DI DISEGNO 545 de jure vel de facto in aliquo molestari. Et si contra hec predicti Octa- vianus Gaddus et Neapoleone vel aliquis ipsorum vel alia persona pro eis fecerint vel fecerit in “aliquo aliquo modo vel jure predicta eis judicata ipso facto redeant ad Operam ecclesie Sancte Marie Majoris Pisane Givitatis et de predictis credatur simplici verbo dictle Domne Manfredine et di- cta opera eccelesie Sancte Marie predicte sive operarius ipsius ecclesie qui pro tempore fuerit teneatur et debeat in dicto casu et casibus eidem Domne Manfredine dare victum et vestitum secundum condictionem et fa- cultatem suam pro se et una serviente. Item judico Domne Vise De Sta- teriis vestite habitu Fratrum Predicatorum (1) libras decem denariorum pisanorum. Item judico Albiso et Lippe et Johanne germanis filiis Hen- rici Pilosi de Cappella Sancti Laurenti] Kinthice (2) libras centum dena- riorum pisanorum pro quolibet eorum ita tamen quod unus succedat alteri eorum in praedictis. Item dico et volo quod inmediale post mortem meam nullo expectato juris termino integraliter solvatur per meos fideicommissa- rios domne Johanne uxori mee de suis juribus dotis et antefacti et aliis quibuscumque suis creditis que a me et in bonis meis petere potest et re- cipere habet ex forma quorumeumque suorum jurium et instrumentorum. Et nichilominus sit Domna et Domina et usufrucluaria omnium bonorum meo- rum et eius serramina non tangantur vel aperiantur contra ejus voluntatem et habeat habitationem in domibus meis et alibi ubicumque voluerit et vi- clum et vestitum et alia sibi necessaria pro se et una serviente donec in- nupta vixerit, Item judico eidem Domne Johanne uxori mea ultra pre- dicta libras quindecim depariorum pisanorum pro quibus omnibus supra- scriptis liceat eidem Domine Johanne sua et judiciali auctorilate quando- cumque capere possessionem et tenere bona mea et in bonis et de bonis meis et ea vendere et alienare et sibi retinere et inde sibi salisfacere pro suo libito voluntatis nullo juris termino vel sollempnitate servatis. Item judico hospitali domini Oliverij Maschionis expendendis in lectis ad opus pauperum libras decem denariorum pisanorum (3). Item judico Petro fa- (1) Pinzochera Domenicana. (2) Questa chiesa, posta già nella via che ora dicono di S. Lorenzino, è stata ai di nostri ridotta ad uso di abitazione privata. Il Tronci credé la fondassero i Del Bagno antichissimi cittadini, e pensò che questo avvenisse prima del 1195. Descrizione ms. ec. p. 97. (3) Oliviero o Vieri Maschione, discendente da Vieri uno dei mille i quali 69 5546 BONAINI mulo meo libras triginta denariorum pisanorum. Item judico fratri Petro Buctari de Ordine Fratrum Minorum pro anima mea libras vigintiquinque. Item judico libras quadringentas denariorum pisanorum dandas et erogandas per meos fideicommissarios virginibus maritandis et religionem intrandis et pauperibus verecundis et aliis ut salubrius pro salute anime mee et meo- rum parentum meis fideicommissariis videbitur convenire ita tamen quod giuraron pace con Genova nel 1188 (DAL Borgo Dipl. Pis. p. 125), fu notaro e mercante, come polei raccogliere da molte carte le quali parlano di esso, venute nella famiglia Del Mosca pel matrimonio di Piera sua figliuola con Matteo di questa casata. Nel gennajo e febbrajo del 13502, essendo capitano del popolo Rainaldo da Jesi, fu uno dei tre notari degli Anziani, e lo fu di bel nuovo nel 1508 pei mesi di ottobre e novembre, quando teneva la carica di capitano Rainaldo dei Terrabotti di Ancona (Brev. Vet. Anthianorum ce. 11. 14). Già nel dicembre del 1502 aveva fatta una società con Turetto pittore perchè questi potesse esercitare con profitto l’arte sua. Vestito l’abito dei Cavalieri Gaudenti edificò uno spedale o refugio per ristoro dei poveri, e per esso ottenne ogni più ampia immunità da Lodovico il Bava- ro, col diploma dato in Pisa nel 10 gennajo 1529. Il Federici lo riporta nell’ Istoria de’ Cavalieri Gaudenti II. 187, 188; ma cade in errore quando dice che Oliviero fosse dei Conti della Gherardesca. Nel 1548, poco prima della sua morte, fece un testamento di cui già dissi, e che potrà vedersi nel Tom. VI. dell'Archivio Storico Italiano. In esso, dopo di aver fatto lasciti a molti, tra i quali a Y. Jacopo Passa- vanti, a F. Bartolommeo da S. Concordio e al Cavalca, così dispose quanto allo spe- dale che aveva fondato: « Ifem dico et volo quod per meos heredes saltem per an- nos duodecim continuos post mortem meam in hospitali meo teneatur et eligatur unus guardianus seu gubernator dicti hospitalis et în eo mansurus qui riceptet ibi pauperes ad lectum et ibi fiant duodecim lecti per meos heredes duodecim pauperi- bus ibì dormiendis et ibi manuteneantur ipsi duodecim lecti et gubernentur et re- parentur matterassiîs linteaminibus et copertoriis sufficienter per totum dictum tem- pus ita quod omni anno palee renoventur ut stent nitidi et dicto gubernatori pro- videatur per meos heredes et removeatur et alius reponatur sicut meis heredibus videbitur convenire » . Oliviero da buon Cavaliere Gaudente era molto devoto dei Frati Predicatori. Nel 1558 pagava per la costruzione di una murella del loro chio- stro dugentosessanta lire. Non so quando i Frati di S. Caterina gli volessero affidato l’incarico di rettore dello spedale di Livorno; chè questo solo mi è noto per una carta dello Scrittojo del nostro Seminario, che nel 50 maggio 1545 egli ne aveva fatto renunzia, Mori intorno al 1549. MEMORIE INEDITE DI DISEGNO 547 mon dent nec dare debeant pro aliqua persona maritanda vel religionem intranda ultra libras decem denariorum pisanorum et pro aliquo paupere ultra soldos quadraginta denariorum pisanorum. Item judico Puccine de Pistorio famule mee libras decem denariorum pisanorum. Item judico fra- tri Taddeo de Florentia Ordinis Fratrum Predicatorum libras decem dena- riorum pisanorum (1). Item judico Fratri Dominico Cavalce de Vico Or- dinis Fratrum Predicatorum libras quinque denariorum pisanorum (2). Item judico Fratri Bartholomeo de Sancto Concordio de dieto Ordine libras quinque denariorum pisanorum (3). Item judico Fratri Taddeo de Campi- lia de dicto Ordine libras quinque denariorum pisanorum (4). Item judico Fratri Petro de Viterbio de ‘dicto Ordine libras quinque denariorum pisano- rum (5). Item judico Fratri Rainerio Jordani de dicto Ordine libras decem denariorum pisanorum (6). Ilem judico Fratri Nicolao de Campilia de Ordine (1) F. Taddeo Dini. Nella Cronaca di S. Caterina ($. 107) F. Domenico da Peccioli lo chiama vir excellentiae magnae. Fu lettore nel nostro convento, e morì in S. Maria Novella di Firenze nel 1559, secondochè ebbi luogo di avvisare nelle mie Annotazioni alla Cronaca istessa ( Arch. Stor. Ital. VI. P. II, 461). (2) È questi il famigerato scrittore dello Specchio di Croce, il volgarizzatore delle Vite deì Santi Padri, infine uno de’ più chiarì scrittori della nostra favella. Ne ho detto a lungo nelle mie Annotazioni alla Cronaca dì S. Caterina (Arch. Stor. Ital. VI. P. II, 508—514). (5) Ciascuno intende come qui sia parola di uno dei maggiori uomini di que- | sto tempo, qual fu senza dubbio l’autore degli Ammaestramenti degli Antichi ec. Anche di esso ho scritto nelle Annotazioni alla Cronaca di S. Caterina ( Arch. Stor. Ital. VI. P. II, 521529). (4) Di questo religioso tacque affatto F. Domenico da Peccioli nella Cronaca di S. Caterina. Ne ho trovato menzione in due carte dello Scrittojo del Seminario sotto i NN. 74 e 91, l'una del 1526, l’altra del 1534. (5) Era procuratore delle Monache di S. Croce nel 28 seltembre 1538, come si ha da una carta dello Scriltojo del Seminario di'N.° 96. (6) È questi quel celebre F. Ranieri Giordani da Rivalto, che i più dicono F. Ranieri da Rivalto, autore della Panteologia, confuso malamente dal Muratori (secondochè io ho pienamente dimostrato) con F. Ranieri Granci, autore del poema De Proeliis Thusciae. Vedansi le cose che io stesso ne discorreva nell'Archivio Storico Italiano VI. P. II, 545—546. i 548 BONAINI Fratrum Minorum libras duas denariorum pisanorum, Et dico et volo quod omnibus el singulis suprascriptis preferantur et quam citius eis solvantur predicla Domna Johanna uxor mea et conventus et ecclesia et Fratres Predicatores predicli in predictis qui in nullo defalcentur. Et dico et volo quod quilibet cujus interest ex hoc testamento vel interesse polerit sua et judiciali auctoritale ingrediatur possessionem et tenere bonorum meorum pro eo quod sibi et ad eum pertinet et expeclat vel pertinere | posset et inde sibi salisfaciat omni sollempnitate remota. Et obligo inde me et meos heredes et bona mea omnia pro predictis omnibus et sin- gulis predictis omnibus et tibi Alexandro Notario tamquam persone pu- blice pro. eis recipienti. Et dico et volo et mando quod si dicti Nerius et Lemmus et Frater Albisus eorum pater et filij dicli Domini Rainerij Jannis vel aliquis eorum per se vel per alios vel habens jura ab eis vel contra eos in judicio vel extra de jure vel de facto imbrigarent aut turbarent supra- scriptam Domnam Johannam uxorem meam in aliquo aut meos fideicommis- sarios infraseriptos vel meos heredes vel aliquem eorum aut aliquid dice- rent vel opponerent contra hoc meum testamentum in aliquo de quo stetur dicto simplici dicte Domne Johanne uxoris mee et meorum fideicommis- sariorum et cuiusque eorum quod ipso facto priventur omni meo judicio et omni jure quod sibi competere posset ex hoc meo testamento vel alia causa in bonis meis. Inmo mando et volo quod antequam ipsi aliquid habeant de predictis aut de bonis meis faciant generalem finem et refutalionem meis fideicommissariis quia quicquid eis judicavi supra judicavi pro omni et toto eo quod petere possent super bonis et in bonis meis jure hereditatis vel alio } modo. Et si contra dictam Domnam Johannam uxorem meam aut contra hoe meum testamentum vel meos heredes in aliquo per eos vel aliquem eorum vel habentem jus vel causam ab eis vel aliquo eorum aut contra eos ‘vel aliquem eorum de jure vel de facto fieret eos ut supra dixi privo omni meo judicio et omnibus suprascriptis et redeat quicquid eis supra judicavi ad meos infrascriptos heredes. In omnibus aliis meis bonis mihi heredem instituo Operam ecclesie Sancte Marie Majoris ecelesie Pisane Civitatis: cum hoc honere et sub hac condiclione quod operarius dicte opere qui pro tempore fuerit vel alia persona pro dicta opera infra duos annos tune proxime venturos a die mei obilus computandos teneatur et debeat predi- cta mea judicia et legata dare erogare et expedire ut supra dictum est quam citius incipiendo et continuando solutiones eorum fiendas tamen per fideicommissarios meos et cliam teneatur et debeat dare Domne Ysabel- | MEMORIE INEDITE DI DISEGNO 649 le Guillelmi mihi servienti commoranti nunc in domo mee habitationis victum suum scilicet staria sex grani et bariles sex vini et libras decem denariorum pisanorum et carrectas duas lighorum a comburendo singulo anno donec ipsa vixerit quia multum et fideliter mihi servivit in infirmi- tatibus meis et hec sibi judico et sibi dari volo de bonis meis sine aliqua defalcalione. Et si hec omnia et singula dictus operarius vel alius pro dicta opera sie non fecerit et non observaverit ut supra dictum est ipso facto dicta hereditate privelur et ipsa hereditas redeat ad operam eccle- sie sancte Mariae Pontis Novi cum condictione et honere suprascriptis. Et si unquam habuero ex dieta Domna Johanna vel alia mea uxore legipti- ma filium vel filiam aut filios vel filias talem et tales filios vel filias mihi heredem vel heredes instituo et non predictam operam Ecelesie Sancte Marie. Verumtamen si conlingeret talem vel tales filios vel filias decedere antequam pervenirent ad aetatem legiptimam vel post legiptimam etatem sine filio vel filiis aut filiabus legiptimis aut cum filio vel filia legiptima non perveniret ad etatem legiptimam quod in dictis casibus et quolibet eorum mihi et eis substituo directo et per fideicommissum et omni alio modo et jure quo melius possum heredem operam Ecelesie Sancte Marie Maioris predictam ut supra per ordinem dicitur in alia mea instilutione. Et in omni casu quo dicte Opere private essent dicta mea hereditate inslituo mihi heredes pauperes Christi de quibus videbitur ‘infrascriplis meis fideicommissariis. Horum meorum judiciorum debitorum ‘et legatorum et hujus testamenti totius meos fideicommissarios et distribu- lores et predictorum executioni mandatores relinquo et esse volo Opera- rium ecclesie Sancte Marie Majoris suprascripte qui pro tempore erit et priorem Fratruum Predicalorum qui pro tempore erit et Domnam Jo- hannam uxorem meam suprascriptam et dominum Oliverium Maschionem et Fratrem Petrum Buctari de Ordine Fratrum Minorum ita tamen quod dictus Operarius simul cum dicta Domna Johanna et non aliter omnia su- prascripta facere possit et alii etiam omnia facere possint predicta non ta- men sine ea et diclo operario qui Operarius sit fideicommissarius si serva- verit que supra dixi fienda per eum quorum fidei et legalitati hec omnia ‘suprascripta commicto quibus do cedo concedo et mando plenam bailiam et liberam potestatem bona et de bonis meis capiendi vendendi obligandi alienandi et subpignorandi pro prediclis meis judiciis et legatis dandis erogandis et expediendis et inde pretium et prelia recipiendi et dandi et omnia alia et singula faciendi que fideicommissarij generales officio fidei- 1550 BONAINI commissarie facere possunt. Et dico et volo quod lapsu anni vel ex aliqua negligentia vel causa a dicta fideicommissaria aliquis non removeatur non obstante decretali vel alio in contrarium dicente quia multum confido de eis nec aliquis substitui possit loco alicuius eorum ex dieta de causa quia per eos ut supra omnimode volo predicta execulioni mandari et non per alios officiales vel personas seculares vel ecclesiasticas qui vel que contra eorum voluntatem in predictis non debeant se intromictere. Et dico et volo quod per aliud testamentum vel codicillum per me fiendum huic in aliquo non derogetur vel quod per me fieret nisi in eo esset presens et consenliens predicta Domna Johanna uxor mea et nisi esset ibi scriptum Pater Noster et Ave Maria de verbo ad verbum et nisi essent ibi pre- sentes sex Fralres Predicatores et sex Fratres Minores et si aliter fieret non teneat (1). Et dico et volo quod si hoc meum presens testamentum de jure testamenti non valeret vi saltem Codicillorum et Pisani Constitu- ti (2) et omni alio jure et modo quibus melius valere potest valeat et firmitatem obtineat quia sic volo et mihi placet et hec est mea ultima voluntas. Aclum Pisis in domo habitationis suprascripti domini Albisi testatoris posita in Cappella saneti Clementis presente et consentiente su- prascripta Domna Johanna uxore dicti domini Albisi et presentibus Fra- tre Nicolao de Sancto Angelo de Ordine Fratrum Minorum filio condam Marini et Marcuccio Linario condam Beclini de Cappella sancti Luce et Andrea Cionis Farseptario de Cappella Sancli Pauli ad Ortum (5) et Hen- rico condam Pilosi de Cappella Sancti Laurentij Kinthice et Petro condam (1) Anche Francesco del fu Bacciomeo Griffi fece una molto simile dichiara- zione nel suo testamento del 16 luglio 1375 comune, che vedesi in originale al N.° 1174 dell’Archivio Roncioni. Dichiarò infatti che l’atto che egli faceva non potesse annullarsi neppure per un susseguente testamento « Nisi în eo scripti essent testes solummodo Fratres Predicatores vel nisi in co scriptum esset Gloria in excelsis Deo vel hec verba La gloria di colui che tutto move per l'universo pene- ; tra e risplende in una parte pio e meno altrove ». (2) Parlasi qui del Constitutum Legis et Usus Pisanae Civitatis, di cui, dopo il Varsecni, ha scritto assai largamente il Raumen negli Atti dell’Accademia delle Scienze di Berlino dell'anno 1827. Classe Storico-Filologica, p. 189 seg. (3) Fu in questa parrocchia che dimorò Francesco da Buti, espositore di Dante. wp MEMORIE INEDITE DI DISEGNO 551 Nerij de Cappella Sancti Clementis testibus ad hec rogatis et vocalis. Do- minice Incarnationis anno millesimo trecentesimo trigesimo sexto indictione quarta octavo kalendas februarij (1). Ego Alexander filius condam Bartolomei Septemasse notarii de Vec- chiano civis pisanus imperiali auctoritate Judex ordinarius ac Notarius prediclis omnibus interfui et ea rogatus scripsi et in hanc publicam for- mam redegi. II. P Francesco Trainiî riceve dall’operajo del Duomo Giovanni Coco diciotto lire e dodici soldi, parte di prezzo del quadro (di S. Domenico) della chiesa di S. Caterina di Pisa. 1544. 24 Aprile. (Archivio dell'Opera della Primaziale di Pisa. — Libro d' Entrata e Uscita N.° 18. ce. 1, 129). MCCCXLIIII. Al nome di dio et de la sua madre vergine madona santa maria e di tutti li suoi santi et sante. Questo è libro di trata e di scita delopra santa maria magiore in del tempo di me ser Johanni chocho operajo dela ditta opera per lo terzo anno che si comincia a di 1 dogosto anno MCCCXLIMI soprascritto e finisce a di due dogosto MCCCXLV. MCCCXLY. Francesco dipintore condam traino ebe a di xxmi daprile per dipin- tura una taula la quale alautare di messere Albiso dele statee dela soma di idiEx? chene de auere . . +... ....0. +. 0 lib. xvir.s. XIL (1) Qui succede un codicillo, che fu tralasciato perchè privo d'interesse storico, 2 BONAINI HI. Pagamento di sessantasette lire ed otto soldi fatto al Traini per la suddetta tavola di S. Domenico. 1345. 15 Gennajo. (Archivio dell'Opera della Primaziale di Pisa. — Libro d'Entrata e Uscita N.° 20. cc. 76, 86). MCCCXLY. Francesco dipintore ebe a di xv di genaio ano soprascritto per di- pintura una tagola grande a uno altare ehe Jlasoe messer Albiso a Santa Chatalina 0 ARTE OSE SI ISS IV. Tomeo pittore riscuote la mercede di un S. Cristofano dipinto nel Duomo di Pisa. 1545. 50 Aprile. (Archivio dell'Opera della Primaziale di Pisa. — Libro d’Entrata e Uscita N° 20. c. 155). MCCCXLVI. Tomeo dipintore condam Betto de cappella Sancti Jacopi deli spe- ronai ebe adi xxx daprile anno soprascritto per dipintura una magine di sancto cristofano in duomo ala porta reale dentro ... lib. xxxVII. s. VIN 4 MEMORIE INEDITE DI DISEGNO 505 \a Fra Stefano converso domenicano è rimborsato di ciò che spese per una tenda di seta per la tavola del Traini. A ” 1545. 8 Luglio. (Archivio dell'Opera della Primaziale di Pisa. — Libro d’ Entrata e Uscita N.° 20. c. 86). MCCCXLVI. Fra Stefano Converso delo ordine Predicatori ebe a di vj di luglo per fare uno palio di setta dinassi alautare et ala taula che de in sue lau- tare di messer Albiso dele Statee in Santa Chalalina . . . lib. m. s.. IL VI. Spese fatte dall’ operajo Giovanni Coco per il marmo della statua della Vergine, da porsi sulla porta reale del Duomo di Pisa. 1545. 27 Luglio. Mr (Archivio dell'Opera della Primaziale di Pisa. — Libro d’ Entrata e Uscita i N.° 20. c. 86 1°) MCCCXLVI. CI Bertuccio condam ugolino da Charara ebe a di xxVII lugro per pre- io di marmo per fare la nostra -donna sopra la porta reale dela. soma ipani:et:8, xejiger-seziontina Sasedg cotti ii boo EVI sta. «E arecatura lo soprascritto marmo dala Legazia a casa del’opra a flccio: di\Lando:da Limiti: «iL ai can) sirena et sob SI HIL 70 554 BONAINI VI».2.° Gli Anziani del popolo di Pisa deliberano che i tre orefici Coscio del fu Gaddo, Nino del già maestro Andrea da Pontedera e Simone detto Baschiera prestino cauzione per cinquantuna libbra e tre once d’ ar- gento, che hanno ricevuto per fare una tavola con figure da porsi al- l’altare del Duomo; e deliberano al tempo stesso che questi orafi sì deb- bano obbligare a dar compiuto il laroro entro lo spazio di otto mesi. 1358. 15 Maggio. (Archivio Capitolare della Primaziale di Pisa. Filza E, p. 56). » MCCCLVIIII, Octavo decimo Kalendas Iunii. XI. Indictione. A Providerunt domini Antiani pisani populi partitu facto inter eos ad denarios albos et giallos secundum formam brevis pisani populi et provi- dendo commisserunt ) Ser Rozello de Aritio vicario ete. Quatenus viribus sui officij et 3 presentis commissionis ad petiltionem et instantiam Domini Bonaiuncte Ma- 4 = scarj operarj opere Sancte Marie Majoris ecclesie pisane civitatis cogat et cogere possit et debeat Coscium quondam Gaddi aurificem de cappella sancli felicis et Ninum quondam magistri Andree de pontehere aurificem | de capella sancli Laurentii de Rivolta et simonem dictum baschiera auri- _ ficem de capella sancte Cecilie pisanos cives quibus ipse operarius dedit et consignavit libbras quinquagintaunam et uncias tres argenti ad pondus per cartam rogatam a francischo verij de vico notario et scriba publico. dicte opere de mense Martij proxime preteriti pro faciendo una cum alio argento quod Canonici pisani capituli dare et expendere offerebant quan- dam tabulam argenteam cum figuris schullis tenendam certis temporibus super altari majoris ecclesie nullo termino assignato dictis aurificibus de infra quem dictam tabulam debeant perfecisse realiter et personaliter vi- delicet quemlibet ipsorum aurificum per se ad dandum et prestandum | dicto domino Bonaiunete Operario pro dicta Opera recipienti ydoneam cau- MEMORIE INEDITE DI DISEGNO 505 sionem et securitatem de conservando predictum argentum pro dicta ope- ra. Et si dictam tabulam infra terminum octo mensium proxime venturo- rum dictis aurificibus assignandum a dieto domino Bonaiuncta operario infra quem promictant dictam tabulam perfecisse totaliler et perfecte non perfe- cerint laudabiliter et complete dicti aurifices dictum argentum totum in lega argenti sufficientis boni et puri elapso termino suprascripto inconti- nenti ipsi domino Bonaiuncte operario dicto nomine recipienti debeant resli- tuere et consignare. Et predicta faciant et facere teneantur cartis publicis intervenientibus in laudem convenientis sapientis dicti operarij cum pro- missionibus et obligationibus et penalibus stipulationibus et opportunis qui- buslibet roboratis que de jure bene valeant et teneant. Et quod terminus dictorum octo mensium prorogari non possit. VI. Gli Anziani del popolo di Pisa dichiarano che coi beni confiscati del depo- sto Doge Giovanni dell’Agnello debbano pagarsi ad Andrea figliuolo ed erede di Nino venti fiorini d’oro, dei quali il di lui padre rimaneva creditore del predetto Doge per averne scolpito il sepolero in S. Fran- cesco; e deliberano al tempo stesso che con tali beni debba esser sodi- sfatto Tommaso, fratello di Nino medesimo, non solo pel disegno del palazzo che il Dell’Agnello imprese a fabbricare, quanto per quello del sepolcro della di lui consorte. 13568. 5 Dicembre. (Archivio della Comunità di Pisa. — Provvisioni degli Anziani N.° 1145). MCCCLXVIIII. Nonas Decembris septime Indictionis. Prouiderunt dominj Antianj pisani populi Imperiales vicarij (1) etc. parlitu facto inter eos ad denarios albos et giallos secundum formam breuis pisani populi (1) V. il privilegio di Carlo IV del 9 marzo 1355, riferito, dopo il LonIG, nel DaL Borgo Diplomi pp. 51—-55. 556 BONAINI Quod Thomasus filius olim magistri. habeant et habere pos- sint et debeant de bo- nis domini Johannis Andree de pontehere et Andreas filius condam et heres Nini condam suprascripti magistri Andree de Agnello olim ducis pisarum venditis uel vendendis in una parte flore- nos viginti aurj quos diclus Ninus olim pater dicti Andree recipere habe- bat et sibi restitit solui a dicto domino Johanne de summa pretij magiste- rij sepulerj marmorej ipsius dominj Johannis scultj et fabricati per ipsum Ninum ad petitionem dicti dominj Johannis apud ecclesiam saneti francisci | juxta portam qua itur in primum claustrum diete ecclesie. Et in alia parte florenos triginta aurj suprascripto Thomaso debitos a suprascripto domino Johanne pro designatura certorum designamentorum sepulerj marmorei quod dictus dominus Johannes fierj volebat in pisana maiori ecclesia in loco in quo domina Macthea olim eius vxor sepulta est. Et quorumdam aliorum designamentorum palati] quod idem dominus Johannes volebat sibi construj debere in loco ubi domus erant quas destruj fecit. Et pro desi- gnatione cuiusdam sedis more tronj Regij quam idem dominus Johannes volebat fierj de marmore politissimo in coro Maioris Ecclesie In qua resi- deret in apparatu ducali. Et pro faclura Cimerij ipsius dominj Johannis de gesso. Et pro piclura coloratura et ornatura ipsius cimerij. Et quod lauren- tius Bindacchj et opisus falconis ciues pisani officiales Electj a comunj pisano super faciendo deuenire in comune pisanum bona prefati dominj. Johan- nis (1) vel eorum successores possint teneantur et debeant per se vel alios dare et soluere uel dari et solui facere suprascriptis Thomaso.et Andree vel dicto Thomaso recipienti pro se et dicto Andrea eius nepote supra-. scriptos florenos quinquaginta aurj debitos eis occasionibus suprascriptis. Et quod exactor suprascriptorum officialium uel eius successor de pecunia suprascripta ab eo habita vel habenda de bonis dictj dominj Johannis ven- ditis uel vendendis possit teneatur et debeat dare et soluere suprascriptis Thomaso et Andree uel suprascripto Thomaso recipientj pro se et dicto Andrea suprascriptos florenos quinquaginta aurj in auro absque solutione (1) Altri cinque cittadini vennero eletti, secondo RANIERI SARDO, a questo ufficio, e furono Ser Guido Sardo, Piero dal Colle, Piero Malpiglio, Oddo Zoppo e Colo Gatto, ai quali fa dato per notaro Jacopo di Messer Chello. — Cronaca Pisana (Arch. Stor. Ital, VI. P. II, 165). MEMORIE INEDITE DI DISEGNO 557 cabelle. Et quod notarius ipsorum officialiùm possit et sibi liceat inde facere quaslibet scripturas utiles et opportunas virtute presentis provisionis nullo obstante. VIII. — Pietro Gambacorti ottiene dagli Anziani del popolo di Pisa di poter to- | gliere dai fondamenti del palazzo, che prese a fabbricare il deposto Doge Giovanni dell’ Agnello, le pietre ed i mattoni che fossero necessarj per altre opere da eseguirsi da esso nella città. 1369. 5 Aprile! ( Archivio della Comunità di Pisa. — Provvisioni degli Anziani N.° 1142). MCCCLXX. Terlio nonas Aprelis seplime Indictionis. Prouiderunt dominj Antianj pisani populi Imperiales Vicari) etc. par- lilu facto inter eos ad denarios albos et giallos secundum formam breuis |. pisani populj Et prouidendo statuerunt et ordinauerunt 4 ‘ Quod | Dominus Petrus gambacurta miles olim ser Andree gambacurte ha- heat et habere possit et debeat pro emenda et restauralione lapidum et tegularum domorum ipsius domini Petri habitalionis captorum per dominum Johannem de agnello olim ducem pisarum et operatorum et immissorum in — laboreriis pisani comunis Omnes lapides et tegulas existentes in fundamen- lis nouj palati} impositi pro hedificando et construendo per suprascriptum dominum Johannem in Cappella sanctj sebastianj de fabricis maioribus Et circum circa ipsum fundamentum Et super terreno ipsius Palatij Japidibus et tegulis muri murati ad siccum existentis super ipso tirreno secus viam publicam iuxta fundamenta predicta dumtaxat: Qui murus destrui uel inde eleuari non possit vel debeat per dominum Petrum predictum nec intelli- gatur uenire comprehendi vel concedi eidem domino Petro in presenti Con- cessione In subsidium laboreriorum ipsius dominj Petrj fiendorum et con- struendorum per eum in Civitate pisana. Ila videlicet quod dictus dominus Petrus leneatur et debeat eius sumptibus facere funditus destrui et elevari 558 BONAINI fundamenta palati) supraseripli facta per dominum Johannem predictum et ibi et in eo loco ubi dicta fundamenta nunc sunt faciat repleri de terra antequam dictos lapides et tegulas inde faciat exportari et eleuari Et. non aliter uel alio modo vigore presentis promissionis contrarietate aliqua non obstante. IX. Inventarj degli argenti e di altre cose preziose della Chiesa Primaziale Pisana. 1369. Giugno 1371, 1374—1378. (Archivio Capitolare della Primaziale di Pisa. Filza Q). Hoc est Inventarium omnium bonorum et rerum que sunt in ecclesia pisana et in eius sacristia (1) consignatarum et traditarum et dimissarum per Presbiterum Johannem de Gello olim sacristanum dicte ecclesie presbite- ris Francisco Matosi et Thomasio del Fico sacristanis dicte ecclesie de anno domini M. ccclxx. de mense Junii quo tempore fuerunt in ipsa ecclesia residentes infrascripti Videlicet Domini Raynerius Archipresbiter Oddo de | Gualandis Franciscus Lante Johannes de barba Michael de Vico (2) Anto- nius de Scribanis Ugolinus Malpiglius et Petrus de Paniciis Canonici. i In primis quidem consignavit Francisco et Thomasio Presbiteris et sacristanis predictis et eisdem Canonicis res infrascriptas Videlicet Textus duos evangeliorum cubertatos argento cum figuris relevatis sculplis diversis ymaginibus. Pistolares duos cubertatos argento cum figuris relevatis. i. Caliceem unum de argento smaltato et patenam smaltatam de ar- gento qui sunt ponderis unciarum quinquaginta quatuor. i. Calicem unum de argento cum patena smaltatos qui fuerunt (1),Si tralascia tutto quello che non appartiene all’ Oreficeria. (2) L’autore della Cronaca Pisana, pubblicata prima dall’UcneLLi poi dal Morartori. Di questo lavoro, e di Michele da Vico istesso scrissi già nell’ Archivio Storico Italiano VI. P. Il, pp. x, XVII, XVIII. MEMORIE INEDITE DI DISEGNO 559 Archiepiscopi Dini ponderis unciarum quadraginta septem. Non est habet Bartalomeus Gaytanelli pignori. iij. Calicem unum de argento smaltato cum pathena smaltata ponde- ris unciarum triginta quinque et unius quarte. Non est quia Dominus Archiepiscopus habet. iv. Galicem unum de argento cum malo smaltato et super pedestallo habens sex smaltus figuratos in sanctis cum patena cum una manu de- signata ponderis unciarum triginta duarum qui fuit Archiepiscopi Dini. Datum Nicholao. v. Calicem unum de argento aurato et smaltatum in mallo et pe- destallo cum patena ponderis unciarum viginti quinque et medie uncie. Habuit ut supra. vj. Calicem unum de argento deaurato sine smaltis antiquum cum patena ponderis unciarum viginti duarum et trium quartarum. Haduît ut supra. ‘vij. Calicem unum de argento cum malo smaltato cum patena tradito per Magistrum Ligium ad altare sancti Gregorij cum sex smaltis in malo figuratis cum Virgine Maria et filio in collo ponderis unciarum novem cum dimidia. Habuit ut supra. ù vii}. Caliceem unum de argento deaurato cum malo smaltato cum patena ponderis unciarum viginti. Habuit ut supra. vili). Calicem unum de argento aurato cum malo smaltato cum pa- lena ponderis unciarum viginti et trium quartarum. Haduit ut supra. x. Calicem unum de argento deaurato cum smaltis in malo cum ‘patena ponderis unciarum sexdecim et quartarum trium et dimidiam. Ha- buit ut supra. x]. Calicem unum de argento cum mallo smaltato cum patena pon- deris unciarum quatuordecim et quartarum trium in quo malo sculta sunt arma domus Benignorum et Seccamerende (1). Habet ut supra. xij. Calicem unum de argento aurato cum malo smaltato et armis listatis albis et azureis cum patena ponderis unciarum undecim et quartarum trium et dimidie. Habet ut supra. (1) I Benigni vennero da Vico. Carlo IV (reduce da S. Miniato) nel set- tembre del 1568 albergò nella casa che avevano in questo castello. Così leggiamo presso RANIERI Sarpo, dal quale si può apprendere alcuna cosa ancora dei Secca- l merenda. Cronaca Pisana cap. 144, 156. (Arch. Stor. Ital. VI, P. II, 164. 172). 560 BONAINI j xiij. Calicem unum de argento aurato sine smaltis cum patena pon- deris unciarum decem et unius quarte. HMadet ut supra. xiiij, Calicem unum de argento deaurato sine smaltis cum patena ponderis unciarum undecim et quartarum trium. Habet ut supra. xv. Calicem unum de argento aurato sine smallis. cum patena pon- deris unciarum decem et duarum quartarum. Habet ut supra, xyj. Calicem unum de argento aurato cum pedestallo de rame cum malo smaltato et cum armis Lapucci feneratoris in pedestallo ponderis. unciarum decem et octo. xvij. Calicem unum de argento deaurato cum malo smaltato cum armis Lanfrancorum cum patena ponderis unciarum qualuordecim et dena- riorum trium. Habet ut supra. xviij. Calicem unum de argento deaurato cum malo smaltato cum armis Murciorum (1) ponderis unciarum novem unius quarte et dimidium. olii i co Habet ut supra. xviiij. Calicem unum de argento aurato cum malo smaltato cum pa- tena ponderis unciarum novem et trium quartarum. Habuît ut supra. xx. Calicem unum de argento aurato cum malo smaltato cum pate- na ponderis unciarum decem et duarum quartarum. Habuit ut supra. xxj. Calicem unum de argento aurato-cum malo smaltato cum pate- PINZA o RR na ponderis unciarum decem et medie quarte. xxij. Calicem unum de argento aurato cum malo smaltato cum pa- tena qui est allaris Mangiamacchi ponderis unciarum septem et medie | quarte, Haduit ut supra. i xxiij}. Calicem unum de argento aurato sine smaltis cum patena pon- deris unciarum tredecim et unius quarte et dimidie. Haduît ut supra. xxili). Calicem unum de argento aurato cum malo smaltato cum + patena ponderis unciarum novem et quarte unius. Haduit ut supra. xxv. Calicem unum smaltatum in pedestallo et in malo et. patena cum armis Coli Galletti (2) unciarum viginti duarum unius quarte et dena- riorum trium. Est apud Fratres sancti Francisci . (1) Di questa famiglia di ricchi mercanti leggonsi assai notizie, e non vol-. gari, nelle mie Annotazioni alla Cronaca di S. Caterina (Arch, Stor. Ital. VI. P. II, 449, 450). (2) Quando Lucca era sotto il dominio di Pisa egli fu vicario e rettore di quella città: lo che avvenne negli anni 1358 e 1559. Nel 1569 vi fece ritorno MEMORIE INEDITE DI DISEGNO 561 xxvj. Calicem unum smaltatum in malo cum armis de Fauuglia (1) unciarum vigioti unius quartarum duarum et denariorum trium. xxvij. Calicem unum smaltatum in malo cum armis ad stellas un- ciarum decem novem quarte unius et dimidie. xxviij. Calicem unum smaltatum in ‘malo et patena cum armis de Beneclis unciarum decem novem quartarum trium et dimidie. Hadet su- prascriptus aurifex . xXViiij},. Calicem unum smaltatum in malo cum armis de Fornajo (2) unciarum duodecim et quartarum duarum et denariorum trium. xxx. Calicem unum smaltatum in malo unciarum quatuordecim et quartarum duarum. Habuit Nicholaus ut supra. ti i xxxj. Calicem unum smaltatum in malo cum armis unius Leonis x gialli in campo virmilio unciarum tredecim et trium quartarum. xxxij, Calicem unum smaltatum in malo cum armis illorum de Ri- pafracta (5) unciarum quatuordecim quartarum duarum denariorum trium. Habuit ut supra. xxxiij. Calicem unum smaltatum in malo unciarum novem quartarum duarum et denariorum quatuor. Habet ut supra. xxxiiij. Calicem unum smaltatum in malo cum armis Scorcialuporum unciarum undecim quartarum duarum denariorum trium. xXxxv. Calicem unum smaltatum in malo et arma in patena de Bene- ctis unciarum ‘octo quartarum trium. ambasciatore pei Pisani a Carlo IV. Caduto il Dell’Agnello, fu degli otto cittadini ì quali riformarono l’anzianalico ed elessero i nuovi anziani. RANIERI SARDO narrò — che Guido Papa aveva fatto colazione in casa del Galletti con Bartolommeo Scarso, la sera precedente alla domenica in cui uccise Bartolommeo stesso, e poi Corso suo figliuolo nella casa loro. Cronaca Pisana cap. 155. (Arch. Stor. Ital. VI. P. II,171). ì ! (1) Fu di questa casa quel Ranieri che parlamentò col Conte Lando e con Gualtieri capitano di Carlo IV nella Pieve di Vico nel 6 luglio 1359, e quell’ Ja- copo il quale era in questi tempi stessi degli anziani assistenti allo sborso di duemila fiorini, fatto al Conte Lando medesimo. RaniERI SARDO Cronaca Pisana (Arch. Stor. Ital. VI. P. II, 144, 145). (2) Di questa famiglia di popolari, a cui appartenne F. Andrea religioso Do- menicano e poscia arcivescovo di Tebe, ebbi luogo di narrare alcunchè nelle An- nolazioni alla Cronaca di S. Caterina ( Arch. Stor. Ital. VI. P. II, 584, 585). (5) Serissi di tale consorteria nell'Archivio Storico Italiano VI. P. I, x. xt. "1 562 BONAINI xxxVj. Calicem unum smaltatum per tolum cum armis Ser Michaelis de Lante (1) unciarum decemnovem quartarum duarum denariorum unum. Istum habet presbiter Jacobus de pecioli. xxxVij. Calicem unum smaltatum in malo cum armis de Caprona unciarum viginti denariorum trium. Hadet Nicholaus ut supra. xxxviij. Calicem unum novum de argento deaurato cum armis de Lafranchis qui est Altaris sancti Dommini siti in ecclesia sancti Johannis cum patena smaltata ponderis unciarum quatuordecim quartarum trium. Patena huius calicis non est smaltata. xxxXviiij. Calicem unum de argento deaurato smaltatum in malo cum uno smalto in pede cum literis que incipiunt = questo calice = ponderis unciarum tredecim et denariorum iij. Assignatum pro presbitero Johanne Grassectuli et Nicolao Sanctini. xxxx. Calicem unum deauratum cum malo smaltato et est ponderis unciarum xvj denariorum viij qui olim fuit uxoris ‘puccij fieravantis et debet esse ad usum altaris annuntiate MCCCLXX. Calicem unum de argento deaurato cum patena et cum figuris et cum arma Presbiteri Bonaiunte quod est Altaris omnium sanctorum siti in in Camposancto unciarum xx} et quarte unius. Hadet Operarius. Paria duo ampullarum de argento videlicet unum par magnarum et unum par parvarum ad usum majoris Altaris quarum parve sunt pon- deris unciarum duarum quartarum sex et denariorum vj inter ambas.. Minores ampullas habuit suprascriptus Nicholaus. Terribulem unum de argento cum smaltis in corpore inferiori pon- deris unciarum quadraginta quinque et quartarum duarum. Terribilem unum de argento deaurato pulcherrime laboratum ponde- ris librarum quinque unciarum quatuor et quartarum duarum. Non est habet Bartalomeus Gaytanelli . Terribilem unum de argento aurato smaltatum ponderis unciarum viginti ‘unius. Est apud fratres minores. Terribeilem unum de argento ponderis unciarum vigintisex et dimi- die. Immo est ponderis unciarum triginta quatuor. (1) Fu per lungo tempo cancelliere degli Anziani, perchè uomo di molto senno. RaniERI Sarpo scrive di una celebre congiura, che si ordi contro di lui e contro Bonifazio Novello della Gherardesca nel 1537. Cronaca Pisana, cap. 78. (Arch. Stor. Ital. VI. P. II, 109, 110). MEMORIE INEDITE DI DISEGNO 565 Navicellam unam de argento auratam in superiori parte cum duobus smaltis ponderis unciarum quatuordecim et trium quartarum. Navicellam unam argenteam smaltatam unciarum tredecim quarta- rum trium denariorum quatuor. Est apud fratres minores. Bacinos duos de argento cum figuris intus designatis deauratis ponde- ris unciarum quinquaginta novem. Unus istorum est apud fratres minores. Ciborium unum de argento aurato et smaltato ad portandum Corpus Christi cum pisside una de argento intus ponderis unciarum viginti et quartarum duarum. Ciborium unum de cristallo cum pedestallo de argento cum sex gemmis de vitreo super eo cum cruce de argento superius. Cellostros duos cubertatos de argento cum pomis deauratis. Cellostros duos de cristallo cum pedestallis de rami aurato. Domus de argento factam ad similitudinem ecclesie maioris libra- rum xxxviij. Non est. Campanile de argento aurato ad. similitudinem campanilis maioris ecclesie sancte marie in quo sunt de reliquiis evifisij et potiti. Ymaginem unam de argento deaurato Virginis Marie cum Jhesu filio suo in ulnis cum pisside una in manu munita de argento cum armis illo- rum de Flisco de Janua. Ciborium unum de argento cum pedestallo et pilieri de rami aurato in quo est caput Sancti Raynerii super quo ciborio est crux de argento cum Jlapidibus. Ciborium unum de argento cum pedestallo de rami aurato in quo est capud sancti Johannis Crisostomi cum cruce parva in summitate. CGapsa una lignea cum superficie de argento ex uno latere in quo tenetur brachium sancli Andree. Brachium unum cum manu de argento deauratum in quo est bra- chium sancti Andree unciarum xliiij denariorum xv. Crucem unam de cristallo fractam et ornatam de rami aurato minus uno cornu. Destructa. Crucem unam de cristallo cum manico de rami aurato et ligato de argento. Crucem unam de argento aurato cum majestate relevata et cum smaltis super qua est de ligno crucis. Crucem unam de argento aurato cum crucifixo relevato et smaltaltam et cum pomis de rami auratis. 564 BONAINI Crucem unam de argento in parte deauratam cum crucifixo et aliis ficuris ab utraque parte relevatis cum butonibus cristallinis et pomis de argento auratis. Crucifixam unum de argento deaurato relevatum supra una branca corali cum pedestallo argenti deaurali cum smaltis cum armis ser Benin- casse de Castello Castri. Deficit ibi de corallo in parte sinistra. Giborium unum factum ad modum amidole in quo est quedam Crux cum multis reliquiis cum botonibus de cristallo et tribus pomis rami aura- lis cum pedestallo de porfido viridi laborato in rami deaurato. Giboretum: unum factum in modum crucis de argento deaurato to- tum in quo est de Ligno crucis et smaltatum cum gemmis de cristallo . Crucem unam de oltone deauratam circeumdata cum botonibus quin- decim quem portavit quidam Anglicus de florentia. i Crucem unam magnam de argento deaurato cum crucifixo relevato et aliis ymaginibus relevatis ex utroque latere cum Japidibus et smaltis cum pedestallo de ligno deaurato. Vasculum unum cum manublio et copertulo et pede de argento fractum arientum etc. et vas est fractum et nullius valoris. Fuit positum in quodam smalto et ideo cassatur. ‘Ampullas tres quarum una est fracta de cristallo cum aliquibus reli- quiis intus quarum due habent copertulum et pes de argento et alia pes et maniblium de argento. Non est sana nisi una istarum alie due sunt fracte. Grugiolos de argento tres ) ad usum olei Sancti. Quorum duos ha- Grugiolos duos de otone det. Dominus* Archiepiscopus. Busolam unam de argento deaurata cum armis Domini R. (Rogerti) Archiepiscopi ad portandam hostiam altari Cupam unam de mazaro cum pedestallo de rami deaurato. Cum pedestallo de argento aurato. Panochiam unam pastoralis de rami deaurato. Smaltum unum de argento deaurato in quo est Annuntiata cum sex gemmis ponderis unciarum septem et quartarum duarum. Frixium unum ab altari maiori cum perlis gemmis et ymaginibus de argento deaurato. Smalto uno dariento dorato con gemme sei le tre biadette et laltre vermiglie smaltato con lanontiata et-con langelo con larme di Mighele dal poggio. Pastoralem unum de argento deaurato cum smaltis Pa MEMORIE: INEDITE DI DISEGNO 565 Mitram unam cum perlis smaltis et gemmis que fuit Archiepiscopi ‘Simonis (1). Astam unam ligneam ornatam argento ad ferendum crucem. Baculum unum de argento cum pomo smaltato de argento deauralo et glande sfélgliata superius ponderis librarum trium minus media quarta argenti tantum. Baculum unum de osse nigro ligatum ad postas cum rami deaurato cum pomo de rami deaurato. Coronam unam magnam de argento cum perlis et gemmis vermileis que est Annunciate. Coronam unam magnam ad ornatum Salvatoris cum petris et perlis de argento deaurato. Vendita fuit. Coronam unam de argento aurato cum petris albis giallis et azureis et vermileis, et perlis ad ornatum Incoronate. Fuit ablata Annuntiate An. Domini mecclaxtij de mense Augusti die xxiij pro qua est obligatus Pre- sbiter Henricus pro Clemente custode ut patet manu Ser Andree..... Uxsor vero Antonii alterius custodis est obligata pro dicto Antonio carta supra- scripti Andree. Coronam unam magnam ad usum Annunciate seu Incoronate cum gemmis et perlis. Deficiunt multe perle. Coronam unam magnam argenteam cum perlis et petris cum cupola in medio corone et in ipsa cupola sunt perle argentee alie vero sunt perle bone et grosse. Deficiunt perle in uno flore exccepta una. Deficiunt exmiij perle de corona suprascripîa de perlis bonis. Candelabra duo argentea magna cum malis tribus pro quolibet in- smaltata per totum cum pedestallis de rami deaurato. Coronelam unam de argento deaurato cum petris et botonibus de argento ad usum Virginis Marie que stat supra prosperam. Est nunc in sacristia. Habet Giulla in prospera. Hodie habet Pina. | Cintulam unam magnam de argento deaurato cum figuris relevatis ‘cum pietris et perlis super fecta vermilia cum fibialio de argento rotundo ‘cum petris et perlis in quo est Incoronata ponderis librarum octo et uncia- Tum quatuor. Casellam unam corporalis racchamatam cum perlis et smallis tri- (1) Simone Saltarelli fiorentino, che resse la Chiesa Pisana dal 15253 al 24 seltembre 1341, 566 BONAINI bus et gemmis. Deficiunt smaltos duo. Positi fuerunt ad unum pifiale de drappo giallo et assurro. Deficiunt smaltos et perle. Est in cappella que est ad sanctum Franciscum apud fratres minores. (Hic invenimus cassatam die iij Julij An. domini m.ceclaxj presentibus Archipresbitero Oddo Ugo- lino Petro et Michaele canonicis). Frigiolum unum de argento in quo sunt reliquie sanguinis cuiusdam sancli videlicet fratris sancti Georgi]. Habuit Dominus Michael de Vico. Anulos duos pontificales de argento deauralo cum gemmis et perlis et placchis. Deficit una ea nachis in quolibet anulo. Mitram unam cum perlis et gemmis olim Domini episcopi Massanen- sis. Est disposita pro tabula altaris majoris ecclesie. Mitram unam cum aurifigio racchamata cum figuris sanctorum. Olim Archiepiscopi Dinî. Emit episcopus Maxanensis. Tabulam unam eburneam ab altari majori cum ymaginibus. Ciborium unum de ligno deaurato quod supponitur in medio dicte ta- bule in quo est ymago beate Marie in medio duorum Angelorum de ebore. Pedestallos duos de metallo ad tenendum celostros argenteos. Fallere Victoriosissimi principis Domini Henrici Imperatoris et equi sui. Cintula una al lectera G. la quale die la moglie di Tomaso di lapo. Anella trentotto dariento inorate e parte doro. Anello .j. grande con pietra vermiglia entro e otto piccole dintorno. Cintula una smaltata per totum in qua est una aquila sculpita iuxta pendellam que est ad pondus unciarum triginta’ duarum quartarum trium data per dominam Gaitanam relictam Francisci Leuli de capella Sancti Se- bastiani pro anima Domine Antonine uxoris olim ser Nerii Buttarij que cin- tula ut dixit suprascripta domina Gaitana dicta domina Antonina donavit Annuntiate de majori ecclesia. Tradita est Corio aurifici ad vendendum. Cintula una grandis et grossa cum literis —- S.-A. — grandi smaltata et aliis smaltis inter utriusque literas cum felta etiam argentea et de sirico viridi et iuxta fibbiam habet duos spiritus smaltatos quorum unus tenet in manu vas unum cum giglotis intus et alius habet coronetam unam ante manus et faciem et in pendella est unus homo cum una simili coroneta in manu que fuit Neruccij Malcondime (1) quam dedit uxor Neruccij Mal- condimi. Habet prior Sancti Petri ad Vincula. (1) Parla di esso RANIERI Sarpo nella Cronaca Pisana, cap. 161. (Arch. Stor. Ital, VI. P. II, 174. 175). di MEMORIE INEDITE DI DISEGNO 567 Frontale unum dariento in su fregio inorato compini et vallecti. Ven- didit presbiter Joannes pro tabernaculo Corporis Christi. Cintuleta una curta que habet dr ad crocho smaltata sed non per totum et smalti sunt in capitibus unus sanctus et una sancta. Alij vero sunt lupi cervi ganes et alie bestie et feta aurata de sirico et est pon- deris unciarum decem quam dedit annuntiate domina Nece uxor Gani Scotti de Varna. Tradita est coxio aurifici ad vendendum. Cintula una cum aliquibus smaltis ad sprangas et vultus cum armis illorum de seccamerenda et etiam cum armis militum gaudencium cum fella virmilia. Tradita est corio aurifici ad vendendum. Cintuleta una ad literas — G — cum smaltis in finblia et pendella de figuris viri et mulieris et cum fetta sanguinea. Cintuleta una cum formicetis smaltata in fiblia et pendella cum fetta sanguinea quam dedit Isota pro anima Antonie filie sue. Tradita est coxio aurifici ad vendendum. ( Omnes predicte cintule eaceptis illis que sunt tra- dite Coxio fuerunt vendite per presbiterum Johannem de Gello et exceptis duabus que sunt signate superius). Res et bona tradita dicte sacristie tempore quo Presbiter Johannes de Gello et Nicholaus Sanctini fuerunt sacristani dicte ecclesie. In primis una guarnachea de camuca gialla fodrata de panno lineo giallo cum mospilis de argento triginta sex. Tunica una de velluto vermilio et nigro dimidiato cum bissantis et botonibus de argento. Tunica una panni in sirico cum foliis giallis et rubeis et avibus cum Mmospilis triginta sex argenti. Tunica una de velluto azurino cum botonibus vigintitribus de argento. Pecia duo de drapo de auro tradito per Domnum Karolum Impera- torem quando de anno domini m. ccelxvm venit ad Civitatem pisanam et sub quo intravit pro palio. Venditum fuit. Smautum unum de argento deaurato et smaltato cum Incoronata et Salvatore quod fecit fieri Johannes ghelini vinajoli ponderis unciarum de- cem septem et quartarum trium et denariorum septem. Ismautum unum ismautatum cum Virgine Maria cum Armis de Gam- bacurtis in tribus partibus ad pondus unciarum duodecim. 568 BONAINI Cintula ‘una de argento deaurato cum fetta de auro cum smaltis per totum cum armis nobilium de Mallecondimis et Guidonis Aiutamicristo (1) ponderis unciarum duodecim. Fuit ablata annunciate A. mocclaogui) de mense Augusti die 2xu]. Anuli septem de argento deaurato magni ad usum Annunciate cum diversis lapidibus grossis. Anulus unus de auro grossus cum petra granata ad diectlum usum. Anuli triginta de auro cum diversis lapidibus et perlis. Istos Rabet Cosius aurifex ad vendendos. | Alie res etc. tempore Matosi et de Fico sacristanorum etc. Undecim Anuli de auro quorum duo habent quilibet unam perlam quinque vero habent lapides smaracdinos tres vero alii habent petras gra- natas et unus alius habet petram diamantem. De inventario anni MCCCLXXI. Cintura una argentea aureata cum ismaltis ad figuras interpollatam per totum cum fecta viride et in capite cum uno angello cum spata in manu ab alio capite cum angello tenens in manu ramum olive cum cate- nella et botone in fine. Fuit tradita Nicolao aurifici pro smaltu Spiritus Sancti. Item frontalia duo de velluto nigro cum catenellis de argento. Item anuli octo cum diversis lapidibus quorum sex sunt de auro et duo de argento. Vendita per Johannem presbiterum. De anno MCCCLXXIIII ad annum MCCCLXXVIII. Smaltum unum de argento aurato et smaltato cum Apostolis et Spi- ritu Sancto de pondere unciarum duodecim. Item smaltum unum de argento deaurato et smaltatum cum Salva- tore in medio et spiritelli et duabus imaginibus ponderis unciarum sex. Item anulum unum pontificalem quod fuit domipi Cardinalis Narbo- nensis. Pasturalem unum de argento quod fuit domini Archiepiscopi pisani. Spillas tres de argento cum tribus gemmis vitreis. (1) Ranieri Sarno lo ricorda come uno dei principali fautori del Doge Dell’Agnello. Cronaca Pisana, cap. 152. (Arch. Stor. Ital. VI. P. II, 152. 153). MEMORIE INEDITE DI DISEGNO 569 Pi Il pittore Andrea da Firenze riscuote cinquecentoventinove lire e dieci soldi dall’ Operajo del Duomo di Pisa, per la pittura d’una storia di S. Ranieri . 1577. 15 Ottobre. (Arch. dell'Opera della Primaziale di Pisa. — Lib. d'Entrata e Uscita N.° 54). Magister Andreas pictor de Florenlia ad interrogationem suprascripti dominj Operarij Interrogantis pro dicta opera dixit et ‘confessus fuit In ve- ritate se habuisse et recepisse a suprascripto domino operario dante et sol- uente ut supra pro pictura storie beatj Ranerij pro residuo dicte storie secundum formam unius apodisse pacti scritte manu Egregii Militis domini Petri de Gambacurtis etc. libras quingentas viginti novem et soldos decem denariorum pisanorum de quibus se etc. Et inde eum ete. Actum in domo opere sancte marie in qua suprascriptus magister Andreas habitabat posita justa Campum Sanctum presentibus Janino Tanis magistro lapidum et Dominico Pasquini magistro lapidum testibus ad hec rogatis D. J. A. MCCCLXXVHI. Indictione prima die terliodecimo oclubris. XI. Spese fatte dall’Operajo del Duomo per l'ambasciata spedita ‘a Genova al pittore Barnaba, affinchè si conducesse a Pisa per dar termine alla storia di S. Ranieri. 1579. 2 Giugno. (Arch. dell'Opera della Primaziale di Pisa. — Libro d’Entrata e Uscita N.° 58. c. 100). MCCCLXXX. Magister Johannes pessini de luca habuit ut supra pro Itura quando ivit Januam ad deferendum quandam ambaxiatam magistro Bernabo pictori 72 570 BONAINI ut veniret ad complendum storiam Sancti Raynerii —— libras tres soldos decem denariorum pisanorum die secundo Junij. XII. Pagamento fatto dall’Operajo del Duomo di Pisa al pittore Roberto, perchè dipinse la sala ed altre parti delle torri de’ Familiati. 1580. 11 Febbrajo, 10 Marzo. (Archivio dell'Opera della Primaziale di Pisa. — Libro d’ Entrata e Uscita N.° 58. cc. 112 t.° 116 t.°). MCCCLXXX. Rubertus pictor habuit pro ut supra pro diebus decem novem qui- bus stetit ad depingendum turres dicte opere (1) ad rationem soldorum viginti per diem —— libras decem novem denariorum pisanorum die unde- cimo februarij. Item habuit ut supra pro coloribus plurium colorum pro dipingendo salam dictarum Turium et pro colla inter plures vices libras sex soldos septem denariorum pisanorum die suprascripto. Item pro expensis panis et vini dierum decem novem ad rationem soldorum duorum et denariorum sex per diem —— libras duas soldos septem denarios sex denariorum pisanorum die suprascripto. Rubertus pictor habuit ut supra pro diebus sex quibus stetit ad pingendum turres suprascriptas ad rationem soldorum viginti per diem li- bras sex die decimo martij. Et pro expensis dictorum sex dierum —— soldos sedecim denario- rum pisanorum suprascripto die. (1) I documenti mostrano che queste erano le torri dei Familiati . MEMORIE INEDITE DI DISEGNO 571 XII Spese per la statua di rame di S. Giovanni del Battistero di Pisa, compiuta da Turino di Sano orafo sanese; e pagamenti fatti aî pittori Coco, Jacopo detto il Gera, e Turino. 1395. (Archivio dell'Opera della Primaziale di Pisa. — Libro d’Entrata e Uscita dell'Opera di S. Gio. Battista del 1395 ec. pp. 21, 45). MCCCLXXXXYV. Ancho diedi a Turino di Sano da Siena per lavorare lo sancto Gio- vanni de Ramo lo quale avea fatto pricipiare Messer Domenicho i più BEER ceti pece Se arto oa e fidrini, 20. Ancho diedi a Turino dipitore pe dipigere lo trabenaculo e metere a oro lo quale istae sopra la folte di sagiovanni a questi patti fue felipo Mmalolrhostocas etica satana esa biro; 15 s0]di 16. Ancho diedi a maestro Turino di sano da siena i più vote per fare lo sancto giovanni de ramo... . ... +... +. + + fiorini 54. Ancho diedi alo soprascritto Turino i più volte. . . . fiorini 8. Ancho diedi alo soprascritto turino lo matello de la dona sua che era pegno pe fiorini sei. Ancho abo paghato pe ladoratura delo soprascrilto sagiovanni de ramo i fine aqui traoro e maistero e cholla e autre masarisie che sono istate di bizogno . +... 0... +... + + fiorini 21. soldi 55. Ancho diedi a Maestro gera dipitore e a chocho dipitore fior. 1. s. 35. Ancho diedi a cholo batteloro . . . ..... . . . . fiorini 2. Ancho diedi a cholo soprascritto fiorini tre per difare . fiorini 3. Ancho diedi a Matteo di ser Neri orafo per batere li fiorini. . soldi 9. Ancho mi fecieno sostenere li sinori asiani che io facesse chopiere lo sagiovanni de ramo e io nanavea lo modo però che lopra nonnava denari sichè li dicti asiani mi feno achattare fiorini 50 doro di questi denari 572 BONAINI inatti che li volesse achattare ne feci chiari li chalonaci e funo tuti cho- teti diene per mesi 18 di provedimento . . . . . . fiorini 7. soldi 35. ora dice Messer mighele e Messer Nicholaio chalonaci che lopra non de paghare qusto provedimento anti diciono che io lo debo paghare. io prami che no sia ragione però che no funo miei fatti anti funo delopra. XIV. Contratto per la pittura del quadro dell’altar maggiore dello Spedale di Santa Chiara di Pisa, stipulato coi pittori Giovanni del fu Piero da Napoli e Martino di Bartolommeo da Siena. 1402. 27 Aprile. (Archivio degli Spedali Riuniti di Pisa. — Atti di Ser Pupo di Puccino da Calci. N.° 415). Magistri Johannes olim pieri de Neapoli et ; È Gr Martinus olim Bartholomei de senis (1) TI in cappella sancti felicis et quilibet eorum in solidum ex cerla scientia et non per errorem uolentes ad Infrascripta teneri et obligari per sollempnem stipulationem ceperunt ad pingendum a ser tomaso olim Terij de Caleinaria suprascripto procuratore predicto (2) pro dicto hospitali tabulam unam ab altari maiori sito in ecclesia sancte clare ad figuras sanctorum et sancta- rum Scilicet Cum virgine Maria tenente filium in brachio in medio et iuxta eam Cum sancto Augustino et sancto Johanne baptista ex parte una et ab alia parte cum sancto Johanne euangelista et sancta clara. a supra (?) uero (1) L’otlimo mio amico Carlo Milanesi, il quale divise meco l’opinione che Martino nascesse di maestro Bartolommeo Bolgarini, nel momento in cui questo documento trovasi sotto torchio (17 agosto 1846) mi avvisa essersi scoperte pur ora in Siena memorie autentiche, le quali mostrano che Martino nacque di un maestro Bia8io che appartenne ai Riformatori, non ai MNoveschi come il Bolgarini, Di questa notizia gli eruditi sappiano grado al dotto sig. Gaetano Milanesi. (2) È ricordato in alcuni atti precedenti. MEMORIE INEDITE DI DISEGNO 575 tabula cum Trinitate in medio ab una uero parte iuxta epsam cum virgine maria ab alia uero iuxta eam cum Angelo. a parte uero Infima in basa apostolos duodecim cum octo prophetis ex lateribus et cum duobus sera- phin in circulis existentibus in ea et dictas figuras et tabulam aureare colorare auro et coloribus finis. Et per sollempnem stipulationem suprascripli magistri Johannes et Martinus promiserunt et conuenerunt suprascriptam tabulam pingere ad suprascriptas figuras omnibus eorum et cuiusque eorum. expensis tam de auro quam coloribus et alijs omnibus spectantibus ad predicta a kallendis Mai) proxime uenturi ad octo menses proxime se- cuturos Cum hoc pacto et condictione habitis inter eos quod suprascriptus magistr Johannes sua propria manu teneatur facere figuras magnas et paruas dicte tabule alia uero laboreria ipsius inter se ipsos facere possint prout eis uidebitur et melius placebit pro Infrascripto pretio. Quam promissionem con- uenerunt habere firmam etc. Alioquin penam dupli infrascripti pretij ete. Et omnes expensas etc. Obligando ete. Renuntiando etc. Quare suprascriptus Tomasus dicto nomine sollempni stipulalione promisit et conuenit suprascrip- tis pictoribus et cuilibet eorum dare et soluere pro pictura dicte tabule flo- renos nonagintaquinque aurj bonj et Justj ponderis soluendo in tribus pagis videlicet primam pagam scilicet florenorum quindecim in principio laborerii secundam uero pagam quando est dicta tabula in statu siue opere aurean- di tertiam uero pagam quando dicta tabula est completa et posita super altari dum modo quod sint ad ponendum et ad Juuandum ponj in suo statu super altari sumptibus tamen hospitalis. Et in casu quo dicti pictores vel aliquis eorum in aliquo predictorum deficerent quod dictus ser Tomasus nomine suprascripto non tenealur in aliquo ultra uelle suum sine briga etc. Alioquin penam etc. Obligando etc. inde se dicto nomine et bona dicti ho- Spital et dictum hospitale etc. Renuntiando ompj Juri Canonico et Ciui- lj etc. Actum pisis in hospitali nouo presentibus Stefano olim Johannis de cappella sancte Marie maioris et Christoforo olim Leonardj calsulario de cappella sancti fredianj testibus ad hec uocatis et rogalis suprascriptis anno (D. J. A. MCCCCII) et Indictione (X.*) die xxvK aprilis. 574 BONAINI XV. I pittori anzidetti riscuotono la prima rata del prezzo fissato per il quadro dello Spedale di S. Chiara. 1402. 5 Maggio. (Archivio degli Spedali Riuniti di Pisa. — Atti di Ser Pupo di Puccino da Calci. N.° 415). Magistri Johannes di PRE, n i Ì pictores suprascripti et quilibet eorum coram et Martinus me Pupo notario et testibus infrascriptis habuerunt et receperunt a domino Antonio de federicis egregio legum doctore magistro et rectore hospitalis predicti pro prima paga piture suprascripte tabule ut in suprascripta carta proxima continetur florenos quindecim auri puri et iusti ponderis de qui- bus vocaverunt se bene quietos ete. Et inde dictum dominum Antonium et hospitale predictum pro dicta prima paga absolverunt et liberaverunt in totum Et suprascriptam cartam promissionis et obligalionis quantum in dicta summa cassam vocaverunt ete. Et taliter me Pupum notarium ete. Actum in suprascripto loco presentibus ser Guaspario filio Johannis Massuferi de cappella sancti Leonardi in Pratuscello et ser Antonio notario filio magistri Pauli Poverini de cappella sancte Margarite testibus ad hec vocatis et rogatis suprascriptis anno (D. J. A. MCCCCHI) et Indictione (X.*) die quinto may. XVI. Il Sindaco dello Spedale riceve saldo da’ due ricordati pittori della seconda rata che dovevasi loro pagare per il quadro dell’altare di S. Chiara. 1402. 25 Agosto. (Archivio degli Spedali Riuniti di Pisa. — Atti di Ser Pupo di Puccino da Calci. N.° 415). Magister Johannes olim Pieri de Neapoli et ; : - È a ictores suprascripli Magister Martinus olim Bartholomei de Senis P P P MEMORIE INEDITE DI DISEGNO 575 et quilibet eorum coram me Pupo notario et testibus infraseriptis habue runt et receperunt a fratre Tomaso olim Terij de Calcinaria sindico et pro- curatore dicti hospitali dante et solvente pro dicto hospitali et nomine et vice dicti hospitalis de pecunia dicti hospitalis pro parte secunde page pi- cture tabule suprascriple ut in suprascripta carta conventionis continetur florenos triginta in moneta pisana de quibus etc. Et inde se etc. et hospi- tale predictum et bona dicti hospitalis pro dicta parte et summa suprascripta absolvit et liberavit sive absolverunt et liberaverunt Et taliter me Pu- pum etc. Actum in cancellaria dicti hospitalis presentibus Stefano olim Jo- hannis de cappella sancte Marie Maioris factore dicti hospitalis et Antonio Fieravante de cappella sancte Eufraxie testibus ad hec vocalis et rogatis suprascriptis anno (D. J. A. MCCCCHI) et Indictione (X.°) die vigesimo- quinto Augusti. XVII. Pagamenti fatti aì rammentati pittori Giovanni di Piero da Napoli e Mar- tino di Bartolommeo da Siena, per varie opere e spese che fecero per lo Spedale di S. Chiara di Pisa. , 1402—1404. (Arch. degli Spedali Riuniti di Pisa.— Lib. di Creditori e Debitori N.° 1053. c. 107). Magister Johannes olim Pieri de Nea- poli dehavere per una tavola che luy depinge come appare al libro di Creditore anno 1402. MRO ear OD tf Le SOLA VI E de havere die Martlii 1405. per una figura grande di tela la quale ebbe mona Francescha cioè per depintura . . . . .f. V S. XXXV E de havere die Aprilis 1404. per innoratura di uno payo di candileri che fé MRENINO e le LR nf v E de havere die Januarii 1405. per ponivi su latremintina de miei due fenestre eenioscancellaria. (0 0. i af S, XXXV 3576 BONAINI E de havere die —Novembris 1405. per depintura et p..... zatura di quattro fe- nestre per la camera mia et laltre due di presso . Javel sia Et de havere Marlino die —Augusti 1405. per xxx figure araxone di s. xv luna montano;;nsa anftazga de ntoma esile ye Silisiga Et de havere Johanni die Augusti 1405. per dipintura del muro e altre cose quando si mise la tavola Somma f. CxVI s. XXX Ane havuto come appare in lo ditto libro di Creditore Anno 1402 . Ane havuto da f. Thomaxo Martino suo compagnio die n Aprilis 1404. . Ane havuto da Mattheo et Martino compagnio del soprascritto Maestro Johanni die x Aprilis 1404. lib. x ». Ane havuto Aprilis 1404. da fra Jo- hanne da Buiti in contanti per mona France- scha . SI TRITTO NEO COMI LIGIILO Ane havuto die xxv Novembris 1405. da fra Nicolao in contanti 3 Ane havuto die xvm Junîi 1405. hi Matheo Martino soprascritto Ane havuto die xvm) Julii 1405. da MalheoiMartino-ge» . +. . INA 0 | < | Capri Pietro. IMustrazione di una Carta Longobarda dell’anno pecrxrt. Lettera al Marchese Gino Capponi . VI. La nostra prova ha dre pe tutto Besso “delle 91 590 Carmignani Giovanni. Cenni di una monografia de’ De- litti, e della sua applicazione pratica alla legi- slazione ed alla giurisprudenza penale . . . . pag. 105 Corsi Giuseppe. Le Glosse latine di Luttazio Placido Grammatico, accresciule ed în parte emendate per un nuovo Codice del secolo xIV . . . . . » 149 Capri Pietro. Sulla Storia (Vol. VI) del Diritto pete I nel medio evo, di F. C. de’ Savigny . . ... + » 175 MontANELLI Giuseppe. Ragionamento intorno alle Società COMMERCIALE ITER II CENTOFANTI Silvestro. Una formola logica della Filosofia MSI street Rae earn, 13 DET I. Qual debba essere la nostra formola. . . ..... » ivi II. Posizione della formola . . . . +... +... » 260 . Del fatto e della possibilità . . . ... +++ » 261 IV. Giustificazione critica della formola . ò V. Per quali gradi dall’ idea puramente empirica sì ascenda fino all’ idea filosofca. . . . . . . . » 269 Primosgrado.» luo entote -ar RZ Secondo ‘grado ci 5 Govi, = Ceri i IZ [a i t) Io) LA) N Terzo grado se so cnicanta cngie te Mei TIRATO Quarto ed ultimo grado. . . . + . » 287 Considerazioni sul processo si il libialna De terminato . . ; muaibeito » 292 — S$. VI. Del fatto umano în se e nella storia) 30 2 1-29 Valore psicologico del fatto umano . » 299 Valorssacialo.vabai coro «4 stola) 7. Resa Valore cosmico . . +. î + + "a lolo Ordine teleologico dei tre selon del fatto umano + . » 525 Sintesi di queste nostre dottrine. . . >... . . » 346 Del fatto umano nella storia. . . . » 552 — S. VII. Forme istoriche, che son gradi fino all'idea filosofica, e alle quali tutte le altre son reducibili . . . . » 556 Prima forma istorica >. . <.<... + + + » 558 Seconda forma . . > è Le eee è et 308 Terza forma. BERO » 572 Quarta ed ultima forma. . . - . +. » 585 — S.VIN. Conclusione: e degli studi istorici nell Italia rd. »1398 591 Rosini Giovanni. Orazione per la solenne apertura degli Studj nella 1. e R. Università di Pisa il giorno xI Novembre MDcccxrtv . . ......... pag. 411 Bonaini Francesco. Memorie inedite intorno alla vita e ai dipinti di Francesco Traini, e ad altre opere di disegno dei secoli xI, xIV e xv Cap. I. Di Francesco Traini, e di una sua opera di pittura novellamente discoperta. ; ; Cap. II Di una tavola attribuita a Sic e (3a Memmi 5 Cap. II. Notizie sugli autori di una tavola dello Spedale di Pisa, che si volle attribuire a Taddeo Bartoli sanese. APPENDICE . . . S. I Della vera a, Mura] detto comunemente Pi- sano; di Nino e di Tommaso, e di certe loro opere di disegno fino a qui non ricordate ; S. Il. Dell’arte degli Orafi in Pisa; dei loro lavori e non e di un’opera di Turino di Sano orafo sanese S. II. Di una tavola Bizantina dell’undecimo secolo S. IV. Di alcuni pittori pisani contemporanei di Cimabue e di altri i quali vissero nel secolo xIV, fino a qui sconosciuti; di Giovanni di Niccola, e d’alcune opere di Roberto, d’Jacopo detto il Gera e di Andreoccio di Bartolommeo da Siena. S. V. Di una tavola di Luca di Tomè da Sio” e di DE cune pitture di Barnaba da Modena, di Cecco di Piero da Pisa e di Andrea da Firenze DOCUMENTI . » 429 » 455 » 464 » 471 » 486 pagine XXXVII N e di I QI CI U ur VI co a a ci 485 uo da i = © linee 27 28 ERRORI Alessandro e molte le produzioni Talchè concludendo di sè bello scienzati Quarantanove ripetizioni e cinque libri Tommaso Dotti nacque Bartolo dottrinale fatalmente con cui le condizioni siami permesso procedere indeffettibilmente riferite quelle ragioni Giuseppe Masselli che Conte Selvatico due quadri Margherita meta CORREZIONI Angiolo e molte produzioni Il perchè concludendo di sì bello scienziali Tredici ripetizioni e un commentario a cinque libri Tommaso Docci nacque Baldo precettivo finalmente con le cui condizioni siami permesso precedere o preludere indefettibilmente riferite a quelle ragioni Giovanni Masselli chè Marchese Selvatico tre quadri Mattea metà ANNALI DELLE UNIVERSITÀ TOSCANE ___-_ TOMO PRIMO ANNALI DELLE UNIVERSITÀ TOSCANE PARTE SECONDA SCIENZE COSMOLOGICHE TORO PRIMO PISA DALLA TIPOGRAFIA NISTRI 1846 SEO (40201 ATIZA AVINÙ Ù i ut srt ® pe AGRO) 48 ATHAT MIOINOTA8005 ANvMnoa mie i hét4 1040 METE: A V : INDICE DELLA PARTE SECONDA Matteucci Carlo. Sui fenomeni elettro-fisiologici degli animali vivi, 0 recentemente uccisi. — Cap. I. Dell’esistenza della corrente elettrica muscolare negli È animali viventi, o recentemente uccisi — Cap. II. Delle leggi della corrente elettrica muscolare —_ Cap. II. Della corrente propria della rana . elettrica muscolare e nella corrente propria della rana . a — Cap. V. Viste teoretiche sopra ch causa Pant corrente dee trica muscolare . . . SUE scolo în contrazione dini de Cozzi A. Ricerche sopra i tubercoli polmonari sì crudi che fusi . _ Analisi dei tubercoli crudi — —_ —_ fusi . due Piria Raffaello. Ricerche chimiche sulla Salicina _ Azione della sinaptasia sulla salicina . . _ Sulla costituzione chimica della salicina . —_ zione del cloro sulla salicina . —_ — dell’acido nitrico sulla salicina —_ Acido anilotico . —_ — ‘dodopicrenico . x —_ Combinazioni del salicile . . . . . . 0 _ Alterazione del saliciluro di potassio Epecs umida. = Azione dell’ammoniaca sui composti precedenti = CONCIUSIONI «1-2 nega A — Cap.IV. Della funzione del sistema mercoso nella contenta — Car. VI. Sopra un fenomeno frlologica prodotto Da un mu- VI MossortI Ottaviano. Sulle proprietà degli spettri formati dai reticoli, ed analisi della luce che sommini- strano: (con tavola). PARTE PRIMA. — Introduzione . . . . . . . pag. 181 PARTE SECONDA. — Analisi . . » 188 —_ S. I Valore dell indice di rifrazione del #5, di Fraunhofer, in funzione della lunghezza delle ondulazioni . +) 1 AVI = S. II. Delle intensità respettive di luce nel a, dol dello spettro prismatico, e reticolare . . . . » 192 —_ S. II. Della curva che rappresenta l'intensità della luce nelle varie parti dello spettro reticolare » 194 = S. IV. Riflessioni . » 200 _ S. V. Sulla teoria dello Do I Nevica » 205 Pira Leopoldo. Saggio comparativo dei terreni che com- pongono il suolo d’Italia: (con tavola) . » 205 = CARTIUI:*-LeFFONEISITALACALO Se a Seen N RZ _ S. I Terreni moderni - » 208 a) Terreno tufaceo lacustre. » ivi b) Terreno alluviale marino ou » 209 c) Terreno quaternario (spiagge emerse) . » 210 _ S. Il. Terreno alluciale antico . » 211 a) Dilupium . » 212 b) Massì erratici ; » 215 c) Brecce e caverne ossifere. » 224 _ S. IN. Terreni terziari . 3 5 » 226 a) Depositi pliocenici recenti . . . ..... » ivi b) Depositi pliocenici antichi . » 229 c) Depositi miocenici . » 255 d) Depositi eocenici . . . . » 259 —_ S. IV. Terreni secondari . » 240 a) ZL'errenocretacco Na@t, Wat. 00. 0 RAR. 1242, b) Terreno giura-liassico » 269 c) Terreno triassico » 290 _ S. V. Terreni primari... in . » 291 — S. VI. Linee di separazione dei "O, stratificati staliani. » 292 — ART. II. Terreni metamorfici » 298 — ART. II. Terreni eruttivi . » 502 WART..IV. Filoni... lea » 512 VII — ART. V. Linee di sollevamento che si possono distinguere nei rilievi montuosi italiani . . . . . . pag. 516 — ART. VI. Recapitolazione . . . . EER PAIA) — ART. VII. Pensieri sopra L'aecisione della Carta geologica stalianate: SNO: hdi Di QUADRO rappresentante î principali terreni d’ Italia, e le lorometaarelatinena Sena e ii ei . » 55 Pareto Lorenzo. Sulla costituzione geologica delle isole di Pianosa, Giglio, Giannutri, Monte Cristo, e OBICI Formiche di Grosseto: (con 4 tavole) . Isola di Pianosa . — di Monte Cristo Sei — del'Giglio ore — di Giannutri Le Formiche di Grosseto . Pietro. Sezioni .Coniche: (con SR AVVERTENZA Le figure citate nella seguente memoria del Prof. Carlo Matteucci faranno parte delle Tavole che si daranno nel tomo secondo di questi ANNALI, OVe SUrà inserita altra memoria dello stesso autore. SUI FENOMENI ELETTRO-FISIOLOGICI DEGLI ANIMALI VIVI, o RECENTEMENTE UCCISI UMRRORTA DEL CAV. PROF. CARLO MATTEUCCI — II INTRODUZIONE. La ricerca dell'elettricità negli animali ha formato, fino dalla scoperta memorabile del Galvani, il soggetto di moltissime inve- stigazioni. A lui si devono principalmente molte sperienze, di cui parleremo nel capitolo sulla corrente propria della rana, per le quali riman provata l’esistenza dell'elettricità nella rana in- dipendentemente da qualunque arco metallico eterogeneo. Nobili è giunto a provare col galvanometro l’esistenza della corrente scoperta dal Galvani, e a stabilirne la direzione. ‘In questi ultimi tempi mi sono lungamente occupato di simili studj, e son questi che si trovano raccolti e ordinati nella presente Memoria. CAPITOLO LI Dell’esistenza della corrente elettrica muscolare negli animali viventi, o recentemente uccisi. » Avvi un’esperienza semplicissima e facile a farsi, la quale può provare l’esistenza d’una corrente elettrica che si sviluppa riunendo con un corpo conduttore qualunque due punti diversi d'una massa muscolare appartenenti ad un animale vivente, 0 Scienze Cosmolog. T. I. 1 2 MATTEUCCI ucciso da poco tempo. Si prende perciò la rana preparata, che ho / chiamato galvanoscopica (1); quindi gr si taglia in una maniera qualunque il muscolo d’un animale vivente, e s'introduce nella ferita il nervo della rana suddetta. Senz' altra precauzione avviene di frequente che la rana si contrae. Facendo l’esperienza con cura si discopre facilmente che, onde riuscire, è necessario toccare con due punti differenti del filamento nervoso due punti di- versi della massa muscolare. Toccando il fondo della ferita con un punto del filamento nervoso e con un altro punto gli orli della ferita o la superficie del muscolo, la gamba della rana gal- vanoscopica si contrae costantemente. Ciò basta a provare con evidenza che una corrente elettrica circola nel nervo, poichè è necessario formare un arco nel quale questo stesso nervo sia compreso. Che questa contrazione della rana sia eccitata da una corrente elettrica dovuta ai punti differenti del muscolo dell’ani- male vivente, è ancora provato dal vedere che qualunque sia il liquido o il corpo conduttore col quale si toccano due punti del nervo, non si eccitano giammai contrazioni. Ho creduto di qual- che interesse l’assicurarmi che il sangue tolto da un animale vivente non era, più d’un altro liquido conduttore, dotato di queste proprietà. Ho versato sopra una lastra di vetro una grossa goccia di sangue levata da un piccione vivente, col filamento nervoso della rana galvanoscopica ho toccato la goccia in due punti differenti, e la rana Ia più sensibile non mi ha giammai dato il minimo segno di contrazione. È inutile il dire che impiegando soluzioni saline o acide, e soprattutto alcaline, per bagnare il nervo d’una rana prepa- rata, le contrazioni le più vive si veggono risvegliate. Questi (1) Ved. Traité sur les phénomenes elettro-physiologiques des qanimaux, par M. Ch. Matteucci, pag. 29. i ” FENOMENI ELETTRO-FISIOLOGICI d corpi agiscono chimicamente sulla composizione della sostanza nervosa. La descritta maniera di provare lo sviluppo d’una corrente elettrica nella sostanza muscolare non deve confondersi con quella che Aldini impiegava nelle sue esperienze tenendo. la rana preparata colle mani, e toccando coll’estremità del nervo lombare della medesima l’interno di un muscolo ferito di un animale vivente. Le contrazioni che questo Fisico osservava în qualche caso, erano evidentemente dovute alla corrente propria, che noi vedremo appartenere alla rana, e che può circolare nella rana stessa per l’osservatore, per il suolo e per l’ani- male toccato. Di fatto Aldini dice, nel tomo I. pag. 17 del suo Saggio sopra il Galvanismo, rendendo conto della sola espe- rienza nella quale egli si era isolato, che non ottenne più le contrazioni della rana. Al contrario nell’ esperienza che ho de- scritto la gamba della rana galvanoscopica è sempre isolata, e non s'impiegano mai per chiudere il circuito altro che due punti diversi del suo filamento nervoso. L'esperienza riesce qualunque sia il muscolo e qualunque sia l’animale, il di cui muscolo vien toccato. Si ottengono egualmente le contra- zioni nella rana galvanoscopica agendo sopra muscoli separati dall’animale dopo qualche tempo. Io ho veduto, impiegando muscoli presi sopra rane, sopra pesci, sopra anguille, persi- stere per più ore i segni della loro corrente. Quand’anche questi muscoli hanno cessato di contrarsi, stimolando in. una maniera qualunque il nervo che vi è ramificato, essi possono ancora agire sulla rana galvanoscopica. Una volta che i se- gni della corrente muscolare hanno cessato, non è più possi- bile ottenerli di nuovo bagnando le labbra della ferita del mu- scolo con l’acqua pura o leggermente salata. Qualche volta vi sì riesce rinnovando la ferita, ma ciò non dura che poco tempo. Ho egualmente osservato sopra un animale a sangue caldo un fenomeno simile a quello che ho descritto. Ho tagliato Ie 4 MATTEUCCI due cosce di un vecchio e robusto coniglio; ho prontamente preparato una porzione assai lunga del nervo crurale di queste cosce, ed ho messo i muscoli allo scoperto. Sollevando que- sto nervo con un tubo di vetro, e facendolo quindi cadere so- pra la superficie del muscolo della gamba, ho veduto il membro intiero contrarsi, m'è riescito colle due cosce, e il fenomeno si è riprodotto per lo spazio di 2 o 5 minuti. Onde metter fuori d’ogni specie di dubbio l’esistenza della corrente elettrica sviluppata nei muscoli di un animale vivente o recentemente ucciso, era necessario impiegare il galvanometro seguendo tutte le precauzioni, che ho descritte con diligenza nel ricordato mio libro. Conveniva a quest’oggetto immergere i due scandagli di platino nel medesimo liquido, metter questo in comunicazione colle diverse parti del muscolo, e nel medesimo tempo trovare il mezzo d’aumentare l'intensità della corrente muscolare. Ecco in qual modo son giunto a realizzare queste condizioni, ed a provare l’esistenza della corrente muscolare indipendentemente da ogni causa estranea introdotta dall’ esperienza. Ho fatto praticare sopra una tavola di legno assai grossa, a distanze diverse, alcune piccole cavità, ed ho coperto di uno strato di vernice la tavola e le cavità. Si potrebbero im- piegare egualmente piccole capsule internate nella grossezza della tavola. L’esperienza è facilissima a farsi con tale apparec- chio. Suppongo che questa tavola sia disposta in vicinanza del sostegno del galvanometro, di cui le due estremità di platino siano preparate nel modo da me descritto nel citato libro. Que- sti due scandagli del galvanometro debbono essere da qualche tempo immersi nell'acqua, che dovrà essere distillata se il gal- vanometro è sensibilissimo. Con un galvanometro meno sensibile è necessario impiegare acqua leggermente salata. Avanti di co- minciare l’esperienza giova assai attendere che il galvanometro sì sia fissato a zero, e vi si deve mantenere sollevando le due lastre del liquido, e immergendovele di nuovo nello stesso tempo. FENOMENI ELETTRO-FISIOLOGICI 5 Si preparano allora > o 6 rane, o in più gran numero an- cora se si vuole ottenere una deviazione più grande: si tagliano a metà questi animali preparati al modo di Galvani, e quindi si asportano tutte le gambe, avendo cura di fare la disarticolazione il meglio possibile onde non ferire la massa muscolare. Infine si tagliano le cosce a metà, e si ottiene in questo modo un certo numero di mezze cosce. Si colloca sulla tavola che ho de- scritto una di queste mezze cosce, in modo che sia situata sopra gli orli di una delle piccole cavità praticate sopra la tavola stessa. Allora, dopo questa prima mezza coscia e a contatto di essa si dispongono tutte le altre, sempre in modo che la faccia interna che si è ottenuta tagliando la coscia a metà sia a con- tatto della parte esterna del muscolo della coscia successiva. Si avrà così alla fine di questa serie una di queste mezze cosce, che dovrà essere, come la prima, posta sopra gli orli di un’ altra cavità della tavola. È chiaro che in ciascun punto di contatto di due mezze cosce vicine, vi è sem- pre in una la parte interna del mu- gono a toccarsi: avviene per questa disposizione che una delle estremità (B) della pila è formata dal- l'interno del muscolo, mentre che l’altra (A) è formata dalla superficie di un muscolo. Si versa nelle due cavità, per mezzo di una pipetta, dell’acqua, oppure una soluzione simile a quella nella quale si trovano immerse le due lastre ‘del galvanometro. Sì sollevano queste due lastre dal liquido e si portano insieme, senza che esse si tocchino, nel liquido di una delle due cavità della pila muscolare. Se dopo questa operazione l'ago resta a zero, si debbono sollevare di nuovo i due scandagli e in seguito immergerli nel medesimo tempo nelle due cavità estreme della pila in modo che il circuito venga a chiudersi. Nell’istante la deviazione dell'ago ha luogo, ed è facile l’accorgersi che questa deviazione varia secondo il numero delle mezze cosce o degli 6 MATTEUCCI elementi della pila. È così che io ottengo al mio galvanometro 15°, 20°, 50°, 40°, 60° cc. secondo il numero delle mezze cosce, e supponendo di avere impiegato rane egualmente vivaci; ot- tengo 2°, 5°, 4° con due elementi, 6° o 8° con quattro elemen- ti, 10° o 12° con sei elementi, e così di seguito. La corrente è sempre diretta nella pila dalla parte interna del muscolo alla superficie del medesimo. I numeri che ho dati sono stati ottenuti impiegando acqua distillata nelle cavità estreme e per tenervi immersi gli scandagli del galvanometro. Questi nu- meri divengono molto più piccoli se si tengono gli scandagli del galvanometro immersi nelle cavità estreme assai allontanati dalle parti muscolari della pila. È necessario che lo strato liquido fra le lastre e le estremità muscolari della pila sia il più piccolo possibile, lo che basta per garantire lo sperimentatore che non tocca le parti animali cogli scandagli. Se invece d’acqua distil- lata, s' impiega questa stessa acqua dopo avervi aggiunto qualche goccia d’acido solforico, le deviazioni con lo stesso numero d’elementi aumentano considerabilmente; così otto mezze cosce che mi danno 15° impiegando acqua distillata, danno 50° e più impiegando la soluzione acida. Con una soluzione leggermente alcalina questo medesimo numero d’elementi mi ha dato 5°, cioè presso a poco lo stesso numero che ho ottenuto con l’acqua leggermente acidulata. La direzione della corrente è in tutti sempre la stessa, e le dif- ferenze osservate devono evidentemente essere attribuite alla conducibilità variabile dei liquidi che abbiamo impiegati. La- sciando il circuito chiuso, l’ago del galvanometro si fissa a una deviazione costante, che è di 5°, 6°, 10°, 12°, secondo il nu- mero degli elementi e in un certo rapporto con la deviazione primitiva. L’ago continua a discendere tenendo sempre il circuito chiuso, e non è se non dopo un certo tempo, che è di molte ore, che esso ritorna esattamente allo zero. FENOMENI ELETTRO-FISIOLOGICI 7 Credo inutile di dire che queste esperienze sono state ri- petute da me centinaja di volte, e i resultamenti sono stati co- stantemente gli stessi. Esporremo nel paragrafo che segue le leggi della corrente elettrica muscolare, e vedremo allora secondo quali circostanze l’intensità di questa corrente possa variare. È facile l’assicurarsi della esistenza di questa corrente in tutte le masse muscolari prese sopra differenti animali a sangue caldo o freddo recentemente uccisi. Basta perciò disporre l’ espe- rienza ‘come noi l'abbiamo descritta con le mezze cosce della rana. Ho preso un’anguilla viva d’acqua dolce, e dopo spel- lata lho tagliata in pezzi della lunghezza di 5 o 4 centim. Per non impiégare che masse unicamente muscolari, ho scelto, onde comporre la pila, i pezzi della metà dell’anguilla dalla parte della coda. La disposizione degli elementi è simile a quella che deve darsi alle mezze cosce delle rane: cioè la superficie mu- scolare di uno di questi elementi deve toccare la faccia interna dell'elemento successivo: le due estremità della pila saranno da una parte l'interno del muscolo, dall’ altra la superficie di esso. Una volta disposta questa pila sopra la tavola, non resta che immergere gli scandagli del galvanometro nelle cavità estreme. Chiudendo il circuito di una pila di 5 elementi ho ottenuto 28° di deviazione; con 2 elementi ho ottenuto 10°, diretta sem- pre nello stesso senso, cioè dall'interno del muscolo alla super- ficie, nella pila. Ho preso tinche viventi, e dopo averle private della pelle, ho tagliato lunghe strisce muscolari dal dorso avendo cura di non guastare la superficie. In seguito ho tagliato queste Strisce in pezzi, che ho disposto poi in pila esattamente nella stessa maniera dei muscoli delle rane e delle anguille. Una pila di 4 elementi formata coi muscoli di una tinca m'ha dato 12°, ed una di 2 elementi mi ha dato 5° o 6°. La direzione della corrente. era sempre dall'interno del muscolo alla superficie nell'interno della pila. Ho ucciso alcuni piccioni, e con strisce dei muscoli petto- 8 MATTEUCCI rali convenientemente tagliati ho costruito una pila di 8 ele- menti. Questa pila mi ha dato 14° di deviazione, e la corrente era sempre diretta nella pila dall'interno del muscolo alla su- perficie. Due elementi mi hanno dato da 2° a 3°, e 4 elementi da 6° a 7° costantemente nel medesimo senso. Ho preso delle cosce di piccione, le ho convenientemente preparate e disposte in pile, e mi hanno sempre dato un resultato analogo. Ho ancora composto una pila con pezzi muscolari ottenuti tagliando in due parti i cuori dei piccioni: la corrente ottenuta è stata sempre diretta dall'interno del muscolo alla superficie nella pila, e la sua intensità proporzionale al numero degli elementi. Io credo inutile di prolungare qui la descrizione di un gran numero di esperienze fatte con muscoli di pecora, di pollo, 0 d’altri animali a sangue caldo. Tutte queste esperienze, senza alcuna eccezione, mi hanno condotto a concludere: « Ogni volta « che l’interno d’un muscolo di un animale qualunque recen- « temente ucciso, è per mezzo di un corpo conduttore messo «in contatto colla superficie di questo muscolo, una corrente « elettrica si stabilisce la quale è sempre diretta nel muscolo dal « suo interno alla superficie. Questa corrente di cui l'intensità «è variabile nei muscoli dei differenti animali, aumenta pro- « porzionalmente al numero degli elementi muscolari che sono « disposti in pila ». Mi fermerò alcun poco sopra questo resultato fondamen- tale. La corrente ottenuta nelle circostanze di cui ho parlato può essere dovuta a una circostanza indipendente dall'azione, qualunque essa sia, tra la superficie del muscolo e il suo in- terno? Certamente se l’esperienza è ben fatta e tale quale io l'ho descritta, non si possono attribuire i segni della corrente agli scandagli del galvanometro. Convien ricordarsi che avanti di serrare il circuito della pila muscolare è necessario immer- gere nel medesimo tempo gli scandagli del galvanometro in una delle cavità estreme di questa pila. FENOMENI ELETTRO-FISIOLOGICI 9 Se in quest'esperienza preliminare l’ago resta a zero, cer- tamente la corrente che si ottiene chiudendo il circuito della pila non potrà essere attribuita a un’azione qualunque delle due lastre. E quando anche si volesse ammettere questa ipotesi, non si potrebbe spiegare la costanza della direzione della corrente e l’aumento della sua intensità col numero degli elementi. Ho trovato, che una corrente elettrica sensibilissima si sviluppa al- Jorchè si fa comunicare insieme acqua e sangue per mezzo di un liquido conduttore: questa corrente è diretta nell'arco liquido dal sangue all'acqua. Si potrebbe dire che le condizioni di questa esperienza si trovano riprodotte nella pila muscolare: di fatto in una delle capsule estreme di queste pile havvi contatto fra l’acqua e l'interno del muscolo che è bagnato di sangue. Si potrebbe aggiungere che i segni aumentano col numero degli elementi, sebbene il contatto fra il sangue e l’acqua non abbia luogo che in un sol punto; perchè la superficie del muscolo può essere considerata come bagnata d’un liquido analogo al- l’acqua. Questa obiezione cade da se stessa, se si rifletta che la direzione della corrente che si otterrebbe in quest’ipotesi do- vrebb’ essere esattamente opposta a quella della corrente che sì trova realmente. Infatti nelle pile muscolari la corrente è di- retta dall'interno del muscolo alla superficie nella pila, mentre che nella nostra ipotesi dovrebbe andare in senso opposto. Richiamerò qui alla memoria che ho impiegato, nelle espe- rienze citate, in luogo d’acqua distillata per riempire le capsule estreme, ora acqua leggermente salata, ora acqua acidulata, ora acqua alcalina. La corrente ottenuta è stata diretta sempre nel medesimo senso, e solamente l’intensità ha variato. Se la causa di questa corrente era l’azione chimica del sangue e del liquido delle capsule, la sua direzione avrebbe dovuto cambiare neces- sariamente . Aggiungerò infine, che la corrente che si ottiene per l’azione chimica del sangue e dell’acqua persiste senza cambiare d’in- Scienze Cosmolog. T. I. 2 10 MATTEUCCI tensità, ciò che non ha luogo giammai per la corrente muscolare la quale si estingue in generale dopo poco tempo. Si potrebbe ancora opporre che nel liquido della capsula nella quale è immerso l'interno del muscolo vè del sangue disciolto, mentre che ciò non ha luogo per il liquido dell’altra capsula, in cui si trova la superficie del muscolo. Dietro que- st’ipotesi ne verrebbe, che la corrente muscolare non è altra cosa che la corrente che si ottiene riunendo con un arco liquido una capsula piena di sangue con una capsula piena d’acqua Di fatto la direzione della corrente muscolare si accorda benissimo con quest’ipotesi. È facilissimo di rispondere che l'aumento della corrente muscolare è intieramente inesplicabile secondo questa ipotesi, poichè l’azione del sangue e dell’acqua non è che in un sol punto, qualunque sia il numero degli elementi. E poi, come spiegare in quest’ipotesi la direzione costante della corrente impiegando liquidi differenti, acidi alcalini e salini nelle cavità estreme della pila muscolare? Come spiegare che rovesciando la disposizione degli elementi, la direzione della corrente è nell'istante rovesciata conservando la stessa intensità di prima? L'importanza della conclusione che ho dedotta dalle mie esperienze, potrà scusarmi se ho voluto spingere quanto più innanzi è possibile le obiezioni che si potevano fare interpre- tandole differentemente . In difetto di tutte le esperienze che ho descritte, e fatte col galvanometro, ve n'è una che ognuno può fare facilissima- mente, la quale tronca tutte le difficoltà. Quest’ esperienza si fa impiegando la rana galvanoscopica invece del galvanometro. Io dispongo sopra la tavola di cui ho già parlato, o sopra un altro piano isolante, una pila di mezze cosce di rane di un certo numero di elementi. Aggiungo alle due estremità di questa pila un pezzo di carta bagnata. È necessario disporre questi pezzetti di carta in modo, che le loro estremità libere si FENOMENI ELETTRO-FISIOLOGICI 11 trovino a una distanza di due o tre centimetri. Se allora si chiude il circuito col filamento nervoso della rana galvanoscopica toc- cando con due punti del nervo le due estremità delle due stri- sce, si vedrà all'istante contrarsi la rana. Se si attende che la rana s’indebolisca, l'indicazione di essa basterà a mostrarci la direzione della corrente. Si può fare l’esperienza in modo che l’uso del galvanometro divenga insufficiente, mentre che la rana galvanoscopica persiste ancora nelle sue indicazioni. Basta perciò rifare l’esperienza che ho descritta impiegando strisce di carta della lunghezza di $ o 10 centim. Se si toccano colle lastre del galvanometro le estremità di queste strisce, l’istrumento non darà segni sebbene la pila si componga di molti elementi: lo che avviene per la molta resistenza che pre- sentano alle correnti le lunghe strisce di carta, e per cui la cor- rente è indebolita: ma se si chiude il circuito col nervo della rana galvanoscopica, toccando gli stessi punti delle strisce di carta sopra i quali precedentemente avevamo portate le lastre del galvanometro, la contrazione non manca mai. Si vede anco- ra, impiegando strisce più o meno lunghe, che è necessario un numero tanto maggiore d’elementi, onde far contrarre la rana, quanto più le stesse strisce sono lunghe. Queste esperienze mi sembrano quanto semplici altrettanto convincenti. Come la corrente muscolare s’ indebolisce tenendo il cir- cuito serrato? Allorchè si chiude il circuito di una pila muscolare la de- viazione dell’ago è dovuta sul principio, come con tutte le altre specie di corrente, a un movimento d’impulsione il quale essendo finito, l'ago ritorna addietro oscillando e infine si arresta ad un certo angolo. Esso continua in seguito a discendere più lenta- mente fino a zero. Noi vedremo più innanzi la relazione che esiste fra l'intensità della corrente muscolare e la sua durata, e la vitalità del muscolo. Ma indipendentemente da ciò l'intensità della corrente 12 MATTEUCCI muscolare a circuito chiuso deve indebolirsi per l’azione della corrente secondaria che si sviluppa sulle lastre del galvanometro, e che circola in senso contrario a quello della pila. Di fatto basta aprire il circuito ritirando le due lastre dalle cavità estreme della pila muscolare: se allora 8° immergono di nuovo queste due lastre in un medesimo liquido simile a quello delle cavità della pila, si otterrà la deviazione in senso contrario a quella mostrata dalla pila, e presso a poco del medesimo numero di gradi. Se si attende che la corrente secondaria sia scomparsa, e si viene a chiudere di nuovo il circuito della pila muscolare, si avrà una corrente appena più debole di quella ottenuta in principio. Mi rimane a parlare della corrente muscolare nei muscoli degli animali vivi. Ecco la prima esperienza che ho fatto a quest’oggetto. Ferisco il muscolo del petto o della coscia sopra un animale vivente dopo avere scoperto la superficie di questo muscolo. Tocco allora nel medesimo tempo colle due lastre del galvanometro l’interno della ferita, e la superficie del muscolo ferito. Osservo una corrente che è di 20°, 50°, 40° ec. diretta nel muscolo dall'interno alla superficie. Ho fatto quest’espe- rienza, e sempre cogli stessi resultati, sopra conigli, monto- ni, piccioni, ec. I segni di questa corrente s’ indebolivano dopo due o tre immersioni nella medesima ferita. Qualche volta dopo alcune immersioni la deviazione è nulla, e non è raro l’ osservare una deviazione in senso contrario. Era dunque a desiderarsi di giungere a resultati costanti ricorrendo al mede- simo metodo impiegato coi muscoli degli animali recentemente uccisi. Una tal ricerca era tanto più necessaria, quanto più si poteva vedere nell’esperienza descritta limitazione di quella di cui noi abbiamo parlato, facendo vedere che il contatto del san- gue e dell’acqua sviluppa una corrente elettrica che è diretta dal sangue all'acqua nel liquido. Sebbene avremmo sempre potuto rispondere con molto vantaggio a quest’obiezione oppo- nendo la durata molto lunga della corrente sviluppata pel con- - FENOMENI ELETTRO-FISIOLOGICI È 15 tatto del sangue e dell’acqua, io ho voluto assicurarmi diretta- mente della esistenza della corrente muscolare degli animali viventi. Ecco l’esperienza: prendo delle rane ben vivaci, e co- mincio col tagliar loro le gambe facendone la disarticolazione nel modo il meglio possibile, e dopo tolgo la pelle delle cosce. Fisso le rane così preparate sopra la tavola verniciata, con pic- coli chiodi che passano attraverso le estremità superiori; infine taglio a ciascuna rana una delle due cosce a metà. Se la di- , sposizione della pila muscolare degli animali recentemente uccisi è stata bene intesa, si potrà capire facilmente il modo da tenersi onde comporre una pila con queste rane vive inchiodate sulla tavola. Il contatto de’ due elementi vicini ha luogo fra la super- ficie della coscia intatta da una parte e l'interno della mezza coscia dall’altra. La pila si termina, ordinariamente, in due cavità della tavola, le quali sono ripiene d’acqua. Io non ri- porterò che una sola. fra un gran numero d’esperienze che ho così tentate colle rane. Una pila di quattro elementi mi ha dato una corrente di 12°, diretta sempre nella pila dall’interno del muscolo alla superficie. Sono anche riescito recentemente a comporre una pila simile con piccioni vivi. La diflicoltà è assai più grande con questi animali, e s'intende facilmente il perchè. Perciò comincio dal tagliar loro le ali, li fascio bene a modo che non possano moversi, e li dispongo in fila sopra la tavola. È chiaro che le cosce si trovano vicine; queste, dopo spellate, le fisso con cordoncini di seta tenendole sollevate dal piano. Ciò fatto, ta- | glio la superficie del muscolo alla gamba o coscia, la sinistra o la destra, d’ogni piccione, la metto in contatto colla destra 0 sinistra intatta del piccione vicino, e passo un laccio o una forca di legno per tener unite le due cosce. Intanto le due estremità della pila sono libere, e da una parte ho la superficie della coscia, dall’altra l'interno dei suoi muscoli. In una esperienza fatta con cinque piccioni, e toccando direttamente le estremità della pila 14 MATTEUCCI cogli scandagli, ebbi 18° di corrente diretta al solito nella pila dall’interno alla superficie del muscolo. Dopo pochi secondi rifa- cendo l’esperienza non si ha più che 8°, e dopo poco 4° o 5°, sempre però in una direzione costante. Ho provato a rinfrescare la ferita del muscolo togliendo il sangue coagulato e poi rimet- tendo le parti come prima. La corrente si trova subito mag- giore, e ritorna di 8° o 10° da 4° a 8°. Poi s'indebolisce nuo- vamente. Oltre l’indebolimento dell’ animale, è cagione princi- palissima della diminuzione dei segni il coagulo del sangue che s interpone fra le parti interne ed esterne del muscolo, e che non è troppo buon conduttore. Negli animali a sangue caldo è impossibile il taglio di un muscolo senza grande versamento di sangue che presto si coagula. Devo aggiungere che i numeri citati, ottenuti in quest’espe- rimento, non possono paragonarsi con quelli di tutti gli altri contenuti in questa memoria. Difatti mi sono assicurato, ripe- tendo l’esperienze sulle rane, che la sensibilità del mio galvano- metro è diminuita. Non ebbi che 8° da cinque rane accoppiate a pila, mentre la corrente fu i più intensa nell’esperimento ci- tato. Ne resulta, ciò che però vuole ancora essere studiato, che nell’animale vivo a sangue caldo, senza che sia accaduto il coa- gulo del sangue, i segni primi della corrente muscolare sono più intensi che quelli della stessa corrente nella rana. Conchiudiamo intanto dalle esperienze riferite, che nei mu- scoli degli animali viventi o recentemente uccisi si trova una corrente elettrica allorchè il circuito è chiuso fra l'interno del muscolo e la. superficie; questa corrente, varia d’intensità nei diversi animali, cessa qualche tempo dopo la morte, ed è sem- pre diretta nel muscolo dall’ interno alla superficie, o più gene- ralmente dall'interno del muscolo a un altro corpo conduttore qualunque che comunica colla superficie. FENOMENI ELETTRO-FISIOLOGICI 15 CAPITOLO IL Delle leggi della corrente elettrica muscolare. Dopo aver dimostrato in una maniera incontrastabile |’ esi- stenza della corrente muscolare in tutti gli animali viventi o re- centemente uccisi, conviene studiarne le leggi e le circostanze secondo le quali varia l'intensità di questa corrente. Prima di tutto giova il dire in qual maniera è necessario procedere nella ricerca di queste leggi. Si sa che per parago- nare due sorgenti di elettricità, fa d’uopo di opporre le due sorgenti in modo che le due correnti circolino in senso opposto nel filo del galvanometro: la differenza nell’intensità di queste due correnti è mostrata dalla corrente differenziale che produce la deviazione nel senso della corrente più forte. Onde applicare questo principio allo studio delle circostanze che fanno variare . l’intensità della corrente muscolare è necessario cominciare col preparare due pile composte del medesimo numero di elementi muscolari. Le due pile A B e B'A' sono opposte l'una all'altra, e le loro estremità, che sono in questo caso della medesima na- x tura, pescano in due cavità della tavola. Il circuito è chiuso col galvanometro immergendo i due scandagli nel liquido delle due cavità estreme. Gli elementi che compongono una di queste due pile non debbono differire dagli elementi dell’altre, se non nella circostanza di cui si vuole studiare l’ influenza sopra la cor- rente muscolare. Egli è evidente che se questa influenza esiste aumentando o diminuendo la corrente, essa sarà immediata- mente indicata da una corrente differenziale nel senso della pila più forte. Il vantaggio di questo metodo è chiaro, e oso dire che senza il suo soccorso non si sarebbero ottenuti risultamenti co- stanti. Paragonando due di queste pile luna dopo l’altra, non si potrebbe essere giammai sicuri d’agire con clementi simili, 16 MATTEUCCI indipendentemente dalla circostanza che è stata introdotta in tutti gli elementi d’una delle due pile. Al contrario prendendo a caso un certo numero di rane e scegliendo i medesimi mu- scoli per modificarli, lasciando gli altri intatti, si può ammettere con tutta la probabilità, che la corrente differenziale delle due pile opposte sarà l’effetto della nuova circostanza alla quale sono stati sottoposti tutti gli clementi di una delle pile. In questa maniera la differenza fra la vivacità delle rane o degli altri ani- mali sottomessi all'esperienza, del loro sesso, della loro età non ha più influenza nei resultati. In tutti i casi nei quali mi è stato possibile, ho spinto il mio metodo al maggior grado di perfezione che sia permesso in questo genere d’esperienze, separando prima ciascuna rana a metà, modificando i muscoli d’ogni metà e la- sciando intatti quelli dell’altra. In tutte le esperienze di cui esporrò i resultati, ho incominciato dal ricercare la corrente dif- ferenziale, e in seguito ho determinato separatamente la corrente delle pile opposte. Io non ho giammai notato che correnti diffe- renziali di 5° almeno, ed ho sempre impiegato dell’acqua di sor- gente per il liquido delle cavità estreme della pila. Impiegando i liquidi più conduttori le deviazioni divengono troppo grandi, e le più piccole differenze fra le correnti delle due pile si mani- festano con grandi segni. Tutte queste precauzioni, che ho de- scritte forse con troppa cura, servono però a condurre a conclu- sioni sicure. Il primo fatto che si scopre, studiando la corrente muscolare sopra dei muscoli di animali differenti, è quello della durata differente di questa corrente. Io suppongo che si prepari rapidamente e da più individui un medesimo numero di elementi muscolari appartenenti a rane, a piccioni e a conigli. Si prepa- rino poscia tre pile composte di un medesimo numero d’elementi, in ciascuna delle quali non si trovino che i muscoli dello stesso animale. Si dispongano queste tre pile separatamente l’una dopo Valtra, e, perdendo il meno tempo possibile, si tentino col gal- vanometro ad una ad una successivamente. Le deviazioni date FENOMENI ELETTRO-FISIOLOGICI 17 da ciascuna di queste tre pile eguali nel numero degli elementi, sono molto diverse fra loro. La più piccola è quella di cui gli elementi sono tolti dall’animale il più elevato nella scala. Ecco i numeri di una delle esperienze fatte con tre pile, ciascuna di otto elementi: la pila dei muscoli di coniglio mi ha dato 8°, quella del piccione 14°, quella delle rane 22°. È inutile dire che queste deviazioni sono molto più grandi se s'impiega dell’acqua leggermente salata per riempire le cavità estreme, invece d’acqua distillata o di sorgente. Quindici minuti dopo la prima esperienza si trova una deviazione di 4° per la prima pila, di 10° per la seconda, di 16° per la terza. Un'ora dopo i segni delle correnti elettriche sono affatto scomparsi nei muscoli del coniglio, si ottiene appena 2° o 3° coi muscoli del piccione, e 8° o 10° sono ancora dati dai muscoli della rana. Sio lascio passare 24 ore appena, trovo 2° o 5° nella pila di rane. In tutti i casi la direzione della corrente non varia giam- mai. Allorchè i segni della corrente elettrica muscolare sono scomparsi, non basta bagnare i muscoli con acqua pura o leg- germente salata: questi segni non compariscono più. Paragonando fra loro due pile del medesimo numero d’elementi, formate l’ una con pezzi d’anguilla, e l’altra con mezze cosce di rane, ho ot- tenuto dalla prima segni che persistevano più lungo tempo di quelli datimi dalla seconda. Ma qual è l’intensità primitiva della corrente muscolare nei differenti animali? qual è quest’intensità nell’animale vi- vente? Disgraziatamente non si può rispondere in una maniera diretta, per la via delle esperienze, a questa questione. Se si volessero prendere per definitivi i resultati che si ottengono fa- cendo una ferita nel muscolo scoperto d’un animale vivente, e immergendo una delle lastre del galvanometro nell’interno della . ferita, mentre che l’altra è posta sopra la superficie del muscolo ferito, si dovrebbe concludere che l’intensità della corrente elet- trica muscolare aumenta col grado occupato dall’animale nella Scienze Cosmolog. T. I. 5 18 MATTEUCCI scala degli esseri. Di fatto in queste esperienze, che danno la corrente dovuta a un solo elemento, trovo col mio galvanome- tro 50° e fino a 40° per la prima immersione delle lastre nelle due parti interne ed esterne del muscolo di un montone o di un coniglio, mentre si ha appena 5° a 6° operando egual- mente sopra i muscoli di una rana. Ma noi non possiamo dimen- ticare che questa maniera d’operare non merita tutta la con- fidenza, tanto più che non sono costanti, non persistono dopo la prima esperienza, almeno nel grado, e qualche volta s’inver- tono. Tuttavia mi sembra che arrestandoci al resultato inconte- stabile della durata differente, dopo la morte, della corrente muscolare nei diversi animali, dobbiamo giungere ad una con- clusione analoga alla precedente. Difatti abbiamo visto che la corrente muscolare s’indebo- lisce dopo la morte tanto più presto quanto più gli animali sono elevati nella scala, e che quest’effetto è più distinto nei primi istanti dopo la morte. È dunque permesso di supporre che questa corrente è almeno di eguale intensità per tutti gli ani- mali. L'esperimento già riferito sui piccioni vivi, prova pure che è la coagulazione del sangue versato dalla ferita che cagiona l’indebolimento dei segni, e questa cagione non è che negli ani- mali a sangue caldo. Noi esporremo in seguito altri fatti, i quali ricondurranno a concludere, che l'intensità della corrente muscolare nell’animale vivente deve aumentare col grado che occupa nella scala degli esseri. Ho voluto studiare l'influenza che hala massa del muscolo sopra l’intensità della sua corrente, ed ho paragonato a questo oggetto due pile opposte l’una all’altra: una di queste pile aveva tutti gli elementi formati di una sola mezza coscia di rana, mentre che gli elementi dell’altra erano bensì nello stesso numero, ma formati ciascuno di due o tre mezze cosce poste luna sull'altra. Non ho giammai ottenuto segni ben di- stinti di una corrente differenziale. Confesserò pertanto che FENOMENI ELETTRO-FISIOLOGICI 19 questi segni, sebbene debolissimi, sono stati sempre nel senso della pila di cui gli elementi erano di una massa doppia, o tripla di quella degli clementi dell’ altra pila. Ho ottenuto lo stesso resultato facendo due pile con elementi presi sopra un coniglio, e opponendole l’una all’altra. Gli elementi di una di queste pile erano formati con delle larghe strisce muscolari, e gli ele- menti dell’altra si componevano di piccoli pezzetti di questi medesimi muscoli . ‘ Si deve esser sorpresi da un tal resultato, che è ben di- verso da quello ottenuto dalle pile composte di lastre metalli- che: la differenza è tuttavia meno grande se si paragona la pila muscolare ad una composta di due masse liquide, l'una acida l’altra alcalina, che reagiscano attraverso a una membrana qua- lunque. L'influenza della temperatura sopra l’intensità della cor- rente muscolare merita ancora d’esser considerata. Se si fanno le esperienze che abbiamo di già descritto a differenti epoche dell’anno, ci accorgiamo facilmente, operando sopra rane che siano state per lungo tempo esposte al freddo, che i segni della loro corrente muscolare sono molto più deboli che all’ordinario. Nel mese di novembre 1842 il termometro fu a Parigi per più giorni al zero o anche al disotto. Delle rane comprate alla piazza in quel tempo non mi dettero quasi alcun segno di corrente muscolare, mentre io aveva questi segni nel modo ordinario, operando sopra le rane che erano conservate in una camera calda al Giardino delle Piante. Del resto l’esperienza è facilissima a farsi mettendo qualche rana in un vaso circondato di ghiaccio e ripieno d’acqua. L'esperienza riesce anche meglio se si getta sopra il ghiaccio un pugno di sal marino. Dopo qualche minuto non vi è più movimento nelle rane, e potremmo giudicarle morte. Ciò avviene infatti se si continua a lasciarle nel mezzo freddo. | Levandole dopo 15 0 20 minuti di raffreddamento, si può ancora i salvarle ponendole nell’acqua leggermente calda. Ho preparato 20 MATTEUCCI una pila di dieci clementi di mezze cosce di rane che erano state tenute nell’acqua fredda al disotto di zero per 50 minuti; a questa pila ne ho opposta una simile, fatta con mezze cosce di rane che non erano state raffreddate. La corrente differenziale di queste due pile opposte era di 55° a 40° nel senso delle rane non raffreddate. La pila delle rane raffreddate dava 15° o 16°, l’altra 45°. Allorchè le rane non sono state sottoposte per uno spazio di tempo assai lungo all’azione del freddo, la loro corrente muscolare non differisce sensibilmente da quella delle rane che non hanno subìto l’azione del freddo. Io ho verificato egual- mente sopra una pila formata coi muscoli di tinche l'influenza esercitata dal raffreddamento sulla corrente muscolare. Una pila di quattro elementi formata con muscoli presi sopra una tinca tenuta per qualche tempo a zero ha dato 5”, mentre che io ne aveva 12° da una pila del medesimo numero d’elementi appartenenti a una tinca che era stata conservata nell’acqua a+12° C. Sopra gli animali a sangue caldo l’ influen- za del freddo sulla corrente muscolare sembra meno grande che sugli animali a sangue freddo. Ho verificato ciò sopra un piccione che aveva tenuto in un mezzo freddo a 2° o 5° sotto zero per lo spazio di una mezz'ora. Una pila formata coi mu- scoli di questo piccione non era punto più debole di un’altra simile composta coi muscoli di un piccione in tutto somigliante, ma che non era stato raffreddato. Io devo ancora rammentar qui un fatto, che ho avuto occasione d’osservare studiando l’azione del freddo sopra Îa corrente muscolare. Ho cominciato dal raffreddare improvvisamente un certo numero di rane, che ho levate dopo qualche minuto dal mezzo freddo per immergerle in seguito nell'acqua a+15° C. Le rane hanno ripreso intiera- mente i loro movimenti, e non si sarebbe potuto giudicare che esse erano meno vivaci che avanti. Una pila composta colle mezze cosce di questi animali m’ha sempre dato una corrente più forte A Li FENOMENI ELETTRO-FISIOLOGICI 21 di quella prodotta da una pila di un medesimo numero di ele= menti formati colle mezze cosce di rane che non erano state sottoposte ad alcun cambiamento di temperatura. È necessario adunque che l’azione del freddo sulle rane si prolunghi per un tempo sufficientemente lungo afline d’indebolire l'intensità della corrente muscolare. Quest’azione del freddo è tanto meno grande, quanto più l’animale appartiene a un grado meno elevato nella scala degli esseri. "Nel gran calore dell'estate le rane sono in generale meno robuste che in tutte le altre stagioni. I loro muscoli sono bian- castri, senza consistenza, e si trova ordinariamente fra la pelle e i loro muscoli una specie d’effusione sierosa. Se si preparano anche rapidamente non si vedono giammai in convulsioni tetani- che, ciò che avviene frequentemente sulle rane che sono robu- ste, o rimaste nell'inverno in un recipiente asciutto. I segni della corrente muscolare sono molto più deboli in queste rane, che io chiamerei malate. In generale facendo un grandissimo numero d’esperienze, e preparando qualche diecina di rane in un giorno, si giunge a poter asserire senza esitanza che la corrente muscolare è tanto più forte quanto più i muscoli delle rane sono rossi e consistenti. Esporrò ora i risultati ottenuti studiando l’influenza del sistema nervoso sulla corrente muscolare. Io mi limito a ricor- dar qui qualcuna delle tante esperienze che ho fatte, perchè esse, sebbene variate e ripetute molte volte, m’hanno sempre condotto ai medesimi resultati. Ho preparato 20 rane, le quali ho tagliate a metà disponendo in due gruppi le due metà di ciascun animale. Ho tolto loro colla maggior cura possibile tutti i grossi filamenti nervosi dei muscoli ad uno dei due gruppi, e dopo ho composto due pile di 10 elementi ciascuna, e le ho op- poste luna all’altra. In una di queste pile tuttii i muscoli ave- vano i loro nervi, mentre che i muscoli dell’altra pila ne erano stati privati. Io non ho giammai ottenuto alcun segno di cor- 2 MATTEUCCI | rente differenziale superiore a 5° o 4° colle due pile preparate nel modo che ho detto. Questi medesimi resultati sono stati ve- rificati sopra i muscoli delle cosce di piccione. i La corrente muscolare non varia adunque nè nella sua di- rezione nè nella sua intensità, allorchè si altera l’integrità del sistema nervoso. L'esperienza seguente proverà questa conseguenza ancora più evidentemente. Ho introdotto nella midolla spinale di sei rane, e precisamente nelle ultime vertebre, un ferro incande- scente. Le sei rane hanno immediatamente perduto tutti i movi- menti e la sensibilità dei loro membri inferiori. Ho lasciato que- ste 6 rane con 6 altre che non erano state toccate, in un gran vaso di vetro alla temperatura di+8° a+10° C. Dopo quattro giorni le 6 rane, alle quali era stata bruciata la midolla spinale, non avevan guadagnato nulla nei loro membri inferiori. Ho pre- parato rapidamente le dodici rane, e ho composto le due pile di 12 elementi (1). Una di queste pile era composta di muscoli appartenenti alle rane paralizzate, e l’altra di muscoli presi sopra di quelle che non avevan sofferto niente. Opponendo queste due pile ho trovato una corrente differenziale di 16° a 18° nel senso della pila composta con i muscoli delle rane paralizzate . Questa pila dava una corrente di 50° a 55°, e l’altra una cor- rente di 42° a 45°. I muscoli delle rane alle quali la midolla spinale era stata bruciata erano sensibilmente più rossi di quelli delle rane ordinarie. L’integrità del sistema nervoso d'un muscolo è dunque tutt’affatto senza influenza sopra l'intensità della corrente mu- scolare e sulla sua direzione. (1) Con 12 rane si posson certamente preparare 48 mezze cosce; ma è sempre meglio di non far l’esperienze: che colle mezze cosce prese dalla parte delle gambe, giacchè quelle dalla parte del bacino non presentano mai la superficie di un muscolo così netta come quella delle mezze cosce prese dalla parte delle gambe. FENOMENI ELETTRO-FISIOLOGICI 25 Ho preparato una soluzione acquosa d’estratto d’oppio e un’altra d’estratto alcoolico di noce vomica: per disciogliere gli alcaloidi in maggior quantità ho aggiunto all’acqua qualche goccia d’acido idroclorico. Ho introdotto nello stomaco di un certo numero di rane 10 o 12 gocce di una di queste due so- luzioni: in diverse esperienze ho impiegato ora l’una, ora lal- tra soluzione. Dopo qualche tempo le rane cominciano ad as- sopirsi, si fissano in una certa posizione, e non è raro che molte fra esse entrino in contrazione al più piccolo movimento in vicinanza di loro. Ho composto due pile di mezze cosce di rane, e le ho opposte l’una all'altra. Gli elementi di una di queste pile erano presi sopra rane ordinarie, e gli elementi del- l’altra erano formati con muscoli di rane assopite dai narcotici. Malgrado un grandissimo numero d’esperienze non son riuscito giammai a ottenere segni costanti e assai forti di una corrente differenziale. Io debbo dunque concludere, che l'influenza dei veleni narcotici è presso a poco nulla sull’intensità della cor- rente muscolare. Ho pure osservato, in un sol caso e in una maniera ben distinta, che l’azione dei veleni narcotici in pic- cola dose aveva aumentato i segni della corrente muscolare. È inutile di dire che prolungando per lungo tempo l’azione di questi veleni, c impiegandoli in grandi dosi in modo che le rane siano uccise, si può allora trovare qualche diminuzione nell’in- tensità della corrente muscolare. Sarebbealo stesso se s’ impie- gassero le rane morte da molto tempo. Operando sopra muscoli di piccione sottoposti al medesimo trattamento delle rane son giunto alle medesime conclusioni. Ho messo sotto una campana di vetro un certo numero di rane: la campana era disposta in modo, che vi si poteva introdurre una corrente d’acido carbo- nico. Le rane cominciano dal saltare, aprono la bocca, e dopo 15 o 20 minuti restano senza movimento, e si direbbe che son morte. Effettivamente se non si tolgono dall’acido carbo- nico non si giunge più a salvarle. Io preparato rapidamente 24 È MATTEUCCI alcune rane nell’istante in cui non davano più nessun movi- mento, e nel medesimo tempo un ajuto ne preparava alcune altre, le quali erano lasciate allo stato normale. In questa ma- nicra ho potuto paragonare due pile formate dal medesimo nu- mero d’elementi, l’una di rane ordinarie, l’altra di rane che crano state nell’acido carbonico. Io non ricorderò qui i numeri ottenuti nell’esperienze tentate a quest’oggetto; il resultato è stato sempre lo stesso. La corrente muscolare delle rane asso- pite nell’acido carbonico è della stessa intensità, e nella stessa direzione di quella che si trova nelle rane ordinarie. Ho verificato questo resultato coi muscoli di un piccione ucciso nell’acido carbonico: ho avuto anche la cura di uccidere l’altro piccione che non aveva subìto questo trattamento nell'istante medesimo in cui si vedeva morire l’altro posto nell’acido carbonico. Collo stesso apparecchio ho potuto sottomettere altri ani- mali all’azione dell’acido idro-cianico, dell’idrogene arsenicato e dell’idrogene solforato. Il sig. Piria, mio collega ed amico, ha voluto ajutarmi in queste esperienze; io lo prego di ricevere adesso i miei ringraziamenti. Facendo le esperienze colle rane ho avuto cura di ucciderne delle ordinarie, nel momento che vedeva esser vicine a morte quelle sottoposte all’azione dei ve- leni gassosi. Ho trovato che la corrente muscolare delle rane avvelenate coll’acido idrocianico o coll’idrogene arsenicato era | presso a poco della stessa intensità, e nella stessa direzione di quella delle rane le quali non avevano subìto l’azione di questi veleni. Ho detto che l'intensità delle due correnti muscolari era. presso a poco della stessa intensità di quella osservata colle rane ordinarie, avendo sempre riscontrato una piccolissima corrente differenziale nel senso delle rane che non erano avvelenate. Ho anche verificato questo medesimo fatto sopra i piccioni. L'influenza dell’idrogene solforato sulla intensità della cor- rente muscolare è al contrario più rimarcabile, e merita di essere dit SR FENOMENI ELETTRO-FISIOLOGICI 25 distinta. È inutile il dire che ho operato con questo gas nella maniera già descritta. Ho opposto due pile, ciascuna di dodici clementi, e formate di mezze cosce di rane. Dodici di esse ap- partenevano a rane ordinarie, e le altre dodici della seconda pila appartenevano a quelle uccise coll’idrogene solforato. La corrente differenziale di queste due pile opposte era di 26° nel senso delle rane ordinarie: la pila di queste rane dava 50°, e l’altra di quelle uccise nell’idrogene solforato dava 5° a 6°, sem- pre diretta nel senso della corrente muscolare. In un’altra esperienza con due pile, formate ciascuna di otto clementi, ho ottenuto 15’ di corrente differenziale nel senso della pila delle rane ordinarie. In una terza esperienza con due pile, ciascuna di sette elementi, ho ottenuto 12° di corrente differenziale, e sempre nel senso della pila composta di rane che non avevano subìto l’azione dell’ idrogene solforato. Ho determinato la corrente di queste due pile separatamente, 15 minuti dopo la loro prepara- zione. La pila di rane ordinarie mi ha dato 15°, mentre che l’altra ha prodotto una deviazione appena sensibile. Operando sopra dei piccioni io son giunto a resultati del tutto simili. Ho preso un piccione e l’ho posto sotto una cam- pana, nella quale ho fatto entrare un poco d’idrogene solforato . L'animale è morto quasi all’istante: nel medesimo tempo ho ucciso un altro piccione. Ho preparato rapidamente questi duc piccioni in maniera da formare due pile muscolari, le quali ho opposte l'una all’altra nel modo da me tante volte descritto. In tutti i casi ho ottenuto una corrente differenziale sensibilissima. La deviazione prodotta dalla corrente differenziale è stata suc- cessivamente di 15°, 10°, 8° nel senso del piccione che non aveva subìto l’azione dell’idrogene solforato. Possiamo riassumere i resultati principali che abbiamo ri- cordati in questo capitolo, nei termini seguenti: « L'intensità della « corrente elettrica muscolare varia per gli animali a sangue Scienze Cosmolog. T. I. 4 26 MOAPIITRENOTE CH « freddo proporzionalmente alla temperatura del mezzo nel quale « hanno vissuto per un certo tempo: la durata di questa corrente, « dopo la morte, è tanto più piccola quanto più l’animale è ele- « vato nella scala degli esseri: l’intensità della corrente musco- «lare varia col grado di nutrizione del muscolo, ed è sempre « più forte nei muscoli che sono impregnati di sangue, c infiam- « mati: questa corrente è indipendente dall’integrità del sistema « nervoso, e dall’attività di questo sistema: l’influenza dei veleni « narcotici è nulla, o molto debole su questa corrente: fra i dif- « ferenti veleni gassosi l’idrogene solforato solamente agisce in «un modo rimarcabile a scapito dell’intensità della corrente « muscolare: la direzione della corrente muscolare è costante in « tutti i casì ». CAPITOLO II. Della corrente propria della rana. Nell’Introduzione ho detto una parola della scoperta fatta da Galvani, studiata in seguito da Humboldt e Valli, della con- trazione osservata in una rana preparata alla maniera ordinaria ripiegando le gambe sopra i suoi nervi lombari. Nobili è il primo Fisico che, cinquant'anni dopo la sco- perta di Galvani, ha studiato il fenomeno col galvanometro. Nobili prepara la rana nel modo solito di Galvani, e la colloca quindi ( Fig. 15 ) coi suoi nervi lombari immersi in una capsula, e le gambe in un’altra. Si riempiono queste due capsule d’acqua, e immergendovi le due lastre del galvanometro si ha così il cir- cuito serrato. Credo inutile di riprodur qui la descrizione minuta di tutte le precauzioni che conviene avere in questa operazione onde evitare ogni errore. Queste precauzioni sono state sviluppate con la più grande estensione nel mio libro già più volte citato. Facendo un’ esperienza nel modo di Nobili, si ottiene una deviazione nell’ago del galvanometro che è di 5°, 10°, 15° e FENOMENI ELETTRO-FISIOLOGICI 27 anche più grande, secondo la sensibilità dell’ istrumento, la con- ducibilità del liquido impiegato per riempire le capsule, la gros- sezza dello strato liquido interposto tra le parti animali e gli scandagli del galvanometro, e in fine secondo l’attività propria della rana. La corrente è sempre diretta dalle gambe ai nervi, o in altro modo dai piedi alla testa dell'animale. Se la rana è robusta ed è stata preparata rapidamente, si vedono nello stesso tempo che il circuito è chiuso col galvanometro, i membri con- trarsi. Ondei segni della corrente che è stata chiamata propria aumentino, basta disporre molte rane a pila. Questa disposizione è facilissima a concepirsi. Si preparano alla maniera di Galvani alcune rane, e si collocano l’una dietro l’altra sopra un piano isolante (Fig. 16). Un taffettà verniciato è ciò che v'ha di meglio in questo caso: difatto allorchè un’ esperienza è finita si rovescia il taffetta, e siamo sicuri così d'aver di nuovo un piano isolante. Si ottiene la disposizione a pila facendo toccare i nervi di cia- scuna rana colle gambe della rana successiva. Le due estremità di questa pila debbono essere immerse in due capsule ripiene d’un liquido leggermente salato, o anche di acqua distillata. Si possono ancora comporre queste pile come quelle & corona di Volta, impiegando una serie di capsule o di bicchierini, in cia- scuno dei quali si fa pescare le gambe e i nervi delle due vicine rane. Con queste pile ho ottenuto una deviazione di 20°, 50°, 40°, 60° ec. proporzionalmente al numero degli elementi e se- condo tutte le altre circostanze che noi abbiamo di già stabilito. Impiegando invece di acqua distillata una soluzione leggermente salata onde riempire le capsule della pila, si ottengono col me- desimo numero d’elementi delle deviazioni molto più grandi; l’acqua leggermente alcalina può dare anch'essa lo stesso resul- tato. Le deviazioni sono ancora più grandi se il liquido delle capsule è leggermente acidulato. In tutti i casi, qualunque sia il liquido impiegato nelle capsule, la direzione della corrente pro- pria è sempre la stessa; è sempre, cioè, diretta dai piedi alla testa 28 MATTEUCCI nella rana. Nello stesso tempo che si ottengono delle deviazioni nell’ago, si vedono tutte le rane contrarsi: queste contrazioni non son altro che il fenomeno osservato la prima volta da Gal- vani. Allorquando la rana è robusta e prontamente preparata si vede contrarsi, qualunque sia l'arco conduttore col quale si riuniscono i nervi ei muscoli di essa. È così che la rana si contrae impiegando per arco fra nervi e muscoli uno stoppino di cotone o una striscia di carta bagnata con acqua: si può egualmente impiegare una massa d’acqua tenendo la rana colle mani, e fa- cendo cadere sulla superficie dell’acqua i nervi e le gambe nello stesso tempo. Si vede ancora contrarsi tenendola colla mano per i suoi nervi o per le gambe, ed immergendola pure nell’acqua colle gambe o co’ suoi nervi. In questo caso il circuito è sta- bilito fra il liquido, il suolo e il corpo dell'osservatore. Difatti la contrazione della rana manca se è sostenuta da un corpo isolante, e se il liquido toccato è contenuto in un recipiente isolato. In fine la contrazione propria (1) della rana può otte- nersi con un filo metallico qualunque, per mezzo del quale si chiude il circuito fra nervi e muscoli. Galvani aveva tutta la ragione di riguardare questo fatto come prova dell’esistenza d’una corrente elettrica propria della rana, ec indipendentemente da tutte le eterogeneità che Volta voleva vedere nei due estre- mi dell'arco metallico. Allorchè la contrazione propria ha luogo nel medesimo tempo che la deviazione prodotta dalla corrente propria, bisogna ammettere che è ‘il filo del galvanometro che compone il circuito. Onde vedere le contrazioni proprie nelle rane disposte a pila conviene necessariamente toglier loro il bacino; e quando si dispongono al modo di pila « corona è ne- cessario che i nervi lombari non siano intieramente immersi nel liquido. Non usando queste precauzioni la corrente propria cir- (1) Chiamerò ormai contrazione propria quella che è prodotta dalla corrente, la quale si è convenuto di chiamare corrente propria della rana. et 4 ” FENOMENI ELETTRO-FISIOLOGICI 29 cola senza percorrere i nervi lombari, e conseguentemente le contrazioni proprie mancano, o sono debolissime. Onde scoprire la corrente propria d’una pila di rane si può impiegare facilmente la rana galvanoscopica. Per far ciò basta riunire le due capsule estreme della pila col filamento nervoso di questa rana: adoprando una rana molto indebolita si giunge facilmente a determinare la direzione della corrente propria, col metodo che noi abbiamo descritto parlando della rana galvanoscopica. L'esistenza della corrente propria della rana è molto facile a provarsi nell’animale vivente, sia col galva- nometro, sia con la rana galvanoscopica, sia infine colle contra- zioni proprie. Levo la pelle alle gambe d’ una rana viva, e do- po la taglio longitudinalmente nella regione del bacino in modo, da scoprire i suoi nervi lombari. Ripiegando le gambe di questa rana in contatto dei nervi lombari, si vedono all'istante delle contrazioni proprie. È la stessa esperienza di Galvani fatta sulla rana vivente. Sopra questa stessa rana si può scoprire la cor- rente propria impiegando la rana galvanoscopica. Basta chiudere il circuito fra i nervi lombari, e le gambe col filamento nervoso della rana galvanoscopica. Io descriverò più minutamente le esperienze che ho fatte per ottenere al galvanometro i segni della corrente propria della rana. Fisso sopra una tavola un certo nu- mero di rane viventi preparate nel modo stesso di quella che abbiamo ora descritta. Queste rihe sono fissate per mezzo di piccoli chiodi che passano attraverso le gambe superiori. Con un poco di pazienza è facile d’ottenere il contatto fra i nervi c le gambe di due rane poste una accanto all’altra. Le estremità di questa pila terminano in due cavità della tavola con due strisce di carta imbevute d’acqua, che toccano da una parte i due punti della rana, e dall'altra il liquido delle due cavità estreme della pila. Per preparare facilmente le rane in questa esperienza, giova di togliere intieramente tutti i muscoli del bacino: così il corpo della rana non è più attaccato a’ suoi membri inferiori che per mezzo dei nervi lombari. 30) MATTEUCCI I segni della corrente propria della rana si prolungano più o meno secondo la vivacità dell’animale. La contrazione propria cessa ordinariamente dopo 10 o 15 minuti: ed è raro che si trovino alcune rane che mostrino il fenomeno una mezz'ora dopo averle preparate. Quando le contrazioni proprie hanno cominciato a sparire, si possono ottenere ancora scoprendo una porzione del nervo che è tuttora ricoperto dal muscolo, e toccando questa porzione che è stata scoperta, colla gamba. È sempre necessario che la nuova porzione del nervo sia presa verso l’estremità del nervo stesso. La cessazione delle contrazioni proprie è dovuta eviden- temente all’indebolimento nella eccitabilità del nervo. In fatti al galvanometro i segni della corrente propria persistono lunga- mente. Io ho veduto pile di 8 o 10 rane, che davano al prin- cipio 50° a 40°, produrre questa stessa deviazione ripetendo l’esperienza 15 minuti dopo. Le medesime pile danno ancora una deviazione assai sensibile dopo più ore, ed è necessario qualche volta, secondo la stagione e la vivacità delle.rane, trat. tenersi un giorno o un giorno e mezzo per non aver più alcun segno di corrente propria. Alcune volte si giunge ad aumentare questi segni di qual- che grado allorchè son cessati quasi affatto, bagnando le rane coll’acqua. Quando si tien chitiso il circuito di una pila di rane, l’ago spinto per la prima deviazione comincia in seguito a oscil- lare, e alla fine s'arresta a una deviazione la quale, sebbene sia sempre nello stesso senso, è molto più piccola della prima. Da questa deviazione ove l’ago si è fissato esso continua lentamente a discendere, e son necessarie più ore perchè ritorni a zero. Tale diminuzione è in parte dovuta alla corrente secondaria che si sviluppa sopra le lastre di platino del galvanometro, e che circola in senso contrario della corrente propria della rana. Se infatti si ritirano i due scandagli dalle capsule estreme della pila, FENOMENI ELETTRO-FISIOLOGICI 573 | e s'immergono contemporaneamente in una delle capsule, si wede l'ago deviare in senso contrario, e il numero dei gradi di cui devia è presso a poco eguale a quello ottenuto quando è chiuso il circuito della pila di rane. Allorchè queste lastre hanno cessato di dar segni di corrente secondaria, se con esse si chiude di nuovo il circuito della pila di rane, si ottiene una deviazione che è di poco minore della primitiva. È necessario che qualche minuto sia passato, come ho già detto, per scorgere un qualche indebolimento nella corrente propria. Quali sono le leggi della corrente propria della rana? Il sig. Nobili aveva osservato, che disponendo alcune rane in modo che i nervi dell’una toccassero quelli dell’altra, e lo stesso fosse per i muscoli, non vi erano contrazioni in alcuna delle rane; ciò avveniva secondo lui perchè, in questo caso, gli elementi elettro-motori sono opposti. Io ho ripetuto quest'esperienza, e l’ho variata in diversi modi: si ottengono sempre le contrazioni se si toccano simultaneamente due parti non simmetriche della rana. Ecco un mezzo facile per aver la prova di questo principio. Si levi la pelle ad una rana ben vivace, e le si tagli nel modo ordinario la spina, con gli ossi e i muscoli del bacino: inoltre sì tagli ancora l’osso iliaco che riunisce le cosce, e si separi così la rana in due metà, le quali restino congiunte per mezzo ‘de’ due nervi spinali riuniti organicamente nella porzione della midolla spinale (Fig. 17). Disponendo questa rana sul piano iso- latore, c tenendo ben separate le due cosce e stesi i nervi, è facilissimo d’osservare che toccando con una gamba l’altra co- scia, le contrazioni hanno sempre luogo, mentre che mancano toccando le gambe fra loro. Si possono anche avere toccando due parti diverse delle gambe stesse con un arco di cotone 0 di carta bagnato di un liquido isolato. Si ottengono queste con- trazioni ancora più forti in una delle gambe, ripiegando i nervi dell’altra in modo, che la porzione della midolla spinale venga a 52 MATTEUCCI toccare i muscoli della coscia. Con questa disposizione e con una rana molto vivace si hanno le contrazioni toccando una gamba coll’altra. Si osservano sovente le contrazioni in uno dei membri allorchè si chiude il circuito, e nell’altro quando si apre. Se s'impiega il galvanometro per avere la corrente propria della rana così preparata, toccando con una lastra la gamba e coll’al- tra la coscia si hanno i segni della corrente dell’intensità ordi- naria, e diretta sempre dalla gamba alla coscia e da questa per i nervi all’altra coscia. Questi stessi fenomeni di contrazione € di corrente al galvanometro si ottengono ancora separando le rane intieramente a metà, e collocando i suoi due nervi spi- nali l'uno in contatto dell'altro per mezzo d’ un pezzetto di carta umida, o facendoli pescare nel liquido di un bicchierino. Avviene in tutte queste esperienze che se la rana è vivace e se s'impiega appena preparata, toccando i muscoli d’una coscia con quelli dell'altra gamba, si suscitano nei due membri | delle contrazioni tanto all’aprire che al serrare del circuito. Ma in una rana che non sia tanto vivace, o impiegandola qualche istante dopo averla preparata, il solo membro di cui si toccano i muscoli della coscia si contrae serrando il circuito, mentre che l’altro sta fermo. Aprendo il circuito la contrazione avviene in un modo contrario, cioè ha luogo nel solo membro della rana che si porta in contatto con i muscoli dell’altra coscia. Tali resultati son costanti se si è avuto cura, quando si colloca un membro sull’altro, di non ripiegare il filamento nervoso sopra i muscoli della coscia nella quale è ramificato. È ugualmente necessario che il piano sul quale è collocata la rana sia bene isolante. Questi fatti sono una conseguenza dell’azione fisiologica della corrente, che sappiamo variare secondo la direzione nella quale si propaga nel nervo. Dietro queste esperienze mi,sembra giusto di concludere, che ciascun membro di una rana può considerarsi come un elemento elettro-motore completo. Resulta da ciò che nella rana preparata alla maniera della quale ho me FENOMENI ELETTRO-FISIOLOGICI dI parlato, ed impiegata nelle diverse esperienze, le contrazioni mancavano toccando delle parti simmetriche, perchè le correnti dei due membri circolavano in direzione contraria e avevano la stessa intensità. i Dopo aver tagliato a metà una rana preparata nel modo ordinario, ho disposto i due membri in guisa che il nervo del- l'uno e la zampa dell’altro peschino nel liquido di un bic- chierino, e l’altra zampa con l’altro nervo in un altro simile : si ottengono fortissime contrazioni nei due membri all’ istante che s’introduce il secondo. Immergendo allora le estremità del galvanometro nei due bicchierini non si ha giammai alcun segno di corrente. In questo caso le correnti dei due membri circo- lano insieme ugualmente dirette per i due membri, e quand’ an- che porzioni di queste correnti prendessero la via del galvano- metro, è facile il vedere che circolerebbero in senso contrario e non produrrebbero perciò alcuna deviazione. Se, al contrario, la disposizione dei due membri è tale che in un medesimo bicchie- rino peschino i due nervi e nell’altro le due gambe, è facile vedere che le due porzioni della corrente che non circolano per l’arco animale, entrano per l’ estremità del galvanometro e cir- colano in esso nel medesimo senso. La somma di queste due porzioni della rana misurata dal galvanometro, è quella che pro- duce la corrente propria. È naturale d’ammettere che una por- zione solamente della corrente di uno dei membri prende Ja via del galvanometro, mentre che l’altra circola nell’ altro membro come farebbe per un arco liquido qualunque. Si può dimandare adesso, se gli effetti al galvanometro au- menteranno disponendo nel medesimo senso e nei due bicchie- rini un numero più grande di rane, cioè con tutti i loro nervi in un bicchierino, e con tutte le gambe in un altro. Ho tentato quest’esperienza in diverse maniere ponendo finò a 10 o 12 rane luna sull’altra, e la corrente che io ne ho ottenuto non fu più intensa di quella di una sola rana. Scienze Cosmolog. T. I. t) 54 MATTEUCCI Le piccolissime differenze osservate in questi esperimenti variatissimi, furono qualche volta in favore di una sola rana e qualche altra in favore di un gran numero di rane disposte nel modo che ho detto; ma in tutti i casi la differenza era eviden- temente dovuta alla diversa vivacità delle rane impiegate: se la sola rana era più vivace che ciascuna delle altre ammucchiate, la sua corrente era più forte. Dopo ciò rendevasi necessario di esperimentare sopra la rana intiera e sulla metà della rana. Io non ho risparmiato alcuna esperienza in proposito. Ho tagliato a questo fine 4 o 6 rane a metà preparate alla maniera ordinaria, e nel medesimo tempo ho fatto preparare altre 40 6 rane che ho conservate intiere; quindi ho formato le due pile sopra il medesimo piano isolatore, l’una di mezze rane (Fig. 18) e V'altra di rane intiere (Fig. 16); e se- condo il solito le ho opposte l’una all’altra facendo toccare insieme l'estremità simili delle due pile. Ho ripetuto venti volte almeno quest'esperienza lasciando ora alle mezze rane la spina intatta, e ora alle stesse mezze rane la sola metà della spina, o conser- vando il bacino ora a quelle divise, ora a quelle intiere. In tutti i casi toccando le estremità simili delle due pile riunite ed oppo- ste con le lastre del galvanometro, non ho ottenuto giammai segni ben distinti di una corrente differenziale. Invece del gal- vanometro ho anche impiegato la rana preparata nel modo da me descritto, cioè riunendo le estremità delle due pile eon un tratto del filamento nervoso della rana galvanoscopica; le con- trazioni sono state sempre appena sensibili, e in un caso hanno mancato intieramente. I piccoli segni della corrente differen- ziale furono qualche volta nel senso delle rane intiere, qualche volta in quello delle mezze rane. Lasciando che l’ago ritorni a zero, ciascuna delle due pile separatamente dava una corrente di 15° a 20° ed'anche 25°. Bastava d’aggiungere a una di queste pile un solo elemento di più, per ottenere la corrente differen ziale ben distinta, e come se l'elemento aggiunto fosse solo. Ho FENOMENI ELETTRO-FISIOLOGICI 35 anche tentato quest’esperienza in un modo differente: ho pre- parato due pile di rane intiere, ciascuna di sei, e le ho disposte sul piano isolatore opposte l’una all'altra. Allontano una delle gambe a ciascuna delle sei rane della prima pila in modo che non resti che una sola gamba in contatto colla spina della rana che segue, e ottengo così una pila di mezze rane. Rimettendo la gamba sulla midolla per ciascuna rana, ho di nuovo la pila in- tiera. Operando in questo modo io non ho scorto alcuna diffe- renza sensibile e ben distinta. Devo soltanto aggiungere, che la piccola differenza osservata è stata sempre nello stesso senso. Così se d’una pila di sei rane intiere che non davano 16°, io ne faccio una di mezze rane allontanando una delle gambe dalla spina della rana susseguente, la corrente diminuisce di 2°; e rimettendo come prima le gambe, la deviazione ritorna la stessa. Sopra una sola rana non sì scorge questa piccola differenza. Dietro le esperienze enunciate credo che si debba concludere: 1.° Che l'elemento elettro-motore completo della rana è formato da uno de’ suoi membri, cioè d’una gamba della coscia, del suo nervo spinale e d’un pezzo di midolla. 2.° Che per ciascuno dei membri della rana circola la corrente dell’altro membro, tutte le volte che lasciando intatta la rana si fanno comunicare insieme e in un modo qualunque le due estremità o gambe della stessa rana. 5.° Che nell'esperienza colla quale si scopre col galvano- metro questa corrente della rana non si ha giammai, nel filo di quest’istrumento, altra corrente che quella resultante dalla som- ma delle due porzioni di corrente provenienti dai due membri, e che non si scaricano da un membro nell’altro (1). Io devo (1) Per concepire come una mezza rana produce al galvanometro una corrente eguale a quella della rana intiera, si può supporre che 5 esprima la corrente della mezza rana, e che unita all'altra mezza e in contatto colle lastre del galvanometro, la sua corrente circoli divisa a metà per il filo del galvanometro e per la mezza rana considerata come arco. Ogni altro numero può supporsi. 56 MATTEUCCI dire a questo proposito, che ho riconosciuto dei fenomeni ana- loghi operando sopra delle correnti sviluppate in circuiti del tutto umidi per azione chimica; ho preso perciò due stoppini di cotone o due strisce di carta bagnate nell’acqua salata, e le ho immerse per una delle loro estremità nella soluzione di potassa, e per l’altra in una soluzione d’acido nitrico; quindi ho disposto questo stoppino come nell’esperienze ordinarie della rana met- tendolo al posto dell'animale. Confesso che il soggetto merite- rebbe uno studio più lungo; nulladimeno le poche esperienze tentate s'accordano a stabilire che servendosi di due, tre, o più di questi stoppini, non si ottiene una corrente più intensa che da uno solo. Notisi ch’ io non ho trascurato di fare quest’esperienza, sia con le rane, sia cogli stoppini o archi umidi, tenendoli, nel. caso nel quale gli aveva disposti, isolati l’uno dall’ altro con un pezzo di taffettà inverniciato, per il tratto che non è immerso nel liquido, precauzione che del resto sembra inutile. Quali sono le parti della rana assolutamente necessarie alla produzione della sua corrente? quali sono le circostanze anato- miche e fisiologiche per le quali l'intensità di questa corrente varia? Noi abbiamo sempre detto, che per ottenere la corrente della rana è necessario porre in comunicazione le due estremità del galvanometro coi liquidi dei due bicchierini riuniti insieme da una rana preparata e disposta nel modo ordinario, cioè con un pezzo di midolla spinale e di nervo in un bicchierino, e le sambe nell'altro, essendo le cosce orizzontali. È facile assicu- rarsi che il contatto diretto del muscolo e della gamba non è necessario per avere i segni della corrente propria; e difatti le contrazioni proprie si hanno, se si prepara una rana, levandoli la pelle tutta intiera, e se dopo si recidono gli ossi e i muscoli del bacino in modo da avere il suo torace solo unito ai membri inferiori mediante i nervi lombari: si vedranno le contrazioni proprie ripiegando la gamba in contatto degli occhi, della testa, dei muscoli del dorso. Piegando questa rana con la testa in una FENOMENI ELETTRO- FISIOLOGICI 57 capsula e le gambe nell’altra, e riunendo le due capsule nel galvanometro si ottiene la deviazione ordinaria dovuta a una corrente che va dai piedi alla testa dell'animale. A fine di stu- diare l'influenza delle differenti parti della rana in questo feno- meno ho cominciato dal togliere interamente i due nervi spinali e la porzione di midolla spinale, lasciando per altro intatti gli ossi e i muscoli del bacino, e ho tentato la corrente della rana . così preparata facendo pescare nei due bicchierini da una parte il bacino e dall'altra la gamba. La corrente della rana era di- retta egualmente come nella rana alla Galvani, ed era anche più forte. Ho preparato due pile di 6 rane ciascuna, e le ho opposte luna all'altra: le rane di una delle pile erano intatte e prepa- rate alla maniera ordinaria, e le rane dell’altre erano senza mi- dolta spinale, senza nervi spinali, e avevano al contrario gli ossi e i muscoli del bacino. La corrente differenziale, sebben piccola, era costantemente diretta dalla pila composta di rane che erano senza nervi spinali e che avevano, al contrario, il bacino intatto. Ho preparato e ho posto due altre pile di sei rane ciascuna. In una di esse le rane erano preparate alla maniera ordinaria, nell’altra avevano gli ossi ei muscoli del bacino, ma mancavano della midolla spinale, dei nervi spinali, ed- anche di tutti i nervi crurali visibili. Con questa disposizione ho ottenuta una debole corrente differenziale, sem- pre diretta nella pila che era costituita di rane senza midolla spinale e senza nervi. Ho ancora preparato altre due pile, cia- scuna di sei rane, le quali mancavano affatto della midolla spi- nale, dei nervi, e di tutti gli ossi e muscoli del bacino. In que- sto caso la piccola corrente differenziale che si aveva era dovuta alla pila di rane che erano ridotte alle cosce e gambe solamente. Ottenni anche questo medesimo resultato facendo una pila di sei rane alla quale avevo tolto la midolla spinale, i nervi spinali, gli ossi e i muscoli del bacino, e di più tutti i filamenti nervosi visibili ramificati nei muscoli della coscia. 38 MAT.TEUCCI Queste esperienze conducono evidentemente a concludere, 1.° Che la corrente propria della rana persiste nella sua direzione e nella sua intensità, senza la midolla spinale, senzai nervi spi- nali e crurali, e sebbene privata di tutti i filamenti nervosi visi- bili della massa muscolare della coscia. 2.° L'elemento elettro- motore di questa corrente si riduce ai muscoli della gamba e della coscia riuniti organicamente. 5.° Quando si lascia alla rana preparata nella maniera ordinaria la sua midolla spinale, i suoi nervi e le sue diramazioni nei muscoli, queste parti nervose agiscono nella produzione della corrente come fa la sostanza muscolare della coscia. Mentre che è difficile di ottenere le contrazioni mettendo in contatto i nervi e i muscoli di una rana preparata da 15 o 20 minuti, si ottien sempre, e anche dopo maggior tempo, una deviazione sufficientemente visibile nell’ago del galvanometro facendo l’esperienza che ho più volte descritto. La diminuzione di questa corrente è rapida nei primi minuti; così 8 o 10 mi- nuti dopo che la rana è stata preparata, la deviazione è ri- dotta a metà: una pila di sei rane che in principio era capace di dare 16°, dopo 50 minuti non ne dà che 6°. Questa stessa pila dopo 24 ore indicava una deviazione di 2° a 3°. Bagnando le rane preparate da lungo tempo nell’acqua leggermente salata, la corrente soffre un aumento appena sensi- bile. La durata dei segni della corrente di una rana è variabile secondo il modo col quale è stata preparata. Ho tentato di pre- parare alcune rane lasciando intatto il sistema cerebro-spinale, e ho composto una pila di rane facendo posare la massa cere- brale di un elemento sopra i muscoli della gamba dell’ elemento successivo. Questa pila dava la sua corrente nel medesimo senso di quella che si ottiene colle rane preparate alla maniera ordi- naria. Mi sono solamente accorto, paragonando fin dal principio questa pila con una pila dello stesso numero di rane preparate al solito, che i suoi segni erano sul principio un poco più deboli di quelli della seconda pila, ma che persistevano più lungamente. —- FENOMENI ELETTRO-FISIOLOGICI 39 I segni della corrente dati da una rana il di cui sistema cerebro-spinale è intatto, possono aumentare tagliando la midolla spinale dopo che i primi segni si sono indeboliti. Non è neces- sario riferire questo effetto alla minor lunghezza dell’arco che la corrente deve percorrere; di fatto sussiste colla sola irritazione della midolla spinale, senza che ‘una porzione ne venga distaccata. Nello stesso modo le correnti ottenute colle sole gambe o con le porzioni di cosce tagliate persistono meno di quelle ottenute colle rane intiere. Ho voluto anche tentare, se tenendo le rane preparate al contatto di differenti gas, si trovava qualche differenza nell’in- tensità della corrente propria. Dopo aver preparato rapida- mente 12 rane, ne ho introdotte 6 in una campana ripiena di gas acido carbonico. Dopo 15 minuti ho disposto due pile l'una accanto all’altra, una delle quali era composta di rane che si erano lasciate esposte all’aria, l’altra di quelle che erano state nell’acido carbonico: io non ho ottenuto alcuna corrente differenziale. In altre esperienze mi è avvenuto di riconoscere che mentre i segni della corrente al galvanometro non variano dopo che la rana è restata nell’acido carbonico, le contrazioni dovute alla corrente propria s indeboliscono assai, e qualche volta spariscono affatto. Io credo che questo effetto debba essere attribuito all’ influenza del gas acido carbonico sulla eccitabilità dei nervi, poichè ho veduto che queste rane per essere state immerse in un'atmosfera d’acido carbonico non davano nessuna contrazione; appena tolte esse potevan darle di nuovo, dopo essere state esposte all'aria per qualche secondo o dopo averle lavate. Ho tentato queste esperienze impiegando invece dell’ acido carbonico il gas ossigeno, e non ho trovato alcuna differenza fra questo gas e l’aria atmosferica. Debbo notare ancora che son riuscito a diminuire e quasi ad estinguere i segni della corrente nella rana, tenendola per qualche minuto, dopo averla preparata, nell’acqua bollente. 40 MATTEUCCI Se si prende la metà d’una rana preparata alla maniera ordinaria e composta di una gamba della coscia, del suo nervo e d’una porzione della midolla spinale; e se si piega la coscia di questa mezza rana in contatto della gamba, non si ottengono le contrazioni quando si fanno toccare insieme i nervi ed i mu- scoli della gamba. Se la gamba è allontanata un poco dalla co- scia, le contrazioni si mostrano immediatamente toccando col nervo le medesime parti che prima erano state inutilmente ten- tate. Questo medesimo fenomeno può essere anche osservato col galvanometro. Se s'immerge la gamba e la coscia di una mezza rana in un piccolo bicchiere, e una porzione di midolla spinale con un tratto di filamento nervoso nell’altro bicchiere, si ha una deviazione appena sensibile nell’ago del galvanometro chiudendo il circuito. Si considererebbe a torto questo resultato come contrario a quelli esattissimi di Galvani e di Humboldt, cioè che le contra- zioni dovute alle correnti della rana sono tanto più forti quanto più il punto del nervo toccato dalla gamba è lontano dalla sua inserzione nei muscoli della coscia. Nell’esperienze di Galvani e di Humboldt il filamento nervoso è percorso dalla corrente, ed è naturale che le contrazioni svegliate siano tanto più grandi quanto più la lunghezza di questo filamento nervoso è più grande. Mi restava, onde completare lo studio della corrente della rana, a determinare l’influenza che hanno in questo fenomeno i muscoli della coscia, quelli della gamba, i tendini ec. Perciò ho cominciato col comporre una pila di sole gambe, | che ho disposte al solito sopra il piano isolatore, mettendo in contatto coi tendini della gamba le loro estremità superiori. Sono stato sorpreso in quest’ esperienza, nell’ ottenere da una pila composta solamente di gambe e paragonata con un’altra del medesimo numero di rane intiere, una corrente che non è mi- nore di quella prodotta da quest’ultima pila composta di rane intiere. La direzione della corrente di questa pila di sole gambe era sempre dall’estremità verso la testa nella gamba. . FENOMENI ELETTRO-FISIOLOGICI 41 Ho in seguito tentato le cosce sole, che erano ora col fila- mento nervoso, e ora senza. In questi due casi le pile di 6 fino a 12 cosce m'hanno dato segni assai deboli e appena sensibili di corrente. Giova che anche qui faccia osservare, che questi © segni erano dovuti ad una corrente diretta sempre dalle estre- mità alla testa nella coscia. Ho tentato di togliere, per quanto era possibile, la superficie tendinosa della gamba; ed ho, con rane così preparate, costruito la medesima pila sia con le gambe sole, sia con mezze rane, sia con delle rane intiere. La corrente ottenuta fu sempre nel senso ordinario della corrente della rana, e sensibilmente più intensa di quella che si ottiene nelle medesime circostanze lasciando intatto il tendine della gamba. Queste esperienze che ho ripetute e variate in diversi modi e che m'hanno sempre dato i medesimi resultati, conducono a stabilire che la corrente propria può ottenersi colla sola gamba della rana. Ho cercato ancora di stabilire la durata della corrente della rana preparata nel modo tante volte descritto. Eccomi giunto al punto di risolvere la questione, se la cor- rente propria della rana tale quale ce la manifesta il galvano- metro, ha la stessa origine delle contrazioni della famosa espe- rienza di Galvani. Onde stabilire l'origine di questi due fenomeni conveniva mostrare che le diverse circostanze che modificano uno dei feno- meni agiscono egualmente sull'altro. È certo che in tutte le esperienze nelle quali un arco, o liquido o metallico, è stabilito fra i nervi ci muscoli d’una gamba di una rana vivace e recen- temente preparata, vi è contrazione la quale qualche volta si ottiene anche nell’istante in cui viene interrotto il circuito. Se quest’arco metallico è il filo del galvanometro, vi è nello stesso tempo contrazione nella rana e deviazione nell’ago dell’ istru- mento. Scienze Cosmolog. T. L. 6 42 MATTEUCCI Allorchè si dispongono sopra un piano isolatore più rane in pila, si vedono aumentare i segni della corrente al galvano- metro. Senza rammentar qui tutti i resultati che dimostrano in una maniera incontrastabile questo aumento della corrente della rana per la disposizione a pila, io mi limiterò a citarne uno. Una rana preparata, toccata colle lastre del galvanometro sopra i nervi spinali e sopra i muscoli della gamba, mi ha dato 6°, due rane 8°, tre rane 15°, quattro rane 18°, cinque rane 20°, sei rane 24°. Le contrazioni proprie aumentano anch'esse per la riunione in pila: questo fenomeno si può riscontrare benissimo stabilendo il circuito con un pezzo di cotone o di carta bagnata. Quanto più è grande il numero delle rane che compongono la pila, tanto più le contrazioni proprie sono grandi, e tanto più è facile otte- nerle nel momento in cui s’interrompe il circuito. S’ incontrano sovente delle rane, i di cui muscoli sono biancastri e impregnati d’un liquido sieroso. Con queste rane è assai raro di ottenere le contrazioni proprie, e anche i segni della corrente al galva- nometro sono debolissimi. Onde essere ben certi di questo re- sultato ho costruito due pile di rane che ho opposte l’una all’ al- tra. Le sei rane della prima pila erano scelte nello stato che ho descritto, quelle della seconda erano robuste e allo stato ordi- nario. Ho avuto sempre una corrente differenziale marcatissima prodotta dalla seconda pila. Ho detto che togliendo ai muscoli della gamba la superficie tendinosa dalla quale sono coperti, e costruendo una pila per mezzo di rane così preparate, si otteneva la corrente nel senso ordinario, ma di un'intensità più grande. Supponendo che una pila così costruita sia paragonata con una pila di un egual nu- mero d’elementi presi da rane intatte, si aveva una corrente differenziale dovuta alla prima pila. Era importante di parago- nare questo effetto con quello che è prodotto, fatta la medesima operazione, nelle contrazioni proprie . FENOMENI ELETTRO-FISIOLOGICI 45 Secondo Galvani e il sig. Humboldt le contrazioni diver- rebbero più deboli levando i tendini dai muscoli della gamba . Ho tentato molte esperienze onde stabilire l’effetto della pre- senza del tendine. Ho preso perciò una rana, l’ho preparata alla maniera ordinaria, e mi sono assicurato che vi erano contrazioni proprie, qualunque fosse la gamba che era ripiegata sopra la porzione di spina o sopra i nervi spinali. Questi confronti rie- scivano anche meglio servendosi di un pezzo di carta o di un cordone di cotone bagnato nell'acqua salata per fare arco fra il nervo e la gamba, e ottenere le contrazioni. Operando in questo modo si è più sicuri di toccare egualmente le stesse parti. Dopo essermi assicurato dell’esistenza delle contrazioni con le due gambe d’una rana, ho tentato di togliere, per mezzo d’un rasojo, la superficie tendinosa che ricuopre i muscoli d’una delle gambe. Ho avuto anche l’attenzione di togliere le estremità o le zampe, per esser certo che tutta la parte tendinosa era tolta. Prepa- rata così la rana, ho fatto l’esperienza sopra le due gambe, e ho ottenuto sempre lo stesso resultato toccando successivamente l'una dopo l’altra. Con questo modo d’operare ho agito sopra un gran numero d’individui, ed ho ottenuto per resultato costante che le contrazioni proprie sussistevano egualmente con le gambe intatte, come con le gambe che mancavano della superficie ten- dinosa. La differenza che s’ottiene costantemente per l’opera- zione suddetta, è che i segni delle contrazioni proprie ottenuti colle gambe senza tendini si estinguono molto più presto di quello che avviene lasciando le rane intatte. Una tal differenza. è anche mostrata dal galvanometro. Si deve aggiungere ancora che operando sopra rane debolissime le quali non danno contra- zione, o cadendo sopra alcune di quelle che non la danno che con una sola gamba, mi è accaduto molte volte, appena aver levato i tendini della gamba e messi i muscoli scoperti a contatto del nervo, d’ottenere la contrazione. Questi segni non conti- muano che per poco tempo. 44 MATTEUCCI Immergendo una rana in una soluzione di sal marino prima di sottoporla all'esperienza, si aumentano i segni della corrente al galvanometro. Galvani aveva di già osservato che con questa immersione si rendono le contrazioni proprie più forti, e si giunge a ottenerle con rane che naturalmente non le avrebbero mostrate; ho sempre verificato questi resultati. Ho tolto affatto il cuore a delle rane, e ne ho fatto sgorgare il sangue; allora le ho preparate alla maniera ordinaria. Le con- trazioni proprie erano debolissime in queste rane, e qualche volta mancavano; i segni della corrente propria al galvanometro sono più deboli di quelli che si ottengono nelle rane preparate alla maniera ordinaria. Ho preparato alcune rane prese da convulsioni, le quali era- no eccitate dall’estratto di noce vomica introdotto nello stomaco. Con queste rane i segni della corrente al galvanometro sono più deboli dell'ordinario, ed è più diflicile d’ ottenere le contrazioni proprie. Ho sempre osservato che le contrazioni proprie mancano, o sono molto più rare operando sopra rane prese nello stato tetanico, in cui esse si trovano qualche volta dopo la loro pre- parazione. Galvani aveva di già osservato questo fenomeno. Ho introdotto una grossa e robusta rana nel gas idrogene solforato, e lho tolta appena cessava di dar segni di vita; pre- parata in questo stato essa non mi ha dato le contrazioni pro- prie, e i segni al galvanometro erano appena sensibili. Farò os- servare che questa rana si contraeva ancora sottoposta al pas- saggio d’una corrente prodotta da una coppia di zinco e plati- no: ho confermato questo resultato con delle pile di rane che avevo uccise nell’idrogene solforato. Ho praticato sopra sei rane una ferita nei muscoli della co- scia e ho lasciato queste rane in riposo per 50 ore, quindi le ho preparate. I muscoli della coscia erano rossi e ripieni di sangue: un Medico gli avrebbe detti infiammati. Tutte queste rane mi dettero al galvanometro dei segni più forti dell’ordinario e delle FENOMENI ELETTRO-FISIOLOGICI 45 contrazioni forti più vive. Onde confermar bene questo resultato ho costruito due pile, una di 6 rane ordinarie, l’altra di 6 rane le di cui cosce erano impregnate di sangue. Le 12 rane erano tenute nello stesso recipiente, e quindi preparate nel mede- simo tempo. Ho ottenuto dalle due pile una corrente differen- ‘ ziale di 5° a 4° nel senso delle rane i di cui muscoli erano im- pregnati di sangue. Cercando separatamente la corrente di cia- scuna delle due pile ho trovato la stessa differenza. Onde otte- nere questi resultati, da me confermati con altre esperienze, è necessario che l'incisione sia tale da non privare l’animale del sangue. Si deve pure aver cura di non mettere le rane ferite nell'acqua, perchè in questo caso non si riesce ad ottenere lo stato infiammatorio. Onde provare che le contrazioni proprie variano in queste rane come i segni della loro corrente al galva- nometro, riporterò qui che in un'esperienza comparativa fatta con quattro rane allo stato naturale e con quattro i di cui mu- scoli erano rossi, ho osservato che tutte queste ultime mostravano le contrazioni proprie, mentre una sola delle quattro prime le dava. Ho anche visto più volte rane, di cui una delle cosce era ingorgata di sangue, dare delle contrazioni con questa sola coscia. Mi resta a parlare dell'influenza del freddo sulla cor- rente propria delle rane. Ho preparato sopra una rana vivente i ‘nervi lombari, e dopo aver tolto la pelle dalle sue gambe ho potuto ottenere le contrazioni proprie ripiegando le gambe sui nervi. Ho circondato queste rane di ghiaccio, e dopo qualche minuto non aveva più le contrazioni proprie, e la deviazione era | divenuta molto più piccola; ritirando la rana dal diaccio e met- tendola nell’acqua a 15° o 20° ottenevo di nuovo le contrazioni proprie e i segni al galvanometro. Si può riprodurre questa medesima osservazione per più volte sullo stesso individuo. Ho studiato anche l’azione del freddo sulla corrente propria com- ponendo delle pile con delle rane raffreddate per un certo tempo. Ecco i resultati di un’ esperienza che ho tentato su questo sog- 46 MATTEUCCI getto: due pile, composte ciascuna di 10 gambe di rane, sono state opposte l’una all’altra, e mi hanno dato 15° per corrente differenziale. Le 10 gambe che componevano la prima di queste pile erano state prese sopra rane lasciate per un'ora nell'acqua fredda; quelle che componevano la seconda appartenevano a rane ordinarie. Terminerò in fine l'esposizione di queste ricer- che sopra la corrente propria della rana, facendo osservare che le contrazioni proprie ottenute sull’animale vivente non persi- stono per un tempo molto lungo, sebbene l’animale abbia ancora assai di vivacità. Queste contrazioni poi possono ricomparire rinnovando l’esperienza dopo che l’animale è stato ucciso e preparato alla maniera ordinaria. Ho visto spessissimo rane che mentre erano vive davano le contrazioni proprie, darle allorchè erano uccise e preparate alla maniera ordinaria. Ho visto egual- mente sovra rane uccise divenute incapaci di mostrare le con- trazioni proprie, rendergli ancora queste proprietà per qualche secondo tagliando loro la midolla spinale o irritandole in una maniera qualunque. CAPITOLO IV. Della funzione del sistema nervoso nella corrente elettrica muscolare e nella corrente propria della rana. Nell’esporre l’esperienze, che provano l’esistenza elettrica muscolare e quella della corrente propria della rana, si è visto che queste due correnti persistevano egualmente dopo che la midolla spinale e i nervi erano stati tagliati, e anche da qualche tempo. Noi abbiam. visto egualmente che la corrente propria della rana aveva la stessa direzione e la stessa intensità anche quando i nervi lombari entravano nel circuito e agivano come la parte superiore della coscia nella quale penetra questo nervo. La funzione del sistema nervoso, in queste correnti, sembra ben FENOMENI ELETTRO-FISIOLOGICI 47 differente da quella che era stata sempre supposta. Di fatto questa funzione sembra ridursi a quella di un corpo conduttore che conduce la corrente sviluppata nella parte del muscolo, la quale gli è più vicina. Importava di stabilire questa conseguenza. Ho preparato rapidamente quattro gambe di rane, alle quali ho lasciato attaccato un lungo filamento nervoso composto di tutta la parte lombare, e della parte crurale che è nascosta nella coscia. Con queste quattro gambe ho composto la pila ponendo il filamento nervoso a contatto dell’estremità della gamba di ciascun elemento. Questa pila mi ha dato 4° o 5° nel senso della corrente propria, cioè di una corrente diretta dai piedi alla testa della rana. Ho quindi ripiegato il filamento nervoso per ciascuna gamba, e ho di nuovo composto la pila facendo toccare diret- tamente in ciascun elemento l’ estremità superiore della gamba coll’inferiore. La corrente propria che ho ottenuto è stata di 10° a 12°. Si vede chiaro in questa esperienza, che il fila- mento nervoso ha agito intieramente come la parte superiore della gamba, o come l’avrebbe fatto la coscia se avessimo ope- rato con mezze rane. La presenza del nervo non ha prodotto altro che l’indebolimento della corrente, ciò che è naturale se sì rifletta alla cattiva conducibilità della sostanza nervosa, alla più gran lunghezza del circuito, al suo piccolo diametro, ec. Ho preparato otto cosce di rane disarticolando il meglio che mi era possibile le loro gambe, e ho lasciato loro i nervi lombari. In seguito ho tagliato queste cosce quasi a metà, avendo cura di conservare il filamento nervoso: in questo modo otteneva una mezza coscia, cioè quella dalla parte della gamba, riunita a un lungo filamento nervoso. Con otto di questi elementi ho composto una pila ponendo ciascun filamento nervoso sopra la superficie muscolare di ciascuna mezza coscia. Questa pila (Fig. 20) mi ha dato 12° di corrente muscolare, che era in questo caso diretta dall'interno del muscolo al nervo nell’animale o dal nervo alla superficie del muscolo. In questa esperienza il filamento nervoso 48 MATTEUCCI agiva come l'interno del muscolo nel quale eravi ramificato . Questa esperienza riesce benissimo con le gambe dei piccioni e dei conigli. È necessario scoprire in queste gambe il filamento nervoso 0 il nervo crurale che è nascosto nel muscolo. Si com- pone allora la pila facendo toccare a ciascuno elemento il nervo e la superficie del muscolo invece di far toccare l'interno del muscolo colla sua superficie. Le pile così costruite danno la stessa corrente muscolare, e soltanto questa corrente è in tutti i casi più debole quando il filamento nervoso entra nel circuito. Si vede dunque che, sia nella corrente propria della rana, sia nella corrente muscolare, la direzione della corrente è sempre indipendente dalla presenza del nervo, il quale non agisce altro che come cattivo conduttore rappresentante lo stato elettrico del muscolo il più prossimo al nervo. Ecco alcune altre esperienze, che provano anche meglio questa stessa conseguenza. Suppongo di aver preparate alcune cosce di rana nel modo poco fa espresso, cioè senza gambe coi loro nervi lombari. Taglio la mezza coscia a metà, e conservo la mezza coscia superiore invece dell’inferiore, e compongo la pila facendo toccare il nervo coll’interno del muscolo. Questa pila (Fig. 21) mi dà la corrente muscolare diretta sempre dall’in- terno del muscolo alla superficie, cioè dall’interno del muscolo al nervo in questo caso. Ecco dunque la stessa direzione nella corrente muscolare relativamente alle parti stesse, interno e su- perficie del muscolo: ma in quanto al nervo la direzione della corrente viene a essere rovesciata relativamente a quella tenuta nella esperienza precedente. Suppongo di ripetere tutte l’esperienze che ho di già de- scritte mettendo in luogo del filamento nervoso una piccola stri- scia di carta bagnata d’acqua. Si trova, come ho sempre trovato, che la direzione della corrente è la stessa impiegando il con- duttore umido invece del nervo. Riporterò qui un'esperienza, di cui il resultato deriva ne- FENOMENI ELETTRO-FISIOLOGICI 49 So “a ST cessariamente da quelli che di già abbiamo dedotto. Suppongo siano state preparate due mezze rane, e che sia stato tagliato e tolto loro la mezza coscia superiore. In questa maniera ciascun elemento si trova composto di una gamba riunita alla sua mezza coscia. Una pila composta (Fig. 22) con questi elementi che si toccano fra loro nella parte inferiore della gamba, e per l’in- terno nel muscolo della mezza coscia, dà una corrente che è | diretta nel senso della corrente propria della rana, ma che è molto più debole di quella che sarebbe data da una pila com- posta di un egual numero di mezze rane intiere. Questo re- sultato è una conseguenza necessaria dell’esistenza nella rana della corrente propria e di quella muscolare. Rammentiamoci che la gamba sola della rana dà la corrente propria, e non ci dimentichiamo che la corrente muscolare data dalla mezza coscia è diretta sempre dall’interno del muscolo alla superficie del- l’animale. Ne viene per conseguenza, che nella pila precedente- mente descritta ( Fig. 22) vi debbono essere due correnti che circolano in senso contrario, le quali dovranno necessariamente indebolirsi fra loro, E poichè in questa stessa disposizione si ot- tenne una corrente diretta nel senso della corrente propria, è ne- | cessario concludere che questa corrente è più intensa nel membro della rana che la corrente muscolare. Io ho fatto la medesima | esperienza, lasciando il filamento nervoso lombare e in parte il i‘ * erurale riuniti alla mezza coscia e alla gamba. Ho composto la pila facendo toccare insieme il nervo e l'estremità della gamba. ì ‘La corrente che ho ottenuto, sebbene più debole di quella otte- | nuta nell’esperienza precedente, è stata sempre nel senso della corrente propria. Mettendo invece del nervo una striscia di carta "| bagnata d’acqua, la direzione della corrente non ha cambiato. Ì La funzione del nervo si trova dunque stabilita nettamente per ‘| mezzo di questa esperienza: il suo uflicio è quello di un corpo | debolmente conduttore che rappresenta lo stato elettrico della parte del muscolo alla quale esso si trova più vicino. te] Scienze Cosmolog. T. I. 50 MATTEUCCI i Riporterò infine qualche altra esperienza atta a provare la stessa cosa. Ho preparato delle mezze cosce di rane riunite ai loro nervi lombari, disarticolando le gambe nel miglior modo possibile onde avere scoperta una porzione più piccola dell’in- terno del muscolo. Ho fatto lo stesso della parte superiore della coscia togliendo il bacino. È facilissimo di concepire, per quelli che hanno un poco presente l'anatomia della rana, che togliendo il bacino è impossibile di non avere alla parte superiore della coscia una piccola porzione dell'interno del muscolo messo allo scoperto. Una pila composta con questi elementi nei quali è posto il nervo sulla superficie del muscolo della parte inferiore della coscia, mi ha dato dei segni debolissimi di corrente elet- trica, ed è stato necessario impiegare da 15 a 20 elementi riu- niti per giungere a un resultato costante. La corrente che si ottiene così è sempre diretta, come la corrente muscolare, dalla parte superiore della coscia all’inferiore, cioè dall’interno del muscolo alla superficie. L’interno del muscolo è, in questo caso, rappresentato dalla piccola porzione interna del muscolo che è messa allo scoperto tagliando il bacino. Il nervo che entra nel circuito si vede funzionare come la parte interna del muscolo colla quale è in contatto. Se si tagliano queste cosce a metà in modo da portar via le mezze cosce inferiori, si potrà comporre colle mezze cosce che restano riunite ai nervi lombari, due pile differenti. Noi abbiamo già parlato in questo Capitolo di una di queste pile: cioè quella che abbiamo ottenuto collocando i nervi in contatto coll’interno della coscia, e quella che abbiamo ottenuto tagliandola a metà. La pila (Fig. 21) così formata, dà la corrente muscolare diretta nell’ animale dall'interno del mu- scolo alla superficie, o dall'interno del muscolo al nervo lombare se questo nervo entra nel circuito. Ma si può ancora disporre la pila differentemente, ponendo il filamento nervoso sopra la superficie muscolare della mezza coscia. In questa disposizione ( Fig. 25) Vinterno del muscolo non vi prende più parte, e la FENOMENI ELETTRO-FISIOLOGICI 51 corrente, più debole della precedente, è diretta come se la coscia intiera fosse nel circuito, cioè dalla parte superiore della mezza coscia o del nervo lombare alla superficie del muscolo nell’ani- male. Noi abbiamo di già detto che questa corrente muscolare era dovuta alla piccola porzione di muscolo messo allo scoperto tagliando il bacino. La corrente ottenuta nella pila ( Fig. 21) è dunque una corrente differenziale che circola nel senso di quella delle due correnti muscolari, la quale è dovuta alla più gran porzione dell'interno del muscolo che è messo allo scoperto e che entra nel circuito. È in questa occasione ch'io devo parlare delle esperienze fatte dai signori Pacinotti e Puccinotti. Immergono essi i due scandagli del galvanometro uno nei muscoli, l’altro nel cervello dell'animale vivo. Facendo quest'esperienza sopra un gran nu- mero d’animali, questi Osservatori hanno ottenuto una deviazione assai grande nell’ago del loro galvanometro, dovuta a una cor- rente costantemente diretta dal cervello ai muscoli dell’ animale: essi hanno trovato che questa corrente non aveva l’istessa inten- sità in tutti gli animali, e che tenendo il circuito chiuso vi era, in qualche caso rarissimo, un aumento nella corrente, e che ciò aveva luogo allorchè l’animale era preso da fortissime contra- zioni. Confesso che quando ho pensato a ripetere queste espe- rienze avrei voluto trovare un metodo più conveniente e più al coperto di tutte le obiezioni, che non lo è quello impiegato dai due Fisici Pisani. Infatti tutte Ie volte che s introduce la lastra metallica nel cervello ne succede una grande emorragia, e la lastra si trova bagnata di sangue. Vi è di più; la lastra del cervello è sempre immersa dopo l’altra, onde conservare l’animale vivo per il mo- mento in cui si deve chiudere il circuito. Ora noi sappiamo che Vi è una corrente diretta dal sangue all’acqua nell’arco liquido : sappiamo egualmente che immergendo le due lastre di platino attaccate ai fili del galvanometro l'una dopo l’altra, vi è una 52 MATTEUCCI corrente diretta nel liquido dall’ ultima lastra immersa alla prima. Se si ammette che queste due cause intervengano nelle esperien- ze di cui parlo, si troverà naturale che la corrente sia diretta nell’animale dalla lastra immersa nel cervello a quella immersa nel muscolo. Non potendo cambiare fondamentalmente il metodo di queste esperienze, ho tentato d’operare in un modo atto a stabilire qual parte avessero nei resultati dei Proff. Pacinotti e Puccinotti le due correnti che io ho sospettato potervi inter- venire. Ho impiegato Ie due lastre di platino riunite al galvano- metro, che avevo verniciate in gran parte, lasciando scoperta una superficie appena di mezzo centimetro quadrato. Ho egualmente tentato di scoprire il cervello sopra un piccione nel miglior modo che si poteva, e di immergere le lastre rapidamente, spandendo la minor quantità di sangue possibile: qualche volta l’esperienza è riuscita quasi perfettamente. In altre esperienze ho immerso nel cervello una delle lastre del galvanometro avanti quella che deve essere introdotta nel muscolo: infine in vece d’introdurre una delle lastre nei muscoli mi sono limitato a toccare la superficie. Debbo dire che malgrado queste differenze nella maniera d’ope- rare, la deviazione ottenuta nella prima immersione è stata sem- pre nel medesimo senso, cioè la corrente fu diretta dal cervello ai muscoli nell’animale. L'intensità della corrente è molto va- riabile. Ho ottenuto qualche volta 80° e anche più, qualche altra volta 10°, 15°, e sempre nella prima immersione. Aggiungerò ancora che questa corrente non persiste nella direzione che sì ha per la prima immersione: alla seconda o alla terza immersione la corrente è molto indebolita, e il suo senso è spessissimo rove- sciato. Io ho egualmente visto, lasciando il circuito chiuso, che nel tempo che l’animale era preso da contrazione la deviazione diveniva qualche volta più grande; è difficile di non attribuire questo resultato al movimento delle lastre nell'interno della ferita; movimento che cangia lo stato delle superficie in contatto, toglie il coagulo, approfondisce più o meno gli scandagli, ec. FENOMENI ELETTRO-FISIOLOGICI 55 Difatto, senza le contrazioni dell’animale, sc si fanno muovere gli scandagli nell’interno della ferita, la deviazione è quasi sempre resa più grande. Volendo ammettere le stesse conseguenze che i sigg. Paci- notti e-Puccinotti hanno dedotto dalle loro esperienze, conver- rebbe dire che il sistema nervoso riunito nel cervello fa l’ufticio della parte interna dei muscoli nei quali questo sistema è rami- ficato. Non sarebbe meno diflicile di concepire, malgrado que- st'ipotesi, che la direzione della corrente è la stessa toccando con uno dei due scandagli indifferentemente l’ interno del mu- scolo ola superficie. Nuove esperienze spargeranno luce su que- sto soggetto. Intanto è forza stabilire, dietro Je mie ricerche, che la funzione del nervo nella corrente muscolare e nella cor- rente propria della rana, si riduce semplicemente a quella di un corpo pochissimo conduttore che rappresenta lo stato elettrico della parte interna o esterna del muscolo a cui è più prossimo. Il sistema nervoso però deve esercitare sopra a queste cor- renti un ufficio meno diretto di quello precedentemente stabi - lito. È quello della sua influenza nella nutrizione del muscolo; ma è impossibile di provarlo con esperienze dirette. CAPTR'OLLTON Ve | Viste teoretiche sopra la causa della corrente elettrica muscolare. I resultati ai quali siam giunti sono ben lontani dal provare l’esistenza dell'elettricità libera negli animali viventi, e non ci conducono a concludere che la elettricità circola nei fila- menti nervosi sparsa nei muscoli degli animali medesimi. È anche ben provato che i segni della corrente che noi abbiam trovata nelle masse muscolari persistono senza l'integrità del sistema nervoso, e anche dopo che questo sistema ha cessato d’esser capace di svegliare le contrazioni essendo irritato. I segni della 54 MATTEUCCI corrente elettrica appariscono nelle masse muscolari, allorchè si stabilisce il circuito fra le due parti di queste masse che dif- feriscono probabilmente fra loro di struttura e di funzione con un conduttore qualunque. È fra l’interno del muscolo e la sua superficie che si trova sempre la corrente diretta nel muscolo stesso dall'interno alla superficie: e siccome i segni della corrente elettrica che noi abbiamo ottenuta, sebbene persistano più o men lungo tempo dopo la morte dell’animale, cessano sempre dopo un certo tempo, che è tanto più grande quanto più l’animale appartiene a un ordine inferiore; è necessario concludere, che per la produzione di questa corrente la disposizione organica che costituisce la fibra muscolare vivente è pure necessaria, come è necessaria l’azione qualunque che la mantiene in un tale stato. Ciò d’altronde è confermato dall'influenza esercitata sulla corrente muscolare dalla circolazione del sangue, dal ros- sore delle masse muscolari, dal loro stato d’infiammazione . Queste conclusioni necessariamente discendono dall’ espe- rienza. Non è egli naturale di supporre che i cangiamenti chi- mici che avvengono nel muscolo e in tutte le parti degli animali viventi, sviluppino elettricità? Sarebbe assai difficile il non am- mettere questa ipotesi. Infatti è oggi ben provato che l’ ossigeno del sangue arterioso si porta su tutti i punti di un corpo vi- vente, che tutte le parti dell’organismo sono continuamente rin- novate, e che per tutto ha luogo una specie di combustione la quale sviluppa dell’acido carbonico e del calore. Ora noi non possiamo ammettere che una tale azione chimica abbia luogo senza sviluppo d’elettricità. Un esempio preso fra fenomeni del tutto inorganici, ci metterà nella via d’intendere come l’azione chimica che inter- viene nella vita del muscolo, può sviluppare elettricità la quale non è messa in evidenza che col processo da noi impiegato. Allorchè una lastra metallica immersa nell’acqua acidulata, è ossidata dall’ossigene di quest’acqua, e in seguito disciolta | | | | FENOMENI ELETTRO-FISIOLOGICI 55) nell’acido, noi ammettiamo che una enorme quantità d’ clettri- cità si sviluppa nel tempo che questa azione ha luogo: aggiun- giamo ancora che a misura che gli stati elettrici si sviluppano si ricompongono, e così si neutralizzano. Onde ottenere libera l’ e- lettricità che è sviluppata nell’azione chimica son necessarie disposizioni particolari nell’esperienza. Riuniamo a questa lastra metallica che si discioglie nell’ acido un’altra lastra metallica che non sia attaccata, e immergiamola anch’ essa nell’acqua acidu- lata. Il cireuito sì trova con ciò stabilito, e la corrente elettrica circola dal metallo attaccato all’altro. nel liquido, e da questo al primo nell’arco metallico. La lastra metallica attaccata è rappresentata, nel fenomeno della corrente muscolare, dalla fibra stessa del muscolo; il san- gue arterioso è il liquido acidulato: la superficie del muscolo o un altro corpo qualunque conduttore differente dalla fibra mu- scolare, ma che le è a contatto, rappresenta la seconda lastra metallica che non soffre l’azione chimica, ma che serve solamente a formare il circuito. La direzione della corrente muscolare è . quella che si deduce da una azione chimica tale quale ce la siamo rappresentata nel muscolo. Il sistema nervoso può così agire in una maniera ben di- stinta nella produzione della corrente muscolare. Ciò lo abbiamo provato coll’esperienza. Il sistema nervoso agisce come tutti i conduttori imperfetti che entrano in un circuito, e che non com- pongono la sorgente d’ elettricità. Questo sistema rappresenta lo stato elettrico di quella massa muscolare interna o esterna colla quale è più prossima. Questa prima funzione del nervo è pura- mente fisica. Il sistema nervoso deve agire ancora per la con- servazione della causa che sviluppa elettricità, perchè la nutri- zione si opera sotto l'influenza di questo sistema: ma siccome non si può ammettere che l’azione chimica che avviene nella nutrizione sia immediatamente arrestata tagliando il nervo mo- tore che è ramificato; così se l’animale vive, avverrà che la cor- 56 MATTEUGCI rente elettrica muscolare si sviluppi anche dopo aver tagliato il nervo motore del muscolo. L’integrità del sistema nervoso non è dunque direttamente necessaria alla produzione della corrente elettrica muscolare, e questa integrità lo è più o meno, come l’esperienza ha dimostrato, secondo che la vita dell'animale è più o meno centralizzata. Queste viste ipotetiche le quali mi sembrano sodisfare in un modo generale alla spiegazione della corrente muscolare, e che son conformi alle teorie attuali del- l'elettricità, non possono estendersi così bene al fenomeno della corrente propria della rana. Ho cercato inutilmente l’esistenza d’una corrente elettrica analoga alla corrente propria della rana in un gran numero d’animali, ec non ho mai trovato altro che la corrente muscolare. Ho tentato gli animali i più vicini alla rana. Le salamandre, le anguille, le testuggini, e non mi hanno mai dato altro che la corrente muscolare. In tutti i casi, onde avere i segni di una corrente elettrica, è stato necessario che il cir- cuito fosse stabilito fra l'interno del muscolo e la sua superficie. Nella sola rana si trovano nel medesimo tempo la corrente mu- scolare e la corrente propria che esiste senza alterare il muscolo, senza mettere allo scoperto la parte interna, diretta dalla su- perficie del muscolo al suo nervo nell’ animale. Paragonando fra loro le circostanze che influiscono sopra a queste due correnti, si può dire che esse si rassomigliano intieramente. Ciò che au- menta o indebolisce l’intensità di una di queste correnti produce sull’ altra lo stesso effetto. La sola differenza rimarcabile è quella della persistenza più grande, dopo la morte dell’animale, della corrente propria in confronto della corrente muscolare. Una pila d’un certo numero di mezze cosce di rane, cessa di mostrare la corrente muscolare molto tempo prima che un’altra pila fatta di uno stesso numero di rane intere, o d’un medesimo numero di gambe di rane che dà ancora i segni della corrente propria. Come può trovarsi in una mezza rana la causa d’una cor- rente elettrica? come ravvicinare l'origine qualunque di questa FENOMENI ELETTRO-FISIOLOGICI 57 corrente a quella della corrente muscolare? Le spiegazioni che sono state date della corrente propria della rana possono ridursi a due. Nella prima si ammette che questa corrente è dovuta alla ineguale temperatura del muscolo e del nervo. Questa in- eguaglianza sarebbe dovuta alla diversa evaporazione avvenuta nelle due parti dell'animale. La corrente propria diverrebbe così una corrente termo-elettrica. Chiunque ha percorso con qualche attenzione queste ricerche si accorgerà facilmente, che . è impossibile di dare alla corrente propria una spiegazione più contraria ai fatti. Una coregnte la quale non è sensibile che al galvanometro a lungo filo, che traversa degli strati liquidi assai lunghi, che si ottiene facendo toccare muscolo a muscolo tenendo le parti dell’animale immerse nell’acqua, non può essere cer- tamente ‘una corrente ‘d’origine termo-elettrica. Nell’altra ipotesi si ammette che la corrente propria è dovuta a un’azione elet- tro-chimica, e quindi convien supporre a quest’oggetto che la gamba della rana sia caricata d’alcali o di sali, mentre che la coscia o i nervi lombari contengano dell'acido o dell’acqua meno salata. Ma qual è l’analisi chimica di queste parti della rana che ci permetterà fare quest’ipotesi? E dopo ciò, come inten- dere, in questa spiegazione elettro-chimica della corrente propria della rana, l'influenza che noi abbiamo trovato dell’idrogene zolforato, dello stato tetanico, del freddo, dello stato d’infiam- | mazione sopra a questa corrente? come spiegare l’esistenza di | questa corrente nella sola gamba, come la durata sempre piccola . di questa corrente? Possiamo dunque dimandarci ancora la causa della corrente propria, e come essa si ravvicini alla corrente muscolare . È impossibile di dare una risposta adequata a queste questioni. Mi limiterò a una sola osservazione, all'oggetto di distruggere una specie d’opposizione la quale non è che appa- rente, fra la corrente muscolare e la corrente propria della rana. Nella mezza coscia della rana presa dalla parte della gamba la Scienze Cosmolog. T. I. 8 58 MATTEUCCÌ corrente muscolare è diretta dalla testa a’ piedi: prendendo la mezza rana 0 la sola gamba, la corrente propria è diretta dai piedi alla testa; finalmente se si prende la mezza coscia supe- riore dalla parte del bacino, la sua corrente sarà diretta dai piedi alla testa. Nel primo esempio della corrente muscolare si potrebbe vedere in essa una direzione contraria a quella della corrente propria; ma se invece della mezza coscia superiore presa dalla parte del bacino si prende la mezza coscia verso la gamba, si ha la corrente muscolare diretta come la corrente propria. L’op- posizione nella direzione delle due correnti non è che appa- rente; e, parlando il linguaggio dei fatti, si deve dire che la corrente muscolare è sempre diretta nell’animale dall’interno del muscolo alla superficie. Volendo ravvicinare l'origine della corrente propria a quella che noi abbiamo ammessa per la cor- rente muscolare dovremmo supporre che, per un legame che ci è del tutto incognito e che spetta all’anatomia a scoprire, la superficie tendinosa che compone la più gran parte della gamba della rana rappresenti l’interno del muscolo; ma tuttociò deve restare per ora fra le vaghe e pure ipotesi. CAPITOLO VI. Sopra un. fenomeno fisiologico prodotto da un muscolo in contrazione . Pongo sopra un piano isolato di tela, incerata o verniciata, una rana preparata alla maniera ordinaria; quindi ne preparo un’altra in modo, che si abbia una gamba col filo o fascetto ner- voso che viene dalla midolla ai muscoli della gamba; è necessario aver cura, per non essere indotti in errore, di togliere tutti i muscoli della coscia in maniera, che il filamento nervoso propria- mente possa dirsi bene scoperto. "ny FENOMENI ELETTRO-FISIOLOGICI 59 Pongo allora questo filamento nervoso sopra la coscia della prima rana in guisa, che il filamento della gamba alla quale è unito il filamento nervoso non tocchi le cosce, e che sia poco teso. Aspetto che i movimenti convulsivi che hanno luogo dopo la preparazione ra- pida della rana, siano cessati. Si potrà an- cora cominciare senza questa precauzione, \\ attesa la gran differenza che vi è fra il fe- 07 #71 nomeno che descriverò e i movimenti con- vulsivi citati. Si tocchino allora con una coppia voltaica i nervi lombari della rana: nell’istante i muscoli della coscia si con- traggono, mentre nel medesimo tempo si contrae la gamba di cui il nervo è disteso sopra î muscoli messi in contrazione. Variata e ripetuta con tutte le precauzioni possibili questa semplice esperienza, il re- sultato è stato simile a ciò che viene esposto. Tagliati i nervi lombari appena sortiti dalla midolla spinale, e ripiegati questi nervi sopra le cosce, ho toccato con la coppia nel medesimo punto del bacino; la rana non si è messa in contrazione perchè i nervi non esistevano più nel punto toccato, e quindi la gamba è rimasta ferma: rimettendo i nervi lombari al posto e toccando- gli, il fenomeno si riproduce. Invece di una coppia voltaica ho irritato i nervi lombari con una pinzetta o un corpo qualunque; e quando le contrazioni della prima rana erano assai forti, vedeva egualmente contrarsi la gamba che la toccava col suo nervo. Servendosi di rane ben vivaci, l’ esperienza non manca giam- - Quest esperimento è stato ripetuto ponendo il nervo pre- n. come ho descritto, sopra i muscoli della coscia di un coni- glio vivente. È bene di togliere la membrana aponevrotica molto grossa che copre i muscoli. To faccio contrarre la coscia di un coniglio con una corrente di una pila di 6.0 8 coppie, e le con- trazioni si producono nella gamba della rana che tocca il coniglio 60 MATTEUCCI col suo nervo. In questa esperienza la distanza fra il nervo e il punto toccato dall’ estremità della pila può essere di 10 a 12 centimetri, senza che il fenomeno cessi. Ho toccato coll’ estremità della pila i muscoli in molta vicinanza del nervo postovi sopra, e il fenomeno non ha avuto luogo perchè le contrazioni della gamba del coniglio sono debolissime o mancano affatto. Credo inutile di dire che in queste esperienze non si devono disporre l’estre- mità della pila troppo vicine al nervo della rana in modo, che sia esso compreso nell’arco della corrente. Ho prodotto tutti i movimenti possibili sulla superficie dei muscoli sopra i quali il nervo è posato; e se questi movi- menti non sono di contrazioni, il fenomeno non ha mai luogo. Cuopro d’una foglia d’oro da dorare i muscoli della rana pre- parata alla maniera ordinaria, e quindi ripeto l’esperienza: in questo caso vi è una foglia d’oro sottilissima interposta tra la superficie muscolare e il nervo. Eccito le contrazioni nei mu- scoli della prima rana, e non vedo nessuna contrazione nei muscoli dell’altra. È necessario*di guardarsi bene di rompere la foglia d’oro, ciò che farebbe scoprire la superficie del musco- lo; appena ciò accade, i fenomeni ricompariscono. Se invece di una foglia d’oro è un pezzetto di carta sottilissima che viene interposto, l’azione ha luogo egualmente attraverso alla carta. Il fenomeno non avviene altrimenti, se si adopra una lastra molto sottile di un corpo isolante onde operare la separazione fra i muscoli e il nervo. È dunque certo che la contrazione della gamba non è eccitata da un'azione meccanica qualunque ope- rata dal suo nervo. I fenomeni che ho descritto sono intiera- mente nuovi: a mia cognizione non vi è fatto nella scienza a questo analogo. Citerò un’ esperienza del celebre sig. Humboldt, nella quale si trova un nervo posto sopra un altro, e di cui uno è irritato. Ho variato e ripetuto con cura quest'ingegnosa espe- rienza, e ho trovato che qualche volta la gamba che non era irritata direttamente poteva contrarsi, e che ciò aveva luogo FENOMENI ELETTRO-FISIOLOGICI 61 quando una porzione del nervo della gamba che non è diretta- mente toccata si trova direttamente nel corso della sua cor- rente (Fig. 25). Toccando in dd' 0 in aa', la sola gamba A è quella che si contrae; ma se si tocca con uno dei poli dell’ap- parecchio elettro-motore in uno dei punti @ a' e coll’altro polo in db o d', si vede che oltre contrarsi la gamba A, anche la gam- ba B si contrae. Perchè l’ esperienza riesca è necessario che il nervo di B sia percorso dalla corrente nel senso longitudinale, e però conviene che una porzione del nervo B sia tenuta obliqua- mente, o paralellamente alla direzione del nervo della gamba A. Sappiamo oggi che questo fenomeno è dovuto a una pro- prietà del nervo, il quale essendo traversato normalmente dalla corrente non eccita contrazione. I fatti che ho scoperto non possono dunque spiegarsi con quelli del sig. Humboldt, di cui ho già parlato. Il sig. Becquerel, col quale ho ripetuto e variato le mie esperienze, dopo essersi assicurato che una lastra isolante, seb- bene sottilissima, impedisce l’azione dei muscoli in contrazione sovra i nervi posti sopra la superficie di questi muscoli, ha con- cluso che tali fenomeni non potevano spiegarsi senza ammettere una scarica elettrica nell’ atto della contrazione. Ecco come s esprime il dotto Fisico in una nota che ha voluto comunicarmi: « Nell’istante nel quale la rana si contrae vi è una scarica « elettrica che passa nell’estremità del nervo della gamba posata « sopra il muscolo che si contrae quando questa estremità posa « sopra il muscolo direttamente, o non è separata che per una ‘« striscia di carta umida; essa si scarica per la foglia d’oro, « poichè questa foglia d’oro conduce meglio 1’ elettricità che il «nervo; fatto analogo a quello che si. osserva collocando una « torpedine sopra un piatto metallico. In questo caso la scarica _ « passa nel metallo e non nella mano; in fine l’interposizione « d'unalastra isolante deve impedire al nervo d'essere affetto ». « Tutti questi effetti non possono dunque esser prodotti 62 MATTEUCCI « che da correnti derivate, per cui siam portati ad ammettere « la produzione d’una scarica elettrica nell'istante nel quale il « muscolo si contrae ». « Se altre esperienze intraprese in direzione diversa ven- « gono a confermare le conseguenze che si possono dedurre dal « fatto del sig. Matteucci, questo Fisico avrà scoperto una delle « proprietà più importanti dei muscoli sotto l'impero della vita « 0 qualche tempo dopo la morte ». Sarei troppo prolisso, e inutilmente, se volessi descrivere tutti gli sforzi da me fatti onde giungere a resultati costanti in queste ricerche. Si trattava di far parlare il galvanometro, e di vedere con quest’istrumento se nella contrazione muscolare di un animale qualunque avviene sulla superficie del muscolo che si contrae una specie di scarica elettrica, la quale agisce sopra i nervi di una rana preparata posti sopra a questo muscolo. Siccome questo fenomeno dovuto alla contrazione dei muscoli ha luogo sopra animali che non posseggono la corrente propria, si potrebbe supporre che fosse la corrente muscolare che nel- l’atto della contrazione si aumenta d’intensità, e non può più per conseguenza circolare intieramente nelle molecole stesse del muscolo nel quale si è sviluppata. Questa supposizione sarebbe ancora appoggiata da un fe- nomeno analogo che avviene per il calore: si sa, dopo le belle esperienze dei signori Becquerel e Brechet, che vi è sviluppo di calore nella contrazione del muscolo. Ma come provare col galvanometro che il fenomeno che noi studiamo è dovuto a una scarica elettrica, e che la contrazione produce questa scarica? Le diflicoltà dell'esperienza possono facilmente comprendersi. È necessario cominciare dal chiudere col galvanometro il circuito d’ una pila muscolare composta di animali viventi, attendere che |’ ago s'arresti ad una certa devia- zione, e allora svegliare le contrazioni nei muscoli della pila con un mezzo che non sia capace d’aumentare direttamente, da i FENOMENI ELETTRO-FISIOLOGICI 65 per se solo, la corrente elettrica preesistente. Aggiungiamo an- cora, che per non incorrere in errore nella conclusione che si vuol dedurre, è necessario che questo mezzo non possa aumen- tare la conducibilità della pila. Di fatto se ciò non fosse, si po- trebbe sempre supporre che quando anche le contrazioni fossero seguite da un aumento nell’intensità della corrente, sarebbe esso dovuto alla più grande conducibilità della pila, la quale lascerebbe così circolare la corrente muscolare. Noi abbiamo visto che quando anche la prima deviazione d’una pila muscolare di 8 a 10 elementi è molto grande, l’ago non si fissa alla fine che ad un angolo comparativamente molto più piccolo. Ho ten- tato di agire recentemente con una pila muscolare di piccioni vivi; ma non m'è stato possibile di ottenere che i segni delle correnti si prolunghino per un certo tempo. Mi restava a ten- tare l’uso delle rane, ed era necessario perciò d’agire colla cor- rente propria. Ho creduto che giungendo a provare che questa corrente è in un modo qualunque aumentata dalla contrazione, noi avremmo fatto un passo nella spiegazione del fenomeno. Ecco dunque l’esperienza. Io preparo una pila di 8 o 10 rane, e chiudo il circuito col galvanometro. La deviazione è sul prin- cipio di 40°, 50° ec., e alla fine si arresta a 6° a 8° ec. Quando l’ago è pressochè fisso è necessario far contrarre le rane. La prima idea che si presenta per far contrarre nel medesimo ‘tempo le rane che compongono la pila è di farle traversare da una corrente elettrica; ma non si tarda molto a scoprire che una parte della corrente d’una pila prende la via del gal- vanometro, e che è necessario per conseguenza abbandonare in- tieramente questo mezzo. Ho tentato di far contrarre le rane irritandole meccanicamente, e presso a poco nel medesimo tem- po, in tutte le loro midolle spinali. Ho variato quest'esperienza molte volte, e non oso malgrado ciò affermare che il resultato al quale son giunto è definitivo. Le rane di cui s'irrita la mi- dolla spinale subiscono in generale delle contrazioni sì violente, 64 MATTEUCCI che è quasi impossibile che il circuito non resti interrotto: nel qual caso si vede l’ago ritornare verso lo zero, e quindi oscil- lare. Tutte le volte che l’interruzione non ha avuto luogo, ho veduto nel tempo delle contrazioni delle rane della pila la de- viazione aumentare di 2°, di 5°, ed anche di 4. Un altro mezzo al quale ho avuto ricorso per far contrarre le rane d’una pila è stato l'applicazione d’ una soluzione alcalina sopra i nervi lombari. Attendo, come già ho detto, che l’ago del galvanometro si sia fissato, avanti di toccare coll’alcali i nervi delle rane, e ho cura di non toccare le due rane estreme nel timore che l’alcali possa giungere alle lastre del galvanometro. Le contrazioni che si ottengono con questo processo non sono tanto violente quanto quelle ottenute coll’irritazione meccanica della midolla spinale, ma persistono più lungamente. Appena l’alcali è applicato, le contrazioni cominciano, e l’ago nel me- desimo tempo si avanza di 5°, 6° e qualche volta di 10° al di là dell’angolo al quale si era fissato. Qualche secondo dopo le con- trazioni cessano, e l’ago ritorna alla sua posizione per discendere in seguito lentamente verso lo zero come lo avrebbe fatto senza la deviazione straordinaria. Convien confessare che l’appari- zione dei due fenomeni, cioè la produzione delle contrazioni e la più grande deviazione dell’ago, si corrispondono esattamente. È necessario ancora di dire che se si tocca coll’alcali per due o tre volte il nervo delle rane che costituiscono la pila, i due fenomeni non ricompariscono più. È frattanto giusto di concludere, che la corrente propria aumenta per la contrazione del muscolo? Può spiegarsi differen- temente il resultato di quest'esperienza? L’alcali applicato sopra i nervi delle rane della pila può aumentare la conducibilità delle superficie in contatto fra cia- scuna rana. Si potrebbe sul principio opporre a questa inter- pretazione, che l’effetto dell’alcali non dovrebbe mancare imme- | diatamente alla seconda applicazione. Si poteva ancora tentare FENOMENI ELETTRO-FISIOLOGICI 65 impiegando delle soluzioni acide o saline invece dell’ alcali. Que- ste soluzioni convenientemente sciolte debbono aumentare la conducibilità delle superfici in contatto fra ciascuna rana, e nel medesimo tempo non eccitare nessuna contrazione. Ho impiegato perciò delle soluzioni d’acido solforico, di sale ammoniaco, di solfato di soda. Il fenomeno che ho costantemente osservato con queste soluzioni, sebbene difficilissimo a spiegarsi, non è meno costante allorchè si applicano tali soluzioni sopra i medesimi punti ove l’alcali fu applicato; e ciò con un pennello o con un pezzo di spugna imbevuta delle stesse soluzioni: avviene spes- sissimo che l'ago torna verso lo zero per riportarsi di nuovo dopo alcuni secondi alla prima deviazione, qualche volta Vago non oscilla, e continua a discendere lentamente. È certo che con queste soluzioni acide o saline la deviazione non è mai aumentata. Questi resultati, ripeto, sono difficili a spiegarsi, ma non è men vero che essi sono favorevoli a interpretare l’azione dell’alcali indipendentemente dall'aumento di conducibilità del circuito. Si potrebbe ancora opporre che l’azione dell’alcali è do- vuta ad un’azione chimica esercitata inegualmente sopra i nervi e sui muscoli che si toccano, la quale sviluppa una corrente che va nel medesimo senso della corrente propria della rana. L’ esperienza risponde in contrario a questa supposizione . Preparo due rane, che dispongo a pila sopra una tavola verni- ciata facendo pescare le due estremità, cioè i nervi da una parte, le gambe dall’altra, in due cavità di questa tavola. Ho cura che le rane non si tocchino, e di tenerle separate per uno spazio di due o tre centimetri. Immergo gli scandagli del gal- vanometro nelle due cavità della tavola: e siccome il circuito non è completo, non vi è alcuna deviazione nell’ago. Prendo allora uno stoppino di cotone bagnato d’acqua, e chiudendo con esso il circuito ottengo 6° o 8° di corrente propria. Tolgo questo stoppino, ritiro gli scandagli immergendoli insieme per fare scomparire la corrente secondaria, e quindi li rimetto di Scienze Cosmolog. T. I. 9 66 MATTEUCCI — FENOMENI ELETTRO=FISIOLOGICI nuovo nelle due cavità della tavola. Allora chiudo il circuito con lo stesso stoppino bagnato d’una soluzione alcalina, e ottengo an- cora 5° 0 6° di corrente propria. In fine ripeto quest’esperienza impiegando uno stoppino simile bagnato nell’acqua acidulata, e ho ancora 6° o 8° di corrente propria. I segni della corrente propria aumentano probabilmente a causa della migliore condu- cibilità della soluzione acida. Di fatto ripetendo l’esperienza nell'ordine opposto al precedente, cioè impiegando prima lo stoppino bagnato nell’ acqua acidulata, gli ultimi segni della corrente propria ottenuti adoprando lo stoppino bagnato d’acqua sono più deboli dei primi. Quest’ esperienze, che ho variate e confermate, provano sufficientemente che l’azione chimica dell’al- cali non basta per alterare i segni della corrente propria, e che non deve intervenire nella spiegazione del fenomeno studiato. Vi era ancora un’esperienza da farsi onde ajutarci a rischia- rare le nostre conclusioni, e non ho mancato di farla. Ho lasciato sei rane per quattro giorni a una temperatura di+8° a 10° C., e dopo i quali le ho poste nell’ acqua per un certo tempo onde si rammollissero. È inutile dire che queste rane non si contraevano più per il contatto dell’alcali. Non ometterò di fare osservare, che soprattutto nell'inverno non è necessario meno di due giorni per essere sicuri che l’azione dell’alcali è divenuta nulla. Ho dunque disposto le sei rane precedenti a pila, ho chiuso il circuito, ed ho ottenuto una deviazione appena sen- sibile, ma che è stata nel senso della corrente propria. Ho la- sciato fissarsi l’ago a zero avanti di toccare coll’alcali. Ripetuta l’esperienza sei volte, in queste non ho ottenuto alcun movimento sensibile nell’ago del galvanometro, e in un solo caso ho avuto una deviazione di tre gradi nel senso della corrente propria. Malgrado tanti tentativi, di cui i resultati s' accordano, non oso affermare che la questione sia compiutamente risoluta, e mi sono arrestato, non sapendo in qual modo continuare per risol- verla appieno. RICERCHE SOPRA I TUBERCOLI POLMONARI SI CRUDI CHE FUSI MALORIA DEL P. A. COZZI Ii conoscere la natura e la quantità dei materiali che concorrono alla formazione dei prodotti morbosi, che costantemente si gene- rano e si sviluppano con il manifestarsi e il progredire di certe affezioni perniciose all’animale economia, può divenire spesso cosa desiderata ed utile per quelli che si occupano della scienza salutare. È perciò che m’indussi a credere potesse riuscire non del tutto priva d'interesse per la Patologia e per la Medicina un'analisi qualitativa e quantitativa dei tubercoli polmonari (1), e non discaro il conoscere i resultati ai quali pervenni, tanto più che fino al dì d'oggi ben pochi sono gli studj dei Chimici sopra siffatto argomento. (1) Il chiarissimo Professore Pielro Vannoni mio amico e collega, che premuroso com’ egli è di far progredire Je Scienze mediche, mi somministra di continuo dalla sua clinica delle sostanze da esaminare, mi trasmesse pure l’anno decorso i tubercoli che formano soggetto di questa memoria, e che appartenevano ad una donna che morì nel puerperio. Sono perciò debitore alla di lui gentilezza di quelli studj che ho potuti effettuare sopra di queste produzioni morbose. 68 P.\ VAL CTONZIZAI Per quanto io mi sappia, il lavoro più completo su di que- sto soggetto si è quello di Preuss, il quale cercava pel primo di determinare la natura e la quantità dei materiali componenti i tubercoli crudi. Le di lui ricerche mi avrebbero anche tratte- nuto dal far conoscere quelle da me effettuate, se stato non fosse che queste mi hanno portato, intorno alla natura di alcuno dei materiali appartenenti alla massa tubercolare, a delle con- clusioni discordi da quelle che egli ne aveva dedotte, e che, avendo io oltre all'analisi dei crudi eseguita quella pur anco dei tubercoli fusi, potevo dimostrare quali materiali aumentassero, e quali in essi diminuissero durante il loro progressivo sviluppo. Ecco il perchè m’'induco a far conoscere i resultati delle mie indagini; resultati che faccio precedere dall’esposizione del metodo che mi vi condusse, onde possa ognuno accordar loro solo quella fiducia, di che la via tenuta li renderà meritevoli. ANALISI DEI TUBERCOLI CRUDI. Onde eliminare dai tubercoli, di cui ora ci occupiamo, l’acqua che in essi contenevasi, li sottoposi all’azione di mode- rato calore entro ad una stufa portata alla temperatura di 45° R., da dove toltili perfettamente disseccati, li trovai essere nella quantità di gr. 51, 50. Attesa una sì piccola quantità di materia, mi convenne sottoporla tutta in una volta al processo analitico a fine di ottenere i materiali, dai quali era costituita, in una quantità bastantemente apprezzabile, - per potere su di essi in- stituire quei saggi che doveano rendermi manifesta la loro na- tura. A tale oggetto cominciai dall’agitarla in un mortajo di porcellana ripetutamente sotto all'acqua stillata, e separai di mano in mano il liquido caricatosi dei materiali che aveva po- tuto estrarre dalla massa tubercolare, per mezzo della filtrazione per panno di tela; trattamento, mediante il quale pervenni a dividere i materiali dei tubercoli in due sezioni; in fibre, cioè, RICERCHE SOPRA I TUBERCOLI POLMONARI 69 che senza essere state attaccate dall’acqua rimanevano sul filtro nella totalità, ed in materiali che erano stati estratti dall’acqua, e che si trovavano nel liquido parte disciolti e parte sospesi. Abbandonando per ora le fibre, mi occuperò del liquido che conteneva la quantità più considerevole della sostanza che faceva parte dei tubercoli, e che è forse la più meritevole di essere investigata. Questo liquido era bianco ed opaco come il latte, e lasciato in quiete dava un deposito che era dovuto a porzione della ma- teria che trovavasi in esso sospesa. Lo sottoposi alla evapora- zione operata mediante il bagno-maria, e durante questa non manifestò coagulo di sorta alcuna, ma solo si ricuoprì alla su- perficie di una pellicola consimile a quella che si forma in una soluzione di materia caciosa allorchè viene evaporata. Raccolti i materiali solidi che mi somministrò per residuo, li trattai con alcool bollente fino a che mi dava indizio di disciogliere porzione di quelli per il color giallo citrino che acquistava, ed i liquidi alcoolici tutti riuniti lasciarono deposi- tare per raffreddamento una materia in forma di foglie bianche e lucenti che potei separare mediante decantazione, e che pesò gr. 2, 85. Questa sostanza era fusibile per l’azione del calore, per cui convertivasi in un liquido scolorito oleaginoso, che rifacevasi solido per raffreddamento. Fatta ardere sopra una lamina di platino non lasciava residuo alcuno. Era insolubile in alcool a freddo, solubile in alcool bollente, in cui dava una soluzione che non voltava al color rosso la tintura di laccamuffa; scioglievasi in etere massimamente a caldo, era insolubile affatto in acqua, e non saponificabile sotto l’azione della potassa caustica; pro- prietà, perle quali fui portato a stabilire che apparteneva quella sostanza alla classe delle materie grasse, ed a qualificarla per colesterina, come era già stata considerata da Preuss. Il liquido alcoolico da cui erasi depositata la colesterina, mi 70 Piadini 30 2Za4Za1 somministrò per l’evaporazione un residuo del peso di gr. 10,16 di color bruno, di un odore suo particolare, e che rappresen tava il complesso di quei materiali dei tubercoli, dotati della proprietà di essere solubili in alcool tanto a caldo che a freddo. Trattato con acqua stillata vi si disciolse parzialmente, e ne restò isolata una materia di apparenza untuosa, la quale rendeva il liquido mucillaginoso ed opaco: separata per mezzo della filtrazione, la trovai essere nella quantità di gr. 4,99. Era questa di color giallo cupo; posta sopra la carta pro- duceva una macchia untuosa, che non si dileguava per il riscal- damento; sotto l’azione del calore si convertiva in un liquido oleaginoso, che ben presto si rappigliava per l’affusione del- l’acqua come farebbe la cera fusa. S'infiammava per il contatto di un corpo acceso producendo una luce molto vivace, e som- ministrava una piccola quantità di residuo cinereo che scioglie- vasi in acqua completamente, e di cui la soluzione aveva pro- prietà alcaline, e non dava precipitato nè con il cloruro di platino, nè coll’ossalato d’ossido d’ ammonio; potevasene quindi dedurre che doveva l’alcalinità alla presenza dell’uni-ossido di sodio. Trattata con alcool vi si scioglieva colorandolo in giallo citrino, e gli comunicava la proprietà di voltare al rosso la tin- tura di laccamuffa. Questo liquido non manifestava verun cri- stallo nè per raffreddamento, nè per evaporazione. Saturatane una porzione con idrato di uni-ossido di sodio, e quindi evaporata a bagno-maria, il residuo che ottenevasene diversificava dalla sostanza in esame, perchè traltato con acqua vi si scioglieva completamente. Questa soluzione acquosa precipitava con l’acqua di calce, con l’acetato di piombo, e metteva in libertà una materia untuosa, che galleggiava sul liquido se si trattava con acido quin-bi-azotico. Separato il liquido dalla materia oleosa che l'acido azotico aveva messa in libertà, mi somministrò per l’evaporazione piccola quantità di materia salina, che deflagrava scaldandola in cucchiaio di platino, e lasciava un residuo dotato RICERCHE SOPRA I 'TUBERCOLI POLMONARI 71 delle proprietà dell’uni-ossido di sodio. Quindi è che fui con- dotto a stabilire che la sostanza di cui ora ci occupiamo doveva riguardarsi come costituita da uno degli acidi, che stanno uniti colla glicerina nelle materie grasse, e da uni-ossido di sodio; € poichè fra gli altri caratteri dei quali gode, quello possiede d’essere solubile in alcool bollente, e di non cristallizzare per il raffreddamento del liquido, così sembrami di dovere ammet- tere con Preuss che l'acido grasso salificante l’ossido alcalino debba essere l’oleico, in preferenza del margarico o dello stea- rico, dei quali le combinazioni con la soda disciolte in alcool caldo avrebbero per raffreddamento cristallizzato . D'altra parte però le proprietà acide della soluzione alcoo- lica di questa materia, il non essere solubile in acqua, non che il divenirlo per la neutralizzazione dell’acido mediante la soda, mi fanno dissentire dal considerarla come un oleato neutro di questa base, come fu supposto dall’istesso Preuss, e mi portano piuttosto a riguardarla per un oleato bi-acido di soda, sale di cui, se non bene conosciamo ancora le proprietà, sappiamo però certa l’esistenza; e che, se vogliamo ammetterlo come corri- spondente al bi-oleato potassico, possiamo credere per analogia privo come quello della proprietà di essere solubile in acqua, e capace di reagire alla maniera degli acidi sulle tinture dci vegetabili. L’alcool oltre avere estratto dalla massa dei tubercoli la colesterina ed il bi-oleato di soda, erasi pure impadronito di altra sostanza, che, come ho più sopra accennato, restò disciolta nell’acqua durante il trattamento per cui avevo separato l’ul- tima nominata delle due materie di natura grassa dal residuo che ottenni dall’evaporazione del liquido alcoolico, da cui erasi già depositata la colesterina: e poichè questo residuo fu del peso di gr. 10,16, tolti da esso li gr. 4,55 di bi-oleato di soda che conteneva, l’avanzo espresso da gr. 5,85 mi dava la quantità ponderabile della sostanza che restò sciolta nell’acqua, e di cui passo ora ad occuparmi. 12 P.., A: C.O.Z,Z.1 La soluzione di questa materia era di un colore giallo pal- lido, non aveva azione alcuna sulla tintura di curcuma e su quella di laccamuffa, nè dava luogo ad inalbamento ed a preci- pitato se si trattava con gli acidi. Pareva che questa sostanza altro essere non dovesse che estratto alcoolico di carne, o osmazoma propriamente detto, giacchè a riserva delle materie grasse, niun altro materiale oltre di questo siamo soliti a separare per l’azione dell’aleool dai più dei tessuti di natura organica animale; pur non di meno in forza dei resultati che ho ottenuti nel ripetere sopra di essa quei saggi medesimi a cui con molta accuratezza era stata già sottoposta da Preuss, debbo ammettere io pure che tale sostanza è carat- terizzata da alcune proprietà per le quali ben facilmente si ri- conosce diversificare dall’osmazoma ordinario. E di fatti dappoichè sappiamo che l’ osmazoma si compone per lo meno di due materiali ben distinti fra loro, precipitabile l’uno dalla tintura di noce di galla, non che dal bi-cloruro di mercurio, e l’altro indifferente del tutto sotto l’azione di questi reattivi, e precipitabile invece dal sotto-acetato di piombo; ogni qualvolta trattisi di riconoscere per l'esame chimico se debbasi questo nome alla sostanza che vuolsi qualificare, non possiamo a caratteri più sicuri attenerci che a quelli che essa ci presenta in contatto degli agenti atti a dimostrarci se quei due materiali concorrono alla di lei formazione. E poichè la soluzione della sostanza in discorso non dà che un ben leggiero inalbamento quando la sì tratta con tintura di noce di galla, e ricusa affatto non tanto di precipitare, ma ben anco d’inalbarsi sotto l’azione del bi-cloruro di mercurio, così bisogna necessariamente con- cluderne, che essa diversifica notabilmente dall’osmazoma, per non contenere quello dei due materiali che gode della proprietà di essere precipitato dai due reagenti qui sopra indicati. Ben altrimenti però la si comporta quando ponesi in con- tatto del sotto-acetato di piombo e del bi-cloruro di stagno, RICERCHE SOPRA I TUBERCOLI POLMONARI 75 offerendo in ambedue i casi un precipitato fioccoso molto ab- bondante, di un color giallo pallido, intantochè il liquido sopra- stante rimane scolorito del tutto. Per il che se riflettesi che queste reazioni sono quelle che caratterizzano più particolarmente quello dei materiali dell’osmazoma, che è indifferente alla tintura di noce di galla ed al bi-cloruro di mercurio, sembra si possa ammettere con molta certezza che la sostanza che fu sciolta dal- l’alcool oltre alle due materie grasse esaminate, e che come in quello è pure suscettibile di disciogliersi in acqua, deve essere riguardata non già come osmazoma, ma bensì per quel materiale di esso, che, indifferente sotto all’azione dei due secondi mezzi precipitanti, è sensibilissimo sotto l'influenza dei primi. I miei resultati mi hanno quindi condotto a confermare sulla natura della sostanza esaminata, le conclusioni istesse di Preuss, il quale aveva di già proposto il nome di fimatina da piuata (tubercoli) per siffatto materiale, che non erasi mai trovato in niuna delle parti componenti l'organismo animale libero dall'altro con cui trovasi unito nell’osmazoma. Dopo avere instituiti sulla soluzione di questa sostanza i saggi che ho descritti, ne evaporai a bagno-maria la quantità che erami rimasta, all'oggetto di riconoscerne la natura, e le proporzioni dei sali che vi si contenevano. Determinato il peso della materia di consistenza estrattiva che ne ottenni, la calcinai entro a cucchiaio di platino, e tenuto conto del poco residuo cinereo che mi somministrò, potei ritrovare, mediante il cal- colo, che nei gr. 5,85 peso totale della materia solubile sì in alcool che in acqua, erano contenuti gr. 0,67 di materie saline. Quel residuo cinereo scioglievasi completamente in acqua; la soluzione era inalbata dal nitrato di argento, restituiva il color bleu alla carta arrossata dagli acidi, e non dava precipitato con i bi-cloruri di bario, di calcio e di platino. Potei stabilire dietro di ciò che esso era rappresentato soprattutto da bi-cloruro di sodio, ed anche da piccola quantità di carbonato a base del- Scienze Cosmolog. T. I. 10 74 P.itxAsslA GYO} ZL Z0I l’ossido di questo stesso metallo, generatosi per la decomposi- zione del lattato sodico che esisteva nella soluzione acquosa della sostanza in esame, come lo dimostrava la reazione che su di essa induceva il tri-cloruro di ferro. Terminato così l'esame di quei materiali dei tubercoli che erano stati disciolti dall’alcool, debbo ora esporre i resultati delle mie indagini sopra il complesso delle sostanze che facevan parte della massa tubercolare, e che eran rimaste indifferenti all’azione di quel solvente. La materia residua del trattamento alcoolico se osservavasi intanto che era ancor umida, si poteva assomigliare per i suoi caratteri esterni ad un ammasso di minuti frantumi di midolla di pane rammollita ed inzuppata dall’acqua; e siccome poteva contenere dei materiali atti a disciogliersi in essa, così volli sot- toporla all’azione di questo liquido onde giungere a separarli . Eseguii il trattamento acquoso entro ad'una capsula posta a bagno-maria, ed ebbi cura che il liquido si mantenesse al di sotto dei 60° R. affinchè se l’acqua avesse disciolta dell’albu- mina, non potesse questa coagularsi per una temperatura troppo favorevole. Dopo di ciò posto il tutto in un filtro, seguitai a lavare con acqua ben calda la materia che rimanevavi sopra, per più volte di seguito. Il liquido raccolto era leggermente opalino, non alterava il colore della tintura di laccamuffa, nè di quella di curcuma, € si faceva spumeggiante per l’agitazione. Mediante Vl’ ebullizione non manifestava coagulo, ma invece, se evaporavasi a bagno-maria, si ricuopriva a poco a poco alla superficie di una pellicola bianca piuttosto consistente, per cui si sarebbe potuto sollevarla dal liquido con facilità, e lasciava per residuo una materia di color giallo d’ambra, che era nella quantità di gr. 5,99. Una parte di questa la trattai di bel nuovo con acqua, e completamente vi si disciolse. La soluzione precipitava colla tintura di noce di galla, con gli acidi tri-solforico, quin-bi-azo- RICERCHE SOPRA I TUBERCOLI POLMONARI 75 - tico, bi-cloro-bi-idrico; con i bi-cloruri di stagno e di mercurio; con il quin-bi-azotato dell’ossido di questo stesso metallo; con quello dell’ossido d’argento, e con l’acetato di piombo. Tali caratteri son quelli che appartengono tanto ad una soluzione di albumina, quanto a quella della materia caciosa, ond’ è che per determinare quale delle due si fosse la materia in discorso, trattai una porzione del liquido con acido acetico; e poichè per la di lui azione mi somministrò un precipitato consimile a quello a cui dava luogo per l’affusione degli acidi minerali, fui portato a stabilire che la materia che era rimasta disciolta dal- l’acqua nel trattamento sopra esposto dovea essere ritenuta per vera materia caciosa, che trovavasi nei tubercoli in istato di non coagulazione. Ma se nei tubercoli si ritrovava questa materia, vi era egli del pari esistenza di lattina? Per assicurarmene trattai una piccola quantità della soluzione della materia caciosa con albo- ramento di potassa, e per il nessun cambiamento di colore che questo reattivo soffriva allorchè riscaldavo la soluzione della so- stanza che con esso saggiavo, potei stabilire con sicurezza che nei tubercoli non esisteva la sostanza di che andavo in traccia, tanto più che consimili resultati negativi avevo ottenuti ancora nel trattare nel modo istesso la soluzione del materiale osma- zomico. L’altra parte di materia caciosa che rifiutai di disciogliere in acqua, la calcinai onde riconoscere la quantità e qualità di materie saline che eransi disciolte nel trattamento acquoso; e per questo esperimento potei calcolare che nei gr.5, 55 di ma- teria caciosa ottenuta, vi si contenevano gr. 1,17 di materie saline, rappresentate, secondo il modo in cui si comportarono nei saggi ai quali le sottomisi, da bi-cloruro di sodio, e da tri-solfato e quin-bi-fosfato a base dell’ossido di questo metallo. La materia che ricusò di sciogliersi in acqua nel trattamento antecedente, asciutta che fu, pesava gr. 24, 50. 76 P.I VANO! Zuzit È questa quella sostanza intorno alla quale più particolar= mente i resultati da me ottenuti mi portano a conclusioni di- verse da quelle riferite da Preuss; poichè mentre questi pensa di doverla ritenere per materia caciosa che esistesse nei tuber- coli in istato di coagulazione, per cui non fosse rimasta attaccata dall'acqua, come avvenne per quella che abbiamo già preso in esame, io credo al contrario che la si debba riguardare come fibrina, o come albumina coagulata. Vero è che non è cosa di sì piccolo momento il differenziare quest’ultima dalla materia caciosa in istato di coagulazione, mentre sì luna che l’altra sono ravvicinate fra loro per caratteri così affini da render sempre molto dubbioso ogni giudizio diretto a distinguerle; pur non ostante noi possiamo a tale oggetto fare non inutile ricorso al diverso grado di intensità con cui da qualche agente chimico rimangono attaccate, ed appoggiarci alla maggiore o minore re- sistenza che oppongono a quello per giungere a qualificarle. Dietro di ciò, dopo essermi assicurato che la materia in esame dovea essere riguardata o come fibrina, o come materia caciosa coagulata per la proprietà di cui godeva di disciogliersi negli alcali diluti, non che per quella di disciogliersi negli acidi, e di somministrare in questi una soluzione che dava un preci- pitato bianco allorchè trattavasi con cianuro ferroso potassico, parvemi che si potesse stabilire con qualche certezza per quale delle due la si potesse ritenere, osservando al modo con cui comportavasi sotto l’azione dell’acido acetico; poichè mentre sappiamo che sì l'una che l’altra si convertono per di lui mezzo in una gelatina, che trattata poi con acqua vi si discioglie com- pletamente, non ignoriamo da un’altra parte che per essere in esso la materia caciosa molto meno solubile della fibrina, ci occorre per giungere sopra.della prima ad un tal resultato, una molto più ragguardevole quantità d’acido di quella che ci abbi- sogna per disciogliere la seconda. RICERCHE SOPRA I TUBERCOLI POLMONARI 77 Quindi è che trovai necessario d’instituire un esperimento di confronto fra la sostanza di che ci occupiamo e la vera materia caciosa coagulata, onde determinare in qual rapporto convenisse impiegare l’ acido acetico a fine di renderle egual- mente solubili, e mediante di questa esperienza potei stabilire che mentre per gr. 4 della materia in esame bastavano gr. 8 di acido acetico concentrato per convertirla in una gelatina molto densa che discioglievasi in acqua calda nella totalità, abbisognava in- vece il triplo dell’acido istesso per ottenere resultati consimili sopra gr. 4 di materia caciosa coagulata; fatto che portavami direttamente a concludere contro l’opinione di Preuss sulla natura di questa sostanza, ed a riguardarla invece come fibrina. Pur non di meno per sempre più convalidare quell’ esperi- mento, volli accertarmi per mezzo della calcinazione completa di gr. 16,50 di tale sostanza, quale più specialmente fosse la quantità, e quale la qualità delle materie saline che trovavansi in esse contenute; e ciò perchè essendo sì pronunziata la diffe- renza quantitativa dei sali che fan parte della fibrina di fronte a quelli che trovansi nella materia caciosa coagulata, credei di poter fondare anche su tal differenza un valido carattere distin- tivo per meglio stabilire la natura chimica della materia che esaminiamo . Effettuatane la calcinazione in crogiuolo di platino, e de- terminata la quantità del residuo cinereo, che avevami sommini- strato in peso 0, 10, potei ritrovare col calcolo che 100 parti della sostanza calcinata non contenevano che 0,62 di materie saline, composte, secondo i saggi a cui potei sottoporle, di sotto-fosfato di calce, di fosfato di magnesia, di una leggiera traccia d’ossido di ferro, che dovevasi ad un poco di ematosina che trovavasi nei tubercoli, mentre non presentavano indizio alcuno di alcali libero. Tal quantità di residuo salino mentre ben s’ac- cordava con quella che appartiene alla fibrina, espressa secondo Berzelius da 0,55 per 100, e secondo Muller da 0,77, diver- 78 PI VASCO) IZ sificava all'incontro di gran lunga da quella facente parte della materia caciosa coagulata che per 100 parti arriva fino a 6,50. Credei quindi in forza di ciò di potere tanto più francamente stabilire, che la sostanza che abbiamo studiata dovevasi ritenere per fibrina, sì per il modo in cui si comporta sotto il trattamento dell’acido acetico, sì per la piccola quantità di materie saline che formavano parte di essa. Resta così terminato l’esame di tutti i materiali che erano stati estratti dall'acqua, con che trattai fin da principio la massa totale dei tubercoli sottoposti al processo analitico, onde non debbo ora occuparmi che delle fibre rimaste da quella inattac- cate, che erano nella quantità di gr. 8,50. Per isolarne la materia grassa, se pure ne contenevano, le trattai per due volte a bagno-maria con etere idrico. Il liquido etereo non mi diede alcun deposito cristallino per raffredda- mento, ma evaporato fino a secchezza mi somministrò un residuo di materia grassa che pesava gr. 0, 25. Sottoposte di poi all’azione dell’acido acetico concentrato mostrarono di non contenere nè fibrina, nè albumina; ma fatte bollire ripetutamente con acqua cedevano a questa gr. 1,05 di una materia sensibile all’azione della tintura di galla, indifferente a quella del cianuro ferroso potassico, e che, siccome non veniva estratta da esse fibre per l’azione dell’acqua a freddo, io ri- tenni per materia gelatiniforme. Resulta quindi che fatta astra- zione dalla piccola quantità di materia grassa, si possono consi- derare le fibre composte di due materiali distinti fra loro per essere l’uno risolvibile in gelatina, e Valtro incapace di simile trasformazione. RICERCHE SOPRA I TUBERCOLI POLMONARI 79 Tavora dimostrativa della quantità dei materiali che facevan parte dei gr. 51,50 tubercoli crudi sottoposti all’analisi . Materie solubili in alcool 2 ; a caldo e nona freddo. i 2, 85 Colesterina Bi-oleato di soda . . Materie solubili in alcool | 10. 16 Materiale osmazomico . a caldo ed a freddo . . | ? Bi-cloruro di sodio . . Lattato di soda . . .. Materia caciosa o) pato == Bi-cloruro di sodio . . Materie solubili in acqua | 5, 55 eSalialo di Rognito | Fosfato di soda. . . . Materie insolubili in ac- {94 x») pihri qua ed in alcool . . . . { 24, 50 Fibrina Grasso 8. 50 Materia gelatiniforme . 3 Materia non atta a risol- versi in gelatina . . . 0, 18 Perdita 51, 50 51, 50 100, 00 ANALISI DEI TUBERCOLI FUSI. I tubercoli fusi che sottoposi alle ricerche analitiche, sec- cati che furono, pesarono gr. 72, 75. Operando sopra di essi nel modo medesimo che tenni nell'analisi dei crudi, pervenni a resultati affatto identici agli ottenuti in quella per rispetto alla qualità dei materiali che li componevano, e solo diversi per rapporto alla quantità, come resta dimostrato dal quadro che offro. 80 P. A, COZZI — RICERCHE SOPRA I TUBERCOLI POLMONARI Tavora dimostrativa della quantità dei materiali che facevan parte dei gr. 72,75 tubercoli fusi sottoposti all'analisi. Materie solubili in alcool a caldo e non a freddo. { 3, 00 Colesterina Bi-oleato di soda . . . . 15, 85 Materiale osmazomico . Materie solubili in alcool a caldo ed a freddo . . Bi-cloruro di sodio. . Lattato di soda . . 5.75 Bi-cloruro di sodio. . Tri-solfato di soda . . Fosfato di soda. ... Materie solubili in acqua | Materia caciosa Materie insolubili in ac- qua, ed in alcool. . . . { 41, 55 Fibrina Materie non alte a risol- Grasso e. | 7, 00 Materia gelatiniforme. . versi in gelatina . . . 0, 42 Perdita 72,75 72, 75 100, 00 Confrontando ora i resultati ottenuti per l’analisi dei tu- bercoli crudi con quelli ritrovati per l’analisi dei fusi, oltre a riconoscere l’identità fra i materiali che concorrono alla forma- zione tanto dei primi che dei secondi, come già dissi, vedremo pur anco che mentre predominano nei crudi la colesterina, il bi-oleato di soda, la materia caciosa, le fibre, difettano questi materiali nei fusi, nei quali si fa invece più elevata la quantità del materiale osmazomico, e più particolarmente quella della fibrina, 0 albumina coagulata. Ecco quanto sembrami possa pronunziare la Chimica intorno ai tubercoli polmonari; ora vorrei poter desiderare che questi resultati si fossero tali da non riescire affatto inutili per ciò che desidera la Patologia, per ciò che bisogna alla Medicina. —T =09950=— RICERCHE CHIMICHE SULLA SALICINA FATTE DAL PROFESSORE RAFFAELLO PIRIA Posciachè le memorabili ricerche di Sertuerner sulla morfina e quelle di Pelletier e Caventou sulla chinina, sulla cinconina ec. ebbero dimostrato che l’eflicacia di molti medicamenti tratti dal regno organico risiede in alcuni principii particolari, che si possono estrarre con adattati processi, molti altri Chimici in- trapresero delle ricerche analoghe sulle sostanze medicamentose dotate di qualche energia. Quelli che hanno seguitato i pro- gressi della scienza sanno come da quel tempo in poi siasi. aggrandito il campo delle nostre conoscenze in questa branca della Chimica. Più volte la corteccia del salcio era stata adoperata in me- dicina come amaro e come febbrifugo, ed i felici risultati che se n'erano ottenuti aveano invogliato diversi Chimici a rintracciare il principio nel quale trovasi concentrata l’attività di tale sostanza. Primi ad intraprendere sperienze di tal genere furono Brugna- telli e Fontana; e sebbene i loro tentativi non raggiungessero compiutamente lo scopo cui miravano, ciò non ostante giunsero ad ottenere allo stato impuro il principio attivo di quella cortec- cia, e spianarono la via a coloro che in seguito hanno reiterate simili indagini. Un ostacolo alla riuscita de’ primi saggi fu che i Scienze Cosmolog. T. I. 11 82 PIRIA Chimici mentovati prescelsero per le loro esperienze il salix alba, specie di salcio che si sa oggigiorno contenere una quan- tità quasi inapprezzabile della sostanza attiva. Più fortunato di loro il Sig. Leroux farmacista distinto di Vitry-le-Francais pervenne nel 1829 ad estrarre dalla corteccia del salix helix una sostanza cristallizzata particolare che chiamò salicina, nella quale conobbe un potere antifebbrile paragonabile a quello dello stesso solfato di chinina. Leroux qualificò la sali- cina come un alcaloide, e presentò il suo lavoro all’ Accademia delle Scienze di Parigi accompagnato da un saggio della nuova sostanza. Gay-Lussac e Magendie incaricati dall’ Accademia di esaminare il lavoro del sig. Leroux tanto dal lato chimico quanto dal lato terapeutico, conobbero che la salicina non ha proprietà basiche, e che per conseguenza non può riguardarsi come un alcaloide; ma d'altra parte confermarono le speranze concepite dallo scopritore sul potere febbrifugo di tale sostanza, e dichia- rarono che nella più parte delle febbri intermittenti può con vantaggio venir surrogata al solfato di chinina. Il rapporto favo- revole de’ Commissarii dell’Accademia meritò poscia al sig. Le- roux uno de’ premj fondati dal Barone di Montyon a favore di colui che facesse la scoperta più utile all'arte di guarire. Da quel tempo in poi varii Chimici e Farmacisti si diedero a cercare lo stesso principio in altre piante indigene, ed a mi- gliorare il processo impiegato da Leroux per estrarlo dalla cor- teccia del salcio. Nel 1850 Braconnot trovò ancora la salicina nel salix fissa e nel s. amygdalina; ma non potè ricavarne dal s. caprea, vimi- nalis, babylonica, bicolor, incana, daphnoides, russiliana, alba, triandra, fragilis. Lo stesso autore sapendo che agli Stati-Uniti la corteccia del populus tumuloides viene adoperata con successo a combattere le febbri, analizzò diverse specie indigene del ge- nere populus colla speranza d’isolarne il principio attivo; e difatti trovò della salicina nel p. alba, nel p. greca, e rinvenne la sali- afosa asi jr) î i — ee e RICERCHE CHIMICHE SULLA SALICINA 85 cina unitamente ad una nuova sostanza, la quale chiamò populina, nel p. tremula. Al contrario non potè ricavare nè salicina, nè populina dal p. angulosa, nigra, virginica, monilifera, grandicu- lata, fastigiata, balsamea. Non ostante questi lavori la storia chimica della salicina rimaneva incompiutissima. Si sapeva sol- tanto che l’acido solforico concentrato la colora in rosso intenso, che gli acidi la trasformano in resina, che l’acido nitrico la con- verte in acido ossalico ed in acido carbazotico. La sua composi- zione quantitativa era stata: determinata approssimativamente dietro un’analisi de’ Sigg. Pelouze e Giulio Gay-Lussac; ma la formola dedotta da questi Chimici era erronea. Queste sole conoscenze si avevano intorno alla salicina quando per la prima volta tolsi ad esaminarla. Quel che vado ad aggiungere è il frutto di tre anni di assiduo lavoro che ho consacrati allo studio di tale sostanza. Le prime ricerche furono da me fatte a Parigi nel laborato- rio di Dumas, e si trovano registrate nel volume Lxx degli Annales de Chimie et de Physiquez ma la più parte sono tuttora inedite, o almeno non sono state pubblicate che per estratti. In questa Memoria ho riunito tutti i fatti che ho avuto occasione di osservare, ordinandoli secondo le loro naturali dipendenze, e senza curarmi di seguire l’ordine in cui vennero scoperti. Per preparare la salicina si seguitano diversi processi, nei quali lo scopo cui principalmente si mira è quello di separare dalla decozione concentrata della corteccia del salcio il tannino, la gomma e le sostanze coloranti, lasciando la salicina disciolta nel liquido. Secondo Merck si tratta la corteccia con acqua bol- lente, si concentra la decozione e poi si fa bollire con litargirio in polvere, finchè sia compiutamente scolorata. L’ossido di piombo combinandosi colla gomma, col tannino e colle materie estrattive forma de’ composti insolubili che si precipitano. Feltrando la soluzione si ottiene un liquido scolorato nel quale si trova di- sciolta la salicina ed un poco di ossido di piombo. Per separarne 84 PIRIA quest’ultimo si versa prima un po’ di acido solforico; ma siccome la più piccola quantità di un acido libero basterebbe a scomporre la salicina durante l’evaporazione, si finisce di precipitare l'os- sido di piombo col solfuro di bario, il quale satura nel tempo stesso qualche traccia di acido che potrebbe trovarsi disciolto. Il solfuro di piombo nel precipitarsi opera come farebbe il carbone animale, e trascina con se ogni traccia di materia colorante. Ciò fatto, si evapora la soluzione per far cristallizzare la salicina, e si depura il prodotto con nuove cristallizzazioni. La salicina cristallizza in pagliuole di figura rettangolare e bianchissime; dalle soluzioni acide si separa in prismi quadran- golari duri e voluminosi. Non ha odore sensibile; il suo sapore è molto amaro, e ricorda l’aroma del salcio. Alla temperatura di 19° una parte di salicina ne richiede 18 di acqua per disciogliersi, e pare solubile in ogni proporzione nell'acqua bollente. Nell’al- coole si scioglie più facilmente che nell'acqua; ma è del tutto insolubile nell’etere, negli olii fissi e negli olii volatili. Riscaldata alla temperatura di 120° circa, si fonde in un liquido trasparente, senza abbandonare acqua. Col raffredda- mento si solidifica in massa cristallina. Ad un maggior grado di calore si trasforma in una specie di resina, e, più fortemente ri- scaldata, si scompone tramandando de’ vapori infiammabili, e lasciando un residuo di carbone lucido e rigonfiato. Nessun reagente precipita la salicina dalle sue soluzioni, eccettuato l’acetato di piombo ammoniacale. Versando in una soluzione acquosa di salicina discretamente concentrata una soluzione mista di acetato di piombo ed ammoniaca, si forma immediatamente un precipitato bianco e voluminoso il quale consiste in una combinazione di salicina e di ossido di piombo. Il salicinato di piombo contiene circa 65 per cento di base, ma in contatto dell’acqua pura si scompone: si forma un composto che contiene maggior quantità di salicina il quale resta disciolto, ed un altro insolubile in cui predomina l’ossido di piombo. Per | | RICERCHE CHIMICHE SULLA SALICINA 85 tal ragione non si può lavare il salicinato di piombo senza scom- porlo parzialmente. Il cloro trasforma la salicina in alcuni composti clorurati ne quali uno, due, tre equivalenti di cloro rimpiazzano altret- tanti equivalenti d’idrogeno. Il bromo opera probabilmente allo stesso modo. L’iodo non vi ha azione. L'acido solforico concentrato discioglie la salicina in un liquido di color rosso-porporino. La soluzione esposta all’aria, ne attrae l'umidità e deposita una polvere rossa, alla quale Bra- connot ha dato il nome di rutilina. L'acido idroclorico concen- tratissimo vinduce una metamorfosi della stessa natura. Gli acidi diluiti operano in un modo tutto diverso, percioc- chè trasformano la salicina in una sostanza resinosa ed insolubile nell’acqua, alla quale ho dato il nome di saliretina. Anche gli acidi deboli, come sono l’acido acetico e l'acido ossalico, producono lo stesso effetto, purchè si riscaldi la mescolanza fino al grado dell’ebollizione. Allora il liquido s'intorbida, ed alla sua superfi- cie si vede comparire una pellicola fusibile e d’aspetto resinoso. Tolta la prima con una bacchetta di vetro, se ne forma dell'altra e poi dell’altra ancora, finchè in ultimo resta un liquido che tiene in soluzione l'acido adoperato e dello zucchero d'uva. Onde consegue che gli acidi liberi coll’aiuto del calore trasformano la salicina in saliretina ed in zucchero d’uva. L'acido nitrico concentrato spiega sulla salicina un’azione molto energica, sviluppando vapori nitrosi misti ad acido carbo- nico. L'applicazione del calore favorisce ad un alto grado tale reazione, i cui prodotti sono l’acido carbazotico e l’acido ossa- liceo. Adoperando dell'acido nitrico debole, si ottengono altri corpi di cui parlerò in altra occasione. Le soluzioni alcaline non alterano la salicina nè alla tempe- ratura ordinaria, nè col riscaldamento; ma ne aumentano la so- lubilità in modo meraviglioso. Se si satura esattamente l’alcali per mezzo di un acido libero, la salicina si precipita dotata di 86 PIRIA tutte le sue proprietà. Nondimeno quando si fa fondere un mi- scuglio di potassa caustica ordinaria e di salicina, quest’ultima sostanza resta interamente decomposta: si sviluppa del gas idro- geno, e si forma dell'acido salicilico e dell’acido ossalico. Discio- gliendo il residuo nell’acqua e saturando l’alcali con un acido minerale l'acido salicilico si precipita in fiocchi cristallini (1). L’azione che spiegano sulla salicina certi corpi ossidanti è delle più singolari che si conoscano. Era noto dalle interessanti ricerche di Doebereiner sulla produzione artificiale dell’acido formico, che la salicina, come la più parte delle materie orga- niche, produce dell’acido carbonico e dell'acido formico, quan- do vien trattata con una mescolanza di biossido di manganese e di acido solforico diluito. Dal mio canto, avendo ripetuto la stessa esperienza, ho ottenuto un risultato identico. Ciò non ha nulla di estraordinario, giacchè l'acido formico e l'acido carboni- co, che sono i prodotti ultimi delle scomposizioni organiche sotto le influenze ossidanti, si formano in ragione della somma stabilità onde sono dotati, e sono indipendenti dalle qualità delle so- stanze organiche che s'impiegano a produrli. Ma se invece, si riscalda della salicina con acido solforico e bicromato di potassa disciolti in una discreta quantità di acqua, oltre l'acido formico e l'acido carbonico, che pure si formano come nel caso pre- cedente, si sente un odore aromatico e penetrante che ricorda quello dell’essenza di mandorle amare. Condensando i vapori che si sviluppano in tale reazione, si ottiene un'acqua lattici nosa in cui si trovano sospese innumerevoli gocciole di certa sostanza oleosa, le quali bentosto si radunano in fondo del li- quido. Questo prodotto artificiale dell’ossidazione della salicina, al quale ho dato il nome d’idruro di salicile per certe ragioni che indicherò a tempo opportuno, è identico con un olio volatile il quale fa parte dell’essenza naturale che si cava colla distilla- zione dai fiori della spirea ulmaria. (1) Questa scoperta è stata falta dal Sig. Gerhardt. RICERCHE CHIMICHE SULLA SALICINA 87 La salicina può riguardarsi come il tipo di una serie di corpi capaci com’essa di speciosissime trasmutazioni; ma il poco che si conosce intorno alle proprietà di questi lascia soltanto intravedere l’importanza de’ risultati che il loro esame promette alla Chimica ed alla Fisiologia vegetale. Il pioppo, il pero selvaggio, le mandorle amare, molti licheni ec. contengono come il salcio delle sostanze cristallizzate particolari, le quali sembrano incaricate di un qualche ufficio importante nell’economia vegetale. Queste somigliano moltissimo alla salicina, e si decompongono in condizioni analoghe, dando origine ad una moltitudine di prodotti non peranche ben cono- sciuti. Quattro sole di esse sono state studiate sinoggi, e sono la salicina, la florizzina, l’amigdalina, la populina: tutte conven- gono in una proprietà comune, cioè nel trasformarsi in zucchero, oltre a varii altri prodotti, in determinate condizioni. Pare da cio che quest’ultima circostanza debba disvelare il vero ufficio cui sono destinate dalla natura. Oggigiorno conosciamo con certezza le trasformazioni con- secutive cui soggiace l’amido negli organi de’ vegetabili, e sap- | piamo che primamente si converte in destrina, poscia in zuc- chero, finalmente in legno. Ora la salicina e le altre sostanze analoghe decomponendosi in presenza di certi fermenti, com'è | p. es. la sinaptasia, finiscono anch'esse per trasformarsi in zuc- chero. Pare da ciò probabilissimo che lo zucchero disciolto dai sughi nutritivi sia trasportato là ove il tessuto vegetale ha bi- sogno di svilupparsi, ed ivi organizzandosi si trasmuti in fibra — legnosa. Cotal funzione mi pare adunque comparabile alla digestione degli animali: l’amido, la salicina, la florizzina, l’amigdalina ec. vi tengono luogo di alimenti; la soluzione zuccherina che ri- sulta dalla loro metamorfosi è per le piante ciò che il chilo è per gli animali; il legno che forma la base del tessuto vegetale corrisponde alla fibrina, che è la base del tessuto animale; final- 88 PIRIA mente la sinaptasia e gli altri fermenti che operano la metamor- fosi dell’amido, della salicina ec. funzionano nelle piante come la pepsina negli animali. Pare da ciò, che nella vegetazione siano da distinguersi due diversi periodi, in cui le funzioni vegetali procedono in modi del tutto contrari. Nell’uno di tali periodi, che dura tutta la state e l’autunno, le piante assimilando l'acqua, l'acido carbonico e l’ammoniaca per mezzo delle foglie, elaborano le sostanze alimentari, cioè l’amido, la salicina, Ja populina e i loro congeneri. Nell’altro che ha luogo in primavera, i materiali nutritivi messi in serbo durante la vegetazione precedente s'im- piegano a fabbricare gli organi onde ha bisogno la nuova vege- tazione, cioè le foglie ed i fiori. Nel primo caso la pianta esercita le funzioni esclusive del regno vegetabile, e si vale delle foglie come organi di assimilazione, della clorofilla come agente chi- mico, della luce solare come eccitatore, dell’acido carbonico e dell’ammoniaca come materie alimentizie. Nel secondo imita le funzioni del regno animale, almeno in ciò che tocca la dige- stione e l'assimilazione degli alimenti. In questo periodo sono organi assimilatori le cellule; agente chimico la sinaptasia e i fermenti analoghi; eccitatore il calorico; sostanze alimentari l’amido, la salicina, l’amigdalina, la populina ec. Sono entrato in tale digressione per far notare di quale importanza sarebbe l’esame chimico di questi principii neutri e cristallizzati che la natura ha sparsi con tanta profusione in quasi tutte le piante. Torno ora alla salicina, che forma l'oggetto di questo lavoro, e passo a descrivere minutamente le alterazioni di varia natura che v'inducono diversi corpi, ed i nuovi prodotti cui danno origine. RICERCHE CHIMICHE SULLA SALICINA 89 AZIONE DELLA SINAPTASIA SULLA SALICINA. Di tutte le metamorfosi cui va incontro la salicina quando viene cimentata con gli agenti chimici, nessuna val tanto a dare una giusta idea della sua vera natura, quanto la trasformazione per mezzo degli acidi in saliretina e zucchero d'uva. E difatti oltre a che non si formano altri prodotti, tranne i mentovati, nè l'ossigeno dell’aria nè gli elementi dell’acido vi prendono parte alcuna. Un intimo rapporto dev'esservi adunque tra la compo- sizione della salicina, e quella dello zucchero e della saliretina presi insieme. Saligenina. — Intanto un'esperienza molto semplice ch'io feci, e che ognuno è in grado di ripetere, prova in modo evi- dentissimo che la saliretina non preesiste nella salicina, ma si forma per l'alterazione secondaria che l’acido libero induce in una sostanza particolare contenuta nella salicina. Difatti se in- vece di far bollire per lungo tempo una soluzione acquosa di salicina acidulata con acido solforico o idroclorico, si desista dal riscaldarla tostochè comincia ad inalbarsi, e dopo di aver filtrato il liquido si diguazzi con etere, decantando la soluzione eterea tn SITI VITI l'alibi e facendola evaporare, si otterrà un residuo cristallino. Questo copege «muovo prodotto è solubile nell'acqua, ha la proprietà singolare di tingere in azzurro le soluzioni de’ sali di perossido di ferro, e di trasformarsi in saliretina quantevolte si tratta con un acido diluito. Chiamerò saligenina questo corpo cristallizzato, per ram- mentare la sua origine. L'esperienza: precedente sta dunque a dimostrare che gli acidi primamente convertono la salicina in saligenina e zucchero sai d'uva, e che poscia, prolungando l’ operazione, trasformano la saligenina in saliretina. Questo fatto serve soltanto a provare che per l’azione degli acidi sulla salicina si genera una certa quantità di saligenina, ma non sarebbe un mezzo conveniente Seienze Cosmolog. 12 90 PIRIA per procacciarsene, giacchè prima che tutta la salicina sia de- composta, la maggior parte della saligenina prodotta si trova già trasformata in saliretina. Dopo molti inutili tentativi sono stato infine assai fortu- nato per trovare un'altra sostanza, la quale decompone la sali- cina con mirabile prontezza, senza alterare i prodotti che ne derivano. Sono con ciò riescito a procurarmi parecchie once di saligenina, e ad esaminarla dal lato della composizione e delle proprietà, il che non avrei certamente potuto col primo mezzo. Quello stesso principio contenuto nelle mandorle ed in molti altri semi, e conosciuto da’ Chimici col nome di sinaptasia, il quale decompone l’amigdalina in essenza di mandorle amare, zucchero, acido formico e acido idrocianico, decompone altresì la salicina. Per isolare i prodotti che derivano da tale decompo- sizione bisogna osservare talune norme, le quali, sebbene sem- plicissime, si vogliono nonpertanto indicare. Quindi descriverò minutamente il metodo da me tenuto nel corso di queste spe- rienze. In 200 parti d’acqua alla temperatura ordinaria dell’atmo- sfera si stemperano 50 parti di salicina ridotta in polvere finissi- ma, e 5 parti circa di sinaptasia. Si sciaguatta ben bene il tutto, si riscalda ad una temperatura tra 55° e 40° in un bagno d’acqua tiepida, e si tiene per alcune ore alla stessa temperatura. La salicina a misura che si discioglie viene decomposta, e dopo l’intervallo di 10 o 12 ore si trova tutta intiera trasformata in saligenina e zucchero d’uva. Qualora si adoperano le proporzioni di sopra-indicate, l’acqua non bastando a tener disciolta tutta la saligenina che si forma, ne lascia cristallizzare una porzione. Per procacciarsi il rimanente, si decanta il liquido dai cristalli e _ si diguazza con un egual volume d’etere in una boccia chiusa a tappo smerigliato. Poscia, decantata la soluzione eterea, si ri- pete lo stesso trattamento servendosi di muovo etere, ed in ultimo si evaporano a bagno maria le soluzioni eteree riunite. Il RICERCHE CHIMICHE SULLA SALICINA 91 residuo di tale evaporazione raffreddandosi si rappiglia in una massa bianca e cristallizzata in larghe lamine, le quali all'aspetto si confonderebbero colla colesterina. Si compie di depurare la saligenina così ottenuta discio” gliendola a caldo nell’acqua distillata e facendola cristallizzare di nuovo. La saligenina è allora perfettamente pura, e si presenta cristallizzata in lamine romboidali di una bellezza sorprendente. Invece di sinaptasia si potrebbe adoperare una emulsione di mandorle dolci: la decomposizione seguirebbe colla stessa facilità. Deggio non ostante raccomandare a coloro che si accin- gessero a preparare la saligenina, a non valersi di questo mezzo, giacchè andrebbero incontro a molte gravi difticoltà. Dall’una parte unitamente alla saligenina l’etere discioglie ancora l’olio grasso sospeso nell’emulsione, quindi il prodotto è impuro e colorato. Dall'altra la caseina delle mandorle coagulandosi in contatto dell’etere, rende non poco diflicile la separazione del liquido etereo. Si potrebbe, tutto al più, sostituirvi una emul- sione di mandorle, da cui per mezzo dell’acido acetico sia stata precipitata la caseina; ma sarà sempre preferibile l’uso della sinaptasia preparata col metodo di Robiquet. La pena che costa l'estrazione di quest'ultima sostanza è largamente compensata dalla facilità che s'incontra nella preparazione della saligenina, e dalla purezza del prodotto che si ottiene. Riscaldando la soluzione acquosa, da cui è stata estratta tutta la saligenina per mezzo dell’etere, la sinaptasia ben presto si coagula. Il liquido evaporato a bagno maria lascia uno sciroppo denso di sapore zuccherino, il quale abbandonato a se stesso si consolida dopo qualche. giorno in cristalli fungiformi, bianchi ed opachi. Questa sostanza sciolta nell’acqua e messa in contatto I ® col lievito di birra subisce la fermentazione alcoolica, e non è altra cosa che zucchero d’uva perfettamente puro. La saligenina si presenta il più delle volte in lamine di figura romboidale, d’aspetto perlaceo, e grasse al tatto; ovvero 92 PIRIA in piccoli cristalli romboidali trasparenti, e senza colore. Tal- volta ancora cristallizza in piccole masse mammellonari bianche ed opache, composte di lamelle microscopiche risplendenti ed iridate. Prende la prima delle due forme tutte le volte che si deposita col raffreddamento d’una soluzione satura e calda, cri- stallizza al contrario nell’altro modo per l’evaporazione sponta- nea alla temperatura comune. Non ha odore sensibile, il suo sapore è leggermente amaro, e mon altera il colore della lac- camuffa. La saligenina si scioglie facilmente nell’acqua, ed in specia- lità nell’acqua calda; è solubilissima nell’alcoole e nell’etere. Alla temperatura di 22° quindici parti d’acqua ne disciolgono una di saligenina. Sciaguattando la soluzione si produce una schiuma abbondante, come farebbe un liquido in cui è disciolto del sapone ovvero dell’albumina. La soluzione acquosa diguazzata con etere, cede a questo liquido tutta la saligenina che contiene. Gli acidi diluiti la tra- sformano in saliretina per mezzo del riscaldamento, e tale me- tamorfosi è molto più rapida di quella che la salicina subisce nelle stesse condizioni. Non ho mancato di verificare se in tale operazione si formasse qualche altro prodotto; perciò avendo riscaldato 6 grammi circa di saligenina con acido idroclorico diluito e separata la saliretina prodotta, evaporai il liquore acido fino a secchezza. Ottenni per residuo una traccia inapprezzabile di residuo deliquescente e di sapore amarissimo, il quale non giungeva a % per cento delia quantità di salicina impiegata. Onde si deduce che questa sostanza amara è un prodotto accidentale della reazione, e deriva probabilmente da un’ alterazione che l’acido libero induce nella saliretina già formata. L'acido solforico concentrato cambia la saligenina in un corpo rosso resinoso identico in tutto colla rutilina, della quale ho fatto menzione altrove. Riscaldando la saligenina con acido nitrico concentrato si RICERCHE CHIMICHE SULLA SALICINA 95 trasforma in acido carbazotico, sviluppando gran copia di vapori nitrosi misti ad acido carbonico. L'acido nitrico debole l’altera anche all’ordinaria temperatura. La soluzione diviene di color rosso fosco, e nel tempo stesso tramanda un odor forte ed aro- matico d’idruro di salicile. Neutralizzato l'acido libero con car- bonato di calce, se si saggia il liquido con percloruro di ferro, si manifesta immediatamente il color violaceo caratteristico dell’ idruro. La saligenina cristallizzata non perde acqua nel vuoto, nè col riscaldamento. Esposta all’azione del calore si fonde in un liquido trasparente, il quale raffreddandosi si rappiglia in massa cristallina. Un termometro che s'immerge nella materia fusa segna 82° nel momento in cui quella comincia a cristallizzare, e resta immobile alla stessa temperatura sintantochè tutto sia con- solidato. La saligenina in questa esperienza non si altera sensi- bilmente; ma tenuta per qualche tempo alla temperatura di 100°, se ne volatilizza una piccola quantità, la quale si sublima e cri- stallizza in lamelle bianche, lucentissime ed iridate. Se si spinge la temperatura fino a 140° o a 150°, in tal caso comincia ad alterarsi: si sviluppa dell’acqua con un poco d'idruro di salicile, mentre la sostanza addensandosi per gradi, diviene viscosa e della consistenza della trementina comune. Raffreddandosi in tale stato non cristallizza che difficilmente, e prima di consoli- darsi resta per lungo tratto di tempo allo stato viscoso. In ultimo perde affatto la proprietà di cristallizzare, e si riduce in una specie di resina che pare identica colla saliretina. All’ordinaria temperatura la potassa non l’altera sensibil- mente, ma non ostante par chi vi si possa combinare; giacchè se dope di aver versate poche gocce di potassa caustica in una soluzione acquosa di saligenina, si tratta coll’etere la mescolan- za, e poscia si evapora il liquido etereo, non resterà traccia di saligenina. Se all’incontro, neutralizzato l’alcali per mezzo di un acido, si ripete lo stesso trattamento, dopo l’evaporazione 9% PIRIA dell'etere si otterrà un abbondante residuo di saligenina cri- stallizzata. Se si fa bollire della saligenina in una soluzione di potassa caustica, si trasforma lentamente in una materia resinosa, la quale si precipita tostochè si satura l’alcali per mezzo di un acido. Finalmente fondendo della saligenina colla potassa cau- stica, si sviluppa del gas idrogeno, e la massa, che sulle prime prende una tinta bruna, si scolora compiutamente. Se allora sciolto il residuo nell'acqua, si versi un acido nella soluzione, si forma un precipitato in fiocchi cristallini e leggieri, i quali rac- colti e depurati con ripetute cristallizzazioni nell’acqua bollente, formano de’ lunghi cristalli aghiformi di splendore argentino, fusibili e volatili senza scomporsi. La loro soluzione colora in paonazzo i sali di perossido di ferro, ha proprietà acide e tutte le reazioni dell’acido salicilico. Molti corpi ossidanti coll’aiuto del riscaldamento trasfor- mano la saligenina in idruro di salicile, il quale si conosce facil- mente all'odore ed all’azione che vi spiegano i sali di perossido di ferro. Quelli che più facilmente producono tale metamorfosi sono l'acido cromico e l’ossido di argento. Anche il bicromato di potassa trasforma la saligenina in idruro coll’ebollizione, ma più lentamente de’ due primi. All'incontro l’ossido rosso di mercurio non vi ha nessuna azione, ed un miscuglio di perossido di man- ganese e acido solforico diluito non dà altri prodotti, tranne l'acido formico e l’acido carbonico. Quest'ultima particolarità spiega abbastanza perchè non si può ottenere idruro di salicile, trattando la salicina con gli stessi agenti. All'aria la saligenina non soffre veruna alterazione, almeno alla temperatura atmosferica; ma mescolata col nero di platino, si trasforma rapidamente in idruro di salicile. Basta incorporare insieme le due sostanze triturandole in un mortaio, ed immedia- tamente si fa sentire il noto odore aromatico dell’idruro, che dopo pochi istanti diviene penetrantissimo. A capo di un certo i i î v RICERCHE CHIMICHE SULLA SALICINA 95 tempo la reazione è così completa, che non resta più traccia di saligenina indecomposta. La spugna di platino produce lo stesso fenomeno, sebbene più lentamente . A spiegare la trasformazione della saligenina in idruro sotto l’influenza de’ corpi ossidanti, restava a conoscere se altri corpi si formassero contemporaneamente, e quali. Per rischiarare que- sto dubbio trattai circa 7 grammi di saligenina cristallizzata e pura con una mescolanza di acido solforico e bicromato di potassa sciolto in proporzionata quantità di acqua: il liquore quindi a poco cominciò ad imbrunire e a tramandare un odor soave d’idruro di salicile. Fu abbandonato a se stesso per più giorni alla temperatura dell’ambiente, ed in questo intervallo venne di quando in quando riscaldato a 40° circa in un bagno d’acqua calda. Il colore della soluzione seguitò sempre ad oscurarsi, ed in ultimo diventò verde, essendosi formato del solfato di cromo. Allora, neutralizzato l’acido libero con carbonato di potassa, riscaldai la soluzione in un bagno maria a 100° circa, e sì la feci evaporare, che si ridusse a metà. Ciò fatto, vi aggiunsi del car- bonato di potassa in eccesso, e filtrai il liquido per separarne il sesquiossido di cromo precipitato, indi lo tirai a secco, evapo- randolo a bagno maria, e trattai ripetute volte con alcoole il residuo di tale evaporazione. Esaminando le sostanze saline che l’alcoole avea ricusato di sciogliere, vi rinvenni del solfato, del cromato e del carbonato di potassa, ma nessun vestigio di ma- teria organica. D'altra parte le soluzioni alcooliche riunite ed evaporate a secco, lasciarono delle tracce inapprezzabili di un residuo giallo salino, che mi presentò tutte le reazioni del sali- ciluro di potassio. Risulta adunque da tale sperienza che trat- tando la saligenina coi corpi ossidanti, eccettuato l’idruro di salicile, non si formano altre materie organiche. Volli inoltre certificarmi se dall’ossidazione della saligenina nascesse dell’acido carbonico; per la qual cosa in un tubo gra- duato e pieno di mercurio introdussi del gas ossigeno e quindi 96 PIRIA un miscuglio fatto nello stesso momento di saligenina e nero di platino. Notato il volume del gas, abbandonai il tutto in questo stato. A capo di circa 12 ore, tornato ad osservare se mutamento alcuno fosse seguito, trovai alquanto scemato il volume dell’ossi- geno; ma facendovi penetrare una concentrata soluzione di po- tassa non mi venne fatto di notare ulteriore diminuzione. In questa esperienza l’alcali combinandosi coll’idruro colorò la soluzione in giallo. Possiamo adunque conchiudere che non si era formato acido carbonico, e che la saligenina per trasformarsi in idruro di salicile non aveva fatto altro che appropriarsi una certa quantità di ossigeno, il quale, come appresso verrà dimo- strato, s impiega a convertire in acqua due equivalenti d’idro- geno della saligenina. Assicuratomi per tal modo che durante l'ossidazione della saligenina non si formano altre sostanze carburate, tranne l’idruro di salicile, devo necessariamente conchiudere che tutto il carbo- nio della saligenina passa nell’idruro, e che per conseguenza contengono entrambi lo stesso numero d’equivalenti di carbonio. Ora essendo l’idruro di salicile composto di C'*H°0', come a suo luogo sarà ampiamente dimostrato, anche la saligenina deve contenere 14 equivalenti di carbonio. Non essendo riuscito a combinare la saligenina con altre sostanze in guisa da formare de’ composti a proporzioni costanti, il fatto precedente diviene preziosissimo per la determinazione della sua formula. Calcolando su questo dato i risultati delle analisi della sali- genina, si trova che la sua composizione è rappresentata esatta- mente dalla formula C*H80*, la quale non differisce da quella dell’idruro che per contenere due equivalenti d’idrogeno di più. Ma indipendentemente da tali considerazioni, si vedrà in seguito questa stessa formula della saligenina pienamente confermata dalla composizione di tutti i suoi derivati. Il cloro scompone rapidamente la saligenina, trasformandola in una materia resinosa di color giallo rossastro. Quest'ultima { A RICERCHE CHIMICHE SULLA SALICINA 97 per l’azione prolungata del gas cloro si solidifica, e si converte in un prodotto cristallino particolare, il quale dal suo canto torna a diventar liquido prolungando lo stesso trattamento. La natura di questa metamorfosi e i prodotti che da essa derivano saranno discorsi nel seguito di questa memoria, in un capitolo speciale. Il bromo vi esercita un'azione analoga, almeno dà origine agli stessi fenomeni, e i prodotti somigliano ai precedenti. La saligenina si discioglie nell’ammoniaca liquida meglio assai che nell’acqua, e sulle prime non soggiace ad alterazione visibile. Nondimeno lasciando la soluzione a contatto dell’aria, si colora gradatamente in verde smeraldo. Questo coloramento è peraltro fugacissimo. Gli acidi lo distruggono cambiandolo in roseo, e gli alcali lo ristabiliscono. Riscaldando la soluzione finchè bolla, si scolora immediatamente, e poscia raffreddandosi torna a colorarsi. La saligenina non dà precipitati coi sali di piombo neutri, coi sali di argento, di rame, di calce, di barite, di zinco, col sublimato corrosivo, col tartaro emetico. L’acetato basico di piombo precipita in bianco la sua soluzione acquosa, sebbene imperfettamente, ed il precipitato è composto di saligenina e ossido di piombo. Feci più volte l’analisi di questo prodotto, ed — altrettante n’ebbi risultati diversi, nè mai mi fu dato di ottenere un composto dotato di una composizione costante. Il percloruro di ferro, ed in generale i sali che hanno per base il perossido di questo metallo, colorano in azzurro vivacis- simo la soluzione acquosa di saligenina. Tal colore è affatto distrutto dagli acidi liberi, dal cloro e dal riscaldamento; però la reazione in esame non si manifesta, se il sale di ferro che si adopera non è perfettamente neutro. L'esame di questo composto azzurro condurrebbe senza dubbio a risultati importanti, qualora si pervenisse ad isolarlo- Nella speranza di riuscirvi, mescolai della saligenina e del per- cloruro di ferro, disciolti entrambi nell’alcoole o nell’etere; ma Scienze Cosmolog. 15 98 PIRIA in ambi i casi osservai, non senza meraviglia, che invece del bel color turchino di sopra rammentato, la mescolanza prendeva una leggierissima tinta olivastra. Anzi notai che affondendo dell’ al- coole ad una soluzione azzurra del composto mentovato, il colore di quella, mano mano digradando, finiva in ultimo per restare distrutto, e veniva rimpiazzato dalla tinta olivastra dianzi notata . Ond’ è evidente che la reazione della saligenina sul percloruro di ferro non si sviluppa che in presenza dell’acqua. La saligenina è una materia di difficilissima combustione; però la sua analisi sarebbe impraticabile se non si avesse l’accor- tezza di terminarla in una corrente di gas ossigeno, il quale finisce di bruciare qualche traccia di carbone lasciata incombusta dall’ossido di rame. Per ottenere uno sviluppo di ossigeno puro, si mettono pochi grammi di clorato di potassa fuso in fondo del tubo destinato alla combustione della materia organica, e sul finire dell’analisi si scalda la porzione del tubo che contiene il clorato. Ho già fatto notare che per l’azione del riscaldamento la saligenina si trasforma da ultimo in saliretina. Di qui pro- cede la difficoltà che presenta la sua combustione, giacchè l’analisi elementare della saliretina è quasi così difficile come quella del litantrace. Contuttociò a forza di precauzioni ho po- tuto ottenere de’ risultati, che per quanto è sperabile concor- dano con quelli del calcolo, come si potrà giudicare dai numeri seguenti. I. Da 0g,3585 di saligenina ottenni 0,216 di acqua e 0,800 di acido carbonico. II. 0g,2585 della stessa sostanza produssero 0,1405 di ac- qua e 0,591 di acido carbonico. 100 p. di saligenina contengono Esperienza Calcolo I. I. Carbonio 67,55 67,57 67,74 Idrogeno 6, 68 6,54 6,45 Ossigeno 20,77 25, 89 25, 81. RICERCHE CHIMICHE SULLA SALICINA 99 Saliretina. — Questa sostanza si può preparare in due modi diversi. Disciogliendo della salicina nell’acido solforico o idro- clorico diluiti, la soluzione si opera con maggior facilità e più prontamente che nell’acqua pura. Il liquido che ne risulta è trasparente e senza colore. Dopo 20 o 24 ore di riposo se vi si affonde dell’ acqua, si forma immediatamente un precipitato bianco o di color carnicino e polveroso, che ha l'aspetto di una resina. Questa sostanza è la saliretina idrata. Si può ancora preparare la saliretina riscaldando a bagno maria una soluzione acquosa di salicina resa leggermente acida con qualche goccia di acido idroclorico. In questo caso si può far uso di un acido molto diluito, mentre nel primo è indi- spensabile un discreto grado di concentrazione; perciò la sali- retina che si prepara col primo processo va di raro esente da un principio di alterazione, mentre coll’altro si ottiene molto più pura. Prima che il liquido abbia acquistato una temperatura di 100° la saliretina si comincia a produrre e si riunisce in una massa resinosa e semifusa, che si toglie con una spatolina di vetro a misura che si forma. Così ottenuta, talvolta è bianca affatto, ma più spesso gial- lognola, sovente di color carnicino. In generale può dirsi che il suo colore varia secondo il grado di purezza della salicina e la concentrazione dell’acido onde si è fatto uso. Più la salicina è pura, più l'acido è diluito e più ancora il colore del prodotto si avvicina al bianco: al contrario la salicina non ben depurata fornisce un prodotto giallo; e se si adopera un acido alquanto concentrato il colore della sostanza è roseo. La saliretina è del tutto insolubile nell’acqua, ma è solu- bile nell’alcoole, nell’etere e.nell’acido acetico. Anche la po- tassa e la soda caustiche la disciolgono; gli acidi la precipitano sotto forma d’un corpo bianco, voluminoso e semitrasparente. L'acido solforico concentrato colora la saliretina in rosso di sangue, trasformandola in rutilina. L'acido nitrico la trasmuta in acido carbazotico col riscaldamento. 100 PIRIA Tentai più volte l’analisi di questa sostanza, ma sempre indarno. I risultati che ottenni si discostano moltissimo da un prodotto all’altro, sicchè ho dovuto abbandonare l’idea di deter- minare la sua composizione quantitativa per mezzo dell’analisi elementare. Dall’una parte è quasi impossibile scacciare dalla saliretina tutta l’acqua che contiene, senza scomporla, dall’altra la sua combustione non è mai totale, per cui una porzione di carbonio sfugge sempre all'analisi. Avendo osservato che la saligenina trattata cogli acidi si trasforma prontamente in saliretina, senza altro prodotto, ho cercato di stabilire la composizione di quest’ultima con un’ espe- rienza indiretta, partendo dalla nota formula della saligenina, e dalla quantità di acqua che questa abbandona nel trasformarsi in saliretina. In un'esperienza di tal natura 18,044 di saligenina trat- tata con acido idroclorico diluito fornì 0g,8855 di saliretina disseccata tra 120° e 150° in una corrente d’aria secca. Secondo questo dato, 100 p. di saligenina lasciano sviluppare 15, 59 di acqua per passare allo stato di saliretina, cioè due equivalenti. Laonde se dalla formula della saligenina si sottrae l'idrogeno e l'ossigeno di due equivalenti d’acqua, ciò che resta sarà la formula della saliretina: C!* HS 054 — Saligenina — H*0? = 2 eq. di acqua Ci H° 02 = Saliretina. La saliretina ha per conseguenza la stessa composizione che l'essenza di mandorle amare, la benzoina e gli altri corpi isomeri con questi ultimi. Acido clorofenisico. — Facendo passare del gas cloro in una soluzione acquosa di saligenina, il liquido s'intorbida e comincia a depositare una specie di resina, che sulle prime è di color giallo, poscia divien rossa e si raduna in fondo. Per favorire RICERCHE CHIMICHE SULLA SALICINA 101 l’azione chimica giova introdurre il liquido in una boccia sme- rigliata, di un volume 4 o 5 volte maggiore di quello della solu- zione, farvi passare del cloro a traverso, e diguazzare la mesco- lanza per facilitare l’assorbimento del gas. La soluzione si carica a poco a poco di acido idroclorico, la sua temperatura s’innalza di alquanti gradi, finalmente si vede comparire un deposito cristallino, bianco e voluminoso in seno del liquido, e nel tempo stesso il corpo resinoso dianzi rammentato si assoda in massa cristallina di color giallo-rossastro. Il prodotto essenziale del- l'operazione precedente è solido e cristallizzato; ma vi sono unite delle quantità variabili di una materia oleosa, di color giallo-aranciato, la quale tinge tutta la massa del suo colore. La purificazione del corpo cristallizzato presenta delle dif- ficoltà insormontabili, e non mi è riuscito ottenerla in una ma- niera assoluta. Il metodo che ho sperimentato migliore consiste nel sottomettere il prodotto bruto a ripeiute distillazioni sull’aci- do solforico concentrato. La maggior parte della sostanza oleosa resta in tal modo carbonizzata e disiruita, sviluppando acido idroclorico ed acido solforoso in abbondanza: il corpo crisialliz- zato, al contrario, distilla senza aver sofferto alierazione di sorta. Dopo tre o quattro di tali distillazioni, il prodotio che prima era di color rosso, è appena giallo. Si fa fondere nell'acqua bol- lente e si agita, rinnovando il liquido finchè quest'ultimo cessa di colorarsi in porpora; allora si lascia solidificare, si asciuga e si distilla solo. Lo stesso trattamento dovrebbe rinnovarsi una seconda ed anche una terza volta dove il prodotto non fosse del tutto puro e si mostrasse tuttora colorato. La sostanza in esame, recentemente ottenuta, si presenta in massa cristallina, semitrasparente e quasi affatto priva di colore. Il suo odore è penetrantissimo e persistente. Lasciata in vasi chiusi, si trova dopo un certo tempo parzialmente sublimata in minutissimi cristalli aciculari, che restano attaccati all’interna superficie del vaso e sui pezzi della stessa sostanza. Col tempo tutto finisce per cristallizzare. 102 PIRIA Non si discioglie sensibilmente nell'acqua all’ ordinaria temperatura, ed è appena solubile nell’acqua bollente. Al con- trario è solubilissima nell’alcoole, nell’etere, negli olii grassi e volatili, e nella potassa caustica. L’ammoniaca la discioglie egualmente: la soluzione è gialla, e coll’evaporazione sponta- nea produce degli aghetti cristallini dello stesso colore. Alla temperatura di 58° si fonde in un liquido trasparente che ha il colore e l’aspetto dell’olio di uliva, e col raffredda- mento cristallizza. A 256° bolle e si volatilizza, senza che la temperatura s’innalzi in tutta la durata dell'operazione, la- sciando in ultimo una traccia inapprezzabile di residuo carbo- noso. Il suo vapore si accende facilmente e brucia con fiamma cerchiata di verde, la quale spande vapori di acido idroclorico . Le proprietà della sostanza in esame sono quelle stesse che il sig. Laurent ha riconosciute nell’acido clorofenisico, da lui ottenuto sottoponendo l’acido fenico all’azione del cloro. La composizione elementare conduce esattamente alla formula dell'acido clorofenisico, la quale è HO + C'? H? ChSO per l’ acido libero; quindi non si può dubitare dell’idendità de’ due corpi. Le analisi seguenti sono state fatte su due prodotti diversi: 1.° Prodotto. 05, 2455 Acido clorofenisico diedero 0, 041 Acqua 0, 3195 Acido carbonico. 08,271 Acido clorofesinico diedero 0, 585 Cloruro d’argento. 2.° Prodotto . 05, 2595 Acido clorofenisico 0, 0425 Acqua 0, 545 Acido carbonico. 05,298 Acido clorofenisico 0, 6505 Cloruro d’argento. RICERCHE CHIMICHE SULLA SALICINA 105 Questi dati tradotti in centesimi, menano alla composizione infrascritta: Esperienza Calcolo I. II. Carbonio —535,78 36,04 56,50 Idrogeno 1,87 1,82 1,52 Cloro 55,07 = 55,85 = 53,86 Ossigeno 9,28 8,29 8,12. Vedremo in seguito altri composti clorurati, i quali evi- dentemente derivano dalla reazione del cloro sulla saligenina, e ciò non ostante non si possono ottenere esponendo la salige- nina libera all’azione diretta del cloro. Tali composti hanno origine quando si fa passare del cloro in una mescolanza di acqua e di salicina, e restano combinati collo zucchero. I nuovi prodotti si riferiscono allo stesso tipo della salicina, e si decom- pongono allo stesso modo in contatto della sinaptasia. Si profitta appunto di tale proprietà per procacciarsi i composti clorurati della saligenina, che precedono la sua trasformazione in acido clorofenisico. SULLA COSTITUZIONE CHIMICA DELLA SALICINA. Da tutto quel che precede si raccoglie essere la salicina un composto naturale di due diverse sostanze organiche isolabili, cioè la saligenina e lo zucchero d’uva. La sua formula dipende necessariamente da tale composizione; mentre C'? H!° 010° — Zucchero C! H° 0* — Saligenina C* H!* 0!* = Salicina. L’accordo che si osserva tra la composizione calcolata e i risultati delle analisi conferma sempre più l'esattezza della for- mula adottata, come si rileva dall’annesso confronto : 104 PIRIA I. II. IL. Salicina impiegata 0,406 0,571 0,276 Acqua ottenuta 0,255 0,214 0,160 Acido carbonico ottenuto 0,817 0,758 0,554. Secondo questi dati, 100 parti di salicina devono contenere: I. Il. II. Carbonio 54,87 54,24 54,75 Idrogeno 6, 56 6,59 6,45 Ossigeno 58, 77 59, 57 38, 84. Il calcolo darebbe: Carbonio 54, 55 Idrogeno 6,29 Ossigeno 59, 16. Sicchè l’accordo non potrebbe essere più sodisfacente. Inoltre vari Chimici, come Erdmann e Marchand, Mulder, Liebig, han- no ripetuto dopo di me l’analisi della salicina, e sono giunti agli stessi risultati; sicchè la composizione di questa sostanza si può riguardare oramai come ben conosciuta. I numerosi prodotti che risultano dalla decomposizione della salicina sono identici con quelli che lo zucchero e la sali- genina forniscono, ciascuno separatamente, quando si sotto- pongono alle stesse reazioni. Quindi le svariate metamorfosi che la salicina è capace di subire si possono in modo semplicissimo dedurre da quelle de’ suoi componenti. Per rendere più evidente questo fatto fondamentale della sua storia, ho aggiunto qui appresso un quadro comparativo de’ prodotti che si formano per l’azione degli stessi reagenti sulla saligenina, sullo zucchero, e sulla salicina. i è Reagenti adoperati Acido cromico. RICERCHE CHIMICHE SULLA SALICINA Prodotti della saligenina Idruro di sali- Prodotti dello zucchero d'uva 105 Prodotti della salicina Acido formico e I Idruro di salicile, aci- carbonico . . . do formico, acido carbonico. CIHEImaaao..t Acido formico e carbonico . . . Acido formico e carbonico . Acido solforico e biossido di manganese. . Acido formico e car- bonico. Acido carbazo- cOn Acido nitrico concentrato . Acido ossalico .{ Acido carbazotico e acido ossalico. Potassa in fu- | Acidosalicilico. | Acido ossalico . RIONE ne e Acidi diluili . . Acido salicilico e aci- do ossalico. Saliretina. . . . | Zucchero d’uva. | Saliretina e zucchero d’uva. Acido solforico | Rutilina . . concentrato . Zucchero d’uva. | Rutilina e zucchero d’uva? Onde si vede chiaramente, che la salicina decomponendosi produce quelli stessi corpi che separatamente risultano dalla decomposizione della saligenina e dello zucchero. Ed ecco come la storia di questa sostanza, apparentemente così complicata, è divenuta di una mirabile semplicità, dappoichè si conosce la natura de’ suoi componenti immediati. Noi ignoriamo tuttavia l’intima costituzione della più gran parte de’ corpi organici: però la loro storia ci sembra oscura, molte delle loro metamorfosi incomprensibili. Verrà tempo per altro in cui potremo precisare quali trasformazioni una sostanza organica è capace di subire ed in quali circostanze; come ap- punto in Chimica minerale null’altro sapendo della storia di un sale, che l’acido e l’ossido da cui è composto, possiamo nientedimeno additarne i principali caratteri, e antivedere l’a- zione che vi spiegherà tale o talaltro reagente. Ma per arrivare a così fatto intendimento è mestieri conoscere quali sono i com- ponenti immediati delle materie organiche; bisogna poterli otte- Scienze Cosmolog. T. I. 14 106 PIRIA nere isolati, per esaminare i loro caratteri e i prodotti delle loro reazioni. Ora questo scopo, comechè difficile a conseguirsi, è non pertanto il segno cui mirano concordemente i lavori di più illustri Chimici moderni. Quindi dobbiamo attenderci che i loro sforzi non siano per riuscir vani, soprattutto dove si ponga mente ai rapidi progressi che la Chimica organica ha fatti in questi ultimi anni, ed all’attività meravigliosa colla quale si lavora oggigiorno. Intanto i fatti relativi alla storia della salicina, e soprat- tutto le varie trasformazioni onde questa sostanza è capace, tracciano naturalmente il metodo che si potrebbe tenere per indagare la natura delle altre che colla salicina hanno qualche somiglianza. Ecco un principio che mi ha servito di guida in questa lunga serie di ricerche, e che io credo applicabile a molti casi speciali. Le sostanze organiche di una costituzione molto semplice, come, a modo d'esempio, lo zucchero; i corpi della serie degli alcooli e i loro derivati; i congeneri dell’acido acetico, dell’acido benzoico, la glicerina, gli acidi grassi ec. rappresentano in Chi- mica organica i composti binarii della Chimica minerale, cioè gli acidi, gli ossidi, i cloruri, i solfuri ec. I corpi di questa ca- tegoria decomponendosi sotto l'influenza di un dato agente, pas- sano per diversi gradi di alterazione consecutiva, ed in ultimo si trasformano in un prodotto unico e caratteristico di quella reazione. Lo zucchero trattato con acido nitrico si converte prima in acido saccarico, quindi in acido ossalico. L'acido stea- rico messo nelle medesime condizioni produce successivamente dell'acido margarico, dell'acido suberico, dell’acido succinico. L'acido fenico finisce per trasformarsi in acido carbazotico. Quindi i prodotti caratteristici che si ottengono facendo agire acido nitrico sullo zucchero, sull’ acido stearico, sull’ acido fenico sono corrispondentemente l’acido ossalico, l'acido succi- nico, l'acido carbazotico . RICERCHE CHIMICHE SULLA SALICINA 107 AI contrario le materie organiche che si chiamano com- plesse, coniugate o copulate, siano indifferenti come la salicina, l’amigdalina, la florizzina; siano di natura acida come l’acido urico, l'acido tartrico, l'acido citrico ec.,corrispondono le une ai sali neutri, le altre ai sali acidi della Chimica minerale, In tutti i casi decomponendosi ingenerano corpi di natura diversa, i quali derivano dalla metamorfosi de’ loro principii componenti. Per questa ragione gli ultimi prodotti della decomposizione della stearina sotto l'influenza dell’acido nitrico sono l'acido ossalico e l'acido succinico, il primo de’ quali deriva dalla glicerina, il secondo dall’acido stearico. Sottoponendo la stearina alla distil- lazione, oltre i gas carburati che si sviluppano e che risultano indistintamente dalla distruzione ignea di ogni materia organica, si raccoglie nel recipiente dell'acido margarico e dell’ acroleina. Infine in ogni reazione si mostrano i prodotti della metamorfosi de’ corpi componenti la stearina. L’acroleina deriva dalla gli- cerina, l’acido margarico dall’acido stearico. Ciò posto, quantevolte esaminando una materia organica si ottengono in ciascuna reazione prodotti diversi, e non aventi nessun rapporto di somiglianza, non è possibile che tali prodotti abbiano un’origine comune: lo stesso corpo non può produrre simultaneamente acido carbazotico ed acido ossalico, acido margarico ed acroleina. Se questo caso si presenta, è segno che la sostanza primitiva è un composto di corpi differenti; € bisogna indagare la natura di questi dalle stesse loro metamor- fosi, come’ nelle analisi de’ composti minerali dalle reazioni che si ottengono si rimonta alla conoscenza de’ corpi da cui sono prodotte. Se un tal metodo d’investigazione diventasse in Chi- mica organica di un uso generale, ne seguiterebbero due prin- cipalissimi vantaggi. Primieramente si moltiplicherebbero le indagini per chiarire la natura de’ corpi ancora mal conosciuti. Secondariamente, anzichè vagare in vane speculazioni, le ipotesi relative alla costituzione de’ corpi si troverebbero circoscritte ne limiti segnati dall'esperienza. 108 PIRIA AZIONE DEL CLORO SULLA SALICINA. Il cloro spiega sulla salicina un'azione diversa a seconda delle circostanze che accompagnano la reazione. Per la qual cosa si ottengono prodotti differenti secondo che si opera a secco ovvero in presenza dell’acqua, a caldo ovvero alla tempe- ratura atmosferica. : Quando si fa passare del gas cloro sulla salicina cristaliz- zata, comincia immediatamente a svilupparsi gran quantità di acido idroclorico, e nel tempo stesso la salicina si converte gra- datamente in una sostanza resinoide rossastra della consistenza della trementina comune. Un resultato presso a poco identico si ottiene facendo passare del gas cloro in una soluzione di salicina riscaldata ad una temperatura di circa 80°. Nientedimeno il corpo resinoide che si forma nelle condizioni accennate è un prodotto di alterazione, il quale risulta dall’azione combinata del cloro e dell’acido idroclorico, come appresso si vedrà. Clorosalicina. — Per evitare siffatte complicazioni ed otte- nere allo stato puro i prodotti che derivano immediatamente dall'azione del cloro sulla salicina, bisogna condurre l’opera- zione nel modo che passo a descrivere. Si riduce la salicina in polvere finissima, e si stempera in una quadrupla quantità di acqua; poscia nella mescolanza si fa passare senza interruzione una corrente di gas cloro, ilquale prima di arrivare sulla sali- cina passa per una boccia d’acqua, ove lascia ogni vestigio di acido idroclorico. La salicina mano mano si discioglie, il liquido diventa di color giallo, ed acquista reazioni leggermente acide dovute all’acido idroclorico che si genera durante la reazione. A capo di certo tempo la soluzione che prima era trasparente, s'intorbida, e comincia a precipitarsi una sostanza cristallina d'aspetto perlaceo e di color bianco traente al giallo. Questo precipitato cresce rapidamente, talchè in poco tempo tutto si RICERCHE CHIMICHE SULLA SALICINA 109 riduce in una specie di poltiglia, nella quale il gas passa con molta difficoltà. Questo corpo cristallizzato costituisce il primo prodotto dell’azione del cloro sulla salicina: lo distinguerò dagli altri col nome di clorosalicina. Per depurarlo si filtra a traverso un pezzo di tela fitta, si comprime il residuo per separarne l’acqua madre, si lava con un po’ d’acqua fredda e si pone a seccare fra carta sugante. Ciò fatto, si polverizza la massa disseccata, s'introduce in una boc- cia a tappo smerigliato, vi si affonde dell'etere, e si diguazza la mescolanza. L’etere discioglie qualche traccia di una sostanza resinosa giallo-rossastra, e lascia intatta la clorosalicina in pol- vere bianca. Per averla cristallizzata basta disciorla nell’acqua bollente, finchè questa ne sia satura, ed abbandonare la solu- zione ad un tranquillo raffreddamento. Si potrebbe ancora purgarla dalla resina rossastra facendo cristallizzare il prodotto bruto in una debole soluzione di am- moniaca. Nondimeno con questo processo il liquido si colora in bruno, ed i cristalli ancora si mostrano leggermente colorati, almeno dopo la prima cristallizzazione. La clorosalicina è una sostanza leggiera, cristallizzata in lunghi aghi asbestiformi, solubile nell’ acqua e nell’alcoole, in- solubile nell’ etere. Esposta all’azione del calore prima perde l’acqua di cristallizzazione, poscia si fonde in un liquido tra- sparente, in ultimo si scompone, sviluppando vapori di acido idroclorico e lasciando un residuo di carbone rigonfiato e po- roso. Il suo sapore è amaro come quello della salicina, e non ha punto odore quando è pura. L'acido solforico concentrato la discioglie in un liquido di color rossastro. Gli acidi diluiti la trasformano col riscalda- mento in una sostanza resinosa gialla, che contiene tutto il cloro della clorosalicina, ed in zucchero d’uva che resta disciolto nel liquido. Le soluzioni alcaline la disciolgono abbondantemente senza scomporla, cosicchè, neutralizzato l’alcali per mezzo di un acido, la clorosalicina torna a cristallizzare. 110 _PIRIA La sinaptasia opera su questa sostanza come sulla salicina, e però dopo poche ore di contatto la scompone totalmente. Il liquido rende azzurre le soluzioni de’ sali di perossido di ferro, e contiene dello zucchero e della clorosaligenina, cioè della saligenina in cui un equivalente di cloro tiene il luogo di un equivalente d’idrogeno. Trattando con etere la soluzione mista, si arriva ad estrarre tutta la clorosaligenina. Il liquido acquoso evaporato lascia lo zucchero d’uva. Infine si riprodu- cono in questa occasione tutti i fenomeni che si osservano nella decomposizione della salicina, e si ottengono gli stessi prodotti, salvo la saligenina, che è surrogata dalla clorosaligenina. La clorosalicina è per conseguenza composta di zucchero d’uva e di clorosaligenina, e si risolve ne’ suoi componenti im- mediati per l’azione degli stessi corpi che scompongono la sali- cina. Il cloro adunque reagendo sulla salicina non attacca lo zucchero, ma spiega tutta la sua azione sulla saligenina, rim- piazzando porzione dell'idrogeno di quella. Secondo questi dati la formula della clorosalicina anidra dev essere (GF EOIO:E = Zucchero C!5 7? 0* Ch = Clorosaligenina C® H!7 0! Ch = Clorosalicina, la quale non differisce da quella della salicina che per contenere un equivalente di cloro invece di un equivalente d’idrogeno. La clorosalicina eristallizzata contiene inoltre 4 equivalenti d’acqua, che si sviluppano alla temperatura di 100°. Difatto 15,0545 di questa sostanza riscaldati per molto tempo fra 100° e 110° in una corrente d’aria secca, provarono una perdita di 05,107, o sia 10,14 d’acqua per cento. La quantità calcolata sulla formula C? H' 0! Ch+-4Aq sarebbe 10,10. D'altra parte I. 0g,5195 Clorosalicina cristallizzata produssero 0,285 acqua e 0,828 acido carbonico. II. 0, 5155 idem 0,176 acqua e 0,505 acido carbonico. 0, 9855 idem 0,5975 cloruro d’argento. RICERCHE CHIMICHE SULLA SALICINA 111 Onde si cava per 100 parti di clorosalicina cristallizzata: Esperienza Calcolo I I. Carbonio 45, 46 45, 65 45,76 Idrogeno 6,09 6,20 5, 89 Ossigeno 40, 49 40,19 40,59 Cloro 9,96 9,96 9, 96. Biclorosalicina. Questa sostanza somiglia moltissimo alla precedente, tanto per il metodo con cui si prepara, quanto pei suoi caratteri particolari. Differisce dalla salicina inquantochè due equivalenti di cloro vi tengono il luogo di due equivalenti d’idrogeno, e per questa ragione le ho dato il nome di biclo- rosalicina . Per prepararla si può far passare del cloro sul composto precedente ridotto in polvere e stemperato nell’acqua, ovvero sulla salicina stessa, fintantochè sia cessato ogni indizio di azion chimica. Come l'operazione è abbastanza lunga, si risparmia molto tempo valendosi del mezzo seguente. Si ripartisce la quantità di salicina destinata all'esperienza in due bocce spa- ziose munite di tappo smerigliato, si mette in ciascuna una certa quantità di acqua, e si agita per favorire la mistione dei due corpi. Poscia si comincia a far passare del cloro in una delle bocce, e si continua tanto che il gas viene assorbito con rapi- dità. Quando l’azion chimica comincia a rallentarsi, si aspetta che la boccia sia piena di gas, si chiude col suo turaccio e si diguazza vivamente: il cloro viene per tal modo completamente | assorbito, nel liquido si discioglie dell’acido idroclorico, e la | salicina si va mano mano clorurando. Mentre ciò si pratica dall'una parte, dall’altra si fa passare del cloro nella seconda bottiglia, sulla quale si ripetono le stesse operazioni che sono state fatte sulla prima, e così si continua a fare alternativamente finchè il cloro non vi ha più azione. Verso la fine, essendo lentissimo l’assorbimento, per favorirlo giova esporre il mi- 112 PIRIA scuglio all’azione de’ raggi solari diretti. Quando, malgrado tale precauzione, il liquido cessa di scolorarsi, e nell’interno della boccia persiste il colore giallo verdastro caratteristico del cloro, l'operazione si può riguardare come finita. Il prodotto bruto è giallo, e per depurarlo si tiene lo stesso metodo che s'impiega per depurare il composto precedente, cioè si tratta prima coll’etere e poscia si fa cristallizzare scio- gliendolo nell’acqua calda. Allo stato puro la biclorosalicina forma de’ lunghi aghi setosi, bianchi come la neve, che sembrano de’ prismi quadran- golari. Nell’acqua fredda è appena solubile, nell’acqua calda pochissimo; discretamente nell’alcoole, quasi insolubile nell’ete- re. Il suo sapore è amaro, e non ha punto odore. Riscaldata a 100° abbandona tutta l’acqua di cristallizza- zione che contiene, cioè due equivalenti. Ad una temperatura maggiore si fonde in un liquido trasparente, il quale raffreddan- dosi si solidifica in massa vetrosa, senza indizio di cristallizza- zione. Ad un più forte grado di calore si scompone, producendo de’ vapori infiammabili che bruciano con fiamma cerchiata di verde, e lascia un residuo carbonoso. Colla distillazione si tra- sforma in un liquido acido, in fondo al quale si deposita un olio colorato. Il liquido tinge in paonazzo il sesquicloruro di ferro, e tale reazione pare dovuta ad un po’ di cloruro di salicile. Difatti vedremo tra poco essere la biclorosalicina composta di zucchero e di un’altra sostanza la quale deriva dalla clorura- zione della saligenina, e differisce da quella perchè al posto di due equivalenti d’idrogeno ve ne sono altrettanti di cloro. Quest'ultima ha una composizione rappresentata dalla formula C' H° Ch? 0*, dalla quale sottraendo un equivalente di acido idroclorico, resta esattamente del cloruro di salicile : C! H° Ch? 0* = Biclorosaligenina = SSHRGh = Acido idroclorico CH Ch Oi = Cloruro di salicile . RICERCHE CHIMICHE SULLA SALICINA 115 Da ciò s intende come per l’azione di un'alta temperatura la biclorosaligenina decomponendosi si possa risolvere in due altri prodotti più stabili, cioè il cloruro di salicile e l'acido idroclorico. La soluzione acquosa di questa sostanza non è punto alte- rata dal nitrato d’argento, dai sali di mercurio, di piombo e di rame. Non ha azione alcuna sulle carte reagenti, e non colora il sesquicloruro di ferro. L’acido solforico concentrato discioglie la biclorosalicina senza colorarsi. Gli acidi diluiti la trasformano in una resina di color rossastro, e nel liquido resta disciolto dello zucchero d’uva, il quale si può isolare collo stesso metodo che ho indicato per ottenere lo zucchero dalla salicina decomposta cogli stessi agenti. Qualora si mette della biclorosalicina ridotta in polvere in una soluzione acquosa di sinaptasia, a capo di poco tempo si osservano fenomeni in tutto simili a quelli che si notano colla salicina e colla clorosalicina poste nelle stesse condizioni. La biclorosalicina decomponendosi si risolve in zucchero e bicloro- saligenina, ed il liquido saggiato col percloruro di ferro prende un color turchino carico, somigliantissimo a quello che produce la saligenina. Contuttociò la decomposizione in tal caso è molto limitata, e si arresta probabilmente dacchè la soluzione è satura di biclorosaligenina. Ora quest’ultima sostanza essendo appena solubile nell’acqua all’ordinaria temperatura, la quantità che se ne forma dev'essere di necessità tenuissima. La potassa disciolta nell’acqua non altera la biclorosalicina, ma la rende molto più solubile che non sarebbe nell’acqua pura. Neutralizzato l’alcali per mezzo di un acido, la sostanza cri- stallizza. La biclorosalicina contiene (12 H1° 01° = Zucchero C'*HS 0* Ch? = Biclorosaligenina 2Aq = Acqua C?8 H!® 0! Ch®-+2Aq = Biclorosalicina. Scienze Cosmolog. T. I. 15 114 PIRIA I risultati delle analisi concordano coi numeri indicati dalla teoria. I. 05,505 Biclorosalicina produssero 0,159 acqua e 0,465 acido carbonico. I. 0,414 Idem 0,191 acqua, 0,652 acido carbonico. 0,481 Idem 0, 5695 cloruro d’argento. Onde si cava la composizione seguente: Esperienza Calcolo I ? I Carbonio 41,67 41,65. 41,95 Idrogeno 5, 09 5, 12 4,84 Cloro 18,95 18,95 18, 82 Ossigeno 04, 29 34, 50 54,41. Per l’acqua di cristallizzazione ottenni, in due esperienze diverse, 4,95 e 5,04 per cento: il calcolo darebbe 4,84. All’ordinaria temperatura il cloro non ha nessuna azione sul composto precedente; ma se si riscalda il liquido senza in- terrompere lo sviluppo gassoso, ad un certo periodo dell’opera- zione si precipita un corpo resinoso di color rosso. Quest'ultimo sebbene contenga più cloro della biclorosalicina, nondimeno non è il prodotto di una clorurazione ulteriore, ma proviene sem- plicemente dalla decomposizione della biclorosalicina operata dall’acido idroclorico libero formatosi. nel liquido, e si può otte- nere direttamente scaldando la biclorosalicina in una soluzione di acido idroclorico, o di altro acido. Perclorosalicina. — Volendo produrre un composto più cloru- rato de’ precedenti, bisogna adunque far passare del cloro sulla biclorosalicina ad una temperatura maggiore dell’ordinaria, e preservare il prodotto dall’azione decomponente dell’acido idro- clorico. Per sodisfare a tali condizioni si scioglie della bicloro- salicina nell’acqua scaldata tra 60° e 80°, si mettono nella solu- zione de’ pezzetti di marmo, e si comincia a farvi passare del RICERCHE CHIMICHE SULLA SALICINA 115 cloro, cercando di mantenere la temperatura del liquido frai limiti di sopra accennati per tutta la durata dell’operazione. Il cloro viene assorbito; si forma dell'acido idroclorico, il quale non appena prodotto resta neutralizzato dal marmo; finalmente comincia a precipitarsi una sostanza gialla e cristallina, che è la perclorosalicina impura. Per depurarla si diguazza un paio di volte con etere il pro- dotto bruto dell'operazione precedente, poscia si fa cristallizzare disciogliendolo in un miscuglio bollente di acqua e di alcoole. La perclorosalicina così ottenuta si presenta in aghetti corti e di color gialliccio, i quali probabilmente finirebbero per diven- tar bianchi del tutto dopo ripetute cristallizzazioni. La perclorosalicina è quasi affatto insolubile nell’ acqua fredda, e si scioglie pochissimo nell’acqua bollente : il suo mi- glior dissolvente è l’alcoole acquoso. Il suo sapore è amaro, e non ha odore quando è pura. Riscaldata a 100° perde due equivalenti di acqua di cri- stallizzazione; ad una temperatura maggiore si fonde, in ultimo si scompone. La composizione di questa sostanza disseccata a 100° con - duce ad una formula, che differisce da quella della salicina per- chè 5 equivalenti d’idrogeno vi sono rimpiazzati da altrettanti equivalenti di cloro. Si può adunque ritenere come un composto di zucchero d’uva e di perclorosaligenina, che è quanto dire, saligenina in cui tre equivalenti di cloro stanno invece di tre equivalenti d’idrogeno. Oltre a ciò la perclorosalicina cristal- lizzata contiene, come il composto precedente, due equivalenti di acqua di cristallizzazione eliminabili alla temperatura di 100°, dimodochè tutti i suoi elementi riuniti danno: C'2 H!° (1° = Zucchero C! H5 0* Ch° = Perclorosaligenina 2Aq. = Acqua C? H!5 0! Ch7+2Aq. = Perclorosalicina cristallizzata. 116 PIRIA Le analisi ed il calcolo conducono concordemente agli stessi risultati, come si può dedurre dai numeri seguenti: I. 0,566 Perclorosalicina produssero 0,145 acqua e 0,514 acido carbonico. II. 0,180 Idem 0, 070 acqua e 0,255 acido carbonico. 0,287 Idem 0,502 cloruro d’argento. O sia, per 100 parti di sostanza, Esperienza Calcolo Lis I. Carhonio 58, 29 58, 00 08, 29 Idrogeno 4,40 4,52 4,17 Ossigeno 51, 51 51, 68 51,41 Cloro 26, 00 26, 00 26,15. Quanto all’acqua, ho trovato che riscaldando della percloro- salicina alla temperatura di 100° in una corrente di aria secca, perdeva 4,48 per cento del suo peso. Nella supposizione che tal perdita corrisponda a due equivalenti di acqua, la quantità indicata dalla teoria sarebbe 4,42. Stabilita per tal modo la composizione elementare, ho vo- luto ancora assicurarmi se esponendo la sostanza in esame al- l’azione decomponente della sinaptasia, avrei ottenuto dello zuc- chero e della perclorosaligenina, come portava ad ammettere l'analogia della perclorosalicina coi composti clorurati prece- dentemente descritti. Difatto messa della perclorosalicina in una soluzione di sinaptasia, e saggiato a capo di certo tempo il liquido con una soluzione di percloruro di ferro, compariva il solito color turchino caratteristico di tali decomposizioni. Non- dimeno essendo la perclorosalicina pochissimo solubile nell’ac- qua, la quantità che se ne decompone col mezzo indicato è piccolissima. Questa circostanza mi ha sinora impedito di esa- minare allo stato libero la perclorosaligenina che si forma in tale decomposizione . RICERCHE CHIMICHE SULLA SALICINA 117 Clorosaligenina.— Quante volte si tratta la clorosalicina con la sinaptasia, come si è già detto -praticarsi per la salicina, si ottiene dello zucchero ed un nuovo corpo, il quale ha grandis- sima somiglianza colla saligenina non solo per le sue esterne proprietà, ma ancora per la composizione e per l’azione che vi spiegano i reagenti. Solo ne differisce perchè un equivalente di cloro vi tiene il luogo di un equivalente d’idrogeno, e per tal ragione l’ho chiamata clorosaligenina. La sua formula, come appresso sarà dimostrato, è C' H7 Ch O*. La clorosaligenina si prepara collo stesso metodo che si tiene per estrarre la saligenina dalla salicina. Perciò si stempera la clorosalicina nell’acqua, vi si aggiunge un po’ di sinaptasia, e si riscalda il miscuglio in un bagno di acqua tiepida ad una temperatura che non oltrepassi 40°. Il liquido dibattuto con etere, -cede a quest’ultimo la clorosaligenina prodotta durante la reazione, la quale poi cristallizza evaporando il liquido a un dolce grado di calore. Per depurarla completamente basta sotto- porla ad una seconda cristallizzazione, sciogliendola nell'acqua bollente: col raffreddamento del liquido la clorosaligenina cri- stallizza in larghe lamine, le quali hanno la stessa apparenza della saligenina. La clorosaligenina si assomiglia alla saligenina a tal segno, che non sarebbe possibile distinguere questi due corpi alla semplice vista. È com’essa d’aspetto perlaceo, untuosa al tatto, di sapore leggermente amaro, solubile nell'acqua, nell’alcoole e nell’etere. Riscaldata cogli acidi diluiti, si converte parimente in un corpo resinoide insolubile che si precipita. Il solo carat- tere che possa servire a differenziarla è che l’acido solforico concentrato le comunica un bel color verde carico, mentre co- lora in rosso la saligenina. 118 PIRIA L'analisi di questa sostanza mi ha dato I. II. Clorosaligenina 0,570. 0,5815 0,402 Acqua 0,155 = 0,1595 » Acido carbonico 0,7165 0,757 » Cloruro d’argento —» » 0, 564. Il che, sopra 100 parti, corrisponde a Esperienza Calcolo I II Carbonio 52, 81 52, 68 55, 16 Idrogeno 4,64 4,64 4,45 Cloro 22,94 22, 34 22,15 Ossigeno 20, 21 20, 88 20, 26 Quanto alla biclorosaligenina, si produce in così piccola quantita per la reazione della sinaptasia sulla biclorosalicina, che non sono ancora riescito a procurarmene abbastanza per farne l’analisi. Ciò non ostante ho potuto verificare le seguenti pro- prietà. Nell’acqua fredda è pochissimo solubile, ma si scioglie benissimo nell’alcoole e nell’etere. Nell’acqua bollente si fonde, e resta liquida anche dopo essersi raffreddata; nondimeno la- sciata per più giorni a se stessa si solidifica e cristallizza; scal- data cogli acidi liberi si resinifica, La sua soluzione acquosa prende un bel color turchino coi sali di perossido di ferro. Sebbene, come ho già detto, io non abbia analizzato que- sta sostanza, pure, essendo nota la composizione della bicloro- salicina ed i prodotti che risultano dalla decomposizione di essa, si può dedurre con sicurezza la formula della biclorosaligenina, la quale dev'essere C'*H0*Ch?. Per ragioni della stessa natura non ho potuto esaminare ancora la perclorosaligenina; ma la sua formula dipende imme- diatamente da quella della perclorosalicina. Sottraendo da que- RICERCHE CHIMICHE SULLA SALICINA 119 st'ultima un equivalente di zucchero, resta per la perclorosali- genina C!*H5Ch50*. Da quanto sinora ho esposto circa l’azione del cloro sulla salicina, si raccoglie che quest’ultima perdendo uno, due, tre equivalenti d’idrogeno, prende invece uno, due, tre equivalenti di cloro, e dà origine in tal modo a tre composti diversi. Ho già dimostrato essere la salicina un composto di due sostanze, le quali si possono separare per l’azione degli acidi e della sina- ptasia. I prodotti che si ottengono esponendo la salicina al- l’azione del cloro sono anch'essi composti di due principii, e si decompongono in contatto degli stessi agenti. Qualora la salicina trattata col gas cloro perde uno, due, tre equivalenti d’idrogeno, acquistando invece altrettanti equivalenti di cloro, la reazione sì stabilisce tra il cloro e la saligenina che vi è contenuta: lo zucchero al contrario resta inalterato. Per questa ragione de- componendo i prodotti clorurati della salicina per mezzo della sinaptasia si ottengono due corpi: l’uno contiene tutto il cloro della materia organica, e si riferisce al tipo della saligenina; l’altro, comune a tutti i corpi di questa serie, non è altro che zucchero d’uva. D'altra parte la saligenina e i corpi clorurati che da essa derivano hanno tutti la proprietà di trasformarsi in resine per l’azione degli acidi. È probabilissimo che tutte queste sostanze resinose, tanto somiglianti per le loro proprietà, siano de’ com- posti dello stesso tipo, ed abbiano colla saliretina gli stessi rap- porti di composizione che si riscontrano tra la saligenina, la clorosaligenina, la biclorosaligenina e Ja perclorosaligenina. In tal caso i nomi più adattati per distinguere tali composti sa- rebbero quelli di saliretina, clorosaliretina, biclorosaliretina, per- clorosaliretina . 120 PIRIA AZIONE DELL’ ACIDO NITRICO SULLA SALICINA . Quando si mette della salicina pura e cristallizzata a con- tatto coll’acido nitrico, si manifestano de’ fenomeni variabilissimi a seconda della concentrazione dell'acido impiegato e della temperatura della mescolanza. I prodotti che risultano da tale reazione differiscono anch'essi per le cagioni mentovate, ond’è che nel farne la storia stimo indispensabile di ben precisare le condizioni in cui hanno origine. Se si tratta la salicina con acido nitrico debole, p. es. da 15° o 20° dell’areometro di Beaumé, e si abbandona il mi- scuglio alla temperatura dell'ambiente, si forma a poco a poco una soluzione leggermente colorata in giallo, e si sviluppa ap- pena qualche traccia di acido carbonico. A capo di certo tempo si trova in fondo del liquido una sostanza cristallizzata ed ab- bondante, alla quale ho dato il nome di elicina. Questo corpo è neutro, non contiene azoto, e possiede la proprietà impor- tante e caratteristica di trasformarsi in zucchero ed in idruro di salicile in moltissime circostanze. Impiegando un acido più concentrato, p. es. a 24° B., la soluzione della salicina si opera più rapidamente, ed il liquido si colora in giallo. Nel tempo stesso si sviluppano delle bollicine gassose formate di acido carbonico e di biossido d'azoto, ed infine si deposita una sostanza cristallizzata in aghi finissimi, la quale per alcuni caratteri somiglia all’acido anilico, sebbene per altri ne differisca. Questo corpo, che per tal ragione chia- merò acido anilotico, contiene dell’azoto in combinazione, ha per le basi una forte aflinità, e non produce idruro di salicile in nessuna occasione. Infine differisce completamente dall’elicina sì per le proprietà che per la composizione elementare. Se si riscalda un miscuglio di salicina e di acido nitrico, si formano altri prodotti che variano a seconda della concentra- RICERCHE CHIMICHE SULLA SALICINA 121 zione dell'acido. Tali sono certe materie resinose di color giallo e di consistenza variabile, l’acido anilico, alcuni nuovi acidi azotati, ed in ultimo l’acido carbazotico. In questa memoria descriverò soltanto l'elicina e Vacido anilotico. Quanto ai.rimanenti prodotti, conto di farne l’oggetto di un altro lavoro. Elicina. — L’elicina, come ho già fatto notare, è il primo prodotto che si genera per la reazione dell’acido nitrico debole sulla salicina. I caratteri di questa sostanza, e soprattutto la sua facile trasformazione in zucchero d’uva ed in idruro di salicile, valgono a differenziarla da tutte le altre sinora esaminate. La preparazione dell’elicina è semplicissima, e non offre veruna difficoltà. Una parte di salicina ridotta in polvere fi- nissima, si mescola con dieci parti circa di acido nitrico della densità di 20° B., si agita di tempo in tempo il miscuglio e si lascia a se stesso in un vaso aperto. Ne’ casi ordinari la solu- zione non è compiuta che nello spazio di circa 24 ore. Il liquido che ne risulta è di color giallognolo, e dopo un certo intervallo di tempo comincia a depositare de? cristalli di elicina, la cui quantità cresce rapidamente, tanto che in ultimo la massa in- tiera del liquido si rapprende in una poltiglia composta di mi- nutissimi cristalli aghiformi. Per depurare questi cristalli si separano dall’acqua madre, comprimendoli con forza in una tela molto fitta, e si lavano un paio di volte con acqua distillata fredda. Con questo trattamento tre parti di salicina ne forni- scono più che due di elicina. L’elicina così preparata contiene spesse volte alcune vesti- gia di acido anilotico, ed in tal caso è molto diflicile depurarla per mezzo di semplici cristallizzazioni. Per ottenerla allo stato di massima purezza, basta sciogliere il prodotto bruto nell'acqua bollerite, e versare nel liquido ancor caldo poche gocce di am- moniaca. La soluzione diventa gialla, si forma dell’anilotato d’ammoniaca che resta nell'acqua madre, e col raffreddamento Scienze Cosmolog. 16 122 PIRIA cristallizza l’elicina leggermente colorata. Bastano due altre cri- stallizzazioni nell’acqua distillata per renderla bianchissima e del tutto pura. Per poco che contenesse dell’acido anilotico, la sua soluzione acquosa tingerebbe in rosso intenso i sali di pe- rossido di ferro, proprietà che non si riscontra nell’elicina ben depurata. L'acqua madre acida, da cui è stata separata l’elicina, è gialla e tramanda lodore aromatico dell’idruro di salicile. Aven- done trattata una certa quantità con pezzi di marmo a freddo, per neutralizzare l’acido libero, distillando il liquido ottenni nel recipiente dell’acqua carica d’idruro. La produzione di que- st’ultima sostanza non è una condizione necessaria della trasfor- mazione della salicina in elicina. Di fatto avendo sciolta dell’ eli- cina purissima nell’ acido nitrico a 15° B., l'indomani trovai che la soluzione conteneva dell’idruro e presentava i caratteri dell’acqua madre dell'elicina. Ciò prova adunque che durante la preparazione dell’elicina, si forma un poco d’idruro per la rea- zione secondaria della soluzione acida sulla elicina già formata. L’elicina è un corpo indifferente, cioè non si combina nè con gli acidi, nè con le basi, e non ha azione alcuna sulle carte reagenti. Si presenta cristallizzata in finissimi aghetti aggruppati insieme in masse bianche e radiate. Non ha odore sensibile; il suo sapore è amaro, e somiglia moltissimo a quello della salicina. Nell’acqua fredda è pochissimo solubile, tanto che alla tempe- ratura di 8° richiede circa 64 parti d’acqua per disciogliersi. AI contrario è solubilissima nell’acqua bollente, e la soluzione saturata a caldo si rappiglia tutta intiera in massa cristallina col raffreddamento. Nell’alcoole di concentrazione media si discioglie assai meglio che nell’acqua; ma è affatto insolubile nell’etere. Se V’elicina è pura, la sua soluzione acquosa non ha colore alcuno, non si altera per una ebollizione prolungata, e non eser- cita azione di sorta sul sesquicloruro di ferro, sul nitrato, ace- tato e sottoacetato di piombo, sui cloruri di bario, di calcio, di mercurio; sui sali di rame, di argento, di zinco ec. RICERCHE CHIMICHE SULLA SALICINA 125 Riscaldata alla temperatura di 100° abbandona dell’acqua di cristallizzazione senza dare altro prodotto. A 175° circa si fonde in un liquido trasparente del colore e della consistenza dell'olio di oliva, il quale raffreddandosi cristallizza, diviene opaco e riacquista le proprietà di prima. Nulladimeno se si tiene per molto tempo in fusione non tarda ad alterarsi: sulle prime sviluppa vapori misti di acqua e d’idruro di salicile, poscia di- venta più fusibile, da ultimo perde affatto la proprietà di cri- stallizzare col raffreddamento, sicchè resta per molto tempo in uno stato viscoso, e somiglia alla trementina comune. Abban- donata a sè stessa finisce per consolidarsi, e prende l’aspetto di una resina, in cui non si scorge il più leggiero indizio di cri- stallizzazione. La nuova sostanza è amorfa, trasparente e vetrosa, pochis- simo solubile nell’acqua e nell’alcoole, anche bollenti. Riscaldata colle soluzioni alcaline si decompone come l’elicina, dando gli stessi prodotti. L'acido idroclorico diluito la discioglie col ri- scaldamento e la ripristina allo stato di elicina, eccettuata una piccola porzione che decomponendosi si trasforma in zucchero ed in idruro di salicile. Col raffreddamento del liquido si depo- sita dell’elicina in cristalli leggermente colorati, che è facile depurare con nuove cristallizzazioni Riscaldando più fortemente tanto l’elicina, quanto la so- stanza in esame, si sviluppa idruro di salicile in abbondanza, e resta un carbone di apparenza metallica e di difficile combu- stione. All’ordinaria temperatura gli alcali caustici non hanno ‘azione sull’ elicina, e si limitano a renderla più solubile nell’ac- qua; ma se si riscalda il miscuglio, l’ elicina si decompone com- pletamente in zucchero d’uva ed in idruro di salicile. Perciò quando si riscalda dell’elicina in una soluzione di potassa cau- stica, il liquido diventa di color giallo, e dopo pochi istanti di ebollizione tutta l’elicina adoperata si trova scomposta e tra- 124 PIRIA sformata in zucchero e saliciluro di potassio. Neutralizzando l’alcali per mezzo di un acido minerale, V’idruro di salicile si precipita in gocciole oleose. Quanto allo zucchero non è possi- bile ottenerlo con questo processo, giacchè appena divenuto li- bero sperimenta anch'esso l’azione decomponente della potassa, e si converte ne’ prodotti bruni ed incristallizzabili soliti ad ot- tenersi durante il trattamento dello zucchero d’uva per mezzo degli alcali caustici. La soda, la barite, la calce operano come la potassa; l’azione dell’ammoniaca e de’ carbonati alcalini è analoga, ma molto più debole. L’acido solforico concentrato comunica all’elicina un color rancione carico, e poi la discioglie. La soluzione è gialla; col- l’addizione dell’acqua si scolora e lascia precipitare dell’idruro. L'acido solforico diluito con un egual volume di acqua discioglie l’elicina e nel tempo stesso la scompone. Se si scalda dolce- mente il liquido in un bagno di acqua calda, si produce gran quantità d’idruro che galleggia alla superficie. Al calore del- l’ebollizione la più piccola quantità di un acido libero basta a decomporre l’elicina: il liquido bollente spande abbondanti vapori d’idruro, i quali condensati e raccolti in un bicchiere, mutano in paonazzo il colore del percloruro di ferro. Gli acidi nitrico, solforico, idroclorico operano con grandissima energia; gli acidi citrico, tartrico, ossalico spiegano un’azione molto più debole. Di tutti i corpi che ho sperimentati, quello che meglio e più rapidamente scompone l’elicina è la sinaptasia. Questa so- stanza non appena disciolta in una soluzione acquosa di elicina, vi sviluppa un odore fortissimo d’idruro di salicile. Distillando il miscuglio dopo poche ore di contatto, si ottiene dell’acqua carica d’idruro, la sinaptasia si coagula, ed il liquido rimanente, evaporato a bagno maria, lascia uno sciroppo denso di sapor dolce, il quale dopo alcuni giorni di riposo si trasforma in massa opaca e cristallina, in cui si osservano tutte le proprietà dello zucchero d’ uva. | | | RICERCHE CHIMICHE SULLA SALICINA 125 Anche il lievito di birra decompone l’ elicina, e probabil- mente la sua azione si estende ancora allo zucchero che risulta dalla decomposizione di quella, determinandovi una fermenta- zione alcoolica. Almeno ho osservato che mettendo del lievito in una soluzione di elicina, dopo un certo intervallo di tempo il liquido sviluppava visibilmente dell’ acido carbonico e conteneva molto idruro di salicile . Il cloro ed il bromo trasformano l’elicina in due nuovi prodotti, la cloroelicina e la bromoelicina, delle quali parlerò tra poco. Le proprietà chimiche dell’elicina e la facilità con cui per l’azione di corpi di natura diversa si decompone, trasformandosi sempre negli stessi prodotti, mostrano chiaramente che lo zuc- chero d’uva e l’idruro di salicile vi preesistono, e non derivano dall’azione decomponente de’ reagenti chimici adoperati. Questa supposizione si trova ancora giustificata dalla costituzione chi- mica della salicina e dalla sua trasmutazione in elicina per l’influenza di un corpo ossidante. La salicina difatto, in forza delle azioni ossidanti molto energiche, si trasforma in idruro di salicile, in acido formico ed in acido carbonico. Abbiamo ve- duto altrove che l’idruro di salicile deriva dalla saligenina, alla quale l'ossigeno del corpo ossidante toglie due equivalenti d’i- drogeno, mentre gli altri due prodotti vengono dall’ossidazione dello zucchero. Ora se si adopera un corpo ossidante debole, com'è l'acido nitrico diluito, quest’ ultimo trasforma la saligenina in idruro di salicile; ma non potendo nel tempo stesso decom- porre lo zucchero; l’idruro si combina con quest’ultimo e dà origine all’elicina. La composizione elementare dell’elicina è anch'essa in ar- monia con tali vedute. Le analisi che passo a riferire, mostrano difatti che vi si contengono gli elementi dello zucchero e del- Vidruro di salicile, presi insieme. 126 PIRIA L'elicina disseccata a 100°, racchiude C! H'° 0!° — Zucchero C* HS 05 = Idruro di salicile C26 H16 Q14 Elicina. I L'elicina cristallizzata è una combinazione di due equivalenti di sostanza anidra con tre di acqua. C5 H5 08 = 2 eq. elicina H° 05 = 3 eq. acqua C® H55 05 = Elicina cristallizzata. La composizione, calcolata su quest’ultima formula, darebbe: Carbonio 52, 44 Idrogeno 5,88 Ossigeno 41,68. Per mezzo delle analisi ho ottenuto n Il II. Elicina 0,558 0,256 = 0,2845 Acqua 0,1925 = 0,1505 0,155 Ac. carbonico 0,687 0, 4559 0,546 o sia in centesimi I. Il II. Carbonio 52, 55 52, 40 52, 4 Idrogeno 5,99 6,09 6,04 Ossigeno 41,72 41,51 41,62. Ho già fatto notare, che riscaldando l’elicina a 100° si svi- luppa dell’acqua pura. Per sapere se la perdita corrispondeva alla quantità di acqua indicata dalla formula, riscaldai dell’ eli- cina a 100° in una corrente di aria secca. 18,7575 Elicina diminuì di 05,0775 fra 100° e 110° 1,718 Elicina perdè 0, 077 alla stessa temperatura. RICERCHE CHIMICHE SULLA SALICINA 127 Secondo la prima di queste esperienze, l’elicina cristalliz- zata contiene 4,46, secondo l’ultima 4,48 d’acqua di cristal- lizzazione per cento. La quantità indicata dalla formula sa- rebbe 4, 54. Tutti questi dati ci autorizzano adunque ad ammettere, per V’elicina cristallizzata, la formula 20? H!° 0!4+ 3Aq. Elicoidina.— Spesse volte, adoperando dell’acido nitrico più debole di quello che serve a preparare l’elicina, mi è accaduto di ottenere una sostanza, la quale, sebbene somigliantissima all’elicina per l'aspetto esteriore e per molte altre proprietà, ne differiva perchè nel decomporsi, oltre lo zucchero e l’idruro di salicile, produceva ancora della saligenina ovvero de’ corpi de- rivanti da quella. La sostanza in esame, che provvisoriamente chiamerò eli - coidina, si ottiene assai facilmente disciogliendo una. parte di salicina in 10 di acido nitrico a 12° B. Dopo qualche giorno il corpo summentovato cristallizza quasi puro. Basta allora separare i cristalli dall'acqua madre, lavarli con acqua distillata e sot- toporli ad una nuova cristallizzazione disciogliendoli nell’acqua bollente. I caratteri dell’elicoidina non differiscono punto da quelli dell’elicma. Trattata con la sinaptasia si decompone sviluppando il noto odore dell’idruro, e distillando il liquido, passa nel reci- piente dell’acqua carica d’idruro di salicile. Il residuo evaporato a consistenza sciropposa cristallizza lentamente, con tutte le proprietà che distinguono lo zucchero d’uva; ma trattando la massa solida con etere si ottiene della saligenina, la quale cri- stallizza per l'evaporazione del liquido etereo. Riscaldando la elicoidina con un acido minerale alquanto diluito si sviluppano vapori abbondanti d’idruro, nel liquido si forma della saliretina e resta disciolto dello zucchero. Finalmente se si riscalda con una soluzione di potassa, si forma del saliciluro di potassio ed il liquido diventa giallo. Saturando l’alcali con un acido si pre- 128 PIRIA cipita dell’idruro, ed evaporando la soluzione a secco in un bagno maria, resta una sostanza bruna e di consistenza scirop- posa, dalla quale si può estrarre una certa quantità di saligenina per mezzo dell'etere. La sostanza in esame è il prodotto dell’incompleta ossida- zione della salicina in contatto dell’acido nitrico debole, il quale trasforma in idruro soltanto una porzione della saligenina e la- scia l’altra inalterata. Si può adunque considerarla come una combinazione di zucchero, saligenina e idruro di salicile, ovvero come una combinazione di salicina ed elicina. Finalmente si ‘ potrebbe riguardarla come un miscuglio a proporzioni variabili di elicina e di salicina inattaccata. Quest'ultima maniera di vedere mi parve da prima più probabile; ma poscia l'ho del tutto abbandonata, non potendomi con essa spiegare la decomposi- zione completa che prova in contatto delle sostanze alcaline. Ed invero; se fosse una semplice mescolanza di elicina e di salicina, gli alcali dovrebbero decomporre soltanto la prima di tali so- stanze e lasciare l’altra inalterata, perciocchè la salicina non vien decomposta dalle soluzioni alcaline. Per la qual cosa, se frai prodotti si ottiene ancora della saligenina, questa non può esservi contenuta allo stato di salicina. Contuttocid dubitando che una tale decomposizione potesse seguire per una specie di azione riflessa eccitata dalla elicina che vi è a contatto e che si decompone d’una maniera analoga, fermai di risolvere tal que- stione con una esperienza diretta. Laonde fatta una soluzione mista di salicina e di elicina, aggiunsi al miscuglio un po’ di potassa, e riscaldai. Dopo pochi momenti di ebollizione tutta l’elicina era decomposta, ma la salicina non avea sperimentato alterazione di sorta, ed esaminando i prodotti coi metodi già indicati, non vi trovai il più piccolo vestigio di saligenina. Da ciò mi pare potersi conchiudere che l’elicoidina è un composto definito di zucchero, saligenina e idruro di salicile, e non già una mescolanza accidentale di elicina, e di salicina indecomposta. RICERCHE CHIMICHE SULLA SALICINA 129 Da tutto quello che ora sappiamo intorno alla composizione della salicina, risulta che la formula probabile del nuovo pro- dotto dev'essere C* H® 0° — 2 eq. Zucchero C4H° 0* = 1 eq. Idruro di salicile CH" 04 = 1 eq. Saligenina C® H"*0* — 1 eq. Elicoidina anidra H° 05 C* H? 05 —= 1 eq. Elicoidina cristallizzata. Le analisi diedero i seguenti risultati : I. Il Elicoidina 0,214 0, 528 Acqua 0, 1215 0, 1865 I Acido carbonico 0,410 0, 6505, uo sia, per cento parti : Esperienza Calcolo I. Il Carbonio 52, 24 52, 42 52, 26 } Idrogeno 6,90 6, 51 6,19 Ossigeno 41,46 41,27 41,55. Queste analisi si confondono con quelle dell’elicina, so- prattutto per il carbonio e per l'ossigeno; per modo che non mi crederei autorizzato a dedurne una formula diversa, se questa non si trovasse giustificata dalla natura de’ prodotti che deri- vano dalla sua decomposizione . Cloroelicina. — Preparai questo curioso prodotto diguaz- zando un miscuglio di acqua e di elicina perfettamente pura | in una bottiglia smerigliata piena di gas eloro. Sulle prime il gas venne assorbito con molta avidità, 1 elicina diventò traspa- I rente, prese un aspetto gelatinoso, ed in ultimo si gonfiò a tal | segno, che tutto il liquido si rapprese in massa solida; in tale Scienze Cosmolog. T. I. 17 150 PIRIA stato arrossava debolmente la tintura di laccamuffa, e conteneva alquanto acido idroclorico libero proveniente dalla reazione. Bentosto il cloro non venne più assorbito, ed allora sospesi il trattamento. Ciò fatto, separai la cloroelicina bruta dall’ acqua madre comprimendo il prodotto entro un pezzo di tela, e lavai il residuo più volte con acqua distillata sinchè ebbe perduta ogni reazione acida. Tale precauzione è indispensabile ad im- pedire che la cloroelicina venga decomposta dall’acqua bollente in cui è d’uopo disciorla per farla cristallizzare. Finalmente venne depurata con ripetute cristallizzazioni nell’acqua calda. Durante la cristallizzazione della cloroelicina si osserva un fenomeno singolare, il quale si verifica in certe condizioni, che non sono per anche riuscito a precisare. Talvolta la solu- zione acquosa di questo prodotto fatta a caldo comincia a pro- durre de? cristalli a misura che si raffredda, e questi somigliano per l’aspetto a quelli dell’elicina, sebbene intieramente formati di cloroelicina. Talaltra non si formano punto cristalli; ma il liquido tutto intero si rapprende in una massa soda ed amorfa, somigliante alla salda di amido. Più spesso le due modificazioni della cloroelicina si trovano visibilmente mescolate insieme, ed il liquido si trasforma in una massa gelatinosa e trasparente tutta disseminata d’innumerevoli cristallini. In queste due modi- ficazioni la cloroelicina è contenuta in due stati diversi d'idra- tazione, e quella gelatinosa racchiude maggior quantità di acqua della cloroelicina cristallizzata. Del resto l'una e l’altra abban- donano a 100° tutta la loro acqua diventando anidre. La cloroelicina è bianca, senza odore quando è pura, di sapore amaro. Si scioglie benissimo nell'acqua e nell’ alcoole, soprattutto a caldo, ma è insolubile nell’etere. Riscaldata in una soluzione di potassa si trasforma in zuc- chero d’uva ed in cloruro di salicile, che si combina coll’alcali colorando il liquido in giallo. Versandovi un acido, il cloruro di salicile si precipita con tutte le sue proprietà . RICERCHE EHIMICHE SULLA SALICINA 151 Gli acidi ancora decompongono la cloroclicina per mezzo del riscaldamento, il cloruro di salicile si volatilizza insieme col vapore aqueo, e va a cristallizzare nella parte meno calda del tubo in cui si fa l’esperienza: nel liquido resta disciolto lo zucchero. La sinaptasia la scompone alla temperatura ordinaria, e for- nisce gli stessi prodotti che di sopra ho accennato. Perciò se si scioglie della cloroelicina in una emulsione di mandorie dolci, da cui è stata precipitata la più gran parte della caseina per mezzo dell’acido acetico, il liquido a capo di qualche minuto comincia a tramandare l’odor penetrante del cloruro di salicile, e saggiato con qualche goccia di percloruro di ferro, si colora in violetto. Nondimeno con tal mezzo non si ottiene mai una de- composizione completa, probabilmente in grazia della poca so- lubilità del cloruro di salicile che si forma. Feci varie sperienze per determinare quantitativamente l’acqua di cristallizzazione della cloroelicina; ma i numeri otte- nuti, riguardandoli come esatti, darebbero un rapporto compli- cato e poco probabile. In due esperienze concordanti trovai che la cloroelicina perde 5 per cento di acqua di cristallizzazione alla temperatura dell’acqua bollente, perdita che non diviene maggiore a 140°. Per porre questo dato sperimentale in ar- monia col calcolo, bisognerebbe ammettere che la cloroelicina cristallizzata contiene 4 equivalenti di sostanza anidra e 5 di acqua, il che è inverisimile. Il resultato dell’esperienza non si discosta gran fatto dal numero 2,76, che corrisponde ad un equi- valente di acqua per uno di cloroelicina anidra. Io credo adun- que che il corpo cristallizzato contenga realmente un solo equiva- lente di acqua ed uno di cloroelicina, e che la piccola differenza di 0,24 che si osserva fra il resultato dell'esperienza e quello del calcolo, si debba attribuire alla presenza fortuita di un po’ di cloroelicina gelatinosa, la quale racchiude maggior quantità di acqua. 152 PIRIA Per allontanare ogni specie d’incertezza ho impiegato, per le mie analisi elementari, della cloroelicina ben disseccata alla temperatura di 100° o di 120° in una corrente d’aria secca. I risultati che ho ottenuti confermano la composizione dedotta dalle reazioni già discorse, e conducono alla formula C?° H!5 0!4 Ch, la quale denota un composto di zucchero e di cloruro di salicile : (12 Hl° (1° = Zucchero C# H5 05 Ch = Cloruro di salicile C? H!5 0! Ch = Cloroelicina. Dall’ altra parte la sua facile trasformazione in questi stessi corpi per mezzo degli alcali, degli acidi e della sinaptasia; la sua pro- duzione per mezzo dell’elicina e del cloro, provano abbastanza che lo zucchero ed il cloruro di salicile sono i suoi componenti immediati . Passo a riferire i risultati numerici delle analisi: 03,267 Cloroelicina produssero 0,175 acqua e 0,480 acido carbonico. D'altra parte 05,817 Cloroelicina diedero 0,565 cloruro d’argento. Quindi 100 parti contengono: Esperienza Calcolo Carbonio 49,02 49,06 Idrogeno 4,90 4,72 Cloro 11,02 11,00 Ossigeno 59, 06 59, 22. Se si tratta col cloro una soluzione di elicina nell’alcoole ordinario, a capo di qualche tempo si precipita certa sostanza bianca in piccoli grani cristallini, i quali hanno lo stesso aspetto dell’amido. La soluzione si riscalda fortemente, diviene acida e contiene i prodotti dell’azione del cloro sull’alcoole. Col raf- freddamento deposita una nuova quantità della sostanza in esa- WE eee coi RICERCHE CHIMICHE SULLA SALICINA 155 me, la quale dopo di essere stata più volte lavata con alcoole e con acqua, e quindi prosciugata all'aria libera, fu sottoposta all'analisi elementare. I risultati ottenuti conducono alla com- posizione della cloroelicina anidra, e per conseguenza alla for- mula C?° H!5 0! Ch: I. Il II. Sostanza 0,5075 0,545 0,549 0,6195 0,517 Acqua 0,1565 0,158 0,160 » » Acido carbonico 0,5495 0,615 0,6245 » » Cloruro d’argento » » » 0,288 0,2405 Onde si cava, per cento parti: Esperienza Calcolo I Il II Carbonio 48,75 48,90 48, 80 48, 98 Idrogeno 4,91 5,11 5, 09 4,71 Ossigeno 54,90 54,52 54,65 55,17 Cloro 11,46 11,47 11,46 11,14 Pertanto questo corpo è insolubile nell’acqua, appena solubile nell’alcoole bollente; trattato cogli alcali, cogli acidi, colla sina- ptasia, non produce nè zucchero, nè cloruro di salicile; infine differisce dalla cloroelicina per tutti i caratteri, in guisa che si può riguardare isomero, ma non identico con quest’ultima. Bromoclicina. — Questa sostanza si ottiene come la prece- dente trattando l’elicina col bromo, e somiglia alla cloroelicina per tutte le sue proprietà. Gli alcali, gli acidi, la sinaptasia vi spiegano lo stesso genere di azione, ed i prodotti che ne risultano sono lo zucchero ed il bromuro di salicile. La bromoelicina ha, come l’altra, uno stato amorfo e gela- tinoso, in cui si trova unita a 2 equivalenti d’acqua di cri- stallizzazione; ma non sono mai riuscito a farla cristallizzare. 154 PIRIA Contiene: (1! H° 01° = Zucchero C! H5 0‘ Br = Bromuro di salicile H? 0° = Acqua eliminabile a 100° GC? H!7 0! Br = Bromoelicina. L'analisi diede: 05,591 Bromoelicina, 0,161 acqua, 0,579 acido carbon. 18,2055 idem —0,5945 bromuro d’argento. Esperienza Calcolo Carbonio 41,12 41,15 Idrogeno 4,97 4,48 Bromo 20,71 20, 64 Ossigeno 59, 60 59,79. La sua formula razionale è per conseguenza C?° H! 0!4+2Aq. ACIDO ANILOTICO. Ho già accennato in altra occasione, che quando nell’acido nitrico di una certa forza si stempera della salicina, non si forma punto elicina, ma invece acido anilotico. Ora la produ- zione di quest’ultimo corpo non dipende tanto dalla concen- trazione dell'acido nitrico impiegato, quanto dalla presenza del- l’acido iponitrico che si genera per la reazione del primo sugli elementi organici della salicina. Sia che l'acido iponitrico at- tacchi la salicina con maggiore energia dell’acido nitrico, sia che l’acido anilotico contenga l'azoto a quel grado d’ossidazione che lo costituisce acido iponitrico, è certo che la presenza di quest’ultimo è una condizione indispensabile alla trasformazione della salicina in acido anilotico. Per la qual cosa volendo pre- parare questo corpo, è preferibile di adoperare un acido debole, ma saturo di biossido d’azoto e carico per conseguenza di acido RICERCHE CHIMICHE SULLA SALICINA 155 iponitrico. Il prodotto che allora si ottiene è più abbondante e più puro di quello che si ha servendosi di un acido più con- centrato. In quest’ultimo caso l’acido anilotico va sempre unito ad un po’ di acido anilico, dal quale è difticile liberarlo com- pletamente. Per preparare questo acido, s'introducono in una boccia smerigliata una’ parte di salicina in polvere e 6 a 8 p. di acido nitrico a 20° B. Si chiude ermeticamente la boccia e si pone in un luogo fresco. Per tal modo il biossido d’azoto nascente dalla reazione, invece di svilupparsi, è obbligato a disciogliersi generando dell’acido iponitrico, il quale colora il liquido in verde. Operando al contrario in vasi aperti, la soluzione prende una tinta gialla e non si forma altro che elicina, la quale appena prodotta si precipita, sottraendosi in tal modo all’azione ulte- riore del liquido acido. È veramente curioso il vedere come mettendo acido nitrico allo stesso grado di concentrazione, p- es. a 20° B., e salicina in due bocce separate, luna delle quali si chiuda con tappo smerigliato, e si lasci in vece aperta l’altra, restando eguali tutte le altre condizioni, a capo di certo tempo si trova nella prima l'acido anilotico, nella seconda l’elicina. Come, durante tale reazione, oltre il biossido d’azoto, si produce dell'acido carbonico in abbondanza tale, che potrebbe cagionare la rottura della boccia, bisogna di tempo in tempo aprirla per dar esito al gas. A capo di 4 o 5 giorni l'acido anilotico comincia a cristallizzare. Si apre allora la boccia, si travasa il liquido in una capsula, e dopo di averlo diluito con un egual volume di acqua, si abbandona all’aria libera per un giorno o due. Dopo tale intervallo tutto l'acido anilotico che la soluzione può dare si trova cristallizzato. Separati i cristalli dall'acqua madre, si mettono a gocciolare in un imbuto di cui si chiude imperfettamente il collo con qualche frammento di vetro, e si lavano con un po’ d’acqua distillata. 156 PIRIA Per purificare il prodotto bruto dell’operazione precedente, si discioglie a caldo in una soluzione di ammoniaca, e si fa eri- stallizzare il sale ammoniacale che ne risulta. Si richiedono pa- recchie cristallizzazioni prima che sia perfettamente bianco; ma allora si può riguardare come puro, e basta versarvi dell'acido idroclorico o dell’acido solforico per separarne l’acido anilotico, il quale si precipita immediatamente in forma di deposito bianco e voluminoso. Per averlo in cristalli bisogna scomporre la so- luzione di anilotato d’ammoniaca versandovi dell’acido acetico. Sulle prime non si forma precipitato, ma dopo una mezz'ora circa l’acido anilotico si separa dalla base cui trovavasi unito, e cristallizza in lunghi aghi. La salicina fornisce, termine medio, un quarto del suo peso di questo acido. L’acido anilotico cristallizza in lunghi prismi aghiformi ter- minati in punta. Il suo sapore è astringente ed amarissimo, e non ha punto odore. È pochissimo solubile nell’acqua fredda; l’acqua calda ne scioglie poco più, e raffreddandosi l’ abbandona cristallizzato. Nell’acqua bollente in parte si scioglie, ma la porzione non disciolta abbandona l’acqua di cristallizzazione che contiene e diventa anidra, trasformandosi in una polvere cri- stallina e pesante, che si riunisce in fondo del liquido. È solu- bilissimo nell’alcoole e nell’etere. La soluzione acquosa dell’acido anilotico non ha colore, arrossa vivamente la tintura di laccamuffa, e diventa gialla in contatto degli alcali. Non è precipitata dai sali di rame, di ar- gento, di mercurio, di barite, di calce, di zinco, di magnesia, di manganese, nè da’ sali di piombo allo stato neutro. Il sotto- acetato di piombo vi produce un precipitato giallo. I sali di sesquiossido di ferro la colorano in rosso intenso, senza pre- cipitarla. L'acido solforico concentrato non altera l'acido anilotico a freddo. Col riscaldamento lo discioglie senza scomporlo, e raf- freddandosi l’abbandona in piccoli cristalli allo stato anidro . RICERCHE CHIMICHE SULLA SALICINA 157 L'acido anilotico cristallizzato contiene 12,8 per cento di acqua che si sviluppa a 100° sotto la pressione atmosferica, ed anche alla temperatura ordinaria nel vuoto. L’acido anidro ri- scaldato si fonde in un liquido trasparente, che raffreddandosi cristallizza. Colla distillazione in parte si volatilizza ed in parte si scompone lasciando un abbondante residuo carbonoso, il quale in ultimo si accende e produce una debole deflagrazione. Combinandosi con le basi forma de’ sali, che per la più parte sono solubili e cristallizzano. Allo stato neutro son quasi tutti bianchi, ma per un eccesso di base ingialliscono. Versando un acido nelle soluzioni gialle il colore si dilegua all'istante, e sì precipita l'acido anilotico in fiocchi bianchi e voluminosi pa- ragonabili all’albume d’uovo coagulato. Secondo le mie analisi, l'acido disseccato ha per formula HO+C"H*Az0°. Difatti: I. 0,299 Acido anidro diedero 0,081 acqua e 0,5015 . acido carbonico. II. 0,5265 Idem 0,159 acqua e 0,881 acido carbonico. 0,255 Idem fornirono 15,5 centimetri cubi di gas azoto saturo di umidità, misurato alla temperatura di 18° e sotto la pressione di 0m,758. D'onde si cava: Esperienza Calcolo I II. Carbonio 45,75 45, 65 45,95 Idrogeno 5,00 2,95 2,75 Azoto 7,69 7,69 7,65 Ossigeno 45,96 45,79 45, 67. L'acido cristallizzato contiene 5 equivalenti d’acqua di cri- stallizzazione, ed ha per formula HO + C** H* Az 0° +3Aq. I. 0,256 Acido anilotico cristallizzato produssero 0,0895 acqua e 0,5465 acido carbonico. II. 0, 2745 Idem 0,097 acqua e 0,597 acido carbonico. Seienze Cosmolog. 1 I. 18 158 ki PIRIA Esperienza Calcolo I. II Carbonio 40, 00 40,00 40, 00 Idrogeno 4,21 3,95 3, 86 Azoto » » 6, 67 Ossigeno » » 49,47. Da quel che sinora ho esposto intorno alle proprietà ed alla composizione dell’acido anilotico, chiaramente si vede che questo corpo ha la più grande somiglianza ed è isomero col- l’acido anilico. Ciò non ostante, se si paragonano le reazioni di questi due corpi, si notano tali differenze, che non permet- tono di confonderli. Indicherò le principali. L’acido anilico preparato coll’indaco è solubilissimo nel- l’acqua bollente, e cristallizza allorchè il liquido si va raffred- dando. In tale stato non contiene acqua eliminabile per l’azione del calore. Colla potassa e coll’ammoniaca forma de’ sali cri- stallizzati di color giallo. Finalmente combinandosi coll’ossido di argento produce un sale solubile. L'acido anilotico, al contrario, trattato coll’acqua bollente, non si discioglie che in piccolissima proporzione: la maggior parte abbandona l’acqua, diventa anidro e si trasforma in una polvere cristallina. Allo stato cristallizzato racchiude tre equi- valenti di acqua, che perde col riscaldamento e nel vuoto pneu- matico. Colla potassa e coll’ammoniaca produce de’ sali perfet- tamente bianchi, e coll’ossido di argento un sale insolubile . L’isomeria dell’acido anilotico coll’acido anilico è analoga a quella della più gran parte de’ composti minerali, e probabil- mente procede dalla stessa cagione, cioè dalla differenza di temperatura. L'acido anilico che si prepara coll’indaco si pro- duce difatto alla temperatura dell’ ebollizione; l'acido anilotico, al contrario, a quella dell’atmosfera. Si sa d'altronde che le mo- dificazioni isomere dell’acido arsenioso, dell’acido fosforico, di RICERCHE CHIMICHE SULLA SALICINA 159 alcuni solfuri di fosforo, dell’ossido, dell’ioduro e del solfuro di mercurio ec., hanno origine nelle stesse condizioni. | Ho già accennato che la presenza dell’acido iponitrico è indispensabile alla produzione dell’acido anilotico. L'esperienza seguente lo dimostra in un modo decisivo. Dopo aver disciolto una parte di salicina in 8 di acido nitrico a 24° B., ripartii il liquido in due bicchieri. Poscia nell’uno disciolsi una piccola quantità di nitrato d’urea, ad oggetto di distruggere l’acido ipo- nitrico risultante dalla reazione, e lasciai l’altro senza aggiun- gervi cosa alcuna. Dopo alquanti giorni il liquido in cui avevo messo il nitrato d’urea non conteneva la più piccola traccia di acido anilotico; ma invece affondendovi dell’acqua si formò un precipitato abbondante di una materia resinosa di color rossastro, e l’acqua madre conteneva abbondante quantità d’idruro di salicile in soluzione. Nell’altro, al contrario, trovai dell’ acido anilotico cristallizzato in gran copia. Dunque un corpo, come il nitrato d’urea, che colla sua presenza rende nulla l’azione del- l’acido iponitrico sulla salicina, decomponendolo a misura che si forma, basta a cambiare del tutto la natura della reazione e i prodotti che da quella derivano. Volli ancora cercare se altri composti del salicile, oltre la salicina, potessero trasformarsi in acido anilotico sotto l’influenza dell'acido iponitrico. Per la qual cosa disciolsi nell’acido nitrico a 20° B. dell’ elicina perfettamente pura e cristallizzata, e chiusi la boccia che conteneva il miscuglio, senza omettere veruna delle precauzioni accennate parlando della preparazione del- l’acido anilotico per mezzo della salicina: anche in questo caso ottenni l’acido in esame, con la sola differenza, che la trasfor- mazione non fu completa che a capo di molti giorni; il che non è difficile ad intendersi, essendo l’elicina pochissimo solubile nell’acido nitrico debole. Ora, poichè si può ottenere l’acido anilotico per mezzo dell’elicina, la quale non contiene punto saligenina, è chiaro che quest’ultima sostanza non può far parte dell'acido anilotico. 140 PIRIA Quanto sinora ho accennato intorno alla formazione del- l’acido anilotico mostra che quando si esamina la maniera di agire dell'acido nitrico sulle materie organiche, bisogna tener conto delle reazioni secondarie che vi spiegano gli acidi meno ossigenati nascenti dalla decomposizione del primo. Da ciò, senza dubbio, i prodotti sì numerosi e sì variati che si ottengono per l’azione dell'acido nitrico sui corpi organici. Anilotato d’'ammoniaca. — Questo sale si prepara facilmente disciogliendo l’acido anilotico bruto nell’ammoniaca per mezzo del riscaldamento. La soluzione è di color giallo carico, giallo ancora è il prodotto della prima cristallizzazione; ma facendolo cristallizzare più volte di seguito, si finisce per ottenere de’ cri- stalli affatto privi di colore. Cristallizza facilmente in lunghi prismi quadrangolari bian- chi, solubili nell'acqua e nell’alcoole, ma insolubili nell'etere. La soluzione acquosa di questo sale non ha nessun colore, e non altera le tinture vegetali: l’ ammoniaca e tutte le altre sostanze alcaline la colorano in giallo. Precipita in bianco col nitrato d’argento e col nitrato di piombo, ma in quest’ultimo caso il precipitato che si forma si discioglie in un eccesso di nitrato. L’acetato di rame vi produce un precipitato gelatinoso di color verde pistacchio. I sali di perossido di ferro comunicano a tale soluzione un color rosso di sangue intensissimo. Non precipita i sali di zinco, di magnesia, di biossido di mercurio, nè quelli di barite, di stronziana e di calce; ma allorchè alla soluzione mista dell’anilotato d’ammoniaca coi sali di queste tre ultime basi si aggiunge qualche goccia di ammoniaca, dopo alcuni istanti si formano de’ cristallini gialli aghiformi. Se la soluzione è concen- trata, si precipita immediatamente una polvere gialla e cristal- lina. Queste reazioni sembrano indicare l’esistenza di altrettanti sali basici, e conducono a riguardare l'acido anilotico come un acido polibasico. Finora non ho potuto esaminare tali composti più da vicino; ma mi propongo di tornarvi in un altro lavoro, |, n Pe — nn] co RICERCHE CHIMICHE SULLA SALICINA 141 in cui descriverò i numerosi acidi azotati che si generano per l’azione dell'acido nitrico sulla salicina. L’anilotato d'ammoniaca non contiene acqua combinata, ed ha per formula AzH'0+C*H*A7z0°. La sua analisi mi ha dato: I. 0,592 Anilotato d’ammoniaca, 0,221 acqua e 0,911 acido carbonico. II. 0,605 Idem 0,224 acqua e 0,927 acido carbonico. I. 0,421 Idem 49 cm. cb. azoto umido misurato alla temperatura di 11° e sotto la pressione di 0m,762. I. 0, 2285 Idem 27 cm. ch. azoto a 15° e 0m,762. Esperienza Calcolo I. II. Carbonio 41,96 41,92 42,00 Idrogeno 4,14 4,12 4,00 Azoto 15, 98 14,09 14,00 Ossigeno 59, 92 59, 87 40, 00. Anilotato di potassa. — Si prepara facilmente disciogliendo l’acido anilotico in una soluzione calda di carbonato di potassa: col raffreddamento del liquido il sale cristallizza. Il prodotto delle prime cristallizzazioni è ordinariamente colorato in giallo, e non si arriva a scolorarlo compiutamente che disciogliendolo di nuovo nell'acqua bollente ed obbligandolo a cristallizzare più volte. Si ottiene molto più puro ed appena colorato, sin dalla prima cristallizzazione, facendo bollire dell’acido anilotico con una soluzione di acetato di potassa. Coll’aiuto del calore l'acido anilotico scaccia l’acido acetico dalla sua combinazione, e come la temperatura del liquido si abbassa, il sale di potassa eri- stallizza. Questo sale quando è del tutto puro si presenta in lunghi prismi quadrangolari bianchi, i quali in contatto di un eccesso 142 PIRIA di base diventano gialli. La soluzione acquosa si mostra neutra alle carte reagenti, e possiede tutte le reazioni che ho enume- rate parlando del sale di ammoniaca. Anilotato di argento. — Si ottiene senza diflicoltà precipi- tando l’anilotato d’ammoniaca ben puro con una soluzione di nitrato d’argento neutro. Il sale precipitato è bianco, voluminoso, leggierissimo ed affatto insolubile nell'acqua. Esposto all’azione della luce si annerisce, e col riscaldamento si scompone, senza esplodere, lasciando un residuo di argento metallico. I numeri dedotti dalle analisi di questo composto condu- cono alla formula AgO+C* H* Az 0°. 0,648 Anilotato d’argento 0, 095 acqua e 688 acido carbonico. Per l’azoto I. 0,5965 Anilotato d’argento 16,5 cm. cb. di gas umido a 16° e 0,766. I. 0,5565 Idem 22 cm. cb. di gas umido a 17° e Om, 766. Per l'argento I. 0,511 Anilotato d’argento lasciarono, dopo la com- bustione, 0,1895 di metallo. II. 0,518. Sale d’argento 0, 1185 metallo. Onde si ha, per 100 parti, Esperienza Calcolo I I. - Carbonio 28,95 » 29, 00 Idrogeno 1,60 » 1,58 Azoto 4,91 4,85 4,85 Argento 57, 08 57,26 97,24 Ossigeno 27,22 » 27,55. Considerando l’acido anilotico anidro come un acido uni- basico, le formule de’ composti precedenti diventano RICERCHE CHIMICHE SULLA SALICINA 145 HO+C' H*' Az 0° — Anilotato d’idrogeno (acido anilotico disseccato a 100°) Ag0+C"H*Az0° = Anilotato d’argento AzH‘0+C" H* Az0° = Anilotato d’ammoniaca. Ma, per le ragioni di sopra accennate, è più probabile che sia un acido polibasico; ed in tale ipotesi i sali gialli sarebbero quelli che contengono più di un equivalente di base. Laonde parrebbe, che le formule razionali de’ composti precedenti si dovessero scrivere come appresso: 2H0+ C' H° A70% — Anilotato d’idrogeno Ag0 1 (E c ’aro, n0j+£ 4H5Az05 = Id. d’argento AzH*0 d n +C*H5Az0f = Id. d’ammoniaca 2M0+C" H" Az 05 = Sali gialli? ACIDO IODOPICRENICO. Ho dato il nome di acido iodopicrenico ad un composto singolarissimo, che si forma per l’azione simultanea dell’iodo e della potassa sull’acido anilotico. Per ottenerlo si discioglie del- l’acido anilotico in una soluzione acquosa di potassa e si riscalda la mescolanza. Quando è vicina a bollire si aggiunge dell’iodo a poco per volta. Sulle prime si manifesta una viva reazione, e l’iodo sparisce a misura che viene a contatto col liquido; ma a poco a poco la potassa resta saturata, e disciogliendovi dell'altro iodo la soluzione prende il solito color bruno che annunzia la presenza di quest’ultimo corpo allo stato libero. Aggiungendo della potassa, il color bruno della soluzione si dilegua immedia- tamente e si forma un abbondante precipitato cristallino di color giallo ranciato, che è la combinazione dell’acido iodopicrenico 144 PIRIA colla potassa. Raccolto questo .sale sopra un feltro, si lava con un po di acqua distillata e poscia si fa cristallizzare una seconda volta nell’acqua bollente. Depurato per tal modo il sale di potassa, volendone estrarre l'acido iodopicrenico si discioglie nell’alcoole misto ad acido idroclorico, e si fa bollire la mescolanza per alcuni secondi. L’iodopicrenato è completamente decomposto: l'acido resta di- sciolto nell’alcoole, e la maggior parte del cloruro di potassio si precipita. Col raffreddamento del liquido l’ acido iodopicrenico cristallizza ritenendo qualche traccia di cloruro di potassio. Separato da quest’ultimo per mezzo dell'etere, si evapora a secco la soluzione eterea, e si fa cristallizzare il residuo, scio- gliendolo nell’alcoole bollente. Così ottenuto, l’acido iodopicrenico cristallizza talvolta in piccoli prismi romboidali di color giallo chiaro, talaltra in la- minette micacee di un magnifico color giallo d’oro, somiglian- tissime all’ioduro di piombo cristallizzato. Non ostante tal dif- ferenza nell'aspetto esteriore de’ cristalli, sottoposti all’analisi elementare mi diedero gli stessi risultati numerici. Quel che prova non essere gli acidi mentovati due corpi identici, ma semplicemente isomeri, è che ciascuno di essi disciolto nell’al- coole bollente, cristallizza sempre colla forma sua propria, nè mai l’uno prende le apparenze dell’altro. Non ho peranche po- tuto precisare le condizioni in cui l'acido iodopicrenico prende l’uno o l’altro de’ due stati isomeri. Del resto, tranne le diffe- renze di sopra notate, non se ne osservano altre; dimodochè — quel che vado a dire delle proprietà dell’acido iodopicrenico è applicabile sì all’una che all'altra modificazione. Questo corpo non ha odore. Il suo sapore è di un’amarezza insopportabile. Imbianca la carta tinta colla laccamuffa, senza arrossarla. Applicato sull’epidermide vi produce una macchia gialla indelebile, la quale non va via se non quando si stacca la stessa epidermide. È quasi insolubile nell'acqua, anche bollente; | | | RICERCHE CHIMICHE SULLA SALICINA 145 molto solubile nell’alcoole e più ancora nell’etere. Col riscal- damento prima si fonde, poscia si scompone producendo una debole detonazione e sviluppando vapori d’iodo. Combinandosi con la potassa, con la soda e con l’ossido d’ammonio forma de’ sali di color giallo rancio magnificamente cristallizzati. Il sale di barite è poco solubile, e cristallizza in lamine di color rosso vivacissimo . Le soluzioni acquose degl'iodopicrenati alcalini precipitano in rosso di ruggine col solfato di rame, in giallo canarino col percloruro di ferro, in giallo d’oro col nitrato di piombo, in giallo cedrino col sublimato e coll’allume, in bianco gialliccio col cloruro di cobalto. Al contrario non precipitano i sali di ma- gnesia nè quelli di stronziana. Le analisi dell’acido libero mi diedero i seguenti risultati, che conducono alla formula HO + C!2 H? I? Az 05. I. 0,426 Acido iodopicrenico, 0,041 acqua e 0,291 acido carbonico. II. 0,599 Idem 0,0575 acqua e 0,2725 acido car- bonico. 0, 8205 Idem 25,5 cm. ch. gas azoto umido a 16° e 0m,760. Esperienza Calcolo I. I. Carbonio 18, 65 18, 62 18, 46 Idrogeno 1,07 1,04 0,77 Iodo » » 64, 87 Azoto ò, 61 5, 61 d, 60 Ossigeno » » 12,50. Se dagli clementi dell'acido anilotico si sottraggono due equivalenti di acido carbonico, resta C!? H® Az 05, in cui sosti- tuendo due equivalenti di iodo a due equivalenti d’idrogeno si ha C*H°P Az 05, cioè la formula dell’acido iodopicrenico. Scienze Cosmolog. T. I. 19 146 PIRIA Ond’è che per produrre quest’ultimo l’acido anilotico cede alla potassa due equivalenti di carbonio e quattro di ossigeno allo stato di acido carbonico, e nel tempo stesso due equivalenti d’iodo prendono il luogo di due equivalenti d’idrogeno; il quale combinandosi con un’altra porzione di iodo produce dell'acido idroiodico, che reagendo sulla potassa forma ioduro di potassio. Iodopicrenato d’argento. — È una polvere gialla, leggiera ed insolubile, la quale si ottiene per doppia scomposizione, versando del nitrato d’argento in una soluzione d’iodopiere- nato di potassa, di soda o di ammoniaca. La sua formula è Ag0+(C'? H? 1? Az 0°. I. 0,641 Iodopicrenato d’argento diedero 0, 0555 acqua e 0,541 acido carbonico. II. 0,6875 Idem 0,0555 acqua e 0,567 acido car- bonico. III. 0, 6455 Idem 0,0545 acqua e 0,545 acido car- bonico. Per l'azoto I. 0,746 Iodopicrenato d’argento produssero 18 cm. cb. azoto umido a 18° e 0m,762. IL 0,5695 Idem 14,5 cm. cb. azoto umido a 18° e 0m, 758. Per determinare l'argento non ho potuto, come ne’ casi ordinari, dosare il residuo della combustione del sale, giacchè il metallo resta in gran parte combinato coll'iodo allo stato di ioduro d’argento, ed in parte ridotto; per la qual cosa disciolsi il sale nell’acido nitrico coll’aiuto del riscaldamento, e precipitai la soluzione con acido idroclorico. In ultimo lavai il cloruro d’argento prima con alcoole e poi con acqua. I. 0,6955 Iodopicrenato d’argento, 0,197 cloruro d’ar- gento. II. 0,7005 Idem, 0,200 cloruro d’argento. RICERCHE CHIMICHE SULLA SALICINA 147 Da tutti questi dati risulta che 100 parti d’iodopicrenato d’argento contengono: Esperienza Calcolo . I: Il II. Carbonio 14, 51 14, 56 14, 49 14, 48 Idrogeno 0,58 0, 57 0, 59 0, 40 Iodo » » 7 » 50, 90 Azoto 2, 79 » » 2, 82 Argento 21,40 21,51 » 21, 67 Ossigeno » » » 9, 64. Iodopicrenato di potassa. — Allo stato anidro ha per for- mula KO+ C'!? H? I? Az O. Il sale cristallizzato contiene tre equi- valenti e mezzo di acqua combinata, o sia sette equivalenti di acqua per due di sale. Riscaldato a 100°, ovvero esposto nel vuoto pneumatico accanto all’acido solforico, lascia sviluppare ‘tutta l’acqua che contiene e diventa anidro. Messo sopra una foglia di platino e scaldato sulla fiamma di una lampada, si scompone tutto ad un tratto, producendo una debole esplosione, e lasciando un abbondante residuo di carbone in forma di stri- | sce nere che svolazzano nell'aria. Cristallizza in lunghi aghi di color giallo-rancio, i quali | sembrano de’ prismi quadrangolari. Parlando dell'acido iodopi- crenico, ho di già indicato il metodo che si tiene per preparare. il sale di potassa. Le determinazioni quantitative de’ suoi ele- menti hanno dato i risultati seguenti: 0,684 Iodopicrenato di potassa produssero 0, 0845 acqua e 0,591 acido carbonico. 0,567 Idem trattati con acido solforico, ed infuocato il residuo in un crogiuolino di platino, la- sciarono 0,067 di solfato neutro di potassa. 0, 5495 Idem decomposti con un eccesso di potassa, produssero 0,55 ioduro d’argento. 148 PIRIA L’iodopicrenato di potassa contiene adunque, in 100 parti: Esperienza Calcolo Carbonio 15,59 @) = 15,65 Idrogeno 1,57 1,20 Todo 54,74 55, 00 Azoto » 3,05 Ossigeno » 14,85 Potassa 9,87 10, 27. Per determinare l’acqua di cristallizzazione, riscaldai fra 100° e 110° 18,788 d’iodopicrenato di potassa ben cristallizzato in una corrente di aria secca. La perdita fu di 0,121, cioè di 6,77 per 100: il calcolo indicherebbe 6,84. Iodopicrenato di soda.— Si prepara come il sale precedente, adoperando soda invece di potassa; ovvero disciogliendo l’acido iodopicrenico in una soluzione bollente di carbonato di soda. Cristallizza facilmente in lamine rettangolari di color giallo rancio. È solubile nell’acqua e nell’alcoole, ed ha le stesse rea- zioni del sale di potassa. Contiene 4 equivalenti d’acqua di cristallizzazione, che si sviluppano alla temperatura di 100°, ovvero nel vuoto. 0, 4575 Iodopicrenato di soda diedero 0,066 acqua e 0,2665 acido carbonico. Esperienza Calcolo Carbonio 15, 89 16, 07 Idrogeno 1,60 1,54 Azoto » 5,15 Iodo » 56, 41 Ossigeno » 16, 09 Soda » 6,96 (*) Si noti che nelle analisi degl’iodopicrenati alcalini il carbonio non è in difetto, come suole accadere in casi analoghi. L'acido organico contiene il doppio di iodo che occorrerebbe alla saturazione della base alcalina; questa perciò non resta allo stato di carbonato, ma di ioduro. RICERCHE CHIMICHE SULLA SALICINA 149 D'altra parte trovai col solito metodo che 18,148 d’iodopi- erenato di soda cristallizzato perde 0,0955 d’acqua, o sia 8,14 per cento. Secondo il calcolo la perdita dovrebb’essere di 8,01. Le idee ricevute oggigiorno dai Chimici sulla natura degli acidi copulati suggeriscono considerazioni analoghe su quella degli acidi anilotico e iodopicrenico. Ammesso difatto che .il primo risulti dalla combinazione dell’acido salicilico all’acido nitrico, i quali nell’atto della loro unione abbandonano l’uno l'idrogeno, l’altro l'ossigeno necessari alla formazione di un equivalente d’acqua, la sua composizione sarà rappresentata dalla formula razionale C! Hf05+Az0*, che denota un com- posto di acido iponitrico e di acido salicilico desidrogenato. La natura dell’acido iodopicrenico potrà venire interpretata dietro lo stesso principio. Abbiamo veduto che per trasformarsi in acido iodopicrenico l'acido anilotico perde due equivalenti di carbonio e quattro di ossigeno allo stato di acido carbonico, e due d’idrogeno, acquistando invece di questi ultimi due equi- valenti d’iodo. Ora l’idrogeno ed il carbonio non possono ve- nire che dall’acido salicilico, giacchè l’acido iponitrico non ne contiene. All’incontro l’ossigeno necessario alla trasformazione del carbonio in acido carbonico potrebbe esser fornito sì dal- l’uno che dall’altro, essendo un elemento comune ad entrambi. Se ammettiamo che l'acido iponitrico è quello che somministra questi quattro equivalenti di ossigeno, de’ suoi elementi non resterebbe altro che l’azoto in combinazione colla materia orga- nica. Intanto le reazioni dell’acido iodopicrenico mostrano ad evidenza che tale supposizione sarebbe senza verun fondamento. Tanto l’acido libero quanto le sue combinazioni saline si de- compongono col riscaldamento, producendo una deflagrazione simile a quella che ha luogo in una mescolanza di nitro e di una materia organica. Questo fenomeno è un indizio certo che il corpo in quistione racchiude un ossiacido dell’azoto, e prova per conseguenza che non solo l'idrogeno ed il carbonio 150 PIRIA vengono dalla scomposizione dell’acido salicilico, ma anche l'ossigeno. Ciò posto, sottraendo dalla formula dell’acido. sali- cilico due equivalenti di carbonio, quattro di ossigeno, due d’idrogeno, e sostituendo a quest’ultimo due equivalenti di iodo, si ba una sostanza della formula C!2H"EF0, la quale rea- gendo sull’acido nitrico produce acqua e acido iodopicrenico. Per la qual cosa la formula razionale .di quest’ultimo diventa C'? HP 0+Az 0". Il corpo C'2 H5 I 0 non è conosciuto allo stato libero; ma un composto corrispondente, in cui il cloro tiene il luogo del- l’iodo, è stato scoperto e descritto da Laurent col nome di acido clorofenesico. Quello che esiste nell’acido iodopicrenico, copu- lato coll’acido nitrico, sarebbe per conseguenza l'acido iodofe- nesico, e deriverebbe dall’acido fenico C!2 H"0, per la sostitu- zione di due equivalenti d’iodo a due equivalenti d’idrogeno. La facilità con cui l'acido salicilico si trasforma in acido fenico ed in acido carbonico è un altro fatto che conferma vie- maggiormente l'esattezza della formula adottata. COMBINAZIONI DEL SALICILE. Salicile.— Ho dato questo nome ad un corpo non peran- che isolato, e per conseguenza non conosciuto allo stato libero, il quale nelle sue numerose combinazioni fa l’uflicio di corpo semplice. Unito all'idrogeno forma un composto in cui si osser- vano tutte le proprietà di un idracido, mentre coll’ossigeno dà origine ad un ossiacido molto energico. La sua composizione sarebbe rappresentata dalla formula G! H5 0*. L’idracido del salicile, cui ho dato il nome di acido idro- salicilico o d’idruro di salicile, reagendo sugli ossidi metallici ingenera dell’acqua e de’ composti binarii formati di salicile e de’ metalli contenuti negli ossidi adoperati, che è quanto dire, de’ saliciluri metallici, nello stesso modo appunto che fanno RICERCHE CHIMICHE SULLA SALICINA 151 gl’idracidi della Chimica minerale. Dunque il radicale di questa serie di composti si assomiglia moltissimo al cianogeno, il quale tuttochè composto di azoto e di carbonio, non si combina che coi corpi semplici, quasi fosse esso stesso un corpo elementare, e per le sue reazioni si avvicina al cloro ed agli altri alogeni. Per ora io propongo la teorica del salicile come una sem- plice ipotesi, atta a spiegare le numerose metamorfosi della sostanza chiamata idruro di salicile, ed a collegare sotto un sol punto di vista i prodotti che ne risultano. Se altre ipotesi più plausibili di questa venissero prodotte, ovvero se la scoperta di altri fatti mostrasse essere erronea, io sarei il primo ad abban- donarla; ma fintantochè tale teorica si presta felicemente alla spiegazione di tutta una serie di fenomeni, non sarebbe ragio- nevole il rigettarla per questo solo che è fondata sull'esistenza di un corpo problematico. Del resto, il non aver potuto isolare finora il salicile non è una ragione per riguardare la sua esi- stenza allo stato libero come impossibile, giacchè, non avendo ancora potuto procacciarmi la quantità d’idruro di salicile che si richiederebbe a tale ricerca, non ho fatto sin qui che po- chissimi tentativi, e non so che altri ne abbia fatti. Ora che conosco meglio la natura della salicina e le decomposizioni ond’è capace, spero non mi riuscirà difficile di trovare un processo | per ottenere l’idruro di salicile più semplice e più produttivo di quello che oggi si adopera; ed allora tenterò ogni mezzo per arrivare a tale intendimento. Idruro di salicile.— Questo corpo, che si può ottenere artificialmente decomponendo la salicina per mezzo di certi corpi ossidanti, ha tutte le proprietà di un olio essenziale, e fa parte di certa essenza naturale, che si cava colla semplice distil- lazione dai fiori di spirea ulmaria. Si prepara per mezzo della salicina, disciogliendo questa sostanza a caldo in una piccola quantità di acqua, ed aggiun- gendovi, allorchè è tutta disciolta, un miscuglio di acqua, acido 152 PIRIA solforico, e bicromato di potassa. Si riscalda il liquido misto in un apparato distillatorio, e si raccolgono i prodotti in un re- cipiente raffreddato all’esterno. Sulle prime si stabilisce una reazione molto viva, accompagnata da sviluppo abbondante di materie gassose, il perchè bisogna guardarsi dal versare sulla salicina tutto il miscuglio di acido solforico e bicromato di po- tassa in una sola volta. Il liquido che prima era rosso, ben presto diventa di color verde; nel recipiente si raccoglie un acqua di odore aromatico e di apparenza latticinosa, dovuta alle innumerevoli goccioline d’idruro che vi sono sospese; nel tempo stesso si sviluppa dell'acido formico e dell’ acido carbo- nico. A poco a poco le gocciole d’idruro si raccolgono in fondo dell’acqua, ove formano un liquido denso e di consistenza oleosa. Ora che abbiamo de’ dati certi sui componenti immediati della salicina, la sua trasformazione in idruro non è difficile ad intendersi. L’acido solforico decomponendo il bicromato di potassa rende libero l'acido cromico, il quale cedendo alla salicina la metà dell’ossigeno che contiene, si trasforma in se- squiossido di cromo. Quest’ ultimo, dal suo canto, si combina coll’acido solforico esuberante contenuto nel liquido, per for- mare solfato di cromo, onde il color verde che prende la soluzione. Dall’altra parte l’ ossigeno abbandonato dall’ acido cromico reagisce tanto sulla saligenina quanto sullo zucchero ond’è composta la salicina. Alla saligenina toglie due equiva- lenti d’idrogeno per formare acqua, trasformandola in idruro di salicile; e combinandosi cogli elementi dello zucchero, forma acido carbonico e acido formico. Ho già fatto notare che met- tendo la saligenina in queste stesse condizioni si ottiene idruro di salicile solamente, senza acido formico e acido carbonico; e che all’incontro, riscaldando dello zucchero con una mesco- lanza di acqua, acido solforico e bicromato di potassa, si forma acido formico ed acido carbonico, senza idruro. Conseguente- VITI ” RICERCHE CHIMICHE SULLA SALICINA i, 15 mente la salicina che contiene la saligenina e lo zucchero, trat- tata nello stesso modo, fornisce al tempo stesso i prodotti che risultano dalla decomposizione di entrambi, cioè idruro di sali- cile, acido formico ed acido carbonico. La metamorfosi della saligenina in idruro è paragonabile a quella dell’alcoole in al- deide. In ambi i casi vi ha eliminazione di due equivalenti d’idrogeno, ed è prodotta dalla stessa cagione, cioè dall’in- fluenza de’ corpi ossidanti. L’idruro di salicile bruto si presenta sotto l’aspetto di un olio di color rosso più o meno carico; il suo odore grato ed aromatico ricorda quello delle mandorle amare. Basta una sem- © plice distillazione per privarlo di ogni colore, e renderlo lim- pido come acqua; ma lasciato per qualche tempo a contatto coll’aria libera, ovvero in bocce mal chiuse, torna a divenir rosso come prima. Del resto, tranne il colore, non soffre altra altera- zione per il contatto dell’aria. Messo sulla lingua, produce quel senso di bruciore comune alla più parte degli olii essenziali. È discretamente solubile nell'acqua, solubilissimo nell’alcoole e nell’etere. La sua densità è di 1,1751 alla temperatura di 15°,5, e bolle a 196°,5 sotto la pressione di 0m,760. La soluzione acquosa ha lo stesso odore aromatico’ del- l’idruro, scolora la carta di laccamuffa senza arrossarla, e tinge in paonazzo carico i sali di sesquiossido di ferro. Tal colore si conserva inalterato fuori del contatto dell’aria; ma all’aria libera sparisce a poco a poco; gli acidi lo distruggono all’istante. Al contrario i sali di protossido di ferro non vi hanno azione alcuna, e nessun altro sale metallico la precipita, salvo il sottoacetato di piombo, che vi produce un precipitato giallo. Questo acido decompone i carbonati anche all’ordinaria temperatura, scacciandone l’acido carbonico. Messo a contatto cogli alcali caustici, vi si combina, sviluppando calore; e se la soluzione alcalina x è abbastanza concentrata, il composto si sc- para sotto forma solida. Scienze Cosmolog. T. I. 20 154 PIRIA Se in una campanina di vetro piena di mercurio e capo- volta in un bagno dello stesso metallo, si fa penetrare dell’idruro e poscia un po’ di potassio, non appena seguito il contatto fra” due corpi, si produce un abbondante sviluppo di gas idrogeno e si forma un composto solido di potassio e salicile, quello stesso che si ottiene trattando l’idruro colla potassa. L'acido idroclo- rico e tutti gli altri idracidi messi nelle stesse condizioni pro- ducono fenomeni analoghi. Il cloro ed il bromo spiegano sull’idruro di salicile un’ azione molto energica, accompagnata da innalzamento di temperatura e da sviluppo abbondante di acido idroclorico o idrobromico. L’idruro si trasforma in una massa solida e concreta, composta di cloruro o di bromuro di salicile. L’iodo si discioglie abbon- dantemente nell’idruro di salicile, ma non vi si combina, tanto che se si dibatte la soluzione bruna che ne risulta con un poco di mercurio, l’iodo si unisce al metallo e l’idruro ricomparisce con tutte le proprietà di prima. L'acido nitrico concentrato lo trasforma prima in un corpo cristallizzato giallo che ho chiamato nitrosalicide, quindi in acido carbazotico. L'acido nitrico debole lo converte in un nuovo acido cristallizzato in aghetti di color giallo, che non ho peranche analizzato. L’ammoniaca lo trasforma in salicilimide, sostanza azotata di color giallo e cristallizzata in prismi, la cui scoperta è dovuta ad Ettling. L’idruro di salicile, come accenna il suo nome, ha una tal composizione che si può riguardare come una combinazione di salicile e d’idrogeno, ed è un vero idracido a radicale compo- sto, analogo all’acido idrocianico. La formula del salicile essendo C*H50*, quella dell’idruro diviene C'*H"0‘+H, o sia C!4H°0*. Per farne l’analisi elementare ho cercato di procurarmi del- l’idruro purissimo e privo d’ogni traccia di acqua, condizione per quanto necessaria, altrettanto difficile ad ottenersi. Onde procurarsi l’idruro in tale stato, bisogna prima rettificarlo sul RICERCHE CHIMICHE SULLA SALICINA 155 cloruro di calcio fuso e poscia distillarlo rapidamente in uno stortino. L'acqua è la prima a svilupparsi; ma per avere del- l’idruro completamente anidro, bisogna cambiare il recipiente quando una metà del liquido è già distillata, e raccogliere se- paratamente l’altra. Adoperando quest’ultima per le mie ana- lisi, ho ottenuto i seguenti risultati: L II III. Idruro impiegato 0,445 0,474 0,561 Acqua ottenuta 0,195 0,209 0,165 Acido carbonico 1,117 1,185 0, 906. I quali, tradotti in centesimi, danno: Esperienza Calcolo IL I II. Carbonio 68, 45 68, 17 68, 44 68, 85 Idrogeno 4,86 4,89 5,07 4,92 Ossigeno 26,69 26, 94 26, 49 26, 25. Onde si raccoglie che l’idruro di salicile è isomero coll’ acido benzoico cristallizzato. Per sapere se allo stato di vapore questi due corpi avessero una condensazione diversa, ho voluto determinare la densità del vapore dell’idruro col metodo di Dumas. I dati di quest’espe- rienza sono registrati nel seguente quadro: Aumento di peso del pallone. . . . » . 05,421 Volume interno del pallone in centim. cub. 255 Temperatura del bagno segnata dal termome- tro a mercurio 250°, corrispondente a. 225° del termometro ad aria. Temperatura della bilancia . . /. . . 15° Pressione atmosferica. . . . . . .°. 09,764 Aria restata col vapore . . yy aggia 0,0 Densità del vapore — 4, 276. 156 PIRIA Un equivalente d’idruro ridotto allo stato aeriforme occupa adunque 4 volumi, come gli altri idracidi, e ciascun volume di vapore racchiude 7 volumi vapor di carbonio — 2, 9400 5 id » d’idrogeno — 0, 2075 do era » d’ossigeno = 1,1057 Densità calcolata = 4, 2550. Quella che Dumas e Mitscherlich trovarono, ciascuno se- paratamente, per il vapore di acido benzoico, è rappresentata esattamente dallo stesso numero. Ecco adunque due corpi diffe- rentissimi per tutte le loro reazioni, i quali presentano la stessa composizione atomica e la stessa condensazione allo stato di vapore. Vedremo tra poco che hanno ancora lo stesso equiva- lente, e che combinati con le basi producono composti isomeri. L’idruro di salicile non si combina con altri corpi, se non dopo di aver perduto alcuno de’ suoi elementi. Perciò il cloro, il bromo, gli ossidi metallici messi a contatto con questa sostanza ne separano un equivalente d’idrogeno, e nel tempo stesso un equivalente di cloro, di bromo o di metallo si unisce in sua vece agli altri elementi dell’idruro. In quest’ultimo vi ha per con- seguenza un equivalente d’idrogeno che si trova in uno stato diverso degli altri cinque, potendo venire eliminato da altri corpi; mentre 14 equivalenti di carbonio, 5 d’idrogeno e 4 di ossigeno vanno sempre uniti, fanno parte di tutti i composti di questa serie, e costituiscono ciò che ho chiamato salicile . Premesse queste nozioni, s'intende agevolmente perchè, dotati della stessa composizione, l’idruro di salicile e l’acido benzoico differiscano tanto pei loro caratteri. Basta paragonare le formule razionali di tali sostanze per accorgersi che non potrebb'essere altrimenti: HO + C! H> 03 = Acido benzoico H+C H5 0' — Idruro di salicile. È RICERCHE CHIMICHE SULLA SALICINA 157 Onde si vede che l’acido benzoico contiene dell’acqua ed un acido anidro; l’idruro, al contrario, dell’idrogeno ed un radicale metalloide: il primo è un ossiacido combinato coll’acqua, il secondo un idracido anidro. Essendo così diversi per la loro natura e pei principii immediati dei quali sono composti, sa- rebbe strano se i loro caratteri presentassero la più lontana somiglianza. ° Facendo reagire l’idruro di salicile sopra un ossido me- tallico ha luogo una doppia scomposizione, per cui si forma acqua ed un saliciluro metallico isomero col benzoato corri- spondente. Difatto: M+ CO! H° 0' — MO+C" H> 05. Ecco adunque de’ casi d’isomeria di cui possiamo intendere gli effetti e spiegare la cagione. Fra l'acido benzoico e l’idruro di salicile vi son Ie stesse relazioni che fra gli acidi idrati conside- rati come ossiacidi e gli stessi corpi riguardati come idracidi, secondo le due teoriche di Lavoisier e di Davy. L'acido ben- zoico corrisponde all’ acido solforico HO+SO?, V’idruro di sali- cile all’acido solforico H+ SOf. Saliciluro di potassio. — Questo composto si ottiene facil- mente mettendo l’idruro di salicile a contatto con una soluzione concentratissima di potassa. Rimestando la mescolanza con una bacchetta di vetro, l’idruro si concreta immediatamente in una massa salina di color giallo, che rimane senza disciogliersi nella soluzione alcalina messa in eccesso. Per depurarla si separa rapidamente dall’acqua madre, comprimendola fra carta sugante, e si discioglie nell’alcoole anidro e bollente. Col raffreddamento del liquido il composto. cristallizza in lamine quadrate di color giallo d’oro e di bellissima apparenza, che somigliano al mo- libdato di potassa. Il saliciluro di potassio è solubilissimo nell’acqua e nel- l’alcoole, e possiede reazioni alcaline. Esposto all'aria non si 158 PIRIA altera se è ben secco; ma allo stato umido comineia dopo pochi minuti a coprirsi di macchie, le quali sul principio son verdi e poi diventano nerastre. Tale alterazione si propaga rapida- mente a tutta la massa del sale, che finisce per trasformarsi in una polvere nera, la quale per l'aspetto non differisce dal nero di fumo. Tra poco renderò conto dell’esame che ho fatto di tale metamorfosi . L’acido carbonico non altera il saliciluro di potassio nè allo stato secco, nè in soluzione; ma la più parte degli altri acidi lo decompongono immediatamente, rigenerando l’idruro di sali- cile. La sua soluzione tinge in paonazzo i sali di perossido di ferro; precipita in giallo i sali di piombo, di argento, di os- sido e di sottossido di mercurio, di manganese, di barite ec. I cristalli di questo sale racchiudono una certa quantità d’acqua combinata, della quale riesce diflicile privarli senza scomporli parzialmente. Allo stato anidro contiene un equivalente di po- tassio ed uno di salicile. Secondo Ettling, disciogliendo il sali- ciluro di potassio nell’alcoole caldo, ed infondendo dell’idruro di salicile nella soluzione, sì ottiene un sale acido, che cristal- lizza col raffreddamento . Saliciluro d’ammonio. — Versando dell’ammoniaca sul- l’idruro di salicile, si forma un composto solido, cristallino, giallo e poco solubile nell’acqua. Esponendo l’idruro all’azione dell’ammoniaca gassosa, si producono gli stessi fenomeni e si forma un sale cristallizzato in aghetti di color giallo. Queste combinazioni sono fugacissime e si decompongono colla massima sollecitudine, sviluppando ammoniaca e lasciando allo stato li- bero l’idruro di salicile. Saliciluro di bario. — Questo sale si prepara per doppia scomposizione versando del cloruro di bario, o qualunque altro sale solubile di barite, in una soluzione concentrata di saliciluro di potassio. Si può ottenere ancora saturando a caldo una solu- zione di barite coll’idruro di salicile: col raffredìdamento del RICERCHE CHIMICHE SULLA SALICINA 159 liquido il saliciluro di bario si deposita in cristallini gialli aghi- formi. Contiene un equivalente di bario, uno di salicile e due di acqua di cristallizzazione. 08, 522 Saliciluro di bario trattati con acido solforico e calcinati, lasciarono 0,292 di solfato di barite. D'altra parte 0, 650 dello stesso sale diedero 2,200 d’acqua e 0,898 di acido carbonico, cioè, per 100 parti: Esperienza Calcolo Carbonio 40,55 (*) 40, 48 Idrogeno 5,41 d, 97 Ossigeno 25, 17 25,14 Bario 52, 87 dò, 01. Per conoscere se la perdita che questo sale prova col ri- scaldamento corrisponde alla quantità di acqua indicata dalla formula, ne riscaldai 18,257 in una corrente di aria secca: dopo l’esperienza il suo peso era diminuito di 0,110, il che corrisponde a 8,8 per 100 di acqua. Il calcolo darebbe 8,6. Saliciluro di rame. — Questo composto si prepara mettendo dell’idrato di rame recentemente precipitato in una soluzione acquosa d’idruro di salicile e dibattendo il miscuglio: il colore dell’idrato si cambia immediatamente in verde; e se la solu- zione d’idruro è in eccesso rispetto all’ossido, tutto l’idrato si trasforma in saliciluro di rame. Raccolto il precipitato su di un filtro, si lava con alcoole e si prosciuga a bagno maria. Così ottenuto è una polvere verde, leggiera, amorfa, di sapore me- tallico leggermente aromatico, e quasi del tutto insolubile. (*) L'acido carbonico fornito dall’analisi non dà che 57,67 di carbonio sopra 100 parti di saliciluro di bario; ma a questa quantità bisogna aggiun- gere 2,88 di carbonio che restano nel tubo combinati colla barite allo stato di carbonato. 160 PIRIA Riscaldando questo sale all’aria, si sviluppano vapori bian- chi ed abbondanti, i quali condensandosi sui corpi freddi, pro- ducono delle laminette cristalline dotate di molto splendore. Facendo la medesima esperienza in una storta piena di gas acido carbonico, si sollevano vapori della stessa natura che vanno a condensarsi nel collo della storta in un liquido oleoso, il quale raffreddandosi cristallizza. Questa sostanza sarebb’ella forse il salicile? La quantità di materia onde potevo disporre non mi ha permesso di decidere tal questione; ma inelino a credere che sia realmente così, tanto più che per residuo dell'operazione si ottiene una polvere di color rosso, la quale pare non esser altro che rame metallico. Il saliciluro di rame non racchiude acqua combinata, almeno dopo di essere stato scaldato a 100°, e si compone di un equi- valente di rame ed uno di salicile. La sua formula è per con- guenza Cu+ C! H5 0*. Coll’analisi elementare da I. 0,466 di Saliciluro di rame ottenni 0,146 d’acqua e 0,959 di acido carbonico. IL. 0,466 Idem 0,144 acqua e 0,925 acido carbonico. Colla calcinazione all’aria libera I. 0,526 di Saliciluro di rame lasciarono 0,082 di ossido per residuo. IL 0,510 Idem 0,079 ossido di rame. Esperienza Calcolo I II. Carbonio 54, 94 54, 15 55, 00 Idrogeno 5,47 3,45 d, 27 Ossigeno 21, 51 22,10 20, 98 Rame 20, 08 20, 54 20, 75. RICERCHE CHIMICHE SULLA SALICINA 161 ALTERAZIONE DEL SALICILURO DI POTASSIO ALL'ARIA UMIDA. Ho fatto precedentemente osservare, che quantevolte si lascia per un certo tempo a contatto dell’aria il saliciluro di potassio non ben prosciugato, questo composto non tarda ad alterarsi coprendosi di macchie verdastre, che poscia diventano nere e si estendono a tutta la massa salina. Se si fa tale sperienza in un tubo pieno di ossigeno sul tino a mercurio, si vede dimi- nuire il volume gassoso a seconda che l'alterazione progredisce. In ultimo tutto l’ossigeno resta assorbito, e non si sviluppa altra sostanza gassosa in sua vece. Nessun cambiamento si manifesta se si rinchiude il saliciluro di potassio in un’atmosfera priva di gas ossigeno, ovvero se tanto il sale quanto l'ossigeno son privi di umidità. Ond’è manifesto che l’acqua e l'ossigeno sono gli agenti indispensabili di tal fenomeno. Quando la trasformazione è completa, il prodotto ha l’a- spetto del nero animale. Esso si compone di due sostanze di- verse, luna delle quali si discioglie facilmente nell’acqua, dove l’altra è pressochè del tutto insolubile. Quest'ultima è di un nero perfetto, insipida, senza odore, solubilissima nell’alcoole, nell'etere e ne’ liquidi alcalini. In quest’ultimo caso le soluzioni sono precipitate dagli acidi, ed allora il corpo nero ricomparisce con tutte le sue proprietà. Questa sostanza, alla quale ho dato il nome di acido mela- mico per alludere al suo eolore, scompone i carbonati alcalini con isviluppo di acido carbonico, producendo delle soluzioni di color bruno. Riscaldata all’aria libera brucia senza fiamma, e non lascia residuo di sostanza minerale dopo la combustione. Infine per le sue proprietà non differisce gran fatto dall’acido ulmico, salvo che il suo colore è di un bel nero vellutato. Non sarebbe improbabile che quest’acido facesse parte del terriccio, e costituisse l’ultimo periodo della metamorfosi di tale sostanza. Scienze Cosmolog. T. I. 21 162 PIRIA Per determinarne la composizione ho prescelto il melanato d’argento, che ho preparato sciogliendo l’acido melanico nel- l’ammoniaca, e precipitando la soluzione con nitrato d’argento, dopo di aver separato l’ammoniaca esuberante per mezzo del- l'ebollizione. Il sale era in forma di polvere nera e pesante. Avendolo ben disseccato ad una temperatura di 120° ed in tale stato analizzato, da 05,500 ottenni 0,088 acqua e 0,500 acido carbonico; 0, 200 lasciarono, dopo la combustione, 0,096 argento metallico. Da tali dati risulta che il melanato d’argento ha per formula AgO+C!H*O?. Difatto si avrebbe da 100 parti di sale: Esperienza Calcolo Carbonio 27,27 27,27 Idrogeno 1,95 1,82 Ossigeno 22, 78 21, 82 Argento 48, 00 49,09. Per l'acido libero ebbi i seguenti risultati : 05,550 Acido melanico 0,127 acqua, 0,722 acido car- bonico. D’onde Esperienza Calcolo Carbonio 56, 25 57,78 Idrogeno 4,05 1 5,85 Ossigeno 39,72 38, 07. Per indagare in che stato di combinazione si trovavano gli altri elementi del saliciluro di potassio, presi ad esaminare il liquido per mezzo del quale avevo separato l’acido mela- nico. Esso aveva le appresso reazioni. Alle carte reagenti non si mostrava nè acido nè alcalino. Evaporato a bagno maria, lasciò un residuo salino quasi bianco e deliquescente, il quale infuocato in un crogiuolo di platino, si scomponeva, lasciando RICERCHE CHIMICHE SULLA SALICINA 165 in ultimo un residuo di carbonato di potassa. La soluzione non veniva precipitata nè dai sali di calce, nè da quelli di barite, nè dall’acetato di piombo. Il nitrato d’argento e quello di sottossido di mercurio vi cagionavano un precipitato bianco caseoso. Questi saggi indicherebbero che la sostanza in qui- stione era acetato di potassa; nondimeno, per escludere ogni dubbio, mischiai il liquido con acido solforico, e distillai il miscuglio finchè i # circa erano passati nel recipiente. Il liquido distillato avea un debole odor di aceto; lo saturai con idrato di barite, e precipitai la. base eccedente per mezzo dell’acido carbonico. Fatto bollire, filtrato, e poscia evaporato a secchezza, lasciò un residuo salino avente tutte le proprietà e le reazioni dell’acetato di barite. Versando su questo residuo dell'acido solforico concentrato, si svilupparono in abbondanza vapori di acido acetico. Da quel che precede si raccoglie adunque, che il saliciluro di potassio in presenza dell’acqua e dell’ ossigeno si trasforma in acido melanico ed in acetato di potassa. D'altra parte, poichè la quantità di acido acetico prodotto basta appunto a formare colla potassa un sale neutro, naturalmente consegue che per ciascuno equivalente di saliciluro di potassio si forma un solo equivalente di acido acetico. Ora la composizione del saliciluro di potassio è tale, che aggiungendo ai suoi elementi tre equi- valenti d'ossigeno e due di acqua, si ha esattamente quella ‘ dell'acido melanico e. dell’acetato di potassa, presi insieme, come dimostra l'equazione seguente: Salicil.° di potassio = K+C!H®0* | KC* H"0*= Acet.° di potassa 3 eq. ossigeno = 05 C'°H*05= Acido melanico (2 eq. acqua = H?0? K C“H"0 — KC“IO Acido salicilico. — Quest’acido, che nella serie de’ compo- sti del salicile costituisce l’ossido di tal radicale, si ottiene fon- 164 PIRIA dendo un miscuglio d’idruro e di potassa caustica in eccesso. Sulle prime la massa diventa di color rosso carico, ma indi a poco si scolora compiutamente, sviluppando gas idrogeno, come si osserva quando si tratta allo stesso modo l'essenza di man- dorle amare. Cessato lo sviluppo gassoso, si ritrae la sostanza dal fuoco, si discioglie in acqua, e si scompone - versandovi dell’acido idroclorico. Allora l’acido salicilico si precipita in fiocchi cristallini e leggieri, che hanno l'aspetto dell’acido ben- zoico. Per depurarlo basta disciogliere il prodotto bruto nel- l’acqua bollente e farlo nuovamente cristallizzare. Secondo Gerhardt, si può ottenere ancora l'acido salicilico, sottomet= tendo la salicina allo stesso trattamento: si sviluppa del gas idrogeno dalla massa fusa, e si forma acido salicilico ed acido ossalico, che restano combinati colla potassa allo stato salino. Versando un acido nella soluzione alcalina, si precipita l'acido salicilico, e l’acido ossalico resta nell'acqua madre. Cahours ha trovato ultimamente che l’olio essenziale della Gualtheria procumbens, conosciuto in commercio col nome di olio di Wintergreen, è un etere naturale composto di acido salicilico ed ossido di metile. Questo etere composto, che si può formare artificialmente distillando una mescolanza di spirito pirolegnoso, acido idroclorico e acido salicilico, presenta il fatto importante di contenere due corpi, i quali non erano stati peranche rinve- nuti nel regno organico, e non si conoscevano che come prodotti artificiali . L'acido salicilico è pochissimo solubile nell’acqua fredda, discretamente solubile nell’acqua bollente, solubilissimo nel- l’alcoole e nell’etere. La sua soluzione acquosa colora i sali di perossido di ferro in paonazzo, come fa l’idruro di salicile; ar- rossa vivamente la tintura di laccamuffa, e scompone i carbonati. Ha un sapore dolciastro che irrita la gola e provoca la tosse. L'acido solforico concentrato non l’altera a freddo: col riscaldamento lo incarbonisce, sviluppando acido solforoso. Ri- RICERCHE CHIMICHE SULLA SALICINA 165 scaldato coll’acido nitrico produce acido carbazotico. L'acido nitrico fumante lo trasforma in acido anilico all’ordinaria tem- peratura. Esposto all’azione del calore, prima si fonde e poscia sì volatilizza senza scomporsi: i vapori condensandosi cristalliz- “zano in lunghi aghi bianchi molto somiglianti all’acido benzoico sublimato. L'acido salicilico cristallizzato contiene un equivalente di acqua funzionante da base, la quale non può venir separata che da una base più energica. La sua formula è per conseguenza HO + C!H305: I. II. Acido salicilico 0,507 0, 550 Acqua 0, 122 0, 140 Acido carbonica 0,678 0,775, o sia, per 100 parti: Esperienza Calcolo iù Il Carbonio 60, 22 60, 58 60, 87 Idrogeno 4,4 4,44 4,95 9 , 41 Ossigeno dd, d7 59, 18 54, 78. Per verificare l'equivalente dell'acido salicilico con qual- che esperienza diretta, prescelsi il salicilato d’argento. Questo sale si presenta in polvere bianca insolubile, e si ottiene facil- mente per doppia scomposizione versando del nitrato d’argento neutro in una soluzione di salicilato d’ammoniaca. 05,420 Salicilato d’argento produssero 0,079 acqua e . 0,550 acido carbonico; 0, 507 dello stesso sale lasciarono, dopo la combustione, 0,155 di argento metallico: 166 PIRIA Esperienza Calcolo A Carbonio 54, 41 54, 29 Idrogeno 2,09 2,04 Ossigeno 20, 18 19,59 Argento 45,92 44, 08. Cloruro di salicile. — Se nell’idruro di salicile si fa passare una corrente di gas cloro, ha luogo una reazione vivissima ac- compagnata da innalzamento di temperatura e da sviluppo di acido idroclorico. Cessati tali fenomeni, il liquido raffreddandosi cristallizza in una massa bianca e concreta. Sciogliendo questo prodotto nell’alcoole caldo si ottiene col raffreddamento il cloruro di salicile cristallizzato in lamine rettangolari d'aspetto perlaceo. In tale stato non si può riguardare come purissimo; giacchè ritiene qualche traccia d’una materia oleosa di odore spiace- vole, la quale macchia la carta come fanno le sostanze grasse. Privata da quest’ultima con reiterate soluzioni e cristallizzazioni, prende una forma cristallina affatto diversa dalla precedente, abbenchè io non possa affermare che appartengano a sistemi cristallini differenti. Quando il cloruro di salicile è perfettamente puro cristallizza in lunghi prismi appartenenti al sistema ret- tangolare dritto, e bianchi come la neve. Ha un sapore forte e pungente, ed un odore sgradevole e caratteristico. Nell’acqua è pochissimo solubile; ciò non ostante la solu- zione acquosa prende una tinta violacea molto pronunziata a contatto de’ sali di sesquiossido di ferro. È solubilissima al con- trario nell’alcoole, nell’etere e nelle soluzioni degli alcali fissi. In quest’ultimo caso il liquido è di color giallo d’oro, e contiene una combinazione chimica dell’ alcali col cloruro di salicile . Quelle a base di potassa e di soda sono ancora capaci di cri- stallizzare. I composti che forma cogli altri ossidi son quasi tutti insolubili, di color giallo, e si preparano per doppia scom- RICERCHE CHIMICHE SULLA SALICINA - 167 posizione. Gli acidi decompongono le combinazioni precedenti, precipitandone il cloruro di salicile con tutte le sue proprietà. L’ammoniaca non pare combinarsi direttamente col cloruro di salicile, ma reagendo su tale sostanza dà origine ad un nuovo prodotto, del quale parlerò tra poco. Il cloruro di salicile possiede una stabilità veramente stra- ordinaria, perlochè non solo si combina colle sostanze alcaline, ma si può perfino far bollire con una soluzione concentratissima di potassa senza che si decomponga. Dopo tal trattamento, neu- tralizzando l’alcali per mezzo di un acido, si può ritrarre il cloruro di salicile con tutti i suoi caratteri abituali. Riscaldato, prima si fonde in un liquido senza colore, po- scia si volatilizza. Il suo vapore s’infiamma facilmente in contatto de’ corpi accesi, e brucia con fiamma verde sui margini. Se viene riscaldato in vasi chiusi ad una temperatura non molto elevata, si sublima facilmente condensandosi in cristalli leggieri, aghi- formi e bianchi come neve. L'acido solforico concentrato discioglie il cloruro di sali- cile in un liquido giallo, che vien precipitato dall'acqua. L’a- cido nitrico lo trasforma in acido ossalico per mezzo del riscal- damento. La sua formula è C'H50'+ Ch, la quale denota una com- binazione di un equivalente di cloro con uno di salicile. Le analisi conducono allo stesso risultato: I. Il II. Cloruro di salicile 0, 456 0,500 0, 400 Acqua 0, 155 0, 156 0, 116 Acido carbonico 0, 892 0,972 0,778 Per il cloro: Cloruro di salicile 0 Cloruro d’argento — 0,591 0, 556 168 x PIRIA 100 parti contengono adunque: Esperienza I. IL mM. Carbonio 55, 34 55, 01 55, 04 Idrogeno 3,24 d, 46 3,21 Calcolo 55,78 5,20 Cloro 22,60 22,04 22,52() 22,65 Ossigeno 20,82 21, 49 21,45 20, 59. Bromuro di salicile. — Questa sostanza somiglia moltissimo alla precedente, e si prepara con un processo analogo, trattando l’idruro di salicile col bromo. Il bromuro di salicile cristallizza in aghetti privi di colore, ha le stesse reazioni del cloruro, e com’esso forma delle com- binazioni definite colle basi. L'analisi ha dato: I. Bromuro di salicile 0,500 Acqua 0, 117 Acido carbonico 0,765 D'altronde Il. 0, 400 0, 089 0, 608 08,582 Bromuro di salicile diedero 0,559 bromuro d’argento: Esperienza I. I Carbonio 41,72 41,45 Idrogeno 2,60 2,47 Ossigeno 16, 80 17,20 Bromo 58, 88 58, 88 (*) Secondo la media delle due determinazioni. Calcolo 42,15 2,51 16, 07 59,27. e A è ur (SL RICERCHE CHIMICHE SULLA SALICINA 169 AZIONE DELL’AMMONIACA SUI COMPOSTI PRECEDENTI. Le combinazioni del salicile hanno molta tendenza ad ap- propriarsi gli elementi dell’ammoniaca sotto forma diversa da «quella in cui si trovano ne’ sali ammoniacali, dando origine per tal-modo ad alcune sostanze azotate di una composizione singo- larissima. Questi prodotti artificiali somigliano moltissimo a certe materie azotate le quali si formano nella natura vivente, e non sono state peranche ottenute coi mezzi della Chimica. Tali sono, a modo d’esempio, la caffeina, l’asparagina, l’indaco, gli alca- loidi ec. La produzione artificiale delle materie organiche azotate per mezzo dell’ammoniaca merita adunque tutta l’attenzione de’ Chimici, perciocchè ravvicina queste metamorfosi de’ labo- ratorii a quelle che si operano in seno delle piante. Ed io tengo per certo che nel formare i corpi azotati la natura si vale di mezzi analoghi a quelli adoperati dalla Chimica; essendo indubi- tato che tutto l’azoto contenuto in tali sostanze, non perviene alle piante che sotto forma di ammoniaca. Noi ignoriamo per qual ragione de’ corpi così stabili, come sono l’ammoniaca e i derivati del salicile, si decompongano re- ciprocamente con tanta facilità, per dare origine a nuovi com- posti. L’idruro, il cloruro, il bromuro di salicile, come dianzi ho fatto notare, funzionano da acidi, e però si combinano con le basi per formare de’ composti salini. L’ammoniaca, o per dir meglio l’ossido d’ammonio, che ordinariamente fa ufficio di base, si unisce come tale ai corpi mentovati per formare de’ sali; ma i composti che ne risultano hanno un'esistenza passeggiera e poco durevole. Perciò lasciati all'aria libera si decompongono, sviluppando ammoniaca; ovvero se vengono riscaldati, anche di pochi gradi, si cambia intieramente l'equilibrio delle loro molecole e si trasformano in altri prodotti in forza di una rea- zione che si stabilisce tra l'idrogeno dell’ammoniaca e l’ossi- geno della materia organica. 19 10) Scienze Cosmolog. T. I. 170 PIRIA Salicilimide. — Questa sostanza è stata scoperta ed analiz- zata da Ettling: ciò non ostante darò un cenno delle sue prin- cipali proprietà e della sua composizione, per collegarla ad altri corpi analoghi da me trovati. Per preparare la salicilimide si versa a goccia a goccia dell’ammoniaca in una soluzione alcoolica d’idruro di salicile : il liquore si trasforma in una specie di poltiglia, composta di cristallini gialli aghiformi. Riscaldando il liquido i cristalli pri- mamente depositati si disciolgono, e col raffreddamento si for- mano de’ prismi di color giallo d’oro e trasparenti, che costi- tuiscono la sostanza in esame. La salicilimide è insolubile nell’acqua sia fredda, sia bol- lente, e si scioglie pochissimo nell’alcoole. La sua proprietà più essenziale è quella di venir decomposta dagli acidi e dagli al- cali, rigenerando l’idruro di salicile e l’ammoniaca. La sua composizione è data dalla formula C'*H!8A720°, e risulta dall’azione di due equivalenti d’ammoniaca sopra tre equivalenti d’idruro di salicile, i quali combinandosi producono un equivalente di salicilimide e sei equivalenti d’acqua, come fa vedere l'equazione seguente: Corpi reagenti Prodotti della reazione 3 eq. Idruro di salicile —C‘*H!80!? C*2H!* Az?0° — Salicilimide 2 eq. Ammoniaca EMA: H° 05=6 eq. acqua C42 H25012 Az? — (G'2H24Az20!2 Clorosamide. — Qualora si fa passare una corrente di gas + ammoniaco ben secco sul cloruro di salicile ridotto in polvere, il gas viene assorbito ed il cloruro di salicile si colora in giallo. Nello stesso tempo, verso l'estremità del tubo per cui si sviluppa il gas sovrabbondante, si raccoglie dell’acqua che si condensa sulla interna sua superficie in forma di rugiada. Per esaurire l’azione è necessario ritrarre di tempo in tempo la materia dal tubo, polverizzarla e farvi passar nuovamente del gas ammoniaco. IN RICERCHE CHIMICHE SULLA SALICINA 171 Terminata l’operazione, si discioglie il prodotto giallo nell’al- coole anidro e bollente, il quale raffreddandosi abbandona la clorosamide in bei cristallini gialli ed iridati. Il prodotto bruto trattato con acqua non cede la più pic- cola traccia di sale ammoniaco, e per quanto diligentemente si esamini, non riesce scoprirvi altra sostanza, oltre la clorosami- de. L’ammoniaca adunque si decompone in contatto del cloruro di salicile, ma il suo idrogeno si combina coll’ossigeno della materia organica di preferenza che col cloro, e forma dell’ac- qua, sebbene l’affinità del cloro per l'idrogeno superi di gran lunga quella dell’ossigeno. Probabilmente si troverà la ragione di tale anomalia quando si conoscerà meglio l’intima costituzione de’ composti del salicile. La clorosamide cristallizza in pagliette di color d’oro. È insipida; insolubile nell’acqua, alla quale ciò non ostante co- munica il suo colore; solubile nell’alcoole e nell’etere, soprat- tutto a caldo. Riscaldata cogli acidi ovvero cogli alcali, appro- priandosi gli elementi dell’acqua, riproduce l’ ammoniaca ed il cloruro di salicile. L'acqua semplice, ed anche l’alcoole acquoso producono lo stesso effetto. L’alcoole anidro, al contrario, non vi esercita nessuna azione. L'analisi di questo corpo mi ha dato i seguenti numeri: Per l'idrogeno ed il carbonio 0,552 Clorosamide impiegata 0,165 Acqua ottenuta 1,080 Acido carbonico id. Per l’azoto 0, 600 Clorosamide 55 cm. cub. azoto umido a 15°,5 e 0m,751. Per il cloro 0, 600 Clorosamide 0,582 Cloruro d’argento; i quali conducono alla formula C?H!5A7?Ch=0°. 172 PIRIA Comparando i risultati delle analisi con quelli del calcolo si ha: Esperienza Calcolo Carbonio 55, 56 56, 06 Idrogeno ò, 44 d, 04 Azoto 6,59 6,25 Cloro 25, 00 25, 69 Ossigeno 11,81 10, 68. Bromosamide. — Questa sostanza si prepara con un metodo analogo a quello con cui si ottiene la clorosamide. I fenomeni che si producono durante l’azione del gas ammoniaco sul bro- muro di salicile sono identici con quelli cui dà origine il cloruro sottomesso allo stesso trattamento. Anche in questo caso si forma dell’acqua ed un prodotto giallo, il quale non differisce dalla clorosamide che per contenere bromo invece di cloro. La bromosamide trattata tanto cogli alcali quanto cogli acidi, si scompone, ed appropriandosi gli elementi dell’acqua riproduce l’ammoniaca ed il bromuro di salicile ond’ebbe ori- gine. L'acqua, l’alcoole, l'etere operano su questa sostanza come sulla clorosamide. Infine è tale la somiglianza che si nota tra le proprietà di entrambe, che quanto s'è detto dell'una si può applicare all'altra. La sua composizione è rappresentata dalla formula C*H!5Az*Br"0°. Ecco i dati delle analisi. Per l’idrogeno ed il carbonio I. 0,517 Bromosamide impiegata 0,077 Acqua ottenuta 0,499 Acido carbonico id. I. 0,500 Bromosamide 0,120 Acqua 0,787 Acido carbonico. RICERCHE CHIMICHE SULLA SALICINA 175 Per il bromo 0,800 Bromosamide 0,762 Bromuro d’argento. Per l’azoto 0,504 Bromosamide 21,5 cm. cub. gas azoto umido a 15°,5 e 00,759. Combinando tutti questi dati avremo la seguente compo- sizione in centesimi: Esperienza Calcolo I. II Carbonio 42,92 42,92 45, 61 Idrogeno 2,70 2,66 2,60 Azoto 5, 01 5, 01 4,84 Bromo 40,00 40, 00 40, 65 Ossigeno 9,57 9,41 8,92. Salicilamide. — Parlando dell’acido salicilico ho già accen- nato che, secondo le sperienze di Cahours, quest’ acido com- binato coll’ossido di metile costituisce l’olio volatile che si estrae dai fiori della Gualtheria procumbens. Lo stesso Chimico cimen- tando quest’etere composto con diversi agenti è riuscito ad ottenere de’ nuovi prodotti, trai quali la salicilamide. Quest'ultima sostanza si ottiene per l’azione lenta del- l’ammoniaca liquida sul salicilato di metile. Mescolando un vo- lume di quest’ultimo con 5 o 6 di ammoniaca, ed abbando- nando il miscuglio in una boccia chiusa, l'olio sparisce a poco a poco, e dopo alcuni giorni di contatto si trovano i due liquidi incorporati in un solo. Il miscuglio è di color giallo scuro, ed evaporato a metà del volume primitivo, produce de’ cristalli aghiformi. Tirato a secchezza lascia un residuo bruno e cristal- lino, il quale sottomesso alla distillazione, sviluppa da principio de’ vapori ammoniacali ; poscia dà un liquido, che raffreddandosi si solidifica in massa cristallina di color giallo di solfo. Discio- 174 PIRIA gliendo quest’ultima nell’etere ed abbandonando la soluzione all’evaporazione spontanea, la salicilamide cristallizza. La salicilamide depurata con ripetute cristallizzazioni è pochissimo solubile nell’acqua fredda, più solubile nell'acqua. bollente, solubilissima nell’alcoole e nell’etere. Riscaldata con precauzione si volatilizza senza scomporsi, ed arrossa la tintura di laccamuffa. L’ammoniaca opera sul salicilato di metile come sull’ ossa- lato di etile, cioè ne separa la base organica allo stato d’idrato, e reagendo sugli elementi dell’acido, produce un composto che è all’acido salicilico ciò che l’ossamide è all’acido ossalico. La formula della salicilamide è per conseguenza C*H7Az0', la quale racchiude gli elementi dell’acido salicilico anidro e del- l’ammoniaca, meno un equivalente d’idrogeno ed un equiva- lente d'ossigeno, che si sono riuniti nell’atto della reazione per formare acqua. Questa sostanza è isomera coll’acido antranilico scoperto da Fritzsche. Per meglio osservare le relazioni che possono esservi frai 4 composti enumerati, sarà utile mettere in confronto le formule che rappresentano la loro composizione, avvertendo che per la salicilamide prenderò il triplo della formula dianzi esposta, acciò si possano più facilmente notare i rapporti che vi sono frai composti di questa serie. Avremo: GC H!8 Az? 0° — Salicilimide G' H!5 Ch Az? 08 — Clorosamide C* H!5 Br3 Az? 05 — Bromosamide GC? H2! Az5 01 = Salicilamide. Onde risulta che i tre primi composti hanno la stessa co- stiluzione atomica, e solo differiscono perchè 5 equivalenti d’i- drogeno della salicilamide sono rimpiazzati da 5 equivalenti di cloro nella clorosamide e da 5 equivalenti di bromo nella bro- mosamide. Quindi fra questi tre composti sono le stesse rela- RICERCHE CHIMICHE SULLA SALICINA 175 zioni che si osservano fra l’idruro, il cloruro ed il bromuro di salicile. La salicilamide, al contrario, ha un tipo di composizione diverso, mentre per la stessa quantità di carbonio contiene più idrogeno, più azoto e più ossigeno de’ composti precedenti. Nitrosalicide. — Riscaldando dell’idruro di salicile con acido nitrico alquanto diluito, si manifesta una vivissima effer- vescenza accompagnata da sviluppo di vapori nitrosi; nel tempo stesso l’idruro diviene più denso e va in fondo del liquido acido, dove prima vi galleggiava. In tale stato raffreddandosi si assoda in una sostanza gialla e cristallina, che è la mitro- salicide bruta. Per depurarla basta disciogliere tal prodotto nell’alcoole bollente e lasciarlo cristallizzare. Allora si presenta in cristallini aghiformi, gialli e lucenti. La nitrosalicide è di color giallo d’oro, di sapore astrin- gente ed amaro, poco solubile nell'acqua, solubilissima nel- l’alcoole. In contatto delle sostanze alcaline diventa immedia- tamente di color rosso di sangue. Per la sua composizione ho trovato che 05,500 danno 0,086 acqua e 0,547 acido carbonico. 0, 286 producono 20 cent. cub. di gas azoto saturo di umidità a 8° e 0m,7755. D’onde si deduce la formula C!*H*Az0°. Esperienza Calcolo Carbonio 49,72 50, 50 Idrogeno ò, 18 3, 00 Azoto 8,65 8,58 Ossigeno 58, 47 58, 52. 176 i PIRIA CONCLUSIONI Le digressioni in cui ho dovuto necessariamente dilungar- mi, parlando de’ numerosi prodotti generati dalla salicina, non mi hanno permesso di tenere quell’ordine che sarebbe il più naturale ed il più conducente a dare una giusta idea della loro natura. Ora che posso supporre cogniti i corpi di cui ho dato la descrizione, riassumerò in poche parole le cose principali trattate in questa Memoria, mostrando che tutti i fatti onde si — compone la storia della salicina si possono ridurre ai seguenti capi principali. 1° La salicina trattata colla sinaptasia si scinde in due altri corpi, uno de’ quali è lo zucchero d’uva, identico per tutti i caratteri e per la composizione con quello che si estrae. dal- l'uva e dagli altri frutti, e che si fabbrica artificialmente sotto- ponendo l’amido all’azione degli acidi o della diastasia; l’ altro prodotto è un nuovo corpo organico cui ho dato il nome di sali- genina. Le proprietà dello zucchero essendo note a tutti, non è necessario parlarne. 2° La saligenina è una nuova sostanza cristallizzata, capace di molte metamorfosi in contatto degli agenti chimici. Il cloro la trasforma consecutivamente in clorosaligenina, bicloro- saligenina, perclorosaligenina: composti dello stesso tipo della saligenina, in cui uno, due, tre equivalenti d’idrogeno sono rim- piazzati da altrettanti equivalenti di cloro. In ultimo la converte in acido clorofenisico identico con quello che Laurant e Erdmann avevano già ottenuto per l’azione del cloro sull’indaco. Fusa colla potassa caustica, sviluppa idrogeno e si trasforma in acido salicilico. Trattata con certi corpi ossidanti, abbandona due equivalenti d’idrogeno e si converte in idruro di salicile. 5.° L’idruro di salicile è un idracido a radicale compo- sto, il quale si può ottenere artificialmente desidrogenando la RICERCHE CHIMICHE SULLA SALICINA 177 saligenina per mezzo de’ corpi ossidanti, e fa parte dell'essenza naturale che si estrae colla semplice distillazione dai fiori di ulmaria. Il cloro, il bromo, il potassio, gli ossidi metallici ne separano un equivalente d’idrogeno; ed un equivalente di cloro, di bromo, di potassio o di altro metallo subentra in sua vece per formare il cloruro, il bromuro di: salicile ed i saliciluri metallici. Riscaldato coll’idrato di potassa fondente scompone l’acqua dell’idrato: l'idrogeno si sviluppa, l'ossigeno trasforma l’idruro di salicile in acido salicilico, che è l’ossido del salicile. 4.° Trattando col cloro la salicina, lo zucchero che vi è contenuto non soffre alterazione alcuna; ma la saligenina si tra- sforma successivamente in clorosaligenina, .biclorosaligenina, perclorosaligenina. Questi prodotti incontrando allo stato na- scente lo zucchero della salicina, vi si combinano formando altrettanti composti dello stesso tipo della salicina. 5.° L’acido cromico, 0 in sua vece una mescolanza di acido solforico e bicromato di potassa, ossida i componenti della salicina, trasformando lo zucchero in acido formico ed in acido carbonico, la saligenina in idruro di salicile. I corpi ossidanti deboli, come l’acido nitrico a 20° B., producono soltanto l’ultima di queste metamorfosi, cioè trasformano la saligenina in idruro di salicile, lasciando intatto lo zucchero, dimodochè l’idruro di salicile e lo zucchero combinandosi formano la sostanza che ho descritta col nome di elicina. La sinaptasia, gli alcali e gli acidi decompongono tutti l’elicina, trasformandola in zucchero e idruro di salicile che sono i suoi componenti immediati. D'altra parte se si fa passare del cloro sull’elicina in con- tatto coll’acqua, l’idruro di salicile che questa contiene si tra- sforma in cloruro, ed il cloruro di salicile prodotto si unisce allo zucchero per formare la cloroelicina. Il bromo vi spiega un’azione analoga. La cloroelicina e la bromoelicina appartengono al tipo dell’elicina, e com’essa si decompongono in contatto della sina- ptasia, degli acidi, e degli alcali che mettono in libertà lo zuc- chero ed il cloruro o il bromuro di salicile. Scienze Cosmolog, T. I, 25 178 PIRIA Ciò premesso, i derivati dalla salicina si possono classare in 4 serie come appresso: SERIE SALIGENICA Saligenina = CHO Comprende la salige- ) Clorosaligenina | = C' H” Ch 0* nina ei derivati dello ) Biclorosaligenina = C* H° Ch? 0* stesso tipo. Perclorosaligenina = €! H® Chò 0* Saligenina = CH? O‘ Zucchero = (12 Hi (0 Salicina — C® HQ! Clorosaligenina . = C* H” Ch 0* Zucchero = (CH, 0% Clorosalicina = .C? H!7 Ch 0!4 SERIE GLUCOSALIGENICA Comprende le combina- zioni dello zucchero d'uva, 0 glucosa, coi corpi della serie pre- cedente. Biclorosaligenina = €" H° Ch? 0* Zucchero — (2 HW (OXU Biclorosalicina = (C? H! Ch? 0! Perclorosaligenina = €! H5 Chî 0* Zucchero = C12H! 01° Perclorosalicina = = (€? H!5 Ch5 018 Salicile = C!H5 0* Idruro di salicile = (1 H5 0*+H Cloruro di salicile = C!* H50*+ Ch i TOI = 14 [J5 ()A pori rada Bromuro di salicile — C'* H* 0*+ Br FE n P_i —- TT —_ __t__ sn __ Comprende le combina- | Acido salicilico = C*H30*-PO zioni del salicile. coi $ Saliciluri metallici = € H® 0*+M corpi semplici, eilo- | Nitrosalicide — C4H50‘+Az 0‘ por dertuoli, Salicilimide — CH! Az? 06 Clorosamide = (C* H!5 Ch3 Az? 08 Bromosamide = C* H!5 Br5 Az? 05 Salicilamide = C4 H50*+Az H? RICERCHE CHIMICHE SULLA SALICINA 179 Idruro di salicile = (C* H° 05 Zucchero C12 Hi° 010 Elicina = (26 Hs6 Q14 Il SERIE GLUCOSALICILICA È VONO n Comprende le combina- } Cloruro di salicile = C' H* Ch 0* zioni dello zucchero | Zucchero RIONE con alcuni composti | Cloroelicina = (2 H!5 Ch 015 della serie precedente. Bromuro di salicile = (1! H5 Br 04 i Zucchero C12 Ho 010 Bromoelicina = (C? H! Br 014 I 6.° Finalmente la salicina sottoposta all’azione simul- tanea dell'acido nitrico diluito e dell’acido iponitrico genera un nuovo acido isomero coll’acido indigotico, che ho chiamato acido anilotico. Quest'ultimo ha per formula HO +C!H*Az0?, e deriva dalla reazione dell’acido azotico sull’acido salicilico. Facendo reagire sull’ acido anilotico l’ iodo in presenza della potassa si ottiene un nuovo prodotto, cioè l'acido iodo- picrenico, la composizione del quale corrisponde alla formula HO+C'*H?] Az. - . rad a LUI AMORE MROZONIA sa TÀ si preti: PI ma $ I, n h i P 4 : il ; i * F T* sci i 4 ( ICI y 3 DI “© 42 I ra }}1 o) i . - \ 4 } PI i { DN vida . I mi TO ' 11 È Ù ‘ si ‘ URTI RT] 4 Li} , x * 4 . Ò . ” } : Ì } ì dl: i \'atlibaprage d b ifivia. no). I e-nltab ‘* LU isji: sas OYola. AI li obioa ) svisha . : "i a 109, eifel sr AG 1' SOA ‘ SULLE PROPRIETA DEGLI SPETTRI FORMATI DAI RETICOLI, ED ANALISI DELLA LUCE CHE SOMMINISTRANO. TRUORLA DI O. F. MOSSOTTI EL Questa Memoria si compone di due parti. La prima parte, che è come un'introduzione, contiene l'annuncio dell’analisi mate- matica dello spettro solare, quale è stato letto alla Sezione di Fisica Matematica della V.° Riunione Italiana dei cultori delle scienze naturali, tenuta in Lucca. La seconda parte presenta i processi di calcolo instituiti in seguito per dedurre con più precisione dagli esperimenti di Fraunhofer i risultamenti che erano stati semplicemente enunciati dietro un primo saggio di ricerche. PARTE I. INTRODUZIONE. 1. I Fisici che hanno esaminato lo spettro solare, per rico- noscere le estensioni dei colori in esso contenuti, le intensità della luce delle diverse parti, e le lunghezze degli accessi od ondulazioni corrispondenti, si sono generalmente serviti di spettri formati colla rifrazione. Ma l’immagine dello spettro 182 MOSSOTTI che si ottiene colla rifrazione è trasfigurata; le parti più refran- gibili sono allargate, le meno refrangibili sono raccorciate, e la costituzione delle diverse parti componenti un raggio di luce naturale riesce difficile a riconoscersi per questo mezzo. Newton, che il primo s’accinse ad assegnare le lunghezze delle parti spettanti ai sette colori più discernibili dello spettro, trovò un’analogia fra le lunghezze di queste parti e le differenze dei numeri che danno i valori delle note di un’ottava di un tono minore della musica. Questa analogia era puramente acci- dentale; le lunghezze rispettive delle parti diversamente colo- rate nello spettro prodotto colla rifrazione sono variabili fra loro secondo la sostanza del corpo rifrangente che s’impiega. Fu appunto dall’aver supposto che gli spettri formati dalle diverse sostanze fossero tutti simili fra loro, che Newton cadde nella falsa conclusione che l’acromatismo nei telescopii diottrici era impossibile, ciò che l’esperienza ha smentito dipoi. Newton stesso seguendo la detta analogia formò un circolo cromatico il quale sarebbe come destinato a rappresentare l’im- magine dello spettro, indipendentemente dalle condensazioni 0 rarefazioni che la rifrazione produce nelle varie parti dello spettro prismatico. Questo circolo dà pel colore risultante dalla mescolanza o-sovrapposizione di più colori componenti dei risul- tamenti prossimi al vero, ma è costrutto sopra un fondamento ipotetico. Finalmente Newton si servì della stessa analogia per asse- .gnare una legge fra i luoghi che occupano i diversi colori nello spettro prismatico e la lunghezza degli accessi corrispondenti. Questa legge conduce ad una notevole relazione, ravvisata la prima volta da Blanc (*), ed è che la lunghezza dell’accesso del raggio di un colore qualunque è proporzionale alla potenza di 3 (*) Vedasi BloT Précis élementaire de Physique expérimentale; troi- sième édition, Tome II. pag. 454. SULLE PROPRIETA DEGLI SPETTRI FORMATI DAI RETICOLI 185 il cui esponente si ottiene dividendo per l’intera circonferenza due terzi dell’arco, nell’estremità del quale verrebbe a dipin- gersi lo stesso colore sul cerchio cromatico di Newton. I valori che si assumono secondo questa relazione per le lunghezze degli accessi o delle ondulazioni delle varie parti dello spettro si scosta- no verso gli estremi del medesimo sensibilmente dalla realtà (*). 2. Il modo più idoneo di riconoscere la composizione della luce naturale, e le relazioni che esistono fra le lunghezze delle ondulazioni, nel vòto o nell’aria, dei varii raggi di cui è compo- sta, ed i luoghi che questi raggi occupano nello spettro, è quello d’impiegare gli spettri che si ottengono per mezzo dei reticoli, quali furono osservati la prima volta da Fraunhofer. In questi spettri il solo elemento che concorre alla loro formazione è la lunghezza delle diverse ondulazioni dei raggi componenti la luce naturale; il fenomeno si presenta in essi nel suo massimo grado di semplicità, senza le alterazioni che vi produce il passaggio dei raggi per un mezzo rifrangente. Si ha perciò nello spettro formato da un reticolo uno spettro normale, al quale riferire | gli altri spettri variabili prodotti con altri modi. Seguendo quest'idea ho dedotto dalle osservazioni che Fraunhofer ha fatto con un grado mirabile di precisione le lunghezze delle diverse parti dello spettro reticolare corrispon- denti agli intervalli delle sette linee nere principali, delle quali lo stesso Fraunhofer ha dato a conoscere l’esistenza. Queste linee somministrano altrettanti luoghi di confronto onde rife- | rire fra loro le diverse parti degli spettri, e perciò sono state designate particolarmente colle lettere B, C, D, E, F, G, H, e dinotate col nome di strie principali. La figura II offre un diagramma di uno spettro di questa specie. Se si confronta (*) Non ostante queste critiche osservazioni è notevole come Newton, al produrre la prima analisi dello spettro, abbia saputo connettere con leggi semplici ed eleganti, benchè approssimative, i varii elementi che concorrono alla sua formazione. Vedasi la Nota alla fine. 184 MOSSOTTI questa figura colla figura I, che rappresenta il diagramma di un altro spettro ottenuto dallo stesso Fraunhofer colla rifrazione per mezzo di un prisma di Flint, n.° 15 (#), si rileva quanto grande è la differenza delle estensioni delle parti rispettive, e quindi quanto lo spettro di rifrazione è sfigurato. Gli intervalli fra le strie principali sono espressi nello spettro col reticolo rispettivamente dai numeri : BC CD DE EF FG GH 51 66 61 41 54 DÒ ed in quello colla rifrazione dai numeri 15 DÒ 46 40 79 71. 5. Una singolare proprietà distingue lo spettro del reti- colo. Fraunhofer ha determinato nello spettro formato colla rifrazione, che, per essere più grande e luminoso offre maggiore facilità alle osservazioni, le intensità di luce delle parti pros- sime alle strie principali (**). La curva che soprastà alla figura I è tale che le sue ordinate dinotano le intensità di luce dei punti sottoposti corrispondenti dello spettro. La linea punteggiata g, che passa fra D ed E, è così situata, che divide lo spettro in due parti nelle quali le quantità di luce ‘dei differenti intervalli formano due somme eguali, o sia la linea 4 è così situata, che divide per metà la luce totale dello spettro. Se si conduce fra D ed E nello spettro del reticolo una linea m, posta in modo che segni il luogo corrispondente al raggio 4, questa linea divide per metà la lunghezza totale dello spettro. Tale semplicità di distribuzione della quantità di luce nello spettro reticolare è un carattere distintivo per uno spettro normale. Nello spettro prismatico la massima intensità di luce cor- rispondente all’ordinata massima della curva cade in m circa (*) Memoria dell’ Accademia delle Scienze di Monaco per l’anno 1825. (*") Annalen de Physik di Poggendorf, anno 1817. Memorie dell’ Ac- cademia delle Scienze di Monaco per gli anni 1814—1815. Saggio sulla determinazione dei poteri rifrangenti e dispersivi. n SULLE PROPRIETA DEGLI SPETTRI FORMATI DAI RETICOLI 185 a ;, dell'intervallo DE procedendo da D verso E, e quindi giace dal lato della linea 4 verso l'estremità meno refrangibile dello spettro. Se si riflette che andando verso questo lato le parti dello spettro prismatico si contraggono sempre più, non è difficile il prevedere che il massimo di luce, il quale nello spettro normale si trova sulla linea 4, può venire trasportato nello spettro prismatico dal lato D, ogni qual volta le ordinate delle curve delle intensità seguano una legge di decrismento, minore di quella colla quale la rifrazione va condensando i raggi di luce dallo stesso lato. Succede infatti che l’intensità della luce nello spettro normale è massima nel mezzo, e decre- scente simmetricamente da una parte e dall'altra, talchè la legge della sua variazione viene ad essere rappresentata dalla curva sovrapposta, nella figura II, simmetrica intorno alla li- nea .., che ne diventa un’asse. 4. La questione assai importante, trattata dal Newton, di determinare una relazione fra le lunghezze degli accessi o delle ondulazioni, ed il colore corrispondente si trova risoluta per se stessa dalla formazione dello spettro col reticolo. Infatti, pel modo con cui questo spettro si genera, le diverse parti dello spettro reticolare crescono sensibilmente in proporzione col crescere delle lunghezze delle ondulazioni dei raggi corri- spondenti. Se immaginiamo che la lunghezza dello spettro reti- colare sia divisa in 360 parti, come la circonferenza di un circolo, e dinotiamo questa lunghezza con 2 x, si trova coi dati delle osservazioni che la lunghezza ?, delle ondulazioni del raggio corrispondente al punto situato all'estremità dell'arco gp, contato dal mezzo dello spettro, è data da (1) 2,= 553,5 + 184,52 In questa formola l’arco o la distanza g deve essere contata positivamente andando verso l’estremità del color rosso dello spettro e negativamente andando verso l’estremità violetta, e Scienze Cosmolog. T. I. 24 186 MOSSOTTI l’unità lineare di misura delle ondulazioni è il milionesimo di millimetro . La formula che risulta dalla relazione scoperta da Blanc, a norma dell’ipotesi di Newton, è 9 es i\V 375 a 511,6 (S) ra ma essa comincia ad abberrare sensibilmente nel dare i valori della lunghezza delle ondulazioni verso le estremità dello spettro. Se nella formola (1) si fa p=- 7, e poi g=x si trova »__— 569 ) i '758 Questi valori corrispondono all'estremità violetta e rossa dello spettro, e come il secondo valore è doppio del primo, si deduce che le ondulazioni del raggio rosso estremo sono doppie di quelle del raggio violetto estremo; quando questi estremi siano osservati, come ha fatto Fraunhofer, con un occhio armato di cannocchiale, e si arresti ai punti dove il colore è ancora ben discernevole. Facendo p=o nella stessa formola (1), si ha x — 555,5, & cioè nel mezzo dello spettro le ondulazioni hanno la lunghezza di 553,5 milionesimi di millimetro. Ora abbiamo notato che nel mezzo corrisponde la massima intensità della luce; dunque, se si ammette che un’ egual quantità di raggi esista in ogni parte dello spettro, diremo che quelli le cui ondulazioni hanno la lunghezza di 555, 5 milionesimi di millimetro sono li più atti ad eccitare in noi la sensazione della luce, che questa facoltà di produrre l’effetto fisiologico della visione va diminuendo tanto col crescere che col calare della lunghezza delle ondula- zioni, e si accosta a divenire sensibilmente nulla quando le ondulazioni sono aumentate o diminuite del terzo della lun- ghezza di quelle alle quali corrisponde l’effetto massimo. SULLE PROPRIETA DEGLI SPETTRI FORMATI DAI RETICOLI 187 5. Dalla semplicità di questi risultamenti conchiuderemo dunque che, per riconoscere la distribuzione e costituzione dei raggi componenti la luce solare, conviene servirsi dello spettro formato da un reticolo, che somministra propriamente uno spettro normale; la luce si trova in questo spettro simmetrica- mente distribuita intorno al suo mezzo, e la relazione fra le lunghezze delle ondulazioni dei raggi e le distanze dal centro alle quali appariscono i rispettivi loro colori nello spettro, è data direttamente dalle esperienze per mezzo di una legge sem- plicissima. Le esposte proprietà degli spettri reticolari, e le con- clusioni che ne ho dedotto, che somministrano dei nuovi dati numerici per le questioni ottiche, mi sono sembrate abba- stanza importanti per darne parte a questa rispettabile e dotta Sezione. 188 MOSSOTTI PARTE IL . ANALISI. In questa seconda parte sono contenute le dimostrazioni matematiche delle deduzioni accennate nella prima parte. 6. 1. Valore dell’indice di rifrazione del prisma di Fraunhofer, segnato n.° 15 (*), in funzione della lunghezza delle ondulazioni. 1. Fraunhofer osservando coll’ occhio armato del cannoc- chiale di un teodolite lo spettro solare formato da un prisma di Flint il cui angolo rifrangente era di 26.° 24'. 50", quando il prisma stava nella situazione della minima deviazione dello spettro, trovò che la linea principale D era rifratta di un angolo di 17°. 27'. 8", e misurando gli angoli compresi fra la stria D e le altre strie principali B, C, E, F, G, H, Fig. I, invenne BD CD DE DF DG DH 12), 20," 2; —9. 40,2; 11°. 504, 0; 22. 254,9; 42! 47,8; 61' 51,8. Lo stesso Fraunhofer da una serie d’osservazioni fatte sugli spettri solari prodotti dai reticoli, ed osservati pure col sussidio del cannocchiale di un teodolite, dedusse per le lunghezze delle ondulazioni dei raggi contigui alle dette linee principali i se- guenti valori medii espressi in milionesimi di millimetro: B C D E F G H 688; 656; . 589; 526; 484; 429; 595 (). Secondo questi valori un reticolo in cui la somma di un inter- (*) Annalen de Physik di Poggendorf, anno 1817. Memoria dell’ Ac- cademia di Monaco per l’anno 1814—1815. (**) Memorie dell’Accademia di Monaco per l’anno 1825. SULLE PROPRIETA DEGLI SPETTRI FORMATI DAI RETICOLI 189 vallo opaco e trasparente fosse all’incirca di 0,088, che tiene il medio fra quelli impiegati da Fraunhofer, presenterebbe uno spettro nel quale le distanze angolari fra la linea D e le altre B, GC, E, F, G, H misurate nel fuoco del cannocchiale del teodolite sarebbero espresse da BD DC DE DF DG DH -41.15"; -252"; 245"; 4.21"; 7.5"; 8.56". In questo spettro, fig. II, che chiameremo normale, gli intervalli fra le strie principali variano proporzionalmente alle lunghezze delle ondulazioni rispettive dei raggi contigui, e confrontandolo con quello dello spettro prismatico precedente si vede che verso l'estremità rossa gli intervalli BD, DC ec. vanno in questo, comparativamente a quelli del primo, diminuendo d’estensione, mentre verso l’altra estremità violetta gli intervalli DE, DF ec. vanno comparativamente estendendosi. Questa disparità di estensioni dipende da che i raggi corrispondenti alle ondulazioni meno lunghe si rifrangono in una ragione inversa maggiore della semplice ragione con cui diminuiscono le lunghezze delle on- dulazioni. 2. Nella comunicazione sulla dispersione della luce fatta alla III.*® Riunione scientifica tenuta in Firenze ho dato la for- mola che esprime l’indice di rifrazione in funzione delle lun- ghezze. delle ondulazioni (*). Estendendo la formola citata collo spingere l’approssimazione sino alle quarte potenze delle dette lunghezze essa può venire rappresentata dalla funzione seguente: à A LA 2 do 4 (1) y =i+h(5) sl ki) In questa formola v dinota la velocità di propagazione della luce nel mezzo rifrangente; quella nel vòto, o nell’aria, essendo (*) Vedansi gli Atti della III.® Riunione dei Scienziati Italiani, pag. 223, ed il n.° 4 del Giornale Toscano di Scienze mediche, fisiche e naturali, ove trovasi esposta la formola citata. 190 MOSSOTTI presa per unità; quindi è corrisponde al valore dell'indice di rifrazione: X, dinota la lunghezza dell’ondulazione nell’aria del raggio di un dato colore; e % quella del raggio di un colore qualunque: è, è, 4 rappresentano tre coefficienti costanti dipen- denti dalla natura del mezzo, e che possono essere determi- nati sperimentalmente per ciascuna sostanza rifrangente. 5. Onde eseguire questa determinazione nel nostro caso ricorreremo ad una formola nota della quale fece uso lo stesso . Fraunhofer. Dinotando con 9 = 26°. 24'. 50" l'angolo rifran- gente del prisma, con y= 17°. 21'. 8." l'angolo di rifrazione del raggio del colore contiguo alla linea D, e con x l'intervallo angolare compreso sullo spettro fra la linea D e la linea che passa pel colore corrispondente alla lunghezza 2, si ha RE) x sin 3 p È Paragonando quindi questo valore dell’indice di rifrazione col precedente otterremo l'equazione ti = 1 sin j 7 Il valore del primo membro potendosi calcolare per ciascuna delle strie principali col mezzo delle quantità date preceden- temente, sostituendo nel secondo membro per 2, e 7 i corri- spondenti valori delle lunghezze delle ondulazioni, già pure sopra riferiti, si avranno altrettante equazioni dalle quali po- tremo dedurre i valori delle costanti è, f, # impiegando, se si vuole, il metodo dei minimi quadrati. Per conseguire più comodamente questa determinazione giova di far subire all’equazione precedente una trasformazione. Primieramente, come facendo in essa 2=), dev'essere x=0, sì avrà G siG49) dn po = i+h+k; SULLE PROPRIETA DEGLI SPETTRI FORMATI DAI RETICOLI 191 eliminando ? col mezzo di quest’espressione, e sostituendo alla differenza dei seni il doppio del prodotto del coseno della semisomma nel seno della semidifferenza si ottiene COR (RIN LAY : SI or clp pri Applicando questa formola alla determinazione delle due co- stanti X e %, si porrà nella medesima rispettivamente ai raggi contigui alle sei linee B, C, D, E, F, G, per DB DC DE DF DG DH =-1220",2; =-9140,2; =11'.50 0; =22' 2519; =42' 475,8; =61'.5n,8; e corrispondentemente = 688; = 656; = 526; = 484; = 488; = 995; essendo ), — 589. Eseguendo i calcoli ne risulteranno le sei equazioni i 0, 027291 — h + 1,7529 k; 0, 027650 — h + 1,8061 k; 0, 027519 — h + 2, 2559 k; 0, 027494 — h + 2,4809 k; 0, 028527 — h + 2, 8850 k; 0, 028905 — h + 5, 2465 k. Dalle quali col metodo dei minimi quadrati si dedurrà h= 0,025555, k = 0,000975; e poi dall’equazione (3) si avrà i—1,608506. Con questi valori numerici l'indice di rifrazione del cristallo di Flint, di cui era fatto il prisma nelle esperienze di Fraunhofer, viene espresso, in funzione delle lunghezze delle ondulazioni nel vòto dei raggi di vario colore, da Î + — 1,608506 + 0,025555 (‘*) +0,000975 (**) Vv 4 Per verificare sino a qual grado d’esattezza questa formola può rappresentare le osservazioni ho calcolato colla equazione (1) i 192 MOSSOTTI valori di x pei sei intervalli compresi fra le strie principali dello spettro, ed ho ottenuto BD DC DE DF DC DH —12'. 19" 6; —8'.57,2; 11'. 56", 0; 22 481,8; 42.55", 6; 60'. 435,1. Il confronto di questi valori con quelli sopra citati, dati dal- l'osservazione, mostra che vi è un sufficente accordo. S. IL Delle intensità rispettive di luce nelle diverse parti dello spettro prismatico, e reticolare. 4. Lo spettro prismatico essendo più esteso, ed i suoi colori più vivi e distinti, Fraunhofer ha potuto misurare approssima tivamente le intensità di luce delle parti dello spettro nelle vicinanze delle strie principali paragonandole a quelle di una lampada trasportata a diverse distanze. I risultamenti delle osservazioni di Fraunhofer sono consegnati nella seguente ta- voletta: VALORI DELLA INTENSITA DELLA LUCE PRESSO NUMERO DELLE OSSERVAZIONI 0,084 |0,010|0,0011 II. Osservazione 0,140 | 0,029 |0,0072 IMI. Osservazione 0,250 | 0,055 | 0,0090 IV. Osservazione > 0,190 0,052 | 0,0050 Medio 5% | d 0, 168 | 0,051 |0,0056 L'intensità massima espressa dall'unità cadeva fra D ed E; per la natura stessa del massimo era diflicile a definirsi il luogo SULLE PROPRIETA DEGLI SPETTRI FORMATI DAI RETICOLI 195 ove cadeva precisamente: Fraunhofer lo giudicò fra + ed 1 del- l’intervallo DE, procedendo da D verso E. Le ordinate della curva disegnata sopra l’immagine dello spettro prismatico nella figura I rappresentano le medie intensità della luce osservate nei punti del medesimo che stanno al di- sotto, corrispondenti alle stesse ascisse. Dall’ispezione di questa curva si vede che le intensità di luce verso la parte dell’estremità rossa riescono comparativamente maggiori che verso la parte dell’estremità violetta, il che può dipendere da ciò che, l'indice, di rifrazione delle ondulazioni più corte variando più rapida- mente che nella ragione inversa delle lunghezze, i raggi sono rispettivamente più condensati nell’estremità rossa e più rare- fatti nell’estremità violetta. La ragione colla quale varia la densità dei raggi nelle parti dello spettro prismatico rispetti- vamente a quella colla quale sono distribuiti nelle parti corri- spondenti 5a spettro reticolare è proporzionale al coefficiente fiterenziole da Di : talchè chiamando G la intensità di luce del punto x dello spettro prismatico, T quella corrispondente del punto % nello spettro reticolare, dovrà essere dx (4) Paem di G, n essendo un coefficiente costante. Il valore del coefficiente differenziale a deve dedursi dall’equazione (1), la quale differenziata dà dx : OM -;(3 o) [1+2k($ a voi e quindi sarà 4n /2,\5( I \} sini y a e one Et n: Sostituendo per G i valori medii surriferiti, e per ),, ,x,9 € d Scienze Cosmolog. T. I. 25 194 MOSSOTTI quelli dati nel paragrafo precedente si trovano pei punti conti- gui alle strie principali i seguenti valori di j. T B C D E F G H 9054; 50851; 294575; 515787; 145951; 59516; 9471. I quali numeri danno i rapporti dell’intensità della luce delle parti dello spettro reticolare prossime ai punti suddetti. $. DIL Della curva che rappresenta l’intensità della luce nelle varie parti dello spettro reticolare. 5. Le intensità della luce delle varie parti dello spettro, essendo percepite per mezzo della sensazione, devono dipen- dere e dalla quantità di raggi radunati in quella parte, e dalla suscettibilità della retina ad essere affetta da quella specie particolare di raggi che ivi concorrono. La legge con cui variano queste intensità, come dipendente da elementi tanto fisici che fisiologici, è troppo complicata per essere dedotta a priori nello stato attuale della nostra scienza. Ma avendo noi già determi- nati i rapporti che hanno fra di loro le intensità della luce nelle varie parti dello spettro reticolare, potremo ricercare @ posteriori una formula che le leghi fra laro con una legge di continuità, e ne manifesti più chiaramente le loro proprietà. Nell’investigare una formola che col minor numero di costanti rappresenti le intensità osservate conviene procedere con tentativi diretti dall'esame che i valori dati da interpollarsi suggeriscono. L’ispezione dei valori di j T, dati precedente- mente, ci fa vedere che essi sono decrescenti dal mezzo verso gli estremi, e con una gradazione che indicano ad un dipresso un’egual legge di decrescimento da una parte e dall’altra. Vo- lendo quindi adottare una curva simmetrica, per rappresentare colle sue ordinate le intensità della luce nello spettro reticolare, SULLE PROPRIETA DEGLI SPETTRI FORMATI DAI RETICOLI — 195 ho scelto per asse della curva la linea che passa pei punti dove la lunghezza delle ondulazioni è 2, = 555,5; ed ho as- sunto la seguente formola sog gita dash ©) cana ol \ i VE) 105 dI CT ) nella quale ho messo per l’omogeneità dei termini, IA 1-T Do dela o ari e ed ho supposto che il massimo valore di T, che è quello che corrisponde all'asse della curva, sia preso per l’unità. Onde la formola assunta possa rappresentare le intensità dello spettro reticolare, dev'essere tale da soddisfare alle due condizioni. 1.° Calcolando colla medesima il massimo d’intensità di luce nello spettro prismatico, questa deve cadere ad una di- stanza compresa fra i ed ! dello spazio DE, andando da D verso E. ‘2.° Le intensità della luce calcolate, corrispondenti ai luoghi contigui alle linee B, C, D, E, F, G, H nello spettro prismatico, devono coincidere prossimamente con quelle osser- vate, delle quali abbiamo dato il valore al principio del n.° 4. 6. Onde riconoscere se la detta formola (6) gode delle enunciate proprietà, comincio ad osservare che i valori delle intensità G, devono in generale essere dedotti da quelli di T° per mezzo dell’equazione su riferita (4) IR = ue . GC Per soddisfare alla prima condizione differenzio quest’equazio- ne, e pongo Bi = o nell'equazione differenziale, affinchè il valore di 2 che la verifica appartenga al massimo di G. Con ciò 196 MOSSOTTI ottengo dr d?x di e quindi eliminando n G colla precedente, d°x LV ia i ori di ed osservando che l’equazione (8) ci dà, e ie dei i Lo den STI si avrà introducendo la x in luogo della T, d°x dY da nia 14% TI iii di x 1 valori di Di e ces : fue da sostituirsi in questa equazione devono esser tratti colla ee delle formole (6), (5), le quali danno er Mot (,__3%@-3%) 128-427) e °) dx .32. -i “A ) da 144% e (1440)05) ro n poca bizze MIELE EF omaver 2 Lo 2 \P di dara h494 (È) ì adi di e con questi valori l'equazione precedente prenderà la forma (9) #= DIE d: H (1+%) li 2 2 3X (2-3 %) LO (3-X+2%X) 433% ri aio 32 5 | Za sa 1+4X e 1+4X e 1 lire SULLE PROPRIETA DEGLI SPETTRI FORMATI DAI RETICOLI 197 nelle quali abbiamo per brevità sostituito H in luogo delle quantità che sono comprese fra le parentesi nel secondo mem- dx dI? Se si supponesse eliminato y fra quest’ultima equazione e la (6), e sostituite in luogo di z e x le loro espressioni (7), (2) in funzione di 2, l'equazione risultante non conterrebbe d’incognita che 2, e sarebbe atta a darci il valore che ha que- sta quantità nel luogo in cui l’intensità di luce dello spettro prismatico dovrebbe divenir massima. Indicheremo questo va- lore con 2m. L'eliminazione e risoluzione di cui parliamo sarebbe im- praticabile quando dovesse effettuarsi con tutta la generalità. Ma si può osservare che il massimo di G deve scostarsi poco da quello di T, e che i valori di PT prossimi al massimo variano assai poco in generale, e meno ancora nel nostro caso partico- lare stante la forma dell'equazione assunta. Così il valore di X nella formola (6) dovendo essere assai piccolo, e l’esponenziale bro dell'espressione di e % divenendo un numero piccolissimo e trascurabile, le equa- zioni (6), (10) si potranno ridurre alla forma 4 Zon 1X_X+% md Rip i ya ge ) m e) à, = | j Per risolvere queste due equazioni ho preparato una piccola ta- 2_-., voletta di cinque termini, che dava i valori di /H -®_£; pei ‘o valori presupposti di % prossimi a quelli di %_,- Quindi, assunto per % un valor prossimo al vero, ho calcolato colla prima delle due equazioni quello di z', ed in seguito quello di z, dal quale 0 DI ho poi dedotto — ),, +33 % Con questo valore di ). entrando 198 MOSSOTTI 2 _-4 nella tavoletta su citata, ho estratto quello di 7, y5I È e 0 colla seconda equazione ho ottenuto un secondo valore di 2°. Quando questo valore di z* venne a coincidere con quello già ottenuto dalla prima equazione ho arguito che il valore sup- posto di % era il vero. Con questo metodo ho conseguito pel massimo d’intensità di luce %m = 002255; log ai — 7, 84258; ?m-2, 16,96. Quindi, essendo 2, — 555, 5, si avrà Im = 570,5. A questo valore di 2, corrisponde, giusta la formola (1), x= 5. 4"— 184"; tal che essendo l'intervallo DE = 11', 50" = 710", è perciò : DE = 177,5, : DE = 256,7, si vede che il luogo trovato pel massimo dell'intensità della luce nello spettro prismatico va a cadere fra i ed ! dell'intervallo DE, come esige l’esperienza. 7. Col valore ottenuto di %,, dalla formola (8) si ha Ur 00945: Ora facendo G = 1 nell'equazione (4), essa dovrà essere verifi- cata da questo valore di T,n, bisognerà dunque che sia Um Dea, dx dm e facendo il calcolo si trova log n — 4, 28591. Questo ‘valore di n è necessario per passare dai valori di T rela- lativi allo spettro reticolare a quelli di G corrispondenti allo spettro prismatico, volendo rappresentare con l’unità l'intensità massima della luce tanto nell’uno che nell’altro spettro (*). (*) Quando si volesse adempire alla condizione che i due spettri contenessero la stessa quantità di luce, bisognerebbe determinare n colla ‘Td Lig è 5 c DA 3 formola n = GE , @ quindi ridurre i valori delle intensità G ottenuti dalle nostre formole col dividerli pel dedotto valore di n; ma in tal caso l'intensità massima G non sarebbe più espressa dall'unità. Cluster rente ein “par Rie, SULLE PROPRIETA DEGLI SPETTRI FORMATI DAI RETICOLL. 199 8. Per verificare se la formola assunta (6) soddisfa anche alla seconda condizione di rappresentar bene le intensità di luce osservate nei diversi punti dello spettro prismatico prossimi alle strie principali conviene dedurre dalla stessa formola i valori di T corrispondenti ai valori di % appartenenti alle dette strie, per poi dedurre da questi valori, colla formola (4), quelli di G. La figura II rappresenta la curva data dall’equazione (6), supponendo che in questa equazione si sia introdotto in luogo di X la sua espressione (8), e che I° dinoti l’ordinata, e z l’ascissa contata a partire dall’asse «, e misurata in parti della semicirconferenza. Prendendo da principio su questa curva, la quale è stata costrutta sulle vere proporzioni, i valori prossimi di T corrispondenti ai valori di z che competono alle linee B, C, D, E, F, G, H, e correggendo poi questi valori coll’ assog- gettarli a soddisfare esattamente all’equazione (6), ho trovato B F G H Valori di z [2,290 |1,745 [0,604 [0,000 |0,468 [1,185 |2,120 {2,755 Valori di P | 0,0208 [0,0607| 0,5615|1, 0000] 0,6951|0,2772/0,0274|0,0122 Da questi valori di T, da quello di n, e dai valori già calcolati di da ho poi dedotto mediante la formola (4). di fra G D |[DedE| E F G H Valori di G | 0,058 | 0,096 [0,655 [1,000 | 0,548 | 0,168 | 0,011 | 0, 0057 Questi valori delle intensità della luce dello spettro prismatico risultanti dalle leggi espresse dalle formole (1) e (6) sono tutti compresi fra quelli dati dalle osservazioni, riferiti al principio del n.° 4, e quindi ci manifestano l’attitudine delle formole assunte a rappresentare i fenomeni. In verità i limiti fra i quali 200 ' MOSSOTTI oscillano i dati delle riferite osservazioni mostrano quanto sia difficile la determinazione di questi dati, e quindi quanta in- certezza ancora rimanga rispetto ai lori valori. Ciò fa sentire sempre più la necessità che i Fisici discoprano dei mezzi foto- metrici suscettibili di maggior precisione. In mancanza di dati più certi crediamo per ora superfluo il tentare, sia col variare le formole, o bene i suoi coefficienti, di far accostare di più i risultamenti del calcolo a quelli dell’esperienza. GRIN: Riflessioni. 9. I valori di z e T nelle formole (7) (8) sono stati espressi in modo che l'intensità della luce nel mezzo dello spettro nor- male è massima quando T è eguale al raggio, o sia all’unità, e le ascisse crescono proporzionalmente in parti della semicir- conferenza 7. Se si prende ) — I, Fs LA dalla formola (7), si ha VA == Zi TS Sl 1 per cui, essendo 2, — 555, 5, le ascisse che da un lato e dal- l’altro dell’ordinata massima eguagliano la semicirconferenza, cor- risponderanno alle lunghezze delle ondulazioni 555, 5+184,5, o sia a Xi, = 069 a, = 758. Questi due valori s'accostano assai a quelli delle ondulazioni per le quali la luce cessa d'essere ben visibile. L'intensità della luce nei punti dello spettro normale corrispondenti alle dette ondulazioni appena arriverebbe a 0,006 dell'intensità massima, e questi punti distarebbero dai limiti incerti assegnati nella figura di Fraunhofer appena di ;', della lunghezza totale dello spettro. Se si riflette che le osservazioni di quest’abile Ottico sono state fatte impiegando gran cura per ajutare l’occhio a 3 : SULLE PROPRIETA DEGLI SPETTRI FORMATI DAI RETICOLI | 201 discernere ogni sfuggevole percezione di luce, potremo dire che comunemente la visibilità della luce ben percepita è pro- dotta da ondulazioni che si estendono dalla lunghezza di 969 milionesimi di millimetro a quella di 758, o bene, da ondula- zioni la lunghezza delle quali va da 1 a 2, e che le più atte ad eccitare una viva sensazione sono quelle della lunghezza di 559,5 milionesimi di millimetro, o ® della lunghezza delle ondulazioni minime. 10. Terminerò col notare, ad imitazione di Newton, una coincidenza dei valori delle lunghezze delle ondulazioni corri- spondenti ad alcune delle strie principali con quelle che spet- terebbero alle note della scala diatonica. Le tre lince seguenti fanno vedere questo paragone Le due prime linee disegnano i valori relativi delle note, sup- ponendo che il do più basso sia espresso dall’unità, o vero dalla frazione ;4;, tal che i denominatori della seconda linea potrebbero rappresentare le lunghezze delle corde che produr- rebbero la rispettiva nota; la terza linea poi presenta i valori delle lunghezze delle ondulazioni, espresse in milionesimi di millimetro, corrispondenti alle strie principali segnate sopra. Dal loro confronto si vede che le lunghezze delle ondulazioni contigue alle strie C,D, HI corrispondono bene alle lunghezze Scienze Cosmolog. T. I. 26 202 MOSSOTTI delle corde delle note re, mi, si, e quelle delle altre strie sol- tanto prossimamente alle lunghezze delle corde delle altre note . Questa coincidenza delle strie nere principali quando i rapporti sono espressi dai denominatori pari 4, od 8, ed i numeratori sono dispari, pare favorevole alla supposizione che le strie nere siano prodotte per interferenze: e però notabile che al so! non corrisponda che prossimamente la linea F, le cui ondulazioni sono di una lunghezza minore di ;, del valore della corda della rispettiva nota. Sarebbe abbandonarci a delle vane speculazioni insistendo su queste relazioni, prima che si possedano dei dati sperimentali più numerosi e precisi. SULLE PROPRIETA DEGLI SPETTRI FORMATI DAI RETICOLI 205 NOTA Sulla teoria dello spettro di Newton. Se si dinota coll’unità la lunghezza dello spettro prisma- tico di Newton, fig. III, e si pone l'origine delle coordinate nel punto esteriore 0, alla distanza uno dal limite rosso, le ascisse x dei limiti, in cui terminano i diversi colori, sono date dai seguenti numeri Yor Nra Sag Ngo. Soy Str Ng Su) n ER (1) 1, DIS 6, AE ONE nt) 16, 9° 8 5 E) 2 5) 9 le lettere sottoposte r, a, g ec. dinotando i rispettivi colori rosso, aranciato, giallo, ec. Reciprocamente si ha Tonoga voga q.drebgogrivigo 46 op un li Pagato spit dedi x; men, 8 5 ò 2 5) 9 1 1 9 =) #0) ll) CARNI) “Sg x 9 6 4 ò 5 16 2 Le lunghezze % degli accessi dei colori corrispondenti a questi diversi limiti seguono, secondo Newton, le proporzioni dei numeri do 3 dea da n dg 3 do 3 de 3 de a du 2 MO 0 Le estensioni dei colori nella circonferenza del circolo cromatico di Newton sono proporzionali alle differenze seguenti Dido IRA pata te, Sa S Fa bj Pa Ca e i ? Py i; 3 xi b) ee.; per cui si ha Pr o) Pa b) Py ’ UU TANO) P, o) Pi D) Pu (9) 1 5 1 i 1 È 1 E 1 ; 1 3 1 16 10 9 10 16 9 204 MOSSOTTI — SULLE PROPRIETA DEGLI SPETTRI EC. Dividendo una circonferenza proporzionalmente a questi numeri, le lunghezze degli archi 0 r, ra, ec. verrebbero ad essere Or. è (IRSA PRO] DER GL VI o LU 60°, 45°; 54°. 11'; 54°. 41; 60°. 46'; 54°. 41) 54°. 11'; 60°.45 Lo spettro che sarebbe rappresentato da questa circonfe- renza spiegata in linea retta, fig. IV, sarebbe lo spettro nor- male di Newton; questo spettro avrebbe il centro nel mezzo del verde, i colori sarebbero simmetricamente disposti da una parte e dall’altra, e le lunghezze degli accessi dei raggi corri- spondenti a due colori egualmente lontani dal centro dello spettro, soddisfarebbero, come Blanc ha notato il primo, assai prossimamente alla condizione che il loro prodotto sarebbe co- stante, ed eguale a On il che conduce all’equazione di 3 INTO) destinata a darci in milionesimi di millimetro la lunghezza del- l’accesso 25 corrispondente a qualunque arco 9 contato dal cen- tro, e preso come positivo andando verso il limite rosso. Le tre serie (1), (2), (5), che abbiamo qui riunite, com- prendono sotto un solo punto di vista le relazioni semplici colle Ale quali Newton ingegnosamente ha cercato di connettere fra loro i diversi elementi dello spettro. *» SAGGIO COMPARATIVO DEI TERRENI CHE COMPONGONO IL SUOLO D'ITALIA PRESENTATO AL CONGRESSO SCIENTIFICO DI MILANO DAL PROF. L. PILLA 20 Ed — INTRODUZIONE. Nel Congresso scientifico di Lucca, ed ancora negli altri Con- gressi passati, la Sezione di Geologia promise di dare opera alla esecuzione della Carta Geologica Italiana, riunendo le numerose osservazioni fatte in diverse parti della Penisola. E in verità tutti coloro che a questo studio intendono nel nostro paese, bramano ardentemente di vedere compiuto tale lavoro, le ma- terie del quale sono già in gran parte preparate, ed hanno me- stieri soltanto di essere con ordine acconcio riunite. Ma fin quì possiamo dire che questo proponimento è rimasto soltanto in voto, e non si è riguardato ai modi necessari e precisi per me- narlo a compimento. Ora a me sembra che per l'esecuzione di questo grande lavoro due cose sono necessarie; cioè, prima- mente che tutti geologi della Penisola si accordino sopra la distinzione dei terreni che occorrono nel suolo Italiano, ed in particolar modo sopra le loro età rispettive: per secondo poi conviene provvedere ai mezzi che sono necessari per la com- pilazione, e la pubblicazione dell’ opera. 206 SAGGIO COMPARATIVO Quanto alla prima parte, perchè le diverse opinioni dei nostri colleghi sieno conosciute, e possano esser messe di ac- cordo, egli è mestieri che sieno esposte in una scrittura, la quale servir possa come di fondamento alla discussione; o per dir meglio, conviene abbozzare un saggio comparativo dei terreni d’Italia, e indicare le diverse opinioni che corrono intorno ad essi. Il sig. Pasini presentò al Congresso di Torino un Quadro sinottico delle formazioni nelle varie parti d’Italia, che dovea servire per quest’ oggetto (1); ma siccome esso non è stato pubblicato, così non tutti geologi italiani hanno potuto averne conoscenza. Più recentemente il sig. Collegno ha avuto il felice pensiero di abbozzare una Carta geologica dell’Italia, accompa- gnandola con un testo di spiegazioni, il quale può bene essere utile al fine che si è detto. Innanzi che mi fosse conosciuta la pubblicazione del lavoro del sig. Collegno, io aveva avuto presso a poco lo stesso pensiero, e principalmente divisai di compilare un Quadro generale dei terreni d’Italia per presentarlo al Con- gresso scientifico di Milano, quasi come un programma della Carta geologica Italiana: il quale lavoro fu da me compiuto prima che avessi potuto leggere quello dell’ egregio mio collega. Pertanto io giudico che questa scrittura non sarà inutile del tutto; perocchè se il sig. Pasini ed il sig. Collegno hanno potuto dare notizie precise circa la struttura geologica dell’Italia set- tentrionale, che hanno bene studiata, io ancora potrò dare qual- che lume particolare intorno ai terreni dell’Italia meridionale, che sono i meno conosciuti della Penisola: ed i nostri scritti messi insieme potranno essere utili per rispetti diversi nell’or- dire la tela del grande e desideratissimo lavoro. Avendo fatto conoscere lo scopo di questo saggio, mi ri- mane da aggiungere che io non mi sono limitato soltanto ad esporre le principali divisioni dei terreni d’ Italia, e le opinioni (1) Atti del Congresso di Torino, pag. 112. DEI TERRENI CHE COMPONGONO IL SUOLO D'ITALIA 207 diverse che intorno ad esse sono state prodotte; ma eziandio ho cercato di far conoscere i miei pensamenti sulle quistioni che tuttora rimangono da chiarire: e se oso di parlare di luoghi che non conosco, confido mi sarà perdonato l’ardire, ponendosi mente al mio proposito, che è quello di fare un confronto della strut- tura geologica delle diverse parti della Penisola. Ad ogni modo io mi attendo di ricevere dai miei colleghi quegli schiarimenti e quelle correzioni che saranno da essi giudicate necessarie. Per procedere con ordine in questo esame dividerò le ma- terie nelle seguenti parti I. Terreni stratificati, II. Terreni metamorfici, II. Terreni eruttivi, IV. Filoni, V. Linee di sollevamento che si possono distinguere nell’ Appennino. Quanto all’altra parte, cioè ai modi opportuni per compi- lare e pubblicare la Carta geologica Italiana, io esporrò il mio avviso alla fine della presente scrittura (1). ARTICOLO I. TERRENI STRATIFICATI. Nella nostra Penisola, come in tutta la zona meridionale di Europa, non compariscono bene distinte e molto rilevate se non le serie superiori delle rocce stratificate: le inferiori, 0 ‘mancano in gran parte, o sono metamorfosate, ovvero rimangono (1) Essendo questo Saggio riuscito alquanto lungo, io mi limitai a leggere nella Sezione di Geologia quella porzione di esso che riguarda i terreni stratificati. Ed eziandio debbo avvertire che in molti luoghi io 1’ ho modificato ed ampliato, facendo tesoro dei fatti preziosi ed importantissimi che furono discussi a Milano nella Sezione sullodata. 208 SAGGIO COMPARATIVO nascoste sotterra. Cominciamo dunque ad esaminare queste rocce di sopra in basso, e vediamo i caratteri principali che esse pre- sentano. Divideremo perciò le loro serie nel modo che ora più generalmente si usa nella scienza, cioè 1.° Terreni moderni; 2.° Terreni alluviali antichi; 5.° Terreni terziari; 4.° Terreni secondari; 5.° Terreni primari. G. I TERRENI MODERNI. Tra’ terreni moderni, che sono stati cioè prodotti in tempi storici, e che si producono tutto giorno alla superficie del globo, meritano di essere particolarmente dinotati in Italia il terreno tufaceo lacustre, il terreno alluviale marino, ed il terreno qua- ternario, e le spiagge emerse. Non farò menzione degli altri depositi moderni, perchè presso di noi sono di poca importanza. Non ci ha lungo le spiagge italiane grandi accumuli. di dune, e le torbe non si producono che in qualche raro luogo della Penisola, ed in piccola copia. Quanto al terreno alluviale flu- viatile, non occorre farne menzione in questo luogo. a) Terreno tufaceo lacustre . Questo terreno è stato accuratamente studiato da dotti geologi italiani e stranieri, perchè esso ci porge preziosi punti di confronto per riconoscere l'origine dei terreni antichi di acqua dolce. Nel Napolitano non ci ha luoghi di molta impor- tanza per questo rispetto. Altrove ho fatto conoscere la produ- zione de’ tufi lacustri che avviene nelle sorgive di acque mine- rali di Telese in Terra di Lavoro, dove questi tufi recenti si ligano a masse più antiche di travertino (1). Di maggiore im- (1) Osservazioni geognostiche sulla parte settentrionale ed orientale della Campania ( Aunali Civili delle due Sicilie, fasc. VI). DEI TERRENI CHE COMPONGONO IL SUOLO D’ ITALIA 209 portanza poi si vogliono tenere i depositi lacustri che sono prodotti nello Stato Romano dal Lago di Zolfo e dalle acque del Teverone presso Tivoli, e del Velino presso Terni, dove i loro banchi danno origine a cascate famose nel rispetto storico e pittoresco. Non meno celebre è la produzione de’ travertini nei Bagni di S. Filippo in Toscana. Ora conosciamo bene la formazione di tali depositi, i quali ci servono come di scala per conoscere l’ origine degli altri terreni prodotti anticamente dalle acque dolci. Db) Terreno alluviale marino. Importantissimi sono nella nostra Penisola è depositi allu- viali marini, ed in particolare gl’interrimenti che seguono lungo le spiagge bagnate dal Tirreno e dall’Adriatico. Per loro effetto molte città un tempo marittime sono ora divenute continentali,. e non credo necessario di citarne quì degli esempi che sono a tutti conosciuti. Gl’interrimenti di Ravenna, dell’antica città d’Adria, di Pisa, di Ostia sono famosissimi non pure per il ri- spetto geologico, ma eziandio per il lato idraulico e cronologico, e quindi meritano di essere indicati nella Carta che ci propo- niamo di eseguire. | Quì conviene nominare per passo la famosa arenaria re- cente di Messina. Tutti credono, perchè in tutte le opere di geologia così si legge, che il consolidamento di questa pietra sia una produzione recente, secondo che già affermarono Saus- sure e Spallanzani, e molti altri appresso di essi. Ora avendo io più volte esaminato questo fatto, ho conosciuto non esser vero quello se ne dice, poichè la pietra di che si parla è una puddinga terziaria, spettante alle parti superiori de’ depositi pliocenici recenti di Sicilia, che appresso esamineremo. Scienze Cosmolog. T. I. 27 210 SAGGIO COMPARATIVO c) Terreno quaternario ( spiagge emerse). Sono assai rinomati alcuni luoghi della nostra Penisola, dove occorre vedere delle terre emerse dal mare dopo l’esi- stenza dell’uomo alla superficie del Globo. Tutti conoscono i depositi marini contenenti avanzi d’ industria umana che il Ge- nerale La Marmora ha osservati nelle vicinanze di Cagliari in Sardegna; con grandissimo piacere ho veduto a Genova presso questo distinto geologo i pezzi da lui recati di quel luogo: sono anelli di terra cotta e rottami di stoviglie antiche che trovansi mescolati con. ostriche ed altre conchiglie recenti in un banco alluviale. Della stessa età sono probabilmente i depositi che occorrono ad Antignano vicino Livorno, dove Savi e Guidoni hanno trovato avanzi di simile natura; e quelli del Capo S. Ospi- zio vicino Nizza descritti dal Risso. La maggior parte dei geo- logi italiani si accordano a dare il nome di quaternari a questi depositi, i quali, quantunque appartengano al periodo moderno. ossia storico, nondimeno si vogliono distinguere da quelli che sono anche oggigiorno in via di formazione. La loro particolare istoria troverà suo luogo nella descrizione della Carta di ciascun cantone d’Italia . La emersione intanto di queste terre ligasi con un feno- meno molto rilevante che si vede seguire oggigiorno in vari luoghi del Globo, e segnatamente nella nostra Penisola. Ciò so- no le variazioni del livello del mare che avvennero in tempi storici, e che occorrono tuttora in più luoghi del nostro paese nell’uno e nell’altro mare. Le quali variazioni debbono formare soggetto importantissimo della Carta geologica Italiana. E per uscire un poco del vago, in che fin quì tale quistione si è ri- masta in Italia, sarebbe necessario di fare in qualche parte la- vori di precisione simili a quelli che sono stati fatti dal Bravais nella Scandinavia. Perocchè laddove in un sol luogo fosse bene DEI TERRENI CHE COMPONGONO IL SUOLO D’ITALIA 211 chiarita la causa che dà origine a queste variazioni, ciò baste- rebbe a metterla in piena evidenza in tutta la Penisola. Atten- dendo che questo mio desiderio sia compiuto, piacemi di far quì conoscere i risultamenti delle mie osservazioni fatte in due lon- tane parti d’Italia, cioè ne’ golfi di Pozzuoli e di Gaeta, ed in quello della Spezia. In tutti tre questi golfi vivono un gran nu- mero di que’ molluschi litodomi dimandati modiola litophaga; i quali forano le pietre calcaree de’ monumenti antichi di Poz- zuoli che son bagnati dal mare, ovvero le medesime rocce che formano le montagne cadenti nei golfi di Gaeta e della Spe- zia. Ora non si può certamente dubitare che questi tre luoghi d’Italia non si trovassero diciotto secoli fa, allorquando erano pertugiate le colonne del Tempio di Serapide, nelle medesime circostanze in cui si trovano adesso per rispetto ai molluschi foratori; 0 per meglio dire, se questi vivono adesso ne’ tre luo- ghi citati, e sappiamo di certo che in due di essi, a Pozzuoli cioè e Gaeta viveano ancora nei primi tempi dell'era Cristiana, ogni ragione vuole che doveano vivere ancora nel terzo luogo, cioè al golfo della Spezia: nondimeno ne’ golfi di Pozzuoli e di Gaeta accade di vedere una gran quantità di fori di questi ani- mali situati a molta altezza sopra il livello del mare, e nessuno poi se ne osserva alla Spezia dove sono costantemente a fior d’acqua. Il quale fatto a me sembra dimostrare evidentemente, che le variazioni tra il livello del mare e delle terre avvenute nel paese di Napoli sono un fenomeno al tutto locale, derivante cioè da movimenti del suolo; poichè elle sono seguite in due luoghi diversi d’Italia con una differenza di livello, la quale non si accorda colla legge di equilibrio delle acque. S. IL TERRENO ALLUVIALE ANTICO. Esamineremo in questa rubrica il terreno alluviale antico propriamente detto, o diluvium, i massi erratici, e le brecce e caverne ossifere. 212 SAGGIO COMPARATIVO a) Diluvium. I due luoghi più famosi d’Italia per la grande estensione del terreno alluviale antico, sono, la pianura della Puglia e quella di Lombardia. La prima è un diluvium appenninico com- posto di un grosso deposito ciottoloso di calcare appenninico, il quale è ricoverto da uno strato più o meno grosso di terra vege- tabile. La pianura di Lombardia è un diluvium alpino così ben conosciuto, che non occorre che più innanzi io ne dica. Nel Regno di Napoli sono state trovate ossa e difese ele- fantine in più luoghi. Io ne farò menzione quando si tratterà della Carta geologica di quel paese. In molti altri luoghi d' Italia sono stati scoperti i medesimi avanzi, i quali conviene che sieno distinti da quelli trovati nei depositi subappennini. Farò quì menzione ancora di un di/uvium al tutto locale che mi è occorso vedere in una delle regioni più elevate del- l'Appennino napolitano, cioè nei monti delle Mainardi: ed è bellissimo esempio di un diluvio locale, poichè è stato prodotto dalla rovina di un gran lago, di cui gli avanzi sono tuttora assai bene riconoscibili . Finalmente sono da nominare in questo luogo gli estesi depositi di tufi vulcanici che occorrono nella Campania e nel Lazio. La disseminazione dei quali è così enimmatica come quella dei massi erranti. Io ho esaminato particolarmente questo soggetto in un mio lavoro, nel quale ho cercato dimostrare che le materie componenti que’ vasti depositi, dopo essere state riget- tate dall’eruzioni del vulcano di Roccamonfina, furono traspor- tate ed ammassate in lontane parti da correnti acquose (1). Questo fatto geologico è uno dei più curiosi ed importanti che occorre di vedere nell’ Italia meridionale, e spezialmente nella (1) Osservazioni geognostiche dinanzi citate, S. 45 e segg. DEI TERRENI CHE COMPONGONO IL SUOLO D’ITALIA 215 Campania; io ho cercato di farlo conoscere per minuto; ma ci pare che sia stato poco curato dai numerosi geologi che visitano quel paese, i quali ne hanno parlato leggerissimamente e con molta inesattezza. Io mi propongo di tornare a ragionarvi sopra nella spiegazione della Carta di Napoli. b) Massi erratici. Passiamo ora ai massi erratici. Sonovi in Italia esempi di trovanti (1) oltre a quelli già conosciutissimi che occorrono in Lombardia e nel Piemonte? Io non posso indicare che quelli i quali sono stati osservati nel paese di Napoli. Dove mi è oc- corso vederne molti sparsi sulle colline terziarie di Cajazzo e di Cerreto in Terra di Lavoro (2). Ma il mio collega Gasparini ne ha trovato alcuni più curiosi per la loro grandezza e giacitura sui monti calcareo-arenacei della Basilicata, e sono composti di gra- ‘nito tenacissimo. L'origine dei quali è al tutto inesplicabile se- condo le ipotesi che corrono comunemente oggigiorno su questo proposito; perocchè ponendo che tali sassi provvengano dai monti di Calabria, che è il paese granitico più vicino, essi hanno dovuto superare non pure valli e pianure, ma ancora montagne alte e continue; ed oltre a ciò non sono i monti granitici di Calabria di tale elevazione che abbiano potuto dare origine a grandi ghiacciai ovvero a correnti acquose, le quali si fossero avanzate a traverso una giogaia di monti; ovvero, per parlare con più precisione, non si può spiegare affatto la loro origine supponendo cause che avessero operato alla superficie del suolo. (1) I geologi Italiani riuniti al Congresso di Milano sono convenuti di accettare il nome di tropanti con cui i massi erratici vengono comune- mente dimandati in Lombardia. Il quale nome essendo stato anche adope- rato dal Breislack, non manca di autorità competente per essere introdotto nella scienza. (2) Osservazioni sopra citate, SS. 24 e 25. 214 SAGGIO COMPARATIVO Limitandomi dunque ad accennare questo fatto, dirò ancora che i massi erratici della Basilicata porgono l'esempio più meridio- nale di tal natura che si vegga in Europa. Io non oserò parlare dei massi erratici che occorrono al piede delle Alpi dalla parte dell’Italia, primamente perchè non ho avuto occasione di bene studiargli; e poi per essere stato questo argomento alla lunga discorso da geologi assai valorosi . Nondimeno non posso tenermi dal manifestare l idea che mi fecero nascere quelli che colla Sezione di Geologia osservai nelle vicinanze di Varese. Io mi accordo con la opinione del mio col- lega sig. Balsamo Crivelli che il terreno di trasporto situato a piè delle Alpi di Lombardia si presenta in due forme diverse, le quali sembrano indicare due periodi distinti. La massa più copiosa forma vasti depositi, che sono continui, e mostrano una tendenza alla stratificazione; essi si alzano in colline, riempiono le pianure e le valli, e cingono ancora in forma di mantelli le montagne secondarie. Nella superficie poi di questo terreno, ed ancora sopra le vive rocce secondarie, si trovano sparsi di tratto in tratto i massi erratici, composti di rocce per lo più cristalline, i quali per la loro giacitura hanno una fisonomia tutta particola- re (1). Questa medesima differenza pare sia stata riconosciuta da Charpentier, Studer, Necker, ed E. Beaumont in altri luoghi delle Alpi, e dal Durocher nel diluvio Scandinavo (2). Pognamo adunque colla comune degli osservatori due ordini di fenomeni di trasporto nelle Alpi; uno diluviale antico prodotto manifesta- mente dalle acque, secondochè indica la sua forma e disposizio- ne, l’altro erratico, la cui origine è un mistero; il primo di un periodo anteriore al secondo. Ciò posto, dirò qualche cosa dei massi erratici che mi vennero veduti nelle vicinanze d’Indunno. Dei quali due principalmente sono notevolissimi, entrambi com- (1) Milano, e il suo territorio: vol. II. pag. 17. (2) Observations sur les phénomènes diluviens en Scandinave . DEI ‘TERRENI CHE COMPONGONO IL SUOLO D’ ITALIA 215 posti di melafiro, e sono di mole gigantesca; tanto che il sig. Curioni gli novera tra’ più grandi che occorrono nella provincia di Como, e ponegli a lato di quello famoso di granito che si ammira a Pravolta sopra Bellaggio, e fu descritto dal Labe- che (1). Questi due massi adunque trovansi nella costa di una montagna calcarea, ed in tale posizione che mostrano tutta la meraviglia del fenomeno erratico. Essi traggono indubitatamen- te loro origine dalle vicine masse di melafiro di Lugano, dalle quali pertanto son separate da un tramezzo di monti calcarei. Ora chi ben considera la loro posizione, facilmente vedrà che nè l’azione dei ghiacciai, che mancano assolutamente in quel sito, nè tampoco l’altra delle correnti acquose, ha potuto collocargli in” quella singolarissima giacitura. Come prima gli vidi, mi fecero sorgere l’idea che fossero piombati dall’alto, ciò che ancora è dimostrato dall’essere il più grande di essi fenduto verticalmen- te. E mi richiamarono alla mente i massi di lava basaltica poco più piccoli di mole, i quali furono lanciati dall’eruzione del Ve- suvio del 1822 nella valle dell’ Atrio del Cavallo, dove tuttora si veggono. Laonde io non tardai a pensare che que’ massi di me- lafiro furono lanciati in aria dall’esplosioni che accompagnarono lo sbocco dei melafiri di Lugano. Ma se tale è stata l’origine dei massi di melafiro d’In- dunno, può credersi mai che tutti gli altri massi erratici di Lombardia sieno stati da una causa medesima prodotti? Vera- mente io non saprei tanto affermare. Questo so bene, che la natura è molto semplice nelle sue operazioni: e sarebbe stra- nissima cosa il pensare che un ordine di fenomeni, che sono tanto affini per tutt’i rispetti, possano dirivare da cause diffe- renti. Se quindi i massi erratici di melafiro traggono origine da eruzioni di questa roccia, sembra natural cosa il conchiudere che anche quelli di granito da eruzioni granitiche sono stati prodotti e sparpagliati. (1) Manuel de Geologie, sect. IL 216 SAGGIO COMPARATIVO Forse opporrà qualcuno a questo pensamento i massi er- ratici di calcare, di puddinghe e di altre rocce non eruttive che occorrono talvolta nel gran fenomeno. Questa diflicoltà non mi sembra di nessun peso. Immaginiamo un suolo piano fatto nella superficie di strati di calcare, di puddinghe e di altre rocce di sedimento, inferiormente poi di granito e di altre rocce cristalline. Immaginiamo che una violentissima forza sotterranea squarci per lunghissimo tratto questo suolo, lanciando in aria e ridotte in frammenti le masse che facéano resistenza” al suo impeto. Che debbe seguitarne? Il maggior numero di frammenti lanciati dovrà appartenere alle rocce inferiori, come quelle che si trovarono esposte all’urto più violento; ed il minore alle rocce stratificate superficiali. E questo è appunto quello che si osserva, perocchè tutti convengono che il più gran numero di massi erratici è fatto di rocce cristalline. Havvi ancora un’altra osservazione che viene in appoggio di ciò. I geologi di Milano mi hanno fatto sapere che tra i massi erratici della Provin- cia di Como molti ce ne ha che non si trovano in posto in nes- sun luogo delle Alpi, o almeno non vi sono conosciuti: e mi hanno altresì assicurato che a Como ci ha collezioni di questi trovanti alpini, ma stranieri alle Alpi, i quali sono tutti cri- stallini, e si prestano assai bene alla pulitura. Con la teorica de’ ghiacciai e delle correnti acquose non si può mica compren- dere il trasporto di questi massi, poichè l’azione di dette cause essendo del tutto superficiale, non poteano cacciare in luoghi lontani delle materie che non incontravano sul suolo; laddove ponendo una eruzione sotterranea, si può molto più facilmente spiegare il mistero. Abbiamo veduto che il terreno di trasporto alpino dimostra di essere stato prodotto in due periodi diversi, i quali sono co- munemente distinti col nome di diluviale e di erratico. Si può bene supporre che il primo deposito sia stato prodotto da un sollevamento alpino generale seguito sotto una massa di acqua: DEI TERRENI CHE COMPONGONO IL SUOLO D'ITALIA 217 per modo che le materie rigettate dal cataclisma sieno state poi - accumulate e disperse dalle onde nelle pianure che si disten- dono a piè delle Alpi. Il secondo poi più recente può essere stato il prodotto di eruzioni posteriori e circoscritte, seguite all'aria libera; le quali furono cagione di quello sperdimento di materie ch'è principal contrassegno del fenomeno erratico. In taluni casi per altro i due fenomeni diluviale ed erratico avranno potuto avvenire contemporaneamente e confondersi insieme nel modo che appresso sarà indicato. Questo intanto vuolsi notare, che i luoghi delle Alpi famosi per i massi erratici sono nel mezzogiorno la Lombardia e nel settentrione la Svizzera, cioè le contrade comprese tra il Monte Bianco e il S. Gotardo, dove sì trovano i più grandi ammassamenti di graniti alpini. Laddove mancano quasi del tutto nelle Alpi orientali, dove. ancora sono più rare le masse cristalline eruttive. Se si volesse ciò attribuire all’altezza che hanno le Alpi nel tratto citato, e quindi ai ghiac- ciai che vi si hanno dovuto accumulare, si può rispondere che dal lato della Lombardia i massi erratici occorrono con tutte le forme medesime che presentano nella Svizzera, e nondimeno i ghiacciai vi mancano quasi del tutto. In una nota letta dal sig. Studer nella Sezione di Geologia del Congresso di Milano, questo distinto geologo prese a parlare dei massi erratici secondari, e propriamente di que’ frammenti di granito, i quali si trovano incastrati in rocce secondarie, che sono in contatto colle ofioliti, ed in luoghi ove non è granito in posto; e manifestò l'opinione che que’ massi fossero stati trasportati da azioni sotterranee. Egli è dunque bene possibile che tal fenomeno siasi più volte ripetuto alla superficie del Globo, e che gli più antichi di questa sorte sieno stati in gran parte cancellati dalle rivoluzioni seguite posteriormente. E se il gran fenomeno erratico alpino vedesi ancora in tutta la sua grandezza, e dirò quasi conservazione, ciò debbesi attribuire al periodo recente della rivoluzione fisica che lo produsse, gli Scienze Cosmolog. T. I. 28 218 SAGGIO COMPARATIVO effetti della quale non sono stati guasti ed occultati da altre rivoluzioni posteriori. Lo Breislak, che pure aveva occhio acutissimo, non pensò di applicare le sue grandi conoscenze vulcanologiche alla spie- gazione del fenomeno erratico, ed ebbe anch'egli ricorso al- l’azione dei ghiacci. Non però di meno osservando i numerosi mucchi di massi erratici che si veggono non lungi da Gre- ghentino discendendo al lago di Olginate, esclamava: pare sia stato il campo di battaglia, dove hanno fatto guerra i giganti. E de Buch parlando dei massi erratici del Giura, dice che movendo dal Vallese sembrano aver dovuto volare per sopra il lago di Ginevra. Nelle quali espressioni è da notare l’idea evidente che danno al pensiero di una caduta e sperdimento per aria. Ì Se I’ esplosioni che hanno accompagnate le grandi azioni sotterranee terrestri sono state la causa della dispersione dei massi erratici, noi dobbiamo trovarne ancora le pruove nei sol- levamenti delle rocce piroidi, e ne’ fenomeni vulcanici attuali. Nello studio che ho fatto finora delle regioni trachitiche italiane, io non ho recato una speciale attenzione su questo accidente, e non dubito di trovare in qualche parte un buon esempio di tal natura. Ma frattanto posso citare un luogo dell’ Alvernia, dove mi sembra che sia stato osservato il fenomeno di che si ragiona con tutte le circostanze che si richiedono dalla nostra ipotesi. Nelle vicinanze di Saignes, circondario di Mauriac, ed in un raggio di alcuni chilometri, si veggono un gran numero di massi liberi di trachite compatta con amfibolo acicolare e mica che poggiano sullo gneis. Essi sono tutti angolosi, ed hanno una grandezza variabile; ma ce ne ha uno di circa due metri cubici, situato tra due corsi di acque in un punto che domina tutte l’eminenze circostanti. La roccia trachitica più vicina che sta in sua natural giacitura, trovasi alla distanza di circa 8 chilometri, ed è separata dal luogo che contiene i massi liberi trachitici da DEI TERRENI CHE COMPONGONO IL SUOLO D'ITALIA 219 colline assai elevate (1). Il sig. Deribier de Cheissac, che ha osservato pel primo questo fatto, lo spiega supponendo, che una formazione trachitica ricuopriva un tempo tutta la valle di Saignes, e che talune eruzioni seguite posteriormente ruppero e dislogarono in più luoghi le trachiti, i frammenti delle quali furono col tempo trascinati dalle acque, lasciando così a nudo il terreno di gneis. Lascio che altri giudichino della verisimi- glianza di questa spiegazione. Quanto a me io veggo nel fatto citato un fenomeno semplice e naturale, prodotto dall’ esplosioni che accompagnarono lo sbocco della massa trachitica. Rispetto poi al fenomeno erratico cagionato dai vulcani attuali, io desidero che nel prossimo Congresso di Napoli, la Sezione di Geologia rechi tutta la sua attenzione ai massi di lava basaltica che sono nel Vesuvio nell’Atrio del Cavallo, conforme ho detto di sopra, e gli comparino co’ massi erratici di melafiro d'Indunno, co’ quali hanno non pure analogia di forma, ma eziandio di composizione (2). E poi desidero ancora che osser- vino i pezzi di scorie e di lave rigettati nella medesima eru- zione del 1822 sulle coste esteriori del monte di Somma, dove, st magna licet componere parvis, tengono la stessa posizione che i massi erratici d’Indunno rispetto ai melafiri di Lugano. Final- mente sarà utilissima cosa che osservino i banchi di lapilli e di pietre vulcaniche lanciate dalle eruzioni del Vesuvio sulla cima (1) Bull. de la Soc. Géol. de France, tom. XMI, pag. 125. (2) Io son di credere che per conoscere la parte che hanno potuta avere l’ esplosioni solterranee nella dispersione de’ massi erratici, sia ne- cessario esaminare in prima i massi di lava augitica del Vesuvio rigettati nella eruzione del 1822, poi passare a quelli di melafiro delle vicinanze d’Indunno in Lombardia, che tengono alle masse eruttive della stessa roccia presso Lugano, e finalmente studiare quelli di granito delle Alpi di Lom- bardia e della Svizzera. Così si avrà una serie compiuta dello stesso feno- meno, la quale muoverà da un termine attuale conosciuto e condurrà ad un altro della stessa natura, ma più grande, che risale ai periodi passati del Globo. 220 SAGGIO COMPARATIVO delle montagne calcaree di Castellamare. In tutt'i quali fatti confido che la Sezione ravviserà un’ analogia grandissima col fenomeno de’ massi erratici. Sono certo nondimeno che molti troveranno la causa da me indicata incapace di spingere massi enormi a grandissima distanza, come sono quelli che si veggono sulle coste del Giura e sopra Bellagio dal lato di Como. Che riflettano costoro essere il Vesuvio un bucolino da talpa rispetto all’immenso squarcio che dovè seguire nel sollevamento delle grandi masse del Monte Bianco, del Monte Rosa ec., e quindi che l’urto sotterraneo deve considerarsi nella medesima propor- zione relativa. E se una eruzione del Vesuvio ha avuto tal forza di lanciare in aria a grandi distanze massi di lava come quelli che si veggono nell’Atrio del Cavallo, se d’altra parte sappiamo dal Condamine che il Cotopaxi ha lanciato alla distanza di 8 a 9 miglia un masso di pietra di circa 100 metri cubici (1), pos- siamo bene ammettere che il grande sollevamento delle Alpi dovè produrre effetti immensamente maggiori. Inoltre quando’ si considera la forza colossale che è bisognata per isquarciare e raddrizzare gl’immensi banchi calcarei, che veggiamo rove- sciati dall’un fianco e dall’altro delle Alpi, qual meraviglia dob- biamo provare, veggendo sul Giura la Pierre è Bot ed a Bella- gio il masso di Pravolta, e se gli consideriamo lanciati per forza di esplosioni una dalla cima del Monte Bianco, l’altro dai monti della Valtellina? Quanto a me io non sono più sorpreso di ciò, che dell’altro fatto col quale si è messo al confronto. Nondi- meno volendo conoscere un po’ addentro il vero valore di questa obbiezione, ho avuto ricorso al mio egregio collega Prof. Mos- sotti, al quale ho esposto il soggetto della quistione, pregandolo che vi applicasse le formole delli balistica. Gli elementi da me somministrati a tal fine sono 1.° il volume ed il peso della Pierre à Bot, 2.° la sua distanza dal Monte Bianco, dal quale il (1) Voyage è l’equateur. DEI TERRENI CHE COMPONGONO IL SUOLO D’ITALIA 221 medesimo masso si fa dirivare, ed onde io il suppongo lanciato, 5.° un angolo d’inclinazione piuttosto sfavorevole alla proiezione. Da un’altra parte 1.° il volume, il peso e la distanza del masso lanciato dalla eruzione del Cotopaxi, 2.° la intensità della forza, valutata in pressioni atmosferiche, che deve sollevare la colonna di lava su la cima de’ più alti Vulcani del Globo (1). Or le ricer- che, che il prelodato Professore ha fatte su tale proposito, e delle quali per ora mi ha data soltanto una comunicazione ver- bale, l'hanno condotto a questo risultamento, che la velocità la quale è stata necessaria per lanciare la Pierre à Bot dalla cima del Monte Bianco al luogo dove ora si trova, non eccede i limiti di quella che la forza ordinaria de’ vulcani può essere capace d’imprimere. Le particolarità di queste ricerche saranno pubblicate in seguito, sì tosto come il mio rispettabile amico le avrà menate a termine. Per ultimo è da fare questa rifles- sione, che tanto nella ipotesi degli esplosionisti che dei glacialisti uopo è ammettere una energia di forze che sorpassa ogni umano (1) Ecco un modo come si può valutare la intensità della forza vul- canica per la via indicata: « Egli è certo che l’ Etna, il Picco di Teneriffa «e l’Antisana, che sono noverati tra’ più alti Vulcani del Globo, hanno « versato lave dai crateri aperti nelle loro sommità. Il cratere dell’ Etna « è alto 5500 metri sopra il livello del mare, quello di Teneriffa 5710 m., «il cratere dell’ Antisana 5855 m. Possiamo dunque valutare in pressioni « atmosferiche il peso della colonna di lava che la forza interna ha dovuto « sostenere per versarla a tali altezze. Se questa colonna fosse stata di ac- «qua, poichè questo liquido è sollevato a 10%, 5 dalla pressione atmosfe- « rica, sarebbero necessarie più di 500 atmosfere per sostenerla alla som- « mità dell’ Etna, più di 350 al Picco di Teneriffa, più di 550 all’ Antisana. « Ma il peso specifico delle lave, almeno allo stato solido, è tra 2 a 5; « dunque sono bisognate nell’Etna circa 900 atmosfere, e nell’ Antisana « circa 1500. Or si può giudicare degli effetti che una tal forza deve « produrre comparandola a quella delle nostre macchine a vapore, delle « quali le più energiche non sopportano ordinariamente che la pressione « di 4 e 5 atmosfere, e nessuna è stata costruita di forza superiore a 10 « atmosfere ». ( Beudant, Cours éléementaire de Geéologie S. 47 ). 222 SAGGIO COMPARATIVO pensiero. Ma ci ha questa grandissima differenza, che i primi possono invocare in loro aiuto una intensità di azione, quanto vogliono maggiore delle forze presenti, perchè la loro idea va intieramente d’accordo coi fenomeni passati del nostro pianeta; laddove gli altri non possono fare lo stesso senza sconvolgere tutto l'ordine delle leggi geologiche che ci sono meglio cono- sciute. O io m’inganno, ovvero la ipotesi la quale attribuisce a sotterranee esplosioni lo sperdimento dei massi erratici, è tutta semplice e naturale. Ella muove da buoni ragionamenti, e, che più è, non ha bisogno di rompere il filo che conosciamo de? fe- nomeni tellurici passati. Ella fa sparire tutte le diflicoltà che finora hanno tormentata la mente de’ geologi per ispiegare un creduto mistero. Se qualcuno volesse spiegare l’arrivo di un animale in un luogo cinto di alte mura, potrebbe bene lunga- mente impazzare sognando varie cose; ma s’ ei giunge a ricono- scere che quell’animale avea le ali, ogni dubbiezza sparisce al- l’ istante. Io non nego che ci ha pure delle difficoltà che si fanno in- contro a questa ipotesi, la prima volta sostenuta dal celebre De Luc. Ma dico solo ch’ ella non meritava di cadere in tale abbandono che fosse al tutto dimenticata durante la disputa ac- canita degl’incomprensibili ghiacciai e ghiacci universali (1). La natura di questo scritto non concede che io possa allun- garmi intorno ai fatti che prestano appoggio alla ipotesi delle esplosioni per ispiegare la misteriosa origine de’ trovanti. Non- dimeno siami concesso di esporre tutto il mio pensiero circa questa famosa quistione, e di prevenire le principali diflicoltà che (1) Io ho letto con grandissimo piacere |’ Essai sur les glaciers del sig. Charpentier: lavoro assai ragguardevole per il gran numero di fatti messi insieme, e per l’ordine, chiarezza e precisione con cui sono esposti. Ma invece di trovare in essi argomenti contrari alla ipotesi delle esplosioni, vi ho riconosciuto invece un appoggio notevolissimo. DEI TERRENI CHE COMPONGONO IL SUOLO D'ITALIA 225 contro la proposta spiegazione si potrebbero addurre. Si è disputato tanto sopra questo soggetto, che poche parole di più non saranno, spero, giudicate sazievoli. I fatti principali sono universalmente conosciuti. Le opinioni intorno ad essi corrono diverse. Io riepilogo la mia nel modo seguente. 1.° Il terreno alluviale antico ed il terreno erratico delle grandi catene montuose, quantunque sieno diversi quanto alla forma, ebbero nondimeno una origine primitiva comune. I loro rottami furono prodotti dall’ Ha che accompagnarono i sollevamenti montuosi. 2.° Quando i sollevamenti montuosi accaddero nel seno del mare, i loro rottami furono intieramente modificati dall’azione delle acque, e ne derivò il terreno alluviale antico. 5.° Allorchè i sollevamenti seguirono nell'atmosfera libe- ra, la caduta dei rottami diede origine al terreno erratico. 4.° In qualche sollevamento sommarino si poterono pro- durre ad un tempo terreno diluviale e terreno erratico. I rotta- mi che caddero nel seno delle acque e furono esposti all’azione delle onde, furono arrotati levigati e disposti in quella parti- colar forma che presentano le materie trascinate dalle acque. I frammenti che caddero in parti ove furono sottratti all’azione delle acque conservarono le forme angolose e sparpagliate, che contrassegnano il terreno erratico. 5.° In una medesima catena di monti poteano seguire sollevamenti in tempi vari e con accidenti diversi: gli uni pote- rono essere sommarini, gli altri subatmosferici. Quindi nel pri- mo caso il terreno che ne nacque prese la forma di terreno diluviale ed erratico. Nel secondo quest’ultima solamente. E però talora il terreno diluviale vedesi confuso col terreno erra- tico, talora ne è distinto. 6.° Tutta l’accortezza del geologo dev’ essere nello sce- verare i rottami modificati dall'azione delle acque (terreno allu- viale antico), da quelli che non soffrirono questa modificazione (terreno erratico). 224 SAGGIO COMPARATIVO 7.° Nel terreno alluviale che accompagna il terreno erra- tico non si possono trovare corpi marini, primamente perchè questi furono distrutti dalle azioni gassose e calorifiche che pre- cedettero ed accompagnarono i sollevamenti montuosi, e poi perchè il suolo ed il bacino in cui viveano furono ricoperti per una spessezza enorme da accumuli di rottami, i quali ingombra- rono una vasta estensione di paese dintorno, e mutarono del tutto la sua faccia. 8.° Poste le condizioni dette di sopra, le quali sono tutte appoggiate da fatti, si spiegano felicemente tutti gli accidenti che il terreno erratico presenta ovunque è stato osservato, @ si ligano in modo naturale questi accidenti alla causa unica che produsse tutte le rivoluzioni del Globo, cioè ai sollevamenti delle montagne . E termino quest’argomento con dire che la quistione de” massi erratici mi sembra somigliare molto a quella agitossi nella fine del secolo passato e nel cominciamento di questo circa la origine de’ basalti. Havvi nondimeno una differenza, che laddove in quest’ultima controversia vi era un partito che difendeva il lato della verità, nell’altra tutti gli spiriti sono svagati appresso a cause forse lontane dal vero. Si può affermare che la quistione de’ basalti fu risoluta al Vesuvio, dove un gran geologo italiano fece vedere che i fuochi sotterranei producevano lave molto si- mili alle rocce su citate. Io preveggo che la stessa sorte toccherà alla disputa circa | origine de’ massi erratici; ella forse troverà termine nel Vesuvio, se bene si esamineranno i fatti che di- nanzi sono stati allegati. c) Brecce e caverne ossifere. Noveriamo i luoghi più conosciuti d’Italia dove incontra vedere queste curiose giaciture di fossili. Cominciando dalla Sicilia sono da citare primamente le famose grotte di S. Ciro e DEI TERRENI CHE COMPONGONO IL SUOLO D'ITALIA 225 di Billiemi presso Palermo, onde sono stati dissotterrati gran- dissima copia di ossami appartenenti il maggior numero ad ippopotami, con pochi avanzi di elefante, di cervo e di bue (1). Nelle vicinanze ancora di Siracusa sono stati ritrovati ossami simili presso a poco nelle medesime condizioni. Passando al- l’ Italia continentale occorre la grotta di Palinuro in Basilicata sulla spiaggia del Mediterraneo: il celebre Brocchi reputò le ossa contenute in quella grotta come rilievi di animali uccisi e mangiati quivi dentro da corsari e da naviganti (2); ma egli è da desiderare che qualche zoologista faccia uno studio accurato di quelle reliquie, le quali probabilmente avranno la stessa ori- gine di quelle trovate nella medesima posizione in molti altri luoghi d’Italia. Appresso non mi rimane che citare le brecce e caverne ossifere dei monti di Pisa e della Spezia, le quali sono state diligentemente descritte dal Prof. Savi (3), e le brecce ancora più famose di Antibo presso Nizza che sono generalmente conosciute nella scienza. Tutti luoghi dianzi nominati sono no- tevoli per la loro posizione lungo le spiagge del Mediterraneo; ma ci ha depositi della stessa natura che occorrono in Italia molto dentro terra: di tal novero sono le brecce trovate nelle vicinanze di Siena e le caverne ossifere di Romagnano, di Ceri e di altri luoghi del Veronese che il Prof. Catullo ci ha fatte conoscere (4). Nel capo Argentaro in Toscana sono stati trovati avanzi di ossa umane mescolati con altri di altri animali, con conchiglie marine e con antiche reliquie d’industria umana: è questo il solo esempio ch'io mi conosca in Italia di sepoltura di ossa umane; ed al pari di quelle trovate in altri luoghi vogliono (1) Scinà, Rapporto sulle ossa fossili dei contorni di Palermo — Christie (Ann. des Scien. Nat. vol. XXV). (2) Conchiologia fossile subappennina: tom. I. pag. 258. (3) Sopra una caverna ossifera scoverta in Italia ( Nuovo Giornale dei Letterati di Pisa, Tom. II. fasc. XXIII). (4) Memoria' sulle caverne delle Provincie Venete. Venezia 1844. Scienze Cosmolog. T. I. 29 226 SAGGIO COMPARATIVO essere bene esaminate per rispetto alla loro giacitura, onde cessino le dubbiezze che ancora lasciano universalmente ne- gli animi. da ” S. III TERRENI TERZIARI, I terreni terziari prendono vasti spazi nella nostra Penisola, e sono divenuti classici nella scienza dopo la pubblicazione della grande opera del Brocchi (1). Essi presentano tutte le divisioni che dai geologi sono state riconosciute in queste sorte di terre- ni; perchè ce ne ha del periodo pliocene recente, del vecchio plio- cene, del miocene, ed eocene, secondochè apparirà dallo schizzo che quì ne diamo. a) Depositi pliocenici recenti. I depositi del nuovo pliocene sono in parte di acqua dolce, in parte marini. Appartengono ai primi i travertini antichi del regno di Napoli, dello Stato Romano e di Toscana. I secondi si trovano tutti nel regno di Napoli, e tengono ora notevole posto nella scienza: tali sono i depositi di Pozzuoli e d’Ischia, quelli di Taranto e della Sicilia meridionale . Ei pare che dopo la formazione delle marne e sabbie sub- appennine scaturirono in diverse parti d’Italia abbondanti acque minerali calcarifere, le quali accolte in particolari bacini dettero origine a que’ grandi ammassamenti di travertino che si veggono nel regno di Napoli, nello Stato Romano, e in Toscana. Essi sono in tali posizioni, che mostrano di essere stati prodotti in un periodo immediatamente anteriore al presente; ed in alcuni luoghi ancora si ligano a masse della stessa natura che sono tut- tora in via di formazione. Io ho fatto conoscere due luoghi del regno di Napoli, dove questi antichi travertini sono veramente (1) Conchiologia fossile subappennina. DEI TERRENI CHE COMPONGONO Il SUOLO D’ITALIA 227 notevolissimi per la loro singolare giacitura e per i grandi am- massamenti che formano. Uno di tali depositi trovasi nella sor- gente del fiume Volturno nell’alto degli Appennini delle Mai- nardi; la sua forma indica chiaramente di essere stato prodotto nel seno di un alto e profondo lago, che poi nabissò e diede origine a quel diluvium locale del quale ho di sopra parlato (1). L'altro trovasi a Civitella del Tronto negli Abruzzi e nelle sue vicinanze. Quest'ultimo è prossimo al deposito del fiume Tronto presso alla città di Ascoli nello Stato Romano; il quale è assai più rilevante inquantochè forma enormi ammassamenti situati come cappello sopra il terreno terziario medio, ed è diviso da ampie valli prodotte da denudazione: uno di tali ammassamenti che trovasi in cima del monte dell'Ascensione si eleva 5678 piedi sopra il livello del mare e contiene varie conchiglie terre- stri, lacustri, ed avanzi di vegetabili dicotiledoni (2). Importanti sono ancora i travertini di Tivoli e della cascata del Velino, co- me quelli che mostrano un passaggio della formazione antica di tali depositi alla loro produzione recente. In Toscana ancora i depositi di cui parliamo riescono notevolissimi: tali sono i tra- vertini del Pitiglianese, i quali, secondo le osservazioni del Sa- vi, sono ricoverti da tufi vulcanici e da peperini, quelli di Colle di Val d'Elsa descritti da Brogniart, quelli di Staggia e di Massa Marittima. Sono da citare in fine i travertini di S. Filippo nel Monte Amiata, dove le masse antiche si ligano con altre che sono al presente in via di formazione. Jo riferisco al periodo pliocehe recente questi depositi di acqua dolce 1.° perchè sono sovrapposti in alcuni luoghi a ter- (1) Sopra una singolare formazione di calcare lacustre giacente in alto e nel grembo degli Appennini delle Mainardi (Annali Civili del Regno delle due Sicilie, fascicolo IV). (2) Io ho date maggiori notizie di questo deposito nelle spiegazioni degli spaccati geologici del Regno di Napoli, che sono stati presentati ai Congressi di Pisa, di Firenze e di Padova. 228 saggio complftarIvo reni subappennini; 2.° perchè contengono conchiglie ed avanzi di vegetabili che vivono tutti ne’ paesi dintorno; 5.° finalmente perchè in alcune parti la causa che gli produsse è tuttora in corso di operazione. Diciamo ora dei depositi marini . I depositi di Pozzuoli sono composti di pozzolane e sabbie vulcaniche stratificate contenenti numerose conchiglie ed altri corpi marini, le cui specie simili vivono tuttora nel prossimo mare: si ha già un elenco di queste specie fatto dal Philippi (1). I depositi d'Ischia sono affini a quei di Pozzuoli, e si trovano parte in una argilla azzurra, parte in una marna e parte in sab- bie vulcaniche. Le specie di questi depositi sono state descritte da Brocchi ed ancora dal Philippi. I depositi di Taranto si trovano in riva del mare grande, e sono composti di sabbie conchiglifere contenenti numerose specie di conchiglie, studiate da Brocchi (2). Tutte le quali spe- cie vivono ora in quel mare da due o tre in fuora, le quali fin quì non vi sono state trovate, ma che pur vivono nel Medi- terraneo. Vengono in ultimo i depositi di Sicilia, i quali hanno lor giacitura principalmente nella meridionale parte di quell’ isola. Il Deshayes avendo esaminate 225 specie di fossili che vi furono raccolte dal Lyell, trovò che 215 appartenevano a specie ora vi- venti nel mare di Sicilia, e 10 a specie sconosciute o estinte . In una collezione di fossili tirati dai medesimi depositi dal- l’Hoffmann e dal Philippi, quest’ultimo ha trovato 80 per 100 di specie identiche a quelle che vivono ora nel Mediterraneo (5). Mai depositi terziari di Sicilia si presentano con caratteri di- (1) Bull. de la Soc. Géol. de France, tom. IX. pag. 25. (2) Osservazioni geognostiche fatte nella terra di Otranto (Biblioteca Italiana, tom. XVII). (3) Series molluscorum Sicilia, tum viventium, cum in tellure tertia- ria fossilium. Berol. 1856. CIRIE TRA EU + ao DEI TERRENI CHE COMPONGONO IL SUOLO D'ITALIA 229 versi, cioè in alcuni luoghi sono composti di calcare, in altri di argille azzurre. Ora si domanda sapere se questi depositi sono contemporanei, ovvero diversi. Intorno a che ci ha discordanza di opinione. Hoffmann crede che sieno tutti contemporanei. Prevost distingue due formazioni calcaree, una antica, l’altra moderna, entrambe che si veggono discordanti vicino Trapani, a Melilli, a Siracusa (1). Gemmellaro distingue tre formazioni calcaree, una recente sovrapposta alle argille azzurre ( calcare pettinifero), un’altra più antica compatta che comparisce nelle vicinanze di Siracusa (giurgiulena), la terza la più antica di tutte, è il calcare di Val di Nolo (2). È da desiderare che i geologi Siciliani chiariscano questi dubbi coll’esame dei fossili e della sovrapposizione. Avvegnachè la fauna fossile dei terreni terziari di Sicilia gli ravvicinasse ai terreni pliocenici recenti, nulladimeno si vo- gliono tenere alquanto più antichi degli altri abbiamo dianzi descritti; primamente perchè aggiungono a molta altezza, e molto più perchè contengono un maggior numero di testacei estinti ovvero stranieri al mare circostante. E poichè ancora la loro facies è molto simile a quella dei depositi subappennini, si possono considerare come l’ anello di congiunzione tra questi depositi ed i terreni pliocenici recenti. b) Depositi pliocenici antichi. Passando ora ai depositi del vecchio pliocene vengono i fa- mosi depositi subappennini. I quali sono al presente tanto cono- sciuti che non mi tratterrò a parlare lungamente di essi. Mi limi- terò quindi solo alle osservazioni seguenti. Si vuol mentovare innanzi tutto i famosi depositi ossiferi di (1) Bullet. de la Soc. Géol. de France, tom. NI, pag. 185 e segg. (2) Elementi di Geologia S. 185 e segg. 250 SAGGIO COMPARATIVO Figline nel Val d'Arno superiore. I quali da alcuni sono riferiti ai terreni alluviali antichi, da altri alla superior parte dei ter- reni subappennini. Quest’ ultima opinione è la più probabile, perchè è appoggiata alla loro congiunzione coi depositi ai quali si fanno tenere, dove altresì sono state trovate reliquie di grandi mammiferi. Che che di ciò sia, i depositi onde parliamo sembra- no di essere stati prodotti nel seno di un lago, che rimase vuo- tato dopo l’apertura dell’ argine che era anticamente all’ Incisa: di che rendono fede le conchiglie fiuviatili che si trovano nella sabbia di Montecarlo. Delle specie di animali che sono state dis- sepolte da questo deposito io non dirò nulla, trovandosi di già descritte ne’ dotti lavori paleontologici del Nesti, del Cuvier e del Blainville. . Venendo ora alla principal massa dei depositi subappen- nini, farò prima di tutto osservare che essi o mancano del tutto, o compariscono solo per piccoli tratti lungo la spiaggia del Me- diterraneo; per modo che chi da Genova muovesse infino a Reggio in Calabria, costeggiando sempre il Tirreno, o non toccherebbe mai questo terreno, ovvero per piccolo tratto sol- tanto. Al contrario lungo l'Adriatico essi si mostrano molto più estesi e continui; e poi ancora nei bacini interni dell’ Appen- nino. Questa diversa distribuzione di un deposito ch’è tanto abbondante in Italia; sembrami meritare un particolare riguardo per potersi riconoscere» onde ella procede; ed io quì la racco- mando alla considerazione dei miei colleghi. Appresso rammenterò in questo luogo che i depositi onde parliamo si presentano in due forme bene distinte dall’ un capo all’altro dell’Italia, cioè superiormente sono di natura arenacea, inferiormente di natura argillosa e marnosa: ora non potrebbe essere che queste due forme sieno state prodotte in due periodi differenti? Per risolvere tale questione, ch'io proposi già al Congresso di Lucca, parmi sia necessario un esatto confronto della fauna contenuta nelle due serie su indicate. Importa in DEI TERRENI CHE COMPONGONO IL SUOLO D’ ITALIA 251 ultimo notare che in alcuni luoghi, avvegnachè rarissimi, i ter- reni subappennini presentano alternanze di banchi fluviatili e di banchi marini. Il Marchese Pareto ha indicato in una sua dotta scrittura i paesi d’Italia dove gli è incontrato di vedere cotali alternanze, cioè nelle colline di S. Agata e Carezano presso Tortona, dove ancor io ho avuto occasione di osservarle insieme col mio illustre collega, e nelle vicinanze della città di Siena (1). Ora dirò dei luoghi dove occorrono i depositi subappennini nel regno di Napoli, e delle forme colle quali si presentano. In Calabria compariscono nelle vicinanze di Reggio, e sono in forma di sabbie granitiche soprapposte alle rocce. cristalline dell'Aspromonte, e contengono gran numero di fossili, i quali hanno dato materia alla classica opera dello Scilla (2). Se ne trovano nelle vicinanze di Gerace e nella valle del fiume Mesima vicino Monteleone, dove sono in forma di argille azzurre. Un luogo molto importante di questi depositi è la valle che riunisce i due golfi di S. Eufemia nel Tirreno e di Squillace nell’Jonio, dove occorre il massimo ristringimento della Penisola, e sono composti di gomfoliti e sabbie stratificate abbondantissime di fossili. Altrove ho fatto conoscere che quella valle era occupata nel periodo subappennino da un canale di mare che separava la Calabria settentrionale dalla meridionale, e rendeva quest’ulti- ma un'isola, a quel modo appunto come adesso è la Sicilia (9). La gran valle di Cosenza è ancora ingombra di depositi subap- pennini, composti di sabbie granitiche piene zeppe di fossili. A questi depositi io fo appartenere l'enorme ammassamento di (1) Sopra alcune alternative di strati marini e fluviatili nei terreni di sedimento superiori dei colli subappennini. (2) La vana speculazione disingannata dal senso . (5) Intorno alla separazione della Calabria meridionale dalla setten- trionale nel periodo terziario subappennino (Annuario geografico italiano, pubblicato dal Ranuzzi. — Anno 1.°). 252 SAGGIO COMPARATIVO sal gemma in cui è aperta la ricca Salina di Lungro in Calabria Citra, la quale era pressochè sconosciuta in Italia innanzi alle notizie che ne ho date in varie mie scritture: per la immensità della sua massa e per le grandi gallerie che vi sono state aperte, può esser messa a pari delle famose saline di Vieliczka e di Cardona. Nella spiegazione della Carta di Napoli io mi propongo di darne una precisa descrizione. I depositi subappennini com- pariscono in vari luoghi della provincia di Basilicata dal lato dell’Jonio. Essi poi formano la più gran parte dell’asse dell’ Ap- pennino che separa la Campania dalla grande pianura delle Puglie, e sono in forma di molasse e di argille, le quali si prolungano nelle valli di Terra di Lavoro prossime alla pianura Campana, dove sono ricoverte a quando a quando da tufi vul- camici ( Avellino, Cerreto, Cajazzo) (1). Nella pianura delle Pu- glie compariscono di parte in parte, come nelle vicinanze. di Manfredonia, dove sono composti di un calcare bianco gros- siere, presso Bari e nella pianura di Lecce, dove danno ori- gine alla famosa pietra Leccese, che è un calcare marnoso bianco molto simile a quello delle vicinanze di Siracusa. Il luogo più importante del regno di Napoli per i depositi onde parliamo, è l'Abruzzo Ultra 1.°; quivi formano una zona di colli a piè dell'alto Appennino del Gran Sasso d’Italia, e discorrono lugo la spiaggia dell’ Adriatico, e sono composti di marne, le quali hanno la stessa fisonomia cenerina di quelle del Volterrano; ma sono molto più estese. Io non ho veduto in nessun altra parte d’Italia una contrada più notevole dell’ Abruzzo marittimo (1) Le molasse di Cajazzo e di Cerreto, le quali io ho descritto come appartenenti al terreno subappennino, probabilmente si debbono riferire al terreno terziario medio , perchè quanto alla loro composizione ed alla forma che hanno sono al tutto simili alle molasse che ho veduto presso Tortona nella Liguria: e poichè sono mancanti di fossili, i quali pure abbondano nelle prossime marne azzurre di Montesarchio, si possono anche per ciò ritenere da queste differenti ( Vedi le mie Ossercazioni geognostiche nella parte settentrionale ed orientale della Campania S. 11). È $ . DEI TERRENI CHE COMPONGONO IL SUOLO D'ITALIA 255 per la forma esteriore delle marne subappennine. Come prima . si sbocca dalla gola montuosa di Popoli andando verso Chieti, occorre allo sguardo una vasta estensione di colli contrassegnati da un color cenerino e da scarsezza di vegetazione, i quali colli sono coronati nelle sommità da molti e pittoreschi paesi. Questa veduta poi riesce assai più gradita al geologo, allorquando sale a qualcuno de’ detti paesi, come per es. a Chieti, a Penne, ad Atri ec. ‘ Non mi tratterrò a parlare dei depositi subappennini che eccorrono nel resto d’Italia, perchè mi converrebbe ripetere cose generalmente conosciute . b) Depositi miocenici. Passiamo ora ai terreni terziari miocenici. Questi terreni sono ancora molto importanti in Italia per i caratteri che pre- sentano e per le materie diverse che contengono. Per bene esaminargli prendiamo le mosse dal luogo dove la prima volta furono distinti, cioè dalla collina di Superga in Piemonte. To non istarò quì a dire della opinione del nostro collega Col- legno circa le diverse età ch’ei distingue ne’ depositi di quella collina (1); conviene attendere che i dotti geologi Piemontesi chiariscano bene tal quistione; a noi basta che l’universale dei geologi riconoscano nella collina citata il principale deposito mio- cene dell’Italia. Abbiamo già dal sig. Sismonda un catalogo dei fossili che sono stati sin quì trovati nel terreno terziario medio de’ colli subalpini (2); il quale catalogo sarà molto utile a con- frontare con quelli che si faranno nel resto d’Italia. Togliendo adunque il terreno di Superga come punto di paragone, è stato” (1) Ved. Mem. de la Soc. Géol. de France, tom. II. $. 2. (2) Osservazioni geologiche sui terreni delle formazioni terziaria e eretacea in Piemonte. Scienze Cosmolog. T. I 50 254 SAGGIO COMPARATIVO facile riferire ad esso quelli di Cadibona, di Stradella e di Tortona nella Liguria, e molti altri che occorrono lungo le falde delle Alpi Lombardo-Venete. I medesimi depositi ritornano a comparire a Caniparola nella Lunigiana, ed abbondano poi molto nella Maremma Toscana, dove sono molto importanti per i ricchi depositi di combustibile fossile che vi sono stati sco- verti, e per gli avanzi organici che contengono. Il Prof. Savi gli avea già diligentemente descritti col nome di Terreni ter- ziari ofiolitici (L), ed a questi ultimi tempi hanno prestato soggetto alla pubblicazione di diverse scritture (2). Gli avanzi organici tanto animali che vegetabili che vi si trovano sono stati descritti ne’ lavori dinanzi citati; ma rimane ancora da compiere l'elenco di essi, affinchè si possa conoscer bene la differenza della fauna dei terreni subappennini e di quelli che quì si esa- minano. In Romagna i più famosi terreni di tal natura sono quelli di Sinigaglia, tanto conosciuti per le numerose specie di filliti e per i pesci di acqua dolce che vi ha raccolti il sig. Procaccini Ricci. Nel regno di Napoli ho avuto occasione di esaminare alcuni depositi terziari miocenici, i quali mi hanno tenuto in molte dubbiezze infino a che non ho studiato i depositi della stessa matura che occorrono in Toscana. Ora posso affermare che si trovano con caratteri bene distinti nelle due estremità opposte di quel regno, cioè nell’ Abruzzo Ultra 1.° e nella punta della Calabria. Abbiamo veduto come nel primo dei citati luoghi le marne azzurre subappennine formano una zona che corre tra la spiaggia dell’Adriatico e la giogaia del Gran Sasso. Ora tra l’asse di quella giogaia e le marne anzidette è interposto un deposito (1) De’ terreni terziari ofiolitici. (2) Savi, Memoria sopra i carboni fossili dei terreni mioceni delle Maremme Toscane. — Pilla, Notizie geologiche sopra il carbone fossile tro- vato in Maremma. DEI TERRENI CHE COMPONGONO IL SUOLO D’ITALIA 235 terziario medio di una enorme spessezza. Il quale è distinta- mente stratificato, e gli strati sono composti di una regolarissima alternanza di molassa tegnente e di argilla compatta; se non che là dove i monti sono più elevati gli strati di argilla divengono più rari; in molti luoghi tengono masse di gesso subordinate (Ripa presso Teramo). La stratificazione è grandemente dislo- gata nella parte che è a contatto colle marne subappennine; nell’altra parte poi che si aggiusta al calcare secondario di Monte Corno, dove il deposito aggiunge ad una rilevantissima spessezza, gli strati sono per lo più in orizzontal posizione; fatto curiosissi- mo, del quale non ho saputo trovar la ragione. Io non vi ho sco- verto nessun fossile animale; ma invece vi s'incontrano impres- sioni vegetabili, e specialmente foglie di piante dicotiledoni, le quali sono al tutto simili a quelle che si trovano nei terreni ter- ziari medi di Toscana; vi sono ancora subordinati in molti luo- ghi ammassi di ligniti, le quali alcune volte presentano il carat- tere di un vero litantrace, e sono state perciò più volte soggetto di ricerche industriali (Ripa presso Teramo). Ma ciò che rende veramente notevole quel terreno è la sua enorme spessezza; perocchè là dove si approssima al giogo del Gran Sasso forma monti elevatissimi, le cime dei quali sono coronate di foreste di abeti, e sono separati da valli anguste e profonde; il perchè quella regione presenta al tutto un carattere alpino, e ne’ paesi che vi sono sparsi non è raro di vedere il cretinismo ed il gozzo. Di tal sorta sono gli alti monti di Tottea, di Nereto, della Valle Castellana; il Pizzo di Sivo, ch'è il più alto di tutti, s'innalza 8800 piedi sopra il livello del mare, secondo le misure dell’ Orsini. Per questa ragione, e per la scarsezza dei fossili, io tardai molto a riconoscere quel terreno come terziario. Il terreno terziario miocenico che ho osservato in Calabria è di gran lunga inferiore a quello degli Abruzzi per estensione e spessezza; ma è più importante per alcuni suoi particolari accidenti. Esso s'incontra, per dir così, a brani come in To- 256 SAGGIO COMPARATIVO scana, ed è principalmente osservabile nel nodo dell’ Aspro- monte, dove è addossato alle rocce cristalline che compongono quelle montagne. Le rocce che fanno parte di sua composi- zione sono molasse, ovvero arkosi ed argille compatte distinta- mente stratificate, e tengono subordinati strati di puddinghe granitiche, e di calcare bituminifero; vi sì trovano ancora in alcuni luoghi (ad Agnana, Antonomina) strati di combustibile fossile, il quale ha tutti caratteri di un vero litantrace, e per tal rispetto rassomiglia intieramente al carbone fossile di M. Bamboli in Toscana; il perchè più volte in quel terreno sono stati fatti saggi di scavi, i quali continuano anche al presente; ma, secondo mio credere, con poca speranza di buon successo. Siccome alcuni hanno creduto ravvisare in quella parte della Calabria un vero terreno carbonifero, basta sapere contra que- st’affermativa che nel deposito di Agnana presso Gerace, ch'è soprapposto al granito-gneis, trovai due specie di conchiglie manifestamente terziarie, l’amphidesma rubiginosa, e la psam- mobia gari, e inoltre avanzi di vegetabili dicotiledoni non bene riconoscibili per essere convertiti in materia arenacea. Occorre di vedere questi depositi nel torrente Valanidi e dell’ Annun- ziata presso Reggio, nelle vicinanze di Melito, Agnana ed An- tonomina presso Gerace, ed a Stilo in Calabria Ultra;2.* Ma ciò che rende veramente preziosi que’ depositi della Calabria sono le sue relazioni col terreno subappennino. Nel torrente Valanidi vedonsi gli strati miocenici raddrizzati contro le rocce cristalline dell’asse centrale, alle quali stanno addos- sati, e sopra di essi sono posti in giacitura discordante, banchi di sabbie subappennine conchiglifere in loro natural posizione. È questo il più bello esempio di giacitura discordante che io mi abbia osservato in tutta la Penisola, secondo che vedesi rappre- sentato nella figura I.* della Tavola annessa al presente lavoro. Dal quale fatto si possono tirare due deduzioni importanti, cioè; 1° Ja differenza precisa di età del terreno terziario medio e DEI TERRENI CHE COMPONGONO IL SUOLO D’ITALIA 257 del subappennino, 2.° Vl indicazione del periodo di sollevamento dell'Appennino di Calabria, che è avvenuto tra lo spazio del deposito pliocene e del miocene. Ma di questo torneremo a parlare più appresso. In generale si osserva in Calabria che gli strati del terreno terziario medio sono grandemente dislo- gati e raddrizzati; e quelli del terreno subappennino stanno in posizione normale. Ora conviene dire di una opinione del mio egregio amico sig: Coquand sopra i terreni terziari medi dell’Italia. Avendo avuto occasione di studiargli in Toscana, ha riconosciuto che sono al tutto somiglianti a. quelli delle vicinanze di Aix in Provenza, ch'egli ha assai bene illustrati: la quale rassomiglianza ei ravvisa non pure nella natura degli strati e nella loro posi- zione, ma eziandio negli avanzi fossili che contengono. Ora sanno tutti che il deposito di Aix è considerato dai geologi Fran- cesi, e segnatamente da E. de Beaumont e Dufrenoy, come un terreno terziario medio: il Coquand invece lo riconosce come parallelo allo gesso di Montmartre presso Parigi, e quindi lo fa appartenere al terreno terziario inferiore. Ei poggia le sue ragioni 1.° su la soprapposizione, avendo osservato che il deposito lacu- stre a ligniti e gesso di Aix è ricoverto con discordanza di strati- ficazione dalle molasse medie del Bordelese, 2.° sopra gli avanzi organici, perchè nel terreno di Aix e precisamente a Gargon sono stati trovati avanzi di generi spenti di mammiferi, cioè di anaploteri e di paleoteri, che il Blainville ha riconosciuti identici alle spezie racchiuse nel gesso di Montmartre; ed inoltre vi sono stati raccolti esemplari di palme (palmacites Lamanonis) simili a quelle racchiuse nello gesso di sopra citato. È osservabile che dal deposito di Monte Bamboli in Toscana sono stati ritratti denti di antracoteri, esemplari di palme, alcune delle quali simili alla palmacites Lamanonis, ed ossa di tartarughe, i quali fossili sono al tutto identici a quelli raccolti nel terreno di Aix. Per queste ragioni dunque il Coquand considera i terreni ter- 258 SAGGIO COMPARATIVO ziari d’Italia che abbiamo ora esaminati, al pari di quelli di Aix, come sincroni allo gesso di Montmartre, ovvero spettanti alla parte superiore del terreno eocene (1). In queste osservazioni del nostro collega sono da distin- guere due cose, cioè la identità del terreno terziario ofiolitico di Toscana e del resto d’Italia con quello di Aix in Provenza, e la sua opinione che questi terreni appartengano al periodo eocene, e non già al miocene, secondo che si crede universal- mente in Italia. Quanto alla prima parte io non credo possa esservi alcun dubbio, ed il sig. Coquand mal si appone allorchè afferma che io ho combattuto il ravvicinamento da lui fatto (2); al contrario io sono pienamente persuaso della identità del ter- reno di Aix con quello di Maremma. Le mie difficoltà sono rispetto alla seconda parte, e nel Congresso di Lucca feci osservare che la sua opinione era combattuta dall’analogia che i terreni terziari ofiolitici di Toscana hanno con quelli. di Superga e di Tortona, i quali sono intermedi tra la formazione terziaria inferiore del Vicentino, e la superiore subappennina; ciò che non vuol dire, che io ho desunto i mici argomenti piut- tosto dall’opinione degli altri che dalla natura dei fatti. Ed ora soggiungo che il sig. Coquand non ha meglio avvalorata la sua opinione in tutto quello ha scritto di recente sui terreni terziari della Toscana (5); poichè, per tacermi d’altro, dev’egli provare in tal quistione che la molassa di S. Dalmazio a banchi di ostri- che con pecten laticostatus (4), la quale si considera come ter- (1) Ved. Bull. de la Soc. Géol. de France, tom. X. p. 77, e tom. I. della seconda serie p. 121. Vedi ancora gli Atti del Congresso di Lucca. (2) Bull. su citato, tom. I. della sec. ser. p. 455. (5) Bull. su citato. (4) Questo fossile occorre frequentemente in Italia ne’ depositi subap- pennini, dove è stato citato dal Brocchi col nome di ostrea latissima. To l'ho trovato ‘nelle sabbie di Gerace in Calabria; e nel Museo di Pisa ce ne ha di belli individui che vengono dalle formazioni subappennine del Senese, DEI TERRENI CHE COMPONGONO IL SUOLO D’ITALIA 259 ziaria media, e che ha servito a lui come di orizzonte geo- gnostico: per distinguere le argille inferiori mioceniche dalle superiori subappennine, sia di età diversa dalla molassa di Vol- terra, la quale fa cappello alle argille evidentemente subappen- nine, ed è identica del tutto alla stessa roccia che nella mede- sima forma occorre a Pomarance, a S. Dalmazio ed in molti altri luoghi del Volterrano. Chiuderò queste notizie sopra il terreno terziario miocene d’Italia facendo notare che quasi da per tutto ov’ è stato rico- nosciuto, presenta i caratteri di un deposito misto, cioè di acqua dolce e marina. Perocchè contiene conchiglie lacustri, pesci di acqua dolce, e avanzi di vegetabili terrestri, mescolati con con- chiglie marine, come ostriche, pettini, terebratule, coni ec. Il quale fatto associato all’altro della gran quantità di combustibile fossile che suol contenere, parmi indicare essere stato questo ter- reno prodotto nel seno di braccia di mare e di golfi attorniati da terre, e contenenti isole basse ricoperte di torbiere; mo- strando in ciò una origine presso a poco simile a quella dei ter- reni litantraciferi. d) Depositi eocenici. I terreni terziari d’Italia si mostrano meno estesi, a misura che da’ più recenti si passa ai più antichi. Abbiamo veduto i depositi subappennini prendere gran parte della superficie della nostra Penisola. I terreni miocenici formano depositi circoscritti che sono sparsi di tratto in tratto in particolari e piccoli bacini. Finalmente i terreni terziari inferiori non compariscono che in un sol luogo della nostra penisola, cioè nel Vicentino: almeno e dell'Isola Pianosa. Questa nota era già scritta, allorquando ho veduto la medesima osservazione che ne forma il soggetto, essere presentata dal sig. Collegno (Bull. dé la Soc. Géol. de France, tom. II. della sec. ser. p. 58). 240 SAGGIO COMPARATIVO non abbiamo finora conoscenza precisa di altro deposito eocene che vi sia stato osservato. Egli è vero che alcuni geologi hanno riferito ai terreni del Vicentino quelli di Val di Noto in Sici- lia (1); ma questa identità è stata desunta piuttosto da ragioni mineralogiche che paleontologiche: le rocce di Val di Noto ras- somigliano bene a quelle del Vicentino per le loro alternanze coi basalti; ma ne differiscono quanto agli avanzi organici; e si è veduto di sopra che l’ Hoffmann considera i terreni di Val di Noto come sinceroni ai depositi pliocenici recenti di quell’isola. Tornando adunque ai depositi del Vicentino, ricordiamo questo fatto curioso, che essi sono l’unico deposito eocene che occorre in Italia. Se pure in questo posto continueranno a rimanere, poichè già alcuni geologi illustri cominciano ad avere qualche dubbio sulla loro età, la quale vogliono far discendere a quella della creta; e nel recente catalogo di pesci fossili compilato dall’ Agassiz, si veggono quelli del Bolca collocati in una rubrica particolare al termine dei pesci fossili cretacei (2). Il quale esempio è stato imitato dal Goeppert per rispetto alle piante fossili di quella regione (3). Ma questa opinione non sembra accordarsi bene col gran numero di conchiglie terziarie che hanno stanza in quel deposito, ed ancor meno con le impronte di piante dicotiledoni (genzianee) che vi sono state osservate. Sul quale argomento conviene attendere ulteriori dilucidazioni dai geologi dell’ Alta Italia. 6. IV. TERRENI SECONDARI. Il giogo principale dell'Appennino è composto in massima parte di rocce secondarie, le quali variano di luogo in luogo e (1) Boué, Guide du Geol. voyag. tom. I. chap. IM. $. 1. (2) Tableau général des poissons fossiles rangées par terrains. (5) Exposé sommaire du nombre des espèces de plantes fossiles ( Com- ptes rend. de l’Acad. des Sc. de Paris, tom. XX. num. 12). DEI TERRENI CHE COMPONGONO IL SUOLO D'ITALIA 241 mostrano di essere state prodotte in età diverse. Ma siccome i caratteri che ci guidano a riconoscere queste differenze di perio- do sono sovente assai intrigati, così lasciano ancora molte dub- biezze da chiarire; ed in verità la cronologia delle rocce secon- darie appennine è uno dei punti più oscuri della geologia italia- na. Per recare un po’ di lume in tali dubbiezze giova innanzi tutto premettere alcune proposizioni generali. L’Appennino, a quel modo che è una ramificazione delle Alpi, così ancora presenta una struttura al tutto identica a quella giogaia. Io non ho avuto già occasione di studiare le Alpi, se non in qualche piccolo punto; ma le descrizioni che ne abbiamo dai nostri egregi colleghi del Piemonte, della Lombardia e dello Stato Veneto mettono in piena evidenza questo fatto. E non pure nella gronda meridionale, ma nella settentrionale ancora la struttura delle Alpi è identica a quella dell’ Appennino, secondo che ne rendono fede i lavori pubblicati dai dotti geologi Svizzeri. Avendo mostrato al sig. Studer diversi spaccati geologici del- l'Appennino napolitano, ei riconobbe in piccolo tutta la ossatura delle Alpi. Ora volendo noi esprimere in brevi termini e gene- rali la geologia secondaria alpino-appenninica, possiamo dire ch’ ella è rappresentata da una gran massa calcarea qua e là ri- coperta di macigno e soprastante a vasti depositi, i quali nella maggior parte dei luoghi si veggono più o meno modificati, e solo in alcuni punti presentano ancora i loro caratteri di sedi- mento interi. Posto ciò come vero, se nessuna speranza ci è di chiarire le diverse serie componenti questi depositi, bisogna fondarla nella comparazione continua delle due giogaie, pren- dendo come punti di paragone, o come orizzonti geognostici, alcuni termini delle serie bene stabiliti; a questo modo noi potremo conoscere l’età di que’ depositi che sono dubbiosi per modificazioni sofferte, confrontandogli cioè con quelli che sono rimasti per avventura inalterati. Mi si conceda in questa scrit- tura di fare per sommi capi tale confronto. Scienze Cosmolog. 1. I. 51 242 SAGGIO COMPARATIVO De’ terreni secondari appenninici due sono bene conosciuti, cioè il terreno cretaceo ed il giura-liassico: gli altri a quest’ulti- mo sottoposti non ancora sono stati bene definiti. Veggiamo adunque, cogli aiuti che ne porge la scienza, quali distinzioni possiamo in tutti questi terreni riconoscere. a) Terreno cretaceo. Il terreno cretaceo è senza nessun dubbio il più abbondante deposito ond’ è composto l’ asse dell’ Appennino; e può eziandio stare che sia il deposito più esteso di tutta la Penisola: la qual cosa si potrà meglio giudicare quando sarà terminata la gran Carta geologica Italiana. Esaminiamo quali divisioni si possono segnare in questo terreno in Italia, e sopra quali caratteri sono poggiate; e per ciò fare convenientemente procuriamo prima di desumerle dalle loro apparenze nella Penisola, e poi passiamo a confrontarle con quelle osservate nel resto di Europa. Il terreno cretaceo Italiano si può primamente dividere in due piani, il superiore e l’inferiore. Il primo composto del maci- gno, il secondo di un calcare, il quale perchè è distinto princi- palmente dalle ippuriti, io dimanderò ippuritico. La formazione del macigno Toscano è tanto conosciuta che non mi tratterrò lungamente ad esaminarla per rispetto ai suoi caratteri. Ricorderò soltanto che essa è composta di due specie di rocce, cioè di un calcare marnoso dimandato comunemente alberese in Toscana, il quale alterna con scisti, e dell’arenaria macigno. La posizione relativa di queste due rocce non è sempre costante. Il Marchese Pareto assicura che nella Liguria l’alberese è sempre soprapposto al macigno: in Toscana a me è sembrato vedere la stessa cosa; ma in verità in parecchi luoghi si veggono le due rocce alternare e mescolarsi insieme. Non è intanto da preterire che in certe parti d’Italia, come nel Bolognese, questo terreno è composto di argille per lo più scure, untuose e com- DEI TERRENI CHE COMPONGONO IL SUOLO D’ ITALIA 245 patte, le quali dal Prof. Biancone, che le ha accuratamente de- scritte, sono state chiamate scagliose, per distinguerle dalle ar- gille subappennine, con le quali si potrebbero confondere allor- chè con esse si trovano in contatto (1). I fossili che contrasse- gnano il macigno appartengono principalmente al regno vegeta- bile; e sono i fucoidi, de’ quali il f. intricatus, furcatus e Targioni sono le specie più abbondanti. Sul proposito degli avanzi vege- tabili del macigno, debbo quì far menzione di un bello esem- plare di calamites da me trovato nel macigno dell’appennino di Firenze, nel passo della Futa, lungo la strada che da quella città conduce a Bologna. Ed ancora il mio egregio collega Pietro Savi mi ha fatto vedere alcuni avanzi vegetabili da lui trovati nel macigno di Pupiglio nel Pistoiese, i quali gli davano sospetto di forme prossime alle calamiti. Ma il mio saggio, che presenta due articolazioni distinte, e le coste de due internodi alter- nanti, non lascia nessun dubbio circa la identità della sua forma con quella delle calamiti. Ora noi sappiamo che questa famiglia di piante, abbondante principalmente nel terreno litantracifero, è rappresentata da poche specie nell’ arenaria rossa e nell’are- naria sereziata, e credeasi che superiormente a quest’ ultimo terreno cessasse al tutto di comparire. La scoperta di tali piante nel macigno dimostra ch’ esse hanno continuato a vivere infino al periodo di questo terreno. Quanto alle specie animali elle vi sono rarissime. Accade alcune volte di vedere nell’alberese certe impressioni che sono state giudicate prodotte da mean- drine; ma ciò è molto incerto, perchè non si sono mai incon- trati di questi zoofiti nel terreno che discorriamo: forse saranno anch'esse impressioni di piante marine. Vi occorrono invece, comecchè ancora poco abbondanti, le nummuliti, le quali si vedono a Musciano nelle vicinanze di Firenze, a Loppora, Sel- vena, Decimo, Pereta in Maremma; ed io le ho trovate ancora (1) Storia naturale dei terreni ardenti, S. 85 e segg. 244 | SAGGIO COMPARATIVO nelle marne a fucoidi di Alberona nella Daunia. Vuolsi ancora mentovare un altro fossile importantissimo trovato nel macigno fiorentino, cioè un frammento di grande politalamico, che sem- bra appartenere ad un hamiles: questo prezioso organico avanzo fu trovato dal Micheli nella pietra forte che ritraesi dalle petraie di S. Francesco di Paola presso Firenze (1), e conservavasi nella collezione del Targioni a Firenze, dove fu veduto dal Broc- chi (2), dal Nesti, e dal Prof. Savi: quest’ultimo ne prese un modello in gesso, il quale si conserva nel Museo mineralogico della Università di Pisa: ed è veramente dispiacevole che ne” cangiamenti ai quali è andata incontro quella collezione, l’esem- plare del quale parliamo siasi perduto. Inoltre il sig. Pentland assicura di aver trovato un’ammonite nella pietra forte onde sono selciate le strade di Firenze: ed un fossile simile fu rinvenuto ancora dal Marchese Pareto nel macigno de’ contorni di Geno- va (5): di che giova tener conto per la rarità degli avanzi ani- mali nel deposito onde parliamo. Il Dott. Santagata di Bologna ha inoltre descritto e figurato l’apiocrinites ellipticus, Miller, da lui trovato con altri fossili non definiti in aleuni macigni friabili o molasse dell’ appennino Bolognese (4). Questo crinoide è assai notevole per ciò che occorre nella creta bianca del settentrione, e noi avremo occasione di tornare appresso sul suo proposito. Si trovano finalmente nella formazione del macigno depo- siti carbonosi: tali sono le stipiti trovate a Pupiglio nel Pistojese dal Savi, e nella valle del Taro nella Lunigiana dal Zuccagni Orlandini: ma tali depositi sono poco abbondanti: essi sono ac- compagnati da avanzi di piante poco riconoscibili. Dirò ora brevemente della giacitura di questa formazione in Italia. Nella Carta di Sicilia pubblicata dall’ Hoffmann ella parmi (1) Ferber, Lettres sur l’ Italie, XIX lettre. (2) Conch. foss. subap. t. I. p. 17. (5) Diario del Congresso di Milano, N.° 4. (4) Annali delle Scienze Naturali di Bologna, tom. I. DEI TERRENI CHE COMPONGONO IL SUOLO D'ITALIA 245 rappresentata dall’arenaria degli appennini a fucoidi, dai conglo- merati a questa subordinati, e dall’argilla plastica e scistosa. Ne' domini Napolitani di quà dal Faro il terreno del macigno è molto raro: io non l'ho osservato bene distinto che ne’ monti di Bovi- no in Capitanata, dove è formato di calcare marnoso, di marne e di argille scagliose piene di fucoidi al tutto simili a quei del macigno Toscano, e contengono ancora rare nummuliti, alle quali rocce sono subordinati strati numerosi di ferro carbonato argillifero. Non saprei indicare i luoghi dello Stato Romano dove trovasi il terreno del macigno, eccezion fatta dell’ appennino Bolognese, dove esso fa continuazione con quello di Firenze. Il macigno della Toscana, del Modenese e della Liguria è tanto classico, che basta solo nominarlo in questo luogo. E° si trova an- cora, ed assai bene distinto, a piè delle Alpi di Lombardia, dove fu esaminato dalla Sezione di Geologia del Congresso Milanese in due luoghi, nella valle dell'Adda presso Paderno e vicino a Gavirate. Nel primo dei quali luoghi è composto di una serie di strati calcarei grigi e rossi che tengono interposti strati di una brecciola nummulitica al tutto simile a quella di Musciano presso Firenze. Più importante è poi la formazione di Gavirate, la quale contiene non pure un gran numero di fucoidi simili a quelli del macigno fiorentino, ma eziandio altre specie, le quali attendono di essere chiarite da qualche abile algologo. Passiamo ora al terreno cretaceo inferiore, il quale è molto più intrigato in Italia, ed ha mestieri ancora di essere bene chiarito. Può esso dividersi in due gruppi principali, cioè cal- care nummulitico, 0 superiore, e calcare neocomiano o inferiore: queste due rocce, avvegnachè si ligassero insieme, e l’una all’al- tra insensibilmente passassero, non però di meno si lasciano distinguere per buoni caratteri in tutta la Penisola. Esaminiamo i principali luoghi di questa, dove accade meglio di riconoscerle. Hoffmann, Prevost e Gemmellaro citano in Sicilia un calcare bianco soventi cavernoso e alcune marne bianche, le quali rac- 246 SAGGIO COMPARATIVO chiudono rognoni e strati di selce, di diaspri e di agate, e con- tengono nummuliti, ippuriti, terebratule, ostrea vesicularis, spa- tanghi ed ancora alcuni frammenti di ammoniti. Questa forma- zione si estende, quantunque interrottamente, dal Monte Erici vicino Trapani infino al Capo-Passero. Quì cade di mentovare una quistione di qualche importanza. In quale formazione si tro- vano i ricchi depositi di zolfo di Sicilia? Gemmellaro è di opi- nione che essi abbiano stanza nei terreni terziari (1). Alla quale opinione si accordano Daubeny, Paillette, e Pinteville. Constant Prevost afferma che si trovano in un terreno intermedio tra il cretaceo ed il terziario. L’Hoffmann vedeva nelle vicinanze di Girgenti l'argilla azzurra passare ad argille scistose con istrati subordinati di calcare a nummuliti ed ippuriti, ed a queste ulti- me rocce tenere i depositi di zolfo, i quali perciò riponeva nel- l’arenaria verde degli Appennini (2). Finalmente il Maravigna ricisamente gli colloca in quest’ ultima formazione. Noi avremo occasione di ritornare appresso su tale questione (ved. $. 6). Il medesimo calcare cretaceo comparisce cogli stessi carat- teri in alcuni luoghi del regno di Napoli, nella estremità orien- tale del Gargano, a Matinata, Rodi, nelle isole di Tremiti, ne’ quali luoghi contiene grandi nummuliti ed ippuriti: si mostra ancora coi medesimi fossili nelle falde occidentali del Monte Majella negli Abruzzi, ed in alcune montagne staccate che tra- versano il terreno terziario medio (Monte Iuannella nel 1.° Abruzzo), ed il terreno subappennino (Olivella di Pacca vicino Benevento). Questo calcare spesse volte è bianco sporcante: con- tiene strati e rognoni di selce, e rassomiglia perciò moltissimo alla creta. La formazione nummulitica, onde parliamo, manca del tutto in Toscana. E conviene risalire al cominciamento del- l Appennino per ritrovarla. Infatti è stata osservata dal Marchese (1) Elementi di Geologia S. 199. (2) Ved. Bull. de la Societé Géol. de France, tom. I. p. 177 e 178. DEI TERRENI CHE COMPONGONO IL SUOLO D'ITALIA 247 Pareto e dal Sismonda nel Contado di Nizza, dove, movendo dal Capo della Mortola si seguita fino al Colle di Tenda ed alle alte montagne che gli sono vicine a levante, e quindi si liga e continua col calcare nummulitico delle Basse ed Alte Alpi. È stato ancora questo calcare distinto nel gran deposito della sca- glia delle Alpi Venete: poichè il Pasini ed il Prof. Catullo lo ci- tano nella scaglia di Fenez e nei monti al mezzogiorno di Belluno. Questo calcare è stato spesso confuso col macigno, a cagione delle nummuliti che sono comuni all’uno ed all’altro terreno, quantunque nel primo sieno abbondanti e nel secondo rarissime. Nessuno almeno finora ha cercato di far conoscere le differenze precise che ci ha tra il calcare nummulitico veramente cretaceo, ed il macigno. Di quì sono dirivate le idee che comunemente corrono circa l’ età cretacea del macigno, sulle quali avrò motivo di discorrere un po’ distesamente appresso. Il terreno neocomiano comparisce con tutti suoi caratteri bene distinti nel regno di Napoli e di Sicilia, e dà origine a grandi masse calcaree, le quali formano la più gran parte del- l’appennino di quel paese. Innanzi mi fosse riuscito di trovare un gran numero di fossili nell’anzidetto calcare, credeasi che questi vi mancassero interamente (1), e però riusciva dubbiosa la sua età, e generalmente si considerava come un calcare giu- rassico. Ma di poi che è stata fatta la distinzione del terreno neocomiano, e de’ suoi fossili distintivi, ho potuto conoscere che i corpi organici da me trovati nel calcare appenninico napoletano appartengono manifestamente a questo terreno. I miei egregi amici March. Pareto e Coquand avendo esaminata una collezione di rocce e di fossili, la quale ho ritratta da que’ paesi, e che ora conservasi nel Museo di Pisa, hanno creduto del tutto di vedere il calcare ed i fossili neocomiani di Provenza, de’ quali hanno precisa conoscenza. È il calcare di che parliamo, compatto, (1) Ved. Brocchi, Conch. foss. subapp. 248 SAGGIO COMPARATIVO bianchiccio, ovvero grigio, a frattura eguale, e per lo più sca- gliosa, c non contiene mai subordinate rocce di altra natura, eccetto in qualche luogo letti di selce; spesso poi tramutasi in una vera dolomite. I fossili che io vi ho trovati sono i seguenti. Ippuriti e sferuliti. Specie numerose, ma poco acconce ad es- ser definite, a causa del loro impastamento nella roccia. Caprotina (Chama) ammonia. Monte Casino (1). Terebratula pisum. Majella. Pleurotomaria neocomiensis. D' Orb. — Monti di Venafro in Terra di Lavoro. Plewrotomaria gaultina? D'Orb. — Gargano. Phasianella neocomiensis. D'Orb. — Monti di Vitulano in Terra di Lavoro, dove questa specie forma una lumachella. Acteon marginata. D'Orb. — Monte Casino. Altre specie di acteon indeterminate . Acteonelle? Matese, Majella. Nerinea Renhauziana. D’Orb. — Monte Casino. Nerinea Requieniana? D'Orb. — Idem. Nerinea lobata. D'Orb. — Idem. Nerinea subequalis. D'Orb. — Gargano. Altre specie di nerinee indeterminate. Ognuno può vedere che questi fossili sono molto identici a quelli che si trovano nel terreno neocomiano superiore di Pro- venza, i quali descritti e figurati si veggono nella Paleontologia francese del D'Orbigny, art. Terreni Cretacei; ed accompagnano la prima zona delle rudisti dell’anzidetto autore. Ciò che merita di essere notato per alcune ragioni che appresso diremo. Il cal- care neocomiano «forma quasi tutti gli alti monti calcarei degli (1) Se mal non mi ricordo, si ravvisano le forme ed i contorni di questo fossile eziandio nei bei marmi colorati del Monte Gargano, i quali adoperati si veggono nella magnifica scala della Reggia di Caserta, e furono ritratti dalla porzione occidentale di quel monte, che rimane fio e distinta dal calcare bianco nummulitico orientale. DEI TERRENI CHE COMPONGONO IL SUOLO D'ITALIA 249 Abruzzi e di Terra di Lavoro, che è la più alta regione mon- tuosa dell’Appennino; basta dire che il Gran Sasso, la Majella, il Velino, le Mainardi, il Matese, che vanno noverati fra’ più . alti gioghi d’Italia, sono di questo calcare in gran parte compo- sti. Il quale continua, sebbene interrottamente, nelle provincie di Avellino, di Salerno e Basilicata, e forse forma ancora le masse calcaree che sono sovrapposte alle rocce cristalline di Ca- labria. Io riferisco ancora a questo terreno il calcare delle Ma- donie e dei monti circostanti a Palermo, i quali fanno parte della giogaia settentrionale di Sicilia: avvegnachè non gli avessi molto studiati, pure la roccia onde sono composti è al tutto simile a quella dei monti Napolitani, ed i fossili indicati dall’ Hoffmann sono ancora gli stessi (1). Il calcare neocomiano deve continuare nello Stato Romano, almeno nella sua parte che confina colla Terra di Lavoro e co- gli Abruzzi. I monti della Sabina debbono essere in gran parte composti di esso; ma io non saprei indicare con precisione i suoi limiti. Siccome manca il calcare nummulitico in Toscana, così non vi comparisce ancora il terreno neocomiano. Il quale si torna a trovare in sù nei contorni di Nizza e nelle Alpi marittime, dove è stato riconosciuto e studiato dal Marchese Pareto (2) e dal Prof. Sismonda (5). E quivi ancora si connette e prolunga col terreno neocomiano di Provenza. Nelle Alpi di Lombardia esso è forse (1) Nella Carta di Sicilia di questo celebre geologo trovo il calcare di Palermo (N.° 9) segnato dopo l’ arenaria degli Appennini a fucoidi (N. 7 e 8): ciò che farebbe credere la prima roccia più recente della seconda. To non conosco il testo che accompagna detta carta; ma se le relazioni delle due rocce vi sono così indicate, non mi sembrano giuste, perchè il calcare delle Madonie, che io reputo neocomiano, è più antico dell’ arenaria a fu- coidi degli Appennini. (2) Attî del Congresso di Lucca. (35) Osservazioni geologiche sulle Alpi marittime, e sugli Appennini Liguri. I {t9) Scienze Cosmolog. T. I. 250 SAGGIO COMPARATIVO rappresentato dalle rocce inferiori alle puddinghe ad ippuriti ed acteonelle del Sirone (1). Finalmente il medesimo terreno forma grandi depositi nelle Alpi Venete, secondo le osservazioni del Prof. Catullo, e secondo alcuni fossili che si veggono figurati nella Zoologia fossile di questo autore. Sul proposito del terreno neocomiano che si discorre, sono da mentovare quì alcune recenti osservazioni del sig. Fitton, colle quali questo distinto geologo, che ha fatto speciale studio dei terreni cretacei; ha preso a dimostrare che il terreno neo- comiano non è già l’equivalente del terreno wealdiano inglese, secondochè era stato creduto finora, ma sì dell’arenaria verde inferiore (lower greensand); e siccome quest’ultimo deposito è superiore al terreno wealdiano, e quindi di una età più recente, perciò ancora il terreno neocomiano vuolsi considerare più re- cente del wealdiano, ciò che si accorda eziandio bene colla loro diversità di origine, l'uno essendo marino, l’altro di acqua dolce. Il sig. Fitton è stato mosso a fare questo nuovo ravvici- namento del terreno neocomiano comparando i suoi fossili con quelli dell’arenaria verde inferiore, e veggendo la loro grande analogia, ed altresì combinando questo risultamento colle so- prapposizioni osservate nell’isola di Wight, e sulla costa di Kent (2). Le ragioni che adduce il sig. Fitton, avvalorate ancora dall’autorità del sig. Alcide d’ Orbigny, sembrano dare gran peso alla sua opinione, la quale forse sarà abbracciata dall’universale dei geologi. E piacemi citare un altro fatto in appoggio di essa. Nel Congresso di Lucca il sig. Coquand fece vedere che il ter- reno cretaceo di Provenza è rappresentato di basso in alto 1.° dal terreno neocomiano a spatangus retusus, chama ammonia, alcune (1) Collegno, Mém. sur les terrains stratifiés des Alpes Lombardes. ( Bull. de la Soc. Géol. de. France, tom. 1. della seconda serie, p. 199). Villa, Sulla costituzione geologica della Brianza. (2) Observations sur le lower greensand de Vile de Wight (Bull. de la Soc. Géol. de France, tom.-I. della sec. serie, p. 158). DEI TERRENI CHE COMPONGONO IL SUOLO D'ITALIA 251 ippuriti cc.; 2.° dal gaul! con fossili distinti; 5.° dall’arenaria verde superiore con immenso numero d’ippuriti, con nummu- liti, ammonites rhotomagensis ec. (1). Ora ognun vede che in quel paese il terreno neocomiano tiene appunto il posto dell’are- naria verde inferiore. Questi fatti ed altri che appresso vedremo daranno gran lume per chiarire il terreno cretaceo d’Italia. Noi abbiamo descritto il terreno del macigno Italiano come superiore al calcare nummulitico-ippuritico. Ma giova fermar bene questo punto innanzi di passare ad alcune altre deduzioni che appresso saranno esposte. Si vede mai in nessun luogo d’ Ita- lia la sovrapposizione detta dinanzi? In verità io non l’ho diret- tamente osservata nè nel regno di Napoli (2) nè in Toscana; e ciò è cosa ben naturale, perchè nel primo dei citati paesi il macigno è rarissimo, laddove il calcare nummulitico-ippuritico è molto abbondante; il contrario accade in Toscana, dove il ma- cigno è assai esteso, e l’altro terreno vi manca del tutto: perciò difficile, se non impossibile cosa è il vedere in quei luoghi il contatto immediato de’ due terreni. Il quale pertanto sembra es- sere stato osservato nell'Appennino della Liguria occidentale, dove le due rocce si mostrano ugualmente in grandi masse. In- fatti il Marchese Pareto ci fa sapere che verso Alassio ed Alben- ga si vede una larga zona di macigno sopra il calcare nummu- litico da una parte, e sul calcare giurassico dall’altra (5). Ed altrove soggiunge che presso Mortola si veggono banchi di calcare con grandi nummuliti, i quali sono sottoposti a grossi strati di (1) Atti-del Congresso di Lucca. (2) Forse sarà possibile di vederla nelle montagne di Alberona in Capitanata, dove, a quello mi ricorda, ci ha un contatto del terreno del ma- cigno colla creta a selce simile a quella di Rodi nel Gargano. Ma quando visitava quei luoghi non avevo presente al pensiero la quistione che quì si discorre. (5) Atti del Congresso di Torino, pag. 109. 252 SAGGIO COMPARATIVO macigno, e questi sono coronati da calcare a fucoidi (1). La medesima sovrapposizione è stata osservata dal Sismonda vicino al Lago di Lauzanier nelle Alpi Piemontesi (?). In oltre è da aggiungere che il macigno è al tutto indipendente dal calcare. nummulitico-ippuritico. Io non conosco nessun luogo dove sia stato osservato un passaggio dell’ uno all’ altro. In Italia veggia- mo il macigno sovrapposto, ora al terreno giurassico (Toscana), ora al calcare nummulitico (Liguria), ma sempre con linea di separazione distinta, ciò che è il carattere principale della in- dipendenza di una formazione (9). Dopo aver fatto conoscere le forme del terreno cretaceo in Italia, e le sue differenze, giova compararlo con quello di Fran- cia e d'Inghilterra, ovvero conviene confrontare la zona cretacea mediterranea con quella del N. 0. di Europa. Alcuni geologi hanno considerato il macigno ed il calcare nummulitico come formazioni parallele, 0 contemporanee; e poi- chè quest’ultima roccia, secondo che appresso vedremo, si fa ap- partenere al piano dell’arenaria verde superiore, così al piano medesimo riferiscono ancora il, macigno. Altri invece accostan- dosi più alla verità ripongono il macigno sopra il calcare num- mulitico e quindi lo fanno appartenere alla creta superiore. Pren- dendo come orizzonte la creta bianca si vede bene che, secondo la prima opinione, il macigno è inferiore alla creta anzidetta, e secondo l’altra sarebbe almeno ad esso parallelo. Ora io mi av- (1) Atti del Congresso di Lucca, pag. 241. (2) Memoria sui terreni stratificati delle Alpi . (5) Non mi è riuscito di leggere il lavoro dello’ Studer sul terreno eretaceo delle Alpi Svizzere. Ma trovo che questo illustre geologo vi distin- gue sei sistemi successivi, i quali sono andando d’alto in basso 1.° il fliseX (macigno alpino) 2.° un’arenaria e calcare a nummaliti; 5.° calcare di Sewen; 4.° calcare a ippuriti; 5.° strati a inocerami; 6.° calcare e scisti neri a spatanghi. Secondo questa divisione il macigno alpino sarebbe ancora superiore al calcare a nummulili come nella Liguria; e forse ancora è da questo bene distinto. DEI TERRENI CHE COMPONGONO IL SUOLO D’ ITALIA 255 viso che tanto l'uno quanto l’altro pensamento sono soggetti a molte incertezze, e tengo che il vero posto del macigno non è stato ancora ben definito. Alcune ragioni, forse di non lieve mo- mento, mi fanno credere che questo deposito è superiore alla creta bianca, e quindi che esso dev’ essere da questa distinto. Ed ecco le ragioni di che intendo parlare . 1. Allorchè il Lyell ha voluto dimostrare la connessione della creta del settentrione e del mezzogiorno di Europa, ha scelto alcuni luoghi della Francia meridionale e de’ Pirenei, dove questa connessione si vede. Così per esempio a Tercis vicino Dax le rocce cretacee conservano la forma della creta bianca, ed il Grateloup vi ha trovata l’ananchites ovata, e diversi altri fos- sili della creta d'Inghilterra mescolati con ippuriti, e quando si arriva a Baionna ed a’ Pirenei, la formazione cretacea presen- tando ancora alcuni stessi accidenti mineralogici, vedesi a mano a mano patir cangiamenti e riempirsi di nummuliti (1). E quì. è da notare che le nummuliti di Peyrehorade ne’ Pirenei figurate dal Lyell sono al tutto simili a quelle che ho trovato in una vera creta bianca nel Gargano mescolate colle ippuriti, e sono perciò al tutto diverse dalle nummuliti del macigno. Vuolsi notare in- fine che l’Ehremberg ha trovato nella creta a nummuliti di Tebe nel Cairo, del Monte Sinai ed in molte altre rocce simili del mediterraneo i medesimi infusori microscopici che ha scoverti nella creta bianca settentrionale di Meudon, di Rugen e di altre parti (2), i quali animaletti non sono stati osservati, almeno fino- ra, nel macigno. Adunque se il calcare nummulitico del mezzo- (1) Lyell. Nouseaua élements de Geéologie: ch. XV. Conosco bene che nella gran Carta Geologica della Francia, eseguita da E. de Beaumont e Dufrenoy, i luoghi detti di sopra sono indicati con tinta verde, la quale di- nota i terreni cretacei inferiori alla creta bianca; ma può egli stare che predominando pure i depositi della creta inferiore, si veggano in qualche parte, come ne’ luoghi citati dal Lyell, connessi con la creta bianca. (2) Bull. de la Soc. Geol. de France, tom. XIV. pag. 5395. DIA SAGGIO COMPARATIVO giorno è presso a poco sincrono, o almeno si liga colla creta bianca settentrionale, e se contiene alcuni fossili della stessa natura che occorrono in questa, ne seguita naturalmente che il macigno, il quale abbiamo veduto sovrapposto al calcare nummu- litico, è superiore ancora alla creta bianca e da esso indipen- dente. 2. Nella creta tufacea (tuffeau) di Maestricht, che ora tutti i geologi considerano come appartenente alla creta superiore, sono state trovate con fossili della creta bianca ancora delle ip- puriti. Il sig. Duchatel ha eziandio indicata una sferulite nella creta tufacea di Ciply nel Belgio (1). Ora le rudisti non incon- trandosi in Italia che sempre sottoposte al macigno, si trae da ciò argomento che questa roccia è più recente della creta bianca. Nè vo’ pretérire un’ altra osservazione che avvalora il mio ragio- namento. Tra fossili che accompagnano sovente in Italia il cal- care nummulitico-ippuritico, occorrono più frequenti delle altre le acteonelle, e specialmente l’acteonella gigantea: i quali fossili, secondo il D'Orbigny, hanno lor sede principale nella creta clo- ritica; e siccome il macigno non contiene mai questo fossile, ed è costantemente superiore alle rocce che contengono ippuriti ed acteonelle, si deduce da ciò che è posteriore alla creta clo- ritica. Potrebbe in verità, secondo questa indicazione, essere parallelo alla creta bianca superiore alla cloritica; ma per i mo- tivi che abbiamo recati dinanzi, e per altri che appresso saranno additati, si vuole considerarlo distinto da questa . 5. A questi argomenti aggiungiamo che il sig. Leymerie ha presentato non è guari all'Accademia delle Scienze di Parigi un lavoro, nel quale togliendo ad illustrare il terreno cretaceo di Corbières, ed in generale di tutto il mezzogiorno della Francia, ei distingue il terreno cretaceo a nummuliti dal terreno cretaceo a rudisti, il primo superiore, il secondo inferiore. In alcuni (1) Bull. de la Soc. Geol. de France, tom. XIV. pag. 535, DEI TERRENI CHE COMPONGONO IL SUOLO D'ITALIA 255 luoghi, come a Corbidres, il terreno ‘a nummuliti contiene una mescolanza di fossili appartenenti alla creta, ed al calcare gros- sière di Parigi, ciò che ha dato materia a controversie fra’ geo- logi ed i paleontologi. Il sig. Leymerie, che per giuste ragioni lo ritiene cretaceo, lo ha dimandato epicretaceo, a motivo della sua posizione per rispetto al calcare a rudisti. Nondimeno affer- ma che ne’ punti, ove i due sistemi si trovano riuniti, vedes? tra gli strati dell'uno e quelli dell’altro non solo una concordanza perfetta, ma altresì una somiglianza mineralogica notevole, ed anche una specie di congiunzione verso la superficie di contatto; e soggiunge ancora che, quantunque le nummuliti e le rudisti non si mescolino insieme negli strati medesimi, pure nel contatto delle due formazioni questa mescolanza si osserva in qualche luogo (1). Tutti quali fatti si accordano benissimo con quanto io ho osservato nel calcare eretaceo. napolitano, salvo la mesco- lanza di fossili terziari e cretacei mentovata dal Leymerie (2). Ora egli è indubitato che il terreno nummulitico, del quale parla il prelodato geologo, non è quello del macigno, ma sì vero l’altro ligato al calcare a rudisti del quale forma la parte supe- riore. E siccome abbiamo veduto essere il macigno sovrapposto al calcare nummulitico epieretaceo, ne seguita che quel deposito è a questo posteriore, e quindi non fa parte del terreno della creta. 4. Finalmente come ultima pruova, ed a mio credere con- vincentissima, di quanto si afferma, piacemi citare il seguente fatto osservato dal Prof. Sismonda presso il Lago di Lauzanier; (1) Mem. sur le terrain à nummaulites (epicrétacé) de Corbières et de la Montagne Noire (Compt. rendus de l' Ac. des se. de Paris tom. XIX. 12 aoùt 1844). (2) Nondimeno ho il sospetto che questa mescolanza ci possa essere nel Monte Gargano, e specialmente nelle così dette tofure di S. Leonardo, dove coi fossili terziari che sono i più numerosi ho veduto mescolate alcune dicerati non dubbie. 256 SAGGIO COMPARATIVO del quale luogo abbiamo avuto occasione di fare innanzi men- zione. Quivi il calcare a fucoidi ricuopre alcuni strati di calcare bigio argilloso, ricco di zoofiti, sul quale a quando a quando succedono strati di calcare arenoso racchiudenti varie spezie di conchiglie dei generi, cerithium, ampullaria, cytherea, cassis ec.: il prelodato geologo considera questi strati appartenenti al ter- reno nummulitico, e fa vedere che sono identici a quelli conte- nenti i medesimi fossili nella Montagna des Diablerets e nella roccia di Fizs nella Svizzera (1). Ora ognun vede che tutti que- sti depositi convengono con quello di Corbières per la mesco- lanza di fossili cretacei e terziari, e tutti si possono considerare come spettanti al terreno nummulitico: e poichè nel Lago di Lauzanier vedesi direttamente la sovrapposizione del calcare a fucoidi ad un calcare nummulitico epicretaceo, si ha una dimo- strazione compiuta del posto del macigno al di sopra di tutta la creta. Fermata così la posizione del macigno, io sono di avviso che il calcare nummulitico-ippuritico d’Italia sia il rappresentante di tutta la creta del N. O. di Europa, e che in esso si può rav- visare il piano della creta bianca e dell’arenaria verde. Di che giova quì addurre le prove. Le parti superiori e più recenti del calcare nummulitico Italiano si presentano in alcuni luoghi con tutt’ i caratteri mi- neralogici della creta bianca, e contengono come questa strati e rognoni di selce; ciò si vede nel calcare cretaceo meridionale di Sicilia che di sopra abbiamo citato, in quello di Rodi e Ma- tinata nel Gargano, di Penna @ piè di Monte nella Majella, di Montursi presso Romagnano nel Vicentino; ai quali caratteri sembrano associarsi alcuni fossili ancora che propri sono della creta bianca, come l’ostrea vesicularis trovata in Sicilia e nella Majella, la podopsis truncata, lo spatangus cor anguinum, l'anan- (1) Memoria sui terreni stratificati delle Alpi. È DEI TERRENI CHE COMPONGONO IL SUOLO D’ITALIA 257 chites ovata che il Prof. Catullo cita nel biancone del territorio de’ Sette Comuni. Un esempio di maggior momento di creta superiore è quello osservato dal Prof. Sismonda nel passo di Brauss nelle Alpi Marittime, dove ha trovato strati pieni di fran- tumi del belemnites mucronatus e del catillus Cuvieri, fossili ca- ratteristici della creta superiore (1); e, che importa assai al fatto nostro, ha veduto questa roccia soprastante al calcare nummuli- tico; egli è vero che quivi il calcare non ha l’aspetto della creta bianca; ma l’assenza di questo carattere è di ben poco peso rispetto ai fossili ed alla posizione che lo contrassegnano. In conchiusione il piano della creta bianca propriamente detta è rarissimo in Italia, e solo ravvisare si può in alcune porzioni superiori e più recenti del nostro calcare nummulitico-ippuritico. Vediamo ora se i tre piani dell’arenaria verde, cioè 1’ are- naria superiore, il gault, e arenaria inferiore si ravvisano nel calcare nummulitico-ippuritico Italiano. Alcune porzioni di questo terreno presentano i caratteri mineralogici della glauconia, vale a dire contengono una gran quantità di grani verdi che contrassegnano questa roccia: con tali caratteri è stata osservata dal Marchese Pareto nel Contado di Nizza (2), dal Prof. Sismonda nel passo di Brauss (5), dal Pasini nei Sette Comuni (4). La glauconia del passo di Brauss essendo posta al di sotto del calcare a belemniti e catilli nomi- nati dianzi, indica per ciò solo la sua identità all’arenaria verde superiore. Inoltre i fossili che il Pareto trovò nella glauconia del Contado di Nizza appartengono all’arenaria verde superiore, come turriliti, aleune ammoniti, e con queste una gran quantità di nummuliti. Afferma ancora il Sismonda che la glauconia del (1) Osservazioni geologiche sulle Alpi marittime, e sugli Appennini Liguri. (2) Atti del Congresso di Torino, pag. 109. (5) Scrittura sopra citata. (4) Annali delle Scienze del Regno Lombardo-Veneto. Anno 1852. Scienze Cosmolog. T. I. 55 258 SAGGIO COMPARATIVO passo di Brauss fa parte di un calcare nummulitico che è posto sotto agli strati a belemnites mucronatus e catillus Cuvieri. Per quello riguarda il Vicentino, noi sappiamo che ci è colà un’ab- bondanza di nummuliti cretacee; Catullo e Pasini le hanno indi- cate nella scaglia di Fenez e nei monti posti al mezzogiorno del Bellunese. Inoltre d’Orbigny avendo osservate le rudiste del Vi- centino raccolte dal Lucas, vi trovò l’Rippurites gigantea, carat- teristica della sua terza zona delle rudiste ch’ ei ripone nella creta cloritica; ed altresì io ho ricevuto dalla gentilezza del Prof. Catullo, un’ acteonella gigantea del Piné, il quale fossile, secon- do che abbiamo veduto, è posto dal d’Orbigny nella creta clo- ritica, e trovasi nel bacino cretaceo mediterraneo insieme con la sua terza zona delle rudisti, e manca nel gault, e nel terreno neocomiano. Dai quali fatti deducesi che ne’ Sette Comuni ci è indubitatamente il piano dell’arenaria verde superiore. Se a queste osservazioni aggiungiamo che l’arenaria verde superiore di Provenza è contrassegnata, secondo Coquand, da un immenso numero di nummuliti, ippuriti, ammonites rhotomagensis ec., noi possiamo tirare questa conseguenza di grandissimo lume nella geologia italiana, che il calcare nummulitico-cretaceo infe- riore al macigno è parallelo in gran parte alla creta cloritica, ovvero all’arenaria verde superiore; dico în gran parte, perchè in qualche luogo potrà ligarsi ancora alla creta bianca, nel modo stesso che il calcare nummulitico di Corbières descritto dal Ley- merie assume il carattere epieretaceo. Il gault che forma un piano bene distinto nel terreno cre- taceo settentrionale, non pare possa essere per buoni caratteri ravvisato nell’ Appennino, e forse ancora in buona parte delle Alpi italiane . Quanto all’arenaria verde inferiore, se si avvera l'opinione del Fitton, che questo piano sia l'equivalente del calcare neoco- miano del mezzogiorno di Europa, esso non manca in Italia, avendo veduto che forma nel regno di Napoli i più alti monti PT DEI TERRENI CHE COMPONGONO IL SUOLO D’ITALIA 259 dell’Appennino; e trovasi ancora, secondo le osservazioni di Pa- reto e di Sismonda, nelle Alpi marittime inferiormente al calcare nummulitico, e ligasi col calcare neocomiano di Provenza (1). Il Prof. Catullo lo ha riconosciuto nel calcare ippuritico delle Alpi Venete (2). Esaminiamo ora e confrontiamo alcuni punti dell’Italia dove le formazioni cretacee dinanzi descritte presentano accidenti de- gni di nota. Nel Napoletano la creta bianca (se veramente ci ha questo piano), il calcare nummulitico ed il calcare neocomiano passano insensibilmente l’ uno all’ altro senza nessuna linea di separazione; ciò si vede in molti luoghi, ma principalmente nel Monte Gargano nelle Puglie, dove l’estremità orientale è fatta di un calcare bianco, terroso, sporcante, che ha tutt’ i caratteri della creta bianca (Rodi), poi si passa ad un calcare bianco più tegnente e celluloso con nummuliti e rudisti (Matinata, Ischi- tella), ed a mano a mano che si procede verso l'estremità occi- dentale il calcare diviene compatto, grigio-gialliccio, le ippuriti e le nummuliti spariscono, ed in lor posto si fa vedere qualche nerinea e la chama ammonia, fossili caratteristici del terreno neocomiano. Questo medesimo. passaggio dei differenti piani componenti la creta settentrionale pare che sia il carattere di tutto il terreno cretaceo Italiano, dal macigno in fuora. Importantissimo è il terreno cretaceo ‘del passo di Brauss nelle Alpi marittime descritto dal Prof. Sismonda, come quello che presenta con caratteri ricisi geognostici e zoologici il piano della creta bianca, quello della glauconia superiore o del calcare nummulitico, e l’inferiore 0 neocomiano; e pare che anche quivi le tre rocce facciano l'una all’altra passaggio insensibile. Sarebbe solamente da sapere qual posizione occupa il calcare a catilli e belemnites mucronatus di quel luogo rispetto al macigno della (1) Sismonda, Scritt. cit. (2) Vedi la sua Lettera al sig. Villa. 260 SAGGIO COMPARATIVO Liguria, il quale io mi penso per le cose dette di sopra che debba essere a quello superiore. Molto più intrigato riesce il terreno cretaceo de’ colli della Brianza in Lombardia, avvegnachè diligentemente fosse stato studiato e descritto dai sigg. Collegno, Balsamo, Curioni, de’ Fi- lippi, Trotti, e dai fratelli Villa. Nel lavoro che questi ultimi hanno pubblicato circa tale terreno si trovano distinti tre gruppi di esso, i quali noi esaminiamo in ordine inverso, e secondo che sono rappresentati nella Tav. IM. del citato lavoro (1). Il III grup- po è composto di psammiti con ligniti (Viganò, Capriano ec.), il quale dal Prof. Balsamo è considerato come appartenente al ma- cigno, perchè contiene i fucoidi di questa formazione. Nel II gruppo sono indicati il calcare a catilli e nummuliti, e la pud- dinga a rudisti ed acteonelle (Sirone, Breno). Ora questo gruppo sembra avere bisogno di alcuni schiarimenti. Il calcare a catilli, il calcare nummulitico, e la puddinga a rudisti, fanno mai parte di una serie di strati della medesima età? I sigg. Villa così sup- pongono, affermando che le rocce di questo genere trapassano pressochè ognuna în tutte e tutte in ciascuna, onde deducono la loro contemporaneità. Ma è da osservare 1.° che tra gli strati di questo gruppo i sigg. Villa citano fucoidi appartenenti al ma- cigno, i quali sono, dirò così, incompatibili colle rudisti e colle acteonelle; 2.° che questi ultimi fossili, secondo l’assertiva stessa de’ prelodati geologi, sono propri alle sole puddinghe; 5.° che nelle figure si vede quasi sempre la puddinga a rudisti inferior- mente al calcare a catilli. Ciò dunque fa supporre che in que- sto gruppo sieno riunite rocce cretacee di periodi diversi. E quanto alle nummuliti, sono elle specie del macigno, ovvero sono associate alle ippuriti ed acteonelle? Se sono specie del macigno, e perchè non riunire gli strati che le contengono a quelli del terzo gruppo? Questi dubbi mi fecero nascere il pen- (1) Scrilt. sopra cit. DEI TERRENI CHE COMPONGONO IL SUOLO D’ ITALIA 261 siero che le nummuliti del gruppo che discorriamo sono piulto- sto attenenti alle puddinghe ippuritiche che al macigno; e forse ancora gli strati a catilli saranno di una età distinta; per modo che io sarei propenso a ravvisare in questo secondo gruppo 1.° un calcare a catilli forse equivalente della creta bianca; 2.° una puddinga a nummuliti, a rudisti ed acteonelle, equivalente all’arenaria verde superiore. Ad ogni modo questo gruppo me- rita di esser meglio chiarito. Il primo gruppo, ossia l’inferiore, è anche più dubbioso degli altri, perchè ne’ suoi strati i sigg. Villa citano i fucoidi del macigno, i quali perciò, e contra quello si osserva in tutta Italia, sarebbero inferiori agli strati a rudisti. E su tal proposito vuolsi osservare che i fucoidi occorrono in Lom- bardia in molte rocce e di età diversa, essendo stati ritrovati ancora nel calcare rosso ammonitifero, come appresso sarà detto; è mestieri dunque di bene distinguere le loro specie, affinchè non abbiano a trarre a false conseguenze. È osservabile questo gruppo per gli avanzi di un antico saurio che vi sono stati dis- sotterrati (Reliosaurus Ville), il quale rettile non essendo stato ritrovato fin quì negli strati inferiori all’arenaria verde, fa giu- stamente supporre co’ sigg. Villa che il loro primo gruppo cre- taceo di Lombardia appartenga al terreno neocomiano, ovvero al- l’arenaria verde inferiore . Il terreno cretaceo delle Alpi Venete sembra ancora pre- sentare, e distintamente, i diversi piani della creta settentrio- nale di Europa, perchè in quel paese vi è stata distinta la creta bianca, la glauconia col calcare nummulitico, ed il calcare neo- comiano. È quindi da desiderare che i dotti geologi di quella parte d’Italia ci dieno notizie più precise, e maggiori schiari- menti circa queste divisioni. Importa poi molto di sapere a quale delle distinzioni cretacee d’Italia si vuol riferire la scaglia de’ monti Euganei. Nella quale sono stati ritrovati fossili apparte- nenti a tutti piani del terreno che discorriamo, cioè 1.° l’anan- chites ovata, lo spatangus cor anguinum, lo spatangus bufo, V'ino- 262 SAGGIO COMPARATIVO ceramus Cuvieri, specie che contrassegnano la creta bianca; 2.° le ippuriti, che presentò al Congresso di Milano il rispettabile Conte da Rio, rapito non è guari all'amore de’ buoni Italiani: i quali fossili occorrono ordinariamente fra noi nell’arenaria verde superiore; 5.° le crioceras (e. Emerici, e. da Rio) che recente- mente ha scoperto in quella roccia il sig. de Zigno (1): queste conchiglie politalamiche hanno stanza, secondo il d’ Orbigny, negli strati più antichi neocomiani, e non sorpassano il gault. Vi sarebbero dunque nella scaglia Padovana riunite delle spe- cie fossili che distinguono tutti principali piani cretacei. Que- sta dirò quasi anomalia si può in due modi spiegare, ovvero ponendo che la scaglia degli Euganei appartenga a più sotto-for- mazioni, ovvero ammettendo che quivi i fossili della creta bianca e cloritica sono discesi un poco più in basso, e quelli neoco- miani sono saliti alquanto più sopra, e che la loro riunione con- trassegna la terza zona delle rudisti, cioè il piano dell’arenaria verde superiore, ch’ è molto predominante in Italia. Dalle cose dette di sopra si deduce che le nummuliti e le rudisti prendono molta parte nel terreno cretaceo d’Italia. Giova quindi fare alcune osservazioni sul loro proposito. Si possono distinguere in Italia tre giaciture speciali di nummuliti, cioè 1.° quelle del terreno terziario eocene del Vi- centino, se pure continueranno a rimanere nella posizione che fin quì hanno avuta; 2.° le nummuliti del macigno; 5.° quelle del calcare ippuritico. Onde si può a priori argomentare, che le loro specie debbono essere diverse in queste tre giaciture. Sarebbe quindi ottima cosa che qualche perito paleontologo prendesse a chiarire tali spezie, affinchè servir potessero di norma per la distinzione dei depositi diversi in cui si trovano (?). (1) Lettera sopra due fossili rinvenuti mella calcarea de’ monti Pa- dovani . (2) Questo lavoro ci è promesso dal sig. Leymerie, il quale com- piendolo renderà certo un segnalato servizio alla geologia del mezzogiorno di Europa. DEI TERRENI CHE COMPONGONO IL SUOLO D’ ITALIA 265 Quanto alle rudiste, il sig. d’Orbigny ci ha fatto conoscere in un lavoro classico le diverse zone ch' elle formano nel terreno cretaceo e le loro rispettive posizioni (1), ed afferma che in Italia occorre solamente la sua terza zona di questi fossili, che ei ripo- ne nella creta cloritica. Facciamo pertanto osservare che da una parte questo suo pensamento è fortificato per ciò che in Ita- lia le rudiste vanno quasi sempre associate alle acteonelle, e specialmente all’acteonella gigantea, la quale appunto, secondo il prelodato paleontologo, accompagna la sua terza zona delle ru- diste, ciò che fa credere che il piano dell’arenaria verde supe- riore è molto rilevante nel terreno cretaceo d’Italia. Ma d’altra parte non è ugualmente vero che presso noi mancano le altre sue zone di rudiste; perocchè non si può dubitare per le cose dette di sopra che nel regno di Napoli è molto abbondante e cospicuo il terreno neocomiano, contrassegnato dalla chama am- monia, da parecchie nerinee e da altri fossili neocomiani, i quali fossili sono eziandio accompagnati da una gran copia di rudiste . Onde argomentare si può che la sua prima zona di questi fossili che contrassegna il terreno neocomiano superiore, non manca in alcune parti d’Italia. Anzi il Prof. Catullo è di avviso che il maggior numero di rudiste del Vicentino hanno lor sede nel cal- care neocomiano. Del resto il sig. d'’Orbigny avrebbe più utile renduto il suo lavoro, se ci avesse fatto conoscere le relazioni delle rudiste colle nummuliti, perocchè questi due generi di fos- sili sono di gran valore nella distinzione del terreno cretaceo mediterraneo. Avendo ora fermato i punti -più essenziali del terreno cre- taceo d’Italia, piacemi di tirarne alcune deduzioni, le quali mi sembrano confortate da tutta la logica della nostra scienza. Messo che il calcare mediterraneo ippuritico rappresenta tutta la (1) Considérations sur les Rudistes (Bull. de la Soc. Géol. de Fran- ce, tom. XII. p. 148). 264 SAGGIO COMPARATIVO creta del settentrione di Europa, e messo che il macigno è a detto calcare superiore, uopo è inferire che il macigno costitui- sce un deposito speciale e distinto dal cretaceo . La quale distin- zione è poggiata sopra tutt'i caratteri che possono contrasse- gnare la indipendenza di un terreno, cioè sui caratteri minera- logici, su la soprapposizione e sopra la natura dei corpi organici; di che non sarà fuor di proposito di allegare le prove necessarie. Il macigno qual si osserva in Toscana e nella Liguria, non ha nessuna analogia mineralogica colla creta del N. 0. di Europa. Le rocce che lo compongono hanno caratteri tutti spe- ciali. A questa differenza si vuole aggiungere un altro accidente molto notevole, cioè che la selce, la quale suole essere la com- pagna quasi indivisibile della creta bianca settentrionale, manca interamente nel deposito del macigno italiano; il quale fatto, avvegnachè possa essere in generale considerato di picciol va- lore, è nondimeno nel nostro caso di grandissimo momento (1). Non vi sono stati ancora trovati giammai di quei grani verdi che occorrono frequentemente nelle arenarie cretacee setten- trionali ond’elle traggono lor nome. Quanto alla soprapposizione, abbiamo veduto primamente che il macigno vuol essere considerato come superiore alla creta bianca. Secondamente abbiamo fatto osservare che i diversi piani del calcare ippuritico, i quali rappresentano tutti piani (1) Nella brecciola nummulitica che accompagna il macigno di Mo- sciano presso Firenze è stato trovato qualche nocciolo di selce; e tengo dal Prof. Savi che sopra questo fatto poggiavasi la Sezione di Geologia del Congresso di Firenze, per giudicare quella roccia cretacea. Ma avendo esaminato coll’ anzidetto mio collega i pezzi di tal roccia che sono nel Museo di Pisa, ci siamo assicurati che la selce si trova in frammenti come gli altri rottami che fanno parte di quella brecciola. Dal quale accidente invece di derivare un argomento contrario a ciò che ho detto di sopra, si deduce invece che il macigno è posteriore alla creta con selee, 0 almeno che questa sostanza vi è avventizia. DEI TERRENI CHE COMPONGONO IL SUOLO D' ITALIA 265 della creta settentrionale, sono legati fra loro e fanno insensi- bilmente passaggio «gli uni agli altri, ciò che pruova che il più delle volte furono depositati nello stesso mare e coi medesimi accidenti. Laddove poi il macigno è sempre distinto dai detti depositi per una linea spiccata di separazione, o per accidenti topografici diversi, nè mai fa passaggio a quelli, nè con essi si salda, segno manifesto di essere stato depositato in un mare differente e con circostanze diverse. Infine, se uno dei caratteri principali della indipendenza di una formazione è la sua so- vrapposizione a rocce di età differente, ciò si avvera nel maci- gno meglio che in qualunque altro deposito; poichè lo vediamo soprappostò al calcare nummulitico-ippuritico ( Liguria ), al calcare giurassico ( Toscana ), ed ancora a rocce cristalline ( El- ba ). Ed è veramente cosa osservabile che in Toscana, dove que- sto terreno è molto esteso, non si vede mai congiunto col cal- care nummulitico-ippuritico, tanta è la sua indipendenza da questo. Vengono in ultimo luogo i fossili, e meglio che tutti gli altri caratteri, a porre il suggello a questa distinzione; e ciò for- ma il punto principale, sul quale è poggiato il mio tema. Nè nel macigno di Toscana, nè in quello di altro luogo ch'io mi sappia, è stato trovato alcun fossile proprio del terreno cretaceo del N. O. di Europa. È cosa da tutti conosciuta che i principali avanzi organici caratteristici di questo terreno sono alcune specie di fucoidi. Ora tali avanzi mancano del tutto nel terreno cretaceo settentrionale, e mancano altresì nel calcare nummulitico-ippu- ritico meridionale. Ed inversamente le rudiste, le quali sono abbondantissime in quest’ ultimo deposito, si possono conside- rare del tutto straniere al primo, dove neppure: un solo indivi- duo di esse è stato trovato. E lo stesso dicasi delle acteonelle che sogliono accompagnare questi fossili. Il d’Orbigny ed il Deshayes, che sono da tutti tenuti giudici competenti in materia di paleontologia, hanno fatto osservare che le rudiste, per lungo Scienze Cosmolog. T. I. 54 266 SAGGIO COMPARATIVO tempo limitate alla creta inferiore meridionale, occupano tutt’ i piani della formazione cretacea di Europa (1). Ora se questa fa- miglia non ha nessuna specie che la rappresenta nel macigno, uopo è conchiudere che questo deposito appartiene ad un pe- riodo al tutto diverso dal cretaceo. Rammentiamo ancora le specie simili di foraminifere microscopiche osservate da Ehrem- berg nella creta bianca settentrionale e nella creta nummulitica meridionale, le quali specie non sono state peranco riconosciute nel macigno. Quanto poi alla indipendenza di questo deposito da tutto il terreno cretaceo, considerata per rispetto a’ fossili, citiamo l’esempio della scaglia degli Euganei. Nella quale, se- condo che dinanzi fu detto, sono stati trovati una riunione di fossili della creta bianca, dell’arenaria verde superiore e del terreno neocomiano, e nessuno che indicar vi potesse la forma- zione del macigno. Forse qualcuno potrà citare le nummuliti che si trovano in comune nel macigno e nel calcare ad esso inferiore. Ma lasciando stare che questi fossili sono estremamente rari nel macigno, chi può mai assicurare che le loro specie sono le stesse di quelle che occorrono nel calcare nummulitico? Finora certamente nessuno. Abbiamo già fatto osservare innanzi che le nummuliti del calcare cretaceo d’Italia sogliono essere grandi e della natura di quelle di Peyrehorade nei Pirenei (n. millecaput? ). Tali sono quelle da me trovate nel Gargano e quelle citate dal March. Pareto nel calcare di Mortola nella Liguria. Al contrario le poche nummu- liti trovate fin quì nel macigno sono molto più piccole. Si potranno ancora opporre al mio pensamento le ammo- niti trovate nel macigno di Firenze e della Liguria. Questa fa- miglia di cefalopodi, la quale ha numerose specie che la rap- presentano nella creta inferiore, cessa di comparire nella creta bianca. Adunque Ie ammoniti citate farebbero credere il maci- (1) Bull. de la Soc. Géol. de France, tom. XI. p. 220, e XHI. p. 115. DEI TERRENI CHE COMPONGONO IL, SUOLO D’ITALIA 267 gno essere innanzi più antico che più recente della creta bianca. Alla quale opposizione io rispondo 1.° che non si contano finora che due soli esemplari di ammoniti trovati nel macigno, e uno di essi appartiene più probabilmente al genere Hamites; 2.° che ancora nella creta bianca di Maestricht il Conte Munster trovò un’ ammonite (a. rhotomagensis) (1), e che questo fossile mede- simo è citato dal Desnoyers nel calcare a baculiti di Norman- dia (2). Adunque non si può da questi fossili trarre nessuno ar- gomento contro la mia maniera di vedere, perchè essi sono ugualmente rari nella creta bianca e nel macigno. In ultimo, per non lasciare nessuna materia di dubbio su questo soggetto, potrà qualcuno recare innanzi l’apiocrinites el- lipticus che abbiamo detto essere stato trovato dal Dott. Santa- gata nella molassa del Bolognese. Questo fossile essendo occorso nella creta bianca di Sussex, dell’ Yorkshire, della Turena e nel calcare a baculiti di Normandia, potrebbe appoggiare l'opinione che il macigno sia una formazione parallela alla creta bianca. Ma è da por mente che, secondo le osservazioni del Prof. Biancone, la roccia che lo racchiude lascia molte incertezze per le relazioni che ella può avere colle argille azzurre subappennine (9), e tali dubbiezze crescono considerando che il detto crinoide è accom- pagnato da corpi organici di svariatissima sorte, i quali in gene- rale mancano nel macigno. Sarebbe perciò cosa desiderabile che le specie di questi corpi organici fossero esattamente definite. In conchiusione possiamo stabilire 1.° Che il calcare ippuritico d’ Italia rappresenta tutto il terreno cretaceo settentrionale, in massima parte l’ arenaria verde superiore e inferiore, e solamente in qualche raro luogo la creta bianca. (1) Lyell, Elementi di Geologia, cap. XV. (2) Mem. de la Soc. d’ Hist. Nat. de Paris, tom. IL (5) Storia naturale dei terreni ardenti, S. 94. 268 SAGGIO COMPARATIVO 2.° Che la creta settentrionale si congiunge col calcare ip- puritico del mezzogiorno di Europa, ma col macigno non mai. 5.° Che il macigno è sovrapposto al calcare ippuritico con linea distinta di separazione. 4.° Che le rudiste, delle quali qualche specie comparisce nella creta superiore del N. di Europa, sono copiose nel calcare cretaceo del mezzogiorno, e spariscono del tutto nel macigno sovrapposto . 5.° Che il macigno non ha nessun fossile che appartenga alla creta settentrionale; ma contiene fucoidi che mancano in questa e nel calcare ippuritico meridionale. Tutt'i fatti che abbiamo di sopra esposti sembrano provare fino all'evidenza che il terreno del macigno non è già parallelo alla creta bianca, ma forma un terreno indipendente dal creta- ceo, dal quale può esser separato mediante caratteri di maggior valore che non sono quelli che hanno dato origine alla distinzione del terreno carbonifero dal devoniano e di questo dal silurio. Si vuole esso considerare come l’ultimo deposito secondario, te- nente suo posto tra la creta ed i terreni terziari. Nel periodo in cui avveniva la sua produzione era già accaduto un cambiamento nella natura dei sedimenti per rispetto a quelli del periodo an- teriore (cretaceo); gli uni erano stati intieramente calcarei, gli altri in gran parte arenacei. Nel periodo del macigno la famiglia delle rudiste avea finito di popolare i mari del mezzogiorno d'Europa. E con esse erano disparse le nerinee, e quasi tutte le acteonelle; solamente qualche rara specie di nummulite e di ammonite avea continuata una languida esistenza per rimanere spenta alla fine di questo periodo. E però io mi avviso di distin- guere il macigno come un terreno di una età particolare, asse- gnandogli un nome speciale a cagione del suo posto rilevante fra depositi dell’ Europa meridionale: io propongo di dimandarlo terreno etrurio per ciò che è stato riconosciuto la prima volta in una maniera classica nel suolo di Toscana. E così io mi DEI TERRENI CHE COMPONGONO IL SUOLO D'ITALIA 269 penso rimanga sciolto uno dei principali quesiti proposti dalla Sezione di Geologia nel Congresso di Firenze (1). Do termine a queste osservazioni sul macigno e sul terreno cretaceo d’Italia confrontando in un quadro le divisioni di que- sti due terreni nella zona settentrionale e meridionale di Europa. Zona settentrionale Zona meridionale Alberese no etruri Man i Terreno etrurio anca Macigno Poco distinta, calcare a ostrea vesicularis, ca- tilli, belemnites mucro- natus ec. Creta Bianca L Terreno cretaceo Arenaria verde supe- | Glauconia e calcare riore nummulitico C Manca, o è poco distinto Inferiore Arenaria verde infe- io Terreno neocomiano Nella fig. 2. della Tavola annessa al presente lavoro si veg- gono rappresentate le posizioni relative teoretiche del terreno cetrurio e del terreno cretaceo in Italia. b) Terreno giura-liassico . Seguita ora che diciamo del terreno giura-liassico. Il qua- le, poichè non presenta nella nostra Penisola divisioni così rego- (1) Atti del Congresso di Firenze. Adunanza del dì 29 Settembre: quesito VI. 270 SAGGIO COMPARATIVO lari e tanto costanti come nel settentrione di Europa, sarà bene di esaminarlo a parte a parte ne’ luoghi dove è stato osservato. Nella Italia meridionale questo terreno è ben poco distinto, e, se veramente ci è, esso forma le parti inferiori della gran massa di calcare neocomiano, al quale intimamente si liga. In Sicilia non trovasi indicato con nome speciale nella Carta del- l’Hoffmann. Nondimeno ei pare che possa essere ravvisato nel calcare di Taormina, specialmente nel calcare rosso onde si ritira il marmo tanto conosciuto di quel paese; nella qual roccia il Gemmellaro afferma di essere ammoniti e belemniti ed altri fos- sili che possono riputarsi giurassici. In proposito delle belemniti non pure il Gemmellaro, ma eziandio l’ Hoffmann citano questi fossili nel calcare secondario di Sicilia; se veramente vi si tro- vano essi sarebbero assai importanti, in quanto che porgereb- bero uno dei rarissimi esempi di giacitura di belemniti nell’ Ap- pennino . Dalla Sicilia passando in Calabria non so affermare se le varie masse calcaree colà sovrapposte agli scisti cristallini a Staiti, ad Agnana, a Tiriolo, a Monte Cocuzzo, a Lungro sono giurassiche, ovvero neocomiane. Io non vi ho trovato affatto or- ma di corpi organici, ma essi sono simili e per i caratteri mine- ralogici e per la giacitura ai calcari di Taormina, e quindi si possono considerare probabilmente come della stessa età. Nel rimanente del Napolitano il terreno giura-liassico è pochissimo, o niente distinto dal neocomiano. Così per esempio le specie di pesci fossili di Torre d'Orlando presso Castellamare sono, se- condo le definizioni dell’Agassiz, giurassiche; ma la roccia che gli contiene fa parte di un promontorio calcareo ch’ è evidente- mente neocomiano, poichè a piccola distanza dalla giacitura dei pesci fossili, cioè presso Vico, contiene un gran numero d’ippu- riti e di altri fossili neocomiani. Sono ancora importanti gli sci- sti calcarei di Pietraroja in Terra di Lavoro e di Giffuni in pro- vincia di Salerno per la gran quantità di pesci fossili che hanno DEI TERRENI CHE COMPONGONO IL SUOLO D’ ITALIA 271 somministrati, dei quali i migliori esemplari che io ne aveva, gli rimisi, è già qualche tempo, all’Agassiz, ed ignoro se questo celebre zoologista gli abbia determinati. Mi occorre pertanto di fare una osservazione sul proposito di quest’ ittioliti napolitani. Nel catalogo di pesci fossili pubblicato recentemente dall’ Agas- siz trovo registrate le specie seguenti Semionotus Pentlandi — Egert. — Castellamare. —— minutus — Egert. — Castellamare. —— pustulifer — Egert — Castellamare. Polidophorus fusiformis — Ag. — Castellamare. Notagogus Pentlandi — Ag. — Torre d'Orlando. —— latior — Ag. — Torre d'Orlando. Pienodus rhombus — Ag. — Torre d’Orlando (1). Or io sospetto che in questa nota siavi qualche sbaglio nella ci- tazione dei luoghi. Il sig. Pentland mi assicurò a Milano che un esemplare d’ittioliti di Giffuni da me recato a quel Congresso apparteneva alla specie semionotus Pentlandi dell’Egerton. Gl’it- tioliti intanto di Giffuni sono diversi da quei di Castellamare. Ciò mi fa dubitare che le specie ‘citate di sopra col nome di Egerton vengano tutte da Giffuni e non già da Castellamare: ed il mio sospetto cresce per ciò che le specie dell’Agassiz portano la indicazione di* Torre d'Orlando: ora Castellamare e Torre d'Orlando sono un luogo medesimo, laddove Giffuni è un luogo diverso. Se veramente ci ha quest’equivoco, non si creda già che sia di lievissimo peso. Perocchè io trovo che le specie definite dall’ Egerton sono comprese tra specie tutte liassiche, e quelle di Agassiz tra specie tutte oolitiche, onde si può credere che il deposito di Giffuni appartenga al lias, e quello di Castel- lamare alla colite; ciò che è confermato ancora da altre partico- lari osservazioni da me fatte in detti luoghi. Ricordo quì la par- ticolarità importante di tali fossili, cioè che essi sono i più anti- chi ittioliti trovati nell’ Appennino. (1) Tableau Genéral des Poissons fossiles. — Terr. Jurass. 272 SAGGIO COMPARATIVO — Jo non posseggo che un solo esemplare di ammonite tro- vato nel Napolitano, e lo tengo dall’amicizia del sig. Orsini di Ascoli, il quale lo ha rinvenuto nel calcare di Monte Corno ne- gli Abruzzi. E’ sembra potersi riferire all’ammonites costatus, specie ricisamente giurassica; una specie simile è stata trovata nel calcare rosso ammonitifero della Maremma Toscana. ‘Inoltre il sullodato infaticabile naturalista mi ha assicurato a Milano aver ritratto da alcuni banchi calcarei dello stesso monte parec- chie altre generazioni di ammoniti. Questi fossili dunque ci pos- sono far credere che si trovi in quella più alta montagna del l’Italia continentale qualche brano di terreno giurassico inferior- mente al neocomiano che forma la sua vetta. Nello Stato Romano io non posso citare che il calcare delle vicinanze di Terni, il quale abbonda di ammoniti che sem- brano avere stanza in un calcare rosso. Un esemplare che ho ricevuto dalla gentilezza del mio amico P. Giordani di Napoli parmi molto identico all’ammonites tortilis del d’ Orbigny, la quale specie appartiene al lias. Vengono ora i calcari rossi ammonitiferi di Toscana: tali sono quelli di Gerfalco e Campiglia nella Maremma e di Corfino nelle Alpi Apuane. Ne’ due primi luoghi il Prof. Savi ha trovato due specie di ammoniti, che sono l’a.*costatus, e Va. Conybeari, e molti articoli di. encrini. Questi fossili sono evidentemente giurassici. Gli avanzi organici poi trovati dal Savi e da me nel calcare di S. Giuliano ne’ monti Pisani non lasciano dubitare della sua età giura-liassica: sono vestigia di ammoniti, articoli di encriniti e pentaneriniti, ed ‘alcune conchiglie turriculate poco riconoscibili per essere impastate nella roccia, ma simiglianti molto a quelle trovate a Monte Godeno presso al lago di Lecco in Lombardia (ved. appresso). Questi calcari di Toscana sono dunque per i loro fossili paralleli in tutto ai calcari giura-lias- sici della provincia di Como, che or ora esamineremo. Vogliamo quì intanto notare un fatto, che potrà molto DEI TERRENI CHE COMPONGONO IL SUOLO D’ITALIA 275 chiarire le quistioni circa l'età de’ calcari giura-liassici di To- scana. Ne’ monti di Campiglia si distinguono due formazioni calcaree. Delle quali una è composta di un calcare rosso e di scisti dello stesso colore distintamente stratificati, contenenti letti di selce, e le ammoniti e gli encrini dinanzi citati. L'altra è composta di un marmo bianco cristallino, massiccio e traver- sato solamente da irregolari fenditure, nel quale manca Ja selce e non si è trovato fin quì nessun organico avanzo. La prima for- mazione è soprapposta alla seconda, ed in un sito presso alla Gran Cava vedesi questa soprapposizione distinta da una linea manifestissima di discordanza, e da un conglomerato che rac- chiude frammenti della formazione inferiore. Alcune recenti ri- cerche da me fatte ne’ monti Pisani m’ inducono ancora a distin- guere in quel luogo due formazioni calcaree del periodo giura- liassico, le quali rispondono perfettamente a quelle di Campi- glia. La superiore composta di un calcare compatto, di color grigio chiaro, a grana fina, con frattura eguale dilatata, il quale è distintamente stratificato, ed è contrassegnato da numerosi letti o tubercoli di selce allungati nel verso della stratificazione della roccia; e non vi è stato fin quì scoverto nessun organico avanzo, dagli encrini in fuora (monti prossimi a S. Giuliano). L'altra formazione, che rimane inferiore, presenta una roccia di diverse varietà; ora è un calcare bianchiccio solido ma alquanto cavernoso (cave di Montoliveto), ora una dolomite cellulosa, di color grigio scuro, con cellette angolose che danno alla roccia un aspetto quasi scorificato, ed è al tutto simile al rauchwake de Te- deschi (sopra la grotta de’ Pippi); talvolta poi è una dolomite bian- ca, saccaroide, friabile (monte di S. Giuliano, a ponente della buca delle Fate); altre volte infine è un marmo bianco, semi-cri- stallino (luogo detto Za Spelonca): questa formazione non è mai stratificata, ma massiccia, ed è interrotta da irregolari fessure; in essa sì trovano i fossili turricolati che abbiamo dinanzi nominati, ed altri che non possono essere affatto riconosciuti. Nel contatto Scienze Cosmolog. T. I. 55 274 SAGGIO COMPARATIVO delle due formazioni calcaree nessuna linea di discordanza si vede; nondimeno la loro facies generale mostra tali differenze che indicano certamente due depositi diversi. Noi avremo occa- sione di tornare appresso su questo soggetto. I calcari rossi di Corfino nelle Alpi Apuane sono ancora più notevoli per i fossili che vi sono stati trovati. I nostri colle- ghi che assistevano al Congresso di Lucca si ricorderanno di tre esemplari di quel paese che vennero presentati dal sig. Dini alla Sezione di Geologia, e conteneano due specie di ammoniti ed una ortocera. Le ammoniti si possono riferire all’a. Conybeari, ed a. obtusus Sow., alle quali è da aggiungere un’altra specie, l’a. tatricus Pusch, che conservasi nel Museo di Pisa. Quanto all’ortocera, ella avea tutte le forme di questa conchiglia, e come tale fu riconosciuta da tutti coloro che l’esaminarono: la sua lunghezza era di circa 7 pollici, e la larghezza maggiore di due pollici; avea una forma più prossima alla cilindrica che alla coni- ca, non vi si potea riconoscere il sifone per essere il pezzo in- cassato nella roccia. Nondimeno è da osservare che nel calcare rosso di Erba in provincia di Como, che contiene le medesime ammoniti di Sasso Rosso, occorre un fossile molto simile, il quale dal de Bach è stato considerato alveolo di belemnite per le ve- stigia che presenta di sifone marginale. E forse della stessa na- tura saranno le famose ortocere associate alle ammoniti giurassi- che delle Alpi Salisburghesi (1). Ma su ciò non diciamo più in- nanzi. Noi possiamo ritenere che il calcare rosso ammonitifero di Corfino è indubitatamente giurassico. E siccome il calcare anzidetto ligasi con la gran massa cal- carea soprapposta agli scisti cristallini delle Alpi Apuane, si può conchiudere che tali depositi sono della medesima età. In gene- (1) Il Bouè intanto afferma di aver raccolto ad Aussée delle ortocere ben conservate e col loro sifone centrale bene distinto. (Guide du géologue voyageur, tom. II. ch. II. S. X.) DEI TERRENI CHE COMPONGONO IL SUOLO D’ITALIA 275 rale i fossili mancano quasi del tutto nel calcare delle Alpi Apuane, eccetto che in qualche rarissimo luogo. Guidoni e Savi affermano di aver trovato in cima del Sagro e dei monti della Tambura articoli di encrini e specie di conchiglie simili a quelle che occorrono nel calcare a bivalvi della Spezia, del quale ora ora parleremo. Io ho' visitato in compagnia del sig. Guidoni la valle della Tecchia, la quale è aperta prossimamente alle grandi cave de’ marmi di Carrara; la roccia è di color grigio scuro, forse tinta dal carbone, e rassomiglia molto al calcare a bivalvi della Spezia: essa è distintamente stratificata, e contiene in alcuni punti fossili poco riconosdibili, come carditi, terebratule simili a quelle della Spezia, e forse ancora qualche mitilo. Conviene ora far menzione del terreno fossilifero della Spezia, il quale dalla comune dei geologi è ben conosciuto per le notizie che intorno ad esso hanno pubblicato Guidoni, Savi, Pareto, Sismonda, la Béche, ed Hoffmann. Alle osservazioni di costoro piacemi aggiungere le seguenti che ho avuto occasione di fare in una visita recente a quel luogo celebre. I fossili si trovano quivi in due posizioni diverse, ed in entrambi i siti le specie sono distinte. La fig. 5.° della Tavola quì annessa fa ve- dere la successione degli strati che si veggono ne’ monti occi- dentali del golfo, e propriamente lungo il vallone dell’ Acqua- santa che da S. Vito conduce a Campiglia. La serie è la seguente: a) Calcare bruno stratificato. Gli strati si veggono inclinati dal golfo verso le parti interne della montagna. b) La medesima roccia, i cui strati si abbassano in dire- zione opposta ai precedenti. Questi strati contengono in alcuni luoghi mumerose con- chiglie, per lo più bivalvi, come carditi, trigonie, pettini, tere- bratule; ci ha inoltre un piccolo cerilio caratteristico, e vari z00- fiti (grotta dell’Arpaia presso Portovenere, Marola, isola di Pal- maria, Tinetto); negli scisti bruni del Tinetto io ho trovato eziandio un pesce fossile, e rendomi certo che facendovi accu- 276 SAGGIO COMPARATIVO rate ricerche si giungerebbe a ritrarre molti esemplari di questa sorte. c) Dolomite grigia o bianchiccia in gran massa, che ha un’ apparenza quasi eruttiva. È osservabile che nel contatto del cal- care bruno con la dolomite vedesi questa in forma di vene e di filoncini ramificata nell’altra roccia come se vi fosse stata dentro iniettata, ed allora dà origine al famoso marmo venato di Porto- venere, il quale perciò trovasi sempre nel punto di congiunzione delle due rocce. d) Strati calcarei alternanti con scisti marnosi giallicci. e) Scisti marnosi giallicci interrofti da pochi strati calcarei. In questi scisti si trovano molte ammoniti di piccole dimensioni, ed alveoli di belemniti, i quali fossili sono sempre ridotti in istato piritoso. f) Scisti marnosi giallicoi e serici, senza fossili. 9g) Gli stessi scisti, ne’ quali Coquand ha trovato numerose impronte della posidonia liasina. h) Scisti calcarei rossi o variegati, senza fossili (1). î) Macigno, contenente molti rottami di granito. I fossili della Spezia, che furono la prima volta scoverti dal Guidoni, rendono molto importante quel luogo d’Italia per lo studio de’ terreni giura-liassici della Penisola. Giova quindi dire qualche cosa sul loro proposito. E primamente convien ri- cordare le tanto contrastate ortocere di quella contrada. Sono veramente ortocere, ovvero alveoli di belemniti quelle vi sono state citate? Il Sowerby, che ha esaminati questi corpi, gli ha trovati appartenere certi all'uno e certi all’altro de’ generi anzi- detti: egli vi ha ancora distinto due specie di ortocere, cioè l'o. Steinhaueri, carbonifera, e l'o. elongatus, liassica (2). Ma a que- sta opinione non consentono Valenciennes, d’Orbigny, e de (1) Coquand assicura avervi adocchiato articoli di encrini. (2) Labèche, Man. de Geol. sect. VI, DEI TERRENI CHE COMPONGONO IL SUOLO D’ITALIA 277. Buch, i quali gli considerano come alveoli di belemniti, perchè vi hanno ravvisato vestigia di sifone marginale. Nondimeno è da osservare che insieme con tali corpi, che pure sono numero- si, non occorrono mai gli astucci delle belemniti, che sogliono essere le parti più generalmente sparse di questi fossili; non si cita che un solo esemplare di tali astucci che il Marchese Pareto assicura di avervi ritrovato. Quanto alle ammoniti, è risaputo che le specie definite dal Sowerby appartengono parte al lias, e parte al terreno carbonifero: e sopra questa mescolanza ancora ci ha delle dubbiezze che meritano di essere chiarite. Alla lista de’ fossili della Spezia pubblicata dal Labèche (1) e dal Sismon- da (2) molte altre specie si debbono aggiungere che ho trovate in quel luogo, le quali hanno bisogno ancora di una precisa de- terminazione. Negli scisti ammonitiferi ho rinvenuto eziandio alcune nerince, natiche e pleurotomarie, ed altresì alcuni fram- menti ossei, i quali probabilmente sono avanzi di qualche rettile. . Tutti geologi si avvisano che le rocce componenti i monti fossiliferi della Spezia appartengono al terreno giura-liassico . Intanto le diverse serie di strati che compongono quel terre- no, e soprattutto le diversità di fossili che vi sono contenuti, porgono certamente buone norme a segnarvi precise divisioni, a quel modo ch’ è stato fatto nel terreno giura-liassico del setten- trione di Europa. Nondimeno si richiede ancora per ciò uno studio più preciso delle serie su descritte. La maggior parte de’ geologi si accordano a riferire al lias gli scisti ammonitiferi: e questo è per certo un ottimo orizzonte geognostico per poter riconoscere l’età delle serie poste al disopra e al disotto degli scisti su nominati. Ma per procedere ordinatamente a questa (1) Op. cit. (2) Osservazioni geologiche sulle Alpi marittime e sugli Appennini Liguri . 278 SAGGIO COMPARATIVO ricerca egli è mestieri innanzi tutto osservare gli accidenti di posizione degli strati giura-liassici della Spezia, i quali presen- tano alcune anomalie che non sembrano bene accordarsi con la loro ordinaria giacitura in altri luoghi. Mi si conceda perciò di far conoscere queste irregolarità, e quindi di esaminare se ci ha nessun modo per poterle spiegare. 1° Lo spaccato della fig. 5.* mostra che il calcare bruno a è la parte superiore e Ja più recente della formazione; ma nella parte opposta del golfo, cioè al Capo-Corvo, questo stesso calcare vedesi soprapposto al verrucano ed agli scisti cristallini che sono inferiori al lias, come vedere si può nella fig. 4.%, la quale mo- stra la bella successione di strati che vedesi al Capo su nomi- nato; dove gli strati a, d che poggiano sopra l’anagenite quarzo- sa (verrucano) c, sono al tutto simili agli strati a, d della fig. 5.* ovvero a’ primi strati de’ monti opposti del golfo; 2.° lo spaccato medesimo fa vedere che gli scisti calcarei variopinti & sono la parte inferiore e più antica di tutta la formazione; ma essi sono in contatto col macigno é in una guisa che lascia sempre luogo a dubbiezze. Il Coquand pensa che gli scisti anzidetti rappresen- tano il calcare rosso ammonitifero di Sasso Rosso, di Campiglia e di altri luoghi d’Italia, e gli fa appartenere al lias inferiore . Questo ravvicinamento a me sembra molto dubbioso, perchè in alcuni luoghi d’Italia, e specialmente nel Lago di Como, il cal- care rosso ammonitifero trovasi nella parte superiore del terreno giurassico, e questa posizione ancora gli è assegnata dal de Buch (ved. appresso la sua nota). D'altra parte come mai si può spiegare che il macigno è trovasi in contatto cogli strati più an- tichi liassici 2, e non già co’ più recenti oolitici a, b, come do- vrebb’ essere per le sue naturali relazioni di giacitura? Piacemi su tale proposito di esporre un mio particolare pensamento. Se per poco si suppone un rovesciamento negli strati espressi nella fig. 5.* ed in tal guisa che gli strati superiori divenissero infe- riori e viceversa, si verrebbe a ristabilire l'ordine naturale di essi strati nella seguente maniera d’alto in basso. . DEI TERRENI CHE COMPONGONO IL SUOLO D’ ITALIA 279 Nel lato occidentale del golfo (fig. 3.*) î) Macigno. h) Scisti calcarei rossi (calcare rosso ammonitifero). g) Scisti gialli a posidonia liasina.. f) Scisti senza fossili. e) Scisti ad ammoniti. d) Scisti calcareo-marnosi . c) Dolomite. a, 6) Calcare bruno a bivalvi. Nel lato orientale del golfo (fig. 4.*) a, b, calcare bruno a bivalvi poggiante sopra le anageniti e gli scisti cristallini (ver- rucano) c ad è. In questa guisa l’ ordine di posizione degli strati viene a rispondere presso a poco a quello si osserva nel Jago di Como; ed essi riprendono le loro naturali posizioni rispetto al macigno che gli ricuopre ed al verrucano che gli sostiene. In tal caso gli scisti calcarei & rappresentano la formazione giurassica, gli scisti marnosi ya d appartengono al lias superiore, e gli strati ce, b, a al lias inferiore. La supposizione poi di tal rovesciamento si rende assai più verisimile, quando si considera che il golfo della Spezia è il prodotto evidente di una frattura (faille), e che .Jle dolomiti del braccio occidentale del golfo hanno una forma quasi eruttiva, o almeno indicano una energica azione sotterranea avvenuta in quel luogo. Per ultimo se a questo modo si considera la posizione degli strati giura-liassici della Spezia, non pure essi vengono a concordare con quelli della provincia di Como in Lombardia; ma benanco rendono ragione di alcuni accidenti particolari che presentano tali strati in qualche luogo di Toscana. Il calcare bruno della Spezia con fossili bivalvi è del tutto simile a quello che occorre nella valle non lontana della Tecchia ne’ monti di Carrara, dove il calcare bruno si liga a mano a mano col marmo statuario. Se dunque il calcare bruno della Spezia tiene al lias inferiore, conviene dire che anche il marmo di Car- 280 b SAGGIO COMPARATIVO rara spetta alla medesima età geologica. Ora noi abbiamo veduto che ne’ monti di Campiglia nella Maremma Toscana, ed eziandio ne’ monti Pisani, vedesi il calcare rosso ammonitifero manifesta- mente in discordanza sopra un calcare bianco cristallino molto somigliante al marmo di Carrara. Ma dove si riconoscesse che il calcare rosso ammonitifero appartiene al piano superiore giuras- sico ed il marmo bianco con le altre sue varietà al lias inferiore, ogni difficoltà svanisce. Perocchè tra la formazione de’ due de- positi è interceduta quella del lias superiore ammonitifero della Spezia, il quale non si è depositato nel Campigliese e ne’ monti Pisani: onde la origine della giacitura discordante che abbiamo dinanzi mentovata. Il terreno giura-liassico patisce una interruzione dalla Spe- zia fino alla riviera Ligure di Ponente, ossia fino al comincia- mento dell'Appennino; dove è stato riconosciuto dal Marchese Pareto (1) e dal Prof. Sismonda (2). I quali ci fanno sapere che questo terreno comparisce tra gli scisti cristallini del monte di Pebrun e di Savona, e come una sua diramazione si stende al mare fin verso Nizza, ed un’altra dai contorni di Albenga fin dopo Finale. Passiamo ora a confrontare il terreno giura-liassico del- l'Appennino con quello delle Alpi. Il terreno giura-liassico delle Alpi Piemontesi è stato assai bene illustrato dal Prof. Sismonda. Quello della Tarentasia, che è il più conosciuto ed il più famoso di detta regione, avea già dato materia alle classiche scritture di Brochant (5) e di E. de Beaumont (4); delle quali superflua cosa sarebbe di parlare in questo luogo. Il Prof. Sismonda; seguitando le orme del sig. E. (1) Atti del Congresso di Torino, p. 108. (2) Osservazioni geologiche sulle Alpi marittime e sugli Appennini Liguri. (5) Journal des Mines, t. XXI. p. 521. (4) Ann. des Sc. natur., t. XIV. p. 115. DEI TERRENI CHE COMPONGONO IL SUOLO D'ITALIA 281 de Beaumont, ha fatto un passo più oltre; perocchè ha cercato di distinguere le diverse parti componenti quel terreno. Il quale ei divide primamente in superiore, o oolitico, ed inferiore 0 del lias. Ripone nel superiore 1.° il calcare dei contorni di Briancon, del colle di Lauzanier cc. ch’ ei riferisce all’ oolite di Portland, all’argilla di Kimmeridge ed al cora/rag; 2.° il depo- sito calcareo arenaceo con antraciti della valle di Aosta, della 'Tarentasia ec. che fa appartenere all’argilla di Oxford; 3.° una breccia calcarea e gli scisti con belemniti della Valle di Aosta superiore, di Villet nella Tarentasia ec. ch’ ei uguaglia alla 00- lite inferiore. Colloca poi nel lias 1.° una puddinga alternante con calcare cristallino a Moutiers nella Tarentasia; 2.° un’ are- naria modificata ed uno scisto con belemniti, entrochi e con piante, fossili del terreno carbonifero (1). Ognun vede che il sig. Sismonda si è ingegnato di trovare nel terreno giura-liassico delle Alpi le principali divisioni che si scorgono nel medesimo terreno al N. O. di Europa. Ma in generale ei pare che i depo- siti giurassici delle Alpi e degli Apennini si prestano poco a spartimenti simili a quelli che sono stati fatti ne’ depositi d’ In- ghilterra e della Francia; perciocchè vi mancano generalmente i fossili, i quali somministrano i principali caratteri alle divisioni settentrionali. Quanto poi agli scisti antracitosi della Tarentasia, che il Sismonda ripone con E. de Beaumont nel terreno liassi- co, tutti sanno le quistioni che ci ha circa tali depositi, perchè io mi dispensi di parlarne. Ciò che a noi importa di sapere è questo fatto certamente curiosissimo e non contrastato, e raro se pure non unico nella scienza, cioè che in quel luogo ci ha strati con impressioni di piante della flora carbonifera che alter- nano con altri contenenti belemniti, entrochi ed ammoniti del terreno liassico. Trattasi adunque di sapere se nella distinzione (1) Memoria sui terrenù stratificati delle Alpi (Mem. della R. Acca- demia delle Scienze di Torino, tom. II. della sez. I). Scienze Cosmolog. T. I. 56 282 SAGGIO COMPARATIVO della età di tali strati debbano aver maggior valore i fossili vege- tabili, ovvero gli animali. Ed importa ancora di sapere che al- l'opinione di E. de Beaumont accostasi ,non pure il Sismonda, ma eziandio lo Studer, ed il Collegno, che sono geologi grandi conoscitori delle Alpi. Il terreno giura-liassico di Lombardia è classico da lungo tempo, e più ancora va a divenire famoso per le grandi qui- stioni alle quali ha dato origine nel Congresso Milanese. E sic- come la sua natura è tale, che molta luce può spargere sopra le porzioni del medesimo terreno che occorrono in tutta la Peni- sola, giova però esporre i fatti principali che lo riguardano. Laonde indicheremo la serie degli strati onde è composto, e le opinioni che corrono intorno ad essi. Tutto il terreno è soprap- posto ad una puddinga quarzosa e ad un’ arenaria rossa, le quali sono addossate agli scisti cristallini della catena centrale. La serie poi degli strati è disposta nel modo seguente procedendo di basso in alto (1). 1.° Dolomite con cardium triquetrum (monte Godeno nella Grigna erbosa). La quale fa passaggio ad un calcare grigio chia- ro con diversi fossili, cioè una rostellaria gigantesca, varie tur- Titelle e natiche, un trochus, un sigaretus (s. Curioni, Gat.). Que- sta roccia passa ad un calcare nero con vene bianche spatiche, di che fa parte il marmo nero di Varenna, e ad uno scisto ne- ro, il quale nella valle d’Esino presso Perledo ha somministrato gli avanzi di un rettile di un genere prossimo al plesiosaurus, e diverse impronte di pesci determinati dal Prof. Balsamo Crivelli (lepidotus Trotti, Semionotus leptocephalus, Agass.). Inoltre in uno (1) Queste notizie sono tolte dalla scrittura del sig. Collegno, Mé- motre sur les terrains stratifiés des Alpes Lombardes (Bull. de la Soc. Géol. de France II. serie tom. I. p. 151) e dall'altra dei fratelli Villa, Sulla costi- tuzione geologica e geognostica della Brianza. Facciamo inoltre tesoro della gita della Sezione di Geologia del Congresso Milanese ne’ monti di Varese, e degli studi fatti da questa sulle raccolte preziose dei geologi Lombardi. DEI TERRENI CHE COMPONGONO IL SUOLO D’ITALIA 285 scisto simile presso Guggiate sono stati trovati diversi altri fossili, pholadomia hortulana Agass., nucula claviformis, Sow. e Hamme- ri, Defr., modiola hillana e plicata, Sow., pecten lens, Sow., una cardite, due lutrarie, tre plagiostome, un ceritio, una posidonia ed una zrigonia. Finalmente in questo medesimo calcare nero occorrono delle ammoniti, alcune delle quali di grandi dimen- sioni sembrano riferirsi all’A. Bucklandi. 2.° Calcare grigio di fumo con strati di selce, mancante dei fossili della serie precedente, e con alcune specie che ap- partengono agli strati seguenti (monte S. Primo, Tavernerio). Il posto di questo calcare pare occupato presso Indunno da una vera oolite bianchiccia, contenente numerosi articoli di encrini (pentancrinites subangularis, Miller). 5.° Calcare marnoso rosso, contenente ancora strati di sel- ce, e notevolissimo per i suoi fossili e per la sua grande esten- sione. I fossili principali sono le ammoniti, delle quali ci ha molte specie determinate da de Buch e da d’Orbigny. Le più conosciute sono le seguenti, a tatricus (var. dell’ Reterophyllus), Pusch; Walcotii, Sow; contractus, depressus, hepticus, elegans, fi- bulatus, Sow; radians, Schlott.; comensis, Buch ec. Insieme colle ammoniti si trovano due belemniti, un nauzilo, l’aptychus lamel- losus, e levis, la terebratula diphya, Vapiocrinites rotundus ed alcune conchiglie concamerate dritte, le quali sono state credute da alcuni ortocere e da altri alveoli di belemniti. Noi abbiamo già detto di sopra che il sig. de Buch le considera di quest’ul- tima natura. Debbono essere eziandio notati alcuni fucoidi che si trovano insieme con detti fossili a Indunno presso Varese . Questa roccia è estesissima in Lombardia, e presentasi sempre coi medesimi caratteri: onde si può considerare come un pre- zioso orizzonte geognostico; ella comincia presso il Lago Mag- giore, ricomparisce ad Indunno, e di tratto in tratto si mostra ancora nei contorni di Como, in Valsassina, a settentrione della Brianza, e prolungasi oltre 1’ Adda nel Bergamasco. 284 SAGGIO COMPARATIVO 4.° AI calcare marnoso rosso succede un calcare di co- lor bianco a grana fitta e compatta e contenente ancora strati di selce; e dimandasi comunemente majolica (Ponzate; Gavirate ec.). Nel quale, comechè raramente, pur si trova qualche fossile della stessa natura del calcare sottoposto. Sono queste le successioni di rocce giura-liassiche che oc- corrono nelle Alpi Lombarde. Vediamo ora le diverse opinioni che ci ha sopra ciascuna di esse. - , E primamente convien dire che il Prof. Collegno fa comin- ciare la serie liassica da termini molto più bassi. Perocchè egli ripone nella formazione giura-liassica non pure le puddinghe ed arenarie rosse che sono sottoposte al calcare num. 1., ma ezian- dio le rocce scistose cristalline, sopra le quali questi ultimi de- positi e tutte le rocce secondarie stratificate delle Alpi Lombar- de sono appoggiate. La quale opinione, secondo che si vedrà appresso, è materia di grandi controversie. Ma lasciando questi depositi da parte, prendiamo a consi- derare le serie sulle quali ci ha poca disparità di opinione. Il calcare nero del num. 1. e con esso il calcare grigio e la dolomite sono quasi generalmente considerati come appartenenti al lias, ‘a cagione degli avanzi di rettili, di pesci e di altri fos- sili liassici che vi sono stati trovati. Il quale pensamento sembra molto probabile. E qui cade in acconcio di ricordare che il cal- care nero di Varenna per i suoi, caratteri mineralogici, e per alcuni suoi fossili, è somigliante moltissimo al calcare nero a bi- valvi della Spezia. La natura della roccia è al tutto la stessa. Inoltre trovasi associato colle dolomiti al modo stesso che il calcare della Spezia, secondo che vedere si può confrontando la fig. 5.° della Tavola quì annessa colla fig. 1.* della Tavola IL del su citato lavoro dei Villa. Finalmente alcuni fossili dell’uno e dell'altro calcare, sono gli stessi, sopratutto un piccolo ceritio, una cardite, e forse ancora gl’ittioliti trovati nell'isola del Tinetto e a Perledo: tanto è ciò vero, che avendo mostrato al Prof. Bal- DEI TERRENI CHE COMPONGONO IL SUOLO D'ITALIA 285 samo alcuni esemplari del calcare nero fossilifero della Spezia, ci eredè vedere in tutto un pezzo del calcare nero di Lombar- dia. La differenza tra le due rocce sarebbe solo nella posizione, perocchè ne’ monti occidentali della Spezia il calcare bruno fos- silifero indica essere la parte superiore di tutta la serie giura-lias- sica, laddove in Lombardia forma manifestamente la porzione inferiore di questa. Ma se si avvera la opinione che ho espo- sta di sopra circa il rovesciamento degli strati della Spezia, al- lora i due calcari neri simili si trovano nella stessa posizione relativa, e possono bene entrambi appartenere al lias. Quanto al calcare num. 2. ed all’oolite d’Indunno, tutti si accordano a considerarle come rocce giurassiche, e non ci ha discordanzà alcuna di opinione. Non si può dire lo stesso del calcare num. 3, cinò del cal- care rosso ammonitifero. Il quale è stato il soggetto delle più importanti discussioni dei geologi nel Congresso Milanese. Era già antico dubbio se questo calcare, il quale occorre non pure in Lombardia, ma in molti altri luoghi delle Alpi ed in parecchi dell’ Appennino, appartenesse al terreno giurassico ovvero al eretaceo. Molti geologi teneano alla prima, alcuni alla seconda opinione. Tra questi ultimi erano il Pasini il Catullo ed'il Cu- rioni. I geologi Veneti affermavano di avere osservato nel Vi- centino un calcare rosso ammonitifero simile a quello della pro- vincia di Como sovrapposto ad un calcare a rudiste. Il geologo Lombardo citava alcuni luoghi del suo paese, ove il calcare rosso ammonitifero contiene fucoidi e ligasi insensibilmente con un calcare a fucoidi assolutamente simile all’ alberese Toscano. On- de deducevano che il calcare anzidetto appartenesse al periodo cretaceo. Per chiarire questo rilevantissimo punto della Geologia italiana, la Sezione di Geologia recavasi a Varese e ad Indunno, dove occorrè vedere il fatto citato da Curioni. E con universale sorpresa trovavasi in gran parte vero; perocchè il terreno mo- stra colà la successione di rocce indicata dalla figura 5.*, cioè 286 - SAGGIO COMPARATIVO a) Calcare oolitico con numerosi encrini. b) Calcare rosso marnoso con encrini, ammoniti, delle spe- cie su citate, belemniti ed alcuni fucoidi: c) Strati marnosi rossi e grigi. d) Strati calcarei grigi con fucoidi del macigno. Tutti questi strati si succedeano con concordanza perfetta di stratificazione, tanto che parevano far parte di un medesimo deposito. Alcuni della Sezione furono; per dir così, sorpresi da questo fatto; altri invece più attentamente considerandolo face- vano osservare, il calcare marnoso rosso contenere specie ani- mali, di cui nessuna ritrovavasi nel calcare soprapposto; ed al- l’incontro il medesimo calcare rosso contenere encrini simili a quelli della oolite considerata da tutti giurassica; é quanto ai fucoidi essere necessario di studiare bene quelli del calcare rosso per sapere se fossero specie simili a quelle del macigno; final- mente non essere quello il primo esempio di due depositi di età diversa che si succedono con concordanza di stratificazione. Stando la questione in tali termini, il sig. de Buch comunicò la mattina seguente alcune magistrali osservazioni sul proposito, le quali torna bene di trascrivere in questo luogo. « L’ammonites tatricus, assai prossimo all’ heterophillus, ma « enfiato nei lati e mancante di ogni piano suturale, è stato « nominato e descritto dal sig. Pusch di Varsavia nella sua Pa- « leontologia di Polonia, ed una buona figura accompagna le « sue descrizioni. Questa ammonite è ordinariamente associata « alla ferebratula diphya, di cui la terebratula triquetra non for- « ma che una varietà. Vi sì uniscono ancora un gran numero « di aptychus e.molte specie, o varietà della famiglia dei falci- « feri. Gli strati calcarei che sono contrassegnati da questa riu- « nione di esseri organici si trovano particolarmente nel mez- « zogiorno di Europa, dove hanno un carattere particolare; e « mancano nella sua parte settentrionale. Il sig. Dubois di Mont- « pereux gli ha già scoverti in Crimea, ed il suo spaccato degli DEI TERRENI CHE COMPONGONO IL SUOLO D’ITALIA 287 strati di quel paese dimostra che essi debbono far parte delle formazioni giurassiche superiori. Si riscontrano al piede del monte Tatra, onde*il nome dell’ammonite su citata, a Rogoc- znick e Szaflary nel mezzogiorno di Cracovia. Il sig. Zeusch- ner di Cracovia gli ha descritti, ed il sig. Murchison che gli ha esaminati nel 1845 è convinto che l’arenaria dei Carpazi (il macigno ) n’ è intieramente separata. Finalmente il sig. Beyrich perviene alla medesima conchiusione in un eccellente lavoro inserito negli Archivi di Karsten. Questa formazione vedesi distinta nel lato meridionale delle Alpi; e ad Asiago nel paese Bergamasco, a Erba, a Cesi sopra Terni, ed in tutt’ i luoghi che sonoci ora familiari per tante eccellenti ri- cerche dei geologi italiani, ella presenta sempre gli stessi caratteri. La formazione giurassica finisce intieramente al mezzogiorno del lago di Orta e non penetra mica nel Piemon- te. Ma ella ricomparisce precisamente di rincontro nell’ altro lato delle Alpi, e si direbbe quasi che 1’ elevazione di questa catena l’avesse tagliata. Così occorre ad Albeuve sulla Serine, ed a Chatel S. Denis, dov è accompagnata dall’ a. flexuosus ch’ è tanto caratteristico degli strati giurassici superiori del- l’Allemagna. Il Salève; i Voirons fanno osservare gli stessi strati ad a. tatricus. Il mont du Chat, Barème, Castellane gli presentano al medesimo modo. Finalmente si ritrovano ancora nelle vicinanze di Mende, ed in quest’ultimo luogo si ha piut- tosto ragioni di vedervi degli strati inferiori della formazione giurassica che degli strati di una formazione cretacea. Egli è adunque poco probabile che i fuchi trovati negli strati con giacitura concordante a Indunno, o a Erba possano far risalire gli strati ad a. tatricus, a terebratula diphya e ad aptichi fino alle formazioni cretacee (1) ». (1) Il mio amico Coquand, al quale ho fatto conoscere questa nota del sig. de Buch, non è disposto ad ammettere le conchiusioni di essa. 988 SACGIO COMPARATIVO Queste osservazioni, che hanno l'impronta della perizia somma e della lunga sperienza del gran geologo, sgomberarono ogni dubbio dagli animi, e valsero ad assegnare fermamente al calcare rosso ammonitifero il vero posto che occupar deve ne depositi della Penisola. E poichè la majolica, ch'è ultimo termine degli strati che esaminiamo, trovasi intimamente ligata col cal- care rosso ammonitifero, ne segue che anch’ essa debbe far parte della formazione giurassica superiore. i Passando ora alle Alpi Venete, troviamo che Catullo, Pasini e de Zigno vi riconoscono il terreno giura-liassico nelle masse calcaree che sono sottoposte al calcare a rudiste e nummuliti e sovrapposte al sistema calcareo arenaceo antico; e vi distinguono diversi banchi (1). Quanto alla posizione del calcare rosso am- monitifero di quel paese, primo soggetto della controversia su mentovata, attendiamo che Pasini e Catullo ci facciano sapere i risultamenti de’ nuovi studi che hanno promesso di fare di quella formazione (2). Ed è ancora desiderabile che dieno notizie più speciali su le formazioni giurassiche delle provincie Venete a quel modo che le abbiamo rispetto a quelle di Lombardia. Rimangono ancora alcuni depositi inferiori al lias, ne’ quali discordanti sono le opinioni de’ diversi geologi della Penisola. Egli afferma che in Provenza, nel Dròme, la teredratula diphya trovasi co- stantemente nel terreno neocomiano inferiore e sovrapposta alla grypl@ea virgula, e che nello stesso piano e con la medesima specie di terebratula, egli ha trovato nelle Basse Alpi gli aptichî, segnatamente quello da lui de- dicato a Blainville. Trattandosi di osservazioni fatte in luoghi speciali, mi limito solo a citarle. (1) Pasini, Atti del Congresso di Pisa, p. 107. (2) Nella gita fatta alla valle dell'Adda la Sezione di Geologia osser- vava alcuni strati di calcare rosso marnoso interposti alla formazione. cre- tacea, i quali aveano tull’i caratteri mineralogici del calcare rosso ammo- nitifero; ma non contenevano fossili. Gli strati medesimi, e nella stessa po- sizione erano stati osservati in altri luoghi della Brianza dai geologi Lom- bardi. Può stare dunque che qualche volta sieno stati confusi questi calcari rossi erelacei con quelli giurassici per l'analogia del loro colore. DEI TERRENI CHE COMPONGONO IL SUOLO D’ ITALIA 289 Tali sono le puddinghe ed arenarie rosse della provincia di Co- mo, che abbiamo di sopra nominate; le anageniti e le puddin- ghe della valle della Corsaglia nell’appennino Ligure; le anage- niti del Capo-Corvo nel golfo della Spezia e de’ monti di Pisa (verrucano del Savi ); e forse ai medesimi depositi sono da ri- ferire il singolare conglomerato di Pentidattilo nell’ Aspromonte in Calabria (1) e quello simile delle vicinanze di Taormina ne’ monti Peloritani in Sicilia. In tutt'i quali luoghi presentano pressochè i medesimi caratteri mineralogici, e conservano la me- desima posizione e si ligano colle famose puddinghe della Valor- sina e con quelle della Tarentasia. Nessun fossile è stato finora in essi trovato che possa dar luce su la loro età. Però alcuni geologi, come il Sismonda, il Collegno, lo Studer, il Savi, gli considerano ligati al calcare giura-liassico ch’ è ad essi sovrap- posto, laddove altri, il Pareto, Pasini, Catullo, Filippi, Curioni, Guidoni, gli ritengono più antichi e probabilmente paralleli al terreno peneo e carbonifero. D’ altra parte questi depositi sono intimamente connessi con grandi masse di scisti cristallini, i quali accrescono le loro dubbiezze. Conviene dunque aspettare che qualche nuovo fatto venga a sciogliere il nodo di tale impor- tante questione (2). (1)7Il monte di Pentidattilo è uno dei luoghi più curiosi ch’ io mi abbia veduto in Calabria. Esso è fatto di saldissimo conglomerato, composto di ciottoli di granito e di gneis e principalmente di una specie di protogino werdiccio che ha l'apparenza di un porfido: della qual roccia non mi è avvenuto di trovare masse in posto in tutto il paese vicino. Quel monte poi alzasi sopra tutti gli altri che stanno d’intorno, i quali sono composti di micascisto e di fillade; tanto che vedesi la sua cima torreggiare come una guglia; ed è questa terminata con frastagli che rendono imagine di una palma di mano spiegata. E da tale accidente trae suo nome il paese che vi è sopra come appiccato, il quale perciò presenta un bellissimo esempio della sua origine greca. (2) Senza il proposito di entrare in mezzo a questa controversia, pia- cemi di quì citare una osservazione che ad essa ha riguardo. Le Alpi Scienze Cosmolog. T. I. 57 290 SAGGIO COMPARATIVO c) Terreno triassico. Il lias segna veramente il termine inferiore e non contro- verso dei depositi stratificati d’Italia. I depositi a questi infe- riori non si veggono per grandi tratti della Penisola, ovvero si osservano interamente trasformati e ridotti in forma di scisti cri- stallini. Non però di meno ci ha alcuni luoghi, dirò così, pri- vilegiati del nostro suolo, dove occorre vedere parziali depositi, e bene distinti di terreni inferiori al lias. Fra questi è il calcare conchiglifero ed in generale il trias del Vicentino e della Gar- nia. Il quale terreno, oltre a quello che è stato descritto dai x nostri colleghi dello Stato Veneto, ancora è stato riconosciuto da un gran numero di geologi stranieri. La formazione del mwu- schelkalk è quivi contrassegnata dalla sua posizione e da vari fossili, e segnatamente dall’ enerinites moniliformis, dalla tere- bratula trigonella e communis. Il Boué vi cita strati di corpi al- cionari ridotti in istato di silice (1). La formazione dell’arenaria screziata sembra esservi bene indicata da impressioni di piante Apuane sono il luogo più aeconcio per vedere le relazioni del caleare giu- rassico e degli scisti cristallini sottoposti. Quivi al piede orientale del monte Altissimo, e propriamente là dove il torrente Crocicchio mette nell’ alveo della Torrita, vedesi il calcare così saldato collo scisto talcoso, e con linea tanto distinta, che si può ritrarre un pezzo di pochi pollici fatto metà di calcare e metà di seisto; e, ciò che più rileva, vedesi la struttura scistosa della roccia inferiore continuata ancora nel calcare per la interposizione di lievissime lamine talcose in questo. Onde si deduce che le medesime con- dizioni nelle quali depositavasi lo scisto si continuarono nel deposito del cal- care, e quindi che la formazione inferiore non fu separata dalla superiore da lungo periodo di tempo trascorso. (1) Guide du géol. voyag. tom. I. Terr. du muschelkalli. A ciò è da aggiungere che il sig. Trattenero, zelante investigatore del suolo Vi- centino, mandò al Congresso di Milano alcuni altri fossili grandiosi da lui trovati nel detto deposito; le forme de’ quali erano di tal natura, che non si poterono da nessuno riconoscere. DEI TERRENI CHE COMPONGONO IL SUOLO D’ITALIA 291 appartenenti al genere Voltzia, e che sono, secondo Adolfo Bro- gniart, prossime alla V. brevifolia, il quale fossile è assai carat- teristico dell’arenaria screziata ne’ Vosgi (1). Queste formazioni, avvegnachè locali, sono veramente importantissime nella geologia Italiana, in quanto che possono dare molto lume sopra i depo- siti dubbiosi che si trovano sotto al lias nella nostra Penisola. S. V. TERRENI PRIMARI. I terreni stratificati primari, o paleozoici sono rarissimi in Italia; anzi in nessun luogo della Penisola sono stati veramente ritrovati, ma sì in alcune isole ad essa appartenenti. L’ illustre geologo che ci ha fatto conoscere la struttura fisica della Sarde- gna, ha osservato in quell’isola al di sotto del terreno giurassico, e d’alto in basso 1.° un terreno di antracite con impressioni di piante appartenenti in maniera evidentissima al periodo carbo- nifero: il sig. Ad. Brogniart che le ha esaminate vi ha ricono- sciuto le specie seguenti, alcune delle quali ridotte in istato talcoso. Pecopteris arborescens (S. Étienne, Alais). ——, dentata (Anzin, Saarbruck). —-— unita (Saarbruck, Alais, S. Étienne). ire polymorpha (Alais). —— . Defrancii (Saarbruck). Nevropteris. Frammento indeterminato . Spenophyllum dentatum (Newcastle, Anzin). Annularia longifolia (Valenciennes ec.) Asterophyllites tenuifolia (Valenciennes ec.) Calamites Soukowii (Newcastle ec.) 2.° un terreno silurio composto superiormente di un calcare gri- gio lamelloso con ortocere, spiriferi, enerini, ed inferiormente (1) Bull. de la Soc. Geol. de France, tom. MI. p. 341. 292 SAGGIO COMPARATIVO di scisti con spiriferi e graftoliti.. Questi antichi depositi pog- giano su gli scisti cristallini che formano l’asse dei monti di Sardegna. Ma il sig. La Marmora ha fatto osservare che il ter- reno silurio trovasi limitato alla parte occidentale dell’isola, ed è ordinato in direzione speciale, cioè dal N. O. al S. E.; ed oltre a ciò ha trovato che rassomiglia tanto al terreno silurio del- V Estremadura descritto da le Play, che dove le rocce ed i fossili de’ due luoghi fossero insieme riuniti, non sarebbe affatto pos- sibile di distinguergli: per ultimo è da notare che nell’una e nell’ altra regione il terreno silurio trovasi presso a poco nella medesima latitudine, e nel prolungamento di una stessa linea. Questa posizione dei terreni paleozoici di Sardegna e la man- canza assoluta di essi in tutta la nostra Penisola, sembrano in- dicare che tali terreni appartengono più al continente della Spagna che a quello dell’Italia. Nell’ importantissimo lavoro sopra la Corsica che il Mar- chese Pareto ha presentato al Congresso di Milano, trovasi indi- cato un brano di terreno psammitico-filladico con combustibile fossile avente l'aspetto di antracite. Il quale terreno trovandosi alla parte occidentale dell’ isola, cioè verso il golfo di Girolato e di Galeria, mostra di avere molta attenenza con quello di Sar- degna. : E quì termina il confronto dei terreni stratificati d’Italia. Se non che per renderlo più compiuto, sarà bene di dire qual- che cosa di particolare circa i contatti relativi delle loro serie diverse. $. VI. LINEE DI SEPARAZIONE DEI TERRENI STRATIFICATI ITALIANI. Tutti terreni che abbiamo dinanzi discorsi non sono da uguali linee di divisione separati; ma alcuni appariscono bene distinti dai terreni contigui, altri con essi sono saldati. Comin- ceremo quest’ esame dai terreni terziari. DEI TERRENI CHE COMPONGONO IL SUOLO D’ITALIA 295 Il nuovo pliocene non sembra essere in verun luogo distinto dal vecchio pliocene per discordanza di giacitura, ma solo per differenza di fossili. Anzi tutto il terreno pliocene ligasi in qual- che parte anche col terreno quaternario recente. Così, per esem- pio, il Prof. Savi ha fatto vedere che l’arenaria recente di Anti- gnano presso Livorno connettesi insensibilmente colla panchina, la quale forma la parte superiore de’ depositi subappennini del- l’agro Volterrano e Livornese. La congiunzione del terreno subappennino col terreno ter- ziario medio si fa diversamente nei vari luoghi d’ Italia. Abbia- mo detto superiormente come nelle vicinanze di Reggio i due depositi sono sovrapposti con linea discordante di stratificazione. Negli Abruzzi poi passano insénsibilmente gli uni agli altri, se- condo che si osserva nei monti del Teramano, i quali da Monte Corno si abbassano nell'Adriatico. Il Marchese Pareto ed il Prof. Sismonda ci fanno sapere che nei colli di Torino, in quelli della valle del Tanaro, vedonsi le molasse e le puddinghe terziarie medie inclinate, mentre le marne subappennine sono orizzon- tali. Queste differenze possono condurre a notevoli conseguenze circa i sollevamenti montuosi della nostra Penisola. Quanto al terreno terziario inferiore, essendo esso limitato ad alcuni pochi luoghi dell’ Italia superiore, non si conoscono le sue relazioni cogli altri terreni terziari più recenti. Tutti conoscono le opinioni discordanti dei geologi circa il passaggio dei terreni terziari alla creta. Alcuni lo ammettono, molti lo negano. Il Prevost e 1’ Hoffmann affermano avere osser- vato questo passaggio in Sicilia. « I calcari terziari di Sicilia, » così dice il Prevost, « passano gli uni agli altri dalla creta inelu- PS « sivamente fino ai sedimenti che si depositano e si consolidano « al presente; e se in un luogo si vedono caratteri e soprappo- = sizioni che sembrano annunziare periodi bene distinti, in un altro si trovano transizioni graduate. Così, movendo da Sira- cusa a Pachino per Noto, si veggono i terreni terziari più 294 SAGGIO COMPARATIVO « moderni passare gradatamente alla creta; la quale transizione « si osserva ancora nelle vicinanze di Trapani ai piedi del monte « Erice » (1). L’Hoffmann poi così si esprime su tale proposito . « I due depositi terziari (il calcare e la marna azzurra) sono posti « allato e parallelamente l’uno all’altro; e passano ciascuno a suo « modo al suolo secondario; il calcare, come l’ha osservato Pre- « vost a Pachino, per mezzo di una marna calcarea cretacea, e « l'argilla azzurra, come a Girgenti, per via di rocce scistose ad « essa somiglianti, e nelle quali vengono tosto a comparire strati « calcarei a nummuliti ed ippuriti. Questa doppia congiunzione « del suolo secondario e terziario, seguita a dire l’illustre geolo- « go, è uno dei fatti più curiosi nella geologia della Sicilia, tanto « più che ci ha mescolanza de’ fossili nel limite delle due forma- « zioni, e che il suolo terziario presenta i caratteri di un depo- « sito assai recente (2) ». In questa specie di terreno misto, se così vogliam dire, collocano i prelodati geologi i famosi depositi di zolfo e di gesso di Sicilia. Ma non è da tacere che il passag- gio, onde si ragiona, è contradetto da altri geologi e segnatamente dal sig. di Pinteville. Il quale sostiene, che la marna bianca ere- tacea racchiudente depositi di gesso e zolfo è distinta dal cal- care cretaceo a nummuliti ed ippuriti di Pachino, sopra il quale riposa, come diversa è dal terreno subappennino di Noto che la ricuopre: ed afferma aver ritrovato in essa fossili appartenenti tutti al periodo terziario, ed alcuni a specie ancora viventi; on- d’ei giudica non potersi riporre più in basso del terreno plio- cenico (3). Avendo diligentemente esaminati i fatti esposti dal . sig. Pinteville nella sua giudiziosa nota, mi è sorto un dubbio nell’animo non quel contrastato deposito di gesso e di zolfo di Sicilia appartenga al terreno terziario medio Italiano. Le ra- gioni che m’ inducono a ciò credere sono le seguenti. (1) Bull. de la Soc. Géol. de France, tom. Il. p. 404. (2) Bull. sopra citato, tom. DI. p. 175. (3) Bull. de la Soc. Geol. de France, tom. XIV. pag. 546. DEI TERRENI CHE COMPONGONO IL SUOLO D'ITALIA 295 1.° Alcuni terreni miocenici d’ Italia sono principalmente notevoli perchè contengono depositi di gesso, di zolfo, e di sal gemma. I famosi alabastri di Volterra, i gessi e zolfi di Sini- gaglia e di Cesena, le moie o sorgenti salate del Volterrano hanno lor giacitura nel terreno terziario medio. 2.° La posizione della marna gessosa di Sicilia è precisa- mente quella del terreno. terziario medio nel resto dell’Italia, come fanno vedere le figure date dal Pinteville nella nota succi- tata. E, che più importa, le relazioni di giacitura fra la marna gessosa ed il terreno subappennino è precisamente la stessa che si osserva in tutto il resto della Penisola e principalmente nella prossima Calabria; cioè vedesi il terreno miocenico dislogato ricoperto dal terreno subappennino in sua natural posizione ( ved. il $. V di questa scrittura ). 5.° I fossili sono rari nella marna cretacea Italiana, come rarissimi occorrono in tutto il terreno miocenico d’Italia. E quelli trovati dal Pinteville appartenendo a specie terziarie ven- gono ad avvalorare molto il mio dubbio. 4.° Finalmente i pesci fossili citati dall’ Hoffmann e dal Lyell in detta marna, non sarebbero di acqua dolce, come quelli del terreno miocenico di Sinigaglia? E le impronte di foglie che - gli accompagnano non apparterebbero mai a quelle piante dico- tiledoni, che occorrono comunissime nel terreno terziario medio italiano? Io espongo quì tali miei dubbi, affinchè sieno tenuti presenti dai geologi che esamineranno di nuovo que’ famosi terreni. Ed io altresì non ho osservato mai una vera transizione . de’ terreni terziari ai cretacei in nessun punto del territorio napolitano di quà dal Faro; e, a quello io mi sappia, non è stata veduta da altri in tutto il resto della Penisola. Il Pasini cita un passaggio di questa natura presso Barbarano ne’ colli Berici; ma in pari tempo afferma non essere bene preciso. Per questo rispetto intanto meritano di essere conosciute le relazioni del 296 SAGGIO COMPARATIVO terreno miocenico e del macigno a Caniparola nella Lunigiana. dove accade di vedere gli strati di questi due terreni che sono grandemente inclinati succedersi con tale concordanza di strati- ficazione, che sembrano far parte di un medesimo deposito. Nondimeno bastano a bene distinguergli la natura delle rocce, e gli avanzi organici che contengono. Si può dire dunque che intercede sempre una linea distinta di separazione tra’ confini del terreno cretaceo e de’ depositi terziari in Italia. In generale poi, e secondo abbiamo detto di sopra, il ter- reno del macigno ha in tutta Italia una giacitura indipendente, ed è bene separato non pure dai terreni terziari, ma altresì dai diversi piani componenti il terreno eretaceo. Possiamo conside- rare come una eccezione veramente singolare la concordanza di questo terreno col calcare rosso ammonitifero nelle vicinanze di Indunno in Lombardia; e dianzi abbiamo veduto le false conse- guenze a che questo fatto pareva condurre. Movendo poi dal calcare nummulitico ed ippuritico e terminando al calcare liassico, tutti questi depositi formano una gran massa che non presenta linee di separazione, e però non è possibile dividerla per via di giunture discordanti. In qualche raro luogo, ch'io sappia, accade di vedere il contrario; così per esempio il Sismonda assicura che nel contado di Nizza il calcare neocomiano vedesi in giacitura discordante sul calcare giurassi- co (1). Ma il fatto più generale è quello che abbiamo detto di sopra. Ed allora l’ unico mezzo che rimane per distinguere al- cune delle sue parti sono i fossili, i quali in verità variano dai termini superiori agli inferiori di tutta la massa anzidetta. Ab- biamo veduto che nelle parti superiori si trovano nummuliti ed ippuriti (Monte Gargano nelle Puglie, Fenez nel Bellunese), poi nerinee, acteonelle, chama ammonia e rudisti ( calcare neo- (1) Osservazioni geologiche sulle Alpi marittime, e sugli Appennini Liguri. DEI TERRENI CHE COMPONGONO IL SUOLO D'ITALIA 297 comiano napolitano ), appresso pesci fossili ed ammoniti giu- rassiche ed encrini (Castellamare, Giffuni, Gran Sasso d’Ita- .lia, monti di Campiglia, monti Pisani, monti d’ Erba nel Lago di Como), finalmente ammoniti liassiche (golfo della Spezia ). Ma uopo è convenire che la facies generale di questo terreno calcareo indica ch’ esso forma un. deposito grande e continuo di basso in alto, sovrapposto quà e là in masse per lo più stac- cate sopra terreni scistosi cristallini, ovvero sopra depositi are- naceo-calcarei più antichi. Con questi caratteri si presenta in Sicilia, in Calabria, in Toscana, e coi caratteri medesimi occorre nelle Alpi meridionali ed ancora nelle settentrionali. Per modo che si può conchiudere che tra il deposito del lias e quello degli ultimi piani cretacei nel nostro paese non sono avvenuti scon- volgimenti nel suolo, ma solo cangiamenti nelle specie organiche per la lunghezza del periodo in cui tutta l’ anzidetta massa cal- carea fu depositata. Tra il gran deposito calcareo dianzi mentovato e i depositi inferiori più antichi intercede quasi sempre una linea distintis- sima di separazione. La quale io ho avuto occasione di vedere costantemente in Sicilia, in Calabria, ed ancora in Toscana, e pare che la medesima circostanza sia stata osservata nelle Alpi dal maggior numero di geologi Italiani e Svizzeri. Nondimeno ci ha osservazioni di alcuni nostri valorosi colleghi, le quali sem- brano provare una specie di passaggio ed amalgamazione tra gli strati calcarei liassici e quelli di scisti e puddinghe ad essi sotto- posti. Così il Savi cita nelle Alpi Apuane le alternanze del cal- care cristallino e del verrucano alla Bruggiana presso Massa Du- cale, le alternanze medesime che si veggono al capo dell'Arco nell’ isola d'Elba. Ma in verità in que’ luoghi a me è sembrato vedere che gli strati calcarei subordinati agli scisti cristallini sono distinti dalle masse calcaree ad essi sovrapposte, e quanto ai caratteri mineralogici e quanto alla giacitura. Meno dubbiosi poi sono i fatti di tal natura citati da E. de Beaumont e da Si- Scienze Cosmolog. T. I. 58 298 SAGGIO COMPARATIVO smonda a Petit-Coeur nelle Alpi di Savoja, dove hanno osservato il calcare a belemniti alternare cogli scisti antracitosi, i quali fatti non sono messi in dubbio nè pure da coloro che pensano l’un terreno essere dall’altro distinto. Delle altre linee di separazione che possono occorrere ne? terreni stratificati inferiori non parleremo, essendo questi ter- reni poco bene distinti in Italia. ARTICOLO II. TERRENI METAMORFICI. I terreni metamorfici d’ Italia che si possono bene distin- guere sono di tre sorte, cioè gli scisti del macigno e della creta, i marmi cristallini giura-liassici, e gli scisti inferiori al lias. Di- ciamo per sommi capi i fatti principali relativi a questi diffe- renti depositi. Il terreno ‘più recente che in Italia vedesi modificato è il macigno. Le rocce che lo compongono sono dimandate in To- scana galestri e noi altresì con questo nome le dinoteremo. I galestri adunque sono composti di ftaniti, di marne diasproidi ed ancora di diaspri distintamente stratificati, gli strati dei quali si fanno notare ora per la loro colorazione in rosso traente al bruno, ora per il loro assottigliamento, ed ora infine per il modo singolare onde sono contorti. Io ho osservato questa formazione in due luoghi lontani d’Italia. Cioè nelle vicinanze di Lagonegro in provincia di Basilicata nel regno di Napoli, ed in Toscana. Nel primo luogo è composta principalmente di ftaniti stratificate e divisibili in prismi romboidali così perfetti che si potrebbero misurare col goniometro; ed è ragguardevole per ciò che forma monti ben alti ed estesi, e non lascia vedere masse plutoniche dall’azione delle quali le rocce che la compongono sono state modificate. Sembra dunque che la metamorfosi di quelle roece DEI TERRENI CHE COMPONGONO IL SUOLO D’ITALIA 299 sia stata prodotta da una irradiazione speciale di calore terre- stre, i cui avanzi sono indicati da alcune polle termali che spic- ciano nel paese d’intorno. Le ftaniti di che parliamo si veggono manifestamente soprapposte al calcare neocomiano. I galestri poi di Toscana e della Liguria danno origine a formazioni più circo- scritte, e le loro intime relazioni coi famosi gabbri de’ succitati paesi dimostrano che dall'azione di questi è stata prodotta la loro modificazione (1). A questa medesima formazione apparten- gono, come tutti sanno, le famose lavagne di Chiavari nel Geno- vesato. Il Marchese Pareto nel suo su citato lavoro sopra la Cor- sica ci ha fatto conoscere che una grande estensione di terreno scistoso cristallino di quell’ isola vuolsi alla formazione cretacea riferire. Esso è composto in gran parte di steascisto con calcare cristallino; e fa insensibilmente passaggio a rocce di sedimento che contengono banchi di nummuliti simili a quelle delle Alpi. E si stende nel verso della lunghezza dell’ isola dal Capo Corso nell’ estremità settentrionale fino a Porto Pavone, e verso po- nente infino a Belgodere e Corte. Vengono appresso i calcari giura-liassici modificati in (1) Ed ancora i galestri Toscani fanno nascere alcune dubbiezze in- circa alla loro età. Sono essi generalmente riputati come rocce del maci- gno modificate; ma mi ricorda che allorquando gli esaminai la prima volta nella rupe del Volterrajo all'isola d’ Elba, dove la loro formazione appari- sce veramente cospicua, mi mostrarono una linea ricisa di separazione dagli strati di alberese che ad essi sono sovrapposti, e che sembrano come riget- tati in fuora. La medesima distinzione vedesi tra’ galestri e l’alberese di Monte Morello dalla parte del piano di Acona. Inoltre nel Forte del Falco- ne presso Portoferraio si veggono i galestri ligati ad un calcare rosso, che non ha l'apparenza dell’alberese, ma piuttosto di un calcare giurassico . Il sig. Coquand ha fatte le medesime osservazioni in quell’ isola, e di più mi ha mostrato alcuni galestri delle vicinanze di Campiglia che tengono intima- mente al calcare rosso ammonitifero. Per la qual cosa egli è disposto a eredere che quesli curiosi scisti di Toscana sono indipendenti dal macigno, ed appartengono più verisimilmente alla formazione giurassica. La quale opinione può stare che sarà verificata dalle osservazioni ulteriori. 500 SAGGIO COMPARATIVO marmi statuari. I quali essendo generalmente conosciuti mi dispensano dal parlare lungamente di essi. Farò solo osservare un accidente particolare di lor giacitura che merita di essere quì indicato. I calcari cristallini che fanno parte delle masse giura-liassiche sovrapposte agli scisti cristallini si veggono di grado in grado passare a calcari comuni, compatti ed anche cel- lulosi. Così, per esempio, i famosi marmi di Carrara come si av- vicinano alla valle della Tecchia, si presentano in forma di cal- care compatto, bruno, stratificato, fossilifero, il quale è al tutto simile al calcare comune appenninico. I marmi del monte Altis- simo nelle Alpi Apuane passano insensibilmente ad un calcare grigio, celluloso, ad un vero rauekwake. AI contrario poi i calcari subordinati agli scisti cristallini hanno costantemente la grana cristallina anch’ essi, e spesso assumono i caratteri del cipollino. In questa forma si presentano i calcari subordinati allo gneis nelle vicinanze di Roccaforte e di Olivadi in Calabria, quelli su- bordinati agli steascisti nell’ isola d’ Elba ed alla Bruggiana vi- cino Massa. Gon ciò intendo dire che i due calcari, avvegnachè convengano talvolta nella loro natura cristallina, nondimeno si trovano in posizione diversa, e forse tengono ad età differenti. Gli altri terreni che occorrono modificati in Italia sono quelli posti inferiormente al calcare giura-liassico. Noi abbiamo detto delle varie opinioni che corrono sopra quelle loro porzioni che non sono state metamorfosate. Quì diremo soltanto delle altre parti che si veggono convertite in scisti cristallini. In Sicilia compariscono tali scisti nei monti Peloritani che discorrono tra Messina e l’ Etna, e sono in forma di scisti, di micascisti, di filladi ed ancora di gneis. In Calabria occorrono nelle medesime forme; se non che quivi sono molto notevoli, perchè compongono l’ asse principale dell'Appennino e presen- tano maggiori varietà. In forma di filladi e micascisti occorrono a S. Lorenzo, a Bagaladi in Calabria Ultra I, a Pazzano in Ca- labria Ultra II, in forma di ardesie e di micascisti danno origine DEI TERRENI CHE COMPONGONO IL SUOLO D’ITALIA 501 agli estesi monti di Carpenzano, di Scigliano in Calabria Citra. Ma più frequentemente assumono i caratteri dello gneis; 1’ alto gruppo dell'Aspromonte presso Reggio, i monti di Olivadi, di S. Vito, di Monteleone ec. sono composti in maggior parte di gneis, il quale in alcuni luoghi fa passaggio ad un vero granito. Dalla Galabria bisogna passare in Toscana per ritrovare i medesimi scisti cristallini. I quali cominciano a comparire nei monti Pisani, in forma di filladi, di steascisti che si congiungono alle anageniti e psammiti (verrucano del Savi). Nelle Alpi Apua- ne poi i loro caratteri dominanti sono quelli di steascisto: in nessun luogo gli ho veduti in forma di veri gneis. Non entrerò a parlare delle varie forme onde queste rocce si presentano nelle Alpi Italiane, perchè dovrei ripetere cose già conosciute. Chiuderemo questa rubrica facendo un piccol cenno dei periodi in cui le rocce metamorfiche Italiane sono state modifi- cate. A me pare che si possano distinguere nel nostro paese i seguenti periodi metamorfici. 1° Periodo posteriore al macigno ed alla creta. Dalla sua azione sono derivati i galestri Toscani e Napolitani, le lavagne del Genovesato ed i steascisti di Corsica. Le cause modificatrici sono state le eruzioni ofiolitiche, e forse ancora flussi speciali di calore terrestre. 2.° Periodo posteriore al calcare giura-liassico. Durante il quale furono prodotti i cangiamenti de’ calcari comuni in marmi cristallini nelle Alpi Apuane. Non si conoscono le vere cause di queste alterazioni, se pure non vogliamo ravvisarle nelle azioni di alcuni filoni di Toscana, de’ quali appresso diremo. I marmi di Carrara contengono in alcuni luoghi filoncini di ferro ossido- lato, i quali, secondo che il Savi ha fatto vedere, si ligano con filoni della stessa natura che occorrono nella valle di Serravezza, e forse ancora ai filoni di ferro dell’ Elba. Con ciò non si vuole già dire che l’azione circoscritta di questi filoni abbia cagionata 502 SAGGIO COMPARATIVO un’ alterazione così estesa com’ è quella de’ marmi Apuani; egli è più verisimile che i filoni stessi sono stati prodotti dalla causa modificante generale; ma in ogni modo possiamo ritenere che i due ordini di fenomeni sono ligati fra loro. E intanto da osser- vare in queste dubbiose ricerche che l'alterazione delle rocce giura-liassiche delle Alpi Apuane non si è propagata nelle rocce vicine del macigno, laddove l’eruzione de filoni ferriferi di To- scana sembra essere seguita in un periodo posteriore al deposito di queste rocce, secondo che appresso sarà detto . 5.° Periodo anteriore al calcare giura-liassico. Im Calabria gli scisti cristallini, i quali sono stati interamente modificati, sostengono masse calcaree giura-liassiche che non si veggono in nessun punto convertite in marmi cristallini. Ciò che sembra dimostrare le alterazioni di quegli scisti essere state anteriori ai depositi giurassici. 4.° Periodo anteriore al terreno peneo. Il micascisto del Vicentino che sostiene i depositi penei e triassici inalterati, si può considerare modificato da azioni anteriori ai depositi anzi- detti, e porge quindi l’ esempio di azioni metamorfiche le più antiche che sono occorse nella nostra Penisola . ARTICOLO III. TERRENI ERUTTIVI. L’ Italia è il paese più celebre di Europa per rispetto ai terreni prodotti dal fuoco. I quali vi si mostrano in tutte le for- me e con tutti gli accidenti possibili. Quindi se volessi quì dire solo sommariamente i loro caratteri, mi converrebbe escire dai limiti del presente lavoro. Lasciando però questo incarico ai de- scrittori delle contrade speciali della nostra Penisola, mi limi- terò a parlare solamente dell'età diversa in cui questi terreni sono venuti fuora . DEI TERRENI CHE COMPONGONO IL SUOLO D’ITALIA 305 Non parlerò delle difticoltà alle quali va incontro questo genere di ricerche, perchè tutti le conoscono appieno. Nondi- meno gioverà vedere in quale ordine più o meno approssimati- vamente sono comparse nella superficie del suolo italiano le rocce prodotte dai fuochi terrestri. Noi non potremo quest'ordine ri- conoscere se non esaminando le loro relazioni coi terreni strati- ficati. Cominciando dalle serie meno antiche vengono primamente i Vulcani attivi, come quelli che sono. tuttora in azione, avve- gnachè alcuni di essi abbiano avuto forse una origine anteriore ad altre rocce vulcaniche che appresso esamineremo. Il Vulcano di Stromboli non contenendo rocce stratificate di nessuna sorta nè in posto, nè in pezzi rigettati, non ci porge nessun lume circa la sua prima apparizione. I prodotti del Vesuvio non mo- strano nessuna relazione importante colle prossime rocce di sedimento; tuttavia tra’ numerosi frantumi di queste rocce che si ritrovano ne’ conglomerati del Vesuvio antico cioè del monte di Somma, io ne ho trovati certi che contengono conchiglie ter- ziarie recentissime, alcune delle quali sono lacustri; ciò che sem- bra dimostrare essere quel Vulcano sorto posteriormente al pe- riodo pliocenico recente: probabilmente ebbe sua origine nel seno di una baia o di un golfo, secondo che fanno credere le serpule e coralline che ho trovate aderenti alla superficie di certi tufi del monte di Somma, ed i piccoli mitili annidati in un fram- mento di dolomite di quella montagna (1). A tempi più antichi (1) Le marne stratificate con fossili terziari recenti da me trovate nel Fosso Grande di Somma, potrebbero far credere che il Vesuvio antico avesse avula sua origine innanzi al periodo pliocenico. Ma siccome le anzi- dette marne giacevano alla base de’ conglomerati e delle altre materie vul- caniche che formano le pareti di quel fosso, si può dedurne ch’ elle aves- sero preesistito a dette materie. Laonde questo fatto non si oppone a molti altri, che m' inducono a credere la nascita di quel Vulcano essere stata posteriore al periodo pliocenico recente (ved. Bullet. de la Soc. Geol. de France, tom. VIN. p. 199). 504 SAGGIO COMPARATIVO deve risalire la prima origine dell'Etna, perocchè le antiche sue lave veggonsi in alcuni luoghi (a Cifali) ricoverte dalle marne azzurre subappennine, le quali contengono frammenti delle lave sottoposte; argomento certissimo che quel Vulcano ebbe la sua origine anteriormente ai depositi pliocenici recenti di Sicilia. Quanto ai Vulcani spenti d’Italia ei pare che abbian co- minciato ad ardere in periodi diversi, ma presso a poco prossi- mi a quelli dei Vulcani attivi. Il Vulcano di Roccamonfina nella Campania pare fosse sorto presso a poco nel periodo alluviale antico, perocchè i suoi tufi si trovano in più luoghi sovrapposti a banchi di terreni alluviali di questo periodo. I Vulcani spenti dei Campi Flegrei hanno avuto loro origine innanzi ai depositi pliocenici recenti; ciò bene dimostrano i loro tufi stratificati, i quali contengono in più luoghi conchiglie di questo periodo (Ischia, Pozzuoli ). Quanto al Vulcano del Vulture, il solo vul- cano italiano che abbia bruciato nella gronda orientale dell’ ap- pennino, io non ho potuto riconoscere nessuno indizio della sua età; se non che i suoi prodotti ricoprendo il terreno subap- pennino mostrano che ha dovuto ardere dopo la formazione di quest’ultimo deposito. Nel medesimo caso sono i Vulcani del Lazio, i prodotti dei quali sono sovrapposti a’ terreni subappen- nini, secondo che si osserva a Monte Mario presso Roma. D'altra parte a Monte Verde presso la medesima città sono stati trovati ossami di elefanti e teschi di urus in una sabbia calcarea so- prapposta ai tufi vulcanici (1); in altri luoghi del Lazio, come a Viterbo, sono state ritratte ossa della stessa natura dai tufi an- zidetti. Da ciò si deduce che i Vulcani di quella parte d’ Ita- lia cominciarono a bruciare posteriormente a’ depositi subappen- nini, e innanzi o contemporaneamente al periodo alluviale anti- co. Presso a poco alla medesima età riferire si possono i curiosi vulcani estinti che il general La Marmora ci ha fatto conoscere (1) Brocchi, Conch. foss. subapp., tom. I. cap. II DEI TERRENI CHE COMPONGONO IL SUOLO D' ITALIA 305 nella parte occidentale della Sardegna. In tempi più remoti poi arse il Vulcano di Radicofani, il quale fin presso alla sua cima è ricoperto da un mantello di terreno subappennino. Questo an- tico Vulcano è di molta importanza in Italia per quello riguarda la sua età e le sue relazioni co’ Vulcani del Lazio, a’ quali è molto vicino. In proposito di che piacemi fare le osservazioni seguenti. Innanzi tutto non si può dubitare che il monte di Ra- dicofani non sia stato un vero Vulcano. Chiunque ha un poco di conoscenza de’ prodotti vulcanici ravvisa subitamente nelle rocce su le quali è costrutto il castello di Radicofani delle vere lave, le quali hanno tutt’i caratteri delle tefrine. Ma tali lave sono al tutto diverse per la loro composizione mineralogica da quelle de’ Vulcani del Lazio: le prime sono augitiche e feldispatiche; le seconde leucitiche. Inoltre le forme de’ crateri onde le lave del Lazio scaturirono sono facili ad essere riconosciute, laddove non si riconosce più questa forma nella sommità del Vulcano di Radicofani. Ma ciò che più distingue l'antico Vulcano di che parliamo da quelli dello Stato Romano, sono le loro relazioni col terreno subappennino circostante. In tutto lo spazio occu- pato da’ Vulcani di Bolsena, di Viterbo, di Bracciano, di Ro- ma ec. il terreno subappennino è stato ricoperto ed occultato dalle materie da detti Vulcani rigettate, e solamente in qualche luogo, secondo che si disse innanzi, vedesi il terreno subappeni- no comparire al di sotto de’ tufi e delle pozzolane. Al contrario il Vulcano di Radicofani è ricoperto quasi fin presso alla sua ci- ma di un mantello di terreno subappennino, il quale mostra tutte le fattezze di un deposito modellato sopra una montagna preesistente. Se qualcuno fosse disposto a credere che il detto Vulcano avesse fatto sua eruzione a traverso al suolo subappen- nino, si risponde ciò essere contrario agli effetti ordinari che veggiamo prodotti dalle eruzioni vulcaniche. Le quali con le materie che rigettano sogliono ingombrare e ricoprire il suolo infino a molta distanza dintorno. Ciò che non si osserva nella Scienze Cosmolog. T. I. 59 306 SAGGIO COMPARATIVO montagna di Radicofani, la quale presenta il terreno subappen- nino al tutto sgombro da materie vulcaniche, da pochi massi di lava in fuora che vi sono caduti dalla cima per effetto di naturale scoscendimento. Adunque la differenza di prodotti del Vulcano di Radicofani e di quelli del Lazio, e soprattutto le loro diffe- renti relazioni col terreno subappennino, mostrano, a mio cre- dere, chiaramente, che il primo arse innanzi al periodo subap- pennino ed ebbe certamente un origine sommarina, laddove gli altri scoppiarono posteriormente al deposito di detto terreno. Passiamo ora ai terreni ignei di diversa natura. Nell’ordine che seguitiamo vengono prima i basalti del Val di Noto in Sicilia, i quali alternando col calcare terziario di quel paese mostrano di avere una origine contemporanea a questo: inoltre se il calca- re anzidetto è della medesima età delle marne plioceniche recen- ti, secondo che afferma l’ Hoffmann, ne seguirebbe che i basalti di quella contrada sono pii moderni dei primi prodotti dell’ Etna. Succedono poi le trachiti di Toscana e dei monti Euganei. Il Prof. Savi ha osservato che le prime traversano i terreni ter- ziari subappennini nel Volterrano ed in alcuni luoghi del Gros- setano (1), e lo stesso fatto è stato verificato dal Marchese Pareto. nei Monti Cimini (2). Il conte da Rio ed il Pasini hanno veduto la trachite degli Euganei non pure traversare la scaglia, ma an- che il terreno terziario di que’ monti (5). Alla medesima età si debbono probabilmente riferire le trachiti delle isole Ponze, le quali in certi punti hanno dislogato brani di un terreno terziario recentissimo. Ecco dunque che le trachiti che abbiamo citate mostrano di esser venute fuora posteriormente al Vulcano di Radicofani, e forse ancora dopo la nascita dell’Etna (4). Ad un (1) Memorie ec. pag. 45 in nota. (2) Attî del Congresso di Padova, p. 582. (5) Atti del Congresso di Firenze, p. 179. (4) Non avendo avuto occasione di esaminar bene le relazioni delle trachiti di Toscana col terreno subappennino, mi rimetto per questa parte DEI TERRENI CHE COMPONGONO IL SUOLO D’ITALIA 307 periodo diverso sembrano appartenere le trachiti di Sardegna, secondo le notizie che ci ha comunicate il sig. La Marmora. Il quale ha osservato che in alcuni luoghi ( tra il Ponte del Mulino di Gieve e la cantoniera di Bonorva) le parti inferiori del terre- no subappennino sono occupate da depositi di conglomerato trachitico. Onde deducesi che le trachiti di quel paese sono sorte in un periodo anteriore al terreno subappennino: e sicco- me elle si trovano insieme coi terreni paleozoici ammassate nella parte occidentale dell’ isola, ne seguita che quelle rocce fanno parte di un sistema diverso dalle trachiti Italiane. I melafiri di Lugano furono in prima giudicati dal sig. de Buch assolutamente posteriori ai porfidi rossi quarziferi, perchè in alcuni luoghi sono separati da questi per mezzo dei loro tufi, i quali contengono rottami di porfido rosso. Inoltre avendo il prelodato geologo osservato che il conglomerato dell’arenaria rossa di S. Martino contiene ciottoli di porfido rosso e non già di porfido nero, e che i melafiri hanno dislogato e modificato tutti gli strati secondari, si avvisò la eruzione di questi essere seguita nel periodo terziario. Hoffmann invece e Studer hanno riguardato tanto i porfidi rossi che i neri di quel luogo come contemporanei, ed hanno creduto ch’ essi vennero fuora innanzi al deposito dell’arenaria rossa (1). Questa specie di contraddizione riceve lume dagli accidenti che si osservano negli altri melafiri delle Alpi, e principalmente in quelli del Vicentino, secondo . alle osservazioni citate dai miei colleghi Marchese Pareto e Prof. Savi. Ma non debbo tacere che alcuni fatti comunicatimi dal sig. maggiore Char- ters su questo proposito, e da lui osservati nel Monte Amiata, mi lasciano qualche dubbio sopra la posteriorità delle trachiti Toscane al terreno subap- pennino. Il quale dubbio è aumentato da un altra considerazione, ciò è che sarebbe veramente cosa singolare che le trachiti del Monte Amiata, le quali si ligano a’ porfidi ed a’ graniti dell’ Elba, sieno più recenti che le rocce vulcaniche del monte di Radicofani, con le quali si trovano quasi in contatto. (1) Bullett. de la Soc. Geéol. de France, tom. IV. p. 54 e 105. 308 3 SAGGIO COMPARATIVO che appresso sarà detto: onde si deduce che queste rocce ven- nero fuora in età diverse comprese tra il periodo dell’ arenaria rossa e de’ terreni terziari. Infatti il sig. de Buch ha posterior- mente modificata la sua prima opinione circa 1’ età de’ melafiri di Lugano, riconoscendo in quella contrada due eruzioni di dette rocce, una contemporanea de’ porfidi rossi ed un altra molto più recente (1). I melafiri di Predazzo nel Tirolo mostrano meglio che quelli di Lugano la loro posteriorità a’ porfidi rossi, poichè non pure traversano questi, ma eziandio le arenarie rosse e le dolomiti giurassiche. D’ altra parte Bertrand Geslin assicura di aver tro- vato ne’ tufi di quella regione, che sono associati a’ melafiri, delle conchiglie terziarie simili a quelle che occorrono nel Vicenti- no (2). Quindi ne seguita che l’apparizione di que’ porfidi dovè seguire nel cominciamento del periodo terziario. I graniti di Predazzo, cotanto famosi per le descrizioni che ne ha date il conte Marzari Pencati, sono contemporanei de’ melafiri di sopra descritti? Ciò sembra pienamente dimostrato dalla congiunzione che tutt'i geologi hanno scorta tra quelle due spezie di rocce. Di età molto recente sono ancora i graniti dell'Elba, i quali si veggono iniettati in forma di dighe nel calcare del macigno e nelle ofioliti. È intanto da osservare che i graniti di quell’isola edi porfidi quarziferi che gli accompagnano si ligano intima- mente colle trachiti di Campiglia e di altri luoghi della Marem- ma, le quali sono anch'esse associate a porfidi quarziferi. Per modo che se queste rocce differiscono mineralogicamente non sono già diverse sotto il rispetto geologico, e fanno credere che sono state il prodotto di eruzioni contemporanee. Ed avendo noi veduto che le trachiti di Maremma sono posteriori ai depo- (1) Bullett. su citato, tom. VI. p. XXXIX. (2) Bullett. anzidetto, tom. VI. p. XL. DEI TERRENI CHE COMPONGONO IL SUOLO D’ITALIA 509 siti subappennini, ne verrebbe per conseguenza che anche i graniti dell’Elba hanno la medesima età (1). I graniti poi di Calabria sono manifestamente posteriori ai terreni terziari medi e anteriori ai depositi subappennini; poi- chè abbiamo veduto che nel vallone di Valanidi presso Reggio la posizione relativa di questi due depositi addossati al granito- gneis è tale che conduce naturalmente a questa conchiusione. In quella regione ovunque trovasi terreno terziario medio in con- tatto coi graniti, quello è costantemente dislogato ed ancora alterato; ciò vedesi principalmente nelle vicinanze di Gerace. Comparando i graniti di Calabria con quelli dell’ Elba, che sono le principali rocce di questa natura della nostra Peni- sola, trovo tra essi queste differenze, che i primi non si veggono “mai iniettati nelle rocce di sedimento che vi stanno soprapposte, ma traversano solo le rocce scistose cristalline, con le quali sono connessi; ed inoltre essi hanno dislogato gli strati che giungono infino al.terreno miocenico, lasciando intatti quelli pliocenici; onde si argomenta che furono sollevati in istato solido dopo il periodo miocenico. Laddove i graniti dell’Elba traversando in forma di dighe le rocce di sedimento sovrapposte (l’alberese ed il macigno) e racchiudendo ancora frammenti di queste rocce, mostrano che furono sollevati in forma pastosa. Più antichi de’ graniti anzidetti si debbon riputare i ba- salti del Vicentino, secondo che ci fanno credere le loro alter- nanze cogli strati terziari cocenici, le quali alternanze dimostra- no l'origine contemporanea di quelle rocce basaltiche e delle terziarie inferiori. Assai preciso è il periodo in cui seguirono in Italia le eruzioni delle ofioliti e degli altri gabbri Toscani e della Ligu- ria. Queste rocce traversano frequentemente la formazione del (1) Rispello a questa conchiusione mi rimetto a quanto ho detto nella nola a pag. 506. 510 SAGGIO COMPARATIVO macigno, gli strati del quale ne sono grandemente dislogati e modificati. Ne’ conglomerati di questa formazione non avviene mai di trovare rottami di gabbri; all'incontro molti se ne tro- vano ne’ conglomerati del terreno terziario medio. Dai quali fatti si deduce chiaramente che le ofioliti e gli altri gabbri Toscani e Liguri hanno fatto la loro eruzione posteriormente al terreno etrurio ed innanzi al deposito del terreno terziario. IL’ Hoffmann distingue in Sicilia i basalti del Val di Noto dai melafiri del Capo Passero. I primi, secondo che abbiamo veduto, sono contemporanei ai calcari terziari recenti. I secondi, al dire del prelodato geologo, sono anteriori al calcare cretaceo ad ippuriti; perciocchè le relazioni di giacitura di questo co’ me- lafiri mostrano che gli strati secondari a rudisti i più recenti non sono stati depositati se non dopo lo sbocco di tali masse ignee. A’ melafiri del Capo Passero ravvicina l’ Hoffmann quelli di Cat- tolica vicino Girgenti e di Contessa tra Palermo e Sciacca; se non che egli afferma che in questi ultimi luoghi riposano sopra gli strati secondari più recenti; e crede che dalla eruzione di queste rocce sia dirivata l'abbondante formazione di zolfo, di gesso e di sale in Sicilia (1). Ora ognun può vedere che in queste osserva- zioni dell’ Hoffmann ci ha contraddizione; poichè i melafiri del Capo Passero sono, secondo lui, anteriori alle rocce cretacee più recenti, e quelli di Cattolica e di Contessa riposando su queste rocce dinotano di essere posteriori alle medesime. Quindi o i meiafiri di Capo Passero non sono contemporanei con quelli di Cattolica e di Contessa, ovvero i primi sono di un periodo più recente. Quest'ultima opinione rendesi ancora più proba- bile per quello si asserisce dal Prevost, cioè che il calcare cretaceo del Capo Passero comparisce evidentemente modificato nel contatto con la roccia ignea (2). Ancora se i depositi di zolfo (1) Bull. de la Soc. Géol. de France, tom. III. pag. 177. (2) Bull. cit. tom. 2. della II. ser. p. 27. DEI TERRENI CHE COMPONGONO IL SUOLO D’1TALIA 511 e gesso di Sicilia traggono origine dai gas che accompagnarono la eruzione de’ melafiri, che è molto probabile, e se d’ altra parte si verifica la opinione che questi depositi hanno stanza in un terreno terziario medio, si viene a conchiudere che le anti- che rocce eruttive di Sicilia sono più recenti di quello si credea dall’ Hoffmann, e forse sono contemporanee a’ melafiri delle Al- pi. E probabilmente ancora il raddrizzamento delle marne a zolfo e gesso di quell’isola, che seguì anteriormente a’ depositi terziari pliocenici, fu effetto dell’eruzioni de’ melafiri anzidetti. Il sig. de Buch è d’avviso che i graniti e porfidi rossi di Lugano sono anteriori alle formazioni dell’ arenaria rossa e del calcare giurassico che ad essa è sovrapposto; perchè il con- glomerato il quale separa il micascisto dalla dolomite a S. Mar- tino contiene rottami di porfido rosso quarzifero. Forse ancora a questa medesima età voglionsi riferire le masse granitiche delle vicinanze di Saona nella Liguria e quelle che sono tanto estese in Corsica. Le quali dal Marchese Pareto sono giudicate assolu- tamente anteriori alle ofioliti, e però diverse dai graniti di Ca- labria e di Toscana. Finalmente tra le rocce eruttive più antiche d’Italia dob- biamo riporre ancora i porfidi pirossenici del Vicentino. Riferi- sce il Bouè che nel Val di Prak vicino a Recoaro vedesi una massa di melafiro riposare sopra lo steascisto, ed essere rico- verta da strati orizzontali di un arenaria grossiere con ciottoli di quarzo e di melafiro, i quali strati si trovano alla base del trias di quella regione. Questo fatto dimostra che la massa di melafiro di sopra citata fu prodotta innanzi al deposito degli strati triassici. All’ incontro il medesimo geologo cita nel Val Retassene presso il paese anzidetto de’ porfidi pirossenici che traversano la formazione giurassica ed hanno variamente alterate le rocce di questa formazione e della scaglia cretacea, e per tali ragioni ritiene que’ melafiri come terziari (1). Ecco dunque una (1) Bull. cit., tom. II. p. 540 e segg. 912 SAGGIO COMPARATIVO pruova evidente che in una medesima regione una roccia mede- sima ha fatto eruzione in periodi diversi: ciò che fortifica l’opi- nione del sig. de Buch espressa di sopra. Quando si comparano le relazioni geologiche de’ porfidi rossi e neri di Lugano, del Tirolo e del Vicentino, si veggono non pure concordare insieme in ogni lor parte, ma eziandio mo- strare un analogia perfettissima con le medesime rocce che oc- corrono nel dipartimento del Var in Francia, delle quali E. de Beaumont ha fatto una descrizione molto importante (1). Onde non pure si deduce che l’ eruzioni di tali rocce seguirono in periodi successivi conformi, e cogli stessi accidenti, ma ezian- dio che le arenarie rosse, alle quali i porfidi si trovano costan- temente associati nelle anzidette regioni, appartengono verisi- milmente all’arenaria screziata, alla quale si riferiscono senza nessun dubbio le arenarie dell’ Esterel, e del Vicentino. ‘Ei pare che queste sieno le principali serie cronologiche di rocce eruttive che si possono distinguere nella nostra Pe- nisola. Forse altre ce ne sarà, che a me non son conosciute, e sulle quali potranno dare schiarimento i nostri colleghi. Sarebbe poi importante di' sapere se nell’ Appennino, o nelle Alpi alcuna roccia di questa natura sia stata riconosciuta, la quale si possa certamente ritenere come anteriore ai più antichi depositi stra- tificati del nostro paese. La quale ricerca è assai curiosa, trat- tandosi di conoscere la roccia, dirò così, primordiale, la quale ha servito di sostegno ai più antichi depositi di sedimento. 7 ARTICOLO IV. FILONI. Le fenditure che occorrono negli strati minerali, e le materie che le riempiono sono soggetto importantissimo della (1) Explication de la Carte Geologique de la France, tom. I. ch. VI. DEI TERRENI CHE COMPONGONO IL SUOLO D’ ITALIA 315 nostra scienza, non pure per le ricchezze che da tali materie l’uomo ritrae, ma eziandio perchè gli accidenti che le accom- pagnano spandono assai lume sopra le rivoluzioni passate del globo. Vediamo dunque ciò che è da osservare su questo pro- posito nel suolo italiano. E innanzi tutto distinguiamo colla co- mune dei geologi due sorte di filoni, cioè le dighe eruttive e i filoni metalliferi. Io non ho veduto nessun filone metallifero nel regno di Napoli, nè so che altri ne abbia osservati in Sicilia. Quanto poi alle dighe di rocce eruttive, senza parlare di quelle che occorrono nei vulcani e specialmente delle famosissime di Val di Bove nell’Etna e del Monte di Somma nel Vesuvio, mento- verò soltanto le dighe granitiche che ho osservate in Calabria. Nelle vicinanze di Reggio incontra vedere delle dighe di questa natura, le quali traversano lo gneis: si osservano lungo la strada regia che da S. Giovanni conduce a Scilla e nel torrente di Valanidi. Altre dighe di granito, e molto distinte ho ravvisato nelle vicinanze di Catanzaro nel cominciamento della strada che conduce a Tiriolo, dove traversano un terreno misto com- posto di gneis, secondo dissi dinanzi, e di calcare stratificato. Ma non mi è mai avvenuto di vedere queste dighe iniettate nelle formazioni giura-liassiche e mioceniche, le quali soventi trovansi soprapposte al granito. Ma il paese più classico d’Italia per rispetto ai filoni è la Toscana. Dove occorre di vederne di ambe le sorte innanzi distinte, e con accidenti assai curiosi. Il Prof. Savi ha fatto conoscere tutte le particolarità che gli rendono notevoli, e giova riepilogarle in questo luogo. Occorrono i filoni di Toscana in quella diramazione del- l’appennino che forma le Alpi Apuane, e che stendendosi lungo al Tirreno arriva infino al capo Argentaro, compresovi il pic- colo arcipelago Toscano. La quale diramazione è stata perciò dal Savi chiamata catena metallifera. Scienze Cosmolog. T. I. 40 514 SAGGIO COMPARATIVO I filoni metalliferi sono di più sorte. I seguenti sono i principali . 1° Filoni di cinabro. -— Sono piccoli filoncini iniettati nello steascisto di Seravezza. 2.° Filoni di galena, blenda, baritina. — Traversano i stea- scisti, le quarziti inferiori al calcare giurassico, e si prolungano fino in questo calcare, secondo che mostrano i filoni di Val di Castello nelle Alpi Apuane. I filoni del Bottino nella valle di Seravezza, e nel Massetano sono ancora di questo novero. 5.° Filoni cupriferi. — Sono famosissimi per la ricchezza che alcuni di essi danno, avvegnachè non siasi cominciato a lavorargli con profitto che da picciol tempo in quà. Si trovano incassati nelle ofioliti e ne’ gabbri, insieme con le quali rocce sembrano essere venuti fuora. I ricchi filoni di Montecatini, di Monte Vaso, di Monte Castelli, i quali hanno dato origine ad operazioni industriali assai attive, sono i principali che vogliono quì essere indicati. Tra’ filoni eruttivi si possono noverare i seguenti. 1° Filoni di ferro. —I principali sono quelli dell'Elba, i quali piuttosto che filoni formano grandi masse eruttive. Ce ne ha di due sorte; di ferro oligisto e di ferro ossidolato. I primi traversano il verrucano (filoni di Rio, del Capo Pero), gli altri il calcare forse cretaceo (filoni del Capo Calamita, della Punta Rossa). È osservabile la direzione parallela dei filoni di ferro dell'Elba; essi sono diretti presso a poco nel senso del meridiano. Sono da comprendere ancora fra questi filoni quelli di ferro ossidolato di Val di Castello che traversano il calcare giurassico; e le iniezioni di questa medesima sostanza metallica ne’ marmi di Seravezza e di Carrara. E quì non sarà fuor di proposito indicare una particolarità curiosa relativa a’ detti filoni di Toscana. De’ quali quelli che traversano gli scisti cristallini sono composti unicamente di ferro oligisto, e quelli che trovansi iniettati nel calcare son fatti di ferro ossidolato . DEI TERRENI CHE COMPONGONO IL SUOLO D'ITALIA 515 Ciò si vede bene nell’isola d'Elba, dove i filoni di Rio e del capo Pero che occorrono nel primo caso, presentano soltanto una massa di ferro oligisto; ed i filoni del capo Calamita e della Punta Rossa che mostrano il secondo esempio, sono composti di ferro ossidolato. Di più il filone di Rio si termina in vicinanza di una massa calcarea, e quando con questa è in contatto vedesi trasformato in ferro ossidolato. Abbiamo già detto che il filone di Val di Castello ed i filoncini che traversano il marmo di Carrara sono magnetici. Ei pare dunque che il calcare abbia avuta qualche azione nel ridurre la materia del ferro alla condi- zione di ossido salino magnetico. Limitando a tal segno la mia osservazione esprimo il desiderio che i chimici chiariscano que- sto punto di loro scienza. 2.° Filoni di pirosseno e d’ilvaite. Contemporanei. ai filoni di ferro sono certamente quelli di pirosseno ed ilvaite che ‘occorrono nella marina di Rio nell'isola d'Elba, e nelle vici- nanze di Campiglia in Maremma. In entrambi i quali luoghi traversano il calcare e presentano fatti curiosissimi di amalga- mazione con questa roccia, i quali danno molti lumi circa la origine e produzione delle sostanze minerali onde sono composti. 5.° Dighe granitiche. Finalmente vengono le dighe grani- tiche che occorrono in molti luoghi dell’isola d'Elba, e danno origine ad accidenti svariati e moltissimo osservabili. Le quali dighe si veggono iniettate in tutte le rocce che si trovano in quell’isola; nel verrucano ( Longone, punta di Focardo ), nel calcare alberese (Enfola), nella ofiolite (S. Pietro in Campo). Quest'ultimo fatto, cioè la.iniezione del granito nella ofiolite, prova evidentemente essere l'origine della prima roccia poste- riore alla seconda. Tutti questi filoni che si trovano in Toscana sono di origine contemporanea, ovvero ‘di età differente? Io inclino a’ credere col Savi e coll’ Hoffmann ch’essi sono tutti contemporanei, e che furono prodotti nel tempo dell’eruzione dei graniti dell'Elba. I 516 SAGGIO COMPARATIVO quali graniti vennero fuora soltanto nel piccolo arcipelago To- scano, e non giunsero a traversare tutto il suolo nel continente vicino, ma su esso propagarono la loro azione, producendovi diverse sorte d' iniezioni; ed oltre a ciò diedero probabilmente origine a tutte quelle modificazioni che le rocce secondarie stra- tificate presentano dalle Alpi Apuane fino al capo Argentaro (1). De’ filoni che s'incontrano nelle Alpi italiane non posso qui ragionare, non avendo di essi compiuta conoscenza. I nostri colleghi potranno farci conoscere le loro rispettive particolarità . ARTICOLO V. LINEE DI SOLLEVAMENTO CHE SI POSSONO DISTINGUERE NEI RILIEVI MONTUOSI ITALIANI. In quest’ultima rubrica io prendo a trattare della parte più astrusa della geologia italiana, come .in generale questo è uno dei soggetti più difficili della nostra scienza. Di poi che lE. de Beaumont ebbe con tanta sagacia stabilite le vere norme per riconoscere gli slogamenti avvenuti nella corteccia terrestre, ed i periodi diversi in che questi seguirono, la maggior parte dei geologi hanno seguitate le orme dell’illustre francese, e si sono ingegnati di applicare le sue dottrine in diverse parti del globo. Ma questo genere di ricerche è per sua natura molto astruso, e conviene in esso procedere, come dicesi, col calzare di piombo, (1) Il mio amico sig. Coquand mi ha fatto vedere a Campiglia alcuni pezzi ritratti dal magnifico filone pirossenico che traversa quivi il calcare giurassico, i quali pezzi mostrano il passaggio della roccia pirossenica verde ad una eurite bianchiccia simile a quella che sorge in massa anche a tra- verso al calcare dei monti circostanti, e ch’ è certamente contemporanea alle euriti, ai porfidi e graniti dell'Elba. Ciò che prova evidentemente l'origine contemporanea dei filoni metalliferi e delle rocce granitiche di ‘Toscana. n ; i DEI TERRENI CHE COMPONGONO IL SUOLO D’ITALIA 517 se vogliamo che le nostre conoscenze su tal soggetto sieno lon- tano dal vago e dall’arbitrario, ed abbiano quella precisione che deve sempre esser presa a norma in tutte le ricerche na- turali. Ciò premesso, e volendo avvicinarci quanto più è possibile alla verità nel seguente esame; pognamo innanzi tutto la se- guente questione. L’Appennino e le Alpi, che formano i due principali rilievi montuosi d’Italia, furono prodotti ciascuno da un sollevamento unico, ovvero da più operazioni di questa sorte ripetute? Esaminiamo la questione primamente nell'Appennino. Non si può dubitare che questa giogaia, a differenza delle Alpi e de’ Pirenei, ha un andamento intrigato e tortuoso; nondimeno se pognamo mente alle direzioni che ella seguita dall’un capo al- l’altro della Penisola, certamente si possono distinguere diverse sue orientazioni precise. Per non mentovare che le principali e le più rilevanti, indicheremo 1.° la porzione che si prolunga dal colle di Tenda infino a Genova la quale ha una direzione media S. 0. al N. E.; 2.° Ja linea che si stende da Parma a Firenze nella quale a me sembra potersi distinguere due direzioni bene spiccate, quella cioè principale dell’ Appennino che corre dall’O. N. O. all’E. N. E. e stendesi propriamente da Parma a Firenze, e poi l’altra delle Alpi Apuane la quale è diretta dal N. N. 0: al S. S. E.; queste due ramificazioni hanno non solo una dire- zione distinta, ma anche una struttura geologica diversa: la pri- ma è composta quasi intieramente di macigno, la seconda in massima parte di scisti cristallini e di calcare giura-liassico, ed è quella indicata dal Savi col nome di catena metallifera di To- ° da Firenze infino al cominciamento della Calabria l’ Appennino discorre con direzioni confuse e serpeggianti; la sua orientazione media è dal N. N. 0. al S. S. E., se non che accade di rilevarvi alcune branche con direzioni bene rilevate: tali sono nelle Puglie il Monte Gargano che si prolunga quasi b-4 scana; 5. 518 SAGGIO COMPARATIVO dall’O. all’E. e la piccola catena delle Murge diretta dall'O. N. O. all’E. S. E. parallelamente alla linea tra Parma e Firenze; 40 dal principio infino al termine delle Calabrie si notano due linee di direzioni diverse, una che prende da Castrovillari a Nicastro, la quale corre dal N. N. O. al S. S. E., e l’altra che va dal N. N. E. al S. S. O. e forma l’asse principale e bene distinto del- l’appennino, che da Catanzaro si prolunga fino al termine della Penisola. Se dal continente Italiano passiamo alle isole principali, vedremo ancora ne’ loro rilievi alcuni allineamenti distinti. In Sicilia si possono indicare due linee ricise, cioè quella dei monti Peloritani, che discorrono da Messina fino alle basi orientali dell’ Etna con direzione paraltela all’ appennino dell'ultima Cala- bria, di cui sono un vero prolungamento, e l’altra dei monti set- tentrionali dell’isola, che hanno una direzione parallela a quella delle Alpi orientali. Quanto ai gioghi della Corsica, il M. Pareto vi distingue due ordini di rilievi, uno generale nella direzione del meridiano, ed un altro più occidentale e più circoscritto diretto dall’O. S. O. all’E. N. E. Le quali direzioni sono state ancora riconosciute dal Generale La Marmora in Sardegna: dove oltre alla direzione N. — S. che si riscontra in tutta la lunghezza dell’isola, ci ha quella N. N. 0. — S. S. E. molto distinta nella parte settentrionale; la quale direzione sembra scomparire verso la metà dell’isola, ove all’opposto si ravvisa una direzione in senso contrario, cioè dal S. S. O. al N. N. E. Ma queste differenze di direzione che si osservano nelle varie parti dell’appennino rispondono mai a tante epoche di- verse di sollevamento? Ecco una questione molto dubbiosa. Egli è pur vero che uno dei principali caratteri che distingue i sol- levamenti diversi delle montagne è la diversità delle loro dire- zioni; ma è certo altresì che non possiamo sempre ed unica- mente a questo carattere aftidarci per distinguere le diverse età delle giogaic montuose; perocchè, oltre a quello che alcuni si- nti DEI TERRENI CHE COMPONGONO IL SUOLO D'ITALIA 519 stemi diversi hanno la medesima direzione, si comprende di leg- gieri che ne’ grandi sollevamenti montuosi ci hanno potuto es- sere delle ramificazioni secondarie, le quali hanno deviato dalla direzione principale, e questo potrebb’ essere bene il caso del- l'Appennino. Per uscire da queste dubbiezze proseguiremo il nostro esame, combinando le direzioni generali degli strati col- l’altra norma che ci conduce più sicuramente a chiarire questo importantissimo argomento di geologia Italiana, intendo dire colle linee di discordanza che si osservano nei terreni stratificati disposti lungo l’asse dell’ Appennino, e nelle ‘sue diverse rami- ficazioni. Quanto all’appennino della Liguria occidentale, il M. Pa- reto (1) ed il Prof. Sismonda (2) ci assicurano che vi si possono distinguere diverse linee di sollevamento. Per esempio, i calcari secondari delle vicinanze di Casale e del Tortonese accennano sovente la direzione Pirenaica, cioè O. N. 0. — E. S. E. Il ter- reno terziario medio di quell’appennino apparisce costantemente dislogato e ridotto a grande altezza, laddove i terreni subap- pennini si mostrano nella loro originaria posizione: inoltre le molasse mioceniche di Tortona e della val di Bormida sembrano dirette nella linea del S. S. O., cioè verticalmente alla direzione dell'Appennino, e parallelamente a quella delle Alpi occidentali; e coincidono coll’ allineamento delle ofioliti che sono all’ occi- dente di Genova. Onde lE. de Beaumont è indotto ad attri- buire all’apparizione di queste rocce il rilievo della più gran parte dell’appennino Ligure, il quale ei ravvicina al sistema delle Alpi occidentali (5). Finalmente i sopra citati geologi at- (1) Sopra alcune alternative di strati marini e fluviatili ne’ colli subappennini . (2) Osservazioni sui terreni delle formazioni terziaria e crelacea in Piemonte. (5) Mem. sur la direction et l’age relatif des montagnes serpentineuse de la Ligurie ( Bull. de la Soc. Géol. de France, tom. I. p. 64). 520 SAGGIO COMPARATIVO tribuiscono alla rivoluzione che cagiono il sollevamento delle Alpi orientali la emersione del terreno subappennino dell’ Asti- giano, e la sua inclinazione in qualche punto. Venendo ora alla porzione dell'appennino compresa tra Parma e Firenze, io non conosco accidenti di stratificazione, 0 altri caratteri geologici che possano attestare l'epoca precisa del suo sollevamento. E. de Beaumont la considera prodotta dal medesimo movimento del suolo che diede origine alla catena dei Pirenei, poggiandosi unicamente sopra il parallelismo di dire- zione di queste due giogaie. Quanto poi all’ altra porzione che dà origine alle Alpi Apuane ed a tutta la catena metallifera To- scana, sappiamo con certezza ch’ ella è posteriore al deposito del terreno terziario medio, perchè cominciando da Caniparola nella Lunigiana e proseguendo in tutta la Maremma Toscana questo terreno trovasi grandemente dislogato. Non è poi così facile di sapere se lo spostamento che diede origine a quei monti fu anteriore o posteriore al terreno terziario subappennino. Il Prof. Savi ha affermato ch’ esso fu posteriore al tempo in cui viveano i mammiferi, i cui avanzi si trovano nelle brecce ossi- fere dei monti Pisani; perocchè ei considera tali brecce come prodotte dallo sconvolgimento che diede origine alle Alpi Apua- ne, onde deduce che la età di detti monti è posteriore ai de- positi terziari subappennini (1). Ma in verità questa opinione non mi sembra libera da ogni dubbio, potendo bene essere che la origine di quelle brecce sia posteriore al sollevamento dei monti che le rinserrano, e ch’ elle abbiano riempiuto delle fen- diture già preesistenti. Trovandomi a parlare de’ rilievi di Toscana, non vo’ passar sotto silenzio alcuni accidenti che ho cominciato a notare in essi, ciò .è, che la stratificazione del macigno mostrasi per lo più dislogata nella direzione del N. N. E. al S. S. 0. laddove (1) Memorie per servire alla costituzione fisica della Toscana, pag. 59. DEI TERRENI CHE COMPONGONO IL SUOLO D’ITALIA 521 gli strati delle anageniti e de” scisti cristallini delle Alpi Apuane sono disposti quasi sempre nella linea N. N. O.— S. S. E. La prima direzione coincide con quella del macigno della Liguria, e sembra tenere al sistema delle Alpi occidentali. La seconda non saprei paragonarla a nessuna linea di slogamento ben cono- sciuta in Europa; perocchè alla direzione che ho indicata va con- giunto un indizio di raddrizzamento posteriore al terreno mioce- nico. Questa mia osservazione pertanto ha bisogno ancora di es- sere più generalmente confermata. La porzione dell’ Appennino che dalla Romagna si prolunga fino al cominciamento della Calabria è molto sparpagliata per- chè possiamo conoscere con precisione la sua età. Nondimeno nell’Abruzzo Teramano io ho osservato che i terreni terziari medi, i quali si appoggiano all’asse dell'appennino, che in quel luogo della Penisola aggiunge alla sua maggiore altezza, non pure è grandemente dislogato, ma eziandio passa insensibil- mente al terreno subappennino, per guisa che tra il deposito di quello e di questo sembra non essere avvenuto nessuno slo- gamento che abbia interrotta la loro continuità; onde arguisco che quel rilievo diretto verso N. N. O. ha potuto essere poste- riore al deposito subappennino. Non parlo delle fratture che hanno dato origine al monte Gargano ed alle Murge nelle Puglie, considerando questi rilievi come accidentali e secondari. L'ultima porzione dell’ Appennino continentale, quella che scorre in Calabria, porge forse i caratteri più sicuri che ci at- testano la sua età; perocchè ella discorre non pure con una direzione bene allineata; ma ancora presenta linee di discor- danza molto precise. Le quali, secondo che si disse in altra parte di questo scritto, si veggono principalmente nel gruppo dell'Aspromonte presso a Reggio, e riguardano le posizioni relative del terreno terziario medio e del subappennino, che si appoggiano alle rocce cristalline di quelle montagne. Il primo di questi terreni essendo grandemente dislogato e sostenendo Scienze Cosmolog. 1 I. 41 522 SAGGIO COMPARATIVO l’altro in sua natural giacitura dimostra con piena evidenza che il sollevamento di quel braccio dell’ Appennino seguì nel periodo intermedio ai due terreni terziari dianzi nominati. In Sicilia pare che le due linee di rilievi che vi abbiamo notate corrispondano a due sollevamenti diversi. I monti Pelo- ritani debbono essere certamente sorti nella medesima frattura di suolo che produsse i monti della Calabria meridionale, dei quali sono una vera continuazione. Il sig. de Buch comunicò nel Congresso di Milano alcune sue idee molto giudiziose circa le relazioni dei monti Peloritani in Sicilia ed il gruppo del- l Aspromonte in Calabria. Dalle quali si deduceva che la valle la quale divide la Sicilia dalla Calabria fu l’effetto di una frat- tura con ispostamento laterale di parti seguìto nell’atto del solle- vamento, al quale fatto ei ligava alcuni accidenti particolari che si notano in Sicilia nella prolungazione della linea di disloga- mento dinanzi mentovata. E così argomentava che la Sicilia non era stata mai unita alla vicina Calabria, secondo che general- mente si crede (1). La grande catena poi che scorre lungo la co- sta settentrionale di quell’isola dev'essere stata sollevata in epo- che posteriori, perocchè nella punta di Melazzo io ho visto il calcare pliocene recente di Sicilia manifestamente raddrizzato; e d’altra parte Christie osservando la disposizione delle caverne ossifere delle vicinanze di Palermo ha dedotto che quel solleva- mento dovè seguire alla fine del periodo, durante il quale gli elefanti, gl’ ippopotami ed altri animali che contrassegnano il ‘ periodo terziario vivevano in Europa. Onde viene confermata l'opinione di E. de Beaumont, il quale considera quella giogaia sorta nella medesima frattura di suolo che diede origine alla catena principale delle Alpi. Quanto all’età dei rilievi di Corsica e di Sardegna io non entrerò quì a ragionarne. Tutti conoscono che E. de Beaumont (1) Ved. Diario del Congresso di Milano, num. 9. DEI TERRENI CHE COMPONGONO IL SUOLO D'ITALIA 325 gli fa derivare da un sistema particolare di fratture seguìto tra il periodo terziario eocene e miocene. Il Marchese Pareto ed il sig. La Marmora, che hanno studiata la struttura fisica di quelle isole, ci fanno sapere che oltre alla linea principale di frattura indicata da E. de Beaumont, altre ce ne ha di minore esten- sione, corrispondenti agli allineamenti di sopra nominati. Ed il Marchese Pareto è di avviso che il sistema O. N. 0. — E. N. E. di Corsica, originato probabilmente dall’apparizione delle masse dioritiche che traversano il granito, sia piuttosto posteriore che anteriore al sistema N. — S. che da altri erasi creduto più recente. Queste sono le principali conclusioni, alle quali i fatti os- servati circa l'età de’ sollevamenti appenninici ci conducono. Nondimeno io non vo’ tenermi dal manifestare un mio partico- lare pensamento su questo proposito. Riconoscendo pure che l'Appennino è composto di varie porzioni dirette ed orientate diversamente, le quali perciò hanno potuto derivare da rotture di suolo di età diversa, sembrami non pertanto che il suo ri- lievo principale, quello che si lascia con maggior frequenza scorgere da un capo all’altro della Penisola, sia avvenuto nel periodo intermedio fra il terreno terziario medio ed il superiore. Egli è vero che alcuni ordini di strati Italiani i quali corrono parallelamente alla direzione de’ Pirenei, ci fanno argomentare che il rilievo appenninico cominciasse innanzi al periodo terzia- rio; è vero altresì che quest’argomento è avvalorato dagli strati fluviatili de’ nostri terreni miocenici, i quali contenendo avanzi organici terrestri, indicano porzioni di terre emerse innanzi a questi depositi; nondimeno le relazioni costanti del terreno ter- ziario medio e superiore in Italia mi sembrano condurre alla con- chiusione di sopra espressa. Il primo di questi terreni da Reggio in Calabria fino alla collina di Superga in Piemonte mostrasi sempre e grandemente dislogato; ed oltre a ciò esso è ridotto a brani che si veggono sparsi quà e Jà isolatamente in quella 524 i SAGGIO COMPARATIVO forma che si conviene a terreni che hanno patiti spostamenti. AI contrario il terreno subappennino mostrasi quasi sempre con quelle fattezze, colle quali dovè essere depositato nel seno del- l’antico mare. Ovunque si osserva questo terreno in Italia, si vede formare zone estese e non interrotte, le quali non mostrano aver sofferto notevoli spostamenti, ed oltre a ciò vedesi riempire le valli ed i seni dell’Appennino, come si può osservare in Cala- bria nella valle che riunisce il golfo di S. Eufemia e quello di Squillace, nel grande bacino di Cosenza, e nell'Italia superiore nella valle del Tanaro: ciò che mostra che la più gran parte del- l'Appennino preesisteva al deposito terziario superiore. Alcuni forse opporranno che mostrandosi il terreno subappennino rare volte stratificato, non ci può far sempre giudicare della sua vera posizione; ma ciò non toglie che il geologo, il quale considera tutti gli altri suoi accidenti, non ravvisi in esso se non un depo- sito, il quale non è stato soggetto ad altro movimento che a quello continentale, il quale ha prodotto la sua emersione dal mare. À questa regola generale non fanno eccezione che alcuni rari punti del suolo italiano, dove i depositi terziari superiori si mostrano dislogati per effetto di cause parziali; tali sono alcuni spostamenti ne’ depositi dell’Astigiano, che da Sismonda e Pareto sono attribuiti al sollevamento delle Alpi orientali, e quelli che veggonsi in alcuni luoghi di Toscana, che forse furono prodotti dalle eruzioni delle trachiti e dei filoni di questo paese. Quanto poi alla direzione in cui avvenne questo grande slogamento del suolo italiano, noi non possiamo indicarla con precisione. Se non che ella si lascia ben riconoscere nella Li- guria, dove abbiamo veduto che coincide con quella delle Alpi occidentali. Ma assai più manifesta poi si scorge nell’ appen- nino della Calabria meridionale, il quale non pure discorre nella medesima direzione delle Alpi anzidette, ma, che più importa, lascia vedere una mirabile discordanza di stratificazione tra il terreno terziario medio dislogato ed il superiore in na- tural posizione. DEI TERRENI CHE COMPONGONO IL SUOLO D’ITALIA 525 Dai quali fatti si può dedurre che la rivoluzione principale, la quale diede origine all'Appennino, non fu già quella con- temporanea al sollevamento Pirenaico, ma l’altra sivvero che il rilievo produsse delle Alpi occidentali. Nè ciò discorda dalle grandi osservazioni di E. de Beaumont, il quale ha sempre affermato che l'Appennino è il prodotto di sollevamenti di epoche diverse. Rimane adesso un altra questione da chiarire nell’ argo- mento che discorriamo. I sollevamenti dell’ Appennino seno forse ligati all’apparizione di alcune rocce eruttive che si veg- gono lungo il corso della Penisola? Quando noi ci facciamo a riflettere su tale questione, troviamo che due ordini di rocce plutoniche possiamo distinguere in Italia, come sorte in periodi diversi; cioè le ofioliti della Liguria e della Toscana, ed i gra- niti e le trachiti della Toscana e della Calabria. Le ofioliti, secondo che abbiamo véduto, mostrano per chiarissimi segni di esser venute fuora dopo il deposito del macigno, e prima dell'origine del terreno terziario medio; e siccome questo ter- reno è stato grandemente dislogato dai sollevamenti avvenuti in Italia, ne seguita che quelle rocce non hanno potuto avere gran parte nel produrre i rilievi appenninici. Veramente vi avranno potuto essere eruzioni ofiolitiche di età differente, poichè ve- diamo in certi luoghi della Liguria e della Toscana alcuni con- glomerati terziari ofiolitici dislogati manifestamente da eruzioni ofiolitiche anch'esse. Si può credere poi che l’ eruzioni dei graniti e delle trachiti avessero potuto contribuire al maggiore movimento del suolo italiano, perocchè abbiamo veduto che la loro comparsa seguì posteriormente al terreno terziario medio, ed anche dopo del superiore. Ma è da considerare che tali rocce sono limitate a poche parti della nostra Penisola, e non si veggono accidenti loro particolari che possano rendere veri- simile una tale opinione. Laonde possiamo conchiudere che i sollevamenti principali dell’Appennino sono stati prodotti da 526 SACGIO COMPARATIVO quelle grandi cause sotterranee che hanno posta più volte la corteccia del Globo in istato di corrugarsi. Per compiere le mie ricerche sui sollevamenti del suolo Italiano, mi resterebbe a parlare di quelli delle Alpi. Ma sicco- me i pensamenti di E. de Beaumont circa l’ età di questa im- mensa catena sono a tutti conosciuti, ed ammessi dalla maggior parte dei geologi, io mi asterrò di parlarne. Dirò solamente che nel Congresso di Milano la Sezione di Geologia ebbe occasione di verificare i pensamenti dell’ illustre geologo francese circa gl’ indizi di antiche fratture di strati in quella giogaia dirette nel verso del sollevamento Pirenaico: ciò che fu principalmente osservato nella formazione cretacea della valle dell'Adda e delle vicinanze d’ Indunno. Ma siccome quegli strati trovansi al piede delle grandi creste Alpine di Lombardia, le loro fratture, com- parativamente antiche, sono occultate dallo slogamento prin- cipale della giogaia, il quale, secondo ‘che ora si conosce, è di un epoca più recente. i ARTICOLO VI. RECAPITOLAZIONE. Dalle cose discorse ne’ precedenti articoli ritragghiamo le conclusioni generali seguenti. 1.1 fenomeni della emersione e sommersione delle terre Italiane nel periodo storico sembrano indicare essere stati pro- dotti innanzi da’ movimenti del suolo che da quelli del mare. Si desiderano pertanto ancora lavori di precisione su questo pro- posito. 2. Il terreno erratico è raro in Italia, da quello in fuora che si osserva al piede delle Alpi. Tra le cause che hanno po- tuto produrlo non merita di esser dimenticata quella delle esplo- sioni che accompagnarono gli sbocchi di rocce eruttive, ovvero i sollevamenti delle montagne. I DEI TERRENI CHE COMPONGONO IL SUOLO D' ITALIA 027 5. I terreni terziari presentano in Italia tutte le loro serie e coi caratteri che le distinguono ne’ principali luoghi di Euro- pa. I terreni miocenici contengono nel nostro paese i più anti- chi avanzi organici terrestri e di acqua dolce. 4. Il terreno del macigno sembra essere un deposito distin- to dal terreno cretaceo, al quale finora è stato riunito. Questa indipendenza è desunta da tutt’ i caratteri che possono fermare l’ età distinta di una formazione. Perciò merita di essere diman- dato con un nome particolare, ed è stato proposto quello di terreno etrurio. 5. Il terreno cretaceo mostra nella penisola le principali divisioni osservate nel settentrione. La creta bianca comparisce in qualche raro luogo. I due piani meglio distinti sono il num- mulitico ed il neocomiano: il primo riferibile all’arenaria verde superiore, il secondo alla inferiore. Il gault manca, o non è bene apparente. 6. Il calcare rosso ammonitifero, contrassegnato dall’ammo- nites tatricus, contractus, dalla terebratula diphya, dagli aptichi, da encriniti ec. non è già cretaceo, ma appartiene alla forma- zione giurassica superiore. La formazione liassica è rappresen- tata dagli scisti ammonitiferi e dal calcare bruno a bivalvi della Spezia, e dal calcare simile di Varenna nella provincia di Co- mo. Del resto nel terreno giura-liassico d’Italia non si possono riconoscere le divisioni segnate nel terreno simile settentrionale di Europa. 7.11 lias è il più antico deposito stratificato generale d’Ita- lia. Gli altri ad esso inferiori, o sono circoscritti, ovvero non si possono bene distinguere. 8. La formazione triassica, e forse ancora la penea, si la- sciano vedere solamente nel Vicentino co’ fossili che sono ad esse speciali. 9. Le formazioni carbonifera e siluria non sono state fin quì ravvisate in altra parte d’ Italia che in Sardegna. Dove tro- 528 SAGGIO COMPARATIVO vansi nel lato occidentale dell’isola, e rassomigliano al tutto alle formazioni medesime che occorrono nell’Estremadura. Onde si trae argomento tenere quei depositi ad ordini di strati che fan- no parte innanzi del continente Spagnuolo che dell’Italiano. 10. Le puddinghe ed arenarie rosse che sono inferiori al terreno giura-liassico in diversi luoghi d’ Italia, lasciano ancora dubbiezze circa la loro età. Alcuni ligano questi depositi al ter- reno giura-liassico, altri poi gli considerano come rappresentanti de’ terreni stratificati inferiori (triassici e penei). E lo stesso dicasi delle rocce scistose cristalline aile quali sono connessi. 11. I terreni stratificati si congiungono variamente fra loro. Alcuni passano insensibilmente alle serie vicine, altri invece ne sono distinti per linee discordanti. I depositi pliocenici recenti ed antichi formano masse continue distinte solo per i fossili. I depositi miocenici sono quasi sempre sconnessi dai pliocenici. Alcuni geologi citano in Sicilia un passaggio insensibile della creta ai terreni terziari: nel resto d’ Italia questo passaggio non si osserva. Il macigno è una formazione al tutto indipendente. La gran massa calcarea che compone il terreno cretaceo ed il giura-liassico non presenta quasi in nessuna parte linee d’inter- ruzione, ed i fossili solamente ci aiutano a segnare alcune divi- sioni in detta massa. Il terreno giura-liassico è distintamente separato dai terreni dubbiosi inferiori al lias. 12. Si distinguono in Italia tre ordini di rocce metamor- fiche, quelle del macigno convertite in ftaniti, diaspri, ovvero in scisti talcosi; quelle del calcare giurassico tramutate in mar- mi statuari; e quelle dei depositi inferiori al lias ridotte in di- verse specie di scisti cristallini. 15. Si possono stabilire quattro periodi di metamorfismo nel suolo Italiano. Il primo posteriore al macigno e alla creta (Toscana, Corsica). Il secondo posteriore al calcare giurassico (Alpi Apuane). Il terzo anteriore a questo calcare (scisti cri- stallini di Calabria). Il quarto anteriore al terreno peneo (mi- cascisto del Vicentino). DEI TERRENI CHE COMPONGONO IL SUOLO D'ITALIA 529 14. I Vulcani attivi d’Italia hanno cominciato a bruciare in età diverse. Il Vesuvio posteriormente ai depositi pliocenici recenti. L'Etna in un periodo anteriore a detti depositi. Strom- boli in tempo non conosciuto. 15. I vulcani spenti d’Italia mostrano in generale di aver bruciato posteriormente ai depositi subappennini, eccetto quel- lo di Radicofani in Toscana che arse anteriormente a questi depositi. 16. I basalti di Val di Noto sono contemporanei a’ terreni terziari forse recenti. 17. Tutte le trachiti d’Italia (Toscana, Euganei, monti Ci- mini, Ponza) sorsero posteriormente ai terreni subappennini. 18. Le trachiti di Sardegna all'incontro ebbero origine innanzi ai depositi suddetti. 19. I melafiri di Lugano di Predazzo e del Vicentino sboc- carono in periodi diversi. I più antichi nel periodo dell’ arenaria rossa. I più recenti nel periodo terziario eocenico. 20. I graniti di Predazzo nel Tirolo sono molto conosciuti per la loro età recente, e vennero fuora contemporaneamente ai melafiri alpini recenti. 21.1 graniti e i porfidi quarziferi dell'Elba sono posteriori al terreno cretaceo ed alle ofioliti di Toscana. Inoltre sono essi indubitatamente contemporanei alle trachiti di Campiglia e del Monte Amiata. Quindi se queste ultime rocce sono posteriori ai terreni subappennini, secondo che si crede, ne seguita che i graniti dell’ Elba sono della medesima età. Per ultimo questi graniti furono sollevati in forma pastosa, perchè si veggono iniettati tra le rocce del macigno. 22. I graniti di Calabria furono indubitatamente sollevati in un periodo posteriore ai terreni miocenici, ed anteriore ai subappennini. Il loro sollevamento dovè seguire quando erano in istato solido. 25. I basalti del Vicentino sono più antichi dei graniti an- Scienze Cosmolog. T. I. 42 390 SAGGIO COMPARATIVO zidetti, e indicano essere della medesima età degli strati eoce- nici con cui alternano. 24. La eruzione delle ofioliti e de’ gabbri Toscani e Liguri seguì posteriormente al terreno del macigno e innanzi al terreno miocenico. i 25. I melafiri del Capo Passero, di Cattolica, di Contessa in Sicilia sono, secondo l’Hoffmann, di una età anteriore al cal- care cretaceo a rudiste. 26. I graniti e porfidi di Lugano si giudicano più antichi dell’arenaria rossa e del calcare giurassico che sopportano. E si possono tenere ad essi contemporanei alcuni melafiri del Vi- centino. 27. Del medesimo periodo anzidetto sono presso a poco giudicate le masse granitiche delle vicinanze di Savona nella Liguria, e quelle eziandio della Corsica. 28. I filoni occorrono in Italia in forma di dighe, e di filoni metallici. 29. In Calabria ci ha dighe di granito che traversano lo gneis, e non mai i terreni secondari soprapposti. 50. Il paese classico d’Italia per rispetto a’ filoni è quella porzione montuosa di Toscana che stendesi lungo il mediterra- neo. Dove si trovano filoni metalliferi di varie sorte, di cinabro (valle di Serravezza), di galena (valle anzidetta, Massetano), cupriferi (Monte-Catini ec.) E dighe eruttive di oligisto e side- rite (Elba), di pirosseno e d’ilvaite (Elba e Campiglia), di por- fido e granito (come innanzi ). Tutti questi filoni mostrano di essere stati contemporanei, e sineroni alla massa granitica del- lElba. 51. L’Appennino sembra essere stato il prodotto di diversi sollevamenti, secondo che fanno conoscere i suoi diversi ordini di stratificazione, e le linee discordanti di queste: ma la distin- zione delle linee di fratture riesce difficile per i loro inerocia- menti, e per avere i movimenti posteriori del suolo cancellati gli effetti degli anteriori. DEI TERRENI CHE COMPONGONO IL SUOLO D'ITALIA 551 32. Il più antico dislogamento è diretto dall’O. N. O. all’E. S. E. e corre parallelo alla giogaia Pirenaica. Il quale accidente di suolo vedesi nell’appennino della Liguria, in quello che sten- desi da Parma a Firenze, e nella piccola giogaia delle Murge nelle Puglie. 55. Il sollevamento poi principale dell’ Appennino seguì posteriormente al deposito del terreno terziario medio, e ante- riormente a quello del terreno terziario superiore. Non si può dire quale sia stata la sua direzione precisa; ma nella Liguria, e principalmente poi nella Calabria meridionale, ella coincide con quella delle Alpi occidentali. 54. Altri sollevamenti, ma di minore importanza, seguirono in un periodo posteriore al terreno terziario subappennino; de? quali il più distinto pare sia quello dei monti settentrionali di Sicilia paralleli alle Alpi orientali. ARTICOLO VII. PENSIERI SOPRA L'ESECUZIONE DELLA CARTA GEOLOGICA ITALIANA. L’ oggetto principale di questa scrittura essendo quello di presentare una specie di Programma della Carta geologica d’Ita- lia, importa ora di discutere e concertare i modi come compiere si possa questo gran voto di tutt’i geologi della Penisola. Siami dunque permesso di manifestare liberamente le mie idee su que- sto proposito, avvertendo innanzi tutto che io intendo parlare di una Carta di precisione, ed eseguita sopra una grande scala, conforme a quella onde non ha guari la Francia è stata arric- chita. i Per le condizioni speciali della nostra Penisola un lavoro di questa sorte non può essere impreso e condotto a termine da poche persone, e con isforzi privati. In due modi soli si può questo sperare. Ovvero aspettando che sieno pubblicate le Carte 552 SAGGIO COMPARATIVO speciali delle diverse regioni Italiane, e che poscia uno o più geologi prendano a riunirle, ed ordinarle insieme. Ovvero spe- rando che un corpo scientifico, il quale estenda la sua influenza su tutta la Penisola, assuma a compiere la difficile impresa. La prima via, oltre all’essere lunghissima e forse ancora non confortata da nessuna speranza, ha ancora questo inconve- niente, che le Carte speciali sarebbero eseguite sopra piani di- versi; e mancherebbe perciò quella unità, che esser deve base principale di lavori di tal natura. Quindi pognamo ancora che la cosa fosse possibile, ne verrebbe fuora una Carta composta di membra tutte disparate. Laonde non mi pare che sia da porre alcuna confidenza sopra un mezzo cotanto incerto e difettoso. Rimane l’altro sopra indicato, su la scelta del quale non è da esitare. Perocchè il solo corpo scientifico che accoglie sotto il suo patrocinio tutta la scienza italiana sono i Congressi an- nuali, i quali avvegnachè fossero radunati per piccol tempo, hanno nondimeno grandissimo potere sopra ogni buona istitu- zione. Adunque per via di essi soltanto sperar possiamo di giun- gere al desideratissimo intento. La qual cosa sarà tanto più age- vole, e dirò ancora tanto più armonica, che si potrà anticipa- tamente stabilire un piano uniforme di lavoro. To stimo dunque che in uno dei prossimi Congressi sarà bene che la Sezione di Geologia faccia scopo principale delle sue occupazioni l’ impresa, onde si parla, subordinando ed an- cora posponendo ad essa ogni altro soggetto per la breve durata delle riunioni. E credo poi necessario che elegga una Commis- sione composta di vari Geologi della Penisola, la quale soprin- tender debba la esecuzione del lavoro. La Commissione potrà scompartire l’ opera secondo la di- visione dei principali paesi d’ Italia, cioè Piemonte. Liguria. Lombardia. DEI TERRENI CHE COMPONGONO IL SUOLO D'ITALIA 305 Stato Veneto. Stati di Parma e Piacenza. Ducato di Modena. Granducato di Toscana e Ducato di Lucca. Romagna. Lazio. Regno di Napoli di quà dal Faro. Sicilia. Sardegna. Corsica . In ciascuno di questi paesi saranno dalla Commissione scelti uno o più geologi, fra quelli che hanno avuto occasione di bene studiargli, a’ quali sarà commesso l’incarico di delinearne la fisica struttura. Una buona parte di queste Carte speciali sono state di già quasi terminate da valorosi nostri colleghi. Nientedimeno molte altre regioni ci ha, le quali sono ancora poco ed imperfetta- mente conosciute: e siccome coloro a’ quali sarà affidato l’ in- carico di studiarle e delinearle, avranno bisogno dei soccorsi e delle agevolazioni per ciò necessarie, io mi penso che si debba a questo diligentemente provvedere. Ed il modo più acconcio a me sembra il seguente. La Sezione di Geologia potrà indirizzare a nome del Congresso una petizione a tutt'i governi d’Italia, con la quale farà conoscere il nobile ed utilissimo lavoro che si propone di compiere, e la necessità perchè questo sia soccorso ed agevolato dalla generosità dei Principi Italiani. I quali sono così illuminati e conosceranno tanto bene la utilità dell’ impresa che non tarderanno certamente a rispondere alle istanze ad Essi fatte a nome della Scienza. Potrà ancora il Congresso fare aprire in tutte le principali città d’ Italia una soscrizione diretta a tal fine, deputando in ognuna di esse persone nobili e calde di amore della scienza e del paese a raccogliere il prodotto delle soscrizioni. La Sezione di Geologia ed il Congresso tutto da- 5094 SAGGIO COMPARATIVO ranno in ciò il buon esempio segnando i primi nomi nelle liste di soscrizione. Il quale esempio, ne son certo, non tarderà ad essere imitato nobilmente e con profitto grandissimo nella città, nella quale sarà riunito il Congresso. Questa speranza è molto confortata dalla nobile generosità che il municipio di Milano ha mostrata a prò della scienza nella riunione tenuta in quella città . ‘ Finalmente conviene por mente che l'Associazione Britannica per una via presso a poco simile provvede agli avanzamenti delle scienze nel Regno Unito; e l’Italia è un paese assai illuminato e filantropico perchè non faccia sperare una nobile gara di zelo e di generosità in una impresa di tal fatta. A questo modo non sarà difficile di mettere insieme nel corso di qualche anno un fondo bastante a sovvenire a tutte le cose bisognevoli all’opera, ed ancora più facile sarà di regolare la sua amministrazione. Quanto poi alla esecuzione dei lavori speciali la Commis- sione darà tutte le norme ed istruzioni necessarie dopo averle maturamente esaminate e discusse. Sopra il quale soggetto pia- cemi ancora di esporre i miei particolari pensamenti. Ogni lavoro speciale potrà essere composto di due parti, cioè della Carta colorata e del testo di spiegazione. Quanto alla Carta che dovrà servire di base al lavoro, si cercherà di scegliere quella che sarà più esatta giudicata e più acconcia. E perchè questa parte del lavoro non lasci niente da desiderare, giudico necessario che uno o più geografi facciano parte della Commissione, onde concorrano co’ loro lumi al bene dell’ opera. Forse sarebbe bene di scegliere una Carta di scala uguale a quella della Carta geologica di Francia, aflinchè si ab- bia una certa uniformità di lavoro, che è cosa preziosissima. A questo modo ciascuno dei geologi deputati all’ opera avrà la sua Carta respettiva da eseguire. Quanto ai colori da doversi usare per i diversi terreni, la Commissione cercherà di delineare una scala convenientemente disposta e distribuita, la quale servir dovrà di modello a tutte DEI TERRENI CHE COMPONGONO IL SUOLO D’ITALIA 550 le parti del lavoro. Quest’ argomento fu ampiamente discusso nel Congresso di Milano, e le sentenze furono varie. La maggior parte de’ geologi si accordarono doversi prendere a modello la scala di colori che vedesi adoperata nella Carta geologica della Francia. Sul-quale proposito sono da fare le seguenti osservazio- ni. In una scala di questa sorte si vuol distinguere i colori rispon- denti alle diverse divisioni, e l’ordine in cui sono disposti. Quanto alle distinzioni dei colori egli è bene certamente che si seguano quelli della Carta Francese per avere la tanto desiderata unifor- mità nei lavori di questa sorte: pure alcune modificazioni si ren- dono necessarie, essendo richieste dalle condizioni speciali del suolo Italiano rispetto a quello di Francia. Così per es. il maci- gno, ch'è un terreno notevolmente distinto in Italia, manca quasi del tutto in Francia. Le divisioni giurassiche della Francia non hanno le loro equivalenti precise in Italia ec. ec. Ad ogni modo non sarà difficile combinare queste piccole differenze co’ colori della scala francese. Quanto all’ordine poi in cui i colori rappresentativi de’ terreni nella scala vanno disposti, io vorrei che non fossero già messi in una sola serie continua, ma sì in serie diverse, secondo le grandi differenze dei terreni. Uno dei fini principali della geologia è senza dubbio quello di distingue- re l'età in cui sono stati formati i diversi piani della corteccia terrestre. La quale età può essere considerata sotto tre rispetti diversi, cioè quanto a’ depositi dei terreni di sedimento, agli sboe- chi delle rocce ignee, ed al metamorfismo delle rocce stratificate E siccome in una scala geologica i terreni stratificati sono dispo- sti secondo la loro età, conviene lo stesso metodo seguitare per gli altri terreni ancora. Perciò è mestieri disporre i colori in una serie triplice e di confronto; altrimenti formando una sola serie continua, si vede una porzione dei terreni disposti secondo la loro età (terreni stratificati), ed un altra secondo la loro natura ( terreni ignei e metamorfici ). Si vuole riflettere infine che le scale di colori nelle Carte geologiche sono rappresentanti delle 506 SAGGIO COMPARATIVO grandi divisioni che sono ammesse nella scienza; e poichè un tempo i piani della corteccia del Globo erano distinti in una sola serie ascendente o discendente, così conveniva al modo stesso disporre la scala dei colori nelle Carte geologiche. Ma oggigiorno tutti si accordano nel dividere i terreni in serie triplice, e quin- di a questa divisione dobbiamo ancora modellare le scale del colori geologici. Forse alcuno potrà opporre a questo metodo le difficoltà che ci sono per conoscere con precisione 1’ età delle rocce eruttive, ed i periodi in che avvennero le modificazioni delle rocce. La quale opposizione è certamente di gran peso: nondimeno anche per questo rispetto la scienza ha fatti di gran passi; ed in Italia sopra tutto noi conosciamo con. sufficiente grado di certezza il tempo in che seguirono le diverse eruzioni granitiche, ofiolitiche, trachitiche, basaltiche ec., l’età in cui furono modificati i marmi di Carrara, i galestri Toscani ec., e di queste conoscenze noi possiamo giovarci per rappresentarle nel quadro dei terreni che accompagnar deve la nostra Carta geologica. Ed affine di agevolare questa parte importante del lavoro, ardisco di presentare quì un Quadro, nel quale ho disposto secondo il modo divisato i terreni che meritano di essere distinti nella Carta Italiana. La serie dei terreni di sedi- mento forma nella scala una spezie di norma cronologica, ‘alla quale si riferisce l’ età dei terreni ignei e dei metamorfici con una acconcia disposizione a dritta e a sinistra della serie cen- trale. Quanto ai colori convengo che il miglior partito è quello di scegliere i colori della classica Carta Francese. risi care 1 Wa LA ini DI score relalite teoreliche-del lerreno drario e del lerziario mecho nel torrente di QPilandi in lalatria terreno crelacco Sosizione velotva del terreno sé enruno, e terreno OZ, SIZE UA lazione del lerreno giur afsco edel terreno elrurco a Iadunnòo nella Lombardia Î Te Gi Magra Solpodella Spezia AAA, LZ dato rr. cas AA a 9° ae" G Giza, 9 SMI, LE Spezia i z 1 Graccalo dec REGA Ala Spezia GSuuiegazione Gf WEBZIA Lig. 1. Fig. 3. Fig:4. LE IE 5 ] Zerreno subappennino [5 db} Calcare bruno a bivalvi [ S 1] Carcare brune è scisti calcarei dello sterco colore IL 17277610 mibcenice { Lc] Daorrite Db ] Cakare grigio [5 Quit cen enzrini ne ]Gneis . [d } Sci calcareo- marnosi [ € ]Aragenite quarzosa ( verracane) E b Calcare resto con ammoniti e belemuiti Ce] Scie od avimoniti [ d ]Carircisto cristallino [ © JSciti marnesi rossi egrigî Fis. 2. DE] Scisti senza focili [ € ]Afanite [| d JColcare grigie a fuccidi (terreno elrurio) ; ‘ [31 Scisti a posidonia liasina [ E ] Anagenite calcareo=siliceaa fondo pavonarzo 6 ] Terreno etrurio (alberese e macigno ) Ch] Scorti calcarei rossi [ £ ] Calcare branco Saccarvide Eb Creta dranca con selce [1] Hacigno [ hh} Calcare gragio sublumeltoso C Calcare nursmulilico e a rudiste [1 ]Mceaccisto noduloso passante a steascisto [di 7crreno seocomiano — QUADRO rappresentante i principali terreni d’Italia, e le loro età relative. —_—_—_—_r —— y ——_——_m—_—_—_—m—m€—___mm&6 TERRENI ERUTTIVI (1) TERRENI STRATIFICATI TERRENI METAMORFICI (2) Terreno alluviale Terreno * Vulcani attivi recente Terreno quaternario ufi vulcanici, p. Terreno alluviale antico salti di Val di Noto, c. ‘Terreno Pliocene recente Superiore achiti degli Euganei, di Toscana. Graniti dell’ El- ba? p. achiti di Sardegna, a. Medio Miocene aniti di Calabria, p. È ; y LerZIArioNi boeieaia o a rneng Manini ere TORE lafiri del Tirolo e di Lu- ipsa gano, p. i Inferiore Eocene salti del Vicentino, c. Alberese Terreno Galestri desi Etrurio 7 alestri e ardesie Macigno | È Creta bianca di di Capo Passero, a. SEO CRICAEE nummulitico o Arenaria | @relneco verde superiore Calcare neocomiano o Arenaria verde inferiore Terreno giurassico Marmi statuari Terreno liassico Terreno triassico Fillade &raniti e porfidi di Lugano. elafiri del Vicentino, a. Micascisto Terreno peneo ———______—_-zz-.—r— —‘vz»*tdtc—ù—©à(qq-- o_o Terreno carbonifero Steascislo Terreno silurio Gneis (1) I terreni erullivi possono es- (2) I terreni melamorfici re giudicati anteriori, contempo- Accidenti da notare sconnessi dalla linea de’ ter- nei, o posteriori ai terreni stra- reni stratificati sono conside- cati paralleli. I primi sono indi- Brecce ossifere rati soltanto come inferiori al ti con la lettera a, i secondi con Cave di Sal gemma terreno giura-liassico, e non ì terzi con p. Strati di combustibili fossili contemporanei alle divisioni | Strati metallici parallele, essendo la loro età Filoni metallici dubbiosa. 45 358 SAGGIO COMPARATIVO Per riguardo al testo, la Commissione indicherà in un qua- dro le principali norme e divisioni che dovranno essere partico- larmente seguitate ; le quali nessuna difficoltà presenteranno co- me quelle che saranno modellate sopra le divisioni della scala. Siccome i lavori speciali saranno affidati a geologi che han- no già conoscenza dei paesi da illustrare e da figurare, però rendomi certo che non converrà attendere lungo tempo per avergli tutti riuniti. Ogni collaboratore pertanto sarà tenuto d’ informare la Commissione nel Congresso di ogni anno del- l’ avanzamento del lavoro a lui aflidato, non ommettendo la Com- missione di fare in ogni Congresso uflizi di sollecitazione al compimento dell’ opera. Come prima poi uno dei collaboratori avrà terminato il suo lavoro dovrà rimetterlo nel Congresso più prossimo: e così a mano a mano e di anno in anno si andranno raccogliendo tutte le Carte speciali. Aflinchè tutte queste operazioni procedano con ordine ed esattezza, uno dei membri della Commissione farà 1’ ufficio di Segretario, il quale uflicio potrà continuare ancora dopo lo scio- glimento del Congresso, prendendo nota delle deliberazioni, e ricevendo le debite istruzioni circa le cose da fare nel corso del- l’anno. Quando tutt’i lavori speciali saranno riuniti, la Commis- sione deputerà uno o più geologi ad estrarre dalle spiegazioni particolari le opportune notizie per compilare un Quadro gene- rale della Geologia Italiana, che dovrà servire come d’ Introdu- zione all’ opera. A questo modo tutta I opera sarà composta di una Carta, e di uno o più volumi di testo: e quest’ ultimo con- terrà la Introduzione generale, e quindi tutte le spiegazioni spe- ciali disposte in ordine. Ciò fatto, rimarrà da provvedere alla pubblicazione del- opera. La quale così condotta non mancherà certamente di trovare in qualche parte d’Italia una grande Società Editrice, la quale prenda a pubblicarla. La Commissione non pure prov- DEI TERRENI CHE COMPONGONO IL SUOLO D’ITALIA 399 vederà ai mezzi necessari alla pubblicazione del lavoro, ma sce- glierà ancora uno o più geologi a soprintenderla. Così possiamo sperare che nello spazio di pochi anni l’ Ita- lia potrà avere al pari dei paesi più inciviliti di Europa una grande opera e assai necessaria, la quale contribuirà certamente moltissimo ad accrescere il suo patrimonio intellettuale e ma- teriale. SULLA COSTITUZIONE GEOLOGICA DELLE ISOLE DI PIANOSA, GIGLIO, GIANNUTRI, MONTE CRISTO, E FORMICHE DI GROSSETO, MRUORITA DEL MARCH. LORENZO PARETO Letta alla Sezione di Geologia della quinta Riunione degli Scienziati Italiani nel Settembre 1845 II In una precedente nota letta al Congresso di Firenze io dava alcuni cenni della costituzione geognostica di due delle piccole Isole che stanno dirimpetto al littorale Toscano. Io descriveva cioè la Gorgona e la Capraja: dell’ Elba poi occupavasi colla maestria che lo caratterizza il dotto ed onorevole mio amico il Prof. Paolo Savi, non che della stessa avevano favellato e lo Studer ed altri naturalisti. Di Monte Cristo indicava la costi- tuzione geognostica il sig. Smith: e cenni topografici dal Repetti e dallo Zuccagni ed altri, erano dati anche sulla Pianosa, Gi- glio ec. Piacemi ora comunicare a questa dotta Adunanza alcune mie osservazioni, che su queste ultime isole della Toscana, non che sul già accennato Monte Cristo, mi è stato dato di fare in una recente escursione intrapresa in vista di prendere da per me stesso cognizione delle formazioni, che in quelli isolotti ri- | trovansi. Le isole pertanto che fan soggetto della presente nota sono la Pianosa, il Giglio, Giannutri, e anche Monte Cristo, come pure le piccole Formiche di Grosseto, le quali così com- 342 COSTITUZIONE GEOLOGICA pletano, se fai astrazione da certi altri isolotti che si direb- bero semplici scogli, quella riunione d’isole, che vien chiamata l’Arcipelago Toscano. ISOLA DI PIANOSA. È la Pianosa la più occidentale di queste isole, trovandosi il meridiano che la traversa pel mezzo più a ponente di quello che passa per l'estrema punta occidentale dell'Isola dell’ Elba, da cui trovasi distante nel punto più ravvicinato, cioè dalla punta di Fettovaglia, miglia italiane, di sessanta al grado, sette all’ incirca. La sua forma, se non miri alle sinuosità della costa, è quasi quella di un triangolo, al cui angolo nord si aggiunga uno stretto e lungo appendice. Come l’indica il nome, pianeggia, e ne è il suolo quasi orizzontale, tranne due o tre piccolissimi poggi che soltanto di pochissimi metri si alzano sul livello medio del piano, e i quali chiamansi nel linguaggio degli scarsi abitatori, Cottoni. La massima lunghezza dell’isola, cioè. da Punta Bregantina al S., a Punta del Marchese al N., è di miglia italiane tre. La sua larghezza dalla Punta del Pero all’O. a quella di S. Giovanni all’E., di due e un terzo. Nel nord, dove quell’appendice o specie di coda si attacca all’isola, Ia larghezza giunge appena ad un quarto di miglio. Il giro tutto può essere valutato da dodici o tredici miglia. Lungo la costa vi sono alcune cale o calanche, ove possono ricoverarsi i piccoli bastimenti. La prin- cipale, quella che forma il porto e intorno a cui sono le più numerose abitazioni, trovasi alla parte orientale: un piccolo forte la domina. Quasi tutta la costa poi, se ne trai alcuni punti particolarmente al S. O., è tagliata a picco, e le sponde si alzano all’incirca piedi 70 a 75 sul livello del mare, la quale è anche’ l'altezza media approssimativa di tutta l’isola. La coltivazione è quivi principiante; si vedono però resti di antica coltura, DELLE ISOLE DI PIANOSA, GIGLIO, GIANNUTRI EC. 345 molteplici ulivi inselvatichiti che ora cercasi ridurre a domestico stato. Oltre il grano. vi è qualche poca vite, che sembra assai si accomodi alle scarse piogge che cadono su quélla pianissima isola, ove, anche in ragione della porosità del suolo, rareggia l’acqua potabile, la quale non trovasi in sorgente che in qual- che punto lungo le sponde del mare, come alla Botte, o dovunque in pozzi quando, traversato il banco calcare superficiale, incon- trasi uno strato argilloso che gli sottostà. Uniforme assai, e probabilmente molto recente, è l’ unica formazione geologica che trovasi in quest’ isola. I principali banchi che la costituiscono vengono indicati da uno spaccato che ho potuto esaminare lungo il mare al luogo detto alla Botte, dalla parte occidentale dell’isola. Nella parte infima di detta se- zione non può vedersi precisamente qual roccia vi sia poichè i numerosi massi caduti dall'alto ricoprono tutto: pure credo vi esista, siccome evvi a circa tre o quattro metri di altezza, un banco marnoso talora un poco arenaceo, di color bigio leggier- mente verde giallognolo. Su di questo esiste una piccola zona di circa 0,48 metri di spessezza, di un’argilla un poco sabbiosa di colore nerastro con venature più chiare effervescenti, la quale pare essere assai bituminosa. Su di essa vedesi nuovamente altra marna uguale all’ inferiore, in mezzo a cui esiste in un punto altra piccolissima zona di marna o argilla bituminosa. In queste rocce di tessitura finissima e che. quasi sembrano melma un poco indurita, non ho potuto vedere traccia di conchilie, le quali invece sono abbondantissime nei banchi superiori. Incomincia- sene a vedere infatti sotto il banco n.° 5 della figura quì annes- sa, il quale consta di una specie di sabbia fine indurita e tutta zeppa di serpule e di alcune madrepore. Nella parte inferiore di questo banco, ove sono frequentissime ostriche e spondili gede- ‘ropi, esistono molti; ciottoli di varia dimensione, pe’ quali ‘quella parte può dirsi una sabbia. ghiajosa che impasta conchilie e in cui anche rare non sono ossa di mammiferi marini, di quelli che 944 COSTITUZIONE GEOLOGICA specialmente appartengono alla famiglia delle foche. I ciottoli che ho rinvenuti in quella ghiaja sono quarzosi diasprini, e ap- partengono a quelle rocce modificate verdastre, le quali sono frequentissime nell’ Isola dell’ Elba e che dipendono dalle rocce di gabbro. Il granito mi vi è parso rarissimo. In tal banco esi- stono anche molte perne e varj pettini i cui analoghi per gran parte vivono nel mare vicino, siccome pure sembra che vi vivano molte delle altre conchilie ritrovate nei banchi che ancora ab- biamo a descrivere. È da notarsi pure che una specie di foca tro- vasi anche non rara vicino all’ isola. Sopra il banco grigio testè descritto ne sta altro più solido di maggiore spessezza, e composto di una calcarea più o meno grossolana e sabbiosa, avente in alcuni punti l’ aspetto alquanto poroso, in cui sono nodoli e resti di molte conchilie, spesso uni- valvi, come turritelle, coni ec. Questo banco ha varj metri di spessezza: più sopra ve n'è un altro, anch’ esso molto potente, il quale sembra assai superficiale e che è ancora più duro e solido del precedente, constando in particolare di una calcarea generalmente compatta di color giallo rossigno chiaro, la quale ha non rari vacui. Questo banco sembra estendersi a tutta la superficie dell’ isola, mentre gli altri non vedonsi che sulle rive del mare; anzi la sezione come siamo andati indicandola non si vede così completa se non che lungo il così detto golfo della Botte, vasto semicircolo che estendesi alla parte O. N. 0. dell’iso- la dalla Punta del Marchese, fin quasi alla Punta Libeccio, e lungo il quale sono disposti orizzontalmente i banchi sopra de- scritti. In altri punti dell’isola, forse per qualche leggierissima inclinazione che vi sia negli strati, non vedonsi ordinariamente che i banchi superiori e particolarmente i due ultimi, che forse hanno acquistato qualche poca potenza di più. Alla Punta Libec- cio il banco calcareo,.il quale in certe parti dell’ isola prende: un poco l’aspetto di travertino, è suddiviso in parti o spaccature, che sono alquanto inclinate, e da questa punta a quella del Pero DELLE ISOLE DI PIANOSA, GIGLIO, GIANNUTRI EC. 345 un poco più meridionale, grazie forse all’ inclinazione di queste parti del banco calcareo, la costa è più declive e men tagliata a picco, essendolo invece molto a mezzogiorno e levante, cioè verso la Punta Bregantina, S. Giovanni e il porto. Non lungi da quest’ ultimo luogo, in uno de’ banchi framezzati alla calcarea, sono grandi riunioni di pettuncoli, forse il pectuneulus violasce- scens, alcuni strombi e natiche, i quali, da quanto si può giudi- care, hanno gli analoghi viventi nei mari vicini. Non mi è stato possibile in alcun luogo di vedere su che riposino i banchi orizzontali di questa formazione, poichè tut- t’all’intorno i fondi del mare, sebben profondi, sono sabbiosi, e gli scogli che vedonsi all’intorno di quest’ isola tabulare, come per esempio quello del Marchese e l'isolotto della Scuola, sono composti della solita calcarea grossolana, di cui tutto il resto è composto. La formazione a cui si appartiene la Pianosa sembrami es- sere assai recente, nè credo andare errato supponendola forse la più moderna dei terreni subapennini. Io la porrei quasi, col- l’ egregio Lamarmora ch’ ebbe luogo di osservare formazioni analoghe di Sardegna, in quella da lui detta calcarea mediterra- nea. Tale ultima serie di terreno, che poco si conosceva varj anni addietro, sembra dover occupare un’ assai larga estensione di paese nel bacino del Mediterraneo. Infatti a lei si appartengono grandi tratti di calcarea in Sardegna, forse in Corsica presso Bonifazio e nell’ Isola di Malta. È sviluppata assai sulla costa della Toscana col nome di Panchina presso Livorno, e si mostra mista con ciottoli vulcanici e perciò solo modificata nella sua essenza mineralogica, lungo le coste dello Stato del Papa, ove io I’ ho descritta al Ponte dell’ Arone sotto Corneto e non lungi dal Palo; ed è forse anco'in Sicilia. Non puoi così di leggieri di- stinguerla da certi banchi della formazione terziaria con cui forse confondesi, e non vi è che la sua fauna, o meglio un gran numero di conchilie in lei contenute le quali hanno degli analoghi vi- Scienze Cosmolog. T. I. 14 046 COSTITUZIONE GEOLOGICA venti, che possa indurre a separarla. Non giunge generalmente, tranne forse in qualche paese di recente volcanizzato, ad un’al- tezza maggiore di trenta a quaranta metri, ed è indizio di un fenomeno assai esteso ed identico che forse è successo, in un’ epoca non lontanissima, lungo gran parte delle coste del Medi- terraneo. Le conchilie che ho potuto raccogliere nel mio non lunghis- simo soggiorno alla Pianosa, sono: 7urbo rugosus. Strombus pugi- lis. Natica. Conus. Ranella. Spondylus gederopus. Ostrea. Pecten varie specie. Pectunculus violascescens. Perna, e il Clypeaster altus tra gli Echiniti. Questi fossili non sono tutti ben determinabili, perchè essendo rinchiusi nella calcarea non vi è rimasto ‘quasi che il nocciolo. ISOLA DI MONTE CRISTO. Poche parole potrò io dire su Monte Cristo, che è l' isola che incontrasi dopo la Pianosa dirigendo la prora a mezzogiorno- levante, poichè di questa ha già data una descrizione assai mi- nuta il sig. Warington Smyth, dalla quale nondimeno dovrò io imprestare alcuni particolari quasi necessarj all intelligenza di quello ch’ io devo dire. È quest isola un unico monte che sorge abruttamente dal mare, e che trovasi tra libeccio e scirocco dell'Isola d’ Elba nel meridiano all’incirca che passa pel mezzo della medesima, cioè dalla punta dell’ Acquaviva presso l’ Enfola al N. e la punta di Ponza al S. tra il golfo di Accona e quello di Campo. Questo monte s’ innalza 2528 piedi sopra il livello del mare. La parte più alta forma una specie di picco che trovasi non precisamente nel mezzo dell’isola, ma un poco alla parte N. E., e da lui si diparte una cresta leggiermente circolare che va verso libeccio. Accanto al pizzo e alla cresta dalla parte di ponente vi è un piccolissimo ripiano, su cui è situato un antico Convento, ora quasi distrutto, e quindi da tutte le parti il monte si scoscende DELLE ISOLE DI PIANOSA, GIGLIO, GIANNUTRI EC. 547 rapidamente verso il mare. Una sola valletta un poco più estesa si parte a mezzogiorno-ponente dalla più alta cima, eva a finire alla Cala Maestra, seno principale dell’isola. Oltre questa cala vi sono pure altri piccolissimi seni di mare; ma tranne la già nomi- nata e un’altra piccola da levante, non vi è in alcuno di questi una piaggia da tirare in terra i bastimenti. La parte più scoscesa dell’ isola è quella che trovasi verso levante, essendo da questo lato più ravvicinato il sommo vertice dell’isola. Semplicissima assai è la costituzione geologica di quest'isola, constando tutta di rocce granitiche, all’eccezione di piccolissima parte di rocce sedimentarie, che furono probabilmente dal gra- nito, o da altra roccia di cui favelleremo, modificate, traversate, o avviluppate. Il granito che trovasi più generalmente sparso e che forma la massa dell’isola è il granito porfirico grigio o rossastro con gli elementi a grana media ora più, ora meno grossa, tutto co- sperso, o, come dicono i Francesi, lardé di larghi cristalli di feld- spato Orthose che gli danno bellissimo aspetto. Questo granito è diviso in enormi massi che talora affettano le forme sferiche o poliedriche e talora anche le tabulari, quando forse l’ aumentata proporzione del mica fa sì che questo granito si ravvicini un poco più all'aspetto del gneis; ma di una varietà sì pronunziata che possa prendersi per quest’ ultima roccia quasi schistosa, nel fare il giro dell’isola non mi è stato dato adocchiarne. Quello che vi è di notevole si è la quantità enorme di vene ugualmente granitiche, ma di altra varietà, cioè a piccoli grani e non porfiriche, e anche forse nelle proporzioni degli elementi costituenti il granito, diverse, perchè spesso più abbondanti di feldspato quasi granulare con pochissimo mica, e invece con fre- quenti cristallini di una sostanza che pare tormalina. Le quali vene traversano in tutti i sensi e compenetrano, quasi anasto- mosandosi, la massa principale del granito porfirico e grossi eri- stalli di feldspato. Tu non sapresti precisamente dire se desse 548 COSTITUZIONE GEOLOGICA siano filoncini posteriori, o soltanto vacui nel granito massiccio e parti in cui nella fusione generale gli elementi del medesimo combinaronsi in proporzioni diverse. Dall’andamento de’ mede- simi e dal modo di suddividersi piuttosto iniezioni e filoni po- steriori gli crederesti, sebbene il vedere queste varietà di rocce in alcuni punti aver forma di nodoli avviluppati da ogni parte del granito della massa principale, piuttosto centri di particolare attrazione di combinazione diversa degli elementi potrebbe farli sospettare. Questi filoncini sono particolarmente abbondanti alla parte S. O. e S. dell’isola, ove anche trovansi le rocce sedi- mentarie a cui abbiamo fatto allusione, ed un filone di natura dirò diversa dalla granitica, che ha traversato evidentemente le masse granitose, nelle quali è sparsa anche non rara la tor- malina. Presso la Cala che precede a ponente la punta più meridio- nale dell’isola, detta dallo Smyth Punta Nera, e segnata sulla carta di Toscana col nome di Punta del Diavolo, si vede il solito granito a larghi cristalli, con venature di altro a piccoli grani, traversato su l’uno e l’altro fianco della cala medesima da un potente filone o Dykes quasi verticale, che corre E. S. E. Questo filone è di colore scuro nelle parti esposte all’aria, ma bianco 0 grigio verdognolo nell’interno, e per la sua tinta fa stacco assai bene sul color grigio della massa del granito. Doppiato il capo orientale di questa cala, e seguendo la costa si vede ancora lo stesso filone, e si può seguitare fino alla punta estrema dell’isola ch’ egli traversa, ritrovandosi anco al di là della medesima, ma in alcuni punti decomposto e asportato, e formando così in mezzo al granito una specie di spaccatura. La roccia di questo filone è di colore verde chiaro tirante sul grigio, è feldspatica o petrosilicea, ha l'aspetto porfirico, ma la base non è in tutti i luoghi ugualmente compatta. Vi si ve- dono alcuni piccoli cristalli bianchi di feldspato, qualche rara volta quasi vitreo ma spesso decomposto, e oltre di ciò vi sono DELLE ISOLE DI PIANOSA, GIGLIO, GIANNUTRI EC. 349 alcuni punti verdi indeterminabili e qualche rara traccia di grani di quarzo. Si potrebbe chiamare un’ Furite porfirica. Presso questa medesima punta meridionale dell’ isola, il granito avvolge dei massi di una roccia stratificata verdastra scura spesso silicea, alquanto scistosa, nella quale trovansi gra- nati, epidoto, e grani e nodoli di pirite cuprifera. Quella roccia ricorda precisamente quelli scisti silicei con epidoti e granati che trovansi marcatissimi all'Isola dell'Elba dalla parte occiden- tale, al luogo detto Campo Alafano, ove riconosconsi per rocce, probabilissimamente della formazione del macigno, potentemente modificate forse dalle rocce ofiolitiche, oppure dal granito stesso di quelle vicinanze. Il filone poi di roccia verdastra o Eurite che abbiamo sopra- descritto, passa accanto a queste masse incastrate ed avvolte nel granito; ma non mi pare che precisamente le traversi, venendo, direi, solo a contatto di esse in uno o due punti. Analoghe rocce di sedimento modificate trovansi anco più sull’alto della punta meridionale, ma ivi sembrano molto meno alterate, e rassomi- gliano allora più assai agli scisti del macigno. Di esse esiste anche qualche lembo nelle pareti della cala che trovasi a le- vante della già nominata Punta Nera o del Diavolo. Dicono es- servi nell'isola anche qualche traccia di minerale di ferro. La massa del granito di Monte Cristo rassomiglia assai a molto del granito porfirico dell'Elba, e particolarmente a quello che vedesi lungo il golfo del Viticcio, all’ Enfola, e verso il Sec- cheto e Pomonte. Quanto alla forma di questa piccola isola non è dissimile, serbate le debite proporzioni, da quella della parte occidentale dell'Elba, cioè somiglia a quella porzione rotonda di alti monti che sta a ponente dei golfi di Procchio e di Campo, e di cui la più alta cima è il monte Capanna. Monte Cristo girerà all’ incirca dieci miglia, ed è lontano dall’ Elba presso a poco ventitre miglia. È molto verisimile che il filone di Eurite incontrato alla 550 COSTITUZIONE GEOLOGICA Punta del Diavolo sia sorto posteriormente alla massa principale del granito a grossi grani, quando già questo aveva avviluppato e in parte modificato gli scisti del macigno: non ardirei invece pronunziare se sia posteriore alle vene o filoncini di granito a piccoli grani, giacchè non ho potuto osservare che ne traversi; sarebbe egli un fenomeno legato con esse . ISOLA DEL GIGLIO. Delle diverse isole da me visitate in questa escursione è l'Isola del Giglio la più considerabile. Trovasi dessa a levante e sotto lo stesso parallelo che Monte Cristo, da cui è distante al- l incirca 24 miglia italiane. Sta per scirocco dalla Punta della Calamita nell’Isola d’ Elba, e ne è lontana 27 o 28 miglia. La sua forma è alquanto allungata nel senso del S. S. E. Può avere infatti circa cinque miglia di lunghezza dalla punta del Fenajo al N. N. 0., a quella del Capel Rosso al S. S. E. La sua larghez- za, se ne eccettui una specie di appendice che trovasi dalla parte dell’O., non è, dalla Punta de’ Castellari a levante alla Cala del- l’Allume a ponente, che di due miglia e mezzo all’ incirca. Anche quest'isola, quasi come Monte Cristo, può dirsi una sola montagna. Infatti da tutte le parti, se ne togli due o tre brevissimi piani, in fondo a piccioli seni, è dappertutto scoscesa verso il mare. La cresta di questo monte sorge quasi perpendi- colarmente dal mare al luogo detto il Fenajo, e si alza per varj poggi al paese del Giglio, situato su parte elevata della medesima, e quindi al Poggio alto metri all'incirca 485; in seguito ribassa un pochino ad un colle che trovasi a ponente di questo monte, e che è alto metri 596, si rialza immediatamente alla punta detta il Poggio della Pagana elevato 486 metri; si sostiene per qualche tratto ad un’ altezza di poco inferiore, e quindi dimi- nuendo va a finire abruttamente nel mare alla punta del Capel Rosso al S. S. E. Sebbene questa cresta di monti debbasi consi- iaia DELLE ISOLE DI PIANOSA, GIGLIO, GIANNUTRI EC. 561 derare come una sola, e che sia sempre diretta nello stesso senso, cioè nel S. S. E., pure tutte le sommità della medesima non sono poste sulla stessa linea. Vi è nel centro, cioè tra il Poggio e il Poggio della Pagana, una specie di piccola piegatura (e questa accade al colle sopra indicato) per cui questi due punti culmi- nanti dell’ isola si trovano a ponente-libeccio l’uno dell’altro; ma sì a partire dal primo andando verso il N. N. 0. che dal se- condo andando al S. S. E. le due creste seguono la direzione in- dicata, poichè si direbbe che in quel punto vi è una specie di uncino, e i rami laterali seguono due direzioni parallele. In fuori di questa cresta, e staccato per così dire per mezzo di una valletta dal resto dell’isola, è quell’appendice che io ac- cennava e che chiamasi il Franco. È questo un massiccio di molto minore elevazione del rimanente dell’isola, il quale tro- vasi a ponente della medesima, e forma il lato meridionale del golfo del Campese situato a maestro-ponente. Quest’appendice potrà avere circa tre o quattro miglia di giro verso il mare, men- tre tutta l’isola ne avrà invece 16 a 18. Il golfo del Campese presso cui vi è un piccolo piano, il porto, la Cala dell’ Allume ed altra tra la Punta de’ Castellari e quella delle Torricelle, sono i seni più profondi dell’ isola. In così piccola estensione di terra non vi possono essere che picciolissimi rivi; il più considerabile è quello che scende al golfo del Campese. Per quanto lo permettano le scoscese pen- dici dell’isola, essa è ben coltivata, e produce ottimi vini. La popolazione passerà i mille ottocento abitanti, la massima parte de’ quali sta al borgo o castello sull’ alto del monte, una por- zione al porto, e pochissimi in due o tre casolari, situati presso la torre del golfo del Campese. La costituzione geognostica di quest’ isola, se ne eccettui quel tratto a ponente che abbiamo denominato il Franco, è sem- plicissima; consta di un granito or grigio, ora un poco rossiccio, a grani ordinariamente di mediocre grossezza, ora assai piccoli; i 302 COSTITUZIONE GEOLOGICA tre clementi vi sono sparsi quasi in parti uguali; in certi punti questo granito si disfà e va in decomposizione, in altri invece è solidissimo, e se ne cavano bellissime colonne. La sua struttura è massiccia, dividendosi in massì poliedrici e quasi sferici, però in molte parti dell’isola, sì dalla punta del Fenajo, che in quella verso il Capel Rosso, osservansi certe divisioni che simulano una specie di stratificazione, ma che per vero non sono se non che linee limitanti delle masse tabulari, e queste divisioni sono se- gnate da particolari vene moltiplicatissime, di un’ altra specie di granito a più piccoli grani, in cui col quarzo trovansi abbondan- tissime le tormaline nere. Desse sono verso la punta del Capel Rosso dirette S. S. E., e quelli falsi strati sopra accennati sem- brano pendere nel senso dell’E. N. E. Il granito della massa principale dell’isola di cui abbiamo parlato, oltre all’essere grigio e rossiccio, è in altri punti giallognolo, come presso il Poggio della Pagana, ove contiene molto mica nerastro, e va in decom- posizione. Poco distante da questo poggio ho potuto vedere traccia di un filone, ma ristrettissimo, di quarzo con traccia di ferro; egli è quivi N. 10. E. S. 10. 0. Più abbondante però di questo si è l’altro masso o massi diversi di ferro oligista, misto ad altra spe- cie che trovasi nel granito non lungi dalla Cala dell’Allume, e che sono indubitabilmente legati coll’altro filone di ugual natura che a pochi passi da queste masse, al fondo precisamente di detta cala, traversa il verrucano e la calcarea soprapposta, o meglio trovasi al contatto tra loro e il granito che è loro vicino. Ma di questo filone ci toccherà riparlare quando descriveremo il poggio del Franco. A non poca distanza dal paese del Giglio, per l’ appunto verso la parte occidentale, e scendendo al golfo già tante volte nominato del Campese, il granito sopraccarico di mica prende quasi l'aspetto del gneis, e in generale le venature di cui sopra abbiam favellato, e che simulano nel granito delle divisioni stra- DELLE ISOLE DI PIANOSA, GIGLIO, GIANNUTRI EC. 353 tiformi, sono le più abbondanti. Se ne trovano però altre (e ‘pare che la loro composizione sia ben poco diversa) che lo tra- versano in tutti i sensi, e che hanno più decisamente l’aspetto di filoni. Per quanto è permesso far conghietture, quelle prime vene si direbbero un risultamento di separazioni e» cristallizzazioni speciali, avvenute nel raffreddamento della massa granitica, le ultime invece parrebbero risultamento di posteriori iniezioni. Di quest’ ultima ‘specie di vene rinvengonsi molte, e nel salire al paese, e nella parte occidentale del monte. Ma se la massa principale dell’Isola del Giglio è molto uni- forme, quella specie di promontorio detto il Franco che staccasi dalla parte di ponènte è invece di una costituzione geognostica più complicata. Forma desso una riunione di due o tre poggetti di mediocre altezza, i quali sono separati dalla massa grande del- l’isola per via del piccolo seno detto Cala dell’Allume, e da un rivo chiamato collo stesso nome, che nasce al piccolo colle, il quale sovrasta a questa, e che di là scende a versare le sue acque nell’opposto golfo del Campese verso il nord. Sulla destra di questo torrente, meno per un brevissimo tratto, stanno tutte rocce granitiche; sulla sinistra, meno uno o due piccolissimi monticelli nel fondo della valle, tutto è invece o calcarea o scisti del Verrucano o Serpentine. Cominciando dall’imboccatura di detto rivolo, e seguendo per mare la costa verso la punta detta del Fariglione, la più a maestro di quel promontorio, si vedono in mezzo a una congerie enorme di rottami calcarei, che là esi- stono, masse poco o punto stratificate di una calcarea porosa, ch'io credo dolomitica, grigia e biancastra, accompagnata da strati più marcati di altra calcarea grigia suberistallina, la quale presentasi in nodoli allungati frequentissimi e quasi continui, av- viluppati da uno scisto quasi lucido, anch'esso di color grigio. Al disotto vi è altro scisto lucido biancastro, e poi nuovamente la calcarea porosa, e banchi di altra calcarea più o meno subgra- nulare, di color giallognolo . Scienze Cosmolog. T. I. 45 354 COSTITUZIONE GEOLOGICA Doppiata appena la punta del Fariglione, e progredendo lungo la costa la quale corre verso mezzogiorno, e così un poco » a ritroso di quella sezione descritta or ora lungo il golfo del Campese, viste per alcun tratto le testate opposte dei banchi so- praindicati, trovansi quelli inferiori alla detta formazione calca- rea, e dapprima incontransi dei banchi considerabili di una roccia di quarzo talcoso verde chiara, con altri scistosi verdi untuosi e «altri di color violaceo, i quali banchi esattamente somi- gliano a quelli che incontransi nel più determinato terreno del Verrucano in Toscana. Questi strati inclinano verso l'interno del monte, cioè all'incirca all’est: essi dovevano vedersi passare sotto la calcarea del Fariglione, ma là vicino distrutti dall’ onde si vede soltanto che si addentrano sotto le calcaree del resto del poggio detto il Franco. Alla faceia 0. S. O. del detto promontorio, cioè non lungi dalla punta della Salina all’altezza circa di 18 metri dal mare, sopra il verrucano, e non lungi da certi scisti violacei, e proba- bilmente alla parte inferiore della calcarea porosa, vi è un masso di gesso saccaroide assai circoscritto, ma di cui non è possibile esaminare precisamente la giacitura, essendo quella cava stata ricoperta, quasi per ogni dove, da massi di altre rocce caduti dall’alto. Continuando più in là il viaggio lungo la costa, trovansi ancora i soliti scisti verdi e pavonazzi del Verrucano; ma fatti appena una cinquantina di passi vedesi presso il luogo, detto la Piaggiuola, sortire dal mare e salire quasi alla vetta del sopra- stante poggio un filone di mediocre dimensione di una roccia nera verdastra che tiene dell’ ofiolite, la quale meglio però con- tenendo molta diallagia potrebbe essere una vera Eufotide, o al più un’ Ofiolite diallagica; dessa contiene anche tracce di epi- doto: sembra che tal filone traversi tutti gli scisti, e forse anco una porzione della calcarea probabilmente vada a riunirsi con altra massa verdastra di ugual natura, che ho veduto a metà circa del rivo o botro dell’Allume, riunita ai verrucani e alle calcaree, DELLE ISOLE DI PIANOSA, GIGLIO; GIANNUTRI EC. 355 e la quale incontrai scendendo dalle alture granitiche dell’isola, per andare ad esplorare i limiti o punti di contatto del granito e delle formazioni sedimentarie, le quali solo, come già dissi, in- contransi in questo promontorio del Franco. La direzione di questo filone o Dykes, di cui però non è possibile seguire pre- cisamente l’andamento attesa la vegetazione che tutti ricopre quei poggi, sembra essere all’incirca da N. N. E. al S. S. 0. Due altre testate o masse di simil roccia s'incontrano nuo- vamente seguitando la costa, una alla punta occidentale della piccola cala che precede quella detta dell’Allume, e l’altra un poco più a levante; ma queste non si alzano che poco sopra il pelo dell’ acqua. La calcarea quivi scende assai basso accostan- dosi al livello del mare, si rialza quindi nuovamente un poco e lascia travedere ancora il verrucano, che quì risorge e sembra inclinare al rovescio di quello che aveva fatto fino allora: 1’ alto però della riva scoscesa è di calcarea porosa. Nel fondo poi. della Cala dell’ Allume, e presso: il granito vedesi sorgere una vena giallastra ferruginosa, la quale è un fi- lone di ferro in cui assieme al quarzo evvi molto ferro solforato e ferro oligista. Una sorgente di acqua sulfurea non è distante, e quivi nascono le solite chimiche combinazioni che presso filoni di tal natura ordinariamente s'incontrano. ._Hlato orientale della cala è poi granitico, mentre 1’ occi- dentale è di verrucano e calcarea, e nel granito di questa loca- lità vedonsi vene e masse anco ingenti ferruginose, le quali principalmente sono di ferro oligista, perossido di ferro ec. Desse sembrano incastrate e traversanti il granito, e probabilmente si . legano e dipendono dall’altro filone testè citato, che è tra il ver- rucano e il granito, e che da queste masse soltanto una trentina o quarantina di metri è distante. Chi avesse quì a discorrere della precedenza delle diverse formazioni che siamo andati esaminando, l'opinione più razionale che si potrebbe emettere sarebbe quella che tanto i verrucani 356 COSTITUZIONE GEOLOGICA quanto le calcaree sono quì probabilmente anteriori al granito siccome pure le vene serpentinose che trovansi al Franco, e che invece le vene o filoni ferruginosi sono posteriori a tutte que- ste rocce, sicéome accade all’ Elba. Quanto al dire che il granito poi è sicuramente sorto dopo le masse del verrucano è cosa non così direttamente progabile, perchè non ho potuto vedere quelle injezioni di granito nelle rocce sedimentarie che all’ Elba non lasciano alcun dubbio sulla posteriorità della roccia granitica. Il comportarsi delle due masse poi al loro contatto è sì oscuro, che sebbene favorisca più l’idea che il granito sia sorto posterior- mente, ed abbia sollevato e rigettato in parte la picciola massa sedimentaria del Franco, pure non assolutamente esclude che parte invece di quella siasi a lui appoggiata, quantunque sicura- mente, anche giudicando per l’analogia che vi è tra V'Elba e il Giglio, siasi da adottare di preferenza l’idea che il granito sia sorto posteriormente. Un'ultima osservazione mi rimane da fare su questa isola del Giglio, e si è che quivi non mi è riuscito a vedere alcuna traccia di quel granito porfirico che costituisce Monte Cristo e trovasi di preferenza nella parte media ed occidentale dell’ Elba, siccome non ho neppur trovate rocce referibili al macigno che vedonsi invece a Monte Cristo e anche al mezzo e ponente del- l’ Elba. Invece il granito del Giglio somiglia più a quello della parte orientale di quell’ isola, ove trovansi anco i verrucani ed il ferro. Sicuramente le vene con tormalina sono identiche con quei moltiplici filoni che traversano in ogni senso le rocce della parte orientale dell’ isola verso Longone. Sarebbe Monte Cristo una prominenza di una catena sotto- marina, prolungazione di quella che va dall’Enfola al Capo di Ponza con cui trovasi allineato nel senso del meridiano, e l'Isola del Giglio un’ analoga prominenza di una prolungazione della , parte orientale dell’ Elba? DELLE ISOLE DI PIANOSA, GIGLIO, GIANNUTRI EC. 557 ISOLA DI GIANNUTRI. x L’ultima isola di cui mi resti a favellare, se ne eccettui gli scogli denominati le Formiche, si è quella di Giannutri, la quale è anche la più meridionale del così detto Arcipelago Toscano. Essa è anche la più vicina alla terraferma, non essendo distante dalla punta meridionale di Monte Argentaro che miglia italiane sei e mezzo. Dall’Isola del Giglio poi a cùi sta presso a poco a sci- rocco, è lontana miglia otto e un terzo. La sua forma è semicir- colare, avendo un largo golfo detto degli Spalmatoj, che occupa la cavità del mezzo circolo dalla parte di levante. La convessità ne è volta a ponente, ove l'isola è in generale tagliata a picco, mentre invece verso il golfo è più declive. Giannutri sebbene sembri montuosa non ha però grandi elevazioni: il poggio prin- cipale detto della Guardia, situato a tramontana-levante del seno detto la Cala Maestra, è alto metri 85 all’incirca a mezzogiorno della detta cala: vi è un altro poggio che avrà presso a poco la stessa altezza. Per passare dalla parte esterna alla parte interna dell’ isola non vi è più di un mezzo miglio da percorrere. Tutta la superficie di questo, dirò grande scoglio, è coperta da folte boschine, non vi è acqua potabile, ed è ora interamente deserta. Gli antichi invece l’abitavano. Rimangono infatti vistose tracce di monumenti romani assai notevoli, consistenti principalmente in una serie di sale o‘ stanze ben architettate, con resti di pavi- mento a mosaico, le quali sono situate intorno alla Cala Maestra, ov è anche presso alla piaggia del mare un fabbricato con sala circolare. Dovea servire ad uso di bagni. Tutti questi edifizii di opus reticulatum sono costrutti in massima parte con materiali di cui non si trovano gli analoghi nell’ isola. Sono infatti fabbri- cati con pezzi di peperino rosso sì abbondante nelle vicinanze di Roma, e nei terreni vulcanici della costa, quasi dirimpetto cioè a Montalto, Toscanella ec. 308 COSTITUZIONE GEOLOGICA Non mi è riuscito a rinvenire roccia di fal natura che non sia stata trasportata d’ altronde per mano degli uomini in tutta l'Isola, la quale è esclusivamente composta e formata da una roccia calcarea porosa e da altra della stessa natura calcarea ma più compatta. Nulla di molto notevole presenta questo Giannutri, meno certe magnifiche grotte situate dalla parte di libeecio. Sono queste altissime, e formano in certi luoghi delle arcate o ponti naturali sotto cui passi e t’interni col battello se è calma, e ove il mare viene a rompere furibondo quando libeccio spinge ed accavalla i suoi flutti. Tali grotte, che rivestono anche la forma di larghi e sinuosi canali, s' internano molto nell’isola, e allo aggirarsi loro in varie direzioni, diresti che siano state prodotte dall'uscita di qualche forte corrente che aveva una notevole potenza erosiva, forse da un’ acqua acidulata. Frequentissime nelle spaccature dei poggi e nei meati di queste grotte sono certe specie di brecce talora composte da enormi frammenti calcarei con altri minori spesso tutti insieme tenacemente legati da un cemento rosso abbondan-- tissimo di ferro. Il non sapere donde venga quell’enorme conge- rie di pezzi e più di. cemento ferrugineo, renderebbe plausibile la proposta ipotesi di certe iniezioni sotterranee. Come già dissi la massa principale dell’ isola è composta dalla calcarea porosa grigiastra, probabilmente dolomitica, appar- tenente alla calcarea giurese. Vi sono inoltre dei banchi più com- patti e altri cristallini ma non porosi, che trovansi confusamente riuniti con lei. La stratificazione è in quest'isola pochissimo di- stinta, ed è difficile negli strani contorcimenti che fa e in mezzo alle folte macchie che tutto nascondono, il dire quale ne sia la direzione precisa. Sembra però che domini quella di S. S. E., la quale più frequentemente di ogni altra si vede in questi parag- gi. Essendo dessa uguale nel non lontano Monte Argentaro, ove come si sa regna per gran tratto la calcarea compatta e porosa della formazione giurese, ove esiste gesso presso S. Stefano sic- ero "png E PORRE ro? DELLE ISOLE DI PIANOSA, GIGLIO, GIANNUTRI EC. 359 come al Campese del Giglio, e ove è in abbondanza il Verru- cano sulle alte creste precipuamente che dominano il Convento de’ Passionisti, e in molteplici altri punti verso il mare, e ove è anche indicata finalmente in certa abbondanza la serpentina. LE FORMICHE. Anche le piccole Formiche di Grosseto, le quali non sono se non che tre scogli, uno de’ quali, quello al N. un poco più considerabile, avendo forse quasi tre quarti di miglio di giro, son composte di calcarea subcristallina e quasi granulare, forse in parte dolomitica grigiastra, i cui strati corrono S. S. E. sic- come gli stessi scogli vedonsi diretti. Probabilmente non sono che tre punte di una sola montagna sottomarina, allineata in quel senso, le quali sorton fuori del mare per pochissimi metri di ele- vazione. La gran Formica pare non si alzi più di otto o nove metri al disopra del suo livello. Queste direzioni S. S. E. di cui tanto abbiamo parlato, sem- brano aver avuto gran parte nel produrre la configurazione at- tuale della costa italiana per gran tratto della Toscana. Infatti ponendo mente alla medesima, vedonsi molti capi allungati lungo il mare correre in quel senso, quale il promontorio Argentaro, il monte di Baratti ec. Se inoltre ben si esaminano quelle loca- lità, vedesi che questi due promontorj dovevano fare una volta delle vere isole, essendo state posteriormente riunite al conti- nente da meno antiche alluvioni, che hanno colmato i bracci di mare, forse poco profondi, che li separavano dal continente; così più lontano di quà avvenne forse di Monte Circello, che ha al- l’incirca la stessa direzione: e se si mira, lasciando da parte i promontorj, anche in parti mediterranee della Toscana, vedonsi catene che serbano tracce di queste direzioni: così se ne incon- trano in alcune parti della catena di Campiglia, nei monti Pisani e nelle Alpi Apuane, sistemi tutti che si vedono manifestamente 360 COSTITUZIONE GEOLOGICA EC. separati, e direi indipendenti dal vero Apennino; chè tali anco potrebbonsi riguardare ( meno che ne è più complicata la costi- tuzione geognostica per certi altri sollevamenti che si trovano in quei-luoghi ) tutti quei monti che occupano quel tratto di paese detto le montagne di Maremma, cioè che estendonsi per così dire da Siena al mare. Infatti è certo, o almeno molto probabile, che in un periodo assai recente della serie geologica, all’ epoca cioè in cui deponevasi il terreno subapennino o Plioceno, erano dessi questi monti separati dalla giogaja principale di un brac- cio di mare, che stava là ove ora sono le crete sanesi, le quali per la Val d’ Elsa, la Val d’Arbia, l'alta parte di quella del- l’Ombrone, Radicofani e Val di Paglia, s interpongono tra l’Apen- nino secondario e i monti, ugualmente per la massima parte. secondarj, della Maremma Toscana. en MAZZA ZA Aulla space de porcende o dara VARIARE Ma deslanza di 4. mmeigliia il Pi dd Fenajo Capel rosso T del campese- il Trofico ISOLA DEL GIGLIO. EM pe 20° | — | i | I 24° 23° V Castellari Porto dal k/ - 1 Sic en WR 23 EC DI 20° 19) Cola del Franco trai PF Sgzarele Not Edita 1 Lista di Mete Cristo dal Giglio Relas gione lol SE Hello erccie E, snlese nor 4 VIA curefeco allazÈ Merci eli Alente Crste lfrcale e Di del magno e varulo Sogpe nine Ferro Serio È D'rriecano C.Harese | until Scrsh modi fetali PIANOSA ISOLA cseone lungo Vera Ahi alive ca cal OZ gal; VICTRRIITARIZZZZZA Cel. un fuoco prercsce grilli rs anelur confessili Do neesat. col. drdir rità con Seguite Sed. agleape Altrna AE me 4 ATF. Argilla merrniaseininara _|Marad grego e cionerea Ax Aegilla bituminose con pati man ose My. Marna Scisti modificati del —Gramito moacigmo i CRISTO 90° SEI (azione del grivsule dille rocue adrilase modificate e del filone luo 4 deinenti hico alla pi nera | Cristo LE FORMICHE DI GROSSETO E 34° r È Formica 5 Piccoln formica SEZIONI CONICHE MRLMORLIA DEL PROF. PIETRO OBRICI In qualsivoglia modo un piano seghi il cono retto A BG si 749. IX. potrà sempre condurre per l’asse AL del medesimo un piano rig. 1. perpendicolare al piano precedente: l’intersezione di questi due piani sia la retta PE, che incontra in P il piano della base: il punto P sarà quello, pel quale passano i tre nominati piani. Il piano indicato dalla traccia P E produrrà sul cono una linea EI D, di cui vuolsi trovar l'equazione. A tal uopo pon- gasi in P l'origine delle coordinate, e prendasi la PE per asse delle ascisse, talchè PH= x, HI=y siano le coordinate di un punto qualunque I di quella linea. Pongasi pure ACB—ABC=-, BPE=f, CL=BL=r, e PL=m?r, ove sarà m>1, quando il punto P è esterno al cono, come per ora si ritiene, e sarà im=1, od m<1, quando P è sulla superficie, o nell'interno del cono medesimo. Condotte pel punto P le rette D'E', D'E" rispettivamente parallele ai lati A C, A B del cono, è evidente che, finchè la traccia PE del piano segante giacerà nell’angolo C PE', poichè £ rappresenta l’inclinazione di questo piano a quello della base, sarà £<, e lo stesso piano segante taglierà le generatrici o tutte nell’una o tutte nell’altra falda del cono. Quando la stessa traccia PE coincidesse colla P E', il piano segante taglierebbe nella falda opposta a BA C tutte le genera- trici del cono meno la A C, che è la sola generatrice parallela al piano medesimo; così allorchè P E coinciderà con PE", ver- Scienze Cosmolog. T, I 46 Fig. 1 562 OBICI ran tagliate sulla falda B A C tutte le generatrici meno la AB: nell’uno di questi casi l'angolo # d’inclinazione sarà =, men- tre nell’altro sarà B=180°—«. Trovandosi poi la traccia P E in una posizione intermedia alle due P E', PE", sarà f>a, e tutte le generatrici del cono, quali nell’ una, quali nell'altra falda, resteranno segate, tranne quelle due che sono parallele al piano segante, la posizione delle quali viene determinata dal piano condotto pel vertice A del cono parallelamente al piano segante. Ora se la traccia PE invece di muoversi dalla parte BE'E"B' sì movesse in senso contrario, cioè dalla parte BD" D' B', alla stessa relazione di grandezza fra gli angoli «, f negativi corri- sponderebbero sezioni della stessa natura di quelle considerate . precedentemente; vale a dire quando fosse — f< —« tutte le generatrici del cono sarebbero tagliate sulla falda BA G nel loro prolungamento dal vertice al di là della base, e la traccia del piano segante si troverebbe nell’angolo E" P B'. Pr —ax =— f la traccia del piano medesimo coincide con PE", come si è veduto. E quando-fosse —£>— « la traccia predetta dovrebbe trovarsi nell'angolo E'P E", e coincidere perciò con una delle corrispondenti posizioni su mentovate. Pel punto qualunque I della linea d’intersezione EID sia condotto il piano FIG parallelo alla base: la sezione, che esso produrrà, sarà circolare; e poichè i due piani EID, FIG sono perpendicolari al terzo BA C, la loro comune intersezione I H sarà perpendicolare tanto alla DE, quanto alla GF, sarà cioè ordinata comune sì alla linea E I D, che alla circonferenza FI G Si avrà dunque Hire pren atollo pine: Dai triangoli GHD e CDP si ricava __ HD. sen (a—f) r(m_-4) sena CHE eee ep e na y SEZIONI CONICHE 505 e perciò essendo HD — PH —PD, sarà sen (a— [) r(m—-1)sena GH= —__(x- AAT sen « (e sen (a — ft) ) i Parimenti dai triangoli PBE, EF H si ha r(m+1)sene r(m+1)sena = = EH bile G EA) x +EH, ondeEH sen ta e HF EH. sen («+ 6) E ALE) sen « ) PA sen « sen « sen (2+B) Sostituendo nell’equazione (1) i ritrovati valori di GH, e HF risulta sen (x+£) sen (a— [£) r(m_-4)senay 1 (m+41) sena sen?a (e sen (@-f) ) ( sen (e+f) x) la quale rappresenta la linea, secondo la quale il cono è segato dal piano IEHDP. Quest’equazione dà immediatamente a conoscere che la curva da essa rappresentata è simmetrica intorno all’asse delle ascisse, e che incontra lo stesso asse ne’ punti determinati da r(m_—1)sena r(m+1) sena di sen (& — 6) sen (a+) Questi due punti diconsi vertici della curva. Ora si osservi che quando sen (x—f) e sen («+) sono quantità dello stesso segno, lo che ha luogo quando è +a> +£, allora i due valori (5) di x risultando positivi non si potranno avere valori reali per y che per le ascisse comprese fra quelle dei vertici, come apparisce dalla (2); onde la curva in questo caso è chiusa. Quando sen (2— f) e sen (4+ {?) fossero di segno contrario, ciò che corrisponde a +«< +, niuna ascissa po- sitiva potrebbe essere minore di Si one come niuna sen (2+ 8) È E £ . r(m_- 1) scena ascissa negativa potrebbe essere minore di ad =)" trimenti risulterebbero immaginarj i valori di y: ma per gl’ in- —PD, SPES) , al Fig. 1: - @) 364 OBICI i finiti valori di x diversi dai due suindicati, avendosi sempre Fig.1 per y valori reali, la curva perciò si estenderà all’infinito sì dalla parte delle ascisse positive che da quella delle negative rimanendo interrotta pel tratto dell'asse delle ascisse, che mi- sura la distanza dei due vertici. Che se poi fosse + «= +, r(m+1)sena sen (€tB) per y dei valori reali: ma la curva in questo caso avrebbe uno de’ suoi vertici ad una distanza infinita, e si estenderebbe al- l infinito soltanto dalla parte delle ascisse positive. Dunque ; ‘dipendentemente dall’essere l'angolo « rispetto a f maggiore, 0 | minore, od eguale in grandezza assoluta, la curva rappresentata dall’ equazione (2) è limitata, od illimitata in tutti i sensi, od in un senso solo: è limitata in tutti i sensi, quando tutte le ge- neratrici del cono sono incontrate dal piano segante: è limitata od illimitata in un senso solo, quando una sola generatrice non può esser incontrata dal piano medesimo: ed è illimitata in tutti dovrebbe essere parimente x > affine di avere i sensi, quando due generatrici non potranno essere segate. Di quì la convenienza e la necessità di considerar partitamente Ì ciascuno dei tre nominati casi. i I° Caso ta> +B. Eseguendo le moltiplicazioni indicate nella (2), ed osser- vando che i sen (+8) sen (af) = sen? @— sen? fi, | sen (4+ 8) + sen (af) = 2 sen cos f, i sen (a+) — sen (x) = 2 senfcose, la rammentata equazione (2) diviene RETTE I __2rx sena(m sen cost — sen} cosa)— x(sen'& — sen) — r°(m? — 1)sene 2 y sen? & ZAN > di Se nella stessa equazione (2) in luogo di x si ponga r(m_1)sena ., .. ; :, rimise. l'origine delle coordinate verrà ad essere sen («—f) SEZIONI CONICHE 065 trasportato nel vertice D della curva, e l'equazione ne diverrà 2ra(senacosf—msenf cosa) x*(sen?«— sen?) ii i (d y sen & sen?a 0) ove fatto y=o si ha __2rsena (sena cost — msen f} cos a) 6 — sen? — sen?ff che esprime la distanza dei due vertici della curva, e rappre- senta un asse della curva stessa, il quale può porsi eguale a 2 a. E trasportando l’origine delle coordinate nel punto di mezzo del predetto asse la curva verrà in tal caso rappresen- tata da n r?(sen « cost — msen f cosa? x?(sen?x — sen?f}) vr (7); sen?x — sen? (3 sen?e donde rilevasi che la curva medesima è anche simmetrica in- torno all'asse delle ordinate, quando questo passi pel punto di mezzo della distanza dei due vertici. Questo punto è il centro della curva, giacchè qualunque retta passi per esso e termini alla sua periferia rimane evidentemente bipartita. Se nella (7) si faccia £= o si avrà l’ordinata che passa pel centro rappresentata da __r(sena cosf — msen f cos e) Vsen? @— sen? B fedi il doppio di questa ordinata è il secondo asse della curva, il quale s'indicherà con 2 b. Il coefficiente 2 r (sen « cos B — m sen f cos “; ART sen & x nell'equazione (5), chiamasi parametro. I punti dell’asse delle ascisse corrispondenti alle ordinate eguali al semiparametro di- consi fuochi. La posizione loro si avrà dunque dalla (5) ponendo in essa 7 (sen « cos f — m sen ff cos &) dae 1 sen a » Fig. 19 366 OBICI per tal modo si avrà 2rxsena(senacosB—msenf cos 2) sd r? (sen & cosf—msenf cos af _ p sen? « — sen?ft sen? « — sen? Fig.1% da cui r (sen « cost — m sen f} cos @) sen? a — sen? 3 (sena+ sen #); onde prendendo il segno superiore si avrà eli r(sena cost —msenf cos a) sen a — sen f e per l’inferiore 79 Sl. Ao) r (sen « cos f — m sen f} cos @) sen « + sen f} x" PN Questi due fuochi sono dunque equidistanti dal centro, e perciò anche dai vertici della curva, e sono collocati da una medesima parte rispetto all'origine delle coordinate, cioè fra il centro e i vertici. La somma delle due distanze x', x" è espressa da 2r sen«(sen« cos f — m sen f} cos @) | sen?a — sen?f ) che confrontata alla (6) fa conoscere che la somma delle di- stanze dei due fuochi da uno stesso vertice eguaglia l’asse 2 @ della curva. E se con d', d" s'indicano le distanze dei due fuochi da uno stesso punto (x, y) della curva medesima, tali distanze sa- ranno evidentemente rappresentate da -VEFRTa, VAI Sostituendo in queste in luogo di y? il suo valore dato dalla (5), e invece di x', ©"i surritrovati valori (9), e riducendo ne viene s_T (sen e cost — m sen cosa) xsenf sen« — sen f} sen | (10). si” (sen « cost — m sen f cosa) x senft \ sen « + sen ft sen « SEZIONI CONICHE 367 La somma di queste due distanze, le quali chiamansi raggi vettori, è Fig. 1% 2r sen a (sen a cost — m sen fi cos a) — 2a: senza — sen? ft di dunque la somma dei raggi vettori condotti ad un punto qua- lunque della curva è costante ed eguale all'asse 2 a. Dal fin quì detto risulta che la curva in questione è fornita di centro, è simmetrica intorno a due assi ortogonali, che si segano nel centro medesimo, ha due fuochi, le cui distanze da un punto qualunque della curva medesima danno una somma costante. Questa curva è dunque un’ellisse, i cui assi, come si è precedentemente veduto, sono rappresentati da 2rsena(senacosf — m senff cosa) ie= sen?« — sen? f? 7 27 (sen a cost — m senft cosa) Lp= —— — Vsenta — sen? 8 Dal confronto di questi due assi risulta a:b= sena:Vsenta— sen? n da cui si rileva, che sarà sempre @>b, poichè «> ft. La quantità, per cui il semiasse maggiore supera il mi- nore, viene rappresentata da r (sen cos f — m sen f cos a) ( sena — Vsenta— sen? fi). sente ant sen? @a— sen? ft Questa differenza non può esser nulla, a meno che non sia rsene cost — mr sen f COSIE,=.0) des ovvero sen « — Vsen? & — sen?B = 0 La prima di queste due condizioni, poichè in generale non può essere r—o, dà luogo alla proporzione mr :r == tang & : tang f, Fig. 1. 368 OBICI la quale indica che il piano segante passa pel vertice del cono, come si può anche dedur facilmente dai triangoli rettangoli APL, ACL; e per essa annullandosi gli assi 2a, 2b, e la (4) riducendosi ad \2 La WU RE PI Nn3 Enia (Va + tang?a ni ring: > dovrà essere y=0, ed r=rVm® + tanga = AP, da cui si vede che la sezione riducesi ad un punto; ond’è che il punto è un caso particolare dell’ellisse. L'altra condizione poi non può essere soddisfatta, che quando sia 8=0: in questo caso il piano segante coincide con quello della base, e l’equazione (4) si ri- duce ad y=2mrx-2x-r?(m°— 1), e rappresenta il circolo, che serve di base al cono. Il circolo adunque si può ‘riguardar come un’ellisse, che abbia assi eguali. Dalla maggiore delle due distanze (9) sottraendo la minore la differenza è 2 r sen f (sen « cos f — m sen f} cos @) sen?a — sen? {£ MIRA la quale rappresenta la distanza di un fuoco dall’altro: ponen- dola eguale a 2 e sarà __rsenf(sena cos —msen f cos a) sen?« — sen? f la quantità, per cui un de’ fuochi è distante dal centro della curva; e poichè il quadrato della quantità stessa eguaglia la differenza dei quadrati dei due semiassi a, b, così il semiasse maggiore a si potrà sempre far ipotenusa di un triangolo rettan- golo avente per cateti l’altro semiasse d e la distanza e. Quindi dati i semiassi sarà facile trovar i fuochi, e dati i fuochi ed uno dei semiassi, se ne troverà facilmente l’altro. SEZIONI CONICHE 369 Confrontando la differenza (15) al valor (6) di 2 a si ha Ga6 980 ataegoe nei li -stbvapagy a sen & Questo rapporto, che in generale s'indica con e, chiamasi eccen- tricità. Il rapporto medesimo offre un mezzo facile per deter- minare la distanza del centro dai fuochi nella sezione fatta nel cono da un piano qualunque. Ritenuto in fatti che la traccia del piano segante sia la P DE, la sezione avrà per asse maggiore la DE, e condotta la DK parallela a C B sarà EK il doppio della distanza cercata: dunque la F G parallela ad A B rappre- senterà la distanza medesima; onde i fuochi saranno i due punti f, f', nei quali l’asse DE è incontrato dal circolo descritto col centro in G e col raggio GF. L'altro asse dell’ellisse sarà il doppio della tangente D IH condotta dal vertice D allo stesso circolo: sarà infatti Upi DI DEL DGLGHSDE CA. ossia a? — c°— b?. Gli stessi risultati fin quì ottenuti procedendo dalla parte degli angoli «, f positivi si otterrebbero pure procedendo dalla parte opposta. L'equazione (14) suggerisce il modo di segare un cono secondo un’ellisse di assi dati. Infatti se questi sono 2a, 2 db, sarà nota anche la distanza e — Va®-—? di uno dei fuochi dal centro, e non si avrà che a costruir il triangolo EDC avente per lati DE =c, e CE=a, e l'angolo EDC= a: sopra CD si costruirà poscia il triangolo A DC rettangolo in D, e di cui l'angolo DCA sia eguale ad «. La AC assegnerà la distanza del vertice A del cono dal vertice C della sezione, e CF sarà la traccia del piano segante. Per costruir il triangolo C DE, dopo aver fatto l'angolo EDC = <, e DE=c, fa duopo de- scrivere col centro in E e col raggio EC = a un arco di cir- colo, il quale segherà sempre la retta D C, e la segherà in due 4 Scienze Cosmolog. T. I. 47 Fig. 2 Fig. 3. Fig. 570 OBICI punti C,C': ciò indicherebbe che due posizioni diverse potrebbe prendere il piano segante producendo sempre un’ ellisse eguale ad una data. Queste due diverse posizioni corrispondono a due punti C, B diametralmente opposti ed equidistanti dal vertice A del cono, e ad eguali inclinazioni del piano segante all'asse del cono medesimo. Infatti essendo EC=EC' sarà l’angolo ECC'-EC'C, e congiunto il punto B col punto G d'’inter- sezione della C F coll’ asse AD, sarà pure GC=G B, e perciò l’angolo GBC—-=GCB=E C'C, e BGD=CGD, ossia AGI=AGF; onde sono eguali i due triangoli AGI, AGF, e perciò GI= GF, e quindi anche CF = BI; dunque gli assi 2a di queste due sezioni sono eguali; essendo inoltre eguali gli angoli rispettivi d’inclinazione dei piani seganti al piano della base BC, saranno eguali in entrambe le ellissi le quantità e, e quindi anche gli assi minori 26. Dunque produr- ranno ellissi eguali alla data tutti i piani tangenti alla superficie del cono generato dalla rotazione della G C intorno all’asse AD. Dalla precedente costruzione risulta evidente l'impossibilità di condurre per un punto dato un piano che seghi un dato cono secondo una data ellisse. Ma si potrà però sempre far in modo che la sezione sia simile ad una data. Per questa condizione si richiede che l’eccentricità dell’ellisse data eguagli quella del- Vellisse che si cerca, lo che esige che i piani delle due ellissi siano paralleli, come può rilevarsi dall’equazione (14), la quale sen c' . Va+b Vat+b"? ,, — =, ossia vr, d'onde a a alc c somministra - = a sen & a facilmente ricavasi a:b=a':b'. Dunque le sezioni ellittiche prodotte da piani paralleli sono tutte simili fra loro. I centri di queste ellissi poi saranno tutti su di una stessa retta AE, che passa pel vertice del cono. Infatti sia E uno di tali centri: se ne riferisca la posizione agli assi coordinati A C, AB, sicchè sia AH= x, HE=y: essendo CE=EF, sarà CH= HA, onde dal triangolo CEH si avrà EH:HC= SEZIONI CONICHE 574 sen ECH:sen HEC, ossia y:x = sen («— f): sen (4+£), onde sarà Qualora l'angolo £ sia costante, come lo è nel caso che si con- sidera, l'equazione ottenuta appartiene alla retta A E, che passa per l'origine delle coordinate. Nello stesso modo si trova che il luogo geometrico dei centri E' delle sezioni parallele alla BI è la retta A E' rappresentata da Seli Gianini sen (a— ft) Le equazioni delle due rette AE, AE' possono compren- dersi nella sola da cui apparisce che le rette stesse sono egualmente inclinate l'una all’asse delle ascisse, l’altra a quello delle ordinate, e che perciò l’asse A D del cono bipartisce l’angolo E A E' compreso dalle medesime; quindi è che ruotando la A E intorno all’asse AD, la superficie conica, che ne risulta, sarà il luogo geome- trico dei centri di tutte le sezioni simili ad una data, secondo le quali può essere segato il cono dato. Presa EL -ED=Ef'i punti f, f' saranno i fuochi del- l’ellisse prodotta dal piano che ha per traccia CF. Riferendo agli assi coordinati A C, A B la posizione dei punti f, f' simil- mente determinati in tutte le ellissi simili, il luogo geometrico dei punti medesimi saranno due rette, che passeranno esse pure pel vertice del cono. Siano infatti Am=— x, m f=y le coordinate del punto f: essendo mf parallela ad E H si avrà CH:Hm=CE:Ef=a:c=sena:senf, | rsena- sen « + sen f EH:fm=CE:Cf=a:a-c=sena:sena— senp, da cui CH = AH; così pure Fig. 5. 5372 OBICI le i e Fig. 53 © perciò E H ar TA ma essendo AH ed EH le coordinate del centro della curva, dovrà essere AH:EH=sen(<+f):sen(a—f)= X sen «+ sen più sen « — sen B donde sen (a— £)(sena—senf) — sen(x+£)(sena+sen £) Îoy 2 seni(e—)cos!(a—)tang! xo sen? j ib) 2 sent(2+8) cosi (x+) tangi (+6) sen? i (a+ fi)" La retta Af rappresentata da questa equazione sarà il luogo geometrico dei fuochi f situati nell'angolo CA E. Nello stesso modo trovasi che il luogo geometrico degli altri fuochi f' corri- spondenti è la retta A f' rappresentata dall’equazione cos? 1 (2 — 6), Ut gt aL 2 cos? i (a + 6) e che i fuochi 9, p' delle sezioni diametralmente opposte sono collocati sulle rette A p, Ag' rispettivamente rappresentate dalle equazioni cos?! (a + 6), — costi (a — 6) Le equazioni delle quattro rette A f, A f', A 9, Ag', che evi- dentemente possono essere comprese nelle due _ sen?; (a +6) sen?! (a+ f) cost: (E, cost 1 (a +'f) rendono palese che le due prime rette sono di tanto inclinate all’asse delle ascisse, quanto le altre due sono inclinate all'asse (16), y= delle ordinate; onde queste quattro rette a due a due saranno egualmente inclinate all'asse A D del cono. Dunque i fuochi di tutte le sezioni ellittiche simili ad una data trovansi sulle due 575 superficie coniche generate dalle due rette A f, A f' ruotanti intorno alla A D. Riferendo agli stessi assi AC, AB la posizione del punto H, che si può supporre sia il centro di una qualunque delle sezioni fatte da piani, che passino pel punto P, sarà facile trovare il SEZIONI CONICHE luogo geometrico dei centri delle prenominate sezioni. Infatti siano AK= x, HK=y le coordinate del centro medesimo, e PE'=a, E'A= quelle del dato punto P. Poichè H è il punto di mezzo di DE, sarà DK=KA=px, ed AE=2y,e dalla somiglianza dei due triangoli DHK, PEE' si ha la proporzione ciy=a:b+42y, da cui od anche (17) Y = Dunque il luogo geometrico assi paralleli agli asintoti; ed è ben evidente che questi asintoti cercato è un’iperbola riferita ad sono le rette rappresentate dalle due equazioni Ur == La simultanea sussistenza di queste due equazioni medesime dà il punto d’intersezione degli asintoti, ossia il centro dell’iper- bola: esso è pure il punto, ove si segano le diagonali condotte nel parallelogrammo A E'P D": gli assi dell’iperbola stessa sono paralleli alle due rette PB, AL, giacchè questi debbono divi- dere in parti eguali gli angoli formati dagli asintoti medesimi. Uno dei due rami di quest'iperbola passa per il vertice A_ del cono, e per il centro L della base, imperciocchè quando x=0 risulta da entrambe le suesposte equazioni (17) y=0, e le stesse Api : < ” a—b equazioni rimangono pur verificate dai valori a — —;— =, i che sono le coordinate del punto L. Questo ramo d’iperbola è Fig. 1.2 574 OBICI veramente il luogo geometrico dei centri delle sezioni ellittiche prodotte da piani che costantemente passino per il punto P. L’altro ramo passa pel punto P, essendochè le equazioni (17) sono verificate da x—a,y=—b. Questo secondo ramo è il Fig. 1a luogo geometrico: dei centri delle sezioni fatte da piani che parimenti passino per lo stesso punto P, ma inclinati alla base del cono per angoli + > +, come si vedrà in appresso. Sebbene assai semplice sia l'equazione che rappresenta il luogo geometrico dei centri delle sezioni ellittiche prodotte nel modo suenunciato, pure non essendo essa la meglio adattata a secondare i cambiamenti, cui si assoggetteranno le dimensioni del cono, sarà utile riferire il luogo geometrico stesso al sistema di assi ortogonali PL, AL, i quali, come si è veduto, sono paralleli agli assi dell’iperbola. Se dunque H è il centro di una delle sezioni, ed LN=x, NH=y ne siano le coordinate, essendo PN-—mr — x, dal triangolo rettangolo P NH si avrà MIL Y Vit (mr= a) y+ (ra) sen = l'equazione (4) fatto y=0 si ha l’ascissa del centro rappre- sentata da r sen (m sen « cos f — sen f} cos 2) senza — sen? Pili Va lanalo b) ove sostituiti i valori di sen f e cos f risulta RL (anemia Vj tra) sen?e (2 + (mr —%))—y? che facilmente riducesi ad y? — x? tanga — rytanga+mraxtangîa = 0 . (18), la quale conferma che il luogo geometrico in quistione è una iperbola riferita ad assi coordinati paralleli agli assi della curva, SEZ®ONI CONICHE 575 e che per x= o avendosi y= 0, ed y=r tanga = AL, e per y=o0 avendosi x — o, ed x=mr=LP, la curva stessa passa con un ramo pei punti L, A, e coll’altro pel punto P. Il centro mr rtang È _- ) , cioè di quest’iperbola sarà collocato nel punto e nel punto di mezzo della AP, come testè si è veduto, e gli assi vga LIA pate Lo mi — 1 m? — 1 ou ne saranno 7 fang « VA = dr —; > espressioni %, 9 facili a costruirsi per mezzo delle rette LL'— mr tanga, AL=r tanga, PL=mr,eCL=r. Il luogo geometrico dei fuochi delle ridette sezioni relati- vamente agli assi A C, A B si determinerà osservando che fra Te coordinate del centro e quelle di uno dei fuochi debbono passare le stesse relazioni, che si determinarono nell’istituir l’analoga ricerca rispetto all’ellissi simili; cosicchè se x,y sono le coordi- nate di un fuoco, AK=x', KH=y' essendo quelle del centro, x sen & Ra y sen f 5 sen 2 + sen f} sen«— sen f inoltre dal triangolo DH K si ha DK:KH=sen «: sen (x—f)= Ì SITO y sen & ; x':y', da cui si trae sen (a — f)= na Per mezzo di que- dovrà essere AK—=2'— st'’equazione si potrà eliminare l'angolo variabile f dalle due precedenti, e così avere le coordinate x' y' del centro espresse per quelle x,y dei fuochi e per «. Determinati i valori di x' e di y' si sostituiranno in una qualsivoglia delle due (17), e l’equa- zione risultante rappresenterà il luogo geometrico cercato. Che se si riferissero gli stessi fuochi agli assi ortogonali PL, AL, indicando similmente con x,y le coordinate di uno di essi, la distanza del fuoco, che si considera, dal punto P sarebbe rappresentata da Vip + (mr — 2: d'altronde la distanza stessa è anche uguale P H—c, onde dovrà essere Vy? +(mr— x? =PH_-e. Il valor di PH si ha dalla (4) ponendovi y=0, Fig.1. 576 oBICI® indi ricavando il valor dell’ascissa del centro, che è r sen (m sen « cost — sen f} cos &) fon sen? a — sen? } r sen £ (sen cos f — m sen f} cos 2) sen?a — sen? Fig. 1. PH: è già noto che . Dunque sarà V?+ (mr — x? r sen &(m sen « cos 8 — sen f} cos @) — r sen f (sen« cos f — msen f} cos a). sen? < — sen? f vin — ae (sen « cos f (m sen 2 — sen £) + sen f cos « (m sen f — sen a)). Da quest’equazione fa duopo eliminar l'angolo f; si osservi per- ciò che sen f y —, cos f ihre My - sosti Vip +(mr—xf È Vip +(mr-x) tuendo questi valori nell'equazione precedente, e. riducendo risulta VI mira) M. ry((mr—ax)sena—my cosa) (19), ycosz+(mr—x)xsen?a—ry sene cosa cui si può dar facilmente la forma y?—x? langîa—ry tanga+mrx tang?a = di a aan 5 cosa Vy? + (mr — af Ridotta a forma intiera quest’ equazione, e fatto sparire da essa il simbolo radicale, essa stessa apparisce di sesto grado, onde il luogo geometrico cercato è una curva di sest’ordine. La quale taglia la curva (18) de’ centri, quando sia y=0, ovvero (mr — x)tange— my=0: la prima di queste due equazioni rap- presenta l'asse L P delle ascisse, e l’altra rappresenta la retta PA: queste due rette sono le tracce di due piani capaci di segar il cono per modo che i fuochi delle sezioni coincidano coi centri rispettivi: ciò vuol dunque dire che la curva rappresentata dalla (19) passa pei punti L, A. | Se il punto P, per il quale si è finora fatto passare il piano segante, fosse sulla superficie del cono, nelle formule prece- dentemente stabilite si dovrebbe porre m = 1. Queste formule SEZIONI CONICHE 377 sussisterebbero tutte ad eccezione della prima delle due (11), che in questo caso non può verificarsi, imperocchè essendo sen «> sen f, quindi cos f > cos e, ed m=1 non potrà essere sen « cosf — msenf cosa 0; onde per un punto della super- ficie del cono non si potrà condurre un piano che seghi il cono secondo un circolo, a meno che questo piano non sia parallelo a quello della base, come richiede la seconda delle due ram- mentate equazioni. Altrettanto avviene, quando lo stesso punto P sia interno al cono, sia cioè m<1. In questo solo caso però sarà facile ot- tenere una sezione, che abbia il centro nel punto dato. Infatti il coefficiente della x nell’equazione (4) dovrà esser nullo, ossia m sen « cos f— sen f cosa = 0, donde tangf=mtang «, e m? sen? x cos'x + m? sen?x perciò sen? 6 = : sostituito questo valore nella stessa (4) risulta cost «(1 — m?) x? cos? + m? sen? & vi ra (1-mî). .. (20) L'equazione di condizione tang f = mtang« suggerisce la co- struzione seguente, onde determinar graficamente la posizione del piano segante, che sodisfa alla condizione medesima. Sia P' il punto per cui deve passar il piano segante: condotta la P'N parallela ad AD, la DN dal punto D al punto d’intersezione N, dai due triangoli rettangoli P'F N, DFN, che ne risultano, si ha FN=wmr tang «=r tangF DN, onde tangFDN=p»m tang a: dovrà dunque essere FDN =, e condotta pel punto P' la D'E' parallela a DN, dovrà essere P'D'— P'E'; ed infatti P'D'—DN siccome lati opposti del parallelogrammo D D'P'N, e condotta NP" parallela ad AB risulta evidentemente F P'— FP", cui aggiungendo FD FK ne viene DP"- KP', e perciò rie- scono eguali i due triangoli equiangoli DN P", P'E'K, quindi DN=P'E' Dunque P'D'= P'E', come dovevasi dimostrare. fa Scienze Cosmolog. T. I. 48 Fig. 1 Fig. 2.* Fig. 1. 578 OBICI Quando il punto P fosse sulla superficie del cono, si do- vrebbe fare b= o nelle (17), ovvero m = 1 nella (18). Nel primo caso il luogo geometrico dei centri sarebbe rappresentato da = i, sarebbe cioè la retta L M condotta pel centro L della base parallelamente al lato AB; e l’altra equazione si riduce ad y=0, e rappresenta l’asse A C delle ascisse. Nell’altro caso l'equazione diviene (y— x tang ) (y—(r—x) tang @)= 0: il primo di questi due fattori dà l'equazione y = tang «, che rappresenta la prenominata retta L M: dall'altro fattore si ha y=(r— x) tang &, e rappresenta il lato AC conforme a quanto si è pocanzi veduto. Dunque quando il punto P è sulla super- ficie del cono, e perciò coincide con C, l’iperbola si trasforma in due rette che si segano in quel punto M, che dovrebbe essere il centro dell’iperbola; e quel ramo, che, come si è veduto, passa pei punti L, A corrisponderà alla linea spezzata LM A, e l’altro ramo che passa pel punto C verrà sostituito dalla spezzata CM M'. Delle quali spezzate però le sole parti M L della prima, ed MM' della seconda è evidente che saranno luo- ghi geometrici de’ centri, la prima delle sezioni ellittiche, e la seconda delle sezioni che si otterranno quando sarà + B> +. Il lato A G è dunque unicamente destinato a separare i centri delle sezioni di una specie da quelli delle sezioni di specie diversa. Se nelle precedenti formule si ponga r-0, il cono si ridurrà ad una retta AL perpendicolare alla distanza PL=%mr, la quale non è nulla, benchè sia nullo il raggio r, e sarà a= 90°: per questi valori l'equazione generale (4) si ridurrà ad y=2mrx cost — x*cosh — m?r?, ossia 44 (mr e cop —0 e e), la quale non può che rappresentar il punto indicato dalle coor- dinate Ti ate y=0, x =— . Yy ) cos Bb SEZIONI CONICHE 579 E se nelle formule stesse si rendesse immaginario il rag- gio » della base del cono, sparirebbe il cono medesimo, e delle tre equazioni (4), (5), (7), che in circostanze diverse rappre- sentano una stessa sezione, la sola (7) si presenterebbe sotto aspetto reale divenendo i x*(sen?a— sen?) (sen cos f — m senft cosa)? sen? & sa sen?a — sen?f a y? o (22). Dunque la somma di tre quantità necessariamente positive do- vrebbe esser nulla, ciò che è impossibile; onde Ja precedente equazione non potrà rappresentar nulla, come già deve avvenire mancando il cono. In fine se nei risultati precedentemente ottenuti si pone «= 90°, essi prenderanno tutti una forma assai più semplice, conserveranno lo stesso significato, ma apparterranno alle se- zioni del cilindro, in cui si trasforma il cono nella fatta ipotesi. Anche quì la prima delle due equazioni (11) non potrà sussi- stere; ond’è che soltanto le sezioni normali all'asse del cilindro avranno gli assi eguali. Nè si potrà in generale tagliar un cilin- dro secondo una sezione di date dimensioni, giacchè tutte le sezioni fatte nel cilindro medesimo sono ellissi, il cui asse mi- nore eguaglia costantemente il diametro del circolo che gli serve di base, mentre l’altro asse cresce al crescere dell'angolo f d’inclinazione del piano segante al piano della base, come si avrà anche occasione di rilevar in appresso. Il luogo geometrico dei centri di tali ellissi è ben evidente debba essere l’asse del cilindro: ciò risulta anche dall’equazione (18) che opportuna- mente modificata riducesi ad x: — mrx=o, da cui x=o0, ed x=mr: la prima rappresenta l’asse del cilindro, che è il luogo geometrico cercato: l’altra poi rappresenta juna retta parallela all’asse stesso condotta pel punto P, del cui significato si renderà ragione in appresso. Fatto «= 90° nella (19), ed innalzando a quadrato si avrà Ly+a?(mr -— aE=r?y, Fig. 1.8 580 oRici da cui deducesi Se pianta 8)t109 Db tend AMO che rappresenterà il luogo geometrico dei fuochi delle nominate ellissi: questa linea è dunque simmetrica intorno all’asse delle ascisse, ed ha per asintoti le rette rappresentate da x= + 7, ossia due lati del cilindro diametralmente opposti. La distanza di uno dei fuochi dal centro in una qualunque delle ellissi eguaglia sempre la porzione dell’asse del cilindro compresa fra il piano della sezione e il piano normale all’asse stesso condotto per uno dei vertici della sezione medesima: tale distanza è rappresentata da c=a sen ft: è dunque costante per le sezioni fatte da piani condotti secondo una stessa inclinazione; e perciò le sezioni parallele sono tutte eguali fra loro. I loro fuochi poi sono sopra due rette parallele ed equidistanti dall'asse del cilin- dro, le quali sono rappresentate da x = + r sen ft. II° CASO +a<+4 In questo caso sarà sen « < sen f, e l'equazione (4) si con- vertirà nella NE 2rx sena (m sena cos — senf cosa) + x°(sen?f — sen?a) —r°(m? — 1) sen?a sen? Trasportando l'origine delle coordinate nel vertice della curva r(m—A)sena indicato dall’ascissa x , ne risulterà sen («— fp) Sai 2ra(senacosf — msenfcosa) x?(sen?f —sen?a) 9) o sen & sen?« \ à da cui facilmente rilevasi che la quantità 2r sen & (m sen — sen « cos a (Mm B cosa a 6) 94 MO i) sen? — sen?« rappresenta la distanza dei due vertici della curva, ossia è un asse che prolungato attraversa la curva medesima: il perchè questo chiamasi asse traverso. SEZIONI CONICHE 581 Se l'origine delle coordinate venisse trasportato nel punto di mezzo dell’asse predetto, la curva verrebbe rappresentata da 1? (m sen } cos x — sen & cos BA Hi x*(sen?f — sen? sen?f — sen?a sen?a qpa=a {I (7°). Il nominato punto di mezzo è dunque il centro della sezione, il quale è sempre esterno al cono. La curva è dunque simmetrica intorno agli assi, cui ora è riferita, ma non può esser incontrata dall'asse delle ordinate, giacchè facendo x=o si ha per y il valor immaginario r (m sen f cosa—sen< cos f?) Van Y= —_—_——_--:. Vsen?f — senza Fatto 2r(msenf cosa— sen a cos f}) ee (8) Vsen?f — senta sarà 2b l’altro asse della curva: questo è dunque immaginario, vale a dire non incontra la curva stessa. Se il centro della sezione dovesse coincidere col punto P, esterno al cono, pel quale passa il piano segante, il coefficiente della x nella (4') dovrebbe esser nullo, e perciò m?sen?a cos? « + m? sen? « sen? : per il che la stessa (4') si riduce ad y? — cosa) ale r* (mt) 0 (0) cos? + m?sen?« e rappresenta la curva nel caso che si considera, la posizione della quale si potrebbe anche determinar graficamente colla stessa facilità, con cui si determinò quella dell’ellisse nel caso analogo. Il parametro della sezione è la quantità 2r (sen « cos f — m sen f} cos 2) A sen & coefficiente della x nella (:3'). Ponendo in quest’istessa equazione jd ? (sen a cos ff — msen f} cos 3 &) Fig. 1. 582 OBICI si ha 2 sen®f — sen?« sen? — sen? o, da cui si traggono per x i due valori ig. 1. puidaie (sen « cos 8 — m sen f cos @) sen +sena | ©) p'_ 7 7(Sen « cos 8 — msenf cosa) dite e: sen £ — sen @ I due punti dell’asse delle ascisse corrispondenti a questi due valori di x sono i fuochi della curva: essi sono dunque equidi- stanti dal centro di essa, e dai vertici, e sono collocati l’uno dalla parte delle ascisse positive, l’altro dalla parte delle ascisse negative; il che val quanto dire che dessi sono più distanti dal centro, che non lo sono i vertici, sono cioè interni al cono. Poichè le distanze (9') x', 1" sono di segno contrario, som- mandole viensi a costituire la differenza dei loro valori assoluti, la quale risulta rappresentata da 2 sen «(nm sen f cos — sen « cos 8) sen? — sen?a si 2 RA) eguaglia cioè l’asse traverso della curva. Rappresentando con d', d" le distanze dei fuochi da uno stesso punto della curva sarà ponendo in queste in luogo di y? il suo valore (5'), ed in luogo di x', x" i precedenti valori (9'), indi riducendo risulta siflosdi (sen e cost — msenf cosa) xsenf Î sen B+sena sen « - (10) IONE (sen e cost — m sen f cosa) x senf 2A sen — sen a sen & Dalla maggiore di queste due distanze sottraendo la minore si ha 2r sena(m sen f cose — sen cos ff) CSC = 2a sen f — sen & 2rx sena(sen « cost — msenfcos a) r?°(senacosf—msenf cosa)? A SEZIONI CONICHE 585 Dunque la curva, di che si tratta, è dotata di centro, è simmetrica intorno a due assi ortogonali, che si segano nel centro medesimo, ha due fuochi, le cui distanze da un punto qualunque della curva differiscono costantemente della stessa quantità: essa è dunque un’iperbola. Confrontando gli assi 2a, 2% precedentemente determi- nati si ha da cui rilevasi che fra gli assi stessi può passare qualsivoglia differenza; ed infatti questa è rappresentata dalla quantità 2r(msenfcose— sen cos f) pedina) sen? f — sen? & la quale in generale sarà nulla, quando sia m sen f cosa — sen « cosf=0 ae INEI ovvero sena—Wsen? f — senta =0 Quando è m>1, la prima di queste due condizioni non può aver luogo: dall’altra poi ricavasi sen? #=2 sen?«, onde cosB=VWcostz — sen*«, da cui rilevasi che ad «=45° corri- sponde B= 90°, e che non dovrà essere «>45°, altrimenti la seconda delle nominate due condizioni non potrebbe avverarsi. Allorchè sen?B= 2 sen?« l'equazione (4') si riduce ad yg=2rx(m Veosta— senta—V2. cosa) +x2— r° (m°— 1), la quale rappresenta l’iperbola equilatera. Dalla precedente proporzione è facile rilevare che sarà a=b .©. . sena=Vsen?B—sen?a, .. sen?B=2sen?a,
2sen?a. Ora descritto col centro in K e col raggio KF=1 il circolo FQ0', sarà RS=sen<, ed è evidente che se l’angolo «= ABC=AKD è maggiore del semiretto, la diagonale del qua- drato fatto sopra RS sarà maggiore del raggio KR, e però Fig. 12 Fig. 42 Fig. 4. 584 OBICI maggiore ancora del seno di qualsivoglia angolo E'K D= misurato nello stesso circolo; sarà perciò il quadrato della dia- gonale medesima eguale a 2 sen? a. Dunque allorchè «> 45°, si ha sempre «> b. Se fosse a«=45°, sarebbe 2 senz«=41, e per tutte le posizioni del piano segante atte a produrre sezioni iperboliche, se ne avrebbero iperbole, di cui l’asse traverso sempre sarebbe maggiore dell’altro asse: la differenza fra questi due assi per altro andrebbe scemando a misura che l’angolo d’inclinazione del piano segante si accosta all’angolo retto; nella qual posizione ha luogo già un’iperbola equilatera: continuando a variar la nominata inclinazione la differenza fra gli assi torna a ricomparire aumentando fino al limite delle sezioni iperboliche. Qualora fosse «<45°, e fosse quest’angolo rappresentato da MKF, è chiaro che sarebbe il seno MN minore del coseno NK, e che perciò presa NO — NM, sarebbe MO —2MN—2 sen?a: posta quindi la KT=MO perpendicolare a K F, e condotta pel punto T la QQ' parallela alla stessa K F, qualunque arco compreso frai due FM, FQ avrà il seno minore di OM, e perciò il raggio condotto all’estremo di quest’arco rappresenterà la traccia di un piano che sega il cono secondo un’ iperbola, di cui l’asse traverso è maggiore dell’immaginario. Il piano avente per traccia la KQ taglierà il cono secondo un’iperbola cquilatera. Al di là di questo limite, andando cioè da Q verso R e Q', l’iperbola che ne risulterebbe avrebbe l’asse immagi- nario maggiore del reale, giacchè sarebbe sempre sen 8>0M; ritornerebbe equilatera, quando la traccia del suo piano pas- sasse pei punti K e Q'; e al di là del punto Q' per un arco eguale a QM l’asse reale tornerebbe a superar l'immaginario. Dalla maggiore x" delle due distanze (9') sottraendo la minore x' risulta 2r senf(msenfBcosa— sen cos f}) sen? f — sen?x vega questa quantità rappresenta la distanza di un fuoco dall’altro: de. ...(190)) SEZIONI CONICHE 385 sarà dunque ce la distanza di un fuoco dal centro. Dai valori delle tre quantità a,b, c facilmente rilevasi, che esse possono formare un triangolo rettangolo, di cui a,b siano i cateti, e e l’ipotenusa; ond’è che dati i semiassi di un’iperbola se ne tro- veranno facilmente i fuochi; e dati i fuochi, ed uno dei semiassi, se ne troverà pur facilmente l’altro. Dal confronto delle due espressioni (6'), (15') risulta l'ec- centricità dell’iperbola rappresentata da co senp = vg e e dI rigo (14), per mezzo della quale riesce facile determinare la distanza dei fuochi fra loro e dal centro in un’iperbola fatta nel cono da un piano qualunque. Sia infatti D P E la traccia del piano segante: sarà D E l’asse traverso della curva; e condotta la D K parallela a PB sarà KE la distanza rispettiva dei fuochi, e la F G paral- lela ad A B darà la posizione del centro G dell’iperbola, e rap- presenterà la distanza di ciascun fuoco dal centro medesimo; onde i fuochi saranno i punti f, f', ne’ quali l’asse traverso DE è incontrato dalla periferia descritta col centro in G, e col rag- gio GF. L’altro asse sarà doppio dell’ordinata DH del predetto circolo innalzata dal vertice D perpendicolarmente al diametro ff. Dopo ciò che pocanzi si è detto si potrà facilmente segar il cono secondo un’iperbola di dati assi 2a, 26. A tal uopo si costruirà il triangolo FG D, di cui il lato F G eguagli la distanza del centro dai fuochi, il lato G D eguagli il semiasse traverso, e l’angolo GFD sia eguale all'angolo alla base del cono. L’angolo GDF indicherà l’inclinazione del piano segante, e conducendo pel punto F la F A perpendicolare ad FD, e pel punto D la DA per modo che sia l’angolo FDA= @, la DA rappresenterà la distanza del vertice D della sezione dal ver- tice A del cono. Il tagliar dunque un cono secondo una data iperbola dipende dalla possibilità di costruir il triangolo FG D, ciò che si potrà fare, finchè l'angolo alla base del cono non Scienze Cosmolog. T. I 49 Fig. 48 Fig. 4.9 586 OBICI sarà maggiore di quello, il cui seno eguaglia la quantità nota GD_ GF. a È Ha tk 3 i = ———. Se il nominato angolo eguaglia quello che Va + 6? (CHES ha per. seno — il triangolo FGD sarà unico e rettangolo a+ b? in D. Ma se a quello stesso angolo corrisponde un seno minore della suddetta quantità, allora cogli stessi dati si possono co- struir due triangoli FGD, FGd, de’ quali il lato DG rappre- senta la traccia di un piano segante atto a produrre nel cono un’ iperbola eguale alla richiesta, e conducendo per l’altro estremo K del diametro D F K la K E' parallela a d G è evidente che anche l’iperbola determinata dal piano avente per traccia KE' avrà gli assi eguali ai dati. E poichè le nominate due se- zioni eguali sono prodotte da piani egualmente inclinati alla base del cono, ed equidistanti dal vertice del cono medesimo, ne viene che qualunque piano tangente al cono generato dalla rotazione della G D intorno ad A F segherà il cono dato secondo un’iperbola avente gli assi eguali ai dati. Da quanto si è esposto risulta che per un punto dato non si potrà condurre un piano, che seghi un cono secondo una data iperbola; e soltanto potrà il piano condotto pel punto stesso segar il cono secondo un’iperbola simile ad una data. A tal uopo si segherà primieramente il cono secondo un’iperbola eguale alla data, indi pel punto dato si condurrà un piano parallelo a quello dell’iperbola medesima: l’iperbola prodotta da questo piano sarà la richiesta. Infatti per l'una di queste due . ° c sen 5 Ci ASen iperbole si ha - = sb, e per l’altra = Seng dunque a sena a' sena e c' a Va+ b? Vaz4+ Db n anse , donde ben tosto ricavasi a:b=a':b'. Segue da ciò che le sezioni iperboliche prodotte da piani paralleli sono simili fra loro. SEZIONI CONICHE 587 E quì pure, nello stesso modo che per le ellissi simili, si troverà che il luogo geometrico dei centri delle iperbole simili sarà una retta che passa pel vertice del cono, e rappresentata dall’ equazione sen (8 + a)” qualora si prendano per assi coordinati gli stessi lati AC, AB. Il segno negativo, ond’è preceduto il secondo membro della precedente equazione, fa vedere che quella retta procede negli angoli di una delle coordinate negative, e perciò è esteriore al cono. Altrettanto avviene pel luogo geometrico dei centri delle sezioni iperboliche simili diametralmente opposte alle prece- denti, il quale è la retta rappresentata da sen (B + ali, è sen (6 — a) a) Le due ultime equazioni possono evidentemente riunirsi nella sola _ sen (BRE) gorgo Miotrogi A — sen(f+a) ed è pur chiaro che le due rette corrispondenti sono egualmente inclinate agli assi coordinati, e perciò anche all’asse del cono; ond’è che ruotando una di esse intorno all'asse predetto gene- rerà una superficie conica, che sarà il luogo geometrico dei centri di tutte le iperbole simili ad una data, secondo le quali può venir segato il cono. Anche i luoghi geometrici dei fuochi di tutte le nominate iperbole simili possono essere rappresentati dalle stesse quattro equazioni riunite nelle due (16) che rappresentano i luoghi geo- metrici dei fuochi delle ellissi simili. Dunque due superficie coniche analoghe a quelle, che sono luoghi geometrici dei fuo- chi delle ellissi simili, saranno pure i luoghi geometrici di quelli delle iperbole simili. Fig. 4. 388 OBICI Presi i lati AB, AC per assi coordinati, cui si riferiscano Fig. 1* j centri delle sezioni iperboliche fatte da piani, che passino pel punto P esterno al cono, nello stesso modo che pei centri delle sezioni ellittiche trovasi che il luogo geometrico dei centri delle nominate iperbole è rappresentato da (17), ovvero sie le quali non differiscono dalle (17) che pel segno della y, il che significa che i centri di queste iperbole trovansi sul ramo del- l’iperbola rappresentata dalle (17'), che giace nell’angolo delle y negative, mentre l’altro ramo, come si vide, conteneva i centri delle sezioni ellittiche. Sarà pur facile vedere che se gli stessi centri delle sezioni iperboliche si riferissero agli stessi assi ortogonali PL, AL s'incontrerebbe la stessa equazione (18); onde mentre il ramo dell’iperbola rappresentata da questa equazione che passa pei punti A, L è il luogo geometrico dei centri delle sezioni ellitti- che, l’altro ramo che passa pel punto P è luogo geometrico dei centri delle sezioni iperboliche. Come pei fuochi delle sezioni ellittiche, così per quelli delle iperboliche si troverà un’equazione analoga alla (19), che ne rappresenti il luogo geometrico. Quando il punto P, per cui passa il piano segante, è sulla superficie del cono, allora m=1, e tutte le formule relative alle sezioni iperboliche sussisteranno riducendosi a maggiore semplicità; ma la prima delle due (11') non potrebbe aver luogo, e la (20') riducendosi ad 9? rappresenterebbe l’asse delle ascisse, il quale non si deve perciò riguardare come un caso particolare dell’iperbola, giacchè non è soddisfatta l’essenzial condizione +8> +«, ed indicherebbe piuttosto l'impossibilità SEZIONI CONICHE 389 di segar un cono secondo un’iperbola avente il centro sulla superficie del cono medesimo; e già si è precedentemente di- mostrato che questo punto è sempre esteriore al cono. Fatto poi b=o nelle (17) si ha x = 9° che rappresenta una retta parallela al lato AB del cono condotta pel punto di mezzo della distanza fra il dato punto P e il vertice A del cono medesimo: questa retta, che, come si è veduto precedente- mente, è il luogo geometrico dei centri delle sezioni ellittiche, le quali si ottengono quando + B#< +, è pur luogo geome- trico dei centri delle sezioni iperboliche, che risultano quando +f> +«. L’altra retta y=o0, che si ha dalle stesse (17'), è il lato A C, che separa i centri delle sezioni ellittiche da quelli delle iperboliche. Alla stessa conclusione si arriva ponendo m=1 nella (18), come già fu avvertito, allorchè trattavasi delle sezioni ellittiche . Se il medesimo punto P fosse interno al cono, sarebbe m<1, sussisterebbero le prenominate formule tutte, meno la m sen « cost — sen f cose=o, per la quale la (4') si è ridotta alla (20); e dalla prima delle due (11') si ricaverebbe sen « m cos a yy csf = —- —. sen? a + mm? cosa senb= » pei quali valori la (4') diviene = E eV mn)... (12) Vmt + tang? a / da cui y=+ ( = _ ") Vi=m, Vm + tang? « “la quale rappresenta due rette egualmente inclinate all'asse delle ascisse, e che tagliansi sull’asse medesimo nel punto determinato da r=rVm?+tang?« ossia nel vertice del cono, e tagliano l’asse delle ordinate ne’ punti indicati da y = + rVi-m. Fig. 12 Fig. 1.2 390 OBICI Dunque queste due rette che sì segano formano un caso partico- lare dell’iperbola. Queste medesime rette corrispondono a quelle due gene- ratrici, le quali, come fin da principio fu avvertito, riescono parallele al piano che sega il cono secondo un’iperbola qua- lunque; e projettate sul piano dell’iperbola stessa coincidono cogli asintoti di essa. Prendasi infatti l'equazione (7') dell’ iper- bola riferita al centro, e la si metta sotto la forma y (sen?B — e € È. (” senz (m sen f cose — sen& cia) sen?x x (sen?f — sen?@) r senz (m sen f cosa—sena cos ff) x (sen?) — sen?a) È evidente che la quantità è tanto minore quanto maggiore è la x (tenute ferme le altre quantità ), onde sarà nulla, quando sarà infinita la x, nel qual caso la precedente equazione diverrà (sen?B — sen?a)x? 0? 2 y sen? a? 2 x 2) da cui y=+ PIL che appartiene agli asintoti dell’iperbola rappresentata dalla predetta equazione (7'). A dimostrare poi come le due rette rappresentate dalla (12') projettate sul piano dell’iperbola medesima coincidano cogli asintoti, si trasporti l'origine delle coordinate nel punto in cui esse si segano; così l'equazione ne diverrà ae n e poichè il piano di tali rette passa pel vertice del cono, avrà RES: tang B° minando con ciò la m dalla precedente equazione la posizione luogo la prima delle due (11'), da cui ottiensi m = rispettiva delle due rette rimane inalterata, ovunque venga trasportato il loro piano, purchè # si mantenga costante, © SEZIONI CONICHE 591 risulta Fig. 1° (tang?8 — tang?<) a° (sen? cos?« — sen? « cos? f) x? tang?« (1— tang?f) sen? < _ (sen?B—sen?a)a? b? ne sen? « a da cui rilevasi dimostrato quanto si doveva. Dal suesposto appa- risce pur manifesto che tutte le iperbole simili sono comprese fra gli stessi asintoti, e che gli asintoti delle iperbole equilatere sono perpendicolari fra loro. Per segar quindi un cono secondo due rette inclinate fra loro per un angolo eguale a 27 bisognerà determinare per m È , È A . cosaVi—m? . il conveniente valore; si porrà perciò tangy, sen? «| 12? cos? « Vcosta — sen?) cos « e si ricaverà 22 = : per questo valore la (12') allo X C0S & sen 7 — 7 Sen } diviene ei n ? — + xtangy F_- 7 cos 7 cos « cos « Sì dal termine costante DIL di quest’ultima equazione, che dal valore di n testè determinato apparisce chiaro dover essere l’angolo 7 sempre minore di 90° — «, o, ciò che è lo stesso, l’angolo formato dalle due rette deve esser minore di quello al vertice del cono. Anche graficamente si può con molta facilità determinare sulla superficie del cono la posizione delle stesse due rette. A tale oggetto si applichi al punto A una retta AQ, che con A B faccia un angolo BAQ=y; dal punto B si abbassi sulla stessa AQ la perpendicolare BQ: e sulla BL perpendicolare in L . all’asse AL del cono, come ipotenusa si costruirà il triangolo rettangolo BOL, di cui sia il cateto BO=BQ, l’altro cateto sarà la tangente LO condotta dal punto L al circolo descritto Fig. 22 Fig. 2 392 OBIGI col centro in B, e col raggio BQ. La OL assegnerà la distanza di quel punto, pel quale e pel vertice A facendo passar un piano perpendicolare al piano BAC la sezione, che ne risulterà, sarà il sistema delle due rette cercate, una delle quali è la AB, e l’altra sarebbe la retta condotta pel vertice A e pel punto, in cui la BO prolungata incontrerebbe la circonferenza di raggio B L, che termina il circolo base del cono. Dato il cono e l’inclinazione del piano che lo sega secondo un’iperbola, riescirà facile determinar l'angolo formato dagli asintoti dell’iperbola medesima. Questi infatti sono rappresentati 9 ; a b? Ra sa dall’equazione = x?: ma poichè a:b= sen a :Vsen?B— senta, a? b°? sen? — sen?a . sarà -= ; d'altronde se con 26 si rappresenti l’an- Fig. 42 a? sen?a eta ba golo asintolico dovrà essere a:b=1 :tang 8, da cui = tang?9. a sen? f — sen?a@ sen?f sen? « sen?a sen? 1 A sen a SA , d’onde cos@ = —— sen?@ —cos?0 sen £ gli angoli «, £ sarà pur noto l’angolo 9, il quale si potrà anche assai facilmente costruire nel modo che segue. Supposto che sia QKF=<, VKF=B, e il raggio KF=1, sarà QX=sena=UO, e VI= sen #; e dai due triangoli simili KU O, KVI si avrà KU:KV=U0:VI, ossia KU:1=sena:senf, da cui Dunque si avrà tang?09 = 1, ossia 1 + tang? . Noti quindi L sen « i o KU= stalpi Dovrà dunque essere KU=cos 0; e perciò inal- eI zata UZ perpendicolare a KV, e condotto il raggio K Z sarà l’angolo ZKV=0, e il doppio di questo sarà quello degli asintoti. Egli è poi evidente che dati due dei tre angoli «, f, 8 si potrà sempre riguardar come noto anche il terzo, e la co- struzione fatta per l'angolo 9 mostra pure come si possa pron- tamente costruire uno dei due angoli «, 8 noto che sia l’altro insiem con 0. SEZIONI CONICHE 395 E quì pure se il raggio della base diminuisce fino ad an- nullarsi, la (4) si riduce ad y°+(mr—xcosf?=0, la quale mr rappresenta il punto di coordinate y=0, x = — 8 cos E se nella stessa (4') si ponesse r V — 1 in luogo di r, essa si presenterebbe sotto aspetto immaginario del pari che la (5): ma la (7') diverrebbe 2_®°(sen°?B—sen?z) r°(msenf cose — sena cos pf}? sen?« sen?f — sen?« 9 la quale rappresenta un’iperbola di assi eguali a quelli del- l’iperbola rappresentata dalla medesima (7'): ma l’asse reale della prima è immaginario per la seconda, e viceversa: queste due iperbole diconsi conjugate, e sono comprese fra gli stessi asintoti; se non che mentre i rami dell’una sono collocati negli angoli opposti al vertice fatti da queste due rette, quelli del- l’altra sono situati negli angoli supplementi dei precedenti. Le stesse iperbole non sempre si potranno ottener en- trambe da uno stesso cono; imperciocchè quando l’angolo « alla base di esso è non minore di 45° si è precedentemente dimo- strato che l’asse traverso è sempre maggiore dell'immaginario. L’iperbola conjugata a quella avente i due nominati assi avrà dunque l’asse traverso minore dell’immaginario, e non sarà quindi possibile ottenerla dal cono medesimo. Ma quando è a<45° potendosi dallo stesso cono ottener iperbole aventi l’asse reale maggiore dell'immaginario, e viceversa, si concepisce ben facilmente potersi sempre, entro i debiti limiti, ottener da uno stesso cono due iperbole conjugate. Delle quali iperbole essendo noti i semiassi a, d, sarà pur nota la distanza e del centro dai fuochi di ambedue, e si potranno quindi costruir due triangoli analoghi ad FGD aventi rispettivamente per lati la predetta distanza e e il semiasse traverso, e l'angolo opposto a questo lato eguagli quello alla base del cono. L'angolo opposto al Scienze Cosmolog. T. I. 50 Fig. 4. Fig. 4.3 394 OBICI lato e ne due triangoli così costruiti evidentemente indicherà l’inclinazione che debbono aver alla base i due piani seganti. Affinchè la costruzione indicata possa sempre effettuarsi, fa duopo che entrambi gli angoli acuti del triangolo rettangolo determinato dai lati a, 0, e siano non minori dell’angolo « alla base del cono. Quando «= 90°, che è il caso, in cui il cono si trasforma in cilindro, l'equazione (4') diviene y=2mrx cost — x? cos —r° (n?— 1), che appartiene all’ellisse: dunque segando un cilindro con un piano non si potrà mai ottenere un’iperbola. La precedente equazione può mettersi sotto la forma 3 i Hi IRE y=r?— (x cost — mr?=r°— cos?f (2 0) c a : 3 stare: : mi 7 ; Se in questa in luogo di x si porrà x + cos Verra A trasportarsi sf l'origine delle coordinate nel punto, in cui il piano segante incontra l’asse del cilindro, e la prenominata ellisse verrà rap- presentata da x Y+ x? costB=r?, ovvero EROIRY Sag donde si raccoglie che l'origine delle coordinate, ossia il centro della curva, trovasi sempre sull'asse del cilindro e che gli assi 9 qa ne sono, il maggiore 0 , eil minore 2r; sono cioè l’ipote- nusa e un cateto di un triangolo rettangolo inclinati fra loro di un angolo =, e la lunghezza del cateto medesimo eguaglia sempre il diametro del circolo che serve di base al cilindro, come si asserì parlando delle sezioni ellittiche . Ora si osservi che, quando il cono si trasforma in cilindro, la (18), come si vide altrove, si converte in x*— mrx=0, che si decompone nelle due =0, ed x=mr: la prima delle quali rappresenta l’asse del cilindro luogo geometrico dei centri delle SEZIONI CONICHE 595 sezioni ellittiche fatte in esso, e corrisponde a quel ramo del- l’iperbola (18) che passa pel centro della base circolare e pel vertice del cono: la seconda rappresenta una retta parallela all'asse predetto, e corrisponde all’altro ramo dell’iperbola Stessa che passa pel punto P, e che dovrebbe esser luogo geo- metrico dei centri delle sezioni iperboliche fatte nel cilindro: ma, come si è veduto, queste non possono aver luogo, il perchè quelle due rette parallele non possono riguardarsi qual caso particolare di quell’iperbola; ed infatti per esse non si verifica la condizione necessaria +«< + relativa all’iperbola. La retta medesima x= 77 non può dunque esser altra cosa che l'intersezione del piano segante, quand’esso è divenuto parallelo all’asse del cilindro, col piano che passa per l’asse medesimo e pel punto P. III.° Gaso +f=+a. L’essere +B=+<« significa dover essere la traccia del piano segante, che passa pel punto P, parallela al lato A C, 0 al lato A B del cono, il che dunque val quanto dire che sia f=, ovvero fB=180°— «, come già si avvertì sin da principio: in entrambi i casi il piano medesimo non potrà segare che l’una o l’altra falda del cono. La sezione, che ne verrà, sarà rappre- sentata dall’equazione y=+2rx(mF1)cosa—r?(m-1). . . (4) la quale ottiensi ponendo nella (4) £f=@, ovvero f—180° — a. Si prenderanno i segni superiori nel coefticiente della x, quando la traccia del piano segante sia parallela al lato A C, e gl’ infe- riori quando sia parallela ad A B. Il primo doppio segno della precedente equazione (4") sta ad indicare soltanto che la curva da essa rappresentata pel segno inferiore trovasi sulla falda BAC del cono, e pel superiore sulla falda opposta: tal doppio segno si può dunque omettere, purchè si avverta alla posizione della curva, che si volesse particolarmente considerare. Fig. 4. Fig. 5.2 096 OBICI Ognuna di queste due distinte curve poi ha un solo ver- Fig. 5 tice, come viene indicato dalle equazioni (3), le quali, quando B=, diventano r(m+4) IS se ae | dotSiaubeg= 9 RES E r(m_—-1) i e quando 8=180°— 2, x = — > AL ed''x =c05 ciò che significa che desse sono prive di centro. Trasportando l’origine delle coordinate nell’uno o nel- l’altro dei due determinati vertici, risultano le due curve rap- presentate da Fx (mF1) 084. pi I I rispettivi loro parametri sono rappresentati dal coefficiente 2r(mF1)cosz: essi dunque equivalgono al doppio delle rette PQ,PQ', imperciocchè dai triangoli rettangoli CPQ, BPO' deducesi PQ=?7 (1m—-1)cos «, e PO'—= 7 (m+1) cos. Ponendo i valori di questi semiparametri in luogo di y nella (3") si ha 23 (mF1) cosa a BET OM SEE, (9") ossia pel segno superiore x! PQ, e per l’inferiore x 1 P Q!. Fatto dunque E'F=!PQ, e D'E'—!PQ', i punti F, F' sa- ranno rispettivamente i fuochi delle due curve, ciascuna delle quali ha dunque un fuoco solo. La distanza è di un punto qualunque (x, y) di dette curve dal fuoco corrispondente è espressa da a-ys+e- (mF1) cosa?—=2+2(m F1)cosa a(105) Prendendo perciò E'G=E'F, e D'G'=D'F', e pei punti G, e G' innalzando una perpendicolare alle corrispondenti tracce PE', PD', i punti di ogni sezione saranno equidistanti dalla perpendicolare medesima, e dal fuoco relativo. Questa perpen- dicolare chiamasi la direttrice. E le curve, di che si è trattato, sono parabole, giacchè sono prive di centro, sono simmetriche SEZIONI CONICHE 397 intorno ad un asse, ed hanno ogni loro punto equidistante dal fuoco e dalla direttrice corrispondente. Il luogo geometrico dei fuochi delle sezioni paraboliche prodotte nel cono da piani perpendicolari al piano B A C verrà determinato dalle formule (16) relative alle sezioni ellittiche, facendo in esse £=<«, ovvero B=180°— «: per queste posi- zioni le formule medesime diventano XL coste Y ERE IO Dunque i fuochi delle suddette sezioni trovansi su due rette AF, AF', che passano pel vertice A del cono, e sono egual- mente inclinate ai lati AB, AC del cono medesimo; cosicchè ruotando esse intorno all'asse A L genereranno una superficie conica, che sarà il luogo geometrico dei fuochi di quante sezioni paraboliche si possano praticare nel cono dato. Sarà pur facile vedere che, presa D'Q"= P Q', e condotte le rette AQ", A G', le porzioni D'Q" di assi delle parabole prodotte da piani paralleli al lato A B del cono comprese fra i lati dell’angolo D' A Q" sono i semiparametri delle parabole medesime; e i punti G', in cui gli stessi assi incontreranno il lato A G', sono quelli pei quali passano le corrispondenti direttrici. Anche queste rette AQ", AG' ruotando intorno all’asse A L genereranno due coni, le cui su- perficie saranno i luoghi geometrici degli estremi dei semipa- rametri, e dei punti, pei quali passano le direttrici delle para- bole, determinati come si è fatto precedentemente. Ora con tutta facilità si potrà segar un cono secondo una data parabola. Si costruisca il triangolo D'B'Q" rettangolo in Q", di cui il cateto D'O" eguagli il semiparametro della parabola data, e l'angolo in D' eguagli quello alla base del cono: l’ipote- nusa B' D' sarà il diametro della sezione circolare, che passa pel vertice della parabola cercata. Sulla D'L'=4B'D' si costruisca poscia il triangolo A'D'L' rettangolo in L', ed avente l'angolo D' comune coll’altro triangolo: l’ipotenusa A'D'=A D' rappresen- Fig. 5. Fig. 5. 598 OBICI terà la distanza del vertice del cono da quello della parabola. La costruzione fatta rende manifesta l'impossibilità di condurre per un punto dato un piano che seghi un cono secondo una data parabola. Se il punto P fosse sulla superficie del cono, sarebbe m=1, e l’equazione (5") darebbe luogo alle due y?=0, ed y=4rx cose; la prima delle quali rappresenta l’asse delle ascisse: quella retta è dunque un caso particolare della para- bola; la seconda poi rappresenta una parabola di parametro 4r cosa=2D'Q", posto che sia B'D'—2r, e dà in pari tempo a vedere che tutte le parabole, secondo le quali può segarsi un cono, sono simili, giacchè i loro parametri son sempre pro- porzionali ai diametri delle sezioni circolari fatte nel cono da piani, che passino pei vertici delle parabole medesime. Qualora il punto P fosse interno al cono BA C, sarebbe m<4,e le due parabole rappresentate dalla (5) si trovereb- bero entrambe sulla stessa falda B A C del cono, come rilevasi dal segno negativo che prende il primo termine del secondo membro dell’equazione (4"), la quale in questo caso diventa y=—2rx(1Fm)cosa+r?(1-m?). Finalmente quando il cono si trasforma in cilindro, cioè quando «<= 90° la prenominata equazione (4) riducesi ad yp=-r?(mM-1), la quale è assurda, finchè m>14, ed indica che in tal caso non ha luogo sezione. Se m=4 si ha y?=0, che rappresenta l’asse delle ascisse. Ma se m<1 risulta y=r? (1—m?), la quale rap- presenta le due rette parallele, secondo le quali il piano taglia il cilindro. Dunque due rette parallele costituiscono un altro caso particolare della parabola. E per determinare la posizione di quel piano, che sega il cilindro secondo due rette parallele distanti luna dall’altra per la quantità 2a, egli è chiaro doversi porre 7? (1— m?) = a?: di RE Li VESTA “Aa i wet E (a % è è > " Ù i tal e È È Li ù de De * il SEZIONI CONICHE 599 quì si avrà mr=Vre_o. Dunque la distanza del piano se- gante dall’ asse del cilindro eguagliar deve un cateto d’un trian- golo rettangolo avente per ipotenusa il raggio della base del cilindro, e per l’altro cateto la metà della distanza che deve passare fra le due rette cercate. Da tutto quanto si è detto intorno alle sezioni coniche risulta, che le curve, secondo le quali un cono può essere segato da un piano, sono di tre specie differenti, cioè ellissi, iperbole, e parabole. Nelle sezioni ellittiche incontransi i casi particolari, in cui l’ellisse si riduce ad un punto, o a niente. Nelle sezioni iperboliche sono comprese, come caso particolare, due rette concorrenti. E nelle sezioni paraboliche può avvenire che si abbia una retta, due rette parallele, ed anche nulla. Così dunque le sezioni coniche possono dar luogo ad otto casi diversi, i quali sono quelli stessi (niuno eccettuato), che s'incontrano nella discussione dell'equazione generale rappresentante le curve di 2° ordine. Fig. 5. .. PREZZO DI QUESTO TOMO Togli 152 a cent. 20 il foglio di 8 pag. n£ 26. 40. Tavole 3 in nero a cent. 10. +. . . + RESO Dette 4 colorite a cent. 15 . . . . . » — 60 U£ 27. 50 Pari a Toscane £. 52. 10, a