e: Lr Lieto UNI DECIO” ANTOLOGIA ‘ LUGLIO, AGOSTO, SETTEMBRE 1023. TOMO UNDECIMO FIRENZE AL GABINETTO SCIENTIFICO E LETTERARIO DI G. P. VIEUSSEUX TIPOGRAFIA DI LUIGI PEZZATI MDCCCXXIII. } & “* si $ a MA Ea CLI Ao X ABS, LUSTRO 4 (das n FARNE cl ANTOLOGIA N° XXXI. Zuglio, 1823. Lettera al direttore dell’ Antologia, sull’ Isola di Scio e sulla vita letteraria del sig. Coray. x Mi credo in dovere di contribuire quanto posso al vostro scopo veramente filosofico , esponendovi tutto quel- lo che è a mia notizia relativamente all’ Isola di Scio, e alle due persone, le quali, mediante l’ articolo da voi pubblicato nel fascicolo XXVIII dell’ Antologia, han ri- chiamato l’attenzione dei vostri lettori sopra frà isola sventurata. Conosco al pari d'ogni altro l'abuso che si fa. del- l’aggiunto filosofico, e so benissimo, che ognuno lo prende in un significato particolare; ma come greco pos- © so avere qualche diritto a conoscere il valore di questo vocabolo, nè posso attribuirgli altro significato che quello datogli dal suo inventore Pitogora.;Il filosofo altro non che l’amico della sapienza e della saviezza: quindi che per scopo filosofico intendo l’amore di ciò che dotto ed utile agli uomini, e se non m’inganno, tale la mira del vostro giornale. Partendo da questo principio incomincierò con maggior coraggio la mia narrazione, sperando , che accorderete alla mia maniera di esprimer- mi tutta quella indulgenza che si deve ad un forestiere, il quale scrive in una lingua che non gli è propria . L'Isola di Scio è nota per le sue ultime sciagure più T. X. Zuglio I o a © o 2 che per la sua anteriore prosperità. Sembrerà strano, che un letterato francese l’ abbia presa particolarmente di mira; ma quelli che leggeranno questa mia lettera cono- sceranno, che il filantropo francese in far ciò ha avute le sue ragioni. Tutti conoscono l’ estensione, il clima, la costruzione naturale di quest'isola. È annoverata fra quelle di second’ ordine dell’Arcipelago, e non è delle più fertili. Omero la chiama Pepaloessa , IluraAerca, cioè dura , sassosa. Chi conosce l’amministrazione turca poteva con ragione ri- guardarla come un’altra isola di Rodi o di Mitilene, ma i suoi abitanti erano i più industriosi fra i greci del- l’ oriente, ed avevano estese relazioni commerciali. La pluralità dei, negozianti di Costantinopoli e di Smirne era composta di sciotti, e il commercio aveva sommini- strati loro i mezzi di avere gran correlazioni col governo di Costantinopoli. L’ indole loro pacifica, e il non avere essi presa parte veruna in tutte le insurrezioni dell’ Arci- pelago , aveva loro conciliata la fiducia del governo turco. Avevano gli sciotti nel loro paese una fortezza, ed una popolazione turca di circa 5000 individui; vi erano i consoli europei; un distretto dell’ Isola, quale produce il mastice, era sotto il dominio di un Agà turco; vi si contavano circa 300 famiglie di greci cattolici; ma questi diversi elementi non impedirono alla saviezza degli sciotti, soccorsa dal loro denaro, di stabilire nell’ Isola un governo municipale, sotto il cui benefico influsso il numero degli abitanti giunse a 120 mila, nè si trovava in Turchia una popolazione più di quella agiata e felice. Quando per la prima volta sbarcai a Scio, mi parve di rivedere i contorni di Firenze o di Genova , e difficilmente sapeva. persuadermi di essere nell’ impero ottomanno. Ma il governo municipale di Scio non aveva veruna forza materiale , e tutto era forza d'opinione. L’esperien- ra avea dimostrato, che gli sciotti potevano cambiare di n 3 ‘ stato, ma non per questo diventar più felici. In fatti i capi di una popolazione di 100 mila anime (esclusi gli abitanti de’ villaggi del mastice sotto il governo di un agà, e i maomettani abitanti nell’ isola ), i quali disponevano ogni anno di grandi somme, potevano essere invidiati ; e ove manca ogni altro alimento all’ambizione umana, il divenire Demogeronta (1) di Scio non era da disprez- zarsi. Ma l’uffizio di demogeronta in vece di portare un qualche lucro, obbligava a {spendere del proprio per la cosa pubblica; e perciò all’epoca di eleggere nuovi de- mogeronti, gli ottimati di Scio tutto adoperavano per non essere eletti. Ma quando l’ elezione era fatta , il nuo- vo demogeronta poneva tutto il suo studio e la sua glo- ria nel regger bene e rettamente governare i suoi concit- tadini, e nel lasciare qualche monumento della sua ami- ministrazione. Quindi sorsero tante fondazioni a prò dei poveri, dei malati , degli incurabili, degli appestati, degli alienati di mente, degli orfani; quindi i vari istituti di educazione in generale : cosicchè non aveva l'isola di Scio nulla da invidiare per questi titoli a tutte le città dell’ Europa. E ciò che fa meraviglia sì è, che in un seco- lo , sotto la tirannide ottomanna , senza prendere l’esem- pio altrui, tanto sia stato fatto; la natura delle cose, i bisogni del paese, l’amore verso i suoi simili essendo state le sole cause che mossero gli sciotti a stabilire tanti provvedimenti di pubblica utilità. Il governo turco lasciò operare , o almeno non frappose grandi ostacoli. L’indu- stria umana d'altro non abbisogna per migliorare di condizione , e prosperare. Gli sciotti amministrati dai loro eguali, e lusigando col denaro la naturale inattività dei magistrati turchi , poterono giungere a tanta felicità. Cosa mai sarebbe avvenuto se si fossero trovati sotto un go- (1) Così si chiamavano i cinque primi capi dell’isola, cioè, sapi del popolo da Afjos ( popolo) e T Éppwv; vecchio, anziano. 4 verno più mite , più culto; se avesser potuto ripulire il loro porto , il che per altra parte risparmiava loro qualche incomoda visita dei capitan Pascià? Chi sa cosa fatto avrebbero , se si fossero potuti liberare affatto dalla peste, dall’ ingordigia dei governatori, pagati espressamente perchè non sì mischiassero negli affari delli sciotti (2) ; se non avessero avuto l’ aggravio d’impoverire la loro popolazione con arruolare annualmente dei marinari pel servizio della flotta turca; se non avessero sofferto troppo frequenti molestie per parte d’ alcuni consoli europei? A dispetto di ciò la pubblica educazione potè in breve mi- gliorarsi d’ assai, e molto acquistare successivamente. Già la pubblica scuola di Scio fioriva più di qualunque altro istituto d’istruzione della Grecia. Vi erano professori di lingua greca, latina , italiana , francese , turca ; di mate- inatica, di fisica, di chimica. Il professore di quest'ultima scienza era stato a Parigi alunno del celebre Thénard , e da qualche anno faceva le sue lezioni, servendosi del greco moderno. La pubblica biblioteca possedeva già cir- ca 12 mila volumi , e prometteva d’ ingrandirsi notabil- mente nel corso di pochi anni. Molti giovani. erano mantenuti a spese del pubblico presso le diverse università europee, onde istruirsi in ogni maniera di sapere. Era per introdursi l’ insegnamento reciproco per rendere po- polare l’istruzione, ed erasi concepito il progetto d’inviare (2) Il capitan Pascia è il grande ammiraglio della flotta turca, ed ha l’ amministrazione generale di tutte le isole dell’ Arcipelago, e d’ alcuni porti dei continenti turchi. Secondo gli statuti ottoman- ni, ogni pascia è vicario del sultano , ed ha per conseguenza di- ritto assolato sulla vita, l’ onore ed i beni dei suoi sottoposti. Si sa come i pascià e gli altri impiegati turchi adopravano il. loro potere discrezionale : e in conseguenza non ci deve far meraviglia che gli abitanti delle isole non! si trovassero molto lusingati dalle loro visite. Oltre la supremazia del capitan Pascià ,i sciotti uve- vano un governator luogotenente sotto il titolo di Musselim ; il , governatore militare della fortezza, e un giudice maoinettano, 5 dei giovani all’istituto del sig. Fellemberg. Eravi già una stamperia , la quale cominciò dal dare in luce dei libri elementari; nè si faceva veruna intrapresa letteraria, sen- za che gli sciotti non fossero alla testa delle sottoscrizioni. La saviezza di quel popolo, lo zelo dei professori nel- l’adempire i loro doveri, il desiderio dell’ istruzione nato in tutte le classi, la sollecitudine del governo muni- cipale nel rendere stabili le pubbliche istituzioni , tutto annunziava che Scio sarebbe costantemente divenuta la capitale delle lettere greche ; e che la comunità cattoli- ca partecipando alla generale rigenerazione ; avrebbe contribuito a smorzare qualche animosità che potesse esi stere fra i greci cattolici e i loro connazionali , per la di- versità delle opinioni religiose. Ma tutte le speranze di ulteriore prosperità sono oggi rese vane dall'incendio morale suscitatosi nell'impero ottomanno ; incendio che ha distrutto quanto era stato operato per giungere a quel grado di prosperità che l'isola aveva conseguito, e cui forse non le sarà dato ‘di riacquistare. Ciò basti a provare quanto potevano considerarsi felici i greci di Scio . Il prodigioso numero degli abitanti ‘di quell’ isola , la loro coltura } il loro estesissimo com- mercio, le pubbliche istituzioni , la mancanza di mendi- canti , ‘la sicurezza ‘derivante dal non aver preso parte veruna nell'ultima insurrezione, mostrano abbastanza a qual grado di prosperità. fossero saliti , e quindi quanto sieno da compiangersi nelle loro attuali non meritate sventure; il quadro spaventevole delle quali deve tur- bare la coscienza di coloro che s’intromessero per impe- dire alli sciotti il premunirsi contro il loro imminente pericolo , dopo la male augurata discesa dei sammiotti. L'isola di Samos è più vicina all’Asia , ed ha appena la terza parte degli abitanti di Scio. Quella di Candia ha una popolazione più numerosa ; eppure dovea combattere con un numero di maomettani ‘presso a poco eguale , bene 6 armati e bene fortificati. Nonostante, queste due isole. sì difendono tuttavia, e non sembrano destinate a soffrire le sciagure degli sciotti. Questi sventurati fidandosi nella propria innocenza e nella efficacia degl’ intercessori , re- starono inattivi nell’invasione dell’isola loro ; ed in mer- cede di questa buona condotta, una metà è strascinata in schiavitù , una gran parte è passata a fil di spada: e l’iso- la di Scio, sì ricca, florida e popolosa , non contiene al più al giorno d’oggi che circa 8 mila greci poveri, ra-. minghi, e serbati forse per una ulteriore carnificina. Ma volgiamo lo sguardo da così lacrimevoli oggetti, e portiamolo atrove. Fra le soscrizioni aperte dagli sciotti , si deve com- mendare molto quella relativa all’ edizione degli antichi classici greci. Tutti coloro che non sono stranieri alle lettere greche devono aver sentito il nome del sig. Coray , ma tutti non sanno di quanto giovamento è stato questo valent’uomo alla sua nazione. Questo veterano della letteratura greca, nato in Smirne da una illustre»e colta famiglia originaria di Scio, diede il primo saggio della sua dottrina , traducendo in greco volgare un catechismo religioso, prima di passare in Francia a prendere la sua laurea di medicina all’ università di Montpellier: indi sì occupò di varie traduzioni in francese di alcune opere inglesi e tedesche , lingue che in unione della olandese, spagnola e italiana sono da lui bene possedute. I suoi profondi studi nel greco antico lo fecero assai apprezzare da Villoison, da Levesque; da Larochette, e da molti altri bravi ellenisti. Nel 1798 stampò a Parigi il testo dei ca- ratteri di Teofrasto con la traduzione francese e con delle annotazioni, e nel 1800 fece una simile bilingua edizione dell’aureo trattato d’Ipocrate sopra l’aria, l’ acqua e i luoghi con un discorso preliminare, il quale dimostra che Coray è non solamente grecista e medico, ma pro- fondo filosofo; e trattando da maestro 1 influenza dei | climi, non lascia più nulla a dire ai seguaci di Montesquieu, di Hume e di Elvezio. Questo libro meritò al sig. Coray il premio decennale del Giurì francese sotto il governo imperiale , e richiamò l’attenzione di quel governo sopra di lui, che lo incaricò di una gran parte della traduzio- ne francese di Strabone. Siccome il sig. Coray è tut- tora vivente, ed ha ripugnanza a sentirsi lodare i, non posso divulgare un atto di disinteresse verso il governo francese , che lo costituisce doppiamente degno dell’ am- mirazione che giustamente riscuote ; e perciò passo inve- ce all’ istoria dei suoi ultimi lavori, i quali hanno avuto una grande influenza sopra i greci, e forse presentano l’unico spettacolo d’ un particolare, il quale ha fatto una totale rivoluzione nel morale d’ una intiera nazione. Nel 1803 il sig. Coray stampò in Parigi il famoso trattato di Beccaria con un bellissimo discorso prelimina- re,e con annotazioni e confronti di simili idee prese da autori greci. Sarebbe cosa curiosa e grata agl’italiani il vedere le opinioni del sig. Coray sopra Beccaria nelle sue annotazioni greche. Nel 1804 stampò parimente a Parigi il romanzo di Eliodoro con un discorso preliminare ed un volume di annotazioni , e dopo , nel 1805, intraprese la famosa edizione dei classici greci a spese dei fratelli Zosima, i quali ci fanno rimembrare l’antica famiglia dei Medici, essendo al par di loro dedicati al commercio, ed al par di loro amanti delle lettere. Le orazioni d’ Iso- crate , le vite di Plutarco, la geografia di Strabone, e la politica e morale di Aristotile sono i più cospicui lavori ‘condotti a termine dal sig. Coray. Oltre questi ha pub- blicato diversi altri volumi sotto il titolo di Appendice alla biblioteca (Il4jepva ) e contengono il Senocrate , il Polieno, le favole di Esopo, il discorso di Marco Aure- lio; una nuova edizione col testo greco solamente del trattato d' Ippocrate delle acque , arie e luoghi ; quattro Canti dell’ Iliade di Omero; il discorso strategetico di One- sandro, e molti altri, fra i quali si trovano più scritti in greco moderno. Tutte queste edizioni sono arricchite di discorsi preliminari, e piene di annotazioni atte ad ecci- tare l’amore del sapere, ed a sviluppare il buon gusto dei greci. La grammatica, la logica, la rettorica, la manie- ra d’insegnare e di studiare, non che di comporre i dizionari, la pubblica educazione e la maniera di colti- vare la lingua greca moderna, tutto quello in somma che è necessario ad eccitare i greci all’ amore delle let- tere, ed agevolarlo con farlo tornare in utile della nazione, si trattò da Coray con somma maestria, prudenza ed eloquenza. I suoi discorsi preliminari possono riempire due grossi volumi in ottavo, e saranno per sempre un monumento unico nell’ istoria dello spirito umano. Il sig. Coray vivendo nel seno della Francia ha profittato dei lumi moderni , ed in un’ età di 75 anni ‘continua i suoi lavori con tutto il calore e la perseveranza di un giovane. Nei discorsi preliminari di Aristotile ha dovuto toccare la politica , e se il sig. Thurot gli traduce in francese, l'Eu- ropa dotta vedrà quali consigli dà il sig. Coray alla sua nazione nelle circostanze attuali. | Già venti anni sono nella sua traduzione di Beccaria egli diceva ai greci, che l’ingiustizie non si cancellano con altre ingiustizie, ed in tutti i suoi lavori anteriori all’ insurrezione dei greci gliesortava in ogni' pagina alla moderazione , e poneva tutte le sue speranze d’un mi- glioramento avvenire nei progressi delle vere cognizio- ni . Felici i greci se avessero potuto seguitare i consigli del sig. Coray , felici ancora se potessero eseguire tutto quello ‘che loro consiglia nei suoi ultimi {vor I Ma le cose umane sono sottoposte a tante circostarize ! e noi non dobbiamo cessare di ringraziare gli uomini virtuosi che si sono fatti apostoli della moderazione e della giu- stizia. Da tutto quello che sinora ho detto, si raccoglie ’ 9 quanta influenza ha avuto questo dotto sopra i greci. Alla sua voce i giovani correvano alle università di Europa, e quelli ché potevano andare a Parigi rendevano il loro giusto omaggio a questo ‘patriarca della modérna lettera- tura greca , facendo a para per conformarsi ai suoi pa- terni consigli. I ‘Non è necessario aggiungere che anche Coray ha avuto i suoi detrattori, i quali hanno fatto ogni sforzo per diminuire il suo merito; ma senza avvalere han- maggiormente ‘accresciuto Ta sua riputazione e la sua influenza. ‘Tutti i francesi che hanno potuto conoscere la rivolu- zione morale che operavasi fra i greci, ed apprezzare i meriti del sig.Coray,lo stimano come si deve stimare un uomo si- mile, e fra questi si deve annoverare il dotto e vero filosofo sig. Thurot professore di filosofia nella scuola di Plessy (Fa- coltà di lettere, e scienze dell’ università di Parigi), e di lingua greca nel famoso collegio di Francia. Questo va- ln uomo lia stampato ‘poco fino adesso, perchè la sua ‘modestia supera le sue cognizioni. Ha tradotto dall’inglese una ‘grammatica filosofica intitolata Hermes, e dal ‘greco l’ apologia di Socrate, ed ora ‘sta preparanido un ‘corso di filosofia yil quale, spero , gli farà molto onore , e gioverà ‘moltissimo ‘alla scienza; Sebbene sia amico intimo dei celebri signori Catanis e Destutt-Tracy, il nostro filosofo sì discosta moltissimo dalla loro scuola, è ‘sì avvicida a quella di Edimburgo. I suoi lavori antecedenti ‘mi’ fanno sperare, che la traduzione della morale e della politica di Aristotile ‘riuscirà un libro utilissimo per' intendere appieno l'originale ‘oscuro ‘in’ molte ‘parti ;'imenitre che dall’altra' parte farà ‘esercitare un ‘ittò virtuoso , al ‘quale mi lùsingo; che anche gl’ italiani vorranno di buon grado ‘concorrere. Ho parlato! qui ‘sopra dei fratelli Zosima. Questi benemeriti greci sono‘'stati costretti dopo l’incendio‘di Mosca a cessare dal contribuire all’edizione' dei classici 10 greci: molti altri hanno allora offerto di subentrare in questa intrapresa: il signor Coray ha preferito i suoi com- patriotti di Scio, e questi hanno corrisposto alla sua aspettativa. Chi l’ avrebbe creduto ! I pochi avanzi degli sciotti sparsi in tutta l'Europa non hanno voluto lasciare ad altri l’ onore dell’ edizione Coraica , ed anche l’ultimo volume di Aristotile è comparso a spese degli sciotti. La mia lettera ha oltrepassato i limiti di un’ epistola, e finirò con dire: guai alle nazioni, guai agl’ individui, che non hanno altra pietà , nè altre lacrime fuorchè quelle che gli destano i fantastici mali della tragedia, e che s’infasti- disconosentendo parlare delle sciagure reali dei loro simili. Io lo ringrazio sinceramente, sig. Direttore , in mio nome ed in nome dei miei compatriotti, di avere inserito nell’Antologia il prospetto del sig. Thurot. Pura Aydns. Carmina Homerica ILias ET OpysseA a rhapsodorum interpolationibus repurgata , et in pristinam for- mam, quatenus recuperanda esset tam e veterum monumentorum fide et auctoritate , quam ex anti- qui sermonis indole et ratione , redacta ; cum notis ac probegomenis, in quibus de eorum origine, au- ctore, et aetate itemque de priscae linguae progres- su, et praecoci maturitate , diligenter inquiritur opera et studio Ricuarp: Payne KnicunT. In aedibus Valpianis, Londini ec. 1820. in 4°. Saranno alcuni, ai quali recherà mara viglia il veder qui annunziata un’ opera venuta in luce è già il terz’ an- no. Anzi taluno si dorrà forse, che d’ una edizion nuova «d’ Omero si dia ragguaglio, saliiando che ciò voglia farsi d’ ogni ristampa d’ autor, greco e latino , il che sarebbe impresa da non venirne a termine così di leggieri, ed a molti increscevole. Ma l’ Omero del dotto grecista signor 11 Riccardo Payne Knight è singolare tanto, e per tal modo condotta , che reputo utile il tenerne discorso, quantun- que si faccia alquanto tardi. Niuno v'ha fra gli scrittori greci, che sia stato tanto studiato quanto Omero; e niuno per avventura è stato tanto guasto e corrotto da’ critici e da’ copisti. Non parlerò de’ secondi , de’ quali direbbesi quasi essere proprio officio l’empiere d’ errori le cose che copiano prezzolati. Dirò solo de’ primi. Mentre alcuni veneravano Omero quasi come una Divinità, altri dicevano che nè pur fu mai Omero , ed i poemi, che gli si attribuiscono , sono un ac- cozzamento di poemetti diversi di diversi poeti che per le vie si cantavano delle città e de’ borghi. Questa strana opinione spacciaron di nuovo con molto ardimento i fran- cesi Hedlin e Perault nel passato secolo, e poi si assotti- gliarono a confermarla con molta dottrina l’ Heyne il Wolf e il Thiersch (1). Anzi ha creduto il Wolf, che a’ tempi d’ Omero nè pure si sapesse scrivere, e i poemi, che abbiamo ora col suo nome, fossero tenuti a memoria, e così tramandati da una all’altra generazione. Io non credo ciò,; ma par certo, che all’ età di Pisistrato, o in quel torno si pensasse a raccogliere le membra sparse dell’ Iliade e dell’ Odissea ,,e a dar loro forma convene- vole. Parve però. poi, che quel primo tentativo abbiso- gnasse di molta emendazione. Quindi Aristotele, Prota- gora, Prodico , Ippia Eleeo, Aristofane Bizantino, Ippia Tasio, Antimaco Colofonio , un Euripide , Fileta , Riano, Zenodoto, Aristarco, Cratete, ed altri molti o dettero nuove edizioni de’ poemi Omerici ,;0, li comentarono cor- (1) Heyne Excurs. 2. in Iliad. 24. VVolf Proleg. in Hom. Thiersch Uber die Gedichte des Hesiodus, 1813, Contro questo insigne paradosso si è stampata , Refutation d’un paradoxe lit- teraire de M: Fred. Aug. Wolf prof. en langue grecque sur les poesies d’ Homère , à Strasburg, Konig, 1798 in 8. Lo confuta anche il signor Knight qui ne’ prolegomeni a.c. 7 e segg. ìà reggendolì ; ciascuno secondo i propri divisamenti. Furo- no altresi alcune edizioni, che dalle città ebbero nome, dove furono fatte , cioè la Massiliotica , la Ghia , 1’ Argo- lica, la Sinopica, la Cipria , la Cretica. Da tanti emenda- tori , che l'indole della primitiva lingua greca non cer- carono mai, ma il dialetto seguirono della propria nazio- ne, e non rade volte il proprio capriccio anzi che la retta ragione, ne venne guastamento grande. Utile fatica per- tanto imprende chi si adopera di restituire a ‘que’ poemi la prima lezione, quanto la lontananza de’ tempi lo può concedere. Questo è il difficile scopo, cui ha indiritte le sue cure il nostro editore, del quale , o la dottrina si ri- guardi 0 la diligenza, può ben dirsi + 000.1 + si Pergama ‘dextra Defendi possent , etiam hac defensa fuissent. | A due principali punti si debbono considerare rivolte le sue industrie : a stabilire la vera lezione del testo, e sceverarlo da’ versi spurj. Ad ottenere il primo intento facea di mestieri stabilire la grammatica Omerica, cioè il digamma, le declinazioni de’ nomi , le conjugazioni de’ verbi , le contrazioni, la sintassi; la prosodia , ed'altret- tali cose a grammatica pertironts. Queste cose egli discor- re ne » dottissithi prolegomeni } dopo d’avere accennata brevemente la' storia de’ suoi poemi; cioè come dai rapsodi se ne cafitassero dei brani , come'dal loro canto si racco- gliessero ‘più tardi, quali ‘cure ‘v'impiegassero e i primi raccoglitori ed altri, quali poemi ‘oltre 1’ Iliade e l'Odissea gli fossero tribuiti ; ed altre simili cose. Fa però maravi- glia che degl’ inni non faccia motto, i quali suoi non sono, ma portano il suo nome, e come suoi citati furono dagli antichi. Confuta quindi , come ho detto, il paradosso, Lio l’ Iliade o l’ Odissea non sieno che l’accozzamento di, poe- ‘metti diversi, mostra con, valide ragioni esser probabile che l’ autore dell’ Iliade sia più antico di quello dell’ Odis- sea, è Suppone che il primo vivesse duecento anni, il 13 secondo cento prima d’ Esiodo , cui colla cronica di Parò fa vivere nel decimo secolo innanzi all’ Era volgare. D’ ogni dialetto pare che usasse Omero, ove si con- siderino ì suoi versi, come stanno ora ne’ manoscritti e nelle impressioni: e così disse il greco anonimo scrittore della sua vita e, della sua poesia , e poi lo ripeterono tutti senz’ altro esame fino ai giorni prossimi a noi. Ma ormai non è più alcuno che presti fede a questa favola, tranne que’ pochi, i quali credono che giovi a sostenere certi loro favoriti paradossi. Omero usò quella lingua , che i greci parlavano a suo tempo : e quale essa fosse si è adoperato il signor Payne Knight d’ indovinare. Cominciamo dal digamma, che vuolsi chiamar così senza |’ aggiunta d’ Eo- lico, perchè se gli Eolj più lunga stagione lo conservarono, dianzi però era proprio di tutti i Greci. Era il digamma una specie d'aspirazione , e quasi una lettera dell’alfabeto , e la sua forma era molto simile alla nostra F, o piuttosto a due gamma posti uno sopra } altro, da che venne il suo nome. Io mi servirò della F, non avendo altro segno più conveniente, Qual ne fosse la pronunzia non è ben certo. I più lo pronunziano V, altri F; e a favore di questi ha scritto un libro non ha molto il signor Marsh (1). Il digamma ponevasi e in principio delle parole che cominciano da vocale, come Fava 30 avat ; e in mezzo fra due vocali, o almeno dopo una voca- le, come @F;dys; «idys (2). Forse ancora dinanzi a certe consonanti , e specialmente al rho, come Fpyosw, puo cw. Dice Prisciano , che il digamma poteva far lunga la pre- cedente vocale , e ne porta due esempi, uno d’ Astiage Giouevos FeAevav ÉMnwrrida , € l’altro non so di quale altro poeta v Neotopa de Fos-masdos, (1) Horae Pelasgicae , part the first. Cambridge. 1815 in 8, (2) ‘Tralascerò qui sempre gli accenti, e così si diminuiranno gli errori tipografici, 2 4 dove nel primo equivale a una consonante, a due nel se- condo. Talvolta però. i poeti niun riguardo avevano al di- gamma, e accorciavano per l’apostrofe la voce precedente, come in questo verso Apps d° Fespavav ro de 7’ aphero pura Avoua (4). I moderni grecisti però favoleggiatori di queste dottrine negano, che ciò accadesse a’ tempi d’ Omero. Essi poi vo- gliono che niun iato sia ne’ suoi versi, cioè che niuna voce, la quale cominci da vocale o da dittongo, possa mai essere preceduta da un’altra, la quale termini con vocale breve: ed ove sì fatti iati s' incontrino (e a dir vero ve n’ ha pa- recchi ) deve la prima aver digamma in principio, o si ha da correggere il testo , o si caccia quel malagurato verso fra gli spuri, di cui gl’ignoranti rapsodi hanno imbrattato i due poemi. Il N. E. però non è così severo e concede l’iato quando la seconda parola ha spirito aspro , o quando v'è cesura, hiatum..,..in caesura tantum Homerica poesis agnoscit, dice egli ne’ prolegomeni p. 101. Una vocale lunga , o un dittongo non può farsi breve dinanzi a vocale, che ha digamma. Se un verbo lo ha, l'aumento sillabico non suole averlo; onde da rporerw, rposFerw si fa rporeFewre. Il, A. 441. Pure talvolta altri è costretto di concederlo anche all’ aumento, e da Few si fa FeFoe, ivi v.119.Il digamma posto fra due vocali talvolta lascia breve la prima, se tale è naturalmente, ma può ancora farla lunga; quindi «Fw ha breve l’ alpha nell’ Iliade K. 160: A. 463. ec. e lungo ivi K. 532. Lo stesso dicasi d’iexo, FiFayw, che ha breve lo jota. Il. A. 456. e altrove spesso; ma lo ha lungo ivi A. 482. e in qualche altro luo- go. E qui non voglio tacere come sì fatte dottrine si ac- concino mirabilmente a togliere certe difficoltà , che in Omero s’ incontrano : di che recherò un solo esempio. Nel primo libro dell’ Iliade il v. 193 comincia così, éws ò ravl” (4) Prisc. lib 1. p. 546. 15 copacuve. Il Damm nel lessico Omerico col. 1675 dice che l’esametro può avere in principio un amfibraco, il Clarke pretende , che si leggesse wrw: e così il Bentley , l’Heyne, ed altri hanno fatto bellissimi sogni su questo e su gli al- tri luoghi simili , che parecchi ne sono nell’ Iliade e nel- ? Odissea. Il sig. Knight però vuole, che non «ws ; rews si scrivesse a tempo d’ Omero, ma éFos, 7eFos, il che toglie ogni difficoltà , facendosi no l’ epsilon pel digamma. Si opporrebbero a questo divisamento alcuni passi Il. P. 727. Od. B. 148. E. 123. 386; ma facendo piccole correzioni al primo, al secondo, e al quarto, e quanto al terzo, per questo e per altre ragioni togliendo i versi 121-9, spera d’aver salvata la sua sentenza. Ma torniamo alle leggi del digamma. Una vocale breve seguita dal digamma, e poi da una consonante si suole farla lunga; ma può rimaner breve, se piace al poeta, come abbiamo veduto essere insegnato da Prisciano. Non ricordò per avventura questa autorevole testimonianza di quel grammatico l’Heyne T. 7. p. 740 quando disse, che alle leggi del digamma ripugnano quel- le parole d’ Omero xepdiov Ferrero Od. T. 280 nelle quali l’ omicron della prima è breve. Ma ben se n’è ricordato il diligente N. E. che le ha lasciate così. Queste ed altre leggi meriterebbono qualche esame, e possono ancora de- stare dei dubbj nell’ animo di qualche indocile: ma ciò domanda lungo discorso , che riserbo ad altra occasione. Anche nelle declinazioni entra il digamma. La divi- sione de’ nomi in parisillabi e imparisillabi, come dicono i grammatici, non piace al N. E. il quale è d’ avviso che anticamente in tutti i nomi il genitivo avesse aumento. In Omero però nella prima e seconda declinazione, che altri riduce ad una sola, nel genitivo del numero singo- lare non si scorge questo aumento. Si vede bensì nel plurale, dove tutti, se non m’inganno, terminano in &uy, cioè «Foy , tranne Tese, che ha racewy. Gli altri casi non x 16 hanno variazione. Non così è della terza, che per altri è seconda. Il signor Knight vuole , che il suo genitivo sin- golare termini in oFo, e l’accusativo plurale in oFs, il che si dica eziandio dell’ articolo prepositivo e pospositivo, che nel maschile e nel neutro seguono questa declinazio- ne. Nè quel digamma reca incomodo per la quantità della vocale che lo precede, ma ora la fa lunga, ora la lascia breve come attalenta al poeta, o) piuttosto all’ editore . Lungo è è il primo omicron in TpuoF o, Il. A. 19. breve in Fo ivi v. 6. Anzi fa ancor più, perchè, se vuolsi , nè pure ardisce di mostrarsi, e allora que’ due omicron si con- siderano come una sillaba sola; onde nello stesso libro v. 190 {4900 forma uno paid Nè debbono far maravi- glia queste desinenze, che dal genitivo in oFo venne forse quella Ionica in 010, dvi: inw,e comune in 0; e dal- l’accusativo in oFs possono essere derivate le desinenze Do- riche in 055, 06) ed ws, e la comune in ovs. Finalmente nei nomi della quinta, che per altri è terza il genitivo insegna a formare il nominativo , talchè se quello è rayros questo sia Teys Il. A. 65. se quello è psAzvos questo sia pereys Od. A. 423. E di questa g guisa i participj saranno. TUTTOVS, TUTOAYVE, TUPdevs , i melita de’ quali pel N. E. diventano TUTTOVTTA ) TUTCAVTTA, tupievroa , da che forse avranno avuto origine per contrazione le forme comuni TuTTOvTa, tulovea, tuPieca. E riguardo a ruplers, Tureve ne abbiamo una conferma negli Orti d’ Adone (p. 409 ed. Ald. ) dove si legge ryv pev e‘ Tpolegw evs Asvougi, nes To ti9e4 Ti9evs. Per le quali parole avrei desiderato che anche la proposizione 6 avesse scritta evs. Io non posso tutti ricordare i divisamenti del N. E intorno alle declinazioni e conjugazioni , che troppo ct discorso richiederebbesi , e molti de’ nostri leggitori ne avrebbero noia. Basti dunque il detto fin qui, e passiamo alle altre parti della grammatica Omerica. Non parlerò delle conjugazioni de’ verbi, nelle quali nulla ha adottato 17% il signor Kneight, che non sia ne’ dialetti Ionico, Dorico , ed Eolico, che alcune forme conservarono dell’ antica lin. gua. A cagion d'esempio la terza persona del plurale per lui è rurtovrs, che è del dialetto Dorico in vece di rurTovo:, e l’ infinito 7rurrew diventa rurresy; che nello stesso dia- letto si direbbe rurrev. Ma questa forma dell’ infinito tal- volta riesce spiacevole anzi che no. Per esempio in Puyecey Il. N. 436. ed in più altri cotali, quei tre epsilon sono all'orecchio mio ingratissimi, e mal volentieri li vedo in questa edizione. A lui però pare di scorgere una contra- zione nella forma comune dell’ infinito ; e tal contrazione, ehe quegli antichissimi non dovessero usarla. Anche nella prosodia egli ha certe opinioni, delle quali non vuol che si dubiti. Tutte le vocali per lui sono brevi di lor natura : e se taluna è lunga ciò avviene, per: chè ha, dirò così, assorbito un’ altra vocale breve , o si è soppresso uno spirito, od una consonante. Prol. p. 54. Ma la vocale può farsi lunga ove segua un lamda, o un rho, o un sigma, o un digamma. E quanto al sigma è merite- vole d’ osservazione il dativo plurale che termina in s07, come xuyecs Il. A. 4. dove, per questa proprietà del sigma, egli fa lungo l’epsilon, nè scrive xuverte, come altri fanno. Ma non sarà facile l’ intendere per qual motivo poi scriva BeAecci nello stesso libro v. 42. Nè si vede pure perchè scriva exeAsooato Il. A. 161. Q. 193 yoeoce Od. E. 245, P. 341. ®. 44. e in altre voci: il che non è conforme ai suoi insegnamenti. Imperciocchè attribuisce ad età più recente il raddoppiamento del sigma in simili casì. Prol. p. 52. È già noto, che all’ età d’ Omero non verano le vo- cali lunghe eta ed omega, non le consonanti aspirate, non le doppie. Il N. E. però adopera le prime. Egli crede, che nelle parole, in cui s’ incontrano queste vocali, non sieno semplici vocali lunghe, ma derivino da alire, unite forse per contrazione , e sovente uon potendosi conoscerne gli T. X. Luglio » 18 n elementi, come egli li chiama , ha reputato meglior con- siglio di conservarle. Se avesse prestato fede alle pretese iscrizioni Amiclee del Fourmont avrebbe usato due epsilon e due omega. Ma egli ne aveva mostrata la falsità nell'4- nalytical essay on the greek alphabet p. 111..e di nuovo qui ne’ prolegomeni p. 107. e nelle note Od. T. 176. Ado- pera altresì le consonanti aspirate, nè gli è piaciuto di dirne la ragione. Le consonauti doppie però ha tolte, seri- vendo in vece quelle da cui son derivate. Ed ove l’eti- mologia o la formazione de’ tempi non mostrino in quali consonanti si debba scioglier la doppia , scioglie il w in rs, eil in xs. Ma per la preposizione cuy, ovvero guy ( che in Omero scrivesi così ) adopera il gamma, nè se ne vede la ragione. Forse ha creduto doversi addolcire alquanto la pronunzia, vedendo che vie più si addolcì col tempo, quando sì pronunziò cuy. Non adopera gli accenti, fuor solamente il circon- flesso, di cui fa uso, non come d’ accento, ma per indicare certe contrazioni. Per la qual cosa lo pone dove non ista- rebbe se fosse accento, e due ne dà talvolta ad alcune voci. Rechiamone pochi esempi, e primo sia @xvs. Ml Len- nep Etym. L. G. p. 1158. dice: « @xùs celer. Pro dxds ab 6x2, vicino alteri &xw, i. e. aczo » e il signor Knight nou sempre alieno dagl’ insegnamenti lennepiani avrà. forse nella sua mente seguita questa etimologia. Ciò supposto sì spiega quei circonflesso usato come segno di contrazione; perchè se vi fosse il verbo oxw il suo preterito perfetto do- vette essere anticamente sox2 , quindi @x2, da cui @xvs. E da credersi, che da questa voce egli faccia derivare @xea- vos, cui dà lo stesso segno sulla prima. Ed Omero, che ri- corda le veloci correnti dell’ Oceano, pare che confermi questa etimologia. Il Bochart però Geogr. sacr. Lib. 1. cap. 36. vuole che venga dall’ ebraico hug, circondare ; quasi circondatore della terra, e cita Esichio , che dice : wynv,wxeayos. Nè altra etimologia le diede il P. Thomassin. 19 Meth: d’ étud.-et d’enseign. les langgues T. 2. p. 308. fo lascerò che ognuno segua qual più gli piace delle due opi- mioni,.e passerò a dare un esempio di due circonflessi sulla stessa parola. Per questo io prendo xAgp9 ; Il. H. 171. che a caso:mi viene sotto gli occhi. Questa parola viene da xAcw, frango, di che niuno fa contrasto: ma Eustazio FEtimologico Magno e il Lennep fanno derivare xAew da naàsw. Ammessa però ancora l’ opmione di questi g oram- matici, siccome niuna contrazione è in %A2w , niuna pure può esserne nell’ eta di xAypos che immediatamente da es- sodiscende. L° omega poi ha il segno della contrazione , come tutti lo hanno i dativi simili, forse per lo jota sot- toseritto : ‘Chiuderò finalmente queste noie grammaticali con un’altra osservazione. Aedw è un certo verbo bizzarro , che nella poesia prende talvolta varie forme singolari. In fatti nel primo aoristo eddera usurpa un secondo delta ; e nel preterito perfetto medio non sempre è contento della forma irregolare dedosa ; ma permette che il poeta scriva ancora desdoma con doppia irregolarità. Il sig. Knight as- serisce inoltre, che una vocale Brave i innanzi a questo ver- bo è. sempre lunga: ‘per la qual cosa condanna ad essere o‘tolti come spurj , o emendati que’ versi che contraddi- cono a questa sua asserzione. Taluno forse penserà, che quelle ‘vocali brevi diveniganò lunghe per cesura, non per una singolar proprietà del verbo ddu: ma egli non accorda sì fatto privilegio alla cesura. Ciò supposto, egli vuole che di quelle stravaganze di dedw debbansi acca-. gionare i rapsodi e i posteriori poeti, i quali ignorando l’antichissima lingua greca lo guastaron così. Quindi è d’ opinione , che anticamente si scrivesse dredw ( Cd ) : e d7s06 ( {eos ) il suo derivato, che a poco a poco siensi ammolliti in dderdw, ddeos. A confermare questo suo divi- samento reca tre esempj. Il primo è di epd0yozota, Il Y. 792. che non'giova a lui, il quale quel verso ha tolto 20 con più altri e prima e dopo. Nè il secondo della ‘voce beotica +rrw in vece di «07% che è in Platone gli è più utile : conciossiachè non sia rara nel dialetto Dorico la mutazione del sigma in tau, e a questo dialetto appartiene quel passo di Platone. Finalmente cita iapezddoyros in ve- ce di iepsuzZovros d’ una iscrizione beotica , che può essere errore dello scarpellino. Ma sia pur qualche voce, che per qualsivoglia motivo raddoppi il delta nel mezzo in vece dello zeta. Non posso però indurmi a credere che alcuna voce vi fosse, con due delta in principio. Ame certa- mente nou riesce di pronunciare quel verso ; ddedw, px ouris x. 7. A, Il. K. 39. E sfido anche il signor Mezzofanti, famoso Poliglotto , che sa tante lingue, a trovarmene una, in cui sieno parole, -che comincino con doppio D. Tali vuole il N. E. che sieno, oltre a des, e deos; anche der vos, € dw. Prol. p. 78. L’ ata però si trova bensì scritta. dd» nell’ Iliade A. 556: ma altrove ha scritto diyrasIl. TT: 246. dwvras P. 110. dieta E. 162. ec. quando la precedente vocale breve lo ha obbligato a sbandire quel secondo i im- portuno delta, . «: Ti Queste sono le regole principali della grammatica Omerica , come il cia editor: Ja ravvisa: chè a volerle tutte descrivere troppo lungo discorso si richiede-. rebbe. Or queste regole domandavano, che alcune muta-, zioni si facessero al testo, e parecchi versi se ne. toglies- sero. E riguardo ai secondi più altre ragioni ancora sonosìi unite a persuadergliene la condanna. Cominciamo da que- sti. E primamente deesi avvertire, che la divisione de” due poemi in 24 libri, ognuno de’ quali sia segnato con una lettera dell’ alfabeto, non può essere fatta da Omero, chè tante non erano le lettere all’ età sua. Io non so se da questo si abbia a dedurre, che niuna divisione di.libri, siasi fatta da Omero. Il signor Knight lo crede: laonde ha scritto ì due poemi tutti continuati; e solo ne” margini ha posto i contrassegni. dei diversi libri, e i numeri de’ versi» 21 imcbido le comuni impressioni, a comodo de’ leggitori. Ma rigettando egli sì fatta divisione ha dovuto reputare spur}, e tralasciare al tutto ‘certi versi, che a questa servono, e o chiudono i libri, come Il. A. G11. T. 453-G1r. A. 539-44. ed altri, o li cominciano, come ivi A. 1. 2 II. 1, Z. 1. Od. E. 1. 2. ec. Che che possa altri opinare intorno a questo , tale è per lui Ja prima fonte del tralasciamento d’ alcuni versi. La seconda è per essere inutili ampliazioni di cose dette dianzi. Così nell’Il. A..si leva il v. 47. per l’inutili- tà delle parole eurov xwbeyros. La terza perchè gli sem- brano, aggiunte insulse, come Il. A. 80-3. B. 76-83. La quarta perchè sono copiati da altri luoghi, dove stanno più opportunamente; come ivi A. 177. B. 27. 64. La quinta perchè contengono favole ignote a Omero, come ivi I. 457. dove essendosi detto , che gl’ Iddii adempiero- no le imprecazioni del padre di Fenice, si nomina Giove infernale e l’orrenda Proserpina. Tranne sol questo luogo il Dio dell'inferno è sempre Ade in Omero: laonde è da credersi , che quella denominazione di Giove Infernale sia introdotta in età più recente, e qui sia posto quel verso da qualche saccente che volle nominar quegli Dei. Fra queste favole poi ignote ad Omero pone principalmente le simboliche, non senza molta ragione a mio giudizio. La sesta perchè hanno certe contrazioni ignote , come crede, ad Omero, per esempio Bpsepswy, ivi A. 403. Am- mette però questa contrazione in Jwewy, ivi T. 101. A. 318, e altrove; in épewy, Il. O. 494. ec. e in qualche altra pa- rola. La settima perchè hanno parole che non sono Ome- riche, come ivi B. 216-19. dove si leggono le parole Porxos, Potos, cuvoguote, che in niun altro luogo d’Ome- ro s'incontrano. L’ ottava finalmente sovra ogni altra ab- bondante, perchè fanno contrasto alle leggi del digamma, come ivi E. 310.723. Da questi fonti derivano le condanne di molti versi , de’ quali porrò il novero alla fine di questo articolo per soddisfare alla curiosità de’ nostri lettori. n2 Se però parecchie centinaia di versi ha 1’ E. tolte ad Omero gliene ha almeno donati, o restituiti quattro: 'Vo- glio dire di quei versi*tov. psv eyw fovAevoa: x. T. A. che Plutarco ci ha conservati de aud. poet. T: 2. p. 26. del- l'impressione del 1624. e in parte ripetè de adul. p. 73. ‘e nella vita di dnibinio T. 1. p. 129. Aristarco gli levò : ma il Berglero li aggiunse dopo il v. 459. è il‘ Barnes me- glio dopo il v. 457. come pure il Wolf. Il Valcknaer' li difese nella diatriba su i frammenti d’Euripide p. 2640e il N. E. nel suo Saggio sull’ alfabeto greco pi 57: ma di condannò l’Heyne nel suo Omero T. 5. pi 629. I testi‘a penna sono tutti per l’ Heyne : ma. a dir vero questo loro universale consenso non aggiugne nuovo peso alla sua sen- tenza, perchè ci offrono solamente l’ edizione -d’Atistarco. Fra ’l contrasto di questi dottissimi sarebbe stoltezza ‘im me se osassi di dar giudizio: mi sarà però concesso di'‘dire, che in sì fatta diversità d’opinioni era opportuno , chè il N. E. avesse confermata la sua sentenza nelle annotazioni. Lo fece nel saggio allegato; ma le cose ivi scritte non hanno persuaso I Heyne, e l’Heyne fu, mentre visse, un tale uom dotto , che potevasi essergli cortese di risposta. Resta ora solamente , che si parli delle annotazioni. La più parte di queste discorrono le ragioni, che hanno mosso l’ editore a levare parecchi' versi: e di queste ho già favellato riducendole a certi capi. Dirò brevemente delle altre, che sono indiritte a dare nuove spiegazioni del te- sto: e fra queste ne sceglierò sole tre, o piuttosto le pren- derò come mi sì offeriranno a caso, scorrendo o e la il libro. Ferito da Diomede Jtgo, MILO 6 d’ sBpaye YaAxeos Apus; ‘Orcoy 7’ eweagidol eTIALOV 3 N denagiAo: - Avepec ev ToAejiw > spida Buvayovres A pmos. Tous d” ap Uno Tpopos erAev Ayxouovs Te Tpwas Te, Assravras. tovov eBay” Apys eros ToAsporo. 23 sul Tum vero boabat aereus Mars, Quantum scilicet novies-mille clamant, vel decies-mille ‘Viri in bèllo certamen committentes Martis. ‘Tum vero tremor occupavit Achivosque Trojanosque de Adeo boabat Mars insatiabilis belli. Il. E. 859-63.. No vuole il signor Knight, che Bp2yxw dicasi di voce ‘ d’uomo o d’ animale mai ne’ versi d’ Omero, ma signifi- chi solamente fare strepito, e sia della stessa famiglia di Fpavyw, Fpyoow, che scrive così in vece di feyyw; fnecw: Non ha la lingua greca il verbo feyyw, ma egli lo suppo- ne, come pur lo suppose lo Scheid ad Zennep. Etym. L. G. p. 1207: Còncesso a Bpaxw questo solo significato , le prime parole‘da me trascritte, da lui s'intendono dello strepito, che fece Marte colle armi, mentre ‘furioso saliva al cielo. Quindi reputa spurj i due versi seguenti, che non possono più stare , e sono ripetuti nel libro E. 143-9. dove son posti acconciamente. Toglie altresì 1’ ultimo verso, parendogli disdicevole all’ eleganza Omerica la ripetizione del nome di quel Dio. Confesso però che a me par duro l’'ammettere queste cose: imperciocchè ivi sì dice, che non le armi, ma lo stesso Marte eBpaye. Nè è da dirsi col Damm Zex. Zom. col. 2108. che ivi Apys è usato per le armi, arma sunt personificata. Quantunque altrove quella voce possa aver questo significato , giudico strana cosa' il dargliele i in quel luogo, dove e primia'e do- po si parla dello stesso Dio. E le sue armi non potev ano, mentre fuggiva , far tale strepito che ne tremassero reti e Trojani, se non fecero tanto fracasso quando combatte- va. Nè quello è griilo deo! d’unà vile feminacecia, come pare al N: E: nîa degno è di Maîte, tolto il quale lan- guisce molto quella terribile pittura. Ma è poi vero, che Bpeyxw in Omero non ‘dicasi della voce degli uomini e, degli animali? Nel libro IH. 463. sì adopera fi cavallo fe- rito , ò d’e «Ppaye Bupoy 2icbev; dove il signor Knight l’in- LOR y > tende del rumore fatto dagli arnesi e dal cocchio. Omero però con grande accorgimento accenna tre cose diverse e successive : prima il cavallo £Bpeye ( diede un grido, il che è naturale nel primo istante della ferita ), poi gemen- do cadde nella polvere, e finalmente spirò l’ anima, Lo strepito degli arnesi e del cocchio potè essere nel secondo tempo, non mai nel primo. E poi se nel primo esempio furono le armi, e nel secondo gli arnesi che fecero stre- pito , perchè là si nomina Marte e qui il cavallo, e del- l’armi o degli arnesi non sì fa parola ? Ne diano giulia gli uomini dotti. Nestore Il. H. 127-8 dice: "Os Tore ju’ espoievos mey” eyubdeev gi eve ost Ilevrwy ApysKwy epewv YEveNv TE ToKov TE. Qui(Peleus)me interrogans valde luetabatur sua in domo Omnium Argivorum inquirens genusque , sobolemque. Ma per ispiegare così convien dare ad spswy significato di presente , ed Omero gliele dà sempre di futuro, dictu- rus. Il N. E. è d’avviso che sia qui ciò che i grammatici chiamano aracoluto, il che approvo: e cita esempi simili nella Iliade B. 253.(e dee leggersi 353.) K. 436. e parec- chi altri poteva aggiugnerne , se gli fosse piaciuto. Perciò spiega così: qui olim me interrogans valde laetabatur in domo sua; guum omnium salina dicturus essem genusque , sobolemque. Priamo portatosi alla tenda d’ Achille per riscattare il cadavere d’ Ettore con ricchi doni, fra le altre cose gli dice : 0000 a + AAA TANTA Augov, iv oplaA pori id cu de dela aroma. Todda ta to Pepoev cv de ruvd'atovaio nas EAd0 Cv € TATPIÒ® YURYs ETEL pu Tpwrov EaTaS autoy Te Gwew, nes opuv Daos neAioso. Il. Q. 554 8. ‘4... Sed tu citissime Solve, ut oculis videam: tu vero accipe dona a5 ' Multa,quae tibi afferimus. Tu autem his fruere,et eas Tuam in patriam terram , postquam me sivisti Ipsum vivere, et videre lucem solis. I codici, di cui si servì Eustazio, non avevano l’ ul- timo verso , il che si rende manifesto, se si considera, che egli dice essere un’ ellissi nel verbo «2025. Aristarco di- chiarò spurj i versi 556, 567. come si legge negli scoliasti veneti: e perciò anche i suoi manoscritti non avevano il seguente. L’ Heyne sta per questo critico : ma il signor Knight corregge e scrive così: Die aaa a GARE TANIOTA AvFoov, iv'opiaAporci Fidw. cu de tw" arovaro nes #Aboss(così) Guy €6 Tatpida yauav, emE: pe Tpwrov sasa. Sic a poeta profectos via dubitare licet, dice egli nelle annotazioni a questo luogo: Vuole che, siccome nelle com- medie si fa, i rapsodi quando cantavano questi versi, avessero lì presso un carro. coi doni, e questi, dicendo Tuvò°, uccennassero colla mano. Io ne dubito ; ma si con- eeda pure. Vorrei però sapere almeno qual fosse il gesto; che faceva diventar di sei piedi il verso AvFoov x. 7. A. che ne ha sette. Se vuolsi mutare il testo, a me parrebbe più lodevole l’ opinion d’ Aristarco. :Terminerò con un esempio dell’ Odissea. In questo al libro K. 195. si legge: VHTOV $ THY TEPL TOVTOGS ATESITOS ESTEDAVWTAI Insulam, quam pontus infinitus circumdat, e così ha Eustazio. Il N. E. però vuol che si legga ar4- pecioc ereRavore:. L'ultima: parola di quel verso aver dee senso di presente , il che mon avverrebbe nella comune lezione, quantunque l’i interpetrazione g gliele dia. Perchè l’ abbia convien supporre un verbo «0r5Pzvow, e non era proprio dell’ età d’ Omero il formarlo. Condanna altresì là voce ersipiros, chè a quel tempo non si sarebbe fatto a questa foggia il derivato di repas. Se l’ha il Pseudo-Omero 86 nell’inno a Venere v. 120, egli vuole che’ sia. formato da 7pos, che si sarà detto così in qualche dialetto: ini età più recente. Osservo però, che l ha eziandio 1’ autore dello scudo d’ Ercole v. 204. il quale, se non è Esiodo, è alme- no un poeta antico molto. Per la qual cosa taluno’ forse reputerà meno forte della prima la seconda ragione. In generale dirò , che brevi sono le annotazioni ,; e' contente di discorrere le cose necessarie non curano la pompa d’u- na inutile erudizione : talchè., ove l'ottimo E. nulla abbià da aggiugnere alle cose dette da altri, ama meglio di ta- cere che ripetere quello che si.può leggere altrove. Così al libro I. v. 378. dell’ Iliade; sul quale impiegò l’Heyne più di tre facciate per interpetrare una sola voce, nè gli riuscì di dire più di quello che brevemente aveva detto il Clarke , a questo verso il signor Knight non concedè pur una Maria nelle sue annotazioni. Tale è l’edizone ‘annunziata, che per: ogni titolo merita le maggiori considerazioni, e lo studio dei dotti grecisti. A questi lascerò il carico di esaminare le sue opi: nioni.,. alcune: delle quali per avventura incontreranno de’ contradittori. Quantunque però questo accadesse; tutti dovranno almeno confessare aver lui egregiamente meri- tato d' Omero e della lingua greca: Ed io metterò fine a quest’ articolo col porre qui il novero promesso de’ versi ; che, essendo da lui giudicati : sardi mancano: in questa impressione. Eccolo: Jiiado A. v. 47. 80-3. 112-5. 139. 177.244. 2658. 295-6. 299. 366-92. 403. 473-4. 486. Grt.—B. 27.64. 76-83. go. 124. 130-33: 143: 160-2. 164. 193-7: 207. 216-9. 224. 2324. 252:6.:317-9: 3ar. 335. 377-80. 387: 409. 452. 467-8. 4g1-3. 528-33. 535. 549-51.553-55. 558. 580. 588-g0. 626. 631. 641-3. 651. 670. 681. 684. 694.720. 724-5. 742-4:791:5. 802-6. 850. 860-1. 874-5— pa F.118-20. 66. 78. 108-10. 144. 189. r9g7-8..215. 220. 224. ahh: 286-g1. 294. 343. 352. 396-418. — A. 3. 47.80. 91. g6-9. 115. 117. 134. (140. 145: 149. 179-832. 194. 197: 202: 207. 219.221. 259- 60. 295-6. 357. 374-400. 420. 470-2. 507-16. 539-44. — E. 64. 142. 183. 203. 248. 255-8. 2659-73. 310. 313. 316-18. 320. 331-33. 340-2. + 385-404. 41215. 424. 453. 462. 478-92. 542. 567. 589: 645. 721. 723. 747. 750-1. 758. 786. 808. 860-1.. 885-7. got. — Z. 58-60. ,127-43. 151. 159. 186. 222-3. 230-1. 234-6.311. 356-9. 388-9. 413-39. 478. 493. 500-2. — H. 26-7. 30-2. 95.-105. 112. 117-9. 142-9. 166. 195-99. 217:8. 229-32. 238.43. 253-4. 293-5. .344-5 353. 380. 442-604. 479.—I. 23-5. 44. 57-9. 118. 124. 126. 149-56. 229. 247:8. 266. 268. 291-8. 320..385. 387. 416. 426-9. 457. 483-4. 604-5. Gog-10. 616. 631. 648. 653-5, 687-92. — K. 7-8. 51-2. 59. 84. 1g1: 213-7. 240. 252-3. 286-91. 348. 375.387. 40g-11. 497.531. — A. 1-2. 11-4: 51.75.82. 179-217. 355 68. 4ia.100n -079 7001700 864 M. 5-40. 104. 116-7. 128. 175-81. 283-6. 350. 363. 373-4. 426. 428-9. 450. (58. — N. 5-6. 31..54. 210-332. 352-7.. 418-23. 444. 494-5. 521-5. 623-39. 656-9. 681-99. 731. 734, 749. 807-37. — E. 29-40. 114. 152. 154. 177. 196. 213. 269. 304-6. 317-27. 376-7. 391. 416-7.500.—O. 3. 29 30. 33. 56-77. 147-8. 166-7. 182-3. 212-7. 228. 231-5. 265-8. 290.3. 378. 449-51. 480-1. 491-3. 507-513. G10-4: 668-73. 692. 727-46.— II. 1. 11. 30-2. 43-59. 89-90. 97-100. 143-4. 232. 237. 261. 272-4. 326-9. 370-1. 425.432-58. 505-7. 509-31.542.555-68:613-5. 6064-83. 689-90. 698-711. 810-11. 856. 865. — P. 41-2. 144-8.- 164-5. 172. 190. 197-209. 244. 260-1. 271-3. 296. 330 349. 377-383. 392-3. 411. 414-25. 525. 545-6. 585. G1o-11. 638. 695-6. 761. — E. 1. 3-16. 39-49. 105-6: 185-6. 192-5.. 200-1. 230. 265-83. 300-3. 341-2: 356-68. 399. 4o1. wr: 444-59. 512. 591-2. 597-8. 28 : 604-5. — T. 75. 77. 88-136. 153. 177. 233-7. 3a6-37. 340-56.382-3.387-91.398-424.—TY. 66-74.82.112-55. 180-6. 193-8. 205-58. 269-72. 312. 322-4. 446. — ®.111-3.128-35.158.212.228-33. 250. 275-8. 287. 290. 293-7. 344. 385-520. S70. 587-9. 611. — X. 11.3. 67-76. 121. 125. 132. 162-88. 199-201. 230. 234. 251-3. 301-3. 329. 362-3. 371. 391-4. 450.. 454-9 475-515. — Y. 21-3. 51. 75-9. g1-2. 259-61. 274-86- 331-3. 346-8. 405-6. 449. 479: 494. 519-21. 533. 565. 600. 641-2. 757. 772. 786-92. 806. 810. 824-5. — Q. 6-9. 20-1. 23-30. 45. 67-73. 107-11. 152-8. 181-7. 212-6. 256. 291. 354. 385. 421-3. 465-7. 494-507: 514. 590-1. 584-6. 594-5. 608-17. 721. 723-76. 799° Odissea A. 29-31. 40-3. 47. 62. 87. g7-101. 133-5. 171-3. 177. 286. 300. 356-9. 366. — B. 29. 114. 119-22. 137. 191. 203-7. 274-80. — T. 53. 71-4. 78. 147. 164- 197-200. 209. 23 2-8. 241-2. 244-6. 251-2. 266. 295-6. 308. 310. 452. 480. 493-7. — A. 13-9. 62-4. 99- 145-6. 165-7: 172-80. 192. 206-11. 232. 271-89. 444-6. 458. 536-7. 553. 569. dgg. 621-4. 661-2. 691-5. 720. 813. 841. — E. 1-2. 54.67. 79-80. 90-1. 106-11. 121-9- 157. 1883-91. 248. 307. 384. 484-5. 490. — Z. 83-4. 179: 193. 245. 275-88. 313-5. 3283-31. — H. 36. 52. 69-74. 94- 107. 234-6. 294. 311-33. — ©. 22-3. 58. 81-2. 95. 108. 146-51. 160. 164. 168. 200. 217-228. 266-69. 483. 490-1. 534. 552-4. — L 96-7. 271.393. 455. 479. 483. 486. 531. 541-2. — K. 39. 45. 75. ‘79.227. 306- 328. 351. 368-72. 456. 462-5. 476-7. 482. 512-5. — A. 51-83. 122-4. 145. 150. 159-61. 268-9. 296. 300-3. 318-9. 324. 402. 427. 442.524.546. 549. 560-1. 601-3. 630. 639. — M. 65. 69-72. 78. 86-8. 124-6. 156-7. 176: 256-9. 435-6. 445-6. 452-3.— N. 41-3. 133. 142. 213-6. 252. 254-5. 31g-21. 332. 347-8. 371-2 428. — E. 69. 154. 156-7. 223. 227-8. 252. 284. 389. 432-533. — © ii dd ii di 29 O. 31-2. 45. 63. 66. 78-85. 244-8. 251. 254-5. 344- 368-78. 449-52. 499-500. 509. 553. — II. 100-1. 108-11. 161. 278-88. 304-7. 311-20. 338-41. 372-92. 468-75. — P. 14-5. 20-5. 4g. 118-9. 147-65. 327. 359. 383-91. 402. 421. 450-2. 475-80. 501-4. 547. 572-3.— 2. 63-4. 114-5. 127. 130. 191-3. 212. 221. 228-31. 3389-92. 408. — T. 19. 20. 77. 122. 135. 177. 250-1. 312-6. 319-34. 343-587. — TY. 23-4. 66-81. 88-90. 104. 148. 194-6 276-283. 298. 308-10. 368-70. 387-94- — d. 29. 133. 157-62. 210-6. 284. 295-310. 335. 350-3. 4279-30. 432-4. — X. 26-33. 43. 49. 218. 223. 246. 274-6. 298. 373-4. 415. 422-3. — Y. 48. 52-7. 79: 157-62. 191. 2318-24. 228-9. 241-6. 270-2 296. col rimanente del libro e tutto l’ ultimo libro. Cesare LuvccHESINI. 30 Sull’ istituto de’ sordi-muti di Genova. Lettera del sig. Enrico MareR, al direttore dell’ Antologia. SC) Losanna 15 maggio 1843. Sul mio partire dall’Italia, a voi e ai nostri collabora- tori ho promesso che per quanto da me dipenderebbe, non sarei tardo a comunicarvi quanto potrebbe delle cose della Germania destare interesse fra gl’italiani. Ancora non sono in Germania, nè però posso ancora dar principio ad opera che tanto mi sarà grata; come quella che mi darà campo di ricordare le fatiche della.mia patria in faccia ai dotti abitanti della mia terra nativa. Ma poichè mi trattengo tuttora in vista de’ monti che mi dividon da. questa, e che stassi tuttora quasi sospeso il mio. animo fra l’alterna im- pulsione di dolci affetti che ora mi spingono ad affrettare i passi ed ora mi riconducono in seno del bel paese che mi fu forza lasciare, piacemi che in questo torni a vagare il pensiero, e che di cose italiane possa ancora una volta occuparsi. (*) Il sig. Enrico Mayer, che per la prima volta compari- sce fra i nostri collaboratori, è l’istesso che coi nomi di E//e- nofilo e Filogene ci diede già Hogi saggi delle sue filantropiche disposizioni, e del suo amore per le buone dottrine in fatto’ di scienze morali e di lettere. I nostri leggitori vedranno al par di noi con piacere assicurato per il futuro all’ Antologia un corrispon- dente animato da simili sentimenti, e posto in istato di farci co- noscere le cose della Germania. Oriundo di quel paese, ma nato fra noi, a Livorno, il sig. E. Mayer, benchè in età molto giovanile, si è meritato l’amore e la stima di tutti quelli che lo hanno conosciuto. Egli era uno dei membri i più attivi dell’ accademia labronica , allorquando è stato ricercato per assumere l'impiego d'’ istitutore dei figli di S.A.R. il duca Guglielmo di Wirtemberg. Quelli, che come noi, banno avuto l’ onore di conoscere i nobili sentimenti di quell’ il- lustre principe tedesco , non si maraviglieranno certamente di una scelta, che se fa onore all’istitutore ricercato, non ne fa meno al genitore dei figli confidati alle sue cure. Nota del direttore dell’ Antologia. £ 31 Non vi farò parola del mio breve viaggio, poichè mal sì congiunge a mal ferma dimora attento esame, e meno a rapido esame fedel narrazione. Assai ha l’Italia a'dolersi della frequente violazione di questo precetto, nè a me piace accrescere il numero di quei tanti stranieri, nella mente de’ quali una irrequieta impazienza nell’ os- servare , trovando sollievo in una stolta credulità, forma, unita a nazionali pregiudizi, strano e indigesto amalgama col quale compongonsi tanti volumi di fole, che muo- verebbero a sdegno, se potesse lo sdegno andar unito al disprezzo . Il giorno che precedè la mia partenza da Genova io scorreva con gli occhi le pagine di alcuni libri che descri- vevano questa superba città. Tutti presso a poco ristringe- vansi a celebrare que’ grandiosi palagi, che per il contrasto della loro magnificenza con l’umiltà delle altre abitazioni, sembrano consacrare la lamentevole distinzione del fasto oligargico dalla modestia cittadinesca. Io ricercava invano qualche ragguaglio intorno agli stabilimenti morali, quando ne feci domanda e volli esser condotto al palazzo della università , ben fui condotto a un palazzo, ma le scale ne erano ingombrate d’armi e di soldati, e seppi che per fatal conseguenza delle passate vicende, il santua- rio della scienza era stato temporariamente cangiato in militare alloggiamento. Dopo ciò non credeva poter esser felice in altre ricerche di simil genere, quando mi occorse alla mente che Genova era la patria del padre Azzarotti, e che andava gloriosa del celebre istituto di sordi-muti dal medesimo stabilito e diretto. i Era innoltrata la sera , piovoso il tempo, posto fuori | della città Vistituto, ma non poteva risolvermi a partire dla Genova senza offrire il mio debole omaggio a un tanto benefattore della umanità, all’ esempio del gu deve in certo modo la nostra Toscana quell’ istituto di Pisa, che dalle generose cure d’un ottimo Principe è sostenuto a I. X. Luglio 3 32 benefizio di quegli sventurati, per i quali maggiormente . richiedonsi le premure dell’uomo, poichè quelle della natura in essi meno appariscono. Ho veduto questo venerabile sacerdote in mezzo ai suoi alunni, e potrei dire, ai suoi figli, che tali sembravano per l’affettuoso rispetto col quale gli si stringevano in- torno quando egli lo concedeva ; ma entrato con esso in piccola stanza contigua , essi senza osare innoltrarsi , ri- masero a passeggiare innanzi alla porta , quasi volessero restare in guardia del loro benefattore. Intanto io mi sen- tiva soprafatto da una dolce emozione nel contemplare il loro maestro, il quale appariva ai miei occhi come un secondo creatore , che aveva in essi compita l’opera che la natura aveva, almeno in faccia alla società, lascia- ta imperfetta. Nè il prestigio di esterne forme aggiungeva forza a’ miei sentimenti; chè estenuato dalle assidue e penose cure più che dagli anni, già s'incurva il P. Az-. zarotti sotto il peso di anticipata vecchiaia: pochi capelli bianchi apparivano sulla sua fronte, ed umile veste sacer- dotale cuopriva le sue deboli membra. Fatto ardito dalla sua compiacenza con variedoman- de lo importunai , alle quali rispondendo con quella sem- plicità che è propria de’ sinceri filantropi, ne ho raccolte le poche notizie che qui vi tramando, aggiunte a quello che già sapeva di lui. Il P. Azarrotti era prof. di belle lettere nelle Scuole Pie di Genova, e già pieno del desiderio di giovare all’uma- nità, lavorava da sè solo nel silenzio della sua cella a preparare i materiali necessari all’ istruzione de’ sordi- muti; e nel 1801 ne fece l'applicazione a un gioviuetto , che pienamente corrispose alle sue speranze. E così con- tinuò ad educare ora uno ed ora un altro infelice che gli veniva presentato, o ch’ egli stesso cercava, passando così non pochi anni nel quasi segreto esercizio delle sue bene- fiche occupazioni , consacrandovi tutto quel tempo che gli 33 lasciava la sua pubblica vocazione. Ma il pieno sucesso delle sue cure, e la voce della riconoscenza, non poteva- .no lasciare che rimanesse più lungamente nascosto un tan- to uomo. Nel 1812, il governo quasi suo malgrado lo trasse dal suo umile ritiro, e togliendolo alle Scuole Pie, volle che assumesse la direzione d’un pubblico stabilimento, che fosse unicamente destinato alla istruzione de’ sordi-muti. Non vi avrebbe acconsentito il P. Azzarotti, se l’ umanità stessa non gli avesse imposto di farlo, come quella alla quale poteva egli tanto più pienamente servire, quanto più stendevasi l'influenza delle sue cure. Per mettersi all'opera non gli furono necessarie altre preparazioni : invano‘gli fu consigliato di portarsi a Parigi per visitare il celebre istituto diretto dall’ab. Sicard; sicuro per lunga e fortunata esperienza della bontà del proprio suo metodo, © piuttosto, come egli stesso si espresse, convinto che il miglior sistema è di non averne alcuno fisso e invariabile, ma di adattarsi a ogni caso particolare (1), egli ricusò di abbandonare anche per poco tempo que’ giovani che gli venivano affidati; e diede principio all’ottimo stabilimen- (1) ,, Ogni sordo-muto che ci vien diretto , diceva 1’ abate de l’ Epée, ha già un linguaggio che gli è proprio, e questo linguaggio è tanto più espressivo, in quanto che è quello della na- tara stessa, e che è comune a tutti gli uomini. Le differenti im- pressioni ch’ egli prova in sè, sono quelle che glielo hanno sug- gerito. Esso ha contratta l’ abitudine di servirsene per farsi intendere dalle persone presso le quali abita, ed egli stesso intende tutti coloro che ne fanno uso. Questo linguaggio è il linguaggio de’ segni. Questi segni manifestati dall’ allievo sono attentamente raccolti dal naaestro, il quale ne fa poi per sè stesso un uso felice, quando da questo punto di partenza comune ad ambidue egli vuol procedere innanzi e sviluppare nuove idee. Queste provocano nuovi segni, ai quali come ai primi, debbonsi sostituire soltante le parole corrispondenti nella lingua del paese ,,. »; Tale è la base del vero metodo d’istruire i sordi-muti. (Bebian. Elogio dell’ ab. de l' Epce. Parigi 1820.) 34 to che il nuovo governo ha. conservato e protetto, man- tenendo col pubblico erario que’ giovani che non sono in grado di sostentare sè stessi, finchè compita la loro istru- zione, possano procacciarsi una onesta esistenza. Nè lo tra- diva una troppa fiducia in sè stesso, perchè il suo metodo di comunicazione fra il maestro e l'allievo , e degli al- lievi tra loro, mentre apparisce superiore per la prontez- za, pure è talmente conforme a quello usato in Parigi, che gli allievi di quell’ istituto e quelli di Genova si comuni- cano con ogni facilità i loro pensieri, i - La varietà delle dottrine che ai sordi-muti comparte il padre Azzarotti, non sembra credibile. Le lingue latina , italiana, francese, tedesca, inglese e spagnuola, la storia universale antica e moderna , la geografia, l’algebra, la geometria , gli elementi d’astronomia, la metafisica , le altre parti della filosofia razionale e la religione, entrano insieme con le arti del disegno e della incisione nel vasto piano d'istruzione del P. Azzarotti, (2) Fra i disegni e le incisioni ho ammirato alcuni lavori del sordo muto sig. Castelli, allievo egli pure del P. Azzarotti, e che istruisce i suoi più giovani compagni nelle arti ch’esso pienamente possiede, mentre è al tempo stesso impiegato dal governo in lavori di agrimensura e di fortificazioni, come pure in tutto ciò che richiede calcolo pronto ed esatto, nella rapidità del quale sembra che i sordi-muti non abbiano rivali. Fra i suoi disegni farò menzione del ritratto di Colombo eseguito con ogni esatezza, e che stava per essere (2) Il cav. avv. Ronco, uomo conosciuto dagli amatori del puro linguaggio toscano per il suo Saggio dz stile, per la pub- blicazione di alcune rime della venerabile Vernazza da Genova , e per altre produzioni letterarie , mi ha assicurato aver assistito a un pubblico esame degli alunni del P. Azzarotti, nel quale 44 danza e la pantomima avevano parte, e in queste i cenni d’ un direttore che seguiva il tempo della musica servivano di norina ai movimenti, 35 inciso per ornare l’opera che il mio dotto maestro il P. Spotorno delle Scuole Pie pubblicherà fra poco, per dissi- pare ogni dubbio sulla contrastata patria e sulla impugnata gloria di quel navigatore immortale. (3) Il padre Azzarotti avendo inteso il mio nome, chiamò a sè un giovinetto di circa 13 anni, e con quella rapidità di comunicazione che avrebbe mosso in me qualche dub- bio se non avessi saputo che questa appunto distingueva sopra ogni altro l'istituto di Genova, vidi il fanciullo con- dotto a segnare il mio nome con l’aiuto delle seguenti indicazioni fatte per mezzo di segni, che a mio riguardo erano accompagnati dalla voce. 1°. Il nome d’un imperatore che venne supplice a Roma per ottenere dal pontefice la rivocazione d’anatema ? Il fanciullo subito scrisse Enrico. 2°. La prima lettera del pianeta il più vicino al sole? Fu scritto « Mercurio » e l’ M posta presso il nome Enrico . sil 3°. La quarta lettera del nome dell’ultimo dittatore romano ? Risposta. a .... Cesare. 4°. L’ ultima lettera del nome d’un celebre inglese , che dall’ esser figlio d'un macellaro , giunse ad occupare il posto di primo ministro? R. I -.. Wolsey. 5°. L’ ultima lettera d’un eroe della favola che so- stenne sulle spalle il cielo ? R. Ci a Ende: G°. Finalmente la terza lettera di quel sentimento (3) Citerò ancora, non per il merito del lavoro, ma per la circostanza straordinaria, alcuni piccoli disegni coloriti: d’ un giovine sordo-muto mussulmano; che abbracciata la religione cri- stiana , ha rappresentato sè stesso in atto di assistere devotamente in abito turco alle varie celebrazioni della chiesa‘cattolica. 36 dell’anima che spinge l’uomo ad amare il bene ed a sfug- gire il male? Rico E compito in tal guisa il nome Mayer ag ggiunse il nome della mia città nativa, avendogliela il P. Azzarot- ti indicata come quella che era stata cangiata con Sarzana. Questo esercizio nel quale trasparivano gli elementi di varie disparate dottrine m’interessò e mi sorprese non poco, e fatto pregare il fanciullo di segnare il suo nome (4) sulla carta medesima, la presi onde conservarla non solu come una memoria dell istituto, ma ben anche come un consolante attestato dell’avanzamento, d’ una classe di es- seri, che appena potevansi per l’addietro riguardare come nostri simili. Tornando a più generali considerazioni sopra i suoi allievi, il P. Azzarotti mi parlava delle qualità della men- te che sembrano distinguere i sordi-muti. Tanto è V.ordi- ne delle loro idee e la forza della loro memoria, che pro- posta. ad essi una quantità numerica accompagnata da frazioni per moltiplicarsi con altra quantità parimente frazionaria, essi nella mente e in brevissimo tempo com- piscono l' Operazione, e ne segnano soltanto il prodotto. 1l loro giudizio è quasi sempre retto, e, l’ordine delle loro idee li rende attissimi alle scienze astratte e. metafisiche, A queste doti uniscono, ciò che di rado addiviene, gran- ogti na vivacità. di spirito, e prontezza di arguto risponde- Il P. Azzarotti me ne addusse, vari, esempi, de’ quali riferirò i i seguenti. Una signora propose ad un sordo-muto la domanda: Conoscono i sordi-muti l’ amore ? Il giovine rispose scrivendo : I sordi muti non hanno eglino un cuore ? Un gran personaggio domandò : quale imperatore (4) Paolo Basso. 37 era stato il più nemico della religione ? il fanciullo aven- di scritto Diocleziano, questa risposta non soddisfece la nobil dama che aveva altra persona in mente, e per indicare la sua idea, fece osservare al fanciullo che non intendeva parlare di antichi imperatori ma di moderni. L’ accorto giovine inteso il suo pensiero immediatamente scriss:: non m’ ingerisco negli affari moderni. Con vari altri simili esempi mi trattenne il P. Az- zarotti, e poi mi parlò di alcuni di suoi più distinti allievi, principalmente del sig. Migliarino che ora tanto giova al- l'istituto di Pisa, e del sig. Taddei il cui nome non è sconosciuto ai lettori dell’Antologia, e il cui giudizio in- torno alla pretesa sordo-muta d’ Arezzo e alla assurdità de.l’asserzione di quella traviata giovane di essere stata educata in Genova, mi fu pienamente confermato dal P. Azzarotti, Non è però meno vero che questo istituto racchiude ancora delle ragazze sordo-mute affidate alla curà del me- desimo direttore con l'assistenza di alcune istitutrici. Le giovani non hanno alcuna comunicazione con i fanciulli, nì alle ore dello studio; nè in alcuni altri momenti del gbrno: il loro numero è adesso di dodici, e quello de’ fan- ciulli di ventitre, nella educazione de’quali il P. Azzarot- ti è solamente assistito da un giovine abate ch’ egli stesso ha formato. Eccovi reso conto di quanto ho in parte osservato nell'istituto, e in parte ho udito dal labbro stesso del suo venerabile direttore.-Tanta è in lui la modestia , che non ha giammai pubblicato cosa alcuna intorno alle sue filan- tropiche fatiche, non curandosi che fosse noto al mondo il sio nome, purchè l’opera sua non rimanesse infruttuo- sa. Nè il desiderio di cuoprir di mistero gli andamenti del suo metodo ebbe parte in questa determinazione , Impe- rocchè egli ha sempre trovato il più gran piacere in ri- spondere con ogni minuzia a coloro che da lontano lo 38 hanno consultato, e in mostrare tutte le parti del suo sistema alle numerose persone che visitano il suo istitulo. Nel dipartirmi da questo venerabile sacerdote , io sentiva in me stesso quel dolce sentimento che nasce dal. la vista d’ un uomo che onora la propria natura, e riduce al silenzio la voce de’ detrattori del genere umano. Riflet- tendo alla pietosa determinazione di dedicarsi al sollievo di qualche infelice , e di mettersi subito all’ opera nel si- lenzio, con le proprie forze, senza sperare ricompensa dal mondo , senza neppur pensare a quella dell’ammira- zione degli uomini, anzi senza curarsi che di coloro a' quali potesse direttamente giovare, io faceva il paragone di un tal procedere con quello di tanti filantropi, che men- tre vorrebbero rigenerare con i loro sistemi tutto il gentre umano, sdegnano di farne l’applicazione a que’pochi indivi- dui che stanno loro d’intorno, e sembrano riguardarli come una quantità trascurabile di quella gran massa che tutta abbracciano col pensiero, e che tutta insieme vorrebbero magicamente cangiare. « Vi sono a’ giorni nostri tanti filantropi che se ciascuno si dasse a far quel bene che intende in una lo- calità particolare , vedrebbesi un gran cambiamento nelio stato della società. Ciascuno troverebbe nel proprio suc- cesso un piacere che assicurerebbe la continuazione de’ suoi sforzi; ma le idee che adesso prevalgono pongono ostacolo all’ esecuzione di un tal progetto: Vi è una brama di generalizzare , che mal si appaga d'un’ opera modesta e solitaria ; siamo avidi di progetti magnifici, e ripugnamo a tutto ciò che non sia sistema universale, ten- dente a un risultato universale ; nulla ci sembra buono fuorchè una vasta organizzazione propria a, condurre a vaste conseguenze , e mentre siamo decisi di seguire qualche grande opera ; vogliamo che questa grande opera rapidamente si faccia .... Bisogna guarire il moderno fi- lantropo della sua ambizione , prima di ottenere .ch' esso. 39, con umile assiduità sì consacri a un’ opera ristretta, che dimentichi il tutto per la parte, e che creda non aver vissuto invano, se abbia contribuito alla riforma e alla felicità d’ un distretto di trecento persone. ....Colui che tranquillamente si occuperà d’un lavoro proporzionato alla mediocrità delle forze umane, si troverà ben tosto interessato alla sua intrapresa. Egli paragonerà la debo- lezza d’ un’ azione simultanea relativamente al tutto , con l’ efficacia della propria amministrazione relativamente a una parte. In luogo d’una fallace illusione otterrà una so- lida realità, che anderà sempre crescendo di forze, quando avendo dato l’ esempio, i distretti de’ suoi imitatori ver- ranno a contatto col proprio ». ( Chalmers. Economia cristiana. ) E tale è stata la condotta del P. Azzarotti riguardo a’ sordi-muti. Egli ne ha ammigliorato il primo distretto col quale la Toscana è venuta a contatto , e così per l’ I- talia tutta si diffonderà un istituto, che come giustamente l’ osserva l’ eloquente panegirista dell’ab. de l’Epée « ria- bilita. in tutta la dignità dell’ uomo quegl’ infelici che l’opinione riguardava in certo modo come inferiori al bruti, e rende alla religione e alla società tanti esseri che sembravano condannati per sempre a ignorare le consola- zioni dell’ una , e le dolcezze dell’ altra ».. Non posso abbandonare questo soggetto senza ester- nare alcune idee che la mia relazione vi avrà forse ancora suggerite. Ho enumerati i tanti rami d'istruzione ne’qua- li sono esercitati gli alunni del P..Azzarotti : ma sono poi tutti questi necessari, o anche utili? A Dio non piaccia ch'io abbia in pensiero di minorare i meriti del P. Azza- rotti, ma sono certo ch’ egli stesso risponderebbe negati- vamente alla mia domanda, e che mi direbbe di aver diretta la sua istruzione in tante e sì diverse parti, per dar prova della capacità de’ sordi-muti di tutto abbraccia - re, in faccia a coloro che potessero a più utili oggetti, e 4o più profittevoli ai giovani e alla patria, far rivolgere la loro applicazione. Io parlo principalmente di quegl’infeli- ci che dissi esser mantenuti dal pubblico erario finchè dura il corso della loro educazione; ma terminata questa, qual profitto potranno ritrarre da tante lingue moderne, e da tante cognizioni di puro ornamento? Nessuno cer- tamente, nè temo asserire che oltre il leggere, lo scrivere e il conteggiare, l’unica cognizione che potrà esser loro di utilità reale, sarà quella delle arti del disegno. Perchè dunque non si procura di perfezionare i poveri sordo-muti così in queste come in altre arti, dalle quali possano poi procacciarsi un vivere onesto? Perchè non farne de’buoni artisti, in vece di letterati superficiali? In verità, quando penso che per i ciechi che. sono in generale incapaci di esercitare con esattezza le arti e i mestieri, si sono fatti e si fanno ancora tutti gli sforzi per farli in alcuni pochi imperfettamente riuscire; mentre non se ne fànno per i sordi-muti per iquali non so quali arti fuorchè quella della musica. sia impossibile ad acquistarsi, parmi che si attribui- sca tuttora troppo merito al superare di grandi difficoltà, anzichè cercare di ottenere il più facile e il più utile effet- to dalla naturale disposizione delle fisiche facoltà. (5) Ma. a me;non si appartiene il più dilungarmi intorno a cosa di tanto momento; ma ben vorrei che qualcuno dei nostri collaboratori trattasse con maggior forza ch’ io non saprei .un argomento che deve interessare la Toscana, ove i sordi-muti hanno ottenuto soslegno e modo d’ istruirsi. Non conosco dell’ istituto di Pisa se non quel ramo che (5) Vedasi l’ interessante operetta ‘sull’ istruzione de’ ciechi del dot. Guillé direttore del. celebre istituto di Parigi. (Parigi 1819). Essa è divisa in tre: parti: la prima tratta dello spirito.e del ca- rattere. dei ciechi: la seconda degli individui ciechi antichi e mo- derni distinti nelle scienze e nelle arti : la terza del metodo d’ istru- zione. La seconda parte è assai incompleta; nella terza si troverà la conferma della ‘mia osservazione. i 41 era un tempo in Livorno, e mi sarebbe grato di udire come progredisca un sì benefico stabilimento, come anche lo stato d'ogni altro istituto che riguardi il bene della Toscana e dell’Italia. In quanto a me vi ripeto che non sarò tardo a darvi dalla Germania quelle notizie che pos- sano interessarvi ;, e sempre. geloso dell’onore del nome italiano e lieto nel ripensare che non sarà perduta per }' Italia l’influenza del nostro giornale , resto con sincera stima. Fostro devotissimo servo. Enrico MaveR. Novelle di Grr4zDo Ginatpi fiorentino, seconda edi- zione ) coll’aggiunta di altre novelle inedite. Queste novelle furono pubblicate dapprima in Am- sterdamo nell’anno 1796. Ognuno le credè scritte dal Giraldi; e creder sì poteva, essendo lieve differenza dallo stile di lui a quello del suo imitatore. Finalmente però dubitarono alcuni se il Giraldi le avesse o nò dettate: ed il Gamba che è valente conoscitore delle cose antiche, pubblicando la serie sua de’testi di lingua italiana ( Mila- no 1812 ), e mentovando le suddette novelle , in questo modo concluse: « Ne parlò con molto elogio il:chiarissimo conte Borromeo, ed. egli sospettò che fossero. moderna- mente scritte dall’ egregio dottore Gaetano Cioni accade- mico fiorentino. Questi ne è ‘stato veramente l’autore, che con molto ingegno seppe farsi proprie la maniera e l’ele- gante ‘semplicità degli! antichi nostri‘ novellatori ». Il giudizio, dell Gamba è retto. Il Cioni è uomo di natura piacevole e gode di ristorare il’ animo in liete brigate con facezie e motti, dopo aver meditato nelle scenze, cui di proposito attende. Perciò egli ha pure scritto novelle, e gli è piaciuto seguitar lo stile del cinquecento, e nascon- 42 dere il suo nome per aver dalle burle , che faceva; mag- gior diletto. Nè ha totalmente assunto un nome vano senza esempio, poichè la quarta novella è in vero del Giraldi, leggendosi manoscritta nella Riccardiana di Fi- renze, dove fu collocata dal medesimo Cioni per dimo- strare quello che egli asseriva. In questa novella si rac- contano gli amori e le sventure di Marsilia, giovane donna maritata a vecchio ritroso. Ella divenne al connubio infida, scelse turpe amatore , fu scoperta, infamata, e rinchiusa; come meritato aveva: punito altresì con pari sorte d’acer- ba penitenza e di vita austera quei , che era stato seco lei godendo i dolci frutti della giovanezza sua. Noi non possiamo produrre alcuna parte di questa novella, perchè le manca il pregio di pudico stile. E nep- pure non ha morali precetti , idonei a deturpare il vizio. S'innamorano i due giovani, tratti solo alla bellezza della persona. Astuzia e voluttà gli congiunge. Mai non si ode un pensiero che dia vaghezza all’animo. Sopraggiungono im- pedimenti , e l’arte della donna gli vince. L’ amatore è vile. Egli è battuto innanzi alla porta di lei che adora, e le battitarb riceve avvolto nel suo capuccio. Egli è tratto come fosse ladro in carcere , soffre la corda, fugge, e fa voto di non più andare a casa di Marsilia ; sicchè ‘ella è è costretta di venire a lui, insultando amendue gli uomini e gli dei. In un solo punto piace la sua viltà: quando egli entrando nelle adultere stanze , ode la voce dell’offeso marito, e fugge via ratto per le scale, benchè possa godere i desiati amplessi tutto sicuro per la stupidezza del di lui rivale. In questo sol punto ei lascia il proibito frutto , perchè gli rimorde l’ animo ; simile però a lupo che ‘ab- bandona le agnelle, poichè sente i fischi del loro pastore. La vera morale di questa novella potrebbe dedursi a vergogna del bel sesso , manifestando le femminili voglie proclivi. al male, e cosi sol quando è la fedeltà un de- litto. Ma l’uomo vi apparisce pure così brutale e laido ;» 43 che mon oso trarne alcuna conseguenza. Nè rallegra il pensare che è un finto racconto , poichè molte narrazioni abbiamo di sì fatto genere nella nostra letteratura classica. Ed è noto che non tutte sono immaginate dallo scrittore, comecchè le abbia egli ordinate a genio suo, e variate alquanto, nella narrazione. Piaceva il novellare anche nel secolo decimoquarto , e si raccontavano al pubblico i lascivi amori, mon privi però di gentilezza. Era allora quel tempo, in cui l'antica semplicità e fierezza comin- ciava a venire in peggio ne’ moderni costumi. Gli uomini si erano svegliati dal sonno degli schiavi , e non sapevano reggersi di comune consenso in una patria comune ad utilità del pubblico. L’ ira ghibellina e guelfa, già quasi attutata, risorgeva negli sdegni de’ municipii e nelle gare de’ cittadini. Quegli era contento che scacciava dalla città l’emulo suo prepotente. E pochi eroi salvavano il proprio paese, che niuno l’occupasse. Tale era in somma quel secolo , che ognuno guardava intorno a casa , procurando d’ ampliare la propria abitazione , e tiranneggiando ove poteva, benchè aborrisse la tirannia d’altrui. Passato era il tempo dell’Alighieri, e le figlie principiavano a far paura , com’ egli dice , a’ padri con augurio funesto a’ lor consorti. Ma ne’casi d’amore tuttavia restava gentil costu- me; e gli stupidi , i rozzi e gl’impostori veggonsi burlati e scherniti in quelle antiche novelle. Anzi, poichè allor d’ogni parte sorgevano compagnie d’ uomini viventi nel Mondi fuori del mondo, contro questi usavansi i motteg- gi e isarcasmi, rispettato l’ uomo che da uomo viveva. Imperocchè ad ognuno incresce veder col manto della vir- tù , fatta ipocrisia , coprir le turpitudini della vita. Quindi crebbero gli abusi ed il novellare fu men fi- losofico , sicchè massime dopo il secolo XV gli scrittori e 1 lettori ad altro non intesero che a ridere ed a far ridere. Se questo scopo avesse Giraldo Giraldi , il quale nacque in Firenze a dì 8 di febbraio 1454, io nòn saprei giudi- 44 care, poichè di lui rimane soltanto la sopra indicata no- vella. Ed in questa è l’amatore invero uno di quegl’ ippo- criti, che in ogni secolo sono stati aborriti: ed è condan- nato e punito. Ma il danno sopra lui non viene da’ tradi- menti d'amore. Egli desidera , chiede ed ottiene, senza pure il caso di dover esser mai geloso. Nè questa è sven- tura : e tutti gli altri mali son sempre lievi a chi riama- to ama. Volendo far lui ridicolo, come sarebbe stato op- portuno , bisognava esporlo alle derisioni della donna sua e contristarlo ne’ suoi proprii affetti. In iscambio di che si nota , aver egli potuto fuggire ogni infortunio, e goder tranquillo poichè non sentiva rimorsi in petto , se colla rea coscienza avesse congiunto animo prode. Le altre novelle pubblicate sotto il nome del Giraldi, e scritte dal Cioni ; si discostano alquanto dalla consue- tudine degli antichi, i quali solevano con più accidenti proseguire il fatto che essi narravano . Ma egli però ha bene scelti gli argomenti. Comincia con un proemio, in cui per divagarsi da’ pubblici mali promette di racconta- re la ribalderia d'un malizioso ippocrita verso una donna semplice e vana. E questa è in somma la prima novella. Un uomo, il cui ufficio era dar buon esempio e conforta- re gli altri a virtù, si lascia trasportare a voluttuose bra- me e insidia l’onore d’un’ innocente sposa. Ella non ama lui, che è d'amore indegno. Ma colle arti , cogli astuti consigli, ed alfine co’ doni la sua persona è vinta. Sicchè il ribaldo allor contento ; si volge ad ingannare anche il marito , ricuperando per opera sua i conceduti doni. E la fernmina sbigottita « il di e 1’ ora mille volte maledisse , in cui ad un insidioso lupo disavveduta fidandosi , sè stes» sa aveva vituperata e tradita , col pentimento rimanendo e le beffe ». Nella seconda novella ( che il Cioni ha nel mezzo interrotta per far credere che fosse del Giraldi, e che l'originale mancasse ) è all’incontro una casta donna 45 che burla un voluttuoso ribaldo. E nella terza son ripetu- ti gli amori di Francesca da Rimini. Quindi alla quarta , che è del Girali come si è detto, succedono altre. cinque novelle, in cui son sempre deturpati i laidi costumi; quantunque in essi talvolta si fondi il sollazzo , che lo scrittore vuol dare a chi legge. Il che dovrebbe ormai uscir fuori al tutto della nostra consuetudine, avendo noi bisogno che i libri sieno castissimi e di forte dettatura, acciocchè la mente accolga i pensieri convenienti allo stato che si desidera , spenta la viltà della progenie fau- trice dell’ozio. Ed il finto Giraldi ( poichè per questa sola finzione merita il buono ed amabile Cioni qualche rimprovero ) ha conosciuto di per sè quanto importante sia migliorare anche le novelle ; avendone aggiunte qua- tro in questa muova edizione, e tutte piene di pudore. Di che gli rendiamo sincerissime grazie. Essendo il Cioni d’ umor festevole ha variato lo stile in ciascuna di queste quattro novelle, ora accostandosi al Boccaccio, ora altri imitando, e scrivendo la seconda in no-. me del Berni. Ogni maniera d’ascondere il suo nome a lui diletta. E ci piace veder com’ egli imiti il beato chiac- chierare di molti nostri avi, ch’esso ha per certo voluto satireggiare nel nuovo proemio apposto alle nuove novel- le. Ivi si legge: « conciossiachè dove la retta ragione fie- vole e fiacca diviene, null’altro che un animal bruto ri- mane, sendo la differenza fra noi e loro solaniente nel ragionevole. Per che da’ sommi filosofanti è stato detto l’uomo essere un animale ragionevole, laddove gli altri animali, non ragionevoli ma bruti sono chiamati » . Noi vorremmo poter rider tanto, quanto rise il Cioni, scrivendo sì belle ragioni, di che son piene le nostre venerandissime carte. E poichè avremo riso insieme , dando il cattivo ( ma in questo scusabile ) esempio di deridere i nostri maggiori, esorteremo lui e tutti i presenti a fare uso del- lo spirito in modo che all’ avvenire non sì rida de’ tempi 46 nostri. Pochi sono'atti, come è il Cioni, a migliorare l'educazione de’giovani e delle giovanette con spiritosi racconti. E questi aspettiamo pure da lui, convenevoli all’ età nostra, e dettati collo stile suo proprio, che non è da meno di quello che tragge all’imitazione d’altrui. Antonio Benci. Biografia universale antica e moderna, ec.— Venezia, presso MissiagLia. 1822-23. Vol. I a VIII. Finora sono stati pubblicati 8 volumi di questa im- portantissima opera; e noi abbiamo promesso di esami- narne gli articoli che risguardano gl’illustri toscani, no- tando le omissioni e gli abbagli inseparabili da così vasto lavoro (*): e ciò non per vaghezza di trovar macchia in tanta luce di sapere, ma per renderci utili ai dotti direttori dell’ edizione italiana , i quali dichiarano di voler procurarsi da ogni parte e biografie e necrologie, onde apparecchiare un copioso supplemento alla presente loro opera. Ecco intanto le brevi osservazioni che ci vennero suggerite leggendo i due primi volumi. Abbondio ( Alessandro ed Antonio suo figlio ) ce- lebri fabbricatori di statue di cera. Il primo fu allievo di Michelangelo Buonarroti. Acciajuoli (Donato) Tra le opere di quest’ illustre fiorentino si annunzia nel suo articolo: Storia latina di Firenze tradotta in lingua volgare; Venezia 1473, in fog. Perchè non riportare il vero titolo dell’opera: Zsto- ria fiorentina di Leonardo Aretino, tradotta in lingua volgare da Donato Acciajuoli. In Venezia 1473, onde non lasciar luogo a crederlo autore di quest'opera di Leo- (*) Vedi Antologia vol. VIII. pag. 559. 47 nardo Bruni d’ Arezzo , il di cui originale latino si pub- blicò in Strasburgo soltanto nel 1610? Avrebbero inoltre potuto aggiugnere , che della traduzione dell’ Acciajuoli ne furono fatte in Venezia tre posteriori edizioni nel 1476, 185 e 1561, ed una in Firenze nel 1492. Acciajuoli Giovanni di Marcello; peritissimo nelle lingue latina , greca , ebraica , caldea ed araba; lesse nello studio di Padova con molta riputazione, e scrisse più vo- lumi di problemi dottissimi. Acciajuoli Roberto figliuolo di Donato, e Vincenzo Acciajuoli, cav. di S. Stefano, meritavano pure per la loro vasta erudizione e per le pubbliche cariche onorevolmente sostenute , di non essere dimenticati. Accolti Leonardo, e Accolti Pietro. Alle opere del primo si aggiunga la bella Relazione delle cose di Ca- stiglione della Pescaja; ed a quelle dell’altro, 7'yrocinium de Jure et Justitia. Flor. 1620 in 8.° Accursio Francesco figlio; dicesi morto nel 1321 ; ma stando alla testimonianza del Villani, citato dal Ci- nelli, mancò ai vivi nel 1309. Adriani Marcello Virgilio, Adriani Marcello. Nel catalogo delle opere del primo furono tralasciate le seguenti: De lethalibus venenis, corumque curatione: De cane ra- bido: De Florentinae militiae laudibus: Oratio funebris in obitu Ficini. In quello del secondo vennero omesse: Orazio Joannae Austriacae: Orazione in morte di Scipione Am- mirato : Vita di Cosimo Ig ec. Agostini Leonardo. Si lasciò di notare, che l’in- taglio delle figure dell’opera Delle gemme antiche figu- rate ec., è lavoro di G. B. Gualteruzzi, pittore fiorentino. Alberti Giovan Francesco, senese ; fiorì nel 16°. secolo. Fu professore di lingua toscana nello studio di Sie- na, e scrisse molte poesie, fra le quali l’ Oloferne, trage- dia pubblicata in Ferrara nel 1594. Alberti Niccolò ; tale era il cognome di Niccolò da T. X. Luglio 4 48 Prato; che dovea citarsi per rimettere il lettore al suo rispettivo articolo. Alberti Piero; fiorentino , non n volgare letterati dei suoi tempi, e così doi nel maneggio de’ pubblici affari, che fu fatto segretario e consigliere di, Filippo il Bello. Accusato di aver tentato di sedurre la regina ; fu condan- nato a morte. Albizzeschi Bernardino. Anche questi si doveva co- sì citare per rimandare poi all’ art. S. Bernardino. Albergottì Francesco. Non viene tra le sue opere ricordata quella stampata in Francfort nel 1580 col titolo di Consilium matrimoniale ; nè l’altra: De Fidejusso- ribus. Albertini Francesco. Si omise di avvertire, che la sua opera sulle bellezze di Firenze è la prima scritta su tale argomento; come pure non si parlò di varie altré sue opere ricordate dal Cinelli. i —_ Atbizzi Bartolommeo; autore della celebre opera delle conformità, lasciò altre opere non indicate nel suo articolo , cioè; De verbis domini : De conscientiae casi- bus: super quartum sententiarum. Albizzi Benedetto; riformatore con Bhistolaminieo Medici del formolario notariale, meritava inoltre di essere ricordato per avere pubblicato nel 1550 colle stampe del Torrentino la storia di Giovanni Villani. Aldobrandini. Altri illustri personaggi di questa fa- miglia, che acquistarono celebrità letteraria o. politica , dovevano trovar luogo nella biografia, ed alcune cose im- portanti sono state taciute riguardo a Silvestro e Piero , ultimo dei quali è l’ autore dell’opera, De perfecto principe apophtegmata ; Francofurti 1603, in 8° ; co- me pure l’A/dobrandini Batista celebre letterato senese, che in presenza dell’imperatore Federigo recitò la bella orazione in lode della di lui consorte. Altissimo Cristofano (dell’); celebre pittore fiorentino, 49 allievo del Puntormo e del Bronzino, ed uno de’ più ripu: tati ritrattisti .che fiorirono sotto il governo del granduca Cosimo I. i Ambra Francesco. Oltre le sue tre più conosciute commedie, dovevasi soggiugnere che ne scrisse diverse altre, e che inoltre tradusse in volgare alcuni libri della storia veneziana.di Marcantonio Sabellico. Ammirato Scipione il giovane ; articolo inserito in quello del vecchio. Si rettifichi la sentenza : egli non lasciò niuna opera sua; perciocchè pubblicò molte opere sue e non del padre adottivo, e tra queste le poesie sopra i salmi ed alcuni cantici. Fir. 1649. in 4.° applausi poe- tici ec. Pisa 1633. in 4.°. Poesie spirituali. Venezia 1634. in 4° Angiolini Guglielmo; poeta fiorentino , scrisse il Trionfo del Lauro ed il canto de’ pescatori, stampati nella. raccolta. del Lasca. Fu lettor pubblico nello studio di Pisa nel 1492. «Anselmo Michelangelo di Siena ; trovavasi in Parma nel 1545 occupato ne’ lavori della steccata, dove dipinse coi disegni di Giulio Romano la coronazione di Maria Vergine , ed altre istorie di sua invenzione. Ma queste ed altre inavvertenze non infrequenti iu così vasta opera possono bensì far. sentire l'impossibilità di somministrare una perfetta biografia universale, ma mon fanno. torto agli editori veneziani, nè ai parigini. D’ una biografia universale ,.dicono gli editori della tra- duzione italiana, « togliemmo a pubblicare la versio- ne ..... è sarà pur sempre una biografia universale, non un dizionario o una biografia parziale ....... Queste cose dette vogliamo; al fine che sia in prevenzione a que’ che di nomi ommessi ci movessero querela » . Le persone ragionevoli si appagheranno di questa giu- stissima osservazione, e. sarebbe omai tempo di sagrificare le prevenzioni municipali alla gloria universale dell’ Eu- 50 i ropa , o per lo meno della propria nazione. E se accaderà giammai di pubblicare una biografia universale non di- retta da speculazioni tipografiche , verranno di buon. gra- do e senza levare ragionevoli lagnanze , escluse parecchie migliaia d’ articoli che ne formano da oltre due secoli; la più servile ad un tempo, ed all'umanità meno gloriosa parte. Allora per la prima volta coloro che.negli studi della pace o nelle opere della guerra onorarono l’ umani- tà, o la beneficarono colle loro virtù, più non si vedranno associati a persone che non lasciarono opere degne del- l'immortalità. Intanto è probabile che dovremo ;lunga- mente accontentarci delle moderne biografie, tra le quali, per molti rispetti , otterrà il primo luogo quella che forma Y oggetto del presente articolo. Ci lusinghiamo , che. cre- scendo coll’ opera l’impegno dei dotti incaricati della tra- duzione o della redazione degli articoli, lasceranno ne’ sus- seguenti volumi meno cose a desiderare che ne’due primi, sebbene ancora in questi siano di poco momento. Nulla diremo dello stile, sperando che uno de’valenti collabora- tori vorrà sagrificare qualche non spontanea gentilezza di lingua alla chiarezza ed alla brevità. P. Lezioni elementari di Archeologia esposte nella: ponti- ficia università di Perugia da Gio: Barisra Ver- MIGLIOLI. — Perugia presso Francesco Baduel 1822. Vol. 2. in 8. e Noi crediamo di non ingannarci, nè d’ingannare i nostri lettori, asserendo, esser questo il miglior libro di elementi archeologici, che venuto sia fin ora alla luce delle stampe. E ben convenìa che opera siffatta si scrivesse in Italia, ove bello asilo ebber già le arti ottime, e bel rinnovellamento ;} ove Giulio Cesare e Cicerone, e infiniti i Vs altri dopo essi raccolsero, e tuttor raccolgono, con grande ardore i monumenti dell’ età prisca , e ove ebbe fausto incominciamento l’ utilissimo studio dell’antiquaria , e ri- cevette ogni ramo di questa disciplina, in ispecie ai dì nostri , splendidi accrescimenti. Molte prove ed illustri dell’ ingegno ed erudizion sua avea già dato il sig. Vermiglioli, illustrando con dotte opere alcune parti dell’antiquaria , massime l’ etrusca, sì la scritta è sì la figurata: compiuta lode or egli acquista mercè di questo libro, che tutta e con pieno possesso la comprende. Giudiziosissima è la divisione dell’ importante su- bietto. Ha primo luogo l’ architettura : vi si fa parola dei suoi ordini; e si dà contezza degli edificj d’ Egitto, del- l’Oriente, di Grecia, e dell’antica Italia.Di poi si considera la pittura ; e principale scopo della trattazione sono l’ origi- ne ‘d’essa , la storia, il meccanismo, e la varia materia, su che sì sparsero i colori. Alla pittura pesa nn i mosaici, dei quali si noverano i migliori s che sono fino a noi per- venuti. Si fa dai mosaici passaggio alla scultura; e sì esa- mina essa in ogni sua parte, e rispetto ad ogni popolo che l’ha esercitata. Non si tralasciano le varie lingue, che s'incontrano nei.monumenti dell’arte antica, compresavi eziandio la geroglifica dell'Egitto; e si tien discorso delle gemme incise, notandosi i più importanti particolari di esse. Utili cose indi s’ insegnano agli espositori dell’ anti- chità figurata. Si mostra loro, che onore e fama a sè non procaccieranno giammai colla ridondanza delle classiche autorità , ma sì coll’ uso moderato di esse, col tener dietro alla storia del monumento, col far paragone di questo co’ somiglianti e più chiari, col non trascurare in somma tutti quei mezzi, che a scoperte conducono, e in che è ripo- sta la filosofia di questa disciplina. Prolisso per avventura parrà ad alcuno il trattato della numismatica, il quale assai carte tiene del primo tomo di questi elementi, ed i 5a è assai più del secondo. Ma tale nol troverà chiunque ab. bia ‘riguardo alla. somma importanza; alla varietà e al numero presso che infinito: di questi monumenti; alle. tante cose relative alla favola, alla storia, alla cronologia ;. ai magistrati, e a simiglianti particolarità , che in essi. s'incontrano. L’epigrafia pure l’ha per la sua indole trat- to a lunghezza. Opportunamente è assai conciso l'articolo ri- guardante l’arte diplomatica; siccome i due che seguitano,, cioè quel del vasellame, e quello dei principali stromenti ed attrezzi degli antichi. Le antichità cristiane poi sono l’ ultima parte del tomo secondo e dell’ opera; e parlasi in esse delle tre arti liberali, della numismatica, delle iscrizioni, e degli stromenti, sì di quei di sacro uso, e sì di quei del martirio. Le quali cose, di che abbiamo dato brevissimo pro- spetto, contenute sono in trentadue lezioni, cui n° è una premessa a tener vece di prefazione , nella quale si tratta di tutto quello che generalmente appartiene all’ archeo- logia. Alla fine di ciascuna lezione registrati sono i nomi. degli autori e citati i luoghi delle loro opere, cui le prove si appoggiano delle dottrine insegnate. Questo novero è sì abbondante , che può il libro riputarsi eziandio una com- pleta biblioteca archeologica. Ne duole però che co’ tanti pregi dell’opera non abbia saputo gareggiare l’industria del tipografo, che l’ha imbrattata di molti e gravissimi errori. Z. Traduzione francese della RepussLIcA Di CiceRONE, fatta da M. VirtemaIN. Parigi 1823. Avendo impreso a tradurre la repubblica di Cicerone in lingua italiana , e ricevendo ora una traduzione del- l’opera medesima in lingua francese, è mio ufficio indiear questa a’ lettori dell’ Antologia. Il traduttor francese, di 53 nome ViLLemain, è stimato con ragione dal pubblico , perchè. intende bene l’ idioma del Lazio, perchè scrive benissimo nella lingua sua , e perchè ha opportune cogni- zioni intorno alla storia ed alla filosofia. Talchè ‘gl’intel- ligenti delle nostre due favelle apprezzeranno al certo l’opera sua più che non la mia: ed io avrò cura di signi- ficarne i pregi, usandola a miglioramento di quelle parti che non ho ancora volgarizzate: A me rimane molto da tradurre; e il.volgarizzamento francese è già compiuto. Ma il sig. Villemain dice nella prefazione, che gli erano mandati di Roma i fogli della stampa di mano in mano che erano tirati al torchio. Onde egli ha avuto quel tempo ed agio, che non era a me conceduto. Il ‘che ‘dinoto, af- finchè i lettori non mi diano biasimo, paragonando la sollecitudine altrui coll’indugio mio; il quale è anche maggiore perchè debbo ad altro studio intendere. Io se- guiterò, quando posso, la traduzione del libro di Tullio . per condurla a fine, seguitandola ( come ho fatto finora ) parolà per parola: il che, se non sempre è facile, pure non è impossibile a chi la interpetra colle locuzioni d’ Italia. Il Villemain ha posto innanzi alla sua traduzione un discorso molto erudito , in cui facendo plauso e dando giusta lode all’ insigne e benemerito Angelo Mai, ripete alcune cose da questo dettate nella sua prefazione, ed altre ne aggiunge, intorno al manoscritto della repubblica, a’ palimsesti, a' copiatori de’libri, ed alle qualità dell’opera di Tullio : la quale fu ( siccome egli ben dice ) composta, «quando le leggi e la libertà di Roma erano per essere occupate dalle armi di Cesare; e che è perciò una protesta immortale contro i Cesari, gli Antoni, e i lor successori. Noi non produciamo questi particolari discorsi del Villemain, perchè i lettori nostri hanno avuto già di sif- fatte cose, tuttochè breve , ragguaglio. Ma importa sigui- ficare le sue indagini per rispetto alle cognizioni politi- 54 che degli antichi , ed alla costituzione della repubblica di Roma. “Onde qui tradurrò alcune parti, a ciò poro di questo suo utile ragionamento. « Noi ci volgeremo dapprima alla sini da cui 1 romani e massime Cicerone avevano tratto quasi tutti ì loro principii e le loro cognizioni : io parlo de’ greci che soli furono della civiltà classica istitutori. Perchè nulla sappiamo con certezza intorno agli egiziani: e gli ebrei non furono al mondo noti se non dopo la conquista d’Alessandro : ed i romani non sono stati se non copiatori, pieni bensì d’ingegno, ma poco fecondi, particolarmente in paragone de’ greci. Infatti la scenza del governo, che in Roma durante più secoli non sembra aver prodotto che un libro solo di teorica, cioè questo di Tullio, molti e varii ne aveva prodotti appresso i greci ». La quale inferiorità, soggiunge il Villemain, derivò forse dalla grandezza stessa de’ romani, che erano tutti al dominare intenti: #2 regere imperio populos, romane, memento. Ed invero il popolo di Roma chiedeva più fatti che paro- le: e sol chi opera, può acquistarsi libertà e impero. « Considerando la scenza politica appresso i greci ; vengono subito alla nostra memoria due nomi insigni , Aristotele e Platone, il primo acutissimo osservatore della natura e della società degli uomini, il secondo splendidissi- mo e d’animo elevato nelle speculazioni: amendue i quali dominarono la letteratura antica, e furono cagione d’acca- demie e di sette nella moderna Europa. Quindi è da presup- porre che Cicerone, come fu solito nelle altre sue opere, an- cora in questa della repubblica togliesse i suoi pensieri in parte dalle esperienze e da’sistemi di que’due sommi filosofi» temperando le teorie di Platone colle idee positive d’Ari- stotele, e riferendo questi argomenti altrui e diversi. all'esempio che aveva innanzi agli occhi, al governo cioè della patria ch'egli tanto amava, e che aveva con sì gran- de onore salvata ». i 55 «Platone, come Rousseau dice, aveva delineato nella sua repubblica un trattato d’educazione piuttostochè un sistema di governo. Egli non aveva immaginato l’arte di governare gli uomini, se non trasformandoli fin dalla cuna, e mutando altresì le correlazioni naturali prove- nienti dalla nascita. Ei distruggeva le famiglie, per so- stituirvi in un certo modo la paternità dello stato. Fa- ceva sparire la diversità de’ sessi; e togliendo alle donne le virtù più amabili, il;pudore e la fedeltà ,. voleva pur togliere ad esse la debolezza fisica, e renderle robuste e bellicose al pari degli uomini. In somma erano i suoi divisamenti un commentario esagerato delle rozze istitu- zioni di Sparta , dettato dalla fantasia ingegnosa ed entu- siastica d’ un filosofo d’ Atene. Ma occorse a Platone ciò che interviene a Rousseau per rispetto al suo Emilio. . Co’sistemi generali tanto eccessivi, e colle strane specu- lazioni, ei diffuse molte verità particolari: e benchè i suoi principii non concordino talvolta colle leggi della morale, ei diede pure colla stessa morale grandi incita- menti e nuove prove con sublime eloquenza ». « Quest’ opera dunque offriva a Cicerone , oltre l'eleganza dello serivere in che egli sempre studiava, grandi pensieri sulla natura dell’uomo, ed una elevata spiritualità che vivifica la scenza delle cose umane. Quin- di il sogno di Scipione (frammento notissimo della repub- blica di Tullio ) è manifesta imitazione, benchè abbellita, dell’ episodio in cui Platone espose la dottrina dell’im- mortalità dell’ anima, e delle pene e delle ricompense ; inducendo a parlare un certo Erio di Pamfilia, ucciso in una battaglia , ed evocato miracolosamente dalla tomba per palesarne i segreti. Ma nell’andamento dell’opera, nello scegliere e collocare i pensieri, Cicerone aveva rare occasioni ad imitare. Platone, poichè era differente lo scopo e il disegno suo: volendo l’uno di essi delineare una repubblica ideale , e l’altro descrivere una esistente re- 56 pubblica: cercando il primo la perfezione in. capricciose ipotesi, ed il secondo credendo averla trovata nell’antica costituzione di Roma ». i) « Cicerone si lamenta nelle lettere sue, na Catone, avendo rettissime intenzioni e probità austera, muoceva pur talvolta alla repubblica ; impercioechè dava consigli come se avesse vivuto nella città chimerica di Platone, e non in mezzo la plebe di Romolo. Il quale suo. rimpro- vero dinota , che egli dovesse far poco uso delle illusioni puramente filosofiche, massime in quel libro che voleva rendere utile a’ suoi contemporanei; senza figurarsi mag- gior felicità e saviezza, che sperare gli uomini non possa- no; e senza commutare i fondamenti della natura umana. Tullio non poneva tra le utopie ineseguibili l’ impero delle leggi, della giustizia , e della libertà. Credeva nella virtù. E produceva spesso le moralità sublimi della filosfia platonica , senza assumere i sistemi di Platone ». « Aristotele , i cui scritti sono quasi sempre contra- rii a quelli di Platone, a causa che un uomo di profondo ingegno e di retto discernimento è di natura indotto a contradire o riprovare la testimonianza d’un eloquente improvvisatore : Aristotele, che in politica siccome in filosofia aveva atteso a’ fatti ed all’esperienza , offriva a Cicerone un tesoro d’osservazioni e d’ indagini, che in parte abbiamo noi perduto. Ci è noto che'quel sommo fi- losofo aveva compilato le leggi e le costituzioni di più che cento cinquantotto stati, cominciando dall’ opulenta Cartagine fino alla povera e piccola Itaca. Il che poi aveva epilogatà negli otto suoi libri politici, i quali erano, per così dire , l’esprit des loix dell’ antichità. Che se al filo- sofo greco, non essendo allora sì avanzato il mondo, apri- vasi campo men vasto che al Montesquieu; non è perciò minore la varietà de’ ritrovamenti: e quasi tutte le com- binazioni sociali trovansi classificate e analizzate in quel- l’opera mirabile. Conservando forme repubblicane ido- 97 neissime e diverse, vedesi la saviezza degli antichi non escludere la monarchia, ma figurarla sotto diversi aspetti, assoluta, mista, temperata dalle leggi o da’ costumi. È maraviglioso vedere , come quel piccolo e giovane mon- do della Grecia , d’una parte dell’Asia, e d’ alcune isole, avesse già, per così dire, esaurito tutti gli accidenti poli- tici, tutte le vicende e tutti i sistemi che si producono sul nostro vecchio mondo, ingranditosi di tante nuove contrade e di tante maravigliose invenzioni. Così risguarda- to, è il libro d’ Aristotele importante anch'oggi ("). Quan- do fu portato da Atene in Roma, la quale ignorava tutto quel che essa non aveva conquistato , dovè spander luce nuova nell’animo anche a’più illuminati. E Cicerone se ne valse al certo: ma volendo fare un’opera romana, per raffermare le opinioni politiche della patria sua, e soccorrere all'antica costituzione che da ogni parte mi- nacciavano di distruggere , non potè ammettere il disegno stesso del libro d’ Aristotele; il quale essendo pieno di diversi esempli e di varie istituzioni sembra piuttosto ido- neo a far nascere, o a favorire lo scetticismo, intorno alla scelta del governo ed all’incertezza della sua durata. Sicchè Tullio, che diffidavasi di Platone come troppo dedito alle congetture, non pare sì confidasse neppure nell’ esperienza e pratica d' Aristotele, perchè fondata in troppo varii argomenti. Forse egli per romana alterigia sdegnò compilare le transitorie istituzioni di tante piccole repubbliche. E forse troppo gl’incresceva il credere; che la cara e potente sua patria potesse esser soggetta alla medesima sorte comune di corruzione e decadenza ». « Ma i trattati di Platone e d’ Aristotele ; opere prin- cipali della filosofia politica de’ greci, non erano già la parte più ampia di questo genere. Molti discepoli, e molti antecessori avevano composto simili libri , che Cicerone (*) Ved. Antologia pres. vol. A. p. 164. 58 ben conosceva, e di cui avrà fatto uso, siccome del libro del- la Ciropedia , il quale dice egli stesso che Scipione sempre leggeva. Questo libro ripeteva ciò, che molti avevano già detto , de’ beni d’una savia monarchia contro le calamità della ‘popolare licenza. Ed è cosa notabile che nascesse desiderio di questo governo nelle democrazie della Grecia e della Sicilia , promosso in particolare dagli uomini più istruiti e meno soggetti alle passioni. Per rispetto a ciò , ne’ tempi antichi , la filosofia opposizione faceva: perchè le brighe, la violenza e l’accecamento del popolo non lasciavano che poca autorità e luogo agli uomini d’ indole dolce e tranquilla. L’ aborrimento de’ greci] filosofi a’ po- polari eccessi doveva produrre, e produsse infatti quel- la teorica precisa di monarchia mista e legale, di cui la storia non offriva ancora un compiuto esempio », « Montesquieu ha detto che gli antichi non avevano chiara idea della monarchia, perchè non conoscevano un governo fondato sopra la classe de’ nobili , e molto meno un governo fondato sopra un'assemblea legislativa de’rappresentanti della nazione ». « Questa opinione in parte è vera. Gli antichi non hanno conosciuto il sistema della rappresentanza politica per due evidenti cagioni : perchè il numero de’ cittadini era piccolo, e perchè esistevano i servi. Una nazione ri- stretta quasi entro le mura d’una sola città, ed avendo a’ suoi piedi un altro popolo servo, non poteva immagi- nare nè aver bisogno di limitare ad una parte de’ suoi cittadini un dritto che distingueva l’ uomo libero, e di sostituire la scelta d’alcuni all’ esser tutti presenti. La quale promiscuità del dritto di dar suffragio fu pure, in que’ medesimi stati che rapidamente eransi ingranditi , cagione prontissima alla loro distruzione ». « Quindi però non dobbiamo maravigliare, se Ci- cerone manifesta nozioni di mista monarchia , d’ equili- brata potenza, e di classe nobile, procurando di ridurre a 59 questi termini la costituzione romana ; perchè le ‘avevano già indicate ed esaminate i filosofi greci con molta accu- ratezza, quantunque noi non possiamo giudicarne se non ‘ da qualche frammento conservatoci da Stobeo, » . « Archita diceva: che la miglior città si, compone di tutte le forme politiche insieme congiunte ,. avendo parti democratiche , oligarchiche, regie, ed aristocratiche. I quali detti sono meglio dichiarati nel seguente fram- mento, che Stobeo trasse da un-libro del ‘pittagorieo Ip- podamo intorno alla repubblica. ». «Le leggi darando fermezza allo stato, se. questo è di natura mista e composta di tutte le altre costituzioni politiche, cioè di tutte quelle conformi all’ ordine natu- rale delle cose. Importa dunque ammettere, per:prima base l’autorità regia, e per seconda l’aristocrazia, Infatti l’ autorità regia è una specie d’imitazione della providen- za divina : essendo però diflicile alla fievolezza umana il conservarle questo divino carattere, perchè essa. traligna presto al: lusso ed alla violenza. Onde non debbe. essere ammessa senza limiti, benchè conservata potente quanto bisogna, ed in proporzione utile allo stato. Dall’ aristocra- zia poi si deriva l’esistenza di piùcapi, grand’ emulazio- ne tra loro ,, e frequente mutazione di. possanza.. La, pre- senza della democrazia è pur necessaria», .il cittadino; che è parte di tutto lo stato; ha dritto a partecipare negli onori: ma bisogna in ciò usar moderazione,, perchè la moltitudine è animosa e precipita le i impilesé DE «Queste parole d’Ippodamo, scritte! già da. ‘più glie venti: secoli; e che sembrano. una! predizione del ;governo britànnico, non solo nell’ordine esteriore de’'suoi elementi, ma anche nelle sue molle segrete e nel contrasto salutare delle ambizioni promosse e sopravvedute l’una dall’altra, con reciproco accrescere diminuite di potenza. queste parole, dico, spiegheranno facilmente i,;pensieri quasi consimili , che Tullio fa proferire al savio. e grande Sci; Gol pione; il quale era nutrito di tutta la greca filosofia; ami+ co a Polibio ed a Panezio, e fermo avversario a’Gracchi » . « Noi abbiamo perduto: le scritture di Panezio; ‘che Cicerone aveva molto imitato nel suo trattato degli ufficii. Ci resta in parte Polibio , che aveva ammaestrato Scipio- ne nelle. scenze della Grecia, e che aveva certamente appreso! dal suo discepolo qual fosse lo spirito della roma: na repubblica; sì mirabilmente descritto nella storia: sua. Trattando egli delle diverse costituzioni della repubblica; pare che rinnuovi i pensieri d' Ippodamo'e'd’ Archita >». « I più di coloro, esso dice, che trattano da ‘maestri di queste cose ) riconoscono tre generi di governo: regio; aristocratico , e popolare. Ma si può ben, lor: domandare; se producono questi generi come i soli esistenti ;;o:come i migliori. Perchè in due punti gli credo errare. Bisogna in fatti igiudicar più eccellente quella costituzione ; che fosse composta di tutte le ‘altre già nominate. Nè: potrem= mo ammettere cheivi fossero: soltanto i suddetti tre;generi: Quindi>non’ogni: governo ‘d’un solo \uomo, ima ‘quella soltanto può: glicine regio soil, quale sì fondi in'una giusta obbedienza, e si eserciti «on saviezza piuttosto.che con' forza e ‘terrore. Non; dobbiamo neppur credere che ogni oligarchia sia un’ aristocrazia?) ima) quella solamente che promuove all’autorità ‘e potenza; per elezione ; ‘gli uomini:più giusti e più savi. Nè: demòcrazia è quello stato; in cui tutta la turba è padrona di fare ciò che essa propo- ne; ma quello bensi jp in/cuivper uso antico e» famigliare sì adorano.gli dei, si servono.i;padri ; si onorano ivvecchi , s'ubbidiscono le leggi: l’unione di siffatta gente:con' sif- fatti costumi; se il consiglio Hai più regge:lo stato, para è ed appellasi democrazia » . « Ecco dunque perchè Cicerone; avendo nel primo libro jdella sua repubblica definito spartitamente il gover- no regio, aristocratico, e democratico, ha potuto conclu dere essere di suo genio un quarto governo politico; misto Ù D, Li 61 e temperato degli altri tre: al quale pur Tacito alludeva alcuni secoli di. poi, quando questo grand’ uomo, diceva con dolore: tutte le nazioni e le città si reggono a popolo, o per consiglio de’ primarii, o da un solo: una forma di repubblica consociata ed eletta tra quelle è più facile a lodarla che ad. ottenerla , 0 se interviene , non può. esser durèvole ». I :« Cicerone esprimeva i suoi pensieri.con più forza e fiducia, perchè non aveva come Tacito esperienza, del- l'impero de’ Cesari. Nè dobbiamo concludere; che egli, anteponendo il governo misto , volesse distruggere la co- stituzione romana : che anzi dimostra nelle. lettere sue, quanto gl’increscesse l’autorità de’primi triumviri, e come | si sdegnasse vedendo console!sòlo Pompeo;: accusando pure costui d'essere usurpatore e tiranno. Ma Ciceroneconosceva qual fosse l’imperfezione della repubblica, cioè il domi- nio sempre crescente d'una: moltitudine sempre pronta a trasportarsi, alla licenza ed all’entusiasmo, ed a sottcporre le leggi. e l'impero a’furori di Catilina o alle armi gloriose di Cesare. Egli vedeva ]’ autorità di costoro, la cui ambi zione temeya.; non aver ‘miglior radice che l'abuso stesso del popolare governo: vedeva la dittàtura venduta ad essi da un fazioso tribuno, o data loro da’ gridi della .ceca plebe. Ed inoltre era: manifesto che:ne’ primi, tempi di Roma,.dopo cacciati i re, l’autorità regia cerasi quasi tutta.trasferita ne’ consoli e nel senato: per. la: quale po- tente aristocrazia, che. un.medesimo disegno: sempre se- guitava, aveva Roma ottenuto tanta virtù e grandezza » . :« Cicerone procurava, almeno in teorica, di ritrar- re; le cose al loro principio : e.come suole accadere , egli abbelliva,ciò che più non esisteva. Egli attribuiva a'tempì passati quella saviezza e regolarità, che. Roma forse mai non conobbe. Dichiarava gli accidenti con cause generali e profonde: e faceva concordare i progressivi.accidenti con quel politico sistema , che le sue considerazioni ed i 62 suoi studii gli dimostravano più saggio e più opportuno: Il che ci palesa , perchè egli abbia seguitato l'andamento storico nel secondo libro di quest'opera sua: indicando l’uno dopo l’altro i governi de’re di Roma, e le loro prin- cipali istituzioni: significando poi lo stabilimento della repubblica, ed esaminando le. diverse magistrature a governarla elette , con assegnarne pure la datdy la cagio- ne, e la durata. Ma da queste diverse rotazioni poteva egli di vero infèrire quel governo misto che a lui piaceva di proporre ? Non fu sempre in Roma un lottar violento tra due emule classi? Non mancò sempre un’ autorità moderatrice , inviolabile e pacifica ?. E la mancanza di questa autorità non fu con gran pericolo supplita dal- l’ elezione di quella formidabile dittatura ; che una volta usata , doveva presto o tardi divenire appresso un popolo guerriero la sola autorità imperante ? » . « Non sembra che Cicerone fosse tanto sincero; che questo confessasse. Ma le azioni sue dimostrano ; che egli scorgeva e procurava di ovviare questo male della repub- blica. Conoscendo l’ importanza d’un’autorità mediatrice; allorchè fu console , reintegrò l’ ordine equestre egli diede preponderanza da divenire ‘un terzo membro dello stato. Ma qualunque fosse l’importanza ‘e ‘1’ effetto istan- taneo di questo sforzo, non fece che introdurre nello stato un elemento di natura simile agli altri, tumultuoso; varia- bile, e perciò inatto a servir di freno e di barriera». « Del resto , esaminando ‘ciò che Tullio dice intorno all’ utilità d’ un governo misto e temperato; e vedendo che egli, quasi illudendosi, trovava quest’ utilità nella antica costituzione di Roma , non siamo noi tratti a que: sta conseguenza ? che l’antico mondo, il mondo pagano, avendo imperfetta religione, mon poteva metter in prati» ca quella monarchia temperata, che alcuni sapienti dise- guavano e speravano ». Quindi il Villemain parla del mondo rigenerato dal ER } 63 cristianesimo , per cui migliorata la morale, poteva la civiltà progredire. E noi pur confessiamo la medesima opinione, e ci gode l’ animo d’ esser nati in un tempo di ‘ progressivo ‘miglioramento, con lieto sperare nell’avvenire. Ma dobbiamo perciò credere che fosse ostacolo a buon governo di temperata monarchia il politeismo di Roma? Volendo noi riguardare i dettami della religione, siccome divini, augusti , e troppo più grandi che implicar si deb- bano negli affari degli uomini; c’induciamo sovente a pensare che a questi soli riferi si possa ogni umano go- verno: La buona religione è opportuna moderatrice della pubblica morale, in quantochè rivolge l’animo de’ cit- tadini al bene : e pochi precetti essa consiglia , tutti uni- versali, tutti pieni di puro e misericordioso amore, idonei a collegare la famiglia sparsa di noi mortali. Quindi non può essa invilirsi a dettare le correlazioni civili, che da tanti casi dipendono, da tanti bisogni, da tante diverse condizioni, e da tanto vario ‘umor de’ popoli. Ed i figli di Romolo avevano, è vero; imperfetta religione: ma questa non toglieva loro la tolleranza, la virtù, nè l’amore della patria; ne’ quali fondamenti mi pare si possa in- | nalzare un buon governo politico. La sola differenza tra i loro e noi (edio parlo per rispetto al disegno della tem- perata'.monarchia ; poichè non oserei fare degli altri esempli! loro alcun paragone co’nostri) questa mi sembra: non poter essi confidarsi ne re, dopo averne avuti sette, e cacciato l’ultimo: ed aver noi la consuetudine d’ ubbi- dire a un monarca ; poichè quest’ ubbidienza è a noi fermata nell’ animo fin dalla nascita, essendo il sommo pontefice re universale del mondo cattolico. In quanto poi all’altro rimprovero, che molti fanno agli antichi e massime a Cicerone : di lodare cioè troppo i tempi passati, con biasimo de’ presenti, e senza speranza all’avvenire: io non so come neppur questo sià fondato nel vero, particolarmente quando lo derivano dalle opi- 1. X. Luglio 3 64 nioni religiose, le quali appresso gli antichi ( sì dicono i moderni ) non facevano sperare quel continuo progresso d’umanità, di civiltà e di giustizia, che nella storia no- stra si scorge. Noi abbiamo già dinotato che la morale pubblica non mancò in tutti i tempi in Roma: ed un popolo che vive con buona morale , non può esser dispe- rato dell’ avvenire. Ma Cicerone in che tempo scriveva ? di qual governo, di qual popolo faceva scopo le sue scrit- ture? Non potendo egli mutare l’indole e le consuetudini de romani, a queste solo riguardava per ritrarle in meglio. È di tutto ciò, che aveva appreso da’libri stranieri, ei ne faceva opportuno precetto, accomodato però alla mazione sua. Or vediamo lo stato di questa nazione. Essa era bel- licosa e potente, ma non concorde. Mandava eserciti e capitani a vincere in territorio straniero, ma questi tor- navano ambiziosi al Campidoglio, per trionfare in Roma audacemente della libertà romana. Ogni nuova vittoria produceva nuove fazioni. Ogni trionfo era segno a servitù vicina. Tale era in somma lo stato de’romani, qual suole essere ogni potentato che abbia continua e necessaria guerra. Licenziando gli eserciti, cadeva Roma oppressa dagli oltramontani. Mantenendo le milizie, dava a’ fazio- si le armi, ed era per cadere sotto il dominio degl’ inte - riori nemici. Le virtù degli avi, semplicità , modestia, _ temperanza , rettitudine, e amor della patria libera , avevano tralignato appresso l’ universale in lussuria, ar- roganza, cupidigia, falsità, e amor di sè medesimi. Il valore non era anche spento: e perciò durava la città tuttora incerta tra ’l comandare e ’l servire. Nella quale incertezza non è Tullio biasimevole, se lodava ì tempi passati, da’ quali soli fi: CA trarre argomenti ed esempli a benefizio comune. Nè è pur degno di biasimo, se talora mostrava poca fiducia nell avvenire. In fatti Roma dicad- de sempre dopo l’età di Cicerone, e di capo del mondo diventò provincia. 65 Noi non crediamo che Tullio potesse o dovesse riguar- dare sì lungi che l’età nostra presente. E se i moderni presuppongono che la nuova civiltà possa durar sempre crescendo, essi hanno pure una ragione più importante, la quale a Cicerone mancava. Io parlo della stampa, mezzo utilissimo a conservare i fatti progressi, e ad inanimare ed | avvertire prontamente i popoli quando traviano da) retto cammino. Guardando poi alla lacrimevole storia, non solo di Roma , ma di tutta Europa , che dopo Cicerone, sotto i Cesari e gli stranieri conquistatori, per sì molti secoli contrista chi legge; oh! quanto mi sembra grande il discernimento di Cicerone , allorchè non sperava nel- l'avvenire. Tra noi e lui sono diciotto secoli. E quale ora sarebbe la patria sua? per quale città detterebbe egli al presente i suoi pensieri politici ? Antonio Bencr. ee mere Di Marco Polo e degli altri viaggiatori veneziani più illustri. Dissertazione del P. ab. D. Placido Zurla, ec.— Venezia , 1818 e 1819, 2 vol. in 4°. + La relazione de’ suoi viaggi, che Marco Polo, genti- luomo veneziano , scrisse nel 1298, tre anni dopo il suo ritorno in Italia, fu per più secoli riguardata come favo- losà -ed esagerata; ma di mano in mano che andarono crescendo le cognizioni scientifiche e geografiche , e si moltiplicarono i mezzi di confronto , l’ opera del Polo acquistò opinione di sincerità, e fu trovata veritiera in ogni parte e di somma importanza. Il Ginesio , Ramusio, An- drea Muller, Bergeron, Lessing, e nel presente secolo il signor W. Marsden, consacrarono i loro studi a castigare, a confrontare, ad illustrare i vari testi della relazione del viaggiatore veneziano: e quando sembrava esausta la ma. teria, il celebre signor D. Placido Zurla eresse un nuovo 66 monumento alla gloria di Marco Polo, e di altri rinomati viaggiatori veneziani. L’opera del sig. Zurla riscosse l’ u- niversale approvazione, e per tacere di tutt’ altri, i dotti compilatori del Journal des Savans e degli /ouvelles annales des voyages , ne diedero accurate analisi ne’ ri- spettivi quaderni dello scaduto maggio. {l signor J. P. Abel-Remuzat , autore di gle inse- rita nel Journal des Savans, osserva , che il signor Zurla sì attenne nella distribuzione delle sue osservazioni al piano proposto dal signor Muller. Il 1°. capitolo contiene alcune osservazioni critiche bibliografiche intorno ai vari testi di Marco Polo; il 2°. una notizia di Niccolò e di Mat - tio padre e zio di Marco; trattano i tre successivi della geografia ; il 6°. della storia naturale e della geografia fisica; il 7°. della storia ; l’8°. della religione; il g°. delle costumanzé; il 10°. delle scienze e delle arti; l’ ultimo del commercio e della navigazione. Il dotto inglese Marsden opinò, contro l’ universale sentimento, che la versione italiana di Ramusio non offre ( e non l’ offrono pure le altre versioni tratte dalla latina di Pepino da Bologna) l'originale relazione del Polo nella primitiva sua forma; e mostrasi proclive a credere ciò che scrive il Ramusio, di avere certo Rustighello , gentiluomo pisano, scritta in latino la narrazione fattagli a viva voce dal Polo; e perciò avrebbe bramato di vedere il mano- scritto della relazione in dialetto veneziano posseduto dalla famiglia Soranzo. Ma non avendo potuto far pago questo suo desiderio , si valse per la sua traduzione inglese del testo del Ramusio, siccome il migliore di tutti gli altri a lui noti. Per quanto verosimili sembrar possano queste supposizioni , dice il signor Remuzat, l’ab. Zurla ha ottenuto colle sue indagini risultamenti affatto opposti. Ed in primo luogo non gli pare pro- babile, che Marco Polo ‘abbia dettata la sua relazione nel dialetto veneziano. La lunga assenza di 26 anni dalla patria; da cui era uscito nella fresca età di 19 anni; l’ abitudine contratta in tempo 6 de’ suoi viaggi di parlare quattro lingue orientali, gli avevano dato, secondo Ramusio , un non so che di tartaro nel volto e nel par- lare, e tolta affatto l'abitudine di esprimersi nell’ idioma veneziano: ond’ era difficile, che nel breve corso di tre anni avesse Marco Polo riacquistato in modo l’uso del materno dialetto, da spie- garsi convenientemente sopra tanti e così variati soggetti. E sem- brerà ancora meno probabile che vi sia riuscito , non’ scrivendo egli medesimo , ma dettando a viva voce ì suoi racconti ad un. pisano , cui non doveva essere punto familiare 1’ antico dialetto veneziano. Per ultimo voleva Marco Polo, che i suoi racconti si leggessero dalle persone di diverse nazioni che con lui si trova- vano nelle carceri di : Genova, dai principi, dai signori, e da ogni maniera di persone , che non avrebbero potuto intenderlo quando si fosse servito di un dialetto non molto divulgato come quello di Venezia. Il signor Remuzat non dissimula la debolezza di questi argomenti. Per quanto un autore desideri, egli dice , che la sua opera venga letta da persone d’ ogni nazione , suole d’ ordinario scriver- la nella lingua che meglio conosce , lasciando ad altri la cura di traslatarla in altre lingue, onde renderne più universale la let- tura. Il pisano , cui Marco Polo dettò la sua relazione, tanto po- teva sapere il veneziano come il latino; e rispetto a Marco Polo , quand’ ancora si voglia supporre che avesse in Tartaria dimenti- cato in modo il patrio dialetto da non potere in tre anni da che. tornato era in Italia riprenderne l’uso, come si potrà poi cre- dere che siasi rissovenuto della lingua latina; o che l’ abbia ap- presa di nuovo, se come è probabile , non la sapeva prima di partire? in qualunque ipotesi, era pur necessario che fosse inteso da colui che gli serviva da segretario ; e qualsiasi idioma adope- rato nel paese in cui si trovava, bastava al conseguimento di questo scopo. Ma quando non si vuole ammettere ciò che intor- no a quest’ argomento c’ insegna la tradizione, convien rinunciare ad una disputa ; che ci strascinerebbe in così grand’ incertezza. A queste osservazioni del signor Remuzat , aggiugne l’autore dell’ articolo degli annales des voyages, ec. la seguente. Ma se i testi veneziani sono traduzioni, perchè i nomi propri dei luoghi e degli uomini vi si trovano scritti coll’ orto- grafia veneziana, per modo d’esempio Zorzania per Giorgiania? Egli è questo , soggiugne, un problema di difficile sciogliemento. 4 68 I signori Walckenaere e Marsden ed altri dotti inclinano al: ve- peziano ; il caval. Baldelli a Firenze, che lavora intorno all’edizione del testo posseduto dall’ accademia della Crusca e chiamato il miliore , sembra disposto a riguardare il vecchio francese come la lingua originale. La disamina, continua il sig. Remuzat, del MS. Soranzo potrebbe avere positivi risultamenti, qualora scuopransi in questa copia in dialetto veziano caratteri d’autenticità .... Perciò l’ab, Zurla credette a ragione di far cosa grata ai dotti coll’offrir loro una circostanziata descrizione di questo prezioso manoscritto. Os- serva , che il carattere è perfettamente somigliante a quello del famoso mappamondo di F. Mauro , e che ben si conviene alla data che si legge sopra un foglio posto in principio del libro ; che il dialetto veneziano è mescolato con il toscano, ma affatto rozzo ed informe, senza ortografia e senza punteggiatura. Tutto ciò spalleggerebbe l’ opinione di coloro , che risguardano questo inanoscritto come una copia fatta nel 15.° secolo dell’originale dettato da Marco Polo. Ma vi si trova un’ altra particolarità , che hen merita maggiore attenzione che non pensa il signor Zurla ; ed è , che il testo di Marco Polo nel M. N. S. Soranzo è molto più compendioso di quello del Ramusio, e pare un estrat- to della relazione, nel quale furono introdotte molte cose che non fanno intrinsecamente parte della narrazione ... .. Nè l’ estensore dell’articolo del Journal des Savans, nè quello dell’ altro posto nei Nouvelles arnales, tengono dietro alle indagini bibliografiche del signor Zurla sulle eopie latine o in altre lingue volgari che si conservano nelle biblioteche di Parigi, di Venezia, di Milano, mercè le quali crede di avere aggiunta maggiore probabilità alla sua opinione, cioè , che la relazione di Marco Polo fu da principio scritta in latino, indi tradotta in vari dialetti italiani, ed in francese; e che quindi sopra alcuna di tali versioni si eseguì la traduzione latina del domenicano Pepino da Bologna. Rispetto al testo italiano di Ramusio, sembra traslatato da un antico testo latino non lontano dall’età di Marco Polo, di cui il signor Zurla suppone trovarsene una copia nel manoscritto latino della bibliote- ca di Parigi, di cui i PP. Quetif ed Echard pubblicarono la prefazione col principio del primo libro nel Tomo I. 69 p. 540. Scriptorum ordin. Praedic. Onde il signor Zurla conchiude essere il testo di Ramusio preferibile a tutti gli altri. La somma riputazione , dice il signor Remuzat, di cui gode nell’ età presente Marco Polo , ha potuto sostenere il signor Zurla in così sterili e faticose indagini; ma un’osservazione generale dovrebbe sconsigliare ogni dotto dall’intraprenderne di simili. Si raccoglieranno con esattezza tutte le particolarità relative alla ‘ storia di questi celebri viaggi ; si disputerà intorno alla preferenza da darsi ad un testo piuttosto che all’ altro , alla loro antichità, ec; si riuniranno tutte le varianti, tutti gli errori d’ ortografia , tutte le viziose forme de’ nomi propri ....... e da sì lunghe ed ingrate fatiche non si otterrebbe un solo fatto notabile, nè la correzione di un solo de’ tanti nomi sfigurati da Marco Polo, o da’ suoi copisti .... Fin ora a dispetto degli ostinati studi di tanti dotti non si è ottenuta la corretta pronunzia d’un solo nome di città o di paesi. Sarà dunque savio consiglio l’attenersi al testo di Ramusio, che secondo i signori Marsden e Zurla , offre tutto ciò che la più inquieta curiosità può ricercare nella relazione di questo viaggiatore. Richiederebbesi , dice il bibliote- cario Morelli, una straordinaria abilità, vastissime cognizioni del- I’ istoria, della geografia e delle lingue dell’ Asia orientale , per introdurre qualche novità in una materia, che fa così spesso esaminata e tormentata dai commentatori. Ciò non intese di fare il signor Zurla , il quale non altro si propose nel riepilogo della relazione di Marco Polo, che di presentare un compiuto quadro delle nozioni di cui andiamo debitori a quest’ uomo in ogni parte dello scibile umano. Ma la geografia ne ottenne importantissimi servigi. La Persia e le altre parti dell’ Asia occidentale , la Tartaria , la China , l’India meri- dionale e le isole richiederebbero un separato esame; ed in colui che si accingesse a così difficile lavoro, la facoltà di attingere a monumenti in Europa presso che sconosciuti , ai geografi arabici e persiani , agli annali chinesi, alle descrizioni storiche della Tar- taria, alle nozioni positive o tradizionali, che possono raccogliersi intorno allo stato de’ regni indiani nel 13°. secolo ......L'ana-. lisi del signor Zurla è la più compiuta ed esatta, che far si po- tesse senza gli accennati sussidi. Alquanto diversamente ne giudicò l’autore dell’ar- ticolo de’ Nwovi annali. VIS) ; i Il desiderio , egli dice , del signor Zurla di trovare nel di bro del suo compatriotto una relazione superiore ai lumi ed al gusto generale del 13°. secolo , gli fece supporre non esservi né - confusioni nè lacune , e che le indicazioni del numero de’ giorni e delle direzioni siano state ne’ manoscritti meglio conservate, che non i nomi delle città e delle provincie. Ma sarà egli possibile che un uomo imparziale ammetta queste due supposizioni ? Noi non potremo giammai risguardare come un itinerario continuato e regolare le memorie di un viaggiatore , che dopo vent’ anni racconta sommariamente i propri viaggi a traverso a paesi, de’quali in allora non esisteva veruna carta, che a. grandissima distanza si accostasse alla vera loro forma : e non è noto che Marco ‘Polo. ne facesse. Crediamo perciò doversi risguardare la relazione di Marco Polo come una scrittura di memorie , la quale , per conto delle distanze e delle direzioni , non è attendibile quando trovasi in contradizione con dati più avverati. Crediamo che Marco Polo abbia conservata un’ esatta idea del suo cammino generale ’dal- l'occidente all’oriente, da Balk fino a Cambalou , ma che vi ag- giunse , come gli suggeriva la memoria , molte città e paesi posti a destra ed a manca della sua via , in que’ punti di riposo che interrompono il suo cammino. Dopo ciò l’ estensore dell’ articolo entra a dimostrare con fatti particolari la sua opinione ; e termina dichiaran- do, che i due ultimi paragrafi intorno alla Serie corogra- fica de’ viaggi di Marco Polo , sono un documento assai giudizioso ed istruttivo . Ni Il signor Remuzat, passando dalla geografia alla fisica del viaggiatore veneziano dice, che il signor Zurla si è limitato a riordinare le Mn note Col A dal signor Bossi. Sarebbe stato desiderabile, soggiugne , che queste osserva- zioni si fossero classificate per materie, onde le diverse specie di animali, di piante, di minerali, si trovassero disposte in maniera da far vedere in un istante quali sono le cognizioni raccolte da. Marco Polo in tutti i rami delle scienze naturali; quali conoscevan- si prima , e quali da lui ricevette l' Europa. Ma il signor Zurla. preferì l’ ordine geografico , che infatti è quello degli stessi ca- pitoli della relazione , e che si conservò nelle , mote marginali : le quali note non lasciano di essere interessanti e curiose. E ben VI n'era. degno Y argomento , essendovi stati parecchi. osservatori men. buoni di Marco Polo; sebbene vissuti in tempi assai più vici- ni ai presenti. i . Marco Polo, che occupa un eminente rango come geografo e come osservatore , sebbene veritiero e fedele , non può interessare egualmente come istorico, perciò che si hanno altronde più ricchi e più abbondanti materiali di quelli da lui raccolti, quali sono gli storici turchi, p. e. Aboulghazzi , gli scrittori persiani, le cronache mongolle, gli annali chinesi, e simili; e quindi il signor Zurla po- teva risparmiarsi la pena di raccogliere tutti i fatti storici del suo autore. Ciò che più interessa nella relazione di un così veri- dico viaggiatore , è la descrizione de’ costumi, degli usi, delle ceremonie religiose , de'monumenti , delle manifat- ture , delle arti e delle operazioni mercantili presso tutte le nazioni da lui visitate. La somma attenzione ch’ egli ebbe di far conoscere tutti questi oggetti, basta a rendere pregevolissima la sua relazione ; perciò che sotto questo rapporto nulla abbiamo, che le s’avvicini non che l’uguagli. I cronisti asiatici, dice il signor Remuzat, sono, generalmente parlando , siccome quelli d’ Europa, più inclinati a conservare la memoria delle guerre e delle rivoluzioni della corte, che non delle circostanze e dei fatti che formano la storia morale delle nazioni. Il signor Zurla divise in quattro capitoli l’ubertosa mes- se de’fatti di tal genere somministratigli dal suo autore. Il primo è consacrato alla religione , il seguente alle costumanze, il terzo alle scienze ed alle arti, l ultimo alla mercatura ed ‘alla navi- gazione. Questi capitoli e quelli che risguardano la geografia ri- chiedevano una carta, onde il signor Zurla fece un mappamondo, sul quale tracciò con distinte linee il viaggio di Niccola e di Matteo Polo dal 1250 al 1269, quello di Marco dal 1271 al 1295, quelli di Niccola e di Antonio Zeno dal 1390 al 1405 , quello di Niccola Conti dal 1424 al 1449; quello di Luigi di Cadimosto dal 1455 al 1456, e per ultimo quello di Giovanni e di Seba- stiano Cabotta dal 1496 al 1526. Il signor Remuzat chiude il suo articolo colle seguen- ti osservazioni intorno all’ annunzio della nuova Pine 79 di Marco Polo progettata dalla società di geografia , della quale abbiamo parlato nel vol. 9g dell’Antologia, C. pag. 174. La scelta, egli dice ,- è caduta sopra un codice scritto in an- tico idioma francese nel 1298, onde quando esatta fosse questa data, ci offrirebbe una traduzione fatta immediatamente sull’ori- ginale veneziano o latino , e nello stesso anno in cui Marco Polo avrebbe terminato di dettare la sua relazione. Probabilmente, come praticavasi in simili circostanze, si sarà , traducendo , por- tata la data dell’orignale sulla copia; ma un incontrovertibile vantaggio di questo manoscritto, sarà quello di contenere 28 capi- toli inediti relativi alla storia del Turchestan. Si promette di riprodurre fedelmente il testo corredato di una raccolta di va- rianti rispetto ai nomi geografici, ed abbiamo fondamento di sperare che avremo un’altra buona edizione, che per la purità del testo sosterrà il confronto di quelle di Ramusio e di Marsden. Pare che non si pensi di corredarlo di note; nè di glosse ; lo che non è per farle verun torto, dovendosi anzi risguardare come in- dizio di prudente accorgimento il non cimentarsi nel troppo dif- ficile incarico di superare i suoi predecessori. I dotti compilatori degli annali de’viaggi e geogra- fia che stanno apparecchiando questa accuratissima edi- zione del testo francese, non ignorano che un illustre toscano, il signor cavaliere Baldelli, ha promesso di pub- blicare, probabilmente arricchito di utili illustrazioni, il famoso testo della relazione di Marco Polo posseduto dall’Accademia della Crusca: e da più anni tutti i dotti del- l’ Europa aspettano con impazienza di vedere, come dopo quanto hanno recentemente scritto intorno a Marco Polo i signori Marsden e Zurla , sia tuttavia rimasta al signor Baldelli ubertosa messe di peregrine osservazioni. T. Nuovo sistema di fortificazione di Domenico Cac- CHIATELLI romano.—Roma 1819, ed Appendice 1822. ._ Non è mai tanto abusato della parola sistema come nella fortificazione, ove per poco uno muti a qualche idea, sì presenta inventore nuovissimo, e restauratore della di- 73 fesa. E però a questa ordinaria pretensione debbe attri- buirsi che il sig. Cacchiatelli abbia dato nome di 720y0 sistema di fortificazione al breve suo libro impresso in gran foglio a Roma dal Bourlier. Già ben’ addietro il Montalambert nella sua arte difensiva superiore alla of. fensiva fatti aveva disegni di piazze, ‘accoppianito la for- tificazione circolare all’angolare; nè l’ essere la cinta angolare piuttosto a bi itiloi che a tanaglie, come in Montalambert, e doppia anzi che semplice, è diversità che rilevi rapporto al carattere della cosa. E non è stato nemmen primo il sig. Cacchiatelli a distinguere le difese in occulte e visibili, per agire da lontano con le seconde, e da vicino con le prime. Lo stesso Montalambert attese a ciò nel disporre che fece a più ordini le sue casamatte , muniti gli inferiori di cuoprifacce , dal che poi sì distolse, appunto nella citata opera, in cui le casamatte a più ordi- ni si veggono innalzate scopertamente agli approcci, confi- dando l’autore che la quantità superiore di fuochi direttivi contro , gli rovesci e distrugga. Tutti coloro poi ai quali piacque di avere una cinta con andamento circolare (chè altri furono senza Montalambert ) ne costruirono parimente il grande cavaliere perpetuto, sovra cui presume avere par- ticolare diritto d’ invenzione il sig. Cacchiatelli. A lui bene rimane proprio di volervi sopra una continua batte - ria, e di volerne un’ altra per tutto il giro del cammino coperto che va concentrico al cavaliere, impiegando 640 cannoni ( e 260 del cavaliere sono di grosso calibro ) non contati i mortai e l'armamento della cinta bastionata , per una piazza la quale è delle più anguste. Se il sistema cir- colare di Cugnot impiega pur esso da 600 cannoni, è per- altro in un perimetro di 12. a 15 mila tese, dove si può dar luogo a immensi magazzini. Sia lode al sig. Per- tusier, distinto uffiziale dell'artiglieria francese, che nella sua bell’opera Za fortification ordonnee d’après les prin- cipes de. la strategie et de la balistigue modernes, ha mo- 74 | strato riguardo all’artiglieria accorgimento singolarissimo, — poichè dove tutti gli altri fortificatori che la dispongono in casamatte non possono evitare di profonderla, egli ot- tiene del risparmio per arte delle costruzioni sue, e per la suscettibilità che lascia l’ artiglieria di essere traslocata sì facilmente come allo scoperto. Tiene pur anche il terrazzo circolare per cavaliere , ed in linee circolari volge il cam- mino coperto; ma non sono due batterie di grossi calibri. Solamente nei salienti del terrazzo melte alcuni pezzi da 24, che poi si calano al primo piano della casamatta, e gli altri, sia per le difese coperte, sia per le scoperte, sono da 12 o da 8,e trasportabili ai luoghi opportuni. Non oseremo noi decidere intorno al merito generale del sistema ; bene affermeremo che nessuno fu mai trattato con maggiore evidenza di principio, con più idonea ap- plicazione di mezzi, con più ordine nelle parti, e più minuta particolarità. Da queste belle doti di un libro, può facilmente chi vi sia capace indursi a farne l’ana- lisi, non tentabile in un abbozzo quale è quello presen- tato dal sig. Cacchiatelli. Noi non potremo notare che qualche errore di massima, (e due ve ne hanno addi- rittura nel bel principio dell’ introduzione ) (1) non poche incongruenze , come ad esempio rimarcabile l’ impostasi esclusione dei regressi offensivi e di ogni sortita, e per ultimo la impossibilità del suo grande spalto , che sten- dendosi col declivio fin oltre la passata dei cannoni del (1) Il primo consiste nell’ asserto, che durante la fortificazio- ne antica fossero più possenti i mezzi di offesa che di difesa , non volendo il sig. Cacchiatelli considerare che se la difesa ha dovuto sempre cedere all’ offesa , era , quanto agli antichi, per non altra ragione che questa sola naturalmente durevole ad ogni tempo, di potersi l’assediante rifornire di mezzi, mentre l’assediatò deve usare dei suoi con parsimonia , e mancarne alla fine. Il secondo errore di massima si è questo , che le nuove scoperte abbiano migliorata prima la condizione degli assediati che degli assedianti. nd più grande calibro dei quali è guarnita lacinta a cavalieri, richiederebbe un movimento. di terra sterminatissimo , qualunque facciasi più favorevole supposizione rispetto al dominio di essa cinta , e alla distanza sua dallo spalto : cose che il sig. Cacchiatelli, parimente che ogni altra misura, non ha creduto utile determinare. Luogo è questo ancora di ricordare il sig. Pertusier, il quale con sagacità tutta propria e vedute diverse da quelle avutesi nel fatto istesso pel sig. Carnot., forma uno spalto a contropendio, che offre il vantaggio di metter sempre più sotto il dominio dei fuochi della piazza l'avanzamento degli ap- procci nemici , vantaggio che si procura in ogni occasione con perfetto compenso tra le scavazioni ed i riempimenti, e senza oltrepassare nessun limite nei rapporti della sua fortificazione, concepita nelle medesime ragioni di quella del sig. Cacchiatelli. Si è difatti ad oggetto di rendere vana all’ artiglieria dell’attaccante la potenza del suo tiro a rimbalzo, che si adoperano da ambidue, la figura circo- lare per le difese scoperte, e le casamatte per quelle co- perte. Diversano però nella maniera e nell’ estenzione del fiancheggiamento , che dall’ autore francese si ottiene in ogni epoca dell’assedio per mezzo della croce greca, e dall’ altro non hassi che quando, volata la sommità dello spalto, rimane l’inimico in veduta della cinta bastionata.' Non vorremo negare che non sia da quell’ora il miglior uopo del fiancheggiamento , ma lo riguarderemo sempre! di maggiore utilità, se abbia potuto dar prima dei fuochi incrociati sulla campagna e sul cammino coperto. ‘Il sig. Gacchiatelli ha creduto per avventura potersene dispensa-, re, avendo ideato di mandare dal cammino coperto un suo tal fuoco a rete, ottimissimo veramente, ove prescin- dendo dalla quantità prodigiosa di cannoni , l’ avessero così facile ad eseguire nel tumulto gli artiglieri, che a tracciarlo sulla carta i delineatori. Altra non. meno vana, immaginazione si è la sua cinta bastionata che risguarda, 76 come doppia, sicchè demolita la prima, subentri all'uffizio suo la seconda, in guisa dei mutamenti di scena; mentre la sua cinta bastionata , invece di essere doppia onde ‘ac- comodarsi a quel proposito , non forma realmente che un corpo solo di cinta con doppia corsia di casamatte, e vuolsi che l’esteriore si distacchi ; a così dire ,, sfumando per discoprire e lasciare sgombera l’ interna, il cui muro dividentela dall’ altra, è perforato di cannoniere in esatta corrispondenza con quelle di essa. Vana immaginazione vorremo poi sempre chiamare , indipendentemente dalla maggiore convenienza intrinseca , ogni ‘novità che non miri piuttosto a correscere la fortificazione presente: lefo) che a crearne una diversa, la quale da nessun. go- verno potrebbe mandarsi ad eseguimento, sia pel tem- po che vi vorrebbe lontano da ogni sospetto, sia pel danaro. Rimane peraltro qui da commendare pur nova- mente il sig. Pertusier , che sebbene rigetti affatto la for, tificazione bastionata , salendo ciò non pertanto per gra- dazioni ‘dalla caserma difensiva, come primo elemento , alla piazza più grande, ne dà un sistema che, prestandosi così ad ogni positura e qualità di luogo,. può trovare oc- casione parziale di essere adoperato j e maggiormente, os- servandovisi con ogni studio il principio che termina il lungo discutere tra i fautori e i detrattori delle fortezze , cioè non valere queste propriamente se non quando per la strategica posizione loro, e pel grande sviluppo delle opere e la natura del terreno, sono accomodate ad essere punti di appoggio, e cardini alle operazioni degli ‘eserciti campeggianti. Piacenza deve erigersi a'vera piazza ‘di guerra, se la linea del Ticino ha da poter esser sostenibile, secondo è provato dall’avvenimento del 96, in cui, aperta come trovavasi la città’, liberò il primo passo al genio di quegli che dovea poi dal maggior trono signoreggiar l'Eu- è ropa , ed, ahi fascino di fortuna! non contentarsene. Essa ‘ rifugio ad esercito che battuto si ritragga dal Piemonte ; 77 custoditrice, col sussidio di opportuna testa di ponte, delle due rive del Pò, varrebbe, senza perdere la sua cinta attuale di bastioni per ultima ritirata, a ricevere, median- te le torri fiancheggiate del sig. Pertusier, un grado di forza ed una proprietà di grande campo trincerato, che a minvri spese non otterrebbe con altro modo veruno. Ove si trattasse di piazza compiuta alla moderna; non vor- remmo certo diroccarla onde rialzarla di altra maniera ; ci contenteremmo allora di applicarvi le correzioni che, riguardo al sistema bastionato, propone il sig. tenente colonnello Dufour nella sua fortificazione permanente, pubblicata non ha guari a Ginevra. Opera si è pur molto commendevole; e solo che questo nostro cenno intorno al libro del sig. Cacchiatelli, oltre all’aver noi servito a chi c' en richiede giovi a raccomandarla, e con essa l’altra del sig. Pertusier, all'attenzione degli uomini dell’ arte, ne saremo paghi abbastanza. —_ Eravamo già per lasciar libero alla promessa il precedente articolo intorno a ciò che il sig. Cacchiatelli ha intitolato rzovo sistema di fortificazioni, quando sapu- to dell’ Appendice che vi fece tener dietro ce ne rimasi- mo, credendola avvisata ad emendare gli errori commessi nel primo. troppo affrettato lavoro; compierne i luoghi difettosi; raddrizzarne l’ordine; rendere in somma se non accettabile il sistema di lui , che non era possibile , alme- no non affatto riprovevole la fattura del libro. Ci è stata quindi non poca meraviglia, ottenuta l’ appendice, di vedervi non solamente confermati gli esposti principii, fattili passare dalla fortificazione stabile alla passaggera , ma pur anco sostenuti con pertinacia, che non si potrebbe maggiore. Noi non conosciamo propriamente le osservazio- ni che si contengono in uno dei fascicoli delle Effemeridi letterarie di Roma dell’ anonimo contro cui discutevasi n8 così abbandonatamente il sig. Cacchiatelli in quella ri- sposta che all’ appendice ha premessa; e non pertanto ne pare debbono essere giuste ed' oneste ;:se anche dall’ af- fastellamento disordinato in che questi le ha messe op- pugnandole, trapelano le ragioni fondamentali e l’ amore dell’ arte. E tanto inferiamo bene di quelle osservazioni , che riputeremmo di leggeri superfluo il mentovato artico- lo da noi non consapevoli di esser dettato, e cotesto ancora. che seguita sull’appendice ove lo. stesso annonimo se ne fosse parimente già fatto l’annotatore, se mai nulla potesse venir di soperchio allorchè si combatte, qualunque forma egli prenda o disegno, l’errore, lurido'mostro PRATT di ogni sapere e.di ogni umana felicità. Vuol rimettere in uso il sig. Cacchiatelli di Lori cin sempre il campo come adoperavasi anticamente ; facendo un zappatore d'ogni soldato; nè per questa seconda parte sarebbe difficoltà : ma di fortificare sempre il campo’, o non occorre adesso, od occorrendo non si potrebbe. Qualsiasi parapetto, per la qualità delle armi, era al- lora sufficiente, laddove a causa della nostra ‘artiglieria, i parapetti deggiono essere di spessezza e solidità i trop- po grande, perchè vi si possa. metter..mano dove nom si dimori per. alcun tempo. I campeggiamenti per ! altro serviti, a dir così, come sono attualmente da. basi e linee di operazione assicurate; non ;hanno. lav quantità d’ogni maniera d’impedimenti che presso gli antichi, i quali venendo a giornate, dovevano custodirli im ur chiu- so.con guardia proporzionata, e quel.chiuso; era a. imo- do, delle nostre piazze di. deposito; ed un riparo sicuro quando a, male avesse volto la, zuffa. Ora chi. accampa; è in ordine di, battaglia. La varia configurazione del. ter- reno e la positura delle batterie fortificano le situazioni. Prevengonsi le sorprese con l’ accurata distribuzione del- le guardie, e se un’ ala od una parte qualunque trovisi; aggiormente offendibile , vi si drizzano ridotti, o fanno 79 tagliate ed abbattute. Ove sia ‘bisog nodi costrur linee (che. si. fa sempre quietamente a norma de” ‘presi divisamenti ) non si conduce ùn trincieramento continuo, ma si lascia- no de’spazii liberi, onde piombare sull’inimico con fronte spiegata di battaglione. La tattica dei nostri tempi non ammiette altrimenti difese puramente passive. L’ assalito, ha da poter divenire sempre che voglia assalitore, e dovea. intendere 1’ autore del. rz40v0 sistema che a questa massi- ma è forza pieghi essa pure la fortificazione permanente, la quale anco non vale se non ordinata ed intesa ai regres- sl offensivi. ; Sarebbe lungo il distendersi a tutte le diversità che sono dalla milizia moderna all’ antica secondo la varietà dell’armi, d’onde quella negli ordini delle schiere; e secondo il presente stato politico e civile. Bastì qui il cenno datone onde si avverta che il fortificar sempre il campo non è a noi nè possibile nè utile; e rigettabile poi il farlo con opere non interrotte. Crede però il sig. Cac- chiatelli per questo solo da noi intromettersi di fortificare il campo, che noi abbiamo attitudine a farlo prontamen- te, anche in presenza dell’inimico a guisa dei romani; e ad ottenerlo gli basta dare ad ogni soldato uno strumento da lavoro. Il campo è già bello e segnato da chi aveddo- ne il carico precede le truppe. Tosto che questa sia giunta alla fermata depone le armi ed i zaini, e sì reca ed allarga nei luoghi del lavoro , il qual è proporzionato al numero. della gente che accampa ; ragione che porta ‘otto uomini ‘ad ogni, canna romana di perimetro, levato il quinto in uffiziali, guardie e malati. Un’ ora basta a cuoprire il campo ed i lavoratori, due a compiere tutta l’ opera ; e se dopo un'ora sopravviene il nemico , la metà dei lavora- tori prende le armi, guarnisce il parapetto, e col suo fuoco, protegge la continuazion del travaglio. Ma qui arre- stiamoci un poca. {l sig. Cacchiatelli per dare un budile ed un piccone ; " Ni Luglio ; 6 80 ad ogni soldato, non troverebbe sconveniente che gli eser- — citi se ne traessero dietro le carra come fanno delle mu-- nizioni. Reputando ciò nullameno non incontrare in altro modo veruna difficoltà si provvede, veniente il bisogno, di budili e picconi nel paese guerreggiato , senza pensare che nella supposizione sua d’essere l’inimico di un’ ora sola distante, non vi sarebbe il tempo di farne raccolta , dato anche ( ed è concedere da generoso ) che tanti stro- I menti fossero in qualunque breve tratto rinvenibili. Il meglio era farne portare abitualmente il suo ad ogni sol- dato, e per maggior facilità, ideare che si potesse togliere il manico, e questo sconnettere in più pezzi ricorgegna- bili all'uopo fermissimamente. Con parole è presto fatto i a deporre arme e bagaglio, prendere uno stromento e la- vorare: in pratica, ritroveremo che ad allargare lo attenda- mento vi vuol tempo non poco, siccome pure a dispensare 15 o 20 mila oggetti da lavoro, posto ancora si abbiano a mano, e più assai ad ordinarsi lungo la traccia dell’af- fortificamento otto, quindici, o venti mila persone. Non che un’ ora, non basteranno ai soli preparativi nè tre, nè quat- tro, nè cinque secondo la moltitudine che sarà; e però se di una sola posata sia distante il nemico, qual generale oserà disseminare la sua gente all’ azzardo di un parapi- glia ? se ogni corpo uvesse da lavorare sulla fronte del suo attendamento , non potrebbe avvenire nè confusione nè ritardo, sia ad imprendere il lavoro, sia ad abbandonarlo dando di piglio all’armi ed a schierarsi, al che sarebbe del tutto contrariamente presso del sig. Cacchiattelli, il quale separa l’attendamento in tanti raggi dell'ambito | circolante secondo cui la truppa è distesa a lavorare. Ac- campare in ordine da poter combattere all'uopo, è progetto | da non trasgredire. Come difatti potrà egli, il sig. Cac- chiatelli, se l’inimico sopraggiunga e l’ affortificamento sia per anche imperfetto alla difesa, trovar tempo e facol- tà di formar l'ordine di battaglia? Rendere difendibile serata Re, O ne ì 81 un.campo col solo tempo di un'ora che dia l’inimico, è cosa dichiarata impossibile dal fatto ; se vi vuole l’intera notte di media durata a coprire i lavoratori che hanno aperta la trinciera; ed essi gettano le terre dal lato del nemico , nè curano abbiano altra forma fuori quella che prendono naturalmente senza batterle. Espettazione poi, diremo fermamente, di non sano giudizio, che sopraggiun- gendo l’ inimico ad opera mezza compiuta, vi stiano dei lavoratori a continuarla intanto che l’ altra gente corsa coll’ armi dietro la terra alzata in parapetto gli tiene tra due fuochi , inermi e scoperti ad ogni ostile assalimento. Da qualunque lavoro non avente avanti di sè od ostacolo naturale o truppe che lo cuopra, bisogna levar mano se presentasi l’inimico, e non è possibile di farne alcuno difendibile in una sola ora che è richiesta dal signor Cacchiatelli ; il quale vi comprende altresì il tempo di posare l’ armi e il bagaglio , distribuire gli stro- menti; ordinarsi al travaglio; tempo che da sè solo, noi ripetiamo , anderebbe a più ore, e sempre maggior- mente secondo che maggiore fosse la truppa. Sta quindi contro la fortificazione che vorrebbe ad ogni accampa- mento il sig. Cacchiatelli questo dilemma : o il nemico è vicino, e guardatevi nella disposizione in cui avete dimesso le armi fuori. d’ ogni ordine di battaglia a mai sparpagliare la truppa : od è lontano ( e lontano non può dirsi ove non abbiate sopra di lui una giornata di vantag- gio ) non importa fortificarsi. I romani che avevano l’uso di farlo sempre, schieravansi allorchè il nemico era d’ap- presso, parte innanzi , e parte accudiva al travaglio; e sì lo facevano perchè di poco tempo avevano bisogno, come si è già di sopra notato, il tutto quasi consistendo in una fossata , e sì perchè a motivo della qualità delle armi, il lavoro e quei che lo guardavano non erano molestati da circostanti luoghi, sol che fossero duegento passi discosti. 82 Nou sussistendo dunque nè il bisogno nè la facoltà». di affortificarsi negli accampamenti giornalieri, sarebbe fatica perduta quella del sig. Cacchiatelli, e fatica peran- che perduta l’esaminare il modo suo proprio di costruzio- ne, se egli dal sistema stabile solo desumesse la forma dei campi tumultuari, e non in genere la struttura di tutta la fortificazione passeggiera. Così mantiene la figura circolare, la quale mancando naturalmente di fiancheggiamento, è tanto più difettosa, quanto è minore la difficoltà di as- saltarla dove è poco il rilievo. Intende peraltro di a- ver provveduto alla sicurezza delle sue opere, facen. do la controscarpa quasi perpendicolare; strettissimo il fondo del fosso , e veduto direttamente pello sdruc- ciolo del parapetto che viene a formare la scarpa, la quale ti si presenta bellissima rampa ad ascendere. Vuol fire ancora dietro del ‘para petto il fuoco di tre righe, messo la prima ginocchio in terra , il che importa a dire che il parapetto non dee coprire la persona. più di tre piedi, e diventa un paragamba. Delle terre che sopra- vanzano a volere un fosso di ragionevole profondità , egli vi costruisce attorno uno spalto, e sopra questo pianta dimolti picconi; maniera che adoperandosi nei trinciera- menti ordinari, non entra nel bilancio, diremo così, della forza difensiva di questi con que’ del sig. Cacchiatelli. La somma delle difficoltà che si oppone al nostro autore è riposta nella controscarpa quasi a perpendicolo, e dell’al- tezza di forse quindici piedi parigini; ma oltre che rado la qualità delle terre comporterà una siffatta controscarpa, per poco potranno sempre lasciarsi calar per essa nel fos- so gli assalitori, massimamente a cagione dell’ intervalli che lascia il fuoco in tre righe, secondo egli vuol farlo. Qual forza morale sarà mantenibile nei difensori stati discoperti interamente al fuoco , allorchè ion veggano tra sè e il nemico veruna sorta di ostacolo, ma una facilissima 1 83 \ rampa a potersi esso gettare sopra di loro? Alla sola prima riga alzatasi in piedi sarebbe dato di tirare nel fondo del fosso, ove fosse possibile in simile prossimità di pericolo qualche ordine o proposito. Ma il grande cavalier perpetuo che ilsig. Cacchiatelli ha stabilito nella sua fortificazione permanente, viene parimente da lui praticato nelle opere di campagna per un secondo girone concentrico al primo, e destinato alle artiglierie. Da cotesto primo, per supplire ai fiancheggiamenti, incrocia dei fuochi d’ infanteria me- diante rafforzamenti che opera di tratto in tratto nel pa- rapetto , i quali sono scavati poi in forma di grandissime nicchie. Inutili apparati! il cavaliere non colpisce che a qualche distanza, poichè i cannoni non si abbassano oltre a determinato limite , nè sarebbe d'altronde da mettersi in pericolo di essi, e nemmeno in sospetto i difensori della prima cinta. Nessun fuoco valendo a rattenere una truppa decisa all’ assalto se abbia il terreno libero sotto ai piedi, gli aggressori nel caso nostro precipiterannosi più risolutamente innanzi onde pervenire nelle situazioni non offendibili dal cavaliere , e i rafforzamenti del pvi- mo parapetto rendendo indifesa la controscarpa corrispon- dente; diverranno altrettante direzioni agli assalti. Il signor. Gacchiatelli amerebbe ritraesse la guerra moderna dall’ antica, nè considera che se vi hanno dei principii nello astratto dell’arte durevoli sempre , ciò che alla maniera concerne. tanto è mutabile per la diversità dei mezzi e delle costumanze, che farsi ora nel guerreg- giare dalle passate età non può essere pensiero se non se di chi vergando unicamente nelle anticaglie non si cura di questa nostra. Se non che si.danno pur di talunii quali non ignari di nulla si foggiano a proprio studio le cose per | wamagloria di partirsi dal comune degli uomini, e vi abu- sano l'ingegno. Noi non sappiamo del signor Cacchiatelli | fuor solamente che per la sua fortificazione, e però ci guar- deremo di. molto ad ascriverlo a quel novero, Ci piaceremo 84 piuttosto di rimarcare come di mezzo a vedute a sè par-. ticolari e meno appropriate agli usi nostri, egli faccia non pertanto manifesto il conoscimento che ha della presente milizia. IL Macciore FeRRARI.. _- Geografia moderna ec. di G. R. Pacwozzi, volume III. Distribuzione V, VI. Zadia, Indo-China, e Tmpero Chinese. Firenze 1823 per Vincenzo Barks ( V. Antologia N.° XXVII. pag. 136. ) Prosegue quest’ opera con celerità uguale al ri- tardo che aveva provato în principio, anzi può dirsi che avvertito il pubblico sì dalle prime distribuzioni di essa , sì da quanto fa da noi annunziato nel nostro fasci- colo XXVII, abbia meritamente*rivoltò 1’ interesse a questo lavoro, che certamente onora Ja Toscana e l’Italia. E in fatti se ogni fatica scentifica e letteraria debb’ essere valutata principalmente in ragion diretta dell’utile che se ne ricava, certamente è grande il valore di questa. del sig. Pagnozzi, particolarmente per gl’italiani. Non v'è tra noi ‘altra opera così vasta di geografia universale, e fin qui è bisognato ricorrere alle oltramontane 0 ‘a qualche loro traduzione, la quale insieme con i pregi ce ne ha trasmessi i difetti. Perciocchè ogni traduzione, quantun- que eccellente; di opera insigne, porta sempre il tipo del- l'originale, e in qualunque geografia ‘si riconosce il genio della nazione per la quale fu scritta. E sebbene la scienza della descrizione della terra sia di tutte le mazioni, pure vi sarà sempre una gran differenza tra una descrizione fisica e politica, per esempio della Gran Brettagna fatta da un dotto di Londra , e quella dell’ isola medesima fat- ta da un geografo di Calcutta . Così gl’ italiani non si deb- beno appagare della geografia scritta per i francesi, per 85 gl’inglesi o per i tedeschi tuttochè produzioni di autori dottissimi, ma fa lor d’uopo gradire con plauso gli sforzi di un loro laborioso concittadino, il quale coglien- do i frutti del campo comune della scienza, li presenta ad essi conditi di quel sale, che meglio può farli assaporare ai palati dove il sì suona. E ben ciò si riconosce nello studio che ha posto il nostro autore in esaminare sentimenti, controversi; per risolverli giusta il giudizio non dell’ autorità, ma del ret- to raziocinio, Ne daremo un esempio in quanto ei dice intorno alla popolazione della Cina o sia China, materia tanto discussa da tutti i geografi. Egli asserisce che essa è il risultato di quattro censimenti officiali eseguiti sotto il lunghissimo regno dell’imperator Kienlong, il quale ha regnato dall'anno 1739 al 1796. Da questi censimenti conchiude.che debba valutarsi quella popolazione a 236, 000 , 000.di abitanti, rigettando tanto l'opinione di quel- li che l’ abbassano a 150 millioni, quanto la relazione dell'ambasciata di Macartney la quale secondo lo stato rimessoli, da un mandarino .l’inalza a 333 millioni. Ed appoggia. quella sua conclusione al, seguente ragionamento, il quale.sembra,non ammetter veruna replica. « Se due censimenti officiali , dic’ egli, non bastano per dimostrare la popolazione di un impero dell’Asia, per qual contradizione.singolare basteranno per dimostrarla relativamente ai regni dell’ Europa ? Si sono attribuiti alla Francia mel 1821 30,465,291 abitanti, alla Prus- sia 10,576,252, alla Gran-Brettagna 14,369,677, all’Irlan- da 6,346,949, alla Spagna 11,248,028, nel 1817 agli Stati Uniti americani 10;405,547, nel.1820 al regno di Napoli | senza la Sicilia 5,185;658, e tutto ciò si è asserito in con- seguenza di censimenti officiali pubblicati per ordine di ciascun governo. Si oserebbe di porre i censimenti fra i sogni ? oppur si pretenderebbe che Kienlong pubblicasse due censimetiti immaginari nei suoi stati pet la bella 86 sodisfazione d’ ingannare” un pugno di curiosi del ‘nostro piccolo mondo? » . E poco dopo prossegue: « Gli scrittori politici, che curano poco o niente i numeri, direbbero che la China non può contenere 230 millioni ‘dia bite 0 che almeno non può nutrirli; nè l’uno; nè l’altro. L’Olan- da sopra un territorio di 9230 miglia quadre ‘conteneva nel 1808 secondo i censimenti official 2,248,088 abitanti, per conseguenza 242 per miglio quadro; la China può dunque a parità di circostanze contenere '247;870,000 abitanti; e dico a parità di circostanze, perchè in.Olanda la specie umana non vive come: nella China'a schiere di 60,80, e 100,000 sull’ acque. La Francia con 80;000 miglia quadre di terre in'‘cultura nutrisce ‘almeno 125 Miftlioni de’ suoi abitanti ; dunque la ‘Ghina ‘con’ 800,000 miglia quadre, per non dire con 900,000 in cultura, potreb- be nutrirne 250,000,000'}; e la Francia non trae come la China doppie raccolte di granaglie dalle sue terre, ed I francesi non vivono di tutto come ‘i cinesi ». so Per presentare ai, nostri lettori un altro saggio di que- sto terzo tomo, trascriveremo qui l’ articolo sulla gran muraglia della China: « La gran muraglia*è è il vero capo d’ opera della pazienza chinese ; vi voleva ‘un popolo ‘nu- meroso come le formiche , e infaticabile come i bovi per costruire ‘una ‘barriera di pietra , di mattoni o di terra sopra una linea tortuosa di quasi mille ‘cinquecento ‘mi- glia; per costruirla ‘ora ‘sulla cima o sul declivio:di.un monte appena accessibile; :ora sull’ orlo di un' precipizio ; ora in un burrone profondo, ora ‘nel letto d’' un torrente, odi un fiume ; ora in una |pianura di sabbie mobili, ; e per guarnirla poi di 3000 torri per.le sentinelle; e di 3000 for> tini, e d’un mighaio di piazze forti ». , sil si « Gli ‘storici chinesi non si trovano: d’ ila nel determinare l'epoca della fondazione della gran muraglia; ma tutti convengono in ‘attribuirne: gran parte al \giovine Tsin fondatore della dinastia del suo nome: Par probabile; 87 che incominciassero a costruirla nel 303 avanti l’ éra' cri- stiana tre principi tributari di Tsao sulla frontiera del - Kansi ; e che Tsin discendente di Tsao la portasse al suo termine prolungandola anche sulla frontiera del Xansi, e dal Pecheli' fino al golfo di Xan. Il padre Amiot narra sull’autorità dei chinesi, che Tsin impiegò nei lavori due millioni di uomini e 300.mila soldati per invigilare sui lavoranti,, e che i lavori durarono dieci anni ». « La gran muraglia. varia per tutto di grossezza e d’ altezza secondo le località ; quindi l'esattezza scrupolo- sa delle misure prese dall’ stablablina inglese di Macartney non serve a niente; per l’altezza varia da quindici a tren- ta piedi, sulla frontiera del Pecheli da venti a venticin- que; nel Xansi si abbassa fino a quindici; nelle valli è più alta e più larga che sui monti ; e sulla frontiera del Pecheli e del Xansi fino al fiume giallo è tanto larga; che possono camminarvi sopra sette 0 otto uomini a cavallo di fronte. Si cita un tempo, in cui la difendeva un’armata di'1,000,000 di soldati; non la difesero molto bene, quando invasero'la China kitanij i mongoli, ed i manciuri.. Così la gran muraglia si Di definire per un lavoro prodigioso ma’ a imutile DI F. G. DI mestilin pi: iaprigin del sig.cAv. ‘BarroroMMEO 'BoncHesr al sig. PROF. Sari 3; bici) È lSah Marino il dì ‘12 giugno 1823. vi 0 Al Mio ritorno ià:S. Marino io era stato speranzato da un tale:che ha in animo:di recarsi ‘a Firenze di poterle far rimettere mie lettere. pel di; lui mezzo} ma ‘a costui è ora venuto in! capo di aspettare la festa di /S. Giovanni, ed io noù-woglio indugiare cotanto a informarla. del'»mio pro- Spero viaggio ; e a ringraziarla delle moltiplici.gentilezze; 88 di cui mi ha cumulato nel mio soggiorno in codesta città. Il primo oggetto di cui mi sono occupato dopo aver di- stribuito al loro posto le iscrizioni, di cui ho fatto tesoro costì; è stato quello dell’ era Bitinica, di cui così spesso si è favellato fra noi, ed eccole ciò che mi pare di poterne conchiudere dopo aver studiato da tutti i lati la materia. Non vi è dubbio che uno dei punti cardinali di quell’epo- ca deve prendersi dalle medaglie di Pansa, sì perchè la testa di Cesare che vi si vede offre un dato sicuro , come perchè la vita di quel personaggio è abbastanza conosciuta dagli scritti di Cicerone. Dall’ep. 8 del L. 8 ad Famil. sappiamo ch’ egli, fu tribuno della plebe nel 703 , onde per certo la sua pretura e la sua provincia furono posteriori. In fatti non potè ottenere la prima se non dopo il 705, perchè egli era figlio di un proscritto, e conseguentemente escluso dagli ‘onori curuli in forza delle leggi di Silla (Dio- ne l. 45 c. 17), e perchè solo in quell’anno Gesare dopo aver:cacciato Pompeo dall’ Italia, filiis eorum qui a Sylla fuerant prosaripti magistratuum petendorum potesta- tem fecit. :(-Dione l. 41 c. 18). Egualmente inon potè conseguire la seconda se non dopo il medesimo tempo, perchè fino dal 702 fu proveduto dalla legge pompeia re quis consul praetorve in posterum factus provincium ante quintum peracti magistratus annum obtinere possit. ( Dione l. 4o c. 56). Nè può suppersi che gli: fosse data la Bitinia da Pompeo.in seguito delle turbolenze che ven- nero dopo il passaggio del Rubicone, perchè Pansa fu costantemente del partito di Cesare com’ egli stesso si protesta nel suo discorso conservatoci da Appiano (bel. civ. 2. 3 c.:75) e come si rileva. da altri passi di Tullio. È duùnque evidente che il suo.governo della Bitinia non può ad alcun fatto precedere la pugna di Farsaglia avvenuta ai 9g di Agosto del 706, «il che ben si accorda: coi suoi nummi, che se furono coniati a Nicea e a Niccomedia, cioè in paesi obbedienti a Pompeo, non poterono innanzi 89 quel fatto adornarsi dell’ effigie del dittatore. Sembra che Pansa lo seguisse a quella battaglia, ed è poi certo che nel seguente anno 707 egli si trovava nell’ Asia. Imperocch è Tullio dopo aver scritto ad Attico nell’ep. 6 del L. XI. Quin- tum fratrem audis profectum in Asiamut deprecaretur, e nella seguente:Quintum filium vidi quiSami vidisset, pa- trem Sicyone, aggiunge poi nella XIV. dello stesso libro: Quintus pergit,ut ad me Pansa scripsit et Hirtius,ed Irzio era a quel tempo certamente nell’ Asia attestandolo senza velo nella successiva epistola XX:Wenerat Seleucia Pieria C. Trebonius, qui se Antiochiae diceret apud Caesarem vidisse Quintum filium cum Hirtio. Ma quantunque egli avesse passato il mare, si vede però che non aveva seguito il dittatore nell’ Egitto, perchè Cicerone commettendo ad Attico coll’ep. 6 del L. XI d'interporre la mediazione di Pansa ‘in suo favore mon chiede già ch'egli ne parli a Ce- ‘sare, ma che ne scriva. Adhibeantur Trebonius, Pansa, si qui alii, scribantque ad Caesarem, me, quidquid fece- rim, de sua sententia fecisse. Al contrario si conosce che nell’autunno dello stesso anno egli era non solo in compa- guia di Cesare, nia. ben anche nella Bitinia o nel Ponto. Ciò apparisce dall’orazione pro Ligario, in cui si ‘dice Caesar , qui ad me ex Aegypto literas misit, ut essem idem quo fuissem: qui cum ipse imperator in toto imperio populi romani unus esset, esse me alterum passus est: a quo, hoc ipso:C. Pansa mihi nuntium perferente , concessos fasces tenui , quoadtenendos putavi. Ora il tempo in cui ricevè quest’ annanzio da Pausa è chiarissimo , perchè le lettere che lo ;procedérono scrittegli nell'Egitto da Cesare gli petvennero pridié Idus:sept. del 707, siccome attesta a Terenzia nell’ep. 23 del lib. XV ad fam. ed-egli l'aveva già avute quando .a Brindisi andò incontro a Cesare , che arrivò a Roma. circa la metà di ottobre dello stess’anno, siccome tutti confessano. È dunque asserto che l’annunzio di Pansa gli fu inviato nei giorni , in cui Cesare era nel 90 Ponto a combattére contro*Farnace , il quale! fu ‘vinto a Zela XII Kal. sept.; e la ristrettezza del. tempo esigerà che chi era in istato di dargli una tale notizia fosse da presso al dittatore per saperla. La mancanza delle lettere Ciceroniane fa sì che non abbiamo notizie ‘di lui sul prin- cipio del seguente anno 708, ma è però certo che quando Cesare fu ritornato dalla guerra africana egli era in Roma, e si maneggiava perchè fosse perdonato a T, Ampio, sic- come risulta dall’ep. XII. lib. VI. ad Fam. Anzi l’orazio- ne pro Ligario ci fa testimonianza ch’ era presente nel foro quando fu recitata pridie Kal. prioris mensis inter- calaris, ossia ai 30 di novembre secondo ‘i calcoli del- l’Usserio. Da quel tempo in poi rimase in. città. essendo stato destinato a succedere nel 709 a M. Bruto nel governo della Gallia Cisalpina (ep. 27 1..2 ad Att.) e infatti molte lettere di quel tempo cioè la XIV. la XVII. la XIX. di. quel libro parlano sempre dell’ aspettazione della sua andata. Partì infine per la Gallia ZZ7. Kal. Jun del 709 secondo la correzione che nella lett..20 del lib. XIV ad Attico è stata fatta nel nome del mese dal Sanclemente; il quale su questo particolare ha scritto ‘una dissertazione inserita nel suo tomo II. p. 242. La morte di Gesare seguita alle idi di marzo del 710 lo consigliò a lasciare la provincia. sen- za compiere il suo anno, e si trova ch'egli fece una visi- ta a Cicerone nel suo Pompeiano sugli ultimi giorni d’Apri- le (ep. 20 Li. XIV ad Attic.) Ognuno poi sa come nell’anno appresso 711 fu eletto console , e come morì sul principio di maggio.in seguito delle ferie riportate alla battaglia di Modena. Da tutto ciò Ella ben vede che il gavefmoldicPaned nella: Bitinia non può uscire dai limiti segnati fra i 9 agosto del:706 giorno della battaglia Farsalica che aperse Asia alla dominazione cesariana , e i:30 novembre del 708 , in cui certamente! trovossi a Roma senza poter. più tornare nell’Oriente, e.che anzi in questo» frattempo si ha qualche:indizio della sua dimora'in’quella regione. Il gl Sanclemente TLV: p. 271-volle ristririgere i termini di questo suo:procousolato ad un anno solo, cioè dalla vitto- ria di Cesare sopra i Bosforiani ossia dall’autunno del 707, fino all'autunno dell’anno seguente, e ciò per due ragioni. La prima è , perchè credè che innanzi quel tempo la Bi. tinia fosse occupata dalle armi di Farnace, onde non po- tesse esservi luogo per un pretore Romano. Ma io. non so onde abbia tratta questa notizia. Trovo al contrario nel. l’autore de bello Alexandr. cap. 34. che i paesi da lui invasi furono 1’ Armenia minore e la Cappadocia, e, che tutti.i suoi successi sì limitarono a riconquistare l’avito regno del Ponto. Anzi leggo in Dione 1. 42 c. 46 che dopo aver espugnato Amiso, in Bithyniam Asiamque cum spe eiusdem successus quo pater eius usus fuerat , CON. tendit, verum audito Asandrum, cui tutelam Bosphori crediderat, novas res molitum substitit. Apamea dunque, Nicea; e Nicomedia, in cui furono coniate le medaglie in discorso; anzi tutta la Bitinia propriamente detta non vennero allora in potere del figlio di Mitridate, e quindi la. prima ragione del Sanclemente non ha vigore. Nè più valida è la seconda desunta dal Pighio, il quale aflidò in questi tempi il reggimento della Bitinia ad un Calvisio sul fondamento di ciò che narra Appiano de del. Mithrid. c.120.Pharnaces Amisum quoque adpetens cum romano etiam duce Calvisio , quo tempore Pompeius et Caesar inter se contenderunt, bellum gessit. Imperocchè quello è un errore giustamente avvertito dagli ultimi ‘editori, di quel classico, e proveniente dai copisti , i quali scrissero Calvisio invece di Calvino, essendo manifesto ch’ ivi si parla di Cn. Domizio Calvino, che per l’ appunto fu sconfitto da Farnace prima della presa di Amiso, il quale - non era già Pro-pretore della Bitinia, ma proconsole del. I’ Asia secondo che apertamente dichiara l’autore .de ‘bel. Alexandr. cap. 34. Dum hacc in Aegypto geruntur, rex | Deiotarus ad Domitiuwm Calvinum, cui Caesar Asiam 92 finitimasque provincias ‘administrandas tradiderat,venit. oratum, ne Armeniam minorem, regnum suum, neve. Cappadociam, regnum Ariobarzanis , possideri vasta- rique pateretur a Pharnace. So pure che generalmen- te si pone preside della Bitinia nel 705 o nel 706 A» Plauzio, perchè nell’ep. 29 L. XIII ad Fam. si dice che T. Antistio questore di Macedonia post praelium in campis Pharsalicis se ad hominem necessarium A. Plau- tium in Bithyniam contulerat. Ma oltre che non è ben certo da quel passo che ‘A. Plauzio vi fosse preside poten- do esservi anche questore o legato, tutto persuade a cre- dere ch'egli fosse un pompeiano , il quale perciò dovette cessare dal comando quando i cesariani s’impadronirono di quella provincia. Dal che ne viene che la storia ignora da chi fosse retta la Bitinia da che venne all’ obbedienza di Cesare, quando pure non volesse dirsi che fu unita al governo dell'Asia sotto Domizio Calvino, il che pure tro- verebbe qualche difficoltà, che nel nostro caso non vi è prezzo dell’ opera in perder tempo a proporre. Colla stes- sa ragione adunque che il Sanclemente ha fissato il reg- gimento di Pansa dall’ autunno del 707 all'autunno del 708, potrebbe un altro, s'egli esser dovesse di unanno solo, anticiparlo all'autunno del 706. E veramente meglio mi soddisfarebbe una tale opinione , perchè leggo nel più volte citato autore de dello Alexandr. cap. 77, che Cesare dopo aver vinto Farnace Ponto recepto legionem V1 dece- dere ad praemia atque honoresaccipiendos in Italiam iu- bet: auxilia Deiotari domum remittit, duas legiones cune Coelio Viniciano in Ponto relinquit. Imperocchè sapen- dosi che il Ponto dopo la conquista fattane da Pompeo fece parte del proconsolato della Bitinia potrebbe dirsi che Celio Viniciano fa il successore di Pansa, il quale sarebbe stato rimandato in Italia cogli altri ad praemia atque honores accipiendos, e questo suo viaggio coincide- rebbe egresiamente riguardo al tempo coll’ annunzio su- 93 periormente esposto da lui dato a Cicerone, che Cesare li permetteva di conservare i suoi littori , annunzio che questo caso dovrebbe dirsi che gli avesse recato in per- sona. Però non dissimulo che quel passo di Tullio hoc ipso C. Pansa nuntium perferente, non è abbastanza chia- ro, perchè può egualmente spiegarsi che gli mandasse quest’ avviso per lettera, come il Celio Viniciano lasciato nel Ponto può anch’ essere un legato soggetto al Preside della Bitinia. E questa sarà l’interpetrazione da preferirsi, perchè le medaglie di Pansa non permettono che la sua propretura si limiti ad un anno solo. Quelle coniate ad Apamea , a Nicea, e a Nicomedia coll’anno EAZ sono superiori ad ogni eccezione. Del pari non sembra potersi dubitare dell’ altre col ZAX posto che oltre la Pellerinia- na citata dall’ Eckhel], una di esse appartenente a Nicea è stata da lei veduta nel museo Ainslie. Se dunque dai num- mi apparisce che il suo governo ha toccato tre anni Biti- nici, è chiaro che converrà concedergli tutto il tempo che dalle notizie superiormente raccolte può arguirsi aver egli consumato nell’ Asia , il quale per l’appunto sopravanza due anni, giacchè niente si oppone al supporre, che nello stesso mese d’agosto del 706, in cui avvenne la battaglia Farsalica egli fosse incaricato a prender possesso della Bitinia a nome di Cesare, come nulla ci astringe ad anti- ciparne il ritorno a Roma avanti l’ autunno del 708 , ag- giungendosi poi che quello fu l’ anno della confusione pei nuovi giorni accresciuti al calendario da Cesare, onde un altro mese si guadagna , stante che l’orazione di Liga- rio la quale ci somministra la prima prova del suo regres- so nella capitale, fu per l'appunto recitata nel penultimo giorno del primo mese intercalare. Da tutto ciò ne conse- gue che le medaglie col BAZ. pubblicate dal Morelli F. Vibia E, e dal Ramus T. 1. p. 206 sono al tutto inamis- sibili, onde converrà dire col Liebe che vi si doveva leg- gere EAZ. Ed un eguale giudizio converrà portarè dell’ al- 94 tra col TAX posseduta dal Sanclemente T. 4. p.268 tutto- chè egli la dica conservatissima , sebbene possa stare che Pe ivi piuttosto si trovi AZ, e che l’episemo . sia sta facilissimamente Hani, Be col F, su di che scrivo in © questo istesso ordinario al Cattaneo, perchè torni a sotto- mettere il nummo ad osservazione. Fermo adunque che l’epoche Bitiniche che si trovano sui nummi di Pansa sono il 235 e il 237, e che al più può sospettarsi del 236, se la dimora di quel preside nella provincia deve restrin- | gersi per la fede degli scrittori a una parte dell’ anno Varroniano 706, all'intero 707, e ad un’ altra porzione. del 708, sarà evidente che il 235 Bitinico corrisponde. al 706 di Roma, e il 237 al 708. E per verità questo calcolo esattamente collima colle altre medaglie di Carbone, sul- le quali per ragionar giustamente conviene riandare un poco la storia Romana nella Bitinia. Al mio scopo non importa molto il saperege Nicomede IV sia morto sul bel principio del 680, o piuttosto nel 679 , come volle provare il Sanclemente T. 3. p. 275 dal contesto della lettera di Mitridate che si ha ne’ frammenti di Sallustio , la qual morte egli volle sollecitare per dar luogo alla pretura di Pompeo Bitinico, che sappiamo da Festo aver portato a Roma i tesori di quel re. Peraltro io sono per- suaso che quel Pompeo nou sia mai stato un vero preside di quella provincia, e lo credo piuttosto un questore o un legato missus extra ordinem al solo intendimento di rac. cogliere l'eredità e le ricchezze di Nicomede , appunto come dopo si mandò l’altro questore Catone in Cipro per impadronirsi di ciò che spettava al re Tolomeo , nel qual caso egli potè soddisfare alla sua incombenza anche nel tempo che la provincia era governata da altri. Del resto tutto concorre a persuadere che la prima venuta di un pre- side Romano. nella Bitinia accadesse nel 680 allorchè si risuscitò la guerra Mitridatica, ad quod bellum, come dice. Cicerone pro Murena, duo consules Lucullus et M. Cotta, 95 ita missi sunt, ut alter Mithridatem persequeretur, alter Bithyniam tueretur. Nel che concorda esattamentè Plutarco (in Lucullo), che narra alla distesa come a Lucul- lo fosse decretata la Cilicia, a Cotta la Bitinia,, e da cui si apprende che questa distribuzione delle provincie accadde sul cominciare dell’ anno. I consoli:non tardarono a re- carsi al loro posto , ed è noto come Cotta in quello stesso anno ricevè una gravissima sconfitta per terra e per mare da Mitridate a Calcedone. L'estratto della storia di Men- none presso Fozio ci racconta distintamente le sue gesta ulteriori fino all’ espugnazione ch’ egli fece d’ Eraclea sul principio del 684, dopo la quale se ne tornò a Roma, aggiungendosi Cotta autem rebus, quo dictum est modo, confectis, pedestres copias una cum equitatu Lucullo tradit, ipse vero cum classe avehitur. Per tal modo Lu- cullo riunendo sopra di sè tutto il peso della guerra Mi- tridatica, riuni insieme la Bitinia alle due provincie che già possedeva della Cilicia e dell’ Asia, e Plutarco infatti fra le accuse che si diedero in Roma alla sua ambizione cita ancor questa, quod Ciliciam, Asiam, Bithyniam, Paphlagoniam, Galatiam, Pontum, Armeniam usque ad Phasidem occuparet. Sotto dunque l’amministrazione di un solo stettero queste provincie, finchè nel 687 fa de- cretata la Bitinia al console di quell’anno M. Glabrione, e la Gilicia a Q. Marcio Re console dell’anno precedente, siccome asseriscono Plutarco , Cicerone pro lege Manilia, e Dione l. 35. c. 17. il quale soggiunge che Glabrione ze ad exercitum quidem venit, sed in Bithynia tempus traxit, benchè.Tullio al.luogo citato $ 9 ci abbia fatto sapere che Lucullo'partem militum Glabrioni tradidit. È noto poi ad ognuno come Cicerone pretore nel 688 persua- desse l’ accettazione della legge Manilia, con cui si tolsero le provincie a Glabrione e a Marcio per conferirle a Gn. Pompeo , il quale nello stesso anno conseguì il possesso di ambedue, come nota espressamente Dione 1 36 $ 25, in- T. X. Zuglio 7 96 sieme coll’ incarico della guerra contro Mitridate. Termi- nata questa colla morte di quel re, Pompeo tornò a Roma, e vi arrivò sulla fine di gennaro del 693 come ci attesta- no l’ epistole XIII. e XIV. del libro I. ad Attico, avendo lasciato intanto l’amministrazione de’ suoi proconsolati al Questore A. Cassio ( come risulta dall’ep. VI del L. VI ad At. ) finchè fossero arrivati i successori. Ed è poi da no- tarsi che una delle provincie da lui create colle sue con- quiste fu il Ponto, che si attaccò alla Bitinia per detto di Strabone. La storia non ci dice chi in questa gli succe- desse, e solo si sa che fino ai 27 di gennaro del 693 non era stato ancora nominato alcuno, perchè in quel giorno scrive Cicerone ep. XIII. L. I. ad Attic. provincias praetores nondum sortiti sunt. Manchiamo pure di notizie della Bilinia nei susseguenti anni 694, 695, e 696, e solo sappiamo che nel 697 dovè essere retta da GC. Memmio di cui fa menzione Catullo, essendo ch’ egli fu pretore senza fallo nell’ anno precedente. Per la medesima ragio- ne non può dubitarsi che nel 698 gli succedesse G. Cecilio Cornuto cognito sulle medaglie di Amiso, essendo la sua pretura assicurata all’anno avanti dall’autorità di Cicero- ne. In compenso abbiamo una gran quantità di medaglie di C. Papirio Carbone coll’epoca AKX, ed ella inoltre nel suo catalogo ne cita due altre una del museo Britan- nico, l’altra del Morelli ripetuta dall’ Harduino , in cui si trova BKE. A queste ne aggiungerò un’altra della mia raccolta, in cui l'Era è chiarissima, e che le descriverò, perchè lo veduto che le è ignota. Caput Apollinis lau- reatum ad. pone NIKAIEON, subtus collum BK. sub mento mon.) ETII TAIOY TIAITIPIOY KAPBONO®. hyrsus cum lemniscis. E fere II. (*) Se dunque l’anno Bitinico di Pansa ZAX secondo il mio calcolo corrisponde all’ anno (*) Un altra medaglia simile coll’anno 222 esiste egualmente nel Museo Allier De Haute-roche di Parigi. 97 romano 708, il-BK£ e il AKZ di Carbone equivaleranno al 693 e al 695, e quindi le medaglie c’insegneranno ciò che la storia ci aveva taciuto, cioè che Carbone fu | ignoto successore di Pompeo. E veramente niun’altra sede se gli poeta concedere, come a colpo d’occhio vedrà dalla ta- bella a tergo, essendo tolto di anticiparlo avanti Pompeo, perchè la serie dei rettori di quel paese da che venne in potere dei romani fino a lui è continuata senza lacune come si è veduto; e perchè la medaglia di Amiso capitale del Ponto col suo nome mostra che fu battuta dopo che Pompeo unì il Ponto alla Bitinia. E con ciò egregiamente combina ciò che di questo Carbone si narra da Dione 1. 36 e. 23: Cum M. Cotta quaestorem suum P. Oppium, quen peculatus et insidiarum suspectum habebat , dimisisset, ipse autem magnam vim pecuniae ex Bithynia corrasis- set, C. Curionem, qui cum accusaverat , licet tribu- natu plebis tantummodo functum, consularibus honori- bus exornarunt. Atque ipse deinde quum provinciam Bithyniamobtineret, et idem flagitium nihilo moderatius quam Cotta fecisset, ab cius filio vicissim in iudicium tra- ctus reusque peractus est. Queste cose da Dione si racconta- no nel 637, e ne va d'accordo Mennone, che pone la con- dauna di Cotta dopo la presa di Tigranocerta, e l’amba- sciata di Lucullo ai Parti, Dai quali passi già s' intendeva che la provincia di Carbone doveva postergarsi di alcuni ‘anni dopo il 637, s'egli a quel tempo non era ancora stato pretore. Dopo tutte queste cose ‘mi credo in diritto di conchiudere secondo ciò che le ho sempre detto, ché l’era Bitinica la quale si trova sulle medaglie coniate sotto la dominazione Romana è diversa dalla Besforiana, di cui si erano prima valsi i re di quel paese. Imperocchè si è d'accordo che la Bosforiana cominciava nell’anno di Roma 457, e l’origine della Bitinica, non può farsi risalire oltre il 471. E veramente mi pareva impossibile che i Romani avessero permesso che si continuasse nelle terre da loro 98 conquistate ad usare quell’Era di cui valevasi il loro più crudele nemico , Mitridate. Per lo che sono persuaso che questa seconda epoca provenga da una fonte tutta dome- stica alla Bitinia, ch'io lascerò alla di lei erudizione di ricercare, non volendo uscire dai miei confini della storia romana, e così meritarmi il rimprovero : sutor, ne ultra crepidam. Mi abbia in mente quando le capitasse conoscenza di qualche nuova medaglia urbica appartenente a magi- strati romani, e mi creda sempre pieno di stima e di obbligazione. Suo affezionatiss: serv. ed amico BarroLomeo BorcHEsI. An. V. G. Rector Bithyniae An. Bithyn. Nicomedes IV moritur 680 M. Cotta Cos. OX 681 idem Procos. IX 6832 idem AIZ 633 idem BIZ 684 L. Lucullus Procos. TIX 685 idem AIZ 686 idem EIZ 637 M. Glabrio Cos. sIZ 638 Gn. Pompeius Procos. ZIZ 689 idem HIZ 690 idem OIZ 691 idem K 692 Q. Cassius Quaestor AKZ 693 C. Papirius Garbo Propr. BKZ 694 idem TKE 695 idem AKZ 99 696 ara atea È EKZ 697 C. Memmius Propr. sKX 698 C. Caecilius Cornutus Propr. ZKX €E99 varata sparata HKE maintain regia 7 OKE punto Lasha latin ot AZ Maggio: rossa pirata i rane ANZ 703 P. Silius Propr. BAZ ME dia i TAX 705 A. Plautius Propr. ANZ 706. post pugnam Pharsal. GC. Vibius Pansa Propr. EAZ 707 idem SAZ 708 idem ZA Storia della Pittura in Italia, del sig. BLA. A. — Vol. 2. Parigi, presso Dipor. 1818. { Articolo estratto dall’ Edinburgh Review. ) Quella notissima esclamazione colla quale il car- dinale da Este accolse l'offerta fattagli dall’ Ariosto del suo Furioso: Dove avete mai , messer Lodovico, pigliate ec. potrebbe molto opportunamente ripetersi all’ autore dopo aver letti questi due suoi volumi, i quali contengono un numero infinito di bizzare storielle , di capricciose osser- vazioni schiccherate con pochissima connessione e in una maniera balzana, e quasi sopra qualunque materia. Pure sono opera d’un perspicace e spiritoso scrittore, for- nito di moltiplici cognizioni, specialmente sul tema del suo libro, i cui pensieri sopra. questo come sopra molti altri soggetti han sovente del paradosso, qualche volta dell’ affettazione , sempre però dell’ originalità. Col riunire alle sue proprie osservazioni su di ogni argo- mento gli aneddoti raccolti , parte dalle donnicciuole 100 d’Italia , parte dagli accreditati scrittori dell’ istoria del- l’arte, e parte da più oscure fonti, ha trovato il modo di compilare uno de’ libri più divertenti che da qualche tempo in qua sia venuto alla luce ;. un libro che sebbene non sia di piccola mole, pure non affatica i lettori: e benchè di tempo in tempo disgusti co’suoi concetti, e col modo col quale parla di soggetti sacri , bisogna convenire che diverte e istruisce sulle materie alle quali è special- mente dall’ autore dedicato. { Per quanto quest’ opera ‘apparisca d’ essere stata «già da qualche tempo pubblicata, pure non sembra che «ab- bia troppo incontrato il gusto di questo paese. La voce comune l’ attribuisce al barone Stendald, del cui libro sopra Roma, Napoli e Firenze demmo seoialiglio tempo fa. Se la cosa sta così, temiamo dover moderar molto la lode di ‘originalità già compatrtitale, per evitare di cadere in una specie di errore:, nel quale fumino indotti da’ pla- gi straordinari di quella prima opera. Avendo noi parlato . con elogio ‘di una pàrte'di ‘essa, ci ‘sorprese il trovar qual- che tempo dopo che lo squarcio lodato era una traduzione litterale di‘iîn antico numero del nostro giornale. Quando un ‘autore ricorre a'tali mezzi, nissun lettore può esser mai sicuro di lesger 1° opera di un altro. Ma il capriccioso nostro destino volle che'si leggesse inconsideratamente, e che senza ‘malizia; forze ingiustamente, fossimo lodatori di noi medesimi. L’introduzione consiste in un complessodi osservazio- ni sconnesse e di aneddoti relativi allo stato-della società e delle arti, cominciando dalla condizione selvaggia degli uomini , fino alla età di Augusto della moderna Italia; la maggior parte de’ quali han'tanta relazione colla-politica, quanta con la pitturà. È difficile il comprendere perchè VA. abbia chiamata introduzione questa parte del li- bro, poichè essa'è quasi omniuamente relativa a’ periodi che forihtno più ‘specialmente il soggetto della‘ storia 101 istessa dal tempo idi Cimabue, fino alla metà del secolo . XVI. Passato questo periodo si arriva alla storia della scuola fiorentina, la quale occupa tutto il libro, che avreb- be potuto con più verità intitolarsi aneddoti de’ due gran- di maestri Leonardo da Vinci e Michelangiolo, e de’loro contemporanei, pittosto che /storia della Pittura in ge- nerale. | Relativamente al risorgimento della pittura l’ A..dà alcuni pochi aneddoti, non molto noti. La più antica di- pintura autentica d’un pittore italiano si vuole general- mente che sia la Madonna di Guido :da Siena; la quale nell’iscrizione porta la data del 1221. Pure l'A. entra in alcune particolarità relativamente a qualche cosa di più antico , e che tuttavia esiste, di Giunta pisano morto nel 1240, l’anno in cui nacque Cimabue. Per quanto Cimabue abbia il grido di essere il padre dell’arte, e sebbene fosse con entusiasmo ammirato a’suoi giorni, possiam dire di lui che la più grand’ opera uscita dal suo studio fosse il suo scolare Giotto, nellà stessa guià sa che è stato detto che la più grande scoperta fatta dal Bergman consisteva nell’avere scoperto lo Scheele. Facen- do riflessione alla storia di Cimabue , la più considerabile circostanza che vi s'incontra è certamente la prova sicura che la sua patria era già disposta e preparata a dare una copiosa raccolta di talento in questo genere. L'affezione di tutte le classi del popolo nel riguardare il suo gran:merito, la devozione colla quale venivano onorate le opere sue, bastano a dimostrare che non solo vi era già stato sparso il seme dell’ eccellenza delle belle arti, ma eziandio che il terreno era convenientemente preparato per ricever- lo. La sua casa era assediata dalla folla delle persone per vedere la sua maravigliosa Madonna, quando la visita di un principe lo costrinse ad esporla all’ altrui curiosità : e la strada ove egli abitava ottenne in tal circostanza il nome di Bofgo Allegri, nome che tuttora conserva; e quan- 102 do fu trasportata cis collocarsi nella chiesa di S. M. Novel. la, ove esiste anc oggi, la plebe accompagnò la processio- ne con bandiere spiegate e con banda musicale, come se un qualche prospero avvenimento nazionale avesse data occasione ad uno spettacolo di trionfo. Ma fu ben tosto e ancora vivendo superato dal suo scolare, (1) il quale l’oltrepassò di tanto, di quanto Gima- bue aveva oltrepassato Guido; e quindi l’ Italia si vide ripiena di suoi scolari , e di lavori del suo pennello. Il seguente squarcio forma un capitolo dell’ opera che abbia- mo per mano ; il quale per quanto affettatamente ‘intito- lato; Levare il piedistallo: ( dter le piedestal ) pure ci dice una gran verità,‘e di una generale applicazione: « Se vogliamo esser giusti verso quest’ uomo. singo- lare, bisogna dare un'occhiata a’ suoi predecessori.-I suoi difetti saltano agli occhi : il suo disegno è secco :' ei pro- cura di mne sempre’ sotto Heribhi panneggi l’ estre- mità delle sue figure, e con ragione, pela non ci riu- sciva gran fatto. In' totalità i suoi ‘quadri han qualche cosa di barbaro; nè si troverà un solo’ de’ nostri pittori che non si creda molto superiore al'povero Giotto. Ma non sì potrebbe egli dire a'costui : Sans moi‘ qui suis si peu, vous seriez moins‘encore. È certo che quando un semplice particolare prende una carrozza a vettura iper'farsi condurre al teatro, è più ma- gnifico:de’ più gran signori della corte di Francesco I. Quel. li nelle piovosissime serate ‘d’inverno andavano a corte a cavallo, colle loro signore in groppa ; ‘ per istrade non lastricate , senza che fossero illuminate , e con un palmo di fango. Per:questo si potrà egli dire che il contestabile Montmorencey e l'ammiraglio Bonnivet eran da meno del mercatuzzo di ‘via s. Dionigi? Comprendo anch’io che ! (1) Credette Cimabue nella pittara Tenero loco, ed ‘ora ha Giotto il grido. | »( DANTE ) i 103 non possono piacere le opere di Giotto; e dicendo: Che brutta cosa! Si può forse aver ragione. Ma chi aggiunges- se: che cattivo pittore! mancherebbe di buon senso. Tom. 1. p. 34,35. » Le seguenti osservazioni sono del pari'giudiziose e vivaci. « Una certa simetria. che piace agl’ intelligenti, e soprattutto un disegno meno angolare ed un colorito più morbido e più pastoso di quello de’suoi rozzi predecessori, sono i suoì caratteri distintivi. Appoco appoco sparirono sotto il suo pennello quelle mani gracili e stentate, quei piedi appuntati, quelli occhi spauriti, quelle fisonomie malinconiche, reliquie della barbarie venutaci da Costan- tinopoli. I suoi lavori in piccolo mi piacciano assai più. Per esempio, le figurine della sacristia del Vaticano sono gra- ziosissime miniature; e appunto ciò che mancava alle arti prima di lui era la grazia. Per quanto selvaggi sieno gli uomini, vi può essere il mezzo di spaurirli , perchè tutti han sofferti de’ mali; ma per far loro prestare atten- zione a ciò che è solamente grazioso , bisogna che abbia - no conosciuta la felicità d’ amare. Giotto seppe esprimere molte piccole circostanze della natura, poco degne, è vero ; de’ soggetti gravi ne’ quali gli introdusse, ma però erano in natura. Si può dire ch’ ei fosse l’ inventore de’ ritratti; e fra gli altri abbiamo di lui quello di Dante suo amico. Altri prima di lui avevan tentato di prendere le somiglianze, ma egli fu il primo che vi riuscì. Egli era anco architetto, e col suo disegno fu edificato il famoso campanile della cattedrale di Firenze, che è veramente un edifizio considerabile. Sebbene di gusto un poco gotico , dà però a prima vista l’idea della sveltezza e dell’elegan- za. È staccato dalla chiesa , ed è inalzato nel luogo più frequentato della città, fortuna che non hanno molti altri ammirabili monumenti ». tom. i. pag. 35, 37. Il genio sublime e i successi di Giotto ‘pare che ab- 104 bian prodotto il consueto effetto di formare de’ servili imitatori, e di aver trattenuto per qualche tempo l’ in- cremento dell’ arte. Ma la scultura e l'architettura fecero in quella età notabili progressi; e crediamo molto proba- bile che questa circostanza abbia fatto fare ‘alla ‘pittura un gran passo, e forse il maggiore nel ritrovamento della prospettiva e del chiaroscuro : essendo la cognizione della prospettiva naturale conseguenza del disegnar l’architettu- ra, come del modellar la figura l’attenzione all'effetto della luce e delle ombre. Ma i più grandi avanzamenti in questo genere si devono a Paolo Uccello , e più ancora a Masaccio. Quest ultimo era indubitatamente un uomo di talento rarissimo; ma dubitiamo che gl’ intendenti trove- ranno troppo esagerate le lodi date a questo pittore, quando il N. A. asserisce che la principal figara nel bat- tesimo di S. Pietro è superiore a quant'altro si vide avan- ti Raffaello ; e particolarmente, che nè Leonardo da Vin- ci, nè fra Bartolommeo , nè Andrea del Sarto l'abbiano mai uguagliato (l’ultimo era contemporaneo di Raffaello ). Veramente pare che ci avverta della sua parzialità per quel grand’ uomo quando dice « io 7’ amo troppo per po- tere essere in grado di giudicarlo ». Apparisce anco più stravagante nella sua ammirazione per Luca Signorelli, sicuramente gran maestro, le opere del quale bene spesso somigliano a quelle della più corretta età ‘dell’arte, il quale dobbiamo ricordarci, per quanto il N. A. l’ abbia dimenticato, che viveva nel primo periodo di quella età. In fatti morì un anno dopo Raffaello, e deve aver pro- dotte molte delle sue belle opere nel secolo XV. Giunti al fine della introduzione, ci poseremo' un momento per motare la maniera veramente offensiva col- la quale in tutto il suo libro parla di' ciò che concerne al- la religione. Dalle osservazioni sparse qua e'là ne’ due vo- lumi pare che l’ autore sia stato un militare sotto Buona- parte; che abbia passata la vita fra le armi e gli amori; e 105 che dopo la caduta del suo sovrano e la perdita delle sue belle, abbia cercata consolazione nello studio delle belle arti. Noi non avremmo forse ragione di condannarlo se non seppe piuttosto trovar conforto nella contemplazione del più sublime stato della nostra esistenza : ma egli dal canto suo non ha ragione di avvilire co’ suoi scherzi la stabilita credenza del suo paese, poco importando che egli appartenga ad. una nazione piuttosto che ad un’altra, 0 che si chiami cittadino del mondo. Se egli intende di parlare del mondo incivilito ; la sua religione è la cristia- na ; nè rappresenta la parte di uom saggio e virtuoso chi sconsideratamente fa pompa di disprezzarla. Quanto egli sia ignaro e preoccupato da pregiudizi in tutte le mate- rie relative a tale articolo, può palesemente mostrarlo una lettura anco superficiale del suo libro. + Ma egli non è più felice nè più dotto nelle sue ricer- che sulla storia della religion naturale. « /l discoprimento dell’ immortalità dell’ anima , egli dice , è onninamente moderno ; e per soprappiù allega francamente Cicerone , senza però additar dove; vedasi Cicerone : ed aggiunge , ma non nelle traduzioni approvate dalla censura. Noi non avremmo mai pensato che la censura si fosse in ve- run paese applicata a favorire il deismo, essendo stabili- ta soltanto ne’ domini cattolici; nè crediamo che possa prodursi un esempio di una traduzione stata così adul- terata da un governo, per porre in evidenza che l’immor- talità dell’amima era conosciuta dagli antichi; anzi chiun- que haletto Cicerone pudesser certo che essi la conoscessero. I seguenti passi non sono sicuramente falsificazioni o in- terpolazioni di censori, e se fossero trasportati in linguaggio biblico, potrebbero credersi tratti dal Testamento nuovo.— Immo vero ii vivunt, qui ex corporum vinculis, tan- quam e carcere evolaverunt: — vestra vero , quae dici- tur vita, mors est. Justitiam cole et pietatem: ea vita via est in coelum, et in hunc coetum eorum qui jam 106 vixerint , et corpore laxati, illum incolunt locum. In vero enitere, et sic habeto non ESSE TE MORTALEM, sed corpus hoc: non enim tu is es quem forma ista declarat; sed meas cujusque , is est quisque : non ea figura quae digito demonstrari potest. — Omnibus qui patriam conservarint, adjuverit,auxerint,certum in coelo esse ac definitum locum, ubi beati aevo sempiterno fruuntur. Dopo questa fantastica introduzione, e dopo la storia preliminare, nella quale siamo andati seguendo l’autore, egli scende allo scopo principale del suo libro , cioè alle notizie risguardanti Leonardo da Vinci e Michelangiolo. La vita di questi due grand’ uomini è generalmente nota, e sommamente interessa non i soli artisti ma i filosofi an- cora. Ma se l’opera non contiene veruna particolarità a loro relativa, che non sia a notizia di tutti coloro che di tai cose dilettansi, riporta bensì tutto ciò che altrove si trova in una maniera spiritosa e viviace, acccompagnato da osservazioni al tempo stesso giuste ed ingegnose. Se Leonardo non ebbe tanta universalità di talenti nelle belle arti quanto Michelangiolo, egli però lo sorpas- sò nelle varie moltiplicità di cognizioni in quasi ogni ge- nere di sapere, essendo fornito delle scienze più esatte, non meno che adorno delle qualità più amene e più dilettevoli. « Fino dalla sua più tenera età fu l’ ammirazione dei suoi contemporanei. Dotato di talento elevato e per- spicace ,. voglioso d’imparar nuove cose, coraggioso nel tentarle, mostrò questo carattere non solo nelle tre arti del disegno, ma eziandio nelle matematiche, nella. mec- canica , nella musica, nella poesia , nell’ideologia, senza far parola delle arti di piacere, nelle quali riuscì per ec- cellenza , come sono la scherma, il ballo, il cavalcare: e possedeva tutte queste abilità in modo che tutto ciò che costumava di fare per piacere, pareva che fosse l’arte per esercitar la quale ei fosse espressamente nato ». « Tal volta si fermava a un tratto per le strade per 107 eopiare sopra un suo libretto le figure ridicole che se gli paravano avanti. Abbiamo tuttavia le sue graziose carica- ture che sono le migliori che esistano. Cercava non solo i modelli del be/Zo e del brutto, ma pretendeva ancora di ritrarre la fugace espressione delle affezioni dell’ animo e delle idee, e richiamavano specialmente la sua attenzio- ne le cose bizzarre e contraffatte. Fu forse il primo ad as- saporare questa parte delle belle arti, fondata non già sulla simpatia, ma sopra un paragone vittorioso di amor proprio. Conduceva a desinare a casa sua de’ campagnoli per farli smascellar dalle risa con de’ racconti stravaganti e ridicoli ; e altre volte vedevasi seguire i condannati al supplizio. Una non ordinaria beltà , un avvenente conte- gno facevan sì che queste sue idee singolari apparissero ammirabili. Sembra che questo genio felice fosse, come Raffaello, una eccezione alla regola generale e tanto vera : Aucun chemin de fleurs ne conduit à la gloire . . Sappiamo che passò diciassette anni della sua vita a Milano, ove si recò dopo esser giunto alla maturità della sua età e della sua fama, poichè non abbandonò Firenze prima del trentesimo anno dell’età sua. In tutto questo lungo intervallo egli consacrò certamente la più gran par- te del suo tempo alla pittura, ma diè compimento alla sua grande opera, al più bel trionfo dell’ arte, al dipinto del Cenacolo. Gli aneddoti e le osservazioni relative a que- sto dipinto, riportate dall’autore in gran copia ma senza superfluità, sono una delle parti migliori di questo libro. Leonardo nell’ideare il piano della sua composizione, a forma di quanto han fatto i gran maestri, meditò pro- fondamente sopra il suo soggetto; e dopo essersi preparato con lungo studio e soprattutto con un severo esame della natura, ne cominciò l’ esecuzione con replicati bozzetti e dell’ intero disegno e delle sue parti individuali. Il Giral- ‘di riporta alcune curiose particolarità, delle quali aveva avuto notizia da suo padre contemporaneo di Leonardo. 108 Costumava di praticare in certi ridotti frequentati da per- sone pel carattere e per le vesti somiglianti a quelle figure che intendeva d’introdurre nel suo quadro; e ogni volta che trovava qualche attitudine o movenza, qualche grup- po 0 fisonomia che corrispondesse alla sua intenzione , la sbozzava sopra certe tavolette che sempre seco portava. Avendo con questi sussidi terminati gli altri apostoli , aveva lasciata indietro la testa di Giuda, finchè non aves- se potuto trovare una fisonomia di sua soddisfazione , che espsimesse l’idea che erasi formata dell’ eccesso della perfidia e del tradimento . Il priore del convento nel quale dipingeva Leonardo, impazientito che il pittore gli tenesse occupata quella stanza consecrata all'adempimento di una parte tanto essenziale di monastica disciplina, ne fece doglianza al duca, il quale chiamò a sè il pittore, perchè gli rendesse ragione di questo indugio: al quale rispose che vi lavorava ogni giorno per due ore intere. Il pio superiore del con- vento rappresentò di nuovo con molto zelo, dicendo che non vi mancava altro da finire se nom una testa ; e che ben lungi dal lavora vi due ore il giorno, non era capitato al lavoro da quasi un anno in poi: Chiamato allora nuova- mente avanti alduca, Leonardo sì difese come segue. « Che sanno questi frati di dipingere? Dicono il vero che è gran tempo ch'io non sono stato là: ma nen dicon già vero ne- gando che io ispenda ogni giorno al meno due ore intere a quella immagine. Restami a far la testa di Giuda, il quale . è stato quel gran traditore che voi sapete, e però merita esser dipinto con viso che a tanta scelleraggine si confac> cia. E quantunque io ci avessi potuto aver molti fra quel- li che mi accusano che si sariano maravigliosamente as- somigliati a quel di Giuda, nondimeno per non li far vergognar di lor medesimi, ha già un anno e forse più che ogni giorno sera e mattina mi son ridotto in Borghet- to, ove abitano tutte le vili e ignobili persone, e per la 109 maggior parte malvagie e scellerate, solo per vedere se mi venisse veduto un viso che fosse alto a compier l’imma- gine di quel malvagio, nè infino ad ora l’ ho potuto trova- re. Tosto che mi verrà innanzi, in un giorno darò fine a quanto mi avanza a fare. O se forse nol troverò, vi porrò quello di questo padre priore, che ora mi è sì molesto, che maravigliosamente gli si confarà »: e con quello e con le altre parti ch'egli in tutto quell’ anno aveva dili- gentemente raccolte in varie faccie di vili e malvagie per- sone, andato a’ frati compiè Giuda con viso tale che pare. ch’ egli abbia il tradimento scolpito nella fronte. Aggiunge il N. A. un simigliante aneddoto dell’ Ap- piani, l’ultimo frescante italiano, il quale dovendo dipin- gere una pelle di leone, tanto indugiò finchè non ne ebbe trovata una, poche avendone vedute per lo innanzi, e senza farvi una particolare attenzione. Condotto a termine con tanto studio il Cenacolo 0g- getto di universale ammirazione, fra tutte le dipinture Hi sommo merito è stata quella che ha avuta una più corta vita. Tutto concorse alla sua distruzione; la qualità de’ ma- teriali, la situazione, non meno che altre sinistre circo- stanze dipendenti in parte da una premeditata malignità- Fatto sta che onninamente si sono perduti i segni della mano maestra di Leonardo. La prima disgrazia fu di esser condotta a olio e non a fresco, genere di pittura che non si accomodava a’ leggeri ritocchi e al gusto incontentabi- le di Leonardo, cui piaceva di trar partito dalle recenti invenzioni che si facevano su i colori. Un miserabile dipin- to eseguito a fresco nello stesso tempo all’altra estremità del reflettorio sorprende ancora a’ nostri giorni per la freschezza del colorito, mentre il capo d’opera di Leo- nardo, e forse dell’arle , è restato distrutto in un breve corso di anni. Si vuole che egli si servisse d° olio troppo cliiarifica- to e di pochissima consistenza; ed è cosa sicura che |’ in- 110 tonaco sul quale lavorò era difettoso, poichè in pochi anni si staccò e cadde a scaglie. Di più il luogo ove era situato il convento essendo molto soggetto all’ umidità, il refetto- rio rimaneva nella parte più bassa della fabbrica; cosicchè ogni qual volta il paese restava inondato, il refettorio si empiva d’acqua; e in conseguenza questa dipintura con- servò per pochi anni le sue originali bellezze. Infatti con- dotta a termine nel 1498, era già cancellata per la metà nel 1540; e dieci anni dopo non vi rimasero se non.i soli contorni , ed era affatto sparito il colore. Cento anni dopo quei padri frequentando necessariamente ogni giorno quella stanza, colla consueta loro sagacità osservarono che la linea retta che univa la tavola colla cucina passava pel centro del dipinto, e non già per la porta. E sapendo che la linea retta è la più breve fra due punti, crederon proprio di sfondare il muro, guastando così una parte della figura principale e le due che le erano accanto. Quin- di affettuosi pel loro sovrano quanto erano zelanti pei loro monastici doveri, conficcarono nel mezzo della muraglia un grandissimo scudo coll’ arme dell'imperatore, che ar- rivava fino alla testa delle figure. Ma la pietà di quei reverendi fu più fatale a quell’insigne lavoro, e finì di distruggere ciò che la loro negligenza aveva cominciato a rovinare. Nel 1726 si servirono d’un cattivissimo pittore che si spacciava di possedere il segreto per far rivivere 1 colori perduti, e acconsentirono che mettesse mano al lavoro sotto una tenda perchè nissun vedesse ciò ch' ei faceva. Fu costui un certo Bellotti, che ridipinse tutto di pianta , eccuttuata una parte del cielo che si vede dalla finestra, solo colore originale che sia restato. In questo proposito riflette molto giudiziosamente l’autore, che gli intelligenti ignari di questa istoria, bonariamente compar- tiscono elogi ed ammirano estatici il lavoro del Bellotti come se avessero avanti agli occhi l’opera divina di Leo- nardo. Finalmente nel 1770 essendo stato rinchiuso in ) Re quel convento un certo Mazza, ei fini di rovinarla ra- schiando effettivamente quasi tutti i contorni originali e mettendo a tutte le figure , fuori che a tre, teste di sua fantasia. Nel 1796 Buonaparte, più per rispetto del luogo che per riguardo allo stato in cui si trovava questo dipin- to, prima di risalire a cavallo stese un ordine, col quale ‘ proibì che questo luogo fosse destinato a verun uso mili- tare. Ma poco dopo uno de’ suoi generali, sul nome del quale l’ autore ci sembra troppo delicato, gettò a terra la porta e ne fece una stalla. I dragoni, come vi era da aspet- ‘tarsi , avendo sentito dire che quelle figure rappresenta- vano gli apostoli, si divertirono a gettar loro delle pietre. Il refettorio servì poi per qualche anno come magazzino di foraggi; e infine quando fu permesso di rimurarne la ‘porta per prevenire ogni ulteriore degradazione , ciò pro- dusse tanto poco effetto, che nel 1800 avendovi una inondazione alzata 1’ acqua sul pavimento per più di un ‘piede , vi fu lasciata stare finchè non si asciugò da per sè per evaporazione. Tale è l’istoria di questo celebre dipinto e della sua ‘perdita , e quindi non possiamo aver cognizione del suo merito se non dalla tradizione, dalle copie , e dalle stam- ‘pe che ne sono state fatte. Per buona sorte le copie son mol- te, ed alcune di queste eseguite da pittori contemporanei di vaglia, che studiarono l'originale nel tempo della sua più gran conservazione. Una di queste, la quale è stata seguita nella stampa meritamente famosa fatta. dal Mor- ghen , è dipinta a fresco da Marco d’Oggione l’anno 1514 nel refettorio del soppresso convento di Gasicltza: l’in- ‘cisore si è parimente giovato d’alcuni studi tuttavia super- ‘siti di Leonardo. Ne:esiste inoltre una copia nel grande ‘spedale .di Milano dipinta nel 1500, un’altra in piccolo dall’ Oggione nel 1510, ed un’altra lodatissima in Lugano fatta dal Luini che si scostò dall’ originale in otto teste , fra lequali in quella di Giuda. Sono queste le più saiabili T. X. Luglio to) 118 | fra le copie contemporanee. Buonaparte ne ordinò una magnifica copia in mosaico , della stessa grandezza dell’o- riginale, e diede al Raffaelli l’ incarico di eseguire questa grand’opera; ma sventuratamente ne commesse la dipin- tura al Bossi. Il Bossi era un letterato, ed abilissimo per ‘ schizzare un pensiero , ma non aveva lo stesso merito come pittore; ed evvi tutta la ragione di temere che il mo- saico mostrerà tutti gli effetti del suo cattivo colorito. Termineremo di parlare di quest’ opera sublime con alcune osservazioni dell’ autore non meno giuste che con- vincenti, dalle quali comprendiamo ch'egli ha ceduto alla forza della verità, obliando affatto la sua radicata av- versione pe’ soggetti tratti dalla S. Scrittura , ed anzi par- lando il linguaggio di un cristiano e di un intelligente. « Si trattava di rappresentare quell’ affettuoso mo- mento, nel quale Gesù, accerchiato da’ suoi discepoli , la vigilia della sua morte dice loro teneramente : In verità io vi dico che uno di voi mi tradirà. Un’ anima amorosa come la sua dovette essere profondamente commossa pensando che fra dodici amici che erasi scelti, e co'quali sì era nascosto per sottrarsi ad una ingiusta persecuzione; che in quel giorno aveva desiderato veder riuniti ad una cena fraterna, simbolo della riconciliazione e dell’ amore universale ch'ei stabilir voleva sulla terra; fra dodici elet- ti amici sì trovasse un traditore capace di darlo in mano de’ suoi nemici per una somma di denaro. Un dolor tanto sublime e tanto tenero al tempo istesso per esser espresso colla pittura esigeva la più semplice disposizione, perchè l’attenzione, senza essere distratta , fosse tutta richiamata alle parole che Gesù in quel momento pronunziava. Per far comprendere che il Salvatore non era angustiato da un vil timore della morte, vi voleva una gran bellezza nelle teste de’discepoli, ed una non ordinaria nobiltà nelle loro mosse. Se fosse stato un uomo volgare non avrebbe perduto il tempo in perigliose tenerezze, ma 113 avrebbe ucciso Giuda , o almeno in chmapagnia de’ disce- poli a lui fedeli illo involato a’ suoi persecutori. Leonardo ida Vinci sentì la celeste purità e la profonda delicatezza che formano il carattere di questa azione di Gesù , lacerato dal pensare alla esecranda perfidia di così nero tradimento; e conoscendo esser gli uomini sì per- ‘ versi, disgustato della vita trova un dolce conforto nel- I abbandonarsi alla celeste malinconia che gl’ inonda l’ animo, piuttosto che conservare una vita infelice in mezzo a tanti ingrati. Mi soro ingannato , egli dice, giu- dicando dal mio il cuor degli uomini. La sua commozio- ne è sì grande, che dicendo quelle parole : wr di voi mi tradirà, non ha cuore di guardar nessuno iu viso. Sta sedendo ad una lunga tavola della quale è vuota la parte che guarda lo spettatore. Gli rimane a destra quel tanto al Redentor caro Giovanni : accanto a lui vi è $. Pietro, e dopo ne segue lo scellerato Giuda. La parte davanti «della mensa essendo vuota , lascia vedere comodamente i personaggi tutti dell’azione. Il momento è quello ‘in cui Gesù ha dette quelle terribili parole , e si vede sul volto di ciascuno espressa l'indignazione. S. Giovanui, per quanto oppresso da quel che ha ascoltato , presta attenzio- ne a $. Pietro che gli palesa i suoi sospetti sur uno degli apostoli, sedente alla destra dello spettatore. Giuda mezzo di schiena tenta capire di chi parli S. Pietro con tanta vi- vacità , ricompone la. sua fisionomia , e si prepara a negar francamente. Ma tutti han già indovinato chi sia il tradi- tore. S. Giacomo minore passando col braccio sinistro sulla spalla di S. Andrea, avverte:S. Pietro che il traditore è accanto a lui. :S. Andrea: guarda Giuda e inorridisce. S. ‘Bartolommeo che.rimane alla ‘estremità della mensa a sinistra di chi guarda il dipinto, si è alzato in piedi per veder meglio lo. scellerato. S. Giacomo, a sinistra di Gesù, si protesta di essere innocente ; facendo l’ attitudine na- turale a tutte le nazioni di aprir le braccia e presentare il 114 petto. S. Tommaso lascia il suo posto e si avvicina a Gesù, e con un dito della mano alzato con bella prontezza, pare che domandi a Gesù: 270 di noi? .....S.Filippo; il più giovane fra gli apostoli , con una mossa piena d’ingenuità e d’innocenza s’ alza per assicurar Gesù della sua fedeltà. S. Matteo ridice le terribili parole a S. Simone che non vuol crederlo. S. Taddeo che fu il primo a ripetergliele , gli accenna S. Matteo che le ha sentite come lui. S. Simone, l’ultimo degli apostoli a destra dello spettatore pare che esclami: cosa mi dite mai? Ma si conosce bene'che tutti coloro che fan corona a Gesù non sono se non discepoli, € dopo averli considerati , naturalmente si torna a fissarsi. sopra il loro sublime maestro. Il nobil dolore che l’oppri- me si comunica a chi lo mira , e lo spirito è tratto a’ con- templare la più grande sventura dell’ umanità, cioè il tradimento dell’amicizia. Il pittore ha rappresentate aperte le finestre e la porta del fondo per la quale si:scorge in lontananza una tranquilla campagna, la cui ‘vista consola. 11 cuore sente il bisogno di quella solinga e: tacita quiete che regnava intorno al monte Sion, e che invitava Gesù a riunirsi co’ suoi discepoli. Il tramontar del giorno il cui moribondo raggio illùmina il paese, gl’imprime un colore melanconico, conveniente allo stato in cuì sì trova lo spettatore. Ei sa che quella è 1’ ultima sera che l’ amico. degli uomini passerà sulla terra: nel giorno seguente tra- monterà il sole, ed ei. sarà spento ». Ivi pag. 180..185. Prima di clebiecisiani questo soggetto ci crediamo dover rilevare due errori ne’ quali sono ‘caduti duè celebri nostri concittadini, parlando di questo dipinto. Il sig. Addison.lo chiama Ze n0zze di Cana, ed-'aggiunge che una delle figure ha sei dita in una mano. Il sig. Roscoe pure ne ha sbagliato di gran lunga il soggetto nelle sua vita di Leon X. « In questo dipinto, ser sil, il pittore intese di superar quanto altro\mai\era stato fatto prima di luî, e di rappresentar non solo le forme esteriori, ma eziandio 115 le emozioni e le passioni dell’ ani... sndkiplandé dal più. sublime grado di virtà e di beneficenza nel caru..,., del Salvatore, fino al più eminente grado di tradimento e di perfidia in quello di Giuda ; mentre le diverse sensazioni di affetto e di venerazione, di gioia e di dolore, di spe- ranza e di timore espresse nelle fisionomie e nelle attitu- ‘dini de’ discepoli ,, palesano i modi diversi co’ quali essi apprendevano quel rito misterioso ». Ma il soggetto è Cristo che affabilmente, ed anzi pateticamente dice a’ suoi discepoli ur di voi mi tradirà: nè egli istitui il Sacra- mento della Eucaristia, se. non dopo aver pronunziato quelle parole. Ma il sig. Roscoe prosegue. « Nel mezzo siedé il Salvatore , che con imperturbabile fermezza di- spensa con ambe le mani gli emblemi della sua vicina passione » . Questo è un errore manifesto, e fra tutte l'espressioni che avrebbe potuto scegliere, quella d’imper- turbabile fermezza è forse la meno conveniente per rap- presentare il contegno del Redentore in questo dipinto, ove non fa certamente mostra d’imperturbabilità e di fer- mezza , ma negli atti e nel volto di lui si scorge la bene- ‘volenza , l’affabilità, il perdono e la malinconia : nè, ve- run potrà mai supporre che al pittore cadesse in pensiero nel dipingerlo , di rappresentarlo imperturbabile. Non vi è neppur ragione di dire ch'egli è in atto di distribuire il pane e il vino, perchè non ha in mano veruna cosa , e | l'attitudine è quella d’uom che partecipi una trista no- vella. È inutile l’ aggiungere che le mosse e l’ espressione delle altre figure non han che fare con quelle di uomini che stieno ad udire l'istituzione di quel Sacramento. Sono queste mirabilmente descritte nel passo dell’autore da noi | riportato. È vero che egli dà la descrizione istessa che tutti danno di quel soggetto, ma parla con molta bravura sulla composizione del quadro, in modo da destare ammirazio- ne in chiunque fa suo studio la pittura. È un danno che nulla sia rimaso superstite della I 116: statua colossale di bror»- > appena un indizio del carto- ‘ne dell» +-««aglia, le due grandi opere di Leonardo, La statua modellata da lui a Milano per Lodovico Sforza rap- presentava un cavallo alto ventitre piedi ; intorno al qual modello aveva lavorato sedici anni, ed era appunto con- dotto a termine quando i francesi preser Milano, nella qual circostanza fu distrutto. La battaglia fu da lui. dise- gnata dopo il suo ritorno a Firenze in concorrenza con Michelangiolo; ma tanto l’uno quanto l’altro fecero so- lamente i cartoni. Quello di Leonardo si è perduto, ma ne fu copiato un saggio dal Rubens, inciso poi dall’ Ede- linck. I suoi lavori idraulici sull’ Adda, mercè de’ quali rese navigabile quel fiume per una lunghezza di 200 mi- glia, e quelli per irrigare una parte delle campagne della Lombardia, esistono anche oggigiorno, monumenti del suo sapere. Veramente come scrittore scienziato occupa un posto distinto. Ei fece scoperte in ottica e in meccanica, e i pre- senti volumi contengono alcune generali osservazioni sopra il suo metodo d’ induzione del filosofare, descritto quasi collo stesso linguaggio che nell’ età successiva rese im- mortale il nome di Bacone. « L'esperienza, egli dice, è l'interprete della natura, nè mai c’ inganna, laddove i nostri raziocini possono qualche volta ingannarci.— Dob- biamo consultare l’ esperienza e variare le circostanze ne” nostri sperimenti fin tanto che non possiamo cavarne re- gole generali, perchè da questi solo devono esse cavarsi ». E di nuovo, « se ho da trattare un qualche soggetto in par- ticolare , prima di tutto farò degli sperimenti, perchè il mio piano è di prima appellarsi all’ esperienza, e quindi di mostrare perchè i corpi sieno spinti ad agire in un dato modo. È questo il che seguir deve chiunque intende d’in- vestigare i fenomeni naturali » . L’autore c’informa parimente di una sua notabile osservazione sul fuoco ; la quale fu senza dubbio il resul. - 119 tamento del suo modo d’ interrogar la natura, e non possia- mo trattenerci dal convenire che, quantunque il suo stile sia tal volta bizzarro; ciò ch’ei dice in tal proposito è anco superiore a quanto espone il Bacone sul calore. Il filosofo italiano così si esprime nel 1520. « Il fuoco consuma senza interruzione l’aria che lo alimenta; e si produrreb- be un vuoto in quel luogo, se nuova aria non vi si intre» ducesse. Quando l’aria non è atta a ricevere la fiamma, nè la fiamma nè un animale terrestre o aereo vi può vi- vere, e generalmente gli animali non posson vivere ove la fiamma si spenge (1) ». | Il quarto e quinto libro, che occupano quasi la metà del secondo volume contengono brevi discussioni e salu- tari riflessioni sul dello ideale, sul bello antico, e sul bello moderno, piene di oscurità metafisiche, di sotti- gliezze , di troppo ricercate notizie, di concetti puerili, di assurdità, di paradossi. Vi si conosce la mano d’un uo- mo pronto e vivace che ha pensato e veduto molto, ma il cui giudicio è alcunchè depravato dalla smania di sem- pre dire cose nuove e frizzanti , e che si è prefisso di scri- vere /o spirito delle belle arti alla maniera del Mon- tesquieu. Non ci occuperemo a render conto di tutto ciò che è estraneo al suo subietto, e che ci sembra esser vera- mente il delfino nelle selve, il cinghiale in mezzo alle onde. Il rimanente del libro è consacrato a Michelangiolo, di cui la vita e le opere sono diffusamente e sottilmente considerate. Michel più che mortale angiol divino. (Ariosto ) (1) La forma o vera definizione del calore che il Bacone deduce dal suo trattato esperimentale, dando un esempio del metodo d’in« duzione, è assai meno istruttiva ed originale. Ca/or est motus ex- pansivus , cohibitus et nilens per partes minores, ut expanden- do in ambitum non nihil tamen inclinet versus superiora, ut non sit omnino segnis, sed incitatus et cun impetu nonnullo. Nov. org. II. aph: 20. 118 Uno degli aneddoti giovanili di questo grand’ uomo ha relazione con un altro della sua età matura, ed asso» miglia ad altro aneddoto concernente al sig. Reynolds. Trovandosi Michelangiolo nello studio del Ghirlandaio ch’ ei serviva in qualità di garzone, si arrischiò a fare un cambiamento nel copiare un disegno ‘del suo maestro. Quando il Vasari sessanta anni dopo gli portò a Roma quello schizzo si compiacque nel ricordarsene , dicendo ch’ egli la intendeva meglio allora che adesso. Si dice che il sig. Reynolds essendo già vecchio , mostratogli uno dei disegni da lui fatto in gioventù , restò mortificato ve- dendo quanto poco profitto avesse fatto : e il sig. Malone, scrittore della sua vita, colla sua consueta perspicacia osserva che ciò mostra la sua modestia, non riflettendo che quando un uomo mette a livello le sue opere giova- nili con quelle eseguite in età matura, restituisce con una mano ciò ch’ egli prende coll’ altra. L’ affetto di Michelangiolo per la scultura può quasi dirsi un istinto, e nacque vedendo alcune statue antiche. Gli riuscì di avere un pezzo di marmo e gli arnesi per lavorarlo , e ne cavò subito una testa di fauno alla quale stava attorno per pulirla, quando passando Lorenzo de'Me- dici la vidde. Ei conobbe tosto in lui uno straordinario talento, e insinuò a suo padre che gli permettesse di tutto dedicarsi alla scultura. Gli assegnò una stanza nel suo palagio , ove seguitò a studiare e a lavorare, cortesemente da quella corte trattato finchè visse Lorenzo. Giulio II fu dopo Lorenzo il suo valevole sostegno, e lo ammirò e lo protesse con tutto l’ ardore del suo impe- tuoso carattere. Impegnatosi Michelangiolo a lavorar per lui nella grande opera del suo mausoleo, parvegli in una circostanza di essere mal trattato: ond’ egli segretamente partissi da Roma, e per le poste arrivò in Toscana senza . impedimento veruno, per quanto gli fossero spediti dietro cinque corrieri eon ordine di usar la forza quand’ei mi- a Pa DL e PA A aaa EEE 119 nacciasse di opporsi. Il Soderini allora gonfaloniere della repubblica lo accolse graziosamente , senza far conto da principio del breve minaccevole spedito dal Papa per farlo ritornare indietro come un raro e prezioso tesoro . Ma alla seconda e terza lettera scritte dal Papa per lo stesso oggetto, e che sollecitamente si succedettero , il Soderini temendo che non venisse scagliato su di lui qualche ful- mine più materiale, che in quel tempo di tali solevano scagliarsene dal Vaticano , disse a Michelangiolo ch' egli aveva trattato il Papa peggio che non avrebbe osato di fare il re di Francia; che per causa sua non voleva fare una guerra, e che perciò si diponesse a ritornare a Roma. Michelangiolo pensava di proposito di andarsene a Costan- tinopoli, avendo ricevute larghe proferte dal Turco, il quale aveva il progetto di costruire un gran ponte sul Bosforo : ma il suo amico fece di tutto per distorlo da tal proponimento , e propose perfino di farlo ambasciatore della repubblica a Roma , perchè e’ fosse più sicuro della persona. L’ autore "continua questa storia in maniera da far conoscere i caratteri di tutti gli attori di quella ; e noi la riporteremo colie sue parole. « In questo tempo il Papa faceva la guerra e con qualche prospero successo. La sua armata occupò Bologna, ove si recò in persona molto allegro per la conquista di sì ragguardevole città. In tal circostanza Michelangiolo si fece cuore, e pensò di presentarsi al Papa. Giunto a Bolo- gna, nell’andare a sentir messa alla cattedrale , lo incon- trarono e lo riconobbero quelli stessi corrieri a'quali pochi mesi prima aveva fatta resistenza. Con buon garbo se gli presentarono e lo condussero tosto a Sua Santità che allora appunto era a tavola nel palazzo Sciarra ove risedeva. Giulio II. vedendolo, pieno di collera gli disse: tu eri in dovere di venir da noi, ed hai voluto aspettare che noi venissimo a cercar di i Michelangiolo inginocchiatosi altamente gridava mercè. Ho fallato, ei disse, ma il mio 120 fallo non vien da cattivo naturale, ma da un impeto di collera. Non ho potuto sopportare i cattivi trattamenti fattimi nel palazzo di Vostra Santità. Giulio senza rispon- dere stava pensoso, a capo basso; e molto agitato. Quando un vescovo mandato dal cardinal Soderini fratello del gonfaloniere per vedere di aggiustar la cosa, cominciò a dire che Michelangiolo aveva fellavo per igrvaria che gli artisti, se si levano dalla loro professione son tutti così. . . . Alle quali parole l’impetuoso Pontefice interrompendolo con un colpo di bastone che aveva appresso: tu gli dici delle ingiurie che noi non gli diciamo; l’ignorante sei tu; leGanalii davanti. E perchè il prelato non se ne sidava subito, i domestici lo mandaron via a furia di pugni. Avendo Giulio sfogata la sua collera diede la benedizione a Michelangiolo, lo fece avvicinare alla sua sedia, e gli raccomandò di non partir da Bologna senza ricevere i suoi ordini. Pochi giorni dopo il Papa lo fè chiamare:.« tu devi fare il mio ritratto, » ei gli disse. « Voglio che tu getti in bronzo una statua colossale , che collocherai sulla fac- ciata di S. Petronio »: e messe a sua disposizione una somma di 1000 ducati. Michelangiolo terminato il model- lo in terra prima che il Papa partisse, questi si portò al suo studio per vederlo. Siccome il braccio destro della sta- tua era in attitudine di dar la benedizione, Michelangiolo pregò il Papa a dirgli cosa voleva che gli ponesse nella mano sinistra, come sarebbe un libro. « Che libro, che libro? rispose Giulio IT, una spada; che io non me la dico co'libri ». Poi continuò scherzando sulla mossa del brac- cio destro , che era molto risentita : « ma dimmi, la tua statua dà la benedizione o la maledizione. ? « Essa minac- cia questo popolo, rispose lo scultore, s'e’ non avrà giu- dizio ».. Impiegò Michelangiolo 16 mesi in questa statua tre volte maggiore del vero: ma il popolo minacciato non ebbe giudizio, poichè cacciati i partigiani del papa fece in pezzi la statua; e la sola testa scampò da tanta furia , 121 e si vedeva tuttavia un secolo dopo , e pesava 600 libbre. Questo morumento costò 6000 ducati d’oro. Tom. II. pag. 278. 280. Ritornato Michelangiolo a Roma, il Papa volle che imprendesse un lavoro di prodigiosa grandezza e di som- ma difficoltà, cioè il dipinto a fresco della cappella Sisti- na. Sarebbe stata quest'opera difficilissima e faticosissima ad eseguirsi per lo stesso Raffaello, che lavorava allora nelle stanze del Vasticano , e per tutti gli altri pittori pratici nel colorire a fresco : pensiamo per Michelangiolo che non aveva mai fatto nulla in questo genere, e che non conosceva neppure i primi rudimenti di quest'arte. La più gran difficoltà consiste, come è noto, nel dover colo- rire subito che sono segnati i contorni, e mentre l’ into- naco è tuttavia umido; cosicchè il pittore non può alte- rare il più piccolo segno, nè perder troppo tempo a finire l opera sua; ma bisogna che cominci e finisca quella parte della sua composizione fintanto che lo spazio che ha intonacato è ancor fresco , e di una consistenza pro- pria a prender le tinte: Veramente Michelangiolo non erasi molto esercitato in veruna specie di pittura, nè aveva mai fatto nulla di considerabile in questo genere. Per fare per la prima volta un saggio a fresco e di quella grandez- za, ein quella posizione, vi voleva un coraggio sovrumano. Avrebbe voluto esimersene, ma non gli fu possibile: il Papa volle che obbedisse. Egli allora fece vevire da Fi- renze vari frescanti, e li messe a lavorare finchè non ebbe imparato il metodo. Dopo disfece tutto ciò che avevan fatto, e ricominciò a fare da sè. Vedendo oggi la cappella Sistina, chi giudicherebbe che quello sia il primo tentativo fatto da un uomo in un'arte per lui tutta nuova, e la più difficile di tutte ? Nella storia del talento umano non vi è un fatto che somigli a questo, come giudiziosamente osser- va il nostro autore : e se consideriamo ciò che deve esser passato per la mente di questo gran maestro tanto geloso 12% della propria gloria , tanto severo nel giudicar sè stesso ,° quando ignaro persino della parte meccanica di sì difficile e delicata operazione s’ impegnò in quell’ immenso lavo-: ro, l’uomo perde di vista la grandezza del genio, abba- gliato dalla forza del carattere che mette a confronto. Passeremo sotto silenzio una varietà di singolari aneddoti e di giudiziose osservazioni condite di molta bizzarria sopra le opere immortali da questo grand’ uomo eseguite nel Vaticano, non meno che la completa ed. in- teressante descrizione degli altri insigni suoi lavori ne’ diversi rami delle belle arti, come la fabbrica di S. Pietro, nella quale adempi la promessa che si sa aver fatta; di far sì che la cupola del Panteon potesse esser contenuta nel vano di quella di S. Pietro. Siccome ci siamo già diffusi abbastanza sul contenu- to di questi due volumi, per darne un saggio al lettore, prima di terminar questo articolo estrarremo alcune poche curiose particolarità relative alla maniera di lavorare di Michelangiolo, che il nostro autore ha tratte da un piccol libro non del tutto sconosciuto in questo paese, cioè da Biagio di Vicenza. Si legge in un libro del secolo decimosesto quanto segue. « Prisno dire di aver veduto Michelangiolo vecchio di più di sessanta anni e di una corporatura magra. che non annuuziava molta forza, fare in un quarto d’ ora da un marmo durissimo saltar più scaglie di quello che a- vrebbero potuto farne in un’ ora tre de’ più robusti scul- tori; cosa incredibile a chi non l’ ha veduta. Ei s° avven- tava al marmo con tanto impeto e con tanta furia, che mi pareva ad ogni momento di vederlo andare in pezzi. À ogni colpo staccava scaglie grosse tre e quattro dita, ‘e applicava lo scalpello tanto vicino a’ contorni, che stac- cando la grossezza d’ una linea di marmo di più, il lavoro era bell’ e rovinato ». Caldo dell’ immagine del bello che se gli presentava Î | 123 all’immaginazione , e che temeva di smarrire, pareva che quel grand’ uomo avesse una specie di collera contro il marmo, che gli nascondeva la sua statua. L’impazienza, l’ impeto ; la forza colla quale si avventava-al marmo ha fatto sì , che egli ha forse troppo rilevate le minuzie. Ma questo difetto non si trova ne’ suoi dipinti a fresco. Prima di dipingere la cappella Sistina dovea giorno per giorno calcare sull’intonaco i contorni precisi segnati sul suo cartone: ed ecco due operazioni che correggono i difetti dell’impazienza. Bisogna ricordarsi che. per, dipingere a fresco il pittore deve ogni giorno intonacar quel pezzo che erede di potere nella giornata terminare. Sull’ intonaco tuttavia fresco calca con una punta i contorni del suo di- ‘ segno. Quindi non è possibile d’ improvvisare dipingendo ‘a fresco, ma bisogna sempre aver veduto sul cartone l’ effetto dell'insieme. Rispetto alle statue, per la sua im- - pazienza si contentaya per lo più di un modellino in cera o in terra. Per finirle poi sì affidava al proprio talento... D. (*) Noi non avevamo sotto gli occhi l’opera di cui ora si tratta, allorquando c’invogliammo di far tradurre quest’ articolo del- l’ Edinburgh Review, che ici parve molto ben fatto ; come ge- , meralmente tutto quello che pubblicano i dotti compilatori di quel meritamente celebre giornale inglese. Ora , essendone già sotto al torchio la presente versione , riceviamo l’ opera francese , che dobbiamo alla gentilezza dell’ autore medesimo. Se ‘dopo letta quest’ opera ci sembrassero erronei i giudizi dell’ Edimburgh Review, ci faremmo un dovere di tornare da capo, e senza ricorrere perciò ad altro giornale sul merito di quella produzione ingenosa. I nostri lettori vedono con quanta religiosità noi indichiamo ‘gli altri giornali dai quali alcune volte ‘ci facciamo lecito di : estrarre articoli che ci sembrano ‘interessanti, e non lo facciamo ciononostante che dai giornali scritti in lingue straniere. Noi deside- reremmo. che allorquando i nostri colleghi d'Italia trovano nel- .V Antologia alcun pezzo che fa lor comodo (cosa per noi molto lusinghiera) si degnassero d’imitare il nostro esempio, Questo sia detto ‘in buona pace dell’ Ape italiana; che si pubblica in Milano , nella quale vediamo intieri‘articoli rivavati dal nostro giornale , sen- za che dinoi sia fatta menzione. Il diret. dell’Antologia, 124 Discorso sullo studio filosofico ‘delle lingue. — Parigi 1821, in8.° Lo studio delle lingue , come sembra dimostrato in questo discorso, fu pressochè nullo fra gli antichi, e molto .erroneo fra i moderni, finchè da poco più d’ un secolo cominciò a divenire veramente filosofico , cioè conforme alla ragione, la quale non si appoggia che ai fatti. Certamente i greci ed i romani studiarono la pro- pria lingua, ma per un fine retorico, il qual nell’in- tenzione di malti di loro doveva pur essere un fine poli- tico. Ora altro è lo studio della lingua considerata come | arte d’esprimere le sensazioni e di movere le passioni; altro come analisi metafisica della formazione delle idee, e della loro manifestazione per mezzo della parola. Onde tentare con buon successo quest’analisi saria bisognato innanzi tutto, che i sapienti della Grecia e di Roma aves- sero tenuto qualche maggior conto degli idiomi da loro indistintameute appelati barbari. Come spiegare in qual guisa nasca, si accresca, si alteri, perisca una lingua qualunque, senza avere esaminato l’ origine, confrontato le affinità , le diffe:enze, gli andamenti di molti idiomi? Plinio il vecchio ( dall’ autore chiamato |’ erciclope- dista ) ci narra che a’ suoi giorni in una città della Gol- chide Roma aveva cento trenta interpreti per rispondere a cento trenta popoli diversi , e che più di trecento ancor vi concorrevano per ragione di commercio. Egli pari- mente ci assicura che nell’Iberia, nella Gallia, nell'Italia si contavano le lingue a centinaia ; cosa credibilissima , ove si pensi che prima delle conquiste ogni città, ogni terra nudriva un popolo nemico del suo vicino, e da lui in tutto differente. Ma tali notizie ed altre “cea nulla fanno al nostro proposito. E, malgrado la tanta dottrina e le saggissime vedute, le quali appariscono ne’ libri di Varrone, è pur verissimo che i romani scarsamente con- 125 tribuirono , se pure contribuirono veramente, a quello che noi diciamo studio filosofico delle lingue. Fra i greci il solo Platone ( quell’ ape di ogni scienza, quel poeta d’ ogni filosofia come si esprime l’autore ) diede qualche segno nel suo dialogo intitolato Cratilo di voler salire al- l’origine prima dell’ umano discorso. Ma in quel dialogo non si vede che l’ imbarazzo di Socrate, a cui è proposta la doppia questione se le lingue siano nate dalla natura delle cose o dalla convenzione degli uomini , e l’ artificio del suo eloquente discepolo nel coprirlo. « Oggi, che pei generali progressi dell’ umana civil- tà, e di tutte le cognizioni fisiche e morali, abbiamo sotto i nostri occhi più di secento vocabolari di nazioni diverse, e più di cento gramatiche; oggi che in questi vocabolari vediamo gli oggetti de’ bisogni più semplici e più naturali espressi da nomi totalmente diversi; i ragionamenti di Platone riescono di ben picciolo momento; e noi siamo convinti di non dover domandare che ai fatti la nostra istruzione ». Fra il brancolamento sistematico e le teorie prema- ture degli antichi egli non vede che un solo fatto; pueri- le in apparenza, ma che dà luogo a luminose induzioni, il famoso esperimento cioè imaginato dal re Psammetico onde scoprire la razza più antica degli uomini, e narrato da Erodoto (1) il qual lo raccolse dalla bocca de’sacerdoti di Vulcano in Memfi. È abbastanza noto ciò che dal bek (2) de’ due fanciulli, allevati a disegno fuori d’ogni umano consorzio, argomentarono i magi o i sapienti egi- ziani riguardo alla primitiva delle lingue, e quindi alla primitiva delle nazioni. Que’ sapienti, osserva )’ auto- re, non poteano mostrarsi più bamboli nello studio (1) Euterpe , o libro II delle sue istorie. (2) Da Erodoto grecizzato in un deXos, come vediamo tanti nomi forestieri da’ nostri vecchi storici toscani piégati a toscana desi- nenza , per servire al genio della lingua. 126 della natura , nella scienza dell’ ideologia. Ma se Erodoto merita qualche fede ( e già si è imparato , specialmente dopo la spedizione de’ francesi in Egitto, a prestargliela grandissima ); il suo racconto ci fa chiaro quali fossero al loro tempo le cognizioni metafisiche, di cui non si ha ragione di credere più avanzate quelle de’ Druidi e de’ Bra- mini. Platone , che come Erodoto avea viaggiato nel paese de’ misteri e delle piramidi ; professava. due secoli dopo nel suo Cratilo un’ opinione similissima a quella de’ magi, che consideravano la parola quale effetto di naturale o divina ispirazione ; ed è probabile che anche sovra altri punti di metafisica ei non fosse che l’eco della sapienza egiziana. Aristotele che seguì Platone , e che gli era di tanto superiore in ciò che possiamo chiamare il positivo delle scienze, non mostra saperne più di lui nel- l'argomento del Limginaga io, sebbene la disputa intorno alla fiala zione di questo sia implicitamente risolta nel suo famoso assioma riguardo all’ origine delle idee. « Certo, dice l’autore del discorso, la ‘conseguenza di un tale ‘assioma è che l’ uomo solo ha potuto in- ventare i segni delle sue idee, e che il linguaggio è il frutto della sua fisica organizzazione e dellè sue conven- zioni artificiali e dogtatisi Ma quando si vede come Aristo- tele medesimo ha saputo trarre poco partito dal suo gratà principio metafisico, non fa meraviglia che le conseguenze di tale principio sieno rimaste denuilta” finò a che BSche, cento trent'anni fa, venne 'a Hivtterle* in tal luce che parve una creazione. Se non che dopo di lui , ‘malgrado lo spirito luminoso di Condillac e di Tracy, il problema della formazione del linguaggio ;non ha ‘ancora attenitita quella piena soluzione di cui abbisogna ». La scuola d’ Alessandria, che ‘produsse certamente ricerche e ragionamenti sopra di esso, non fu, secondochè opina l’autore,altro che l’eco del passato. Quanto alla scuola cristiana , progenie della giudaica, le cui dottrine son cono- 127 sciute, ‘egli dice che durante il primo secolo i suoi discepoli, dediti unicamente alla morale pratica, rigettarono come va- nità ogni studio che non avesse per iscopo il conseguimento dell’eterna vita ; che nel secondo e nel terzo alcuni uomini letterati , vi aggiunsero le idee della loro educazione, cioè a dire presso a poco le platoniche allor dominanti; che dal principio del quarto , cioè dal gran cangiamento prodot- to nella società cristiana pei decreti del concilio di Nicea, sino alla metà del decimoquinto , cioè fino all’ epoca della presa di Costantinopoli e dell’ invenzione della stam- pa; cessarono tutti i filosofici ragionamenti, e però an- che quelli sulle origini delle lingue; finchè rianiman- dosi gli studi, e sentendosi quasi innanzi ad ogni altro il bisogno d’ intendere e d’ interpretare i libri antichi, si diede opera al coltivamento delle lingue, e gli spiriti curiosi non tardarono ad istituirne de’ paragoni, che riu- scirono anche più piccanti per la loro novità. Il primo saggio conosciuto di tal genere fu il vocabolario che il P Pigafetta (e ci è pur caro il vedere come i principi di quasi ogni utile cosa vengano da qualche italiano ) rac- colse di molte voci de’diversi popoli presso i quali avea peregrinato (1). Se non che gli studi dei dotti dall’ epoca di questo viaggiatore fino al principio del secolo decimot- tavo servirono piuttosto a radunare de’ materiali pel ragio- namento che ad avanzare lo scoprimento della verità. I loro sforzi furono unanimemente diretti a sostenere opi- nioni insostenibili per mezzo di etimologie , tanto più male adoperate, che spesso non aveano per fondamento che una falsa pronuncia. (1) Antonio Pigafetta, nativo’ di Vicenza ma d’ origine tosca- no, fu compagno del Maghellanos nel primo viaggio intorno al mondo , fra il 1519 e il 1522. Il vocabolario , di cui si parla , venne da lui pubblicato nel 1536, forse di seguito alla relazione che ci diede di quel viaggio , onde non troviamo che il Tirabo= schi ne faccia speciale ricordo. T. XI. Zuglio 9 128 ‘ Alfine venne Leibnitz , uomo d’intendimento sem- plice e retto, il quale prendendo, per necessario riguardo alle opinioni dominanti , un giro ingegnoso ma eflicace , insegnò che lo studio delle lingue non debb' essere fatto con diversi principi che quello dell’altre scienze esatte ; che in esse pure deve cominciarsi dal noto per giugnere all’ ignoto (1), dalle lingue moderne cioè , che cì sono più o meno familiari, onde confrontarle fra loro, scorgerne le differenze e le aflinità ,, passare in seguito alle lingue de’ secoli antecedenti, per renderne sensibili la derivazio- ne e l'origine, e così di grado in grado salire alle lingue più antiche, la cui sola analisi può fornirci plausibili congetture (2). -_ (1) Questa gradazione , prescrittaci dalla natura. del nostro intelletto , non può essere trascurata o invertita in nessun gene- re di studi, ove si brami acquistare cognizioni sicure. Sarebbe assurdo il sapporre due metodi opposti di giugnere alla verità , che non è tale per noi, se in qualche modo non è da noi sco- perta. Ora nulla si scopre chiaramente , che passando dalle cose più ovvie o più vicine ad altre ehe il sono meno, e così via via fino alle più recondite e lontane. Così nella scienza delle quan- tità, così in quella delle leggi della natura , così in quella de’ fat- ti e della natura e degli uomini. Onde il nostro Giordani ‘ scrittore sì perfetto per questo principalmente che ha sì perfetto il giudizio ) ci diceva anni sono :,, Quando avverrà che appresso noi gli uo- mini siano educati secondo la ragione, s' intenderà (ciò che altre nazioni già intendono ) dovere necessariamente alla storia antica precedere la moderna ; e ciascuno si conoscerà stolto di voler sapere ciò che nel mondo si facesse duemil’ anni sono , prima di sapere ciò che accadde l’ altro ieri , e ne’ giorni del padre e del- l’avolo. ;, Vedi biblioteca italiana n.° XI. Quegli, che nel XVII della stessa biblioteca lo impugnò , non comprese che , oltre la maggiore importanza che hanno per noi le cose nostre e recenti, senza la cognizione di queste ci sono inintelligibili le antiche ; ond’è che nella storia pure, come in tutte l’ altre scienze, è forza pas- sare dal cognito all’ incognito ; ciò che egli niega. (2) Dissertazione sulle origini de’ popoli , dedotte dagli indizi delle loro lingue. 129 ‘« L’idea di Leibnitz divenne la guida delle ri- cerche filosofiche moltiplicatesi nel decimottavo secolo. Viaggiatori d’ogni nazione, missionari d’ogni setta fecero a gara per raccogliere gramatiche e vocabolari. I dotti d’ Europa poterono paragonare una folla d’ idiomi di tribù selvagge dell’ America, dell’Africa, della Tartaria e dell’ isole dell’ Oceano. Rimaneva che si desse un ordine ai copiosi materiali da loro adunati. La fine del secolo scorso e il cominciamento di questo videro in meno di trent’ anni tre grandi tentativi in questo proposito, egual- mente onorevoli pei loro autori che istruttivi per noi ». Il primo di essi fu il vocabolario di tutte le lingue del mondo, composto per ordine di Caterina II dal prof. Pallas russo, e cominciato a pubblicarsi nel 1786 (1). L’au- tore rendendone conto vent’ anni dopo all’ accademia celtica, notò in esso alcuni gravi difetti, prodotti necessa- riamente dal precipizio del lavoro, malgrado i quali per- altro non dubitò di chiamarlo uno de’ più bei doni fatti dalla potenza alla filosofia. Il secondo tentativo fu il catalogo delle lingue delle nazioni conosciute dello spagnolo Hervas, pubblicato fra il 1800 e il 1806 (2), ove molto può appren- dersi principalmente sopra ciò che concerne gli elementi gramaticali, le affinità, le differenze delle lingue moderne. Ultimo si presenta il famoso Mitridate (o scienza generale delle lingue ) del tedesco Adelung, uscito in luce primie- ramente fra il 1805 e il 1809, e poi compito sui materiali di Adelung medesimo fra il 1812 e il 1816 dal dot- to Vater (3). Adelung, dice l’ autore , differisce da Hervas per molti riguardi, e specialmente per indipen- denza d’ opinioni. Egli considera il proprio soggetto sotto un punto di vista filosofico e gramaticale piuttosto che istorico ; e si applica specialmente a studiare le operazioni (1) Due volumi in 4.°, a cui poi tenne dietro un terzo. (2) In sei volumi di 8° (3) Onde forma in tutto quattro yolumi di 8.° 130 dello spirito umano nella costruzione del linguaggio, e in ciò che si appella sintassi, ordine e disposizione delle idee. La copia delle sue cognizioni eccita veramente la mera- viglia , come la rettitudine della sua mente e delle sue intenzioni ispira il rispetto . Se non che l’opera. sua , osserva il nostro autore , ha comune con. tutte l’ altre del medesimo genere un vizio radicale, che ha finora impedito il progresso delle lingue, ed ove.non si corregga ne impedirà il perfezionamento. Siffatto vizio consiste nell’ essere finora i vocabolari di tante nazioni diverse stati sottomessi ad un solo sistema di lettere, seb- bene queste non abbiano per tutti gli europei uno stesso valore. Quindi avviene che un vocabolario, per esempio cinese, malese, arabo, messicano ci si presenta sotto forme differentissime, secondo che fu trascritto da un inglese, da un italiano, da un tedesco; e le parole si travisano di tutto ove, come accade sovente , si compon- gano di pronunciazioni inusate neila lingua del copista, il quale , per esprimerle , imaginò o trasse dal proprio alfa- beto combinazioni di lettere, che accrescono la confusione. Per rimediare a tal vizio egli ripropone quel sistema orto- grafico, di cui già discusse i principi e dimostrò i vantag- gi ne’suoi due trattati del semplificare le lingue orientali, e del modo di applicare l'alfabeto europeo alle lingue a- siatiche ; principi e vantaggi, secondo lui evidentissimi, ma che saranno combattuti dalle vecchie abitudini, fin- chè il tempo ne abbia date di nuove ad una nuova gene-. razione . ‘Indi , scendendo l’ autore dalle considerazioni fatte sin qui alle conseguenze che si proponea di. de- durne , dice primieramente che, ove si consideri da un lato ciò che ignorammo fino alla nostra epoca sulle, lingue in generale ( senza parlare di ciò che ancora igno- riarmo ); ove si paragoni il vasto campo geografico delle lingue a questi ultimi tempi sconosciute e la stretta sfera 1314 di quelle a cui per tanto tempo fummo limitati, ci av- vedremo che più non basta di sapere il greco ed il latino onde ragionare sulla filosofia delle lingue e stabilire alcuna di quelle teorie che si appellano gramatiche universali ; sentiremo che la nostra esclusiva ammirazione pei due idiomi pocanzi accennati non è che un tributo irriflessivo pagato dalla nostra infanzia alla vanità scolastica de’nostri istitutori che pretendono di tutto sapere, e all’ orgoglio militare de’ popoli antichi, i quali tennero per non esisten - teciò che da loro si ignorava. "Se non che il passo che segue può sembrare a taluno molto arrischiato , e sparso di asserzioni, a cui uma gran dottrina non basti a dare una grande aria di verità. « Che direbbero oggi, scrive il nostro autore, que’greci e que’romani sì orgogliosi de’loro idiomi peruti dagli Dei come i loro maggiori, se noi provassimo che il loro latino pelasgico, che il loro greco, sedicente au- toctono non furono: che un’ emanazione, un dialetto della: lingua d’ un popolo scitico, la cui sede era la Boukaria ‘al settentrione dell’ Indo, confinante pel qua- rantesimo grado di latitudine colla Battriana; che da quel popolo, privilegiato d’un bel cielo e d’un bel suolo, agricola insieme e pastorale, uscirono ad epoche ignorate dalla storia sciami di guerrieri, i quali. come si videro più tardo i celti, e in seguito i tatari di Temerlano e i mon- goli di Gengiskano, estesero le loro invasioni successive dalle pianure del Gange , ove la lor razza ancor sussiste , fino all’ isole britanniche , ove ancora si scorgono le loro tracce 2. Da cent’anni il linguaggio di questo popolo sciti- co, ritrovato da’ nostri dotti europei ne’ libri sacri del- l India e distinto col nome di sanscrittico , è ogni giorno più riconosciuto non solo come la fonte d’una infinità di parole , ma ancora come il fondamento del sistema gra- maticale d’ una folla di lingue antiche e moderne , di quasi tutti i dialetti attuali dell’ Indostan , dell’antico 132 dialetto gotico e mesogotico; del vecchio teutonico o daco de’ romani , del suo derivato il volgare alemanno, onde vengono l’ olandese e l’anglo-sassone, Suoli del- l’antico greco stesso , e de’ suoi collaterali l’etrusco e il ‘latino, sicchè i pelasgi, celebri per le loro emigrazioni , dovettero essere come i ziugari una tribù d’origine indo- scitica , spinta all’ occidente da belliche agitazioni. E.cer- to scendevano da sciti sanscrittici quelli, che sotto il greco nome di messageti ( grandi sciti ) vennero cogli egizi in gara di nazionale antichità come ci narra Erodoto; il qual fatto rende, per sè solo, comuni agli sciti gli otto o nove mila anni, di cui gli egizi citavano a Solone e a Platone siffatte prove, che a questi due uomini celebri parevano tutt'altro che favolose. Insomma viensi a conchiudere che i greci tanto superbi del loro genio e della loro lingua non furono che i cuginigermani de’ geti e de’ traci » . Senza addentrarsi ne’ particolari di siffatta questione, dal cui dilucidamento non per anco. trarrebbesi veruna conchiusione generale, un mio sagacissimo amico (1), il quale meco leggeva l’adotto passo, andava riflettendo così. « Gli uomini , che ora troviamo divisi in diversissi- me nazioni, qualora si retrocedesse nella oscurità de’tem- pi, si vedrebbero forse uscire da avi comuni, i quali par- lavano una lingua comune. Qualche reliquia di questa antica lingua sopravvive ancora fra le disparate favelle de’ posteri , e agli occhi dell’ erudito fa fede della vicen- devole parentela di tutto il genere umano. Ma sì vorrà forse dedurne che tali favelle sieno veramente derivate da una sola madre, per lunghe inflessioni e trasformazioni giunta a segno di non poter più riconoscere sè stessa ? Io credo bene che in alcune lingue fra loro diverse trovisi (1) L’ autore dell’ articolo sull’ assunto primo del diritto na- turale di G. D. Romagnosi , inserito nel V. 7. p. 202 dell’ Antolo- gia, e lodato dalla revista enciclopedica siceome degno delle pro- fonde dottrine di quell’ insigne pubblicista. 133 certo numero di voci indubitatamente derivato da una sola fonte, e che quindi i popoli che le parlano sieno d’ una medesima origine ; e non per questo riesco a per- suadermi dell’ altre affinità, che fra siffatte lingue si vogliono a forza riscontrare » . « Ragionando con istorica esattezza , le alterazioni delle lingue si debbono per la più parte ripetere dal vo- lontario o involontario mescolamento di popoli vari, sicchè mon havvene alcuna che oggi dir si possa tutta propria di un solo , cioè scevra affatto di stranieri elementi. Ma sup- posto pure che ùna felice combinazione di rare circostan- ze abbia sottratto i discendenti di qualche tribù da ogni mescolamento con quelli di un’ altra, io porto opinione che nelle lingue e di quelli e di questi, malgrado un tal privilegio, si troveranno le più decise varietà . Come dunque non si può da questa trarre argomento contro l’ unica origine di un popolo; nemmeno la comunanza dell’ origine di popoli diversi potrà argomentarsi; o com- provarsi abbastanza dall’ analogia delle lingue ». « Imagino un’ antichissima tribù , onde scesero molti moderni popoli, vari fra loro e varioparlanti. Quan- do cominciarono , in tempi assai remoti, le sue divisioni, effetto: probabilmente di ‘stimolanti bisogni, o essa era ancora selvaggia } o già aveva acquistato costume e idio- ma civile. Nel primo caso i suoi discendenti non ne ere- ditarono che uno scabro e povero gergo; nel secondo, fra le durezze di una vita errante, avranno ben presto ri- dotto a grande inopia la ricchezza del materno linguaggio ». « Voglio supporre che un segno dell'origine comune sia stato da essi fedelmente serbato negli idiomi di cui ora' fanno uso. Ciò spieglierebbe per qual maniera fra popoli differenti si ascolti, come accennai, certo numero di voci simili di suono'e di significato. Per questo dunque le loro lingue si lasceranno in‘ balia agli etimologisti , 134 onde con faticoso strazio la sforzino ad una parentela , da cui abborriscono? 1» « Di due propagini d’ una stessa tribù l'una può ‘aver vagato cacciatrice nelle solitudini più inospite, l’altra, condotta da un caso benefico, può essere giunta a riposarsi nella piacevole amenità di lido molle ed aperto. Quella, fra l’asprezze del viver suo, andrà moltiplicandosi in bocca le parole che distinguono il vario correre ; il. vario urlare , il vario intanarsi delle fiere che insegue. L° altra o non saprà nulla di fiere e de’ loro asili, o andrà disu- sando i nomi ei modi, con cui forse prima intorno ad essi esprimevasi. Così in breve nessuna comunanza di parole fra loro, dacchè più non avvi comunanza d'idee ». « Or. fate che quella gente, che va errando per le selve di una vasta pianura; venga spinta dalla fame 0 dalla violenza d’altri selvaggi, in un paese montuoso. Il rumoreggiar, de’ torrenti, il ruinar delle velanghe , il mugolar: de’ venti fra le gole d’ alti dirupi le ghiacciaie ; le frane , i precipizi erano (cose ad'essa ignote’, a cui ora deve imporre uni nome. Intanto si andranno cancellando dalle. rozze e materiali. memorie degli individui che la compongono le parole che indicavano oggetti i quali più non sono, presenti ;;ed ecco in una sola generazione, per la forza di nuove, impressioni e il sentimento di nuovi bisogni , cangiato in molta parte il linguaggio Ali « Mala gente di cui parlo , o assoggettando e racco- gliendo per la prima volta in greggie e in armenti anima- li che fino allora avevano pascolato in libertà, o togliendoli alle tribù vicine più mansuete e piùdeboli, o comperandoli da loro colle pelli delle fiere uccise; può dalla vita cac- ciatrice, essersi, finalmente ridotta alla pastorale assai meno dura. Allora comincierà fra le persone di ciascuna famiglia una socievolezza non prima conosciuta, Il,marito più non si.andrà aggirando per selve o per monti, onde 235 procacciar vitto.a sè stesso e alla donna sua, con cui il sempre rinascente bisogno di preda non gli permetteva di vivere oziosamente un sol. giorno. Egli dovrà forse errare colla greggia o l’armento ; ma in questi giri men faticosi e più brevi de’passati, avrà al fianco la moglie colla tenera prole. Il suo cuore si piegherà a nuovi affetti, il suo costume a nuove abitudini; mille idee nuove sorgeranno in lui; ed egli si addestrerà con assiduo sforzo ad esprimerle, o volgendo a nuovi significati le antiche parole, o da queste derivandone altre, che l’analogia gli suggerirà ». « Altre vicende avrà la gente ch'io mi figuro. E ogni clima che cangi ; ogni accidente che le sopravenga; | ogni ritorno verso la passata selvatichezza ; ogni avanza- mento, verso la nuova civiltà, o verso le arti sue che vi con- ducono , indurrà sempre nel suo linguaggio nuove muta- zioni. Per ultimo succede forse che una tal gente venga a stabilirsi , a darsi leggi e cultura sopra una terra, presso cui sia già piantato altro popolo, discendente da quell’an- tichissima tribù ,, ond’essa discende. Alcune parole sparse ne ° loro idiomi dii fanno; col tempo osservar in essi qualche, non ben chiara somiglianza. Il filosofo se ne accontenta ,, e pensa ciò che se ne possa ragionevolmente inferire ;iper. tracciar quindi la storia del genere umano. L’ erudito. wi s'inabissa;, ,s illude, vuol. trovare ad ogni patto quello che realmente: non è. Quali confronti pue- rili e ridicoli; quindi rigidi e pertinaci litigi cogli; alfabeti e colle radici. Il greco.e il tedesco (1); il tedesco ed il cantabro (2); il rupo e il latino (3); il latino e il caldeo (4); il celtico e il sanscrittico, maltrattati col più disutile stento , BoRpIORA Lili seine dei sapposti titoli (1) Paò vedersi la revista enciclopedica in uno degli ultimi fascicoli. ' (2) Adelang. (3) Hager. (4) Vari orientalisti, 136 della loro parentela , mentre in altri ne viene assegnata loro, coll’ istessa evidenza , una tutta differente ». « Fra queste contese filologiche il buon senso a qual partito ne dice di appigliarci ? Crederemo noi che lingue ora diversissime fossero in origine figlie di un’istessa lin- gua, chiamata madre? Non è più ragionevole il pensare che siano nate da diversi bisogni, da diverse vicende, da diverse abitudini , da diverse combinazioni , insomma da cose diverse, piuttosto che da simili parole? » La soluzione del problema della formazione delle lin- gue è stata, secondo il nostro autore, tentata due voltein ma- niera da farne sperare che alfine si ottenga compitamente: la prima dal presidente de Brosses nel suo trattato della forma. zione meccanica delle lingue; la seconda da lord Manboddo nel suo saggio sull'origine e ‘i progressi del linguaggio. Il dotto scozzese non si è ristretto al metodo puramente dida- scalico, siccome il francese; ma, recando osservazioni e aned- doti curiosi forniti dai viaggiatori e dagli storici sui popoli selvaggi e gl’individui trovati solitari ne‘boschi, ha dato alla sua teoria un colorito animatissimo, e 1’ ha resa più persua- siva. Egli prova co’ fatti che l’uomo solingo non ha nè motivo nè mezzo di parlare ; che il linguaggio:non può na- scere se non dallo stato sociale ; e che i suoi primi elementi sono legrida ointeriezioni, e le imitazioni de’suoni naturali, onde viene Ponomatopea a cui si appoggia la convenzione di prendere un suono per segno d’un’idea. Così la questio- ne dell’origine idél linguaggio èspiegata, e si spiegano pur facilmente le questioni che in qualche modo ne dipendono. Tale si è quella; per esempio, dell’accrescimento d’una lingua qualanque . Noi comprendiamo come acquistando nuove idee, lo spirito umano le dipinga con parole tratte dalla ORE delle già inventate; come combini queste per comporne delle nuove. Lo studio delle etimologie non ci lascia verun dubbio a tale riguardo ; e ci sarebbe pure di gran lume l’osservare i nostri fanciulli, se invece di 139 farne dei pappagalli li lasciassimo un poco ragionare e pur- lare.da sè medesimi. i . Quanto all’ immutabilità , se così possiamo esprimer- ci, d'una lingua, l’autore ‘osserva che ove un popolo viva isolato; ove possegga una somma d’idee sufficien- te a’ suoi bisogni e alle sueabitudini; ove per la natura del suo governo, gli sia impossibile di allargare la sfera delle sue cognizioni; ben si comprende che la sua lingua può stare de’ secoli senza nè guadagnare nè perdere. Ciò si vede, egli dice, fratutti i popoli montanari o pastori, qua- lor riescano a preservarsi dalle guerre esterne; ed anche fra i popoli più civili in quelle classi, in cui l’uomo deve quasi ogni suo istante alle cure più materiali. Queste classi non conoscono del nazionale linguaggio che la porzione ad esse necessaria. S'introduca un contadino, un artigiano nelle nostre assemblee scientifiche, e apparirà che moltissi- me parole non sono punto da lui intese; s'induca ad un discorso, ad un racconto, e sarà manifesto ch’ei non ha l’uso di più modi e tempi de’ nostri verbi. « È un inganno quel parlare che si fa delle nazioni , come di corpi sociali omo- genei , alla maniera de’ nostri corpi fisici. Esse non sono che confederazioni di popoli differenti, che sotto nome di ricchi, di poveri, di proprietari, di proletari, d’ oziosi , di laboriosi, hanno idee e perciò dizionari differentissimi ». L’ alterazione d’una lingua avviene o per mescolanza di parole d'un’ altra; o per proprio impoverimento, cioè per dimenticanza delle maniere precise ed eleganti, che già si usavano, e a cui altre se ne sostituiscono di minore bontà. L’alterazione per mescolanza (effetto per lo più delle straniere invasioni) è per sè: chiarissima, e'in Italia special- mente, ove siamo usi di riguardare come il buon secolo della lingua quello che precedette, se non propriamentele invasioni degli oltramontani o degli altri italici in quella città che è sede della lingua medesima, almeno le troppo intime relazioni della città stessa con loro, per cagione di 138 guerre o di alleanze. Così il nostro Raffaello Borghini loda alcune vecchie cronache « perch’ elle ritengono e ci rap- presentano la nostra fiorentina favella semplice e pura e candida come ella s’era così giovinetta in quegli ‘antichi tempi, non ancor mescolata nè infetta di vocabolo alcuno o modo forestiero; per la qual cosa non altramenti che una vergine bella , intatta e nostra, convien pure che a noi sia, cosa piacevolissima e lietissima a riguardare (1) ». Il com- mercio, che dovrebbe esso pure in proporzione cagionare una mescolanza nociva alla primitiva schiettezza d’un lin- guaggio , serve piuttosto ‘ad accrescergli ricchezza e leg- giadria. Firenze e la Toscana a’ tempi di Dante e del Boc- caccio comprovano la verità di ciò che Senofonte scrive d’ Atene, che l’ affluenza di molti popoli, ond’ era visitata per ragione de’ traffici, fu cagione che vi fiorisse non meno gentile che copiosa la greca favella (2) . Osserva l’ autore che l'alterazione fra due lingue che si mescolino è più o meno grande, secondo la loro affinità ‘0 dissomiglian- za; e passa poi ogni segno, se laloro costruzione gramaticale è diversa, cioè.a dire se l’ esposizione delle idee si fa in esse con ordine differente. Allora e l’una e l’altra sì de- compongono, e degli elementi d’angbedue viene a formarsi una lingua nuova, che poi dirozzandosi e nobilitandosi per SPARA scrittori, appena serba con esse alcunè conformi- à. Quanto all’alterazione d’una lingua per proprio impove - rimento, ne basti citare l’esempio che il nostro autore ne reca dall istoria de’ romani. Raccolti nella loro origine da diversi stati d’Italia parlano essi un certo idioma , che di- rebbesi greco, ove non abbondasse di parole celtiche, feni- cie, teutoniche, introdottevi dalle guerre e dal commercio. Quest’'idiomanon è a principio per tutti lo stesso, ma presto, perla convivenza, il diviene; e va poi accrescendosi di ge- (1) ‘Prefazione jan Istorie ‘Pistolesi dell’ edizione giuntina del 1578. (2) Governo degli Ateniesi. 139 nerazione in generazione, a misura che si accrescono le idee di quelli che ne fanno uso. Dopo la rovina di Cartagine co- minciano finalmente i romani ad occuparsi di piaceri, d'arti, di scienze ; e il loro linguaggio si ripulisce, si raddolcisce co’loro costumi. La loro costituzione li divide , come ognun sa, in due popoli o fazioni rivali, i plebei e i patrizi; e come le forze di ambidue si equilibrano , ciascuno può in esse esprimere liberamente i propri sentimenti e i propri pensie- ri. Siffatta libertà dona alle parole energia e grandezza; il bisogno di persuadere fa più destra l’arte d’ esprimere le idee; la lingua e l’eloquenza giungono alla loro massima per- fezione. « Sopravviene intanto un cangiamento nello stato delle cose e nella forma del governo. I ricchi, già unitisi per opprimere, si dividono per regnare. Di mezzo a questi rivali sorge colui che sa dominarli; Roma trema dinanzi ad un, orisiodantò (1) cinto di soldati littori ; ‘il corag- gio de’ cittadini vien meno fra le proscrizioni; le delazio- mi perpetuano il terrore. Che diverrà intanto la lingua? L’uomo non ha più sentimenti generosi da manifestare, non ha più idee ardite e giuste da dichiarare. Già le sue espressioni divengono timide, incerte, tortuose, anzi false e mensognere ; le sue frasi perdono ogni naturalezza , ogni perspicuità ; il suo stile non ha più colori che per l’adula- zione e il panegirico. Si créde il linguaggio impoverito , malo è invece il cuore e lo spirito. Ecco intanto i barbari; il loro idioma si mescola al latino; appena questo può più riconoscersi ; la confusione è all’estremo, finchè col tempo viene a formarsi d’una bizzarra mistura un idioma no- vello». Della estinzione totale d’una lingua l’autore trova un singolare esempio nel racconto d’un viaggiatore, ch’ ei crede Pallas. Due orde tatare, al riferire di questo, sì faceano asprissima guerra , quando alfine l’una giunse (1) Imperator. . 140 a sorprendere l’altra, ed avendone uccisi tutti i maschi , serba in vita soltanto le donne co’ teneri figli, affine di accrescere prontamente la sua popolazione. Sdegnarono le donne di apprenderne la lingua; e i figli loro, che già di- cemmo, e quelli che nacquero poi, allevati nel materno idioma altro mai non ne usarono ; sicchè avvenne che in due generazioni la lingua de’ vinti fè perire quella de’ vin- citori. Siffatto racconto me ne richiama alla memoria un al- tro di Erodoto, ove parla dell’origine dei sarmati (1), provenuti secondo lui da sciti liberi, che abitavano presso la Palude Meotide, e da quelle Amazoni (2) che vinte da’ greci sulle rive del Termodonte, e poi da loro fuggite, si trassero dietro gli sciti , di cui dicevasi, ad abitar con esse di là dal Tanai. Veramente le nostre guerriere non giunsero ad estinguere il linguaggio de’mariti, ma di vivo, ch’esso era, ne fecero, se così posso esprimermi , un lin- guaggio morto (3), vale a dire immutabile, eccettochè lo empirono di modi loro propri, onde divenne scorrettissimo. E qui pure, come nel racconto di Pallas, si manifesta l’influenza che le donne più che gli uomini aver possono sulla loquela di un popolo, dacchè i fanciulli l’apprendono primieramente da loro, e gli uomini più socievoli la modifi- cano quasi sempre a loro piacere. L’ingegnoso amico, di cui ho parlato più sopra, mi ha fatto spesse volte osser- vare come il linguaggio del popolo, in questa nostra capi- tale di Lombardia , vadasi dirozzando, cioè accostando un poco all’italiano comune, da che si va propagando l’istru- zione delle fanciulle nelle classi meno agiate. Io tengo per fermo che ove questa sì propagasse ancor più, ein tutte le province del del paese, adoperandosi a quest’uopo, almeno (1) Melpomene, o libro IV. delle Storie. (2) Non del tatto favolose. (3) Il Parini fa una distinzione , che mi pare giustissima , fra lingue morte e spente. Può vedersi nella seconda parte de’ suoi prin- cipi generali di belle arti. 141 in principio, quante più si potessero istitutrici toscane; le fanciulle , ascoltando voci proprie e propria pronuncia, e per la loro naturale finezza d’organi ricevendole bene ad- dentro, e innamorandosene , le introdurrebbero nelle fa- miglie di cui formano parte, e letrasmetterebbero poi con migliore successo a quelle che da loro avranno comincia- mento. Così verrebbe col tempo a farsi una veramente la lingua di questa nostra italia, a cui l'avere tanti e sì di- scordanti dialetti, non fu lieve causa di separazione e di sciagura. i M. Dell’umana perfezione, del dottor GrusePPE GERMANI. Pavia, 1822. Vol. 1. in 8.° Conforto fu sempre grandissimo alle angoscie del- l’animo nostro il pensamento di quei filosofi, i quali da ciò , che è avvenuto argomentando quello , che sia da av- venire ebbero per solenne verità l’ uomo essere di sua na- tura animale perfettibile. Ed invero fra gli affanni pur tanti di che l’umana vita s’'intesse di consolazione sva- vissima debbe esser cagione il considerare, che ogni giorno migliore si rende la sorte degli uomini, e che l’umana specie nella sua universalità cammina pur sempre verso il suo ognor crescente perfezionamento. Quando ancora a così credere non ne facesse forza la non fallace insegna- trice del vero, la esperienza; quando ancora un sognar d’infermo chiamar si volesse il ragionare di un Priestley, per tacer di altri, di un Chatelleux, di un Condorcet, non vorremmo ciò non pertanto, che la perfettibilità della umana specie, qual risibile stoltezza fosse schernita, trop- pa essendo la verace utilità pubblica, e privata, che dal tenerla per certa sembra a noi dover derivare tra gli uo- mini. Fosse anche una vana illusione questa umana per. fettibilità , carezzata tuttavia noi la vorremmo per il bene 142 degli uomini, e vagheggiata e idoleggiata. Che se il corto o nostro antivedere non ne concede di poter certamente af- fermare indefiniti essere i di lei progressi, non dubiteremo almeno di osservare , che una perfezione fin d'ora ne è dato di scorgere , cui gli uomini, quando che bi; dovran- no alfin pervenire. oe Da questo cotanto amore nostro per la umana feli- cità sì faccia ragione ; STA mai gioia ne corresse al cuor nostro quando il libro ci venne a mano, che ora annun-' ziamo., e in cui a dimostrare s'intende , che l’ uomo ani- male non è perfettibile, ma anzi spalla . Passeggiero troppo fu però il gioir nostro , e tristezza ne prese gran- dissima in vedendo , che la perfezione di che si vuole in questo libro far dono alla umana specie mon è tale, che debba essa andarne superba, non tale da racconsolarla , non tale , che al conseguimento trarre la possa della sua felicità qui in terra. Dolore anzi gravissimo oppressò l’ a- nimo nostro quando ne parve di accorgerci, che l’umana perfezione del dottor Giuseppe Germani sia la umana imperfezione degli uomini. | Il tempo ne mancherebbe, e la lena, e più molto la sofferenza se le cose tutte già omai dette, e ridette, che in questo libro si contengono noi volessimo qui esporre, e tanto più se esporre le volessimo ordinatamente. Malage- vole opera , e da disanimare ogni uomo alla più incresce- vole fatica più indurato a noi sembra, che riuscirebbe il voler porre in accordo le tante, e tanto varie proposizioni, che in esso si rinvengono, sommerse quasi in uno stile ora immaginoso , ora enfatico , ora‘ ridondante, ora am- polloso, e sempre alla materia non confacevole, e di modi ordito ricercatissimi, e strani, e di voci non proprie in ar- gomento in cui proprietà anzi somma di voci è richiesta, e per cui non si vorrà da tutti fare scusa alle regole non di rado violate della grammatica. Non vorremo certo trattenerci qui lungamente, onde 143 mostrare quanto meglio , che nella prima sezione non si è fatto di questo libro, dichiarar si potessero le relazioni per cui l’uomo è legato alla universalità delle cose create, | e più strettamente agli altri esseri animati: ma ben vor- remo avvertito sembrarne, che nella sezione seconda de- terminar si sarebbe dovuto il grado d’ influenza ‘al tutto diverso, che in diversi luoghi non solo, ma in diversi tempi, in diversa condizione dell’ uomo le circostanze fisiche aver possono sull’ intelligenza , ed attività, come sulle facoltà morali dell’ uomo istesso. Gli esseri tutti senzienti reagiscono , o più, o meno sulla natura, ed ope- rano a proprio vantaggio : ma l’uomo reagisce sopra di lei molto di più , e questo suo reagire diviene sempre più effettivo a proporzione, che egli conoscendo maggiormen- te la natura crea mezzi onde dirigerla in suo prò, e farla in qualche modo servire a sè medesimo. Nè crediamo , che così di leggieri, e per rarissimi esempi di straordinari avvenimenti debba venir conceduto, che l’ uomo non sia fuori dello stato suo naturale quando nello stato si trovi d’insociabilità } in cui negar non possiamo, che esso sia solo , isolato; ma non accorderemo poi certo, che sia libero, tranquillo, e in pace con tutta la natura, sicco- me l’ A. ne insegna nel capitolo I della III sezione. E col ragionamento, e a conferma del ragionamento con re- lazioni uniformi di molti viaggiatori noi potremmo pro- vare con quali fatiche, e con quante pene provvedano stentatamente alla late: sussistenza , ed ai più urgenti loro bisogni non diremo uomini isolati, erranti, ed in uno stato perfettamente selvaggio, ma le tribù ancora dei selvaggi, le quali abbenchè siano primi abbozzi d’ informi società , dir non si saprebbe tuttavia a quante calamità, a quale desolazione, a quali morti erudeli siano di continuo e- sposte. Ma noi anzichè per opera nostra vogliamo, che ciò sia fatto palese dallo stesso A. riportando una parte del cap. III della III sezione, che sarà anche saggio del suo T. X. Luglio 10 144 stile. /7 selvaggio essendo nudo, ed esposto ‘agl’ insulti dell’aria , ed alle ingiurie delle intemperie (bella feli- cità invero ! ) Za sua pelle è dura j e ruvida. Egli va er- rando liberamente per le vaste solitudini (egli si affatica per trovare nelle vaste solitudini poco, e malsano cibo) le sue orecchie spesse volte sono colpite dagli urli degli animali feroci , ma questi rauchi suoni destano nel suo cuore il timore (ecco la bella tranquillità ) e Zo apvisazzo, che deve disporsi alla difesa (e più spesso ad essere sbra- nato dalle fiere). Dovendo perciò stare in guardia, e pre- venire l’ assalto dei nemici, non è sensibile ai dolci, e soavi canti degli augelletti, che pare esaltino le bellez- ze della natura, e salutino l’ apparire dell’ aurora. Così l’ occhio suo che sempre deve essere intento ad esplorare i nemici ( e questa è anche bella tranquillità ) che lungi da lui sono nascosti non contempla le bellezze del crea- to. Il suo odorato giudice di ciò, che servir deve pel suo nutrimento essendo interamente occupato in questa fun- zione, è insensibile ai soavi profumi della leggiadra fa- miglia dei fiori, che tanto abbellisce la terra, e forma nelle nostre società la delizia di certe anime sensibili consacrate ai piaceri innocenti. Il grande spettacolo del- la natura è nulla per questo uomo! tutti i fenomeni, che colpiscono i suoi occhi non iscuotono V addormenta- to suo spirito. La vastità dei cieli, l'immensa congerie delle stelle , il giro dei pianeti fanno rimanere estatico l’astronomo, che li contempla; l’infinita serie degli esse- ri, che la terra contiene trattiene immobile il naturali- sta; ma in quest’ uomo non eccitano nessuna meraviglia. I suoi sensi essendo occupati dalla ricerca di quanto è necessario per provvedere agli urgenti bisogni della vi- ta, non sanno dedicarsi per un solo istante alle bellezze dell’ universo. E tale essendo la condizione di vita dell’uo- mo selvaggio, potrà dirsi essere egli in pace con tutta la natura? E neppure, che libero sia l'uomo selvaggio noi 145 possiamo concedere: noi, che pensiamo anzi la società essere condizione indispensabile perchè l’ uomo goder pos- sa la libertà , la quale, a nostro giudizio , sarà tanto più estesa, quanto meglio la società sarà sistemata : nè voglia- mo certo nella opinione convenire di quei molti (e dall’ immortale Montesquieu , e dagl’ illustri seguaci delle sue dottrine ci sia perdonato ) che affermano l’ uomo coll’ en- trare in società rinunziare alla naturale sua indipendenza. A mostrare ciò vero ragioni avremmo pronte non poche , ma più gradita cosa ne riesce dalle affermazioni trarle dell’ A. Dopo averci egli ( nel cap. III della III. sezione ) annunziato , che Za Natura , la quale volle , che l’uomo fosse il più eccellente suo lavoro , gli diede una facoltà per la quale ei venne tolto dalla oscura ed abietta con- dizione dei bruti , dei quali egli è l'archetipo (invero noi non comprendiamo come possa dirsi, che luomo sia la prima forma ; il modello dei bruti ) e quindi fu il re de- gli esseri, il dominatore di ciò che lo circonda. Una tale facoltà fu appunto la libertà ; ne avverte poi in una nota apposta nello stesso capitolo, che tutti gli esseri sensibili avendo per iscopo delle loro operazioni la loro propria conservazione vanno in traccia del piacere, e fuggono il dolore , e cercano di liberarsene in ogni modo pos- sibile, ma siccome l uomo per effetto della sua libertà potrebbe agire contro questo principio, ha per guida la ragione, la quale lo porta a far uso di questa libertà pel suo ben essere. Lasciando di riflettere che l’uomo può bene ingannarsi ( e pur troppo s'inganna ) nel calcolare, e valutare i beni, e i mali, ma che non può per effetto della sua libertà seguire ciò ; che tenga realmente per il suo peggio; noi osserviamo, che l’ A. riconosce necessaria al retto uso della libertà la ragione. Ma. fuori della società come potrà svilupparsi nell’ uomo la ragione? E chi non sa che lo sviluppo della ragionevolezza nell’ uomo far non si può, che nella socie: 146 t) tà, e per mezzo della società? Chi non sa; che senza. l’ uso dei segni d'’ istituzione, senza l’ uso del linguaggio non è possibile avere idee intellettuali ? Lo stesso mostro A. ne insegna ( nel cap. III della medesima III sezione ) che l’uomo sarebbe rimasto alla condizione dei bruti (che poco avanti chiama oscura, ed abietta ) se Za natura gli avesse dato la mano senza l’ uso della parola ; poichè senza la parola gli uomini non si sarebbono uniti in so- cietà ( noi crediamo anzi, che la invenzione del linguag- gio sia susseguita ad una comunque si fosse informe so- cietà ) ed il loro genio non avrebbe spiegato que’ altissi- mi voli, che spiegò (non si sarebbono cioè perfezionati ), E voi, 0 popoli , che ne’ passati secoli faceste luminosa comparsa sul teatro della terra, senza la parola voi non sareste saliti a tanto splendore, e grandezza, nè noi ora ammireressimo con tanto stupore i trofei della gloria vostra, nè venereremmo con tanta devozione le fredde vostre ceneri , le sacre vostre reliquie ; ma voi tutti sa- reste rimasti in quello stato semplice, e ferino (cioè som- mamente imperfetto ) ir. cui dovean essere que’ uomini , che pei primi abitarono questo pianeta, e nello stesso stato noi forse saremmo al presente. Senza la parola l’uomo non ha, che idee particolari, e puramante sen- sibili ; il soggetto per lui confondesi coll’attributo: egli non conosce gli esseri se nor che mediante alcune sensi- bili qualità, e tutti i confronti, che egli fà si circoscri- vono a queste qualità. Ecco a quali operazioni è limita- to lo spirito d’ unuomo privo dell’ uso della parola. Ecco noi soggiungeremo, che l’uomo solitario non potendo avere sviluppata la sua ragione, non ha una guida per. far uso della libertà, il che è lo stesso, che dire in sostanza, che non è libero. Nè si opponga , che quando di libertà si parla dell’uomo selvaggio , di libertà s’intende fisica, e si prende la indipendenza non come un dritto, o a dir meglio , come una condizione essenziale per l’esercizio di 149 qualunque dritto e dovere, ma come un fatto ; perchè pronta avremmo la risposta afferezalià ; che l’uomo fuo- ri di società, e nella società non educato, essendo animale più debole delle grosse bestie, e meno difeso di qualunque altro animale, non può avere neppure questa libertà fisi- ca, e che quindi nella selvaggia solitudine è schiavo di corpo , come lo è di mente: con che pare a noi si viene a comprendere ciò , che volle significare quell’ingegno sovrano di Aristotile quando nei suoi libri della politica affermò gli uomini barbari esser per natura servi. E se non fosse, che il tempo ne stringe, e il desio ne sollecita di brevità noi avremmo certo di che discorre- re sulla ipotesi, che l’A. per non ricorrere, come egli dice, a dei fatti troppo lontani, che furono alterati dal genio poetico, e superstizioso di quei tempi ha formata a mostrare quali poterono essere le circostanze, che spinsero gli uomini a passare dallo stato di semplicità a quello della civil società. Ma non possiamo ciò nono- stante lasciare inosservato quello, che l’ A. prima di esporre la sua ipotesi ha creduto dover far notare, che cioè le cause che hanno messo gli uomini in istato di far tal passaggio ( dalla vita semplice alla civile ) dovettero es- | sere ad essi estrinseche, ed estranee allo stato nel quale essi si trovavano , per cui tali cause non poterono essere, che la pura opera del caso, o di certi fenomeni della terra, poichè l’ indole, e la natura dello stato puramen- te selvaggio è tale , che invece di mettere l’uomo nella circostanza di fare un tal passaggio, lo tiene da essa mol- to lontano. Noi pensiamo anzi, che la sociabilità sia con- naturale all’ uomo, e che la società prima, quella almeno di famiglia, ha dovuto preesistere allo stato di ragionevo- lezza, ed essere un fenomeno prodotto, per mezzo proba- Bililehie della fisica consensibilità, dalla natura medesima. I bisogni poi fisici di pura sensazione , ed i timori sve- gliati da cause estrinseche agli uomini, ma non certo 148 estranee allo stato selvaggio derivate dai fenomeni della terra ( e noi crediamo anche da quelli del Cielo ) dove- rono essere i primi incentivi all’ attenzione degli uomini in quella infanzia di società, per cui la ragione mosse'al pri- mo suo sviluppamento, onde della natura qui ancora, come sempre, fu figliuola 1’ arte, la quale col suo reagire poi efficacemente sul fisico, e dle dell’ uomo il trasse a grado a grado ( e nun in un punto; che allora sarebbe stato necessario, come vuole lA. che il selvaggio po- tesse immaginarsi i vantaggi della società ) a sempre più avanzata civiltà, provando col fatto esser vero , che lo stato selvaggio non solo non era ostacolo agli nomini perchè in civil società si congregassero, ma ne era anzi il motivo impellente, troppi essendo, e troppo grandi i mali , che in esso gli circondavano, per provvidenza am- mirabile di natura, la quale rese agli uomini insopporta- bile uno stato in cui il fine loro conseguir non potevano, in cui mentre moltiplici erano i sempre rinascenti urgen- tissimi bisogni , e i mezzi di soddisfarli manchevoli, in- cessante provavano il dolore, e i piaceri eran per essi radissimi. Ze sventure , e le miserie, dice l'A, non furo- no il solo retaggio delle colte società : esse penetrarono nelle oscure selve a funestare quei selvaggi , ed erranti popoli, o que’ che in domestica società erano avvincolati. Pur troppo esse penetrarono in que’ innocenti soggiorni, e furono quelle cause, che costrinsero que’ abitanti a passare allo stato civile. Il che è in manisfesta contradi- zione con ciò, che l’A. aveva dichiarato , che cioè Zo sta- to selvaggio è tale che invece di mettere l’uomo nella circostanza di fare un tal passaggio lo tiene da essa molto lontano: nè concorda certo con quello, che della ‘tanta beatitudine dell’uomo selvaggio in più luoghi dice, e ridice, . Ma lasciata ogni altra, abbenchè analoga, considera- zione, veniamo a discorrere l'argomento principale del- 149 l’opera, e si veda come l'assunto suo sia dall’ A. pro- vato, come cioè: sia provato , che l’uomo non è animale perfettibile, come sia provato, che l’uomo è animale ‘perfetto. Noi non vorremo negato , che l’uomo non abbia la ‘proprietà di mettersi a livello delle circostanze in cui si ‘trova , come dice Vl A., ma non mai sarà da noi conce- ‘duto ; che questo mettersi a livello delle circostanze sia, come egli pretende, il fine dalla natura stabilito all’uomo, e che. in questa sua proprietà consista appunto la sua per- fezione. Debbe certo recar meraviglia come l’A. dopo aver ripetuto le tante volte nel suo libro, che all'uomo la na- tura pose nelle mani lo scettro del comando , e del do- ‘minio su tutte quelle immense falangi di esseri , che il gran teatro del mondo compongono; come dopo avere nell’ usato enfatico modo affermato, che l’uomo, essere portentoso , passeggia con orgoglio sulla terra , calpe- stando co’ piedi la famiglia di que’ minutissimi insetti, che formicolano per ogni dove, e apporta terrore, e ‘spavento a tutti gli enti animati, e domina collo sguar- do l’ immensità dei cieli , riduca poi questo essere cotan- to privilegiato alla condizione di un essere passivo , nè sia altrimenti vero ciò che poco prima egli ci aveva in- segnato, che la natura pose l’uomo nel gran teatro del mondo non come semplice spettatore, ma come attore principale. E in fatti come chiamare attore principale ‘nel gran teatro del mondo un essere il cui sommo pre- gio, la cui assoluta perfezione consiste nel mettersi a li- vello delle circostanze nelle quali fortuna il balestri; un ‘essere , che l’ À. è costretto a chiamar passivo ? Se per mettersi a livello delle circostanze volle lA. farne intendere, che l’uomo alle imperiose circostanze deve assoggettarsi, che una derivazione sia necessaria delle cinvariabili leggi della natura ; cosa egli dice da non po- , gere esser ‘contrastata: che se poi con tale espressione 150 significar volle, che l’ uomo deve adattarsi a quelle cir- costanze ancora, che la conseguenza sono di una non reale, ma, o per ignoranza o per malizia, artificiata necessità , allora un amorevole consiglio ci viene a dare di prudenza di cui, riguardando alla storia di tutti i tem- pi, dobbiamo esserli grati. Ma quando ne avvisa, che per esso il dire, che l uomo è destinato a mettersi a livello delle circostanze nelle quali si trova è lo stesso , che dire , che lo sviluppo della intelligenza, e della attività dell’uomo deve essere in ragione dei suoi bisogni; allora al nostro tenue comprendimento pare indubitato , che sì conceda l’uomo essere di sua natura perfettibile, e di questo creder nostro daremmo le prove, se l’ À. medesi- mo nel capitolo ultimo della sua opera non facesse solenne dichiarazione alla opinione nostra al tutto contraria, con queste parole. L'uomo secondo i nostri principi non è più quell’ essere attivo , che fa nascere mille circostanze per poter sempre progredir nel corso della perfettibi- lità, ma è per lo contrario quell’ essere passivo, che viene scosso dalle circostanze. E ciò dopo che sul comin- ciare del cap. I° della V sezione si era dato vanto di avere spogliato lo spirito dell’uomo della perfettibilità, di quella chimerica facoltà, che fu bensi dai filosofi immaginata per dar la spiegazione degli avvenimenti costitnenti la storia dell’ uman genere, ma che per lo contrario rese questa storia alquanto enigmatica; e pose in manifesta contradizione le inviolabili leggi della natura. L’ uomo adunque non è più mercè gli sforzi d’inge- gno dell’ A. quell’essere attivo , che fa nascere mille circostanze per poter sempre progredire nel corso della perfettibilità, ma è per lo contrario quell'essere passivo, che viene scosso dalle circostanze. Ma quale effetto è pro- dotto nell’ uomo da queste scosse? ZZ mettersi a livello delle circostanze; lo sviluppo cioè della sua intelligenza, i 151 ‘ della sua attività. E per questo sviluppo d'intelligenza, d’ attività che si effettua nell’ uomo? La esecuzione ( spe- ‘riamo che dall A. non ci sarà negato ) degli atti propri dell’uomo. Ma quale è l'oggetto di questi atti? Non può essere che il conseguimento del fine proprio dell’uomo. Ma quale è il fine proprio dell’uomo? La'sua perfezione. E in che consiste la sua perfezione? Nel mettersi a livel- lo delle circostanze. La facoltà adunque, che l’uomo ha da natura di mettersi a livello delle circostanze in che consiste la sua perfezione è la causa per cui sì mette a livello delle circostanze, con che acquista la sua per- fezione. Ecco, se falso vedere non fa in noi velo alla ra- gione , il resultamento a che il sistema dell’ A. conduce. La facoltà che l’uomo ha di sviluppare la sua intel- ligenza , la sua attività in ragione dei suoi bisogni , pare a noi, che non il fine, ma costituisca il mezzo di cui da natura fu privilegiato per appressarsi sempre più al suo fine, e conseguirlo. E ciò tanto più noi crediamo vero, inquanto che lo stesso A. ne insegna, che Za perfezione degli esseri è riposta nell’ adempimento del sistema di vita architettato dalla natura, e che questo sistema di vita chiamasi quel complesso di tutte quelle operazioni, che un animale nel corso di sua vita deve eseguire, onde ottenere il finé a cui tende, cioè la conservazione , e la propagazione. Il fine adunque dell’uomo, essere animato, . è la sua conservazione (. che comprende anche la riprodu- zione) e la sua conservazione ( speriamo, che non ci verrà negato ) felice. Perfetto adunque sarà tanto più da dirsi l’uomo quanti più mezzi possiederà efficaci ad ottenere più completamente insieme , e più sollecitamente la feli- ‘ce sua conservazione. Ma la quantità e qualità dei mezzi atti per l’uomo a conseguire il suo fine non può essere eguale in tutti gli stati nei quali possa egli trovarsi ,. non potrà quindi con- seguire in tutti gli stati con;egual facilità, con egual pie- 152 nezza la sua felice conservazione, non sarà cioè ‘im tutti gli stati da dirsi egualmente perfetto , e non si potrà per- ciò affermare, come coraggiosamente dall’ A. si afferma, che l’uomo in tutti gli stati (in quello di solitudine, di famiglia, e civile ) è felice , perchè in tutti è perfetto , qualora questi stati siano conformi alle circostanze, € l’uomo possa mettersi a livello delle medesime. Questo modo di esprimersi per il poco nostro intendimento non abbastanza chiaro, importerebbe, a parer nostro, che perfetto fosse da dirsi l’uomo non quando fosse in stato da godere felice conservazione, ma quando anche fosse in stato da avere una esistenza qualunque. Se la perfezione degli esseri è riposta nell’ adepi- mento di vita architettato dalla natura, e il sistema da lei architettato per ciascuna specie d’ animali non può esser che quello in cui l’animale ottenga perfettamente il fine cui tende, egli è evidente, che il sistema di vita architettato dalla natura per l’uomo debbe esser quello in cui appunto l’uomo ottenga perfettamente il suo fine. Per gli animali irragionevoli tutti la natura ha fatto essa stessa quanto era a tal uopo ad essi neeessario. Fw Za na- tura, dice il nostro A., che stabilì, che le api dovessero vivere in società, dovessero costruire le loro celle, e de- porci i favi; fu essa, che stabilà, che la tignuola cam- . pestre dovesse formarsi un abito ; che il castoro dovesse costruire la sua casa, e per conseguenza fu essa, che disegnò l’ architettura di queste celle, di questo abito, di questa casa. Ecco perchè perfetti si sono chiamati gli animali bruti: perchè sviluppato appena il fisico loro or- ganismo sono per naturale istinto condotti di necessità , e in modo infallibile ad adempire al sistema di vita archi- tettato per ciascuna specie dî essi dalla natura. Perfetti sì sono detti i bruti non perchè fanno sempre la stes- sa cosa, ma perchè la. natura essa medesima compose le facoltà, i mezzi, e l'ordine estrinseco delle cose in 153 “modo, che le associazioni macchinali delle idee possano bastare a condurli al loro fine in una maniera uniforme, efficace , costante. Ma ove l’ uomo si consideri, direbbesi , che natura, la quale generosa fu cotanto ai bruti, tutto ebbe poi ad esso negato, se dir si potesse aver negata cosa alcuna ad un essere, che fu da lei privilegiato della facoltà di crea- re, per quanto Ja condizione il comporta di un essere creato. Sì; l’uomo è creatore. Collocato esso da prima nella gran selva della terra, non ha armi naturali con che difen- dersi dalla insaziabile ingordigia di feroci animali ; ma ben tosto frecce egli crea e lance, e armi altre opportune sempre più, sempre più all’uopo efficaci. Esposto alla rigidezza del- le stagioni, trae dalla selce il fuoco, che stromento è poi fatto principale in tante arti da esso create: e a cuoprire la nudità del suo corpo vestimenta si crea diverse di materia non meno che di forma. Le naturali caverne ricovero es- sendo per esso disagioso troppo , ed insalubre, una capanna egli si crea, un tugurio, e perchè a ciò eseguire stromenti non ha naturali, crea questi al bisogno , e gli varia, e gli rende ogni giorno ai vari usi più atti. E già le naturali spontanee produzioni della terra non essendo più al viver suo bastevoli, uccide con armi da se create, per farne suo pasto, gli animali più fieri; e ravvisata in altri mansueta indole e pieghevole, gli accoglie insieme, ha cura della loro sussistenza, ne dirige a suo prò l'istinto, e si crea così con che provvedere ai suoi ognor crescenti bisogni. ‘Creatore poi dell’ agricoltura, delle meccaniche arti, del commercio, della navigazione, delle arti pur liberali, delle scienze, di natura quasi non più umana lo credi, e fatto ti sembra un nume. L’uomo è creatore, e in ciò l'altezza del suo grado, la verace dignità sua è riposta : ma è creatore nel modo , che a creatura è dato di esserlo. Quando dal nulla il traeva l'Eterno; quando a somiglian- za sua il formava, a quelle leggi il faceva soggetto di che 154 coll’onnipossente sua maho le create cose tutte impronta- va. Ad esser creatore dono gli era fatto della ragione, ma la ragione a tant’uopo doveva in esso svilupparsi, e a grado a grado svilupparsi, e or più or meno, quando più quando me- no sollecitamente, ove con più ove con meno di difficoltà. L’uomo non era adunque formato perfetto, ma ( ciò che ne fa maggiormente venerare la onnipotenza del suo Crea- tore ) era formato capace di farsi di per se stesso perfetto, era cioè formato perfettibile. È legge inalterabile di natu- ra, che muove da prima l’uomo verso quel perfeziona- mento, che egli poi a grado a grado, adoperando la libertà diretta dalla ragione, va e in più modi, e per diversi mezzi , e col tempo creandosi. Abbenchè questa legge del perfezionamento non tanto palesemente si presenti al sensi, quanto quella della conservazione, non è però meno di quella evidente, ed energica. Se ciò non fosse tutto il genere umano 0 SETE ancora nei boschi a man- giar ghiande ; o in ogni luogo avrebbe quasi le medesime ‘ usanze, le medesime produzioni artificiali, le medesime arti, e non mai avrebbe oltrepassato un determinato grado. E che gli uomini si vadano perfezionando, e che il perfezionamento loro sia opera delle istituzioni da essi medesimi create si deduce ben anche da ciò che l’ A. me- desimo dice. In più luoghi del suo libro ricorda il tempo della maggior cultura, e del maggior splendore delle nazioni ; e afferma che gli uomini senza l’uso della pa- rola ( e il linguaggio se lo sono formato gli uomini ) 72072 sarebbono saliti a tanto splendore , a tanta grandezza da farne ora ammirare con tanto stupore i trofei della loro gloria. E insegna, che ron è la natura, che fa l’uomo un essere depravato, sono le circostanze e certe cattive istituzioni ( opera degli uomini ) che lo ponno rendere tale: l uomo per se non è cattivo, nè buono; ( noi cre- diamo che sarebbe facil cosa il dimostrare, che l’uomo 155 naturalmente è buono ) egli ha soltanto la capacità di prendere delle disposizioni buone , o cattive a norma dell’indole; e natura della macchina sociale ( che siste- mata in un modo, o nell’altro è creazione degli uomini ) e delle Mpiceriiiizo in cui egli si trova. E soggiunge: E infatti si esamini la storia ae mondo morale, e si tro- verà che gli uomini di una stessa nazione furono ora cattivi, ora virtuosi, e che queste diverse qualità morali Surono l’ effetto della forma di governo ( istituito dagli | uomini )e di tutte le circostanze morali, e politiche ( causate esse pure dagli uomini ) în cui quella nazione trovossi nei diversi periodi di sua vita. Ma chi il crede- derebbe? Di queste sue osservazioni dalle quali pare a noi, che la perfettibilità dell’ uomo sia fatta palese si vale ap- punto l’A. a dimostrare, che l’uomo non è perfettibile. Egli in fatti avverte, che se fosse stata la forza della perfettibilità, che avesse spinto gli antichi Egiziani (e la cosa stessa dice di altre nazioni, che un dì furono così illustri , e che ora sono avvolte nelle tenebre dell’ igno- ranza)a coltivare con sì felice successo le arti e le scien- ze per cui ottennero un posto distinto nel tempio della virtù, non vi ha dubbia, che gli Egiziani attuali anzi che starsi così neghittosi, ed inoperosi si studierebbero con ogni sforzo possibile di emulare la grandezza degli avi, perchè ancor essi sarebbono mossi dalla forza stes- sa che mosse quei loro illustri antenati. O noi siamo al tutto fuori di senno, o questa’ osser- vazione dell’A. è la più convincente prova, che l’uomo è perfettibile. Noi non pensiamo, che l’A. voglia credere, che gli egiziani , nati appena, si fossero in quello stato di perfezionamento .in cui esso gli ammira; quando anzi altrove dice , che l’ Egitto fu Za culla delle Arti e. delle scienze, e sul cominciar del cap. IX. della IV sezione di- chiara, che tutte quelle illustri , e potenti nazioni, che | Surono lo splendore ed il decoro dei trascorsi secoli, in 156 origine erano popoli alquanto ( perchè non dire anzi moltissimo? ) rozzi e selvaggi, che per g radi successivi ( perchè per gradi successivi si sviluppa la umana perfet- tibilità ) scendo dallo stato di barbarie salirono alla loro massima grandezza e possanza. Barbari furono adunque un tempo gli egiziani, e quin. di passarono ad un cominciamento ‘di civiltà, che ‘pro. gredendo si fece poi grandissima. Ma e gli egiziani, e tante altre nazioni avrebbono maî potuto correre quello stadio, se l’uomo per sua natura non avesse la capacità di rivolgere ( e in ciò, come lo ha insegnato un dottissi- mo italiano, consiste la umana perfettibilità ) le sue fa- coltà ad acquistare nuove cognizioni, nuovi mezzi d’inci- vilimento e di virtù, nuovi modi di ben essere, onde si accresca la sfera estrinseca dei suoi poteri, e il. suo impero sopra la natura; che è quanto dire onde si ottenga la per- fezione di che la specie umana è capace ? L'essere gli egiziani, ed àltre antiche illustri nazioni decadute dal- l’altezza di quel. perfezionamento«cui erano salite’, ‘potrà dar prova, che l’ umano: perfezionamento può per opera della fortuna, e più spesso della ignoranza , o malvagità degli uomini essere minorato , e quasich'è distrutto, se mezzi non siansi ancora ritrovati onde opporsi validamen: te a tanto scempio; come non vi ha dubbiò che fino a certo grado possa il perfezionamento ‘esser ritardato, mas- sime quando mezzi non siansi ancora creati onde' anzi eflicacemente affrettarlo.. Ma non sarà per questo), che venga dimostrato gli uomini non essere di perfezionamen- to capaci, essendo anzi evidente, che gli uomini non hau potuto divenire imperfetti’, che solo perchè aveano'/avan. ti potuto farsi fino a ‘certo grado perfetti. Nè ci persuade in contrario l’usserirsi , dall’ A., che l'inerzia è una disposizione naturale dell’ uomo., e che perciò è falso, che la perfettibilità sia una forza attiva del suo spirito, essendo inconciliabili due principi così 157 opposti tra loro. Se la inerzia fosse una disposizione na: turale dell’ uomo egli non se ne sarebbe potuto liberare giammai, nè dallo stato d'inerzia sarebbe mai potuto passare a quello di attività in cui si rimane, non potendo mai accadere, che le cose si. pongano in uno stato alla natura loro contrario e vi durino. Se l’anima umana non fosse naturalmente dotata di attività, giammai sarebbe potuto avvenire che gli uomini la dispiegassero sì grande- mente come hanno fatto, e in modo anzi maraviglioso , non si potendo sviluppare coll’arte una facoltà di cui il germe non esista prima in natura. E intanto alcuni po- poli sonosi ritrovati ( a riguardo di taluni oggetti non già di tutti ) nell’inerzia non perchè l’anima loro non fosse dotata di attività, ma perchè l’ attività dell’ anima umana essendo di sua matura indeterminata , essendo una tendenza ad agire, piuttosto che un’azione, un complesso di azioni dovè mancare a quei popoli stes- si fino al tempo in cui gli osservarono i viaggiatori citati dall’ A. (a riguardo di certi oggetti ) una. causa atta a determinarla, una causa svegliatrice dell’ atten- zione per cui lo sviluppo primo se ne effettuasse, e quindi appresso più ampiamente di per se si dispiegasse. Con che sembra a noi venir dimostrato , esser falso , che l uomo, come afferma l’ A. non agisca per l’attiva sua perfettibilità; venir dimostrato ancora; che sele ‘circostan- ze fisiche sono impulso al muoversi primo dell’attiva per- fettibilità dell’uomo, non sono poi esse, che sempre lo fanno successivamente agire. E qui ci. pare doversi fare avvertenza alle parole seguenti colle quali 1’A. ne avvisa, che se gli uomini sì trovassero incerte quali circostanze, che per mettersi a livello di esse facesse d’uopo d’ una industria superiore a quella, che le forze fisiche del clima potrebbero permettere , in questo caso la natura ha disposto, che le circostanze abbiano una influenza tale sull'uomo, che possano it parte superare l'ostacolo 158 del clima, che si oppone allo sviluppo della intelligenza, e che questa capacità fu data affinchè l’ uomo potesse sostenersi il re degli esseri. Queste certe quali circostan- ze ( domandiamo noi ) che fanno nascere nell'uomo una industria superiore a quella, che le fisiche circostanze del clima potrebbero permettere sono esse fi siche , 0 morali? Se sono fisiche potranno bene svegliare , eccitare 1’ attiva perfettibilità dell’uomo, ma sarà inilto per esse di già svi- luppata , che gli ostacoli del clima saranno superati. Se sono poi morali, se cioè sono il resultamento del potere artificiale dell’ uomo , in tale ipotesi converrà concedere , che l’attiva perfettibilità dell’uomo, non solo fa agire l’uomo ma lo fa agire anzi con tanta efficacia da vincere la forza delle forze fisiche; e ciò non per potersi sostene- re il re degli esseri, ma per poter conseguire in un modo alla natura sua confacevole il proprio suo fine. Ma a che affaticarci cotanto a provare contro l’A., che l’ uomo è animale perfettibile, quando lA. stesso, che chiama la umana perfettibilità una chimera; in tanti luo- ghi della sua opera poi sembra a noi che perfettibile lo dimostri in modo ancor più convincente, che per noi mede- - simi, che pure difendiamo dell’uomo la perfettibilità , fare non si potrebbe? Quantunque egli abbia altrove insegnato, che gli uomini sono perfetti in tutti gli stati, tuttavia nel cap.IV dell’ultima sezione concede, che in qualunque stato vi possano essere degli uomini imperfetti. Questi secondo la dottrina sua possono essere imperfetti in causa, imper- fetti in effetto. Una siffatta distinzione mi porta ( egli dice ) a chiamare imperfetti un immenso numero d' uo- mini a cui la natura , 0 la fortuna furono troppo cru- deli. Costoro, o sono privi di qualche senso alquanto ( alquanto!!! ) essenziale all’ economia della vita, o sono talmente privi di salute, che languiscono e tormentano ( tormentano se, o gli altri? ) per cui non potrebbero sopportare i loro mali , e trascinare per qualche tempo 159 la loro vita , se la pietà dei loro fratellì non li porgesse soccorso. Pur beato! la civile società è utile almeno ai gobbi, alli sciancati ,.ai ciechi , ai tisici, agli idropici. Forse ‘anche ai pazzi. Ma si veda la espressiva dipintura , che di questi imperfetti in causa ha fatta l’A. nel brano, che noi ad esilarare l'animo dei lettori vogliamo qui trascritto , astenendoci dal farci sopra alcuna considerazione, per non .sembrarci dicevole in argomento cotanto serio il soffermarci ia far le risate. Questi sciagurati nel loro deplorabile stato di rado ponno ‘ gustare il. nettare del piacere , e sempre sarebbero immersi nella tristezza , e nel dolore, se talvolta non fossero ingannati da dolci - illusioni; e se un raggio di speranza di uscire da sì infelice stato non confortasse il loro cuore , facendo spontare sulle pallide loro labbra il dolce sorriso. Ma siffatti piaceri sono per essi come quel ‘lampi, che rompendo di tratto in tratto il bujo delle tenebre ne rendono più spaventevole l’oscurità. Oh perchè mai il cielo volle assoggettare l’uomo a sì fatale infortunio? perchè non li risparmiò le | infermità? perchè lo condannò a dover spesse volte bagnar del suo pianto quella terra, che fiorisce sotto i suoi piedi? Creato egli sovrano degli esseri doveva starsi tranquillo nel tempio del piacere, e della vo- luttà. Ma tu, o uomo, saresti troppo orgoglioso , se non fossi sogget- to ‘alle infermità , ed ai mali della vita. Tu forse sdegneresti di erigere tempi ed altari alla Divinità , e di offrirgli il voto del tuo cuore : ela più bella delle virtù , la pietà, la figlia del cielo non albergherebbe nel tuo petto. Non insuperbirti adunque;, e non credere , che tutto questo mondo per te solo sia creato. — Tu appartieni all’immensa famiglia degli esseri viventi, dei quali l’ aria, la terra, e l’ onde furono popolate ; e la natura versa su te,.come su gli altri esseri tutti i mali: ella ti sottopose all’or- renda falce della morte , e ti assoggettò ad esser vittima delle tremende crisi della terra. Tu offristi la tua vita, e il tuo san- gue in olocausto allo sdegno del cielo: tu mandi i tuoi lamenti al trono della Divinità, tu dunque puoi essere imperfetto al pari degli altri viventi. E immediatamente passando a parlare degli ‘magre perfetti in effetto, soggiunge: ‘._ Ma nella società non solo sonovi degli uomini imperfetti in cau- sa, ma eziandio in effetto , e il numero di questi è maggiore di quel- to dei primi. Egli è pur tristo il quadro, che la società presenta agli S. X Luglio "I 160, occhi del filosofo: le sciagure , le afflizioni , le scelleraggini,. gli atroci delitti , e le miserie formano cotesto funesto quadro, il quale annuncia , che nella'società vi sono dei sventurati, degl’i in-° felici, degli esseri imperfetti in effetto. Oh dolente scena! Da un lato sentesi una mesta voce dì una ‘infelicé madre , che priva del earo consorte è. circondata da numerosa prole ; che le domanda del pane ; un innocente bambino in vano le cerca dall’ esausto. seno il necessario alimento , @ le strazia le viscere coi suoi va- giti. Da un altro si presentano molti sventurati , che essendo! privi di lavoro mancano dei necessari mezzi di sit essi chiamano barbari i loro stessi fratelli , e assordano de’ loro la+ menti il Dio della provvidenza. Altri sciagurati trovansi condan- nati dal levare al cader del sole ai più faticosi lavori: essi ba- gnano dei loro sudori quell’ ingrata terra, che li sostiene , e spossati e languidi invocano l’’oscura notte ; quella , che pone limiti alle crudeltà dei loro signori , concedendo breve tregua: alle loro fatiche: essi sono costretti ad aborrire quell’ astro scin- tillante, che sorgendo a rallegrare la terra li chiama al duro lavoro. Ma uno spettacolo ancor più funesto presentano coloro , che al- lettati dalla dolce attrattiva del delitto , caddero giuste vittime del- l’ inesorabile giustizia : costoro rinchiusi in un tenebroso carcere, in un orrido sotterraneo tra duri ceppi, carichi di pesanti catene, sono dannati a passare la loro vita fra i tormenti, e le angoscie;: sparuti, macilenti ,.affamati, di orrende bestemmie fanno risuo- nare quell’ infausto recinto. Grande è il numero de’ sventurati , di coloro il di cui cuore è in tempesta , e lacerato da qualche fiera passione , che lo domina. Sono questi infelici , che spar- gono la desolazione per tutta la società , essi sono la fonte di tanti mali ; essi moltiplicano le sciagure su. questa terra. E in fatti non sono essi , che il più odia volte trattano i. micidiali ferri, e le avvelenate tazze, e per le oblique vie del tradimen- to giungono ai più altroci delitti ? Tutti costoro sono imperfetti in effetto. Non volendo più, per essere la sazievolezza omai soverchia, far riflessioni sulla denominazione degl’imper- fetti in causa, e imperfetti in effetto, ci contenteremo di domandare all’ A. se vero sia , 0 non vero, che i progres- si della medicina, massime preservativa, e della chitur- gia, non meno che delle altre scienze , che alla medicina, e alla chirurgia soccorrono, mentre son prova della per- 161 fettibilità dell’ uomo , che si profonda ognor più nella co- gnizione delle leggi, fisiche della natura, non siano poi un mezzo efficacissimo a. minorare:( come l’esperienza dimo: stra ) quegli uomini, che ad esso piace chiamare imper: fetti in causa? E non è egli stesso l'A. che ci ammonisce, che gl’imperfetti in effetto possono venir minorati cor- reggendo la. macchina sociale per opera d’ illuminati le- gislatori, e moralisti? Si legga la nota sottoposta al pre- citato capitolo , ove al solito non una sola contradizione ravvisasi. Eccola. Egli è bén vero, che generalmente il numero degli uomini imperfetti è maggiore nello stato di cultura , che nello stato di semplicità ( dico general- mente. poichè i selva ggi talvolta sono a peggior condi- zione di noi) ma di ciò nonè da imputarsi la natura essendo un difetto della macchina sociale, che potrà esser tolto mercè l’ opera d' illuminati legislatori, e mo- ralisti. Gli uomini adunque possono dalle leggi, e dalla morale istruzione esser resi meno imperfetti; sono danque perfettibili. Nò: risponde con tuono autorevole l’ A. gli uo- mini non sono perfettibili, ma sibbene sono perfettibili le umane società, e queste sono perfettibili, perchè si può ren- der minore il numero degli uomini imperfetti di che si com- pongono. Trascriviamo, perchè ciò ne possa esser creduto la nota dell’A. apposta al capitolo ultimo del suo libro; essa è del seguente tenore: Non deesi credere, che essendosi în quest'opera mostrato,che lo spirito dell’uomo non è dotato della forza di perfettibilità , si sia inteso per conseguen» za (infatti è palese che le vere e giuste conseguenze non sono troppo amate dall’ A.) di niegare, che le società ci- wili sieno suscettibili di perfezionamento. Nella stessa maniera che una macchina qualunque si perfeziona a misura, che le si diminuisce il numero degli organi it perfetti , le società civili, che sonò anch’ esse macchine morali si perfezionano a misura, che le si rende minore il numero degli uomini imperfetti, i quali ne sono i loro 382... : * organi. Ma se l’uso non abbiam del tutto’ perduto d’ ogni ragionevolezza, sembra a noi, che il numero degli uomi- ni imperfetti nelle civili società non possa minorarsi, che o uccidendoli , o rendendoli meno imperfetti. Che si deb- bano uccidere noi confidiamo, che l’ A. non voglia per- metterlo ; converrà adunque renderli meno imperfetti e ciò, come egli ci ha insegnato, con le leggi, e la morale isteria ,s il che, se non seadliivi errati, conferma che gli uomini sono perfettibili Ì | La perfezione adunque dell’uomo ( per metter finte: una volta a questa lunga diceria) o consiste, secondo l’A., nell’ essere l’uomo un ente passivo, scosso solo dalle cir- costanze ; e a noi pare, che questa perfezione per cui si parifica l’uomo ai bruti, sarebbe anzi dell’uomo la im- perfezione. O consiste, egualmente secondo l’ A. nello svi- luppo della intelligenza, ed attività dell’uomo in ragione dei suoi bisogni , e sembra evidente , che questa perfezio- ne niente altro sia che la perfettibilità. L’ uomo quindi secondo l’A- o è perfetto perchè è bestia, o è perfetto perchè è perfettibile. Ecco a che ne sospinge il volerci far ciechi alla loco splendentissima della ragione insieme, e della esperienza. Ah!rammentiamoci, che il tempo è l’incessante inno- vatore delle cose, come con profondità di sapienza lo chiamò già Bacone da Verulamio: rammentiamoci, che per la specie umana il tempo è il padre della verità, e quindi della giustizia , e della verace utilità: rammentia- moci, che un’ arte si hanno gli uomini creata per cui si eterna insieme e si diffonde la cognizione del vero, del giusto, del veramente utile; e non si potrà non avere per indubitato , che la perfettibilità è la qualità specifica del- l’uomo, e che perciò la specie umana nella sua universa- lità deve per legge inalterabile di natura progredir sem- pre verso il suo miglioramento. A. 163 Ri Spain sullo stato sanitario delle Maremme «senesi (*).. Vi sono delle leggi che stabiliscono dei premi ad egnuno:che salvi un cittadino da morte ; e questo è coe- rente all’umanità , alla ragione. La vita d un uomo non fu, nè.mai sarà apprezzata tanto che basti. L’urgenza dei casi desta la vigilanza dei magistrati, e gl’ impegna a dei provvedimenti. Ove però questa non li colpisca essi tac- ciono ::e lasciano con freddezza un’intera popolazione a’ micidiali effetti d’ un’ aria viziata , d’ un depravato co- stume: Ma il sacro ministero di quelli che custodiscono la vita de’ loro simili, non lascia che serbino indifferenza nelle calamità ; e molti di essi, comunque accolta possa essere ; sollevano la loro voce. ; «»«.L’ uomo abitatore d’un clima eccessivamente caldo, o freddo eccessivamente, ci offre la somiglianza delle piante esotiche che vivon fra noi, più per gli aiuti del- l’arte, che per l’ influsso del nostro cielo a loro non con- facente. Ogni veduta di umana filantropia sarebbe vana a loro riguardo ; come impossibile è di cangiare il naturale ordine delle cose immutabilmente stabilito per la loro intera durata. Gli abitanti del Senegal e della Guinea con- (*) Noi abbiamo avuto più volte l’ occasione di manifestare il nostro desiderio, che abitanti delle nostre provincie, studiosi del- le. scienze naturali, statistiche ed economiche, ci comunicassero i resultamenti delle loro indagini ed osservazioni. Il signor D. Palmi di Rassina i il primo al nostro invito ; e nel- l’atto d’ inserire questo suo saggio, lo ringraziamo del buon esempio per lui dato ai suoi concittadini. L'argomento dello stato sanitario delle Maremme è troppo importante , per non interes- sare tutti i leggitori dell’ Antologia, ai quali annunciamo- con piacere che in uno dei prossimi quaderni eglino troveranno un altro articolo di ‘un nostro collaboratore , che servirà di pot al presente . Nota del dirai dell’ Antologia. 164 teranno sempre brevi anni d’uùma vita impotente. & suer- vata da insopportabili ardori, al pari che ub lappone dovrà consumare tutti i suoi dì raggrinzato nell’ urror d’una grotta, ove s'invola alla meglio alle nemiché im- pressioni d'un’ aria sempre ghiacciata: ‘Ma l’atmosfera è suscettibile d’alterazione non solo per cause inevitabili dal potere dell’ uomo , ma per altre pur anco che la precauzione e le cure d’una vigile polizia giungerebbero a superare : e gl’indigeni d’ un paese ; che fu una wolta seminato di ricche e popolate città, sopra cui ‘ride "un cielo placido e temperato , il di cui terreno è fertile sen- za cultura, inon sembran nati per gemere sotto il ‘flagello d'una coorte d’ endemiche malattie, che baldanzosa'infu: ria tra loro, e per trascinare una vita breve ed inferma. La natura reclama gli sforzi uniti dei filosofi, del governo, e dei maremmani medesimi; e spera dai primi la' saggia direzion dei consigli; dal secondo la protezione di cli ab- bisogna, e dagli avdi una scRupalpna: reazione ‘alle. benefi: che mire dei primi. lo sane Il territorio delle Maremme senesi; gui offriva ‘una volta l'idea d’un deserto impraticabile, per le savie : pa- terne cure di Leopoldo d’ Austria cominciava a cangiav d’aspetto ; e ad invogliar dî ‘sè lo straniero, che ne te- meva in prima adolie il nome. Ma quest’ accorto regnante fu troppo presto involato al bene della Toscana, € la pro- vincia senese non mai' cesserà di deplorarne la perdita; di benedirne la ricordanza. Egli avea bene inteso che quello spopolato terreno ove ian geni allora il languore e la morte, poteva ritornare a nudrire una numerosa e ro- busta popolazione, è ad esibire ‘al: Governo ‘toscano un notabile numénto d’entrate e ‘di sudditi. E se non po- teva in lui nutrirsi’ speranza di coglier frutto d’un' ‘opera dispendiosa e lunga del pari, eì sì appagava dì segnar così ai suoi successori un onorevole cammino. Le variazio- im e. le politiche turbolenze dei tempi successivi s° oppo- 165 sero al proseguimento di tal impresa ; e solo se ne ride- stò la speranza in quegli abitanti, ora che siede pacifico sopra il trono d’Etruria il figlio di quel Grande che primo la fece nascere. L’aria libera quanto alle sue parti costituenti è in tutti i luoghi presso a poco la stessa. Il prof. Volta ha esaminata col suo eudiometro l’aria malsana delle paludi, che dava origine alle febbri più-micidiali, e vi ha sempre trovata la conveniente dose d’aria vitale. Nelle sue fisi- che qualità sensibili però ella è suscettibile di grandi variazioni, è per queste può farsi più o meno nociva al- l’ economia della vita, come pure per i diversi principi , o corpi stranieri di cui può esser veicolo. Malamente si penserebbe che l’aria delle Maremme senesi sia per sè stessa malsana, e la di lei temperatura alquanto sollevata al di sopra di tutti gli altri paesi della Toscana anzi che nuocere all’ andamento salubre delle funzioni vitali, non può che giovare (1). I crudeli rigori del verno durante i quali par che la natura sia morta non si temon laggiù come altrove, e quando infieriscon gli ardori del solleone, aleg- gia a mitigarli un fresco vento continuo. Dalle fermenta- zioni però di materie vegetabili ed animali, dalle acque stagnanti s'inalzano di continovo emanazioni in gran copia, di cui l’aria impregnatasi diventa causa di malattie. Du- rante la stagione d'inverno dimora ai pascoli delle Marem- me un'immensa quantità di bestiame d’ ogni sorta, e sempre nell’aperta campagna. Al suo partirsi nel maggio rimane nella superficie di quel terreno in cui si trattenne sì lungamente gran quantità di materie animali e di corpi morti , che putrefacendosi concorrono grandemente a viziar l’ atmosfera. Sappiamo, che nei paesi dell’Irlan- da ove por agosto al gennaio si uccideva gran numero di ( 1) Tralascio di parlare delle Maremme pet , poichè quel paese è a me sconosciuto. i 166. pecore e bovi'all'oggetto di fornir di carni la flotta ‘bri+ tannica , si sviluppavano ‘successivamente intermittenti y perniciose , e contagi a causa delle sostanze animali che. in tanta quantità si lasciavano ad una libera putrefazio- ne. Dalle acque stagnanti poi che abbondano in quelle. pianure, oltre i gas irrespirabili, s'inalza nel giorno gran copia di vapori acquosi, che al fresco della notte conden» sati ricadono, e si fan causa di malattia quasi .inevitabile in ognuno che si trovi costretto a viaggiare nell’ ore not- turne, o a dormire a scoperto. Dalle miniere del zolfo, dalle acque sulfuree di cui s'incontrano con. frequenza le sorgenti, e che in molti luoghi si dirigono e stagnano rilasciate a sè stesse, s'inalzano i vapori epatici, da cui viaggiando mi son trovato talvolta nata offeso io medesimo. Dalle variazioni del peso , dalla quiete , e dalla agi- tazione maggiore o minore di quell'aria , come che non credo poterne avvenire dei cangiamenti importanti molto nella salute di coloro che se ne nutrono, di queste mon parlo. Se l'atmosfera della provincia inferiore senese per le sopradette cose è malsana, non parmi che possa esserlo per modo, che affetto sino a tal segno dovesse restarne il di lei stato salubre. Io ho riscontrati anche laggiù degli esempi di non ordinaria longevità in persone che sì erano probabilmente sapute difendere dall’influsso di certe cau- se, che micidiali io stimo ‘assai più dei vizi dell'atmosfera. Questi però. son ben rari, e mentre nelle. campagne d’ogni sano paese si calcola la mortalità annuale ad un individuo ogni trent’uno (1), io ho potuto laggiù riscon- trare, che in anni regolari nelle stagioni, abbondanti nei raccolti , scevri d’ epidemie e di contagi , si è estesa fino al dieci per cento. Così avviene che progredisce i in aumen- (1) Questo calcolo è del sig. Girtanner. 167 to meno. assai di quel ‘che. dovrebbe una popolazione pres- so cui il celibato è in. poco credito, e somma è, e molto affrettata la fecondità nelle donne. In ciò che entra nel corpo dell’ uomo, in ciò che l’uomo agisce, e in ciò che è astretto a soffrire dai corpi che lo circondano, si trovano dappertutto le cause; della di lui distruzione. E come ognuno aspettar dovrebbe dall’età consumatrice.il colpo di morte; sè ognuno sapesse e po- tesse porsi al sicuro di tutte le micidiali potenze, così ad immaturo fine ognuno anderebbe, se cecamente a lor si esponesse. All’innato amor della vita ha dettato l’espe- rienza un codice di precetti .salubri. V’ha un’igiene po, polare, che tutti conoscono. Tutti sanno; che l’abuso dei liquori è nocivo; che nuoce, infiacchisce il troppo riposo; che nuoce l’esporsi al caldo improvviso escendo da un’am- biente gelato; e molti,altri sanno di questi canoni altret- tanto utili quanto veri, ma non iutti li osservano con esat- tezza, e. meno che tutti gli altri i maremmani, che più lo dovrebbero. E quanto..a ciò che introducono. nel loro corpo, un principalissimo inconveniente ho potuto osser- vare nel pane di cui si cibano quasi tutti. i maremmani e gli operanti .stranieri,, eccettuate ben poche delle più agiate persone. Per la quantità in cui sì raccolgono, per la ,maniera con cui si separano dalle spighe, si ripongono i grani oltre modo ripieni d’estranei semi e di terra. Si triturano in farina senza averli ripuliti gran, fatto, e se ne. forma un pane qual può immaginarsi, orrido alla vista, sgradevole al. palato , contrario al ben’ essere di chi se ne ciba. Fra i semi stranieri, che si frammischiano ai grani di cui.si parla, abbondantissimo è quello del lolium te- muleutum ( Gioglio Cucco ). Sono abbastanza conosciuti gli effetti malefici di questo seme, «che ponno, anche, di- venir fatali quando ne .sia inghiottita una notabile quan- tità. Non meno. im portante d’un adattato pulimento, è la eustodia dei grani.,Gli antichi romani, conobbero benissi- 5 163 j mo questa «importanza, e Varrone! ci ha trasmesso. la maniera con-cui costruivansi ì granai ne’suoi tempi. Que- sto ancor si trascura in Maremma, e spesse volte si pre- para il pane con del: grano che cominciava ‘a fermentare , o che era notabilmente alterato dal puntarolo. Dall’uso di quel p&ne è da ripetersi la principale sorgente delle di- spepsie, delle coliche ,, che frequentemente affliggono il più basso ceto della Maremma y e la mala nutrizione di coloro ‘che senza essere affetti da ‘alcuna malattia, mo- strano un: esteriore languido. e consumato. TI legumi che han:sì gran parte nelle rustiche’ mense degli ‘agricoltori toscani, che lor preparano un abbondan- te nutrimento) e salubre) e clie mantengono nelle loro braccia una robustezza indomabile dalle fatiche del campo, non servono che di rado-al desco di quella gente. Essi ne trascurano la cultura, e son forse ‘nel pregiudicevole in- ganno, che tal cibo possa divenir loro indigesto e dannoso. Vogliavil cielo, che migliorate un témipo le condizioni dei loro stomachi per un'miglior sistema di vita; si accorga- no d’un'tale abbaglio;'e sentanoqual miglior iristoro. sia lor per oftrire una' pietanza di legami beni cotti; che quella indigesta e ‘poco ‘nutritiva Vivanda') qual essi preparanò con “puel loro pane! inzuppato ‘hell’ acqua e condito di poche stille . d'olio ; con cui Mc RIA dalle fatiche del giorno. i | La mancanza di' pure ‘sorgenti ' ‘nella massima parte delle terre della. provincia; costringe gli abitanti ‘a ser- virsi dell’ acqua di mal custodite cisterne, e di quella di fontane non limpide in parte per'difetto di sorgente, ‘in ‘parte per trascuranza di chine ha la custodia. Il sentimen- ito concorde ili tutti i:pratici.antichi' e moderni, riguarda Y acque':non'pure come'una principal causa delle croni- ‘che infermità che attaccano ‘i visceri addominali , e delle febbri periodiche! che sì sviluppano nei paesi ove di queste siservono Essendo 1’ iso! giornaliero e continuo del- \) 169 l’acque indispensabile a tutti iceti, importantissimo egli è di attendere con ogni‘impegno a ‘procurarle più pure che sia possibile. Prospero Alpino nel.suo primo libro:della medicina egiziana , ragionando della longevità di alcuni egizi, la crede un effetto dell’ uso giornaliero che si fa da coloro delle leggerissime e pure acque del Nilo : acque di cui Filadelfo re di quel paese, volle che:seco portasse gran copia la di lui figlia Berenice allorchè se n’andò sposa al sovrano ‘ d’ Assiria. Dalla persuasiva dell’insalubrità di quell’acque ) non meno che dal senso di spossamento in cui si trovano pel malo stato di lor salute , son tratti ge- neralmente i maremmani in un inganno fatale. Gredono essi di ben sostituire per la loro bevanda, alle acque non sane; un” egual dose divino, dalla cui attività confidano potersi ‘altresì rimediare allo stato di languore in cui sen- tono d’ essere : quindi ne bevono senza misura; nè ben eontenti di questo, ricorron di più allo smodato. uso dei liquori spiritosi. Ella è ordinariamente fra loro una quasi inviolabile osservanza! quella d’inghiottir sul mattino a stomaco vuoto una quantità d’acquavite o di rum. Essi si appàgano di quel momentaneo eretismo ‘che in lor pro- ducelo stimolo di liquidi di tal sorta, e col frequentemen- te iprocurarselo si sforzano d’allontanare la sensazione del loro mal’ essere. Mala risorsa apparente ed istantanea che traggono da quelle bevande , prepara loro delle per- manenti se triste conseguenze per l'avvenire. E osserva- zione ‘generale dei patologi , che l'impressione dei vini e dei: liquori ispiritosi,, applicata smoderatamente e .con troppa frequenza, inigrossa le pareti dello stomaco, ne ri- stringe la capacità; ne ottunde:la isensibilità, e insufficien- te lo rende.alla:gran funzione cui è destinato. Alibert rac- conta di aver veduto nel museo del giardino delle piante di Parigi uno stomaco, singolarmente impicciolito per l’ uso eccessivo dello spirito di vino: e la giornaliera esperienza c''insegna yiche i gran bevitori non.sanno ‘introdurre nel 170 lor ventricolo , che una scarsa dose d’ alimenti solidi. At danni che sono d’ordinario imputabili allo ‘sregolato ‘uso. del vino e dei liquori, uno gravissimo'se ne aggiunge per gli abusatori delle Maremme. Essi sono in gran parte attaccati da una cronica malattia , qual sogliono trascura= re per lungo tempo, con una perniciosa indifferenza di' cui giungon poi quasi tutti a inutilmente pentirsi. Ella è questa una lenta e nascosa splenitide , che si manifesta er l’ aumento di volume, per l’indurimento del viscere, per dei dolori all’ ipocoudrio sinistro, per delle febbri ri- correnti ec. La frequente presenza nello stomaco di sti- moli così potenti, egli è fuor:di dubbio che non sia per aumentare lo stato di flogosi di quel viscere , ed affretta- re quelle terminazioni fatali, a cui quasi sempre sì oppo- ne invano la più energica e ben diretta medicatura. Le persone più culte e più agiate, che sanno talvolta sfug- gire all'abuso del vino e ai danni di quel pane così insa- lubre, e che si procurano un vitto nutritivo e ‘leggero, non sanno sfuggir così spesso ‘al troppo uso del caf- fè (1) e dei liquori spiritosi, in riguardo di quella falsa opinione generalmente invalsa laggiù, che sia d’ uopo mantenher la. salute sotto la salvaguardia degli stimoli d’ ogni sorte. Disgraziatamente son sempre mancati a quelle terre dei medici illuminati e prudenti, che: sien- si sforzati a combattere un tale errore ; o se pure alcuno ne ebbero e ne hanno, che. per la sufficienza nell’ arte far lo potesse, non avvien mai che prenda ‘interesse quanto a ciò vuolsi per un paese i di cui requisiti non sanno attaccarselo bastantemente. Io ho dovuti soccorrere dei maremmani attaccati da gravi malattie inflammatorie, ‘per la cura delle quali ho dovuto rilasciarmi all’uso della {1) So che modernamente si dubita dell’ attività stimolante del caffè, e che si giunge fino a crederlo d’ un’ azione ‘ opposta finchè non consti da prove incontrastabili, io lo terrò fra gli'stimoli, igi sanguigna, più che non fui mai costretto nell’opposto clima delle Romagne Toscane: ed il sodisfacente successo d’ una perfetta e sollecita guarigione, mi ha confermato che le più energiche accensioni di stimolo possono aver luogo in persone di languido temperamento , e che gli stimoli dif- fusivi di cui esse credonsi autorizzate ad abusare servono a renderle più frequenti e più gravi. Se la nettezza nell’ esterne vie dei paesi e nell’in- terno delle case, giovando sommamente a mantenere la purità dell’atmosfera , si cerca nei luoghi ove questa non è viziata d’ altronde; quanto più dorvmelibe procu- rarsi nei luoghi i in cui respirasi un’ aria già infetta da emanazioni insalubri? E pure essa è li totalmente obliata. Quasi tutte le case mancano dei segregati ricettacoli del- l’immondezze, ed i paesi mancano -di cloache. Ognuno avvezzo alla politezza della città e delle terre di Tosca- na, resterà sommamente nauseato dalle sordidezze che s'incontrano nella superficie delle pubbliche strade d’una delle più popolate terre della Maremma. Nell’interno del- le case del basso popolo s’ usa riguardo alla mondezza la medesima trascuranza, e son pochi anni che in uno di que’ paesi si cessò di tenere i maiali nelle stanze medesi- me, che servivano d’abitazione alla famiglia: e per quan- ito ora i più ricchi non manchino d’ una qualche proprie- tà nelle lor case, non possono per questo involarsi alle pregiudicevoli conseguenze delle emanazioni che sorgono dalle sozzure delle pubbliche vie, e dalle abitazioni del volgo. i. I maremmani sono per carattere , 0 meglio pel sen- .timento della loro impotenza, isiclioad all’inazione. Celso ha detto che la troppa quiete affretta la vecchiezza , e l’e- sercizio prolunga la gioventù: ed ha portati tant’ oltre i vantaggi di quello Avicenna, che al dir di lui gli uomini potrebbero fare a ai medico e di medicine, se tutti si rilasciassero ad una vita faticosa ed attiva. Come però in 172 tutte le cose son certi confini, guos ultra citraque néquit consistere rectum, debbe reputarsi utilissimo un esercizio, moderato, ma di questo ancora son da fuggirsi gli eccessi. Ma.in tutta quella provincia. appena si trova un indigeno, che eserciti alcuna delle professioni necessarie ai comodi della vita. Essi aman piuttosto di pagare ad enorme prez+ zo l’opera di venali stranieri , che si dirigon laggiù a la- vorare durante il verno; e poichè la miseria li. astriuge, si occupano delle campagne e dei bestiami solamente quan to basti per vivere nella loro maniera. Coloro che hanno senza occuparsi limitati mezzi di sussistenza , e gli. altri ancora destinati alla fatica; nei tempi in cui possono in; terrompere le loro opere rusticali , stesi nelle piazze e nelle strade, consumano i giorni fra il vino , il sonno, e il la+ mento dei loro mali. Ed allorchè nell’ estate s’involarono gli stranieri ai pericoli della stagione, essi rimangono af- fatto privi degli aiuti dell’arti, necessarie tanto al. ben! essere della vita sociale. Il bisogno dell’ accoppiamento dei sessi si fa in loro sentire assai per tempo; e vi si rilasciano con eccessivo irasporto. L’ ozio, il grande amico della venere, concorre grandemente a cacciarli nell’ uso di lei smoderato, e son ben fortunati coloro, che da quello ritraggono i soli dan; ni, che dall’ Guelirizatte perdita dellamar fecondante ri+ dondano. Il mal venereo amareggia anch’ ei molto spesso le loro sodisfazioni amorose. Ma india su.tutto, lo sono fin’ anche sulla. propria salute : soffrono con perni- ciosa noncuranza lunghissime gonorree , e trascurano le altre infezioni di quel veleno; sinchè una lue micidiale li invade, e avvoltili fra i suoi tormenti, li astriuge a desi: derare iun pronto aiuto 6 la. morte. Nè meno indolenti essi sono rispetto all’ altre croniche infermità cui sogliono andar soggetti, e specialmente alle ostrazioni della milza, e alle febbri periodiche. Senza mai allontanatsi per quel- te dall’ erroneo lor sistema di vita, le trascinano lunghis- 198 simo tempo , e cercan solo i provvedimenti dell’arte me; dica, quando i devasti che in loro avvennero ne rendon vani tutti.gli sforzi. % Queste che sono andato per ora enumerando in suc- cinto sono le più ordinarie cause devastatrici della. salute dei maremmani, e come che non è impossibile, nè sover- chiamente difficile l’ abolirle,, desiderabile egli è che que- st’ opera una volta si tenti da ognuno , che al di lei com- pimento abbia parte. Se nella superficie d’ un terreno tutta paludoso:, inabitato ed infecondo, si potè erigere una nazione industriosa , ricca e potente; quanto sarà più sperabile il restauramento d’ una breve provincia, fertile e temperata , abbondante: di tutto ciò che è necessario alla vita, e fornita di porti comodi e frequentati ? La facilità del commercio ravviva l’ industria, l'in; dustria invigorisce la popolazione, l’arricchisce, l’aumen. ta. Questa facilità sarebbe il primo e pulocigali vantaggio da procurarsi a quegli abitanti. Accessibile alle rote,. e comunicante con l’ agro toscano non hanno essi che una strada da Siena a Grosseto. Tutti gli altri paesi sono isolati, e.non hanno fra sè e con la lor capitale altra comunica- zione, che per istrade malamente accessibili, e non in ogni tempo ai cavalli e ai pedoni, strade frequentemente interrotte dal corso di fiumi e torrenti precipitosi, e privi di ponti. L'apertura adunque di comode strade fra le principali terre della Maremma, d’ una che apra un più comodo e più breve accesso nel Fiorentino, ed inoltri laggiù fino alla costa marittima , potrebb' essere a parer mio la prima causa rigeneratrice di quella provincia. Niun luogo è più atto di quella ad ogni genere di commercio ; ed ove i possidenti giungessero ad esser forniti degli op- portuni mercati nei paesi più comodi, ove giungessero a smerciare decorosamente le loro derrate, migliorati di condizione estenderebbero le coltivazioni e torrebbero all’ ozio micidiale e all’inopia un assai maggior numero 174 di persone. Gli'‘abitanti fatti più ingegnosi dall’apparente facilità di migliorare il loro stato , e forniti perciò di màg- giori risorse e di mezzi, si occuperebbero nella mercatura e nelle arti: E per quanto io abbia poco sopra asserito , che son costoro per natura e per impotenza proclivi al- l’inazione , è da intendersi di quella seconda natura for- mata dall’ abitudine, poichè gli uomini originariamente son fatti per l’ attività e l'esercizio. Se l’innata brama del meglio in lor non bastasse a troncare quell’ abitudine, e’‘a'superare in principio il sentimento della loro insuffi- cenza , sarebbe d’ uopo indurli con forza all’ occupazione; nè molto vi vorrebbe perchè imparatine i vantaggi dal- l’esperienza vi si determinassero quindi per volontà. Essi più frequentemente condotti fra gli altri toscani appren- derebbero da loro quei gradi di cultura di cui son man- canti. Per chi sa dall’ istoria delle nazioni quello che fu- rono, e quello che or sono; per chi sa per quai strade:e con quai passi montarono a tanto accrescimento di nume- ro e di civilizzazione , è vano di andar percorrendo tutti i gradini, che pur non ‘son molti, per cui salirebbero gl’indigeni delle Maremme a pareggiare in tutto gli-‘altri loro compatriotti toscani. hi A Inciviliti dal frequente’ e comodo conversare con gli stranieri (1): arricchiti dalla facilitazione del com- ‘mercio : invigoriti dall’ esercizio , potrebbero essi una volta dar mano al: compimento dell’ opera , al rasciuga- mento dell’acque stagnanti. Queste sono per un regriante le conquiste richieste dall’ umanità, approvate dalla giu- stizia; così s'accresce al trono una famiglia numerosa di ‘ legittimi figli, di cui son retaggio gratitudine e fedeltà. ‘ D. G. PaLmi.. (1) È innegabile che i maremmani vedono gran numero di forestieri, e li praticano per gran parte. dell’ unno ; ma questi sono dell’ infimo ceto, abitatori delle montagne più orride , e che non possono partecipare a loro alcun buon esempio. 175 Lettera sul Paragrandine, al Diret. dell’ Antologia. pid 4 i 15. luglio 1823. Avendo letto nell'ultimo fascicolo del vostro giorna- le una memoria del dott. Basevi contro i paragrandini di Tholard , e credendo perniciosissimo che il pubblico de- sìsta dal porre in opra tai preservativi per le ragioni ap- parentemente giuste di questo scritto , stimo esser prezzo dell’opera il dirigervi alcune riflessioni su di esso onde possiate inserirle nella vostra Antologia. “. La fisica è la scienza dei fatti. —Le teorie che in essa si succedono rapidamente devono rilenersi per vere, finchè non compariscano nuovi fatti che le distruggano. S'ingannerebbe pertanto di gran lunga colui che tenendo per vera ed incontrastabile una teoria , volesse negare de’ nuovi fatti senza ripeterli , per ciò solo che si oppon- gono all’ idee comunemente ricevute. In questo errore ci -sembra esser caduto l’ autore della suddetta memoria . Mentre egli confessa di non aver mai eretti nè veduti erigere i paragrandini di Tholard, sostiene nulladimeno con franchezza che non possono essere utili, perchè la paglia di cui sono formati è meno conduttrice dei metal- li. Tutte le sue undici esperienze si riducono a provare ‘questa poca conducibilità della paglia che nessuno ha messo mai in dubbio ad eccezione del Lapostolle, le di cui frivole esperienze erano già state condannate all’oblio dall’ accademia delle scienze di Parigi. Ma perchè la pa- ‘glia è meno conduttrice dei metalli, ne verrà in conse- guenza che i paragrandini di paglia debbano essere inutili o dannosi? Noi non sappiamo positivamente nè come si formi la grandine, nè quanto tempo sia necessario alla di lei formazione , nè quali siano le circostanze che ne au- mentano o diminuiscano la genesi. L'ipotesi del Volta è ingeguosissima , «ma pon ha vulla di certo. Come possiamo I. AM. Luglio 12 176 adunque giudicare a priori dell’ inefficacità di questi pa- ragrandini se non sappiamo neppure come la grandine si generi , nè come queste macchine possano agire ? Chiun- que ha fior di senno comprende benissimo che la sola e- sperienza può decidere la quistione. Che si erigano dei paragrandini di Tholard in varie possessioni le quali ne racchiudano altre sprovviste di tai preservativi, che sì osservi dove in tal caso la grandine imperversa maggior- mente, ed allora si decida. In questo modo la decisione sarà presso il pubblico di qualche peso ; ma fintanto che si pretenderà di negare i fatti perchè sembrano contrari a principi ammessi , o perchè non coincidono colle mas- sime di ciascuno autore , noi ci meriteremo che ci sia ri- petuto quel detto d’ Orazio: Quodcunque ostende mihi sic incredulus odi. La memoria del dott. Basevi mi fa ricordare dì alcuni scritti che comparvero in Europa alla scoperta del dott. Jenner. Si negavano in essi bruscamente i fatti annun- ziati dal medico inglese perchè stavano in opposizione colle teorie in quel tempo dominanti. Ma il tempo coronò la scoperta; la vaccina fu inoculata col più gran successo, e i detrattori non potendo negare ciò che cadeva sotto ì sensi, si dettero a biasimarne l’uso sotto altri rapporti. Io non pretendo però conchiudere da tutto questo che i pa- ragrandini di Tholard sieno vantaggiosi. Molti fatti sono anche necessari per costatarne l’ utilità, o dimostrarne il danno; ma anche nel caso che l’ esperienza li dimostrasse in seguito perniciosi , non sarà per questo meno vero che la memoria del nostro autore nulla prova contro di loro. Ma ammettendo anche per vera e dimostrata l’ ipo- tesi del Volta sulla formazione della grandine non che la teoria elettrica attuale , e il modo di agire dei paragran- dinì ammesso dal dott. Basevi, le ragioni di quest’ autore sono poi di un peso tale da dimostrare l’ inefficacia di tali 177 preservativi? a me sembra che non lo siano, e spero bre- vemente di dimostrarlo. Avendo il celebre Volta esaminata la struttura della grandine che ha sempre per nucleo un fiocchetto di neve, e conoscendo d’ altronde la notissima esperienza che i corpi leggeri messi in mezzo a due superficie elettrizzate in senso contrario si portano velocissimamente da una al- l’altra finchè l’equilibrio elettrico non sia ristabilito , immaginò la seguente ingegnosissima ipotesi per ispiegare la formazione di questa meteora. Egli suppose che per la produzione del fenomeno fosser necessarie due nubi ele- trizzate in senso contrario e disposte una al di sopra dei- l’ altra. I leggeri fiocchetti di neve che per l'elevazione dalla terra e per la superiore evaporazione si vanno for- mando in una delle nubi temporalesche, erano secondo esso attratti e respinti a vicenda fra le due nubi. Nel pas. sare velocemente dall’ una all’ altra attiravano a sè una quantità di quelle vescichette acquose che costituiscono le nubi medesime, e queste vescichette attesa la bassa temperatura si consolidavano sopra detti fiocchetti , e a poco a poco formavano quelli strati di ghiaccio che si ri- scontrano nella grandine. Formati in tal modo dei granelli più o meno grossi essi seguitavano a saltare da una nube all’ altra, finchè il loro peso non superasse la forza di ri- pulsione della nube inferiore. Si concepisce che in que- st’ ipotesi anche una nube sola può generare la grandine , ma molto più imperfettamente. Ammessa ora per dimo- strata questa teoria, egli è chiaro che 1 paragrandini essendo accuminati e formati di corpi piuttosto deferenti, devono agire togliendo a poco a poco ed in silenzio l’ elettricità della nube inferiore, mancando la quale elettricità il fenomeno non ha luogo. Questa è la maniera colla quale sembra che il dott. Basevi concepisca il modo d’agire dei paragrandini , e questo è quello che sembra veramente il più probabile, ammettendo sempre per dimostrate, e la 178 teoria dell'elettricità, e 1’ ipotesi testè annunziata del Volta: Vediamo adunque ragionando su queste premesse se i paragrandini di paglia sieno perniciosi, perchè for- mati da una sostanza poco conduttrice , ( come l’ autore dimostra con undici esperienze ) e se i paragrandini me- tallici sieno più utili di quelli di Tholard. Esamineremo in questa ricerca, e il caso in cui la meteora comincia allora a formarsi , e l’altro in cui la grandine di già for- mata è vicina alla caduta, onde evitare qualunque o- biezione. Se un paragrandine metallico agisse sopra una nube nel tempo che la grandine è vicina a cadere, venendo tolta ad essa nube l’ elettricità che si oppone alla caduta. della meteora, la farà piombare immediatamente nel cam- po ove detto paragrandine si trova, e ve la farà cadere in totalità, mentre che se il preservativo non vi fosse stato; la nube non ne avrebbe lasciata cadere che una piccola porzione, trasportando il resto in altro sito. Anche se detto paragrandine agisse sopra una nuvola ove la grandine cominciasse a formarsi, le cose anderebbero ugualmente. L' elettricità che è la causa che fa stare in aria la meteora essendo affatto tolta , essa caderebbe nelle vicinanze del paragrandine, mentre che se detto istrumento non fosse esistito, l’ elettricità della nube 1’ avrebbe tenuta in aria, finchè ingrossata a poco a poco non fosse andata altrove a scaricarsi. In ambedue i casi adunque il paragrandine metallico è molto pernicioso, e il luogo dove esso è pianta- to deve essere più degli altri dalla grandine percosso. Ma se i paragrandini sono di paglia, vale a dire di una sostan- za meno deferente del metallo, le cose non vanno in que- sto modo. Infatti nel caso che la grandine cominci allora a formarsi, il paragrandine di paglia attesa la sua piccola conducibilità non iscaricherà totalmente di elettricità la nube inferiore , ma solamente in parte è è poco a poco; e perciò restando sempre nella nube ‘una forza capace di ai; reggere per aria i piccoli granelli già formatisi, essi non cadranno, ma diminuendo la tensione elettrica delle nubi, salteranno meno, e meno ingrosseranno, In questo modo senza attirare la grandine nel campo ove sono tai preser- vativi, si giova alle vicine possessioni diminuendo la causa che faceva ingrossare la meteora. Nell’ altro caso poi che la grandine fosse di già formata,il nostro istrumento scarican- do al solito la nube di una piccola dose d’ elettricismo , non ne farà cadere che una porzione, impedendo al resto di crescere ulteriormente. In questo caso pure senza nuo- cere sensibilmente al luogo ove stassi il preservativo, gio- verassi non poco alle campagne vicine. Da tutto l’ esposto si vede chiaramente che , volendo giudicare anche a priori della utilità dei paragrandini, quelli di paglia presentano molti vantaggi e pochi incon- venienti; mentre che quelli metallici sono in tutti i casi estremamente perniciosi. Tutti gli sforzi adunque del dott. Basevi per provare che la paglia è cattivo conduttore, lungi dal nuocere all’invenzione di Tholard, le servono anzi di sostegno. Mi giova sperare dietro tutto quello che ho detto che i proprietari vorranno erigere i paragrandini di Tholard, e che i fisici tralasceranno d’ alimentare i dubbi che pur troppo esistono negli uomini contro le novità. In tal modo noi arriveremo finalmente ad avere tanti fatti o da con- fermare l’ esperienze fortunate di Tholard e di molti pro- prietari milanesi, o da condannarle affatto all’ obblio. Questa è la sola via per giungere alla verità , ed è di qua che dobbiamo partirci. Credetemi intanto con vera stima. Uno dei vostri associati ZuvA. 180 Annunzio Scientifico Da comunicatoci dal mateMATICO REGIO Sig. Pirtro FERRONI. Dei due quesiti, uno di matematica applicata e segnatamente d’idraulica, l’altro di patologia fisico-medica, da risolversi per concorso a forma e nei termini del Programma stampato in data de’ 22 luglio 1821, è stata esibita una sola menzoria. intorno: al primo, ma fuori del termin prescritto (31 luglio 1822) alla So- cietà Italiana delle Scienze in Modena, e dodici mzenzorie concer- nenti al secondo, due delle quali inattendibili, perchè giunte alla segreteria della Società fuor di tempo. Dopo l’ esame delle dieci rimanenti fattone dai tre Giudici segreti, avendo essi trasmesso il separato loro giudizio, ed ia questo letto colle regole e solennità volute dallo Statuto Accademico, specialmente dall’ ar- ticolo xXiv. $. 6, s'è trovato che due de’ Giudici hanno proferito il lor voto favorevole alla 72emzorzia distinta col motto. — ZLiberam profiteor medicinam, nec ab antiquis sum nec a novis, utrosque, ubi veritatem colunt, sequor, mu!tifacio saepius repetitam expe- \ rientiam — ricavato da Klein, ed il terzo ha opinato a favore del- l’altra segnata coll’Epigrafe — Natura per naturam explicanda, non vero per rationes evertenda —. Questa ha perciò meritato l’4e- cessit , l’altra l’intiero premio proposto. Ambedue saranno tosto rendute pubbliche colla stampa. Dissigillate le schede si è scoperto Autore della memoria premiata il sig. Dott. Luigi Emiliani Medico Bolognese, e dell’ altra onorata coll’ accessit il sig. Dott. Maurizio Bufalini di Cesena. Tutte l’ altre schede o biglietti sotto sigillo senz'essere aperti si sono incontanente consegnati alle fiamme ,; e gli scrittori delle tre memorie rimase fuor del Concorso, per- chè sopravvenute dopo spirato il suo termine, indirizzandosi alla Segreteria della Società, potranno respettivamente riavere le loro scritture col commettere ad un corrispondente in Modena di pre- sentare il motto o l’epigrafe particolare, che accompagna cia- scuna , al Sig. Segretario Antonio Lombardi. Premio Quinquennale di scudi mille fondato dalla munificenza di S. A. I]. e R. FERDINANDO TERZO Granduca di Toscana. Come apparisce dal Titolo XXIV delle Costituzioni dell’I. e R. Accademia della Crusca: il qual Titolo è del seguente tenore : Coerentemente alla Sovrana volontà manifestata all’ Accade- mia con Rescritto del 19 novembre 1814 intorno al premio da 181 distribuirsi , ed in seguito delle munificienti ulteriori disposizioni partecipate alla medesima con i Rescritti de’ 7 e 19 gennaio 1819, essa Accademia è autorizzata ad annunziare, essere stabilito un premio di scudi mille per aggiudicarsi da lei ogni cinque anni ad un’opera italiana, che alla pluralità dei voti degli acca- demici residenti sia riconosciuta per una produzione di merito singolare (cioè che all'importanza della materia unisca purità, ed eleganza di stile) e degna di esser proposta a Sua Altezza Imperiale e Reale pel conseguimento del detto premio. Si ammettono al concorso le opere italiane manoscritte, e in istampa inviate all’Accademia dai loro autori, purchè la pubblicazione delle stampate abbia avuto effetto nel quinquennio che precede il concorso. Intorno al modo, e alle condizioni richieste nelle opere da presentarsi, è incaricata l’ Accademia di formare un program- ma da sottoporsi, prima di pubblicarlo, all’ approvazione So- vrana. x La prima distribuzione del premio è fissata pel marzo del 1820. Se l’Accademia non trovi fra le opere presentate al con- corso alcuna che sia di merito singolare, e tale da poter conse- guire l’ intero premio , può dividerlo fra due opere da lei ripu- tate migliori. E se non giudica esservene alcuna meritevole di premio, differisce la distribuzione di esso all’ anno successivo. In virtù delle quali Sovrane disposizioni l’ Imp. e R. Acca- demia della Crusca pubblica , ottenutane la Regia approvazione , il seguente = PROGRAMMA "i I. Sono ammesse al concorso del 1825 opere italiane mano- scritte e stampate , sì in prosa, e sì in verso. II. Le opere manoscritte debbono essere nette, e di carat- tere bene intelligibile, e quelle in istampa compiutamente pubblicate dentro il quinquennio, che incominciato dall’ anno 181g inclusive, terminerà a tutto il dicembre del 1823. III. Non si ammettono al concorso altri volgarizzamenti, che i provenienti dal greco e dal latino. IV. Tutte le opere sì manoscritte, come in istampa , inviate al concorso, divengono proprietà dell’ Accademia. Si permette agli autori delle manoscritte di estrarne copia a loro spese , fat- tane prima istanza@fall’ Accademia. 182 V. Le opere debbono rimettersi al segretario dell’Accademia franche di porto a tutto il dì 31 dicembre del corrente anno 1823. Se ne pervenissero spirato detto termine, saranno custodite dal- l'Accademia per restituirsi. ai loro autori; perocchè non si am- mettono giustificazioni sul ritardo. VI. Possono i concorrenti celare il loro nome, In questo caso debbono porre in fronte delle loro opere un motto, e questo ri- petere sopra una polizza sigillata , dentro alla quale avranno scritto il loro nome. Le polizze si aprono solo quando l’ opere; che accom- pagnano , siano premiate. Diversamente , si abbruciano. VII. Restando premiate opere manoscritte } debbono queste farsi stampare dai loro autori prima che essi ne riscuotano il pre- mio. Nella stampa delle medesime non possono farsi variazioni di nessuna sorte, se prima non siano sottoposte al giudizio dell’Ac- cademia. - ... Firenzo 10 giugno 1823. V. FRANCESCO DEL FURIA. Arciconsolo. Gio. BATISTA ZANNONI. Segretario. Correzione da farsi alla pag. 7. del N.° XXX. Il passo di Strabone, che si riporta nella Nota segnata diNi'r, dee correggersi così: Oùros dè ò Exedpos forìv d uo) AlpuAiav 6ddv oTpooes, tiv did Iesntiv xeù Aobwns péypi ZaBBaruwy, nav- TeUSev did Aép3wyvos. IL benigno lettore potrà adesso da per sè correggere gli altri errori di stampa , che si ritrovano alla pag. 8, dove si riportano c si spiegano alcune parole greche di questo medesimo passo. Fine del Fascicolo XXXI. GIUGNO 1823. I ‘ Termometro = | ro > e 3 me Hi a Da E O) À E Ora 8 5, n BUA SB Stato del cielo 5 : © "@ © © | Bian a | indi SM a i poll: lin. ;a 1) | 7mat. |28. 1,2 16,9] 16,0) 68 Sc.Lev.|Ragnato. Calma I] mezzog. 28. 1,2 17,8] 197| 48 Lev. |Coperto. Ventic. (I sera | D+ WINE (0 18,7|. 17,8) 77 Tram. |Nuv. rotti... Calma. 7 mat. . 96 !Grec. |Piovoso. Calma 2| mezzog. |28. 90 0,35 Sai, Nuvolo. Calma dI sera /[27. 99| 0,08 Maest. Ser. con nuv. Calma ;| | 7 mat. a — 88] —|Lev. |Nebbioso. Ventic. >| INEZZog. |27. fd 65 Lib. Ser: con nuv. Galma ‘| |.xx sera 4 85 Lib. Ser. con nuv. Ventic È 3 16,4| 81 Scir. |Ser. con neb, Ventic. Ì »}27. .10;3 61 P. Lib. |Coperto. Vento ) 6 88 Scir. |Ser.con neb. Ventic «3; 90 Grec. |Ser. rag. Ventic A 69 Tr. M. |Ser. rag. Ventic. | 11 sera 7 65] Sc.Lev.|Nuvolo, Ventic. | 7 mat. x 72). |P.Lib:jNuv. neb. . Vento 6| mezzog. |27. 50 P. Lib.|Sereno. V. imp. 11 sera 68 P. Lib.|Ser.con neb. Vento 7 mat. . 69 Os. Sc.|Ser. con neb. Ventic.i 7| mezzog. |27. 11, 60 Lev. |Coperto. V. imp. II sera Tram. ‘OSSERVAZIONI METEOROLOGICHE FATTE NELL’ OSSERVATORIO XIMENIANO DELLESCUOLE PIE DIFIRENZE Alto sopra il livello del mare piedi 205. Ser..con neb. Ventic. . e ———_ -_————_—{_ _ ________—P— Pm = i s Hi, | o da luo) > der o Sy 6 SIE A N 3 8 " d dB 355.8 Stato del cielo n L s So 3 3 a o 3. 5 ° di 9 | 7 mat. |27. 11,8 17,8 16,6| 66 Tram. {Ser. con nnv. Ventic. 8| mezzog. 27: 11,8 18,5) 19;5| 49 | Tram. |Ser. con nuv. V. imp. pa Sera. SA 19,1 1g,2| 62 | Tram Sereno. Ventic. 7 mat. (27, 11,9 18,7: 18,0) 64 Tram. |Serenissimo. Ventic. 9| mezzog. !28. 0,0 19,5] 20,41 52 Greco |Sereno. Ventic. _| 11 sera 128. 0,0 20,4] 20,0! 62 'Gr. Tr.|Sereno. Calma | 7 mat. |28. 0.3 19,5 18,0] 75 Scir. |Serenissimo. Calma ro. mezzog.|28. 0,1 20,6] 21,8] 58 Maest. |Ser. con nuv. Ventic. ri sera |28. 0,6. 253 19172 Lib. |Ser.conneb. Calma 7 mat. |28. 0,0 20,0). 17, 17,8 77 Sc.Lev.|Nebbioso Calma 11) mezzog.|28. 0,0 19,5]. 19,5] 69 Sc.Lev.j Nuvolo. Ventic.|B! JI sera |27. 10,0 19,1 19,1] 80 Sc.Lev. Ser. con neb. Ventic.| 7 mat. |27. 98 18,7| 17,3] go 0,10{Gr.Lev Nuvolo. Calma 12] mezzog. 27. 10,0 175) 17,3) 73. Pon. M. Nebbioni. Vento XI sera ‘27. 10,7,| 17,8) 16,9 4 Os.Lib. Ser. conneb. Ventie. (7 mat. ‘27. 10,0 16,9] 15,8] 80 “— |Ostro Ser. con neb. Calma 13] mezzog. 27. 10,3 17,3] 18,0] 60 Ponen. | Nuvolo. ‘ Ventic. \ tt sera 27. 10,6 17,3] 16,9] 68 0,o2[Lib. Ser. con neh. Calma 7 mat. fue 10,5 16,4| 14,2! è Maest. |Coperto. 'Nebbie!! 14| mezzog. 127. 10,9 16,4! 16,0 i Maest. |Nnvolo. Calma Ji Sera ‘27. (1,0 16,9 193! i. Ostro |Ser. con neb. Ventic. . |y mat. ‘27. 11,0 P, 16,4 — 16,0 = i Ostro ‘Sereno. Calma 15) mezzog. 27. 11,0 17,8) 20,1 53| P. Lib. Ser. rag. Vento ri sera 28. 0,3! 19! 16,4| 80; Os:Lib. Nuvolo. Calma ‘gimat. (28. 0,0 | -18,0! 16,4) Sal Ostro peer Calma 16| mezzog.|27. 11,8 19,1] 20;1j 64 Tram. 'Ser.con nuv. Ventic. ri sera |27. 11, 3 _ 199! 17,8] 68|0,02|Tram. |Ser. con nuv. Calma ® mat. 27. 10,6. 19,1 17,8) 70 Greco | Ser. con nuv. Ventic.'f| 17| mezzog.|27. 10,6 19,2! 1g,ij 65 Tram. Ser. con nuv. Ventic.|Bi Il sera |27. 11,0 cagn]_ __147|_70] 0,01 Gr. Tr. Ser. con nuv. V.forte | 7 mat. 27. 11,3 | 17,8 — 14,8] 66] Tram. |Bel sereno. Vento |Bi 18 | mezzog. |27. Tr,0 18,4] 18,4) 47 Tram. |Ser. a piaz:. Ventic. i deri S 27/1133 18,7] 15,9) 7t 0 (ing Lib. |Bel sereno. Ventie. {mat 127. 10,9} 17,3) 142) 75 Dea, Ser. con nuv. Ventic. 'f| E 19 mezzog. 27. 10,5 18,2! 19,1) 60 Lib. |Nebbioso. Ventic. | ri sera 27. 10,6 | 18 sal 14,092 __ATri M. - ]Nuvolo. Ventic.! > el Penna, f.ul pal | | vi ermom da to D \e È S| P|S]gslsò i 5 Ora È 5 A 3 È 5 2. 2 Stato del Cielo Ila O Re ca a 1) 7 mat. |27. 10,6 17,3] 13,8| 95 Letra Nebbia. Ventic. l20| mezzog. [27. 11,1 17,3 16,9] 50 Lib. |Nebbioso. Ventic. | | 11sera nto 11,7 | 177] 15 74| Lib. |Nuv. rotti. Ventic. _| 7 mat. 11,9 PERO — 148 71 Scir. {Ser. con nuv. Ventic- \|ar| mezzog. 28. 0,2 17,6 18,4] 58 Maest. |Ser. con neb. Ventic- | | 11 sera |28. 2,6 18,7 16,7) 63 Scir. |Nebbia. Ventic: | |7mat. [28. 0,4 17,6) 16,4| 70 iLev. {|Ser. nebb. 122| mezzog. |28. 0,0 IQ,I| 19,5] 59 iScir. |Ser. con nuv. | 11 sera |28. 0,3 19,5} 16,9] 72 P. Lib. |Nuvolo. 1 7 mat. |27. 11,5 18,2] 16,4] 85! 0,20 Ostro. |Coperto. Pioggia \{23| mezzog. |27. 11,8 18,0] 17,8| 69| 0,08|Ponen.|Nuv. rotti. Vento || | vr sera 28. 0,0 18,2] r5,i|] 75 Ostro |Ragnato. Ventie, I | 7mat. |27. 11,4 16,9] 15,1] 69 Lib. |Nuv. rotti Ventic. \|24] mezzog. |27. 11,4 17,3] 16,9] 55 Lib. |Nuvolo. V.for te, 1A 11 sera |27. 11,6 17,3 15,5]. 66 P. Lib.|Nuvolo. Ventic.: I ‘7 mat. 27. 11,9 16,91 15,5] 78 Sc.Lev|Sereno. Ventic. ||25 mezzog. |28. 0,0 17,0 17,8] 55 Lib. |Nuv.rotti. Ventie. {ru sera |28. 0,0 17,8] 16,0] 8r|]o,rg|Lib. |Pioggia. Vento || |7mat. |27. 114 17,8] 15,5) 85[0,01[Ostro 'Nuvolo. Calma mezzog. 127. 11,4 17,8] 17,5) 82| 0,55|Ostro |Nuvolo. Calma 1 sera |27. 17,6 15,1] 75| o,o2]Lib. |Ser. neb. Calma | i |7mat. |27. 114 16,6] 14,6) 82] |Scir. |Nuvolo. Ventie. 27| mezzog. |27. 11,3 17,9) 18,0] 70 Lib. |Ser.con neb. Ventic. | 1rsera :27. 110 15,2 16,4| 9 P. Lib. Nebbioso. Calma | I. 7 mat. an 10,2 17,3] 16,4 74 Sc.Lev {Ser.con neb. Ventic. ||28| mezzog. la 99 18,7] 21,3| 56 Os. Sc. {Ser. con neb. V.forte | Y ri sera lic: 19,71 19,1} 74 Ostro |Nebbioso. Ventie. 7 mat. na 11,6 19,5] 18,9; 72 Ponen. {Ser. nebb. Vento 29] mezzog. |23. 0,5 20,0 20,0! 58 Lib. |Ser. nebb. Ventic. | risera |28. 1,7 20,0] 16,9) 72 Os. Sc. [Sereniss. Ventic.: {7wmat. |28. 2,0 18,71 16,4| 79 Scir. .. | Bel sereno. Calma {Bo mezzog. |28. 2,0 20,4} 20,6| 55 Lib. |Sereno. Ventie. ri sera |28. 1,8 20,61 18,7) 64 P. Lib. |Sereniss. Calma vi mi e ' © sepsi diga Pliria 4 sò ud utafa culo elia CLIORA Lisi < Roi ce] dro 7 «beato chit CEL COLUI PICENI JOE] did NE Una © PIL: dio sent ’ovuo tod) vaio) ro tai , mA Poe” x ta indi fio in) dont Cpt TINA, RETTE inidido/t) 194} CO” IR 2 - è , i u Tei , * * (11872 di Aidsa 168 IONI dv ud nr ion cid) I N n F 3 tra lagtd} » modi i ue MITI Lv LIO sth ti dir a L) nto, di i A È pt i 7 ; i n î 4 \ ' i blù sr Ai RATA Malcd » pAATA salt Varese Orton Piz] to | { Pani | MERE: to} I EINE. capi Pa "0 dii | crt “ Ì f I sta Ni rr Motta moagant È La pr Bet Hi lai vr dopo sot (ONÙ) e} «gettoni, i L,o. VD; EYE i. fono V acehi te 200 pit né; «Mean |A |'Beri set poliotine L 0 MINA Î Mu Et tk «faro iN î (Nani ii de pai ei aaa tpisa Rane. 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Samuel Hearne 4 per ordine della compagnia della baia d' Hudson fece tre viaggi dal forte del principe di Galles situato sopra la stessa baia all'oceano settentrionale, per scuoprire il fiume detto Miniera di rame, le miniere dello stesso metallo, un passaggio verso il nord-ouest, ec. Essendo partito il di6 no- vembre 1769, portò seco treggie, tende, e di più vari in- diani uomini, donne, e bambini. Tante bocche consuma- rono le di lui provvisioni in un mese ,'ed egli abbando- . mato e derubato ancora dagli indigeni, se ne tornò al forte di York. Il dì 23 febbraio 1770 partì di nuovo con altri compagni in numero di cinque, e prolungò il suo len- .T. XI. Agosto I 2 toepenoso cammino N di DR 10.6 di'agosto seguente. A vendo avuta la disgrazia di Fomperè.il:suò quadrante, tisolse di tornar di nuovo al luogo d’ onde era partito. Sebbene non avesse oltrepassato.il Guida 65.mo di latitudine, nè si fosse dilungato dalla traccia comune dei negozianti indiani, si ridu con le suè genti a dare estremità, non ct ordinariamente , ed in poca quantità, che daini e pesci crudi , oppure la carne cruda del bue muschiato, cosa an- cora più stomachevole. « Poche:paroale , dic’ egli, basteranno a dare un’ idea giusta della nostra situazione: per ben due volte ci è ac- caduto di passare fino tre giorni e tre motti senza mangia- re, spesso di fare astinenza. totale per due giorni,;. ed una volta di non avere per sette giorni che cuoio vecchio, ossa bruciate, ed una cattiva bacca detta cran- berry. In queste occasioni ho veduto gli indiani esaminare i lorg abiti consistenti ; principalmente in. pelli, per giudicare qual parte sacrificar ne potessero con, minore incomodo alla fame. che li divorava; ed ora sceglievano un pezzo; di pelle di daino , vecchia e mezzo cuni , ora ‘ùnspaio» di vecchie scarpe. In Europa si dura fatica a credere tali estremità; ma le persone versate ;nell’istoria della baia. .d’ Hudson , e quelle le quali sono al fatto dei bisogni con cui gli abitanti*dei paesi che la circondano spesso debbon combattere, mon'scorgono in queste relazioni che casi comunissimi del vivere indiano, il quale ne presenta tal- volta d’assai peggiori; quelli cioè, in.cui gli uomini: sono! costretti a divorarsi l'un l’ altro ». ubi Il terzo viaggio di Hearne cominciò nel darti bre 1770, ed ebbe-in esso per compagno un. capo indiano detto Matonabbi, con alcuni fra i di lui uan e. «i uomini e donne; ©. ©» ol esibi « Matonabbivattribuiva tutte la mie intrcii di- sgrazie alla cattiva condotta delle mie guide; ed il partito da me preso di non condurre meco donna veruna; era seconda. | 3 lui il motivo principale di tutte le nostre privazioni. Quan- do gli uomini son carichi di peso, diceva egli, non possono cacciare nè camminare a gran distan za; ese hanno la for- tuna di uecidere molto salvaggiume, chi lo porterà loro? Le donne, soggiungeva, sono fatte per il lavoro ; una sola può portare e tirare quanto due uom ini insieme. Esse alzano ancora le nostre tende, fanno e rassettano i nostri abiti, ci tengono caldi la notte ec. In somma non v'è peg- gior cosa , che viaggiare per lungo tempo e lontano senza la loro assistenza. Quantunque faccian tutto, sono nudrite sempre bastantemente , e coni mezzi più facili : mentre si occupano nel preparare i cibi, basterebbe loro di lec- carsi le dita per calmar l’appetito, e sostenersi in tempo di penuria ». Hearne , seguite per qualche giorno le antiche tracce , prese nel suo terzo viaggio una direzione più occidentale. Cammin facendo , incontrò più bande di indiani del nord; e giunse il dì 8 aprile 1771 al lago Zheleweyazay- eth (collina del pesciolino ) situato un poco al nord del parallelo del forte detto il principe di Galles. Ivi sì egli che Matonabbi si prepararono, a seguire una direzione set- tentrionale, e riprendendo il cammino al giorno 18 apri- le, giunsero nel 5 di luglio ai monti Story (di pietra ), e nel 14al fiume detto Miniera di rame. Sulle rive di questo i selvaggi avean trucidati 30 esquimesi. Hearne dice di aver esaminato il fiume fino alla imboccatura; asserisce che è pieno di cascate e bassi fondi, che è appena navigabile per una piccola barca , e che passa sopra un banco per gettarsi in mare. Soggiunge che il flusso è sensibile soltanto ad una piccola distanza dall’imboccatura in questo mare , che egli suppone essere un mare interno, come la baia d’ Hudson. Lì soli prodotti vegetabili di questa trista regione ram- mentati da Hearne sone salci nani, pini deformi, il wi- shacampukey , col quale gl’indigeni fanno una specie di tè, l’akiaschepuck che serve loro di tabacco, i cransber- 4 ry,ed alcuni arboscelli senza frutto: in materia di anima+ li, egli indica il bue muschiato, il daino , il lupo, l'orso, il wolwatme , la volpe , la lepre delle alpi, lo scoiattolo , l’ermellino, il topo , la civetta bianca, il corvo; la per- nice, ed un uccello del genere della civetta , chiamato l’avvisatore , 0 il porta spavento. . Gli juan Copper (di rame) assicurarono Hearne, che il mare del nord presso la spiaggia era sempre sgombro dai ghiacci; ed il suo ultimo viaggio ha provato, che il terzo di questa strada, la quale al mar conduce, era una conti- nuazione di laghi. Quanto alla miniera di rame, egli la pone 29 0 30 miglia al sud-est dell’imboccatura del fiume dello stesso nome, e dice , che è solamente un miscuglio confuso di macigno e sabbia, con qualche rara mostra: di minerale. Ritornò al forte detto il principe di Galles il 29 giugno 1772 dopo un'assenza di 18 mesi e 23 giorni, e dopo aver veduti morir di fame o di stanchezza alcuni degli indiani che lo accompagnavano. Le relazioni di lui, pubblicate a Londra-nel 1799, lo palesano straniero alle scienze ; ma trovansi in esse molte particolarità interes- santi per la novità del soggetto, una quantità di aneddoti, e un prospetto dilettevole della vita selvaggia. Alessandro Mackenzie pubblicò nel 1801 alcuni viag- gi da lui fatti nel 1789 e nel 1793 da Montreal per mezzo il continente dell'America settentrionale,all’Oceano Glaciale e al Pacifico. Pervenne, siccome Heame, al mar del nord sotto il 76° grado di latitudine, per una direzione più oe: cidentale di quella seguita dal suo antecessore; ma viag- giò quasi sempre per acqua. Essendosi imbarcato nel gior- no del 3 giugno 1789 al forte Chipewyan sulla costa meridionale del lago delle montagne (latit. settentr. 58. 49; longitud. occid, 110.° 30’) navigò sul quel lago, sul fiume della Pace, su quello detto dello Schiavo , sul lago dello stesso nome, e discese il fiume che porta il suo fino al mare, tratto dalla corrente con rapidità. così grande » 5 che si trovò al termine del suo viaggio al 12 di luglio. Disceso a terra al grado 67.°.7-' di latitudine settent., dal punto più elevato d’un’ isola del lago in cui il fiume fini- sce rimirò intorno, e vide masse di ghiaccio che si di- stendevano dall’est al sud-ouest. « Quanto poteva portar lontano lo sguardo verso il sud-quest , noi distinguevamo debolmente una catena di montagne, che si estendeva verso il nord più di 20 leghe di là dal ghiaccio. All’est vedemmo molte isole, ed avan- zandoci scontrammo un numero considerevole di pernici. bianche diventate brune; bei pivieri, civette bianche, gabbiani, grui, cigni, oche, ed altri uccelli in quantità. Prendemmo sette pesci della specie detta incognita, i quali erano di molto disgradevol sapore; ed in contrac- cambio uno delizioso, grosso come un’ aringa , che proba- pirate è il repling della baia d’ Hudson ». Mackenzie soffrì molto nel ritorno del suo viaggio, a durò in tutto 102 giorni. Nel 1819 fu affidato dal governo britannico al capi- tano Franklin l’impresa difficile di esaminare per terra la. costa settentrionale dell’ America partendo dai lidi della baia d’Hudson, guadagnando l’ imboccatura del fiume detto Miniera di rame, e dirigendosi verso l'est per fa- ‘ cilitare la scoperta di un passaggio al nord-ouest; ed egli s’imbarcò il 23 maggio a Gravesend sul vascello il Prir:- cipe di Galles. Le istruzioni date a questo ufliziale portavano: 1.° Di determinare le latitudini e le longitudini . della parte boreale dell’ America settontrionale, e la di-. rezione di quella costa dall’imboccatura del fiume detto Miniera di rame, fino all'estremità orientale di quel 3 continente ; 3 2° ‘Di ‘rettificare la ‘geografia dii della parte boreale dell’ America settentrionale , danidosi gran premura per determinare correttamente la latitudine e 6 longitudine di tutti i punti notabili-sulla strada; e di ‘tutte le baié; rade, fiumi, capi, ec. che potessero trovarsi sulla costa del continente ; 3.° Di lasciare, avanzandosi lungo quella costa, dei contrassegni visibili da lungi del suo passaggio»nei luo- ghi, in cui. i vascelli potessero entrare, e in:cui potesse mandarsi una scialuppa; con documenti sulla natura delle coste, i quali potessero essere utili al capitano Parry;: 4. D'indicare nel giornale del suo viaggio il:gra- do di temperatura almeno tre. volte in 24 ore; come pure il vento, il tempo; e tutti i fenomeni meteorologici; di non trascurare veruna occasione per osservare e.no- tare le variazioni della bussola; e l’intensità della' forza magnetica; di prestare particolare attenzione al. gene- re e al grado d'influenza chel’ aurora boreale potesse avere sulla bussola , e d’ osservare se questo. fenomeno fosse accompagnato da rumore ec. Sembra pure ‘che il capitano Franklin avesse l'ordine di visitare il terreno lungo le rive del fiume Miniera di rame, donde gli in- diani avevano estratte: le verghe di questo metallo da:lor recate allo stabilimento della: baia d’ Hudson., Nel dì 30 agosto la spedizione giunse all fattoria di York posta su questa baia, e l'opinione unanime così del governatore come dei membri della compagnia dello:stes- so nome, è dei soci di quella. del nord-ouest., i quali. si trovavano riuniti su quel punto, determinò. il capitano Franklin'a portarsi al lago detto dello Schiavo! per mezzo l’interno del paese, per la via di Cumberland-house, e la catena dei posti intermedi. L’ impossibilità di procurarsi guide e.cacciatori lungo la costa; e di provvedersi di un naviglio atto a portare la spedizione verso il nord. fino alla baia di Wager, rendeva impraticabile la. via retta. Gli esquimesi avevano da un mese lasciato Churchill, nè sì poteva reclutar fra loro veruno interprete fino alla: pros- sima primavera. lag 1 7 | Passati alla fattoria di York ‘dieci giorni în prepara: tivi, il viaggio nel paese interno dell'America i incominciò il di g settembre, e le difficoltà nate nel principio dovet- tero essere un ‘molesto presagio delle pene, degli affanni e'delle infelicità) che ne accom pagnarono la continuazio: ne. La corrente era. troppo rapida per poter ‘servirsi dei i remi; gliuomini incaricati ‘della condotta di una grandis- sima barca ‘somministrata dal governatore della fattoria erano costretti di tirarla a braccia ‘con i cavi, operazione resa difficile dal ‘pendio delle rive dei fiumi, dalla diffi: coltà ed umidità de Ile strade, e daglialberi, i quali impe- divano il passo in molte direzioni. Non sì può immaginare quante correnti, quanti scogli e bassi fondi bisognò passata ne 44 giorni che vennero ’impiegati per superar ‘la di- stanza (‘230 leghe) dalla fattoria di York ‘a Cumberland- house, la cui latitudine venne fissata dai‘cronometri a 53,° 56,’ 4oy ela PO a 102,° 16; db n all’occidente di Greenwich: 1071689) © Gli stai rovi della‘ ‘compagnia della. baia d’Hud- son ‘e del nord:cuest a Gumberland-hovse ; ‘sono ‘così de- scritti dal capitano Franklinf:1s10;im9t iL oîne «All'estremità superiore di un'isola sura, Ta pico divi de il lago Pine-island' ‘dal'fiume Saskatchawan ; èd ùna lega ‘in ‘circa lungi ‘da quest ultimo ‘îin’una dintidde al'‘nord-cuest;:sono | poste le case contigue ‘delle due com: pagnie, ‘costrutte di legno con'’molti comodi; circondate da alte palizzate, e fianchegg giate da' bastioni” ‘parimente ‘di legno. La ‘difficoltà + di” rbpbriare il'’vetro ‘hell’ interno dell’ America: settentrionale ha’ impedito’ dî farite usò nel: le finestre , ‘in! cui èstatà ‘malamente sostituità dna’ perga: mena: fatta' senz’ arte ‘verama’ da' femmine! del' ‘jpabse ‘comi pelli idi‘daini. Il terretto che circonda Cumberland! house è basso) ma la pietra'da ‘calcinà; di cai è ‘méscoltito! "în quantità', lo rende buono, Capace-di ‘pr odat grano” in ab” boridantà, ed.ogni spécie di legumi: Molti ètbaggi giù vi 8 sono stati portati ad una gran perfezione; e le patate ugua- gliano quelle d'Inghilterra. 1 prodotti spontanei della na- tura darebber da vivere assai bene a qualunque animale d'Europa. I cavalli si cibano perfettamente ancor nell’in- verno , e se si volesse procacciarsi del fieno, cosa facilis- sima, sarebbe lo stesso de’ buoi. I maiali ancora vi irie- scono bene, ma esigono di esser tenuti caldi nella dura stagione. Da tutto ciò risulta che quelli i quali vi risiedono, potrebbero con qualche attenzione rendersi. meno dipen- denti dagli indiani per la propria sussistenza , e liberarsi dall’inquietudine in cui assai spesso li pone la poca for- tuna dei cacciatori. Il bisogno continuo di legname ha di- radato assai di boschi le vicinanze delle case, e. per:conse- ‘guenza il paese che le circonda mon ha veruno allettamen- to; soprattutto nell’inverno pochi enti animati vivificano la scena; una,volpe, una martora; un'lupo, e qualche uc - cello, come corvi, gazze , pernici , picchi. ec. ne rompono solamente di tanto in tanto l'uniformità. Sebbene il ter- mometro notasse: talvolta -all’ aria aperta 30 gradi sotto zero, pure al nostro uscir di casa non soffrivamo molta dal cambiamento di temperatura,» . Nel tempo della sua dimora a Cumberland-house, che durò fino. a’ 18 gennaio :,1820, il ‘capitano Franklin ebbe le più favorevoli occasioni di acquistare una giusta idea del carattere, dei costumi; usi ed opinioni degl’ .in- diani creis, abitanti di quel distretto, di cui quel. posto fa parte. Essi sono dispersi sopra un’ estensione immensa di paese; poichè estendendosi il distretto fino a 150 miglia dall’est all’ouest .lungo le rive del Saskatchavan ;ied altrettante dal nord al.sud, e contenendo più di 20;000 leghe quadre; non. vi si.trovavano allora che 120 indiani cacciatori. Pochi di essi hanno più mogli; la maggior parte una sola, ed alcuni son celibi. Il numero delle. consorti non eccede quello de’ cacciatori. Esse si maritano assa! giovani, allattano per più anni i loro figli, e di più si 9 veggono esposte alla fatica, e spesso alla fame. Essendo in conseguenza pochissimo feconde, una per l’altra non ha ‘ più di quattro figli, due de'quali arrivino alla pubertà. Gon questi dati il numero degl’individui di ciascuna famiglia può valutarsi a cinque, e la popolazione totale del distret- to a 500. Questo popolo è vano, leggiero , indolente; non prevede, fa poco scrupolo fra la verità e la mensogna, ma è osservator severo dei dritti di proprietà, suscettibile di amicizia e di altre dolci affezioni, molto ospitaliero, buono per le donne, ed inclinato decisamente alla pace. Ogni Cree teme la possanza magica e medica del suo vicino , e vanta nel tempo medesimo la sua abilità nell’una e nell’altra arte. Io sono come Dio, è un espressione comunissima fra loro» e provano la lor pretesa divinità con ciarlatanerie, come può credersi, le più grossolane. Così un sacco di medicine, in cui sia un pezzo d'indaco , vitriolo , o vermiglione, di. venta in mano di un mago distinto sorgente tale di terrore per il rimanente della tribù, che lo mette in stato di im- pinguarsi con le fatiche di uomini ignoranti , superstiziosi, e delusi. Nel viaggio del capitano Franklin è raccontato .un piacevole aneddoto di un impostore di tale specie. « La rapacità di questo sciagurato privava i suoi com- patriotti di quel bisognevole, di cui non erano sempre certi; ed un povero cacciatore, languiva, si muoriva in conse- guenza dei terrori inspiratili dalle di lui minaccie. Il pos- sente mago venne al forte di Cumberland, ed incominciò dall’ esporre pomposamente il suo.sapere operare. Fra le altre assurdità pretendeva, che avendo le mani legate strette. quanto è possibile, se fosse messo in un recinto magico ( conjuring house ), ei si sarebbe sciolto con l’a- iuto di due o tre spiriti familiari, che aveva a’suoi ordini. ‘Fu preso in parola, ed in caso che in ciò riuscisse , gli fu promesso per ricompensa un. cappotto. Il recinto in cui volle essere, fu fatto secondo l’ uso con quattro salici con- -ficcati in terra, le cime dei quali furono attaccate ad un to cerchio alto dal suolo 6 od 8 piedi. Legato strettamente a dovere'con una corda lunga alcune ‘braccia; la quale gli circondava più volte il corpo ele membra, il preteso Dio fu posto nel recinto magico, che aveva ‘al più due piedi di diametro ; e nascosto ai nostri occhi da una pelle di dai+ no gettata sopra i salici. Egli incominciò allora ‘a cantare con un'tuono assai monotono una specie d’ inno. Gli al- tri indiani, i quali sembrava che dubitassero se ‘il potere del demonio potesse rivalizzare con quello di ‘un uomo bianco, si erano posti intorno al recinto attendendo con in4 quietudine il risultamento. Per molto tempo non accadde cosa veruna di notabile. Il mago continuava di. tanto im tanto il suo inno, e quelli di fuori lo ripetevano. Passò così un’ ora e mezza; ma finalmente la nostra attenzione, che incominciava a stancarsi, fu destata da una scossa!violenta del recinto magico. Subito gl’ indiani bisbigliarono. fra di loro , che un demonio erasinascosamente ‘introdotto sotto la pelle; ; ma sì riconobbe che lo strepito è ila scossa pro- venivano dal mago, il quale entrato nudo sotto i salici'in rigidissima temperatura , rabbrividiva e dibatteva tutte le membra; i denti medesimi ‘gli scricchiavano ‘dal gran freddo, ch° egli ebbe ciò non ostante il ‘coraggio di sop- portare per un’ altra mezz’ ora, ma alla fine di essa do- mandò grazia. Dai legami formati: precedentemente dai suoi ‘patriotti non'gli era stato ‘difficile di sciogliersi; ma quelli del governatore Villiams, esperto; qual vecchio uo- mo di mare, nell’arte di legare le corde, erano molto più ‘solidi. Questa prova fece cadere il credito del mago, îl quale svergognato uscì ‘dal ‘forte , nè ‘osò ‘più com- parirvi ». ‘La spedizione impiegò 64 giorni per rendersi ‘da Cumberland-house al forte Chippewyan, d’;ionde' si è ve- duto che era partito Mackenzie: Questo viaggio di 8 :0.900 miglia offerìun'alternativa di circostanze felici e disgusto- ‘se. Fra queste ultime v’ era la noia di camminare con cal- =c-e--éÉé-—.--.————__t€É€-m tt zature fatte per la neve, pesanti tre libbre, e continua- mente attaccate alla noce gonfia del piede, e ai piedi me- desimi scorticati. Aveido lasciato il forte Chippewyan con tre barche e viveri per ‘un giorno , si giunse al forte Provvidenza, ultimo stabilimento dei negozianti in quella direzione non senza aver dovuto superare grandi difficoltà prodotte dai laghi , fiumi, e trasporti di bagagli. Secondo le osser- vazioni del capitano Franklin, la latitudine settentrionale di questo forte è di 62,° 17; 9," e la longitudine occiden- tale di 114,° 9, 28,” la variazione della bussola 33,° 35,' 55," all’ est. Una rivista fatta dopo il mezzo giorno dei 2 Agosto ‘1820'della spedizione che lasciò quel dì il forte Provvidenza; fece conoscere esser ella composta di 6 in- glesi, im viaggiatori o cacciatori del Canadà, di tre inter- petri, e tre mogli di altrettanti viaggiatori condotte per fa- re ‘agli uomini abiti e ee negli stabilimenti d’ in- vermosi . avis sof La'spedizione accompagnata da Akaitcho capo di un ta de’suoi indiani ‘e’uomo di molta considerazione, sì diresse per'mezzo un paese non ancor visitato da verun europeo verso il fiume Miniera di rame, ed arrivò il dì 20 Agosta ad un luogo ; in cui il suddetto capo le propose di passar l inverno. La posizione riuniva tutti i “vantaggi desiderabili. Vi fu costrutta ‘una casa di legno di pino sul- la sommità della riva’ scoscesa di un ‘piccol fiume, che presentava una bella veduta dei siti circonvini. La lun- ghezza del: viaggio da Chippewyan ; fu valutata 553 mi- glia. La nuova residenza fu'‘chiamata il forte Impresa. Fi- noial 14:Giùgno 1821; in*cui essa fu evacuata , il capita- no Franklin non si permise che una gita al di fuori, limi- tata dal rigore del tempo; egli si avanzò verso lo scopo de’ suoi desideri con tre uomini del Canadà , due ‘esqui- mestj e'due cacciatori indiani. L’avea preceduto il dottor Richardson icon un'altro Adlistaccamertto$ ima ambedue 12 si riunirono poco dopo , e furono ricondotti al forte dal freddo - Più tardi si arrivò al fiume Miniera di rame, la di cui navigazione fu riconosciuta meno difficile di quello che si Posta Ma l'impossibilità di risalirlo dal mare, e la mancanza di legname per formare uno sublima parvero ostacoli insuperabili , perchè il rame raccolto in quelle parti potesse mai i diventar oggetto di utile speculazio- ne. Le montagne che lo celano, variano in altezza da1,200 fino a 1,500 piedi. Ventuna persona della spedizione, cioè gli liliviali, alcuni fra i viaggiatori e tutti gl’ indiani, vi andarono a cercare i saggi del minerale, ma ne tro- varono pochissimi e piccolissimi, dopo aver percorso perno- ve orejuno spazio considerabile di terreno. L’ uniformità di queste montagne è interrotta da stretti valloni attraver- sati da piccoli ruscelli, ed i migliori saggi si trovano fra 1 sassi di queste valli. Sembra che. gl’ indiani scavino in quei luoghi, dove veggono che qualche sostanza, la qua- le imita la marcassita , spunta fuori dal terreno : non hanno altra regola per dirigere le loro investigazioni , nè hanno mai scoperto il metallo nel suo. posto ori- ginale . La ‘spedizione essendo giunta il 15: luglio 1821 poco lungi dal mare, fu abbandonata dagli indiani , i quali; ri- tornarono alle lor case. Passate alcune carità , il fiume diventa più largo e navigabile perle barche, scorrendo frà alcuni banchi di una sabbia di alluvione. Dove si unisce al mare, fu formato un accampamento sulla riva occidentale a 67,° 47; 30," di latitudine settentrionale, ed a 115;° 36," 49, di longitudine occidentale, Ivi il sig. Wenzel com- missionario della Compagnia del nord cuest abbandonò in- sieme con dieci del Canadà la spedizione per aridare al forte Impresa; perciocchè il capitano Franklin ‘li conge- gedò, per diminuire quanto era possibile il consumo dei viveri. Le persone che restarono furono venti, compresi 13 gli uffiziali. Valutavasi 334 miglia verso il settentrione la distanza del forte Impresa dal fiume della Miniera di rame. Le barche ed i bagagli furono strascinati sulla neve e sul ghiacccio:per 117 miglia da questa distanza. Il capitano Patio i incominciò nel dì 21 luglio il suo viaggio sul mar polare, e fece da 5 a 600 miglia lungo una spiaggia intieramente libera da’ ghiacci, visi- tando le baie, imboccature ( irz/ets) e fiumi, come ce ne ammaestrano i passi seguenti del suo giornale. « 1 agosto 1821. Questa mattina a due ore i nostri cacciatori sono ritornati con due piccoli dainie un orso bru- no. Augusto e Giunio sono comparsi nello stesso momen- to dopo aver fatte 12 miglia risalendo un fiume, senza scuoprire orma di abitanti: noi abbiamo avuta l’occasione di soddisfare la nostra curiosità relativamente all’ orso tanto temuto dagl’ indiani, sulla forza e ferocia del quale avevamo uditi sì spaventosi racconti. Si trovò che questo, di cui parliamo, era un maschio assai magro, di un color bruno giallastro, e non più lungo di un orso ordinario. Aveva tentato debolmente di difendersi, e lo avevano avuto senza gran pena. La carne era stata portata alla ten- da, ma molti de’nostri hanno ricusato di mangiarla, sup- ponendo dalla magrezza dell’ animale che fosse stato malato. Gli uffiziali meno difficoltosi hanno fatto lessare le zampe, e le hanno trovate eccellenti ». « Il dì 5. Dopo aver fatto questa mattina più miglia a remi in una imboccatura (inlet) , abbiamo avuta la mor- tificazione di vederla finire in confondersi con un fiu- me di cui non abbiamo potuto determinar'la grandezza; essendo la dilui foce ( latitudine al nord di 66,° 39, lon- gitudine ‘all’ouest di 107,° 53, ) bloccata da vari bassi fon- di. Ho chiamato questa corrente Back in attestato di ami- cizia per l’ uffiziale di questo nome, che appartiene alla spedizione. Siamo stati alquanto consolati del tempo per- duto per esaminare l’ imboccatura, dalla fortuna che Giu- 14 nio ha avuta di uceidere un piccolo bove muschiatoze poi Ih incontro di un orso che ha subito la stessa sorte. Era una. femmina in molto buono stato , e i nostri uomini del Ca- nadà, non sazi mai di carne grassa, se ne fecero. un deli- zioso banchetto ». « Questa sera ci siamo accampati sulle rive di una baia di sabbia, ed abbiamo tese le nostre reti. Molti salici secchi , che abbiamo trovati in quantità lungo la baia, ci hanno forniti i mezzi di cuocere l’ orsa , la di cui carne è stata giudicata superiore a tutto ciò che avevamo gustato sulla costa. Le nostre reti hanno presi pesci di molte specie, rotondi e piatti, come trote color di sermone, aringhe, argentine, tittamgs, ed altri simili alle passere, ma .col dorso ricoperto di escrescenze di natura cornea ». Lo stato di perfetta libertà in cui il capitano Fran- klin ha ritrovato il mar polare, e l’ assenza quasi totale dei ghiacchi, danno luogo a sperare che il capitano Parry riuscirà nella sua difficile impresa. Se può entrare in que-, sto mare per la baia la Ripu/sa, per lo stretto di /Wager, o in qualunque altro. modo, è chiaro, che la costa del continente settentrionale è libera fino allo stretto di Be- hring (1). Le osservazioni del capitano Franklin sulla pro- babilità della riuscita del suo amico e dell’ apertura di un passo al nord ouest, presentano un interesse affatto par- (icolare. « Le nostre ricerche, per quanto hanno potuto di- lungarsi, sembrano favorire l’opinione di coloro, che ere- dono questo passo esistente e praticabile. La linea generale della costa si distende probabilmente dall’est all’ouest nella latitudine assegnata al fiume Mackenzie, allo stretto in cui è entrato Kotzbue, e alla baia della Ripw/sa; nè si può (1) Dampierre ne’ suoi viaggi stabilisce sopra concludenti argo- menti, che il passo nord ouest debbe essere cercato dall’ cuest al- l’ est, non dall’ est all’ quest. 15 per mio avviso dubitar punto, che un mare non prosegui- sca secondo questa linea di direzione, o verso la medesi- «ma. La presenza delle balene su questa parte della costa, dimostrata idalle ossa di questo cetaceo da noi trovate "i | Esquimaut-Cove, può essere riguard ata come un argomen- to in favore di un mare aperto; ed una comunicazione di questo mare con la baia d’ Hudson è resa più probabile per l’ abbondanza de’pesci sulle coste che noi abbiam vi - sitate, e su quelle al nord del fiume Churchill. Io voglio più particolarmente indicare il capelin o sermone artico, che noi trovammo'in quantità nell’iz/et, o imboccatura di Bathurst, e che abbonda, come. ce lo ha detto: l’ esqui- mese Augusto, non solamente nelle baie del suo paese, ma ancora nei golfi della Groenlandia ». ..« ‘La parte del mar polare da noi solcata è naviga- bile per vascelli di qualunque grandezza. Il ghiaccio da noi scontrato dopo di aver passato Detention Harboun, non avrebbe trattenuta una grande scialuppa. La catena delle isole presenta un ricovero contro il grosso mare, e. vi sono buone piaggie da gettarvi l’ ancora a distanze con- venevoli. Ho grande speranza , che l’abilità e 1’ attività del capitano Parry mio amico ben prestoavranno risoluto il problema del passo al nord cuest. La sua intrapresa è cer- tamente difficile, edovranno consumarvisi due o tre stagio- ni anche nel caso di un buon esito; ma ho tanta fiducia nella di lui perseveranza e talento in superare gli osta- coli, nella forza de’ suoi vascelli ed abbondanza delle lor provvisioni, che ho poca inquietudine per lui. Doven - do radere la costa d’ America, troverà nella primave- . ra; prima che la rottura dei ghiacci gli permetta di con- tinuare il viaggio, dei branchi di daini, che accorrendo sopra questa costa da tutte le parti, saranno sicuramente sua preda ; e più tardi ei potrà in qualunque parte dei medesimi lidi aumentare le sue provvisioni, se le circo- stanze gli daranno.agio alla caccia. Può prendere del pari 16 dovunque del pesce in quantità senza ritardare ‘il cammi:) no. Perciò non credo che corra pericolo di soffrir man- canza di viveri, quando anche il suo viaggio durasse più del tempo fissato. In molti luoghi raccoglierà del legname ondeggiante; e se come presumo, apre una communicazione. con gli esquimesi i quali discendono lungo la costà per uccidere i vitelli marini nella primavera, prima della rottura dei ghiacci, questi selvaggi gli renderanno sì il ser-: vigio di fargli le provviste, sì altri di grande e forse ugua- le importanza ». « S' ei va in cerca del fiume della Miniera di rame com'è probabile; non lo troverà alla longitudine che gli assegnan le carte; ma mi lusingo, che scorgerà (cosa più ‘per lui interessante) un albero con sopra un paviglione che noi abbiamo innalzato all’imboccatura del fiume di 004, la quale è presso a poco in quella longitudine. A piè dell’al-' beroè una lettera, la quale gli darà utili informazioni; al-: tronde potrebbe accadere, che il capitano Parry navigasse esteriormente lungo la catena delle isole, che sono fra la. costa da noi seguita, e l'alto mare iperboreo ». (1) (1) Sono alcuni mesi, che un giornale scientifico inglese ( PX; losophical Magazine), ed un foglio letterario dello stesso paese (Li terary Gazette) pubblicarono alcuni articoli, ne'quali annunziavano con varie circostanze, che .il sig. Krusenstern contr’ammiraglio e ce- lebre. navigante russo aveva ricevute e trasmesse notiziea’suoi ami- ci a Londra ed a Parigi, relativamente alla comparsa dei. vascelli del capitano Parry sulle coste della Siberia. Questo annunzio meri» tava poca fede, perchè nè il sig: Krusenstern nè verun dotto di Pie- troburgo avevano tramesso nulla di simile alla società di geografia, la quale a quell’ opoca stessa ‘avea ricevute per parte di essi altre partecipazioni, e noi non le abbiamo volute ripetere nel nostro gior-. nale. Ora il sig. Krusenstern medesimo dichiara. nei giornali tede- schi nella più solenne forma; ,, che non ha mai scritto neppure una linea a chiunque siasi, relativamente alla comparsa del capitano Parry sulle coste della Siberia. ,, Questa dichiarazione fa sparire le speranze, che si erano troppo immaturamente concepite. Bisogna dunquae aspettare fino ‘all'autunno prossimo, epoca in cui il capita- $ < 37 ‘Verso la metà di agosto, il capitano Franklin vedem-. do le sue provvisioni ridotte al necessario per tre soli gior- ni,ed avendo perduta la speranza di incontrare gli esqui- mesi che avrebbero potuto fornirgli de’ viveri, sentì la ‘necessità assoluta di ritornarsene. ‘Avanzandosi più lungi avrebbe compromessa la esistenza sua e di tutta la sua gen- te, ed impedito che giungesse in Inghiterra la notizia di quanto si era fatto. Il suo primo progetto era stato di ritor- nare per il fiume Miniera di rame, se il rigore della sta- gione ‘ve lo costringeva; ma la lunghezza del viaggio e la scarsezza delle ‘provvisioni, lo decisero a prendere un’altrastrada. Risolse dunque di guadagnare subito lo stret- to artico i dove aveva trovati animali più che in qualunque altro luogo; quindi di avanzarsi per il fiume 7700d tanto lon- lano quanto poteva, e con i materiali delle grandi barche, costruirne delie piccole che fossero più portabili per mezzo il paese sterile, il quale terminava al forte Impresa. Ima-, barcossi il dì 22 agosto 1821, ed il viaggio fu continuato sia a piedi, sia con l’aiuto di piccole barche fra le. pri vazioni più crudeli e-gli accidenti più deplorabili fino al 23 settembre, in cui.la spedizione restò priva della sola barca che le rimaneva. L’ inverno sì era già annunziato fivo dagli ultimi giornì del precedente mese; ma nel dì 5 di questo sopravvenue unita ad un violento oragano una. ne- ve, la quale copri la terra alla profondità di due piedi, e fu foriera di mille disgrazie. I bovi muschiati;, le renne, 1 bufali, e un nuvolo immenso di uccelli incominciarono no Parry, rinchiuso probabilmente nel mar polare dai ghiacci aceu- mulati negli stretti, potrà trovare una uscita dall’ uno o dall’ aliro lato. Egli era preparato per passare due i inverni néi mari glaciali, i di lui vascelli erano provvedutli dì viveri, e di una Lalli asione estre- mamente forte, che gli poneva al sicuro dagli ordinari pericoli. il genio e il coraggio del capo di questa spedizione promettevano buon esito anche in caso di disgrazia. Non vi è dunque ragion veruna per disperare del ritorno del capitano Parry. Nota del Journal des Voyages T. XI. Agosto 2 18; a-dirigersi verso il sud. I viveri erano esauriti;.le legna da bruciare mancavano; e la fatica di tirare.i bagagli sulla neve nella lancia, che dovevasi perdere quanto prima, diventava insoffribile. Udiamo il capitano Franklin. 10 Settembre: verso il.mezzo giorno il tempo si è un poco rischiarato , e con nostra gran letizia abbiam veduto pascere in una valle da noi dominata una mandra di buoi muschiati; divenuti rari dopo la neve del 5; abbiamo subi- to fatto alto; e mandato i nostri migliori cacciatori contro questi animali, ai quali eglino sonosi avvicinati con pre- cauzioni tali , che sono passate due ore prima che arrivas- sero a tiro di fucile. Noi seguivamo conla più ardente sol- lecitudine i loro moti, e facevamo caldi voti per la riuscita di questa caccia. Finalmente il fuoco è incominciato , e noi abbiamo avuta la soddisfazione di veder cadere uno de’ più grossi buoi; un altro ferito, fuggi. Questa buona fortuna ha reso tutta l’attività alla nostra gente spos- sata dalla fame: levar la pelle dell’ animale e farlo in pezzi, è stato un affare di pochi minuti. L’ interiora sono state immediatamente divorate, ed.i più delicati tra noi hanno dichiarato, che crude erano eccellenti. Alcuni salici, le cui sommità oltrepassavano la neve, sono stati svelti prontamente , le tende alzate, le carni cotte per la cena, alla quale abbiamo fatto grande onore; poichè erano. sei giorni che non avevamo fatto un buon pasto. La trip- pa di roccia, specie di muschio arboreo che cresce fra le rupi, quando anche ne avevamo abbastanza, non calmava che per breve tempo le angoscie della fame ». « 17. Ieri sebben viaggiando sopra un terreno in- gombrato da grossi sassi , i quali ci offendevano i piedi , avevamo fatto a 5 ore di sera 12 miglia e mezzo nella neve, la qual cosa può dare un’idea della celerità del no- stro cammino. Oggi abbiamo seguita la buona direzione verso il sud-est, il che non avevamo osato far prima, per timore d’imbatterci di nuovo in qualche ramo del coné- 19 woyt0: Questa mattina abbiamo veduto alcuni daini, ma i cacciatori non ne hanno ucciso veruno, e nel dopo pranzo un grosso branco già ieri da noi veduto, è comparso di nuovo senza averlo potuto raggiungere. Questa duplice di- sgrazia ci ha privati della colazione, e ridotti a.cenare ma- lamente con pelli abbrustolite e.con un poco di trippa di roccia. In tempi ordinari ne saremmo stati contenti; ma indeboliti dal viaggio e dalla dieta, sentivamo allora l’im- perioso bisogno di un cibo sostanzioso, a noi sconosciuto da lungo tempo ». « 22. La. maggior parte dei nostri arrestatisi fra al- ‘cuni salici, avevano radunate delle ossa e delle pelli di daini, divorati dai lupi nella scorsa primavera. Hanno mangiate queste pelli e queste ossa rese friabili al fuoco, ed hanno terminato questo strano desinare con aggiunger vile loro vecchie scarpe. Erano con essi gli uomini della lancia i quali dicevano, che questa era blmebia infranta per causa di un nuovo oragano, che era fuori di stato di essere re- staurata , ed era diventata inutile affatto. Sentendo que- ste particolarità , ebbi più dispiacere di quel che potrei dire; la necessità di trarre pur qualche partito dalla lancia, tuttochè nello stato in cui mi veniva rappresentata, mi fece far premura a quelli che ne avevano avuta la con- dotta di ritornarvi, ma ricusarono, nè gli uffiziali pote- rono superare quella loro ostinazione, a cui debbono forse attribuirsi le disgrazie inaudite, che hanno resa notabile la continuazione della nostra ritirata. Sembrava che questi uomini avessero perduta ogni speranza di salvezza, il che fece sì, che rigettarono i ragionamenti su i quali ci fon- davamo per chiedere da essi nuovi sforzi, nè fu senza pena che li decidemmo a rimettersi in viaggio ». Gostretta a lasciar indietro le sue ‘barche. e pri va delle cose più necessarie, la spedizione arrivò con molta difli- coltà, morendo di fame e di freddo, al fiume della Miniera di rame, il quale scorreva fra lei e il forte Impresa , dove 20 lusingavasi di trovare i viveri, di cui il sig. Wentzel aveva promesso di formarvi un magazzino. Non vi era punto le- gname per costruire neppure una zattera con cui passare il fiume; e le prove inutili tentate a tal uopo, consumaro- no i soli otto bei giorni che rimanevano di tutta la sta- gione. Un tratto del dottor Richardson è superiore a qua- lunque elogio. Piuttosto che veder perire tutti i suoi com- pagni sulla fatal riva, ebbe l'idea spaventosa per il rischio a cui essa l’esponeva , di tentare il tragitto a nuoto attac- candosi una corda intorno al corpo, e di andar quindi solo a cercar loro di qualche aiuto: ma un freddo supe- riore all'umana natura gli sopraggiunse in mezzo al fit- me e lo assiderò a segno tale, che si sommergeva nella corrente, quando a forza di braccia fu tratto a terra in uno stato tale, che fu difficilissimo richiamarlo in vita. Fi- nalmente fu eseguito il passaggio per mezzo di una specie di grosso paniere fatto di giunchi, il quale empiendosi d’ acqua ogni volta, e sembrando dovesse sommergere cia- scun individuo che portava, nondimeno depose ad una ad una tutte le persone della spedizione sane e salve sul- V altra riva. | Dopo il passaggio del fiume della Miniera di rante, la spedizione si divise in due distaccamenti , ciascheduno composto di cinque o sei uomini sotto la condotta del ca - pitano Franklin e del tenente Back, onde aver più oc- casioni di procacciarsi le risorse che le mancavano, collo scontro degl’ indiani, o in qualunque altra maniera. Fin dal momento del passaggio gli uomini del Canadà caddero un dopo l’altro in uno stato, che fu tosto seguito dalla morte, e la spedizione fu assalita da tutti ‘i generi di priva- zioni, di patimenti, e di orrori. Ai tormenti della fame non si poteva opporre che la trippa di roccia, e le pelli degli abiti. I cinque inglesi, tra i quali un marinaio detto Hepburn e il tenente Hood , furono sostenuti dalla forza del lor temperamento, e dalla speranza di trovare provye- — 21 duto di viveri il forte Impresa. Questa speranza delusa, come si vedrà, produsse nei nostri viaggiatori la dispera - zione, ed una specie di demenza, che spesso in casi simili si manifesta. Tutti eran diventati più o meno stizzosi, facili ad irritarsi, feroci, ed anche selvaggi. Di quelli del Canadà , sette caddero morti; con gli altri tre, uno de' quali trovossi poi essere an mostro d’iniquità , si fer- marono per umanità il dottor Richardson , il tenente Hood ed Hepburn , come ancora Perraut e Credit, onde farli riavere dalla lor debolezza :se era possibile. I Pet più de- boli morirono nonostante le cure che di lor s ’ ebbero, ed il solo che sopravvisse fu colu1, la di cui morte , per quel che poscia; accadde, sarebbe stata riguardata come un fa- vore della provvidenza. Il tenente Back e il capitano Franklin decisero di re- carsì per vie diverse al forte Impresa , lasciando indietre sotto la tenda i loro tre compatriotti, e quei del Canadà moribondi. Noi riprendiamo qui il giornale del capitano. «. Appena erano formati i due distaccamenti , quando Perraut e Fontano furono presi da vertigini ed altri sin- tomi di estrema debolezza. Feci in fretta preparar per es- si del tè, e feci lor mangiare alcuni bocconi di carne lessa. Ritornarono in sè, e dimostrarono il desiderio di conti- muare il.viaggio ,,ma: gli altri uomini del distaccamento, ìmpauriti per ciò che.avevano veduto, dubitarono delle proprie forze, e cedendo all’ ultimo grado del morale ab- battimento , dichiararono che, non potevano muoversi. Esposi ad essi con energia quanto importasse di continua” re il viaggio; essendo questo il solo partito ehe lor potesse salvarla vita, come pure agli altri compagni della nostra disgrazia. Fontano poco dopo ebbe una ricaduta, e soggia- .cque alla morte. Era questi un italiano, che aveva per più anni servito nel reggimento: svizzero di Meuron. al soldo «inglese. In quella mattina medesima, dopo le sue prime vertigini, mi aveva parlato di suo padre, e mi aveva di- 22 chiarato il suo desiderio, nel caso che sopravvivesse, di pas- sar meco in Inghilterra, e di esser posto in grado di ritor: nare nel suo paese. Per la di lui morte la nostra divisione si trovò ridotta a cinque persone, cioè Adam, Peltier; ci Semandré, e me stesso ». Finalmente giungemmo al forte Impresa';"'ma do irovammo în uno stato tale di desolazione, che fu per noi uù eccesso di dolore e sconcerto. Non vi era nè deposito‘ di viveri, nè orma d’indiani , nè lettera del signor Wentzel che c’indicasse ove trovarsi. È impossibile descrivere ‘le sensazioni che io provai entrando'in quell’infelice sog- giorno, e vedendo quanta poca cura si‘era avuta ‘di noi. Versammo tutti lagrime amare, ‘meno sopra il nostro pro> prio destino , che su quello de’ nostri ‘amici lasciati indie- tro , la di cui salvezza dipendeva ‘ dalla ‘pronta assistenza che noi potevamo ad essi recare ». . Trovai nulladimeno un biglietto scritto due giorni prima dal sig. Back, il quale mi ‘avvertiva di aver! vi- sitato il forte, e di essere andato ‘în traccia degl’ indiani seguendo una direzione in cui Saintgermain, uno’degli uomini della'sua divisione, credeva probabile di scontrarli. In caso che non gli fosse riuscito, Back si proponeva di andare al forte Providenza, e di là inviarci soccorso. Ma dubitava che lo stato di debolezza in cui egli ed i suoi compagni si ritrovavano , gli permettesse di giungere ‘al forte. Calcolata la distanza in cui noi erava mo, il soècorso annunziato non poteva arrivarci che tardi, ed inutilmen- te per i nostri amici della tenda, in favor de’ quali nulla potevamo sperare se non dagl’indiani. ‘Questa ferma cre- denza fece sì ch’ io risolsi di andare in tra ccia di essi, ma era assolutamente impossibile a’ miei quattro compagni di più inoltrarsi, ed îo credeiche un riposo di due o tre giorni renderebbe loro un poco di forza; e di più questa’ dila- zione mi metteva nel caso di poter sapere, se il sig. Back avesse veduti gl’indiani ». 23 ‘« Noi cercammo sì dentro come intorno al forte dei mezzi di sussistenza, ed avemmo la fortuna di ritro- vare più pelli di daimi gettate via come inutili in tempo della nostra prima dimora. Da un ammasso enorme di cenere furono tratte le ossa, e giudicate suscettibili di for- mare insieme con le pelli e la trippa di roccia il nostro so- stentamento per qualche tempo. Quanto alla casa, essendo state ‘staccate le pergamene dalle finestre, la stanza che ci eravamo determinati ad occupare era esposta a tutto il rigore della stagione. Per difenderci dal vento, ponem_ mo delle tavole ‘a traverso tutte le aperture. Il termome- metro era tra i 15 e 20 gradi sotto zero. Ci procurammo la materia combustibile togliendo i palchi dalle altre ca- mere, e l’acqua per la cucina, facendo struggere la neve. Mentre stavamo seduti intorno al fuoco, in cui si abbru- stoliva una pelle per la nostra cena, avemmo la grata sorpresa di vedere entrare Augusto. Egli aveva.seguita una direzione diversa dalla nostra, e l’aver ritrovata la sua via per mezzo un paese dove non era mai stato, poteva con- siderarsi come prova di non ordinaria sagacità. Lo stato di tutte Je cose al forte Impresa ci manifesta la rara an- ticipazione dell’inverno. L’anno passato nello stesso mese (ottobre) non si era avuta sulla terra che poca neve, ed eravamo circondati da grosse mandre di daini; ora non sb? vedono che pochissime traccie di questi animali, e la neve è profonda almeno:due piedi. Allora il fiume Winter(in- - verno) era sciolto j in questo momento un ghiaccio grosso due piedi incatena le sue acque. Il giorno dopo il nostro arrivo, levandomi , aveva il corpo e le membra talmente enfiate, che andai soltanto alcune tese lungi dal forte: Adam peggio ridotto, non potè alzarsi senza aiuto; gli altri compagni miei provarono lo stesso inconveniente in un grado minore. Essi andarono a radunare delle ossa e alquanta trippa di roccia , che ci servirono per due refezioni. Le ossa avevano un’amarezza ‘É tale, che la zuppa fatta con'esse e presa sola, ci faceva, delle escoriazioni alla bocca. Il muschio arboreo bollito con que- «sta zuppa la raddolcivaun poco, la qual, mescolanza pareva anche grata al palato unita ad un poco di.sale, di cui per buona fortuna avevamo lasciato .nel forte; un, piccol. barile -la primavera antecedente. Augusto andando a stabilire due lenze peri pesci più a basso della corrente sul fiume /W7ixn- terhaveduti due daini, ma non ha avuto la forza necessaria per inseguirli ». Le persone lasciate silla iii e cibidatto a sei. pi la morte di quelli del Canadà : per lai salvezza dei quali. si erano sacrificate, ebbero sorte più deplorabile.di quelle riparatesi al forte Impresa. Alcuni estratti del, giornale fatto dal dottor Richardson ne daranno una,prova, 4». « 11 Ottobre. Giungendo ad un gruppo di pini piut- tosto lontani dalla tenda, siamo stati inquieti per l’assenza di Michele, il migliore de’nostri cacciatori del Canadà. Noi credevamo che avesse smarrita la strada nel raggiungerci la mattina di buon ora; tuttochè questa congettura dovesse sembrarci mal fondata; poichè le mostre orme di.ieri. erano distintissime: Hepburn è andato a cercarla tenda, con cui è ritornato dopo il cader del giorno oppresso dalla fatica. Michele; che si fece vedere nello stesso momento, dissì- + pò la nostra inquietudine sopra di lui. Ha detto di aver cacciato.dei daini che andavano errando ‘vicino. al luogo dove aveva dormito , e.(ha soggiunto,,, che se non aveva potuto farli suoi, portava però una porzione di un lupo ucci- so con un colpo di corno. Noi abbiamo creduto in principio a questo racconto, ma alcune circostanze, nelle particolari- tà delle quali è inutile entrare, ci hanno poscia iconvinti, che la pretesa porzione del lupo era quella, del corpo di Credit, 0 di Perraut. Qui si presenta una questione impor. tante. Michele aveva egli ucciso questi due uomini, .0v- vero ‘uno di essi; o, aveva trovati i loro cadaveri sulla ne- ve ?.Se. Dio solo è giudice infallibile di questo casu. come 25 di tanti altri, pure l'opinione del capitano Franklin meri- ta qualche attenzione perla perfetta cognizione che aveva della situazione in cui aveva lasciati Perraut.e Credit, i quali non avevano potuto seguire il di lui distaccamento se non per pochi passi. Il capitano, ritornato indietro, 0s- servò Credit fino ad un piccolo gruppo di salici. immedia- tamente contiguo al nostro fuoco da essi salici, nascosto, ed apparve subito il fumo di un altro fuoco acceso senza dub- bio da Michele , il quale non volendo in quel momento che una vittima sola, avrà sagrificato la seconda al timo- re di essere scoperto, e nato ‘in lui dalla troppo prossima vicinanza , in cui trovavansi 1’ una, e l’altra. Sarebbe dolce cosa il poter rigettare insieme con l’idea di un doppio, de- litto queste congetture del capitano Franklin; ma la con- dotta ulteriore di quel feroce nomo del Canadà impresse infelicemente.in esse il carattere dell’ evidenza, come si vedrà fra poco ».. slior «IH 19, Michele ricusò di cacciare, ed anche di por- tare al fuoco un pezzo di legno troppo pesante per le for- ze di Hepburn e le mie.. Il sig. Hood:gli rappresentò , che non. doveva abbandonarci fra due giorni come mi. nacciava., senza lasciarci veruna. provisione. da, bocca , e tentò di ricondurlo al dovere col. pungerlo! sull’ onore. Michele non fece che irritarsi di quanto udiva,.e fra gli al- tri, notabili discorsi tenne ancora il seguente: .che. giova il cacciare? la caggiagione manca del tutto; fareste meglio di uccidermi, e mangiarmi. .Nulladimeno egli uscì.;.ma tornò tosto .dicendo, di aver |veduto.tre..daini, cui nonayea potuto tener dietro, essendosi inoltrato per un piccolo ruscello, il cui ghiaccio, quantunque; poco sodo, gli aveva intirizziti i piedi al segno, che era stato costret- to a tornare al fuoco. Essendo la temperatura poco rigida, Epburn ed io andammo a raccogliere la. trippa di roccia in tal quantità da poterne empire una caldaia. Michele passò la notte nella tenda ». "asp 26 vv Domenica 20 ottobre: questa mattina abbiamo fatto di nuovo premura a Michele perchè andasse alla caccia, onde poterci lasciare alquanti viveri; prima che nel dì se> guente ci abbandonasse. Ma egli ha mostrato pessime in- tenzioni, ed è restato sempre g ire intorno al fuoco col pretesto di‘nettare il suo fucile. Dopo aver letto 1’ Uffizio Divino, sono andato solo verso il mezzo giorno a cercarla trippa di roccia, lasciando il sig. Hood seduto accanto al fuo- co avanti‘ la tenda con Michele. Hepburn, che parimente doveva'lasciarci, atterrava a ‘poca distanza un albero per farci ana provvisioneabbondante di legna per il fuoco. Poco dopo' che io fui uscito, udii un colpo di fucile, e-circa dieci minuti dopo Hepburn con unaspetto ed una voce che indi- cava tn'eccessivo spavento, gridò che andassi alla tenda. Giungendovi trovai il povero Hood disteso morto‘a terra avanti al focolare, sembrando clie avesse ricevuto una palla nella fronte. Fui a prima vista preso da orrore all’idea, che nell'accesso della disperazione egli avesse osato comparir colpévole d’un suicidio al eribvbille del sommo Giudice; ma la condotta di Michele mi suggerì tosto ‘altri pensieri e ‘sospetti’, che si confermarono > guado ‘nell’ esame del cadavere ri accertai che'il colpo era entrato per didietro nel ‘capo, e l'aveva passato ‘da parte ‘a parte pritna di forar la fronte; ‘e di più che la bocca della pistola era stata ap- plicata tanto vicino, che il berretto da notte di Hood era bruciato » « Avendo risoluto il giorno dopo di andare al forte, ci occupammo nel preparare i nostri abiti accomodandoli per il ‘viaggio. Abbrustolammo il pelo di una porzione di pelle di bufalo, la quale aveva appartenuto al po- vero Hood; facemmo lessare questa pelle, e poi la man- giammo ‘>. «Un vento che si era alzato, ed i sintomi che fa- cean prevedere la caduta prossima di folta neve, ci impe- dirono di partire il dì 21 ; le stesse cause ci trattennero il 27 dì seguente 3 eSfinalmente ci mettemmo‘in Viaggio il gior- no 23, portando con noi il résto ‘della pelle abbrustolata tre dì innanzi. Hepburn e Michele avevano uni fucile per ciascheduno, ed io ‘portava una pistola caricatà dal primo n° me. Durante il cammino, Micliele ci spaventò' molto co’ suoi gesti e con la sua condotta. ‘Parlava sempre tra sè, ‘esprimeva una grani ripughariza! ‘di'andare al'forte A ten- tava ancora di persuadermi di andare verso il' niezzogior- no e guadagnate i boschi, dove ‘si teneva sicuro di nudrirci tutto l’ inverno uccidendo selvaggiume. ISwoi atti; ‘la ce- ra del suò volto fecer sì che î0 gl’ intimassi ‘ di lasciarci, e di andar solo‘ Verso il sud'La di Tui risposta finì dî scopri- re la sua pessima indole :' ei lasciòtravedere , sebberie in termini oscuri; l'intenzione di levarsi il'dì seguente da qua- lunque soggezione; ed''iò Pudii ben'distintamnente borbottar minaccie contro Hepburn')‘cui accusava di avere ‘immagi- nate favole contro di lui. Prèse ànéora parlandomi (ed era questa la tt volta) vin ‘tuono di superiorità ; il'chie' mi provò , ch’ei'é irighardava' come! persone; le quali erano in suo ‘potere. Finalmente'gli Sfuggirono espressioni di'odio inveterato- ‘contro i bianchi, ‘o’ come ‘ei diceva';' ‘contro i francesi, alcuni'deî quali'a sio/dire; avevano déciso inisuo - zio e due'altri suoi parenti per sosvigititi. ‘Riùnendo insie- ‘me; e maturamenite' pesandotutte le circostanze della di lui denota; ‘ne ‘conchiusi’’ ‘che ‘ei ‘tenterebbe' di’ \icéiderci nella prima occasione ; “ché 1 ignoranza' ‘sua sulla via ‘del forte aveva: pritîa latestto il'sio' braccio; "Mma”clie non ac- consentirebbe mai ad accompagnarci colà 'Egli‘aveva ‘no- tato nella giornata più volte che ici seguivamo la'direzio- ne presa dales pitano F ranklinmel'lasciatci’;' ediatea sog- giunto che ‘cammin fatetido Wetso 4] GramentAt del sole, ei saprebbe” ritrovatvisi! benissinio ‘Hepbirn' ‘ed'‘i0’’non ‘eravamo'in’stato ‘di resistere ‘ad“’im ‘assalto’ ché! ci. avesse dato alla scoperta, nè potevamo sfuggirli col mezzo di veruno strattagemma :'lesfiostre forze'unite'eratio ben in- 48 feriori alle sue, giacchè oltre il fucile,e due. pistole, aveva «ancora una baionetta indiana ed un coltello. Dopo il mez- zo giorno passammo avanti; una .rupe dove si trovava del muschio arboreo, e.ivi ei si fermò dicendo. che, andava a coglierne mentre noi seguitavamo il camino; e checi avrebbe tosto raggiunti. Noi eravamo soli Hepburn ed io per la prima volta dopo la.morte di Hood, ed egli mi co- municò varie circostanze materiali osservate nella con- dotta di Michele, le quali mi confermarono nell’ opinio- ne che la di lui sola, morte:poteva assicurare la nostra sal- ‘vezza. Hepburn sì offriva per, esserne l’ istrumento ; ma l’.intima [persuasione in cui io:era della necessità di un tal atto; mi determinò ad i incaricarmi della responsabili- tà di esso, a malgrado dell’orrore che m'.inspirava;.e quan- do Michele ci raggiunse, terminai i di lui giorni passandoli da parte a parte il capo con un colpo di pistola ». « ;Il di. 29 ottobre, entrando, nel desolato forte del- l’ Impresa, provammo:un, vero piacere in. abbracciare il capitano Franklin; ma, non vi sono parole; capaci di espri- mere, le idee di bruttura, di sventura, d’ indigenza, dalle ‘ quali, fummo assaliti, guardandoci ‘intorno. Quantunque. abituati a vedere i tristi, cangiamenti accaduti; nel nostro esterno, i nostri volti lunghi e dimagrati;, pur quasi rincu- lammo! per. orrore al primo aspetto delle, faccie, diventate spaventevoli, delle, pupille dilatate, e delle voci sepolcrali del capitano Franklin e de’ suoi compagni». Così si trovarono! riuniti. al forte. Impresa, come sche- letvi.in up cimiterio i. membri ancor vivi. della spedizio- ne, crudelmente delusi nella, speranza di. trovarvi dei soc- corsi, dopo, le terribili ;.prove.iche ;avevano distinti i loro passi verso questa ferra promessa; Il; prospetto: della lor situazione diventa} ogni giorno più compassionevole. «Il dì 1, novembre: (1 ),, Hepburn andò, a, cacciare : (i) Il giornale del: eanpitano Franklin. con un tempo dolce e sereno, ma non ebbe più fortuna del solito. Siccome le di lui forze declinavano rapidamen- te, lo consigliammo di rinunciare a tener diétro ai daini, e di tiara in'corte gite ad uccidere delle pernici per Peltier e Semandré, che erano in uno stato ‘da far più paura. Il dottore sblse per essi della trippa di roccia, Îma ambedue avevano la gola sì piena di ulcere, che Semandre potè appena ingoiarne pochi cucchiai, e Peltier neppur uno. Nel dopo pranzo era questo talmente spossato, che si ebbe pena a situarlo sopra una seggiola, d’onde gettava intorno a sè sguardi compassionevoli. Finalmente avendo po- tuto coricarsi solo per dormire, come supponevamo, re- stò per più di due ore in una tranquillità , che' ci' fa‘ ceva credere che si fosse addormentato, ‘ed allonta-’ nò da noi qualunque ‘idea di pericolo. Ma un rantolar della sua gola destò’ improvvisamente in noi le prime in- quietudini: il dottore conobbe che egli avea perduta la pa- rola , e dichiarò imminente la di lui morte, che accadde in fatti nella notte seguente. Semandré stette levato una gran parte del giorno, e aiutò ancora a pestare delle ossa; ma l’ aspetto dello'stato di Peltier lo abbattè; nè tardò a lamentarsi del freddo e della inflessibilità delle sué membra nelle articolazioni. Non potendo mantenere un fuoco capace di riscaldarlo, noi lo mettemmo a giacere e stendemmo più coperte sopra di lui. Non parve che ciò lo facesse punto migliorare, e morì parimente prima ‘del far del giorno. Noi ponemmo idue cadaveri nella parte del forte opposta a quella i in cui eravamo; ma tutte le nostre forze unite insieme non sarebbero bastate per PEA, e neppure per trasportarli fino al fiume ». :« È da notarsi che il povero Peltier fia dal momen- to in cui Back ‘era andato a cercare gl’indiani aveva fis- sato il dì 1. novembre come il giorno in cui cesserebbe” di aspettare i soccorsi di questi ultimi, aggiungendo che se non giungessero , quel giorno medesimo sarebbe il dì al 30, “o della, sua morte: La di lui attività, Je premure, le atten- zioni che.aveva per. i più ammalati, e l’ allegria imper- turbabile che conservò fin anche dopo il nostro. ritorno al forte, ce lo avevan reso meritamente caro. Quanto al povero Semandré, non gli mancava la buona, volontà di prender parte alle fatiche comuni; ma:la di lui debolezza fisica e morale lo rendeva di ciò affatto incapace. Risen- timmo tutti un colpo violento per la morte di questi due, e.cademmo in profonda malinconia. Adam, il quale nei due giorni antecedenti sembrava che avesse ricuperata forza ed energia, dimostrò allora uno scoraggimento, da cui noi eravamo più sensibilmente commossi. Per me, io mi rattristava principalmente in pensare, che in avve- nire Hepburn e, il dottor Richardson andrebbero soli in cerca del combustibile, e che la mia debolezza m’ im- pedirebbe di prestar loro veruno aiuto. Essi passarono tutto ;il dì seguente a distaccare per tal uso i pezzi di le- gno con i quali era costrutto il magazzino del forte ; ma il muro, di terra, che li separava, era per il ghiaccio diventato così duto , che il lavoro di staccarne il legno superava le lor forze; così si trovarono totalmente. spos- : Sati, senza averne potuto portar tanto legname che servis- ‘ se per il consumo di dodici ore. Nella loro assenza io ri- masi costantemente vicino ad Adam; per conversar seco, distrarre idi.lui pensieri dalla, nostra situazione, e riani- mare il di lui coraggio per quanto era possibile. Vegliai ancora per custodirlo tutta la notte ». « Il è rzovembre: atmosfera nebbiosa con freddo acutissimo ., Hepburn si accorse che le sue gambe si en- fiavano, ma &ùnto egli, quanto il dottore erano pieni di speranza, quantunque si sentissero indebolire rapidamen- te. Ciò che potevano fare, consisteva in somministrarci il combustibile per rinnuovare tre, volte il nostro fuoco: la terza volta ci.coricammo. Adam aveva ripreso coraggio , ma non poteva soffrire di esser lasciato solo. La sera fa- 3i cemmo una piccola Zuppa, che esaurìi la: mostra provisio- ne di. ossa. L° operazione di pelare le pelli diventate nostro alimento principale ci sembrava così moiosa, che c’ impediva di mangiare in proporzione «del. mostro bi- sognevole ». « Il dì 7 essendo scomparsa l’ enfiagione delle brac- cia e delle gambe di Adam, ei non sentì più verun disa- gio, levossi con molto miglior disposizione, e parlò di pu- lire.il.suo fucile per tirare alle pernici, 0 agli altri ani- mali che apparivano presso il forte; ma prima che fosse passata la metà del giorno cambiò iso nè cedè che dif- - ficilmente alle istanze che gli si facevano perchè mangias- se. Hepburn e il dottore faticavano sempre, supplendo fino ad un certo punto alle lor forze la buona volontà . Non facevano però molto presto ; poichè il primo consu- .mò mezz’ ora a tagliare un piccol ceppo, e il dottore al- trettanto a trascinarlo nel forte non più luntano di otto tese: io volli aiutarlo, ma di lui più debole, non gli prestai che poca assistenza . Tuttavolta era cosa ‘evidente, che se continuavan essi a indebolirsi nella stessa proporzione, fra due o tre giorni io sarei stato il più forte di tutta la compagnia ». « La nostra magrezza e la durezza del pavimento, sul quale non avevamo perletto che una semplice coperta; ci fe- + cero venire delle ulcere particolarmente in quelle parti del corpo,che sostenevanoil peso di esso quando eravamo cori- cati. Rivolgerci per cambiar posizione , era un’ operazione hon meno dolorosa che difficile. Nulladimeno quietati al- quanto gli acuti tormenti della fame, che eran durati tre o quattro giorni, prendemmo tutti qualche ora di sonno. I so- gni che lo accompagnavano, erano quasi sempre di natura piacevole, e si raggiravano sul lauto vivere e sui piaceri della tavola. Il giorno discorrevamo di soggetti lievi, talvolta della religione e delle speranze che ci presenta; e | delle dolcezze Ver procaccia ; si schivava generalmente ili dal | ; parlare:delle nostre pene , ed anche più o meno delle speranze che avevamo di essere soccorsi. Osservai che a misura che perdevamo la nostre forze fisiche, anche il: morale dava sintomi di debolezza; de’ quali il principale: era una disposizione affatto irragionevole di andare in. collera:gli uni contro gli altri. Ciascheduno supponeva nei suoi compagni d’ infortunio un’ intelligenza inferiore alla propria, e sotto questo rapporto un maggior bisogno di con- siglio e assistenza. Un semplice cambiamento di posto, che da uno veniva raccomandato per il caldo ed il como- do, e ricusato dall’ altro per il timore dei dolori che ri- sultavano dal minimo moto, dava luogo ad espressioni in- - convenienti, riparate nello stesso momento, ma ripetute alcuni minuti dopo. il medesimo accadeva, quando ci aiu- tavamo vicendevolmente a portare il legname: niun.vo- leva l’assistenza, di cui tutti avean bisogno, per un’ impresa tale superiore alle lor forze. In una di queste occasioni Hepburn fu tanto convinto di questo principio, e colpi- to deiprogressi di questo burbero 'e fantastico umore, che gridò: se mai torniamo in Inghilterra, io dubito che noi ritroviamo il nostro buon senso ». « Gl’indiani inviati dal sig. Back infine arrivarono feli- cemente il dì 7 con viveri, molto a proposito per il povero Adam, il quale era così sfinito, che appena gli si potè far comprendere questa grata nuova. Quando entrarono gl’iudiani egli tentò invano di alzarsi, e senza quel fa- vore della Providenza sarebbe spirato dopo qualche ora, ed il rimanente della spedizione dopo qualche giorno ». « Gl’ indiani avevano lasciato il dì 5 1’ accampa- mento di Akaitcho , ed erano stati a noi inviati dal sig. Back. Per viaggiare più presto, si erano caricati di una piccola quantità di provviste consistenti in carne secca di daino, pezzi di grasso, ed alcune lingue. Hepburn, il dot- tor Richardson ed iodivorammo troppo avidamente que- ste vivande, che avevano avuto l’imprudenza di offrirci 33 in gran quantità, e ne avemmo un’ indigestione che ci tenne desti tutta la notte con pene crudeli. Adam, che non po- teva mangiare da sè solo, fu servito dagl’ indiani con più circospezione, dopo di che il suo fisico, come il morale, si riaveva d’ un’ ora in un’ altra. Il mangiar più di quello che conveniva nella nostra situazione, era una prova lumi- nosa della debolezza del nostro spirito. Noi ne conosceva- mo perfettamente il pericolo, e il dottore ci raccoman- dava continuamente una prudenza, alla quale egli mede- simo non potè violentare sè stesso ». « Il dì 16 noi fummo in stato di lasciare il forte Im: presa , di discendere il fiume Winter, ed il 26 giungem- mo presso Akaitcho, capo degli indiani, che ci avevano soccorsi ». Il tenente Back, il quale insieme con tre altre per- ‘sone della spedizione era giunto prima del capitano Fran- klin al forte Impresa, d’ onde come abbiam detto, era an- dato in cerca degl’ indiani, ha fatto pure la sua relazione, non meno interessante di quella di cui abbiamo dati gli estratti; eccone i passi più importanti. « 6 ottobre 1821. Io provai per la debolezza dolori acuti nelle spalle, i quali non mi permettevano di lasciar- le due minuti nella posizione naturale, e mi costringeva- no a tenere le braccia distese con l’ aiuto di un bastone. A cinque ore, mentre.cì eravamo fermati in un cespuglio, facemmo un tristo banchetto con un vecchio pantalon di cuoio, e con tè di palude. Nella sera del 7, per calmare al- quanto la nostra fame in mancanza di trippa di roccia , fummo ridotti a mangiare l’astuccio , parimente di cuoio, di un fucile , ed un paio di scarpe vecchie: io aveva appe- na forza di stare in piedi ». i « Noi passammo la rupe dello Schiavo, e facendo fermate frequenti , giungemmo a poca distanza dal forte Impresa. I miei compagni si disperavano per non vedere vestigio veruno nè d’ indiani, nè di animali; ma viéppiù T. XI. Agosto 3 34 avvicinandosi , osservarono orme fresche del passo di una grossa torma di daini, il che rese loro un poco di coraggio, e poco dopo entrammo nella soglia del tanto, desiderato forte. Ma qual fu la nostra sorpresa, e quai penose sen- sensazioni provammo vedendo tutto in uno stato di negli- genza e desolazione; le porte e le finestre del magazzino i in cui noi avevamo sperato trovar le proviste, levate daj lor cardini, e lasciate sul pavimento; finalmente non dub- bie prove, che il forte era stato nella nostra assenza il ritiro e il ricovero degli ospiti feroci delle selve. Il sig. Wentzel avea portato via i bauli e le carte, non lasciando veruno scritto che ci potesse dirigere verso gl’ indiani, senza la di cui assistenza noi privi di qualunque risorsa ci trovava- mo ridotti nel più infelice stato, accresciuto dall’idea che quello de’ nostri amici lasciati indietro era più misero as- sai. Tuttavolta in quel momento la fame prevalse , e cia- scuno si pose a rodere gli avanzi di carne imputridita o ghiacciata , che erano qua e là dispersi, senza aspettare che fossero cotti. Quest’ ultima operazione non fu messa in pratica se non per le ossa e il collo di un daino trovati nel forte, e avidamente divorati ». « Io risolsi di restare un giorno nel forte stesso per ri- posarmi con la mia piccola truppa, di andar quindi in cerca degl’ indiani, e nel caso che non ne vedessi alcuno , d’inoltrarmi fino al primo stabilimento di commercio, che era distante 130 miglia, e di mandare di là soccorsi agli altri distaccamenti. Per eseguire questo progetto era stato distaccato Bellanger il dì 16 ottobre per tempo alla distanza di quattro miglia. Non vedendolo comparire, 10 partii con Beauparlant eSaintgermain per andare adaccam. parmi a Nawows, luogo in cui gl’indiani non mancava- no mai, come l’ ultimo diceva, di prendere il pesce in abbondanza, e distante due sole miglia dal forte Impresa ». « Non avevamo fatto molto cammino, quando Beau- 35 parlantsi lamentò d’un raddoppiodi debolezza. Noi eravamo tutti così spesso in questo caso, che non facemmo attenzione in principio ai lamenti che ciascheduno avrebbe potuto fure con il medesimo fondamento ; ma divenendo essi più frequenti ed energici , io e Saintgermain ritornammo in- : dietro, ed andammo a trovar Beauparlanti] quale disse, che non potrebbe mai oltrepassare il prossimo campo, giac- chè le forze lo avevano abbandonato. Io procurai incorag- giarlo, inspirargli fiducia nella bontà dell’ Ente Supremo, il quale mira sempre con occhio misericordioso chi im plo- ra la sua assistenza. Non parve che facesse gran caso di quello che io gli diceva, e per risposta domando dove avevamo il progetto di fermarci. Saintgermain gli mostrò un piccolo gruppo di pini poco lontano, unico luogo che potesse fornirci legna da bruciare. « Bene, riprese il po- ver uomo; prendete la vostra scure, signor Back, vi segui - rò peo piano, e quando l’ accampamento sarà ‘fatto, yi avrò n ». < Noi andammo a riconoscere il luogo. Erano cin- que ore pomeridiane, e ci faceva meraviglia che l’ at- mosfera fosse tanto dolce quanto da gran tempo non l’ave- vamo provato, allorchè vedemmo una quantità di cornac- chie sulla sommità di certi altissimi pini ch’eran lì presso. Saintgermain disse subito, che vi doveva essere nei con- torni qualche animale morto. Ne andammo in traccia, e vedemmo più teste di daini mezze sepolte nella neve, senza occhi nè lingua, lasciate dai lupi e da altri animali per la rigidezza precedente del tempo. Sia ringraziato Id- dio, siamo salvi, gridammo insieme ambedue stringendoci la mano con una sensazione di gioia più facile a immagi - nar che a descrivere. Cadeva il sole , ed, una nebbia oscu - rava rapidamente la superficie di un lago vicino, quando Saintgermain si pose a fare l’ accampamento. L’ impresa era troppo ardua, perchè io potessi prendervi parte; e se non avessimo trovati ì viveri, io son certo, che non avtei 36 puri: vissuto ventiquattr' ore. Ma questa buona avventura mi rese parte delle mie forze: raccolsi alcune teste di selvag- giume, ead una ad una, non senza fatica, le portai al fuoco lontano appena trenta passi ». « Le tenebre si facevano sempre più dense, ed io di- ventava sempre più inquieto per Beauparlant. Furono ti- rati dei colpi di fucile, ed a tutti rispose. Lochiamammo, ed udendo la di lui voce tuttochè debolmente, proposi a Saintgermain di andarne in traccia. Costui se ne scusò di- cendo, che già un ramo di pino posto sul ghiaccio gli ave- va quasi impedito di ritrovar la strada, e che adesso era certo di perderla affatto. Mi consolava solo il pensare, che Beauparlant avendo la mia coperta e tutto il bisognevole per accendere il fuoco , poteva accamparsi poco lungi da noi ». « 18 ottobre. Questa notte il tempo è stato sereno , ma freddissimo. Noi non avevamo potuto dormire , per- chè ciò che avevamo mangiato ci causava spaventosi tormenti . Nulladimeno io non aveva preso se non la «quarta parte di ciò che poteva saziar la mia fame; ma la quantità di nervi crudi o ghiacciati delle zampe dei daini, che avevan formata parte della nostra cena, ci incomoda- va. Questa mattina, sempre più inquieto per Beauparlant, ho pregato Saintgermain di andarne in traccia, e di tornar con esso più presto che poteva, mentre io preparawa loro da mangiare. Ei non è comparso che tardi con un piccolo fardello che Beàuparlant usava di portare , e mì ha det- to con le lagrime agli occhi di aver trovato morto il no- stro povero amico. Morto! ho ripetuto io in tuono di sor- presa e dubbiezza ; « Ah! sì: ha ripreso Saintgermain, io dopo averlo chiamato più volte inutilmente a nome, sono andato verso il nostro ultimo accampamento a tre quarti di miglio lontano, e l'ho trovato disteso colla schiena ap- poggiata ad un banco di sabbia, con le gambe e le braccia orribilmente enfiate, e dure come il ghiaccio che lo cir- -_ 37 condava. Il suo fardello, che nella caduta aveva rotolato, gli stava dietro, e la vostra coperta , che egli portava attorno al collo e sulle spalle, gli stava accanto ». « Sentii per questa morte un dolore sensibile, a cui però confesso che era congiunto qualche stupore, e questo nasceva dal non aver io mai pensato, che un così tristo avvenimento dovesse accadere nella nostra piccola socie- tà di quattro persone ». « Finalmente Bellanger ci raggiunse, e noi tosto co- stretti a pensare al nostro alimento, facemmo per ciò ca- pitale del lago, e vì gettammo le nostre lenze , ma inutil- mente ; grosse mandre di daini lo attraversavano corren- do in modo, che ci fu impossibile di raggungerli ». « Il 27 scoprimmo gli avanzi di uno di questi ani- mali, che ci fecero un gran piacere. La notte fu così fred- da, che l’acqua ghiacciò in un vaso di una pinta due piedi distante dal fuoco. Lo splendore dell’ aurora boreale dava tanta luce , che col suo aiuto potemmo vedere otto lupi, per allontanare i quali dalla nostra collezione di ossa, spaventandoli, durammo molta fatica. I loro urli e lu scoppiar continuo del ghiaccio, non ci permisero di ripo- sar lungamente ». \ « Il 28 ci disponemmo alla partenza per il 30, aven- do fatta in due fardelli una provista di carni, 0 piuttosto di nervi secchi, la quale per persone, come noi abituate al digiuno, giudicavamo sufficiente a tutti tre per otto gior- ni facendo, un pasto solo al giorno. Noi dovevamo giun- gere in due settimane al forte Providenza ; ed anche sen- za uccidere punto selvaggiume, nè scontrare indiani per via non ci sarebbero mancati i viveri che per sei giorni, | cosa di cui poco pensiero ci prendevamo, avendo innanzi a noi la prospettiva di un soccorso abbondante. Partiti con un vento nord est ed un freddo penetrante, vedem- mo in mezzo ad un lago alcune cornacchie e molti lupi, 38 ì con i qualiavemmo la fortuna di poter dividere un daino da essi poco prima ucciso, il che aggiunse due altri pasti alle nostre proviste. Scontrammo poco dopo anche gl’ in- diani, che l’ accrebbero bastantente per toglierci qualun- que inquietudine sulla nostra esistenza ». Dando qui fine a citazioni senza dubbio dolorose, ma forse assai interessanti per il lettore onde inspirargli il de- siderio di legger tutta l’ opera da cui sono estratte, noi lo informeremo qual fosse la sorte delle venti persone delle quali era composta la spedizione il di 2 Agosto 1820 (1). Dieci ne son perite , due di morte violenta, otto di malattia, di stanchezza, di sfinimento. Il capitano Fran- klin, che noi abbiamo lasciato con i moribondi del forte Impresa il 26 novembre al campo del capo indiano Akai- tcho, giunse il dì 27 decembre seguente all'isola di Mo- ose-Deer, dove per le cure degli uffiziali della compaguia della baia d’ Hudson ricuperarono tutti le loro forze, e furono dopo cinque mesi in grado di seguitare il loro cammino. Arrivarono alla fattoria di York il dì 14 luglio 1822: « e così finirono, dice il capitano Franklin, i no- stri lunghi, faticosi e disastrosi viaggi nell’A merica setten- trionale, in cui noi abbiamo fatte per terra e per mare non meno di 5,550 miglia ( leghe 1,850 ) ». Questo va- lente e intrepido ufliziale è sbarcato a Yarmouth il 16 ottobre prossimo passato insieme col tenente Back e il dottor Richardson. F. G. (1) E che erano restate dopo la partenza del sig. Wentzel nel luglio 1821. ì Nota del traduttore 39 | Discorsi di Anpre4 Maier veneziano. Venezia 1822. Opinioni sul principe di Niccorò MacHiaveLLI, stese da MicHzLE Leoni. Parma 1822. I. Il primo discorso del Maier ha per titolo: della lingua comune d’ Italia; e si principia: a tre capi parmi che si pesare ridurre le presenti controversie in fatto di lingua: 1. sedebbasi nello scrivere usare le sole voci degli scrittori del 1300: 2°. i difetti del vocabolario della crusca: 3.° se la lingua si debba chiamare toscana, ov- vero italiana. Quindi il Maier con buon senno palesa l’inutilità delle due prime questioni, poichè ognuno sa che qualunque opera non che il vocabolario d’ una lin- gua ha sempre bisogno di correzioni ; e che un idioma parlato da popolo non ancora morto, acquista di conti- nuo e di necessità vocaboli nuovi, che lo scrittore non può nè trascurare nè cambiare ad ogni sua occorrenza. A me piacerebbe usare la favella del 1300, quando potessi- mo tutti noi vestir la toga, di che gli avi nostri adorna- vano la persona. Ma se l’eredità della toga a noi non pervenne , e molte cose e usanze co’ lor vocaboli abbiamo perdute, non si faccia pertanto abuso della ragione, male adoperando quello ché rimane della consuetudine degli antichi. Sarebbe da stolto rigettar come vile ciò che nobi- litava i padri. La terza questione è considerata anch'essa dal Maier come lieve e inutile: ma da essa derivansi le discordie tra’ dialetti dell’ Italia , e perciò è disaminata essa sola in tutto l’ annunziato discorso. Questo è ben fatto, e ben conclude per molti argomenti, massime dove riferisce al dialetto de’ veneziani. Noi non ne produciamo alcuna par- te, quantunque il suo autore sia amorevole a’ toscani, perchè non può leggersi spartitamente, e perchè non vo- gliamo che le parole nostre fomentino gare in Italia, già divenute odiose a’ passati, a’ presenti, ed a’posteri. Impe- 4o' a disca la fortuna, che i suoni dolci e maestosi della lingua italiana, come ne’secoli trascorsi, anche all’ avvenire non spandano amarezza nel cuore della patria . II. Più volentieri dunque sarà da noi atteso al secon- do discorso, in cui è dal valente Maier promossa Za storia fiorentina di Benedetto Varchi. Principia il Maier, e sortando gli stampatori a fare di detta storia una bella e comoda edizione, sicchè tutti possano invogliarsi a _com- prarla : ed inanima i giovani a leggerla « perchè oltre a farsi tesoro nella mente di mille modi di dire puri, schiet- ti, calzanti, vi potranno anche raccogliere le più abbon- danti istruzioni ed i più eflicaci avvertimenti sulla. poli- tica, sulla morale, sulle leggi, su’ costumi, e su tutte quelle cose infine che possono rendere più fruttuoso o più dilettevole lo studio della storia. » Il Varchi infatti era, come il Maier lo qualifica , di lingua e di cuore veracemente italiano: scrivendo liberis- simamente , senza odio o amore di persona alcuna: mai non tacendo il vero per tema de’potenti: nè mai abusan- do dell'ingegno per voglie prave di sè o d’altrui. Onde la storia sua ritrae i tempi al naturale: e buona elocuzione adorna le rette sentenze. I quali pregi fan sì che non in- cresca al lettore la prolissità di qualche racconto e la so- verchia diligenza del Varchi in notar molte cose, cui soli i fiorentini di quell’ età interessarsi potevano. Del resto il Maier, dopo aver encomiata la suddetta storia, si mostra maravigliato , com’ egli dice, « vedendo un principe di casa Medici, ed un un principe nuovo, nè ancor bene raffermato nel suo dominio, com'era il duca Cosimo, commettere ad un uomo liberissimo, come il Varchi, di scrivere, senza riguardo avere a persona al- cuna, la storia di quelle rivoluzioni, in cui i suoi più stretti congiunti si macchiarono di tante colpe per oppri- mere la libertà della patria , e trasferirne ( come vollero i fati ) V assoluto dominio nella sua famiglia, anzi nella ki sua stessa persona. » Cosimo infatti , benchè fosse educa- to in condizione privata, accomodò sì bene l’animo suo alla tirannide, che avrebbe mozzato la testa a’ figli, piut- tostochè tollerare qualunque impedimento a’ suoi disegni. Di cittadino diventato principe, e principe d’una repub- blica , credè à lui nocivo ogni umore di libertà , e a spe- gnerlo intese. Talchè le più delle famiglie versarono san- gue loro sul palco ‘del carnefice : ed i soldati mercenarii dimostrarono maggior pietà che non esso; egli insidiando, e quelli salvando i cittadini. Onde può sembrare, è vero, cosa mirabile aver ei dato libertà di scrivere al Varchi. Ma quando Cosimo volle che si scrivesse la storia delle passate vicende, egli era sicuro nella città, aveva forze da combattere i senesi e gli altri toscani non ancora a lui soggetti , e volgeva le arti sue in particolare verso le corti straniere , a fine d’ acquistarsi nuovi titoli. e. regie parentele , con cui figuravasi interporre maggior distan- za tra lui e quelli che gli erano stati eguali. Oltrechè , siccome dice il Maier, egli aveva odio contro la prima linea della sua famiglia, e commettendo al Varchi che ne scrivesse vera la storia, gli commise a un tempo le ven- dette sue. Imperocchè tutti gli uomini che non hanno amato la patria con amor sincero all’universalità de’ cit- tadini, non possono aver mai nome chiaro e rispettato in quelle storie che giungono a’ posteri. E Cosimo sapeva quanto biasimevole fosse la prosapia de’suoi cugini, mentre il padre suo aveva acquistato gran nome nella milizia. La storia verace delle azioni di Cosimo non fu ad alcuno com- messa nè da luì, nè da’ suoi discendenti. III. Il Maier produce altresì l’ opinione del Varchi intorno al Machiavelli, per cui si potrebbe forse affer- mare che il segretario fiorentino non ebbe rette in- tenzioni , scrivendo il suo trattato del Principe. Ma il Varchi biasima il Machiavelli perchè gli mancava Za gra- vità della vita e la sincerità de’ costumi, perchè era li- 4a cenzioso della lingua e di vita non molto onesta ed al grado suo disdiaeialbi e lo loda poi rel conversare pia- cevole , officioso verso gli amici, amico degli uomini vir- tuosi. Talchè io resto in dubbio, nè so che ne conseguiti. Molti hanno parlato del Machiavelli, or bene, or male. La fama sua prevale sempre alle altrui opinioni, ed è stata di recente e lodevolmente propugnata da Michele Leoni; il quale ha prodotto eziandio gli argomenti di Dugald Stewart e d’ altri stranieri eontro la politica del’ segretario fiorentino, mostrandone a un tempo l’ errore. Dice il Leoni: « sarebbe cosa oltremodo strana, per non dire impossibile , che uno scrittore di ben dieci volumi, la più parte politici, esser potesse indotto a pro- fessar d'improvviso e in poche pagine pensamenti in tut- to contrarii a que’ che resultano dall’ intiero complesso delle sue opere e delle più grandi circostanze della sua vita. Qualora del sistema politico del Macbiavelli sì giudi- chi infatti dallo spirito con che sono dettati i suoi discor- si sopra le deche di Livio, sarà necessario il massimo sforzo d’ingegno per attribuirgli nel Principie un intento non sano. La qual opera fu propriamente figlia delle lun- ghe meditazioni di quel severo toscano sulle scritture degli antichi e massime de’ latini, come quelli che per insigne accoppiamento di virtù e di forza poterono non pure andar sopra a tutti i popoli che li precedettero , ma chiuder per avventura il campo anche a’ futuri ..... Il Machiavelli con maravigliosa acutezza, combinando i fat- ti storici coll’ esperienza sua propria , potè trarne quelle gravi sentenze che ognun sa. E se a taluno parvero dure e illiberali, è da por mente non aver quegli fatt’ altro ch’ esporne le circostanze e dar a conoscere, non inse- gnare, come nascano e quali ne sieno gli effetti. Sarebbe stato per lui un portar nottole ad Atene il proferire a un tiranno quegli ammaestramenti, che dalle sole opere de’ tiranni furon dedotti. Perciocchè quand’ anche ne si 43 opponesse, che, trattandosi d’un principe nuovo e ignaro de- gliavvolgimenti delle corti, come quello al quale indirizzò Machiavelli la sua scrittura, questa poteva in lui tener luogo d’ esperienza , risponderemo, che quando un inva- sore della libertà pubblica (e d’ordinario non osa mai tanto nè un codardo, nè uno stolto ) è giunto una volta sul trono, il sentimento della propria sicurezza gli farà sempre vedere meglio d’ogni altro il sistema che gli con- verrà di adottare : il qual sistema dovrà esser vario come le circostanze della sua situazione. Possibile, che quel sottile intelletto del Machiavelli imaginasse , dover essere i suoi generali pensamenti applicabili a tutti i casi parti- colari! Egli sapea benissimo quanto il popolo sia d’ ordi- nario poco istruito intorno alle idee de’ principi, e come all’opposto abbian questi conoscimento de’ sudditi. Però è da conchiudere che dall’ opera del Machiavelli poche norme ritrar può un principe, delle quali la stessa indo- le del suo stato nol faccia accorto: e molte per lo contra- rio il popolo, per sua natura poco familiarizzato col tenor delle corti. E questo fu , per quanto ne sembra, il vero intendimento del segretario fiorentino ..... Agli amici dell’ umanità e a° filosofi speculatori dispiacque forse il vedere come la sagacità del Machiavelli seppe trar fuora tanti vituperii dall’ istoria de’ principi e de’ popoli: per- ciocchè la considerazione di sì gravi e sì continui mali potè infondere negli animi loro alcuno sconforto rispetto a' miglioramenti tentati nell’ umana generazione co’ loro studi: e da somigliante principio ( per altro assai nobile ) sì parte la gran disapprovazione palesata a riguardo suo ne'riportati squarci di Hume e del signor Dugald Stewart. Ma è da por mente, non avere il Machiavelli avuto in mira il miglioramento degli uomini se non in quanto potea questo derivare dal mostrarne le piaghe. Nè. l’ età in cui visse, ancor tutta di ferro in riguardo a generose dottrine politiche, era forse capace di più. Un simil lavo- ‘44 ro era per avventura serbato a’ filosofi del secolo decimo ottava e decimo nono. Ed è da desiderare che le comuni “speranze non rimangano deluse per colpa d’ un raffina- mento eccessivo , il quale precorra i passi dello spirito umano. Certo è che il miglioramento nelle monarchie d'Europa è stato progressivo e grandissimo. Come a’ tem- pi del Machiavelli , benchè , in certi rispetti, atrocissimi, non era più nè un Tiberio, nè un Nerone, nè un Caligola; così a’ dì nostri ( e comparativamente in distanza tanto minore ) non v'ha più, nè è da temere che nasca un Alessandro VI , nè un Filippo II , nè un Arrigo VIII. E se l’ umanità e la giustizia continueranno a dirigere la mente e il cuore di chi governa , in guisa che non vadan perduti gli ulteriori scoprimenti della ragione, è da spe- rare essere per venire un tempo, nel quale i nostri più ‘lontani nepoti riguardino la presente stagione in quel modo che noi riguardiamo le più calamitose età scorse. » IV. Il terzo discorso del Maier si riferisce al contrap- punto, dichiarando alcune parole dette da Cicerone nella repubblica, e deducendo « che l’ armonia equitempora- nea, ossia il contrappunto era stata conosciuta ed usata anche dagli antichi: che la loro musica era fondata, egual- mente che la nostra, sù sette suoni primitivi dell’ ottava: e che gli uomini di qualunque età e di qualunque nazione non poterono, nè potranno mai fare a meno di usare della stessa scala, delle stesse consonanze e dissonanze, e di 0s- servare nella pratica tutte le relazioni e differenze ch’ esi- stono fra’sette suoni primitivi ed originali. V. Il quarto ed ultimo discorso è un appendice al Galateo di Monsignor della Casa, ove il Maier indica il modo di stare nel caffè e ne teatri senza recar fastidio ad alcuno. Io ho letto con piacere i consigli suoi, e spero sieno utili a molti, massimamente a quegli che il teatro frequentano. Non credo però necessario darne qui parti- colare ragguaglio , poichè la bontà e gentilezza dimostra- 45 ta a noi sempre da’ nostri lettori è certa prova della loro buona educazione, cui non è uopo quindi verun consiglio per bene adoperare in privato e dinanzi al pubblico. i Antonio Benci. Tv I CS enne A Ad Ii rl Collezione di casì clinici-chirurgici, di Gro. Barista BELLINI. — Vol. 1. Punt. 1 Padova, dalla tipografia della Minerva. Mentre non pochi fra i cultori delle mediche e chi- rurgiche discipline mettono a tortura il loro ingegno per discutere , o sostenere dottrine puramente polemiche, o sistematiche , le quali in luogo di far progredir la scienza l’ arrestano o la deviano, il sig. Gio. Batista Bellini to- scano, con migliore accorgimento destina alla stampa una collezione dei casi clinici-chirurgici più importanti , che gli venne fatto di curare nello spedal maggiore di Rovigo, dentro il primo triennio del suo clinico esercizio. Senza affaticarci soverchiamente a mostrare l’utilità del divisa. mento concepito dal professor toscano, noi ci limiteremo solo a far riflettere che se l’unico e vero mezzo di forma- re , 0 di consolidare l’ arte chirurgica è quello dei fatti e dell’ osservazione , il sig. Bellini è certamente nella vera strada di essere utile alla scienza che egli ha coltivato decorosamente in patria, e che con pari successo esercita di presente a Rovigo. La prima puntata del primo volume contiene cinque istorie di altrettante operazioni chirurgiche; e ciascuna di queste istorie è seguita da un’ appendice, o annotazione nella quale trovasi sparso fior di senno, e non comune erudizione. — Trattasi nella prima istoria di una litotomia praticata col metodo del Le Cat, nella quale l’ esperto professore estrasse un calcolo saccato in quella parete della vescica che riguarda il pube ; il qual calcolo non potè es- 46 ser cavato altrimenti che previa l’incisione di quel par- ticolare involucro; entro il quale era contenuto. Dopo l’o- ‘perazione insorsero fenomeni di una qualche entità occa- sionati specialmente da emorragia nell'interno della ve- scica, per cui fu necessario introdurvi per l’uretra una sciringa elastica , la permanenza della quale, e l’uso delli appropriati fg , riordinarono tosto l'andamento della natura verso la cicatrice che si ottenne ben presto com- pletissima . È La seconda istoria contiene l’ interessante osserva- zione di un calcolo voluminoso, arrestatosi nella fossa navicolare dell’ uretra , e colà rimasto per ben vent’ anni; durante il qual tempo ebbe il malato a soffrire dolori acerbissimi nell’ espulsione dell’ orina. Il sig. Bellini ne fece destramente l’ estrazione col taglio dell’ uretra, e pas- sata quindi in vescica una sciringa a permanenza , e ben riunita la ferita con cerotti agglutinativi, ridonò all’ in- fermo la primiera salute nel breve spazio di soli otto giorni . Nella terza istoria si ragiona della cura radicativa di un vasto igroma, eseguita felicemente col taglio, e coll’a- brasione di varie callosità esistenti nell’ interno di questo tumore . Lasciò già scritto Celso che quei mali che non sono sanabili dai medicamenti, lo sono dal ferro, o dal fuoco; ed a seconda di questo consiglio modellando il sig. Bellini la sua pratica, ebbe la grata sodisfazione di curare radical- mente gli undici individui , dei quali parla nella sua sto- ria quarta, dalla spaventosa malattia del cancro la quale in un colla parte che invade, spesso distrugge la vita del misero che ne fu assalito. Finalmente nella quinta istoria si contiene la narra- zione dell’ inaudito guastamento della mano di un indi- viduo, avvenuto per l’ esplosione di un fucile; nel qual caso la necessità di operare resasi eminentemente impe- | 1.49 riosa da circostanze speciali, indusse il savio operatore ad intraprenderne la disarticolazione immediatamente dopo il sofferto accidente, non già per la vana ostentazione di pra- ticare una operazione rischiosa, ma bensì guidato da solide e ben ponderate ragioni. Dall’ importanza delle quali istorie comprenderà ognuno facilmente di quale e quanta utilità sia per essere il lavoro promesso dall’egregio nostro sig. Bellini, della di cui sollecita pubblicazione ci rende sempre più ansiosi l'interesse che ci ha destato la lettura del primo suo sag- gio, intorno a cui ci siamo fin’ ora intrattenuti. P. B. Rapporto fatto all’ adunanza generale della società di . lettura di Ginevra, il 16 gennaio 1823. dal signor Dunonr. Fra le istituzioni scientifiche e. letterarie fondate in. Ginevra, è da annoverarsi con lode una società di lettura pertenente ad una compagnia, a socii della quale sono ascritte quasi tutte le persone colte del paese, che hanno i mezzi di pagare l’ annua contribuzione (*). Nell’adunanza N . (*) Ginevra è città di soli 23 m. abitanti; e 327 era il dì 16 di gennaio p. p. il numero dei membri di una società, per far parte della quale conviene, oltre il pagamento dell’ annua contri- buzione di circa franchi 50, far dono di un’ opera almeno alla bi- blioteca della medesima nell’atto dell’ ammissione. E pure Ginevra non racchiude che pochi ricchi oziosi, e quasi tutti i suoi abitanti vivono dei frutti della loro industria commerciale e manifatturie- ra, e generalmente con saggia economia; ma tali sono i risulta- menti della diffasione dei lumi , del sistema di educazione che vi è in vigore, e di uno spirito di associazione ben diretto, che il contribuire per un simile stabilimento viene considerato come una delle spese le più ragionevoli e le più dilettevoli nel tempo medesimo , che possa fare anche l’uomo poco fortunato. 18°. generale , tenuta al principio di quest’ anno, sesto dopo la sua fondazione , il sig. Dumont, a nome della commissione amministrativa , lesse un rapporto così importante, che siamo di parere far cosa gratissima a’nostri lettori, se non traducendolo per l’intero, riportandolo almeno per la maggior parte nel nostro giornale , e solo ommetten- do ciò che riguarda a certe particolarità di una meno ge- nerale importanza. i Sembra avere egli voluto prendere in considerazione tutto ciò che può aver relazione coll’ oggetto di questa istituzione; egli ha preso per suo tema Za Zettura in gene- rale ed in particolare. “« In una società inglese ( egli dice ), e per sapere e per talento ragguardevolissima , fu disputato e con- troverso circa il metodo allora nuovo del reciproco in- segnamento ; nè se gli negarono i vantaggi di compen- diare lo studio, di renderlo più gradevole, di costar poco, e di formare ad un tempo uno scolaro ed un maestro nello stesso individuo : ma ponevasi in que- stione se fosse conveniente il diffondere l'insegnamento elementare negli ordini inferiori della società; e se la lettura fosse utile all'uomo addetto pel suo stato a’ lavori più abietti e più laboriosi. E oltre a ciò si aggiungeva, che la coltura dello spirito tende a svegliare in lui un più squisito sentimento delle miserie di sua condizione, e a fomentare, mediante libri pericolosissimi , il fanatismo e le passioni politiche: ed esser quindi più sano partito il lasciargli il preservativo dell’ ignoranza, quando non se gli poteva apprestar l’ antidoto di una fondamentale e completa disciplina ». « Non intendo, o signori, di ripetere tutto ciò che venne risposto a questi discorsi ; e sarebbe tempo gettato il eombattere un’ opinione che non ha fra noi partigiani. Ma voglio riportare un bel tratto col quale fu a tal con- troversia posto termine. — Figuratavi, disse un ecclesia- 1% stico di molto talento , di trovarvi solo in un bosco. Voi non ne conoscete le vie tortuose ed intricate ; il cader del giorno infonde nell’ animo vostro una segreta inquie- tudine; l’immaginativa vi rammemora fatti ed istorie sconfortevoli ; si raccontano tristi casi di fresco ‘avvenuti _ in quei contorni ; . . . quando a un tratto, in un solingo sentiero vi si appresenta un uomo. Il primo sentimento è quello dell’emozione. Ma costui ha in mano un libro, in leggere il quale si mostra profondamente occupato. Tanto basta. Ogni timore si dilegua; gli andate incontro cou fiducia; egli è un ente ragionevole , è un amico : quel volume è una guarentigia fra voi e lui, e it simbolo della civiltà —. Questo semplice apologo fu più efficace di qua- lunque maniera d’ argomento. Il raziocinio logico fu, mi «sì perdoni l’espressione, trodotto nel linguaggio del sen- timento, ed una particolare osservazione rappresentò un esperimento generale ». « E a dir vero; se l’utilità dell’ insegnamento sligira. co avesse potuto lasciar qualche dubbio , sarebbe questo stato chiarito dal fatto. Da un calcolo tanto esatto quan- to è possibile farsi in tal materia, è dimostrato che in Iscozia , in Inghilterra e in Irlanda , tre grandi divisioni d’ un paese ove l'educazione è inegualmente distribuita , il numero dei delitti è in proporzione diretta degli abitan- ti che non san leggere; e quel che è più singolare, offre questo risultamento la grande scuola di Lancastro, stabi- lita nel sobborgo più povero della capitale britannica. Da più di venti anni, sopra sette in ottocento atutti che vi sono annualmente ammaestrati, non ve ne è stato uno solo chiamato in giudizio per un delitto. Il più freddo ed ostinato ragionatore non oserebbe sostenere che una tal risultanza potesse essere l’ effetto del puro caso, senza ve- runo influsso dell’ educazione ». « Ho creduto, che tali osservazioni sulle scuole d’ in- segnamento reciproco non fossero estranee ad una società T. XI. Agosto 4 50 di lettura . Sappiamo che fa d’uopo prestare ogni .solle- citudine all’ agricoltura comune, prima di aspirare, ad avere dei prodotti preziosi. Cosa sarebbe mai un giardino botanico in un paese ove la coltura dei campi fosse ne- gletta ? E tristo il lusso accompagnato dalla povertà ma piace tosto che è è frutto dell’abbondanza. E poi; possiamo poi dissimulare che i nemici dell’ insegnamento. reciproco porterebbero più oltre la loro malevoglienza, se ne avesse- ro il potere? Ogni società di lettura è loro grandemente sospetta ; e sono riusciti a far sì che tali società fossero proibite in qualche luogo ove esistevano.Sembra che l’istin- to li faccia accorti che non si possono possedere. talenti se non per adoprarli contro di essì ». « Nell'’istitaire il nostro gabinetto di lettura slibigio scrupolosamente fuggito qualunque ostentazione. Erano stale proposte alcune adunanze letterarie, alcuni pubblici esercizi , che avrebbero potuto servire d’ esperimento. ai talenti; ma non abbiam voluto che assumesse la fisiono- .mia di liceo ». « La nostra società, a simiglianza d'un uomo modesto, faceva consistere il suo onore nel non far parlare di sè. Nonostante, la facilità di ammettere. ogni colto forestiere, le ha fatto perdere in parte l’ indole d’un istituto privato. La loro riconoscenza si diffuse in pubbliche lodi; e.da quel momento ha taluno preteso esser noi divenuti 0g- getto di esotica curiosità; ed è nato per lo meno sospetto che fra il gran numero di coloro che ci onoravano colla loro presenza., fossevi stato alcuno di quei curiosi e veri osservatori, che fanno uso dei loro occhi e delle loro orec- chie in servigio di chi voglia impiegarli. Ma se a caso qualche tentativo di tal genere fosse stato fatto , l’ esito avrà distolto da farne altri. Figuriamoci un argo, con gli occhi bene aperti, con l’ orecchie ben tese in una sala di lettura, ove regna il raccoglimento e il silenzio dei sordi e de’ muti: cosa si vuole ch’ egli inventi, 0 riporti ? 51 Ju una sala di conversazione aperta a tutti, in una. socie- tà che ha per massima il riunire uomini d'ogni stato, ove trovansi magistrati , uegozianti, ecclesiastici, artisti, professori ed alunni, ove si vedono ogni anno intervenire quattro in cinquecento forestieri, su qual subietto può esercitarsi il talento di questi officiosi osservatori, a’quali per:lo meno fa di mestieri qualche circostanza che dia luogo alla conghiettura , materia all’interpretazione ? La nostra pubblicità distrugge l’arte di cercar de’ segreti. Essi vorrebbero vedere e udire ciò che sarebbe di natu- ra sua da nascondersi: ma noi abbiam fatto ben più che quel romano che avrebbe voluto abitare una casa traspa- rente: la nostra è affatto aperta. Questi esploratori portano una lauterna sorda nell’ oscurità; ma a che serve la lan- terna sul mezzogiorno? » Passa poi ad indicare il numero grande de’ forestieri intervenuti al Gabinetto di lettura della società, e pren- de da ciò occasione di fare le seguenti considerazioni, ‘4 Ma se questo numero prova quanto sia grato a'‘mem- bri della società il diritto che godono di presentare de’ fo- restieri, ci mostra altresì che questo diritto deve eserci- tarsi con una certa avvedutezza nella scelta. Conviene che i membri ne facciano uso in verso persone indirizzate loro da qualche amico , e delle quali possano dar conto. Ciascuno è in dovere di aver questo riguardo alla società. Ciò che altri dona senza scelta non ha valore ; ed una in- discreta facilità sarebbe contraria ai principi e allo spirito «del nostro istituto ».. « Alcupi forestieri nel dar relazione de’ loro viaggi in Isvizzera ne han manifestate benevole reminiscenze. Jl sig. di Lally-Tolendall uomo amabilissimo, e la cui im- maginativa sa tutto abbellire , seppe trovar luogo per noi .nel descrivere una gloriosa giornata in cui la Svizzera celebrava lo zelo e.l’incorruttibile fedeltà dei suoi soldati». | «Possiam forse ascrivere a nostra felicità, che ia nostra 5a società non è stata mentovata in un’opera singolarissima per V arte di raccontare e di dipingere, nella: quale la nostra: Ginevra è stata trattata con gran severità: Non- ostante dall’opera di quel viaggiatore risulta che i nostri difetti non sono mascherati dall’ ipocrisia, perchè ha tutto veduto , è penetrato in tutto , e nel breve tempo di qua- rantotto ore. Nulla è sfuggito alla sua rapida intelligenza; i nostri costumi , i nostri principi politici , il nostro com- mercio , l’indole degli abitanti, i nostri difetti sociali, l’ e- goismo de’ nostri deci Egli non ha obliato veruna cosa ; se si eccettui l’ insegnarci l’arte di giudicar, come ei fece - a vista di uccello , le condizioni de’ governi e dei popoli ». a Rendasi onore, si attesti gratitudine ad un censore equo ed illuminato. Il forestiero che non partecipa a’ no- stri pregiudizi , alle nostre illusioni, alle nostre abitudini può insegnarci a conoscere noi stessi mostrandoci quali siamo: così egli terge lo specchio appannato dal nostro alito. Ma perchè le sue lezioni sieno utili , è di mestieri che respirino benevolenza e non mal’umore . Se l’ autore si dà a credere di giudicare quando decide; se sentenzia a dritto e a rovescio senza aver preso tempo per esamina- re, facendo un ritratto di fantasia, non farà altro che il ‘proprio ritratto: e il suo libro piacente per la forma; ma ‘nullo in sostanza , sarà obliato prima forse che ne sia fatta uma critica ». Tralasceremo alcuni particolari sull’ amministrazio- ne; e sul numero de’ soci a grado crescente ; e su quello dei libri donati e comprati, i quali in totalità ascen- dono a 7370 volumi; e sulle nuove forme di ordinare la biblioteca in modo che più agevole riesca il trovare il libro che si cerca. Era ben ragionevole che una raccolta di libri forma- ta in gran parte dai donativi dei diversi soci, e di. fore- ‘stieri che erano stati ammessi a godere il beneficio d’ un gabinetto di lettura, dovesse risultare incompleta e non 53 ber composta , e quale ordinerebbe per proprio uso una privata persona; e quindi che una biblioteca, direm, così; collettizia fino dai primi, anni che. incominciò a formarsi , potesse soddisfare al genio dell’ universalità de’lettori, diversissimi fra loro per istato e per discipline. Non isfuggirono al. sig. Dumont queste considerazioni; che anzi gli diedero. motivo di esporre su di ciò le sue idee. ra « Mi si conceda, o signori, di esporre alcuni pensieri generali sulla formazione della ;nostra biblioteca, e di rispondere indirettamente ad alcuni, obietti. Non. possia- mo;sperare di soddisfare al desiderio di tutti nella scelta de’ libri. I lettori tedeschi, i francesi, i cultori della. let- teratura inglese, i medici, i giureconsulti, gli eclesiastici, i dotti, i. dilettanti d’istoria e di belle lettere., sono nelle loro richieste come tanti rivali, uno de’ quali non può star contento ‘che alle spese d’un altro. Una biblioteca , co- minciata a formarsi da soli quattro anni, messa. insieme a caso; deve.di necessità essere molto ineguale: in una classe, manca quasi affatto,in un’altra sovrabbonda: scar- seggia/di molti buoni libri, molti ne ha de'mediocri: ma quale è un buon libro? ciascuno può per conto proprio non per conto. altrui rispondere a questa domanda. Ogni specie di libro ha! il suo merito per delle ricerche. Lasciamo che ciascuno scelga a suo genio. Una biblioteca di depo- sito deve aver di tutto , e. non. ha mai troppo ,» «Talunì riguarderanno forse con spavento sun am- masso di libri. Ma non vi è da spaventarsi. Il numero dei libri, dei. veri libri. non tende a crescere ma piuttosto a diminuire. Vi è pei. libri una mortalità anco più grande . che per gli uomini. La biblioteca di deposito. cresce ;. la biblioteca d’istruzione rimpiccolisce. Fra. i manoscritti del Lock, vidi una nota da lui fatta andando in università, ove aveva scritto il titolo,di tutte l’opere di metafisica ch'ei, vo- leva leggere. Il fatto è curioso come indizio del suo talento; 54 ma è più curiose sotto altro aspetto. Ne erano‘notati più di sessanta, se la nvemoria non m’inganna. Oggigiorno, fuori di dueotre,tutti gli altri non si conoscono, e egli stesso è quel- lo che gli ha fatti dimenticare. In economia potitica Ada- mo Smith ha annichilati tutti i suoi antecessori, In qua- lunque genere un solo libro di genio tiene luogo dii mol- ti. Si solleva solo, e tutti quei che splendevano prima di luì appoco oppoco sì eclistayo, e cadono in una profonda 1@ oscurità ». «Il perchè abbiamo molti libri da consultare, pochi da studiare; nella stessa guisa che in una gran città ‘ci tro- viamo in mezzo ad una moltitudine d’uomini.d’ ogni paese , e d’ ogni condizione, ma non offrano rn un piccol numero d' amici ». E per non trascurar nulla di tutto ciò che può esser relativo ad un gabinetto di lettura, presenta alcuni’ suoi giudiziosissimi pensieri sull’ arte di leggere ‘utilmente, e di dirigere la lettura ad uno scopo. « La differenza che corre fra una passeggiata e un viag- gio continuato, rappresenta con qualche precisione quella che passa fra una lettura per passatempo, ‘e ‘una lettura per istudio. Se volete imparare ( egli dice a’suoi ‘uditori ) non leggete a caso , ma riferite ciò che leggete ad un og- getto principale, ad uno scopo già stabilito. Importa tal: volta moltissimo il leggere un libro prima d’un altro, e per dare quest’ ordine alla lettura , giova prender consiglio: da quelli che hanno corsa la stessa carriera. Fatto il proponi- mento di studiare un’opera essenziale, è necessario provve- dersi di tutti gli aiuti accessori. Se per es. è un libro'd’istoria, è necessario aver sott’ occhio carte geografiche ., prospetti cronologici ; ‘conoscere l’ età in cui serisse l’autore; la ‘sua condizione ; le sue ‘opinioni particolari, i mezzi che ebbe per attingere le notizie: fa di mestieri ancora confrontar- lo con altri istorici su gli stessi tempi; e la lettura di questi sarà più utile' fatta insieme che separatamente ». 55 ‘«Prima di cominciare una lettura di studio sì esamini ciò che sappiamo su quel subietto, facendo in certo modo un inventario delle proprie nozioni. Questa operazione può farsi rapidamente, ed ecco come: Si faccia prima mentalmente una tavola delle materie, e si esamini di poi quella dell’ autore. Sul titolo di ciascun capitolo cercate nella vostra mente se trovate qualche cosa da potervi ag- giungere: e quindi maggiore interessamento, una più gran- de attenzione, più critica, più disposizione a distinguere ciò che è nuovo e caratteristico in un’opera ». ‘id È continua doglianza di non ritenere; nè ciò dee recar meraviglia, quando rimanghiamo passivi nella let- tura. Se ci viene esibita in conversazione la decima parte d’ un libro, farà dieci volte più effetto di tutta l’opera, la quale passi nel cervello come un’ ombra sopra una tela. La ragione è manifesta ». ‘« In ascoltando voi siete in azione; volete rispondere, non perder un sol passo : la forma drammatica vi tiene sveglio: laddove in leggendo le immagini passano avanti agli occhi come se noi ‘fossimo a giacere dentro un battel- lo. quasi addormentati dalla placidezza dell’andare. Bi- sogna dunque riscuotersi, interrompersi leggendo, inter- rogare l’autore, indagare le sue risposte; e meditando più a lungo sul di lui tema, è probabile che egli avrà vedute e chiarite quelle difficoltà che abbiamo trovate ». « Leggendo.un’ opera filosofica bisogna procurare di farsi un’ idea chiara del principio dominante’ ed analitico dell’ autore. Quasi tutti i filosofi si contradicono. Non importa; nè tocca a noi il conciliarli o il combatterli. Studiamo però di sapere il fondamento del loro sistema, ed in che sieno fra loro diversi. Ci passeranno di mente i particolari, ma rimarrà improntata l’ idea principale, sarà il germe de’ confronti, e feconderà in certo modo il nostro spirito. Leggendo per esempio il Condillac nel suo trattato dell’ arte di scrivere, vedremo ch’ ei ne riferisce "na ) JU: 4 tutte le regole alla connesione delle idce : il Beccaria nel suo saggio sullo stile ne spiega tutti ì generi per mezzo della natura dei sentimenti accessori che si congiungono all’ idea, principale. Aristotile nella sua retorica , seguito dal Montesquieu nel suo elegante saggio sul gusto, analiz- za i piaceri tutti di cui l'animo è suscettivo ; e ne fa la. base de’ suoi precetti. Il Batteux nel suo corso di lettera-- tura intese a ridur tutto ad un solo principio, che ei chia- ma, imitazione della natura. Il Burke nella sua opera sul bello risale fino alle sensazioni ; e secondo lui: il su-. blime consiste nell’ eccitare la più forte di esse , il terro- re. Quest’ esempio basta a mostrare. come debba cercarsi. ì’ idea dominante , il principio analitico in quei libri. sì- stematicamente e regolarmente composti » . e «Il miglior modo di combattere la tentazione di qual- che matta spesa, si è di metterla in paragone coll’impiego utile d’ una egual somma. Questa stessa regola devesi applicare alla scelta dei. libri; ed economizzare anco in questo genere. Chi è che abbia il teitipb di legger tutto. ciò che è buono } anzi tutto ciò che è eccellente in poesia, in'letteratura, in istoria, in filosofia, nelle lingue dotte, e in inglese, in francese, in tedesco? Diversità di lingua, di versità di bellezze : divoriamo più che non si digerisce. Un libro mediocre toglie il tempo a rileggerne uno ec- cellente. Ciò che ne fa leggere i libri mediocri è il deside- rio di conoscere le opinioni del: giorzo, e gli autori con- temporanei; ma. per. loro bisogna ‘contentarsi d’ un' oc- chiata. L’autore copiato per ben dieci volte da Demostene era Tucidide: e ciò ha forse fatto dire a Seneca molto giudiziosamente mwu/tum non multe legendum. Le farfal- le non:fan miele ». « Quanto ho detto applicasi spezialmente alla lettura dei sommi scrittori in fatto di letteratura. Leggere super- ficialmente i classici 0 poeti. o prosatori non è conoscerli; e quando si crede averli studiati non si è tutto veduto, e 37 rimane sempre da ‘scoprirsi qualche cosa di nuovo. Vi sono certe delicate bellezze, le quali fanno impercettibilmente parte della tessitura dello stile.Evvi un’arte nascosta di col- locare una parola per prepararne una seconda; di dispor- re un pensiero in un dato luogo per dar risalto a ciò che lo accompagna ; di distribuire la luce per illuminare sen- za abbagliare; di risparmiar la forza per insinuar nell’ani- mo la convinzione, senza sgomentare; di lasciar da parte | gli ornamenti i tratti piccanti, i colori troppo vivaci che ‘non 5’ impastano armonicamente nel tutto insieme; in somma viè una mano maestra di cui non possono ve- dersi i segreti se non considerando l’opera partitamente, e più volte con una infaticabile attenzione , ed applican- devi , dirò così ,;il microscopio ». .. «Voglio. anco aggiungere ‘una osservazione generale sulla scelta de’ libri per leggersi. Come nella società, così ne’ libri cerchiamo chi ci aduli e ci approvi; le giovinet- te leggono romanzi ;.i giovani dotati d’ immaginativa, i poeti; i ragionatori trovan pascolo nella metafisica. 0. nel- la politica. Gli ultra, e. i liberali sono intolleranti nella scelta dei .libri, come in quella della loro conversazione». -« È fuori di dubbio che bisogna avere. uno scopo principale ,. ma non esser troppo escludenti. Studisi cia. scuno di coltivare fino a un certo segno quella parte d’intendimento che si propone di lasciare incolta. Prova: te voi poca inclinazione agli studi ‘letterari? Andate ad Atene'( diceva un antico.) offrite qualche olocausto alle muse : il loro commercio addolcirà il vostro austero spi- rito. filosofico. All’ opposto ; vi sentite voi. trasportato per la parte brillante e fiorita della letteratura ?. Guardatevi dal divenire altrettanti ridicoli Anacreonti; e ponete cura in darvi della gravità e.della solidità mediante. qualche studio serio e rispettabile., Avete voi adottato un sistema fisso.in politica , in filosofia ? esaminate il partito contra- rio ;! porgete orecchio a’vostri nemici, nè crediate. che 58 alla vostra veduta, al vostro‘orizzonte si lintiti 1’ universo. Agitate l’animo vostro'in più sensi. Pensate che nello spirito degli stessi repubblicani si generano delle opinioni di schiavità, come nell'animo degl’increduli, de’ senti- menti della più sernpolosa bigotteria ». «Senza abusarmi ulteriormente, o signori, della vostra indulgenza; dilungandomi in queste mie ‘osservazioni, posso per buona sorte supplire alla loro insufficienza , of- ferendovi un modello che vale assai più di tutti i precet- ti. Il sig. Gibbon ha lasciato nelle sue schede'di studi un perfetto esempio del metodo da seguirsi nel leggere, quando s’intenda ad uno'scopo speciale. Sono, è vero; i saggi di sua gioventù; i preludi suoi letterari, ma vedrete in qual guisa preparavasi ad essere un dotto ed un critico; vedrete nascer l’istorico, che assiso sulle ruine di Roma, vi dipingerà quella. vasta potenza crollare sotto'i'vizi della propria grandezza , e sotto gli eccessi del suo dispotismo». «11 sig. Gibbon combatte spesso quell’ errore troppo comune ‘fra i giovani, ‘di considerare il lavoro: continuo come una ingiuria’ fatta al talento, come una specie: di avvilimento' letterario. Ma non è così. La natura; dice un poeta, ci vende ‘tutto ‘ciò che pare donarcij; e'eiò è vero in tutto. Ogni buona riuscita hà sempre un lontano. prin- cipio”, e in letteratura non si fa fortuna in momenti: Ta: luno esclamerà sopra un componimento brillante e rapido « una cosa tanto perfetta composta in due ore! » in due ore? diceva l’autore: sbagliate: son venti anni che ci lavoro. Porrò fine; 0 signori, con questo motto pieno di giudicio e di verità, abbandonandolo allà vostra considerazione ». ‘ Con queste avvertenze egli termina il suo rapporto : e noi ‘termineremo facendo voti che i giovani in special modo‘imprimano nel loro spirito quanto consiglia il sig. Dumont, e'segùuano accuratamente i suoi precetti, quando agio: e vaghezza abbiano d’impiegare il tempo nella lettura. D. sii ati: 5g: Alcune osservazioni sulla teoria eccitabilistica del con- itrostimolo. Lettere ad un amico medico del Dorr. «© E. Baseri. ( Continuazione. Ved. vol. IX. p. 87.) Lettera V. delle Diatesi. «Sia come un effetto della propria natura, sia come un prodotto di cause accidentali, l’ uomo ‘non trovasi costantemente in uno stato di salute. Le sensibili alterazioni delle nostre funzioni; la mo- lestia nel loro esercizio, un cambiamento od un difetto nella struttura delle nostre parti, ecco ciò che partendo dal punto fisso della salute, ci dà un'idea della malattia costituita da speciali nani denominati sintomi, i quali però non sempre manifestandosi, talvolta ci occul- tanovla reale esistenza d’ uno stato morboso. {Le:singole parti’ del nostro corpo, i sistemi che lo formano dando origine ad un tutto armonico di operazio- ni:, conseguentemente l’impressione innormale che spes- so gliagenti esercitano in un solo organo, i processi che vi si stabiliscano, ora per consenso, ora per effetto di propagazione di simili movimenti morbosi, nella maggior parte! della mostra macchina devono perciò pre del- l’‘evidenti alterazioni. Dipendentemente dal numero ed importanza dei sintomi; od:allorquando vengono questi circoscritti in una sola limitata: sfera d’azione, si considerano nel primo caso per malattie generali;;. e per malattie locali nell’ altro. Se questa divisione sia esatta, se sia giusta, se sia ‘utile:;.non è nostro scòpo ‘d’’occuparcene ; ma unicamen- te. protedemmo da questi dati per. istabilire , che nella stessa teoria éccitabilistica Je. malattie locali formano una elasse distinta'‘d’ affezioni; inicuìi 1’ alterazione del: loro eccitamento limitasi nel luogo affetto, mentre nelle uni- versali ‘unicamente diminuito od aumentato , forma Go: | cia la sola condizione morbosa di cui i browniani credono i suscettibili le nostre parti, il:totale nostro sistema; qua- lunque siasi la causa che l’occasiona,.0 quella ‘che la co- slituisce . i Era questa la legittima deduzione de’ principi brow- niani, imperocchè tutte le azioni dei corpi riducendosi a stimolare, o come.i neoterici ammettono, a controstimola - re ancora ,;cioè ad aumentare o diminuire l’eccitamento., perciò nelle funzioni innormali,, comecchè prodotte da simili/agenti;: mon potremo avere che un eccitamento ac- cresciuto y6fdiminuito, L'azione de’ “corpi, supponendosi. esercitata , o. , sopra un ente, o/sopra un’ indivisa, diffusa ed asino qua- lità della nostra economia; perciò questa non può dive- nire capace che di quelle sole. alterazioni che essi. v'in- ducono. Se l’opera poi che questi vi esercitano si trovasse opposta ; allora non si avrebbe in resultato che.un equili- brio, 0 la. differenza delle. :opposte azioni ,. poichè nella nostra macchina si crede non potersi. l eccitamento tro- vare che.in,un sol modo! modificato; e variante: sglarhgn- te di quantità, li@tro> Il vocabolo Diatesi, pene isdeprito in) dai primi tem- pi. in cui l’ arte salutare acquistando dei principi vennero questi indicati con appropriato linguaggio , non ebbe, un costante significato. Luni Lib Questa parola presentemente s "adopera per dedalo pri statoidell’ animale; economia, in. cui ha luogo una Rie n d’ aumentato 0 diminui- to eccitamento.;... .: 9A Alcuni; per. altro: dei più fllugtri suoilini che professa: nola «dottrina eccitabilistica » , punto . risguardando» alla quantità; :«dell’ eccitamento; ; rivolgono. Je .loro;mire alla natura degli agenti.opporbuni onde rimediarvi; 0 :se si vuole agli organico-vitali processi corrispondenti che man- tengono e costituiscono le diatesi, e queste perciò uni- 61 camente i conbidlerano come altrettanti processi di stimolo ‘e di coutrostimolo 5 che persistono indipendentemente dall’ esterne cause d’ onde prima provennero. Con queste denominazioni, non indicandosi la natura della condizio- ne morbosa, non acquisteremo una’ precisa idea della medesima , ignorando inoltre come possano intrinseca- mente eccitarsi processi simili a quelli prodotti da agenti ‘esterni, come questi sì peggio e come possano rico- noscersi. Il carattere poi di persistere ad onta della remozio- ne della causa, non servirà che di segno o condizione per un’artificiale classazione delle malattie, non potendo con ‘questo sapersi la qualità delle. morbose operazioni, e ‘quali siano i convenienti rimedi, dovendosi in ogni caso , ‘ed a qualunque categoria appartenga un morbo, procu- rare sempre la cessazione e l’attenuamento degli 2 agenti che producono e mantengono le malattie. ‘Sebbene le affezioni diatesiche siano ‘quelle che principalmente figurano nel quadro deplorabile delle malattie universali , pure i neoterici ammisero delle ‘affezioni Adiatesiche , e delle affezioni /rritative , l’ une ‘e l’ altre diverse dalle diatesiche, tanto perchè le credet- tero essenzialmente differenti , quanto per l'utilità ed il vantaggio della pratica applicazione di altri principi. Inoltre distinsero pure dalle diatesiche le locali malattie, sì per la loro sede , sì per le apparenze fenome- nologiche, sì per il metodo curativo. La necessità di riconoscere questi tre altri distinti stati della nostra economia ammalata , deve aver subito fatto perdere il pregio alla semplicità della dottrina , sic- come ne ha dimostrato la fallacia delle prime opinioni che non furono riconosciute sufficienti per l’ intelligenzà dei fenomeni, e per l’ opportunità della pratica. La causa morbosa dei sintomi fu dunque fissata nel- l’eccitamento accresciuto o diminuito, oppure nei due Di opposti processi di stimolo e di controstimolo , che qua- lunque siasi la loro denominazione, non sono niente meno altrettante vitali condizioni della nostra economia... Sebbene si abbia riguardo nelle malattie all’ impor- tante investigazione della condizione patologica ultima- mente studiata,si suppone per altro che questa non consista che nel processo dell’ eccitamento locale , il quale più che altrove, nel sito maggiormente affetto imperversi,.e che non sia difatti la primitiva essenziale e reale cagione del- le malattie, ma piuttosto che dall’ associazione delle dia- tesì colle condizioni patologiche esse dipendano. Le affezioni adiatesiche per la brevità del corso, e per la loro cessazione ‘assoluta nel rimuoverne l’ Ronn produttore ( carattere per cui potrebbero venire confuse colle irritative ), e che dalle diatesi unicamente a. poste- riori distinguonsi , siano comunque si voglia, dovrebbero essere sempre un prodotto d’ aumentato 0 diminuito eccitamento, ossivvero il resultato dei contrari processi di stimolo e controstimolo . Th Ad oggetto di procedere con qualche ordine in queste osservazioni, occupiamoci nel ricercare se una semplice gradazioue dell’ eccitamento possa essere «capace di dare origine alla moltiplice serie delle malattie universali. Comunque si consideri l’ eccitamento , o come la causa dinamica virtuale delle funzioni, o come l'atto di queste stesse, sembra evidente che in ogui variazione di quantità del medesimo, aver non si debba che una variazione nell’istessa funzione equivalente all’eccitamen- to. Ma all'opposto si osserva una marcatissima differenza dallo stato sano a quello malato; vi si stabiliscono inso- lite funzioni, che sebbene preseutino delle analogie con quelle dello stato sano, e che appartengano alla catego- ria dei processi organico vitali, proviene questo dall’ in- compatibilità di diversamente effettuarsi , atteso la strut - tura delle nostre parti e delle loro conseguenti proprietà 63 ‘vitali, onde i fatti che ne resultano devono. sempre. cor- rispondere alle loro produttrici cagioni. Pertanto in qual guisa un.stimolo che non opera che per quantità , un controstimolo che agisce unicamente deprimendo l’ eccitamento, un’ eccitabilità ; che identica in tutte le parti del corpo è di qualità costante, dà un prodotto di qualità cotanto diverse ? Avendo dimostrato che l’ eccitamento è l’ atto della funzione, o se meglio amasi ,.che consiste nei movimenti che la producano, e che questi movimenti sono relativi all’ organizzazione della parte ed alla modificazione che riceve per l'impressione de’ corpi, perciò adunque le ope- razioni resultanti nascono dall’ attivata materialità de’no- stri organi,, ed è conseguentemente in questa che devesi ricercare la natura delle malattie. Ci apporranno che essendo mancanti di mezzi per bene studiare e conoscere la materialità variata, conven- ga unicamente occuparci dei visibili movimenti che ap- pariscono. Ma poichè neppure i primitivi movimenti .ec- citamentali cadono sotto i sensi, offrendoglisi solo quei costituenti le funzioni , e ciò non pertanto da questi. fa- cendo astrazione sì ricorre all’ eccitamento, così invece di ricercarne il solo aumento o diminuzione , sarebbe da preferirsi lo studio della cambiata automatica assimilazio- ne delle parti. La nostra economia, tanto nello stato siazinale quan- to nel morboso, è certamente soggetta a due modi di mo- vimenti. Il primitivo produttore della. nostra struttura dell’ assimilazione delle parti e delle loro funzioni, e l’altro che ne è l’effetto secondario, può difatti cadere sotto i sensi. Da questi movimenti secondari si potrebbe forse per induzione ed analogia giudicare dei primi, ma quest’ investigazione quanto è difficile , oscura, altrettan- to dev'essere mancante di dimostrazione per l’ evidenza; - conseguentemente mai ci potremo formare una chiara e 64 giusta idea dell’ essenza delle diatesi , considerate come la causa reale delle malattie. È Astenendoci per ora dal fare quelle riflcsihi che tendono a mostrare l’ errore della dottrina virtuale, e dal ripetere quelle che nelle precedenti lettere abbiamo presentato , osserviamo se coi principi diatesici possano ricevere spiegazione i processi morbosi ed i metodi cu- rativi, e quali siano le deduzioni di questi principi per il perfezionamento della cura. Ammesso l’ eccitamento accresciuto o diminuito qual causa prossima della malattia, non può intendersi come talvolta si limiti in una parte la sua alterazione , senza questa comunicarsi all’universale dell’ economia, poichè le affezioni della vitalità od eccitabilità si sup- pongono doversi sempre diffondere. È in questo modo che spiegasi l’ azione dei medica- menti opposti alla diatesi ’ supponendo finanche indiffe- rente, qualunque essa sia , il punto d’ applicazione del rimedio. © D'altronde come già fu detto, nelle funzioni am- malate, non dovrebbesi avere che un aumento od una diminuzione delle medesime , nè mai potrebbesi cambia- re la loro natura, nè mai dovrebbero stabilirsi nuove ope- razioni. Se le malattie consistessero nelle semplici diatesi, se esse non fossero che una gradazione dell’ eccitamento, sebbene privi di mezzi per accrescere o diminuire l’ ec- citabilità ; saremmo nella fortunata condizione di potere per mezzo degli opposti agenti formare a beneplacito ‘un determinato eccitamento , eguale a quello che costituisce l’integrità e la normalità delle nostre funzioni. Imperocchè la loro azione essendo istantanea, se sul- le proprietà vitali operasse come si crede , sia col variare l’ eccitamento , sia col suscitare un processo opposto a quello che il morboso agente risveglia , dovrebbe ottener- 65 si subito la guarigione. Malgrado però il felice ardire dei neoterici si conseguisce ciò nella pratica? E se per render alla verità la meritata giustizia col loro metodo moderato, si abbrevia il corso del male, esso ne fa sempre uno lun - ghissimo relativamente ai principii della loro primitiva teoria. Qualunque sia l’energia del piano curativo, le malat- tie seguitano sempre un corso determinato, o per così dire necessario e regolare in quanto al proprio andamento, se non lo è in quanto all’uniformità del tempo della sua durata , che varia a tenore del complesso di tutte le cir- costanze che concorrono alla formazione delle medesime, e che influiscono nei loro successivi periodi. Quest’osservazione non dev’ essere trascurata, percio- chè se le malattie consistessero nella mera variazione di quantità dell’ eccitamento , od in un processo di stimolo e di controstimolo , diverrebbe facile, e colla dose, e colla qualità speciale dei rimedi , ottennere la cessazione della condizione morbosa, e riprodurre quello stato di- mamico d’eccitamento ; o quello ignoto di controstimolo o di stimolo ; costituente la salute; ma non corrisponden- dovi la pratica, qualche altro processo nella cura è neces- sario che accada, atteso che nello sviluppo delle parti e nell’ acquisto delle loro proprietà , riesce indispensabile che avvenga una progressiva produzione, ed un’ assimila- zione di materiali per conseguirle; così nella formazione delle malattie, necessita una progresione nei cambiamen- ti organici dei sistemi affetti, e perciò procurandosene od avvenendo la guarigione , è indispensabile che il loro materiale cambiamento accada in pari condizione, onde è che le malattie e la loro cura , hanno necessariamente quest’ analogia col costante andamento dei processi vitali ed organici. Considerate le diatesi come la nota causa delle af- T. XI. Agosto 5 66 fezioni universali, dovrebbe essere indifferente il punto d’ azione dei rimedi; e se. in diverso modo e, grado le no- stre parti se ne osservano affette, se presentano una varia-. zione nel loro innormale eccitamento , non vi sarebbe nep- pure difficoltà nel concepire come il medesimo essendo . diverso nelle varie parti del corpo, non possano queste pure divenire d’ opposta diatesi suscettibili. L'esperienza mostra di fatti la necessità d’ agire in certi determinati punti, tanto per conseguire la guarigione, quanto per ot- tenerne effetti contrari; e la pratica c'insegna per esempio. che le croniche infiammazioni di alcuni visceri, richie- dendo e salassi e purganti, ne riesce spesso dannosa l’ ap- plicazione allo stomaco ed alla facoltà motrice de’ nostri muscoli. Laonde non potrà stabilirsì utilmente un’unifor- me cura generale, e sì dovrà avere più riguardo ai spe- ciali processi morbosi che alle diatesi generalizzate, che talvolta richiedono sussidi opposti a quelli ch’ esige l’ af- fezione locale. Dirigendo inoltre alle semplici diatesi eccitabilistiche la cura, attribuendo agli agenti due soli modi contrari di operare, nè calcolando le reali organiche alterazioni loca- lizzate, quell’ istesso tartaro emetico , che si amministra con vantaggio nella pneumopitide, dovrebbe riescire ugual- mente utile nella gastritide. All’opposto quali non sareb- bero le terribili conseguenze del di lui uso, di quello della gomma gutta, del solfato di ferro e di alcuni altri contro. stimoli , se in queste circostanze s° adoprassero ? Passando oltre, ed ammettendo anche le diatesi per le sole ed uniche cause morbose, è da alcuni caratteri che dovrebbero fra loro distinguersi, distinzione impor- tantissima per il metodo-di curare: ma i fatti che offrono le malattie, i loro sintomi, la natura delle cause, non sono sempre sufficienti per farci conoscere la qualita delle chatesi ; neppure l'energia e la debolezza dei fenomeni 67 > dinamici, possono servirci di eriterio; un'esperienza fatale avendo mostrato il. danno ed il pericolo di affidarvisi.(1).. "Convinti di questa verità, i controstimolisti si guar- dono bene dall’ istituire il piano curativo sulla, semplice dinamica ‘apparenza del momento dell’ eccitamento. Coi loro nuovi principii differiscono da Brown, non solo ric. - noscendo una vistosa preponderanza numerica nelle af- fezioni ipersteniche, ed accordando alla maggior parte dei corpi un'azione controstimolante, ma fissando che ad onta d’uno stato di debolezza inoltrata ed eccessiva si può stabilire una diatesi iperstenica, e che il languore delle funzioni può essere pure l’effetto d’un iperstenicismo , chie nell’ applicazione pratica equivale al bisogno d’ una cura evacuante e debilitante. Dall’ esposizione di questi principii contro le regole di ben ragionare, resulta che da cause opposte si ottengo- no fenomeni simili, e fenomeni dissimili da cause identi- che. (2), in modo che sembra esistere un grand’ inganno nel riconoscere le diatesi per causa delle malattie , e che esse perciò siano tutt’ altro di quello che credesi comune- mente. Il desumere poi la diatesi dalla natura dell’azione «della potenza nociva può indurre in equivoci, insorgendo .spesso un processo morboso che è evidentemente opposto .alla medesima, giacchè esige di venire curato con analu- ghe potenze. Cercasi quindi con maggior sicurezza di riconoscere la natura delle diatesi dai resultati dell’ azione delle sostanze (1) Vedi fascicolo 29 pag. 183-185. (2) Gli stimoli, i processi di stimolo, le diatesi ipersteniche, ora ci offrono movimenti accresciuti , ora un languore nelle fun- zioni, tanto in quelle primariamente affette, quanto in quelle se- condariamente o simpaticamente ammalate. I controstimoli, i pro- cessi di controstimolo, le diatesi iposteniche, talvolta diminuisco- no, e tal’altra accrescono i moti naturali delle parti , o producono fenomeni morbosi d’ accresciuto o diminuito movimento. 68 impiegate, ma una prudenza somma si esige nell’ adottare questo metodo, e cì troveremo spesso nell’ incertezza di giudicare se gli effetti ottenuti siano repetibili dall’ anda- mento naturale della malattia , o dall’azione del rimedio; e nel caso Opproco, se non siansi questi conseguiti Pre non averlo adoprato in quella quantità efficace ed in quel tempo opportuno, poichè certamente in un’istessa malat- tia, non in tutti i suoi periodi sono da impiegarsi i mezzi stessi , e spesso quelli che utili si appalesano in uno, pe- ricolosi nell’altro si mostrano: Ci si offre un esempio nelle febbri inflammatorie , che sono di diatesi iperstenica , in cui non in tutte le apparenze fenomenologiche divengono utili i controstimoli , e quel freddo che nel periodo del caldo è vantaggioso , nel frigorifero riesce di nocumento:; In ultimo la deduzione da trarsi da questi fatti di tolleranza utile non può che limitarsi all’ azione di que] mezzo speciale in una data malattia, e prima di genera- lizzarne l’applicazione, bisognerebbe moltiplicare e ripe- tere talmente le osservazioni, onde attribuire ai rimedi la loro azione reale. Repilogando il già detto, faremo presente che se. le diatesi fossero la causa del male, dovrebbe essere indiffe- rente il punto d’ azione dei rimedi. Se le affezioni diatesi- tiche dell’eccitamento fossero come credesi sempre gene- ralizzate , tutti i sistemi della nostra economia dovrebbe- ro essere contemporaneamente affetti. Se nella cura sì avesse riguardo all'aumento e diminuzione del medesimo, od a distruggere il processo di stimolo col controstimolo, e viceversa, riconoscendo queste sole qualità nei corpi, in una gastrite per esempio dovrebbe usarsi il tartaro emetico, la gomma gutta, il solfato di ferro; e se il danno che ottiensi l’uso ne prescrive, è indizio che la loro azio- ne non è questa sola, ma.che operano sulla parte a tenore del suo stato d’ organizzazione. Inoltre se Je malattie fossero semplici affezioni del- 69 l’ eccitamento, sollecita dovrebbe esserne la cura in forza degli agenti da impiegarsi, col proporzionarne le dosi e la qualità. Se la variazione d’eccitamento fosse poi l’unica causa delle malattie, i fenomeni vitali nella loro intensità vi dovrebbero corrispondere, nè una diatesi iperstenica dovrebbe mostrarsi con movimenti diminuiti, nè una n con Operazioni più attive. ‘ Ma cosa presentano le malattie all'osservazione? Un’ alterazione organica automatica d’una parte o d’ un si- stema affetto, la non universale innormalità delle nostre funzioni, un cambiamento nelle proprietà d’ alcuni dei nostri. sistemi, una periodicità e progressione nel loro corso ; la speciale utilità di alcuni mezzi particolari, la necessità di determinati punti di azione per i rimedi e per le potenze morbose onde produrre le malattie, ed in fine la variazione opportuna e necessaria del metodo curativo nei diversi stati delle medesime, da non attri- buirsi punto alla trasmutazione delle diatesi. (1) Esaminiamo ora se la dottrina vigente della condi- zione patologica associata all’eccitabilistica, possa ovviare atutti i sopradetti riflessi. Viene questa condizione intesa per quel particolare morboso processo che quantunque la «malattia sia universale , accade comunemente in qualche «organo: 0 sistema, nè quest’ alterazione è tale da lederne profondamente l’ integrità; che anzi queste parti affette possono sollecitamente riordinarsi nello stato normale. Questa condizione spesso palese nelle locali affezioni, la ‘crediamo necessaria per, l’ intelligenza dei fenomeni, e con i progressi dell’anatomia patologica è stata molto ‘frequentemente ritrovata nelle, malattie. universali, ove (1) È stato recentemente dimostrato e stabilito non essere così facile e comune come credevasi la trasmutazione delle diatesi , e che questo fenomeno patologico non può alternativamente acca- dere in una brevità di periodi. 70 Ù la speciale alterazione d° ùn sistema 0 di uno cia ne dimostra la realtà. i t ità8 Faremo poi presente che le suite urti vert nel rigore del termine sono assai difficili da verificarsi in pra- tica , e che tali soltanto riscontransi negli ultimi fatali periodi d'un’ affezione, per cui le parti tutte del nostro sistema se ne risentono, sebbene non egualmente, malgra- do le diatesì, che tutte dovrebbe in pari modo se non in simil grado affettare. vato L'azione speciale delle morbose potenze, di ne sia la causa ed il modo, è certo che si. esercita. mag- giormente nella parte su cui operano a preferenza ,gene- randovi una diatesì più energica, che per i suoi movimen- ti si crede divenire la causa di questa condizione. Ecco come collegando le due dottrine s'ammette l'origine della condizione patologica, ed invece di riconoscerla pas si attribuisce alla diatesi la di lei produzione. Ma considerando questa condizione come una più forte diatesi locale, ed attribuendoglisi le proprietà d’ un virtuale eccitamento, mon potrà conseguentemente alte- rarsi l’ organizzazione della parte affetta, giacchè l’ecita- mento identificandosi coi movimenti vitali della mostra economia , che sono prodotti dall’azione che vi esercitano ì diversi agenti, perciò se dei cambiamenti vi accadono, non dipenderanno che dalle reciproche operazioni delle medesime potenze eccitanti, e da quelle della vata | organizzazione vivente. (1) E procedendo dall’ ispezione delle locali affezioni nelle quali l'organica alterazione apparisce più manifesta, ed ove non riconoscesi l’ esistenza d’ una diatesi , poscia- chè in questo caso la condizione patologica non ne divie- ne il prodotto, così nell’ altro pure, alla diatesi non do- vrebbe riferirsene la formazione. (1) Vedi fascicolo 29 nella nota di pag. 186. ni L'esistenza di questa localizzata affezione la dimo- strano tutte le premure curative principalmente dirette ad ‘un sistema , o punto determinato. Riconoscendo le nostre malattie soltanto per una ‘variazione quantitativa d’eccitamento, come possano tal- volta mantenersi locali ed isolate senza estendersi di- viene inconcepibile, se la loro diffusione non si ripeta dall’organizzazione alterata, e dalla propagazione dei suol movimenti vitali ed assimilativi. ‘Da questi principii partendo adunque, perchè non dirigere le nostre vedute alla causa dei fenomeni dina- mici, piuttostochè a questi medesimi i quali non sono che un secondario A delle nostre organico-vitali operazioni ? ? ‘Altra difficoltà presenta a questa teoria |’ osservare i movimenti vitali diminuiti , ed esistere nina ‘diatesi di stimolo iperstenica , é Viceversa; cosa dimostrata non da opinioni speculative, ma necessariamente riconosciuta per il metodo di cura che devesi impiegare, cosicchè l’ eccitamento variato che n°è Ja causa presenterebbe caratteri diversi nelle singole parti del nostro corpo, e non è perciò che dalla di lui apparenza generale si deve basare il piano curativo. Ricorrendo invece alla condizio- ne patologica qual causa delle malattie, cioè ad una reale organica alterazione, allora quest’anomalia sparirebbe , poichè la natura morbosa delle parti affette potendo per esempio intorpidire quelle che vi hanno dipendenza e rela- zione, così si produrranno diatesi opposte agli evidenti loro éAratteri , per opportunamente istituirne la cura (1 no Non supponiamo doversi inferire la generalizzazione (1) Per esempio, stabilendosi una flogosi nel cervello od in qualche diramazione nervosa, sono gli effetti più frequenti di que-. sta condizione morbosa, una debolezza nei moti muscolari e nel- l’ esercizio di molte funzioni, e spesso l'abolizione della sensibi- 72 delle diatesi dall’ osservare che la malattia , 0 cessando o sussistendo in qualche parte , in altra, pure si.risveglia e si stabilisce ; poichè lungi dal dimostrare questo fatto una diffusione generale di diatesi, non osservandosi la. con- temporaneità dei fenomeni ed una identità nella natura delle condizioni morbose , indica piuttosto un prodotto delle simpatie degli organi e dell’ azione più estesa. e generalizzata delle cause morbifere , per cui a tenore del- la varia capacità dei sistemi in modo differente ed in tempo diverso, se ne manifestano le lesioni apparis- centi . i In parecchie malattie resultando evidenti le .condi- zioni patologiche in alcuni organi, o. sistemi, ,si osserva pure che le funzioni delle altre parti sì alterano spesso , tali dimostrandosi con alcuni fenomeni morbosi denomi- nati sintomi. Se questi fatti sempre non ci appariscono ; è certo che le qualità della fibra vivente si cambiano in molte malattie , ed in alcuni organi speciali, come ce. lo dimostrano i resultati che ci presentano i rimedi applicati. Per fornirne un esempio citeremo il tartaro emetico, che nello stato ordinario richiedendosi in piocola dose per procurare il vomito , se venga adoprato in una pneumo- nitide si tollera a piccole ed a dosi notabili senza la com- parsa di questo sintoma ,, producendo semplicemente un’ utile depressione nei movimenti circolatori. Nè si dica che nel caso contemplato)lo stomaco ab- bia concepito un processo morboso simile a quello suscita- tosi nel polmone, imperocchè nello stomaco infiammato il tartaro emetico ne esacerba l’affezione e vi accresce il vomito , in conseguenza l’ applicazione di questo rimedio nella pneumonitide vi diviene utile per quella condizione lità di diverse parti; onde stando alle apparenze fenomenologiche del semplice movimento, sembrerebbe indicata la cura stimolante, e l’impiego di mezzi capaci di accrescere le indebolite funzioni. I DA 0 aa i i i ini 73 simpatica che ivi risvegliasi, allorchè una flogosi in altro viscere si suscita. Se quello stato generale o locale che in qualche organo o sistema si stabilisce non sempre con- forme od indentico alla condizione patologica, causa pri- maria della malattia , diatesi sì volesse denominare , allora rappresenterebbe lo stato reale delle parti ammalate; pur- chè sempre vi si ravvisasse un cambiamento nell’ assimi- lazione , o nelle semplici polarità delle nostre parti; cambiamento che produce le nuove proprietà di cui ven- gono dotate nella loro innormale condizione, e che cagiona la variazione dinamica dei moti animali. I fenomeni morbosi sviluppandosi in un sito remoto dalla visibile sfera d’ azione della condizione patologica , così pure i mezzi terapeutici applicati in altre parti, po- tranno divenire vantaggiosi ed efficaci, dipendentemente dal loro consenso , che lo stato morboso è frequentemente in caso di accrescere e di stabilire, atteso la variata. atti- tudine acquistata dagli organi affetti. In fatti la pomata emetica applicata alla cute produrrà le pustole varioloidi allorchè esisterà qualche affezione ne’ visceri, o parti colle quali morbosamente in grado innormale questa con- senta; ma se si adopra nel loro stato sano , o l’ eruzione cutanea promossa non accade ,.0 bene di rado si appalesa. Nelle affezioni flogistiche, sebbene il salasso sia un mezzo diretto al sistema circolatorio , diverrà utile perchè toglie alle parti affette uno degli elementi dell’infiamma- zione, e perchè questo processo stabilendosi nelle minime vascolarità sanguigne, colla detrazione di questo fluido la cura dirigesi al sistema angiologico. Ma le diatesi adunque che cosa sono? Veduta l’ in- ‘congruenza e le difficoltà di riconoscere le medesime , rimarcheremo che sebbene raro sia che nelle universali malattie tutta la mostra economia resti alterata , e che quest’ alterazione si effettui ad un tratto , pure per il rap- porto dei nostri organi e sistemi, dipendentemente dalla 74 loro organizzazione , sempre però nell’innormalità delle fanzioni che caratterizzano e si associano alle malattie, osserveremo accresciuto o diminuito il proprio momento, . essendo di ciò suscettibili, come lo è ogni operazione ac- compagnata da moto. Inoltre per la qualità del cibo , per il riposo, per la natura del male , per quella dei loro sin- tomi , per l’ uso dei rimedi ; per la dependenza dei siste- mi organici ; per lo stato morale dell’ infermo , e per in- finite altre circostanze si producono necessariamente tali cambiamenti nella semplice dinamica gradazione delle funzioni sane e malate; che se servissero di criterio per giudicare della diatesi; e se nei medesimi unicamente consistere si facessero le condizioni morbose primitive, si rinnuòverebbero le epoclie fatali del puro brownianismo. Conseguentemente oserei inferire dall’esposto, che le malattie non vengono formate dalla semplice variazione virtuale o dinamica dell’eccitamento, e che le diatesi così concepite sono un effetto ‘delle medesime , ed una circo- stanza che le accompagna. Avremo peraltro spesso il vantaggio di dn del momento delle funzioni che ‘al grado corrisponderebbe delle esposte diatesi , per giudicare dello stato della ma- teriale alterazione della parte e del sistema affetto, come pure servirà di certo criterio per conoscere quelle rare af- fezioni e semplicissime., indotte ‘dalla sola graduata va- riazione dell’ eccitamento, ossia dei moti vitali, sempre però cagionata dall’ inusitata azione di qualche stimolo, e dalla ‘conseguente cambiata polarità dell’ organismo; e queste Sarehibserdsi invero le così dette adiatesiche pertur- bazioni . Non si presenterebbe per altro grande inconveniente ad ammettere la dottrina delle diatesi , se nelle diatesiche affezioni vi sì riconoscesse un’organica alterazione produt- trice delle medesime, e vi ‘si associasse pure la condizione patologica che più o meno evidente ne è sempre la co- Me 95 stante cagione; e di cui essendosi finora occupati; soltanto | allorchè diviene palese; riuscì questa limitazione di som- mo detrimento ai progressi dell’ arte. |, Ponendo così nel novero delle condizioni organiche ed assimilative le malattie, e riconoscendo in queste una variazione nell’ organismo, causa e non effetto del solo aumento o diminuzione d’eccitamento, rifletteremo che | sebbene possa una semplice variazione dei movimenti fun- | zionari divenire nuova cagione dell’ alterazione organica di\qualche parte, allora non comparendo questi moti ab- normi clie qual causa remota: dell’attuale condizione mor- bosa, soltanto questa dobbiamo sempre avere in mira. Nè altrimenti considerando i processi di stimolo o di controstimolo, ed in questi pure ammettendo un cam- biamento' automatico dell’ organizzazione affetta ., causa dei fenomeni morbosi } egli è certo che all’ organico pro- cesso innormale dev’ essere diretta la cura , e che oltre l’opporsi alle cagioni elementari che lo eccitano ; ai mo- vimenti che lo costituiscono, dobbiamo pure distruggere ed allontanare la causa insita od estrinseca che lo produce e lo mantiene. Se poi l’ impropria denominazione di pro- ‘cessi di stimolo.e controstimolo, servisse di contrassegno € di giusta suddivisione al piano curativo pet la,generaliz- zazione dei mezzi terapeutici, sebbene non ne. possa ab- bracciare le adatte ed opportune specialità ; pure ripetia - mo che non vi sarebbe grande inconveniente nella dottrina, «sempre che'i caratteri delle diatesi non. si ;desumessero dai movimenti che sì manifestano , ma dalle anatomico- fisiologiche considerazioni ‘sulle parti; dalla natura del- le cause otcasionali, é-italora ‘dalla congruenza o ‘dal ‘danno degli impiegati rimédi che devono! essere gli utili argomenti per determinare se non l’ essenza delle. condi- zioni motbose, almeno le norme del piano curativo. ‘In modo che: potendo conoscere i veri elementi che costituiscono i diversi stati patologici, col .sussidiò della 76 cognizione delle leggi dei consensi , con quello dell’ ana- tomia e della fisiologia, con dei lumi sulle reali proprietà dei mezzi terapeutici, allora potremo fare dei vantaggiosi progressi nella patojatria, scopo. Mm dell’arte salutare . i Essai sur l’ histoire de la Peinture, ec. Saggio sulla Storia ‘della Pittura in Italia dai più remoti tempi fino: all’ età presente, del signor Conte GreGoRIO OrtroFF ; senatore dell’ impero di Rogi .— Vo- lumi 2. in 8. Parigi 1823. Qualunque sia il pregio di quest’ opera, crediamo che non possa riuscire utile agli italiani che già posseggo- no la storia della pittura dell’ab. Lanzi, dal signor Orloff compendiata ; ma potranno ad ogni modo. giovarsene quegli stranieri, ai quali basta di avere una superficiale cognizione delle scuole pittoriche della nostra; penisola. Quindi questo libro non avrebbe somministrato un lun- go articolo ad un giornale letterario italiano, se l’ ultimo suo capitolo non fosse consacrato ai pittori viventi. Le co- gnizioni delle cose dell’ arte di cui ]’ autore si mostra fornito , la sua non breve dimora in Italia, le sue relazio- ni coi più celebri artisti, hanno potuto somministrargli lumi opportuni 'per trattare simile argomento; e noi ab- biamo creduto di riprodurlo tradotto nel nostro idioma, onde far conoscere l’opinione dell'A. riguardo ai non po- chi illustri pittori che attualmente: onorano Y Italia, la quale, sebbene non abbia quel numero di eccellenti maestri onde fu ricca ne’ migliori tempi dell’ arte, non è però in così basso stato ridotta, che additar mon possa al forestiere , nelle sue principali città, alcuni valenti arti- sti, che scibile destinati a sibonidliare l’ atte nane suo splendore. 77 | Sebbene tutta l’opera del sig. Orloff, e specialmen- te il capitolo che riportiamo, manifesti la sua intenzione di essere sempre imparziale , potrebbe essergli avvenuto di non spogliarsi affatto di ogni affezione parlando di ar- tisti viventi, di non aver resa la dovuta giustizia a tutti quelli da lui indicati, o di averne dimenticati alcuni. No- stra intenzione essendo quella soltanto di far conoscere € non di giudicare quanto egli ha scritto, ci limiteremo a osservare che tanto è l’affetto dell’autore verso gl’ italiani ele cose loro, che involontariamente ci sentiamo proclivi all’ indugenza verso di lui. Lascieremo perciò ad altri più di noi intelligenti di belle ‘arti di comunicarci quelle os- servazioni alle quali potrebbe dare occasione questo capi- tolo , le quali dettate dalle moderazione e dall’urbanità, troveranno luogo nel nostro giornale (*). Dello stato attuale della Pittura in Italia. Cap. XXII. ed ultimo. I nostri lettori scorrendo quest’ opera hanno po- tuto vedere che l'abbiamo cominciata coll’ offrir lo- ro alcune compendiate notizie intorno» all’ origine della pittura presso gli antichi popoli, nel miglior modo che lo consentiva l’oscurità di que’tempi; e rapidamente scorren- do questa incerta epoca fino al risorgimento dell’ arte in Italia; di là camminando sopra dati più sicuri, abbiamo loro iffertà l’ istoria di quelle celebri scuole che produs- sero così sublimi ingegni fino alla metà circa del pas sato secolo. Essi hanno dovuto scorgere con noi, che già (*) Io non so dissimulare il mio desiderio che la pubblicazione del presente capitolo dia occasione ‘agl’ intelligenti di belle arti di indirizzarmi i loro scritti sullo stato atiizie delle diverse scuole pit- toriche d’ Italia ; i quali certamente interesseranno i lettori dell’An- tologia . Nota del Direttore 78 I da lungo tempo. quest’ arte più non contava; ini un pae- se così atto a fecondare 1’ imaginazione ed. ai sublimare l’ ingegno , quell’ infinito numero di discepoli; especial. mente di celebri maestri, che nelle precedenti età; ed in particolare nel gran secolo di Leone X ; ne formavano forse la principale sua gloria. Non ci faremo qui ad indagare le cagioni di un i de; clinamento altrettanto certo che .doloroso, e soltanto ci è limiteremo a parlare di quelle scuole della penisola che: hanno ancora prodotti ragguardevoli maestri, ed in par: ticolare a dar contezza di quegli artisti che ottennero. maggiore celebrità. ne’ vari generi di pittura da loro trattati. La scuola romana, Pa Cadet, il quale si distinse per la bellezza del colorito. degno di quello di Mengs; e dopo Cavallucci , i di cui talenti meritano egualmente di essere ricordati, offre ancora con intera fiducia alla consi- derazione dell’ Italia e dell’ Europa l’ingegnodi Camuc- cini(1), nel quale vediamo rivivere quello di preme celebri maestri. Questo pittore si avventurò di tredici anni in sula via che oggi scorre con tanta gloria, e prima di toccare i 24 anni sì fece conoscere con un quadro de’ più difficili, siccome quello che ricorda uno de’ più imponenti e ter- ribili avvenimenti della. storia, la Morte di Cesare. La scelta di quest’ argomento era una prova dell’ ar- dire e del coraggio del giovane artefice. La semplice imi- tazione di uno id più celebri avvenimenti, non solo del- la storia‘ romana , ma di quella d’ ogni altro paese, basta- va a dare una vantaggiosa opinione dell’autore, sia per ri- spetto all’invenzione che alla composizione, quand’ ancora l’ esecuzione del quadro fosse mediocre. Ma in questo l’e- secuzione rispose alla nobiltà dell'argomento; ed all’ ec- cellenza della composizione; edil pubblico vide sortoin Ca- muccini un artefice, cheavrebbe onorata la scuola romana. (1) Nato a Roma nel 1773. da padre e madre romani. i» 79 |. Direbbesi che i grandi soggetti che scontransi quasi ad ogni pagina negli annali della sua patria, diventarono dopo tale epoca una proprietà del Camuccini, e come i soli che dovessero essere da lui trattati. :. Nato romano, ed in tempi ne’ quali î quadri da chiesa più non occupavano di obbligo i pennelli italia- ni, sembra che.*quest’ artefice abbia voluto rifarsi, colla scelta di tali argomenti, di tant'altri sì poco poetici di cui sono piene tutte le scuole; e che scosso dalle grandi virtù che illustrarono anticamente la sua patria , siasi. compia- ciuto dipingerne i più gloriosi fatti. 1l quadro della mor- te di Virginia, non fu.meno applaudito di quello del- la morte di Cesare. Eleganza e correzione di disegno, pan- neggiamenti dottamente trattati , figure ottimamente ag; gruppate, espressione e verità, diedero apertamente a 'co- uoscere, che l’ingegno del giovane artista faceva notabilissi- mi avanzamenti. Dopo alcune altre opere, Camuccini condusse a termine quella che per comune consentimento prova più d’ogni altra il suo ingegno. Questo quadro rappresentante S. Tommaso non fu appena veduto, che si giudicò degno della gloria di quella apoteosi che Roma accorda alla pittura, ren- dendola immortale per mezzo del mosaico: apoteosi , cui non partecipando solamente ]’ arte, ma ancora l’ artefice vivente, viene ad essere il più dolce ed ‘onorato premio del suo ingeguo e delle sue fatiche. Il S. Tommaso copia- to in mosaico, vedesi adesso a lato ai capi lavori nella ba- silica di S. Pietro, depositaria di lutte queste magnifiche e dispendiose trasformazioni. Un altro quadro di religioso argomento, la Zresen- tazione al Tempio, fu in appresso eseguito dal Camucci- nì per una chiesa di Piacenza (2), e contribuì a spargere nell’ alta Italia le opere di quest’ artefice, ed a giustifica- (2) Quella di S. Giovanni dove tutt’ ora si conserva. 80 re la vantaggiosa riputazione che le aveva precedute. Ma l’ egregio artefice, che ad ogni altro preferiva gli argomenti eroici e specialmente i romani, dopo le accen- nate opere dipinse Lentulo, che insieme a Marcello pre- senta a Pompeo la scure che deve vendicare la libertà romana distrutta da Cesare ; — Orazio Coclite, che sul ponte Pubblicio combatte solo contro i nemici di Roma; — Regolo, che preferisce una crudel morte ad u- na pace dannosa alla patria ; — Scipione, che rende ad un amante che l adora la bellissima principessa’ sua prigioniera; — Cornelia, che alle gentildonne di Capoa mostra con orgogliosa virtù i suoi figli ancor fanciulli . Provano la fecondità di questo non meno laborioso che valente artefice molt’ altri quadri, tra i quali non ri- corderò che la morte della Maddalena e le Nozze di Psiche, le di cui figure di grandezza naturale sono nota- s bili per 1’ espressione che brilla nel primo , e per la gra- zia che si ammmira nell’ altro. Camuccini viene generalmente accagionato di non avere buon colorito, ma tutti lo riconoscono superiore nel disegno ai suoi contemporanei. Coloro che vedranno i ri- tratti ch’ egli fece del Re di Napoli e della sua sposa, ed il quadro per la cattedrale di Ravenna , troveranno ingiu- sto questo rimprovero. | Direbbesi che Camuccini abbia scelti per suoi esem- plari Raffaello, Domenichino ed Andrea del Sarto. Ne'suoi cartoni sorge emulo de’sommi maestri, e gl’ intelligenti che li videro, credettero d’ avere innanzi agli occhi lavo- ridi Raffaello. Rincresceva che fin ora non fosse giunto col pennello a pareggiare il merito de’suoi modelli; ma poichè migliorò il suo colorito, giova sperare che s' avvicinerà ad essi nella pittura come lo ha fatto già nel disegno. Quest’ artista trovasi ancora nel vigore della virilità, indivisibile compagno della forza dell’ ingegno, e tutto fa credere che la meta del suo glorioso cammino è anco- \ 081 ra lontano. Nell’ istante in cui scriviamo le sue opere si diffondono fuori d° Italia: come nella stessa Italia, e la Prussia e la Germania ne contano molte nelle tesrdt gal- lerie . | Dopo di avere parlato dei talenti e delle opere del Camuccini, ci si permetta di soggiungere un’altra parola a’ suo riguardo. Il Camuccini, \altrettanto modesto che valente artefice e dotto letterato , si raccomanda colla sua | urbanità, le sue qualità. morali e le sue virtù. Accetti que- sto giusto e sincero tributo , dettato dall’ amicizia e dalla stima . Il cav. Landi, originario dello stato di Parma, fece i suoi studi a Roma, dove occupa uno dei primi gradi tra i più distinti pittori, ed è direttore della classe di pittura nell’accademia di S. Luca. Quest’ artefice si fa ammira- re per la varietà e l’espressione dei volti, come' ne fa prova il grande suo quadro di Gesù che incontra le femine în su la via del Calvario. La vivacità del suo colorito sor- prende lo spettatore; ma se attentamente si osservano i suoi quadri, vì si trova scorrezione di disegno, e colorito alquanto ammanierato. Se si soffrono le sue Veneri di co- lor di rosa, non s' intende perchè adoperi le stesse tinte per un assassino. Non tutti vanno d’ accordo rispetto alle sue composizioni, accusandolo taluno perfino di non farle egli stesso. Ciò che può dirsi con sicurezza si è, che il Landi prima di cominciare un quadro non ne disegna il car- tone, ma inventa e compone il soggetto che vuol trattare, for- mando gruppi e figure di terra, collocandole e distri: buendole come la sua imaginazione glieli rappresenta; e col sussidio di questi gruppi comincia i suoi quadri. Generalmente parlando, Landi è un imitatore incerto dei più antichi maestri. Non si può dire che siasi piuttosto attenuto allo stile dell’ uno che dell’ altro, essendosene formato uno suo proprio. Vago è il di lui colorito, ma spesso manca di forza e di vigore, come altresì il suo chia- €. XI. Agosto .6 8a roscuro; edi pannegiamenti non hanno bastante movimento nè sentimento. Gli si rimprovera di essere troppo minuty specialmente ne’ primi piani, e di non avere un abbastan- za corretto disegno. Egli è spiritoso nel trattar vesti, e ne’ri- tratti colpisce perfettamente la rassomiglianza. Uno de” migliori suoi quadri è quello in cui dipinse diversi turchi entro al museo di Napoli. A questo quadro notabile per varietà di celori negli abiti e ne’ panneggiamenti, va principalmente debitore della sua riputazione di vago co- loritore. E comune opinione che dipinga assai meglio le don-. ne che non gli uomini. Il suo colorito si confà meglio alle delicatezza delle carni e de’ lineamenti del bel sesso, che non al sesso virile che lo domanda più vigoroso. il signor Landi non dipinge che all’olio; almeno non è nota alcuna sua opera a fresco. Ha molti allievi che non cercano d’ imitare che il suo colorito, spesso troppo vi- vace e roseo; ed in tal modo non imitano che la parte più debole di quest’ artefice, di cui non sanno copiare la grazia e l’amenità, ch'egli sa dare alle fisonomie ed alle sue arie dì volto. Dopo avere parlato dei due pittori che si trovano in questa capitale alla testa dell’arte, ed hanno fama euro- pea, ci riesce caro di poter intrattenere i nostri leggitori intorno ad un giovane artista, che seppe meritarsi i suffragi de’ conoscitori, e far sperare a Roma di vedere in lui ri- nato uno di que’ celebri pittori che tanto onore e gloria le procacciarono. Intendiamo parlare del giovane Agricola, che appena compie i cinque lustri. Suo padre, professore di pittura nell’accademia di S. Luca, lo ammaestrò ne’ principi dell’arte ,.e senza ab- bandonare la patria, Agricola continuò i suoi studi sugli antichi esemplari, e specialmente imitando Raffaello. Questo giovane artefice provveduto di singolare in- gegno segue, dipingendo, lo stile del sublime suo modello. | sy 83 Correttissimo è il suo disegno, ed il suo colorito ricorda quello del Sanzio: vi si scorge una grande verità, una grande purezza. Maraviglioso è il chiaroscuro, e le sue car- nagioni non sono meno belle di quelle de’ grandi maestri. Le sue composizioni, dotte e considerate, sono. piene di fuo- co e di vivacità. Le sue arie di testa non possano abbastau- za ammirarsi, e generalmente regna nell’insieme tutta la possibile unità. Se questo giovane pittore continua come ha cominciato e non si lascia abbagliare da esagerate lodi, può sperarsi di vedere in lui rivivere uno de’più grandi ma- estri non solo del precedente, ma del miglior secolo della pittura. Gli si potrà dar carico di non avere un tocco abba- stanza facile, e forse di stare troppo servilmente attacca- to a’suoi esemplari. Ma perchè ricuserà egli di studiare an- cora le opere d’altri grandi maestri, e più di queste la natura, come fecero il Domenichino e lo stesso Raffaello? ‘ Sebbene giovane, ha di già eseguite molte opere, che a' grandi maestri non rincrescerebbe d’aver prodotte. Il suo quadro di Giuditta che porta sopra un bacile la testa di Oloferne, il di cui collo è coperto da un panno, è uu luminoso testimonio del suo talento, e nulla lascia a desi - derare, sia pel colorito che per il disegno e per l’inven- . zione. Un altro quadro più recentemente fatto , rappresen- tante la Sacra Famiglia, ricorda lo stile della Lella Giar- diniera di Raffaello, che conservasi nel museo del Louvre. Ha un cielo chiaro, e le vesti della Vergine staccansi per la forza de’ colori maravigliosamente sani Si deside- rerebbe di vedervi maggior correzione di disegno. Il suo ritratto della figlia del celebre pocta Monti. ; è un bel- lissimo quadro tutto veramente raffaellesco. Gli amici di Agricola devono confortarlo a non ab- bandonarsi a questo genere di pittura che gli fa perdere molto tempo, e non gli permette di applicarsi al genere istorico tutto di sua pertinenza, e ch'egli deve coltivare il più che gli sia possibile, onde LL ep negli studi. così bene cominciati. Pozzi è uno de’ professori di jpiomabi dell’ siniioania di S. Luca. È questi un buon disegnatore, ed ha: fatti al- cuni lodevoli quadri. Sta ora dipingendone tino rappresen- tanie la morte di S. Stefano, che sarà la sua migliore opera , se lo terminerà come lo cominciò. Ad ogni modo viene accagionato d’averlo abbozzato con colori troppo vi- vaci; onde si teme che ne risulti un funesto effetto, e che lo renda, terminandolo, troppo opaco. Roma possiede inoltre .un ingegno. straordinario nel signor Pinelli , giovane artefice dotato di un vero genio, e che supera l'immaginazione, sia nella composizione de’suoi disegni, che nella verità delle sue rappresentazioni e delle usanze nazionali. Niente può imaginarsi di più esatto, niente di più corretto e di più ardito della sua ma- tita. Maravigliose sono le sue acquerelle, e niuno seppe meglio di lui rappresentare scene contadinesche, assalti ‘d'assassini, i costumi e le usanze della sua nazione. Tutto si presta alla facilità della sua matita e della sua penna. Niuno ha mai disegnato con maggiore prestezza. I suoi disegni sono stimati come ben meritano, ed avidamente ricercati ; ed un forestiere non ardirebbe abbandonar Ro- ‘ma senza portar seco alcune memorie di Pinelli, che sono altrettante memorie della sua patria. Quest’ artista inta- glia all’acquaforte colla stessa bravura e rapidità, ed ha ‘ di già pubblicati più di cento fatti della sua storia romana. Da poco in qua cominciò a dipingere all’olio gli stes- si soggetti, ma nella pittura è tuttavia lontano assai dalla perfezione de'suoi disegni. Non conosce bastantemente la tavolozza e la mescolanza de’ colori , e se non cambia ‘me- todo, può ragionevolmente temersi, che non giugnerà mai a ben conoscerla. Peraltro tra i quadri da lui eseguiti, meritano di essere ricordati i due fatti per la duchessa di Deyonshire. Rappresentano 27. brarco di ladri che danno % 85 l’assalto ad una carrozza. Maravigliosa è l’espressione delle. figure: il terrore si vede vivamente dipinto sul volto della giovinetta caduta in potere degli assassini, e par che spiri per la paura. Notabile è l’espressione del capo degli as- sassini, ne’ dì cui atti ci sembra di travedere, in mezzo ‘alla ferocia de’ suoi sguardi , l’interna soddisfazione perla «buona preda da lui fatta: le sue vesti sono dipinte con grandissima verità. Vedesi pendente dal di lui petto una croce con l’imagine del Redentore, ed ai lati parecchi oro- logi appesi alle loro catene, infame frutto de’ suoi assassinii eseguiti sopra gl’ infelici viaggiatori. Non sono meno pregevoli i due quadri fatti per il conte Niccola Gourieff; specialmente per la loro compo- sizione. Un altro non meno distinto disegnatore, ma in un genere più elevato, che gode.in Roma ed in tutta l’Italia di una giusta considerazione è il Mainardi, nato a Peru- gia ed ammaestrato in Roma. Sarebbe diflicile e forse im- possibile di trovare un altro più perfetto disegnatore. Egli maravigliosamente imita Michelangelo; e la copia da lui fatta del suo giudizio non può abbastanza lodarsi. Il si- gnor Mainardi è un disegnatore della più grande maniera in tutta la forza dell’ espressione. Maravigliosa correzione, grande verità, tocco ardito e forte, figure piene di espres- sione e di spirito, ecco il carattere del disegno di questo valente artista, le di cui opere, che hanno ottenuto l’uni- versale suffragio , saranno intagliate dal celebre cavalier | Longhi. Io non vidi pitture del Mainardi, e non so se ne abbia fatte. Pretendesi che a motivo della sua abilità nel tomporre aiuti i pittori meno esperti in questa parte , i quali eseguiscono i loro quadri sopra i suoi disegni. Nella parte subalterna dell’ arte, Roma possiede. un parsista riputatissimimo,ilcaval. Fidarza, che nato ed am- marstrato in Roma, riuscì uno de’ più valenti artisti in tal 86 genere, Grande facilità, bel colorito, ardito pennello, gran- dissima intelligenza di prospettiva, sono le principali qua- lità di quest’artefice, il quale conosce pur l’arte d’imitare i-più celebri paesisti, in guisa da ingannare i più sperimen- tati conoscitori. Carlo di Lorena e Salvator Rosa sono. quelli che Fidanza cercò d’imitare di preferenza, e lo fece con meravigliosa riuscita. Grazie alla sua facilità di dipin- gere ed alla lunga e laboriosa sua vita, l’Italia e l’ Europa tutta ridondano di quadri di quest’ artefice. Fra i paesisti nazionali è assai riputato in Roma il bolognese Bassi ; artista di non comune ingegno, che di- pinge con gusto e con vivacità nel buon stile italiano ; e vedesi che tutti i suoi quadri sono presi dal vero, ch'egli sa perfettamente rappresentare, Egli si è formato una ma- niera tutta sua , graziosa , gentile, delicata. L'accademia di S. Luca conta presentemente molti giovani allievi di grandi speranze, e certo Ciocca in par- ticolare si mostra provveduto d'uno straordinario ingegno. Ma la nascente loro riputazione non è abbastanza stabilita per poterne parlare vantaggiosamente, non altrimenti che di tanti artisti di secondo e di terzo ordine, in Roma così numerosi. Ci limiteremo quindi a segnalare ancora alcuni pit- tori stranieri, che da più anni avendo fissata in Roma la loro dimora , vi sì sono formati e possono risguardarsi co- me pittori romani. Il primo che a noi si presenta è 'icar, pittore fran- cese, che andò a stanziarsi in Roma in principio della rivo- luzione di Francia. Scolaro di David, fece da principio mol- ti quadri di stile francese, dal quale siallontanò poscia per dipingere secondo il gusto italiano. Egli è questi un grande | disegnatore, ardito, corretto, facile. Il suo miglior quadr di grande dimensione è la risurrezione della figlia della vedova di Naim, le di cui figure sono colossali. Quest’oprra fu in Roma apprezzata assai , e procurò all’ autore i conu- 87 ni suffragi; ma ebbe una meno felice sorte a Londra, dove rimase lungamente esposto. Fece un altro quadro per il sig. caval. Giambatista Sommariva rappresentante Zîrgi- lio che legge ad Augusto il sesto libro della sua Eneide. Bella è la composizione di questo quadro,ed è ben dipinto, sebbene il tuono generale sembri forzato. Il disegno è abbastanza corretto, e non manca di espressione. Peral- tro la copia fattane a matita è di lunga mano migliore del quadro. Cosa strana! tanto corretto quando disegna colla penna o colla matita, perehè lo è meno di assai ne’ quadri ? «La pittura inferiore conta molti distinti pittori stra- nieri. In tanto numero di paesisti occupano i primi seggi Vogt, Werstapfen, Terling, Boguet, Chauvin e Ma- tveef. Il primo, Z’ogt, dipinge in sull’andare di Cuip: largo è il suo tocco, e bella la gradazione delle tinte e dei lumi; edi suoi quadri, ridenti e graziosi, portano l'impronta della verità. /Werstapfen non è sempre nelle sue pitture egua- le : egli è uno de’ più felici imitatori di Giacomo Ruisdal; campeggia ne’ suoi quadri un maraviglioso trasparente, grazioso è il suo colorito, le sue pitture piene di verità e di amenità, e le figure gentilissime. Ai talenti che mostra ‘ne’ suoi paesaggi, Zerling aggiunge quello di ornarli di stupendi animali , ed è quello che più d’ogni altro s’ acco- sta all'antica maniera fiamminga. Boguet, nato in Parigi, mai non seppe risolversi ad abbandonare la patria delle arti e la bella natura. Sono usciti dalle sue mani bellissimi paesaggi, ma viene accu- sato di caricare soverchiamente di ornamenti le sue com- posizioni , e di voler troppo imitare il Gasparo. Chauvin, francese ancor esso, è uno de’ più graziosi paesisti. Niente è più vero, nè più ridente, nè più fresco delle sue vaghe pitture. Si vedono sempre con piacere, e ‘senza stancarsi di vederle. 86 Matvef} ) pittore russo -stabilitosi da più anni in Ro- ma, non si distingue meno dei Toto , ed è un degno loro emulo. mod Cattel, originario prussiano, mon è men, valiale pae- siste, che pittore di genere e di prospettiva. Fedele imitatore della natura, niuno seppe meglio di dui rappresentarla. Si- ti, figure, prospettive, tutto s’abbellisce sotto il suo pen- nello. Quest’ artefice non è meno commendevole. pel. colo- rito che per il disegno; e difficilmente ,se. ne trovano dj più gentili de’ suoi , o di più veri. Sono egualmente pre- giati in Roma ed in tutta l’Italia. Una sola parola diremo di Granet, conosciuto, può dirsi, ‘in tutta l'Europa. E chi non ha notizia del magni- fico suo quadro del Coro de’ Cappuccini, che è veramente un capo lavoro, e di cui ne ha fatte più repliche? ‘ Quest’artista possiede tutti i talenti che possono desi- derarsiin tal genere. Non vi è nulla d’imperfetto nei suoi quadri. Conosce così profondamente la prospettiva ed .i tuoni locali, che le sue. pitture ci fanno provare una per- fetta illusione. ll colorito e il. disegno non possono deside- rarsi migliori,’ e sono egualmente perfetti i più piccoli disegni e le più grandi opere. Egli non è mai trascurato , nè il suo ingegno glielo permetterebbe. Granet cominciò a dipingere la storia, ma abbando- nò questo genere di pittura, sentendosi vivamente incli- nato per quello che poscia adottò con sì felice successo. Sonovi a Roma altri pittori assai di diverse nazioni, di cui.non possiamo parlare per non aver potuto avere di loro più esatte notizie. Contansi tra questi molti tedeschi di non comune ingegno , come Zogel, i fratelli Shadaw, ed i fratelli Ripenhausen; e questi ultimi in particolare si fanno distinguere per castigatezza di disegno, come «molti altri ancora. Non possiamo, parlando degli allievi tedeschi in Ro- ma, ommettere di far parola di una bizzarra loro idea. 89 Dopo'avere lungamente studiate le opere di Michelangelo e di Raffaello, li hanno totalmente abbandonati per segui- rei modelli de’ pittori quattrocentisti , che nell’ epoca del risorgimento della pittura si distinsero nella servile imitazione della natura , senza scelta e senza gusto. Essi giungono perfino a pretendere, che Raffaello era diventato manierista nel:suo ultimo stile , e che non era sopporta- bile che nel primo! Si è tra di loro formata una setta attossicata da tali principi ; e questa aberrazione di gusto può avere sgraziati risultamenti pel successo degli artisti che sdegnano a tal punto le sane dottrine della pittura. Dopo aver parlato dei pittori nazionali e stranieri che sì sono stabiliti in Roma, non possiamo abbandonare que- ‘sta capitale senza citare a più giusto titolo un celebre pit- tore, che sebbene lontano dalla patria, è nato romano e da madre italiana. ‘Roma ci saprebbe mal grado. di non annoverar tra i suoi figli l'illustre Gerard, che quantun- que figlio di un francese è nato nel suo felice suolo, e vi ha cominciati i suoi studi. E noi stessi non ci perdonerem- mo di esserci lasciata sfuggire l'occasione di parlare di un uomo celebre e di nobile carattere , unico e vero piacere dello scrittore, che per servire alla verità, è spesse volte ‘costretto a segnare lineamenti ‘che stilicitoria l'umanità. Si misuri da ciò il piacere che sentir deve, quando la sua ‘penna non ha.da segnare che meritate lodi. Francesco Gerard (1) manifestò dalla più tenera fan- ‘ciullezza una decisa inclinazione per le arti, ed i suoi pa- ‘ì renti ebbero la saviezza di non opporsi alla sua inclina- | zione, permettendogli di studiare il disegno. Costretto a a i genitori in Francia in età di dodici anni, Gerard yi conlinuò quegli studi che aveva felicemente cominciati | | | laifan | (1) Nato a Roma nel 1770. | | 4 it 99 in Italia , e passò successivamente dalla scuola di Brenet a quella di David. Il nostro giovane artefice antiveggente, saggio e sensibile, seppe resistere alle tentazioni d'ogni genere, e non cadde nel vortice della rivoluzione. Sebbene giovane, fu più prudente che molti uominî di matura età. Gonsacratosi totalmente alle arti, si mantenne loro fedele, e non volle prendere parte alcuna alle agitazioni politiche. Nel 1795 diede ai parigini luminose prove de’suoi rari ‘talenti, esponendo nella gran sala delle pitture un ritratto di madamigella Brognard, ed il quadro di Belisario. Que- . ste due opere ottennero i comuni suffragi, ed il loro autore fu posto nel novero de’ principali pittori. Riesce difficile , dicono gli autori della sua biografia, 1’ imitare la natura con quella grazia e verità che ci offre il ritratto della Bro- gnard; come è difficile l’eccitare la commozione per mezzo di combinazioni più profonde di quelle del quadro di Be- lisario , dove tutti i pericoli vedonsi riuniti intorno ad una grande sventura. Per ultimo, nelle di lui produzioni l’arte del dipingere si solleva fino alla perfezione. Gerard fece molti ritratti, che gli procurarono così numerose commis- ‘sioni, cui non poteva supplire senza pregiudizio dell’arte. Fu perciò costretto ad abbandonare questo genere di pit-. «tura, che gli toglieva tanta parte di tempo. Ad ogni modo non lasciò di ritrarre i più illustri personaggi dell’epoca. Intanto non trascurò giammai il suo prediletto gene- re di pittura, quello della storia. Non può vedersi una più graziosa Psiche della sua , sia pel lato della composizione , che dell’ esecuzione. Lo stesso deve dirsi de’ suoi vezzosi amori, che acquistati da un signore russo , formeranno in breve la delizia dei dilettanti di Pietroburgo. Le sue tre età ed il suo tanto melanconico quadro di Ossian accrebbero la sua riputazione} che ottenne an- cora maggior lustro dal gigantesco quadro della battaglia d' Austerlitz. 9° All’ epoca della ristaurazione, i sovrani alleati visita - rono lo studio di questo celebre pittore, ch’ ebbe l’ onore . di fare i loro ritratti e quello del re di Francia. Gerard ebbe commissione da Luigi XVIII di fare il quadro dell’ingresso d’Enrico IV in Parigi, e l’esecu- zione di questa bella pittura pienamente corrispose alle spe- ranze del principe che l’aveva ordinata. Nell’ultima esposi- zione lo abbiamo veduto produrre due ritratti che sorpren- dono per la verità della rassomiglianza e per la maravigliosa | esecuzione: rappresentano ambedue celebri personaggi in generi totalmente diversi. Uno è quello della seducente ed inimitabile Mars (1), 1’ altro quello dell’ illustre Dubois, primo chirurgo di Parigi. Gon questi ritratti espose il suo magnifico quadro di Corinna; che a sè richiamò tutti gli sguardi,ed ottenne l’universale approvazione. È noto ch'egli prese l'argomento nel romanzo della signora Stael: è questa un’opera d’imaginazione eseguita da un grande pittore ; concepita da un’ illustre poetessa. Non avvi cosa più bella, nè meglio sentita della figura di Corinna: ci sembra , ve- dendola, di udire le sue parole. La vediamo ispirata e tutta assorta nel suo soggetto. La valente sensibile penna della signora Stael si ravvisa nel valente pennello di Gerard, e l’ideale Corinna ci si presenta dipinta quale l’imaginò la . calda e sublime fantasia della poetessa. Vi si scorge quella grazia, quella bellezza, quella dignità che trionfarono, co- me per incanto , del cuore del freddo Oswald. Gerard non ha fatto altro quadro che più di questo dimostri il suo valore. Correzione, verità, espressione, colorito, arie di testa, tutto vi si trova insieme riunito per non lasciar luogo a nulla desiderare. Tale è la sensa- zione che questo quadro ci fece provare tutte le volte che l’abbiamo veduto, senza che mai potessimo saziarci di mi- ‘ rarlo. {1) Celebre attrice francese. 92 i Fra i moltissimi. ritratti fatti da Gerard nori posso ommettere di ricordare quello del Ducis(egli ne fece dono all'Istituto , di cui è membro), e quello di Redouté , che è un monumento della facilità dell’artefice, che lo dipinse in un giorno, senza scapito della bontà pittorica. Dobbiamo soggiugnere ancora qualche cenno intorno a questo celebre artefice. Non meno modesto che valente, Gerard fu dotato dalla natura di uno spirito brillante e vivace, che. seppe abbellire coll’estensione e profondità de’ suoi studi, Le sue qualità morali gli guadagnarono l’af- fetto di tutti coloro che hanno la fortuna di conoscerlo ; e la sua sala aperta ai nazionali ed ai forestieri, offre la più interessante adunanza d’ una società presieduta dall’ame- nità , dalla piacevolezza, e sempre ricreata dall’ istruttiva conversazione dell’illustre attefice. La scuola di Bologna è meno felice di quella di Ro- ma. Malgrado 1 sussidi d’un’ accademia provveduta copio- samente di modelli, questa scuola offre pochi artefici de- gni di memoria. Ad ogni modo uno de’ professori della sua accademia, G 4 1 | il signor #anzelli; ben. merita per i suoi talenti che lo facciamo:conoscere ai nostri lettori. Egli cominciò i suoi studi in Venezia, e venne a ter- minarli a Bologna sua patria. Quest’ artefice si accosta in molte parti allo stile dei Carracci; il suo disegno è corretto e grazioso , ma il suo colorito ricorda-quello della scuola veneziana. Ha fatti molti lavori all’olio ed a fresco; e quello che gli diede maggiore riputazione è la vasta tela del principale teatro di Bologna , rappresentante Alessan- dro in Babilonia. Bazzoli, altro artista bolognese e formato nella scuola patria, è uno de’ migliori pittori di scene che vanti l’Ita- lia, e rivale del Sanquirico, di cui parleremo in appresso. Bologna conta uno de’ migliori paesisti , il signor Bassi, ma dimorante in Roma, onde fu da noi ricordato 93 fra gli artefici romani. Così non parleremo adesso di Pa- Lagi, nato pure in Bologna, riserbandoci a farlo più op- | portunamente quando tratteremo della scuola di Milano , di cui è uno de’ professori. Sarebbe opera perduta l’intrat- tenere i nostri leggitori intorno ai pittori secondari, che “trovansi in Bologna ed in molte altre città d’Italia. La Toscana tab venti o venticinque anni in poi fece grandi progressi nell’arti, e può dirsi che in Firenze la pittura sì è compiutamente rigenerata. Conviene accuratamente tener dietro alla maniera | con cui vi si irisegnano le arti, ed ai risultamenti degli studi; ossia paragonare la scuola alle opere. Si potrebbe pur dire, che conviene paragonare la nuova scuola con quella de'tempi antichi, per tutto ciò che spetta allo studio della composizione , alla correzione del disegno , ed a una certa quale scelta nello stile. Tali qualità si trovano in tutto ciò che esce dall’accademia, non escluse nemmeno le pro- ‘duzioni de’ più mediocri scolari. Questi generali caratteri attestano la bontà de’ principi dell’ accademia fiorentina ed il merito de’ maestri, le attente loro cure per l’inse- | gnamento degli allievi, e la moltiplicità de’ sussidi som- ministrati per lo studio delle belle arti. Forse cadrebbe qui in acconcio il parlare de’ vantaggi che si possono ri- trarre da un’accademia, e de’danni che ne risultano; ; qui- ‘stione che si va agitando da lungo tempo. I | Tutta la parte filosofica dell’arte vi si studia profonda- ‘mente; lo che produce il fortunato effetto, che î mediocri ‘artisti sono assai meno cattivi che non lo erano in passato, ‘e che inoltre acquistano un certo grado di merito. Ma forse ne risulta uno svantaggio necessario per quella parte dell’arte che risguarda l’effetto. Lo scopo na- ‘turale della pittura è principalmente quello di agire sui sen- si; ed ora si studia forse troppo esclusivamente la compo- sizione su le dottrine teoriche, ed il disegno sulle statue. Sì pretende inoltre che sia trascurato il colorito, o per una 94 conseguenza dell’interesse con cui si studiano le altre parti della pittura, o per la mal fondata opinione che quello dell’autica scuola fiorentina fosse troppo debole; che per- ciò non si doveva imitare; onde si pretese di correggerlo andando a studiarlo altrove. Certo è, che spesse volte il colorito non corrisponde alle altre partide’ quadri chesi di- pingono a Firenze; d’ordinario non è abbastanza vigoroso, e talvolta si cerca piuttosto di sorprendere colla fulgidezza de’ colori troppo vivaci, che colla lorò verità. Si adoprano colori vergini o troppo brillanti ancora nelle drapperie, e si teme di mescolarli e smorzarli , come praticavano gli antichi, e si presentano in tutto il loro splendore, o per dir meglio in tutta la loro crudezza. Ma perchè non pregiudi- chino soverchiamente all'effetto delle carnagioni, è giuoco forza di farle più risentite e luminose con iscapito della verità. ; Il caval. Benvenuti è il direttore dell’ accademia di Fireoze. Egli nacque in Arezzo, ed è riguar dato come uno de’ migliori pittori dell’Italia, ed il primo di Firenze. Me- ritamente gode di una grande riputazione; ma taluno gli dà carico di cadere nel difetto di cui abbiamo parlato, avendo per qualche tempo adottato questo metodo, ch'egli non seguiva quando dipinse i primi quadri. Presentemen- te vuol far conoscere colle sue ultime opere che ha sen- tita la ragionevolezza di quest’osservazione; ma sgraziata - mente è forse troppo tardi perchè possa formarsi un mi- glior colorito, scevro affatto dall’indicato difetto. Si accusa inoltre Benvenuti di mancanza di forza e di rilievo, sem- brando talvolta che i suoi quadri siano stati calcati dopo averli terminati sui cartoni, quasi che il colore non fosse che una parte accessoria dell’arte, Il suo primo quadro di S. Dorato, che si conserva in Arezzo, non ha questo difetto, ed annunziava di già ciò che potevasi sperare dai talenti di Benvenuti. Quello di Giuditta, che è una delle sue più vaste pitture, trovasi 95 pure nella sua patria; e l’altro della stessa grandezza rap- presentante la morte di Priamo non va esente dal pre- allegato difetto, sebbene ridondi di sublimi bellezze. Per ultimo gli si dà colpa di posare e contornare in modo le figure, che s'avvicinano al fare della scultura. Alcun tempo dopo fece un Apollo, nel quale la natura dell’argomento lo strascinò nel difetto che lo caratterizza. Avendo voluto dargli una bellezza soprannaturale , la car- nagione del suo Apollo ricorda quella che Omero indicò | col nome d’ Zchor degli Dei, ma che sicuramente non si rassomiglia in verun modo alla carne umana. Il quadro del Samaritano,che trovasi in casa Riccardi, è forse il più bel quadro ch'egli abbia fatto : è veramente un capo d'opera dell’arte per moltissimi rispetti. Quello del Giuramento dei Sassoni che aveva eseguito per Napo- leone -e che adesso appartiene alla casa Mozzi, è al giudi- zio di molti conoscitori altra delle migliori sue opere. Si riconoscono tra le figure ond’è composto i ritratti di mol- ti generali e di altri personaggi del seguito di Napoleo- ne, tutti somigliantissimi. Per rappresentarli con tanta verità , Benvenuti fu costretto a studiarli, e per conseguen- za a seguire fedelmente la natura, senza poter. cercare l’ideale: e forse ancora il lume notturno, rendendo al- quanto bruni i colori del quadro , ne migliorò l’effetto ge- nerale. Le opere di Benvenuti hanno di già cominciato a cam- biar di colore , ed osiamo dire, che forse non ne senti- ranno pregiudizio , smorzandosi il soverchio splendore delle tinte . Ha terminato di fresco il quadro del conte Ugolino per un suo discendente, il conte della Gherardesca. Non parleremo delle singolari bellezze di questo quadro , che fu universalmente applaudito, nè de’suoi difetti. I nostri leggitori ne troveranno un’eccellente descrizione nell’An- 96 iologia,giornale che si. pubblicai in Firenze, ed il di cui gias dizio ci parve ragionevolissimo (1) . Benvenuti ha recentemente provato quanto sia pa- drone dell’arte sua: In età di circa 50 anni cominciò per la prima volta a dipingere a fresco, e vi riuscì al di Li di ogni ‘aspettativa. In una gran volta del palazzo Pitti dipitoso le nozze di Ercole con Ebe. Questa pittura dev’ essere. accom- pagnata da altri fatti di questo eroe rappresentati sul- le pareti della stessa sala. Le difficoltà che dovette vin- cere nel meccanismo del sotto in su; è un’ altra ripro- va de’ suoi talenti; e questa pittura, ardisco dirlo, non ce- de in veruna parte, se pure non vince, i suoi quadri al- I’ olio. Questa probabilmente sarà una delle sue più belle opere , e sarà un luminoso testimonio del singolare inge- gno di Benvenuti, e del suo profondo sapere nelle cose dell’arte. Convengono molti dotti conoscitori essere la com- posizione perfetta ; senza che per altro offra il carattere del genio: ad ogni modo vi si vede l’insieme, un’ accura- tissima esecuzione, ed un rilievo notabilmente bello. Dichiarano i conoscitori, dopo avere veduta questa pittura, che Benvenuti può entrare in concorrenza con ‘tutti i pittori viventi, e che in questo lavoro per nulla ce- de allo stesso Andrea Appiani, tanto celebre frescante. Molti altri quadri, e segnatamente di ritratti, sono usciti dallo studio di questo grande artista. Possiede egli un sin- golare talento per quest’ultimo genere di pittura , ed in particolare quello di colpire le rassomiglianze con molta verità, lo che raddoppia il merito de’ suoi quadri. I grandi maestri da lui scelti per principali suoi mo- delli sono Andrea del Sarto e Raffaello; ed in paticolare cercò d’ imitare l’ultimo, copiando, in tempo de’suoi studi . (1) Vedi Ant, vol, VIII. pag. 380, | | € } Ùù i î 97 in Roma, le belle pitture della Farnesina. in appresso sì è formato uno stile tutto suo. Tra gliallievi che uscirono da questa scuola, il 843- zuoli è riguardato come il migliore di tutti : egli perfetta- mente conosce il colorito, ed il suo stile si scosta alquan. to da quello del maestro. Si giunge fino a dire che alcune parti de’ suoi quadri sono dipinte con maggiore verità. In partieolare i suoi ritratti sì preferiscono a “epiteti di Ben- venuti. Per altro gli cede nell’ invenzione , e nel totale. non può sostener il confronto di questo grande artefice. Il Martellini è un eccellente diseguatore , ed assen- nato compositore ; ma il suo colorito è cupo e freddo —. Niccola Monti di Pistoia è un distinto artefice ma. uegli- gente, e non ha studiata ‘a fondo la sua arte. Osservasi nelle di lui opere una certa originalità, ma 1’ esecuzione non corrisponde a ciò che prometteva. Pietro Ermini è un sorprendente disegnatore nelle opere a matita. Pretendesi che veruno artefice abbia spinto più in là dell’ Ermini il meccanismo di questo genere. Egli è inoltre uno de’ più valenti miniatori. Berti e Colzi sono due giovani pittori, che anuun- ziano grandi talenti. Il Granduca di Toscana , protettore delle arti, ha fatto lavorare assai tutti questi artisti. Anche il Principe Borghese li adoperò molto nel palazzo che fece rifabbri- care con grande magnificenza; ma egli desiderando di ve- der presto terminati i loro lavori li affrettò in. modo, che alcuni non hanno potuto sollevarsi a quell’ alto grado, ‘che corrispondesse alla forza del loro ingegno. Francesco Nenci era senza dubbio il migliore allie- vo dell’ accademia , ma l’ abbandonò presto ; e studiò da sè l’ arte sua. Questo professore perfettamente conosce ogni parte dell’ arte; non è privo d’ originalità, e po- irebba ancora dirsi di genio. La precaria salute , ed il suo amor. proprio que mai non lo fa essere conten- T. XI. Agosto 7 98 to delle opere sue, non gli hanno fin ora permesso di la- vorare abbastanza. Egli è dunque, mi si permetta dirlo; ri- vasto addietro iu proporzione di quanto avrebbe. potuto avvantaggiare nella pratica dell’ arte. Quest’ artefice non è abbastanza conosciuto; ma ‘coloro che hanno potuto ap- prezzarlo, pretendono che abbia più talento di. tutti i suoi contemporanei. Egli ha fatte maravigliose composizioni per il Paradiso di Dante, onde fregiarne la nuovaedizione delle opere di questo sommo poeta che si è fatta recente- mente in Firenze. Ha pure dipinte alcune cose a fresco, ma la più importante opera è la pittura del palco di una cappella nella villa del Granduca al, Poggio imperiale, rappresentante 2 Assunzione della Vergine , intorno alla quale lavora da gran tempo. Luigi Subatelli , fiorentino e professore dell’ accade - mia di Milano, fece i suoi studi in Roma, e vi produsse un entusiasmo di cui non avevasi da gran tempo esempio . Può dirsi di Sabatelli che la natura lo creò pittore. 1 suoi disegni a penna, per lo più accuratamente finiti, sono, nel loro genere, maravigliose opere. Offrono felici invenzioni e concetti , che farebbero grandissimo onore al) più cele - bre artista. Egli profondamente conosce l’anatomia ed il disegno, ma Lroppe volte manca di gusto, e talvolta anco- ra di giudizio. Quando dipinge, molte parti delle sue opere hanno vigore ed intelligenza, ima l'insieme è pesante e spiacevole a vedersi. Cade spesso nell’ esagerato, e non ha grazia : specialmente quando dipinge figure femminili, alle quali poche volte seppe dare belle forme. Il Sabatelli profonda - mente conosce l’ arte del dipingere a fresco, ed è presen- temente incaricato dal Granduca di Toscana di dipinge re la volta di un salone del palazzo Pitti, ciò che lo La tolto per qualche tempo all’ accademia di Milano, do- ve da circa quindici anni è professore di pittura. Le nuo. ve sue opere faranno conoscere con precisione i suoi talenti. 99 Il figlio di Sabatelli, chiamato /Yuzcesco , sebbene non oltrepassi i venti anni , si è di già acquistata riputa- zione di valente disegnatore ; ma fin ora non si è veduta alcuna sua cosa per la quale si possa dar giudizio del suo colorito, e nom siamo ancora certi s’ egli entrerà nella buona:scuola. e. risponderà alla comune aspettazione. Tra i moltissimi allievi di Benvenuti sonovi altri non-pochi artisti che danno belle speranze. Ci acconten- teremo di nominarne un selo, dicui abbiamo una vantag- giusa opinione, Michele Migliarini, giovane di singolare ingegno, non meno buon letterato che buon pittore. Ci spiace di non poter far conoscere le sue opere ai nostri lettori:. Non parleremo de’ paesisti di quella città, perchè non avvene un: solo che si sollevi al di sopra della me- diocrità; ed è veramente cosa che sorprende, che un paese così ricco di bellezze uaturali, non ispiri il gusto ed il de- siderio d’imitarle, di copiarle; effetto per altro che si ma- nifesta in tutti gli stranieri tosto che pongono piede sul suolo della bella Toscana. Per terminare l’ articolo intorno a Firenze, po- che cose ci rimangono ancora a dire della sua accade- mia, che per molti rispetti è il più splendido stabilimen- to di questo genere che esista in Italia. Considerandolo politicamente , ha forse l’ inconveniente di, richiamare troppa gioventù allo studio del disegno, contando più di trecento allievi, cinquanta de’ quali attendono alla pittu- ra. Nel precedente: 1822 se ne fecero passare altri venti- cinque nella scuola di pittura, ed i maestri si prendono grandissima cura di escludere dall’accademia tutti gli sco- lari che annunziano soltanto mediocri talenti, affinchè possano applicarsi a qualche utile e lucrosa professione. Quel la parte che risguarda gli ornamenti, che in italiano chia - masi ornato, ha generalmente migliorato di gusto, ma uon 001 si è sollevata a molta altezza; e Firenze trovasi per questo rispetto molto al di sotto di Milano. Mentre la Toscana era unita alla Francia, sì aggre- garono all’ accademia di belle arti le scuole di musica, di declamazione, di meccanica, e di chimica applicata alle arti. Questo stabilimento così utile sussiste ancora , ma forse in pratica non fu la di lui utilità abbastanza estesa. I diversi rami di questa scuola sono presso a poco composti di dugento allievi, che ricevono inoltre le lezioni di storia e di mito- logia dal celebre Niccolini. Non si sa intendere per quale ragione gl’ italitani , che hanno nelle loro antiche storie così importanti e lu- minose ricordanze , non scelgano di preferenza dalle loro storie gli argomenti per la composizione de’ loro quadri. Avrebbero in ciò il doppio vantaggio, di una grande ab- bondanza, e l’ altro ancora più importante di erudire la gioventù nella storia nazionale, con che si verrebbe a dare un possente impulso al loro entusiasmo ed al loro ingegno. È cosa spiacevole che in questa parte non s' imiti I’ ac- cademia di Milano , la-seta che abbia adottato questo pia- no tanto nobile e patriotico (4). Prima di abbandonare. Firenze dobbiamo ancora parlare di un pittore straniero , chiamato Habre ,. france- se d’ origine , ma da molti anni dimorante in quella città, dove gode di una ben meritata. riputazione. Annunziava grandi talenti, ma gli si fa carico di non occuparsi abba- stanza dell’ arte. Il suo quadro della morte di Abele ot- tenne i più lusinghieri suffragi . È benissimo disegnato, ed egualmente ben composto. ll colorito è naturale, e le arie di testa ricordano lo stile di David suo mae- stro. Lodevole è il chiaroscuro , e 1’ insieme non è man- (1) Ciò si fece soltanto pel concorso di pittura nel 1821. Nota del traduttore. 101. cante d’ unità e di grazia. Gli si dà solamente colpa d’aver- lo forse troppo finito. Fabre fece altri quadri, e particolar- mente molti ritratti, che furono assai lodati. Milano piarge la perdita di due artisti morti da po- ‘chi anni. Il primo, che perdette in ottobre del 1815, è il ‘cavaliere Giuseppe Bossi, non meno valente disegnato- re che letterato. Il suo disegno, di ottimo stile, era castiga - to e gentile, e le sue composizioni sono imaginose e piene di fuoco. Incaricato di far la copia della celebre cera del Vinci, da eseguirsi in mosaico, fece maravigliosi cartoni; - ma la pittura non riuscì egualmente bene. Correttissimo ne’ cartoni, non lo fu egualmente nel quadro: il chiaro - scuro è falso , pesante il colorito , e così poco somigliante all'originale, che il mosaicista Raffaelli fu costretto ad ab- bandonarlo, cercando di dirigere come meglio poteva il suo lavoro dietro la pittura originale, che sebbene oscurata e guasta, offriva ancora grandi bellezze: e deve dirsi a gloria di quest’ artefice, che veruna copia ricorda meglio il capo lavoro di Leonardo , quanto il mosaico di Raffaelli , che fu trasportato a Vienna. Bossi ha fatti altri quadri che non ebbero miglior | successo. Pregiatissimi per lo contrario sono i suoi dise- gni, ed assai rari. Come letterato, quest’ artefice ottenne l’ universale considerazione. Il suo libro intorno alla pit- tura contiene osservazioni e considerazioni piene di saviez- za e di lumi (1). Quest’ artefice morì nel vigore dell’ età. Canova, suo intimo amico , gli fece in marmo il busto più grande del vero , che uscito dalle mani di così grand’uomo, è vera- mente un capo d’opera. Vedesi sul monumento eretto a Bossi nella biblioteca ambrosiana. (1) L’opera di Giuseppe Bossi di cui intende di parlare l’au- tore, è quella sul Cenacolo. Nota del traduttore. 102 Andrea Appiani (1) lo seguì nella tomba tre anni dopo. Quest’artista fu l’ornamento del mostro secolo; e per i suoi talenti ricorda la felice epoca de’ migliori maestri della scuola milanese. Come vari ‘pittori de’ precedenti secoli era nato di nobili parenti. Spinto dalla povertà e, dall’ entusiasmo che nella più tenera giovinezza ‘concepì per quest’ arte incantatrice, si consacrò alla ‘meilesima , ed il suo primo maestro di disegno fu-il cavalier Giudici. 1 rapidissimi progressi ch’ egli fece' nell’ arte ‘lo posero: in istato di provvedere alla propria sussistenza lavorando insieme ai pittori di scene, senza che per altro ‘abbando- nasse gli studi per avanzarsi nel più sublime genere del- la pittura, copiando le migliori opere! de’ più grandi'mae- stri. Fece di più: studiò l’ anatomia, perdipingere ‘le: fi- gure con maggiore verità. Senza adottare‘esclusivamentela ‘Mantera di qualche gran maestro; si creò un genere partico- lare che gli assicurò la superorità sopra 'tutti‘1'suoi com- patriotti. Riuscì specialmente eccellente: nei freschi di pin- ti in Milano, e ch'egli perfezionò, ritteecandoli dopo»icwiag- gi fatti in Italia per acquistare nuovi'lumi, studiandoJi la- vori de’ grandi ‘maestri (2). I più ‘bei /lavori ‘(*devrebbe dirsi i primi ) eséguiti a fresco, vedonsi ‘nella cupola di $. Maria presso S. Celso. Aveva altresì dipinto ‘un magnifico quadro per il palazzo Busca, ed alcuni! dire sad la real villa di Monza. in Appiani ebbe la fortuna di essere speciàlmente pròo- (1) Nato nel; 1754 a Bosisio presso il. lago, di Pusiano, nel- l'alto milanese (2) Ai conoscitori dell’ arte non è bisogno che dica non po- tersi i freschi migliorare ritoccandoli molto tempo dopo” fatti. Quando l’Appiani ebbe fatti i cartoni per la ‘cupola della Madon- na presso S. Celso, prima di eseguirli, volle vedere i freschi del Coreggio in Parma, ed altre opere di sommi maestri nelle prin- cipali città dell’ alta Italia: Ciò ha potuto trarre in errore il si- gnor Orloff. Nota del traduttore. 103 tetto dal goverzatore della Lombardia, 1’ Arciduca Fer- dinando ; ed i suoi talenti non furono meno stimati. da Napoleone, quando.esisteva il regno d’Italia. Lo colmò di onori, e.gli fece una pensione vitalizia. Appiami-ritrasse quasi tutti gl’ individui della fami- glia Bonaparte, ed i principali personaggi della sua corte; ma si distinse soprattutto nelle sue magnifiche pitture a fresco ‘nelle:volte delle:sale del real palazzo di Milano; che furono ‘eseguite in:una ‘maniera altrettanto ingegnosa che sorpren - dente. Credevasi di vedere in lui rivivere lo stile de’celebri «pittori del 17.° secolo. Queste volte sonoaltrettanti monu- ‘menti eretti.alla gloria del conquistatore, e l'artefice sta va ancora :lavorando intorno ai medesimi, quando nel 1313 «inn colpo d’apoplesia interruppe i suoi bei lavori, e privò {l’Italia di uno de’suoi più grandi artefici. Visse ancora sei anni:sempre.infermo ‘ed in uno stato prossimo all’ indi- ‘genza, avendo perduto col cambiamento del governo la pensione che gli era stata accordata. Questi capi d’ opera dell’arte, rimasti in parte non finiti, furono rispettati, e formano l’ ornamento principale del reale palazzo che viene! abitato dall’ Imperatore d’ Austria quando trovasi a Milano, «e. dall’Arciduca Vicerè quando .l’ Imperatore è ‘assente. Vedesi inoltre.in una:sala della real villa che appar- teneva al principe Eugenio quand’ era vicerè d’Italia, una volta: ‘rappresentante, ‘Apollo e le Muse, dipinta da A p- piani, ediè.uno:de’ suorinsigni lavori. I.suoi. più inelghòfquadei all’olio sono; Olimpo ; la itoeletta di Giunone :servita dalle Grazie ; V incontro di Giacobbe: e-Rackele:; Rinaldo:nel giardino di Armi- da; e sopra tutti, Zenere ed Amore, piccola e vezzosa composizione, che forma uno de’più gentili ornameniti della villa Sommariva sul lago di Como. Appiani era meno felice ne’ ritratti, non Ep facilità di cogliere le somi- glianze. 104 La maniera di questo pittore distinguesi essenzial- mente per lagrazia e la purità del disegno, per l’incanto e per “ l’armonia del colore. Ridotto, come l’abbiam detto; ad una grande indigenza negli ultimi anni di vita,ed incapace di lavorare, fu costretto di vendere i suoi disegni edi suoi studi , che gli stranieri ed i nazionali. acquistarono a gara (1). In tal guisa questo grande e sventurato ar- tefice strascinò gli ultimi anni del viver suo. Un nuo. vo colpo ‘d’ apoplessia lo liberò nel 1818 di una peno- sa esistenza. Fra i viventi. pittori dii a Milano uni Palagi e Serangeli, tutti tre professori di Brera. Il pn mo, 4iez, nacque nello stato veneto: cominciò i suoi stu- di in Venezia, ed andò a perfezionarsi a Roma. Fino dalla più tenera gioventù diede prove di grande ingegno. Il quadro che dipinse a Roma, l’ Atleta vincitore, gli meri-. tò il primo premio dall’accademia di S. Luca. Quello del- la morte di Laocoonte gli procurò lo stesso onoredall’ac- cademia di Milano , e questa bella pittura conservasi, co- m’ è noto, nella celebre collezione: di Brera. Pochi anni dopo dipinse un altro quadro; e scelse uno de’ più patetici argomenti: rappresenta 7’ istante in cui viene annunziata la sentenza di morte al conte di Car- magnola. Questo quadro ottenne così pieni suffragi dal pubblico e dai conoscitori, che fu di comune consen- so nominato professore dell’ accademia di Milano. Ha di nuovo esposto all’ ammirazione del pubblico di quella città un’ altra opera, i 'esperi Siciliani, che ottenne lo stesso successo ;-e si conviene nell’ opinione di crederlo superiore a’ suoi illustri.emuli, perchè all’inven - (1) I. quadri e disegni che Appiani possedeva quando fu col- pito dal primo accidente, furono quasi tutti venduti dopo la sua morte. Anche la di lui povertà viene in questo articolo alquan- to esagerata. Nota del traduttore. 105 zione ed alla composizione unisce correzione di disegno , colorito, chiaroscuro e sentimento. Pare che quest’ artefice abbia di preferenza preso a dipingere argomenti di storia moderna e del medio evo. Alcuni. conoscitori. pretendono che. riuscirebbe ancora meglio ne’soggetti antichi ed eroici, a motivo del suo toc- cograndioso: ilsuo quadro dell’Aiace fulminato sullo sco- glio sembra spalleggiare questa opinione. ‘Aiez si formò ;un bel colorito studiando gli antichi maestri della scuola veneziana e romana; ma gli si dà colpa di non saper ben trattare le. tinte oscure come le chiare. Le prime sono più deboli delle altre; e non sempre giuste. Il suo disegno., sebbene vigoroso e di buono stile, - manca talvolta di proporzione. In generale questi difetti non: sono sensibili che ne’ suoi quadri grandi, restando ne'piccoli impercettibili, I suoi ritratti non hanno il merito dei quadri istorici, non essendo felicissimo nelle rassomi- gliante. Si teme che per la grande facilità del pennello, non abusi talvolta di questo prezioso dono della matura. Forse troppo s’ affretta a terminare i suoi lavori; ma quest’ ar- tist.è ancora giovine, «ed.è nel pieno. vigore dell’ età, e pe conseguenza; si ha ragione di. sperare che vincerà i :lejgeri difetti che. ci/siamo presi Ja, libertà .d’indicare , ‘ eche appagherà i.voti di tutta 1’ Italia, la quale spera di -edere in lui risorto, nell’ età nostra un pittore degno dei lei secoli dell’ arte. » Palagi, che, come si disse, è nato in Bologna, tro- ‘vasi nel pieno vigore dell’ età , ed è uno de’ più distinti pittori d’ Italia. I suoi talenti lo fec ero nominare profes- ‘sore dell’ accademia, di Milano. Palagi studiò \a Roma, !dove ha imitati e confrontati gli antichi e belli, esemplari. Quella. capitale possiede molte sue opere. Si è specialmente distinto nelle cose a fresco, delle quali può vedersi un saggio nel palazzo Bracciano, anticamente conosciuto sotto il nome di pa- 106 lazzo Bolognetti. Per altro viene accagionato di.essere sta- to in quelle pitture troppo minuzioso. Invece di seguive lo stile de’ grandi modelli ,.di Raffaello, di Guido;‘di Do- menichino e di tanti altri celebri pittori, egli. cercò di for- marsi uno stile nuovo su i bassirilievi:greci.eiromani ; ed è per questo; che non vi si trovano! quelle masse darghe e quella franchezza di pennello, che formano.il:principa- le merito de’ grandi maestri : ‘per lo ‘contrario «si ira vvisa nella sua maniera una certa magrezza; che fa torto alla correzione del suo disegno. Pure, dobbiam dirlo i questo artefice ha fatto nell’ arte sua ‘grandissimi: progressi; co- mene fa-prova'il-quadro da poco dipinto‘a Milano, rappre- sentante Zu morte del celebre Visconti:(1). Malgrado tut ti i-suoi progressi , i conoscitori. gli, riproverano!dellardu- rezza nelle figure ;iche:si crede cagionata :daledipingerte piuttosto sul fantoccio che sul vero; moda ‘peraltro;gene- ralmente as e.pur. pliczi Fogar dai gg pittori STRO l ‘i SM. i Il colorito ed A rubfiiro scuro di” Palagi sono catia stile, ma ètroppo' minuto nelle drapperie.»Piacevok ;è il colore delle carnagioni, e generalmente parlando,: sì; può dire che quest ‘artefice ‘è insula buona ‘via, ‘onde non può lasciaredi avanzarsi molto nell’arte»Si. ne pue a far ritratti, ima non con: felice successo; . e Da Serangeli contasi tra i pittori: chesfioriscano im Mia- no dove cominciò i suoi studi , continuàti. poi sotto) Davd a Parigi. Sebbene buon pittore: ed:abbastanza:buon dis. gliàtore; sijscorge in lui eccessiva la qualità chiamata dagi italiani menechinoso. Esageratolèil:swo: colorito /le'figure sono dure , ed ha più d’ ognialtro! pittore il di fetto:di:co- piarle dal faiitoticio: Manca loro: quell’ abbandono:e quel posar a che forma il I carattere ia ‘antichi OC (+) Doveva dire Giovanni Sforza, ‘nipote di Lodovicò il-Moro. Nota del traduttore. 107 pittori.‘ Il suo quadro del Ratto di Polissena, che fu esposto all’ accatlemia di Brera: nel 1822, dai co- me la ‘migliore’ sua opera; ma ‘vi sì trovano gli accennati difetti. ‘ La di inferiore conta in Milano parecchi distin- ti‘ artefici. Gaspare Gozzi è un valente paesista: i suoi qua- dvi non hannograndi dimensioni, ma:mon perciò sono meno ‘belli./'Un giovane pittore, chiamato Bisi, tratta lodevolmen - te'lo stesso »genere di cpittura ;;e va;.ogni, di acquistando «maggior riputazione. Un altro giovane paesista, Ronzoni, ‘di Brescia, mostrasi fornito-di singolare ingegno; ed i ‘Roma, dove fece i suoi gent WErr farsi sig te‘ conoscere. Miliara si è fatto gran nome dipingendo prospettive. Allievo di Sanquirico, fu:da principio pittore di, scene ; ‘ma ben tosto lasciò questo: genere per imitare il Canalet- to In appresso si formò una maniera sua propria, che si accosta piuttosto allo stile fiammingo, e ch’egli va giornal- mente perfezionando! I isuoi quadri sono; assai stimati in tutta-l’Italia , onde difficilmente. può soddisfare ;alle com- missioni che riceve'davogni lato. 'Correttissimo nel disegno , possiede un colorito, natu- rale, vigoroso, pieno'di fuoco.1 suoi sbattimenti sono veri , e le:sue figure acquistano gentilezza in ragione che vanno rimpiccolerido tutte poi»banuo una certa grazia che in- canta. Miliara ‘conosce perfettamente la, prospettiva .;Uno de’suoi ‘migliori quadri rappresenta V.interno delduomo,di Milano; chie hadoviito replicare più volte. Egli deve assai per la composizione della .tayolozza a Boldrini y'pittor ‘vicentino; da molti anni abitante in ‘ Milano'; ‘e. deletlresspocia nivemte come ristauratore (di qua. “dri‘atitichi? Da poi che Miliaraadottò il. metodo di questo valent’ uomo) il suo ‘colorito; ‘ché :piegava al grigio, acqui- stò îl‘bel’tuono'd’'Ostade e della scuola fiamminga. Lo'stesso Boldrini si stabilì in Milano dopo aver fatti è 108 i ì suo studi a Roma. Dipinse aluni buoni quadri, il migliore de’ quali è ur Ganimede : bellissimo è il colorito , assai corretto il disegno. Ma, come abbiamo osservato, il prin- cipale merito di questo artefice consiste nell’ arte di ri- staurare i quadri. Sanquirico;il primo maestro del Miliara, è il primo pittore di scene di tutta l’Italia e dell’ Europa. Non po- trebbesi abbastanza lodare lo straordinario ingegno di questo grande pittore , che è. capo di una celebre scuo- la. Grandioso quanto semplice nelle sue composizioni , non è meno grande nell’ esecuzione. Alla più profonda cognizione della prospettiva unisce in supremo grado la verità dei colori , e veruno ha meglio di lui conosciuta la sua arte. Perfetta correzione di disegno, un tocco ardito e sublime , piani staccati come per incanto, senza mai ca- ricare le scene d’ inutili ornamenti ; con pochi tratti da maestro, fa ciò che gli altri non otterebbero di fare con grandissima fatica. Egli tratta colla stessa esatezza e collo stesso gusto tutti i generi d’architettura antichi e moderni. Maravigliosi sono i suoi effetti di luce, e generalmente par- lando, si può dire che il suo ingegno nulla lascia in questo genere a desiderare. Aveva il Sanquirico fatto eseguire dai suoi allievi nel Casino de’ negozianti in Milano la pittura di una volta. Recatosi in sul luogo per osservare il lavoro, | ne rimase talmente scontento, che gli fece dar di bianco, e lo dipinse egli stesso in modo da risvegliare l’ universale | ammirazione. Nell'arena di Milano fece dipingere da uno- | de’suoi allievi certi bassi rilievi , che non possono: ab- | bastanza lodarsi. | Il Sanquirico trovasi nel vigore dell’età , e si può di re, che forma epoca in questo genere di pittura, niuno | essendo fin ora giunto a così alto grado di perfezione. La | sua scuola abbonda di allievi assai distinti, tra i quali sì ve - | dranno probabilmente rinnovarsi i ;talenti del maestro. | Questo grande artefice pubblicherà fra poco più di duegen - | | } 109 to tavole rappresentanti le sue maravigliose invenzioni. L’accademia di Milano, di cui abbiamo fatti conosce- re molti professori, deve annoverarsi tra le accademie ita- liane che promettono felici risultamenti, specialmente nel- l’ intaglio , la di cui scuola è diretta dal celebre Longhi; il quale non è soltanto uno de’ primi intagliatori d’ Italia, ma inoltre uno de’ suoi più grandi disegnatori. Ad una singolare correzione ‘unisce un felice ardire ed una mor- bidezza nella sua matita e nel suo bulino, che ben poche. volte si associano insieme. Una grande verità, una inespri- mibile grazia nelle sue fisonomie ed attitudini , ombre giuste , effetti di luce. ben intesi; tali sono I’ eminenti qualità di questo grande artista. Ha di già formati alcuni valenti allievi, che lo aiutano ne’ suoi lavori. L'accademia di Milano è posta nel magnifico locale di Brera, che in addietro era un convento di Gesuiti, ed ora è diventato il tempio delle arti. Vi si trova una ma- gnifica collezione di quadri di molti de’ più celebri mae- stri de’migliori tempi della pittura. Il quadro di Raffael- lo:della sua prima maniera,le rz0zze di nostra Signora, che conservasi in quella galleria, fu da poco riprodotto col bolino di Longhi col miglior successo possibile. Si puòragionevolmente sperare che coi modelli di così valenti professori, e colla speciale protezione del governo, quest’ accademia potrà dare all’ Italia eccellenti artisti. Dobbiamo ora parlare della scuola di Venezia, una di quelle clie hanno potentemente contribuito a spargere nella penisola il gusto e le buone dottrine della pittura. Presentemente la sua accademia è una delle più bel - le d’ Italia ; il suo museo contiene piu di quattrocento quadri, e l'Imperatore d’ Austria, dietro la domanda fattane dal suo dotto ed illustre direttore il conte Cicognara, le acccordò quattrocento mila franchi per fabbricare nuove sale onde collocarvi degnamente que’ preziosi quadri . Quest’ accademia conta più di sessanta allievi, e comin- tIo ciano a recarvisi molti stranieri per studiare il colorito ve- neziano. Vi si trova, tra ‘gli altri capi d’opera; la maravi. gliosa Assuntd di Tiziano, che in addietro stava nella chiesa de’ francescani. In gran parte questa collezione si formò in occasione della soppressione de’ conventi e di molte altre chiese, i di cui migliori quadri vennero trasportati nel museo. L'accademia ha una buona scuola d’intaglio, un’al- tra d’architettura, ed una collezione di gessi; in una pa- rola possiede tutto ciò che si richiede per formare valenti artisti. ‘ Abbiamo di già parlato di 4iez, che è professore a Milano, e qui dobbiamo indicarlo come veneziano, ed. al- lievo della scuola veneziana. Demin è un altro pittore, nato egualmente a Vene- zia (1), che fece i suoi studi in quella città, ma che si perfezionò a Roma. Quest’ artefice è nel vigore dell'età, ed uno dei distinti pittori d’ Italia. Chiamato a Padova , vi sta facendo grandi opere. Dipinse a fresco per il conte Papafava un quadro rappresentante un fatto di Aspasia : la grazia del disegno e |’ esattezza formano le più belle parti di questa pittura. Demin disegna con eguale bravura colla matita e colla penna vaste composizioni, ricche di figure tutte cor- rettamente condotte e dottamente inventate. Quest’ arte- fice non dipinge all’olio, e spiega tutto il suo sapere nelle pitture a fresco. Letanzio, di Bergamo, è professore di pittura: a Vene - zia. Ebbe molto incontro ne'quadri della scuola veneziana , e fa tali copie delle pitture degli antichi maestri, che pos- , sono ingannare anche i più grandi conoscitori: e Giorgione è quello che egli sa più felicemente imitare. Naturale è (1) Demin è nato in Belluno, dove stadiò il disegno prima di | recarsi a Venezia; indi andò a Roma pensionato dal governo italiano, Nota del traduttore. ara 1 È hi ù ; 1tI ‘il suo colorito , mia scorretto il disegno. Il suo chiaroscuro è beni combinato; ma tincresce che le sue drapperie non siano felicemente.trattate. Il suo stile s° accosta a quello | dell’antica scuola veneziana. Ingenerale , credo che possa di lui dirsi, essere miglior imitatore che compositore. Schiavone: appartiene ancor esso allo stato veneziano. Pochi o. niuno furono più di lui favoriti dalla natura; ma gli si dà: colpa di non avere abbastanza studiato , e di ‘ab- bandouarsi troppo alla sua facilità. Una madonna da lui dipinta ottenne i suffragi di tutti i conoscitori ; ed è dan- no dell’ arte , che abbia preferito al più nobile genere di pittura esercitato con si buon successo , la miniatura , che peraltro tratta felicemente, avendo in ‘particolare il dlono di colpire le fisonomie. Pellegrini, nato a Venezia (1), fec@i.suoi studi a Ro- ma. Il primo quadro esposto al pubblico, rappresentante la morte di Messalina, fu molto lodato. Pellegrini non abbandonò mai lo stile della. scuola veneziana, e cercò d’imitare Tiziano. Si diede a far ritratti, e molti ne dipinse in Londra ed in Portogallo, dove fece il quadro di /'enere ed Adone . che 1 portoghesi lodarono assai. Borsato è un celebre pittore di scene, che tratta an. che quadri in sul fare del Canaletto, e specialimente con vedute di Venezia. Un altro artefice, chiamato Chelone, fa, si può dire, maraviglie in questo genere; e se non ha superato Cana- letto ed il Guardi, li ha certamente raggiunti. Roberti , nato in Bassano, opera nello stesso genere a Roma, e felicissimamente dipinge le vedute della capi- tale del cristianesimo, Quest’ artefice era in particolar modo protetto dal grande Canova, che aveva una sala pie- na di pitture del suo compatriotta. (1) Pellegrini è nato a Bassano duve fece i suvi studi, Nota del traduttore. 112 , Un solo pittoro gode in Torino riputazione, il signor. | Biscara, il quale nato in quella città , fece i suoi studi a Roma , dove si fece conoscere con un quadro rappresen- tante l’incontro di S. Elisabetta colla S. Vergine. Que- sta pittura di buon stile, di castigato disegno, e di un tocco - largo ha un colorito che piega al grigio. Si ha motivo di temere che questo pittore che dava grandi speranze, essen- do stato costretto a lasciar Roma ed i suo bellissimi mo - delli per recarsi a Torino, non possa colà sviluppare i suoi talenti , essendo stato nominato direttore dell'accademia delle arti. Napoli è più ricco d' artisti che Torino. Il direttore della sua accademia di pittura, chiamato Angeliri, ha fatto alcuni quadri, il più notabile tra i quali è quello rappre-- sentante Psiche, che lo stesso autore risguardava pure co- me la sua migliore opera. I conoscitori vi trovarono corretto il disegno, ma durezza di attitudini, ed il colorito falso ed appannato. Riesce meglio ne’ritratti, che ha l’arte di ren- dere molto somiglianti. D. Mattia è uno de’più distinti pittori di Napoli. I suo colorito ha naturalezza e splendore; il suo disegno è corret- to, e le figure ben collocate e bene aggruppate; in una parola, posicrbai tutte le disposizioni per diventare un gran pitto- re. Il suo quadro, rappresentante Pericle che visita lo stu- dio di Fidia, ottenne i comuni suffragi. Berger di Torino si è da molti anni stabilito in Na- poli, ed è uno de’ più valenti pittori ‘di quel paese. Di- pinse con universale soddisfazione un gran palco a fresco nel palazzo di Caserta, nel quale si ammirano l’ ordine e la ricchezza della composizione: ma superò sè stesso nel quadro che fece della morte d'Epaminonda; nel quale ve- desi verità di colorito, figure ben disegnate e molto espres- sive, e varietà di teste. Finalmente si trovano nell'insieme della composizione e nella unità del soggetto certi tratti dell’antica pittura, e quel finito che rare volte si vede nelle — * NE 113 . moderne pitture. Sopra tutto si osserva un maraviglioso contrasto tra la caratteristica fermezza della figura di Epa- minonda , e quella del chirurgo che si apparecchia ad ese- guire 1 suoi ordini levandogli la freccia della ferita, senza veruna speranza di sarvargli la vita. Questo contrasto è del più bell’ effetto che immaginar si possa. Saia, nato ed educato in Napoli, ha dipinti molti quadri. ile de’ migliori è quello che rappresenta wn fatto istorico della guerra di Troia. Il corpo di Et- tore è restituito alla sua famiglia che lo circonda : questo corpo è di una bella anatomia , ma si accusa di soverchia durezza ancora per un cadavere. Le figure di Ecuba, di An- dromaca e di suo figlio , e di Elena sono atteggiate e ve- stite con gusto. La figura di Priamo principalmente ci, parve ben concepita , e la sua espressione nobile ed impo- nente. Il suo dolore è quello di un padre-che piange suo figlio, e quello di un re che perde il suo miglior sostegno. Cassandra diffonde un cupo movimento sopra tutte le fi- gure, che di già si rimproverano di non avere dato orec- chio alle sue terribili profezie. Questo quadro di una gran- dissima dimensione ci sembrò di un bell’effetto, e ci diede una vantaggiosa idea dell’ingegno di Saia, che potrà sol- levarsi a sommi gradi, quando gli riesca di acquistare quel- la fortunata facilità di cui abbisogna per eseguire i soggetti che tanto ben concepisce. Gli si fa egualmente carico di ave- re introdotta soverchia ricchezza nelle vesti e negli orna- menti, non consentita dai costumi di quel tempo. In ge- nerale il suo colorito è bello, sebbene alquauto esagerato, . ed il tuono troppo uniforme. Camerano è professore della scuola di Napoli ; ed uno de’ non molti buoni pittori di questa città: ha corretto di- segno, verità nelle attitudini ed un ben inteso colorito , sebbene alquanto pallido ; gli abiti sono ben disegnati; e sa fare ritratti laicale e leggiadri. T. XI. Agosto 8 114 Girgenti copia ianacnzila con molt’arte. Ha fatti. alcuni buoni ritratti, ed un bel quadro rappresentante Me- rat che visita alcune religiose in un convento. Altri due pittori, Celestini e Mattioli , fioriscono in Napoli, dove sono nati. Il primo ha un disegno corretto ed un colorito pieno di verità; e lo stesso può lita dell’ al- tro, che ha fatti molti buoni ai Dobbiamo pure ricordare un artista napoletano, chia-. mato Ciappa, che non sa che copiar quadri di antichi maestri, ma così perfettamente e così somiglianti, che dif- ficilmente si distingue la copia dall’ originale, anche po- nendola presso a questo. Si dice , che approfitti di questa facilità per far qualche volta passare le sue copie come quadri de’ più celebri maestri. È cosa notabile che questo copista così accorto e valente non sappia comporre nè fare uu quadro di sua invenzione, non avendone dipinti che di mediocrissimi. Da pochi anni Napoli ha fatte sensibili perdite nella pittura inferiore. La prima fu quella di Hackert, celebre paesista conosciuto in tutta l’ Europa. In ogni città si ve- dono quadri di questo artefice, ma non egualmente belli. Filippo Hackert ebbe l'onore di essere pittore del Re di Napoli, ed ha fatti molti quadri per i suoi palazzi; e molti sono degni di un celebre paesista , in particolare quelli che sono alla Favorita, reale casa di campagna, non lontana da Portici. Haslon: aveva fatto col Re un singolare: con- tratto : erasi obbligato a fare per lui tutti quei quadri al prezzo di sei ducati napoletani per ogni piede quadrato. Per guadagnare con poca fatica moito danaro, l'artefice im- maginò di fare a’ suoi quadri i cieli due o tre volte più alti che non richiedevasi. E questa è la ragione di tal difet- to, che trovasi in tutti i quadri da lui dipinti per il Re, i quali sono altrettante prove della sua avarizia e mala fede. I soggetti di queste pitture d’ ordinario sono le più belle er5 vedute delle vicinanze di Napoli e de’ reali parchi. Lo stile e le opere di questo maestro essendo universalmente cono- sciuti, non richiedono più circostanziate notizie. è Denys, pittore francese, soggiornava in Napoli jdove morì. Era un valente paesista, (che fece molti bei quadri per la corte e per la città. Gli si dava colpa di avere una parti- colare predilezione per dipingere giovenche , non cono- scendosi un solo quadro che non ne abbia. Si pretende inol- tre che facesse campeggiare troppo il giallo nelle sue pit- ture: ma i suoi quadri, a dispetto di tale mancamento, sono di un bell’ effetto, ed aveva l’arte di dipingere con tanta precisione, che un botanico avrebbe potuto indicare il carattere di tutte l’erbe di una zolla, avendo intorno a ciò fatto uno studio speciale. La sva bravura andava sem- pre crescendo, e la morte privò Napoli di un valoroso ar- tefice. Faller erasi, come i due precedenti litri stabilito a Napoli, dove terminò i suoi giorni. Aveva ottenuta molta celebrità dipingendo le eruzioni del Vesuvio. Erasi esclu- | sivamente dato a questo genere di pittura; ed i suoi quadri sono assai ricercati, siccome i soli che rappresentino con verità i sublimi e terribili effetti di questo volcano , ed i spaventosi disastri che produce. Generalmente parlando, il gusto delle arti sembra essersi allontanato da Napoli, non trovandovisi incoraggiati. Nèi gran signori, nè i ricchi privati prendonsene cura, e tutti sono affatto indifferenti sul loro miglioramento. Sen- za i forestieri che acquistano alcune cose di pittura o di scultura, non vi sarebbe mestiere peggiore di quello del- l'artista. Per darne una prova, dirò, che conobbi un celebre scultore, chiamato Maswucci , il quale per vivere era tal- volta ridotto a incider forme per una fabbrica di bottoni. Eccoci arrivati al termine del nostro lavoro. Abbia- mo esposto lo stato preseute della pittura , e fatti cono- scere i viventi artefici più distinti. Il risultamento non è 1126 così lusinghiero come potevasi sperare; e, senza permetterci, di manifestare veruna opinione, ci limiteremo a far voti per la prosperità di questa terra classica, dove abbiamo passati alcuni de’ più felici e tranquilli anni della. mostra vita. 4 T. sas Delle colonie interne della Dranta e di Wartel. ti Memoria del barone di Keverberg sulla colonia di Fre- deriks-Oord, e sui mezzi di soccorrere ai bisogni dei. poveri col dissodamento delle terre incolte ,— Mem. del generale Van Den Bosch: Gand 1821. Il Filantropo, giornale della Soc. di benefi cenza. — Alla Haye, 1822. 1823. Chiunque ha qualche amore per la felicità degli uo- mini, è contristato dalla moltitudine di braccia inoperose e stese a domandare elemosina, che presenta la nostra Eu- ropa. Se restano tra noi, sono a carico della loro patria una folla di consumatori che non riproducono; se partono, come hanno già cominciato a fare, nell’atto in cui sem- briamo sollevati da un peso dannoso, ci tolgono in sostan- za uno dei grandi mezzi di prosperità nazionale, che è la popolazione. Tutti i buoni desiderano quindi di vedere educati a perfezione tutti i poveri pel loro bene e. per il nostro, sicchè cessi una volta questo gravoso tributo , e questa trista conversione che accade tanto facilmente del povero in un uomo colpevole e facinoroso , perchè è di- mostrato che non v'è chi attenti alla sicurezza pubblica e privata, o chi abbia almeno violentissima la tentazione d’ attentarvi, quanto chi non ha nulla da perdere. Alcuni economisti han proposto di proibire + matrimoni dei ;po- veri; ma la cosa è impossibile, uon libera l’ Europa da quelli che attualmente esistono’, tende a rendergli più isolati e però più cattivi, ed a rinnuovare tutti i mali che 119 l’antica Roma ed altri popoli hanno risentito dai celiba- tari moltiplicati, e tuttociò senza troncare in radice le ca- gioni dell’indigenza , la quale più spesso sopravviene al padre di famiglia, carico di figli, oppresso dalle malattie, rimasto senza lavoro che non'al celibe , il quale per poco ingegno che abbia, in un modo o nell'altro trova il mezzo di scampare alla fame ed alla nudità. Così si riconoscono vani gli altri rimedi, e non v'è clie la buona educazione dei poveri, ché possa salvare essi e noi j ma una educazio- ne che gli ponga per mezzo dellà istruzione in stato’ di guadagnarsi senza fallo il loro bisognevole. Non si leggono senza intenerirsi fino'alle lacrime gli sforzi del padre dei poveri, il conte di Rùmford, per fondare le case di lavoro di Baviera: l'istituto d’ Amburgo e quello ‘di Trieste mi- rano pa a “pg gran fine, ad educare i poveri nelle ‘arti. — ‘Ma la sproporzione che esiste fra gli oblatori ‘e gli acquirenti degli oggetti d’ arti, la' stagnazione del ‘com- mercio combinata colla introduzione delle macchine ; e milfe circostanze avverse alle avti inducono a pensare, che comunque la educazione ‘del povero alle ‘arti sia buona, on possa però essere egualmente buona per tutti, e che bisogni dirigere unà gran parte delle ‘nostre braccia ino- perose verso l’ agricoltura. Si presentano ‘molte difficoltà , ‘sì fanno molte obiezioni, ma col gran mezzo di promuove- te'il-bene della comunità, il' mezzo delle utili associazioni, ‘sì dissipano i timori, son'vinti gli ostacoli, e dopo qualche ‘anno d'esperienza; noi proviamo la dolce' consolazione ‘di vedete prosperare i modelli d'una sì ‘tile istituzione: !* 0! “La provida'Olanda ha formato la prima questo gran eorietato ‘di volgere i suoi poveri ‘all’ agricoltura in tal ‘modo, che ‘non avessero a temere le vicende delle cose'ci- ‘vili. L ‘agricoltura ‘ha questo sommo vantaggio; concentra in una ‘sola persona il riproduttore ‘e il corisumatore: 1’ à- ‘gricoltore riproduce gli oggetti necessari per tutti i primi 118 bisogni della vita, e particolarmente, quelle materie che servono al cibo ed. al vestire; egli è offerente ed acquiren- te; e.così non risente.il danno degli sbilanci economici del paese: Non è nella misera dependenza dell’artigiano, che vive a salario,, e non trema continuamente per il giorno . di domani come o uegli che ‘aspetta avventori alla sua of- ficina, Per trasformare i, poveri in agricoltori operosi e felici, sì formò pochi anni indietro. in Olanda, (nel 1818) una, compagnia che prese il nome di società di bene- ficenza, Il principe Federigo, secondogenito di quel buon Re, con un, esempio veramente;degno d’imitazione ,; e capace più. d'ogni altro .a. radicare;nei cuori: dei sud- diti un tenero, amore,verso i loro sovrani; si pose alla testa di questi filantropi, e il generale Van Den Bosch stese un progetto di colonia interna, che fu realizzato nella ;sterile e deserta. provincia di Dranta., Si pensò d’impiegare le braccia oziose col dissodare gli scopeti .in- culti, della Dranta;, per trovare in questi deserti il tesoro del vecchio padre di. famiglia d’ Esopo, per aumentare così i. valori territoriali del regno, per somministrare una occupazione fruttifera e permanente ai poveri, e per dare loro un’ arte nobile ed un’ esistenza felice. Acquistato un vasto terreno incolto, si raccolsero mille 500 indigenti che; languivano di miseria, e debolmente soccorsi dalla pubblica beneficenza con gravi ed. inutili sacrifici, ; non «facevano che trascinarsi, per, le vie una precaria e. misera ‘esistenza: S'impiegarono i più vigorosi a, dissodare le terre, si destinarono .le. donne ed i fanciullini a tessere ed a filare i prodotti del campo e dei bestiami domestici. Dopo ‘quattro mesi gli uomini impiegati sotto \abili, maestri. ad imparare ed, esercitare l’ agricoltura, le donne occupate c&3hesser. coi loro, figlioletti. e filare , avevano guadagnato cinque mila pesi fiorini in pinanbatar pe famiglie. rato primo saggio ottenuto da gente. mancante, affatto 119 di cognizioni e d’ esercizio , dava un prodotto annuo di duegentonovanta fiorini per ogni famiglia. Dopo due anni, seicento arpenti di terra erano perfettamente dissodati, per quanto si tratti colà d° estrarne la torba , e mischiare l’argilla colla sabbia, e formarne terra vegetabile. Dopo tre anni il barone di Keverberg visitò quella colonia , e ne rimase incantato. Un deserto convertito in campi fer- tili e biondeggianti, animato da ‘numerosa popolazio- ne; dugento solide e belle case coloniche tenute con una proprietà e con un ordine mirabile, ornate ciascuna d’ un grazioso orticello ridondante di erbe , di legumi, di frutta, guarnito di belle ghirlande di fiori ; un popolo allegro, attivo, ospitale, comunicativo; bravi padri di famiglia, che già emulano i vecchi agricoltori, che visita- no spontaneamente ne’ di festivi il loro podere, e studiano ciò che vi manca e ne parlano con passione e si consiglia - no tra loro ; l'educazione che guida i passi dei fanciulli, sani, animati, allegri, operosi, che cominciano dal muove- re il loro filatoio cireondando le loro madri attive e con- tente:, e ‘seguitano poi allegramente i passi del padre e i suoi‘ lavori nel campo; la voce augusta della religione che parla al cuore intenerito di tutti ; un sistema paterno negli amministratori della colonia che ritiene gl’incapa- ci‘in una dolce tutela, e provvede alla loro ulteriore istru zione eeonomica ed ai loro bisogni presenti , continuando a:regolare e presedere i loro lavori fatti in comune, men: tre emancipando il padre di famiglia già arrivato alla pu- bertà morale; e ponendolo libero alla testa del suo podere , rianima: le speranze dei meno coraggiosi, sveglia i. meno attenti}: sgrida gl’infingardi: ecco lo spettacolo veramente dolce. che si presentò a questo amico degli uomini. Nel 1822 la colonia, prospera e fiorita, aveva distese .sul de- serto vicino le sue conquiste: più di due mila 500 colo- ni benedicevano amorosamente la provvidenza del nostro Dio , la bontà. dei loro principi, il tenero amore dei loro 120 concittadini: e questi già pensavano a provvedere. il mez- zodì della lor patria di questo benefizio che facea floride , pingui e popolose le sterili solitudini del settentrione ;.e Wartel gareggiò presto colla Dranta. E i mezzi per opera- re questo prodigio di nuova creazione fisica e morale .era- no questi soli, ed essi comuni a tutto il globo ; terreno, braccia, istruzione, ordine. Voi lasciate il meglio, mi dirà qualcuno: bisogna che voi aggiunghiate a queste (quattro cose il sacrifizio di grande capitale. Nò, amici miei, non è vero. La società ha veramente quattrorami d’entrata; le sue contribuzioni e gl'imprestiti da’suoi amici; i prodotti delle convenzioni coi privati e col governo, o cogli stabilimenti, e l'affitto che pagano i coloni; ma in tutto questo non v’ha il sacrifizio di grandi capitali come si dice. Le. sue contribuzioni sono minime: pensate che vanno ad. un soldo per settimana, oltre i liberi doni degli uomini dab. bene, E ripensate poi a quel che costa a tutti. gli uomini la limosina, destinata a mantenere i poveri nello stento e nell’ozio: e non dimenticate che le nostre limosine sono una vera consumazione, mentre queste contribuzioni non sono propriamente altra cosa che un fertilissimo im- piego. Entrando,nelle particolarità del moltiplico mara- viglioso che produce, ognuno si sente desideroso di impie- gare così bene una parte della sua fortuna. Per gl’impre- stiti degli amici non è da porgli in conto di sacrifici; nè da stimargli difficili in questo tempo, in cui tutti si;lagnano del ristagno della circolazione, e restano oziosi fra le mani degli uomini opulenti vistosissimi. capitali. Da un altro lato la società. nen riceve imprestiti se. non quando ella ha la certezza d’un possesso che basti a guarentirgli ‘e restituirgli a suo tempo. Le sue convenzioni le danno questa -certezza, e formano il terzo ramo delle sue entrate. Essa prende a mantenere, educare e stabilire un indigen- te o fanciullo o adulto per conto di un privato benevolo; d’ uno stabilimento pubblico , o del governo, I'conti ‘son 121 fatti: e la società ha fissato il mantenimento ‘del povero adulto a 25 fiorini l’anno; se egli è isolato, ed a 18 fiorini | se la convenzione riguarda 20 istiga Se sì tratta di fanciulli, ella.calcola il loro mantenimento a (15. fiorini per ciascuno, riunendogli in piccole famiglie. (1) Finiti i sedici anni, i poveri si.trovano educati e stabiliti sul loro podere, ed il loro benefattore non paga altrimenti; e ciò ehe è anche più singolare, egli può disporre d’ un posto in perpetuo per un indigente, quale piaccia a lui e a’ suoi posteri di eleggere, perchè la previdenza olandese. ha trovata in: questa somma anriua tanto da supplire al man- tenimento , e da ammortizzare un tal fondo che basti a restituire. l’imprestito contratto per il povero. L’ ultimo articolo di rendita, per. la' società è il fitto che pagano i poveri allorchè, dissodata la terra, si dà loro un podere a coltivare e sfruttare. Questo fitto è stimato con assai moderazione: serba intatta al colono la parte colonica, e gli rilascia anche assai sulla porzione del padrone; ma nonostante questo. fitto paga abbondantemente il frut- to del capitale che s’ impiega dalla società per stabilire un podere. Ma io torno a dire che i mezzi pei quali le colonie prosperano e si mantengono, sono questi: terreno, braccia; istruzione ; ordine: Ed il terreno e le braccia non hanno bisogno di particolare commento ; ma è ‘bene che sì'avverta qualche cosa sugli altri elementi di questo mi- rabile:istituto. E prima, dicendo una parola'‘dell’ istrazio- ne ;;è da osservare che gli amministratori della ‘colonia noh trascurano .nulla perchè i loro :coloni sieno piena mente vistrutti ini primo luogo ‘delle: verità religiose e morali, delle ‘quali si fa ‘uno studio particolare, e poi di tutte le.‘cose agricole: e:si è fondata colà una scuola sui principi medesimi della scuola di Fellenberg a Hofwill, lo chè basta per una completa giustificazione del sistema adol- ' (1°Il fiorino d’ Olarida equivale a soldi cinquanta circa di oscana, 122 tato in Olanda. E si vuole poi, (e questo è ciò che in molti altri luoghi è negletto ) si vuole che ai principi s° unisca l’applicazione e la pratica; ed è da vedere nella memoria del generale Van Den Bosch quale esatta ispezione sì eser- citi sull’ interno delle famiglie e su’ campi, e con quali mezzi si voglia assicurarsi della capacità e della moralità d’un capo di famiglia, prima di emanciparlo dalla tutela dell’amministrazione. Quanto all'ordine, esso è in tutto mirabile, e riguar- da particolarmente alla buona divisione del governo; dei poteri e magistrati diversi della società, ed alla ispezione su i campi, su i lavori, su i costumi pubblici e privati'dei coloni, ed è particolarmente commendabile per la esattezza somma dei calcoli che vi si fanno, e per conoscere i bisogni dei coloni e il frutto possibile delle terre, e perchè il tempo attuale serva a prevedere e cautelare il futuro. Non dobbiamo omettere che il rispettabile Guglielmo Allen, così conosciuto dalle società di lettere come da quelle di beneficenza, ha immaginato un piano d’ ammi- nistrazione coloniale alquanto diverso da ‘quello seguito dalla società che noi lodiamo. Propone egli che ‘una socie- tà composta di azionisti, compri o prenda in affitto ‘una estensione !di terra capace. a. sostentare da cinquanta ‘a cento famiglie, che fabbrichi a due a due le case. coloni- che, provveda gli strumenti, e guarnisca le case di mobi- li Ogni colono nel suo sistema ha una casa ed -un orto comòdo e vasto, e la. rendita di quest’ orto ; il pollaio goli conigli, che. gli appartengono per intiero. Paga il fitto alla società per la sua abitazione ,‘e lavora le terre per conto della compagnia. I suoi figli:sono istruiti nella religione, nelle arti, nell’ agricoltura; Javorano e. guadagnano: in proporzione della età. Un magazzino pubblico anticipa il colono nel' corso dell’anno il bisognevole , e gliene ‘dà tebito. Il prodotto dei campi serve;di regola a fissare il vilore delle giornate degli operai, che alla fine d’ogni anno 123 sono accreditati del loro, lavoro. Un credito di cinque lire sterline produce interesse: allorchè si eleva al valore d’ un'azione, il colono può acquistarne una e divenire azionista. Tale è in compendio il progetto d'Allen tenden- te a prolungare la dependenza del colono finchè non ab- bia colla sua economia trovato il mezzo di farsi proprie- tario, mentre nel metodo della società olandese diviene fittuario libero del suo podere , tostochè la. magistratura della colonia lo. giudica capace d’ usare rettamente di questo diritto. Ma ritorniamo all’ Olanda. Nel quarto anno della sua esistenza , (1823) la colo- nia di Frederiks Oord prosperava sì fattamente , che gli amici dell'umanità non pensarono solamente di rendere comune al mezzodì del regno il benefizio che |risentiva il settentrione, ma realizzarono questo pensiero felice , organizzando la società di beneficenza per la parte me- ridionale del regno dei Paesi Bassi. Un giornale molto importante; che le compagnie di beneficenza hanno co- minciato a stampare nel 1822 per rendere un conto pub- blico delle loro, operazioni, e per fare comuni le mi- gliori .scoperte nell’ economia generale, ed in speciale modo nell’ agricoltura , dà in uno dei suoi ultimi ‘numeri una-notizia sommaria della istituzione di questa colonia. Noi la ripetiamo, richiamando particolarmente l’attenzione «sulla circostanza , che l'imprestito da un lato, ed i con- tratti col pubblico e coi privati per il mantenimento d’un mumero d’indigenti dall’ altra parte, sono anche. questa volta, è due. grandi mezzi per fondare e mantenere la colonia nascente. « Dal febbraio all’ aprile la società acquistò cinque- icentotrentadue dorziers di scopeti nella comunediWartel, idlestinandone però soli 245 al dissodamento, per stabilire Ja colonia Zibera. Questa - porzione ‘fa suddivisa ‘in 70 parti: il resto si riserbò aspettando occasione di fondarvi «una; colonia di repressione , pet’ radunarvi i mendicanti 124 validi e vagabondi. Nel giugno il dissodamento era già notabilmente avanzato, e si doveva in gran parte alla ge- nerosità del principe Federigo. Eletto egli in presidente anche di questa società, le aveva fatto un'anticipazione di diecimila fiorini in benefizio della colonia. Nell’ ottobre erano già fabbricate e provvedute di mobili e di strumenti agricoli venticinque case coloniche, erano dissodati trenta bonniers; e messi in istato di ricevere la prima sementa: oggi la metà di essa promette un’ ottima raccolta. Era anche pronto il vestiario per oltre a dugento persone, e furono ammesse nella colonia venti famiglie, composte ciascuna d’ otto individui. Tre altre se ne riceverono per contratti fatti cogli esteri. È oggi provato che millesei- cento fiorini bastano per stabilire una famiglia. Nel 9g no- vembre 1822 un decreto reale ha fissato i mezzi per alle- vare nelle colonie meridionali i fanciulli esposti e gli orfani, e la società ha risoluto di estendere la colonia, e il direttore è stato incaricato di provvedere perchè nel mar- 20 1823 quarantacinque poderi fossero pronti per ricevere altrettante famiglie indigenti: 40 almeno vi saranno proba- bilmente ammesse in conseguenza di contratti colle comu- nità del regno e con altri benefattori. La greggia della colo- nia si è portata sino a mille pecore per procurarsi iconcimi, (che sembrano qui meno abbondanti che nel settentrione ) e si è aperto un imprestito di 60-mila fiorini; per supplire alle spese di costruzione delle nuove case ; dei magazzini, scuole , filatoi. Il Re ha preso parte a questo imprestito per dodicimila fiorini, e le due compagnie di sicurtà di Brusel- les hanno compiuto il resto. La società s° è è quindi oecu- pata. per: la fondazione, della colonia di repressione pei mendicanti validi, che secondo il decreto: reale (del 6 novembre 1822. potranno ‘esserle. confidati in virtù di contratti da passarsi col ministro dell’interno : ella pensa di aumentarne il numero da 1000 a 1500. Si propone di comprare millecinquecento ettari di scopeti presso a War- 125 tel, di fabbricare nel centro una casa pei mendicanti validi, di dividere il terreno in poderi di 40 o 50 bonniers; e di dargli in affitto ai coloni capaci che impieghino i mendi- canti validi come loro operai, sicchè il loro lavoro serva ad alimentargli. Nel 28 gennaio la società ha fatto il con - tratto col governo per mille mendicanti; ma si è obbligata a mantenere nella colonia di repressione mille mendican- ti validi, ritraendo una somma di trentacinque fiorini per ciascheduno fino a sedici anni: spirato il termine, il go- verno potrà inviare alla colonia un egual numero di va- gabondi senza altra spesa che quella del loro primo vestia- rio , calcolato a dodici fiorini per ciascheduno ». Se l’amore degli uomini non mi fa travedere, que- sto modo d’istituti è veramente importante a considerarsi, e degno d’ essere imitato. Io mi consolo veramente nel pensare che tremila uomini, abbandonati affatto alla mise- ria e forse sul momento di soccombere sotto il peso del bisogno , o di volgere tristamente al delitto, vivano ora una vita prospera e virtuosa , e fruttifera ai loro figli ed alla loro patria. Ma se il cuore dell’ uomo dabbene si ral- legra a questo dolce spettacolo, quanti vantaggi mon trova la fredda ragione in questi santi istituti! Per loro l’ eco- momia pubblica sì arricchisce, e in valori territoriali, e in riproduttori di materie e di forme. Per loro i meschinj fanciulli che invano cercano soccorso nel loro abbandono, ritrovano il padre, la madre, la patria. Per loro i me- schini che l'ignoranza o la seduzione ha tratti dall’ ozio ai misfatti, s' educano, si correggano, e si fanno operosi . Per loro finalmente cesserà quella scandolosa questione: , se la popolazione sia un bene o un male, e se sia da sperare nella guerra e nella pestilenza ; e non s'impute- ranno altrimenti alla moltiplicazione della specie quei danni che si hanno da ascrivere a chi ignora il modo di usarne utilmente. Già l’ esempio della Olanda s' imita nel ducato d’Holstein ed in altri luoghi d’Alemagna: già alcun 126 | mi domanda, se io pretenda d’avvicinarne l’imitazione. Io però non fo risposta a questa ricerca. La storia dei pro- gressi dello spirito umano è commessa ai giornali: le utili applicazioni partono naturalmente dal seno delle ac- cademie. Sta ad esse a parlare: è loro incarico il conosce- re le ricchezze e le forze della loro patria ; è lor dovere il supplire al difetto di quelle coll’impiego di queste, con quell’ impiego sì spesso negletto dagli uomini, che si tro- vano poveri e nudi al dire di Baconé, perchè troppo favo- revolmente giudicano delle loro ricchezze , troppo sini- stramente delle loro forze. FiLANDRO. — Opinioni di G. B. Vico d’ intorno a che, la plebe ro- mana non avesse i connubi prima dell'anno 309 ab U: C: le quali si confermano adesso da un luogo del trattato De RepuBBLICA di CiceRONE. (*) Ella è una verità sentita da tutti li antichi scrittori, e dimostrata poi dal sapientissimo Vico nella sua Scienza nuova, che le città si fondassero sugli asili, i quali apri- vansi da pii, forti, e generosi uomini per protegger quei deboli, che a loro si fossero rifuggiti, onde aver salva la vita. Tal fu l'origine, che con le altre città ebbe a comu- ne anche Roma. Imperocchè, non altrimenti essere stata quella fondata da Romolo, e da’ suoi compagni, che con . (*) Mentre in ogni parte d’Italia promuovesi lo studio delle opere di Gio. Batista Vico, ed in questo stesso giornale ne furon più volte esposti i pensieri, io credei potesse riuscir non discaro ai lettori il richiamare alla loro memoria, e confermare con? un passo della republica di Cicerone quanto in rapporto ai connubi de’ romani scrisse quel sommo italiano, come del non essere le leggi delle XII ‘Tavole venute dalla Calia fece recentemente il chiarissimo Ambrosoli. Ved. Ant. vol. X. p. 92. B. 127 l’asilo aperto nel Zuco capitolino, lo marrano Livio, e li scrittori tutti delle cose romane (1). Ma se quei forti assicurarono ; e protessero la vita di quei deboli, che a loro si rifuggirono, questi obbligati furono per sostentarla , coltivare le terre dei forti. I quali essendo per natura gelosi de’ propri acquisti, e diritti, e non mai per infingardaggine , ma o per necessità , o per altra utilità soliti di rimetterne, e a poco a poco, e quan- to meno essi possano ; lungi anderebbe dal vero chi sup- ponesse, quei deboli rifuggiti acquistassero negli asili, 0s- sia nelle città, diritti consimili a quelli dei forti loro proteggitori. Di qui nacque, che ogni nuova città ebbe distinto il popolo in nobili, ( che a Roma chiamaronsi padri, 0 patrizi ) ed in plebei. Alla prima classe appartennero i forti proteggitori, alla seconda i deboli rifuggiti. La prima classe tutti godevasi i dritti della città, la seconda ben pochi; e così tutte le prime repubbliche nacquero di una severissima forma aristocratica. Nè tanta disuguaglianza di dritti potè nei primi tempi esser cagione a tumulti, e discordie nelle città. Poichè quei miseri, che dalla generosità degli ospiti loro riconoscevan la vita non si dolevano, se per sostentarla , dovevano coltivarne le terre. Memori anzi del gran bene- fizio, che ne avean ricevuto li riguardavano come Dei , o come uomini caduti dal cielo , e che dei celesti avessero Ja pietà, le virtù , e ne conoscessero i più nascosti voleri. De' quali sentimenti ingenerati negli animi di quei rozzi uomini dai loro benefizi si prevalsero i forti; e con l’arte immaginata degli auspicj, che gelosamente ° nella classe lor custodivano, mostravan d’ intendersela con li Dei, e tenevan la plebe in una grande, e terribile riverenza. (1) V. Liv. Histor. lib. 1. vers ,, Crescebat interim urbs. 128 Dalla quale arte degli auspicj ritrassero i romani pa- trizi altro vantaggio maggiore. Poichè volendo essi, che tutte le cariche, le magistrature tutte, ed altri. molti fra i più preziosi diritti della città potessero esercitarsi. solamente da persone auspicate , esclusero in'simil guisa la plebe dalla speranza di conseguirli (1). Or fra i diritti, che essi riserbarono alla:classe loro; nè vollero communicati alla plebe, primo di ogni altro il sapientissimo Vico apprese, e si accinse a dimostrare essere stato il Gius dei connubi, ossia delle nozze solenni; e ciò in conseguenza di aver negati alla plebe li auspicj. (2) Attesta infatti in più luoghi della sua mirabile storia T. Livio ;:come alla plebe romana, la quale attentavasi sempre di conseguire ora questo, ora quello dei dritti che i nobili patrizi con tanta gelosia nel loro ordine. custodi-, vano, andavan questi vociferando auspicia esse sua. Or questi publici auspiej, che da Messala, e da Varrone chia- maronsi auspicj maggiori, erano la prima e principal so- lennità dei connubi (3). ( (1) Che i-plebei non ‘avessero in Roma li auspicj lo attesta Livio in più luoghi, e specialmente nel lib. 4, ove alle pretese del tribuno per le magistrature fa dar per tutta risposta da un patrizio ,, quod nemo plebeus auspicia haberet ;,. (2) Ideoque decemviros connubium diremisse. Liv. idid. ec. (3) V. Cic. pro Cluentio ,, Nubit genero socrus , nullis auspi- cibus , nullis anetoribus, funestis omipibus ,, Valer. Max. lib. 2. cap. 1. vers,, apud antiquos ec. ,, Tacit. lib. 11, laddove delle noz- ze di Messalina , et lib. 15, ove delle nefande nozze di Nerone con Pittagora. Lucan. de Bello Pharsal. vers ,, Pignora nulla ec. Iu- venal. Satyr. 10 vers ,, ‘Tyriusque palam ec. ,, Symmae. lib. 2. epistolar. vers,, Soròrem Pompeiam,, Servius in 1.° Aeneid. ad vers,, Cui pater intactam ‘ec. ,, e nuovamente al lib. 4. vers. diis equidem auspicibus ,, Claudian. Epist. ad Serenam vers.,, Atque utinam , e nuovamente in Rufin. lib. 1 vers ,, hac auspice taeda ec. ,, Syeton in Claud. ove della morte di Messalina, e della di lei dote. Nonius Marcell. dietro l’ autorità di Varrone in cap. de doctorum inda- gine, asserisce che agli auspicj nuziali presidevano anticamente 129 ‘Al. qual riflesso , se aggiungasi |’ altro, che in ragion romana , padre era quello che dimostravan tale le nozze giuste , solenni, ossiano i connubi ; e che lo stesso Livio ci narra sino dal bel principio della sua storia, che in Roma si disser padri, o patrizi coloro « qui possent nomine cière patrem », naturale è la conseguenza, che i soli patrizi eb- bero a Roma i connubi (1). | Posti i quali principi fassi il Vico a concludere, che la legge decemvirale , la quale statuì sul gius dei connu- bi, non stette soltanto a toglierli fra i patrizi, e la. plebe ( ciò ne era una semplice conseguenza ) ma, cangiata in legge l’antica costumanza, o forse anco rinnuovata la leg- ge regia (2), negò affatto alla plebe la Ragion dei connubi. (Il perchè rimprovera amaramente Livio, il quale dopo aver usato egli stesso frasi, e parole tolte dagli antichi scrittori, le quali, se meglio da lui ponderate , gli avrebber fatto conoscere essere questa la vera intelli- genza della legge decemvirale, corse poi nell’ errore d’in- terpetrarla nel più ristretto senso, che negasse alla plebe di contrarre i connubi coi nobili (3). Cossehi al dire di Livio il tribuno Camuleio avrebbe. menato tanto rumore Pilunno , e Picunno. Brisson. de ritu nuptiar $ Caeterum antiqui- tus ec. ,, Heinec antiquit. Roman. Tit. 10 de Nuptiis $ 11, ove a sostegno di questa opinione adduce la testimonianza di una lapi- de antichissima. (1) Horat. poet; ,, offenduntur enim, quibus est equus et pater, et res,, ove la parola pater caratterizza i patrizi. (2) È dubbio fra i dotti se questa legge veramente esistesse o nò. V. Mario Pagano politicum universae romanor. Nomothe- siae ec. p.,1. cap. 1, ove della legge regia. (3) Io prego il cortese tifa a voler Kodi. in mano T. Livio al lib. 4, e rileggerne le prime pagine , onde persuadersi; che Livio stesso sembra più volte voler dimostrare che il tribuno si dolga di non avere , e così pretenda |’ intiero gius dei connu- bi, quantunque poi s’ indispettisca principalmente , perchè la plebe romana non potesse imparentarsi coi nobili. T. XI. Agosto 9 Tj 130 nell’anno:309 di Roma unicamente per soddisfarela vanità; e la boria, che i plebei si potessero imparentare coi nobili. Ridicola, mostruosa, incredibil piccolezza d'idee, la quale non offende, ove credasi , che le grida del tribu- no mirassero a conseguire i connubi. I quali oltre ad essere il mezzo per cui li uomini privati potevano fra loro co- municare i divini e li umani diritti, uno fra questi ne comprendevano , che come osserva il Vico con ogni acu- tezza, per la natura stessa delle cose, dovè in quel tempo essere dalla plebe ardentemente bramato. Avevano i plebei per le leggi decemvirali ottenuto finalmente il dominio quiritario dei campi (1). Ma veden- do essi che alla loro morte i .campi ritornavano ai nobili i quali ne ritenevan sempre l’ottimo, ed alto (2) domi- nic , poichè mancavano essi plebei di patria potestà, suità, agnazioni, gentilità (3) che da un lato erano dipen- (1) È un fatto che la elezione dei decemviri fu necessitata dai tumulti della plebe per una nuova legge agraria. (Liv. lib. 3.) sicchè , con le nuove leggi PRE n val Sat dovette ottenere, o una più larga estensione , od il pieno ‘dominio dei campi. Ma che i piebei non ottenessero larga estensione di terre lo compro- va il vedere, che nell’anno 386 di Roma al plebeo non. si ac- cordava più che due jugeri di terreno. (Liv. lib. 6.) Parmi dunque ragionevole il credere col Vico , che le leggi decemvirali accor- dassero alla plebe ‘il dominio quiritario, o pieno dei campi. (2) Ottimo , od alto dominio è quello che di tutti i fondi della nazione risiede nel sovrano di essa. In forza di questo do- minio a lui ricadono ( in oggi dicesi al fisco ) le eredità vacan- ti. Le quali in Roma aristocratica doverono ritornare al senato regnante dei patrizi, presso cui risiedeva l’ alto dominio , e che con ragione appellossi da Cinea ,, Consesso di rè. ’ (3) Che la plebe non avesse gentilità è chiaro in più luoghi della storia , e Livio stesso lo accenna nel lib. 6. Intorno a che Heinec antiq. romanar. App. ad lib. 1. cap. 1 sub $ 32 si espres- se ,, caeterum ad gentilitatis iura pertinebat , quod soli patricii auspicia haberent ,, ex instituto Romuli ,,: Ora se la plebe avesse avuti i connubi , perchè avrebbe mancato di gentilità, dritto di- pendente da quelli ? 131 denze tutte del gius dei connubi, e dall’ altro erano i soli mezzi per il romano diritto da poter tramandare i possessi ab intestato ai congiunti, per così grave cagione, sei anni dopo le promulgate leggi decemvirali, doverono essi affacciare la pretension dei connubi, non già per im- parentarsi coi nubili, ma per poter conservare le sudate , e scarse sostanze nella propria famiglia. i E questa opinione mirabilmente confermasi dal ra- ‘gionar sull’indole degli umani desideri. Imperocclìè, se dir si dovesse, che la plebe romana, sentì prurito in quel- l’anno d’imparentarsi coi nobili, con strano sovvertimen- to di tutte le idee degli uomini, i quali soglion bramar dapprima l’agiatezza, e le dovizie , dipoi li onori, e le magistrature, e finalmente la nobiltà , quella misera ple- be avrebbe cominciato dal desiderare la nobiltà, mentre non partecipava agli onori, nè possedeva dovizia alcuna di terre. Poichè solo l’ anno di poi cominciò la plebe le sue pretese alle magistrature, e nell’anno 336 di Roma Sestio tribuno dolevasi sempre, che pochi nobili cittadini quasi tutte assorbissero quelle sostanze, che avrebber dovuto ripartirsi ugualmente fra tutti. Ai quali argomenti in conferma della propria opi- nione addotti dal Vico ben potrebbe aggiungersi l’altro, che poco , o nulla giovato avrebbe alla plebe strappar di mano a’ patrizi il diritto d’imparentarsi con loro. Tanto era infatti severa a Roma la patria potestà, che rimaneva sempre libero a quelli orgogliosi di non vendere le loro fi- | glie in spose a’ plebei (1), rimaneva sempre libero ad essi (1) Ognun sa che nell’ antichissima Roma i connubi si contrae- vano ,, Coemptione , et farre ,,, Era appunto in questo rito del . farro , ossia della confarreazione, che si adopravan li auspici ; ì quali poi dopo comunicati i connubi, e le magistrature alla plebe restando una vana religiosità, andarono insieme col farro in disu- so. Etil nome di auspici, rimase a coloro che noi volgarmente chiamiamo i cozzoni, come dietro l’ autorità di Cic. lib. 2. de Di- 132 di non ricevere le figlie plebee nei lov domestici lari. Sic- chè il tumulto della plebe , le grida del tribuno doveron mirare a cosa ben più sostanziale, che ad un vanaglorioso diritto , l'esercizio del quale doveva sempre dipendere dalla superba , ed irritata volontà dei patrizi. Era pertanto non senza speranza di veder confer- mata questa sentenza dall’ autorità del romano oratore , che io mi posi a leggerne attentamente i vasti, e preziosi frammenti del suo trattato della repubblica , testè scover- to dal dotto, infaticabile monsig. Angiolo Mai. E se i miei voti non rimasero pienamente soddisfatti , non andarono del tutto delusi. Narra Cicerone nel capo 36 del lib. 2.° come nascesse in Roma l’ autorità dei decemviri , quali ne fossero i di- portamenti nei primi due anni della loro signoria. E pro- siegue a discorrere nel capo 37 ( pag. 202, e 203 ) che nel terzo anno la repubblica era in uno stato da non po- ter esser durevole, perchè non equo per tutti li ordini de’ cittadini, tutta Ja somma delle pubbliche cose essendo in mano a’jmagnati , preposti a timon dello stato dieci uo- mini nobilissimi, non moderati da verun’ altra magistra- tura, non opposti dai tribuni della plebe, alla quale non era nemmen più lecito appellare dalle sentenze di morte , e di flagelli. In questo terzo anno essi aggiansero alle dieci, due nuove tavole di leggi , ed ivi appuuto ritrovavasi quella , che statuì sul gius dei connubi. Ecco la guisa in cui Cice- rone ne parla « Ergo horum ex iniustitia subito exorta est « maxima tumultuatio , et totius permutatio reipublicae : ‘vinat. Nihil fere quondam maioris rei nisi auspicato , nec priva- tim ‘quidem gerebatur quod etiam nunc auspicés nuptiarum decla- rant , qui re omissa , nomen tantum tenent,, gaiamente osservò Hotoman, de veteri Ritu nuptiar. Cap. 2.Chi amasse poi di vedere le varie opinioni rapporto tai riti consulti il “Thomas, Dissert. de usu pract. instit. de nuptiis cap. 1. 133 « quì, duabus tabulis iniquarum legum additis, quibus, « etiam quae disjunctis populis tribui solent connubia , « haec illi , ut ne plebi cum patribus essent inhumanis- « sima lege sanxerunt : quae poste a plebiscito Cannuleio « abrogata est. » Non fu senza rammarico, che io leggeva questo pas- so della repubblica concepito in senso contrario alla opi- nione del Vico, la quale erami sembrata sempre alla ra- | gion conforme, e d’ogni lode degnissima. Ma quando, scorso l’ occhio alla nota segnata di lettera d, vidi, che la frase « Plebi cum patribus , » era stata da una seconda mano sostituita alla più antica lezione « plebi, et patribus » io dovetti apprendere, che Cicerone, ed il Vico tennero una stessa opinione, e che la legge drone negò alla plebe tutto quanto il gius dei connubi. Ritenuta in fatti l’antica lezione, quel luogo della ; repubblica ove dopo la frase « ne plebi, ei patribus es- sent » con bella ‘eleganza latina soppressa trovasi la vo- ce « communia » espone in lettera il senso, che la legge decemvirale decretò non fossero i connubi comuni ai padri, e alla plebe. Ora; prescindendo dal ‘considerare , che se Cicerone l’avesse appresa in senso che negasse alla plebe lo im- parentarsi coi ‘nobili, avrebbe usata egli stesso la frase « plebi cum patribus » sostituita poi dalla seconda mano, parmi che a dargli la proposta intelligenza, tutto conduca il contesto di quel passo della repubblica. Poichè quanto naturale e ben’ espressa in questo caso sì è la meraviglia del giureconsulto per la ingiusta sin- golarità del contrasto nascente dal vedere, che mentre i romani solevano accordare i connubi anco a disgiunte na- zioni ; la legge decemvirale poi, dentro la stessa Roma li negava alla plebe, li permetteva ai patrizi : altrettanto poco naturale e. male espressa avrebbe a dirsi , perchè, godendo i forestieri del Gius dei connubi, la plebe roma- 134 na avesse, è vero, un tal dritto, ma non potesse imparen- tarsi coi nobili.In questo secondo caso la meraviglia poteva nascere dal contrasto, se la legge decemvirale, permetten- do ai vicini popoli Jo imparentarsi coi romani patrizi, lo avesse di poi vietato alla plebe, la quale con essi formava una sola città. Chiama poi Cicerone disumanissima quella legge. Ma come chiamare disumanissima una legge solo perchè im- pedisce i matrimoni fra i diversi ordini della città ? A ves- se mirato a questo scopo, non già disumana, poteva quel- la legge appellarsi orgogliosa, superbissima (1) quale ap- punto Livio chiamolla, perchè egli la rapporta nel più ristretto senso, che vietasse alla plebe lo imparentarsi coi nobili. Ma con ogni ragione disumanissima la chiamò Cicerone, perchè bene intese quel profondo giurecon- sulto, e filosofo essere stata per quella vietata affatto alla plebe la Ragion dei connubi. I quali da Modestino giure- consulto definiti essendo « Divini et humani Juris comu- nicatio » disumanissima appellò giustamente una legge, che teneva chiusa alla plebe la communion dei divini e degli umani diritti. Per le quali cose sin qui ragionate, Wta; che sem- pre più si avvicini a chiarirsi , ciò che pur tanto interes- serebbe a decidersi per la istoria dell’ antichissimo roma- no Gius delle genti, che la legge decemvirale confermando l’antica aristocratica costumanza, negasse affatto alla plebe la Ragion dei connubi. (2) E quindi il tribuno Cannuleio, (1) Liv. lib. 4, id (connubium) Vos sub Lo superbis- simae vincula coniicitis. (2) A chi domandasse in mancanza dei sdamibi 3 quali nozze avesse la plebe, può rispondersi il matrimonio. Il quale essere stato una cosa diversa dai connubi raccogliesi da più leggi sparse nel corpo civile, e raccolte dall’ Yfotoman : De ritu nuptiar , cap. Anche |’ Hein Tit. ro. de nuptiis in nota al $ 150 os- servò una tal distinzione, e disse che il matrimonio si contraeva fra le persone libere , ed i forestieri, i quali nel linguaggio delle 135 fatta abrogare tal legge, ottenne per la sua plebe un van- taggio ben più sostanziale , che il ridicolo, e borioso dirit- to d'imparentarsi coi nobili . P. G. Alcune osservazioni intorno al clima delle Maremme. Nihil dictum, quod non dictum prius. TERENT. Le cause micidiali che infestano nella calda stagio- ne una gran parte della costa occidentale d’Italia possono considerarsi un vero tormento per gli scrutatori delle scienze naturali. Il poco felice successo ottenuto fin ora , ad onta delle moltiplici indagini chimiche, e di altri ten- tativi onde scuoprire in che consista l'alterazione che l’a- ria riceve , e per qual rea qualità divenga funesta all’ u- mana economia, ha fatto dubitare che le misure prese per apportarvi Giada fossero incomplete o male appli- cate, oppure che l’ origine di un tal flagello si nascondesse fra quei problemi che non è dato ancora di poter risol- vere . I. Se i fisici sì consultano, o gli autori medici, sono le notabili variazioni di temperatura che dal giorno alla notte succedono in quei paesi caldi e umidi; è la natura | incognita dei miasmi che per la putrefazione delle’ mate- rie organiche si sviluppano dalle paludi e dai limacciosi marazzi; è il malefico influsso dei venti australi che in leggi delle XIl Tavole si dissero ,, Hostes ,,.. Or questa parola, come avverte benissimo il Vico , significando in esse leggi più volte la plebe, io non so, perchè egli le accordasse poi il solo contu- bernio, e non questa terza specie di nozze. Col matrimonio si acqui- stavano tutti i diritti, che pel Gius delle genti derivano dalle noz- ze; con i connubi acquistavansi inoltre quei particolari, e dipendenti dal Gius dei romani quiriti. 136 ‘que’ luoghi lambendo venefici principi vanno trasportando a grandi distanze il germe dell'infezione; sono; le troppo. folte e continue boscaglie, asilo di tristi vapori, che tra- mandano specialmente nella notte un'aria umida e pesti- i lenziale; è la mancanza di acque pure, la vita inerte e sre- golata di quelle popolazioni, la poca nettezza delle abita- zioni e delle strade; sono finalmente i gas irrespirabili che emanano dalle acque minerali, dai bulicami sulfurei le cause apportatrici della distruzione della vita in quelle contrade. Al dire di alcuni geografi, il male nascerebbe dalla topografica situazione , dalla posizione de’ climi, op- pure il miasma ‘deleterio e fugace verrebbe sull’ali de’ venti trasportato dall’ isola di Sardegna o dalle coste dell’Affrica, sul riflesso che il più gran calore, rarefa- cendo l’aria viziata, debba renderne la propagazione più rapida, e per nuove incognite combinazioni divenir più venefica in certe località (1). x (1) Malte-Brun (Annales des Voy. Tom. XVII. pag. 105 ) dice: ,, Peut-étre saura-t-on un jour que c’ est de la Sardaigne ou de l’ Afrique que pendant les plus beaux jours, les vents tran- sportent sur la còte d’ Italie des élémens inapergus d’ un air délétère, qui trouvant dans certaines localités d’ autres élémens venns par les vents du nord, et auxquels ils. s’ associent par des affinités inconnues, produisent plus tard une masse d’atmo- sphere viciée. ,, Anche l'anonimo dell’Edimdurg Review (N. LXXII, Feh.: 1822 ) opinando come Tucidide e Lucrezio della. famosa peste d’Atene provenuta dall’ Egitto, crede che i vapori ‘pestilen- ziali dell’ isola di Walcheren vengano trasportati dai venti dell’ est sulla direzione di Londra , dove spesse volte si sviluppa una malattia. molto analoga alle febbri maremmane. — Chi avrebbe detto che dopo cinque secoli fosse ritornata in campo l’ opinio- he di quel dotto Senese, il quale sospettò ,, che le rovine di Car- tagine, d’Utica, e d’ Ippona, divenute ora in Affrica nido di. ser- penti e d’altri aloe animali , nuocano gravemente alla sanità dell’ aria della Maremma , corrotta dal fiato velenoso. di quelle fiere, condoito da'venti in quella regione ? ;, ( Tommasi ; Ist.di Siena Lib. IX pag. 261 ). 137 Se gli scritti si esaminano degli economisti, il male ivi nascerebbe da effetti puramente eventuali, che essi deducono dalle vicende politiche, dal cangiamento degli usi e costumi, dal passato regime feudale, dall’apatia del- la moderna amministrazione , da un mal regolato sistema idraulico ec.; e trovano essi una sodisfacente giustificazio- ne del loro. assunto nell’ esperienza, la quale ha più volte dimostrato che il movimento di una numerosa popola- zione migliora l’aere, mentre lo fa pernicioso la mancanza di abitatori, mancanza che essi ripetono, riguardo alla no- stra maremma, dalle frequenti scorrerie de’Saraceni e dalle diverse invasioni straniere, per le quali dovette aver luogo un progressivo sviluppo di circostanze fisiche e morali, che posero quelli antichi popoli nella fatale alternativa o di fuggire nell'estate una ridente ubertosa regione, o di assorbire sotto il più bel cielo d’ Italia il germe invisibile di prematura morte. I fatali progressi del qual germe sarebbero anche più irreparabili, se come opinano certi naturalisti , l’infezio- ne del clima dipendesse dalla costituzione geognostica del suolo, da qualche fisica rivoluzione accaduta in quelle contrade, e segnatamente dai vestigi nascosti o palesi di antichi vulcani. Ma a sì fatti dubbi rispose per tutti il dottissimo Fossombroni allorchè, parlando delle Pontine paludi, fa- ceva osservare: « che s'incontrano dei terreni paludosi , gli abitatori dei quali non sono soggetti a malattie così gravi come quelle che infestano la pianura Pontina : che l’Italia è coperta di resti di vulcani e di acque mi- nerali d’ogni specie; ma tuttociò si trova anche in abbon- danza in molti luoghi, senza che per questo il clima sia così insalubre come nelle paludi Pontine. Che a quelli che suppongono ch’esse siano state salubri nei tempi re- moti, si può rispondere che la popolazione dell’ antica Italia non abitava ordinariamente nelle pianure. Bisogna 138 adunque concludere che l’infezione non è prodotta da una sola delle cause qui sopra esposte, ma dalla riunione di molte fra loro, e forse da alcun’altra, che non è abba- stanza conosciuta, (1) » | Doni e Lancisi per l’agro romano, Zendrini, Xime- nese Targioni per le nostreMaremme si sono più degli al- tri adoprati ad investigare le cause dalle quali degivar potè l'infezione, o la malsanìa di que’ paesi, Il riprodur- re e discutere gl’iniumerevoli risultati delle loro ricer- che, ed i rimedi da essi proposti, opera sarebbe oltremo- do faticosa, e tanto più inutile in quanto che libri di tal natura sono nelle mani di chi volge.i suoi pensieri sopra siffatta materia. Anche il chiar. geologo e naturalista Zrocchi ne fece non ha guari soggetto speciale delle sue meditazioni; (2) e con quella erudizione di cui suole ornare i suoi scritti , esso ha tentato di far conoscere la condizione dell’aria di Roma e de’ suoi contorni negli antichi tempi, confron- tandola con quella de’ tempi nostri. Egli è di pensiero che le cause dell’ insalubrità , da lui attribuite alli moltiplici stagni e laghi che ingombra- vano il suolo della nascente città di Romolo, fossero in quei primi tempi maggiori che oggi nol sono; e the ciò non ostante assai meno funesti se ne risentissero allora gli ef- fetti, quasi che gli antichi Quiriti sapessero vivere sani nell’aria cattiva. Erano, al dir di esso lui, gli austeri costumi , la semplicità e uniformità delle abitudini, i di- versi usi e specialmente quello di vestire di lana, che pre- servavano i romani da un tal flagello. Ma siccome man- cherebbero , a chi volesse contradire all’ illustre natura- (1) Saggio sulla bonificazione delle Paludi Pontine. Art, V. $. 9, e ro. (2) Dello stato fisico del suolo di Roma , ec. seguito da un discorso sulla condizione dell’ aria di Roma negli antichi tempi. ( Roma 1820). L 139 lista ‘italiano ; dati sufficienti per contestare, che prima de’ tempi storici purissima fosse e di rara bontà l’aria di Roma e delle Maremme, così non abbiamo prove bastan- temente sicure per ammettere senza restrizione la di lui ipotesi; che egli. bias facilmente fondò sull’autorità de’ gt La 9 Nè molto più ammissibile ‘ci sembra l'opinione del sig.Zullinde Chateauvieux, secondo il quale l’epoca di una tal infezione non anderebbe più indietro del regnodi Tito; o che almeno d°allora in poi la sua azione malefica sarebbe- si manifestata con più spaventevole apparato, allora quan- do cioè, gli elementi vulcanici dopo una'sorda agitazio- zione emersero dal Vesuvio in bocche di fuoco, o altrove per l’apparizione di nuove solfatare , o per la produzione spontanea de’ vapori e de’ gas deleteri, l’azione distrut- trice dei quali non cessa che temporariamente con la fred- da stagione. « Tutto porta a credere (conclude egli ) che non vi sia antidoto contro il veleno che spopola il ter- ritorio de’ romani, e si può senza bisogno di gran pre- videnza augurare, che l’ età future non DI dla rina- scere la grandezza di Roma » (2). Nè guari da questo dissimili. sono i prognostici fatti dall’ anonimo dell’Edim- burg Review,e dietro il di lui oracolo pur anche dal dotto Malte-Brun, sul proposito della dissertazione del sig. Z'roc- chi (3). « Il tempo non è molto lontano (dicono essi )in (1) Perchè Tito Livio: narra ( Lib. VII. C. .38.) la risolu- zione presa nell’ anno 4rr. U. C. da’ soldati Romani di volere stabilirsi in Capua, per non tornare in un suolo pestilente co- me quello di Roma, dice il sig. Brocchi, che esso dovè rego- larsi con l’idea de’suoi tempi; mentre ‘d’ altronde è noto, che fino da quell’epoca si conosceva la malattia maremmana, chiamata da Plauto Morbus solstitialis. .. fa) Frederic Lullin de Chateauvieux, Lettres écrites. d’ Ita. lie en 1812 et 1813. — Lett. 18.me ( Paris 1820). (3) The Edimburg Review N. LXXII. Feb. 1822. pag. 536. et Nouvelles..annales des Voyag. Tom. XVII. Janv. 1823. pag. 106. 140 cui la città eterna avrà cessato di esistere, e che diver- rà come Pesto, come Tebe e Babilonia il ricovero di rettili immondi ! » Ma non è difficile da sì fatte espres- sioni travvedere, piuttosto che un filosofico raziocinio, una di quelle satiriche amarezze, che due secoli prima ave- vano fatto dire al lirico modenese : i « Roma in Roma è sepolta, e quel che avanza « Del suo gran corpo oggi è corrotto e pute.. Guai ai romani, guai ai maremmani se vaticinii di tal fatta si fondassero sopra basi meno incerte, o sopra argomenti più positivi ! Ma invece di lasciarci spaventar da sì funesti auguri, diretti a sconcertare ogni lusinghiera speranza di que’ po- poli, e qualunque mira de’ più benefici governi , aspettere- mo dall’ esperienza un più maturo giudizio: mentre non sarebbe straordinario il caso in cui le generazioni future . si ridessero deì presagi di alcuni filosofi della nostra età, nell’istessa guisa appunto che le generazioni attuali se la ridono di quei gran maestri di stronomia , che a’ tem- pi del buon Villani (1) sostenevano che Ze terre di Ma- remma erano divenute quasi disabitate ed inferme, ed eziandio Roma peggiorata , per lo moto dell' ottava spe- ra del cielo, che in ogni centì anni si muta un grado verso il polo settentrionale, e così sarà sino a 15 gradi per 1500. anni. In tanta discrepanza ed incertezza d’idee presontuoso sarebbe voler fondare una definitiva completa teoria sul- l'origine dell'infezione delle Maremme, e sopra l' efli- cacia de’ rimedi da opporvi. Prima pertanto di esporre alcune parziali vedute \in- torno a questo argomento, gioverà brevemente contempla- re le vicende che successivamente incontrarono quelle sventurate contrade, ove trattasi di ricondurre la salubrità. (1) Giovanni' Villani ; Gronica Lih. I. C. So. 141 II. È omai fuori di dubbio che nei primi secoli della romana potenza l’etrusche e latine maremme fossero assai più popolate, e molto meno in balìa di que’ mali che at- tualmernte le infestano. I contorni d’Anzo, d’Ostia, di Lau- rento , del Porto Augusto, ecc. oggidi squallidi rovinati, e dove non si potrebbe impunemente passare una notte d'estate, erano gli uni luoghi di delizie delle famiglie pa- trizie e imperiali, altri empori della capitale, e tutti coper- ti di sontuose ville e palazzi. Non deve però dissimularsi che sino d’allora la costi- tuzione geoponica e atmosferica di quelle regioni non ten- desse a deteriorarsi : al qual deterioramento nuovo crollo dovettero aggiungere la malignità de’ popoli e indigeni e stranieri, non che le malattie endemiche e le pestilenze esterminatrici. La storia ci rammenta, che molte cospicue città dell’etrusca spiaggia, come Gravisca, Populonia, Luni, Co- sa(1) erano in gran parte vuote e deserte fino da’primi an. ni del romano impero, conseguenza funesta delle civili di- scordie e dell’avvilimento servile subentrato alla pristina libertà; che a’ tempi di Traiano, il littorale toscano già riputavasi generalmente malsano ed infetto (2); che sotto (1) Servius în Virgil. — Strabo. Geogr. — Lucan. Pharsal. Rutil. Numat. Itiner.— Quest'ultimo scrittore che visitò la spiaggia Etrusca intorno all’ anno 420, disse rapporto a Cosa: », Cernimus \antiquas nullo custode ruinas , » Et desolatae moenia foeda Cosae. Havvi peraltro chi non conta la di lei totale decadenza se non dopo la metà del secolo terzo: Era infatti lungo il suo littorale dove la stirpe de’ Domizi Enobarbi aveva grandiosi stabilimenti ; e se creder si deve a Svetonio (in Vit. Flav. Vespas. C. 2.) fu ne predj aviti di Cosa dove passò la sua Vespasiano. (2) C. Plin. junior. AI Lib. V. Epist. 6. si ‘legge: Est sane gravis , et pestilens ora tuscoruni. Ma che tali espressioni non si debbano prendere in un senso troppo rigoroso sembra potersi rilevare da lui stesso, quando ci infanzia |’ imperatore 142 Aureliano. que’ fertili càmpi trovavansi inselvatichiti , e le fruttifere piantagioni di quelli ameni.piani e colline ce- duto avevano il luogo a folti boschi-di cerri, di marruche e di lecci (1); che dopo l’invasione de’Goti le strade mae- stre, e specialmente l’Aurelia, erano divenute imprati- . cabili sia per la rovina de’ ponti, sia per lo straripamen- to de’ fiumi, che senza argini, senz’ alvei e senza facili e’ determinati sbocchi mel mare liberamente spagliavano per quelle gibbose pianure, aumentando il numero de’la- ghi, de’ stagni e dei limacciosi marazzi (2); che dai Longobardi la Toscana marittima e l’agro romano ebbero a soffrire nuovi e più crudeli eccidi ‘distruggendo città e , castelli, e disertando quelle campagne (3) colla mira di to- gliere alle armi de’Greci ogni sorta di assistenza e di risorse; che sotto i successori di Carlo Magno i troppo frequenti assicura che 4/sio fu chiamato dall’ amico Rafo Virginio (Epist. ro. L. VI.) il nido della sua vecchiaia , che Traiano si fabbricò una villa di delizie a Civitavecchia, ( Epist. 31. L. 1V. ) come: sì sa da Stazio ( Sy/v. IV. 4.), che Numazio Gallo andava a sta- tare o nella spiaggia del Lazio, ovvero a Luni, e che Antonino il Pio preferiva di stare a Lorio anzichè nella reggia del Palatino. ( Eutrop. — Capitolin. in Vita. Anton. Pii ). (1) FI. Vopisco in Vit. Aurelian Cap. 48. — Il padre Xi- menes rispondendo all’anonimo autore dell’ esame d’un libro so- pra la maremma senese , crede che quelle parole di Vopisco, là dove dice: Etruriae per Aureliam ingentes agri sunt , tique fertiles , ac silvosi nulla, provino contro. le. maremme ; o se pure si vuole, ,, proveranno ( dice egli ) per tutti i paesi lungo ‘il littorale sino alle Alpi marittime, nella quale estensione il mini- mo terreno è quello della. maremma. senese. ,, Da che chiara- mente si comprende, che Ximenes interpetra per A/pi Maritti- me la catena de’monti che chiude l’Italia invece delle Alpi Apper- nine della Riviera di Levante, delle quali dovè intendere Vo- pisco parlando della Via Aurelia; mentre al di là della Magra appunto terminano li vasti e fertili campi, che Aureliano vole- va acquistare per ridurli a cultura. (2) Rutil Numat Itiner. Lib. 1. (3) Div. Gregor. Homelia 18.ma in Ezechiel. rr —r—reretenee re Ae 143 sbarchi de' Saraceni avevano ridotto gli abitatori di quella costa alla trista situazione di dovere emigrare, o di veder- sì ogni poco rapiti con le persone più care i loro migliori effetti; che d’allora in poi quel desolato paese divenne il pa- trimonio quasi esclusivo di quelle mense vescovili, o di po- che primarie famiglie d'origine franca , o longobarda (1)- . Una qualche tregua a tante sventure provarono nei primi tre secoli dopo il mille le Maremme pisane e se- nesi , allorchè scosso il giogo feudale , col benefizio delle leggi municipali e di scambievoli alleanze , quelle popola- zioni alquanto rianimate , poterono per mezzo dell’ agri. coltura , delle arti e del commercio riprendere nuovo spi- rito di vita. Ma sopraggiunte le discordie intestine tra quei piccoli stati, e specialmente dopo la strage che fece la famosa peste del 1348, nulla più valse a farlo validamen- te risorgere, e fu d'allora in poi che un immenso numero di corti o banditè, casali e villaggi rimasero affatto de- serti e annichilati. Così Massa, nel di cui contado s'incontrano quattordici. castelli abbandonati e diruti, e che nel secolo XIII non faceva meno di 10,000, o come altri vogliono 20,000 abi- tanti, si ridusse ad ottocento. Così Grosseto che racchiu- deya 1200 cittadini, non restò più che con 150. Così Siena di 100,000 anime fu allora ridotta a 13,000. Così Pisa, che nel secolo XI ascendeva con i subborghi a 34,000 fa- miglie, si ridusse a poco più che 15,000 anime. Io non (1) Il Littorale Toscano , dalla Magra alla Cecina, era in gran parte caduto in potere de’ March. 44a/berto e Bonifazio; «dalla Cecina alla Cornia ai Conti A/derti e della Gherardesca ; idalla Cornia ‘al fiume Fiora ai discendenti del Conte Guinigi, si- gnore nel nono secolo del Senese e Rosallano Contado, dal qua- le poi derivarono i Berardeschi, Ardengheschi, Aldobrandeschi, Ugurgieri, i Visconti di Val d’ Orcia , i Pannochieschi, ed al- tri maremmani baroni, che nel XIII e XIV secolo passarono per la maggior parte sotto il dominio della Repubblica senese . 144 parlerò degli ultimi disastri cagionati dalle armi di Carlo V che ridussero il territorio senese a soli quaranta mila abitanti; nè di Soana , che non oltrepassa oggi anche in inverno dugento persone, mentre si vuole che ne .con- tasse una volta più di nove mila ; nè della terra di Ma- gliano ove rimasero quarant’ uomini; nè di Talamone ,- l’emporio già de’ senesi, ove si ridussero a soli dieci abi- tanti (1). Fu verso l’anzidetta epoca del secolo XIV che il lago di Castiglione ( Zacus Prilis ), luogo una volta di delizia di potenti famiglieromane, specialmente della C/o- dia che ivi s'impossessò di una amena isoletta, si rese per nuovi ritegni o pescaie limaccioso edinfetto a segno, che l'isola trovossi riunita alla ripa , che l’abbadia ivi eretta nel medio evo fu per le putride esalazioni lasciata in ab- bandono, talchè poi i grossetani, nel 1430, si videro neces- - sitati ad inserire nel loro statuto proibizione di esitare dal giugno al settembre pesce di quel lago; Da tale concatenazione di fatti si può rilevare , che sebbene la comune opinione attribuisca all’insalubrità del- le Maremme la loro spopolazione , ciò nondimeno quella può dirsi piuttosto l’effetto di questa, per le calamitose vicende delle quali esse divennero teatro. Estinte in gran parte , ed ip gran parte disertate le famiglie che già avvivarono quelle campagne, mancò con le braccia la forza e l'industria per far argine ai danni. sempre crescenti che ivi suscitavano, da un lato il mare con lo spingere dal suo basso fondo a quelle spiaggie, arene, alghe ed altri sedimenti, fumiti di perniciose esalazioni , e dall'altro lato le acque pluviali, quali trascinando dal- le montagne una quantità di terre e di organiche materie, e più non trovando per i soprapposti interrimenti li sbocchi (1) Malevolti, Storia di Siena — Denina Rivol. d’ Italia Lib. XIV. c..9. Targioni , Viaggi. Tom. II. III. e IV. — San- ti Viaggio II e III. — Esame d'un libro sopra le maremme senesi. 145. necessari , ebbero origine per nuove lagune e pozzanghe- re nuovi focolari d’ infezione. Inutilmente si ebbe ricorso alle promesse ed alle franchigie per invitare dall’estero ogni sorta. di abitatori: e se alcune centinaia di coloni , durante il regime Mediceo e sotto l'Imperatore France- sco I, acconsentirono di colà Maocinn i provvedimenti presi non bastarono a salvarli da un’ intemperie ormai troppo diffusa e radicata. L’infelice riescita dei primi ten- lativi non potè non scoraggire altri che avessero avuto il pensiero di cedere alla seduzione delle allettative , ed era poco sperabile di poter trovare degli uomini ia che volessero a rischio della propria esistenza venire.a migliorare la condizione dell’ esistenza altrui. Scrupoli di coscienza impedirono in seguito Cosimo III di cogliere una di quelle occasioni che difficilmente si rinnoveran- no. Invano quarantamila vittime della revoca dell’editto di Nantes si esibirono di popolare e fertilizzare la spiaggia senese; un tale rifiuto,che non poco giovò ad accrescere la prosperità dell’ Olanda e del Brandenbourgh , tolse alla Maremma toscana ogni speranza di decisiva risorsa. Ormai troppo incallito era il male, e troppe braccia nel tempo stesso abbisognavano onde validamente ripara- re i guasti di quattordici secoli. L’ animo vi voleva del gran LeoroLpo, che quando trattavasi di pubblica utilità, prodigava anche-il privato erario per dar mano a sì gran- diosi progetti; ma un di lui più luminoso destino, e le successive vicende politiche fatalmente si opposero finora al compimento delle nostre speranze. III. Tralasciando, come già dissi, di ragionare sulle varie moltiplici cause d’infezione e sulle misure di salubrità da valenti autori, ed in special modo dal Dori avvertite,( 1) io soltanto insisterò sopra alcune di quelle ch’ eglino pure seppero presentire , ma alle quali nuovi fatti sopraggiunti col lasso del tempo, li progressi delle dottrine chimiche , e recenti fisiologiche scoperte sembrano assegnare un gra- (1) De restituen. salubr. agr. Roman. T. XI. Agosto 10 146 do d’ importanza assai maggiore: Ed a queste poche. an, ristringerò tanto più volentieri du: @usnio. che ilìdott. Pal- mi ha presentate di molte : altre un’ibteressante. ricapitola- zione nella sua memoria inserita nell’Antologia del decorso luglio. Possono queste cause ridursi ;.1°. Alli troppo. fre» quenti ristagnamenti delle acque lorde. 2.° Alla lore intermittente mescolanza con le acque minerali, sia che queste pullulino spontaneamente dalle viscere dellaterra, sia che venghino spinte dal mare, non che alla natura delle tondi) che servono loro di Libro 135 La barriera che la catena de’ monti va opponendo jai venti freschi e salubri di levante e di settentrione, il che re onde più che mai dannosi quelli che vi pnt: da pencil e da mezzo giorno. IND? 1. Acque palustri. Da Tasini in poi i illustri, me; dici hanno fatto rilevare la trista influenza delle; atque morte sull’ animale economia, e itutti si accordano mel- l’asserire che la situazione de’ luoghi. può per sè stessa. con» tribuire allo sviluppo di endemiché malattie, una. gran parte delle quali sembra riconoscere per causa principale l’impaludamento delle acque..(1)oLa storia ci rammen - ta i divini onori che i cittadini dii Sélinunte resero ‘ad Empedocle per aver riconosciuta, e! tolta ila icausa ‘che Di e to (1) Siccome nei siti palustri s'incontrano generalmente: pes: sime acque potabili, non meno! dell’ esalazioni ; sil tè. riscontrato nocivo l’ uso interno. di quelle, il (che. fece. dire a Orazio nel suo viaggio attraverso la pianura. Pontina: Hic ego propter aquam quod est deterrima 5 ventri Indico bellum. (Lib. I.Sat. V.). Sul qual proposito interessa moltissimo al caso mostro la me- dica relazione di una febbre mucosa. dinamica che imperversò dall’ estate all’ autunno 1822, .in Francia: nel comune di Zil- lechetive. Tale malattia, che riconosceva per cansa principale le emanazioni di molti serbatoi di acque stagnanti in putrefazione così come l’ uso interno di esse, fecè' iu poco tempo perire oltre un decimo di quelli abitanti: (Jorn: de Physiol. par Fi Magendie. Janv 1825. pag. 72: 147 viziava quel clima, e ciò col fire a proprie spese influire le acque di due fiumi in un fetido vicino lago. Frequen- ti sona gli; «esethpi ‘diretti a comprovare che gli abitanti prossimi ‘a, fossi, stagni, paludi ed altri luoghi pantanosi furono libérati da malattie più o meno gravi e periodiche, dopo che venne tolta l’ origine Helllisifeione col prosciu- gare o col mettere in moto le acque di que’ contorni . Ma senza ricorrere alla storià' delle altrenazioni e ai vari esempi riportati da Lancisi , Targioni e da tanti altri, la Toscana somministra in due fatti molto recenti una nuova confer- ma;a Questa sentenza, i . : In un vasto bacino cinque miglia all ovest di Siena, dz oggi il piano del Lago, impaludavano fino da’ tempi \dell’archiaàtro Bacci delle acque, che: presero. il nome di lago di Rosia. Esso contavasi tra quelli nati per repentine convulsioni del'globo , ossiano eruzioni acquo- se ;ve recava in estate ‘mon piccolo nocumento alla salute dé’ vicini‘abitanti. Mercè le generose cure sovrane fu as- sistito [nel filantropico progetto un nobile senese che ne intraprese il prosciugamento, aprendo fra le rocce de’ monti per un grandioso emissario uno scolo permanente e sicuro a quelle acque, e per così felice operazione ritornò, sul decli- nare dello scorso secolo, fertile e sana una vasta estensio- ne di paese. tai La Val-di-Chiana era nel medio evo Lilli) mal- menata dai ristagni di quel-fiume, che Dante non esitò a pa- ragonarla alla Sardegna, e alle stesse Maremme ( Zrfer. c XXIX.) .Quivi, scrisse, nel 1360, Fazio degli Lia « Quivi: son volti lividi e confusi vie Perchè'Vaere e la chiana gli nimica pe Sì chessi fanno idropici e rinfusi. © (Ditt: L. HI.) Ma dopo che per ben dirette colmate fu data una più: bofpottina inclinazione al terreno, e un più agevole corso alle acque pigre, la Val-di-Chiana è ritornata non solamente salubre, ma uno spettacolo degno dell’ammira- 148 zione di uomini periti nelle cose idrauliche ed agrarie: Per altro la semplice inerzia‘delle acque dolci per sè sola nen basterebbe ad infettare i.luoghi più sani; e l’umi- dità del. clima, per quanto grande ella sia , sarebbe di‘po- co nocumento alla salute degli uomini chb vi .abitano', se alle acque stagnanti non si aggiungesse il concorso sr ma- terie organiche in stato di fermentazione. osti È superfluo rammentare agl’ italiani , epocali ai lombardi , i dannosi effetti prodotti dalle risaie , ‘dai li- ni o canape in macerazione, ea quali piro verdi talent si dovette ricorrere per allontanare dall’abitato que’ fomiti di malattie tanto più perniciosi quanto è più elevata la temperatura ; più estesa: la superficie delle acque!, ‘ed’ è questa in ragione inversa della loro altezza. In quanto all’esalazioni di materie animali putrefatte , niuno si tro- va a più tristo partito de’ disegnatori di pezzi anatomici, e de’ fabbricanti di corde di budello: Ad oggetto spaini mente di trovare un preservativo, o un nuovo metodo per questi ultimi , obbligati a sottoporre alla putrida ‘fer- mentazione le intestina degli animali, onde separare dalle altre due membrane la muscolare ) fu dalla società d’ in- coraggiamento di Parigi proposto un premio, che venne conseguito non ha guari dal sig. Labarrague, abile Rate: ziale della nominata città. (1) | La storia dell’ antica Roma .c’ insegna che non era una delle meno importanti cure del popolo rè, quella di mantenete mondi e netti i lembi e il bacino de’laghi; che non senza ragionato fine dedicavano a qualche divinità; non che di procurare per via di canali coperti un esito.li- bero alle loro acque. E sia per me questa un'occasione di riflettere di volo, che non furono opera di vana ed oziosa pompa quelle maestose cloache e quei grandiosi emissari, ne’ quali spezialmente sfoggiava la capitale del mondo: (1) Art da Boyaudier — ( Paris. 1821 ). 149 Ghe. la' conservazione della pubblica salubrità vi avesse la | parte più essenziale, ce lo dimostra la cura imposta ai pre- tori, edili e curatori di mantenere nella più grande net- tezza gli acquedotti, le naumachìe , le vasche , ecc. Ben fu sollecito Traiano , eplianitto Voristiftato dal go- vernatore della Bitinia, Plinio giuniore , gli ordinò che fosse incanalata e coperta l’ acqua, che lorda e pigra scor- reva a traverso la piazza di Amastrea, a scapito del decoro e della pubblica salute (1). Ad un sì utile scopo tendeva- ‘mo pure i regolamenti de’ quali ci parla Frontino. Tra i medesimi sono da notarsi quelli che gravemente multa- vano chiunque osasse di guastare le acque pubbliche, o porre impedimento alli scoli praticati da persone private, ovvero volgesse a :proprio profitto il rifiuto de’ laghi, con- serve , o castelli destinati a purgare dalle immondezze le strade e le cloache (2). E se dobbiamo credere allo stes- so scrittore , che esercitò la carica di curatore delle acque sotto l'impero di Nerva, sembra che per quest’ ultimo «provvedimento, si giungesse a togliere le più potenti cause per le quali , dice egli, apud veteres Urbis infamis aer fuit. P4 2. Acque dolci e minerali, Strati marini. Divengono poi assai più funesti all’ umana ‘costituzione i togli ove impaludano con le acque dolci le minerali sia terrestri che marine. È un fatto bastantemente avverato , e che ognuno con ì propri esperimenti può verificare, che da sì fatta mescolanza visibilmente si manifesta, a una giusta (1) C. Plin junior. Epist. Lib X. 99. 100. (2) Sex. Jul. Frontini, Comment. de Aqueduc. Rom. Urb. $ 88. e 111 — Zancisi, de adventi. Rom. coel. qualit. Cap. II. — Uno di tali ordini era il seguente : Caducam neminem volo: ducere , nisi qui meo beneficio, aut priorum principum habeat . Nam necesse est ex castellis aliquam partem dquae effluere. Cum hoc pertineat non solum ad Urbis nostrae sa- lubritatem , scd ctiam ad utilitatem cloacarum abluendarum. aio temperatura, unà corruttelà capace spesse volte di nuo- cere alla vegetazione delle piante e alla vita degliamimali. Nè io starò, a parlare per quali. cause rendono pestifere esalazioni le acque del lago d’ Agraro presso le terme di Pozzuoli; nè quelle del fetente Averno , sopra il quale Augel non vola ch’ entro ei non trabocchi:. Nè parlerò dell’ orribile voragine, nè del guado mortale di Amsanto negl’ Irpini, nè della. fetida palude Ardeati- na, nè de’ pestiferi stagni di Sardegna. Gioverà solo al mio proposito rammentare clio riali Maremme senesi i contorni di Grosseto divennero sempre più micidiali dopo che le acque termali di Roselle si aprirono una comuni- cazione con i fossi di quella prima città. «Considerato (dice una, supplica de’ Grossetani del. 4 sett. 1525 alla repubbl. di Siena ) quanto per. natura l’ aere sia cattivo, e. molto più nocivo per li pantani e acque morte escono dal ba- ,gno di Roselle e vanno ne’ fossi di Grosseto , dove. sola- mente in inverno macina un mulino, e l'estate si rasciu- ga e fa putrefazione in modo che da poi vi si fe’ detto | mulino-non si può condurre alcun fanciullo all’età virile, e già sono morti tutti quelli che avanti si riducesse detto mulino erano nati :.. pertanto supplicano .... che pos- sino levare dette acque e mandarle nei fossi della Mol- le (1) come andava prima. i Il territorio di Saturnia, acri da duerami di alti poggi che biforcano dal monte Zabbro , sì reputa di aria la più infame della provincia inferiore senese. La più comune opinione attribuisce una sì grande infezione alle acque idrosolforose che impaludano a piè di detti colli, non che a quelle salso-marine che penetrano ne’stagni di Burano e di Talamone, situati gli uni al sud e gli altri al- (1) Za Molle è un fiumicello che influisce nel lago: di Ca- stiglione della Pescaia. — Esame di un libro sopra le Maremme Senesi. pag. 112. i 151 l’ ovest, in seno: alle ultime diramazioni di quella gioga- na. Fu con lo scopo di minorare tanta corruttela , che il | Granduca Francesco I, nel ‘1576, decretò la’ itato di un fosso coperto per raccogliere e incanalare quelle acque termali. Lattnosfera de'bagni epatici di Pettiolò, quantunque assai più discosto dal mare, tuttavia per esser questo pae- se situato in fondo a una stretta valle irrigata da un fiumi- cello, e dove penetra e vi si arresta il scirocco, trovasi nei mesi caldi talmente pestilenziale, che il naturalista Santi ebbe ad esclamare: « Ma che sito orribile è egli mai que- sto? Ogni vivente, rarissimo allora, (settembre) si mostrava colà giallo ; gonfio, scoraggito ed appena semovente. Otto ore. sole noi vi restammo , per verità le più calde, e già me ne sentiva quasi i piombi sugli occhi, e la nostra guida, giovine sano e robusto vi prese la febbre. » (1) Sorgenti di simil natura scaturiscomo ad ogni passo nelle Maremme volterrane e senesi, ora in forma di zam- ‘pilli; ora di vapori, e sempre accompagnate da un sordo fremito sotterraneo. I pochi esempi qui sopra citati, e ap- positamente presi. a varie distanze dalla costa, tendono a far rilevare che, se nei luoghi dove incontransi copiose scaturigini di acque minerali siano solfuree, siano saline, il clima non è sempre ai viventi nocivo, pare che ciò spezialmente attribuire si debba al sottopasto marcioso terreno, ed alla topografica posizione. Non vi è bisogno di essersi innoltrato molto nella contemplazione della natura per sapere che l’aria, a con- tatto di una superficie d’acqua qualunque, ha la proprietà di .discioglierla. e. di combinarsi con una porzione della medesima sia dolce , sia salsa, marcia o putrescente : con questa differenza per altro che l’aria a contatto dell’ ul- «time non prenderà in dissoluzione pura acqua, ma acqua (1) Santi, Viaggio III pag. 372: 152 impregnata di particelle sapide ; e di principi. septici, è deleteri, tenendoli per un certo spazio sospesi nelli. strati inferiori dell'atmosfera. Se l’aria satura di tali vapori subisce una variazione nella sua densità, o un grado mag- giore di freddo, rimarcabile specialmente al sorgere .@ declinare del giorno (1), allora necessariamente una porzio- ne di que’ fluidi invisibili si trasformano in vapori acquosi, e dannoin tal modoorigine alle nebbie, brine, ruggiade; ec. sostanze tutte che oltre dell’acqua sono impregnate di fluido elettrico e di altri principi incoercibili. Di fatti, se io non m’inganno, non ad altro si può attribuire, se non che a tali meteorologiche combinazioni, il fetore delle nebbie, il dan- no funesto. che arrecano esse, le ruggiade e le brine alla fioritura delle piante mentre queste aboniscono, danno, che giammai risentono dai semplici vapori acquei, È pure conse- guenza dello stesso fenomeno il maggior sapore che acqui- stano, e quel salmastro proprio di tutti i vegetabili cresciu- ti in vicinanza o sulla spiaggia del mare: la quale osserva- zione, fatta già da Teofrasto , diede occasione a Lucrezio di cantare: Denique in os salsi venit humor saepe saporis ° Cum mare versamur propter : dilutaque contra Cum tuimur misceri absinthia, tangit amator. ( De Rerum natur. did. VI. ) - Così fu riscontrato che il carbonato di soda (na- tron ), di cui è impregnato il suolo d’Egitto, comunicava (1) Il celebre O. Davy annunziò in una memoria, pubbli - cata nelle Transazioni Filosofiche per 1’ anno 1819, che non si formano nebbie sui lembi dei fiumi, de’laghi ec., se non allora quando la tem peratura della terra è inferiore a quella delle acque, quindi ‘la formazione dei vapori sarà tanto più abbondante, quanto sarà più grande la differenza di temperatura . fra l’ aria in con- tatto col suolo e quella corrispondente alla massa liquida. Anche Giorgio Harvey ha fatto recentemente presso Plimouth, sia in mare, sia sul fiutne Tamed osservazioni analoghe a quella di Davy. ( Annales de Chimie. T. XXI: Juin 1823.) È. I e I. x» 153 «all’aria.le:sue qualità saline, talchè la ruggiada di quel paese fu trovata da Bruce talmente corrosiva, che le sue gocciole cadute sopra un quadrante esposto per brevi mo- menti all’aria notturna, vi lasciarono profonde impressioni di verderame, delle quali se ne conservaronole impronte per più di sei mesi(1) Nè meno interessante è l’altro avviso datoci pure da quel celebre viaggiatore: che non è giammai se non ne’ mesi più umidi e caldi, cioè nel febbraio, marzo e. aprile, che la peste si fà sentire in Egitto, sebbe- ne egli non creda che essa vi sia endemica. Vero è per- altro, che gli antichi egiziani non furono esenti da un si- mile flagello, o almeno da una malattia annuale molto vicina alla peste; e ciò tutte le volte che si combinava una stagione umida e calda (2). «E vaglia il vero, se l’ infezione de’ paesi devein gran parte ripetersi, come più sopra si disse, dall’ impaluda- mento di quelle acque ove infradiciano materie organiche, e dal concorso reciproco delle salse o termali , è FI di dubbio , che ad onta di certe anomalie che in ragione del clima accadere possono in alcuni siti, il maggiore alimen- to dell’ aria. cattiva delle Maremme si nasconde nelle materie putride di un suolo coperto di frequenti stagni e di salmastre lagune , donde nelle calde stagioni esalano pestilenziali vapori, che abbondanti ricadono sulla terra al levare. e tramontare del sole. Quindi è che per molto vi deve pure concorrere la naturale configurazione del suolo. E in fatti, se a quello delle toscane Maremme dare si vo- ‘ (1) Bruce, Voyage en Nubie et en Abyssinie. Tom. III. p. 823. » Che l’emanazioni de’ sali a‘ base di soda riescano pure nocive nella costa d’Italia si può congettararlo da quanto ci lasciò scritto Lancisi, (De naziv. Rom. rt qual.) della proibizione di bru- ciare in estate nelle campagne di Roma l’erba al, perchè fu riscontrato che pregiudicava coll’esalazione de’ suoi principi alla .salute di quelli abitanti. (2) ;Prosper. Alpin. De medic. Aegypt. Lib. I. Cap. 14 154 glia un’ occhiata, si vedrà che alcuni gruppi ‘di monti le dividono in'tre lunghe valli; la- prima dal promobtorio Lunense a monte Nero forma la‘ Maremma pisana; la se- conda dalla punta di Castiglioncello al promontorio di Populonia abbraccia la Maremma volterranà ; la terza da Piombino al‘ monte Argentaro iriclude la Maremma sene- se. E siccome il fondo del nostro mare, qualora si voglia escludere il piccolo tratto fra' monte Nero e Castiglioncel- lo, non ha che un insensibile medesimo declive collà descritta spiaggia , ne risulta che le onde vanno passo a passo cedendo il luogo alla terra ferma, per ragione delle torbe e delle arene trasportate dai fiumi e respinte dal: l’alta marea, E quantunque il ritiramento del Mediterra- neo lungo l’Italia meridionale non abbia ancora fra i dotti deciso la gran questione sull’abbassamento o rialzamento del suo livello, è certo però che in molti luoghi del lit- torale, e segnatamente nel suo più vasto seno, fra l’Arno e la Magra, quella nuova spiaggia va annualmente acqui- stando terreno sul mare, formandovisi fra una serie di tumuli e di bassi fondi intermedi, una sterile limacciosàa pianura. Se questo debba chiamarsi un bene o piuttosto un male, che va giornalmente arrecandoci la natura, ciascunò potrà di per sè giudicare. Ciò che a me sembra sufficien- temente provato si è, che il pelo delle acque tango il de- scritto lembo è superiore all'antico livello del mar tosto, ‘come si può dedurre dalla via Emilia di Scawro che fa riscontrata , in Zeri oltre due braccia sotto il suolo attua- le; nella Z7ersilia sotto lo strato di cuora depositatosi nello sta- gno di Porta; e ne’ littorali di Ziareggio, Pisa, Orbetello ec. dalle vecchie fabbriche piantate in un piano assai più basso del suolo attuale, o per trovarsene i ruderi sommersi dalle onde (1). (1) Bern. Zendrini, Relazione sopra îl porto di Viareggio eò. — Cocchi, de’Bagni di Pisa — Targioni Tozzetti, Viaggi ee. Si 7 155 +. Da queste circostanze ne consegue che, le acque me- teoriche insieme a quelle che scaturiscono dalla terra, per- . venute presso la sponda del nuovo gibboso lido, non pos- sono che a stento andare a fluire nel mare, mentre questo al contrario, in tempi di flusso'o di procelle, respingendo verso la sorgente le acque terrestri e rimontando con esse contro la loro:corrente , trabocca insieme e si spaglia peri fossi e canali ne’ bassi fondi e avallamenti di quel littorale. In tal guisa ebbero origine e trovarono alimento tante palustri lame è pescosi stagui che lungo essa spiaggia | S'incontrano, come quelli di Burano, Talamone, Scarlino, Falesia, Piombino; Vada, Capocavallo, Pietrasanta ‘ec. Qual sorta di esalazioni tramandino nei mesi caldi questi serbatoi di corruzione, niuno può meglio esprimerlo di coloro che ebbero coraggio in quella stagione di visitarli. Non solamente riescono alla salute funesti ì luoghi dove attualmente influiscono a riprese con le acque dolci quelle del mare, ma sembra alla stessa sorte soggetto quel suolo che, colitloni oggi asciulto, abbia servito di ba- ‘cino alle acque salse e alle itorbe, purchè ciò non ri- monti ad epoche molto remote. Forse le febbri putride ‘e pestilenziali, le quali infieriscono nell’ Egitto, dopo che il Nilo si è ritirato dalla sua inondazione, devo- no ripetere la loro causa, non tanto dalle acque morte che ‘ivi rimangono , quanto dalla stessa qualità del suolo (1) . Tom. II. NI. e VII. Santi, Viaggio II. e li miei Cenni sopra è marmi di Carrara. (1) Osservando Volney (Voyage en Egypte Chap XVIN che pericoloso addiviene il dormire a cielo scoperto nel Delta e sulle coste della Siria, mentre impunemente vi si può pernottare nel- Il’ interno dell’Egitto, argomentò che l’aria acquistare doveva dalla vicinanza del mare una qualità nociva, E questa qualità, dice egli, è senza dubbio l’umidità unita al calore; il che contribuisce a fomen- tarne il male la salsedine dell’aria, che egli stesso riscontrò assai notabile in quella parte d’Egitto. 156 Un tale concetto acquista poi nuova forza e sostegno qua- lora si rifletta che , nella pianura Pontina; la. più scre- ditata porzione dell’italica spiaggia, sebbene scarsa di sor- genti minerali, le acque dolci che ivi fluiscono possono assorbire un continuo fomite di corruttela dalla torba bi- tuminoso-salina che serve di letto a sì vasta palude. . Questo fatto geognostico dall’illustre Fossombroni, ed in seguito dall’ ingegnere Scaccia confermato, dà luogo a dubitare che non tanto dai fiumi, quanto dal mare rima- nesse una volta impaludata quella spiaggia: e che la torba nerissima , compatta e bituminosa che trovasi costante- mente a parecchi piedi sotto il livello del mare, sia una torba marina che si formò nel fondo di essa laguna. Ed a ciò dà maggior peso l'autorità di Omero ( Odissea, lib. X), alla di cui epoca il promontorio Circeo rimaneva isolato dal mare, mentre lé materie trascinate dalle fiu- mare non avevano ancora riunita al continente la favolosa residenza della figlia del sole. Lo stesso dirò del lago di Castiglione , di cui già tenni proposito, come uno de’ più vasti fomiti d’infezione della Maremma senese. Parecchi dotti considerano come ormai fuori di dubbio, che questo, prima di essere designato da- gli antichi co’ nomi di Lacus Prelius, o Amnes Prilis, formasse una laguna liberamente comunicante col mare, il che eziandio può dedursi dallo strato conchigliaceo che trovossi adagiato nel di lui fondo, in occasione de’ lavori idraulici intrapresi d’ordine del Granduca LeopoLpo per tracciare un canale, destinato ad alimentare con le cine dell’ Ombrone quella pescaia. . Posto ciò, agevolmente sì comprenderà come le ma- terie organiche sia vegetabili, sia animali sopra questi strati marini depositate dalle acque piovane e fluviatili , e riscaldate insieme con le medesime dal calore atmosferico soggiacciono ad una fermentazione produttrice di esalazioni 157 simili appunto a quelle che io già additai, come nate dalla decomposizione delle acque minerali o salso-marine , per via delle acque dolci. | Chei principi elastici e deleteri emanati dalla soprac- cennata combinazione o dalle acque dolci con le minerali , o dalli strati di sostanze marine con quelli di sostanze or- ganiche. terrestri sieno da' considerarsi come potissimi lieviti della malsanìa di quelle regioni, ben se ne av- vedrà chi voglia riflettere alle notabili diversità o anoma- lie, delle quali serva per tutti il seguente esempio. Mentre la pianura: Pontina reputavasi già da gran tempo pestilenziale , mentre Tibullo consigliava gli amici suoi di non accostarsi durante la canicola alle terme del- l’Etruria, per sospetto naturalmente dell’aria cattiva (1), un ben diverso fenomeno affacciavasi sulla costa di Baia e di Pozzuoli, rimasta anche ne” primi secoli del romano impero talmente accreditata per le sue acque termali, per la dolcezza del clima, perla numerosa sua popolazione, per le regie ville sparse su quella spiaggia, che Strabone chia- mava una città continua, e Orazio il più delizioso luogo della terra. Gome mai cotal isoggiorno di voluttà , ove accorreva il fiore di Roma, si è egli oggidì convertito in una regione squallida e deserta ? come può darsi , che là dove sorgevano sontuosi imperiali edifizi, non s’incontrino fra le macerie che fangose caverne, capaci di ammorbare un aere già sano per eccellenza? Che il mare dalla spiaggia di Baia si sia io e alquanto rialzato , come è accaduto nel littorale toscano e romano; lo Llaionicano i resti di antiche fabbriche attual- mente sepolte nelle onde ; ed il ritrovarsi il tempio di Serapide presso Pozzuoli quasi all’ attuale livello del Me- co con incontrastabili indizi di non remota inon- () Tibull. Lib. III, Eleg. 5. 158 dazione marina del suo. bacino (1). E se in que’ ‘tempi; nè la solfatara ,,nè le tante acque minerali delli stessi» contor: ni senato ancora alla clemenza del:clima. baiano, converrà pur dire che l’ arte sapeva allora prevenirne gli effetti, e che solo per. deficienza di questa. venne»a mani festarsi ne’ campi flegrei il germe dell’ infezione... (il bo de Influenza de’ venti..Dall’ altro ciafininilii osserva, che nella costa occidentale del Meditertaneò!; ed! anche dalla, parte, dell’ Adriatico ove ristagnano com le; acque dolci le minerali, il clima:di quelle spiaggie si, ri- scontra molto; meno funesto;che nelle Maremme,;.si apre adito a dover credere.che, oltre la,corruttela delle, acque, concorra ad.aggravarne gli effetti la geografica situazione: e l'influenza maggiore:di alcuni venti caldi; che mesto? lando un'atmosfera marittima. con l’evaporaziohi tefve- stri, rendono queste assai, più.perniciose, ; (ovino Se si riflette pure, che un numero di. malattie con- tagiose.o.ha la sua. sede; o,maggiormente! infierisce nelle! regioni marittime, come per es. la malattia pestilenzialé di Batavia, la febbre gialla di America, l’intermittente della costa.d’ Affrica, ‘della Grecia, dell’isola «di Gipro di Walcheren,; dell’ Olanda, l’intemperie della Sardegna ec. facente si scenderà nell’ opinione di iqieelto che ‘ac- N 3f [RR OMAVORI (1) 1 pacs Braga, rinvenuti nelle, colonne divano, is moso tempio, gli altri gusci testacei raccolti in un, notabile, stato. di freschezza fra le macerie e frantumi vulcanici, e pre ia ne- rastra di cui è formato quel terreno } sono a parere. el più volte citato Bigdohi: ‘(Bibliot. (taliana T. (XIVI An. 1823) indizi’ SUfhi” cienti; onde argomentare che..il ‘bacino sul ‘quale | posano! ii” suoi fondamenti è stato, soggetto (a delle. passeggere: inondazioni::del mare , le quali, ritirandosi depositarono cotali produzioui organiche «Pentate in progresso di tempo. dalle acque piovane, 1, forse da qualche vicina scaturigine. AI qual sentimento ' "si ‘aniforma pur quello dell’ antiquario sig. Canon. Andrea De uno nelle sue ri- eerche sul tempio di PAtRena (Napoli 1820.) à i 159. tordano non piccola influenza ai; venti.,meridionali, che hanno lambito la superficie del mare prima, di. attraver- sare terreni palustri ed immondi. Non farebbe meraviglia se, trattandosi di cose lontane da’nostri sensi, si dovesse uno contentare di plausibili ragionamenti, 0 di più verosimili congetture, ma nel caso attualecammina ben diversamente la cosa;.. Una serie di fatti dipendenti tutti da circostanze quasi uniformi, e.da moltiplici testimonianze confermati, non può far nascere più dubbi intorno a una tale influen- za. Pertanto come. l’esperienza c’iusegna, tali essere i venti quali sono i luoghi per.dove passano; addiviene che un medesimo, vento in vari paesi potrà avere diverse ed op- poste, qualità; quindi riescono a noi perniciosissimi l’ ostroò e il scirocco, i quali derivando da paesi caldi, trovano dopo il Mediterraneo un adito aperto. nella spiaggia ‘toscana sparsa di acque, palustri, mentre dal lato opposto un’alta catena di monti impedisce il libero» accesso ai: venti de- puratori.e, salubri di tramontana.. ;. lovba Grecia, che perl’ esposizione geografica! non dif fassa gran: fatto da;quella:d’ Italia; :risente pur essa il maggior danno dai venti australi, clie per la loro:caldez- za;ed.umidità dispongono ile cose, | come disse Aristotile ( Secz. (26. probl, 19. «) a putrefarsi ;; e producono grave nocumento ai corpi umani. Quindi Ippocrate nell’aureo suo trattato de aere, aquis et Locis dichiarò quale ‘assioma fisiologico , essere malsana unavcittà esposta ai ‘venti caldi si quali spirano fra il levante d’ihvernoò &' il' po- nente, e che trovasi coperta \da quelli di ‘settentrione. | Fra!le tante, osservazioni fatte a questo! proposito da ‘dotti nostri italiani noterò solamente. quella \trasmessaci dal ch. Lancisi, allorquando, nell’estate del 1695, rimasti straordinariamente immondi li fossi di castel S. Angelo di Roma e la cloaca maggiore della'città Leonina ; appe- na incominciarono a soffiare i venti australi, si suscita- ono in que’ contorni numerose febbri pestilenzigli, dalla 160. quale epidemia:non poterono restare immuni gli abitatori del dicontro monte Mario (1). Un tale avvenimento favuribelibe lo opinione già. i alcuni abbracciata, che Y' ostro soffi dal basso in alto, men- tre i venti boreali. sembrano venire dall'alto in' basso(2). Di qui si rileva, quanto fosse giusto l’avvertimento datoci da Columella di fabbricare cioè , 0 sul lembo del mare o per lungo tratto lontano da questo , ‘quia moedia sunt spatia gravioris ‘halitus (3); quindi meglio si giudica , perchè nelle nostre Maremme molti paesi situati sopra i poggi meridionali, sebbene dalla spiaggia lontani , si tro- vano soggetti alla maremmana’ molto più di quelli | pros- simi al mare o contigui alle paludi : quindi finalmente sì può trovar ragione in qual modo le macchie, a favore e contro'le quali si è cotanto disputato, possino recare van- taggio alla salubrità delle Maremme, quante volte servino di barriera. avanzata contro i venti di libeccio , ostro e scirocco, obbligati a traversare una marciosa pianura ; e riescire al contrario le stesse boscaglie nocive, quante volte facciano spalliera ai paesi aperti al mezzogiorno. Che però — raro non è nel littorale toscano :di riscontrare meno malsa- ni ed anchedi aria mediocremente buona, que’paesi volti a tramontana e. parati dalle selve o dai monti, in: modo che, prendino a schiena l’ostro e il scirocco; e aliene di fronte.il levante o la tramontana. Sul proposito di quanto interessar ‘possa alla salute degli abitanti l’. esposizione ‘delle case, oltre ciò che pre- scrissero. Vitruvio e Palladio) il daftinzione Varrone sa- viamente riflette, che dipende spesse volte dall’ umana prudenza ed industria mae le cause naturali del- (1) Zancisi, De! nativ. rv coeli qualit. Cap. IV.— Idem De Sylva Gisternae et Sermonetae,, $. 19. (2) Bacon Verulam. Hist, ventor, — Cartesit, Meteorol. Cap. IV. i (3) De-re rustica. Lib. IV. cap. 5. T] 161 l'infezione di un fondo. Dopo aver egli ricordato (de re rust. lib. 1. ), che Ippocrate, in occasione di una gran pe- stilenza, per un tale espediente salvò vari paesi, soggiunge, che allora quando lo stesso Varrone si trovava ‘con la flotta romana in Corcira , l’esercito e gl’ indigeni furono attac- cati da una malattia talmente devastatrice , che non vi era casa, la quale non fosse piena di malati o di morti; mentre egli dovè ripetere la salvezza propria, e de’suoi compagni, alla precauzione di aver murato nella sua ca-. sa le finestre e le porte volte a scirocco e a mezzogiorno, introducendo per nuove aperture i venti boreali. © IV.Ma queste osservazioni non sortiranno dalla sfera delle ipotesi, se non quando esse confermate venissero dalle prove di fatto. Fino a che la scienza fisico-chimica | non avrà scoperto la differenza che passa fra gli elementi dell’ aria infetta delle paludi e quella de’ paesi i più sani, non si distruggerà d’alcuni il sospetto che il miasma, da cui sembra originare la malaria, altrò non sia che un ente im- maginario, mentre tali altri avranno dritto di obbiettare che, se non si potè finora raccogliere nè isolare veruno di quegli esseri eminentemente tenui e fugaci, questi però fan- no risentire la loro pur troppo fatale esistenza, sia per l’ir- ritazione delle fibbre, sia per l’ organo dell’ odorato. Qual luce viva e inattesa brillerebbe sulla scienza della vita, se si giungesse a strappare alla natura un tale arcano? L'interessante lavoro intrapreso recentemente in Fran- cia dal dottor Gaspard, intorno i funesti effetti delle mate- rie putrefatte, e per cui egli è potuto riescire a produrre in poche ore sopra gli animali delle malattie molto ana- loghe a quelle derivate dalle esalazioni marciose ; il gene- re di ricerche che, in appoggio degli esperimenti di Gaspard, va proseguendo il valente Magendie (1) sono di lusin- (1) Journal de phisiolog. etc. par F. Magendie ann. 1822 e 1823. — Le ingegnose indagini di questo dotto fisico » sulla facoltà che bavno le vene di assorbire le sierosità » fecero scuoprire ‘al sig. T. XI. Agosto FI 162 ghiero augurio che non sempre resterà problematica la natura di sì fatti effluvi, cagione del contagio, e della malaria. Dai risultamenti da essi loro ottenuti finora rile- viamo che un acqua imputridita, e specialmente quella de’ pesci, fra tutte la più deleteria, iniettata anche in picco- lissima dose nelle vene, produce in meno di due ore so- pra quell’ animale che ne subisce la prova sintomi, che hanno la più grande analogia col tifo e la febbre gialla::e la morte dell’ individuo accade ordinariamente dentrole 24 ore. All’ apertura del cadavere si riscontrano tutte le tracce di un’ alterazione chimica del sangue, che divenu- to più fluido potè facilmente trasudare attraverso, i vari tessuti de’ vasi, e accumularsi col muco nello stomaco. e negli intestini (1). La stess’ acqua putrida non produce alcun effetto funesto, se invece d’ iniettarla nelle .vene.; la s'introduca nello stomaco degli amimali anche in gran dose. Non sarebbe impossibile quanto riflette. Magendie, che, mentre l’acqua viene assorbita dalla superficie mu- cosa degl’ intestini , operando questa a guisa di un filtro, si separassero dal liquido le particelle animali in putre- fazione ; ed è forse conseguenza dello stesso principio .al- Drapiez nella Sevi/lea cordifolia un attivissimo antidoto contro gli effetti de’ veleni vegetabili; imperocchè avendo introdutto nella ferita fatta in due gatti il sugo dell’Ayppomane mancinella, l'uno morì per cagione dell’ introdotto venefico..sugo,, e. l’altro; guarì per avere applicato alla ferita un empiastro. della. Sewi/lea, ec. ( The Journal of sciences literat. and the arts. Vol, X.). Resta a desiderarsi che un antidoto non meno efficace si possa per tal via amministrare contro il veleno della vipera, del cane rabbio- so, ec. (1) Sarebbe utile non poco ai progressi della patologia, che dotti e filantropi medici, addetti al servizio degli ospedali, delle maremme , sì applicassero a verificare queste importanti osserva- zioni dei medici trancesi. Se ne otterrebbe forse il mezzo di scuo- prire la natura e l'origine di quelle ostruzioni , che gli uni con- siderano come effetti, ed altri come causa delle febbri marem- mane. 163 tra di lui osservazione, cioè , che i risultamenti sono a un:dipresso egualmente funesti, come nel caso dell’inie- zione, ogniqualvolta la natura! del fluido che s' introduce nella trachea:non sia suscettibile, di essere modificato da alcuna filtrazione. Altri tentativi, diretti a studiare gli effetti degli ef- fluvi 0 miasmi delle materie putrefatte sopra gli ani- ‘mali’ che li respirano, (0 che si trovano immersi in quell’ atmosfera ; hanno. fatto conoscere ai sullodati spe- rimentatori ;, che per tal mezzo sì apporta pure alla mag- pi6f parte de’ viventi la morte; sebbene in un tempo assai più lungo; e con sintomi molto diversi da quelli prodotti dall’ iniezione de’ liquori putridi nelle vene. Da che può dipendere una tale differenza nella ma- miera di agire. delle stesse sostanze fra i vasi inalanti , e 1 polmoni ? fra.le diverse specie , o varietà di animali? A proposito : del primo quesito presume ‘Magendie, che le diverse condizioni atmosferiche, e particolarmente la temperatura e l’igrometria, debbano avere una particolare influenza. E. come lu notomia aveva da poco tempo con- fermato che tutta la faccia esterna della cute è tapezzata da numerosissime estremità di vasi inalanti, la cui tessi- tura non differisce dalla superficie delle membrane mu- cose; se non per la sottigliezza della membrana inorganica che la ricuopre; non si saprebbe, dice il ch. prof. Morichi- ni (1), in tanta identità’ di struttura negare! a, quelle, come alcuni pretenderebbero, ogni forza inalante, quando in queste è riconosciuta energica ed attivissima : al che per tutti sembra che possa servir di prova la propagazione per | ‘contattodellemalattiecontagiose non febbrili, come le sca- bie ec. Donde più facilmente si comprende, perchè in tempo caldo e asciutto quando la cute si contrae, appena. si rende sensibile la forza de’ vasi assorbenti , 3 mentre questa al- (i ) Saggio medico-chimico sopra l’acqua di Nocera. Cap VII 164 l’ opposto è molto attiva tutte le volte che un'atmosfera umida e calda amollisce , assottiglia ‘e dilata 1’. inorgani- ca membrana, dispineido’ la cute ad uno stato più: fa- vorevole di assorbimento. Infatti molti maremmaniposso- no in qualche modo attribuire in estate la loro salvezza , alla cura che hanno di non allontanarsi dai fuochi per- petuìi delle loro cucine. In quanto al secondo punto, sulla diversità degli effetti provati dalle varie specie di viventi, è da notarsi che, fra gli animali esposti sopra un tino con- tinuamente esalante putridi vapori, quei che non provaro- no alcun funesto accidente furono i piccioni, i conigli, i porci d' india, forniti tutti di un ventricolo eccessivamen- te forte, e dif da folte penne o da lungo pelo; mentre fra i diversi cani resse alla stessa prova solamente uno di fitto pelame (1). Sembra quindi che essi dovessero:ripe- tere la loro esistenza dalla minore impermeabilità dell’in- dumento che ne difende la cute , e quindi che, riguardo a quelli che non resisterono all’ esperimento, il veleno del- l’aere contagioso siasi insinuato per i vasi inalanti più che per i polmoni. Ciò da una parte ci spiega; per qual ragione le bestie bovine, ‘cavalline, porcine ‘ecc. vivono impunemente in que’ climi, e da altra parte imprime nuova forza all’ opinione emessa dal sig. Brocchi, che il vestiario di lana o di pelo sia stato anticamente, e. possa tornare ad èssere oggidì un efficacissimo preservativo per gli individui che popolano le Maremme. i Tali ricerche pertanto ci fanno sperare ‘che silteriori indagini non solo recar potranno nuove ragioni a prò di questo importantissimo argomento, ma ci apriranno la strada a risolvere sulla questione tuttora indecisa, se le febbri intermittenti e perniciose delle Maremme italiane dipendano dall’ assorbimento di principi morbifici, dei (1) Appartiene questo alla specie de’cani da caccia che i francesi chiamano Chier griffon, proveniente dal barbone, e dal cane spagnuolo a' lungo pelo, 165 quali un’ atmosfera umida può trovarsi saturata, o se deb- bano attribuirsi alle notabili rapide variazioni termome- triche , che ne’ mentovati luoghi dal giorno alla notte si succedono; e ciò secondo l’ assioma del vecchio maestro di Coo, confermato da sommi pratici antichi e moder- mi, che una state cioè costantemente calda e asciutta sia la più scarsa di febbri intermittenti , e che la più ferace sia quella in cui vanno cadendo le pioggie e si succedono frequenti vicende di temperatura (1); ed è appunto da sì fatte vicende di caldo e di pioggia che viene promossa a riprese, da una parte la fermentazione del suolo uligino- so, e dall'altra l'abbassamento delle sostanze volatili evaporate nelli strati superiori dell'atmosfera. Nè in tutti i casi le umide esalazioni possono dichia- rarsi malsane. Un'rimarcabile esempio viene citato dal- l’indefesso Brocchi (2). Sopra le montagne di Calabria dalla parte di Cosenza esiste un alto piano sparso di pa- ludi piene di giunchi, di carici ed altre simili piante. « Il suolo , dice il Brocchi , è formato di una sorta di torba, da dove prima che spunti il sole esala una folta nebbia che non si dilegua se non allorquando isuoi raggi abbiano preso vigore. Ora in uno di questi vasti pantani, che ba- sterebbe nella pianura ad ammorbare un intiero territo- ‘rio, l’aria è così saluberrima a segno che i pastori inno- cuamente dormono la notte sul margine del palude du- ‘rante la state e l’autunno, quando all’opposto nella pianura che è fra il mare Jonio e la base di detti monti, l’ aria è ‘molto insalubre , come lo è generalmente in tutto quel ‘gran tratto che da Taranto si stende fino al capo Leuco- petra presso Reggio. Qual è dunque la cagione di quest’a- ‘momalia , se così può chiamarsi un fatto che ha luogo ge- (1) Hippocrat. De aere, aquis et locis. /Zem, in Aphorism. 15. | Seet. II — Giorn. Arcad. T. XVII. ( gennaio 1823.) (2) Bibliot. Ital. T. XVII. (marzo. 1820, ) 166 neralmente in tutti i siti elevati? Se si volesse concorrere, prosegue il sullodato A., nella sentenza che l’aria cattiva sia contaminata:da patticolari miasmi prodotti dalle mate- rie organiche che infradiciano nelle acque stagnanti, dirsi potrebbe che la temperatura , la quale ne’ più caldi giorni di agosto non si elevò in quelle alte cime più che.aigradi 16 del termometro.di Reaumur, non è tale ‘che basti a; pro» movere nelle anzidette sostanze un grado di putrescenza sufficientemente esaltato ». Una simile osservazione. appli- cata ad altri territori dei climi «settentrionali spiega age- volmente la ragione, perchè poco (o punto nocive rieschino alla salubrità degli abitanti le acque palustri, sebbene giacciano esse sopra un letto di torbe :o in un suolo sal- mastroso, tali come le paludi presso Berlino, li vasti ma- razzi de’ contorni di Pietroburgo, ed i laghi d'acqua dolce divenuta salata della Siberia, ec. , per cui si ‘rese da gran tempo celebre quell’adagio : che nell'inverno l’aria in tutti i paesi è buona. Del resto la riflessione del valentenaturalista italiano starebbe anche in conferma dell'opinione di Cartesio!( de Metheor. G.:11 ), il quale, dopo aver distinto i vapori dalle esalazioni, dimostrò con quanta maggiore facilità 1’ acqua in quelli si converta, e quanto difficilmente ciò segua peri miasmi salini e venefici. Supposta vera, come tale io la credo, questa distinzione, gioverà anche a spiegare, perchè l’ umidità evaporata nel corso de’ giorni estivi dalla su- perficie del mare ricadendo nella notte sulla vicina costa, non arrechi per sè stessa alterazione all'economia umana. Questa medesimaconsiderazionesciogliei dubbi che potreb- bero nascere, nel vedere molti paesi lungo alcune-spiaggie godere di un clima salubre accanto ad altri di un aria de- cisamente perniciosa. Tali sono nelle Maremme i promonto- ri, ovvero quelle lingue di terra, come la. punta del Corvo, la costa di Ligorro,il promontorio di Piombino, di monte Ar- gentaro , Civitavecchia, Gaeta, ecc. , i quali ritrovandosi ——_k_coreecT_ cr 167 tuti per più lati dal mare presentano un libero accesso a tutti i venti. E se alcuni fra simili luoghi si trovano afflitti per incle- menza dell’aria, sembra che ciò debba ripetersi da cagioni puramente eventuali, come dalla poca nettezza de’porti, de’ fossi o anali immondi, dalla vicinanza dei mareiosi stagni, ai quali sconcerti una ben diretta amministrazione basta spesse volte a porre rimedio. Già vari felici risultati ottenuti sopra diversi punti dell’antico littorale etrusco , e che sono per la geografia fisica ciò che la sintesi è per la chimica, possono citarsi ad incoraggimento di nuovi ulteriori tentativi. La città di Livorno sebbene situata in un littorale una volta popolatissimo, fa a tempo del governatore Orsilago dipinta nelle sue rime come una bolgia dell’inferno (1), essa trovasi ora condotta a tal grado di miglioramento che non si conta nell’ Etruria marittima luogo più salubre di quello. La repubblica di Lucca, col mettere a prova per la spiaggia di Viareggio i consigli del mattematico Bernar- dino Zendrini, che io credo fosse il primo a suggerire i soste- gni aporte,ossiano cataratte a bilico,convalidò la sentenza A quanto la mescolanza delle acquedolci con le salso-marine vaglia a deteriorare la fisica condizionedi un’ territorio. Ed in fatti, da quel tempo in poi talmente si bonificò |’ aria di quel littorale ed indi sì rapidamente si accrebbe la popolazione di Viareggio , che in vece dei 300 abitanti ivi esistenti nel 1740, oggidì se ne eontano 4000, colla conso- lante lusinga di vedere quel sito eretto in florida città (2). (1) , Sia d° Estate, d’ Autunno, o sia d° Inverno » Vulla val che quest’ aere l’ alma invola », Come fosse una bolgia dell'inferno. (Rime burlesche T. III.) (2) Viareggio fu dichiarata città con due decreti di S. M. Ma- ria Luisa Duchessa di Lucca, il primo del 18 novembre 1819. l’ altro del 7 giugno 1820. 168 Un così ‘felice risultato ha servito d'esempio eidi stimolo perchè sì utili macchine fossero applicate in altri luoghi del nostro littorale. Per lo stesso mezzo, cioè delle cateratte. a bilico combinato a quello delle. col- mate , souosi da pochi anni in quà effettuati li più salu- tari. miglioramenti ed alla torre. del Cinquale presso il lago di Porta, ed al fosso di fiume vecchio presso Mo- trone, a segno che gli abitanti di Montignoso e quelli di Pietrasanta., una volta in preda a micidiali terzane , quartane e/perniciose , più non sono costretti durante la state e l’ autunno a rifugiarsi, questi a Serravezza , quelli a Massa Ducale , potendo ora vivere impunemente nella loro patria. Cotali buoni effetti pertanto possono dirsi il trionfo de’fautori dell’opinione, che il primitivo e principa- le fomite dell’ insalubrità di que’ climi sia da attribuirsi all’ evaporazione di principi perniciosi, facilitata anzi pro- vocata dalla mescolanza delle acque dolci con quelle o minerali o. salso-marine, o anche da quelle semplici in certa guisa mineralizzate pel soggiorno delle torbe , non che dalla macerazione e * decomposizione di altre sostanze organiche. i È Io chiuderò questa memoria, coll’additare fra. gli ostacoli che finora si opposero al risanamento delle Ma- remme uno che può dirsi più particolarmente rimarcabile, come degno di richiamare l’attenzione de’ politici e dei geo- logi. Esso consiste nella troppa estesa superficie del paese soggetto all’infezione; e perciò risulta da un canto, che ap- partenendo esso a diversi governi può difficilmente ottener- si quel concerto uniforme e simultaneo di misure, necessario per così vasto bonificamento ; e dall’ altro canto riesce quasi impossibile di riunire sufficienti braccia per frenare ed assoggettare ad un regolato corso tutte quelle acque sover- chiamente libere e vaganti, sia per muovere e trasportare tanta terra che basti a ripianare le infinite gibbosità, e sep- pellire sotto altissimi strati quegl’ innumerevoli depositi \ —r——r E -Ez:Z:*G:)h/)07 zo III ge 169 terrestri e marini ‘che ho PEPE come focolari d’infe- zione. Se lecito fosse in materia così grave di attingere dalla mitologia le esagerate immagini, con le quali Ovidio e Camoés ci dipinsero, uno il gigante Tifeo, che disteso sotto Sicilia tutta vomita fiamme dall’Etna, l’altro il colossale genio delle tempeste, Adamastorre, die poggiando nel mare sino alla cintola contrasta a Vasco di Gama il capo di Buona Speranza, io assomiglierei il male maremmano ad uno smisurato mostro, che con la sua mo- le ricuopre ed ammorba l’ intiero littorale da Pietrasanta a Terracina. Qual nuovo arciero di Delo avrà dardi di tal tempra da abbattere quel Pitone sterminatore di tante popolazioni ? qual novello figlio di Alcmena avrà polso che basti a recidere d’un colpo le cento rinascenti teste di «quella venefica idra? iii 0 Sì immensa impresa , in cui tratterebbesi .di doma- re ad un tempo la natura del suolo, delle acque e del- l'atmosfera in sì vasto tratto di contrada per mezzo di braccia avventizie, sarebbe per sgomentare ed il poderoso esercito di Serse, ed il milione di lavoranti impiegati dagl’ imperatori chinesi a costruire la gran muraglia, e venendo ai tempi nostri, i cento mila fellahs radunati dall’instancabile Mehemet Aly per l’escavazione del canale di Alessandria. Quanto più facile e meno dispendiosa rie- scirebbe l’ opra se rimanesse dimostrato che , siccome già accennai, separando le acque per mezzo delle cataratte a bilico, potesse migliorarsi con esse il suolo e l'atmosfera del littorale a segno che la popolazione di quei luoghi risa- nata, rinvigorita, moltiplicata e ormai rassicurata bastasse poi ad eseguire e compire progressivamente da sè stessa l’intiero sistema di tutte le altre migliorazioni suggerite dall’arte-e dalla filantropia. 170 | IV. B. Al momento che sorte dal torchio la. presente. me- moria , arriva da Parigi il Cahier go (juin 1823) del Zournal universel des sciences medicales, dove si da conto di un recentis- simo opuscolo , sulla febbre gialla osservata alle Antille, ec. del P. F. Kéraudren ; medico in capo delle armate navali , ec. come di un lavoro degno di essere annoverato fra i principali scritti sopra questa malattia, e nel quale mi conforta trovare uu appoggio ai miei pensieri nell’investigazione delle cause sulla località ( vedasi qui sopra, a pag. 158 ),, Si è stati finora imbarazzati ,, ( dice il redattore ) a spiegare la preferenza della febbre gialla per le città situate sulla spiaggia del mare. M. Keraudren ne trova la causa nel miscuglio delle due atmosfere marittima e terrestre , che si com- pongono a un tempo stesso di vapori somministrati dalle acque del mare e da tutte le emanazioni che esalano dalla terra. Egli propone di analizzare l’ acqua marina in decomposizione, per studiare la natura dei fluidi elastici chc ne potrebbero provenire e per esa- minare la loro azione sull’ aria atmosferica ; sulla respirazione e le altre funzioni negli animali. Em. REPETTI : 17 Collezione completa delle Commedie di Canto Gor- ‘ponI. Tomi 30. Memorie del medesimo, Tomi 3. (Prato per i Fratelli Giachetti 1819. 1822.) Teatro Comico dell’ Avv. 4rserto Nora. Tomi 5. (Livorno presso i Fratelli Vignozzi. ) Nuova: Raccolta Teatrale , ossia Repertorio scelto ec. - | compilato dal Professor G. Barzieri Tom. 12. (Milano pe’torchi di Giovanni Pirotta 1821. 1822.) - Repertorio scelto ad uso de’ Teatri Italiani, compilato «dal Proressore Garrano Banzieri (Milano, dalla Tipografia'del Commercio. 1823. Sono comparsi i due primi Volumi. ) Teatro scelto Italiano antico e Moderno. (Milano, dalla Società Tipografica de’ Classici Italiani. 1822-1823. Sono stati pubblicati i primi 17 Tomi). Articolo Primo. Dopo di avere l’Italia fatta rinascere in Europa la drammatica letteratura, e dopo di averne esibiti eccel-. lenti modelli in ‘ogni genere (1), vide le sue scene invase (1) ,, Dans l’art dramatique en général, ce grand siècle laissait quelques progrès à faire aux dges suivans; mais si nous jetons un dernier coup d’oeìl sur le tableau que nous ‘offre l’ Italie con- > sidérée sous .ce rapport, nous y verrons que, sans parler dn mé- lodrame et de.l’heureux emploi que l’on y fit de tous les arts, elle eut alors des tragédies , les unes fondées sur l’ histoire, les autres d’invention, remplies de situations tonchantes et terribles; qu'elle eit'des comédies de ‘caractère et d’intrigue, où les vices et les ridicules furent vivement ‘representés; qu'elle eut enfin des .pastorales \pleines de délicatesse , d' imagination et de graces, Elle créa } elle posséda toutes ces richesses ; elle en connut mème la su» rabondance et l’excès long-temps avant qu’ il y eùt , sur aucun théatre en Europe, une seule picces où l'on vit briller quelque étincelle de génie, de raison ou de sentiment ,,. ( Ginguene histoire litteraire d’ Italie. T. 6. pag. 2. ch. 26.) 124 dalle più insulse, scurrili e mostruose produzioni (2). Ri- sorse poscia più bella, mercè de’ chiari ingegni di Maffei, Metastasio ed Alfieri l’itala Melpomene; nè. fece. men vaga mostra di sè la ridente Talìa educata alla scuola del veneto Terenzio. i Ma il falso gusto drammatico non rimase però vinto del tutto in Italia; cessarono le commedie dell’ arte; ma comparvero i drammi sentimentali e lacrimevoli ; spari» rono i complicati intrecci romanzeschi, ma ne ‘occuparono le veci i componimenti spettacolosi ‘ed i. francesi melo- drammi; più non si udirono i puerili concetti de’ secenti- sti, ma trionfaròno il neologismo e l’affettazione: e già ci sembrava toccare al più infimo segno della decaden- za e della corruttela teatrale, allorchè alcuni leggiadri e colti ingegni ravvivarono le nostre : quasi perdute speran- ze. Chi ne assicura bensì che gli sforzi de’ Monti, de’ Ven- tignano, de’ Niccolini , de’ Nota, e de’ Giraud non sa- ranno superati e vinti da quelli de’ pur tanti promotori e fautori di perigliose novità drammatiche ? e ciò tanto maggiormente, che molto disfavorevoli congiunture a no- stro danno cospirano, e la principale consiste nella de- pressa condizione e nella ignoranza ed imperizia de’ più fra i recitanti, che trovansi costretti a supplire con l’ap- parato scenico, con gli abiti sfarzosi ed il fracasso, a ciò che manca loro d'intelligenza e di arte per rappresentare degnamente le ottime nostre commedie e tragedie. Che se poi di queste vicende, di queste, dirò così, ricadute frequenti della letteratura drammatica in Italia ricercar si voglia la precipua cagione, ci si manifesterà agevolmente nella mancanza di un Teatro Nazionale co- me lo ebbero i greci e i romani in Atene ed in Roma, e come lo hanno gl’inglesi ed i francesi in Londra e in (2) Avrò occasione nel progresso di questo articolo di dare qualche saggio della letteratura drammatica italiana del seicento. 173 Parigi, un teatro cioè che a tutti gli altri serva di centro e di norma, che faccia premurosa conserva di ogni opra lodevole, che sbandisca severamente le difettose e medio- cri, e che prometta applausi e corone a chi veramente ne sia meritevole, onde chi n’è meritevole aspiri ‘a conse- guirle , nè sdegni il favor popolare, come già fece il grande Astigiano, il quale tenendo a vergogna gli ingiusti applausi riscossi in Torino dalla sua Cleopatra, non volle sperimen- tare l’effetto delle più sublimi sue tragedie, se non che nelle ristrette adunanze o sulle scene private dinanzi a una scarsa ma colta udienza in Roma, in Pisa ed.in Siena. Questa sì lunga brama degli animi gentili sarà final- mente appagata, poichè vedremo in breve sorgere in seno alla bella Firenze un Teatro nazionale (3) che fornito di permanenti abili attori, e saggiamente disciplinato, non offrirà al pubblico se non che opere elette degnamente rap- presentate, e su cui deposta ogni disdicevole gara, e to- scani, e lombardi, e piemontesi, e romani, e tutti in som- ma gl’italiani scrittori drammatici ameranno di esporre i loro componimenti; sottoponendoli al purgato giudizio di un pubblico imparziale ed illuminato; onde ampliare ed arricchire viemaggiormente -il patrimonio nostro tea- trale, ed'accrescer lustro alla patria comune. ‘< Il giudizio popolare che proferir dovrassi intorno alle produzioni novelle, sarà precorso da quello che in- torno alle altre fin qui comparse, emetteranno con più ma- turo e pacato consiglio i'benemeriti direttori del fioren- tino teatro , ildi cui primo geloso incarico sarà di formare un ottimo Repertorio Drammatico, raccogliendo quelle opere che sule altre primeggiano pel merito letterario; per l’effetto scenico; e per la più sana tendenza morale. : Si è molto disputato intorno alla TENDENZA MORALE della tragedia, e si è commentata in mille guise quella (3) V. # Antologia, Tom. VI. pag. 180,e Tom. VIII. C pag. 191. 174 sei misteriosa sentenza: che la. tragedia per mezzo della compassione e del terrore perviene «a pur- garci da somiglianti passioni. Io mi asterrò dall’aggiun - gere le mie congetture a quelle di tanti altri, argomen- tando piuttosto qual sia lo scopo della tragedia dai. senti- menti che suole eccitare negli ascoltanti; pietà per, gli in- felici, sdegno contro i malvagi, ammirazione per gli uo- mini virtuosi; — sentimenti tutti oltremodo! salutari. e lodevoli, — A.rendere viepiù manifesto questo :si utile 0g- getto del poema tragico, pare che servisse mirabilmente il Coro degli antichi. — Sosteneva questo il nobile uflizio di favorire. e consigliare i buoni ;.d'inculcare jla concordia , la frugalità, l’amore della giustizia ‘e delle leggi; e pregava gli dei acciò la fortuna tornasse proprizia ai miseri; € ab. ‘bandonasse isuperbi (De Arte Poet.). Laharpe chiamava il coro, le personage moral des tragedies; ed un cele, bre letterato tedesco porta opinione che quello delle tra- gedie greche, « riguardare si dovesse come. la. perso- nificazione de’ pensieri morali che ispira l’ azione ; come l’interpetre de'sentimenti del poeta | che parlà in nome della umanità ».'(.Schlegel. Corso di Letterat. Dram- matica. Trad. del Sig. Gherardini. Tom; 1. Lez,,3,) Sebbene le tragedie moderne sieno prive, generalmen- te dell’ accessorio del Coro, conservano esse! la.temdenza stessa delle antiche, se non che in.alcune maggiormente predomina la passione dell'amore, come in quelle di Raci- ne in altre la politica, come. in ‘quelle di .Gorneille ed Alfieri, cospirando così le une ad ammollire i costumi, le altre a ritemprarli. Assai differente , e. per così dire inverso fa, landa, mento della somiimalia; che spaziando i in principio nel vasto campo. della Politica (4); fu poi ridotta alla sola ; (4) A tutti è noto che nelle commedie di Aristofane Verlitano liberamente discussi gl’interessi pubblici; che si trattava in esse della pace e della guerra; che vi si chiamava. a sindacato la condotta - 175 imitazione dei caratteri , costumi e difetti de’ privati. cit- tadini, e tale è tuttora, se non che talvolta ci dipinge il vizio con que’ tratti e colori che sono più veri ed. ener- gici, e così più atti a renderlo odioso e schernito;. ma talvolta anche pur troppo gli presta seducenti amabili sem- bianze, come faceva quel pittore: Che dipingere il diavolo solea. Con bel viso, begli occhi:e belle chiome. Quindi la tendenza comica. è, talvolta morale, e tal volta pur’ anche immoralissima, essendovi bensì non po- che rappresentanze che riescono; indifferenti sotto questo aspetto, non migliorando nè corrompendo i costumi, per- chè soltanto gli esprimono con verità , traendone materia di uno scherzoso ma innocente trattenimento. Con queste semplicissime avvertenze vengono a con- ciliarsi, se mal. non mi appongo,, le discrepanti opinioni de’ Bipsofi intorno. al, Teatro,, alcuni reputandolo var- taggioso, altri pestifero., altri pad alla civil società; essendochè i primi hanno considerato soltanto le produ; zioni drammatiche, la di cui tendenza, è virtuosa ; i, se- condi quelle, che portano seco il contagio del vizio; e gli ultimi quelle pur tante dilettevoli ed. interessanti , che non lasciano alcuna impressione nè cattiva nè buona nel- I’ animo degli spettatori, ; Che poi le lagrime che si spargono sui deplorabili casi i figurati al vero nelle tragedie, o il riso al quale ne eccitano le comiche imitazioni de’nostri vizi e difetti , rie- scano del tutto. sterili per la nostra emendazione, io non de generali e ‘de’ rettori della repubblica , esposti ben sovente alla derisione del popolo ateniese, e che anzi nella commedia intitolata i Cavalieri, veniva il popolo stesso adombrato nella persona di un vecchio rimbambito. Con la stessa libertà scrivevano Cratino, Eu- poli al Archippa ,,e gli altri comici contemporanei, i versi dei ‘quali sono citati ad ogni passo da Plutarco nelle vite di Pericle e Alcibiadé. 1 176 saprei concederlo , qualora non si volenià generalizzando ud negare qualunque virtà ed efficacia ad ogni ‘specie di poesia, che pure non può dirsi perfetta , ove al dolce non sia commisto l’utile , e la istruzione al diletto. Ma se anzi veniva con ragione affermato da Orazio, esserestatoOmero miglior maestro di Crantore e Crisippo onde insegnare Quid sit pulchrum D quid turpe, quid utile, quali non; se Giulio Perticari che da tutta Italia or sì piange cliiaimò il grande nostro Alighieri, il poeta della rettitudine; se la poesia lirica ebbe sovente! forza d’ infondere ne’ più molli petti e valore e fermezza e sacro amore di patria, e vestir seppe di luminose i imagini le filosofiche e religiose dottrine; se la didascalica ag- giunse grazia ai più aridi e severi‘precetti; e se perfino l’apologo fingendo avvenimenti o colloqui fra le piante ed i bruti trar ne seppe a prò degli uomini salutari am- maestramenti; come potrem noi negare un’eguale, anzi maggior virtù ‘alla poesia drammatica, la glisle ha per ufficio il dipingere la vita umana; abbracciando ad un tempo'gli antichi e memorabili fatti ed i moderni e do- mestici, e non già mostrandoli per via di semplice de- scrizione o racconto, ma producendoli innanzi Pal nostro cospetto ? Bene egli è vero che l'efficacia e il potere della poe - sia e della stessa eloquenza, non tanto dipendono dalle rette vedute, dall’ingegno e dall'arte dell’oratore e del poeta; quanto dall’indole e dalle disposizioni dei ‘lettori e degli ascoltanti. Ad un popolo ignorante'e corrotto, che mai può giovare il vero condito in molli versi, o di bella facondia vestito? ed a che giovano le stesse profonde le- zioni de’ filosofi? a che le stesse leggi? Quid leges sine moribus. Vanae, proficuint?.... Quando però i popoli sono ancor lungi dall’ultimo grado della corruttela e della ignoranza, quando anzi gli sforzi LV de' saggi sono tutti rivolti a promuovere la pubblica istru- zione è le istituzioni più provide e benefiche, sembrami che il teatro possa riuscire di non lieve soccorso, onde compiere la bramata riforma dei costumi. « Ma perciò conviene che la scelta de” componimenti drammatici venga con tale accorgimento eseguita, che i più sieno favorevoli all’ intento, e niuno possa riescirgli contrario. — Il Repertorio del teatro francese è ben lungi da questa morale perfezione, e per questo lato non saprei dare tutto il torto a Giov. Giacomo Rousseau, se ‘considerava come perniciosa ai suoi concittadini l’ ado- zione di quel repertorio stesso, che fra i suoi più rari gio- ielli annovera le commedie di Molière e Regnard, ammi. rate a buon dritto dai letterati, ma asia con egual ragione dai filosofi per la non sana loro tendenza : e qui basti rammentare Georges Dandin, e il Legatario uni- versale. Questa giusta censura dell’ eloquente ginevrino scrit- tore sarà forse applicabile a molte opere italiane poco pre- gevoli, e forse ad alcune di quelle dettate dai grandi maestri del nostro teatro; ma dopo rigettate quelle peri- colose ed immorali, restaci, pur tanta dovizia di virtuosi esemplari drammatici, non che di piacevoli ed innocue rappresentanze, da formarne un repertorio assai copioso , a cui possano egualmente far plauso il buon gusto e la sana ragione. Il sig. professor Barbieri, ingegnoso scrittore comico e recente compilatore di raccolte drammatiche, sotto il titolo di Repertori Teatrali Italiani dichiara aver preso di mira principalmente l Errerto de’ componimenti da lui trascelti. « Le regole della poetica teatrale (egli dice) , non si restringono solamente a quelle che ottimi istitutori ne additarono, le quali anzi scemano di forza se non ne vengono aggiunte altre che vogliono essere studiate dalla platea, stando a contemplare ciò che dicesi EFFETTO T. XI. Agosto 12 178 della rappresentazione. E siccome tale effetto varia col variare delle circostanze , de’ tempi, de’ costumi, e delle inclinazioni de’ diversi du ; così variabili oltre ogni credere sono queste . seconde regole , o quasi ne perdono il nome, fattesi piuttosto umsentimento che LA SOLA PRATICA può fornire. Laonde un componimento teatrale possederà maggiori, o minori pregi avuta ragione di tempo in cui è rappresentato , e di contrada alla quale si destina. Per- ciò molte rappresentazioni che piacquero , non piacciono più, e delle tante antiche opere proscritte or dalla scena sarebbe anche maggiore il numero, se una lodevole vene- razione verso i pet, e primitivi maestri dell’arte, e la scarsezza di moderni, i quali z0r. che pareggiarli, MERITANO APPENA DI ESSER NOMINATI DOPO DI ESSI, MON facessero sì che in favore di non comuni diletti a noi pro- cacciati sparsamente dai primi, perdoniamo volentieri LE NOIE fra questi stessi diletti frammiste. » Seguitando questi principi, il bello Drammatico sarebbe del tutto relativo, e variabile indefinitamente se- condo i luoghi edi tempi; le nostre ricchezze teatrali an- drebbero sicmudo ogni dì, e rigettar si dovrebbe oggi senza alcuno esame, ciò che senza esame era da noi am- mirato zeri; e condannare i in /talia come pessimo, ciò che in pasa si acélama e si applaude come sublime e per- fetto, senz’altra norma che la sensazione attualmente pro- dotta in noi dalla recita. Io non dirò già che gli usi de’ vari popoli e le par- ticolarità locali non influiscano potentemente ad jaccre- scere o menomare l’effetto che producono su di noi le teatrali rappresentanze, le quali non essendo altro che imitazioni del viver nostro, debbono tanto più esser gra- dite quanto più si accostano ad esso, e meno accette al. l'opposto quando. ci recano innanzi oggetti o caratteri, diversi troppo da quelli che ci sono Digiliazi E di, qui ii faccio anzi a biasimare liberamente la troppa smania 279 del nominato bbalipiticore, di afiiavoltine nelle sue raccol- te tante traduzioni di drammi tedeschi e francesi poco intelligibili per molti italiani, attesa la diversità che cor- re fra le nostre fogge e abitudini, e quelle che veggon- gonsi quivi Elisione! Ne recherò ad esempio la commedia spiritosissima del Sig. Casimir de la Vigne intitolata i commedianti, tradotta dal Sig. Barbieri, ed inserita nel 70. 8. del suo primo repertorio. Questa aggirasi quasi interamente in- torno ai costumi, alle stravaganze e altri difetti dei comici francesi. Vi si parla delle commedie e tragedie più cele- bri, se ne recitano frequenti squarci, ed i notissimi no- mi de’ principali interlocutori prestano sovente materia a lepidissimi scherzi. Nella tragedia di Corneille intito- lata Orazio, narrasi che questi si è dato alla fuga poscia che ha veduto uccidere i di lui fratelli dagli emuli Alba- ni.—Il padre se ne adirà, e quando un altro personaggio gli chiede, gue vouliez-vous qu il fit contre trois? risponde il vecchio Orazio con queste sublimi parole, qu’ il mourat. Questo verso è familiare a tutti gli spettatori, ed allorchè nella commedia del sig. De la Vigne se ne fa la satirica ap- plicazione ad un malato assistito da tre medici, il verso sublime si converte in epigrammatico, attesa l’opportuni- tà della parodia. — Non così in Italia ove pochi si recano alla memoria il verso di Corneille, e non intendono alla prima perchè il medesime-si ponga in bocca ai personag- gi di Pembrolh e Granville. Chi non ha letto la tragedia del Cid,non comprende certamente cosa voglia dire Be/rose, quando parlando di un vecchio attore così si esprime: « Blin- ‘ val era allora un bel giovine, e gli toccava farla parte di Ro- drigo nel Cid, ma adesso non ‘può fare che da 2. Diego, e presentare il volto all’ onore dello schiaffo. » Altrove recitansi alcuni squarci della Zfigenìa di Racine, e quando odesi dietro la scena lo stesso or ora mentovato Zlinval esclamare, « fuyezdonc, retournez dans votre Thessalie », 180 sì riconosce tosto Agamennone che rampogna il superbo Achille; ma il pubblico italiano che mai può comprende- re ascoltando lo stesso verso così tradotto , « fuggi, la «tua Lacrissa a cercar torna. ..? » Parlasi altrove d’Enribate, di Ergasto, di Crespino, e sempre v'è sotto qualche finis- slma allusione, che i nostri afferrare non possono. Si.ram- menta une Zoge grillee, che traducesi in italiano, 272. pal- chetto graticciato; si disputa se un attore debba appel- larsi artista, e se una compagnia di comici dir si. debba piuttosto una società, ed altrettali cose, che in Parigi ri- svegliano idee di pregiudizi e pretensioni ridicole degli attori, ma che non possono qui far l’istesso effetto, perchè non conosciamo gli originali di cui ci presentano le copie. Che più? Vi sono cose intraducibili a tal segno, che dobbiamo perfino porre in dubbio se il valentissimo sig. Barbieri le abbia intese egli medesimo. Bastine un saggio tratto dalla citata commedia. Riporterò prima Ja tradu- zione. Il commediante BeZrose parlando della giovane at- trice Lucilla dice, che ella è un prodigio sotto ogni aspet- to, e soggiunge: « spirito, ingegno ammirabile, vent'anni, e beltà che non ha bisogno per comparire nè di Cache- mire, nè di esprits ». Ecco all’opposto ciò che rilevo dal- l’originale francese: le galavti attrici parigine amano il lusso e i regali, e sono tutte ampiamente fornite di gem- me, abiti, e ricchissimi scialli di cachemire, La giovine Lucilla, che l’autore dipinge virtuosa e modesta a dispet- to del contagio che la circonda, ha vent’anni, è bella, spi- ritosa, e dotata di rari talenti; eppure .. . 7207 possiede wr scialle di cachemire! « Lucile a de l’ esprit, un talent qu'on admire, « De la beauté, vingt ans, et pas de cachemire.. Il frizzo è brillante, ma non può essere gustato in Italia, e non lo fu, per quanto sembra, nemmeno dal traduttore. Se dunque il sig: Barbieri nel parlare dell’e/fetto teatra- le avesse preso di mira queste notabilissime e moltiplici 181 diversità nelle esterne sembianze e forme caratteristiche di ogni contrada e di ogni età, converrei seco ben .volen- tieri esser l’ effetto medesimo proporzionato generalmente alla maggiore o minore conformità dei drammi recitati coni costumi e le idee abituali degli ascoltanti, o almeno con la cognizione più o meno imperfetta delle cose rap- presentate, e ne concluderei non doversi con tanta solle- citudine cercare oltre i monti di che comporre uz reper- torio drammatico italiano. Ma se egli suppone invece. ( siccome pur troppo il suo discorso ce ne fa accorti ) che l’effetto scenico ‘assolutamente dipenda dal capriccio, 0 dal gusto o buono 0 falso degli spettatori, e se gli pia- ce quindi insinuarci di secondare e blandire questo gusto popolare, non possiamo scendere nella sua opinione, per- chè apprendemmoda Orazio che înterdum pulgus rectum videt; EST'UBI PECCAT. Recitavasi in Roma l’ Ecira di Terenzio commedia interessantissima, e con molta attenzione veniva ascoltata dal popolo, mail popolo stesso ebbe maggior curiosità per lo spettacolo de’ furanbuli, e lasciò a mezzo il dramma te- renziano e i nobili piaceri del core e dell’ intelletto, po- sponendogli a quelli sterilissimi della vista: fu repetuta altra volta 1’ Ecira; ma fu obbandonata di nuovo, perchè si volle piuttosto assistere ai feroci combattimenti de’ gla- diatori, ed alla terza recita soltanto fu ascoltata per l’in- tiero, e come ben meritava applaudita . ... Se però giu- dicare si dovesse del di lei merito dall’incontro che «ebbe le due prime volte, seguitar: dovremmo l’ opinione della plebe romana. E chi ignora essere stata nel cultissimo se- colo di Luigi XIV preferita la Fedra di Pradon a quella di Racine, e condannata per lungo tempo al disprezzo e all’ oblio l’ Atalia; capo lavoro di questo tragico immor- tale? ... i Lund Ma in quel secolo stesso quale era il gusto dramma - tico degli italiani già gloriosi restauratori della tragedia 182 ; e commedia de’ classici antichi? ... Intrecci complicatis- simi ed inverisimili, bizzarra confusione del tragico il più ampolloso, e del comico il più basso e triviale. De’ concetti, e dello stile non parlo: ognuno conosce lo stile e i bei concetti del sì a buon dritto proverbiato seicento. — Or questi drammatici mostri erano acclamati fra noi. Io pos- seggo varie opere sceniche stampate in quell’ epoca dopo essere state recitate con gran successo: ecco i titolidi alcu- ne. Le fortunate sventure.(Lucca 1685);la tartarea com- media infernale di Giovanni Briccio romano. ( Milano 1639 ); gli sponsali per l’ impero, ossia. Nerone impe- rante opera scenica di Sebastiano Lazzerino orvietano accademico infecondo in Roma. Bologna ( senza data ). In quest’ ultima mERONE è una specie di Caloandro, inna- morato di un ritratto trovato fra le spoglie dell’ Asia nell’usbergo del re de’ Medj: egli esclama: « così dunque proverà Nerone cangiate in furie le sue passioni, 772, fuoco la porpora, in catene il diadema, in tormento la vita; in inferno impero! . .. » Delibera poi con Sereca ed Aniceto intorno agli sporsali da celebrarsi con Ottavia: Aniceto- vorrebbe distrarlo da un tal passo: e Seneca al- ’ opposto vorrebbe indurvelo. Nerone gli ascolta, e dà sempre ragione all’ ultimo che parla: ecco alcuni tratti di questo curioso dialogo. Senec. Le maniere d’ Ottavia sono. adorabili da. ‘ogni cuore . Ner. Così è. Anic. Il cuor di Nerone non è tenuto a questa idolatria. Ner. Anche è vero. Senec. L’ impero comanda questi sponsali. Ner. Comando troppo potente. Anic. Ma da pensieri più liberi sono vietati, Ner. Pensieri troppo efficaci. Scnec. La politica così vuole . Ner. 'Tiranna politica. 183 Anic. La libertà contradice.. Ner. Dolce libertà. Senec. Ottavia ha in dote l’ impero. Ner. Non lo nego. Anic. L’ impero è dote del merito. Ner. Lo confesso. Senec. Merita chi impera a sè stesso. Ner. È verità. Anic. Non merita chi sè stesso tormenta. Ier. Non è menzogna: ec. ec. Di più ricomparvero in Italia le rappresentazioni sacre ossiano Misteri, edue ne conservo singolarissime. — La prima è intitolata Zrverziore della S. Croce, parto biz- zarro del Padre Michele Angelo Fantini da Colle. Sen- za parlare delle incoerenze e delle puerilità di cui essa ri. donda, si avrà una giusta idea della erudizione dell’ auto- re, qualora si sappia che Ermogene consigliere di 8. Ele- na adapra gli occhiali per laisene alcune antiche scrittu- re, che un ebreo ed un Win ini oriundo delle val- late di Bergamo fanno sul palco all’ archibugiate, e che v'è al Calvario un capitano ossia bargello francese di nazione; che storpia curiosamente la lingua italiana — Ecco il frontespizio della: seconda : LD. Occaso dell’ eterno sole tragedia distinta in tre atti, nella quale si rappresenta la passione di Cristo Redentore,senza spet- tacoli, composta e fatta recitare in diversi luoghi la notte del venerdì Santo dal Rev. Padre Maestro Filippo Fratini di Cortona ec. ec. In Firenze per Amador Massi 1653 , con licenza de’ superiori. Per dare un saggio anche di questo dramma sacro profano , trascriverò alcuni versi dell’atto secondo, scena quarta. Pietro, Pantesca. Fantesca. Oh! s’ egli fosse della più vil plebe Il più dite e mendico: Hai da negar l’ amico? 184 Senti, fino il mio gallo ©. La tua viltà, le tue bugie rinfaccia Con replicato canto : i Sai tu quel che vuol dir col suo chi chi ? Dirai che annunzia il di? - Messer nò, parla meco, e di te parla, E dice in sua favella : Chi, chi sì fiderà mai di costui ? Chi chi ricùperar potrà l’ onore Di sì gran mentitore è... ec. ec. In fine del dramma sono le consuete approvazioni degli inquisitori, ed il parere di alcuni dotti religiosi, l’ ultimo de’ quali così conchiude: /eramente chi leg- gerà quest’ Occaso potrà rendersi più che sicuro che fuor di quel che suole; nasce la luce al ‘tramontar del sole. Io non ignoro che alcuni scrittori seppero guardarsi dalla epidemia del falso gusto, in specie sul principio di quella infelice età, e non poche tragedie regolari e commedie erudite ( erudite! ) allora comparse vengono ricordate dal diligente Zstorico de’ teatri antichèì e mo- derni. Queste però erano generalmente sì languide e. fred- de, che non è maraviglia se il pubblico le posponeva a quelle più bizzarre e difettose, ma nel tempo stesso più interessanti, prodotte in gran copia dalla scuola novella; per lo che la barbarie e la corruttela occuparono ben. presto tutti i teatri d’ Italia. — Lo stesso Sig. Wapoli Si- gnorelli esalta fra i.poeti tragici più famosi in quell’epo» ca il genovese Ansaldo Ceba autore di alcune tragedie: la Silandra , V’ Alcippo e le Gemelle Capuane; ma do- vendo pure dar conto di quest’ultima, trovasi costretto a convenire essere la medesima più atta a muovere il riso , che non ad eccitare la commiserazione ‘o il terrore: ha essa per argomento gli amori di Annibale in Capua. Or crederesti forse di trovar quì rappresentato il figliuolo di 185. Amilcare quale seguitando la storia fu.dipinto da Petrarca nè trionfi? ... Questi è il figliol d’ Amilcare, e nol piega In cotant’ anni Italia tutta, e Roma: Vil femminella in Puglia il prende e lega. Tutt'altro: Annibale è un seduttore che inganna due credule sorelle avide entrambe di marito, e promettendo a ciascuna di sposarla , finisce con. tradirle e abbandonarle egualmente. Lo stile viene dal troppo indulgente e par- ziale storico de’ teatri qualificato per elegante, vivace € naturale, comunque troppo lontano dal carattere tra- gico. Egli ne produce vari saggi che giova qui trascri- ‘vere, onde i lettori ne giudichino per loro stessi. Pirindra, una delle gemelle Capuane, dice. alla sua confidente Ge- lopea : i « E poichè il padre mio non mi marita Maritarmi per me mi.son disposta. E Gelopea le risponde i. « Granpoglia hai di marito a quel ch' io sento. Ecco poi alcuni versi della contesa che. segue nel- l’atto quarto fra le due sorelle Pirindra e T’rasilla. Pir. Jo so quel che vo dir: la cortesìa Lo stringe teco, e meco il lega amore. Tras. Oh come sciocca sei, se tu tel credi! ... Pir. Oh come stolta tu; se nol comprendi. Tras. Le pugna a mano a man se tu non taci Mi serviran per lingua e per favella. - - Pir. E le unghie se tu segui a provocarmi Ti suppliran per motti, e per risposte, ec. ec. Or questa tragedia ‘scritta con tanta eleganza e natu- ralezza ebbe un incontro. felicissimo in quell’ epoca, nè soltanto :così opinava il volgo; anche i principi italiani , che avevano con tanto discernimento. protetto le lette- re nel precedente secolo, accordavano ricompense ed ono- ri ai cortuttori del gusto. È noto che quello stesso, porpa- 186 rato Cinzio Aldobrandini che promessa aveva l’ incoro- nazione di Zorguato , divenne poco dopo il più appassio- nato ammiratore del cavalier Marino: ed il principe Don Cammillo Gonzaga erede di que’ generosi , che fu- rono già: gli emoli de’ Medicei ed Estensi mecenati, fece nell’ anno 1688 rappresentare pomposamente nella sua corte una tragi-commedia intitolata la regina tradita, scritta da un tale Z’obia Sononi ad insinuazione del prin- cipe medesimo. Quest’opera ché ora ho sott’ occhio, è mi- sta di ampollosi discorsi e di bassissime indecenti facezie: è scritta in prosa, ma ogni scena è terminata con due 0 quattro versi rimati in cui spicca tutto lo spirito concet- toso e puerile dei seicentisti scrittori; i seguenti chiudetto l’atto secondo. Maladetta perfidia, e che non fai? : Tu rivolgi negli odii anche gli amori, E avvelenando il coniugale affetto , Cangi il talamo stesso in cataletto. Questo depravato gusto ( così il Goldoni nelle sue memorie) 0n era ancora estirpato nel 1720, ed in pro- va di ciò referisce il principio di un prologo che glifu fatto recitare da fanciullo sopra un teatro di dilettanti, in cui le iperboli e le antitesi erano, come egli osserva, sosti- tuite al senso comune. . Ma questo fanciullo stesso dissipò fatto adulto il fal- so gusto e la ignoranza che ingombravano i nostri tea- tri, ed abbenchè in Venezia, in Bologna ed altrove si lagnasse il pubblico di veder quasi proscritte le masche- re; abbenchè si deplorassero da alcuni le commedie a soggetto , che egli bandite aveva dal palco , proseguì ani- moso la ideata riforma, e la condusse quasi a buon fine. Intanto Maffei riproduceva per mezzo delle stampe, ed anche sul teatro le omai derelitte tragedie classiche del cinquecento, onde richiamare gl’italiani sul retto sentiero che poi egli stesso con tanta gloria precorse: ed Alfieri in- 187 dirizzando la tragedia a più severo e nobile scopo, fu gran- de perchè non ascoltando che il proprio genio sdegnò di porsi sulle orme dei predecessori, e senza consultare le italia- ne platee, scrisse le sue tragedie piuttsosto pei posteti iche pe’ contemporanei, non dubitando dell’ effetto che avreb- bero sortito alla recita‘, quando il buon gusto ed il for- te sentire fossero rinati fra noi, siccome rinascono ; e gli appplausi che riscuotano ovunque le sue tragedie, ne fan- no ampia fede. Ed anzi Alfieri stesso ha segnato la via che batter si deve per migliorare e perfezionare il nostro teatro, e i di lui ammaestramenti stanno in aperta opposizione con quelli del moderno compilatore di repertori italiani . Vuol questi in sostanza, che i comici si adattino alla fan- tasia del pubblico , e che gli autori si pieghino alle in- clinazioni e alle vedute dei comici . Alfieri in vece vo- leva che gli ‘autori dirigessero i commedianti , e che gli uni e gli altri educassero il pubblico. « Per far nascere teatro in Italia ( egli diceva ) vorrebbero esser prima au- tori tragici e comici; — poi attori; — poi spettatori. — ( Parere sull’ arte comica in Italia ). ‘Ho ragionato fin qui delle principali condizioni, che a parer mio si richiedono per la formazione di un ottimo repertorio teatrale italiano. — Or fino a qual segno le raccolte e i repertori recenti corrispondano all’uopo, ed in qual guisa possa venir supplito al lor difetto; da quali pe- ricoli dobbiamo guardarci per non ricadere nella barba- rie; — come lo studio de’ romantici possa riescir dan- noso, — e come utile; — e quali progressi far possa an - cora in Italia la letteratura drammatica; — questi sono gli oggetti, che mi riserbo a discutere nel successivo ar= ticolo . A. G. C. 188 i I. E R. ACCADEMIA DEI GEORGOFILI . Adunanza ordinaria del dì 12 luglio 1823. Il sig. Dott. Chiarenti trattò della cultura delle patate , mo- strando che se l’attual basso prezzo delle granaglie scema l’in- teresse che in anni meno felici ispiravano come nutrimento dell’uo- mo, possono sempre offrire molto vantaggio per nutrire ed in- grassare gli animali utili, e specialmente i maiali. Parlò quindi della lupinella , rallegrandosi di vedere come‘da alcuni anni se ne sia presso di noi estesa la coltura , sebbene non tanto quanto potrebbe esserlo, e ciò , a parer suo, per la difficoltà che il suo fusto più grosso e le sue foglie più sugose che nel fieno comune oppongono al suo disseccamento, pendente il quale, e sopraggiungendo le piog- gie, è soggetta ad alterarsi. AI quale inconveniente insegnò ad ov- Viare con astenersi da rivoltarla. Il sig. Dott. Calamandrei che altre volte aveva comunicate all'accademia le sue osservazioni iutorno al governo delle api, c fattole conoscere un alveare di nuova costruzione da sè adottato, rispose ad alcune obiezioni affacciate da altri contro il suo sistema, Il sig. Dott. Passerini, dopo aver fatto sentire di quanta im- portanza sia lo studiare le varietà che le specie vegetabili ed animali presentano, per farne ‘anche utili applicazioni all’ agricol- tura e ad altre arti, informò V accademia dei bei risultati che ha somministrato anche in quest’anno ai signori fratelli Lambruschini la loro bigaltiera condotta secondo gl’insegnamenti del Conte Dan- dolo, non senza qualche aggiunta e perfezionamento dovuto loro, e descrisse quattro varietà di bachi da seta, due delle quali ot- tenute dagli stessi signori Lambruschini per ninni ni > di femmine e maschi diversi. Finalmente il sig. Dott. Tartini, come relatore d’ una com- missione speciale di ciò incaricata , lesse un rappbrto in cui.si so- disfaceva alle domande indirizzate all’ accademia dall’agente della tenuta del Suese intorno ad un suo progetto di piantarvi a soste- gno delle viti le false acacie, in vece degli aceri, che non vi pro- sperano. La commissione cominciava*da suggerire alcune precau- zioni e diligenze , coll’ aiuto delle quali si potrebbe tentare di sale vare gli aceri. Produceva poi molte e valide ragioni le quali dimo- strano non conveniente la destinazione delle false acacie a vivere accanto alle viti per sostenerle , e finiva con proporre la piantazione d’una polina delle stesse acacie, che somministrasse alla temuta i pali occorrenti. == ’ Wi 189 Seduta ordinaria del dì 17 agosto. Il sig. Dott. Betti trattò in una sua erudita memoria della rabbia delle pecore. Appoggiandosi a varie diligenti osservazionj proprie ed altrui, concluse che gli animali erbivori, sebbene sog- getti a contrarre-la rabbia ed a perirne, pure non trasmettono il veleno rabbioso ai bruti delle altre specie , nè per l’inoculazione della loro bava o d’altre parti liquide o solide, nè in altro modo ; come nemmeno comunicano la rabbia all’uomo perchè questi ab - bia fatto uso delle loro carni come alimento. La qual’ ultima con- conclusione, se dee rassicurare chi per accidente siasi cibato di tali carni, non può per altro bastare ad autorizzarne il commer- cio, dovendo aversi la salute del popolo come legge suprema. Il sig. Prof. Taddei dopo avere esposte molte curiose ed im- portanti notizie intorno alla storia naturale dei Lama, degli A/paco, e delle Zigogne dimostrò contro l’opinione d’ altri scrittori ch® queste ‘pregevoli specie d’animali potrebbero naturalizzarsi in molti paesi d’ Europa con loro notabile profitto. Fece quindi osservare alcune modificazioni ed aggiunte da lui apposte all’apparato di Woulf per le distillazioni chimico-pneumatiche, mediante le quali i vasi componenti l'apparato possono essere empiti e votati qua- lunque numero di volte , senza che l'apparato sia smontato o scom- posto , servendo così a più operazioni successive ed anche diverse. Il sig. Prof. Gazzeri comunicò i risultati d’alcune ricerche ana- litiche da lui recentemente fatte su i vini, nella mira di scuoprirvi le materie artificialmente aggiuntevi , specialmente saline. L'azione d’ alcuni reagenti chimici, e specialmente del muriato di barite e del nitrato d’argento, avendogli offerto anche nei vini più puri e meno sospetti i fenomeni stessi che producono in un vino conte- nente il sal comune e l’allume, fu portato a riconoscere come naturalmente esistenti in ogni vino d’ uva (sebbene in piccola quan- tità) due sali, cioè il solfato di potassa, ed il muriato di soda , e forse anche di potassa. Questa cognizione , anzichè togliere alla scienza i mezzi di riconoscere la frode, ne rende anzi più certo il giudizio, giacchè dovranno dichiararsi come aggiunti artificial- mente al vino solo quei sali che siano diversi in qualità o supe- riori in quantità a quelli naturalmente contenutivi. In fine il sig. Dott. Del Greco, dopo avere indicate le prin- ‘cipali cause ‘che influiscono a render comuni presso di noi le ot- ‘talmie: spesso seguitate da cecità , scese a trattare dei diversi metodi imaginati e posti in pratica per l’ istruzione dei ciechi, e dei mezzi per i quali questa classe d’individui può esser resa meno grave ed anche utile alla società. G. G. i f ; 190 : ; i Corrispondenza relativa ai ParacranpINI. Sig. Direttore. Ho veduto nell’ Antologia la lettera che il sigé X Z vi ha indirizzato sul proposito del mio discorso intorno alla conducibili- tà della paglia ed ai paragrandini. L’ interesse dell’ argomento , e la brama di non venire tacciato d'aver preteso con teorie astratte di distruggere la forza dei fatti, e d’avere prodotte inu- tilmente esperienze che non servano a schiarire la quartine: mi hanno determinato a dirigervi questi versi. Sebbene persuaso della poco couducibilità della paglia , non ho voluto partire unicamente da alcune cognite sul sogget- to del paragrandine, ‘e perciò instituii parecchie esperienze., per esaminar di qual valore fossero le deduzioni che il sig. Lapostol» le trasse da alcuni esperimenti che non poco imponevano. Nessuno ha giammai preteso negare un fatto perchè si ren- de ivintelligibile od incompatibile colle dominanti dottrine , ma poichè il sig. Lapostolle ha creduto di avere scoperta nella paglia una somma deferenza, ed ha supposto che questa possa a grandi distanze e senza strepito scaricare i corpi elettrizzati , perciò oc- cupati di queste ricerche , riconoscemmo che le asserte proprie- tà della paglia non resultando dall’ analisi dei fatti , ancora l’ap- plicazione di questi principi per costruire dei paragrandini - di corda di paglia, diveniva inutile per la. fallacia dei dati sui qua+ li fondavasi. Ciò non pertanto se ne fanno alcune applicazioni , si sotto- pongono queste ad osservazioni che per ora si considerano dagli stessi fautori come scarse ed insufficienti. Quelle poi coronate da un favorevole resultato si riducono ad ‘argomenti. negativi , mentre da un altro lato alcuni fatti di luoghi muniti di paragran- dini, e dalla grandine percossi, tendono a mostrarci con successi ositivi, l’inutilità di questi mezzi. E ben da ognuno si conosce il diverso peso di questi argo- menti, e sarebbe veramente strano che principi erronei avessero data origine ad utili ritrovati. In conseguenza dell’esposto, l’uso dei paragrandini lungi dal servire per una deduzione favorevo- le alla scoperta coi risultati che se ne ottennero, si mostrerebbe al contrario, coi fatti che 1’ hanno susseguito, inutile, e talora dan- noso . Perciò ci siamo pure diretti all’ esame della dottrina dalla quale si diparti, come più e meglio soggetta all’ osservazione ed all’ esperienza. 191 Se ad onta poi di tutto l’ esposto si volesse adottare l’uso dei paragrandini , abbiamo già noi suggerito nel nostro. discor» so di qual natura debbano essere le agrarie osservazioni per constatarne in fatto l’utilità; e I’ anonimo ci ha reso | onore di parafrasare queste nostre .vedute nella sua lettera. Fin qui tutti i seguaci del Lapostolle basarono la loro teoria sull’ effica. cia del paragrandine nella supposta massima deferenza della pa- glia, onde è che per mera supposizione abbiamo accordato, che se si facesse uso per la loro costruzione della più deferente sostan- za, l'avremmo creduta egualmente insufficiente, Nell’ipotesi poi che le nuvole temporalesche potessero risentirne l’ influenza, abbia= mo giudicato che talvolta sarebbero i conduttori divenuti perni- ciosi . Ma l’anonimo che a voi si dirige, concordando sulle vere qualità elettriche della paglia, ne crede vantaggiosa l’applicazione, appunto per la sua imperfetta conducibilità. In questo modo la teoria concorrendo a dimostrarne l’ efficacia, saremmo. inco- raggiati ad adottarne l’uso, intraprendendo così l’ applicazio- ne i veri principi. E poichè è l’amore della scienza e non un desiderio di replica quello che ci determina ad indirizzarvi questa lettera, o signore , perciò omettendo qualunque personale difesa che non le apparttenga , passeremo sopra alcune ma pochissime incongruenze del sig. X Z, e ci limiteremo ad esaminare unica- mente quanto:i suoi ragionamenti siano fondati, relativamente al- la nuova maniera colla quale concepisce l’azione dei paragran- dini di paglia. Contemplando l’anonimo il caso in cui /a grandine comin- ci allora a formarsi, il paragrandine di paglia attesa la sua piccola conducibilità, non iscaricherà totalmente di elettricità la nube inferiore, ma a poco a poco ed in parte solamente; e perciò restando sempre alla nube una forza capace di reg- gere per aria i piccoli granelli già formatisi, essi non cadran- no, ma diminuendo la .tensione elettrica delle nubi salteranno meno , e meno ingrosseranno, Con questa supposizione egli parte dall’ipotesi che le nubi ri- sentano l’ influenza delle corde di paglia, cosa che apparisce sommariamente difficile, per non dire impossibile, servendosi spe- ‘cialmente di pessimi conduttori, e trattandosi di nuvole alta- mente collocate. . ‘Inoltre essendo la paglia un semiconduttore , sarebbe sem- pre preferibile che un perfetto conduttore colla sua maggiore attività potesse scaricare e togliere tutta 1’ elettricità alle nubi, onde così i piccoli globetti neppure si formassero; o formatosi il loro ‘nucleo , questi per la sottrazione dell’elettricisimo , cadendo a terra in istrati di primitiva formazione , non producessero per i resultati dell’ agricoltura, effetti diversi da quelli della pioggia. della grandine per ottenere la. conversione in pioggia benefica e ristoratrice di quelle nubi non poco alle campagne vicine. 192 TO Ce n Ma finora si era preteso e voluto impedire la produzione ili Rifletteremo che in quest’ altra supposizione ancora sì am- mette la possibile azione ed influenza del paragrandine sulle nubi, e partendo da questo dato sarebbe preferibile che non esistesse- ro i paragrandini, perciocchè ‘non scaricando essi l’elettricità che per aria sostiene i già formati globetti , non darebbesi occasione alla loro caduta nei luoghi preservati. L° imperfetta. scarica poi delle nubi temporalesche col mezzo della paglia, non potrà im- pedire che in parte, non mai ia totalità, 1’ ingrossamento della grandine. Approssimandosi inoltre una nuvola colla. grandine già formata, e la paglia togliendole l’elettricità libera, sebbene in un tempo un poco più lungo di quello che . avrebbe impiegato un conduttore perfetto, tutta la grandine vi dovrebbe egualmente cadere. Ed in ultimo sarebbe un gran principio di filantropia quello di ricevere un poco di grandine nel proprio luogo, e porsi spesso mel caso di tutta riceverla bella e grossa, se la nube stanziasse qualche tempo nel sito paragrandinato , ad oggetto di preservarne il campo del vicino, idea unicamente realizzabile nel caso di co- munanzà e di universalità di beni. Ma non ci dilunghiamo più iu ragionamenti ed in ipotesi. ‘Si ripete adunque l’ efficacia della paglia dalla di lci semidefe- ‘renza, e sebbene non sappiamo facilmente comprendere come an- che 4 priori se ne possa dimostrare l’utilità, pure se ripetute ed esatte osservazioni ce la dimostrassero, se ne dovrebbe intro- durre l’uso, sapendosi bene che le teorie. si devono sottoporre ai fatti, e non questi a quelle. Se coi principi dell’ anonimo si ragionasse opportunamente sul soggetto, vorrei dimandargli se nelle terre alberate , cogli alberi che s’ inalzano rino: altrettanti imperfetti conduttori, la grandine cada più difficilmente, e piombi più piccola ed in minor quantità, che nelle terre seminate a piante erbacie ed annue. Domanderei perchè gli uliveti sieno.così soggetti a questa meteora sebbene situati in. colline , ove per la loro elevazione approssiman- LS 193 dosi di più alle nubi, queste sono in caso di maggiormente ri- sentirne l’influenza. Perchè nelle epoche delle messi, la gran- “ dine cade nei campi del grano, la cui paglia sebbene sorga meno dei paragrandini artificiali, presenta nov ostante una piccola e trascurabile differenza relativamente alla grandissima distanza frapposta fra questi istrumenti alti alcune braccia di più, e le nu- vole soprastanti. Se non si potrà derdinna risposta soddisfacente a queste ri- cerche, non vaglia il dire, che gli alberi e la paglia, meutre vegetano , essendo conduttori migliori della paglia secca, non eser- citano aféndi un’ eguale azione: giacchè osserveremo che i pira- grandini colla pioggia e coll’umidità atmosferica s'imbevono di prin- cipi acquosi , e perchè apponendo alla loro superiore estremità una punta metallica , acquistano una attitudine a scaricare l’elettri- cismo in maggior copia e da maggiori distanze; cosìcchè i para- grandini di Tholard si riducono necessariamente in condizioni eguali a quelle del grano e degli alberi. Quantunque il ragionamento poco imperi sulle cose di fatto , si sarebbe accordata una maggior importanza alle asserte osser- vazioni dei vantaggi ritratti dall’ uso dei paragrandini, se una dot- trina erronea, ed una proprietà insussistente non ne avesse pre- ceduto l’ applicazione ; e di nuovo ripetiamo che parrebbe assai strano che le visioni d’ un fisico avessero prodotto dei veri e ri- gorosi resultati nelle sue applicazioni immediate. Si auguri pure questa fortuna al signor Lapostolle, giacchè candidamente glie la desideriamo. l Comunque si pensi che operino le corde di paglia, non mi sembra che le osservazioni agrarie fin ora citate possano dimostrar- ne l’utilità , tanto più quando le teorie vi si oppongono ; e per tralasciare ogni altro uiteriore riflesso ci faremo scudo dell’ auto- rità del celebre Volta , che in una lettera diretta al sig. Mar- zari presidente dell’ accademia di Treviso, concorda sull’ineflica- cia delle corde di paglia, e sulla preferenza da doversi accordare (in molti cast) ai conduttori metallici. È vero che il Volta non ha immaginato che l’attività delle corde di paglia si Lao dall’essere appunto queste cattivi con- duttori. Un'idea sfuggita al Volta può essersi benìssimo presentata al sig. X Z, e nel caso che il primo informato dei principi del- l’anonimo ne abbracciasse l'opinione, oseremmo fare al gran fisico quelle stesse riflessioni che presentiamo al sig. X Z. T. XI. Agosto 13 194 Questo è quanto ho creduto dovervi esporre per il solo in-, teresse del soggetto. Aggradite i sentimenti di stima del vostro servo ‘ BASEVI. Livorno li 4. Agosto 1823.» Nota del Redattore — Crediamo di non fare cosa discara ai lettori pubblicando la lettera cui si allude. Stimatissimo signore. Ho ricevuto il pregiatissimo di lei foglio, e la ringrazio delle lusinghiere espressioni colle quali mi onora. Riguardo alla quistione, di cui mi ricerca, relativa ai parag Farai io le dirò che non mi sono occupato di essi, perchè l’ avanzata mia età richiede non interrotto riposo. Convengo però pienamente nella di lei opinione di rigettare i paragrandini del farmacista Lapostolle, il quale accorda alla paglia un potere che non ha. Per rispetto a quelli di Tholard, quanto allo scopo di tutelare i campi, non mi sembra:che vi sia un’ essenziale dif- ferenza dai primi in altro non variando da essi, che nell'aver una punta metallica invece di quella di legno proposta dallo stesso Lapostolle, e nel mezzo alla corda di paglia alcuni fili di lino crudo, ‘conduttore imperfettissimo. Ove si obbiettasse che la punta metallica attrae l’ elettrico accumulato nelle nubi, e quindi lo scarica nel suolo per mezzo della corda di paglia; ri- sponderei , che il fluido elettrico delle nubi è in troppa distanza per provarne attrazione sensibile , la quale poi potrebb’ essere efficace allora soltanto che alla punta fosse unito un buon con- duttore metallico terminante nel suolo, e non imperfettissimo di paglia e di lino. Da questi brevi cenni parmi poter conchiudere che nessun sensibile vantaggio arrecar ponno i paragrandini di Tholard, o certamente minore di quello che danno le piante verdi: ed in ogni caso si dovrebbero di gran lunga preferire i metallici, come ella ottimamente pensa: sebbene anche da questi ultimi ben poca influenza sulle nubi si possa sperare, special- mente innalzandoli in pianura , attesa la gran distanza dalla terra alle nubi stesse, distanza che da questi conduttori di poche braccia non è sensibilmente diminuita. La prego di scusarmi, se le ho esposto francamente la mie opinione, e di credermi qual mi pregio .di essere. Como, 9 luglio del 1823. Umtlissi. devotiss. servitore, C. Alessandro Volta. 195 Errori corsi nella stampa del discorso del sig. Dottor Basevi su i paragrandini, inserito nel Vol. X. A pag. 133 — Errori leggasi pag. 143. l. 13. Ricevendo Ponendo 146. — 6. offriva osserva 148. —_ DA stati strati sa 1. dopo ;, quando o per essersi colà fer- la grandine 2a non esser caduta ,, mata, o perchè tale si aggiunga non era la di lei di- scesa? DA 30. lunae lanae Signor Direttore. li 5. Agosto 1823. Il vostro giornale essendo stato successivamente sollecito di riportare le-varie opinioni di diversi fisici sull’efficacia dei para- grandini, io spero che non vorrete negarvi un posto a questa mia lettera. Molti fogli pubblici hanno annunziata l’ opinione del ce- lebre Volta sui paragrandini di Tholard, e questo chiarissimo elet- tricista italiano la confermò sfavorevole in una lettera che con-. tro la sua volontà. fu pubblicata. Persuaso che vorrete. com- piacermi, e mosso dalla brama di. cooperare al disinganno di co- loro che trovan buone quelle sole novità , le quali promettono vantaggio al loro materiale interesse, io mi permetterò di esporre alcune riflessioni sull’ azione funesta che aver possono gli apparati di Tholard , allorchè vogliasi conceder loro qualche attitudine a produrre un effetto, lo che negherei volentieri col Volta. Né poi il vostro eccellente corrispondente il sig. XZ si scandalizzi meco a prima giunta, poichè gli protesto che io pure riguardando la fisica come la scienza dei fatti, non mi occuperei punto di teoria quando l’efficacia dei conduttori proposti fosse un fatto, lo che mon è nè punto nè poco dimostrato. Quelle grandi città le quali sono, per così dire uno selva. d’ottimi conduttori elettrici, sono co- munemente grandinate : e giacchè il sig. XZ par che segua volen- | tieri lateoria Voltiana risguardante la formazione della gragnuola, io starò a’ suoi precetti medesimi, e con l’ appoggio di essi esporrò il modo mio di vedere, prescindendo dal riferire come si formi il ghiaccio in regioni e tempi sì caldi, e solo parlerò della causa che lo tiene sospeso in aria e lo ingrossa, non essendo removibile la prima .causa coi deferenti dell’ elettricità, non dipendendo da questa. Due nubi soprapposte , contrariamente elettrizzate , attraggono 196 e quindi respingono dei' fiocchetti di neve; e questo veloce e ripe- tuto passaggio che dessi fanno dall’ una all'altra nube, gli trasfor- ma in gragnuola mercè la sovrapposizione di più strati d’acqua congelata. Questo giuoco funesto continua sinchè il peso, vincendo per così dire 1 incanto che tiene sospesi quei grani, gli obbliga a cadere sulla superficie del nostro suolo ; finchè la costituzione elet- trica di quelle nubi non venga cambiata o non ritorni all’equilibrio» lo che spesso accade col mezzo di una scarica repentina, come lo di- mostra la cadata della gragnuola, preceduta spessissimo da un colpo di fulmine. Mentre nell’atmosfera sono quelle nubi elettri- camente costituite come si è detto, la superficie del nostro suolo ad esse sottoposta richiama ora la nostra attenzione. Se volsi ammettere che i conduttori di Tholard possano aver qualche azione sulle nubi procellose, bisognerà pure accordare che la saperficie del suolo, ben poche braccia più bassa delle loro punte, dee trovarsi pur essa nella sfera d’ azione delle nubi stesse, e viceversa. In tale stato di cose se debbono i conduttori agire, bi- sognerà che la forza elettrica sia prevalente nelle nubi, che il nostro suolo trovisi in uno stato opposto di elettricità , e che tacitamente venga ristabilito l'equilibrio dai conduttori acuminati. Se il suolo si trovasse nel medesimo stato elettrico della nube ad esso più vicina, domando come mai potranno i conduttori scaricar la nube, mentre tra il suolo e la nube non vi è attrazione ma repulsione, appunto come fra i due strati di nuvole? E se per caso due nubi soprapposte egualmente elettrizzate, e però d’ indole innocente , si trovassero a passar sopra un punto della terra ar- mata di conduttori la di cui elettricità prevalente forzasse la nu- vola più bassa a passare allo stato elettrico opposto a quello che prima aveva (caso non molto remoto), domando ancora se non fosse questa una circostanza che favorirebbe e determinerebbe la formazione della gragnuola? So che lo stesso può accadere senza ì conduttori che armino la superficie del suolo, ma intendo solo asserire che quando abbiano un’azione utile nel primo caso , non possono non averne una funesta nel secondo. Ecco perchè -quel- l’ istramento , che come difesa dal falmine è sempre più o meno. efficace a seconda della natura più o meno conduttrice della sua sostanza, può esser pregiudicevole come difesa dalla gragnuola. Nel primo caso, o sia la terra che influisca sulle nubi, o queste su quella nulla interessa, purchè il disequilibrio si tolga tacita- mente dalla nostra atmosfera , nulla importando che aumenti forse il numero dei fulmini è degli altri fenomeni elettrici fra i diversi gruppi e strati di nuvole. 197 Prima di lasciar quest’ argomento mi piace ancora di mostrare un caso più' comune, nel-quale i conduttori di Tholard ( caso che agiscano ) possono riuscir dannosi. Non tutto il suolo può cuoprirsi di tali strumenti ; perchè il possidente è trascurato, o non vi ha interesse a farlo; perchè non teme gli effetti della grandine sopra un suolo sterile o puramente a pastura; perchè non è che estrema - mente raro il caso che la grandine percuota quei luoghi; o perché finalmente è ciò impossibile , come sarebbe per esempio sul mare, Da ciò mi pare che assai più estesa sarà sempre la superficie dei luoghi disarmati, che quella dei luoghi muniti dei pretesi paragran- dini. In tal caso, se la procella si forma in quelle regioni, e dal vento è guidata verso i punti guarniti di conduttori, basterà l’incontro di questi, seagiscono, a diminuirne le forze elettriche, e a determina - re immediatamente la caduta della gragnuola, tenendo per fermo che una volta formata non possa questa dileguarsi e svanire: ed in tal caso il diligente proprietario sarebbe punito della sua premura. Dunque i conduttori possono in pochi casi impedire la formazione della SIA ma possono anche occasionarne la forinazione e molto più la discesa sopra di loro, se il vento dirige nella loro pretesa influenza le nubi che ne sono ripiene. Ciò si vede spesso accadere sotto l’inftuenza dei monti, che son magnifici e naturali paragrandini. Le burrasche nate sul mare e sulla pianura scari- . cano bene spesso sulle alture di quelli i fulmini e la gragnuola, perchè passando sopra di loro , risentono l’azione delle loro punte. Finalmente nessuno , cred’io , vorrà negare che un albero non agisca più dei paragrandini di 'Tholard, ma quand’ anche agisse per metà ed anche meno, non dovrebbe egli il numero grande di quelli che cuoprono da per tutto le nostre campagne, o ile estesissime boscaglie d’alto fusto bastare all’effetto? non dovreb- bero almeno esser sempre illese le grandi abetine? eppure non è ‘così, e nessun fatto ha per ora aperto all’ arte la via di preser- vare i nostri campi da una meteora, che in pochi istanti distrug gge le fatiche e le speranze di un'anno. $ \ Uno de’ vostri associati. Signor Direttore i } a dì 11 Agosto 1823 Il pubblico dee certamente esservi grato per la premura che vi siete data di fargli conoscere col mezzo del vostro giornale mol- te delle cose dette fin qui sui paragrandini, dei quali la scoperta 198 ci hi: non ha guari annunziata con straordinaria solennità. Delle quali cose alcune in verità tendevano a dimostrar l’ inefficacia, di questi nuovi ripari da una meteora devastatrice, ma altre ne. han sostenuto con tal franchezza il buon effetto, che sembrami doversi dimostrare la necessità nella quale si troverebbe di ri- nunziare ai principi men contrastati della fisica, chiunque volesse prestar fede a quelle asserzioni. Non vi farà per questo mera-. viglia , se ad onta dell’ osservazione fatta dai contadini del sig. Conte Ottolini, i quali vider la grandine sa/te/lare,. senza cadervi attorno, su di un podere armato di paragrandini, e se ad onta dello stupore nel quale per sì strano fenomeno quei contadini fur tro- vati dalla della dama che andava da Vicenza a Milano presso Gorgonzola (yed. Ant. Vol. X. C. pag. 151. ) io mi permetterò, di rammentarvi alcune esperienze del rinomatissimo Volta, e di ri- chiamarvi poi ad alcune riflessioni, a parer, mio giuste, e bastanti a dimostrar l'errore dei fautori della nuova scoperta, Un apparato nel quale si formino vapori o altri flluidi ela- stici, si elettrizza sempre negativamente. Un condensatore messo in comunicazione con un vaso isolato nel quale bolla dell’acqua, o con un recipiente qualunque pur isolato, dal quale si sviluppi un fluido aeriforme, dà segni d’ elettricità negativa. Un condut- tore isolato esposto ad una corrente di vapore acquoso che si vada condensando sopra di esso, si trova sempre carico di elet- tricità positiva. Questi fatti dimostrano che i fluidi passando allo stato aeriforme, assorbiscono l’elettricismo come il calorico, e che i fluidi medesimi condensandosi, abbandonano l’uno e l’altro. Ora, affinchè la grandine si formi, fa d’ uopo che qualsivoglia. causa, anche indipendente dallo stato elettrico delle nuvole, determini alla loro superficie una copiosa evaporazione, la quale dando luo- go ad un sufficiente raffreddamento, faccia sì che si congeli l’acqua contenuta nell’interno delle nuvole istesse. Ciò accadendo, le nuvole come ogni altro corpo isolato daran segni d'’elettricità, e sarà que- sta di uno o di un altro genere, secondo che l’evaporazione o la congelazione predomina. E come è ben naturale che alternati- vamente abbia luogo in maggior ‘quantità la formazione dei va- pori, o quella del ghiaccio, così accaderà che frequenti e rapidi passaggi d' elettricità dallo stato positivo al negativo e viceversa si osserveranno nelle nuvole che scarican poi la grandine, e tali passaggi appunto osservò il Volta, ed enumerò fino a quattordici per minuto. Credo avervi, sebbene in poche parole, dimostrato che i fenomeni elettrici son conseguenze delle cause istesse che pro- ducon la grandine, e che in luogo di formarla, si manifestan con lei. f 199 Se danque non è lo stato elettrico dell'atmosfera la causa che dà luogo alla formazione della grandine, ma piuttosto l’azione dei raggi solari, la rarità e siccità dell’aria sovrastante alle nu- vole, la disposizione dei vapori vessicolari a ridursi rapidamente perfetti, il vento, tutto ciò in somma che può promuovere un’istan- tanea e copiosa evaporazione, la congelazione dell’ acqua nelle nuvole si farebbe anche allorchè si trovassero in grandissima vi- cinanza di esse degli ottimi scaricatori, invece degli imperfetti e lontanissimi così detti paragrandini. Nè questi conduttori potreb- bero impedire la formazione della grandine più di quello che po- trebbe impedire la condensazione del vapore acquoso una punta. metallica posta in vicinanza del conduttore isolato esposto ad una corrente di tal vapore, del quale ho parlato in, principio. Poichè, accordando anche ai paragrandini di Tholard la facoltà d’indurre delle alterazioni nello stato elettrico delle nuvole, io ho detto che la grandine si formerebbe, mi dispenserè dal far. 0s- servare che la distanza di essi dalle nuvole, e la pocaf,deferenza dei corpi dei quali son composti, dan molto luogo a dubitare se debba loro accordarsi una tal facoltà. Comunque sia di ciò, ho il dispiacere di esser tuttora convinto che il fulmine è la sola meteora della quale l'uomo possa, se non impedire, almeno render meno, frequenti i tristi effetti. Credetemi pieno di sincera stima. Uno de’ vostri associati. Lettera del sig. M.*** collaboratore, al sig. Vieussevx diret- tore dell’ Antologia sopra un’ opera del fu conte Verri, che - sta per pubblicarsi. Milano 25 luglio. Una corsa fin presso a Spluga, la cui magnifica strada (1) me- rita veramente d’ essere visitata, e un troppo lungo diporto per le amene rive del Lario mi hanno fatto venire in mano un pò tardo, col trentesimo numero della vostra Antologia, l’ottan- / (1) Il suo punto più elevato , che segna il confine fra il territorio lom- bardoveneto e lo svizzero, è a 2117 metri sopra il livello del mare. Da Chia- venna , ov" essa incomincia , fino a questo punto se ne contano 32,000. Non manca al suo compimento che una galleria , la quale fra tre anni sarà fatta , e oltrepasserà probabilmente in lunghezza i 440 metri. © VWSSSATE 200 tesimonono della nostra Biblioteca italiana. In questo ( voi l’avre- te veduto prima di me ) sono due. articoli importantissimi sui metodi nuovi di fare i vini o, come alcuni enologi, non. so con quanta eleganza s oggi amano dire, ‘di vinificazione. Nel primo di essi vien recato un lungo passo latino, con cui il sig. Griset- ti, autore d’ uno di tali nietoai | vorrebbe provare che madami- gella Gervais avesse tolta l’idea del suo condensatore famoso dall’ opera di un vecchio scrittore italiano, quasi posto in dimentican= za . Ma egli, nemmeno pregato , lasciò indursi a dire il titolo dell’ opera o a svelare il nome dello scrittore ; bizzarrìa ‘che l’ estensore dell’ articolo non sa spiegare, e di cui sembra che un poco s' inquieti. Io veramente non sono quello de’ suoi lettori che abbia /* agio di deludere il misterioso silenzio del signor Grisetti; ma penso di poter mettere altri, che se ne invoglino sulla via di farlo. Il testo recato è intorno al far l’ acquavite senza fuoco ; e vi si riconosce la penna d’ un latinista non rozzo, che si mostra ad un tempo e grecista e uomo erudito. In verità, per cogliere nel segno, parmi averne più del bisogno. È noto che il primo scrit- tore agronomico, il quale abbia paris d’acquavite, fu quell’An- drea Baccio da S. Elpidio nella Marca Fermana (alcuni, secon- do Mazzuchelli , il fanno d’ origine milanese ), ch’ ebbe in Roma cattedra di botanica e (testimonio il Marini ) titolo d’ archiatro poutificio sotto Sisto V. Le poche o molte parole da lui fatte su quel liquore, che da bravo medico ei biasimava meritamente co- me veleno, è assai probabile che si trovino nella sua Storia na- turale de’ vini (2); opera, per ciò che si asserisce da’ filologi, assai dotta e curiosa, in cui egli tende a mostrare che i vini più rinomati degli antichi non erano che liquori densi o. sirop- pi da regger male a confronto, non vi dirò col madera o il sciampagna, ma col nibiolo delle colline piemontesi o col cla- retto delle toscane. Me ne dispiace per le cene di Lucullo e di Trimalcione ; chè non voglio salire fino ai conviti d’ Assuero o di Sardanapalo; ma, senz’ essere gran gustaio del dolce umor che dalla vite cola, me ne rallegro moltissimo. per noi, che a modestissimo pranzetto possiamo con poca spesa bere più sapori- tamente e più salubremente che non quegli antichi terrarum do- mini coronati e non coronati. E beremo anche meglio e a più buon mercato quind’ innan- zi, se tanti studi degli oltramontani e de’ nostri intorno all’arte (2) De naturali Vinorum Historia , Romae 1596, in fol. d9I 5) 201 di fare i vini riescano a perfezionarla, come non pochi esperi- menti felici ne danno speranza. Voi conoscete i libri, che in que- sti ultimi anni si sono scritti sopra tale argomento ; e la Biblio- ca italiana in questo suo quaderno , che dà occasione a queste inie poche righe , ci ricorda i più importanti. Or io ve ne au- munzierò un nuovo, di cui deve qui cominciarsi fra pochi giorni la stampa , non senza qualche mia cura, e, come interdirate $ non senza molti miei sospiri. Esso è un ultimo frutto degli studi agrari del benemerito conte Carlo Verri (3) , la cui morte av- venuta ultimamente in Verona fu annunciata pur dianzi con pa- role di ben giusto rammarico dalla nostra Gazzetta milanese. L° egregio uomo ; all'atto di partire per l’acque di Recoaro, da cui si temeva pur troppo che hon sarebbe tornato , e a cui neppur giunse, volle affidarmelo , perchè dalla sua assenza non ne ve- nisse ritardata la pubblicazione oltre il tempo delle nostre pri- me vendemmie , che quest’ anno veramente saranno un po’ tarde. Troverete nel libro opinioni non del tutto conformi a quelle che sembrano oggi più accarezzate dagli enologi; ma ammirerete la prudenza dello. scrittore , il quale non resiste alcun poco alla se- duzione delle teorie, che per attendere meglio al confronto dii fatti. Vi accorgerete forse di qualche soverchia predilezione per la pratica dell’ arte agraria in confronto della teorica ; ma in- sieme vedrete come l’ autore sappia coneiliarle ; e far talvol- ta. servire ]’ anteriorità dell’ una a risalto dell’ eccellenza del- l’ altra. Così, a cagion d’ esempio, dall’ aversi colle medesi- me specie d’ uve e coi metodi medesimi di far vino, in gra- zia delle differenze del terreno, vini così differenti, ei prende ‘ motivo d’ invocare l’ analisi chimica delle qualità di ciascun terreno, onde ben sceglierlo e ben prepararlo alle viti ; la qual parte de’ suoi ragionamenti si riconoscerà da voi, e da chiunque sia uso a riflettere, piena di non comune sagacia . Che se penserete all’ amore de’ suoi concittadini, al desiderio e quasi dissi alla necessità di sempre essere utile, che detta- rono all’ ottimo conte fra le infermità dell’ estrema vecchiezza il libro che vi annunzio ; e da quegli affetti argomenterete l’in- dole del suo animo, potrete intendere quanto abbiamo ragione di deplorar la sua perdita. Essa può sembrare matura per chi non abbia riguardo che agli anni, i quali oltrepassarono l’ ottantesimo ; ma il cuore che (3) Porta per titolo: Dei vini, discorsi quattro di Carlo Verri , per istruzione de’ suoi giovani concittadini. Sarà etampato' dal Silvestri, 202 si compiaceva di questo lungo sopravvivere dell’ ultimo de’ tre Verri illustri, non sa trovarla tale. Io parlerò di lui, quando mi vengano somministrate le memorie che mi abbisognano dal- la cara persona, a cui io era debitore della sua amicizia e che ora è lontana di qui, in una notizia biografica da premettersi al libro. D’ una copia di questo (che nel pensiero dell’ uomo egregio non doveva esser l’ ultima delle sue fatiche ) voi mede- simo sarete presentatore in suo nome alla vostra Accademia. de’Georgofili, di cui egli era socio e a cui, pe’ miei incorag- giamenti, promettendo mandarla , si scusava di non avere mai. offerta nessuna delle sue produzioni , come non abbastanza de- gue dei dotti uomini che la compongono. Tale modestia era in lui sincerissima ; l’ abbelliva le tante doti di mente e di cuo- re che il distinguevano fra quelli che il volgo chiama ‘grandi, e il rendevano oggetto di stima e d’ affezione la più sincera. Vi avrà commosso, leggendo la nostra gazzetta, e insieme vi avrà dato la più giusta idea di un tal uomo quello spontaneo movimento dei suoi contadini, che all’udirne la morte volevano recarsi a Ve- rona , per trasportarne le spoglie a’ suoi poderi , ch’ io chiame- rò la sua bella scuola. d’ agricoltura e di beneficenza, poco oltre di Monza . Quanto io. avrei fatto volentieri compagnia a quei buoni contadini, ben degni dell’ amicizia che |’ egregio signore ebbe per loro vivente , se tanta ne mostrano a lui estinto ! Lon- tano di qui, e non prima avvisato del pericolo in cui egli era della vita, che colpito dalla certezza della sua perdita, io non ho potuto rendergli alcun estremo attestato di amore. Mi ri- mane la speranza di renderlo almeno alla sua. memoria. M. my La Fionda di David, ossia l’ antichità ed autorità dei pun- ti vocali nel testo Ebreo, dimostrata e difesa per il dot» tor Irrorrto RoseLLini Toscano. Bologna 1823 , per le stam- pe del Sassi. Questo libro è un volume in 8.° di 189 pagine , dieci delle quali ne comprendono il frontespizio e la prefazione , settanta- quattro , la storia e la dimostrazione dell’ antichità , autenticità ed autorità dei punti massoretici nel testo ebreo , e le rimanen- 203 ti, la traduzione letterale di alcuni capitoli dei proverbi di Salo- mone , fatta col sistema massoretico , e coll’ originale ebraico a fronte, e da alcune note esplicative poste in fine di ogni ca- pitolo . Il giovane signor Dottore Rosellini, con questo libro, ha da- to al pubblico un bel saggio dei luminosi progressi, che ha già fatti nello studio delle lingue orientali, sotto la dottissima scorta del celebre poliglotta signor Mezzofante ; e continuando di questo passo nella sua carriera, possiamo con tutta sicurezza riprometterci, che avremo in lui un valentissimo professore del- le lingue orientali per |’ università di Pisa . In fatti, questo suo primo lavoro è bene immaginato e ben disposto, e ci sembra scritto con molta dottrina, senza ostentazione, e con tutta quella disinvoltura che si richiede , specialmente nelle materie polemi- co-filologiche , per renderle gradite a chi legge. L’assunto poi, ci pare che vi sia provato con tanta dovizia di autorità , e che la quistione vi sia dibattuta con tanta forza ed evidenza di ragioni, da non desiderarsi di più. Laonde noi ce ne congratu- liamo sinceramente coll’ autore , e lo incoraggiamo a proseguire di buon animo nell’ intrapresa carriera, onde farci gustare spes- so dei frutti delle sue dotte meditazioni. DOMENICO VALERIANI. Fine del Fascicolo XXXII. 3 i aaa hey 9 Rafa di du A nd dA | MA Aa »i RATA ‘oggi: sue Lo noi LAB ve a Ù gp ss % Due Met La i 0 43 OSSERVAZIONI. ©‘ METEOROLOGICHE ‘FATTE NELL’ OSSERVATORIO XIMENIAN.- DELLESCUOLEPIHE DIFIRENZE Alto sopra il livello del mare piedi 205. LUGLIO ‘1823. | | DI Termometro | = Î H Ra IO] e) TR ti i = 2 i |{S' Ora 5 n 3 FS. Stato del cielo | ca 3 o] 60 | (E : gi) G “ 3 5 z lorarn y I 110008 0 poll lin. > ti i 7mat. 28. 1,4 19,1} 173! 72 sci. Ser. rag. Calma | I} mezzog. 26. 1,0} 27)o] 258 Sg Lib. {Ser. rag. .. Ventic. ww sera '28. 1,0 | 20,9] 186 71! |P. Lib.|Sereno. Calma |! (20,0) 1832; 77 IScir. Sereno. Calma gmat. |28. 0,6 | 21,0] 22,2) 58 Maest. ' Ser. con nuv. Calma I 12| mezzog. |28. 04. "| 1rsera |27. tif va 7 mat. |27. TRA 13 mezzog.[27. 11,5 (ri sera |27: r1,6 1 23;2 20,9 72 Lib. Sereno. Ventie. ‘20,2 191] 58 Lev.Sc. Coperto. —Calma | sto. 22,2; 66 Lib. (Ser. con nuv. Ventic. 38,3 200’ 7 Lib. ‘Ser..con neb. Ventic. | | 7 mat. 27. 11,1 O 18,2] 16,0) So ‘0,63! Se.Lev. Nuvolo, Ventic.: Irsera |27. 11,7 18;2 16,2| 85.0 0,04. Scir. Sereniss. Ventic. 17,8 16;0| $i 81 18,2 18,8! 48 rai 16;0. 75] al | 4| mezzog.127. 11,3. 18,8| 184| (69! O. Lib. {Nuvolo. Calma | |, i È mat. |28. O,I ‘mezzog. 28. 0,5 ‘ri sera. (28.. 1,2 {Scir. |Nuvoletti. Ventic | Tram. {Ser. nebb. Ventice | Lev. |Sereniss. Ventic | Sereno. Calma. Ser.. con. nuv. Calma. Sereno. . Ventic. 7inat. . 28. 1 13 6 ‘imezzog. |28. 1 16 |.xr sera [28. 1,2 017,8 15,1] 79 Sc.Lews 18,8] 19,1/11.53 Lib. Lù 20,0 16,0] Gi P. Lib. | 7 mat.. {28. 0,6 18,7! 16,9| 71 Scir. |Sereno. Calma, im} imezzog. ‘27. 11,8 | 49,5 © 20,4| 53 Mib Ser. bellis. . Calma. 11 sera cid so | VAlBPEsti aus "I 18,4) 61) {Lib. Ser. con nuv. Ventie. 1I Sera | 7 mat. jj1Oj mezzog. I Ti sera 7 mat. mezzog. . II sera 7 mat. Il serà 7 mat. mezzog. 1} sera 7 mat. | mezzog. 11 sera | 7 mat. dj mezzog. at sera È |\\ 7 mat. f\16; mezzog. 27. -.|27> 27, 27. 28. 28. 28. 28. 28. 28. 25. 28. 25. .|28. 28. 28. |28. |128ì 28. 28. 28. .|28. 'a8. 128. 28. 27. 0139U101eg 10,9 11,1, 11,7 11;9 0,5 1,0 1,4 1,5 1,8 0,5 11,7 a.|27.: 10; o mezzog. 1I sera. 7 mat. mm eZzog. p II sera 7 mat. {10} mezzog. D Ii sera Je 20,0 19,1 18,7 19,2 19,5 17,0 Stato del cielo 0191018] 017 -QUIOTAN]A 0osowauy ; Bi Vaia pro tor E: ica ge 15 ‘0; stai Ta ; MRI LI È comnAfeoeo ‘ , dr at Da) . y K Mate à MI: FA i BETA VAI Hilfeaità: at e iosa Micia rad p* Riad È gi “ mia I vd ti È Le, i PRC LS Ce RNNEROLI LIL fr: | î i ì at finti | Mot PI Gu dti Wald - hace sid > ANTOLOGIA N° XXXIII. Settembre , 1823. Estratto di una memoria relativa all’aLFABETO DEI GEROGLIFIGI FONETICI EGIZIANI, comunicata all’ 4c- cademia reale d’ iscrizioni e tegi lettere di Parigi il 27 settembre 1822 dal signor J. CnanPorzion LE JEUNE. Osservazioni di DomeNICO VALERIANI. È opinione di molti antichi sapienti, sostenuta ancora “da vari moderni, fra i quali dal dottissimo Gio. Batista Vico, che tutti i popoli del mondo, i quali si formarono una società qualunque, rappresentassero da prima le loro idee per. geroglifici , quindi per simboli , e finalmente per caratteri alfabetici, cioè, per mezzo di suoni o. pronun- zie od articolazioni. E però narravano i sacerdoti egi- ziani; che per. verità furono il più strano e bizzarro composto che mai si vedesse sulla terra, riunendo in sè stessi ad un tempo tutti gli attributi , di teologi, di filo- sofi, e d’istorici della loro nazione, ed in alcuni tempi anche quelli di despoti; che per il corso dell’ antico mon- do, eransi usate, tre lingue in Egitto, corrispondenti nel numero e nell’ ordine alle tre età che vi erano pure per. lo innanzi trascorse; degli deî, cioè, degli eroi, e degli uomini. Lidicorano che la prima di queste lingue era stata geroglifica, 0 sacra, o divina; la seconda sim- bolica , 0 per segni , ossia per imprese eroiche; e la terza finalmente epistolare, 0 per suoni, ed articolazioni, per CT. XI. Settembre I \ 2 i comunicare ai lontani i presenti bisognî della vita. Delle quali tre lingue vi sono due passi bellissimi presso Omero nella Iliade, dai quali apertamente si vede, che i greci convenivano in ciò cogli egizii. Il primo di questi passi , è dove narra il poeta, che Nestore (1) visse tre età d’ uo- mini diversilingui , ed il secondo, è dove Enea racconta ad Achille, che uomini diverslingui cominciarono ad abitar Ilio, dopo che 7roja fu portata ai lidi del mare, e Per- gamo ne divenne la rocca (2). Rimangono infatti presso varii popoli dei vestigii più o meno considerabili di quell’antichissima prima lingua, in una scrittura rappresentativa delle idee, o più pro- priamente in una specie di sacra scultura , secondo che il tempo e la barbarie la rispettarono più o meno, ed anche secondo che gli autori di essa la consegnarono a materie più o meno durevoli , e resistenti all’ urto vio- lento dei secoli, onde tramandarne ai posteri la memoria. E però si sono trovati dei geroglifici nella Scandinavia, nella Tartaria , e nell’ Armenia, come se ne osservaronò moltissimi , ed assai somiglianti agli egiziani, nel.Perà, e nel Messico, alla scoperta dell'America. Se ne videro ancora, ma d'altra specie, in alcune isole del mar del sud, e perfino nella Nwova Olanda; e molti se ne vedono e- ziandio nel Giappone, ed alla China, nell’ Zndostan, ed al Tibet. I s . toioi de Neswp . ... Tio dE ddy vo puèv yeveni pepdrwv av$pèrv E° pGiad” di vi Tpd$ev dà Tpapev' ud” eysvovro, Ey IIuAw yya$en pera dè rpiraroicv avasaev. Iliad. lib. 1. vw. 247. e segg (2) Kriae$ dè Aupdàviv ‘esi ovrw TAsos Tpù | Ev redìw meroriGo Tod pepdrwv avepirwv AMY” Urwpelas neov ToAvTIdEnOv Idys. Iliad. lib. 20. v. 216. e begg; 3 . Avevano dei geroglifici, come ognun sa, gli antichi etruschi, i celti, i cantabri, e gli sciti; e più di tutti gli altri gli etiopi, e gli egiziani loro discendenti , presso i quali.ne rimangono tuttavia una maggior quantità, perchè con più magnifico e pomposo apparato ce li trasmisero, avendoli essi ridotti a sistema, ed elevati al grado di sacra scienza , e perchè eressero tali monumenti sotto un clima molto propizio alla loro conservazione. Ora questi geroglifici egiziani, sono appunto quelli, che hanno perciò sopra tutti gli altri esercitati in ogni tempo, fino dai più remoti secoli , gl’ ingegni dei dotti archeologi di tutte le colte nazioni, per indagarne le re- condite e misteriose significazioni. Ma la maggior parte di essi andò vagando per diverse vie, sempre lungi dal vero, e senza mai giungere al bramato scopo, per esser partita, s' io non m'inganno, da false ipotesi, e per aver | seguito il cammino delle congetture. Lo che avvenne an- che in gran parte, perchè si sono disgraziatamente per- dute con tante altre, nelle devastazioni alle quali andò soggetto l’ Egitto, e per l’ingiuria del tempo, le opere che contenevano la spiegazione , 0 le regole e la storia di quelle arcane e singolarissime sacre sculture. Tali erano: fra gli altri i libri di Zexth, o Toth, detto poi dui greci Mercurio Trismegisto , che si crede, essere stato , se non l’ inventore , sini il più gran fautore e pro- pagatore della scienza geroglifica in Egitto; il quale viene qualificato da Rabbi Eliezer per gran filosofo , preside delle lettere , e del culto del sole. Dopo la perdita di tali opere , si rende indispensabi- le a tutti quelli, che vogliono occuparsi con qualche suc- cesso nello studio delle antichità egiziane, di ricorrere all’ autorità istorica degli scrittori più antichi , i quali ne hanno in qualche modo parlato, e particolarmente di quelli, che per l’età in cui scrissero, e per la posizione geografica del loro paese, sono più prossimi agli egizii, 4 come i siri, gli ebrei ed i caldei , e sopra tutti gli arabi ;, alcuni dei quali composero espressamente delle opere sul- le cose egiziane. vifte | E poichè di queste sacre sculture , hanno date va- rii dotti, in diversi tempi e luoghi , differenti spiegazio- ni, così non hanno fatto altro che mettere i curiosi del-. l’arcana scienza dei geroglifici egizii in maggior desi- derio di conoscerne il vero significato, avendoli essi la- sciati sempre , o nella medesima , od anche in una mag- giore oscurità ed incertezza, circa gli astrusi sensi espressi per quei singolarissimi segni ideografici, che non possono però essere, quali sono nel sistema egiziano, e quali si vedono: sui monumenti di quel curioso paese, che il frutto di una profonda sapienza , prodotta da una molto recon- dita civilizzazione. I geroglifici egiziani pertanto sono, esclusivamente da tutti gli altri, quelli dei quali parleremo in queste osservazioni, perchè questi riguardano il così detto aZfa- fabeto fonetico , (1) che l’erudito ed instancabile signor Champollion le jeune pretende di aver trovato, per la lettura , e per l’interpetrazione dei medesimi. Nel fascicolo dell’ Antologia del passato febbraio, riportammo la traduzione fedele dell’ estratto, che il pre- lodato archeologo francese fece egli stesso, delle due memorie , da lui scritte su tal materia , e lette ‘all’ Acca- cademia reale di iscrizioni e belle lettere di Parigi, ed il quale egli pubblicò nel journal des savans; ed ora pubblichiamo nell’ Antologia medesima le osservazioni da noi fattevi, come allor promettemmo. Dice dunque il signor Champollion le jeune, ( Vi. Aut. feb. pag. 125.) che l’essersi tanto moltiplicati in Europa i monumenti egiziani dopo la spedizione dei (1) Veramente bastava ch’ ei dicesse 4//abeto , essendo fone- tici tutti gli alfabeti conosciuti, non escluso il Chinese, che è il più singolare ch'io m'abbia veduto. 5 francesi in Oriente , avendoli sottratti alla distruzione l’ illuminata attività dei viaggiatori, e facilitandone lo studio la munificenza dei governi col deporli nei pub- blici stabilimenti , doveva necessariamente produrre dei risultamenti felici per I’ avanzamento delle cognizioni storiche, e condurci in fine a delle idee esatte, sulla na- tura e sull’andamento proprii dei differenti sistemi di scrittura usati dagli antichi egizii. Questo discorso potrà sembrar vero a prima giunta ai meno esperti , e potrebbe esserlo ancora, trattandosi di tutt’ altro genere di antichità, fuorchè dei geroglifici egiziani ; ma si vedrà, per poco che vi si voglia rifletter sopra , essere onninamente falso nel caso nostro, perchè non sappiamo da dove cominciare le nostre indagini, e mancandoci, come abbiamo già detto , la chiave del gran segreto , diamo erroneamente il nome di scrittura a ciò, che in realtà non è tale; e così operando non si può fare altro, che passare di congettura in congettura, e d’ una incertezza in un’altra. Ci pare ancora, che in chiunque va in traccia del vero, in queste materie particolarmente, richiedasi ben altro, che mania di sistema, e spirito di parte. Fa d’uopo, al parer nostro, ch’ei vi si conduca con un ricchissimo corredo di cognizioni di ogni maniera, e che possegga in grado eminente la più sana e spassio- nata critica, seguendo ognora la scorta della filosofia e della ragione. Senza questi necessarissimi requisiti, non avvi stranezza, per inverosimile che sia, la quale non possa sembrare un fatto provato ,a tutti quelli che ab- biano l’animo prevenuto, a favor di questo, o di quel- l’ altro sistema, a cui riferir si possa in qualche modo. Ma dirò ancora di più, che la moltiplicità dei monu- menti egiziani trasportati in Europa dopo Za spedizione dei francesi in quelle parti, non ha finora giovato, e non gioverà mai punto per l’ intelligenza dei geroglifici, fin- chè non sì scopra per avventura qualche papiro, o qualche 6 lunga iscrizione , che ne contenga la chiave, se pur questo è possibile. Che importa di avere un solo monumento , Do) mille della stessa specie, quando non conosciamo ancora per qual via si giunga all'intelligenza di quel solo? In questo caso l'abbondanza genera maggior confusione, e maggiore incertezza ; e noi crediamo col dottissimo e giudiziosissimo autore delle frecherches nouvelles sur l’ histoire ancienne, III. partie , pag. 194. e 195, che giust’ appunto l’ essersi moltiplicate con tanta dovizia in Europa le antichità egiziane , non abbia servito ad altro che ad accrescere l’ oscurità, in cui eravamo circa il sis- stema geroglifico di quella classica e singolarissima na- zione , ed a moltiplicare per conseguenza i problemi da sciogliere su tal materia. E tranne l’aver potuto dedurre dalla posizione dei segni nello zodiaco di Dendera, ed in quello di Esnè, che gli abitanti, specialmente dell’al- to Egitto , debbono avere avuta una civilizzazione ed una cultura molto recondite, e presso a poco tanto antiche quanto quelle degl’indiani, siamo rimasti per tutto, il restante in una perfetta ignoranza, ed allo stesso punto in cuì eravamo due o trecento anni addietro ; nè si pos- sono istituire su quell’ arcana scienza ‘che delle congettu- re incertissime, e simili a quelle del tanto erudito quanto bizzarro Akerblad, che diede la prima mossa a tatti i moderni sogni in fatto di geroglifici egiziani. (1) Quello però che per l'archeologo svedese non fu che un dubbio , un'idea meramente congetturale , diven- ne un fatto provato , ed un’assoluta certezza per il signor (1) To non conosco le indagini ed i lavori del dottissimo signor Silvestro de Sacy sui geroglifici egiziani, di cui parla il nostro archeologo, e son persuaso che siano degni della riputa- zione di cui gode il /estore degli eruditi e degli Orientalisti francesi; ma credo ancora che egli abbia diretti i suoi passi per un diverso cammino, e ad uno scopo differente da quello del si- gnor Champollion. 7 Champollion le jeune, il quale va esclamando a tutta lena ed a tutti i dotti di Europa sUghxe, eUehxe, e ne fa maggior festa che non fece Pittagora quando trovò le proprietà del triangolo rettangolo, feconde di tante utilis- sime conseguenze in tutta la mattematica scienza, ed 4r- chimede , quando scoperse il furto dell’ orefice nella co- rona del re di Siracusa. Eppure quando ancora fosse vero il sistema da lui predicato , tuttavia non si dovrebbe alla Francia una tale scoperta , ma bensì alla Svezia; e le stesse aggiunte fattevi, non sarebbero più del filologo parigino , che dell’ inglese dottor Young, il quale ha speso pur molto tempo in simili ricerche, collo ste.;0 buon esito del signor Champollion le jeune. Ed infatti è facile a vedersi, che fino a tanto che gli eruditi antiquarii si condurranno per questo inestricabile laberinto, colla scorta delle supposizioni, non potranno averne altro che dei resultamenti chimerici, e rischieranno ancora di smar- rirvisi dentro, senza speranza di riuscirne mai più (1). « To sono stato forse abbastanza fortunato dal canto mio, prosegue il nostro autore, ( v. Ant. l. cit.) da perve- nire a dei dati positivi, su di una materia divenuta esclu- sivamente l’ oggetto delle mie ricerche, ec ec. » Da quanto abbiamo fin qui accennato sì è già veduto, (1) È da osservarsi, che mentre il signor Champollion in Francia, dopo lungo affannarsi sui geroglifici egiziani, crede di aver trovata la maniera di leggerli , ( cosa finora intentata ) e porta colla sua lettura i più antichi monumenti dell’ Egitto all’ epoca in cui lo signoreggiarono i Greci ed i Romani; il signor Fran- cesco Riccardi fu Curto di Oneglia in Italia, affaticandosi esso pure su quelle misteriose sculture ha trovato scolpito sugli Qbe- lischi, Barberini, Costantinopolitano , € Fiorentino, come si vede da un libro da lui stampato in Genova presso M. Bernardo 1821, » Le triomphe sur les impiés, obtenu par les adorateurs de la Très- Sainte Trinité} et du Verbe Eternel, sous le gouvernement des sixième et séptième rois d’ Egypte; au sixième siècle après le déluge 3}.. 8 e meglio ancora da ciò che diremo ‘in seguito» sì vedrà , che il dotto archeologo, non è stato niente affatto più fortunato di tutti quelli che si occuparono ‘prima di lui di tali indagini; ; e neppure di quelli , che vengono da lui citati, imperocchè se essi andarono per la via delle sup- posizioni e delle congetture, egli non ha battuto finora altro cammino, come lo provano evidentemente le as- surde conseguenze ch’ ei ne deduce, e come si ‘dimostrerà in queste osservazioni. 1 Quali sono in fine è dati positivi, ai quali è per- venuto colle sue ricerche il signor Champollion le jeune ? Forse quello che risulta dalle diverse memorie ( v. Ant. 125. e 126, ) delle quali l'accademia d'’ iscrizioni: e belle lettere di Parigi ha udita la lettura negli anni 1821 e 1822, che gli egiziani avevano tre specie di scrit- tura ? Ma ciò, con buona licenza del ch. archeologo non risulta in verun modo dalle diverse memorie da lui lette a quella illustre accademia, mentre risulta dal fatto, poichè l’ avevano realmente, seppure dobbiamo dare que- sto nome ad ognuna di quelle specie. E questa non è punto cosa nuova a sapersi, che anzi è nota a tutti gli uomini , anche mediocremente dotti, e già da molti secoli. Di fatti Clemente Alessandrino nel quinto libro delle sue store si esprime così « Quelli che sono istrui- ti dagli egizii, apprendono prima di tutto quella scrittura che essi chiamano cpistolog grafica, quindi la jeratica, 0 sacerdotale, di cui si servono gli scrittori delle cose sacre, ed in terzo luogo finalmente la gerog glifi ca, la scrittura sacra, Che si scolpisce, e che meglio si chiamerebbe una scultura delle idee, come noi pure abbiamo già detto altrove. Questa poi la dividevano, in ciriologica e sim- bolica, la prima delle quali parla propriamente per mezzo dei primi elementi , ovvero esprime le cose per mezzo di caratteri consimili, e la seconda per mezzo di segni. L'ultima di queste la suddividevano ancora in tre spe- - 9 cie : la prima‘, che parla propriamente per mezzo d'i- mitazione; la seconda tropicamente, o per fraslati; e la terza allegoricamente, e per mezzo di certi enigmi. E ‘se questo non basta, Abenefio , scrittore arabo , nel suo libro delle cose di Egitto, dice che gli egiziani ne aveva- no anzi quattro; cioè, che avevano quattro specie differen- ti di lettere o caratteri; e che la prima era in uso pres- so.il popolo e gl’idioti, la seconda presso i filosofi ed. i sapienti, la terza era mista dei libri e dei simboli, ovvero immagini ; e la quarta finalmente sì usava dai sacerdoti , ed erano le lettere degli uccelli, ( nome che gli arabi danno ai geroglifici ), colle quali indicavano /e cose sacre della Divinità. Vedasi il dottissimo Atanasio Kircher, il quale riferisce queste medesime cose da noi qui narrate colle stesse autorità, e ne aggiunge moltissime altre che noi per brevità tralasciamo , in più luoghi del suo Edipo Egiziaco , nel suo Prodromo Cofto , a pag. 220, nel suo Obelisco Panfili, ed altrove. Nè l’ autorità di quel mosiro di sapere è da tenersi in piccolo conto , particolar- mente in fatto di antichità egizie , poichè sehbkéni egli ab-- bia presi molti abbagli, nessuno finora ha veduto più ad- dentro di lui nell’arcana scienza dei geroglifici egiziani, ed in ogni maniera di archeologia di quel paese. Egli dice dunque, Prodromo Cofto, pag. 221 e 222, che i sapienti d’ Egitto consegnavano alla scrittura iera- tica, composta di forme e somiglianze di cose naturali e di flute di cose artificiali, gli arcani della loro teologia, ed i misteri della filosofia che volevano nascondere al volgo. E v’ è chi pretende, prosegue egli , che la scrittura sacerdotale o ieratica, fosse formata delle figure mi- stiche di un cert' altro alfabeto particolare, quali sono quelle riportate da Teseo Ambrogio, nell’appendice al- la sua introduzione a diverse lingue orientali. Non aven- done però il prelodato Kircher veduto alcun vestigio nei monumenti egiziani da lui osservati, la crede sup. 10 posta. Ma dimostra con-abbondanti prove e con immensa erudizione orientale, nel precitato suo Edipo egiziaco, che oltre le lettere comuni , le quali avevano pure del misterioso, eravi presso gli egiziani un altro - alfabeto mistico, composto di quel carattere minuto, che si vede nelle mummie nei canopi, nelle statue d° Zside, e fra i geroglifici della famosa tavola bembina; e che serviva ad esprimere con lettere più minute , tutte quelle cose che per difetto dell’arte non si potevano dipingere all’oc- chio col primo carattere. E noi crediamo che questa fosse una vera scrittura alfabetica , sillabica , leggibile, e pronunziabile, come lo sono tutte Ze scritture propria- mente alfabatiche; e sospettiamo ancora, con qualche fondamento, che si possa anche leggere ed intendere da chiunque sappia perfettamente la lingua cofta, la quale conserva moltissime radicali, ed anche moltissime voci dell’ antica lingua faraonica od egiziana, che sì dice perduta; non essendo quella prima, aliro, in sostanza, che quest’ ultima grandemente alterata e corrotta. Alla quale intelligenza può moltissimo contribuire la cognizio- ne della lingua etiopica , e sue affini. É forse un dato certo quello che i tre sistemi di scritture egiziane annoverate dal N. autore , non espri- mevano i suoni delle parole ec. ee.? Noi l'abbiamo già detto di sopra , ed ora lo ripetiamo, che non siamo punto persuasi di una tale opinione; e crediamo anzi, che tranne la scrittura geroglifica, e che abusivamente si chiama scrittura , e la ieratica , e l’epistolografica, quando sia- no espresse per segni e per figure di oggetti fisici, esprimessero in ogni altro caso, queste ultime due dei veri suoni, e;delle vere pronunzie in lingua volgare egiziana, o cofta, che in ultima analisi è la stessa cosa. Ed in que. sta lingua sospettiamo che siano scritte le parole, o ini- ziali di parole , che si scorgono talvolta nelle piramidi , negli obelischi, nei tempii, fra i geroglifici, come negli Li altri monumenti dell’ Egitto, fra i quali debbonsi anno- verare i papiri trovati nei sepolcri , ed altrove. Sarebbe veramente una cosa da far ridere anche i fanciulli , il credere, che una nazione tanto dotta e tanto ingegnosa, quanto tutti convengono che fosse l’egiziana , e come gli avanzi delle maravigliose opere sue chiara- mente ce la dimostrano , non avesse poi saputo combinare un alfabeto atto ad esprimere i suoni della sua lingua , fra tre o quattro, che ella ne aveva. I geroglifici, ed i simboli, erano belli e buoni .per i sacerdoti, che volevano farsi una privativa della filosofia e scienza sacra; onde tenere il popolo sempre nell’ oscurità , circa la matura e l’essenza delle loro dottrine , affinchè non giungesse mai a conoscere che tutto questo sistema era legato alla po- litica, e tendeva a renderlo stupido, per assoggettarlo più facilmente al loro feroce dispotismo, ed a quello dei suoi regnanti. Ma convien credere poi, che vi fosse anche un' altra scrittura, che non fossero soli i sacerdoti a legger- la ed intenderla , e che servisse per il commercio colle altre mazioni limitrofe, ed anche colle lontane, e per co- municarsi scambievolmente i presenti bisogni della vita. | È forse un dato certo quell’ altro, che il testo demo- tico dell’ iscrizione di Rosetta, paragonato col testo greco, ha condotto ilnostro erudito archeologo a riconoscere , che un certo numero di segni ideografici, si spogliano talvolta del loro valore reale e divengono accidentalmen- te dei segni di suoni e di pronunzie ec. ec.? ( Ant. pag. cit.) Lettera al sig. Dacier pag. 3 e 4. (1) (1) Nello stesso luogo della sua lettera al signor Dacier, crede il nostro archeologo di dare un maggior peso alle sue ‘asserzioni col dire che i.chinesi, i quali si servono egualmente di una scrit- tura ideografica ; impiegano un processo simile a quello degli eg:- ziani; creato per lo stesso motivo. Lo preghiamo però ad esaminar meglio la cosa, e vedrà che la sua parità non corre, essendo falsissimo che i cinesi facciano uso 12 In primo luogo , chi assicura }l signor Champollion le jeune, che il testo greco dell’ iscrizione di Rosetta , contenga la stessa cosa che contiene il testo demotico, e di una scrittura puramente ideografica , perchè i caratteri chinesi esprimono, benchè monosillabici, realmente dei suoni, ed in sostanza si pronunziano. Nè ci persuade punto quello che ne dice il signor Abel Remusat, dottissimo professore di lingua e letteratura chi- nese e tartara al collegio reale di Francia, nei prolegome- ni alla sua bella grammatica chinese; poichè Ze vere scritture ideografiche , se dobbiamo continuare a chiamarle così, non si pronunziano mai, non rappresentando mai dei suoni, ma sempli- cemente delle idee. Ed i caratteri chinesi, tali quali sono presente- mente, è ben raro che abbiano unu somiglianza anche lontana cogli oggetti per essi significati: a meno che non si voglia andar dietro a delle stiracchiature inconcludenti e ridicole. Di che si può ognuno persuadere facilmente, prendendo ad esaminare i carat- teri stessi. Ed a che servirebbero i segni dei tuoni musicali nella scrittura chinese , se ella non fosse che ideografica ? Sarebbero del tutto superflui, e farebbero ridere, come se noi applicassimo è se- gni di questi medesimi tuoni alle nostre pitture o sculture sto- riche, simboliche, allegoriche , e simili. E stimiamo essere una vera follia il credere che possa sussistere una nazione civilizzata con una scrittura puramente ideografica. Tutto quello che si può dire dei chinesî a questo riguardo , si è, che eglino sono stati meno ingegnosi e meno previdenti de- gli altri popoli, per non aver saputo semplicizzare abbastanza la loro scrittura , tanto nella forma dei caratteri che nel resto ; ed è questa forse la ragione più forte del trovarsi le scienze e le arti stazionarie da migliaia d’anni presso di loro. Non sarebbe però molto difficile il rinvenire nei loro pregiudizii nazionali e religiosi la sorgente di questo difetto , funestissimo ad ogni progresso della cultura e della civilizzazione. Un’ altra ragione dell’erroneità di quanto. viene asserito dal signor Champollion, e della verità della nostra asserzione si è, che i chinesi hanno un sistema fisso nei loro segni, e quello degli egiziî, secondo l'archeologo francese sarebbe incertissimo ; e men- tre tutti i chinesi che sanno scrivere rappresentano collo stesso carattere una medesima idea , non si troverebbero due sole persone in tutto l'Egitto, che scrivessero lo stesso nome coi medesimi segni. Cali 3 13 che questo sia lo stesso che il testo geroglifico, com’ ei crede ? È secondariamente, qual bisogno vi era mai di replicare tre volte il testo di una iscrizione , nello stesso monumento? Tutto ciò, gratis asseritur, direbbe uno scolastico, ma non probatur. E quando pure fosse vero che quella triplice iscri- zione non fosse che Za replica delle stesse cose, in tre specie di caratteri diversi , non si vede il bisogno di far cangiar valore ai segni ideografici per servirsene a rap- presentare dei suoni, perchè , 0 i segni dei quali parla qui il filologo francese , non sono ideografici , e non rap- presentano ciò ch’ egli suppone, od i due testi , il gero- glifico ed il demotico ; contengono cose diverse da quelle che si leggono nel testo greco. Poichè realmente i segni ideografici non si spogliano giammai del loro valore reale, nè divengono accidentalmente segni di suoni e di pronunzie , com’egli asserisce con troppa franchezza , ma rimangono ciò che sono; e molti di quelli ai quali il nostro autore dà un tal nome, non lo sono , ma rappre- sentano appunto quei carattéri di cui abbiamo parlato pocanzi. Non v° era poi bisogno , che il testo demotico della pietra di Rosetta ci venisse ora ad insegnare, che nella scrittura ideografica popolare egiziana vi era mischiata una serie di segni, destinati ad esprimere i suoni dei nomi proprii ec. ec., perchè questo , se pure è vero, si sapeva già di lunga data, come abbiamo accennato in ad- dietro. Servivano questi segni per esprimere tutte quelle cose, che per difetto dell’arte non potevano scolpirsi per Strobl ici, 0 rappresentarsi per simboli. (V. Kircher 1. cit. ) Non si capisce però bene cosa abbia che fare l’in- troduzione di suoni e di parole nei testi veramente ideo- grafici. Sono forse un dato certo i nomi proprii ed i titoli imperiali e reali che egli ha letti in diversi monzmenti LI egiziani col suo così detto alfabeto fonetica geroglifico? Ma egli li ha letti in. tali monumenti con una tale orto- grafia, ed in una tal lingua, da far dubitar fortemente, che non altro lo abbia condotto a leggerveli , che l’ipote- tico suo sistema ; il che vale lo stesso che. dire, che egli ve li ha letti, perchè rivolse le sue osservazioni a. quei monumenti , colla determinata intenzione di trovarvi ciò che ‘asserisce di avervi trovato. L’ortografia poi, colla quale sono scritti i nomi ed i titoli imperiali e reali, che il nostro illustre filologo vi ha letti, non è propria in ve- run modo della lingua dell’ Attica ; e la maggior parte dei monumenti , ove li ha letti, precederono di molti se- coli l’esistenza degl’ individui che vi si presumono cele- brati, e della stessa lingua greca in Egitto. In fatti egli ha letti , per esempio, fra le altre cose, il nome ed i. titoli imperiali di Domiziano nell’ obelisco Pamfili, quelli di Adriano nell’ obelisco Barberini, e quelli di MNerva T'rajano ; soprannominato Germanico Dacico , nel. gran tempio ‘dii Ombos, 0 Ombi. I primi dei quali dicono « L’ imperatore Cesare Domiziano Augusto » scritti « AOTKPTA, KHEPE, TMHTENZ, EBET® » i secondi « Adriano Cesare » scritti , HATPN®, KHXP, edi terzi « L’ imperatore Nerva Trajano, soprannominato Ger- manico Dacico » scritti, AOTKPTP, KHZA., NAOA., TPHNZ, KPMNHK®, TKKZ; tutte Je quali. parole: scritte con questa ortografia, potrebbero dire tutt’ altra cosa, sforzandole anche meno di. quello che ha fatto il Sade Champoltion le jeune. Ora tutti i cronologisti latini, greci, ebrei ed ara- bi, si accordano a fissare la prima erezione dell’ obelisco Manuphthico, detto oggi Pamfili, coperto di tutte quelle sacre sculture che vi si scorgono ancora, e che fu dedi. cato al Sole, suprema deità degli egizi, nella città di Etiopoli ; isotto il regno di Manuphtha , che Eusebio chiama Amenophi, Manetone Manuphthi, ed Affrica 15 no ‘e Filone Amenephthen, ché vuol dire signore di Memfi. E dicono che ciò avvenne, secondo ‘il computo ebraico, Y anno del mondo 2684, vale a dire 1028 anni dopo il dilùvio, e circa 200° dopo l’ uscita del. popolo eletto dall’ Egitto medesimo, sotto la condotta di Mosè suo legislatore, essendo 4od giudice d’ Israello. Là qual epoca corrisponde a 1366 anni prima della venuta di Cristo . 5119 È noto a tutti i dotti, che passarono 181 anni da quell’ epoca allo sbarco di Enea in ‘Italia; e ché ne scorsero ancora (427 prima che Romolo PEA Roma; e dalla fondazione poi di questa città all’ impero di Do- miziano , ve ne corrono ancora altri 854. Furono dunque scolpiti il nome ed i titoli imperiali di questo monarca in un monumento egiziano , 1462 anni prima che egli regnasse, e che pensasse per conseguenza a signoreggiare l’ Egitto. Se questa maniera di ragionare e d’interpetrare le antichità sia giusta e secondo le regole della buona logica .e della sana critica, lo giudichi per sè medesimo ogni discreto lettore. Dicasi pure lo stesso del nome e dei titoli impe; riali che il signor Champollion le jeune pretende di aver letti nell’obelisco Sothiaco , che ora si chiama Bar- berini , il quale fu eretto parimente in Eliopoli, e consa- crato al Sole, come il Manuphthico, da Sothi figlio e successore del re precedente. Si. potrebbe fare un Lai ragionamento per. i nomi e titoli ch’ egli asserisce, di aver letti nel tempio di Ombi, ma lo Rodi inutile, e per brevità si tralascia . E che diremo dei nomi di casini il le rienade % di Tolomeo, di Berenice, e di Cesare Augusto, da lui letti sui monumenti di Tebe? Diremo che ci si affaccia alla mente la solita piccola difficoltà , per poterci arren- dere a quella lettura; cioè, che quei monumenti, furono 16 eretti ed ornati di quelle misteriose sculture, che vi. si scorgono tuttavia , e che l’egregio filologo parigino crede. di leggere, in un’ epoca molto più recondita che non è la conquista dell’ Egitto fatta da Alessandro, e molto più di quella in cui vi regnarono i Tolomei, le Berenici, e le Cleopatre ; e di quella in cui vi stesero i loro artigli le aguile romane. Oltre di che , la scienza dei geroglifici, era decaduta moltissimo , e quasi smarrita in quelle con- trade, fino dall'invasione del feroce Cambise ; @ la città di Tebe fra le altre, fu quasi intieramente distrutta da quel barbaro conquistatore. E vaglia il vero , fino da quando Germanico viaggiò nell’ alto Egitto, non vi re- stavano di quell’ antichissima ed immensa città che delle grandi vestigia , come abbiamo dal secondo libro degli Annali di Tacito , verso il fine. « Mox visit , dice quel gravissimo istorico , parlando appunto di Germanico, veterum Thebarum magna vestigia ». Quest’ ultime espressioni fan fede a chiunque ha fior di senno, che la vera Tebe, non esisteva più fin da quel tempo, e se ne vedevano solo degli avanzi e dei rottami; ma tali da ispirar maraviglia e stupore ai riguardanti. Poichè dei monumenti eretti a quest’ oggetto , contenevano delle i- scrizioni egiziane indicanti l’ antica opulenza di quella nazione. « Et manebant, prosegue l’ istorico, structis mo- libus litterae Aegyptiae, priorem opulentiam comple- ae »; le quali parole confermano sempre più , che Z'ebe era stata distrutta , e di lunga data, se le iscrizioni dei superstiti suoi monumenti , facean fede dell’ antica sua opulenza. E convien dire ch’ ella fosse veramente gran- dissima, se pure è vero che « jussusque e senioribus sacerdotum , patrium sermonem interpretari, referebat habitasse quondam septingenta millia aetate militari : atque cum eo exercitu regem Rhampsen, (cioè, Sesostri) Libia, Aethyopia , Medisque , et Persis , et Bactriano, 7 ac Scythia potitum, quasque terras Suri, Armenique, et antiqui Cappadoces colunt, inde Bythinum, hinc Lycium ad mare tenuisse (1). Ora domandiamo noi , che cosa hanno che fare è nomi di Alessandro e quelli dei suoi successori, sui mo- numenti superstiti di una città rovinata e distrutta mo!- tissimi anni prima che costoro venissero al mondo? Ma passi ancor questo ; perchè potrebbe darsi benissimo che su quei morumenti che ci rimangono tuttora, fossero stati scritti nei tempi suscessivi î nomi, i titoli , ed anche gli elogi, (che raramente meritarono dai vinti i conqui- statori ) di quelli che l’ hanno sottomessa in varii tempi e dominata ; questi però dovrebbero essere dettati nella lingua dei vincitori, e coi loro caratteri, e non con quel. li dei vinti; come si vede in tutti gli altri paesi che an- darono soggetti al variar delle vicende politiche. E quando si volesse ammettere che ‘i nuovi padroni avessero sa- puto spogliarsi di quella feroce superbia che ispira gene- ralmente la vittoria, e che avessero lasciato aî vinti l’uso della propria lingua, come fecero i francesi in Toscana sotto il governo di Bonaparte, allora questi nomi, questi titoli e questi elogi, sarebbero scritti nella lingua che si parlava in quel tempo in Egitto, e non già in gero- glifici che nessuno intendeva , nè del popolo, nè dei lo- dati; che non sono stati maî una scrittura, ma bensì una scultura rappresentativa delle idee > ed alla quale, come saviamente osserva anche il conte de Tracy (princ. log. pag. 61,) si è dato improprissimamente un tal nome. Im- |. perocchè, il geroglifico propriamente detto derivandosi ; "amd TB iepds nes YAVDDWw, 0 dallo scolpir cosa sacra, non è altro, come attesta pure Goropio Becano nel secondo libro dei geroglifici, che rei sacrae symbolum, materiae (1) Ognuno ber comprende, che quel numero sì grande di milizie deve intendersi per ì soldati di tutta la Tebaide. T. XI. Settembre 2 13 È cuidam incisae; donde apparisce la differenza del simbolo - dal geroglifico, poichè tutti i geroglifici sono simboli, ma non già tutti i simboli sono geroglifici , perchè oltre ad essere il geroglifico solamente un segno di cosa sa- cra, inciso in qualche materia, questo non sì forma col discorso, e si esprime soltanto con. figure ed immagini. E gli egizii solevano così comporre e formare i loro sim- boli ; per esprimere i proprii concetti sotto l’ occulta si- gnificazione e proprietà di quelli. In quanto poi all’essere oscuri e lontani dall’ intelligenza del volgo e degl’ ine- ruditi, non erano dissimili dai simboli e dagli erigmi cabalistici degli ebrei, che ne presero probabilmente l’uso da loro. Anche il venerabil Beda dice nel libro della na- tura delle cose, ehe gli antichi, non solamente scris- sero e parlarono come noi facciamo, ma trasportarono ancora con una certa industria a significar le cose stesse tutto ciò che il mondo contiene, e che da noi può com- prendersi ; e quindi nasce, soggiunge egli, la grandissima diversità degli alfabeti, e la tanta differenza delle lettere e dei caratteri che li compongono; i di cui tratti, le figure e le forme, pare che fossero prese, o dalla somi- glianza delle cose materiali , o dall’andatura delle bestie, o dal volo degli uccelli, o da qualche altra simile occa- sione. Così raccontano infatti, che il Zericio Cadmo trasportasse il primo nella Grecia l’ uso di sedici Zettere ritrovate in tal modo; alle quali altre quattro ne aggiunse l’ auspice Palamede, al tempo della guerra trojana. Plutarco però, e dopo di lui il Volterrano e molti altri citati da Celio Rodigino dicono, che dopo gli ebrei, furono i primi gli egizii ad insegnar l’uso delle Zettere } inventate da Zheuth, o Thoth, o Mercurio Trismegisto come lo chiamano i greci. Quali poi fossero queste lettere, discordano molto fra loro gli autori nello stabilirlo. L’arabo Abenefio però , la di cui autorità debb’aver molto peso in ic; queste materie,sostiene che gli egizii usavano quattro specie di lettere o caratteri come abbiamo accennato altrove, e dice che la prima specie era volgare, e se ne servivano il volgo e gl’idiovi; che la seconda era stata immaginata dai sapienti, per nascondere con essa al volgo i misteri della natura; che la terza era mista di caratteri e di simboli; e la quarta poi si chiamava sacra, colla quale si scolpivano negli obelischi , nelle piramidi, nelle porte dei tempii, negli esedri, negli altari e nelle tavole , per mandarle alla più lontana posterità , tutte le più sublimi cose riguardanti Dio, gli angioli, o gli spiriti , i geni, il mondo, l’uomo, e gli altri misteri, e le recondite cose sacre, racchiudendole come in certi simboli, che meri- tarono perciò in seguito il nome di geroglifici ; dal che apparisce sempre più chiaramente l’ insussistenza e l'im- possibilità del sistema predicato dal signor Champollion le jeune. Ma egli, ragionando sempre dietro la sua falsa suppo- sizione, segue a dire, ( V. Ant. di feb. pag. 129. ) « L’o- belisco egiziano, che il signor Belzoni ha trasportato dal-. l'isola di File a Londra, era legato ad uno zoccolo, che portava in lingua greca una supplica dei sacerdoti d’ Iside a File diretta al re Tolomeo Evergete II, ed alla regina Cleopatra sua sorella ec. ec. ec. Pretende dunque il nostro valente archeologo di confermare l'opinione da lui già concepita , quella cioè, che ì geroglifi ci possano contenere dei nomi «proprii, e che siano leggibili e pronunziabili , coll’ispezione da lui fatta di quelli che si contengono nelle quattro facce di detto Obelisco : ed ecco in qual modo. L'iscrizione gre- ca dello zoccolo , dice egli, contiene. i nomi ToLomeo e CLEOPATRA, nei quali vi occorrono delle lettere, che sono le stesse in ambedue: fra i geroglifici delle quattro fac- ce si scorgono dei cartelli contenenti dei segni simili; dunque questi cartelli contengono gli stessi nomi. Ed 20 ecco il fondamento sul quale si appoggia tutto il suo edi- fizio geroglifico, come se lo zoccolo in questione si sa- pesse di certo che appartenne a quell’ Obelisco , il che vien molto controverso, e non v'è che il signor Belzoni che lo abbia creduto tale , giacchè dei testimoni presenti al suo ritrovamento, e coi quali ho parlato in proposito dicono, che un tale zoccolo fu dissotterrato assai lontano dall’ Obelisco medesimo , che era pure per terra e mezzo sepolto; e come se, avendogli ancora appartenuto, non vi potesse essere stata apposta Z’iscrisione greca molti secoli dopo la sua formazione, e precisamente all’ epoca dì cui pa la data; ed ancora, come se fosse necessario, che un’ iscrizione posta sullo zoccolo, o sulla base di un obelisco, od altro monumento egiziano, contenesse le medesime cose che vi sono scolpite in geroglifici. Que- sto ragionamento del signor. Champollion, conduce a que- st’ altro. Innocenzo decimo, Sisto quinto ed altri Papi, fecero erigere in Roma varii obelischi egiziani carichi di ge- - roglifici , e furono apposte sui lati delle loro basi alcune iscrizioni latine, contenenti i nomi e le lodi di quei ro- mani pontefici ; dunque i geroglifici che li adornano , contengono gli stessi nomi , le stesse lodi ec. ec. ec. .. Pretende ancora il signor Champollion, che gli. egi- zii prendessero per segno di una vocale o di una conso- nante , quel geroglifico che rappresentava un oggetto od una idea , il di cui nome in lingua egiziana. parlata co- minciasse per il suono ed articolazione che si trattava di rappresentare. (77. Ant. feb. pag. 134, e let.a M. Da- cier, pag. 34 , e segg. ) Così, prosegue egli, il B. è rap- presentato nell’ obelisco Pamfili da un quadrupede, che non sa decidere, se sia una vacca detta ( Bahsi ) in lingua cofta; un capretto, che si dice (Baampè,); un bec- co, ( Bareit ); una volpe, ( Basciòr ), od un altro picco- lo quadrupede , ( Boiscì ); o finalmente uno Schakal, 2I ( Bonsc. ) La consonante K, è rappresentata da un vaso coll’anello, perchè in cofto, ( Kelòl, Kèloli, Knikigi) significano ; vasi e bacini per attingnere acqua; da ‘una figura rappresentante un angolo retto , 0 da una spe- cie di triangolo, perchè la voce ( Kooh ) significa un an- gole; da una specie di capanna , perchè ( Kalibi ) vuol dir capanna ; da una specie di recinto contornato di mu- ra, che si dice ( Kt0), e coperto di una volta, 0 soffitta, detta ( Kepè ); da un cappuccio, od acconciatura di testa delle persone private di Egitto, chiamata ( Klaft). La L è rappresentata da un lione, 0 da una lionessa, in attitudine di perfetto riposo , perchè ( labo, o laboi ) significa Zeonessa , detta ( Zebuak ) in arabo, e ( Lèbieh ) in ebraico. La I, da una specie di civetta chiamata (Muladg);la N, da dei piccoli vasi d’alabastro, che si trovano frequentemente in Egitto, e servivano a contener gli oli profumati detti (/Veh), ed ai quali gli scrittori greci danno il nome di AAefaspòs, 0 AAefPxspov. La consonante R, è rappresentata dall’ immagine della bocca, detta ( Ro), e da un fiore di Melagrano , ( Erman ) © ( Ro- man ); e finalmente il 7°, dall’ immagine di una mano, ( Tot ), dal carattere ideografico dell’ articolo determina- tivo femminino ( Ti ) o ( Te ), e da un livello da mura- tore ( Tori ) o (Tore), secondo i dialetti. È Se questo ragionamento fosse vero, i geroglifici sareb- bero senza numero , perchè tutte le cose il di cui nome in lingua cofta o egiziana comincia col suono che si richiede per pronunziare quella data lettera dell’ alfabeto greco, potrebbero essere un geroglifico ; onde sì molti- plicherebbero all’infinito ed inutilmente, anzi con grande incomodo , almeno per l’oggetto a cui li vuole destinati il signor Champollion le jeune. La lett. II, a cagion d’esem- pio, a cui egli non dà che tre segni , due dei quali sono perfettamente la stessa cosa, potrebb' essere rappresentata ancora da uno scettro, perchè ( Pihòn ) vuol dire impe- 22 ro, comando; da una fuce maritale, perchè ( Pihon ) significa nozze ; da una pianta , od anche da una foglia di lattuga, ( Piob ); da un dado, perchè ( Piòp ) significa sorte; da un occhio chiuso, perchè ( Pihòp ) vale occulta- zione; da una bocca in atto di parlare, perchè ( Pisòrp ) vuol dire manifestazione, dichiarazione; da una mam- mella, detta ( Pisi ); da una misura qualunque, perchè ( Pisci ) vale peso, spazio, quantità, misura. Lo potreb- i. essere egualmente da una catena, perchè (Pisòp ) significa detenzione; da un naso ( Pisciai ); da una spiga d’ orzo ( Pliòt ); da una massa qualunque, ( Pisciòti ); da un zomo obeso, perchè ( Piòt ) vale pinguedine; da un campo, ( Piioh ); da un quadrupede qualunque, per- chè ( Piohi ) s'interpetra gregge; da un corvo , (Pia- bèk); da una gemma, perchè (Piaho) vuol dir tesoro; da uno schiavo, ( Pibòk ); da un cilicio, ( Pisok ); da uno zoppo, perchè ( Piòsk ) significa indugio ; da una faccia, ( Piho ); da una sporta o paniere, ( Pikot ); da un edi- ficio, ( Pikòt ); da un bambino dormiente, perchè (Pienkot) vale dormizione; da un ladro, (Pisoni); da una pietra, ( Piòni ); da una fava, ( Piouro ); da una porta, ( Piro ); da una tazza o bicchiere, ( Piafot ); da un braccio, ( Pimahi ); da una sega, ( Pibasciour); da jun pezzo di lievito, ( Pikòp ); da un bambino, ( Pi- mas ); da un vitello, ( Pimasi) o ( Pihos); da una scure , ( Pikelebin) ; da un filo, ( Pihòs ); da una festuca, ( Pigèi ); o ( Pigti ); da una pianta, (Piso); da una moneta, ( Pihomt); da un deserto, ( Pisciafe); da un re, (Piouro); e dalla morte ( Pimou ). E se ciò fosse poco, lo potrebbe ancora essere da una coperta o tappeto, ( Pithom ); da un leone, ( Pimoui ); da un ra- mo, ( Pigial ); da un’ ancora, ( Piaugial ); da una ter- da militare , ( Perambolè ) o ( Perambolì ); da una te- ta, ( Piriton); da una rave, ( Pigioi ); da un vaso, ( Pimokì), eda altre cento e mille cose, tanto questa 23 lettera che tutte le altre, componenti l’intiero REICH Ed a qual pro tanta doliimta senza il minimo bisoguo ? A che servono in fatti nell’aZfabeto del sig. Cham pollion cinque segni pel B, ed altrettanti pel 1; sette pel N; ed altrettanti per l' 0? E più ancora: a che pro undici segrzi per l'A, fra i quali sette uoce/lacci; un- dici pel P, quindici pel 2; e sedici pel K.? Non bastava- no eglino, uno o due pei lesa, , o volendo anche abbondare, tre ? i drsatero almeno gli egiziani saputo scrivere corret- intente i nomi proprii ai inserivano, secondo il sigtior Champollion, nelle loro iscrizioni geroglifiche, come le chiama; 0 li avesse quest’ ultimo saputi leggere come do- wrebbero essere scritti, giacchè v'è tanta ricchezza di segni nel suo alfabeto finetiooì Ma, o quelli furono sì golti da nori saper copiare RE un nome ; 0 questi nori è stato da tanto di dare ai suoi segni un valore capace a rilevare il genuino'suono di quei nomi medesimi , che pretende es- sere stati scritti in geroglifici. Doveva almeno far rifles- sione, che gli Egiziani procedevano con tal criterio nel loro sistema geroglifico, da non generare confusione ed incertezza in quelli che s' intendevano di tale scienza. E perciò , il significato per esempio di uno sparviero, non era niente affatto lo stesso che quello di un’ aquila , di un Zbis, di un papéro, o di qualunque altro volatile ; ed anche il significato che aveva uno di questi animali vol- to a destra, era diverso da quello che aveva esserido volto a sinistra ; e così di tutte le altre cose scolpite in geroglifici. Non potevasi dunque impiegare tutta la gene- razione degli uccelli a significare una sola cosa, e così - del resto . 4 . Solevano gli egizii, dice Cleniente Alessandrino, Strom. lib. 5. cap. 3. rappresentare il sole per mezzo di un naviglio, e questo per mezzo di un coccodrillo ; volendo indicare che il sole per mezzo dell’ aere dolce 24 ed umido genera il bel tempo, significato per il cocco- drillo. Così fabbricavano ai loro Dei gli occhi e le orec- chie di materia preziosa; per indicare l’ immensità di Lio, che vede ed ode tutte le cose; il Zeone significa- va per essi la forza ed il valore; il cavallo un animo generoso, ed un uomo grande per virtù e. per libertà; la sfinge colla faccia umana e leone nel resto, indicava un valido e robusto ingegno ; un uomo finalmente, fra gli altri caratteri e figure, | significava l’ ingegno, la pruden- za ,laragione, la fortezza, la potenza, l’arte,e l’in- dustria . Essi solevano pure in certe solennità sortite intor- no quattro statue indorate di quattro loro divinità; le quali furono dai greci chiamate Kwpacsies; due delle qua- li statue avevano le figure di due cari, la terza di apvol- toio, e la quarta di Zdis. Per i due cani intendevano; se- condo alcuui, i due emisferi; per l’ avvoltoio, il sole, a cagione della sua accortezza , e per la sua forza nell’ uc- cidere e portar via gli altri uccelli ed anche i serpenti; e per l’ Zbis indicavano la luna, a cagione delle sue pen- ne rappresentanti la faccia bicolore di quel pianeta, mista di bianco e di oscuro. Altri poi credono che per i duecani venissero indicati da essi i due tropici, che sono come una specie di due ca- ni ,. destinati dalla natura a guardia e custodia del sole, proibendone 1’ ulteriore allontanamento dall’ equatore verso l’ Austro e verso l’ Aquilone , per |’ avvoltoio la linea equinoziale , e finalmente per l’ Zbis lo zo- diaco . Vi sono altri ancora, i quali vogliono che colla so- lennità delle Comasie, null’ altro fosse indicato che le gesta e le azioni di Osiride e d’ Iside; la quale spiega- zione sembra più conforme all’ istoria ed agli autori . Credono questi, che per l’ avpoltoio, simbolo del sole, si intenda Osiride; per l’ Zbis, Iside; e per i due cani, 25 Anubi e Macedone, il primo dei quali portava il cane nelle armi, ed il secondo il po , come attesta Diodoro — argo lib. 1. cap. 2, ove dice: Da figli disattivi in valore, Anubi e Macedone, ee Osiride; el’uno e l’altro usò per insegna nelle armi, di qualche animale di natura non dissimile ; imperocchè, 4Arubi ‘portò per insegna il cane, e Mace- done il lupo, che sono Gotta libnitioGan fra Loro , ed ap- partengeno alla stessa Freniglia: E però questi animali so- no in sommo onore presso gli egizi, e sono adorati presso di loro quei due fratelli sotto la forma di questi animali ». Diremo pertanto, che colle processioni degli egizii e colla ostensione delle Comasie, null altro voleva indicarsi, se- condo il ‘senso istorico , che le peregrinazioni di Osiride poichè esso avendo affidato il regno ad Iside, come prose- gue a dire la stesso Diodoro, accompagnato dai suoi figli, Anubi e Macedone , ed anche da Ercole, da Apollo, da Trittolemo, e da altri, viaggiò per tutto il mondo, in di cui memoria furono istituite le feste Comasie , e che si vedono poi scolpite in moltissimi monumenti dell'Egitto, e particolarmente nei bassi rilievi, e nei fregi dei tempii, ed altrove, nei quali il nostro erudito archeologo va cercando i nomi ed i titoli dei Tolomei, delle Berenici e delle Cleopatre , e quelli degl’ imperatori romani. In secondo luogo, si può ragionevolmente intendere per la rappresentazione delle Comasie Osiride perduto e disperso: da Tifone, espresso per mezzo dell’ avvolto- io ; Iside, che lo cerca, per mezzo dell’ Zbisj e Mercurio» che si dice anche Ermete , per mezzo del cane. Di fatti attesta il prelodato Diodoro, che Mercurio fa il consi. gliero d’ Iside , ed ecco le sue parole. « Narrano poi, che Osiride avendi stabilito il regno ed affidata‘ la cura di tutte le cose ad Zside sua moglie le diede Mercurio, on- de si valesse del di lui consiglio , giacchè era eccellente per senno e per prudenza fra i suoi amici ». E nelle pe- 26 regrinazioni di Osiride viene simboleggiato il corso del sole , ed il variar delle stagioni. Un altra prova, al parer nostro fortissima, dlitl'imgns: sistenza ed erroneità dell’a/fabeto del signor Champollion, si ricava dalla scarsezza e dall’ irregolarità dell’ortogra- fia delle parole e dei nomi proprii ch’egli vi legge, men- tre con un alfabeto di venti lettere non è giunto a leg- gere finora un centinaio di voci fra momi proprii e titoli imperiali e reali, e neppur unocorrettamente. Ed è ben fa- cile a comprendersi;che con un tale alfabeto, se fosse vero, si dovrebbero leggere tutti i geroglifici je tutti i papiri che contiene l’ Egitto j; essendo quasi innumerabili le combinazioni che si possono ottenere con venti lettere o caratteri. Infatti gli alfabeti italiano e francese non ne hanno di più che siano propriamente loro; eppure quante migliaia, per non dir quanti milioni di parole non visi compongono e leggono? Com'è mai possibile, che ‘ questo alfabeto geroglifico, demotico- fonetico degli egi- zianì fosse tanto inetto e tanto goffo, da non potervi scrivere e leggere che pochi nomi proprii, e quelli tutti scontra- fatti e stroppiati? Qual è quell’ uomo amico del vero, che sia di sana mente, e non abbia la smania di far siste- mi, che possa persuadersene di buona fede ? Vogliamo noi credere ; che gli antichi sacerdoti egi- ziani fossero di sì grossa pasta, e tanto ignoranti da non saper trascrivere correttamente, non solo le parole delle lingue straniere, ma neppure i nomi proprii dei loro re e delle loro regine? E come si accorderebb' ella tanta gof- faggine, coll’ estesissime e profonde cognizioni astrono- miche , fisiche e meccaniche di cui erano forniti, e con quelle architettoniche, delle quali ci fanno indubitata fede i loro monumenti, pervenuti fino a noi attraverso alle de- vastazioni della barbarie ed agli urti di tanti secoli? Cre- deremo noi, che quelle cognizioni venissero loro dai greci, come uomini d’ altronde dottissimi mostrarono e 37 mostrano tuttavia di credere , per aderir. forse a qualche opinione dominante , e per far la corte a qualche perso- naggio, illustre per sapere o per autorità ? ; No certamente ; poichè sappiamo dalla storia, che Prometeo, Danao, Foronèo e Cecrope erano egiziani, e furon quelli che condussero d’ Egitto la Meligione e la Filosofia ad incivilire la Grecia, fino allora barbara e selvaggia; e che Cadmo fenicio ed Orfeo trace, vi reca- rono le dottrine del loro paese; come pure, che Anfione e Melampo appresero le scienze dagli egizi, e le inse- gnarono ai greci (I ) Per la qual cosa uomini gravissimi hanno portato opiniune , che sotto il velo delle favole greche si nascondano le dottrine egiziane, ed orientali, e settentrionali; cioè, l’ anima del mondo, il sistema ema- nativo e la metempsicosi , che sono i tre cardini della filosofia di quelle nazioni (2). Così è noto ancora, che i primi maestri greci della politica , della morale ‘e. della fisica;- o navigarono in Egitto ed in Oriente, od am arono assai quei sistemi; € non v' è chi non sappia i viaggi e l’ amore per la Dar fia forestiera di Solone ,, di Cleobulo, di Talete, di Licurgo , di Pittagora, di Platone, e di altri molti. Si può addurre in appoggio di questa asserzione an- che l’ autorità di Luciano , il quale nel suo dialogo inti- .tolato i fuggitivi, di Md la filosofia che narra a Giove le sue vicende, e vuol dimostrare con ordine cro- nologico quali uomini siano stati filosofi prima, e quali dopo. Racconta dunque, che mandata da Giove medesi- mo in terra, andò prima fra gl’ indi , ove i Brahmani ed i Siaparafii divennero suoi sudditi, apo ì Eredi (1) V. Erod. lib. 2. Paus. nie Presi e negli Eliaci. Clem. Aless. pt ad gentes. Arnob. lib. 6. adversus gen. Euseb. in Chron. Budd. Stor. Ecc]. Brucker. Stor. Crit. F 00, (2) V. Sam. Bochart. Geogr Sac. Gio. Clerico. Note ad Esiodo. : 28 mani passai subito, dic’ ella, în Etiopia, indi discesi it £gitto; e dopo di avere istruiti quei sacerdoti, andai in Babilonia per iniziare i maghi ed'i caldei. Quindi passai nella Scizia, poi in Tracia , da dove uriitamente ad Eumolpo e con Orfeo passai ‘nelle Grecia, ove ho unito i sette sapienti. Ma per tornare all’ iscrizione della pietra di Roset- ta, dalla quale ebbero origine le congetture di Akerblad, di de Sacy, di Young, e di tutti i fautori dei geroglifici fonetici , e sulla quale è fondato il sistema del signor Champollion le jeune, noi domanderemmo volentieri a quel dotto antiquario, ed a tutti coloro che lo precèdettero in queste indagini, cosa è mai quella iscrizione, sorgente di tante questioni, e che contiene in sè dei nomi d’imperatori greci, di re edi regine egiziane, e d'imperatori romani, come Alessandro, Tolomeo, Vespasiano, Arsinoe, Be- renice e Cleopatra; poi quelli di varii altri personaggi di ambedue i sessi, come A4ete , Pirra, Filino j Areja Diogene ed Irene; e finalmente, anche un Zonio colla sintassi? È ella una storia ? un proprinomio? un alma- nacco di corte di quei tempi? un repertorio encicople- dico, se racchiude tante cose, tanto diverse e tanto lonta- ne le une dalle altre, che non si possono accordare insie- me ? In quanti secoli fu ella fatta ? Del resto, non è meno privo di fondato: ciò che dice il signor Champollion nella sua lettera al Signor Dacier pag. 317, cioè, che il suo così detto alfabeto rac- «chiuda , in grandissima parte, i geroglifici fonetici, che venivano, secondo lui, mischiati in certe occasioni alle scritture egiziane; e quantunque veda egli stesso che, posta la realtà della loro esistenza, potevano nel suo siste - ma essere moltiplicati senza fine, tuttavia sì crede in diritto di tirare una tal conseguenza , perchè il precitato suo alfabeto risulta da una serie di nomi proprii fonetici, (quali nomi proprii vi sono, o vi furono mai al mondo, che 29 _non siano fonetici î) scolpiti sui monumenti dell’ Egitto nell'intervallo di circa cinque secoli, ed in diversi punti di quelle contrade. Ma siccome la sua pretesa lettura viene distrutta dalle ragioni di già addotte, ed anche perchè quelle leggende, con quelle stesse lettere si possono proferire in alta) ma- niera e far loro dire tutt'altra cosa da quello che crede che dicano il nostro erudito antiquario , così cade in pol- vere tutto l’edifizio. E per verità, la parola IITOAMHE o IITAOMHE, ch’ei legge tredici o quattordici volte in varii monumenti posti in diversi punti dell'Egitto, po- trebbe dire egualmente, (invece di ITTOAEMAIOE, co- m'esso pretende ), ITOAEMOX, guerra, battaglia , op- pure , IITOAMIZTHE, lertagliona ve mpuilù E la leggenda NAOA TPHNE KPMNHKS THKKZ, ch'egli vuole che dica, Nerva Trajano, Germanico, Dacico, Dotrebhe leggersi an- che più naturalmentente così NerAos Oepeàs Kpypyyaws, Tyx- tixos, cioè|il IVilo solstiziale, che precipita da luoghi diru- pati, ed ha la forza di liquefare; odancora, che si scioglie in umore, leggendol’ultima parola Téxyxos,in luogo di Tyx- Tixos ; come se dir volesse, il divino Nilo, che al solstizio d’estate hala forza di sciogliere le nevi negli alti e diru- pati monti dell’ Abissinia e "dell Etiopia, e scende in tor- renti ad inondare e fecondare le campagne di Egitto. Ed ognun sa che questo fiume era veramente riguardato come divino, ed adorato come divinità dagli egiziani ; ch' egli aveva i suoi sacerdoti e le sue feste, e secondo Bru- ce ne ha tuttavia presso alle sue sorgenti. Questi all’ ap- parire di Sirio adunano il popolo presso al fiume, e gli sacrificano una vacca rera, chiamandolo, il Dio supremo, il Dio salvatore. Si potrebbero citare ancora alcune, pic- cole medaglie d' Alessandria che portano una iscrizione , la quale dice , al Dio Santo INilo; e cento e mille altre suliccnedla per sostenere la nostra interpretazione, che non mancherebbe di ragionevolezza, se non fosse fuori di de» ogni ragione e d'ogni possibilità la lettura dei gerogli- fici. A pag. 40 poi della stessa lettera, ed a pag. 43, il si- gnor Champollion si contradice manifestamente; poichè afferma prima, che gli egiziani dovettero all’ influenza dei greci e dei romani l'introduzione della scrittura semi-alfabetica presso di loro, perchè queste due nazioni si servivano, depuis long-temp s,d'un alfabeto propria- mente detto ; e poi dice, che l’ Europa, la quale ricevè . dall’antico Egitto gli elementi delle scienze e delle arti, ne ha ricevuto ancora l'inestimabile beneficio della scrit- tura alfabetica. Qui vi sarebbe da fare un lungo ragiona- mento, ma ci contenteremo di dire, che‘a chi ragiona così, non solo è permesso di leggere i geroglifici egiziani, e di leggervi i nomi di Tiberio edi Traiano sui monumenti di 7ebe, sull’obelisco Pamfili, ed accanto allo zodiaco di Dendera, ma gli si accorda ancora di leggervi quello di Luigi XVIII, e quello ancora di Zturbido , se così gli aggrada. o Ma è ormai tempo di dareai nosti lettori un saggio più esteso della maniera colla quale il signor Cham- pollion le jeune si conduce nel leggere i così detti gero - Glifici fonetici, onde vedano per sè stessi , quanta incoe- renza, quanta irregolarità , e quanta incertezza vi si scorga ad ogni passo. Lo faremo dunque spiegando la tavola qui annessa, la quale contiene diversi di quelli ch’ ei chiama cartelli geroglifici, indicati da noi coi numeri arabi dal- l'uno fino al trentuno; ed i numeri romani che’ vi si tro- Vano aggiunti, richiamano la numerazione delle tavole antiesse alla lettera del signor Champollion medesimo, diretta al signor Dacier. - I primi numeri 1, 2, 3, 4, e 5, contengono dei nomi scritti in carattere demotico, e sono i seguenti, cio è; Ales- sandro, Tolomeo, Arsinoe, Sintassi, ed'ancora, Ales- sandro, e sono scritti così: AAKZANTPZ, IITAOMHE» 31 APEHNE, ENTKZEZ, AAKENTPO®. I primi quattro sono tratti dalla famosa pietra di Rosetta, ed il quinto da un papiro demotico, acquistato ultimamente dal Re di Fran- cia per il suo gabinetto. Questi nomi demotici, dice il nostro archeologo, che si devono leggere da destra a sinistra, come si leg- gono le scritture ebraiche , siriache , sammaritane, cal- dee, persiane, arabe, turche, ed altre. Veramente fa meraviglia come gli egizii, che sono senza dubbio discen- denti degli etiopi, almeno in prima origine, ed ebbero da loro le scienze, le arti, e per conseguenza anche la scrittura, dovessero leggere e scrivere da destra a sinistra, quando quelli al contrario lo facevano, e lo fanno tuttora, da sinistra a destra come gli europei, e lo stesso fecero e fauno tuttavia gli egizii medesimi colla lingua cofta; ma non è questo nè il tempo nè il luogo di agitare una tal:quistione, e ne parleremo altrove. Fa poi non minor meraviglia che neppure in carattere demotico sapessero trascrivere un nome proprio, od altra parola correttamente. Nei inmumeri poi che seguono si contengono i veri geroglifici,i quali, c'insegna il signor Champollion, (let. al sig. Dacier pag. 45 ) che si deve fare attenzione nel ‘ leggerli alla maniera colla quale sono disposti i cartelli, cioè, orizzontalmente o verticalmente, e possono in am- bedue.i casi procedere indifferentemente, o da destra a _si- nistra;0 da sinistra a destra: e basta badare di cominciar sempre la lettura da quella parte, ove guardano le teste degli animali che vi sono frammisti. ( E quando non ve ne siano, resterà in arbitrio di chi legge il cominciar da quella parte che gli torna più comoda). Il che peraltro non dovrebbe, nè potrebbe essere , se i geroglifici fossero veramente Zeggibili e pronunziabili, perchè allora si dovrebbe partire da un principio fisso, ed avere una regola sicura ed invariabile, come accade in tutte le scritture leggibili e pronunziabili. | 32 I numerì 6, e 7 contengono i nomi proprii Cleopatra ed Alessandro, scritti come segue: KAEOIATPA, (è l’unico di quanti ne ha letti il sig. Champollion, che sia be- ne scritto) e AAKENPES, e bisogna leggerli così. Il primo, cominciando dall’alto, si legge da sinistra a destra, ed an- dando a perfetto meandro. Avanzano poi due segni; che l’autore dice essere indicanti il genere femminino. Ed .il secondo si legge, cominciando parimente dall’alto, e ve- nendo prima in giù a perpendicolo; e poi bisogna terminarlo a zig-zag ancor questo. Il primo di questi cartelli è copia. to dall’obelisco di File, ed il secondo dagli edifizi di diga nac. I numeri 8, 9, e 10; che tutti e tre portano il nome di Tolomeo; scritto prima IITOAMHEZ, quindi IIT AO- MHE,.e finalmente ancora IITOAMHE, uno dei quali è tratto da Derdera, ed un altro dal Monolito di Qous, bi- sogna leggerli così. L'8.° cominciando a destra in alto e venendo-in giù, poi tornando in su a sinistra, quindi scen- dendo nuovamente a perpendicolo , Dea declinando a de- stra, ed infine portandosi a sinistra. Il g:° convien leggerlo cangiando sistema, perchè bisogna cominciare in alto a sinistra, andare a destra, poi scendere verticalmente co- me nell’altro, poi voltare ancora a sinistra, e quindi finire coll’andar nuovamente a destra. Il 10.° poi, bisogna leg- gerlo cominciando in alto a destra, e scendendo un poco a perpendicolo, poi risalendo in alto a sinistra, quindi scendendo un altro poco come prima ; ed. infine andando da destra a sinistra. Il numero 11, ove l’ autore legge ancora il nome di Tolomeo , scritto parimente IITOAMHZ, e poi traduce i segni ch vi rimangono e che non legge, sempre vi- vente , caro a Phta, convien leggerlo, cominciando in alto a destra, e scendendo un poco a piombo, poi tornando in alto a sinistra, quindi scendendo ancora, come avanti» a destra però, e Giai a sinistra. 33 Il 12. è'‘un cartello tolto dagli edifizi di Karnac, che contiene il nome di Alessandro, scritto, secondo il sig. Champollion ANKZANTPZ, e si deve leggere comincian- do a destra in alto e venendo a basso, poi risalendo in cima, e scendendo ancora, poi andando un poco a sinistra, quindi rimontando in cima, e scendendo nuovamente in fondo. Il 13:° ed il 14° contengono entrambi il nome di Cleopatra, scritto, una volta KAAIITPA, e l’altra KAOIITPA, ( elegantissimi entrambi ), e devono legger- si, il 13° cominciando ancora dall’alto al basso a sinistra, poi andando a destra, e quindi scendendo verticalmente, finire a sinistra: ed il 14.° cominciando in cima dal primo segno , poi scendendo a sinistra, quindi andando orizzon- talmente a destra , poi scendendo perpendicolarmente, e finendo ancora a destra. I due segni che vi avanzano, dice il N. Autore che indicano il genere femminino. Il 15.° contiene lo stesso nome, scritto KAAOIATPA o KAHOIIATPA, ed avanzano gli stessi segri, e deve leg- gersi così: bisogna cominciare, come nell’ antecedente in cima, e scendere a sinistra , poi andare a destra, poi scendere ancora , e tornare a sinistra, ed infine tornare a destra , e scendere verticalmente. Il 16.°è un cartello doppio che contiene, secondo il sig. Champollion, i nomi Tolomeo Cesare, così scritti: ITTO- AMHZ KHZAS, e bisogna leggerlo, cominciando da quel- lo posto a sinistra, dall’ alto al basso, partendo da destra, e scendendo un poco a piombo; poi risalendo a sinistra, quindi riscendendo ancora un poco a perpendicolo, ed in- fine portandosi a sinistra: e l’altro si legge dall’ alto al basso tutto verticalmente. Erano veramente goffi quei sacerdoti, che non sapevano porre un nome col suo ag- giunto in un solo cartello, ed avevano bisogno di farne due ... Questo è tratto da Derdera. Il 17.9, che pure è trascritto dal fregio del tempio di T. XI. Settembre 3 34 Dendera ,. come lo.è il 18.° dal basso rilievo che. toccava la parte destra dello zodiaco circolare di quell’antichissi- ma città, contengono, il primo, il titolo /mperatore, così scritto, AOTOKATA; ed il secondo lo stesso titolo seritto come segue AOTKPTP, e si debbono leggere nel modo seguente. Il primo, cominciando in alto, da sinistra a de- stra; poi da destra a sinistra, e quindi verticalmente ; e- l’altro cominciando, contro la regola stabilita dal N. Pops re, da destra andando a sinistra, benchè l'uccello guardi a sinistra; poi scendendo a destra, e tornando a sinistra , indi precipitaudo giù a perpendicolo. Il 19.° comprende i nomi l’imperatore Cesare, scrit- ti così: AOTOKPTOP, KEZPZ; e si deve leggere, comin- ciando in alto in mezzo, e ai a PR poi stili a sinistra ancora in alto, e scendendo un poco dalla stessa parte; poi piombando giù verticalmente, ed infine por- tandosi da destra a sinistra, e poi piombando ancora a perpendicolo. Il 20.° ed il 21.°, ambedue cartelli doppi, contengo- no, i primi due le seguenti parole: (’ /mperatore sempre vivente, Domiziano Cesare Augusto , così scritte: AO- TKPTOP TOMTHNX EBZTX; ed i secondi, le seguenti: L’ Imperatore Cesare Domiziano Germanico , scritte come segue: AOTOKPTOP KHEPE TOMTHNZ KPMN- HKE, e si devono leggere così. La prima coppia , comin- ciando da quello posto a destra, sì principia a sinistra in alto, e si va a destra, poi si coda verticalmente; e quel- lo posto a sinistra , si comincia pure in alto a sinistra an- dando a destra , quindi si cade a piombo, poi si torna a sinistra e sì va a destra, e si finisce collo scendere dal- l’alto al basso, e portandosi ancora a destra. La seconda coppia poi si pa gge, cominciando nel mezzo in alto da quello posto a destra, ed andando prima da destra a sini- stra, poi saltando in alto a destra , e scendendo vertical- mente, quindi ritornando a destra, ed andando a sinistra, sis tion TA 35 e terminando col cadere a piombo : e l’ altro si comincia in alto, si viene a basso verticalmente, poi si salta a destra e di Jà isi va asinistra, e riscendendo dall’ alto al basso; e fihalmente nel venire dall’ alto al basso ancora sì pas- sa a destra; e di là si torna a simistra , e poi bisogna ri- volgersi a destra , e ritornare a sinistra un'altra volta. cl 22. contiene ancora i nomi Domiziano Germanico, scritti così; TOMHTN® KPMHNK®, e sì legge scenden- do dall'alto al basso, poi andando da destra a sinistra e ritorcendo il camino a destra, poi riscendendo un poco, quindi rivolgendosi a destra, ed andando a sinistra , € ritornando ancora a destra, e di là a sinistra un’altra vol- ta; eterminando dall’ alto al. basso. Il 23.° che è un cartello copiato dall’ obelisco Pam- fili, porta pure i nomi Cesare Domiziano , scritti nel dida seguente: KHXP® TMHTIHNZ, e si ca così. Si comincia dall’alto al basso verticalmente, poi si passa a sinistra e si va a destra, e quindi scendendo ancora a piotmbo. Rimangono sotto i soliti segri, che il dotto auto- re traduce, sempre vivente. :.4l 24 è un cartello copiato dall’ obelisco Barberini, e contiene i nomi Adriano Cesare, scritti: così: ATPHNZ KEP, esi deve leggere come segue. Si comincia in alto; sì viene a sinistra e poi si va a destra, quindi si scende, poi si parte da sinistra andando a destra, e scendesi an- cora al basso. Il. 25.° contiene il nome di Pio scritto ATO- NHNZ; e vi restano alcuni segni, che il N. ‘autore non legge. lei sì legge nel modo seguente: si parte dall’alto; venendo al basso , poi dal bat si torna in su, e quindi dal mezzo, partendosi da destra, sì va a sinistra, e sì finisce nel mezzo a basso. | (Il 26. è un cartello doppio tratto dal Portico di Esine ; } e contiene i nomi e titoli, Tiberio, Claudio , Ce- - sare,Germanico, Imperatore, scritti come segue: TBPES 36 KPOTHE KHEPZ KAMNHKZ AOTKPTOP; e si debbono leggere così. Cominciando da quello situato a sinistra, un poco a basso a destra, poi salendo in cima, e riscendendo un poco, € tornando a destra , ed andando ancora a sini- stra; poi riprendendo in n da sinistra a destra; quin- di tornando a sinistra un’ altra volta, e di là saltando ancora a destra , poi riportandosi a dini , e tornando in mezzo per iscendere fino in fondo: e l’altro, comin- ciando- in cima, scendendo un poco a perpendicolo, poi ad un certo punto saltando a destra ed a sinistra, e quin- di riprendendo in mezzo, e scendendo ancora ; ed infine si riprende a destra per andare a sinistra, dal basso al- l’alto, e si prosegue poi dall’ alto al basso , ed ancora da destra a sinistra, e riscendendo in fondo. Il 27: *, altro cartello doppio, contiene i nomi e tito- li, l Zmperatore Cesare, Nerva, Traiano, Germani co, Dacico, scritti, AOTOKPTP KHZ NAOA TPHNX KPMNHKEZ THKKS, e si devono leggere così. Si comincia da quello posto a destra, in cima nel mezzo, andando a destra, poi saltando in su a sinistra, e scendendo, un poco più a sinistra ancora ; quindi scendendo un tantino verti- calmente, poi tornando a destra, e di là portandosi a si- nistra j indi riprendendo a destra , ed andando a sinistra; e poi ritornando ancora da destra a sinistra , e da sinistra a destra, e terminando a sinistra in fondo: e l’altro sì comincia dall’ alto , venendo al basso, si passa a destra, e di lì sì va a sinistra, poi si scende, e quindi si torna a destra e a sinistra; di poi si va ancora a destra , e rivolgendosi a sinistra, e di lì a destra un’altra volta , e poi a sinistra, si finisce, come Dio vuole , precipitando dall’alto al basso. Il 28.°, cartello doppio come i due precedenti, con- tiene i nomi, l'Imperatore Cesare Antonino, sctitti AO- TOKTOP KHEPE ANTONHN5Z; e si leggono come segue. Cominciando nel mezzo in alto, da quello situato a sini- stra , si va a destra, poi si salta in alto a sinistra e si 37 scende un poco, quindi sì torna in mezzo, e si va giù a piombo , poi si torna a destra , e di là si va a sinistra, quindi si torna in mezzo, e si scende in fondo verti- ‘calmente: e nell’ altro si comincia in alto a sinistra e si va a destra, poi si scende a perpendicolo nel mezzo, e da destra si va nuovamente a sinistra, e si ritorna a destra. Vi rimangono i soliti segni, spiegati dall’ autore , sg vivente. Il 29. cartello, tratto dall’ obelisco Pamfili, con- tiene i seguenti nomi e titoli: Z' /mperatore Cesare Domiziano Augusto , scritti così, AOTKPTA KH2PX TMHTENE, ZBETX, e si devono leggere come segue. Si comincia in alto a sinistra’, e si va a destra, contro la re- gola dell’ archeologo parigino, ( perchè l’uccello guar- «da a destra, e si dovrebbe cominciare da quella par- te, ) poi si scende a perpendicolo. I segni posti in mezzo alle due parti del cartello non sono letti dal nostro au- tore, ma vengono da lui interpetrati, figlio del sole, sovra- no delle corone. E quelli della parte inferiore li legge , in principio, cominciando in cima, e scendendo al basso, poi va a destra, e di là a sinistra, e di là ritorna a destra, da dove ritorna ancora a sinistra e scende in fondo. Il 3o.°, tolto dall’intercolunnio dell’edifizio di File, è un cartello che porta i nomi, Nerva Traiano, scritti così: NPO TPHNZ, e si leggono come segue. Si comincia nel mezzo in cima, si scende un poco a destra , poi si fa un salto a sinistra; quindi si prende in mezzo, e scenden- do un altro poco verticalmente , si piega a destra sempre scendendo, poi si risalta in alto a sinistra, e si scende ancora , e finisce. Restano i soliti segni, non letti dal signor Champollion, mada lui interpetrati, sempre vivente. Il 31. finalmente è un cartello diviso in due parti, . fra l’una e l’altra delle quali sono tre segni, che l au- tore non legge, ma traduce , sempre vivente , amato da Zside. Questo contiene in ‘nei le parti il titolo, 38 Ta Augusto ; scritto tutte e due le volte XBXTE , e per leg- gerlo si deve tenere la regola seguente. Nella parte supe+ riore si comincia in cima a destra ; poi si; va a sinistra;. e di là si ritorna a destra , indi si scende in fondo a sini stra , ed andando un poco in su, sì termina in mezzo j e per abbondare ci avanza ‘anche qualche cosa. Nella parte inferiore. poi si comincia a sinistra andando a' destra‘; poi si fa un bel salto all'indietro a sinistra portandosi molto a basso, indi si rimonta in su a destra, e sì scende verticalmente. Restano i tre segni ; non letti, e terra sempre vivente. ONE Dopo aver sostenuto sì lungamente la ‘pazienza! e Ja noia di tener tanto dietro al signor Champollion le jewne nella lettura dei geroglifici fonetici., com’egli li chiama; ragion vuole che ci affrettiamo ad aggiungere alcune altre brevi osservazioni, per dar fine con esse a questa \chiac» chierata erudita , ch'è forse già troppo lunga , sa trovar chi si voglia prender la pena di leggerla. Concludiamo dunque, che il sistema gero glifica fs netico del chiarissimo archeologo parigino, ci sembra del tutto insussistente ed assurdo : 1.° Perchè egli pretende di leggere ciò che: nessuno lia mai letto, e neppure quelli che l’inventarono, giacchè i geroglifici, non furono, non sono, e non saranno mai leggibili, ripugnando ciò alla loro natura, poichè non sono caratteri di uma scritiura , ma bensi pitture, o'scil> ture di idee; e mon vi è mai stato, nè vi poteva essere mai il caso, in cui gli egizii se ne siano serviti per espri- mere dei suoni, e per iscrivere dei nomi proprii e dei titoli di personaggi stranieri o indigeni, mentre perciò fare avevano la loro vera scrittura alfabetica bella e buona , senza far cangiar natura alle cose , come altrove abbiam ke | .° Perchè pretende di leggervi dei nomi, e dei: titoli di Glidiageti che vennero al mondo molti secoli dopo 39 l'epoca in cui furono eretti e scolpiti i monumenti ow' egli li legge. 3.° Perchè ve li legge in una lingua, che non è quel- la del paese e del tempo in cui furono fatte le sculture sulle quali pretende di leggerli. 4.° Perchè ve li legge: con una ortografia sì strana e sì contraria alle buone regole della lingua greca, che bi- sognerebbe credere, i più goffi ed ignoranti esseri del mondo quei sacerdoti egiziani che ne furono gli autori, e che si sono creduti finora da tutti i savii , di tutte le nazioni, molto istruiti e molto sagaci. :5. Perchè nessuno scrittore greco, latino, ebrea, arabo, caldeo, persiano, sito, parlando dei geroglifici egiziani e delle varie loro specie, fece mai alcuna men- zione di geroglifici fonetici. Anzi Clemente Alessandri- no dice , che tutta la sapienza egizia si divideva in cinque parti, cioè; fisica, morale, politica, teologica, e magica, aggiungendo , che era compresa , parte in scritti , e parte in geroglifi ci. (1) - 6.° Finalmente; perchè il pretendere di trovare espres- si in geroglifici i nomi ed i titoli d’ uomini, siano pure essi grandi ‘ed’ illustri quanto esser possono ; siano pure monarchi potentissimi, è un manifesto paradosso ; poichè ciò sarebbe stato un bel sagrilegio nella teologia egiziana, la quale voleva separate affatto Ze cose sacre dalle profa- rie; ed i veri gerog glifici, che non bisogna confondere sl. (1) Ed era tale e tanta la venerazione che avevano gli egi- ziani per la scienza geroglifica , e fu presso di loro coltivata , non meno che le altre scienze, fino da tempi sì remoti, che S. Giu- stino, filosofo e martire asserisce nel suo libro ,, Questionum a gentibus positarùm ,, che ,, Mosen; omisso studio omnium mathe. maticarum, quae tum in Aegypto erant vulgares, et viles, adie- cisse animum ad solas hieroglyphicas disciplinas, quae tum apud eos solae in honore, et praetio erant, et non quibuslibet, sed prae- cipuis, et probabitissimis viris, et in abditis locis secreto trade- rentur. pn 40 coi simboli , non erano destinati ad altro, che. a rappre- sentare in misteriose allegorie le più sublimi ed arcane idee teologiche, superiori all’ intelligenza degl’idioti. Però non si poteva scolpire in geroglifici, se non ciò che riguardava direttamente la Divinità ed i suoi attributi; il corso delle stagioni, mediante l'influenza del sole, della Zura, e degli astri, tutti divinizzati da loro, e che formavano una parte integrale della teologia medesima. Di questa sorta sono i geroglifici scolpiti negli obelischi dedicati al sole archetipo sopranaturale, insensibile , ed immateriale , fra i quali si annoverano fra gli altri, dagli avtichi scrittori, i due obelischi, Manuphtico e Sot- hiaco, oggi Pamfili, e Barberini. Altri poi lo erano al su- premo triforme nume, al sole sensibile e materiale, mo- deratore del tempo, ed i geroglifici che vi sono scolpiti , alludono all’ astronomia, al corso delle stagioni, alla pro- duzione delle cose, ed alle diverse cure agrarie, conve- nienti e ricorrenti mei varii mesi dell’ anno ; cose tut- te riguardate come sacre nella religione egiziana. E di questo. secondo sole intendeva parlare l’ oracolo di Apol- lo Clario in Colofone , con quei versi: HAsos, Qpos, Ogipis, devez, Aiovuros, ATDARWY , Qpiy, He) neipov Topino, avepwvre nei Gue pv, How, xe} VUNTÒS TOAVASTEPOS UVÌe VwpIWY > Zapheytwy dorpuv PaGiAsde, nò° aZavarov Tip.(2) Comprendiamo benissimo , che queste nostre osser- vazioncelle , qualunque siensi, saranno male accolte da tutti quegli archeologi, che non sanno dipartirsi dalla trita e falsissima i [hs tutto sia indigeno della Gre- cia, che quella nazione sia stata la sola inventrice e pro- pagatrice di ogni umano sapere, e di ogni maniera di arti; e forse ancora ci sì scatenerà contro tutta la generazione dei pedanti, perchè (2) V. Or. Metr. Iov. Ap. et Serap. ec. a Ioanne Opsopaeo collecta- Parisiis 1607 pag. 6. 4I | Garrula divelli rana palude nequit. Ma amanti, come noi siamo d’istruirci, e desiderosi del vero e della libertà del nostro pensiero , non potremo rinunziare alla nostra opinione se non se a fronte di au- torità di classici antichi, e di buone ragioni che ci per- suadano: e siamo convinti, che tutti i sistemi possibili non toglieranno nè aggiungeranno mai neppure un misero jota all’antichità maggiore o minore dei monumenti egi- ziani, e non faranno mai cangiar di natura e di essenza ai geroglifici di quella nazione. È dimostrato fino all’ ultima evidenza, quando non vogliasi negare la certezza mattematica, la quale si è ri- guardata finora da tutti i savii come l’ unica che possia- mo avere in fatto di scienze, che quei monumenti rimon- tano ad un'epoca molto più remota di quella, che si pre- tenderebbe di fissar loro: e fra i monumenti egiziani, dei quali si è tentato finora con vani sforzi, e con dotte chiacchiere di abbassare eccessivamente l’ epoca, tiene un posto distinto il tempio di Dendera, collo zodiaco circo- lare scolpito sulla soffitta del suo Portico. Questi non sono certamente opere greche, come pretese il celebre antiquario Ennio Quirino Visconti, e come afferma- rono, non per intima convinzione cred’io, ma per far la loro corte a quel dotto, allor favorito da un fortunato po- tente, il De la Lande, ed il Larcher. Per più lodevoli cagioni però voglio credere che sostenesse una tale opinione Monsignor Testa. E benchè siano questi tutti nomi d’ uomini rispet- tabilissimi, e noti al mondo letterario per molta scienza e per varia erudizione, tuttavia, la venerazione che ab- biamo per loro, non ci tratterrà mai dal ribatterne gli errori ovunque noi li seorgiamo. Qual fede infatti si può prestare alle ragioni del signor Visconti, e dietro a lui a quelle del ZLarcher e di Monsignor Testa, i quali preten- dono di persuaderci, che il Z'empio di Dendera ed il suo 42. zodiaco sono opere greche e recenti, e non di stile egi- ziano, perchè il primo è di una forma simile a, quella dei. T'empii greci, ed il secondo contiene il segro della dibra, che non era conosciuto anticamente dai greci, e perchè. le figure ne sono ben disegnate, e ben dipinte? Chi mai, senza aver lo spirito prevenuto, può dedurre da ciò, come quei dotti archeologi lo deducono, che l’ uno e 1’ altro sono opere greche , e precisamente di circa il tempo d'Au- gusto o di Tiberio? Noi confessiamo: la nostra balordag= gine, non possiamo persuadercene : e non crediamo nep- pure con Monsignor Testa, che Tiberio od. Augusto ri- fabbricasgero, e nemmeno ristaurassero vistosamente: quel tempio, perchè se ciò fosse vero, non avrebbero mancato, gli scrittori romani di prodigargliene lode a piena bocca nelle loro scritture, come hanno fatto di tutte le opere ed azioni, anche minime , di quei da loro: vituperevol- mente divinizzati mostri coronati. E..volete: che mon ci dicessero, che Augusto o Tiberio aveva: rifabbricato il tempio idi Dendera, che era tal opera» da‘oscurar tatti quelli di Roma? Ma è opera di greco stile e non egi- zio, soggiungono gli avversarii;. e. come: si. prova. ciò? Hanno eglino, gli egiziz, tolta la loro architettura, dai greci , ovvero questi da quelli? Non sono‘eglinp, è greci, una nazione moderna in confronto degli ‘egiziani, come altrove accennammo, ed.impararono da questi. le: arti: e le scienze? Ma vi si scorgono: delle figure ben disegnate ; e dipinte con amore e con garbo, come'lo erano. quelle dei greci, replicano essi: e che perciò? ne viene forse la conseguenza: che siano greche o di greco stile? Non igno- riamo che è greci, i quali ebbero la vanità:di farsi auto- rì di tutte le arti e di tutte le scienze, vollero appropriarsi anche l’invenzione del disegno e del colorito ; ‘e perciò ci lasciarono della pittura lineare delle scarse memorie, ed affatto improbabili. E gli scrittori romani, interpetri ‘soltanto ed imitatori: dei greci} ci tramandarono: senza 43 esitare gli antichi loro favoleggiamenti; ma l’origine falsa di qualche invenzione ; si manifesta dalla diversità dei racconti ‘intorno alla medesima. I sicioni pretendevano che la figlia di Debitade scultore avesse fatta, contor- nando l’ombra del suo innamorato, la prima pittura linea- re; i corintii volevano che l’avesse fatta un tal Cleante; e gli ateniesi, ne spacciavano Cratone per inventore. Plinio da storico enciclopedista non ebbe difficoltà , dopo di ‘aver fatta: menzione di due inventori di quest’ arte, e quel’ che è più mirabile, dopo aver affermato in altro luo- go , che Gige Lidio n’ era stato il ritrovatore, non ebbe dico difficoltà di stimarla di origine greca, e di screditar l'opinione meglio. fondata, che fosse cioè, conosciuta dagli' egiziani molto prima dei greci. si Se egli avesse esaminati eda livi i più antichi monw- menti: greci, come fece Pausania, avrebbe egli pure adot- tata l’ opinione, che fu wr egizio il primo che insegnò ai greci (A disegnare gli esterni contorni delle figure: b é furono da lui ‘istruiti in quella maniera stessa che ave- va ‘imparata nel proprio paese, e che vi era conosciuta e praticata molti secoli prima. E a dire il vero, le più anti- clie memorie delle arti fra i:greci, alcune delle quali ar- rivano fino alla fondazione di molti dei loro popoli, sono egiziane. Le statue. egizie sono le più antiche della Gre- Gia: riti nei sagrifizii, edi sepolcri vetustissimi di per- sonaggi egiziani, provano abbastanza, essere ‘stati 1 mede- simi i' primi che illamimarono Za Grecia (1). Ma nello zodiaco :di Derdera si trova il segno della libra , che i‘greci antichi non conoscevano , ripetono an- cora i ‘nostri pics a dunque: si deve giudicare opera v car V. Requeno , saggi Jok'ristàb! ‘della pit. Grec. e Rom. ec. T..1. ‘pag. 10: COREA 44 greca, e non più antica dell’ epoca dei Lagidi. Che i gre- ci non conoscessero anticamente la libra, cioè , che non dassero questo nome al segro dello zodiaco che oggi lo porta ne conveniamo, perchè lo chiamavano chele, e giogo, X1Aai, Zuyòs; ma non so vedere il perchè si debba trarne la conseguenza , che perciò non la conoscessero gli egizii, e che non le dassero pure un tal nome e la disegnas- sero ancora con una tal figura nei loro zodiaci, nell’ istes- sa maniera che la conoscevano gl’ indiani, altro popolo antichissimo e dedito al par degli egizii allo studio dell’ astronomia, invitatovi anche dalla serenità del suo cielo, come gli assiri ed i caldei. Ed Amarasinha, scrit- tore indiano che fioriva circa un secolo prima dell’ era volgare, ha registrato nel suo gran Dizionario , reputato da tutti i dotti uno dei libri più classici dell’ Zadostan, la voce tula, che in lingua Samskrdamica , significa precisamente ibra, bilancia; e vi ha registrate pure le voci tulyam, che significa eguaglianza, e tulya, egua- le; ciò che prova , se io non erro, che non a caso fu da loro dato un tal nome ed una tal figura a quel segno dello zodiaco , che quei vocaboli erano già in uso molto prima dell’ età di Amarasinha medesimo , e che è que- sto illoro primitivo e genuino significato. Non era egli più ragionevole e più giusto il dire, senza perdersi in tante vane logomachie, e senza andar pescando quà e là erudizioncelle da retore, che lo zodia» co come il tempio di Dendera, sono vere opere egiziane , come hanno detto e dimostrato tutti quelli che vedono | piùa dentroin tali materie, e che quel celebre popolo, tan- to più anticamente civilizzato, sapeva molto prima dei greci ciò che poi ha loro insegnato? E lo zodiaco greco non era egli copiato da quello di Eudosso, contemporaneo di Platone, che portò la sua sfera dall'Egitto in Grecia, come lo confessa egli stesso, e ne convengono tutti i gre- . ci scrittori? Come mai si può rinunziare alla ragione ed al | buon senso, oltre l’ autorità della storia, da credere che i greci, i quali furono sempre come i romani , molto igno- ranti in fatto di astronomia, l’ abbiano insegnata ai loro maestri, che furono in ciò sapientissimi? Per provare l’igno- ranza dei greci in questa scienza, basta considerare che egli- no si servirono della sfera di Eudosso, e non furono da tanto, nè lui stesso nè altri, da ridurla in modo, che rappre- sentasse lo stato d’ allora del cielo; mentre quella che portò colà dall’ Egitto, indicava lo stato in cui si trovava circa (1300 anni prima dell’ era volgare: ed i romani fe- cero uso per 100 anni di un quadrante portato di Sicilia, senza accorgersi che non conveniva alla latitudine del loro paese. L’ ignoranza rende tutto credibile . . . - Domenico VALERIANI. eri Ci o ERRATA CORRIGE Pag. 2. nota 1. 7pòd9e, leggasi —7po0gev nota 2. Kr:ro9 Krisce AME”; AN £Y° metodo TETONOTO avEporwuy o» av$prwy | rodvTidanov TodvTIZHOU 46 Osservazioni concernenti alla lingua italiana ed ai suoi vocabolarii; di Ancero PezzanA. Parma, 1823. Non è certamente vana occupazione lo studio delle parole, perchè ivi più fioriscono e lettere e scienze, ove a maggior perfezione e dovizia recata si vede la favella ,. e però ben merita chi d’intorno vi adopera l'ingegno. Ai pre- clari filologi, a ciò mossi da carità della patria italiana, onde non vada menomata d’ogni sua signoria , si è non ultimo | in valore testè aggiunto il laboriosissimo signor. avvocato Pezzana, bibliotecario della ducale di Parma, pubblicando un volume di osservazioni concernenti alla lingua ed a? suoi vocabolarii. Egli ha fra tutti preso di mira più: par- ticolarmente quello della Crusca colle giunte del Cesari; e poichè io per una generale rassegna nella parte che alla milizia riguarda l’ ho tra le mani, emmi stato occasione di meglio che per avventura sia per farsi da molti consi- derare a tale opera. Esempli di poesia, che tratti dal gran- de emporio del Zrioso aggiungonsi dove non erano che di prosa, vocaboli e modi non prima avvertiti, giudiziose considerazioni pel metodo ad aversi ne’ dizionarii, bello e franco stile, quella sommamente raccomandano, e la racco- mandano, quasi direbbesi , ancora gli abbagli, siccome in ogni umana cosa trascorsivi, perciocchè muovono princi- palmente dal grande amore di trovare novità e crescimen- to al comune linguaggio. Il perchè non avendo a temere d’increscere a persona notandoli, mi ci pongo liberamen- te secondo le osservazioni venutemi di mano in mano. Dalla prefazione or dunque incominciando, ove l’au- tore dagli ardimenti del Ferrarese in fatto di licenze nella lingua, raccomanda si astenga chiunque lena uguale non abbia, io avviso cou altra sentenza della sua che nei soa- vissimi versi detti da Ruggero a Bradamante : Sio non amassi te nè il cor potrei—.Nè le pupille amar degli occhi miei; il pronome miei non serva altrimenti all’ accusati- 47 vo il cuore come al genitivo degli occhi, oude sarebbe , stando alla lettera, il costrutto, che se Ruggero non amasse la sua Bradamante, non potrebbe neppure amare il cuo- re e le pupille degli occhi: proprii. ZZ cuore degli occhi è troppo grande sproposito che necessariamente conseguireb- be dal miei accordato a quel modo, perchè non abbiasi a dubitare di mala interpretazione. E veramente secondo quello mi si è rappresentato a dirittura in leggendo i due versi, senza aver avuto prima sovra loro avvertimento alcuno, egli pare che stia la licenza nell’aver lasciato a sottintendere nel primoil pronome mio da appiccare all’ac- cusativo 7 cuore, pronome che ti vien subito da sè, e quasi pensi che vi era come se i due fossero stati così : Sio non ti amassi nè il mio cor potrei. — Nè le pupille amar degli occhi miei: mi saetti però Giove, se io mai pensassi ad aggradire questa mutazione, Evvi tanta leggia- dria in quella Ellissi , e così dolcissimo è il verso ; che di toccarvi sarebbe sagrilegio. Non troverebbesi altrove dimo- strazione maggiormente verace della magia che ha nel discorso il collocamento delle parole. Quel mio da accor- darsi alla parola cuore e che non leggi, ti nasce in testa appunto quando così stretto al suo sostantivo trovi all’ulti- mo il miei. Se ne lo muti come al modo seguente, non considerando per un momentoalla ragione del verseggiare, $° io non amassi te nè de’ miei Occhi la luce amar nè il cor potrei, la magia cade, e ne viene lo spropositato costrutto del quale mi par bello, se sì può, di non ta cciare l’ Ariosto. Ed eccomi con animo contento al Yocabolario. Con questa indicazione io contraddistinguo le cose che dal libro del sig. Pezzana vo recando ‘a disamina, perchè seguitano secondo l’ordine di vocabolario in cuì esso libro è è disteso. i Le osservazioni sono interpolate. Vocabolario. © Accecare ..: Accecare le cannoniere, V. imboccare. Imboccare 48 | le cannvniere, Gall. Fort. facc. 37,, sì poteva trovar modo chele can- noniere non fossero così esposte ad essere imboccate ed accecate. Lascio ai sapienti dell’ arte militare il dichiarar se questo îm- boccare, ed ancora questo accecare, abbiano il significato medesi- mo che, uguagliate tutte le cose, hanno l’imboccare e l’accecare le artiglierie. Osservazione. Imboccare, o si riferisca alle artiglierie od alle can- noniere , ha sin quì il medesimo significato di colpire în bocca , e sarebbe più a proposito dell’accecare, poichè le artiglierie e le cannoniere hanno la bocca, e così le trin- cee; onde ancora si dice imboccar le trincee , mentre accecare volgerebbesi al figurato, dal rendere ceco ‘0 togliere il lume quando le artiglierie per essere imboccate o scavalcate non si allumano più, e in questo senso ab- biamo spegnere le artiglierie, non così però spegnere le cannoniere; e nemmeno sarebbe modo approvato acceca- re le cannoniere, se il pensiero non fosse trasportabile al cannone che vi sta drento. La difficoltà per altro che ci pare qui è a sapere, se veramente la parola accecare appartenga alla milizia, perchè può esservi dubbio che l’esempio tolto dal signor Pezzana alla fortificazione di Gallileo , abbiasi da’ copisti pel facilissimo scambio della parola accecate con quella di acciacate, alterato. E vera- mente se deve prendersi accecate a sinonimo di imboc- cate , il dire , si poteva trovar modo che le cannoniere non fossero così esposte ad essere imboccate ed acceca- te, è quauto questo, si poteva trovur modo che le can- noniere non fossero così esposte ad essere imboccate ed imboccate, ovvero accecate ed accecate, e il Gallileo non era scrittore da tale superfluo , l’addove se invece di ir2- boccate ed accecate leggiamo imboccate ed acciacate ci si rappresenta la causa coll’effetto , il qual è battendo le palle in bocca le cannoniere di pestarle, onde sformansi e rovinano. Che sè vogliasi ritenere vera la citata lezione, per osservanza in verso la onoranda memoria del .cava- 49 liere Venturi, da cui abbiamo avuta la fortificazione di quel sommo mai edita prima, non bisogna per nulla fare di essa lezione autorità di sinonimo tra le due voci, ma secondo il già detto intorno alla propria significazione del- lo accecare, intenderla in questa guisa: disogruva tro- var modo che le cannoniere non fossero così esposte ad essere imboccate e spente del lume, riferendosi per questa seconda parte col pensiero all’ammorzamento del fuoco de’cannoni da esse contenuti. Vocabolario. Aperto ... Vale anche apertura che ki fa nelle bastionate delle trincee, onde possa scampare facilmente chi vi lavora dal ferro de’ nemici. Gall. Fort. faec. 45 ;, Però per provvedere a tal pericolo ( dell’ essere tagliati a pezzi ) sard dene fare alcune ba- stionate come si vede nella figura 38 tav. IV per le lettere QER, le quali abbiano li loro aperti con i suoi ripari innanzi, «c- ciochè dalla terra non possano essere imboccate dall’artiglieria’? e queste potranna servire per ritirata a quelli della trincea. Osservazione. Non vi è nè vi è stata struttura di fortificazione aven- te nome di Aperto. Aperto, che Aperta disse la Crusca è verbale equivalente in genere ad apertura, e Ze bastiona- te, come leggesi nell’ esempio di sopra, le quali abbiano li loro aperti, (se forse non avea l’originale Ze Zoro aper- te ) vuol dire, Ze dastionate le quali abbiano le loro aper- ture, nella stessa guisa che la voce aperta sta per aper- tura ne’ seguenti esempli tolti dalla Crusca a Giovanni Villani e a Dante. « Uscì fuori del carrino per un’ altra aperta che fece fare a suo carreggio. 12.66.» —Muaggiore aperta molte volte impruna—Con una forcatella di sue spine—L’uom della villa quando l'uva imbruna. Purg. 1 » Vorremo poi avvertire che le bastionate delle trin- - cee recate al tempo presente dal signor Pezzana in ques- ta sposizione sua dell’ aperto, non si conoscono più. La voce bastionate non la teniamo ora che ad aggettivo , co- me dicendo mura bastionate , fortificazioni bastionate. FT. XI. Settembre 4 50 | Le opere che già chiamavansi bastionate delle trincee, noi le denominiamo ridotti); sarebbe meglio come più ad- dietro, ricetti ) e tutte quelle che una volta sotto il nome di bastite si comprendevano, hanno adesso nome proprio dato loro, o dalla forma che tengono, o dal fine a cui ser- vono. Da bastite riteniamo solamente bastioni. Focabolario. Artiglieria. Strumento di guerra fatto di metallo, che per forza di fuoco scaglia palle di ferro o altro. Così la Crusca. Questa definizione non lascia dubbio che di altro qui si parli che degli stromenti da guerra inventati dopo il trovato della polvere ardente nel terzo decimo o nel quarto decimo secolo. Come dunque si pone fra gli esempli che debbono chiarire que- sta voce il verso dell’ Ariosto , l’artiglieria come tempesta fiocca ? A’ tempi di cui favoleggia questo divino poeta nel decimo del Furioso certo non avea di sì fatti stromenti, ove non si volesse prestar fede alla finzione dell’ arcobugio del re Cimosco, che ap- pena inventato da questo, fu dal signor d’Anglante toltogli e gittato nel più profondo mar. Pare dunque che Lodovico abbia voluto estendere la significazione del vocabolo artiglieria a qual si voglia stromento, v. g. la balista , col quale sì gittassero pro- jetti, o contro o da una fortezza anche prima della invenzione de’ cannoni, de’ mortai, e va dicendo. E se la Crusca vorrà conser- vare questo esempio dell’ Ariosto dovrà sembrami, allargare la significanza del vocabolo. Osservazione. La significanza del vocabolo vuol essere senza meno allargata , e il verso dell’ Ariosto /’ artiglieria come tem- pesta fiocca , riferendosi ad epoca in cui la nostra polve- re ancora non era, debbe rimanere a fare autorità del comprendimento il quale assegnasi ad essa parola , anche di ogni arma antica. Quanto alla etimologia, o si tolga da arte o da artiglio o dal latino barbaro attiralia, ( V. de Acquino lex. mil. alla voce artiZZator ) non ha in sè cosa onde la parola debba ristringersi a significare solamente le armi da fuoco. Gli stromenti da guerra anteriori all’uso della polvere, riguardato appunto all’arte del costruirli, si dissero artemonie. Siane fede il mio piacentino Corrazza- di no, il quale benchè in scempiatissima poesia, ha raccolte assai belle cose della milizia. Ragionando della Bombar- da, al lib. 3 cap. 2, mette così: A tutte l’altre macchi- ne che innante—Soleano farsi lei dette licenza—Wince, ariete, falce e torre errante.— Adesso sol per essa si fa senza—Tante artemonie e dove va in persona—Ogni edifizio gli fa riverenza. La cronaca sanese poi, come riscontrasi nel Muratori, ci dà veramente la parola artiglieria fino dall'anno 1315, prima cioè che fosse fatta menzione di bombarde e di schioppi, leggendovisi così: da fornirgli di balestre, di scudi, trabucchi e quadrella ed altre artiglierie. Testi- monio per altro più lucente dello abbracciare che fa la parola artiglieria tanto l’armi antiche quanto le moderne, si è questo del Rymer negli atti degli inglesi all'anno 1418, in cui dell’une e delle altre si faceva uso; ef sì est en- tendu que les artilleries sont arcs, flèches, Arbalestres, canons, poudre, et toute autre manière de trait et d'ha- billement de guerres. Ma un altro difetto della Crusca, non osservato dal signor Pezzana in questa voce, si è di averla dimenticata come nome della scienza che applica le matematiche e la fisica alla ragione del costruire e adoperare le armi, e d’ averla pure dimenticata, oltre alle partizioni sue di artiglieria grossa o greve o d'assedio, e d’ artiglieria leggera o spedita o sottile o minuta, d’averla dimentica - ta, io dico, nel significato che ha parlandosi di truppe, onde distinguonsi quelle particolarmente deputate all’ope- ramento delle bocche da fuoco. Vocabolario. Cambio . . stare sù cambi, frase de'cambiatori. Vale atea dere , avere particolare applicazione a far cambi di denaro. Dav. camb. 99. ,, Se voi pel contrario avete debito e ne volete stare sù cambi , come non correte rischio d' altri, ma altri di voi , così ogni altra cosa ec. ,,, 52 Osservazione. La Crusca avendo già insegnato alla parola stare, che questa colle particelle in. sul dinota l'essere vicino a fare quell’ azione , oppure a fare quella cosa di genio 0 per professione , von pare che quel modo stare in sù cambi possa offerirsi come di nuovo trovamento. Vocabolario. Collegio ... fig. per adunanza di pecchie o sciame , usollo l’ Ariosto nel Hatioso 26. 17.1, Come allor che il collegio si discorda—E vansi in aria a far guerra le pecchie ,y. Fu osser- vato anche dal Zotti. Osservazione. Che anche il Zotti osservasse valere questa voce ad adupanza di pecchie o sciame io non lo negherò, ma dirò sì bene che volendosene una conferma in questi due ver- si — Come allor che il collegio si discorda, e vansi in aria a far guerra le pecchie, ne cade contrario ef- fetto, perchè ove non fossero nominate le pecchie nel secondo verso, io ci metto la testa, se la voce collegio del primo si potesse intendere per sciame, e se il più abbu- rattato cruscante richiesto se abbia in sua villa de’ collegi, saprà cosa rispondere. Diciamo dunque piuttosto essere il collettivo collegio tanto delle persone che degli animali viventi insieme , e che la Crusca non l’ha avvertito. Se non che sarà da badar bene anche ad usare il vocabolo collegio coll’ aggiunta esplicativa di. pecchie , ove non s' intenda della loro congreganza in astratto, com'è ne’ yersi precedenti. Io potrei a cagion d'esempio dire: Rot- to lo sciame difficilmente si ricompone; e rotto il collegia. delle pecchie difficilmente si ricompone, ma non così interrogando, avete de'collegi di pecchie? essendo ragione che allora io dica , avete de’ sciami ? Plinio il naturalista , da cui è venuto per avventura all’Ariosto di usare a quel modo la voce collegio, l’adope- ra pure in significazione di stato di compagnia. È al libro 10 cap. 17, ove ragionandosi dello sparviero che va in aiuto 53 delle civette sì legge, auxiliatur accipiter collegio quo- dam naturae ; e il Domenichi tradusse, Zo sparviero le aiuta per una certa compagnia di natura, che è quarito dire, per certo stato naturale di unione che è tra loro: Focabolario. Constante o costante ad una cosa, in senso di esservi avverso, tontrario, fermo nel rifiutarla. Ar. Fur: 13. 4. Che d’alcune dirò belle e gran donne—Ch'a bellezza, a virtù di fidi amanti— A lunga servitù più che colonne—Io veggo dure immobili e con- stanti. —Veggo venir poi l’ avarizia e ponne—Far sì che pér che subito le incanti:-—In un di senza amor (chi fia che il cre- da?) — A un vecchio a un brutto a un mostro le dà in preda. In leggendo i primi quattro versi di questa stanza isolati, senza un’ attenta considerazione di tutte le parti di questo mem- bro del periodo , un potrebbe forse pensare che qui si facessero gli encomi di belle ed illustri donne, rimaste costanti alla bel- lezza, virtù, fedeltà e servitù de’ loro amatori; ma chiaro si vede chi ben ragguarda alla significanza dell’ aggianto dure che pre- cede , guida , determiva DI senso dei due altri che gli stanno do- po, quel dure accordato col terzo caso avere qui l’ uffizio me- desimo che assegnogli il Boccaceio nell’ esempio allegato dalla ‘Crusca al $. III della voce Duro add. che dice, dove io rigido e duro stava a’ tuo’ conforti e nori ini volea far christiano ; vale a dire; stavami ostinato e fermo in rifiutare le tue insinua- zioni di farmi cristiano. Ora tornando al constante nostro, le cose che antestanno e vengono appresso, ti appalesano lucidissimamen- te l’ intendimento del poeta sprezzatore delle regoluzze che pon= gono in ceppi la paurosa fantasia dé’ mediocri intelletti. ‘ Osservazione. A regoluzze non badano è verissimo i sornmi irigegii; prendendo per altro a questo luogo il constanti o costanti per avverso o contrario ; per fermo nel rifiutare, mì pare offesa di ben altro che di regoluzze. Più che colonne dure ; più che colonne stabili , sono dizioni giustissime; ma quale sproposito non sarebbe in queste, più che colon. ne avverse, più che colonne contrarie , più che colonne ferme nel rifiutare? E memmieno sì ha da mettere costanti a vece di cornstanti , che non avrebbesi minore strafalcione a dire, più che colonne costanti; la costanza 54 essendo virtù di uomini e non di marmi. 7/ constanti che è di sopra viene da corzstare, composto di con e stare pre- so nel significato di fermamente stare, star saldo che ha talora il latino consistere, ( V. Forcellini ) composto da con e sisto stis. E però più che colonne constanti vale più che colonne salde , e seguita ed afforza la ragione del di- scorso il quale è questo. Vedersi talora donne belle ed il- lustri, più che colonne in verso la bellezza , la virtù , la servitù di fidi amanti, dure, immobili e salde, cedere al- l’avarizia che di sopra all’ amore per subito incantesimo alle voglie di qualunque più laido e vecchio uomo le guadagna. Vocabolario. Dannare, in senso di tagliare oferir leggermente. Ar. For 24.65. ,, E se non che fu scarso il colpo alquanto—Per mezzo lo fendea come una canna.—Ma penetra nel vivo appena tanto—Che poco più che la pelle gli danna. Ancorchè si volesse assimigliare que- sto senso a quello trovato dal Zanotti in iscrittura prosaica, e posto nella sopraggiunta veronese , il presente esempio mostrerà come sì possa leggiadramente usare anche in poesia. Osservazioni. | Alla maniera onde prende il sig. Pezzana il suo esempio, non dee temere che si assimigli all’altro recato nella sopraggiunta del Cesari che è questo: Ze viti ron si pognano attorte giacendo,acciocchè poi quando si la- vorerà co’ ferramenti non si dannino le viti. Il dannare secondo è qui, sta per guastare, far danno in modo asso- luto, non essendo determinato effetto veruno se non risguar- do alla qualità che.è da ferro, mentre secondo intende al citato luogo del Furioso il signor Pezzana , il dannare si precisa a tagliare o ferire leggermente. Non so per altro se tutti sì accorderanno con lui , o non piuttosto ri- terranno uguale ugualissimo a’ due luoghi l’uso di quel verbo, considerando che se gli danna valesse in senso proprio gli taglia leggermente o gli ferisce leggermente, questo che dice l’Ariosto dello scarso colpo di Manricardo; 55 Ma penetra nel vivo appera tanto — Che poco più che la pelle gli danna, si tramuterebbe così: Ma penetra nel vivo appena tanto, che poco più che la pelle gli taglia leggermente o ferisce leggermente , contradizione mani- festa , perchè se il colpo ha penetrato nel vivo, ha dovuto passare oltre la pelle, e non poco più che leggermente ta- gliarla o ferirla , che vuol dire non del tutto. E d’ altra parte i versi medesimi non sono eglino a dar ragione del- la ferita, senza che vi sia bisogno di assegnare perciò a quel darna una significazione esplicita ? E questa sigiifi- cazione esplicita, a senso della quale non sarebbe da sup- porre nè piaga nè sangue, come si accorderebbe col rima- nente della stanza ? Za non profonda piaga è lunga quanto—Non si misureria con una spanna-—Le lucid'ar- me il caldo sangue irriga—Per sino al piè di rubicon- da riga » . Vocabolario: Difesa . . Pigliar le difese. Osservazione. A questa voce non è osservato che la Crusca è man- cante d’ altro significato sostantivo, che si reca dal titolo tli qualche opera , così espresso « Oppugnazione e difesa delle piazze. Focabolario. Divozione. Reggersi a divozione di uno, vale essere sotto il governo o la dipendenza di esso, Guicc. T. VIII. fac 14.. .. il che quando bene succedesse non restare per questo privato del ducato di Milano, il quale mentre si reggeva a divozione di Cesare, avrebbe sempre il Pontefice causa grandissima di temerne. i Osservazioni. La sposizione di questo modo avverbiale pare dover- sì precisar meglio così; vale ad essere stato 0 popolazio- ne sotto il governo o la dipendenza di uno, perchè altri- menti sarebbe approvato di dire: Z{ soldato si regge a divozione del caporale; e quand’anche il reggersi non si dovesse intendere; come senza menò si deve a questo lo: 56 go, che rispetto ad ordinamento civile, e quindi si potesse anche dire, la truppa sì regge ad obbedienza del suo capo, non si direbbe mai «a devozione; che questa solamente alla podestà è devoluta , la quale sia sovrana dello stato: e ve- ramente a tale più determinata sposizione obbliga il con- cetto del medesimo sopra notato esempio di Guicciardini, Dizionario. Elevato . . . aggiunto a Tiro, termine di fortificazione. Osservazione. Dicasi termine di artiglieria. Dizionario. Ficcare . . . Termine di artiglieria. Osservazione. Si aggiunga, e di fortificazione. Vocabolario. Fonte . . . in senso di mare . . . . Poliz. rime, 1814. T. 2. fac. 1. Le corna ha già raccolte — Delia mentre dimora — Con Teti il fratel suo dentro il gran fonte ,,. Osservazione. Chieggo scusa. Non fonte ma gran fonte leggiamo in questi versi del Poliziano, e ciò non pertanto se non fosse che Teti ne ricorda il mare, dubito se da sè solo il grar fonte bastasse a farcelo subito ricordare, e se la perifrasi — possa del resto avere nessuna vaghezza fuori di poesia. Piano ondoso trovasi appo i poeti per mare: diremo dun- que che piano vuol dir mare? e voglia dir mare anche maggior vaso per questi versi dell’ Ariosto, £4 un per cui la terra ove l’Isauro — Le sue dolci acque insala in maggior vaso , ove senza quella determinazione insala ed un po'di geografia, maggior vaso potrebbe aversi anco- ra per fiume più grande? I traslati non potranno mairi- guardarsi come vocaboli assoluti del linguaggio. Vocabolario. Inclinato .. Aggiunto a Tiro , termine di fortificazione. Osservazione. Aggiunto a Tiro, è di tutta proprietà dell’ artiglieria. 57 Vocabolario. Meno. Nota costrutto Ariosto. Fur. ;, Perchè debbo voler che di me prima—amor disponga che Rinaldo e il conte? —Voler nol debbo tanto men che messa—-In dubbio al greco e a Rugger fui promessa. Parrebbe anzi che qui la parola stesse contraria al senso , e che si avesse a dire tanto più a luogo di tanto meno. Osservazione. \A me pare che di quel meno sia giustissima ragione; poichè si accorda alla negazione voler nol debbo, e il tan- to più a rigore non convenire che nel caso opposto. Vocabolario. Musone ... Orecchione, term. di fort. che vale sodo di muraglia che ricuopre la cannoniera in modo che non sia veduta dalla campagna e non sia esposta ad essere imboccata ed ac. cecata. Questa definizione è cavata dal Gallileo, Trat. di fort. da cui traggo l'esempio a fac. 3y. Questa tale ricoperta fu di- mandata erecchione e da altri musone. L'orecchione si fa so- pra la spalla dividendola per mezzo e fatto centro il punto della divisione descrivendo un mezzo cerchio. Il Grassi nel suo diz. ha musone ed orecchione , ma non ne da nè esempio nè significato, e manda il lettore a spalla come fece il ch. Marini nel suo Demar- chi. Il Grassi dimenticò poi di fare parola del musone come la chiamata esige di farne alla voce spalla. Bensì ne fece dell’ orec- chione dandone sulla scorta del Marini un significato che a taluno sembra essere meno evidente della definizione del Gallileo , se nulla ha a ridire su questa la moderna architettura militare. . Osservazione Anche per l’orecchione si è rimandati indarno nel dizionario del Grassi alla voce bastione, e ciò che di quel- lo è dichiarato all’altra spalla, è veramente da non con- tentare le persone dell’arte. In fatti quando si legge; se la punta della spalla sarà rettilinea ( punta rettilinea! ) l’opera riterrà il suo nome, se curva prenderà quello di orecchione , egli pare che la curvatura sì tolga drento della spalla, come sarebbe smassandone gli angoli, dove anzi essa viene alzata sulla spalla medesima qualunque sia il magistero onde si faccia , chè in questo hanno va- riato i fortificatori ciascuno secondo le proprie vedute. 58 Non è per altro appagato il desiderio di migliore difinizione dal signor Pezzana. Ei dice: L’orecchione è un sodo di muraglia che ricuopre la cannoniera in modo ec. Ma della posizione e della forma non è cenno. Ricuopre la canrioniera! come se non esistesse in fortificazione che una cannoniera unica. L’orecchione, stando a quello che è in Gallileo alla pagina dal signor Pezzana consultata è, la spalla tirata innanzi per un sodo di muraglia circolare , onde le cannoniere della piazza da basso non siano così esposte ad essere imboccate. Che la defini- zione contenga veramente la descrizione della cosa, non è possibile per la varietà delle costruzioni. In Coehorn per esempio l’ orecchione è una grossa torre di pietra con ca- samatta per sei cannoni a difesa del fosso, e delle facce del trinceramento che è nel bastione. Quanto alla mo- dernissima architettura che non ha orecchione, si conten- ta di sapere ch’egli era : Za spalla del bastione tirata innanzi con andamento curvilineo per cuoprire le arti- glierie della piazza da basso e del fianco ritirato. Vocabolario. Rifosso. Term: di fort. sembra essere quell’ ampia fossa che cinge le mura delle città. Guic. Tom. VIII. fac. 186. Perciò fu determinato .... che l’esercito ..... dirittamente si accostasse al castello, e che preso le chiese di s. Gregorio e di s. Angelo vi- cino ai rifosssi, alloggiaase sotto Milano. Manca nel Grassi. Osservazione. Se Rifosso è l'ampia fossa che cinge le mura delle città, l'esempio del Guicciardini, che non è altomo VIII ma sì bene al VI, non alla pagina 186 ma sì bene alla pagina 303, l’ esempio dico del Guicciardini, perchè pone vicino ai rifossi alloggiasse sotto Milano e non vicino al rifosso? Per rifossi intende qui lo storico le trincee di quei che assediavano il castello, come si vede chiaramente pren- dendo la citazione da poche linee più alto ed intera: Anda- rono queste genti ( bocche inutili che ha detto prima esser state messe fuori del castello ) a Marignano dove era 59 V esercito, € fatto fede della estremità grande in che si trovano gli assediati,e della debolezza delle trincce poi. chè insino alle donne e fanciulli l’aveano passate, costrin- sero i capitani a ritornare per far prova di soccorrertlo, perciò fu determinato nel consiglio unitamente che l'eser- cito} non più da altra parte ( nota bene ) ma direttamen- te si accostasse al castello, e che preso le Chiese di s. Gregorio e di s. Angelo vicine ai rifossi alloggiasse sotto Milano ». Vocabolario. Schivo add. in senso di mondo, netto purgato. Ar. Fur. 43. 195 » fra quei guerrieri il vecchierel devoto — sta dolcemente e hi conforta ed ora — a voler schivi di pantano e loto — Mondi tornar per questa morta gora ,,. Osservazione. Che sarebbe perciò quanto dire: 4 voler mondi di panta- no e loto,—mondi tornar per questa morta gora. Lo schivi è dunque da tenere per schifi, da schifare, aver a schifo. Vocabolario, Scoccare. Lo scappare che fanno le cose tese o ritenute da quelle che le ritengono come archi, strali e simili. Crusca. Dopo questa spiegazione (nella quale non intendo come gli arehi scappino dalle eose che li ritengono, nè quali sieno queste cose ) trovasi ec. fi Osservazione. La Crusca per definire in modo generale il senso del- lo scoccare, diee ch’ egli è lo scappare. che fanno le cose tese o ritenute da quelle che le ritengono, e scenden- do a particolarizzare, accenna archi e strali. Or dunque sa- rà dubbio che la corda non sia la cosa che tiene l'arco, e non sia l’ arco medesimo la cosa che tiene lo strale? È i bei labruzzi vermigli che ti scoccano caldissimi sonanti baci della cara tua denna, e gli oechi nerissimi suoi che ti scoccano sguardi brillanti d’ amore, non sono esse le cose che ritengono tai soavissimi doni di paradiso? Vocabolario. Sequestrato add. da sequestrare in senso di essere separato 60 , dal comune della gente per singolarità d' ingegno o per altiv special dono. Gall. mem. e lett. T. a facc 299. L’aver conosciuto V. S. per ingegno singolare e molto sequestrato dagl’ intendi- inenti popolari mi dà ardire di ricercarla di tali curiosità. Osservazione. L’ esempio pare anzi dimosttare ché sequestrato non ha altra significazione fuori la comune di separato , diviso , distinto , perchè se mai sequestrato valesse da sè quanto separato dal comune della gente per singola. rità d'ingegno, l'esempio restringerebbesi a queste parole: L'aver conosciuto V. S. molto sequestrato mi dà ardire di ricercarla di tali curiosità. Vocabolario. Lr Sinistro. sost. Far sinistro, vale recare incommiodo. Bembo let. ined. T. 1. p. 2. face. 257. Ma per l’ animo mio che è tale che non vorrìa o parere ingrato o far sinistro a chi a me ha fatto commodita. Osservazione. Perchè meglio per avventura che a far incommodò non corrisponderàa far cosa contraria come inciviltà, sel- vatichezza, increanza, che è il sinisteritas del latino? V. Forcellini. Vocabolario: Sopracolio . Avendo conferito sul significato dì questa voce composta con due solenni maestri di nostra favella, il padre Ce- sari e l’ abate Colombo miei onorandi amici, e con altri dotti nel fatto di essa lingua, senza poterlo stabilire in modo preciso , non oso darne definizione, e mi limito a riferire 1’ esempio. Guicé, T. VIII. face. 171. E nel tempo medesimo Andrea Doria con le galee e con mille fanti di sopraccollo ; assaltò ì porti dei Sanesi. Osservazione. | Con ogni rispetto verso i maestri della lingua', e spe- cialmente verso i due nominati, mi pare non esservi dub- bio che questo modo avverbiale nell’ esempio arrecato non equivalga a di sopraccarico, di sopraggiunto, siccome collo si ha per carico di roba che si navighi o vettureggi. Ar. Fur. 19, 49. « £ colliecassee ciò che v° è di gra- Gi ve, — Gitta da prora e da poppa e da sponde ». In fatti cosa altro hanno da essere i mille fanti di sopraccollo alle galee del Doria che una sopraggiuta agli equipaggi? E qui mi pare bellissimo trovato per distinguere l'equipaggio, il qual è la gente del servizio della marineria, dalla truppa di terra imbarcata per occasione. La citazione poi non è altrimenti del T. VIII. facc. 171, ma del T. VI. facc. 290. Vocabolario. Spedito. Artiglieria spedita. Osservazione. Dicesi egualmente di fanteria e cavalleria leggere. ; Vocabolario. Terrapienare, far terrapieni . La Crusca non ne ha che un esempio di poesia: eccone due di prosa. Gall. fort. face. 35. ,, per- chè dovendosi terrapienare la muraglia, la terra che si cava dalla fossa può servire per terrapieno ; ed a facc. 56: e pri- ma perchè dovendosi terrapienare le muraglie per il calcare e premere che fa il terrapieno, facilmente la cortina si rovesciereb- be in terra. Osservazione. L’ uno e l’ altro esempio dimostra che terrapienare non ha il significato far terrapieni, ma bensì quello di guernire, munire, afforzare di terrapieno; e così an- che secondo l’esempio di poesia recato dalla Crusca. Buon. Fier. 1. 3. 4. £ non ad altro buoni, — Fuor che a riempir fosse , terrapienar bastioni. Vocabolario. Turno. Forse converrà per la universalità dell'uso addotta- re questo vocabolo anche in senso di ricorrimento dell’ alterna- tiva come fecero il Bergantini e 1’ Alberti, perchè non manca di fisonomia italiana e bene scolpisce il concetto. Osservazione. Così avvenendo, noi militari terremo approvato il modo turno di servizio a traduzione del francese tour de role, che è l'ordine onde si comandano gli uffici della mi- 62 lizia secondo la volta che tocca a ciascuno. Il Grassi |’ a- vea notato. | Focabolario Zappare. Term. di fort. la cui definizione trar si può da quel- la che dà il Grassi sì della zappa e sì del zappatore. Gall. for. facc. 45. Il simile fanno ancora nella cortina quando il ne- mico venisse per zapparla; sembra che non si possa ommettere que- sto verbo, che significa appunto l’azione della zappa e del zap- patore . Osservazione Il per zapparla che leggiamo di sopra è la traduzio- ne precisa del francese pour Za saper che vuol dire sca. varne le fondamenta, la qual cosa viene fatta a fine di ro- vinare quella tale opera; e così zappare in significato di questo ( nel latino subruere ) è notato dalla Crusca e dal- l’Alberti, ed è proprio de’ minatori quando si attaccano a qualche parte per allogarvisi e farvi la mina, che è l’esem- pio di sopra del Gallileo. Il lavorar de’zappatori militari di- cesi non zappare, ma fare gli approcci o contro approcci, e approcciare e zappa chiamasi il lavoro stesso; e così, zap- pa volante , zappa semplice, zappa doppia , che sono di- verse maniere di quel lavoro. Qui hanno fine le osservazioni che mi è occor- so di fare intorno alle cose che nell'opera del signor Pez- zana mi sono parute meno approvabili. Scrittura ben al- trimenti più lunga sarebbe stata se io avessi bastate ad il- lustrarne le maggiormente pregevoli, e volesse pure la for- tuna d’ Italia che altri valenti di sua nazione con uguale avvertimento per entro gli autori indagando, si dessero a far conserva di bei trovati a risarcimento e grandezza del codice della lingua, testimonio e misura del sapere. Ma non dovrebbero stare solamente a coloro che diconsi clas- sici, perchè sarebbe troppo restringersi dove per scienze arti e mestieri è da frugare più largamente, e de’ classi - ci ne sono che di belle parole e di eleganti dizioni vestono 63 con pompa brutti sconci ed errori. Dove maggiormente trovarne che in quel parolaio di Bono Giamboni? Pure il suo volgarizzamento di Vegezio De re militari è conti- nuamente sulla fede del manoscritto citato dalla Crusca , e di pubblicarlo colle stampe a questo tempo si è re- putato gran dono. Concludasi che bisogna moderare la venerazione o lo spregio, e con severa filosofia ricercando nella universalità dei scrittori, ove i vocaboli e ì modi e- sprimono giustamente le cose, averli per segnati del ve- ro marchio di approvazione, che non improntano sempre, a chi ben vede, iclassici per la sola ragione d’ essere tali denominati. Maccior Barone FrnrARI di Piacenza. Errori corsi nella stampa del precedente articolo del sig. Maggior Barone Ferrari , pres. vol. A. pag. 72. errori leggasi pag. 73. ne costruirono ne eostituirono 74. che lascia l’artiglieria che lascia all’artiglieria 77. contro cui discutevasi contro cui diseatenasi 78. non consapevoli di esser non consapevoli di esse dettato. dettato 59. che noi abbiamo attitu- che non abbiamo atti- dine tudine So. ad allargare lo attenda- ad allogare lo attenda- mento mento id. è progetto danon trasgre- è precetto da non tra- dire sgredire 82. di molti picconi di molti piuoli id. si oppone al nostro au- si oppone dal nostro tore autore 64 Ap1s Romana. Journal de litterature latine. T. 1. et 2. à Paris. 1822. 8.° È Nel leggere il titolo di questo Giornale ci figurammo di vedere l’Apis Romana andare svolazzando a lambire i più bei fiori negli orti laziali di Plauto, di Terenzio , di Cicerone , Livio, Virgilio ed altri di quella sfera; e, per dirlo senza metafora, fummo nella speranza d’ incontrar- ci neì luoghi più scelti di questi ed altri autori, spiegati e comentati con nuove filologiche e critiche osservazioni ; nelle notizie di nuove edizioni con dichiarazione del me- rito, o dei difetti di quelle ; in confronti e giudizi delle antiche traduzioni, e delle recenti; infine d’avere un giornale di vera e soda letteratura latina. Ma voltato il frontespizio con sorpresa ci avvedemmo non esser altro, se non che, talora una traduzione in latino delle gazzette francesi e dei logogrifi o sciarrate , talora una raccolta di così dette Crie degli scolari de’ collegi, ed altre cose, che non corrispondono all’ espettativa del frontespizio. Dal prologo che fa in principio Ape Romana viene di- chiarato che questo Giornale si propone di riaccendere amore, e ridestare il gusto della lingua latina quasi obliata e negletta per la preferenza eccedente data alla lingua volgare, e di opporsi contro gli sforzi di coloro, che avendone trascurato lo studio, e non conoscendone le bellezze e l’ utilità vanno screditandola , e vorrebbero to- glierla per fino dalla categoria delle lingue da insegnarsi nella pubblica o nella privata istruzione della gioventù. Non possiamo certamente che applaudire alla lode- vole intenzione dell’ Ape Romana, e di buona voglia ci uniamo con lei ad armarci di zelo per condannare un si- stema così pernicioso al progresso de’ buoni studi , cioè la disistima, e l’ abbadono dello studio dei classici scrittori latini, studio peraltro che desideriamo sia accompagnato i i 65 con la cultura delle lingue vernacole , in modo che quel- l’antica lingua latina ad altro non serva, che. a. migliora- re e perfezionare le moderne letterature in quella parte, e nel modo che può eseguirsi. Non parliamo delle scien- ze, perchè ognun vede quanto importante sia conoscere la lingua degli scrittori che per tanti secoli sono stati i maestri dell’ antico sapere. Siamo dunque daecordo nella massima ; non convenghiamo nell’ utilità del mezzo e del modo che si propone l’ 4pe romana; di adoperare cioè la lingua latina invece della francese in argomenti che si credono potere interessare la curiosità delle dotte persone. Ma questo metodo ci sembra affatto inutile, ed anche contrario e pregiudicevole al conseguimento del- l’intento proposto, cioè di promovere la buona lingua latina. Diciamo inutile; in primo luogo: chi leggerà 7’ Ape romana ? certamente chi sà e chi ama il latino; ma que- sta classe di PENSARE: non hanno bisogno nè d’i incoraggia- mento consimile , nè leggeranno L'Ape romana 0 per im- parare, di più, o per gustare delperfetto latino. Si dirà forse che può esser a proposito per destare emulazione tra 3 giovani, e per riassuefare, diremo così , le orecchie del ‘pubblico culto al mormorio d’ una lingua di cui s'erano ormai quasi affatto dimenticate. L’ emulazione della, gio- ventù debbe eccitarsi in mezzo alle scuole a gareggiare nella intelligenza de’ buoni scrittori , con quelli stimoli, e con que’ mezzi che si troveranno efficaci. Lo stampare e pubblicare con treno le loro stesse composizioni, sebben premiate , spesso desta nell’ animo di essi presunzione, e fiducia, riguardandosi come di già perfetti modelli, e maestri, e non ricevendo il premio per incoraggiamento a far meglio, ma per suggello di perfezione. Gli applausi che ne ricevono dai dotti e dagli indotti sono altrettante sirene ingannevoli, che gli fanno addormentare nella dol- ce illusione. Spesso abbiamo veduto i pexniciosi effetti di - questo costume , di dare pubblicità , e troppa importanza, 'T. XI. Settembre 66 alle composizioni degli scolari , che d* altronde impegna- vano a bene sperare , ed in riguardo a dei pregi mon co- muni nei giovani facevano perdonare i difetti : alterigia o disprezzo verso gli uguali e condiscepoli; saccenteria co’ professori ; arroganza e censura fuori dei limiti nella let- tura de’ sommi scrittori , e per conseguenza raffreddamen- to nello studio di quelli, non ad altro aspirando che a diven- tare autori, a far parlare di se nei Giornali: in somma a farla da rnaestri nel tempo, che per divenir tali avrebbero avuto bisogno di continuare ad esser discepoli. ‘Ma senza questo : 2 Ape romana vorrà di sicuro promovere lo seri- ver latino anche , diremo così, nelle cose visuali ‘e mo- derne, sperando di non fomentare lo stile guasto, nè d’in- trodur Ja lingua latina barbara; mna da buona, e schietta latinità. Perchè la storia è lo specchio del futuro, get- tiamo perciò una rapida occhiata al passato. Nella immen- sa folla degli scrittori in latino dopo ilrisorgirmento de’ buo- ni studi quanti crediamo clie avrannò contribuito co’ loro libri scritti in latino al progresso'della buona latinità ? Io son di parere che neppur uno; di moltissimi è manifestoche la guastarono maggiormente, e diedero occasione a fare adot- tare uno stile di convenzione , come la moneta erosa o di carta che ha corso usuale e di piazza ; in guisa che gene- ralmente i teologi , i legali, i medici , i fisici non scrivea- no che quella lingua, la quale era ormai non la lingua degli scrittori latini di brion ‘conio, ma delle scuole, ‘e degli autori, chè avean fra mano. Molto maggiori furono i mali derivati dall'uso di parlare, non che di scrivere quella pretesa lingua latina. Dunque per questa parte lo scriver latino non fu utile al buono stile. Peraltro non può vegarsi che nel corso di più secoli non siano comparsi rari nantes in gurgite vasto degli scrittori in tutte le maniere di scienze, e molto più delle lettere , che mo- strarono buon gusto, e gran pratica del bello stile. Ram- menta la Francia Ewlero, il cancelliere ospitale , Boi- i 67 leau, ed altri; VItalia un Zlamminio, un Navagero ; che io nomino tra gli eccellenti, in un.gran numero che po trebbero rammentarsi, massimamente del secolo così detto del cinquecento senza escluderne alcuni. dell’ età posteriori; peraltro vorremo poi credere che questi scrittori fossero una conseguenza dell’uso quasi comune di parlare o di scrivere in latino , e che da questi imparassero i po: steri, che ebbero lode nella stessa carriera? Meglio è pen- sare che a tanto arrivassero per la persuasione della utili- tà, se non vogliamo dire necessità , di studiare ed inten- der bene i latini scrittori, e di servirsene all’uopo per arricchire le scienze e le letterature moderne; e perchè l’uso era di scrivere latino ; vollero far mostra di quanto aveano profittato nella lettura de’ classici; ma forse senza pretendere , nè tampoco pensare, che i loro scritti potes- sero contribuire a fare altri scrittori pari a loro, e che dallo scrivere in latino si promovesse il buono stile. Scriver latino in principio fu quasi necessità ; e poi ùso, e pregiudizio, ed, anche ambizione. Fu necessità: quando gli uomini di quasi tutte le culte nazioni non avendo le lingue vernacole dirozzate , e adatte al linguag- gio delle Muse, non trovarono altro mezzo per comuni- care tra loro, che accordarsi ad usare quella lingua, la quale in allora era la sola capace a preferenza d’ogn’altra delle moderne , a trattare argomenti scientifici, e gravi. Non si pensò per del tempo a servirsi d’altra lingua neppu- re per le nazionali bisogne , e credettesi anzi nota di igno- ranza e di inciviltà il servirsi della lingua vernacola, an- che a preferenza d’un barbaro latino, non solo in Italia , ma in Francia, in Alemagna, in Inghilterra ed altrove; e così a poco alla volta si andò formando una lingua latina presso ciascheduna Nazione che si colorava e s' ingrassa- va della volgare, come la volgare della latina. Per questa ragione fino dai tempi della barbarie, ed in ispecie dei secoli ottavo e nono, quando i Longobardi, i Franchi, i 68 i Teutomici, gl’ Italiani ed altri popoli ebbero ricorso al fa- tino per lingua di comunione tra le diverse genti, si me- scolarono con questo veicolo presso varie nazioni vocaboli Latino-Franchi, Latino- Teutonici ec. che poi rimasti in Francia, in Germania , in Italia, ed in altri paesi hanno fatto naseere dispute e questioni d’ etimologie innumere- voli. (a) Finalmente, come a Dio piacque, principiarono gli uomini a vedere la convenienza o la neeessità di coltiva- re le proprie lingue vernacole per ogni genere di sapere ; e di rivolgere lo studio della lingua latina alla conoscen- za ed intelligenza de’ buoni scrittori, più che all’ uso di parlarla, o di scriverla a preferenza, o in concorrenza della volgare. Ma perchè gli usi antiquati si cangiano in seconda natura, e gli uomini avvezzi a quelli credono di- struggere sè stessi , quelli abbandonando: perciò assai len- tamente si andò a lasciare la falsa opinione della necessi- tà, utilità, e convenienza dello seriver latino, anche quan- do non più sussistevano le ragioni che lo aveano ‘lodevol- meute allora introdotto. Siccome gutta cavat lapidem, così a poco a poco entrò nel capo ai letterati. di coltivare anche le lingue volgari, servendosi , della latina più che per la lingua, per le idee e le cose in essa, come tesori in antico luogo , riposte; cominciarono questioni, e dispu- te tra gli antichi ed i nuovi pensatori, del che puossi aver un esempio negli scrittori nostri di maggior grido , Gino Dante , Boccaccio, Petrarca ; i quali ardirono primi di porre in onore la volgar lingua , sebbene per l’uso tuttora elominante scrivessero fe cose da loro stimate più gravi, in latino. Ma le dispute cominciarono ad esser più serie , e più frequenti a proporzione che il nuovo metodo facea progressi a scapito dell’ antico. Si disputò sulla maggiore o minore dignità delle due lingue; sull’antichità dell'una e dell'altra, sulla convenienza d’avere una lingua dotta ed una volgare , con altre simili questioni , le quali tutte non andavano, come suol dirsi, al fondo, ma si raggirava- 69 no sù delle ragioni estrinseche , accidentali, pregiudicate ; e d'abitudine. A questo proposito si posson leggere le pro- se del Bembo, nelle quali si ragiona della tolsdt lingua, é dove nel primo libro si procura di distogliere dall’ uso di scriver latino a preferenza della lingua volgare. « Ma non per tutto ciò si concederà (ivi dice M. Lorenzo il magnifi- co) che sempre nella più degna lingua si debba scrivere , piuttosto:che nella menò ; perciò che se a questa regola dovessero gli antichi uomini consideratione e risguardo avere avuto; nè i Romani haverebbono già mai scritto nella latina favella ;} ma nella greca, nè i Greci altresì si sarebbono al comporre nella loro così bella e così rotonda lingua dati, ma in quella de’ loro maestri Phenici, e que- sti in quella d’Egitto , o in alcuna altra ; et a questo mo- do di gente in setole a quella favella ritivizto? ijella quale primieramente le'carte, e gli inchiostri si trovarono: bisognerà dire; che male ha fatto qualunque popolo et qualunque nazione scrivere ha voluto in altra maniera , et male sia per fare qualunque altramente scriverà. . . . È dunque bene confessare che mai le più degne e più ho- norate favelle siano da usare tta gli uominy nello scrivere; ma le proprie-loro; quando sono di qualità che ricevet possano , quando che sia, ancora esse dignità, e grande2- za : siccome era la latina ne” buoni tempi , alla quale Ci- cerone, perciocchè tutta quella reputazione mon l’ era ancor data, che ad esso parea, le si convenisse dare, sen- tendola capevole a tanta riceverne ; quant’ ella da poi ha per sua e per altrui opera ricevuta , s'ingegna accrescere autorità ec. ». Così parlavasi in tempo in cui a’ più sarà sembrata una eresia letteraria il consigliare a dar prefe- renza al volgare nelle scritture. Ma potrebbe dirsi da taluno, che quel discorso 1°. valea bene quando le lingue volgari non erano giunte al- la perfezione che hanno in seguito ricevuta. 2°. che altro è scriver sempre in latino; come era l’abuso che si volea 70 togliere ; altro è scrivere în alcuni casi per tener in credi- to la stessa lingua latina, che dall'abbandono della scrit- tura è andata poi quasi in dimenticanza , e negletta. In quanto al primo punto è chiaro, che se lo scriver latino fece ostacolo al perfezionamento del volgare; è inu- tile quello, perfezionato che sia questo ; anzi rintroducen- done l’uso o in tutto o in parte, si tornerà a far pregiudi- zio al volgare, senza giovare al buon latino, come ve- dremo in appresso. In quanto al secondo; non intendiamo \disapprovare lo scriver alcune volte latino; ma non approviamo lo seri- vere in materie che sono di giurisdizione della lingua volgare, d’ introdurne l’uso ne’ Giornali d’ una istessa nazione ; ed il credere che con questo mezzo si possa giovare alla causa del ristabilimento del buon latino. Venendo ora a brevemente dire qualche cosa di più concludente: abbiamo coraggio di affermare che la lingua latina debbe essere studiata per bene intendere gli anti- chi scrittori per quanto le circostanze ci permettono; non per presumere di bene scrivere in latino le idee nostre, i costumi moderni, e quant'altro di sconosciuto ai Latini esiste fra noi. È vero che una gran messe ci resta d’idee tuttora comuni; ma quante non più abbiamo di quelle che ebbero essi; quante non ne abbiamo noi delle igno- rate da quelli? Il primo caso ci mette nella diflicoltà insu- perabile di non intendere, o al più di intendere a metà e per approssimazione soltanto non pochi luoghi degli anti- chi latini scrittori ; il secondo ci pone nella necessità di non poterci servire della lingua di loro per tutte le nostre idee. Lo scriver dunque in latino, non può aver per oggetto di giovare al buon latino, perchè tutte le voci intruse non sono del buono stile, mancando loro la sanzione di quel popolo, presso del quale, come in tutte le altre lingue vive, era jus et norma loquendi ; e per popolo non in- tendesi la plebaglia ed il volgo, ma la civile e colta parte dI degli uomini d’ una nazione che si serve della medesima lingua. Dunque non avranno scritto un buon latino, nè lo scriveranno tanti valentuomini celebrati per elegantissimi latinisti? scrissero questi e scrivono il meglio possibile ; non però da giovare al buon latino; e siccome i grand’ uo- mini che vollero affrontare insuperabili difficoltà; ebbero più disgraziati immitatori, che emuli degni di ammirazio- ne, così que’ pochi bravi latinisti moderni, lodevoli pel gran possesso che mostrarono della lingua, ma sempre imperfetti al paragone , aprirono un arringo ad immensa folla di imitatori degeneriì, i quali prendendo dagli antichi quanto seppero , attinsero dai moderni certe frasi, e certi vocaboli male applicati alle idee moderne, e ne fecero un insieme lontano dal buono; e come i Romani scuoprivano, | persino in T, Livio la pataevinità; potrebbero scuoprire il gallicismo , l’italianismo, il tedesco, V inglesimo ec. nei moderni latini. E che altro mai intendeva Cicerone di dire quando si doleva che Ja barbarie inondava il Foro e Roma! Se ciò accadeva a quel tempo in Roma stessa, dove la lingua latina era nel suo fiore: che cosa ha da cre- dersi, ora che le idee sono in gran parte mutate; e la lin- gua latina non è più lingua nè del popolo romano, nè d’altre nazioni! E vaglia il vero: tra i più moderni applau- diti scrittori latini chi non darà posto distinto al Bonami- ci? Ma chi vorrebbe imparare il latino da lui, piuttosto che da un’ antico romano, ed anche non di prim’ ordine! Fu applaudito d’avere chiamato il Canzone Tormentum bellicum che era « Machina qua tela, saxa aliaque mis- silia nervo aut fune contento torquebantur et jaciebantur, a torqueo, « Ma questa macchina pon è il Cannone, ed anche aggiungendovi igrezw7m o bellicum per noi sarà bene spie- gato, ma non pe’ Latini, che per tormertum intendevano cosa diversa , nè l’aggiunto ignewm basterebbe a far loro concepirne la vera idea. Questo esempio serva per innume- rabili altri, co’ quali si pretendesse di trasportare le nostre da nuove idee a’ vocaboli antichi. Nè altramente si dica de’ vocaboli antichi, che: non più corrispondono alle nostre idee , perchè sono perdute; o alterate e modificate le anti- che per que’vocaboli espresse. Sarà dunque da condannat- si lo zelo di tanti eruditi che amarono scriver latino, e proibiremo alla nostra gioventù di tentare altrettanto? Non intendiamo di ridurre le cose a tal punto. Scriva pure in latino chi vuol far prova di quanto può, e vuol mo- strare fino a qual segno possa giungere un moderno a mi- surarsi con gli antichi ; ed in quella parte che le due lin- gue, e le idee moderne si possono corrispondere, tenti pu- re chi ha lena, di mostrar sua bravura; se.ne serva; come nelle scuole , per esercizio e conferma dell’ imparato. Ma questo è Lusi altro che il pretendere di servirsi del latino per lingua comune sia tra’ dotti, sia di corrispondenza tra le nazioni di favelle diverse; almeno con l’idea di promovere lo studio del buon latino con questo mezzo. Qualora poi voglia riguardarsi per un linguaggio di con- venzione in parte latino, in parte foggiato all’uso moder- no secondo le materie di cui si tratta } secondo il luogo, ed altre circostanze non conciliabili, siccome abbiamo detto, col buon latino: muterà la questione, e si tratterà di vedere se sia preferibile questa lingua ad un’altra vi- vente; se cioè piuttosto in una lingua antica per necessità spesso barbarizzante si debba tener commercio tra i dot- ti, o in una delle culte viventi, come italiana , francese, tedesca ec. In quanto a noi crediamo preferibile una mo- derna; ed il consenso comune de’ contemporanei pare che abbia scelto la lingua francese. Nè vale prender la parità dagli antichi Romani, che si servirono della greca; perchè era quella una lingua di popolo, o come dicesi viva ; e poteva ugualmente fenice iii col latte , e andava di pari passo con le idee, scoperte , e cietà del tempo; come di pari passo vanno le lingue vernacole del tempo nostro; ed è perciò molto facile anche agli esteri d'impa- 33 rarle dall’ infanzia e di non servirsene per traduzione ; ma per sentimento , come della vernacola tutti facciamo; ed enunziando le concepite idee con forme originati; lo che quanto al gusto ed allo sviluppo del genio contribuisca ben ce lo può dimostare l'esempio de' sommi nostri scrit- tori Dante, Boccaccio, e Petrarca, i quali volaron sì alto per le cose da loro scritte in volgare, ossia riella lingua succhiata col latte, non per quelle, quantunque dottissi- me , che scrissero nella favella latina, nella quale tradu- cevano le idee originalmente sentite ed imparate per la lingua volgare. La cosa istessa vien anche giornalmente comprovata dall’ opere scritte in francese od in tedesco da valentissimi letterati russi e pollacchi , i quali fin dal- l'infanzia imparano quelle lingue insieme con la verna- cola o dai genitori stessi o dalle nutrici, o dai precettori e dagli aj, onde è che son poi da loro parlate e scritte con energia e sentimento pari alla lingua vernacola della loro nazione. Esposto così quanto a noi sembra da doversi pen- sare intorno all’ uso di scriver il latino a’ tempi nostri, e disapprovato quello di servirsene per la bisogna che vor- rebbe stabilire il giornale dell’ Ape romana, proporremo un altro metodo che a noi sembra più accomodato ad ot- tenere l'intento; e lo dividiamo in due parti: la prima ; come fu detto in principio, d’andar mostrando le bellez- ze de’ classici latini, i luoghi imitati , o superati , o dete- riorati dagli scrittori moderni, e dai traduttori, nè sola- mente nelle cose appartenenti alle lettere, ma anche alle scienze, alle arti, ed ai costumi; rilevando con brevità, ma con critica, le differenze e le somiglianze tra noi e gli an- tichi Latini, e mostrando fino a qual punto può essere connessione tra noi e loro; ed in conseguenza fino a qual segno, e come se ne possa adoperare la lingua, percorrendo e paragonando classe per classe i nostri costumi, le nostre idee ec. 74 Nella seconda parte potrebbesi fare un’ esame critico d’alcuni squarci di scritture latine dei moderni, ed ac- cennare € investigare i passi, ne quali veramente hanno conservato il carattere e la purità dell’antica lingua, e quelli che o per difetto dello scrittore, o per le circostan- ze sopra indicate mostrano il vizio d’ una considerabile diversità. Per dichiarar meglio su questo particolare il no- stro intendimento, proporremo qualche esempio preso dal- l Ape romana. Lasciando di portarne di quelli che posson meritare approvazione ( i quali mon sono rari ) eccone qualcuno che servirà a mostrare come scrivendo in una lingua non più lingua di popolo, o vivente, si corre spes- so il pericolo d'essere simili a quello scultore Oraziano, che dopo aver fatto bene, le unghie ed i capelli, gli riu- sciva poi infelix operis summa. Nel prologo v. 17 e seg. nella similitudine della volpe: Jam socias vanae resecare sequacia caudae Pondera , jam similes sibi tergis ire jubebat, Rasilibus ; vere vulpina fraude suumque Dedecus in pulchrum suadebat vertere morem. Quella frase tergis rasilibus non ci sembra adattata, per- chè onde fossero similes sibi non jubebat ire .tergis ra- silibus, che vuol dire con la schiena rasata, 0 tosata ma con la sola coda tagliata, e perciò se vuole intender- si di dire in altri termini lo stesso che resecare pondera caudae, la frase non è adattata, significando cosa diversa, cioè, non tagliare la coda, ma tosare la schiena ; nè può intendersi detto per sineddoche, perchè in tal caso converrebbe aver taciuto l’altro jam socias panae reseca- re sequacia caudae pondera, mentre aggiungendosi jan similes sibi tergis ire jubebat rasilibus o si farebbe una inutile ripetizione ; se vogliasi intendere per lo stesso che resecare pondera caudae, 0 se dicasi quel che veramen- te significano le parole rasare Za schiena dicesi cosa che non corrisponde al chiesto dalla volpe esopiana. 75 A pag. 224 eseg. T. 1.all’articolo Costumi francesi e Sottoscrizione di beneficienza parlandosi del Convento sul monte di san Bernardo leggiamo a pag. 28, e 29 « Per- multi autem nostrum ignorant quam pro quotidiana virtu- te mercedem referant secreti religionis ministri : illis do- mus quam ligni cremandi penuria humidiorem facit, et inde peregrinantibus quidem innoxia, at commorantibus sensim lethifera: ita ut illis sacerdotibus, qui genus hu- manum inusitata charitate amplectuntur mors saepius impendeat virtutis comes: languidi plerumque isti cu- guntur adhuc juvenes e nobili monte suo descendere, ac vitam in campo jugi radicibus adjacente brevem et otiosam terminare. Verum ubi unum vel duos morbum in exilium egit: novi sacrum montem scandunt vita pleni et robore explendis migrantium vicibus parati, et ipsì quoque prae- maturum funus in benefacendo nacturi: adde quod, non- nullis judicibus architectis, domus una pars incerta nutet: nec mirum hercule foret si aedes hospitales corruisse, et sanctos Bernardi montis incolas occubuisse audiremus. Tantam vero calamitatem avvertendam curavit aliquot hominum mens provida; novissimis enim his mensibus in monasterii labantis ac male sani ausilinim advocata est Europa omnis; tum Parisiis, tum apud exteras gentes aes quotidie confertur aedibus resarciendis destinatum. Quis est igitur apud nos tam humanitatis expers, tamque beneficiorum immemor, qui numum saltem unum in santum hunc usum convertere non gestiat? vos appello quicumque artibus addicti Ziberalibus Romam et Tiberim salutatum ivistis, quibusque iter difficile carpentibus in- speratum’ inter nives patuit hospitium: vos etiam appel lo quos divina incendit voluptas siquid generose , si quid humane factum auditis, enitimini, quaeso , ne viros uni- verso mortalium generi devotos tectum et vita deficiat , apertis debitae beneficentiae tabulis nomen certatim sub- 56 scribite : quacumque estis gente } otdine; sexu, religione date obolum heroibus, ut vita fruantur ad virtutem. » Chi ha pratica del buono stile dell’ antica lingua la- | tina troverà nell’ assieme di questo saggio una fistola non affatto latina, e delle frasi che pe'Romani sarebbero forse ridicole come charitate amplecti genus humanum, che sembra una metafora sproporzionata, non potendo servire le braccia di mille Briarei. Date obolum heroibus ut vita fruantur ad virtutem: ma un tal genere d’eroi non conobbesi mai dalla romanaantichità! Peraltro condonando queste ed altre maniere di dire; che cosa ha voluto intende- re il Solitario del paese latino autore di questo scritto con le parole artibus addieti liberalibus? Io non credo certamente che mandi a salutar Roma ed il Tevere. gli studenti di grammatica; rettorica , dialettica, geometria ed altre discipline Ziberales dictie quod dignae sint libe: ris hominibus secondo le idee degli antichi Latini: ma vorrà intendere degli studenti ed amatori delle arti del di- segno; e dell’ architettura ec. che a modo nostro di dire son chiamate arti liberali; ma latinamente artes libera: les sono « quae solius ingenii non manuum ministerio exercentur » come è notissimo: Pag. 265 t. 1. si riporta il discorso latino premiato nel concorso generale de’ collegi reali di Parigi, e di Versailles, nel quale si introduce Cicerone nell’ atto di dare l’addio a Roma partendo in esilio ; e fra l’altre cosé gli si fa dire « Ergo vale urbs mihi lori valete templa publica, dossi penates ec. » gli aggiunti dì publica e domestici sono inutili , perchè i tempi erano i luoghi pubblici del culto: e i penati erano gli dei dome- stiei: sembra dunque che Cicerone sarebbeseli risparmiati. Pag. 13. t. 2. v. 8. dell’ epigramma il conto! doppio ; « rumpitur in fletus talia voce boans » Noi sospettiamo che bosre aliguid non sia ben detto in senso di pronun- 77 ziare e gridare altamente qualche cosa : essendo il signi. ficato di quel verbo di rimbombare , risuonare per le voci, o di fare strepito con voci inarticolate. Così in Ovi- dio de arte amandi v. 449. » redde meum clamant spo- liatae saepe puel)ae: Redde meum, toto voce boante foro » dal quale esempio ci è manifesta la differenza tra clama- re e tra boare. Il primo può avere la sintassi che dà l’autore a doare, ma non questo la sintassi di TESA così si disse da Plauto doat caelum fremitu Amph. 1.1. 77. € da Pacuvio clamore et sonitu colles resonantes frane ( apud Non. cap. 2. n: 80) e Varrone nel medesimo luo- go exeunt citi strepunt, bount. Apuleio ( 41. 5. Metam.) « quammaxime boans, honesta , inquit, haec ee. Pag. 123. e seg. t. 2. « quemadmodum ergo pictor : cui duo pueri inter se colluctantes occurrunt , eos in ta- bula si effinxerit, non se decertanpinia pugnis immiscuerit aut colaphis ec. Trattandosi di arti , potrà di non bene usato in questo luogo il verbo effirngo consacrato non alla pittu- ra, ma piuttosto all’opere di plastica , di scultura e simi- li. Tanto pare che ci assicuri Cicerone ( ad familiares lib. 5. ep. 12.) Alexander ab Apelle pingi, a Lysippo fingi volebat. La preposizione ex o e aggiuntavi non muta il significato primitivo, ma più specialmente lo determina al ritrattare o immitare in plastica o in scultura, nov già in pittura. Qualche soffistico potrebbe anche non conten- tarsi di quel decertantium, trattandosi di fanciulli, e ram- mentandosi l’ uso fatto di quel vocabolo per. lo più dagli autori latini per cose grandi, siccome Orazio disse prae- cipitem afiricum decertantem aquilonibus(carm.1.0d.3.) e Cicerone locus ubi Demosthenes, et Aeschines inter se decertare soliti sunt (Philip. 2. c. 1. ). (a) Una prova di quanto affermai-( parlando di tempo più antico ) ne sono i Capitoli di Carlo M. di Lodovico Pio , di Carlo Calvo. In que’ tempi era parlata la lingua latina e scritta per le cose pubbliche in Italia, in Francia, in Germania , e te lingue vernacole erano solamente rilasciate agli usi volgari. Se dunque il parlare e lo scrivere latino avessero potuto giovare a mante- nere la buona lingua latina, non se ne sarebbe veduta invece la sua maggior decadenza ; in fatti quel latino adoperato per con- venzione si mescolò col volgare , e questo con il latino, d’ onde si guastarono sempre più il. latino, e le lingue vernacole, dal quale mescolamento me vennero le moderne Latino-franco-Galt- lica , o la francese ; /atino-franco-teodisca , o la tedesca; lati- tino-itala-teodisca , o la italiana. Ecco un’ esempio preso dai Capi- toli di Carlo Calvo all’ anno 877. apud Carisiacum Cap. xxxu. de venatione ,, Carisiacus penitus cum forestibus excipitur .... In Odreia villa porcos non accipiat , et non ibi caciet nisi in tran- seundo. In Attiniaco parum caciet .... In Ligurio porcos et fera- mina accipiat. Aristallum cum foreste. penitus excipitur. In Lens et. Wara , et Avenido et feramina et porcos capere potest. In Rugitusit, in Scadebolt, in Launif tantummodo in transitu ec. ,, Nei Capitoli in Basilica s. Castoris ad Confluentes ,, Adnun- tiatio domni Hludowici regis apud Confluentes lingua theodisca ec ..... Haec eadem domnus Karolus romana lingua adnun- tiavit, et ex maxima parte lingua theodisca recapitulavit. Post haec. domnus Hlodowicus ad domnum Karolum fratrem suum lingua romana dixit ..... et domnus Karolus exceltiori voce lingua romana dixit : illis hominibus qui contra me sic fece- runt, sicut scitis, et ad meum fratrem venerunt, propter Deum et pro illius gratia totum perdono; quod contra me misfecerunt, et illorum alodes de hereditate et conquisitu , et quod de dona- tione nostri Senioris habuerunt, excepto illo quod de mea dona- tione vent ; illis concedo .... Et domnus Hlotharius lingua theodisca in supra annuntiatis capitulis se consentire dixit, et se observaturum illa promisit. Et tune domnus Karolus iterum lingua romana de pace commonnit, et ut cum Dei gratia sani et salvi irent, et ut eos sanos revideret, oravit , et annuntiationibus finem imposuit ,, È manifesto che servendosi i Longobardi ed i Franchi di questa lingua latina per lingua di convenzione, vi mesco- larono una gran parte delle voci della lingua loro vernacola , che poi si comunicarono per quel veicolo alle altre genti colle quali sì misero in relazione; ed ecco perchè gl’ italiani presero con l’uso di quella lingua latina convenzionale le voci (fra molte altre } caciare cacciare ; alodis allodiale ; Reribergium albergo ; scara schiera ; scak scacco ; bannus bando ; werra guerra; wantum guanto ; drudues drudo ; gunfanonarius gonfaloniere : vasallus 79 TTI angaria angheria ; arringicra ringhiera , donde aringa- re; fellonus fellone ec. ec. ‘Moltissime anche di derivazione radicale latina, ma non di buon conio , si trovano in quel barbaro latino , e nell’ italiano, come perdonare , misfacere ital. misfare , misfatto , disfacere disfare; monetare , ‘senior, senioralis signore signorile ; fortuna facere far torto ; commendatio commenda , adcaptare accattare carricare , carricatura caricare , carico ; conquistus conquisto ec. le quali voci sembrano -doversi credere derivate dall’ abbandono ‘della buona lingua latina scritta dai classici antichi, per segnita- ‘ye quella usata per convenzione dopo che |’ antica avea cessato d’ esser lingua di popolo, nè più si studiava per farne l’uso che ho indicato nel testo. Può anche darsi che molte voci di radice latina., ma non di buon uso , fossero d’° un” antico dialetto vol- gare italiano; ma in qualunque modo bisognerà conchiudere che l’uso di quella lingua latina PELA nulla giovò al rista- bilimento del buon latino ,, anzi questo si andò sempre più a perdere, e ad imbrattarsi delle immondezze volgari. In fatti anche i romani e gli altri italiani, perduto l’uso del buon latino , e ri- dotti .a servirsi solamente de’ loro dialetti volgari , che da tempo antichissimo si mantenevano tra il volgo , adottarono quel latino di convenzione, e lo riempirono di maniere e voci volgari al se- gno che, dimenticata persino l’ antica ortografia e sintassi, scri- veano un gergo , che poi dovettero abbandonare per non potersi più intendere , essendo un guazzabuglio di volgare e di barbaro latino senza regole e senza sintassi. Ecco dove andò a finire l’uso d’ una lingua, che non avea più la sanzione d’un popolo culto che, sene servisse, Coloro che la studiavano più o meno nei clas- | sici, non poterono sfuggire , scrivendola, quegli inconvenienti che TISII indicati; € perciò anche gli scrittori dal secolo quinto in- poi si trovano essere più o meno barbari a proporzione che cam- | biandosi le idee ed i costumi voleano ‘adattarli ai vocaboli antichi, e, questi mescolare con i nuovi già sanzionati dal popolo. Queste , a parer mio , sono le vere cagioni della barbarie del latino e dell’origine di molte moderne lingue vernacole , ed anche della italiana ; senza ricorrere alle invasioni de’ Bardari, che or mai son diventati ‘la ‘causa universale di tutti i mali, de’ quali non si sà dare altra ‘spiegazione come il diavolo è ineol- pato dal volgo di tutto il male che non sà spiegare in altra ma- niera. Io credo che si potrebbe fare /’ apologia dei Barbari mo- strando il mafe che non hanno fatto , e. del quale siamo stati autori noi italiani. — SEBASTIANO CIAMPI. 80 Cronica di Giovanni Villani a miglior lezione ridotta coll’ aiuto dei testi a penna. — Firenze 1823. in XA Sono quattro i tomi mne usciti. Sarebbe opera affatto perduta il trattener qui i nostri lettori in discorrere di Giovanni Villani e della sua Cro- nica. Perchè s’abbia sufficiente contezza di lui, n° è detto abbastanza per altri; ed assai noti e non controversi sono i meriti d’ esso e nella istoria, e nella toscana favella. Noi annunziamo una ristampa: ciò solo dee dar materia al brevissimo nostro articolo. Due sono le principali cagioni, , se non le sole, onde voglionsi ristampare i buoni libri ; la scarsezza cioè o l’as- soluta mancanza degli esemplari delle edizioni anteriori , e l'aver modo di renderli migliori. La prima cagione non avea luogo rispetto alla Cronica del Villani, le cui copie stampate non sono rare nel commercio librario. L’avea però la seconda: e quantunque estimasse il Muratori di aver nella sua edizione purgato quest’ opera importantis- sima da ogni imbratto col soccorso del codice Recanati, e convinti pur fossero di ciò medesimo quei, che seguendo le orme del grand’ uomo ne fecer ristampa in Milano nel- l'anno 1802; pur nondimeno chi avea conoscenza dei molti codici, che della detta Cronica sono in Firenze, vi trovava errori gravissimi, e mon poche cose vedevavi omesse . Bir i Adunque saviamente si avvisarono i due Fiorentini, che ne credetter necessaria una nuova edizione. Ma, di- manderanno a noi qui sul principio i nostri lettori , colla saviezza del loro intendimento ito è egli congiunto il buon successo dell’ opera ? Se la carità della patria, e dei nostri non ci fa velo al giudicio , estimiamo che sì. Ci sarà conceduto di facile , che la edizione di alcun testo di nostra lingua abbia darf felice riuscimento , quando esaminati con diligenza scrupolosa quanti più si 7 81 posson codici d’esso, a quello ci si attenga, che agli altri trovisi per ogni conto prevalere, e a’ migliori tra questi si. ricorra ove la buona critica insegni, che l’eletto a ser- vir di norma sia d’ errata lezione : perocchè difficilissima cosa è ; se dir non si debba impossibile , l’imbattersi in manoscritto , che da mende, ed arbitrii del copiatore al tutto sia libero: Questo han puntualmente eseguito i nuo- vi editori della Cronica del Villani. Hanno essi, e lo af- fermano nella prefazione, fatto con assai fatica il saggio di tutti i codici di questa opera , che si conservano nelle librerie di Firenze; e lasciati i più in abbandono siccome incapaci di recar giovamento all’ uopo loro , a soli sei fi- dati si sono, tra’ quali han preso in iscorta principale il . amembranaceo della Riccardiana, che da tutti è conosciuto .col nome di Testo Davanzati: (1), e che fu fatto scrivere da Matteo Villani figliuolo di Giovanni, siccome trovasi motato appiè del libro (2): giusto motivo per erederlo -tratto dall’ originale. Il pregio di questo codice riconosciu- to e dagli antichi accademici della Crusca, che il citarono nel vocabolario di nostra lingua, e da tanti eruditi , che ne parlarono con grande onore, fu quasi al tutto negato dagli editori milanesi, or sopra rammemorati : e questo per due cagioni; per trovarvisi cioè #i davanti la sf anche quando la parola che precede termina per vocale contro le regole della lingua je contra l’uso del Villani stesso; e per adoperarvisi il mi pulire invece di punire. Alle quali accuse rispondono vittoriosamente, a nostro giudi- ‘cio , gli editori fiorentini. Osservano rispetto alla prima, «che sì fatto modo di scrivere fu comune a quel tempo, ed al posteriore eziandio , e che rincontrasi pure nel codice x (1) De” primi dieci librì però; chè esso contiene solo questi. (2) Sono queste le precise parole: Jl' quale libro feci assem- prare io Matteo di Giovanni Funk l’ anno MCCCLXXVII. come. | st4 appunto. T. XI. Settembre 6 82 Recanati, e nella edizione del Muratori, ed anche in quella di Milano. Quanto poì al verbo pulire nel signifi» cato di punire, mostrano mercè di esempi, che adoperato fu pure da altri scrittori, e convincono che debbe:averme fatto uso anche il Villani, riflettendo che nella sua Croni. ca non una: sola volta, nè due sì ritrova, ma costantemen- te, sì nel codice Davanzati, e sì negli altri, che si sono per essi consultati; salvo pero che in un codice pur mem- branaceo e della Riccardiana , scritto in sul finire del: se- colo decimo quarto : la qual circostanza doveva qui da noi esser notata, perchè in essa medesima trovasi, secondo che noi opiniamo , Ja ragione del cangiamento. Le lingue come ogni altra cosa umana, sottoposte sono a vicende; e le voci, che correvano in un tempo, dimenticate si veggono in un altro. Or coloro , che tra- ‘scrissero gli antichi testi del volgar nostro, in ispegie quei di prosa, osarono spesso sì irriverentemente di cangiarne le parole ed i modi, che quasi gli ridussero ;a parer det- tati in età più recente. Della qual verità. desideriam noi ardentemente, che si convincano quelli, che per sostene- ‘me un’ opinione, che non.sembraci vera, voglion far giu- dicio della lingua d’alcuni dei più vecchi scrittori sopra codici di loro opere, i quali appariscono essere di mano più moderna. REAL, Venuti poi gli editori fiorentini a parlare delle massi» me da loro osservate in questa ristampa , ripetono di aver preso per norma il codice Davanzati , dicendo insieme -di averlo emendato col confronto degli altri codici da loro scelti a questo, in quei luoghi, che parea non reggessero alla sana critica, facendone avvisato il lettore, e riferen- done le varianti: consiglio laudevolissimo, che loro affran- ca da ogni più lieve ombra d°’ arroganza, e lascia ai lettori quella libertà di giudizio, a che hanno essi incontrastabile diritto . Ottimo pur ci sembra il metodo da loro adottato ri- 83 spetto ai nomi proprii. 4 tutti è noto, dicon essi, come gli antichi molti nomi proprii diversamente da noi pro- nunziavano , e quanto grande su tal proposito sia l’ in- costanza e l’inesattezza dei testi a penna; che non è. punto difficile l’incontrarne di quelli scritti in due o tre diverse manieré, e molti assolutamente sbagliati. In questo caso non abbiamo creduto ben fatto di errare co’ manoscritti, 0 di seguitare la loro incostanza: ab- biamo corretti assolutamente gli errori , e nel resto ab- biamo tenuta quella via di mezzo, che ci pareva addi- tata dalla ragione ; cioè conservati abbiamo come sta- van nei codici quei nomi che trovammo scritti sempre allo stesso modo , e quelli ridotti all’ uso moderno , dei quali i codici alcuna volta porgevan l’ esempio. Quelli che credono, esser uficio della critica il raddi- rizzar gjuesti nomi proprii, si adireranno cogli editori fiorentini, perchè essi co’ codici han scritto , per esempio, mittaterreno per mediterraneo, Danesmarca e Norvea per Danimarca e Norvegia, Anson, Antinoro, e Dario invece d’ Eson, Antenore e Darete; e con noi pure si adireranno , che loro per ciò medesimo siam larghi di lode. Ma a noi sembrerebbe invero di non aver critica se fossimo del medesimo avviso, perchè riputiamo, voler la critica , che, per quanto si può , diansi le opere degli an- tichi come per loro si scrissero ; non già perchè pre- tendasi ch’essi si seguitino nella storpiatura di quei nomi, e che ad ossequio di loro si abbandoni il più corretto uso dei moderni: ma sì per far palese che in quel tempo so- levano i detti nomi esser così profferiti. E che in tal modo verameute si profferissero , e non siano corrotti per l’ ars bitrio e l'ignoranza dei copiatori, renduto è palese dal consenso dei codici antichi : e questo anche conforme è a quel medesimo, che avvenne tra’ Latini. Festo ne è te- stimone, serivendo (3): Alumento pro Laomedonte a (3) Alla v. Alumento. 84 veteribus Romanis nec dum adsuetis graecae linguae dictum est. Sic Melo pro Nilo, Catamitus pro Gany-. mede, Alphius pro Alpheo dicebatur (4). La parola Ca- tamitus adoperata fu da Plauto (5); e pur niuno, rabber-. ciandone il verso, ardì cangiarla nei codici, essendo in essi tal quale fu dall’ autore scritta, fino a noi pervenuta: anzi. non isdegnò ritenerla lo stesso Cicerone (6), e la usarono altri scrittori fioriti dop’ esso. Del resto la storia, della lingua, e per avventura ancor quella dell’umano in- telletto, a noi par esigere, che quei nomi proprii così si, lascino stor neo delle Panta: come sì trovano nei mano-. scritti. dA Ci ha sodisfatto eziandio il modo adoperato. dagli e- ditori fiorentini intorno alle altre voci. Han pur in esse seguito i manoscritti, non però cecamente ed a caso, ma con avvedutezza ; e colla scorta;della sana critiga, di- stinguendo ciò che sente della semplicità e non ingrata rozzezza dei tempi da' ciò che è assolutamente goffo € storpiato , quel, che è proprietà della lingua da quel che può credersi un abuso, ciò che potette esser opera dell'autore da'ciò ch’ eran soliti guastare i copisti. Tutte quelle figure conosciute da’ grammatici sotto di- versi nomi, di apocope , di metatesi e simili, vuolsi ch' e- glino le prendessero dalla lingua del volgo , tenace sempre dell’ antica favella , e bri cui è proprio togliere e aggiungere sillabe alle parole. i Passar non dobbiamo sotto silenzio le citi la 3 che i nuovi editori hanno apposto alle parole e ai luoghi di non facile intelligenza. Esse dotte son sempre, e piene e vere sul generale. Diciamo sul gezerale, perchè in al- (4) Altre simili storpiature degli antichi latini veggansi rac- colte dal Forcellini alla v. Catamitus, (5) Men. act. 1. sc. 2. v. 34. ot gta (6) Philip. 2 c. 4u. | 83 cune poche ci è paruto veder cose da doversi emendare , 0 da potersi più estendere. Trarrem. prove dell’ asserzione nostra dal primo tomo, facendo osservazione su quattro parole. Nel capitolo 35.m° del libro I. adoperò il Villani la voce semmana ;, e nel 38.m° la voce santade. Scrivono i nuovi editori chiosando la prima: /’ocabolo antico: set- timana. Zrovasi in più e diversi antichi scrittori, detto forse per amore di brevità , come vilia per vigilia , e si- mili: e dichiarando la seconda: /. a. sanità: trovasi. an- che usato santà, e santade. Fu molto in uso appresso gli antichi il sincopare molte parole col toglier del mezzo qualche lettera o sillaba, come in questo luogo santà, tolto uni, invece di sanità ; semmana ir9ece di settima- na notata di sopra; vilia invece di vigilia; mastro #72- vece di maestro ( add. che vuol dir. primo; principale ) com’ è appunto poco appresso in questo stesso capo ove dice mastra fortezza. Or a noi pare, che niuno degli esempi addotti sia opportuno ad illustrare le dae voci semmana, santade:; da che non sono esse sincopi di nostra lingua; come si re- putano, ma sì derivazioni dal francese; venendo manife- stamente l’ una da semaine, e l'altra da sante. Molti francesismi furono in uso nel trecento, e privo non ne va Gio. Villani. Si dee poi qui avvertire, che mastro inì- vece di maestro non trovasi usato solamente quando è ‘addiettivo , come.paiono voler dire gli annotatori; ma sì anche quando è sostantivo , siccome provano gli esempi che si adducono nel vocabolario della Crusca. Narra il Villani al cap: 43; che passando Annibale l’ Alpi appennine.... perdè tutti gli sitoi leofanti . Leofanti , dicono gli annotatori ,'idiotismo rimasto fino al dì d'oggi in bocca del basso popolo , che dice leofante per elefante, Leoferne invece di Oloferne ec. Così dicen- do dicesi il vero. Ma dee investigarsene la cagione; la quale; a nostro giudicio, è che il popolo posto nella ne- 86 cessità di profferire un vocabolo d’ uno straniero dialettoy che non intende , ne ravvicina il suono ad alcuno del prò- prio. Molti argomenti, onde ciò dimostrisi, aver si possono da più lingue. I ‘greci dall’ ebraico Zeruschalaim fecero "IepocoAé pn , parola composta dell’addiettivo iepds sacro, è ZoAép4 voce pertinente alla geografia dei tempi eroici (7). Così è da credere con alcuni dotti che il vocabolo Ap&%wy} Amazzone, che può voltarsi senza mammella (onde la favola che ‘alle Amazzoni , per renderle meglio adatte a pugnare, si distruggesse la destra parte del petto) siasi formato unicamente per ridurre a greca indole il nativo. e barbaro nome di quelle femmine. Per simil modo i la- tini dall’ etrusco Yelathri, nome che ha Volterra sulle proprie medaglie, formarono il vocabolo Yolaterrae ; che quella città esprime in lor lingua, e formato è da due parole significative in essa ; e prossime nel suono all’ e- trusca rammemorata . Oltre poi agli esempi sg a di leofante e Leoferne, altriueldaolio lingua italiana’, tra” quali giova qui rammentar solamente l antico circo ago» nale di Roma;che dalle parole în agoree chiamasi oggi piaz- za navona,; per corruzione di veci latine ravvicinate a voce della lingua italiana. Finalmente nominando il Villani nel capitolo primò del libro secondo il Pontefice Santo Zeo, dicono a questo luogo gli annotatori: Santo Leo: accorciamento di Leone; e aggiungono: Z nostri antichi amarono assai di abbreviar molti nomi, e specialmente i nomi proprii all'uso degli ebrei, de’ greci, e de’ latini: e quest uso è ‘sempre în vigore in Toscana, onde si sente tutto dì Sandro per Alessandro, Meo per Bartolommeo, Cecco per Francesco, Gianni per Giovanni ec. Ma Zéo non è in verità accorciamento di Leone; nè (7) V. Visconti presso Pougens: Tresor des origines v. Ama. zone, Ì 87 fanno a proposito gli esempi che si adducono a confermar questo parere. Usarono i nostri antichi allorchè volgariz- zaron nomi proprii pertinenti alla terza declinazione de'la- tini; «di prenderne la voce dal caso rettoe non dagli obli. qui; come presso che sempre praticarono i moderni. Così disser quelli Zeo e non Leone, Otto e non Ottone, Bru- no e.non Brunone, Guido e non Guidone, Bruno dicesi alcuna volta anche oggidì, e Guido sempre: e chi mo- dernamente per l’ uso della sacra liturgia, e dell’ecclesia- stico officio quest’ ultimo fece latino colla voce Guidus, «gravemente offese Prisciano. vitae 1 $° Lod staeaisifà G. B. ZAnNONI iSull’opera del conte ALessanpro pi LasoRDE, intitolata: venDell''influsso dello spirito di associazione sul bene ruspubblico : (seconda edizione 1820. ) : Lezione Accademica. Due sono particolarmente gli riffici delle compagnie letterarie , come due sono le tendenze dell’uomo nella ricerca del vero ye due irami della perfettibilità: e sic- come.l’uomoha una perfettibilità' che potremmo:chiama- re istorica; in forza della quale può e vuole conoscere tut- to:ciò ché è stato scoperto dagli altri di vero e di buono, edha una, perfettibilità. inventrice: per cui può trovare muove verità, o in modo nuovo applicare e dimostrare le verità conosciute (1) ;. così le compagnie letterarie debbo- ‘no e seguitare. accuratamente «i progressi delle scienze, conoscendo ciò-:che altri scoprirono e. fecero; e quindi debbono valersi delle cose fatte e scoperte per fare esse medesime alcuna cosa di muovo che conferisca al bene della città; ed accresca il cumulo dell’umanò sapere: In questa duplice occupazione tutti trovano naturalmente il 88 luogo loro, poichè se l’impiego ‘a cercare cose>nuove èisoì lamente degli ingegni grandi e sublimi, quella prima occu. pazione a raccore modestamente, ma non senza‘giudizio ed accuratezza, ‘ciò che altri dissero e fecero, può'essere fatica anche'‘di mediocri e piccole menti. Ora io che sem- pre ho avanti agli occhi quella gran sentenza di Orazio: Sumite materiem vestris qui scribetis aequam Viribus, et versate diu quid ferre recusent, Quid valeant humeri | collocandomi tra coloro che a posmliteziiona s prin non manchino di buon volere, ho pensato di seguitare a passo a passo la storia giornaliera delle scienze , notando- ne lo stato e gli accrescimenti, e fermandomi più special- mente alle scienze morali. Osservando così i buoni e gran- di ingegni in'azione ,-:mi pare che oltre ad. avere ottimi esempi, ed eccitamenti grandi ed utilissimi; si trovino sempre nelle opere loro ottime indicazioni per. proseguire avanti nella via delle lettere , e mezzi chiari ed aperti per bene adoprare in questa via, ed anche le prime nozioni per procedere a trovare cose nuove , perchè come diceva il nostro maggior poeta: ) Nasce .'. . . a guisa di rampollo A piè del vero il dubbio; ed è natura Che vi sospinge poi di collo in collo. In questa assidua ricerca di ciò che altri fecero di ‘bello e di buono, mi sembra però che non abbiano solamente .a notarsì 1 fatti delle scienze. isolati ; ma che dalla:loro ri nione debbasi formare idea del gerio particolare; o della speciale inclinazione e direzione del secolo letterario in che viviamo. E veramente hanno le varie età delle lettere certe particolari tendenze più a fare una specie di lavori, ed a cercare una classe di resultanze, che non a certe altre cose ; sicchè come è nei diversi uomini diverso tempera- mento, e diverse affezioni e diverse tendenze nascono «da quello, così nelle diverse età letterarie diverso gerzio s'in- 89 contra» Egli è particolarmente di questo gezio della età nostra:;e delle diyerse inclinazioni di cui si compone; che io vorrei trattarvi; e nel cercare di queste inclinazioni dell’età nostra letteraria, vorrei dire oggi dello spirito d’ associazione , perchè mi pare che sia questa una:delle più visibili e più vantaggiose direzioni del secolo in cui viviamo!, e giudico che dal meditare su di questo ; molti vantaggi abbiano da ottenere le compagnie letterarie. . | Parlando ad una società che è dessa pure un frutto muovo:di questa tendenza, ad una società che tutta è in- tesa.a conservarsi e consolidarsi; volgendosi. al vero ed all’utile. pubblico, io non ho bisogno di mostrare; o in che sia posto, 0 qual fine si proponga, o quali mezzi ado- pri, o.dove vada lo spirito d’ associazione. Non dirò quin- di, 0 come lo spirito d’associazione sia tutto riposto nel riunire in ‘aperte e particolari compagnie gli uomini delli «stessi pensieri, stringendo. sempre più fortemente i nodi so- «ciali; e divenendo esso quasi un raffinamento dell’ umana sociabilità; ocome tenda unicamente al bene generale del- la comunità;;.0 come usi di mezzi appropriati a produrre questo bene; valendosi della perfetta riunione.di tutti gli animi degli siazioli in un solo intelletto;.in una volontà sola;, o come vada sempre dove più altamente .i bisogni samiali lo. chiamano (2): e qua. volga a; migliorare la nali tura! dei. campi, e là.quella dei boschi, e dove cerchi d’eru- dire; una; popolazione-ignorante, e dove volga a diffondere le sane dottrine , ad arrestare col sollievo e:colla istruzio- me:dei poveri e colla, rieducazione dei.rei il torrente del ‘mal costume che inonda ,. e.dove a provvedere alla umana salute: 0 ‘alla. vita infantile pericolante, e dove a riavere i pentiti o, a confermare i cadenti, o a torre quante può ‘vittime alle malattie più comuni. L’ illustre ed amabile Alessanidro de Laborde ,.in cui non so se più brilli la for- za della mente, o la cortesia dell’animo e del familiar 90. i , conversare , nella sua bella opera sullo spirito d’ associa» zione ha esaurito questa. materia ; e comunque io:non sia sempre de’ suoi sentimenti lla y.sono però sempre ammiratore, di quelle stesse cose che non giungono a pro-. x durre i in me il convincimento e ]’ assenso interiore. Là voi vedrete; o signori, ì prodigi dello. spirito di associazio- ne esposti nelle sue vere cagioni e. nei. suoi mirabili effet- ti, che dal soccorrere pochi privati sì elevarono fino a scavare e munire il canale che riunisce due. mari., ed a formare ad» una. compagnia di mercanti.il vasto impero Anglo-indo. Là mediterete quella progressione maravi> gliosa, che io. non potrei meglio ristringere che colle: paro» le dell’illustre autore: « lo spirito. d’ associazione; è così connaturale alla.società, come la società: è necessaria al, l'ordine della matura. Le sue prime cure sono state diret- te ad unire gli uomini con relazioni sociali per assicurare la loro indipendenza e i loro diritti: ( associazioni munici- pali): ben presto questo: spirito'istesso accompagnò gli uo- mini nel lavoro con quella fiducia; con quella unione che superano ogni ostacolo ed.attengono a qualunque successo (nelle associazioni industriali): flloim gli rese capaci di tutti i sacrifici per difendere il loro:ben essere, per fare ‘onore alla loro riccchezza ( nelle associazioni militari ): portò esso quindi per tutto la luce e la forza: abbracciò tutte le parti delle cognizioni umane , le perfezionò, le estese, le applicò, e le diresse. ( nelle società d’ agricoltura, d’arti, di manifatture, nelle compagnie di commercio *).: e cercò di spandere l’ istruzione in'ogni classe; la felicità in ogni famiglia (colle società d'educazione ‘elementare). Giunto a tal segno'di grandezza e di potere, volge ad ab- beilire ogni luogo ( nelle compagnie dei lavori pubblici ): tenta d’ entrare nei segreti della natura e di Dio» (nelle compagnie scientifiche ): e non. vuol che sia sulla. terra neppure un solo uomo che soffra; o un chesilagni della 9g! fortuna. » Tale'è la storia dello spirito d’ associazione, e la ‘verificazione di quella parola del poeta così ben dimo- strata in fisica come in morale, virtus unita fortior. | Ora io dico che a questo spirito d’ associazione tende la nostra età letteraria, e lo deduco dal numero delle socie - tà ‘stabilite movellamente, e dai frutti che esse producono. E-poichè*mion'è nostro scopo l’occuparci delle associazioni mieramente politiche, omunicipali o militari che siano, ma di quelle soltantoche tendono a cose private per ottenere in prodotto il pubblico bene, vi piaccia distinguerle meco in società economiche, le quali particolarmente mirano ad aumentare»o conservare con quella dei privati la ricchez- za pubblica ; im' società Zetterarie, dirette all'aumento dei limi; 'ed'in'società filantropiche'e miste, che di quelle ricchezze e di questi lumi fanno utile e santissimo sacrifi- cio per sovvenire ai bisogni sociali. Io non parlerò del- le prime, poichè gli uomini letterati ad altro tendono or- dinatiamente che alle cose econioriche, ed il libro 8. del: la gran restaurazione di Bacone non è salutato da molti : e comunque di ricchezza pubblica molto si parli e si scri- va; niuno ha fin qui convertito ( e facile era forse la conversione ) queste sane dottrine, per volgerle alla eco- momica educazione dei privati. Ma se volgiamo uno sguar- do‘alle società letterarie, alle società filantropiche,e speenili mente alle società miste nelle quali concorre a promuovere. il bene :pubblico la sapienza e la beneficenza, immenso è il numero loro, e sempre crescente. Rammentate tra le società letterarie le moltiplicate acccademie di agricol- tura che in Inghilterra crescono, ed in Francia aumentano ogni di; e'nella coltissima Svizzera ed in altri luoghi si stendono; pel qual genere d’istituti anche la nostra Tosca- nà el’Italia residua fiorisce. Rammentate le accademie di scienze naturali che nell'Elvezia giran comela Dieta, ed iù molti altri luoghi sono stabilite ; (O quelle che ad Re o ad un altro ramo del sapere si purea comie' alle!cose” 92 \ asiatiche , alla bottanica, alla mineralogia ; alla geologia ; alla medicina , o ad alcuna parte di lei, o quella illustre di geografia stabilita nuovamente a Parigi, :0 le altre che s’ interessano nel seguitare i raga delle nr e nell’e- porne i mezzi e gli effetti. Leggete. nell’ opera di Laborde la lista di alcune: tra le. societa d'Inghilterra, e .l’epoche della loro fondazione; scorrete nella:storia dei giornalieri progressi dello spirito umano i nomi ed i fasti di quelle che qua o là si fondaro- no, e conoscerete se. giustamente. io lascriva all’ età nostra il progresso dello spirito di associazione, e pel modo mara- viglioso con .cui le società si moltiplicarono , e pel nobi- le impulso .che. riceverono .volgendosi da una sterile Jet- teratura al. vero bene del pubblico. A questa nostra età debbonsi le compagnie istituite per assistere l’uomo in- sino nel seno a sua madre:(3), per riceverlo mentre esce alla luce del giorno, e per raccoglierlo \orfanello, e per as- sisterlo abbandonato. A. questa.età nostra sì debbono. le cure particolari per la prima età dell’ uomo, e le compa- gnie per assistere i figlioletti colpiti di cecità e quelli afflit- ti da mutolezza, e per educare i figli degli artigiani e la misera prole dei condannati (4). In questa, età nostra sur- se la società dell’ insegnamento mutuo brittannico e stra- niero che diffuse insino all’ Affrica e nella Oceanica quel metodo salutare d’istruzione, che nato nell’Asia jè. oramai comune nell’ America ' e nella Europa; e ciò in gran parte, per le cure e pei sacrifici di quella compagnia filan- tropica (5). In questa età si formarono le società di mae- stri e dei benefattori per le scuole dei dì festivi, che tolgo- no sì gran popolo all’ozio, ai vizi, alia profanazione di questi giorni destinati divinamente al riposo ed alla santa coltura dell’ unima:(6).In questa eta sursero e si molti- plicarono le compagnie rivolte a soccorrere alle malattie numerose degli uomini (7); quale allontanando/il contagio straniero coll’ applicazione dei salutari ritrovati di Ten- ; i 93 ner ; &quale dirigendosi a combattere le febbri e le per- niciose propagazioni. di quelle, curando gli ammalati e purgando le cose loro; e quale accorrendo nei casi di feri-_ te o di gravi accidenti; e quale amministrando ogni modo di soccorsi nelle asfissie per annegamento ; e quale pren- dendo in cura la vista; e quale le conseguenze funeste o di gravi sforzi o di piaghedi trista natura; e quale finalmen- te stabilendo un dispensario generale per ogni sorta di ammalati e di mali in tutti i quartieri di Londra. A que- sta età nostra si deve l’ ammirabile pensiero di formare una generale infermeria pei poveri fanciullini di cui tanti miete la morte, e di stabilirla per curargli am- malati, per confermargli convalescenti, e per educare una ‘ generazione veramente nuova di medici amorosi ed intel- ligenti, e appropriati a curare le malattie dei fanciulli. E non ci sentiamo noi gloriosi. d’ appartenere ad un seco- lo in cui si formano società: per rendere gli uomini alla libertà pagando i debiti dei poveri prigioni (8), e resti- tuirgli operosì alle loro innocenti famiglie; e per soccor- rere la debolezza e ricondurla alla virtù; e per rianimare i.germi del bene sopiti:nei cuori feroci dei rei, cercando nel Zovoro, nell'istruzione, nella divisione, nell’ ispezione i fonti della loro correzione insino nelle prigioni de’ mi- sfatti, e rendendo queste prigioni medesime alberghi de- gnì dell’ uomo, di orrendi abissi che erano di nequizia e di' morte ? e a chi se non alle società di questa età nostra debbono i miseri negri le leggi che interdicono quel ver- gognoso commercio di carne umana? a chi gli sforzi per la; loro liberazione ? a chi le‘cure per la loro civiltà? a chi il ‘pensiere della loro istruzione ? e i nomi illustri di Single- ‘ton, di Clarkson; di Wilberforce, di Anna Kilkeem, di Allen, Campbell perchè son cinti di tanta gloria? e perchè Sier- ra-Leone ha ‘arti e leggi e costumi, se non per le: cure be- -nefiche delle società del secolo decimonono? ma io. sarei 94 | immenso se volessi ulteriormente discorrere sulle società. che-vegliano nella riflessiva Inghilterra, 0 volessi toccare quelle che nella giovine e bella. e validissima America, o nella Francia, o in Italia, e perfino a Serampore e Cal- culta, o nascono, 0 crescono; o si confermano; 0 per incorag- giare l’ industria nazionale ed osservarne Je produzioni, 0, per girare attorno come il bell’ istituto nomado; per cono- scere e soccorrere per tutto i bisogni delle arti, e per alle- vare i fanciulli, e per diffondere 0 cogli scritti o colla voce. il lume divino e benefico del Vangelo i insino alle più sel- vagge tribù affricane ed alle più remote terre oceaniche, e per educare i poverelli alla morale ed al lavoro congre gandogli in un luogo solo, e. per istruire nell’ industria; agricola i i finzielili come ha fatto ultimamente la società preziosa di Glaris; e per aprire un asilo temporaneo ai rei adulti liberati dopo la pena; e per raccorre i giovanetti colpevoli; e per strappare ai seduttori le loro deboli vitti- me; e per aiutare il debole nelle liti sicchè il potente non lo divori; e per accorre fruttuosamente. i piccoli risparini dei poveri ; e per formare intiere colonie a benefizio del- l’indigenti; e per produrre mille opre oneste, e tutte .al pubblico bene dirette. E quali frutti non partorirono, cisccademiîeh queste ammirabili associazioni? I viaggi di Singleton e di altri nell’ interno dell’ Affrica , la stazione utilissima di Keeken- welder fia i Delawari, la conversione di Otahiti e:d’Eimo. dai sacrifici umani alla civiltà ed al Vangelo yl’ erudizione di milioni di fanciulli e di adulti nelle prime nozioni letterarie , l'istruzione e la correzione cdi molte, ‘migliaia di golgiesali condannati, cominciando da quelle ferocissi- me donne della prigione di Newgate; il cambiamento del- le antiche prigioni e della barbarie del vecchio regime di quelle, in Francia e in Svizzera e in Russia e nel Nord dell'Europa, ridotte ora a simiglianza delle benefiche ed 95 economiche istituzioni di Penn, non sono i frutti preziosi dello spirito d’ associazione ? E se settantamila fanciulli si educarono nel 1822 solamente nelle seimila scuole gra- tuite dei dì festivi, e se molte di queste società al dire dell’ illustre Chalmers hanno riformato le loro provincie, e se duemila trecento poveri divenuti cperosi ed intelli- geuti vivono agiatamente nelle colonie interne d’ Olanda, e se più di dodicimila artigiani sono riuniti a Parigi in cento compagnie di previdenza per darsi soccorso sictirò nelle malattie. e nei bisogni, e se trentaduemila debitori sono esciti dalle prigioni britanniche tornando ad abbrac- ciare ed allevare sessantamila figli abbandonati e dispersi, e se il solo ospizio della Maddalena ha raccolto e corretto e collocato onorevolmente nella sucietà cinque mila gio- vani sedotte, e se in 15 anni la compagnia di Shignley é di Rumford ha profuso due milioni d’incoraggiamenti nel seno delle arti, e se l’ illustre Venning ha finalmente la- sciata la vita nella infezione delle prigioni di febbre di carcere sacrificandosi alla correzione dei ‘rei, a chi si de- ‘vono questi portenti se non che allo spirito di associazio- me ? Ma che cerco esempi al di fuori, mentre la nostra stessa compagnia , e questa sede onorevole ; e questa bi- blioteca che va crescendo ogni di , allo spirito di associa- zione unicamente si debbono, a quello spirito che promos- se ‘altamente nella nostra città quel venerabile nostro Spannocchi, ad ogni nostro civile e letterario bisogno sem- pre pronto e caldissimo ? i È dunque aperto e chiarissimo che v'è negli uomini colti della età: nostra e nello stato del sapere attuale una manifesta tendenza verso le utili associazioni, che sta sicu- ramente ai privati ed al pubblico il sostenere e proteggere , per le ragioni stesse e -pei mezzi che muovono codesto spirito , e che lo fanno operare, come io vi diceva a prin cipio., in libere e pubbliche compagnie : i mezzi in fatti. per cui tante cose si fanno non sono che due, ed 96 ambidue eminentemente utili al pubblico , io voglio dire un caldo amore per la patria nei congregati ; una viva: amicizia dei congregati tra loro, sicchè possa dirsi di loro come già fu scritto della prima società cristiana, modello - e principio al dire di Laborde dello spirito vero d’associa- zione « aveano i credenti un cwore solo ed un anima ‘so- la »: un cwore solo , accademici, perchè se fu detto che dal contrasto nasce la luce della verità , dalla vera ed amichevole concordia soltanto nascono e si mantengono le compagnie: un’ arzna sola, sicchè non vi'sia in tutti che uno stesso pensiero , uno stesso consiglio, uno stesso argo- mento dì studi: e come nelle grandi ed utili fabbriche si di- vide} lavoro, maillavoro di ciaseuno individuo, comunque diverso da quello dell’ altro, ‘tende a formare con tutti quelli degli altri una macchina sola, così in.una compa- gnia letteraria debbono le fatiche di tutti avere uno scopo solo, perchè ove molti son riuniti ad un’opra sola, è quasi impossibile che non ne venga alcuna cosa di buono. Del che io mi rallegro meco stesso, o ‘accademici; vedendo come i vostri sforzi si fanno di comune volontà, e le vos- tre adunanze deliberative sono frequenti ed unanimi, e co- ‘me. le vostre mire tendono tutte a congregare le menti in un solo concetto ravvicinandole alla unità, a cui al «dire del sommo Bacone tutte le buone cose si avviano. ‘Possa lo spirito di associazione che ci congregò in questa ‘sede augusta dei pubblici interessi parlarci sempre al cuore in favore del pubblico bene ! possa sempre. tenerci uniti tutti come un essere solo! possa anche tra noi rin- nuovare i prodigi di sapere e di beneficienza che opera egli per tutto ad onore di questa età nostra ! NOTE. (+) Il doppio oggetto dell’umana curiosità , la cognizione di ciò che è stato fatto e l'invenzione di nuove cose, è sentito da tutti, ed è espresso da Bacone anche nell’utilità che se ne dee 97 ricavare : visum est nobis etiam in iis quae recepta sunt nonnul- lam facére moràm, eo nimirum consilio ut facilius et VETERIEUS PERFECTIO et. NOVIS ADITUS detùr pari enim studio ferimus et ad vetera excolenda et ad ulteriora assegnenda istauratio magna distrib. operis. (2) Nello studio delle cose che sono state fatte, io ho parti- colarmente trascelto l’ esame dello spirito d’associazione; e credo che la causa dei grandi effetti che le associazioni hanno prodotto, sia particolarmente riposta nell’avere esse trascelto un soggetto UNICO E VICINO: unico, perchè dove si erra nel vago, non si fa nulla ; vicino, alla posizione , ai bisogni, ai mezzi degli associati, perchè altrimenti o si trascura per difetto di bisogno , o per man- canza di mezzi di sodisfarlo. ) (3) Gli esempi delle società stabilite in questi ultimi tempi mostrano come si possa con un' soggetto unico di premure so- ciali fare molto vantaggio agli uomini. La società materna per le © incinte ‘fondata nel 1753 in Inghilterra; la società del parto per soccorrere al loro domicilio le partorieuti , stabilita colà nel 1737 (Lymg in Charity) emulano la mirabile società materna, che fon- data in Francia dal primo fra i filantropi, S. Vincenzo dei Paoli , fu poi rianimata e ristabilita nel 1811, per assistere nel parto le madri di famiglia ‘povere. Si era rianimata anche in Italia , ed è doloroso per noi il non vederla ‘proseguita. (4) L’ assistere l’uomo nella sua nascita è nulla, se non si provvede alla sua educazione fisica e morale. Parigi deve a S. Vincenzo dei Paoli molti stabilimenti in questo genere, e |’ illu- «stre Laborde gli rende giustizia. Ma non possono ommeltersi la società e ospizio per gli orfini, la società per i trovatelii, la società filantropica per educare e mantenere i figli dei condannati, la società di dame per l'educazione delle giovanette e per tatti gli abbandonati dai loro parerti, la società per soccorrere i figli degli artigiani, quella per i ragazzi poveri e ciechi, quel'a per i poveri muti fondate in Inghilterra ,\e rammentite da Detaborde. E la Francia ha pure gareggiato in questo modo di compagnie. Ha fondato una società di signore veramente rispettabili diretta ad educare le figlie abbandonate temporariamente dalle loro madri, o per andare al lavoro, o per causa di malattia ; e si deve alla stimabilissimia Signora Lastié questo pensiero. Un'altra ne presiede il Duca di Liavcourt, il Nestore ‘dei filantropi, per educare i giovani carcerati per furto, di cui fa menzione il N. A. Una ve ne ba per tutti i fanciallì caduti in qualche delitto, che si rice- Yofòo in una casa speciale di detenzione ultimamente fondata , e T. XI. Settembre ” 98 rammentata nella Rivista enciclopedica; na per l' edugazione dei piccoli savoiardi preseduta dal venerabile ab. Davel. La società Evangelica di Glaris in Svizzera ha ultimamente fondato una scuola d’ Fargo pei poveri sul piede di quella di Fellemberg a Hoffen_ vil, e il bravo e giovane Luffcheg che la presiede, pinta. il ri. spettabile Wekely. E interessante il ragguaglio di questo asilo sacro nella Bib. universale, Un’ aitra società ha fondato a Gine- vra uno stabilimento per e educarvi le povere fanciulline: s 'istrui- scono, lavorano, non son percosse nè strapazzate, e costano po- chi soldi al giorno; noi ne abbiamo a mano i regolamenti, e forse daremo conto di questi due istituti. (5) Uno dei maggiori sforzi che debba fare chi si dedica alla educazione, ed uno dei maggiori vantaggi che siensi risentiti dalla tendenza alle associazioni, è la ITA verso |’ isiruzione della classe povera, che forma sì gran parte dell’ educazione. Fino dal tempo di Bacone s’ invidiava questo vantaggio, e v' erano anche dei cattivi politici che la credevano dannosa, Noi non indebo- liremo l’eloquente difesa di quel filosofo per l’ istruzione nei rap- porti medesimi coll interesse dello stato: nel lib. 1. degli aumenti delle scienze, e nel capitolo del N. A. sulla società d’ istruzione elementare , v'è abbastanza ila schiarire i dubbiosi. Rammentando dunque qualcheduna di queste società, bisogna porre alla testa la Socieià d'insegnamento britannico e straniero : i di lei rapporti annuali, ed i documenti che gli accompagnano, mostrano bene quale immensa estenzione questa società rispettabile abbia dato alle sue relazioni (ved. anche il nouveau système d'elucation par Lasteyrie). Dopo di essa è da rammentare l'illustre Società d’edu- cazione e dei metodi di Parigi, e nel giornale d’educizione che questa Miapettabile società pubblica, sono da vedere le importanti cure che si è date, ed i frutti che essa ne ha ritratti. La società del bene pubblico d’ Olanda aveva posto in piedi quattromila quattrocento cinquanta scuole primarie, ed il rapporto dell’ illu- stre Cuvier sur les ctablissemens d’instruction publique en Hollan- de (1812), mostra qual sommo vantaggio ne ritrasse l’intiera na- zione, Tutti conoscono le società stabilite altrove per questo grande oggetto, in Svizzera, in molte parti d'Europa, e siogolarmente in America. (6) Siccome molti non possono, aggravati dalle fatiche, pro- fittare d’una completa istruzione ogni giorno, le società delle scuole della sera, e quelle particolarmente dei dì festivi, hanno procu- rato a tutti il vantaggio dell’ istruzione. È da leggere nella Bi- blioteca Italiana di qualche anno indietro l’interessante descri- 99 sione di queste scuole dei dì festivi in Baviera, alle quali si par- tecipa dai piccoli e dai grandi dopo avere sodisfatto ai doveri religiosi, dei quali però l’istruzione non è l’ultimo. Nella Rivista enciclopedica del 1822 sono molti ragguagli di queste scuole della domenica in Inghilterra. Il tabidatro Cha dieta i in un’opera molto importante, di cui è un dotto estratto nella Biblioteca universale di Ginevra, indica le migliori regole su queste istituzioni, ed attesta il somma vantaggio morale che molti luoghi dell'Inghilterra ne hanno ricavato. (7) Educato che sia l’uomo, bisogna soccorrere ai suoi molti- plici mali fisici. e morali. E quanto ai primi, è difficile assai il rammentare tutte le utili società che si son formate, sia per cercare nei principii delle scienze nuovi mezzi o nuove conferme per l’arte di guarire, sia per amministrare i soccorsi conosciuti. Una folla di compagnie in Inghilterra, in Francia, e in Italia pubblicano memorie e giornali, e si affaticano per ogni modo ono- revolmente. Molte altre assistono i disgraziati, e arrecano loro rimedio. Noi, seguendo i moti del cuore , ponghiamo fra le prime la società istituita mel 1817 per curare i poveri fanciulli in tutti i quartieri di Londra. Questo corpo illustre si propone tre grandi oggetti, curare le malattie dei fanciulli, studiare e perfezionare l’edu- cazione fisica in tutti i rapporti colla igiene, la terapeutica e la macrobistica ; e formare dei medici capaci per medicare le ma- lattie dell'infanzia in ogni luogo. È da consultare | opera pubbli- cata in questo proposito dal sig. Davy nell’anno 1822 a Londra. Dopo di questa rammenteremo solamente alcune società in- glesi, di cui il N. A. fa menzione, lasciando ai giornali medici il darci più ampie istruzioni in questo proposito. Società filantropica di Clekernvell, ed altre per portare soc- corsi al domicilio nelle cadute, ferite, ed altri accidenti. Società della febbre (1802) per portare i malati fuori delle loro case; pulirle, e curarli per troncare in radice il contagio. ‘Società delle ernie, che ha in otto anni soccorso novemila ina dividui. Società de’ mali cancerosi (1803). Società R. Ienneriana per la vaccinazione. Società e dispensari in tutti i quartieri per soccorsi, a rimedî.. Società per le oftalmie. Società per i soccorsi elettrici. Società per gli annegamenti e le morti apparenti. ‘Tali sono alcune delle società stabilite in Inghilterra per soc- eorrere ai mali della. nostra speoie. | 100 Noi non possiamo però chiudere questa | lista di corporazioni venerabili, senza rammentare la società di New Yorck per la cura; delle alienazioni mentali, e quella, stabilita nelle Isole Britanniche» da diversi uomini benefici della società degli amici. Queste società, e gli ospizi da essi fondati sono un vero modello di intelligenza e di umanità, (V, il Filantropista di Londra, anno, 1813, ottobre). , (8) Gli uomini non sono afflitti solamente dai mali fisicr: v'è l'immensa folla dei mali, morali da curare. La povertà , il vizio, il disonore, l'ignoranza e l’ errore nelle cose religiose, le deva+ stazioni della guerra, non son certo le migliori posizioni o qua- lità possibili. Una società è in Inghilterra per liberare i carcerati per debito : un’altra per un eguale oggetto ne.è stata fondata in Francia (V. Delaborde C. des, “dei ide bienfaisance). Sono. stati anche contemplati gli uomini caduti in povertà nelle varie classi. Una compagnia inglese col titolo. di, società letteraria (literary found) soccorre i citati bisognosi, Laborde ne fa menzione; ed i giornali di quest’ anno mostrano che. essa fiorisce : il ministro Chateaubriand le ha inviato dei soccorsi, ‘egualmente che. altri stranieri distinti, Una società analoga» è stata fondata nel 1801 per i professori di musica, I buoni. francesi hanno, pensato vai bisogni delle famiglie dei cavalieri di S, Luigi. Invecchiati o morti rel’esilio reclamavano, o. essi. stessiy o le famiglie loro, le; cure della. loro patria. Delaborde,cita con onore: una società che sivera fondata dopo il 1814 a questo fine., ed. i giornali dell 1822-23 mostrano che dura tuttora, e si stabilisce sopra; savi regolamenti che ha dato alla luce. I. poveri. marinari sono. pure, una (classe molto distinta nei paesi. marittimi. A. Copenhague però, si è ;sta» bilita una società per aprire ad, essi. un asilo. nella. vecchiaia, di cui rende conto la Riv. Enciclop. Infine, qual.vi è situazione più disgraziata che, quella d’un povero forestiero, senza relazioni, senza amici, senza parenti, lontano dalla. sua. patria? Anche a questa specie di. bisognosi. ha provveduto lo, spirito. di ass sociazione, e la società samaritana (samaritan society);destinata a soccorrere i forestieri di tutti i paesi che escono dalle prigioni/; dagli ospedali, e pagare loro il viaggio per rientrare nel loro paese, e la società pei forestieri ip ( For foreigners in distress) ricordate dal N. A. son tanto più commendevoli , quanto, minori sono le relazioni, e conseguentemente. gli stimoli coi, bisognosi che son soccorsi. Finalinente, qual v'è nella, vita. situazione spiù in- teressante di quella del. vecchio impotente.:e bisognosa ?. A. questi si son fondati ospizi e collegi in tutte. le. professioni; secondo il N. A.;, sicchè la vecchiezza sia sempre. venerata. e soccorsa... 101 ‘ aanto poi ai soccorsi generali dei poveri, è sempre da tenere ferma ‘la ‘massima dell’ illustre Degerando, che la elemosina più bassa sia quella che dà solamente dell’ oro. La società filantropica di Parigi diretta a soccorrere le famiglie con un nutrimento sano e non dispendioso ; questa società fondata da qualche tempo nella sua casa medesima dal Duca De la Rochefoucauld Liancourt a Pa- rigi, ha salvato nei tempi di carestia, estesa a tutti i diparlimenti di Francia, una folla di famiglie miserabili. Son pubblici i suoi rap- portitè da vedere quel che ne serive il N. A., e il virtuoso Par- mentier all’ Art. Orge del Diz- di St. Nat. Ma il nutrire il povero nel suo estremo bisogno, non è che prolungargli un momento l’esistenza: è necessario dare ad esso medesimo il mezzo (di provvedervi, dirigendolo.o all*agricoltura, o alle arti. I saggi di Rumford ristampati tra noi ultimamente a Prato, mostrano ciò che possano le cure di uomini intelligenti e benevoli, ed è. consolante il ricordare che le sco perte sul calorico di questo uomo grande , son dovute alle sue cure instancabili per il bene dei poveri. L’ Antologia ha già reso conto delle opere ve- ramente benedette della società di Trieste, di quella di Siena, e sarebbero molte cose da dire in lode delle società d’ Amburgo, di Baviera ec. Noi non ripeteremo danque ciò che è stato detto sul modo di educare i poveri alle arti nelle case di lavoro. Sarebbero bene da ag- giungere a queste , poichè vanno alla medesima direzione, le diverse società destinate a proteggere l’ industria , ed a rendere gli arti- giani intelligenti ed operosi. A questo hanno contribuito sul ri- nascere delle buone cose le ‘società dei collegi, delle arti, e da principio la cospirazione dei molti, secondo Bacone , fu utile, e al dire dell’economista Agazzini, fu anche necessaria. Fissato però lo stato delle arti, divennero prepotenti e dannose pei vincoli che ne sentiva |’ indastria. Ma alta protezione delle arti sottentrarono le utili e benefiche società. La società ammirabile di Shipley a Londra che trovò il suo compimento nel ‘progetto di Rumford con varie altre compagnie filantropiche a favore dell’ industria ; la società d’incotaggimento di Parigi; la moderna scuola e com- ‘pagnia d’ industria d’ Edimburgo; l'istitato nomado di Cadet-Gas- sicourt, e molte e molte altre che meriterebbero veramente una menzione speciale, operarono ‘un tanto bene. Ma la diminuzione sofferta dal commercio ha fatto immagi- mare in questi ultimi tempi .il ripiego di volgere molte braccia all’ agricoltura, e lo spirito di associazione ha trovato il modo d’ eseguire il più Glantropico ‘progetto ‘possibile. Si son fondate ? 102 delle ‘colonie interne in luoghi incolti e. disabitati: le società hanno acquistato i terreni ed. anticipate le spese per la costru> zione delle case e peri bisogni dei coltivatori, e con un siste ma saggio e previdente, si è trovato il modo per cui i coloni po+ tessero restituire queste anticipazioni del loro mantenimento col prezzo del loro lavoro, ed acquistare quindi coi risparmi l’ intiero fondo. Le società di beneficenza che hanno fondato in Olanda le colonie di Federicks-Oord nel 1818; risentano già la consola= zione di avere rese agiate ed istrutte quasi tremila persone ; €. vedono con soWiifiefone che le loro anticipazioni cominciano a rien- trare utilmente nella cassa della compagnia. La Biblioteca uni- versale di Ginevra nei vol. 16 e 17; dà un conto esatto di que- sto stabitimento. Il Filantropo , gionale prezioso che questa società ha cominciato a pubblicare al 1822 , espone i profitti e gli aumenti di queste colonie; mentre si occupa di tutti gli uti- li ritrovati nelle arti economiche, e. particolarmente nell’agri- coltura. Una società stabilita negli anni scorsi nel ducato di Hol- stein, ha pure fondato una colonia interna nelle parti bosche- reccie di quel paese, e ne dà conto nei suoi preziosi Dullettini la Rivista enciclopedica. Di queste colonie e dei progetti utili che si fanno per la loro moltiplicazione, noi daremo conto per disteso in un articolo separato. La materia lo chiede , e la necessità di arrestare l’ emigrazione europea esige che si cerchi riparo alla mancanza di popolazione che possiamo risentire nel nostro emi- sfero. Con questi due mezzi, colle case di lavoro e colle calonie in- terne , si educano i poveri, e si attaccano ariche a risparmiare. Bisogna però prevedere i casi in cui afflitto il povero dalle ma- lattie, o oppresso da altra disgrazia mon possa lavorare affalto, o non possa lavorare tanto da supplire ai propri bisogni, o po- tendo, non trovi lavoro. Questo è il caso di ricorrere a quelle società che abbiamo rammentato in primo luogo. Ma lo spirito di” associazione ha preveduto questi mali; e vi ha riparato in due modi. Si sono stabilite da alcune società di beneficenza in Ingbil- terra delle casse di risparmio, ( Savius Banus ) che acco!gono an- che la più piccola somma che il povero possa togliere ed eco- nomizzare dal suo guadagno giornaliero, e le tengono a molti- plico , sicchè producano con certezza e con abbondanza per l’iu- digente: L’esempio dell’Inghilterra rammentato dal N.A. è stato imitato in Francia ed altrove con molto. vantaggio dei poveri . Si può consultare il Friendly advice to industrioses and persons by William Davis; London 1817: Un altro mezzo utilmente sta- bilito dalle società di beneficenza, sono le compagrie di previ- 103 denza. În esse si uniscono gli artigiani dî una o di un'altra clas- sa, e tassandosi lievemente tra loro, formano quasi una specie di scambievole assicurazione contro i loro bisogni futuri ( V. De- laborde L. C.). ‘Tra i mali degli uomini, non è l’ultimo la schiavitù. Il cri- stianesimo e la civiltà l hanno bandita dalla migliore parte di Europa; i privcipi illuminati cercano di WI le vestigia ; ma la schiavitù dei neri ha occupato i veri amici degl’ uomini , e lo spirito di associazione ha sostenuto gli sforzi Lofai L’ istitu- zione Affricana di Londra ha condi insieme gli amici dei poveri neri: è da vedere nei rapporti che pubblica annualmente, quanto essa abbia fatto per l’abolizione della tratta dei neri, e per la graduale abolizione della schiavitù nelle colonie. La mozione ul- timamente fatta da Buxton nella comera dei comuni, prova che questo corpo rispettabile non si stanca. — Una nuova società per |’ istruzione dei neri si è fondata a Londra nel 1819; ed ba spedito Singleton ad aprire coi Foulah e con altre popolazioni affricane delle comunicaziori dirette al'a loro istruzione : La fon- dazione della Colonia di Sierra-Leone è stata già descritta nel- l’ Antologia. Una società americana ha aperto nell’isola di Sher- bro , non lavgi da Sierra-Leone , un asilo per tutti i neri libe- rati, o per manomissione dei loro proprietari , 0 per arresto di bastimenti che sieno stati presi facendo la tratta; i quali arre- sti nel 1822 hanno reso la libertà a più di duemila neri. Son da vedere nella Rivista enciclopedica molti articoli che interes- sano questa materia: sono da consultare the philantropiste ec. e la collezione pubblicata sotto il titolo: Affrican istitutioni ; che dà le relazioni annue di Sierra-Leone , del progresso ‘della civiltà in Afffrica, delle leggi sulla RENE: ec. Il vizio e li ignoranza sono però i grandissimi mali dell’ uo- mo, ea questi era particolarmente da pen Molte sono le società dirette a bandire il vizio. L’ Inghilter= ra conta la società custode della morale ; la società Hiretta a co- noscere i veri poveri, e smascherare i Ginti ed i vagabondi; la società che si propone di perseguitare i bricconi; società sicura- mente utilissime, anzi necessarie in tatti i paesi. Interessano pe- rò sommamente lo spirito eil cuofe le diverse società dirette ad accogliere , istruire , correggere e stabilire le persone-del sesso sedotte o cadute, e ricondurle alla virtà. L’ Inghilterra ha a que- sto oggetto la società e l’ ospizio della Media la società e il refugio per le fanciulle abbandonate; la società per le fanciul- le penitenti ; la società per fa soppressione del vizio. La Fran- tod cia ne ha stabilite altre eol nome .di società penitenziale ( Riv, Enciel. ), che ponendo queste disgraziate giovani tra le mani di iatrone gravi, religiose e benevoli, fanno propriamente la cau- sa della città, abituandole alla virtù ed al lavoro. Una classe di persone viziose, che interessa in modo specia- lissimo la società , è composta di quelle che portarono il vizio sino a quel grado , in cui diventa delitto civile, e meritarono le punizioni dello stato. Queste punizioni, se non sieno dirette a dovere , sono un rimedio peggiore del male. Parum est coercere improbas paena nisi probas efficias disciplina. A questo gran fine eminentemente filosofico e filantropico si è particolarmente diretto lo spirito d’ associazione. La disciplina delle case di pu- nizione e di correzione , il miglioramento e la rieducazione dei rei, e specialmente la correzione dei giovanetti che disgraziata- mente son caduti in delitto, ecco i grandi oggetti che si è propo» sta la società del migioramento delle prigioni e della correzione dei giovani delinquenti: e queste società, sotto la protezione de’ sovrani, sono oramai diffuse in Russia , in Francia , in Svezia, e per tutta l'Europa colta, non che in America, nella quale hanno incominciato gli utili miglioramenti nella Pensilvania. Su questo argomento noi ritorneremo di proposito , perchè lo crediamo di sommo interesse par la morale e per la società , e giudichiamo però che debba darsegli larghissima estenzione, e cognizione ge- nerale. Frattanto i rapporti annuali delle società di Londra, i regolamenti delle prigioni, i diversi piani, saggi e ricerche da esse pubblicati, l’opere di Buxton, di Cunningham , di Viller- me, e del nostro medesimo illustre autore, che non cessa di occuparsi in favore dei prigioni utilmente. , e che ha. scrit- to un libretto espressamente per questo fine, possono darci un’ idea. del modo con cui il gran disegno è stato immagi- nato ed eseguito , e del frutto grandissimo che si è ricavato in Europa ed in America. dal metodo combinato di classazione , ispezione , istruzione , e lavoro dei rei. Ma il vizio non si sradica senza sradicare l’ ignoranza, dan- do insieme all’ uomo una chiara ‘cognizione dei propri doveri, ed un vivo eccitamento ad eseguirgli; ed il solo studio della re- ligione cristiana può operare questi due effetti, rischiarando l’in- tendimento, e svegliando la volontà. Di qui lo spirito d’associa- zione non ba trascurato questo mezzo, e di riformare i viziosi, e d’istruire l’ignoranti, e d’illuminare i popoli nuovi e selvaggi. Fra la compaguie dirette a questo grande oggetto di spargere per tutto i principii del cristianesimo , sono da vedere nel libro che citia- 103 mo le moltiplicate società inglesi di tutte. le comuntoni dirette alle missioni. La Morava, le Wesleyana, la Cambridgense, meri- tano menzione ; la società per propagare la religione , la società per pubblicare i trattati religiosi, la società Ibernese per l’ i- struzione religiosa della {rlànda , la società del porto di Londra. Non passeremo in silenzio la società della morale cristiana stabilita utilmente e Parigi, alla quale appartiene il nostro autore, e quella dei trattati religiosi, e la società diretta utilmente a pubblicare scritti religiosi e morali ad uso della classe laboriosa : e finiremo con quella fondata da pochi mesi a Parigi per soccorrere le nis- sioni cattoliche straniere, della quale niun giornale ha reso con- to fin qui, ma che ne’suoi regolamenti, che abbiamo a mano, mo- stra molta saviezza nella sua stessa semplicità. Non si può per altro chiudere il ruolo delle compagnie di beneficenza senza tener conto della interessante società distesa in Inghilterra , nel resto dell’ Europa ed in America per procu- rare la pace permanente. Sia pure questo il sogno dell’ uomo dabbene , come fu detto del lavoro dell’ abate San Pierre; le utili e dotte pubblicazioni di questa società serviranno almeno a raddolcire. gli animi, ed a diminuire i mali della guerra , ed i terribili disordini che l’ accompagnano. L’ aral/do della pace che esce annualmente a Londra in forma di giornale, e diversi saggi stampati in America e pubblicati anche . a Londra col titolo di Rivista solenne degli usi della guerra, da Scott.., de Clarnson ec. danno idea dello spirito buono che anima questa società. Essa ha ora un gran soggetto di scan- dalo nella idea che si fa della guerra nella sua storia univer- sale degli ultimi tempi il sig. Saalfild. Il passo è tanto singo- lare che non dovremmo resistere alla tentazione di riferirlo, se non sembrasse questa citazione muoversi più da indignazione che da altro sentimento, giacchè si tratta in quel passo di en- comiare la guerra come la madre di ogni heila cosa. (9) Queste ammirabili società , ed altre moltissime, non ri- masero fin qui senza frutto : noi ne rammentiamo alcuni pochi nella presente memoria : sono essi consegnati nelle opere stes- se che trattanodi queste società, ed i rapporti della società d'insegna- mento mutuo, e quelli della società delle prigioni d'Inghilterra e di Francia, le reiazioni delle istituzioni affricane , il filantropo delle società di beneficenza di Olanda, il Fi'antropista d’ Inghil- terre, el’ Araldo della pace , e la Revista ‘enciclopedica , e la Biblioteca universate ,, e molte altre collezioni periodiche , ne presentano: l’ andamento e i progressi, . FILANDRO 106 I fiore dell’arte dell’intaglio rielle stampe corì sirigolare studio raccolte dal signor Lurcr GAuDio — ti; Pa- dova , dalla tipografia Mella Minerva 1823. î72 dai | Il ch. sig. Ab. Antonio Marsand; professore nell'Uni: versità di Padova, dopo essersi fatto merito nella repub- blica delle lettere con la splendida ed elaborata edizione delle rime del Petrarca, da lui messa in luce nel 1820, ci da oggi un bel monumento del suo nobile amore per le belle arti, nel libro che qui annunziamo. Contiene esso la descrizione ed illustrazione di una raccolta di stampe; posseduta da un dilettante padovano ; ristretta invero e appena nascente, da non meritar, quasi direi, il nome di raccolta se sj riguarda al numero delle carte ; che oltre- passa di poco il centinaio; ma eletta e pregevole ,' sì per l'eccellenza degli incisori, che per la bellezza e rarità delle prove. Va inbanzi una introduzione, nella quale prendendo l’ autore a trattare delle differenti maniere ado- perate dai dileitanti di stampe nel far di esse raccolta, si fa strada molto acconciamente a sfogar l’ animo suo gen- tile e benevolo verso la sua diletta Padova; col fare ono- rata ricordanza di varie altre private collezioni di tali og- getti calcografici, che esistono in quella inclita città , a suo maggior lustro, ed onore di parecchi fra quei #10 per opera e studio dei quali sonosi esse formate: « Primieramente (egli dice) sonovi stati alcuni, i quali tratti dall’ardentissimo desiderio di possedere , se l'avessero potuto, tutto ciò che da’ maestri dell’ arte. fu pubblicato , raccolsero , senz'altro fine che di raccogliere, le stampe tutte indistintamente, che venne lor fatto di acquistare. Ma, per dir vero, non mi par procedere da buono consiglio un cotal tit di fare raccolta, 0, come altri dice con latino vocabolo, collezione di stampe ; per- ciocchè, non essendo egli in certi confini ristretto ed ordi* nato, non può bastare nè la vita, nè la ricchezza di alcun i 107 uomo per giugherne ad intero e perfetto compimento. Il perchè noi vediamo , che la collezione di tutte le stampe di ciascun maestro, e d’ogni scuola, non si trova se nou che nelle pubbliche biblioteche, anzi in quelle soltanto, che hanno maggiori le rendite , e che godettero e guipuo d’una Sole protezione de’ successivi sovrani, sì com'è, per dirne di alcune, delta biblioteca imperiale e reale di Vienna; e delle due reali di Parigi e di Dresda. Di che ne- ‘cessariamente ne seguita , che ad un privato amatore del- l’arti, il quale pongasi a raccogliere stampe senza rhetter limiti alla sua scelta, debba sempre mancare; malgrado suo , ciò che vorrebbe, o più vorrebbe; per la natura me- desima di così fatte universali collezioni. E che sarebbe, se dopo di aver acquistate con gravi cure e grandi spese molte migliaia di stampe de’più famosi maestri; egli fosse privo di alcuna delle più eccellenti e più rare, che.il Sal- vini chiamerebbe capolavori, di questo o di quello ? Qual ne sarebbe l'amarezza dell’animo suo, sé aprendo egli ad alcuno una grande cartella o custodia ripiena delle opere del Le Clerc; od altra di quelle dell’Edelinck, non potesse, richiesto; mostrare del primo il trionfo di Alessandro colla testa di questo eroe in profilo; o del secondo la sacra Fa: miglia di Raffaello avanti le armi? Ne pensi il lettore. Che se in tutte le cose nostre è necessario che ci contenghiamo sempre secondo quel detto, sit modus in rebus, tanto più ne siamo obbligati, dove, non avendosi modo nella cosa, viene quasi per se a mancare la cosa medesima. » « Utili bensi e dilettevoli sono tutti que’ modi di far collezione di stampe, i quali, essendo conformi al genio, adattati allo studio, e proporzionati alle fortune de’ rac+ coglitoti, danno dh prima ‘a divedere altrui lo scopo , ch” essi hanno nelle lor collezioni, e mne ottengomo..iri- sieme quelle utilità e quel diletto, che si RIPARO; ella è pur a me dolce cosa, che, volendo io dire de’ priù- cipali di questi modi di far raccolte di stampe; jo -non 108 abbisogni di cercarne gli esempi in un paese o in un altro, perciocchè li ritroviamo nella città medesima, dove io da molti. anni soggiorno ; città ben giustamente detta, sede antichissima delle scienze, delle lettere, e delle arti; verso la quale io non:s0 se più io mi sia grato alle sue cortesie, o reverente a’ suoi meriti. » Passa quindi l’autore ad enumerare siffatti generi più raccolte: e cominciando da quello che ha per iscopo le primizie della calcografia, cita ad esempio il gabinetto del cav. Giovanni de Lazara, ricco di alcune prove rarissime de’ nielli del Finiguerra, e di molte bellissime stampe-dei migliori intagliatori italiani e tedeschi dei secoli XV. e XVI. In secondo luogo egli pone le.raccolte di stampe rappresentanti le pitture di tale, o tal altro sommo maestro: e in questa classe assegna un posto distiuto alla estesissima riunione di passa 220 stampe, tutte ricavate dalle opere di Tiziano, formata dall’erudito cavaliere Andrea Majer, notissimo in ambedue .le repubbliche delle lettere e delle arti pel suo libro sull’eccellenza di quell’immortal pittore, Di genere simile al qui detto, sebben più estese, son le raccolte , che non un solo pittore, ma una sola scuola pit- torica prendon di mira: e a questo proposito apprendiamo dal sig. Marsand con summo nostro contento, che il chia- rissimo abate Daniele Francesconi, professore e bibliote- cario dello studio di Padova abbia già grandemente inol- trata una copiosa serie di stampe, per la, più parte inta- gliate, a sua cura e spesa, dalle pitture dei padovani mae- stri, le quali destina a corredo di un’opera ch'ei si dispone a mettere in luce col titolo di Scuola padovana di pit- tura. « Altri amatori (segue l’autore) molto appassionati dell’arte, e molto ricchi, non limitano la collezione in un genere solo di opere dell’arte medesima, ma ne raccolgono d'ogni scuola le più belle ne’ tre generi principali e della storia , e del paese, e de’ ritratti; e non solamente le an- tog tiche, ma le moderne eziandio; » siccome in Padova stessa vedesi praticato dal marchese Federigo Manfredini , il cui sceltissimo gabinetto di stampe è già bastantemente co- gnito al pubblico per il catalogo che nel 1808 ne messe in luce Antonio Neumayr. Che se vorremo un bel saggio di quell’ altra maniera di raccolte, che presenta la serie completa delle opere di un qualche sommo incisore, ecco che torna in campo il medesimo march. Manfredini, presso cui tutto ciò che ha prodotto l’ egregio bulino di Mvrghen trovasi in freschissime e distinte prove adunato. Così scen- dendo a più particolari e minori generi di stampe, si cita la doviziosa raccolta del cavaliere Alessandro Pappaufava per quel che concerne l'architettura e l’ornato; quella del pro- fessore Renier per la Zoologia e Mineralogia, e le altre dei professori Bonato e Caldani per la Botanica e la No- tomia. E venendo alla sfera dei Ritratti, vari esempi sl portano di serie iconografiche; che una copiosa d’ illustri Padovani ne ha messo assieme l’avvocato Antonio Piazza, di Medici il professor Fanzago, di uomini insigni nelle scienze esatte il professor Collalto, e di grandi italiani il professor Meneghelli. Il sig. Marsand chiude l’ enumerazione dei diversi sistemi: di ‘raccolte, con quello adottato: dal sig. Luigi Gaudio; il quale ha ristretto la ‘scelta delle sue stamipe ai soli capi lavori degli eccellénti maestri nell’ arte; e più degli antichi, tibi dei moderni ; scegliendo delle ‘opere 1906 quelle: massimamente; che al SORTE più sublime dell’arte medesima apparteng gono; cioè alla storia. Ma, per dir vero’; ‘noi ‘non sappiamo vedere , che questa riunione di’stampe formata dal sig. Gaudio asia realmente inse cosa ‘alcuna, ‘che tanto l’ allontani e di: stingua da ogm altra qualunque delle sopra enunciate, da poterne costituire un genere a sparte; e a rettamente con- siderarla’, essa non ‘ci presenta altro aspetto , che di’ una ripetizione in ‘piccolo della splendida raccolta‘ Mantredi- 110 nia, dalla quale in sostanza non differisce quanto al dise- gno , ma solo rispetto alla estensione. Nè per questo in- tendiamo tacciarla di povertà; che inopportuno sarebbe tutto quello che contro di lei dir si volesse, sì per la man- canza assoluta d’intagli appartenenti a vari maestri di prim'ordine, e sì per la scarsità, o la men rigorosa scelta delle opere di alcun altri; dopochè il dotto illustratore, ben prevedendo la possibilità di siffatte imputazioni , ci ha fatti avvertiti, non esser ella peranche arrivata a quel grado di perfezione, a cui sì propone il collettore di farla salire, per .ottener pienamente lo scopo prefissosi. Ci sem-, bra bensì, che avuto rispetto all’attual ristrettezza ; forse avrebbe meglio provvisto il sig. Marsand all’onore del ga-. binetto del suo amico, se non si fosse impegnato in quella pomposa divisione di stampe per ordine di scuole, ma al- tra più. semplice, e non tanto minuta ne avesse adottata ; come poteva esser quella di separarle in due sole classi, ponendo nella prima le antiche, le moderne nell'altra. In tal guisa , ampliando le masse, egli avrebbe cresciuto l’ef- fetto del suo piccolo quadro; dovecchè per contrario tri- tandole, lo fa ora apparire troppo | più meschino di quello sla in sca, Ma checchè sia di ciò, pila è pur vero, che in tutto il rimanente il sig. Makadi ha saputo con molte cura ed ingegno dare alle stampe del sig. Gaudio quel.miglior lu- stro e risalto, che valer potesse a farle pienamente cono- scere e. stimare dai ‘dilettanti, e a risveghiare nell’ani- mo di chi la, possiede. un «dolce senso. di compiacenza. Chiare, precise, e ben particolarizzate sono le descrizioni che egli fa di ciascuna : dichiarando, ov’è di mestieri, il subietto, indicandone succintamente l’ ordine della com- Posizione , notandone l’autor del disegno, la maniera del. ‘ l'incisione , le-dimensioni, e finalmente la qualità della prova., i particolari.suoi distintivi , evil grado. della con- servazionie ; non, senza le opportune critiche osservazioni; 2II le quali egli ba desunto in gran'parte, e sempre che ha potuto , dai più accreditati scrittori, e. talvolta dal suo proprio giudizio. Nè a corredo di tali descrizioni ci fa egli desiderare le più esatte notizie sull’ epoche, i luoghi, e altre principali particolarità spettanti alla vita degli inci- sori; che anzi, perchè nulla manchi all’ ornamento e alla ricercatezza dell’ opera, premette a ciascuna scuola un breve cenno istorico sopra il cominciamento e il progres- so di essa, e lo accompagna con un ritratto in stampa di quel maestro che fu il primo a portare in quella l’intaglio alla ‘perfezione. Così alla scuola tedesca va innanzi l’ im- magine del Durero, alla italiana del Raimondi, alla fiam- minga di Luca di Leida, alla francese del Callot; e del Woollett all’inglese. E questi ritratti appositamente inta- gliati, sebbene non troppo felicemente, hanno il merito di esser tratti dai migliori e più autentici originali: che 1 tre di Alberto, di Luca, e del Woollett vengono dagl’in- tagli ch’essi stessi ne dettero di propria mano, quello del Callot dalla stampa che ne incise il Vorstermann dal di- pinto di van-Dick , e quello di Marcantonio dal prototipo esistente a Roma sia Vaticano per opera di Raffaello; il quale fra tanti uomini insigni, ch' ebbe cura di far eterni co’ suoi pennelli, non si dimenticò del suo diletto inta- gliatore, ma lo lasciò effigiato in uno di quei palafrenieri, che portano in sedia gestatoria il papa Giulio II, nella sto- ria d’ Eliodoro. Su di che,si avverta. di volo., che la sicu- rezza di tal ritratto non è già appoggiata ad una semplice e Naga. tradizione, come sembra dubitare il sig. Marsand; ma è asa dvn guarentita dall’ autorità del. Vasari, sia fice e scrittore vicinissimo di tempo a Raffaello , e con- temporaneo ed amico degli scolari di lui. Di tanto egli depone in fine alla vita di M. Antonio da se pubblicata nell’ edizione de’ Giunti , e lo conferma col ritratto in stampa, che ad essa premette, somigliantissimo alla anzi- detta figura del Vaticano. 112 Sappian pertanto i dilettanti buon grado al sig Mar. sand di questa sua fatica, la quale oltre al miibienti alla portata di conoscere e ammirare nel gabinetto illustrato varie prove squisite di stampe ricercalissime , dà loro an- che certezza di quant'altro la città di Padova può offrire dì più prezioso alla loro curiosità, in fatto di calcografici monumenti. Nè vogliano essi fare scalpore, se, iiello scor» rere le descrizioni delle stampe, si abbatteranno talvolta in alcuna di quelle inavvertenze, guas aut incuria fu- dit, aut humana parun cavit natura: come se, per esem- pio, non sembreranno loro rettamente ‘esposti i subietti del S. Pier Nolasco di Mellan, e della Znstruction pater- nelle di Wille, o se altrove vedran confuso Gherardo - Seghers con Gherardo delle notti, cognome applicato. sempre dagli Italiani all’ altro pittore Gherardo Hon: thorst. Che se taluno volesse poi dire, che la materia di que- sto libro , di per se stessa leggera tanto e incapace di no- vità, non meritava il pomposo apparato, col quale è pia- ciuto all’ autore di esporla , sappia che l’opera è destinata a festeggiar gli sponsali del giovine sig. Gaudio. E bene addicevasi a tal circostanza lieve ed ameno argomento, il quale trattato fosse, e ordinato con una certa sontuosità e raffinata eleganza, come da gala. E volevasi ancora pro- durlo nel pubblico esteriormente adornato , e come in a- bito festivo e nuziale; al che ha provvisto infine l’ usa- ta splendidezza del sig Marsand, per mezzo di magnifi- ca edizione in carta velina, e ristretta , a compimento di lussoyin soli 120 esemplari. Bibo 113 Frammento d'un ° Elegia d'Ermestanatte da Colofone, tradotto ed iirusrato da Francesco Necri. Milano. presso i Sonzogno 31023) In"8.° Pausania , uno scoliaste di Nicandro e qualche altro greco scrittore ci parlano d’ Ermesianatte come d’un poe- ta elegiaco assai leggiadro. Ma, senza Ateneo, che nelle sue Cene inserì il frammento che qui annunciamo tradot- to ed illustrato , crederemmo di lui quello che ci piaces- se; poichè non ci sarebbe mezzo di giudicarne. Questo frammento è da’ moderni eruditi chiamato una soavità senza pari : tutti però confessano di averne capito quello che hanno potuto. Natal de’ Conti , Casaubono, Lennep, Dalechamp, Heringe, Runchenio, Waston, Heslirich c Ilgen, Iacobs, Scliweighatteser , vi hanno sudato intorno per renderlo intelligibile; eppure dopo tanti sudori il sig. Negri vi ha trovato ancora in più luoghi Za sintassi intral- ciata e il senso oscuro ed ambiguo . Quindi egli non si è attenuto al testo adottato da alcuno, ma ha scelto da vari testi quello che gli è sembrato meglio , valendosi princi- palmente d’un codice della Marciana di Venezia, di cui il Blessing fece già studio pel Runchenio , e che recente- mente fu consultato dallo Schweighaueser, quando con tanti altri codici presi all’ Italia stava a Parigi. Delle le- zioni prescelte ei dà buon conto nelle sue note gramati- cali , che ai grecisti garberanno sicaramente , perchè il sig. Negri non è un dottorino di greco, ma è uomo che lo sa davvero, come da un pezzo ne ha dato saggio (1). (1) Ci basti nominare le sue Zettere d° A/cifrone ( Milano 1806) lavoro egualmente erudito che elegante. Al presente lavorietto. sopra Ermesianatte hanno data occasione alcune parole della vita d’ Anacreonte del cav. Mustoxidi a cui è dedicato, come a, giu- dice il più competente in argomenti di greca filologia. Di questo dotto si aspetta fra poco il secondo volume dell’ Erodoto, già stampato per buona metà. . T. XI. Settembre 8 114 1l precisare però la significazione delle parole , che si ac- cettano d’un antico scrittore specialmente poeta; il sosti- tuirne altre con sufficiente probabilità richiede spesso co- gnizione di fatti, a cui quelle parole sono riferibili; e il sig. Negri mostra nell’altre sue note , ch’ ei chiama sto- riche , com’ egli abbondi all’ uopo di tal cognizione. Ma, prima che in queste note, ei lo mostra; nelle notizie preliminari, ove discorre della persona del suo oeta , ch’ ei distingue con evidenti ragioni dall’ Erme- sianatte figlio di Agonèo, vincitore nella puerile palestra, a cui i Colofoni eressero pubblica statua in Alti; e del tem- po in cui all’ incirca fiorì, argomentando a questo modo: « Pausania , facendo ricordo della ruina di Colofone e di Lebedo seguita per opera di Lisimaco nelle guerre ch'egli ebbe col rivale Antigono , narra ch’ essa fu compianta da Fenice scrittore di giambi; indi soggiunge : nè posso cre- dere che fino a quel tempo traesse la vita Ermesianatte scrittore d’elegie, ch’egli non avrebbe al certo tralasciato in qualche passo delle sue poesie di spargere sulla di- strutta Colofone una lagrima (2). Il crudel fatto avvenne, come sì trae da Diodoro Siculo, poco prima dell’ anno quarto dell’ olimpiade centesima decima nona, anno ,.in cui colla sconfitta e morte d’Antigono nella battaglia d’Isso la guerra ebbe fine. Ora, se dall’una parte ni taciuta la sciagura della patria apra Pausania a credere che. a quel tempo Ermesianatte fosse passato fra’ più > appare dall’altra che, senza quest’indizio, egli per ragione d’ anni l'avrebbe potuto credere ancora vivo. liaondb non va er- rato chi colloca l'epoca del suo fiorire sotto, Filippo ed il suo successore Alessandro, il primo de’quali avea comin- ciato a regnare nell’anno primo dell’olimpiade centesima quinta , cioè sessant’ anni circa avanti che Colofone ve- nisse distrutta. Confermasi mirabilmente tale sentenza " (2) Ia Atticis, cap. IX, $. 8. 115 da uno de’comentatori della Teriaca di Nicandro ; poichè nell’illustrare il verso, con cui s'intitola ad un Ermesia- natte quel poema, egli distingue questo dall’Ermesianat- te nostro, dicendo che il parente di Nicandro, siccome posteriore di tempo, non poteva essere 1’ Ermesianatte poeta, che fu coetaneo ed amico di Fileta, con che viene a stabilirne l'età; poichè Fileta, il famoso elogiografo di Coo, visse proprio a’ tempi di Filippo e d’ Alessandro, secondo l’asserzione di Suida. » Questa esattezza cronologica, fondata sopra sicura erudizione, ci ha fatto meravigliare un poco della facilità, con cui il sig. Negri, in una delle sue prime note istori- che, segue i computi del Petavio riguardo al tempo, in cui visse quel d’occhi cieco e divin raggio di mente, che per la Grecia mendicò cantando (3). Saprete, lettor mio caro, che l’ elegia d’Ermasianatte, del cui frammen- to or si parla, è un non so che di somigliante al quarto capitolo del trionfo d’ amore .Poichè vi sì passano a rivista i poeti e i sapienti più famosi nati sotto il cielo ellenico e fatti giuoco al Dio fanciullo; dopo de’ quali comparivano gli oratori, che il dente dell’età , distruggendo parte del- l’elegia medesima, ha sottratti alla nostra compassione o alla nostra derisione. Di que’ poeti, eccetto un solo, il lor collega Colofonio avea buon documento onde schierar- li in prima fila coll’ amoroso gregge. Di Omero non credo siesi mai saputo, che ai tanti oltraggi, onde la fortuna lo afflisse, amore avesse aggiunti i suoi pungoli , che guai se toccano l’ uomo nell’avversità. Ermesianatte si avvisa di farne uno spasimante di Penelope, traendolo ad Itaca per lei; di che tutti sorridiamo col sig. Negri, quantunque avvezzi dalle scuole agli amori di Didone ed Enea, di- sgiunti l’una dall’ altro per più lungo spazio di tempo che non la casta figlia d’ Icario e il suo cantore. Questo, (3) Manzoni , in morte d’ Imbomati.. 116 tempo, che corre fra Penelope e Omero, si fa dal sig, Negri almeno di due secoli e mezzo, assegnando col Pe- taviozla fine della guerra troiana all’anno 1184 innanzi all’era nostra. Quell’ antica vita d’ Omero, peraltro, ch’ è attribuita ad Erodoto e vien citata dal sig. Negri medesi- mo ,:dice essere certissimo, che il gran padre de’ poeti nacque centosessantott’ anni dopo l’ avvenimento che fu tema alla sua maggiore epopea. E la vera storia di Erodo- to i non che quella di Tucidide , seguita da Fréret , Dod- , Bouhier , Borheck , Li e Visconti, mentre ri- } tale avvenimento all'anno 1270, pone. la nascita d’Omero nel 1102, onde risulta appunto lo spazio che si diceva. Anche, secondo il sistema di Volney., il quale, riportandosi dali storici asiatici , fissa per epoca della ca- duta di Troja l’anno 1022, Omero viene ad esserle po- steriore di quel tempo e non più che si è accennato; e par che basti perchè arrivasse ad Itaca sì tardo da non poter- si innamorare, non dico della consorte, ma nemmen. del- la nuora o d’alcune delle figlie ( se n’ebbe ) della muora d’ Ulisse. Ma chi, lasciando questa favoletta dell’ amore, vo- lesse più largamente interpretare quel distico, i ExAasey d'Tudpe TE yÉV06, na) Îijuov A’pòxdt, Kaì Xrdprnv, idiwv &TTtbpevos TAFHwy ; che il sig. Negri volge così: E là (in Itaca) d’Icario la progenie appunto, E Sparta, e le Amiclèe misere genti Pianse da’ proprii mali il cor compunto; chi fs dico, più largamente interpretarlo,, di quale e quanto profondo significato nol troverebbe ? I nostri mali ci avvertono degli altrui; e forse è stabilito che la forza commovente della parola, come la bontà dell'animo, dipenda dalle sciagure. E già non si tocca i cuori senza bontà ; nè avvi al mondo bontà senza infelicità. Se è pur vero che questa , ove sia troppo grave, ci induri ; è assai ii7 più vero che la prosperità non ci perthette put di sapere ciò che siano i mali degli uomini ; e che quando si cono- scono , si è già stati infelici, e più non si può essere con- tenti. Carmina proveniunt animo deducta sereno ha det- to una volta Ovidio , più non ricordo in qual luogo delle Tristezze. E il nostro Monti cominciava qualche mese fa una sua ode: Chieggon, figlia, le Muse alma gioconda, in risposta al mestissimi versi, con cui, per compiacere ad alcuni amici, la diletta del cuor suo (la contessa Per- ticari ) lo invitava al canto in Brianza. Ma la serenità del- l'animo, di cui essi patlano , è necessaria ai versi allegri o puramente ingegtiosi , piuttosto che opportuna a que’ ver- si o a quegli scritti di qualunque specie che, per usare una frase di Virgilio, mortalia pectora tangunt e di ciii resta sì lunga l’ impressione. Oso dire non esservi pagina di vera e DrRtando filosofia che non si debba al dolore ; poichè non può pensarsi ad alcuna grande verità, senza ricordarsi delle tristissime esperienze che la rendono tale agli occhi nostri, e senza rammaricarsi fieramente degli errori che vi si oppongono e de’ mali che ne sono la cori- seguenza ; nè può mostrarsi zelo pel miglioramento degli uomini e della società, senza sentir vivamente quanto sia sventurata la loro condizione. E a ciò forse rifletteva il buon Verri, pronunciando quella sua sentenza, che par- ve a molti paradosso sì strato, essere nati cioè da grandì dolori i più grandi portenti delle lettere e dellè scienze. I felici sono tutti necessariamente uomini superficiali ; quindi nè gran poeti nè gran filosofi mai. L' omo altroti- de, verso qualunque parte si volga , non può profondarsi col pensiero che nella sciagura ; ma gli abbisogna per farlo. una forza di sentimento, la qual non viene che da un lun- go e penoso contrasto collo stato o la natura delle cose ; e da un amore dell'umanità, che questo contrasto ha reso ogni giorno più ardente. Quindi gli scritti più eloquenti 118 hanno tutti una tinta malinconiea; tutti sembrano portare quest’ epigrafe : | Dell’ uom nulla, al miondo, Di quanto in terra ha spiro e moto eguaglia L'alta miseria (4): sentenza che spesso incontri in Omero, e che ti sembra il pensiero abituale della sua mente, peli egli ne provò più che nessun altri la verità. In Itaca, secondo l'antica sua vita più sopra citata, egli ebbe anzi un presagio de’ mali a cui lo dannava il destino ; che non un saggio corrispondente alla loro misu- ra. Era venuto a quell’ isola ancor molto giovane da un viaggio nella Tirrenia ( la parte centrale e meridionale dell’Italia nostra) e nell’Iberia, ove lo avea condotto un capitano di nave leucadio ( brav’ uomo come il sono ge- neralmente quei della sua condizione ) che il prese con sè a Smirne, togliendolo dall’ insegnare a’ fanciulli, con cui sì guadagnava il sostentamento. Già un poco malato d’occhi ivi corse rischio di perdere la vista; ma per allo- ra la salvò. Questa disgrazia del perderla toccogli poco dopo nella patria d’ Ermesianatte, d’onde partì ramin- gando e intuonando alle porte degli uomini: accogliete il povero cieco, che non ha pane nè tetto. — E il cojajo di Neontico, e i vasai di Samo, e il pastore dell’ isola di Chio gli erano ospitali. Ma il senatore e l’arconte di Cima dicevano ai pietosi del consiglio della città cui incresceva il rimandarlo : dobbiamo noi nutrire tutti gli orbi (5)? E il ricco di Chio rimproverava il buon pastore , che avesse ricoverato sì facilmente un infermo , cui bisognava, pro- vedere di veste e di cibo. E il pedante di Focea rubava (4) Hiade, libro xviII. (5) Tutti gli omeri, onde venne l’appellativo sostituito al nome del poeta, ch’era Melesigene. 1i9 al misero i poemi. , e andava altrove a farseli fruttare os- sequii e morbidezze ; chè l’opera de’ sommi ingegni sem- bra quaggiù patrimonio di chiunque sappia usurparsela.— Così quasi sempre il semplice e il povero viene di buon cuore in soccorso del povero, ed lia riverenza alla supe- riorità dell’ intelletto, e compassione alla sventura; ma il riecto è senza viscere e il pedante è senza pudore.— E tu o giovinetto che leggi, se non hai volgare l'ingegno, e la fortuna ti perseguita, ov’essa mai ti riduca agli estre- mi, ricordati d’ Omero e degli altri sventurati illustri ; e a schivare le durezze e la slealtà dégli uomini ; insoppor- -tabile fra tutti i mali; e a mantenere la santa indipen- denza della tua anima , o sappi dividere coraggiosamente l'erba co’ bruti o non accostarti che al povero. Il solo pane da lui offerto non ti saprà di sale. Il favore del ricco è raro che non sia un insulto ; l’ amicizia del pedante è del mezzingegno è quasi sempre un’ insidia. — Ti sia le- cito o giovinetto , quando l’ esperienza non abbia ancora distrutto per te ogni cara illusione, cercare qualche con- forto a’ tuoi mali negli encomi meritati; ma non gli ac- cetta ; se gli ami sinceri ; che da’ giovinetti, a cui nè la simulazione falsifica, nè la dissimulazione ammezza le parole. — I fanciulli di Samo cantarono lungo tempo nel- la festa d’Apolline i versi che Omero condotto da un fan- ciullo, e tenendo il suo rimo di supplichevole in mano, avea cantato una volta nelle néomenie dinanzi alle case de’ ricchi cittadini , lusingandoli colla lode e cogli augu- ri , e ripetendo, onde non impaurisséro della sua impor- tunità : ritornerò, ritornerò, ma come la rondinella , solo al ritorno dell’anno. Nè que "ricchi erano punto mossi dalla divina lasinga de’ suoi canti a trattenerlo ; ed egli, ‘ passati appena i rigori del verno, s' imbarcava per Atene, ed ivi cadeva oppresso dal dolore e dallo stento in sulla Spiaggia; itidi mal riavutosi e condotto fino a quella d’Io, vi terminàva i mali colla vita e riceveva oscuro sepolcro, 120 su cui poi assai tardo fu scritto: qui posa il sacro capo d’ Omero , cantor degli eroi. Brico che di questo infelicissimo; il feaiii ele- giaco d’ Ermasianatte parla dell’ amabil figlio d’ Eagro, dell’ amante d’ Euridice, dal solo nostro poeta, come os- serva il sig. Negri, chiamata Agriope ; poi di colzi, che a madre ebbe la luna, Museo delizia delle Grazie e amo- re; e alfine d’ Duello di Beozia vanto, in cui bel seggio ogni scienza avea. Da Omero passa a Mimnermo, aa inventò suoni gentili , e accrebbe melodia col pentame- tro ai concenti; e poscia a quell’illustre Colofonio appel- . lato da Apollodoro di Tessalonica in un epigramma, che leggiamo nella greca Antologia (6), superiore a tutti i poeti, quantunque secondo ad Omero, come a Giove è Nettuno. Ma del meschino Antimaco che dico? Che per Lidia di Crise addotto in pena S’ accostò del Pattòlo al margo aprico, E, poichè in Sardi sotto l’ arsa arena Lei coprì estinta, torse quinci ’l piede, E ritornò fra’ Ionii alla più amena Eccelsa Colofon ; là posta sede , D’alte querele i sacri foglii empièo, E sì ristoro alle sue doglie diede. È Di questo Antimaco ricorda il sig. Negri che Platone, il qual lo conobbe giovanissimo , l’ebbe in molta stima ; e che una volta , al riferir di Plutarco, il racconsolò con buone ragioni, perchè avendo fatti non so che ottimi yer- si in lode di Lisandro, questi da spartano e da soldato diede la preferenza ad altri mediocrissimi d’ un Nicerato da Eraclea suo emulo. Il quale aneddoto voleva essere da uoi raccolto a conforto de’ giovanì , che s’ indispettiscono o si scoraggiscono. per le sentenze di certi giudici, che sa Dio come sarebbero più equi se avessero almeno il: rozzo (6) Anth. Brunk. tom. 2. 121 gusto del generale lacedemonio. So, per reminiscenze poco facili a cancellarmisi dall’ animo, quanto sia duro il sof- ferir tali giudici; pure, ove manchi il Platone vivente che ne consoli, giovi il pensare all’antico, e alla giustizia che fanno i posteri, e talvolta i contemporanei. Antimaco venne difatti assai presto in grandissima fama; e quella sua Lidia da lui sì bene amata e pianta fu oggetto d’in- vidia alle greche fanciulle. E il gentile Asclepiade, dice il sig. Negri, dettò da riporre sulla tomba di lei quest’ iscri- zione (7), la quale; o lettore, ti farà pensare forse al- l’ epitafio del re Francesco I su quella di Laura: Lidia è la patria e il nome. Più di quante "[raggon da Codro il sangue, illustre io sono D’ Antimaco per dono. Chi vw ha che me non cante? Chi non ricorda Lidia, alto argomento Delle Muse e d’ Antimaco al concento? Ne'distici seguenti a quelli, in cui celebra gli amori del suo famoso concittadino , Ermasianatte fa rivali Alceo ed Anacronte, ambidue, secondo lui, accesi di Saffo, a cui certamente , come prova il sig. Negri, o il primo fu mol- to anteriore , o il secondo ( e ciò è più probabile ) molto posteriore. Ateneo di fatti riprende il nostro elegiaco d’avere imaginata la poetessa di Mitilene coetanea del molle cantore di Teo; poich’ella, al dir suo, visse al tem- po di Aliatte re di Lidia e padre di Creso, verso cioè l’olimpiade quadragesima quarta , e l’ altro mentre Poli- crate regnava in Samo e Ciro in Persia, cioè fra ‘1 princi- pio dell’olimpiade cinquantesima quinta; e il finire del- la sessagesima quarta. Del resto, osserva prudentemente il sig. Negri, accennando altre sentenze cronologiche, che trattandosi di cose oscure e lontane tanto sa altri quanto altri. E qui, ad accrescere la confusione, concorre, egli dice, l’esservi stata un’altra Saffo, celebre cortigiana, (7) Anth. Brunk. tom. 1. 122 lesbia é poetessa anch’ ella, non però di Mitilene ma di Ereso, e alquanto posteriore alla primia. Dall’ essersi fat- ta di due persone una sola, venne che si appropriarono a questa l’ epoca e le petite d’ambidue. Il muovo tra- duttore e illustratore d’ Ermesianatte manda i vogliosi di tagionate notizie in tale argomento a ciò che ne scrive lo Schneider in proposito delle greche poetesse; di cui ci dà le composizioni più scelte; e alla greca iconografia del Visconti. A noi piace di aggiugnervi quella vita o apologia che la nostra gentile Bianca Milesi ci diede tre arti sono della celebre Mitilenea, che solo da penna feminile poteva essere sì delicatamente difesa, nè il sarà forse mai più ingegnosamente. Ai due lirici, di cui dicemmo , vengono presso nel: l’elegia i due grandi tragici; che fiorirono ad un tempo in Atene , il primo de’ quali, cioè Sofocle, fu sì grave inge- gno che appena una volta ( in un coro dell’ Antigone ) vediamo ch’ esalti le forze d’ amore ; l’altro; cioè Euri- pide, fu appellato ( per le svezia certamente che tro- vansi nelle sue tragedie ) pu00y6vs , odiator delle donne. Se non che voi soggiugnerete forse , o lettore, ch’ ei pote- va esserlo in parole e non in fatti; anzi che le soverchie parole indicano spesso il contrario di ciò che suonano. E quelle specialmente che l’uomo lancia contro le tiranne de’ cuori sono troppo appassionate perchè siano credute: Esse non debbono intendersi che come una querela con- tro qualche particolare tiranna; @ per quanto feriscano tutto il sesso volubile e infedele, potriano sempre tradursi con questo verso ovidiano: Diligit ipsa alios: a me fa: stidit amari (8). E la fisionomia patetica d’ Euripide , come osserva il Visconti (9) illustrandone il più bel bu- sto (che ignoro se dal Museo Napoleone sia tornato a quello (8) Remedia Amorit, v. 305. dente (9) Iconografia greca. 123 dell’accademia di Mantova ) annuncia abbastanza la sen- sibilità forse eccessiva dell’ anima sua. Questa il rese poco felice colle due mogli da lui prese e ripudiate successiva- mente, onde Aristofane fè ridere alle sue spalle il popolo ateniese nel teatro stesso ; ov ei lo facea piangere. Ma que: sta gli dettò i versi più commoventi ond'’ egli , dipingen- do sventurati o disperati amori cavava le lagrime. Di So- focle altro non sappiamo che alcune follie di vecchiezza, ( che chiameremo anomalie della sua vita ), l'una delle quali assolverebbe quasi l’ irriverente condotta de’ suoi figli verso di lui, se potesse esservi ragione al mondo, che sciogliesse i figli dal debito di un affettuoso rispetto verso gli autori de’ loro giorni. Come il sommo de’ tragici ebbe poca sodisfazione de’ suoi amori senili ; poca gioia pur ebbe de’ suoi giova- nili quel Filosseno di Citera, che gli succede nel fram- mento di cui parliamo , e in esso è chiamato della tibia non meno che di Bacco fedel ministro e caro, cioè poeta ditirambico assai distinto. Osò, come abbiamo da Ateneo, farsi rivale a Dionisio di Siracusa il Juniore, che gli dava amichevol posto alla sua mensa reale, di cui egli molto dilettavasi , e per quell’ardimento lo condannò poscia al digiuno in un sotterraneo. Filossenuccio vendicossene co- me potè, scrivendo contro di lui la favola del Ciclope, nel quale lo adombra, come in Galatea adombra l’ oggetto della sua rivalità. Ma il vedere ch’ ei si nasconde sotto la persona di Ulisse, piuttosto che sotto quella d’ Ati, mi fa sospettare ch’ei realmente fosse tutt'altro che il caro pa- storello della sua Galatea; e questo è forse il peggio del- l'avventura. Chiude finalmente il coro degli amorosi poeti quel Fileta di Coo, il quale è celebrato da Properzio come suo illustre modello, e di cui Ermesianatte., suo contem- poraneo ed amico, fu pur esso imitatore. Dopo di che, sebbene il nostro elegiaco ne avverta come non poterono scampare l’aspra battaglia d’ amore 124 nemmen color; che il tortioso Calle seguendo di Sofia; con dura s4p. Misera vita a sè tolser riposo; ci riesce singolare, lo confessiamo; nell’ enumerazione ch’ ei comincia de’ sapienti, che porsero umìl il collo im- belle al giogo di quel Dio, l’udirlo cantare: Ecco il samio Pitagora, che belle Geometriche curve inventa e traccia, e , toccatine gli altri pregi, aggiungnere ch’ ei fu preso da furore per la sua cara Teano. Di questa donna, che da antichi scrittori gli è data in moglie, si narra che fu d’al- to intelletto; e dal marito sì bene addottrinata che sosten- ne, poì ch'egli fu morto, l’onore della sua scuola. Sia Pitagora personaggio storico o ideale, come il chiama Platone in un discorso che Vincenzo Cuoco gli fa tenere in Taranto nella compagnia di Cleobolo e Archita (10); l’opinione, che di lui ci siamo formata è tale, che ne rie- sce più facile accomodarci agli amori d’Omero e di Pe- nelope, di quello che al furor suo per colei, che supponsi da lui prescelta qual nobilissima compagna nel tranquil- lo culto della sapienza. Nè Socrate fatto dall’ ira di Venere spasimante d’Aspasia troppo ci piace; nè ci piace che d’ Aristippo, terzo ed ultimo de’ filosofi nominati nel frammento, si racconti che , venuto a Corinto presso Laide , e poste da canto le dispute sagaci che gli davano fama, si diè alla vita de’ frivoli e de’ vagheggini ovdwévoy ÉEePopyoe Biov. Tacerò d’una circostanza molto notabile, a cui nè da poeti ( chè poco monta ) nè da romanzieri eruditi ( tranne forse 1’ unico Barthélemy ) si è posto mente, che assegnandosi la nascita di Socrate all’anno 469 innanzi all’ era nostra, quarant’anni.cioè dopo la morte di Pericle; Aspasia, in quell’età che Socrate lasciò lo scalpello per le (10) Platone in Italia , tomo I. x 125 argomentazioni, doveva essere pressochè ottuagenaria, e gli ardori da lei ispirati al giovane filosofo riescirebbero si strani come quelli ispirati dall’ottuagenaria Ninon a quel- l’abatino letterato, che se non m’inganno chiamavasi Gédouin. Platone ben ci dice nel Menesseno che il mae- stro suo apprese da Aspasia l’arte oratoria; il che però non va inteso così letteralmente , come pare che l’ intenda il sig. Negri e qualch’altro dotto con lui. Piuttosto è. vero- simile che nella conversazione di quella donna coltissima e ingegnosissima, che fu lungo tempo la Giunone di quel Giove (11), che i fulmini dell’ eloquenza aveano fatto | denominare l’olimpico, Socrate udisse osservazioni finis- sime intorno all’ arte del parlare, ch’ era in Atene l’arte del dominare, e ammirasse ne’ discorsi di lei un modello di nitida e persuasiva facondia, E, pensando alla forza che alcuni di questi doveano avere sull'animo suo; ci pia- ce vederlo in quegli inni, che Foscolo cantava alle Gra- zie (12) fra gli aerei poggi di Helipaziannda libar sor- ridente all’ara delle tre Dee, mentr’ ella scioglieva la vo- ce a’ sublimi accenti, e alzarsi col pensiero a’ sereni spazii dell’ olimpo, Se non che il poeta fa giovane l'elo- quente donna e vecchio il filosofo; ciò ch'era opportunis- simo al suo intento, ma non conforme alla storia, da cui peraltro egli si scosta in modo assai meno bizzarro che il nostro Ermesianalte. Può ben Socrate, quantunque assai maturo d’anni, aver veduto non senza commozione la celeste bellezza di Laide (13), l’amica del suo discepolo Aristippo , che il (11) Cratino in una delle sue commedie pensò beffarla con, questo appellativo di Giunone del Giove attico ; e la posterità rac- colse la sua ironia, come giustissima antonomasia. (12) Frammenti d’ Inni alle Grazie nella raccolta di Prose e Poesie di Foscolo stampata dal Silvestri. (13) Frase dell’ iscrizione posta al suo cenotafio nel Granéo, sobborgo di Corinto, 126 - sig. Negri distingue da altra Laide più giovane, per cuì forse Demostene protestò che non comperava sì caro il pen: timento. Quindi acquistano verosimiglianza quegli incon- tri e que’ dialoghi della cortigiana e del padre de’ filosofi, che leggiamo nell’ Aristippo di Wieland (14), seducente scrittore, pieno dello spirito della greca antichità, e a cui pare che i pensatori, ond’ essa va famosa, si siano fatti conoscere meglio che a’loro contemporanei e concittadi- ni. Il filosofo cireneo ( soggetto del romanzo pur ora ac- cennato ) è per lui tutt'altro che per Ermesianatte , il quale se pur si mostra poeta felice per grazia di stile e d’imagini, riesce meno che avventurato nel delineare i caratteri morali , che richieggono a dir vero finezza d’os- servazione e di sentimento ‘a. pochissimi conceduta. Non certo ad Aristippo erano applicabili quelle parole che Pau- sania , credo, fa proferire a Laide scherzevolmente: non so che austerità sia questa de’ nostri filosofi, poichè li veggo al mio uscio così di frequente come tutti gli altri. Esse poteano riferirsi per avventura a Diogene cinico , il quale fu pur egli, a quanto dicesi, uno degli amanti della bella apidaniese. Aristipponon professava alcuna austeri- tà , ma piuttosto una voluttà delicata, che non nuocesse alle facoltà del corpo nè a quelle dello. spirito. Del resto se i filosofi si compiaceano dell’amicizia di Laide, ella compiacevasi della amicizia de’filosofi; e non per fantasia momentanea come fanno talvolta le altre belle, ma per gusto costante , il che indica essere stata in lei molta vi - vezza d’ ingegno e molta cultura. Queste due qualità , oltre il potere irresistibile delle grazie , chiamavano necessariamente intorno alle donne del suo ceto ( che non bisogna confondere colle cortigia- ne de’ tempi moderni ) gli uomini più distinti d’ un, pae-. se , ove i piaceri dell'intelletto e dell’immaginazione era- (14) Tomo E, lettere 23, 24, 25, 26, 127 no di tanto pregio, ed ove nella compagnia delle nobili malrone non si sarebbero potuti gustare. Fosse avanzo o imitazione d’ asiatica tirannia , fosse diffidenza fondata sulla, cognizione delle femminili passioni, fosse politica gelosia , fossero tutte queste cause unite, le più ragguar- devoli donne , ristrette alle cure domestiche , destina- te al bene particolare di ciascuna famiglia piuttosto che all’abbellimento della vita, erano tenute lungi da quegli studi, che accrescendo i loro mezzi di piacere, avrebbero potuto far nascere in esse il bisogno di una brillante esi- stenza. Quelle invece, che noi chiamiamo cortigiane , e con proprio nome dicevansi etère, coltivavano le arti, frequentavano le. scuole della sapienza , apprendevano a parlare con purezza ed eleganza; onde gradivano ai filo- sofi , agli statuari, ai pittori s agli oratori, ai poeti, al guer- rieri, de'quali tutti animavano il genio, e con cui faceano continuo cambio di lumi, d’entusiasmo, di delicati e gene- rosi sentimenti. I greci, osserva un recente scrittore (15). pieni di spirito e finissimi discernitori delle cose , seppero meglio d’ogn’altro popolo apprezzare il valor vero delle donne. Giudicandole proprie a tutto, conobbero però che il voler perfezionare in ciascuna di esse qualità contrarie loro con- cedute dalla natura , era un non voler godere d’alcuna. Perocchè, a loro avviso, le più aggradevoli nuocciono alle più importanti , e queste a quelle ; il desiderio d’ ammi- razione diminuisce il pregio della modestia , e il vincolo austero delle leggi che questa impone, toglie al bel sesso quell’ incanto che fa beati i suoi adoratori. Quindi, lun- gi dall’ammetter come i popoli moderni due donne per così dire in una sola, distinsero tutte le donne in due clas- sì separatissime , l’ una dedicata ai doveri, } altra ai pia- ceri; l'una consecrata al culto della virtù , l’altra a quel- (15) Scgur, les femmes, tom. I. 123 lo delle grazie ‘e dei talenti; l'una ricompensata dalla stima , l’altra cireondata d’omaggi e di celebrità. Se questa distinzione fosse giusta , se abbia giovato al pubblico costume, non è qui luogo di disputarne. Cer- to è intanto che , se colle donne della classe di Laide ( e le famose. furono ‘panche ) gli Aniktippi non sublimava- no la loro filosofia, raffinavano però e raggentilivano lo spirito meglio che i loro moderni seguaci nella società delle moderne donne galanti. Ne fu una in Francia un buon secoloe mezzo fa, la quale si era educata alla scuola di Montaigne e di Charron; ebbe per amanti la Rochefoucauld e il gran Condé, per amici Molière e Fontenelle, per ammiratrici la Maintenon e Cristina di Svezia; ringraziava Dio la sera dello spirito che le avea dato, e lo pregava la mattina ( prova insieme di spirito e di bom ) che voles- se preservarla dalle sciocchezze del suo cuore; faceva azio- mi generose colla facilità con cui scriveva lettere inge- gnose, di cui un bello-spirito della sua epoca ( Saint Evre- mond )i ingemmava ì propri seritti ; e moriva verseggiando epigrammi, e legando una somma per compera di libri al giovine Voltaire. Con tale donna parmi che i filosofi dell’umore d’ Aristippo non dovessero perdere il. loro tempo. Ma di nessun'altra galante ho mai più letto nul- la di simile a ciò ch’ io pur ora aceennava. M. OnE OLImPICA IF. A Terone d° Agrigento vincitore colla quadriga. Argomento. Propone di lodare il vincitore Terone (v. 1-+3:). Lo loda I. per la famiglia, che ha origine da Cadmo. Questa soffrì, gravi. IRE re, che poi furono compensate da fortune grandi ( v. 14-77)» loda II. per le vittorie riportate in questo e in ii ta Po pel nobil uso delle ricchezze, di che deesi aspettar il premio an- cor dopo morte, Digressione sullo, stato dell’ anime buone dopo, 129 morte ( v. v8-147)) . Ritorna all'argomento lodando Terone e la sua patria Agrigento (v. 148-175). Terone re d’ Agrigento e d’ Imero diede in moglie a Gelone ‘re di Siracusa la sua Gli Damarata. Morto Gelone la sposò il fratello Polizelo. Questi però caduto in sospetto nell’ animo di Gerone , ch’ era pure fratello di Gelone e successor suo nel regno; partì di Siracusa , e si ‘riparò presso il suocero , il quale mosse guerra a Gerone. A questa guerra forse e a qualche altra mole= stia sofferta da' Terone; di che si dirà nell’ ultima annotazione Ù intese Pindaro di alludere ne’ molti versi, ne’ quali parla delle va- rie vicende della fortuna, che di contraria talvolta diventa favo- revole; il che mostra cogli esempj de’ suoi maggiori, e principal- mente di Semele , d’ Ino ,, d’ Edipo, e d’ altri. L’ ode fu scritta l’anno primo della 77 Olimpiade, 472 av. G. C. Conrado Ritter- shusio ad Opp. Haliev. L. 2. v. 641. giudicò questa essere la migliore fra le odi di Pindaro. Inni Re della cetra, Qual Nume, qual Eroe, Qual porterem chiaro mortale all’etra? A Giove sacra è Pisa ; 5 E delle spoglie del trionfo Eleo L’ Olimpia palestra Alcide feo. La vittrice quadriga I versi chiede di Terone al nome. Ei d’ospital virtù s’adorna e fregia , io Egli Re giusto, alle città soggette Fido schermo e salvezza, egli sostegno Dell’ inclita Agrigento 5 E de’ grand’ avi suoi primo ornamento. Molti con alma forte 15 Sostenner pria costoro acerbi affanni. Poscia in riva del fiume Ebbero amica sede, E del Trinacrio suol fur la pupilla. Tra veraci virtudi 20 Quivi spuntar su loro Felici giorni alfine , e trasser seco. Favore e forza d’ oro. O gran figliuol di Rea, Tu , che reggi l'Olimpo, 25 E ’ fiore degli agoni, e l’onda Alfea, © T. XI. Scetembre 9 130 30 35 45 50 55 65 Sia questo canto a te di gioja invito, E serba ognor benigno , ©. Serba ai nepoti, o Giove, il suolo avito. O giuste sieno , o ree Son l’opre irrevocabili, nè puote Padre di tutto richiamarle il tempo. Solo al favore dell’ amico fato Giunge a coprirle oblio. Che dopo il penar lungo, ove propizia Sorte ne mandi un Dio, Dal novo gaudio vinta La nimica rimane angoscia estinta. Tal le figlie di Cadmo, Ch’or sovra altero solio assise stanno Fur segno alle sciagure. Poscia cadde ogni affanno Domo da fortunate alme venture. Giacque Semele ancisa al crudo scroscio Della folgore ignita , Ed or beati in cielo i giorni mena Cara al maggior Saturnio, e a Palla ognora, Cara al figliuol, che cinto ha d’ edra il crine. Delle figlie di Nereo al coro unita, Ino fra‘. l’onde dell’ immenso sale Trae la vita immortale. Agli occhj de’ mortali un denso velo Copre le vie di morte ; Nè v° ha clri a scorger vaglia, Quando un figlio del sol giorno tranquillo Fra i doni d’ immutabile. fortuna Compier ne accordi il Cielo. Ma ci seguono ognor flutti diversi Or di gioja, or di pena. Tal la paterna sorte E i concessi da Dio cari tesori Agli avi di Teron la Parca or serba ; Or con opposte voglie L’affanno e il dial spinge su loro acerba. Compie il figlio fatal 1’ oracol prisco ; E Lajo scontra e di sua man l’uccide. L’ empio misfatto vide, E il gran seme di Marte idI Spense l'orrenda Erinni in mutua strage.’ Dal' trucidato Polinice venne y 70 ‘Germe e sostegno egregio Dell’ Adrastico sangue il pro Tersandro , Che fra gli ‘agoni giovanili ottenne E fra le pugne al crine eterno fregio. Poi di sì chiara pianta n3 Nobil: germbglio crebbe D’ Enesidamo il figlio, Cui lo splendor de’ carmi oggi si debbe. L'olimpica palestra Lui vide lieto della prima gloria. 80. A lui felice auriga E al consorte germano in Delfo e all’ Istmo Di comune vittoria Diè comun serto l’ agile quadriga ; Che il destinato campo 85 Dodici volte trasvolò qual lampo. A colui, che i perigli Non. paventa affrontar de’ sacri agoni Gli affanni scioglie fortunato evento. Ricchezza allor che di virtà s’ adorna 90 Del lieto e delì’ avverso Destin pel dubbio calle ne conduce Grave destando indagator pensiero. Questa a” mortali è vero Astro , e secura luce. 95 Questa'ne mostra l’avvenir, e addita Qual dopo il. vital corso il Fato amara Pena alle menti indomite prepara. Da che Giove in Ciel regna V’ ha inesorabil Giudice sotterra , 100 Che i falli de’ mortali esplora e citta ; E inevyitabil dura Su giusta lance la condanna libra. Ma egual':se annotta, egual se aggiorna il sole Risplende ai buoni ognora 105 Non mai dogliosa cura Fia che Jor turbi i giorni. Non mai la forza d’incallita mano Tenue vitto mercando , Fende il sen della terra, o le mugghianti l 115 120 ‘30 140 150 Onde dell’ Oceano. Così agli inferni augusti Numi accanto Colui che in pregio ha intatta fede e pura Immemore del pianto Trarrà la vita. Ma l’iniquo orrenda Piena d’angosce sul suo capo attenda. Poi pel sentier di Giove Quegli’ sen vola di Saturno al regno ; Che tre fiate in terra Vestì l' umana salma , Nè albergo d’ empietà feo la pur’ alma. Ivi alle vaghe intorno Isole de’ beati Aleggiano marine aure leggiere. Ivi dorato il fiore Leggiadramente splende ; Qual dalla terra fuore Spunta odoroso e bello, Quale dai rami pende Di gentile arboscello , E qual sorge dall’ onda ; Chi se ne fa monili, Chi ’1 crin se ne circonda. Ora premj così prescrive, e or pene Radamanto agli estinti , Poichè lo sposo della Dea, che tiene Su i Numi tatti il più sublime trono, Saturno ognora al proprio fianco assiso. Non esorabil Giudice lo volle. Colà felici e lieti Stanno Cadmo e Pelèo: E la marina Teti, Poichè di Giove il cor coi preghi vinse, Colà recar il gran figliuol poteo, Che il forte Ettorre vinse Scoglio di guerra, e d’Ilio ardua colonna, E il negro figlio della bella Aurora, E Cigno a morte spinse. Pendon nella faretra al fianco mio Molti alle dotte menti Sonori alati strali ; Ma il suono lor dal vulgo non è inteso. 133 Saggio è quei, cui natura impenna l’ali D’ alto saper. Ma chi per arte impara ‘Qual garrula cornacchia 155 Contra l’augel di Giove indarno gracchia. | Orsù l’ arco , o mio core, al segno tendi. Ma chi vibrando colla mente amica I ministri di gloria acuti dardi Chi ferirem ? Tu, nobile Agrigento , 160 Sii tu lo scopo, e ad un medesmo tratto Voli dal labbro mio ‘ Verace giuramento. Nel volger di cent’ anni Non altri mai dalle tue mura emerse 165 A Terone maggiore Per larga mano , o per benigno core. Ma furioso orgoglio Destò contrasto iniquo , E fra vani clamor sua laude oppresse , 170 Ei fatti illustri, egregi All’ empie opre sommesse. ‘ Se ogni numero avanza Dell’ Oceàn l’arena , Chi potrà dir, almo Teron, di quante 175 Gioie tu fosti altrui perenne vena ? ANNOTAZIONI. v. 3. Questo principio richiama alla memoria quello d’Ora- zio; Quem virum, aut heroa ec» Lib. 1. Od. 12. Alcuni preferi- . scono l’ ordine tenuto da questo, perchè nominando prima l’uo- mo , poi l’eroe, e finalmente Dio va sempre crescendo. Altri preferiscono quello tenuto da Pindaro, che all’opposto comincia da Dio, che è di maggior dignità. A me pare, che ambedue abbiano seguito l’ ordine più conveniente al loro argomento. Ora- zio lodando Augusto va crescendo , e così lascia in dubbio se egli debba annoverarsi fra gli uomini, ‘fra gli eroi , o fra gli dei. Ma la vittoria ne giuochi olimpici offeriva a Pindaro occasione di cele- brare un Dio in Giove cui erano dedicati , un eroe in Ercole che gli aveva instituiti, un uomo nel vincitore. Perciò conveniva; che cominciasse da quello che è di maggior dignità. v. 16. Il fiume Agrigento, che bagna la città di questo nome. 134 I maggiori di ‘Gerone abitavano a Rodi; ma .per una sediziona si portarono in. Sicilia, dove soffrirono molte molestie. v. 43. Le favole di Semele , ‘d’ Ino, d’Edipo , e de’ suoi figli son così note , che stimo. inutile il gti: MARI, Vie v..54. Gl’ infelici , secondo l’ Heyne ; non dubitano, quando sieno per avere un giorno felice, ma se lo avranno mai: onde worrebbe , che si correggesse il testo. A me però non è avvenu- to mai di trovar alcuno così disperato , che non abbia fidanza di veder una volta finiti i suo mali. Perciò credo che Ul testo non richieda correzione. v. 64. Edipo si chiama fatale, duchi era edito ne’ fati, che se Lajo avvesse un figlio questi l’ ucciderebbe. v. 67. Eteocle e Polinice erano seme di Marte; perchè pro- venivano da Cadmo e da Armonia figlia di Marte: v. 72. Néos éy 4504016. Lo Seli ) gli editeri d’ Oxford ’ l’ Heyne nella prima edizione; ed il mio dotto amico signor profes- sore Mezzanotte l’ intendono della guerra degli epigoni. Lo stes- so Heyne nella seconda edizione , il Pauw , il Benedetto , e il Gedike l’ intendono de’ finti combattimenti giovanili. Io non con- danno la prima spiegazione > ma seguo la, seconda perchè pare che due cose diverse si accennino VÉ0 deb Aos, e ua Todépov. Queste sono la guerra degli epigoni; come hanuò vsservato gli allegati scrittori. |». 76. Terone era figlio d’ Enesidamo. v. 80-85. Terone col fratello Senocrate aveva igiocni la vittoria delle quadrighe ne’ giuochi Pizi ed Istmi. v. 116. Qui si allude alla metempsicosi pitagorica. Non tutto però quello che si dice qui si trova negl’insegnameati ai Pitago- ra. Secondo il nostrò poeta le anime degli uomini virtuosi dopo la morte vanno, agli Elisi per nove anni ( come si legge in un fram- mento del medesimo citato da Platone nel Menone ) : indi torna- no ad abitare in altri corpi umani, e' così per trè volte. E sé. ogni volta hanno vissuto rettamente passano poi all’ isola. de' papi i nei seguenti versi descritta. v. 137. Anche Esiodo Op. et. D. v. iaia fp Satarno nell’ isola de’ beati. v. 156. È sentenza di Pindaro, e la natura pra ‘ipiveti; non l’ arte sola. Molto probabile è |’ avviso dello iscoliaste , ché ciò sia detto per mordere i suoi rivali Simonide e ‘Bacchilide.. di v. 163. Erano cento quattro anni , da che Agrigento era fon+ ata... i IT dr, \ 135 «ivi 167. Capi ed Ippocrate cugini di Terone sparsero calunnie. contro, lui , e; gli cagionaron travagli grandi , come dice lo sco- liaste. , Ma finalmente, egli superò tutto . Diodoro Siculo in un frammento loda Terone per la sua umanità, nella quale supera- va non i suoi cittadini solamente , ma tutti ancora gli altri si- ciliani. | CESARE LUCCHESINI. Lès Hermites en prison, etc. Gli Eremiti in prigione, ‘ ossiano consolazioni di Santa Pelagia, dei sigg. E. «Jour, x 4. Jar. — Volumi 2. in 8. Parigi presso Ladvocat. 1823. Il sig. Jouy membro dell’ Istituto, elegante pittore dei costumi francesi al principio del bea XIX, sotto la cui penna la profonda e severa filosofia si compiace ve- stirsi di venustà , e adornarsi di spiritosi concetti , onde meritamente vien chiamato l’Addison francese, per cau- se non ledenti l’incontaminato onor suo soffrire dovette la breve prigionia d’ un mese nelle carceri di Santa Pela- «gia. Fu a lui compagno d’imputazione e di sventura il' sìg. A; Jay noto pubblicista francese, suo amico e suo coltega nel compilare la Biografia de’ contemporanei : e tale circostanza fu di vicendevole conforto ai due prigio- nieri, i quali portando seco loro la serenità dell’innocen- za, la calma della, filosofia e la festività dell’ingegno , qualità loro connaturali, presero da questa nuova condizio- ne della loro vita l'occasione d’esercitare la contratta abitu- dine di filosofi osservatori.Si trovavano nella dura necessità dî passare un mese divisi dal consorzio degli uomini, e dal- la consuetudine delle loro più care affezioni. Il tempo era breve; ma « il tempo ( dice il sig. Jay nel breve discorso preliminare ) il tempo è senza ali pei prigionieri .... Se ci riuscirà sottrarsi al tempo, ci sottrarremo, per così diré anco alla cattività. È quindi necessario cercare ‘a noi 136 di stessi una occupazione per trenta’ giorni. Se ci è vietato? - il libero esercizio del corpo , chi vorrà vietarci'l’ esercizio. delle nostre facoltà intellettuali? Il pensiero è libero fra ì ì, ceppi come in mezzo ad una aperta campagna »). Esaminando fra loro qual potesse essere l’occupazio-. ne che convenisse a due colleghi di filosofia e di prigione, dopo matura discussione si determinarono a continuare la loro professipe di osservatori. « Platone , ( disse un di loro ) s° immaginò di trovarsi entro una oscura caverna che aveva solo un breve pertugio, da cui passando. l’ im- magini dei corpi esterni venivano a rappresentarsi, sulle pareti della medesima. Noi siamo appuntino nel caso in cui sì figurava d’essere Platone. Dal fondo delle nostre cellule vedremo, come in una camera ottica, passare avan- ti a’ nostri occhi delle immagini. Noi disegneremo tanti, quadretti i in ombra sulle nostre pareti, li riporteremo sul, ‘nostro libro di ricordi; e quando esciremo di qui, pubbli- cheremo questi nostri bozzetti » .. Essi posero tosto. mano all'opera, e così nacquero i due volumi pubblicati col titolo Gli eremiti in prigione, ossieno consolazioni di Santa Pelagia, sembrando loro che questo titolo dowasse; svegliare interesse; « perchè ( segue il sig. Jay ) ai;tem-. pi in cui viviamo può essere importantissimo, il, sapere, come l’ uonio possa consolarsi anco in carcere. » La prigionia loro incominciò il 20 dell’aprile di que- st'anno e durò fino al 20 del maggio seguente. Eglino stesero tanti articoli per ciascun giorno, ai quali ;appose-, ro le date corrispondenti. Il 12. giugno comparve alla, lu» ce il primo volume, e coll’ intervallo di soli otto giorni, il secondo. Oggi si ‘anioni ormai cinque edizioni, di que», st’ opera , segno non equivoco dell’ incontro che ha avuto a Parigi. Esposta così di volo ]’ occasione , "Pistoia e iaia ra di quest’ opera , è agevole il conoscere non essere. ella, suscettiva di un estratto. Pure volendone dar conto, ci li:, 137 mniteremo ad indicare alcuni dei soggetti di queste corso- tazioni yi quali ci sembrano di una più generale impor- tanza, ommettendo quelli che più specialmente riguardano ai soli francesi. Ne daremo pure alcuni saggi; implorando anticipatamente l’indulgenza dei nostri Lic se non sapremo trasportare nelle nostre traduzioni tutta la viva- cità e il brio dei due spiritosi eremiti. Sono consecrate le prime consolazioni a dar conto dell’ingresso fatto da’ due filosofi nelle carceri di Santa Pelagia, e delle condizioni delle medesime. Il siguor Jouy facendo l’istoria della sua cellula, ricorda i nomi di colo- to, che. prima di lui vi furono rinchiusi, persone tutte celebri e interessantissime. In altro articolo, cui appone il titolo di piccola Biografia, narra i motivi politici e let-: terari che condussero in Santa Pelagia ad espiare i loro falli vari soggetti, i quali furono suoi contemporanei di prigionia: | ‘In un articolo intitolato /o stoicismo, il sig. Jay volendo trovar conforto, e modo di sentir meno la sua posizione di prigioniere , vede il bisogno di ricorrere alla, filosofia. Considerati brevemente i diversi sistemi dei filo- sofi moralisti , dubita alcun poco se pel suo scopo ab- bracciar. debba quel degli epicurei o quello degli stoici. Ma vedendo che il far consistere il supremo bene nella voluttà. era una chimera per uno che trovisi in carcere ,, e desiderando in ogni modo mettersi in istato di non sen- tire la. sventura in qualunque condizione di vita possa gettarlo la sorte , si determina ad abbracciare lo stoicis- mo; ed eccolo divenuto un vero discepolo di Zenone. « iliionato (egli dice ) contro i colpi di fortuna affronterò. amimoso l’ ingiustizia e la porsechalone.; e sprezzerò la calunnia. Anzi ‘desidero che ciò pervenga a notizia: di tutti : perchè se mai volesse alcuno prendersi un’ altra volta il pensiero o il divertimento di mandarmi in carce- re, si sappia che non ne avrò il più piccolo dispiacere. » 138 « Quelchè ha di buono lo stoicismo è; che: non ti abbandona mai in qualunque necessità tu ti;trowi:; e-lo. hai sempre a mano. Mi avviene una gran traversia, mi vengon tolti quei beni, commessi alla fortuna; e che mi era' con. le proprie fatiche acquistati. Ti darai a credere che io voglia adirarmi contro il destino, prendermela col cielo e con gli uomini, prorompere in pianti e in lamen- ti! Oibò. Lo potrà fare solamente un uomo volgare, ma in quanto a me dirò con Zenone: da te non dipende l’ es- ser ricco, ma l’ esser felice. Le ricchezze non sono sem- pre un'bene e son'sempre transitorie: mala felicità che proviene dalla sapienza è per sempre durevole ». « Il savio degli stoici è un uomo che non desidera e non teme; e per usare il'termine delle scuole, che ha posta la propria anima in libertà «.... La sapienza! ch'egli ha creata a sè stesso lo soccorre in qualunque occasione: è sempre felice , perchè sempre virtuoso. Uno stoico in- catenato ad. un galeotto coperto di rogna , come lo fu il sig. M. esposto come lui alla berlina per tutti i ‘quartieri della città, costretto a recarsi a' piedi ad un| lontano. er- gastolo , avrebbe agevolmente delusa la speranza di chi lo avesse sì malamente trattato, considerandò tutto ciò come una infame buffonata. Suppongo che fosse stato - un Ario o un Simplicio, avrebbe detto fra sè: Za schiavitù del corpo è opera di fortuna; quella dell'animo è opera del vizio. Chi ha libero il corpo, se ha l'animo in ceppi, è schiavo. Chi ha l'animo libero, sebbene carico di catene è pienamente libero ». i0e given Non sapendo però s'ei porrà esser ‘capace di giurige- re a tanta perfezione , il sig. Jiy prudentemente institui- sce una breve disamina dei principi della stoica sapien- za. « Il portico interdice a’ suoi discepoli. 2’ ambizione e la vanità ; vuole che non temano nè il dolore, nè i fer- ri, nè la morte; e che siano gli stessi in qualunque con- dizione della vita » . .. + n 139 si ra Z'ambizione (ei prosegue ) è una ‘malattia, a guarire dalla quale mi costerà poco. Se avessi un gran po- tere, non saprei cosa fatne: Sarebbe un pesò che mi adat- terei a. portare un qualche tempo ; per fare del bene, se fosse possibile; ma che mi studierei di deporre molto pre- sto. Potrebbe forse tentarmi l'onore conferito dal potere? Io vorrei piuttosto fare ‘onore alla mia carica, ‘che. rice. verne da lei. Forse il piacere d'essere chiamato Eccellen- za ; ec. ? Mi pare che queste parole abbiano la: stessa ar- monia ‘che ‘tante altre: che comunemente non sono te- nute ‘in’ conto. veruno. Tutto quelchè possono. fare è di lusingare l'orecchio di qualche vanerello: e mi sì dice che ciò sia avvenuto più d'una volta. » | ia La vanità: non avendo io ambizione ; cosa fare della vanità? Essa sarebbe per me una compagna molto incomoda, e che mi annoierebbe-a morte. E poi: per in- dole son poco inclinato a questo debole: conosco troppo l'imperfezioni:dell’umana natura per invanirmi di ap; partenere ad una specie tanto meschina. Studio per natu- ral propensione , e pa fornire il ‘pensiero di un salutare esercizio. Ma non mi è'mai saltato in testa il fumo della gloria letteraria; e nom tengo sempre il guardo inteso al- l'avvenire; come fanno tanti'altri. Non essendo io stesso contento idi quanto scrivo, 'non posso sperar molto dalla posterità. Mi giudichi essa come vuole, io non mi ap- pellerò: mai dal suo. giudizio per quanto: severo possa essere. Respettivamente poi ai miei contemporanei, se essì hannòdi me l’opinione che i0 ho della maggior parte di loro; non' ho: troppa ‘ragione d'‘ineuperbitmali Una sola cosa Iputrebbie: tentarmi ‘a vanità ; cioè la mia prigionia, e forse ‘acconsentiréi a questa tentazione , se non mi fosse REPAIR! la voglia'di esser filosofo ». i i nin IL timore del dolore e dei ferri: La cosa prende un tuono più serio. La Stoa non tace iù questo proposito, e ‘vuole che il dolore ‘altro non sia che una chimera che 140 i i esiste. soltanto nell’immaginazione. A dir vero questa: mi pare un poco esagerata : e credo :che non sarei. buono: ad imitar quel filosofo , che pestato in un mortaio ‘disse’ per ultime parole : 0 slolottn non confesserò:|mai:che tu sii un male? Tutto quel ch’ io.posso promettere alla filo- sofia è di armarmi di pazienza quando. soffrirò qualche dolore : ma se il lamentarmene. potesse liberarmene ; come ostinarmi a soffrirlo? Intanto la pazienza è qualche cosa; per il resto, sarà quelchè sarà. — Quanto alla morte poi., siccome non so precisamente cosa 'ella sia; perciò mi contento di pensarci ineno che posso.;Se è vero come io fermamente eredo , chele famiglie e gli amici s' incontreranno e si riconosceranno in quell’ universale convento dell’ umanità , è chiaro che la morte. separan-: doci dai cattivi e liberandoci dai persecutori, è cinico un bene che vn-male ». Ad onta però del suo filosofico proponimento e della sua professione di stoicismo, il sig. Jay non seppe resi- stere alle lusinghe della vanità. In fatti parlando de’beni della prigionia ei lascia trasparire: alcun poco un orgogliet- d to. innocente ed una ingenua ambizione. « La prigione, dà risalto ( ei dice ) ad un uomo; che faccia la. professio- ne di letterato; essa lo pone;in vista come sopra una spe- cie di piedistallo, e gli somministra un’ epoca precisa’; il contar dalla quale gli fa piacere. Se Dio mi dà vita; quan- do parlerò dei passati avvenimenti , mon potrò fare. am- meno di dire: la tal cosa e la tal’ altra accadde uno, due, tre anni dopo la mia prigionia in Santa Pelagia. Perchè , non bisogna credere che io.mi trovi, umiliato: dall’ essere stato in carcere. No davvero: Io, me.ne fo anziiun.titolo di gloria : e non avendone altri;mi sto, contento.a questo; € sfido la più accanita invidia !a privarmene. Sono: stato trattato come i più grandi uomini: e il somigliarli. anco solo in questo mi fa piacere ». tes Si vuole essere indulgenti verso il sig. Jay per questa i4i parziale ingenua apostasia dalla scuola di Zenone , dopo che il sig. Jouy suo collega, annoverando tanti e tanti sommi uomini degli antichi e de’ nostri tempi pd quali per varie innocenti cagioni, furono per maggiore o minor tempo sepolti i in una carcere, fa venir voglia a chicchesia che aspiri a fama, di avere la sorte loto. Anassagora , Boezio, Bucanano, Galileo; l’autore della Getulifetnme; . del don Chisciotte, dell’ anti-Lucrezio, del Robison Crusoe; ed infiniti ‘altri formano un lungo catalogo nell’ articolo del sig. Jouy intitolato Za prigione resa illustre. Socrate tiene un posto distinto fra queste celebri vittime della persecuzione, e fa il soggetto della XX con- | solazione (1 (1 ) prendendo il sig. Jay opportunità di parlarne nell’occasione della versione fatta dal sig. V. Cousin del- l’opere di Platone. | Era accusato Socrate come incredulo verso gli dei della:repubblica, e come corruttore della pubblica mora- lità. La sua credenza, è vero, non ammetteva nè le co- lombe di Venere, nè la rete di Vulcano, e molto meno le tante mostruose metamorfosi di Giove, lo scopo delle quali non raccomandava troppo alla venerazione dei mor- tali il.padre degli uomini e degli dei. Aristofane , suo ac- canito accusatore, oltraggiò sempre la pubblica suiovalità e le greche divinità , e anzi si divertì ben sovente a far ri- dere gli ateniesi a spese di tutto l’ Olimpo. Ma Socrate fu accusato e sentenziato a morte; laddove tanto gli dei, quanto i'magistrati d’ Atene indulgentissimi verso Aristo- fane lo lasciarono vivere e morire in santa pace. ‘ (1) Perchè non sembri che in questa nostra citazione sia stato da noi preso un abbaglio , noteremo che lo stesso articolo si trova pure riportato , crediamo per errore, nel primo volume sotto. il N. xvui con la data del 7 maggio; mentre poi il secondo mero me comincia con altro articolo segnato dello stesso N. ° XVII d colla stessa data, ma di tema affatto diverso , e del quale * sarà o noi data successivamente la traduzione. - 142 « Or come'spiegare (domandeil sig, Jay ) l'accusa; la prigionia e la morte di Socrate, che mon aveva mai.iù» sultato personalmente nè Giove, nè verun altra divinità detla sua corte; nè erasi. mai presa la libertà di scherzare su di loro? Non vituperava, nè metteva iu ridicolo.le fe: ste, i sacrifici e le altre ceremonie religiose: si sottomet- teva da buon' cittadino alle pratiche esteriori del eulto pubblico; le leggi civili e religiose della repubblica gl’in+ cutevano un profondo rispetto. Or dunque qual fu il vero motivo che mosse contro lui una sì violenta persecuzione?» ‘A sciogliere questo problema ei non adotta l’opinio- ne del sig. osi , il quale: crede il filosofo ateniese fosse inquisito per aver tentato di far trionfare la ragione sulla falsa sapienza de’ suoi tempi; e ‘(di liberare. la pubblica. moralità dalla popolare superstizione. Ma egli avvisa piut+ tosto che le accuse date a Socrate fossero un pretesto, e che ascondessero gli odi e le inimicizie personali, :le' le- sioni di. particolari interessi , la mortificazione dell’ alttui amor proprio e dell’orgoglio individuale. A raffermarsi in tale avviso si giova delle, memorande parole dette dallo stesso maestro di Platone , profondo conoscitore dell’uma» na natura, Non Melito,:non Anito, ma l'invidia! e la calunnia, che han fatto perire tanti altri, faranno pe- rire me pure : nè io sarò l’ultima vittima di iuetiti dd flagelli della umanità. di | Il sig. Jay non sa neppur convenire in un “altra pro- posizione, del sig. Cousin , il quale dice che non da Anti. no, non dall’Areopago, ma dallo spirito pubblico di quel: la età fu Socrate posto sotto processo e condannato. Ecco in compendio quali sono le sue ragioni per dissentire dal traduttore di Platone. Quando Socrate fu costretto a | comparire in giudizio avanti l’areopago erano scorsi circa quaranta anni da che egli istruiva la. gioventù ateniese nella filosofia: nè si as- condeva già per diffondere le sue dottrine ; ma pubblica- 143 mente e in familiar conversazione raccomandava il pra. ticar le virtà tutte, l’amare la patria, l’ obbedire alle leggi, o come dice Cicerone , faceva scender dal cielo la filosotia per condurre ed indirizzare gli uomini a norma + delle leggi della sapienza iu tutte le ordinarie abitudini della vita. — Nel tempo che, senza mancare d’ossequio alle divinità riconosciute e venerate pubblicamente , ei separava il senso morale dalle forme accidentali, che ne alteravano la purità, rendeva indipendente la ragione , e liberava il pensiero dal dispotismo dell’ autorità, la cre- denza erasi alquanto purgata dagli errori popolari, e le di- vinità della mitologia erano decadute da quella parte di venerazione , che era conseguenza di sola preoccupazione erronea d’ intelletto. Quanto Euripide era ammirato da Socrate come det- tatore di auree massime morali, altrettanto era odiato d’ odio inestinguibile da Aristofane per invidia e per ge- losia di gloria, di reputazione, e di felici successi. Egli intendeva dunque di offendere il poeta tragico quando colle sue satire screditava il filosofo. Nella commedia di Aristofane Socrate è mostrato come uomo sprezzatore degli dei: ma questa specie d’incredulità veniva allora riguar- data come un soggetto per la comica festività. In fatti il popolo ei magistrati risero alla rappresentazione, ma niu- no sollevossi contro di Socrate ; e passarono almeno venti anni dopo la recitazione delle nuvole, prima che gli fosse intentato un processo. Sembra adunque che lo spi- rito pubblico del tempo fosse conforme alle discipline di . Socrate. Or come venne egli condannato a. morte qual pensatore non preoccupato ? La soluzione che il sig. Jay dà di questo problema è è la seguente. « Non può tutto ad un tratto farsi. un cangiamento di dottrine, spezialmente se a queste sieno congiunti al- cuni, toaitimiali interessi, I semi di nuove opinioni sono, gettati nella mente degli uomini, ma non possono ger- 144 mogliare e fruttificare se non a gradi; e vi vuole molto tempo prima che passando da una mente all’ altra, pufi- ficandosi , si stabiliscano e diventino generali. In questo intervallo la loro vegetazione intellettuale non trova ostacolo veruno. Meditàti , discorsi e investigati i principi se ne deducono tutti i possibili corollari, senza che vi sia uno solo che se ne risenta. Ma quando si dia opera a farne l'applicazione, allora gl’interessi individuali, che si at- tengono all’ antico dottrinale, vulnerati ed inaspriti si svegliano , e si muovono a resistere ed a combattere ». Le dottrine mitologiche, per quanto decadute dal loro credito, pur nonostante erano integrali della costituzione dello stato; e il riformarne le pratiche era lo stesso che at- tentare alle prerogative e agl’interessi di coloro, cui esse avevano posto in mano il potere. Dunque non le nuove opinioni ma quelle de’ tempi anteriori perderono Socrate. I suoi giudici stessi sapevano ch’ei moriya innocente, ma bisognava che adoprassero in conformità d’un partito, che gli dominava. Socrate stesso sapeva quale inevitabile de- stino lo attendesse; e se al cospetto dell’areopago disse la sua apologia, ciò fece non per isperanza di salvezza , ma per obbedienza alla legge. i La morte di Socrate, lungi dall’impedire i progressi della filosofia , la rese anzi più popolare ; quasi prendesse forza dai tentativi per comprimerla. Libanio racconta che Atene ne pianse; e poco di poi fu chiesto conto agli accu- satori di lui del sangue innocente che avevano fatto ver- sare. Melito fu condannato a morte, gli altri mandati .in bando; e tutti coloro ch’erano conosciuti come nemici di Socrate inspiravano tanto orrore, che si negava loro il fuo- co e l’acqua, si evitava di rispondere da loro interrogati; e i più si dieder la morte negli accessi della disperazione. In tutti questi fatti trova il sig. Jay una conferma della sua opinione: che non lo spirito pubblico di quell'età, ma. le passioni, gli odi, le calunnie servendo allo spirito pub- I | €45 blico dell’età antecedente ‘e dun partito fanatico di Ate- ne, condannassero Socrate alla morte. Aveva ragione l’impertubabil filosofo a non isperar gran fatto salute dalla sua apologia; la quale , anzichè commovere a clemenza, irritò il maggior numero de’suoi giudici. Ei volle morire piuttosto che essere debitore della vita ad una viltà. GCritone, uno dei suoi più affezionati discepoli, unitamente agli amici del suo maestro propo- se ed ordinò i mezzì per farlo fuggire dalla sua carcere ; ma. Socrate non volle oscurare la sua riputazione con la minima macchia , e rifiutò di acconsentire ad una fuga; | poichè delle dottrine da lui inseguate, e seguite per rego- la della propria vita, era precetto fondamentale l'assoluta obbedienza alla legge, comunque ella venisse applicata. Molti sono stati gloriosi martiri del dogma; Socrate può dirsi martire della morale. ‘... «Egli aveva inalzata la sua mente a pensare l’unità di Dio, e questo pensiero avevagli fatta concepire la bella speranza d’ una miglior vita futura. Questa idea consola- trice doveva ben confortare il filosofo ateniese anco al- l’aspetto della morte, terribile all'uomo colpevole e di- vorato da’ rimorsi, ma che l’ uomo puro di delitto aflisa con ciglio sereno e con animo tranquillo, anelando da un tempestoso vivere a più riposato avvenire. Queste e molte altre considerazioni filosofiche con- pongono l’articolo del sig. Jay; le quali quasi con le stes- se sue parole abbiam riferite, dubitando però a ragione che avendole interpolate non sieno state da noi poste in quella vivezza e in quel lume, e mantenute nel pregio. che hanno nell’originale. Dopo aver condotto i nostri lettori, seguendo l’orme dell’A. per gli ardui campi della severa filosofia, non sarà loro discaro se li trarremo per più dilettevole sentiero. A ciò intendiamo riportando per intero il seguente articolo. del sig. Jouy. T. XI. Settembre IO 7. Maggio 1823. CONSOLAZIONE XVIII LE DONNE; vedute dalle carceri di S. Pelagia. Fe’ della donna ai miseri mortali Un dono il cielo, onde frenar dell’ alma Le passioni ; alleviarne î mali, All’ agitato cor render la calma: VOLTMRE, traduz. Ovunque si trovino degli sventurati, è cosa sicura in- òntrarvi delle donne. Esiste fra queste e i patimenti una ‘erta misteriosa catena , che è forse la sola ch’elleno non ibbiano giammai nè la volontà nè il potere di rompere. Non è mio intendimento di menomare neppur per ombra il pregio di quel sentimento da cui sono animate: ma non si potrebbe egli dire che nella pietà femminile interven- ga una piccolissima dose di civetteria ? Si affà tanto bene a loro la compassione e le lacrime; l’ aspetto della sven- tura rende tanto espressiva , graziosa e tenera una loro occhiata ; il tetro lume d’ una carcere dà tanto risalto ‘aloro vezzi, che talvolta saresti tentato a credere che esse mostransi tanto buone per comparir più bélle. È ben lungi dal conoscere tutta l’ influenza, tutta la benefica energia dell’ anima loro, tutti i mezzi ingegnosi dél loro spirito, chi non ebbe occasione di considerarle in quelli orridi soggiorni donde non è la speranza sbandi- ta finchè loro si permette l’accesso. Prive di libertà nella maggior parte del globo; simi- li quasi ad una nazione soggiogata; tenute in una perpetua servitù dalla natura , dall’ educazione , dai costumi, dal- le leggi e dagli uomini che le han dettate , sembra che'si occupino solo nell’ alleviare o rompere i ceppi che loro vengono imposti. Queste amabili schiave ; qualche volta [ ' 147 infedeli ne’ giorni severi della nostra prosperità, non lo sono mai alle nostre sventure. Se da ogni parte non mi si facessero avanti esempi ‘contemporanei , interrogando l’ istoria m’incontrerei nel nome di quella commovente Eponnina che di caverna in ca- caverna seguì ‘l suo sposo Sabino, fatto crudelmente morire da un imperatore troppo lodato, dall’ avaro Vespasiano ; rammenterei le tenere e generose rimembranze d’ Aria , di Agrippina consorte di Germanico: Più vicino a’ tempi nostri troverei l’ esempio non meno eroico di quella nobil figlia del cancelliere Tomaso ‘Moro, che partecipar volle la prigionia del suo illustre ge- nitore, ed accompagnarlo fino al patibolo; che dopo avere ‘a gran prezzo riscattata la sanguinosa testa dello sventura- to suo padre, accusata di custodire nel'suo intimo gabinet- to quella trista ed onorata reliquia, di leggere continuo I’ opere di lui , e quindi di nutrir sensi ostili contro i go- vernanti, difende con tanta e tale eloquenza, non la pro- ‘pria vita, ma la memoria del padre, che le grida del suo dolore inteneriscono i ‘suoi carnefici, ed è assoluta in- nocente. Non parlerò di madamigella Scuderi, che seppe usar tanti tratti cento volte più spiritosi di quelli dei quali cons dì i suoi romanzi, per provvedere l’infelice Pellisson di carta ed inchiostro perchè scrivesse la sua giustificazione. Non chiederò alle carceri della rivoluzione quanti generosi sacrifizi, quante sublimi azioni, quante commo- - venti sollecitudini , quanti perigliosi cimenti, quante pene alleviate nel periodo delle nostre civili discordie, abbiano levato all’ apice della grandezza il carattere delle donne francesi. Non mi è d’uopo rammentare l’ angelico sacrificio di madama de la Fayette nelle carceri di Olmuts ec., di «.madama Lavalette alla Conciergerie , d’ altra dama del- lo stesso nome, rapita da morte in America; l’ istoria I9E ha già consecrati questi nomi gloriosi: io intendo di of-. frire a miei lettori scene meno luttuose:, esempi di virtù più familiari. SANA Spettacolo degno d’un osservatore ‘amico delle don> ne è la sala di S. Pelagia nelle domeniche, e ne’ giovedì di ciascuna settimana, i soli giorni ne’ quali i detenuti / per delitti veramente correzionali possano essere :visita- ‘’ ti dai parenti ed amici loro. Una preliminare ‘osservazio- ne, alla quale servirà di comento tutto il presente artico- lo, si è che le donne intervengono’ a queste riunioni in maggior numero degli uomini. Io mi sono sovente trat- tenuto a lungo in queste conversazioni più animate che brillanti, per bene conoscerne l'insieme ‘e i particolari. L’educazione e le condizioni sociali stabiliscono. fra gli uomini certe diversità, molto meno sevsibili. fra. le donne, e che anzi onninamente svaniscono per l’ effetto di due sentimenti che sembrano far parte di loro, quali sono l’amore e la pietà. Al fianco. degli sventurati, che esse s’adopranoa consolare, il solo vestito è ciò chele distingue: allora tutte sembrano possedere al grado istesso quell’arte che innamora d’ indovinare i loro gusti , di tener vivo il loro coraggio, di lusingare il loro amor. proprio, di spar- gere in somma sulle ferite de’ loro cuori quel balsamo che la loro ingegnosa tenerezza può solamente comporre ed amministrare. Queste cure morali sono ben più prezio- se delle attenzioni fisiche e materiali, delle quali esse non sono meno generose. Fra le donne, in mezzo alle quali ho passato qualche ora ne’.giorni di visite, mi fu indicata una ragazza ; la quale due volte la settimana viene a piedi da Nanterre , faccia che tempo si vuole, per portare al suo amico certi piccoli berlingozzi che gli piacciono moltissimo. Un giorno ei le faceva un dolce rimprovero per essere venuta va un cattivissimo tempo; ed io, commosso e intenerito stava ad udire tutte le bugiole che le suggeriva il suo buon, (cuore i 149 per, isminuire il. merito della sua affettuosa premura. — Quando ella partì da casa non pioveva; cominciata l’acqua ebbe la fortuna d’ incontrare madonna Francesca, quella buona donna che vende il latte e che l’aveva fatta salire nel suo carretto coperto, ed accompagnatala fino al Low- tevard della Maddalena ...., e intanto scuoteva ed asciu- gava il suo vestito tutto bagnato, e accennava al vecchio che era seco perchè ei pure dicesse come lei. Sopra un’ altra panca sedeva una donna tuttavia bel- la, sebbene sul declinar dell’ età , la quale con ineffabile espressione di tenerezza e di dolore stringevasi al petto un figlio; e mentre suo marito con disdegno e dispregio volgeva altrove gli sguardi da un figlio di cui forse aveva ragione d’arrossire ‘, l’ affettuosa madre pigliava il tempo par dare nascosamente a quel giovine una borsetta, ch’era- sì tratta di seno. :.. Io non saprei dire a qual distintivo io conoscessi le delicate gradazioni dello stesso sentimento, da cui era animata la fisonomia delle donne. Alla prima indovinava se era una madre, una figlia, una sposa, un’amica, un’aman- te. Nè potrei darmi vanto di perspicacia se avessi dovuto esercitare la mia penetrazione soltanto su donne di cuor tanto aperto quanto una donnetta, che erasi ritirata, in compagnia di quello cui era venuta a visitare, nell'angolo più segregato della sala. — Vidi soltanto che in due non era possibile, sedendo , occupare minore spazio sopra una data superficie. La tenerezza materna , la pietà filiale , l’amore, la beneficenza , l'amicizia, sono altrettante virtù delle quali le donne potrebbero presentarci innumerabili esempi: ma ve ne sono altre più estranee al sesso loro, come il patriot- tismo , il coraggio, l’onore ( nel più alto significato ca- valleresco di questa parola) nelle quale le donne son sali- te in eccellenza, e al più alto grado d’ eroismo. Citerò un solo esempio da me saputo nella mia dimora a $. Pelagia. 150 La lettera di madama ...». ch'io qui trascrivo mi di» spensa da qualunque schiarimento. « Voi sapete quanto mi siete caro. Io mi sono data la cura di mettervi in salvo, ma siete accusato come agen- te provocatore nell'affare portato presentemente in giu- dizio alla Camera dei pari. Venite dunque a costituirvi, non rimanendovi altra via per giustificarvi d’ un’ azione infame di cui siete incolpato. I vostri giudici sono uomi- nì, e la vostra innocenza in proposito della cospirazione è ben lungi da tenermi tranquilla. Può un tal passo costar- vi la vita: ma conoscendovi io so che non porrete in. bi- lancia questa perdita con quella del vostro, del mio e del- l’onore de’ nostri figli ». Il desiderio di questa nobile ed animosa cittadina fu tosto adempito ; il suo sposo tornò, e fu giudicato. L'odioso sospetto che lo aggravava fu onninamente distrut- to;.e la prigionia che temporariamente lo priva della sua libertà è bastantemente compensata dalla stima e dal te- nero affetto d’ una sposa. - Due terribili avvenimenti ebber luogo al nostro in- gresso in S. Pelagia. La traslazione del sig. Magallon a Poissy., e il suicidio di una bella giovine , che si uccise con due colpi di pistola nel petto fra i due sportelli della prigione di S. Pelagia, ove il suo sposo le aveva vietato d’entrare. Cagione di questo attentato di disperazione furo- no alcuni gelosi sospetti nati nel marito, contro ai quali non le riuscì di persuaderlo. Le mie osservazioni a S. Pelagia hanno aggiunto qual- che prova di più per raffermare questa costante verità; che l'arbitro delle sorti umane ha posto nel cuor delle donne, nelle loro generose e tenere sollecitudini, il compenso di tutti i dolori , di tutti i pericoli, di tutti i mali della vita. Una storia molto commovente è narrata in cinque articoli o consolazioni ; dal sig. Jay; la quale ci sembra dr ‘meritevole di esser fatta conoscere ai nostri lettori. Avreb- be dovuto aver luogo nel presente scritto, essendo essa contenuta nell’ opera di cui ci siamo proposti. di render conto : ma avremmo ecceduta la brevità che crediamo convenire ad un articolo di giornale. Da altra parte pel | soggetto potendo considerarsi come un completo roman- zetto morale, le daremo luogo separato in altro articolo successivo. D. Ln PPPrrr.’_’_’’———__—’__r ’rccrrr—ÉÈÉ[[ìì‘‘’teel:ì Sonetti di Angiolo Allori detto il Bronzino , ed altre rime ine- dite di più insigni Poeti. Firenze nella stamperia Magheri. 1823. O sia che il genio poetico, ch’è stato mai sempre caro e onorato vanto degl’italiani, siasi illanguidito, o sia che gli uomini si sieno volti a cose più solide e più utili di quel che non è la poesia (imperocchè non si può negare, che questa più al diletto non tenda che all’utile) egli è manifesto per l’ esperienza , che ben poche produzioni, e tra queste pochissime di lode meritevoli si veggono oggidì comparire alla luce. Non si vuol già per questo tacer la lode, che si merita la buona intenzione di alcuni, che in' questo nostro secolo ha tentato animosamente di sormontare l’ardua cima di Pindo, e di dar fiato all’epica tromba, il cui suono non s'era udito per dei secoli in queste nostre contrade; ma i loro poemi sembrano, più che all’età presente, appartenere ad alcuna’ delle future, quando, se sia possibile, non piaceranno più nè I’ Orlando furioso, nè la Gerusalemme liberata. Lo stesso presso a poco dir si può delle moderne liriche poesie ( eccettuatene alcune poche) che non mai potranno incontrare il genio degli uominj sensati, e che sonosi formato il gusto su gli egregi esemplari de’ greci, dei latini, e dei nostri padri. L’ amor della novita, e la mania d’imitar tutto ciò ch’è straniero senza pensare se ciò ch'è bello per altri lo possa essere anche per noi, e si confaccia al- l’indole nostra, al nostro carattere, ai nostri costumi, è ciò che ha introdotto una specie di corruzione, che certamente noù fia risanata, se questa pestilenza non cessi. Quindi è, che non pos- sono riguardarsi senza gran compiacenza le produzioni poetiche dei passati tempi, ove tanto più di aggiustatezza e di filosofia ri- splende, che non in queste moderne, in mezzo a uno stile sempre castigato e corretto, non deformato da troppo ‘arditi, strani; e 152 meschini 6oncetti , e non ayvilito da voci e modi di dire non propri, non nativi, non pwi. Per la qual cosa con vero piacere annunziamo pa fari pera di un bel volume di poesie di diversi autori, non tutti vissuti nel medesimo tempo, ma tutti seguaci di quel buon gusto antico , che dopo l’irruzione di un gusto nuovo e cattivo , è stato distinto dulle persone di buon senso col titolo onorevole di gusto classico. Questo volume coutiene molti sonetti di Angiolo Allori detto il Bronzino, alcuni del Lasca , di Annibal Caro , e di altri poeti di quel tempo diretti al detto Br onzino ; e poi varie canzoni e sonetti del Maggi, del Menziui , del Filicnia) del Canonico Pier Francesco Tocci au- tore della Giampagolaggine, di Francesco Redi, d’ Anton Maria Salvini, di Cosimo Rucellai, del Molsa, del Sannazzaro e del Gui- ‘ diccione. Dopo il novero di nomi tanto gloriosi nei fasti della nostra let- teratara , non abbisognano le già enunciate poesie, che'siano da noi all’estimazione del pubblico raccomandate. È piuttosto da render grazie e tributo di giusta lode al dotto ed instancabile editore sig. Canonico Moreni, per l’utilità con questa sua nuova fatica agli ama» tori delle buone lettere arrecata, e per aver sottratti al pericolo d’esser perduti molti bei parti di felicissimi ingegni, conciossiachè sparsi quà e là si trovassero per diversi manoscritti , e dei sonetti del Bronzino non ne esistesse che il solo codice originale. Nep- pur dell’ erudita prefazione dello stesso. editore farem parola, de- gnissima di molta lode per diversi schiarimenti ch’ella ci dà, in> torno alle opere di alcuni de’ mentovati scrittori, e specialmente dell’ Allori e del Tocci, per lo che molto utile addiviene alla storia della nostra letteratura. Si aggiunga a ciò, che questa rac- colta di poesie di autori per la maggior parte citati come testi di lingua, spogliata che fosse con diligenza, offrirebbe una ben lunga serie di, yoci bellissime ed anche di comunissimo uso, o non registrate nel vocabolario, o mancanti d’ esempio. G. A. nd T_——————_—_—_—_——————_—_——_—_——_—_—_—È____-P@Ì——_____—_r__r__________—_—_ Lettera al Direttore dell’ Antologia. Firenze 2 Settembre 1823. Nella Biblioteca universale di Gineyra n.° di Luglio di que- stanno trovasi annunziato un processo. scoperto dal.sig: Nani far- macista a Milano per preparare il so//ato di Rabarbarina, che 153 così ha quel chimico denominata la combinazione dell’ acido sol- forico col principio purgativo del Rabarbaro isolato. da. ogni altra sostanza. Dovrà l’arte salutare e la farmacia saper buon grado al sig. Nani del semplice processo che gli è venuto fatto di ritro- vare e che nulla avrebbe perduto del suo pregio, se mentre spo- gliando i libri stranieri di chimica, nei quali alcun cenno si dà di questo nuovo principio , egli avesse girato lo sguardo sul classico giornale che si stampa nella così a lui vicina Pavia. Egli avrebbe allora veduto che nel 1820 scriveva io stesso al mio chiarissimo amico il P. Brugnatelli la mia scoperta di questo principio purgativo attivissimo, ottenuto puro e semplice col versare una soluzione alcoolica di acetato di piombo in una tintura di Rabar- baro, fatta con alcool rettificato, fintanto che si formi precipitato. Filtrato il liquore e fatto in esso gorgogliare del gas idrosolforico per separarne il piombo in eccesso che potesse esistervi, ed. ag- giunta della purà magnesia carbonata al liquore bollente per sepa- rarne l’acido libero, (e che io doveva dire a/meno in parte com- binato al nuovo principio) vedesi il liquor medesimo passare dal color giallo al rosso sanguigno. Svaporato a bagno-maria, e trattata la massa secca residua con etere solforico, se ne discioglie una parte, e questa si riottiene colla dolce evaporazione del solvente sotto l’aspet- to estrattiforme di un colore giallo oscuro, e dotata di odore aglia- ‘ceò e di gusto acre, amaro, nauseoso. Questa materia è solubile in acqua ed in alcool come in etere , e queste soluzioni’ non s' in- torbidano per il reciproco miscuglio. Queste soluzioni gialle per loro stesse , son delicatissimi reagenti per gli alcali, che le volgono ila miedibtazionte al color rosso rubino; gli acidi le ritornano alla tinta primitiva. È chiaro in tutto questo non esser necessario di salificare la nuova sostanza per renderla attiva. sull'economia animale, come occorre fare per il principio febrifugo della china, e dalle seguenti mie parole è pur manifesto che fino dal 1820 io pen- sava veramente di aver isolato il principio purgativo del Rabarbaro, e come tale ai medici lo feci conoscere. ;, Questo principio del Rabarbaro che io credo veramente di una natura sui generis, agisce fortemente sull’economia animale come purgante anche alla dose di pochi grani (e ne feci su me stesso reiterata sperienza.) Esso passa indecomposto per le vie orinarie. ,, Se tutto questo, oltre al reintegrarmi nei mieidiritti, potrà invitare i nostri medici e farmacisti a valersi del nuovo purgativo; mi lusingo che non avrete a dolervi,; o sig. d’avermi accordato una pagina dell’'Antologia. Credetemi frattanto V. affez. A. C. RIDOLFI. Sig. Direttore. | Loan | Firenze Li 15 Abbiati 1823, i : Il vostro giornale, il quale si è sempre quinte a pubblicàre ‘ciò che tempo per tempo si è giudicato utile al miglioramento della rustica economia, non vorrà smentirsi adesso negando di ri- svegliare l’ attenzione degli agricoltori e dei possidenti sulla im- minente vendemmia. La siccità dell’ estate del 1822 anticipò non poco la raccolta «delle uve, le quali, straordinariamente mature ed ‘oltre modo ric- .che di glutine e di zucchero, fermentarono con incredibile rapi- | dità. La temperatura atmosferica si: sostenne altissima ‘durante la manifattura del vino, e questa circostanza favorì tanto la vini- ficazione del mosto , pito essa si operò completamente in podi giorni. Senza alcuna attenzione. su tutto questo, si continuarono da ‘ molti le pratiche consuete di ogni anno, si lasciarono i tini $co- perti e si prolungò la fermentazione per il solito tempo piuttosto che frenarla al bisogno. Rimase dunque il vino già fatto per più giorni in vasi aperti, e le continue ammostature ridestandovi con- tinuamente un moto di fermentazione considerabile, obbligarono il liquore a perdere la massima: parte dell’ alcool, ed a discioglier dei «dannosi principi dalla vinaccia. Questo liquore chiuso in botti con dei vizi ce a si di- .spose ben presto a delle alterazioni considerabili, che tosto ri- dussero una gran parte di vino fuori di stato di servire alla con- sumazione e quindi al commercio. In quest'anno una nuova siccità minaccia di produrre effetti simili se verranno continuate le stesse pratiche viziose, ed è ben tristo il vedere che debbano esser fatali per il vino, delle cause, le quali se pregiudicano al possidente dal lato della quantità del raccolto, dovrebbero giovarli per la ‘bontà e squisitezza del me- desimo . La vendemmia è imminette , e fra pochi giorni le pioggie che potessero sopravvenire mon sarebbero al caso di giovare al- l'uva, la quale non potrebbe anzi che perdere per esse della buona costituzione di cui gode. Vogliano dunque i possidenti darsi premura affinchè la vendemmia del 1823 sia memorabile per l’eccellente vino che può produrre, purchè si seguano gli av- vertimenti seguenti. 155. 1. Che i tini siano pieni il più presto possibile e non in più giorni. 2. Che sia completa l’ammostatura delle uve, e questa fatta in una sola operazione. 3. Che i tini sian chiusi sollecitamente , ed avvertendo che resti esclusa da essi l’ aria atmosferica. 4. Che dai tini nei quali il vino si fa allo scoperto vengano spesso estratti dei saggi onde la svinatura si faccia quando è a proposito; e non quando si è consueti di farla. 5. Che il vino si passi in botti zolfate, e se ne tenga lonta- no :/ governo, pericoloso sempre, e dannoso certo quest'anno. 6. Che i tini chiusi, sian tardi svinati e solo quando il liquore è perfettamente freddo e limpido; onde non vi si destino = botti nuove e pericolose fermentazioni, 7. Che si procuri di diminuire per quanto è è possibile l’ effetto del calore atmosferico , il quale non può che render no tua multuosa la Lorinen prioni) 8. Che poco contatto sia dato al vino nel passar dal tino alla botte coll’ aria atmosferica; la quale è da considerarsi come - un veleno per lui. Ecco ciò che io reputo necessario per far del buon vino in Toscana nelle circostanze nelle quali ci troviamo, ed ecco quello che io farò per il mio proprio. Credo sia questa la miglior garan- ‘zia che io possa dare al pubblico dell’ intima mia convinzione, alla quale dà tutto il vigore l’ esperienza ed il raziocinio , cioè il fatto e la teoria. Credetemi frattanto o signore V. Aftez. amico March. Cosimo RIDOLFI. 156 Articolo mandatoci dal sig: dott. Basevi.. Nell’ ultimo fascicolo, per una svista del copista , . s’ incorse in un’ommissione nella mia lettera relativa al paragrandine. Il periodo alla linea 6 della pag. 192, deve essere così redatto. »» Ma sinora si era preteso, e voluto impedire la produzione delli grandine; per ottenere la conversione in pioggia benefica e ristoratrice, di quelle nubi, che senza il mezzo artificiale del paragrandine sarebbero divenute grandinose. Nè questo vantag ggio parmi essere! stato:.considerato dal sig. X Z, contemplando nei vari casi l’azione delle corde di psgladi La seconda circostanza che considerasi dellitanioninzo ; è quella della ‘grandine già formata, nel qual caso. togliendosi alla. nube una piccola dose di elettricismo colla. paglia, non ne cadrà che una piccola porzione, impedendo al resto di crescere ulterior- mente ; così, senza nuocere. sensibilmente al luogo ove stassi il preservativo , gioverassi non poco alle campagne vicine. ,, Fine del Fascicolo XXXIII. | FATTE NELL’OSSERVATORIO XIMENIANO. - OSSERVAZIONI — ù — METEOROLOGICHE . ‘ DELLE SCUOLE PIE DI FIRENZE I = Termometro 2 | » lo Di dite pp] Bid one 57 Ora . z z td, 5 {Ss 8.8 Stato del cielo to) (o) pi (o) i 9 8 A iau (0 S D 5 © 3 Il | ° ° ° o Ù ì poll. lin. i i | 7 mat. |28. 0,3 20,0) 17,8! 75 Scir. jSer. con nuv. Calma -I| mezzog. |28. 0,5 20,4] 21,3! 55 I Tram. 'Nuvolo. Calma rr sera |28. 1,4 21,8] 19,9] 64 Gr. Tr. Sereno. Ventie. ‘7 mat. |28. 2,;2 20,4| 18,2| 80 Tram. |Ser. con neb. Calma | @| mezzog. |28. 2,1 21,3] 23,1] 90 Lev. |Sereno. Ventic. 11 sera |28. 2,0 21,8] 20,0/ 50 Pon. |Ser. con nuv. Calma | 7 mat. |28. 2,0 20,9] 18,4| 80 Lib. |Ser.con neb. Calna 3] mezzog. 128. 2,0 21,8] 21,3| Go Pon. |Belliss. ser. Ventic. II sera |28. 1,9 22,61 2zo,vl 60 iLib. |Sereniss. Calma ‘|.7 mat. pb 135 21,0] 18,0] 68 Sc. Lev|Sereno. Calma 4| mezzog. 128. 1,1 22,0) 22,2] 52 Lib. /Ser. belliss. Ventic. r1.sera |28. 1,1 23,7) 20;2| 96 Lib. |Sereno. Vento 7 mat. |28. 1,0 21,3) 18,9] 72 Os. Lib Sereniss. Ventic d| mezzog. |28. 0,8 | sad 290: dd Lib. |Ser. belliss. Ventic.! tr.sera [28. 0,8 | 22,4] 19,5 60 iP. Lib.|Sereno. Ventic. | | 7 mat. 28. 1,0 20,4] 18,0] 68 Sc. Lev|Ser. con nuv. Calma 6| mezzog: |28. . 0,7 21,5] 22,2) 55 Lib. [Ser. belliss. ‘Ventie, . } rt sera [28. 1,0 23,1| 20,0| 52 Lib. |Sereno. Ventic, ‘7 mat. /28. .1,0 21,3] 18,2] 66 Sc. Lev|Sereno. Calma 7| mezzog. |28. . 0,6 22,4| 22,4| 59 Lib. |Sereno. Ventie. Lib. |Sereno. Calma' ti sera |28. Alto sopra il livello del mare piedi 205. AGOSTO 1823. 22,7 GIRETTO SIETE FI IAN TINTA VOTE o si i fae—__—<2<_*' e AH "Ze e mtttttrtzttiittlll/”/Ò»vVDUV[L—î ; _—_@ ppi cio 2 O1}ZUUIOAEC vi va n. ‘mat...1148, 1,0 20,9 62 Gr.Lev Ser. belliss. Ventic. 8° mezzogi 128; 0,7 22,2| 22,4 Sr P. Lib. Ser con nuv. Ventie.” 11 sera 28. 0,7 22,7| 19,5 81 |0,03 Os.Lib Nuvolo. Calma “| 7 mat. ;28..0,0.) 21,8]. 18,8 81]: (Gr. Tr. Nebbioso. Calma , 9| mezzog. 128. 0,0 32,2] 22,2. 79 |Pon. |Ser.con nuv, Calma ri sera|'28,. “1,5 | 22,2]. 19,101.) 'Lib. |Sereno. Venlic. ia 7 mat. |28. 1,8 20,0, 10,6, n2 Scir. !Ser. caligg Calma o! mezzog. 128. 1,7 20,9) 20,0; 53 P. Lib. Ser. con nuv. Calma 11 sera |28. 3,0 21,9) 18,7 72, Lib. |Sereniss. Calma mat. |28. 3,3 20,6 169 68. Scir. |Ser. calig. Veutie, 7 2 2 39 È, | 5 iTt) mezzog. 28. 3,0 22,3) 2153 (49 P. Lib. Sereno. Calma | ri sera (28. 1,4 | 21,9. 19;9 _( 60 Lib. \Sereniss. Ventie. | 7 mat. |28 2,8 20,8| 17 1735 | 69 Scir. |Bel sereno, Calma |f l12|-mezzog. [28. 2,0 23, Li2A32| OL P. Lib.|Ser. rag. Ventic. j _| rx sera {28. 2,0 23,1| 20,4: 60 P. Lib. Sereno. Ventic. Ha; 7 tt 28. 16 20,9 18,2] 68 Sc. Lev Bel sereno. Calma | ir3, mezzog. |2d3. 1,6 22,7| 22,7) 56 P. Lib. Sereno. Ventic. $ | | rI sera 28. 1,3 25,1 20,0 50 | !Lib. |Séreniss. Ventic. | mat. |28. 057 20,9] 17,0] 59 Sc. Lev|Bel sereno. | Calma | 14 mezzog..|28. 0,5 22,0] 21,8) 46 Pon. Bel sereno. Ventie. »trt-sera 28. 28. 0,0 22,7 20,0 68 Lib. Sereno. Calma | BE 7. mat. 271 11 1,5. 21,0 15,7|-66 Scir. ‘Ragnato. Calma {fl 15 mezzog. |27. TIC (2199 20,0, 58 Pon. |Bel sereno. Ventie. | 11 sera |28. 0,0 | 21, FTSE (© FALSA P. Lib. Sereno nuv. Ventic. 7 mat. JAR 953 20,6] 17,9) 72 Tram. |Sereno rag. Vento | #16] mezzog. |28. 0,2 21,3] 20,9) 58 cl M. |Scir.: Ventie. r1 sera |28. 0,5 22,2) 19, J 66 sE | Sereno. Calma | "E 7 mat. |28. 0,8 20,9 ii 76° Os. sa 'Stredii :Ventic. ‘17 mezzog. 28. 10 21,3 20,9 60 iP. Lib. Sereno nnv. Ventic. h*yiseravGii 1,6 21,3. L19979 Lib. ‘Nuv.nebb. Calma | |. |.7 mat. |28. 2,0 20,2| 17,5] 79 Lev.Sc|Nebb. + Calma 18| mezzog. |28., 230 20,9| 20,9| 56 P. Lib.|Sereno nuv.. Vento 11 sera |28. 2,0 20,9). 19,1] 80° Lib. — Ragnato. Vevtic.: isAf mat. 128. 25 bor 20,6| 17,9 81 [Gre Bern ra 1g| mezzog. 23. 22,2) 222 56 rec. ereno. - }; o | 11 sera. 28. tei | 23,2! 20,0 53 Gr. Tr. Sereniss. pi Calma Stato del cielo od -090s0w12UY 1 i — ermomi/ | me [mo | | © 5 29 DI bi 2 A] O [umal [aj | 3| Ora S Sl 3 B |S5 3.8 Stato del cielo = ® % 3 % ® © | 3 ch P fi sg 5 “i. © 3 / | I ° ° » ! ) | 7 mot. |23. DI ‘i20 mezzog. |23. 1, 13 22,4 22, 49 Tr, Gr. Sereno. Vento È ri sera |28. 22,7 2056 55 Gr.Lev Sercniss. Ventic. i 21,3. SARTI 61 Lev. Sc Sereno, Calia | 22,0. 22,4 5o] © | Tram. Nebbi Véutie. 22,7: 20,0]; 76 Lib. Ser. nebb., Calma | 0,0 | 21,8) 14,2) 56) Lib. VARE, mat. 127. 11,9 W21° mezzog. - nh I|..| 11 sera Mila 7 mat. A agg |Ser. rag. T Weritio.® 22| mezzog. (28. 22.40 22,0) 54 Trame Seri nuvi. :. 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Sc|Sereno, Calma i128| mezzog. |28. 14 du, aj 33,7). 22 Tr. M. |Sereno, Vento rssera |28. 1,8 24,0] 20,9) 48 Grec. Sereno. Calma 7 mat. |28. 1,8 23, © 20;4|.- 03 Lev. |Sereno. Calma” |29! mezzog. 28. 1,8 24,0] 244 dd Tr. Gr. Sereno. Vento I rrsera 25. 1,8 24,0 22,2 Gr. ‘Tr. Sereno. Calma 7 mat. |28. 1,9 20,6 19,1]. 55 Lev. Sc|Sereno, Ventie.i So] mezzog. |28. 2,0 22.70) 122;9] 44 Lib. {Sereno. Ventio, ti sera |28. 2,2 20,9) 20,9] 55 Lib. |Sereno. Calma Aa 7 mat. |28. 2,0 20,0 18,9 — 60 Lev.Sc|Sereno. Ventie. 31} mezzog. ‘128. 2,4 22,8) 22,2] 56 P. Lib.|Sereno, Ventic, | ‘ trsera 28. 2,6 23,5 29,0 MEA. ul SÒ: Sereno. Calma a ns "n did sa cet ri NOMENI Pa Pei pila. Pil t ib ori È fi DI VARIO GENERE. # 4 tin Î * Dal di 25 fino al dì 29 inclusive il Temo esterno alle .or | PO fa toccò. ì 26 gradi. E questa la massima elevazione di temperatu: ‘che abbia finquì « avuto lnogo ‘nell’. anno corrente, - È MEC. tira 7 i sncat cia. sino nr chi 1,511 ab i i # 0/39 Y % #i get | area i ‘ L ' STATI ANZI ANO BABI RI 0 ti e > *» | moi i n Ò n =Ttr2r@ctccQsesze seitan RIM ina Ti DATA ADI He TE ua Pie be re a, è. Ero. © ie mn. Ca : d'os-pe b È ® pica lu È Aa a : e fra l ì tw ‘ de t1 Pe . n + . . VINDICE glo de MATERIE CONTENUTE | NELL’UNDECIMO VOLUME SCIENZE MORALI E POLITICHE. Buetrori al Direttore, sull’isola di Scio e sulla ®? wita letteraria del sig. Coray. Prdzdidys. A. Sull’ istituto dei sordo-muti di Genova. Lettera di Enrico Mayer. , Traduzione francese della Repubblica di Cicerone , fatta da Villemain. Articolo di Ant. Benci. , Dell’ umana perfezione, del dott. G. Germani di Pavia. Artic. di A: ‘Discorsi di Andrea Mayer veneziano. Opinioni sul Principe di N. cche} art. di 4. Benci. B. i li, stese da M. Leoni ‘ Rapporto fatto all’ adunanza generale della società di lettura di Ginevra il 16 gennaio 1823, dal sig. Dumont; estratto di Di: }; Delle colonie interne della Dranta e di Wartel. a . Memoria sulla colonia di Frederiks Ord. ( art.di Filandro, B, . Il Filantropo, giornale. Ù | Opinioni di G. B. Vico d’intorno a che, la plebe i romana non avesse i connubi prima dell’ anno 309 ab U. C. le quali si confermano adesso da un luogo del trattato de Republica di Ci- cerone. Artic. di P. €. ‘Sull’ opera del conte Alessandro de Laborde, in- . titolata: dell’ influsso dello spirito di associa- zione sul bene pubblico. Lez. accad. di Filandro. C. 39 p: ” >» >” >” ») 99 LEI ist 116 126 87 2 Gli Eremiti in prigione ,' Ossiano; Psr 2 gg S. Pelagia , dei sigg. G. Jouy è J ay. Ar 2) | GEOGRAFIA, VIAGGI * rt pt "E ‘È "00. ni Ui Di Marco Polo, e degli altri viaggiatori veneziani più illustri. Dissertazione:del P, Zurla: Art. di 7. A. ,, Geografia moderna di G. R. Pagnozzi. Art-di F.G. » Viaggio fatto negli anni 1819+22,)alle ispiagge, del; ‘7 mar polare , dal capitano Giovanni Franklin. Estratto da da Pi Ga Be ” 133 LETTERATURA ; FILOLOGIA , CRITICA LETTERARIA, eC. Carmina Homerica Ilias et Odyssea, a rhapsodorum interpolationibus repurgata, ec. diligenter in- quiritur opera .et. studio. Richardi Payne © .. e» Knight. Artic. det. March. Cesare Lucchesini: : A. Novelle di Giraldo Giraldi ,. seconda edizione , coll’ aggiunta d’ altre novelle inedite. Arti- iù colo di Antonio Benci.. > + - Discorso sullo studio filosofico delle lingue, Art,.di M. La fionda di David, ossia.l’ antichità ed autorità ; «dei punti vocali nel testo ebreo , dimostrata .e difesa per il dott. Rosellini. Dom. Valeriani. B. Osservazioni concernenti.alla lingua italiana ed ai i suoi vocabolari, di Angelo Pezzana. Articolo ; ‘1,39: del Maggior Barone Ferrari. C.. » A pis romana. Giornale di letteratura latina. Arti- . ipa colo del Prof. Seb. Ciampi. x» Cronica di Giovanni Villani a miglior lezione ridot- ma ta coll’aiuto dei testi a penna. Art. di G.B. Zannoni») “Frammento di ùn’Elegia d’ Ermesianatte da Colo- fone, tradotto ed illustrato da Francesco Negri. tisà Articolo di | Mi insiti Ode Olimpica II, Versione del mb Cesare Lucchesini, BRFTRERTE LETTERATURA, DRAMMATICA ; POESIE, €C. , Della drammatica letteratura. Artic. dell'avv. G: Ce 5$ì Sonetti di Angiolo Allori detto il Bronzino, ed altre | rime inedite de' più insigni poeti.’ Gr As È =» "BELLE ARTI: Storia della prese in niPalile «di-B. A. di Articolo» : estratto dell’ Edimburg-Review, di D.: A. Saggio sulla storia della pittura in Italia, dai più remoti tempi fino ‘all’età presente, del conte Gregorio Orloff. — Traduzione del capitolo intitolato: dellò stato presente della: “grten in Italia, di (TI Ba i 3» «Hl fiore. dell; arte dell’ iaioglta ‘elle stampe; con singolare studio raccolte dal sig. L. Gaudio, di X.*** ,, TTAd+4 ARCHEOLOGIA. «Lezioni elementari di Archeologia, di G. B. Ver- - miglioli. Articolo di: n (0G. È. Zannoni. A. -Sull’ Era Bitinica. — Lettera al prof. Sestini del © ci cot ripe 0a € i Cav. B. Borghesi. ‘; «Estratto. di una memoria relativa all’alfabeto dei geroglifici egiziani, comunicata all’ accademia dell’ iscrizioni di ‘Parigi dal sig. Champollion le jeune. Osservazioni di Domenico Valeriani. C. SCIENZE NATURALI. . Lettera sul paragrandine, di ASA: Idem Dott. Basevi. B. Idem | ° Anonimo. , Idem Lettera sul solfato di Rabarbarina, del Mar. Ridolfi. È Tavole meteorologiche per i mesi di giugno, luglio ed agosto. AGRICOLTURA. Lettera sulla prossima vendemmia; del... Ridolfi. C. SCIENZE MEDICHE. Riflessioni sullo stato sanitario delle Maremme se- nesi. Artic. del D. Palmi. A. Collezione di casi clinici e chirurgici, di G. B. Bel- livi. Artic. di Pi. Betti. Bi ” }) »” 23 99 76 106 50 87 190 197 152 154 163 4 | È Alcune osservazioni sulla teoria: eccitabilistica del controstimolo. ( continuazione ) . D. E. Basevi. Alcune osservazioni intorno al'clima delle Marem-' ss me. Articolo di Li E. Repetti. pei SCIENZE MATEMATICHE. Nuovo sistema di fortificazione , di Domenico Cac- chiatelli. Artic. del Maggior Barone Ferrari di Piacenza. A. ANNUNZI SCIENTIFICI E LETTERARI. Quesiti proposti dalla società italiana delle scienze. Artic. del | Prof: Ferroni. A. Premio quinquennale di scudi mille , fondato dal Granduca di Toscana, G. B. Zannoni. -Sopra un’opera del conte Verri che sta per pub- blicarsi. falsa ati M. B. >») I. € R. ACCADEMIA DE’ GEORGOFILI. Adunanza ordinaria del dì 12 luglio 1823. G. Gazzeri. B. cr ne<{.. ss ” >” ”" 39° 72 188 < % id