ATTI DI SCIENZE NATURALI IN CATANIA SERIE TERZA — TOMO X. CATANIA TIPOGRAFIA DI C. CALATOLA Nel R. Ospizio di beneficenza A l 1876 ATTI DI SCIENZE NATURALI IIV CATANIA SERIE TERZA — TOMO X. CATANIA TIPOGRAFIA DI C. GA LATO LA Nel R. Ospizio di beneficenza 1876 PER L’ AMO L, DA LUGLIO 1814 A GIUGNO 1815. 1 . ° Direttore Prof. Andrea Aradas. 2. ° Direttore Prof. Cav. Giuseppe Zur ria . Segretario Generale Prof. Carmelo Sciuto Patti. Segretario della Sezione delle Scienze Naturali Prof. Cav. Orazio Silvestri. Segretario della Sezione delle Scienze Fisiche Prof. Cav. Agatino Longo. Cassiere — Prof. Salvatore Nicolosi Tirrizzi. Direttore del Gabinetto — Prof. Mario Distefano. MEMBRI DEL COMITATO 1. Prof. Michelangelo Bonaccorsi. 2. Dott. Antonino Somma. 3. P. D. Giovanni Cafici. A. Cav. Giacomo Sacchero. .5. Prof. Giuseppe A rd ini. 6. Dott. Paolo Berretta. IL DEGLI UCCELLATORI NOTA DEL PROF. G, A. BQLTSHAUSER LETTO ALL' ACCADEMIA GIOENIA NELL* ADUNANZA DEL 1. MARZO 1875. I. Assimilando T organo della voce agli stranienti musicali e paragonando questi con quello, i fìsici hanno creduto poter stabilire, in qualche modo, due somiglianze. Secondo gli uni gli orli della glot- tide sarebbero linguette o corde, che producono toni acuti o gravi, intensi o deboli, secondo che sono più o meno tese, e che vibrano in tutta o parte della loro lunghezza. Secondo gli altri la cavità formata della glottide, dell’ epiglottide e delle pareti della trachea corrisponderebbe al tamburo del richiamo degli uccellatori, e le aperture della glottide e dell1 epiglottide ai fori del detto appa- recchio. L’aria, che nell’uscire dai polmoni è spinta attraverso la laringe, vi produrrebbe i vari suoni nel modo stesso che si verifica nel richiamo quando, aspirando o soffiando, vi si fa passare una cor- rente di aria. Ma mentre, considerando gli orli della glottide quali linguette o corde, bastano le cognizioni più ATTI ACC. VOL. X. 1 2 — elementari di Acustica per comprendere come le vibrazioni più o meno rapide, più o meno ampie di queste linguette o corde danno luogo agli svariati toni della voce umana, non è facile intendere co- me una corrente d’aria, traversando il tamburo del richiamo,, possa produrre un suono musicale, e molto meno si comprende, come questa corrente possa generare quella successione di toni acuti, gravi, deboli e pungenti, che forma un così sor- prendente contrasto colla semplicità dell’ appa- recchio. Ciò nonostante non si rinviene nella più parte dei trattati di Fisica se non il semplice nome del- l’apparecchio in discorso, ed anche ciò, che se ne dice in qualche trattato più esteso, è insufficiente per dare un’ idea alquanto precisa della produzione dei suoni nel richiamo. Mi è dunque sembrato es- sere non del tutto fuori di proposito di pubblicare alcune ricérche fatte da me per istabilire, in qual- che modo, la teoria dell" apparecchio, ed anche per chiarire sino a qual punto venga giustificata l’analogia che, secondo certuni, esiste tra l’organo della voce ed il richiamo. II. Se in una ghiera, del diametro di 10 a 20 mil- lim. , si fissano parallelamente due dischi sottili fo- rati nel mezzo, e distanti 1’ uno dall’ altro circa 10 millim. , si ha ciò che si chiama il richiamo de- gli uccellatori, (reclame in francese, Jaegerpfeife in tedesco) il quale, collocato tra le labbra in modo da poter, aspirando o soffiando, farvi passare una cor- rente di aria, fa sentire, mentre questo esiste, quel rapido alternarsi di svariatissimi suoni, che somi- glia al gorgheggiare degli uccelli, al punto da in- gannare essi stessi. Tuttavia se, soffiando o aspirando, si mantiene costante una conveniente corrente di aria, non si sente che un solo tono, e questo conserva il suo grado d’acutezza e d’intensità, finché cambii la ve- locità della corrente di aria. Conviene renderci con- to di questo primo fatto. Che nel richiamo C D fig. I, la corrente di aria si dirigga da A verso B, e sia P la pressione esistente in A, p la pressione esistente nel tamburo, p' la pressione esistente in B. Poiché l’ aria penetra nel tamburo, e da que- sto nello spazio B, si ha necessariamente P > p > pr La corrente d’ aria, quale vena fluida elastica, passando dalla pressione P a quella di p, si dilata, quindi comprime l’aria già contenuta nel tamburo e ne accresce la primitiva pressione p finché, ad una pressione p~h x, si stabilisca la reazione tra la vena fluida, la cui dilatazione va diminuendo, e l’aria compressa del tamburo, la cui forza espansiva va crescendo. Tale reazione ha per risultato la rare- fazione dell’ aria nel tamburo e la compressione della vena fluida. Ma siccome durante la dilatazio- ne della vena fluida è accresciutala quantità d’a- ria che penetra nel tamburo, e cessa, o almeno di- minuisce per un istante, l’uscita dell’aria, e che l’inverso succede durante la compressione della vena fluida; ne risulta, che l’uscita dell’aria dal tamburo avviene non con movimento uniforme, bensì per pulsazioni, ovvero con moto vibratorio, al quale per l’appunto è dovuto il suono che fa sentire il richiamo. Queste pulsazioni possono rendersi visibili nel seguente modo: Fatto un foro di conveniente li grandezza nel fondo di un vaso cilindrico di latta, largo 10 a 12 centim., alto 20 a 25, si salda con cera gialla, un richiamo sopra il detto foro. Acceso poi un po' di fosforo, posto in un vasetto galleg- giante sull’ acqua contenuta in un recipiente ah quanto più largo e più profondo del vaso di latta, si copre conquesto il vasetto, precisamente come si fa nella nota esperienza di chimica per preparare l’azoto. Riempitosi il vaso di latta di acido fosfo- rico, si fa arrivare nel recipiente maggiore una corrente di acqua. Pigolandola in modo che la velocità d’efflusso dell’aria sia piccolissima, e col- locando dietro la vena di fumo bianco una super- fìcie nera, si distinguono benissimo i brevi inter- valli frapposti tra le pulsazioni, i quali intervalli, per crescenti velocità, vanno rapidamente dimi- nuendo, e tosto sfuggono alla diretta osservazione. Trattandosi però d’un suono musicale, resta a dimostrare, che le accennate pulsazioni si ripro- ducono in tempi rigorosamente uguali. Che la freccia EF fìg. 2 indichi il verso del movimento della vena fluida, e che nel tamburo Paria sia passata dal massimo grado di compres- sione al massimo grado di rarefazione. Una mo- lecola di aria A, appartenente alla vena fluida, è sotto l’influenza d'una forza AV , che rappresenta la velocità costante della corrente di aria; e d’una forza AR risultante di tutte le ripulsioni, che sulla detta molecola esercitano le molecole circostanti della vena fluida. La molecola A simuoverà quindi nella direzione della diagonale del parallelogramma delle forze VR. Ma, durante il movimento, la forza di ripulsione va scemando, sicché, ad ogni istante, la direzione del movimento della molecola A viene determinato da un altro parallelogramma delle forze, finché la molecola subisca in B l’azione della sola forza AV, e che incominci la reazione, durante la quale la forza costante AV e la forza ■ espansiva variabile dell’aria compressa danno luogo, in or- dine inverso, a quegli stessi parallelogrammi, che hanno determinato il movimento AB , perciò i mo- vimenti AB e BC si compieranno in tempi rigo- rosamente uguali. Siccome la dilatazione della vena e la com- pressione dell’ aria nel tamburo non eccedono i limiti d’elasticità dell’aria, il lavoro meccanico, fattosi durante la dilatazione della vena fluida , è uguale a quello, che l’aria compressa esercita sulla vena fluida, di modo che, alla fine della rea- zione, cioè quando la molecola A è giunta in C, P aria nel tamburo e la vena fluida sono esatta- mente nelle condizioni di densità, in cui le abbia- mo supposte in principio, e quindi alla compres- sione della vena fluida deve succedere di nuovo la dilatazione nel modo più sopra esposto. Avvertendo ora che tutte le molecole della sezione, in cui si trova A, eseguiscono movimenti analoghi a quello di A , si viene alla conclusione, che la vena fluida passa in tempi rigorosamente uguali dal massimo grado di dilatazione al mas- simo grado di compressione, die è quanto dire, le pulsazioni o le vibrazioni, che fuori del tamburo producono onde sonore di determinata lunghezza, sono isocrone. III. In un richiamo, dell’altezza di 8 a 10 mil- lim., una corrente di aria, della velocità di 50 a 60 centim., può produrre un suono, al quale cor- rispondono per lo meno 1000 vibrazioni al minuto secondo. Una molecola d’aria percorre in questo caso lo spessore del tamburo in meno di V 50 di minuto secondo, e durante questo tempo si prò- — 6 — ducono più di 20 pulsazioni. Ciò prova che la ve- na Illùda presenta, lungo lo spazio che separa i due fori, almeno 10 punti di massima dilatazione e 10 di massima compressione. (Vedasi fig. 3.) Da ciò risulta che la vena fluida si trasforma nel tamburo in corpo vibrante, e che, come tale, presenta nodi e ventri. I fori costituiscono sempre due nodi; V intervallo, compreso tra i medesimi , è diviso in parti uguali, di cui ciascuna forma un ventre. Ogni singolo moto vibratorio è atto a de- terminare, fuori del tamburo, delle onde sonore; ma s’ intende che più movimenti simultanei deb- bono produrre un suono più intenso. Ciò si veri- fica infatti nel richiamo; i suoni acuti riescono sempre molto più intensi che non i suoni gravi. Dal fatto che la vena fluida è simultaneamente in più punti dilatata, ed in più punti compressa, risulta che l’aria nel tamburo si divide, paralle- lamente ai dischi, in tanti strati d’uguale spessore, quante sono le pulsazioni che si producono nel tempo, che una molecola della vera fluida im- piega ad attraversare lo spessore del tamburo. Le modificazioni di densità che avvengono in que- sti strati sono simultanei ed uguali, onde risulta che le azioni meccaniche, tra uno strato e l’altro, sono in tutti i punti uguali e contrarie. Se, aspirando o soffiando, si accresce la ve- locità della corrente di aria che attraversa un richiamo, il suono diventa generalmente più acuto. Per chiarire quest’ altro fatto occorrono alcuni dati sperimentali. Per ottenerli fa d’uopo munire di manometri il vaso di latta ( vedasi pag. 3 e 4) come • pure il richiamo saldato al detto vaso, ed osser- vare poi le modificazioni di pressione che avven- gono nel tamburo, se nel vaso di latta la pressione cresce o diminuisce di una determinata quantità. Uno sperimento fatto con un richiamo, in cui * il diametro interno del tamburo era hi millim. il diametro dei fori 5 millim. , e la distanza dei diselli 22 millim., ha dato, in media, i seguenti risultati: PRESSIONE NEL VASO DI LATTA PRESSIONE NEL TAMBURO p — 20 . p — IO p — 50 p — 25 p — 40 p — 50, 5 p — 50 p — 57 p — 00 p — 45 p — 70 p — 40 p — so p — 55 p — f-20 p — I- 5 p -b 40 p- 1- o p 00 p- h IO p- (-so P+H, o p indicando in millimetri l’altezza della colonna di acqua, che misurava la pressione atmosferica osservata durante lo sperimento (1). Altri sperimenti, fatti con richiami di dimen- sioni molto minori, hanno dato, tra limiti più ri- stretti, valori che poco differiscono da quelli so- pra trascritti, e provano che, nel servirsi d’ un richiamo qualùnque, le diminuzioni o gli aumenti di pressione, che avvengono nel tamburo , sono sensibilmente proporzionali ai cambiamenti che hanno luogo nella bocca. Ciò stabilito, consideriamo un’altra volta la molecola di aria A (fig. 2), la quale sotto l’azione delle forze AV, AR ha percorso la curva ABC,. Ac- crescendo la velocità della corrente di aria, cioè rimpiazzando la forza AV con AV', cresce propor- ti) La differenza di pressione die -si osserva nel tamburo, secondo che la corrente di aria è prodotta per aspirazione o per aspirazione, non si osserva se non quando i fori sono esattamente opposti 1' uno all’ altro. Non avendo più luogo questa condizione, e rimanendo i fori uguali, l’ ac- cennala differenza va diminuendo e finisce per sparire interamente. - 8 - zonalmente anche la forza di ripulsione AR, e la diagonale del parallelogramma delle forze V'R' si so- prapone a quella di VR, sicché la molecola A ri- comincia il suo movimento ancora nella direzio- ne SA. Essendo però il suo movimento più rapi- do, l’aria direttamente compressa ha meno tem- po di trasmettere all’ aria più distante la cresciu- ta tensione, e giunge quindi più presto a quel grado di compressione, che basta per vincere la diminuita forza espansiva della vena fluida. La mo- lecola A percorre dunque una curva AB'C' più corta di ABC , quindi le vibrazioni della vena fi u i d a si compiono in tempi più brevi, dunque sono più ra- pide, e perciò debbono dar luogo ad un suono più acuto. IV. I richiami presentano in generale il singolare fenomeno, che i suoni prodotti per aspirazione rie- scono più intensi e più acuti di quelli che si ot- tengono, spingendo 1’ aria con uguale forza nel ri- chiamo. La spiegazione di questo fatto poggia sulla di- versità delle pressioni che si stabiliscono nel tam- buro, secondo che l’aria vi è spinta o n’è aspirata. Egli è evidente che la forza, che determina nel richiamo il passaggio della corrente di aria attraverso ciascun foro, è misurata dalla differenza delle pressioni che esistono da una parte e dal- 1’ altra del foro. Se dunque, collocato un richiamo tra le labra, vi si fa, aspirando, passare una cor- rente di aria, e se nella bocca la pressione èp — 20 ( vedasi pagina 7), quella che. si ha nel richiamo sarà p — 16, e, per conseguenza, la forza che spinge 1’ aria esterna nel tamburo è 16, quella che la fa passare dal tamburo nella bocca è h. — 9 — Che il secondo passaggio ( dal tamburo alla bocca ) riesca più facile, risulta dall’ essere la ve- na fluida già formata ed in movimento; ma che aneli’ esso richieda una certa altra forza, viene in gran parte da ciò, che la più bassa pressione nel tamburo produce nella vena fluida una sensibile dilatazione, a vincere la quale serve per l’appun- to la succennata forza 4. Se invece, spingendo l’aria nel richiamo, la pressione giunge nella bocca a p+20, essa sarà p- e 3 nel tamburo, e le forze che determinano il passaggio dell’aria dalla bocca nel richiamo e da questo all’ infuori sono 17 e 3, dei quali numeri 1’ ultima è la misura della forza espansiva della vena fluida. Ripetendo queste osservazioni per le altre pressioni segnate sulla pagina 9 si trova che, essendo la pressione nella bocca p — 40, la misura della forza espansiva della vena fluida è . . . 9,5 e che per la pressione p + 40 la detta misura è 6 p — 60 » » » » 17 p -h 60 » » » » 10 p — 80 » » » » 25 p H- 80 » » » » 14,5 e da ciò risulta chiaramente, che la vena fluida spinta tende meno a dilatarsi che non la vena fluida aspirata colla stessa forza. Ciò stabilito supponiamo che la molecola di aria A fìg. 4 percorra la curva ABC sotto l’influen- za delle forze AV ed AB , delle quali la prima rap- presenti l’ impulso dato alla vena fluida soffiando, e la seconda la forza espansiva della medesima. Determinando una vena fluida per aspirazione, si ATTr ACC. VOL. X. O - 10 — ha per CV'= AV CR'.y A R e per conseguenza la molecola C, parte per la sua aumentata velocità, e parte per la diversa di- rezione del movimento, produce nel tamburo più forte e più rapida compressione che non avviene per la molecola A. Per questa ragione la reazione succede necessariamente più presto, e così le vi- brazioni riescono ad un tempo più ampie e più rapide, il che, per l’appunto, dà luogo a un suono più intenso e più acuto. YI. Costruendo richiami di diversa grandezza e forma si osserva tosto, che le circostanze che mag- giormente influiscono sulla varietà dei suoni, sulla loro purezza, intensità e facilità di produzione, so- no il diametro del tamburo, la distanza dei dischi eia grandezza dei fori.- Numerose osservazioni mi hanno condotto ai seguenti risultati: 1. Di due richiami, aventi uguali la distanza dei dischi e la grandezza dei fori, quello di mi- nor diametro produce toni più alti. Verificandosi certi rapporti tra la distanza dei dischi, ed il diametro dei fori, e chiamando tono fondamentale di un richiamo V ottava del tono più grave che realmente si ottiene o che tende almeno a prodursi, si osserva , che in due o più richia- mi il numero di vibrazioni dei toni fondamentali ò inversamente proporzionale al diametro del tamburo. Di tre richiami, con i dischi alla distanza di 8 millim., ed il diametro dei fori di 3, 9 millim., il primo, del diametro di 32 millim., aveva per — 11 tono fondamentale fas il secondo, del diametro di 24 rnillim., sensibilmente sh il terzo, del dia- metro di 16 rnillim. faG I toni estremi comprendevano nel primo ri- chiamo 15 intervalli della scala diatomica, nel se condo 11, nel terzo 2. 2. Quando la distanza dei diselli è maggiore 0 minore di quella più confacente alle altre di- mensioni, sono sempre diminuite e la varietà e la purezza dei suoni. Di due richiami, aventi il diametro del tam- buro di 22 rnillim., e quello dei fori di 3, 9 mil- lim., l’uno, con i dischi distanti di 5 rnillim., prò* duceva nettamente e con salti distinti il re6 il rc7 ed il laq ; l’altro con 10 rnillim. d’intervallo tra 1 dischi, non dava che il si5 ed il re6 poco puri e mal sicuri. 3. Avvicinando i dischi i toni tendono in ge- nerale ad inalzarsi. 4. Conservando costanti il diametro del tam- buro e la distanza dei dischi , un ingrandimento dei fori facilita la produzione dei toni gravi, nò impedisce di ottenere toni acuti con più forti cor- renti di aria. 5. Piccole variazioni dello spessore dei dischi hanno poca influenza sulla natura dei suoni. Determinata in siffatto modo Pinlluenza delle singole dimensioni del richiamo sui toni del me- desimo, è naturale di domandare, quale rapporto debbano avere tra loro il diametro del tamburo, quello dei fori e la distanza dei dischi in un ri- chiamo ben costruito? Guardando meno all’ estensione ed all' inten- sità dei suoni che alla loro . delicatezza e purezza, conviene che il diametro del tamburo non oltre- passi 15 a 18 rnillim., che la distanza dei dischi 12 — sia uguale al V4, e la grandezza dei fori al Vs 0 Vo di questo diametro. Se si ricercano suoni alquanto più intensi e più svariati , si può accrescere il diametro del tamburo sino a 20 0 22 millim., fare la distanza dei dischi uguale al V4 di questo diametro, ed il diametro dei fori uguale al y5 . I suoni più svariati e più netti si ottengono con richiami del diametro di 24 a 26 millim. aventi i dischi distanti di Va di questa quantità e la gran- dezza dei fori di V4 0 Vs • Richiami di maggiori dimensioni non differi- scono da quelli descritti, se non che producono suoni meno acuti, e richiedono correnti di aria spinte od aspirate con maggiore forza. Nei richiami meglio costruiti, e nei quali i toni si distinguono 0 per purezza 0 per varietà 0 per intensità, si osserva: 1. Che la successione dei suoni non segue in generale alcuna legge costante. 2. Che, partendo dal sono più grave, i toni più stabili e più sicuri sono 1’ ottava 0 le due successive ottave; 3. Che la terza, la quinta, e qualche volta la sesta e la seconda, si ottengono più ordinariamente nella scala, in cui l’ottava superiore non si produ- ce più; 4. Che riesce presso a poco impossibile di ottenere tutti i toni anche di una sola scala diatonica. 5. Che ad un certo punto un accrescimento di velocità della corrente di aria rende il tono più grave. 6. Che l’ estensione dei suoni non abbrac- cia quasi mai più di due ottave. Giova notare che quanto precede non si ap- plica che ai richiami eli forma cilindrica , e che hanno i fori della stessa grandezza. Se questi non — 13 sono uguali, i suoni si producono soltanto, quando la corrente di aria passa dal foro minore al mag- giore. In quanto ai richiami di forma non cilin- drica, nò il tempo nè i mezzi mi hanno permesso di farne uno studio speciale. VII. Venendo ora al confronto dell’ organo della voce col richiamo , vuoisi esaminare non solo la materiale somiglianza dei due apparecchi, ma pure il modo di produzione dei suoni. Quanto alla conformazione dell’organo della voce, essa presenta maggiore analogia col richia- mo che con un qualunque altro strumento musi- cale. I ventricoli, o cavernette laterali, della la- ringe corrispondono assai bene al tamburo del richiamo, la glottide e l’epiglottide ai fori dei due dischi, e per fino la larghezza delle cavernette (25 a SOmillim.) e la distanza tra la glottide e l’epiglottide (15 a IBmillim.) non si allontanano molto dalle dimensioni che favoriscono maggior- mente nel richiamo la produzione di suoni puri, svariati ed intensi. Vi è però tra l’organo della voce ed il richia- mo l’essenzialissima differenza, che in questo tutte le parti sono immobili e tutte le dimensio- ni costanti, mentre in quello cambia per ogni tono e per ogni intensità tanto l’apertura della glot- tide, quanto quella dell’ epiglottide. Ma ciò, lonta- no dal distruggere la già stabilita analogia tra la laringe ed il richiamo, non fa che mostrare la su- periorità che ha il richiamo naturale su quello ar- tificiale, poiché in esso, colf allargare e col re- stringere le aperture, la cavità che funziona da tamburo e la distanza della glottide dall’ epiglot- tide sono rese ugualmente adatte a qualunque to- no ed intensità , che è come dire, la laringe si trasforma in tanti richiami diversi, quanti sono i toni della voce umana e le rispettive intensità. Tuttavia questa certa corrispondenza, che si scopre tra la conformazione dell’ organo della voce e la costruzione del richiamo, scomparisce quasi interamente , se si esamina la produzione dei suoni nell1 uno e nell'altro apparecchio. L’organo della voce produce con uguale facilità toni gravi intensi e toni acuti deboli, nel richiamo gli uni e gli altri riescono presso a poco impossibili. Con richiami molto più voluminosi della laringe non si ottengono se non suoni che, per intensità, sono ap- pena paragonabili a quelli fortissimi della voce uma- na. Nel cambiar tono, questa passa nei limiti della sua estensione con pressoché uguale facilità a qua- lunque altro tono, mentre ciò non si osserva af- fatto nel richiamo. Suoni puri non si ottengono col richiamo se non quando i fori sono in esatta cor- rispondenza, e ciò per l’appunto non si verifica nell’organo della voce. Questi fatti sono certamente più che sufficienti per provare che la laringe non è semplicemente un richiamo. Ma nemmeno si può ammettere che la voce umana sia prodotta solamente dalle vibra- zioni degli orli della glottide; perchè in questo caso, come osserva benissimo il chiarissimo professore G. Cantoni (1), il suono crescerebbe d' altezza in un modo continuo col crescere la pressione dell ’ aria, come nella sirena , e non potrebbesi far variare la intensità de ’ differenti suoni , lasciando costante l'a- pertura della glottide. Tuttavia, se gli orli della glottide non costitui- scono il solo corpo vibrante che dà luogo alla vo- ti) Elementi di Fisica ad uso dei corsi secondari del Doti. Giovanni Cantoni. Milano, pai»;. 759. 15 ce umana, è però constatato da tutte le osservazioni sinora fatte, che da essi orli principalmente dipen- de il suono e quindi non si può non vedere in essi un organo corrispondente alle corde o alla lin- guetta delle canne d’organo. Come poi un dato tono prodotto dall’organo della voce possa passare per diversi gradi d’ in- tensità, è in qualche modo chiarito dal fatto che, aumentando l’intensità del tono, vibrano, insieme agli orli della glottide, crescenti parti della laringe; e che toni intensi richiedono l’azione di un maggiore volume di aria; da ciò risulta, che il cresciuto la- voro meccanico della corrente di aria produce tanto nella glottide quanto nell’ aria delle caver- nette laterali non più rapide, bensì più ampie vi- brazioni, la qual cosa difficilmente potrebbe aver luogo, se per una simultanea modificazione del- l’apertura dell’epiglottide e quindi anche della tensione dell’ aria nelle cavernette non fosse man- tenuto costante la posizione dei nodi e ventri nella vena diaria che attraversa la laringe. E per conse- guenza la conclusione di questa noterella è che l’ organo della voce è paragonabile ad una lin- guetta o ad una corda, quando i toni passano per varii gradi di acutezza o di gravità, e tiene invece della natura del richiamo, quando un medesimo tono passa per varii gradi d’ intensità. - » * . . wn La scomliiiiazioiie chimica ( dissociazione ) applicata alla iiiterpetrazione di alcuni fenomeni vulcanici ; sintesi e analisi di un nuovo minerale trovato suir Etna e di orinine connine nei vulcani— dal Prof. ORAZIO SILVESTRI, 8 1. Dopo i fatti relativi alla scombinazione chimica introdotti nella scienza da H. S. Claire Deville con i quali è provato che la reciproca affinità dei corpi viene distrutta per mezzo del calore piu o meno ele- vato, tanto da ammettere che ciascun corpo di natura composta ha una temperatura di scombinazione tran- sitoria come ne ha una di fusione e di ebollizione. Dietro le speciali modalità che il fenomeno generale acquista di scombinazione permanente secondo certe particolari condizioni fisiche ed attitudini chimiche del- la materia che trovasi in contatto dei vapori dissocia- ti (esper. di H. Deville e Troost) — Dietro i caratteri dei vapori anormali di alenili corpi composti prodotti sotto la influenza di elevatissima temperatura (esper. di Cannizzaro, Kopp, Pebal, Robinson, Than Wanklyn ec.) ho fatto i seguenti sperimenti. I. Facendo passare del gasse ammoniaco perfetta- mente secco per un tubo di platino rovente ho raccol- to all’ estremità di questo un gasse pochissimo solubile nell’ acqua; non comburente, nè combustibile, senza dare alcuna reazione alcalina e con tutti i caratteri dell’azoto mescolato a piccolissima quantità di idrogeno. 3 ATTI ACC. VOL. X. — 18 Il gasse ammoniaco quindi scombinandosi nei suoi componenti elementari mediante la elevata temperatura, questi per la loro differente densità e per la condizione tìsica del platino incandescente rimangono permanen- temente separati, potendo l’ idrogeno in gran parte pas- sare all’ esterno e filtrare attraverso le pareti del tubo suddetto. IL Ripetendo questa sperienza dopo avere riem- pito il tubo di platino di frammenti grossolani di la- va recente dell’ Etna ho raccolto alla estremità libera del tubo una piccola quantità di gasse combustibile con i caratteri dell’ idrogeno. L’azoto si sarebbe fissa- to sulla lava e la più gran parte dell'idrogeno sareb- be passato all’esterno attraverso le porosità del tubo metallico. Questo fatto è nuovo per la lava mentre si sa che il ferro riscaldato a contatto del gasse ammo- niaco aumenta fino il 6 per % del suo peso. III. Ripetuta la esperienza (II) impiegando inve- ce di un tubo di platino, un tubo di vetro verde dif- ficilmente fusibile o un tubo di porcellana, ho ottenuto invece un’ abbondante sviluppo di un gasse combusti- bile ( avente un leggiero odore piacevole ) composto nel seguente modo dietro 1’ analisi eudiometrica. Idrogeno . . . 90 Azoto . . . . 10 100 (1) (1) Si sa clic facendo passare il gasse Ammoniaco solo attraverso un tubo rovente, si scombina risolvendosi in Idrogeno e Azoto che complessi- vamente occupano un volume doppio del gasse ammoniaco decomposto e questo è un mezzo per determinare la composizione del gas ammoniaco ottenendosi tre volumi di idrogeno per uno di azoto cioè su 100 parti in volume abbiamo Idrogeno — 75 Azoto — 25 (00 — 19 — Si deduce da questo resultato che attesa la man- canza di permeabilità del tubo di vetro, l' idrogeno si raccoglie quasi tutto, mentre parte dell’azoto rimane fissato sulla lava. Le sperienze quindi I. IL III. concordano per dimostrare che il gasse ammoniaco scombinandosi sotto la influenza di elevata temperatura in idrogeno e azoto, questo ultimo in gran parte può fissarsi sulla lava, men- tre l’idrogeno rimane allo stato libero. IV. In un tubo di vetro verde pieno di frantumi di lava dell’Etna e riscaldato, facendovi passare una corrente di gasse acido cloridrico la lava rimane pro- fondamente attaccata con produzione di acqua, prende in gran parte l’ aspetto di una materia gialla compo- sta di varj cloruri metallici tra i quali il più pronto a formarsi è quello ferroso-ferrico ; e la massa gialla messa a contatto dell’ acqua si scioglie lasciando una materia pulverulenta bianca insolubile che è la silice derivante dalla decomposizione dei silicati della lava. Questa d’ altronde è la origine di tutta la immensa quantità di cloruro di ferro che trovasi disseminato sulle lave delle recenti eruzioni dei vulcani nelle spac- cature e gole dei fumajoli e nell’ interno dei crateri, come pure della silice bianca che rende candida la su- perficie delle lave tostochè f acqua le abbia lavate e asportato i cloruri solubili lasciando al nudo la silice insolubile. V. La lava attaccata dall’ acido cloridrico seccata gradatamente al calore, senza decomporne i cloruri di ferro , introdotta in un tubo di porcellana o di vetro verde e riscaldata fortemente a contatto di una cor- rente di gasse ammoniaco secco, dà origine ad una reazione complessa, sviluppasi all' estremità del tubo — 20 — del gasse acido cloridrico, (oltre a dell’ idrogeno e a dei vapori di cloruro ammonico dissimilati ) provenienti dalla decomposizione del cloruro di ferro della lava, il cui ferro rimane parzialmente combinato con V azoto e si produce una sostanza di aspetto metallico. YI. Finalmente ho riunito le due sperienze IV e V in una facendo intervenire le due sostanze acido cloridri- co e ammoniaca sotto forma di sale ammoniaco, cioè fa- cendo agire i vapori dissimilati di sale ammoniaco sul- la lava riscaldata al calore rosso in un tubo di vetro verde. Allora i due gassi dissimilati spiegano la loro azione sulla composizione della lava un dopo f altro; f acido cloridrico attacca il ferro e produce del cloru- ro ferroso-ferrico e il gasse ammoniaco quindi decom- pone il detto cloruro: si produce dell’acido cloridrico che si sviluppa insieme a vapori di cloruro ammonico, si effettua la parziale combinazione dell’azoto col ferro e contemporaneamente alla formazione dell’ azoturo di ferro si sviluppa una notevole quantità di idrogeno li- bero. La lava intanto in conseguenza della combina- zione dell’ azoto col ferro si riveste di uno strato gri- gio di lucentezza metallica. È utile avvertire che il ri- sultato indicato 1’ ho ottenuto con più difficoltà ope- rando come ho detto in questa sperienza VI, di quello che eseguendo le altre due sperienze separate e con- secutive IV e V perchè nel primo caso è più difficile regolare bene la temperatura che deve essere quella necessaria al compimento della scombinazione del clo- ruro ammonico e delle reazioni successive senza che d’ altronde sia troppo elevata e impedisca la formazio- ne dell’azoturo di ferro il quale con una temperatura eccessiva non si forma, e se per caso ha potuto formarsi si decompone perdendo 1 azoto. — 21 § 2. Queste sperienze io faceva fino dal 1870 e comuni- cai in quell’ anno aH’Accademia Gioenia di Scienze Na- turali a Catania (1) e nell’ autunno del 1872 al con- gresso dei Naturalisti italiani tenuto in Siena (2) — Il Prof.Tschermak di Vienna che visitando nel 1872 il mio laboratorio a Catania ebbe occasione di vedere i resul- tati di queste sperienze, ne diede prima di me un cenno nel giornale di Mineralogia che dirige (3). Lo scopo che mi proposi fu di cercare la via per interpetrare la origine di una superficie di apparenza me- tallica e argentina la quale si osserva in molti casi sulle lave vulcaniche di fresca data e che è talmente adesa e immedesimata alla superficie con l’impasto delle mede- sime da non potersi in verun modo distaccare e ren- dere possibile 1’ analisi. Il non aver mai potuto fare ciò mi lasciava ancora qualche dubbio se la sostanza natu- rale in parola malgrado la identica apparenza di quella che formasi artificialmente potesse considerarsi come chi- micamente la stessa, cioè come resultante dalla me- desima combinazione dell’azoto col ferro. Sulla lava della breve eruzione dell’Etna del Set- tembre 1869 il Prof. Sartorius Waltersliausen ebbe la fortuna di incontrare alcuni frammenti tuttora caldi e fumanti che lo sorpresero nel mostrare dei punti argentini, e lucenti sulla loro superficie in generale biancheggiante per silice rimasta libera dopo un’ altera- zione subita dalla lava. Egli si affrettò a trasportare (1) Y. Processi verbali dell’ Accademia Gioenia. (2) Yed. Atti del VI Congresso della Società italiana di Scienze Natu- rali tenuto in Siena — 1872 Milano. (3) Mineralogische Mitteilung — Wien 1872, fase. 1, p. 34. con cura questi frammenti a Catania nel mio labora- torio alla Università per esaminarli e decidere sulla natura della materia che aveva quel bello aspetto: ma nel mostrarmeli si accorse che per la profonda altera- zione sofferta dalla lava per V azione di vapori acidi la sostanza di aspetto metallico era quasi scomparsa ed era resa impossibile qualunque indagine. Un solo frammento che la presentava ancora distinta si tentò di conservare rinchiudendolo in un tubo pieno di idro- geno. Malgrado ciò ritornato il dotto professore in sua patria a Goettingen mi fece sapere che trovò anche questo profondamente alterato e non ne potè trarre alcuna risorsa (1). La recente importantissima eruzione dell’ Etna dell' agosto 1874, la quale come dichiarai in una mia relazione (2) ha presentato sotto molti rapporti un’ in- teresse specialissimo per essersi arrestata improvvisa- mente dopo un esordio dei più imponenti, avendomi permesso di visitare da vicino due giorni dopo della loro formazione i centri eruttivi della fumante lava e di cercare entro le nuove bocche eruttive distribuite in N. 35 in una fenditura del suolo lunga 3 chilometri ebbi la occasione favorevolissima di osservare tra le lave più o meno scoriacee disseminate intorno alle medesime al- cune di esse così splendenti e metalliche da sembrare della ghisa bianca ed oltre a ciò di raccogliere alcuni (1) Faccio lino da ora notare la corrispondenza del fatto, clic men- ile l’Azoturo di ferro si mantiene all'aria e non va soggetto a decomposizione se si prepara nei modi clic ho indicato sulla lavavi rimane inalterato qua- lora questa non abbia subita una troppo profonda decomposizione per Fa- zione dell’ acido cloridrico; ma in caso contrario e quando la lava contie- ne dei cloruri dopo breve tempo non si vede più. (2) 0. Silvestri — Notizie sulla eruzione dell’ Etna del 29 Agosto 1874 — Catania 1874. frammenti di molta importanza per me, nello scopo propostomi di conoscere la natura chimica della men- tovata materia. Infatti vi potei staccare delle scagliette argentine le quali ho potuto analizzare ed ho potuto conoscere che non solo somigliano per i caratteri esterni, ma hanno la stessa composizione della combinazione artificiale di azoto e ferro che si ottiene facilmente fa- cendo agire il gasse ammoniaco secco sul cloruro ferro- sosecco in tubo di porcellana, riscaldalo al rosso scuro— Infatti sono costituite da una materia semifusa grigia, di splendore metallico brillante, magnetica, del peso speci- fico:^,147, che fortemente calcinata si decompone per- dendo dell’ azoto , che col vapor d’ acqua si trasforma in ossido di ferro magnetico e ammoniaca; è attaccata lentamente dagli acidi, anche dall’acido azotico (1) che la trasforma in sale ferrico e in sale ammoniacale. A contatto del solfo in fusione si decompone, si forma del protosolfuro di ferro con sviluppo di azoto. E noto come la composizione dell’ azoturo di ferro non è fin’ ora stabilita con certezza — Fremy gli asse- gna la formula Fes Az„ (Conrp. rend. t. LII, pag. 321) Stahlsclimid quella di Fe4 Az2 ( Paggend. Ann. t. CXXV pag. 37) — Ragstadius quella di Fe6 Azs (Journ. fùr prakt. Chem. t. LXXXVI) — L’ azoturo artificiale è stato in generale analizzato riscaldandolo in una cor- rente di gasse idrogeno e trasformandolo in ferro me- tallico e ammoniaca. Applicando questo metodo all’azo- turo naturale che con difficoltà ho potuto staccare (1) Ho osservato che il prodotto artificiale talvolta secondo qualche spe- ciale condizione inerente alla temperatura alla ([itale si produce, può as- sumere il' carattere di essere difficilmente attaccabile dagli acidi , anche dall’acqua regia. — 24 — dalla lava in quantità sufficiente per il suddetto modo di analisi ho avuto i seguenti resultati centesimali: Ferro . . . 90,859 Azoto . . . 9,141 100,000 da cui si deduce il rapporto atomico tra il ferro e lo azoto di 5 : 2 e così la formula Fe. Azs la quale cor- risponde a quella trovata da Fremy. Mi pare dunque che si possa stabilire questa nuo- va specie di minerale di origine vulcanica la cui com- posizione rappresentata dall’ azoturo eli ferro mentre si conosceva come prodotto artificiale di laboratorio, non è a mia conoscenza che siasi fin’ ora trovato in na- tura. Questa sostanza quantunque di bello aspetto ar- gentino si mostra sempre come materia semifusa e mai assume i caratteri di cristallizzazione: ciò spiega la discrepanza che passa tra i chimici che hanno cercato di stabilire la forinola della sua composizione la qua- le sembra che possa variare nei rapporti atomici tra il ferro e l’azoto dietro influenze speciali nell' atto del- la formazione del composto. Avendo però questo il ca- rattere di nuovità come prodotto naturale riesce impor- tante tanto più se si riflette al suo modo di origine che dobbiamo ammettere come proprio dei vulcani attivi, essendo comunissime in questi le particolari con- dizioni, interpetrate dalle surriferite mie sperienze, le quali fanno travedere una possibile relazione tra que- sto fatto parziale e fenomeni d’ importanza più gene- rale nel laboratorio dei medesimi ; infatti 1. Se si ammette che debbasi a questa sostanza resa di difficile analisi, perchè immedesimata con rim- pasto lavico superficialmente semifuso, l’apparenza me- 25 — tallica che assumere suole la lava: questo fatto è molto frequente e generale nelle lave del Vesuvio e dell’Et- na specialmente in quelle a superficie ispida e ango- losa che si vedono presso i centri eruttivi o nel bel mezzo delle correnti di lava più voluminose dove si osserva sovente il rianimarsi della temperatura ed il ritorno alla pastosità ed incandescenza dopo che hanno cessato di fluire ed hanno subito il primo raffredda- mento. Tali correnti che senza essere più in movimento tornano allo stato incompletamente pastoso prendono delle forme angolose, irte di punte e sporgenze talmente acuminate e delicate e in condizioni tali di equilibrio da non potere ammettere esservi stato un movimento nella lava dopo la loro formazione. Tali lave si distin- guono bene da quelle di altre correnti che hanno con- tinuato il loro cammino dopo il consolidamento e sono formate da blocchi irregolari rotolati, a superficie ap- pena scabra e di aspetto puramente litoide (1). 2. Se si stabilisce che la lava abbia la proprietà di assorbire e ritenere l' azoto con cui venga a contatto in certe condizioni di temperatura, potrebbe questo fatto insieme alla natura delle diffuse e abbondanti emana- zioni gassose che accompagnano le eruzioni presenta- re sotto un nuovo punto di vista la soluzione defini- tiva del problema nella origine, della grande quan- tità di sale ammoniaco che caratterizza i fenomeni se- condari delle eruzioni che comparisce non solo nei fu- maiuoli delle lave che hanno ricoperto il suolo colti- (1) Questa distinzione che io feci conoscere nelle lave dell’Etna ( eru- zione 1865)— Y. 0. Silvestri. Fenomeni vulcanici dell’Etna pag. 119 Cata- tania 4867— sembra corrispondere a quella fatta dal prof. Alberto Heim di Zurigo nelle lave del Vesuvio del 1872 di Schollenlava e Fladenlava — H. Heim— Der Yesuv in aprii 1872— Zeit. der Deut. geol. Gesell. XXV. 1) ATTI ACC. VOL. X. 4 — 26 vabile, ma che io ho osservato formarsi di continuo in alcuni spiragli nell' interno del grande cratere centrale dell’ Etna incessantemente attivi e dove certo la produ- zione di questo sale non è in nessun rapporto con ma- terie organiche sottostanti. (1) 3. Se si stabilisce che la formazione delfazoturo di ferro abbia luogo in generale a contatto delle lave in- o o caulescenti per le reazioni che si possono manifestare tra il ferro (che forma parte della loro composizione) e il gasse acido cloridrico insieme al gasse ammoniaco (che sono i componenti dissimilati del cloruro ammonico, abbondantissimo nelle lave) si ha come conseguenza necessaria una importante sorgente di gasse idrogeno che nel rapporto di 3 volumi è messo in libertà per ogni volume di azoto che entra in combinazione col ferro (2). (1) Riflettasi alle speciali condizioni nelle quali l’azoto che non si combina direttamente all’ idrogeno si può però combinare con questo lentamente al contatto prolungato del vapore d’acqua e formare il nitrito ammonico me- diante la reazione. Azs + 2H,0 = Az,H4Os Come anche si abbia presente la possibilità della combinazione diretta dell’ossido nitrico con 1’ idrogeno nascente per formare Az 0-f-H3— Az Hs 0 ^ 0 H Idrossilamina rappresentata dalla formula tipica Az ^ H cioè ammoniaca in cui 1 atomo di idrogeno è sostituito dall’ idrossilo OH. Questo composto intermedio all’ ammoniaca c all’ acqua sotto I influenza del calore e del gasse acido cloridrico si trasforma facilmente in cloruro ammonico o sale ammoniaco. (2) Nel bollettino della Società Geolog. de Trance 2S Sèrie, t. XXVII p. 635 può leggersi una interessante nota del mio distinto amico I. Dolanone intitolata: « Du rote des corps gazeux dans les phónomènes volcaniques » ove si inette in rilievo 1’ interesse grandissimo clic la scienza odierna deve attribuire al gasse idrogeno nel compimento dei fenomeni vulcanici. — 27 — E in questa via di ricerche che noi potremo impadronirci di dati importanti per la soluzione di problemi relativi a fenomeni vulcanici per i quali re- gna tutt’ ora molta oscurità. IL PER GIACOMO SACCHÈRO Se il progresso economico, per noi Italiani, dipen- de in grandissima parte dal progresso agricolo, ciascu- no, qualunque si fosse il suo grado sociale, dovrà sen- tire il debito di contribuire con i consigli, con l'opera o col patrocinio a far convergere l’attività sociale ver- so le varie inesplorate sorgenti di ricchezza del nostro suolo. Nè, a parer mio, dobbiamo studiarci soltanto di raggiungere codesto scopo per mezzo della cultura in- telligente, del miglioramento dei prodotti vegetali e del perfezionamento delle industrie agricole ; in cui , par- lando con franchezza e rammarico , ponendoci a con- fronto con le nazioni civili, ei troviamo, segnatamente in talune parti della Sicilia, in uno stato piuttosto prea- damitico; ma ci corre pur Y obligo d' introdurre e pro- pagare quelle piante che, trovando propizie nelle no- stre regioni le condizioni telluriche ed atmosferiche, po- trebbero aumentare gli elementi delle nostre industrie e dei nostri commerci. ATTI ACC. VOL. X. 30 — L’ introduzione di una nuova pianta è stata a volte F origine della prosperità d’ un paese. Se il cotone, in- trodotto in America, formò la fortuna di quegli Stati- Uniti; l’introduzione del Ramiè, nell’Italia meridionale, potrà formare la nostra. Il Ramie è una preziosissima pianta tessile , che produce in gran copia una fibra più bella del cotone, più forte del miglior lino, e brillante quanto la seta. Proviene dall' Arcipelago indiano, e precisamente dal- f isola di Già va. E chiamato Ramiè dai Malesi; e va distinto dai bo- tanici col nome di Boehmeria tenacissima , appartenente alla famiglia delle Urticacee, fra le cui specie ritrovasi pure la nostra canapa. Non ignorata dagli studiosi del regno vegetale , questa pianta fu condannata a sopportare per lunghi anni la povera ospitalità di qualche giardino botanico, ove non di rado le piante utili e nuove trovano sepol- tura od oblio. Nel 1845, il professore Decaisne si pose a descrivere questa utilissima urticacea , con quell’ a- more sapiente che porta nelle monografie dei vegeta- bili, e ne predisse i maravigliosi destini; ma la voce di queU’eminente naturalista passò inosservata nel mon- do degli speculatori. Fu solamente nella esposizione mondiale di Londra del 1851, che il Ramiè fece la pri- ma solenne apparizione in Europa; e sotto gli auspici di quel nuovo e grandioso torneo industriale trovò ri- nomanza ed ammiratori. Da quel giorno in poi il Ramiè cominciò a diven- tare una pianta in voga; e venne introdotto e larga- mente diffuso nell’ isola di Cuba, e in varie contrade degli Stati-Uniti d’ America; e quivi furono apposita- mente costrutte varie macchine decorticatrici , per e- — 31 strame e preparare la fibra in modo spedito ed eco- nomico. Dopo i felici risultati ottenuti nel nuovo mon- do, si cercò di sollecitare in suo favore la predilezione dei coltivatori europei. Ed uomini illustri, fra cui me- rita uno speciale tributo di lode V egregio professore Ohlsen di Roma per averne promosso in quest’ anno alcuni esperimenti nell' Italia centrale, se ne fecero a- postoli e propagatori; magnificandolo con 1’ eloquenza dei fatti, e con la logica del tornaconto. Così prese un posto importante nelle culture della Francia meridio- nale e dell’ Algeria; e le sue fibre apprestarono nuo- vi elementi alla fabbricazione di varie leggiadre stoffe destinate a vestimenti femminili; le quali sono riguar- date comunemente, in giornata, come conteste di seta vegetale della China; mentre non sono altro che il pro- dotto degli splendidi fili di questa pregevolissima pian- ta della Malesia. Originario delle isole dell' Arcipelago indiano, il Ramie prende naturalmente una vegetazione rigoglio- sa nelle temperature elevate ; ma esso alligna pur bene nelle latitudini temperate. Però, più sarà caldo il cli- ma, e più esso vi prospererà ; e per codesto motivo le regioni dell’ Italia meridionale, e in particolar modo quelle della Sicilia, potranno elevare al massimo gra- do la sua possanza vitale. E dotato di tale vigore e rusticità, che resiste senza alcun detrimento alle lunghe siccità e alle piogge dirotte ; resiste pure ai geli inver- nali, purché non sieno nè eccessivi, nè di lunga durata, ove difeso da ripari vegetali ; ed è immune da qual si fosse alterazione morbosa, e da parasiti. Tranne nei siti paludosi , atteso cbe le sue radici non tarderebbero in essi a marcire, il Ramie cresce vi- goroso in qualunque terreno mediocre ; purché non sia — 32 — assolutamente arido, o possa darglisi almeno qualche rara irrigazione in estate. Non per tanto, si è veduto che esso abbia fatto buona prova, in Francia, nelle sab- bie del dipartimento della Manica, e in taluni suoli gros- solani e poco profondi di quello delle Bocche del Ro- dano. Coltivato in una terra sabbiosa o vulcanica, na- turalmente fresca, raggiungerà il massimo sviluppo ve- getale. Si accomoda di tutti gl' ingrassi; ma i più efficaci, per il suo incremento, sarebbero il letame , le materie fecali e gl' ingrassi vegetali, compresivi i propri avanzi, (tf ingrassi liquidi producono sopra di esso un effetto sor- prendente. Ben diverso dalle piante tessili che noi possedia- mo , il Bornie non è pianta annua , ma perenne ; per cui esso, una volta collocato a dimora, rinnova le sue pompe vegetali per una diecina d’ anni. Ciascuna di codeste piante dà inoltre da tre a cinque fusti; i quali, recisi, si riproducono in modo da potere offrire due o tre tagli per ogni anno. Ed i suoi steli, secondo sarà meglio dimostrato , presentano V inestimabile vantag- gio di non avere bisogno di macerazione per estrarne la fibra, come è indispensabile per il lino o la cana- pa : la quale prerogativa rende più sollecita ed eco- nomica T estrazione della sostanza tessile , e non al- tera punto le condizioni igieniche, come sono periodica- mente alterate nei luoghi infestati dalle macerazioni: ca- lamità perpetua di tante nostre campagne. Il Barrili si propaga da semi, o talee ; ma la ri- produzione per semi , attesa la loro microscopica te- nuità, riesce molto malagevole e problematica; per cui si è adottato il sistema di moltiplicarlo per frazioni. — 33 Le piantagioni di esso possono tarsi a piacere tanto in autunno, che in primavera. Essendo una pianta perenne, che dovrà per con- seguenza occupare per molti anni il medesimo posto, è mestieri che si ponga una cura diligente nella pre- parazione del suolo. Pria dell1 inverno, bisognerà dun- que lavorare il terreno ad una profondità almeno di 30 centimetri ; e smuoverlo poscia con una seconda aratura in traverso ; senza trascurare di sottoporlo all' azione dell1 erpice e del cilindro : le quali operazioni, trattan- dosi di culture limitate, potrebbero eseguirsi benissimo con istrumenti a mano. Preparato il terreno in tal modo, vi si tracceranno delle linee distanti un metro Y una dall’ altra; e si por- ranno i piantoni in questi solchi alla distanza di 80 centimetri fra loro ; badando di ricuoprire di terra le barbatelle piantate, con la precauzione di lasciar fuori del suolo una piccola parte della loro estremità supe- riore, e di innaffiarle leggermente nello stesso giorno. La cultura di questa impareggiabile pianta tessile è facilissima e poco dispendiosa. Una volta fatta la pian- tagione, che si dovrà tener netta dalle cattive erbe, non occorrerà altro che darle una zappatura superficiale in ogni mese di marzo ; oltre di un lavoretto leggero do- po ogni taglio, come accennerò meglio più avanti. PI per eccezione, quando il terreno sarà soverchia- mente arido, si potrà alimentare la vegetazione di es- sa, nei mesi estivi, con qualche irrigazione. Ove in buone condizioni, il Earnìe può offrire be- nissimo tre raccolte all’ anno; come le dà regolarmente nelle varie provincie dell1 Algeria; e come le darà per certo in Sicilia, ove gli agenti naturali della vegeta- zione presentano molta conformità con quelli dell’ A- — 34 — frica settentrionale. Il primo taglio ha luogo quando le piante avranno raggiunto F altezza di un metro cir- ca; ma la fibra della prima produzione, durante Fan- no in cui ebbe luogo la piantagione, è di qualità infe- riore. Pel secondo taglio si aspetterà che i nuovi pol- loni sieno cresciuti d’ un metro e venticinque centi- metri; e si praticherà il raccolto, proprio quando F e- stremità inferiore degli steli o fusticelli diviene bruna. E si procederà nell’ uguale maniera per il terzo. Ogni taglio si esegue al di sopra delle biforca- zioni delle radici, o per dir meglio tra la base dei fu- sticelli e il pedale. Qualunque strumento, purché ben tagliente, è con- venevole a tale operazione. Dopo ogni taglio, si dovrà dare al suolo un lavo- retto accurato ; badando di non offendere con gli stru- menti i talloni rimasti delle piante recise. Le ripetute osservazioni hanno reso manifesto, che somministrando dopo la recisione dei fusti, a codeste piante, un innaf- fiamento semplice, o meglio ancora d’ ingrassi liquidi, prima della zappatura, esse produrranno sollecitamente nuovi polloni, in maggior quantità, e di ben altro vi- gore degli ordinarli. E da osservarsi che la sostanza tessile trovasi per- fettamente sviluppata nel Ramie fin dal principio del suo crescere; laddove che la medesima non prende il suo normale sviluppo, nella canapa, che a vegetazione completa. Questa fibra si distacca così facilmente dagli steli ancor verdi, che da principio una tale operazione era trattata dai fanciulli. Ma oramai, atteso clic nelle gran- di imprese sarebbe lento e di non lieve dispendio il pro- cedere in tal modo al distaccamento della materia fi- — 35 — brosa, sono state introdotte alcune macchine deeorti- catrici per estrarre e preparare in modo spedito ed e- conomico il tiglio di questa utilissima urticacea. Le prime di cotali macchine, e ve ne sono di dif- ferenti specie, furono costrutte appositamente in Ame- rica; ove la cultura del Zìa mie occupò, pria che nella nostra Europa, vastissimi campi; ed ove le fibre di esso alimentano considerevoli manifatture. Adesso le mac- chine decorticataci sono riguardate dappertutto come un elemento indispensabile di siffatta industria ; e ab- bondano pure nella Francia meridionale, la quale, da parecchi anni, dà aneli’ essa un’ estensione sempre più ragguardevole alla coltivazione di questo prodigioso vegetabile. Qualunque si fosse il sistema d' estrazione , biso- gnerà tener presente che i fusticelli , tagliati al mat- tino, dovranno essere spogliati ben presto della loro fibra. Dopo tutto ciò, stimo eziandio indispensabile di mostrare f utilità lucrativa di codesta pianta, desumen- dola dal tornaconto che offre per la copia e V impor- tanza dei suoi prodotti. La cultura del Rarniè , tenendo ragione delle sue esigenze, dei pochi capitali abbisognevoli per intrapren- derla, e della rapidità con cui ci largisce i suoi doni, poiché ogni piantagione comincia a dare regolarmente i suoi tagli dal primo anno in cui fu fatta, è la cul- tura più rimuneratrice fra quante se ne possano tentare da noi. E per mostrare la verità di questa asserzione, non mi studierò certo a mettere insieme calcoli appros- simativi o d’ induzione; ma mi gioverò di tutti quei dati che o-f intelligenti coltivatori francesi hanno reso di publica ragione. Piantando il Ramie , come si pratica in Francia , 36 in linee distanti un metro 1' una dall’ altra, e collocan- do i piantoni nelle linee alla distanza di ottanta cen- timetri, si avranno 12,500 piante per ogni ettare; le quali renderanno da 40,000 fusti , per ciascun taglio. Spogliandoli poscia delle foglie, si otterranno da essi 20,000 chilogrammi di fusti verdi ; clic, subita la de- corticazione, produrranno alla lor volta 800 chilogram- mi di fibra secca. Posto dunque che si facciano due soli tagli all' anno , e che si ricavino da ogni taglio 800 chilogrammi di sostanza tessile, si avrebbero an- nualmente 1,600 chilogrammi di fibra grezza per ettare. Ora questa fibra , nello stato in cui è preparata dalle macchine decorticatrici, si vende al prezzo di una lira e quattro centesimi al chilogrammo; quindi i 1,600 chilogrammi, clic si ricavano tutti gli anni da ogni ettare, offriranno un guadagno di oltre L. 1,600. E sottraendo pure da questa somma, come è ben giusto, le spese abbisognevoli per i lavori preparatori, per quelli annuali, e per l’estrazione della fibra, come an- che il valor della terra, che non oltrepasseranno mai le lire 600, si potrà contare sopra un beneficio netto di un migliaio di lire all: anno per ettare. Bisognerà aggiungere ancora a questi vantaggi , che si raccolgono da due a tre mila chilogrammi di foglie secche molto fibrose , ed eminentemente eonve- nevoli per la fabbricazione della carta ; tutte le volte- che non si preferisse darle da mangiare agli animali , costituendo esse un eccellente foraggio; senza dimenti- care die tutti i residui vegetali, provenienti dalla la- vorazione del Ramiè, sparsi sul suolo, seconderebbero pro- digiosamente la sua vegetazione. Ed il lucro che pre- senterà questo prodotto secondario, addizionato per varii anni, potrebbe indennizzarci a dismisura del costo delle « barbatelle che abbisognano nell’ impianto dell’impresa. Per tenermi nei limiti della moderazione, ho scelto il più modesto dei risultati, che ottengono comunemente i varii coltivatori della Francia meridionale. Ma nella Algeria il prodotto del R arnie si renderà maggiormen- te proficuo ; poiché quivi si ottengono tre tagli all’anno, e da ciascuno di essi si ricava una maggior quantità di fusti: cosi che, calcolando l’ aumento dei tagli e dei fusti, si può riguardare il beneficio come quasi il dop- pio di quello indicato. Nè sarebbe esagerazione il lusin- garsi che questo beneficio potrebbe essere ottenuto an- che da noi : stante che in tutta Europa non liavvi re- gione che possa, meglio della Sicilia, coronare di felici risultati i primi esperimenti di questa ricca cultura. Entrato da parecchi anni nelle aziende rurali e nelle industrie europee, il Ramie non è stato mai co- stretto a correre il mondo per mendicare i favori di qualche disdegnoso compratore. Concordi nel riconosce- re la superiorità della fibra di esso, fatta eccezion della seta, sopra quella delle altre piante tessili conosciute, per la lunghezza, spessezza ed elasticità, i manifattu- rieri la ricercano col massimo impegno, e fanno a ga- ra per acquistarla; e il prezzo che si ritrova giornal- mente in commercio dovrà ben volgersi in meglio , per la ragione che importanti stabilimenti, esistenti di già nell’ Inghilterra, nella Francia, nella Germania e nel Belgio, assicurano per avventura a questa indu- stria, con le loro ricerche sempre crescenti, un consu- mo sicuro e considerevole. Dunque, dietro tutto ciò che ho avuto 1’ onore di rapportare, il Ramie è la, pianta tessile più preziosa che si conosca; è la pianta che prospera in tutti i ter- reni ; è la pianta rustica per eccellenza, che non cor- ATTI ACC. VOL. X. 6 — 38 — re rischio di sorta ; è la pianta la più rimuneratrice , poiché il prodotto d’un solo dei suoi tagli uguaglia almeno in valore, se non lo supera, quello d’ una rac- colta di lino o di canapa; è la pianta che dischiuderà una nuova fonte di ricchezza nei paesi che si trove- ranno in grado di ammetterla nelle loro coltivazioni; è la pianta che potrà fare la fortuna della Sicilia. Sollecitato dal desiderio di rendere possibile nel nostro paese 1’ introduzione del Ecimiè , io mi sono occupato della propagazione di esso ; e in modo ta- le da poterne offrire varie migliaia nel prossimo au- tunno a coloro che inclinerebbero fortunatamente a ten- tarla. Non mi è dato certo indovinare quali accoglien- ze saran per meritare i miei sfòrzi; ma questo dubbio non farà venir meno giammai in me la perseveranza dell’ opera. E siccome fu da questo estremo lembo d’ Ita- lia — ove io propagai per il primo e in grandi pro- porzioni f Eucalyptus globulus , — die ebbi il lusin- ghiero vanto di rendere popolare in tutte le regioni meridionali della nostra Penisola quell’albero impareg- giabile dell’ Australia; così nutro speranza che, con lo affetto paziente e col tempo, mi sarà accordata pure la sorte di diffondere da noi la coltura di questa pre- gevolissima pianta tessile dell’ Arcipelago indiano. PREPARATE PER LA PRONTA APPLIGAZIONE DEL pOTTOR pAOLO pERRETTA pIUFERIDA Professore privalo (li Patologia Speciale Chirurgica, Assistente alla cattedra di Clinica Chirurgica di questa R. Università; Socio ordinario dell’ Accademia Gioenia, e membro del Comitato della stessa; Presidente onorario dell’Istituto Oftalmologiro Europeo ( Smirne Asia!; Socio fondatore con medaglie d’oro dell’Accademia Universale di Scienze Lettere ed Arti di Parigi; Membro corrispondente de la Società d’Émulation du département des Volges (Epina) dell’Accademia Senkerbergiana dei curiosi della natura di Frankfort sul Aleno, della società medico-chirurgica di Bologna, di quella dei Fisiocritici di Siena e della Agraria di Pesaro, Membro del 4° Congresso dei naturalisti italiani, componente onorario della commissione vaccinica provinciale, corrispondente della reai Peloritana di Messina, di quella dei zelanti di Aci-Beale di Palnzzolo Acreide, e del gabinetto scientifico e letterario di Siracusa, ece. Letta nella seduta ordinaria del di 1° Agosto 1875, - — Signori, Fin da quando cominciava ad apprendere chirur- gia nella clinica catanese, posi mente ai molteplici e svariati mezzi messi in uso dall’ antica e moderna chirurgia per mantenere in sito le ossa fratturate delle membra, e fin d’ allora pensava fra me, come nessuno di essi poteva mettersi in opera prontamente e facil- mente in certi luoghi, ed in talune circostanze, ove man- ca al chirurgo tutto V occorrente per la costruzione e composizione di essi; e quindi in tali condizioni resta- re inefficace l’arte chirurgica, e patire maggiori soffe- renze il fratturato. Da un altro lato , considerava come tale ineffi- cacia dell’arte chirurgica, oltre le sofferenze , che ar- reca al paziente nelle condizioni succennate, è cagione di ulteriori mali prodotti dal trasporto del fratturato dal luogo dell’ avvenimento in casa, o all’ ospedale, o ATTI ACC. VOL. X. 6 — 40 dalla campagna in città, e, se militare, dalla sfera del- la mischia all’ ambulanza; poiché comunque tale tra- sporto venga eseguito con ogni diligente cura, e coi mezzi più acconci, adagiando l’arto fratturato nella po- sizione più confacente al caso; pure la più leggiera scos- sa ed il menomo urto non possono che aumentare le sofferenze generate dal continuo spostamento dei fram- menti ossei, i quali non ridotti nè mantenuti in sito, alla loro volta compromettono sempre il buon esito delle fratture. Siffatte idee mi portavano sin da quell’ epoca a stu- diare i vari cementi usati per la costruzione degli ap- parecchi amovo-inamovibili, il tempo che la sudetta co- struzione esige, la loro maggiore o minore semplicità, quale di essi riesce più o meno fàcile a trasportarsi, e quale infine risponde alla pronta essiccazione, alla mag- giore solidità e leggerezza ed in pari tempo alla eco- nomia. E dietro tali meditazioni ed esatte analisi riu- sciva, a mio credere, a trovare il modo come poterne ren- dere pronta e facile 1’ applicazione nelle condizioni e nei luoghi anzidetti; e così rendere viemmaggiormente efficace l’ arte chirurgica, potendo bene con questo mez- zo il pratico eseguire le due prime indicazioni, cioè: ri- durre la frattura e mantenerla ridotta. Ed in vero nel cennare di volo le anzidette modi- fiche apportate al metodo fondamentale dell’ illustre Seutin, è ben giusto che io m’intrattenga su quest’ ul- timo, il quale ha servito fin’ oggi di base, ed ha destato tanto interesse fra i chirurgi, in guisa che la denomi- nazione di amovo-inamovibili è oggi, a così dire , im- medesimata con il nome del distinto chirurgo dell’ ar- mata belga. Il Seutin, facendo assegnamento del metodo usato — 41 — dal Barone Larray, il quale servivasi dell’ albume del- T uovo come mezzo solidificante, sostituiva invece l’ a- mido, e senza rinunziare alla amovo-inamovibilità per i danni prodotti , senza apparente colpa del chirurgo, immaginava il suo apparecchio avente ad un tempo le due proprietà, cioè : dell’ essere amovibile , e della solida permanenza. Non è qui il luogo, o signori, di descrivere per in- tiero il suindicato metodo, poiché ognun di voi lo co- nosce abbastanza , solo credo pregio della presente nota richiamare alla vostra mente il modo di adoperar- si, e le posteriori modifiche apportate, per maggiormente rilevare i vantaggi, che offrono le nuove fasce da me preparate, oggetto della presente scritta. Si sa, come il chirurgo in capo dell’ armata belga, fatta la riduzione dei frammenti applica sull’ arto già ridotto, il nostro compressimetro, che fissa con fascia- tura semplice espulsiva; indi con altra fascia copre esat- tamente la prima, che egli imbeve di colla d’amido, massime alla parte sua anteriore e superiore, modellan- do sull’ arto stesso alcune ferule di cartone ammollito nell’ acqua, che copre con la medesima sostanza agglu- tinante, tenendole in sito con altri giri di fascia a larghi tratti, che intonaca sull’arto. Le cose essendo così disposte potrebbero succede- re ancora facili gli slogamenti, e perciò, finché l’apparec- chio non è essiccato, vi si applicano delle ferule ai lati dell’ arto, così dette di precauzione, il cui ufficio di soli- dità è compiuto dalle trenta alle quarant’ ore. Tale apparecchio, come si sa, può bene applicarsi in quattro differenti modi, cioè; l.° mediante fascie roto- late, 2.° processo Sculteto, 3.° apparecchio bivalve, 4.° ap- parecchio finestrato, o a cataplasma. — 42 — In qualunque dei quattro modi sopradetti V autore lo rende amovibile. Che allora con robusta forbice quasi a becco di gru, e con la branca inferiore più sottile e bottonuta, il sullodato chirurgo taglia da cima a fondo il guscio in- durito lungo la sua faccia antero-superiore, ove restò più denso lo strato di amido, e cosi vengono formate due valvule, le quali permettono con il loro allontana- mento l’ispezione, e con il loro accavallarsi, e con la loro separazione i diversi e necessari gradi di strettu- ra, da mantenersi con altri giri di fascia amidata. Il modo di adoperare tale apparecchio non ha, nè può subire modificazione di sorta; le modifiche poste- riormente fatte non riguardano il modo, ma solamente la sostanza da impiegarsi. Difatti il Velpeau sostitui- va all’ amido la destrina, mescolando cento parti di questa sostanza, con quaranta parti d’ acqua, e sessanta di alcool canforato. Lougier sostituiva alle fasce ordi- narie di cotone, o di lino, la carta (papier goudronnè), Dieffenbek ripristinò il gesso di presa usato dalla pri- sca chirurgia araba per la costruzione degli apparec- chi inamovibili. Oggi l’uso di tale sostanza gode giusta- mente il favore universale, e segnatamente dai chirurgi alemanni, dietro le importanti modifiche, referibili al modo di costruire i detti apparecchi, fatte dai Sigg. Mat- hijsen e Van-De Loo, i quali li resero amovibili ed ap- plicabili nei quattro modi simili a quelli cementati con la colla d’ amido del Sentili. I signori Teodoro Billroth e Reis hanno anch’essi oggi perfezionato il modo di applicare gli apparecchi gessati, facendoli rispondere bene a tutti i bisogni, in guisa che appena sembra possibile possano venir mo- dificati. Essi usano finissima tela, quasi simile al velo, — 43 — la quale viene preparata strofinando su d’ ambo i lati della stessa già dispiegata il gesso da presa sottilmente polverizzato. Dopo di che, arrotolata s’ immerge in una pentola d’ acqua fredda, finché quell’ acqua ne resta tutta impregnata, ed allora togliendola si applica a gui- sa di ogni altra fascia chiudendola poscia sino alla completa consolidazione in una scatola di latta ben ser- rata, la quale dopo una mezz’ ora si può bene remo- vere trovandosi la fascia pietrificata. Al gesso veniva sostituito da taluni chirurgi della Francia il così detto cemento di Parigi, sciolto antecedentemente in una pentola d’ acqua calda, il quale per la pronta essicca- zione, come ancora per la leggerezza e solidità non lascia nulla a desiderare, sebbene da taluni è stato spe- rimentato poco efficace in quei casi di frattura obbli- qua o comminuta in cui havvi maggiore decompo- sizione dell’arto. Infine all’amido, alla destrina, al ges- so, ed al cemento di Parigi, i Dottori Schut, Espagne, non che Munik Michel ed altri hanno sostituito il si- licato di soda o di potassa, come mezzo solidificante per costruire i ripetuti apparecchi amovo-inamovibili. I vantaggi di tale sostanza sono stati oramai spe- rimentati dai più distinti pratici, sì per la leggerezza come per il grado di solidità che il silicato di soda o di potassa acquista con f essiccazione, la quale ha di bisogno di maggiore tempo di quanto gli altri cementi, e fa d’ uopo che sia ventilato 1’ apparecchio per acce- lerarne il prosciugamento. Sessantotto grammi di questa sostanza è sufficiente per costruire l’ apparecchio. Tralascio di parlare dell’uso della guttaperga, già abbandonata per l’ostacolo che arreca alla anematosi cutanea , come ancora di altre sostanze , le quali non meritano particolare menzione. — 44 PARTE L Passate brevemente in disamina le sopracennate modifiche apportate al metodo del Seutin in nessuna di esse io trovava il modo pronto e facile dell’ appli- cazione nelle condizioni e nei luoghi sopra enunciati, come in campagna, e nei campi di battaglia; poiché ciascuna di quelle modifiche consiste solo nella varietà del cemento, quale varietà esige sempre nell’ applica- zione implicitamente multiplicità di elementi, che non possono al certo prontamente aversi, vuoi perchè man- cano assolutamente nel luogo, vuoi perchè il loro vo- lume li rende poco facili a trasportarsi ; come altresì per il tempo più o meno lungo che la loro appli- cazione esige. E di vero, l’applicazione dell’ apparecchio Seutin richiede, oltre 1’ uso indispensabile delle fasce e della acqua, 1’ amido, il fuoco, e la pentola, ove cuocersi il miscuglio solidificante, non che il tempo che esige la cozione, la quale abbisogna un giusto grado di calore sinché giunga al punto più opportuno di usarsi. Così è ancora per la destrina. La costruzione degli apparecchi mercè il cemento di Parigi esige anclfessa, oltre il numero degli oggetti, 1’ uso indispensabile del fuoco, perchè il detto cemento si scioglie nell’ acqua calda. Gli apparecchi cementati con il silicato di soda o di potassa, sebbene offrano maggiore semplicità, per- chè non richiedono l’ uso del fuoco, pure è indispen- sabile oltre le fasce il trasporto della sostanza in pa- rola in ben turati recipienti; quale sostanza, come dice il Mitscherlinsh, è molto costosa e poco solubile nel- 45 — • 1’ acqua. Finalmente al pari di quest’ ultimi, circa, a semplicità, sono quelli cementati con il gesso da presa, esigendo la loro applicazione multiplicità di oggetti, cioè: fasce, gesso, recipiente ed acqua; ma ciò che più rende poco fàcile 1’ uso di questa sostanza, si è quel che dice Piragoff, cioè: « il sapere proporzionare il ges- so anidro con V acqua, e regolarne la quantità, doven- done preparare solo, quel tanto che basti per potersi consumare in cinque minuti : ciò che riesce poco fa- cile nei momenti di urgenza e di confusione. Ed ecco come tutte le modifiche suenumerate seb- bene talune di esse molto semplici, pure non giungo- no a quel grado di semplicità capace a rendere fàcile e pronta la loro applicazione, perchè in nessuna di esse si ritrova unità di mezzi, al quale scopo io sempre mi- rava, e ad ottenere il quale serviva di base alla mia nuova modifica il modo con cui Billroth usa applicare i suoi apparecchi gessati, cioè lo spolverare il gesso nelle due superficie della fascia dispiegata, lo arrotolar- la, ed indi bagnata applicarla. Tale modo suscitava in me V idea di escogitare il mezzo come unire a permanenza alla fàscia la sostanza sudetta, o a dir meglio, immedesimare il gesso da presa alla fàscia in guisa da non spostarsi in piccole masse, o in minutissima polvere ; e così unificare tutto l’occor- rente inserviente aH’amovo-inamovibilità degli apparec- chi in un solo oggetto, il quale per la sua semplicità, per il suo poco volume e peso , sia fàcile a tra- sportarsi, e pronto per ciò stesso nella sua applicazio- ne, la quale altro non esige che sola poca acqua, e nel tempo istesso si abbia a preferenza dei vantaggi sopra le enumerate modifiche, rispondendo con più risultati nella cura di tali traumi delle ossa lunghe. — 46 — Così riusciva allo scopo prefìssomi accoppiando il gesso da presa, o solfato di calce anidro, detto dai mi- nerologi selenite, generalmente usato, ad una sostanza gommosa, e segnatamente alla gomma arabica, detta co- sì in commercio. Quest’ ultima sostanza tirata dalle va- rie acacie e dalla mimosa nilotica dell’ Egitto, non che da quelle del Senegai, e dalla mimosa dello stesso no- me, costituisce il nuovo cemento unificante, mercè il quale vengono preparate le fascie in parola, trovando in esso tutte le condizioni favorevoli allo enunciato scopo. La gomma arabica più che ogni altra sostanza ri- sponde benissimo all’obbietto in discorso per le pro- prietà di cui gode, cioè: l.° Per la sua tenacità simile alla colla, la quale serve a fissare il gesso alle fasce in modo da non farlo spostare in finissima polvere e quin- di lo unifica permanentemente alle stesse: 2. Perchè dessa è una sostanza solubilissima nell’acqua, e si è per questa proprietà che le fascie preparate in tal mo- do, basta solamente bagnarle per applicarsi, e poscia applicate essiccando in poco tempo si solidificano, per- chè bagnate una seconda volta possono ritogliersi, ed indi riapplicarsi, ed essiccate conservano la stessa solidi- tà: 3.° Perchè l’anzidetta gomma è pronta ad essicca- re, proprietà presso a poco simile al gesso: 4.° Final- mente perchè con V essiccazione la gomma acquista una durezza, ovvero una solidità, tale da uguagliare quella del gesso, ed è questa proprietà di cui gode la gomma sudetta che raddoppiando la virtù solidificante di quest’ultimo rende superfluo l’uso delle stecche di cartone inumidite, in guisa da potersi completamente sopprimere, e quindi maggiore semplicità si ottiene nel costruire gli apparecchi amovo-inamovibili , mercè — 47 — la modifica in esame, la quale costituisce un cemento solidissimo e risponde bene a tutti i bisogni, che il ca- so esige nei luoghi e nelle circostanze anzidette, e per- ciò stesso allo scopo da me prefisso. Quali combinazioni chimiche avvengono fra le due sostanze a me non in- combe ricercarle, lascio ai chimici studiarle nella loro intrinsichezza obbiettiva (1). PARTE IL Le fasce che formano l'oggetto della presente scrit- ta vengono da me preparate nel modo che segue: Si scioglie in due litri di acqua comune mezzo chilogrammo di gomma arabica di ottima qualità, e se- gnatamente è da preferirsi, per quanto io ho potuto constatare, quella ritirata dalla mimosa nilotica e dalla mimosa Senegai, perchè più tenace e più solubile delle altre. Sciolta completamente la gomma si versa in que- sta soluzione il gesso da presa sottilmente polverizzato, in tanta quantità quanto il miscuglio acquista la con- sistenza semisolida, avendo cura di agitare il sudetto (I) Veci. Regnault. Gours Elèmentaire de Chimic; Tome quatrième, Troi- sième èdition 1851 apag. 98, dice « La potasse caustique coagidc une dis- solution concentrèe de gomme arabique; si cotte dissolution est étendue, il ne se forme pas de precipitò, mais en ajoutant ensuite de l’alcool, il se dépose une combinaison de gomme avec la potasse. Dii sous-acètate de plomb versò dansc une dissolution de gomme arabique, donne un prèci- pité blanc, qui a poni- formulo P60, C13, H(I) * * * * * * * * 10, 010. La gomme arabique se romperle clone dans ces circostances cornine un acide. Pelouzc et Fremy-Traité de Chimie Gcnèrale, Tome quatrième, deludè- nte èdition 1855 à pag. 626 dice « Les combinàisons d’ arabine avec les alcalis et les oxydes alcalino-terreux soni solubles dans l’èau et precipi- tables par l’alcool. 1 .sudetti autori li chiamano arabinati considerando nella arabina le fun- zioni di un acido. ATTI ACC. VOL. X. 7 48 — miscuglio durante il versamento del gesso, e dopo si- no alla completa mistione. Tostocliè il tutto è ben mescolato vi s’ immerge trenta metri di fascia a larghe maglie e di media spessezza, sia essa di cotone, o di lino, e della larghezza da cinque a sei centimetri, antecedentemente ben la- vata per nettarla da qualche sostanza che i fabbrica- tori sogliono adoperare per imbianchire questi tessuti, la quale ne può al certo ostacolare l’ assorbimento. La detta fascia si tiene in questo bagno per ventiquattro ore , elasse le quali si estrae e si fa bene asciuttare; indi bene asciutta s’ immerge una seconda volta nel miscuglio rimasto, ove si fa dimorare altre sei ore. Po- scia nel ritirarsi la fascia si fa passare per uno dei capi attraverso due superficie levigate di legno o di ferro, la cui lunghezza risponde bene alla larghezza della fascia sudetta, le quali devono leggermente comprimere la spes- sezza di essa, acciocché lievemente tirata servano a spal- mare ugualmente sulla stessa lo strato solidificante (1). Praticato ciò si fa bene asciuttare, e tostochè asciutta si fa meglio appianare dal cilindro, il quale non solo serve a ben levigarla, ma benanco ne dimi- nuisce la spessezza da renderla presso a poco uguale alla fascia semplice ordinaria, e così rotolata offre mi- nore volume. Per ciò praticare io mi sono servito di un piccolo cilindro di legno da me ideato; ma coloro che ne volessero confezionare una grande quantità, po- (i) Si possono anche preparare le sudette fasce bagnandole solamente nella soluzione gommosa un pò concentrata, ed indi dispiegate si spolvera nelle due superficie delle stesse il gesso polverizzato mercè un cribo e poscia immediatamente si cilindrano; così preparate, la essiccazione è assai più pronta- — 49 - trebbero per maggior perfezione servirsi di un cilindro di ferro (1). MODO DI APPLICARLE L’ applicazione delle anzi descritte fasce è assai fa- cile in qualunque modo vuoisi costruire Y apparecchio, o nel modo di Sculteto, o a cataplasma, o bivalve. Esse sono rotolate come le fasce semplici, ed ogni rotolo si ha la lunghezza di tre metri e pochi centimetri, e la larghezza di cinque a sei centimetri. Dietro essere stati ridotti i frammenti dell' osso fratturato, e fissato il compressi metro mercè la fasciatura semplice espul- siva, e riempiti i vuoti mercè 1' ovatta, come pratica il Seutin, non che le compresse graduate ove il biso- gno F esiga, si bagna in poca quantità d’acqua metà del rotoletto che si tiene per pochi minuti sinché la acqua penetri negli intervalli dei giri per così inzup- parsi bene la fascia, indi si capovolge il rotolo , e si bagna 1’ altra metà nello stesso modo che la prima. Così bagnato completamente, e quindi bene inzuppato il rotolo si gira attorno Y arto fratturato, * secondo i precetti epidesmologici; però raccomando, che in ogni giro di fascia il chirurgo o un aiuto deve con ambe le mani esercitare un leggiero stropiccio sulla superfi- cie di essa, come ancora tale manovra si deve eserci- tare sulla intiera superficie del primo strato di fascia che ricopre Y arto, prima che Y altro strato venga so- vrapposto: ciò serve ad agevolare lo scioglimento del (1) Le indicate quantità d’acqua, di gomma come ancora del gesso, il quale per rendere semisolido il miscuglio, nelle proporzioni anzidette , non deve eccedere la cifra di 80 a 85 grammi, servono solo a preparare trenta metri di fascia. — 50 cemento, ed a renderlo uguale in tutta la superficie, come ancora il continuo stropiccio sviluppando mag- giore calorico , ne abbrevia 1’ essiccazione. Può in taluni punti la fascia trovarsi asciutta per- chè P acqua non ha penetrato lo spazio dei giri , ed allora si può bagnare benissimo facendovi cadere un piccolo filo di acqua, o pure strofinandola più volte con la mano bagnata (1). Due o tre strati di fascia preparata, a seconda lo stato che presenta la lesione, sono sufficienti a mantenere ben ridotta la frattura, acquistando essa con l’essiccazione quella resistente solidità capace di contenerla in sito, senza il bisogno delle ferule di cartone inumidito come usa il Sentili, e come la maggioranza dei chirurgi pratica. Però si avrà cura di ripiegare all’ esterno V ultimo capo della fascia e di mantenerlo staccato dallo strato sottostante mercè un corpo qualunque, sia una piccola stecclietta di le- gno, oppure una piccola laminetta di ferro o di latta, allo scopo di potersi facilmente rinvenire e staccarsi. Il chirurgo nei casi di frattura obbliqua o comminuta, in cui la decomposizione dell’arto raggiunge un grado considerevole per 1’ eccessivo spostamento dei fram- menti in spessezza ed in circonferenza, può sostituire alle ferule ordinarie di cartone due o tre liste della stessa fascia preparata disposte verticalmente, sovrapponendole nelle regioni che esigono maggiore resistenza. Le su- dette liste, che io chiamo addizionali, essiccate acquistano tanta solidità e resistenza da eguagliare le ferule or- (1) Può ancora il primo strato di fascia applicarsi asciutta, ed indi con le mani bagnate il chirurgo nc scioglierà il cemento nella superfìcie an- teriore, restando asciutta la superficie posteriore dello strato, lo stesso può praticarsi per il secondo, ed anche per il terzo strato, così l’essiccazione è più pronta. — 51 — dinarie di legno o di latta, e così adempiendo bene al lo- ro ufficio rendono semplicissima l’applicazione degli ap- parecchi, eliminando 1’ uso delle ferule sudette. Ciò praticato sinché l’ apparecchio completamente essicca mettonsi attorno l’arto delle stecche di legno, e se queste non si avessero in pronto possono sostituirsi bastoni, pertiche, ed altri corpi simili, capaci di eserci- tare V ufficio provvisorio delle ferule di precauzione usate dal Seutin, acciocché non permettano il facile spo- stamento sin quando l’apparecchio non si è compieta- mente consolidato. Essiccato intieramente 1’ apparecchio , il che si effettua in un’ora circa, le cerniate stecche di precau- zione vengono remosse, potendo "bene la solidità di es- so adempiere la esatta contenzione. Tale solidità può da voi benissimo constatarsi nell’ esemplare qui pre- sente, sebbene esso consta di due soli strati di fascia, e da due liste addizionali (1). Consolidato una volta l’apparecchio può il chirur- go dopo un tempo più o meno breve ed a seconda l’e- sigenze della frattura rendere lo stesso amovibile. Tale amovibilità può ottenersi, fendendolo da cima a fondo come pratica Seutin, ed allora per ciò operare bisogna usare la forbice di Bouhen, la quale a preferenza delle altre forbici è più atta al taglio di simile apparecchio. Così si ottiene l’apparecchio bivalve , nel quale secondo i bisogni possono le due valvole elargarsi e (1) L’ applicazione delle fasce di cui resulta il cennato esemplare è stata da me eseguita nel Gabinetto letterario dell’ Accademia Gioenia alla presenza dell’egregio prof. Antonino Orsini di Giacomo, e degli csimii dot- tori Mario Ronsisvalle, Giacomo Sinopoli, Ignazio Nicolosi, Gesualdo Clemente, Antonino Coniglione, ed altre distinte persone, non che degli addiscenti in Medicina c Chirurgia di questa Regia Università. — 52 — restringersi , e poi unirsi mercè liste di congiunzione della stessa fascia. Se l’arto fratturato per fatti morbosi locali sopravvenuti esige la completa remozione dell’ap- parecchio , o pure il chirurgo non vuole istituire un’ap- parecchio bivalve, allora può benissimo operare tale re- mozione, ritogliendo una per una le fasce che lo com- pongono. Ad etfettuire ciò fa d’uopo coprire tutto l’apparec- chio per circa due ore con un panno a più doppii in- zuppato di acqua tiepida , avendo cura di rinnovarlo ogni dieci minuti durante il detto spazio di tempo, clas- so il quale il cemento si rammollisce e le fasce possono, come sopra dissi, ritogliersi l’una dopo l’altra, curando però di bagnare con Una spugna qualche punto ancora aderente. Remosse così, le fasce costituenti l’apparecchio pos- sono benissimo una seconda volta , ed anche una ter- za impiegarsi alla costruzione dell’apparecchio, il quale essiccando acquista la solidità e la resistenza quasi si- mili come nella prima applicazione. PARTE III. Così o Signori , chiaro risulta il fatto di essere riuscito allo scopo prefissomi di avere con questo mezzo unificato tutto l’occorrente inserviente all’applicazione degli apparecchi amovo-inamovibili in un solo rappre- sentato dalla fàscia; la quale così preparata rende fa- cile, pronta e semplice al tempo stesso l’applicazione di essi, e perciò stesso offre sulle altre modifiche da me sopra enarrate i vantaggi qui appresso riassunti. 1. Perchè unificato il cemento alla fascia questa per il suo poco vol ume rende facilissimo il suo trasporto ovunque. — 53 — 2. Perchè tale unificazione la rende prontissima e molto facile ad applicarsi in qualunque luogo, ed in qualsiasi circostanza, non esigendo la sua applicazione nè fuoco , nè recipiente, nè tempo, poiché tutto porta con essa, ma sola acqua, elemento che ovunque tro- vasi, in guisa che nei campi di battaglia framezzo lo incessante fischio delle mitraglie e delle palle projettate dai fucili ad ago , il chirurgo può , mercè le fasce da me preparate, applicare subitamente e facilmente con sola poca acqua V apparecchio amo vo-in amovibile in un arto fratturato comminutivamente, o in una articolazio- ne gravamente ferita, immobilizzandoli prontamente ; e così diminuire di molto le acerbe sofferenze all’ infeli- ce ferito, che durante il trasporto dalla sfera di azio- ne all’ ambulanza o all’ospedale è obbligato soffrire. E comunque tale trasporto venga eseguito con ogni dili- gente cura (1) pure la mancanza della completa im- mobilizzazione in simili casi, non può, ad ogni meno- mo urto ed alla più leggiera scossa, che aumentare a più doppii il dolore , e compromettere l’esito della lesio- ne e sin’anco la vita del ferito, e ciò per la facile infiam- mazione del fuocolaio della frattura, per la fuoruscita di uno dei frammenti ossei attraverso la ferita esterna, non che per la lacerazione dei nervi, e dei vasi : lesioni tutte che possono verificarsi nelle fratture complicate, per il considerevole spostamento dei frammenti, o per l’ in- cessante sfregamento di questi nelle carni durante il tra- sporto del ferito. Lo stesso può dirsi per il medico-chirurgo + (1) La Società francese di soccorso ai feriti ha costruito un treno sa- nitario mercè le cure disinteressate del Sig. Carlo Bonncfond e diretto dal Barone Mundy, il quale non fa niente desiderare di tutto ciò che esige la urgenza dei casi. — 54 — condotto in campagna, il quale nei casi di frattura sem- plice o complicata trova aneli’ esso il mezzo pronto e facile di applicare sul luogo dell’ avvenimento l’appa- recchio amo vo-inamo vitale. In città sembra che abbia poca utilità l’ uso delle nuove fasce gesso-gommose, per- chè in essa non mancano i mezzi tutti inservienti alla varia costruzione dei sudetti apparecchi; ma la pronta e facile applicazione e la semplicità che ne presenta la costruzione, mercè le fasce ridette, sono condizioni che le rendono preferibili anche nella stessa città, poten- do benissimo il chirurgo in strada, ovvero nel luogo del! accidente ridurre la frattura e mantenerla ridotta, mercè le fasce gesso-gommose; e di cui può subito prov- vedersi nella più vicina farmacia. Così il fratturato non solo soffre assai meno i dolori, che il trasporto dal luogo dell accaduto in casa o all’ ospedale gli procaccia; ma bensì si evitano ancor più le complicanze che pos- sono compromettere il buon esito della lesione. 3. Perchè l’apparecchio amovo-inamovibile mercè le nuove fasce gesso-gommose è pronto nell’ essiccarsi, ed assiccato oltre di essere sufficientemente solido , resistente, e capace perciò ad opporre valida resistenza al facile slogamento dei frammenti, è molto leggiero, e quindi può bene essere sopportato dal paziente. 4. Perchè sotto il rapporto economico è anche da preferirsi, e tale economia sta nel potersi removere nei modi detti di sopra e riapplicarsi conservando sempre le stesse proprietà. Per operare la remozione di esso non fa d’uopo della soluzione d’acido cloroidrico ado- perata da Unterberg negli apparecchi gessati, ma di sola acqua tiepida. 5. Perchè nelle fratture complicate l’ apparecchio fenestrato, costruito mercè le fasce gesso-gommose, fa — 55 — assai meno sperimentare l’ inconveniente di cui lagnasi il Billroth per quelli gessati , cioè V imbibizione del pus nei bordi dell’apertura, e ciò per la sua compat- tezza la quale permette meno facile l’assorbimento di questo prodotto. 6. Finalmente perchè l’unificazione dei mezzi ab- bisognevoli alla costruzione degli apparecchi amovo- inamovibili da me apportata mercè le nuove fasce , rendendo pronta e facile la loro applicazione nelle fratture, rende alla sua volta subita ed immediata la riduzione dei frammenti spostati , e quindi l’ arte chi- rurgica non rimane inefficace nei luoghi e nelle cir- costanze da me sopra dette, ma bensì efficacissima; potendo bene il chirurgo esperire prontamente le due indicazioni prime, cioè ridurre la frattura , e mante- nerla ridotta. Così l’unità dei mezzi contentivi serve ad unificare anche la manovra chirurgica con la contenzione, la qua- le prontamente eseguita costituisce quella pratica e- minentemente conservativa e previdente , al dire del Seutin, raccomandata dal Boyer, dal Larrey, dal Vel- peau e dal Monteggia, la quale, senza esporre la cura ad alcuna eventualità, permette assicurarne l’esito in modo positivo. Può anche l’uso delle nuove fasce gesso-gommose, per la loro pronta e facile applicazione come per la economia estendersi alla inamovibilità, che i morbi ar- ticolari esigono allo scopo di mettere le articolazioni in forzato riposo, come nelle ferite penetranti l’interno di esse, nel reumatismo articolare acuto, ove oggi è sta- to provato mercè appositi lavori l’utilità deH’immobi- lizzazione, la quale serve a dissipare completamente gli essudati infiammatorii intracapsulari, non che 1’ e- ATTI ACC. VOL. X. 8 — 56 — dema infiammatorio estracapsulare, il dolore e la feb- bre (1). Tale pratica, che è stata confermata dal dottor Heubner e dallo Scarpari, viene ancora raccomandata dai sigg. Gossolin e Pitha nei casi in cui l’intensità del processo essudativo minaccia lo scollamento e la distruzione del contorno esterno dell’articolazione. L’ li- so di esse fasce è preferibile ancora nelle artropatie, ovvero nei tumori bianchi, in cui dopo l’ applicazione del caustico attuale fa d’uopo 1’immobilizzazione invece dell’impaccatura di ceralacca, come usa il Vanzetti, e del silicato di soda o di potassa. Possono le fasce in parola servire anche per la co- struzione delle fasciature ovattate ad occlusione inamo- vibile, proposte ultimamente dal prof. Gossolin, e giu- dicate necessarie dal Dottor Ollier nella chirurgia mi- litare per il trasporto dei feriti (2). Ed in vero, o Signori, di quanta utilità sono le nuove fasce gesso-gommose nelle sopracennate condi- zioni, credo averlo abbastanza dimostrato nella pre- sente nota, che oggi mi ho avuto il bene di sottomette- re alla vostra intelligenza facendone rilevare i vantag- gi, i quali mi spero essere confermati dalle future pruove. Termino infine la presente nota , ornatissimi soci , permettendomi dire , che, se il distinto chirurgo di Pavia Olinto Grandesso Silvestri, oramai conosciuto nel mondo medico — per avere il primo introdotto l’uso della (1) Ved. Osservatore Medico Siciliano, Anno XVII. Serie 111. Voi. IV. fa- scicolo V. VI. Dicembre 1874. (2) Ved. Gazzette Hebdomadaire de Mèdecine et de Chirurgie, 2(J Jan- vier 1875. — 57 — gomma elastica nella terapeutica chirurgica — ha non è guari arrecato un positivo e materiale progresso nella terapeutica chirurgica delle lussazioni, e segnatamente per quelle scapolo-omerali, unificando le fòrze esten- sive e contro- estensive del metodo classico alla coap- tazione ; cosi credo aneli’ io averlo imitato arrecando un materiale progresso nella terapeutica chirurgica del- le fratture, nelle condizioni dette di sopra, unificando tutto 1’ occorrente inserviente all’ amovo-inamovibilità nella sola fascia, la quale richiama al certo alla mente di tutti quel detto, in lingua del Lazio, omnia mecum porto, e dalla quale unificazione resulta indispensabile l’ unità delle due prime indicazioni tanto utili in que- ste lesioni, cioè la riduzione della frattura e mante- nerla ridotta. Così credo di avere raggiunto lo scopo prefis- somi. % ■ . t . ’ * , ; AZIONE DEL SULL’ ANILINA per ID_ -A.KO.stt© cxX>^00® Mi reco ad onore di presentare a questa Illustre Accademia un lavoro che io cominciai negli ultimi mesi di mia dimora nel laboratorio chimico del Regio Istituto di studi superiori e di perfezionamento di Fi- renze, dove allora tenevo il posto di assistente alla cattedra di chimica. Questo lavoro per la lunga serie di esperienze che ha richiesto non lo potei terminare in quella città. Andato frattanto a Roma a prendere parte ai lavori di fondazione del grandioso Istituto chi- mico che il Governo volle fondare in quella città, ed essendo occupato nelle ricerche scientifiche eh’ ebbi il bene d’ intraprendere e condurre a fine in compagnia dell’Illustre professore Cannizzaro (1), non potei pro- seguire il presente lavoro, il quale a me sembra offrire un certo interesse nel campo della chimica moderna. Venuto in Catania ad insegnare la chimica generale e la chimica farmaceutica, non ostante i lavori di fon- (1) Gazzella chimica Italiana voi. IV, p. 446 e 452—1874. ATTI ACC. VOL. X. 9 — 60 dazione in questo laboratorio di una nuova scuola pra- tica, io sono riuscito ad ultimare il lavoro che oggi mi pregio presentare a questa Illustre Accademia. Non tralascio di annunziare, che in questo mede- simo anno ho pure intrapreso e condotto a line un altro lavoro che permetterete, o Signori, io mi riserbi il piacere di presentare all’ Accademia nella ricorrenza della festa del L.° anno di sua vita. Questo lavoro por- terà il titolo di Azione dell’ acido jodico sul dorale idrato. Infine, tanto per dare notizia di tutto ciò che in questi mesi di mia dimora in Catania si è potuto fare da parte mia, in vantaggio delle altre parti della scienza a cui mi sono dedicato, mi pregio annunziare che fra non guari darò alle stampe un altro lavoretto che ri- guarderà gli studi vulcanologici dell’ Etna che io nella salita che feci colla comitiva di cui facevano parte alcune persone del Consiglio Direttivo della Società Alpina di Catania, ebbi V agio d’intraprendere lassù e che manderò a fine nel mio laboratorio. Signori In chimica organica gli elementi da cui dipendono tutte le combinazioni sono, come ognuno sa, quattro, cioè; il carbonio che rappresento in questa tavola colla lettera C, V azoto che rappresento colle lettere Az, lo ossigeno che rappresento colla lettera 0, 1’ idrogeno che rappresento colla lettera H da Hydrosgenum. Ol- la chimica moderna è venuta a riconoscere in questi ele- menti, o nei loro atomi, come negli atomi di tutti gli altri elementi , dei centri di affinità che per tutti i corpi semplici non sono nè nello stesso numero nè della stessa intensità. Questi centri di affinità noi li rappre- sentiamo come nel presente quadro, per mezzo di li- — 61 — neette; così pel carbonio che ne ha quattro li rappre- sentiamo con quattro lineette; per l'azoto che più co- munemente ne ha tre, con tre lineette; per l’ossigeno che ne ha due, con due ; per 1’ idrogeno che ne ha uno, con una lineetta. ! Ili — C— — Az— 0 H Ora in tutte le reazioni chimiche gli elementi agi- scono fra di loro per mezzo di questi centri di affinità, che noi con unica parola chiamiamo valenze. La sco- perta di questi tali centri , e stato un grandissimo progresso per la chimica; perchè principalmente dopo questa scoperta la chimica sintetica ha preso un gran- de sviluppo , ed io qui non farò che rammentare la sintesi dei composti della serie aromatica tra’ quali quelli dell’ aniline che per il consumo che se ne fa nell’arte tintoria ed in altre manifatture, hanno contribuito non poco alla ricchezza d’ intiere nazioni. Ho voluto premettere queste considerazioni per ispiegare da una parte come io mi sia valso dei so- praddetti centri di affinità, e per fare sì dall’altra parte che l’argomento che vado a svolgere riesca intelligibile anche a quegli uomini illustri qui presenti , che non coltivano questa scienza. Nel fascicolo di giugno (1871) della Gazzetta chi- mica Italiana pag. 376 a proposito dei composti che tacobsen ottenne per l’azione del dorale sugli alcodi e sulle amidi (1) annunziai in una nota che io per (1) Ànnalen der cliemie und Pharmacie t. CLYI1, fascicolo di febbraro ISTI. — 62 1’ azione del dorale anidro ed idrato sull’ anilina ot- tenni una sostanza della composizione: CO POH CfiHsAzH CeHsAzH la quale facendo giuocare i sopradetti centri di affi- nità, può rappresentarsi colla forinola grafica seguente: H — 0 / H I 0. G — I C // 0' I II li li H I I I Az - — C — — Az — I I 01 C 01 I I co H I ,0 & — c II G v C. / li Posteriormente a questa mia notizia, cioè nel lu- glio del medesimo anno, il signor Wallach di Berlino, in una notizia preliminare diceva (2) eh 'essendosi an- eli’ egli occupato dell’ azione del dorale sull’ anilina e sulla toluidina aveva ottenuto due sostanze di aspetto cristallino e dotate di proprietà basiche. Io mi sono creduto nel dovere di proseguire il mio lavoro allo sco- po di studiare meglio l’ intima natura della nuova so- stanza che ebbi il piacere di ottenere, e di annunziare quindi i dettagli precisi della mia esperienza. Se si fa agire a piccole riprese del dorale anidro sull’ anilina pura del punto di ebollizione 184-185° , nelle proporzioni di una molecola del primo per due molecole della seconda, la massa si scalda sino ad ele- vare, ognivolta la temperatura a 50 o 60°, mentre che il liquido che conviene raffreddare in un bagno di acqua fredda, diviene più denso. (2) Berichte der Deutschen. Oh. Gcs. zu Berlin p. 668—1874. 63 Qui fa d’uopo avvertire che se il dorale e V ani- lina si fanno agire in proporzioni diverse , la parte rimane indifferente. eli’ è in eccesso non reagisce e Il liquido dunque denso che si ottiene in questa reazione, se si scalda a bagnomaria alla temperatura compresa tra 50 e 60°, prima diviene molto scorrevole, ma dopo tre o quattro ore a poco a poco si trasforma in una massa cristallina bagnata da un poco di ma- teria colorante, che piglia origine da una reazione se- condaria, e da cui bisogna depurarla; di piu si forma dell’ acqua. La reazione eh’ ha luogo è la seguente: G CL’CHO ■ dorale C6H5AzH2 CBA H/.1G anilina H*0 + CGL'CH acqua C°HsAzH CsHsAzH nuova base Ho fatto agire il dorale idrato sulhanilina mede- siina, ed in questo caso ho osservato che si possono impunemente mescolare di colpo le quantità volute delie due sostanze senza che si abbia a temere alcuno elevamento nocivo di temperatura; anzi la temperatura si abbassa per 1’ atto della soluzione del dorale nella anilina, ( Legge fisica della solubilità dei corpi ). Se ora si riscalda come sopra, cioè alla temperatura com- presa tra 50 e 60° il tutto si trasforma in una massa cristallina, la quale studiata parellelamente a quella ottenuta col dorale anidro si è trovata d'identica na- tura. Pero per compiersi la reazione fra il dorale idrato e l’anilina bisogna protrarre lo scaldamento a 60° circa per più di nove ore ; mentre , torno a rammentarlo , col dorale anidro bastavano appena quattro ore. In questa azione ho pure notato un fatto assai im- portante, cioè che la sostanza cristallina si forma fà- cilmente, o a stento, o non si forma affatto, a secon- — 64 do della qualità dell" anilina ; così avendo io fatta la reazione con anilina bollente tra 185 e 189°; la massa si riscaldava come nel primo caso, ma tenuta la mescolan- za alla temperatura di 60° circa, neppure dopo un giorno di scaldamento si ebbe ad osservare traccia di sostanza cristallina. Questo fatto merita essere segnato, perche più comunemente 1’ anilina è accompagnata dalla to- luidina, ma la toluidina forma anch’essa col dorale sia anidro sia idrato una sostanza cristallina; dunque l'im- purezza che si oppone in questo caso alla separazione della sostanza cristallina non è mica la toluidina , ma bensì un’ altra sostanza, così che la presente reazione offre l’altro vantaggio di servire come mezzo per rico- noscere se f anilina del commercio contiene per impu- rezza della toluidina ovvero altre sostanze, le quali im- pedirebbero al prodotto che risulta dall’ azione del do- rale sulla toluidina e sull’ anilina, di cristallizzare. Or la sostanza cristallina ottenuta coll’ anilina pu- ra può separarsi, polverizzandola prima rapidamente , umettandola in seguito coll’alcool e spremendola forte- mente fra carta asciugante; poi si scioglie nell’ alcool o nell’ etere c si lascia cristallizzare. L’ etere si presta meglio per la cristallizzazione, ma meglio ancora si presta un miscuglio di alcool ed etere, nelle proporzioni presso a poco di volumi eguali. Si raccomanda inoltre di operare la soluzione delle so- stanze a freddo, e lasciare cristallizzare per mezzo di lenta evaporazione. La sostanza così ottenuta si presenta in tavole qua- drate clic si fondono alla temperatura di 100°; essa è solubile nell’ alcool, nell’ etere e nella benzina, insolu- bile nell’acqua; se si scalda a secco in una cassida a bagnomaria prima si fonde e poi si colora considercvol- — 65 — mente, ma non si carbanizza, come una volta fui per credere; se si scalda in soluzione alcoolica od eterea si scompone in parte producendo una materia colorante, che si toglie difficilmente per mezzo di cristallizzazioni. L’ acido cloridrico vi si combina direttamente produ- cendo due cloridrati solubili nell’ acqua e nell’ alcool, insolubili nell’ etere; col cloruro platònico dà un cloro platinato solubile nell’acqua che cristallizza in magni- fiche scaglie colore di oro; il joduro di etile l’attacca met- tendo in libertà del jodio e formando una sostanza cri- stallizzabile in piccoli cristalli; 1’ anidride acetica non vi esercita alcuna azione; distillata in presenza di un eccesso di calce o di potassa sviluppa ammoniaca , acqua, anilina ed un olio che distillato aneli’ esso dà un liquido che bolle tra 180 e 200°; il quale ha tutte le proprietà, e 1’ odore del cianuro di fenile. La for- mazione di quest’ ultimo prodotto si può spiegare mer- ce f equazione seguente: CCPCH j \zH + 3KH0 = 51120 + 5KC1 + 2 c'Hr’GAz Per conoscere la composizione centesimale delle sostanze cristalline, e vedere se corrisponde alla forinola da me attribuitale, essa fu sottoposta all' analisi ele- mentare. Ecco i risulsati: ANALISI PEL CARBONIO E PER l’ IDROGENO. 0,214 gnu. di sostanza hanno dato CO2 = 0,418 grill. H20 = 0,085 gnu. Ciò che la C = 55, 2; 11 = 4, 5 p. % 0,2(35 grill, di sostanza hanno dato CO2 — <4,4085 grill. H20 = 0,088 gnu. Ciò clic fa C = 55,9; H = 4,7 p. % 0,258 grill, di sostanza hanno dato CO2 = 0,465 grill. H20 = 0,105 gnu. Ciò che fa C = 55,2; H = 4,8 p. % — 66 — ANALISI PER IL CLORO. 0,305 gi\m di sostanza hanno dato, AgCl = 0,411 gran Ciò clic fa CI = 53,47 0,258 gran di sostanza hanno dato, AgCl = 3,53 gran Ciò clic fa CI = 33,72 Questi risultati tanto pel carbonio quanto per l’ i- drogeno, come pel cloro parlano in favore della for- inola da me data, di fatto: L’esperienza ha dato La teoria richiede Carbonico 53, 2 53, 9 53, 2 | 53, 33 Idrogeno 4, 3 4, 7 4, 8 4, 12 Cloro 55, 4 33, 7 » 55, 80 CLORIDRATO DELLA BASE. Il cloridrato di questa base si prepara: o trattando con acido cloridrico gassoso la sostanza secca, o facen- do passare una corrente di questo medesimo acido pu- re diseccato nella soluzione eterea della sostanza, od in fine trattando la sostanza sospesa in pochissima acqua con una soluzione concentrata di acido cloridrico. Se si fa agire l’acido cloridrico gassoso sulla sostan- za secca si può determinare la quantità di gas che viene assorbita, in modo a potere dedurre le quantità mo- lecolari delle sostanze ch’entrano in combinazione. Così operando ho trovato che la base in discorso può for- mare coll’ acido cloridrico due sali, l’uno che contiene una sola molecola di acido per una molecola di base, e 1’ altro che contiene due molecole di acido per una di base. L’ esperienza fu condotta nel modo seguente: In un tubo gonfiato a bolla ho pesato prima, 0,3565 grm. di base ben disseccata; indi l’ho sottomessa all’azione — 67 — di una corrente di gas acido cloridrico ben secco, e do- po dieci minuti di azione ( perche la prima molecola di acido la base 1’ assorbe rapidissimamente , mentre la seconda molecola V assorbea lentissimamente dopo molte ore ) ho staccato il tubo a bolla, ne ho rimpiaz- zata T atmosfera interna con aria, tanto per metterlo nelle medesime condizioni della prima pesata, e poi sono tornato a pesarlo sulla medesima bilancia di precisione. La differenza di peso tra la prima pesata e la secon- da, mi ha dato 1’ aumento di 0,109 grani. La teoria secondo la forinola: rrcru ( C8HsAzH „r| CC1 CH ^ cGH5AzH richiede l’aumento di 0,108 grani. Dopo questa prima azione dell’ acido cloridrico so- no tornato ad attaccare il tubo a bolla al medesimo ap- parecchio, e dopo f azione prolungata di tre ore, accor- gendomi che non aumentava più di peso, trovai 1’ au- mento di 0, 220, grani. Le teoria secondo la forinola: CCl'CH ( CGHr,AzH HC1 ( C6HsAzH HCI richiede Y aumento di 0, 221 grani. Sono tornato a fare agire F acido cloridrico, ma per quanto prolungata fosse la sua azione non mi ha dato alcun sensibile aumento di peso, anzi mi fece avvertire una diminuzione, che io devo attribuire al fatto, come dimostrerò in seguito, che il cloridrato di questa base ha la proprietà di volatilizzarsi in una corrente di acido cloridrico come in una corrente di aria. Ho detto che si può ancora ottenere il cloridrato facendo agire, o l’acido cloridrico gassoso sulla soluzio- ne eterea della base, o la soluzione concentrata di gas io ATTI ACC. VOL. X. - 68 — acido cloridrico sulla base sospesa in pochissima acqua. Devo avvertire che con questi due ultimi processi non si riesce mai ad ottenere pura la combinazione con una molecola di acido, ma si ottiene benissimo quella con due molecole, basta però che si faccia agire un eccesso di acido cloridrico, ed il cloridrato si dissecchi con ra- pidità possibilmente in un’ atmosfera artificiale di gas acido cloridrico, giacche questo cloridrato in contatto dell’ aria perde lentemente di quest’ ultimo gas. Se si prende una soluzione eterea della nuova base e vi si fa passare una corrente prolungata di gas acido cloridrico secco, siccome il cloridrato è pochissimo so- lubile nell’ etere, tosto eh’ esso si forma si separa sotto l’ aspetto di una polvere bianca, che lavata rapidamente con etere e spremuta fra carta asciugante, può farsi cristallizzare in aghi setacei da una soluzione alcoolica. Questi aghi si raccolgano fra carta come sopra e si met- tono a disseccare sotto una campana piena di gas acido cloridrico secco al di sopra dell’ acido solforico. Se la nuova base si tratta anche in polvere, con una soluzione acquosa e concentrata di acido cloridrico il tutto si discioglie immediatamente; e se questa solu- zione si lascia in riposo dopo poco tempo ( due ore circa) al fondo di essa si formano dei magnifici cristalli del detto cloridrato, che si disseccano come sopra. Proprietà comuni ai due cloridrati — Sostanze bian- che che cristallizzano in aghi splendenti, che si subli- mano anche alla temperatura ordinaria , solubilissimi nell’ acqua e nell’ alcool, pochissimo solubili nell’etere. 17 alcool scioglie più facilmente questi due sali che la base libera, e se la soluzione alcoolica si lascia a sè stessa i sali in discorso si alterano lentamente a freddo più prontamente a caldo in guisa da non cristallizzare — 69 più nulla. La loro soluzione acquosa reagisce acida sulle carte reattive; l’ammoniaca non vi produce precipitato. Il monocloridrato poi si fonde alla temperatura di 196° non corretta. 11 bicloridrato di qualunque prove- nienza esso sia, quando viene conservato nel vuoto della macchina pneumatica, ovvero quando viene scaldato a 60° in una corrente di aria secca perde sempre una molecola di gas acido cloridrico lasciando dietro di se il monocloridrato, il quale se nelle medesime condizioni viene scaldato a temperatura più elevata piuttosto che perdere 1’ altra molecola di acido si sublima; così che questo sarebbe il miglior processo di sua preparazione. Per dimostrare questo importante fatto io non mi sono servito del mezzo delle pesate, perche come ho detto, il clor idrato ha la proprietà di volatilizzarsi in una corrente di aria come in una corrente di gas acido cloridrico. Ma ho potuto riconoscere la presenza del ìno- nocloridrato, primo profittando della insolubilità di questo sale nell’ etere, secondo profittando della pro- prietà che esso ha di svolgere densi fumi bianchi quan- do viene trattato con acido solforico concentrato, terzo infine determinando la quantità totale di cloro in esso contenuto. CLOROPLÀTIN ATO DELLA BASE. Questo sale si prepara trattando una soluzione alcoolica molta concentrata del cloridrato della base con una soluzione alcoolica pure concentrata di clo- ruro platinico. Il precipitato che si ottiene si lava ra- pidamente con alcool, si spreme fra carta e si dissecca nel vuoto della macchina pneumatica. Si può anche preparare trattando la soluzione acquosa molto con- — 70 — centrata del cloridrato della base con del cloniro pla- tinico, nel qnal caso il cloroplatinato quantunque rie- sce di aspetto più bello, pure è più difficile a depu- rarlo dalle acque madri che lo bagnano, perdi’ esso è molto solubile nell’ acqua e si altera facilmente. Il cloro platinato cristallizza in scaglie lucenti co- lore d’ oro, è solubilissimo nell’ acqua, meno solubile nell’ alcool e nell’ etere. Se si lascia in contatto del- h aria umida od in seno di una soluzione acquosa od alcoolica si altera perdendo il suo bello aspetto splen- dente. L’ etere non Y altera meno facilmente. Analiz- zato da’ seguenti risultati: I. 1, 506 già di clorplatinato disseccato nel vuoto quando viene scaldato in una stufa a 100° perde 0,093 grm. di acqua; poi bruciato in crogiolo di platino sino a totale combustione della materia organica , lascia come residuo 0, 268 grm. di platino metallico. Ciò che fa Pt. = 18, 9 p. % II. 0, 824 grm. di cloroplatinato trattato come so- pra perde 0, 055 di acqua, e lascia per residuo 0,166 di platino metallico. Ciò che fa Pt. = 19, 1 p. % Questi risultati corrispondono colla forinola: ( ccisch j cnr'AzH HG1 ) 2piCl< la quale teoreticamente parlando richiede: Pt. = 18, 81 p. % Dietro questi risultati, o Signori, io credo di es- sere in grado di asserire con certezza , che la nuova sostanza da me scoperta a Firenze è identica a quella die Wallach ottenne a Berlino, e che la sua composi- zione sia esattamente quella che io nel giugno del 1871 le diedi prima ancora che Wallach V ottenesse. — 71 — Ora che ho spiegata la natura chimica di questa nuova sostanza , permettetemi , o Signori , che le dia un nome , tanto per saperla chiamare da oggi innanzi — In chimica i nomi si formano rammentando i nomi degli elementi o dei gruppi di elementi che li costi- tuiscono. Nel nostro caso il gruppo CCPCH si chiama tricloretilidene , il gruppo CcH5AzH porta il nome di fenilammina , e siccome di quest’ ultimo ve ne sono due, io chiamerò la mia sostanza col nome di Triclo- retilidendifenilammina. Nome lunghissimo , ma in chi- mica organica n’ esistono ancora dei più lunghi. DAL LABORATORIO CHIMICO REGIA UNIVERSITÀ DI CATANIA. Li 8 agosto 7875. . . APPENDICE ALLA MEMORIA SULLA UBICAZIONE CHINICI E I,’ liEZIOI MALARICA DEL PROF. SALVATORE TOMASELLI Romae scribo et in aere Romano. Baglivi I. Nella seduta del 15 Marzo del 1874 lessi in que- sta illustre Accademia un mio lavoro sulla intossica- zione ohmica e l’ infezione malarica, clic incontro la simpatia non che il gradimento di questa eletta Socie- tà. Appena edito ne fu data da molti giornali lette- rari (1) e scientifici nazionali e stranieri (2) la più este- (1) La Gazzetta Cittadina. Catania tip. P. Giunlini 1 Novembre 1874 — Bibliografia pel Dott. G. De G. 11 Buon Seme. Catania tip. di Rosario Bonsignore 1 Novembre 1874. Bibliografia pel Dott. P. G. Idem n. 49 e SI. 20 Dicembre 1874 — Bibliografia pel Dott. Yito Zappulla. (2) L’Osservatore Medico Giornale Siciliano. Diretto dal Prof. cav. S. Ca- copardo. Palermo Voi. IV 1874 p. Sol. Lo Sperimentale. Giornale Critico di Medicina e Chirurgia — Firenze 1875 p. 114. Gazetle Ebdomadaire de Médccine et Chirurgie, Paris 1875 p. 46. Annuario delle scienze Mediche per i Dott. Schivardi e G. Pini 1874 p. 75. Rivista Clinica— Rivista terapeutica deH’anno 1874 del doli. Luigi Maz- zoni. Sulla virtù ed azione della Chinina ovvero intorno alla intossicazione AT'I 2'I ACC. VOL. X. 11 — 74 — sa publicità, e tenuto in grande apprezzamento non pure per la novità del fatto, ma sibbene per la impor- tanza dei risultati, ond’ è che l’ insigne Prof. Binz ne faceva comunicazione speciale alla società di scienze naturali e mediche di Bonn, nella seduta della sezione di medicina il 22 febbrajo 1875 (1). Oltre i moltiplici e lusinghieri giudizi da costoro dati sull’ assunto, son lieto aggiungere, che dietro la publicazione del mio lavoro, vari medici dell’ Isola , dando uno sguardo retrospettivo , hanno richiamato alla memoria fatti analoghi a quelli da me rassegnati, e nella 2." edizione vicina a publicarsi, essendo la pri- ma interamente esaurita, riferirò il numero delle osser- vazioni, che di buon grado mi hanno comunicato. Però non sarà mio avviso riportare gli esposti trasmessemi, primamente perchè voglio in base della mia esperien- za clinica inoltrarmi nel sentiero intrapreso, e poi per incorare i medesimi a propalare le proprie osservazio- ni, trattandosi di un fatto così importante, che non bene apprezzato compromette sempre mai direttamen- te la vita del paziente. E per fermo, non è indifferente la cifra delle vit- time desunta dalle apprestatemi rivelazioni, donde emer- ge che, fra 28 casi di avvelenamento cirillico in segui- to a febbri intermittenti semplici, vi ebbero 10 morti. Cosicché lamenterebbesi la enorme perdita del 35 per 100 di certo rimarchevole, avuto riguardo al grado di cirillica e la febbre malarica del Prof. Salvatore Tomasclli — Cenno Biblio- grafico e considerazioni del Dolt. Francesco Pontano. Siracusa Tip. di An- drea Norcia 1875. ec. ec. (1) Auszug aus dem Prolokollder Niederrheinischen Gesellschaft fiir Na- lur— und Heilkunde. Sitzung der mediciniscben Section ani 23. Februar 1873. Bonn. intensità del morbo malarico, e che potea comportarsi senza risentimento, prima che fossero state enunciate le mie investigazioni. Ed invero nella mia prima publicazione significai con dimostrazioni pratiche, che trattandosi di febbre intermittente semplice, la si po- trà con agevolezza domare, stantechè è in potere del clinico disporre destramente dei vari succedanei, di che è cenno nel mio surriferito lavoro, col quale spe- diente, sebben più a rilento della chinina, se ne con- segue il desiderato scopo. La quistione verte con grave importanza per le febbri perniciose, ove le piccole dosi di chinina riesco- no di niun effetto , ma che sarebbero pericolose per l’azione deleteria del farmaco, e sicuramente letali ad alte dosi. Nonostante m’è debito ricordare, che in tutte le storie comunicatemi risultano come fenomeni costanti: il tremore convulsivo, la febbre, la ematuria, il vomito di bile, la itterizia. Tanto basta accennare affine di » sorreggere la mia idea, che stabilisce questi fenomeni come costitutivi della forma clinica prototipa della in- tossicazione clànica. Laonde in questa nuova illustrazione è mio divi- samente rinterzare ed assodare i miei principii, fissan- do la mia attenzione sopra alcuni fatti di momento, prescindendo per ora di altre considerazioni che sa- ranno richiamate nella 2." edizione. II. Nella mia prima publicazione aveva di già pro- vato., che i fatti d’intossicazione ohmica da me con- statati in vari punti della Provincia di Catania e di — 76 — Siracusa specialmente, non avevano affatto apprezza- bile relazione colla natura topografica del suolo. A dire il vero, io ignoro, se mai esistano condi- zioni speciali nella natura del clima, che possano fa- vorire f incompatibilità del farmaco in rapporto all’in- dividuo, e specialmente per Vizzini, ove questi casi a parità di circostanze sono più frequenti. Però è indu- bitato, come si rileva dalle risultanze, che queste mo- dificazioni organiche non dipendono dalla natura vul- canica del suolo, come quello di Catania (1) e di R an- dazzo, nè forse dalla natura calcarea dello stesso, come quello ove sono stanziati Vizzini, Lentini, Car- lentini. Dopo una esperienza clinica di 15 anni ho do- vuto ritenere, che la sola condizione implicita al fe- nomeno sia costantemente riposta in una condizione ■speciale deir individuo , che sotto la intossicazione mala- rica si pronunzia più frequentemente. La è appunto questa, come in precedenza ho dimostrato, che a pre- ferenza occasiona neH’organismo tanta speciale incom- patibilità. Però non è possibile determinare, quanta influen- za spieghino a modificare anormalmente lo stato fun- zionale della costituzione organica, — le ripetute in- tossicazioni malariche — il consumo stragrande dei pre- parati di chinina — e la natura dei luoghi ove si contrae il veleno malarico; infatti ho dimostrato nella mia pre- cedente publicazione, che tutte queste diverse condi- zioni possono avere una influenza relativa e non as- soluta sull’ organismo. (1) Noi quindi di buon grado li riferiamo più che ad altro a circo- stanze di luogo vulcanico qual’è il suolo di Catania; . . (Sperimentale tomo XXXV fase. 1. p. 114 — Rivista bibliografica, Firenze 1875. — 77 — Egli è su tal proposito, che io esposi, nella mia summenzionata opera argomenti incontrastabili, i quali comprovano ad evidenza, che questo intossicamento non potrà tassativamente riferirsi alla natura del luogo dei designati paesi. Adunque panni abbastanza dimostrato, in opposi- zione ai pensamenti dell'illustre direzione dello Spe- rimentale, che il suolo vulcanico non influisce per nulla a modificare lo stato funzionale dell’ organismo , di- sponendolo a questi effetti straordinarii della chinina; ed ancorché questa condizione particolare veramente esista nella natura del luogo; più che in altro dovrà risiedere nella natura di quei terreni, che generano il veleno malarico, donde provengono tutti i casi osser- vati, e di cui fanno parte Yizzini, Lendini, Randazzo. Se fatti simili, quali sono i sopraesposti, non sono stati osservati in altri luoghi marazzosi ed infetti (1) e fuori l’ambito Siculo, non so a quale circostanza debba riferirsi; il tempo e l'osservazione potran rispon- dere a questo giusto ed importante quesito; posso bensì rendermi responsabile delle mie osservazioni, le quali sendo state le medesime, oggimai da me dimostrate con precisione e chiarezza, ad imitazione dell'Ippocrate Romano , mi fò ardito rispondere. In Sicilia scribo et in aere Siculo. Non avvi sin qui altri, che possa contendermi il primato delle osservazioni desunte dai gravi e singo- lari effetti della chinina , stantechè tutti prima d' ora o ne tacquero o li confusero con quelli della febbre miasmatica. Riandando colla memoria sulle storie dei (1) ... Fatti simili quali sono i sopraesposti non potevano sfuggir di leggieri all’osservazione ed attenzione dei pratici che esercitano particolar- mente nei luoghi marazzosi ed infetti: (Sperimentale op. cit.) 78 — successi descritti nel mio primo lavoro, ed altri osser- vati posteriormente, non che sulle rivelazioni dei pa- zienti e di esperti, onesti ed intelligenti, posso dedur- re, che gli effetti succennati della chinina risalgono da venti anni a questa parte. Tuttavia, se io mal non mi avviso, stimo, che i motivi, per cui siffatto fenomeno sia sfuggito alla osser- vazione ed attenzione degli uomini dell’ arte salutare, debbano ascriversi al dubbio insorto sul vero rappor- to del fenomeno colla causa donde emana, alla incer- tezza di questo istesso fenomeno, se mai sia acciden- tale e ad un tempo indipendente dal morbo, che si deve combattere, all’analogia nella sua espressione cli- nica con un accesso di febbre intermittente perniciosa, non che alla rarità dei casi. Quante malattie di forma clinica classica non si sono scoperte, e meglio determinate nel loro concetto patologico in questo secolo di positivo progresso, in- fallantamente ignorate dai predecessori? Le malattie di Bright, di Basedow e di Addison, che ad onore dei loro scopritori ne portano per antonomasia il no- me, ce ne offrono lampante esempio. L’istoria limpidamente chiarisce, quali si fossero i concetti patologici intorno ai principali fenomeni costituenti le prefate malattie, prima che questi so- lerti osservatori l’avessero così classicamente stenebra- te, fissandone il complesso dei sintomi tanto caratte- ristici per ciascuna di esse. L’ errore delle più triste conseguenze, in cui tal- volta ci trascina la clinica, è appunto quello, che deriva dalla falsa interpretazione dei fenomeni morbosi in rapporto al significato fisio-patologico e patologico non solo, ma sopratutto in rapporto alle cause, die 79 — di sovente sfuggono all’oculata osservazione dei me- dici. Causale di tanto traviamento n’è la credenza, e per dir piu forte, quella prevenzione desolante di sti- mare impossibile nel nostro organismo la esistenza di un fenomeno morboso sviluppatosi sotto la influenza di una data causa, a ciò indotti dal fatto sperimentale negativo sugli animali sottoposti all’azione di quel dato agente. Dall’ anzidetto nasce per giusta illazione, che le mie vedute cliniche, corroborate oramai dall’esperienza, sanzionano solidalmente la conclusione, che tali effetti si sono confusi con quelli della febbre miasmatica, che si voteci combattere e sono cosi trascorsi, inavvertiti ed in- distinti (1). E qui cade in acconcio ripetere quel grande assioma di Cullen, che in Medicina vi sono più fatti erronei, che teorie false. Ho voluto, o illustri socii, in questa solenne oc- casione, richiamare la vostra attenzione su di una ve- rità clinica altamente proclamata nel sopracitato mio lavoro, onde rispondere ad alcuni argomenti, la di cui importanza è positiva in rapporto al fatto clinico — La esperienza del resto saprà con più sodezza approfon- dire le circostanze , sopra le quali riposa meglio que- st’azione speciale della Chinina. (1) « ... È forse questo addivenuto perehè tali Giretti si sono confusi con quelli della febbre miasmatica clic si voleva combattere, e sono cosi tra- scorsi inavvertivi e indistinti? » (Sperimentale op. cit.) ' , DI FATTE DAL PROF. O. BASILE Introduzione (i) Se grande è, massime oggidì, l’importanza della chimica applicata ad ogni ramo d’industria, importan- tissima al certo si è riguardo alla fabbricazione del vino. Sarebbe quindi di molto interesse che fossimo a conoscenza dei dati che la scienza ci appresta, onde procedere ad una razionale manifatturazione del vino; ma non per questo è ad intendersi che ogni produt- tore deve essere chimico, tanto da potere da sè ese- guire qualunque ricerca, che si presenti nel corso del suo esercizio, dovendo in simili casi ricorrere al chi- mico di professione. Nella preparazione del vino si richiede la parte teoretica e la pratica, l’ una non può disgiungersi dal- 1’ altra ; ma per isventura in Italia e precipuamente (1) Le ricerche che presento sono state fatte nel Comizio agrario d’A- cireale diretto dal Sig. Paolo Cali Fiorini che ha messo a mia disposizione tutto il materiale necessario. L’esperienze si sono fatte con l’uva tolta dai tre vitigni Caricante Ca- leratto e Nirello che mi fornirono il materiale per il lavoro intitolato Ri- cerche di clànica agraria sopra i principali vitigni dell’Etna. 1? ATTI ACC. VOL. X. — 82 — ili Sicilia, non si fà calcolo di cosiffatta riunione; per lo che si trovano dei teorici che riescono a nulla nel- l’ ordine dei fatti, e dei pratici perfettamente ignari di ciò che eseguono. Donde deriva che i primi diffidano dai secondi e questi da quelli. Possedere adunque teo- ria e pratica è della .più alta importanza, mentre o l’una o l’altra separatamente non faranno mai progre- dire questo ramo interessantissimo di chimica tecnica (1). Grande accuratezza deve quindi avere chi scrive sù tali argomenti di partire da dati teoretici, sposandoli con la pratica, massime avendo riguardo al luogo ed alle circostanze. Molte belle cose infatti si sono scritte e si scrivono, che se sono attuabili per le contrade dove lian sede i loro autori , noi sarebbero per altre di differente posizione e circostanze, perlocche è da ritenersi come una verità che ogni contrada viticola deve avere la sua pratica enologica. Avendo riguardo a queste considerazioni mi sono ingegnato ad imprendere una serie di studii e di ricer- che locali per veder modo di adattare così nelle nostre contrade le teoriche enologiche per il miglioramento dei nostri vini ; e a raggiungere lo scopo ho voluto esercitare le mie esperienze sopra larga sfera, relati- vamente all’ ingrande, ripetendo altresì esperienze fatte da illustri chimici. Trasando però di dichiararmi de- cisamente, attesoché convinto che studi di tal genere non possono recarsi a buon punto se non dopo lunga serie di esperienze che si concatenano le ime alle al- tre in guisa da non potersi separare ed avuto riguardo (i) Non intendo per tanto arrogarmi di avere raggiunto lo scopo con queste mie esperienze clic credo siano per le nostre contrade solamente una iniziativa capace a dare impulso a più serie ricerche. — 83 — a queste e a moltissime altre considerazioni mi contento di esporre i risultati delle mie esperienze, riserbandomi quando crederò avere raccolto e ripetuto una serie di dati sufficienti a parlare con precisione su i mezzi più opportuni al miglioramento dei nostri vini. CAPITOLO PRIMO Maturazione dell’ uva — Metamorfosi che i principi organici subiscono — Cellulosa e sostanze albuminoidi e grasse , acidi tannico e tartrico , glucosio —Procedimento della maturazione— Diminuzione che tali prin- cipi subiscono con la maturazione dell’ uva. Se jDer poco si fa attenzione al processo di matu- razione dei frutti si osserva che dapprima vi predo- mina la clorofilla e sono verdi come le foglie e di sa- pore agreste, mano mano che si avvicinano alla ma- turazione, perdendo questo colore si addolciscono. Que- sto solo fatto ci dice come i principi che costituiscono il frutto sono di già trasformati in altri , che non vi esistevano punto o erano rappresentati in dose sparu- ta (I). La pectosa sotto Tinfluenza del calore e degli aci- di si trasforma in pectina, mentre le sostanze grasse si accumulano specialmente nei semi. Se una soluzione di acido tannico si tratta con acidi diluiti od anche esposto semplicemente all’ aria, osserviamo come si trasmuta parzialmente in glucosio, mentre l’acido tartrico per la (1) I vegetali hanno l’ attitudine di elaborare e trasmutare molti principi; cosa che li avvicina agli animali; infatti essi possono al pari degli animali trasmutare per es. l’amido da per sè insolubile in zucchero solubile , tra- sformandosi in destrina; fenomeno che accade pure nell’interno di un ani- male, potendo sotto l’influeuza degli acidi trasmutarsi la fecula ed essere cosi assorbita, mentre da un altro lato l’ossigeno condotto con la respira- zione li converte in acido carbonico ed acqua. Similmente potrebbe dirsi per la trasformazione dell’ acido tannico in glucosio ovvero in acido gal- lico e poi pirogallico cc. 84 — sola azione del calore possiamo trasmutarlo in parec- chi acidi isomeri come in acido racemico ec. La cellu- losa e lo zucchero di canna per l’azione del calore o di qualche acido può risolversi in glucosio ed in breve la maggior parte delle sostanze organiche possono trasmutarsi le une in altre con semplici veicoli di os- sidazione d’ idratazione o di disidratazione. Tutti que- sti fenomeni, che si possono provocare artificialmente, accadono naturalmente nell’ uva sotto l’influenza della luce del calore e della vegetazione. Credo potersi infatti spiegare, così la presenza dell’ acido racemico nelle uve delle nostre contrade e l’ assenza di questo in quelle della Germania, Francia ec. per l’azione cioè della temperatura abbastanza elevata nei climi meri- dionali e relativamente bassa nelle regioni più vicine al Nord. Ma questi processi di elaborazione o maturazione accadono in tutto il frutto ugualmente, ovvero incomin- ciano dall’interno o dall’esterno di esso? Se si separa nell’ uva la polpa esterna dall’ interna e se ne determi- nano gli acidi, con qualche giorno d’ intervallo si trova una differenza, diminuendo cioè con l’ avanzarsi della maturazione dall’ esterno all’ interno, mentre il gluco- sio aumenta dall’esterno all’interno. Ora dalle ricerche del prof. Pollacci sulle uve di Toscana risulta come 1’ uva maturando giunge ad un punto in cui il glucosio è nella stessa quantità, sia ester- namente che internamente, della polpa, mentre l’ acido, prosiegue decisamente a diminuire. Si è allora ch’ei consiglia saggiamente doversi praticare la vendemmia perchè si è provato che se prosiegue 1’ acido a diminuire si avrà un vino di cattiva qualità e non duraturo, doven- do esistervene nel vino da g.mi 0, 4 ag.”' 0, 6 per 100.. QUADRO contenente la determinazione quantitativa e progressiva degli acidi e del glucosio (Uve della contrada Cervo). 85 Eo ho creduto opportuno ripetere queste esperienze nelle nostre uve dell’ Etna clic riassumo nel seguente prospetto. a Cr j 2 H < cc w H <1 o td k O o o rr. o o a p o c o 5 H < H O a o < •eiuaaui edpd B|[8p oobns jap oisoonm •muajsy Bdpd B[[9p OOOtlS pp oisoonjo •BIU9JUI Bdjod B|[9p oòons pp OOJJJJBJ oppv •BUJ9?S9 Bd[0cl B[[0p OOJns i 9 J9 oaijpBj oppv OOTjpp oppv 03 o o p p o "BUJ9}UI B(1|0CI Bjpp oobns pp oisoonjo "euaepe ndpd Bjpp OOOnS [9p oisooiqo o o CC H cc < u o < •nuagpr udpd Bjpp oobns pp OOIjpip oppv •BUJ9P9 Bdpd B[pp ooons pp OOI.ipiB] oppv Oppi ootapp oppv o 5 O J o "euaepi Bdpd ujpp oobns jop otsooiqo •BUJ91S9 ndpd B[pp ooons pp opoonm o o ce H cc ^r- o CD o CO rj* X 2^ CC CO Ci Ci CC o o o r-1 02 02 02 02 co o X O o i - cc 02 ò o 02 Ci co -T* o 2^ y-, r— ' 02 02 02 02 CO àC ì o TT — ^ 02 o 02^ cc Ci X lO 'TT T“i o o o <=> o o OC T- * o , ^ ^ o , , X 02 O^ 02 02 02 02 T— < •■N *•» ,,w o w o kft 02 02 — X X 2 - 2- 2- 2- cc «s c ° ° o ° o 'S- TT X o 2- OC o X iO X X' Ci •rf r- Ci T-T -T— , T“l 1 02 fri 02 co co co 02 _* o cc 02 o rr cc 00^ T“ * 02 *•7* o 02 »o Ci 02 02 02 02 02 02 Oi 02 CO CO' co CO o co X co o Ci 02 C5 2- LO co 02 ’-1 ° <3> r- r- T—' o 1, CO cc i.O co 02 02 02 ~~ — ' o o o ° cT »c 02 _ CI o X X X iO iO IO !f~~) o cT o cc rf* o? 02 o o d*? .'Q*s T— * 1 CO o_ X Ci o r-, 02 T“- T““« 02 02 02 02 0 — r 02 02 i.C OC O^ Ci 02 CO Ci o — -rgT ■rr '"r ! 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(1) Non è però semplicemente il mosto che si mette a fermentare ma pure i raspi le bucce ed i semi (orga- ni ricchi specialmente di acido tannico ) onde mi è sem- brato conoscere quanto ne contengono per l’ influenza che quest’ acido esercita sulla fabbricazione del vino. (I) La coltura influisce grandemente sullo sviluppo delle sostanze com- ponenti il mosto, infatti analizzando il mosto di un uva Ntrello coltivalo diversamente. (V. Ricerche di Chimica agraria sopra i principali vitigni coltivati sul suolo dell’ Etna fatte dal prof. G. Basile) ho ottenuto i se- guenti risultati. Composizione del mosto Nirello coltivato diversamente. 1 1 Coltivato al Cervo Coltivato nell’orto del Comizio Tartrato Potassico 2,00 3,00 | Acido Tartrico 0,70 0,87 Tannico 0,09 0,11 Glucosio 29,17 29,26 Albumina 0,20 0,42 i Cellulosa . 0,04 0,06 Sostanza grassa e mucilaginosa . 0,93 0,96 Acqua i 06,87 65,32 1 Totale . . 1 100,00 100,00 Dal prospetto risulta che il vitigno Nirello dell’ orto del comizio per- chè ingrassato ec. varia molto nella proporzione delle sostanze che compon- gono il mosto a sola eccezione del glucosio. Pare adunque potersi conchiu- dere (salvo le prove in contrario) che con la coltura possono farsi aumen- tare o diminuire i principi costituenti il mosto. Di questo fatto potrebbe forse valersi il viticoltore per correggere con l’ingrasso i difetti che si ma- ' infestano nell’uva di un vitigno qualunque. 94 — Ricerca riassunta nel seguente specchietto nel qua- le viene ancora rappresentata la sostanza grassa. CARICANTE CATERATTO NIRELLO Acido tannico Sostanze grasse Acido tannico Sostanze grasse Acido tannico Sostanze grasse Raspi. . . 0,42 0,88 0,48 0,G2 0,99 1,02 Bucce . . 0,90 1,23 1,70 1,20 1,00 2,05 Semi . . . 0,98 18,49 13,90 1,50 1,53 17,17 Osservazioni I Raspi, Bucce e Semi adope- rati per tali ricerche sono state seccate a -i- 100. Sotto il nome di sostanze grasse ho rag- gruppate le so- stanze solubili nel solfuro di carbonio. Dallo specchietto risulta come i semi contengono molto olio, sostanza grassa (1) ed acido tannico. CAPITOLO TERZO Quale vitigno fra i tre in esame deve preferirsi ?— Loro proprietà indivi- dua—Il viticultore e l’enologo possono giovarsi di tali proprietà differenti i Dopo aver protratta 1’ analisi sopra i nostri tre principali vitigni sarebbe giusto sodisfare alla domanda che naturalmente si presenta: quale di questi tre viti- gni è da preferirsi? Su questo argomento i nostri agri- coltori, specialmente della piana di Mascali, vanno di accordo che per fare buon vino nessun vitigno è mi- gliore del loro Nirello Masccdese e convinti di ciò hanno fatto si che ogni altro ceppo han trasmutato in Nirello. Nella contrada superiore dell’Etna detta del Bosco si dà molta preferenza ai vitigni d’ uva bianca, quali sarebbero il Caricante ed il Cateratto, ma anche là è già introdotto l’uso di generalizzare il Nirello a scapito (1) La sostanza grassa giova ai fruiti per tutelare il contenuto dello interno dal contatto dell’ aria e del calore e se ne mancassero verrebbe a seccare o a fermentare ovvero vi penetrerebbe 1’ acqua piovana. -- 95 — del Caricante e del Cateratte >; e a dire il vero a tale pre- ferenza non è un capriccio per chi va più pago all’ ab- bondanza di prodotto, e inoltre perchè il vino che se ne ricava ha sue proprietà speciali, come un colore di un rosso carico ed una grande abbondanza di acido tannico, qualità ricercata dai negozianti marittimi. (V. la mia Memoria II. da servire allo studio dei vini della Sicilia ). Ardua e difficile cosa sarebbe dare un’ opinione sul merito di tale preferenza se, cioè ad uno piuttosto che ad un altro vitigno. Ma farò però semplicemente os- servare come nelle due uve bianche, abbiamo proprietà degne di molta attenzione per 1’ enologo. Le princi- pali sostanze che compongono il mosto si disse avanti essere V acido tartarico e tannico, glucosio ed albu- mina. Queste sostonze ben proporzionate fra loro co- stituiscono un mosto, cui niente mancherebbe per fare buon vino. Ma ogni vitigno contiene queste sostanze in proporzioni tali da poterlo dire ben costituito? Ab- biamo già osservato come gli acidi tartrico e tannico, complessivamente cioè nel mosto nelle bucce nei raspi e nei semi, abbondano di più nel Nirello ; il glucosio e 1’ albumina più nel Cateratto , mentre il Caricante tiene il meno di acidi e zucchero; talmente che da ciò risulterebbe come V uva da preferirsi per un buon vino pare sia il Cateratto (1); poi il Nirello , in ultimo il Ca- ricante. Il die sarebbe in opposizione con la comune credenza di preferirsi il Nirello. Nel Cateratto adunque abbiamo tutti gli elementi, che costituiscono un buon mosto: la sua preponderanza di zucchero è in relazione diretta con la preponderanza di albuminoidi ; (2) e (lì II cateratto infatti dà un vino clic ben fabbricato risulta eccellente. (2) Cenno queste qualità del Caterallo ma mi riservo dare in ricerche apposite, giudizio sulla qualità di vino, che daranno le uve dei tre vitigni. — 96 — siccome la fermentazione e la produzione dell’ alcole non dipende solamente dal glucosio ma bensì del- l’ albumina , la quale fornisce 1’ azoto al fermento , al- coolico, ne viene per conseguenza che non essendo la sostanza azotata in rapporto con lo zucchero, il fermento non trovando più albuminoidi, non può avere più vita e morendo lascia indecomposta buona parte del glu- cosio e così il vino conterrà gran quantità di zucchero indecomposto. Sopra questo interessante fatto, che bi- sognerebbe conoscere più a fondo, posso indicare ciò che accade generalmente nella zona viticola dell’ Etna, cioè che è più facile trovare del vino dolce in tutte le contrade, ove abbonda il Nirello e incominciando per esempio verso la contrada Pisano, Linera, S. Leonardel- lo ec. che nelle contrade Viagrande, Trecastagne, Ni- colosi ec. dove predomina il Cateratto ed il Caricante , eh’ è ricco d’ albuminoidi di più che il Nirello. Fatto che viene anche ad essere contrassegnato nella valuta- zione dell’ alcole, trovandosi nei vini del Bosco una quantità di alcole maggiore di ciò che generalmente si ritiene e non essendo grande la differenza con quelli della piana di Mascali. Non è adunque utile che un mosto sia molto zuc- cherino e con poca albumina, restando indecomposto l’eccesso di zucchero. Il Nirello sotto questo riguardo è inferiore al Ca- ler ratto e troviamo inoltre nel Nirello una relativa e- suberanza d’acido tartrico, circostanza molto sfavore- vole ad un buon vino, per lo che volendo in qualche modo eliminarla si usa l’ ingessatura. Ma abbiamo però nel Nirello delle qualità, che non si trovano negli altri vitigni coni’ è a dire, maggiore ab- bondanza di prodotto ed il colore che dà il vino prò- — 97 prietà al certo non trascurabili, che gii hanno datola preferenza (1). Quale sarebbe adunque il rimedio in si- mile circostanza? Abbiamo veduto altrove come con l’ aumento delle sostanze azotate amministrate al ter- reno si accrescono l’azoto e gli albuminoidi dell’uva di un vitigno della medesima specie: di questa circostanza pud giovarsi benissimo il viticoltore per aumentare gli albuminoidi , mentre non accrescerebbe lo zucchero come nella nota a pag. 17 ho fatto rilevare nel confron- to fra f uva del Nirello dell’orto del Comizio e del Cervo; e nello stesso tempo (il che è di rilievo maggiore) l’intel- ligente enologo pud giovarsi delle diverse proprietà di questi tre vitigni, mescolando, dopo avere trovato con reiterate prove le proporzioni, 1’ uva di tutti e tre i vi- tigni; cosi avrà ricchezza di zucchero con il Nirello e il Cateratto , incremento di sostanze albuminoidi con il Cateratto e Caricante ; più abbondanza d’ acqua con il Caricante e nello stesso tempo otterrà un vino che non avrebbe il colore cupo, disaggradevole ai fo- restieri, alcoolico, non dolce, in somma ben proporzio- nato. Questo sarebbe uno dei mezzi di modificare ra- dicalmente il nostro prodotto, che dovrebbe almeno a titolo di prova sperimentare ogni proprietario, innestan- do nel suo vigneto di tutti e tre i vitigni e poi dosando queste uve vedere il prodotto che ne otterrà. Cosi credo (1) Le uve non si prestano ugualmente alla fabbricazione del vino, aven- do alcune una fragranza particolare, che dà pregevoli qualità al vino; il no- stro Nirello coltivato in terreni vulcanici per es. dà sempre un vino ruvido. Oltre a ciò certe uve hanno la proprietà di produrre un vino inebriante a preferenza di altre, malgrado che contengano un valore uguale d’ alcole e siano fabbricati con un medesimo processo. Questa verità cennala dal Pa- steur ho avuto l’agio di verificarla per i nostri vini essendo che i vini fab- bricati con Nirello in preponderanza posseggono la facoltà inebriante a pre- ferenza di un altro fabbricato con uva Cateratto in eccesso, r;ben che contenga- no uguale volume di alcole. s ATTI ACC. VOL. X. 14 potrà evitarsi il grande difetto dei vini della piana di Mascali di essere (fabbricati con solo Nirello) neri e ruvidi. CAPITOLO QUARTO Determinazione del glucosio con i gleucometri. — Esperienze, che provano la loro inesattezza — Metodo chimico da preferirsi. I gleucometri non sono che areometri, che segna- no la densità dei mosti ed approssimativamente lo zuc- chero, perlochò il gleucometro s’ impiega generalmente per conoscere quando il mosto di una vigna ha rag- giunto il massimo di densità ; e segnando, con qual- che giorno d’ intervallo, lo stesso grado si procede alla vendemmia. Il primo, che lo costruì si fu Cadet-de- Vaux il quale lo graduò come Baumè arbitraria- mente. Ma il costruttore di strumenti fisici Salleron lo modificò e sotto il nome di Mostimetro, Salleron gira in commercio. Guyot ancora lo costruì in maniera da potersi conoscere in una stessa operazione la densità del mosto, secondo Baumè, la ricchezza zuccherina e T alcole che dovrà prodursi. Questo strumento , che è il migliore di tutti si chiama Gleucometro Guyot. Mi occuperò di questi strumenti, attesoché li ho provati tutti e tre facendo rilevare quale specialmente dei tre sia preferibile. Il modo di adoperare tali strumenti è semplicis- simo: non si tratta d’altro che di prendere dell’ uva, spremerla, filtrare il mosto attraverso un pannilino, riempire una provetta o recipiente qualunque, ridurre la temp. del liquido a -+- 15 attorniando la provetta di ghiaccio se la temp. è superiore (come avviene ge- neralmente nei nostri climi) e se per caso la temp. si — 99 — trova più bassa, immergere la provetta nell’acqua cal- da e poi immergervi il Gleucometro. Allora si osserva la graduazione della scala, che quanto meno s’ immer- gerà, tanto più denso sarà il mosto e quindi più zuc- cherino e così il semplice areometro ci segnerà la den- sità, il Mustimetro Salleron la densità relativa all’ e- stratto che lascia ogni litro di mosto; perlochè il Fleu- rot ha composte delle tavole, che vanno annesse allo strumento, calcolate in maniera che dalla densità si può dedurre in grammi il peso dello zucchero per li- tro. Il Guyot riunì in uno stesso strumento tre scale differenti e colorate in blù una, gialla l’altra, bianca la terza; indicando quella blù la densità secondo Baumè, la gialla lo zucchero e siccome lo zucchero darà una proporzione equivalente d’ alcole, la scala bianca in- dica 1' alcole corrispondente, che dovrà formarsi con la fermentazione del mosto in esame. Questo strumento è quello che ad ogni altro si preferisce; e forse è il meno infido. Dopo tutto ciò bisogna dire come questi strumenti inducono spessissimo in errore, atteso che il mosto non può avere in ogni periodo del suo sviluppo la stessa composizione aumentando o diminuendo le sostanze so- lide che non sono glucosio e così si avrà una densità maggiore o minore indipendentemente dal quantitativo dello zucchero; spesso accade che un mosto meno zuc- cherino, ma che contiene più sostanze solide di un al- tro più zuccherino, segni una quantità di zucchero che non contiene realmente. Ora io facendo ricerche in pro- posito, credei di potere in qualche modo evitare tale inconveniente, trattando il mosto con acetato di piom- bo, die precipitò tutte le sostanze albuminoidi ec. fil- trarlo, trattare il liquido filtrato con una corrente d’i- — 100 — drogeno solforato, che precipita l’eccesso di piombo allo stato di solfuro, e , filtrato di nuovo, ho fatto bol- lire per eliminare l’ eccesso di acido solfidrico e ridotto il liquido allo stesso volume e temp. di prima, saggiato di nuovo con lo strumento, ho trovato una densità mi- nore che nel mosto naturale. Però malgrado tale pra- tica, la quale d’ altronde essendo complicata non po- teva applicarsi ed essere utile ai nostri enologi, lo zuc- chero trovato con il metodo chimico dà un peso mag- giore. Dai prospetti potrà rilevarsi tale differenza. Mosto filtrato con pannilino e prima del trattamento dell’acetato di Piombo. Gleucoenometro Mustiraetro Salleron, peso di Zucchero in un litro di mosto Gleucometro Guyot Densità Grammi Densità Zucchero Alcole corrispon- dente Caricante 15 ili 278 15 26 17 Cateratto 15 111 278 15 26 17 | Nirello. . 15 111 278 15 26 17 j Dopo il trattamento con I’ acetato di Piombo. 1 i 1 Gleucoenometro Mustimetro Salleron, peso di Zucchero per litro Gleucometro Guyot Densità Grammi Densità Zucchero Alcole corrispon- dente Caricante 14 110,2 257 14,2 25,0 16,1 Cateratto 14 110 252 13,2 23,1 15,1 j Nirello. . 14 110,5 265 14,2 25,0 16,4 101 Mosto bollito e filtrato per carta prima del trattamento con acetato di Piombo. 1 1 Gleucoenometro Mostimetro Salleron, peso di Zucchero in un litro di mosto Gleucometro Guyot Densità Grammi Densità Baumè Zucchero Alcole ' Caricante ì 9 106,5 160 9,2 16 10,1 Cateratto 15 109,5 239 15 26 17 Nirello. . 11,5 108,3 207 11,2 19,3 12,3 Dopo il Trattamento con acetato di Piombo. .o & N. II* 4- 28 9,3 lato dal Rubinetto N. IIP H- 28 8,2 N. IV* 4- 26 7,4 28 Settembre Il cappello si è abbassato molto più del giorno pre- cedente il micoderma aceti ed altri parassiti sviluppa- tissimi, odore acetico pronunziatissimo. Tem. della stanza 4- 19,5 Alcole formatosi N. I* 4- 25,5 j 11,3 Tem. del mosto spil- N. II* 4- 26,5 10,4 lato dal Rubinetto N. IIP 4- 27 10 N. IV* 4- 27 9,8 — 108 — 29 Settembre Prosiegue l’ abbassamento del cappello e l’ accresci- mento dell’odore acetico. Tcm. della stanza 4- 17 Alcole formatosi 1 ( N. 1° -h 23 12,5 Tem. del mosto spil- ' N. 11° -1— 24 12,5 lato dal Rubinetto ) N. Ili0 -4- 24,5 12,0 l N. IV0 H- 25 : i 11,2 30 Settembre L’ abbassamento del cappello si ferma, l’ odore ace- tico sviluppatissimo, vi si sente ancora un odore nau- seante di marcio. La superficie della pasta è divenu- ta lubrica per l’abbondanza del micoderma aceti. Ri- muovendo la superficie del cappello vi si trova un bru- lichio di larve ed innumerevoli crisalidi del moscerino dell’ aceto. Tem. della stanza + 20 Alcole formatosi (n. i° 4- 22 12,6 Tem. del mosto spil- ’ N. IT 4- 22.5 12,3 lato dal Rubinetto 1 N. IH0 4- 22,5 12,3 N. IV» -e 22,5 12,0 1 Ottobre Gli stessi fenomeni del giorno precedente ma l’o- dore nauseante è aumentato pare che il cappello accen- ni a cpialche decomposizione. | Tem. della stanza 1 4- 20 Alcole formatosi | IN. T Tem. del mosto spil- /N. IT lato dal Rubinetto / N. I1T IN. IV* i 4- 21 4- 21 4- 21 4- 21 12.3 12.4 12,6 12,6 — 109 — Giunta la fermentazione a questo punto in cui l’alcole formatosi nello strato inferiore ha raggiunto la cifra del- lo strato superiore e la tem. differisce da + 1 da quella esteriore, ho svinato essendo così sicuro che la fermen- tazione è già compita. (1) L’esperienza così stabilitaci porta alle seguenti con- clusioni. 1. La temperatura aumentando dall’ alto al basso indica il modo con cui procede la fermentazione in una colonna di liquido. 2. La fermentazione incomin- cia nella parte del mosto , eh’ è in contatto diretto con il cappello e con 1’ aria propagandosi lentamente in tutta la massa. 3. La formazione dell’ alcoole è in ragione diretta dell’ andamento della fermentazione. 4. Cessata la formazione dell’ alcoole e quindi la fer- mentazione la temperatura si abbassa e si mantiene a + 1 dalla temperatura dell’ ambiente (questa picco- la differenza in più si spiega perchè la fermentazione continua leggierissimamente). Ricercando in ultimo il glucosio nel vino ho tro- vato che ve ne restavano tracce. Dall’ assieme, adun- que si deduce come l’ alcoole proviene dal glucosio de- composto, mentre 1’ acido carbonico si sviluppa. La conseguenza che dà tale esperienza si è quella essere il termometro uno strumento facile, preciso sicuro per conoscere il momento di svinare. Molteplici sono le opinioni riguardanti il punto in cui si deve svinare. Ed in vero il momento della svinatura è una delle operazioni che esige grande attenzione e da cui può dipendere la buona riuscita del vino ; in fatti se per poco si svina tardi, allora la pasta alterandosi in seno (1) Il vino sortito dai diversi rubinetti ho conservato separatamente in bottiglioni. — 110 — al vino, gli cecie le sostanze albuminoidi e solubili capaci di alterarlo; se al contrario si svina precoce- mente la fermentazione si arresta in parte e buona quantità di glucosio indecomposto, resta nel vino. Lo strumento generalmente usato per conoscere V epoca della svinatura e il Gleucoenometro. Si pretende in- fatti che questo strumento, che dà il peso dello zuc- chero di un mosto, ci dia conoscenza quando questo è decomposto e perciò, quando si dovrà svinare; non è a dire quanto fallace sia un simile strumento. (1) Le ra- gioni sono le stesse di quelle dette parlando dei Gleu- cometri. In prova di che saggiando il vino che già il termometro e il dosamento dell’alcole ci fece conosce- re essere fatto e riducendo la Tem. dello stesso a -t~ 15 alla quale generalmente si adoperano tali strumenti, mi dava a conoscere come ancora si doveva affondare di due gradi per raggiungere il punto dove è scritto Decuvage , Svinare, e se per caso mi lasciavo guidare da tale strumento per svinare tutto il prodotto al certo saria andato a male. Fra noi nelle contrade dell’ Etna il metodo per svinare (se metodo può dirsi quello di non averne nes- suno) è quello del capriccio non guidato da criterio al • cuno e quindi accade che la fermentazione o si protrae tanto che il mosto e la pasta cominciano ad alterarsi facendola durare anche 10 o 11 giorni come sistematica- mente si usa nella piana di Mascali, ovvero si svina precocemente facendo durare da 3 a 4 giorni la fermen- tazione come si pratica generalmente nella contrada del Bosco ed adiacenze ed allora avremo nel primo (1) Questi strumenti devono ritenersi come articolo di negozio e di poco valore scientifico e pratico. — Ili — caso grande trasformazione d’ alcole in acido acetico, massime nella parte del vino in contatto con la pasta, come prova 1’ acidità determinata nella nostra espe- rienza, richiedendo il vino che era in contatto con la pasta per essere neutralizzato 29 c. c. di soluzione di potassa, mentre quello della parte inferiore del tino ne richiedeva solo 26 c. c. non essendo prodotta que- sta differenza di 3 c. c. che dal solo acido acetico co- me appresso dimostrerò; ovvero nel caso contrario in cui si svina precocemente la fermentazione non si ve- rifica ugualmente in tutta la massa in prova di che pur avendo verificato la tem. nell’ atto che si svinava da un ricevitore di circa 80 ettolitri in una vigna del Bosco dopo di avere fermentato anche più di quanto in quella contrada si usa cioè cinque giorni; durata che si credeva più che sufficiente, che la temp. dell’ambien- te segnava + 20, quella dello strato superiore del vino in contatto con la pasta segnava + 37 mentre quella della parte inferiore segnava + 33 esistendo così una grande differenza di 4 gradi e di gradi + 17 della temp. dell’ ambiente. Così si dimostra chiaro come la fermentazione era tutt’ altro che finita, credendosi invece di essersi com- pletata in tutta la massa , mentre non aveva perfet- tamente raggiunto lo strato inferiore (1). Da ciò adun- que si rileva come in tutti e due i casi s’incorre in. gravissimi inconvenienti che il solo termometro ci può fare scansare. (1) La temp. nella esperienza del mosto che fermentava nel tino di legno non si elevò al di sopra di quella deH’ambieute esterno più di 8,5 mentre nel grande ricevitore si elevò fino a -b 17 dell’ ambiente esterno; ciò si de- ve alla gran massa di mosto in fermentazione. — 112 — Ed in vero per la facilità con cui può adoperarsi anche dei più imperiti nel maneggio di qualunque stru- mento e per i servigi che può farci si rende pregevo- lissimo. (1) Il metodo di usarlo per conoscere quando è il mo- mento di svinare ò il seguente. La maggior parte dei nostri ricevitori portano attaccato alla parte inferiore un grosso rubinetto da dove si svina, (2) di là si caccerà un boccale di vino e vi s’immergerà subito il termo- metro, prendendo nota prima però della temp. dell’am- biente; e quando la temp. differirà in più di uno o due gradi da quella dell’ ambiente si può impunemente svinare. Ovvero quando con il lambicco Salleron si ottiene alcole in eguale volume sia nella parte supe- riore del vino come nell’ inferiore. Questi due soli mezzi (1) Credo che sull’impiego del termometro nella svinatura si dovreb- bero fare ripetute esperienze ed in contrade diverse. La questione da risolversi per i nostri vini perù sarebbe quella se la fermentazione si deve protrarre nei tini fino alla quasi totale formazione dell’alcole ovvero si deve fare proseguire dopo la svinatura nelle bolli. Ma nell’ un caso e nell’ altro pare clic il termometro ci può rendere il mede- simo e costante servizio; se si vuole fare finire la fermentazione nel lino si svinerà come ò citato nella mia esperienza a + 1° della temp. ambiente nel caso contrario a + 5° o -4° o secondo il bisogno ed il criterio dello enologo. (2) Pei ricevitori clic non sono forniti di rubinetto e dai quali perciò non si può direttamente cavare il mosto, si può fare tale ricerca pren- dendo il mosto dalla parte inferiore con una specie di grossa pipetta usata spesso per prendere Folio dai grandi recipienti a larga bocca e profonda, ovvero per mezzo di un sifone di latta che toccasse il fondo del Ricevito- re; ma la miglior cosa desiderabile sarebbe clic ogni recipiente addetto alla fermentazione fosse fornito inferiormente di un rubinetto. L’ uso dei rice- vitori in muratura è deplorevole, ma almeno fra due mali si scelga il mi- nore e spero clic i nostri enologi si pieghino ad usare il termometro nella svinatura. — 113 — sono quelli che ci possono fornire grandi servizi indi- cando il vero punto di svinare. CAPITOLO SESTO FERMENTAZIONE ACETICA Dall’acido acetico — Sua genesi nel mosto che fermenta in contatto diretto con l'aria — Esperienze relative — Inconvenienti del metodo di fer- mentazione a vinacce galleggianti e particolarmente del metodo sicilia- no — Del modo come si spiega la diversità dei vini, che risultano da mosto fermentato nello stesso ricevitore. Ho descritto brevemente nel capitolo precedente la fermentazione alcool ica, la sua provenienza e fatto cenno della fermentazione acetica, di cui ora anche succintamente mi occuperò. La fermentazione acetica non è prodotta da altro che dell’ ossidazione dello alcole, per mezzo dell’ ossigeno, che viene fornito dai bacterì appartenenti all’ordine più inferiore degli esseri organizzati e chiamati Micoderma aceti. Il Micoderma aceti si genera rapidamente per gemmazione; infatti sotto il campo del microscopio si vede attaccata in forma di piccolissimi globetti come un rosario. La so- stanza, che lega questi globetti fra di loro, è una specie d’ albume che essendo in grandi quantità dà l’ aspetto lubrico e vischioso, cosa che si può osservare nelle botticelle contenenti aceto; quando questo fermento è nel massimo del suo vigore si vede coprire la superficie dell’ aceto a guisa di un velo che volgar- mente si chiama madre dall’aceto. Ha bisogno di molto ossigeno e per tale ragione occupa la super- ficie del liquido e se per un momento vi si affonda allora non è più attiva; infatti ciò accade allorquando le anguillaie dell’aceto, esseri che si sviluppano pure in 16 ATTI ACC. VOL. X. — 114 — quel liquido, avendo bisogno aneli’ essi d’ossigeno, sfon- dano dal basso in alto il velo o la madre dell’aceto; perlocliè va al fondo inattiva. La prodigiosa rapidità con cui essa si produce è capace di trasformare anche a grandi masse di vino in aceto ; essa si può propa- gare artificialmente seminandola alla superficie del vino. E giusta tal fatto di cui l’industria lia saputo trarre profitto fabricandosi con questo processo grandi quantità di aceto dal vino. Il calore più conface vole al suo sviluppo e fra + 20 a + 35, il freddo la rende inattiva la tem. di + 50 a + 55 l’ uccide. Son queste le ragioni per cui il vino delle nostre contrade, dove la temperatura è abbastanza alta, si aci- difica specialmente nei calori estivi. L’acido solforoso spiega un’ azione eminentemente venefica su questo micoderma, e perciò si usa solfarare le botti prima di introdurvi il vino. L’ ossidazione dell’ alcole per mezzo di tale parassita si spiega per una specie d’ azione simile alla spugna di Platino, il risultato dell’ ossida- zione dell’ alcole è formazione d’ acqua e di acido a- cetico, che sciolto nel vino si chiama aceto. Si spiega con la seguente equazione : C„HoO + 20 = (G2I-rO) = C^HA + Hs0 (alcole) /ossigeno fornito\ (Aldeide) / acido \ (acqua) \dal ' micoderma/ Vacetico/ Venuti a conoscenza della vita e dei principali fatti, che accadono nella fermentazione acetica, è facile spie- gare taluni fatti, dei quali certamente ognuno si è ac- corto e di cui si è fatto cenno nel capitolo precedente. Si è visto che, progredendo la formazione dell’ alcole nella fermentazione del vino, il cappello manifesta dei particolari degni di attenzione; il maggiore dei quali è l’acidificazione, dunque il Micoderma aceti non può avere vita se prima 1’ alcole non si è formato in buona 115 — quantità. Di più 1’ acidificazione o meglio la propaga- zione del Micoderma si verifica nello strato in con- tatto diretto dell’ aria per lentamente propagarsi nei la massa; cosa naturale, essendo che sappiamo che il paras- sita ha bisogno di ossigeno, il quale dovendo prender- lo dall’aria vi vuole stare in continuo contatto diretto. Ora ammesso il principio che 1’ acidificazione deve succedere nello strato di liquido più in contatto con le vinacce e con l’aria, ne nasce la conseguenza che 1’ acido acetico si deve trovare in preponderanza nello strato superiore, in diminuzione in ragione diretta della profondità del tino. Per provare la qual cosa ho de- terminato prima 1’ acidità assoluta, sia nello strato superiore che nell’ inferiore, appena svinato ed ho no- tato che lo strato superiore avea di bisogno 29 c. c. di soluzione di potassa e quello inferiore 26 c. c. Ma questo dato dice poco, appunto perche 1’ aci- dità della parte superiore del liquido può dipendere dell’ acido tannico dei raspi, bucce e vinaccioli, i quali essendo in contatto diretto con il mosto si scioglie in maggior parte nello strato di liquido più immediato. Laonde ho passato alla ricerca diretta dell’ acido acetico ed ho trovato nella parte superiore un peso per 100 di vino = 0,9 nella inferiore un peso ugua- le 0,5; differenza che risulta da ciò ch’io teoricamente dianzi esposi; ma ci è ancora di più: io dissi avanti che f acido acetico si forma a spese dell’ alcole, eb- bene dovrebbe adunque accadere che l’ alcole dimi- nuisce in ragione diretta della formazione dell’ acido acetico; e siccome noi abbiamo visto che nello strato superiore del tino 1’ acido acetico è in maggiore quan- tità che nello strato inferiore, così dovrebbe accadere che 1’ alcole della parte superiore deve essere in mi- * — 116 — nere quantità che nello strato inferiore; ed è infatti così. Parlando della fermentazione nell’ ultima sua fase, dosando V alcole quando si trovava nella parte supe- riore = 12,6, nel giorno seguente diminuì e divenne — 12,3 mentre nella parte inferiore raggiunse il vo- lume = 12,6. Dietro questi dati sembra non restare più dubbio sii questo punto, essendoché da un altro lato chiaro apparisce quanti gravi difetti son provegnenti dalla fermentazione a vinacce galleggianti, a tino scoperto; difetti che danno per risultato la cattiva riuscita del vino. L’ acidificazione che si verifica superiormente si propaga in tutta la massa e tutto il nostro vino con- tiene germi del micoderma aceti. Appena finita la fermentazione, il bitartrato di potassio ed il tartrato neutro di Calcio, essendo poco solubili nei liquidi alcoolici, assieme a sostanze orga- niche, che stavano sospese per il movimento del liqui- do in fermentazione, precipitano al fondo portando seco a forza e a guisa di filtro tutti i germi attivi di mi- coderma aceti. Ora se si osservi questo precipitato si vede essere composto in maggioranza di materia organica di cri- stallini di bitartrato di potassio e di tartrato di cal- cio, più della Tonda Cerevisae inerte e di grande quan- tità di Micoderma aceti inattiva poiché, priva del con- tatto con l’ossigeno dell’aria, ma pronti a riprendere le loro funzioni appena hanno il mezzo di ritornare alla superficie del vino, ciò che accade nelle nostre botti, giusta le attente osservazioni fatte in un bottiglione circa dieci litri. Il vino chiarisce generalmente nei principi dello — 117 — inverno, allorquando abbiamo relativamente una tem- peratura bassa fra + 12 a + 16. A quella temperatura il vino tiene in soluzione una grande quantità di gasse acido carbonico ; e se per un momento aumenta la temperatura ( e ciò si può fare anche artificialmente, esponendo una bottiglia piena di vino al sole ) si vedono molteplici bollicine di gas che all’ analisi si scuopre per puro acido car- bonico; appunto perchè tutti i gas solubili lo sono as- sai meno in rapporto diretto in cui aumenta la tem- peratura. Queste gallozzole che si sviluppano e parto- no in maggior copia dal fondo e proprio dal deposito che ha fatto il vino ; allora ne nasce che se la botti- glia è sturata o malamente il gasse si sviluppa pre- sentando alla superficie un leggiero gorgoglio come di ebollizione e si vede come le sostanze più leg- giere , che erano al fondo , si mescolano al vino ren- dendolo meno trasparente ; tutti i germi quindi inva- dono di nuovo il vino; da ciò si verifica che se il vino è rimasto zuccherino il fermento alcoolico riprende il suo dominio ed incomincia di nuovo la fermentazione alcoolica, provvedendosi d’ azoto sia dalle sostanze or- ganiche della feccia (1) sia dal vino stesso, che nella nostra esperienza contiene azoto (delle sostanze azotate solubili) = 0,02 per 100. Se il vino non è zuccherino ( come è nel nostro esempio ) il fermento acetico essendo trasportato dalle bollicine gassose alla superficie del vino e quivi ve- nendo in contatto dell’ aria, incomincia rapidamente a propagarsi, dissociando l’alcole, provvedendosi d’azoto (1) Nella esperienza sudelta la feccia seccala a H- 100 conteneva per 100 azoto = 1,8. — 118 — sia dalle stesse sorgenti, donde avrebbe potuto pren- derlo il fermento alcoolico ed anche appropriandosi quello della Tonda Cerovisae, clie con la sua attività attacca e distrude; e dal che consiegue che il nostro vino passa allo stato d’ aceto in breve tempo. Questo fatto 1’ ho provato con una bottiglia di vino preso da quello fabbricato nella esperienza pre- cedente e ne ho ottenuto aceto in poco tempo, ma se per poco si variano le condizioni dell’ esperienza, au- mentando la pressione, questo fatto non accade così : ho messo qualche bottiglia dello stesso vino con tappo a perfetta teuuta d’ aria ed espostolo al sole ad una temp. + 82, il gasse non potendosi da principio svi- luppare per la pressione ha esercitato tale forza che fece saltare il tappo come una bottiglia di gazzosa ed il vino spumeggiò talmente che si versò fuori ; quindi fui obbligato ripetere l’esperienza, legando solidamente il tappo al collo della bottiglia, allora sotto quella pres- sione il vino rimase tranquillo e fino al giorno d’ oggi non s’ è fatto aceto. Il complesso di questi fatti accade nelle nostre botti, dove mettiamo un vino ammalato e pronto ad ogni guasto sol che ce ne sia f occasione; in- fatti i nostri vini s’ intorbidano dalla primavera all’ e- state, ebolliscono, come si dice, quelli zuccherini e spessissimo da questa fermentazione passano facilmente all’ acetica e ciò in perfetta conformità dell’ esperienza che si è veduta in piccolo in una bottiglia. Tutti questi mali, che indubbiamente rendono spregevoli i nostri vini sono prodotti dalla cattiva fermentazione. Epperò quanto al rimedio non potendo sin qui dire cosa alcuna sopra il metodo che da noi dovrebbe adottarsi riguardo alla fermentazione, mi limito solo a dire (per mancanza di esperienze locali) che la fermentazione nei nostri ri- 119 — cevitori, malgrado tutte le pessime qualità che presen- tano, si può in qualche maniera modificare con mezzi semplici per es. non riempendoli perfettamente ma la- sciandoli un 30 centimetri al di sotto dell’ orlo. per fare ad ognuno di essi una coperta di tavole di abe- te attaccati fra di loro ; allora avremo che l’acido car- bonico, più pesante dell’ aria, resta fra le tavole e le vinacce, il coperchio così fatto impedisce sia gli squili- brii della temperatura sia qualunque corrente d’ aria che potrebbe spazzare 1’ acido carbonico sovrastante alle vinacce, ma ripeto questo sarebbe la scelta del male minore, non essendo affatto acconci i nostri reci- pienti alla fabbricazione del vino (1). Allora la folla- tura è operazione che si può fare impunemente, per- chè essendo impedita la propagazione del Micoderma aceti si può rimescolare la vinaccia al mosto e così rendere uguale la fermentazione in tutta la massa ed evitare quell’inconveniente che abbiamo provato speri- mentalmente, cioè che la fermentazione procede dal mosto dell’ alto al basso e quindi irregolarmente nella massa; ciò che fa durare la fermentazione più di quan- to è convenevole ed altera perciò in qualche modo il vino. In caso diverso cioè se il ricevitore sarà scoperto, la follatura invece di essere un bene produrrà grande male, atteso chè tutte le muffe ed il fermento acetico vengono a seminarsi in tutto il mosto per produrre poi al vino quei danni di cui sopra si è fatto parola; danni che si producono similmente mescolando a tutta (•i) I nostri ricevitori intonacati di calcistruzzo deturpano il vino perchè i suoi acidi attaccano il carbonato di calce si potrebbero invece rivestire di basole di lava eh’ è inalterabile dagli acidi del vino conservandoli però nella loro grande capacità utile per il regolare andamento della fermentazione. — 120 — la massa del vino quello ottenuto con la torchiatura, essendo per lo stesso motivo pieno di germi; della qual cosa quasi tutti sono convinti e fino al punto che taluni usano togliere la parte superiore delle vinacce perchè la vedono manifestamente inacidita (1) credendo così evitare il mescolamento dell’ aceto con il vino ; ma costoro forse non sapevano il modo di propagarsi del fermento acetico; ora però che sperimentalmente ho dimostrato come f aceto si trova nei tini scoperti e a vinacce galleggianti in maggiore quantità nella parte superiore ed in minore nella parte inferiore credo non avranno nessun dubbio sulla genesi dell’aceto e modi- ficheranno il sistema di fermentazione secondo indi- cava poco prima (2). Resterebbe sopra questo argomento a risolvere un altro problema che per quanto difficile si presentava, adesso giovandoci sempre delle esperienze precedenti si può rispondere risolvendolo. È un fatto costante che in tutte le nostre cantine si hanno botti di vino che notevolmente differiscono per le loro proprietà, così abbiamo per es. che diverse botti ripiene di vino svi- nato da uno stesso ricevitore in una ci troviamo il vino infortito, in una seconda buon vino, in una terza vino dolce; come accade ciò ? Abbiamo veduto come la fer- mentazione procede dall’ alto al basso e che per con- (1) Del vino che si ottiene da queste vinacce così inacidite se ne la aceto, cosa che prova a quale grado enorme di sviluppo è raggiunto il Mi- coderma aceti. (2) È stato provato abbastanza il male che si produce praticando la fermentazione del vino a vinacce galleggiante; credo che fra noi si potreb- be praticare la fermentazione a vinacce sommerse malgrado la grandezza dei nostri ricevitori e ciò impegnando in appositi anelli di pietra di lava una rete di corda a larghe maglie alla metà della profondità del ricevitore; così si evita pure la follatura, — 121 — seguenza il glucosio diminuisce in ragione diretta dello aumentare dell’ alcole, lo stesso ho dimostrato per la formazione dell’aceto; or bene i nostri enologi, incerti sul punto di svinare , facendo fermentare arbitraria- mente il mosto, spesso credono di essersi mutato in vino (mentre ancora lo strato inferiore prosiegue a fer- mentare) per lo che svinano. Dal che deriva che la botte , la quale viene ad essere riempita con lo stra- to di vino inferiore, turbata la fermentazione, nel chia- rire resterà più o meno dolce; l’altra, che sarà piena, con lo strato intermedio conterrà un vino che non sarà dolce e può essere mediocre o buono, 1’ ultimo pieno con lo strato in contatto diretto con le vinacce darà un vino spuntato per il Micoderma aceti , che già s’aveva incominciato ad acidificare, di colore più carico per l’ a- zione diretta dell’ossigeno dell’aria come appresso di- mostrerò e di sapore più ruvido perchè già ha sciolto grande quantità di acido tannico dei raspi degli acini e delle bucce ; ed ecco così spiegato il perchè in una stessa cantina si hanno differenti qualità di vini malgra- do sian provenienti da uno stesso ricolto e ricevitori. In conferma di questo fatto mi riporto di nuovo al va- lore alcoolico ed acetico diverso nei due strati supe- riore ed inferiore, già visti nella nostra esperienza; tutto questo dovrebbe evitarsi e credo che in gran parte si potrà adottando la copertura dei tini ed il termo- metro come strumento atto ad indicarci il punto di svinare. Svolto per sommi capi questo argomento mi credo in dovere di passare a qualche altro di non mi- nore importanza. ATTI ACC. VOL. X. 17 — 122 — CAPITOLO SETTIMO Vino fabbricato nel comizio agrario d’Acireale con uva Nirello trattato con agenti diversi — Influenza dell’aria, dell’ossigeno gassoso puro e della luce solare — Influenza della temperatura artificiale ed atmosferica — Suggerimenti per migliorare il vino nelle nostre contrade— Conclusione. Il vino fabbricato nella residenza del comizio Agra- rio d’Acireale con uva Nirello, sopra di cui già ho cen- nato le esperienze fatte, proseguirà tuttora a servirci alla dimostrazione di molti altri fatti. Il mosto, che ci servì a fabbricarlo, aveva la composizione che in altre occasioni ho fatto conoscere. (1) Il vino risultante conteneva un peso di azoto per 100 di vino 0,02. L’esistenza dell’ azoto nel vino ci spiega come il fermento alcoolico o l’ acetico sono ca- paci di avervi vita, avendo bisogno tali fermenti di azoto per comporre il loro organismo. L’azoto, delle sostanze azotate, contenuto dal vino è proveniente da sostanze azotate solubili e quindi può riguardarsi come sostanza alimentare di qualche valore e che gode delle vere proprietà terapeutiche; infatti ba- sta citare, oltre 1’ alcole, fra i sali il bitartrato potassico, fra gli acidi il tartarico ed il tannico e la poca quan- tità di protossido di ferro per conoscere come un buon vino bevuto moderatamente si può ritenere come be- vanda salutifera ed alimentare. Il vino che si è fabbricato ha tutte le qualità che può aver un buon vino con i mezzi ordinari usati fra noi essendo di un colore rosso di mediocre odore (1) Vedi pag. 17 nota nel quadro Composizione del mosto Nirello col- tivato diversamente. — 123 — e sapore (1) ma se per poco si mette sotto il campo del microscopio qualche poco di sedimento, che lascia nelle bottiglie, si conosce subito come il nostro vino è ammalato e contiene molte sporule di micoderma aceti non differendo in ciò ( e non essendoci ragione di differirne essendo fabbricato appositamente con lo stesso processo) da tutti i nostri vini comuni. Se in un vino si scorgono germi di malattia potrebbe esserci un rimedio capace di impedirne lo sviluppo? Le esperienze e le teoriche del Pasteur dicono sì, altri sostengono che nò; io non istarò ad impigliarmi in questioni che attual- mente si dibattono fra quelli che vogliono come il ca- lore può spogliare V aria e nel nostro caso il vino di tutti i germi dei parassiti che malgrado sfuggano al microscopio pure esistono; altri invece come il calore non è sufficiente e malgrado lo fosse, per alcuni restereb- besi a spiegare la comparsa di certi esseri in liquidi portati sia ad altra temperatura ovvero fuori il con- tatto diretto dell’ aria; questioni tutte che non sareb- bero da discutersi in un lavoro che ha per iscopo principale il miglioramento e la buona conservazione del vino. Semplicemente mi avanzo a dire come le teorie del Pasteur hanno aperta una via dapprima ignota e hanno dato nell’ applicazione risultati degni di grande attenzione, (2) tralasciando agli indagatori della generazione il resto delle quistioni esporrò succiu- (1) Lo dico mediocre vino non perchè a rigore può ritenersi tale, ma bensì relativamente a quelli che fra noi si fabbricano, con il sistema che appositamente ho seguilo. (2) Le esperienze del Pasteur si spiegano da alcuni diversamente come l’ interpetra l’ illustre autore, ma essendo tuttora una quistione sopra la quale non si è detta 1’ ultima parola credo conveniente attenermi alle idee del Chimico francese. Si possono confrontare i lavori del prof. Maccagno che combattono le idee del Pasteur. * — 124 tamente il principio su cui Pasteur ha stabilito e fatto le sue esperienze. Il chiaro Chimico Pasteur invitato dal governo dell’ Imperatore Napoleone III a studiare le cause che provocano le malattie dei vini di Francia ha scoperto con F aiuto del microscopio non esservi altre cause se non la presenza di parassiti o meglio di fermenti in ogni singola malattia del vino. Ora conosciuta la natura organizzata di tali fer- menti è venuto alla conseguenza di ucciderli per li- berare il vino di tali ospiti nocivi, impiegando il calore; infatti dopo reiterate esperienze ha provato che un ca- lore fra + 50 a 60 è capace di farli morire. Con questo semplice mezzo adunque si possono prevenire le ma- lattie, ond’è suscettibile il vino riscaldandolo a quella temperatura; le molteplici esperienze che il chiarissimo autore imprese, che ognuno può leggere nella sua clas- sica opera su tale argomento, tutte concernono il prin- cipio suesposto; della qual cosa convinte le società e gli enologi Francesi dopo avere aneli’ essi sperimentato se- condo le norme date dal Pasteur si sono dati attorno per F invenzione di apparecchi atti a riscaldare il vino fuori il contatto dell’aria ed ormai ce ne sono parec- chi tutti tendenti ad uno scopo e che gli autori vanta- no come opportunissimi. Ma prima d’ ogni altro gli antichi Greci e i Roma- ni, benché non conoscessero la vera causa delle fermen- tazioni, avevano però provato come F azione del calo- re impediva al vino di alterarsi e migliorava; ma le esperienze del Pasteur specialmente hanno provato co- me il miglioramento del vino con il riscaldamento è dovuto all’azione che F ossigeno esercita sopra sostan- ze ancora non bene definite; ma la sola presenza dell’os- sigeno dell’ aria non vale; perchè F azione fosse attiva — 125 — ha cV uopo della presenza della luce. Infatti ho disposto l’esperienza seguendo quelle del Pasteur nelle seguenti condizioni : il 25 aprile 1874 riempiti due palloncini di vino l’ho chiuso alla lampada, di cui uno ho esposto all’ oscurità, l’altro alla luce, altri due palloncini ho riempiti per metà ed esposti ancora alla luce 1’ uno, alla oscurità 1’ altro. I palloncini pieni non hanno provato alterazione alcuna non influendo la luce che in pochis- sima parte sopra il colore che si fece un poco più bril- lante, quelli che lo erano per metà 1’ uno esposto alla luce nello spazio di 24 ore si è intorbidato talmente da sembrare proprio feccia di vino e la sua superficie si è coperta di un velo a riflessi setacei, questo precepita- to dopo circa 8 giorni si è agrumato e si è attaccato alle pareti del recipiente lasciando un vino chiaro e quasi bianco, mentre prima era di un rosso intenso: per contrario quello esposto al buio ha dato un piccolo precipitato ma dopo un mese, persuaso adunque che la luce e f ossigeno producevano tali effetti sul vino ho fatto il seguente ragionamento. Se è vero che l’ os- sigeno ha questa influenza, maggiormente dovrebbe spiegarla se si farà gorgogliare 1’ ossigeno puro attra- verso il vino, per lochè riempite due bottiglie di vino vi ho fatto gorgogliare l’ossigeno, lavandolo prima nel- 1’ acqua di calce, allora immediatamente il vino è di- venuto di un colore così cupo e quasi nero da non la- sciare passare attraverso i raggi solari. Al solito ho esposto le due bottiglie al sole 1’ una, al buio l’altra; quella esposta al sole nello spazio di 24 ore si è schiarita completamente lasciando un abbon- dante deposito e restando il vino quasi incoloro, quel- lo messo al buio si è schiarito ancora ma ha dato po- co precipitato ed il suo colore è rimasto rosso. Inoltre — 126 — questo vino sia nell’ uno che nell’ altro caso ha acqui- stato un odore aromatico aggradevolissimo, al contrario però per il sapore , che quello esposto al sole aveva già cominciato ad acquistare il sapore di vecchio, men- tre all’altro tenuto al buio si è sviluppato un sapore astringente al punto da non soffrirsi; così l’azione del- F ossigeno sul vino è provata anche direttamente. Que- st’ ultima esperienza ci spiega fatti importanti che me- ritano essere sviluppati. Nel nostro modo di vinifica- zione non preservandosi il vino dal contatto diretto dei- fi aria, facendosi scorrere per imbottarlo all’ aria libera e cadendo nelle botti dall’alto (le quali dopo piene si tengono scoperte senza alcuna precauzione) e quan- do il vino si spilla venendo in contatto d’aria ne pro- viene che nei nostri vini accade nè più nè meno quel- lo che in poche ore si è visto nella precedente espe- rienza; infatti una delle cause a cui deve addebitarsi il sapore eccessivo astringente credo sia direttamente l’ossigeno. L’ azione che esercita panni possa spiegarsi così: Le nostre uve , il Nirello specialmente, contengono una grande quantità d’ acido tannico, il quale sotto la influenza dell’ ossigeno dell’ aria si trasmuta in acido gallico, che alla sua volta sotto fi influenza dell’ ossi- geno e degli acidi si trasmuta in acido pirogallico, che sotto questa forma assorbe una grandissima quantità di ossigeno , che rende insolubili le sostanze albumi- noidi con la sua presenza e perciò il vino s’ intorbida. Questa azione dell’ossigeno s’effettua con molta ener- gia, specialmente su i vini ingessati perchè pare che (dietro le ricerche che ho fatte in proposito ) fi acido tannico sotto fi influenza del solfato calcico è più solu- — 127 — bile (1). (Ira impedendo quest’azione dell’ossigeno per un certo tempo, allora il vino è capace di schiarire nuovamente e se il contatto con l’ossigeno si ripete, si formerà di nuovo un precipitato di sostanze al- buminoidi in maggioranza, e così di seguito fino a tanto che tutte le sostanze albuminoidi si precipiteranno, trascinando anche con loro, oltre a piccola porzione di bitartrato di potassio anche l’acido tannico. A questo punto il vino non precipitando più, schiarisce perfetta- mente e può ritenersi come già fatto (2). In conferma di die avendo filtrato qualche bottiglia di vino dopo essere stata esposta al sole per 24 ore, ho veduto ri- comparire il precipitato per essere venuto in contatto dell’ ossigeno. Questo adunque pare sia il motivo per cui il co- lore dei nostri vini s’incupisce, di maniera da compa- rire quasi neri. Non è raro di qualche vino che appena uscito dalla botte s’ intorbida e dopo qualche giorno lascia un grande precipitato, cosa che abbiamo veduto acca- dere immediatamente per 1’ azione diretta dell’ ossige- ni) Credo inopportuno sviluppare tale argomento essendo in vie di ri- cerche sopra l'azione del gesso sul mosto. (2) I nostri vini dell’ Etna ricchi di albumina sono poco accetti in commercio, la ragione principale si è che facilmente s’intorbidano; questo intorbidamento si effettua per l’azione dell’ossigeno. In tutte le esposizioni i nostri vini si sono rifiutati perchè torbidi in maggioranza , ma i nostri vini sono suscettibili di miglioramenti; infatti se questi vini si fanno viag- giare dopo qualche paio d’anni sono tanto migliorati da rendersi irricono- scibili: il movimento continuo che subiscono nella navigazione basta per il loro miglioramento, imperocché l’ossigeno dell’aria vi si scioglie continua- mente ed in grandi proporzioni. — 128 — no (1). In prova poi che l’ossigeno forma una vera com- binazione con l’acido tannico trasmutandolo in acido gal- lico e poi pirogallico analizzando il gasse sciolto , si trova costituito d’acido carbonico ed azoto, mentre l’os- sigeno essendo più solubile dell’azoto vi dovrebbe pre- valere; se cpiesto vi si scioglieva semplicemente non combinandosi ; così nel caso nostro ho trovato che il gasse del vino era costituito per 100 in voi. Acido carbonico = 95, 3 Azoto 4 ,5 Tot. 100,0 E qui sorgono controversie sopra 1’ influenza del- l’aria o per dir meglio dell’ossigeno sul vino; controver- sie tali da non sapere l’enologo a quale partito appi- gliarsi. L’ossigeno migliora il vino e il contatto infine dell’aria non produce nocumento alla bontà del vino. Ma se da un canto le esperienze in proposito provano tale fatto, da un altro lato si è conosciuto che 1’ aria, venendo in contatto diretto col vino, è la causa princi- pale delle sue malattie. La ragione pare sia risposta in ciò che 1’ aria sia l’apportatrice dei germi parassi- tici (2). Orbene se 1’ aria si facesse giungere filtrata o la- vata attraverso l’acido solforico nel vino reputo che sarebbe un mezzo per il suo miglioramento (3). (1) Questo fatto è volgare nelle nostre cantine ignorandosene però la vera causa. I nostri compratori di vino sogliono agitare una bottiglia piena per metà di vino per conoscere se si intorbida riputandosi cattivo segno, mentre generalmente proviene per l’ influenza dell' ossigeno. (2) Le esperienze che provano il contrario senza venir meno al più profondo rispetto verso gli sperimentatori, credo, che lascino a desiderare. (3) Annunzio quest’idea con riserva, malgrado che molteplici espe- rienze mi confermano questo divisamente. Credo infatti che per migliorare — 129 Ora l’azione dell’ossigeno, che nelle condizioni or- dinarie si verifica dopo parecchi anni, non solo si può ottenere rapidamente con i mezzi su esposti ma anco- ra con l’azione del calore. Il calore non solo paralizza tutti i germi che si potrebbero trovare nel vino, se- condo le esperienze del Pasteur, ma nello stesso tem- po lo migliora; il miglioramento non è dovuto ad altro che all’ assorbì mento rapido dell’ossigeno accelerato sot- to T influenza della temperatura tanto da migliorarsi come farebbe dopo molti anni (1). Il riscaldamento mi sembra utile, segnatamente • fra noi, avendo riguardo al modo che con gli attuali mezzi si compie la fermentazione, essendo il nostro pro- dotto un vero semenzaio di germi specialmente di ace- to. La massima difficolta che i nostri enologi incontre- rebbero si è quella che atteso F abbondanza del pro- dotto, tale pratica diverrebbe impossibile ma ai giorni nostri si costruiscono apparecchi capaci di riscaldare sino a 50 ettolitri all’ ora di vino ve ne sono sino a 2 ettolitri all’ora. Da ciò si vede che con sola poca volontà ed un poco di spesa si può usare tale pratica anche fra noi ; in qualche paio di giorni si può praticare il ri- i nostri vini, eminentemente albuminosi, l’ossigeno ne sia un mezzo polente. Il modo da praticarsi sarebbe semplicissimo per es. in una botte piena si potrebbe spingere per mezzo di una pompa o soffieria una corrente d’aria facendola passare prima in una botticella piena di pomice solforica e poi in un’ altra contenente acqua di calce; ma mi riservo dopo ulteriori espe- rienze darne più completo giudizio. (1) Riscaldando il vino sia con mezzo del sole e della luce, ovvero artificialmente, accade che si forma un deposito in cui abbondano le so- stanze azotate specialmente nel primo caso: è forse questa la cagione del suo miglioramento, atteso che i fermenti non vi trovano più l’azoto, sotto forma di sostanza azotata, necessario al loro sviluppo ed esistenza ? se così è, i vini più ricchi di sostanze azotate dovrebbero essere i più facili ad alterarsi e viceversa. ATTI ACC. VOL. X. 18 — 130 scaldamento di tutto il vino di una grossa cantina ; potrei inoltre aggiungere non essere necessario che un proprietario tratti il suo vino di una stessa maniera, potendone riscaldare quanto crede conveniente e così migliorare almeno una parte del suo prodotto. Per conoscere gli effetti del riscaldamento sul no- stro vino, io ne ho riscaldate alquante bottiglie e l’ho portato alla temp. una porzione da + 40 a + 50 una altra da + 50 a + 60; ho altresì, adoperato il mezzo semplice di cui si servivano gii antichi , esponendo cioè i vasi contenenti il vino alle intemperie ed alle oscillazioni atmosferiche. Il freddo sotto zero agi- sce su i germi parassiti come il calore, perciò ho riem- pite parecchie bottiglie, le ho esposte al nord la la gennaio 1874, inalzandosi con la primavera la tempe- ratura, le ho esposte al sole la la aprile; il freddo in quell’ anno scese in qualche notte fino a zero ed il calore giunge in giugno fino a 45, calore che in ogni anno generalmente si ha nella stagione estiva onde non panni cosa inutile immorarmi su tale argomento. Nelle nostre contrade abbiamo una sorgente di calore, che non si compra e di cui un saggio enologo forse potrebbe giovarsi. Questo mezzo di riscaldamento, at- tesa la nessuna spesa e la facilità con cui può prati- carsi , credo debba adattarsi specialmente per il vino in bottiglia non ci sarebbe da fare altro che riempire le bottiglie di vino, adattarci bene il tappo con spa- go acciò con lo sviluppo del gas del vino non salti ed esporle al sole dove si lasceranno almeno per un anno (1). (1) I risultati complessivi di tutte queste esperienze sono state dimo- strate sperimentalmente davanti i membri del Comizio Agrario d’ Acireale. j3u m ìlii itimi oliali ììi n L/J MEMORIA DEL PROF. SALVATORE NICOLOSI TIRR1ZZI . Oggi, o Signori, in cui generale è la tendenza al positivismo scientifico, senza die non può darsi vero sapere; oggi, in cui il misticismo è stato soppiantato dalla realità dell’ esperimento, ed alle ipotesi e vane teoriche sono stati sostituiti i fatti; oggi, in tutti i rami dello scibile si procede coll’ osservazione, e si tiene con- to di tutto che non sia una idealità, un vano concetto, e che dall’ osservazione stessa non si tragga. E se tal norma non è da trasandarsi per le scienze speculative, diventa poi di prima ed assoluta necessità per quelle che sono essenzialmente sperimentali. Per quest’ulti- me ogni maniera di ricerche di fatto son d’adoperarsi, così le fisiche, le chimiche, le microscopiche ecc., e fa d’uopo ogni caso, ogni fatto ed ogni menoma osserva- zione registrare, e farne esatto apprezzamento, onde ac- crescer sempre più il materiale scientifico, il quale poi maneggiato, disposto e ordinato da quegli uomini che, forniti di potente ingegno e di mente acuta e creatri- ATTI ACC. VOL. X. 19 — 132 — ce, hanno la virtù e la forza di riunire ed assommare gli elementi diversi che lo compongono diviene atto a dar luogo a quella sintesi dalla quale procede la par- te teorica ben assodata della scienza. Non liavvi quindi osservazione, per quanto apparir possa di lieve conto, che non sia apprezzabile, e che non serva all’ ingrandimento dell’edificio scientifico. Vo- lendo poi fare applicazione di questo gran principio alle scienze naturali, esso risulta di una evidenza in- contrastabile: ed in alcune di esse, non solo è da porre in calcolo tutto ciò che incontrasi sulla linea della nor- malità, ma non pure quelle deviazioni che essa può presentare, a cui si è dato il nome di abnormi produ- zioni della natura; le quali per lungo tempo trascurate, vuoi, perchè come poco importanti considerate, vuoi, come inesplicabili e da alcuna legge non regolate. Così in fatto di anatomia per le mostruosità e le anomalie varie che s’ incontrano in diverse parti dell’organismo umano, non parlando di quelle degli animali e dei ve- getali, nei quali non sono rare ; conciossiaccliè non soltanto riescono utili a spiegare taluni fatti di for- mazioni organiche ed alcuni fenomeni fisiologici , ma ancora giovano al chirurgo che nelle sue operazioni è costretto ad aver molta accortezza , onde evitare ta- luni inconvenienti, qualche fiata pericolosi, che potreb- bero procedere dal poco conto in cui sian tenute le anomalie di cui si tratta. Si è per questa ragione, che oggi, più che in al- tri tempi, le anomalie degli organi vengon con molta cura ricercate e con seria attenzione studiate e descritte. Così possiam citare pel solo anno 1874 e 75 la pre- ziosa monografia sulle anomalie del canale sottorbitale del professore Wenzel Gruber; le anomalie del cer- 133 — vello , del canale e del nervo sottorbitale , ed alcune altre delle principali arterie e delle vene superficiali del collo, del valoroso prof, di clinica Luigi Calori ; una rara anomalia del cuore dell’ Egregio dott. Giro- lamo Mo ; un’anomalia dell’esofago, del chiarissimo dott. Trebat, ed altre, che per brevità tralasciamo. Nel lungo corso delle mie esercitazioni anatomiche in varie delle anomalie di cui è parola solimi imbat- tuto, le quali, non essendo meno interessanti di quelle, che da altri autori sono state scoverte, ho creduto con- venevole ed utile descrivere, e renderle di pubblico diritto in apposita memoria, che in questo giorno so- lenne in cui festeggiasi il cinquantesimo anno di sua fondazione, ho presentato a questa inclita Accademia, cui ho F onore di appartenere , in mostra di sincera gratitudine e di riverente ossequio. Le anomalie che imprendo ad esporre, delle quali talune rarissime ed altre nuove del tutto , son quelle di appresso. 1. Anomalia del setto interauricolare del cuore. 2. Anomalia dell’ arteria femorale. 3. Anomalia dell’ arteria ombellicale. 4. Anomalia dell’ arteria tibiale posteriore, pedidia e peroniera. 5. Anomalia dell’ arcata palmare superficiale. 6. Anomalia dell’ arteria omerale. 7. Anomalia dell’arteria scapolare superiore. 8. Anomalia della prima branca del nervo trifac- ciale. 9. Anomalia di un muscolo pettorale sopranume- rario. 10. Anomalia dell’ apofìsi stiloide. * — 134 — 11. Anomalia di un muscolo zigomatico sopranu- merario. 12. Anomalia di una costa sternale. 13. Anomalia dell’intestino tenue. 1. Anomalia della fossa ovale del cuore. Nel 1870, dimostrando alla gioventù studiosa, la parete interna delle due orecchiette del cuore, e pro- priamente nel fare rilevare a trasparenza il setto inter- auricolare di quest’ organo, onde cercare di rendere o- stensibile con precisione quella depressione più o meno circolare che esso setto presenta, chiamata fossa ovale , e non pure quella specie di fessura semilunare , che qualche volta trovasi tanto rilevata da far dire al Cro- quet, che si può passare facilmente dalla destra nella sinistra orecchietta , sospingendo da dietro in avanti nei bordi della fessura suddetta il manico di un coltello anatomico, ciò che secondo me non può effettuarsi, se non se sforzando e lacerando le fibre componenti la valvola del setto, mi accorsi, che nella parte inferiore a destra della fossa ovale, e lo anello di Vieussens che la delimita, esisteva un’ apertura, della forma quasi circolare, ed il cui lume permetteva il passaggio di una penna d’ oca. Quell’ apertura a primo sguardo, mi fece credere essere il foro di Botai, rimasto aperto per arresto di sviluppo, principalmente tenendo a cal- colo, che il cadavere apparteneva ad una ragazza; ma facendo accurate ricerche, mi convinsi non poter essere quell’apertura il foro di Botai, per trovarsi in luogo molto inferiore alla fossa ovale; e neanco potevo con- fonderla con quelle aperture che sogliono sebbene ra- ramente trovarsi nel detto tramezzo, sulla ragione che quando esistono, si ritrovano sempre in alto della sur- riferita fossa ovale, e non giammai in basso. Per lo che sono costretto a considerarla quale singolare anomalia. 2. Varietà dell’ arteria femorale. Nello scorso anno, in un cadavere di donna tren- tenne constatai, che l’arteria femorale trova vasi in sta- to diverso del naturale, cioè, che l’arteria iliaca esterna appena oltrepassata 1’ arcata crurale lungo la lacuna dei vasi, per invadere, sotto il nome di femorale, o di crurale, la fossa ovale di Scarpa , si divideva in due grosse branche; una delle quali scendeva obbliquamen- te in dentro ed in basso, lungo la regione interna del- la coscia sino allo anello aponeurotico del muscolo grande adduttore della coscia , e sorpassato questo punto, prolunga vasi col nome di poplitea; e 1’ altra branca, portandosi infuori della precedente, bentosto si piazzava sotto il muscolo retto anteriore della coscia, per camminare tra il vasto interno ed il piccolo e grande adduttore dello stesso membro, ponendo termi- ne nei muscoli flessori della gamba. Dalla disposizione di queste due arterie, si rileva, che la prima costituiva l’arteria femorale, la quale e- manava dal suo lato interno ed anteriore, le arterie pudende esterne e la sotto cutanea addominale, ed un poco più sotto da essa branca partiva, un ramo di me- diocre volume, il quale si dirigeva in fuori sotto il mu- scolo psoas-iliaco, e terminava al legamento capsolare del femore. Era questo ramo, l’arteria circonflessa in- terna, che doveva essere somministrata dalla muscola- re profonda, costituendo così una nuova varietà, non essendo stato descritto questo caso da nessuno autore. — 136 — L’altra branca formava l’arteria muscolare profonda , la quale giunta quasi a metà del triangolo di Scarpa, di- spensava una grossa arteria la quale, camminando tra i muscoli tricipite crurale, sartorio , e retto anteriore della coscia, costituiva, V arteria muscolare superficiale. Quest’arteria appena distaccatasi dal tronco, get- tava un ramo, die per terminare all’articolazione coxo- femorale, costituiva V arteria circonflessa esterna. Finalmente tanto la muscolare profonda , quan- to la muscolare superficiale , gettavano altre arterie più piccole per le parti vicine. Da quanto si è esposto rilevasi, che questa dispo- sizione delle due arterie, cioè della crurale e della fe- morale profonda, non è tanto frequente, ed è la prima volta che si vede nascere dalla crurale la mentovata varietà della circonflessa. 3. Varietà dell ’ arteria ombellicale. Nello stesso cadavere ebbi agio di osservare una singolare varietà dell’arteria ombellicale. Essa, origina- ta dalla iliaca interna, portavasi in basso, costeggiando la vagina; ivi gettava un mediocre ramo, il quale dopo breve corso dividevasi in due, uno arresta vasi nella va- gina, costituendo l’arteria vaginale, e l’altro, di assai maggior calibro, ascendeva flessuoso ai lati dell’ utero sino all’ ovario , formando così 1’ arteria uterina e la ovarica. Però, ciò che a più doppii rendeva l’anomalia inte- ressante, si era il corso ed il termine del tronco princi- pale dell’ arteria ombellicale, che aveva dato origine alle due sopra indicate arterie, il quale dividevasi in ultimo in quattro rami, i quali tutti, dirigendosi ai lati — 137 della vescica orinaria, ascendevano dietro la parete an- teriore dell’ addome per terminare alla cicatrice ombel- licale. Però in quest’ ultimo punto questi quattro rami mostra vansi obliterati e ridotti in forma di legamenti, come suole avvenire nelle condizioni ordinarie. 4. Varietà dell ’ arteria tibiale posteriore pedidia e peroniera. Nello stesso anno e sullo stesso cadavere si consta- tò, che 1’ arteria poplitea, giusto là dove suole corrispon- dere al bordo inferiore del muscolo popliteo, dava l’ar- teria tibiale anteriore, d’ un calibro assai più piccolo del- 1’ ordinario. Quest’ ultima arteria dopo la sua origine incammi- navasi orizzontalmente ed in avanti, seguendo perfet- tamente il consueto corso, con attraversare il muscolo tibiale posteriore ed il legamento interosseo onde piaz- zarsi tra il muscolo gambare anteriore ed estensore co- mune delle dita del piede, sin sotto il punto di attacco superiore dell’estensore proprio dell’ alluce, in cui aveva termine. La pedidia, intanto, che doveva formarne la continuazione, veniva ingenerata dalla tibiale posterio- re, come in seguito più chiaramente esporremo. Questa anomala disposizione fu anco rimarcata dal mio amico e collega mentissimo Girolamo Titone, me- dico-chirurgo del nostro esercito, mentre che egli eser- citava si in ricerche anatomiche sull’ altro membro non injettato, e particolarmente sul modo di legare l’ arte- ria pedidia, la quale non trovando al suo posto, rilevò la tibiale anteriore terminare al terzo inferiore della gamba. L’arteria tibio-peroniera, continuazione della po- — 138 — pii tea, scendeva fra i due strati posteriori della gam- ba sino al piede , senza dividersi in peroniera e tibiale posteriore. In questo lungo tragitto diramavasi fram- mezzo ai suddetti muscoli, tanto superficiali, che pro- fondi; ma giunta in vicinanza all’articolazione tibio-tar- siana, somministrava cinque arterie, cioè: la prima tra- versava la parte inferiore del legamento interosseo per stendersi sul dorso del piede; la seconda scorreva lun- go la parte esterna del calcagno sino alla pelle ; la terza formava la malleolare esterna , perchè aggiravasi intorno all’eminenza malleolare esterna; la quarta mo- strava la malleolare interna per le sue diramazioni sparse sulla parte interna dell’ articolazione del piede; la quinta in fine era l’arteria pedalici, la quale cammi- nava lungo la parte interna del calcagno per monta- re sopra l’estremità posteriore del primo osso metatar- siano, e giunta al primo spazio interosseo, s’impegna- va nella pianta del piede per anastomizzarsi con la plantare esterna. In questo corso somministrava le ar- terie del tarso e del metatarso. 5. Varietà dell’ arcata palmare superficiale. Il mio allievo, Francesco Reina da Catania, nel preparare fanno 1874 la cubitale, e propriamente cer- cando di scoprire l’arcata palmare superficiale, s’avvi- de che essa mancava del tutto, e che le arterie inte- rossee superficiali che dovevano originare dalla con- vessità di quell’ arcata , erano prodotte direttamente dalla continuazione dei tronchi dell’arterie radiale e cu- bitale; cioè l’arteria radio-palmare, avendo assunto gran- di proporzioni, invece di unirsi col ramo superficiale della cubitale per costituire l'arcata palmare superficia- — 139 — le, percorreva la palma della mano, lungo il primo spa- zio interasseo, ed ivi spiccava una piccola arteria, che sorpassando il muscolo corto flessore del pollice, per- veniva alla parte esterna del pollice stesso. Era que- st’arteria la collaterale esterna del pollice. La radio-palmare, dopo aver dato quest’ arteria , cioè la collaterale, dalla sua parte esterna , altra ne produceva d’ un calibro doppio di quella antecedente superiore, la quale si piazzava nel secondo spazio in- terasseo , e giunta, in prossimità delle estremità supe- riori dei diti indice e medio, si divideva in due rami, T uno formando la collaterale interna del dito indice , e 1’ altro la esterna del medio. Dopo ciò 1’ arteria radio-palmare piegavasiin fuori, e giunta a livello del bordo inferiore del muscolo ad- dutore del pollice, terminava con formare la collaterale interna del pollice medesimo , e la collaterale esterna dell’ indice. L’ arteria cubitale giunta a livello del legamento anellare del carpo, si divideva in due branche , una profonda e 1’ altra superficiale; quest’ ultima, dopo aver percorso circa la metà del quarto spazio interas- seo, gettava una piccola arteria , la quale , pergiunta alla estremità inferiore del 5° osso metacarpiano, can- giava direzione, piegandosi verso la parte interna del piccolo dito, constituendo cosi la sua collaterale interna , che ordinariamente proviene dal ramo profondo della cubitale. Dopo aver dato quest’ arteria il ramo super- ficiale della cubitale, seguiva il suo corso, ed arrivata all’articolazione metacarpo-falangeana si biforcava, pro- ducendo la collaterale esterna del mignolo , e la collate- rale interna del dito anellare. ATTI ACC. VOL. X. 20 140 — 6. V arieta dell' arteria brachiale. Nella stessa epoca ebbi occasione di mostrare ai miei alunni sopra altri due cadaveri la divisione pre- coce dell’ arteria brachiale , cioè : che essa giunta a metà del braccio dava origine a due branche , una che seguiva la parte esterna ed anteriore del braccio e dell’ avambracio, e V altra che percorreva la parte interna di queste medesime regioni ; la prima, omero- radiale, procedeva tra il muscolo brachiale anteriore e bicipite , sino alla piegatura del braccio , ove tra- versava T inserzione di quest’ ultimo muscolo per di- venire superficiale sino alla mano. La seconda, o omero- cubitale, seguiva il corso al modo dell’ arteria brachiale, cioè, lungo la parte inter- na del braccio, fra il muscolo coraco-brachiale e tri- cipite , senza mai perdere le relazioni col nervo me- diano, col cubitale, e vene brachiali , giungeva alla piegatura del braccio, per indi percorrere regolarmente tutto il tratto dell’ avambraccio e della mano. Ma in uno di questi cadaveri oltre alla varietà sudetta, si ri- levò che l’ arteria omero-radiale, alla piegatura del braccio, mandava fra gli altri, un ramo di mediocre calibro, il quale dirigendosi verso la parte esterna ed inferiore dal braccio, tra il muscolo gran supinatore e primo radiale, si divideva in altri due rami, uno che ascendeva alla parte anteriore del brachiale anteriore per anastomizzarsi con 1’ arteria collaterale esterna della omerale, e 1’ altro portavasi indietro tra il mu- scolo piccolo supinatore e il cubitale posteriore, onde raggiungere pure la collaterale esterna per anosto- mizzarsi con essa. Questi rami , derivati da unico — 141 — tronco, constituivano le ricorrenti radiali, cioè anteriore e posteriore; come pure V arteria omero-cubitale, appe- na pergiurita nella regione antibrachiale anteriore, emanava dalla parte sua posteriore un’ arteria, che ben presto si divideva in due rami , uno diretto in alto lungo la parte interna ed inferiore del braccio, fra i muscoli gran palmare , pronatore rotondo e cubitale anteriore in avanti, ed il muscolo flessore superficiale delle dita indietro, ai quali somministrava delle divi- sioni, e si anastomizzava con la collaterale interna della brachiale; l’ altro ramo traversava il flessore superficiale per camminare tra questo ed il flessore profondo ove terminava. Questi due rami erano le arterie ricorrenti cubitali anteriore e posteriore, che sebbene proveniva- no da un tronco comune, pure l’ anomalia è frequente; non così può dirsi per le ricorrenti radiali, eli’ è la pri- ma volta che si vedono originare da un sol tronco. La divisione precoce dell’ arteria omerale è pure frequente. 7. Varietà dell’ arteria scapolare superiore. Durante ló stesso anno scolastico 1874-75 in altro cadavere ci si appelesava altra anomalia riguardante 1’ arteria scapolare superiore. Quest’ arteria dalla sua origine sulla parte esterna della succlavia incaminavasi, come all’ ordinario, flessuo- sa, verso il bordo anteriore del muscolo cuculiare , e raggiungeva il margine cervicale della scapola: ma a questo punto, invece di passar sopra la incavatura co- racoidea, ove scorre il nervo sopra scapolare, in essa in un con il detto nervo immettevasi, per invadere la fossa sopra spinosa. — 142 Questa anomalia non è frequente. 8. Varietà dell' apo fisi stiloide. In questo stesso periodo occorse osservare una ra- rissima anomalia dell’ apotisi stiloide, e questa osser- vazione devesi agli alunni Francesco Rema da Cata- nia, Federico Roccella da Piazza, ed Enrico Orlando da Patti. Costoro mentre afìaticavansi a preparare la arteria carotide esterna, rilevarono che le apofisi sti- loidi eran cosi lunghe da giungere ed articolarsi colle piccole corna dell’ osso ioide. Abbiamo detto esser questa anomalia rara ad ol- tranza, e quando essa esiste, invece di formar parte dell7 osso temporale da questo trovasi staccata, e sol- tanto ad esso aderente per fìbro-cartilagine, lo che dà ad essa una certa mobilità, e tale almeno, da non impedire l’ innalzamento e l’abbassamento del laringe ed altri movimenti. 9. Varietà della prima branca del nervo trifacciale. Anche il nervo trifacciale ci appresentava nel 1870 una anomalia, non solo importante sotto ogni riguardo, ma non pure nuova del tutto, non avendo potuto tro- varne una simile in onta alle più sottili ed ostinate ricerche nelle varie opere di Anatomia. Preparando quella volta la prima branca del men- tovato nervo, ebbi agio rilevare, che la direzione e di- stribuzione dei suoi rami eran ben diverse dalla loro normale condizione. Il tronco superiore del nervo di cui è parola, come universalmente si sa, venuto fuori dal seno cavernoso — 143 dà immediatamente il ramo lagrimale, il quale nel no- stro caso non offriva alcuna deviazione dal tipo normale. Però non fu così per gli altri due rami dal pri- mitivo provvedenti , i quali presentavano anomalie nel corso, nel volume, nella ramificazione ed anosto- mosi. Ed ecco quali erano siffatte anomalie. I rami frontale e nasale staccavansi normalmente dall’ottalmico di Willis: ma con ciò però, che il fron- tale mostra vasi più voluminoso dell’ordinario , mante- neva una direzione obbliqua, invececcliè orizzontale, portandosi da dietro in avanti e da sotto in sopra, e sortiva dall’orbita, dall’angolo interno delle palpebre in due rami diviso, l’uno il frontale esterno, e l’altro il frontale interno. In questo tragitto, e propriamente nel corso in- fraorbitale, giusta nel punto dove il terzo posteriore di esso si unisce coi due terzi anteriori, vede vasi origina- re dal medesimo un esile e lungo filetto, che procedeva superficialmente e in direzione obbliqua pari al tronco e pervenuto sotto la troclea del muscolo grande obbli- quo dell’occhio, veniva fuori dall’orbita e si dirama- va sulla caruncola lagrimale e parti vicine, e costitui- va il nasale esterno. II nasale, poi, era assai più gracile del consueto, procedeva superficialmente, costeggiando la parete in- terna dell’orbita, e giunto al forame orbitario interno anteriore, s’immetteva in esso, e terminava nella mem- brana olfattoria. Nello stato normale questo nervo doveva sommi- nistrare un filetto anastomotico al ganglio oftalmico ; ma nel caso descritto il mentovato filetto veniva for- nito dal tronco primario, o oftalmico di Willis, e per- ciò stesso era più breve. — 144 10. Varietà di un muscolo pettorale sopranumerario. Nella serie delle preparazioni del 1870 in altra ano- malia m’imbattei relativa ai muscoli della reo-ione an- O teriore del petto, che ho creduto utile esporre. Sopra il muscolo gran pettorale destro stava di- steso a mo di fettuccia un fascio muscoloso, il quale colle sue due estremità aponeurotiche attacca vasi alla aponeurosi del sopra detto muscolo. La lunghezza del mentovato fascio muscoloso, che possiamo appellare muscolo sopranumerario , misurava la distanza che passa dalla terza alla sesta costola, vai quanto dire lungo 10 centimetri, e due centimetri la sua ampiezza. La sua direzione era obbliqua da alto in basso, e da dentro in fuori, in modo da incro- ciare i fasci medii del muscolo gran pettorale. Ogni estremità terminava con due dentelli aponeurotici di varia lunghezza, e siffattamente disposti, che il dentel- lo superiore dell’estremità interna era più corto di quel- lo inferiore, mentre in quella esterna il superiore era più lungo dell’inferiore. Questo muscolo sopranumerario non è quello di cui parla Meckel, cioè lo sternalis brutorum ; dappoi- ché questo sta disteso perpendicolarmente alla parte interna e superficiale del muscolo gran pettorale, cioè lungo lo attacco sternale del medesimo, da poter qual- che fiata unire il muscolo sterno-cleido-mastoideo al mu- scolo retto addominale; nemmeno può riguardarsi co- nfa ltra varietà dello stesso sternale, il quale si attac- ca superiormente al manubrio dello sterno ed inferior- mente inseriscesi in una delle cartilagini costali. Non può adunque considerarsi come lo stesso sternale o cc- — 145 — me una semplice varietà di esso, ma qual muscolo so- pranumerario, avente una direzione e i punti di attac- co del tutto opposti a quelli del muscolo ricordato da Meckel. In questo modo considerata 1’ anomalia, può senza fallo venir riguardata come veramente singolare. 11. Varietà eli un muscolo zigomatico sopranumerario. Nell’anno 1874-75 e nel mentre preparavo i mu- scoli della regione mascellare superiore, onde farne a- gli alunni la correlativa dimostrazione e mostrar loro i due zigomatici grande e piccolo, m’avvidi della esi- stenza mai veduta di un terzo muscolo zigomatico so- pranumerario. L’ origine di questo muscolo abnorme era comune cogli altri due, i quali tutti formavano una massa che copriva tutta la faccia esterna dell’osso zigomatico, la quale sorpassando tal limite, si scindeva in tre porzioni distanti in basso e in dentro l’ima dal- l’ altra dodici millimetri. La direzione di questi mu- scoli era varia, cioè: un fascio si portava obbliquamen- te da fuori in dentro sino alla parte superiore ed esterna del labbro superiore, ove confondeva le sue fibre con quelle dell’orbicolare delle labbra ed elevatore proprio del labbro superiore, ciò che costituisce il muscolo pic- colo zigomatico ; un altro meno obbliquo del prece- dente, terminava all’angolo delle labbra, ed intrecciava le sue fibre con quelle del muscolo orbicolare delle lab- bra, ed era questo il muscolo grande zigomatico ; l’ulti- mo fàscio infine, dirigevasi quasi perpendicolarmente alla inserzione del muscolo triangolare delle labbra, ove pergiunto , traversava il suo bordo esterno , e terminava assieme al medesimo nel labbro inferiore. Questo fascio per il sito, direzione, e terminazione co- — 146 — stituisce una novella varietà, ed io lo chiamo medio- zigomato-labbiale, o muscolo zigomatico sopranumerario: nè possiamo ritenerlo per il muscolo risorio del San- torini, dappoiccliè , quando esiste, il suo punto di at- tacco è all’aponeurosi massaterina, e la sua inserzione alla commessura delle labbra, ma in modo tutto su- perficiale. In presenza della scolaresca si passò a preparare il sudetto muscolo del lato opposto e si constatò la medesima disposizione. 12. Varietà di una costa sternale. L’ anomalia di cui ora ci occupiamo, è senza fallo rarissima. Essa è stata osservata sul cadavere di un uomo adulto verso il 1872. La terza costa del lato de- stro in vicinanza alla sua articolazione cartilaginea, divide vasi in due, delle quali ciascuna colla sua cartila- gine articola vasi con lo sterno. Di queste due bran- che, quella che stava sotto era più ampia dell’altra. Lo spazio che tra esse intercorreva, era occupato dal muscolo intercostale esterno, ed esso accresceva di uno gli spazii intercostali. 13. Varietà dell'intestino tenue. L’ ultima delle anomalie delle quali in questa me- moria abbiamo creduto utile rassegnarvene la esposi- zione, cioè, questa che riguarda 1’ intestino tenue, ci sembra del tutto nuova, non avendone potuto trovare altro esempio negli annali anatomici che abbiamo avuto agio di consultare. Dimostrando nell’ anno 1873 sul cadavere di un 147 — uomo adulto il tenue intestino, trovai al terzo inferio- re di esso un’ anza, che avea la forma di un otricello, e che rappresentava un piccolo cieco intestino. La sua lunghezza era di dodici centimetri, il suo calibro qua- si il doppio dell’ intestino medesimo; le sue due facce si mettevano in contiguità con quelle vicine, ed uno dei suoi bordi per circa la metà stava legato alla co- lonna vertebrale, mediante il mesenterio, di modo che il suo fondo cieco si vedeva immerso nelle circonvo- luzioni dell’ intestino tenue, contenendo della pasta chilosa. Questa singolare anomalia, possiamo riferirla sol- tanto ai vizii primitivi di conformazione riguardante la forma, e non giammai alle soluzioni di continuità; dappoiché le pareti dell’ intestino non presentarono al- terazione di sorta. avvertenza — La più parte delle sopradescritte anomalie tro- vatisi conservate nel Gabinetto anatomico di questa R. Uni- versità. ■ * . \ SUL CLORALE IDRATO PER 3> . AMATO LETTA NELLA TORNATA ORDINARIA DEL 2 GENNAIO 1870 dell’accademia GIOENIA Nell’Agosto dell’ anno passato in una seduta ordi- naria di questa illustre Accademia io ebbi 1’ onore di leggere una memoria riguardante V azione dell’ anilina sul dorale anidro ed idrato — In essa annunziai clie in avvenire sarei tornato ad intrattenermi sull’azione dell’ acido jodico sul dorale idrato. E questo, o Signori, il titolo della memoria che oggi mi reco ad onore di leggere d’innanzi a questa adu- nanza di uomini illustri. Primo di entrare in materia, mi sia permesso an- nunziare che un sunto ristretto della presente memo- ria fu da me letto insieme ad altre comunicazioni nella seduta del 3 Settembre della Classe III. ( Chimica e Mineralogia) del XII Congresso degli Scienziati tenuto a Palermo. Il dorale anidro è un corpo, che ha la composi- zione espressa dalla forinola C’HCPO, il suo idrato ha ATTI ACC. VOL. X. 21 — 150 la stessa composizione dell’anidro con più gli elementi di una molecola d’ acqua. C’HCFO'H’O \ E quest’idrato sovra cui i chimici negli ultimi tem- pi hanno rivolta tutta la loro attenzione, allo scopo di studiarne l’ intima natura ; e più recentemente anco- ra i fisiologi per ricavarne un prodotto utilissimo alla terapia ed alle altre parti delle scienze mediche. Esso difatti è un corpo che possiede contemporaneamente delle proprietà anastetiche e soporifere, potente seda- tivo del sistema nervoso, motore, e sensitivo; calma i violenti dolori di gotta; gli atroci dolori della colica nefritica , ed è pure adoperato in certi casi per calmare i dolori del parto naturale e facilitare le operazioni ostetriche. Al giorno d’oggi è quasi esclusivamente u- sato per provocare un sonno tranquillo. La sua azione sull’ organismo sta in ciò che esso in contatto del san- gue, che ha reazione alcalina si trasforma a poco a poco in cloroformio ed in formiate alcalino, secondo la equazione seguente: OHCFO +KHO = CUCI3 + KCHO dorale / alcale \ cloroformio /formiatox Vpotassa/ Vpotassico/ L’ acido jodico, l’altro corpo che figura nella pre- sente comunicazione, ha la composizione; MIO3 Esso non ha alcuna importanza terapeutica, è un 151 — ossidante, e si adopera pure in certi casi per sostituire nei corpi organici clorurati il jodo al cloro. Fu sotto quest’ultimo punto di vista che io feci agire l’acido jodico sul dorale, allo scopo cioè, di ot- tenere il j odale, corpo che, non ostante i tentativi fatti da molti chimici, tutt’ora non si è ottenuto. Nella mia reazione non fui più fortunato di que- st’ultimi, ma ottenni alcune reazioni che offrono a mio credere il carattere di una certa importanza scientifica. Nella chimica, come in tutte le scienze sperimentali, quel che più preme si è di sapere le ragioni per le quali certi fenomeni o certe reazioni si avverano, mentre altri, contro 1’ aspettativa dello sperimentatore non si avverano. Lo indagare queste ragioni ci conduce spesso alla scoperta di leggi importanti , le quali riescono poi a svelarci i segreti che la natura tiene gelosamente nascosti, e che saranno in seguito di forte impulso per il progresso rapido delle scienze. Nel caso mio speciale il dorale non subì la sosti- tuzione del jodio al cloro — 1 chimici si spiegano que- sto fatto adducendo, che i corpi j odorati, specialmente di natura organica, sono in generale meno stabili dei corrispondenti composti clorurati e bromurati , e ciò perchè il jodo ha la tendenza di combinarsi con se me- desimo, cosichè appena formatosi il composto jodurato si scinde in jodio libero ed in un altro prodotto. Ma io domanderei , perchè il jodio ha queste tendenze ? Non è mia intenzione di fermarmi su questo argomento arduo della scienza, quindi passo ad esporre i risul- tati della mia reazione. Se si scaldano in tubi chiusi dentro una stufa di Carius per circa 6 ore , alla temperatura di 100°, del dorale idrato e dell’acido iodico, nel rapporto pon- * — 152 — derale di una molecola del primo per una molecola del secondo in presenza di piccole quantità di acqua, e se dopo si aprono i tubi, si trova che si è separato molto jodio, che si è formato del cloroformio e che si sviluppa una considerevole quantità di un gas, il qua- le fu riconosciuto per anidride carbonica. Esso di fatto raccolto in una campanella capovolta sul mercurio , veniva quasi completamente assorbito dalla potassa, trattato con dell’acqua di calce si intorbidava ed un eccesso di gas ridiscioglieva il precipitato. La parte non assorbita dalla potassa era certamente dell’aria, la quale proveniva dai tubi in cui fu fatto lo scaldamento delle materie reagenti. Essa difatto, nè bruciava , nè spegneva , nè alimentava piu di come fa 1’ aria , la combustione dei corpi combustibili. Una porzione di essa , introdotta dentro un’ eudiometro insieme ad un volume determinato di ossigeno , dopo scoccate delle scintille elettriche , mercè un rocchetto di Rumkorff, non variava di volume ed il miscuglio, nè veniva as- sorbito dalla potassa, nè intorbidava l’acqua di calce, cosa che parla in favore dell’ assenza di materie con- tenenti carbonio ; in un altro volume misurato intro- dussi dell’ idrogeno , vi feci scoccare , come sopra, la scintilla elettrica , e dalla diminuzione di volume ri- conobbi essere nient’ altro che aria. Ritornando ora alle materie solide e liquide rima- ste nei tubi , esse furono rinchiuse nei medesimi tubi e scaldate di nuovo alla temperatura di 120°, per al- tre 6 ore circa. Con mia sorpresa trovai che il jodio era tutto sparito e invece vi esistevano due strati liquidi 1’ uno inferiore , di colore leggermente gial- lognolo, il quale svaporandosi fu riconosciuto per una soluzione satura di acido jodico nell’acqua; l’altro — 153 galleggiante di un colore giallo ambra , fu studiato nel modo che andrò a descrivere. Dippiu aprendo que- sti tubi si sviluppò anche qui una considerevole quan- tità di gas il quale, analizzato come sopra, fu pure ri- conosciuto per anidride carbonica commista ad una piccola quantità d’ aria atmosferica. Lo strato colore di ambra fu distillato in un ba- gno ad olio, e dopo parecchi frazionamenti in uno apparato fatto apposta, tutto saldato in vetro (perchè la sostanza si scomponeva al contatto delle materie orga- niche) si ottenne un liquido che bolliva costantemente alla temperatura di 120°. Questo liquido , non ostante che per il modo suo di comportarsi alla distillazione, simula i caratteri di un prodotto chimico definito, pure è un miscuglio di due corpi diversi , di acqua , cioè , e di tricloruro di jodio — Questo prodotto di fatto è insolubile nel cloroformio , solubilissimo nel- l’acqua e nell’etere; ma in contatto di quest’ ultimo si scompone eliminando del jodio; trattato con potassa o con carbonato di soda precipita delle considerevoli quantità di jodio, che poi si sciolgono in uno eccesso di reattivo. Tutte queste, non sono che le proprietà del tricloruro di jodio. Io potei separare questo corpo allo stato solido , servendomi dell’ acido solforico concentrato per elimi- nare l’acqua che lo accompagnava. Feci in seguito alcune determinazioni quantitative di cloro e di jodo col metodo di Carius; e trovai che le quantità atomiche di cloro e jodio stavano fra di loro come tre ad uno , corrispondenti quindi ad un prodotto della formola TCP i — 154 — Ecco i risultati: Sostanza. ... ... 0,gr,450 Miscuglio di Cloruro e Ioduro di argento 0,gr,557 Differenza di pesata dopo avere fatto pas- sare una corrente di cloro sino a peso costante 0,105 Il che dà sopra 0,gp,557 di miscuglio: 0,gr-200 di ioduro 0,200 0,357 di cloruro 0,357 0gr-,200 di joduro contengono di jodio . 0,108 Ciò che fa I = 24,00 per 0/q Teoria I — 23,77 per 0/0 Or-357 di cloruro contengono : cloro . . 0,0887 Ciò che fa CI = 19,711 per 0/Q Teoria CI = 19,93 per 0/q Totale dell’ esperienza 43,711 Totale della Teoria 43,700 Tutte le altre proprietà del tricloruro di jodio da me ottenute, erano tali da non darmi nessuno dubbio sulla sua natura, cosiche io mi dispenso dal pubblicare i dati di altre analisi, che mi diedero risultati simili alla precedente. V olii fare la medesima reazione , del dorale col- 1’ acido jodico , piuttosto che in vasi chiusi in vasi aperti , servendomi anche questa volta di uno appa- recchio tutto saldato in vetro e congegnato in modo che si potevano raccogliere i prodotti gassosi. In que- — 155 — sta esperienza si separò, come nello scaldamento fatto nei tubi chiusi, del jodio e si sviluppò dell’ anidride carbonica ; ma quello una volta separatosi non si combinava più col cloro. Però nei liquidi reagenti si trovarono sempre delle quantità apprezzabili di triclo- ruro di jodio. Volli pure fare 1’ esperienza mettendo nei tubi chiusi un grande eccesso di acido jodico, e trovai che, quantunque la temperatura a cui si scaldava oltrepas- sasse i limiti dei 120°, pure la reazione andava nel medesimo senso, colla sola differenza che, mentre nel primo caso rimanevano delle tracce di cloroformio, in questo caso non se ne otteneva. Dopo questi fatti si può concludere con certezza che l’acido jodio in presenza dell’ acqua alla tempera- tura tutto al più di 130°, ossida tanto l’atomo di car- bonio che costituisce il gruppo aldeidico del dorale •CHO, (1) quanto l’altro atomo di carbonio che si trova in combinazione del cloro allo stato di residuo del cloroformio •CC1S, per formare dell' anidride carbonica e del tricloruro di jodio. Adesso preme sapere in virtù di quale reazione si forma il tricloruro di jodio. Se per 1’ azione del- l’ HIO3 sull’ acqua e sul cloroformio, o pure per 1’ a- zione del jodio sull’ acqua e sul cloroformio. A questo scopo furono scaldati pure in tubi chiusi prima a 120°, poi al 150°, a 170° ed infine a 200° I. Cloroformio, acido jodio, ed acqua ; II. Cloroformio, jodio, ed acqua e si trovò che nel tubo contenente il primo miscu- (1) Col segno . si vuole significare che per stabilirsi l’equilibrio moleco- lare manca qualche cosa, cioè vi è un vuoto da colmare. — 156 glio le materie non reagivano che alla temperatura compresa fra 190° e 200°, e che nel tubo contenente il secondo miscuglio le materie non reagivano, nep- pure scaldate a 200°, Infine devo annunziare due altre reazioni nuove pel dorale; che pure hanno una stretta relazione colle esperienze precedenti. La prima di queste reazioni si è , che quando il dorale viene scaldato col j odoro di potassio in pre- senza dell1 acqua od in presenza dell’ alcool si scinde in cloroformio ed in acido formico. La seconda è quella che il dorale col jodio e coll’ acqua scaldato in tubi chiusi sviluppa anidride carbonica e cloroformio. Nello stato in cui sono le mie osservazioni lascio da banda la teoria, solo mi limito a richiamare 1’ at- tenzione dell’ Accademia sul modo diverso di compor- tarsi dell’ acido jodico di fronte al cloroformio bello e preparato. Questo diverso modo di comportarsi implica forse una disposizione diversa degli atomi dentro la mole- cola del dorale, ed io mi prefiggo in seguito di ap- profondire questa quistione studiando l’azione del cloro- bromuro di fosforo sul dorale idrato , il quale ha la proprietà di dare dei prodotti clorurati o cloro-bromu- rati a seconda che gli atomi di ossigeno nelle mele- cole dei composti organici si trovino allo stato di com- binazione diretta col carbonio , ovvero come dicesi allo stato di ossidrile ( OH ). Dal Laboratorio Chimico della Regia Università di Catania. LA SCOVERTA DELLE FIBRE DELLO SHARPEY RIVENDICATA ALL’ITALIA NOTA DEL DOTTOR GESUALDO CLEMENTI PROFESSORE PAREGGIATO DI PATOLOGIA SPECIALE- CHIRURGICA E MEDICINA-OPERATORIA NELLA R. UNIVERSITÀ DI CATANIA Codesti fatti ci obbligano a confessare che spesso è utile torcere indietro il cammino ed abbracciare le cose già dette ed osservate prima di noi. Troja— Esper. e Osser. sulleOssa% 55. SIGNORI, Essendomi stato impartito da poco tempo l’ono- re di appartenere al numero dei socii di questa rispet- tabile Accademia, nella ricorrenza del 50.° anniversario di sua istituzione, non posso, come avrei voluto, sotto- porre alla vostra illuminata critica un qualche lavoro che ne fosse più degno. Mi permetto quindi chiedere il vostro dotto ed im- parziale giudizio intorno ad una quistione, che riguar- da la priorità di taluni nostri Italiani nella scoverta di certi elementi anatomici delle ossa. Per amore di brevità io non m’intrattengo a pas- sare in disamina le svariate opinioni intorno alla strut- tura delle ossa che sonosi succedute l’una all’altra. Dirò solo che gl’istologi attuali ammettono qua- si generalmente nelle ossa la esistenza di lamelle e di 22 ATTI ACC. VOL. X. fibre, e potrebbe dirsi che vi riconoscano quella struttura lamello-fibrosa che fu già proclamata dal Troja nel 1814. Facendo un taglio trasversale d’un osso cilindrico ed osservandolo al microscopio dopo averlo convenien- temente preparato vedesi quanto appresso: Oltre lo spazio centrale corrispondente al lume del canale midollare, veggonsi le sezioni dei canali di Ha- vers, di forma rotonda ovvero alquanto ellittica secon- do che il taglio è caduto perpendicolarmente ovvero più o meno obbliquamente all’asse del canale. Veggonsi pure altre piccole cavità (trattandosi di osso secco) chiamate corpuscoli ossei da Purkinje e più propriamente lacune da Todd e JBowman. Dalle lacune poi si partono in tutti i sensi dei sottilissimi canalico- li, dei quali parecchi si anastomizzano con quelli che si dipartono da altre lacune, ed altri si terminano li- beramente nel lume dei canalicoli di Havers. Le lacu- ne ed i corrispondenti canalicoli veggonsi distintamen- te quando sono ripieni d’aria. Quel che più importa al mio assunto è la disposi- zione delle lamelle ossee. Verso la superficie periosta- le dell’osso le lamelle sono disposte circolarmente ed in modo concentrico estendentisi a tutta la periferia del corpo dell’osso, e perciò sono dette lamelle circon- ferenziali. Nella parte poi che limita il canale midollare hav- vi un altro strato di lamelle concentricamente dispo- ste che potrebbero dirsi lamelle concentriche centrali o midollari. Attorno ai singoli canali di Havers altri strati di lamelle disposte concentricamente al lume del canale formano la parete variamente spessa di ciascun canale. Sotto il nome di Haversian Systems (sistemi Ha- 159 — versiani) Todcl e Bowman comprendono l’ insieme dei canali di Havers, delle lamelle concentriche che li at- torniano, e delle lacune coi corrispondenti canalicoli esistenti fra le lamelle. Le ossa lunghe di taluni vertebrati tagliate tra- sversalmente verso la loro parte medesima si mostra- no composte d’ un solo sistema di Havers. Un esem- pio di tal genere ce l’ offre la parte mediana delle co- stole del Boa. Schematicamente quindi potrebbe un osso cilindri- co rappresentarsi da due cilindri cavi posti l’uno en- tro l’altro, il cui spazio intermedio fosse ripieno da un numero indefinito di bastoncelli cilindrici. Ho detto schematicamente, dappoiché i canali Haversiani non tengono un cammino perfettamente rettilineo, ma spes- so si ramificano anastomizzandosi coi canali vicini, co- me può facilmente osservarsi su d’un taglio longitudi- nale d’un osso cilindrico. Le lamelle poi che riempiono gli spazii rimasti tra i diversi sistemi Haversiani sono state da Kolliker chiamate lamelle interstiziali. Tomes e Campbell de Morgan han dimostrato nel 1853 la esistenza di certi spazii a forma più o meno irregolare, esistenti tra i diversi sistemi Haversiani, e credono che essi servano allo sviluppo di detti sistemi, la cui formazione debbono precedere necessariamente. Questi spazii quindi sono molto numerosi nelle ossa for- mate di fresco e situate in vicinanza di cartilagini in via di ossificazione (1). Han proposto chiamare questi spazii Haversiani (Haversian spaces), volendo indicare con tal nome la loro relazione con i sistemi Haversiani. (1) Pliil. Transactions for thè year 1853 Part. I. p. 111. — 160 Questo era lo stato delle conoscenze intorno alla intima struttura delle ossa insino al 1856. In quest’ ultimi tempi a dir del Frey l’attenzione degl’ istologi è stata richiamata sopra un particolare sistema di fibre nella sostanza fondamentale delle os- sa, sulle così dette fibre perforanti (perforating fibres) o fibre dello Sharpey. Lo Sharpey scovrì queste fibre nel 1856 e le descrisse nella 6.a edizione dell’ Anatomia di Quain p. 208. Hyrtl (1) riassume daH’anzidetta opera la descri- zione delle fibre dello Sharpey nel modo seguente : « W. Sharpey descrive col nome perforating fibres « taluni particolari fasci fibrosi, che attraversano per- « pendicolarmente le lamelle ossee, e i quali osservan- « si nelle ossa trattate con acido cloridrico allungato, « quando si staccano per lacerazione le loro laminet- « te. Queste fibre comportansi quindi con le lamelle « come i chiodi conficcati entro più tavole, e si pos- « sono osservare i fori nei quali erano intromesse do- « |io che le lamine sono distaccate e strappate. Il Prof. Antonelli che alla traduzione dell’ Hyrtl ha aggiunto delle preziose note riguardanti la priorità degl’italiani su certe scoverte anatomiche alle quali gli stranieri han voluto appiccare il loro nome, questa volta pare convenga coll’Hyrtl nell’ attribuire il merito della scoverta allo Sharpey. Aneli’ io nel breve corso d’isto- logia dettato nell’Anfiteatro anatomico di quest’Uni- versità lo scorso anno scolastico parlai ai miei uditori di fibre dello Sharpey. S. Delle Chiaje, che nel suo Discorso storico sul (1) Istituzioni di Anat. umana- -Versione ital. del dott. Giovanni Antonelli Napoli 1805 p. 208. 161 Museo di Anatomici di Napoli (1) discorre minutamente delle investigazioni del Troja sulla struttura delle ossa non potea allora aver conoscenza della scoverta dello Sharpey; come non 1’ avea del pari il Prof. Frusci il quale nel 1861 pubblicò un bel lavoro critico riguar- dante le scoverte e gli studi degli Italiani sulla ripro- duzione delle ossa. Sino al 1874 almeno credo clie nessuno abbia du- bitato intorno alla priorità della scorverta dello Shar- pey, imperocché tanto nelle Lezioni di Fisiologia e Ana- tomia comparata del Milne Edwards del 1874, quanto in un bel lavoro pubblicato lo scorso anno dal Tizzo- ni (2) parlasi tuttavia di fibre dello Sharpey. Non sono molti giorni che, occupandomi dell' im- portantissimo argomento della rigenerazione delle ossa m’accinsi a studiare l’opera del Troja Osservazioni ed Esperimenti sulle Ossa, pubblicata in Napoli nel 1814. In ciò fare restai sorpreso dal trovarvi descritte le fibre perforanti con maggiore precisione e più minu- tamente di quello che abbiali fatto Sharpey e tutti gli altri valenti istologi che dopo di lui le hanno stu- diato. Pria d’ ogni altro credo importante far notare che la struttura lamellare delle ossa riconosciuta ora ge- neralmente fu annunziata la prima volta dal nostro Domenico Gagliardi nella sua pregevole Monografia A- natomes ossium edita in Roma nel 1689, e che lo stesso opinava già che tutte le lamelle fossero unite tra di loro per mezzo di caviglie trasversali (claviculi ossei) che paragonò a chiodi che le stringessero insieme. (1) Filiatre Sebezio — Giornale delle Scienze mediche 1856 — voi. LI. (2) I lembi periostei — Rivista Clinica di Bologna 1874. — 162 — Sappey frattanto sconoscendo nel 1866 i lavori di Troja, e con somma mia meraviglia anche la scoverta dello Sharpey parla delle caviglie del Gagliardi ma le crede ipotetiche, e sostiene invece che quelle supposte caviglie altro non sieno che le diramazioni dei canali Haversiani. (1) Trovandomi a Roma, ed essendo chiuse tutte le biblioteche per le ferie autunnali non potei studiare a mio piacimento la monografia del Gagliardi, e debbo alla gentilezza del dott. Zapponi bibliotecario della Lancisi, se il giorno precedente alla mia partenza po- tei per un pajo d’ore darvi un’ occhiata. Anzi tutto sembrami che mal si sia apposto il Sap- pey dichiarando d’un mediocre valore il lavoro del Gagliardi. Avuto riguardo al tempo in cui esso fu fat- to ed agli imperfetti mezzi che erano allora a sua di- sposizione, io credo che altri non avrebbe potuto far di meglio, e per la parte microscopica panni che do- po il Gagliardi non sia stato detto alcun che di nuovo. Sappey soggiunge che le lamelle che il Gagliardi otteneva non erano punto le lamelle elementari, ma dei gruppi molto irregolari di queste. Sapendo con quanta difficoltà al dì d’oggi si ot- tengano completamente separate le lamelle elementa- ri non ci recherà alcuna sorpresa il non essere stato capace di separarle Gagliardi; il quale però ammette- va un numero quasi innumerevole di lamelle e quindi sottilissime (2). (1) Sappey. Traile d’Anatomie descriplive. Paris 1866 Tome I p. 76,81. (2) Loc. cit. p. 23 Inquirenduin denique superesset, quo numero brac- tearum singola ossa composita sint, quae notitia cum nullum benefìcium nobis pracstare possit, eaque multimi temporis requi retur, ideo libclcr cu- 163 Nè si può dire che Gagliardi abbia ammesso ipo- teticamente queste caviglie come vuole Sappey, o che le abbia solo immaginate secondo dice il Cloquet (1) quando nella monografia dell’ anatomico romano si tro- vano le figure delle cerniate caviglie, vi si descrive co- me alcune di queste caviglie penetrano perpendicolar- mente ed altre obbliquamente attraverso le lamelle (2), e si emette inoltre l’opinione che esse risultano di fa- scetti di connettivo calcificati , come direbbero i mo- derni (3). Hyrtl dice nella sua opera che si possono osservare i fori nei quali erano intromesse le fibre perforanti do- po che le lamine sono distaccate e strappate; e Gagliar- di a pag. 12 scrive: « Lamellae taliter constructae undi- « que foraminulis perviae sunt. , perquae quatuor cla- « viculorum species (V. fig. I) ABCD introduntur, « quae diversimodi, prout partis indigentia ex postulat « et moto plures aut paucioris in memoratis lamellis « radicatae observantur, quorum structuram ac for- « mam in sequenti observationi perscrutabimur. Dopo quanto ho esposto credo doversi ammettere che il nostro Gagliardi sia stato il primo a riconosce- riosioribus inclagadum relinquimus, sudìcient solum impraesentiarum no* visse plurimas, ac quasi inaumerabiles esse, et plures aut minores, prout crassior, vel tenuior dieta externa ossium substantia fuerit efformata. (1) Anatomia descrittiva. Traduz. italiana. Napoli 1852 voi. 1. p. 21. (2) Loe. cit. p. 14 — Alii namque A (Y. tìg. 1.) quasi per lineano per- pendicularem laminis inflxi, per obliquano nonnulli C, plurimi D ad angulum retorti, nec, non pariter reliqui B, tamquam minimi boleti conspiciuntur. (3) Ex qua materia conslent et quo pacto conformentur adirne ambi- guum est; verisimilius tamen milii videtur, quod siut productiones, seo ap- pendiculae filamentorum, laminas componentium, ac simul quasi in fasci- culum constrictae, pradictoque concrescibili ac ossescente succo obductae, atque incrustatae, de quibus plurimae, neclevis momenti extant connicturae. — 164 re nelle ossa la esistenza di fascetti fibrosi aventi l’uf- ficio di connettere tra di loro le diverse lamelle. ' Quegli però che precesse i moderni istologi in tutto ciò che riguarda la disposizione, l’origine e la struttura delle fibre perforanti, come ho già detto si fu Troja, per- lochò mi soffermerò a fare il parallelo tra quanto scrisse al proposito il chirurgo napolitano nel 1814, e quanto è stato scritto recentemente dopo l’annunzio dello Sharpey. Frey (1) nel 1870 scriveva: « le lamelle fondamen- « tali ( circonferenziali ) non che i sistemi Haversiani « periferici vengono traversati dalle fibre in discorso « (fibre dello Sharpey), che s’intromettono dal periostio, « come ì fogli di un libro da un chiodo conficcato in essi perpendicolarmente (wie die Blàtter eines Buclies von einem senkrecht durchgetriebenen Nagel). Fio già detto che Hyrtl paragonò dette fibre a chio- di conficcati dentro più tavole. Da tutto ciò rilevasi chiaramente come lo Sharpey non abbia detto nulla di nuovo nè in quanto al con- cetto, nè in quanto al paragone delle fibre del Gagliardi. Anzi pare che nè lo Sharpey, nè tutti gli altri scrittori posteriori si abbiali fatto un concetto chiaro della vera disposizione di queste fibre , imperocché tutti dopo Sharpey, dovrei anzi dire dopo Gagliardi han ripetuto il paragone dei chiodi, che Troja dietro le sue minute ricerche giustamente riconobbe come improprio, soggiungendo però nulla importare il para- gone semprechè esistano in realtà. Ed invero il paragone starebbe qualora queste fì- (1) Handbuch der Histologìe und Histochemie des Menschen. Leipzig 1870 § 142. — 165 — bre traversassero le lamelle ossee senza mandare al- cuna ramificazione od anastomizzarsi con altre. E da quanto scrivono Hyrtl e Kolliker pare sia stato questo il concetto che entrambi e probabilmente anche lo Sharpey ne abbiano avuto. Lo stesso Frey però nella edizione del 1870 del suo Hanclbuch der Histologie a pag. 244 dice che « in « alcuni punti esse formano una rete a maglie larghe « talvolta, e tal altra strette (1). Questo scrittore non esplica il come dette fibre for- mino le maglie della rete, ma volendo ritenere col Milne Edwards (2) che le fibre dello Sharpey sieno disposte « a peu prés corame les rayons medullaires de la tige « dans les plants dicotyledonée au milieu des couches « concentriques du bois » . Frey dovrà ammettere che tal rete sia costituita da appendici laterali delle fibre principali, le quali in tal modo conformate non pos- sono certamente paragonarsi a chiodi. E fu certamente più felice il Troja (3) dicendo per alcune di esse: « che stringono fra loro i diversi piani « fibrosi in quella guisa appunto che nelle nostre tele « i fili della trama uniscono i fili distesi in luno;o » . O Più oltre Frey scrive: « Nelle ossa lunghe degli Anfibii e dei Mammi- « feri il sistema fibroso in parola risulta di colonne « longitudinali dalle quali tanto verso il periostio, quan- « to verso i canalicoli di Havers si dipartono radial- « mente i sistema delle fibre perforanti le lamelle » . (1) An vielen Stelle» bilden sie ei» Netzwerk von baiti weiteren, baiti engeren Maschen. (2) Lecons sur la Physiologie et 1’ Anatomie comparée. Paris 1874 — Tome tlixieme p. 260. (3) Loc. cit. § 52. ATTI ACC. VOL. X. 23 — 166 — Ma anche questa disposizione era nota al Troja secondo il quale il sistema fibroso delle ossa è costi- tuito nel modo seguente: Egli ammette pria d’ogn’ altro la struttura la- mellare o stratificata come egli stesso la chiama. Pro- babilmente Troja non arrivò neppure ad isolare le la- melle elementari, epperò ei parla di piani fibrosi, i quali ora si sa, risultano di lamelle molto sottili. Or bene, il nostro Italiano distingue nel sistema fibroso: fasci fibrosi di prilli’ ordine, i quali decorrono lungo i diversi piani fibrosi; e sembrami corrisponda- no alle colonne longitudinali del F rey . Ammette però che « alcuni fasci istessi di prim’ ordine passando da un piano all' altro ne assodano la loro unione » . Esistono inoltre secondo lui delle appendici late- rali che congiungono i fasci fibrosi di prim’ ordine nello stesso piano. Ma queste non sono le sole, perchè altre ne sorgono da ogni lato di quei fasci le quali con- giungono i fasci dei piani contigui. Queste appendici laterali che si dipartono dai fa- sci fibrosi di prim’ ordine sono precisamente le perfora- ting fìbres dello Sharpey, che secondo Frey si dipar- tono radialmente dalle colonne longitudinali. Distingue poi col nome di fasci fibrosi di secon- d’ ordine delle altre appendici che si dipartono molto obliquamente dai fasci di prim’ordine. Tutti gl’ istologi moderni sono d’ accordo nel mo- do di riconoscere V esistenza di queste fibre. Al pari degli altri Kolliker dice che « queste fibre nelle ossa « trattate con acido cloridrico si isolano col dilacera- « mento delle lamelle in lunghi tratti, e quindi appa- iono come fibre o meglio fasci di fibre di diversa — 167 — « lunghezza per lo più con terminazione a punta (1). Ebbene, Troja scrisse del pari: « Nel fare la separazione degli strati concentrici « delle ossa ammollite coll’acido nitrico i primi (inten- « de parlare delle appendici che equivalgono le fibre « dello Sharpey ) si presentano trasversalmente alla « tenta schiacciata. Fraine ttendo un dito tra lo strato « in parte disgiunto e 1’ osso cui appartiene si vedono « intere le appendici che dall’ uno traversano all’ altro « Essi legamenti distinguonsi parimenti « negli strati membranosi in tutto disgiunti. « La superficie di quegli strati che ha soffèrto la « disgiunzione tuttoché levigata, se vi si passa di so- « pra leggermente il polpastrello del dito lascia av- « vertire al tatto delle punte fibrose così fatte, che ras- « somigliano ad un finissimo spazzolino. (2) Sottopo- « nendole alla seconda lente a specchio, si vede che « quelle punte restano perpendicolari sul suo piano , « ed è questa la caratteristica più distintiva che le di- « stingue dalle altre. «Le punte spezzate all' incontro dei fasci fibrosi « di prim’ ordine (colonne longitudinali) si riconosco- « no e per la loro grossezza, e per la loro direzione « perchè sono coricate su quel piano. (3) Dopo tutto ciò parafi non si debba avere alcuna difficoltà di riconoscere nella descrizione del Troja , quelle stesse fibre o meglio fasci di fibre che tutti gli (1) Trattalo di Istologia Umana. — Traduz. del D.r Antonio Raffaele 1866 p. 180. (2) La fig. II del Frey non rappresenta che un taglio verticale dello spazzolino di Troja. (5) Loc. cit. § 53-54. — 168 — istologi credono abbia scoperto pel primo Sharpey. Anche sulla origine di queste fibre Troja emise il suo parere che ora è stato ripetuto quasi letteral- mente dagl' istologi tedeschi. Così, secondo Gegenbauer « Le fibre dello Sharpey « sono in continuazione col periostio, sono resti di tes- « suto connettivo o meglio di fascetti di connettivo « esistenti prima e rimasti dopo la formazione delle « lamelle » (1). H. Miiller riguarda queste fibre come tratti di so- stanza connettivale la di cui formazione ha preceduto nel processo di ossificazione la stratificazione (2). E Troja disse la stessa cosa con altre parole, rite- nendo anch’egli che la formazione di queste fibre abbia preceduto la stratificazione nel processo di ossificazione come rilevasi dalle seguenti parole: « questi stessi fasci « fibrosi (già primi descritti) servono di appoggio alla « gelatina ed al fosfato di calce che si vanno succes- « sivamente accumulando a strati nello sviluppo delle « ossa » (8). Naturalmente parla di stratificazione di gelatina, imperocché allora sconoscevasi che la gelatina o il glu- tine altro non sono che il prodotto delle stesse fibre di connettivo sottoposte alla prolungata ebollizione. In tal guisa a me sembra che quanto è stato scrit- to sulle fibre dello Sharpey dal 1856 sin oggi era già noto al nostro Troja. Ma questi fece ancor più di Sharpey imperocché dimostro la esistenza dello stesso sistema fibroso anche (1) Frey — loc. cit. p. 244. (2) Hyrll — loc. cit. p. 208. (3) Loc. cit. § 32. — 169 — nelle ossa piatte, precedendo così il Gegenbauer il quale al pari dello Sharpey crede d’aver scoverto cose prima di lui non mai osservate. La sola differenza sta in ciò, che Gengebauer ha preso a studiare la testa d’ em- brioni d’uccelli, e Troja invece il teschio d’ uno schele- trirlo di un feto a tre mesi. Secondo Gegenbauer nelle ossa piatte ci si presenta « una rete di fascetti di connettivo in alcuni punti an- « cora molle e fibrillare, ed in altri calcificato e d’ap- « parenza granulosa. » (1) Troja dopo avere minutamente descritto l’andamen- to di questi fascetti di connettivo al pari di Gegenbauer conchiude (§ 11). « Tutte queste cose si veggono in « confuso ad occhio nudo, potendosi 1’ unione dei cor- « doncini assomigliare ad una rete sebbene molto im- « perfetta. Le lenti troppo acute danno anche l’appa- renza d’una rete. Anche la struttura fibrillare di cui parla Gegen- bauer non isfuggì all’ occhio osservatore di Troja, aven- do lo stesso notato^ al § 12 che: « le punte recise dei cordoncini ossei erano composte di filamentucci oltre- modo sottili ed eziandio trasparenti. » E chiaro che tali filamentucci altro non sono che le fibrille elemen- tari del connettivo dei moderni istologi. « Più tardi, (segue il Gegenbauer) quelle gittate « del tessuto indurito si estendono, sono frattanto este- « samente calcificate, e le cellule da esse circondate « ricordano i corpuscoli ossei. Anche qui è dimostrabile « uno strato di osteoblasti e dà origine allo strato osseo « che riveste quell’ impalcatura connettivale. » (4) Frey — loc. cit. p. 259. — 170 E lo stesso concetto volle esprimere Troja quando scrisse : « Quei cordoncini intanto colle loro appendici , « che chiamo così per la loro brevità , altro non sono « che fasci di fibre avvolte in un ossea guaina, la quale « cogli acidi diventa membranosa. Possiamo dunque conchiudere che Troja al prin- cipio di questo secolo e Gegenbauer nella seconda metà di esso han riconosciuto nelle ossa piatte un’ impalca- tura connetti vale rivestita da uno strato osseo. Se non che Gegenbauer ha descritto anche uno stadio ante- riore a quello del Troja; in cui i fasci di connettivo non sono ancora circondati da vero tessuto osseo, ma da uno strato di cellule dette osteoblasti, dalle quali poi definitivamente si formerà la sostanza ossea. Ma chi conosce la storia della scienza istologica saprà che la conoscenza di questi elementi istologici è troppo recente, perchè avesse potuto parlarne Troja nel 1814, con i mezzi imperfetti d’ osservazione che of- friva allora la scienza. Dopo avere riassunto in tal modo le ricerche del Gengebauer, Frev conchiude: E«ii è chiaro trattarsi qui di processi che noi abbiamo in fondo riconosciuto come formazione delle fibre dello Sharpey. Ma Troja già riconobbe V analogia di questi si- stemi fibrosi nelle ossa lunghe e nelle piatte , anzi egli nella sua opera, forse un pò dimenticata dagli Ita- liani, espone il modo di comportarsi di questo siste- ma fibroso prima nelle ossa larghe e poi nelle ci- lindriche. Gegenbauer ha fatto disegnare il sistema fibroso delle ossa piatte degli embrioni d’ uccelli. Ora la fi- gura riportata da Gegenbauer pare sia stata ritratta — 171 secondo la esposizione del Troja, poiché essa si pre- sta benissimo alla dimostrazione di quanto scrisse que- st’ultimo, come ognuno può convincersene leggendo i seguenti paragrafi dell’opera di Troja, tenendo presente la figura (f. Ili) di Gegenbauer. Troja, pag. II. § 9 — « Yi si veggono invece di « questo ( dello smalto ) tanti raggi disposti a guisa di « ventaglio ( vedi fig. Ili ) ò, i quali partendo da essi « centri di ossificazione si stendono sino alla circon- « ferenza di ciascun osso. « Sono cotesti raggi così distinti che dai loro lati « trasparisce il lume allorché si oppongono alla luce. « Nei lembi sopratutto sono talmente isolati che si pos- « sono contare uno ad uno. « § 10. Escono essi dunque dai rispettivi centri « come tanti fili secondo appariscono ad occhio nudo, « o come tanti cordoncini secondo appariscono attra- « verso una lente. Ognuno di essi di tratto in tratto « piega insensibilmente a destra o a sinistra e tocca « il suo convicino f Si scostano poi ambidue ed a pic- « cola distanza si avvicinano e si toccano di nuovo la- « sciando uno spazietto cl tra loro. « Codesti avvicinamenti e cotesti scostamenti con « altrettanti spazietti in mezzo sono frequenti dai centri « di ossificazione sino agli orli delle ossa. Non sono « tuttavia i mentovati spazietti nè ugualmente larghi, « nè ugualmente lunghi. « Ve ne ha dei larghetti c, ve ne ha di quei che « lasciano il solo segno della disgiunzione dei cordoli- « cini , ve ne ha dei lunghi d , ve ne ha dei molto « corti c. « Avviene talvolta che due cordoncini non si ri- « congiungano dopo d’ essersi toccati , ma che s’ im- — 172 — « mergano in altri spazietti più o meno lontani, o an- « cora prossimi, oppure che separati sormontino i loro « vicini g, e vadano a formare indeterminate congiun- « zioni con altri cordoncini. Se il vostro parere, illustri Accademici, sarà con- forme al mio, avuto anche riguardo alla parte espcri- mentale dei lavori del Troja, credo si possa benissi- mo applicare agli stessi la sentenza del Puccianti (1): « Tra i libri delli Italiani sciaguratamente dimen- « ticati, comecché non vecchi, dalli Italiani, io ne ho « visti due i quali fan prova che insino dal secolo pas- « sato si fece qui fra noi quello che molti prodighi lo- « datori delle cose d’ oltremonti e d’ oltremare tengono « per recenti, stupende e forastiere scoverte. Catania 25 settembre 1876. (1) Puccianti — Delle principali scoperte degl’ Italiani nella Fisiolo- gia — Prolusione. K CASO III TRASPOSIZIONE DELL' ARCO AORTICO CON ECCESSO DI TRONCHI ARTERIOSI PEL PROF. SALVATORE NICOLOSI TIRRIZZI LETTO NELLA SEDUTA ORDINARIA DEL DÌ 9 APRILE 1875. Dopo aver presentato nella solenne festività della nostra Accademia per la ricorrenza del cinquantesimo anno della sua fondazione, un mio lavoro col quale esponeva varie anomalie appartenenti a diverse parti del nostro organismo, anomalie molto rare e talune quasi nuove, un’ altra ebbi agio ad osservarne, la quale per esser molto complessa risultante cioè, da più aber- razioni e quasi nel punto stesso riunite, e per essere almeno in parte, nuova del tutto, ho creduto utile descrivere esattamente onde non privar la scienza di un di quei casi che per la loro importanza meritano di non esser trascurati. Era il giorno 10 dicembre dell’ or scorso anno, quando assistito dal mio Dimostratore D.r Domenico Vacca, facendo le necessarie preparazioni per porre sott’ occhio ai miei scolari, i vasi afferenti ed efferenti del cuore, mi accorsi, che l’arteria òr achio-ce fatica, detta 24 ATTI ACC. VOL. X. — 174 — altrimenti innominata, mancava, e che in sua vece, si vedevano sorgere dall' arco dell' aorta distinte e sepa- rate le due arterie, che da quella dovevano emanare, disposizione la quale trovasi normale presso i cetacei. A dippiù direttamente dall' arco medesimo dell' aorta originava l’arteria vertebrale destra, esempio non mai sin ora veduto. Questa osservazione spingendomi a riconoscere da qual punto dell' arco dell' aorta partivano le mentovate arterie, mi fu facile constatare, che, oltre lo aumento di numero delle arterie aortiche, esisteva anche la tra- sposizione dell' arco medesimo, donde trassi la conse- guenza, come fu reso patente agli apprendisti, di es- sermi imbattuto in un caso di rarissima anomalia; per lo che volli tutto conservare in alcoole, onde poter completare le mie osservazioni, e renderle con tutta sicurezza di pubblico diritto. Or, per meglio comprendersi la disposizione ano- mala dei tronchi arteriosi da me osservati, è mestieri, eh’ io cenni in primo luogo i tronchi che ordinaria- mente sogliono avere origine dalla curvatura aortica; secondariamente quali sono quei tronchi arteriosi aor- tici anomali, dei quali si è tenuto conto dagli autori, e da ultimo quelli che constituiseono oggi 1’ argo- mento del presente lavoro. 1. Dei tronchi arteriosi che ordinariamente originano dalla curvatura dell aorta. Dall’ arco dell’ aorta partono ordinariamente tre tronchi, cioè, uno dalla parte destra, chiamato bracino- — 175 cefalico , da 2 a 3 centimetri di lunghezza secondo Henle, da 2 a 4 secondo Jourdan, e Tlieile, da 4 a 6 secondo Luschka, sebbene io crederei doversi fissare in media, tre centimetri, ed il suo diametro da 10 a 14 millimetri; gli altri due sorgono a sinistra, cioè la ca- rotide primitiva e la succlavia sinistra , il diametro delle quali, prese ognuna separatamente, è da 5 a 6 mil- limetri, vai quanto dire, circa la metà di quello della bracino-cefalica, e si estendono sino al livello del bordo superiore della cartilagine tiroide per la prima, e per la seconda oltre lo spazio dei muscoli scaleni. L’arteria brachio-cefalica, giunta al termine del suo corso, cioè, dietro il bordo superiore del manubrio dello sterno , si divide in due secondari tronchi , la succlavia e la carotide primitiva destra, di un diame- tro pochissimo superiore a quello dei tronchi di sini- stra, e al converso, la lunghezza è maggiore in que- st’ ultimi, che nei primi , per la loro provenienza di- retta dall’arco dell’ aorta. 2. Tronchi anomali aortici . Le varietà che presentano i tronchi provenienti dall’arco dell’ aorta, si possono riferire ad eccesso o a difetto di sviluppo. Di queste ultime noi non terreni conto, non trovando luogo nello sviluppo del nostro argomento; ma fermandoci sulle altre, quelle cioè, che in atto di formazione eccedono, devo richiamare alla vostra mente , o Signori , che 1’ arco dell’ aorta può in certi casi somministrare da quattro a sei tronchi, che per il loro diverso numero danno luogo a diffe- renti anomalie di varia importanza. 176 — L’ anomalia più frequente, giusta le osservazioni fatte da Meckel, Soemmerring, Boyer, ed altri, è quella in cui l’ arco dell’aorta somministra quattro tronchi. Quest’ anomalia risulta; dei tre tronchi ordinarli con 1’ arteria vertebrale sinistra; questo stato preterna- turale nell’ uomo, è normale nel Pescecane. Solamente vi è d’ aggiungere, che la vertebrale nell’ uomo non deriva sempre dallo stesso punto; così Tiedemann l’ha veduto sorgere iu mezzo ai due tronchi di sinistra, cioè, tra la carotide primitiva e la succlavia sinistra, o pure dopo 1’ origine della succlavia sinistra; mentre Meckel ha trovato la sua origine tra il tronco brachio-cefalico e la carotide primitiva sinistra. Si dà anche il caso, che ai tre tronchi ordinari sie- gua 1’ arteria tiroidea inferiore destra, e raramente la sinistra; allora la sua origine trovasi tra l’ innominata e 1’ arteria carotide primitiva sinistra. Ancora sonosi osservati quattro tronchi con la sola divisione del tronco brachio-cefalico, rimanendo ferma la loro ordinaria posizione , cioè una succlavia a de- stra, ed una a sinistra, in mezzo delle (piali esistono le due carotidi. Rare volte la divisione dell’ innominata porta seco la trasposizione dei tronchi, in guisa da venir prima la carotide primitiva sinistra, indi la destra; in seguito la succlavia sinistra da ultimo la destra; ovvero la suc- clavia destra originare tra le due carotidi, e si è visto ancor derivare dall’ arco aortico , dopo aver sommini- strato la succlavia sinistra. TI caso devesi riguardare più raro; allorquando la curvatura dell’ aorta somministra cinque tronchi, come è il caso da me osservato. Or quando ciò verificasi, dice Boehmer nella sua opera de quatuov vel quinque ramis — 177 — ex arcu aortae provenientibus, che ai tre tronchi ordina- ri , si associano la vertebrale sinistra, e la mammaria interna destra. Diverso è il caso osservato da Tiedemann, che ai tre tronchi aggiungevasi la vertebrale sinistra, e la tiroidea inferiore destra, ovvero, in cambio di que- sta, tutte e due le vertebrali. Pub accadere eziandio, che F arteria innominata manchi, ed il quinto tronco venga rappresentato dalla verte! irale sinistra . Ma giusto come dice Koberwein, nella sua opera de decursu vcisorum abnonnis, che quando vi è divisione del tronco innominato, e f arteria vertebrale sinistra viene direttamente dall' arco dell’ aorta, in questo caso, la succlavia destra offre una vera trasposizione , cioè nasce dopo aver avuto origine la succlavia sinistra. Questa disposizione è stata anche osservata da Me- ckel, con ciò però, che la vertebrale sinistra veniva da un tronco comune con la tiroidea inferiore dello stes- so lato. E lo stesso Tiedemann rapporta aver trovato far seguito alla divisione dell' innominata, o la vertebrale sinistra, o F arteria tiroidea infima di Neubauer. Finalmente il numero dei tronchi può ascendere a sei, caso veramente rarissimo da trovarsene due soli registrati dalla scienza, quello cioè, di Muller in cui 1 innominata era divisa, ed in mezzo ai vasi di destra e di sinistra, si vedevano le due arterie vertebrali; e quello di Malacarne, in cui l’arco aortico si era scisso per un istante in due branche, riunite dopo un pez- zo tra di loro, lasciando un foro fra le branche di di- visione. Or, dalla branca anteriore destra si distaccavano la succlavia, la carotide esterna e la carotide interna destra, e da quella sinistra posteriore la succlavia, la carotide esterna e la carotide interna sinistra. 3. Un caso di trasposizione dell' arco aortico con eccesso di tronchi arteriosi. il caso che descrivo, è tutto differente da quelli riportati superiormente e perciò constituisce una nuo- va anomalia. Questo caso comprende 1° la trasposizione dell’arco aortico, il quale invece di ritenere lo andamento rego- lare, cioè, passare sotto la branca sinistra dell' arteria polmonale, e del bronco corrispondente, si allontanava troppo presto dalla sua naturale disposizione, portan- dosi a destra ed in dietro sopra il bronco destro, rag- giungendo così il corpo della 3" vertebre dorsale , d’onde inclina vasi a sinistra , passando dietro lo esofago, e da questo punto scendeva nel resto del petto come nel caso ordinario. La trasposizione dell’arco dell’ aorta non è nuova: è stata constatata qualche volta da Meckel , Siebold , Abernethy, e Caillot; ma questa da me osservata, non portò trasloeamento del tronco innominato, come nei casi descritti dai mentovati autori, cioè il tronco inno- minato a sinistra, ed i due tronchi separati a destra; nè alla divisione dell' innominata succedè la vertebrale sinistra, o lo trasloeamento della succlavia destra , o la tiroidea infima, ma ebbe luogo la vertebrale destra, unico esempio che si è visto sin’ oggi nella scienza, la quale sorgeva fra li due tronchi carotidei più avvici- — 179 — nata alla carotide comune sinistra , di quanto alla destra. Il pezzo anatomico trovasi conservato nel Gabi- netto Anatomico di questa R. Università ; in questo momento ho 1’ onore di sottoporlo ornatissimi Socii alla vostra osservazione. z,‘\Xd!> z^x-ta- tx-a. c 2H- ossia 9m, 808. Sarà perciò V accelerazione misurata da questo valore di V (6). § 47. La cifra rappresentante la intensità della gravità terrestre ( §46) è una quantità empirica; non puossi altramente conoscere che a posteriori. Frattanto la ragione ci persuade che la gravità terrestre proce- dendo dal comando di Dio e non da altra causa deve essere la stessa in qualsivoglia situazione del corpo, so- pra o sotto il livello del mare. Perchè dunque si dice che 9,m 808 esprimono il valore della gravità alla lati- tudine di Parigi ? La gravità è forse soggetta a varia- zione per circostanze intrinsiche al corpo, o sarà varia- bile per estrinsiche circostanze? Stando all’ osservazione noi troviamo che la gravità cresce andando verso il polo e decresce portandoci verso F equatore. Alfequatore la forinola indicante la gravità è g = ( 3, 1416). 05, 991=9, 7808. Si è trovato poi per g , in qualunque luogo posto alla latitudine k , la formola g = 9, 7808 + 0, 0503211 sen* X J colla quale formola volendo calcolare la gravità alla latitudine di 45°, dove sen 45=1/ si ha g — 9™, 8059. Al polo poi la gravità sarebbe g = 9m, 8310. Dippiù il pendolo oscilla più presto ai poli, men presto all’equatore, e siccome la causa che fa oscillare — 197 — il pendolo è la gravità , ne risulta che la intensità della gravità ai poli è maggiore che all’ equatore. Il pendolo a secondi sarebbe ai poli di poco più di 996 millimetri, mentre all’ equatore è di millimetri 991 , supposta la temperatura a 0.° A che attribuiremo noi tali anomalie ? La Terra se fosse immobile o altro non avesse che il moto di circolazione attorno il Sole, non avremmo a che attribuire il decremento della gravità dal polo all’equatore se non ad una causa che fosse intrinseca alla gravità stessa, che ne affettasse la essenza; ma la Terra ha ancora un moto di rotazione sul proprio asse, ed è noto che colla rotazione si svolge la forza cen- trifuga, quella forza che allontana i corpi dall’asse di rotazione, e perciò infievolisce la gravità de’ corpi ine- gualmente secondo che la forza centrifuga più o meno si oppone allo sforzo della gravità. I corpi all’equatore hanno la massima distanza dall’asse, come la minima distanza l’hanno i corpi situati al polo: ciò fa che il moto di vertigine è all’equatore il più rapido e questo va degradando nelle diverse latitudini sino a che diviene zero quando la latitudine giunge a 90°. Inoltre Inforza centrifuga e la direzione de’ pesi ossia la verticale, le quali nell’ Equatore sono forze cospiranti in contrario senso, divengono obblique nelle differenti latitudini, e la loro obbliquità aumenta come aumenta la latitudine geo- grafica del luogo. Ed ecco una seconda ragione per cui 1’ effetto della forza centrifuga scema dall’ equatore al polo. Quindi la gravità è contrastata dalla forza centrifuga massimamente all’ equatore, e niente affatto al polo. § 48. Ma secondo quale legge la gravità varia dal- 1’ equatore ai poli? Essa varia assai sensibilmente co- atti ACC. VOL. X. 27 — 198 — me il quadrato del coseno della latitudine geografica. Se con T si esprime il giorno siderale, con r il raggio dell’ equatore, e con y la latitudine, la forinola 4 t! /’ COS 2 y 9 = yfi ci dà, secondo Poisson, la diminuzione della gravità dovuta alla rotazione della Terra, ma 4 7 :■ r 1 T* — 289 ’ la quantità di sopra avrà dunque per valore COS2 y Q = — • J 289 § 49. Il globo aerostatico si solleva in aria non ostante il peso: in forza di che si solleva ed in forza di che poscia discende f Pare chela Terra pria lo respin- gesse e dopo, cambiato pen siero ed inclinazione, lo at- traesse. Questo che è uno scherzo è precisamente quel che s’ insegna nell’ Astronomia teorica quando con aria di certezza magistrale si afferma che una Cometa fin- tantoché si avvicina al sole sino al perielio è attratta e voluta bene da quell’ astro potente, ma dovendo la co- meta descrivere un’ orbita iperbolica perchè così è pia- ciuto a Newton, a Laplace, e a Biot, si allontana da quell’ astro, il quale convertito avendo 1’ amore in odio implacabile non è più capace di attraerla come per lo avanti, e come pratica colle sue compagne descriventi orbite ellittiche. F orse il globo aerostatico perde prima il suo peso, e poscia lo riacquista? Questi pensieri stra- vaganti non possono cadere che nella mente soltanto degl’idioti e de’ dotti. Il pallone aerostatico s’ innalza e sorpassa le nubi 199 — perchè il fuoco che si accende nella graticola rarefa- cendo l’aria interna, e tramandando un vapore caldo lo gonfia e lo rende specificamente più leggiero dell’ a- ria che lo circonda. Il globo pesa dunque meno del vo • lume d’ aria che discaccia; la pressione che si esercita da sotto in sopra è maggiore di quella che si esercita da so- pra in sotto: la spinta dell’ aria da sotto in sopra è tanto più forte quanto più grande è la differenza di den- sità tra 1’ aria rarefatta interna e 1’ aria esterna. La spinta da sotto in sopra possiamo benissimo chiamarla la forza attollente dell* aria atmosferica esistente fuori del globo aerostatico. § 50. La differenza di densità tra l’un’ aria e l'al- tra va scemando a misura che il pallone s’innalza per- chè va a trovare strati d’aria la cui densità decresce coll’altezza sopra il livello del mare. Se poi, oltre a ciò, vien meno l’accensione del combustibile e però l’evolu- zione del vapore caldo, allora l'aria interna si riduce a poco a poco alla densità dell’aria esterna, e il pallone di- scende e cade coll’eccesso del suo peso su quello di un egual volume di aria atmosferica. Di ciò ne vanno per- suasi i ragazzi che vedono con piacere innalzarsi il pal- lone ma sanno, senza andare a scuola, che deve cadere ed aspettano con ansietà l’istante di vederlo precipi- tare a terra per impadronirsene e menarne festa e tri- pudio. Parlate di attrazione e di ripulsione ad un ragazzo che guarda il pallone e i suoi movimenti nell’aria, e vi guarderà fiso io faccia come di un uomo che fosse sbar- cato dalla China e parlasse cliinese. Egli non compren- derà nulla del vostro gergo e sarà molto modesto se vi pianterà lì a sfogare la vostra lingua e a cinguettare la vostra lezione, e correrà dove si accorge che il pai- — 200 — Ione potesse andare a cadere. Il gergo newtoniano e la- placiano non potrebbe durare al mondo e trasferirsi da individuo ad individuo se non si praticasse 1’ innesto , sedendo i discepoli ai banchi della scuola e tenendo a- perta la bocca per inghiottire, insieme coll’ aria, le pa- role che escono dalla bocca del sapiente Maestro. § 51. La forza attollente non solo è dell’ aria ma an- cora de’ liquidi. Come il pallone s’ innalza dal suolo nel- l’aria, così una palla di legno s’innalza dal fondo d’uno stagno alla superficie di livello, e senza la spinta di sotto in sopra verificar non si potrebbe lo zampillo , che con tanto piacere, e tante volte con sorpresa, si os- serva scappare da orifìzii occulti negli ameni giar- dini di delizia , restando ignota al volgo la causa di quel grazioso fenomeno. § 52. Il peso non può perdersi , ed un corpo lo presenta sempre lo stesso a qualunque altezza nel compreso dell’atmosfera, e a qualunque profondità sotto il livello del mare, fatta astrazione della forza cen- trifuga che esiste inegualmente alla superficie e nello interno del globo. Al centro della terra i corpi non sono senza peso, perchè quel centro è un punto ma- tematico nè lungo nè largo nè profondo, dove non ca- pe nè -anco un atomo. Ivi non vi è che il concorso de’ pesi in un sol punto e quindi il loro equilibrio , i pesi operando due a due in contrario senso. Ecco per- chè il centro della terra l’abbiam detto centro di azio- ne e non centro di figura, potendo benissimo essere 1’ uno differente dall’ altro. § 53. Havvi differenza tra peso e gravità, tra peso e gravitazione? Dietro la fatta analisi noi veniamo a discernere in che queste nozioni convengono e in che disconvengono. Il peso o è gravita o è pressione. E — 201 — gravità se produce moto, ed è pressione se moto non ne produce ed è semplice sforzo, tendenza o conato al moto. Gravità è la velocità acquistata dal grave dopo un 1" di libera caduta: appellasi velocita finale. Quando non vi è moto, il peso diviene allora pressione. « La gravità, dice Montferrier, è la stessa cosa che il « peso; ciò non ostante la parola peso non si applica che « alla forza la quale fa sì che i corpi terrestri tendano « verso la terra, mentre in generale si dice gravita « la forza in virtù della quale un corpo qualunque « tende verso un altro. » Ciò che leggete in Montfer- rier, non si legge in altro autore. Aprite infatti Delaunay alla pag. 616 del suo Corso elementare di Astronomia e troverete a piè di pagina la seguente nota del traduttore sig.Buzzetti. « La gravità è la forza che agisce sullhmùa « di massa del corpo e che tende a farlo cadere verso il « centro della terra: il peso è V effetto totale di que- « sta forza sull’intiera massa del corpo, e si misura ma- « nifestamente dallo sforzo necessario a sostenere il cor- « po medesimo (7). » § 54. Chiamando n il peso allorché è pressione ed M la massa , si avrà per la espressione del peso in discorso Il = Mg ; laonde paragonando i pesi di due corpi, avremo la pro- porzione n : * :: Mg : mg :: M : m, e però i pesi ovvero le pressioni saranno alle masse proporzionali. Si potranno dunque alle masse sostitui- re i pesi, ed a’ pesi le pressioni. § 55. Il peso è forza viva, la pressione è forza morta. La forza viva differisce dalla forza morta in quanto — 202 — questa si ottiene pel prodotto della massa per la sem- plice velocità, e l’altra si ottiene moltiplicando la mas- sa pel quadrato della velocità. La pressione che addi- viene peso, da forza morta passa a forza viva: quindi la pressione sarà espressa da P — M x g, ed il peso da n = M x gt, nel peso essendovi la considerazione del tempo. Il valore di g è uguale a 30 piedi e 2 pollici (§ 46). La pressione è dunque una forza che opera sem- pre della stessa maniera. Non così se il corpo si muove cadendo nel vuoto: allora nel primo istante sarà n = m x g x t = m x gt; in due istanti sarà U = M X 2g X 2t= M X 4 gt, in tre istanti avremo n = M x 3^ X 3 1— M X 9 gt, e così di seguito. Chiamando V la velocità finale cor- rispondente a g, quando t— 1, sarà, dopo il tempo T, n = Mx Vx T. Ora siccome i tempi crescono nella serie dei numeri naturali 1,2,3, 4, 5 , e così crescono anche le velocità che divengono V, 2 V, 3 F...; si avrà perciò la forza viva del peso espressa dalla forinola ri = mv x V~MV\ La forza morta è pressione e la forza viva è percossa (8). § 55. bis. Havvi tre sorta di pressioni , la pressio- ne solida, la pressione liquida e la pressione gazosa. — 203 — La pressione solida è prodotta dal peso dell’intera massa considerato come riconcentrato in un sol punto, il centro di gravità del solido da noi detto centro di massa o di equilibrio, e che chiamar si potrebbe ancora centro d' inerzia ; la pressione liquida nasce dal peso degli strati liquidi sovrastanti allo strato sopra cui la pressione si esercita. Questa pressione si fa da sopra in sotto come proveniente da una massa pesante, e la- teralmente come proveniente da mia massa liquida, la quale non può altrimenti abbassarsi in forza del suo peso che ampliando di base, e però premendo contro la parete laterale che a quell’ ampliazione fa ostacolo. La terza pressione è dei fluidi aeriformi in vasi chiusi: essi premono in tutti i sensi egualmente, cioè da so- pra in sotto come pesanti , da sotto in sopra per la reazione del fondo, e lateralmente in tutte le direzio- ni nella qualità di fluidi elastici, o a dir meglio di fluidi espansili, che acquistai! da se maggior volume quando niun ostacolo si oppone alla loro espansione. Il liquido esce da un foro praticato nel fondo , ed ai lati del recipiente; il fluido aeriforme scappa da un fo- ro praticato al fondo inferiore, al fondo superiore ed ai lati. § 56. Il peso essendo la forza che fanno i corpi per avvicinarsi al centro di azione del proprio globo, e la gravitazione essendo la tendenza del pianeta ad un centro lontano, detto il suo centro di moto, si han- no le due seguenti inferenze: 1. Un corpo ili forza del peso percorre, cadendo, la verticale, la quale pro- lungata passerebbe pel centro della terra; 2.° I pianeti in forza della gravitazione, detta ancora forza centrale , cadrebbero nel sole trascorrendo con moto inegual- mente variato il raggio vettore , quella retta cioè che — 204 — congiunge il centro del pianeta al centro del Sole. I gravi dunque scendono per la verticale e i pianeti lungo la direzione del raggio vettore (9). § 57. Nella materia ammettiamo tre classi di pro- prietà, le essenziali, le generali e le empiriche. Sono proprietà essenziali la estensione e l’ inerzia , le quali scaturiscono dalla essenza stessa della materia, e sono perciò invariabili; sono proprietà generali la impene- trabilità, la mobilità, la divisibilità e la fìgurabilità. Esse appartengono a tutti i corpi in generale. Dicia- mo proprietà empiriche la coesione de’ solidi, l’adesione interiore de’ liquidi , e 1’ elaterio de’ gaz. § 58. Le proprietà empiriche fan sì che em- pirico sia lo stato de’ corpi. L’oro è solido ed il mer- curio è liquido; ma l’oro si liquefà nel crogiuolo, ed il mercurio si congela col freddo e diviene solido. L’ac- qua dallo stato di liquidità passa a ghiaccio solido ed a vapore elastico: havvi il vapor di mercurio come havvi il vapore d’etere. L’alcool puro e gli eteri sono incon- gelabili; 1’ aria atmosferica, il gaz azoto, il gaz ossigene, il gaz flogogene sono incapaci a liquefarsi, molto meno a solidificarsi. Lo stato de’ corpi è perfettamente empi- rico : non sappiam dire e precisare con certezza ciò che determina il loro stato, se è la loro peculiare na- tura o le circostanze eventuali in cui si trovano. La fluidità aeriforme è dessa essenziale all’ aria ed a’ gaz permanenti ? Pare di sì, ma non possiamo affermarlo di pieno dritto e con assoluta certezza. Il peso però è compossibile con lo stato solido, lo stato liquido e lo stato gazoso. § 59. I corpi non possono essere scompagnati da una delle tre forme anzidette. Ne’ solidi opera il solo peso; ne’ fluidi aeriformi, oltre il peso, opera l’elaterio; — 205 ne’ liquidi opera il peso in una massa incompressibile e mobilissima. Nella Luna pare non esservi che corpi solidi, nel Sole che corpi liquidi in perenne efferve- scenza, nella terra si hanno tutti e tre gli stati, e perciò vi ha la parte solida, la parte liquida e la parte ga- zosa. Alla parte solida sovrasta la liquida, ed alla so- lida e liquida sovrasta la gazosa, ossia 1’ atmosfera. I corpi nel cangiare di stato non cangiali di peso. Due molecole eterogenee che si combinano, conservano lo stesso peso nella combinazione (10). § 60. Dalla considerazione delle forze istantanea e continua isolatamente prese passiamo a quella della loro composizione. La forza projettiva componendosi colla gravità autocentrica ne risulta il moto dei pro- iettili per la parabola, e la tangenziale componendosi colla centrale (§ 56) ne risulta il moto de’ pianeti per un’ altra curva, la ellisse. Ora non essendovi altre forze che le mentovate, nè altre combinazioni di forze che quelle di sopra enunciate, ne siegue che non vi sono in tutto che due traj ettorie curvilinee, la parabola e la ellisse, la prima descritta da’ projettili sulla terra, e la seconda da’ pianeti nel cielo. § 61. L’ ellisse e la parabola non possono astrono- micamente convertirsi 1’ una nell’ altra. Per la prima havvi bisogno della tangenziale e della gravità etero- centrica; per la seconda, della projettiva e della gravità autocentrica (§ 60). Ora la gravità eterocentrica o la gravitazione propriamente detta è forza continuata va- riabile, e la gravità autocentrica o la gravità semplice- mente detta è forza continuata costante (§ 39): sono dunque due forze distinte, regolate da leggi proprie; non può dunque la projettiva trovarsi congiunta alla gravità eterocentrica, nè la tangenziale congiunta alla ATTI ACC. VOL. X. 28 -- 206 — gravità autocentrica. Se dunque nel cielo si descrive la ellisse, è impossibile che si descrivesse la parabola, e dove si descrive la parabola t è impossibile che si descrivesse la ellisse. La parabola ne' globi presso la loro superficie , la ellisse ne’ pianeti nel vano dello spazio. § 62. La parabola potrebbe cambiarsi in ellisse; 1’ ellisse non potrebbe mai cambiarsi in parabola. § 63. Se la forza impulsiva sollecitante il mobile in principio del suo movimento fosse impressa obliqua- mente al piano dell’ orizzonte, la trajettoria sarà o una parabola o una semiparabola: sarà una parabola con ambi i rami se la forza di proiezione farà coll’oriz- zontale un angolo obbliquo, cioè acuto il di cui com- plemento è f angolo che la medesima forza fa colla verticale ; sarà la semiparabola se la forza projettiva farà colla verticale un angolo retto, stantechè la sua direzione è parallela alla linea orizzontale. Ne’ pianeti ove ha luogo la gravità eterocentrica, la trajettoria o sarà la ellisse o il circolo. Sarà la eli * se in tutti i casi, meno uno solo ed è qualora la tan- genziale fosse perpendicolare alla centrale e dippiù la velocità iniziale impressa alla massa del pianeta in principio del suo movimento fosse quella che il corpo avrebbe acquistato cadendo da un’ altezza eguale alla metà del raggio del circolo descritto: condizioni amen- due così difficili a verificarsi da rendere quasi impos- sibile naturalmente l’orbita circolare. § 64. L’ equazione all’ellisse riportata al vertice è (2 a x — x ’), — 207 — incui^ è il parametro (11) e 2a l’asse maggiore. Ora se faremo 2 a — co , si avrà if = (co 00 — x') — VX , equazione alla parabola. E se faremo p — 2 a, si avrà g* = (2 ax — x*) equazione al circolo. L’ellisse è dunque tra il circolo e la parabola. Quanto meno differisce V asse maggiore dal parametro, tanto più V ellisse si accosta alla roton- dità del circolo: quanto più V asse maggiore si allunga restando il parametro lo stesso, tanto più f ellisse si avvicina alla parabola. L’ orbita ellittica sarà meno o più allungata, ma non sarà giammai ne orbita circo- lare nè traj ettoria parabolica (12). § 65. Come il Sole ha un corteggio di pianeti, di comete e di satelliti, lo stesso può essere di Sirio, Procione, Arturo, la Capra e ogni altra stella del cielo. Quante fisse stanno nella volta del firmamento, altret- tanti sistemi di pianeti possiam supporre esistenti. Avranno questi sistemi le loro specifiche differenze, per cui f un sistema sarà distinto dall' altro, ma tutti sa- ranno regolati dalle medesime leggi. Le quali furono ritrovate da Keplero dopo 17 anni di assidue non in- terrotte osservazioni, e sono le seguenti: 1* Legge — I pianeti descrivono intorno al Sole delle ellissi, di cui quest’ astro occupa uno de' fuochi. 2a Legge — Le aree delle porzioni di ellissi tra- scorse successivamente dalla retta che congiunge un pianeta al Sole sono tra esse come i tempi impiegati a trascorrerle. ¥r — 208 — 3a Legge — I quadrati de’ tempi delle rivoluzioni de’ pianeti attorno al Sole sono tra essi come i cubi de’ grandi assi delle loro orbite. Vedine la dimostra- zione nella seconda Parte. § 66. Il moto ellittico differisce dal circolare in ciò che nella ellisse il pianeta ora si avvicina ed ora si allontana dall’ astro intorno a cui gira; ma nel circolo egli, in qualunque punto della circonferenza, è sempre alla stessa distanza dal centro ov’ è collocato il corpo centrale, e però nell’ orbita circolare il moto del pia- neta è uniforme, nella ellittica è vario, accelerandosi dall’afelio al perielio, e rallentandosi dal perielio all’afe- lio. Cagione di questa ineguaglianza è che nell’ effisse la forza centrifuga di circolazione ora vince la centrale, ed ora la centrale vince la forza centrifuga che dalla circolazione si svolge. § 67. La forza centrifuga di circolazione è forza secondaria , la centrale è forza primitiva] lo stesso ha luogo tra la forza centrifuga di rotazione e la gravità: questa è primitiva, ed è secondaria l’altra. Non vi sono dunque che due forze primitive, il peso e la gra- vitazione, e due forze secondarie, la forza centrifuga di rotazione corrispondente al peso, e la forza centri- fuga di rivoluzione corrispondente alla gravitazione. Le forze secondarie suppongono la esistenza delle forze primitive. La forza centrifuga di rotazione io la chiamo forza assifuga (13). § 68. Oltre la parabola e la ellisse , gli Autori ammettono l’ orbita iperbolica non come solamente possibile, ma come effettivamente descritta nel cielo da non so quale cometa a tal uopo architettata se a titolo di castigo o a titolo di privilegio , non saprei. — 209 — Ma se nel cielo è impossibile la parabola (§ 61), e quasi impossibile il circolo (§ 63), come volete che possa av- verarsi l’iperbola? E vaglia il vero, l’equazione deva ellisse riportata al centro e quella dell’ iperbola anche riportata al centro possono mettersi, la prima sotto la forma e la seconda sotto la forma ce b * ~ Queste due equazioni non differiscono che nel segno della quantità b% e perciò la iperbola e la el- lisse sono 1’ una al rovescio dell’altra. Ciò ancora viene a conoscersi in quanto se la somma de’ raggi vettori nella ellisse è uguale alla quantità costante 2a , ossia all’ asse che con giunge i due fochi, nell’ iperbola è la differenza dei raggi vettori uguale alla quantità co- stante 2 a. Dippiùj chiamando e il coefficiente dell’ec- centricità ea, a essendo la metà dell’asse maggiore, si avrà nell’ ellisse 2 ea <2 a , e perciò e < 1 , e nel- l’ iperbola 2 ea > 2 a , epperò e > 1. Dal che si vede che la iperbola e la ellisse sono due curve incompati- bili tra loro, le proprietà dell’ una essendo inverse di quelle dell’ altra. Laonde se la ellisse vuole la cen- tripetazione o la gravitazione planetaria, all’ iperbola competerebbe la centrifugazione o la ripulsione eliaca , nel quale caso il pianeta fuggirebbe dal Sole allo stesso momento di sua esistenza nel creato , non po- tendo affatto cadere in mente umana che il Sole il qua- le fino al perielio aveva attratto la Cometa , dopo la respingesse da sè inesorabilmente, cangiato avendo lo — 210 — amore in odio, e l’ attrazione in ripulsione. Ma è egli vero che gli astronomi ammettono Comete, che intorno al Sole descrivono orbite paraboliche ed iperboliche ? Vediamolo. « Il moto ellittico, dice il sig. Biot, non è il solo « che si accorda colla legge della gravità reciproca al « quadrato delle distanze. L’ analisi fa vedere (notate: « l’analisi si dice, non V osservazione, e l’analisi è « subbiettiva, non obbiettiva) che l’orbita può essere « altresì una parabola, un’ iperbola, ed in generale una « sezione conica. Queste curve (doveva dir sezioni) sono « le sole che possa far descrivere una forza di quella « natura. In ogni caso particolare il genere dell’ orbita « (doveva dire traj ettoria) è determinato dalla inten- « sita dell’ impulsione iniziale e , quel che merita di « essere attentamente osservato, la direzione di questa « impulsione (che non si sa da dove diavolo sia ve- « nuta, e Biot non se ne impiccia) non influisce sopra « quel risultato: non fa che modificare le dimensioni « dell’ orbita — E probabile (sic) eh’ esistano corpi ce- « lesti i quali descrivano di questa maniera parabole * « ed iperbole attorno il Sole, ma allora questi corpi « non devono essere che una sol volta visibili, ed al- « lorchè sonosi sottratti ai nostri sguardi, li perdiamo « per sempre di vista (14). » In un altro luogo parlando delle Comete, il signor Biot così si esprime « Oltrecciò, pub succedere (sic) che « certe Comete descrivano parabole o iperbole i cui « rami sono indefiniti (tanto al venire quanto all’an- « dare), ed allora subito che noi osservate le avessi- « mo nel loro passaggio al perielio, le avremmo per- « duto per sempre di vista. E tuttavia probabile (sic) « che, se mai esistono siffatti corpi (ed è certo che non — 211 — « esistono), lian dovuto, stante 1’ antichità deli’ Uni- « verso (bella ragione!), passare tanto tempo addietro « dinanzi al Sole, in guisa che i movimenti periodici « sono i soli che rimangono alle nostre osservazio- « ni (15). » Lugete Veneres Cupidinesque: mortuus est passer meae puellae. E se non piangi, di che pianger suoli? § 69. Il signor JD’Ettingshausen la discorre a un di presso come il signor Briot « Di molte Comete , egli « dice, si sa con certezza che circuiscono il sole de- « scrivendo orbite ellittiche, ma di altre non si conosce « se non quella porzione di orbita che è prossima al « sole, e per queste conviene abbastanza bene l’ipotesi « che 1’ orbita sia parabolica e il fuoco della parabola « nel sole. Siffatte Comete o percorrono dunque ellissi « tanto allungate che la curvatura di quel tratto in- « torno al vertice che noi ne conosciamo e che relati- « vamente è brevissimo, non si può distinguere dalla « curvatura di una parabola (e questo ragionamento è « sano), ovvero percorrono realmente parabole (e que- « sto che non è ragionamento, è ragionamento malsano), « anzi si congettura ( sic) che vi sono comete che de- « scrivono intorno al sole orbite iperboliche , di modo « che nell’ un caso e nell’altro tali comete comparse « una volta allo sguardo si andrebbero allontanando « per sempre dalla terra. L’ipotesi di un’orbita para- « bolica o iperbolica ( e se vi piacerebbe anche a spi- « rale dextrorsum vel sinistrorsum ) è conciliabile con « 1’ attrazione del sole inversamente proporzionale al « quadrato della distanza (16). » Noi ne conveniamo e siamo dello stesso parere del chiaro Autore, purché il chiaro Autore convenga con noi che un’orbita parabo- lica o iperbolica, oltre di essere contradittoria ne’ ter- 212 — mini, le orbite essendo curve chiuse e rientranti, è in- conciliabile colla scienza ed il senso comune degli uo- mini. § 70. Ritornando ai due squarci rimarchevolissimi del sommo Biot (§ 68), noteremo soltanto ch’egli crede possibili le orbite paraboliche ed iperboliche; al più crede probabile l’esistenza de’ corpi celesti che le per- corrono, e certa crede soltanto la loro scomparsa dalla nostra vista una volta per sempre, varcato che avran- no il perielio, non senza cordoglio degli Astronomi os- servatori. Non così va la faccenda pel coraggioso La- place, venuto al mondo qualche tempo prima di Biot, il quale ne discorre come se la cosa fosse non che pos- sibile ma reale , non che probabile ma certa. « Le orbi- « te planetarie, egli dice, possono esser iperboliche , e « se gli assi di queste iperbole non sono grandissimi « relativamente alla media distanza del sole dalla ter- « ra, il moto delle Comete che le descrivono, comparirà « sensibilmente iperbolico. Fra di tanto sopra cento Co- « mete almeno di cui si hanno di già gli elementi, « nessuna ha sembrato muoversi in una iperbola: fa « d’uopo dunque che le gittate di dadi che danno u- « na iperbola sensibile siano estremamente rare in rap- « porto alle gittate di dadi contrarie (17).» Ma con buo- na pace del signor Laplace qui non si tratta di gitta te di dadi favorevoli all’iperbola estremamente rare (che sarebbe uno scappar fuori per il rotto della cuf- fia); si tratta che 1’ orbita iperbolica è assolutamente im- possibile; l’ intende il signor Laplace o non l’ intende ? E impossibile ho detto perchè ripugnante alle leggi del- la natura ed a quelle del pensiero. Siamo vivi o siamo morti ? Siamo uomini o siamo bruti ? — 213 — § 71. L’equazione all’iperbola riferita al vertice è if — A_ ( 2ax -f- x-) (1) c ? essendo 2 a il primo asse o l 'asse traverso dell’ iperbola, e 2b il secondo asse o 1’ asse non traverso. L’ equazio- ne dell’ iperbola riferita al centro , che è il punto di mezzo del grand’ asse, è y* = a*^5- (2) Nell’ iperbola, come nell’ellisse, si chiama parame- tro una retta terza proporzionale ai due assi. Indi- cando con p il parametro dell’ iperbola, avremo 2a : 2b :: 2b : p e pero _ 4ò5 _ 2Jp ^ ~ 2a a Sostituendo invece di (1) e (2) diverranno . . P 2 b* onde sara — ■ = — r a a' il suo valore —■ le equazioni «'=Ta (“*• • (3) Queste ultime si chiamano equazioni al parametro. La prima è riportata al vertice, e la seconda al centro. § 72. Quando gli assi 2 a e 2 b sono eguali, l’ equa- zioni dell’ iperbola diventano y 5 = 2 ax -ha?5 ) y* = a* — x * ) ^ ATTI ACC. VOL. X. 29 — 214 e questa curva prende il nome d’ iperbola equilatera. L’ iperbola equilatera è, rapporto a qualunque altra iperbola, ciò che è il circolo rapporto all’ ellisse. § 73. Paragonando in tutto e per tutto l’ andamen- to geometrico dell’ iperbola e dell’ ellisse rilevasi ad evidenza esservi tra le due curve antagonismo, il che per nulla nuoce a studiar le medesime quali sezioni co- niche, e conoscerne le proprietà geometriche: ma ciò non ci conduce a quella proposizione, che i pianeti in quanto la loro orbita è una delle sezioni coniche possono descri- vere l’ iperbola e la parabola che sono pure sezioni co- niche, quasi che i pianeti si muovessero in ellisse perchè la ellisse appartiene alle sezioni coniche: concetto così strano da non potersi in verun modo giustificare agli oc- chi della ragione. § 74. La gravità eterocentrica non è che accelera- zione, ed accelerazione è pure la gravità autocentrica. In che dunque l’una differisce dall’ altra ? L’accelerazione planetaria (gravità eterocentrica) è forza continuata variabile; l’accelerazione terrestre (gra- vità de’globi o gravità autocentrica) è forza continua- ta costante ( § 39 ). Ciò importa che la gravitazio- ne planetaria esser deve soggetta a qualche legge cui 1’ altra non è soggetta. E per fermo la gravità auto- centrica non varia dentro il compreso di un globo per la ragione della distanza del grave al centro di azione; questa verità dedotta per ragionamento e non avanzata dommaticamente noi l’abbiamo stabilito sopra validi ar- gomenti, benché da’ newtoniani niegata per non essere conforme alla dottrina del loro Maestro. Questo però non si verifica della gravitazione planetaria, la quale siegue la ragione inversa del quadrato della distanza. Laonde la legge della gravitazione diversa essendo da — 215 quella della gravità è da formularsi nel seguente modo: « La gravitazione de’ pianeti verso il sole e de’ sa- « telliti verso il loro pianeta principale è in ragion di- « retta della massa ed inversa del quadrato della di- « stanza del corpo gravitante dal suo centro di moto. » La prima parte della legge è evidente da se, e la secon- da è dedotta per osservazione. § 75. Volendo alla nostra paragonare la forinola idolatrata dirò così da’ Newtoniani, vera quintessenza dell’ umana stranezza, ne piace qui riportarla , senza però stamparla in carattere maj uscoletto, come in al- cune Opere di Meccanica fanciullescamente si osserva, ed è la seguente : « Tutte le molecole della materia (ponderabile ed imponderabile) si attraggono reciprocamente in ra- gione diretta della massa (ne abbiano o non ne abbia- no ) ed inversa del quadrato della distanza (ce ne sia o non ce ne sia ). » Ciò basta per argomentare che cosa sia fumana ragione. § 76. Di qui la distinzione della gravitazione sem- plice e della gravitazione totale. La gravitazione sem- plice è in ragione inversa del quadrato della distanza; la gravitazione totale o la pressione planetaria è nella ragion composta della massa e della gravità eterocen- trica del pianeta, il tutto diviso pel quadrato della di- stanza dal suo centro di moto. Chiamando * la pres- sione del pianeta, y la sua gravità eterocentrica, ^ la massa e d la distanza dal centro di moto o il raggio vettore, si avrà * 216 e per un altro pianeta * =/*VX~, onde r : :: ^ ^ :: ? > £>'* : y y D\ E poiché la luna è distante dalla terra sessanta rag- gi terrestri ossia 94900 leghe, ed ha per gravità geo- centrica la gravità terrestre divisa pel quadrato del- la distanza, cioè :=^~ , ne viene che la pressione totale della terra e della luna sul sole sarà § 77. Siccome le due quantità M ed r ci sono ignote, così non possiamo dall’addotta forinola (§ 76) trarre alcun partito per avere la giusta misura della gravitazione e del peso. § 78. La gravitazione semplice della luna sopra la terra è la sua gravita terrestre ; quella della terra sul sole è la sua gravita solare ; lo stesso è dei piane- ti e delle comete. Altro è dunque gravita ed altro gra- vitazione. La gravità è in tutti i globi, la gravitazio- ne ne’ soli pianeti. Diremo pertanto gravita lunare la gravità autocentrica della luna, e gravitazione lunare la sua gravità geocentrica. Se nella luna venisse a ces- sare la forza tangenziale primitivamente impressa da una delle cause seconde da Dio ordinate a tal uopo, il nostro satellite ci piomberebbe addosso con moto va- riato percorrendo nel primo minuto 15 piedi ed 1 pol- lice, quello stesso spazio verticale che i gravi percor- rono in vicinanza del suolo nell’ intervallo di 1". § 79. La luna per la sua gravità geocentrica deve influir sulla terra costantemente ed incessantemente, e — 217 — la terra per la sua gravità eliocentrica deve in certe posizioni influir sulla luna. Alla pressione lunare dob- biamo il fenomeno della precessione degli equinozii e del flusso e riflusso del mare, ed aH’azion della terra sulla luna, che da pianeta inferiore nel novilunio di- viene pianeta superiore nel plenilunio , dobbiamo le ineguaglianze lunari conosciute coi nomi di nutazione e di retrogradazione dei nodi. § 80. Il peso è dei corpi, non è dei globi; la gra- vitazione è dei globi, non è dei corpi. Un globo con gravitazione è pianeta , senza gravitazione è stella fis- sa. Le steli e fisse non sono pianeti, e i pianeti non sono stelle fisse. Dunque nell’ universo non v’ha che stelle fisse e pianeti. Il sole non avendo tendenza verso al- cun punto dello spazio ( checche se ne dica da chi parla unicamente per parlare), è equilibrato in se stes- so, immobile nel cielo, assolutamente immobile, piena- mente e perfettamente immobile. I pianeti non fanno che girargli intorno e ricevere per di lui mezzo luce e calore. Pare che il sole non abbia nel sistema mondiale altra incombenza che quella di portare fino all’ ultimo pianeta, e fino all’afelio della più eccentrica cometa il calore e la luce. E vero che la densità della luce è in ragione inversa del quadrato della distanza del corpo illuminato dal corpo illuminatore ch’e il sole; ma noi non conosciamo quali sono i fini della creazione e per- chè Saturno abbia sette satelliti ed un anello, e Nettuno un solo satellite. Noi non siamo che spettatori del gran teatro dell’universo, fatti per ammettere ciò a che ei conduce il ragionamento, non per spacciare tutto quel- lo che ne suggerisce la vanità dei nostri pensieri, e farlo credere agli altri. — 218 — §. 81. La massa del sole è enorme; il suo volume è 1,400,928 volte quello della terra, e la sua superficie è 12,544 volte quella del nostro pianeta. A qual fine un corpo di mole così gigantesca? Iddio poteva crear- lo di maggiore o di minor mole. Se lo ha creato co- me sta, è segno che quella smisurata grandezza era necessaria al sistema dei corpi planetari giranti in orbite ellittiche attorno al centro solare. In che con- sista il suo vero ufficio, dobbiam confessare d’ ignorar- lo; ma pensare cli’è tanto grosso per attrarre quali al- trettante mosche i pianeti e le comete ospitanti nel suo sistema è un pensiero lontanissimo dalla verità, ed è tale che s’ignorerebbe se non fosse stato pronunziato da un geometra del calibro di Newton, che può far peso ne’ concetti matematici, ma niun peso aver può nei concetti fisici ed astronomici. § 82. 11 sole malgrado la enorme sua massa, la qua- le al certo è qualche cosa di grande benché da noi non sia misurabile nè esattamente nè per approssima- zione, ha un moto di rotazione sopra se stesso, e que- sta si compie in giorni 25, 34. Siccome poi la perife- ria di un circolo massimo del sole è 112 volte maggiore di quella di un circolo massimo terrestre, per modo che viene ad ammontare a 1,120,000 leghe da 4 chilome- tri, ovvero a 2,419,000 miglia italiane, così un punto dell’equatore solare si muoverebbe per questa rotazione con una velocità di circa 30 leghe e mezza , ovvero di 66 miglia italiane per minuto. Ora la rotazione del Sole ha essa una relazione colla sua luminosità ? E le macchie solari che cosa sono ? Sono punti oscuri che non cangiali di posto sulla superficie del Sole, o sono variabili nel loro numero e nella posizione delle une relativamente alle altre? Ecco quel su di che si possono — 219 fare delle conghietture alquanto probabili per abbrac- ciare piuttosto un’ opinione che un’altra. § 83. Il peso è dei corpi componenti i globi , e la gravitazione è de’ pianeti componenti il sistema solare ( § 80 ). Il peso essendo ne’ globi è univer- sale perchè i globi sono in tutto 1’ universo; la gravi- tazione essendo ne’ pianeti è particolare, non vi essen- do pianeti all’ infuori del sistema planetario del nostro sole ( § 29 ). Così la gravitazione universale e , quel eh’ è peggio, l’attrazione universale convertendo la crea- zione in una specie di caos, lungi di far risplendere ai nostri occhi la infinita sapienza del sommo Artefice non rivelerebbe che la stoltezza dell’ uomo e la pic- ciolezza della sua limitata ragione. Non potendo la gravitazione essere universale, al- tra denominazione non può ricevere che quella di « Gra- vitazione planetaria, » locuzione che da noi è stata per la prima volta adoperata. § 84. Senza la gravitazione, i moti celesti non po- trebbero aver luogo; senza il peso, non vi sarebbero nello spazio globi isolati. Se dunque vi sono nel firmamento stelle e pianeti, è perchè vi è peso in tutti gli astri, stelle e pianeti, e vi è gravitazione ne’ soli pianeti. § 85. Il peso, la gravitazione e le forze sono tutto ciò che può mettere in movimento ed in azione i corpi della natura senza però sottrarli alla legge delfinerzia; non così se la sostanza materiale è informata da un principio immateriale, o che fosse indipendente dagli organi, e che dagli organi fosse dipendente. In questo caso il corpo dicesi animato, ed anima si noma il prin- cipio immateriale informante il corpo organizzato, prin- cipio che sottrae in parte il corpo organizzato, sotto la influenza arcana della vita, alla legge dell’ inerzia, e lo 220 — rende capace di funzioni elevate di cui non vi è esem- pio nella materia bruta. Questi effetti dello spirito di animazione principalmente osservansi nell’ uomo, capo- d’ opera della terrestre creazione. § 86. L’ attrazione universale non esiste: è un a- borto della fantasia dei .Dotti, simile alle favole che le vecchiarelle contano ai ragazzi nelle lunghe notti di inverno; la gravitazione universale non esiste, è un con- cetto paradossale , contradittorio ne’ termini ; esiste la gravitazione planetaria la quale è la tendenza del pia- neta secondario al centro del pianeta primario, de’ pia- neti al centro del sole, tendenza che non è dal pianeta primario ai pianeti secondarii, nè dal sole ai pianeti. § 87. La gravitazione planetaria è fatto primo, di cui si costa l’esistenza ma non si spiega, il quale è punto di partenza e non è punto d’arrivo: essa si fa in un sol senso, dalla periferia al centro, dal pianeta al fuoco della sua orbita ellittica: è propria dal pianeta, non è propria del centro lontanissimo dal pianeta. 1 centri non sono che concetti geometrici, che punti matema- tici destituiti di ogni virtù ed efficacia come quelli che sono ad essenza puramente intellettuale; sono ne- cessari! alla dimostrazione, non sono necessairi al fatto. § 88. Yi ha due sorta di centri, il centro geome- trico ed il centro fisico; 1’ uno astratto, l’altro concreto. Il centro geometrico è de’ corpi geometrici, il centro fisico è de’ corpi fìsici. Il centro geometrico è ideale, è concetto matematico; il centro fisico è reale ed è concetto meccanico. § 89. Il centro fisico è di due sorta: havvi il cen- tro fisico de’ corpi ed il centro fisico de’ globi; 1’ uno chiamasi centro di massa o centro di equilibrio , l’altro dicesi centro di azione , o centro di gravita. Il centro di — 221 — massa è de’ corpi solidi: si trova al di sopra del punto di sostegno ne’ corpi sostenuti, è al di sotto del punto di sospensione ne’ corpi sospesi. Il centro di azione è ne’ globi, vicinissimo al centro di figura del globo con- siderato ' quale una sfera perfettamente rotonda ed omo- genea. Ciascun globo ha il suo centro di azione, ma quando il globo è della classe de’ pianeti, avrà in un altro globo il suo centro di moto. Il centro di azione è reale, il centro di moto è ideale. § 90. 1 corpi o sono sostenuti o sono sospesi (§ 38). Nei corpi sostenuti il centro di massa è al di sopra del piano di sostegno; ne’ corpi sospesi a cui manca la ba- se di sostegno, il centro di massa è al di sotto del pun- to di sospensione, o centro di moto del corpo sospeso. Il primo è ad equilibrio i stabile perchè se il centro di massa esce fuori della base di sostegno, il corpo si rove- scia e cade; il secondo è ad equilibrio stabile, perchè trovandosi il corpo, allorché è in quiete, nel punto più basso, non può discendere ulteriormente: egli cade quan- do allontanato dalla verticale si è avvicinato al punto di sospensione, contro di cui agisce, elevandosi: quindi dal proprio peso è portato a cadere recandosi al punto più basso possibile, che è quello il quale congiunge il centro di azione della terra, il centro di massa del solido ed il punto di sospensione. Una terza specie di equilibrio sa- rebbe quando attraverso del centro di massa o di figura del corpo passasse un asse 23arallelamente all’orizzonte; dapoichè allora il corpo nella parte superiore sarebbe sostenuto dall’asse, e nella parte inferiore figurerebbe da corpo sospeso. Questa specie di equilibrio dicesi in- differente. Il signor Ganot è all’oscuro di queste cose, e nella decimasesta edizione del suo libro elementare di ATTI ACC. VOL. X. 30 — 222 — Fisica ei fa ancora vedere i suoi tre coni in differenti po- sizioni sul loro piano di sostegno. § 91. 1 pianeti, le comete e gli asteroidi del siste-, ma solare hanno tutti lo stesso centro di moto nel cen- tro di azione del sole. Il centro di moto de’ satelliti è il centro di azione del loro pianeta primario. Così il centro di azione della terra pe’ corpi del suo sistema è il centro di moto per la Luna. Il centro di azione di un globo è cpiel punto della sua massa dove si equili- brano le pressioni in contrario senso che fanno i corpi che sono all’ intorno del suo centro di figura e ne costi- tuiscono il nocciolo. Ogni globo ha per conseguenza il suo centro di azione: non così del centro di moto, il qua- le può essere comune a molti globi ruotanti attorno a quel centro, come succede ai pianeti, ed ai satelliti che girano attorno Giove, Saturno, ed Urano, e come un esempio ne abbiamo nella geometria descrivendo cir- coli concentrici di differente raggio. § 92. Il centro di moto è ideale, è uno de’ fuochi dell’ellisse quando l’orbita è ellittica, ed è il fuoco della parabola se il mobile si muove per una parabola. Nel cielo non vi sono che i fuochi delle ellissi descritte dai pianeti ; ne’ globi vi è il fuoco delle diverse parabole descritte dai projettili ; dapoichè l’asse della trajetto- ria balistica è in realtà infinitamente grande rispetto al parametro, che determina le dimensioni della curva. § 93. Ne’ globi non vi sono che parabole descrit- te da’ projettili nello spazio; ne’ pianeti non vi sono che ellissi meno o più allungate, meno o più schiacciate secondo il rapporto degli assi. Il circolo avrebbe luo- go quando fossero eguali l’uno e l’altro asse, e ad essi fosse eguale il parametro. § 94. Il moto dei projettili per la traj ettoria ed — 223 — il moto de’ pianeti per l’orbita, il prof, diclini chia- ma l’uno e l’altro forza d'inerzia I, e questa si compone ad ogni istante di due forze, l’uua diretta secondo la tangente, e l’altra diretta al centro di curvatura; la clu componente tangenziale è — e la componente centri- peta è = — . Noi chiamiamo tangenziale la componente diretta secondo la tangente ne’ pianeti, e centrale 1’ al- tra diretta al centro di curvatura o centro di azione del corpo collocato nel fuoco della ellisse. Quanto ai projet- tili, le componenti sono la forza proiettiva e la gravitò autocentrica. La forza projettiva è diversa dalla forza tangen- ziale come la gravità autocentrica è diversa dalla forza centrale nostra e centripeta di Chelini. La forza tan- genziale non è in origine che forza motrice o impulsiva comunicata al corpo celeste da una forza immateriale iperorganica; la forza projettiva è pure forza motrice ma comunicata al projettile da un agente materiale qual’ è la polvere del cannoue o del mortaio caricati a palla, ovvero da uno essere organizzato, qual’ e il brac- cio dell’ uomo. Ne’ corpi celesti la forza comunicata in principio rimane sempre la stessa benché compongasi colla centrale ad ogni istante. Per la quale composizione ne nasce il moto per una curva, moto prodotto dalla forza istantanea di projezione nel vuoto e dalla forza centrale o di caduta per la direzione del raggio vettore. Ora se la forza centrale venisse da Dio abolita o so- spesa, ne risulterebbe il moto del pianeta per la tan- gente al punto dell’orbita ove trovasi pervenuto, e que- sto sarebbe rettilineo, uniforme e perpetuo; ma se in- vece al corpo celeste fosse dalla virtù angelica distrutta la forza istantanea di projezione nello spazio, allora — 224 — restando sola ad agire la centrale, si vedrebbe il pia- neta cadere nel sole con moto variabilmente accelerato. Il moto curvilineo de’ pianeti potrebbe dirsi forza risul- tante, non mai forza d’inerzia. L’inerzia è forza passiva incapace a produrre moto alcuno e a rappresentare una forza qualunque. Il momento d'inerzia pare andasse soggetto alla stessa osservazione. § 95. L’ autore sullodato nella sua Meccanica ra- zionale n. 379 ha la seguente proposizione. « L’azione « della gravita, dentro i limiti delle distanze ordina- « rie, si può riguardare come costante nella direzione « e nella intensità » . Egli dimostra questa proposizione ammettendo che la forza della gravità sopra un punto materiale, preso fuori del globo terrestre, varia in ra- gione inversa del quadrato della distanza tra lo stesso punto ed il centro della terra. Epperò se g ed / rap- presentano le azioni della gravità su quel punto si- tuato successivamente alle distanze r e r + z dal cen- tro della terra, si avrà F ( r -h z ) = g . r* Da questa equazione si ricava r' 1 F = g. = g ('• + -') (i+JÌ/ r Finquì la cosa va bene, perchè il punto materiale è stato preso idealmente fuori del globo terrestre e si è supposto che avesse tendenza al centro della terra, vale a dire che fosse un suo satellite nè più nè meno della luna. L ’ A. non facendo distinzione tra gravità e gravitazione, e credendo che la gravità invece di scen- — 225 — dere potesse salire a ritroso sino alla luna, prosegue così: « Supponiamo che r sia il raggio terrestre, e z una « altezza ordinaria e perciò piccolissima a fronte di « r, la frazione-^- sarà trascurabile, e in questa sup- « posizione avremo F — g. » Ma questo è un cam- biare la posizione delle cose; è un far comprendere ad un idiota che il raggio terrestre r è la distanza del centro della terra della superficie del mare e che non si trattasse d’ altro che di un corpo elevato alcun poco scopre quella superficie: talché un pallone aerostatico sarebbe un corpo fuori del globo. La gravità è la stessa dal centro all’ estremità del raggio, che termina all’ ul- timo strato atmosferico, e la gravità in tanto è la stes- sa in quanto la materia tutta componente la massa terrestre possiede all’ ugual grado la tendenza al cen- tro del globo formato dal suo ammassamento. Uscendo fuori del globo, non esiste più gravità terrestre; esiste la gravitazione planetaria, come appunto nell’ ipotesi dell’ A. ed allora inutile si rende la sua forinola, giac- ché se direte ad un ragazzo: Dimmi bamboccio mio, se la luna fosse un altro miglio distante dalla terra, sa- rebbe scusibilmente diminuita la sua gravità geocen- trica? Ed egli francamente vi risponderebbe « che la gravità geocentrica della luna benché siegua la ragione inversa del quadrato della distanza, pure essendo £ pic- colissima a fronte di r, la frazione-^- sarà trascurabile e però la gravitazione lunare non sarà sensibilmeute cambiata nè nella direzione nè nella intensità. » Tanta saggezza e tanta perspicuità non rinviensi in alcun Autore imbevuto degl’ irco-cervi dell’ ipotesi newtono- laplaciana. § 96. La gravitazione è diretta da' satelliti al loro pianeta primario, e da’ pianeti al sole, non già all’ in- versa dal sole ai pianeti, e dal pianeta primario a’ suoi satelliti. La gravitazione reciproca è un impossibile me- tafisico. Actio et passio non clatur in eodem subiecto è un canone della vecchia filosofia alla di cui testa è il can- celliere Bacone. Se i pianeti son quelli che gravitano ver- so il Sole (e chine potrebbe dubitare ?), il Sole niente graviterà sopra i pianeti; e se i satelliti son quelli che gravitano sopra il loro pianeta, il pianeta niente gra- viterà sopra i suoi satelliti. L’attrazione luni-solare im- maginata da Newton, e adottata universalmente per la spiegazione del flusso e riflusso del mare è dunque im- possibile a priori, perchè se la Luna è attiva sopra la Terra gravitandovi, il Sole che non gravita verso ve- rmi corpo del suo sistema, non ha parte a quel fenome- no fìsico, conosciuto dacché il mondo è mondo, e final- mente dichiarato dagli Astronomi mediante le più oscure ed arbitrarie concezioni. § 97. La gravitazione essendo diretta da’ pianeti al Sole e non dal Sole ai pianeti (§ 96), è chiaro che dal pianeta superiore si eserciterà un’influenza sull’inferiore, ma niuna influenza si eserciterà dall’inferiore sopra il superiore. Di qui la teoria delle perturbazioni planetarie possibili nel senso diretto da’ pianeti al sole, impossibili nel senso inverso dal sole ai pianeti. Il pianeta Urano scoverto da Herschel nel 1781 era sensibilmente pertur- bato ne’ suoi movimenti senza però uscir fuori del piano della sua orbita ; la sua posizione nel cielo data dal- l’ osservazione non era quella che al pianeta di Herschel assegnavano la teoria ed il calcolo. In ciò gli Astrono- mi erano d’accordo. Qual’era il pianeta che perturbava i movimenti di Urano ? Pegli astronomi Giove e Satur- 227 — * no erano i pianeti perturbatori come i più vicini al pia- neta perturbato e i più grossi pianeti che nel cielo esi- stessero; e malgrado la infelice riuscita de’ lunghi e te- diosi calcoli fatti pel corso di sessantacinque anni da’ più famosi calcolatori non sepper mai, quasi fossero istupi- diti, pensare che al di là di Urano poteva esistere il pianeta perturbatore. Bouvard ebbe questo pensiero nel 1821, ma un concetto tanto naturale che avrebbe po- tuto cadere nella mente di un fanciullo, fu dagli astro- nomi considerato al più come verisimile, ed era stato di già dimenticato quando Le vender nel 1846, cinque anni dopo la pubblicazione de’ miei Elementi di filo- sofia naturale, Napoli 1841, opera inviata alla R. Ac- cademia delle scienze di Parigi ed alle primarie Acca- demie scientifiche di Europa e di America, opera che fu premiata con medaglia d’oro dalla Maestà del Re Luigi Filippo 1° d’ Orleans e col diploma in persona dell’ autore di Cavaliere dell’ Ordine imperiale della Rosa dall’Imperadore del Brasile, non che di Socio ono- rario di quell’ Istituto Geografico a Rio Janeiro, Le- verrier, io diceva, profittando del principio da me po- sto ai §§ 193 - 194 che la perturbazione era sempre cagionata dalla pressione che il pianeta superiore eser- cita sull’inferiore, venne a proclamare l’esistenza di un pianeta superiore ad Urano in un dato punto del cielo, e Galle di Berlino, ricevutane la notizia a 23 settem- bre 1846, otto giorni dopo dell’annunzio nel Resoconto di quell’ Accademia, diresse un forte cannocchiale verso il punto indicato da Leverrier, e vide e scoprì cogli oc- chi del corpo e col soccorso di quel potente strumento il pianeta che l’Astronomo francese aveva veduto qual- che mese prima cogli occhi della mente e col soccorso delle formole. Ora se all’ onore della scoverta debba — 228 — aver parte colui, che guidato da esatti raziocinai sta- bilito aveva con aria di certezza assoluta il principio teorico cinque anni prima che alcuno avesse pensato altrettanto e fattane T applicazione, ne lascio la con- siderazione agl’ imparziali e giusti apprezzatoli del merito altrui (18). § 98. Il principio da me fissato nel 1841 venne tosto abbracciato ed esplicitamente adottato dal sig. Ernesto Capocci Direttore del R. Osservatorio astrono- mico di Napoli nel suo Annuario per Tanno 1847 pag. 193, dove così si esprime « Un’ altra più sodata spe- « ranza ci porge la scoverta di Leverrier ( notate di « Leverrier non di Galle), che vieppiù ne promette di « estendere le nostre cognizioni sul sistema planetario « del nostro sole, sin fuori i limiti della potenza della « nostra vista : avvegnaché bene esplorato il corso del « suo pianeta e studiate le differenze che le osservazio- « ni presentano da queste risaliremo alla scoperta di « un altro pianeta perturbatore più lontano che le ha « prodotte e così di seguito sino che finiremo col non « vedere dell’ultimo pianeta che i soli effetti.» Il quale linguaggio non era uscito mai dalla bocca degli astro- nomi prima della scoverta del nuovo Pianeta , fatto oppostamente ai principii di Newton, ed in conformità del principio razionale da me posto nella precitata mia opera edita in Napoli nel 1841. § 99. « Se i pianeti, dice Laplace, non obbedissero « che all’ attrazione del sole, eglino descriverebbero at- « torno a lui orbite ellittiche. Ma agiscono gli uni su « gli altri (come da’ newtoniani piamente si crede e gra- « tintamente si afferma senza il menomo scrupolo di « coscienza ) , agiscono egualmente sopra il sole, e da « queste attrazioni diverse ( le azioni cangiate in at- — 229 — « trazioni che ve ne pare ? Laplace è un gran giuo- « calore di bussolotti) risulta ne’ loro movimenti ellit- « tici alcune perturbazioni, che le osservazioni fan tra- « vedere. La soluzione rigorosa di questo problema sor- « passa i mezzi attuali (e futuri) dell’analisi (congiun- « tamente alla sintesi ) e perciò siamo obbligati a ricor - « rere alle approssimazioni. Fortunatamente la piccio- « lezza della massa de’pianeti rispetto a quella del sole, « ed il poco di eccentricità e d’ inclinazione scambie- « vole della maggior parte delle loro orbite danno grandi « facilitazioni per quest’ obbietto ( Respiriamo: pare di « essere tornati da morte a vita; così almeno è salvato « l’onore della scienza). Nondimeno resta ancora com- « plicatissimo (guai!), e l’analisi la più delicata e la « più spinosa e indispensabile per deciferare nello iii.fi- « nito numero delle ineguaglianze (misericordia ! ) alle « quali sono soggetti i pianeti (povere bestie che non « possono da se stesse darsi aiuto), quelle che sono sen- « sibili e per assegnare i loro valori (19). » A vista di sì formidabile complicazione da sgo- mentare il più imperterrito analista , fosse superiore allo stesso Laplace, è venuto opportunamente in soc- corso, quando meno ce l’aspettavamo, il sig. damili (il moscherino in soccorso dell’ elefante ) , il quale nella settima lezione del suo Corso eli Fisica della scuola po- litecnica così la discorre. « S’ egli è così (sono le sue « parole) , gli astri devono provare movimenti estre- « inamente complessi (se è vera l'ipotesi, son vere le « conseguenze di quest’ipotesi), perchè il loro numero « è immenso, e ciascun di loro obbedisce (secondo la « fatta ipotesi) all’ influenza di tutti gli altri. Frat- « tanto è facile il vedere ( e chi noi vedrebbe ve- « dendolo il sig. Jamin ? ) che la quistione si riduce , ATTI ACC. VOL. X. 31 — 230 — « ad una prima approssimazione , ad una semplicità « inaspettata (tuttoché facile a vedersi). I corpi celesti * si dividono in effetti in due classi: gli uni che si chia- « mano stelle fisse (dagl’ ignoranti, ma non è vero che « sono fisse e tali non le ritengono gli astronomi di « grado elevato), son situate a distanze talmente grandi « dal sole e dalla terra che la loro azione (qualora esi- « stesse, s’intende) può essere trascurata (ecco cancellata « la prima partita), e gli altri che sono comparativa- « mente più ravvicinati , costituiscono un gruppo di « astri isolati dalle stelle fisse (non fisse) ma dipendenti « gli uni dagli altri: sono il sole e i pianeti. Sono dun- « que questi soli di cui avremo a studiare le azioni « reciproche. Se in seguito noi li paragoniamo tra loro, « riconosceremo che il sole essendo incomparabilmente « più grosso de’ pianeti deve avere nel sistema un’ in- « fluenza preponderante (secondo il nuovo Dritto del « più grosso ) in guisa che un pianeta come la terra « prova da parte del sole un’ attrazione fortissima e « da parte degli altri pianeti un’ azione trascurabile « ( ecco cancellata la seconda partita ). Noi siamo « così condotti ( pedetentim , a poco a poco , per non « romperci la nuca del collo ) a considerare il sole « come un centro unico di azione, e i pianeti come al- « frettanti corpi indipendenti gli uni dagli altri e nino- « ventisi secondo le medesime leggi come se ciascuno « di loro esistesse solo in presenza del sole (ecco can- « celiata la terza ed ultima partita ) . » A me pare che il ripiego del sig. Jamin sia benissimo immagi- nato. Si dovrebbe in onor suo coniare una medaglia d’ oro a spese di tutti i gonzi esistenti nella Metro- poli della Francia. § 100. A comprendere vie meglio la insussistente 231 — futilità dell’ ipotesi newtoniana dell’attrazione o gravi- tazione universale (avute per sinonimi mentre non lo sono), giova in ultimo luogo riferire uno squarcio del sig. Delaunay al numero 292 del suo Corso elementare di Astronomia. « Se un pianeta, egli dice, situato ad una « distanza 1 dal sole si allontanasse da quest’astro sino « a giungere ad occupare il posto di un altro pianeta « la cui distanza dal sole fosse 2, la forza che gli è « applicata si ridurrebbe al quarto di ciò eh’ era dap- « prima. La forza agente sull’ unità di massa di questo « pianeta diverrebbe quindi parimente quattro volte « minore, vale a dire esso assumerebbe precisamente il « valore della forza agente sull’ unità di massa del pia- « neta, di cui esso verrebbe a prendere il posto. Le « forze applicate all’ unità di massa de’ diversi pianeti « sono dunque disuguali soltanto per trovarsi i pianeti « a differenti distanze dal sole; che se essi fossero tutti « collocati alla medesima distanza da quest’ astro, l’ u- « nità di massa d’ ognuno di essi sarebbe esattamente « soggetta alla stessa forza. Le forze totali che agireb- « bero sui diversi pianeti nel caso in cui essi fossero « così portati alla stessa distanza del sole, non difìe- « rirebbero le une dalle altre che a ragione dell’ ine- « guaglianza delle masse de’ pianeti: queste forze si « troverebbero proporzionali alle masse de’ corpi alle « quali sarebbero applicate. « Da tutto ciò che precede (cioè dalla filastrocca « che f A. ci ha raccontato, abusando della pazienza « del lettore ) risulta evidentemente (senza il bisogno « dell’ analisi la più delicata e la più spinosa di Laplace ) « che tutto avviene come se il sole attraesse verso di se « i pianeti, essendo le forze di attrazione proporzionate alle « masse de' pianeti, ed in ragione inversa de' quadrati delle « loro distanze dal sole. Diciamo che tutto avviene come « se il sole attraesse i pianeti, dapoichè ci è impossibile « (e lo crediamo) giungere alla piena (e nè anco alla « semipiena) cognizione della natura intima della forza « (Noi per la Dio grazia ci siamo arrivati e voi no: india « major probatio quam sin oris confessio ), alla quale ogni « pianeta è soggetto. Questa forza non ci si manifesta « che dagli effetti risultanti dalle sue azioni sul pianeta « ( e che vorreste di più?), e dall’ attento esame di questi « effetti possiamo soltanto arrivare a conoscere per ogni « istante la grandezza e la direzione della forza mede- « sima. Noi non possiamo in conto alcuno decidere se il « sole attira realmente ovvero se la tendenza de’ pianeti « ad avvicinarsi al sole sia dovuta ad una ragione del « tutto diversa da ciò che intendiamo per un’ attrazione « che emani da quest’ astro. » Il che è un cantar la pa- linodia bella e buona, un confessare che sarebber pronti a deporre le loro anticipate sentenze se fosse altri più fortunato di loro , ed avesse altro miglior modo di pensare e di ragionare, ed avesse di Dio la giusta opi- nione che si deve. § 101. Il Sig. Delaunay ha ripetuto per ben tre volte nello stesso paragrafo la parola applicate quasi che la forza di gravità fosse esterna al mobile e non insita in esso come altri Autori si esprimono. « Quando « si riflette, dice il sig. Baraldi, che la gravità è una « forza costantemente inerente al corpo , die perciò non « lascia mai di accompagnarlo ne’ varii successivi punti « dello spazio per cui va di mano in mano scendendo, « che la velocità generata in ciascun istante non si « distrugge, ma attesa la forza d’inerzia si aggiunge « e coopera a quella dell’ istante che siegue, si troverà « che nel moto prodotto dalla gravità la velocità acqui- — 233 — « stata nel secondo istante deve esser doppia della pri- « ma, e quella del terzo tripla, e così in appresso, e che « il moto dovrà quindi essere uniformemente accele- « rato (20)». Ora una forza che accompagna il mobile in tutti gl’ istanti di sua esistenza ne’ varii successivi punti dello spazio per cui va di mano in mano scen- dendo, una forza che invade le molecole tutte compo- nenti la massa di un corpo, e replica ad ogn’ istante i suoi impulsi, secondo la comune maniera di esprimersi, può esser mai una forza applicata alla massa de’ pia- neti come si applica la mosca di Milano alla nostra cute, o come la forza del vapore si applica ai diversi pezzi delle nostre locomotive? Quale concetto avremo noi di questa forza straordinaria se non vogliamo con- venire eh’ essa sia prodotta per decreto e non fatta per creazione ? che le cose create sono di lor natura manchevoli e cariche oltremodo d’ imperfezioni e di difetti. § 102. « Nulla di più ovvio, dice il P. Secchi, che « trovare autori (newtoniani, s’intende; che antinevv- « toniani di vaglia non ce ne sono, se se ne eccettui « qualche analfabeta che non beve grosso), i quali im- « maginato che abbiano nello spazio vacuo assoluto « due molecole, suppongono come loro proprietà che « queste si tireranno e correranno l’una contro l’altra « in certa ragione ecc. Ora a tale ipotesi nessun fatto « porge la menoma pruova diretta (ed ecco con un « soffio gettato a terra da un newtoniano il grande « e stupendo edifìzio del geometra inglese, che ha fat- « to e fa rimanere estatici di ammirazione milioni e « milioni di personaggi eminenti in dottrina, e forniti « di massima, media e minima erudizione), perchè non « possiamo osservare fatti analoghi ad essa nel vuoto: 234 — « tutto quello che vediamo si fa tra masse finite o « composte, e dentro un mezzo, e quindi quel loro « principio teorico non ha nessun diretto fondamento. « Ciò che ha dato origine a tal concetto è stato il ve- « dere due corpi celesti andar l’uno contro l’altro (a « baciarsi come colombe o a mordersi come cani ?) « i quali essendo prossimamente sferici (e potrebbero « essere anche conici e cilindrici) per finzione matema- « fica possono considerarsi concentrati nel loro centro « di gravità come due punti o due molecole: ma tale « azione (ipotetica) non esercitandosi nel vuoto (e nep- « pure nel pieno), vi è sempre da domandare se tale « accostarsi non sia piuttosto effetto di estrinseca causa « impellente (come vuole il sig. Delaunay) che d’intrin- « seco principio operante (come vuole il sig. Baraldi.) « Almeno i vecchi fisici (più prudenti dei fisici mo- « derni amanti del progresso) con Newton alla testa « (grazie, P. Secchi, rispondo io per Newton, mille « grazie alla vostra gentilezza, e perciò sta bene a « Newton la parrucca spagnuola) lasciarono la que- « stione pendente (per noi, pei nostri posteri, e pei « posteri dei nostri posteri) (21). » Dalle quali parole di un sì distinto astronomo let- te e ponderate risulta evidentissimamente che se pri- ma eravate nell’ oscurità , vi trovate adesso nel più fitto delle tenebre. §103. Due dei principali fenomeni astronomici che meritano considerazione sono la precessione degli equi- nozii, detta anche precessione senz’altro, e la retro- gradazione dei nodi dell’orbita lunare (§ 76). Il primo consiste in quel movimento insensibile in forza del quale i punti equinoziali variano continuamente di posto sull’ Eclittica procedendo in senso inverso allo 235 — ordine dei segni; il secondo è quel movimento della lu- na in forza del quale i nodi della sua orbita sono in uno stato continuo di retrogradazione sull’ Eclittica , vale a dire che essi hanno un movimento in senso inverso al movimento apparente della sfera celeste. Ciò prova ad evidenza che la terra influisce sopra la luna e la luna sopra la terra , la luna in forza della sua gravitazione geocentrica e la terra in forza della sua gravità eliocentrica ; la terra sopra la luna al novilunio e nei suoi dintorni , la luna sopra la terra sempre ma in modo speciale al plenilunio. § 104. Gli astronomi danno la spiegazione dell’u- no e l’altro fatto alla meglio che possono, secondo le loro preconcette idee delle quali è impossibile svestir- si, non trovando meglio con cui cambiarle. Suppongo- no forze die non vi sono e cause che non esistono: ba- sta per tutta pruova l’attrazione semi-lunare la più curiosa e la più balorda di tutte. La spiegazione del- le maree nel modo più bizzarro conferma il nostro giudizio (22). § 105. A maggiore conferma di quanto ho avuto in questa Memoria l’onore di affermare, vi trascrivo o Signori due squarci di due sommi intelletti, uno dello scorso e l’altro del presente secolo, d’ Alembert ed Ales- sandro Humboldt, intorno al tema di cui mi sono occu- pato con vedute proprie e critiche insieme; poiché nien- te è più convincente del vedere che i corifei di un par- tito sono i primi a screditarlo e a scoprirne le magagne. « Havvi per rapporto all’attrazione, scrive il sig. D’ Alembert, due punti sopra i quali non è mai so- verchia la prudenza (sic) quando si tratta di dover procedere; il primo si è di non pronunziare troppo affermativamente sulla natura della causa che produce — 236 la gravitazione de’ pianeti (per tema di dire qualche grossa blasfemia); il secondo di non trasportare troppo leggermente questa forza da’ corpi celesti ai corpi che ci circondano ( per tema di dire qualche grossa minchioneria ). Da un lato, non si è potuto finora ( ma si potrà in appresso; il quando, Dio lo sa) dedurre f attrazione dalle altre leggi conosciute della natura ed in particolare de’ fluidi (Ebbene! Si dedurrà probabil- mente dalle leggi sconosciute della natura allorché que- ste saranno conosciute ) ; dall’ altra parte par difficile (sic) a comprendere come due corpi situati nel vuoto agiscono 1’ uno sopra f altro colla loro presenza ( per- lochè sarà più meritorio il sacrifizio della ragione, ca- ptivantes intellectum in obscquiwn New toni ). La diffi- coltà di comprenderlo cresce ancora ( il bello si è che le difficoltà crescono e le ragioni in contrario diminui- scono a colpo d’ occhio) quando fassi attenzione ( al che non è tenuto un newtoniano provetto dispen- sato da qualunque specie di obbligazione ) alla legge secondo cui opera Y attrazione. I corpi celesti si attrag- gono in ragione inversa del quadrato delle loro distanze, vale a dire che ad una distanza doppia la loro attra- zione è quattro volte minore, nove volte ad una di- stanza tripla e così seguitando. Ora, se la sola presenza de’ corpi celesti basta a produrre la loro attrazione, per- chè 1 attrazione non è la stessa a qualunque distanza che si sia? L’azione della luce ed in generale molte altre azioni simili sono in verità in ragione inversa del quadrato della distanza come quella dell’ attrazione, ma 1’ azione della luce pare ( sic ) prodotta da corpu- scoli che sono lanciati e spinti dal corpo luminoso, e come il numero de’ raggi che partendo da un centro urtano uno stesso corpo, diminuisce a misura che un — 237 — corpo si allontana, è manifesto che la distanza dimi- nuir debba l’azione della luce. Nel sistema dell’ attra- zione non si può immaginar niente di simile, meno che non si attribuisca l’attrazione ad un fluido, ipotesi che ad altri riguardi non saprebbe conciliarsi co’ fenomeni ( Dunque che se ne conchiude ? Sentite e stupite ). 0 che il sig. Newton fosse scosso da queste ragioni ( prima ipotesi, che fa di Newton un ragazzo, ) o da altre si- mili (seconda ipotesi, che fa di Newton un visiona- rio ), o che volesse far la corte ai pregiudizii bene 0 male fondati de’ filosofi del suo tempo sopra la ne- cessità dell’ impulsione per produrre il moto de’ corpi ( terza ipotesi, che fa di Newton un imbecille ) , non si è mai spiegato chiaramente (il che è proprio dei furbi e degl’ impostori ) per rapporto alla natura della forza attrattiva (perchè in Dio credeva ora sì ed ora no). Egli non niega che non possa essere 1’ effetto dell' im- pulsione; procura anzi di ridurvela. Ma le idee che propone per adempire a questo scopo sono sì imper- fette e sì vaghe che si stenta a pensare che un sì grande filosofo (sic) potesse esserne sodisfatto (prova incontra- stabile della sua grande filosofia ). In leggendo si sente ancora, malgrado tutti gli orpelli onde si cuopre ( sotto pelle d’agnel lupo rapace) ch’egli era inclinato a riguar- dare l’attrazione come un primo principio (ed un ultimo fine), come una legge primitiva della natura (e del suo cervello superiore alla natura ). Poiché da un lato egli ammette un’ attrazione reciproca ai corpi, reciprocità che sembra (sic) supporre che 1’ attrazione è una pro- prietà inerente alla materia; dall’altro egli osserva che la gravità è proporzionale alla quantità di materia che 1 corpi contengono, e che essa viene da una causa che penetra i corpi, in luogo che l’impulsione è propor- 32 ATTI ACC. VOL. X. — 238 — zionale alla quantità di superficie (osservazione profon- da, degna della mente di Newton, grandissimo filosofo). Finalmente quel che pare (sic) sveli pienamente come il sig. Newton pensava a questo riguardo si è ch’egli lux consentito che si stampasse in testa alla seconda edizione de’ suoi Principii la famosa Prefazione nella eguale il sig. Cotes suo discepolo dice espressamente che f attrazione è una proprietà tanto essenziale alla materia quanto la impenetrabilità e la estensione (New- ton ha rivelato per mezzo di Cotes suo discepolo il suo pensiero, il che viene francamente niegato da altri, come si legge nel De Maistre), asserzione che ci pare (sic) troppo precipitata, qualunque sia d’ altronde il senti- mento che si segua intorno alla natura della forza at- trattiva. Giacche questa forza pub essere una proprietà primordiale, un principio generale di movimento nella natura (una cosa qualunque, quel che diavolo volete) senz’ esser per questo una proprietà essenziale della materia. Dacché concepiamo un corpo, noi lo conce- piamo esteso, impenetrabile, divisibile e mobile , ma non concepiamo necessariamente eli’ esso operi sopra un altro corpo (Lo concepisce il sig. D’ Alembert che sa qualche cosa di filosofia, non lo concepì il sig. Cotes discepolo di Newton, che ad imitazione del maestro avea fatte divorzio colla filosofia). La gravitazione se è tale (piale la concepiscono gli attrazionarii decisi ( che il sig. D’ Alembert appartiene agli attrazionarii inde- cisi), non può avere per causa che la volontà di un Essere sovrano, che avrà voluto che i corpi agissero gli uni sugli altri a distanza come nel contatto (E questo è meglio detto di quel che il p. Cornoldi della Compa- gnia di Gesù dice, che 1’ attrazione non è altrimenti — 239 — spiegabile che secondo i principii di s. Tommaso. Quae conventio Christi ad Belial ? (23) ). » « Il sistema newtoniano dell’ attrazione, dice il sig. Humboldt, tanto ammirabile per la semplicità (la sua forinola non oltrepassando il quadrato) e per la genera- lità della sua applicazione (applicata essendosi alle cose morali, politiche, economiche) non si circoscrive nella sfera (ristretta) dell’ limnologia ; essa governa ancora i fenomeni terrestri secondo alcune direzioni in parti non indagate (sfera ampia ed illimitata ) , assegna le cagioni de’ movimenti periodici nell' oceano e nell' at- mosfera (e nel fuoco centrale della terra (24)), dà la soluzione de’ problemi della capillarità (in dieci o dodici maniere diverse, vera caratteristica del progresso ) e quella della endosmosi (nell’ endosmometro per chi lo tiene a proprio divertimento) e di molti processi chimi- ci, elettromagnetici ed organici ( che non si dicono quali sono potendosi immaginare da chicchessia senza timor di sbagliare). Lo stesso Newton già distingueva f attrazione delle masse come si manifesta in tutti i corpi e ne’ fenomeni delle maree, dell' attrazione mole- colare che opera a distanze infinitamente più piccole (appena discernibili co’piu forti microscopii, anzi asso- lutamente invisibili ) e nel più vicino contatto. » « Nondimeno, dapoichè Newton ebbe mostrato (al- la mondiale Esposizione nella gran piazza di Londra ) tutti i movimenti celesti conseguenza di una sola forza (sproposito non di Newton ma dello scrittore prussiano), egli con Kant (venuto un secolo dopo di lui) non riguar- dava la gravitazione stessa come una proprietà essen- ziale della materia, ma o come derivata da una forza più elevata ancora a lui sconosciuta ( prima ipotesi ), o come un risultato di un rivolgersi dell'etere che riem- — 240 — pie tutto lo spazio ed è più raro negl’ intervalli tra le particelle delle masse, e cresce esteriormente in densità ( seconda ipotesi ). L’ ultima opinione è dichiarata mi- nutamente in una lettera a Roberto Boyle del 28 feb- braio 1678, che finisce con cpieste parole: Io cerco nel - V etere la causa della gravitazione. Otto anni dopo, come si può vedere nella lettera di Iialley, Newton abbandona interamente quella ipotesi di un etere più denso o più raro. È questa una notevole circostanza (25).» Non si possono in più breve spazio accumulare cose nè più frivole nè più antilogiche. § 106. Conchiudiamo la prima parte di questa Me- moria col Quadro sinottico delle Forze. w N « O w P P W Q O o t— ( H H O » ►— i 02 O P$ Q o 03 § 8C *0 •'P C-i *■« aj o 03 — O — C© mm 1 ' 03 ^ 03 ,, © ©j5 d S O C t< bDO «2 S'S ._ CO a3 C -*— > £3 -G O o o_ 2 03 03 r—> O CO bD . o 03 13 o G GDp §1 .00 co 03 03 N N © Sm O O Dm Do, © r ( p t o Cm © bD . .3 cò-'r fccrs It <■“ * .*P 53 co O co G et N et ^ 2=2 «2 o et r | 0) 4-03 -2 —3 0 et 0) co et ^ co 0 0 p o ’n g co et 0 0 0 r1 1 o ’n et G et .2 CO M bD co Sm N O N .52 cO co bD O O ”2 o e o ° S-2 ° 03 O N P 03'S © •= w _c0 o ao o.i ■tf Jh Jm O O o S~-3 S © co co 03 co ■ t! — ©e ^ CO cr-rS G o 2 2 03 • S 03 C C G3 Sm 03 03 03 „, CO, CD 03 03 5 © © © © F N N N N 2 S. S, O S- G o o o o ^ Dm E© Dm Dm 03 -cO cO Sm - -*-s .2 2 *n 53 £ cu r- < H 0 0 So . 53 S e co - 0 o p 5 Gh .2 r f o •4-9 #0 et' 0 e 0)- li ^ ©‘^ 0 0 0 G 0 C .2 2.2 c/r- ’ 53 53 co co co 0 0 0' 0 0 0 CU CU &- — co •p ° . C N C et . 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Si dà il nome di traiettoria alla curva de- scritta dal mobile sottoposto all’ azione di forze acce- leratrici e di forze motrici. Taf è la linea che trascorre un corpo pesante lanciato obbliquamente nell’ aria. § 108. La traj ettoria da curvilinea diviene retti- linea quante fiate amendue le forze fossero verticali ed agissero nel medesimo o nel contrario senso. Allora la linea che si percorre dal grave, è da su in giù, di moto uniformemente accelerato , se le due forze , la motrice e l’acceleratrice, operano nel medesimo senso, e da giù in su, di moto uniformemente ritardato , se le forze sollecitanti anzidette operano in contrario senso, cioè il peso da sopra in sotto e la forza proiet- tiva da sotto in sopra. § 109. Quando le due forze, motrice ed accelera- trice, fanno angolo, possono due sole curve descriversi, una da’ projettili sulla terra ed è la parabola , detta Curva balistica , 1’ altra da’ pianeti nel cielo ed è la ellisse, la quale dicesi ancora Orbita ellittica o plane- taria. Parleremo prima succintamente della curva ba- listica; in seguito terremo parola delle Orbite plane- tarie. 1. Della Curva balistica. § 110. Curva balistica è quella linea che descrive nell’ aria approssimativamente , stante la resistenza del mezzo, un corpo lanciato dal mortaio o dal cali- — 243 — none, per una direzione MF inclinata ad angolo acuto coll’ orizzontale MN, fig. 1. La curva sudetta risulta dalla composizione delle forze sollecitanti eterogenee , la projettiva MF e la centrale, che opera nella dire- zione della verticale ZM. Dicesi centrale perchè pro- lungata convenientemente andrebbe a passare al centro della terra. V ediamo quali della curva sieno le genui- ne proprietà. A tal uopo premetteremo le forinole del moto vario, adoperando le notazioni del calcolo infi- nitesimale, molto proprio a questo genere di ricerche puramente analitiche. § 111. Le forinole del moto vario sono le seguen ll.a ? clt — ±: dv, preso il segno + quando la for- za ? è acceleratrice e genera una nuova celerità, ed il segno — quando è ritardatrice e F estingue, ? è V acce- lerazione che la forza continuata della gravità produce sull’ unità di massa, ossia sopra ogni elemento del corpo nella sua libera caduta, con o senza velocità iniziale. Differenziando la prima si ha la III.' Combinando le due prime, nasce la [ Y " o ds = ± vdv. Combinando la seeonda e la terza si ottiene la — 244 — Y.a (p dt = ± d ove, secondo le occorrenze, potrà prendersi c/.s o dt costante. § 112. Conosciute le forinole del moto vario nella loro massima generalità , passiamo a farne f appli- cazione. Chiamando v la velocità finale , s lo spazio e t il tempo, si avrà c = ds di 0a) Ora in rapporto alla forza MF, una delle componenti in clic si risolve la centrale MR, fig. 4, si ha ds — dx, e perciò dx t come in rapporto alla forza MO, f altra componente della centrale MR, sarà ds = di/, e perciò Sia 31 F = f' MO = «pò Per la IL® del moto vario (§ 111) si ha p dt = dx, e clv' — d ( ~jj~) Per HI.a; dunque sostituendo si avrà (l )V dt=d{^.), (2) ? dt = d (-§-). § 118. Esprimendo la forinola (1) l’effetto di quella porzione di forza acceleratrice in rapporto alle ascisse , e la (2) quella in rapporto alle ordinate, noi le esprime- remo con Sono queste le forinole generali per una traiettoria qualunque. § 114. Le forinole generali per una trajettoria qua- lunque essendo (§ 113) esaminiamo quel che divengono queste due equazio- ni nel caso in che versiamo. Sia il corpo A, fig. 2., lanciato dalla forza proiet- tiva A V. Chiamiamo u la velocità eli’ esso riceve, e con ci esprimiamo l’angolo V AC — 90° — ang. VAR , sotto cui la riceve. La forza continuata che nel nostro caso è la gravità autocentrica del projetto, agisce da alto in basso in direzione negativa all’ordinata Y , ed è nulla nella direzione dell' ascissa X. Si avrà dunque Y= — g , X =. 0. Per conseguenza le due forinole ge- nerali si trasformeranno in Y clt = Integrando si avrà (3) ~ = C‘ — gt, (4) C-A — Costante , ATTI ACC. VOL. X. 246 — chiamando C' e C le rispettive costanti. Ma C~ ~ ci denota la velocità iniziale in rapporto ad x , e perciò orizzontale, e per la stessa ragione C' ci segnala la ve- locità iniziale in rapporto ad y e perciò verticale. Sarà dunque C = AP = celerità iniziale orizzontale, e C' = MP = celerità iniziale verticale. Prendendo gli spazii in luogo delle celerità avremo C = AP = V sen a , C = MP — V cos a , V essendo la celerità acquistata dal mobile dopo il tempo T. Sostituendo questi valori di C e C' nelle forinole (3) e (4), avremo (5) ^jj==V cos a > (6) % = y sen a ~ cJt ossia dx — V cos cult, dy — V sen a — gtdt. Ed integrando avremo (7) x=Tt cos a , (8) y = Vt sen a — ~ gtl . Eliminando t da queste due equazioni si avrà — — _ -feen ? -f- — K V 2 sen2 a — 2gy , y cos a g — g e finalmente 1 — g* (9) y — x tang a — V2 cos* a — 247 — Da’ principii della dinamica si sa che, chiamando h l’ altezza dovuta, sarà V —V ~rJìl • Sostituendo un tal valore nella (9) si avrà 1’ equazione della traj ettoria y — x tang a — a?’ 4 li cos5 a 115. Prendiamo in considerazione le tre forinole x Vi cos a ,y— Vt sen a gt *, tj = x tang a — x »* 4/i cos® a La prima ci darà il tempo impiegato dalla palla a descrivere la curva in funzione dell’ angolo d’incli- nazione, della distanza del luogo e della celerità ini- ziale. Difatti si ha t= x . V cos a La seconda equazione è la stessa che la terza in cui, in vece di t, si è sostituito il suo valore preso dalla prima. Dalla terza forinola y = x tang a — x * 4/i cos5 a si deduce che avendo una sola dimensione in una delle due variabili, la medesima rappresenterà una pa- rabola. § 116. Per conoscere i punti in cui la curva incon- tra la orizzontale AC, fig. 2, ossia V ampiezza del tiro faremo uso della equazione y = x tang a — x 4 h cos* a ' ne risulteranno allora due * Con supporre y — o, valori di x, cioè x=o, ed x — 4 li cos a taug a Ah sen a. Ma per il calcolo de’ seni si ha 2ct sen a cos a = sen 2 a ; sarà dunque sen a cos a = ~ sen 2 a ; *) 7 IV e però si hanno x — o , x — 2h sen 2 a. La prima equa- zione conviene all’ origine A, la seconda al punto C. Per la prima avrassi la minima ascissa, per la seconda la massima. Perciò sarà AC = 2h sen 2 ci la portata orizzontale o l’ampiezza del tiro. § 117. Per aversi della parabola la massima am- piezza, bisogna che sia 2 a — 1. In questo caso sarà A. C AC — 2K, ed li — — • Ma li denota l’ altezza dovuta alla celerità di projezione, e quest’ altezza è rappre- sentata dalla forza della poi /ere eguale alla metà del massimo tiro. Ora quando 2 A — 1, sarà 2 a~ 90°, e perciò a — 45°i; se ne deduce che il massimo tiro si avrà mettendo il mortaio a 45°. Tal’ è la dire- zione MF , fig. 1, di cui il massimo tiro è la retta mjst. § 118. Il tempo che impiega il mobile per salire al vertice della traj ettoria, cioè al punto dove la velo- dy dx cità verticale diviene = O è 249 — e le coordinate del vertice sono V* V* x' = sen a cos a=- — sen 2 a = li sen 2 a, 0 20 V1 , . , h i/ — — se/i « = /i se/i* a = — - ( 1 — cos 2« ). 2i/ 2 v . La portata orizzontale poi si compie nel tempo , 2F t - — sen a , 0 e 1’ ampiezza del tiro che chiameremo aJ è a — 4/i sen « cos a = 2h sen 2«. § 119. Conosciuta la forza della polvere e suppo- nendo che con una inclinazione di un semiretto abbiasi il massimo tiro AC, si domanda: Si può colla medesima carica far cadere una bomba sopra un dato punto D dell’ orizzonte meno lontano dalla batteria che il sup- posto punto C, fig. 2,? Il problema riducesi a ritrovare 1’ angolo d’ inclinazione V AD = a, corrispondente a questo secondo caso. Sia AD — b la distanza conosciuta per ipotesi o misurata trigonometricamente; sarà AD funzione di AC, e però sarà AD — 2 li sen 2« ; d’ onde sen 2 a — -9~ , cioè il seno del doppio angolo cercato si ottiene dividendo lo spazio da percorrersi per lo spazio percorso sotto il massimo tiro. Esempio. Sia 2 h = 500 tese, b = 388, 7 tese ; sarà ooo j 2a = == 0, 7774 = 10, 7774. — 250 Ora log. 10, 7774 = 9, 8906445. Dunque tale sarà log. 2 a. E ricorrendo alla tavola de’ seni e coseni si trova 2 a = sen 51 2'. Perlochè a — 25° 31'. Ma il seno di un arco ò uguale a quello del suo supplimento: sarà dunque sen 2ct = sen 128° 58'. Perciò 1’ angolo d’ inclinazione avrà due valori, cioè a — 25° 31 \ ed a — 64° 29'. § 120. L’ equazione della traj ettoria riportata ( § 114 ) può subire una utile trasformazione. Siccome sen2 a + cos2' a = 1, cosi sara // — x tang a e però x 2 ( sen2 a cos2 a ) 4/?. cos2 a = x tang a x' 4/i ( 1 — tang2 a), x* ( 1 — tang2 a ) — 4 h ( tang a — y ) = o ( a ) In questa equazione dovendosi co’ metodi trigonome- trici determinare la distanza x e V altezza y , faremo x ~ b, y — c. Dunque la forinola (a) ridurrassi a 62 ( 1 — tang2 a ) — 4/i ( b tang a — c ) = o. Ricavando da quest’ ultima equazione il valore di tang* a si avrà tang2 a = 4 li tang a ed estraendo la radice tang ci = 2/i / 4/i (/? — 1) — b* (1) Se lo scopo non sarà una fortezza , sibbene un V 251 — piano orizzontale, in tale caso si farà c = o , e la for- inola generale cangerassi in 2h ± DdD — Ir tang a = Finalmente se l’artiglieria sarà posta in mia col- lina e si debba colpire un sito dominato , allora a sa- rà negativa, e si avrà la terza forinola 2 h ± \li ( h ■+■ c ) — br tang a = — - ' § 121. Osservando attentamente le tre equazioni (§ 120) si vede che per non essere neH’equazione (I) immaginaria la quantità sotto il radicale, fa di mestieri che fosse 4 li > 44c 4- b\ In questo caso soltanto sarà possibile colpire il bersaglio. Per l’equazione (II) affinchè il radicale non sia im- maginario, fa d’uopo che fosse 44* > b\ Finalmente per 1’ equazione (III) sarà possibile il colpo quante volte sarà 4/f -f- 44c > b\ § 122. Se la forza projettiva della polvere sia tale da spingere il corpo per la orizzontale AD, fìg. 3, in questo caso il projetto in virtù delle due forze, la oriz- zontale AD istantanea e la verticale AG continua, per- correrebbe 1’ arco parabolico AH nel primo istante del suo movimento, l’arco IIL nel secondo istante, lo arco LM nel terzo, sempre abbassandosi ed avvicinan- dosi al centro G. Da ciò ne seguita che egli descriverà il ramo AHLM , e però la curva descritta sarà una se- miparabola. Il vertice sarà il punto A d’onde parte il projetto. La forza orizzontale F sarà del genere delle impulsive, e farà trascorrere al mobile spazii eguali in 252 — tempi eguali, mentre la forza di gravità f essendo ac- celeratrice fa percorrere ai gravi spazii che crescono secondo il quadrato dei tempi. § 123. I projetti descrivono la parabola intiera quando la forza di projezione fa angolo acuto colla linea orizzontale, la semiparabola quando la forza proiet- tiva solleciterà il mobile a percorrere la linea paral- lellamente al piano dell’orizzonte. Trasformerassi poi in linea retta la semiparabola quando il projetto sarà lan- ciato sul piano stesso orizzontale : il che non potrà avvenire che a qualche distanza dal pezzo di arti- glieria, e verificandosi sul terreno di mano in mano de’ rimbalzi fino a che non si avverte più che il ro- tolar della palla. § 124. Per quanto semplice, osserva il sig. De Mont- ferrier, possa essere la costruzione della curva che de- scrive una palla lanciata nello spazio, pure è impos- sibile di trovarla del tutto esattamente, avuto riguardo alla resistenza che presenta f aria , atteso che f equa- zione differenziale che ne risulta non è integrabile con i mezzi somministrati fino al presente dall’ analisi. E già molto tempo che Giovanni Bernoulli, Herman e Taylor cercano una soluzione generale di questo pro- blema. Nel numero delle ricerche le più sapienti con- viene porre le osservazioni di L. Eulero sopra 1’ o- pera del Solins Nouveaux principes d’ artillerie, nelle quali esso calcola la resistenza con una legge propria- mente adottata. 11 Graevenitz ha, dopo di ciò, formate delle tavole per la pratica. Narrati i tentativi di altri fisici e matematici per la soluzione del problema, il chiaro autore conchiude : Nè la teoria nè 1’ esperienza non hanno potuto farci — 253 — conoscere ancora l’altezza e la distanza a cui possono arrivare le palle o le bombe lanciate sotto un angolo a volontà. Però 1’ una e l’altra c' insegnano che palle di un’ egual forza, sotto il medesimo angolo di eleva- zione, e con velocità proporzionali alla radice quadrata del loro diametro, descrivono delle curve simili, risul- tamento che il Borda aveva di già trovato. 2. Orbite Planetarie. § 125. Se i projettili descrivono sulla terra la pa- rabola e la semiparabola, fatta astrazione della resi- stenza dell’aria, i pianeti nel cielo, dove resistenza da parte del mezzo non s’ incontra, descrivono una curva chiusa e rientrante (*). Dalla traiettoria parabolica pas- siamo dunque alle orbite descritte nello spazio da’ corpi celesti, che pianeti si addimandano. Nella curva SM T, fig. 4, si abbia MV—y , SV—x, SC=a; sarà= VC—a — x. Facciamo MR—F. Or atte- so i triangoli simili VMC, AMR si avrà OM : MR : : MV : MC , e fatto il raggio vettore MC=z, si avrà (*) I pianeti si muovono in un mezzo non resistente in quanto tra pianeta e sole, tra pianeta e pianeta non esiste materia ponderabile, per quanto sottile si voglia supporre. La materia ponderabile non può trovarsi fuori de’ globi, e però ai globi non è dato di attraversare un mezzo che formato sia di materia ponderabile, capace di far resistenza al moto li- bero del pianeta. A ciò arriva il ragionamento , e non ci entra nè cal- colo differenziale ed integrale, nè telescopio a riflessione, nè la luce spet- trale delle stelle fisse. La materia della luce e del calore essendo un imponderabile esister lieve in tutto l’universo, equilibrata in se stessa, non altro operando sui globi che un’azione puramente dinamica di tenzione calorifica in ordine ai loro elementi materiali. ATTI ACC. VOL. X. 34 — 254 — Del pari, atteso gli stessi triangoli simili VMG , OMB, si avrà OR : MR (F) :: VC ( a — x) : MC (F); Sarà dunque or = mf = x=fJXz^\ fs3 Conviene ora riflettere che OM essendo in dire- zione contraria di MF, se questa avrà un valore posi- tivo, quella lo avrà negativo, e pero le due superiori forinole si ridurranno alle seguenti: Y = Fy v F ( a — x) i -»■ — 1 • Sostituendo questi valori di Y e di X nell’ equa- zioni (3) e (4) del § 114 si avranno — Fyclt = rf(fh chj \ F {a — x) dt d / dx \ \cUr Moltiplicando queste due operazioni una per y , e l’altra per a — x , e sommandole si avrà (a _ x) d ^ + ud [*2L) = o. § 126. Facciasi a — x — ir, sarà • du = — dx, e sostituendo sarà U *[§-)- yd( dJ‘- ) = o. Integrando questa equazione per la prima volta col metodo di Bernoulli si arriva ad avere \ u d (V-J / au \ V d (w> du \ udy ydu dt dt — o. Ma 1’ espressione /“?(!)-/ »- (£) = O — 255 — significa che la integrale è ugnale ad una quantità costante Z>; dunque sostituendo si avrà udy uclu £ di dt ossia udy — udu = Bdt ( a ) Integrando per la seconda volta col medesimo me- todo di Bernoulli, 1' equazione (a) diverrà IJU 2f ydu — § Bdt, ed alla fine sostituendo i valori di u e du , dividendo per F ed integrando si avrà fydx + Bt Ma, come si sa dal calcolo integrale, f ydy è l’espres- sione della superficie SM V, e dippiù u—a ~ espri- e>3 me la superficie del triangolo MVC ; sarà perciò J ydx ( a — x) y = Area CMS. Laonde chiamando A quest’ area, si avrà finalmente Per l’ istessa curva chiamando A' l’area corrispon- dente di un altro arco si avrà e perciò A : A’ t : t\ cioè « In ogni traiettoria le aree comprese da’ raggi vet- « — 256 — tori e dall’ arco sono proporzionali ai tempi impie- « gati a trascorrerli. » § 127. Sia l’angolo SCM = B, il raggio vettore MC = zì fig. 4; sarà per la quadratura delle curve con- siderandole a polari coordinate Area SCM = J z'dB. Ma SCM = ^ ( § 126 ); adunque sarà f z*dB — Bty e perciò differenziando e trasportando si avrà dB _ B dt ~ z* * Ma B rappresenta lo spazio angolare SCM ; perciò ~ ci rappresenterà la celerità finale angolare. Sarà dunque clB dt ~~ v B Jlj * Per un altro punto della stessa curva sarà v' = — ■ e fattane una proporzione si avrà , B B n C/ • C/ • • ^ , 2 • • /vj • ^ /v3 rsS ossia « In una traj ettoria qualunque le velocità ango- « lari saranno inversamente proporzionali al quadrato « de’ raggi vettori. » § 128. Sia Mb, fig. 5, la differenziale della curva SMb , e fatto Sb —s , sarà Mb = ds. Il settore Mah sarà dunque una differenziale dell’intiero settore SM C. Ora SMC = \-f 's'dB ( § 127 ) ; — 257 — sarà perciò Mab Conducasi dal punto M una tangente il/ T , e dal cen- tro C una perpendicolare CT = q. Sarà allora Super/. MCct = — qMb = ~ qds : si avrà perciò qds = Bdt, ovvero ds_ B dt q ' Ma ds dt = v : PerC10 sara v = Per un altro settore della medesima curva si avrà B d finalmente u' = B_ q' ed in conseguenza v : v' : : q> : q cioè « In ogni traj ettoria le celerità effettive saranno « inversamente proporzionali alle perpendicolari ab- « bassate dal centro sulla tangente. » § 129. L’ equazione — Ftjdt i ds \ ~~s ' C \ di ) ci rappresenta la forza centrale rapporto a cly. Rica- vando da questa equazione il valore di F, si avrà # * e verificando la differenziazione con supporre dt co- stante, avremo F = — ~d*y ijdt (à) Dalla teoria delle Evolute si sa che, fatto dx co- stante, la espressione del raggio osculatore sarà D dx' — dy' — dxd'y dsz — dxd'y ’ onde ddj =z dsz rdx Ma df = — (§ 128), dt q e perciò ds = — -> e ds — dt* v3 > sostituendo sarà d'y = ds 5 — qzrdx e questo valore sostituito nell’ equazione (b) avremo p zdt . q*rydx § 130. Riandando il § 126 si ha 'jd(M)+(a-x)d$a)=0' ossia y -(£) Ora considerando dx e dt per costanti, sarà 'dxs <* (a)=o. — 259 — e perciò x = oo . Dunque nell’ equazione in cui dx erlt sono supposte costanti, sarà y = x> e quindi F= oo q*rdx Per un altro punto della medesima curva sarà s'dt F’ = ooq^r’dx e togliendo sì nell’ una e sì nell’altra equazione la quali- • elee tità comune — - > si avrà osdx F : F' :: — r : ——5 , cioè rq r'q’ « In ogni traj ettoria le forze acceleratrici o centrali « sono proporzionali ai raggi vettori divisi per il pro- « dotto del raggio osculatore pel cubo della normale « abbassata dal centro sulla tangente. » § 131. Supposta la traj ettoria una delle curve co- niche, si cerca il rapporto che colle distanze hanno le forze acceleratrici ne’varii punti dell’orbita. Sia SMT una curva conica qualunque, fig. 4, MI la tangente, CI la perpendicolare abbassata dal centro di moto C sulla tangente, il raggio vettore CM = z. E chiamando n la normale MV, sarà il raggio osculatore 1? p essendo il parametro. Dippiù si ha che dal punto V della normale ab- bassando la perpendicolare VQ sul raggio vettore sarà la porzione MQ di essa intercettata tra questo punto — 260 — e la tangente = ~ p. Ora ne’ triangoli simili MZV , MIC abbiamo CM (s) : CI ( q ) : : MV (n) : MQ (^- p ) ; e perciò Sostituendo nell’ equazione (§ 130) il valore di q e di r, si avrà F = 8 ir Essendo il parametro lo stesso in qualunque si fosse punto della curva, in un’ altra ascissa sarà e quindi F:F'::pz '* : pz\ cioè « Nelle curve coniche le forze acceleratrici saranno « inversamente proporzionali ai quadrati de’ raggi vet- « tori moltiplicati per il parametro. » § 132. Nell’ellisse il pianeta ora si avvicina ed ora si allontana dal corpo centrale posto in uno àC fuo- chi; si avvicina quando dall’ afelio portasi al perielio, e si allontana quando dal perielio va verso 1’ afelio. Ond’ è che i pianeti ora accelerano ed ora ritardano il loro moto. Colie iosiachè le aree descritte dal raggio vettore essendo proporzionali ai tempi ( § 126 ) , ne siegue che quando il pianeta si allontana dal centro di moto, f arco percorso nell’ unità di tempo sarà più — 261 — corto, e quando si avvicina, l’arco sarà più lungo; ma sì 1' uno die 1’ altro percorrer dovendosi nel medesimo tempo, più celere sarà il moto dall' afelio al perielio, e meno celere dal perielio all' afelio, onde cammini di- suguali fossero trascorsi sempre in tempi eguali. Rendiamo ragione di questo fatto. § 133. Nel moto di circolazione com' ò quello dei pianeti attorno al sole, e de’ satelliti attorno al loro pianeta primario, si svolge per effetto stesso della cir- colazione la forza centrifuga, la quale tende a sbalzare il mobile ed allontanarlo dal suo centro di moto. Vedia- mo dunque quale sia il valore di questa forza onde metterla in rapporto e paragonarla colla forza centrale. Sia 0 il centro di moto, fìg. 6, OM la distanza del mobile da detto centro, MF la velocità di projezione, MP lo spazio verticale descritto in 1"; la risultante delle componenti MP ed MF sarà la diagonale MM' , la quale per essere piccolissima si confonderebbe colf ar- chetto di cui MM1 è la corda; sicché diremo che il mo- bile trascorre nel tempuscolo 0 l’archetto minimo MM’. Pervenuto in M' il corpo si trova alla distanza OM' dal centro 0. Ora può darsi uno di questi tre casi, che sia OM' > OM, OM’ = OM, OM' < OM. Quando OM' — OM il mobile che avrà percorso V arco MM' non si è avvicinato al centro 0, e neppure se ne è al- lontanato, di guisa che se una forza ( la gravità ete- rocentrica) lo avvicina al punto 0, un’altra (la forza centrifuga di circolazione) di altrettanto ne la deve allontanare. Conduciamo dal punto M’ la perpendico- lare M'P ; sarà questa il seno dell'arco MM', ed MP ne sarà il seno verso. Ora MP esprime la forza centrale che nel primo 1" avrebbe fatto cadere il corpo circo- lante della quantità MP , ed MF esprime la forza ATTI ACC. VOL. X. 35 — 262 — contraria che tende ad allontanare il corpo dal suo centro di moto. Dunque M'F è la forza centrifuga di circolazione. Quando l’archetto MM‘ è circolare, la forza centrale MP eguaglia la contraria MF, ed allora MF ed MP ritenendosi per parallele, comprese tra altre due parallele, saranno tra loro eguali. Di qui la ricerca delle forinole per un mobile che trascorresse per un’or- bita circolare, ricerca la quale è affatto teoretica, non essendovi nel cielo esempio di quest’ orbita. § 134. Forinole del moto per un circolo — Sia r il raggio OM del circolo MBPS, fìg. 6, e v la velo- cità del corpo sopra la curva; 1’ arco MN sarà uguale a vt. Quest’ arco potendosi per la sua piccolezza con- fondere colla sua corda che, come si sa dalla Geome- tria, è media proporzionale tra il diametro BM e la sua projezione MP, si avrà MP = MN* ~2r~ vì x- 2r ~ ■ (a) Conosciuto MP, si ha il valore della forza centrifuga. In effetto, si sa che ogni forza acceleratrice ha per mi- sura il doppio spazio diviso per lo quadrato del tempo ( § 21 ). La forza di centripetazione / ha dunque per 2MP misura -p— ; onde mp =fty (i>) Sostituendo nell’ equazione (a) in vece di MP il suo valore ricavato dall’ equazione ( b ) si ha . . (c) Tale è pure il valore della centrifuga. Ma nella trajet- — 263 — toria circolare la centrale eguaglia la centrifuga; dun- que « Nel circolo la forza centrifuga è uguale al qua- « drato della velocità diviso per lo raggio. » § 135. Introducendo nella forinola ( c ) la massa in del corpo ruotante si ha - . v f = m . — ; cioè r « Nel circolo la forza centrale e perciò anche la « centrifuga è uguale al quadrato della velocità di- « viso per lo raggio, il tutto moltiplicato per la massa « del mobile. » § 136. Inoltre, siccome nel circolo si hanno le e- quazioni f= y , e 2 zr = oT , T essendo il tempo necessario per una intera rivolu- zione, sarà Quest’ ultima espressione fa vedere che « Nel circolo la forza centrifuga è in ragion diretta « del raggio e reciproca al quadrato del tempo impie- « gato a trascorrere la intera circonferenza. » § 137. Poisson nella sua Meccanica ci ha dato l'e- spressione analitica della forza centrifuga di circola- zione, che qui giova di rapportare. Chiamando in la massa del mobile, v la velocità con che a capo del tempo t il mobile arriva al punto M della sua orbita, cl V an- — 264 — gelo infinitesimo formato dalle tangenti condotte ai punti estremi dell’ arco infinitesimale HH' della curva, fig. 7, ed f la forza acceleratrice, si avrà V equazione / = nw sen d clt Dunque sostituendo d a sen d, e mettendo per d il suo valore s- ed assumendo dy = udt, si avrà mu udt mu9 J ~~ ^7” ' ~dì~ ~~ ~~p Da questa forinola si ricava: 1. che in un punto qualunque M dell’ orbita circolare la forza centrifuga è diretta secondo il prolungamento del raggio di cur- vatura, e la sua intensità è in ragione inversa di que- sto raggio ed in ragione diretta della massa del mo- bile e del quadrato della sua velocità; 2. che mu' es- sendo ciò che in Meccanica si conosce col nome di forza viva ( § 70 ) , la forza centrifuga di un corpo che gira attorno al suo centro di moto è uguale alla forza viva impressa a questo corpo divisa per lo rag- gio del cerchio che descrive il suo centro di massa. N.B. I Meccanici chiamano forza morta di un punto materiale dm il prodotto della massa di questo punto per la sua velocità, cioè il prodotto . ds9 dm ~W J e forza viva di un sistema in movimento chiamano la somma delle forze vive di tutti i suoi elementi mate- riali, onde designata per 2 T tal forza viva, sarà ds 1 de 2 T = 2 dm — 265 — Sono specie di geroglifici che esprimono pensieri come quelli che vediamo scolpiti ne’ monoteliti delle pira- midi egizie. § 138. Avuto il valore della forza centrifuga in una trajettoria circolare, è facile il paragonare fra lo- ro le forze centrifughe che si sviluppano ne’ corpi ruotanti di forma regolare allora che variano gli ele- menti m , v e t. Ed in vero , chiamando f' un’ altra forza centrifuga, m' la massa , e v' la velocità del secondo corpo, p' essendo il raggio della sua orbita circolare, si ha (1) / : /' v'm v nm' P ' p’ Chiamando t e V i tempi che impiegano i due corpi a descrivere le loro circonferenze, si avrà 2*P—Vt, 2~p' — v't’ ; laonde sostituendo questi valori nella forinola (1) avremo (2J 4 7r*j0 4 ~'p' e~ ' tn ~ cioè, « Di due corpi che girano a differenti distanze da un « centro e compiono le loro rivoluzioni nel medesimo « tempo, le forze centrifughe sono proporzionali ai « raggi vettori; di due corpi poi che girano ad uguali « distanze e compiono le loro rivoluzioni in differenti « tempi, le forze centrifughe sono in ragione inversa « de’ quadrati de’ tempi. » § 139. Moltiplicando la (2) per le masse rispettive m, 7ìi’, si avrà la (3) /:/' mp m'p' 1*~ ‘ ' V% ’ cioè • • — 266 - « Nelle traiettorie circolari, le altre cose essendo « eguali, le forze centrifughe sono in ragion composta « della diretta delle masse e de' raggi vettori, ed in- « versa de’ quadrati de’ tempi periodici. » § 140. Sostituendo nella (3) i valori di f f rica- vati dalla (1) si lia m m[ .. mp 2 . m' Pfi [ P ■ P> ** tz ' t'7- ’ ossia m : m} mp” ~c- " m'p'7’ ~t:*~ e dividendo i rispettivi termini per in ed m' si avrà finalmente « Nelle trajettorie circolari i quadrati de’ tempi « periodici sono come i cubi de’ raggi o de’ diametri, « ed in generale nelle traj ettorie curvilinee de’ corpi « ruotanti a distanza dal centro di moto, e perciò nelle « orbite ellittiche che son quelle di tutti i corpi pla- « netarii, i quadrati de’ tempi periodici sono come i « cubi de’ grandi assi delle descritte ellissi. » § 141. Tornando a parlar dell’ellisse, l’unica cur- va che descrivono i pianeti ed in cui il moto ora è ac- celerato ed ora ritardato, diremo che ciò succede in quanto nell’afelio la forza centrale sopravanza la cen- trifuga, ed all’ inversa nel perielio la forza centrifuga sopravanza la centrale. Questa proposizione che ha luogo nelle orbite ellittiche, si dimostra nel seguente — 267 modo. Ritroviamo in prima il valore della centrale ai punti B ed A, fig. 8, e quello della centrifuga ai me- desimi punti, supposto l’afelio in B ed il perielio in A. 2 _ La centrifuga in B sta a quella in A come XA : XB (§ 131), e la centrale in B sta a quella in A come p.AX*:p.BX * (§ 135). Ma nell’ellisse, come si sa dalla teoria analitica delle sezioni coniche, il parametro p è minore di AX ed è maggiore di BX, dunque la centrale rappresentata nell’afelio da p . BX è sempre maggiore della centrifuga espressa nell’afelio da BX ; ed al con- — 2. trario la centrifuga rappresentata nel perielio da AX è sempre maggiore della centrale, la quale allo stesso punto viene espressa da p. XA . La forza centrale cre- sce se scema la distanza, diminuisce se la distanza au- menta, sempre in ragione del quadrato, per esser que- sta la legge della gravitazione: dall’altra parte la cen- trifuga cresce quando il pianeta accelera il moto, di- minuisce quando lo ritarda, dovendo la centrifuga co- me effetto esser jn’oporzionale alla velocità di circola- zione come causa. Ond’è che al moto di circolazione compete il nome di forza primitiva , ed alla centrifuga di circolazione quello abbiamo assegnato di forza secon- daria, perchè effetto della forza primitiva. La forza secondaria è forza materiale, dapoichè na- sce dal moto dell’astro posto in circolazione. § 142. Nel circolo, dove l’afelio non differisce dal perielio, e dove in conseguenza è XB — XA, e p)= r =1, risulta che « Nell’orbita circolare la centrifuga eguaglia in « ogni punto della circonferenza la centrale, e però il « mobile che quell’orbita percorre, in tempi eguali de- « scrive archi di cerchio eguali, onde il moto sarà uni- « forme » — 268 — b 7' § 143. Inoltre, siccome nel circolo F= — = -- = i'= i, la forinola del § 131 ridurrassi a F' : F> :: ^r'2 : ^r2, cioè « Nel circolo e perciò anche nell’ ellisse, di cui il « circolo non è che un caso particolare, le forze centrali « sono in ragione inversa del quadrato della distanza » . N. B. Il sig. Resai nel suo Traité de Mécanique generale t. 1. première partie chap. IV, trattando delle accelerazioni centrali, dopo aver ritrovato che nel suo movimento ellittico il centro di ciascun pianeta obbedi- sce ad un’ accelerazione diretta verso il centro del sole, e che varia in ragione inversa del quadrato della di- stanza del pianeta da quell’astro, e dedottane la con- seguenza che l’ accelerazione planetaria riferita all’uni- tà di distanza ha lo stesso valore per tutti i pianeti, fa la verificazione di queste leggi nel caso de’ satelliti, ed in particolare nel caso della Luna , nel modo di appresso: « La Luna descrivendo tutti i 27 ,322 = 39344* X 60 una circonferenza di circolo il di cui raggio R è 60 volte quello R 2 della terra , la quale essa stessa ha una circonferenza di 40,000,000 metri, si avrà, per calcolare il rapporto dell’ accelerazione g' della Luna a quella g = 9,809 della gravità terrestre, e rapportando il tem- po al secondo g’ _ 4 T-R _ 2z .2 z R’ __ 1 g ~ y T'- ~ g~ x <50 x (39 3 44) 5 ~ 3G24 o, vicinissimamente , 9J_ = y.'_ ; ~g F"- ciò che prova che le accelerazioni sono inversamente — 269 — tra loro come i quadrati delle distanze al centro della Terra. « Si arriva allo stesso risultato osservando che il centro della Luna percorre in un minuto un arco di 61020 metri, di cui il seno verso 4m,87 rappresenta lo spazio che descrive, di un moto che si può considerare come uniformemente variato, nell’ intervallo di un mi- nuto, in virtù dell’ accelerazione g' allontanandosi dalla tangente. Questo spazio essendo presso a poco eguale a quello -5- 0 — 4m,9044 che percorrono verticalmente nel vuoto i corpi pesanti alla superficie della Terra nel primo secondo della loro caduta, e gli spazii crescendo come i quadrati de’ tempi, si è condotto allo stesso ri- sultato di sopra, per il rapporto di gag'. » E a dolersi che nella dotta Parigi si possano pub- blicare delie Opere di Meccanica, i di cui principii ge- nerali siali quelli che il signor Resai ha creduto verga- re al cap. V, parte seconda, della sua Meccanica gene- rale , la quale sarebbe da intitolarsi piuttosto Mecca- nica ideale, contenendo tutti i sogni delle attrazioni e delle ripulsioni, e tutte le combinazioni di forze este- riori e di azioni scambievoli che è possibile d’ imma- ginare, adoperando un linguaggio di segni matematici che altro non sono che astrazioni di astrazioni, e coi quali si crede potersi assegnare le vere leggi della natu- ra ed aversi le forinole del movimento inviluppato dalle condizioni della materia, per cui, complicandosi, biso- gna ricorrere all’ esperienza per averne le meno dubbie e le meno inesatte approssimazioni. § 144. Dall’esposta teoria escluso abbiamo due del- le sezioni coniche, l’iperbola e la parabola; la prima perchè suppone che il pianeta avendo pel sole, e il sole ATTI ACC. VOL. X. 36 — 270 — avendo pel pianeta una ripugnanza invincibile , non può quest’ultimo esservi strascinato neanche colle cor- de, e perciò, essendo libero, deve muoversi in opposizio- ne al sole e da lui allontanarsi indefinitamente per tutta la durata della sua fisica esistenza; la seconda perchè nel cielo non si ha mai 2ci— oc, ma l’asse che congiunge i due fuochi ha sempre un rapporto finito col para- metro: laonde non si darà mai che la equazione alla ellisse u' = 2a si cangiasse nell’equazione alla parabola if — px, e molto meno in quella all’iperbola y' = Ya ( ■+■ *'s ), equazione al parametro riportata al vertice. In conchiusione diremo che nel cielo vi sono due sole orbite, il circolo e la ellisse, e sulla terra una so- la trajettoria, la parabola. La iperbola non è nè orbi- ta nè traj ettoria, non è nè in cielo nè in terra, è nel cervello dei Dotti, è una curva conica bellissima a stu- diarsi dal geometra ma inutile e di niun conto in mec- canica ed in astronomia. § 145. Il metodo tenuto nella prima parte è desso sintetico ed il metodo tenuto nella seconda è desso analitico ? Niente di tutto ciò ; la cosa è all’ inversa : nella prima parte siamo stati analitici e nella seconda sintetici. Altro è 1’ analisi geometrica ed altro il me- todo analitico. L’ analisi geometrica ci fa discendere dalle forinole generali generalissime alle forinole speciali — 271 — specialissime: il ragionamento vi è dunque sintetico ed il linguaggio analitico. L’ analisi logica dal com- posto va al semplice, e dal noto all’ ignoto: il suo cam- mino è dunque analitico sulle prime per essere sin- tetico in fine. « Che cosa è una sintesi, dice un moderno « scrittore, che non è punto preceduta dall’ analisi? « Un’ opera d’ immaginazione o una combinazione ar- « tifiziale del raziocinio, un sistema più o meno inge- « gnoso, ma che non può riprodurre la realità ; dapoi- « cliè la realità non s’indovina: per conoscerla, fa d’uopo « osservarla, cioè studiarla in tutte le sue parti , e « sotto tutte le sue facce. Una simile sintesi, in una « parola, si appoggia sopra l'ipotesi. D’ un altro lato, « supponete che la scienza si arresti all’analisi; voi « avrete i materiali d’ una scienza piuttosto che una « vera ed effettiva scienza. » Noi dunque abbiamo seguito l’uno e l’ altro metodo, l’analitico in primo luogo, il sintetico in secondo. Il metodo analitico pro- cede direttamente alla scoverta della verità; il metodo sintetico va da’ principii alle conseguenze, dalle cause agli effetti; è il metodo dimostrativo per eccellenza. Per altro i due metodi, lungi di escludersi, si danno uno scambievole appoggio : si serrono 1’ uno all’ altro di verificazione e di prova. Finalmente ci permettiamo di fare osservare che il nostro sistema per la spiegazione de’ fenomeni na- turali è conforme interamente ai canoni della filosofìa ortodossa e si troverà ne’ suoi sviluppi di accordo colle verità di ragione e di fatto rivelateci nella Bibbia. Il che ci rende sicuri che non potremo essere combattuti in questa e nelle successive Memorie , non che nelle nostre Opere filosofiche tuttavia inedite, se non da per- sone ostili alla divinità del Cristianesimo. Ora « è del « dovere del Cristiano che cerca ad istruirsi, dice il « sig. Alien Milieu , non sorprendersi delle critiche « al testo della Bibbia, di prevederle e di rendersi « capace di confutarle. Non deve niente adatto disprez- « zare la critica. La verità divina può ella mai temere « la discussione ? Che il Cristiano esamini dunque la « verità maturamente e con una intiera libertà; che « adoperi in sua difesa tutte le risorse della dialettica, « e si confidi in Dio pel risultato. La pruova lapin con- « eludente della verità e di resistere ad ogni discussione « onesta e coscienziosa (26). * N. B. Nella sfrenata libertà di pensare, di scrivere e di pubblicare tutto ciò che passa per la fantasia dei- fi Autore non d’ altra ragione mosso che dal desiderio di farsi un nome e di far comparsa di sapiente nel- fi attuale anarchia delle intelligenze, giova trascrivere quanto si legge nella Reme pii doso ph ique de la France et de V Etr anger de Paris, livraison d’ Aprii 1876, pag. 406, nell’ analisi che il sig. Nolen fa dell’ Opera del sig. Zoellner Sur la nature des Cométes . Contributions à V histoire et a la théorie de la connaissance , Leipzig 2. Auflege, 1872, in 8.° di 600 pagine circa. « Nell’ introduzione il sig. Dollner paragonando i lavori di Olbers e di Bessel sulle comete alle teorie di Herscell , di M. Faye, sopratutto di Tyndall sullo stesso soggetto, afferma senza esitare fi inferiorità dei secondi. Va anche sino a dire che s’ incontrano delle viste « molto più razionali » ed anche una teoria fi- sica delle Comete molto più perfetta ne’ vecchi scritti di Keplero, al XVI0 secolo, il che prova secondo noi un regresso, e non mica un progresso, coni’ era da sperarsi. Il sin*. Hollner si dimanda la causa della medio- 273 — crità che crede scoprire nelle concezioni della maggior parte de’fisici sopra le comete. « Ho trovato, egli dice, « che i rappresentanti attuali delle scienze esatte non « hanno in generale una chiara coscienza de’ primi « principii della teoria della conoscenza. » Il numero delle loro osservazioni, 1' uso permanente ed esclusi- vamente empirico eh’ essi ne fanno , hanno avuto per risultato d’ impoverire e di corrompere in essi » la « facoltà di applicare con coscienza la legge della cau- « salità alle combinazioni ed alla saggia interpreta- « zione de’ dati dell' esperienza. » Il che vuol dire che i Coritei delle scienze naturali sono in generale po- chissimo versati (per non dire assolutamente ignoranti) nelle scienze filosofiche, e se sono grandi geometri e grandi analisti, sono in compenso o illogici o scarsis- simi ragionatori. « E sì agevol cosa per altro, continua il nostro giornalista, conquistare oggidì la notorietà scientifica ! Co’ buoni strumenti, la pazienza ed il tempo, si è ben disgraziato se non si riesce a scoprire qualche fatto ignorato. E la più piccola scoverta basta ad illustrare il nome del suo autore, ed aprirgli l’accesso delle u- niversità, per poco che abbia una certa arte del mondo e f abilità pratica, che sa dare dello splendore alle in- venzioni le più mediocri. » « Frattanto, egli conchiude, questa scienza tutta empirica ( che è quella di Newton, di Biot e di La- place ), e le riputazioni sospette eh' essa sostiene in piedi sembrano perdere ognora più nell’ opinione; una reazione energica si prepara. Helmholtz, con altri mol- ti, ma più efficacemente forse di essi tutti, si è impe- gnato a rimettere in onore il nome e le idee di Kant, anche presso i dotti di mestiere. » 274 — Quanto possa giovare la filosofia di Kant a rior- dinare F intendimento umano e renderlo capace di ra- gionare e saper distinguere la luce dalle tenebre, il retto raziocinio dal paralogismo, V induzione dall’ ipotesi, la verità intuitiva da’ fantasmi dell’ immaginazione; non fa bisogno che io lo dica : vi è 1’ esperienza che parla. Kant si può pregiare di avere prodotto in Alemagna un Fitche, un Shelling, un Hegel, un Krauss, un Ja- cobi, un Strauss, ecc. ecc., e però se nel Maestro vi fu- rono segni di delirio, ne’discepoli il delirio è arrivato sino alla follia e all' oscuramento dell’ umana ragione. NOTE (1) Il sig. De Montferrier ( Dizion . delle Scienze matematiche , voce forza ) definisce la Forza « Causa qualunque che mette un corpo in moto, o più generalmente che tende a muovere o muove realmente un corpo »; dando così della forza due defini- zioni in vece di una. Il sig. Baraldi dice così: «Attesa l’inerzia « che abbiamo riconosciuto nella materia , un corpo non può « mettersi in moto da sè nè arrestarsi, nè da sè mutar velocità « o direzione: per qualunque di questi effetti richiedesi l’azione « di una causa esterna che chiamasi forza. » Il concetto che Montferrier ha della forza non è lo stesso del concetto che ne ha Baraldi. Per Baraldi la forza è lina causa esterna che produce effetti; per Montferrier è una causa qua- lunque che tende a muovere o muove realmente un corpo. Se queste, malgrado l’Opera dei Principii, il Corano della mo- derna Astronomia fisica, sieno idee nette egiuste, e se la defi- nizione è più chiara del definito, come prescrive la logica, il let- tore sei vegga. Diremo altre cose nella nostra Memoria avente per titolo : La Geogonia rnosaica spiegata secondo i sani principii della Meccanica , della Geologia e delV Astronomia , che farà parte degli Atti Gioenii. (2) La Luna caderebbe sulla Terra , e la Terra nel Sole , amendue in massa, se venisse a cessare nell’uno e l’altro pia- — 276 — lieta ia forza tangenziale distrutta da una forza contraria; ma che un frantume della Luna possa cader sopra la Terra , o un atomo di una Cometa faccia parte del nostro globo per ef- fetto di una effimera attrazione, ciò è impossibile perchè sareb- be contrario ai decreti irriformabili della divina Sapienza. Chi è digiuno di sacra Teologia può pensar diversamente ed imboccar quel che gii si dice, con fanciullesca semplicità. (3) È facile dare delle Aurore boreali una qualunque siasi spie- gazione quando non si è tenuto a render ragione di quel che si avanza dommaticamente, seguendo su gl’imponderabili le altrui opinioni prive affatto di fondamento. Una di queste spiegazio- ni bizzarre, autocratiche, lanciate così come le gittate de’ dadi, è quella del sig. Planté riferita dalla Civiltà Cattolica (Serie IX voi. Vili. pag. 724) senza farvi alcuna osservazione. Noi cene occuperemo nella nostra Memoria su gTimponderabili, che farà seguito alla presente. (4) Ogni vocabolo può avere due sensi, un senso lato ed un senso stretto: la parola gravitazione può dunque prendersi nell’un senso o nell’altro, per lo che si deve precisare nel di- scorso se quella parola è presa nel primo o nell’ altro senso. La gravitazione nel senso largo accenna la tendenza di un cor- po ad un centro, posto o nell’interno del globo ond’egli fa par- te, o in un globo lontano di cui non fa parte. Chiameremo gravità o peso la tendenza del corpo al centro del globo di cui fa par- te, e gravitazione chiameremo la tendenza di un globo verso il centro di altro globo lontano e di mole, maggiore. Dichiarato il nostro concetto di gravitazione e di peso , si scorge che il peso o la gravità appartiene ai corpi facienti par- te di un globo isolato nello spazio , e la gravitazione ai globi legati ad altro globo intorno a cui fanno a distanza la loro periodica rivoluzione. Quindi sin da questo momento possia- mo assegnare la differenza che passa tra peso e gravitazione: il peso è de’ corpi, e rinviensi ne' globi tutti, i quali altro non sono che un complesso di corpi; la gravitazione è de’ soli pia- neti, che sono stelle erranti nel cielo. Il peso è dunque univer- sale , la gravitazione è particolare. E legge poi che il satellite esser debba di minor massa del pianeta primario, e i pianeti presi insieme debbano avere una massa minore di quella della stella intorno a cui girano (*). Assegneremo in appresso la differenza tra gravità e peso. (5) Ecco quel che su tal proposito si legge in Delaunay Corso elementare di Astronomia n. 328 pag. 697. « Herschel dopo un « conveniente studio (che durò più di una settimana) della qui- « stione di cui qui si tratta, riconobbe (mercè il suo grande te- « lescopio a riflessione) che il sole si muove verso un punto « situato nella costellazione di Ercole. In appresso Argelander, « mediante la discussione di 390 moti proprii di stelle (propria- « mente la discussione non fu di 390 moti proprii di stelle, ma « di 389) confermò pienamente il risultato ottenuto da Herschel, « e trovò (tenendo in mano accesa la lanterna di Diogene) che « il punto del cielo verso cui è diretto il moto del sole avea « nel 1800 un’ascensione retta di 260° 50;, 8 ed una declinazione « boreale di 31° 17', 5: questo punto è alquanto al nord della « stella A della costellazione di Ercole. » Alle quali parole del- l’Autore francese il traduttore sig. Bozzetti in una nota oppor- tunamente soggiunge: « Argelander opinerebbe trovarsi questo « centro di gravità (centro di gravità di nuovo conio) del nostro « sistema stellare nella costellazione di Perseo; Màdler invece lo « collocherebbe nelle Plejadi e più precisamente in Alcione, la « più bella delie stelle di questa costellazione ». Il sig. Bozzetti non conta la cosa che a metà. Noi possiamo assicurare i no- stri lettori che dopo un qualche urto e qualche indiscretezza da una parte e l’altra, Argelander e Màdler vennero a transa- zione e si convenne che il centro di gravità del nostro siste- ma stellare si fosse d’accordo stabilito in un punto intermedio tra le Plejadi e la costellazione di Perseo, secondo tostato at- tuale delle nostre cognizioni visionarie, ed in caso di discrepan- (*) La legge di cui è parola è tale da non potersene assegnare al- cuna ragione, sia meccanica , sia fisica. Apparterrebbe parlarsene in un ramo di scienza filosofica che ancora non è stata formulata : non se ne hanno che frantumi. È la TELEOLOGIA così detta. Pare che gli astronomi vogliano derogare a tal legge ammettendo che una stella giri attorno un’ altra , ed anche che una stella girar possa attorno un punto dello spazio vuoto di materia. Il sistema del- V attrazione ci lascia libero il campo ad immaginare tutto quel che si vuole, ed immaginando allora si fa progredir la scienza. ATTI ACC. VOL. X. 37 278 — za si scegliesse un arbitro , al di cui giudizio si debba stare sotto pena alFinsubordinato di una grossissima multa. (6) Il sig. Baraldi in poche pagine della sua pregevole Ope- ra ( La Fisica c la Meccanica applicate alV industria ) accu- mula tutte quelle proposizioni che dall’ ipotesi dell’ attrazione universale naturalmente derivano,, e ne deduce le ultime illa- zioni, stimandole vere per la ragione che sono dedotte legit- timamente dalle premesse, quasi che una conclusione material- mente vera non possa essere una proposizione formalmente falsa. Ragionando egli delle leggi relative all’energia della gra- vità, dice: la Legge « La gravità è proporzionale alla massa » Ma ciò come si dimostra? Il sig. Baraldi ne dà immediatamente la ragione e scrive: « Essa è infatti una forza inerente a tutte le « molecole della materia e quindi deve essere tanto più inten- « sa in un corpo quanto è maggiore il numero delle particelle « onde il corpo risulta. » Ecco una dimostrazione latta senza calcolo matematico ma per puro ragionamento (*). Ma che cosa è la gravità? io domando. L’autore per sodi- sfare a tale inchiesta, di cui riconosce tutta la ragionevolezza, ci rimanda alla pag. 17 del suo libro, dove dà delle gravità la seguente nozione. « L’attrazione che si esercita fra le masse della prima classe ( quelle che sono integranti dell’ universo, come la luna, il sole, i pianeti ecc.) chiamasi gravitazione; quella che ha luogo tra le parti di un medesimo pianeta dicesi gravità. » Per Baraldi. dunque la gravità non è che attrazione , e però se il concetto di attrazione è per voi chiaro , saprete che cosa è gravità ; ma se è oscuro o, quel ch’è peggio, fa- cesse a calci colle leggi del pensiero, voi non avrete della gra- (*) Il calcolo algebrico o trascendentale che sia non è che un ragio- namento stenografato, ragionamento che è una serie di sillogismi con- catenati l’uno all’altro, e che conducono con sicurezza alla conclusione finale. Ma il loro valore è quello della proposizione, la quale si assu- me come vera nelle premesse, e che per lo più è vera secondo la fatta ipotesi. Quindi ipotetiche sono tutte le conseguenze che si deducono dal sistema dell’attrazione universale e dell’attrazione reciproca de’ corpi, uno di essi grosso guanto il sole e V altro minuto quanto un granello di arena. — 279 vita alcun positivo concetto, e resterete con quella nozione, buona o cattiva, che ne avevate prima della definizione. 1 ra- gazzi chiamano attrazione quando tirano la carrettella a cui hanno attaccato la cordellina, e sono lieti del loro trastullo. Ora che la gravità è proporzionale alla massa è una pro- posizione condannata dai Meccanici, i quali assicurano che la proporzionalità non è tra massa e gravità, ma tra la massa ed il peso. Il peso , essi dicono , è proporzionale alla massa non mai alla gravità, la quale, secondo il sig. Buzzetti, è la for- za che agisce sull’unità di massa del corpo, e che tende a far- lo cadere verso il centro della terra, a differenza del peso il quale è l’effetto totale di questa forza e si misura manifesta- mente dallo sforzo necessario a sostenere il corpo medesimo. Baraldi dunque dice della gravità ciò che Buzzetti dice del pe- so. Per Buzzetti havvi differenza tra peso e gravità, per Ba- raldi la gravità esiste, il peso no; difatti egli non si degna no- minarlo una sol volta in tutto il corso del libro. Ed amendue han pubblicato le loro opere nella stessa Milano. Da questa prima legge cioè che la gravità è proporzionale alla massa, l’autore ne deduce l.° Che le velocità di due corpi i quali si vengono incontro per virtù di attrazione, devono essere in ragione inversa delle masse ed inconseguenza di sì bizzarro concetto ilN. A. imme- diatamente soggiunge: « Così l’attrazione essendo reciproca fra « tutte le parti della materia (che pei newtoniani è domma fon- « damentale da credersi ancorché non si concepisca), non può « p. e. un sasso cadere sulla superficie della terra senza che « tutta la massa della terra venga attratta dal sasso (secondo « la rivelazione avutane da Newton), ma in tale reciprocanza di « azione la velocità della terra verso il sasso sarà tanto minore « della velocità del sasso verso la terra, di quanto la massa del « sasso è minore della massa della terra » Ciò vuol dire che la terra non si condurrà verso il sasso (che è parte di se stes- sa, ed è compreso nel volume di essa), ma il sasso si con- durrà verso la terra di cui non è che un frantume : nozione sì sconcia da muovere il riso , se pure non giunge a cagio- narvi la nausea e tutte le angosce di un vomito convulsivo. « 2.° Che un grave cadente dovrà deviare dalla verticale per « l’influenza di una massa che abbia un rapporto sensibile col- « la massa terrestre. » In grazia perciò del sistema non siamo — 280 — nè anco sicuri della verticalità della caduta dei gravi alla su- perficie della terra (*). 2a Legge. « La gravità dei corpi situati fuori del globo ter- « restre è in ragione inversa del quadrato della loro distanza « dal centro del globo ». Quali sono questi corpi situati fuori del globo terrestre? Ap- partengono essi alla terra, o non vi appartengono? Se vi ap- partengono, non può dirsi che sono situati fuori del globo ter- restre; se poi non vi appartengono, dite quel che volete, im- maginate quel che vi piace; ma nelle scienze positive, badate, le cose non si dicono alla carlona, ma si dimostrano. 3.a Legge. « La gravità dei corpi internati nella massa della « terra in qual si voglia punto tra la superficie ed il centro è « proporzionale alla loro distanza dal centro. » In forza di che il sig. Baraldi mette innanzi la sua proposi- zione? Non in forza dell’esperienza che non può darsi, ma in forza dell’ipotesi dell’ attrazione reciproca da lui professata a titolo di fede. Ora in tale ipotesi non si fa distinzione tra cor- pi internati e corpi non internati, dicendosi che le molecole tutte (*) Un astronomo siciliano avente un nome fra gli astronomi do- vendo tracciare la meridiana in una grande chiesa mi diceva che la verticale del filo a piombo doveva correggersi di tutto l’effetto che sul suo strumento avrebbe esercitato il pilastro vicino al quale il filo scen- deva. Tanto timore gTincuteva l’attrazione reciproca dei corpi da lui appresa nei libri, e a suo credere convalidata dall’autorità di valenti osservatori e calcolatori istancabili. Diceva ancora che l’attrazione se- condo Laplace era ciò eh’ egli chiamava fluido gravifico, il quale lan- ciato dal sole con una velocità superiore a quella onde si muove la lu- ce, andava ad imprimere a’ pianeti ed alle comete che incontrava nel suo cammino, la tendenza al Sole di cui (quel fluido era una emanazione, e così li teneva incardinati al di lui sistema in un modo misterioso, ed inescogitabile dalla nostra bassa ragione. E così chiudeva gli occhi a tutte le difficoltà che avessero potuto insorgere. Un newtoniano è così certo di non poter sbagliare che qualun- que cosa dica dee ritenersi per vera ancorché ripugni alla ragione e sia in opposizione ai pr incip ii della scienza ed alle verità universal- mente ricevute. È simile a colui che rimproverato di essere giunto un’ora dopo V appuntamento ai dodici del mattino mostrava il suo o- rologio che appunto segnava le dodici: ed a chi gli faceva osservare che il sole aveva da un pezzo trapassato il meridiano, rispose: il sole ha sbagliato, il mio orologio non falla. 281 della materia si attraggono reciprocamente al quadrato della distanza. Povero Newton ! Si vede chiaro che non si sa quel che disse e volle dire quello scaltro filosofo, e non si sa quel che dicono e voglion dire i suoi fidi discepoli. Il Baraldi continua il suo discorso e si avanza fino a dire «di « modochè una palla di cannone per es. che posta alla superfì- « eie della terra pesasse 35 libbre, profondata 100 miglia sot- « terra non peserebbe che 34, e a 200 miglia sotto la superficie « 33 soltanto, e così vie via di modo che posta nel centro del « globo non peserebbe punto ». E volendo giustificare tale sua asserzione, dice in prosieguo: « La ragione di ciò si è che a mi- « stira che un corpo si va internando dentro la terra, gli strati « terrestri che gli sovrastano non hanno più venulazione sopra « di esso per tirarle giù, onde esso non viene più attratto che « dalla sfera parziale avente per centro il centro della terra e « per raggio la distanza fra quello e il punto ove quello si tro- « va, sicché scemandosi la massa della materia attraente a « misura che il corpo discende, viensi a scemare parimente la « forza di gravità.» Ed ecco ciò che sodisfa la mente di un new- toniano. La ragione di un fatto immaginario è il proprio pensie- ro, è l’ipotesi parto della propria fantasia, convertita in legge di natura (*). 4a Legge « La gravità non opera con eguale intensità in tutti « i punti della superfìcie terrestre., ma è minima sotto l’equatore « e di là va vie via crescendo verso i poli ove è massima. » L’autore attribuisce la ineguale intensità della gravità ne’ di- » versi punti della superficie terrestre alla forza detta centrifuga che si sviluppa in ogni corpo che gira., e che è tanto maggiore quanto di più lungo raggio è il cerchio descritto dal corpo che gira. In ciò conveniamo, ma questo è un fatto, non è una leg- ge. La ragione del fatto è estrinseca alla gravità: se la terra non girasse sul proprio asse ( e avrebbe potuto non girare ) la quar- ta legge non ci sarebbe. Non è dunque una legge della gravità (*) Ogni autore volendo aggiungere qualche cosa del suo a quello detto dagli altri inventa e specola nuove stranezze , ed in contem- plandole ammira la fecondità del principio da cui discendono. E la vena è inesauribile finché non si perviene alla dimostrazione apodit- tica del panteismo filosofico e dell’ateismo newtoniano . ina un fatto accidentale che modifica la gravità d’ una data ma- niera (*). « Conchiudiamo da tutto ciò che fra tutti gl’infiniti siti dello « spazio quello ove la gravità di un corpo terrestre è massi- « ma, è ai poli, e che di là va questa fòrza scemando « l.° Verso l’equatore, sempre sulla superficie terrestre, len- « tissimamente. « 2.° Verso il centro della Terra men lentamente fino ad an- « indiarsi nel centro. « 3.° Fuori della Terra verso gli spazii celesti più rapida- « mente.» Non si possono pensare nè scrivere cose più assurde di queste. (7) Il sig. Buzzetti scorgendo tra gravità e peso qualche lie- ve anomalia, dopo il passo allegato immediatamente soggiunge: « Siccome poi questa forza totale ( l’incognita x , che per un « newtoniano rimarrà sempre un’ incognita, ancorché ne parli « sempre come di cosa notissima) è impiegata a far muovereTa « intiera massa del corpo, così questo deve muoversi preci- « samente come 1’ unità di massa sotto T azione della semplice « gravità. Gli è perciò che tutti i corpi liberamente cadenti « impiegano V egual tempo a percorrere eguali cammini, fatta « astrazione dalla resistenza dell’ aria o, ciò che è lo stesso, « che essi acquistano tutti T egual velocità dopo un secondo di « caduta.» Si vede il grave sforzo del chiaro Autore a combinare il suo concetto, e a trovare il modo di coonestare quella com- binazione. A me par di vedere lo scarafaggio che si avvoltola e s’ingarbuglia in mezzo alla stoppa. (8) Havvi una forza intermedia tra la forza viva e la morta: questa forza intermedia è l’urto. Lo sforzo prodotto dal carico che sostiene un chiodo ovvero un piuolo, non è che una pres- sione, ed è rappresentata da mgdt , (*) La gravità opera atta sua maniera per decreto , La forza cen- trifuga opera del pari alla sua maniera per legge inerente alla condi- zione della materia. L’intensità della gravità, che varia in tutti i punti della superficie terrestre, è una conseguenza del simultaneo concorso della forza centrifuga e della gravità, le cui direzioni fanno angolo tra loro, non scaturisce dal fondo nè dell’ una nè dell’altra. 283 — m essendo il carico, g la velocità clic la gravità tende ad im- primere al corpo nell’unità di tempo, e clt l’elemento del tem- po, mentre che il secondo sforzo, quello del corpo urtante sul corpo urtato è espresso da M essendo la massa del corpo urtante e V una velocità fini- ta. Ora le quantità mgclt e MV appartengono ad ordini diffe- renti, di modo che è teoricamente e fisicamente impossibile di stabilire l’equilibrio tra un urto e una pressione, e conseguen- temente di paragonare uno sforzo all’altro. Lo stesso avviene colla percossa: lo sforzo della percossa è espresso da MV\ Al ò la massa, e V è la velocità finale acquistata dal corpo percuziente abbandonato all’ azione della gravità. L’effetto è poi assai più considerevole quando alla forza acceleratrice della gravità si aggiunge un’altra forza che il motore imprime al cor- po comprimendolo per tutta la durata del moto. Per esempio, il fabbro aumenta considerabilmente la forza di percussione del martello di cui esso si serve, e gli comunica una quantità di moto, dovuta alla sua forza muscolare, ben superiore a quella che esso acquisterebbe se esso cadesse liberamente. Per dare un potente colpo di martello, è essenziale di elevarlo e di fargli descrivere il più grand’arco possibile affinchè la for- za acceleratrice e la forza motrice abbiano il tempo di scari- care sulla massa delPistrumento una gran quantità di moto, così di forza morta che di forza viva. (9) Siccome variabili sono le forme de’ corpi terrestri per la azione degli agenti esteriori, e di diversa grandezza sono an- cora le masse planetarie, così ai corpi ed ai pianeti si sosti- tuiscono i loro centri di massa, e però la verticale è la retta che il centro di massa de’ corpi congiunge al centro della terra. (10) Il ghiaccio soprannuota all’acqua ed è più leggiero di es- sa: il che sembra indicare che il cangiamento di stato porta seco per anche una variazione nel peso. Ma il ghiaccio è acqua rare- fatta, non è acqua condensata: come rarefatto galleggia per la — 284 — ragione che se fosse condensato calerebbe al fondo. Non si tratta dunque del peso assoluto ma del peso specifico , il quale può variare nel cangiare stato, il peso assoluto restando sem- pre lo stesso. Il peso specifico di due corpi è il loro peso asso- luto sotto l’unità di volume. I corpi variando di peso .specifico non cambiano di peso assoluto, cambiano bensì di volume, e questo cambiamento di volume fa variare il rapporto dei loro pesi per sè stessi invariabili. Dapoichè invariabile è la loro massa ed invariabile è pure la loro gravità dal centro della ter- ra sino alla sommità dell’atmosfera. (*) (11) « Parametro. Linea retta costante che entra nell’equa- « zioni delle sezioni coniche. Essa è la doppia ordinata che « passa per un fuoco. » De Montferrier Dizion . delle scienze matematiche toni. VII. pag. 77. La retta costante p eh’ entra nell’ equazione della parabola if=px, si chiama il suo parametro; il punto dell’asse dove x — prende il nome di fuoco. (12) Per mi projetto della nostra terra, la velocità iniziale sa- rebbe pari a quella che il grave acquisterebbe cadendo per una altezza di 992 leghe di 4 chilometri. Il projetto allora descrive- rebbe un circolo attorno la terra e sarebbe uno dei suoi satel- liti, supposto che si muovesse nel vuoto e fosse lanciato al di là della nostra atmosfera. (13) Si vede che della forza centrale noi ne abbiamo un concet- to diverso da quello che ne hanno gli autori. Volete sapere qual sia il concetto che delle forze centrali si dà nelle più accredi- tate Opere di Meccanica e di Astronomia ? Leggete il Montfer- rier all’art. centrale del suo famoso Dizionario. « forza cen- « trale. Sono quelle forze che provengono direttamente da un (*) Il peso specifico è la . stessa cosa che la densità. Le densità di due corpi sono in ragion diretta delle loro masse, ed inversa de' loro volumi, ed i pesi specifici sono ancora in ragion diretta de' pesi asso- luti ed inversa de’ volumi. Ora i pesi assoluti sono come le masse ; dunque tanto è dire che i corpi sono di differente densità , quanto è dire che sono di peso specifico differente. — 285- — « dato punto o centro o che vi tendono ( come l’odor di mu- ti schio che scappa da una scatola). » Se non vi garba questa definizione, il N. A. ne soggiunge un’altra. « Ovvero sono « quelle forze che determinano un corpo in moto a tendere ver- « so un centro o ad allontanarsene. Sono state perciò divise « in due specie, secondo i differenti loro rapporti col centro, « cioè quando esse si avvicinano, o quando si respingono dal « centro. Si chiamano forze centripete nel primo caso e nel « secondo, forze centrifughe ( Op . cit. voi. II pag. 360). » Che ve ne sembra? Sono cose di chi apre la bocca unicamente per parlare, ancorché nulla dica di preciso e di vero. (14) Biot Tratte élément. d' Astron. physique liv. 4. cliap. XV. n. 134. (15) Biot Op. cit. liv. 4 n. 76. (16) D’ Ettingshausen Elementi di Fisica n. 178 pag. 460. (17) Laplace Exposition da sistème da monde pag. 548. Bru- xelles 1827. (18) Credo ben a proposito ripetere testualmente le parole da me scritte ai §§ 193-194 della mia Opera : Elementi di filo- sofia naturale, x ol.l in 8°, Napoli, presso Carlo-Luigi Giachetti, 1841. « § 193. Le perturbazioni planetarie sono la conseguenza del sistema newtoniano, non già all’inversa che dalle perturbazioni verificate è stato dedotto il sistema di Newton. Io non niego che i pianeti superiori esercitar debbono un’ influenza su gl’in- feriori ; ciò è una conseguenza inevitabile dello sforzo con cui tendono al centro del sole, sforzo che raggiunge i pianeti posti al di sotto, e giunge ad indurre in questi ultimi una leg- giera alterazione ne’ loro movimenti. Quest’ azione è diffìcile ad osservarsi: essa non produce che effetti lentissimi, più lenti di quelli che dalla teoria della gravitazione universale risultano. Così non sono apprezzabili o, se lo sono, essi non cagionano che una specie di oscillazione nei pianeti, i quali non escono giammai dal piano delle loro orbite. » « § 194. Ho cennato (§ 155) le perturbazioni ne’ movimenti della terra e della luna soggette a periodo ed esattamente cal- colabili. Tutto il resto è un giuoco di analisi, un esercizio di ATTI ACC. VOL. X. 38 — 286 — calcolo differenziale ed integrale. E noto come queste ricerche sono così ardue da sorpassare le forze attuali dell’ analisi, ed anche di esito dubbio , giacché Eulero, il grande Eulero era arrivato a conseguenze contrarie ai fatti osservati. La sorte dell’astronomia non dipende dalla teoria delle perturbazioni, la (inale per altro ci porta a conseguenze si strane da esigere una dose di credulità conveniente piuttosto ad un proselito che ad un libero intelletto. Di tale natura sembrami la dottrina comunemente insegnata dagli astronomi della deviazione che le grandi montagne del nostro globo in virtù della loro attra- zione producono sul filo a piombo degli strumenti geodetici. Il barone di Zach ne ha scritto un’opera in due volumi (. Vat - trcictioìi des montagnes et des cjfets sur les Jìls à plomb sur les nioaux des instruments d’ Astronomie, Avignon 1814, voi. 2. in 8°) e tutti gli scrittori di fisica e astronomia ci ripetono nelle loro opere le osservazioni di Bouguer al CliimberaQO , e quelle di Maskeline ne’ monti di Sheallien in Iscozia. Con tutto il rispetto dovuto a questi grand’ uomini mi permette- ranno di dir loro : Credut Judaeus Apella , non ego. (19) Baraldi La Fisica e la Meccanica applicate ecc. n. 37. (20) Secchi L'unità delle forze fisiche pag. 430 Roma. 1864. (21) Laplace Exposit. du sgst. da monde , pag. 259. (22) Chi volesse conoscere quale sia il nostro concetto per avere una spiegazione plausibile dell’Esto marino, è invitato a leggere i paragrafi 173-175 della nostra Opera: Elementi di fi- losofìa naturale , Napoli 1841, pag. 272-276. (23) D’ Alembert Elementi di filosofia § XVII. È osservabile che i newtoniani son quelli che muovono obbiezioni e difficoltà al sistema da loro adottato; ma se può un newtoniano pro- porre delle osservazioni in contrario e de’ forti dubbii, è tenuto a rispondere alle proposte difficoltà, scioglierle vittoriosamente e dissipare i dubbii. Altrimenti le difficoltà resteranno difficoltà, le quali un newtoniano è capace di vedere, ma poi non sa la maniera di risolverle e farle svanire. Un newtoniano di tal fatta sarebbe simile ad un soldato, il quale facendo parte di un reggimento provasse che la sua bandiera ha tali macchie da non doversi seguire, nè averla per buona ed onorevole. (24) Che il fuoco centrale della terra fu soggetto una volta al flusso e riflusso, alla marea montante e alla marea calante, ne rende testimonianza il sig. Figuier, plutonista alla maniera de’ Puritani di Scozia. Egli così scrive nel suo libro: La Terre avant le Deluye, 4.mc édit. Paris 1864 pag. 34. « Il ne faut pas’ « oublier qu’en raison de son état liquide la terre obéissait « d’alors dans toute la masse à cette action de fluxet de re- « flux qui provient de 1’ attraction de la lune et du soleil , et « qui ne peut s’exercer aujourd’ lini que sur les mers, c’est-a- « dire sur les parties liquides et mobiles de notre globe. Ce « phénomène du flux et du reflux auquel obéissaient les molé- « cu les liquides et mobiles, accéléra singulierement les pré- « ludes de la solidiflcation de la masse terrestre. Elle arriva « aitisi graduellement à cette sorte de consistence que présen- « te le fer de nos usines, quand on le retire de la fournaise , « pour le porter sous le laminoir. » Altri però opina che il flusso e riflusso duri ancora sotterra, o almeno abbia durato fin all’ epoca delle rocce eruttive distribuite in due classi, in eru- zioni plutoniche ed in eruzioni vulcaniche, e queste divise in tre formazioni distinte. 1. Formazione trachitica, 2. Formazione basaltica, 3. Formazione vulcanica. Le prime due formazioni di un modo pacifico, senza strepito e senz’ alcuno allarmante fe- nomeno di scosse, di sconvolgimenti del suolo e di spavente- voli fremitoti; la terza formazione non tanto pacifica da poter- ne fare un passaggio. Ed il sig. Figuier ne assegna la ragione. « Les vapeurs d’eau, egli dice, il importe de le remarquer, sont « la cause essentielle des terribles effets mécaniques dont s’ac- « compagnent les éruptions des volcans actuels. Les eruptions « de matières granitiques , porphvriques , trachytiques et « quelque fois mème basaltiques , sont arrivées au sol sans « provoquer ces violentes explosions, ces formidables éjections « de roches et des pierres qui accompagnent les éruptions des « volcans modernes. Les granytes, les porphyres, les trachytes « et les basaltes se sont épanchés sans violence à l’exterieur « par ce que la vapeur d’ eau n’ accompagnait pas ces roches « liquefiées, et celle est la circonstance qui explique la tranquil- « lité des épanchements anciens comparée à la violence et aux « terribles effets des éruptions des volcans actuels. Bien établi « par les invéstigations de la Science, ce fait nous donne l’ex- « plication des puissants effets mécaniques des volcans moder- « nes, qui contrastent avec les tranquilles éruptions des àges 288 — « primitifs ( Op. cit. pag. 441-442). » È così ohe si scrive la Geologia; è così che si crede di ragionare, è così che si crede di essere nelle vie de’ fatti, è così che si crede di non avanzare proposizione senza soggiungervi immediatamente la pruova la più convincente e la più irrefragabile! Ai peut-ètre , il parali , il est probable , il semble, il est vraisarnblable , il peut succeder , il est naturel de pensee , etc. etc., locuzioni di cui ridondano i D’ Alembert, i Biot, i Delaunay, i D’ Ettingsausen, etc. etc., ve- diamo surrogato il più pazzo e rivoltante dommatismo. (25) Humboldt Cosmos t. 3. part. 1 pag. 24-25. (26) É difficile il comprendere che uomini di svegliato inge- gno, profondi nelle scienze esatte e di osservazione, dedicati sin dalla più tenera età alla coltura dell’intelletto siano capaci di ostentare una convinzione dell’ errore tale da non commuo- verli nè il rimprovero della propria coscienza, nè la più ener- gica e maschia confutazione, nè la istabilità del proprio giu- dizio, nè la opposizione ai più sani principi!, nè il progresso stesso delle cognizioni e de’ lumi. É questo un mistero arduo a penetrarsi, un problema diffìcile a decifrarsi, molto più quando vediamo che sanno pensar bene in tante altre cose, e sanno discernere il bene ed il male, il buono ed il fradicio nelle Opere altrui, e sono poi ciechi, sordi, muti e paralitici riguardo alle scempiate e vergognose stranezze contenute nelle Opere del loro cervello, nelle dottrine spacciate nel proprio nome. Di ciò se ne hanno infiniti esempi, e qualcheduno di essi è stato da noi in questa nostra Memoria riportato: talché siamo astretti a convenire cogli Estensori della Civiltà Catto- lica (Serie IX, voi. X, pag. 328. Firenze 1876). « Ci punge « sempre più acremente il sospetto che cotesti signori quando « sragionano, lo fanno non per debolezza d' ingegno , ma per a proposito di volontà; in quanto essendosi proposto ( essi ne « sanno il perchè ) di propagare 1’ errore , si assottigliano , « benché vanamente e a ritroso della logica, per dimostrarlo. I FENOMENI VULCANICI PRESENTATI DALL’ ETIN dal Settembre 1814 a tutto l’anno 1815 NOTE DEL PROF. GIOACCHINO BASILE v=*G**- Non è idea nè trovato nuovo scrivere sopra i fe- nomeni che presenta il cono attivo di un vulcano. Ma registrare i suoi parossismi è cosa che per quanta poca utilità pare che rappresenti nella attua- lità, può essere nondimeno di grande giovamento nello sviluppo delle idee intorno alla vulcanologia: e se tali dati si raccogliessero in tutte le contrade del mondo ove esistono vulcani attivi ; si verrebbe a conclusioni di grande interesse scientifico. Lo sviluppo infatti cui la meteorologia va debitri- ce è senza dubbio da apporsi alle innumerevoli os- servazioni fatte sopra tutti i punti del globo. Da tutte cpieste aride osservazioni si è fatta molta luce sopra le tenebre che dense coprivano la metereologia. I fenomeni che si registrano sopra i vulcani attivi potrebbero dare risultati simili. Non voglio io per questo asseverare essere il pri- ATTI ACC. VOL. X. 39 — 290 — ino a raccogliere tali ciati intorno all’ Etna; Molti lo hanno fatto prima di me. Onde io non credo far cosa del tutto inutile ciò che altri più degnamente ha incominciato. Le teorie sulle eruzioni, sul raffreddamento della crosta terrestre, sopra 1’ aggregato dei minerali costi- tuenti le rocce eruttive, sopra i terremoti ec. ec. sono tanti e tali , che lasciano ancora molto a desiderare. Molta luce, a dir il vero, si è fatta su tali argomenti; molte esperienze da gabinetto ma splendidissime hanno portato a conclusioni di valore tale da non lasciare quasi dubbio sopra moltissimi punti. Un tale esempio possiamo averlo nelle esperienze classiche del Daubrè. Però malgrado tali grandi progressi , resterebbe mol- to a spiegarsi. Il raccogliere tutti i dati possibili sulle fasi di un vulcano è cosa che in appresso può dare incremento alla vulcanologia. Mi faccio adunque a trascrivere i fenomeni vul- canici presentati dall’ Etna dal 24 Settembre 1874, a tutto f anno 1875. Tralasciando 1’ ultima classica eruzione avvenuta nel 1874, presagita e descritta dal prof. Silvestri , in- cominciai a raccogliere i dati dei fenomeni susseguenti a quella eruzione. Tralasciando perciò i tremuoti che si fecero sen- tire prima e dopo V eruzione, specialmente nelle lo- calità e nei dintorni dove avvenne l’eruzione, incomin- cio da quei fenomeni che potrebbero dirsi ordinarj: Giornale dei fenomeni presentati dall Etna — 1874. Settembre 24. Tremuoto alle ore 11 e mezza ant. avver- 291 — tito da Viagrande , Pisano , Santa Ve- nerili a. 26. Id. alle ore 2 ant. sensibile come sopra. In questi giorni il cratere fuma abbondan- temente fino il giorno 30. Novembre 1. Tremuoto ore 9 e mezza a. m. sensibile da Viagrande , Pisano , S. Venerina. — In tutto il mese il cono centrale fuma ab- bondantem ente. Dicembre h 15. 1875. Gennaio 1.* 8. A tutto il 15 fumo poco. Rombi nel cratere che si succedono circa ogni due o tre minuti; dalle ore 10 a. m. alle 2 p. m. Da questo giorno alla fine dicembre il vulcano ha fumato giornal- mente ed abbondantemente. Tremuoto all’ 1 e mezza p. m. sensibile da Catania, Acireale, Giarre, Zafferana, Tré- castagni, oltre a Lentini, Buccheri, Lico- dia, Vizzini luoghi, dove sono i campi Flegrei. — In tale località fu di inten- sità ragguardevole. — L'Etna fuma poco. Tremuoto alle 11 p. m. sensibile a Cata- nia, molto forte vicino Acireale , in una contrada detta Sei vate, dove fu il centro di azione. In una circonferenza di 2 chi- lometri si diroccarono i muricci di divi- sione delle vigne, qualche casa si screpolò tanto da rendersi inabitabile ; in tutto gennaio poco fumo. Febbrajo Marzo Aprile Maggio 1. 24. 29. 30. 31. Giugno 1. 8. 9. 14. Luglio Agosto 1. 14. Settembre Poco fumo. Idem. Idem. Da questo giorno al 23 fumo abbondante. Da questo giorno al 28 fumo abbondantis- simo massime dal lato del cono che guar- da ponente. Si è fatto in tali giorni sen- tire qualche rombo. Treni noto alle ore 7 e un quarto p. m. ab- bastanza forte. • — Sensibile da Viagrande, T recastagne, Zafferana, S. Venerimi. Tremuoto alle ore 7 p. in. avvertito in Acireale, Viagrande, Trecastagne, Zaf- ferana, S. Venerimi. Fumo abbondante. Da questo giorno a tutto il giorno 7 fumo poco e ad intermittenza. Fumo abbondante. F umo abbondantissimo che diminuisce verso sera. Il fumo si spinge nell’ aria con grande forza, uscendo dal corno del cra- tere che guarda ponente — Fumo fino il giorno 13 intensamente. Da questo giorno a tutto il 30 poco fumo. Poco fumo. Da questo giorno al 13 poco fumo. Fumo abbondante — Da questo giorno a tut- to il mese pochissimo fumo. Fumo pochissimo. — 298 — Ottobre 1. 13. 14. Novembre 1. 8. 9. 15. 16. 19. Dicembre 1. 14. A tutto il giorno 12 poco fumo. Tremuoto avvertito da Pisano, Zafferana , Santa Venerina ore 4 1/2 p. m. Da questo giorno alla fine del mese il vul- cano non fuma. A tutto il giorno 7 non fuma. Fuma mediocremente. Fino al 14 non fuma. Fumo abbondante. Da questo giono a tutto il 18 non fuma. Fumo abbondante — Da questo giorno alla fine del mese poco fumo. Da questo giorno a tutto il 13 fumo poco. Tremuoto alle 9 3/4 p. m. sensibile da Ca- tania, Viagrande ecc. ecc. Alle ore 10 p. m. altro tremuoto sensibile come sopra. 15. Da questo giorno a tutto il mese fumo poco. N. B. — Le osservazioni del cratere non si sono fatte nei giorni in cui era coperto di nubi. Presento questi dati casi come stanno non avendo strumento per misurare a conoscere l’intensità dei tre- muoti. Così abbiamo dai settembre 1874 a tutto il dicem- bre N. 3 tremuoti una sola volta rombi e fumo più o meno continuamente. Nel 1875, abbiamo numero 7 tremuoti, una sola volta rombi, e fumo più o meno abbondante. INDICE Il richiamo degli Uccellatori , nota del Prof. G. A. Boltshauser ..... Pag. 1 la scornò inazione chimica ( dissociazione ) applicata alla inter peti ‘azione di alcuni fenomeni vidca- nici ; sintesi e analisi di un nuovo minerale trovato sull Etna e di origine comune nei vul- cani— del Prof. Orazio Silvestri . . » 17 Il Ramie per Giacomo Sacchero ...» 29 Nuove fasce preparate per la pronta applicazione degli apparecchi amovo-inamovibili , nota del Dottor Paolo Berretta Giuffrida . . » 39 Azione del dorale anidro e del clorate idrato, sulla Anilina per D. Amato ...» 59 Appendice alla memoria, sulla intossicazione clinica e Vinfezione malarica del Professore Salvatore Tomaselli. . . . . . . » 73 Ricerche di Chimica Enologica fatte dal Prof. G. Basile ........ 81 Su talune importanti organiche anomalie, memoria del Prof. Salvatore Nicolosi Tirrizzi . » 131 Azione dell’ Acido iodico sul dorale idrato per I). Amato » 149 — 296 — La scoverta delle fibre dello Shcirpey rivendicata dir Italia , nota del D.r Gesualdo Clementi » 1 57 Un caso di trasposizione deli Arco Aortico con ec- cesso di tronchi arteriosi del Prof. Salvatore Nicolosi Tirrizzi » 173 Considerazioni filoso fico-analitiche sul peso, la gra- vitazione e le forze , memoria del Cav. Agatino Longo ........ 181 T fenomeni vulcanici presentati dall Etna dal set- tembre 1874 a tutto i anno 1875, note del Prof. Gioacchino Basile .... » 289