ibrary aL te I n Att Ca ” Pi I bio i l'AA x Sai pe c% x ‘egg , fe”, + i I Vr oi Pea Ro x DERE Sg as di stat] gi è è S SC i i 10, a A e A) lesi . 4 Y Ce ei x : x “ail _È : Las Lug * . A n i x - 7 . Wal L 4 - i x ° . n * i ò è I 4 " È » a : A » fa ‘ iù ’ . 2 = LI " : x % È E de “ n 4. ‘a - nl È £ È ba Be dl % AGG DAEMEA. DELLE SCIENZE FISICHE E MATEMATICHE Cos DA olaci a bi 7 I fo SOCIETA REALE DI NAPOLI PEPPPPTPTIPL:IAA:+ ASILI DETLTACGCADEMTA » DELLE SCIENZE FISICHE E MATEMATICHE EZARNATCITN Ergal, O SE aCADIMyp x Volume II. Tra \ 7Òò DAR x 5) LÌ Es > : RS, a ZA NAPOLI STAMPERIA DEL FIBRENO 1865 SOCII DELL'ACCADEMIA SCIENZE FISICHE E MATEMATICHE PAN Presidente — PADULA FORTUNATO Vice-Presidente — LUCA (DE) SEBASTIANO Segretario — SCACCHI ARCANGELO Tesoriere — GUISCARDI GUGLIELMO SOCII ORDINARII 1. Tucci FRANCESCO; 24 settembre 1861. Napoli. LIS) . MARTINI (DE) ANTONIO; 24 settembre 1861. Napoli. . Nicorucci GIUSTINIANO ; 24 seltembre 1861. Isola di Sora. . SCACCHI ARCANGELO; 24 settembre 1861. Napoli. . GuiscarRDI GuGLIELMO ; 24 settembre 1861. Napoli. 3 4 5 6. GASPARIS (DE) ANNIBALE; 24 settembre 1861. Napoli. 7. PADULA FoRTUNATO; 24 settembre 1861. Napoli. 8. Costa Oronzio GABRIELE; 24 settembre 1861. Napoli. 9 . Luca (DE) FERDINANDO; 24 settembre 1861. Napoli. Atti — Vol. II. s DI — VI . Costa Acme; 24 settembre 1861. Napoli. . Gussone GIOVANNI; 24 settembre 1861. Napoli. . Trupi NicoLa; 19 novembre 1861. Napoli. . BartAGLINI GiusePPE; 19 novembre 1861. Napoli. . FergoLa EMANUELE; 19 novembre 1861. Napoli. . Palmeri Luci; 19 novembre 1861. Napoli. . NapoLIi RAFFAELE; 19 novembre 1861. Napoli. . SemmoLA GiovANNI; 19 novembre 1861. Napoli. . Luca (De) SeBAstIANO; 19 novembre 1861. Napoli. . GASPARRINI GuGLIELMO ; 19 novembre 1861. Napoli. . BertoLoNI ANTONIO ; 16 dicembre 1862. Bologna. . PiRIA RAFFAELE; 16 dicembre 1862. Napoli. . Sea QuINTINO ; 16 dicembre 1862. Torino. . MartEUccI CARLO; 3 maggio 1864. Torino. . Brioscni FRANCESCO; 3 maggio 1864. Milano. dC SOGII STRANIERI . CAvyLEY ARTURO; 3 maggio 1864. Londra. . CiasLes MicHELE; 3 maggio 1864. Parigi. . Dumas Giovan Battista; 3 maggio 1864. Parigi. . FARADAY MICHELE; 3 maggio 1864. Londra. . FLourENS MARIA Giov. ; 3 maggio 1864. Parigi. . Marzius FeDpERICO; 8 maggio 1864. Monaco. . Owen RiccarDo; 3 maggio 1864. Londra. . SyLvesteR G. G.; 8 maggio 1864. Londra. — VW SOCII CORRISPONDENTI NAZIONALI . BeLawitis Giusto; 13 gennaio 1863. Padova. . Berti ErRICO; 13 gennaio 18639. Pisa. . SANTINI GIOVANNI; 13 gennaio 1863. Padova. . TorToLINI BARNABA; 13 gennaio 1863. Roma. . CANNIZZARO STANISLAO; 3 marzo 1863. Palermo. . Noraris (De) GiusepPE; 3 marzo 1863. Genova. - PACINI Filippo ; 3 marzo 1863. Firenze. . PANIZZA BARTOLOMEO; 3 marzo 1863. Pavia. . Savi PaoLo; 3 marzo 1863. Pisa. . StoPPANI ANTONIO; 3 marzo 1863. Milano. 4. ALBINI GiusEPPE ; 1° dicembre 1863. Napoli. . BrIGANTI FrANcESCO; 1° dicembre 1863. Napoli. . Grorpano GiuLIANO; 1° dicembre 1863. Napoli. . MeNnEGHINI GiusEPPE; 1° dicembre 1863. Pisa. . PasquaLe Giuseppe ANTONIO; 1° dicembre 1863. Napoli. . Secchi ANGELO; 1° dicembre 1863. Roma. LITI tO) si “ «n ML) pel dii Sul ag Hi hi DE " n di ito iii 1, È a per ( (Pià. de ri * 4 - ” 3 - Lao sand rità du, DI by hh. 9 ì ai EE wii _ nfal #0 Lal TI » Ù ni LI »® la Kok C£34 Ln tal Fi IP agroni vebicp4 dA INDICE DELLE MEMORIE NicoLucci G. — La stirpe ligure in Italia ne’ tempi antichi e . ne moderni. A PALMIERI L. — Sopra un nuovo udometro Mega co . SCACCHI A. — Ricerche sulle relazioni trala geminazione dei cristalli ed il loro ingrandimento PALMIERI L. — Sull'ozono atmosferico Guiscarpi G. — Studii sulla famiglia delle Rdiste PALMIERI L. — Nuovo elettrometro bifiliare . . GasparRrINI G. — Osservazioni sulla origine del calice monose- palo e della corolla monopetala in alcune piante . . . ala ar Trupi N. — Sulla iL ginazioni delle costanti inlagorie negl'integrali delle equazioni lineari, così differenziali che a differenze finite. SCACCHI A. — Della polisimmetria e del polimorfismo dei cri- stallbofa. Su SRI GAspARIS (DE) A. — Sul calcolo delle orbite Hi stelle oi PALMIERI L. — Del periodo diurno dell'elettricità atmosferica e delle sue attenenze con quello delle cor- renti telluriche. TrupI N. — Sulla decomposizione delle SETE fratte ra- zionali . î AA : Gasparrini G. — Osservazioni sul cammino di un ii o goso nel fusto vivente dell'Acacia dealbata. DIC » (0.0) Tucci F. B. PaLMIERI L. Costa 0. G. Trupi N. BATTAGLINI (G. » NicoLucci G. GASPARRINI G. Costa 0. G. TrupI N. HR = — Ricerche geometriche 0 grafiche delle minime e delle massime distanze assolute fra punti, linee e superficie qualunque, combinate a due a due in tutti i modi possibili . . — Nuovo anemografo elettromagnetico . — Studi sopra i terreni ad ittioliti delle provincie napolitane; diretti a stabilire l’età geologica de’ medesimi 7 Agi — Sullo sviluppo delle COSTO fratte razionali. — Sulle forme geometriche di seconda specie Sulle involuzioni dei diversi ordini nei sistemi di seconda specie - SONGS — Sulla stirpe Japigica, e sopra tre cranî ad essa appartenenti rinvenuti presso Fasano (Gna- thia) e presso Ceglie (Calium) nell’ Italia meridionale. crt. sami È — Nuove osservazioni su taluni aggairi artifiz at che accelerano la maturazioue nel fico . — Nuove osservazioni e scoperte intorno ai fossili della calcarea ad ittioliti di Pietraroja. — Sulla partizione de' numeri. . +. . . + Prata ui MARNLE. fia Goo ML. È sins w iyisinalia è li x sota ua SE si i) e ATTI DELLA R. ACCADEMIA DELLE SCIENZE FISICHE E MATEMATICHE LA STIRPE LIGURE IN ITALIA NE TEMPI ANTICHI E NE MODERNI. MEMORIA DEL SOCIO ORDINARIO G. NICOLUCCI letta nella tornata del dì 6 ottobre 1863. e « Les Liguriens sont du nombre de ces peuples dont la petite portée de notre histoire n’aiteint que la décadence ». NiEHBUR, Hist. Rom., trad. GoLBERY, t. I, p. 229. Qual popolo mai abitasse in antico la nostra Italia, d’ onde movesse, per quali vie penetrasse nelle terre d’Ausonia, quali tracce ne rimanes- sero ancora in mezzo alle odierne popolazioni della Penisola egli è tal problema, che io non so veramente se mai sarà dato a scienza umana di risolverlo adeguatamente. Imperocchè se indagini siffatte riescono difti- cili per qualsivoglia popolo della Terra, difficilissime parmi si debbano considerare rispetto all’Italia, alla quale, perciocchè collocata in mezzo del mediterraneo, e per la catena delle Alpi congiunta col continente dell’ Europa, non v' ha gente che l’ avvicini che non abbia preteso al vanto di aver dato i primi abitatori; onde le varie sentenze degli eru- diti, che a cercare le nostre origini si sono rivolti quando alla Grecia 0 alla Fenicia, quando all'Egitto o alla Libia, quando all’Illirico, alla Gal- lia od alla Germania. Nè maggior luce sopra questo oscuro argomento ha potuto spargere la linguistica, dalla quale non si è potuto ricavare altro vero, se non che gli antichi parlari del centro e del mezzogiorno dell’ Italia sì ranno- Atti — Vol. II.— N° 1 1 — DD -- dano al gran ceppo delle lingue ariane, mentre tutli gli altri idiomi del- l’Italia settentrionale, non esistendo che pochissimi e dubbî monumenti scritti, sono affatto sconosciuti, e sulla stessa natura dell’etrusco , di cui pure abbondano ricordi letterati, è tanto il dubbio e la incertezza , che non sì osa pronunziarne giudizio. A ben altra fonte adunque è mestieri di attingere quando sì voglia ri- schiarare la origine degli antichissimi popoli italiani, ed io non temo di asserire, che le nuove vie d'indagini che |’ Etnologia oramai ci dischiu- de potranno somministrare sufficiente materia onde illustrare una sì ar- dua e controversa quistione, soprattutto quando alle congetture saran- no sostituite le pruove dirette , ed alla incerta autorità degli scrittori i risultati della scienza e della osservazione. Io limiterò per ora le mie investigazioni a’ soli Liguri, rinomatissimi fra le vetuste popolazioni della Penisola, e verrò dimostrando, che que- sta gente fu forse la prima che pose stanza nel suolo italiano, e che, non ostante il volgere di tanti secoli e tante e sì diverse vicissitudini, parte di essi perdura tuttavia nelle sue antiche sedi, e conserva anche al pre- sente que’ medesimi caratteri e quelle medesime qualità. di natura onde era distinta nell'età più remota. SER Popolazioni primitive dell’ Europa occidentale. Uno degli argomenti, e forse il più degno di considerazione, per giudi- care dell’affinità delle stirpi egli è quello della fisica lor conformazione, di quella fattura primigenia, che, quando non sia alterata da straniero connubio, si conserva immutata a traverso i secoli, non ostante il variar de'elimi, il trasmigrar di contrada e il cangiare d’abitudini e di costumi. E chi con occhio non prevenuto da sistema si darà a volgere uno sguar- do ai tanti fatti che l Umanità ci presenta, non potrà non rimaner ma- ravigliato di quella costanza onde alcune razze dell’ uomo conservano la lor purezza primitiva, e tendono incessantemente a riacquistarla, se imeneo straniero ne intorbidasse per avventura le sorgenti originarie. Laonde io credo che se io potrò dimostrare che la schiatta de’ Liguri di odierni si raffronta con quelle che prime abitarono il territorio dell'Eu- ropa, io avrò ragione a conchiuderne, che fra le stirpi più antiche del nostro continente si debbano annoverare anche i Liguri, al di là de’quali e degli altri popoli ad essi affini non vi ha ricordo che altra gente avesse mai popolato le solitudini dell'Europa. Il nostro Continente, com'è noto pe’ progressi recenti della Geologia, fu abitato dall’umana razza fin da quando vi esistevano que’grandi pa- chidermi e quelle altre specie di animali ora estinte, che sono caratteri- stici de’ terreni post-pliocenici o diluviani. Ma di quelle schiatte primitive che videro sotto i loro occhi raffreddarsi il nostro suolo e coprirsi in parte d’immense ghiacciaie, e quindi riacquistare lentamente quel tepore di temperatura che ravvivò i germi di tante piante e di tanti animali, niun avanzo considerevole a noi rimane dal quale possiamo formarci un’idea della loro fisica conformazione. Tuttocciò che ne avanza sono frammenti di ossami, qualche mascella, qualche dente, e forse molti potrebbero du- bitare ancora dell’esistenza dell’uomo in quel tempo sì lontano da noi, se a comprovarlo non venissero ogni dì più le opere della sua mano, armi ed utensili in pietra rozzamente lavorati da lui, e il cui numero è oramai così soddisfacente da far giudicare non essere state molto povere di abi- tatori, in quelle epoche sì lontane, le nostre regioni (1). Si è creduto eziandio essersi rinvenuti cranì umani, più o meno completi, riferibili a quel periodo in talune caverne ossifere del Belgio, della Germania, della Francia, dell'Inghilterra, ma noi abbiamo fatto osservare in altra nostra precedente comunicazione, che que’ cranî, atteso la natura del terreno in cui furono trovati, non possono pretendere a quell’antichità che molti loro attribuiscono (2), e che non si debbono punto considerare apparte- (1) Conf. Boucher de Perthes, Antiquités celtiques et antéediluviennes. Paris, 1846, 2 vol. in 8° — De l' homme antédiluvien et de ses @uvres. Paris, 1860.—Rigollot, Mem. sur les instrumens en silex trouves à S.f Acheul. Amiens, 1854.— Prestwich, On the occurrence of flint implements as- sociated with the Remains of extinct Mammalia , ne’ Proceedings of the Royal Society of London, 29 maggio, 1859.— Gaudry, Comptes-Rendus de Vl Acad. des sciences de Paris, 26 7.bre, 3 ott. 1859.—Lartet, Ibid. 19 aprile 1860.—E. Collomb, Biblioth. universelle de Genève, t. VIII. 1860.— G. Pouchet, Archiv. du Musce d’ hist. nat. de Rouen, 1860, p. 33.— J. Evans, Flint implements in the Drift; being an account of further Discoveries on the Continent and in England , comuni- cated to the Society of Antiquaries. London, 1862.— C. Lyell, Geological evidences of the Anti- quity of Man. London, 1863, p. 93-170. (2) Nicolucci, Di alcune armi ed utensili in pietra rinvenuti nelle Province meridionali del- V Italia, e delle popolazioni, ne tempi antestorici, della Penisola Italiana. Atti della Società Reale di Napoli. (Accad. delle scienze fis. e matem.) t. I. 1863. DE SE nenti a quelle stirpi che abitarono innanzi alle altre le nostre contrade, tantoppiù che le forme loro hanno l'impronta di quel tipo che giunse in Europa in tempi più vicini a noi, e che penetrò nel nostro continente quando esso era già tenuto ed abitato da altre genti che da lungo tempo vi soggiornavano. Monumenti craniologici adunque di quel tempo ante- riore al periodo geologico attuale noi non possediamo, ma se ci fanno difetto materiali antropologici in quell'età sì vetusta, ne abbiamo invece in certa copia in quel periodo lifico meno antico, il quale, sotto le con- dizioni geologiche attuali, precedè di lunga mano le successive epoche del bronzo e del ferro. In molte regioni di Europa si sono rinvenuti cranî umani o in tombe o in altri antichi depositi associati ad armi ed utensili di pietra, e quindi riferibili a quell'età preistorica oggi chiamata epoca della pietra. In altre contrade parimenti di Europa non si sono, è vero, fin quì trovati te- schi umani di quel tempo, ma essendovisi raccolti in abbondanza ed armi ed utensili lapidei della stessa materia, forma e lavoro dei precedenti, non è congettura azzardata se si crede, che anche ivi fossero esistiti in quella medesima età quegli stessi uomini che abitavano il resto del no- stro continente, e i cui cranî ci forniscono materiali per determinarne i caratteri della razza. I quali, secondo si desume dalle osservazioni fatte sui teschi raccolti tanto in Danimarca ed in Germania , quanto in Isvizzera, in Francia e nelle Isole Britanniche, si riassumono nella forma brachicefala (teschio breve ) del Retzius , cioè in quella forma craniale corta, larga, quasi sferica, il cui diametro trasversale è nella relazione col diametro longitudinale come 4 o più a 5, ovvero come 80 o più a 100 (1). L’occipite in questi cranî è poco o nulla proeminente ed è privo di tubercolo o protuberanza , onde il profilo della calvaria è così disposto, che la linea che lo segna, innalzatasi gradatamente dalla fronte alla re- gione posta fra le protuberanze parietali, declina quivi rapidamente per discendere, quasi in linea retta, sull’ osso occipitale. La base del cranio è larga, soprattutto fra i meati uditivi, e la faccia lo è egualmente in corrispondenza della Jarghezza della calvaria. (1) Il Retzius diceva il diametro longitudinale maggiore del trasversale di 1/x—/, di pollice. Le proporzioni che io ho indicate sono determinate dal celebre antropologo signor J. B. Davis in quella sua scrittura che ha per titolo: Observations upon sixteen ancient human Skulls found in Kirkhill , .,9.! Andrews, 41860. Edimburgh New Philosophical Journal, Oct. 1861. == È questa la forma che si è incontrata costantemente ne’ cranî che si riferiscono all’epoca della pietra. I teschi delle altre razze che compar- vero in Europa nell'età del bronzo e del ferro si distinguono a primo aspetto dai primi, e si collocano in quell’altra grande categoria di cranî che il Retzius chiamava dolicocefali ( teschi lunghi ), e che sono caratte- rizzati dalla figura ovale della calvaria , dal diametro antero-posteriore più lungo di */; 0 più del trasversale, dal poco sviluppo delle proemi- nenze parietali, dalla sporgenza più o men notevole della protuberanza occipitale, dalla faccia lunga ed ovale, e da tutti quegli altri caratteri che costituiscono la forma ovoide del Prichard, quella forma che è propria della maggior parte de’ popoli dell'Europa, de’ Greci, degli Italiani, de- gli Spagnuoli, dei Francesi, Svizzeri, Tedeschi, Neerlandesi, Inglesi, Scandinavi. Non però di meno nell’età del bronzo sono frequenti anche i cranì brachicefali, mail lor numero scema gradatamente secondo che avvici- nasi l'epoca del ferro, al mostrarsi della quale que’cranî son quasi tutti scomparsi, e le nuove razze sostituite pressochè dappertutto alle anti- che. Nè poteva essere altrimenti, imperocchè i paesi di Europa, conqui- stati da nuove stirpi nell’epoche del bronzo e del ferro, sì diradarono de’ lor prischi abitatori. Non tutti i vinti sostennero il giogo de’ vincitori; molti andarono in cerca d’altre sedi, o ricoverarono in luoghi non con- taminati dalla presenza dello straniero. Que’ che non furono assorbiti da’ nuovi venuti e rimasero immuni da estraneo mescolamento , conser- varono immutate le loro impronte originarie, ed anche a’ dì nostri, dopo il volgere di tanta età, rappresentano i tipi di quelle razze primitive. Avanzi di queste schiatte durano tuttora nel settentrione e nel centro dell'Europa, nella stirpe de’ Finno-Ugoriani, avanzi ne esistono ancora in quel gruppo di popoli che abita verso il punto di congiunzione de’ Pi- renei e de’ Monti Cantabri, in Francia ed in Ispagna , avanzi finalmente ne vivono in Italia, in quel tratto di paese che ha nome di Liguria e di Piemonte, e che dal Varo si distende fino alla Macra, dal Mediterraneo fino al Ticino. Non è mio proponimento occuparmi di quel ramo de’ popoli della pie- tra che scelsero a lor dimora il settentrione ed il centro dell'Europa; nè dirò de’ Baschi se non quanto è necessario a dar luce al mio argomento. Cercherò bensì di dimostrare, che i Liguri furon le prime genti che, per quanto sì può raccogliere da’ più vetusti ricordi, abitarono la nostra Sese Penisola, che il lor dominio sì estese in antico probabilmente sopra tutta l’Italia, e che eziandio coloro che oggidì li rappresentano , per la con- formazione craniale, si differenziano da’ rimanenti Italiani, e si ricon- giungono direttamente con quelle altre razze che ne’ tempi antestorici signoreggiavano per tutta l'Europa. $ 2° I Liguri dell’ antichità rintracciati con l aiuto della Storia e della Filologia. Gli scrittori greci e latini concordano nell’assegnare agli antichi Li- guri quanto è il littorale mediterraneo da Emporia in Ispagna fino a’con- fini dell'Etruria in Italia (1). Pura credevasi quella porzione di essi che abitava la nostra Penisola, ma de’ Liguri estesi dall’Alpi ai Pirenei que- gli a levante del Rodano eran frammisti a’ Celti, e si dicevano perciò Celto-Liguri, mentre coloro che si allargavano dal Rodano a’ Pirenei sì reputavano misti agli Iberi e si chiamavano Ibero-Liguri. Tre popoli ligustici possedevano l’Ibero-Liguria, i Sordi o Sardi (2) a piè de’ Pirenei e sulla marina iberica, gli Elesici fra i Sordi ed il Roda- no (3), ed i Bebrici là dove ai Pirenei si congiungono le Cevenne, e nel versante occidentale di quest’ ultima catena di montagne (4). La flori- dezza di questi popoli scomparve non appena i Volki, tribù celtica, ne occuparono il territorio al quale imposero i loro nomi. Le terre degli Elesici si dissero de’ Volki Arecomici, quelle de’ Bebrici de’ Volki Tecto- sagi. I soli Sordi rimasero indipendenti, ma ridotti a piccol numero (1) "Axo de IBrpoy éyovra: Aiyves nai "TBrpes piyaddes peyp rorapuòv ‘Podavòv .... "Arò Podavov éyovrat Aiyves pusypi Apro» (al. A)riov, Ayrio», Ayrimdiens?). Scilace Cariand, 93. seg.— Plin. Mist. Nat. Lib. 1II, cap. 7.— Erod. VII. 165.— Strabone, Geograf. IV.— Scimno da Chio, vers. 201-202.— Festo Avieno, Ora maritima, v. 609. (2) Mela, Lib. II, cap. 5.— Plinio, III, 4.— Festo Avieno, Or. marit. v. 502. (3) Festo Avieno, Ora marit. v. 585 e seg. (4) Scimno da Chio, Orbis Descriptio,v. 200-201.—Sil. Italico, II, 421.—Tzetzes Isac in Lycophr. Cassand. v. 516. Dei — decaddero rapidamente, e non divennero che l'ombra di quel che eglino erano già stati per l' innanzi. A’ Liguri distesi fra il Rodano e il Varo, fin da-quando s'ebbe conoscen- za dei medesimi, erano già miste parecchie tribù celtiche; nondimeno di puro sangue ligustico si dicevano essere i Salì Salluvî (1) nel paese a mez- zogiorno dellaDurance, gli Albici a levante de’ Salì verso i monti e verso la Durance, e presso il mare i Verrucini, i Suelteri, gli Oxibî, i Deceati,i Ne- rusì che aveano per frontiera il Varo, limite comune della Gallia e dell’Ita- lia. Dalla Durance fino all’Isère inverso borea si stendevano i Voconzî (2), e da questi al Rodano, i Tricastini ed i Cavari,i quali si dividevano co’ Vo- conzî il dominio di tutta la contrada fra 1’ Isère e la Durance. Erano queste le tribù de’ Liguri che abitavano fuori i limiti dell Ita-- lia, e ch’ erano distinti col nome generico di Liguri Transalpini. Ben più numerose e potenti erano le popolazioni ligustiche della Penisola , delle quali, berichè ai tempi in che di loro ci favellano Latini e Greci i confini fossero assai ristretti, nondimanco una gran parte dell’ Italia superiore era ancora in loro dominio , e non pure tutta la Liguria e il Piemonte attuale, ma parte dell’ Emilia e della Lombardia era posse- duta da popoli di quella stirpe. Si hanno inoltre memorie che li ricor- dano in varie altre parti del bel paese , anzi una tradizione antichissima riferita da Eliano (3) ripeteva che Mar era stato il primo uomo italiano, e Mar era ligure, progenitore di que’ Liguri Marici che erano la tribù, se non la più antica, certo delle più illustri e popolose della ligustica confederazione. Licofrone in un passo (v. 1354) in cui ci favella del- l’arrivo in Italia dei due fratelli Tarconte e Tirreno, dopo averli con- dotti in Agilla li fa combattere e vincere in dura guerra per appunto i Liguri che occupavano quant’ era il paese da essa Agilla a Pisa, e Ser- vio grammatico estende il territorio de’ Liguri fin sulla riva sinistra del Tevere , nel Settimonzio, narrandoci che vi successero a’ Sicani di Spa- gna per esserne poscia cacciati a loro volta, in un co’ Sicoli coabitanti, da’ Sacrani, Sabini, mentre i Sacrani patirono la stessa sorte dagli Abo- rigeni (4), e questi di nuovo da’ Sacrani; onde si pare che i Liguri non "| (1) Ligurum celeberrimi ultra Alpes Salluvii, Deceates, Oxubii, Plin. III, 5. (2) DE-LIGVRIBVS- VOCONTIEIS.SALLVVIEISQ. Grut. Inscript. p. 298, N.° 3. (3) Variarum histor. Lib. IX, 10. (4) Illi (Siculi) a Liguribus pulsi sunt. Ligures a Sacranis, Sacrani ab Aboriginibus. Ad AEneid. MISTI. sog solamente aveano abitato un tempo la Tuscia, ma la stessa sorte era toccata anche al Lazio. Del resto quest’ antica possessione delle terre italiche da ligustiche genti ci è non meno attestata da Dionigi Alicar- nasseo, il quale citando Filisto. Siracusano fa intenderci, che furono non altro che Liguri coloro i quali sotto nome di Siculi invasero la Si- cilia, preceduti già tempo dai Sicani, cui cacciati essi avevano dall’ita- lico continente, cacciatine poscia eglino stessi al sopravvenire degli Um- bri e de’ Pelasghi (1). I quali Siculi erano già , come si raccoglie da au- tentiche testimonianze, anche nell’ Umbria antica (2) che allargavasi ad oriente degli Apennini dall’ Alpi alla Nera, nella Sabina , nel Lazio , nel Piceno (3), fra gli Equi (4), fra i Marsi ove anch’ oggi esiste un pae- se ( Goriano Sicolo ) che ne ricorda il nome. Parte di essi era rimasta ancora, nel primo secolo di Roma, intorno al monte Esope dove furono ritrovati da’ Locresi quando vennero errando al capo Zefirio (5) , ed al». tri abitavano tuttavia nella stessa meridionale Italia fino al tempo delle guerre del Peloponneso (6). Più rilevanti sono le notizie che ci rimangono intorno ai Liguri del- l’Italia superiore. Qui abbondando autorità e memorie, fa d’ uopo limi- tarsi nel numero, e contentarsi delle sole di maggior peso. Nella Liguria marittima dal Varo al Paglione erano i Vedianzi (7) che aveano per capitale Cemenelum, oggi Cimiés, presso Nizza: alla Turbìa (Trophea Augusti) cominciavan gli Intemelii con la capitale Albium In- temelium, or Ventimiglia (8), e confinavano a levante con gli Ingauni di cui era metropoli Albingauno, ora detta Albenga (9). Seguivano i Sabazi (1) Stor. Rom. I, 22. (2) Siculi et Liburni plurima Umbriae tractus tenuere , in primis Palmensem, Praetutianum , Adrianumque agrum. Umbri eos expulerunt, hos Hetruria, hanc Galli. Plin. III, 14. (3) Dionigi di Alicarnasso, I, 19-22. (4) La valle del Salto ha conservato ancora il nome de’ Siculi nella sua appellazione attuale di Cicoli, 0 Cicolano. (5) Polibio, Stor. XII, 5 (6) Tucidid. Stor. VI, 5. (7) Oppidum Vediantiorum Civitatis Cemelion. Plin. III, 5. Nell’istesso luogo li ricorda una iscri- zione scolpita in antico piedistallo di pietra rinvenuto nella Chiesa parrocchiale di Torretal, Diocesi dì Nizza, e riferita dal Gioffredì nella sua Corografia delle Alpi marittime, Lib. Il, cap. 5. (8) Varro, De re rustica, III, IX-17.— Tacito, Mist. II, 13.— Plinio, III, 7.— Gioffredo, loc. cit.—G. Rossi, Storia della Città di Ventimiglia dalle sue origini fino ai nostri tempi. Torino, 1859. (9) Gioffredo, loc. cit. Agli Ingauni fu mutato dai Romani fino a trenta volte il terreno. Ingaunis Liguribus agro tricies dato. Plin. III, 5. se.igre che tenevano il golfo di Vado (1), e quasi nel bel mezzo della Liguria signoreggiavano i Genuati, la cui capitale sedeva sulla ridentissima riva ov'oggi è Genova (2), e il cui territorio prolungavasi sino a Portofino , eccetto la deliziosa valletta della Polcevera occupata da’ Veturì (3). Da Portofino al Capo Mesco tutta la costa apparteneva a’Tigulî (4), ma le vallate de’ monti, le cui acque riunite formano l’ Entella, albergavano le tribù de'Lapicini, de’ Garuli e degli Ercati (5). Nella limitrofa valle della Vara erano i Briniati o Friniati (6), ma dal confine de'Tigulî oltre alla Magra, tutto il littorale, non meno che gli alti gioghi eran tenuti da’ bel- licosi Apuani (7). A tramontana de’ monti il lor dominio si estendeva largamente nel territorio cireumpadano fra l’ Apennino, il Ticino e le Alpi. Dal Tanaro al Po erano i Vagienni (8), fra il Gesso e la Stura i Veneni (9), nella bassa valle del Tanaro i Levi (10) ed i Marici (11). Seguivano appresso gli Stazielli fra il Tanaro e l’Orba, de’ quali era capoluogo la moderna Acqui (12), e sulle rive della Scrivia e della Staffora i Dertuniani (13), fondatori di Libarna, ora distrutta, non meno che d Iria e Dertuna, oggi chiamate Voghera e Tortona. Dalle sorgenti della Trebbia al Po si ripar- tivano il territorio i Celetati, i Cerdiciati e gli Illuati (che dalla lor Vel- (1) Oggi porto di Vai. Strabone IV, vi, 2.— Anche il lago Bracciano nel Lazio fu chiamato anti- camente Sabatino, come il golfo di Vado Vada Sabatia. Una città che sorgeva presso quel lago ebbe egualmente il nome di Sabatia. (2) Tod 64 AtyJeov ’europiov. Strab. V, 1.— Tolomeo, II, 1.— Livio XXI, 32.— XXVIII, 46, XXX, 1.— Mela, II, 4.— Valerio Mass. VI, 7. (3) Delle loro controversie co’ Genuati fa menzione un Decreto del Senito Romano dell’anno 687. DE - CONTROVERSIEIS - INTER - GENVATEIS . ET . VEITVRIOS. Gruter. Thes. Inscript. 1. 204. (4) Plinio, III , 5. (5) Gis Apenninum Garuli et Lapicini et Hercates Liv. XLI, 19. (6) Trans Apenninum Briniates fuerunt. Livio. Ibid. e XXIX, 2. (7) Livio XXXIV, 56; XXXV, 3-6-40; XXXVI, 38; XXXVII, 2.— Floro, II, 3, ove sono de- scritte le feroci guerre che i Romani sostennero contro gli Apuani per impossessarsi del porto di Luni che dagli Etruschi era ricaduto ai Liguri confinanti. (8) Plinio, III, 5.— Tum pernix Ligur et sparsi per sara Vagienni. Silio Ital. VIII, 607. (9} Plin. loc. cit. (10) Livio, V, 39.— XXXII, 37.— Plinio, II, 21. (11) Plinio, III, 21.— Tacito, ZMistor. II, 61. (12) Plinio III, 7,— In una lapide presso l’Orelli, N.° 4927: AQVIS STATIELLIS. (13) Oppure Dertunenses, come sun detti presso Cassiodoro, Variar. X, 27; XII, 27.—Stef. Bizant. Aepray, mois Atyvpsv. "Aprepids pos ev Emiropuaî 160 in * tiv nadovpeyny Acpriva molty 10 &dyinoy Asprovios. Atti— Vol. II.—N.0 1 2 et. (pes leja, costruita sul pendio del monte della Negra, furono anche chiamati Eliati o Veliati (1)), e dalla Trebbia al Panaro i Friniati che davan la mano a'Liguri dello stesso nome che popolavano i gioghi e le valli dei monti Apuani. i È vero che gli Etruschi avean tolto ai Liguri la costiera marina dal- l'Arno alla Magra, e che al di là degli Apennini gli aveano scacciati da gran parte del territorio oltre la Secchia, ma quando i Galli ebbero espulsi i Raseni dall’ Etruria circumpadana , i Liguri riacquistarono quasi tutti i loro antichi dominî, e ritornarono padroni di quelle sedi , onde i Romani non più con gli Etruschi, ma sì coi Liguri ebbero a con- tendere pel possesso di quelle fertili terre (2). Nè a questi soli restringevansi i territorî della gente ligustica nell’Ita- lia superiore, avvegnachè quel popolo valoroso, allargavasi anch’ oltre la sinistra sponda dell’Eridano, che in sua lingua chiamava Bodinco, (3) ed è noto per antiche memorie che i Vagienni fondarono Torino, icui abi- tanti presero il nome di Taurini, ed erano padroni delle terre chiuse tra il Po, il Mallone e le Alpi (4). Stretti in federazione con essi erano i Segusiani (2) sulle rive della Dora Riparia, da Susa a Brianzone , e nelle valli di Viù e di Lanzo i Garocelli che si stendevano fin sull’alta Moriana, dove a confine di essi stavano i Salassi (6) in tutta la Valle d'Aosta fino al moderno Montestrutto o Montestretto in quel d'Ivrea. Limitrofi a’ Salassi, dal lato del Vallese, erano i Seduni nel Fossignì, e nella Tarantasia i Centroni; di qua dalle Alpi a greco, nella region sesite (val di Sesia), d'onde dominavano fino in Vaitellina i Leponzî (7), a mez- zogiorno i Libui, e nel rimanente del territorio fra il Ticino ed il Po i Levi. Una tribù de’ Leponzî, detta de’ Viberi, era padrona dell’alto Valle- (1) De Eleatum populo triumphavit (M. Fulvius Co.).... quia soli propemodum Ligures magis loco quam viribus freti arma retinebant. Liv. (2) Il porto di Luni fu ritolto da’ Liguri agli Etruschi scaduti dalla loro potenza. Anche Pisa ridi- venne città ligure, se prestiamo fede a Giustino (Mistor. XXI) e a Licofrone (Cassand. in fine). Ai Liguri la tolsero i Romani, non senza gravi e micidiali contese. I marmi di Luni erano chiamati ligustici da Stazio, Giovenale e Persio. > (3) « Boding o Poding vale privo di fondo. Tal radice è comune in Liguria, come si ha in Po-ra, Po-irino, Po-lengo, Po-lenzo, etc.» Celesia, Dell’antichissimo idioma de’ Liguri. Genova, 1863, p. 7. (4) Augusta Taurinorum antiqua Ligurum stirpe. Plinio, III, 17. (5) Plinio, loc. cit. (6) Salassos.... Taurisce gentis Cato arbitratur. Plin. III, 20. (7) Plinio, loc. cit. — Strabone, IV, vi.— Tolomeo, III, 1. dea. — se, un’altra, chiamata de’ Mesiati, avea fissato sua dimora in Val di Me- socco, e quella degli Agoni abitava presso le sorgenti dell’Agogna e della Sesia, non molto lungi dal Verbano, o Lago Maggiore. I Canini, schiatta ligustica perchè appartenenti a'Levi Liguri di Ti- cino, si crede vivessero fra il lago Maggiore e quel di Como. Degli Oro- bî, fondatori di Como e sparsi nelle basse montagne fra Como e il lago d'Iseo, erano ignote le origini (1), ma pare ch’ ei fossero anche Liguri come chiamavali Sidonio Apollinare. Liguri erano altresì gli Euganei che tennero i monti del Bresciano, del Veronese, del Vicentino e del Trentino, imperocchè fra le trentaquattro non saprei se comunanze 0 borgate che si contavano di essi la principale era quella degli Stoni o Steni (2), che nei Fasti Consolari pubblicati dal Grutero sono appellati Liguri, de’ quali trionfò Q. Marcio nell’anno 118 innanzi l'era volgare (3). Dirò di più, che anche la Città di Brescia, se crediamo alle diligenti ri- cerche di uno storico dòttissimo , ebbe da’ Liguri le sue prime origini. « Narra Pausania (e qui mì permetto di ripetere le parole dell’insigne « scrittore) di un Cidno che fu re de'Liguri, e tenne i luoghi presso « l’Eridano. « Atyvsy t6v Hprdayvov repav vteo yns tns KeAruans Kuavoy « avdpa yevesiai Bactdea ast » (4). A quel passo risponde un verso di « Virgilio che appella Cidno fortissimo condottiere de’ Liguri (9), e Ser- « vio lo conferma, e Ovidio anch'esso lo ricorda (6), ed Igino con lui (7). « E quando io trovo chiamarsi Cidnea fino nel secolo di Augusto la (1) Originem gentis ignorare (Cato) se fatetur. Plin. III, 17. Se questo nome vien dal greco , esso non sarebbe che una traduzione di quel di Liguri, montanari, poichè quell’appellazione in greco val quanto abitatori di monti. (2) Caput eorum Stonos, Plin. III, 19. (3) Q. MARCIVS . Q-F-Q.N.REX- PRO.COS- ANN. DCX . DE LIGVRIBVS STOENIS - II - NON - DEC. (4) Cienum Ligurum, qui in Celtica prope Heridanum sunt, regem musice clarissimum fuisse memorant. Pausan. Att. c. 30. La lezione in Gallia Transpadana del Gagliardi acchiude un arbitrio ed un anacronismo. Sambuca, Mem. Cenom. p. 1. (5) Non ego te Ligurum dux fortissime bello Transierim Cycne. Aneid. X., e veggasi come il fortissimo corrisponda alla tradizionale gagliardia de Liguri. (6) . . + + Proles Steneleia Cycnus, Nam Ligurum populos et magnas recerat urbes. K Metamorph. 11, 367. (7) Hyginii fub 154. a ee « rocca bresciana (1) ( Cycnea specula ), è scusabile il sospetto che Li- « guri si fossero per avventura i suoi principî. Arrogi ancora, che ai Li- « guri presumibilmente spettavano le terre bresciane, « 270vos mots « Aryvéy » (2), e che Livio raccontaci avessero tenuto i Libui (ch’erano « forse una diramazione, come i Levi-Liguri, de’ Liguri stessi ) i luoghi « dove ora sorgono le città di Brescia e di Verona (3) ». Anche i Liburni, che a’ tempi del predominio romano erano nel- l Istria attuale, e che in tempi assai vetusti aveano occupato , insieme a'Siculi, eziandio le spiagge tra l'Adige ed Ancona , e vi esercitavano la nautica audacemente, i Liburni, che con fondamento storico il Man- nert (4) potè dire il più antico ed attivo popolo nautico dell'Europa, dalla radice del loro nome, Libu, dall'arte marinaresca, dall’ associa- zione co Siculi lasciano credere con molta verosimiglianza che sieno stati anche un ramo di Libui o Liguri estesi per quel territorio che fu dei primi ad essere abitato nella nostra penisola (5). Tracce adunque di sangue ligustico non iscarseggiano in verun luogo dell’Italia, ma da ogni parte risospinti coll’accrescersi dell’etrusca po- tenza, coll’estendersi de’ Galli Cisalpini e col perenne allargarsi della dominazione latina, i popoli liguri furon ristretti a poco a poco in più angusti confini. Dopo gravi e reiterate sconfitte toccate per mano di sol- dati romani non più s'ebbe a parlar degli Apuani, che lasciarono a’vin- citori le grasse terre fra la Trebbia e la Secchia, e la pianura a mare fra l'Arno e la Magra. I Galli a lor volta gli scacciarono dalle terre lom- barde, dove prima de’ Galli erano stati espulsi in gran parte dagli Etru- (1) Catulli Carmina, LXVI. (2) Locos tenuere Libui. Livio, Hist. cit. (3) Oderici, Storie bresciane dai primi tempi sino all’età nostra. Brescia, 1853 e seg. I, p.72.— Anche il dotto Zuccagni-Orlandini nella sua Corografia d’ Italia, parlando degli abitanti antichi della Lombardia così conchiude. « Terremo quindi, se non come certa, almeno prossima alla cer- « tezza la discendenza ligure di quei popoli, i quali secondo ogni apparenza abitarono-un tempo le « province lombarde, vergini allora del contatto de’ Galli. » t. V, p. 76.— E l’egregio signor Giove- nale Vegezzi-Ruscalla, favellando in generale de’ nativi delle valli alpine dal Mar Tirreno fino alla Rezia, così si esprime: « Bene mi basta sia ammesso che i più antichi abitanti dell’Italia settentrio- e nale siano stati i Liguri, il cui territorio si estendeva lungo la catena delle Alpi dal Mar Tirreno « sino alla Rezia per dimostrare l’unità genetica di quella zona alpina.» Diritto e necessità di abro- gare il francese, come lingua officiale, in alcune valli della Provincia di Torino. Torino, 1861, pag. 14. (4) Geograph. d. Griech. und Romer, Lib. III. (5) G. Rosa, Le origini della civilta in Europa. Milano, 1862, t. 2, p. 214. 419 — sehi, e prima di questi dagli Umbro-Sabelli, e i limiti ultimi non più turbati che segnarono finalmente il lor territorio furono il Varo, il Ti- cino, l’Enza e la Magra. : I Liguri tenner fermo in quest’ultimo riparo a cui li ridusse la pre- potenza di più forti vicini. Uniti in leghe e confederazioni fra loro, ben- chè non formanti una compatta unità, pur si mantennero ordinati e forti, e non mai piede di vincitore calcò più terra da essi difesa. « Il « Piemonte (riferisco qui le parole di un egregio sforico subalpino) può « riguardarsi come un paese intatto ed inviolato fino a'tempi dell’occu- « pazione romana. Il Gallo probabilmente non pervenne a toccarlo , il « Cartaginese s'aprì a gran forza il passo, ma non si trattenne fra i Li- e guri Subalpini , e il Cimbro-Teutono fece due volte il giro della lor e cerchia de’ monti senza mai trovarne il lato vulnerabile...... I Liguri « marittimi per altra parte fecero pruova di un indomito spirito d’indi- « pendenza , e tenner fronte per più di ottant'anni a tutte le forze dei « conquistatori » (1). Ma i Romani, dopo aver sottomesso gli Apuani e trattine in cattività 49 mila che furono trasportati nel Sannio ov’ ebbero stanza col nome di Liguri Bebiani e Corneliani (2), e dopo aver domate tutte le genti alpine liguri e galliche , ostinatamente ribelli all’ autorità del Campidoglio, e consacrato quel trionfo con insigne trofeo eretto sull'ultima balza delle Alpi marittime (3), suggellarono la pace con la li- gustica nazione, e ne assicurarono l’ unione con la eterna Roma. Allora tutte le genti alpine e tutte le altre subalpine e liguri entrarono a parte del gran sistema dell’incivilimento latino. Poche città ebbero co- lonie del Lazio; le più cospicue furono assunte alla dignità di Muni- cipio e donate de’ più estesi diritti. Aosta ed Ivrea nel paese de’Salassi , Torino fra i Taurini, Vercelli e Novara fra i Libui, Augusta de’Vagienni, ora Bene, Alba, Asti, Aquae Statiellorum ora Acqui, Tortona, Voghera nella Liguria subalpina; Genova, Savona, A/bium Ingaunum (Albenga), (1) Gallenga, Storia del Piemonte da’ primi tempi alla pace di Parigi del 30 marzo 1856. Ta- rino, 1856, t.1,718. (2) Livio, XL, 38, 44.—Garrucci, Antichità de’ Liguri Bebiani raccolte e descritte. Napoli, 1845. (3) Gioffredo, Alpi marittime, II°, 150. Ved. Plinio che riporta la iscrizione nella quale sono menzionati i nomi delle nazioni debellate. Orazio allude a quel trionfo e a quel trofeo nelle sue Odi, Lib. IV. ia i Alpibus impositas tremendis Dejecit acer plus vice simplici. Albium Intemelium (Ventimiglia) nella Liguria marittima furono fabbri- cate di pianta, o rifatte dove prima giacevano i rozzi villaggi delle popo- lazioni native. Ma dal tempo in che quelle contrade furono assorbite nella grand’or- bita del mondo romano cessa ogni interesse della loro storia locale, e appena occorre il nome delle Provincie Liguri nel corso di que’ secoli che separano il regno di Augusto dalla caduta dell'Impero d'Occidente, quando le tenebre si addensarono sulla faccia della terra, e tutta Italia fu sommersa nel vortice di quella immensa rovina. Non ostante però che i Celti non avessero conquistato le terre de’ Liguri al di là de’ confini ne’quali costoro si erano ristretti dopo l'invasione dei Galli Cisalpini, tuttavia non poche di quelle genti per le pianure s'in- trodussero oltre la destra sponda del Ticino, e per le valli dell’ Alpi pe- netrarono in mezzo a’ Liguri. Così i Segusiani, confederati e vicini a Tau- rini liguri, se si crede alla etimologia del lor nome, erano un popolo celti- co. Scingomagus, sul monte Vesulo, non offre altra etimologia che quella derivata dal celtico, e Itigomagus, Bodincomagus, Cameliomagus erano città galliche, postate come piccole isole in mezzo ad un mare ligure. Brigania, oggi Briga, sul colle di Tenda, ha parimenti un’ origine cel- tica, e tali sono in Liguria e in Piemonte que’ nomi locali che anche al presente conservano la terminazione gallica in ate, in ago, 0 la voce bri- ga o briva in principio o in fine delle parole, come Vespolate, Tordal- biate, Belgirate nella Provincia di Novara, ed Andrate in quella di To- rino; Bellingago e Mercurago nel Novarese, e Briga, Brisipo, Riva, Rive nella stessa Provincia; Rivalta, Rivalba, Rivara, Rivoli, Roviglia- no, Rivarossa, Rivarolo nella Provincia di Torino; Rivarone e Rivalta in quella di Alessandria; Briga, Briaglia, Sommariva in quella di Cu- neo; Auriga e Riva in quella di Porto Maurizio, e Rivarolo nella Pro- vincia di Genova. Cotesto infiltrarsi della schiatta celtica fra i Liguri non ne alterò gran- demente la purezza nativa. Come questi formavano il maggior numero, così i Celti furono assorbiti dalle popolazioni dominanti, ed appena lievi tracce del lor sangue rimasero entro i limiti in che per ultimo si ridusse la stirpe ligustica. Non così dal Varo fino al Rodano ove convennero molte razze e si con- fusero fra loro, e al tipo ligure venne meno quella purezza che serbò sempre dal Varo alla Magra. I Fenicî dapprima che aveano sparse loro dg — colonie in quella parte del littorale mediterraneo e vi aveano fondate Massalia (1), Nemauso ed Alessia; che aveano vinto l’esercito imperter- rito de Liguri contro i quali sarebbe venuto meno il valore e l'arco di Er- cole, se Giove per soccorrerlo non avesse scagliato dal Cielo una piog- gia di sassi (2); che aveano costruito una strada su per le Alpi ghiac- ciate che menava di Gallia in Italia pel colle di Tenda (3); i Fenicî non furono estranei a quel primo imbastardirsi del sangue ligustico oltre il Varo. Di poi i Rodiensi che successero a’ Fenicî (4), e quindi i Focesi che aggrandirono Massalia e fondarono altre colonie al di là e al di qua del Rodano, fra le quali, entro i confini della Liguria propria, Nicaea (5) e il piccol porto di Ercole, Monoecus (6), nel territorio de’ Vedianzi, vi aggiunsero nuovi estranei elementi, e degradarono viemmaggiormente la purezza originaria della stirpe ligure nella Celto-Liguria. Però Nicea non ebbe sui Liguri d’Italia quel medesimo ascendente che i Focesi vantavano sui Liguri al di là del Varo; imperciocchè Nizza non ebbe mai amici fra i Vedianzi, « i quali non lasciarono mai che i « coloni di Focea dormissero sogni tranquilli sulle non facili loro coro- « ne (7) », onde da questo lato i Liguri italici neppur ebbero grave intac- co; anzi la stessa città di Nizza non ha conservato che scarse vestigia di sangue ellenico ne’ suoi abitatori, ne’ quali domina pur sempre quel tipo (1) N nome di Massalia è punico, e ciò basterebbe a dimostrare la prima fondazione di questa città esser opera de’Fenicì ed anteriore al VI° secolo innanzi G. C. Ma pruova dippiù l’origine fenicia di Massalia una grande iscrizione punica ivi rinvenuta nel 1845 , contenente una legge officialmente promulgata, la quale non poteva ivi essere pubblicata se i Fenicî non fossero stati padroni della colonia. (2) Eschilo presso Strabone 41, XLI.— Mela, II, 5. (3) Di questa strada si fa anche onore ad Ercole che gli Dei contemplarono tagliar le nubi e spez- zar le cime gelate delle Alpi: Scindentem nubes frangentemque ardua montis Spectarunt Superi. Silio Ital. I, 111. Dionisio, I, 41.— Ammiano Marcell. XV, 9. Fu questa la via che, restaurata dai Romani, prese indi il nome di Via Domitia. I (4) Plinio, III, 4.— Isidoro, Origines, XIII, 21.— Hieron. Comm. Epist. ad Galatas. Lib. II. (5) l'viaata suona lo stesso che vittoria, e i Massalioti la edificarono per eternare la memoria di una vittoria da essi ottenuta contro i Salî ed i Voconzî. Strab. IV.— Plinio, III, 5. (6) O' Moyoixov Miury fx0y iepov H'paxàéove Moyoizo» ax)ovueyos. Strab. IN—Plinio, 111,5. (7) A. Valle, Lettera al ch. G. Vegezzi-Ruscalla inserita nel Ragioramento di quest’ultimo che ha per titolo la Nazionalità di Nizza. 2° ediz. Torino, 1860, p. 48. ii ligustico che è sì caratteristico di tutta la costiera dal Varo alla Magra. Dirò appena delle invasioni barbare che seguirono in Italia alla caduta del romano Impero, e dalle quali se venne ai Liguri danno e sciagura, non ebber eglino però ad ospitare lungamente quegli stranî. Alarico non pe- netrò fino ad Asti che per essere sconfitto a Pollenza; Attila non venne oltre Ticino, e i Longobardi e i Franchi, non aspirando ad altro che al comando, ordinarono a lor modo il governo, ma lasciaronvi i popoli in balia di sè medesimi. Gli Ungari furono un uragano che imperversò po- chi istanti e riapparve tosto il sereno, e gli stessi Saraceni che percos- sero più fiate la riviera e rimasero sulle Alpi dal principio fin quasi alla fine del X° secolo, non lasciarono di sè altre orme, che le consuete delle loro depredazioni. I Liguri uscirono immuni da quel rimescolamento de’ popoli dell’Eu- ropa. Gli uni, riacquistata la loro indipendenza , si eressero in governo libero, ed operando miracoli tennero il dominio de’ mari e sparsero co- lonie dai confini dell'Egitto fino in fondo al mare di Azof. Gli altri, di- visi sotto l’ autorità di grandi feudatarî o conti o duchi o marchesi che si chiamassero, si ricongiunsero man mano a quel nucleo di cui fu capo Umberto dalle bianche mani, e composero quella compatta Monarchia Sabauda che fu sempre speranza d’Italia, ed è stata la potente ausilia- trice del nostro glorioso politico risorgimento. II Fin qui la storia, ma tracce ligustiche sono sparse ancora più ampia- mente dappertutto in Italia in molti nomi di paesi, di fiumi, di monti, di persone, i quali non possono essere spiegati nè col greco, nè col la- tino, nè col celtico, nè con altre lingue ariane, nè semitiche, ma sol- tanto col sermone biscaglino che è lingua affatto estranea alle ariane ed alle semitiche, e non ha appiglio di analogia con alcuno de’ parlari ado- perati nell’ occidente dell’ Europa. Da studî profondi fatti sopra queste parole si è dedotto ch’ elle fossero ì ruderi dell'antica lingua degli Iberi, ì quali signoreggiavano, innanzi arrivo delle colonie celtiche, nella Spagna e nelle Gallie. Se avessero tenuto in lor dominio anche l’ Italia pria della venuta delle stirpi Italo- Pelasghe io non oserei affermarlo, ma che un popolo che parlava la stessa — iaia lingua degli Iberi od altra molto affine alla medesima avesse occupato in antico la nostra Penisola, e’ parmi non esservi luogo a rivocarlo in dubita- zione. E poichè non vi hanno memorie che ricordino veramente gli lberi con questo nome in Italia, io ho per fermo, che quell’ idioma che in Francia ed in Ispagna era parlato dal popolo iberico, in Italia lo fosse in- vece da’ Liguri, sia perchè il maggior numero di quelle voci appartengono più propriamente al territorio occupato sempre da questa stirpe, sia per- chè tra gli Iberi presso antichi scrittori eran tenuti anche i Liguri, i quali si credevano affini, se non identici, con quella schiatta. Plutarco infatti (nella vita di Mario ) chiamò i Liguri direttamente col nome di ]beri ; Eschilo (1) dice che il Po, che prende origine dalle Alpi liguri, discende dal paese degli Iberi (2), ed Ecateo presso Stefano Bizantino asserisce, che Macsoxdia, “Auredos, Movotzos, colonie greche, erano fondate sulla costa d’ Iberia, la quale comprendeva, secondo quello scrittore, anche la Celto-Liguria e la Liguria propria. È sulle tracce adunque di quella lingua, che probabilmente fu co- mune a’ Liguri ed agli Iberi, che io andrò ricercando la presenza de'pri- mi nelle varie parti dell’Italia, onde giudicare della loro diffusione, ne’ tempi antestorici, sul territorio italiano. Lo stesso nome Li-gur, Li-gora non è che una parola che significa in basco abitatore di luoghi elevati, da Li, illi, popolo, paese, e gora, alto, elevato, onde l’ appellazione di Li-guria, paese di monti. Nullostante non mancano altre etimologie, ed Artemidoro (3) ed Eustazio (4) dicono i Liguri aver tratto il lor nome dal fiume Aetysg,"Atypos, che molti dotti, ed Ukert tra questi (9), credono essere il Liger o la Loire, ed altri opi- nano ch’ei sieno la medesima cosa che i Cambri Lloegrw o Loegruyr, 0 gli Africani Libî, di cui tanto quelli quanto ì Liguri si credono essere discendenza. Una parola che s' incontra frequente in molti nomi locali in Iberia è (1) Fu il primo ad occuparsene con tutto il corredo delle cognizioni necessarie G. de Humboldt in quella sua nobilissima Dissertazione che ha per titolo: Prùfung der Untersuchungen ber die ur- bewohner Hispaniens vermittelst der Waskischen Sprache. Berlin, 1821, 4°. — Gli altri non han fatto che ripetere e confermare le osservazioni del dotto alemanno. (2) OEschylus in Iberia, hoc est in Hispania, Eridanum esse dixit Plin. XXXVII, 2. (3) Apud Stephan. Byzant. sub voce Alyepet. (4) Ad Dionisium Perieget, v. 76. (5) Geograph. der Griech. n. Rimer — Gallien, 1832, p 289.— Zeus, Gramm.1II, p. 764. Atti— Vol, 1II.-N.01. 3 Rao, AE asta, che in biscaglino vuol dire pietra, roccia, monte, e si trova quasi sempre ne’ nomi di que’ paesi che son posti su’ monti o vicino ad essi, come Asta, Astequieta, Astigarraga, Astobiza, Astorga, Astulez, Astu- ria, Astigi, Astapa. Questa voce non è rara in Italia, e la troviamo in Hasta, oggi Asti, città nella Provincia d’ Alessandria, in Bastia, co- mune presso Mondovì, in Basta, oggi Vaste, nella Terra d'Otranto, in Astura (da asta ed ura acqua) fiume, isola e città del Lazio presso il Cir- cello. Asturius è anche nome gentilizio romano che si legge presso il Grutero, il Muratori, il Donio ete., ed Asturensis, nome servile che si trova presso il Marangoni, Acta S. Victor. p. 147 — Stura, che è evi- dentemente composto delle medesime radici di Astura, è nome di fiume che nasce nelle Alpi marittime presso il colle dell’Argentiera, nella Pro- vincia di Cuneo, e si versa nel Tanaro poco lungi da Cherasco. Due altri fiumi minori, anche in Piemonte, hanno la stessa appellazione, e si di- stinguono l’ uno col nome di Stura inferiore o di Lanzo, e l’ altro con quello di Stura piccola o di Casale, mentre al fiume maggiore s’'applica il nome di Stura Demonte , o superiore. Nè meno evidente è l’origine iberica o ligure de’ nomi terminati inîria, uria 0 oria, parole che significano in basco luogo, paese, contrada. In Ispa- gna sono frequenti le appellazioni con questa desinenza, e in Italia non sono neppur rare, anzi talora s'incontrano parole con quelle terminazioni che son comuni tanto alla nostra, quanto alla Penisola Iberica ed al- l’Aquitania, come Iria Flavia nella Tarraconese (1), ed Iria, or Voghera in Liguria (2); Liria, oggi Le Lez nella Narbonese (8), e Liris fiume nel- l’Italia meridionale. Durius è nome di due fiumi in Ispagna, oggi Duero e Guadalquivir (4), e Duria (3) parimenti si chiamavano in Italia i due fiumi ch'or si dicono Dora Baltea e Riparia, l'una maggiore che discende dalle Alpi Graie, e l’altra minore dalle Cozie. Durii è anche un borgo (Antonin. Itinerar.) nella Provincia di Lomellina, oggi Dorno. Uria era il nome di una Città nella Betica, ed Uria chiamavansi in (1) Tolom. II, 6. (2) Tolom. III, 1. — Anton. Itiner. 288. — Tabula Penting. segm. 111, d. (3) Plinio, 111,3. (4) Cicero pro Balbo, c. 2.— Strab. 111,2,4, e IV, 12. (5) Tolom. III, 14.— Strab. IV, 5, 7. Plinio, III, 20. agg Italia una città estinta presso Nola (1), un borgo, oggi Rodi, presso il ° Gargano (2) e la Metropoli de’Sallentini, oggi Oria (3). La stessa voce trovasi anche in Manduria (4), in Terra d'Otranto, città celebre non meno per l’espugnazione fattane da Q. Fabio nella seconda guerra car- taginese (5), che per la sua fonte ricordata da Plinio nelle maravigliose memorie che de’ fonti e de’ fiumi raccolse nelle sue storie (6). Turium è fiume nella Spagna Tarraconese, or chiamato Henares, e Thurasio (Tarazona) città nella Provincia di Saragozza. In Italia Turia era il nome indigeno della fonte presso la quale i Sibariti edificarono la città che chiamarono anche Turii (®ovgtor, Oovpioi, Thurium) dopo che Sibari fu distrutta da’ Crotoniati nel 3.° anno della LXXXIII Olim- piade, cioè nel 443 av. l’era volgare (7). Il nome di Hetruria, contrada tanto celebre nell’ Italia Media, non sembra mal prestarsi ad una etimologia iberica o ligure; etimologia che potrebbe applicarsi altresì a molti gentilizî etruschi, come Felthuria, Felthurius, o Velthuria, Velthurius, ete. all’osco Furrius (Mommsen, R. N. I. L. n. 3566), al latino Furius, Mamurius, etc. Dalla radice ur o ura acqua sono state formate molte voci iberiche, come Ast-ura già sopra citata, Ur-biaca, Il-uro, Il-uris, fiume nella Gal- lia Narbonese che Strabone chiama /Ilybirris ed Ateneo Iliberris, Sub-ur fiume nella Lusitania, Mur-gis ciltà littorale della Betica, Eb-ura (Stra- bone, III, 48) nella Betica stessa, Eb-ora nella Lusitania (Plinio IV, 35) e molte altre. Medesimamente in Italia occorrono spesso parole delle quali fa parte la radice ur, ura, come Lem-uris e Lem-urinus fiume e (1) Plinio chiama Hyrini i nativi di Uria Campana. Le monete che vi si riferiscono portano tal- volta iscrizioni greche con le leggende TPIANO®, TPIETE®, TPIAAA® (TPIAAA=#?), tal altra leggende greco-oscizzanti Irina, o in osco puro Urina. Conf. Mommsen, Unterifalianisch. Dialekte, p. 105. (2) Plin. HI, 9. (3) Più anticamente fu detta anche Hyria (Erod. VII). In Plinio, loc. cit., è chiamata Varia cuì cognomen Apule Messapic — Strab. VI, 3, 6.— Varro ap. Probum ad Virg. Eqlog. VI, 31. Nelle monete scrivevasi anche OPPA (Ekkel, Doctr. Num. I, 163.— Fiorelli, Mon. ined. Nap.1845, p.22). (4) Steph. Byzant. sub voce Mxyd)10%. h (5) Livio, XXVII, 15. (6) PHinio, II, 103. (7) Diodoro Siculo, XII, 10. Plutar. in Vita Nie., 7 5. La fonte Turia è rappresentata in alcune monete di Turium da una testa di donna inghirlandata di giunchi con la leggenda BOTPIA. Non altro rimane di Turium che pochi avanzi in riva al mare, e il nome della contrada che ora chiamasi Torrana. Corcia , Storia delle due Sicilie, t. III, p. 300, MN) 2 monte della Liguria (1), Ur-binum, città posta fra due fiumi che sono il Metauro e il Foglia, Ur-cinium, Aiaccio , città littorale della Corsica , Mur-gantia, oggi S. Maria Morgata, borgo del Sannio presso le origini del finme Frentone (2), Mur-gentium città della Sicilia (3), Eb-urum, oggi Eboli, città nel Principato Citeriore (4), An-zur, Terracina , in sulla spiaggia del Tirreno, nella Provincia di Marittima e Campagna. Così chiamavasi pure una fonte presso Terracina ricordata da Vitruvio (5) e dal Grammatico Servio (6), ed Anzur era anche il nome di uno de’ com- pagni di Turno rammentati da Virgilio (7). Giove imberbe e fanciullo era venerato in Anxur, e perciò detto Jupiter Anxurus. La stessa radice ura è in Ta-urini, popolo ligure la cui metropoli ap- pellossi indi Augusta Ta-urinorum, oggi Torino, e ne’ Ta-urini etruschi ricordati da Plinio come abitatori di un luogo che chiamavasi Aquae Taurinae (Acquapendente?) (8). Ta-urinum era anche un borgo de’Fren- tani presso il fiume Trivio, non lungi dall’odierna Lanciano, e Ta-uria- num, città de’ Bruzî sulle sponde del Metauro che per mezzo la divide- va (9). Sulle rive del fiume se ne veggono tuttora le rovine nel luogo che ritiene attualmente il nome di Traviano, alterate da quello di Tau- riano 0 Tauriana (10). Nè diversa sembra l’ etimologia di Pisa-urum , Pisa , spartita in due dal fiume Arno; di Pisa-urus, fiume dell’ Umbria, oggi il Foglia; di Me- ta-urus riviera anche nell’Umbria, e nella Bruzia ; di Volturara in pro- vincia di Principato Citeriore presso le fonti del Salzuola e alla destra del Catola; di Vulturnum oggi Capua, città cospicua della Campania, e (1) Menzionati nel Decreto romano sulle controversie tra i Genoati ed i Veturì. (2) Livio, X, 17.— Romanelli, Topografia istor. II, 481, e in medagtia presso il Carelli MYP- TANTIA. (3) Strab. VI, 16. — Liv. XXIV, 27.— Sil. Ital. XIV, 265.— Il nome de’ Murgenlini trovasi in medaglie con la leggenda ITNADTOM, ITNA"TTOM e MOPPANTINQN. (4) Questo nome s'incontra in una iscrizione pubblicata dal Mommsen, n.° 189, e dall’ Orelli.— Henzen, n.° 7145. (5) III, 3. (6) Ad Zneid. XII, 799. (7) ZEneid. X, 544. (8) Aquenses cognomine Taurini, III, 5. (9) Così la chiama Pomponio Mela, II, 4.— Plinio l’appella Taurentum, HI, 5, e Stefano Bi- # zantino Tavpavia. (10) Grimaldi, Annali, t.1, p. 150,— Corcia, Stor. cit. 187 SION, | E di Vulturnus fiume che vi scorre dappresso (1), di Turrus, Torre, fiume presso l'antica Aquileia e di Turres, oggi S. Biagio, fra Mamurtium ed Hipponium. Impronta ligure parmi ravvisare ancora nell’ antico nome di Tivoli, Tibur, sull’ Aniene, nel fiume Tevere, Tiber, e nel Trerus, oggi Sacco, affuente del Liri nel Lazio , imperocchè la sillaba er, forma abbreviata di erri o erria, incontrasi sovente nelle terminazioni di nomi iberici , come in Elimberrum, o più correttamente Eli-berri o INli-berri, e nei no- mi liguri di Procombera (la Polcevera) e Comberane fiume e ruscello menzionati nella tavola de’ Genoati (lin. 7, 9). Tuder o Tudertum, oggi Todi, nell'Umbria, posta sulla vetta di un colle che sorge presso la sini- stra del Tevere, ove il Naia vi reca il tributo delle sue acque , è nome che si avvicina se non è identico quello di Tader , oggi Segura, fiume della Spagna che nasce dalla Sierra Segura nella Provincia di Chinchilla e cade nel mediterraneo a 28 chilometri al S. E. di Alicante. Altri nomi topici hanno identiche sillabe iniziali tanto nell'antica Ibe- ria, quanto in Italia. Io non ne citerò che pochi esempî, i quali si po- trebbero moltiplicare senza molto studio. Ta o Tar che incontransi ne’ nomi iberici di Tagus, Tagonius, Tarraco, Tarraconensis, Tartessus trovansi pure ne’ nomi italici di : Ta-rus (Taro) fiume del Parmense che sgorga al confine delGenovesato; Tar-ros, antica città della Sardegna; Ta-burnus, monte della Campania famoso per gli oliveti che ne co- prono il dorso, onde Virgilio: €... Luvat Ismara Bacco Conserere, atque olea magnum vestire Taburnum ; Georg. II. 37, 38. Ta-marus, fiume del Sannio che nasce dagli Apennini, e mette foce, poco sotto Benevento, nel Calore ; Ta-narus, fiume del Piemonte che sorge in due rami dai colli di Ta- narello e di Carsano nella Provincia di Cuneo; Ta-nager (oggi Negro) fiume nella Lucania che sbocca in mare fra Pesto e Bussento. (1) Plin. III, 17. Varrone confessava che questo nome non appartiene alla lingua latina: Quod oritur in Samnio, Vulturnus, nihil ad latinam linguam. De L. L. Lib. IV, 55. og La sillaba iniziale Var trovasi in Varia, città della Spagna Tarraco- nese (oggi Logrono) e ne’ Varduli, egualmente che in Varus, fiume che divide y Italia dalla Francia, in Varallum in Valsesia, e Varallo-Pombia in Provincia di Novara, mandamento di Borgo Ticino. Car occorre frequente nel principio di nomi locali iberici, e si associa all’idea di altezza, elevazione, nobiltà, come in Carraca, Carbulo, Car- teia, ne Carpetani, ne’ Caristi. In Italia parimenti questa sillaba non è rara, e si ha in: Carrea (Cherasco) nella Provincia di Cuneo; Carseoli (Carsoli) nell’Apruzzo Ulteriore Il; Carsulae, città nell’Umbria tra S. Gemini ed Acquasparta; Carventum, città distrutta nel Lazio di cui Livio e Stefano Bizantino (1); Carbania, nell'Isola di Sardegna (2); Carbina, borgo della Messapia; Carcines fiume nella Brezia (3), e Carcinus borgo nella stessa ‘Pros vincia (4). Mar è nome ligure. Da lui ebbero nome i Liguri Marici fra il Taro e l’Apennino, e la contrada indi nominata Marenco o Marengo. Una Dea Marica era onorata da’ Minturnesi (5), ed Orazio e Livio fanno altresì menzione di un litus Maricae e lacus Maricae (6). Anche in Patercolo si ha ricordo di una palude Marica presso Minturno dalla quale fu tratto fuori C. Mario (7). Maro, Marola, Maregia, Maranello, Marana, Marassi sono appellazioni topiche odierne, le quali sembrano derivate dalla me- desima radice ligustica. Alcuni altri nomi proprî si ripetono tanto in Iberia quanto in Italia ; onde i Cerretani della Catalogna si riscontrano in Caere, oggi Cervetri, e ne Cacrites 0 Caeretani dell'Italia; Salpesa nella Betica ne’ Salpinates dell'Etruria ed in Salpina, palude nelle Puglie; Numantia con Numana (oggi Umana) nel Piceno di fondazione Sicula 8). (1) Liv. IV, 53-55. Un cognome Carventanus trovò il Borghesi ne’ Nuovi frammenti de’ fasti consolari, I, 16 e seg. (2) Anton. Itiner. (3) Plinio, III, 15 (4) Mela, Il, 4. (5) Servius ad ZEneid. VII, 7 (6) Oraz. lib. JI1, od. 17.— Liv. XXVII, 37. (7) Lib. II, cap, 19. (8) Tolom. III, 1.— Mela, II, 4.— Plinio, III, 17.— Silio Italico, VINI, 431. SSR: > pe Cluentia e Sars nella Tarraconese sì riscontrano in Cluana, borgo del Piceno presso la foce del Chienti (1), e in Sarsina città dell'Umbria non lungi da Cesena. Il littus curense della Betica trova riscontro in Cures, città de’'Sabini, oggi Corese, e in Curenses o Curetes (d’ onde il nome di Quirites), in Curiates, popoli dell'Umbria (2), e nel gentilizio romano Cu- riatieus, non infrequente nelle lapidi romane. Cotali nomi identici che s' incontrano tanto in Italia, quanto in Ispa- gna, e il numero de’ quali si potrebbe allargare ampiamente, sono i ru- deri superstiti, di quella parentela che stringeva insieme i primi abita- tori della Penisola Iberica ed Italiana. I quali, se non appartenevano ad un ramo unico di una stessa schiatta, erano però genti affini che nel loro materiale linguistico rivelavano chiaramente l'origine comune dalla quale esse discendevano. E poichè di que’popoli vetustissimi dell’Italia che per tanti lati si strin- gono agli Iberi, abitatori primitivi della Spagna e delle Gallie, non so- pravvisse altro nome che quello de’ Liguri , e col nome in parte anche la stirpe, così non crediamo essere molto lungi dal vero, se ripetiamo essere stati Liguri coloro che popolarono, ne’ più antichi tempi la nostra Italia, ove formarono il substrato di quelle popolazioni aborigene sulle quali si sparse la conquista ariana che rimescolò da capo a fondo, nel- l'epoca del bronzo, l’etnologia di tutta l'Europa. Non faccia però ad alcuno maraviglia, se favellando d’ idioma ligu- stico io non abbia citato se non pochi nomi di luoghi e di genti. Altri monumenti non restano di quella lingua, ed essi soli potevano servirmi di termini di comparazione. È vero che Seneca scriveva a sua madre che i Corsi erano genti cantabre che serbavano calzari e berrette al modo di quelli de’ Pirenei e qualche parola cantabra, ma che in generale l’intero linguaggio loro s' era allontanato dal patrio per l'influenza de’ Greci e de’ Liguri, onde si vede come nel sermone si distinguessero a quei tempi ì Liguri dagli Iberi; ma io ho per fermo, che se esisteva, come non par dubbio, una differenza fra entrambi i parlari, cotesta varietà non sarà stata maggiore di quella che intercede fra i dialetti di una medesima lingua, sicchè sarei per credere (e le parole sopra riferite me ne danno argomento) che fra Liguri ed Iberi non corresse altra dissonanza lingui- {1) Plinio, III, 18.— Mela, II, 4. (2) Plinio, Ill, 19. = stica, se non quella che oggi si nota fra l’ idioma castigliano p. es. e l’italico ; idiomi generati, con pochi elementi eterogenei , dal latino ch’erasi fatto comune anche all’Iberia, come in tempi più remoti la lin- gua iberica era stata forse comune alla Spagna ed all'Italia. Studiando più di proposito ne’vernacoli ligustici si troverebbero probabilmente mag- giori punti di contatto col sermone biscaglino, ma è pur d’uopo convenire che anche nell'antico ligure si trovano alcune parole e terminazioni delle quali non si è incontrato traccia fra gli Iberi, parole e terminazioni che si sono perpetuate sino al presente anche a traverso la dissoluzione e scomparsa della favella de' Liguri (1). Più notevole fra coteste partico- larità dell’antico ligure sono le desinenze in asca 0 asco, le quali tro- vansi ripetute più volte nella celebre tavola di Polcevera ove sono men- zionati un Fluvium Neviascam , Rivom Venelascam, Fluvium Veraglascum, desinenze che sono anche al presente assai comuni in varie appellazioni topiche in Liguria, in Piemonte ed in Lombardia (2). « Dopo ciò (così mì piace di conchiudere con un egregio ricercatore « dell’antichissimo idioma de’Liguri) parmi soluto ogni dubbio intorno « la parentela del ligure e del basco , parentela che potrebbe porsi in « ben maggiore chiarezza, esaminando (nè la povertà de’ nostri studì il « consente ) le leggi grammaticali ed eufoniche comuni ad entrambe , « l’invariabilità delle lor radicali e l'assenza d'ogni interna flessione , « segno non dubbio d’uraliche irradiazioni. Le quali invero sono ancor « vive così nella sintassi, come in molte radici che il ligure ha comuni « col basco e con gli idiomi che dall’uralico ceppo derivano. E basti a « tanto. Chi pensa quanta stesa di mare e qual tratto di terra partono « Italia da Spagna , e come per l’' opposto il nostro paese sia collegato « alla Francia, maraviglierà senza fallo, che l’attuale lingua spagnuola, « il suo assetto grammaticale e la sua prosodia s’ accostino all’ italiana « a più doppî che non la francese. La spiegazione di questo fatto sta nella « comunanza d'origine degli Iberi e de’ Liguri (3) ». (1) Celesia, op. cit. p_50. (2) Tali sono Cassinasco, Morgasco, Prasco, Bagnasco, Curnasco, Cherasco, Terantasca, Arcel- lasco, Cremasca, Cervasca, e molti altri. 3) Ibid. p. 72. « Una colonia d’Iberi troviam pure nella Giorgia; dell'antica cognazione durano tuttavia le vestigia. Le Giorgiane, l’Andaluse e le Liguri, così somiglianti nel loro tipo, non hanno « chi le avanzi e pareggi nella venustà delle forme ». Ibid., nota. PISO o SS $ 3. Tipo ligure antico desunto da medaglie e da antichi crani ligustici. Mentre la voce unanime degli antichi celebrava con laudi l’intrepidez- za,il valore e la mirabil forza de’Liguri (1), non ci rimane memoria che ci ricordi qual fosse stata la loro fisica conformazione. Da alcune sole espres- sioni sì può raccogliere ch’ egli erano di mediocre statura, di adusta e valida complessione (2). Alcuni usavano di recidersi i capelli , altri di conservare intatta la chioma cui lasciavan cadere liberamente sulle spal- le, onde venne ad essi l’ appellazione di Liguri tonsî e capillati, 0 chio- mati (tonsi et comati) (3). Sappiamo dippiù che que’ capelli eran neri o pressochè tali, se crediamo a Giornande che di quella tinta assicura es- ser quelli degli Iberi (4), i quali erano somiglianti agli Aquitani (5), e questi a'Liguri lor vicini, se pur non erano una stessa cosa con essi. E poichè il tipo ligure non differiva grandemente, come sembra, dall’iberi- co, quando Tacito ragionando degli abitatori delle Isole Britanniche dice essere fra costoro anche alcuni (i Siluri) che dal bruno colore delle carni e dal capello perloppiù ricciuto annunziavano essere Iberi emigrati dalla non lontana Spagna (6), lascia supporre che ne’ Liguri dominasse pari- menti un colore brunetto ed una non infrequente disposizione de’ capelli ad incresparsi, in questo senso interpretando la espressione di forti crines adoperata dallo storico di Roma. Qui ci abbandonano le testimonianze degli scrittori; ma se la Liguria non ha per avventura monumenti antichi che potessero mostrarci altri ca- ratteri del tipo proprio de’ suoi prischi abitatori, abbiamo invece alcune (1) Ligures montani, duri atque agrestes. Docuit ager ipse, nihil ferendo , nisi multa cultura et magno labore quesitum. Cic. Agr. II, 35. (2) Toîs dynots stoì ovysota)pévor, nai Tia tv ovysyi yvuyaciav eJrovor. Diod. Sicul. lib. IV, 20: : (3) Plin. III, 25. — Dione Cass. LIV. (4) Silurum colorati vultus, torto plerique crine et nigro nascuntur. De Reb. Getic. cap. 2. (5) ‘AtdGs Ydp cime, ot Auovizavoi diagépovor 16v T'adarraoo qUiov, nard te ras row 90- pudiccoy naraonevas nai nata tv yierroy, soinzor de pdùioy “Ignporv. Strab. IV.—Valer. Mass. 1I, 6, II, VII, 6, — Plutare. Sertor. 14. (6) Silurum colorati vultus, et torti plerumque crines, et posita contra Hispania, Iberes vete- "es trajecisse easque sedes occupasse fidem fuciunt. Agricol. XI. Atti— Vol. II.—N.° 1 4 — 26 — medaglie dell'Aquitania e della Spagna che ci hanno conservato ritratti indigeni esprimenti il tipo nazionale. Almeno ciò non par dubbio per quelle iberiche, le quali portano leggende in caratteri sconosciuti ( desconosci- das ), e che il Boudard ha dimostrato essere scritte in lingua basca od euscariana. Le teste di quelle medaglie sono ritenute generalmente co- me vere efligie de’ personaggi di cui portano il nome, guerrieri, capi o magistrati supremi del popolo (1). Nelle teste del maggior numero do- mina un tipo comune che non è il greco, nè il fenicio, nè il celtico, ma che rivelasi per un viso piuttosto breve e quasi quadrato, archi sopra- ciliari proeminenti, naso quasi sempre grande, capelli inanellati, e barba, quando esiste, arricciata. Altrettanto incontra di osservare nelle medaglie degli Ausci a de’ So- tiati dell'Aquitania, de’ Ceniceti che aveano stanza ad oriente del Roda- no (2), e generalmente in tutte le teste delle medaglie di Avenio , di Ucetio, degli Arecomici (3), non meno che in quelle de’Salì di Glanum, e, per quanto può giudicarsene, anche degli Oxibî (4). Vi ha fra quelle medaglie anche tipi che si riconoscono per punici e per greci, soprattutto nelle monete di quelle città che ebbero colonie fenicie ed elleniche, ma il tipo più comune, dopo l’iberico, è il celtico, il quale è osservabile singolarmente nelle medaglie di quelle regioni ove 1 Celti in tal numero si soprapposero a’ nativi, che dalle due razze con- temperate insieme surse indi quel tipo che modificato a sua volta dal sangue latino, dal teutonico e dall’arabo, è oggi dominante così nell’an- tica Iberia, come ne’ Dipartimenti meridionali della Francia. Se con tali scarsi materiali noi vogliamo ordinare i caratteri onde erano distinti gli antichi Iberi e i Liguri con essi, possiamo con fonda- mento ritenere: « essere stata la loro statura mezzana, le membra aduste e gagliarde, la carnagione brunetta, la chioma folta e nera, il viso più qua- drato che tondo, le arcate sopracigliari proeminenti ». Apparisce ancora dalle medaglie qual fosse la forma del cranio di quei (1) Lelewel crede che ciò sia per tutte le medaglie galliche ed iberiche. Etudes numismatig., Types Gaulois. Paris, 1841, p. 41. (2) Lelewel, pl. III, 9.— VII, 32.— La Saussaye, Numismatique de V Aquitaine (Rev. Numi= smatig. 1851, pl. Ie XV), e Numismatique narbonnaise, pl. XIII. (3) La Saussaye, Numismatiq. narbon. pl. XVI, XVII, XXII. — Lelewel, pl. VII, 30-31.— VIII, 32. (4) La Saussaye, Numismatique narbon. pl. I, II, XIII. — Lelewel, pl. III, 1,2,3,8. —27- popoli che vi sono rappresentati. Era un cranio più tondo che ovale, un cranio corto, brachicefalo, un cranio diverso da quello che oggi s' in- contra comune nella Spagna, nella Francia e nelle popolazioni italiane. Ma questa deduzione, se tratta unicamente dalle effigie scolpite nelle me- daglie, non avrebbe certamente quel valore che acquisterà agli occhi degli Etnologi, se chiarita con altri fatti che potranno essere sommini- strati dagli stessi antichi teschi appartenenti alla ligustica schiatta. Fin qui il numero di questi cranî è molto ristretto , nè io so che ne esistano altri all’ infuora de’ tre che io ho avuto l’ opportunità di osser- vare e di studiare a mio bell’ agio. Vengono essi dalle Provincie di Mo- dena e di Reggio, le quali furono in potere de’ Liguri Friniati pria che non ne avessero avuto il dominio gli Etruschi, a’ quali indi fu tolto dal Galli Boi, e a questi da' Romani. Anzi gli stessi Liguri, quando già nel- l’ agro modenese era stata dedotta una colonia romana , scesi dai loro monti alpestri portarono più volte guasti e rapine fino a Bologna e a Mo- dena, e nel 577 saccheggiarono il territorio modenese, e con improvviso assalimento presero la stessa colonia ; d’ onde furono poco di poi cac- ciati dal Console C. Cladio Pulcro. Relativamente all’ antichità di questi teschi io credo aver dimostrato nella mia Memoria che ha per titolo « Di alcune armi ed utensili in pie- tra rinvenuti nelle Province meridionali dell'Italia, e delle popolazioni, nei tempi antestorici, della Penisola Italiana (1) », com’ essi appartengono a que popoli che abitarono l’Italia in quel periodo dell'età della pietra che si congiunge e quasi confonde con l’epoca del bronzo. E poichè in quel tempo le colonie Ariane non avevano invasa tutta la penisola, e le vecchie razze vi duravano tuttavia, così io ho per fermo, che essendo di schiatta ligure i primi abitatori delle terre che or si dicono di Reggio e di Mo- dena, liguri debbano essere altresì que’ cranì che si riferiscono ai più antichi popoli che abitarono in quelle Province. Due di questi cranî sono in potere del signor Bartolomeo Gastaldi, di- stinto Professore nella Scuola di Applicazione per gli ingegneri di Torino, ed il terzo fa parte del Museo Anatomico dell’ Università di Modena di- retto dal mio egregio amico prof. Paolo Gaddi. I due cranî del Gastaldi furono rinvenuti nella state del 1862 in Torre della Maina, paesetto di collina distante dieci miglia da Modena , in (1) Atti della Società Reale di Napoli, Accademia delle Scienze Fisiche e Matematiche, vol. I. * pesi I mezzo ad un deposito di terra conosciuto in paese col nome di Marna 0 Marniera. Questo deposito trovavasi in un terreno diluviano , al quale era soprapposto un terreno di alluvione recente misto ad humus. Nel deposito in mezzo al quale furono rinvenuti i due cranî, oltre gran co- pia di carboni, di ceneri, di frammenti di olle e vasi di terra cotta, era- no anche qua e là sparse ossa di animali domestici , e principalmente grandi corna di cervi, ossa, denti, mascelle di cavallo, di pecore, di ci- gnali, etc. quasi tutte in pezzi, e su molte delle quali si scoprirono evi- denti intaccature artificiali di scure o di accetta: notizie che debbo alla cortesia del signor Pietro Doderlein , oggi prof. nella R. Università di Palermo, Il cranio posseduto dal Gabinetto Anatomico dell’Università di Mode- na, sotto il N. 84, fu raccolto in Cadelbosco di Sopra, cinque miglia di- stante da Reggio, e donato al Museo dal dottor Giovanni Brugnoli di Briinhoff , col seguente ricordo : « Teschio di un uomo adulto di razza Caucasea , trovato nel 1887 a Cadelbosco di Sopra, entro ad uno strato di terra nera torbosa, alla profondità di m. 4, 696 ». I tre teschi notabilmente si differenziano tanto da quelli degli abita- tori odierni delle Province Modenese e Reggiana , quanto da’ rimanenti italiani, ad eccezione de’ Liguri e Piemontesi a’quali sono grandemente rassomiglianti. La conformazione di questi cranî è brachicefala. Havvi però fra di essi qualche differenza che il lettore potrà valutare mettendo insieme a ri- scontro la descrizione di ciascuno di essi e le misure che ne diamo più innanzi. Uno de’due cranî di Torre della Maina è figurato nelle sue dimensioni naturali nella tavola I. È molto danneggiato dal tempo, e manca del naso, della parte esterna dell’orbita sinistra, di porzione dell’ osso tem- porale dello stesso lato. Mancano altresì tutti i denti meno l’ultimo ma- scellare sinistro. La delicatezza delle sue ossa, la piccolezza de’ suoi forami , la poca scabrosità delle superficie sulle quali si spandono gli attacchi muscolari, tutto infine lo caratterizza appartenente al sesso femmineo ; ed inoltre lo stato delle suture e quello della consumazione del dente superstite gli fanno assegnare un’età non maggiore de' 40 a' 45 anni. Il diametro fronte-occipitale è solo di 16 millim. maggiore del bi-parie- tale; la fronte è larga, ma bassa e schiacciata; le gobbe parietali molto svi- —P12d9 luppate, e la protuberanza occipitale pressochè nulla, onde il profilo della calvaria è rappresentato da una linea , che dalla fronte ascendendo con dolce curva giunge al piano del vertice, e quinci piegandosi a un tratto discende rapidamente, e quasi in linea verticale sull’occipite. Le orbite non grandi, inclinate all’esterno e di forma approssimantesi alla quadrata: grande lo spazio fra di esse, e grande pure la distanza fra i punti esterni delle ossa zigomatiche. Poco profonde sono le fovee malari e temporali. Alte le ossa mascel- lari, sporgenti alquanto innanzi ed accennanti a leggero prognatismo ; ma se il cranio si posi, privo della mascella inferiore, sopra di un piano orizzontale, quasi tutto il margine alveolare poggia su quel piano, e so- lamente alcun poco ne dista quella parte anteriore destinata pe’denti in- cisivi. La direzione degli alveoli però è verticale, e l’impianto de’ denti modifica affatto quella disposizione lievemente prognata della mascella. Notabile è l'altezza di questo teschio. Larga è la sua base , serbando in ciò proporzione coll’ ampiezza generale del cranio; più larga dietro i forami uditivi. L’arcata alveolare è tondeggiante, ed il forame occipitale, di forma ovale, situato in tal punto della base del cranio, che il suo orlo anteriore è più di qualche millimetro distante dal bordo alveolare, che non da una linea che discendesse verticalmente dal piano occipitale. Gli angoli del margine inferiore della mandibola si volgono alquanto all’ester- no, e la forma della stessa è più vicina alla circolare che alla parabolica. La faccia è larga, la sua forma più quadrata che ovale, formando gli angoli del quadrato al di sopra le porzioni laterali dell'osso frontale, e al di sotto gli angoli inferiori della mandibola. Le misure di questo cranio prese in millimetri sono le seguenti: Circonferenza orizzontale . . . . . . 509 millim. Arcorronte-occipitale:! e 2 1A ii a 955 a. Porzione frontale 125. b. P. parietale 119. c. P. occipitale 111. Arco interauricolare, da un forame uditivo all’altro, passando pel vertice . . . . 330 Lunghezza, o diametro antero-posteriore . 170 Larghezza (interparietale) . . . . . . 154 Altezza dall’ orlo anteriore del forame occi- piiale:alizenticentiso: 13 Cs 4 shit 1482 — 30 — Larghezzardella frotte».10 plat lost aneneMicA20 Larghezza della faccia fra gli archi zigomatici 142 Lunghezza della stessa dalla inserzione delle ossa nasali al mento . . . 115 Larghezza della base da un forame dino ab ltaltno coast. 102 Proporzione fra la leslie e i Tinohomi del cranio considerata come 100 (indice cefalico). . . sitati 011979000 Proporzione dell’ slbdgne alla ita sg FLO L’altro cranio di Torre della Maina, figurato nelle tav. Il e III, si al- lontana alquanto dal precedente per alcune particolarità ch'egli importa di far conoscere. È un cranio virile che mostra avere appartenuto ad un giovane fra i 25-30 anni. È ben conservato, tranne una lieve frattura nella base, la mancanza di una porzione dell’ osso zigomatico destro e i condili della mascella inferiore. I denti vi esistono tutti, meno il primo molare destro che manca. È brachicefalo come il precedente; non ha protuberanza occipitale, ha molto sporgenti le gobbe parietali. La linea del profilo della calvaria si incurva nella regione posta fra le protuberanze parietali , e declina ra- pidamente nell’occipite come nell'altro cranio sopra descritto. La fronte è larga e moderatamente elevata; le orbite piccole, quadrate, volte obliquamente all’esterno. I senì frontali grandi e rilevati; grande altresì lo spazio fra le orbite, e grande pure l’apertura nasale. Assai di- stanti fra loro sono i punti esterni delle ossa zigomatiche; poco profonde le fovee malari, molto al contrario le temporali, e notevole la distanza fra il processo spinoso nasale e l’orlo alveolare superiore. Larga in generale la base intera del cranio , e soprattutto fra le apo- fisi mastoidee grosse e rugose, Il forame occipitale è piccolo e rotondo, e il suo margine anteriore trovasi 19 millimetri più distante dal mar- gine alveolare, che non da una linea che discenda verticalmente dal- l’occipite, La forma dell’ arcata alveolare è diversa da quella del cranio prece- dente, avvegnachè non tondeggi anteriormente, ma si prolunga per mode da rappresentare l'abside di un ovale molto allungato. = Sa La mandibola si slarga ne’ suoi angoli inferiori come nel cranio pre- cedente, e la sua figura generale s’ avvicina alla circolare più che alla ellittica. La faccia, considerata a parte, è discretamente ampia ; e poichè la larghezza della fronte si accompagna con quella delle ossa malari e de- gli angoli inferiori della mascella di sotto , così la forma di essa ritrae di una figura pressochè quadrata. Ciò che è più osservabile in questo cranio è il prognatismo delle ossa mascellari superiori, il quale però è corretto dalla direzione degli al- veoli in cui i denti s'impiantano verticalmente per raggiungere quasi a perpendicolo i denti della mascella inferiore. Noi ne diamo qui sotto le sue misure precise: Circonferenza orizzontale . . . . . . 5419 Arco fronte-occipitale . . . . . . . 370 a. Porzione frontale 125. b. P. parietale 125 c. P. occipitale 120. Arco interauricolare . . . . . . .. 328 Lunghezza, o diametro peas pila rds Larghezza (interparietale) . . . . . 156 Altezza dall’orlo anteriore del forame occipi- blcalaweteolo a n a 3392 Larghezza della fconte . . . 119 Larghezza della faccia fra gli archi iaia 120 Lunghezza della stessa . . . 121 Larghezza della base da un forame alia sp Fallro Po 305 109 Proporzione fra la afliona: e la linizficni del cranio (indice cefalico) . . . . . . 90,7 Proporzione dell'altezza alla lunghezza . . 76,80 Il cranio rinvenuto in Cadelbosco di Sopra , e conservato nel Gabi- netto anatomico dell’ Università modenese, è di una tinta nerastro-sere- ziata. Manca delle ossa mascellari superiori, e non ha che i soli quattro ultimi denti molari, due da cadun lato, nella mandibola inferiore. E alquanto depresso nel vertice (probabilmente per compressione ar- tificiale), ma è di forma brachicefala. È molto largo fra le gobbe parie- tali, ed è privo affatto di protuberanza occipitale. i La fronte è larga e discretamente elevata; largo altresì lo spazio della glabella; le orbite orizzontali. Profonde le fovee temporali, ed abbastanza distanti fra loro le due apofisi mastoidee. La mascella slargata, come ne' cranî precedenti, ne’ suoi angoli infe- riori ; il tubercolo del mento proeminente, e la forma della mandibola quasi triangolare. Le misure di questo cranio sono come appresso: Circonferenza orizzontale’ <. 0.00 (1510509 Arco fronte-occipitalej; iure: salati SA a. Porzione frontale 120. b. P. parietale 126. c. P. occipitale 125. Arco.interauricolare:”. .. 2060 le 316 Lunghezza, o diametro antero-posteriore . 174 Larghezza (interparietale) . .\/. . . .. 448 Altezza dall’orlo anteriore del forame occi- pitale.al-vertice ire 2 Larghezza della fronte . . . . sint A0A Larghezza della faccia fra gli archi era 105 Lunghezza della stessa . . . 100 Larghezza della base da un forame plitao ale lFaltro- Sanese. AE: È 95 Proporzione fra la lst e la lunghezza del cranio (indice cefalico) .\..v... .. 85 Proporzione dell’altezza alla lunghezza . . 76,40 Qui mi cade in acconcio di parlare di alcuni cranî etruschi riferiti al tipo brachicefalo, che il Retzius non esitava a considerare come proprio del teschio di quella stirpe. Tale asserzione del celebre etnologo Scandi- navo è stata combattuta dal Baer (1) e da R. Wagner (2), ed è confutata ampiamente dalle dotte investigazioni intorno a’ cranî etruschi pubblicate (1) Nelle sue osservazioni critiche sull'argomento pubblicate nel Bulletin de l' Academie Impe- riale de S.° Petersbourg, t. I, 1859, p. 37. (2) Zwar rechnet Retzius die Etrurier zu den Brachycephalen; aber die gewis ichten Schidel auf etrurischen Gribern, welche unsre Sammlung dem Kénig Ludwig von Bayern verdankt, sind doli- chocephalisch, womit auch andre Berichte ibereinstimmen. Zoologisch- Anthropaiogische Untersu- chungen. Gottingen, 1861, p, 13, gle da' ch. Garbiglietti (1) e Maggiorani (2), alle quali io non posso, dietro osservazioni proprie, che uniformarmi completamente , ritenendo con questi autori la forma del cranio etrusco essere dolicocefala e non bra- chicefala (8). E se io guardo alla Édition illustrée del Régne Animal del Cuvier pubblicata da'suoi allievi in Parigi, anche quivi osservo, che un antico cranio etrusco è stato preso per tipo di quella forma dolicocefala per la quale il consenso degli antropologi ha conservato ( benchè non rettamente) l’appellazione di Caucasea (4). Ma il Retzius non era uomo da ingannarsi così di leggieri. Egli avrà certamente veduto cranî etruschi di tipo brachicefalo, ed avrà fatto generale per quella nazione ciò che for- se gli offerivano eccezionalmente i cranì da lui osservati; ed io non esi- to a ritenere, che solamente per eccezione s' incontrino cranî brachice- fali nelle antiche necropoli etrusche, e credo dippiù ch’ essi sieno i più antichi. E poichè innanzi agli Etruschi tutta quella parte d’Italia che indi si chiamò Etruria era stata abitata da ligustiche genti, così e’ par- mi probabile, che que’ eranî brachicefali che talora s' incontrano in quel- la contrada, e che sono attribuiti comunemente agli Etruschi, debbano essere invece riferiti ai Liguri che vissero nel suolo toscano pria de’ Ra- seni, e che pur continuarono a vivervi anche quando i nuovi venuti si ebbero impadronito di quelle terre, spogliatine gli antichi possessori. Se a questa mia congettura volesse accordarsi qualche fede , io menzio- nerei volentieri fra i ligustici anche i-cranî di tipo brachicefalo trovati nelle tombe dell’ antica Etruria, i quali veramente non differiscono gran fatto da quelli appartenenti alla vecchia stirpe ligure, e che sono stati già sopra descritti (d). | (1) Brevi cenni intorno ad un cranio etrusco. Torino, 1841, in 8”, con tav. (2) Saggio craniologico sull'antica stirpe romana e sulla etrusca. Roma, 1858, in 4°, con tiv.— Nuovo Saggio di studi craniologici sull’antica stirpe romana e sulla etrusca. Roma, 1862, con tav. (3) Così il Prichard scriveva a pag. 257 del vol. III° della 3.* ediz. delle sue Researches in to the physical history of Mankind. « So many rema ns of ancient Etruscan tombs yet exist in Lhe north of Italy, that we may look for further elucidation of this very interesfing subject. The skulls found in some of the Etruscan tombs which were lately exibited in London, had the full developement of the European or Indo-Atlantic type. Local researches into this subject would well reward the pains of any traveller in Italy. » — Ved. anche Nott and Gliddon, Indigenous Races of the Earth. pag. 313, fig. 35. (4) Races Humaines, tav. I e II. Una di queste figure è riprodotta nelle mie Razze Umane, Lt 1°, tav. I, fis. 1. (5) Anche fra i cranî etruschi, che si conservano a Parigi il Pruner-Bey ha trovato il tipo brachi- cefalo misto al dolicocefalo, ed anch'egli opina che quel primo tipo debba riferirsi ad origine iberica o ligure. Bulletins de la Societe d’ Anthropologie de Paris, t. III, p. 448. Atti— Vol. I.—N.° 1. Ci pur ne Riferisco qui le misure di due di questi eranî etrusco-liguri, l'uno (1) appartenente al ch. Prof. Maggiorani e proveniente dall'antica Tarquinia, l’altro (II) conservato nel British Museum, avvalendomi per entrambi de' dati craniometrici forniti dallo stesso signor Maggiorani e dal signor C. Carter Blake nella sua eccellente memoria « On the Crania of An- cient Races of Men » : A riscontro di queste misure metto quelle ottenu- te in media da me sopra cranî liguri antichi e moderni. CRANÎ ETRUSCO-LIGURI ‘CRANÌ LIGURI I. Il. Periferia orizzontale. «+... 0.0 487 | 935. | 6131, Arco fronte-0ccipitalen site) ione ia 346001) 963%] VQOAEy Diametro antero-posteriore . . . . .| 167 | 174 |172 — biparietale o traversale . . . .| 140 | 150 | 1497, Altezza vertivale 11401) (MP St AO NIE E LO 08 eo Proporzione fra la larghezza e la lunghezza considerata come 100 (Indice cefalico). | 83,83| 86,20 86,74 L’antico tipo ligure adunque, come ce lo mostrano i pochi cranîì su- perstiti di quel popolo, e come ce lo rappresentano le medaglie o ce lo ricordano gli scrittori greci e latini, era spiccatamente diverso da quel- lo degli altri Italiani, non meno che da quel de’ Greci che ellenizzarono alcuni punti della Liguria, e da quel de’ Galli che in molte parti lo av- vicinavano e si confondevano con esso. Ma per restringermi all’ Italia e non estendere le comparazioni oltre i confini della medesima, io dirò che mentre gli altri Italiani nella forma dolicocefala del cranio e nella estrin- secazione delle loro qualità morali hanno sempremai conservato quei ca- ratteri che li rannodano al grande stipite ariano sì ampiamente sparso sopra tanta parte dell’ Asia e dell’ Europa , il Ligure invece è rimasto avanzo solitario di un’altra stirpe, che ha serbato in gran parte fino a’ dì nostri la sua impronta originaria, la quale come lo distingueva in antico, così anche al presente lo differenzia da tutti gli altri abitatori della Pe- nisola. — 3 $ 4. Tipo ligure odierno desunto dalla forma del cranio degli abitanti attuali della Liguria e del Piemonte. Fin dal secolo XVI. Vesalio avea fatta l’ osservazione , che il cranio dei Genovesi, simile in parte a quello de’ Greci (Greco-Slavi?) e de’ Tur- chi, era di forma presso a poco rotonda: Genuensium (egli scriveva) et magis adhue Graecorum et Turcarum capita globi fere imaginem expri- munt (1); ed il Soemmering che cita questo passaggio , con manifesto errore, allarga a tutti gli Italiani ciò che l’insigne anatomico di Bruxel- les asseriva de’ soli nativi della Liguria (2). Ma da Vesalio in poi niun altro ch’ io sappia avea ripetuto quelle osservazioni , e della differenza che il cranio ligure separa da quelli de’ rimanenti popoli italiani non sì era tenuto più proposito. L'argomento però è tale che non può non interessare l'antropologia, onde io spero non sieno per riuscire inutili questi studî diretti ad illustrare un tema che io credo essere meritevole di richiamare tutta l’attenzione de’ cultori di questa scienza. Noi non dobbiamo cercare oggi Liguri al di fuori de’confini della Li- guria propria e del Piemonte. È quivi, in queste che la nuova circo- scrizione del Regno chiama antiche Province, che il tipo ligure si è con- servato qual era ne’tempi più vetusti, Non è scomparso all’intutto oltre la Magra, tracce ancora se ne vedono sulla sponda destra del Varo; il Ticino lo divide dal lombardo, ma gli abitanti sul territorio fra que- sto fiume e la Sesia, come que’che vivono fra il Po e la Trebbia, han già molto perduto del carattere nativo, e la purezza del sangue ligustico ve- desi appannata-da straniero mescolamento. Medesimamente su per le Alpi e nelie alte valli del Piemonte si con- fonde in modo col gallico da non potersi fissare i confini delle due raz- ze, benchè fra i Grigioni, nell'antica Rezia, in molte di quelle valli di difficile accesso vi perduri tuttavia quasi immutato, e i cranî di quegli alpigiani offrano anche al presente la conformazione brachicefala che il Baer ha studiata accuratamente ne’cranî raccolti intorno a Coira (3). Dove (1) De fabrica corporis humani, Lib.4, cap. V. (2) De corporis humani fabrica, t.1, $. 63. (3) Ueber den Schidelbau der Rhitischen Romanen. Bulltin del’ Académ. de S.t Petersbourg, 1859. * ea però il tipo ligure è tuttora vivo, ed imeneo straniero non ha potuto al- terarne la purezza nativa, anche il cranio presenta caratteri che lo distin- zuono a primo aspetto dalle forme che sono proprie de’ rimanenti abita- tori dell’Italia. Vi ha qualche lieve differenza fra i teschi della Liguria propria e que’ delle Province Piemontesi, ma il tipo è identico in en- trambi, e non varia che in alcune particolarità delle quali or ora faremo menzione. Il cranio ligure (e qui intendo parlare così de’ liguri come de’ pie- montesi) è brachicefalo, onde il suo diametro antero-posteriore è più breve in comparazione del trasversale che non sia negli altri cranî ita- lianì, i quali tutti appartengono, meno qualche rara eccezione, al tipo do- licocefalo. Nei liguri quel primo diametro non eccede in media la lun- ghezza di 172 millim., mentre il secondo raggiunge quello di 149 */. mil- limetri, onde il rapporto del secondo col primo considerato come 100 è nella proporzione di 86,74, laddove negli altri cranî italici quel rap- porto è nella proporzione di 76,€3 (1). Il profilo della esterna superficie della calvaria del Ligure , dalla in- serzione delle ossa nasali sul frontale fino al mezzo dell’occipite, è presso a poco emisferico, e solo alquanto più inarcato in quella parte di essa che corrisponde alla porzione media della sua metà posteriore, ove il cranio si mostra più elevato , e d'onde declina rapidamente verso l’ occipite. Negli altri cranî italici la linea del profilo circoscrive nettamente una figura ovale il cui diametro maggiore od antero-posteriore supera il mi- nore o biparietale di */. e più della sua lunghezza. Parimenti ne’ teschi liguri la circonferenza è quasi sferica, ellittica negli altri Italiani, nei quali eziandio è maggiore, misurando essa in media, in 20 cranî da me studiati, 524 */, millimetri, mentre ne’ liguri non l'ho trovata in media mai maggiore di 513 ‘/. millimetri. Sì sa che ne’ teschi italici l’occipite è sempre proeminente. Ciò non in- contra di osservare ne'ligustici, il cui occipite è quasi sempre depresso. Manca non di rado della linea semicircolare, e più spesso della protu- beranza occipitale che è sì comune in tutti gli altri cranî della Penisola. Nei quali anche le gibbosità occipitali corrispondenti alle fovee del cer- (1) In 10 cranî, di cui cinque romani ed altrettanti etruschi, misurati dal Maggiorani in quella sua elaborata memoria « Nuovo Saggio di studi craniologici sull’ antica stirpe romana e sulla etrusca » la proporzione media della larghezza alla lunghezza è di 75,70. Ne'soli cranî romani è di 74,46; negli Etruschi di 76,94. =—.i- velletto sono quasi orizzontali alla base del cranio, laddove ne’ teschi li- guri le medesime gibbosità sono piccole e costantemente inclinate, sotto un angolo più o meno aperto , sopra quel piano. Altra particolarità propria del teschio ligure ella è, che se, privo della mascella inferiore, si ponga per la sua base sopra una superficie piana, la porzione basilare dell’ osso occipitale poggia su quel piano, al quale raramente giungono gli apici delle apofisi mastoidee, mentre negli altri cranî italici è quasi sempre per mezzo di quelle apofisi che la parte po- steriore del cranio poggia per la sua base, rimanendo sollevata di alcune linee al di sopra di quel piano su cui posa il teschio la porzione basilare dell’ occipitale. Il gran forame occipitale è quasi sempre tondo ne’ cranî liguri, ovale negli altri; ma ne' primi è posto alquanto più indietro, ed ordinariamente il suo margine anteriore è sempre di alcuni millimetri più ravvicinato ad una linea che discende verticalmente dall’ occipite, che non all’ante- riore margine alveolare. L’inclinazione di questo forame è anche diversa ne’ due tipi craniali, essendochè in tutti gli italici il suo orlo anteriore di poco si allontana dal piano dell’orlo posteriore, mentrecchè ne’ liguri si trova sollevato costantemente da quel piano per un angolo non mai minore di 25 gradi. La base del cranio ligustico è larga , soprattutto nella sua parte me- diana e posteriore. Anche l’ altezza è maggiore che ne’ rimanenti cranî italiani, e questa sua maggiore elevatezza non è già in quella parte media del teschio che corrisponde in linea retta dal vertice al margine anteriore del fo- rame occipitale, ma nella sua parte posteriore che in linea verticale cor- risponde col margine posteriore del gran forame occipitale. E se inoltre il cranio ligure sì poggi sopra una superficie orizzontale, in modo che il margine inferiore della mandibola riposi su quel piano, e si divida in due per mezzo di una linea verticale che passi fra i meati uditivi, questa linea non taglierà il cranio in due metà presso a poco eguali, come in tutti i teschi italiani, ma lo dividerà in due parti molto ineguali fra di loro ; la metà appartenente alla parte posteriore del teschio sarà maggiore di quella che appartiene alla sua porzione ante- riore. Da che è evidente come il cranio ligure raggiunga il suo mag- giore sviluppo nella parte posteriore ed inferiore , mentre nel restante degli Italiani, il maggiore sviluppo craniale è nella parte mediana ed anteriore. — Se La fronte è larga, non ristretta verso le tempia, ma con curva tondeg- giante si accompagna alle ossa parietali e temporali. La faccia è ampia e spianata, ed oltracciò offre un tipo che non è quello al quale si conformino i teschi de’ rimanenti popoli italiani, av- vegnacchè nel ligure la faccia è quasi sempre altrettanto larga quanto è lunga, mentre negli altri italici la lunghezza supera costantemente di un decimo la larghezza. Le vere proporzioni tra la larghezza e la lun- ghezza della faccia sono : Nel cranio ligure come 100 : 100,107 Negli altri cranì italici 100 : 110,100 Oltracchè le orbite sono anche fra loro più distanti che non negli altri cranî italiani, lo spazio della glabella sempre maggiore, le arcate alvea- lari più tondeggianti , più piano e più largo il mento, e più lontane fra loro le parti laterali ed ascendenti della mascella inferiore. V' ha però fra i cranî della Liguria e que’ del Piemonte questa diffe- renza, che i primi sono sovente meno alti, hanno non di rado più lungo il diametro fronte-occipitale , più breve il trasversale , la faccia anche meno lata e più ristretta verso il mento, la linea occipitale quasi sempre rilevata, l’occipite spesso protuberante, mentrechè nei secondi il tipo si mostra più costante, e le varietà sono più rare ad incontrarsi. Queste differenze io credo si debbano ripetere dalla maggior copia di sangue estraneo penetrato ne’ Liguri marittimi, che non in quelli che, vivendo in regioni più interne, sono stati meno esposti a commistione di stirpe. È vero che anche fra costoro si mescolarono in grandi propor- zioni elementi eterogenei, ma il tipo non ne è stato gran fatto modificato, imperocchè nella maggior parte della popolazione piemontese rimase pre- dominante il cranio brachicefalo, ed anche in que’teschi la cui forma si mostra dolicocefala, manca sovente la linea occipitale, e l’occipite vi è quasi sempre deficiente di protuberanza. Presso gli abitatori della co- stiera ligure invece , pe’ facili commerci ch’ eglino han sempre mante- nuto con tutti i popoli littorani del mediterraneo, le relazioni loro con altre genti essendo state molte e frequenti, il tipo craniale ha subìto più notevoli modificazioni, e si è avvicinato al dolicocefalo in più larghe pro- porzioni che non sia avvenuto a' Piemontesi; perciò il cranio del Ligure odierno, anche quando la sua forma è brachicefala, è meno elevato nella (ol) DI Og sua altezza verticale, ha sempre apparente la linea occipitale, frequente la protuberanza dell’ occipite, spesso quasi orizzontale la direzione delle fovee cerebellose, e la faccia più ristretta nella base e soprattutto verso il mento. Non ostante ciò, e non ostante quella maggior tendenza del tipo liguslico verso la forma comune italiana, in tutti i cranî liguri, an- che in quelli che pel loro indice cefalico van collocati fra i dolicocefali, la metà posteriore è sempre predominante sull’ anteriore, il forame oc- cipitale situato più indietro che negli altri cranì italiani, e l'inclinazione del suo piano sempre maggiore ; la porzione basilare dell'osso occipitale sempre rigonfia, la fronte più ampia, la faccia più larga nella sua parte superiore, e gli angoli interni delle orbite più distanti tra loro. In quali proporzioni poi il cranio ligure si conservi al presente, in Li- guria e in Piemonte, col tipo dominante nella Penisola , io non saprei determinarlo con dati precisi, ma dalla comparazione di molti cranî da me osservati io credo potersi ritenere , che in Piemonte il tipo brachi- cefalo è proprio delle due terze parti o almanco delle tre quinte parti, ed in Liguria di oltre alla metà della popolazione. Nell’uno e nell’ altro pae- se quel tipo è più comune nelle classi inferiori del popolo ; in Liguria signoreggia più sui monti che nelle regioni littorane, ed in Piemonte più nelle Province che avvicinano la Liguria e nelle centrali, che in quelle che si congiungono con l’ Emilia e la Lombardia e, per le valli alpine , con la Svizzera e con la Francia. Non mancano però fra Liguri e Piemontesi forme craniali decisamente italiche, le quali son proprie di quel tipo che i più degli antropologi son usi di chiamar romano , e che, più o men variato, è comune a tutta l’ Italia, ma elleno vi sono in grande minoranza, e dimostrano col loro piccol numero, che l’ antico cranio ligure in Piemonte ed in Liguria si è conservato sempre dominante, e che anche a’ dì nostri non mostrasi diverso da quello che esso era ne’ tempi più vetusti. Io do nel seguente specchio le misure tanto de’ cranî ligustici antichi, quanto di alcuni moderni, de’ quali 4 appartenenti alla Liguria propria ed i rimanenti ad individui delle Provincie piemontesi. Vi aggiungo le mi- sure di altri 20 cranî italiani antichi e moderni, affinchè meglio possa valutarsi la differenza che intercede fra i teschi liguri e quelli delle al- tre popolazioni della Penisola. . MISURE DI CRANÌ LIGURI ANTICHI E MODERNI COMPARATE CON QUELL PROPORZ:0 PAESI | CIRCONFERENZA ARCO DIAMETRO DIAMETRO ALTEZZA DIRIERE e la lunghes ’ A «So ° è a Spr rca 33 calcolata comt A QUALI 1 CRANÌ APPARTENGONO OR'ZZONTALE FRONTE-OCCIPITALE || ANTERO-POSTERIORE BI-PARLIETALE VERTICALE ( i ( INDICE CEFAL ii ___.yxywl__eem | | _ { Torre della Maina 1° (Prov. di Modena) D.|| 509 355 170 154 132 30,50 = Media Media Media Media Media Media = Torre della Maina 2° (il.). U.......... 519 | 514 370 | 363 172. |(172 156 | 153 132 | 132 30,7 |88,75 Lt 2008 di Sopra (Prov. di Reggio). U.|| 513 365 174 148 132 35,05 { GCNOVA:U a. IT 520 355 | 178 IdI 125 34,83 z SALA ppennini lisci. Ul. e 500 358 168 147 | 130 | : 37,50 = \3 Media| Medi: Metin | Medi: Media| Medio Media | Medi; Media | Media Medin |] = Z ISO e BOSSOBSOSASO 512 [3125 |513*]p]| 345 | 355 [361"a]| 168 | 171 | 172 || 145 | 147 |1497],|| 128 |126%.] 132 |[36,30|35,98 [& Mi irorzzlia. U..." LLA FRONTE Medi: 119 Media 109%|a Media 109 Media 109 A r T ° . . . . La ALTRI CRANI ITALICI ANTICHI E MODERNI (Le misure sono in millimetri *) ORBITE || FORAME n ARCO A R co VIS ALTEZZA OCCIPITALE ra n, || - > gli angoli inferiori della N 3 os|e9 Co della S| ea LUNGHEZZA AURE-MASCELLARE AURE-MENTONIERO MANIDIBOLA BRANCA ASCENDENTE È o) È = È z <|s |&=s|ZÉ 115 229 264 100 58 38 | 43 38| 32 Media Media Media Media Media 121 | 115 267 | 248 307 | 289 106 | 103 62?| 59 » 37 || 35 | 34 110 « 205 » 57 32 36 39 32 113 219 252 ea 60 32| 36|) 38| 31 110 232 237 95 59 36| 37) 33) 31 Media|Media Media | Medio Media | Media Media | Media Media| Media 117 | 113 | 416]| 230 | 230 | ago || 258 | 256 | 273] 95| 97| 103] 6£| 61] 63) 37) 37] 36) 30 » 240 » » » 35 38 37 34 118 234 274 103 69 34| 39) 36| 31 Media Media Media Medio Me liu 113 | 119 242 | 242 278 | 281 108 | 108 69 | 68 Sl 370) 2575 126 951 292 113). 66 33 | 36] 38| 36 120 228 || 272 98 | ah de A SA e > » » » 68 35 | 39] 35.) 32 » 229 » » » 33 41 39 34 | » » » » » 35 42 39 34 123 [Media » |Media 264 | Melia 95 | Media 60 | Media 37| 4o|l 39| 34 119 2427], 271 93 65 » 240 » » » 39 40 34 28 » » » » » » » » » 114 258 276 » » 34| 43|| 37) 30 » 250 » » » 39 39 36 Sl » Media|| 950 273 88 68 dò 39 » » i 20%] —-| Media —— [Media ——- | Media —-| Media 126 260 245 || 293 278 || 114 94 || 65 64, 37| 39] 42| 39 117 250 285 983 60 3L| 35] 35 | 30 125 238 283 96 65 36| 40) 32| 29 125 252 298 104 64 38 | 41] 38 | 36 123 | Media 2438 |Media 293 | Media 81 |Melia 68 |Media 34 37 3l 31 122 248 285 95% |a 64 | » 248 » » » 30) soll 35 | 29 115 240 272 90 62 30) 36) 34| 29 128 250 » » » 36 37 38 28 116 260 298 90 62 33| 4oll 334 31 120 233 266 92 65 36| 36]. 36| 34 116 240 275 103 63 12012 245 278 9 64"), fi—Vol. II. —NoI LARGHEZZA Media 116%], Media il Media 109 Media 108 Relazione etnica fra è Liguri ed altri popoli dell’ Europa. Come il lettore ha potuto notare fin qui il cranio ligure ha caratteri nettamente distinti dagli. altri cranî de’ rimanenti Italiani. Esso appar- tiene adunque ad uno stipite diverso da quello onde deriva la più gran parte della popolazione della Penisola. Fuvvi però un tempo in cui il Li- gure era sparso sopra tutta l’Italia: dall’Alpi al Lilibeo non verano che Liguri, ma al sopraggiugnere delle stirpi Italo-Pelasghe , i Liguri a poco a poco disparvero dalla maggior parte del territorio italiano, e quan- do i più antichi scrittori ci tramandarono le prime autentiche memorie delle nostre genti, già i Liguri erano stati ristretti in più angusti confini, i quali eglino di poi tennero mai sempre, e difesero costantemente con eroico valore. La sorte ch’ebbero i Liguri in Italia toccò pure in altre parti del nostro Continente ad altre schiatte che possedevano estese contrade, e ne furono espulse dagli Ariani che a somiglianza di torrenti impetuosi si allargarono sulla faccia dell'Europa. Gli Iberî, che tutto induce a credere essere un ramo del medesimo ceppo onde germogliarono anche i Liguri, scomparvero essi pure in mezzo a’ nuovi tipi che si successero nella Penisola Spagnuola. Poche loro reliquie vivon oggi sparse nella Navarra, nelle Province d’ Alava, di Guipuzcoa e di Biscaglia, e nelle valli pirenaiche de’ circondarì di Bayonne e di Mauléon in Francia, e sono gli Escalduni (Escualdunae) 0 i Baschi, i quali riuniti compongono una popolazione non maggiore delle 7 ad 800 mila anime. In molti di costoro non più scorgesi al presente quel tipo ch'era pro- prio de’ vetusti Iberi, avvegnacchè sienvi oggi fra i Baschi uomini di alta statura, di pelo biondo, d’occhio azzurro e di bianca carnagione (1), ma nel maggior numero , e singolarmente in que’ che vivono nel territorio spagnuolo predomina tuttora una statura mezzana, una carnagione bru- (1) De Belloguet, Ethnogenie gauloise. Types Gaulois et Celto-Bretons. Paris, 1861, p. 212. — F. Michel, Histoire des Races maudites de la France et de l'Espagne, 1847, t. Il, p. 49, lo afferma pel paese di Soule. — 43 — . netta con capelli ed occhio di color nero. Non ostante ciò, il lor cranio rivela una gran commistione con sangue semitico ed ariano, ed io credo che attualmente e’ non rappresentino che in piccola parte il vero tipo degli Iberi primitivi, quantunque il loro idioma siasi conservato poco disforme da quello che era favellato da’ più antichi abitanti della Spa- gna, non meno che dalle vetustissime popolazioni delle Gallie e del- l’Italia. Fin qui erasì opinato che il cranio degli Escalduni fosse in generale brachicefalo. Asserivalo il Retzius dietro osservazione di due teschi da lui posseduti (1); assentiva a quella opinione il Gosse (2), e vi aderivano altresì il Nilsson (3) e il Quatrefages (4), ma una circostanza fortunata, la quale permise al Broca , illustre segretario della Società di Antro- pologia di Parigi, di estendere le sue indagini sopra una serie di 60 te- schi baschi raccolti da lui e dal Gonzalez Velasco in un cimitero della Provincia di Guipuzcoa, diede occasione a quella di lui egregia disser- tazione « Sur les caracteres du crine des Basques », la quale trovasi in- serita ne’ volumi III e IV de’ Bolleitini della Società di Antropologia di Parigi (9). Il Broca ha osservato che il cranio basco (almeno que’della località onde fu raccolta l’ intera serie) nella sua gran maggioranza è dolicoce- falo, e la brachicefalia non vi è rappresentata che nella proporzione di 20 per °/,, imperocchè sopra que'60 cranî soli 12 sono più o meno bra- chicefali, e i rimanenti tutti dolicocefali (6). Egli però ha notato , che non ostante il dolicocefalismo della maggior parte de’ cranì biscaglini, la loro forma non è l’europea, e ch'e’ si distinguono, per caratteri pro- prì, da tutti i teschi di stipite ariano. Egli ha avvertito che ne’cranî ba- (1) Blick pa Ethnologiens narvarando Standpunkt, 1857, p. €; e in lettera scrittami da Stoc- colma il 3 gennaio 1853. (2) Essai sur les déformations artificielles du crane, p. 45. (3) Report of the British Association, in Nott and Gliddon, Indigenous Races of the Earth, p. 248. (4) Revue des deux Mondes, 15 mars 1850. Cénac-Moncaut lo afferma per gli Aragonesi, i quali (egli dice) rassomigliano a’Guasconi dell'Aquitania, ed a’nativi del Comminges e del Bigorre. Hi- stoire des Pyrénées, t.1, p. 432. (5) Tom. III, p. 579-94; tom. IV, 38-72. (6) « Il n'y a eneffet dans la collection qu’un très-petit nombre de crànes brachycéphales. Le N. 24 qui est le plus brachycéphale de tous, n’a pas plus de 83,24 d’indice céphalique; le N. 34 a 82,73; sur cinq crànes, l'indice est compris entre 841 et 82, sur cinq autres entre 80 et 81; les au- tres sont plus ou moins dolichocéphales, et l'indice céphalique moyen des 60 crànes est de 77,67 ». Bulletins cit., t. III, p. 582, * . — 44 schi, a differenza di ciò che si osserva quasi costantemente ne’ crani di Europei, o non esiste alcuna traccia della protuberanza occipitale, o quan- do esiste ella è sì poco apparente che appena si rende manifesta, e che rari sono i teschi ne’ quali si mostri veramente sviluppata. Egli infatti ha trovato che di que’'60 cranî 13 non offerivano traccia nè di linea, nè di protuberanza occipitale, 17 mancavano di protuberanza e non presen- tavano che la sola linea semicircolare; in 10 mostravasi appena la pro- tuberanza, in 17 sporgeva mediocremente, e non era veramente conspi- cua che in soli 8 casi, onde « sì può conehiudere (sono parole del Broca) essere il poco sviluppo delle linee occipitali e della protuberanza occipitale esterna uno de’ caratteri della razza basca (1) ». Un altro carattere del cranio biscaglino, ch’ io trovava parimenti nei liguri antichi e moderni , egli è che se il teschio si divida in due metà per mezzo di una linea verticale che da’ forami uditivi si elevi fino al vertice, la metà posteriore è quasi sempre maggiore dell’ anteriore , d'onde una predominanza de’ lobi mediani e posteriori del cervello sopra i lobi anteriori. In altra particolarità ancora i cranî baschi, al pari de’liguri, si diffe- renziano da'cranî europei, ed è il poco sviluppo delle fovee cerebellose corrispondente al niuno o lievissimo della protuberanza occipitale ester- na. Per.questo carattere, non meno che per la piccolezza della lor ma- scella superiore e per l’ atrofia relativa della protuberanza occipitale, benchè i cranî baschi a forma dolicocefala per altri rispetti si avvicinas- sero agli africani, pure se ne discostano grandemente, come si allonta- nano altresì da tutti quelli delle razze di Europa (2). Le osservazioni del Broca parvero al Pruner-Bey meritevoli di qual- che appunto , imperocchè molte teste di Baschi viventi, misurate con accuratezza matematica dal sig. A. d’Abbadie, presentarono il tipo bra- chicefalo predominante sopra il dolicocefalo, ond’ egli ne conchiudeva che i cranî esaminati dal Broca dovevano appartenere ad una popolazio- ne molto mista , nella quale il tipo iberico era ito dileguandosi ridotto ad una debole minoranza (3). Ed invero anche il Montagu, il quale per- corse la Guascogna francese e spagnuola per raccogliervi elementi sul (1) Ibid., p. 591. (2) Ibid., t. IV, p. 62. (3) Conf. la discussione fattasi nella Società di Antropologia di Parigi il 24 gennaio 1863 sulla Me- moria del Broca ne’ Bullettini della detta Società, t. 1V, p. 33-72. — 19 — tipo fisico de’suoi abitatori, è di credere che il cranio de'Baschi fosse in generale rotondo con un diametro trasversale di poco minore del longi- tudinale (1). Quanto a me, io porto credenza , che non ostante che nei Baschi si sia perpetuato un dialetto dell’antico idioma degli Iberi (e pro- babilmente anche de’Liguri), pure il lor sangue è grandemente commi- sto ad elementi stranieri (soprattutto celtici) in proporzioni assai mag- giori che ne’Liguri, ond’eglino oggidì non rappresentano che in piccola parte la popolazione aborigena della Spagna. Non però il tipo antico vi è scomparso allo intutto : ancora vi durano, in più o men forte misura (singolarmente nelle parti elevate e nelle valli di men facile accesso) i eranî brachicefali; ancora ne’ dolicocefali, risultato dell’ incrociamento con le razze ariane e semitiche, appariscono e si perpetuano alcuni ca- ratteri del tipo iberico ; ancora le forme esteriori del maggior numero de’ nativi delle Province basche ricordano quelle fattezze rappresentate nelle medaglie iberiche , celtiberiche ed aquitane ; ancora i loro carat- teri personali, soprattutto nelle Province spagnuole, concordano con quelli che gli scrittori dell'antichità ci lasciarono descritti appartenenti agli an- tichi Iberi (2). Chi voglia mettere a riscontro tali caratteri con la confor- mazione esteriore degli abitanti delle due Riviere Liguri e di alcune Pro- vince Piemontesi, vi troverà talisomiglianze da persuadersi ancor più della stretta affinità delle due stirpi. Dico delle Province Piemontesi di Cuneo e di Alessandria, avvegnacchè nelle rimanenti Province Subalpine è più frequente incontrar uomini di biondo pelo e di bianca carnagione, benchè sovente forniti di testa brachicefala. Questa varietà che nella Provincia di Torino raggiunge presso a poco la quarta parte della popolazione di- mostra 1’ influenza che fra i Liguri Pedemontani esercitarono le vicine schiatte galliche, le quali mescolandosi ad essi, se non valsero a modi- ficarne la forma del cranio che rimase qual fu sempre ne'’popoli ligustici, (1) Ibid., p. 35. (2) Sono questi i caratteri che assegnano al Basco il Quatrefages, loc. cit.; Homalius d’Halloy, Ra- ces Humaines, 1845, p. 63; Cénac-Moncaut, Hist. cit. 1,430; Moreau de Jonnès, La France avant ses premiérs habitants. Paris, 1856, p. 161; P. Broca, Mem. de la Societé d’Anthropologie de Pa- ris. 1860, p. 19; Maury, Za Terre et l Homme. Paris, 1845, p. 405; Dieffenbach, Origines Eu- ropee. Frankfurt 1861, p. 116, il quale con più precisione degli altri tratteggia i caratteri di que- sto popolo: « Mai haben die heutigen Basken schéine Ziige, runde Schidel, offene entwickelte Stirne, gerade Nase, sehr fein gezeichneten Mund und Kinn, ovales, unten etwas schmales Gesicht, grosse schwarze Augen, schwarze Haare und Brauen ,oraunlichen, schwach gefàrbten Teint, mittlere, aber vollkommen proportionierte Grosse, kleine gutgeformte Hinde und Fiisse ». S| SS lasciarono fra questi la bianchezza della loro carnagione, il color biondo de’loro capelli e l’azzurra tinta de’ loro occhi. Le valli d’ Aosta, di Susa e di Pinerolo subirono maggiormente quella mischianza forestiera, e non è raro perciò di vedere fra i nativi di quelle valli molte teste dolico- cefale, che sono la espressione più evidente della preponderanza del sangue celtico in quelle contrade. Anche un teschio antico che io con- servo nella mia collezione donatomi dal mio egregio amico cav. Anto- nio Garbiglietti, e che si ottenne da una tomba aperta molti anni addietro nell’agro Canavesano, e che ha le fattezze e l’ aspetto di un cranio cel- tico, è pruova che conferma a sua volta come in antico e Liguri e Celti vissero commisti in quella valle della Provincia di Torino. Forme simili ho trovate in altro cranio che probabilmente risale al secolo XIV rinvenuto in Rivarolo Canavese in alcune escavazioni fatte praticare l’anno scorso dal sig. conte Carlo Toesca di Castellazzo nel terreno attiguo alle rovine che ancora rimangono dell’antichissimo castello, feudo e ad un tempo abitazione de’conti di Castellazzo e S. Martino, signori di Rivarolo. Nelle Gallie altresì primamente e innanzi a’ Celti vissero Liguri ed lberi, ed anche dalla maggior parte delle Gallie scomparvero que’ primi abitatori. Se non che i Celti che vi si posero a stanza e ne fecero loro sta- bile dimora non assorbirono dappertutto il tipo preesistente, e chi guardi bene addentro nella popolazione di quel vasto paese vedrà in alcune Pro- vince l'elemento indigeno esser tuttavia vigoroso, e contrastare al celtico la preponderanza. Benchè non possa dirsi l’ uno scevro dell’ influenza dell’ altro , rimase però a ciascuno tanta originalità da rendersi affatto distinto e separato dall’ altro. È facile riscontrare qua e là i due tipi in quasi tutti i Dipartimenti della Francia, massime in Provenza” soprat- tutto nelle Linguadoca. Se non che è da osservare , che anche i Latini rivendicano gran parte sul tipo fisico degli abitanti della Gallia meridio- nale. Questo elemento vi si accumulò in vaste proporzioni, onde vi si è potuto conservare fino a’ dì nostri, e s'incontra frequentissimo nelle fisonomie de’ Francesi del mezzogiorno. Penetrato da questo dualismo che da per ogni dove presenta l’odierna popolazione della Francia, e non sapendo rinvenirne altrove la vera spie- gazione, suppose W. Edwards (al quale molti fecero eco e batterono le mani e dentro e fuori di Francia) la razza celtica divisa in due rami, il gallico (bruno), ed il cimrico (biondo), e perciò conchiuse che una razza pura possa avere due tipi, due forme diverse di testa, due caratteri distinti — 41 - di fisonomia! (1). S'egli avesse posto mente a questo, cioè, che prima della venuta de’ Galli esistevano altre genti nell’occidente dell’ Europa, e che quelle genti non potevano essere state tutte distrutte, nè annientate dai nuovi venuti , invece di creare un tipo bruno di Galli , che le testimo- nianze unanimi degli scrittori smentiscono , avrebbe potuto di leggieri in quel tipo riconoscere il popolo che abitava la Gallia pria che i Celti venissero ad occuparla. E poichè quel tipo non era diverso nè dal ligu- stico, nè dall’ iberico, avrebbe altresì potuto conchiudere che o gli uni o gli altri erano stati ì primi che aveano abitato nellé terre di Francia. Ciò han dimostrato recentemente con argomenti di ogni sorta il signor P. Broca (2), il signor H. Martin (3) e il barone Roget de Belloguet nella sua Ethnogénie Gauloise, onde io credo non esservi al presente chi più voglia parteggiare per le origini gallo-cimriche dell’ Edwards. Tali deduzioni che la semplice osservazione de’due tipi, bruno e bion- do , sparsi per le Gallie rende incontrovertibili , sono avvalorate ancor più dalla presenza de’ teschi rinvenuti nelle vetuste necropoli della Fran- cia, e nelle quali talora s' incontrano teschi brachicefali e dolicocefali confusi insieme, i quali fanno fede dell'alleanza ch’ erasi stretta fra le popolazioni celtiche e gli aborigeni della contrada; talaltra sì trovano due strati di cadaveri, l’uno sovrapposto all’altro e divisi da un letto di terra , il che fa vedere esservi stato un intervallo fra la prima e la se- conda tumulazione, ed allora lo strato superiore raccoglie insieme te- schi dolicocefali e brachicefali, mentre l’ inferiore racchiude soltanto eranî brachicefali (4), i quali erano appunto i cranî del popolo più an- tico, non allo intutto scomparso oggi dalla Francia, e la forma de’ quali è sì caratteristica del tipo ligure nella Liguria e nel Piemonte. (1) Sur les Caracteres physiologiques des Races Humaines considerées dans leur rapport avec l’hi- stoire. Paris, 1829, pag. 65. Type Gall: « Tète arrondie de manière à se rapprocher de la forme sphérigne, front moyen, un peu bombé et fuyant vers les tempes, yeux grands et ouverts; le nez, à partir de la dépression à sa naissance, est à peu-près droit, c'est à dire qu'il n’a aucune courbure prononcée ; l’extremité en est arrondie ainsi que le menton; la taille est moyenne.— p. 66.— Type Kymryque: « Tète longue, front large et élevé, le nez recourbé, la pointe en bas et les ailes du nez relevées, le menton fortement prononcé et saillant, la stature haute ». (2) Recherches sur l’ ethnologie de la France. Paris, 1860 (3) Les Races brunes et les Races blondes; Rèvue nationale et étrangère, mars, 1861. (4) Tale era la disposizione degli ossami scoperti nel 1845 presso al Dolmen di Meudon. « Les deux types occupaient des rangs differents. Le type gall (tondo) était situé plus profondement, tandis que le type hymry (lungo) paraissait placé plus superficiellement ». Serres, Comptes-Rendus de l'Acad. des sciences de l’ Institut, 1845, t. XX, p. 618-19. = Ap Se volgiamo uno sguardo alla popolazione delle Isole Britanniche, ve- diamo ripetersi anche ivi , sotto i nostri occhi, i medesimi fatti che ci hanno mostrato le Gallie ; un tipo nuovo dolicocefalo sostituito ad un antico brachicefalo, ma non siffattamente che non rimanessero ancora potenti vestigia del vecchio tipo nel popolo presente. Le attente investigazioni sui cranî antichi fatte in quel paese, e in- nanzi a tutto la pubblicazione dell’insigne opera de' Crania Britannica de’signori Davis e Thurnam (1), hanno messo fuori dubbio avere abitato quelle Isole, ne’tempi antestorici, una popolazione fornita di cranio bra- chicefalo somigliante a quello ch'era proprio degli aborigeni delle Gal- lie, e che è stato sempre caratteristico de’ Liguri. Questa forma craniale che in Francia ed in Italia è quasi sempre associata ad una tinta bru- netta, ad occhio e capello nero e a una statura non superante la mez- zanità, non era neanco scompagnata da tali caratteri nelle Isole Britan- niche , imperocchè sappiamo che una popolazione brunetta era ivi così distinta nel I° secolo dell’ Era Cristiana, che Tacito ebbe a descriverla enumerando le varie stirpi che ai suoi tempi popolavano quelle Isole. Dopo Tacito le invasioni germaniche per cinque secoli continuatesi nella gran Brettagna modificarono potentemente il tipo indigeno, ma non ostante che il cranio sferico non si osservi se non raramente e l’ occhio sia quasi sempre o verdastro o azzurrognolo , di quell’antico tipo rima- sero ancora in molte parti d’ Inghilterra, di Scozia e d’ Irlanda la mez- zana statura e il color bruno de’capelli (2); caratteri che ricordano a Nel Museo della Società di Antropologia di Parigi sono stati raccolti presso a cinquecento cranî fran» cesì fra antichi e moderni, di origine autentica e di date approssimativamente certe. ln queste di- verse serie di crani, egualmente che ne’teschi raccolti dal signor Brullé, di Digione, dalle sepolture de’ tempi de’ Burgundi, si sono trovati costantemente, fra le forme intermedie, i due tipi brachicefalo e dolicocefalo entrambi rappresentati da tanto maggior numero di specimen, quanto è più remota l’epoca alla quale appartengono. (1) Crania Britannica. Delineations and Descriptions of the Skulls of the Aboriginal and Early Inhabitants of the British Islands. London, 1856, e seg. 4°.— Conf. anche Prichard, Researches into the physical History of Munkind.t.I, p. 305, 4% ediz., t. 111°, p. 199, 3* ediz.—J. B. Davis, On the Crania of the Ancient Britons; ne’ Proceedings af the Acad. of Natural Sciences of Phila+ delphia, febbraio, 1857, (2) Price, An Essay on the physiognomy and physiology of the present Imhabitants of Britain. London 1829.— Prichard, Researches, III, 196 e seg.—Jones, Vestiges of the Gaels in Gwynedd. 1851, p. 72.—Beddoe, A Contribution to Scottish Ethnology. 1853.—Phillips, Rivers, Mountains and Sea Coast of Yorkshire. 1853, p. 261.—Massy, Analytical Ethnology, on the mixed Tribes in Great Britain and Ireland eramined. London, 1855, passim.— Crania Britannica, p. 53, nota.— De Belloguet, Ethnologie Gauloise, passim. Rea) primo aspetto i Siluri di Tacito, e con essi altresì gli Iberi ed i Liguri e gli aborigeni preceltici della vicina Gallia. Questo tipo brachicefalo, che riappare ancora qua e là in Germania, e spicca in mezzo al dolicocefalo che è sì comune fra gli odierni Teutoni, lasciò anche tracce fra costoro come in Italia, nelle Gallie e nelle Isole Britanniche. Gli antichi cranî che si sono raccolti in Alemagna, alcuni deformati da compressione fronte-occipitale (cranio di Feuersbrunn presso Grafenegg e di Atzersdorf presso Vienna), altri no (cranio di Plau nel Meklemburgo), sono quasi tutti brachicefali (1), onde non è dubbio che anche quivi avesse abitato pria de'Celti e de' Germani quel medesimo popolo che innanzi a tutti avea posto sua dimora nell’ Europa meriggia ed occidentale. Nè le vestigia ne sono oggi tutte scomparse, avvegnac- chè non è raro di vedere cranî corti e tondi nella Germania settentrio- nale, e in maggior numero ancora nella meridionale (come in Isvizze- ra) (2), ove in alcune contrade il teschio degli abitanti sembra essere in maggioranza brachicefalo, se ne giudichiamo dalle descrizioni e mi- sure che ha date il D." A. Ecker di alcuni cranî del villaggio di Bollsch- weil presso Freiburg e di parecchi altri delle regioni elevate (Oberland) del badese (3). Altrettanto può dirsi della Scandinavia, ove se al presente rare vesti- gia s'incontrano di tipo che non sia teutonico, nelle antiche sepolture però è frequentissimo trovare i cranî brachicefali di quella vecchia razza che scomparve dalla maggior parte dell’ Europa sotto l’ influenza prepon- derante delle schiaite pelasgica, celtica e germanica (4). Ma se il nativo (4) Il cranio di Plau nel Meklemburgo è decisamente brachicefalo; è lungo dalla glabella all’ oc- cipite 65” poll. inglesi e da una protuberanza parietale all’altra 5” 5‘ (millim. 168 e 141). Ved. Schallhausen, nella Natural History Review. 1861; C. Blake, On the Crania of Ancient Races, nel Geologist. 1862, p. 209.— Gli altri cranî deformati e comunemente creduti Avarici sono stati an- che osservati e descritti dal Retzius in una sua Memoria pubblicata negli Atti dell’ Accademia delle Scienze di Stoccolma pel 1844, e dal Fitzinger nelle Denskriften der mathem. naturwisch. Klasse der Wiener Akademie in Jahre 1853. (2) « Bei nòrdlichen Deutschen (così il Baer) die Breiten-Dimension schon etwas mehr entwickelt zu sein pflegt. Bei den sidwestlichen Deutschen nimmt aber die Breiten-Dimension auffallend zu, und in der Schweiz sind viele Kòpfe gerade zu brachycephal zu nennen ». Uebder einen alten Schidel aus Mecklenburg , etc. Bulletin de V Academie de S.° Petersbourg, t. IV, 1863. (3) Crania Germanie meridionalis occidentalis. Freiburg, 1863, 4°, I, Heft. p. 12-15, TavAViaVan (4) Eschricht, nel Dansk Folkeblad, 15 Tbre 1837, p. 114; Nilsson, Skandinaviska Nordens Ur- Invinare, ett forsòk i comparativa Elhnographien. Cristiania, 1838; Retzius, in Muller’s Archiv, Atti — Vol. IH.—N.0 1. 7 pese) Scandinavo non serba oggi più tracce di quel tipo aborigeno della sua contrada, non però si spense all’ intutto quell’ antica razza nel setten- trione dell'Europa, ove i Finni (e fors'anche i Lapponi), benchè in parte frammisti a sangue germanico, rappresentano tuttora gli avanzi viventi di quella prisca gente che innanzi alla venuta degli Ariani signoreggiava sopra sì gran parte del Continente europeo. I Finni, se ne togli il color biondo o gialleggiante del lor capello e l'azzurro più o men fosco del lor occhio (1), caratteri che i frequenti con- nubî scandinavi han propagato nella discendenza mista di quel popolo (2), nella forma del teschio non sì discostano gran tratto nè da que’cranî che si sono dissepolti dalle più antiche tombe dell’ Europa, nè da que’ che son proprî delle popolazioni liguri dei giorni nostri. Anche il teschio de'Finni è brachicefalo; anch'esso ha una forma quasi sferica e l’occipite poco o nulla sporgente. La sua fronte è larga e non raramente elevata, grande altresì la distanza fra i zigomi e fra gli angoli della mascella in- feriore, onde la faccia è quasi altrettanto larga che lunga , ed ha la fi- gura quadrata, come ne’ cranî ligustici antichi e moderni. L'arco mascel- lare superiore è più tondo che ovale, sporgendo un po’ all’ esterno il suo margine anteriore che dà a quella mascella un legger grado di pro- gnatismo che non è raro neanche fra i Liguri. Il cranio è parimenti alto, largo nella sua base, soprattutto fra le apofisi mastoidee e dietro le me- desime; e se diviso in due metà mediante una linea verticale che dal fo- rame uditivo s’innalzi fino al verlice, la metà predominante non sarà già l'anteriore, ma sì la posteriore come in tutti i cranî baschi e ligustici (3). Nè la forma sola del cranio mostra affinità fra le stirpi finniche e la li- gustica. Noi abbiamo già innanzi veduto che l’idioma iberico, di cui il basco è rampollo vivente, era comune agli Iberi ed ai Liguri, e da que- 1849. — Nott and Gliddon, Indigenous Races of the Earth, p. 292 e seg.; Nicolucci, Delle Razze Umane, t. I, p. 187-88; Van der Hoeven, Catalogus Collectionis sue Craniorum diversarum Gen- tium. Lugd. Batav. 1860, p. 63.— Si attende con desiderio la promessa opera del Busk che spargerà molta luce sull’antica craniologia dell’ Europa, ed avrà il titolo di « Crania Prisca ». (1) Fennones (scriveva Linneo) corpore toroso, capillis flavis, prolivis, oculorum iridibus fuscis. Fauna Suecica, 1761, I. (2) Nicolucci, Razze Umane, 1I, 16-17 , (3) Huek, De Craniis Esthonum Commentatio anthropologica, qua viro illustrissimo J.T. Busch, doctoris dignitatem impetratam gratulatur ordo medie. Universitat. Dorpatensis. Dorpati Livono- rum, 1840. — Retzius, Ueber die Schadelformen der Nordbewohner, in Muller’s Archiv, 1845 ; J. Van der Hoeven, Beschrijving van eenen Magyaren-en van eenen Esthlander Schedel. ca bile sta comunanza abbiamo tratto argomento della consanguineità origina- ria delle due genti. Or se raffrontando il parlar basco col sermone dei Finni vi riscontriamo appigli ed analogie, abbiamo in ciò un’altra pruo- va, oltre quella della similitudine del cranio, della parentela che strin- ge insieme i Baschi (Iberi), i Liguri e le stirpi Uraliche o Finno-Ugoria- ne. L’ idioma basco in effetti , il quale non mostra affinità di sorta con alcuno de’ parlari de’ gran ceppi semitico ed indo-europeo, si è trovato da distinti filologi esser connesso, per la sua natura polisintetica e per altre sue particolarità grammaticali , con le favelle del gruppo finno-uralico, le quali presentano quello stesso carattere di agglutinazione, benchè in minor grado, che già fu notato nel biscaglino con tanta copia di erudi- zione da quel gran filologo che fu Guglielmo de Humboldt (4). Questi rapporti fra il sermon basco e gli idiomi finni intraveduti in- nanzi a tutti dall’Arnt (2), ed avvalorati di poi da quel potente ingegno del Rask (3), che annunziò il primo quell’opinione oggimai accettata quasi unanimamente, essere stata la nostra Europa pria degli Ariani popolata da gente di schiatta finnica o turaniana, furono fecondati dall’Adelung (4), Dobrowsky (3), Schaffarik (6), Prichard (7), Keyser (8), Maury (9) ed altri molti, ed hanno avuto al dì d’oggi più ampia dimostrazione dalle diligenti investigazioni del Max Muller(10) del Charencey(11)e del principe C. Luigi Bonaparte (12). Quest'ultimo applicandosi più specialmente a chiarire le analogie che il basco presenta con le lingue finniche rispetto 1. alla for- mazione del nominativo plurale, 2. alla declinazione definita , 8. alla coniugazione obbiettiva pronominale , e 4. all'armonia e permutazione delle vocali, ha dimostrato : (1) Prufung uber den Untersuchungen ùiber die urbewohner Hispaniens, etc. (2) Veber die Verwandschaft der Europiischen Sprachen. Berlin, 1819. (3) Untersuchungen iiber den Ursprung der alten nordischen Sprache, uberset. Berlin, 1826 , pag. 69. (4) Mithridates, 11° vol., p.9, 12. (5) Literarische Nachrichten, p. 99. (6) Slavische Alterthimer,t.I, p. 88 e seg. (7) Researches cit., t. III, p.8 e seg. (8) In Retzius, Veber die Schadelform. d. Nordbewohner. Muller’s Archiv., cit.p.267e seg. (9) On the Distribution and Classification of tongues, in Nott and Gliddon, Indigenous Races of the Earth, p. 48 e seg. (10) Lectures on the Science of Language. London, 3. ediz. 1862. (11) La langue basque et les idiomes de l’ Oural. Paris, 1862. (12) Langue basque et langues finnoises. Londres, 1862. sere « Essere la formazione del plurale basco identica a quella del lappo- nico del Finmarck e dell’ungherese; « Essere la declinazione definita del mordvino esattamente corrispon- dente a quella del basco; « Potere il basco, il mordvino, il vogulo e l’ungherese esprimere nel loro verbo il subbietto e il regime diretto ad un tempo; « E per ultimo tanto le lingue finniche, quanto il basco sottostare a certe leggi di armonia, per le quali alcune vocali sono seguite o prece- dute assolutamente dalle loro alleate, sicchè una vocale ne chiama im- periosamente un’ altra , e certe vocali non possono ad ogni conto asso- ciarsi a quelle che non sieno armoniche con esse. Vi è però da notare, che la simpatia delle vocali non si manifesta in basco che tra quelle di un gruppo differente, mentre che negli idiomi finnici ha luogo tra le vocali di uno stesso gruppo. Le dure con le dolci e le dolci con le dure è la regola del basco: l’antagonismo. Le dure con le dure e le dolci con le dolci è quella delle lingue finniche: il dualismo (1) ». Addentrandosi ancor più profondamente nello studio comparativo fra il basco e gli idiomi turaniani, il de Charencey ci ha fatto conoscere al- tri particolari onde l’ eskuara si@rannoda con le lingue finniche od ura- liane, e ch’ei riassume con le seguenti parole. « 1. Ciò che ravvicina l’eskuara a’ dialetti dell’ Ural è la formazione, per via di agglomerazione, rimanendo sempre l’idea di relazione indicata per mezzo di suffissi, facilmente separabili dalla parola principale. « 2. La struttura sovente inversa della frase , e la conversione della preposizione in postposizione. « 3. La niuna distinzione tra i generi mascolino e femminile. «4. La poca flessibilità della radice pronominale, onde risulta che la postposizione ha un’origine sostantiva, e che l’uso della congiunzione si trovi ristretto in angusti limiti. « ©, La confusione tra le diverse categorie grammaticali, l’uso del ra- dicale semplice per rendere un’idea di relazione, l’aggiunzione al nome di desinenze di natura addiettiva , il cangiamento di categoria cui van soggetto certi nomi in una parte della loro declinazione. « 6. La mancanza di composti verbali come ne incontriamo nel sanscri- to, e soprattutto di preposizioni addossate al verbo ed al nome. (1) Langue basque et langues finnoises, p. 9 e seg. N E « 7. La repugnanza ad ammettere una doppia consonante iniziale. « 8. Finalmente un’affinità incontestabile ne'nomi più usuali e più im- portanti; in certe forme della coniugazione e della declinazione (1) ». Tuttociò non è veramente una dimostrazione che possa esser priva di ogni controversia, avvegnachè vi ha pure una serie non lieve di diffe- renze che separano nettamente la lingua basca dagli idiomi turaniani ; nondimeno quando si rifletta alle grandi difficoltà che involgono questo argomento, io credo sì possa esser paghi fin qui de’dati generali, ed at- tendere da altri studî e da nuove indagini maggiori pruove e più copiose illustrazioni, le quali io mi penso non potranno mai raggiungere quella chiarezza ed evidenza onde sono fatte manifeste le vicendevoli relazioni de’dialetti ariani o dei dialetti semitici. Quella rassomiglianza della quale abbiamo favellato fra il tipo li- gure ed il tipo finnico non si ristringe mica a' soli Finni della costiera baltica, agli Estonî, a’ Livoniani ed ai Lapponi (probabilmente meticci di Finni ed Iperborei), ma sì estende ancora a tutti gli altri rami che metton capo nel grande stipite finnico , cioè al Bulgaro , al Permico ed all’ Ugoriano , di cui sono parte cospicua gli Ungheresi , ne’ quali pari- menti :il cranio riunisce tutti que’ caratteri che son propri della forma brachicefala (2), e che noi abbiam visto appartenere a’Finni baltici ed ai nativi della Liguria e del Piemonte (3). Un altro cranio che somiglia al finnico, e quindi al ligure, e che fin da Vesalio sapevasi essere di forma rotonda (4) è il cranio de’ Turchi così elegantemente descritto dal Blumenbach nella 1? delle sue Decades Cra- niorum diversarum gentium (1789). « Calvaria fere globosa; occipitio sci- licet vix ullo, cum foramen magnum pene ad estremum baseos cranii (1) La langue basque et les idiomes de l' Oural, p. 21. (2) Van der Hoeven, Beschrijving van eenen Magyaren-en van eenen Esthlander Schedel. (3) È d’uopo ritenere per accertato , che i Finni quali oggi sono han subito notevoli modificazioni nelle loro qualità di natura per l’influenza delle altre razze che gli avvicinano, soprattutto delle stirpi germaniche, slave e mongolliche. Quest ultime, benchè nell’ idioma sì accostino a’ Finni, nella forma del cranio se ne allontanano per molti rispetti, singolarmente per la grandezza, forma e distanza delle ossa zigomatiche , per la notevole larghezza della faccia e la mamfesta prominenza del mento. Conf. C. E. Baer, Crania Selecta et Thesauris anthropologicis Academia Imperialis Petropolitane. 1859. (4) Turcorum capita globìi fere imaginem exprimunt. De fabr. corp. hum., lib. I, c. V.—Insfeld avea detto anch'egli: Amat Belga caput oblonge-rotundum, rotundior Germanis, maxime rotunda figura Turcis placet. De lusibus nature. Lugd. Batav. 1772. Regi IE positum sit. Frons latior. Glabella prominens. Fosse molares leviter de- presse. In universum faciei symmetrica et elegans proportio ». Io non istarò qui a discutere (non è il luogo di farlo) se il Turco debba annoverarsi fra i Mongolli, o non piuttosto fra i Finni a'quali lo avvi- cina di assai la conformazione del suo teschio, ma mi contenterò di fare osservare col celebre Alessandro de Humboldt che « la réunion des Tures, « des Toungouses et des Mongols dans une méme race paraît douteuse « par des raisons physiologiques. Des grandes analogies entre toutes les «langues tartares reconnues dans ces derniers temps ne semblent pas « nécessairement enduire à une parenté généalogique. Quelle difference « entre les crànes kalmoucks et ceux des Tures de Kasan et de To- < bolsk ! (1) ». E qual’ altra differenza (aggiungerò io pure) fra i Mon- golli e i Tongusi , e ciò che a noi tramandarono de’ Baschiri Jacuto e Schamsaddin Dimeschki (XII e XIV sec.) (2), ciò che scrissero dei Kirghizi gli storici cinesi (3) e Rubruquis racconta di Batu , nipote di Gengis-Khan (probabilmente di razza turca) (4), e Marco Polo ci ricorda del capo di quella dinastia, del suo protettore Kublai-Khan (5), e Tchiha- tchef ripete a’ dì nostri de’ Turcomani nomadi, uno de’ rami più puri di questa famiglia (6)! Dopo tuttocciò io non esiterei a vedere ne’ Turchi una famiglia di popoli più prossima a’ Finni che a’ Mongolli , e rispetto al Turchi Osmanlini, non avrei neppure esitanza di vedere in essi, non già (come d’ordinario si crede) Mongolli imbianchili e rigenerati dal san- gue ariano, ma sì una discendenza mista tanto di Turchi, quanto di que- gli Unni che per la bianchezza della loro carnagione furono dagli scrit- - (1) Asie centrale, t. I, p. 394. (2) Frahen, de Basckiris que memorie prodita sunt ab Jbn Fozlan et Jacuto. Petropoli, 1822, pag. 73. (3) Conf. Klaproth, Tableaux historiques de l’ Asie, p.168.—Humboldt, Asie centrale, 1, p.130.— Ritter, Erdkunde, Asien, I, p. 1115. (4) A. de Humboldt fa osservare (Ibid. p. 246) che nella famiglia probabilmente turca di Gengis- Khan, suo nipote Batu avea fattezze talmente europee, che Rubruquis fu sorpreso dalla sua grande somiglianza col fu Monsignor Giovanni de Beaumont, la cui tinta colorita presentava la stessa fre- schezza. (5) Homo admodum pulcher.... faciem habet rubicundam atque candidam , oculos magnos , nasum pulchrum, etc. Lib. 11, c. VIII. (6) Ces peuplades présentent entre elles les mèmes différences que la famille turque en général , c’est-à-dire que celles qui errent dans l’ Anatolie et la Chaldarménie sont, comme les Osmanlins, douées de formes de la race blanche assez pures; tandis que celles du Turkestan ont un visage aplati, des pommettes saillantes et une barbe peu fournie, ce qui annonce un mélange avec le sang mon- gol. In Homalius d’Halloy, Races Humaines, p. 93. - Ae tori bizantini chiamati Eftaliti (1), i quali fin dal secolo V dell’ Era Cri- stiana dominavano nella Transossiana d’onde poi uscirono que’ Seldju- cidi che si stabilirono in Persia nel secolo X, un avanzo de’ quali si spinse alla conquista delle Province del Bosforo e dell'Asia Minore. Qui si presenta in tutta la sua imponenza un gran problema etnolo- gico, che io non intendo risolvere perentoriamente, ma sul quale è mestieri di richiamare l’attenzione de’ cultori dell’antropologia, ed è la forma del cranio slavo , del cranio di una popolazione che si avvicina agli ottanta milioni di uomini, e che è ampiamente sparsa all’oriente, al meriggio e nel cuore stesso dell’ Europa. Il cranio slavo è brachicefalo, e più brachicefalo forse che non sia quel dei Finni, imperocchè dalle misure comparative date dal Retzius (2) , esprimendosi la maggior larghezza del cranio in frazioni numeriche del 1000 che ne rappresenta la lunghezza, si ha che la larghezza del cranio slavo starebbe alla sua lunghezza; o in altri termini, il diametro bipa- rietale starebbe al diametro antero-posteriore nella proporzione di 888 a 1000, mentre quella de’ Finni starebbe nella proporzione di 809 a 1000. Per altro quelle misure poggiano sopra troppo piccol numero di teschi (1. tsecco, 1. polacco, 2. russi, 1. boemo) per poterle ritenere come gene- rali, ed in effetti il Van der Hoeven ha ottenuto come termine medio dalle sue misurazioni di 15 cranî russi e 2 polacchi la proporzione fra la lun- ghezza e la larghezza di 897 a 1000 (3), ed il Baer, dalla misura di 80 cranî russi quella di 835 a 1000 (4). Ma egli è fuor «d’ogni dubbio che il cranio slavo è corto , alto , di forma pressochè rotonda, privo di protuberanza occipitale , e fornito di tutti que’ caratteri che son proprî del tipo bra- chicefalo ortognato. (1) Procopio, Pers. I, 3. (2) Veber die Schadelformen der Nordbewohner. (3) In una lettera scritta al Retzius in Muller’s Archiv. 1845, p. 433-35.— Ritornando l’ esimio autore a parlare de’cranî slavi nel suo Catalogus craniorum diversarum gentium, così scrive a pag. 22.— Quamquam numerus non ita magnus est craniorum, que enumeravi e gentibus slavoni- cis, probe tamen sufficit ad confirmandam generalem, quam ex aliis mensuris, preeunte cl. A. Ret- zio, desumeram adumbrationem .... Longitudo cranii media erit fere 0,169, latitudo vero inter pa- rietalia ossa 0,140, quam jam antea eamdem esse reperi. Da queste nuove misure appare esser la larghezza del cranio slavo maggiore di quella che l’illustre Van der Hoeven avesse dapprima formo- lata; e riducendo queste nuove misure nella formola adottata pel testo, si ha che il diametro tra- versale è al longitudinale nella proporzione di 825 a 1000. (4) Nachrichten iiber die ethnographisch-craniologische Sammlung der Kais. Akad. der Wissen- schaft.; nel Bulletin de l’ Acad. de S.' Petersbourg, t. XVIII, p. 396-98. io Ma questo cranio brachicefalo ortognato è egli proprio della stirpe ven- dica, o è il risultato dell’incrociamento del tipo slavo originario col tipo turaniano?Io senza addentrarmi in disquisizioni che qui starebbero molto fuori di proposito, m’adagio volentieri in quest’ultima opinione, e perchè ella non sembri così eterodossa quanto a prima giunta potrebbe parere, farò solamente osservare, che la maggior parte della vasta contrada oggi tenuta dagli Slavi fu in antico occupata da popoli che si dissero Sciti ( Cakds sanse., Zona, Scythae, Tschud' ), sotto la quale appellazione si comprendevano stirpi ariane e non ariane, Ario-Slavi, Finno-Ugoriani e Germani. Fra la innumerevole moltitudine de’ popoli ( multitudo populo- rum innumera, Plin.) che abitavano la Scizia, Erodoto e gli scrittori dopo di lui menzionavano gli Agatirsi, 1 Geloni, gli Issedoni, i Budini, i Si- ginni, i Sarmati, i Sauromati, gli Arimaspi, tutti Ario-Slavi, i Neuri , gli Androfagi, i Melancleni, i Cimmerî , genti Finno-Ugoriane, oltre ai Daco-Geti, a' Massageti, agli Alani ed ai Rossolani di puro ceppo teu- tonico. 1 Quando verso il secolo V dell'Era Cristiana le grandi invasioni nordi- che cominciarono a rovesciarsi sull’Impero Romano, molti di questi an- tichi nomi più non si udirono, ma invece nuove genti si affacciarono in sull’oriente e il mezzogiorno dell’Europa, fra le quali giova ricordare gli Unni, gli Avari, gli Ungari, gli Uzî o Cumani, i Kazari, i Petchenegi, po- poli Finno-Ugoriani, che dal numero de’ loro combattenti lasciavano giu- dicare della loro potenza e della estensione delle loro schiatte. Così dai tempi di Erodoto fino alla caduta dell'Impero Romano una gran moltitu- dine di Turaniani era sparsa in mezzo agli Ario-Slavi, o Vendi, Vindi, Veneti, Oveysdat, come si dicevano dai Greci e dai Latini; ma dopo le ulti- me emigrazioni della Razza Germanica nel nord e nell’occidente dell’Eu- ropa gli Ario-Slavi, acquistando il predominio sopra molte di quelle popo- lazioni, ne fecero dimenticare il nome, e col nome fin l’esistenza. Però se que’ nomi scomparvero, non si dileguarono per certo le masse che com- ponevano quelle popolose nazioni, e gli Slavi, stringendosi ad esse, ne ebbero modificata, se pur già innanzi non l’era, la loro fisica conforma- zione (4). Gli Ario-Slavi imposero a’vinti la lingua loro, e di ricambio i (4) Il mito riferito da Erodoto delle Amazzoni che si congiunsero agli Sciti liberi delle Palude Meo- tide, dalla quale unione surse il popolo de’ Sarmati o Sauromati, è una tradizione molto esplicita sull'origine mista di quella stirpe. Conf. Ippocrate, de aere, aquis et locis, cap. XVII; Eforo, Fragm. 103; Scimno da Chio, lib, Y, 102; Platone, Leggi, VII; Diodoro Siculo, lib. II, cap. 34, Sembra vinti assorbirono il tipo vendico numericamente inferiore, e sostituirono in parte le loro forme a quelle de'loro dominatori; onde gli Slavi di 0g- gidì, numerosissimi perchè il risultato di due razze popolose , offrono iracce evidenti della loro origine meticcia. « La loro testa (è Schaffarik « che ne fa la descrizione) si approssima alla forma quadrata, più larga « che lunga, fronte piana , naso breve con tendenza alla concavità ; gli « occhi sono orizzontali ma profondi e piccoli, le sopracciglia sottili , « ravvicinate all’ angolo interno dell’ occhio. Carattere generale, pochi « peli (1) ». Il teschio brachicefalo per altro, se è in gran maggioranza, non è uni- versale presso tutti gli Slavi. Spicca talora in alcuno di essi il tipo do- licocefalo e il capello biondo e l'occhio azzurrino; in altri il tipo è oscil- lante fra il brachicefalo e il dolicocefalo , e fra i varî rami della stessa famiglia nell’uno il cranio è più brachicefalo che nell’altro. I Russi sono evidentemente meno brachicefali de’ Polacchi; questi meno degli Slova- chi. E fra i Russi stessi i Russini ( Piccoli Russi ) sono più brachicefali de’ Malorussi ( Grandi Russi ) presso i quali il cranio dolicocefalo vince di numero il brachicefalo (2). La forma del cranio slavo, secondo che si avvicina più alla sferica che alla ovale annunzierebbe ne’ vari gruppi di quella Razza il predominio dell’ elemento turaniano o dell’ ariano nella formazione di que’ gruppi ; onde gli Slovachi sarebbero più turaniani che ariani, laddove ne’ Russi il sangue ariano non sarebbe di gran lunga superato nella misura dal turaniano. Nuove mischianze d’altre schiatte con la slava hanno sempreppiù mo- dificata la conformazione fisica di questa , e ricondotto non di rado il suo cranio alla forma dolicocefala originaria degli Ariani, così in Grecia, che fu slavizzata almeno per tre secoli dopo la peste che desolò l’Ellade e il Peloponneso sotto il regno di Copronimo nel 746 (3), come ne’ confini però che quando gli Slavi s’inoltrarono verso la Germania il lor tipo erasi già modificato, se voglia- mo giudicarne da due antichi teschi vendi che il Prof. Kopernicki ebbe da Dresda, e il cui diametro bi-parietale è al diametro antero-posteriore nella proporzione di 84 a 100. (1) Slavische Altherthumer, 1, 33, (2) Baer, Weber einen Schidel aus Meklenburg, cit. (3) E'a6}xfw07) scrive Costantino Porfirogeneto ( Thom. 11, 6). Anche prima di questa calamità erano state menzionate dallo storico ecclesiastico Evagrio altre invasioni slave avvenute in Grecia sotto il Regno di Maurizio verso l’anno 589. Quest’epoca è pure accertata dalla cronica manoscritta di Monebasia che si conserva negli Archivì di Torino. L'itinerario di S. Villibaldo che visitò Mone» Atti— Vol. II N. 1. 8 * — 58 — dell’Alemagna, benchè fra gli stessi Germani, singolarmente del mez- zogiorno, non sia molto rara la forma brachicefala del cranio, la quale è chiara dimostrazione che i Tedeschi , al pari di tutte le altre nazioni dell'Europa, hanno sangue misto nelle loro vene, e che eziandio fra gli odierni Teutoni la razza turaniana, in più o men notevole proporzione, trovasi associata con la schiatta ariana. Da tuttocciò che siam venuti finora esponendo ci sembra adunque ri- maner dimostrato, che tracce più o meno profonde dell’ antico tipo dei popoli di Europa sieno tuttora riconoscibili in tutte le contrade ove gli Ariani estesero le loro conquiste e si soprapposero alle popolazioni na- tive. Che fra queste men commiste di sangue straniero si conservassero sempremai i Liguri in Italia crediamo essere stato ampiamente chiarito nelle pagine antecedenti. Nè ci pare poter essere controversa la opinione che le popolazioni antestoriche dell’ Europa, e con esse i Liguri, appar- tenessero alla stirpe turaniana , imperocchè abbiamo pur veduto, che i teschi ligustici, non men quelli de’ primitivi popoli europei , si confor- mano al medesimo tipo caratteristico della razza turaniana , e che noi abbiamo particolarmente considerato ne’ Finni, ne’ Turchi e ne’ Magiari. Onde rendere confortate di maggiori pruove queste nostre asserzioni metteremo a riscontro nello Specchio che segue le misure di 10 cranî li- gustici con quelle di altrettanti cranî turaniani moderni. Quasi tutte que- ste ultime misurazioni le dobbiamo alla cortesia di uno degli illustri basia nel 772 ( Bolland. luglio, t. II, 492, e Itinerario, cap. II, p. 15, 7 luglio) non menziona il Peloponneso con altro nome se non con quello di Slavinica Terra.—Gli Imperatori di Oriente riac- quistarono, è vero, quella Provincia nell'846, ma gli Slavi del Taigete, i Milengi e gli Ezeriti non furono assoggettati che ad un tributo che pagavano ancora 80 anni dopo (Costant. Porfirogen. De Administr. Imp. 50). Verso il 986 il Peloponneso e le Province occidentali furono di nuovo conqui- state da Samuele, re de’ Bulgari e degli Slavi, ma Basilio II°, il Bulgarottono, le ricuperò definiti- vamente una ventina d’anni dopo. Inoltre nell'Epitome di Strabone che fu redatto circa quell'epoca, sappiamo che gli Sciti-Slavi abitavano sempre l’Epiro e quasi tutta la Grecia, il Peloponneso e la Macedonia. Al XIII° secolo il Taigete e la Penisola di Maina sono ancor ‘detti paesi degli Slavi nella Cronaca di Morea, ed anche oggidì, a poca distanza da Sparta, havvi un villaggio che chiamasi Schlabochorio, il quale col suo nome ricorda il dominio che ivi s'ebbero gli Slavi. Or bene, in Grecia, non ostante l’incessante immigrazione di genti slave, il tipo ellenico è oggi qual era nell'antichità più remota. « Tutto è cangiato ne'Greci, scriveva il Byron, fuorchè i tratti del lor viso » (Childe Harold, c. II, strof. 75). I viaggiatori che sono stati in Grecia non han po- tuto non ravvisare negli odierni Elleni le fisonomie che ci sono rese familiari dai capilavori della statuaria antica; e i cranî de’ Greci di oggidì mostrano perfetta identità di forma con que” che s’in- contrano nelle vetuste necropoli, e che formano uno de’ tipi più perfetti del cranio dolicocefalo or- togonato ore autori de'Crania Britannica, il sig. J. Barnard Davis di Shelton (Stafford- shire). È egli che ci ha fornito le misure de’ cranî 11, 14, 17, 18, 20 appartenenti alla sua ricca collezione. Le misure del teschio N. 15 le abbiamo desunte dall’eccellente memoria del ch. Prof. Olandese Van der Howen « Beschrijving van cenen Magyaren en van cenen Esthlander Sche- del »; e quelle de' N. 16,19 da due teschi conservati nel Museo anato- mico dell’ Università di Modena. Relativamente all’ altezza de’ cranî le misure sono state da noi prese dal margine anteriore del gran forame occipitale al punto opposto della superficie esterna della calvaria. I signori Davis e Van der Howen hanno adottato un altro metodo, il primo misurando l’ altezza del teschio dal piano del gran foro occipitale al vertice, il secondo dal margine poste- riore di esso forame alla sommità della calvaria. Noi abbiamo cercato di ridurre queste diverse misure ad una misura uniforme, ed abbiamo creduto poterci riuscire diminuendo di 4 millimetri l'altezza de’ cranî misurati da que’ due distinti antropologisti ; ma si comprenderà di leg- gieri come la nostra riduzione sia troppo arbitraria per poterla conside- rare come esatta, laonde preghiamo il lettore di ritenere queste misure dell'altezza de’ cranî turaniani unicamente come approssimative. spp Misure di 40 cranî liguri comparate con quelli di altrettanti cranî turaniani moderni. Cranî liguri | NUM. | _ INDICE CEFALICO | NOME DE’ PAESI CIRCONFERENZA || DIAMETRO || DIAMETRO LARGHEZZA ALTEZZA de | FRONTE Proporzione | | A’ QUALI 1 CRANÌ APPARTENGONO ORIZZONTALE ]| OCCIPITALE ||BI-PARIETALE ||tra la larghezza||DELLA FRONTEH|| DEL CRANIO crasì | e la lunghezza | | | | | A antichi 1 / Torre della Maina I (Provincia di Modena) D. || 509 170 154 90.50 120 132 O | TorredelaManai (vasi e 519 172 156 90.7 119 132 3 Cadelbosco di Sopra (Provincia di Reggio) U..|| d13 174 148 83. 125 132 B moderni 20 \ Turco. RIS SETT 518 184 153 89.13 130 139 4 Apennini liguri U......+ NOBCASCO boo sanosl| Sb 168 147 87.50 115 130 Melia Media Media Med'a Melia Media 3 < IR UEERTA e Sec «.000+|| 512 [3137] 168 | 172 || 145 |149%|,|86.30(86,74/| 111 | 119 || 128 | 132 6 Torriglia (Provincia di Genova) U...........|| 918 170 143 85.29 119 123 7 Genova WU. telela etereo SN telperion] POLO 178 151 84.83 120 124 8 Provincia di Torino U....eeesee 00000 Nreta] ROZO, 172 153 87.20 118 128 9 IU ce SavduasonaÈ siefiatststeta|KONO 174 150 86.20 123 133 10 Torino U........ slelelefa/alele\ela/s{c}e\e(ssjelelo nieterete| (0902 172 143 83.08 120 141 | Cranî turaniani moderni 11 / FinnicodiKides{Carelia) U.........0.. 000 .|| 538 179 150 89.39 125 132 | 12 i GINIAZI RIM possdononnosdono a donol|| IL 174 150 86.20 123 129 13 IE SORCRORGOA 515 174 145 83.32 119 132 14 Id. di Hollola (Tavastia) U.....e.00000.|| 918 177 145 81.97 115 121 15 Id. di Dorpat(Estonia)U...... 0000000, 507 |Media|| 175 |Media]| 143 {Media||81.71|Medial] » |Medi|| 131 |Media 16 Ungherese (soldato nell’esercito austriaco ) U..|| 510 | 514 || 170 | 4174 || 150. | 147 |87.67|85.26]/ 120 | 120 || 130 | 131 |f__ 17 Id. pr aleletele ita, ulelolalalelefe ela cieiote .«|| 506 163 144 86.75 126 132 18 WWbaodo IDODTOOE alele/e:s'elelsleleisto 508 170 143 84.11 112 130 19 Id. (soldato nell’ esercito austriuco) U . 506 175 146 82.43 111 130 Misure medie Granì liguri. ...00. 000%» verso PIOOGOONO 0° Cranî turan'ani MOdErni. +.0..0 +. -+0000000 a tcla — (Ki $ 6. Le Razze di Europa, ed ordine probabile delle loro immigrazioni. Non vi ha in Europa quasi regione alcuna i cui abitatori non sieno il risultato della mistione di più stirpi, e singolarmente dell’ariana e della turaniana. Questa fu la prima ad occupare il nostro Continente , e dalle tante pruove che da per ogni parte si raccolgono sembra omai fuori dubbio , che in antico vi dominasse esclusivamente, e ne coprisse l’intera super- ficie. I teschi vetustissimi dissepolti in diverse contrade , simili nelle forme ai cranì delle nazioni finno-ugoriane , sono il primo fondamento sul quale poggia l’ opinione che noi sosteniamo. Essa è convalidata al- tresì da alcune oscure tradizioni de’ popoli ariani , i quali discendendo dall’ altopiano dell'Iran ad occupare nuove regioni vi trovarono già sta- bilite altre razze diverse da loro per origine, per lingua, per culto, e con le quali ebbero a combattere per conquistare le nuove lor sedi. Queste tradizioni, trasmettendosi di bocca in bocca , han molto per- duto della loro precisione, e sono state grandemente variate passando a traverso la lunga età che ci divide da quell’ era primitiva cui elle si ri- feriscono, ma tutte concordano nell’ esagerare le strane sembianze di quelle razze autottone , aggrandirne le difformità e fare di quelle stirpi popoli favolosi. Tali sono que’ nani deformi, capricciosi, maligni che gli Ariani vedevano dappertutto in Europa, sotto i monumenti sepolcrali dell’età della pietra, sulle rive de’fiumi, fra le vaste praterie, in mezzo a valli profonde , nelle solitudini più remote. Là rapivano alle madri i pargoletti per educarli in segreto e farne i mariti delle loro figliuole per migliorare la loro progenie; qua erano vecchie filatrici o sordide lavan- daie che sbattevano panni con ogni lor forza sul margine di una palude, altrove agili servi che davan opera sollecita ad aiutare i coltivatori nel mietere le biade e raccogliere le messi. Erano umili, sommessi, obbe- dienti, ma falsi, perfidi, vili, crudeli, ghiottoni, lascivi. Non ignari del futuro erano fatidici e prenunziavano l'avvenire. In greco si chiamava- A ee 40 pigmei (qvyuato:) (1), in celtico fad (2), in latino vates (onde con la semplice permutazione del v in f, fata italiano, fée frane., fairy ingl. ), in teutonico gnomi (gromen). Il dio Hay de' Greci (3) e il Faunus de’La- tini (4) non eran altro che cotesti esseri divinizzati. Il Tagete, che aveva rivelato agli Etruschi i misteri dell’aruspicina era un uomo della statura di un fanciullo venuto fuori a un tratto da un solco di terreno smosso dal vomere dell’aratro (9). Erodoto inoltre più chiaramente ne fa intendere nel IV delle sue sto- rie, che il dono della conoscenza dell’ avvenire era proprio degli Sciti , (1) Omero nel III° dell'Iliade li fa combattere con le gru sui mari dell'Oceano: ai mei ovy' gerudpa quyov, nai dbesparoy duBpov, u)ayyn taiye metoviat Én° cncavoîo fodsov, apro rvyuzioni qovov, vai nipa pipoviat. Plinio prestando fede alla esistenza di uomini e cose prodigiose, dice che abitassero al di là dei monti da’quali sgorga il Gange. Fama est (egli soggiunge) insidentes arietum caprarumque dorsis , armatos sagittis veris tempore universo agmine ad mare descendere, et ova pullosque eorum alitum consumare: ternis expeditionem eam mensibus confici; aliter futuris gregibus non resisti. Casas eorum luto pennisque et ovorum putaminibus construi. Aristotil@s in cavernis Pygmeos tradit. Hist. Nat. VII, 2. (2) Mem. et docum. publiés par la Societe d’hist. et d’archéolog. de Genève, t.V, p. 496. (3) Era il più potente ammaliatore fra tutti gl’Iddii; anche Diana fu vittima de’ suoi incantesimi, e cadde nelle braccia di questo amante incantatore. Munere sic niveo lane, si credere dignum est, Pan, Deus Arcadie, captam te, Luna, fefellit, In nemora alta vocans; nec tu adspernata vocantem. Virgil. Georg. III , 391-93. (4) . . . . At Rex (Latinus) sollicitus monstris, oracula Faunì Fatidici genitoris adit, lucosque sub alta Consulit Albulnea: nemorum que maxima sacro Fonte sonat, sevamque exhalat opuca mephitim. Hinc Itale gentes, omnisque Enotria tellus In dubiis responsa petunt. Virgil. ZEneid. VII, 80-87. E chi era mai cotesto Faunus, o Fatuus, o Fatuellus come pure lo dicevano? — Era figliuolo di Pico, nipote di Saturno, re degli Aborigeni. Antioch. fragm. N. 6. — Alexand. Ephesius ap. Aure- lium Victorem, De origine gentis romane, p.9, ed. Lugd. Batav. 1670. — Virgil. Zneid. VII, 48.— Plutarco in Numa, XV, 3, e in Giulio Cesare, 1X, 2. (5) Uscito fuori a un tratto Tagete dalla terra l’aratore che il vide ne fu sbigottito. Gridò con quanta voce poteva, accorr’uomo, e tutti i Tirreni gli si fecero intorno, A)lora Tagete rivelò ad essi ì misteri dell’aruspicina, ma avea finito appena di parlare che la vita gli si estinse. Gli Etruschi però aveano udite attentamente le sue parole, e d’allora in poi quella scienza non fu più per essi perduta. Conf. Cicer. De Divinatione, 2, 23; Ovid. Metamorf. XV, 558; Isid. Origin. 8,9. - 99 e soprattutto de’ Neuri e degli Enarei , appartenenti a’ Finno-Ugoriani. « Appresso agli Sciti, egli dice, sono molti indovini, i quali vaticinano « con molte verghe di salcio in questo modo. Avendo portato gran fasci « di verghe, postili in terra gli disciolgono, e separamente ponendo cia- « scuna di esse, predicono i destini, e mentre così parlano, tornano ad « unir le verghe e ad una ad una tutte le riuniscono. Questa maniera di « indovinare hanno raccolta dai loro maggiori (1) ». Dalle quali parole di Erodoto è lecito conchiudere, che que’ nani, que’ pigmei quegli indo- vini che dappertutto trovavano in Europa le razze ariane che vi si po- sero a stanza, non eran altro che i popoli aborigeni affini a que’ medesimi Finno-Ugoriani che a' tempi del padre della storia viveano nella Scizia; e che ridotti in servitù degli Ariani , erano condannati non solo a’ più duri servigì, ma, ciò che tornava più grave ancora, allo spregio ed all’ab- bominio. Le razze adunque che gli Ariani trovarono stabilite in Europa erano razze di uomini di mezzana statura, di capello nero e di carnagione bru- netta. Aveano le fattezze del volto (a giudicarne da'teschi e dalle meda- glie) non spiacenti , il viso largo e quadrato , la fronte ampia e spesso schiacciata per compressione artificiale , gli occhi neri e orizzontali , il naso alto e carnoso. Valida e robusta erane la fibra, benchè le membra fossero piuttosto dilicate. Erano uomini avvezzi a’ disagi e alle fatiche corporali , agili, destri, pugnaci, indomabili, ma semplici, rozzi e per nulla esperti nelle arti geniali. Non aveano conoscenza di metalli, ma invece di questi usavano la selce ed altre pietre dure che lavoravano con molta arte e ne formavano arnesi domestici e strumenti per la caccia e per la guerra. Le loro armi erano lance e giavellotti, la cui punta ren- devano acuta e micidiale con cuspidi di pietra che s’inserivano in capo al manico o all’ asticciuola. Si trovano tuttora ruderi di quelle armi, non meno che degli altri arnesi e strumenti lapidei, in tutti i punti di Europa, e in Italia parimenti ve n’ ha dovizia non inferiore a quella di verun altro paese (2). Sapevano altresì manipolare l’ argilla e formare (4) Melpomene, cap. IV. (5) Lanzi, Saggio di lingua etrusca , t. II, p. 648. — A. Salvagnoli Marchetti, Atti della V” Riu- nione degli Scienziati Italiani, p. 264. — Searabelli , Annali delle Scienze Naturali , 3* Serie, i. II°. Bologna, 4850. — Rosa, nel Crepuscolo di Milano, 1850.—Villa, Armi antiche trovate nella porba di Bosisio, nel Fotografo, 1856, N. 31.— Cavedoni, Di un antico poliandrio, o sia tumulo sepolcrale di circa XL guerrieri colle loro armi, Messaggere di Modena, 24 dicembre 1856.—Forel, Notice sur les instrumens en silex et les ossemens trouvés dans les cavernes de Menton, 1858.— AGANE con essa vasi di varie fogge che rendevano capaci di sostenere un'ele- vata temperatura, frammischiandovi piccoli cristalli di quarzo. Benchè ignorassero l’uso del bronzo e del ferro che tra di essi più tardi introdussero gli Ariani , e fors' anche prima di costoro i Fenicî , pure , volendone giudicare dalla lingua basca, sembra che fossero giunti a la- vorare la terra, trovandosi in quell’ idioma parole che significano arare (goldatu) ed (araratro goldea). Aveano addomesticato il bue (idia), il ca- vallo (saldia), il cane ( ora, zacurra). È dubbio se l’ ariete fosse cono- sciuto da essi pria del loro contatto con gli Ariani , poichè vi sono pa- role che darebbero fondamento a sostenere, che in Europa si conoscesse questo animale pria della venuta degli Indo-Europei. Egli è certo però che la ricchezza maggiore del popolo consisteva negli armenti , ed un uomo era di tanto considerato più ricco di un altro, per quanto maggior numero di armenti possedesse. Da questi traeva il latte e la carne , ne filava la lana e ne faceva vestimenta onde coprirsi. Possedevano case (echea), villaggi (iria) e luoghi fortificati (murrua). Le relazioni fra i sessi erano santificate col ligame del matrimonio ; assicurata la protezione e la legittimità della prole, e riconosciuti come sacri i vincoli del parentado. Templi non ergevano a'loro Iddii, perchè nel basco non vi ha parola che denoti un luogo sacro alla Divinità , ma scarso non era il numero de’'loro Numi, e talune iscrizioni singolari rinvenute nel paese di Com- minges, a piè de’'Pirenei, testè dichiarate dal Cénac Moncaut(1), han fatto Barone Anca, Bulletin de la Societe Geologique de France, 1860.— B. Gastaldi, Cenni su alcune armi di pietra e di bronzo, etc. negli Atti della Società di scienze naturali in Milano, t. INI, 1861. Nuovi cenni sugli oggetti di alta antichità trovati nelle torbiere e nelle marmiere dell’ Italia. To» rino, 1862, in 4° con VI tav.—Ponzi, negli Atti dell’ Accademia de’ Nuovi Lincei, Anno XV. Roma 1862. — Strobel, Die Terramara-Lager der Emilia, Erster Bericht, Zurich, 1863, con III tav.— Avanzi preromani raccolti nelle Terremare e Palafitte dell’ Emilia , illustrati popolarmente per cura di P. Strobel. Parma, 1863, con IV tav. Nicolucci, Di alcune armi ed utensili in pietra, rinvenuti nelle Province Meridionali dell’Italia ete., negli Atti della Società Reale di Napoli. Scienze fisiche e matematiche, t. I, 1863. Stoppani, Rapporto sulle ricerche futte nelle Palafitte del Lago di Varese; Atti della società italiana di scienze naturali, vol. V — Le Stazioni lacuali del Lago di Varese, lettera di A. Angelucci. (1) Revue archéologique, VIII livrais. Paris, 1859. — Il Comminges avea per sua antica capitale Lugdunum Convenarum, ed ebbe i suoi primi incrementi dagli avanzi della fazione di Sertorio tra- sportativi da Pompeo , ed ivi ordinati a nuovo consorzio civile sotto il nome di Convene, da’ quali derivò il nome di Comminges, Furono essi uno di que’ nove popoli per cui 1’ Aquitania fu detta No- vempopuloma, è gr aperto che gli Iberi, veneravano il Dio Bopienno (1), Sornausi (2) Lehe- renno (8), Astoilunno (4), Abellione (5), Lixone (6), la Dea Laha (7) ed Artahe (8). I loro sacerdoti erano esperti nel predire il futuro e stornare dagli uomini le avversità, e perciò con altri vocaboli non erano chiamati, se non con quelli di maliardi ed incantatori. Non credo che eglino formassero un sol popolo , e mi pare anzi non esser lungi del vero congetturando ch’eglino componessero varie nazioni, delle quali non sono giunti a noi tuttii nomi. Sappiamo però che in Italia si dicevano Liguri e Siculi, in Ispagna Iberi, nell'Europa nordica Finni e Jotuni, nella orientale Scitî;; vocabolo ariano col quale i Persiani ed i Greci indicavano tutta quella moltitudine di popoli ariani e turaniani , dalla cui miscela ebbe indi origine la numerosissima stirpe degli Slavi attuali. Tale era il nostro Continente quando vennero ad occuparlo gli Aria- ni, onde a costoro non ne fu sì facile la conquista come si crede comu- nemente. Ben molte e molte lotte sostennero gli invasori con gli antichi possessori del suolo , nè tutto ad un tratto l’occuparono, nè in tutte le direzioni si volsero ad un tempo. Egli è probabile (se qualche cosa di probabile può avventurarsi in un'età sì remota) che prima a volgere il passo alla volta di Europa fosse stata la Famiglia Ario-Pelasga, od Ita- lo-Greca (nome comune col quale comprendiamo le stirpi italiche, le greche e l’albanese), la quale parte giunse, traversando l’Armenia, nel- l'Asia Minore, parte, superati i gioghi del Caucaso e pervenuta in sul- l’Ellesponto, dopo lunghe peregrinazioni inoltrossi da un lato in Tracia e s'impadronì delle regioni che poscia s’appellarono Macedonia, Tessa- glia e Grecia, e tenne dall’altro le contrade che indi si chiamarono Epiro ed Illiria d'onde pe’declivi più facili dell’Alpi orientali discese in Italia (9). Dopo gli Ario-Pelasghi le tribù celtiche, seguendo le spiagge meridio- nali del Caspio, varcato il Caucaso e percorse le rive settentrionali del. (1) Bopienno; voce sotterranea, dal basco baza, voce, espian, sotto. — Dio Infero. (2) Sornausi; zornea, materia, osoa, intera. Dio di tutta la natura. (3) Leherenno; lehercea, schiacciare. Dio schiacciatore. (4) Astoilunno; asta, roccia, lu, paese; ovvero astoa, asino, illum delle notti. (5) Abellione; Abèie, greggia, on, buono. Dio protettore delle greggi. (6) Liwone; lisuma, impudico , il Fauno de’ Latini. (7) Laha ; lachoa, libera. Dea della libertà. (8) Artahe; arta, cura, protezione. Dio protettore. (9) Nicolucci, Razze Umane, I, p. 111 Atti —Vo, I.—N.°1 . 9 mi Cra l’Eussino, si allargarono intorno al Danubio, e penetrando lungo le sue sponde nel centro dell'Europa, non posero fine al lor lungo cammino, se non quando ebbero raggiunto i limiti estremi del nostro Continente. Dovunque e’ fecero sosta lasciarono tracce del loro passaggio , e molti nomi di contrade, di fiumi, di monti son rimasti tuttora colonne miliarie di quella gran migrazione d’Asia in Europa. A’ Celti seguirono, ma ben più tardi, i Germani e gli Slavi. Entrambe le stirpi soggiornarono per lungo tempo nelle vaste regioni dellaScizia asia- tica, e non giunsero in Europa che a poco a poco, spintivi incessante- mente dalle graduate invasioni de’ Tartari. « Quest’ ultimo movimento « debbe aver cominciato molto innanzi l’èra nostra, partendo probabil- « mente dalle regioni situate fra il Tanai, il Tiras e l’Ister fino al di là « dell’Emo; perciocchè al tempo di Alessandro la massa de’ popoli ger- « manici erasi già inoltrata dal Mar Nero fino al Reno ed al Baltico (1). « I Lituano-Slavi , sparsi più da lungi a settentrione ed a levante, son « venuti dopo trovando l’ Europa già occupata in gran parte, e si sono « arrestati nelle regioni del nord-est (2) ». Non tutta la popolazione indigena abbandonò le contrade ove gli Ariani fissarono dimora. Probabilmente i primi abitatori del suolo furono ri- dotti all’umile condizione di schiavi e servi della gleba; ma col decorso del tempo vincitori e vinti si strinsero insieme, e le due stirpi n’ebbero modificato i loro tipi originarî. La popolazione attuale dell’ Europa è il risultato di quell’ antico connubio. Ove il numero degli Ariani fu pre- ponderante il cranio europeo assunse la forma dolicocefala propria di quella Razza, ma dove il sangue ariano fu superato nella misura dal tu- riano la forma del cranio rimase brachicefala, quale era quella delle popolazioni più antiche del nostro Continente. Anche il colore de’capelli e degli occhi subì notevoli modificazioni. lo non so se tutti gli Ariani fossero stati originariamente biondi; questo s0 per pruove non dubbie, che i rami di quella Razza rimasti più puri aveano ed hanno ancora i capelli biondi e gli occhi cilestrini, e che i Celti venuti ultimi in Europa ed i Germani erano distinti per la chioma d’oro e l’az- zurro de'loro occhi. So altresì che fra i Greci non erano e non sono nep- pur rari al presente i flavi capelli e l’iride dal color del mare, e che fra (1) Grimm, Geschichte der deutsch. Sprache, p 803. (2) Pictet, Les Origines Indo-Européennes, ou les Aryas primitif. Paris, 1859, p. 52. — 67 — gli Italiani non erano e non sono neppur oggi molto infrequenti il pelo biondo e l’ occhio cilestrino. Tali caratteri, così lontani da quella Razza che fu la prima ad abitare la nostra Europa, non si ripetono al certo che dalla influenza degli Ariani, i quali in talune contrade hanno conservato nelle loro discendenze miste anche 1l colore originario degli occhi e de’ capelli, mentre in altre al lor cranio dolicocefalo si è associato il ca- pello e l'occhio nero della razza indigena, benchè non sempre questo co- lore abbia trionfato completamente , perocchè nella maggior parte del- l'Europa il pelo è più castagno che nero, e nell'infanzia presso che biondo. Non così avvenne degli idiomi indigeni, i quali furono quasi tutti spenti e sostituiti da'sermoni de’ nuovi venuti ; onde tutto il Continente europeo, tranne poche eccezioni, è dominato da linguaggi ariani che seco loro recarono i varì rami di questa Famiglia che entrarono in Europa. Anche quando il numero degli aborigeni fu superiore a quello degli av- veniticci, e il tipo ariano fu assorbito dal turaniano, come nella Scizia, gli idiomi indo-europei sostituirono completamente le lingue native, e gli Slavi, p. es., più turaniani che ariani di sangue, conservano anche oggi il linguaggio che parlava la parte minore del popolo che concorse alla loro composizione etnica attuale. Non ostante la generale invasione degli Ariani e de’loro idiomi sopra quasi tutta la superficie dell'Europa, alcuni frammenti delle popolazioni primitive seppero difendere la propria indipendenza e serbarsi immuni (in parte almeno ) dal connubio di quegli stranieri. Io lascerò di occu- parmi e de’ Baschi e de’ Finni e delle altre genti Uguriane , discendenza airetta di que’ primi possessori del suolo europeo, per far ritorno sen- z'altro a' Liguri d’Italia, che sono anch'essi rappresentanti di quelle an- tichissime stirpi ante-ariane che, come tutto il rimanente dell'Europa, così avevano tenuto in lor dominio anche l’intera nostra Penisola. $ 7, Le conquiste ariane in Italia. Erano adunque i Liguri quel popolo dell’età della pietra che avea oc- cupato, ne tempi antestorici, l’Italia, e tranquillamente la possedeva al- lorchè gl’Italo-Pelasghi ne turbarono la pace e lo scacciarono dalla mag- * per pa gior parte de'suoi possedimenti. Penetrati per la via delle Alpi orientali nel bel paese conquistarono quant’ è il terreno fra que’monti ed il Po con vocabolo ligustico chiamato allora Bodineo. Parte de’ Liguri che ivi abitavano soggiacque alla dominazione degli avveniticci , parte trovò scampo e libertà oltre il Ticino fra quegli altri Liguri indomiti che man- tennero pur sempre la loro indipendenza contro le minacce e le prepo- tenze de’ vicini. Valicato l’ Eridano si allargarono con successive conquiste quasi per tutto il paese che ora chiamasi Emilia, Etruria, Umbria e Marche cac- ciandone i Siculi (Liguri) che dianzi vi abitavano , e che loro opposero un’ ostinata resistenza. Molte guerre furono combattute fra gli invasori e gli antichi possessori del suolo , e furono , al dire di Dionigi , le più memorabili che mai si fossero fino allora viste in Italia (1). Umbri si dissero quegli Italo-Pelasghi che, conquistate tali sedi, vi si posero a stabile dimora (2). E se non ebbero in lor potere tutta la spiag- (1) Storie Rom. I, 16. (2) Furono gli Umbri la più potente fra le vetuste popolazioni di ceppo italo-pelasgo. L’Umbria an» tica dilatavasi dalle Alpi fino alla Nera nel cuor dell’Italia. Fra l'Arno e il Tevere toccava le spiagge del mare inferiore, e lungo il mar di sopra estendevasi fin presso al Promontorio del Gargano (Sci- lace, Periplo.—Plinio , III, 14).— Gli Umbri, per concorde testimonianza degli scrittori, erano delle genti più anticamente stabilite sul nostro suolo (Dionigi, I, 19; Plinio, III, 14; Floro, III, 17), e niuno ha mai dubitato della pura italianità della loro stirpe. Piacque al Fréret (Oeuvres completes. Paris, 1796, t.IV) e dopo lui ad altri celtomani, e soprattutto ad Amedeo Thierry, autore di una dotta storia de’ Galli (Histoire des Gaulois, lib. 14, ch. 1.), considerarli per antichi Celti discesi in Italia fra il 1400 e il 1000 innanzi l’ èra cristiana, confortati nella loro opinione da’ nomi d’ Insu- bria, Olombria, Vilumbria che ebbero le diverse parti di quel territorio che i Celti occuparono in Italia. Ma qui è da riflettere , che questi nomi celtici (parlo de’ prefissi che si aggiunsero all’ antica denominazione dell'Umbria) non vennero in uso se non dopo l’invasione gallica di Belloveso che fu posteriore al 150 dalla fondazione di Roma, e che essi altro non possono significare, se non che i Galli aveano divisa l Umbria conquistata in tre regioni che dissero Alta, Bassa e Marittima. Una splendida confutazione dell’ opinione di coloro che tengono gli Umbri di celtica discendenza sì ha nell’idioma che gli Umbri favellavano , e del quale rimangono molti avanzi nelle iscrizioni e nelle celebri tavole Eugubine. Da studî recenti fatti intorno a questa e ad altre antiche lingue italiche è dimostrato, che gli antichi sermoni dell’Italia si dividono in due rami principali: l’idioma latino, e l idioma a cui si sottordinano i dialetti degli Umbri , de’ Marsi , de’ Volsci e de’ Sanniti. Il latino , l'umbro e l’osco non solamente hanno un vocabolario comune, ma anche abbondano di forme gram- maticali analoghe. Quesl’affinità di linguaggio fra i Latini, gli Umbri e i Sanniti è la pruova più con- vincente ch’eglino fossero di una medesima stirpe, rami diversi di uno stesso tronco, propagini di una stessa radice. Conf. Lassen, Beitràge sur Deutung der Eugubinischen Tafeln. Bonn, 1833 — Kimfp, Umbricorum Specimen. Berolini, 1834— Grotefend, Rudimenta lingue umbrice ea in- scription. antiq. enodata. Hannover, 1835—1839. Lepsius, Inscriptiones Umbrice et Osc@e quot- quot adhuc reperte sunt omnes. Lipsie, 1841 — Zeyss, De substantivorum umbricorum declina- —. Re gia a mare dall’ Arno al Tevere, pur vi posero alcune colonie , vi edifi- carono. borgate e vi ebbero non piccolo dominio. Non discesero più in basso di questi confini, perciocchè nel resto dell’Italia vi si distesero i popoli Latini, e le numerose colonie Sabelliche. I Latini gittandosi sulla parte occidentale alla sinistra del Tevere s'im- padronirono del Lazio (il quale veniva limitato ad oriente dalle monta- gne de’Sabini e degli Equi, a mezzogiorno da’monti de’Volsci divisi dalla catena principale degli Apennini mediante l'alta valle del Sacco, tribu- tario del Liri), e poscia s'inoltrarono per le pianure della Campania, la quale era da essi abitata pria che vi giugnessero i Greci ed i Sanniti, avvegnachè i nomi italici di Novla o Nola (città nuova), Campani, Ca- pua, Opsci (operai) sono provatamente più antichi dell'invasione sanni- tica, e danno sicuro indizio, che allorquando i Greci fondarono Cuma, una schiatta italica e probabilmente latina, gli Ausonî (Antiqui Ausonii, Virg. XI, 253), possedevano la Campania (1). I Sabini tennero invece la parte orientale, e con successive ed ordi- nate conquiste si dilatarono in quasi tutto il rimanente della Penisola. La tradizione racconta come incalzati dagli Umbri votassero una sacra primavera, cioè giurassero di mandar fuori per fondare in paesi stra- nieri nuove sedi agli Dei nazionali tutti i figli e le figlie che fossero nate in quell’anno, tosto ch’ei fossero pervenuti in età da ciò. Uno di questi sciami votivi, condotto dal toro di Marte, diè origine alla bellicosa na- zione de’ Sanniti (2), che prima posero stanza suì monti lungo il fiume Sangro, e di là partendo occuparono in appresso la pianura a levante del Matese fino alle sorgenti del fiume Tiferno. L’ esuberante gioventù del Sannio , uscita anch’ essa in cerca di nuova patria col rito e colle leggi della sacra primavera, s’inoltrò per la Campania e la Lucania, e quindi nel paese che si disse de’ Bruzî e in quel de' Mamertini in Sicilia. tione. Tilsitt, 1846. Aufrecht u. Kirkhofîf, Die Umbrischen Sprachdenkmàaler. Berlin, 1849-51.— Mommsen, Die Unteritalianischen Dialekte. Leipzig, 1850. — Huschke, Die oskischen und sabel- lischen Sprachdenkmaler. Eber., 1856 — Die Iguvischen Tafeln nebst den kleineren Umbrischen Inscriften .... vollstànding ibersets und erklart. Leipzig, 1859 —A. Fabretti, Glossarium Itali- cum in quo omnia vocabula continentur ex umbricis , sabinis, oscis, volscis, etruscis ceterisque monumentis quae supersunt collecta , etc. Aug. Taurin. 1858.— Risi, Dei tentativi fatti per spie- gare le antiche lingue italiche. Milano, 1863. (1) Mommsen, Romische Geschichte, lib. I, cap. 3. (2) Gellio XI, 1. Vocabulum multe non latinum sed sabinum esse, idque ad suam memoriam man- sisse ait (Varro) in lingua Samnitium qui sunt a Sabinis orti. — Varro, De L. L. VI. 3. Hoc esta Sabinis orti Samnites tenuerunt. ta Da un'altra colonia venuta fuori dalla Sabina e guidata dal picchio sacro a Marte derivarono i Picenti (1), popolo astato che occupò il paese che oggi forma la Marca d'Ancona. Una terza, sotto le insegne di un lupo (hirpus), fermò stanza nel paese di Benevento e prese il nome di Irpini (2). Dalla Sabina parimenti e da Reate uscirono gli Aborigeni, invasori del Lazio, che soprapponendosi agli antichi Latini (Casei 0 Prisci Latini (3), Rutuli, Aurunci (4)) ed a’ Siculi che ancora vi duravano, divennero il nucleo di quel nuovo popolo latino che fu dominatore dell’ Italia e del Mondo (5). Dalla Sabina finalmente trassero la loro origine gli Equi (6), gli Ernici (7), i Volsci (8) e le tribù Sabelliche de’ Pretuziani presso Te- ramo, de’ Vestini a piè del Gran Sasso, de’ Marruccini presso Chieti, dei Marsi intorno al lago Fucino , de’ Frentani sul confine della Puglia (9). (1) Orti sunt (Picentini) a Sabinis voto vere sacro. Plin. III, 13.— Strab. V. Festo, Picena regio. (2) (E&ss d' eioiv ‘Iprivor, nadroì Favvirar 10)vo us d'isyov drò 160 fyasapivo» \z0v ris drornias © iproy yip valoda o Favvizni 70y }Jx0y. Strab. VI.— Irpini appellati nomine lupi quem hirpum dicunt Samnites; eum enim ducem secuti agros occupavere. Paolo e Festo, p. 106. — Serv. in ZEneid. VII, 785. 3) Cascum significat vetus: ejus origo sabina, que usque radicem in oscam linguam egit. Varro de L. L.VI, 3. « Questa voce, osserva il Micali, vive ancora nel vernacolo della Sabina e dell’Um- e bria, e noi pure Toscani diciamo accasciare, accasciato, ete., equivalente al senso primitivo ». Storia degli ant. pop. ital., cap. X, nota 17.—Ennio, Fragm.—Cicer., Tuscul., I, 12.— Virgil. V, 598, XII, 823.— Lucano, II, 432, e Paolo ex Festo, il quale lasciò scritto: Priscì Latini pro- prie appellati sunt ii qui prius quam conderetur Roma fuerunt. (4) I Butuli si dissero da Virgilio consanguinei a’ Latini (consanguinei Rutuli, XIT, 40) e si atte- nevano per origine agli antichi Auranci che a lor volta erano imparentati a’ Latini. Aurunci Rutulique serunt, et vomere duro Ezxercent colles, atque eorum asperrima pascunt. ZFneid., XI, 318-9. (5) Varrone chiama Aborigeni i Sabini che da Reate discesero nel Lazio, ove per la loro mesco- lanza con quella porzione di Siculi che non seguitarono i fuggiaschi, e sì ancora con Rutuli, Casci Latini ed Aurunci, venne a formarsi un solo e nuovo popolo unito col nome di Latini.—Aborigenes ex agro Reatino qui adpellatur Palatium ibi consederunt. Tito Livio, IV, 8. (6) Il nome di una loro borgata Trebia o Trebula trovasi più volte ripetuta nella Sabina e nel- l'Umbria. Ì (7) Quidam dux magnus Sabinos de suis locis elicuit, et habitare secum fecit saxosis in montibus. Unde dicta sunt Hernica loca et populi hernici. Serv. ad Eneid. VII, 684. (8) Catone non dubitava della loro origine sabinica, e li credeva discesi da quegli Aborigeni che erano parliti dalla Reatina Tempe. Agrum quem Volsci habuerunt, plerus Aborigenum fuit. Cato ap. Priscianum, V, p. 668, ed. Putsch. (9) Erano posti in mezzo fra i Sabini e i Sanniti, e questo solo, in difetto d’altre pruove, baste- rebbe a dimostrare la loro origine comune; ma ì Marsi si dicevano dagli antichi congiunti con gli ie Come ne fanno fede le tradizioni, presso tutti questi popoli si mantenne sempre vivo il sentimento della loro consanguineità e della loro origine comune dal ceppo Umbro-Sabellico. Non si sa se i Latini ed i Sabini facessero parte di quegli Umbri che più si spinsero nel cuore dell’Italia, o se la loro venuta fosse stata an- teriore a quella degli Umbri stessi, ed avesse dischiusa la via alla gran- de invasione umbrica che tenne lor dietro. Egli è certo però che essi eraso riputati antichissimi (1), e le tradizioni locali confondendoli co'pri- mi possessori del suolo (o Liguri o Siculi di stirpe ligustica) li chia- mavano Aborigeni, autotoni, genarchi (2), e da Virgilio, grande indaga- tore delle patrie memorie , si dicevano nati dai tronchi e dalle querce : Gens virum truncis et duro robore nata : Quis neque mos, neque cultus erat; nec jungere tauros , Aut componere opes norant, aut parcere parto : Sed rami, atque asper victu venenatus alebat (3). Altri Ario-Pelasghi ( Elleno-Pelasghi) aveano popolato , scacciandone anche i Liguri, la Japigia e la Messapia, non meno che la Lucania e la Bruzia; ma ì Sanniti li respinsero al di là delle colline orientali del San- nio e della Lucania , e li confinarono in quell’ angusta e lunga falda di terra che si distende dal versante meridionale del Gargano fino al capo di Leuca. La venuta di quegli Elleno-Pelasghi nella bassa Italia era stata ante- riore a quella delle colonie Umbro-Sabelliche, perciocchè la storia pri- mitiva che ci ha conservato notizie della occupazione fatta da’ Sanniti della Lucania e della Bruzia, non ricorda punto l’arrivo di quelle gen- Ernici, sabini. Hernici dicti sunt a saxis que Marsi herne dicunt. Festo ad v. 1 Marruccini erano da Catone congiunti co’ Marsi (ap. Priscianum IX); i Peligni chiamavano i Sabini avi loro: Et tibi comproavis, miles Peligne, Sabinis Convenit. Ovid. Fast. III, 95. 1 Vestini non erano meno affini di tutti gli altri per parentado a’ Sabini. Enn. Fragm. p. 150. — Juven. XV, 180-1; e non men de’ Vestini i Frentani, i quali traevano la loro origine da’ Sanniti : gpevravoì Sayvitimoy éSyos. Strab. V.— Scilace, Periplo, p. 5. (1) E"ori de nai radaiorarov Peyos, oi Fafivor nai adroyFoves. Strab. lib. V (2) Dionisio, I, 36.— Quintilian. III, 7. (3) Eneid. VIII, 3415-18. _— 72 —- ti, e le considera invece come aborigene dell’Italia inferiore. Il loro an- tico dominio sulle terre de’ Bruzî e de’ Lucani è attestato non solo dal- l'autorità di Eforo Cumano, il quale chiama Crotone una città Japigia (4), ma dallo stesso nome di Turvyey dupat tpets che rimase a quel tratto di spiaggia a mezzogiorno di Crotone. Oltracchè è noto che i Bruzî erano per metà greci e parlavano l’ osco o sannitico ed il greco, e questo loro el- lenismo non era certamente da attribuirsi alle relazioni che essi avevano colle colonie greche della Bruzia, ma dalla loro origine elleno-barbara, che rendevali atti ed inclinati ad ellenizzarsi. I Messapî nel loro angolo poco importante rimasero fedelmente attac- cati alle usanze ed alla lingua de’loro antenati, e tramandarono alla po- sterità, nelle loro iscrizioni, i documenti del lor dialetto indigeno. Pe- culiari circostanze impedirono il corso dello svolgimento civile di que- sto popolo , ond’ esso rimase rozzo per più lungo tempo di tutti gli altri aborigeni affini, i quali dallo stato elleno-barbaro immediatamente , e senz’altra esterna influenza si romanizzarono. Queste prime immigrazioni degli Elleno-Pelasghi nellaPenisola nostra schiusero la via alle successive colonie greche che si sparsero sulle co- ste della bassa Italia e della Sicilia, ove tal numero di coloni e tanta ci- viltà e dovizie accumularono, che quella parte del bel paese occupata da'Greci d’ogni stirpe fu chiamata Magna Grecia, come quella che con- teneva la parte migliore e più nobile e più ricca di tutta la Grecia. Quelle colonie in effetti nacquero povere ed umili, ma giovate dalla feracità del terreno, dalla dolcezza del clima, dalla frequenza del popolo, dalla vi- vacità de’commerci marittimi e terrestri avanzarono presto di potenza e di splendore ogni paese vicino e lontano, ed il loro nome divenne così illustre che bene a ragione i Greci si gloriavano del lor dominio in queste nestre felici contrade (2). Parte scacciati dal continente dell’Italia, parte (ed erano i più) ridotti in servaggio, non rimaneva in assoluto dominio de’ Liguri se non la co- stiera marina dal Varo all’Arno. Entro terra sì allargavano fino al Ticino ed al Po ove mette foce la Trebbia, e con incerti limiti fino al corso supe- riore della Secchia. Di quivi gli Umbri non avevano potuto mai snidarli, perocchè i Liguri tenner sempre fermo e vi si difesero valorosamente. Ma (1) Strabone, VI, 1, 12. (2) Ipsi de ea (Italia) judicavere Greci, genus in gloriam suam effusissimum, quotam partem ex ea appellando Greciam Magnam. Plinio, III, 5. =: nuovi stuoli di popoli venuti dalla Lidia o dalla Meonia, o da tale o tal altro punto delle coste dell'Asia Minore, approdarono in sui paesi fra il Tevere e l'Arno, e furono il seme di que’famosi Tirreni, Raseni, Tuschi, Etruschi, i quali acquistarono sommo impero in Italia pria che dagli umili casolari del Settimonzio sorgesse la città che divenne la più illu- stre e la più gloriosa fra quante mai ne abbia illuminate il sole (1). Commisti ed uniti agli indigeni (2) (Liguri ed Umbri) bentosto creb- bero in potenza, e cominciarono a dilatare i loro confini. Ai Liguri oltre l’ Arno tolsero la spiaggia fino alla Magra, presso alla quale edificarono Luni, ch’indi divenne col suo porto l’emporio più grande della nazione. A] di là dell’Apennino si gittarono sulle vaste pianure che il Po diparti- sce, togliendole agli Umbri, e respingendo i Liguri dalla Secchia fin verso la Trebbia, fondandovi una nuova Etruria che si disse Circumpadana, la quale si diramò fin dentro le Alpi, e vi annodò relazioni con popoli del settentrione. Verso il mezzodì, varcato il Tevere, ridussero in lor potere Volsci e Fidenati, e a poco a poco la terra campana fino al Silaro fon- dandovi una terza Tuscia non men delle altre doviziosa e potente. Più avventurosi furono ì Liguri dal lato delle Alpi che non piegarono dinanzi a'Galli, nè patirono devastatrici incursioni da que’barbari. « Fino (1) Tale è l'origine che l’antichità quasi unanime attribuiva agli Etruschi. Lo storico Dionigi l’impugnava provando che nella religione, nelle lessi, ne’ costumi e nella lingua tra Lidi ed Etru- schi non correva veruna analogia. Parecchi scrittori moderni, poggiandosi sull’ autorità dell’ Alicar- nasseo, sostengono a loro volta la patria de Tusci essere stata nella parte nordico-orientale del- l'Italia. Credono ch'ei sieno giunti nella Penisola dalla parte di terra (mossi probabilmente di Ger- mania) valicando le Alpi retiche, poichè i coloni più antichi stanziati nel paese de’ Grigioni e nel Tirolo, i Reti, parlarono la lingua etrusca fino ai tempi storici. Ma noi sappiamo da autorità degne di fede, che gli Etruschi non venner già dalla Rezia in Italia, ma sibbene ripararono su que’ mon- fani gioghi all'arrivo de Galli che li spodestarono delle terre cisalpine ( Rbetos, Tuscorum prolem, arbitrantur a Gallis pulsos , duce Rbeto. Plin. H, N. III, 20); che dall’Etruria propria, fra il Te- vere e l'Arno, si allargarono intorno al Po, scacciande gli Umbri a’ quali tolsero 300 vuoi città 0 borgate (Trecenta eorum oppida Tuscos debellasse reperiuntur. Plinio, III, 14); che tutte le loro città più antiche erano nella parte occidentale della Penisola, e Pisa e Tarquinia anzi erano città littorane; e che se gl: Etruschi per la fondazione di altre città scelsero di preferenza luoghi interni e montani, io credo che ciò debba riferirsi a tre cagioni principali; la prima per la facilità della loro difesa; la seconda per essere al sicuro di un colpo di mano de’ pirati fenicî e greci che corseggiavano pel mediterraneo; la terza perchè la costiera marina fra l'Arno e il Tevere era insalubre, e non atta a ricevere colonie che potessero prosperarvi. Un'ampia confutazione di tali dottrine trovasi in Risi, Dei Tentativi fatti per spiegare le antiche lingue italiche, capit. IV pag. 145-148. (2) .- - . - Junetosque a sangu.ne avorum Meonios Italis permixta stirpe colonum. Silio Ital. IV, 722. Atti— Vol. II —N.° 1. 10 — "ignae « ad Aosta (cito qui le parole di uno storico insigne) gli antichi abitanti « tenner fermo contro i Galli. I Salassi, i Taurini ed altri eran Liguri, e « i popoli a piè del Gottardo erano Etruschi; i Reti, i Camuni, i Leponzî, « gli Stoni, etc. stettero forti sui loro territorî quasi isole in mezzo ai Galli « che inondavano il paese a guisa di flutto. I Liguri erano un popolo « guerriero quant’altri, e mantennero il posto loro da ambe le parti del- « l’Alpi. Quindi la Gallia Cisalpina occupa soverchio spazio nelle nostre « carte geografiche del Mondo antico. I Galli non ebbero mai un palmo « di terreno di ciò che ai dì nostri appartiene al Piemonte (1) ». Ma l’asserzione del dotto Niehbur non va presa in senso molto assolu- to, perciocchè se i Galli non penetrarono fra i Liguri per conquista e per subite irruzioni, a grado a grado e lentamente pur vi si intrusero , e ne abbiamo tuttavia la pruova in que’ frammenti della loro stirpe che oc- cupano anch’oggi il sommo di quasi tutte le nostre valli alpine, a’ piedi del Morte Bianco e del Monte Rosa, lungo i passi del Gottardo e del Sem- pione, in Valsesia, Val d'Aosta e Val d’Ossola (2). Ne abbiamo la pruova altresì in molti nomi locali celtici del Piemonte e della Liguria (ved. pag. 14), ne tanti gallicismi de’ vernacoli subalpini così bene studiati dal Biondelli (3), e, ciò che più importa al caso nostro , nel color biondo de’capelli e nell’ occhio cilestrino di molta parte de’ nostri Piemontesi. Vi è stata perciò e vi è tuttora non dubbia immistione di sangue gal- lico ne' Liguri subalpini, ma a differenza di quanto avvenne in tutta Ita- lia in cui al tipo ligustico fu sostituito interamente l’Italo-Pelasgo, presso i Piemontesi il tipo celtico fu assorbito quasi allo intutto dal Ligure pre- dominante, e della mischianza delle stirpi non rimangono altre tracce che il biondo capello e l’occhio grigio-azzurro, che non si vedono infre- quenti in mezzo all'occhio ed alla chioma nera della maggior parte della popolazione subalpina. Queste tracce si mostrano anche qua e là nelle altre Province Italiane, e dov’ elle esistono ci ricordano o la presenza di sangue celtico o teutonico , o il primitivo carattere persistente della stirpe Italo-Pelasga , priachè il contatto de’ Liguri non ne avesse mo- dificato il colore delle carni, degli occhi e de’ capelli. (1) Niehbur, Storia Romana, t. I. (2) Gallenga, Op. cit. I, 76. (3) Saggio de' Dialetti Gallo-italici. Milano , 1852. STE Esame dell’ opinione se è Liguri sieno discendenti da’ Libi africani, Il tipo ligure che oggi vediamo ristretto nelle sole Province ligustiche e piemontesi, che pria degli Etruschi si estendeva lungo la spiaggia a mare fino al Tevere e dentro terra fino al Ticino, al Po ed al Panaro, e che pria della venuta delle stirpi Italo-Pelasghe e dell’approdo di coloni ellenici si allargava per tutta la Penisola ; quel tipo distinto particolar- mente per la speciale conformazione del cranio corto , largo, brachice- falo , e che avea con varî nomi popolato in antico tutta l'Europa; quel tipo sì diverso dall’Italo-Pelasgo e dagli altri della Famiglia Indo-Euro- pea, e che noi abbiamo collocato accanto a quello delle schiatte Finno- Ugoriane; quel tipo, a giudizio di alcuni, non deve cercarsi nel setten- trione o nell’oriente dell'Europa, ma sì nell'Africa boreale, fra gli abi- tanti indigeni del vecchio Atlante, fra que'Berberi (dicon essi) che, pas- sato lo stretto gaditano, popolarono la Spagna e la Francia australe, non men che l'ampio littorale che Italia stende innanzi al Mare Inferiore. È un sangue semitico che scorre nelle vene del Ligure, e il suo colore , i suoi capelli, la sua fisonomia sono altrettante pruove ch’eglino adducono a sostegno della loro opinione. Cotali ragioni sembrano a prima vista molto speciose, ma io non istarò a vagliarle sottilmente, perocchè esse trovano un’ ampia confutazione nelle cose discorse nelle pagine antecedenti. Richiamerò soltanto |’ at- tenzione del lettore sugli argomenti storici ed antropologici sui quali ap- poggiano la loro opinione 1 fautori della derivazione libica de’nostri Li- guri, e dall’esame di essi egli vedrà su quanto poco fondamento di vero riposino quelle congetture. Giovanni Villani, scrittore fiorentino del secolo XIV ed autore di una storia della sua patria, fu il primo che parlasse di un Re Atalante che abitava in Africa giù dal. ponente quasi di contro alla Spagna. Narra co- me venisse in Toscana ove fondò Fiesole, la prima città che fosse nella terza parte del mondo chiamata Europa che era tutta disabitata di gente umana; come egli avesse tre figliuoli, e come da uno di essi chiamato Ita- cu de Age lo, che restò in paese, fosse stato imposto il nome all'Italia (1). Ser Gio- vanni Fiorentino scrisse le stesse cose di quelle origini, e pare che quei buoni Toscani si appagassero di coteste fiabe, e le tenessero in conto di verità dimostrate. E veramente non parvero strane neppure allo Scali- gero, il quale ne’ suoi Commentarî a Teofrasto, benchè con modi assai triviali, cosî sì espresse: Sic Genuenses, cum a Mauris progenitoribus ac- cepissent olim morem ut infantibus recens natis tempora comprimerentur , nunc absque ullo compressu, Thersitico et capite et animo nascuntur (2). Non dispiacque questa opinione al celebre dottor J. C. Prichard, come non era neppur dispiaciuta all’ illustre G. D. Romagnosi (3), ma ei non seppe avvalorarla di alcuna pruova, e gli parve poter essere accettabile sol perchè non trovava ne’Liguri affinità con altri popoli di Europa, e li vedeva distinti da’ Celti e dalle altre nazioni continentali (4), Si confor- tava in questa sua congettura dal fatto narrato da Tucidide, che gli Iberi (intendi i Sicani) erano stati discacciati da parte del littorale ispanico che essi abitavano da’ Liguri che se ne impossessarono (3); fatto che venne più chiaramente narrato da Stefano Bizantino, il quale soggiunse che i Liguri, nativi della catena de’ monti a’ piè de’ quali scorre la Gua- diana (6), scacciati da’Celti conquistatori, si gittarono sulla costa d'onde espulsero i Sicani, e vi si distesero dal fiume Ter, in Ispagna, fino all’Ar- no, in Italia, abbracciando in una gran zona circolare il gran golfo che indi portò il loro nome (7). Più tardi appoggiò quell’ opinione, accettata eziandio dall’ Homalius (1) Storie Fiorentine, lib. I, c. 3. (2) Comm. ad Theophrastum. Lugd. Batav. 1566, lib. V. (3) Esame dell’Istoria degli antichi pop. ital. del Micali, in relazione a’ primordi dell’italico in- civilim.— Bibliot. Ital. marzo, aprile e maggio, 1833. (4) Researches, etc., II, p. 38.— « It seems very probable, that the Ligurians were an African people, for we have no proof of their affinity to any of the nations of Europe, and the are gene- rally distinguished from the Celtic and others continental nations ». (5) Finayoi dro t6v Tinayov morapò» 10) ev ’IBnpia Varò Atydasy dvagrdyrss, Lib. VI, c. 2. (6) Aryvorina, mots Atydor, 175 dorati "IBnpixs Eyyis, wai tas Taprnssò0» minsioy. Stet. Byzant. (7) ©. . +. + + Celtarum manu Urebrisque dudum preliis Ligures pulsi, ut sepe fors aliquos agit, Venere in ista que per horrenteis tenent Plerumque dumos. Festo Avieno, Ora maritt. v. 132 e seg = d’Halloy (1), con argomenti più speciosi che veri, il Bory de St. Vincent, al quale non sembrando acconcia l’ Africa ad essere la sede originaria delle popolazioni ligustiche (ed anche celtiche), parve ragionevole che la sommersa Atlantide avesse alimentato i progenitori de’ Liguri , dei Celti, e de’Berbèri, e che quell’Isola famosa, cui l’immaginazion di Pla- tone avea collocato al di là delle colonne di Ercole fra l'Africa e l’Euro- pa, fosse stata la culla de’ popoli occidentali dell'uno e dell’altro conti- nente. Assicura nel Berbèro esser l'angolo facciale identico al francese, identica la spessezza del cranio non meno che le proporzioni del teschio, la proeminenza degli archi sopraciliari, la forte depressione della radice del naso ed il rilievo presso a poco rettilineo del suo profilo (2). Il barone di Belloguet trova dippiù i nostri Liguri aver comuni coi Libî e co’ Numidi l’agilità della persona, la persistenza nel lavoro, la te- nacità de’propositi, la piccolezza del corpo, l’adusta complessione, e con- chiude dalle sue investigazioni: « sembrargli i Liguri di origine proba- « bilmente africana, ed essere della stessa famiglia de’ Getuli e dei Nu- « midi, vale a dire della gran Razza Berbèra distesa ancor oggi sopra tutto « il settentrione dell’Africa (3) ». Imperò dalle addotte ragioni non si trae argomento a poterle ritenere almanco probabili, se non si creda essere bastevole quella sola della vi- cinanza dell’Africa alla Spagna che poteva rendere agevole la migrazio- ne dall’uno nell’altro Continente a traverso lo stretto di Gibilterra. Ma, a dir vero, di questa ragione io ho per fermo niuno potersi intieramente appagare , imperciocchè la vicinanza di due Continenti divisi dal mare non suppone che il popolo dell'uno abbia dovuto necessariamente popo- lar l’altro, quando soprattutto l’arte del navigare non era conosciuta, nè forse erasi ancora inventato il canoto che servì il primo a traghettare sulle acque. Ma anche ammesso che cotesto fosse stato l’ ordine delle cose, io non potrei accettarlo nè pei Liguri, nè per l'Europa intera, poi- chè me ne farebbero schivi i caratteri craniali de’nativi dell'Atlante che sono affatto diversi da que’che son proprì e de’Liguri e degli altri popoli europei, tantoppiù che i cranî berbèri, come si raccoglie degli avanzi rinvenuti nelle necropoli delle Isole Canarie popolate eziandio da stirpe (41) Des Races humaines, 1845, p. 62. (2) Memoire sur l’ Anthropolog. de l Afrique francaise; nel Magasin d’ Anatomie et de Zoologie comparees, 1845. (3) Ethnogénie gauloise, Types Gaulois et Celto-Bretons, p. 310, RA libica, non hanno punto mutato da quel ch’essi erano ne’tempi più re- moti. Sono sempre que'’cranî lunghi, stretti, ovali, dolicocefali, spesso prognati, con fronte bassa e schiacciata, con predominio della metà po- steriore del cranio sull’ anteriofe , con la forma della calvaria tutta lor propria , la quale ascendendo gradatamente dalla fronte verso la parte posteriore del capo si rigonfia e divien gibbosa ed elevata al di sopra del- l’occipite fornito di notevole proeminenza. Onde rendermi sempreppiù certo della vera forma craniale de’ Cabili o Berbèri, dubitando poter essere indotto in errore dalle osservazioni da me fatte sopra que’ cranî, ed anche dalle diverse figure che erano passate sotto i miei occhi, chiesi all’egregio Prof. Gaddi, di Modena, le misure de’ teschi Cabili conservati nel Gabinetto Anatomico di quella Università, ed ora son lieto di poter riferire qui sotto le medesime parole di quel mio distinto amico. « Vengo ora a rispondere a’ quesiti che Ella mi fa, e che si riferisco- no a’cranî berbèri o kabili o kabaili ch'io possiedo, e che formano parte della raccolta craniologica da me fatta pel patrio Museo di Anatomia. Sono questi in numero di tre, due naturali che mi vennero regalati dal sig. Carlo Garavini, di Vignola presso Modena, ed uno formato in gesso che ebbi da Parigi unitamente alla copia pure in gesso di altri teschi. Quest’ ultimo non è propriamente il solo cranio, ma la testa intiera ri- vestita delle sue parti molli, e coi capelli presso che rasi. « Ho praticato la misurazione de’diametri all’esterna superficie, senza tener conto della grossezza delle pareti ossee craniane. Nel modello in gesso v’ è compresa nella misurazione la grossezza eziandio de’ comuni integumenti. l « Il diametro antero-posteriore è preso in tutti dal tubercolo occipi- tale alla parte media frontale sopra la radice del naso. Il bi-parietale o trasversale fra i punti più sporgenti delle gobbe parietali. Il verticale dal lembo anteriore del grande foro occipitale al vertice. « La misurazione dell’angolo facciale è fatta giusta le regole del Cam- per, e l'esterna ispezione della forma del cranio giusta quelle del Blu- menbach. « Il primo cranio è d’individuo adulto maschio, ed offre queste dimen- sioni. Diametro antero-posteriore. . . . millim. 182 —_ bi-parietale.:" sunt uri » 4143 — verlicale. 7 ace. » 150 5 — 79 — Presenta la forma ovale allungata, ed un angolo facciale di 73.°, pei quali fatti lo direi dolicocefalo prognato. _ « Il secondo è d’individuo femineo adulto, e presenta la particolarità di una depressione tutt’attorno in corrispondenza alle suture fronto-pa- rietali. La misurazione dà questi risultamenti. Diametro antero-posteriore. . . . millim. 175 — vbispartietale: | 11. I. » 128 —rvariicalon >... 0. » 425 « La forma del cranio è ovale allungata, e l'angolo facciale di 85°. Sarei indotto a classificare questo cranio come dolicocefalo ortognato. « La testa formata in gesso mi ha dato queste misure, che compren- dono ancora lo spessore delle parti molli. Diametro antero-posteriore. . . . millim. 195 — bi-parietale . . . . . di 153 o igiverticalere 03 10/1 64#H7. » 185 « La forma del cranio è ovale e l'angolo facciale di 70°, ond’io direi questo cranio dolicocefalo prognato ». Aggiungerò per ulteriore chiarezza le misure di tre altri teschi libici desumendole dal Catalogus Craniorum diversarum gentium del sig. Van der Hoeven. « N.° 59. Cranium juvenis viri Cabyli e regione montium Atlantis Minoris. « Cranium ovale, fronte globosa. Occiput supra gibbum. Diametro antero-posteriore. . . . » 184 e MPOSVOFBAIO eo ed » 1894 —_ MERO Ales i, ti Se, DA 74M0) | »' AAT « N.° 60 Cranium femin® ex eadem Cabylorum gente. « Cranium ovale. Os frontis presertim media parte gibbum. Pars posterior ossium parietalium ad occiput reclinata. Facies prognata. CIN Diametro antero-posteriore. . . . millim. 166 in. -bi-parieldile sarimiet anpà » 1438 — è’ verticale parta oi omai 138 Altri quattro cranî berbèri del Monte Atlante posseduti dal sig. J. B. Davis presentano le seguenti proporzioni ch'io m’ ebbi misurate dalla gentilezza del loro possessore. LASA. Diametro antero-posteriore | 174{174|182|181 — bi-parietale 150 | 138 | 199 | 193 — verticale 127 | 133 | 140 | 133 Riassumendo le misure di tutti questi cranî berbèri (senza tener conto delle misurazioni fatte sulla testa modellata in gesso con tutte le parti molli) si ottengono le medie ; pel diametro antero-posteriore di . . . . 477 millim. _ bi-parietale di... ... ..-.1.., 483 » per l'altezza verticale di... _... lit 190 » Onde la proporzione tra la larghezza e la lunghezza in questi cranî è di 75,14 :100, mentre ne’ cranî liguri è di 86,74. Nè minor distacco si osserva tra i cranî ligustici, e que’ de’ Guanchi delle Isole Canarie, i quali si credono imparentati a’ Libì, benchè nel- l’insieme della loro forma il tipo accenni a qualche differenza fra le due genti. Dalle misure di ventidue cranî guanchi ottenuti da’ sepolcreti dell’ Isola di Teneriffa ed or conservati nella collezione del prelodato sig. Davis, si rileva parimenti che il diametro fronte-occipitale rag- giunge in media i 175 millim. e il bi-parietale i 137 millim., di guisa che l’ indice cefalico di questi cranî, o la proporzione media tra la lar- ghezza e la lunghezza, considerata come 100 non è maggiore di 78,63. Da tali descrizioni e misure egli è agevole il conchiudere quanto di- stino fra loro i cranî liguri da’ berbèri , e quanta in conseguenza sia la differenza fra i nativi della Liguria e gli abitanti indigeni dell’Africa set- ee tentrionale. Questa differenza aggiunta all'altra degli idiomi assolutamen- te diversi ed appartenenti a due famiglie glossologiche distinte è la più stringente confutazione di quella opinione che fa derivare gli Iberi ed i Liguri dal Continente Africano, e popolare dalla stirpe libica la Spagna, l’Italia e il mezzogiorno della Francia (1). CONCHIUSIONE Le considerazioni che precedono ci riconducono spontaneamente alla dottrina che noi siamo venuti fin qui rischiarando con argomenti desunti dalla storia, dalla linguistica , dalla craniologia, e danno maggior con- ferma alle nostre asserzioni: essere i Liguri un frammento superstite di quelle stirpi antichissime che abitavano l’ Europa ne’ tempi antestorici pria della venuta degli Ariani; stirpi che si ricongiungono altresì, per la forma del cranio, con quelle altre schiatte dell'Europa che noi chiamiamo Finno-Ugoriane, o con vocabolo più generale e meglio accolto Turania- ne. Pria di por termine alla presente Dissertazione credo necessario di chiarire il significato di quest'ultima parola, e precisare il senso in che essa è stata da me adoperata. Il vocabolo Turaniano non è molto antico , e si legge la prima volta nello Shah-Nameh di Firduzi (2) che serisse la sua Epopea nel X-XI se- colo dopo G. C. Il celebre poeta usò quel nome in un senso mitico, in- dicando con esso tutte le stirpi non ariane , straniere o barbare (come avrebbero detto i Greci), ma più particolarmente le nazioni che abita- vano la Scizia, regione immensa che ne’vetusti tempi siallargava al nord- ovest dell'Iran per l’ occidente asiatico e l’ oriente di Europa. Più tardi con quella espressione si vollero intesi coloro che non credevano, e fu ap- plicata a’ popoli che non seguivano la religione di Zoroastre (3), onde (1) « Les Iberes appartenant à la famille des Berbères d’ Afrique , au dire de certains auteurs , auraient passé le détroit de Gibraltar vers l'an 2000 avant notre ère pour s'établir en Espagne et dans le midi de la France » (!!). Gosse, Essai sur les déformations artificielles du crane, pag. 143. (2) « A Selim assegnò Feridum Rum e Khaver; a Tur, Turan, e ad Irij, lran o la Persia ». The Shah-Nameh of Firdousi, trad. Atkinson. London, 1832, p. 50, 161-2, 549 nota. (3) « Iran aut Ilan est Persia culturi zoroastrico addicta, orthodoxa; Andran s: Anìlàn sunt pro- vincie extrane®, Sassanidarum imperio subiecte, que quoque nomine Turan, i. e. Transoxana a scriptoribus orientalibus appellantur, quarum incol®e ab ignicolis vel heretici, vel irreligiosi habiti sunt ». Tychsen, de cuneatis Inscriptionibus Persepolitanis lucubratio. Rostock, 1798, p. 41, nota, Atti — Vol. II. N.0 1. 11 — 32 —- nello zend-Avesta e nel Boun-dehesch-Pehlvi (1) onori e vittorie sono predette all'Eeriené Veedjo, il Puro Iran, e sciagure e disfatte al popolo di Turan. In modo assai più vago , in tempi più recenti, la voce Turan ha servito ad indicare ora etnicamente popoli Aniraniani, cioè non Per- sianì , ora geograficamente le contrade dell’ occidente, ora, secondo lo spirito di una setta religiosa , i popoli che non credevano alla fede da essa professata. Allorchè il Sole era adorato in tutta la Persia, e il fuoco sacro bruciava nell’ Iran, erano figli di Tur tutti coloro che non erano Persiani, nè seguaci di Zoroastre. Di poi, mutato il culto dell’astro mag- giore in quello dell'Islam, gli stessi Persiani divennero Turaniani, e non rimasero puri Ariani che gli ignicoli Parsi , che pretendevano essere i soli e puri discendenti de’ Zoroastridi antichi. Ora la voce Turan è ge- neralmente adoperata in un senso molto lato. D’ ordinario s’ intendono con essa i popoli Finno-Mongollici, e in questo senso è adottata altresì da’ filologi che sotto il nome di lingue turaniane comprendono tutti gli idiomi parlati in Asia ed in Europa non compresi nelle Famiglie Ariana e Semitica, ad eccezione del cinese e suoi dialetti (2). Servendomi del vocalo turaniano io ho inteso di usarlo nel suo senso primitivo , nel senso etnologico come fu adoperato dal Firduzi , ed in- tendo con essa appellazione i popoli che gli antichi chiamarono Sciti, e che molti anche oggi continuano a chiamar tali, e che altri appellano Finni, Finno-Altaici, Finno-Ugoriani, o Finno-Uraliani. Sotto cotesta de- nominazione di Turaniani io comprendo adunque quelle popolazioni che nelle mie « Razze Umane » chiamai Finno-Ugoriane (3) (espressione di cui mi sono servito anche sovente in queste pagine), ed alle quali ag- giungo i Turchi Osmanlini che, secondo già dissi innanzi, mi sembrano essere i discendenti di quegli Unni Eftaliti che dalla Transossiana pas- sarono co’ Seldjucidi nel secolo X in Persia, e dalla Persia vennero alla conquista delle Province bizantine del Bosforo e dell'Asia minore. È sotto questa categoria medesima che io riunisco non pure gli Iberi ed i Liguri, ma tutte le altre popolazioni ante-storiche dell’ Europa, le quali precedettero gli Ariani nel nostro Continente, e lo tennero in loro (1) Anquetil du Perron, Zend-Avesta. Paris, 1774. I. P. 1. p. 16.-20.-26, Il, 348 e seg. (2) Il Max Muller ( On te science of language ) deriva la voce turaniano da Tura, che indica la rapidità de’ cavalieri. Egli applica questo nome alle razze nomadi dell’ Asia, come opposte‘alle agri- cole o razze Ariane. (9) Razze Umane, II, p. 12-32. — o. dominio per tutta quella grand’ epoca la quale va distinta col nome di epoca della pietra. A molti sembrerà per lo meno strano cotesto ravvicinamento; e par- rà, io mi penso, singolare che i Liguri abbiano nelle vene loro quel me- desimo sangue che scorre ne' Finni, negli Ungheresi , neì Turchi di Europa ed in altri popoli della stessa stirpe viventi nel reame svedese e nell'impero moscovita. E strana parve anche a me questa deduzione allorchè la prima volta mi si affacciava al pensiero, ma le molte ragioni di che sopra ho toccato mi persuasero ad accettarla, ed ella si è conver- tita al presente nell'animo mio in una profonda convinzione. Non dirò per questo esservi completa identità fra i nostri Liguri e le rimanenti popolazioni turaniane, ma non temerò di affermare, che sic- come que’ primi abitatori della Penisola , del pari che di tutta Europa, non erano di stipite ariano, così anche coloro che attualmente ne con- servano le sembianze sono distinti etnicamente da'popoli di questaschiat- ta. E come fra gli Ariani i varî rami in che eglino si scompartiscono si differenziano altresì, entro certi limiti, e per forme corporali e per qua- lità di natura, così gli abitatori antestorici della nostra Europa, benchè di una sola Razza , erano anch’ essi fra loro diversi e per aspetto e per altri caratteri naturali. Le quali varietà perdurando tuttora nelle varie diramazioni del medesimo tronco turaniano, non credo voglia addebitar- misì a sforzo d’immaginazione se io ho per fermo, che le fossero esistite parimenti in antico, e che i vetusti Liguri non avessero avuto con gli altri popoli aborigeni dell'Europa se non quelle medesime relazioni che i Liguri odierni conservano anch’ oggi con le popolazioni della stessa origine , tenuto conto però de’ lor non mai intermessi connubì e fram- mischianze con le genti conterminì di stipite indo-europeo. Tra le quali relazioni più notabile delle altre abbiamo veduto essere quella della for- ma brachicefala del cranio che io trovava somigliante fra i Liguri ed i popoli compresi sotto la comune appellazione di Turaniani, forma cra- miale diversa dalla dolicocefala delle Razze Indo-Europee, ad eccezione degli Slavi, ne’ quali , come a me pare, l’ elemento ariano è superato dalle scitico o turaniano. Che i Liguri non fossero stati originariamente un medesimo popolo co’ rimanenti abitatori dell’ Italia anche le testimonianze degli scrittori degli antichi tempi ad ogni tratto ce lo rammentano, e più d'ogni altro ce lo chiarisce il fatto, che mentre tutti gli altri Italiani si amalgamarono * cel tosto fra di loro, e si riunirono in un sol patto sotto l’alto dominio della Città Eterna, i Liguri ostinatamente rifiutavano di obbedire all’autorità di Roma, ed aspre e diuturne guerre sostennero per conservare la pro- pria indipendenza, e serbarsi stranieri alla comunanza politica italiana. Anche vinti, rimasero per lungo tempo sceverati dal resto d’Italia, e non fu se non l’opera de’secoli che venner dopo, che stringendosi co’ popoli circostanti ne trassero in gran parte i costumi, e sopra ogni altra cosa la lingua, ed innestandosi gli uni negli altri acquistarono il reciproco sen- timento di fratellanza, e con voce profonda di cuore han di poi sempre chiamato e salutato col nome comune di patria quant’ è il terreno che si distende dall’Alpi a Scilla e dal Mar Tirreno all’Adriatico. Ma benchè fra i Liguri e gli altri Italici sì stabilisse comunione di favella , di reli- gione, di statuti municipali e di latine tradizioni, non però mai si spense quella varietà portentosa che ha sempre distinto il settentrione dal cen- tro e dal mezzogiorno dell’Italia; e chi ponga mente a’ raffronti storici e consideri quel che furono e quel che sono anch’ oggi i popoli della Liguria e del Piemonte , troverà per avventura il loro stampo esser ri- masto tuttora vergine ed immutato. E per fermo gli antichi ci rappre- sentano unanimamente i Liguri come i più gagliardi degli uomini (4), e vi erano proverbì i quali dicevano che gracil Ligure valesse più di for- tissimo Gallo, e che le loro donne aveano il vigore degli uomini, e que- sti quello delle fiere (2. Le donne infatti prendevano parte a tutti i la-. vori del sesso forte, e quella loro soprannaturale gagliardia faceva inarcar le ciglia al buon greco Posidonio (3) quand’ egli vedeva puer- puere tornare alla marra appena sgravate , datosi solo il tempo di la- vare il neonato nelle gelide acque del più vicino ruscello. Svezzati ap- pena i fanciulli gli avvezzavano a procurarsi con l’arco e la fionda il ci- bo , e stropicciavano loro continuamente le membra per renderle più flessibili e pronte. Sulle coste si davano al mare quasi fosse il lor nati- vo elemento , e lo dominarono gran tempo avanti l’ èra fenicia ed elle- nica. Vivendo i più sopra un terreno povero e petroso erano giunti a dissodarlo stritolando il macigno e ingrassando la rena, e non potendo neppure con la fatica e con l’arte superare la sterilità del suolo, uomini e donne si allogavano fuori paese per faccende rusticane. E comechè (1) Strabone, V. (2) Diodoro, V. (3) Strabone, III. == grandemente incerta apparisse la propria loro natura e povero il loro stato, non per questo si meritavano quella bruttura di ladroneccio , di menzogna e di frodi in che si dicevano allevati (1); imperocchè se i Ro- mani li chiamavano per ispregio ladroni e peggio , quel vocabolo che i popoli vincitori posero parimenti ai Sanniti non aveva altro significato se non quello di uomini accorti, destri, insidiosi negli agguati di guer- ra, ed espertissimi in quelle maestrie che suppliscono al difetto del nu- mero e della forza con la sagacità e con l’astuzia. « Tuttavia in questa razza non è ancora al dì d’oggi cancellata ogni traccia della sua robu- sta virilità d'altri tempi. In Piemonte e in Liguria il popolo compa- rativamente _ 2 - 2 - z « Tiene ancora del monte e del macigno »; « una certa sobrietà, una gravità, una sodezza, una più che italiana vi- s talità può tuttavia scorgersi nelle genti subalpine, qualità che hanno « senza dubbio contribuito a distinguerle dai loro fratelli di levante e « di mezzogiorno (2) », « e che han giovato a plasmare quella loro forte « e tenace indole, quell'amore della stabilità e dell'ordine che fa di essi « il popolo meglio fazionato a governo, come dice il Botta (3) »; quel po- polo che, divenuto egemonico in Italia , potè promuovere la riunione delle divise membra materne, e spianare la via alla ricostituzione della nostra unità nazionale, desiderio, speranza e voto di tanti secoli ! E qui raccogliendo le sparse fila del nostro discorso, ei mi pare che possa dirsi rimaner dimostrato: 1°. Essere i Liguri odierni discendenza diretta di que’ Liguri dell’an- tichità che nell’ epoche antestoriche avean popolato non pure l’Italia , ma parte ancora della Francia e della Spagna; 2°, Esser eglino di stirpe affine a quelle altre genti che abitavano l’Eu- (1) Sed ipsi ( Ligures ) unde oriundi sunt exacta memoria illiterati, mendacesque sunt, et vera minus meminerunt. Cato in origin. ap. Servium, XI, 75. Non diversamente diceva di loro Nigidio Figulo: nam Ligures qui Apenninum tenuerunt latrones , insidiosi, fallaces, mendaces; e Virgilio, Fneid. XI, 715-47. Vane Ligur, frustraque animis elate superbis, Nequicquam patrias tentasti lubricus artes : Nec fraus te incolumen fallaci perferet Auno. (2) Gallenga, Op. cit., I, 77. (3) Gioberti, De! Primato. Napoli, 1848, II, 181. — $6—- ropa innanzi l’arrivo de’ popoli Ariani; stirpe distinta pel carattere bra- chicefalo del cranio , e per quelle altre qualità di natura che sono pro- prie della schiatta turaniana; 3°. Le colonie Ariane venute in Italia avervi in parte sostituito i più antichi abitatori, ed essersi soprapposte alla razza indigena, il cui tipo scomparve e fu assorbito dall’ ariano che divenne il tipo generale della Penisola. 4°. Ma in Piemonte ed in Liguria la vecchia Razza sì serbò predomi- nante, onde quivi il tipo antico o non fu punto, o fu solo lievemente modificato; perocchè anch’oggi è osservabile nella maggioranza degli abi- tanti di quelle Province la forma del cranio brachicefalo, la quale si con- serva immutata da quella ch’essa era nell'età più remota. 5°. Non pertanto i nativi del Piemonte e della Liguria, compenetrati col resto degli abitatori della Penisola, e vincolati con essi per comu- nanza di lingua, di religione e di costumi, han da lungo tempo formato insieme una sola nazione, come tutto il gran territorio fra l’Alpi e il Mare ha formato da gran tempo e forma al presente una sola e indivi» sibile patria. — 87 SPIEGAZIONE DELLE TAVOLE Tav. I. Cranio ligure antico, di sesso femmineo, rinvenuto il 1862 in Torre della Maina, paesetto di collina distante dieci miglia da Modena, descritto a pag. 29. TAv. II. Altro cranio ligure antico , di sesso maschile , rinvenuto pa- rimenti il 1862 in Torre della Maina, descritto a pag. 31. Tav. III. Lo stesso veduto di faccia. Tav. IV. Cranio ligure odierno di un montanaro della Liguria. Tav. V. Lo stesso veduto di faccia. Tav. VI. Cranio di un individuo nativo della Provincia di Torino. Tav. VII. Lo stesso veduto di faccia. i i ; si veri AI n l : segg Ni IGNOTI, sd E E io h Stgrteil DICA i DIE 3 Aa el | : --8 aa: NOLI. . UE vottàt SICA Per vuTsi na i oli saovala ; ott senso 0azse ID. 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Tra gli udometri grafici di cui si hanno descrizioni, primeggia senza dubbio quello di Horn consistente in una navetta divisa in due compar- timenti la quale essendo bilicata nel mezzo è costretta ad oscillare per lo peso dell’ acqua che alternativamente va a riempiere le due cavità in cui essa è divisa. Ingegnoso del pari è l’ udometro grafico di Kreil nel quale un piccolo recipiente è costretto a versarsi quando è pieno, ed una leva con una matita segna sulla carta il numero delle volte che il detto recipiente si versa. In questi congegni si ha sempre dell’acqua perduta. L’udometro che vi presento mi pare corrispondere in una maniera più precisa allo scopo cui è ordinato. Esso consiste in una ruota portante nella sua circonferenza 10 cassette le quali per altrettanti cannelli a gui- sa di raggi comunicano con una cavità cilindrica ch’ è verso l’ asse : en- tro di questa a dolce strofinio se ne trova un’altra la quale ha una sola apertura. L'acqua entra in questa cavità cilindrica interna e per quel- l’ apertura della quale di sopra è detto passa a riempire una delle cas- sette, la ruota allora perduto l'equilibrio fa un passo , e versandosi l’ ac- qua della cassetta che s'era piena, si riempie la seconda e così appresso. Ogni cassetta che passa fa muovere mercè una leva a zanca una matita la quale fa un tratto sopra di una carta che si muove a passo misurato per un congegno di orologeria. Atti — Vol. II.— N.02 1 LARE La vasca superiore è di tale ampiezza che ogni millimetro di acqua riempie una delle cassette della ruota , per cui si avrà sulla carta la in- dicazione della quantità di pioggia, della sua durata ec. Sulla stessa carta verrà indicata anche la forza e la direzione del vento per mezzo di congegno anemografico che vi descriverò in altra occasione, non aven- do ancora ricevuta l’ ultima mano. A rendere più chiara la intelligenza di questo strumento vi aggiungo il disegno della ruota di sopra indicata. L’ acqua viene dalla vasca su- periore per un cannello a nell’ asse cilindrico della ruota a cassette d. Questo asse è fisso ed ha una sola apertura orizzontale verso la parte destra : sopra questo asse la ruota è mobile , e siccome essa ha dieci raggi che sono dieci canali, così un solo di questi corrisponde con l’a- pertura anzidetta e dà passaggio all’ acqua per riempire la cassetta che sì trova in sito orizzontale ; questa empita discende e si versa passando in suo luogo la seconda e così appresso. Ogni cassetta che passa urta per un istante un braccio di leva 2 il quale abbassandosi trasporta la matita v sulla carta avvolta sulla ruota m mobile per un congegno di orologeria. Verso la sinistra la ruota a ‘cassette porta un meccanismo di scappamento che obbliga le cassette a presentarsi regolarmente in di- rezione dell’ apertura dell’ asse interno della ruota. Ogni cassetta è del- la capacità di 200 centimetri cubici di acqua e la vasca superiore ha la sezione di 2000 centimetri quadrati, onde per ogni centimetro di acqua che cade la ruota fa un giro, dando dieci tratti di matita sulla carta ognuno de’quali corrisponde ad un millimetro di acqua caduta. La carta essendo divisa in ore si saprà quando la pioggia cominciò, che durata ebbe e con quale intensità discese. L’ acqua che si versa dalle cassette della ruota cade in una vasca sottoposta c dalla quale può essere rac- colta in un vase graduato che può servire di controllo. e "Stp WWSUTT ‘Aes = } / == / 4) = / | j 4) UU DIDIÙ \ S N Ò MISE DLP ELLA? D/ pisa 22 PNCA?Y, : LILjgra Vol. II. IA ATTI DELLA R. ACCADEMIA DELLE SCIENZE FISICHE E MATEMATICHE RICERCHE SULLE RELAZIONI TRA LA GEMINAZIONE DEI CRISTALLI ED IL LORO INGRANDIMENTO MEMORIA DEL SOCIO ORDINARIO A. SCACCHI letta nella tornata del dì 8 novembre 1863. I particolari co’ quali si produce l'ingrandimento dei cristalli offrono argomento di studio che, mentre sembra piuttosto sterile e mancante di attrattive per gl’ingegni speculativi, son di avviso che potrà tornare molto utile al progresso della cristallografia. Ricerche di tal fatta che acquistano una certa importanza considerate nel loro insieme, e mettendo a riscontro i diversi fatti gli uni con gli altri, mi propongo rendere di pubblica ragione in particolare lavoro quando esse saranno meglio avan- zate verso il loro compimento. Ora mi limito ad esporre un fatto esami- nato sino al presente in poche specie di cristalli, il quale riferendosi allo stesso tema del loro ingrandimento, offre la speciale condizione che non sembra possibile renderne ragione senza ammettere un ignoto e non pre- vedibile rapporto tra il fenomeno della geminazione e l’altro dell’accre- scimento; 0, ciò che vale lo stesso, senza ammettere nel fatto della ge- minazione una forza maravigliosa di cui non si era punto sospettato per lo innanzi. Egli è altresì notevole che essendovi diversi modi di gemina- zione, non tutti hanno la medesima efficacia, e la maniera di agire della medesima specie di geminazione varia moltissimo secondo che 1 cristalli si trovano esposti a ricevere un accrescimento più o meno rapido. Atti— Vol. II.—N.° 3. 1 3 dgr Nella memoria sulla polisimmetria dei cristalli che ho presentato al- l'Accademia nello scorso mese di maggio, comparando i cristalli del sol- fato potassico prismatico con quelli del solfato potassico romboedrico , ho semplicemente annunziato che i cristalli geminì del primo s’ingran- discono assai più presto dei cristalli semplici della medesima specie, la qual cosa non avviene per i cristalli gemini romboedrici, nei quali il fenomeno della geminazione procede in particolar guisa affatto diversa dalle geminazioni ordinarie. Ho pure annunziato lo stesso fatto discor- rendo del paratartrato acido di soda triclino; ma per non molto dilun- garmi dall’ argomento di quella memoria, ho tralasciato di esporre gli esperimenti per i quali era venuto a quelle conclusioni, ed il naturale sviluppo delle medesime ricerche sopra altre specie dì cristalli. Quando ho cominciato a studiare questo argomento ho molto dubitato della straordinaria efficacia che per i fatti osservati mi sembrava dover attribuire alla geminazione; almeno non sapeva rendermi esatto conto della importanza di tali fatti. Ed anche adesso che mi son determinato a pubblicarli, se li stimo meritevoli dell'attenzione dei naturalisti, non so dire qual sia il loro vero valore. Quel che più mi è stato dispiacevole in queste ricerche è provvenuto dalla difficoltà di trovare sostanze che, al pari del solfato potassico, si prestassero alle necessarie esperienze per giungere a risultamenti sicuri. Di molte sostanze cristallizzabili non è facile avere sì i cristalli semplici che i geminati; avendo le due qualità di cristalli, è poi non meno difficile trovarne di tale natura che s’ ingran- discano nelle acque madri senza che il loro accrescimento venga di leg- gieri disturbato da inconvenienti di varia natura. Sulle sostanze molto solubili non si può fare assegnamento, perchè divenute le soluzioni eri- stallizzanti, nuovi cristalli si aggiungono e sì attaccano a quelli che si erano cominciati ad ingrandire; per le sostanze pochissimo solubili spesso avviene essere più facile la produzione di nuovi cristallini che l’ingran- dimento dei cristalli immersi o preesistenti nelle soluzioni; in tutti ì casi se sopraggiunge un abbassamento di qualche grado di temperatura, se l'evaporazione diventa molto rapida, se in altre guise il liquore è distur- bato dal suo tranquillo e moderato procedimento, il più delle volte non si può tener più conto dei saggi intrapresi. Egli è però che il chiarire con esperimenti l'argomento preso a trattare è più difficile di quel che a pri- ma giunta potrebbe sembrare. Intanto prendendo ad esaminare in questa memoria la riferila pro- prietà dei cristalli gemini, è d’uopo ricordare che lo stesso fatto della es: ì geminazione è causa di altri notevoli fenomeni cristallografici, 0, se non è rigorosamente dimostrato che tali fenomeni derivino dalla geminazione, è per lo meno manifesta la loro intima relazione. Così nei cristalli di sol- fato potassico prismatico ho mostrato come la poliedria di alcune specie di facce è in tale stretto rapporto con i piani di geminazione che sembra essere necessaria conseguenza dei medesimi (1). Nei cristalli della stessa specie ho pure fatto conoscere che essendo essi geminati s' impiantano col piano di geminazione perpendicolare al piano di attacco, fig. 23 a 26 (2) mentre i cristalli semplici s' impiantano per una delle estremità @', @, fig. 4. Nei cristalli di paratartrato acido di soda prismatico si ha che i cristalli semplici sono sempre stranamente rampollanti, al contrario dei cristalli gemini i quali non presentano alcun segno di rampolli (3). D'al- tra parte i fatti di recente studiati nei cristalli gemini del solfato potas- sico, siano romboedrici , siano prismatici , aggiungono novella impor- tanza al fenomeno della geminazione. Sono al certo ammirevoli le gemi- nazioni superficiali sulle facce poliedriche 4, fig. 76, dei cristalli rom- boedrici e sulle facce m/, m'', fig. 22 e 27, dei cristalli prismatici ge- minati per 0.Ed ancora più maravigliosa è la legge che determina i gruppi geminati per e e per o, fig. 1, nei cristalli prismatici. Essendo moltis- sime le combinazioni possibili di cristalli gemini per e e per 0, si è ve- duto in quelle sin ora osservate non esservi mai geminazione da entrambi i lati della medesima faccia #; ed essendovi geminazione per o in una parte «, nell’ altra parte opposta e’ vi è sempre un’altra geminazione sia per o sia per e (4). Per questi fatti è facile prevedere che dallo studio approfondito dei cristalli gemini può ripromettersi la cristallografia non lievi soccorsi al suo avanzamento Prima di esporre i fatti per i quali son pervenuto a conoscere il più rapido ingrandimento dei cristalli gemini ragguagliati ai cristalli sem- plici della medesima specie, stimo opportuno trattenermi ad esaminare il fenomeno conosciuto col nome di geminazione dei cristalli, ed esporre qual sia al presente la mia opinione su tale fenomeno. (1) Sulla poliedria delle facce dei cristalli. Memorie della R. Accademia delle Scienze di Torino. Tomo XXI, 1862. (2) Le figure citate in questa memoria sono quelle stesse che accompagnano la precedente memo- ria sulla polisimmetria dei cristalli. (3) Sulla polisimmetria dei cristalli; pag. 100 e seguente. {4) Per la più ampia esposiziono di questi fatti può riscontrarsi la citata memoria sulla polisim- metria. A es I cristallografi chiamano gemino ogni cristallo formato dall’unione di due cristalli in fal modo congiunti insieme che uno di essi prenderebbe la posizione dell'altro girando intorno ad un asse determinato per un arco di 180°. Questa definizione esattissima quando serve ad esprimere il fatto dei cristalli gemini tale quale sì presenta alla nostra osservazione, mena naturalmente ad un concetto riguardo al modo della sua produzione che non è del pari esatto. Dappoichè essa fa presumere due principali con- dizioni; la prima cioè che il cristallo gemino sia in origine formato dal- l'unione di due cristalli , e la seconda che i due primitivi cristalli nel congiungersi avessero avuto un determinato movimento l’uno rispettiva- mente all’altro. Supponendo che i cristallini prima di geminarsi sì tro- vino identicamente situati, questo movimento sarebbe determinato dalla legge che, uno di essi restando immobile, l’altro giri per un arco di 180° intorno ad un dato asse. Ora le riferite condizioni non sono comprovate da alcun fatto; e quantunque i cristalli gemini apparissero come formati dall'unione di due cristalli, tale apparenza non basta perchè se ne debba conchiudere che nell’iniziarsi il fenomeno della geminazione realmente due distinti cristalli si congiungano. E come vedremo or ora si può di leggieri attribuire ad altra cagione la particolare apparenza dei cristalli gemini. La seconda condizione del movimento scambievole tra i due eri- stalli è ancora qualche cosa che non mi sembra probabile, non conoscen- dosi la cagione che potrebbe produrre tale movimento. D'altra parte poi entrambe le condizioni se fossero vere, ne conseguirebbe che in tutti i casi di cristalli gemini vi sarebbe un piano di geminazione perpendico- lare all'asse di rivoluzione; e di più i cristalli geminati si dovrebbero fa- cilmente disgiungere nel verso del piano di geminazione come più o men facilmente si separano i cristalli congiunti per caso senza alcuna legge determinata. Intanto l’esperienza dimostra che nel separare l'uno dal- l’altro i cristalli che costituiscono i gruppi geminati s'incontra la mede- sima resistenza che si ha nel disgiungere una parte dall'altra del mede- simo cristallo. E se in molti casi è chiaramente distinto e ben definito il piano di geminazione, sono altresì frequenti gli esempî nei quali non si rinviene alcun determinato confine che faccia riconoscere la superficie per la quale l’uno all’altro si congiungono i cristalli dei gruppi gemina- ti. Questo principalmente succede spesso in diverse specie di cristalli tri- clini o monoclini nei quali l’asse di rivoluzione è parallelo agli spigoli di una zona di facce esistenti nel cristallo senza che sia possibile nello stesso cristallo una faccia perpendicolare al medesimo asse; come pure suc- e I cede nella fluorina, nella sodalite, nel sale ammoniaco, nella cabasia ed in altre sostanze, nelle quali i cristalli dei gruppi geminati si congiungono in modo che sembrano gli uni con gli altri compenetrarsi. Quantunque sull’ intima costituzione fisica dei cristalli nulla ancora conosciamo di certo, nondimeno possiamo adottare l'ipotesi che i cri- stalli siano composti d’impercettibili molecole dotate di forze attrattive in determinate direzioni con particolari proprietà in ciascuna direzione, le quali direzioni con le corrispondenti loro proprietà particolari sono in rapporto con la forma di ciascuna specie di cristallo. Questa ipotesi non è contradetta da alcun fatto, e sentiamo una specie di necessità di adot- tarla come mezzo indispensabile per esprimere le nostre idee. D'altra parte poi non entrerò ad investigare qual sia la forma delle mo- lecole, ovvero se esse abbiano forme determinate, sembrandomi i risul- tamenti di tali ricerche nè capaci di esatta dimostrazione , nè in aleun modo proficui per le conseguenze che se ne potrebbero far derivare. Per le medesime ragioni non entrerò ad esaminare se tra le molecole dei cri- stalli vi sia perfetto contatto, o se invece siano esse allogate a qualche di- stanza le une dalle altre. Intanto debbo soggiungere che ciascuna molecola isolata pare che non abbia se non la semplice attrazione per ogni verso uniforme, e che le ri- ferite direzioni di speciale attrazione si manifestino quando le molecole sì per la loro vicinanza e sì per altre favorevoli condizioni giungono ad esercitare l’una sull'altra l'influenza della loro scambievole attrazione. Sì perviene a questa conclusione per alcuni fatti e per considerazioni di- verse delle quali mi basta riferirne una sola. Prendiamo ad esempio le molecole dei cristalli trimetrici e conside - riamo in esse tre direzioni, ciascuna di speciale attrazione, parallele agli assi cristallografici. Se volessimo supporre altra maniera di direzioni at- trattive, purchè in rapporto con la forma dei cristalli, si giungerebbe sempre allo stesso risultamento. Chiameremo a, bd, c le tre direzioni di forze attrattive di una molecola x; a’, d', c‘ le medesime forze altrattive in determinate direzioni di una seconda molecola y, e così di seguito a", b'', c'' per una terza molecola <, e per altre molecole in numero in- determinato. Osserveremo poi che queste forze convengono tutte nella qualità di attrarre, mentre quelle dinotate con lettere diverse sono tra loro differenti, sia pel grado d’intensità, sia per altre qualità che per ora non importa d’investigare. Ciò premesso se supponiamo le molecole @, y, 3 già fornite rispetti- — ( — vamente delle forze attrattive a, d, c; a', d', c'; a", b'', c'' prima di con- giungersi, è facile intendere che dalla loro unione non può derivarne che confuso aggruppamento senza quei precisi caratteri geometrici che na- tura ci offre nei cristalli trimetrici. Dappoichè quando le molecole x, y pervengono al punto di esercitare la loro seambievole attrazione, tranne il caso fortuito ed estremamente raro che le direzioni del medesimo nome s' incontrino esattamente nel medesimo verso; in ogni altro caso il modo di loro unione non sarà soggetto ad alcuna legge. Se per esempio y s'in- contra con x in modo che stiano esattamente o approssimativamente b' nel verso di a, e 3 incontrandosi con x ed y stia ec‘ nel verso di d e d'' nel verso di a', ne dovrà seguire che x, y, < rimarranno stabili nella po- sizione che deriva dal loro accidentale incontro, perchè l'attrazione è qualità comune a tutte le tre direzioni, nè vi può essere ragione per- chè d' di y con a di 2, ovvero e” di < con d di x non debbano scambie- volmente altrarsi. In generale dunque nella ipotesi che le molecole iso- late siano dotate di speciali forze attrattive in determinate direzioni, la posizione scambievole che esse prenderanno nel congiungersi dipenderà dal verso pel quale s'incontrano e dalla intensità di azione scambievole che esercitano le une sulle altre le forze attrattive delle diverse molecole in conseguenza del medesimo verso pel quale queste s'incontrano. Con- dizioni che non potrebbero dare nei cristalli nè una forma costante, nè alcuna forma regolare. Dietro la considerazione fin qui esposta fa d’uopo conchiudere che le speciali direzioni di forze attrattive sì producono nelle molecole allor- quando queste pervengono ad esercitare la loro scambievole azione. Ed allora è facile intendere come il punto pel quale le molecole sì toccano o il punto di minore distanza , nel caso che esse non giungessero a toc- carsi, servirà a stabilire le direzioni attrattive. Per esempio la linea che congiunge questo punto con i centri delle molecole darà la posizione di una direzione di speciale attrazione; due altre linee che, partendo dal cen- tro di ciascuna molecola, siano inclinate tra loro e con la prima linea con determinati angoli variabili, secondo la natura della sostanza cristalliz- zante, daranno due altre direzioni di speciale attrazione. Quindi in ogni molecola che si accosta per congiungersi al primo gruppo di molecole verranno ad ingenerarsi le speciali direzioni di attrazione conformi alle direzioni attrattive preesistenti nelle prime molecole. Facciamo ora osservare che può avvenire, ed avviene d’ordinario, che in tutte le molecole che compongono un cristallo le direzioni attrattive Lalla dello stesso nome si producano sempre le une alle altre parallele , che siano cioè parallele le «, a’, a'' ec. come pure le d, d', d''e lec, c', e, ed allora è chiaro che ne nascerà un cristallo semplice. Può invece av- venire che in due molecole primitive 2 ed y che si congiungono (e vale lo stesso per una molecola che si congiunge ad un gruppo di molecole ) per cagioni finora ignote le direzioni a, è, c di x non si producono ri- spettivamente parallele alle direzioni a’, d', c' di y; ma invece, secondo i diversi casi una sola di esse, o due, ovvero tutte tre si generino tra loro inclinate con determinate leggi. Di più per le molecole che in seguito si congiungono ad x le direzioni attrattive si svolgano sempre rispettiva- mente parallele ad a, d, c, come rispettivamente parallele ad a', d', e‘ si svolgano le direzioni attrattive delle molecole che si congiungono ad Y. La conseguenza necessaria di questa particolare maniera di prodursi le direzioni attrattive nelle molecole sarà che il cristallo ingrandito ci si presenterà con i caratteri proprî di quei cristalli che diciamo gemini. Dalle cose poi ora dichiarate si deduce che la differenza tra i cristalli semplici ed i cristalli geminati sta in ciò, che nelle molecole che com- pongono i primi le direzioni delle forze attrattive si sono generate tutte rispettivamente parallele, mentre nei secondi si sono svolte , nell’ ini- ziarsi il fenomeno che diciamo geminazione, in direzioni non parallele, ma con determinate leggi inclinate. Quanto ai cristalli trigemini ed alle geminazioni più volte e variamente ripetute, son tutti fatti ai quali fa- cilmente si applica lo stesso principio. Questa leoria dei cristalli gemini cì porge il fatto della geminazione più atto a produrre importanti conseguenze che non è la semplice con- dizione di due cristalli con determinata regola congiunti insieme. Dap- poichè nascendo i cristalli gemini dal manifestarsi nelle molecole le forze attrattive della medesima specie non in una sola direzione, ma in due direzioni, questa circostanza persiste per tulto il tempo che il cristallo continua ad ingrandirsi, e potrebbe derivarne l’effetto dell’ingrandimento più rapido nei cristalli semplici, del quale ho preso a discorrere. Al con- trario poi riguardata la geminazione come l’ unione di due cristalli , la cagione del fenomeno non sarebbe che istantanea, e dopo l'avvenuto con- . giungimento il cristallo gemino non offrirebbe nulla di diverso di due 0 più cristalli semplici in qualunque modo accidentalmente accozzati ; tal che bisogna cercare un’altra origine dei fenomeni che vediamo consegui- tare la geminazione. Non intendo dire con questo di poter dare una chiara spiegazione del perchè i cristalli gemini abbiano più rapido aceresci- = mento. La vera spiegazione resta ancora a conoscersi; ed hv voluto sol- tanto accennare che ammettendo nelle diverse molecole dei cristalli ge- mini la virtù di generarsi le direzioni attrattive omonime non parallele, ma in certa guisa tra loro inclinate, in questo fatto può aversi la presun- zione che esista la cagione dell’ingrandimento più rapido. Solfato di potassa prismatico. Avendo fatto più volte soluzioni calde di solfato potassico, e concen- trate al punto che, lasciate in cristallizzatoi chiusì, han cominciato a cri- stallizzare alquanto prima di raggiungere la temperatura dell’aria am- biente o poco dopo di averla raggiunta , in meno di ventiquattr'ore sì sono in esse depositati molti cristalli isolati, taluni gemini, altri sempli- ci, ed 1 primi sempre assai più grandi dei secondi. È stato questo il pri- mo fatto che ha richiamata la mia attenzione sul rapporto che i cristalli ci presentano tra il fenomeno della geminazione ed il loro ingrandimen- to. E per averne più esatta conoscenza ho pesato in tre diversi esperi- menti dieci cristalli gemini, scegliendo i più grandi, ed altrettanti cri- stalli semplici ancor essi i più grandi che si erano prodotti. Nel primo esperimento, tolti i cristalli dal liquore dodici ore dopo che esso era stato versato nel cristallizzatoio, ho trovato il peso dei cristalli semplici eguale a grm. 0,036 e quello dei cristalli gemini eguale a grm. 0,486, e però circa quottordici volte maggiore. Nel secondo esperimento, anche dodici ore dopo di aver tenuto il liquore alla temperatura dell'ambiente, il peso dei dieci cristalli semplici è stato di grm. 0,034, e quello dei dieci cristalli gemini di grm. 0,625, cioè circa venti volte maggiore. Nel terzo espe- rimento , trascorse ventiquatte’ ore da che la soluzione calda era stata versata nel cristallizzatoio , ho trovato i cristalli semplici pesare grm. 0,102, ed il peso dei cristalli gemini eguale a grm. 1,996, ancor esso circa venti volte maggiore. Questa differenza di peso tra le due qualità di cristalli non potevasi attribuire all’essersi i cristalli gemini generati prima dei cristalli semplici , dappoichè avendo tenuto d’ occhio la loro prima apparizione, mi sono assicurato che sono divenuti visibili alter- nativamente ora gli uni ed ora gli altri senza alcuna differenza di tempo che addimostrasse la precedenza dei cristalli geminati. Dopo questi primi risultamenti ho stimato necessario d’intraprendere e sullo stesso solfato di potassa prismatico, e sopra altre specie di cri- Mr. stalli una serie di esperimenti che meglio chiarissero il fatto del mag- giore ingrandimento dei cristalli gemini dimostrato dai precedenti saggi. Quindi ho immerso un certo numero di cristalli, ciascuno di peso deter- minato, nelle soluzioni cristallizzanti, e poi li ho ripesati dopo alquanti giorni che sono rimasti ad ingrandirsi nelle soluzioni. Si ottiene così l'esatta determinazione in ciascuno di essì dell’ avvenuto aumento di peso. D’ ordinario l’ ingrandimento dei cristalli non verificandosi per ogni verso uniforme , ho stimato necessario tener conto di due prin- cipali dimensioni dei medesimi misurate prima della immersione , e dopo il ricevuto ingrandimento; e, come sarà manifesto per quel che dovrò in breve esporre, la determinazione di questo elemento è di non piccola importanza per avere una giusta idea del fenomeno che ho tolto ad esaminare. (Quantunque sia facile prevedere che 1’ ingran- dimento dei cristalli debba essere in rapporto della estensione della loro superficie, e non della loro mole, pure il nostro argomento richie- deva che si fosse cominciato dal dimostrare esperimentalmente tale principio. Ed ho preferito fare il saggio con 1 cristalli di nitrato baritico, sì perchè dei medesimi è facile averne di varia grandezza e quasi della stessa forma, per le facce in tutti estese con le medesime proporzioni, e sì perchè le.soluzioni di questo sale adoperate con qualche diligenza rie- scono bene a produrre l'ingrandimento dei cristalli senza che lievi acci- denti vi apportino notevole disturbo. Nel seguente quadro sono riportati 1 risultamenti ottenuti con dodici cristalli di nitrato baritico ingranditi per venticinque giorni nella medesima coppa alla temperatura variabile tra 26°, 2 e 23°, 4. I cristalli prima della immersione avevano le facce dell'ottaedro e del cubo, poggiavano tutti per una faccia dell’ottaedro, la quale essendo del pari che la sua faccia parallela assai più larga delle altre, ciascun cristallo era più esteso in larghezza che in altezza. Estratti dal liquore dopo il tempo indicato, siccome è loro particolar carattere di manifestarsi distintamente emiedrici quando s'ingrandiscono con len- tezza, oltre le facce dell’ottaedro e del cubo, avevano minutissime an- che le facce del dodecaedro pentagonale 012, e lo stesso ottaedro era distinto in due tetraedri, uno che diremo £ con facce levigate, e l’altro t' con facce scabre. Essendo poi porzione dei cristalli immersi poggiati per t ed un’altra porziene poggiati per #', ho distinto nel quadro con le medesime lettere £ e #' gli uni dagli altri per far rilevare come i cristalli poggiati per £, e che per conseguenza erano terminati superiormente da una faccia scabra #", hanno l’ingrandimento verticale paragonato a quello Atti— Vol. II.—N.9 3. 2 — 10— i in direzioni orizzontali alquanto maggiore degli altri cristalli poggiati per #'. Malgrado un lieve disquilibrio che per questa cagione provviene al proporzionato ingrandimento dei diversi cristalli, le cifre riportate nel quadro manifestano chiaramente che, in proporzione del peso primitivo, i cristalli più piccoli hanno maggiore accrescimento, come appunto in pro- porzione della mole i cristalli più piccoli hanno superficie più estesa. Reputo poi questo esperimento bastevole a dimostrare nei cristalli l'ingrandimento proporzionato alla loro superficie ; nè so se vi possa es- sere altro metodo più esatto, avuto riguardo alla grande difficoltà di mi- surare con precisione la superficie dei cristalli, ed alla maniera come suole avvenire il loro incremento non per tutto uniforme. Nitrato di barite. Prima della immersione a giorni dopo la immersione! | i Aumento == - n De ——__| Tapportato | al peso N.° Peso Larghezza | Altezza | Peso © |Larghezza}) Altezza | primitivo 7 4 |grm. 0.676.5 mm.10.0 | mm. 3.2 )/grm. 0.948.5| mm.11.9 | mm. 3.8 0.402 il 2| » 0-432.0) >.9.5| » 34] 20.769.5] init cei el 3] -»0.371.5) » 9.8] » 240» 06790] 12.70 #0 3.0 01888 el al » 0.297,51 » 8.3] » 23] » 0.549.5) > 10.2] 3.00) | 0.847 eV 00 0-25915! 3 8A» (2.3 (031.0) 100000 3.01" ‘10036 ele drv ea NOVE e SS È 7° >» ‘Giiegio! » 7/0 |> sa » 0.341.0] » 8.8] » 2.8] 1.030 | ST >» 0.106.0 >» 5-4] » 2.2] » 0.231.0| » -7.4| » 2.7]. 4.179 | 9 3 LORI i » | ». .0.195.d1 p 7:33 id 1.414 1 10 | » 0.052.0 > 42] » 18] » 0.165.0| » 6.0| » 28) 2.113 di 11 | »-0.043.0k a 44.] ea 21.7 | » 0.441.0] » 6A|-» 2.5| 2.280 | 12 | » 0.023.5) » 3-11 » 4.4] »0.093.0] » 3.20» 2.1] 2:98 Dai precedenti studii sopra i cristalli semplici di solfato potassico pri- smatico aveva riconosciuto che essi, generati nelle soluzioni di puro sol- fato potassico, avevano d’ordinario la lunghezza nel verso dell’asse e'@, fig. 1, circa quattro volte maggiore della larghezza es’, ed in quelli ge- nerati nelle soluzioni che contenevano un po’ di potassa caustica aveva avuto non rari esempî nei quali la lunghezza w'@ superava di circa dieci e n ei volte la larghezza se’. Nei cristalli poi formatisi nelle soluzioni che con- tenevano più o meno abbondante il carbonato di potassa, rimanendo sem- pre maggiore la lunghezza @'@, essa era il più delle volte meno del dop- pio della larghezza ee', secondo le proporzioni rappresentate nella figu- ra14. Quindi negli esperimenti fatt con soluzioni diverse ai cristalli sem- plici bislunghi ho sempre aggiunto alquanti cristalli avuti da soluzioni con carbonato potassico che ho distinti con l'epiteto di brevi. Quanto ai cristalli gemini li ho pure distinti in due categorie comprendendo nella prima quelli con geminazione duplicata, fig. 9, che hanno l'apparenza dei medesimi cristalli semplici, e mettendo nella seconda gli altri cri- stalli che, presentando diversi casi di geminazione per le facce e e per le facce 0, sì distinguevano dai precedenti per la loro forma piramidata, fie.B4, 6, 1, 22) ecc. Ho stimato pure necessario di sperimentare con diverse soluzioni per prender nota delle differenze che possono derivare dalla presenza nel li- quore di sostanze straniere. Finalmente debbo avvertire; per le variazioni che possono provvenire dalle diverse temperature e dal diverso grado di umidità dell’aria col variare dei giorni, che tutti i saggi sono stati fatti contemporaneamente. E per ciascuna specie di liquore ho adoperato un solo cristallizzatoio, curando di situare i cristalli immersi quasi ad eguale distanza l'uno dall'altro. — 12- A.— Soluzione di puro solfato potassico. i | Primadella immersione |Sei giorni dopo la immersione Aumento rt AT i — NS Tin —1__ le > SIUEnore dò tato Lunghezza | Larghezza Lunghezza | Larghezza | al peso N.° Peso w'w,fig.A| €, fig. 1 Peso w'w, fig. 1| e, fig. 1 | primitivo 1\grm. 0.042.0| mm. 7.8 | mm. 1.7 ||yrm. 0.044.0| mm. 8.3 | mm. 1.7 0.048 E; 21 » 0.038.5| » 8.5) » 4.6] » 0.043.5| » 10.0| » 1.6| 0.130 E 3 » 0.031.5| » 7.9| » 41.6] » ‘0.039.0| » 9.1] » 1.6 | -0.238 = 4| » 0.019.0| » 12.0| » 1.3] » 0.020.5| » 13.8| » 41.3| 0.079 || » o.ot4.0| » 6.7] » 41.4] » 0.017.5] » 83] » 14 0.250 = 6| » 0.012.0| » 6.9] » 1.3| » 0.0Î6.0| » 8.6| » 1.3| 0.280 S| 7» 0.006.0)-» 6.0] » 0.9], » 0.008.0| » 7.4] » 0.9| 0.333 medio » 0.023.4 » 0.026.9 0.150 IE 8| » 0.038.0| ». 5.2 ». 11322 » 0.057.0| » 8.0 sr 2 0.500 SG 9| » 0.032.0| » 53.4] » 3.3] » 0.051.5| » 8.5] » 3.3 | 0.609 CIA 10} » 0.012.0| » 3.8 pr t0953 » 0.020.0| » 3.8 e a) 0.667 medio » 0.027.3 » 0.042.8 0.368 4 si» 0.085.5] » 8.3) » 8] s-olos4o 3 a eo EE 12] » 0.030.0| 0 3.1 » 3.3] » 0.074.5| » 6.7] » 41| 1.483 DÈ 131 + 0,008:01" » 48 |-30 st ro e SE gal (0102525) DI ZEZI OS0] 0L06050)| 9 20 O 1.353 S"T asl » 0.07.58) » 3.50 » 34] » ‘004.0 » 62] » 32] A088 medio » 0. 029.3 » 0.068.7 1.345 Diametro | Diametro Diametro | Diametro w'o, fig. 4 |CC', fig. 18 w'0, fig. 4 | CC', fig. 18 2 [ 16| >» 0.049.5| mm. 3.6 | mm. 5.3 || » 0.186.0| mm. 6.8 | mm. 8.0 | 2.758 2 471 » 0.041.0| » 3.5] » 4-6 »010-111.5| n 5407020 5 Yagl >» 0.036.0] » 3.5] » 44] » 0.139.5| » 3.3] » 7.2) 2.878 Z igl » 0.026.5] » 3.7) » 3.4] » 0.098.5| » 5.0] » 46| 2.717 = 20) » 0.021.0| » 3.4 » 4.5] » 0.072.5| » 5.3| » 6.4| 2.452 = F2;] » 0.018.5| » 3.3] » 2.9] » 0.087.0] » 5.2] » 42| 3.703 È 93] 2° 0.011.585) >» - 2.90» 2.2] 0.014] i 47 [Ao do, » 0.029 .4| » 0.108.6 | 2.628 E a B. — Soluzione con circa il quinto di solfato sodico. Prima della immersione |Sei giorni dopo la immersione Aumento e‘ —_ 5555 HR _ n°_ Sr ti Diametro | Diametro Diametro | Diametro | al peso N° Peso Peso ww,fig.d | ee', fig. 1 w'w,fig. 1| e, fig. 1 | primitivo 1|grm. 0.044.0) mm. 7.6 | mm. 4.8 |[grm. 0.051.0| mm. 8.8 | mm. 2.1 | 0.159 ».10.038.5)/ .»! 8.3 Da 046 » 0.046.0| » 9.4 o» 2.0 0.195 pel0-033- 0 ,dì 7-3 pi. U4.6 »:"0.039.0/0 » 7.9 DL e2,0 0.182 » 0.023.0| » 7.0 » 1.4 ». (0.028.053 8.0 |. (4.7 0.217 2 3 4/0 ‘0-00.030.0/P8.S6.7).050,01.6|| >. 10.087.5/î1.> 7.0), i»0.02,0 | 20.237 5 Go 002020)» ILS 042 0-024-5) » 42-30 250 04,5 |! 0.225 7 ® Cristalli semplici bislunghi (©) » 0.011.0] > 6.4] » 0.8] » 0.014.0) » 7.0] » 4.0] 0.273 » 0.028.5 » 0.034.3 0.205 22 ( 8| » 0.033.0] » 6.2| » 2.8) » 0.04£.0| » 7.7] » 2.9] 0.333 #2 -09| » 0.010) » 8.2 2:7]| » 0.0M0| » 6.700 02.7] 0.333 ES ( 40] » 0.014.5) » 4.0|» 2.5|| » 0.024.5) > 5.9) 5 2.5 | 0.690 medio » 0.026.2 » 0.036.8 0.395 za 41 » 0.044.5) » 5.0 >» 4.1 ». 0.079.5| » 6.6 D''.04.17 0.787 ES | 19) » 0.033.5] » 3.8] » 2.6] » 0.062.5) » 7.5|» g.1| 0.866 SE 13) » 0.027.5) » 4.7] » 03.6) » 0.058.0] » 6.4| » 3.7) 1.109 SS] 14 >» 0.022.0| » 35.0] » 2.4] » 0.045.5) » 6.4| » 34| 1.067 SN rallo olotz.a| 0a 3.6» 300 0.048.0] » 3.2) » 3,8) 1.348 medio » 0.029.0 » 0.057.3 0.976 Diametro | Diametro Diametro | Diametro w'o , fig. 4 |CC", fig. 18 w'0, fig. 4 |CC', fig. 18 E 16| » 0.048.0| mm. 4.0 | mm. 5.1 » 0.097.5| mm. 5.2 | mm. 6.6 1.031 5 17] » 0.033.5) » 3.4) » 3.4] » 0.065.0| » 5.0] » 3.8| 0.940 Fe )18| » 0.029.5| » 30] » 40] » 0.058.0] » 42| » 5.3 | 0-96 35 19) » 0.019.5) » 3.2) » 2.7) » 0.038.5| » 3.9] » 3.0] 0.974 3 20) » 0.014.0) » 2.5) » 3.7)| » 0.060.5) » 3.9) » 46 3.205 5 \ 21) » 0.009.0] » 24| » 2.6] » 0.026.0| » 3.0| » 40] 1.889 3 © (9 © » 0.025.6 » 0.057.6| 1.250 Ae = GC. — Soluzione con potassa caustica. | Prima della immersione |Sei giorni dopo la immersione | i i umento ——— rr 331 —_—_rTPr||-rrP—< cc? \Ppor- r x , tato Diametro | Diametro Diametro | Diametro | al peso r Pes e; ; fi N.° Peso wa, fig1 | es, fig. A 0 we, fig:1 | e, fig. 1 | primitivo 1{grm. 0.029.5) mm. 8.4 | mm. 1.5 |[grm.0.040.0} mm.11.2 | mm. 41.5 0.356 a 2 » 0.027.3| » 7.8] » 4.5] » 0.038.5| » 40.1) » 1.5 | 0.400 3E 3} » 0.018.0| » 9.4 vi 1.4 || »-10.025.5/ » 12.2)» 4.4 || |10-417 85 4 » 0.011.0) » 61] » 1.2] » 0.018.0) » 8.8] » 1.3| 0.636 S 5I » 0.006.5| » 3.6» 0.9] » 0.009.5| è» 8.1] » 1.0] 0.461 medio » 0.018.5 » 0.026.3 0.422 2° ( 6| » 0.042.0/ » 3.4] » 3.0] » 0.067.0) » 8.4] » 3.3 | 0.595 DE 7] » 0.039.0f » 4.3 |?» 03.3 || » 0.067.0| » 6.9] vm 13.3 || 0-718 El sl n omo » 35» 2.2|| » 0.020)» 6.5] » 2.3] 1-00 medio » 0.050.7 » 0.052.0 0.694 CÈ 9 » 0.038.0| » 35.2) » 13.3] » 0-112.0| » 7.9» (3.6 | 1.947 2 } 10] » 0.034.5| » 5.4] » 2.7] » 0.097.0| » 8.0) » 3.4] 1.838 SS} tl » 00143) » 3.7] » 2.8] » 00350)» 60] 3a |A la» 0.008.8| » 3.20» 24]| » 0-018.5) » saf 0 2a] 1176 medio » 0.023.9 » 0.065.6 1.745 Diametro | Diametro Diametro | Diametro wo, fig. 4|CC', fig. 18 wo, fig. 4|CC', tig. 18 & 13] » 0.046.5| mm. 4.0 | mm. 5.2 » 0.148.0| mm. 6.5 | mm. 6.6 | 2.183 Ea \t4| » 0.097.5| » 40|» 3.4] » 0-104.5] » 6.0] » 49] 1.787 5 < 15) » 0.019.0] » 2.4] » 36] » 0.063.0| » 42| » 5.3| 2.316 Ss f ie) » 0.013.8] » 5.8] » 2.1|| » 0.047,01 » 7.7] » 34 | 2.50 È 17| ».10.008.0]) » 2.1 a 01.8]. » e0.031.0/: è ‘3.00 #30. 02.8 | (12.875 medio » 0.024.9| | » 0.078.7 2.461 mo D. — Soluzione con carbonato di potassa. Prima della immersione |Sei giorni dopo la immersione Aumento =_=. € r_—_ _— — ———__ ___— rappor- Diametro | Diametro Diametro | Diametro aio N.° eno w'w, figdd | se, fig. 1 907) ww, fig. | ce’, fig. 1 | primitivo n 1|jgrm. 0.040.5| mm. 9.5 | mm. 1.7 |[grm. 0.068.5| mm.12.1 | mm. 2.4 | 0.691 -* 2] » 0.034.0| » 8.3 vY 137 » 0.056.0| » 10.8 » 2.0 0.647 sE 3] » 0.024.5) » 10.0 DARRRItO DIO 1039 0 MNMETT7 Delos) 0.429 se A DE0 0080) 9 » 0.9 DOLO. 90 DAL 0.937 = 5| » 0.006.5) » 5.9 DEROL:9 »e.0.012.0| di 7.4 Db 0.846 medio » 0.022.7 » 0.037.4 0.648 Ls 6| » 0.057.5) » 6.5 » 3,2 » 0.093.5) » 9.4 » 3.4 0.626 26 7 » 0.035.5) » d.4 » 2.9 » 0.058.0| » 8.0 Bir. 2 0.634 E 8| » (0.016,5| » 3.8 Di 2-2 » 0.032.0| » 6.3 DG02h5. 0.939 medio » 0.056.5 » 0.061.4 0.674 La SO O 850 Roe eo ONTANI MATO A 20 e S ZI S i t Aa 2443 2 10) ‘« 0.026.0| » 6.4] » 2.2] » 0.102.5| » 8.9| » 3.5| 2.942 da til » 0.013.0] » 3.3 DENNI: » 0.033.5] >» 6.1 N26 LS £ 3 12] » 0.007.3| » 3.0] » 2.0] » 0.018.5| » 5.2] ». 2.2| 1.467 medio » 0.020.4 » 0.067.8 2.373 Diametro | Diametro Diametro | Diametro wo, fig. 4|CC', fig. 18 wo, fig. 4 |CC', fig. 18 s 13] » 0.036.0| » 43 DILATA: DINO 1590 e 2 » 5.8 3.417 Sa | d4| » 0.027.0) » 4.0) » 3.3) » 0.098.5| » 3.5| » B.1| 2.648 * 15] » 0.020.0| » 4.0 DI 90 » 0.156.0| » 9.0 62 6.800 au 46: >000480| 0° 3:0 |0 22.7] -04,0.073.5/- > 5.3] 50). -3-900 È 1 Di 0.0101:15| a 136 ni MI »ia05103-5) 0 81 » 4.8 8.000 mebign] » 0.021.9 » 0.118.414 4.595 Ragguagliati gli aumenti in peso che presentano i cristalli gemini con i medesimi aumenti dei cristalli semplici, non può cader dubbio sulla grande preponderanza dei primi in tutti i saggi fatti, comunque variando la chimica composizione dei liquori cristailizzanti. Nondimeno questa stessa preponderanza è di molto inferiore a quella rinvenuta nei cristalli ì — 16 — rapidamente ingranditi nelle soluzioni in cuì si erano generati. Negli esperimenti per i cristalli immersi nelle soluzioni cristallizzanti si ha una giusta misura della lentezza come ha proceduto il loro accrescimento pa- ragonando al tempo trascorso l’ aumento di peso ; ed in essì l’ aumento dei cristalli gemini può ritenersi approssimativamente quadruplo di quello dei cristalli semplici. Dai tre saggi di sopra riferiti per i cristalli rapida- mente ingranditi, si ha lo stesso aumento dei cristalli gemini circa di- ciotto volte maggiore. Un altro fatto che apparisce evidente per le cifre riportate nei prece- denti quadri consiste nella maniera come avviene l’ accrescimento dei cristalli semplici assai sproporzionatamente maggiore nel verso dell’asse &'0, fig. 1, che nella direzione es’, e nella direzione C'C, fig. 12, non essendovi alcuna sensibile differenza tra le dimensioni ee’, e ('C. A que- sta medesima conseguenza conduce la semplice considerazione della for- ma costantemente bislunga dei cristalli semplici. E dando allo stesso fatto una diversa espressione, possiam dire che le molecole sono attratte con maggior forza dalle faccette m, e, @, ed in generale dalle faccette situate verso la estremità 0‘, @, che dalle altre faccette più grandi situate nella zona C, v, «, e. Diremo le prime faccette di forte attrazione e le seconde di debole attrazione, e ciò equivale al dire che vi sia nei cristalli la proprietà di attrarre fortemente nelle direzioni delle perpendicolari ca- late dal centro alle prime facce, e di attrarre debolmente nelle direzioni delle perpendicolari calate sulle seconde. Ove poi si pon mente alle facce che sogliono terminare i cristalli ge- mini, sì troverà che in essi, al contrario di ciò che avviene nei cristalli semplici, le facce 4, fig. 4 e 5, sono piccolissime o mancano del tutto, mentre sono grandissime le facce m; e da ciò deriva la forma dei gruppi somigliante a due piramidi esagone congiunte per le basi. Se le facce 4, m nei cristalli gemini serbassero le medesime proporzioni in grandezza che nei cristalli semplici, essi dovrebbero offrire, siccome veggonsi rappre- sentate nella figura 2, le facce w, w', #'', e, e', e" che s'incontrano con angoli rientranti molto estese, ed in proporzione delle facce m, m', m" anche più estese di quel che appariscono nella figura. Il trovarsi per l’op- posto le facce 4, y, e assai piccole paragonate alle facce m, n, e, vuol dire che l'ingrandimento sulle prime è eguale o quasi eguale all’ingran- dimento sulle seconde; che le prime cioè sono divenule ancor esse fac- cette di forte attrazione quasi come le seconde. È facile poi rendersi ra- gione della piccolezza o mancanza delle facce 4, y, e nei cristalli gemini MR per la loro posizione ordinata ad incontrarsi con angoli rientranti. La quale posizione impedisce che nelle medesime facce apparisse quella estensione che esse avrebbero nei cristalli semplici, quando anche in questi si verificasse la condizione dell'incremento sulle facce &, », e quasi eguale a quello sulle facce m, n, e. Quindi è che assicurato nei cristalli semplici il natural carattere di forte attrazione delle faccelte m, n, e e di debole attrazione delle faccette 4,%, €, l’effetto immediato della geminazione consiste nel rendere fac- cette di forte attrazione le 4, v, e al pari o quasi al pari delle m, n, e. Comparando nei quadri i risultamenti ottenuti con le diverse catego- rie di cristalli, si scorge chiaro che i cristalli con geminazione duplicata s'ingrandiscono più dei cristalli semplici; ed i cristalli con altre ma- niere di geminazioni, per le quali si trovano esternamente assai grandi le facce m, essendo piccolissime o mancando le facce w, s' ingrandiscono più dei cristalli con geminazione duplicata. Ciò mostra che quantunque le 4, y, e diventino nei cristalli gemini comparati ai semplici faccette di forte attrazione, le faccette m, n, e restano sempre di più forte attrazione delle precedenti. (Questa conseguenza apparirà ancora più chiara ove si consideri che i cristalli con geminazione duplicata per la loro forma bi- slunga, a parità di peso, hanno più estesa superficie degli altri cristalli gemini, e sì dovrebbero più di questi ingrandire se le , v, e non aves- sero sempre minor forza attrattiva delle altre m, n, e. Rimarrebbe ora a sapere se le stesse facce m, n, e, @ acquistino ancor esse per la gemina- ‘zione maggior forza attrattiva di quella che posseggono nei cristalli sem- plici. Se sì potessero avere cristalli assai più grandi di solfato potassico, non sarebbe difficile misurare con sufficiente esattezza l'estensione delle facce 1 nelle diverse maniere di cristalli che si vogliono mettere ad espe- rienza, e risolvere così il dubbio. Ma la piccolezza dei cristalli sopra i quali ho potuto sperimentare non mi ha permesso nemmeno di tentare questa sorta di saggi. Sopra tutto i cristalli semplici hanno le facce m sempre minutissime in proporzione della loro grandezza; e quando si cerca ingrandirli, tenendoli per molto tempo nelle acque madri, a lungo andare succede quaiche geminazione superficiale, o sopraggiungono altre imperfezioni che li rendono mal proprii agli esperimenti. Intanto conviene esaminare se ad altre cagioni possa attribuirsi il ri- ferito maggiore incremento dei cristalli gemini. Se immaginiamo nel suo primordio un cristallino trigemino della forma rappresentata dalla figu- ra 3, abbiamo che necessaria conseguenza della geminazione è l’ incon- Atti — Vol. Il..— N.° 3. 3 Deh; PS tirarsi delle facce w e #', a e u", sed s', « ed s' ecc. con angoli rien- tranti all’esterno. Quindi è che le rispettive posizioni che occupano le facce « ed e potrebbero dar luogo a credere che lo stare così le une di rincontro alle altre sia cagione che con maggiore energia le molecole siano sollecitate a depositarsi su di esse, e quindi a produrre il riempi- mento degli angoli rientranti che troviamo nei gruppi geminati ingran- diti, fig. 4 e 5. In questa supposizione il più rapido accrescimento dei cristalli gemini non deriverebbe realmente dallo stesso fenomeno della geminazione, ma dalla scambievole posizione che prendono nell’ aggrup- parsi i cristalli gemini. Questa ipotesi intanto trovo non potersi ammet- tere per molte ragioni. E mì basta menzionarne una sola derivante dai cristalli con geminazione duplicata, fig. 9, la cui forma è affatto simile a quella dei cristalli semplici, senza angoli rientranti, e non mancano per questo di avere più rapido ingrandimento. Da ultimo volgendo la nostra attenzione sull’influenza che la diversa composizione chimica dei liquori cristallizzanti esercita sul medesimo in- cremento dei cristalli in essì immersi, troviamo, almeno per le soluzioni sperimentate, che esse senza alterare profondamente la legge del più ra- pido ingrandimento dei cristalli gemini, ne rendono l’ efficacia alquanto variabile. Sopra tuito è notevole che mentre nella soluzione A di puro solfato potassico, e nell'altra C con potassa caustica l'ingrandimento dei cristalli semplici sulle facce della zona C, #, 7, e è così debole che spesso non è stato possibile determinarlo, nella soluzione D con carbonato pg- iassico l'ingrandimento sulle medesime facce è molto maggiore. La stessa # differenza ho fatto innanzi avvertire per i cristalli nella loro origine pro- dotti nelle soluzioni con carbonato di potassa. E questo fatto non fa che rendere più complicato l'argomento che ho preso ad esaminare, dap- poichè la presenza del carbonato potassico nel liquore produce lo stesso effetto che abbiam veduto derivare dalla geminazione, quantunque in minori proporzioni. o Solfato potassico romboedrico. Nei cristalli gemini di questa specie non ci ha distinto piano di gemi- nazione; ed invece di paragonarli ad aggruppamenti di due o più cri- stalli, meglio sarebbe considerarli come formati da due o più masse cri- stalline scambievolmente allogate in due determinate posizioni. Dappoi- chè un cristallo, o una massa cristallina sì congiunge all’ altra con su- perficie d’irregolarissima figura. I cristalli rappresentati nelle figure 30 a 35, mostrando chiaramente all’esterno gl'irregolari e variabili confini che distinguono le masse cristalline d’identica posizione dalle altre di posizione diversa, fanno comprendere come le medesime masse si con- giungono internamente. Per maggiore chiarezza ho distinto con le let- tere m, 4, e le parti del gruppo geminato identicamente situate in una delle due posizioni, e con le lettere m', w', e' le parti che sono allogate nell’altra posizione. Non ho tralasciato di sperimentare sopra i cristalli semplici ed i ge- mini di questa specie per assicurarmi se anche in essi si manifestasse la differenza rinvenuta nell’altra specie prismatica, ed i risultamenti quì appresso riportati non dimostrano sensibile differenza d'ingrandimento tra le due maniere di cristalli. Non pertanto debbo avvertire che quan- tunque i cristalli adoperati in questi saggi erano gli unì distintamente semplici, come quello rappresentato nella figura 20, e gli altri gemina- ti, siccome sono figurati nei numeri 80 a 35, dopo l'avvenuto ingrandi- mento i cristalli semplici presentavano alcune delle facce 4, in origine convesse, divenute piane nel mezzo. La quale trasformazione ho già mo- strato nella memoria sulla polisimmetria (pag. 35 a 38) derivare da ge- minazione superficiale avvenuta sulle medesime facce w. Egli è però che nel corso dell'esperimento, non essendo del tutto escluso il fenomeno della geminazione dai cristalli che in principio erano semplici, non pos- siamo a rigore conchiudere che il particolar modo di geminarsi i cri- stalli di solfato potassico romboedrico non dia luogo ad alcuna differenza di accrescimento. Cristalli semplici Cristalli gemini Psgproro "ue °° ea > —T n _ _ P __ Peso Peso Aumento | Peso Peso Aumento prima quattro giorni| rapportato prima quattrogiorni| rapportato della dopo la al peso della dopo la al peso N.° | immersione | immersione | primitivo || N.° | immersione | immersione | primitivo 1 |grm. 0.712.0/grm.1.358.0| 0.906 1 |grm.0.373.5|erm. 0.767.0| 1.043 +901.0 -929 » 0.315.5] » 0.624.5) 0.979 .d -0 0 .688.0| 0.801 0.994 2 » 0.467.0) » » 0.496.0) 0.980 » » mm W% _ N » » 0.520.5) 0.957 -508.5 3 4 » 0.483.5| 1.053 » 0.188.0| 1.611 » 0.149.5) 1.931 (dd .213.0] 1.938 6 » -171.0| 2.081 SI = 0 0 0 0 0 0 0 0 5 » 0.145.5] » 0.347.0| 1.385 b) » 0.235. 0 0 0 0 0 0 0 0 0 Pea IIS . 598.1] 4.004 » 0.223.7| » -0.461.3| 4.062 Nitrato di stronziana. Dalle soluzioni di nitrato di stronziana abbandonate alla spontanea evaporazione a temperature alquanto maggiori di 25° si hanno cristalli anidri appartenenti al sistema del cubo, ed il più delle volte alcuni sem- plici, altri geminati mescolati alla rinfusa. Le due qualità di cristalli sì distinguono per essere i primi trasparenti ed i secondi d’ordinario tra- slucidi o opachi e più grossi dei precedenti; talchè il maggiore ingran- dimento dei cristalli gemini in paragone dei cristalli semplici sì scor- .gerà ben distinto ove si faccia attenzione a quel che avviene nelle solu- zioni cristallizzanti lasciate per alquanti giorni tranquillamente evapo- rare. Più tempo passa, e più rapida procedendo l’evaporazione, senza che sia disturbata la quiete delle acque madri, meglio apparirà manifesto il preponderante incremento dei cristalli gemini; ed a lungo andare mi è sembrato talvolta quasi i soli cristalli gemini s'ingrandissero, o quasi l'ingrandimento di questi impedisse l’ingrandirsi dei cristalli semplici. Avendo cercato stabilire di quanto l'accrescimento dei gruppi geminati avanzasse quello dei cristalli semplici con le medesime norme seguite pel solfato potassico prismatico, non credo di essere riuscito a giuste con- clusioni. Dappoichè il liquore nel quale aveva immerso le due qualità di cristalli per farli ingrandire ha cominciato ben presto a depositare no- velli cristallini e però non ho potuto prolungare oltre dieci giorni l’espe- AI A rimento. Quindi per le cifre registrate nello specchietto posto in fine di questo articolo, quantunque rimanga confermato nel nitrato di stron- ziana la differenza di accrescimento tra i cristalli semplici ed i geminati, questi non si trovano superare ì primi che poco più d’un terzo nell’ au- mento di peso; eccedenza che non dubito avrei trovato maggiore se non fosse sopraggiunta la comparsa dei novelli cristalli che han ritardato l’ingrandirsi di quelli immersi nel liquore cristallizzante. I cristalli gemini di nitrato di stronziana sì congiungono per le facce dell’ottaedro, come avviene per le altre sostanze le cui forme cristalline si riferiscono al sistema del cubo. Tuttavia vi sono in essi tali partico- lari che non ho mai osservato così costanti in altri cristalli siano natu- rali, siano artefatti. D’ordinario non sono due cristalli soltanto, ma tre o maggior numero di cristalli che si congiungono con i piani di gemina- zione tra loro paralleli, o anche talvolta con i piani di geminazione in- clinati, come le facce dell’ottaedro , di 109°28", A questa condizione , della quale ho osservato qualche esempio nei cristalli di spinello del Cei- lan, ne vanno unite due altre più notevoli. La prima di esse è il prolun- garsi ciascun cristallo da una parte o dall'altra oltre il piano di gemi- nazione in guisa che la medesima faccia per la quale un cristallo si con- giunge all’altro si trova in parte posta allo scoverto, come la faccia 0 nella figura 72, che rappresenta esattamente secondo l'originale un cri- stallo gemino di nitrato di stronziana. Per intendere l’ altra condizione che alla precedente va connessa, fa d’uopo aver presente come nei cri- stalli gemini del sistema cubico, quando vi sono le facce dell’ottaedro, tre facce di questa forma pertinenti ad un cristallo s'incontrano con an- goli rientranti di 141°4' con tre facce dell’ottaedro dell’ altro cristallo. (Questi angoli rientranti non ho mai osservato nel nitrato di stronziana; ed invece, talmente si distende ciascun cristallo del gruppo geminato rispettivamente agli altri che le facce dell’ottaedro dell'uno s' incon- trano con angoli rientranti con le facce del cubo dell'altro. Nella figu- ra 75, che rappresenta con maggiori dimensioni una parte del cristallo disegnato nella figura 72, ho distinto con le lettere 0, 0’ due facce ap- partenenti all’ottaedro del cristallo Coo'o!” e con la lettera #' una fac- cia che appartiene al cubo dell'altro cristallo kek'e'. Quindi facendo at- tenzione a quel che mostra la medesima figura , si scorgerà lo strano estendersi dei due cristalli l'uno rispettivamente all’altro, in modo tale da riuscirne sì l’incontro con angolo rientrante di 125°16' della faccia 0 con k', che l’incontro più notevole con angolo rientrante di 78°54' del- K* 09 l’altra faccia 0' con la medesima faccia 4°. Le riferite forme, fuori l’or- dinario, dei cristalli gemini del nitrato di stronziana dimostrano in essi la virtù d’ingrandirsi maggiormente in alcune direzioni , siccome nel verso del piano di geminazione, la quale virtù non sì rinviene nei cri- stalli semplici. D'altra parte poi gli angoli rientranti che più volte in essi si ripetono rendono la loro superficie più estesa di quella che presentano i cristalli semplici di egual mole. E da ciò deriva non lieve difficoltà di trovare per ciascuna specie di cristalli esemplari che presso a poco si pareggias- sero in superficie come in peso; la quale difficoltà ho cercato di vincere negli esperimenti scegliendo tra i cristalli semplici quelli che erano più depressi, e tra i cristalli gemini quelli che meno profondi presentavano gli angoli rientranti. Cristalli semplici Cristalli gemini Prccaniii:= «ee rn PTT A inn, ici Peso Peso Aumento Peso Peso Aumento prima dieci giorni | rapportato prima diecì giorni | rapportato della dopo la al peso della dopo la al peso N.° | immersione | immersione | primitivo || N.° | immersione | immersione | primitivo 1 |grm.0.411.5/grm. 0.595.5] 0.447 1° |grm.0.267.5|grm. 0.457.0|] 0.708 2 » 0.217.5) » 0.335.0| 0.540 2 » 0.151.0] » 0.274.5] 0.818 3 » 0.170.0} » 0.284.0| 0.671 3 » 0.150.5f » 0.272.0) 0.807 4 » 0.129.0| » 0.219.5| 0.702 4 » 0.097.5] » 0.192.0|] 0.970 b) » 0.113.5] » 0.209.0| 0.841(a|| 5 » 0.097.0| » 0.185.5) 0.912 6 » 0.080.0| » 0.139.5] 0.74£ 6 » 0.062.0/ » 0.128.0} £.065 7 » 0.049.0| » 0.086.5] 0.765 7 » 0.022.5] » 0.064.5) 1.867 medio] » 0.167.2] » 0.267.0| 0.597 | » 0.124.1) » 0.224.8] 0.856 OUssalato di ammonio e rame. I cristalli dell’ossalato di ammonio e rame sono triclini con due dire- zioni di clivaggio quasi egualmente nitide parallele alle facce B e C, fig. 74, tra loro inclinate di 85°23'. Le facce B sogliono essere assai più (a) In questo cristallo vi è stato maggiore ingrandimento in proporzione degli altri cristalli sem- plici; e quantunque non avessi in esso ravvisato alcun segno di geminazione, si differenziava dagli altri cristalli semplici, perchè invece di essere trasparente, era alquanto opaco, come d’ordinario sono icristalli gemini del nitrato di stronziana. [a PP grandi delle altre, e tra le principali specie di faccette vi sono le se- guenti inclinazioni : « 4' sopra B'—120°54' B' sopra o'=122°26/' 2 sopra v=145°37' AIAR O (IR AND o 15042 © Bea 18 134 iene, = 94098 Bo» u—14249 Coin =1ABIA + B nile —d 05149 Al n ul =11428 Ar Roilan= $16132 a sopra b=122°%44' ; a sopra c=74°%12’ ; d sopra e=102°16' ; noi ai 3060 14564027. A 100, B 010, C 001, ce 110, 0101, u0141, v 011, n 121 è Spesso i cristalli sono gemini, come quello disegnato nella figura 74, con l’asse di rivoluzione parallelo agli spigoli formati dalle facce della zona ABe. Quando nel gruppo geminato il cristallo situato come A'B'C trovasi a sinistra, le faccette di ciascun cristallo si estendono a vicenda con tale regolarità che gli spigoli formati dai loro incontri si trovano più o meno esattamente disposti intorno ad un piano inclinato nell'interno del cristallo di 73°25' sulle facce B e di 106°35' sulle facce B'. Si hanno in tal caso le inclinazioni dalla faccia (' del cristallo sinistro sulla fac- cia C del cristallo destro eguale a 147°6' con l'angolo superiore rien- trante e l’inferiore prominente; di v' sopra « eguale a 161°55' con an- golo rientrante; di w sopra o eguale a 145°7' con angolo rientrante. Tal- volta invece d’incontrarsi superiormente v' con «, s'incontrano o' con « facendo angolo diedro prominente di 145°7”. Intanto la faccia B' si trova situata nel medesimo piano con B, e la prima di esse si distingue dal- l’altra per essere striata nel verso dello spigolo 0'B'. In altri gruppi ge- minati che hanno a dritta il cristallo situato come A'B'C' di raro gli spigoli formati dall'incontro delle facce di un cristallo con le facce del- l’altro si trovano allogati intorno ad un medesimo piano. D' ordinario le facce B e B', restando parallele, non si congiungono in un medesimo piano, e ciascun cristallo, secondo la variabile loro estensione, in di- versi modi riesce prominente sull’ altro, formandosi così profondi angoli rientranti che non corrispondono ad un piano comune. (Questa sorta di cristalli non sono stati mai adoperati negli esperimenti. Nel fare i medesimi esperimenti ho dovuto tener conto di altri parti- colari caratteri dei cristalli dell’ossalato di ammonio e rame che di leg- RR. gieri vengono a complicare il loro ingrandimento. Sì per i cristalli sem- plici come per quelli geminati, quando il loro ineremento procede con un certo grado di rapidità, suole avvenire che su di essi si generano no- velli cristallini. I quali cristallini mentre per un verso hanno una deter- minata situazione che li mette in rapporto col cristallo primitivo, per un altro verso rilevano in tal modo su di esso prominenti che sembrano del tutto indipendenti. I cristallini che come appendici si producono sopra i cristalli semplici sono impiantati sopra una delle facce C; talvolta essi stessi sono semplici, e le loro facce sono parallele alle facce della me- desima specie del cristallo maggiore; altre volte i cristallini sono gemini ed uno dei due che compongono il gruppetto geminato ha la medesima situazione del cristallo primitivo, siccome è reso manifesto dal paralle- lismo delle facce della medesima specie. I cristallini che si generano so- pra i cristalli gemini , sono gemini ancor essi , ed impiantati ove s’ in- contrano le facce C, sia dalla parte ove le facce C formano angolo pro- minente, sia dalla parte opposta ove formano angolo rientrante. Ed in quest’ultima parte (figura 74 superiormente) ove le facce C lasciano an- gusto spazio all’ingrandimento dei novelli cristallini, essi sono assai ri- stretti e quasi peduncolati ove s’impiantano. Nei cristallini poi vi è la medesima specie di geminazione di quella del primo cristallo gemino , talchè sono dalla medesima parte tutti quelli situati come il cristallo A'B'C'. ] Prendendo in considerazione i riferiti particolari, perchè tra i cristalli semplici ed i geminati adoperati nello sperimento vi fosse stato assai prossimamente il medesimo rapporto tra il loro peso e l'estensione delle loro superficie, ho prescelto cristalli gemini, come quello rappresentato nella figura 74, con le facce B', B unite in un medesimo piano. E per im- pedire la produzione dei cristallini che sogliono prodursi sulle facce ho procurato ritardare l’evaporazione del liquore cristallizzante tenendo in parte chiusa l’apertura della coppa. Nel saggio con queste precauzioni eseguito alla temperatura variabile tra 19°, 8 e 21°, 5, l'ingrandimento dei cristalli gemini, come apparisce nel seguente quadro, è stato alquanto maggiore del doppio dell’ingrandimento dei cristalli semplici. COS Cristalli semplici | Cristalli gemini re eee Ss a > gui "clp LI can, | Peso Peso Aumento ) Peso Peso Aumento | prima sette giorni | rapportato prima sette giorni | rapportate della dopo la al peso della dopo la al peso N.° | immersione | immersione | primitivo || N.° | immersione | immersione | primitivo i /!grm.0.089.0|grm. 0.127.0) 0.427 1 ‘!grm. 0.113.0|grm.0.236.5) 1.093 2 » 0.039.0j » 0.067.0| 0.718 2 » 0.049.0) o 0.122.5|) 1.500 3 | » 0.034.5|] » 0.0609.0| 0.739 3 » 0.039.0) » 0.097.0) 1.487 | 4 » 0.020.5| » 0.042.5| 1.073 4 » 0.026.5) » 0.074.5) 1.811 ò » 0.012.5| » 0.027.0) 1.160 5 | » 0.012.5) » 0.042.353) 2.400 medio! » 0.039.1' » 0.064.7° 0.655 I » 0,048.0' » 0.114.6! 1.388 Paratartrato acido di soda. Sopra i cristalli triclini del paratartrato acido di soda non ho potuto fare particolari esperimenti comparativi immergendo nel liquore cristal- lizzante cristalli semplici e geminati di peso determinato; dappoichè in tal caso si producono cristalli della medesima sostanza le cui forme hanno il tipo di simmetria che si riferisce al sistema prismatico; ed i cri- stalli immersi poco o nulla s'ingrandiscono in principio; e dopo qualche tempo, se le muffe non vengono a guastare la soluzione, col progredire l'ingrandimento dei cristalli nuovamente generati, quelli immersi s'im- piccoliscono e finiscono col restare del tutto disciolti. Tuttavia tra i cri- stalli triclini che si generano nelle soluzioni convenevolmente concen- trate, e lasciate per qualche giorno alla spontanea evaporazione, avendone spesso osservato alquanti semplici, fig. 43, uniti ai cristalli gemini , fig. 44, 45, 46, più abbondanti, ho sempre trovato i secondi assai più grossi dei primi. Nello studiare il paratartrato acido di soda triclino sotto il rapporto dell’ingrandimento dei suoi cristalli non è stato possi- bile assicurarmi della contemporanea apparizione dei cristalli semplici e dei geminati. Talvolta mi è sembrato che i cristalli in origine semplici divenissero gemini in seguito, e pervenuti in tale stato s' ingrandissero con rapidità molto maggiore che per lo innanzi. Ma la conoscenza del come avvengono questi fenomeni, in una sostanza pur troppo complicata nei suoi caratteri cristallografici, è avvolta in difficoltà non facili a supe- sa rarsi. L'osservazione pertanto mì ha ripetute volte confermato che ai cri- stalli gemini dell’ ordinaria grandezza di quattro a sei millimetri nel loro maggior diametro, e che talvolta oltrepassano i quindici millime- tri, vanno uniti alquanti cristalli semplici di circa un millimetro, e che di raro misurano poco più di due millimetri; dalle quali proporzioni si può calcolare, prendendo le medie grandezze, che i primi avanzano in grandezza i secondi meglio di venti volte. INDICE Introduzione, pag. 1; notevoli fenomeni che sono in relazione con la geminazione dei cristalli, p. 2; teoria dei cristalli gemini, p. 4. Espe- rimenti con i cristalli di solfato potassico prismatico, p. 8; considera- zioni sopra i medesimi esperimenti, p. 15. Esperimenti e considerazioni sopra i cristalli di solfato potassico romboedrico, p. 19. Nitrato di stron- ziana, produzione dei cristalli semplici uniti ai geminati, p. 20; carat- teri straordinarii dei cristalli gemini, p. 21; esperimenti con i cristalli di nitrato di stronziana, p. 22. Ossalato di ammonio e rame, p. 22; par- ticolari caratteri dei suoi cristalli, p. 23; esperimenti fatti con ì mede- simi, p. 25. Paratartrato acido di soda, ingrandimento dei suoi cri- stalli, p. 29. AVVERTIMENTO w . . . . . . £ Per le figure citate in questa memoria sì riscontrino le tavole che accompagnano la memoria sulla polisimmetria dei cristalli. Vol. II. N.° 4. É . ATTI DELLA R. ACCADEMIA DELLE SCIENZE FISICHE E MATEMATICHE SULL OZONO ATMOSFERICO NUOVE INDAGINI DEL SOCIO ORDINARIO L. PALMIERI. MEMORIA letta nella tornata del dì 10 novembre 1863. Fin dallo scorso secolo fu osservato che l'ossigeno per mezzo dell’ e- lettricità poteva modificarsi ed acquistare un esaltamento chimico che punto non si ravvisa nell’ossigeno ordinario. Ma fu Schònbein che da pochi anni scoprendo nuovi fatti del medesimo genere chiamò special- mente l’attenzione dei chimici sopra questo particolar modo di essere, o stato allotropico dell'ossigeno, cui egli diede il nome di Ozono dall’o- dore col quale la sua presenza suolsi annunziare, odore del tutto simile a quello che si avverte in vicinanza di poderosa macchina elettrica messa in attività in mezzo ad aria secca. Sebbene dapprima l'ozono si credesse un composto ossigenato e pro- priamente un vero perossido d’ idrogeno espresso dalla formola HO', pure dopo che l’ossigeno secco e non commisto ad altra materia fu con- vertito in ozono per mezzo delle scariche elettriche , parve impossibile ricusare il concetto di una verace allotropìa di questo fluido aeriforme. Molte sono le maniere di ottenere l'ozono, le scariche elettriche , il fosforo umido ad una temperatura alquanto elevata, l’elettrolisi dell’ac- qua a temperature prossime o meglio inferiori allo zero, ecc. Atti -— Vol. I.— N& 4. 1 RO I Assicurata dunque l’esistenza dell’ ozono nel laboratorio, si ebbe ra- gione di sospettare che anche l'ossigeno dell’aria potesse assumere più o meno questo stato allatropico, sia per effetto dell'elettricità atmosfe- rica, sia per altre cagioni. E siccome l’ozono ha tra le altre proprietà, quella di scomporre il ioduro di potassio, così Schonbein preparò le sue carti reagenti con soluzione di questo ioduro ed amido, le quali co- lorandosi più o meno all’azione dell'ozono potevano riuscire acconce a dare una certa misura della quantità di esso esistente nell'aria. Di quì l’Ozonometro che passò ben presto fra le mani dei meteorologisti, e col quale parecchie serie di osservazioni furon fatte, esponendo le carte an- zidette all'aria libera per 12 ore, secondo Schonbein medesimo aveva consigliato. A parte le cagioni perturbatrici delle quali appresso sì dirà, quel metodo delle 12 ore non potea menare ad alcuna conchiusione si- cura, siccome dimostrai già in altro mio lavoro; imperciocchè la carta nel corso di 12 ore si colora da una parte per le cause siano quali si vo- gliano che scompongono il ioduro di potassico, e dall'altra si scolora perchè il iodo va via; onde alla fine sì à una tinta che non è nè la som- ma, nè la media delle parziali colorazioni patite in sì lungo tempo. Essendosi poscia notato che quelle carte possono colorirsi per l’azione di molti acidi, come del pari essere scolorite dall’ammoniaca, Houzeau volle prepararle in altro modo: prese dunque delle carte azurre di tor- nasole e per una debole soluzione acida fece sì che prendessero una tinta rossa piuttosto leggiera, indi immerse per metà nella consueta soluzione amido-iodurata, ed asciugate le esponeva all'aria o all’ozono artificiale. Egli è chiaro che operando sulla carta un acido, deve arrossire di più la parte non preparata col ioduro potassieo , ed operandovi un alcali do- vrà reintegrare il primiero colore; ma se invece è l'ozono che vi eser- cita la sua azione, allora il ioduro di potassio scomponendosi, dovrà repristinarsi più o meno solo il colore della metà iodurata, rimanendo l’altra metà senza verun cangiamento. Ciò non pertanto conviene osser- vare che sulle carte ozonoscopiche operano benanche altre cagioni, che l'ozono, come si dirà, esercita eziandio un’azione sulle carte di torna- sole e finalmente che le carte di Houzeau sono poco sensibili (1). Ci ha benanco delle carte preparate con solfato di protossido di manganese con la tintura di Guaiaco, ecc; ma tutte presentano più o meno, questi ed (1) Houzeau ha nell'aprile di questo anno proposto anche un altro metodo che riesce non solo qua- litativo, ma eziandio quantitativo: di esso discorrerò appresso. — e altri inconvenienti, per cui quasi sempre nelle investigazioni ozonosco- piche si fece ricorso alle carte amido-iodurate variamente sensibili per modo che James di Sédan ridusse a 21 le tinte della sua gamma croma- tica che Schonbein aveva diviso in 10 ed Hozeau in 5. Ora vedendo che sulle carte ozonoscopiche opera la luce in presenza dell'ossigeno ordinario, che molto efficacemente vi operano il cloro ed i vapori nitrosi, anche in assenza della luce , che esse si colorano al buio coi vapori dell’ etere del creosoto ecc. in presenza dell’ossigeno, che si tingono poco coi vapori dell’acquarzente e più o meno con quelli degli olîì essenziali, sorger dovea naturalmente il dubbio intorno alla causa della colorazione delle carte ozonoscopiche, esposte all’ aria, e quindi il Professor Silvestri (1) e più decisamente il Cloez non trova- rono alcuna ragione per accettare l’esistenza dell'ozono atmosferico. Il chimico francese dopo molti studii sul proposito dichiara francamente , che tultociò che si è fatto finora per mostrare la presenza dell’ ozono nell’aria e per misurarne la quantità è privo di fondamento (2), e poco appresso soggiunge: fino a tanto che, dietro matura disamina, tutte le qui- stioni relative a quest argomento non siano risolute, sarà permesso dubi- tare della presenza dell’ ozono nell atmosfera (3). Codesti dubbii del Cloez vengono ribaditi dall’ altro importantissimo lavoro di lui riguardante la nitrificazione, dal quale risulta, come dalle belle ricerche antecedenti del Professor de Luca , la esistenza nell’aria dell'acido nitrico o di altri composti nitrosi ossigenati, capaci a colorire le carte ozonoscopiche. Stando così le cose prima di por mano a nuove indagini meteorologi- che sull’ozono atmosferico, io sentii la necessità di fare un passo indie- tro per assicurarmi prima di tutto se veramente vi sia l'ozono nell’aria, e dopo un anno di studii, provando e riprovando, secondo il motto del- l'Accademia del Cimento, credo di esser giunto a dare le prove irrecu- sabili dell’esistenza dell'ozono meteorico, naturale o atmosferico che dire si voglia. Prima di tutto ho dovuto rivedere la serie delle cagioni da cui le carte ozonoscopiche possono essere colorite per conoscere poscia se met- tendosi al coperto di queste l’aria possedesse tuttavia una virtù propria di scomporre il ioduro di potassio, e se questa virtù fosse in tutto iden- (1) Rendiconto de’lavori eseguiti nel Laboratorio di chimica dell’Università di Pisa sotto la dire- zione del prof. Sebastiano de Luca p. 11. Dispensa 1° Pisa 1861. (2) Annales de Chimie et de Physique, 3.* Série, vol. 50, pag. 82. (3) Pag. 95. Re a tica a quella che diamo all’ossigeno nei laboratorii, quando lo trasfor- miamo in ozono. Per la prima parte sarò breve, perchè ò potuto far te- soro del lavoro del Cloez, onde dirò solo quello che vi ho aggiunto di proprio; per la seconda poi conviene che mi allarghi alquanto più in parole, essendo l'argomento nuovo, intricato ed importante (1). La Luce. La luce colora le carte di Schònbein in presenza dell’ossi- geno solo o misto a qualsiasi altro fluido aeriforme di per sè stesso iner- te, come azoto , idrogeno , acido carbonico, ossido di carbonio, ece., ancorchè l'ossigeno vi sia in quantità tenuissima; codesta colorazione è favorita dal vapore acqueo per modo che in uno spazio perfettamente secco punto non si appalesa o solo debolissimamente immergendo la carta in acqua stillata. Nelle stesse condizioni poi non è mai visto co- lorirsi le carte preparate col solfato di protossido di manganese , nè quelle di Houzeau esposte per 48 ore alla luce diretta o diffusa in qua- lunque stagione dell’anno; che anzi le prime talvolta da giallo-ranciate diventano bianche ed esposte così all’ aria libera ripigliano di nuovo il loro colorito e poscia immerse in acqua prendono la tinta consueta at- tribuita all’ ozono. Siffatte sperienze, siccome ognuno intende van fatte in recipienti di vetro perfettamente chiusi. Niuna carta ozonoscopica si colora nell’idrogeno, nell’azoto, nell’ossido di carbonio, nel vapore acqueo per mezzo della luce, siccome avea osservato il Gloez ; e se tal- volta avviene il contrario, è segno manifesto o di piccola quantità di ossigeno o di tracce di cloro, di acido cloroidrico, 0 di vapori nitrosi. Le carte che in recipienti chiusi esposti alla luce si colorano in pre- senza dell'ossigeno, restano inalterate nelle tenebre. Ma la luce è asso- lutamente inetta a colorire le carte nel vuoto torricelliano secco ed umido ed anche in quello della macchina pneumatica mantenuto in mo- do che il provino non superi i 5 o 6 millimetri. Vedendo che le carte nell’ossigeno ordinario si colorano col favore della luce, alcuni furono indotti a pensare che questa avesse la virtù di convertire l'ossigeno in ozono ovvero dargli lo stato nascente , come par che lo dia al cloro in presenza dell'idrogeno, i quali per essa prontamente si combinano. H (1) La maggior parte de’reagenti ed altre sostanze di cui ho fatto uso sonomi state somministrate dal laboratorio di chimica dell’ Università per l'esemplare cortesia del professore Sebastiano de Luca il quale mì ha dato non pochi altri aiuti, permettendo eziandio che il suo abile coadiutore Giuseppe Giordano mi prestasse efficace cooperazione, preparandomi ciocchè mi potesse occorrere. Spesso ho fatto capo anche dal prof. Ubaldîni ch'è gentile quanto abile ed esperto sperimentatore. S'abbiano tutti un attestato della mia gratitudine. agi Cloez per provare che la cosa non procede a questo modo à esposte due carte ozonoscopiche al passaggio dell’aria vivamente illuminata dal sole, una delle quali era esposta e l’altra difesa dalla luce ed à veduto colorirsi l’una e non l’altra. Dal che convien conchiudere che la luce di per sè sola potrà polarizzare l’ ossigeno in presenza del ioduro di po- tassio, ma non è atta a dargli in modo permanente la forma di ozono , come fanno le cagioni delle quali di sopra è detto. Un altro fatto degno di nota è che la soluzione amido-iodurata non si colora in vasi chiusi esposti alla luce, e nemmeno in vasi aperti innanzi ai più potenti raggi solari. Se in questa soluzione bagnate una striscia di carta e poscia la collocate verticalmente in guisa che la parte infe- riore peschi nella soluzione, è chiaro che una porzione di questa carta fuori del livello del liquido si manterrà per imbimbizione costantemente bagnata e la rimanente si asciugherà; allora sarà agevole ad ognuno il vedere che solo quest’ultima parte si colora e quella bagnata si man- tiene perfettamente bianca. Quando il vase rimane per più giorni espo- sto all'aria il livello della soluzione si abbassa col diseccarsi del liquido e le pareti del vase che restano a secco si colorano. In Inghilterra dove le osservazioni ozonometriche furono maggior- mente introdotte negli Osservatorii Meteorologici è usato l’ Ozonometro del Dottor Moffat, nel quale le carte ozonoscopiche molto sensibili sono collocate in un recinto in cui l’aria può liberamente circolare senza che la luce vi penetri. Cloro e vapori nitrosi. Efficacissima è l’azione del cloro, dell'acido eloroidrico non che dei vapori nitrosi non solo sulle carte, ma eziandio sulla soluzione amido-iodurata, senza il concorso della luce: ma avendo operato in una cameretta buia non ò mai visto colorirsi le carte, allor- chè la quantità di questi fluidi aeriformi era sì poca da non farne avver- tire l'odore; anzi mentre di notte nella cameretta l’odore del cloro 0 dell'acido iponitrico debolmente si avvertiva, la carta di Schònbein non era minimamente colorita, ed un’altra simile esposta nello stesso tempo all'aria libera avea preso una tinta tra i 2 ed i 8 gradi della scala ozo- nometrica. Essenze. Le essenze esposte all'aria ed alla luce si sa che acquistano la virtù di colorire le carte ozonoscopiche. Questo fatto meritava dal canto mio una peculiare attenzione, perocchè gli effluvii delle piante re- sinose ed aromatiche potrebbero efficacemente concorrere al coloramento delle carte, tanto più che alcuni affermano, che le medesime in campa- gna lungi da ogni vegetazione si mantengono bianche. = Age Le essenze sulle quali ò potuto sperimentare sono state quelle di tre- mentina, di lavanda, di rosmarino, di menta, di cannella, di limone, di arancio e di mandorle amare. Ho sottoposto a prova anche molte acque aromatiche come di cannella , di rose, di menta ecc. Le carte esposte ne’ vapori di queste in recipienti chiusi e fuori l’azione della luce non sonosi mai colorite: non così mi è avvenuto coi vapori degli olî essen- ziali i quali, sebbene con varia energia tutti ànno la virtù di colorire le carte ozonoscopiche, almeno in presenza dell'ossigeno e senza l’ inter- vento della luce. Ma per rendere più cospicuo il fenomeno si ponga in un fiaschetto di vetro una piccola quantità di uno di questi olì e si ri- scaldi con una lampada ad acquarzente, la carta immersa nei vapori che si elevano, prontamente colorasi come se sì fosse messa nell'atmosfera luminosa del fosforo umido; ma se quest’olio lo fate bollire per qualche tempo vedrete i suoi vapori perdere a poco a poco la virtù di colorire le carte, e quando è giunto il momento in cui più non si colorano vedete invece scolorirsi quelle che si erano colorite dapprima; e poichè riman- gono scolorite anche dopo levate dal fiaschetto senza aver perduto la virtù di ricolorirsi, e lo scoloramento avviene ad una temperatura di 50°, non può credersi che ciò derivi dalla evaporazione dell’iodo , o dalla proprietà dell’ioduro di amido di scolorirsi per riscaldamento e ricolo- rirsi con l'abbassamento di temperatura, proprietà di cui si avvalse il prof. de Luca nelle sue belle sperienze sulla temperatura della soluzione amido-iodurata a stato sferoidale. Secondo il prof. Meissner l'ossigeno che si svolge dall’essenza di trementina sarebbe antiozono. Io non ò ri- petute le sue sperienze per assicurarmene, perocchè spero potermi ver- sare sull'argomento dell’ antiozono in altro lavoro, ma ò solo notato che introducendo una striscia di carta ozonoscopica ne’ vapori delle essenze ad una temperatura di circa 50° si osserva quasi sempre un fumo bianco che potrebbe essere indizio dell’antiozono, come appresso si dirà. Le essenze che per una ebollizione prolungata perdono la virtù di colorire le carte, la riacquistano esposte all’aria ed alla luce. Le carte azurre di tornasole prendono decisamente una tinta rossa esposte nei vapori an- zidetti ad una temperatura alquanto elevata. Cloez dice che l'olio essenziale di mandorle amare si comporta in modo diverso dalle altre essenze, imperciocchè esso non colora le carte neppure in presenza della luce e dell’ ossigeno, quantunque assorba que- st ultimo per passare allo stato di acido benzoico idrato. Immergendo le carte in questa essenza, come in altre di debole efficacia, quantunque 2 Sil esposte innanzi all’aria ed alla luce, veramente non si colorano, ma non dee dirsi lo stesso dei loro vapori, specialmente a caldo. Avendo speri- mentato coi vapori dell'essenza di mandorle amare ricavata dalle foglie del lauro regio e ben rettificata, ho visto le carte colorirsi nel buio alla temperatura dell'ambiente, un poco più col favore dell’umido, meno in aria secca. Le carte azurre di tornasole, immerse in quest’olio legger- mente arrossivano, forse a cagione dell’acido idrocianico, ma le carte di Schònbein non pativano alterazione sensibile. Lo stesso interveniva operando nell’ acqua in cuì erasi agitata una certa quantità dell’ olio anzidetto. Riscaldando poi l'essenza di cui parliamo ed immergendo le carte asciutte nei vapori di essa , queste evidentemente si colorivano , quantunque meno di quello che suole avverarsi con le essenze più ener- giche, e la loro tinta rendevasi più cospicua, immergendole dopo in ac- qua stillata. Prolungando la ebollizione per molto tempo la virtù di co- lorire le carte viene scemando senza mai interamente sparire, ed intanto viene anche debolmente mostrandosi quella di scolorire le carte colorite dapprima, ma con la particolarità che scolorite dai vapori dell’ essenza sì ricolorano prontamente all’ aria, il che coi vapori delle altre essenze o punto non interviene o solo debolissimamente. Il fenomeno riesce di una meravigliosa chiarezza, se la carta colorita sia stata bagnata prima di esporsi ai vapori dell'essenza. Dopo prolungato bollimento l'olio raf- freddandosi si rappiglia in un corpo solido cristallino, il quale riscaldato di nuovo gode le medesime proprietà che aveva nel momento in cui fu tolto dalla lampada. Con un’altra varietà di quest'olio essenziale rica- vato propriamente dalle mandorle ho veduto con prolungata ebollizione sparire del tutto la virtù di colorire le carte ozonoscopiche e rimanere quella di scolorirle per ricolorirsi prontamente all'aria. In tutte le es- senze sulle quali ho fatto dei saggi ho veduto che le goccioline liquide che si depongono per distillazione sulle pareti fredde del fiaschetto han- no una potente virtù di colorire le carte che con esse si bagnano. È questo un curioso argomento di studii sul quale forse ritornerò , ma pel momento mi basti l’aver notato che anche i vapori dell’ essenza di mandorle amare colorano le carte ozonoscopiche. Ciò premesso mi corre ora l'obbligo di provare, esservi nell'aria una cagione di colorire le carte ozonoscopiche indipendente e diversa da tutte quelle di sopra indicate , e che questa goda di tutte le proprietà "dell’ozono artificiale: dopo di che, procedendo a fil di logica dovrà con- chiudersi o l'assoluta negazione dell'ozono in generale, o dovrà rite- nersi per indubitata l’esistenza dell’ ozono atmosferico. —————_——————_—_—_m€—_——________+“+—_+_T T _ = Per venire a capo di questo difficile ed intrigato problema mi è stato mestieri fare qualche nuovo studio sull’ozono artificiale, per mettere in chiaro alcune sue proprietà poco o nulla avvertite da coloro che mi pre- cedettero in simili elucubrazioni: esso è stato quasi sempre ottenuto dall’ elettrolisi dell’acqua a bassa temperatura o dal fosforo umido. Si era detto che l’ozono può passare liberamente nell'acqua, ma An- drews fu il primo ad avvedersi che l’acqua distrugge una piccola quan- tità di ozono: interviene lo stesso aspirando l’aria con due aspiratori, in uno dei quali essa si fa passare direttamente sopra carte ozonoscopi- che collocate in una canna di vetro coperta di carta nera, e nell'altro sulle medesime carte nello stesso modo collocate, ma dopo di avere at- traversata l’acqua contenuta in una boccia a lavaggio; passate eguali quantità d’aria dall’ una parte e dall’ altra, non sì hanno tinte eguali sulle carte; per lo più le ò avute colorite nella ragione di 5 a 3. To non intendo per ora decidere una lite che sotto il giudice ancor so- spesa pende, non pretendo cioè di sapere senza nuove e pazienti indagini se l'ossigeno che si svolge dalla vegetazione delle piante sia, almeno in parte, allo stato di ozono, ma certamente le sperienze del Cloez non pos- sono valere a dare una sentenza negativa. Egli pose delle piante acqua- tiche Potamogeton o Ceratophylon in acqua della senna saturata di acido carbonico e l’espose alla luce obbligando l'ossigeno che copioso sì svol- geva per la scomposizione dell’ acido carbonico a passare sopra una carta ozonoscopica difesa dell’azione della luce, e dopo di aver raccolti due litri e mezzo di ossigeno misto ad azoto, acido carbonico e vapore aqueo, trovò che la carta non erasi punto colorata. Ma chi mai può pre- tendere che con due litri di gas si possa avere ozono bastante a manife- stare la sua azione sulle carte; e poi quest’ozono attraversando l’acqua della Senna ha dovuto anche in parte distruggersi. L’ozono sparisce passando attraverso la soluzione di nitrato d’argento. Quando io vidi la prima volta questo fenomeno con l’aria, continuai le aspirazioni per 45 giorni per 7 ed 8 ore al giorno, facendola passare con una velocità di 15 litri all'ora, perchè sospettai che l'acido cloroidrico potesse essere la causa del coloramento delle carte; ma visto che la so- luzione rimase limpida, come limpida del pari era rimasta l’acqua attra- verso la quale nell’ esperienza antecedente era passata l’aria, trattata con la stessa soluzione, volli vedere se lo stesso fenomeno si avverasse con l'ozono artificiale, e trovai che questo, aspirato nello stesso modo, dava il medesimo risultamento ; solo deve badarsi che la soluzione non i sia acida, perocchè un'aura di acido nitrico può indurre lo sperimenta- tore in inganno. Il fatto più importante poi è che apre la via per intenderne parecchi altri dei quali dovrò discorrere appresso è che l'ozono passa più o meno liberamente attraverso i bicarbonati alcalini o terrosi e rimane intera- mente assorbito o distrutto dai carbonati. Il bicarbonato ed il carbonato di soda mostrano il fenomeno in una maniera più cospicua. Per avere ‘il carbonato di soda esente da tracce di acidi diversi dall’acido carboni- co, in compagnia di Giuseppe Giordano coadiutore al Laboratorio di Chi- mica, andai a collocare una soluzione di soda entro la mofeta di S. Ma- ria del Principio in Torre del Greco, la quale è sorgente quasi continua d’acido carbonico, notevolmente accresciuta dopo l'incendio del Vesuvio del dì 8 dicembre 1861. Dopo pochi giorni ebbi del bellissimo bicarbo- nato, una parte del quale fu ridotto in carbonato per via di calcinazio- ne. Ora fatta passare l’aria attraverso la soluzione satura del bicarbonato, aspirata nel modo che di sopra è detto, la carta ozonoscopica si coloriva quasi egualmente dell'altra sulla quale con simili aspirazioni passava l’aria che non aveva attraversato alcun liquido. Ponendo invece la solu- zione del carbonato, la carta rimase bianca dopo 50 ore di aspirazione, mentre l’altra assoggettata all'immediato passaggio dell’aria era forte- mente colorita. Simili risultamenti è avuto dall’ozono preparato con l’e- lettrolisi dell’acqua a bassa temperatura, ed anche da quello ottenuto col fosforo. Quest'ultimo fatto passare prima per soluzione di acido cro- mico 0 bicromato potassico, indi per un tubo in U ripieno di carbonato sodico umido e poi per due o tre bocce a lavaggio con soluzione di car- bonato potassico più non colora le carte di Schénbein ; ed è bello il ve- dere come dei pezzettini di carta interposti tra i passaggi dell'ozono da una boccia all'altra vanno gradatamente mostrando tinte più deboli. Chi dunque dal vedere che le carte ozonoscopiche colorandosi all'aria li- bera non si colorano quando l’aria è passata attraverso una soluzione di carbonato alcalino, ne volesse inferire che siffatto coloramento prove- niva da qualche acido libero esistente nell'aria farebbe un difettivo sil. logismo. La probabile spiegazione di questo fatto sarebbe, secondo mi penso, alquanto agevole supponendo che l’ ozono od ossigeno elettrone- gativo in presenza di un corpo alcalino od elettropositivo, qual'è il car- bonato, entrando in combinazione con l'azoto genererebbe dei nitriti 0 dei nitrati meglio che non avvenga con un corpo meno alcalino o elet- tropositivo qual'è un bicarbonato. Ora poi s'intende che se l’aria passi Atti — Vol. IL. — N.0 4., 2 i lungamente attraverso la soluzione del carbonato di soda dovrà alla fine riacquistare la virtù di colorire le carte, perchè il carbonato a lungo an- dare, per l'acido carbonico contenuto nell'aria, deve diventare bicarbo- nato. E quì conviene che mi soffermi alquanto per dare una nuova in- terpretazione alle importanti sperienze di Cloez sulla genesi del nitro. Questo valoroso chimico non credendo all'esistenza dell'ozono atmosfe- rico, e volendo ripetere la origine del nitro in alcune congiunture dalla semplice ossidazione di certi corpi, la quale indurrebbe per trasporto (entrainement) la formazione dell'acido nitrico che altri avea fatto deri- vare appunto dall’ozono, ha ordinato delle esperienze, mercè le quali aspi- rando per otto mesi continui l’aria depurata prima di tutti gli acidi col farle attraversare soluzioni di carbonato potassico e di potassa , ed indi degli alcali facendola passare per pomice solforica, la introduceva in re- cipienti ne’ quali erano diverse materie con carbonati o senza, ed ebbe dove più dove meno, dove sì, dove no, dei nitrati: ora io dico che da quelle sperienze non risulta che l'ozono non abbia per nulla cooperato alla formazione dei nitrati, imperciocchè ne’ primi tempi l'ozono rima- ner doveva assorbito dalle soluzioni alcaline depuratrici dell’ aria, ma dopo che le medesime erano convertite in bicarbonati, una parte almeno dell'ozono dovea passare ne’ recipienti, nei quali egli raccolse i nitrati. Mi duole che il Valentuomo non abbia interposta una carta ozonoscopica tra l’aria depurata ed i recipienti anzidetti perocchè son convinto che dopo qualche tempo l'avrebbe veduta colorirsi. Il Cloez intanto ricor- dando l’esperienze antecedenti del Prof. de Luca, dalle quali risulta una maggior copia d’acido nitrico raccolto dall'aria in vicinanza delle piante, crede che ciò derivi dai concimi, giacchè le piante finchè vivono consu- mano e non producono acido nitrico. Ma a me preme domandare se veramente in ogni tempo vi sia nell’'a- ria dell'acido nitrico od iponitrico libero, giacchè le prove desunte dai nitrati che si ottengono facendo passar l’aria sopra alcune basi non mi sembrano del tutto concludenti, imperciocchè potrebbe l'ossigeno atti- vo, l'ozono, combinarsi all’azoto in presenza di quelle basi con le quali i nitrati si formano. Il Cloez non à mancato di dimostrare per altra via la esistenza dell'acido nitrico libero nell’ aria, ma ciò nondimeno pare che la prova che ne dà non sia irrecusabile. Egli dunque facendo pas- sare l’aria attraverso una sensibilissima soluzione acquosa di tornasole osservò che dopo molto tempo essa prendeva oltre la colorazione distin- tiva dell'acido carbonico quella degli acidi energici, la quale persisteva Se col riscaldamento ; ma io ripeto che la tintura dì tornasole è alterata dall’ozono, e quel coloramento di cui parla il chimico citato è sì debole ed incerto, che egli stesso à creduto dover ricorrere ad una prova com- plementaria per assicurarsi dell’esistenza dell'acido nitrico, la quale pro- va consiste nel fare passare 15, o 20 metri cubici di aria per una solu- zione di carbonato potassico ad un determinato titolo e nell'osservare che per lo più la soluzione divenendo meno alcalina contiene un poco di nitrato; ed ecco che per tal modo si ricade sulla prova indiretta la quale punto non dimostra l’esistenza dell'acido nitrico libero nell’aria; ma invece dal vedere che mentre i nitrati si formano l’ ozono sparisce, sì è indotti a conchiudere che quei nitrati riconoscono per lo meno Ja lor causa occasionale dall’ ozono. Del resto quantunque il Cloez ritenga l’acido nitrico libero nell'aria, pure dichiara che il medesimo vi si trova solo in certi tempi dell’anno ed in quantità sì picciola da non averla potuto giammai valutare, ancor- chè avesse operato sopra una mole considerevole di aria. Per la qual co- sa sembra che l’aria possegga la virtù di colorire le carte ozonoscopiche indipendentemente dall’ acido nitrico od altri composti nitrosi ossige- nati, ì quali possono solo accidentalmente ed in qualche tempo trovarsi nell'aria, mentre le carte ozonoscopiche sempre si colorano ad eccezione di certi luoghi ove si trovano cagioni acconce a distrugger l'ozono o a scolorire le carte. Le stesse sperienze di Cloez provano fino all'evidenza che i nitrati si posson formare con aria perfettamente priva di acido ni- trico o altro composto nitroso, ma non dimostrano che possano aversi in tali condizioni senza l'ozono. Le sperienze del Prof. de Luca per le quali egli ebbe dei nitrati operando con l’ozono sembrano venire in ap- poggio del mio parere. Ci à senza dubbio delle cagioni per le quali puos- si avere in qualche luogo e per qualche tempo dell'acido nitrico nel- l’aria, perocchè si sa che il medesimo si forma nella combustione del- l’idrogeno in presenza dell'azoto, con le ripetute scariche elettriche nel- l’aria, ecc., onde diviene il facile compagno e spesso il successore del- l'ozono, perocchè in tutte le congiunture, in cui l'ossigeno si polarizza fortemente come elettro-negativo, acquista attitudine di unirsi all’azoto, ed in presenza dell’acqua si ha l'acido nitrico, ma ciò sembra avvenire nei momenti della polarizzazione energica e primitiva, come durante la combustione, il passaggio delle scariche elettriche ecc. , e dopo l’ossi- geno potrà serbare in parte lo stato nascente, ma non si unirà più all’a- zoto senza di un corpo in presenza del quale possa provocarsi una nuova combinazione. ‘ ————_—_—__m___ T_T Tt = Wo Se le carte ozonoscopiche si colorano all'aria indipendentemente dalla luce e dai vapori nitrosi deve dirsi lo stesso pel cloro, giacchè le solu- zioni alcaline attraverso le quali si fa passar l’aria per molto tempo , mentre dànno notevole quantità di nitrati, mostrano appena tracce insi- gnificanti di cloruri, come lo prova anche il mantenersi limpida almeno per molto tempo la soluzione di nitrato d’argento. Restano da ultimo gli effluvii aromatici delle piante. Fo prima di tutto osservare che le carte si colorano benissimo in alto mare e coi venti che dal mare procedono, che si eolorano di notte in mezzo alle vecchie lave del Vesuvio alla distanza di 2 chilometri dalle searse piante che co- vrono la campagna circostante, ed in tempo dì perfetto riposo del Vul- cano, quando non vi sono fumarole di qualche attività. Ma ponendo da banda tutto questo , veniamo ad una prova sperimentale senza replica.. L’aria fatta passare per soluzione di ioduro potassico diviene assoluta- mente inelta a colorire le carte ozonoscopiche, ora fate che la medesima prima di passare per la soluzione anzidetta abbia attraversata l’ essenza di trementina, allora le carte in brevissimo tempo saranno colorate. Le carte dunque sono generalmente colorate nell'aria da qualche cosa che rimane assorbita o distrutta dalla soluzione di ioduro di potassio, e non dai vapori o emanazioni aromatiche le quali impunemente l’ attraver- sano. Dicasi lo stesso se invece di questa soluzione sì usi quella dì car- bonato di potassio. In ultimo conviene notare che se il Cloez per im- pugnare la ipotesi dell'ozono svolto dalle piante ricorda che le carte si colorano anche meglio nel verno con una temperatura di 10° sotto zero, quando la vegetazione è sospesa, pare che siffatta obbiezione possa op- porsi del pari alla ipotesi degli effluvii odoriferi delle piante come ca- gione di coloramento delle carte ozonoscopiche (1). Provato che le carte si colorano nell’aria indipendentemente dalla lu- ce, dai vapori nitrosi, dal cloro e dalle essenze, ci rimane a dimostrare che cotesta virtù dell’aria gode di tutte le altre proprietà dell'ozono. Abbiamo veduto già come sparisce attraversando la soluzione di ioduro di potassio, come si comporta all'istesso modo coi carbonati alcalini ec. ora ci è agevole il vedere che abbia le altre qualità essenziali dell'ozono. Si sa che l'ozono sparisce passando in acqua nella quale siasi stempe- (1) Dalle recenti esperienze fatte del Poey tra i profumi delle piante aromatiche di Avana risulta che le carte non si colorano con gli eMuvii di quelle piante neppure in presenza della luce finchè stiano sotto dei recipienti, ma si colorano solo quando quegli effluvii vengano a mescersi a gran co- pia di aria. V. C. R. agosto 1863. ug rato del biossido di bario, svolgendosi, secondo Schénbein, in tale rin- contro l'ossigeno ordinario, ed il biossido convertendosi in barite idrata. Ora fate passare in simil modo l’aria pel biossido di bario, ed essa per- derà perfettamente la virtù di colorire le carte ozonoscopiche. Interviene lo stesso col perossido di manganese stemperato in acqua, tanto con l’o- zono artificiale quanto con quello dell'atmosfera, solo si badi che que- sto perossido sia puro ed esente da tracce di acido cloroidrico. L'acqua di barite fa passare egualmente l'ozono del laboratorio e quello della natura, l’acqua di calce assorbe l'uno come l’altro; le foglioline di ar- gento cambiano egualmente di aspetto senza cambiare di peso (1); lo zinco e lo stagno non si alterano se l’aria sia secca, l’ossido di rame si comporta come il perossido di manganese, il iodo s’ingiallisce, e così di- casi delle altre qualità che all’ozono appartengono. Finalmente poichè Houzeau ha indicato non ha guari un altro modo di giovarsi del ioduro di potassio per iscoprire la presenza dell'ozono io non ho voluto mancare di metterlo a prova con l’aria. Entro due tubi o piccole bocce a lavaggio sì pongano tre centimetri cubici di acqua pura colorita con alcune gocce di soluzione di tornasole rosso vinoso stabile (2). In una di queste bocce si pone la centesima parte di ioduro di potassio perfettamente neutro, indi unite le due bocce per un cannello ricurvo, mercè un aspiratore si faccia passare l’aria prima nell'acqua senza ioduro e poi in quella col ioduro di potassio, se il co- lore in questa si repristina rimanendo nell’ altra senz’ alterazione sensi- bile è segno che l'ozono ha scomposto il ioduro di potassio dando ori- gine alla formazione della potassa. Ne’ molti sperimenti che ho fatto ho sempre visto più o meno repri- stinarsi il colore della soluzione di tornasole nella boccia ove era il io- duro di potassio, e non ho mai osservato, almeno nel tempo che ha du- rato ogni esperienza (da 48 a 60 ore), arrossita la soluzione contenuta nella prima boccia, ma qualche volta invece anche questa ha mostrato di tendere al violetto (3). Houzeau ricavando la potassa ottenuta viene a conoscere la quantità di ozono, ma per gli usi della meteorologia questo metodo riesce, almeno per ora, impraticabile. (1) Andrews e Tait. Annales de Chimie et de Physique T. 56 P. 335. (2) Questo si prepara aggiungendo alla decozione di tornasole ordinaria qualche goccia di acido sol- forico allungato fino a che prenda la tinta vinosa permanente, il che si conosce se passata sopra un coccio di porcellana rimane di quel colore dopo disseccata. (3) Annales de Chim. et de Physiq. t. LXVII, p. 472 — 1863. e Qualora poi si paragonino le condizioni sotto le quali l'ozono si ma- nifesta più copioso nell'aria con quelle per le quali l'elettricità atmo- sferica più abbonda si trova una tale corrispondenza da valere per una prova sussidiaria in favore dell’esistenza e dell'origine dell'ozono atmo- sferico. Il dottor Moffat dopo dieci anni di osservazioni ozonometriche fatte ad Hawarden all'altezza di 260 piedi sul livello del mare col suo ozonometro in cui le carte sono preservate dall’azione della luce, è per- venuto ai risultamenti che seguono riferiti alla 31% riunione dell’ Asso- ciazione britannica per l'avanzamento delle scienze (1). La quantità di ozono cresce con lo scendere del barometro, con l'aumento dell'umidità relativa, coi venti di S. e di S.0. È maggiore in tempo di pioggia e di elettricità negativa, è più grande di notte che di giorno, più nell’inver- no che nella state. Varia coi luoghi per modo che al lido del mare è sempre più che nell'interno delle terre; è maggiore con le altezze, ab- bonda in campagna ed è scarso nei luoghi abitati, giungendo a zero, ove sono sostanze in putrefazione. Esso è un gran potere ossidante e perciò è distrutto dalle sostanze ossidabili. Sul mare e verso le sponde, man- cando i prodotti della putrefazione, l'ozono si mostra più copioso, e le correnti atmosferiche equatoriali sono generalmente più ozonifere di quelle che vengono dai poli. Le lunghe calme rendon l’aria priva o scarsa di ozono il quale rinasce col vento. Ora la maggior parte di que- ste condizioni indicate dal Moffat io le trovo del pari nell’elettricità at- mosferica per cui spero un giorno, all’ ozonometro strumento di sua na- tura grossolano ed imperfetto, poter sostituire l’elettrometro atmosfe- rico da me ridotto strumento comparabile e di grande precisione. Mentre la serietà britannica, rimossa l’azione perturbatrice della lu- ce, accetta l’esistenza dell'ozono atmosferico (2), mentre in Francia si elevan dubbii gravissimi contro di essa, in Germania non solo sì crede all’ozono dell’aria, ma benanche all’ antiozono messo innanzi la prima volta da Schònbein come un altro stato allotropico dell'ossigeno, per modo che il primo sarebbe elettro-negativo, ed elettro-positivo il secon- do. Nella scuola francese, ove accettandosi appena l'ozono artificiale si (1) V. Report of the thirty-first meeting of the British association ecc. Notice and Abstracts of Mi- scellaneus communications to the sections, Pag. 88 e 89 London 1862. (2) V. Instructions for taking meteorogical observations; ec. By Colonel Henry Iames ec. Lon- don 1861. — Drews pratical meteorology. London. 1860 ec. In queste istruzioni compilate per incarico del Segretario di stato del Ministero della Guerra è det- to. It is desirable, therefore, that a note should be tuken atleast once a day of the indications of the ozonometer papers, and entered in the Meteorogical Register p. 51. 06 = pone in dubbio l’atmosferico si dura fatica a fare buon viso all’antio- zono, per cui il Wurz chiama ingegnosa ma temeraria l'ipotesi del chi- mico di Bala. Il recente lavoro del Dottor Meissner (1) sull’ossigeno è ricco di tal copia di fatti e di ragioni in favore dell’antiozono, che non pare agevole rivocarlo in dubbio: avrei solo desiderato qualche speri- mento che più direttamente ne assicurasse l’esistenza nell'aria, quan- tunque non manchino parecchie prove indirette. Io non starò quì a ri- cordare le proprietà dell’antiozono, ma non posso tacerne una messa in luce dal Meissner per le importanti conseguenze meteorologiche alle quali può condurre, ed anche perchè ci mette per la strada per la quale puossi in modo più certo incontrare l’antiozono dell’aria. Il valoroso professore di Gottinga adunque facendo passare l'ozono perfettamente puro per soluzione di ioduro potassico e quindi per acqua stillata, 0s- serva sulla superficie di questa formarsi una nebbia senza che avvenga abbassamento di temperatura, e questa egli chiama atmizono; se que- sta nebbia si riduce in acqua non vi sì trovano segni di essere ossige- nata, come lo è per poco l’acqua pura sottoposta attraverso la quale l’a- eriforme è passato. Cosicchè l’antiozono nell'aria umida genera nebbia a guisa dell’opalescenza, come dice il Meissner, che in alcune soluzioni si ha per piccola quantità di un reagente, e nell’ acqua forma perossido d’idrogeno o acqua ossigenata. E poichè si possiede ora un mezzo squi- sito per iscoprire deboli tracce di acqua ossigenata, così non sarà difti- cile avere una prova diretta dell’antiozono nell'aria. Riserbando ad al- tro lavoro siffatta investigazione, voglio qui ricordare che il chimico ci- tato dimostra essere l'ossigeno una condizione essenziale per aver la nebbia, per modo che raffreddando i vapori acquei contenuti nel vuoto, nell’azoto, nell’idrogeno, nell’acido carbonico ecc., essi si rappiglie- ranno in gocciole, ma non faranno la nebbia propriamente detta, ed ha eziandio dimostrato che la nebbia si fa più rada col rendere l'ossigeno più scarso, onde ne segue che le nubi più dense si hanno nelle basse re- gioni dell’ atmosfera, e gradatamente si perviene a quelle altezze, nelle quali è appena possibile avere dei cirri leggieri. Dal che sembra doversi inferire che l'ossigeno sia sempre in qualche maniera nelle condizioni d’antiozono, epperò quando sia più energicamente costituito in questo stato vi sarà maggiore attitudine alla generazione delle nebbie e delle nu- vole. Or poichè l’antiozono sarebbe una derivazione dell'elettricità po- (1) Untersuchungen uber den Sauerstof., Hannover 1863, === sitiva, così il Meissner si giova delle mie ricerche sull’ elettricità atmo- sferica, per indicare la origine dell'ossigeno elettropositivo , il quale quando sia energicamente costituito in questo stato non sarebbe assor- bito dalla soluzione di potassa ed acido pirogallico. Ciò basta per mo- strare l’importanza di questi studii per le numerose applicazioni di cui possono essere fecondi. Se oltre l’ozono trovasi anche l’antiozono nell’a- ria, le osservazioni ozonometriche fatte con le carte amido-iodurate non potranno avere alcuna significazione, finchè non si abbia il modo di va- lutare l'ozono e l’antiozono, perocchè non è possibile che queste due modalità dell’ aria si comportino egualmente sulla nostra economia. Molti annebbiamenti e molti fumi, di cui non sappiamo dare ragione, ripeterebbero, secondo il Meissner, la loro origine dall’antiozono il quale spesso si genera insieme con l’ozono. Il fosforo stesso ne darebbe una prova, imperciocchè l'ossigeno dell’aria assumendo il suo stato elettro- negativo nel combinarsi al fosforo, svolgerebbe dietro di sè elettricità positiva, origine dell’antiozono e quindi della nebbia in presenza dei va- pori acquei. I fumi bianchi che si manifestano quando l'ossigeno sì estrae dal clorato di potassa in presenza del perossido di manganese, e perfino le misteriose nebbie secche, potrebbero ripetersi dalla medesima origine. Comunque sia, dimostrata per ora l’esistenza dell'ozono atmosferico, volgerò la mia attenzione all’antiozono, e quindi procurerò di cercare i mezzi più acconci per le osservazioni meteorologiche corrispondenti. lo son convinto del grande avvenire riserbato alla Meteorologia, ma fino a tanto che l'igiene, la pastorizia, l'agricoltura e la navigazione ànno poco o nulla a giovarsi delle sue osservazioni, francamente dirò che la vera meteorologia non è per anco nata; epperò io mi penso che la parte più grave di essa sia riposta nelle indagini ordinate a scoprire nuove leggi, anzichè nell’ammassare volumi di osservazioni parziali quantunque ese- guite con grande precisione. Quando avremo strumenti atti a manife- stare il corso e l'andamento di tutte le cagioni operanti nella natura, allora la vita, questa risultante ed in pari tempo questo compendio di tutte le forze, non sarà più misteriosamente legata all’ ambiente donde prende vigore, ed in cui non di rado incontra le arcane cagioni dei morbi. Mok do Ne a. ATTI DELLA R. ACCADEMIA DELLE SCIENZE FISICHE E MATEMATICHE STUDII SULLA FAMIGLIA DELLA RUDISTE. MEMORIA DEL SOcIO orpinaRrIO G. GUISCARDI. Parte prima letta nell'adunanza del dì 10 novembre 1863. Dal Lapeyrouse ai Sigg. Bayle e Woodward lo studio dei fossili che il Lamarck riunì sotto questo nome ha tanto progredito, che la loro struttura può dirsi completamente conosciuta. Non è lo stesso però dei rapporti che le Rudiste hanno con i molluschi viventi e , se l'opinione di ravvicinarle alle famiglia delle Camacee oggi è più che altra general- mente ricevuta, non credo le loro affinità così pienamente dimostrate che ogni dubbio sì possa dire rimosso; ma questo argomento è stato trattato da tali uomini che io non pretenderò certo di entrare in siffatta discussione. i Io mi propongo soltanto di far conoscere le forme di questa famiglia che, per quanto so, s'incontrano nel Napolitano e di descrivere quelle che non sono ancora conosciute: e nel farlo non lascerò passare inos- servati i particolari della loro struttura i quali, io penso, contribuiranno a far viemeglio caratterizzare questi esseri singolari. Avrei voluto presentare all’ Accademia tutto intiero il lavoro, intra- preso da più anni ed interrotto per varie vicende; ma nuovi ostacoli frapponendosi ogni giorno al suo compimento, mi son determinato a Atti — Vol. II. — N° 5 1 SI suddividerlo in monografie, intitolando ciascuna dal nome d’ un genere. In questa che ora presento mi occupo del genere Hippurites, Lamarck. H. cornu-vaccinum, Bronn. Di questa specie il gabinetto geologico ha recentemente acquistato una valva inferiore proveniente dai monti di Vitulano. È alquanto compressa soprattutto al margine, dove il diametro mag- giore dalla cresta cardinale al punto opposto è di circa $5 mill. Dal margine in giù diminuisce poco sensibilmente il diametro e solo verso l'apice rapidamente si restringe. Presso ai due terzi della lunghezza, a partire dal margine, è piegata ad angolo alquanto maggiore del retto e, misurata lungo la convessità, dal margine all’apice infranto è circa 85 cent. ; intiera potè esser lunga 38 cent. questa valva. Il guscio è bigio, lamelloso, similissimo per questo a quello delle ip- puriti di Untersberg. La figura dei pilastri e della cresta , la loro spor- genza, i rapporti fra essi e le docce che li separano convengono piena- mente e con le rappresentazioni grafiche e con gli esemplari di questa specie di cui ho conoscenza. H. Taburnii n. sp. Distinguo con questo nome un pezzo di valva inferiore cilindrica, un poco schiacciata alla regione cardinale, alquanto incurva , il cui dia- metro interno è di circa 90 mill. e che su la lunghezza di 1 decimetro si restringe solo di 2 mill. Apparentemente dovè essere ben lunga. All’esterno ha tre solchi poco profondi ma ben distinti ed è ornata di piccole coste di cui si contano 13 nella superficie di circa 16 millimetri quanto dista cioè il solco della cresta cardinale da quello del primo pi- lastro. La figura dei pilastri, la loro sporgenza e segnatamente quella della cresta di poco maggiore della sporgenza del vicino pilastro B, distin- guono benissimo questa forma, di cui la fig. 4 rappresenta un taglio per- pendicolare all'asse della valva. Nondimeno ho lungamente inclinato a riguardarla come derivante dall’. cornu-vaccinum; ma avendo posto mente alla condizione dei sol- chi in questa specie assai profondi, e più ancora all'altra della superfi- cie intercetta fra il solco della cresta (A) e quello del pilastro (0), che nel- = l’H. cornu-vaccinum è circa il settimo della superficie della valva, men- tre in questa che descrivo la stessa superficie l'è poco meno del dodi- cesimo, — non ho più esitato a riguardarla come una specie assai bene distinta dalle altre. La prossimità dei detti due solchi, per la quale il signor Bayle a ra- gione scriveva — « ce caractère suffirait à lui seul pour distinguer l’H. « cornu-vaccinum de toutes les espèces d' hippurites connues jusqu’ à « présent »—è una caratteristica che non più a questa specie, ma evi- dentemente conviene all’ H. Taburnii. Non è possibile darne la frase specifica, trattandosi d’un frammento , ma i caratteri indicati bastano a farla riconoscere. Questo pezzo proviene dal M. Taburno, e si conserva nel gabinetto geologico della nostra università. H. Baylei, n. sp. Anche questa specie non è rappresentata che da un pezzo di valva in- feriore della quale però esiste il margine completo. Il quale è obbliquo sull'asse ed inclinato verso la regione cardinale che fa col piano nel quale giace il margine un angolo di circa 105°. Il labbro mostra distin- tissime le rughe e granulazioni dal d'Orbigny attribuite ai cirri del mantello dell'animale. L'esterno è adorno di coste di cui si possono numerare 16 in una superficie di 26 mill. Sono inuguali, spesso angolose e d’ ordinario una volta sola, raramente due; nella regione cardinale fra due coste se ne aggiunge un’altrà piccolissima. Le linee d’accrescimento si abbassano su gli spigoli delle coste e si elevano nelle depressioni fra esse, per mo- do che la valva risulta finamente ornata di linee piegate a zigzag. Secondo le linee d’accrescimento si notano ancora dei leggieri re- stringimenti, non perpendicolari all'asse, nè paralleli, che anzi pare che queste linee d’accrescimento a partir dall’apice diventino più e più in- clinate. Forse fu uniforme il crescere della conchiglia nella parte infe- riore, ma nella superiore fu minore verso la regione cardinale e da questo ebbe origine l'inclinazione del labbro. Io pensai altra volta che la regione cardinale avesse influenza sull’in- curvarsi delle ippuriti, ma in prosieguo ho potuto accertarmi che essa v'è del tutto estranea, avendo incontrato molte valve inferiori incurve secondo un piano perpendicolare a quello che passerebbe per la regione cardinale e l’ opposta, così che i solchi stanno su l’uno dei fianchi. - sie Due soli solchi mostra questa valva all’esterno, l'uno più profondo dell'altro e, dietro quel che se ne sa (1), si sarebbe indotti a credere che corrispondessero ai due pilastri, riproducendosi in essa l'esempio dell’ H. bioculatus, Lamk. é di altre, in cui il solco rispondente alla cresta cardinale non esiste. Ma nella valva in parola il caso è affalto contrario, fig. 2 e 8; poichè in questa il soleo meno profondo risponde alla cresta cardinale e l’altro ai due pilastri insieme; così che questo solco, che è il più profondo dei due, non rappresenta già la linea me- diana di ciascun pilastro, ma sibbene il mezzo della doccia fra essi. La superficie fra i solchi ornata di 15 coste è poco meno del settimo di quella della valva intera. l Iì numero dei solchi fu ben determinato dal d'’Orbigny quando seris- se che la valva aderente delle ippuriti — « est marquée extérieurement « de deux sillons et souvent d’une troisième depression » — ed è chia- ro abbastanza d’altra parte che la frase del Woodward —« with three « parallel furrows » — debba essere modificata. H. Arduinii, n. sp. Al contrario delle precedenti, questa specie è rappresentata solo dalla valva superiore, libera od opercolare che voglia dirsi, tutta convertita in quarzo, fig. 4a 9. Essa è convesso-conica a base apparentemente circolare , forse del diametro di 8 centimetri ed alta più che 3. I due strati onde è fatta sono chiaramente indicati dalle due diverse tessiture che ha il quarzo. Lo strato interno è di quarzo cristallino e costituisce tutte le cavità e le sporgenze; l’altro strato esterno che ha aspetto terroso e tessitura fi- brosa, segregato perciò da uno stesso organo , costituisce i canali e la superficie porosa, come suol dirsi, ma che meglio direbbesi forata. I due strati non sì toccano se non per i canali e per i lembi. Dove manca l'esterno apparisce l'apice dello strato interno della valva, mammillato ed in mezzo ad una depressione circolare, e, da questo apice, che non è il punto più alto della valva, hanno origine costole e solchi, inuguali, flessuosi talvolta, in generale pochissimo distinti e che meglio si ri- conoscono alla sottile striatura ondulata prodotta dalle linee d’accresci- mento. Vi si notano però due solchi ben larghi e profondi ed un terzo angusto che potrebbe dirsi ripiegatura. Questa corrisponde alla erestà cardinale ed i due solchi corrispondono agli osculi. (1) Bayle, Bull. de la Soc. géol. de France, 2.ème série tom. xII. DS pp I canali sono adattati nei solchi che ho detto poco distinti; fra due raramente ne sta un terzo che non aderisce se non alla superficie fora- ta: non ne ho veduto che si biforcassero. Stanno ancora i canali nei solchi rispondenti agli osculi e, nel primo (g) fig. 6, che è più profondo dell'altro, se ne contano tre, due sul fondo ed uno sur uno degli orli del solco. Questo canale è sorretto dal margine del solco stesso che pro- traendosi alquanto entra nella spessezza della sua parete; ed agli altri due liberi nel solco, servono di appoggio in simil guisa piccoli rilievi li- neari longitudinali e trasversali che s’ elevano sul suo fondo. Nell’altro solco (f) corrispondente all’osculo del secondo pilastro i ca- nali aderiscono per tutta la loro superficie perchè compressi; inoltre s'inflettono sulla spessezza dello strato interno (e) fig. 5, 6 e 7 e pare che sì aprissero intorno all’osculo e che, o essi stessi dicotomizzandosi o altri soprapponendosi ad essi, giungessero poi al margine della valva, fig. 7. Questo non posso dir con certezza poichè per mala ventura giusto su quest’osculo la valva è invplta nella roccia, quarzosa anch'essa, nè mi è stato possibile riconoscere l'andamento dei canali. Lungo la ripiegatura che ho detto, in due punti s'insinuano i canali e sì aprono all’interno in due punti diversi della cresta cardinale, che sta in fondo ad una piccola cavità , di cui mi occuperò nel descrivere l’in- terno della valva. Dove parte della parete dei canali è rimasta aderente allo strato in- terno, si vede la loro struttura fibroso-pinnata fig. 8 (in alto), le fibre di- vergendo dalia linea mediana. I canali all’esterno sono quale fortemente striato per lungo, quale no, ma sempre vi si nota la struttura fibrosa. Ho già detto che lo strato esterno aderisce all’interno solo per i ca- nali e pel-margine ; in tutto il resto lo strato esterno, poroso, è libero ed isolato. La comunicazione dei pori con i canali è messa in evidenza anche dalle fratture ed è, dirò così, immediata; poichè non esistono le ramificazioni dei canali descritte dal d’ Orbigny (1), nè sarebbero possibili dopo quel che ho detto; però le inflessioni dello strato esterno sui canali aumentando le superficie del loro contatto, vengono ad ac- crescersi ancora i punti per i quali si stabilisce la comunicazione fra lo strato esterno ed i canali, come lo mostrano le prominenze e depressioni irregolarmente disposte dello strato esterno, ed i pori meno frequenti (1) Ann. des Sc. Nat. 3.ème série, Tom. VIII, pag, 260 == nelle seconde e stivati sulle prominenze alle quali sottostanno immedia- tamente i canali. I pori in basso sono rotondi o compressi; in sopra si slargano, divengono angolosi e vi sì notano pliche rilevate, quattro tal- volta, che fanno più angusta la piccola cavità imbutiforme: lo spazio fra ì pori è liscio e rotondato. La valva superiore delle ippuriti suol esser piana o di poco conves- sa, e però la molta convessità di questa che descrivo non può a meno d’influire sulla sua interna struttura. In fatti, fig. 4°e 4°, col margine della regione cardinale comincia una grande cavità che comprende gli osculi e la cresta cardinale, e, seguendo la superficie conica , cresce di pro- fondità finchè ne acquista una anche maggiore al vertice della valva, e diviene cavità umbonale (M). Il resto è una superficie piana in forma di ferro di cavallo e ricorda assai l’H. Loftusi, Wood. (1). Fra la cresta cardinale e il primo osculo, assai presso a questo, sorge dal fondo della cavità un dente compresso, largo e bipartito; di cui l’un estremo (G) è se- parato dalla superficie a ferro di cavallo da un seno non molto profondo, e l’altro estremo (H) è congiunto alla sommità dell’osculo da una lamina incurva. La presenza di questo dente e la sua posizione seguendo la curva a ferro di cavallo fa che si possano distinguere due cavità fra le quali esso sì trova—l’una grande osculo-umbonale, l’altra piccola in fondo alla quale sta la cresta cardinale (A) e ne occupa giusto il mezzo. Un solco ben distinto cinge l’osculo del secondo pilastro. L’estremità del dente prossima all’osculo è infranta e si può argo- mentare che dovesse essere ben più lungo; l’altra estremità è appena sdrucita così che si può ben credere che la sua lunghezza non dovesse essere di molto maggiore. A partire dal seno che divide il dente dalla lamina a ferro di cavallo, per circa la metà della curva esiste una frattura che io penso rappre- senti l'attacco del primo dente cardinale, e dell’apofisi destinata alle inserzioni muscolari. La cresta cardinale ha i margini alquanto divaricati e diversamente curvi; quello verso l’osculo è piano, l’altro margine è rilevato sul fondo della cavità. Dei due canali ai quali ho già fatto allusione l’uno si vede in parte e si apre quasi nel mezzo della cresta dove i margini sono più discosti. (1) Quart. Journ. Feb. 1855, Vol. XI. PI. III fig. 4. Ped, 00 Questa valva fa parte anch'essa delle collezioni del nostro gabinetto geologico, proviene dagli Abruzzi e dallo stesso deposito in cui trovasi la Spherulites Tenorcana che ho altra volta descritta (1). Io mi auguro di potere, in un tempo che voglio sperare non molto lontano, visitare io stesso la località ove giacciono questi preziosi fos- sili per così completarne la descrizione ancor monca, e determinare le zone alle quali le nuove specie appartengono. SPIEGAZIONE DELLE TAVOLE. Fig. 1. Sezione trasversale della valva inferiore dell’ H. Taburnii. (A) eresta cardinale, (B) primo pilastro, (0) secondo pilastro. Fig. 2. Sezione trasversale della valva inferiore dell’ H7. Baylei. (A) cresta cardinale, (B) primo pilastro, (C) secondo pilastro, (s) solco esterno comune ai due pilastri. Fig. 3. La stessa valva guardata di lato per mostrarne gli ornamenti esterni. Fig. 4° e 4°. Valva superiore dell’ H. Arduinii , veduta all’interno. (A) cresta cardinale, (B) osculo del primo pilastro, (0) osculo del secondo pi- lastro; (a; è, c, d, e,) grande cavità che comincia col margine e che in (f) divien poi cavità umbonale (M). (H, G) estremità libere del dente che separa dalla detta cavità l’altra piccola in fondo alla quale sta la cresta cardinale (A); (c d) orlo della superficie a ferro di cavallo, sul quale si nota una frattura che assai probabilmente è l'attacco del primo dente cardinale e delle apofisi per le inserzioni muscolari ; (f) orlo del solco che cinge l’osculo del secondo pilastro (C), (9) seno che separa il dente dalla superficie a ferro di cavallo, (4) fossetta non so dire a che desti- nata, (i) aperture dei canali sul margine della valva. Fig. 5. Sezione della stessa valva secondo la linea (x 4) della fig. 4. (a) apice, (M) cavità umbonale, (f) orlo del solco che cinge l’ osculo del se- condo pilastro, (g) seno che divide il dente dalla superficie a ferro di cavallo, (0) lamina che congiunge l’estremo (H) del dente alla sommità dell’osculo (B). (1) Bull, de la Soc. géol. de France, (2) Tom. XIX, pag. 1034. er Fig. 6. Valva superiore dell’ H. Arduinii veduta all’ esterno. (A) cresta cardinale, (B) primo osculo, (C) secondo osculo, (4) apice mammillato dello strato interno, (b, 5) quel che rimane della superficie porosa, (e, c) canali, (d) tre canali nel solco (9) che corrisponde al primo osculo, (e) spessezza della valva sulla quale si piegano i canali nel solco (f) del se- condo osculo. Veggasi anche (2) nelle fig. © e 7. Fig. 7. Questo frammento mostra porzione dei canali staccati dallo strato interno del quale parte soltanto è rimasta ad essi aderente. (C) osculo del secondo pilastro, (a) apice della valva , (5) canali adagiati sulla superficie conica, (e) i canali piegati sulla spessezza dello strato interno lungo la curva dell’osculo e che ricompariscono cresciuti di nu- mero in (d) sul margine. 1] pezzo rappresentato da questa figura è stato tolto via nelle fig. 5 e 6, così che in esse si vede la superficie (e) che è la spessezza dello strato interno con tre sottili rilievi i quali rispondono ai piccoli solchi che ri- sultano dal toccarsi dei canali, sebbene alquanto compressi. Fig. 8 e 9. Parte della superficie porosa [ (d, b) fig. 6], dell'H. Ar- duinii, nella prima delle quali sì veggono anche i canali. N. B. Che queste due figure sono state litografate da fotografie ingran- dite tre volte; e che le altre delle quali non è indicata la dimensione sono tutte di grandezza naturale. LA ” «fi \ i » [te x . LT ” (-g] el è = Pat a _ UP=] spe E oe. fi # — # e f | sil : ara fa 2 ss Ma \ d % \ = à < ( lesi LS r LI P) x | ì f Ù LI Ì Li ì («ito ] v + \ \ w Fa i % f ) 4 n |. m r [S 0] bll } VA cd » — } N° 5 bei w va f - t i: » é e 1 - - . —'- U d a su - a - » . » L, x « + ‘ v . LI ‘ . - 4 ’ = _ n dit. ticivei Par # Ù da # ce » Mok: IE. IN 6. ATTI DELLA R. ACCADEMIA DELLE SCIENZE FISICHE E MATEMATICHE NUOVO ELETTROMETRO BIFILIARE MEMORIA DEL SOCIO ORDINARIO L. PALMIERI. letta nella tornata del dì 12 aprile 1864. Il metodo del conduttore mobile da me usato per le osservazioni di me- teorologia elettrica m’imponeva, alcuni anni or sono, la necessità di avere un elettrometro sensibilissimo e comparabile. Raggiunsi in gran parte lo scopo col mio elettrometro unifiliare ch'è una modificazione dell’ elet- trometro atmosferico di Peltier (1). Ma poichè l'indice di questo porta un frammento di ago da cucire debolmente calamitato, ed una punta sporgente dal mezzo dell’indice tocca leggiermente una piccola cavità sottoposta, così si aveano due cagioni che poteano far variare di qual- che poco la sensibilità dello strumento, le quali erano le variazioni nella intensità del magnetismo dell'ago e quelle dell’attrito sebbene piccolis- sime pe cangiamenti che le condizioni igrometriche dell’aria arrecar po- teano nella lunghezza del filo di bozzolo. Con un poco di pratica i picco- lissimi errori provenienti da dette cagioni sì evitavano o sì correggevano, ma non tutti poteano farlo. Per la qual cosa ho fatto da circa un anno eseguire un nuovo elettrometro di grande ed invariabile squisitezza , esente da qualsiasi inconveniente e facile ad essere trasportato. Figuratevi un filo sottilissimo di alluminio o anche di argento mr fis- (1) V. Gli Annali dell’Osservatorio Vesuviano. Vol. I e II. Atti — Vol. II.— N° 6. 1 TOA sato nel mezzo ad un dischetto di argento dorato r molto sottile e di dia- metro eguale a quello della figura 0 poco maggiore. Nel mezzo dell’ in- dice trovasi un anelletto pel quale passa un filo di bozzolo i cui capi nella parte di sopra divergono alquanto e sono raccomandati ad un verricello : è chiaro che questo indice mn avrà una forza direttrice invariabile la quale dipende dalle distanze inferiore e superiore de’ fili, dalla lunghezza di questi e dal peso dell'indice e del dischetto. Immaginate ora che il di- schetto r entri in un bacinetto o piattello s della profondità di tre mil- limetri il quale abbia il diametro di circa due millimetri maggiore di quello del dischetto e che questo vi s' interni per circa un millimetro. Suppongasi finalmente che col piattello metallico siano uniti due brac- ciuoli orizzontali ab i quali si trovino molto prossimi all'indice mn nello stato dì quiete, è chiaro che se il piattello s co’ corrispondenti bracciuoli orizzontali riceva una carica questa opererà per influsso sul dischetto che si elettrizzerà di elettricità contraria, e l'indice mn specialmente verso gli estremi si elettrizzerà di elettricità omologa per cui si avrà un devia- mento più o meno grande secondo la intensità della carica. Ciò posto volgendo lo sguardo alla figura ove è rappresentato quasi a metà del vero tutto lo strumento, s' intenderà che il piattello è collocato entro un cilindro di cristallo sormontato da una canna v alta 25 in 30 centimetri entro la quale passano i fili che tengono sospeso il dischetto con l'indice; che il piede del piattello s'innesta con un filo metallico circondato da un cannello di vetro pieno di mastice coibente il quale pe- netrando la base inferiore del cilindro di cristallo la quale è anch’ essa di cristallo passa orizzontalmente entro la base di legno << e termina in una colonnetta di rame dorato f destinata ricevere le cariche; che i de- viamenti dell'indice si possono leggere mercè un cannocchialetto e oriz- zontale munito di filo micrometrico, e che questo cannocchialetto girando intorno all'asse dello strumento mercè un’alidada munita di nonio può far conoscere sulla graduazione esterna messa sulla base << ì gradi e le fra- zioni di grado di deviamento dell’ indice. Anche nell’ interno del cilindro di cristallo si può mettere sotto l’indice un cerchio graduato per leg- gere su questo i deviamenti dell'indice mercè un altro cannocchialetto. Ma la graduazione interna che trovo migliore è la verticale espressa sulla superficie cilindrica dd la quale somiglia un goniometro. Per le letture col cannocchialetto orizzontale la sola graduazione esterna messa sulla base << sarebbe sufficiente, ma qualora si voglia fare delle letture senza del cannocchialetto la graduazione interna verticale è necessaria. aio NES Entro il cilindro di cristallo con facile operazione s'introduce un poco di cloruro di calcio in apposito vasellino per mantenere asciutta l’aria interna la quale si mantiene quasi senza comunicazione con l’aria esterna per la maniera onde è lavorato lo strumento. Quando l’elettrometro deve essere trasportato il dischetto si fa scen- dere nel fondo del piattello, l’indice entra in apposita fenditura fatta nell’orlo del medesimo ed è sicuro contro le oscillazioni che potrebbero sconcertarlo. Il peso del dischetto con l’indice è di 360 milligrammi. Quando lo strumento si vuole più torpido si farà il dischetto più pesante o si ri- marrà un più grande intervallo tra l'orlo di esso e le interne pareti ver- ticali del piattello. Se il dischetto ed il piattello si facciano più grandi senz’ accrescere di molto il peso del primo, lo strumento guadagna in isquisitezza almeno entro certi confini. Tenuto l’indice in istato di quiete a qualche grado di distanza da’ brac- ciuoli orizzontali del piattello, basta una carica leggerissima per farlo de- viare con moto tanto regolare che l'occhio comodamente lo accompagna come fosse l'indice di un galvanometro. Solo conviene badare che l’in- dice nello stato di quiete cioè allo zero non stia in contatto con gli an- zidetti bracciuoli perchè allora al venire della carica non devierebbe sen- za obbligarlo a distaccarsene mercè un colpo dato col dito sulla base dello strumento. In tutti gli elettrometri a ripulsione in cui un indice leggiero si trova a piccola distanza da un conduttore che riceve la carica, si nota prima l'attrazione e poi la ripulsione la quale talora suole anche mancare senza un urto leggiero che distacchi l’ indice dal conduttore , nè mai sponta- neamente se ne allontana se il contatto sussisteva da prima; ma quando l'indice tocchi con la parte di mezzo il conduttore che lo deve respingere siccome interviene all’elettrometro di Peltier ed al mio elettrometro uni- filiare, il deviamento è immancabile specialmente quando s’abbia cura a collocare lo zero dell’indice a piccola distanza dal conduttore che lo deve respingere. Lo stesso sì avvera quando l'indice abbia nel mezzo un ap- pendice sporgente in sotto la quale entri senza contatto in una cavità pra- « ticata nel mezzo del conduttore ordinato a respingerlo, il che io avendo provato al Melloni la prima volta col mio elettrometro unifiliare mante- nendo la punta dell'indice sospesa entro la cavità sottoposta, fu occa- sione a questo illustre fisico d’immaginare il suo ingegnoso elettroscopio. E li . E siccome il deviamento è più grande quando le superficie d’influsso sono più considerevoli così il Melloni usò due cilindri, ma per via di compa- razioni ho veduto che il miglior modo di disporre siffatte superficie è quello da me adoperato. ‘ Veniamo ora a dire della relazione tra le forze e gli archi di deviamento, per vedere come il nostro strumento possa meritare il nome di elettro- metro. Supponiamo che per una data carica l'indice resti deviato per un arco a, chiamando k il valore della coppia bifiliare orizzontale che tende a ricondurre l’ago alla sua giacitura di equilibrio, si ha: Aè Psena pa 1, dove A, è indicano le distanze inferiore e superiore de' fili e P il peso del- l’indice col dischetto. Ciò basterebbe per le misure delle intensità avva- lendosi degli archi di deviamento definitivo ; ma come passar deve ne- cessariamente un certo tempo prima che l'indice si fermi, così si hanno delle perdite che variando con le condizioni igrometriche dell’ ambiente nascer debbono degli errori poco atti ad essere valutati. Per la qual cosa anche nel mio elettrometro unifiliare 10 pensai di avvalermi degli archi impulsivi, cioè del primo deviamento dopo del quale l’indice fatte alcune oscillazioni si ferma. La equazione riferita di sopra può tuttavia essere utile qualora sì stabiliscono le relazioni tra gli archi impulsivi ed i defi- ffitivi corrispondenti; il che si può fare con l’esperienza scegliendo dei giorni di estrema secchezza e dando molte cariche successive all’elettro- metro registrando per ogni arco impulsivo il definitivo corrispondente ; compilata così una tavola nella quale accanto ad ogni arco impulsivo vi sia notato il definitivo che gli corrisponderebbe se perdite non vi fos- sero, si potrà dati gli archi impulsivi avere i definitivi e quindi giovarsi della formola della quale di sopra è detto. Del rimanente io credo che neppur questo sia necessario perocchè gli archi impulsivi sono direttamente proporzionali alle forze fino ad un certo limite che basta pe’ bisogni della meteorologia elettrica cui questo elet- trometro è particolarmente ordinato. Di tutto questo sonomi in varii modi assicurato, come feci già per l’ elettrometro unifiliare, ma ne dirò solo uno che non avea tentato da prima. Supponendo che gli archi impulsivi sieno proporzionali alle forze il - — ) — Professore Battaglini trova tra gli archi impulsivi ed i definitivi la rela- zione espressa dalla seguente equazione : slk) EA I F 2 nella quale 8 dinota l’ arco impulsivo ed « il definitivo (1). Da ciò si può intendere come ponendosi in un ambiente secco si possa verificare l'ipotesi assunta trovando vera la relazione espressa dalla equa- zione precedente (2). 1) Infatti: indicando con è e A le distanze, inferiore e superiore, dei due fili, con L la loro lun- ghezza, con P il peso dell'indice, con S il suo momento d’inerzia rispetto all’asse di rotazione, con p la deviazione all’epoca f, e finalmente con M il momento di rotazione della forza motrice alla stessa epoca, si avrà (1) S onde hO | 1» Dr dla © PòA a s(È) =S nen) = si Pòoa S°Mde=-(1—cosp) È Ora, indicando con f la tensione elettrica, e con & una costante, per l'ipotesi fatta si avrà Pòa 2) kf—= = ( ==: quindi 1—-coss © oseno + coss—1 3 Ma=kf.———_—_z=kf_______ . 8) e” i ? 23 Quando 9—=, essendo de —=0, l’equazioni (1), (2) e (3) daranno asenax + cosa —1 senz a% ra p i; da cui si trae immediatamente la formola proposta a(8—a) 1 fsi = tan;3. G. BATTAGLINI (2) Il Professore Battaglini ha avuto anche la bontà di ridurre le riferite equazioni in una tavola in cui dati i valori di # si trovano quelli di », e quindi ho potuto fare molte verifiche fino a 60°. In — (fr Per le misure assolute poi si potrebbe ricorrere alla unità di peso av- valendosi della formola, seguendo il metodo del Gaus per la misura della intensità del magnetismo terrestre; potrebbe anche scegliersi l’unità pro- posta dal Weber, dal Hankel o altra quale si voglia, ma io non ho ragione di abbandonare quella che già da molti anni introdussi nelle mie osser- vazioni la quale può essere facilmente ritrovata da ognuno, e quindi è fa- cile comparare i diversi elettrometri come sì paragonano i termometri. I fili nella parte inferiore sono distanti per un millimetro e per quat- tro millimetri nella parte superiore con meccanismo da poterla far va- riare volendo. L’indice è lungo 11 centimetri, il diametro del disco è di 25 millimetri e quello del piattello dalla parte interna è di 28 millimetri. Nelle transazioni filosofiche della Società Reale di Londra per l’anno 1886 trovasi descritta la bilancia bifiliare di Harry, la quale è una mo- dificazione della bilancia di torsione di Coulomb, ove l’elettricità non si eccita per influsso ma si comunica per contatto e si misura per l’angolo di torsione, e però non ha nulla di simile con l’elettrometro di sopra de- scritto, nè potrebbe servire agli usi della meteorologia elettrica. Hankel in Germania (1) ha fatto un elettrometro atmosferico sensibile il quale ha perenne bisogno della pila, ma io non credo che siffatti stru- menti possano mantenere così costante la loro sensibilità come l’elettro- metro bifiliare di sopra descritto , nè che siano così comodi per essere trasportati. questa occasione ho potuto verificare che ne’ tempi secchi gli archi definitivi che si ottengono sono esattamente eguali a quelli dati dalla tavola, e ne' tempi umidi si hanno archi definitivi alquanto mi- nori di quelli segnati nella tavola, e quindi si ha un modo di poter valutare le perdite con grandis- sima precisione. (1) Electrische Untersuchungen. Erste Abbandlung iber die Messung der atmosphàrischen Electri- citàt nach absoluten Maasse. Leipsig, 1856. a Ai i: PAZZA e %, " ad AL. a CASE ai CIA 7/5 4 LA 9, 44 i DI e | dun TTT i == r CH TO: Ae = I _ a i Ù ar] i " Dive — ROPPOrANII ioni r. Pisani dis. - "i fi s i Pa - < «SA l 9 3 ” À PI Pa > & e ; ) Not. NEGA ATTI DELLA R. ACCADEMIA DELLE SCIENZE FISICHE E MATEMATICHE OSSERVAZIONI SULLA ORIGINE DEL CALICE MONOSEPALO E DELLA COROLLA MONOPETALA IN ALCUNE PIANTE MEMORIA DEL SOCIO ORDINARIO G. GASPARRINI letta nell’adunanza del dì 8 dicembre 1863. L'origine e formazione delle parti costitutive 1 fiori han formato nel se- colo presente l'occupazione quasi speciale di parecchi eminenti botanici. Le loro indagini, estese ad una moltitudine di piante appartenenti ad or- dinì diversi, danno a credere essere oramai l'argomento del tutto esau- rito. Al quale, siccome un campo ben mietuto e spigolato, che nulla 0 pochissimo lascia all’ altrui ricerca, non avremmo mai rivolto il pen- siero se non ci avesse sforzato la necessità d’imprimere co’ proprii oc- chi nella mente le cose già passate nel dominio della scienza. In questo essendo talvolta avvenuto che le proprie osservazioni, per qualche par- te, non concordassero con quelle d’ altrui, e tal altra sembrassero pro- cedute più innanzi, se in ciò bene ci apponghiamo, esse, pubblicandole, non saranno forse del tutto inutili. Le ragioni per le quali i botanici ritengono gl’invogli fiorali di un sol pezzo, calice monosepalo e corolla monopetala, come formati di parti congiunte insieme in tutta la lunghezza, o per una certa estensione, sono di due maniere, alcune dedotte dall’ analogia, cioè dai rapporti vicen- devoli dei differenti organi, non che dalle loro alterazioni accidentali, siccome in taluni casi di mostruosità; altre vengono dirittamente dalla osservazione fatta insin dal primordio degli organi. Tra le molte e sva- riate pruove della prima categoria le più rilevate son le seguenti. In un gran numero di piante il calice, ovvero la corolla di un sol pezzo, o l'uno Atti — Vol. Il.— N.0 7. 1 Bo e l’altro, sono più o meno fenduti, leggiermente, o infino alla metà, o più in giù presso alla base. E dove non sieno fenduti in minima parte, il numero degli angoli longitudinali, quello dei nervi più prominenti, o dei solchi che sovente presentano , indicherebbe i punti di eongiun- gimento di altrettanti parti che al loro primordio potevano essere di- stinte. Concetto che diviene più verisimile quando in un solo invoglio fiorale si considera il numero, la corrispondenza, e la situazione delle fenditure, o delle parti supposte congiunte, con quelle affatto distinte dell’ altro invoglio fiorale contiguo. Onde in tante spezie, per addurne un esempio, dei generi Convolvulus ed Ipomea, in cuì i cinque lobi della corolla, comechè non di raro punto o poco distinguibili, ovvero i cinque angoli, o strisce longitudinali sul tubo in corrispondenza dei lo- bi, essendo in numero eguali ai sepali e con essi alterni, tirano natural- mente ad ammettere sia quell’organo costituito di altrettante parti prima distinte, poscia saldate insieme lungo i margini: mentre l'inverso avreb- be luogo nel genere Dianthus, in cui i cinque denti del calice monose- palo alternano con cinque petali. E dappoichè occorre, quantunque as- sai di raro, che di una spezie naturalmente monopetala qualche indivi- duo di quando a quando mostrasi polipetala , siecome si è visto nel Con- volvulus Cantabrica , tal falto sarebbe la ripruova di ciò che a tanti se- gni pareva solo verisimile. Inoltre, giusta l’ osservazione di Augusto Saint-Hilaire (morphologie vegetale 1841) e di altri, in aleune famiglie na- turali a corolla polipetala ci ha qualche genere con corolla monopetala, come la Ticorea fra le rutacee. Molti trifogli sono parimenti monopetali mentre appartengono alle leguminose, contraddistinte generalmente, tra gli altri caratteri, dalla corolla polipetata. È nelle cucurbitacce, quasi tutte monopetale, la Momordica senegalensis, la Lagenaria vulgaris sono polipetale. Questi fatti s' incontrano non di raro in qualche altra fami- glia di piante fanerogame, e menano a conchiudere che i due invogli fiorali, calice e corolla, quando sieno di un sol pezzo, derivano piutto-, sto da più parti congiunte in tutta la loro lunghezza, o per un tratto più o meno esteso. Finalmente la pruova diretta irrecusabile di ciò starebbe nelle osservazioni di Schleiden e di altri botanici in molte piante, dove sì vede ch’ entrambi gl’invogli fiorali di un sol pezzo, al loro primordio son rappresentati ciascuno da parti distinte, isolate, disposte a cerchio; le quali poscia, crescendo, per esser contigue e di consimile struttura, si uniscono peri margini: onde all’epiteto di monosepalo pel calice si è s0- be stituito quello di gamosepalo, e per la corolla monopetala l’altro di ga- mopetala. Ciò è ammesso nelle opere elementari di botanica, nelle isti- tuta del lussieu, del Richard, nella Morfologia vegetale del Saint-Hi- laire, negli elementi di botanica del Payer, ed in altri compilati sulle stesse norme. Sarebbe in somma un principio accettato generalmente , come quello che deriva dall’analogia, siccome s'è detto, e credesi com- pruovato dall’ osservazione diretta. Quando venne in campo questa teo- ria pochi vi si opposero con qualche particolare osservazione, e tra gli altri il Duchartre con un bel lavoro sulla organogenia del fiore nelle malvacee, inserito negli Annali delle Scienze Naturali per l’anno 1845. Veramente è indicibile la varietà delle aderenze che taluni organi fio- rali contraggono infin dalla loro nascenza, nè intendiamo negare che ele- menti consimili, prima isolati, non possano poi unirsi per formare un sol organo. Vogliamo soltanto allegare alcune osservazioni, accompagnate da poche figure, per mostrare che in certe piante gl’invogli fiorali essendo di un sol pezzo, a crescenza compiuta, il sono parimenti al loro primor- dio, senza pretesa di dedurne una massima per tutti i casì di calici mo- nosepali e corolle monopetale. I pochi esempii in contrario servirebbero piuttosto a far rivolgere nuovamente l’ attenzione degli osservatori ad un punto di organogenia , che, chiarito neì suoi particolari, porgerebbe per la parte sua qualche nozione più precisa concernente alle forme rego- lari o irregolari, secondo le espressioni in uso, di sì fatti organi, ed al valore intrinseco che a questi devesi attribuire, quando si vuole asse- gnare ai principali ordini delle piante fanerogame il rispettivo grado di struttura più o meno elevato, ed a grado a grado agli altri delle fami- glie naturali da ciascun crdine dipendenti. Che se il pregio o valor di- stintivo seriale degli uni e delle altre hassi a riconoscere, giusta il buon senso e la opinione generale, nella strultura intrinseca più o meno com- plessa, nel numero, nella varietà delle parti, secondo la rispettiva im- portanza, ne' modi com’ esse sovente si saldano insieme, o abortiscono, o altrimenti si modificano ,ne seguita, applicando sì fatta regola agl’invo- gli fiorali, che quelli i cui elementi resterebbero sempre isolati e distin- ti, come primitivamente apparvero, infino a compiuto accrescimento , sarebbero di ordine più elevato ; e però il calice polisepalo di magior va- lore del monosepalo, e similmente la corolla polipetala verso la mono- petala. Dietro il quale principio Decandolle, disponendo gli ordini e fa- miglie naturali in serie di progressiva ascendente composizione, pone le = PRO PS talamiflore in capo del regno vegetale, e tra esse concede il primo luogo alle ranunculacee, in euì tutti gli organi fiorali, e le loro parti sono di- stinte, tranne nei generi Garidella e Nigella, dove i soli carpelli si uni- scono per gli ova}. Ma tornando all’ assunto di voler reeare qualche esempio d’ invoglio fiorale sempre mai di un sol pezzo in tutta la sua vita, comincio dal ri- cordare il perigonio della lenticularia (Lemna minor) in altro lavoro (1) diffusamente esaminato. In tal pianta il fiore al suo primordio è una pic- colissima massa rotonda dì fino tessuto cellulare, uniforme, mancante di fibre e di vasi, siecome ogni altra parte. Massa cellulare che poseia di- videsi in due, l’una interna centrale, di forma rotonda, l’altra esterna in sembianza di corteccia, 0 guscio chiuso da per tutto. Dalla prima, in- terna, in progresso di erescenza, modificandosi in modi adatti al fine, derivano il earpello e gli stami; dalla seconda, dilatandosi ed ugual- mente assottigliandosi in vessichetta membranosa molto sottile, formasi il perigonio, debolmente unito, per un punto molto ristretto, al fondo di una cavità del caulifillo, ed al punto basale comune all’androceo ed al gineceo. Tal perigonio non ha appendici nella sommità, nè solchi o filetti longitudinali, nè deriva da più elementi congiuntisi insieme in se- guito di creseenza. I} carpello indiviso ed i due stami provengono , da altrettante prominenze che spuntano dalla massa cellulare compresa nel perigonio siccome di sopra si è delto. Nelle Najas marina L. N. minor All. e N. alaganensis Pollin , piante aquatiehe monoiche o dioiche, che abbiamo esaminate nei contorni di Pavia, i fiori di entrambi ì sessi, essendo monoiche, vengono gli uni ac- canto agli altri nell’ ascella di piccole brattee. Un perigonio manea al fiore femineo; il quale in principio somiglia ad un granellino rotondo, o quasi bislungo , costituito solo di piccolissime celline. Questa massa cellulare dividesi poseia in due a poca distanza dalla sommità; l'esterna ed inferiore, a contorno alquanto sinuoso, col crescere nasconde in poco tempo la superiore, sporgente in principio a guisa di prominenza con- vessa, che a mano a mano diventerà uovicino anatropo; mentre l’altra procede alla formazione del carpello, indiviso, o bifido, o trifido nella parte superiore, secondo che uno, due o tre piccolissimi rilevamenti dell’orlo, si allungano per formare uno o più stili. Quest'orlo in seguito (i) Gasparrini. Osservazioni morfologiche sopra taluni organi della Lemna Minor con tavole-1856. Sr conformasi a guisa di fissura bislunga a certa distanza dall’ ovajo con cui liberamente comunica. La formazione del fiore maschio procede allo stesso modo. In principio una massa cellulare (tav. I. fig. 18. a) roton- da, uniforme; questa poseia, allungatasi un poco, presso alla sommità dividesi (fig. 18. c) in due; l'esterna ed inferiore per effetto di crescenza nasconderà la superiore, e diverrà un invoglio, o piuttosto un (fig. 78. @) perigonio bislungo, aperto nella sommità, con orlo un po’ obliquo, qua- drilobato o guermito di grossi denti acuti, come prominenze inuguali per numero, forma e grandezza. L’altra parte intanto, in fondo al perigo- nio, forma l’antera ovale con apertura al vertice, circondata da quattro lobi corrispondenti a quattro cavità, per altrettanti processi derivanti dalla faccia interna o endoteca della stessa antera. In ciascuna cavità si contiene una massa pollinica. La naturalissima famiglia delle graminacee direttamente non fornisce materia alla presente discussione intorno agl’invogli fiorali, che in essa, distinti col nome generico di glume, sono di più pezzi, disposti non a cerchio ma alternamente sopra due lati, e si posson ritenere in conto di brattee. Nelle graminacee però , il carpello, sebbene per modo indi- retto, porgesi ancora alla spiegazione degli accidenti sull’ orlo o lembo di taluni degl’invogli fiorali di un sol pezzo. La foglia in tali piante co- sta generalmente di picciuolo vaginante, di lembo o lamina, e di lin- guetta tra l’ una e l’altra dalla faccia interna: tre parti più o meno svi- luppate, o l’una di esse mancante, talora la lamina, quando il picciuo- lo, secondo V età, il sito in cui si trova, la funzione cui serve; varietà che occorre talvolta sul medesimo individuo. Nel formento, nel grano turco ed altre della famiglia, le sole foglie primordiali e le glume man- cano di lembo e di linguetta, essendo ridotte al solo picciuolo. La lin- guetta, a guisa di plica o laminetta trasversale , nelle foglie primordiali, quando comincia a formarsi, sembra piuttosto il termine della lamina interna del pieciuolo vaginante, mentre la lamina esterna del medesimo picciuolo formerebbe il lembo lineare. Queste tre parti però ricompari- scono sotto varie forme, più o meno sviluppate , nel carpello di molte graminacee. Il picciuolo dilatato costituisce sempre l'ovajo; le altre si modifieano diversamente. Nel grano turco la linguetta non apparisce al primordio del carpello, ma poco appresso, quando il lembo smarginato comincia a ristringersi ed allungarsi per formare lo stilo, che si conti- nua nello stimma. Essa allora somiglia ad una laminetta ovale che in se- ib = guito abortisce. Ma nel gioglio ( Lolium perenne), nella panicastrella (Se- taria viridis), nella cannarecchia (Sorghum halepense) alla medesima età del carpello che nel grano turco, le due prominenze del cortissimo lem- bo smarginato si allungano in due stili, siccome ha luogo ancora nel riso (Oryza sativa), in cui un terzo stilo, che non sempre esiste, o è cor- to, deriva probabilmente dalla linguetta. Si vede adunque che delle tre parti costitutive la foglia lungo il fusto , altrove e pel carpello , il pic- ciuolo diviene ovajo , il lembo allungasi in unico stilo nel formentone, come fa talvolta anche la linguetta nel riso formando un terzo stilo (fav. 1 fig.18 ); e che d’ordinario i due lati del lembo, disgiunti in principio solo mediante un leggiero seno nella sommità, assumendo una crescenza a sè, sì allungano poscia a formar due stili, l'uno dall'altro indipenden- te, separati infin dalla base a crescenza finita. Lasciamo stare le tante varietà e modificazioni delle glume, il loro nervo mediano longitudinale, che nella lamina della foglia caulinare vien rappresentato dalla rachide, ne unisce i due lati, e d’ ordinario non si prolunga oltre la sommità. Intanto nelle glume della segale, per esem- pio, esso procede innanzi di là dai confini del parenchima, assottigliato in resta, ed in quelle interne dell’ avena, assunto una erescenza in certo modo più indipendente, separasi di lungo tratto dalla sostanza dell’ or- gano formando la così detta resta basale, ovvero la dorsale. Perfino le due lamine costitutive la foglia, corrispondenti alle due facce!, affatto di- stinte in un gran numero di piante per tante particolarità dei rispettivi elementi organici onde son formate, in certe anche facilmente separabili, e che nel lembo delle foglie graminacee non si riconoscerebbero a nes- sun carattere certo; nel loro carpello per contrario, al tempo del fiorire, appariscono più o men chiaro, se non in tutte, almeno in talune, come ad esempio il riso (Oryza sativa) ed il gioglio (tav. I. fig. 17) (Lolium perenne) in quanto sappiamo. Nel primo le due lamine carpellari son debolmente unite nella parte inferiore dal tessuto fibroso vascolare ; mentre nel gioglio differiscono sì fattamente per colore, grossezza ed altro, da parere ciascuna di esse poter assumere una certa indipenden- za. L’esterna biancastra , continuantesi negli stili, (tav. I. fig. 16-s) è molto sviluppata rispetto alla interna sottile, di color verde, in con- tatto coll’ uovicino come ne fosse la veste superficiale, quando invece rappresenterebbe piuttosto una sorta di endocarpo. Nelle graminacee quindi si ha una pruova senza esilazione della capacità modificativa delle UN parti di una foglia ad assumere qualità organiche per differenti funzio- ni, solo che se ne esaminino i fiori infin da che spuntano, ed in seguito a misura che crescono. In queste piante intanto colla pretenzione di ri- conoscervi una corrispondenza numerica tra gli stami ed i carpelli, si ammette generalmente l’ aborto di uno o due carpelli, dietro la regola ammessa ehe il numero degli stili indichi quello degli ova], e per con- seguenza dei carpelli. Ciò è vero in molti casi, ma non in tutti, siccome vedesi nelle graminacee. L’unico invoglio fiorale regolare , quasi affatto polisepalo , del fico (Ficus Carica) formasi nel seguente modo nel fiore femina. La prima apparizione di questo fiore somiglia a piccolissimo granello rotondo , cel- luloso , liseio mon percettibile (tav. 17. fig. 7, 8. 0) alla vista naturale; il quale, crescendo, comincia dapprima a mostar due parti mediante un rilevamento circolare nel terzo superiore. La parte di sotto è il primor- dio del perigonio, e propriamente il tubo, il quale punto o poco cresce in seguito, mentre l’ orlo, o termine suo in alto, poco stante divien si- nuoso (tav. 11 fig. 10 a 15) con tre, quattro, o cinque punti più elevati; ì quali poscia col crescere allungansi in sepali. Questi punti non sono elementi separali, ma prominenze di un organo basale rappresentante il tubo del perigonio, siccome i denti, le lacinie, i lobi nella lamina di una foglia semplice. La parte superiore , somigliante ad un mammellone, modificasi a poco a poco in foglia carpellare, di cui la lamina dilatata rappresenta l’ovajo, mentre un leggiero rilevamento sull'orlo della de- pressione al verlice concavo, è il primordio dello stilo, il quale in se- guito si bifurca in due stimmi inuguali sprolungati. Comechè nel fico occorrano talvolta due ovaj, l'uno di rincontro all’altro, pure il caso or- dinario di due stimmi, standovi un sol carpello, non indica esservi sta- to aborto di un carpello. Ed i sepali quantunque distinti, giunto il fiore a sua perfezione, non derivano altrimenti che da prominenze sull’ orlo di un organo basale ; e questo è il tubo perigoniale di un sol pezzo in principio, che in seguito punto nè poco crescendo in concorrenza con i denti formatisi sul suo orlo, riducesi infine quasi a niente, nè facile a riconoscersi nel fiore pervenuto all'ultimo accrescimento, Tanto dichia- rano le osservazioni successive , dal primordio ed a misura che l’or- gano procede al suo termine. Con tal metodo si è veduto parimenti gl’in- vogli fiorali nel Lamium purpureum, ed in qualche Salvia, essere in prin- cipio di un sol pezzo , cioè apparir prima la parte tubulare , poscia sul- — Ba l’orlo periferico loro le prominenze calicinali e corolline, la cui cre- scenza inuguale dà luogo al calice ed alla corolla irregolare. Duchartre(2),venti anni fa, opponevasi alla teoria di Schleiden nel suo lavoro sulla formazione del fiore e dell’ uovicino nelle primolacee, fa- cendo vedere che i loro invogli fiorali sono in principio di un sol pezzo, e che sul loro orlo periferico nascono poi le lacinie calicinali e corol- line. Nondimeno, dopo tanto tempo, prevale ancora generalmente l’idea contraria. Ma in un esame sulla Primula sinensis, non col fine di vedere la formazione degl’invogli fiorali, essendoci abbattuti nei fatti come fu- rono annunziati da Duchartre, ed in qualche altro d’una certa importanza, ciò ha dato occasione al presente ragionamento. La detta Primula fiori- sce per più mesi dell’anno, ed offre perciò la opportunità di poterne studiare successivamente lo sviluppo di ciascun organo. I fiori, alla base di piccolissime brattee, spuntano dapprima in guisa di granelli (tav. 1. fig.1.a) rotondi, i quali, infino a che misurano due decimi di millime- tro, lisci in tutto l'ambito, costituiti di solo tessuto cellulare, non mo- strano prominenza ne fessura di sorta. Divenuti più grandi, uguali ad un sesto di millimetro, cominciano a dividersi in due parti, l'una ( tav. 1. fig.2.) esterna in sembianza di scodella, di un sol pezzo, il cui orlo peri- ferico, leggiermente sinuoso, ha cinque seni ed altrettante piccolissime prominenze ottuse. Quest’essa è il calice al suo primordio, a tubo eviden- temente monosepalo, ed in cui i cinque rilevamenti sull'orlo dinotano il lembo che in seguito si svilupperà. La seconda parte del primitivo tu- bercoletto fiorale, alquanto rilevata oltre 1’ orlo del calice, è il primor- dio della corolla , che allora si presenta come una massa cellulare omo- genea un poco depressa nella sommità. Nel fioretto arrivato ad un quinto di millimetro, il calice più cresciuto, sì nel tubo e sì nel lembo, nasconde la corolla non visibile (tav. 1. fig. 3.) che guardandola di prospetto. Essa allora non è come prima, una massa cellulare uniforme depressa al vertice, ma ha già assunta la forma di un disco alquanto concavo con cinque angoli nel contorno, alterni con i denti del calice, col quale non ha veruna aderenza. Il disco concavo sarà il tubo e gli angoli formeran- no il lembo. Alla base interna (Tav. I. fig. 5.) di ciascun angolo una piccola prominenza rotonda è il primordio di uno stame. Alla grandezza (2) Observations sur l’organogénie de la fleur et en particulier de l’ovaire ches les plantes a pla- centa centrale libre — Ann. des sciences natur. 1844, RESI 11 Ja di un quarto di millimetro, il fioretto costituito (Tav. I. fig.6.) di quattro parti, ne mostra tre di profilo, il calice, la corolla ed il nascente gineceo; l’altra parte, ossia l’androceo diviso in cinque produzioni bislunghe, come tanti raggi fin presso alla base, scorgesi di prospetto ed unito alla faccia interna della corolla, per modo da parere allora l'uno e l’ altra un sol organo, anzichè due congiunti insieme, ma in atto di dividersi in parte esterna membranosa corollina, ed interna staminale. Nel fiore gran- de un terzo di millimetro il lembo del calice sorpassa e nasconde l’ altro della corolla, e le antere in corrispondenza dei suoi lobi, sono già, es- sendo in via di formazione , divenute prominenze ovali divise, quasi, mediante una depressione (tav. /. fig-8 a-a' }) longitudinale in due sac- chetti; i quali poscia saranno le due cellette di ciascuna antera; di che allora appena si vede l’indizio. In questo mentre il gineceo, ingranditosi nell’ ambito, ha cangiato forma, e si è diviso in due parti; l'esterna col vertice depresso, somigliante in certo modo ad una (far. I. fig. 8.-c) cop- pettina, è il primordio del carpello, in fondo al quale giace nascosta l’in- terna, in guisa di bottoncino rotondo isolato , ch'è il trofospermo, in tutto simile allora alla prima apparizione degli altri organi fiorali. Il car- pello poscia , nel fioretto grande mezzo millimetro , apparisce di forma quasi ovale con l'apertura (tav. 1. fig. 9) non sempre circolare, ma al- quanto obbliqua. Indi l’ orlo di quest'apertura allungasi in stilo ( fig. 10} cilindrico, la cui sommità cuoprendosi finalmente di papille cellulari, queste tutte in- sieme costituiscono lo stimma, ossia una massa cellulosa rotonda de- pressa nel centro, onde si va nel canale dello stilo, e d'ivi nella cavità dell’ovajo. Le altre parti non rimangono stazionarie; negl’invogli fiorali il tubo ed il lembo crescono quasi a paro, le antere divengono biloculari, ed il trofospermo si eleva infino alla metà dell’ovajo, ed anche oltre, sen- za aderirvi in verun punto. Esso, fuori alla sommità ed alla base, ne’ fio- retti misuranti un millimetro circa, è coperto di prominenze coniche, pri- mordii di altrettanti uovicini, e manca non altrimenti che il carpello, di fibre e vasi. Ma questi elementi organici non tardano a manifestarsi, e più visibilmente, in principio, nello stilo. Otto fascetti fibrosi vascolari, costituiti di sottilissime cellule allungate , racchiudenti esilissimi tubi spirali, dallo stiloscendono a mano a mano all'ovajo. Il quale, divenuto pericarpio, aprendosi, lungo il cammino degli stessi fascetti, in altret- tante parti dette valve, più o men regolarmente, sembra derivare non da Atti—Vol. II.—N.° 7. 2 — 10 un sol earpello ma da più carpelli uniti in un corpo. Forse che ciò oc- correndo in attre primulacee ha dato luogo a tale opinione. E siccome incontra talvolta, sebbene di raro, che il periearpio apresi in cinque val- ve, questo potrebbe parerne una pruova , e che il numero quinario re- golasse la costituzione simmetrica di tutti gli organi fiorali. Procedendo l’ovajo alla maturezza, e gli uovicini passando in semi, il trofospermo, quasi (fig. 11) a modo di campana con bottoncino nudo al vertice; nel- l’orlo inferiore divien libero, e porta circa otto denti più o men grandi e divergenti, nella superficie dei quali non vengono uovicini, siccome al vertice, secondo si è detto di sopra. Il rimanente della superficie tro- fospermica è coperto di uovicini disposti in serie spirali continue. In tre carpelli si son noverati una volta sessantaquattro uovicinì in ciascuno, tutti e tre aveano otto filetti vascolari per altrettante valve pe- ricarpiehe a suo tempo; i denti divergenti all'orlo inferiore del trofosper- mo erano ancora otto; ondeilnumero degli uovicini era il multiplo di otto. Non voglio con ciò dire che sì fatta corrispondenza numerica sia costan- te; in fatti tre altri ovaj a sette filetti vascolari e sette denti trofosper- mici, l'uno conteneva cinquantatre uovicini, il secondo einquantasette, l’ultimo sessanta. Anche il numero delle valve, presumendole dal cam- mino dei vasi, pare lalvolla potesse trovarsi, a maturezza compiuta, rad- doppiato, standovi lungo la loro parte mediana una linea alquanto opa- ca, che sembra pure quasi rilevata, ed è un nuovo filetto fibroso vasco- lare che ivi comincia a mostrarsi. Oltre a ciò cresce la varietà per gli uovicini abortivi; nè apparisce nesso e dipendenza organica diretta tra i filetti vascolari del carpello con le appendici trofospermiche e gli uo- vicini. Forse che un esame più accurato troverà quella corrispondenza che ora non si vede. A noi pare variabile il numero dei filetti vascolari, e di conseguenza quello delle valve, che d’' ordinario sono irregolari ed imperfette, da cinque a dieci, quantunque tra questi termini massimo e minimo i numeri intermedii occorrano più di frequente. Appariscono dapprima cinque fascetti vascolari ad uguale distanza nella periferia del- l’ovajo; indi tra essi altrettanti fascetti secondari; se non che questi d’ ordinario sono in minor numero e poco sviluppati, secondo lo stato di vegetazione della intiera pianta e quello del pericarpio. Anche l'orlo inferiore del trofospermo seguita in certo modo lo stesso andamento; il numero delle prominenze o denti in quella parte varia da cinque a die- ci; ma questi estremi sono rarissimi, più frequenti i numeri interme- CRT — lil — dii: e spesso tra sei o sette prominenze grandi uguali ce ne ha qualcu- na piccola, qua e là, come fosse appendice della contigua più svilup- pata. E la varietà numerica degli uovicini d’ordinario sta fra cinquanta e sessanta. La varietà increspata della Primula sinensis consiste nella grandezza maggiore del fiore, nel calice con dieci denti, cioè con cinque denti secondarii, a contorno poco regolare, interposti tra’ denti maggiori pri- minarii; e nel lembo della corolla sfrangiato, increspato, più sviluppa- to. In questa varietà il fiore formasi allo stesso modo di sopra descritto; e le particolarità testè menzionate si mostrano infin dal principio. Nel qual caso sull’ orlo del tubo calicino i denti primarii spuntano poco pri- ma dei secondarii. Emerge delle cose esposte sulla genesi di talune parti del fiore in certe piante, e di tutti gli organi fiorali della Primula sinensis : 1° Che il fiore in essa, non altrimenti che in tante altre piante, spunta sotto forma di tubercoletto sferico senza veruna apertura o de- pressione in tutta la sua periferia, costituito di solo tessuto cellulare. Tubercoletto che viene nell’ ascella di una foglia, e deriva dalla parte assile in continuazione con la midolla. 92° La massa cellulare sferica dividesi poscia in due parti, l’ una esterna ed inferiore, l’ altra interna superiore. La prima costituisce il primordio del calice, la seconda della corolla; ciascuna a contorno uguale , indi sinuoso: ed infin d’ allora scorgesi, la loro parte inferiore, quella che in seguito sarà il tubo del calice e della corolla, essere con- tinuata intiera, di un sol pezzo. 8° L’orlo circolare di questi due invogli fiorali dapprima è uguale, continuato, poscia sinuoso; allora i suoi cinque punti prominenti rap- presentano il principio delle lacinie dei rispettivi lembi, del calice cioè e della corolla, alterne fra loro. Esse, nell’ uno e nell’ altro organo, nascono posteriormente al tubo; nel quale non si vede altrettanti ele- menti. distinti, ma un tutto unito che precede le lacinie di diversa forma e grandezza per ciascuno, costitutive i loro lembi. 4° L’androceo nasce dopo la corolla, e sì forte a quella unito da parere in principio non ne fosse altrimenti che la lamina interna, e che entrambi allora costituissero un sol organo. Ciascuno poi assume forma e carattere a sè, rimanendo l’ uno e l’altro mai sempre uniti alla base. Ad ogni modo tra le lacinie calicinali e le corolline ci ha corrispondenza K Bu: 0 — numerica e di alternanza rispettiva, mentre fra stami e lembo corollino solo corrispondenza numerica. 5° Il carpello unico fa dissimetria con le einque fenditure calicine e corolline, e l’androceo di cinque stami. Ma il calice, la corolla, ed il gineceo, essendo in principio formati ciascuno di un sol pezzo, rap- presentante allora siecome si è veduto, la parte inferiore; la quale nei due invogli fiorali sarà il così detto tubo, e nel gineceo l’ovajo, ne segue che il voler ammettere in eiaseuno di essi, dietro un concetto di pre- sunta necessità simmetrica, cinque elementi primitivi distinti, non regge punto alla osservazione. Gli è l’orlo circolare nella loro sommità che si modifica in seguito variamente, dando origine alla lacinie degl’ invoghi fiorali, e nel gineceo allo stilo. 6° Il carpello o gineceo mostrasi dapprima conforme al caliee ed alla corolla, cioè una massa cellulosa rotonda, la quale indi a poco, cre- scendo, si abbassa nella sommità. Questa parte primordiale del carpel- lo sarà l’ovajo, nel cui fondo allora un punto gibbuto indica il primor- dio del trofospermo. L’orlo del nascente ovajo si ristringe a poco a poco per indi allungarsi e formare lo stilo. 7° Come prima lo stilo, con lo stimma nella sommità, son prossimi alla loro perfezione, appariscono in quello cinque esili filamenti fibrosi vascolari, i quali si eontinuano appresso lungo la parete dell’ ovajo; se non che ivi fra questi primarii fascetti se ne interpongono talvolta al- trettanti, e più esili ancora. L’ovajo perciò aprendosi a maturezza com- piuta in più parti, più o men perfettamente, secondo il cammino di quelli, induce a credere allora che sia il gineceo in origine costituito di più carpelli piani, disposti in cerchio, eongiunti per i margini, giusto quante sone le parti in cui si apre l’ ovajo. 8° Il trofospermo, isolato nella cavità dell’ ovajo, eonformasi, col crescere a mo’ di campanetta con in cima un bottoncino, ch’ è la conti- nuazione dell’ asse, e coll’orlo basale guernito di cinque a dieci denti; questi ed il bottoncino in eima sono i solì siti mancanti di uovicini che cuoprono il rimanente della superficie dell'organo. Stando ai fatti notati nella Primula sinensis, alcuni de’ quali han luo- go parimenti in altre piante, si deduce essere le lacinie calicine e co- rolline, non che le valve dell’ ovajo, formazioni posteriori alla com- parsa dei rispettivi organi, nè potersi ritenere quali elementi primor- diali simili dei medesimi congiuntisi in progresso di vegetazione. Non — 13 — presumiano tuttavolta affermare che tale sia sempre il caso degl’ invo- gli fiorali di un sol pezzo. Che più elementi simili e distinti in origine sì congiungano poscia in un organo complesso, gli esempii abbondano segnatamente negli organi sessuali; e per recarne un solo può citarsi il melarancio, dove gli elementi corollini, staminali e carpellari sono distinti al loro primordio. È così isolati crescono in seguito, quelli della corolla divenendo petali; mentre alcuni staminali sì uniscono per breve tratto in più fascetti mediante i filamenti, e gli altri del gineceo congiuntisi strettamente pel dorso o lato esteriore, in tutta la lunghezza, formano insieme un pistillo a più compartimenti interni, noto ad ognuno. E che tutti gli organi fiorali e le loro singole parti, come sono isolate e distinte a loro compiuto acerescimento, lo sieno parimente in prin- cipio, in tante piante è fatto irrecusabile. Nel Ranunculus Ficaria , per esempio, vedesi i sepali, molto avanti la fioritura, non disposti esatta- mente in cerchio, ma l’uno in seguela dell'altro a brevissima distanza, secondo una spirale, la quale dove si raccorciasse infino alla estinzione, gli stessi sepali si troverebbero sul medesimo piano; distanza che non esi- ste, o non è distinguibile con agevolezza, nelle altre spezie, o almeno nel maggior numero, dello stesso genere; e nelle quali sì fatta osserva- zione occorre, più o men chiaro, ancora negli elementi della corolla , in quelli dell’androceo e del gineceo. Abbiamo quindi due casi per certi rispetti contrarii, cioè tutti gli organi del fiore nella Primula sinensis , calice, corolla con l’androceo, ed il gineceo in origine ciascuno for- mato d’un sol pezzo; mentre nel ranuncolo citato ed in altri, sepali, pe- tali, stami e carpelli sempremai distinti infin dalla nascenza. Ci sarebbe un terzo caso partecipante nel medesimo tempo del primo e del secondo? A noi pare di sì, se l'apparenza esteriore nol nasconde. I sepali, i petali e gli stami nella Capparis spinosa nascono isolati distinti, come mostransi nel fiore; ma il gineceo in prineipio è la sommità del- l’antogeno (tav. 11. fig. 16 a 17 e) 0 asse fiorale, convesso, emisfe- rico, senza alcuno accidente in tutta la superficie , uniformemente co- stituito di solo tessuto cellulare. Massa cellulosa che comincia dappri- ma a mostrare una depressione nel vertice ( fig. 18- 20 - 27 ) circoscritta da orlo uguale, che poscia diviene sinuoso. Or le prominenze sull'orlo, in numero variabile, da cinque a dieci, indicano altrettanti trofospermi nascenti nella parte interna centrale della massa cellulare costitutiva il gineceo. Ivi essa dividendosi in più parti solide dà luogo alla formazione —14- di tante cavità, come nicchie, poste in giro; in cui non ancora esistono uovicini. I sepimenti trofospermici che dividono le nicchie in giro, sono allora solidi, di struttura uniforme, piuttosto compatta; essi poscia par- tonsi in due foglietti per effetto dello scioglimento di buon numero di cellule nella parte mediana centrale. Questo processo dissolutivo (fig. 24) comincia quando spuntano gli uovicini lateralmente alla Lase dei detti sepimenti, i quali perciò si hanno a ritenere per trofospermi procedenti da carpelli piani, in certo modo come avviene nel papavero. Se non che infino a questo punto di vegetazione i carpelli piani non sì scorgono a verun segno sensibile, si formeranno, forse, appresso; nel qual caso i tro- fospermi precederebbero i carpelli. La varietà quindi è grande in ciò che concerne il cominciamento dei singoli organi fiorali e delle loro parti, varielà che occorre non di raro in quelli dello stesso fiore, siccome addie- tro si è dichiarato ; e tra le specie del medesimo genere. Inoltre può darsi in certe piante che il secondo invoglio fiorale fun- zioni in due modi, da corolla e da androceo. A chi non son note le strette relazioni che passano tra l’uno e l’altra? Basterebbe solo il passaggio graduato dei petali in stami, facilmente osservabile nella ninfea, o la tra- sformazione ovvia; in molte piante, degli stami in petali. Guardate l’an- droceo della Capparis al suo primordio ; non differisce da quello della Primula sinensis a pari età, limitato in alto dal solito orlo circolare non sinuoso, e nel rimanente della superficie liscio. Spuntano da questa gli stami sotto forma di turbercoletti isolati, a mano a mano di su in giù verso la base, ove contemporaneamente, o poco prima, si affacciano i quattro petali poco allora dissimili dagli stami. Gli stami infine aderi- scono quasi sempre alla corolla monopetala nelle altre piante. Essendo così è egli possibile, domando, che nella Primula sinensis l’ androceo e la corolla anzichè essere primitivamente isolati, per indi congiungersi, fossero parti o due lamine del medesimo organo corrispon- denti alle due facce ? Le foglie primordiali nel granone ( Zea mays), ed altre graminacee, son rappresentate dal solo picciuolo, in quelle che se- guitano comparisce il lembo lineare in continuazione della lamina ester- na ed inferiore dello stesso picciùolo, rimanendo nel mezzo la linguetta, quasi termine dell’altra. Similmente in parecchie boraginee un'appendice in direzione dei lobi corollini, sotto varia forma s'interpone fra il tubo ed il così detto lembo di quell’ organo, e nel genere Silene tra l'unghia e la lamina di ciascun petalo. Nella Primula menzionata non ho veduto E A l’androceo isolato, come le altre parti a misura che spuntano, precedere o seguitar la corolla in ordine di nascenza e rimanerci congiunto. Come prima sull’ orlo della corolla rilevano appena i cinque denti, per dive- nir poscia lobi, alla base di ognuno di essi apparisce un piccol rigonfia- mento sferico, primordio dell’ antera, il quale poco appresso sì allunga nella stessa direzione dei lobi. Formansi così cinque raggi, che si con- fondono in una base in fondo della giovine corolla. Questi cinque raggi costituiscono insieme il nascente androceo, organizzatosi nella faccia in- terna della corolla. In questo atto formativo , poichè i due organi non spuntano dapprima distinti, e la eredenza che sieno primitivamente con- fusi o congiunti in una massa rimane ne’ termini di probabilità; non è egli più naturale starsene alla vista, che scorge nell’androceo un pro- cesso vitale della lamina interna di un organo, mentre l’altra si allarga in membrana? La figura 19 nella tavola prima, ritraente il fiore dell’A/- lium nigrum in atto formativo, giustifica lo stesso concetto di potersi ri- tenere lo stame a ed il petalo è quali parti di un medesimo organo. Tale interpetrazione ormai potrebbesi appoggiare ad altri fatti di altro genere, concorrenti però a mostrare l'indipendenza, quasi, o la vegetazione a di- verso grado, che le due lamine della foglia in dati punti possono assu- mere. Oltre le eonsiderazioni esposte intorno alla significazione morfolo- gica della linguetta nelle foglie delle graminacee, nei petali della Silene; le appendici svariate fra il tubo ed il lembo corollino in alcune apoci- nacee ( Vinca, Nerium) non sono piuttosto produzioni e termine della la- mina interna del tubo? Viene ancora a proposito ricordare il carpello del gioglio, in cui si è visto le duc lamine molto discoste, debolmente unite da un tessuto cellulare floscio in procinto di riseccarsi o disfarsi, e quelle prender caratteri di indipendenza, come se in principio non fossero state parti di un medesimo organo. Potrebbesi allegare ancora la partizione di tanti carpelli in mesocarpo ed endocarpo; e sopratutto la corolla del visco (Viscum album), la cui lamina superiore o interna, sempremai in- carnata coll’altra, produce il polline col suo stesso parenchima. Forse che il connettivo dilatato, quasi fogliaceo, del Potamogeton perfoliatum rientra nella stessa categoria, come quello che dalla faccia interna con- cava (tav. 1, fig.14-15-a) dà origine alle antere. Non è a tacere, infine, ehe alla significazione morfologica data intorno la origine degli stami nella Primula sinensis si oppone la teoria general - mente acectta sul numero e la disposizione simmetrica delle parli co- pe Sio stitutive il fiore delle primolacee. Richard, Payer ed altri notano che nel Samolus Valerandi, nella Lysimachia nemorum cinque appendici fili- formi inserite sull'orlo del tubo corollino, alternanti con i cinque stami, indicano già un altro verticillo stamineo più esterno imperfetto; e che questo, in esse, mentre stabilisce l'alternanza visibile fra due verticilli di stami, nelle altre piante del medesimo ordine naturale l'alternanza vien turbata apparentemente dall’ aborto di detto verticillo. A noi sem- bra più naturale che la regola, in questo caso, sì avesse a desumere piut- tosto dal maggior numero dei fatti che da poche eccezioni. Si è visto che lacinie calicinali e corolline hanno origine da altrettanti punti vege- ialivi, disposti a cerchio, sull'orlo de’ loro rispettivi organi, e gli stami dalla base dei lobi corollini. Ora il numero di questi punti vegetativi talvolta varia; nel fico, per esempio, da tre a cinque derivandone ugual numero di lacinie calicinali ; nel pomidoro coltivato i lobi della corolla sovente sono più di cinque; la figura 12 nella tavola prima ritrae un ca- lice in crescenza della Primula sinensis a fior grande increspato , nel quale calice veggonsi tra le cinque primarie lacinie, altrettante più pic- cole nate posteriormente. Essendo così, appena esito a riconoscere la ori- gine delle appendici fiorali nel Samolus da punti vegetativi sull'orlo del tubo corollino che si sta formando. Appendici che, nella boccia molto giovine di tal pianta, sono bislunghe, il loro tessuto è conforme affatto a quello del tubo anzidetto con cui sì continua, senza la minima traccia di una provenienza più lontana. — 17 — Spiegazione delle Figure TAV: I: Fig. 11 a 12 Primula sinensis. 1. Sommità di un piccol ramuscello fiorifero ingrandito, con fiori a diversa età, alla base interna di una brattea è più o meno sviluppata , guernita di peli multicellulari, ghiandolosi nella sommità. Il fiore c col calice cinquefido, contenente la corolla non per anco sviluppata; i tre tubercoli sottoposti rappresentano il primordio di altrettanti fiori for- mati di solo tessuto cellulare: quello di prospetto a misurava due de- cimi di millimetro. 2. Lo stesso tubercolo fiorale a fig. 4. cresciuto oltre il doppio e mo- dificatosi. Esso si è diviso in due parti; la inferiore con orlo circolare si- nuoso è il primordio del calice, la superiore, depressa nella sommità, è il primordio della corolla. 3. Fiore poco più sviluppato del precedente veduto di prospetto; i cinque lobi esterni alquanto rivolti nella parte superiore sono i lobi del calice, dentro al quale vedesi il disco della corolla con cinque angoli nel contorno; nel centro ci ha la sommità sferica dell'asse, la quale co- stituisce il primordio del carpello. 4. Calice del fioretto precedente veduto di profilo. 5. Altro fioretto poco più sviluppato veduto di prospetto , nel quale, oltre le parti indicate nella fig. 3, alla base di ciascun angolo del di- sco corollino apparisce una piccolissima prominenza in sembianza di tubercoletto, ch’ è il cominciamento di uno stame. 6. Fioretto di profilo in via di formazione appartenente ad una varietà o fior piccolo della stessa Primula sinensis. Esso è costituito di tre parti, il calice a cinque denti nella parte inferiore, indi la corolla, dal mezzo della quale sporge la sommità del carpello. 7. Fioretto in via di formazione, appena più grande di quello della fi- Atti — Vol. II.— N07. 8 LMSE= gura ©, veduto di prospetto con le stesse parti indicate in quella figura, ma più sviluppate; i lobi della corolla e le prominenze staminee alla loro base si sono allungate. 8. Fiore più cresciuto reciso lungo la metà. In questa figura si è sop- presso il calice onde mostrare le antere che si vanno formando alla base interna dei lobi della corolla, come fossero tanti rami o prominenze de’ medesimi lobi; d antera in fondo veduta dalla faccia rivolta al na- scente carpello e. 9. Carpello più sviluppato che nella figura precedente con parle della corolla e le rispettive antere più perfette. 10. Carpello divenuto più grande ma non per anco perfetto, del cui ovajo si è portato via il lato di prospetto con parte del trofospermo libero carnoso, sopra eui rilevano gli uovicini. 11. Trofospermo di un carpello giunto a perfezione, isolato in fondo dell’ ovajo, di cui la figura ne porta un avanzo. Esso trofospermo, in forma di campanetta, presenta nella superficie le impressioni ov’ erano attaccati i semi quasi maturi, alcuni denti più o meno distinti nell’ orlo inferiore, e la parte assile, che nel fondo dell’ovajo per brevissimo tratto libera, sporge finalmente a guisa di piecolo rilevamento rotondo nella sommità del medesimo tro‘ospermo. La forma esattamente aceampanata di questo, e la uniformità dei denti nell’orlo, giusta la figura, s'incon- trano di raro. 12. Calice della Primula sinensis a fiore grande increspato; tra le cin- que lacinie normali se ne sono formate altrettante più piccole. N. B. Queste osservazioni sì son fatte nel corso dell'inverno sulla va- rieta a fiori grandi increspati della Primula sinensis coltivala, tranne quella espressa con la figura sesta. 13. Najas marina. Gruppo di fioretti masehi in via di formazione ae- compagnati da brattee bd; esso in tulta la lunghezza misurava quasi un millimetro: a primordio del fioretto maschio in guisa di bottoncino li- scio rotondo, c-c due fioretti maschi più sviluppati, mostranti due partì mediante un orlo circolare, la superiore primordio dell’antera , la infe- riore di un invoglio #, che rappresenta un perigonio aperto nella som- mità quatrilobata , con dentro l’antera a quattro cellette. 14. Potamogeton perfoliatum; connettivo e, ed antere a a, nello spadice lungo *, di millimetro, veduti dalla faccia interna. Le antere allora sono due piccolissime prominenze rotonde alla base del connettivo. = 15. Potamogeton perfoliatum; le stesse parti più sviluppate nello spa- dice lungo un millimetro; le antere son divenute quasi bilobate nella sommità mercè una depressione longitudinale. 16. Ovajo del Lolium perenne alto quasi un millimetro, al tempo della fioritura, veduto dalla faccia interna, ove in r ha una piccola depres- sione, come fosse una rima rimasta tra’ margini del carpello, ss gli stili recisi formati dai lati della foglia carpellare. Essi sono canalicolati nel lato corrispondente alla faccia superiore o interna della foglia carpel- lare, e dal quale, infin dalla base, escono i peli stimmatici; @ promi- nenza della parte vaginale della foglia carpellare in corrispondenza del- la costola. 17. Lolium perenne. Sezione di un carpello lungo un millimetro , nel quale la lamina interna in contatto coll’uovicino, e che poscia corrispon- derà all’endocarpo, indicata nella figura con una zona di puntini, con- tiene, al tempo della fioritura, materia verde nelle sue cellule, e si sepa- rerà poscia dal mesocarpo. 18. Carpello dell’Orzyza sativa lungo un millimetro, compresi gli stim- mi, prima della fecondazione, quando gli organi sessuali stanno dentro le glume, e la pannocchia nella guajna della foglia terminale. L’ovajo in corrispondenza di a presenta una rima o solco, indicante quasi due margini carpellari alquanto introflessi. Nella sommità si trifurca; due rami divengono stili e stimmi perfetti , il terzo abortisce o cresce pur esso a paro degli altri: per questo gli stili nel riso sono talvolta in nu- mero di tre. : 19. Allium nigrum. Sezione di un fiore lungo un millimetro in via di formazione; c gineceo depresso nella sommità, a antera, è petalo, come due rami d’un medesimo organo, senza veruna diversità di struttura in quel tempo, essendo l'una e l’altra parte formate di solo tessuto cellu- lare senza fibre e senza vasi. 20. Lo stesso fiore veduto di prospetto, il gineceo nel mezzo con in- torno sei prominenze, ciascuna divisa in due siccome si è detto. Nella figura che precede appariscono i rapporti con figura ottava ri- spetto alla origine degli stami. ‘Og TAV Fig.1 a 6—Zea Mays; alcune particolarità del carpello al primordio ed in via di crescenza. 4. a primordio del carpello in forma di massa cellulare rotonda; e lo stesso poco più progredito leggiermente abbassato nella sommità. En- trambi sono guerniti di brattee presso alla base. 2. Fioretto lungo un quarto di millimetro; il carpello c in via di for- mazione con intorno alla base, glume o brattee nascenti a-a'-b in cre- scenza, più o meno sviluppate, di varia apparenza e grandezza. 3. Carpello e più sviluppato. 4. Carpello ancora più cresciuto, nel cui fondo traspare in ombra l’uo- vicino. o. Carpello e che comincia ad allungarsi da un lato per la formazione dello stilo; l’uovicino o in questo fioretto sporgeva un poco fuori la ca- vità basale del carpello. ; 6. Carpello più sviluppato, in cui il prolungamento s formerà lo stilo. Queste osservazioni sulla crescenza successiva del carpello della Zea Mays, infino a certo punto, si son fatte sopra una spica alta dieci nil limetri, in cui i fioretti dalla parte inferiore verso la sommità erano suc- cessivamente più giovani. Nelle figure sono indicate solo alcune brattee nascenti alla base del carpello. Le fig. 7 a 15 risquardano Vl’ origine e cominciamento del fiore femineo nel fico. 7-8. Lamine longitudinali prese nel mezzo di due ricettacoli lunghi due millimetri circa; d brattee, s squame che dall’orlo del ricettacolo si abbassano nella concavità in corrispondenza di o, ove rilevano appena i primordii dei fioretti sotto forma di tubercoletti sferici, uguali a 0”,036 circa. Tutto ciò si può osservare alla lente semplice. 9. Gli stessi tubercoletti recisi per lungo, con parte del sottoposto pa- renchima cellulare, osservati all’ingrandimento lineare di 180. Essì son costituiti solo di cellule. 10-14. Tubercoli fiorali più cresciuti, la cui massa cellulare sì è di- visa in due mediante un orlo annulare divenuto leggiermente sinuoso; la parte inferiore a corrisponde al tubo del nascente perigonio, allora evidentemente monosepalo; la superiore c diverrà carpello. SMS 412 a 15. (Le stesse lettere indicano le stesse parti che nelle due figure precedenti). Aleune modificazioni successive del carpello incipiente a misura che comincia ad ingrandirsi; esso divien cavo a poco a poco , mostrando la sommità aperta, o come fosse abbassata. La cavità sarà l’o- vajo, ed il punto più prominente del suo orlo, figura 14-15, sarà lo stilo. Le rimanenti figure, cioè da 16 a 24 appartengono alla Capparis spi- nosa. 16. Primordio del fiore della Capparis spinosa ingrandito. Esso è for- mato dalla sommità dell’asse @, ossia dall’antogeno, che non si allun- ga, costituito di solo tessuto eellulare, e circondato alla base da quat- tro foglioline o sepali, una delle quali è stata recisa per scuoprire l’an- togeno a. 17. Lo stesso antogeno più cresciuto alla cui base spuntano quattro petali #, più in su gli stami s, rimanendo nella sommità la prominenza emisferica e, primordio del gineceo. 18. Androceo s da cuì spuntano gli stami, e gineceo c più sviluppati. Il gineceo si è abbassato nella sommità, e l’ orlo circolare è divenuto sinuoso. 19. Sezione trasversale alla base dell’androceo s fig. precedente; nella quale sezione appariscono le celline assili o midollari nel centro, con intorno molto tessuto cellulare più fino, circondato da una serie di sta- mi nascenti, dalle sezioni de’ quattro petali # e di altrettanti sepali s. 20. Gineceo più cresciuto di quello della fig. 18; i seni son divenuti più profondi, e le otto preminenze in serie circolare nella sommità di- notano il cominciamento di altrettanti trofospermi. 21. Lo stesso gineceo veduto di prospetto; le otto prominenze sono triangolari solide, come spigoli inclinati e diretti verso il centro dell’or- gano. 22. Sezione trasversale nella metà dello stesso gineceo fig. 20-21, per mostrare che lo spazio tra due spigoli, prima lineare, poscia largo alla base ed in seguito anche nel mezzo, è la parete fra due trofospermi con- tigui; dalla quale spunteranno, verso la base, gli uovicini. Gli spigoli quindi non sarebbero altra cosa che masse trofospermiche parietali di altrettanti carpelli piani posti in cerchio, siccome viene generalmente ammesso. Ma allora non si scorge traccia di questi carpelli piani. 23. Frammento di sezione trasversale di un gineceo molto più cre- sciuto di quello della fig. precedente, quando spuntano gli uovicini , —22— come si vede in 0. Le cavità, allora, che dividono Y un trofospermo dall'altro sono ampie. 24. Frammento di sezione trasversale di un gineceo poco più cresciuto di quello della fig. 23. L'uovicino o a dritta mostra il nucleo, ed il se- pimento trofospermico onde procede comincia già a dividersi in due fo- glietti mediante lo scioglimento delle cellule centrali di esso. 3 Da — / ; o_ Laz SZ VA AIZA AMB DEA, Seeesrre HS, €- 7A 74 Gi U., Se — e = _- — 77, & z $ È È É Y 7 7, È Y, (474 VA pai / pai f —x i "4 IZà 4 5. 7 /) La LO 7 5 l [4 (e. a (/ di n A È 12 15 }: ; 7 È AG pe Pi, dt * 7. == + LÒò 3 (1. # ci y a b Chi La N + O I E A n - È agere n ASI AAA Vol. II. N° 8, ATTI DELLA R. ACCADEMIA DELLE SCIENZE FISICHE E MATEMATICHE SULLA DETERMINAZIONE DELLE COSTANTI ARBITRARIE NEGL' INTEGRALI DELLE EQUAZIONI LINEARI, COSÌ DIFFERENZIALI CHE A DIFFERENZE FINITE MEMORIA DEL SOCIO ORDINARIO N. TRUDI letta nella tornata del dì 7 giugno 1864 Notizie intorno al soggetto della memoria Sì sa che la risoluzione di quistioni importanti dipende da una oppor- tuna determinazione delle costanti arbitrarie, le quali completano gli integrali delle equazioni differenziali lineari. Supposta un’ equazione di tal natura dell’ ordine n”°, ordinariamente la determinazione di quelle costanti vuol’essere regolata in guisa che, per un particolare valore as- segnato alla variabile, la funzione e le sue successive n—1 derivate prendano valori anche assegnati; ed è nota la bellissima soluzione di questa quistione data dall’ illustre LAGRANGE; soluzione da cui risulta che ì valori delle costanti, i quali soddisfano alle condizioni prescritte, sì hanno ne’ numeratori delle frazioni parziali in cui può decomporsi una certa funzione fratta razionale, che ha per denominatore il primo membro della equazione algebrica di grado n da cui dipendono gl’inte- grali particolari su’ quali è fondata la integrazione completa. Ma si sa del pari che questa soluzione è limitata esclusivamente al caso in cui le radici della detta equazione sono tra loro tutte disuguali. Dobbiamo tuttavolta osservare che lo stesso LAGRANGE avea cercato di estendere la sua soluzione anche al caso delle radici uguali: soluzione ve- nuta a nostra contezza per la circostanza singolare di possedere un vo- lume degli Atti dell’Accademia di Berlino, ov'essa è pubblicata ; ch’ è quello per l’anno 1775. Ma condotti per talune ricerche ad applicar le La Atti — Vol. I.— N.0 8. 1 1 SOS formole date a quest'uopo da quel gran geometra, disaccordi visibili nei risultamenti del calcolo ci fecero concepire il sospetto che potessero non essere esatte; ed il sospetto fu mutato in certezza dopochè, cercando a dimostrare quelle formole, che LAGRANGE si limita soltanto ad accennare, trovammo di aver raggiunto una soluzione diversa, ma interamente uni- forme a quella data dal medesimo geometra pel caso delle radici disu- guali. Aggiungiamo che una quistione del tutto analoga a quella, della quale è parola, si trova nella teoria delle equazioni lineari a differenze finite; ed è propriamente a riguardo di queste ultime equazioni che fu data da LAGRANGE la risoluzione della quistione di cui si tratta. Ignorando allora se fossero già fatte da altri le osservazioni che ab- biamo presentate intorno a queste ricerche di LAGRANGE, non avevamo omesso di assicurarcene per ogni via; ma le nostre indagini furono per buona pezza infruttuose. Però, non ha guari, volendo riscontrare una memoria del PAoLI, tanto conosciuta da’ geometri, relativa alle equazioni a differenze finite ed alla partizione de’ numeri, che trovasi nel secondo volume delle memorie della Società Italiana, ci venne a caso sott'occhio nel seguente volume terzo una memoria del MALFATTI dal titolo — Delle serie ricorrenti—e non fu lieve la nostra sorpresa scorgendo che in essa quel distinto geometra Italiano comincia appunto dallo esaminare le for- mole già dette di LAGRANGE, e le riconosce inesatte. Nè solo egli mette in vista il difetto, ma si è studiato a correggerlo ed a dare le formole convenienti per la risoluzione della quistione. Ora un lavoro così inte- ressante del MALFATTI sembra interamente ignorato da’ geometri; ed è in- concepibile come ciò potesse verificarsi; tanto più che questa memoria, di presso a cento pagine, è quasi una continuazione di quella del PaoLI, ed ha per oggetto principale i medesimi problemi sulla partizione dei nu- meri dal PAOLI considerati. i Se fosse lecito di pronunciare un motivo che abbia potuto influire a tener nell'oblio questo lavoro dottissimo del MALFATTI, noi dovremmo unicamente trovarlo nella esposizione alquanto pesante delle sue ricer- che, le quali per una parte fondano sopra induzioni, anzichè sopra di- mostrazioni generali, essendo guidate dallo esame di molti casi partico- lari, il che impegna a calcoli prolissi, cui non è così agevole di seguire altentamente; e per altra parte sopra una specie particolare di algoritmo dì derivazione, da lui espressamente immaginato. Ma tutto ciò nulla to- glie alla importanza delle sue deduzioni. meri Intanto il pensiero che le osservazioni di MALFATTI avessero dovuto ben giungere a cognizione di LAGRANGE, ci spinse ad esaminare diligente- mente ì volumi delle memorie dell’ Accademia di Berlino, posteriori a quello del 1775; e mal non ci apponemmo: chè nel volume pel 1792 ci venne fatto di ritrovare una nota che si rapporta all'argomento del quale è parola, e che ha per titolo: Sur l’eespression du terme général des sé- mes récurrentes , lorsque l’ équation qgenératrice a des racines égales — In questa nota, appunto provocata dalle osservazioni del MALFATTI, LAGRANGE dichiara la cagione della inesattezza incorsa nelle antiche sue formole, facendo vedere essere ciò dipeso dall’ aver Egli riguardato indipendenti quantità variabili che nol sono, e mostra come la soluzione debba ret- tificarsi. Ma quella nota, che pure sembra poco conosciuta dai geometri, offre una particolarità memorabile intorno alla vita scientifica del Grande Ana- lista, il quale in quel rincontro sembrò come punto che un altro avesse dovuto prevenirlo nel porre in rilievo la inesatlezza delle antiche sue formole. E di fatti la nota suddetta conchiude con un’altra bellissima soluzione della stessa quistione; ma, cosa singolare per LAGRANGE, men- tre Egli non fa che annunciare la nuova soluzione, senza darne alcuna pruova, come avea fatto nelle prime ricerche, questa volta invita for- malmente i geometri a dimostrarla, il che non era certamente nelle sue abitudini. Ma crediamo questo tratto troppo importante per non doverci dispensare dal riportare qui testualmente le sue proprie parole... « Ces « formules sont un peu differentes de celles que j'avois données sans dé- « monstration dans le mémoire cité pour le cas de l’ égalité des racines. « Je m' étois apercu de leur inexactitude après l’ impression du mé- « moire, mais entrainé par d' autres objets, j'avois toujours différé a re- « venir sur celui-ci que je regardois comme moins important; et j'ai été « prèvenu à cet ègard par un membre de la Societé Italienne, JEAN FRAN- « COIS MALFATTI, qui a donné sur ce sujet un savant mémoire dansle troi- « sieme tome du recueil de cette Societé. Comme l’ analyse de cet’ au- « teur est fort longue et conduit à des resultats un peu compliqués, j'ai « cru devoir chercher a resoudre cette question d’ une maniere plus di- « recte et plus conforme à la simplicité de la méthode générale exposée « dans mon mémoire de 1775; c' est ce qui a occasioné les recherches « précédentes; mais quoique les formules auxquelles je suis parvenu « ne paroissent rien laisser a desirer pour la simplicité et la généralité; « néammoins, comme ces formules sont différentes pour les différentes »* 4 « cas de l’égalité de deux racines, de trois, de quatre, etc., on pour- « roit désirer encor une formule qui renfermàl tous les cas; et voici celle « que j'ai trouvée, et que je présente aux géombtres, en les invitant è « la démontrer directement ». Nel corso di queste ricerche avremo occasione da far conoscere e dimo- strare il teorema di LAGRANGE; ma ci sia lecito di aggiungere che, man- cando una storia di queste teorie, nè offrendo all’ uopo alcuna notizia i libri in cui si trattano siffatti argomenti, ignorammo per buona pezza se qualche geometra avesse corrisposto all'invito di LAGRANGE; nè ciò può sorprendere nello stato attuale della scienza. Però non ha guari, leggendo un cenno biografico di JAcoBI, scritto da DiRICHLET, ed inserito nel vo- lume VII degli Annali di Matematica del TortoLINI (*), abbiamo appreso che il gran geometra di Konisberga esordiva la sua luminosa carriera scientifica appunto con la dimostrazione di quel teorema in una memo- ria pubblicata nel 1825, vale a dire 84 anni dopo la proposta di LAGRAN- GE, e che ha per titolo? Disquisitiones analyticae de fractionibus simplici- bus. Ma tutte le ricerche furono vane per aver sott'occhio questa memo- ria di Jacogi, forse la sola non pubblicata nel Giornale di CRELLE, e della quale non si ha notizia nelle nostre Biblioteche. () Tradotto dal tedesco in italiano dal chiarissimo professor GrovANNI Novi. ” SI Le ricerche di cui ci occuperemo esigono che siano dichiarate alcune proprietà di un sistema di funzioni dedotte con una certa legge da una funzione intera di una variabile: funzione che indicheremo con F(x), e supporremo: F(2)=P,7+P12 +..04+-PixZ+D, è Se da questa funzione sì sopprima l’ ultimo termine, poscia i due ultimi, indi i tre ultimi, e così di seguito, finchè rimanga il solo primo termi- ne, ed i resti si dividano ordinatamente per le potenze 4, 2°, 3°,...; 4”, i quozienti formeranno un sistema di funzioni di gradi decrescenti nr—+I, n—2,...,1,0, l’ultima delle quali si riduce a p,, coefficiente del primo termine di F (2). Noi dinoteremo queste funzioni con la stessa caratteri- stica F adottata per la funzione da cui derivano, variandola però con in- dici, che ne esprimano i gradi, di modo che sarà: F,(2) =D F,(2} =D2 +; (1) F, (2) ila ria è Si Pa n—2 n_3 Bee (A)=p" + p,Z +P,2 *muestEPly Una prima proprietà di queste funzioni consiste in ciò che, se la fun- zione primitiva F(z) si divida per una potenza qualunque del binomio c—a, essendo a una quantità arbitraria, il quoziente intero di questa divisione si può immediatamente esprimere per mezzo de’ valori che pren- dono per e=a le derivate delle funzioni (1) di un ordine inferiore di un’ unità al grado della potenza del divisore. Per dimostrarlo supporremo che Q,,0,,0,, ete: siano i quozienti interi provvenienti rispettivamente dalla divisione di F() per le potenze <—a, (:—a)°, (—0)°, etc:; e sic- come il resto della prima di queste divisioni è espresso da F (a), avremo identicamente: F (a) F(z LA ga * Z_—_@ 2—0@ Ora questa equazione identica può con sole derivazioni rispetto ad @ dar subito le espressioni degli altri quozienti Q,, Q,, ete: In fatti, riflettendo Î è ‘derivata di un ordine qualunque ?, e quindi si dividano i due membri oe che il quoziente (, è funzione di a, se di quella equazione sì prenda la pel prodotto 1.2.3...i, indicando questo prodotto col simbolo II (i) (notazione la quale importa II(0)=1), si avrà quest’ altra equazione identica: È O Li cai . F(a)\] 6 eni 0) LI chester È È manifesto intanto che l’ultimo termine del fattore binomio del secondo membro, a derivazioni eseguite, diviene un fratto il quale ha per deno- minatore lo stesso divisore del primo membro, e per numeratore una funzione di % di grado inferiore a quello del denominatore. In conse- guenza questo numeratore esprimerà il resto della divisione indicata nel primo membro; e da ciò risulta che il quoziente intero di siffatta divisione dee coincidere col primo termine del secondo membro; e siccome questo quoziente è rappresentato da ()., si avrà: 3 3 Q.,= —DQ (3) ia led. Da un'altra parte bisogna osservare che il primo. quoziente Q, è una funzione intera di < di grado n—1, ed è perciò della forma: Q=9,34+q + qa %+...+9 ma essendo per la natura della divisione: Do =Po I, '=Po& Dx da =P,0® +p,a +p, n=7I Urx=Po@" "4-P1 0" °4-pya 0" 4... +P,x, a causa delle funzioni (1) sarà: q,=F(0) , g:=F:(0) , 0, ga=Fa(0); e quindi sì ottiene: i Q,=F,(0)2*+F,(0)2"-*+ F.(a)2°7*+...+F,_:(0) - Prendendo ora la derivata 27° di Q, rispetto ad a, e tenendo presente che MA il valore di F;.(a) è nullo se s>r, in virtù della (3) si avrà la formola seguente: 1 - n—i (1); > (#2); (> si ha quest'altra funzione di grado r: (i); PA (4A); p_23+- (42) p_aP+. AA); e la proprietà che intendiamo di porre in rilievo consiste in ciò che que- sta funzione così formata equivale alla derivata i”° di quella tra le fun- zioni (1) che è del grado #+r, cioè della funzione F__(), divisa pel pro- dotto 1.2.3...î; in guisa che si avrà: Fi (1); P4-(i44);p,_37+- (142) p'+... A (i+), p.7 = : ; $ I Data l’ equazione differenziale dell'ordine # a coefficienti costanti : d'y d'"y dy 4 ac +... _ = ( ) Por FP Pu dr +P,Y 0 » sì sa che il suo integrale completo dipende dalle radici dell'equazione : F(2)=p7+p,3+...+p,13+p,=0. Sia a una di queste radici che potrà essere o semplice o multipla. Se la radice è semplice la medesima darà all’integrale un termine della forma: AES dove A figura una costante arbitraria ed @ un valore qualunque partico- lare di 2. Ma se la radice 4 è multipla, e pongasi di grado «, allora rap- presentata con X una funzione indeterminata di 2 di grado a—1, e perciò affetta da « costanti arbitrarie, quella radice introdurrà nell’ in- tegrale un termine della forma: Neal: indicando come prima qualunque particolare valore di 2. Noi daremo alla funzione X, la forma seguente: i are pi = A,.xt Ara (e—0) = Ans - = ATE A TTI in cui A,, A, ;...,A,_; dinotano le « costanti arbitrarie. Quando a=4 > di PES eee questa formola sì riduce ad X =1, e si ritorna al caso delle radici sem- plici. f Se si considera un’ altra radice , è per esempio , che sia multipla di grado 8, scriveremo uniformemente X, per rappresentare la funzione di x di grado 8—1, formata nella stessa maniera di X,; ed allora bisogna ritenere che le 8 costanti siano figurate con la lettera majuscola latina dello stesso nome della radice , variata con indici, e quindi con B,,B, ;-.., Bs,» Questo sistema di notazione dovrà per tanto supporsi esteso ad ogni altra radice. Ciò premesso, chiamando a, d, c, ...,/ le radici dell'equazione F(2)=0, per considerare il caso. più generale, le supporremo multiple rispettiva- mente di gradi x, 8,y,...,À, essendo: RASSEGNE ed allora l’ integrale generale dell’ equazione (4) sarà: a(x-w) 7 us=X.é PW E a e contenendosi nel secondo membro ie n costanti arbitrarie : / Ao AG > b) Ar I i o L, 2 E. SIAE) I PRA Ma sotto forma più concisa potremo anche scrivere: 0) 3 Baget), la sommatoria dovendo intendersi estesa a tutte le radici della equazio- ne F(2)=0. La quistione intanto che ci proponiamo di risolvere si è quella di de- terminare le suddette n costanti a condizione che, pel dato valore ® di x, la funzione y e le sue successive n—1 derivate prendano valori an- che dati: valori che per ordine dinoteremo con Yo, Y11 + «+ Y,_x) ÎN guisa che sarà: (9) > DU) 0 DIV) Ye etc: etc: ed in generale: (6) DI (Y)a=Y - Atti — Vol. II.— N° 8. 2 2 Ora la soluzione di siffatta quistione si può comprendere nel seguente teorema, del quale daremo due diverse dimostrazioni. « Dalla funzione F(z) si deducano le n funzioni F__ (4), F._.(2) 1 Fol&); « le quali si moltiplichino ordinatamente pe’ dati n valori Y0,Y13++1%,_1» « e pongasi: (7) v (3) = Yo Fio (2) He Yi F,5 (2) = ica Y,-2 13 (2) sin Y,n-1 Ri (2) © « Posto ciò, se si decomponga in frazioni parziali la funzione fratta « $(%): F(3), i numeratori di queste frazioni esprimeranno appunto i va- « lori delle costanti, i quali soddisfano alle condizioni prescritte; do- « vendo perciò quelle costanti verificare la relazione : Ve) _ Ao A, Ans F(:) (a) da agri Duprar* 3a B, Ta B, IR =D fra =E S Prima dimostrazione Per dimostrare il teorema enunciato dobbiamo innanzi tutto eercare le equazioni da cui dipendono i valori delle costanti; ed a tale effetto prenderemo la derivata dell’equazione (5) di un ordine qualunque r, per poterne dedurre il valore che prende la derivata ”° di y nella ipotesi di c=@; e così tenendo presente la relazione (6) si avrà dapprima: (8) y,=D (EX e) - Da un’altra parte considerando le derivate è”° delle due funzioni X, ed e" si vedrà subito che i loro valori per «= equivalgono rispettiva- mente ad A,_,_, ed a‘; e quindi, posto mente al notissimo teorema di UE Leibnitz relativo alle derivate di ordine superiore del prodotto di due funzioni, sì troverà facilmente: D'(X,e*®)_= } r(r-1)...(r-a+2) 1.2...(x—-1) er r r-3 r(a—1) A, 0+A,30 + A;4 : Essendo ora necessario di rappresentare di una maniera concisa questa funzione di a ed r, la quale contiene linearmente le x costanti A, con- verremo di indicarla con V__; di modo che usando il solito simbolo pe’ coefficienti binomiali, sarà: (9) } EI a+(r), A, 90 + (7). Ac, a+ 0. +(r), x: fa . Adunque, posto uniformemente : V,,,=Bg_10+ (1) Br 9 +1) BB ++ Mg B0* V=0y_204-(1) 0,20 "+ (1) C++) e ui etc: etc: ete: risulterà: D'(X, oil =. = D'(X, ef) _=V,, ; D'(X.ef)_=V,. A a quindi per l'equazione (8) si ha: (10) aa e questa formola ponendovi successivamente r=0,1,2,...,n—A, dà le seguenti n equazioni: (11) Ya =V,a sana +..+Via Yn =: Mer ala Na ana Vir equazioni le quali determinano linearmente le n costanti, e la quistione è ridotta alla loro risoluzione. A tale effetto cominceremo dal moltiplicare ordinatamente queste equazioni per le funzioni F_,(4), F_,(2),..., F.(£), e faremo la somma n—I ne2 \°/ * rn pa de’ prodotti. È chiaro che nel primo membro della somma si riproduce la funzione 4 (3), definita nella formola (7). Inoltre se si ponga: (12) M, == SSNTE n—-1 (2) +V.a FE, (3) Tigra Vi (3) tas VERE o(* :) È) e si ritenga che M,, M,, :.. rappresentino espressioni somiglianti in b,c,...; il secondo membro sarà la somma di M,, M;,...; esi avrà in conseguenza: (13) J(=M+M+...+M,; ma importa di porre in evidenza la composizione de’termini di questa formola. " Fermandoci adunque a considerare l’espressione di M, data nella (12), dovremo cercare i valori delle quantità V.,, V..,, ete:, i quali si ot- tengono dalla (9) dando ad ri valori successivi 0,1,2,...,n—A4; esi ha in tal guisa: V_ -A, | i > Mei a (1 RAG 252 — 6. Do (2), As a+ (2)a Ans va - —A, ;0°+ (i), + A,30 + (bt A, 30" °+ ou A (A Voga À SI Ai ale (nA LATE «tn ); A a+. + = E a-i-10 Se queste equazioni si moltiplichino ordinatamente per le funzioni F_.(e), F,_»(%)---: Fo(3), e si faccia la somma de’ prodotti, nel primo membro della somma si riprodurrà l’espressione di M, come si ha nella (12); e però, se il pr membro si supponga ordinato rispetto alle costanti A AI Ao; la detta somma avrà la forma: a_1) (14) Meg. Loren Per determinare l’espressione di 4, osserveremo che nella serie delle pre- (*) Si può osservare che nella serie di queste espressioni la prima ha un termine solo, la seconda due, la terza tre, e così di seguito fino a quella che darebbe il valore di V,,,_r, la quale conterrebbe per- ciò tutte le a costanti A,_1, A,_2;-+-s Ar; Ao; € l'esponente di a ne’ loro ultimi termini è sempre sero. Egli è poi chiaro che ciascuna delle altre espressioni costerà sempre di x termini, e conterrà tutte le costanti; e da ciò poi segue che nella serie delle seguenti espressioni diV,,xVa,a.1:-Va,not gli ultimi termini debbono sempre contenere la costante Ao, ed essere rispettivamente affetti dalle po- tenzetastas ta aa Si OP, TI a = cedenti eguaglianze la prima a contenere la costante A__,_, è quella che dà il valore di V,,; e perciò dovendo questa eguaglianza moltiplicarsi per F,__, (x), messo per compendio: = , risulterà : = (0, F(2)+(î+4),F._(A10+(+A);F_.(2)02+.. +(i+-9,F._, (9)a'+ .. +(n—1),F;(2)a" . Siccome questa espressione di 4, è una funzione intera di < di grado e, sì può supporre: (15) u,=k3+k,3+..+k,57+..+k,; e per determinare in generale il coefficiente %, si osserverà che nella detta espressione la potenza 3°’ deve trovarsi solamente ne’termini che sono moltiplicati per le funzioni F,(3), F,_.(£),..., F._,(£), perchè le ri- manenti F._,_,(),..., F;() sono tutte di grado inferiore ad e—s. Ma i coefficienti di quella potenza nelle dette funzioni sono rispettivamente poi dunque si'ottiene: k,=(i);p,+ (i+-1);p,x0+ (i+-2),p,_20°+ rio, + (4-5); Po a'. E manifesto intanto che si riproduce questa stessa espressione se i ter- mini della funzione: F,(0)=P,+-P:-104-P,-20°+...4-P30° si moltiplichino uno ad uno pe’ termini della serie numerica: CER) a), (43, che sono ì primi termini della serie de’'numeri figurati dell'ordine i; dunque, per la seconda delle proprietà dichiarate nel $I, il valore tro- vato di k, sarà equivalente alla derivata è” di î+-s, F. (a), divisa pel prodotto 1.2.3...i; e si ha in conseguenza : Fi (a) «= gag ii Questa formola, facendovi successivamente s=0,1,2,.,6, porge i Spe valori di tutti i coefficienti della espressione di 4, data dalla (15); e però essendo e=n—i—-1, si avrà: Ora, ricordando la prima delle proprietà dichiarate nel $ I, si ricono- scerà che il secondo membro dell'ultima equazione esprime il quoziente intero della divisione di F(4) per (£—a)"*; ma siccome questa divisione non dà resto finchè î<«, perchè per ipotesi (x —a)” è fattore di F(x), ne segue che per tutti i valori di è compresi nella serie 0,1,2,..,a—1 sussisterà la formola: la quale a sua volta definisce i valori de' coefficienti della espressione di M data nella equazione (14); di modo che si ha in fine: \2 za (5-a) A (E A, M=F(a)[ Sn RTRT il: Espressioni somiglianti si otterrebbero evidentemente per M,, M_, etc: ; e quindi in virtù della formola (18) si avrà: 2—-@ Z_-Q) SE, ga B, +Fal +7 DE +] Pret Ta L. leer Dividendo i due membri di questa equazione per F(z) si riproduce la re- lazione annunciata nel teorema, il quale resta in tal guisa completa- mente dimostrato. Segue per tanto da questo teorema che la determinazione effettiva delle costanti A; , A, ; «.., A,_, va interamente rimessa alla teorica della a decomposizione delle funzioni fratte; e con ciò la quistione è perfetta- mente risoluta. Così, messo per compendio: F(2)=(:—a)*f(:) si potrà far capo dalla formola conosciuta : 1 {:t(0) na) */(0) la quale dà i valori di tutte le x costanti, non esclusa A,, perchè I1(0,.=1. Ma pel calcolo numerico sarà forse più opportuno di far di- pendere questi valori gli uni dagli altri, ricorrendo alle formole ben co- nosciute: | Ja) =f(a- A, v' (a) = f (a) A+ f(a) A, | RE A fA. 1.2 v°(a) _ f"(a) f"(a) ti Ì A 4 A, A, 1.2.3 71.2.300t 1a it A Sla) etc: etc: ete: etc: \ | La ricerca della quale ci siamo occupati perde ogni difficoltà quando l'equazione F(2)=0 non ha radici uguahi. In questa ipotesi l'integrale completo della equazione (4) si riduce ad: yV= Ae REL 4 Lee; quindi invece della formola (10), dalla quale dipendono in generale le equazioni che deterniinano le costanti, nel caso attuale si ha l’altra as- saì più semplice: y. = Ad+Bb+..+L; e questa, dando ad r i valori successivi 0,1,2,...,n—1, porge su- bito il conosciuto sistema di equazioni: YI, ==. #+B.i +. /#+L y, =Aa +Bb +..+Ll y, =Aa° +B08 +..+L? Y, AT Bb ++ LL!" : nh—1 Per risolvere queste equazioni si possono tenere diverse vie; ma lo stesso La metodo che abbiamo seguito pel caso generale diviene ora semplicissi- mo. In fatti, moltiplicandole ordinatamente per le funzioni F,_,(), F_.(©), ..., Fo(£), e facendo la somma de’ prodotti, nel primo membro della somma si riproduce la funzione $'#); e quindi, posto: N,=F,_1(2)+F,_2()0+F,_;(2)a°+..+F,(2)a°* N,=F,_;(2)+F,_s(9d9+F,_;(2)0*+..+F,(2)0"7 etc: ete: etc: etc: sl avrà: 4(2) = AN +BN,+..+LN, Ora l’espressione superiore di N, equivale al quoziente di F(a) divisa per a—z; ma questo quoziente è identico a quello di F(2) divisa per <«—a; dunque risulta: e si ha perciò: OVVero: In questa formola è riprodotto il teorema precedente, limitato al caso delle radici disuguali; ma quindi vedesi che la determinazione delle co- stanti procede sempre nella stessa maniera, qualunque sia la natura delle radici dell'equazione F(2)=0. Quando tutte le radici sono disu- guali per le teoriche della decomposizione delle frazioni i valori delle costanti A, B, etc: sono definiti dalle formole: | 4 di al (2) (16) ne i i Me lee a F' a) Fib)° i F' (0) »d è appunto in queste formole che consiste la soluzione data da LA- GRANGE del precedente sistema particolare di equazioni lineari. depp Seconda dimostrazione Supporremo qui ritenuta la parte iniziale della precedente dimostra- zione diretta a stabilire la formola: (17) Y,== MATE dis AUT. da cui dipendono le equazioni (11) che determinano le n costanti, ed os- serveremo che le espressioni di V,,,, V,,,, etc. si possono mettere sotto la forma: io Srlr1)...(r-i+2) ,_, a E r(r-1)...(r-i+2),,_; e gi ii E rare dote: Coen 44. 4) eu i 492...(i-1) Gi Posto ciò, derivando r volte di seguito la (4), si ha l’altra equazione: d'”Y dei y d'’Y d'y DCO pis = a = Po gg” 1 da" rm-I lo “E n gg Poga 0 la quale, ponendovi «=@, per le notazioni convenute diverrà: (19) PoYnert- Panca t-PaY=0 - Questa equazione, che ha luogo per tutti i valori interi e positivi di r, compreso il zero, fa sì che le quantità Y,;Y,Y,:--- formino una serie ricorrente dell'ordine n. In questa serie, a causa delle n costanti arbi- trarie contenute nella espressione di y, data dalla (17), i primi n termini Yor Y13+++3%,: possono essere dati arbitrariamente; ma ora andremo a dimostrare che, se i loro valori sono qnelli che si suppongono dati per la determinazione delle costanti, allora sviluppando la funzione fratta alifa Fo) in potenze decrescenti di 4, la detta serie sarà riprodotta ne’ cocfli- cienti di questo sviluppo, di modo che dovrà essere in tale ipotesi: Y 3 Yo Yr 2 Y, (20) i nie pel EROE. 4 Per dimostrarlo osserveremo innanzi tutto che la funzione 4(x) definita nella (7) sì può scrivere come segue: VETTA (PYtPY) E + (PYAPY APT +... + RR e) Atti — Vol. II. N.0 8 3 Cie ma posto per compendio: lo =PYo I Pola + Palo qa =PM +P9 +PaUo ia A Ina =PoYn-xrtPxYno te Piro sì avrà più concisamente : VITA + RT +9 - Ora siccome il grado di 4(x) è inferiore di uno al grado di F(z), lo svi- luppo di do in potenze decrescenti di 3 comincerà col termine affetto da ss e quindi si può supporre: Y (2) fn dI + GE +. “sla UfE” da U U, U, « Fi prc Per determinare i coefficienti osserveremo che si ha identicamente : CA E Ge 4. t Ina Fa (pr+p3 +. s +p))(U ++ uz '+, ‘ ) } laonde sviluppando il prodotto, ed uguagliando i coefficienti delle po- tenze simili di 2 ne'due membri, si ottengono le relazioni : lo PU li =P,%, tPilo lo Potty +P,6, + Inx SP,x+-PU,+ a T-P,rbo 0° =Ptt, +Ptit+.+Ptha 0 =PoW,.1 tp, a TPrrBo e generalmente per qualunque valore intero e positivo di r maggiore di n—A si avrà: 0 Po, tr Ada ooo +p,U, . Si rileva da questa equazione che le quantità w,; %,, v,, ... formano, al > pari delle altre Yo) Y.) Y21--+, una serie ricorrente dell’ordine n, la quale dipende dalla stessa equazione generatrice F(#); ma affinchè le due se- rie possano essere coincidenti è necessario che i primi n termini dell'una siano uguali a’ primi n termini dell'altra. Ora ciò segue appunto dal con- fronto delle equazioni (21) con le (22), le quali danno evidentemente Yo=Ug 3 YU 3 +++ Y,_33U,_,i e con ciò resta dimostrato lo sviluppo pz F(z)' Bisogna intanto osservare che lo sviluppo della stessa frazione si può ancora ottenere decomponendola in frazioni parziali, e cercando i loro particolari sviluppi. Essendo a, d, ..., l le radici dell'equazione F (2)=0, multiple rispettivamente di gradi a, 8,...,À, la decomposizione con- durrà ad un risultamento cui può darsi la forma: della frazione come si è supposto nella (20). e quindi y,, coefficiente della potenza 2°” nello sviluppo discendente del primo membro, sarà uguale alla somma de’ coefficienti della stessa potenza ne'sviluppi somiglianti di tutte le frazioni che compongono il secondo membro; laonde, se si dinota con V'_il coefficiente della detta potenza nello sviluppo della prima sommatoria, con Vj, quello della medesima potenza nello sviluppo della seconda, e così di seguito, si avrà: (23) y= Vit Vit ole-a +Vi e, Siccome la frazione sottoposta al primo Y equivale ad Az_;(#—a)", si x - . . nes) troverà facilmente per la formola del binomio che la potenza 3°” ha per coefliciente : AA; 431) i e quindi risulta: < r(r-1)...(r-i+2) «un AR E iL) DiTAZA Ia, Questa espressione V/,, è ciò che diviene quella di V__ data nella prima delle (18) mutandovi solo A,_; in A}_;j; ed è evidente che analoghi ri- sultamenti si otterrebbero per gli altri termini del secondo membro della equazione (23). Ora dovendo questa equazione sussistere per qualsivoglia * gene valore intero e positivo di », avrà luogo in particolare per r=0,1,2,..., n-—1; e da ciò segue che i numeraiori A', B', etc. delle n frazioni par- Y(2) ziali, nelle quali è decomposta la frazione Fo verificano le n le equa- x—_— zioni lineari: CENE 0 PANNI Si RE E i Yn-r AE E a EM n Ma queste equazioni sono ciò che divengono le (11) mutandovi rispetti- vamente le A, B, etc. in A', B', etc.; dunque i detti numeratori verifi- cheranno ancora le equazioni (11);.o in altri termini sì avrà general- mente A'=A'; B'=B,, etc.; e con ciò resta riconfermato il teorema che trattavasi di dimostrare. S II Nella teoria delle equazioni lineari a differenze finite si ritrova una qui- stione interamente analoga alla precedente; ed è questa propriamente quella che ha formato il soggetto delle ricerche di LAGRANGE nelle due memorie del 1775 e 4792 citate tra le notizie premesse al presente lavo- ro. Sia l'equazione lineare dell'ordine n: (24) Pit ana i ni ed 0 ’ dove 7 figura la variabile, e por P:: +-+ p, quantità costanti. E noto che il suo integrale completo dipende ancora dalle radici dell'equazione: F(2)=p24-p,2° +++ Pix +P,=0 - Ora, dinotata con @ una di queste radici, la medesima, se semplice, darà all’integrale un termine della forma Aa’, indicando A una costante ar> bitraria; ma se multipla di grado a, essa introdurrà nell’integrale un’es- pressione della forma: N, , r(e1) x riri).(re42) 208 Aaa lg E a! 1 a-22 1 3 9 A-s@ 1 o 2...(a-A) A; f nella quale A,, Ax;-«.. A,_; figurano « costanti arbitrarie. Questa es- Beato gene pressione non è diversa da quella precedentemente indicata da V__; e però ammettendo che le radici a, d,...,/ dell'equazione F(z)=0 siano multiple di gradi a, 8,...,A, l'integrale generale della (24) sarà es- presso da: (25) AIA sE coincidendo così esaltamente con la formola (10). Ciò premesso, siccome questa espressione di y, contiene n costanti arbitrarie, possiamo proporci di determinarle in guisa che la medesima debba assumere n valori assegnati Y, Y:3---1%,_,» quando la variabile r si fa rispettivamente uguale a 0,1,...,n—A. Ora queste condizioni cì riconducono di nuovo al sistema delle equazioni (11), e per conse- guenza alla medesima soluzione; di modo che anche nella quistione at- tuale i valori delle n costanti : ARSA À B B BE 13-13 P0,D,;) p- STA ORTA RRIBIARI PIZZE si avranno ne’ numeratori delle frazioni parziali ir cui si decompone la È d 3) o a 2 funzione fralta Da nella quale il numeratore y(4) è sempre la funzione NI istessa definita dalla formola (7). Quando le radici di F(z)=0 sono tutte disuguali la formola (25) si riduce ad: y,=Aa+BV+...+Ll; in tal caso i valori delle costanti sono quelli già dati nelle (16), e l’in- tegrale diverrà: bla) ., ib) , v(1) - 2° +? de ni Riflettendo che le quantità 453 Y:1---3Y,_,» da cui dipendono i valori come sopra determinati delle n costanti arbitrarie, sono esse stesse in- teramente arbitrarie, si comprende che in ogni caso è lecito di supporre che nella formola (25) le dette costanti abbiano precisamente i valori che risultano da siffatta determinazione, senza che perciò quella formola perda la qualità di integrale generale della equazione (24), a patto però che si ritengano come costanli arbitrarie le stesse quantità yo, Y,1-++1%,_,° Ma, ciò supposto, è chiaro che il valore di y, diviene il termine generale. di una serie ricorrente che ha per generatrice l'equazione F(2)=0, ed i cui primi n termini sono appunto Yo 3 Y::-++1Y_,; ed andremo a ve- dere che in tal caso l’espressione di y,, 0 meglio le espressioni delle sue +* +. da parti V__, V,,-.., V,, sono suscettibili di una rimarchevole trasforma- zione, limitandoci a considerare la prima di esse V__, imperciocchè le conchiusioni si estendono uniformemente a tutte le altre. Si è già veduto che l’espressione di V__ si può mettere nella forma: 7 _Srir)...(r442) po (26) É earn - ANSE - Posto ciò, siccome F(£) è divisibile per (—a)", chiamando f(«) il quo- ziente, sarà: 27) | F(2)=(2—a)*ff); quindi la frazione, che va decomposta in frazioni parziali, diviene: ed i valori di A,, A, ;.-., A,_, Sì avranno dalla formola:. _ 1 prio) 4 = i Sea) dando ad mi valori 0,1,2,...,x—A. Così si ottiene: 1 ;9 (a) A === Dea _—__ = pf ERE ee du) ed in conseguenza la formola (26) si traduce facilmente nell'altra : fa) De’ tre fattori che sono in vista sotto il segno Y il primo è il coefficiente binomiale di rango i relativo all’esponente «—1; il secondo è la deri- vata di ordine i—1 della potenza a’, ed il terzo è la derivata di ordine a—i del fratto Da; quindi, richiamandosi al teorema già ricordato sulle dall 1 < (2A)(22)...(eCiHA) = —___________ fa = SIRAIN rt_ibI Le a ICT 1.2...(i-1) [re Use Jp derivate di ordine superiore del prodotto di due funzioni, si riconosce che la sommatoria equivale alla derivata di ordine x—1 del prodotto Fiaip: f(a) e con ciò il valore di V__ verrà trasformato in: (28) cor ga eV) Wirrsresica ag a e In luogo della funzione f si può nel secondo membro introdurre la — 93- funzione originaria F. In fatti, se s'indica con f una novella variabile, e nella (27) si ponga <=@-+t, si ha: (29) F(a+t)=t"f(a+t). Ed essendo 4 una radice multipla di grado « dell'equazione F(2)=«, per <=a si annulla }a funzione F (4) e le sue prime a—1 derivate; di modo che, se i due membri dell’eguaglianza precedente si sviluppano col teorema di TAYLOR, il secondo sarà al pari del primo divisibile per °; quindi soppreso questo fattore, ed eguagliando in seguito i termini che nei due membri sono indipendenti da z, verrà: CATA F° (a) 8: 1.2 3 fa)» ed in virtù di questo valore di f(a) la formola (28) diverrà: V deb DE \ a Ora questa formola riassume quelle date da LAGRANGE per esprimere la parte del termine generale di una serie ricorrente dovuta ad una radice multipla dell'equazione generatrice. Egli infatti sviluppa successivamente i casi in cui la radice a è o doppia, o tripla, o quadrupla, ete., vale a dire i casi in cui si ha a eguale o a 2,0a83,0a4, ete., e trova: f pera=2, Met ACE ar 4 pr (a) 1.2 1 N) pera=3, V = gica Li BD, ar 1.2 pm (a) 1.2.3 "I, pera=#, Voc 4 D° Y (a) a i Sr) 1 IV(a) 1.2.3.4 \ etc: etc: etc: e queste formole coincidono appunto con quelle dell’ illustre Analista. Intanto, dopo aver dato queste formole, LagrANGE soggiunge le parole riportate nelle notizie da noi premesse alle presenti ricerche; e quindi RES) Re annuncia ne’ seguenti termini il teorema che propone, a dimostrare, e del quale ivi è menzione. « Je fais pour abréger 4(a).a"=0(a), 6(a) dénotant, comme l’on voit, « une fonction donnée de a. Je considere ensuite la formule: 8(a) +10'(a) Le La 36" (a) DE i 0" (a) + (30) F(a)+ 3 P(+ + age a+. « et après l’avoir développée en serie suivant les puissances ascendantes « de £, je ne retiens que les termes ou £ ne se trouve point, en rejetant « ceux qui se trouveront divisés ou multipliés par des puissances de £; « je dis que ces termes seront ceux de l’expression du terme général y,, « qui proviendront de la racine 4, soit que cette racine soit una racine « simple, ou double, ou triple, etc. ». Ora questo teorema discende ancora immediatamente dalla formola (28); ma prima di dimostrarlo sarà opportuno di modificare alquanto l’e- nunciato di Lacrance. È evidente in primo luogo che il numeratore della formola (30) non è che lo sviluppo in potenze ascendenti di t di 6(4+-t), e però anche del prodotto y(a+t)(a+t)". Inoltre è chiaro che, se il de- nominatore della formola istessa si moltiplica per £, allora il termine indipendente da # nello sviluppo di quella formola, in virtù della intro- duzione del fattore # nel suo denominatore, diverrà il coefficiente della potenza i; ma frattanto per la introduzione di un tal fattore il denomi- natore diverrà lo sviluppo di F(a+t)—F(a) o semplicemente di F(a+t), perchè a essendo per ipotesi radice dell'equazione F(2)=0, si ha F(a)=0. Segue da queste osservazioni che il termine indipendente da £ nello svi- luppo della formola (30) in potenze ascendenti di t coincide col coeffi- ciente di : nello sviluppo somigliante di d(a+t) (34) —- (att), Dunque, siccome secondo le nostre notazioni la parte del termine gene- rale y,, dovuta alla radice a, è figurata da V, ,, il teorema di LAGRANGE equivale in altri termini a dire, che: il valore di V,,, dev'essere uguale al coefficiente di > nello sviluppo in potenze ascendenti di t della formola (31); ed eccone la dimostrazione. Posto per compendio: PRA) JA 32 2(0)=79° si avrà per la (28) v 9° (a) (33) 4.2...(e-41) Ora se nella (32) si ponga a+t in luogo di a, verrà: e se i due membri si dividano per #°, si avrà in virtù della (29): Dv (att) —9 ti== - tan —9(a+t) Fai) ) (i) da Sviluppando i-due membri secondo le potenze ascendenti di £ saranno eguali ne’ due sviluppi i coefficienti delle stesse potenze di #; ed è poi chiaro che il secondo conterrà necessariamente, al pari del primo, delle potenze negative di f. Intanto posto mente alla (33) si vede che il valore di V_., coincide col coefficiente della potenza #*"* nello sviluppo di 9(a+t); (044) i esso dunque nello sviluppo di , ossia del primo membro della(34), rta, e 1 x coinciderà col coefficsente della potenza ; e per conseguenza dovrà pure coincidere col coefficiente della stessa potenza nello sviluppo del secondo membro, vale a dire della formola (31); e con ciò resta dimostrato il teorema di LAGRANGE. Questo teorema importante è il fondamento delle ricerche da noi espo- ste nella Memoria sullo sviluppo delle funzioni fratte razionali. free ion né lives drifbe| 100:£ ita fe type Dr tasto VD «dere: i PALI VENTO {ori Shilgtai to Ja seriale dij ot LoMzi ti Ù pre > a È SA : nin de ID o ei 3:57 Vol. IL. Neg ATTI DELLA R. ACCADEMIA DELLE SCIENZE FISICHE E MATEMATICHE DELIA POLISIMMETRIA E DEL POLIMORFISMO DEI CRISTALLI MEMORIA SECONDA DEL SOCIO ORDINARIO A. SCACCHI letta nell’adunanza del dì 12 luglio 1864. Dai fatti esposti nella precedente memoria sulla polisimmetria dei eri- stalli son venuto alla conclusione che col nome di dimorfismo si com- prendevano due diversi fenomeni l’ uno più semplice, l’ altro più com- plicato. Nel primo di essi i cristalli di tipo diverso della medesima so- stanza hanno essenzialmente i medesimi caratteri geometrici, e si diffe- renziano soltanto perchè i cristalli di un tipo paragonati con quelli del- l’altro tipo, non avendo in tutte le loro parti geometricamente simili i medesimi caratteri fisici e quindi le medesime qualità apparenti, ne na- sce tra gli uni e gli altri una differenza di simmetria. Nel fenomeno più complicato poi le forme dei cristalli di tipo diverso sono essenzialmente differenti per i loro caratteri geometrici. Quindi ho proposto di dare al fenomeno più semplice il nome di polisimmetria e conservare pel feno- meno più complicato quello di dimorfismo o polimmorfismo che meglio gli conviene. La distinzione tra i cristalli polisimetrici ed i polimorfi si rende manifesta per l'analogia facile a riconoscere tra le facce dei cri- stalli di tipo diverso nelle specie polisimmetriche, la quale analogia non si rinviene tra i cristalli di diverso tipo delle sostanze polimorfe. Ed il fatto che riferma la medesima distinzione sta nella maniera come si di- spongono i cristalli di un tipo quando nascono per metamorfismo dei cri- stalli di tipo diverso. Dappoichè per i cristalli polisimmetrici la loro po- sizione è determinata dalla legge che le facce dei novelli cristalli riescono sempre parallele con le facce analoghe del cristallo primitivo. Ed al con- trario per i cristalli polimorfi, non essendovi analogia di facce tra quelli Atti— Vol. I. N° 9. 1 == di tipo diverso, non ci ha alcuna posizione determinata tra i novelli cri- stallini ed il cristallo primitivo. Nella medesima memoria ho pure esposto molti esperimenti eseguiti con l’ intendimente di conoscere la cagione sia della polisimmetria che del polimorfismo, e. da questi esperimenti si deduce, almeno per i casì esaminati, non essere il diverso grado di calore cagione dì tali feno- meni, come volgarmente sì è fin ora creduto; esservi invece cagioni diverse che danno origine alla polisimmetria, ed alcune di queste mede- sime cagioni contribuire ancora a produrre il polimorfismo. A tal punto giunte le mie ricerche sulla polisimmetrica e su? polimor- fismo, ho reputato l'argomento lontano dal suo completo svolgimento ; ed anche adesso che vengo a dar notizia all’ Accademia di novelli fatti che servono ad illustrarlo, son di avviso che molto rimanga a conoscere per formarei una completa idea di tal sorta di fenomeni. Intanto fra le cose ehe mi nasceva giusto desiderio di esaminare con accurati esperimenti era il fatto deì levo tartrati ragguagliati ai destro tartrati d’identiea composizione chimica, nei quali per la identità del earattere geometrico nelle forme cristalline congiunta ala differenza della emiedria e dell’ azione sulla luce polarizzata, sembrava che la po- lisimmetria e l’emiedria andassero mirabilmente insieme e quasi sì con- fondessero in un solo fenomeno. Quindi appena ho potuto avere a mia disposizione sufficiente quantità di acido paratartico mi sono affrettato di eseguire quella serie di esperienze che esporrò nella prima parte di questa memoria. Nell’ altra parte poi esporrò quale sia al presente la mia opinione sul polimorfismo. PARTE L. Polisimmetria tra i paratartrati , levo tartrati e destro tartrati. Conoscenze generali dei tartrati e dei paratartrati. Stimo op- portuno ricordare esservi due acidi tartarici del tutto identici per la loro chimica composizione C*H°0*,H0, per le loro qualità chimiche, e per i caratteri geometri delle loro forme cristalline; e diversi in questo che i loro cristalli essendo emiedrici, uno di essi ha le facce emiedriche in un senso, l’altro le ha nel senso opposto ; e di più la soluzione di uno di essi fa deviare il piano di polarizzazione della luce a destra, la er Pa soluzione dell’ altro fa deviare il medesimo piano a sinistra, e son detti per questo acido destro tartarico e levo tartarico. Questi acidi combinati alle basi danno ì corrispontenti destro tartrati e levo tartrati, ancor essi eristallizzabili con forme emiedriche le une in senso inverso delle altre, e che hanno le medesime somiglianze nelle qualità chimiche e le mede- sime differenze nei caratteri fisici degli acidi rispettivi. I due acidi tar- tarici, prendendone egual parte per ciascuno, si uniscono in chimica combinazione, formando un composto detto acido paratartarico, assai meno solubile degli acidi tartarici, i cui cristalli contengono due pro- porzionali di acqua, C*H°0*,2H0; val quanto dire un equivalente di ac- qua più di quella contenuta nei cristalli di acido tartarico; e però sono di forma affatto diversa, e la loro soluzione non fa deviare il piano di polarizzazione della luce. Lo stesso acido paratartarico si combina alle basi formando i paratartrati, i quali talora hanno in tutto la stessa com- posizione chimica dei tartrati delle medesime basi, altre volte è diversa la proporzione dell’acqua. In tutti i casi poi i cristalli dei paratartrati hanno forme diverse da quelle dei cristalli dei corrispondenti tartrati, non sono mai emiedrici, e le loro soluzioni non fanno diviare il piano di polarizzazione della luce. Dietro queste conoscenze che già si avevano sulla natura dei tartrati e paratartrati, due principali cose è stato mio proponimento d’investigare; se cioè 1 destro tartrati ed i levo tartrati costituissero un particolare esem- pio di polisimmetria, e mi veniva in mente di sperimentare che cosa av- viene immergendo i cristalli dei levo tartrati nelle soluzioni cristalliz- zanti dei destro tartrati d’identica composizione chimica, e per converso immergendo i cristalli dei destro tartrati nelle soluzioni dei levo tartra- ti. Quando agli acidi levo e destro tartarico è facile intendere come essi non siano altro che particolari specie dei destro e levo tartrati le quali hanno per base un equivalente di acqua invece degli ossidi metallici, siccome apparisce paragonando la formola dei cristalli degli acidi tarta- rici, C4H°0°=C*H°0°,HO con la formola dei cristalli dei tartrati potas- sici C*H°Ka0°=C*H°0°,Ka0. L'altra cosa che mi sembrava dover essere investigata riguarda le re- lazioni tra le forme cristalline dei paratartrati e le forme cristalline dei levo e destro tartrati che hanno in tutto la medesima composizione chi- mica. Nelle ricerche di tal genere alcune specie di composti per essere pochissimo solubili nell’ acqua, altri per essere molto solubili mi han presentato tali difficoltà che fin ora non ho potuto superare. Per altre * —e- specie al contrario, ed in particolare peri tartrati acidi e per i paratar- trati acidi di potassa e di ammonio, C°H°Ka0"° e C*H"(AzH*)0"? ho. tro- vato i più importanti fatti che verrò esponendo in questa memoria , sì perchè i medesimi erano i meno prevedibili, e sì perchè mi sembrano contribuire non poco ad approfondire l’ argomento del quale ci occu- piamo. Levo e destro tartrato ammonico-sodico. Dalle soluzioni di pa- ratartrato ammonico-sodico è già risaputo che si depositano quantità eguali di cristalli di levo tartrato e di destro tartrato ammonico-sodico facili a distinguere per le loro diverse emiedrie. Questo almeno è ciò che succede d’ordinario; ma in particolari condizioni si generano pure cristalli di paratartrato ammonico-sodico, siccome farò conoscere in altro rincon- iro. Le soluzioni di paratartrato potassico-sodico danno similmente erì- stalli di levo e destro tartrato potassico-sodico nei quali la differenza per il carattere dell’emiedria non suol essere distinta. E però i sali ammo- nici assai meglio che ì sali potassici mi si offrivano idonei pel primo sag- gio che ho fatto della immersione dei cristalli dei tartrati nelle soluzioni di altri eristalli della medesima composizione chimica e con emiedria inversa. Questi esperimenti han dato esito ben diverso da quello che mi attendeva. Nella soluzione di seelti cristalli di destro tartrato ammonieo- sodico portata al punto da dover eristallizzare con lieve abbassamento di temperatura, avendo immerso alquanti grossi cristalli di levo tartrato ammonico-sodico, alcuni dei quali pesavano circa cinque grammi, in poco d'ora li ho veduto disciogliersi completamente. La medesima solu- zione che avrebbe dovuto eristallizzare fra poche ore se non vi avessi im- merso i cristalli di levo tartrato, è stata per circa due giorni esposta al- l’evaporazione spontanea senza dare cristalli; ed i primi cristalli che scorso questo tempo si sono depositati, siccome era da attendersi, sono stati della specie destrorsa. Mi era facile prevedere tra i risultamenti pos- sibili di questa esperienza che i cristalli immersi sarebbero rimasti senza ingrandirsi e che si sarebbero depositati a parte i cristalli di destro tar- trato disciolti nel liquore. Intanto per l’inopinato discioglimento dei cri- stalli immersi son giunto ad intendere che la mescolanza delle due spe- cie dei tartrati,ovvero il paratartrato ammonico-sodico, sia più solubile di ciascuno dei corrispondenti tartrati separatamente. E di più che per que- sta sua maggiore solubilità avviene che nelle soluzioni di paratartrato ammonico-sodico l’ acido paratartrico si scinde depositandosi i cristalli di levo e destro tartrato delle medesime basi che sono meno solubili. — 0 — Negli altri casi essendo i paratartrati meno solubili dei corrispondenti tartrati, non avviene la separazione degli acidi che costituiscono l’ aci- do paratartarico. Caratteri dei cristalli del levo e destro tartrato acido di potas- sa. | cristalli di destro tartrato acido potassico, cremore di tartaro delle farmacie, fig. 41, 2, come quelli di levo tartrato acido della medesima base, fig. 3, nei casi ordinarii presentano ben distinta l’ emiedria del rombottaedro n, che nella maniera rappresentata dalle figure costitui- sce il carattere cristallografico che serve a distinguere facilmente la pri- ma dalla seconda specie. Non dimeno le condizioni nelle quali essi si producono o s’ ingrandiscono apportano talvolta alcune differenze più o meno profonde nelle loro forme che importa di esaminare per meglio giudicare della importanza delle loro differenti emiedrie. Dal cremore di tartaro del commercio ho avuto assai spesso cristalli rozzamente terminati, e con certe irregolarità variabili non molto diver- se da quelle osservate nei eristalli ottenuti dalle soluzioni nelle quali al puro destro tartrato acido di potassa, aveva mescolato un pò di levo tartrato. Per la qual cosa mì sembra probabile ch’ esso non sia del tutto scevro di acido levo tartarico ovvero di paratartrato acido di potassa. Essendo molto difficile distinguere per il carattere dell’emiedria e sepa- rare i cristalli di destro tartrato potassico-sodico da quello di levo tar- trato delle medesime basi; per procurarmi sufficiente quantità del levo e destro tartrato acido di potassa puri, ho cominciato dal preparare il levo ed il destro tartrato di ammonio e soda che assai più facilmente pel carattere dell’emiedria sì possono riconoscere e separare. E così separati sì possono avere abbastanza puri prendendo ì primi cristalli di una seconda cristallizzazione. Quindi ho fatto bollire le soluzioni dei sali ammoniacali col carbonato di potassa sino a che aggiungendo no- vello carbonato potassico e prolungando l'ebollizione, non si è più avver- tito odore ammoniacale. Convertito così il levo ed il destro tartrato di ammonio e soda in levo e destro tartrato di potassa e soda, aggiungendo alle loro soluzioni dell’ acido nitrico, ho ottenuto depositati i tartrati acidi di potassa dei quali ho fatto uso nella maggior parte degli espe- rimenti di cui farò parola. I cristalli che si depositano dalle soluzioni dei tartrati acidi di po- tassa puri sono bislunghi nella direzione dell'asse è ch'è l’asse della zona delle facce A, C, fig. 1 a 3, e sono impiantati per una delle estre- mità del medesimo asse. Nei cristalli lentamente ingranditi l’ accresci- = mento è maggiore nel verso dell'asse c; talchè facendo ingrandire per evaporazione spontanea del liquore i cristalli bislunghi avuti per raffred- damento delle soluzioni calde e sature, in essi va man mano decrescendo la differenza tra la lunghezza nel senso dell'asse b e la larghezza nel senso dell'asse e. In qualunque modo prodotti o ingranditi, le facce A sono striate parallelamente agli spigoli AC, le facce e sono d’ordinario irre- golarmente convesse, e le altre facce sogliono essere nitide e piane. Nei cristalli del destro tartrato essendo più estese le facce del tetraedro n', n" di quelle dell’altro tetraedro n, n", e nei cristalli di levo tartrato essendo al contrario più grande il tetraedro n,n'", questa differenza è più mani- festa quando il loro ingrandimento procede con lentezza. La solubilità nell'acqua dei bitartrati potassici è di molto aumentata quando vi si aggiunge qualche acido minerale; e nei cristalli ottenuti dalle soluzioni con acido cloroidrico ho osservato per il destro tartrato che le facce del tetraedro maggiore n',n", fig. 1, e le facce /,l' sono striate parallela- mente agli spigoli n'/,n"/ mentre le facce n, n'" del tetraedro minore sono levigate. Nei cristalli poi del levo tartrato in conseguenza dell’in- verso caraltere di emiedria sono striate le facce del tetraedro n,n'", fig. 3, che in questo caso sono le maggiori. Una differenza molto notevole si osserva per i cristalli prodotti nelle soluzioni che contengono del citrato sodico; dappoichè essi invece di trovarsi impiantati per uno degli spigoli ove si congiungono le facce g anteriori con le facce g posteriori, ovvero per una delle estremità corri- spondenti all'asse d, si congiungono gli uni agli altri, o si attaccano alle pareti del cristallizzatoio per una delle facce C,C', e la loro maggiore lun- ghezza è nel verso dell'asse e. In essi poi interviene d’ ordinario che le facce g sono rampollanti, attaccandosi nel mezzo di esse altri minori cristalli sempre per un punto prossimo alle faccette C e divergenti dal cristallo maggiore in un piano paralello all’ asse e. La presenza del ci- trato sodico nelle soluzioni dei tartrati acidi potassici, produce in oltre ne’ cristalli che se ne ottengono una faccetta irregolarmente ondata nella parte superiore della faccia w', fig. 2, che nei cristalli di destro tartrato sì estende più verso n' ed in quelli di levo tartrato è più este- sa verso n. Quanto poi al rombottaedro n, negli esperimenti fatti col levo tartrato acido potassico ho avuto il tetraedro n, n" assai più grande dell’altro n',n", conforme alla sua specie di emiedria; ma per i cristalli di destro tartrato, avendo più volte su di essi ripetuti i saggi, le facce del rombottaedro non le ho trovate che di raro ed assai piccole. Non —= dimeno son sempre le faccette n',n" le sole che si presentano o almeno le più appariscenti. Dalle cose fin quì dichiarate si deduce che nei cristalli dei tartrati acidi di potassa, siano destrorsi ovvero sinistrorsì, il carattere della loro emiedria è costante, al contrario di ciò che vedremo per 1 tartrati acidi ammonici. Probabilmente per la presenza del levo tartrato nelle solu- zioni di destro tartrato, o pel caso inverso, questo carattere talvolta può mancare, siccome è avvenuto per i cristalli rappresentati nella figura 41 dei quali dovrò tener parola in prosieguo; nondimeno per la natura istessa di questo caso, esso non potrebbe addursi come eccezione alla regola generale. Metamorfismo scambievole tra i cristalli di levo e destro tar- trato acido potassico. (Quando nelle soluzioni di levo tartrato acido potassico s'immergono i cristalli di destro tartrato,e per converso quando i cristalli di levo tartrato s'immergono nelle soluzioni di destro tartrato, ben presto essi veggonsi superficialmente appannati. Questo appanna- mento deriva da due contrarie cagioni, dallo sciogliersi cioè nel liquore la parte superficiale dei cristalli immersi e dal depositarsi sulle facce dei medesimi cristalli, già cominciati a corrodersi, novelli cristalli mi- eroscopici con emiedria inversa. Osservando con lente d’ingrandimento i cristalli immersi qualche ora dopo la loro immersione si scorgerà ben distinto non solo la corrosione delle loro facce e la produzione dei no- velli cristallini, ma l’ordine preciso col quale questi vanno su quelli ad allogarsi. Più tardi progredendo il metamorfismo, tutti i suoi particolari saranno più facili ad osservarsi. Nella figura 36 ho rappresentato molto ingrandito un cristallo di levo tartrato acido potassico ventiquattr'ore dopo che era stalo immerso nella soluzione di destro tartrato acido delia medesima base. Il cristallo es- sendo rappresentato con le facce A perpendicolari al piano di proiezio- ne, come il cristallo della figura 2, sono situate di rimpetto all’ os- servatore le sue facce n', w'; &',l',C'. Intanto le facce n',u',n, come pure le facce g perpendicolari al piano di proiezione, sono profondamente cor- rese, e su di esse di tratto in tratto s'impiantano i novelli cristallini nei quali sì scorgono le faccette /,n', n ed altre specie di faccette omes- se per non offendere la chiarezza della figura, tutte esattamente paral- lele alle facce della medesima specie del cristallo primitivo. Delle facce A,K',l',C' del cristallo primitivo non apparisce più nulla, essendo esse del tutto ricoverte dai nuovi cristalli bislunghi le cui estremità spor- _—8—- gono prominenti ove raggiungono le facce g,n', u',n dello stesso crì- stallo primitivo. Continuando per lungo tempo l'ingrandimento dei no- velli cristallini essi finiscono col congiungersi insieme, fondendosi in un sol piano le loro faccette prima separate e tra loro parallele. Quindi è che tal fiata giungono a comporre così riuniti un cristallo intero nel quale non resta più alcun segno della sua origine per metamorfismo. Meglio si riesce a questo risultamento sciogliendo di tempo in tempo nei liquori cristallizzanti novelle quantità dei rispettivi tartrati acidi potassici. Fa duopo nondimeno considerare che la composizione della soluzione nella quale avviene il metamorfismo va continuamente variando; dap- poichè, togliendo ad esempio la soluzione di destro tertrato acido potas- sico, in essa, come progredisce l'esterna trasformazione dei cristalli di levo tartrato, che in parte almeno si sciolgono, avviene che da una parte di continuo si scema nel liquore la quantità del destro tartrato discioltu, e da un’altra va crescendo la quantità del levo tartrato som- ministrato dai cristalli immersi. Ne deriva dunque che trascorsi molti giorni la soluzione contiene gran copia di paratartrato acido potassico tanto più abbondante per quanto maggiore è stata la parte dei cristalli im- mersi ch'è rimasta disciolta. Avvengono allora particolari condizioni nella forma dei cristalli metamorfizzati che saranno esaminate quando si trat- terà dello scambievole metamorfismo tra i tartrati acidi di potassa ed il paratartrato acido potassico. L'andamento col quale procede la descritta trasformazione varia al- quanto secondo il grado di concentrazione e la temperatura delle solu- zioni. Per avere una regola nel fare le soluzioni con diverso grado di concentrazione, ho cominciato dal disciogliere a caldo i tartrati acidi potassici, e dopo un giorno da che le soluzioni per raffreddamento ave- vano depositato l'eccesso del sale disciolto col calore, le ho decantate e riscaldate sino alla diminuzione di circa un decimo o di un ventesimo secondo che voleva soluzioni più o meno concentrate. Finalmente abbas- satasi la temperatura del liquore a circa 45°, ho in esso immerso i cri- stalli preparati pel metamorfismo dei quali era stato determinato il peso. Dopo ventiquattr'ore ho trovato il metamorfismo progredito come nel cristallo rappresentato nella figura 36, e ripesati i cristalli ben pro- sciugati, il loro peso si è rinvenuto scemato, e maggiormente scemato nei cristalli immersi in soluzione meno concentrata. Rimessi i cristalli nelle soluzioni nuovamente concentrate come la prima volta, e trascorsi Ber Le due giornì ho trovato tutti i cristalli di peso maggiore del primitivo, e col maggiore aumento nei cristalli ingranditi nel liquore più concen- trato. A temperature più basse si scioglie meno dei cristalli immersi; ed avendo fatto l'esperimento con soluzioni tenute da due giorni alla tem- peratura dell'ambiente, ho trovato dopo cinque ore che i cristalli in esse tuffati, mentre manifestavano ben distinto il principiato metamorfismo, il loro peso era quasi eguale o alquanto superiore al peso primitivo. Con altri saggi nei quali alle soluzioni dei tartrati acidi di potassa aveva aggiunto un po'di acido nitrico, ho pure ottenuto assai debole lo sciogli- mento dei cristalli esposti al metamorfismo. Ho fatto questi esperimenti per conoscere nei diversi casi qual diffe- renza vi sia tra la quantità dei cristalli immersi che si solve nel liquore e la quantità del sale disciolto nel liquore che si deposita sopra i mede- simi cristalli immersi; essendo chiaro che l'aumento del peso primitivo dimostra la quantità dei cristallini depositati superare la quantità di- sciolta dei cristalli immersi, e la diminuzione in peso dimostrare il caso inverso. Quando poi i cristallini depositati dal metamorfismo giungono a con- giungersi completamente gli uni con gli altri, la soluzione non può eser- citare più alcuna azione dissolvente sopra i cristalli primitivi. Egli è però che, secondo la maniera come ha proceduto il metamorfismo, nel centro del cristallo giunto a completa trasformazione vi è quasi sempre una parte più o meno grande del cristallo primitivo di specie diversa. Levo e destro tartrato acido ammonico ; emiedria variabile dei loro cristalli. I tartrati acidi di ammonio presentano forme cri- stalline variabilissime, anche pel carattere dell’emiedria che nei tartrati suol essere costante. Il bitartrato ammonico ordinario, che corrisponde al destro tartrato acido, con moltissimi saggi sperimentato, l’ho trovato in tante guise mutare la forma dei suoi cristalli, che sarebbe oltre modo fastidioso, e forse di nessuna utilità, il riferirne tutti i particolari. Son rimasto poi maggiormente scoraggiato nel cercare la cagione di tante differenze, dal perchè assai spesso da due o più esperimenti, ripetuti per quanto mì è stato possibile con le medesime condizioni, d’ordinario ho avuto forme cristalline le une dalle altre diverse; ed anche dissimi- glianze non lievi ho trovato talvolta nei cristalli che si sono contempo- raneamente prodotti nella medesima soluzione. Il levo tartrato acido ammonico sul quale ho pure eseguito non pochi saggi, mi ha presen- tato quasi le medesime variazioni del destro tartrato; talchè tra l’uno e Atti — Vol. II.— N09. 2 — (0 = altro non parmi vi sia alcuna differenza per questo riguardo. Riferirò © intanto per la parte che può servire all'argomento di questa memoria i fatti che, quantunque variabili, reputo importanti ad essere conosciuti. Due principali condizioni trovo meritare la nostra attenzione nei cri- stalli di bitartrato ammonieo. In prima essi spesso non presentano al- eun segno di emiedria nella estensione delle facce #, #', fig. 4,2; ed in secondo luogo quando avviene che sono distintamente emiedricì, tal- volta nel medesimo destro tartrato sì appalesa l’ emiedria destrorsa , fig. 4,2, come nel bitartrato ordinario di potassa, altre volte al con- trario si manifesta l’emiedria sinistrorsa, fig. 3, come nel levo tartrato acido di potassa. La prima di queste condizioni non ha nulla di straor- dinario, essendo comune in quasi tutte le sostanze ehe cristallizzano con forme emiedriche il trovare non di raro i loro cristalli col carattere della emiedria poeo distinto o per nulla riconoscibile. La seconda condizione di presentare la medesima sostanza le due emiedrie contrarie è al certo straordinaria, e tanto più maravigliosa che non sempre sì può regolare la produzione dei cristalli in modo da avere con certezza l’una o l’altra specie di emiedria. I cristalli depositati da soluzioni assai sature e calde, prima che que- ste raggiungessero la temperatura dell’ambiente, sogliono essere lunghis- simi nel verso dell’ asse d e con le facce n’, fig. 1, maggiori delle n, val quanto dire con la emiedria destrorsa. Se la soluzione, essendo me- no satura, la cristallizzazione avviene meno rapidamente, ed anche pri- ma che il liquore raggiunga la temperatura dell’ ambiente, il rombot- taedro n,n' non suole offrire distinta emiedria. In tal caso essendo i cristalli impiantati per un punto prossimo ad uno degli estremi dell’as- se d, delle quattro facce a che dovrebbero terminare } estremità libera se ne rinviene una soltanto, fig. 20, ovvero due che s’incontrano con la medesima faccia 9, come le faccette n, n’ della figura 1; e sia l’unica faccetta o le due facce apparenti della piramide terminale son quelle che più esattamente si trovano di rincontro al punto di attacco del cristallo. Quasi nelle medesime condizioni ho spesso avuto cristalli terminati in due punte , ed allora sono molto estese le facce » che s'incontrano con angolo rientrante nel mezzo della biforcatura, essendo al contrario piccolissime o del tutto mancanti quelle che sono all’esterno. Un esempio di tal maniera di configurazione, essa stessa molto variabile, vedesi dise- gnata nella figura 19. Nei cristalli poi anche generati in soluzioni discreta- mente sature, ma poggiati sul fondo del cristallizzatoio per una delle —l1 A, fig. 21, ho trovato d’ordinario più estese le quattro facce » inferiori, quelle cioè che toccano il fondo del cristallizzatoio. Il cristallo che ha servito di modello alla figura 21 offriva la faccia A superiore poliedrica, formata da quattro faccette a,a',a",a'"" che s' incontrano con angoli oltusissimi; la qual cosa è piuttosto rara, essendo abbitualmente le fac- ce A striate nel verso degli spigoli AC. Da questi esempii nei quali le faccetle del rombottaedro n non ubbidiscono ad alcuna legge di emiedria, sì scorge pure come la loro maggiore estensione dipende altresì dal pun- to di attacco del cristallo, o dal trovarsi esse di rincontro ad altre facce della medesima specie con le quali formano angoli diedri rientranti. Nei cristalli solitarii che si depositano lentamente nelle soluzioni di puro bitartrato ammonico, o di bitartrato ammonico con eccesso di acido tartarico, ho avuto nitidissimi cristalli talora senza alcun segno di emie- dria, altre volte distintamente emiedrici, ma in alcuni casi con emiedria destrorsa ed in altri casi con emiedria simfistrorsa. Spesso ho pure osser- vato in queste lente cristallizzazioni che insieme ai nitidi cristalli e tra- sparenti con emiedria sinistrorsa se ne sono generati alcuni più grossi al- quanto appannati e senza alcun segno di emiedria. Concentrate alquanto senza nulla aggiungere le diverse soluzioni nelle quali si era prodotta cia- scuna di queste maniere di cristalli, e tramutati in esse i cristalli da prima depositati, questi han continuato ad ingrandirsi per più giorni senza che fosse punto cambiata la loro forma. Ma se nelle soluzioni che ave- vano dato cristalli con emiedria sinistrorsa ho immerso altri cristalli destrorsi, questi ingrandendosi si sono mutati in cristalli sinistrorsi. Talvolta oltre il rombottaedro n, n' ho pure rinvenuto il tetraedro m',m'",fig.4,5, stando sempre nel bitartrato ammonico ordinario soltanto le facce m',m" dalla parte delle n', n". Ho osservato le facce m' in alcuni grossi cristalli generati lentamente in una soluzione di cloruro ammonico con grande eccesso di acido tartarico, il quale era stato precedente- mente adoperato a preparare il tetratartrato di stronziana, e per conse- guenza conteneva un pò di stronziana. Nei medesimi cristalli era pure notevole che mentre le facce n', n" non differivano per grandezza dalle n,n'"', se ne distinguevano per essere curvale presso gli spigoli n'%, n/, n'C', quasi su questi spigoli vi fossero tre particolari specie di faccette. Ho altresì osservato le faccette m', senza che vi fossero nè le n, nè le n' nei cristalli generati in soluzioni che contenevano gran copia di tartrato neutro di soda. In queste stesse soluzioni avendo immerso alquanti cristalli che avevano le faccette n maggiori delle n', ho trovato dopo due Pa E giorni che le facce n erano scomparse, restando nel luogo da esse occu- pato una cavità dal fondo della quale sporgevano molti angoli triedri formati dalle facce g, 2, A, talchè queste faccette più volte si ripetevano con angoli diedri ora prominenti ed ora rientranti. Erano pure scom- parse o divenute piccolissime le facce n' per dar luogo alle nuove facce m'. Nella figura 28 vedesi disegnata metà di un cristallo in tal guisa mutato, e nella figura 24 ho rappresentato molto ingrandita la cavità prodottasi nel luogo occupato dalla faccia n. Tutti i particolari finquì esposti servono a dimostrare quanto sia va- riabile il carattere della emiedria nei cristalli dei tartrati acidi ammo- nici; e siccome ho innanzi accennato, gli esperimenti dai quali ho avu- to un particolare risultamento, spesso ripetuti con le medesime condi- zioni han sortito effetto diverso. Intanto vi è stato un caso che reputo più degli altri importante offertomi dai cristalli depositati nelle soluzioni con citrato sodico che sono sempre con emiedria sinistorsa se apparlen- gono al destro tartrato e con emiedria destrorsa se appartengono al levo tartrato. Ho due volte ripetuto i saggi col destro tartrato e due col levo tartrato, mescolando nei primi esperimenti grm. 60 di destro o levo tartrate am- monico-sodico con grm. 24 di acido citrico; e nel ripetere gli esperi- menti, alla medesima quantità dei tartrati doppii ho aggiunto grm. 48 di acido citrico. Con queste proporzioni sì ha per i primi esperimenti che i tartrati acidi ammonici sì trovano mescolati col citrato sodico della formola C°H*Na0' (a) e nei secondi esperimenti sono uniti con l’al- tro citrato della formola C'*H"Na0'"° (b). Nei cristalli ottenuti con queste mescolanze si è pure verificata la loro particolare maniera d’impian- tarsi con una delle estremità corrispondenti alle facce C, C', fig. 18, es- sendo essi bislunghi nel verso dell’ asse c, siccome ho fatto innanzi av- vertire per i tartrali acidi di potassa avuti nelle medesime condizioni. Intanto, come scorgesi nella figura 18 che rappresenta un cristallo di levo tartrato acido ammonico generato e lasciato per più giorni ingran- dire nella soluzione con citrato di soda, le facce del tetraedro n',n"sono maggiori delle altre #,#', val quanto dire che ci ha la medesima spe- cie di emiedria che contradistingue i cristalli di destro tartrato acido potassico. Nei cristalli di destro tartrato acido ammonico ho sempre os- servato l’ emiedria inversa. (a) Sale acido bimetallico, —€*2 H5Na?034+-2 aq. Gerhardt. (h) Sale acido monomettalico, C*° H7 Na0"? +2 aq. Gerhardt. è o Di più avendo immerso nelle soluzioni di ciascuna delle due specie di tartrati contenenti citrato sodico i cristalli delle corrispondenti spe- cie di tartrato acido ammonico depositali da soluzioni pure, nei quali era distinta la maggiore estensione delle facce n', n” per il destro tartrato, e delle facce n, n" per il levo tartrato, in meno di tre giorni ho trovato questo carattere invertito, essendo divenuto nel destro tartrato maggiori le facce n,n"" e nel levo tartrato maggiori le facce n',n". Nei medesimi cristalli ottenuti dalle soluzioni dei tartrali acidi am- monici col citrato di soda, tra gli spigoli formati dalle n, n'anteriori con le facce che ad esse corrispondono posteriormente, e lo spigolo formato da g anteriore con g posteriore vi sono alcune faccette @,2' in vario modo ondate e rugose, e per queste faccette si verifica pure, che esse sì estendono maggiormente dalla parte di n',n" che di n, n'" nei cristalli di levo tartrato, e si estendono in senso inverso nei cristalli di destro tartrato. Le facce #, x' che sono certamente della medesima specie delle x, fig. 41, che in seguito dovrò menzionare in una particolare varietà di tartrato acido potassico, talvolta sono assai grandi; in guisa da fare scomparire le facce n,n' con le quali sembrano confondersi, ed allora apparisce manifesto che sono uscite dalla zona C', u', due di esse 2’, @" piegando verso A e le altre due 2," piegando dalla parte opposta verso A posteriore. Per i cristalli di destro tartrato acido ammonico avviene il caso inverso che piegano verso A anteriore le facce #, 2". Per l’azione manifestata sulle forme cristalline dei tartrati acidi am- monici dal citrato sodico disciolto nelle loro soluzioni, ho ricercato se al- tri citrati producessero il medesimo effetto, ed ho eseguito diversi saggi col citrato ammonico. Quindi ho mescolato in diverse proporzioni le so- luzioni del tartrato neutro ordinario di ammonio con la soluzione di acido citrico, e nei cristalli di bitartrato ammonico così ottenuti ho pure veri- ficato il loro particolar modo d’impiantarsi con una delle facce C, C'e la presenza delle facce ondate 2, /, fig. 25, molto estese; ma non ho più ravvisato in essi l’emiedria invertita. Ho intanto rinvenuto altre qualità che reputo meritevoli di distinta menzione. D’ordinario i cristalli che si hanno dalle soluzioni discretamente concentrate sono riuniti in gruppi raggiati congiungendosi per le estremità C, C', ed in ciascun gruppo si distingue un cristallo più grande degli altri, ed al quale gli altri si attac- cano, impiantandosi nel mezzo delle facce g, fig. 25. Questa disposizione non sempre distinta per l’affollarsi dei cristallini, lho rinvenuta spesso talmente ben definita da farmi credere che non avvenga diversamente nei mic -—- gruppi ove i cristalli sono con qualche confusione disposti. E mi con- forta in questa opinione l’altro fatto che, avendo immerso nelle soluzioni - calde discretamente concentrate alquanti cristalli isolati della forma rap- presentata dalla figura 25,dopo qualche tempo, mentre i cristalli immersi si sono ingranditi, nel mezzo delle facce g si sono generati altri minori cristalli divergenti in tanto maggior numero per quanto più la soluzione era concentrata. Le soluzioni che han cominciato dal dare cristalli riuniti in gruppi, spesso continuando a produrre nuovi cristalli, ve ne sono stati alcuni solitarii che han continuato ad ingrandirsi senza divenire rampollanti; ed oltre la forma più frequente, ch'è quella rappresentata dalla figura 25 con le facce #,' più estese c terminanti in punte acute nelle estremità opposte (,0', ho pure avuto altre forme del tutto diverse. In una cristal- lizzazione nella quale mi è riuscito di avere molti cristalli isolati erano gli uni dagli altri diversi secondo le forme che si veggono disegnate nelle figure 22, 25 e 26. L’ultima di queste forme , fig. 26, è più notevole delle altre per la grande differenza tra la metà corrispondente alla fac- cia C e l’altra metà opposta di più rapido ingrandimento corrisponden- te a C'. In essa si manifesta chiaramente una emiedria indeterminata; e quando la sì mette a riscontro delle forme figurate nei numeri 22 e 25, sembra per Jo meno molto probabile che il cristallo della figura 22 derivi dall'unione di due cristalli come quelli della figura 26 congiunti per le facce C', ed al contrario i cristalli come quello che ha servito di modello alla figura 25 nascano-dall’ unione di due cristalli della medesima figu- ra 26, ma congiunti per le facce C. E questa maniera di considerare i cri- stalli rappresentati dalle figure 22 e 25 sembrami confermata dal partico- lar carattere delle facce g le quali, essendo poliedriche, nei cristalli della figura 22 si manifesta la loro poliedria per essere nel mezzo depresse, ed in quelli della figura 25 sono nel mezzo prominenti. Metamorfismo scambievole tra i cristalli di levo e destro tar- trato acido ammonico. Il metamorfismo tra i eristalli di specie diverse dei tartrati acidi ammonici presenta qualche differenza paragonandolo allo stesso fenomeno tra gli analoghi sali di potassa. Dappoichè immer- gendo i cristalli di destro tartrato acido ammonico nella soluzione di puro levo tartrato, o nel caso inverso, non ho mai potuto riconosce- re in essi alcuna diminuzione di peso per effetto della già cominciata strasformazione. La qual cosa dimostra che o niente affatto dei cristalli immersi sì discioglie nel liquore di specie diversa, o se pure qualche par- I? | ee = te se ne solve, essa è al certo piccolissima. Usando negli esperimenti cristalli nitidissimi e trasparenti, nell'atto della immersione essì si ap- pannano superficialmente, ed il loro appannarsi succede con tanta rapi- dità che in meno di due secondi ho veduto affatto dileguarsi la loro trasparenza, sia facendo l'esperimento con soluzioni alquanto concentrate alla temperatura di qualche grado superiore a 40°, sia immergendoli in soluzioni che da più di ventiquattr'ore avevano depositato cristalli alla temperatura dell’ ambiente di poco superiore a 20°. Il deposito poi dei cristallini di specie diversa peri sali ammonici avviene assai più rapido che per le corrispondenti specie a base di potassa. Tre grossi cristalli di destro tartrato acido ammonico del peso grm. 1,502 cinque ore dopo essere stati tuffati in soluzione di levo tartrato discretamente satura a 42° pesarono grm. 1,687 (aumento 12, 32 per cento); sette cristalli del peso gem. 0, 729 tuffati in altra soluzione somigliante alla precedente, dopo venti ore li ho trovato pesare grm. 2, 036 ( aumento 179, 29 per cento); tre cristalli del peso grm.0,474 tuffati in soluzione che da circa venti ore depositava cristalli alla temperatura variabile tra 21°,2 e 22°, 1 dopo due ore pesarono grm. 0, 551 (aumento 8, 93 per cento). Quan- tunque assai breve il tempo del metamorfismo in quest'ultimo saggio, pure i cristallini prominenti sulle facce dei cristalli primitivi erano ben distinti, tranne sulle facce che poggiavano sul fondo del cristallizzatoio. Queste facce bagnate da pochissimo liquore in tutti i cristalli dei riferiti esperimenti non mi han presentato alcun segno di corrosione che aves- se potuto farmi supporre l’azione dissolvente del liquore su di esse ; e mi è sembrato, guardandole con lente d’ ingrandimento, che fossero quasi inverniciate di tenuissima patina cristallina. L’ingrandimento dei cristalli dei tartrati acidi ammonici nelle solu- zioni di specie diversa mi si è presentato in parità di circostanze mani- festamente eguale o anche più rapido del loro ingrandimento nelle solu- zioni della medesima specie. Nondimeno per avere maggior certezza di questo fatto ho immerso nella medesima soluzione di levo tartrato acido ammonico quattro cristalli di destro tartrato del peso gem. 0,382 e quat- tro cristalli di levo tartrato del peso grm. 0,319. Trascorse quatte’ ore ho estratto i cristalli, li ho prosciugati e pesati. I primi pesavano grm. 0,402 (aumento 5,23 per cento) ed i secondi pesavano gem. 0,335 (au- mento 5,02). In un secondo esperimento fatto con soluzione alquanto più concentrata ho adoperato quattro cristalli di destro tartrato del peso grm. 0,380, ed i medesimi quattro cristalli di levo tartrato del saggio pre- — 16 — cedente di grm. 0,335. Dopo cinque ore i primi pesavano grm. 0, 405 (aumento 6, 58 per cento) ed i secondi pesavano grm. 0, 354 (aumento ©, 67 per cento). Il metamorfismo poi tra i cristalli dei sali ammonici avviene essen- zialmente come per quelli di potassa. Allo stesso modo i nuovi cristal- lini bislunghi ricuoprono le facce A, #,,C, fig. 1, parallele all'asse d, e vengon fuori prominenti sulle facce g,n',u' convergenti verso il mede- simo asse d. Ma sulle facce g, n', u' non si mostrano isolati, siccome lì dimostra la figura 36 che rappresenta un cristallo di levo tartrato acido potassico. Essi sono invece strettamente congiunti insieme sin dal prin- cipio del metamorfismo, formando uno strato continuo con superficie in- terrotta da minutissime e frequenti cavità prodotte dal rinvenirsi sulla faccia n' del cristallo primitivo non solo le faccette n' dei novelli cri- stallini, ma anche le loro faccette g,u',n che si ripetono con angoli rien- tranti; ela medesima cosa interviene sulle facce n del cristallo primitivo. Comparazione tra i cristalli dei tartrati acidi di potassa e di ammonio con quelli dei paratartrati acidi delle medesime basi. Nelle figure 1 a 5 ho rappresentato le forme dei cristalli dei tartrati acidi di potassa e di ammonio che si riferiscono al sistema trimetrico ortogonale, nè in essi ho osservato altre specie di facce all'infuori di quelle indicate nelle medesime figure e le facce @ della figura 18. I cri- stalli del paratarfrato acido ammonico o potassico sono monoclini, e so- gliono variare per la presenza o mancanza di alcune specie di facce. Nelle figure 6.e 7 ho rappresentato una delle forme più frequenti del paratartrato acido ammonico, nella figura 6 con la faccia A parallela al piano di proiezione e nella figura 7 con la medesima faccia perpendico- lare al piano di proiezione. Le figure 8 e 9, situate come le due prece- denti, rappresentano una varietà dei cristalli di paratartrato acido potas- sico, e le figure 10 ed 11 un’ altra varietà della medesima specie con le facce £ perpendicolari o parallele al piano di proiezione. Nella figura 12 è disegnato un cristallo gemino con l’asse di rivoluzione perpendico- lare ad A; ed i casi di geminazione sono alquanto rari sì nel sale di po- tassa che in quello di ammonio. Nel tutto insieme delle loro forme non si scorge alcuna relazione tra i cristalli monoclini dei paratartrati con i cristalli ortogonali dei tartrati; ma sì negli uni che negli altri vi è clivaggio nitidissimo paral- lelo alle facce C, ed una seconda direzione di clivaggio ad angolo retto co] primo e di esso meno nitido si scuopre parallelo alle facce A. Di più ; è tei — 17 — le faccette i, %,/,0 comprese nella zona AC fanno con A quasi gli stessi angoli sì nei cristalli dei tartrati che in quelli dei paratartrati. Quando poi si viene a paragonare le inclinazioni su di A delle facce comprese nella zona Aeg dei tartrati con le inclinazioni delle facce comprese nell’a- naloga zona Adf8h dei paratartrati non si scorge più alcuna relazione; come pure non sono comparabili le inclinazioni delle facce delle altre zone Am'n'u' dei tartrati ed Apgrs dei paratartrati. Ciò apparirà manifesto volgendo lo sguardo alle seguenti misure goniometriche. Paratartrato acido |; T_T potassico | ammonico A sopra d =| 4148°18' |x147°341' pn iù 440 10 | 138 35 » 8 =| 411618] 11433 » h=| 4101 52 |x102 21 nia 1455044 | -104:42 veli — ASA ALL 6 » l —=| 125 48 | 12434 o'=|. 409.50 | 109. 4 130 37 | 129 22 *123 12 | 122 36 #109 28 | 108 41 98 33 98 53 Il Il Do io daddi CS R d po» p=| 411555) 11428 q q 4108 26 | 107 42 r » a =lk 9734] 96 32 92 34 |x 92 28 9120] 9 8 n] Ss » (Ap) » (Ap’) Paratartrato acido potassico a:b:c=1:0,6346:0,6455 III Paratartrato acido ammonico a:b:e=41:0,6156 : 0,6267 Simboli delle facce; A 100; C 004; 3 010; d4 310; f110; 1110 13041; # 204; 1104; 0102; p 111; q2141;r 014; s 4114. Atti— Vol. II — N.0 9. Tartrato acido 7 __s__T_T potassico lalrimamizo A sopra e =| 145° 6’| 144°45' A». 9g =| 125.98 | 124.47 Alia 55: 400.7154648 Aes ki 445 DI AAT de e — | 42024 425 19 P: SRO A 134 46 dia alano =; (F14/-42. 416.23 » U == 90 0 90 0 Mis ni ia — 120 22 nn n —=|X103 22 (102 48 (An)» (An)=| 9136] 91 6 Tartrato acido potassico cabzeo=10;7468%:0;7373 Tartrato acido ammonico a:b:c=1:0,6946 : 0,7085 Simboli delle facce; A 100; C 001; e 210;9 1410; 301; k 201; 14104; 011; m 2141; n 114. Co Malgrado queste differenze, si troverà una relazione più intima tra i eri- stalli ortogonali ed i monoclini calcolando le inclinazioni dello spigolo Ap sopra Ap' nei paralartrati, e di An sopra, An' nei tartrati, le quali in- clinazioni riportate nel precedente quadro sono assai prossimamente eguali. Egli è però che i piani delle quattro zone Aik/oC, Adf#h, Apg'rs', Ap'qr's, in cui si comprendono tutte le facce dei cristalli monoclini dei paratartrati, hanno tra loro le medesime inclinazioni che si rinvengono tra i piani delle quattro zone Aik/C, Aeg, Amnu, Am'n'u' che abbracciano tutte le facce dei cristalli ortogonali dei tartrati. Confrontando dunque l’uno con l’altro i due tipi di forme, si deduce che nel tipo monoclino dei paratartrati, conservandosi tra gli assi c ed a e tra gli assi c e d le medesime condizioni del tipo ortogonale dei tar- trati, sì sono mutate soltanto le condizioni tra gli assi a e d. Di questo mutamento non è facile definire il carattere fisico che per ora sfugge alle nostre ricerche. Osserviamo soltanto nella forma dei cristalli la differenza del carattere geometrico che deriva dalla differenza del carat- tere fisico, e che potrà guidarci a conoscere la vera natura di tal diffe- renza; ma per ora non veggo chiaro come vi si possa pervenire. Le riferite considerazioni sulle zone dei due tipi di forme mi han por- tato a ricercare se ì cristalli monoclini dei paratartrati potessero consi- derarsìi come ortogonali emiedrici, dotati cioè della stessa specie di emiedria che osserviamo nei cristalli di datolite o in quelli del secondo e terzo tipo della Humite. Ed ho voluto in pari tempo ricercare quale relazione si rinvenga tra i cristalli dei paratartrati riferiti al sistema or- togonale ed i cristalli ortogonali dei tartrati. Avendo quindi eseguito il calcolo sopra i cristalli di paratartrato acido potassico, ritenendo l’incli- nazione di A sopra £=116°18', sono giunto a questi risultamenti. Cristalli di paratartrato acido potassico Angoli calcolati riportando Angoli calcolati riportando i cristalli al sistema ortogonale i cristalli al sistema monoclino — Arsopra d=p.0-; duna. = 448122! 1148048! +A » f=Asopra(pp’)=140 12 || —140 10 a ap RI =A » (qq')=132 33 | —132 27 +A » A=A n (re’)=41648| —4116 48 ) —A » hR=4A » (‘88° 401 97 || — 401 92 + Be Cristalli dei tartrati acidi di potassa Angoli calcolati con A sopra 5=116°18'|| Angoli del quadro precedente 6/ A sopra e= A sopra (mm') =144° 42’ Ai i ginicogina’.) 125,44 (a Il | — Come si scorge ragguagliando i valori angolari dei cristalli di para- tartrato calcolati secondo il sistema ortogonale con quelli calcolati se- condo il sistema monoclino, la differenza è piccolissima, non maggiore di sei minuti e molto minore di quella che risulta dalle misure dirette sopra cristalli le cui faccette sono sempre più o meno poliedriche. Per il tartrato la differenza tra gli angoli calcolati secondo le misure dirette prese sopra i suoi cristalli e gli angoli calcolati sulle misure prese so- pra i cristalli di paratartrato giunge a ventiquattro minuti; la qual dif- ferenza non è gran cosa ove si consideri che nei due tipi di forma la diversa poliedria delle facce derivante dalla diversa simmetria delle for- me basta a dar ragione di questa o di maggiori differenze. Non dimeno quando si tien conto dei rapporti di lunghezza tra gli assi a e d che sono stati adottati per ciascuna specie di faccia nel riferito calcolo, fa d’uopo convenire esservi qualche cosa di complicato e di strano. Dappoichè ri- tenendo l’asse a invariabile per tutte le faccette, sì dei cristalli del tar- trato che del paratartrato , l’ asse è si trova variare nelle seguenti pro- porzioni secondo le facce alle quali si riferisce : hos —2b= 3 Beseraza dI pausa >. bg nei cristalli di qa —”»=13 ( paratartrato acido potassico fop —»=17 d —nv=23 gon —n=10 nei cristalli dei e om »=90 f tartrati acidi potassici Lasciando altre considerazioni che potrei aggiungere sulle forme cri- stalline dei tartrati acidi e dei paratartrati acidi di ammonio e di potassa, passerò ad esaminare il diverso grado di solubilità di questi sali che fa =— 20 = d’ uopo conoscere per quel che più tardi dovrò esporre sul loro meta- morfismo scambievole. In molti esperimenti eseguili su di essi, importan- domi conoscere la quantità dei sali contenuta nelle soluzioni, ho deter- minato il peso del sale disciolto in acqua bollente, e dopo qualche giorno che le soluzioni erano state esposte alla temperatura dell’ aria ambien- te, ho pesato i cristalli depositati e determinato altresì il volume del liquore; talchè mi è stato facile conoscere la quantità del sale disciol- to in un centimetro cubo dello stesso liquore. Intanto i risultamenti di questi saggi, per ragioni facili ad intendersi, spesso mi han presentato notevoli differenze. Soltanto ho potuto conchiudere che il paratartrato acido ed i tartrati acidi di potassa, essendo pochissimo solubili, il primo è di poco meno solubile degli altri; che il paratartrato acido ammonico è più solubile del sale potassico, e che in fine i tartrati acidi ammonici sono assai più solubili del paratartrato acido della medesima base. Per determinare con maggior precisione il loro grado di solubilità ho pol- verizzato i cristalli puri, e tenuta in digestione la loro polvere in acqua stillata per circa sei ore, agitando spesso la mescolanza. Quindi ho preso una quantità determinata della soluzione limpida che ho fatto evaporare a circa 60°, e poi ho pesato il residuo ben secco nello stesso bicchiere in cui ho fatto l’evaporazione. Essendo la temperatura delle soluzioni eguale a 28°,4 ho avuto da grm. 18,200 della soluzione di paratartrato acido potassico grm. 0,127 di residuo; da grm. 20, 3755 della soluzione di levo tartrato acido potassico grm. 0,149 di residuo; da grm. 21,454 della soluzione di destro tartrato acido potassico grm. 0,156 di residuo; da grm. 21,873 della soluzione del paratartrato acido ammonico grm. 0,234 di residuo; e da grm. 18,656 di levo tartrato acido ammonico grm. 0,617 di residuo. Quindi si deduce per la riferita temperatura Il paratartrato acido potassico solubile in 142 parti di acqua Il levo tartrato acido potassico —_ 196 —_ Il destro tartrato acido potassico — — 136,5 _ Il paratartrato acido ammonico —_ 92,9 _ Il levo tartrato acido ammonico — 929,2 — Ripetuta la pruova alla temperatura di 15°,8 ho avuto per i residui delle diverse soluzioni grm. 0,078 da grm. 18,437 della soluzione di pa- ratartralo acido potassico; grm. 0,099 da grm. 22,080 della soluzione di destro tartrato acido potassico; grm. 0,148 da grm. 22,758 della solu- li. ce. dee zione di paratartrato acido ammonico, e grm. 0,423 da grm.19,004 della soluzione di destro tartrato acido ammonico. Quindi alla temperatura di circa 15° Il paratartrato acido potassico è solubile in 236,37 parti di acqua H destro tartrato acido potassico — 293,03 - I} paratartrato acido ammonico —_ 1031 —_ Il destro tartrato acido ammonico —_ 44,93 _ Cristalli di paratartrato acido potassico metamorfizzato in levo e destro tartrato acido potassico. La trasformazione dei cri- stalli di paratartrato acido potassico in levo e destro tartrato acido della medesima base succede con ammirevole precisione e chiarezza; e con tutti i particolari allo stesso modo, sia che i ciristalli di paratartrato siano tuffati nelle soluzioni di levo tartrato, ovvero di destro tartrato acido po- tassico; se non che i cristallini che sulle loro superficie s'impiantano of- frono distinta l’una o l’altra specie di emiedria secondo la natura diversa della soluzione. Nella figura 31 vedesi disegnato un cristallo di paratar- trato acido potassico diciassette ore dopo essere stato immerso in solu- zione di destro tartrato. Il cristallo primitivo presentava le facce A, #, r, fig. 11, assai grandi e molto piccole le facce p,g, h; e tutte queste facce sono scomparse, perchè la soluzione mentre deposita i nuovi cristalli- ni, come in molti altri casi, discioglie i cristalli di specie diversa in essa immersi. Quanto poi ai nuovi cristallini, essi s'impiantano su qualun- que specie di faccia del cristallo primitivo, tutte le loro facce A,C si dispongono esattamente parallele alle facce A,C di questo, e sono più 0 meno bislunghi nel verso dell’asse e. Nei diversi saggi fatti sulla trasfor- mazione del paratartrato acido potassico, quando i cristalli co’ quali ho fatto l’esperimento sono stati piccoli, ho talvolta osservato che prima di saldarsi insieme i nuovi cristallini del tartrato, essendosi del tutto di- sciolto il cristallo di paratartrato sul quale essi aderivano, sono rimasti gli unì dagli altri separati. D'ordinario poi essi han finito per congiun- gersì tutti insieme sino a formare, prolungato l'ingrandimento, un solo cristallo con facce continue, che racchiude nel mezzo come nocciolo, la parte non disciolta del cristallo primitivo. Per avere un saggio del come procede lo sciogliersi dei cristalli di para- tartrato ed il depositarsi dei nuovi cristallini dei tartrati, basta fare atten- zone ai seguenti risultamenti ottenuti con cristalli di diversa grandezza. —i da dopo 17 ore diminuzione soluzione di 1°, 44 piccoli cristalli grm.0,249 —grm.0,211 —45,26 per 100 levo tartrato | 2°, 40 cristalli piùgrossi » 41,9959— » 1,127— 7,24 » soluzione di 40. 14 piccoli cristalli ”» TI » 0,224 —22,65 ” destro tartrato | 2°, 10 cristalli piùgrossi » 0,924— » 0,834— 9,74» Concentrate alquanto le soluzioni, ho in esse immerso ì medesimi criì- stalli nei quali era cominciato il metamorfismo, e vi ho aggiunto altri cri- stalli novelli di paratartrato. dopo 13 ore aumento __——. {1°,44cristallini precedenti grm.0,211 —grm.0,223 —5,69 per 100 soluzione di 79° 40 cristalli precedenti » 4,127— » 4,202—6,65 » 3°, 415 nuovi cristallini n 0,263 » 0,262— —_—— (1°,44cristallini precedenti » 0,221— » 0,234—5,88. » Ri 2°,40 cristalli precedenti » 0,834— » 0,880—5,50 » 3°, 15 nuovi cristallini n ‘0;262-— »°0,2959— Per 1 risultamenti di questi saggi apparisce chiaro che il paratartrato acido potassico si solve nelle soluzioni, quantunque sature, dei tartrati acidi della medesima base; o ciò che vale lo stesso, che una determinata quantità di acqua che a temperatura stabilita non potrebbe disciogliere maggiore quantità di ciascuna specie di tartrato, può disciogliere il pa- ratartrato. Se così non fosse, non avrebbesi potuto avere diminuzione di peso nei cristalli diciassette ore dopo essere stati esposti a trasformarsi. E tale diminuzione è da reputarsi ancora di maggiore importanza di quel che a prima giunta sembrano dimostrare le cifre. Dappoichè le soluzioni adoperate in queste esperienze erano in origine cristallizzanti, e però sa- ture alla temperatura dell'ambiente; e prima di rimettervi i cristalli dì paratartrato sono state riscaldate sino all'ebolizione, e la immersione dei cristalli si è fatta quando la loro temperatura si è abbassata a circa 40°. Quindi per la evaporaziene sofferta esse si trovavano avere maggior copia dei tartrati di quanta alle basse temperature dell'ambiente potevano con- tener disciolta. Quanto alla proporzione con la quale si scema il peso dei cristalli im- mersì, essa sì scorge maggiore nei cristalli più piccoli, dappoichè que- sti a peso eguale hanno superficie molto più estesa dei cristalli di mag- gior grandezza. Nei cristalli poi n. 3 immersi per la prima volta nella seconda esperienza, la diminuzione in peso è piccolissima e quasi nul- la, perchè le soluzioni contenendo già disciolto il paratartrato dei cri- Pr n stalli della prima immersione, hanno disciolto meno dei cristalli della seconda immersione; talchè la parte disciolta ed i cristallini depositati si sono trovati quasi ragguagliati in peso. Per la medesima ragione quan- do ho tuffato novelli cristalli di paratartrato nelle soluzioni da più giorni adoperate al metamorfismo di altri cristalli, mentre su di essi sono ve- nuti a depositarsi con la solita regolarità i cristalli dei tartrati, essi stessi sono rimasti intatti o quasi intatti avviluppati nel mezzzo del nuovo de. posito. Ho pure osservato, prolungando l'ingrandimento dei cristalli me- tamorfizzati, chesi giunge ad un punto nel quale, scemata di molto laspe- cie di tartrato acido da prima disciolta nel liquore, comincia una nuova fase di metamorfismo per il paratartrato che si trova disciolto nello stesso liquore, e che a sua vece trasforma icristallini dei tartrati inparatartrati. lu tutti gli esperimenti fatti con i tartrati o paratartrati di qualunque specie ho incontrato non lieve difficoltà a condurli innanzi, perchè dopo pochi giorni si generano nelle loro soluzioni le muffe che le intorbidano e le guastano. Questo inconveniente è molto maggiore per le specie poco solubili, come il paratarirato acido ed i tarlrati acidi di potassa, essen- do assai lento l'ingrandimento dei loro cristalli. Per rimediare a tale in- commoda condizione, ho decantato e fatto bollire le soluzioni ogni due o tre giorni, rimettendo in esse, qnando son giunte a circa 40°, i me- desimi cristalli che prima vi erano. In tal guisa, mentre da una parte s'impedisce la produzione delle muffe, si ottiene pure che l’esperienza si porta più presto a compimento. Cristalli di levo e destro tartrato acido potassico metamor- fizzati in paratartrato acido potassico. I cristalli di levo e destro tartrato acido potassico immersi nella soluzine di paratartrato acido po- tassico restano superficialmente corrosi come nel caso inverso orora esa- minato; e nel medesimo tempo su di essi s'impiantano i nuovi cristal- lini. Quanto alla disposizione dei nuovi cristallini sul cristallo primitivo essa somiglia moltissimo al distribuirsi l'una sull'altra le due specie di cristalli dei tartrati acidi quandoscambievolmente si metamorfizzano. Chè i nuovi cristallini bislunghi ricuoprono completamente le facce A, #,/, C, fig. 1, e riescono prominenti sulle facce 9g, n, u, come si scorge nella fi- gura 36. Prima di farne la pruova, persuaso che i cristalli dei tartrati si do- vessero metamorfizzare in paralartrato, perchè si era verificato il caso inverso, era premuroso di esaminare come si andassero ad allogare sul cristallo primitivo ortogonale i nuovi cristallini monoclini; dappoichè = essendo nei cristalli di paratartrato acido potassico le facce della zona A,d,f,8,h, fig. 6 ad AI, come pure le facce p,gq,r,s, inclinate alcune verso A, altre inclinate dalla parte opposta verso A', non sapeva prevedere come i cristallini generati a qualche distanza l’uno dall’altro si potessero poi tra loro corrispondere.in guisa che tutte le facce della medesima spe- cie sì trovassero parallele. E la mia giusta curiosità è stata del tutto sod- disfatta in una maniera ammirevole che non avrei potuto attendermi. Di- fatto ho trovato che i cristallini di paratartrato che si depositano sul cri- stallo primitivo di tartrato sono senza eccezione tutti gemini. Di più es- sendo A il piano di geminazione, e per conseguenza incontrandosile facce h, fig. 9, da una parte con angolo diedro rientrante, e dalla parte oppo- sta con angolo prominente, i cristallini gemini del paratartrato sono sem- pre impiantati sul cristallo primitivo di tartrato acido potassico per la parte ove la le facce % s'incontrano con angolo rientrante, e però le loro estremità libere corrispondono all'angolo diedro prominente formato dalle facce À. Apparisce per sè evidente la importanza di questo fatto, il quale ci dimostra l’arcana azione dei cristalli ortogonali dei tartrati sul primo accozzarsi delle molecole dei cristallini di paratartrato; azione tale che li costringe a divenire gemini e ad impiantarsi per la parte ove le fac- ce h s'incontrano con angolo diedro rientrante. Trascorse non più di sedici ore dopo la immersione dei cristalli di tartrato acido nella solu- zione di paratartrato, ho già osservato ben distinta la costante gemina- zione dei nuovi cristallini e la loro costante maniera d'impiantarsi sul- le facce g, n, u del cristallo primitivo; e malgrado la piccolezza delle fac- cette 4 terminali, ho potuto assicurarmi della specie alla quale appar- tengono misurandone l’inclinazione sulle facce A col goniometro a rifles- sione. Talchè sulla esattezza del fatto annunziato non posso conservare alcun dubbio. Lo stesso fatto è pure rifermato dalla forma che si osserva derivare dal fondersi insieme i cristallini dopo la completa trasforma- zione. Come sì osserva nella figura 29, a, b, che rappresenta un cristallo giunto al completo suo metamorfismo, nella parte superiore e nella in- feriore del cristallo vi sono le facce % disposte come nei cristalli ortogo- nali, incontrandosi cioè in entrambe le parti opposte con angoli diedri prominenti. Quanto alle facce 9,7, che sono altresì disposte come lo sa- rebbero in un cristallo ortogonale, debbo soggiungere che le faccette g le ho quasi sempre così rinvenute come sono nella figura disegnate, men- tre delle faccette r nei diversi cristalli osservati ne ho trovato soltanto mn I alcune quando in una parte, quando in un’altra del cristallo senza regola fissa. Nella medesima figura si veggono pure le faccette rugose @ presso le estremità dello spigolo formato dalle facce 4, 4', sulle quali faccette ora non è necessario trattenerci. . Cristalli che si hanno dalle soluzioni di levo e destro tartrato acido potassico mescolati in varie proporzioni. Non avrei preso ad indagarele maravigliose forme cristalline che si hanno mescolando insie- me in proporzioni diverse il levo ed il destro tartrato acido potassico se non ci fossi stato guidato da causale osservazione. Avendo gran copia di levo e destro tartrato neutro potassico-sodico mescolati insieme , e volendo separare le due specie, d’ ordinario non distinte pel carattere dell’ emiedria , ho fatto ingrandire nelle acque madri i cristalli isolati sino a raggiungere il peso di circa cinque grammi. Ho quindi disciolto separatamente ciascun cristallo, ed avendo aggiunto nella soluzione un pò di acido nitrico, ho avuto, secondo la specie del cristallo disciolto, il destro o il levo tartrato acido potassico che in parte si è precipitato per la sua poca solubilità. Questo metodo intanto non suol dare soluzioni che contengono una specie di tartrato affatto scevra dell’ altra specie, ed in qualche caso in cui non ho avvertito che il cristallo disciolto teneva in- castonato altro cristallo di specie diversa, è avvenuto per conseguenza che nel liquore si sono trovate riunite le due specie di tartrato acido potassico l’ una in maggior copia dell’altra. Da queste soluzioni poi ho avuto cristalli di strana forma che saranno di quì a poco esaminati, e mi han fatto comprendere l’importanza di studiare i cristalli che nascono dalle mescolanze in varie e note proporzioni dei due tartrati acidi po- tassici. Ho scelto nel fare le mescolanze delle due specie di tartrati tre di- verse proporzioni; di 4:14, di2:1,edi3:2. Esporrò in primo luogo i risultamenti delle mescolanze secondo le due ultime proporzioni che sono i più semplici. Avendo disciolto in circa 700 centimetri cubi di acqua calda grammi quattro di levo tartrato acido potassico e grammi due di destro tartrato acido potassico, entrambi ottenuti col metodo in- dicato di sopra , pag. 5, per averli puri, ho avuto col raffreddamento del liquore molti minuti cristalli di paratartrato terminati dalle facce A,B,r,h,C, fig. 9, che ho lasciato ingrandire per due giorni. Indi ogni due giorni ho decantato e concentrato alquanto col bollimento il liquo- re, e vi ho rimesso i medesimi cristalli ingranditi, prendendo nota del peso dei cristalli e della loro forma ogni volta che ho concentrato la so- Atti — Vol. I..— N09. 4 Bf Iuzione. Quando il peso dei cristalli ingranditi è giunto a grm. 8, 789 mi sono accorto che già essi cominciavano a trasformarsi. Le loro fac- ce A erano ricoverte da un cristallo di levo tartrato acido, fig. 40, (a) che si allargava alquanto oltre le facce laterali del cristallo di paratartrato, e si distingueva per le strie parallele agli spigoli AC. Altri cristallini di levo tartrato venivan fuori dalle facce C dei primitivi cristalli di para- tartrato nel modo che ho disegnato nella figura 40, quantunque meno prominenti , rappresentando la figura un grado di metamorfismo più avanzato. Intanto le facce 8,7, si conservavano ancora nitide, nè su di esse aderiva alcun cristallino di levo tartrato. Rinnovando le concen- trazioni del liquore, e progredendo l'ingrandimento dei cristalli , sulle facce 8,7, h non si è mai impiantato alcun novello cristallino, e soltanto le ho vedute alquanto appannate, non saprei dire se per effetto di cor- rosione, 0 piuttosto in conseguenza di disturbata regolarità nell’ingran- dimento dei medesimi cristalli. Nel medesimo tempo i cristallini ade- renti alle facce C si sono alquanto distesi sulle facee r. In fine quando il peso dei eristalli depositati ed ingranditi è giunto a gem.5,277 mi sono aceorto che le facce n dei cristallini di levo tartrato erano solcate da rozze strie parallelamente agli spigoli Ar come vedremo più per disteso nei cristalli dalla mescolanza delle due specie nella proporzione di 4:1. Nell’altro esperimento fatto con tre grammi di destro tartrato e gram- mi due di levo tartrato acido potassico ; sì sono ripetuti tutti i medesimi particolarì descritti nell’esperimento precedente. Essendosi già ingran- diti i cristalli di paratartrato acido potassico depositati sino a pesare grm. 3,068, non ci ho scorto su di essi alcun segno dei scristallini di destro tartrato,e che ho potuto osservare distintamente quando il loro peso è giunto a grm. 3,005. (Quando poi son giunti a pesare grm. 4,511, al- lora si son pure manifestate le strie sulle facce n'"dei nuovi cristallini. I piùimportanti risultamenti li ho avuti dal terzo esperimento fatto con quattro grammi di destré tartrato acido potassico ed uno di levo tartra- to, per la quale proporzione si hanno due parti di paratartrato e tre di destro tartrato acido potassico. l cristalli avuti da questa mescolanza dal principio sino alla fine dell’esperimento, siccome li mostra la figura 37, han presentato la forma del destro tartrato acido potassico col partico- lare carattere apparente che le facce n',n" sono rozzamente striate in dire- (a) Il cristallo che ha servito di modello alla figura 40 proviene dalla mescolanza del seguente esperimento col destro lartrato acido potassico in maggior copia, e però i novelli cristallini appar- tengono a questa specie. — e zione parallela agli spigoli An'.Ed unaltro carattere di maggior momento mi hanno manifestato quando col goniometro a riflessione ho misurato l'inclinazione delle facce n', n" sopra A, e delle altre due facce n, n" sul- la faccia A! posteriore; dappoichè ho trovato riflettersi da ciascuna fac- cia n due immagini ben distinte con una delle quali si ha l’inclinazio- ne delle n sopra A di circa 117° e con l’altra di circa 123”. Quindi è chiaro che le facce n sono composte di due faccette che si ripetono alter- nandosi, e producono le menzionate strie. Una di esse appartiene alle vere facce n dei cristalli dei tartrati acidi potassici, e l’altra alle facce g dei cristalli di paratartrato. Per avere più esatta notizia di questa strana fusione dei cristalli monoclini di paratartrato acido potassico con i cri- stalli ortogonali dei tartrati acidi ho misurato le inclinazioni di ng sopra A in molti cristalli nei tempi successivi del loro accrescimento. Nel se- guente quadro sono riportati i valori angolari rinvenuti con misure di- rette in otto cristalli misurati in quattro diversi periodi del loro ingrandi- mento. Gli angoli sotto i numeri 1 e 2 li ho avuti quando i cristalli depo- sitati pesavano grm. 1,245 ; quelli dei numeri 3 e 4 quando pesavano grm. 3,227; quelli dei numeri 5 e 6 quando pesavano grm. 4,042 e gli ultimi dei numeri 7 ed 8 quando pesavano grm. 4,689. Giunto a questo ingrandimento dei cristalli non rimanevano che 26 centimetri cubi di li- quore, e però non si poteva prolungare l'operazione, nè era da attendere alcun cambiamento prolungandola. Fa d’uopo pure notare che i pesi tolti dei cristalli depositati ed ingranditi sono sempre alquanto minori della quantità di sale depositato, dovendosi tener conto delle continue perdite inevitabili nelle successive decantazioni e concentrazioni del liquore; tal- chè nell’ultimo residuo della soluzione non vi poteva essere che piccola parte dei cinque grammi dei sali disciolti, e che secondo il loro grado di solubilità innanzi rinvenuto, pag. 20, può calcolarsi di circagrm.0,180. 4° FE Ze VAL Bo 6° "ro CE AA _NAZI SE 12316423 67] 423° W 123° 977 123°317123°297] 123°12" A'n =|117 56|118 61/416 28 |4116 18 [117 15 [11616 |116 34 | 116 48 A'u = »” » 89 33 ” 89 56 98 55 90 12 » da 11939 » 123 28 | 121 58 | 123 39 {123 991423 9"423 9 An' =| 415 29 | 4116 54/117 24|116 6 |4116 42/117 2 [116 54|11619 Au = » » 90411] 9021 | 9021) 8951 | 8947| 8941 Ag” =|412258|4124 9|422 44|12251 |12254|123 15 [123 39 | 122 58 An” =|116 31|11718|11646|116 39 [116 2|116 26 [116 13/117 1 An = » » » 8957 | 90411 » 9012] 89 47 Ag |423:39|42320| 123.36) 4233.1123. 41123 7 |122.24/123 2 An"=|41648|1416 4|41732|4117 2|11715|4141656 |11721|11749 Mann; » | 90 3l. » | 89561 89271 90 2] 894 * == Nel precedente quadro ho omesso soltanto le misure delle facce del tetraedro n minore, alcune delle quali ho pure qualche rara volta trova- to; e quanto al resto ho registrato appuntino te misure goniometriche di tutte le faccette incontrate nella zona An'n'" e nell'altra zona A'nn'”. Nel verso delle zone Ae ed AC, fig. 12, ho pure osservato con lente d’ingran- dimento alcune faccette per le quali non mi è stato possibile nei cristalli ottenuti misurare l'inclinazione sopra A. Intanto per i riferiti valori angolari trovo in primo luogo da osservare che i descritti cristalli presentano un caso d’intricata unione, e direi quasi di perfetta fusione, delle facce appartenenti ai eristalli ortogonali del destro tartrato acido potassico ed ai cristalli monoclici del paratartrato acido della medesima base; che essendo di più in essi ben pronunziata la emiedria delle facce n propria del destro tartrato, le facce q del paratar- ‘ trato ubbidiscono alla medesima legge di emiedria; ed in fine che stando le facce g nella parte superiore e nella inferiore del cristallo alcune in- clinate verso A, altre inclinate posteriormente verso A', ne conseguita che in questo caso, come in quello del metamorfismo dei tartrati acidi po- tassici, la parte della massa cristallina che appartiene al paratartrato è disposta in due sensi convergenti come nei eristalli gemini. A} medesimo ordine di fenomeni appartengono i eristalli ottenuti quan- do, nella maniera riferita di sopra, ho aggiunto un po’ di acido nitrico alla soluzione dei cristalli di levo tartrato neutro sodico-potassico che con- “ tenevano in quantità minore anche il destro tartrato. La quantità di acido nitrico adoperata era maggiore di quanto ne abbisognava per neutraliz- zare la soda; e però il liquore contenendo un po’ di acido nitrico libero, era in condizione di solvere i tartrati acidi potassici meglio che la sem- plice acqua stillata. Nondimeno sul principio ho avuto abbondante depo- sito di minutissimi cristallini che in gran parte ho conservato, e parte ho ridisciolto nello stesso liquore riscaldato ed alquanto allungato con novella acqua. Ho avuto così molti piccoli cristalli isolati che ho lasciato ingrandire per qualche giorno. Poi ne ho accelerato l'ingrandimento scio- gliendo ogni due giorni nel liquore riscaldato piccola quantità del de- posito cristallino ottenuto nel principio dell'operazione, e rimettendo nella soluzione giunta a circa 40° i cristalli già ingranditi. Quando i eri- stalli sono giunti a misurare tre a quattro millimetri nel loro maggior diametro, ogni volta che ho riscaldato il liquore ho conservato alcuni di essi per esporli a minuto esame; e sino a che ho finito dì sciogliere tutto il primitivo deposito, ho rinvenuto la loro forma sempre la stessa, e tale - e SIOE 1°, 0 quale vedesi figurata nel numero 27, a, b. Da sette cristalli scelti tra i migliori ho avuto i valori angolari ordinati nel quadro che segue, ed al quale bisogna rivolgere l’attenzione prima di venire alle conseguenze che se ne possono dedurre. 41° 92° 3° 4° 5° 6° jo Aq =|123°34" |423°17|4123°51"|123°49’ |123°467|123°24"|122°287 An = » » 11734 » » 117 39 | 117 44 Agg » 122 31 | 122 43 » 122 28 | 122 38 | 123 34 A'r =|109418 |40938 » 109 4 |10910 10927 » A's — » » 98 42 » 98 18 98 4 ” Aq' aran) » » ”» » 123 DAI » » An = » 116 24 | 116 53 » 117731417 2811734 Ar 141042 [11003 » » ” ” 109 24 As: —=| 9946 » ” 98 26 » 99411) 9858 Aigi=.|\123, 0 122 5123 8]4123 27 123 26.|423 7.) 423.3 A'n' = » ”» ” »” 4117 38 4118 9 ”» ‘AfgnT== » » 122 49 ” ONE: 123. 012289 ‘Arsa » 109 12 » 109 21 ”» ”» »” As”. |::98.28 ” 98412) 9814 » » 97 37 A'q” = |123 17 (a) 123 47 | 123 46 | 123 32 122 42 (123 6|412442 AI » 118 16 ” 117 36 ” ” » Aq” =|4122 314 123 9]|12234 |123 8(b)| 123 14 | 122 29 | 123 54 An” = | 11639 ” ” » » 117415 |417 8 Ag » ” 12416 | 12333 |122 26 » » A!ln"—= ” 4418 192 » » » ” »” A'r"=|411032 |40958|11030|_ » ” 109 49 | 410 4 ASSO » » 100 25 99 31 98.2 » » L'aspetto dei cristalli, siccome apparisce dalla figura che li rappresen- ta, è quello dei cristalli di levo tartrato acido potassico, e da ciò si de- duce senza alcun dubbio che nella soluzione era questa specie di sale soprabbondante in paragone della specie destrorsa. I valori angolari poi che misurano le inclinazioni delle facce rinvenuti con le misure dirette vengono a contradire questa illusoria apparenza, mostrando che le grandi facce allogate come le facce n, n", fig, 3, nei cristalli del levo tartrato appartengono esclusivamente ai cristalli di paratartrato; ed oltre le facce q, fig, 27, che sono le più grandi, vi son pure le facce r, ed s dei me- desimi cristalli di paratartrato. Nella figura 27, b, ove ho rappresentato la parte inferiore del cristallo della figura 27, a con le facce A perpen- dicolari al piano di proiezione, si veggono le facce A, A' incontrarsi con (a) A'r"=110°0. (b) Ar*= 108029" è ne angolo diedrio prominente al modo stesso come s'incontrano nella parte opposta; e quantunque non abbia riportato nel quadro le inclinazioni delle facce A sopra A, pure non ho mancato assicurarmi con misure dirette che esse realmente sono inclinate sopra A di circa 102°, e quindi appar- tengono alla specie 4. I cristalli dunque della figura 27 appartengono al paratartrato acido potassico con quel carattere di geminazione proprio dei cristalli nati per metamorfismo dei tartrati, fig. 29, e con questo di particolare che le loro facce serbano la legge di emiedria distintiva dei cristalli di levo tartrato acido potassico, sia che si consideri la relativa estensione delle facce della medesima specie, come avviene per le facce q, sia che si consideri la mancanza di alcune delle facce della medesi- ma specie, come avviene per le r, e per le s. Vi sono inoltre sulle facce A dei medesimi cristalli alquanti cristalli- ni, la cui regolare e costante disposizione sul cristallo maggiore s' in- tende agevolmente guardando la figura, e questi cristallini sono al certo di tartrato acido potassico, perchè si veggono terminati dalle faccette n che malgrado la loro piccolezza mi han permesso talvolta misurarne le inclinazioni sopra A, siccome veggonsi registrate nel quadro precedente. Non di meno resto in dubbio se essi appartengano alla specie sinistra ov- vero alla destra, o se pure ve ne siano di entrambe le specie, perchè nelle minutissime faccette n, che incontrano con angolo rientrante le facce g, non si ravvisa distinto il carattere dell’emiedria. Avendo voluto continuare con qualche variazione gli esperimenti che mi han dato i cristalli testè esaminati, ho allungato alquanto il liquore acido nel quale essi si erano generati ed ingrandili, e l’ho riscaldato scio- gliendovi un po’ di paratartrato acido potassico. Poi ho riposto alquanti dei medesimi cristalli per farli ingrandire nella soluzione così preparata. Anche in questo nuovo saggio ho di tempo in tempo concentrato il li- quore per impedire la produzione delle muffe e per accelerare l’ingran- dimento dei cristalli. E questi han mostrato sin da principio mutate le condizioni delle facce A sulle quali sono scomparsi i cristallini di tar- trato acido potassico, e sono divenute levigate. Di più sono apparse al- cune faccette che prima non vi erano, e la loro forma è divenuta quale vedesi rappresentata nella figura 28, a, m. Gli angoli che ho trovato misu- rare le inclinazioni delle diverse specie di facce sulla faccia A ed A' sono riportati nel seguente quadro, nel quale ho registrato sotto i numeri 4,2 e 3 gli angoli di tre cristalli misurati dopo il primo concentramento del liquore, sotto i numeri 4, 5 e 6 gli angoli di altri tre cristalli dopo il — Ya secondo concentramento, ed in fine sotto i numeri 7 ed 8 gli angoli di due cristalli dopo il terzo concentramento del liquore. 4° n° 3° 4° 5° 6° so 8° Ap == ” ” E) ”» 132°33/ » ” | ”» Ag =|4123 21’|123°46"|123°41|123°48/| 123 17 | 122°28”| 123°%19’| 122°44" As =| 9858| 9823] 99 2| 9849] 9854| 9832] 9822) 9752 A'pi=- » » 129 15 | 130 28 | 129 47 | 130 16 | 130 18 » Agi 142347,1:423,.7,-123._6 ” 122 49 (123 8123 21|12233 A'r =|10836]|109412|106 2|/4105 2|11150|4106 4|410834]|107 42 » 104 31 ” » 109 13 | 104 32 | 106 491106 2 A's =| 9828] 9852] 9827] 9748 » 98 31 ” ” Ap' =|13056|13054|131 2 » 130 12 » » 131039 Ag' =|123 22| 4123 33 ”» 122 9 | 122 445/1221412 122 43 | 122 46 Ar —=|109 30] 4107 32 | 109 52 » 109 17 | 104 57 \10438|105 1 104 38 ” 108 55 ” 106 25 » » » As'=| 9824198 27 ” 9834 | 9844] 9813] 9814| 9757 A'p' == » » » 132 19 » ”» » » A'g' =|12310|4123 55 | 122 59 123 58/123 56 [12218 |123 2|412227 A'îs' —=| 9845] 9832] 98261 9949] 98371] 9916] 98 24| 98 7 Ap” = ”» 130 39 » 131 34 » |13027|4132 21 [129 51 Ag” =|122 25 |4123 42/4122 42123 31 | 122 59 | 422 33 » » Ar” =|10430]|407 241 |104 52 |106 46 | 111 22 | 109 17 | 109 59 | 108 18 ” 106 36 ” ” 108 541 | 105 29 » » As” =| 9754| 9931] 9823] 9853) 9727 » » » A' = » » 130 30 » » » ” 132 3 A'q”=|12331|4122 7]423 3]421 28 | 122 26 | 122 48 | 124 37|122 54 A"s" =| 9933] 9913] 98 71 9732] 9329] 9912] 9751] 9945 === » » » 130 II » 129 58 130 4h » Aq” =|12243|123 9|12249|12243|4122 9|422 55 | 121 51 [12243 0098-900837) 98-13. 9845.) 97.32) 97341 9728) 9827 A'p"—=|13112|4130 29 » » 128 44 | 131 19 131 23/130 25 A'q"=|4124412|412336|123 22 |423 44 » » 124 0|122 54 Als” —=4410.28 » 108 6/106 7|411031|440 28 | 109 27 | 107 47 106 4 » 105 58 | 104 41 | 106 27 | 106 39 | 106 46/105 6 A's"—=| 9928| 9847 » 98 56 » » » » Malgrado il prolungato ingrandimento dei cristalli nella soluzione che conteneva quasi esclusivamente paratartrato acido potassico, la primi- tiva emiedria della loro forma sì è conservata, sia per quanto riguarda la maggiore estensione delle facce 9,9”, e sì per la mancanza delle facce 7 ove sono le facce g più grandi. È pure notevole la poliedria delle facce r, variando la loro inclinazione sopra A da circa 105° sino a circa 111°, e d’ordinario esse mì han presentato diverse immagini degli oggetti veduti per luce riflessa; quindi è che nelle precedenti misure si trovano registrati gli angoli avuti con ciascuna delle due immagini estreme. Il carattere poi di trovarsi le due facce &,4', fig. 28, n formare angoli — 32 — diedri prominenti nelle parti opposte del cristallo si è conservato sem- pre costante. La disposizione delle è come pure delle facce p,g,7, s è si- mile a quella che si osserva nei cristalli di paratartrato acido potassico, fig. 29, che nascono dal metamorfismo dei cristalli dei tartrati acidi, e si è veduto come in questi derivi dall'essere i cristalli di paratartrato sem- pre gemini e sempre impiantati sulle facce g, n, v, fig.1, delle estremità opposte dei cristalli dei tartrati, per la parte ove le facce 4 s'incontrano con angolo rientrante. Si è pure veduto per la mescolanza di tre parti di destro tartrato e due parti di paratartrato acido potassico derivarne cri- stalli composti dall’unione, e quasi direi compenetrazione delle due spe- cie, nei quali cristalli, fig. 37, dominando l’emiedria propria del destro tartrato acido potassico, vi sono le facce sì del iartrato che del paratar- trato. Quindi è facile intendere che le soluzioni in cui si sono generati i cristalli rappresentati dalle figure 27, a,b conteneva il levo tartrato ed il paratartrato acido potassico, il primo in quantità alquanto maggiore del secondo. Intanto se sì pon mente al modo come i cristallini di paratartrato che nascono per metamorfismo sopra i cristalli dei tartrati si trovano allogati gli uni verso gli altri, non si durerà fatica ad intendere che quando essi giungono a toccarsi, e quindi a formare con la loro fusione un sol cristal- lo, fig. 29, l’interna struttura di questo cristallo risulta molto compli- cata. Basta tener conto della sola direzione dell'asse a in ciascuna metà dei cristalli gemini che non si trova per dritto con l’asse a dell'altra metà, come nella figura 12 non sono per dritto facce 8 della metà superiore con le facce 8' della metà inferiore. Quindi nell'interno dei cristalli fi- gurati sotto i numeri 27, 28, 29, si alternano e s'intrecciano ripetuta- mente le piccole masse cristalline disposte come la metà superiore Ag, fig. 12, con altre piccole masse cristalline disposte come la metà infe- riore A'f'. A questa interna struttura credo sia dovuto quel che mi è avvenuto os- servare quando per lungo tempo sono rimasti nelle acque madri ad in- grandirsi i cristalli rappresentati dalla figura 28; e meglio ancora quan- do li ho fatto ingrandire nella soluzione di puro paratartrato acido po- tassico. E allora succeduto che all’esterno del cristallo sì sono distinte due o più parti separate da solchetti o strie flessuose in direzioni varie, in alcune parti stando le facce allogate come nella metà superiore della figura 12, e nelle altre come nella metà inferiore della medesima figura. E pure degno di nota in tal caso che i solchetti che su ciascuna specie di da = faccia davano la traccia della separazione più o meno distinta tra le parti del cristallo diversamente situate, si arrestano e rimangono occulti sulle facce h. Ogni descrizione, per quanto estesa, sembrandomi insufficiente a dare giusta idea di tale separazione, ho rappresentato nella figura 35 un esem- pio dei meno complicati con tutti i suoi particolari copiato dal cristallo originale, e con le facce supposte spiegate e portate al medesimo piano della faccia AA'. La faccia A e tutte le facce contraddistinte con lettere semplici appartengono alle parti allogate come la metà superiore Ag della figura 12; la faccia A’, separata da A con un solco flessuoso, e tutte le facce dinotate con lettere fornite di apici appartengono alle altre parti allogate come la metà inferiore A'£' della figura 12. Le linee formate di puntini servono a far distinguere l’incontro delle facce con angoli diedri rientranti. Ecco poi i valori angolari trovati con le misure dirette nel cristallo fi- gurato. Parte superiore sinistra Parte superiore destra A'A soprag'= 423° 5'IA'A soprag'= 123° 5‘ A ” Sqe= ” = » | A= 106 59 — » r=-40546| 104 32 Dali, Se paia Lig, 9873 a pg ul ilons 105.28 AIA Parte inferiore sinistra Parte inferiore destra A'A en pi= 130°35’ | A'A sopra p= 130°31’ » QqQ= 4123 41 — »n gQ= 123 14 — » r'—= 410949 — » Sae= » 105 9 = alln=—105/26 —_ » e 98 7 105 37 = » s=— 9836 — » q'=—A423 2 == » q'=—122 4 = » p ——130 58 . In un’8ltra operazione, cominciata come la precedente aggiungendo del- l'acido nitrico nella soluzione di un grosso cristallo di tartrato sodico-po- tassico di specie indefinita, i cristalli di bitartrato potassico che ne ho avuti sono stati di particolar configurazione che non mi ha permesso riconoscere se essi appartenessero al levo o al destro tartrato acido. La loro forma è rap- presentata dalla figura 41, a, b, e. Con le misure goniometriche mi sono assicurato che le facce maggiori, tutte nitidissime, appartengono al rom- Atti — Vol. II.—N.09. È — Ar bottaedro n dei tartrati acidi potassici, quantunque nei molti cristalli avuti dalla stessa soluzione, ed in essa lasciati ingrandire, non vi avessi ravvisato aleuno indizio di emiedria. Il più delle volte ho trovato più e- stesequaltro facce n che sono nella medesimazona, come apparisee chiaro per le tre figure che li rappresentano in diverse posizioni. E negli angoli corrispondenti all'estremità dell'asse è vi sono due faccelte curve ed ir- regolarmente ondate #,2', simili a quelle che abbiamo dinotate con le medesime lettere in altri casì precedenti, e che sono nella medesimazona con u e C. Le faceette x essendo curve danno diverse immagini degli 0g- getti veduti per luce riflessa, e tra queste suol esservene una più delle altre distinta, e più delle altre prossima alla immagine riflessa da w. Cer- cata la inelinazione della faceia « sulla faccia #, secondo la sua imma- gine più distinta, l'ho trovata in cinque misure prese sopra tre cristalli eguale a 163%5', 162°39', 162°29", 162°29', 162°28'. Con le altre im- magini estreme meno distinte ho trovato l'inclinazione di « sopra 2 va- riare tra 198°40' e 157°58'. Egli è però che le @ vanno considerate come particolare speeie di faccette riferibili al simbolo 021, deducendosi da questo simbolo l’inelinazione di #2 sopra w eguale a 161°44". Cristalli di paratartrato acido ammonico metamorfizzati in levo e destro tartrato acido ammonico. Il metamorfismo dei cristalli di paratartrato acido ammonico in levo o destro tartrato acidu ammonieo procede come nelle specie analoghe a base di potassa, con la differenza che i cristalli di paratartrato della specie ammoniacale si solvono meno nelle soluzioni dei tartrati; e per poeo di paratartrato che si trovi di- sciolto nel liquore, essi non patiscono sensibile diminuzione e restano in- tegralmente inviluppati nel nuovo deposito cristallino dei tartrati. In conseguenza poi di quel che si è detto innanzi a riguardo della emiedria molto variabile nei cristalli dei tartrati acidi ammoniei, avviene nei eri- stalli nati per metamorfismo ehe non hanno alcun carattere sicuro che faccia conoscere a quale specie di lartrato appartengano. Cristalli di levo o destro tartraio acido ammonico metamorfiz- zati in paratartrato acido ammonico. La trasformazione dei®cristalli dei tartrati acidi ammonici in paratartrato avviene in modo tutto spe- ciale che rende difficile il seguire nei suoi particolari l'andamento del fenomeno. Circa un’ora dopo la immersione dei cristalli nella soluzione del paratartrato li ho sempre veduti ricoverti di punti prominenti che sono i novelli cristallini di paratartrato i quali vanno su di essi a deposi- tarsi, e non lasciano più nulla vedere delle facce dei primilivi cristalli. — 35 — Dopo due o tre ore nei cristallini di paratartrato si giunge a distinguere anche ad occhio nudo la loro figura in forma di sottili lamine triangolari o rombiche secondo che apparisce il cristallo per metà o intero. A diffe- renza poi di quel che succede per le specie a base di potassa, ove i no- velli cristallini sono prominenti ed alquanto distanti l’uno dall’altro sulle facce g,n,u, fig.1, e formano strato continuo con superficie striata sulle facce A, k, l, C, i cristallini di paratartrato acido ammonico sporgono con punte prominenti sulle facce #,/, C, allargandosi essi, più che in altra direzione, nel verso dell’asse c. Sulle facce poi g, n, v, del primiero cristallo non si produce nulla di rilevato , e queste facce si veggono ri- vestite di novello strato sottile con superficie continua che si vedrà in seguito appartenere alle facce % dei cristalli di paratartrato. Intanto se sì cerca estrarre dal liquore il cristallo che apparisce meta- morfizzato quattro o cinque ore dopo la sua immersione, non è possi- bile evitare che la maggior parte dei cristallini di paratartrato si distac- chino dal cristallo primitivo al quale sembravano aderire e lascino così vedere come non piccola porzione di esso siasi già disciolta. Anche la- sciando passare un giorno senza toccarli, quantunque i nuovi cristallini acquistino maggior consistenza, e siano gli uni agli altri più stretta- mente congiunti, non si giunge ed impedire che molti di essi si distac- chino spargendosi nel liquore. Bisogna attendere almeno tre giorni per- chè il nuovo deposito dei cristalli di paratartrato acquisti tale consì- stenza che lo renda manegevole. Pervenuto a questo stato si riconoscerà che il gruppo dei nuovi cristallini forma quasi una buccia internamente vuota, essendo del tulto disciolto il cristallo sia di levo, sia di destro tartrato acido ammonico sul quale sono andati a depositarsi i cristallini di paratartrato. Questa faciltà di solversi i cristalli dei tartrati quando si trasformano in paratartrato è in perfetta opposizione della quasi inso- lubilità deì cristalli di paratartrato nel fenomeno inverso; e la ragione di sì contraria maniera di prodursi i due fenomeni parmi che stia nel- l'essere il grado di solubilità dei tartrati acidi ammonici più che tre volte maggiore di quello del paratartrato. Tra i tartrati ed il paratartrato acido potassico essendovi piccolissma differenza nel loro grado di solubilità, abbiam veduto e gli uni e l’altro solversi nelle loro scambievoli trasfor- mazioni. Nei cristallini poi che costituiscono la nuova buccia, siccome lo mo- stra la figura 32, si osserva agevolmente il fatto caratteristico del me- tamorfismo dei cristalli polisimmetrici, che cioè le facce d’identica spe- ? ma: ye- cie dei nuovi cristallini sono tra loro parallele. I medesimi cristallini sono talora numerosi con le estremità corrispondenti alle facce C, C° molto prominenti, come è il caso del cristallo rappresentato dalla ci- tata figura. Altra fiata i cristallini, più presto congiungendosi insieme, sembrano meno numerosi e sono assai meno prominenti. D'altronde, se. attentamente si considerano le parti prominenti dei nuovi cristallini, si seuoprirà una importantissima condizione che rende il fenomeno assai più ammirevole di quel che poteva sembrare a primo aspetto. Dappoiehè tutli i cristallini prominenti sul lato sinistro hanno superiormente le facce r, figura 32, ed inferiormente le facce q più pic- cole, al contrario dei cristallini prominenti sul lato destro che hanno superiormente le facce g ed inferiormente le facce r. Questa condizione acquista ancora maggiore importanza dal perchè la riferita disposizione delle faccette g ed r è propria dei soli cristalli di paratartrato nati dal metamorfismo del destro tartrato acido ammonico, quale appunto era il gruppo cristallino che ha servito di modello alla figura 82. Ed i cri- stallini di paratartrato che nascono dalla trasformazione dei cristalli di levo tartrato acido ammonico hanno invece le facectte 9 ed r inversa- mente allogate, trovandosi le facce r inferiormente nei cristallini ordi- nati sul lato sinistro, e superiormente nei cristallini del lato destro. Se si fa progredire per molto tempo l'ingrandimento dei cristallini che costituiscono il gruppo in forma di buccia nati pel metamorfismo, sarà facile trovare qualche cristallino del lato sinistro che siasi con- giunto con altro del lato destro in guisa da formare, almeno in appa- renza, un solo cristallo senza potersi distinguere il limite tra la parte destra e la sinistra; e la forma che deriva da tale unione è quale vedesi figurata al numero 30, a,b. La medesima forma, tranne qualche diffe- renza di nessun valore nella estensione delle facce della medesima spe- cie, si otterrà allor quando distaccato dal gruppo qualche eristallino lo si faccia ingrandire isolatamente nella medesima soluzione. Più il cri- stallino distaccato conserverà della parte con la quale era impiantato al gruppo, meglio riuscirà distinta la forma che acquisterà dopo l’in- grandimento Nella medesima figura 30 a, n si osservano le facce A incontrarsi con angoli diedri prominenti in entrambe le estremità opposte del cristallo, ed accompagnate dalle faccette curve e rugose 2, 2'; la qual cosa si è pure notata nei cristalli di paratartrato acido potassico , figura 29, a,b che nascono pel metamorfismo dei tartrati acidi della medesima base. Ma nei cristalli del sale potassico le facce 9 al numero otto, e forse anche le faccette r, le ho trovate ripetersi su tutti gli angoli della faccia Ae della faccia A' posteriore; mentre nei cristalli del sale ammonico le facce gq ed r, quattro per ciascuna specie, si trovano soltanto negli angoli alterni della faccia A e della opposta A'. Quindi è che i cristalli gemini di paratartrato acido ammonico nati per metamorfismo hanno in tutto la forma di cristalli ortogonali emiedrici; tanto più notevoli in quanto che la loro emiedria, siccome innanzi si è dichiarato, sarà in un verso che dir potremo destrorso, figura 30, 32, se essi nascono dal destro tar- trato acido ammonico, e sarà nel verso contrario, ovvero sinistrorso se nascono dal levo tartrato. Forse la differenza tra cristalli metamorfiz- zati del sale ammonico e quelli del sale potassico consiste soltanto nel- l'essere la riferita disposizione emiedrica delle facce q ed r più distinta nei primi che nei secondi ; tanto più che nei cristalli di paratartrato acido potassico che abbiam veduto prodursi nelle soluzioni del levo e destro tartrato acido potassico mescolati in parti disuguali, figura 27,28, 33, le facce p, g, r, s si trovano ubbidire più o meno rigorosamente alla medesima legge di emiedria. Discorrendo dei cristalli rappresentati dalle figure 27, 28,29, 35, 37 pag. 28,32 si è dimostrato come essì sono cristalli gemini di complicatis- sima struttura, e gemini ancora debbono considerarsi i cristalli del sale ammoniacale che veggonsi figurati col numero 30. La vera struttura dei medesimi cristalli mi si è manifestata in modo evidente in uno esperi- mento nel quale ho immerso nella soluzione di paratartrato acido am- monico quantità quasi eguali dei cristalli di levo e di destro tartrato acido ammonico. Trascorsi tre giorni, mentre la loro trasformazione ha lentamente progredito in coppa chiusa, ho trovato sparsi nel fondo della coppa alquanti piccoli cristalli isolati generatisi dopo la immersione dei cristalli dei tartrati acidi, la cui forma è stata fedelmente figurata nei numeri 38 e 39. Sotto il numero 39 il cristallo è rappresentato con la faccia AA' parallela al piano di proiezione, e sotto il numero 88 con la faccia AA' perpendicolare al medesimo piano: le linee composte di trat- tolini segnano il confine tra il cristallo di sinistra e quello di dritta , mentre le lettere semplici dinotano le facce del primo, e le lettere con apice dinotano le faece del secondo cristallo. Tranne gli angoli diedri rientranti nei quali s'incontrano è' con f, ed f'con i, le altre facce s’incon- trano o stando nel medesimo piano, come A con A', ovvero formano an- goli diedri prominenti, come r con 4', è con r' ed A con #'. Quindi è VI chiaro come i due cristalli s'incastrano scambievolmente, e come la loro unione, soppressi gli angoli rientranti if, f' i, danno la medesima forma rappresentata con la figura 30, a, b. Siccome nel gruppo gemino della figura 39 le facce r, r' si trovano a sinistra superiormente ed a destra inferiormente, egli è facile intendere che se il cristallo CA fosse allogato a destra, e l’altro A'C' a sinistra, si troverebbero le facce r superiormente a destra ed inferiormente a sini- stra. Questa seconda varietà della scambievole posizione dei due cri- stalli componenti il gruppo gemino l’ ho pure osservato tra i cristallini solitari depositati nel medesimo liquore. E dietro ciò chi si è innanzi dichiarato della differenza tra i cristalli gemini di paratartrato secondo che nascano dal metamorfismo del levo o destro tartrato acido ammo- nico, parmi potersi conchiudere che anche le due varietà dei cristallini isolati derivino ciascuna dalla corrispondente specie di tartrato ì cuì cristalli sono stati esposti a trasformarsi. Da ultimo fa d’uopo avvertire non essere frequente il caso di cristalli nei quali la disposizione delle facce sia così chiara e facile a riconoscere come nella figura 39 si scorge rappresentata. Spesso, come è naturale, un cristallo variamente si estende in confronto dell’altro, per la quale sproporzionata estensione avviene tal fiata che si smarrisce ogni guida che valga a fare intendere le scambievoli posizioni dei due cristallini. Mi è pure avvenuto che rimettendo nelle acque madri alquanti dei cri- stalli gemini simili a quello disegnato con la medesima figura 39, per averli più distinti giunti a maggiore grandezza, ho trovato invece, dopo alquanti giorni, uno dei due cristallini componenti il gruppo quasi del tutto scomparso, probabilmente per essere stato dall'altro di molto supe- rato in grandezza. Cristalli che si hanno dalle soluzioni del levo e del destro- tartrato acido ammonico mescolati in varie proporzioni. (Quando nelle soluzioni di ciascuna delle specie dei tartrati acidi ammonici vi è piccolissima parte, circa un centesimo, dell'altra specie, i cristalli che si producono hanno particolar forma che li fa distinguere dagli ordi- narii cristalli generati nelle pure soluzioni, sia del levo sia del destro lar- trato. Essi sogliono essere allargati nelle direzioni degli assi d e c, com- pressi nel verso dell'asse a, e sopra tutto notevoli perchè ciascun cristallo sembra composto di minori cristalli tutti allo stesso modo allogatti, e gli uni agli altri congiunti per le facce A, figura 4, e con le estremità cor- rispondenti alle facce C, C' che variamente si prolungano a destra ed a A — —- sinistra. La figura 32 che rappresenta un gruppo di cristilli di paratar- trato acido ammonico nati per metamorfismo, può servire a far com- prendere come sono aggruppati in uno i cristallini dei tartrati acidi am- monici ehe si hanno dalle soluzioni in cui ad una delle due specie tro- vasi mescolata piecola quantità dell'altra specie. Quando ad una delle due specie ho meseolato circa il cinquantesimo dell’altra speeie, ho pure avuto cristalli della specie preponderante formati di minori cristallini aggruppati, e con questo di particolare che le estremità libere dei cristal- lini che vanno ad allogarsi da ciascuna banda si ripiegano verso la fac- cia A, divergendo dalle facce €, C". In questi cristalli aggruppati poi son di parere che si contenga un po'di paratartrato acido ammonico, perchè nelle cristallizzazioni fatte con le riferite proporzioni non ho mai otte- nuto i cristalli del paratartro; e quando con la medesima soluzione ripe- tutamente concentrata ho dato luogo alla formazione di diversi depositi cristallini, nei successivi depositi la forma dei cristalli è divenuta man mano più semplice sino a somigliare quella dei cristalli che sogliono depositare le soluzioni di ciascuna specie pura. Negli esperimenti fatti col mescolare in quantità diverse, non molto dispari, 1 due tartrati acidi ammonici, ho incontrato difficoltà grandis- sima ad avere i cristalli del paratartrato di forma ben definita; e la dif- ficoltà è stata di tanto maggiore per quanto una specie soprabbondava in rapporto dell'altra. Le proporzioni adoperate nei saggi eseguiti sono state di 1:2,1:3,41:4,4:40. Con quest’ultima proporzione di un gramma di levo tartrato e dieci di destro tartrato, le molte volte avendo tentato di avere cristalli dalle soluzioni portate a diverso grado di con- centramento e riposte in coppe chiuse, non ho mai avuto altro che mi- nutissimi cristalli in gran copia, alcuni solitarî, altri congiunti in pic- coli gruppi raggiati. Siccome abbandonando il liquore alla spontanea eva- porazione le muffe lo avrebbero guasto prima che i cristallini deposi- tati sì fossero diseretamente ingranditi, ho decantato e concentrato al- quanto la soluzione eol bollimento, e giunta poi a circa 40°; l'ho versata sul deposito eristallino. Con questa operazione più volte ripetuta, se mi è riuscito di fare ingrandire i cristallini depositati, non ho potuto otte- nere maggior nitidezza nelle loro forme, che han continuato a rimanere confuse. E soltanto dal paragonare il loro aspetto con le forme più di- stinte avute negli altri esperimenti, ho potuto riferirli al paratartrato acido ammonico. Ne ho avuto in seguito maggiore certezza per le nitide forme che mi han dato dopo averli disciolli a parte con acqua stillata. I | È, i | : j T——— omni en n—_——— o _——9t>_r_r__—r—c—_——- _—rr——Pr—r—r—r— ”" rr ye I EIUIO’VÒYYOOO"”V"”””"”° — i Intanto questo fatto serve a provare una straordinaria difficoltà a cri- stallizzare che il paratartrato acido ammonico incontra quando nella sua soluzione si trova disciolto in gran copia uno dei due tartrati acidi della medesima base. Quando nel precedente esperimento 1 cristalli del paratartato deposi- tati son giunti a pesare grm. 1,674, non potendo essi per la confusione delle loro forme servire ad esaminare il metamorfismo che ne sarebbe conseguitato continuando a farli ingrandire nelle acque madri, li ho messì da banda, ed ho concentrato di circa un quarto il liquore decan- tato. Sottraendo dalla quantità dei sali adoperati nel principio dell’ope- zione grm. 1,674 di paratartrato acido ammonico, il residuo rimasto disciolto nel liquore decantato si trova esser formato di grm. 0,163 dì levo tartrato, e di grm. 9,163 di destro tartrato; ovvero il primo sta al secondo nel rapporto di 1 : 56. Con questa proporzione tra le due specie di tartrati i cristalli depositati dal liquore coneentrato sono stati di destro tartrato acido ammonico di forma complessa, risultando ciascun cristallo, come si è detto di sopra, di altri minori cristallini aggruppati e congiunti per le facce A, figura 1. Per le altre mescolanze delle due specie in proporzioni meno dispa- rate ho avuto da prima la produzione dei cristalli di paratartrato acido ammonico che, operando con le precauzioni suggerite dalla pratica, son giunto ad avere discretamente ingranditi e di forme ben difinite. Quindi, continuando il loro ingrandimento, sono giunti ad essere investiti dai cristalli dei tartrati acidi ammonici allo stesso modo che in casi simili abbiam veduto per le mescolanze dei tartrati acidi potassiei, tranne pic- cole differenze che non sono di alcuna importanza. Va ricordato intanto un fatto che ho avuto occasione di osservare nel fare questi esperimenti, a riguardo della diversa maniera d'impiantarsi 1 cristalli di paratartrato acido ammonico secondo il variare delle me- scolanze contenute nel liquore in cui essi si generano. Quando i due tartratiacidi ammonici sono mescolati in quantità eguali, e però può rite- nersì disciolto il puro paratartrato, i cristalli, che talvolta si depositano ‘ aggruppati insieme, si congiungono per una delle parti corrispondenti alle estremità dell'asse è, ed il piano di divergenza passa per gli assi a e d. Se poi nella soluzione si trova eccedente uno dei due tartrati, allora i cristalli riescono bislunghi nel verso dell'asse c, assai spesso si congiun- gono in gruppi raggiati, ed il punto pel quale scambievolmente si attac- cano corrisponde sempre ad una delle facce (€, C'. Ci ha pure da consi- lea derare che i cristalli di paratartrato acido ammonico essendo monoclini, allogandoli in una determinata posizione, come quella rappresentata dalla figura 6, le facce C,C'sono sempre l’una dall’altra distinte; talchè ci ha un mezzo facile di differenziare la faccia C di sinistra dalla faccia C' di dritta. Egli è poi ammirevole non essere indifferentemente all’ una o all’ altra delle facce C, C'che corrisponde il punto pel quale i cristalli s'impiantano. Nei cristalli depositati con le mescolanze delle due specie dei tartrati nel rapporto di 1 :2 e di 1:38, avendoli ottenuti con fac- cette nitide per poter definire le loro forme con misure goniometriche , mi sono assicurato che quando nella soluzione del paratartrato si conte- neva altresì il levo tartrato i cristalli s' inpiantavano e si congiungevano per la faccia sinistra C; ed al contrario soprabbondando il destro tartrato ì cristalli s'impiantavano per la faccia C' del lato destro. Negli esperimenti eseguiti per trasformare i cristalli dei tartrati acidi ammonici in cristalli di paratartrato, avendo immerso nella soluzione del paratartrato sì quelli del levo che del destro tartrato, sì è veduto, pag. 35, come questi restino disciolti, e quali particolari forme di cristalli gemini appartenenti al paratartrato acido ammonico si generino. In tal caso non avendo curato tener conto del peso rispettivo dei cristalli immersi, ha do- ‘ vuto avvenire che uno dei due tartrati siasi trovato disciolto in quantità maggiore dell'altro. Avendo di più voluto sperimentare come proceda nella medesima soluzione l’ingrandimento dei cristalli non geminati di para- tartrato acido ammonico, ne ho immersi alcuni della forma disegnata nella figura 33, e questi, trascorsi sette giorni, li ho trovati, come si scorge nella figura 84, con le facce del lato sinistro divenute convesse e rugose ed assai diverse da quelle del lato destro. Questa specie di emiedria non dubito punto che vada connessa col fatto innanzi detto dell’ impiantarsi i cristalli in date condizioni costantemente con una faccia C determinata. Anzi considero il fatto dell’ impiantarsi i cristalli con la faccia C di sinistra e non con la faccia C' di dritta, 0 viceversa, come una vera emidria. Quindi è da ritenere che i cristalli monoclini di paratartrato acido ammonico generati in soluzioni di puro paratar- trato non siano emiedrici; generati in soluzione che contenga disciolto il levo tartrato unito al paratartrato siano emiedrici in un senso; e final- mente generati in soluzione col destro tartrato siano emiedrici in senso opposto. Considerazioni intorno alla polisimmetria dei tartrati acidi e del paratartrato acido di potassa o di ammonio. Dalle cose fin quì espo- Atti — Vol. I.— N09 6 È PI TTT ea gag ste sopra i tartrati e paratartrati acidi di potassa e di ammonio emergono spontanee diverse considerazioni e sull’indole della loro chimica compo- sizione, ed a riguardo dei loro caratteri cristallografici. Sotto entrambi questi rapporti tra i levo tartrati ed i destro tartrati apparisce maggior differenza di quella che per le precedenti conoscenze sì poteva argomen- tare, ed al contrario i paratartrati si trovano più ravvicinati ai levo e destro tartrati. La differenza cristallografica tra i tartrali ed i paratartrati che sì è di- mostrato non esser altro che un fenomeno di polisimmetria, come la dif- ferenza tra i levo ed i destro tartrati; il metamorfismo che in tutti i casi sì è trovato avvenire con la medesima faciltà, e con i medesimi partico- lari sia tra 1 levo tartrati ed i destro tartrati, sia tra i paratartrati e cia- scuna specie di tartrato, lasciano intravedere che tra i tartrati ed i para- tartrati vi possa essere quella stessa analogia di aggregazione molecolare che intercede tra i levo ed i destro tartrati, o in altri termini che tra i levo e destro tartrati vi possa essere quella medesima differenza che passa tra un paratartrato e ciascuna specie di tartrato. D'altra parte il fatto che l’acido paratartrico si genera dall’unione in parti eguali degli acidi levo e destro tartarico, e può novellamente scindersi nelle due specie di acidi che lo hanno prodotto, guida alla naturale conseguenza che nella sua co- stituzione molecolare si trovino combinati due gruppi di molecole, e che però in esso vi sia un ordine di composizione chimica ben diverso da quello di ciascun acido tartarico. Dopo aver preso nota delle conclusioni in certo modo contradittorie che si hanno da una parte per i riferiti espe- rimenti cristallografici, e dalla parte opposta per il fatto della genesi del- l'acido paratartrico, non tenterò di conciliarle insieme, temendo di far cosa vana per la ignoranza in cui siamo dell’intima costituzione moleco- lare di qualsivoglia corpo. Uno dei fatti che reputo meritare particolar considerazione nei cristalli dei tartrati è la loro emiedria; e non è senza interesse il cercare qual sia l’importanza, quale il valore che dobbiamo attribuire a questo carattere. Nel1855 (1) ho pubblicato alcune ricerche sperimentali intorno alla emie- dria per le quali ho conchiuso che moltissime specie di cristalli, e forse tutte, in particolari condizioni sono capaci di emiedria; che le principali cagioni che fanno comparire o scomparire la emiedria, o anche fanno cambiare il genere di emiedria, sono il tempo più o meno rapido con cui si (1) Ricerche intorno ai cristalli emiedrici per A. ScaccHi. Nuovo Cimento, aprile 1855. i; eseque l’accozzamento delle molecole, e la presenza delle sostanze etero- genee nelle soluzioni in cui si producono i cristalli. Secondo queste de- duzioni l’emiedria non sarebbe un fatto di gran valore per dinotarci una particolare maniera di composizione chimica dei cristalli, non essendo inerente alla loro natura, ma derivando dalle condizioni nelle quali gli stessi cristalli si sono formati. Intanto per i tartrati l’emiedria sembra un fatto di altra natura, essa potrebbe reputarsi un carattere inerente alla loro chimica composizione, e riguardarsi come un fenomeno molto affine alla polisimmetria, ove si consideri ch’essa si manifesta in un senso per 1 levo tartrati ed in un senso opposto per i destro tartrati, e che con la trasformazione scambievole delle due specie di tartrati si muta l’ emie- dria nella modesima guisa che per la trasformazione scambievole dei tar- trati e dei paratartrati si muta ciò che dicesi sistema di cristallizzazione. Se ben si consideri la differenza di un cristallo di levo tartrato posto a riscontro con un altro di destro tartrato, si ha per le loro forme che essi sono terminati dalle stesse facce, con gli angoli diedri della mede- sima specie nell’uno e nell'altro esattamente eguali, e soltanto diversi per il senso della loro emiedria. Si ha poi per altre loro qualità una im- portante e costante differenza nel carattere delle loro soluzioni che de- viano a dritta o a sinistra il piano di polarizzazione della luce secondo che appartengono all’una o all’altra specie di tartrato; ed un’altra diffe- renza ancor essa molto notevole si è innanzi mostrata, pag. 7, per la so- lubilità dei cristalli di una specie nelle soluzioni sature dell'altra specie di tartrato. Quindi è che il carattere della loro diversa emiedria che tro- viamo convenire puntualmente con queste altre differenze sembra essere una qualità derivante dalla diversa costituzione molecolare di ciascuna specie di tartrato, non altrimenti che il diverso rapporto delle lunghezze degli assi cristallografici, e le diverse inclinazioni dei medesimi assi di- pendono dalla composizione chimica di ciascuna sostanza. Nondimeno per i risultamenti di altre esperienze si ha che la riferita importanza della emiedria e lo stretto suo legame con la composizione dei cristalli potrebbe essere piuttosto appariscente che reale. Non ricor- derò la mutabilità della emiedria del bitartrato ammonico ordinario, pag. 9 e seguenti, non essendomi riuscito trovare la cagione che la pro- duca; ma due altri fatti precedentemente menzionati dimostrano che la emiedria dei tartrati può invertirsi, e che le soluzioni dei tartrati hanno una maravigliosa virtù di rendere emiedrici anche i cristalli dei paratar- trati. Si è veduto, pag. 12, che i cristalli dei tartrati acidi ammonici ge- * vot i int UA nerati nelle soluzioni che contengono il citrato sodico presentano il ca- rattere della emiedrica invertito senza essersi nulla mutato della propria natura dei cristalli; i quali se s'immergono in una soluzione pura della specie di tartrato acido ammonico identica a quella dei cristalli, con l’ingrandirsi dei medesimi, si cambia in essi il senso della emiedria, re- stituendosi alla condizione normale. Si è pure veduto, pag. 41, che i cristalli di paratartrato acido ammonico, che non sono di loro natura emiedrici, diventano emiedrici nelle soluzioni dei tartrati acidi ammoni- ci, e presentano l’una o l’altra delle due contrarie emiedrie secondo che nel liquore sia disciolto il levo o il destro tartrato. A questi due fatti po- trei anche aggiungere il fenomeno di emiedria che in taluni casi si mani- festa nei cristalli gemini dei paratartrati, pag. 28 e 36, ancor essa in senso variabile secondo la specie più abbondante di tartrato disciolto nel liquo- re. Egli è poi facile intendere come per i ricordati fatti l’emiedria dei cri- stalli dei tartrati potrebbe ancor essa non essere qualità inerente alla loro propria natura, ma essere invece effetto della virtù che ha di agire sopra i cristalli la soluzione nella quale essi si producono e s’ingrandiscono. Se non vi fossero altri fatti da opporre a questi ora menzionati, ne se- guirebbe che l’emiedria dei cristalli dei tartrati sarebbe un fenomeno ac- cidentale da non compararsi al diverso tipo di forma delle sostanze po- lisimmetriche ; che tra i levo ed i destro tartrati intercederebbe una dif- ferenza analoga a quella che si rinviene tra i due modi di essere delle sostanze polisimmetriche senza che tal differenza influisca sulla forma dei cristalli; che in fine le soluzioni dei levo tartrati e dei destro tartrati avessero, oltre la virtù di far deviare il piano di polarizzazione della luce a sinistra o a destra, anche l’altra di produrre nei cristalli che in esse sì formano una emiedria sinistrorsa o destrorsa. (Queste deduzioni poi sono contraddette dal fatto già noto che nelle so- luzioni di paratartrato sodico-ammonico, o sodico-potassico, si producono ad un tempo i cristalli dei corrispondenti levo tartrati e destro tartrati gli uni con emiedria contraria a quella degli altri. Se la emiedria non fosse qualità propria dei cristalli, e derivasse da particolare maniera di agire delle soluzioni, è manifesto che in questo caso i eristalli non do- vrebbero essere emiedrici. Esposte le contrarie conclusioni alle quali si perviene per i fatti sino al presente conosciuti intorno alla importanza del carattere della emie- dria nei cristalli dei tartrati, stimo non potersi per ora affermare quale di esse all'altra prevalga. n a Darò termine a queste considerazioni ritornando sul fatto che i cristal- lini dei paratartrati acidi di potassa e di ammonio che nascono pel me- tamorfismo dei corrispondenti tartrati sono sempre gemini, pag. 24. I cri- stalli dei medesimi paratartrati che sì hanno con i metodi ordinari dalle loro soluzioni pure, assai di raro sono gemini, talchè questa invariabile condizione dei cristalli che nascono per metamorfismo deve reputarsi provvenire da una particolare influenza che esercitano i cristalli dei tar- trati sulle molecole de’ paratartrati, obbligandole a seguire la legge della geminazione. Tale influenza potrebbe attribuirsi alla soluzione del tar- trato, perchè si è veduto come la parte superficiale dei cristalli dei tartrati immersi nelle soluzioni dei paratartrati si solve; e però il liquore che circonda i cristalli immersi, e nel quale si generano i novelli cristallini del paratartrato, contiene sempre disciolto un po’ di tartrato. Nondimeno reputo la causa della geminazione emanare dei cristalli del tartrato, dap- poichè certamente da questi deriva l’altro fatto, intimamente connesso alla geminazione, che i cristallini gemini del paratartrato sono sempre impiantati sul cristallo del tartrato per la parte ove s'incontrano con an- golo diedro rientrante le facce 4, h', fig. 12, o, ciò che vale lo stesso, per la parte ove s'incontrano con angolo prominente le facce f, e". Quanto al rinvenirsi i cristalli semplici o geminati, sia nelle produzioni naturali come nelle artificiali, possiamo stabilire tre casì principali. 1° Sostanze i cui cristalli non si conoscono altrimenti che semplici (leucite, solfato di magnesia). 2° Sostanze i cui cristalli si producono nelle medesime condizioni e semplici e geminati ad un tempo (solfato potassico, nitrato di stronziana). 3° Sostanze i cui cristalli in talune condizioni son tutti semplici, in altre condizioni son tutti gemini, e tutti con la medesima specie di geminazione se la sostanza si gemina in diverse maniere (calcite, fluorina). Quest'ultimo caso è di tutti il più notevole, e sarebbe maggiore la sua importanza per le investigazioni cristallografiche se potessimo deter- minare le condizioni particolari nelle quali si generano cristalli ora sem- plici ed ora gemini, e quando con l’una o con l’altra maniera di gemi- nazione. Ma nelle produzioni artificiali, per le quali ci è dato conoscere e regolare a nostro piacimento le condizioni in cui si generano i cristalli, tranne il riferito esempio dei cristalli di paratartrato acido potassico 0 ammonico nati per metamorfismo, non mi sono imbattuto in altra so- stanza per la quale mi fosse riuscito avere cristalli semplici o geminati in condizioni ben definite. E soltanto potrei recare diversi esepii nei quali — e più o men chiaramente mi è avvenuto osservare essere più frequente e’ più facile la comparsa dei cristalli semplici nelle lente cristallizzazioni, ed al contrario nelle cristallizzazioni rapide aversi maggior copia di crì- stalli gemini. Finalmente quanto alla posizione relativa dei cristalli dei paratartrati e dei tartrati nel loro scambievole metamorfismo, importa notare le tre seguenti condizioni: 4° che l’asse della zona AC, fig. 6-9, deì primi coin- cide con l’asse della zona AC, fig. 1-5, dei secondi; 2° che tutti gli spi- goli dei primi sono rispettivamente paralleli agli spigoli dei secondi nelle zone in cui sì trova compresa la faccia A; 3° e che gli spigoli dei primi non son paralleli agli spigoli dei secondi nelle zone in cui si trova com- presa la faccia C, a meno che non vi sia pure compresa la faccia A. Confronto tra i cristalli del paratartrato acido di soda e dei tar- trati acidi di soda. Nella precedente memoria sulla polisimmetria ho mostrato che i cristalli di paratartrato acido di soda sono polisimmetri- ci, riferendosi le loro forme quando al sistema triclinoedrico e quando all’ortogonale; ed in quest'ultimo caso sono dotati di tale emiedria che potrebbero ancora considerarsi come cristalli monoclini. Nella figura 15 è rappresentato un cristallo triclino con la faccia £ parallela al piano di proiezione, e nella figura 16 lo stesso cristallo è rappresentato con le facce C,u,v,&,f perpendicolari al piano di proiezione. Dell’altra specie la forma è figurata sotto il numero 17, anche con le facce C, u, v, 2, £ per- pendicolari al piano di proiezione. Essendovi clivaggio nitidissimo pa- rallelo alle facce C di entrambe le due specie di forme, riterremo che le medesime facce siano identiche in entrambe, e potranno servire come punto di partenza nel definire l'analogia delle diverse facce che sono nel- l’una e nell’altra forma. L’analogia poi tra le facce contrassegnate dalle medesime lettere nei cristalli triclini ed ortogonali è dimostrata dall’ a- vere esse negli uni e negli altri eguali inclinazioni sopra C (4), tranne le piccole differenze che sono inferiori a quellechedi necessità si rinvengono nelle misure goniometriche delle facce che sono di loro natura più del- l’ordinario poliedriche. Paragonando poi le facce x e X dei cristalli tri- clini con le facce A, /, n dei cristalli ortogonali, non è possibile stabi- lire alcuna analogia tra le prime e qualcuna delle seconde. Lo spigolo Cu dei cristalli triclini è inclinato allo spigolo Cx di 112°59'; nei cristalli ortogonali lo spigolo Cu è inclinato sullo spigolo C? di 90°0', e sullo (1) Veggasi il quadro che verrà in seguito. ii = spigolo Cn, supponendo la faccia n prolungata, di 140°42'. Gli angoli formati da questi spigoli danno la misura delle inclinazioni dei piani delle zone CoA, CIA, Cn sul piano della zona Cu Bv, comune ai due tipi di forme, e la grande differenza nei riferiti valori angolari esclude ogni analogia. Ho ricercato pure se allogando la faccia « o A dei cristalli triclini nei cristalli ortogonali inclinate sopra C e sopra v come le sono sopra le analoghe facce dei cristalli ticlini, esse incontrassero gli assi ortogonali a,b,c a tali proporzionali distanze da soddisfare alle leggi cristallogra- fiche. E ritenendo l’asse a eguale all'unità, ho trovato: peolababgiaro veri enti sii balza gol a:b:c=A1:2,3078:1,1847 fetali cia Der coensizoarallavo ongrost.a: a:b:c=1:2,3578:7,9548 per la faccia n dei cristalli ortogonali . . . a:b:c=1:1,6830:2,9859 Come si scorge dal riferito rapporto tra gli assi è e c delle facce a e À con gli assi d e c della faccia n, esso è tanto lontano dalle semplici pro- porzioni degli assi cristallografici per le facce di un medesimo cristallo che esclude la possibilità di trovarsi mai « e À unite ad n. Nella citata memoria si è dichiarato altresì che nessuna delle due spe- cie di cristalli del paratartrato acido di soda si trasforma nell'altra; al- meno non si è riuscito con alcun mezzo ad ottenerne la trasformazione di- retta. Questo fatto non esclude dal novero delle sostanze polisimmetriche il paratartrato acido di soda; dappoichè la cagione del prodursi l'uno 0 l’altro tipo di forma non dipende da alcuna differenza nella composizione chimica della soluzione nella quale si genera ciascuna specie dei suoi cristalli. Egli è però che non si ha il mezzo sicuro di trasformare i cri- stalli di una specie mettendoli nelle condizioni che dànno origine all’ al- tra specie. La cagione, se non unica almeno principale, per la quale si ottengono ora cristalli triclini ed ora cristalli ortogonali dalle soluzioni del paratartrato acido di soda , consiste nel prodursi i cristalli con mag- giore o minore rapidità; cagione affatto identica a quella per cui i cri- stalli di bitartrato di stronziana con quattro proporzionali di acqua sono talfiata triclini ed altre volte monoclini. Intanto si è veduto (1) che i cri- stalli triclini del bitartrato di stronziana si metamorfizzano spontanea- mente anche fuori le soluzioni generatrici in cristalli monoclini, e non (1) Della polìsimmetria dei cristalli per A. ScAccHI, pag. 89 e seg. SARE mai questi sì trasformano in quelli. Quanto poi al paratartrato acido di soda si è pure veduto (1) che stando nella medesima soluzione i cristalli triclini generati in principio «ed i cristalli ortogonali sopraggiunti in se- guito, in progresso di tempo, mentre i secondi continuano ad ingran- dirsi, i primi si solvono; e saturando col loro disfarsi la soluzione, favo- riscono l'ingrandimento dei cristalli ortogonali. E questo il solo mezzo indiretto, e di non facile riuscita, per trasformare i cristalli del paratar- trato acido di soda del tipo triclino in cristalli del tipo ortogonale; ed in nessun modo per gli esperimenti sino al presente eseguiti, si è giunto ad ottenere la trasformazione inversa. Egli è però che le sostanze polisimmetriche, guardate dal lato della scambievole trasformazione dei cristalli di tipo diverso, offrono due casi ben distinti. Nel primo caso si trovano quelle sostanze per le quali il di- verso tipo di forma cristallina deriva dalla composizione chimica della soluzione in cui si generano i cristalli; e potendo a nostro piacere far variare tale composizione, possiamo pure ottenere quella specie di for- ma che vogliamo, e la diretta trasformazione scambievole tra i cristalli che hanno diverso tipo di forma. In questo stesso caso sì ha che i cri- stalli estratti dalle acque madri, o lasciati in soluzioni la cui composi- zione chimica non va soggetta a variare, sono del tutto stabili ed incapaci di metamorfismo spontaneo. Questa è la condizione del solfato potassico e del feldispato (ortosa ed albite) esaminati nella precedente memoria, come pure dei tartrati acidi e del paratartrato acido di potassa o di am- monio, sia che i levo tartrati si paragonino con i destro tartrati, sia che gli uni e gli altri si paragonino con i paratartrati. Nel secondo caso sono quelle sostanze per le quali il prodursi l’uno o l’altro tipo di forma provviene dalla maggiore o minore celerità con cui sì producono i cristalli. Quindi è che possiamo a nostro piacimento, come nel precedente caso, ottenere l’una o l’altra specie di forma, ma non è in nostro potere di variare queste condizioni in modo da applicarle effi- cacemente alla scambievole trasformazione dei cristalli di diverso tipo. In questo caso poi abbiamo che i cristalli generati con maggiore celerità non sono stabili, val quanto dire che sono capaci di trasformarsi spon- taneamente nell’altra specie di più lenta generazione. Il tartrato acido di stronziana con 4HO, ed il paratartrato acido di soda sono tra gli esempii di tal maniera di polisimmetria, ma con differenze di qualche importanza. (1) La medesima opera, pag. 104. joe Dappoichè nei cristalli del tartrato acido di stronziana la spontanea tra- sformazione si ottiene assai facilmente, sia dopo averli estratti dalle ac- que madri, sia nelle stesse acque madri senza che in esse intervenga al- cun mutamento per la loro chimica composizione. Nel paratartrato acido di soda al contrario i cristalli triclini di più rapida formazione, se sono meno stabili dei cristalli ortogonali, la differenza non è così rilevante come nel sale di stronziana; e si riduce al solo fatto che stando riunite le due specie di cristalli nelle acque madri, in favorevoli condizioni, i cristalli triclini prima generati si solvono, mentre i cristalli ortogonali dal loro disfarsi ricevono gli elementi che servono ad ingrandirli. Tale essendo la piccola differenza di stabilità tra i cristalli di diverso tipo del paratartrato acido di soda, ne conseguita il difetto di opportune condi- zioni perchè la specie più stabile si potesse ottenere per diretta trasfor- mazione dell'altra specie, e quindi verificarsi la legge del parallellismo delle facce analoghe dei cristalli di tipo diverso. Dopo la pubblicazione della prima memoria sulla polisimmetria, rite- nendo possibile la spontanea trasformazione dei cristalli triclini del pa- ratartrato acido di soda in condizioni più favorevoli di quelle che sihanno nell’ordinaria maniera di conservare i cristalli, ho tentato la pruova con qualche esperimento diretto a mantenere i cristalli triclini in un’atmo- sfera umida e più calda di quel che suol essere nella stagione estiva. Alla temperatura di circa 80° per molte ore sostenuta i cristalli non han patito cambiamento sensibile, ed anche variando l'esperimento in modi diversi non mi è riuscito osservare in essi alcun segno di metamorfismo. Passando ora al paragone tra i cristalli di paratartrato acido di soda con quelli di levo o destro tartrato acido della medesima base, l’analo- gia che avremmo dovuto attenderci di trovare dietro l’ esempio degli al- tri tartrati paragonati con i paratartrati d’identica composizione chimi- ca, è limitata a leggieri somiglianze le quali lasciano dubitare che vi sia alcuna analogia. Nelle figure 13 e 14 ho rappresentato due varietà dei cristalli di destro tartrato acido di soda, ovvero del bitartrato di soda ordinario. In essi vi è clivaggio distinto parallelo alla faccia C come per entrambi i tipi dei cristalli del paratartrato rappresentati nelle figure 15, 16, 17. Vi son pure le facce w, v, x, fig. 13, disposte come le facce «, v, €, fig. 16, 17; e la faccia o, fig. 13, disposta come la faccia /, fig. 17. Nondimeno le inclinazioni sopra C delle facce dei cristalli del bitartrato non sono tanto prossime a quelle delle facce indicate con le medesime lettere nei cristalli del paratartrato da poter conchiudere l'analogia delle | Atti —Vol. 11.—N.9 9 7 _ — 50 — prime con le seconde. Ciò apparirà chiaramente per le misure goniome- triche riportate nel quadro qui aggiunto: Paratartrato acido di soda COLLI Bad vigtt sc acido di soda TRICLINO |ORTOGONALE fig. 15,16} fig.17 |fig-13,14 C sopra w = 148° 34' C_» u= | 143° 1’ |142°44' Gav 4924400 dossi C » ve 129 18 GO n° — | T1SCSNNAT9 DE C » x 1412 15 C » = 103 7 |105 44 GU iag= 100 38 CC» l= 135 8° C » o—- 123 49 C 0 m= 41417 24 Ge, ra = 106 3 Dalle precedenti misure non possiamo ritener dimostrata tra i cristalli del tartrato e del paratartrato quell’analogia ch'è propria delle forme di diverso tipo delle sostanze polisimmetriche; talchè ho stimato dovermi assicurare se realmente avessero la medesima composizione elementare. Avendo quindi determinato la quantità di soda contenuta in 100 parti di ciascuna specie, ho trovato pei bitartrato 16, 15; pel paratartrato acido triclino 16,29 e pel paratartrato acido ortogonale 16,23. Secondo la formola C°H°Na0'*,2HO la quantità della soda sarebbe 16,30 per 100, e però non cade dubbio sulla identica quantità di acqua contenuta nelle tre specie di cristalli analizzate. Diflicili poi, e per nulla concludenti sono riusciti i tentativi fatti per metamorfizzare i cristalli del destro tartrato in paratartrato , o per otte- (a) Nella precedente memoria sulla polisimmetria, pag. 98, ho ritenuto l'inclinazione di 2 sopra O=132' 37’ che non si allontanava di molto dalla inclinazione rinvenuta con le misure dirette; ed in conseguenza di questa inclinazione ho adottato per la faccia / il simbolo alquanto complesso 4 0 11. Da recenti misure sopra cristalli più nitidi avendo avuto l’angolo che misura l'inclinazione di l sopra € prossimo a 135°, ho adottato per / il simbolo assai più semplice 1 0 3 dal quale si deduce il medesimo angolo =135°8". === nere il fenomeno inverso. Mi astengo quindi dall’esporre gli esperimenti fatti, dai quali debbo conchiudere di non conoscere ancora le vere rela- zioni cristallografiche dei tartrati acidi di soda. PARTE II. Considerazioni sul polimorfismo. Nella prima memoria sulla polisimmetria si trovano esposti alcuni esperimenti sul polimorfismo del solfato di nichelio con sei proporzionali di acqua, pag. 105 e seguenti, e da questi esperimenti si deduce che i due fenomeni che ho distinto con i nomi di polissimmetria e di polimor- fismo sono talvolta prodotti da analoghe cagioni. Da una parte questa condizione che il polimorfismo non riconosce ca- gioni affatto distinte da quelle che producono la polisimmetria, e da un’altra parte la chimica composizione supposta identica nei cristalli po- limorfi, mi han fatto supporre almeno la possibilità che tra le forme dei cristalli di tipo diverso delle sostanze polimorfe vi fosse un certo rap- porto più complicato di quello che presentano i cristalli delle specie polisimmetriche. Egli è poi chiaro che il rapporto da me cercato non poteva esser quello ammesso da Pasteur nei cristalli dimorfi e da me stesso reputato più illusorio che reale quando ho stabilito la dilferenza tra il polimorfismo e la polisimmetria. Quindi ho continuato a studiare questo argomento per meglio approfondirlo, ed ho stimato estendere le mie ricerche a quelle sostanze che per analogia di composizione dovrem- mo attenderci di rinvenirle isomorfe, e che pure sì presentano dimorfe. Intanto perle nuove indagini che sono l'argomento di questa seconda parte della presente memoria ho acquistato opinione ben diversa da quella fin ora adottata sul dimorfismo; ed a dirla in breve ora son di avviso che le sostanze dimorfe nei cristalli di diverso sistema non abbiano ]a medesi- ma composizione chimica, e che però non vi sia vero dimorfismo; o al- meno la parola dimorfismo serve ad esprimere il diverso sistema di cri- stallizzazione tra le sostanze che per le chimiche analisi si mostrano iden- ticamente composte e non tra quelle che abbiano realmente composizione in tutto identica. I solfati che hanno per base un ossido del gruppo della magnesia ho * Mens ela reputato offrirmi una serie di composti opportuna ad essere studiata sotto questo rapporto. Abbiamo di fatto tre specie, i solfati di magnesia, di zinco e di nichelio con sette proporzionali di acqua le cuì forme cristalline sono trimetriche ortogonali; e tre altre specie, i solfati di ferro, di man- ganese e di cobalto, aneor essi con sette proporzionali di acqua, ma con cristalli monoclini. Per questi solfati è d’uopo aver presente che si hanno in essi la riferita quantità di acqua, e quindi le riferite forme cristalline, quando le loro soluzioni sono neutre o poco acide, e quando la tempera- tura del liquore cristallizzante non oltrepassa di molto i trenta gradì. Dappoichè elevandosi il grado di calore, o soprabbondando nel liquore l'acido solforico, per ragioni assai facili ad intendere, si hanno cristal- lizzati i solfati delle medesime basi con minori proporzioni di acqua e che non sono più comparabili con i precedenti. Il sollato di manganese è pure notevole in paragone degli altri in quanto che per esso la temperie di nove o al più dieci gradi sopra zero basta per impedire la produzione dei cristalli con sette equivalenti di acqua; ed i cristalli monoclini già ottenuti al di sotto di dieci gradi, posti all’asciutlo a temperature di poco superiori, abbandonano porzione di acqua e, senza dar segno di fate- scenza, si trasformano in gruppì di minuti cristalli triclini con cinque proporzionali di acqua. Di questi particolari del solfato di manganese si vedrà la importanza quando saremo ai solfati nella composizione dei quali si mescolano due ossidi che separatamente danno sali con forme cristal- line tra loro diverse. Anche più del solfato di manganese è importante la condizione del sol- fato dì rame, dappoichè l’ossido di rame ha pure grande analogia con le basi dei solfati innanzi menzionati; e bastano a mostrarla l’isomorfi- smo tra il solfato di rame e quello di manganese, entrambi con cinque proporzionali di acqua, e l’isomorfismo dei solfati doppî che tutti i solfati degli ossidi precedenti, compreso il solfato di rame, formano col solfato di ammonio. Intanto il solfato di rame, purchè sia puro, non dà mai cri- stalli con sette proporzionali di acqua. E siccome le temperature più basse sono quelle che favoriscono la produzione delle specie con mag» giori proporzioni di acqua, ho tentato, senza potervi riuscire, di ottenere il solfato di rame con sette equivalenti di acqua facendolo cristallizzare alla temperie di sei gradi sotto zero. In questo esperimento ho adoperato una soluzione del sale di rame nella quale si erano generati alquanti cristalli mentre la temperatura dell'ambiente era di circa 23°. Situato in una mescolanza di neve e sale DEN. il cristallizzatoio con la soluzione decantata, quando il termometro in esso immerso ha segnato undici gradi sopra zero, sono apparsi ì primi cristalli assai minuti dell’ordinaria forma del solfato di rame. Giunto il raffreddamento a circa tre gradi sotto zero, ho tuffato nel liquore alquanti fili di cotone per esser sicuro che i cristalli su di essi aderenti, nel caso se ne fossero attaccati, non potevano esser generati prima che si fosse raggiunto questo abbassamento di temperatura. Il termometro ha conti- nuato a segnare progressivo raffreddamento sino a — 6°, e dopo essere stato quasi stazionario per pochi minuti, son venuti a galla dal fondo della coppa molti fiocchetti di neve con qualche cristallino del sale di rame in essi impigliato : In meno di un minuto dopo la prima apparizione dei fiocchetti la temperatura è salita e si è arrestata a —2°,8. Quindi ho stimato inutile continuare l’esperienza con temperature più basse per l’impedimento alla cristallizzazione del sale di rame derivante dalla con- gelazione del liquore; e soltanto ho continuato per circa due ore a rin- novare la medesima mescolanza di neve e sale per dar tempo all’ingran- dimento dei cristalli già cominciati a depositarsi. In queste due ore il termometro si è abbassato alquanto arrestandosi a — 3°, 2, i fiocchi che ingombravano il liquore si sono in parte dileguati; e mentre aderente alle interne pareti laterali della coppa si è formata una fitta crosta di neve fibbrosa di circa 10 millimetri, nel mezzo sino al fondo della me- desima coppa la soluzione è rimasta limpida, talchè ho potuto distiguere il progressivo ingrandimento dei cristalli depositati in fondo o aderenti ai fili di cotone immersi nel liquore. La forma poi di questi cristalli ho trovato esser quella stessa del solfato di rame con cinque proporzionali di acqua. (Quindi per questo saggio mi sono persuaso che il solfato di rame sia incapace di cristallizzare con sette proporzionali di acqua, al- meno sino alla temperie di —6°,e che a temperature più basse sia assai malagevole o forse impossibile di fare l’ esperimento. Nella figura 42 ho rappresentato la forma più frequente dei cristalli ortogonali dei solfati che hanno per base la magnesia, lo zinco, od il nichelio, e nell'altra figura 43 è disegnata la forma monoclina propria degli altri solfati che hanno per base il ferro, il cobaldo o il manganese. Nel quadro seguente si leggono gli angoli che misurano le inclinazioni delle facce di ciascuna specie di cristallo secondo la diversa specie di; ossido metallico che entra nella sua chimica composizione. IT —o- e —__ —_ 54 Fig. 42 e.) Là pe" = e Mg0 | Zn0 Ni0 o sopra 0° = | 120° 4’| 120° 6’| 120°29” u » wu | 8924] 8938 | 88 44 n ih IESa 129 5 128 38 no» n=| 412646 | 426 52 | 126 58 cani Ai i — | 02 36! 5245] 54 49 Fig. 483 oe 00 — es Fe0 Co0 Mn0 118° 1/| 118° 8/| 148042” 149 3 | 4418 51 | 449 40 105 45 | 105 4 | 106 47 105 9 | 105 21 | 4104 43 115 35 | 115 40 | 145 12 159 7]|459 24 | 158 30 123 41 | 124 8 | 122 31 101 47 | 101 47 | 4101 36 149 3 | 118 54 | 119 40 123 56 | 124 41 | 123 23 96 44 | 9628 | 97 4 66 23 | 66 51 | 67 39 138 54 | 138 45 | 139 34 e nnt) * È Ss COM DE Ra i Re e ES SSIS ea s [I x A A A A A Bia B B B e e e C i S I Confrontando le misure goniometriche dei cristalli prismatici dei sol- fati di magnesia, di zinco e di nichelio con quelle dei cristalli mono- clini dei solfati di ferro, di manganese e di cobalto, è facile persuadersi non esservi alcuna analogia tra le facce dei due diversi sistemi di forme; e che però essi costituiscano un distinto esempio di dimorfismo. Assicu- rato questo fatto, esso stesso ci mostra che quanto alla cagione del di- morfismo nel presente caso contribuisce in modo quasi esclusivo la na- tura chimica di ciascun ossido che tien luogo di base. Per osservazioni precedenti, ed in particolare per le ricerche fatte da Rammelsberg (a), è pure dimostrato che nei cristalli di ciascun sistema vi possono prender parte gli ossidi che separatamente danno cristalli dell'altro sistema. La quantità relativa di ciascuno dei due ossidi è variabile, e dipende da due (a) Handbuch der Krystallographischen Chemie von C. F. RammeLsBERG. Berlin 1855, pag. 107. — 55 — principali condizioni; dalla quantità relativa del solfato ortoganale e del solfato monoclino contenuti nella soluzione, e dal grado di solubilità dei medesimi solfati. In queste mescolanze poi il fatto più notevole, e che meno era da attendersi, ce lo presentano alcuni solfati monoclini nei quali talvolta prevale in proporzioni atomiche il solfato che isolatamente dà cristalli ortogonali. D'altra parte sono ammirevoli le mescolanze del solfato di rame con uno dei solfati di magnesia, di zinco e di nichelio che da se soli danno cristalli ortogonali. In ciascuno di questi casì si hanno cristalli mono- clini isomorfi col solfato ferroso, nei quali si rinviene pure variabile la proporzione tra il solfato di rame ed uno degli altri solfati, e la quantità atomica degli ultimi è d’ordinario molto maggiore di quella del solfato di rame. Intanto questi cristalli monoclini derivano dall'unione di due sali ciascuno dei quali isolatamente non dà mai cristalli monoclini. Con- dizione molto importante la quale ci rivela l'unione dei due solfati non essere una semplice mescolanza, siccome per le variabili loro propor- zioni sembra doversi inferire; ma essere invece una chimica combina- zione di due specie di sali. E favorisce maggiormente questa maniera d'intendere la loro composizione il fatto del solfato di rame puro che an- che a temperature inferiori a zero non dà mai cristalli che abbiano più di cinque proporzionali di acqua, mentre il solfato di rame che fa parte dei menzionati cristalli monoclini, facili ad ottenersi anche a temperature maggiori di 20° sopra zero, contiene come il solfato ferroso sette propor- zionali di acqua. Egli è poi chiaro che se i cristalli monoclini formati dal solfato di ra- me con uno dei solfati che danno forme cristalline ortogonali, vanno considerati come chimiche combinazioni di due specie di solfati, gli altri cristalli monoclini formati soltanto dai solfati di ferro, di manganese o di cobalto, per l'analogia di composizione dimostrata dall’isomorfismo, dovranno ancor essi riguardarsi come composti da due specie di solfati. Queste deduzioni sarebbero abbastanza sicure, se non fosse il variare delle proporzioni tra le basi dei cristalli monoclini che nascono dall'u- nione del solfato di rame con i solfati di magnesia, di zinco o di niche- lio; dappoichè la costante proporzione dei componenti è carattere distin- tivo delle chimiche combinazioni. Nondimeno credo facile dare una spie- gazione del fenomeno secondo la quale la riferita variabilità di propor- zioni non sarebbe che apparente, e nel medesimo tempo tutti i casì di di- morfismo sarebbero conseguenza del diversotipo di chimica composizione. su Fio La spiegazione che propongo è fondata sulla proprietà già riconosciuta in molti corpi, siano semplici siano composti, di poter subire diverse mo- dificazioni che diconsi stati allotropici o isomerici. Questi stati diversi talvolta non offrono che lievi differenze, e sono facili a mutarsi gli uni negli altri, altre volte sono le differenze più profonde e più permanenti, siccome ne porge l'esempio il carbonio nelle sue modificazioni di dia- mante e di grafite. Le differenze poi tra gli stati allotropici del medesimo corpo possono compararsi a quelle che distinguono i corpi di natura di- versa; se non che per questi la distinzione è stabile, non potendosi con i mezzi fin ora conosciuti effettuare la trasformazione di un corpo nel- l’altro, mentre possiamo trasformare l’ una nell'altra modificazione, o ri- durre alla stessa modificazione gli stati diversi del medesimo corpo. Ciò posto non sarà opinione priva di fondamento il supporre nel caso che stiamo esaminando gli ossidi di magnesio, di zinco, di nichelio, di ferro, di manganese, di cobalto e di rame capaci di prendere diversi stati isomerici nelle loro combinazioni con l'acido solforico; e basta supporre due soli di questi stati che diremo « e #8; talchè chiamando in generale M qualsivoglia dei precedenti sette metalli, diremo i loro ossidi, secondo l’ uno dei due stati che può prendere M°0, ed M°0. Aggiungasi pure che non tutti i medesimi ossidi possono prendere con pari faciltà l'uno e l’al- tro stato; ma, per quel che si deduce dal carattere cristallografico dei loro solfati, gli ossidi di magnesio, di zinco e di nichelio sono più dispo- sti a diventare M*0 che M°0, gli ossidi di ferro, di manganese, e di co- . balto diventano con eguale faciltà M*0 ed M°O, e l’ossido di rame non può prendere altro stato se non quello di M*0. In questi diversi stati iso- merici è da considerare la loro faciltà di prodursi e la eguale faciltà di scomparire fuori le condizioni in cui si producono, non rimanendo alcun segno di differenza in ciascuno dei medesimi ossidi separati dall’acidosol- forico. Il quale rapporto tra la faciltà di prodursi e la difficoltà di persi- stere i diversi stati isomerici, già confermato da altri esempii che non occorre ricordare, ci rende impossibile di dimostrare con maggiore evi- denza le modificazioni diverse degli ossidi metallici nei cristalli che ab- biam preso ad esaminare. Quindi, da parte la presenza de’sette proporzionali di acqua, si perviene a conchiudere che i cristalli ortogonali siano formati da un solfato di M°0, qualunque sia l’ossido o i diversi ossidi isomorfi che funzionano da base; ed i cristalli monoclini siano formati dalla combinazione in pro- porzione definita di un solfato di M”0 con un solfato di M°0. serio In quest’ultimo caso non sappiamo se i due solfati siano combinati in proporzioni atomiche eguali, che sarebbe il più semplice modo di com- binazione, o se in vece serbassero altre proporzioni; ma è da ritenere che i loro rapporti atomici siano costanti e sempre gli stessi. Potrebbe essere pure che sì nei cristalli ortogonali che nei monoclini stia un sol- fato di M"0 combinato ad un solfato MF0 con proporzioni diverse in cia- scuna delle due specie di cristalli. E potremmo ancora scegliere altre maniere di combinazioni che non avranno altro merito se non quello di essere possibili. Nello stato presente delle scienze naturali, non avendo alcun criterio sicuro per giungere a determinare in modo assoluto qual sia l’intima maniera di combinazione nei corpi composti, qualunque tipo di composizione chimica vogliasi assegnare ai cristalli ortogonali ed ai monoclini non sarà mai da ritenersi come definitivamente determinato. Intanto è d’ uopo considerare che il nostro scopo è pienamente raggiunto sol che sia dimostrata la probabilità che la chimica composizione dei cri- stalli monoclini sia diversa da quella dei cristalli ortogonali. Omettendo altre considerazioni in sostegno della riferita ipotesi, sog- giungerò soltanto che essa basta a renderci ragione di tutti i fatti che nei solfati con sette proporzionali di acqua sembrano più o meno fuori regola. I cristalli monoclini nascendo dalla combinazione di un solfato di M°0 con un solfato di M°0, s'intende perchè il solfato di rame con i solfati di magnesia, di zinco e di nichelio producano cristalli monoclini, mentre ciascuno di essi è incapace da se solo a dare cristalli di questo sistema; e s'intende pure come la variabile proporzione delle diverse basi possa conciliarsi con la costante proporzione tra il solfato di M*0 ed il solfato di MO, perchè gli ossidi di magnesio, di zinco e di niche- lio, se in gran parte sono nello stato di M*0, una loro porzione può tro- varsi allo stato di M°0. Le medesime cose vanno applicate per i cristalli monoclini nei quali gli ossidi di magnesio, di zinzo e di nichelio sono uniti all’ossido di ferro, di manganese o di cobalto. Il prodursi cristalli ortogonali che contengono oltre gli ossidi di magnesio, di zinco e di ni- chelio anche gli altri ossidi di ferro, dì manganese o di cobalto, non ha nulla di straordinario, perchè gli ultimi tre ossidi possono stare nello stato di M°0. Che il puro ossido di rame non si combini mai con l'acido solforico e con sette proporzionali di acqua, vuol dire che non si dà alcun solfato di MO con sette proporzionali di acqua. Se i cristalli monoclini di puro solfato di manganese con sette proporzionali di acqua si trasfor- mano in cristalli triclini con cinque proporzionali di acqua per poco che Atti — Vol, II.— N.°9 9 8 ———_—m@mm6m————_—_—————m——m— ——_mm TPr+—__————————t111Àdd " 1UR(mdeb1ov_.. w—MAMMAAA ri AM è*35©@MOM ttt E @©O )V!© VM e ee eee n” . e og che N de Tg «de — Re la temperatura oltrepassi i dieci gradi, mentre i cristalli monoclini for- mati dallo stesso solfato di manganese con uno dei solfati di magnesia, di zinco o di nichelio si conservano intatti a temperature maggiori di venti gradi, purchè sottratti all’azione dell’aria libera che li renderebbe fatescenti, non è un fatto da farne maraviglia, ed esso serve soltanto a mostrarci che l’ossido di manganese nello stato di M*0 è meno stabile degli ossidi di magnesio, di zinco e di nichelio nel medesimo stato. Vi son pure altri cospicui esempii di dimorfismo nei quali concorrono tali condizioni da mostrare che nei cristalli di sistema diverso sia altresì diverso, o che almeno esser possa diverso, il tipo della loro chimica composizione. Siccome la maniera con la quale propongo doversi consi- derare il dimorfismo, almeno sin ora, non può dirsi rigorosamente di- mostrata, reputo poco importante l'esame di molti altri fatti discutendo i quali si perviene al medesimo grado di probabilità. E credo bastare all’argomento che ho preso a trattare esporre alcune considerazioni sulla pirite ragguagliata ad altre specie di minerali con le quali ha strette re- lazioni. Abbiamo i cristalli di pirite e quelli di marcassite composti di solfo e ferro nelle medesime proporzioni, FeSu?, i primi riferibili al si- stema monometrico con forme emiedriche a facce parallele, gli altri riferibili al sistema trimetrico ortogonale. Abbiamo altre specie mine- rali isoforme con la pirite ed altre isoforme con la marcassite nelle quali al contrario sì riscontra un tipo di composizione apparentemente diverso. Esse sono riportate nel seguente specchietto conle corrispondenti formole accomodate a mostrare e l'analogia ela differenza nellaloro composizione: Cristalli monometrici Cristalli trimetrici Pirite....Fe°Su* —=FeSu?,FeSu® ..Marcassite.. Fe°Su' =FeSu°,FeSu* Cobaltina. . Co*Su°As= CoSu”,CoAs .. Glaucodote. . Co°Su°As= CoSu”,CoAs Gersdorfite. Ni*Su°As=NiSu®,NiAs .. Mispickel. . . Fe°Su°As=FeSu®,FeAs . Facendo attenzione alle formole chimiche che seguono immediata- mente i nomi delle specie, si scorgerà da una parte esser diversa la composizione delle specie isomorfe, e d'altra parte esser diverso il sì- stema di cristallizzazione nelle specie che hanno la medesima composi- zione. Intanto se l’isomorfismo è carattere distintivo dell’analogia di composizione, nè la pirite, nè la marcassite possono avere la composi- zione così semplice come viene indicata dalla formola FeSu®. Nell’una mor e nell’allra specie è necessario ammettere che metà dello zolfo sì rin- venga in uno stato diverso da quello dell'altra metà di zolfo, ed analogo a quello dell’arsenico. L'analogia poi va soggetta a quest'altra condi- zione che due proporzionali di zolfo equivalgono ad uno di arsenico, secondo i proporzionali comunemente adottati per l’arsenico e per lo zolfo. Fin quì la interpretazione data alla composizione dei solfuri di ferro non è che necessaria conseguenza dell’isomorfismo delle specie riunite nel medesimo gruppo; e lo stesso loro isomorfismo è un novello falto che serve a dimostrare un corpo qualunque potersi trovare in di- versi stati nel medesimo composto. Quindi chiameremo N* sì l’arsenico che lo zolfo a proporzionale dop- pio analogo al medesimo arsenico, N°—As= Su", e diremo N° la mo- dificazione dello zolfo diversa dalla precedente. Ciò non basta per avere diversi tipi di composizione tra i cristalli monometrici ed i trimetrici. Ma ammesse le diverse modificazioni o stati allotropici diversi nello zolfo, non può incontrarsi difficoltà ad ammettere somiglianti modifica- zioni diverse nel ferro, nel cobalto e nel nichelio, le quali modifica- zioni dinoteremo per M* ed M°. Allora scegliendo una delle possibili formole razionali che in gene- rale potremmo adottare per le specie dei cristalli monometrici e per quelle dei cristalli trimetrici, se riteniamo per le prime la formola M°N°°,M°N” e per le seconde M°N*,M*N=, tutto rientra nelle regole ordinarie; l’isomorfismo rimane carattere distintivo delle analoghe com- posizioni, e le forme cristalline di sistema diverso, ovvero il dimorfi- smo, ci mostrerebbe sempre una differenza di composizione chimica. Intanto dalle cose fin quì discorse apparisce che il fenomeno del di- morfismo quale da me si considera è tutt'altro di quel che insino ad ora è stato considerato. Secondo l’opinione generalmente adottata le sostanze dimorfe hanno identica composizione chimica, e la differenza delle loro forme cristalline si è creduto derivare da diversa disposizione delle lora molecole. La quale interpretazione è molto vaga e nulla aggiunge a chia- rire il fenomeno, dappoichè la diversa disposizione di molecole ed il di- verso sistema di cristallizzazione sono quasi la medesima cosa. Secondo la nuova opinione i fatti conosciuti col nome di dimorfismo non costitui- scono più una legge di eccezione; essi rientrano nella legge generale che la differenza delle forme cristalline è effetto della diversa composizione chimica; talchè siamo portati a conchiudere non darsi vero polimorfismo, ed il diverso sistema di cristallizzazione essere tal fatto che basta da sè * RRCI Ri ariete SII ‘n sr “Un” : verbi — 60 — i solo a svelarci una ditferenza nella chimica composizione. Se abbiamo casi di polimorfismo nei corpi semplici, siccome uno assai notevole ne presenta il carbonio nelle sue modificazioni di diamante e di grafite, fa d’uopo riflettere che il diamante e la grafite, oltre al distinguersi pel si- stema di cristallizzazione, si differenziano pure per molti altri caratteri ; che tra l’uno o l’altro intercedono maggiori differenze di quelle che d’ or- dinario distinguono un corpo semplice da un altro di diversa natura. Quindi la diversità del loro carattere cristallografico è necessaria conse- guenza del loro diverso stato allotropico, e rientra nella legge generale. E tanto è cercar ragione del diverso sistema di cristallizzazione tra il dia- mante e la grafite quanto è cercarla del diverso carattere cristallografico , a mo’ d'esempio, tra l’antimonio e l'argento. CONCLUSIONE Nella prima memoria sulla polisimmetria ho distinto la polisimme- tria dal polimorfismo mostrando le loro importanti differenze per i ca- ratteri geometrici dei cristalli di tipo diverso e per i fenomeni di meta- morfismo tra i medesimi cristalli. I nuovi esperimenti sopra i cristalli dei paratartrati e dei destro e levo tartrati ban servito ad estendere le nostre conoscenze sulla polisimmetria. Quanto alla chimica composizione dei cristalli di tipo diverso nelle sostanze polisimmetriche e nelle sostanze polimorfe ho esposto le ra- gioni che mi fan ritenere al diverso sistema di eristallizzazione delle so- stanze polimorfe corrispondere un diverso tipo di eomposizione chimica, mentre, almeno per ora, i cristalli di tipo diverso delle sostanze polisim- metriche non pare che abbiano composizione diversa. Egli è però che il polimorfismo, secondo le attuali conoscenze, si trova maggiormente di- scosto dalla polisimmetria, e sembrano quasi due fenomeni non più tra loro comparabili. l'A age cea INDICE DELLE MATERIE Introduzione. Differenza stabilita sinora tra il polimorfismo e la poli- simmetria. Cagioni note di questi fenomeni. Nuove ricerche sulla poli- simmetria dei tartrati e paratartrati. Opinione sul polimorfismo, pag.1,2. Conoscenze generali dei turtrati e paratartrati. Differenze tra gli acidi destro tartarico, levo tartarico e paratartarico. Se i destro tartrati ed i levo tartrati costituissero un caso particolare di polisimmetria. Relazioni tra i cristalli dei tartrati e quelli dei paratartrati d'identica composizione chimica, pag. 2-4. Levo e destro tartrato ammonico-sodico. I cristalli di una specie immersi nelle soluzioni dell’ altra specie si sciolgono; e quindi non possono scam- bievolmente trasformarsi, pag. 4. Caratteri dei cristalli del levo e destro tartrato acido di potassa. Loro de- scrizione. Metodo per ottenere ciascuna specie libera da mescolanza con l’altra specie. Costanza della loro emiedria. Particolare maniera d’im- piantarsi i cristalli prodotti nelle soluzioni che contengono il citrato di soda, pag. 5, 6. i Metamorfismo scambievole tra i cristalli di levo e destro tartrato acido po- tassico. Descrizione del fenomeno, e maniera di sperimentare. Solubilità dei cristalli di ciascuna specie nelle soluzioni sature dei cristalli di spe- cie diversa, pag. 7-9. Levo e destro tartrato acido ammonico; emiedria variabile dei loro cri- stalli. Forme cristalline variabilissime dei tartrati acidi di ammonio. Loro emiedria anche variabile senza cagione apparente. Emiedria invertita nei cristalli prodotti nelle soluzioni che contengono citrato sodico. Partico- lare maniera d’impiantarsi ed indizii di emiedria indeterminata nei me- desimi cristalli generati nelle soluzioni con citrato ammonico pag. 9-14. Metamorfismo scambievole tra i cristalli di levo e destro tartrato acido ammonico. Descrizione del fenomeno, pag. 14-16. Comparazione tra i cristalli dei tartrati acidi di potassa, e di ammonio con quelli dei paratartrati acidi delle medesime basi. Analogia per i clivaggi SIE e le misure goniometriche tra le facce di una zona; differenze per le facce di altre zone. Identiche inclinazioni tra i piani delle diverse zone. Se i cristalli monoclini dei paratartrati si possono considerare come ortogo- nali emiedrici, pag. 16-19. Grado di solubilità dei medesimi cristalli, pag. 20. Cristalli di paratartrato acido potassico metamorfizzati in levo e destro tartrato acido potassico. Descrizione del fenomeno. Notevole solubilità del paratartrato nelle soluzioni sature dei tartrati, pag. 21-23. Cristatli di levo e destro tartrato acido potassico metamorfizzati in para- tartrato acido potassico. Descrizione del fenomeno. I cristallini di para- tartrato che s'impiantano su quelli del tartrato sono sempre gemini, ed hanno un punto determinato col quale s'impiantano, pag. 23 e 24. Cristalli che si hanno dalle soluzioni di levo e destro tartrato acido po- tassico mescolati in proporzioni varie. Risultamenti delle esperienze fatte con le due specie di tartrati riunite nelle proporzioni di 2:1 e di 3 :2. Nei cristalli avuti dall'unione delle due specie nel rapporto di 4:4 si presentano le facce del tartrato e del paratartrato riunite insieme ed al- ternamente ripetute; le facce del paratartrato seguono la legge di emie- dria del tartrato, e la legge dei cristalli gemini dello stesso paratartrato, pag. 25-28. j Risultamenti di altre esperienze fatte con le due specie di tartrati in proporzioni non definite. Come si manifesta la struttura complessa dei cristalli avuti dall'unione in rapporto variabile dei due tartrati quando essi s'ingrandiscono nella soluzione del paratartrato. Particolari forme avute in alcuni esperimenti, pag. 28-84. Cristalli di paratartrato acido ammonico metamorfizzati in levo e destro tartrato acido ammonico, pag. 34. Cristalli di levo o destro tartrato acido ammonico metamorfizzati in pa- ratartrato acido ammonico. Descrizione del fenomeno. Maniera diversa di manifestarsi tale fenomeno tra ì sali ammonici e gli analoghi sali potas- sici derivante dal loro diverso grado di solubilità. Emiedria e gemina- zione dei cristallini di paratartrato che nascono per metamorfismo dei tartrati, pag. 34 e 38. Cristalli che si hanno dalle soluzioni del levo e destro tartrato acido am- monico mescolati in varie proporzioni. Risultamenti delle mescolanze dei due sali in proporzioni molto dispari. Difficoltà che incontra a cristalliz- zare il paratartrato acido ammonico quando nella soluzione vi sia gran copia di uno dei due tartrati. Diversa maniera d'impiantarsi e diversa dedi Mae di f Die % î n IL emiedria dei cristalli di paratartrato secondo che nella soluzione vi sia l’una o l’altra specie di tartrato, pag. 38-41. Considerazioni intorno alla polisimmetria dei tartrati acidi e del para- tartrato acido di potassa o dì ammonio. Confronto per i caratteri cristallo- grafici e per la chimica composizione tra i levo e destro tartrati, e tra i paratartrati e ciascuna specie di tartrato. Se la emiedria dei cristalli dei tartrati sia qualità ai medesimi inerente, o derivi da cagioni indipendenti dalla loro natura. Causa della geminazione dei cristalli di paratartrato che nascono per metamorfismo, pag. 42-46. Confronto tra i cristalli del paratartrato acido di soda e quelli del tar- trato acido di soda. Nei cristalli di tipo diverso del paratartrato acido di soda mentre vi è analogia per talune specie di facce, per altre specie di facce non può stabilirsi aleuna analogia. Difficoltà di trasformare i cri- stalli di un tipo in quelli di tipo diverso. Distinti casi di metamorfismo nelle sostanze polisimmetriche. Analogia incerta tra i cristalli del bitar- trato di soda e quelli del paratartrato acido di soda, pag. 46-50. Considerazioni intorno al polimorfismo. Le sostanze polimorfe sembrano avere diverso tipo di composizione chimica secondo il diverso sistema di cristallizzazione. Discussione sopra i solfati della formola MO, Su0?,7H0 alcuni dei quali danno cristalli trimetrici ortogonali, altri cristalli mo- noclini. Discussione sulla pirite ragguagliata ad altre specie aflini; pag. 51-60. Conclusione; pag. 60. ATO & dal PE L n da MW Lo. 18h viag ERRORI pag. , v. 13 — polimmorfismo. » ;, v. 14 — polisimetria. polisimmetrica . da quello destro tertrato terminanti 440 10 metamorfizzato causale facce é ciò chi come le LEGGI polimorfismo polisimmetria polisimmetria da quelli destro tartrato terminata 140 10 metamortizzati casuale le facce £ ciò che come lo seygyueunmn "»"—w——rrrmémY 6: :9%650,,23_p|j], MAIA CS / G Lmperato ine A AM Re Aali dilll Simi Azz Me VUL2 909 a 2 AMD A SAM Lnze ag VA ZA, HA ‘9 G Imgerato mne. fi il se SIL ATTI DELLA R. ACCADEMIA DELLE SCIENZE FISICHE E MATEMATICHE LA È SUL CALCOLO DELLE ORBITE DELLE STELLE DOPPIE MEMORIA DEL SOCIO ORDINARIO A. DE GASPARIS letta nella tornata del dì 9 agosto 1864. In questa Memoria mi propongo di risolvere il problema adoperando cinque angoli di posizione e due distanze. Spingerò l’ approssimazione ‘ fino a ritenere i termini che moltiplicano le quinte potenze del tempo, e la determinazione delle incognite non richiederà equazioni superiori al secondo grado. In altra memoria tratterò il caso in cui sono dati sei angoli di posizione ed una sola distanza. i Premetlerò innanzi tutto alcune relazioni rimarchevoli che hanno luogo tra quantità in cui non figurano le distanze, e ad evitare inutili ripetizioni sul significato de’ simboli adoperati in questo lavoro, rinvio il lettore a consultare le mie memorie, sullo stesso argomento, che saranno fra breve inserite nel nostro Rendiconto Accademico. i. Abbiansi in primo luogo quattro angoli di posizione @, 9, 9, 9, 0s- servati ai tempi t, t, t, t,. Si avranno le seguenti equazioni Ng =TT2SEN(V—V,)=p,p2Sen(9,—9,) seci n,,=Tr,sen(v,_v,)=p:p,sen(9,—9;)seci N =TT3SN(V,—V;)=p0sSeN(9,—9;) seci ny Ty 1, SOM(Vy—V,) = pap. Sen (p,—9,) sec NM, =TaT3SeN(V,— VU) =popsSeN(o,—9,) secì n= T7,seN(V, Vv) =p:,Sen(9,—9:) seci Atti—Vol. II. —N0 10. — Zi dalle quali, dividendo il prodotto delle due prime per quello della iso e quarta, o quinta e sesta, si ricavano le due altre sen(v,—v,) sen(v,—v,) _sen(p,— 9.) sen(9,—9,) sen(v,—v,) sen (v Va) sen (p,—9,):sen (9, — Pa) © 2) sen(v, —v,) sen(v pr=ro a sen tc —_ pu ci fai =" queste due equazioni non sono indipendenti avendosi identicamente sen(v,—v,)sen(v,-_v,)=sen(v;—v,)sen(v_—v,),—sen(v,—v,)sen(v,—v,) (3) eiascuna delle due può intanto servir di controllo a caleolo compiuto do- vendosi verificare la esposta equazione fra la funzione contenente le ano- malie vere, e l’altra di somigliante forma relativa agli angoli di posizione. Si hanno ancora le due altre O : sen(p,—2,)sen(o,—9;) = sen(p,—9,)Sen(o,_9.)—Sen(po,—9,)sen(p,-9,) (4) UA N, 953 Woga UCPESLITA Tenendo ora presenti le (1); esprimendo le aje n,, #,, ec. in funzione del raggio vettore r, e sua derivata; indicando eo’ simboli m,, m,, m,; ec. è termini che moltiplicano le quinte potenze del tempo e successivi, avre- mo (Vedi la mia memoria sulle orbite planetarie inserita nel 1° volume degli Atti di questa Accademia) i 3 a P. PT sg) seci=/7 {0 e gi I à 03 03, dn Psp,sen(o,— 93) secèi=Vp {0, 3467 Gr — st mne a } 3 — (. 0%, 0%, dr, PrPs sen(p,—9,)secì=Yp vii ga Iride +, } o, 0,0,,—9,)d Ù..: ° _ 2 2 ANNUA Pop, 8en(p,—9s):sec = (lupa ag i. 03 0,dr, e, psSen(o,— 9a) scci=Vf {9, Sr con +0, } 03 08,(0,,—9,)dr, i PP Sen (9 Parata )secè= Va So 1714 7a tei 13 Fatto, come ne’lavori precedenti 0,,=% (6,4) cc. essendo 4° la E ALI I IN Ù —_3— somma delle masse delle due stelle componenti il sistema, posto per brevità En. > R' dr, fai “> ’ y= iride . - sla . . (6) come ancora sen(g,—9,)=sen0,, ec.; &—t,="t,, ec. può scorgersi che dal prodotto della prima e seconda, terza e quarta, quinta e sesta delle equazioni (5) si ricavano le tre PrboPp,Sec'ì ___ traty "EE CA Silio lle di lia PafoPs pysec'i DEA trsto4 h° p A seno, seng {a atta, b3) Y } {Ato -tiy. £ } (7) 13 24 Pfennnni ha ate fisat+ili ty} {1420-17} Da queste tre ultime possono ricavarsi due equazioni in < y ed inco- gnite provvenienti da termini successivi, equazioni che equivalendo ad una sola, fa d’uopo sviluppare e rivolgere seria attenzione alla forma dei | coefficienti che dan luogo a notevoli rapporti. Ritenendo per ora che nei secondi membri delle (3) si estendano i sviluppi fino ai termini che han per coefficienti le quarte potenze del tempo, i valori che si presenteranno ne’ coefficienti delle incognite delle due equazioni, che pur debbono rien- trare l’una nell'altra, mostreranno se ciò è permesso. Contrasegnandole con 0=N-+A,0+B,e°+Cy+D,cy+E,y?.... x (8) 0=N,+A,r+B.e°+Cy+D.xy+E,y°.... si trova per la prima N,=+t,,t,,5en9,,8eN9,,—t2,t,,50M7950N9,, A, - tt, Sen Pa SEN Preltre + t5) Hi t,,t yen P, SEN Pay (65, + ti) B,=:+-t,2t,480R9,, seno, yti,ts5_ tast1480N 919 80N Pagtosti, i C, = Fat, SeN9P,;Sen 9, ALS tia(t,,+ta3)] fast SeNP: Sen (ttt) ta] D, =Ht B, (ttt, t,4) E,= —t,ot,,Sen9,, sen Prytiztostsaltisttas) +tast14S0M9,, SN, tattoo As) Kr usi e per la seconda viene N,= t,.tyseno,,seno,t,.tx SENP23SeN9,, A,=—t,,t,,5eN9,,SeN9g alte t ti + tt, Sep, sen, s(i d B.=+t,,t,,senp,,senp, ta,t:,-t,,t_,5en9,,sen9, atista, C,=+t,.t_, senz, seno (tilt, ts) t2,]1—t,st Seno, seno, [t2,(t., ttt] D,=+ B.(t,.+t,,-t,,) E==—4 t..seno senp, tasti to; (tt t,,t,,Senp,,senp,trsta,t,3(t,1 toa) - 2314 135 Posto ciò, a cagione della equazione (4) si ha Na N= (it AA t,3t,,) SENP23 SEN px, e siecome è identicamente o tronista elio o così si deduce N#+N=0. Inoltre si ricava Ars A, = { trstoy (i+ t2) E trotsi (i+ t5,) ea tost,, (+ t7,) } SEN 923 SEN PL ed eseguiti gli sviluppi indicati nel coefficiente di seng,, seno,, si trova similmente AH-A_=0. La forma dei coefficienti di 2° nelle due equazioni dà B,+B,=(t:.tr, ttt ti.t1,)senp,, Senp,, e qui, sì vede che B_+B, non può mai sparire per la ragione che il coef- ficiente di seno,, seno,, risulta essere la somma algebrica di tre cubi che, come è noto in Analisi, non può mai andare a zero. Procedendo ulteriormente si ha €,4- E { te [,— ti, (t..+ t,,)] Fo t,sta, Ci t:.)} 45] tit (tilt, 0) — tg] }senp,, SEND eseguite le operazioni net coefliciente di seno,, seng,, si ha identieamen- te zero, onde viene C+C,=0. Per la somma de’ coefficienti di 2y si deduce D,+D,=(B,+ B,) (t,,t-t.,—£,) SeM9, Sen, che in qualche caso particolare può annullarsi, quando cioè sì avesse ttt =0: ea l Finalmente per la somma de’ coefficienti di y° viene E,+ E, = { tistasti: 7 £,,) dr” tistigtos(i3tt.:) Ti tasti ta; ta) } SENP33 SEM Pz, > Dal fin qui esposto risulta che le due equazioni (7) possono prender la forma 0= N+4,c+B,x°+Cy+(t,,+t.,—t,)B.ty+Egy"... 5 O0=—N—A,x+B,x°— Cy “n ur (#3 t,4) B,xy na Ey”.. i prendendo la somma di queste ultime si ottiene 0—=(B,+-B)o"+(t,,+t,,t,.)(B+B)xy+(E+E.)y°.. (10) . dalla quale nulla può trarsi, stante che i coefficienti B+B, ed E+E, e così pe’ termini seguenti, essendo funzioni del tempo col fattor comune seng,.seng,, quest'ultimo sparirebbe dalle formole le quali non possono prestarsi a dare i valori delle incognite o i loro rapporti avendosi per dati i soli tempi delle osservazioni. - Moltiplicando la prima delle equazioni (9) per B, e la seconda per 5, sottraendo l’ una dall’ altra avremo 0=N, (B.4-B.) 4 A,(B+B.)x + C,(B,+-B.)y 2a (E,B,—E,B.)y°. ci (14) La precedente equazione si è ottenuta adoperando gli angoli di posi- | zione @, $, 9, ©, ottenuti ai tempi t, f, t, t,, altra della stessa forma po- trà ricavarsi adoperando gli angoli 9, 9; ©, @, determinati ai tempi t,t,t,t,. Onde però vi figurino le stesse incognite adopreremo i valori di n,, n,, ec. espressi in funzione di r,. Si ha UPE Vp = tr ti, ch ra, N,, x ‘33 | Vi = e ti; Li ty, (RR t,,) yY 4 ULPE n, pe 5 = be” ti, L+ gie, t,,)Y * Mi, | (12) Ds 3 Vo Ma ti; LAT ti, Yt+Mz n, n ; x- =t,t;,T+ti,y+m,, UP Vp tas A3,X+ tas = 23) Y +Ma; dalle quali si formano le equazioni PaPs pupa sec'i _ basti — i teu y.\l_-wetekto ey]! P isgiinng 0-t,Y.) (1%, # sat 207} PoPayPs pssec'i IRE (1-&r+Uu..)fA_-& 2, ) CSO SENO OA STI + de —t.,r+t.(t.,t i p cani 0 +89.) vr sà + Ps PyPops800°È _ _ Tsstos — p sen P3,SCN Pay (1-t3,0+8,y..){1 BE, 0+ (e) ed indicando le due equazioni in #, y ecc. che se ne deducono, con O0=N+A,x+B,x°+Cy+Day+Ey?... la 0=N+A4,€+B,a°+ Cy+Dey + Ey”... dui avremo N,= tt, Seno, Senpayts,tox sen P23 80M 9,; A,=— tt, 5009, SeNpgy((2 +47) +t,,t,5009,,5en7 pelli, +13) B,= t,,t,ySeno,,seno,str,ti;—t,,t,,90n9,, sen Pisti,tày C,= tostysSenp, Senpos[ti,(t,,+Ht,) AL], ta Sp 8enp, (1, +46.) DEB E,=—t,;t,5eN9,,8CN9y5 tti tas (toy tta,) — tata SeM9,: Seno, ste, ttt) e per i coefficienti dell'altra si trova N,= tsta;Sen9,,Sen9,,—t,,t,;50N9,,5009,, A,=—t,t,s9en9,,50N9,, (t,+-t,)+t,t,sen9,,5en9,;(63,+t2,) tsstos Sen 9, Sento tt senp, sen, ti,tt, tastas sen Pa, sen Ps5 ti, ttt, SE) At 35009, SCMPgz (0 +A% Att] B, (la ty, ts) E,= trsts90n9,,9en9,t3 dito (tota) tata Senpgsen9o tit tolta ta) - Rivolgendo l’attenzione alle due equazioni (12) allo stesso modo che per le due precedenti, si trovano verificarsi le relazioni NFENTZ0 AT AO CAR = ON a) — trattandole adunque analogamente, si vede che l’altra equazione in @ y cercata sarà 0= N, (B,+B,) sla A, (B,+ B)) x a C, (B,+B,)y si (E,B,_E,B.)y". Pia (15) Non sarà superfluo far rimarcare che il calcolo de’ coefficienti N,A,-..A4;C, ec. riesce nè lungo nè difficile a cagione de’ fattori della forma f,,t,,sen@,,seng,, ec. che si ripetono in moltissimi di essi. A ciò si aggiungano le relazioni (14) colle precedenti già ottenute che sono altrettanti controlli per riconoscere la esattezza del calcolo numerico eseguito. Riserbandoci di esporre qui appresso la ragione per cui i coefficienti di 2° #y ed y° non han preso tal forma da far divenire identiche le equa- zioni (8) da un lato, e le (13) dall'altro, daremo i valori definitivi di N, A,C,, N, A, €, ed in duplice forma onde avere controlli di calcoli numerici. Posto adunque t,3t,,8€N9,,80M9,,=@; tot,,8CN9,28e0N9,,=D tt, ,Sen9,1SeNp,,=C3 trst,,80N9,,SeN9,,=d | sarà pe’ tre primi N= a—-b=d—c A,=—o(ti,+t5,)+b(t:,+t)=ce(e,+t1,) IM,+t,) C,= alti, _-ti.(t.,+ 4.) Dit, tt] si =— celti. ta) — ta] +4, (tuta) ti] e per gli altri tre, ponendo t.t,53eN9,,Senp,,=@,3 t,,t,55n9,,SCN9,,=b, t,,t.:8en9, ,Senp,,= €15 t,,6,,9en9,,5en9,,=d, sì ha N= caenb;=d,—c; A,=—a,(t2,+t7,)+b,(t,+ tt.) = 0, ((i,+ 12) —d (63,4 t2,) an Es= a, (ti (ttt) ta] — di (444, (te taa)] =_ e (14 teslt,—ta,)] +4, [i+ (tta)] caleolo che si compie assai prontamente. Che le equazioni (8) non possano equivalere e due equazioni distinte è chiaro da ciò che se fosse possibile ricavarne i valori di x ed y, o ciò II i bet ° stiché h'dr i cade ch'è lo stesso i due altri = ed rig: questi alla lor volta farebbero de- terminare gli elementi dell’orbita (eccettuato il semiasse maggiore) ele- menti superiori in numero ai quattro angoli di posizione adoperati. Si dica altrettanto per le equazioni (13). k Da ciò appare che le equazioni (10) (11) (15) debbano subir modifica- zione ne’ loro coefficienti. Rivolgendo in primo luogo l’attenzione al fat- tore B,+-B, che moltiplica 2°, si rileva che B, non è tutta la parte che moltiplica #° nella prima delle (8) nè B, tutto il coefficiente di 4° nella seconda delle (8) stesse. Ove ne’ secondi membri delle (3) si fossero ri- tenuti i termini moltiplicati per le quinte potenze del tempo, termini nei quali entra come fattore 4---8F, (vedi equazione (6) della mia memoria sulle orbite planetarie pubblicata nel 1° volume di questi Atti) scrivendo per ora la parte indipendente da F,, avremmo trovato che ne’ secondi membri delle (7) invece de’ valori riportati avremmo dovuto scrivere È &; 2 3 11 te ttt ttt} (1a + tt pt} A-t{,c+t Sarli i a a+ test t.)Y+ pit }{ ryL_-tr,Ytjgtis® } 3 3 {ite +8,(t,—t,Y+ po} {Ate ty +] Da queste equazioni si ricavano i coefficienti modificati di 2° ed espres- si da i + 3 _ B=t,gtss ì ti, ut (+ t5,) } seno, Seno etogta { ta.trt pl tti.) } SENI 19 SEND, 3 3 B,=t,.t {tilt (+) | seno, seno, tata | iste t pallio +th) } sendo, Sena 2314 onde si trae B,+B, senz, Sen9,, = tot, { trata, + 6 +tt,) } na Urstos { tit + a (+4) } 3 TA t,ots4 { tit tp (i+) } e quindi ancora B,+B,=0 essendo il secondo membro identicamente eguale a zero. Il valore adunque di B, modificato è B,= aff,t+i(t+6)} {et it) i (18) = citt ptt) +1) SRI a ed operando in modo analogo si trova per B, ISO 3 B,= as fthti+ gp (0+41,)} — db. (t + (5 +-4,)} . (19) 3 3 =_0 {+ (++ (++) Ad ottenere i valori completi di D, D, non bastando di ritenere ne’ se- condi membri delle (5) fino ai termini che moltiplicano le quarte potenze del tempo, si terrà conto dei termini successivi tenendo presenti le equa- zioni (5) (6) (7) della citata memoria sulle orbite planetarie non che le equazioni (14) (15) della seconda parte del lavoro medesimo. Esprimendo adunque le aje n,, n,, ec. colla approssimazione richiesta dall’indole delle attuali ricerche si trova No 7520 1 t,X— tia(t.34+-t23)Y ur: 7 66,0 +ti alt ss t t,,) (tratt. st23) CY h Vp la SAC NR A--t5,0+t5,y +36, x °_ t},2Y hV pt,, Mrs — aa -tiy+ lt e°4-t, xy h AVp&, Bali a) (20) No, == ite t t2,(t,, nu) i 4,0 "+ t2,(fas ts) (ta, t23834) CY h Vi boa UPA 3 2-1 ti, y+tt,e°+t5, 22 h Vai, 234 40 #3 23 Y Ng 3 È AVZROI: ti, sat Fo ia tiltsy—taa) Y+ pila +ti sta là (6, a) XY Riserbandoci di dare qui appresso la ragione per cui non si vedono comparire in questi ultimi sviluppi tutti i termini che nella loro com- posizione darebbero luogo al coefficiente di y°, formeremo i valori cor- retti di D, D, i quali sono D SEDIE eta) (ti att13t23) Hit ta (lx34+-£2,) tati, Ai, SENP,3SENpP,, ( — tt {16 tb) ti Ig ts t,,) Ata altre t,3)+ tr ta,.+t2 3} Sepa 8eN9,, Detta ata t.,)(t1, ts t,,) —tita, (6, t,3)+ ti ti,+ti, } senp, Seng, tt! alto Lta4) (e t.363,) Ata,ti att t,3) Hiati, Ati, SEN P93 SEN9,, Atti — Vol, II. N. 10. 2 | in 103 dalle quali sì ricava D,+D, RP 1, 23°14 13/05 t_J(_ t,,) hit t,s) +6; Ri SE } a 08 | ì ti ra: A + tt, xt é2a) tati, As, } SEN Py. SEN 9, (e —t,;t.,{ ì t5, = t,,) (te, ta; t,,)— tit, (3, to) tto, ti sti } in quest’ ultima il secondo membro annullandosi pe’ termini che identi- camente si elidono, si ha D,+D,=0. Si ricava adunque pel valore di D, l'equazione Di= @|tio(t,:+t03) (EA sto) EA AAA) Lift) tt H+) “—“ i {tr s(lrs == t,sts,)t RARA ;) ( ) i 297 ® t,,)(t 2a t,; Ka ta, i; RT da Onde della equazione O0-N,+A,r+B,x°+C,y+D,xy+E,y° si sono finora determinati tutti i coefficienti, l’ultimo eccettuato. Similmente per trovare i valori completi di D, D, fa d’uopo introdurre nelle equazioni (12) i termini di cui non si era tenuto conto in un primo sviluppo. Ciò facendo tali equazioni diventano Slan a ta,e—-t2,Y TT) H+ t2, XY tVp UA “ua =1—- {C+ (t,+t,,)Y E in nt Mt tt 0)( i tyts s) LY ts tV No, =1- t,c€t+t(t,, 4.,)Y UST, 40 dA +6 st 23 Aq) (ata) XY tai (29) as ee na y+i te t,0y 5 5 DIVA A et y+ i ta ay tV P N; 1 PET A = —A1A_-t,c+t2 a t,,)Y "da 10 Dotta +ti altast, 5) (ti, tast3 3) XY Ricavando da queste, come si è fatto per le (21) i valori di D, D, sarà ille aumentando di una unità gl’ indici delle stesse (21) D,=t,.t| f tasto, tes) (ttt ++ ten } Senp,,8eN9,, ARS EVE TAO t,,)+t2,t3,+ti,}senp,.seng,, Diskhita { tolto, to) ttt stata) +12, utt, } senp,,Senp,, SITO E Lita, +t1,} senp,,seno,, qui ancora troviamo verificarsi identicamente la relazione D.+D,=0, e si ottiene D, 0 { ta, ti stato) (ti, +6, stas)+osti:(t 23 stila) a b, { tas(t.,—t35)( sli sa tti sla) } . (24) === { tas(t, ti 5) (ta,—tost25) tia alte, tas) } +4, { ì to,(t, 1, s4) (12 boa t,,) tiyttà, ESA; | Da ciò che finora si è esposto è chiaro che si hanno le due equazioni O0=N-+A,x+B,x°+C,y+D,xy (25) 0=N,+A4,x+B,e°+C,y+D,xy nelle quali N, A, C, si hanno dalle (16) B, da (18) e D, da (22). Come an- cora N, A, C, si ottengono dalle (17), B, dalle (19) e D, da (24). Sicco- me fra i dati non figurano le distanze, ma solo angoli di posizione e tempi corrispondenti, tali equazioni potranno essere adoperate quando il pro- blema si voglia risolvere impiegando sei angoli di posizione, e poi, a cal- colo finito, una distanza per avere il semiasse maggiore espresso in parti di questa distanza medesima. Chiaro apparisce che un altro sistema di angoli ©, ©, ©, 9, corrispondenti ai tempi £, £, t, ts conduce ad una terza equazione della forma delle (25) potremo perciò in queste e nell’ altra che puossi avere, far figurare una terza incognita (per raggiungere una soluzione meglio approssimata) incognita che potrebbe, per esempio es- sere la derivata seconda di r,, o una sua funzione. Ma riserbandomi di ciò fare in altro lavoro sarò qui pago di determinare i coeflicienti della ‘terza equazione in parola. A raggiungere tale scopo basterà dare i valori delle ajecome ne’sistemi di equazioni (20) e (23) e sì troverà rammentando sempre che i sviluppi si fanno relativamente ad r, e derivate, My 2 —_=1-tiye+ti “Ha x -t5,XY VI o) iL n 6 ——— = do Eaetiltts) Y UT 2 18 0° A5lt. stt; o) (t6,ttsst30) LY : tV Ni e 3 3 44 n 5 21 {,rHti,y + tia — t5,0Y tV p (9) UTA ; 7 = EotHi(i,+t,dy+i 10 ti, x°-ti(t,,Ht,6) (0744 t30) LY taVPp n 3 = Att, AL, )Y+ 10 tia — ist, ttas) (i+ tt) Y tV p Met: -=41-GcHy+ 3a cy t.VP 6 6 40 6 6 | e qui ponendo, a somiglianza delle notazioni ed abbreviazioni precedenti t,stxcSCN 93 50N9, = ; tt, Sen9, Seng, =D t,st:68€N9:3 SN 9, =C3 3 td senp,.seng,=d, e la equazione della quale voglionsi determinare i coefficienti sia rap- presentata da O-=N,+A4,x+B.x°+Cy+Dxy ..... (27) avremo subito N. =a,—b,=d,—c, A;=— Gg(ti, +15) +02 (+60 (1AHA ) Ad (i +45.) ; C,= aftittistt, tto) — da 6 AH:(6A4,)] = Ca (otte A+4,)] +0 (EA (6 HA 0) 3 : 3 B,= atti + alt + ti] dalitit att) : — citi aett H)] D,=—a, (i AHts(t,+t,+ ttt HH s0)] + da (+ (te AMA MATE At AA AA) ) = Colt +e ttt tt tettss+4s0)] RETE + ttt] e così vengono determinati i coefficienti della equazione (27). Ove aves- — 493 simo voluto far figurare nelle equazioni (25) e (27) anche il termine in y°, gli sviluppi (20) (23) (26) non avrebbero forniti tutti i termini che entrano a comporre il coefliciente di y°, e sarebbe stato necessario ricor- rere fino ai termini moltiplicati per le settime potenze del tempo nelle equazioni che danno i valori delle aje n,, n,, ec. ed estesi fino ai termini che moltiplicano le seste potenze del tempo inclusivamente nella citata memoria sulle orbite planetarie nelle equazioni (6) e (7) della prima parte e (14) e (15) della seconda. È d’uopo intanto mostrare che in una prima approssimazione il termine in y° è trascurabile. Infatti avendo indicato con h° la somma delle masse delle stelle com- ponenti il sistema binario, può 4° servir di misura allo spazio percorso con moto uniforme dalla stella satellite verso la centrale (supposta im- mobile) all'unità di distanza, e nell'unità di tempo che potremo assu- mere esser data dall’anno sidereo. Alla distanza r, fra le due stelle tale 2 x . h ; spazio diventa “ ammettendo che come nel nostro sistema solare la 3 legge dell'attrazione segua, nel sistema binario, nella inversa quadrata delle distanze. Onde lo spazio percorso con moto uniformemente acce- lerato, nella stessa unità di tempo, cioè lo spazio di cui la stella satel- 2 , e 0 2 ; lite cade verso la centrale sarà 5a; Ciò posto il seno verso dell’arco per- 3 corso dal satellite in un anno di tempo ed in un cerchio di raggio r, sarà 2 2 h mett x h È gi? € quindi il coseno dell'arco stesso è Ho Chiamando adunque 3 dd 3 i rt ? h : © l'arco percorso, ricordando essersi fatto e= 73» avremo la relazione 3 x=+(1—cos®). Chiaro adunque apparisce che impiegandosi ordinaria- 2 mente molti anni per compiersi un giro dalla stella satellite, ® è un molto piccolo angolo, e perciò # risulta molto inferiore all’unità. Al- trettanto può dirsi di y ch'è una funzione della derivata di r, moltipli- cata per #, e di cui il valore è altrettanto più piccolo quanto meno ec- centrica è l'orbita nella quale la stella satellite si move. Così resta giu- stificato il trascurarsi le potenze superiori di # ed y. Onde più chiaramente si scorga che y è molto piccolo non solo, ma inferiore ad #, basta riflettere che essendo r, r, due raggi vettori cor- rispondenti ai tempi {, f,, si ha prossimamente (ove il valore di £,, sia abbastanza piccolo) bio hi h° Graimiori i! i ATE UTILI cdl RECATA e Mii Tu NEI TE nr no 4 = — 4- h'dr, È 5 3 ine Lore : h_h ricordando essere 0,,=A(t,t,), Y= ga 3 trova Grigia 2 h è % 1% dk Posto a=z si può far vedere essere @, piccola quantità, e positiva 2 A 1 come @. Verrà adunque y=z (0-2). 23 Viene in tal guisa confermato perchè nelle equazioni dalle quali si vo- gliono ricavare i valori di 2, y, possano non figurare (per la determina- zione approssimata de’ medesimi) i termini con y°, ed anche altri ne’ quali y° Ta 2. Esporrò ora brevemente le formole da adoperare nel caso che dalle osservazioni siansi forniti gli angoli di posizione 9, @, @: 9, 9, non che le distanze p, pf, scelte a piacere fra le cinque. Poichè le distanze p, f, Po sì presenta sono note è noto altresì , 0, ciò che torna lo stesso si conoscono 4 i rapporti: Ele, fata, i feta PaiP4 bs Pa cia avremo facilmente + Quindi dalle equazioni (5) e loro analoghe ì 3,4 ts, Pa SEN P,9 1, “a tia(t,3-4423)Y n3 20 tt,0°+ bia (6r34+t23) (2A 13823) LY 3 t,394SCN9,, ita tti (te A+ C+ (a A C. 3) EU 1334 5 : 3 4 pi 5 ; D CR ta3P,8€N9,, 1_t,90+45,y+ tie _t,XY L, Pa 2 3 & SEn9,, 1 —t25® +taslt A. )Y n: 10 ti,0°+ t5, (SR (titastse) LY tas P,$0N9ws Atti, tt, + fa 2 2 "a b4s (ts. A+%, 5) (titti) XCY dalle quali possono evidentemente ricavarsi tre equazioni della stessa forma delle (25) e (27). In queste assumendo per incognite 2, y ed 2y si vede che la soluzione si riduce a ricavare 2 da una equazione di se- condo grado. Xesterebbe ora a mostrare come da « ed y si ricavino gli elementi dell'orbita, ma avendo in pronto altro lavoro che destinerò pel Rendi- conto, e di cui ho fatto parola nel principio di questa memoria, lavoro — 15 —- : ‘in cui questo argomento è trattato, me ne astengo onde evitare inutili ripetizioni. Aggiungo soltanto che se invece delle distanze f2:f, fossero note le p,, p, si sarebbero formate le equazioni tenendo presenti i rap- porti =. “E ; - ; °, e ciò valga perchè s' intenda il modo da tenere TI 5 Zi 5 405 nelle altre combinazioni. sole da sm 1 ca fatt'anavni PE: ira 409 shit mi iuoiaupa al LR dai: ulonsa Vol. II N.° 44 ATTI DELLA R. ACCADEMIA DELLE SCIENZE FISICHE E MATEMATICHE DEL PERIODO DIURNO DELL ELETTRICITÀ ATMOSFERICA E DELLE SUE ATTENENZE CON QUELLO DELLE CORRENTI TELLURICHE MEMORIA DEL SOCIO orRDINARI0 L. PALMIERI letta nell'adunanza del dì 11 ottobre 1864. Quando un filo metallico isolato percorre un lungo tratto nell'aria e | poscia co'suoi estremi comunichi con due lamine immerse nel suolo ad una mediocre profondità, questo filo suole essere attraversato da correnti elettriche le quali si rendono palesi mercè un galvanometro in- terposio nel circuito. Queste correnti talora derivano dalla disuguale ossidazione o tendenza delle lamine, spesso sono effetto dell’ influsso dell'elettricità atmosferica che manifestasi in oecasione delle piogge e dei temporali, ma ce n’'ha di quelle che con varia intensità e costante direzione sembrano proptiamente provenire dal suolo, onde si ebbero il nome di correnti telluriche. Esse si appalesano solo con fili di molta lunghezza e scemano infossando le lamine più profodamente nel suolo. Sia quale si voglia la direzione del filo, le suddette correnti non manca- no; ma, poste le altre cose eguali, le variazioni sembrano maggiori nel senso de'paralleli e le intensità assolute maggiori in quello de’ meridiani. Dopo le prime indagini del Macrini, il Lamont, il Matteucci, il Secchi ed altri fecero degli studii sul proposito, e quest’ultimo avuti a sua di- sposizione due fili telegrafici uno perpendicolare al meridiano magnetico e l’altro secondo il meridiano anzidetto, coadiuvato dal signor Jacobini, ha potuto non solo paragonare le due correnti telluriche, ma vederne il periodo diurno. Ridotte in curve le osservazioni del P. Secchi le ho Atti — Vol. II.—- N 11 4 9 espresse nella figura A, denominando corrente equatoriale quella che cammina pel primo filo, e meridiana quella che va pel secondo. Paree- chie ipotesi sonosi escogitate per dar ragione di siffatte correnti. Augu- sto de la Rive sperò vedervi la conferma della sua ipotesi per la quale delle correnti elettriche attraversano continuamente il globo da'poli al- l’equatore, ma le correnti equatoriali non favoriscono il concetto del- l illustre fisico di Ginevra. Altri ripetono le anzidette correnti delle va- riazioni d'intensità del magnetismo terrestre, per modo che sarebbero correnti d’induzione, senza por mente alle condizioni che si richiedono per avere siffatte correnti. Io invece son di credere; che le correnti tel- luriche siano una conseguenza dell’elettricità atmosferica. Prima di tutto credo impossibile discernere le correnti puramente telluriche da quelle che direttamente procedono dall’influsso dell’ elet- tricità atmosferica nel suo periodo diurno naturale. E se le correnti dette telluriche si perturbano co’ temporali o con le piogge, ciò dinota che in siffatte congiunture il consueto periodo diurno dell’ elettricità atmosfe- rica sparisce per dar luogo a quelle manifestazioni elettriche così cospi- cue, secondo la legge da me annunziata. Non dico già che pe’ fili non passino correnti che attraversano il suolo, perocchè mi par chiaro che il filo ed il suolo costituendo un medesimo circuito, non può in una sola parte aversi la manifestazione dell'elettricità dinamica; ma credo non esser possibile discernere correnti le quali provengano unicamente dal suolo per modo che il filo sia il semplice conduttore di derivazione di siffatte correnti. Imperciocchè l'elettricità dell’aria attua non pure il suolo, ma eziandio i fili, e però essendo il circuito chiuso , facilmente si potranno avere segni di correnti. Nel periodo diurno della elettricità atmosferica si ha nell'aria una tensione più forte di giorno, fino ad al- cune ore dopo il tramonto, che di notte; e quindi le regioni diurne della terra debbono essere attuate ad elettricità negativa più forte da oriente in occidente, e però per l'equilibrio si richiede che il suolo tenda a sca- ricarsi di occidente in oriente quale è appunto la direzione della cor- rente equatoriale ; con simile ragionamento si dimostrerebbe come la corrente meridiana nelle nostre latitudini debba andare da nord a sud. Quando un filo sia molto inclinato all’orizzonte sicchè si elevi sulla cima di un monte, allora è chiaro che la parte più elevata del filo e del suolo dovrà patire più forte influsso, e quindi dovrà attuarsi più fortemente ad elettricità negativa, e però la corrente avrà tendenza ad andare di basso in alto come risulta dalle recenti investigazioni del Matteucci. 9 -— gy — Se si potessero avere de’ fili talegrafici a disposizione di un osserva- torio e si potessero per qualche tempo fare osservazioni orarie compara- tive tra la elettricità atmosferica e le correnti telluriche, risulterebbe forse chiara la dimostrazione di quello che io dico; ma siccome le os- servazioni regolari di meteorologia elettrica, perchè di fresca data, non sono ancora diffuse abbastanza, e perchè sebbene le società ed i governi si giovino de’ risultamenti pratici della scienza, come per esempio del te- legrafo, pure non sono gran fatto disposti a favorirne l'incremento, così io ho potuto fare non pochi studî sul periodo diurno dell'elettricità atmo- sferica, ma non ho potuto istituire confronti con le correnti telluriche. Prendendo dunque la sola serie oraria delle correnti telluriche fatta dal P. Secchi e dal Jacobini ridotta in curve espresse dalla fig. A, ho po- tuto paragonarla con quelle fatte sulla Specola Meteorologica della no- stra Università di 15 in 15 minuti con la elettricità atmosferica, ridotte parimenti a curve. E quantunque le osservazioni non siano fatte nelle stesse condizioni e sotto lo stesso cielo, pure si scorge tra il periodo delle correnti telluriche e quello dell’ elettricità atmosferica una corri- spondenza assai manifesta. Dalle curve che io presento per dare un’idea del periodo diurno del- l’ elettricità atmosferica si vede come anche ne’giorni più calmi e sereni vi siano delle varietà e degli spostamenti, per cui una curva non somi- glia mai perfettamente ad un’altra. La fig. 1° esprime il periodo elettrico del giorno 3 settembre di que- sto anno (1864) il quale fu calmo e perfettamente sereno e precedette il temporale che scoppiò la notte seguente verso le 4 a. m., sebbene pa- recchie ore prima sì avvertisse un lento corruscare lontano sotto l’oriz- zonte. In essa si vede un forte massimo matutino il quale precede di un’ ora e quarto il tempo in cuì quel massimo suole appalesarsi. Nella fig. 2* è espresso il periodo diurno del dì 7 settembre, il primo giorno perfettamente sereno dopo le piogge che durarono interrotte per due giorni. Soffiava debole vento di N. E. Il giorno seguente 8 fu calmo e sereno del pari che il giorno 9: le curve sono espresse dalle fig. 3 e 4. La fig. © finalmente dinota il periodo del dì 12 che si distingue per un forte massimo di sera che annunzia le nubi e la pioggia del giorno seguente. Dalle curve che ho riportate si vede come anche le giornate le più re- golari, dominando i medesimi venti, non sì rassomigliano. Il fatto più ne TI Lia costante è il massimo del mattino il quale sebbene tenda a manifestarsi verso le 9 pure talvolta anticipa come si vede nella figura 1° e talvolta ritarda siccome è chiaro dalle fig. 2 e 5. Da alcune serie di confronto tra osservazioni contemporanee fatte alla specola Universitaria ed all'Osservatorio Vesuviano risulta, che le curve sono diverse, sia per un massimo pomeridiano che al Vesuvio per lo più sì mostra verso le due e mezzo, sia pel valore assoluto delle tensioni con- temporanee che talvolta è maggiore al Vesuvio talvolta a Napoli. Quello che mi pare messo fuori di ogni dubbio è , che quando a cielo sereno sì hanno de’ forti massimi nel corso della giornata, o che inter- vengono alle ore consuete o ad ore diverse, potete con sicurezza preve- dere le nubi e probabilmente la pioggia. Que’ massimi più cospicui che precedono le nubi possono sorgere improvisi alcune ore prima che le nubi sì manifestano senza alcun riguardo di ora, e possono più o meno accostarsi alle ore consuete come si vede nelle figure 1 e 5. (1) Le osservazioni sono state fatte da me,e per alcune ore dal mio coadiutore Prof. Eugenio Sem- mola, il quale per lo più ha osservato da mezzodì fino alle ore 3 5/2 p. m. Pt, n, SR en i di. HEMMER, ni SS i SEE HF], 0 | Di AVI UMORE AB SEA LIL | RIITIAZAE cia " CAO? ] ETERNA LEE IERI es) TREES Mu d- 3 cia e Io MINI Uniti € RRRRRARANO Isa 7, VIA HH LL RT Ùl LI ii IRRITANTE _e0e x a in D ul Ieri - "A 2: I i IH TTT GRUB | | D 100081 87, ta da Ea sea ee PRESE Et Se ECRizo sE i e ERA NSA a di I is) asa esi ses is /\ L\ \J Di De Ei PrA 10 ULi a di SS ai ni si GIA eee SEI ssaa BE (0) " DEE do Shi LEO GUELLS SRMNORIANE CRT ELI TH LI PL PELI I = îi SIR La FRENGRvARO Pai, a CE Ti [LIE ’ A è $ RSS per al % io è | Pia LI LUCE Pasti 25 Ta s ai ni 9 = |a = E È | Mo da Gael SA Lasi |, Asi ss Sali È fai CI No N : dl UTO AR ONT IRR APE NNO [LEE Ù d i da he _ DiRe e : di: : SARERA8Bagarreotonz®o%e IIBBAIESBEIFEFaR2d9reuson A, > Sl. i 223 = P Vol. II. N42. ATTI DELLA R. ACCADEMIA DELLE SCIENZE FISICHE E MATEMATICHE SULLA DECOMPOSIZIONE DELLE FUNZIONI FRATTE RAZIONALI MEMORIA DEL SOCIO oRDINARI0 N. TRUDI letta nell'adunanza del dì 22 novembre 1864. La teoria della decomposizione delle funzioni fratte razionali in fra- zioni più semplici, come si usa ordinariamente di esporla, non ha quella generalità, di cui è suscettibile, e lascia molto a desiderare. In fatti in tal ricerca si mira generalmente ad ottenere delle frazioni le quali ab- biano per denominatori i fattori lineari di quello della data frazione, semplici o multipli; e questo modo di decomposizione interessa certa- mente la integrazione de’ differenziali fratti razionali. Ma la teoria di cui trattasi interessa in tante altre maniere l’algebra superiore; e molte im- portanti quistioni esigono che la decomposizione sia regolata diversa- mente. Il problema generale di questa teoria consiste nel decomporre la fra- zione data in frazioni parziali, le quali abbiano per denominatori fattori assegnati di qualunque grado del suo denominatore; e ciò indipendente- mente dalla conoscenza de’loro fattori lineari. Ora è questa la quistione della quale ci occuperemo nella presente memoria, la quale verrà poi seguita da una serie di applicazioni, che formeranno il soggetto di altri articoli. I La decomposizione delle frazioni sotto il punto di vista generale, te- stè dichiarato, e che comprende evidentemente anche la decomposizione ordinaria, non è affatto cosa nuova, essendo stata già considerata da Eu- Atti — Vol. II.— N.° 12. 1 Bei: dei lero, e più tardi dal Crelle (*), il benemerito fondatore del giornale di matematiche di Berlino, così degnamente continuato dal Borchardt. Ma noi siamo stati obbligali a riprendere questo argomento per esporre dei metodi più semplici e più proprii alla decomposizione effettiva ed al cal- colo numerico; impercioechè trattasi di teorica cui si richiamano qui- stioni di pratica utilità, come si vedrà nelle applicazioni; e che perciò sembra meritevole di essere promossa nelle istituzioni algebriche. ART. I. Principii fondamentali 1. Si sa che ogni funzione fratta razionale di una radice di un’equa- zione è equivalente ad una determinata funzione intera della stessa ra- dice, di grado inferiore a quello dell'equazione (**). Quindi, se sia data la funzione fratta —-, dove con N ed M intendiamo funzioni intere e ra- zionali di una variabile #, e si supponga che « debba verifiear l’equa- zione: (4) U=k,a"+k,0"-*+...+k,=0, in questa ipotesi la funzione fratta potrà essere trasformata in una de- terminata funzione intera «, generalmente di grado m—1 ; e però della forma : m_ m_2 usage + ae... + x > Adunque la funzione intera x ha la proprietà di prendere lo stesso valore che prende la funzione fratta quando la variabile si fa uguale a (*) Le ricerehe di Eulero intorno a questo soggetto , pubblicate molto tempo dopo la sua morte , sono inserite nel Vol. I. delle Mémoires de Petersbourg (an. 1809). La memoria molto estesa del Crelle sul medesimo argomento è poi riparlita tra i volumi IX. e X. del suo giornale. s Intorno allo stesso soggetto è pure da leggersi un articolo del Clausen nel volume VIII. del detto giornale di Crelle. E da ultimo una memoria del Cayley sulla partizione de’ numeri nel volume delle Transazioni Filosofiche pel 4857. (‘*) Questa importante proposizione di algebra superiore è ben conosciuta. V. Serret, Cours d’aly. sup., pag. 98. » ei 3 — qualunque radice dell'equazione (1); di modo che sussisterà l'eguaglianza: (2) —=u=4d unicamente pe valori di # uguali e quelle radici. 2. È chiaro intanto che per ottenere la funzione w non si ha che a de- terminare le m costanti a,, 4,,...,4,_, a condizione che per ogni radice dell'equazione (1) debba verificarsi l'uguaglianza (2), o l’altra: (3) N=(ae” +a,x" ?4...+6,_ )M< Questa eguaglianza non è già una identità, perchè soddisfatta da soli m valori di x. Però è da riflettere che, mediante l'equazione (1) se ne pos- sono eliminare tutte le potenze di z di grado superiore ad m—I, per guisa da ridurla ad un'equazione di grado m—A, e quindi della forma: m_-I , m_2 , a e LV paria 8:18 e CRA SI UN i coefficienti A,, A,,...,A__, essendo funzioni date lineari delle m co- stanti @o, 4,---,4,.,- Ma allora questa equazione di grado m—I, es- sendo sempre verificata da m valori di 7, è necessariamente identica; e ne risultano le m equazioni lineari A=0, A,=0,...,A__=>0, le quali porgono i valori delle m costanti; e la funzione « resta così determinata. Tuttavolta, posto mente alla formola (3) si vede che la trasformazione non è più possibile se qualcuna delle radici dell’ equazione U=0 an- nulla una delle funzioni N, M; ond'è che la determinazione di « esige che ciascuna di queste funzioni sia prima con la funzione U. 3. Il metodo esposto per determinare la funzione wu richiede che |’ e- quazione (3) sia ridotta al grado m—I, eliminandone le potenze x”, 2°‘, ete., i di cui valori dovranno esprimersi mediante l'equazione (1) in fun- zione delle potenze di grado inferiore. Ma a tal riguardo importa di te- ner presente che, in generale, siffatta riduzione può essere operata molto più speditamente per via della ordinaria divisione algebrica. 4. Premettiamo che in seguito, dinotando P una funzione qualunque intera e razionale di #, se si supponga effettuata la divisione di P per U fino a che si abbia un quoziente intero, per indicare esplicitamente que- sto quoziente intero ed il residuo, scriveremo: P quo. 7 e res. Ma ordinariamente, per rendere questa notazione più concisa, sopprime- * eni remo il divisore U, almeno fino a ehe possa intendersi chiaramente e senza equivoci, e seriveremo invece : quo. P e rest. 5. Ecco ora un teorema sul quale è fondata la riduzione poco innanzi accennata. i Supposto che la funzione P sia ridotta al grado m—A mediante P equa- zione U=0, dico che la funzione ridotta è identica al residuo della divisione di P per U (*). In fatti essendo identicamente: P_U.quo.P+res.P, posto U=0 si ha per immediata riduzione: (4) P_res.P, equazione soddisfatta da m valori di #, che sono le m radici dell’equazio- ne U=0; ma frattanto mediante la stessa U=0 il primo membro del- la (4) può essere ridotto ad un grado inferiore ad m; ed allora, siccome il secondo membro è anch'esso di grado minore di m, perchè residuo relativo al divisore U, che è di grado m, ne segue che la funzione ridotta è necessariamente identica a questo residuo. 6. Nel caso particolare in cui il divisore U è di 1° grado il teorema si traduce in quest'altro: Il valore che prende la funzione P, quando x si fa uquale all’unica ra- dice dell'equazione U=0, equivale al residuo della divisione di P per U. Quindi, dinotata con a questa radice; o, che torna allo stesso, suppo- sto U=x—-a, scrivendo (P), per significare il valore che prende la fun- zione P per “=a, si avrà: P (Desa L_- Così il valore della funzione P per «=a si può ottenere, com’ è ben co- nosciuto , nel residuo della divisione di P per #—@. Ma a tal riguardo è mestieri di rammentare che tanto il residuo , quando il quoziente di quella divisione possono essere calcolati con un procedimento rapidis- simo (**), che ordinariamente va descritto negli elementi di algebra, e (*) Questa proprietà delle funzioni intere, così semplice e così utile, non è affatto nuova; ma ab- biamo dovuto darne ragione, perchè gli scrittori di elementi di algebra sogliono dimenticarla. (‘*) Questo procedimento si può riassumere in ciò che segue. Supposto il divisore della forma c—a, per brevità chiameremo modulo della divisione il numero +a, che è il secondo termine del divi- Se che aequista importanza positiva nelle ricerche delle quali ci occupiamo imperciocchè per esso, come avremo occasione di vedere, vanno ridotti ad una semplicità inattesa, de’ calcoli che in altra guisa sarebbe impos- sibile di condurre innanzi. 7. Tornando al caso generale faremo osservare che, se la funzioneP, che si tratta di ridurre a grado inferiore a quello di U, sia un prodotto di più fattori, tra’ quali ve ne siano dello stesso grado di U, o di grado maggiore, si potrà, se ciò torni opportuno, cominciare dal ridurre que- sti faltori, e poscia sviluppare il prodotto per compiere la riduzione. Quindi risulta che la formola (3) si può dapprima ridurre alla seguente: res N=(a,x" +a,e" °+...+4,_.)res.M; ed in seguito all'altra: res.N=res.[(a,e” + a,e"?+...+0,_,)res.M]. sore col segno cambiato; ed allora possiamo così enunciare un principio ben noto. Ogni coefficiente del quoziente è uguale alla somma di quello di ugual posto del dividendo, e di quello che lo pre- cede nello stesso quoziente moltiplicato pel modulo. Questo principio permette di calcolare 1’ uno dopo l’altro tutti i coefficienti del quoziente, e lo stesso resto, che perciò si considera come un altro termine del quoziente consecutivo all'ultimo. Ora il procedimento di divisione del quale è parola, non consiste che nell’applicazione del principio enunciato, diretta convenevolmente al calcolo nu- merico; ed a tal'effetto l'operazione suol disporsi come nel seguente esempio, nel quale il divisore èax—2: Divid.=3x°— 815+9x3— 16r°+13r+1 Mod=+2 6 4 10 —12 2 Quoz.=3x4—2x*+52*— 6x + 1|+3=Resto . I termini del quoziente ed il resto sì suppongono situati per ordine al di sotto de’ termini del divi- dendo, a cominciar dal primo. Per tanto, scritto il primo termine del quoziente, il quale è cono- sciuto a priori, perchè il suo coefficiente è uguale al primo coefficiente del dividendo, si moltipli- cherà questo coefliciente pel modulo, che giova tenere a vista invece del divisore; e si scriverà il prodotto al di sotto del secondo coefficiente del dividendo. Addizionando questi due numeri, la somma darà il secondo coefficiente del quoziente; ed uniformemente si continueranno a calcolare tutti gli altri. Questo procedimento diviene semplicissimo quando il divisore è *«—1 0 2--1. Allora è super- fluo di scrivere ì prodotti de’ coefficienti del quoziente pel modulo; ed il principio poc'anzi ricor- dato si riduce a dire, che: Un coefficiente qualunque del quoziente è uguale alla somma di quello di ugual posto del dividendo, e di quello che lo precede nello stesso quoziente , preso col segno pro- prio 0 col segno contrario, secondochè il modulo è +1 0 —1. Ecco un esempio per questo caso: Divid.=T7a”— 9x4+0x°— 5a2+15x—8 Mod.=-+1 Quoz.= 7274-22 —2ax°—7x + 8 O—Reslo. Qui ogni coefficiente della riga inferiore si trova addizionando quello che lo sovrasia nella riga su- periore , e quello che lo precede nella stessa riga inferiore. = ge È 8. Per dare un esempio della trasformazione della quale è parola al n. 4, cercheremo la funzione intera w equivalente alla funzione fratta NS r'+3x* 5e+11x° 2x1 Mid Sa nella ipotesi che x debba verificar l’ equazione: U=x'— 22435 1-0. Essendo U di 3° grado, « sarà di grado inferiore al 3°, e però della forma: una, L'4+0,X+4,; e le costanti saranno definite dall’equazione : res. N=(a,e°+a,£+a,)res.M . Siccome i residui s1 rapportano al divisore U, si ha resN=x"—3x+1 p resM—=a —s PI; e quindi l’equazione precedente diviene : | x°-3x+1=(a,c°+a,£+a,)(x°—x+1). Sostituendo ora allo sviluppo del secondo membro il residuo della sua di- visione per U, l'equazione identica, che determina le-costanti , sarà da ultimo : x°—3r+1=(a,+a,)x°— (2a +a,+a,)r+(a,ta,+4,); ed in conseguenza i valori delle costanti medesime saranno dati dalle equazioni : : a,t+a,=1 2a, +2a,+a,=3 at a,ta,=4 - Risolvendole si trova a=0, a,=2, a,=—1. Quindi risulta : zeri e perciò, quando £' — 2x°+3x—1=0, si.ha: x'+3x'—5x'+41x°-2x+1 Lo 2a Ea =9 Fado 9. Quantunque il metodo esposto per determinare la funzione w sia pl semplice abbastanza, pure esso ha l'inconveniente, non lieve pel calcolo numerico, di esigere la introduzione di coefficienti indeterminati, che rendono fastidiose le operazioni, e specialmente le divisioni. Esporremo quindi un altro metodo, pel quale la funzione « va direttamente deter- minata, fondato sul seguente principio. Essendo: (5) N=uM e nel tempo stesso U=0, l’equazione (5) si potrà trasformare in un’al- tra, la quale, senza cessare di essere intera rispetto ad 2, abbia costante il coefficiente di «. Per operare questa trasformazione comineeremo dal moltiplicare suc- cessivamente la (5) per le potenze 2°, x, #°,...,2”, ed avremo il se- guente sistema di m equazioni: N=uM , Ne=uMax , Ne°=uMa,..., No” *—=uMa”"". Riducendo i due membri di eiascuna al grado mn—1 mediante l’ equa- zione U=0, queste equazioni divengono: res. N —u.res.M res.Nx —=u.res.Ma TESS 2 ves. Ne —u.res.Mx m_I ves. Na” *—u.res.Mx ma, dande una forma esplicita ai residui che moltiplicano la v ne’secondi membri, potremo seriverle come segue : m res. N =ula a” ‘+, m_2 +..-+, C+) m_I +6,” "+..,4+3,6+p,) n_I m_I res.Na = uc, odiati. .+\,&+%,) Î Ora queste equazioni, che diremo ausiliari per ta determinazione della funzione «, porgono subito quella nella quale è costante il coefficiente SZ i di u, bastando perciò di eliminare da’ secondi membri le m —1 potenze 00°, ...,°, riguardate come incognite a 1° grado. In generale que- sta eliminazione si può compiere per via di determinanti, e quindi la funzione « sarà data dall’ equazione: n | de la LE Pai Zig b; . ,, res. N 45 Bs . LA Pa do B, ° I, res. Nx u= 6; B m_I 10% Bm de In Fm Li FW = LA res. Na Ma si comprende che lo stesso scopo si può raggiungere per altre vie, e con tutti quei mezzi che sogliono usarsi in simili casi. Per esempio, se si elimina la più alta potenza @** tra una delle equazioni ausiliari e tutte le altre, si ha un nuovo sistema di m—1 equazioni co’coefficienti di « al grado m—2. Eliminando in seguito la potenza #” * tra una delle nuove equazioni e ciascuna delle altre, si avrebbero m—2 equazioni coi coefficienti di v al grado m—3. E, così continuando, è chiaro che il si- stema verrà ridotto ad una sola equazione col coefficiente di vu indipen- dente da 4. Del rimanente ne’casi particolari la natura de’ coefficienti numerici de’ secondi membri delle equazioni ausiliari suggerirà quasi sempre allre combinazioni più proprie per compiere con maggior pron- tezza l'eliminazione di cui si tratta. Anzi avverrà sovente, come or ora vedremo, che l’ espressione di potrà risultare da una parte di quelle equazioni ; e qualche volta anche da una. 10.È importante ad osservare che per ottenere le m equazioni ausiliari basta dividere per U i due prodotti Ne” * ed Mx”; essendo evidente che i primi membri di quelle equazioni si hanno negli ultimi m parziali resi- dui della prima divisione, sgombrandoli de’fattori &”*, 2°7*,...,2, 2%; mentre i coefficienti di « ne’ secondi membri si avranno pure negli ulti- mi m parziali residui della seconda divisione, sgombrandoli de’ medesimi fattori. s Tuttavolta , potendo accadere che si abbia bisogno de’ quozienti che risultano dal dividere per U le due funzioni N ed M, così in questi casi si potranno prima effettuare queste due divisioni, e poscia continuare a dividere per U i due prodotti x” res. N ed &” res. M. 11. Applicando il metodo che abbiamo sviluppato allo stesso esempio 9h del n. 4, osserveremo che, essendo la funzione v di 2° grado, sì richieg- gono tre equazioni ausiliari, che sono in forma simbolica: ressN —=u.res.M res.Na =u.res.Mx res. Na? —u.res.Me”. Intanto, siccome i residui si rapportano al divisore U=a°—2x°+-832-1, fatte le due divisioni, com'è detto nel n. 6, si trova resN = x’ -3x+1 ; resM = ax°- x+1 ressNe =— x°-2x+1 : ressMx = x°-2x+1 res.Nx°=——4x°+4x 1, res.Me°=0.xe°—2x+1; e quindi le tre equazioni ausiliari per la determinazione di u divengono e°—3r+1=u (e°— x2+1) —x°—2x+1=u (x°—2x+1) ix -l4xr+41=u( 2x—-1). Nulla ora è più facile che di eliminare le potenze di x da’secondi mem- bri di queste tre equazioni; il che può farsi in più modi. Per esempio, si può prendere la differenza delle prime due ; che in tal guisa si ha l’e- quazione : (6) 2° a=ux, dove, come nella terza, il coefficiente di u è di 1° grado; e quindi to- gliendo dalla (6), moltiplicata per 2, quella terza equazione, si ha su- bito, com'era già noto, u=2x—1. Qui però bisogna notare che non era affatto necessario di ricorrere alla terza equazione, perchè la (6) può solo essa riprodurre l’espressione di u, non avendosi che a dividerla per @. Ma da un’altra parte cade quasi sott'occhio che la terza equazione può bastare da sè sola alla determinazione di u; perchè messa nella forma Qe—-1)°=(2x—1)u, non sì ha che a dividerla per 2a—1 per ritrovare il valore di u. Atti — Vol. Il.— N.° 12 È — 10- Ali Decomposizione generale delle frazioni 12. In ciò che segue dinoteremo con N e A il numeratore e denomi- natore della data funzione fratia a decomporre in frazioni parziali, figu- rando perciò questi simboli funzioni intere e razionali dì #2; ed ammet- teremo che il grado di N sia minore di quello di A. Ora la quistione che si tratta di risolvere è la seguente : supposto che A sia un prodotto di fat- tori razionali primi tra loro, decomporre la data frazione in frazioni par- ziali aventi que' fattori per denominatori. Distingueremo questa quistione in due casi, secondochè i fattori di A sono semplici o multipli, cioè del- luna o l’altra forma: U=k,e"+k,e"+...+k, , U=(e"+kett+...+k)- caso 1° Frazioni parziali nascenti da’ fattori semplici di A. 13. Sia U un fattore di A ed M l’altro fattore, per modo che: A=UM; i dico che, se U ed M sono primi tra loro, la frazione data si potrà de- comporre in due frazioni aventi per denominatori U ed M, e per nume- ratori determinate funzioni intere di gradi inferiori a quelli de’rispettivi denominatori. In fatti, se ciò è possibile, chiamando « ed N, i due nu- meratori, dovrà essere identicamente : N N Wie "RS UM. RL ATENE: e quindi dovrà ancora sussistere l’ uguaglianza : (1) N=uM+UN, la quale, essendo U primo con M, posto U=0, si riduce ad N=uM; e ne risulta che per soddisfarla bisogna prendere per w la funzione in- iii tera in cui si trasforma la funzione fratta N: M nella ipotesi che la va- riabile 4 debba verificare l'equazione U=0; funzione intera completa- mente determinata, di grado inferiore a cpc di U, che può essere cal- colata co’ metodi già sviluppati. Intorno al numeratore N, delia frazione complementale osserveremo che da (1) si ha: N—uM (2) Neg e siccome per la natura della funzione « la differenza N—uM deve an- nullarsi per ogni radice dell'equazione U=0, ne segue che quella dif- ferenza è divisibile per U, e si avrà nel quoziente l’espressione di N,; la quale adunque è una data funzione intera. Posto ciò dividendo per M la formola (2) si ha evidentemente: N _N_uM 0) O IAL Ora il grado di N è minore di quello di A; inoltre essendo il grado di “minore di quello di U, sarà il grado di wM minore di quello di UM, ossia di A; e da ciò risulta che in ciascuno de’ due membri della (8) il grado del numeratore è minore di quello del denominatore. Dunque il nume- ratore N, della frazione complementale è anch'esso una funzione intera, di grado inferiore a quello del suo denominatore M, determinata dal quoziente della divisione accennata nel secondo membro della (2). 14. Ma questo secondo membro è suscettibile di una forma molto più utile nelle applicazioni. Essendo : N=Uquo.N+- res. N ; M=Uquo.M+res.M, si avrà N—uM=U[quo.N—ugquo.M]+res.N—wres.M; e sarà quindi dividendo per U: ures.M— res. N N, =quo.N —uquo. M — Ù Siccome il secondo membro dev'essere una funzione intera, la divisione accennata con l’ultima frazione dovrà farsi senza resto; quindi il secondo ES ae iintn tt SMTP TZZZIONRATTIE a I "ce pela E dl iermine del dividendo, res. N, che è di grado inferiore ad U, dovrà eli- dersi col resto che si ottiene dividendo per U il prodotto ures.M. Perciò l’ultimo termine della formola precedente si riduce semplicemente al quoziente intero di questa divisione ; e ne risulta: (4) N, =quo.N—uquo.M— quo.(ures.M). Questa formola è da preferirsi alla (2) pel calcolo di N,. In fatti, siceo- me bisogna prima trovare la funzione « mediante l'equazione : resN=u.res.M, ciò importa che innanzi tutto si debbano dividere per U le due funzioni N ed M; siechè sì hanno già in pronto i tre elementi quo. N, quo. M, res. M; e più non resta che a calcolare l’ullimo termine della (4); cioè il quo- ziente intero della divisione per U del prodotto ures.M; divisione que- sta generalmente più semplice di quella imposta dalla (2), perchè i due fattori del prodotto «res. M sono entrambi di grado inferiore ad U. 15. Se si tratta di considerare un'altro fattore dì A, diverso da U, e però fattore M, si potrà applicare alla frazione complementale N,: M lo stesso modo di decomposizione sviluppato a riguardo della frazione ori- ginaria; la quale allora risulterebbe decomposta in tre frazioni parziali. Ma ora è chiaro che, in generale, la frazione data sì può decomporre in tante frazioni parziali quanti sono i fattorì razionali primi tra loro in cui si voglia supporre decomposto il suo denominatore. Secondo quello che precede i numeratori di queste frazioni parziali si determinano l’uno dopo l’altro, considerando ogni volta una frazione complementale; ma è evi- dente che ciascuno può ancora essere determinato indipendentemente da tutti gli altri, potendo applicarsi a ciascuno il metodo tenuto a riguardo del numeratore v della prima frazione. 16. Per dare un esempio prenderemo a decomporre la frazione : N ba'—3r'+7x°+8xr+10 u È ni x U—ax'—2x°+3x+1 È M=2x'—3x"+5x°—2r+3. TA "a i È Si ume” iti + pena. | Caleolo di u. La funzione u è di 2° grado; e quindi per determinarla occorrono tre equazioni ausiliari: res.N=ures.M , res.Ne=ures Me , res.Ne°—=ures.Me°. Fatte le divisioni per U si trova quo.N =. be + 7 quo.M =x +1 ressN = 60°—-2%x+ 3 ress.M =x-- x+42 res. Ne ——42x°15x+ 6 res. Me —x°— x+1 res. Ne°=—39x°+30x+12 res. Me'=x°4e—1; e le equazioni ausiliari diverranno : 61° —2r+ 3=u(e°— x+2) —12x°415r— 6=u(e°—- e—1) — 39x°+-30r+12=u(e°—4r—-1). | Basta prendere la differenza delle prime due per avere l’equazione in cui _ è costante il coefficiente di w; sicchè, senza impiegar la terza, si ha subito u=/609° 353. Calcolo di N,. L'espressione di N, si ha dalla formola (4); caleolandone l’ultimo termine si trova: quo.(ures.M)= quo. [(6x°—3r+3)(x°—x+2)]=6r+3; e quindi risulta : N,=52+7—(6e°—3r+3)(r+1)—(6r+3), ossia, riducendo: i N=— (60°+32°+2 1). Dunque si ha in fine: . N_ € 6e°-3x-3 6x°+35°-v-rx-1 A a°'- 2° 35+1 2x°-30'+ 50° 2r+23" — 14 — caso 2° Frazioni parziali nascenti da’ fattori multipli di A. 18. Sia U' un fattore di A ed M l’altro fattore; sarà AIM Ora se U ed M sono primi tra loro, la frazione data si potrà decomporre, come segue, in due frazioni: N N Us, N, DET DM A i numeratori «, ed N, essendo determinate funzioni intere, di gradi in- feriori a quelli de’ rispettivi denominatori. In fatti, se la decomposizione è possibile, dovrà sussistere l'uguaglianza: (5) _ N=u,M+UN,, la quale, posto U=0, si riduce ad N—=w,M5 e ne risulta che per soddisfare la (5) bisogna prendere per «, la funzione intera in cui si trasforma la frazione N: M nella ipotesi di U=0. Ciò premesso si ha dall'eguaglianza (3) SONA \ Gear U > (6) N ed osservando che la differenza N—w,M si annulla semprechè U=0, si conchiuderà chè la medesima è divisibile per U; ed il quoziente darà l’espressione di N,. AO i Dividendo ora i due membri della (6) per U r-I M si ottiene : Nana pan en ed è facile a riconoscere che il grado di N—u,M è minore di quello di — 15 — A. In fatti, per ipotesi, il grado di N è minore di quello di A; inoltre, essendo il grado di v, minore di quello di U, il grado di w,M sarà minore del grado di UM, ossia di A. Dunque il grado del numeratore N, del pri- mo membro dell’ultima eguaglianza, che è la frazione complementale, è pur esso minore del grado del suo denominatore UT *M. 19. È conseguenza di tutto ciò che la frazione complementale si può sottomeltere alla stessa maniera di decomposizione della frazione propo- sta; e sì avrà quindi DE > N U=M U=*:' GM’ 2 u, ed N, essendo determinate funzioni intere, la prima di grado inferiore a quello di U, da definirsi mediante le due equazioni U=0 è No=wjM: e l’altra di grado inferiore ad U7"M, data dal quoziente: —u,\ iu 2 I î Quindi la frazione originaria sarà decomposta in tre frazioni : Ndr. cu) us. N, punge ra: Ma, siccome si può ripetere lo stesso procedimento a riguardo della nuo- va frazione complementale, e così continuare fino a che sia ridotto a zero l'esponente di U, è evidente che si avrà da ultimo: (7 Ni 4 U, | Va ba Seed s ae e ya; Così il fattore multiplo U' del denominatore della data frazione dà ori- gine ad r frazioni parziali, che hanno per denominatori le potenze U”, UT*,...,U; ed i cui numeratori sono determinate funzioni, tutte di grado inferiore a quello di U. Se si avessero a considerare altri fattori di A, e però di M, per com- piere la decomposizione si potrà trattare la frazione complementale , quando non si preferisca di operare sulla stessa frazione originaria, MO 20. In quanto alla determinazione effettiva de’ numeratori w,, %;, t,,--+,t,_, ed N, segue da quanto precede che essi vanno calcolati l'uno dopo l’altro mediante i due sistemi di equazioni N—uM , N=uM , N=uM,...,N_,=u_,M; N u,M È: N, u,M I U > U 4 È) eta N_-u_M N,= a il primo de’quali va congiunto all’equazione U=0, e si riduce all’altro: resN=u,res.M .,- res.N =u,res.M , res.N,.=u,res.M, ete: mentre al secondo può sostituirsi il seguente : N, =quo.N —u, quo.M— quo. (res. M) (8) N,=quo.N,—u,quo.M— quo.(u,res.M) efc: etc: etc: 21. È da osservare che se U è di primo grado, i numeratori 4,,%,,-..1%,_, saranno costanti al pari di res.M. Allora in ciascuna delle (8) l’ultimo termine sarà nullo, e quelle formole diverranno: N,=quo.N —u,quo.M N,=quo.N,—u,quo.M . etc: etc: etc: 22. Applicando questo metodo ad un esempio, considereremo la se- guente decomposizione: Lg 3x°-+3r'4-10rx°—7r4e°+44 lo a Ma N, AT Gre @+35 004-9846043) UU M° U=x°+24+41 , M=x°+3r*+6r°+9r°+6r+3.. Essendo U di 2° grado, i numeratori w,, %,, «, saranno lineari, e perciò definiti dalle tre coppie di equazioni ausiliari : resiN =u,res.M ;, res.N, =u,res.M , #es.Ny=-ugressM res. Ne=u,res. Me , resNa=u,res.Mx , res.Noe=u,res.Me dove i valori di N,, N, sono dati dalle formole (8). i e Calcolo di u, ed N,. Fatte le divisioni abbiamo: quo.N=3x°+7x*‘—7r2°-A , resN——x+3 , res.Nr=4xA1, quo.M= x°+2r°+3x +4 , resM=——x-4 , res.Me=4 : qui si può osservare che, essendo res.Mr=1, nelle tre coppie di equa- zioni ausiliari le prime restano inutili, perchè le seconde si riducono ad rese. ures.Ne , uresNo, ed i valori di u,, %,, «, si avranno immediatamente ne’ secondi membri di queste tre ultime equazioni. Così dalla prima si ha senza più: u,=424A x quindi quo.(u,res.M)=quo.[(4c+41)(—e-4)]=—4; e si ha in conseguenza dalla prima delle formole (8): N,=3e°4+ Tr" Te'+ 4 (4x AYe' +2" 13544) A _3x°+35* 162° 140° A9r4A. Calcolo di u, ed N,. Effettuendo le divisioni si trova: quo.N, =3r°-3r°+3x°4146r A, resNe=4r+2; — esiha perciò: i u,=4rx+2. In seguito avremo: quo.(u, res. M)=quo. [(42+9)(—2—4)] =-4&, e quindi, per la seconda delle formole (8): N,=3x°-3x°+3x° A16r A—(40+2)(e° +22" 134) 4 =— (2°443x°+4130°+38c+5) . Calcolo di u, ed N,. Le divisioni danno: quo.N,=—(x°+12x) , res.Ne=21x+926; dunque: u,=21x+26 > Atti— Vol. II.— N° 12 i d tute — i8- i Dopo ciò sì ottiene : quo. (1, res. M)= quo.[(21x+26)(—x—1)]=—26; e la terza delle formole (8) darà in conseguenza: N,=— (e°+12x)—(21x+26)(x'+2x°+3x+4)+26 =——(21x'+68x'41162"+174x-+83 . Così risulta in fine: N 4e+4 4042 204926 Mot+ 6807+116°+A1740+83 A_(c°+x+1) (e°+x+1) a°+x+1 c'+3x'+0x°+9x°+6x+3 23. Le funzioni %,, %,;--.,%,,, numeratori delle r frazioni parziali provvenienti dal fattore multiplo U' di A, possono essere determinate con altro metodo, talvolta preferibile a quello che abbiamo esposto. Ri- ducendo ad una queste r frazioni si ha dapprima NO u+u,U+u,U+...+u_,U* N ur x = e quindi facendo sparire i fratti risulta: (9) N=(u,+u,U+u,U"+...+u,_,U )M+U"N.: equazione la quale sussiste per qualsivoglia valore di 2, unitamente alle sue derivate. Ora questa equazione e le sue successive derivate fino a quella dell'ordine "—A possono determinare l'una dopo l’altra le r fun- zioni 4, %, ...,%,,, ponendo in ciascuna U=0. Si osservi intanto che nell’equazione (9) e nelle sue derivate fino a quella dell'ordine prescritto, la ipotesi di U=0 fa sparire il termine U'N,, e tutto ciò che ne risulta mediante la derivazione; di modo che è assolutamente inutile di tenerne conto; e quindi la detta equazione sì può ridurre all'altra : (10) N=(u;+wU+w'4. +wU7)M. Ciò premesso, posto U=0, si ha l'equazione Neu. bi) | POE la quale determina senza più la funzione w. Inoltre derivando la (10), e ponendovi in seguito U=0, risulta N'—uM'+wM+u,UM; e questa equazione determina l’altra funzione «,, imperocchè, essendo conosciuta la funzione u,, lo è pure la sua derivata w,. Trovata l’espres- sione di u,, per avere quella di wu, si prenderà la seconda derivata dalla (10), e vi sì porrà U=0; e così continuando è chiaro che si perverrà a determinare tutte le r funzioni w,, %,,---,%,_,- Questa ricerca si rende più semplice ponendo: (11) unu, +u,U+u,U'+...+u, UT. Allora la (10) diviene N=uM; e quindi prendendo le successive deri- vate col noto leorema di Leibnitz si ha subito il sistema di equazioni : N =uM N’ —uM'+ wM N” —uM’'+2uM'+ w'M N” — uM"”+83u'M"+3u"M'+u"M eic: ele: etc: etc: le quali dovranno poi ridursi mediante l'equazione U=0, al pari de’ va- lori di «, w', u", ete., che verranno dati dalla formola (11). ART. III Frazioni parziali ordinarie 24. Chiamiamo frazioni parziali ordinarie quelle i di cui denominatori sono della forma U=(e—a)’, e quindi U=r—a. Supposto che A abbia il fattore U”, essendo U funzione di 1° grado, un tal fattore darà origine ad r frazioni parziali aventi per denominatori le potenze U", U*,...,U, e per numeratori delle costanti, che ora, invece di w,, &,1---1%._,; preferiamo di indicare con A;; A,,-..3A_,- Queste r costanti ed il nume- * O ratore N_ della frazione complementale possono, come risulta dal n° 21, determinarsi mediante i due seguenti sistemi di formole : ressN =A, ressM , N,=quo.N —A, quo.M res.N. =A, 1@&-M_, N:-quo:N Kee res.N, —=A, .res.M ,. N; =Quo.N° —A, quo.M 2 res.N_.=A,res.M .,. N. =quo.N-_ —A_quo.M.. Ma siffatta quistione sì può risolvere con un metodo più semplice, me- diante una formola, la quale fa dipendere il valore di una costante A da’ valori di quelle che la precedono A,, A,;...,A;_,- Per trovare questa formola osserviamo esser lecito di supporre (n° 19) N SALINE NCR N = "rgart e se si moltiplica per UM verrà N M M M var tAprit: 3 il +N,; . Essendo N. funzione intera, se sì effettuano le divisioni indicate in que- sta formola, ì residui dovranno elidersi, e rimarranno i soli termini affetti da’ quozienti interi, talchè potremo scrivere : M M M —=A,quo.-+A,quo. —+ +A - +N — A È 0. — st 7 ele , U? 04 U: I q IIer= iI quo U i? (1) quo avvertendo che qui non era possibile di sopprimere i divisori, perchè per ciascuna divisione il divisore, anzichè essere la semplice funzione U, è una diversa potenza di questa funzione. Faremo intanto osservare che i quozienti interi risultanti dal dividere la funzione M per le potenze successive U, U®, U°, etc., si possono cal- colare senza sviluppare le potenze, bastando perciò di dividere più volte di seguito la funzione M per U; vale a dire dividere M per U; indi il quo- ziente dividerlo per U; poscia il nuovo quoziente dividerlo per U; e così di seguito. Di questi quozienti il primo è quello che va indicato con la notazione quo.M; ma ora converranno d’ indicarlo scrivendo quo'.M; e dd ei — e quindi scriveremo quo”.M, quo”".M, ete. per indicare rispettivamente i quozienti della seconda divisione, della terza; ete. Uniformemente, per dinotare il primo residuo, il secondo, il terzo, etc. scriveremo res'.M, res".M, res'"".M, ctc. ; In conseguenza di queste convenzioni si ha in generale: quo. i — quo? M i e quindi l'eguaglianza (1) si muta in quest'altra: @) quo'?.N=A, quo'”.M+A quo? ?.M4...--A__quo'.M+N,. Ponendovi U=0, ogni termine si riduce al residuo che si ottiene divi- dendolo per U; ma, in generale, il residuo risultante dal divider per U il quoziente della p°°”* divisione è il residuo della (p-+-1)""' divisione; dunque, tenendo presente che: retNA-res.M, l'eguaglianza precedente diverrà: res: N—A,res**.MA res?.M4-...--A__res".M{Ares'".M. Questa formola, nella quale i residui sono costanti, perchè relativi al divisore U di primo grado, vale a determinare tutte le r costanti A,, A.,---,A_,; dappoichè ponendovi successivamente i=0, 1, 2, etc., si hanno le equazioni : res'!N—=A,res'. M res".N=A, res". M+A res'.M (3) res".N=A,res".M+A res".M+A,res'.M per le quali le dette costanti restano senza più determinate. Conosciuti i valori delle costanti, quello di N, si avrà quindi dalla formola (2), la quale, fatto i=r, porge: (4) N=quo?.N—(A,quo”.M+A quo ®.M+...+A_,quo'.M). = 25. È noto che i residui, risultanti dal divedere più volte di seguito per sE Co _ 22 — x—a una funzione intera e razionale, esprimono i valori che prendono per #=a la funzione istessa e le sue successive derivate, queste ultime ordinatamente divise per 1, 1X2,1X2X3, ele: Dunque: N” res" :N=(N) o ,cires'iN= (Niko 7 resti N si la , etc: res'.M=(M) ., res M=iM0)p- es Me = Da , ete: gli accenti ne’secondi membri significando derivazioni; ed in conseguen- za le equazioni (3) diverranno: (N)=AM), (N°) A,(M' )Y AYA (M a Mia Me A (0) +A,00, (5) Queste equazioni non sono nuove nella teoria della decomposizione delle frazioni ; sicchè pel caso delle frazioni ordinarie ci troviamo di aver raggiunto una soluzione conosciuta, che suol dedursi da altri principii. Ma, quantunque i coefficienti delle (3) equivalgano a quelli delle (5), pu- re, in generale, conviene di calcolarli come residui di divisioni col me- todo già descritto (nota al n° 6); il quale, anche ne’casi più complessi. riesce a darli con la più grande faciltà; mentre il mezzo della deriva- zione impegna quasi sempre a calcoli lunghi e fastidiosi. È preferibile la derivazione solo se si trattasse di residui relativi a funzioni monomie. Inoltre, se la derivazione dà i residui, non può dare i quozienti delle successive divisioni per «—a. Così, seguendo questa via, non sì può profittare della formola (4) per ottenere il numeratore della frazione com- plementale; e converrà cercarlo direttamente : 26. Aggiungiamo due esempii relativi a frazioni parziali ordinarie. Esci. NONO 2° !92"+302* 42x°4235° 9%x+35 ATUM (2) (0° 60°: 20°+ 5a 1175+ 81) Gli clementi, dei quali si ha bisogno in questo caso, sono i quozienti e re- GIN DPA | sidui nascenti dal dividere cinque volte di seguito le funzioni N ed M per U=2—2; ed applicando il solito metodo, si trova: quo”. N—2"_ 72'+162° 102°+ 35-45 » quo". M=x'4x° — 6r°+39r_ 39 quo”. N=x'_ 5x°+ 62°: 2x +7 quo”. M=x°_2x° 40x 49 quo”.N—x°—3x°+ 00 + 2 quo”.M=x°40x —40 quovN=x° n 9 quo”.M—=x +2 quo”. N=x 44 quo”. M=4 res'.N=5 , res". N—-4 , res"N= 41 A res”, N=-2 , res. N—=0 res'.M=3 , res.M=-4, res"M—_ 14 » res"v.M——6 , res.M—4. Quindi le equazioni che determinano le costanti saranno 5= 8A, — = A,+34, H=— A A+3A, — 2=-64,— A, A,+3A, 0 4A-6A,— A, A+3A, e, risolvendole, ne risulta : __ 254 943 . () Il procedimento di divisione descritto nella nota al n.° 6 acquista una vera importanza quando trattasi di calcolare il sistema de quozienti e residui nascenti dal dividere più volte di seguito una stessa funzione per x— a. In questo caso per maggiore semplicità si può ridurre il calcolo ad un quadro formato co’ soli coefficienti della funzione e de’successivi quozienti, sopprimendo da per tutto le potenze della yariabile. Allora ecco, a cagion di esempio, per intero il calcolo necessario per avere i cinque quozienti, ed i cinque residui relativi alle successive divisioni della funzione propo- sta N per T_--2; : Coeff. di... N , 1_-9+-30—42+23 21435 2_-414 32-90 6 — 30 quo”. N #71 -446— 40:53 451.5 N 2-10. 12 4 14 quo”. N ASIAN — re 2—- 6 o 4 quo. N , 1-34 0+ 3|+11= res".N 2-2 4 quo. N 1-4T— 2j- 2=res.N 2 2 quov. N ciali EL » Mod.=2 65 — 24 — In quanto ad N,, posto nella formola (4) r=9, si ha: N,=quo".N—(A, quo”.M+A, quo“. M+A, quo”.M+A, quo". M+A, quo’. M); e però fatte le debite sostituzioni, verrà: o 2 116 N=(144)—3—g (1+2)— 7 (€10) —_ So 3° —27°_402-+-19) 254, , 3 È —_ DI —4x —6r°+39r—39) , o, riducendo: _—254x'+2x"+2508x°+-423r+-810) . 2 1 Ns= 375! Dunque in fine: N00 ea i 254 a 3999 27092) | e 2861) — 254x'4+2x°+2508x°+423r+810 243 (e°—6ri4+22*+54r°4117r+81) Questo esempio è tratto dalla memoria del Crelle. Lo abbiamo recato perchè si vegga il grandissimo divario che corre tra il metodo, che Egli propone come il più opportuno, e quello da noi seguito. * Es. II. Come un altro esempio considereremo la frazione : E ia (a-A)M° dove M dinota il polinomio reciproco: M=x"°+4r°+9r°+15r"+20x°+22x°+20x*+15x°+9x° +42 +41; e cercheremo solamente i numeratori delle cinque frazioni parziali prov- venienti dal fattore (ec —1)": numeratori che, come al solito, intendia- mo figurati con A,, A, A, A, A, In questo modo avremo semplice- mente bisogno de’ cinque residui risultanti dal dividere cinque volte di seguito per "—1 le due funzioni N ed M, essendo N="*. Intanto sic- come la funzione N è un monomio, e si cercano i soli residui, è il caso, == come lo abbiamo avvertito (n°25), da preferire la derivazione; e quindi, essendo: Neat, N44 , N"=42.13.44.2"" NI --43%44000 sO NIA4:4%A8/A42" 015 posto «=a=1, avremo: (N=res.N=41 , (N'),=res'.N=14 , eng. Ne 364 , (N ) ros”. N=91 (N°), =res'.N=41001 1.2 12.34 In quanto ai cinque residui relativi alla funzione M converrà cercarli col solito metodo; e quindi tenendo presente un'osservazione già fatta a riguardo del divisore *«—1, (nota al n° 6) ecco per intero, senza to- glier nulla, il calcolo richiesto per tale oggetto. Coeff. di M, 14 9 15 20 22 20 45 9 4 41 A 544 29 49 71 9 106 115 A19] 120—=res.M 1620 49 98 169 260 366 481f 600—=res”.M 1727 76474 343 603 969| 1450=res".M 41835 101 285 628 1231/2200—=res".M 1 9 44 155 440 1068|2299—=res". M . Nulla è più semplice della formazione di questo quadro ; imperciocchè ogni numero, che vi è iscritto, si trova addizionando i due che lo pre- cedono, uno orizzontalmente, } altro verticalmente. Altronde abbiamo ancora potuto sopprimere i segni, perchè i coefficienti della funzione M sono tulti positivi. Dopo ciò per determinare i cinque numeratori si hanno le equazioni: 1= 1204, 14= 600A,+ 1204, 94=1450A,+ 600A,+ 1204, 364=2200A4,+1450A,+ 600A,+120A, 1001=2299A,+2200A,-+1450A,+600A,+600A, ; e ne risulta: 1 9 407 20 A=TE ug OLE > 1 dg * Raz de. x 2 __ 50651 mino” raro > + 3,42 La frazione considerata in questo esempio appartiene a quella classe È fe i di frazioni da cui dipendono i problemi relativi alla partizione de’ nume- ri, le quali hanno sempre al denominatore fattori della forma (£—1)'. Essendo nostro proposito di applicare a siffatti problemi l’esposta teo- ria, abbiamo voluto mostrar da ora a qual punto di semplicità si può condurre la ricerca de’ numeratori delle frazioni parziali, provvenienti dal fattore suddetto : ricerca la quale d'altra parte era il punto il meno - agevole della quistione. i e e Vol. ILL | N.° 13 ATTI DELLA R. ACCADEMIA DELLE SCIENZE FISICHE E MATEMATICHE OSSERVAZIONI SUL CAMMINO DI UN MICELIO FUNGOSO NEI. FUSTO VIVENTE DELL’ACACIA DEALBATA MEMORIA DEL SOCIO ORDINARIO G. GASPARRINI . . letta nella tornata del dì 10 gennajo 1865 È noto a tutti come tanti funghi di differenti ordini nascono sui tron- chi morti , sul legno e su qualsivoglia parte vegetale in disfacimento ; ed inoltre non pochi funghi vengono sugli alberi viventi. Ma in questo caso ove nasce il fungo ci ha sempre magagna nella corteccia, e prin- cipalmente nel legno sottostante, in cui la radice filamentosa del fun- go, conosciuta generalmente col nome di micelio, stabilisce sua sede e prende il nutrimento. Se questo micelio penetrato nel legno occupi uno spazio ristretto, o si distenda all’ insù ovvero all’ ingiù, o da ogni parte, e quanto possa allontanarsi dal sito ove spunta il fungo, non so che sia stato particolarmente indagato. Tuttavolta ad una domanda di simil fatta la risposta è agevole a prima giunta, cioè che le essenze fun- gose lignicole essendo diverse, e di differente durata, l'allungamento dei loro micelii nella matrice legnosa non può essere uniforme. In un senso generale così sta il fatto; e nondimeno non pare senza interesse il sapere fin dove, e per quali vie, possa penetrare un micelio nel tronco sano di qualche albero vivente. A tale proposito vogliamo esporre alcune osservazioni non ha guari fatte nell’ orto botanico sopra un arboscello della Nuova Olanda, Aca- cia dealbata , il quale dalla bellezza del portamento e per quella dei fiori è ammirato da tutti. Esso era alto sei metri circa; il tronco nudo quasi Atti— Vol. II.—N.° 13. i 1 deg SS cilindrico, lungo poco meno quattro metri, misurava alla base dieci centimetri in diametro, ed otto alla sommità ove cominciavano i primi più grossi rami. Questo arbuscello, avea bella cima, fronzuta, ramosa, in piena vegetazione, senza verun segno esteriore di patimento, senza grave magagna apparente nel fusto sopra terra;tranne in un punto verso la metà della sua lunghezza, ove mancava una sottile striscia di corteccia nella estensione di un pollice , e percui l’alburno superficiale in corrispon- denza erasi riseccato. A dì 29 novembre un leggier vento di tramontana avendolo schiantato rasente il suolo, il cuore del legno, da quel punto in su per un tratto di due decimetri e mezzo, si trovò fracido, polveroso, fragile, nerastro, mentre la corteccia e l’ alburno erano sani. Poco più sopra si potè noverare nella sezione trasversale ventidue zone legnose, dodici di alburno dal colore bianco secondo la volgare distinzione ; le al- tre brune formavano il così detto cuore del legno. L'esame al microsco- pio scuopriva nella parte legnosa disfatta, come di sopra si è detto, un micelio brunastro, ramoso, articolato, che pareva esservisi introdotlo*dal terreno circostanie , o sottoposto, per qualche fessura o magagna della corteccia insieme all’ alburno; il quale per grande estensione intorno intorno, a livello del suolo, era sano. Può anche credersi che lo stesso micelio ivi arrivato fosse stato causa di quel male. Reciso il fusto all’altezza di tre decimetri sopra la base, presentava il cuore del legno compatto (fig. 9-70) di aspetto sano; se non che il colore poco differente da quello disfatto a livello del suolo, fè credere che ancora in tal sito fosse infetto dallo stesso micelio: e l'esame confermava il so- spetto. Più in alto, senza interruzione, lo si rinvenne in tutta la lun- ghezza del tronco, infino alla sommità, ove cominciava a ramificarsi, cioè all’ altezza di quattro metri circa; e sempre nel cuore del legno, suc- cessivamente più giovine, meno colorato , senza alcun segno sensibile di alterazione in qualsivoglia punto. Siamo passati infine all’ esame dei rami. I più grossi misuranti tre centimetri circa in diametro, aventi nove zone (flg.11) legnose, nelle tre centrali di colore brunastro esisteva simil- mente il micelio fungoso: il quale diminuendo e assottigliandosi a grado a grado salendo, mancava o non appariva nei rami di minor grossezza,anche- dove il loro legno nel centro fosse alquanto imbrunito. Tuttavolta non pare ci sia stretta relazione tra il colore del legno e la presenza del mice- lio; poichè questo in taluni rami esisteva alla faccia interna delle zone centrali non per anco divenute brunastre: il che, forse, ha luogo in prin- cipio, quando il micelio non ancora vi si fosse multiplicato. Eccoci alla ’ = Ra cima dell’ arbuscello distante poco men che cinque metri dal suolo, quanto è stato il cammino del micelio. Si vorrebbe ora sapere se il micelio rinvenuto alla sommità del fu- sto e ne’ rami più grossi sia lo stesso di quello alla base; e, dove fosse diverso, se abbia potuto ivi introdursi attraverso la corteccia e l’alburno. Rispondendo alla prima domanda diciamo esser difficil cosa, sovente im- possibile, indicar caratteri distintivi, sensibili e precisi per tanti mice- lii appartenenti a funghi diversi. E pel caso presente se ci contentiamo dell'aspetto, della uniformità dei filamenti micelici, risguardo al colore, all’esser ramosissimo, confervoideo, ed al suo cammino, tutto questo insieme inducono a doverlo ritenere come lo stesso, dovunque si è trova- to, a principiar dalla base del pedale infino dentro ai rami, senza interru- zione. In tutta la lunghezza del fusto la corteccia era sana, tranne in pochi punti molto ristretti per morte o taglio di qualche ramo, a parte |’ an- gusta ferita di sopra menzionata nella corteccia, percui l’alburno super- ficiale ivi scoperto era divenuto bruno e duro. In que’ punti l’ alburno esteriore era affatto sano, o appena alterato: ma da per tutto l’alburno interno che fascia il cuore del legno, sanissimo a perfezione, non con- teneva filamenti micelici di sorta, non altrimenti che quello di qualsi voglia altro sito del fusto , affatto intiero vivente e sano, coperto dalla corteccia. Nè anche se ne rinvennero nella zona rigeneratrice , e tra foglietti corticali. Quindi il micelio in discorso viene dalla base del pedale, probabil- mente passatovi dal terreno, sale pel cuore del legno sano, ed entra nei rami. Il cuore del legno ha più zone legnose, ciascuna formala di fibre e grossi vasi punteggiati; vi sono pure i raggi midollari, e la midolla nel centro. Nè in questa s’ intromette il micelio, nemmeno entra ne’ vasi spirali che la circondano, non si accompagna con le cellule fibrose, nè diverge lunghesso i raggi midollari; la sua via sono i vasi (/ig. 12-m) punteggiati, con i quali cammina di conserva, ramificandosi da ogni banda. Col microscopio non si è potuto scorger chiaro se striscia alla su- perficie di que’vasi traendone il nutrimento per contatto e passaggio di ciò che vi circola,ovvero se sale per la loro parete interna. Nondimeno questa seconda via ci pare più agevole e naturale. Perchè ivi, nell'ampia cavità di un vase punteggiato, non manca l’aria, nè l'umidità, anzi abbonda la linfa nella pienezza della vegetazione, massime ne’ primi anni, e cì ha lo spazio; insomma tutte le condizioni al vegetare ed al progredire di un mi- celio; cui la superficie del medesimo vase, essendo in contatto stretto con x» ‘ = Se le cellule fibrose circostanti, non darebbe adito facile a potervisi sten- dere intorno. Ciò non potrebbe avvenire senza aver prima lo stesso mi- celio distrutta quella coesione mercè un’ azione chimica sua propria. In altre piante si son visti micelii passar fuor fuora le membrane cel- lulari promuovendone la disorganizzazione, consumar l’amido e la ma- teria legnosa contenuta nelle cellule fibrose. Pruovano questo le inda- gini di molti osservatori, tra chimici e fisiologi, e l’anno scorso veniva confermato dallo Schacht in una scrittura apposita col titolo «sulle mo- « dificazioni prodotte dai funghi nelle cellule vegetali che hanno ces- « sato di vivere » (v. Bullettin de la Société botanique de France, tome on- zième 1864). L'autore parla di funghi non parasiti, i quali nel legno mor- to, 0 presso a morire, trovano l’ ossigeno, l’ umidità e gli altri mate- riali necessarii alla loro esistenza. Ma vi sono inoltre funghi veramente parasiti, che attaccano le piante in istato di sanità perfetta, penetrando co’ loro micelii dalla parte esterna, sia dalla superficie della radice o del rizoma, sia dal fusto o dalle foglie, fin nei tessuti più riposti, sovente molto lontani dal sito ove dapprima si aprirono la via, ingenerando da per tutto nel loro passaggio alterazioni svariate più o meno sensibili. Nei succiatori di alcune epatiche abbiamo trovato un micelio molto sviluppato, e visto poscia che s’ introduce in quelle cavità tubulate dalla parte esteriore. Giulio Kiihn ha osservato che l’ ustilaggine e la carie nelle piante cereali germogliando sulle radici, o alla base del fusto, il loro micelio penetra in quegli organi e sale in alto, infino alle parti fio- rali, per ivi produrre i proprii germi o spore. Perfino ci ha qualche fun- go entofito che vive nelle piccolissime cavità microscopiche delle cel- lule in certi tessuti di alcune piante, come la Schinzia cellulicola sco- perto dal Néegeli nelle radici di alcune Iris. In quelle dell’ Iris Nota ed I. foetidissima, esaminate in fine di dicembre, abbiamo rinvenuto un micelio finissimo, bianco, in certi punti del parenchima corticale, ch'è ben gros- so, ed ove le cellule qua e Jà vedevansi attraversate da quello. In corri- spondenza di tali punti alla superficie della radice, e perfino su qualche succiatore, strisciavano filolini micelici, forte aderenti alla epidermide. Se quelli esistenti nel parenchima corticale appartengono alla Schinzia del Niegeli, non par dubbio che tale entofita non venga dall'esterno. Non pare che il micelio rinvenuto nella parte legnosa dell’Acacia deal- bata appartenga a qualche fungo veramente parasito, che non potesse cioè altrove vegetare che nella pianta vivente e sana. Se così fosse, in- trodottosi alla base del fusto, avrebbe ivi disfatto il legno, e si sarebbe Sa poscia avviato verso la cima come di sopra si è detto. Ma in questo caso lascerebbe le tracce della sua presenza con qualche alterazione sull’or- gano entro cui cammina; il che non si è avvertito, forse per essere leg- giero e non per anco riconoscibile. Può stare adunque, e questo sem- bra più probabile, che i filamenti micelici sì sieno introdotti e distesi per lungo tratto entro i vasi punteggiati, come avrebbero fatto nelle ca- vità di un legno morto , ovunque ci ha le condizioni al loro vegetare. La presenza e l’azione chimica di un micelio, d’ordinario si annunzia col cangiamento di colore del tessuto legnoso; e sì è visto nel castagno cavallino (Aeseulus hypocastanum). Un tronco dell’ eta di circa venti an- ni, grosso in diametro un palmo, reciso per traverso, non presentava di- versità notabile nel colore fra le zone legnose centrali, e quelle esteriori più recenti; la compattezza però era maggiore nelle prime. Le quali nella spaccatura longitudinale del medesimo tronco erano qua e là magagna- te, disfatte, imbrunite, ma senza alcun micelio, quantunque non man- cassero fessure, comunicanti coll’aria esterna, lasciate dai rami recisi. In tanto in altri siti del tronco spaccato lungo il mezzo, parecchie zo- ne di alburno in varii punti offrivano delle macchie, e delle strisce più o meno estese di color piombino, senza la minima apparente alterazione nel tessuto fibroso. Ma in tali silìi così colorati esisteva un micelio nei vasi rigati, ne' vasi porosi, tra le fibre legnose, tra le cellule dei raggi midollari, perfino nella zona rigeneratrice e tra le fibre del libro, onde probabilmente era passato all’ alburno, dopo avere primamente attra- versato la corteccia. Un micelio, si è già detto, non essere che l'organo vegetativo e pro- priamente la radice di un fungo perfetto, che a tempo e luogo da quella nascerà. Ma qual sia o possa essere il nostro fungo ignoriamo affatto. Il legno in cui si è trovata la sua radice, bagnato e tenuto sotto campana, non ha dato nello spazio di un mese che alcune mucedinee comuni, che nascono ovunque, standovi un organo vegetale morto, come Ascophora Mucedo, Penicillum glaucum ec. con intorno una certa umidità. Ne'funghi entofiti,infino a pochi anni addietro, qualche sostenitore della generazione spontanea trovava buone ragioni in pro di quella teorica , dappoichè non si sapeva come alcuni esseri di tal ordine potessero dalla parte esteriore penetrare in certi organi, per esempio la Schinzia, l’usta- lagine , la carie. Ma ora che si sa come i due ultimi arrivano ai fiori delle piante cereali, essi e tanti altri non verrebbero più a proposito per l'argomento della generazione spontanea, le cui pruove, se mai ci RA ca sieno, si hanno a cercare altrove che nel campo degli entofiti nominati. Scrivendo la presente nota pensava sovente al dubbio, se gli entofiti, oltre al modo testè indicato di vegetazione, con introdurre, germinando alla superficie degli organi, i loro filolini miceliei nelle parti interne; le spore di qualcuno di essi, o i conidii, o altro germe riproduttivo potesse, intiero, penetrare insieme alla linfa nel corpo della radice, ivi germinare, o in altra parte, condotto dalla stessa linfa in circolazione. Che ciò non possa aver luogo è chiaro, considerando per poco il fatto dell’assorbi- mento per parte della radice, nella quale non entra che l’acqua eon quelle sostanze di qualsivoglia natura che fossero in essa perfettamente disciol- te. Anche le minimissime particelle non percettibili alla vista naturale, e sovente nè meno al microscopio, essendo solo sospese, non già disciol- te nell’ acqua, non penetrano nelle radici. Come mai adunque vi entre- rebbero le spore intiere, aventi una dimensione misurabile, piccolissime si volessero immaginare,ed in organi mancanti di boccucce capaci a rice- verle? Si può obbjettare che le minime particelle del plasma, o delle membrane disfatte di un entofita, non incontrerebbero difficoltà, forse, a cacciarvisi dentro, massime per que’ punti scoperti ove sieno morte al- cune cellule superficiali o fibrilline radicali da qualsivoglia causa. Ma ì punti così magagnati offrono sempre in fondo un tessuto più o men fit- to, non già un canale aperto, ove la spora troverebbe solo luogo adatto a germinare. E che le tenuissime particelle di un plasma fuori il campo della cellula sua matrice, o quelle risultanti dalla decomposizione della slessa membrana cellulare avessero facoltà riproduttiva, come fossero altrettanti germi, non si vede sopra quali fatti sia ammessibile, anche in termini probabili. : Un tempo pareami possibile in certi casi, sebbene rari, l’ entrata di alcune spore nei canali vascolari della radice, e passar oltre almeno per breve tratto, trascinate della linfa, dietro la seguente osservazione. Sul finire di marzo, l’ Allium nigrum Lin. (fig.1) entrato già in vegetazione nel- l’albereto dell'orto botanico di Pavia, avea messo molte nuove radici alla base dei bulbi, in numero variabile; in uno se ne noverarono 107 in al- tro 165. Esse, semplici, cilindriche, alquanto flessuose, lunghe da quat- tro a sei pollici, mancavano da per tulto di succiatori. Le più giovani, lunghe circa un pollice, aveano la spongiola intiera, le altre in molto maggior numero ne mancavano. Dalla estremità troncata di queste, come corrosa da qualche insetto, sporgeva un poco l’unico filetto fibroso vasco- lare, grosso un sesto di millimetro circa, misurando la radice un millime- TRENI, (A tro in diametro. Questo filetto è costituito di cinque canali (fig. 4-5) 0 vasi spirali e di cellule fibrose che li circondano: quello del centro, il doppio più ampio degli altri quattro posti intorno, ha una capacità uguale ad 3; di millimetro. La stessa cosa allora occorreva nella Tulipa praecox Ten., (fig.7), Tulipa Gesneriana Lin., nel giacinto generalmente coltiva- to, Hyacinthus orientalis, e nel Narcissus pseudo-Narcissus, senza veruna diversità rilevante, rispetto al solo fatto della spongiola mancante. La Lachenalia pendula in fiore, coltivata in vase, presentava qualcuna delle sue lunghissime, cilindriche, semplici radici, fornite di molti succiatori, similmente disfatta o troncata all'estremità; il che si osservò ancora nel Galanthus nivalis,e nella maggior parte di quelle del Muscari racemosum. In maggio tutte le radici di un Allium non fiorito , con foglie come quelle dell’Allium vineale, mancavano di spongiola. Il Narcissus poetieus in fiore avea pochissime radici con spongiola intiera, ma intenerita, gial- lastra, corriva a disfarsi, o in atto proprio di disfacimento, mentre nelle altre in maggior numero essa non più esisteva. Nelle gigliacee,nelle Ama- rillidee tal fatto occorre, forse, più di frequente che non si crede. Ritorniamo al primo esempio, cioè all’Allium nigrum, dove si è vista l’ apertura del grosso vase centrale agguagliare 3 di millimetro. Ora i germi d’ un grandissimo numero di funghi di differenti ordini, per non dire di tutti, quanto non sono più piccoli di quella capacità? E dove nel terreno si trovassero in contalto con le estremità troncate delle radici , non sembra egli naturale poter essi cacciarvisi e camminare, almeno un certo tratto, con la linfa? Eppure non può csser così. Se la radice pescasse nell’acqua, e l’attirasse come fa la canna di una tromba, allora sì che non solo i germi di funghi e di alghe vi passerebbero, ma ancora qualunque particella in quel liquido sospesa; mentre ognuno sa che nel terreno l’ assorbimento ha luogo per parte della radice mediante un azione ch’essa da tutta la superficie, dove più dove meno forte, eser- cita sulla umidità in quello contenuta, e che passa e si trasfonde dentro attraverso le membrane cellulari, non già per forellini o boccucce percet- tibili che vi fossero. Quindi ciò che non è disciolto nell'acqua non può penetrare nelle radici, alla cui superficie resta deposto : e però gli ento- fiti parasiti non hanno altro modo di passare nei tessuti vegetali che ger- mogliando alla superficie di questi, onde poscia iloro filolini micelicis'in- troducono alle parti interne. di La Y e SR sa Su Ab per i Tn mu coloni U pela tà ini A nt asbiespi tapas CL 35 TREIA | > aboicota Giai i voy ea isf privi © pigli id, boa da aliogats i ig gesta Pialetilito degl t Lt agire rit ti ivo s ito atta ud vo rai lie 1 b-1 ai È sà fai lin > Cn A = La 20 PAN V TMT Gò Y I ALt0) ? sita 30 sodoanà SAR È po prega ia 1a tv et iù Fac? E SATO: LISsTLUa > da FT Ma ds de Lui i ta MAST Licata 3 ig razslada gi Ty (AM 3 ata PO Ue 00 Retta tia TRO nai "I La re a +) Ti se dll ( ivrndito dial SER TA ARI n; si : ) catilibir e an MATIZ ì Ve PrO: età vi) asleze i 8 rasi MIDUET n intatto ; 714). &. » Chaba è 1 AI FA Realta Spiegazione delle Figure 1. Bulbo dell’ Allium nigrum di naturale grandezza, di cui la giovane radice a con altre due in alto hanno la spongiola, mentre le rimanenti ne mancano, essendosi disfatta. 2.Due radici,l’una intiera l’altra senza spongiola,di grandezza naturale vedute isolatamente. 3. Estremità di una radicetta senza spongiola ingrandita alla semplice lente per mostrare il filetto fibroso vascolare sporgente alquanto oltre I orlo della parte corticale. 4. Sezione trasversale del filetto fibroso vascolare figura precedente osservata all’ ingrandimento di 180 diametri; essa mostra i cinque vasi spirali, di cui il centrale è più grande, circondati da cellule fibrose. 5. Sezione longitudinale del medesimo filetto fibroso vascolare, nella quale vedesi la posizione e la grandezza rispettiva dei vasi laterali verso il centrale. 6. Bulbo della Tulipa praecox di grandezza naturale, le cui radici più lunghe, come in c, mancano di spongiola, mentre questa esiste ancora in poche radicette a più giovani,siccome nell’Allium nigrum; x bulbetto lun- gamente peduncolato proveniente dal girello; il vero bulbetto è nella estremità s. 7. Sezione trasversale del filetto fibroso-vascolare radicale della stessa Tulipa praecor mostrante un gran vase spirale centrale prismatico con intorno altri quattro fascetti vascolari, di simil natura, ciascuno for- mato di tre vasi. 8. Bulbetto s. fig. precedente reciso per mezzo onde farne vedere le tuniche e la loro direzione; esse provengono dalla sommità interna del- l ingrossamento. 9. Sezione trasversale del fusto dell’ Acacia dealbata , a poca distanza dal suolo, ove finiva il legno disfatto; vi si può noverare le zone legnose interne imbrunite e quelle dell’ alburno. 10. Sezione trasversale dello stesso fusto a maggiore altezza, ove le — 10 — zone legnose son sane, e le interne contengono il micelio ne' loro vasi punteggiati. ° 11. Sezione trasversale di un ramo misurante tre centimentri in dia- metro , distante dal suolo poco più di quattro metri; le zone legnose in- terne contenevano il micelio. Le tre figure 9-10-11 sono di grandezza naturale. 12. Sezione longitudinale nella parte legnosa interna, imbrunita, del ramo figura 11 per mostrare un vase punteggiato , con intorno cellule fibrose longitudinali, e per traverso raggi midollari. Dentro al quale vase esiste il micelio m sporgente dalla estremità inferiore del detto canale punteggiato. Nell’ altra estremità, il rasojo nel punto c avea portato via solo la membrana esteriore del vase, su cui principalmente esistono le depressioni in sembianza di pori o di punti trasparenti, bislunghi. La membrana interna € era liscia, o appena finamente striata, nè mostrava le impressioni dei punti descritti sull'altra membrana. Particolarità che si sono rinvenute anche nella vite. ie A _d “° ie @ Li an ite © All Sinni Ag Mr US, 73. mperato ne, G h Mal. IL. N.° 14 ATTI DELLA R. ACCADEMIA DELLE SCIENZE FISICHE E MATEMATICHE RICERCHE GEOMETRICHE 0 GRAFICHE DELLE MINIME E DELLE MASSIME DISTANZE ASSOLUTE FRA PUNTI, LINEE, E SUPERFICIE QUALUNQUE , COMBINATE A DUE A DUE IN TUTTI 1 MODI POSSIBILI MEMORI A DEL SOCIO ORDINARIO F. P. TUCCI letta nell'adunanza del dì 14 febbrajo 1865 Le quistioni relative ai massimi e ai minimi ànno sempre attirata in modo speciale l’attenzione dei geometri; e senza dubbio, non solo nelle Matematiche pure o applicate, ma in tutti i diversi rami dello scibile son quelle che piccano maggiormente la curiosità, a prescindere dai casì nei quali sono ancora le più utili. Così vediamo che Apollonio , il gran geometra dell’Antichità, dettava un intero libro (il V.° dei suoi Co- nici) su i massimi e i minimi relativi alle curve coniche; libro il quale, credutosi perduto, diede origine alla Divinazione che ne fece il Viviani, e che forma una delle più belle glorie scientifiche d’ Italia. Or fra tutte le quistioni geometriche intorno ai massimi e ai minimi, e specialmente ai minimi, la più semplice e insieme la più importante, si riferisce alle distanze assolute fra punti, linee e superficie qualunque, combinate a due a due in tutti i modi possibili. Con la qualificazione di minime distanze assolute intendiamo limitarci ai cammini più corti che nello spazio pos- sono menare da un luogo geometrico (punto, linea o superficie che sia) ad un altro; talchè la specie della richiesta minima distanza torna de- - terminata dalla natura stessa della quistione, non potendo essere che una linca retta, e in conseguenza non restando a trovarne altro che la posizione. I molti e svariati problemi, che appartengono a questo argomento , Atti — Vol. Il —N.° 14 1 RISOTTO. potendosi ridurre a tre classi diverse, noi ne formeremo il soggetto di altrettante Memorie: la 1° per quelli nei quali uno dei due dati luoghi geometrici è un punto (sebbene il punto non possa dirsi veramente luo- go geometrico), e l’altro una linea o pure una superficie; la 2° pei casi nei quali uno dei luoghi geometrici è una linea, e l’altro parimente una linea o pure una superficie; la 3° finalmente quando ambidue i luoghi geometrici son superficie. Nelle prime due Memorie se i punti e le linee date giacessero in una data superficie curva, e su questa dovesse anche giacere la minima di- stanza cercata, questa non più sarebbe la minima distanza assoluta, 0s- sia il minore di tutti i cammini possibili, ma soltanto il minore di tutti quelli che si possono tracciare sulla data superficie curva. Potrebbesi perciò questo minimo cammino qualificare col nome di minima distanza relativa, e la ricerca analitica ne apparterrebbe al Metodo delle Varia- zioni. Essa distanza generalmente parlando è una curva storta, e gode la proprietà che tutti i suoi piani osculatori son normali alla superficie su cui giace; ma noi prescindiamo in queste Memorie dalla determinazione grafica della medesima. Infine dichiariamo che le nostre ricerche sono meramente geometriche, e intendono a soltanto scuoprire le operazioni conducenti a risolvere il problema, rimettendoci per la loro effettiva ese- cuzione ai noti procedimenti della Geometria Descrittiva. Le ricerche ana- litiche relative al medesimo argomento nello stato attuale della scienza altra difficoltà non avrebbero se non la risoluzione dell’ equazioni, e inol- tre sarebbero limitate ai casì nei quali possono esprimersi con equazioni le curve e le superficie date; laddove per le ricerche puramente geome- iriche basta che le curve siano date soltanto pei loro disegni se piane, e pei disegni delle loro projezioni se storte; e in quanto alle superficie basta che le loro direttrici e generatrici siano date nel detto modo, e che insieme sia data la legge della loro generazione. maalla Macecimia lb ‘en ARR) dii iieenientatdatmza (inca Sulla massima e sulla minima distanza di un punio da. una linea ai ] ) 0a Yuna Perle gualunogne 4 niet Nadu silvio li iiiica i Lulu 1. Nel caso in cui la linea è retta o circolare, e nel caso in cui la su- perficie è piana o sferica la soluzione del problema è notissima ed an- tica quanto la Geometria; poichè allora la massima e la minima distanza non differiscono dalle normali condotte dal punto a quelle linee o su- perficie; anzi per questi luoghi geometrici si verifica eziandio la propo- sizione inversa, non essendovi normale ad esse da un punto, la quale non sia un minimo o pure un massimo. 2. Inoltre, siccome ogni curva può riguardarsi come un poligono d’in- finiti latercoli fra loro inclinati sotto angoli ottusissimi, e del pari ogni superficie curva può riguardarsi come un poliedro a faccette piane tra esse inclinate sotto angoli infinitamente ottusi, ne risulta che le richie- ste distanze massime o minime siano pure generalmente parlando nor- mali alla curva od alla superficie curva. Non senza ragione però trattan- dosi di linea o di superficie curva abbiamo aggiunte le parole general- mente parlando; 1° perchè in questi casi non sempre si verifica (siccome vedremo ) la proposizione inversa; cioè a dire, non sempre la normale trovasi essere un minimo o pure un massimo; 2° perchè qualche volta (benchè assai di rado) può darsi che la distanza minima o massima non sia neppur normale alla curva o alla superficie curva (1). Ma posti da un canto questi minimi e massimi straordinari o singolari, gli ordinarî deb- bono cadere sulle normali alla linea o superficie; perchè le linee curve e le superficie curve possono riguardarsi come poligoni e come poliedri, giusta ciò che innanzi dicevamo; e perchè sotto il nome di massime o di minime distanze intendiamo nel senso tecnico della parola, quelle che son maggiori o minori non di tutte le possibili (come accade nelle linee (1) Si verifica questo caso quando la curva presenta qualche punto di regresso dî 4° spe- cie poichè allora (fig. 14) la congiungente il punto P col punto di regresso M è un massi- mo o un minimo secondo che l'angolo PM7, formato da PM con la tangente M7, è ot- fuso o acuto. * ui) rai rette o circolari, e nelle superficie piane o sferiche) ma soltanto delle immediatamente vicine. Or siccome la condizione di condurre una retta normale ad una linea o ad una superficie da un dato punto è sufficiente a determinarne la posizione, così la prima e vera diflicoltà del problema si riduce a condurre pel punto dato tutte le normali possibili alla curva o alla superficie. 3. Determinata che sia una normale ad una curva da un punto dato fuori di questa per conoscere se la medesima sia un massimo, o pure un minimo, o pure nè l’uno nè l’altro rispetto alle rette adiacenti me- nate dallo stesso punto, bisogna distinguere varie ipotesi. Se la curva nel punto d’incontro con la normale oppone la convessità al punto dato, da cui parte, è di tutta evidenza (fig. 1) che la normale sia un minimo al paragone delle rette che per lo stesso punto dato si possono condurre ai punti della curva adiacenti da ambe le parti (almeno immediatamente) al detto incontro. 4. Non così nella ipotesi che la curva nel punto d'incontro con la nor- male oppone la concavità al punto dato per cui questa si conduce, po- tendo allora verificarsi tre casi ben distinti. À luogo il 1° quando il cer- chio avente per centro il punto dato e per raggio la normale è come esterno alla curva, e per così dire l’abbraccia (almeno per la estensione di archi piccolissimi) da ambe le parti dell'incontro (fig. 2): allora la normale è un massimo, perchè a simiglianza di questi raggi eccede le porzioni di essi, terminate alla curva. Il 2° caso à luogo quando al con- trario il detto cerchio è interno alla curva da tutte due le parti dell’ in- contro (fig. 3), almeno per un tratto comunque piccolo; nel qual caso la normale dee ritenersi un minimo, perchè a simiglianza dei raggi adia- centi è minore di questi raggi prolungati sino alla curva. À luogo final- mente il 3° caso, affatto singolare, quando il consueto cerchio intersega propriamente la curva nel punto comune, sebbene l’uno e l’altra abbia- no quivi una stessa tangente (fig. 4). Allora la normale è minore dei raggi vettori della curva lungo il tratto dove il cerchio è interno ad essa, ed è maggiore dei raggi vettori della curva nel tratto dove il cerchio è ad essa esteriore; ondechè in sostanza non si può dire nè massima nè mini- ma nel senso preciso o tecnico di queste voci (1). (1) Essendo notissimo che in quest’ultimo caso la normale non differisce dal raggio del cerchio osculatore della curva, si rende palese che una normale sia un massimo quando - TÀ oe] a eda IAT 5. Per rispetto alle curve storte ossia di doppia curvatura, bisogna di- stinguere la ipotesi in cui la normale giace nel piano osculatore della curva nel punto di loro intersezione dalla ipotesi in cui giace fuori di cotal piano, il quale supponghiamo cognito pei metodi grafici di Geo- metria descrittiva. Nella prima ipotesi tornano in essere ì tre casi dianzi noverati per le curve piane, e le conseguenze che ne abbiamo desunte. Ma nella seconda mi sembra non potersi fare ammeno di tracciare in due piani distinti il cerchio avente per raggio la normale, nel piano cioè della tangente mm (fig. 6) alla curva nel punto preciso M d'incontro con la normale e della tangente consecutiva nn, discosta dalla prima non più di quanto basta ad essere graficamente ben diversa da essa; e nel piano della stessa tangente primitiva mm, e dell'altra 2! che la precede, e che pur n'è lontana sol quanto basta ad essere sensibilmente diverse una dall'altra. Nel primo di questi piani può stimarsi giacere l’archetto MyN della proposta curva AMB, e nel secondo può supporsi giacere l’ar- chetto MAL; quindi, se in ambe le posizioni del cerchio un archetto di questo, contato da M, sarà interno ai detti piccoli archi MN ed LM della curva, ciò indicherà che la normale PM sia un minimo; se in ambedue le posizioni gli archetti circolari saranno esteriori ai piccoli archi MN ed ML, la normale dovrà stimarsi un massimo; e non sarà nè un mini- mo nè un massimo quando un dei due archetti circolari sarà interno e l’altro esterno alla curva nelle adiacenze immediate del punto M. 6. Passando a considerare la normale da un punto ad una superficie curva, distingueremo primamente il caso (per verità singolare) in cui questa nel punto dove la normale la incontra è non convessa, cioè tale che il piano quivi tangente la intersega ed ha con essa un contatto di se- condo ordine; ed il caso in cui è propriamente convessa, non avendo di comune che un punto solo col piano tangente. Nel primo caso è evidente è maggiore di cotal raggio, sia un minimo quando n'è minore, e non sia generalmente parlando nè l’ uno nè l’altro quando gli è uguale. E diciamo generalmente parlando per- ché se il punto della curva fosse per avventura un vertice o pure un umbilico di essa, la normale divenuto raggio osculatore tornerebbe. un massimo o un minimo a seconda che avrebbe luogo il 1° e il 2° caso, tanto pel vertice quanto per lumbilico. La normale è pure un minimo quando nel punto dove incontra la curva, questa subisce una inflessione. fn- fatti (fig. 5) avendo la curva nel punto / un contatto di 2° ordine con la tangente il cer- chio descritto col centro P e raggio PV non può cadere tra la curva e la tangente epperò resta al di sotto di un arco 22 Vr abbastanza piccolo. deg -st> che la normale è un minimo, come per la normale ad una curva in un punto d’in/lessione di questa. 7. Nel secondo caso poi bisogna distinguere due ipotesi : quella in cui la superficie nell’incontro con la normale oppone la convessità al punto dato da cui parte questa normale; e l’altra in cui gli oppone la conca- vità. Nella prima ipotesi è di tutta ‘evidenza che la normale sia un mi- nimo, rispetto almeno alle rette che dal punto dato arrivano ai punti della superficie immediatamente vicini all'incontro. S. Ma nell'altra ipotesi mi sembra indispensabile il considerare la su- perficie sferica avente per raggio la normale e per centro il punto dato. Se coi procedimenti grafici della Geometria descrittiva si trovi aver luogo il caso (anche singolare) che la superficie proposta e la sferica s’ inter- segano secondo una linea che passa per l’incontro della normale con la prima di esse, cioè pel contatto delle due superficie, la normale non sarà certamente nè un minimo nè un massimo; ma per fermo vi sarà l'uno o pur l’altro a seconda che avrà luogo il primo o il secondo dei due altri casi: cioè, che la superficie sferica, nelle adiacenze almeno del contatto, sia interna 0 pure esterna alla superficie data (1). 9. Laddove finalmente avesse luogo la ipotesi (vieppiù singolare) che le due superficie si tocchino in una linea che passa per l’incontro o con- tatto primitivo, anche sarà d’uopo osservare se qualche punto della su- perficie sferica, non esistente nella linea di contatto sia interno o pure (1) Un bell'esempio in cui si verificano insieme tutti tre questi casi è quando si prendono per la superficie data una ellissoide a tre assi differenti, e pel punto dato il centro. Allora infatti tutti tre gli assi trovansi normali alla superficie, ma il maggiore essendo ancora il più grande di tutti i diametri dell’ ellissoide , le distanze del centro dagli estremi del mede- simo sono due vere distanze massime del centro alla superficie. E del pari l’asse minore essendo il più piccolo diametro della superficie, le due distanze degli estremi di esso dal centro son veramente minime. Ma in quanto all'asse medio ciascuna delle sue metà non è una distanza nè massima nè minima, non solo rispetto all’intera superficie, ma nè anche rispetto ai punti adiacenti; essendo maggiore dei semidiametri coll’ellisse i cui assi sono il minore e il medio della superficie, ed essendo minore dei semidiametri dell’ ellisse avente per assi il medio e il maggiore della superficie. Coerentemente a ciò , delle tre sfere con- centriche all’ellissoide ed aventi per diametri rispettivi i suoi tre assi, la maggiore è inte- ramente circoscritta alla medesima, la minore l’è interamente iscritta, laddove la media l’in- tersega senza lasciar per questo di toccarla ( nel senso geometrico della parola) negli estremi dell’asse medio , come la sfera maggiore e la minore negli estremi del maggiore e del mi- nore degli assi, ES 2a esterno alla superficie data. Nel primo caso la normale sarà un minimo, e sarà un massimo nel secondo; in amendue però nel senso più ristret- to, che nel primo non sia minore e nel secondo non sia maggiore di ve- runa delle rette adiacenti, condotte alla superficie dal punto donde parte la normale, ma non nel senso ordinario che sia maggiore o minore di tutte le adiacenti (4). 10. Dopo tutto ciò che abbiam detto dal n° 3 sin quì possiamo, senza più, sostituire alla ricerca grafica delle minime e delle massime distanze di un punto ad una linea o ad una superficie quella delle normali con- dotte dall'uno alle altre: che è quanto andiamo a fare nel resto di que- sta Memoria. PROBLEMA PRIMO A parte il caso di un punto e di una retta, e l’altro di un punto e di un cerchio, di soluzioni cognite ed antiche quanto la geometria, il pri- mo che sì presenta è quello di un punto e di una curva posti in un me- desimo piano. Allora se la curva è data solo pel disegno che la rappre- senta, e le richieste normali voglionsi anche trovare con procedimento meramente grafico, questo potrebbe essere come segue e si legge nella Scienza del Disegno di Vallée al n° 477. Supponendo esser P il punto dato ed ABCD la data curva (fig. 7) si prendano su questa i successivi punti A, B, C,..... e condotte grafica- mente per essi le tangenti Aa, Bb, Ce,... dal punto P si conducano alle medesime le perpendicolari Pa, Pb, Pe,... È chiaro che i piedi a, è, c,.. (1) Si verifica quest'altro caso quando per esempio la superficie data è di rotazione, e il punto dato trovasi sull’asse, chè allora la sfera avente per centro il punto, e per raggio la normale condotta da esso alla curva generatrice e insieme alla superficie tocca quest ultima lungo tutto un para//elo; onde se la normale è una distanza massima o minima rispetto alla curva lo sarà benanco rispetto alla superficie, ma sarà un massimo od una minima della men- tovata specie singolare. In questo medesimo esempio se l'asse incontra la superticie la parte compresa tra l’incontro e il punto dato è un massimo o pure un minimo ordinario anche quando l’asse incontra la curva generatrice sotto un angolo diverso dal retto; nel qual caso vi à di singolare la circostanza che la distanza massima o minima non è normale alla super- ficie, e può esserle anche tangente. 4° CRI ME eo WS a di queste perpendicolari apparterranno ad una curva ausiliaria abe... in cui giacerà il punto x esistente nella dimandata normale, il quale per ciò sarà quello che risulta comune alle due curve. Se non che, la curva ausiliaria dovendo per la legge della sua descrizione toccar la proposta nel punto cercato 2, questo non risulterà determinato con la debita precisione. Ma non è difficile ottenere lo stesso punto con una curva se- cante: infatti, conducendo per A, B, C,... le normali indefinite alla curva data, e tagliando in esse le parti Aa', Bd', Ce',... uguali rispetti- vamente alle Aa, Bè, Ce,... in modo però che quelle di tali parti che giacciono in sensi opposti rispetto ai punti A, B, C,... sieno pure collo- cate in sensi opposti rispetto alla curva ABC..., nascerà la nuova curva ausiliaria a'd'e'..., che dovrà passare per x e quivi intersecare la curva data. 11. Quando il punto dato P non giace nel piano della data curva ABC... (fig. 8) supponendo essere P' la projezione ortogonale su questo piano, e da questa projezione conducendo, come nel caso precedente, la nor- male P'x alla curva data, ossia la perpendicolare alla tangente nel con- tatto 2, anche la Px per un teorema conosciutissimo di geometria sarà perpendicolare a questa tangente, e quindi normale in « alla curva. 12. Anche quando la curva data è storta o, come ordinariamente si dice, di doppia curvatura, e quindi a simiglianza del punto non è data che per le sue projezioni, a me sembra che la ricerca grafica della nor- male condotta ad essa per questo punto possa procedere in modo analogo a quello dianzi esposto per le curve piane. La quale simiglianza di pro- cedimento esige che siccome in un caso così nell’altro la normale Aa' (fig. 7) sia in uno stesso piano, e quindi parallela alla Pa; e così del pari bb' parallela a Pd, Ce' parallela a Pe,...; senza la quale, od altra equivalente condizione, sarebbe incerto l'andamento della cura ausi- liaria a'd'e'..., che dee onninamente intersecare la curva data ABC... nel richiesto punto estremo della normale (e). (e) Questa soluzione e la compagna del n° 10 esigono che si sappia menare la tangente alla curva data in ogni suo punto. Or questo problema si tiene generalmente risolvibile con suf- ficiente esattezza grafica mercè tale applicazione di una riga alla curva nel punto dato, sic- chè un piccolissimo arco della curva nel cui mezzo si trova il punto esista sulla direzione della riga. Del rimanente , sotto il punto di vista della teoria questo problema può dirsi che sia stato risoluto con vero procedimento geometrico dal chiarissimo ZZachette nella sua Geometria a tre dimensioni, numeri 56, 57 e 58. lio 13. Nel caso medesimo delle curve storte presentasi come spontanea un’altra maniera; ma temo che la si troverà più elaborata della prece- dente (che lo è pure abbastanza pel continuo variare dei piani PAa, PBb,...) avvegnachè per essa riducasi la quistione al caso delle curve piane. Supponendo unito il dato punto con quelli della curva data nasce una superficie conica, la quale à per vertice il punto e per direttrice la cur- va; talchè il problema riducesi a trovare qual lato di questa superficie sia normale alla direttrice. Or siccome nello spianamento o sviluppo di una superficie conica rimane immutata la lunghezza di ogni linea gia- cente in essa, nè variano grandezza gli angoli che nei suoi diversi punti forma coi lati del cono, avverrà che il lato normale alla curva direttrice si cangerà quando la superficie si spiana, in un raggio (come suol dirsi) normale alla trasformata di quella curva; epperò il problema si sarà ri- dotto al caso della normale a condursi da un punto ad una curva esi- stente nel piano di sviluppo: dopo di che sarà facile il ritorno alla data curva primitiva, per la corrispondenza dei punti di questa e i punti della sua trasformata. PROBLEMA SECONDO Goncernenie le normali da un punto ad una superlicie 14. La ricerca delle normali che per un punto dato si possono con- durre ad una data superficie presenta ancor essa varî casi, che noi trat- teremo successivamente, omettendo quelli in cui la superficie è piana o sferica, di facilissime e notissime soluzioni. Quando la superficie è di rotazione riflettendo esser proprietà della medesima che ogni sua normale incontra l’asse ne viene in conseguenza che il problema riducesi a condurre pel punto dato le normali al meri- diano della superficie posto nel piano determinato dal punto e dall'asse. E un’altra proprietà delle superficie di rotazione consistendo in ciò: che tutte le normali ad essa procedenti dai punti di un medesimo para/- lelo incontrano l’asse in un medesimo punto, si desume che quando il punto dato esiste nell’ asse della superficie, le lunghezze delle normali possano aversi conducendo in qualunque piano menato per l’asse le nor» Atti — Vol. IL — N° 14 2 È è mali al meridiano prodolto nella superficie; non risultando però deter- minato rispetto alla superficie, se non le loro inclinazioni all'asse. 15. Quando la superficie è cilindrica nel senso più generale di questa voce, basta condurre pel punto dato un piano perpendicolare ai lati della superficie, e trovar poi le normali che pel punto si possono menare alla risultante sezione retta. Ed in vero, ciascuna di queste normali essendo nel tempo stesso perpendicolare, nel punto dove incontra la sezione, alla tangente di questa (perchè normale ), ed al lato della superficie (perchè esiste nel piano della sezione retta), sarà perpendicolare nel punto medesimo al piano di tali due rette , ossia al piano tangente della superficie: ch'è quanto dire sarà normale alla superficie. 16. Quando la superficie è conica nel senso più generale della parola il problema si annunzia come più malagevole, e tale infatti sarebbe se le superficie coniche (al pari delle cilindriche e in genere di tutte le su- perficie sviluppabili) non ammettessero piani normali ad esse lungo tutta la estensione dei loro singoli lati, o generatrici rettilinee; ma per que- sta loro proprietà, e per la circostanza che la soluzione acconcia per la superficie conica devesi ridurre a quella già data per la superficie cilin- drica quando si cangia una superficie nell’ altra col supporre infinita la distanza del vertice del cono dal punto dato, il problema si riduce pure facilmente a dover condurre per quel punto le normali ad una data curva piana. Da ciò infatti si scorge che alla sezione retta praticata nel cilin- dro debba corrispondere nel cono la sezione QyR (fig. 9) prodottavi dal piano perpendicolare alla congiungente PV di quei punti. Or supponendo condotte dal punto P le normali a questa sezione, cioè le perpendicolari alle sue tangenti nei punti di contatto, e dinotandone una con Py, il piano PyV sarà un piano normale alla superficie conica lungo tutto il lato Vy: ed in vero, essendo Py perpendicolare alla tangente y7 della sezione ( perchè normale a questa sezione), per un teorema notissimo di geometria sarà pure Vy perpendicolare ad y7 e quindi normale alla curva QyR; onde il piano PyV di tali due rette sarà un piano normale in y alla curva, e quindi ancora alla superficie in cui giace. Trovato poi così, mediante il punto y, un piano PyV normale alla superficie conica lungo un lato Vy di essa, la perpendicolare Pe a questo lato sarà una normale in @ alla superficie. 17. Quando la superficie non è cilindrica o conica, nè di rotazione , il chiarissimo Vallée propone qual mezzo generale di soluzione il con- Ea 1, durre pel dato punto due serie distinte di piani, e descritte le sezioni che producono nella superficie menar le normali ad esse da quel punto. In siffatta guisa gli estremi delle normali alle due serie di sezioni costi- tuiranno due curve, le quali coi loro scambievoli incontri determine- ranno le normali possibili a condursi dal punto dato alla superficie. 18. È facile però lo scorgere che questo mezzo di soluzione possa ren- dersi più generale, e quindi assai volte più agevole non assoggettando i piani a passare pel dato punto, ma preferendo le sezioni più facili ad essere descritte con esattezza, sopratutto quando i loro piani potessero esser paralleli; non essendo guari più difficile menar la normale ad una curva piana da un punto fuori del piano che da un punto del piano (n°411). Sarebbe anche lecito far uso di curve storte giacenti nella superficie se non fosse, generalmente parlando, più malagevole il condurre ad esse le normali dal punte dato; e in tutti i casi la ragione di tal procedimento si trova nel riflettere che per essere una retta normale ad una superficie in un punto di questa, basta esser certo che sia quivi normale a due li- nee che s’intersegano ed esistono nella superficie, perchè ciò equivale ad esser perpendicolare alle tangenti delle due linee e quindi al piano di esse, il quale coincide, siccome è noto, col piano tangente alla su- perficie nel punto stesso. 19. Questa maggiore estensione per noi data al metodo proposto dal Vallée agevola molto la soluzione del problema quando si tratta di quelle tra le superficie di secondo grado che non sono cilindriche, o di rota- zione. Infatti ciascuna di tali superficie (ad eccezione della Paraboloide iperbolica di cui tratteremo più tardi) ammette due serie distinte di se- zioni circolari e parallele, i cui centri esistono in due diametri della su- perficie. Quindi torna facilissimo condurre le normali a queste due se- rie di circonferenze, e i loro piedi costituendo due luoghi geometrici dell'estremo della richiesta normale alla superficie, questo estremo re- sterà determinato da ciascuna intersecazione dei due luoghi. Supponiamo per esempio che si tratti di una ellissoide a tre assi di- suguali AA', BB', CC' (fig. 10), e per fissare le idee ammettiamo che il medio in grandezza sia BB'. Allora nell’ellisse CAC'A' applicando il se- midiametro medio OB in 0g e in 08', le sezioni BO8, BOB' saranno cir- colari, e circolari parimente saranno tutte le sezioni parallele ad esse, come le DQ2, ERe,... (che son parallele alla prima) ed avranno i cen- tri nei diametri 0y, Oy' rispettivamente conjugati dai due 08, 0£'. Dun- x iBS que abbassando dal punto dato P la perpendicolare indefinita al piano BO8, e supponendo che incontri in 0, g, 7,... questo piano e i suoi pa- ralleli DQI, ERe,... con tirare le 00, 9Q, rR,... si avranno tali punti b, d, e,... sulle rispettive circonferenze, che uniti con P le congiungenti. sarebbero normali alle medesime, ondechè la curva dde... contenendo gli estremi delle normali condotte dal punto dato ad una serie di curve giacenti nella superficie, sarà un luogo geometrico dell'estremo di una delle normali conducibili dal punto alla superficie. Praticando il simile rispetto all'altra serie di circonferenze parallele alla sezione BOg', avrebbesi un secondo luogo geometrico di quel me- desimo estremo, il quale perciò resta determinato dalle intersezioni dei due luoghi. 20. Ci sembra utile osservare che la superficie costituita dalle rette 00, qQ, rl,... sia una paraboloide iperbolica; perchè queste rette esi- stono nei piani BO#, DVI, ERe,... paralleli tra loro, e si appoggiano a due rette non esistenti in un medesimo piano, cioè al diametro 0y luogo dei centri 0, Q, ì,... ed alla retta perpendicolare a quei piani dal punto dato. E valendo lo stesso per la superficie nascente dal considerare l’al- ira serie di sezioni circolari, può tenersi che la ricerca delle normali da un punto dato ad una data ellissoide rimane per noi effettuata me- diante la combinazione della ellissoide e di due paraboloidi iperboliche. 21. Questa combinazione vale per tutte le superficie di 2° grado, ec- cetto le cilindriche, le rotonde, e la paraboloide iperbolica la quale non ammette sezioni circolari; ma per le superficie coniche ci sembra più semplice la soluzione contenuta nel n.° 16; e siccome la paraboloide iperbolica ammette due serie di generatrici rettilinee, così menando le perpendicolari dal punto dato alle rette di ciascuna serie, gli estremi di esse forniranno due curve, che nelle loro intersecazioni daranno quelli delle normali conducibili dal punto alla paraboloide. Le quali curve sono anche facilissime a descriversi nei disegni effettivi, perchè le rette di ciascuna serie son parallele ad un medesimo piano, come le due serie delle sezioni circolari che appartengono alle altre superficie di 2° grado non cilindriche nè rotonde (1). » (1) Le soluzioni che per le superficie di 2° grado si desumono da questo e dai n. 19 e 20 se non sono molto semplici, neppure si troveranno gran fatto complicate ove si ponga mente che quelle fornite dall’ Analisi conducono ad equazioni determinate di 6° grado, quando la — 13 — ® 29. Finalmente il mezzo di soluzione adoperato per la paraboloide iperbolica vuol esser tenuto presente in tutte le superficie rigate, sieno sviluppabili sieno storte: superficie che ammettendo una serie di gene- ratrici rettilinee, un primo luogo geometrico dell'estremo di ciascuna normale dal punto alla superficie sarà la curva che passa pe’ termini delle perpendicolari dal punto ad esse generatrici. Descritta poi questa curva (che generalmente sarà storta) potrà compiersi la soluzione del problema cercando le normali ad essa dal medesimo punto con uno dei metodi esposti nei numeri 12 e 13, se pure la superficie non ammetta per altre sue generatrici una serie di sezioni piane facili a descrivere (come per esempio si verifica nel Conoide di Wallis, nel Cilindro storto, ec.) nel qual caso potrebbesi avere senza molta difficoltà un secondo luogo geometrico della estremità di ciascuna normale nella curva risultante dai termini delle normali condotte dal punto dato a quelle sezioni. superficie non è cilindrica o conica o di rotazione; talchè il problema è allora ipersolido nel linguaggio degli antichi geometri. Diviene di 4° grado o solido quando il punto dato ri- trovasi in alcuno dei così detti tre piani principali della superficie non conica nè cilindri- ca, come pure quando la superficie è conica o cilindrica senza essere di rotazione, o vice- versa quando è di rotazione senza essere conica o cilindrica o sferica; e finalmente divien piano quando il punto dato giace in alcuno degli assi principali della superficie è una delle tre elementari di rotazione. Le quali tutte particolarità si desumono pure facilmente da sem- plici considerazioni geometriche, osservando che i piani principali sono dappertutto normali alle superficie, del pari che sono gli assi principali nei punti dove le incontrano. SRO Lal n5s- sogiesga. Hr ONE ani VERO | ni a/n0saiq Cianadi vesza pira quiscdisa: i sa; allo, dixftagna bip se b | 0HDLIIDO Li L10G ea p34? DI CAR va 34. 10 964 REPORT uo Lalog ezso ist a ab. gori pira aîion isucgigà, Lal april dI ant 1 rv Di alano net tia +04 ET * DPR: AT, cap Ad Att della R. Accad delle Scienze Fis. e Mat VLILN°14. Fist È È i Vol. II. N.do. ATTI DELLA R. ACCADEMIA DELLE SCIENZE FISICHE E MATEMATICHE NUOVO ANEMOGRAFO ELETTROMAGNETICO MEMORIA DEL SOCIO ORDINARIO L. PALMIERI letta nella tornata del dì 11-aprile 1865. Ho fatto eseguire da qualche anno un apparecchio da me immaginato per registrare la velocità e direzione del vento in tutto il corso del giorno del pari che la quantità di pioggia con tutte le sue fasi come la intensità , la durata ec. La parte risguardante la pioggia fu descritta già e pubblicata me’ nostri Atti col nome di udografo ; vengo ora a descri- vere la parte che riguarda i venti. Velocità del vento. Un molinello alla Robinson (fig. 2 Tav. I) fatto in modo da compiere un giro per ogni dieci metri di velocità del vento , porta nella parte inferiore dell'asta verticale un cilidretto sporgente in guisa che ad ogni giro esercitando una leggierissima pressione sopra un tasto m chiude il circuito di una pila. Il tasto porta una punta di platino la quale scende in un pozzetto di ferro che contiene del mercurio e così mentre il contatto è sicuro non si richiede alcuno sforzo per averlo. Dobbiamo ora vedere come si registri la velocità del vento mentre il ta- sto m chiude il circuito ad ogni giro del mulinello. Nella figura espressa nella seconda tavola vedesi un cilindro rr che gira intorno del suo asse .in 24 ore mercè l'orologio congiunto con esso. Sopra questo cilindro è tesa una carta divisa in zone orarie. Nel chiudersi il circuito la leva 2 alla quale è unita l'ancora dell’ elettrocalamita € urtando il braccio 4 della leva zancata df fa che il braccio f prema sul braccio 00 del rettangolo 00%3, e quindi il lato << urti la parte superiore dell’astuccetto ii il quale Aîti — Vol. IIL—N.0 15 1 IPA del ea porta inferiormente una matita. Per molle antagoniste il rettangolo e la matita si rialzano quando il circuito s’interrompe onde la matita farà un punto sulla carta. Ma la matita col suo astuccio è portata da una ma- niera di carretto rr a quattro ruote lungo quanto il cilindro è munito di denti nella parte superiore. (Questo carretto ad ogni attacco dell'elet- trocalamita è obbligato a camminare per l'intervallo di un dente, giac- chè la leva Z/ porta nel suo estremo superiore una branca o arpione g appoggiato a’ denti del carretto. Per la qual cosa, la matita farà una li- nea di punti lungo il cilindro tutti ad eguali distanze, sia quale si voglia la velocità del vento i quali punti corrispondono al numero di giri del mulinello. Se dunque il moto del carretto duri per un tempo determi- nato, per esempio un minuto, si saprà quanti giri avrà fatto il mulinello in questo tempo, e quindi si conoscerà la velocità del vento. Bisognerà dunque dopo di quel dato tempo interrompere il circuito , rimandare indietro il carretto e poi ricominciare una seconda ordinata o linea di punti corrispondente alla eguale durata. Il carretto ritorna indietro giac- chè l'orologio mercè un eccentrico fa salîre e scendere l'asta A e que- sta nel salire eleva l’arpione g ed il carretto libero da questo retrocede per un contropeso legato a due fili di seta. L'asta & porta un appendice pla quale nello scendere preme per un determinato tempo sull’estre- mo g di un tasto il quale mantiene la comunicazione della corrente col mulinello. Nell’ apparecchio da me fatto eseguire la velocità è segnata quattro volte l'ora, ma ognuno intende che quest'intervalli possono va- riare ad arbitrio. A capo di 24 ore dunque si avrà la curva della velocità le cui ordinate hanno valori assoluti (fig. 3 Tav. I). Direzione del vento. — La direzione del vento suolsi generalmente indicare mercè una banderuola girevole intorno ad un asse vertieale; ma volendo per tal modo registrare le direzioni del vento nascono parecchie difficoltà. Prima di tutto se la forza del vento dovrà essa stessa fare operare il congegno segnalatore, l’anemoscopio non sarà capace d’indi- carvi i venti molto deboli e la banderuola rimanendo diretta secondo il vento che fu l’ultimo a muoverla, l’ osservatore registrerà non il vento che spira ma quello che spirava alcun tempo prima. In secondo luogo . co' venti gagliardi che soffiano a buffi o ad ondate di varie intensioni la banderuola oscilla incerta e spesso non può fermarsi in una direzione determinata: se questi suoì moti si traducono in segni permanenti, que- sti non potranno avere un significato preciso. Questi ed altri ineonve- — 3— nienti erano stati già avvertiti, e furono proposti altri modi per segnare la direzione del vento senza l’ uso della banderuola. Ora io descriverò il congegno che mi è sembrato opportuno come segnalatore sensibilissimo ed infallibile della direzione de’ venti, e dopo dirò come essi vengono registrati sul cilindro rr dell'apparecchio serivente. AB (fig. 1 Tav. 1) è una gabia di lamine metalliche a quattro facce verticali (1); in ciascuna di queste ci ha un cono tronco de’ quali la fi- gura ne mostra due C e D. La parte stretta di ciascuna di queste cavità coniche è chiusa da una coppa di lamina metallica E , F fissata all’estre- mo di una leva g,h: basta il più leggiero soffio entro una delle cavità coniche per far staccare la coppa che chiudeva l'’orifizio interno. Sop- poniamo che per vento di S la coppa F si distacchi l’altro braccio della leva è muoverà il tasto Z e chiuderà il circuito. Se l’acqua delle piogge spinta dal vento entrasse nella coppa è provveduto in modo che per ap- posito canale se ne vada fuori. I tasti si possono intendere dalla figura; il contatto si ha per punte di platino in vasellini di vetro coperti. I quat- tro tasti e tutto quello che sì vede scoperto è chiuso in una cassa cilin= drica più stretta della gabbia AB, quantunque nella figura sembri dover essere eguale, perchè a far meglio intendere il meccanismo de’ tasti & ed / si son messe divergenti le leve g ed &. Per tal modo parrebbe che sì potessero solo indicare i quattro venti cardinali, ma ognuno intende che se ne debbono indicare otto, giacchè se spira un vento collaterale si muoveranno due tasti nello stesso tempo, e vedremo che la scrittura sulla carta ne fa discernere sedici. Se la gabbia si facesse ottagonale, si potrebbero avere primitivamente sedici direzioni, e 32 per lo modo come sì veggono registrati dall’apparecchio scrivente. Vediamo era come la direzione del vento venga registrata sulla carta del cilindro rr (Tav. II). Ciascuna delle leve dell’ apparecchio di sopra descritto ossia ciascun tasto è destinato a chiudere il circuito con una delle quattro elettrocalamite posta sulla tavoletta H H, le quali perciò corrispondono a’venti N, E, S ed O. Ogni ancora di queste elettromagneti è legata ad una leva ed all'estremo di questa trovansi le matite colo- rate n, e, sed o le quali quando una o due elettrocalamite sono in azione, perchè i tasti superiori chiudono il circuito, segnano sulla carta il vento che spira. Per un vento collaterale si avranno due segni contemporanei (1) Potrebbero essere otto. de MI e di pari intensità, mase il vento non sia giusto intermedio tra due cardinali e sia per esempio un SSO si vedranno i segni del S forti, e deboli quelli dell'O, e così con quattro elettromagneti si leggono 16 venti. La direzione del vento è segnata quattro volte l’ ora immediatamente prima di segnare la velocità e per un tempo più lungo il che sì ottiene mercè la punta di platino s ch'è spinta nel mercurio del vasellino v mercè la leva sss' alzata dall’asta 4 dell’ orologio. Avrei potuto fare uso di una carta continua sul cilindro rr, ma ho voluto obbligare l'osservatore a visitare lo strumento ogni giorno. ANEMOGRAFO — Nok. IL. NE510. ATTI DELLA R. ACCADEMIA DELLE SCIENZE FISICHE E MATEMATICHE STUDI SOPRA I TERRENI AD ITTIOLITI DELLE PROVINCIE NAPOLITANE DIRETTI A STABILIRE L' ETA’ GEOLOGICA DE’ MEDESIMI PARTE SECONDA MEMORIA DEL SOCIO ORDINARIO 0. G. COSTA presentata nell'adunanza del dì 11 aprile 1865. Calcarea stratosa di Pietraroja Dopo la presentazione della prima parte di questi miei Studî alla Reale Accademia delle Scienze, e durante l'impressione di quella, le vicissitu- dini politiche sopravvenute, avendo occasionato ancora mutamenti e coor- dinamento nuovo di questa scientifica istituzione, e chiamato ancor me a funzioni ed occupazioni svariate e molteplici, n'è proseguito il considere- vole intervallo passato frala prima e questa seconda parte del mio lavoro. Nella prima parte, venuta alla luce nel 1862, quasi dopo quattro anni della presentazione, si trattò degli Scisti bituminiferi di Giffoni, dimo- strando com’essi fossero di origine lacustre, e di una età posteriore alla formazione di quei monti. La qual cosa poi è stata più ampiamente dimo- strata nelle mie note geologiche e paleontologiche sui monti picentini. In questa parte seconda si versa quindi sulla calcarea stratosa di Pie- traroja: alla quale seguiranno la terza e quarta parte, che riguardano la calcarea ad ittoliti di Torre d'Orlando presso Castellammare, e la calcarea tenera a grana fina di Lecce, 0 il così detto lecciso. Le quali altre due parti mi propongo compiere senza interruzione, se da forze maggiori non ne vengo impedito. Atti—Vol. I.—N.9 16. 1 CAPITOLO l. $ 1. Etimologia del nome Pietraroja Pietraroja, Pretaroya, Pretarogia, e Pietraroccia, sono i diversi modi coi quali trovasi scritto in antiche carte legali e pergamene il nome del villaggio di cui si vien discorrendo. i Pietraroja scrivesi comunemente ne’ giorni nostri, e da più tempo è usato così. Pretarogia trovasi scritto su due pergamene del 1400 (3, luglio), con- tenenti atto di compra-vendita; le quali due pergamene sono conservate dall’Arciprete D. Domenico Varrone dello stesso villaggio. Pretaroya trovasi scritto negli atti di nascita del 1613, mutata essen- dosi cioè l’î in y greco. Pietraroccia è il modo più comunemente usato nelle antiche scritture di compra-vendita, e di altro genere. Ora, tutti e quattro questi diversi modi di scrittura convengono in ciò, che si compongono di due elementi; uno costante, ch'è il sostantivo pietra o preta (modo volgare), il cui significato non è dubbio: l’altro variabile, e soggetto ad interpretazione, ch’è l'aggettivo roja, rogia, roya, e roccia. (Quest'ultimo sembra uno di quegl’idiotismi introdotti da insi- pienti, che credono emanciparsi dalla comune degli uomini, permutando qualche cosa de’ nomi generalmente usati: come lona per luna, por- caccio per procaccio, Catterina per Caterina ecc. Ma chi non sì accorge essere un pleonasmo pietra e roccia, e quindi non esser questo il nome originario di quel luogo? Se mal non mi avviso, quelroya dev'essere il vero aggettivo del sostan- tivo pietra, il cuì significato sembra ben esprimere la natura di quella calcarea su cui siede il villaggio. Comunemente nelle nostre contrade più meridionali, con l'aggettivo roja s' intende qualificare la cosa inu- gualmente dura, aspra, erosa; e potrebbe essere stato introdotto dagli spagnuoli; perocché in lingua Castellana r0yo e roydo significa rosso. Lo stesso aggettivo trovasi appo noi impiegato per una sorta di uva duracina, a grossi acini, di color rosso ineguale, e di tarda maturità. Non è poi apprezzabile il mutamento dell’y in j, essendo ciò dovuto Ss a agli amanuensi, ed a quelli che ànno pensato di abolire l’y greco, e seri- verlo all'italiano modo coll’j lungo. Che che ne sia, abbiasi questa interpetrazione come mia opinione; ma certo corrisponde appuntino alle condizioni della roccia sulla quale il villaggio di Pietraroja risiede. A $2. Posizione dell’ abitato Si pretende che il villaggio originariamente sedesse là dove al pre- sente si trova; ma questa credenza non à in suo sostegno che la sem- plice tradizione orale, non trovandosi appoggiata a verun fatto storico nè monumentale. Pel contrario risulta dalla Storia di un tremuoto, registrato in una cronaca ufficiale, che l'abitato, nel 1688, sorgeva dappresso al Castello ducale, là propriamente ove tuttora esiste una chiesetta dedicata a S. Anna; val quanto dire nella parte più eminente di quel ripiano, stando la chiesetta alla parte inferiore, ma in luogo saldo. Il tremuoto di quell’anno, avvenuto ai cinque del mese di giugno , lo diroccò per intero, e molti ruderi furono traghettati fin là dove attualmente riedi- ficata si trova Pietraroja; sul declivio cioè di quel piano, rivolto a S-E. Dalla fedele ed ingenua descrizione di quel luttuoso avvenimento si deduce, che gli strati calcarei, sopra de’quali i casolari erano eretti, subi- rono un sensibile spostamento, e sdrucciolando per la china del monte portarone seco loro gli avanzi fondamentali degli abitacoli (1). L’aja occupata dagli strati ad ittioliti, ben distinta dalla roccia sedi- mentaria primitiva, à una inclinazione dal N. al S. di 8 a 12 gradi (2). Cresce questa inclinazione sul cominciar delle case attuali dai20ai25gr., e questo accrescimento è dovuto a spostamento successivo, come appa- risce dai marchi di frattura che ànno sofferta gli strati là dove la incli- nazione si muta bruscamente crescendo. 7 (1) Trovando di qualche importanza la descrizione di quel tremuoto, registrata dal Parroco di quel tempo negli annali o cronache scritte da lui, non sarà discaro che sia quì riferita in nota. Vedi in fine. Noteremo inoltre, che il villaggio in quell’epoca non contava più di 1700 abitanti: ora ne pos- siede 2287. In meno di due secoli è cresciuta quasi di un terzo. (2) Questa inclinazione è stata da me valutata sopra gli strati inferiori che si trovano nello stato normale in fondo degli scavi praticati di due metri allo in circa di profondità. ar Uro $ 3. Posizione geografica. Uno de’ più alti monti del Sannio è il Matese. Esso succede in terzo luogo dopo il Gran Sasso d’Italia e la Majella, che appartengono agli Abruzzi. La parte più eminente del colossale Matese è Monte Miletto + il cui acrocoro si estolle sul livello del mare per 2056 metri. Al S-0 del suo prolungamento sorge il Monte Botria, Mutria o Mu- tolo (1), la cui maggiore elevatezza segna 1744 metri sull'attuale pelo delle acque del Mediterraneo. AI piede di questo monte, ed al suo lato meridionale, succede un alti- piano, sul quale fu edificato il villaggio di Pietraroja. Un vallone, detto dell’acqua calda, in fondo del quale scorre un ruscello, divide l’ altipiano di Pietraroja dal piede del Botria. L'altezza di Pietraroja sull'attuale livello del mare è di metri 714. Dista 20 miglia da Piedimonte d’Alife, 5 da Cerreto e 20 da Bene- vento, Capitale della provincia, alla quale oggi appartiene. Il ruscello che scorre sul vallone dell'acqua calda è la sua origine da tre fonti, due delle quali sgorgano dal versante occidentale del Lama- turo, e la terza dallo stesso Botria. Il fiumicello scarica le sue acque sul lato occidentale, scorre al piede del declivio meridionale di Pietraroja, animando un molino ; e va a congiungersi con l’ altro fiumicello che scorre rasente Cusano, e così riuniti costituiscono il fiume torrente della Valle di Cerreto per tributare le sue acque al Volturno. CapitoLo II. $ 1. Condizioni speciali della roccia. Si è detto nel precedente capitolo che gli strati ad ittioliti di Pietra- roja sono ben distinti dalla roccia di sedimento primitivo. Vi sono dun- (1) Mutolo è il nome meno comune e più volgare. Nondimeno esso ben esprime la condizione oreo- grafica sua, volendosi dire scantonato. Botria forse vien dal greco, Bobproy, fossetta. — 9 — > que due maniere di roccia, l’una ben diversa dall’ altra, ed appartenenti a due epoche diverse. Il Prof. Arcangelo Scacchi si avvertiva di tale differenza, come appa- risce dalle note ch'esso prendeva nel suo viaggio sul Matese, a me gen- tilmente comunicate in lettera. Nelle vicinanze di Pietraroja, dice egli, le rocce sembrano appartenere parte alla formazione giurassica e parte alla cretacea compreso il macigno. E poco appresso, discorrendo della cal- carea ittiolica dice, ch’essa offre è caratteri mineralogici della formazione cretacea avendo frequenti rognoni ed anche sottili strati di piromaco. Vi notava un Pettine di notevole grandezza d'ignota specie, impressioni somi- glianti a fucoidi o anellidi (lumbricarie)— incerte tracce di Nerinee e d'Ip- puriti. Ora è ben importante scendere nelle maggiori particolarità per ben se- parare le due formazioni in un-punto stesso, tanto considerandole dal lato mineralogico, per quanto il comporta la loro natura calcarea , quanto dalla struttura e da’ fossili che ciascuna racchiude. In generale la roccia di quel monte è una calcarea compatta , dura , uniforme, bianca, a frattura netta, liscia, poco irregolare. È senza dub- bio stratosa, ma gli strati ànno una spessezza considerevole, i cui li- miti di rado sono discernibili con la vista ordinaria, e che neppure con le esplotazioni sempre si manifestano. Quà e colà si mostra sommamente silicea, di color cenerino, o di un bianco sudicio, con frattura concoide nettissima. I fossili ch’essa racchiude sono assai scarsi. Io vi ò trovato i seguenti: 1. Pecten cristatus n...... Trovasi sovente aggruppato, e nella calcarea silicea; è però raro. 2. Bulla gigas, Cos. (1) 3. Acteonella globosa, n. 4. Requienia plicata, n. 5. Hippurites (1) Lasemplicitàdi struttura delle conchiglie di tal genere,e specialmente trattandoside’loro moduli interni, contrasta con la numerosa serie delle specie fossili denominate dai Paleontologi. Io non trovo, ne’ moduli di Pietraroja, altro carattere distintivo eccetto le sue dimensioni, giungendo fino a 0,11 di lunghezza, mentre somiglia in tutt'altro a diverse altre specie. Quindi lo specifico nome che le ò imposto è da tenersi come semplice distintivo. La stessa protesta anticipo per quelle altre delle diverse località di queste meridionali provincie italiane , delle quali sarà discorso nel proprio luogo. = 6. Echmus.z-t ae Piccolo segno di ambulacri, ma molto ; ben distinti. 7. Thetiolites Tenorii Gruppo numeroso d’individui. L’altra calcarea stratosa ad ittioliti è di color rosseggiante o bruna, va- riabile nella sua composizione mineralogica, trovandosi strati marnosi, fragili, con frattura irregolare o piana; altri son poi di calcarea silicea; e spesso uno strato stesso marnoso o calcare dapprima, passa a mano a mano ed insensibilmente al calcareo-siliceo, bianco dapprima e poi ce- nerino, ed un poco trasparente. Questa roccia fiutata rende manifesto odore argilloso. Sovente fra gli strati si trovano fioriture di sostanza bianca, facile ad ammollirsi e distac- carsi, ed incrostazioni sottilissime stalagmitiche. Frangesi la roccia come il vetro ed in tutti i sensi. Gli strati sono segnati da vene, rime, risalti, e nodosità irregolarissime. Gli strati sono quì ben distinti, facili a separarsi, talvolta con minuta sabbia frapposto tramezzo; tal’altra fiata con incrostazione stalagmitica. Le ripetute esplorazioni mi ànno dimostrato una differenza siffatta negli strati, che ne trovi di 5 a 6 millimetri, di due a tre decimetri, e di 12 a 45. I primi sono più rari, di una tessitura e grana assai fina ed omogenea, nè racchiudono mai corpo straniero. Circostanza molto im- portante da tenersi presente nelle nostre conclusioni. Epperò attentamente esaminando gli strati molto doppi non è difficile avvertirsi, ch’essi constano di più strati sottilissimi, molto bene tra loro riuniti, sicchè l'occhio nudo e la vista ordinaria di rado a primo colpo d’occhio se ne avvede. Ed è fra questi grossi strati per lo appunto che si trovano interposti quei noduli di piromaco più 0 meno alterato allo esterno; ed altri di marna litoide col nucleo di piromaco quasi sempre. Di questi ne ò tro- vati frequenti nell’undecimo strato, dal quale fu estratto quel grande e bello ittiolito, a cui imposi il generico nome di Coeus. Nè la loro presenza è senza importanza, come vedremo; ond’è che io gli effigiai col Coeus medesimo nella loro diversa forma e giacimento. Frequenti sono in questi strati gli ittioliti di generi diversi, e per la maggior parte ignoti. Coi pesci vi ò pur trovato Rettili, Anellidi, Ne- rinee, e frustoli di Gorgonie. I Rettili, i Pesci ed i Veri Anellidi sono stali già descritti ed efligiati nella nostra Paleontologia Napolitana, alla _—T7- quale rimando il lettore. Quì mi limiterò a darne solo il catalogo, ag- giungendovi qualche specialità, e talune osservazioni interessanti il no- stro argomento. Esibirò eziandio la immagine e la descrizione dei ri- manenti soggetti, de'quali non è stato ancora discorso altrove, a fine di ben completare la serie dei fossili, e farsi ognuno giusto criterio del ca- rattere paleontologico di questa formazione o deposito. Gli strati più spessi, come quelli di 4 a 12 centimetri e più, sogliono essere cristallini, sì trovano composti di altri strati di svariata spessez- za, ma talmente accollati da non potersi ben separare, ed a bistento di- scernere : nè mai fra questi, come nei precedenti, s'incontrano fossili di sorta alcuna. Quegli strati le cui pagine sono ineguali, ondolose, irregolari e sca- brose, portano costantemente ittioliti, ed altri organici avanzi. È tra questi ancora che si trovano nuclei o noduli di calcarea-piromaca. Le quali cose tutte convengono per dimostrare, che quando il deposito terroso ebbe luogo placidamente e lentamente, gli strati si successero delicati e ben uniti tra loro , nè v'intervennero corpi estranei alla ma- teria terrosa che le acque tenevano sospesa. Per opposto, quando le acque vi deposero precipitosamente il materiale più grossolano, eterogeneo , ed abbondante che portavano seco loro, il deposito risultò maggiore, ine- guale, e scabroso. In tal circostanza concordemente concorsero le agitate onde del mare, e vi depositarono l’eterogeneità loro, quindi i pesci, se- mivivi, morti, o disfatti (1). In uno scavo praticato fino a 34 centimetri di profondità ò trovato , dopo il primo strato informe e terroso, uno strato di calcarea dura, sili- cea, e della spessezza di 12 centimetri; succede a questo altro di 0,08, ma di grana più fina ed omogenea; indi uno straticello di calcarea bianca, meno compatta della precedente, ed apparentemente quasi che fosse cal- cinata: questo non è più spesso di 8 millimetri. Il quarto strato è di 3 centimetri, e di calcarea silicea, che frangesi come il vetro, con frattura netta e.concoide, e di color grigio. Il quinto, di maggiore doppiezza, à 4 centimetri; la superficie è aspra ed ineguale, di color cenerognolo, e frangibile come la precedente. Succede il sesto strato di un centimetro di spessezza, ineguale, e portante vari frammenti organici di pesci, qual- che nerinea ecc. Il settimo porla ittioliti e nodoli di calcarea gialliccia, la cui doppiezza, essendo maggiore di quella dello strato, la parte estu- (1) Vedi Cenni pel 1857, pag. 6. SR berante trovasi immersa nello strato sottoposto di 2 cent., al quale ade- risce con una spezie di peduncolo. Il successivo ottavo strato, portante ancor esso ittioliti (Notagogus), à lo spessore di 3 centimetri. Nel nono strato si trovarono insieme il Kometokadmon Fitzingheri, i due Salaman- drini, ed i due esemplari dell’ Astiages effossa : la qual cosa importa che tutte queste specie terrestri e di acqua dolce furono colà traghettate e deposte in un medesimo tempo, e per una medesima ragione ; un allu- vione cioè. $ 2. De Noduli calcarei. Nella medesima tavola in cui trovasi inciso il C@eus Leopoldi si sono rappresentate cinque diverse forme di tali noduli, che frequentemente ò incontrati in quel medesimo strato ittiolitico. Com’essi si sono gene- rati dapprima è cosa ormai conosciuta. Sono delle stratificazioni succes- sive intorno ad un nocciolo più duro, e d’ordinario siliceo, o altro corpo eterogeneo. Consumati indi gli straticelli dall’acqua scorrente, il nodulo è rimasto tondeggiante od ellittico; e poscia ricoperto novellamente dal deposito successivo che su quello strato ànno operato le acque. Questo fatto concorre dunque, con la presenza de’ corpi organici ter- restri, lacustri e fluviali a rafforzare la mia conghieltura, che ivi scor- reva un torrente od un fiume reale : e che contro di esso, nel versare le sue acque, ora nelle piene, ora nelle secche, in un piccolo seno di mare, le onde di questo, nelle alte maree e nelle sue agitazioni vi riget- tassero i cadaveri in esse contenuti, deponendoli su quel letto fluviale. Le piene successive del fiume torrente le ricopriva, e poscia ne lasciava a secco novellamente il suo letto. Di questi noduli ve ne sono di figura quasi circolare, e dei più o meno ovali; siccome ne incontri di grandezza diversa. » (1) Nelle Transazioni Filosofiche di Londra, 1855, vol. 145, par. 1.* pag. 149, trovasi una Me- moria de’ sigg. Giuseppe Calton Hooker e Eduard William Binney, dal titolo : Struttura di certi no- duli racchiusi in una roccia bituminosa, Coal, e descrizione de Trigonocarpi che vi si contengono. Sembra però che la definizione 0 descrizione de’ trigonocarpi sia arbitraria! Si trovano di simili noduli nella arenaria di Montesarchio, ove vien dato loro il nome molto proprio di Cipolle ; tali mostrandosi all’occhio comune per la configurazione e per la struttura quasi fogliacea, perchè stratosa. 2) Si consulti intorno a ciò La Bàche, Geological Researchs, pag 95—e Geolog. Observ. 1851, pag. 686—Lyell. Istit. pag. 60. FOSSILI DISCOPERTI FINORA NEGLI STRATI AD ITTIOLITI RETTILI . e Chometokadmon Fitzingheri, Cos. Paleont. P. II. Salamandra apennina, Cos. ivi Triton megacephalus, Cos. ivi Pesci Ganoidi at Lt Piet9®"3 7 cana erassirostris, Cos. Opera citata, P. II. —_ tenuirostris, Cos. "1-4. Aspidorhynchus GI- Rostro di specie innominata. Lepidotus Marimiliani, Ag. )_ ivi — minor, Ag. . . . Veggansi le illustrazioni seguenti: — ezriquus, Cos. Pycnodus grandis, Cos. Get. FESOp. cit. — rhombus, Ag. "“® ivi — rotundatus, Cos. ivi DI — 4Achillis, Cos. Get. Picbesgivi A Glossodus Heckeli, Cos. ivi — angustatus, Cos. ivi stia, att ivi rg Pentiandi, Ac Uma“ tivi, e più oltre. iù Coeus Roig Pesi ivi, ed Ittiologia fossile italiana. Chirocentrites? Cavolini, Cos. Get. ivi L ca Petrarojoe, Cos. Get, ivi, ed Ittiologia fossile italiana. i 4 ì Prec. E CicLOIDEI Sa Sauropsidium laevissimum, Cos. Individuo completo, effigiato nella Tav. 4. _ — angusticauda, Cos. Op. cit. Iehthyus Sebastiani, Cos. ivi, ed Ittiologia fossile italiana. Atti— Vol. II.—N-° 16. 2 pr va CTENOIDEI Andreiopleura esimia, n. Tav. II. i Tek IE ftt Paleont. nell’Appendice I, Tav. VI, fig. 4. Pleuronectes ivi, Specie indeterminata. PLAGIOSTOMI Rhinobatus obtusatus, Cos. Tav. II. / Centronotus lividus, Cos. Pal. P. GENERì D'INCERTA SEDE Histiurus elatus, Cos. i — serioloides, Cos. x Megastoma apenninum, Cos. F i Sarginites pygmaeus, Cos. Ya ; Rhynchoneodes macrocephalus, Cos. Piotisoma minor, Cos. 5 CROSTACEI Astiages effossus, Cos. = lcR_ 20: Forsì specie congenere alla prece- dt, dente. Vedi. Trichyurus Monticellianus, Cos. Tav. IV, fig. 10. : 0. GASTEROPODI Nerinea lanceolata, n. ANELLIDI E Sarconota proboscidata, Cos Paleont. III, pag. 354. ECHINODERMI Fascolosoma? Vedi appresso. Ù ZooriTi = fi Gorgonia anomala, n. - Tethyolites Tenorii, Cos. Atti dell’Accad.Pont. dicembre1861. * lei. x i a SPECCHIO COMPARATIVO TRA I FOSSILI DI CERIN E QUELLI DI PIETRAROJA. RETTILI Cerin Atoposaurus Jourdani, H. v. Mayer Saphosaurus Thiollerei, H.v. Myr. frammenti. Chelone Meyeri, Thioll. PESCI Spatobatis Bugesiacus, Thioll. Microdon elegans, Ri — hexagonus, Ag. Belemnobatis Sismondae, Thioll. * Phoreynus catulina, Id. Pycnodus Sauvanausi, Td. — Ieri, Id. — Bernardi, Id. — Wagneri, Id. — Egertoni, Id. Gyrodus macrophthalmus, Agas. Undina striolaris, ; Miins. — cirinensis, .Thioll. Macrosemius rostratus, Ag. — Helenae, Thioll. * Disticholepis Fourneti, Id. Notagogus imi-montis, Id. v » » » » » » Lepidotus notopterus, Ag. = ea sp. indet. Pholidophorus mieronya? Ag. se. 9 — ? Pietraroja Kometokadmon Fitzingheri, Cos. TA ?, Cos. Salamandra apennina, Triton megacephalus, Rhinobatus obtusatus, Centronotus lividus , Pycnodus grandis , Achillis, rhombus, rotundatus , Notagogus Pentlandi , crassicauda, erytrolepis, gracilis , Lepidotus minor, » » (1) Le specie segnate con asterisco sono esclusive di Bugay, Maximiliani, eriquus , » » Cos. Cos. Agas. Cos. Agas. Cos. Agas. Agas. Cos. È Caturus latus, Miinst. Coeus Leopoldi, . Cos. x — furcatus, Ag. » » ‘el — elongatus, ‘Ag. » » ; — velifer, Thioll. » » =. «Buia, Id. » » | Amblisemius Bellovacinus,Thioll. » » * Gallopieris= 2 <£ ? » » Ophiopsis macrodus, Id. » » Eugnathus praelongus, Id. » » i * Oligopleurus esocinus, Id. » » Megalurus Idanicus, Id. » » Thrissops salmoneus, —Ag. » » — furcatus, Ag. » » _ cephalus ’ Id. » » Leptolepis sprattiformis, Id. » » ne = ? » » Belonostomussphiraenoides, Id. Belonostomus crassirostris, Cos. ì — tenuirostris, Cos. L —. Munsteri, Id. Aspidorhynchusplatycephalus Cos. i i Holochondrus, Platyrhynchus, ..... Cos. È ia —. » Sphaerodus gigas, — Ag. bei — anularis, Id. i CROSTACEL BS Eryon speciosus, Miins. Astyages effossus, Gos. ©. 6; } — Cuvieri, Desm. Trichoceros Monticellianus, Cos. 3 ; ? SE ì ANELLIDI ; » Sarconota probascidata, (Cos. MOLLUSCHI Ammonites biplea, Sow. Nerinea lanceolaris, Cos. RADIARÎ Aculei di Echini, È Ambulacri di Echino » » Fascolosoma? Cos. PIANTE Quattro specie innominate » » 3 TEZIÒLITI » » Tethyolites Tenorii , GORGONIE | » » Gorgonia anomala, = Da questo specchio comparativo evidentemente risulta, che tra i fos- sili di Cerin e quelli di Pietraroja occorrono parecchie somiglianze e moltissima analogia. Nella classe de’ pesci si trovano anzi molte identità generiche; e se tra quelli di Cerin và un maggior numero di generi e di specie, ben si può attribuire alla estensione delle esplotazioni , colà frequenti per ragione della calcarea litografica, che quotidianamente si cava e si mette in commercio. In Pietraroja per opposto tutto quello che finora si è seoperto è frutto delle mie speciali ricerche, e di appositi ca- vamenti in varie volte colà praticati. Nulla meno le analogie per ora evi- denti delle diverse classi, come di rettili, di crostacei, molluschi e radia- rii, ispirano confidenza di poter pervenire un giorno a maggiori rapporti tra le due formazioni, se per avventura si proseguiranno colà, in Pietra- roja, le accurate ricerche. Or se tanta concordanza si trova fra queste due località; se da questi dati sì parte, come gran parte de’ geologi pretende, per definire l’età di un terreno; e se il terreno di Cerin si vuole giurassico per la natura dei fossili che racchiude; ne risulta logicamente, che la calcarea stratosa ad ittioliti di Pietraroja debba anche tenersi per giurassica. Ma se la roecia sottoposta a quegli strati, la quale costituisce l’ossa- tura del monte, si vuole esser cretacea ; ne proseguita la conseguenza che il giurassico sovrastasse al cretaceo. Se ciò possa regere è facile giudicarlo. In contrario deve conchiudersi, o che la calcarea dell’ossa- tura non appartenghi al cretaceo, o che la stratosa ad ittioliti non debba tenersi per giurassica, malgrado i fossili che racchiude, pretesi come caratteristici di siffatto terreno. CapitoLo III. $ 1. Critico esame del genere PrcNoDus e delle sue diverse specie. Allorquando l’Agassiz, tracciando le prime linee delle sue Recherches sur les Poissons fossiles, fondava il genere Pycnodus, non ebbe sotto gli occhi altro che due sole specie, il P. rhombus ed il P. platessus (Cori- phaena apoda della Ittiol. Veronese). Dopo quell'epoca il numero delle specie è andato successivamente crescendo, a seconda delle ricerche più estese, e del numero degli scrutatori di Ittiologia fossile. Lo stesso — 14 — lodato autore annunziava altre 19 specie da lui possedute e non ancora pienamente studiate, onde poterle pubblicare a norma del suo sistema (Op.c.vol.II, pag.199). Più tardi il signor Thiollier ne à descritte cinque altre specie; e se non ò errato ‘anchio ne è distinte due. Onde sì à per ora la complessiva cifra di 28 specie. Le specie già descritte sono le se- guenti: 1. Pycnodus rhombus, Agas. Castellammare 18 2. — platessus, Ag. Bolca 3. — motabilis, Wagner. Baviera (1) A. o ePreussi, Mint, Bugey, Cirin bocce Gezio hip]. si Gia 1852 6. = Wagner, %Uhiol Scisti litografici della Baviera 1853 eb, SF Egertoni sbhial. Cirin 1853 8. — Bernazdiyckbioli ivi 1850 9. —- Sawanausi, Thiol. ivi 1852 I Picnodi vissero nell’ epoca giurassica; e se le norme prescritte dai geologi moderni sono ben fondate, la loro esistenza si protrasse fino al- l'epoca cretacea. Nella prima età acquistarono il maggiore loro sviluppo, tanto nel moltiplicarsi, quanto nello accrescimento delle loro dimensioni. I denti di Pienodo, che isolatamente s'incontrano nella calcarea giurassica, ac- cennano a specie veramente gigantesca. Quello che io posseggo, proveniente dai nostri Appennini di Terra di Lavoro (Monte di Fontecardegna), fatta proporzione con li corrispondenti del P. grandis, doveva appartenere ad individuo di più che mezzo metro lungo. Perocchè, ove la grandezza del pesce fosse costantemente pro- porzionata, e nella ragion diretta de’propri denti; posto a confronto col maggiore dei denti del nostro P. grandis, di cui si trova nel mio gabi- netto un ben intero esemplare, ci rende le seguenti proporzioni: Pycnodus grandis. Lung, de’ denti. 0,011 —del pesce=0,343 Pycnodus gigas. _ 0,018—del pesce=0,561 ‘/; (1) Pesci fossili degli Scisti litografici della Baviera. Tav. 3. do 11:343::18:561 ‘/,; lunghezza che doveva avere l’individuo al quale quel dente appartenne; e ciò nella ipotesi che fosse il maggiore di tutti. In quanto alla successione dello sviluppo loro, si trova una sensibile degradazione da epoca in epoca. Appo noi, del P. gigas non si è trovato fin quì che il solo dente di cui è stata fatta parola più volte, nell'Appennino di Terra di Lavoro, confinante con quelli degli Abruzzi. Del P. grandis non di rado si tro- vano esemplari di età diversa, essendo però sempre più rari i piccoli, nella calcarea di Pietraroja. Pel contrario, il P. rhombus è frequente nella calcarea stratosa di Castellammare, ma sempre piccoli individui, rari essendo gli esemplari che giungono ad un decimetro di lunghezza. Gl’individui più piecoli misurano 45 millim., ed i loro maggiori denti non oltrepassano un mezzo millimetro. Un tal fatto viene in comprova della formazione successiva de’terreni di coteste località. Nè vale l’invocazione del prineipio che gli strati infe- riori siano, e debbano esserlo, di epoca anteriore a quella degli strati superiori, come forsi taluno si farebbe a credere quelli di Castel- lammare. $ 2. Ulteriori osservazioni sull’ armatura dentaria de’ Picnodi e quindi sopra quella del nostro genere GLOSSODUS. Denti. Ìl signor Thiollier, nella sua terza notizia intorno al deposito di pesci fossili giacenti nel Giura (dipartimento dell’Ain), à pure ricono- sciuto l’ errore in cui cadde V'Agassiz, considerando come armatura dentaria del vomere dei Picnodì tutte quelle cinque serie longitudina- li, che io è constatato essere un’armatura linguale. Il Thiollier dissente giudiziosamente dal concetto dell’Agassiz; e riporta ancora le analoghe osservazioni dell’Heckel; ma non cessano entrambi dal considerare sif- fatte armature dentarie come proprie della mascella superiore. L’Agassiz ebbe a eredere ancora che quelle piastre dentarie composte (1) Pyenodus — Apparato dentario di tal genere, trovato in diverse località nel cretaceo, ed in Neuchatel nel calcare giallo. — Memoria della Soc. Geol. di Francia, vol. V. p. 33 nel quadro — Tav. XVIII. f. 6 — Leymerie. È un Glossodus con 5 serie di denti più grandi ed ur poco diversi in figura dai nostrali otto denti nella prima serie mediana — 11 nella suprema — 10 nelle intermedie, che sono le minori. ul — di 5 serie di denti, simmetricamente disposti secondo le diverse loro grandezze, appartenessero all’armatura del vomero, e perciò impare. Wagner per opposto vorrebbe ch’esse appartenessero agli ossi ma- scellari: quindi appajate. Thiollier in questo si associa all’Agassiz, ritenendo come un gruppo impare quello di cui è quistione. Wagner e Thiollier convengono esser 4 le serie di denti che armano le mascelle de’ Picnodi, contrariamente a quello che ne disse l’Agassiz, esser cioè talvolta 4 e tal’altra 5 le serie. Io posso affermare, sempre più convinto, che niuno di questi dotti paleontologi siasi imbattuto in documenti così evidenti, come sono quelli per me raccolti, i quali, senza equivoci dimostrano esser caduti in fallo tutti e tre i sullodati autori. La figura 7 ed 11 della Tav. III, che accompagna la Il° Parte della nostra Paleontologia Napolitana, offrono la prova dei due ossi palatini congiunti per sinfisi, sopra ciascuno de’ quali si trovano 3 a 4 serie di denti nor- malmente disposti, e, per anomalie facili ad intendersi, talvolta anche cinque (fig. 11. della Tav. citata). Contemporaneamente ò potuto senza artifizii constatare, che la faccia interna di ciascuna mandibola è armata di 3 serie di denti, come la si vede nella fig. 8. della medesima tavola, la quale presenta le due mandi- bole di sbiego, riunite per la estremità, e con le loro branche divaricate. E quando poi si offre il documento di una lingua posta tramezzo alle mandibole, non è più contestabile, che l'apparato dentario attribuito al vomero, appartiene decisivamente alla lingua medesima. Ciò dimostra il fatto espresso dalla fig. 4 della medesima Tavola. Ultimo documento inappellabile è poi una lingua isolata, coperta di denti, come tutte le armature dentarie effigiate dall’Agassiz, e quelle da me rappresentate nella citata lavola III, fig. 12, 13, e 15. Laonde, senza ricorrere ad argomentazioni, nè ad ipotesi e ristauri ar- tifiziali di parti staccate, ma poggiando su documenti di organi interi, normali e palpabili, risulta evidente quanto di sopra ed altrove si è cer- cato dimostrare. Vertebre. Dichiara recisamente il signor Thiollier, che i Pienodi , come tutti o quasi tutti i veri Ganoidi della stessa epoca (qiurassica) non anno punto corpo di vertebre distinto ed ossificato; e che, l’asse dello sche- letro è rappresentato , in tutti gli esemplari trovati nei nostri depositi , da — zo uno spazio vuoto , che si estende dall’ occipite alla pinna codale, e che se- para assai nettamente la rastrelliera delle apofisi spinose superiori da quella delle apofisi inferiori e delle costole. L'intervallo mediano è stato occupato, senza alcun dubbio, durante la vita, da una corda dorsale continua e gela- tinosa, che, nella fauna attuale, trovasi negli storioni (1): son queste le sue parole. Che la colonna vertebrale sia cartilaginea, o che la ossificazione fosse incompleta, sembra vero; ma che mancasse del tutto il corpo vertebrale viene il fatto a smentirlo. Il corpo delle vertebre dei Picnodi è cilin- drico, molto breve, liscio, e rilevato sensibilmente sul perimetro del- l’una e dell'altra faccetta articolare, talehè nel loro incontro sì forma un cordone. Nelle vertebre cervicali ed in quelle della pinna codale, il corpo vertebrale si trova così ben distinto in taluni de’ nostri maggiori esemplari, da non lasciare dubbio veruno: come apparisce in quello rappresentato nella Tav. III, fig. 1, di sopra citata. Le apofisi spinose sono sopra il corpo impiantate per una molto sensibile biforcazione. lì sig. Heckel crede, che i Picnodonti giurassici avessero delle mezze vertebre; cioè de bulbi 0 scudi ossificati alla base delle apofisi delle costole, sia alla faccia dorsale, sia alla faccia addominale, mentre i Picnodonti dei terreni più recenti 0 più antichi offrono gradi di ossificazione vertebrale in- feriore 0 superiore a quelli delle specie del Giura. Così egli trova che nel Platysomus dello Zecstein mancano affatto i ri- gonfiamenti ossei nella base delle apofisi, biforcandosi semplicemente queste per far luogo al passaggio della corda dorsale: e per opposto nel P. platessus del Bolca, non solo gli scudi si trovano come nei congeneri di Solenofren , e di Cerino, ma dippiù , tali specie di mezze vertebre tendono a saldarsi tra loro, sia lateralmente, sia da sopra in sotto, per lo mezzo di prolungamenti dentellati che s'ingranano tra loro. Questa dottrina non parmi poggiata sopra basi ben assodate di organa- mento animale. Che la stessa generazione di viventi perdesse o acqui- stasse talune facoltà organiche parziali, senza mutamenti sensibili in tutto il resto, e ciò per la sola successione di tempo, sembrami un poco strano. Ma quando ciò si volesse provare, sarebbe necessaria la compa- razione fra individui identici in ogni altra parte, e differenti solamente per essere gli uni di una età incontestabilmente anteriore o posteriore (1) Thiol. Annal. di Scienze Fisiche e Naturali di Lione; vol. 4 (2 ser.) pag. 384, Atti — Vol II. — N.0 16. 3 BS E all’ altra. Perchè non attribuire più tosto all’età degl’individui la diffe- renza della ossificazione delle loro vertebre, il che è semplice, naturale, e constatato da molteplici fatti? Noi possediamo Picnodi di Pietraroja e di Castellammare. Tra i primi ne abbiamo grandissimi e picciolissimi. Nei maggiori, come nel grandis, l'ossificazione vertebrale è quale sì è detto di sopra; nei secondi è inosservabile. È tale pur sì trova in quelli di Castellammare, che sono sempre di piccola dimensione: e come sarà dimostrato nella terza parte di questo lavoro, -questi ullimi devono ap- partenere ad una età posteriore a quella di Pietraroja. Dunque le diffe- renze stanno nella età degl’individui, e non già in quella della forma- zione della roccia. $ 3. Delle differenze specifiche de' PioNoDI. Nella prima parte della nostra Paleontologia, pag. 105, si è fatto notare che in taluni esemplari del nostrale Pyenodus rhombus lo sposta- mento del capo rende alle impronte tal diversa fisonomia da destare l’idea di una vera diversità di specie. Bene analizzando però ogni cosa, si trova che niuna differenza organica può giustificarne la loro separa- zione. E lo stesso spostamento genera una più o meno notevole diffe- renza di proporzione tra la lunghezza e l'altezza del corpo, l. c. pag. 102. Ho creduto pure che lo sviluppo delle pinne verticali dovesse seguire la ragion dell’età; onde neppur queste sono, rigorosamente par- lando, valevoli a giustificare da sè sole la specifica differenza |. c. in nota. Alle quali osservazioni aggiungesi ora, che trattandosi d’ordinario d’impronte, ne’ piccoli individui, essendo i raggi anche più molli e de- licati, non lasciano di loro intera l'impronta, spezialmente mancando ne’ margini estremi. Lo stesso avviene per la pinna codale. Ora a tutto questo devesi aggiungere che, tanto nella calcarea di Ca- stellammare, quanto in quella di Pietraroja , non si ànno de’ Pienodi che impronte scheletriche, ad eccezione di un solo esempio (1). Belle e nitide son quelle di Castellammare, ma tulte d’ individui piecoli; sicchè il maggiore che noi conosciamo non oltrepassa la lunghezza di 4 centi- metri; mentre da Pietraroja sì sono ottenuti esemplari di 34 centimetri e più. (1) Vedi Palcont. del Regno di Napoli. P. I., pag. 105» —A490- E s’egli è vero che anche il sesso imprime differenze, non di rado no- tevoli, tra maschio e femmina , non potendo ciò verificarsi nei fossili, può ben da questo derivare l'errore di assumere o riguardare come distinte specie due individui di sesso diverso ma d’una specie me- desima. L’Agassiz riguarda il Pycnodus gigas come caratteristico del cal- care del Giura Svizzero, detto dagl’'Inglesi Portlandiano , perchè simile a quello di Portland. Il sullodato A. stabiliva queste caratteristiche in seguito delle sue prime e semplici asserzioni. Laonde, per aver trovato denti sì grandi da doversi riferire a specie gigantesca, e ciò nel calcare del Giura svizzero, lo assumeva come caratteristico di tale formazione. Nondimeno,egli medesimo afferma, di aver trovato di tali denti nel Museo di Stutgart, in quello di Soleuvra, e di Neuchatel ; i quali non si sa da qual terreno provengano. Da parte mia posso ora aggiungere alle altre località il calcare dei nostri Appennini , che non saprei dire se sia giurassico o speciale. Riunendo i fatti sperperati si ha: a) che il P. gigas appartiene al calcare secondario del Giura, e dei nostrali Appennini), o al cretaceo, come taluno lo crede; b) che il P. grandis, Cos. è proprio de’nostrali Appennini sì, ma di terreno subordinato a quello, che costituisce propriamente gli Appen- nini medesimi, per essere originato dalla scomposizione del primo, rime- scolata con melma e sabbia marina di epoca posteriore; e dir si potrebbe cretaceo più recente; c) che ii P. rhombus di Castellammare sia pure di epoca diversa e più recente, dell'ultimo periodo forse di quella formazione di sedimento; d) che il nostro primitivo concetto, fondato sopra la decrescenza di quesla specie, la quale trovasi accumolata in branchi in un così limitato spazio, che il P. rhombus rappresenti l’ultimo periodo della vita del ge- nere, essendo posteriormente scomparsa, viene ora maggiormente asso- dato dal trovarsi il 2. gigas nelle maggiori e più centrali sommità de’ no- stri Appennini. Con ciò non sì vuol dire, che non esistessero ben distinte specie; ma solamente che talune sono ambigue o mal determinate. In fatti il P. Ber- nardi ed il Sauvanausi del Thiollier differiscono sì poco tra loro, che lo stesso autore eleva il dubbio se siano realmente due distinte specie, 0 se le poche differenze ch'egli vi trova dipendessero dall'età diversa de- * i gl’individui, o, il che vale lo stesso, dal loro diverso sviluppo. L’ autore si studia di attenersi alla prima ipotesi, poggiando i suoi ragionamenti sopra probabilità, ma senza documenti (1). CapitoLo IV. S4. Esame comparativo delle squame dei due Lepidoti UNGUICULATUS E MINOR, Ag48. La prima conoscenza che sì ebbe del Lepidotus unguiculatus è dovuta a Rippel, che nel 1829 ne pubblicava la descrizione con molta esattezza. Egli però non conosceva la natura del fossile che aveva fra le mani, sic- chè dichiarò solennemente che quella parte di corazza (trattandosi di un frammento soltanto) squamosa era di un animale rimarchevole, tipo differente da tutti gli animali conosciuti. E l’Agassiz, riproducendo intie- ramente questa dichiarazione del Riippel, voltandola dall’idioma ale- manno al francese, protesta di farlo a fine di dimostrare lo stato d’igno- ranza, in cui si viveva in quell'epoca per rapporto alla IHtiologia fossile. Nel 1832, tre anni dopo cioè, Hermann de Meyer ne costituì un ge- nere sotto nome di Lepidasaurus, pubblicandolo nella sua opera col titolo Palacologia. Tutto questo vien riferito dall’Agassiz, nel vol. II, pag. 254, rappre- sentando tre sole squame, nella Tav. 30, fig. 7,3,8, di naturale grandezza. Lo stesso lodatissimo autore, nella pag. 260 del medesimo volume ne dà la descrizione di altra specie, sotto nome di L. ménor, di cui, nella Tav. 34, rappresenta similmente le squame. Or, confrontando queste due forme di squame non trovi alcuna diffe- renza, se n’eccettui quella delle rispettive dimensioni, e di quella stria- tura superficiale prodotta dal suceessivo loro ineremento; striatura ben espressa nelle squame del Lepidotus Mantellii, rappresentate dalla fig. 15, Tav. 30. Nella H. parte della nostra Paleontologia del regno abbiamo riportato al Lep.minor alcune squame di tal fatta, poggiando sulla identità di forma che le nostrali ànno con quelle rappresentate dall’ Agassiz nella sua (1) Annali di Scienze Fisiche e Naturali, ecc. Lione 1842, Tomo IV, pag. 409 pre L= Tav. 34, vol. II, e le abbiamo, per documento, effigiate nella Tav. IV, fig. 1-4. Questo pesce è comunissimo a Swanage nell'Isola di Purbeck, negli strati che portano il nome di calcare di Purbeck. Recentissimamente M. Roemer ne à scoperti alcuni frammenti ne’ dintorni di Hildesheim. Tutte le squame sono liscie, e tutte presso a poco tanto alte quanto lunghe; quelle del peduncolo codale solamente sono un poco più lun- ghe (1), fig.3, ed in forma di rombo; i loro margini sono tutti interi, e non vi sono neppure unghiette ne’ fossetti articolari, attaccandosi sol- tanto pei margini le une alle altre; quelle de’lati, al di sotto della dor- sale, sono equilaterali: il margine anteriore loro, nascosto per lo embri- ciamento, è leggermente smarginato, ed i margini superiore ed inferiore ànno delle piccole unghietlte articolari corrispondenti a fossette anche poco marcate; ma quelle della parte anteriore del tronco, e soprattutto de’ lati del ventre (fig. 2 e 4) (2) sono molto smarginate nel margine loro anteriore, in modo da formare due corna oblique, e le loro unghiette e fossette articolari sono sviluppatissime ; la parte loro smaltata e visi- bile è più alta che lunga;ma poste totalmente a scoperto: tutte tali squame sono ciò non ostante più lunghe che alte. Più tardi si è ottenuto dal medesimo luogo, Pietraroja, un piccolo brano con alcune squame identiche a quelle del L. unguiculatus, e non diverse dall’ altre precedentemente riferite al L. minor, salvochè per la loro spessezza, e le loro dimensioni; ma in esse i marchi degli accresci- menti sono maggiormente e nettamente visibili. Si vorrebbe per ciò solo considerare coteste squame come di due distinte specie? E non vediam noi in molte specie stare due, tre, e fino a quattro forme diverse di siffatte squame? Quelle stesse che l’Agassiz rappresenta, niuna eccettuata, man- cano di quelle strie che sembrano caratteristiche della specie; le quali in vece sì trovano in quelle altre che lo stesso autore ci dimostra come proprie del Lepidotus Mantellii, Tab.30, fig. 15, e che ànno pure quei due prolungamenti angolari, come la nostra della Tav. IV, fig. 1. Ed affinchè meglio si rilevassero le differenze di tali squame, e le loro (1) Cidè comune a tutte le specie, non solo del genere Zepidotus,ma anche di quelle del Semionotus Dapedius, Tetragonolepis, ecc. della fauna antica; come nella moderna meglio lo provano i generi Balistes e Brama. Le squame che noi possediamo dì tal maniera, sono in generale più grandicelle di quelle che vappresenia l’Agassiz. Vedi innoltre il Lepidotus unguiculatus. (2) Tav. IX, fig. 1 e 2 della nostra Paleont. P. IL. 22 simiglianze con quelle poco innanzi citate ed efligiate dall’ Agassiz, se n’ esibisce quì la figura di naturale grandezza ed ingrandita insieme , onde potervi con chiarezza esprimere la loro verace struttura , oltre la forma. La fig. 2, tre volte maggiore della grandezza naturale, è d’una squama, nella quale esistono i due prolungamenti, prodotti dalla smarginatura media; e però de’ due prolungamenti, uno è maggiore, e forma un valido aculeo, l’altro è minore e depresso in forma di spina piatta. Non si trova in essa unghietta articolare nè suo vestigio, nè fossetta in alcun sito che indicasse la sovrapposizione di unghielta della squama compagna. La larghezza di essa è maggiore della lunghezza, esclusion fatta de’ suoi prolungamenti. La fig. 3 poi, ingrandita come la prima e d’ identica struttura, à la sua unghietta articolare in a, senza che nella opposta parte vi sia fos- setta da ricevere l’unghietta della squama compagna, come nella pre- cedente. La figura 4, per opposto, minore di entrambe, offre ad un tempo un- ghietta articolare a, e due fossette sul lato opposto, capaci di ricevere i due prolungamenti, forse di altra squama, o saranno pieghe indipendenti da tale uflizio. i Mi sono limitato a queste cinque sole forme, perchè bastevoli a pro- vare, che la presenza o l'assenza della unghietta è insufficiente per in- dicare due diverse specie di pesce; ma sulla stessa roccia si trovano ancora altre squame disordinatamente impiantate, nelle quali si veg- gono forme svariate, alcune sì ed altre nò munite diunghietta. E tutte co- teste forme appartennero evidentemente ad un medesimo pesce; peroc- chè, non solo esse provengono da un medesimo luogo, ma si trovano sopra la stessa lapide disseminate, e talune ancora aggruppate, Tav. VII. fig. 6, di svariata forma e grandezza quali si osservano; ma l’intima loro strut- tura, la natura e colore dello smalto, e le graduazioni di dimensione attestano essere parti di un medesimo tutto. La figura ©, è di una squama prolungata in un semplice acume, come sogliono essere quelle del peduncolo codale in tutti i Lepidoti, Semionoti e simili; ed in essa veggonsi nettamente pure i marchi de’ successivi in- crementi, i quali attestano di non esservi e non esservi state altre ap- pendici. La fig. 6 finalmente è semplice, romboidale, liscia, senza marchi di o o accrescimenti successivi, e molto estuberante, spettando forse alla re- gione addominale. Come distinguer dunque il Lepidotus minor dall’ unguieulatus? E chi autorizza riferire le nostrali squame all'uno piuttosto che all’altro, se tali squame convengono in quanto alla forma con quelle del Lepidotus minor e con le altre del L. unguiculatus, e dalle prime si dipartono solo talune per le strie di accrescimento, e dalle altre per essere di gran lunga minori? Fino a che non si perviene a trovare un moncone di pesce con squame di tal natura, e che ne porgesse altri caratteri di analogia, o di diserepanza con quelli delle due specie summentovate, la quistione re- star deve quale aitualmente si trova. Ecco l’importanza de’ frammenti. Per essi siamo costretti a spingere oltre ed iteratamente le nostre ricerche, nella speranza di raggiungere la soluzione del problema. Farò pertanto notare, che se talune delle squame sono così bellamente striate, ed altre son liscie, ciò dipende dal modo di accrescimento loro, e dal sito del corpo al quale appartengono. Le prime sono più depresse e slargate, le seconde sono più ristrette e tumide o gibbose ; ed in queste le strie di accrescimento si osservano proprio sul loro margine nel senso della Ppespapsa: Intanto la sostanza ed il colorito sono in tutte gli stessi. In quanto alla forma è risaputo, che mutasi nelle diverse parti del corpo, tanto nei pesci della Fauna antica, quanto in quelli dell’attuale vivente. Le squame segnate,dai numeri 7,8,9 sono dì naturale grandezza, senza i rispettivi ingrandimenti, appunto perchè in esse niun segno di strie si trova nell’aja superiore, ma solo nella spessezza, e perciò rare e poco apparenti. È SPIEGAZIONE DELLE FIGURE Tav. IV. — Fig. 2. a Squama di naturale grandezza, prolungaia ne' due angoli posteriori, senza unghietta articolare, nè fossetta per riceverne dalla compagna; A la stessa ingrandita tre volte. Fig. 8. a Grandezza naturale — A ingrandita come sopra. Questa, oltre i due prolungamenti degli angoli, à l’unghietta laterale a. Fig. 4. a Grandezza naturale—A ingrandita come sopra. Superficie liscia, con unghietta articolare a, e due fossette nel lato opposto Me. ca per l'inserzione delle unghiette o de’ prolungamenti angolari di squama compagna; ha dippiù una espansione e sul lato in- terno o anteriore , delicata , che vien ricoperta dal margine posteriore della precedente. Fig. 5. a Grandezza naturale — A ingrandita come sopra. Un solo angolo prolungato, come esser sogliono quelle della base della pinna codale. Fig. 6. a Come sopra — trapezoidale e liscia — superficie gibbosa. Fig. 7. Gruppo di tali squame come naturalmente impiantate si tro- vano sopra la lapide. Fig.8. Squama romboidale di naturale grandezza, doppia e liscia. Fig. 9. Altra con gli apici prolungati. CAPITOLO V. CONCLUSIONE Egli è oramai dimostrato fino all'evidenza il rimescolamento di ani- mali abitatori della terra arida (quali sono i due Sauriani discoperti fi- nora), di animali proprî delle acque dolci (Salamandra e Triton (a)) e forsìi anche di pesci (Sarginites (0) e Tinca?), i Crostacei littorali (Astia- ges effossus), con i pesci di acqua salata , e le Gorgonie, tutti reperibili negli strati ad Ittiolliti di Pietraroja. Un tale rimescolamento non si può altrimenti concepire, se non am- mettendo, che in quel luogo fossero concorse cireostanze siffatte da ar- restare o rifrangere il movimento delle acque del mare e quello del fiume torrente che in quel punto ebbero ad incontrarsi. Le prime vi rigetta- rono i cadaveri de’ pesci, o pesci stessi semivivi, battuti dalle onde tem- pestose, o dalle alte maree ; mentre le seconde, le acque cioè del tor- rente, vi depositavano le sostanze terrose, le sabbie, e quanto altro trae- vano seco loro dai monti, da cui avevano origine. Le opposte correnti (a) Sì tiene per fermo dai geologi di non essersi trovati Batrachi del genere Salamandra, nè in terreni giurassici, nè in cretacei. Ritenendo come assioma questa sentenza, la calcarea ad ittioliti di cui sì ragiona, non può riferirsi nè al cretaceo, nè al giurassico; mentre la presenza de’due Salaman- drini già descritti non è cosa dubbia. (6) Io penso che quegli scheletri di pesciolini, de'quali ò costituito il genere Sarginites appartenes- sero al genere Aterina, od almeno essere affine a questo, e del quale sarebbero i piccoli , come i Cicinelli del nostro popolo, 0 neonati. SETS dovevano necessariamente a vicenda rifrangersi, depositando nel punto d'incontro le materie più gravi ed eterogenee. Così e non altrimenti poteva avvenire il deposito de’ pesci nello stato di piena conservazione, quali nella maggior parte si trovano fra quegli strati. Sanno tutti che i pesci, dopo la morte, vengono a galla per la specifica loro leggerezza, ac- cresciuta dallo sviluppo dei gas,e ciò per effetto della corruzione de’visceri interni e delle materie non ancor digerite racchiuse nel ventriglio e nell’esofago. Quindi i flutti del mare rigittano sulle sponde cotesti corpi insieme ad altre quisquiglie, che spesso non mancano. Per tal ragione pure contrariamente è ben raro trovarsi pesci interi, od almeno i lore scheletri, nelle roccie di sedimento primitivo, ch'ebbero origine dal lento deposito delle sostanze terrose; ma in loro vece brani più o meno fra- zionarî,e per lo più i loro denti, per esser queste le parti più resistenti alla forza degli agenti naturali che promuovono la scomposizione de’corpi or- ganici, e nel tempo stesso sono i più gravi. I pesci delitescenti nelle ac- que restano in breve ora disfatti, le loro parti molli distrutte, e le più consistenti e più gravi, rimanendo isolate, precipitano nel fondo, e re- stano sepolte nel sedimento. Così è che di rado si trovano in seno delle calcari di sedimento de’ nostri appennini di siffatti avanzi, isolati e sper- perati, spezialmente denti di squalidei, del genere fittizio sferodo, e qual- che brano scheletrico. . Per le stesse ragioni ancora ben di rado s'incontrano di quei notanti, che abitualmente vivono in fondo del mare, come i Rajidei, nei depositi ittiolitici. E sì pure, e molto più rari, si trovano pesci selacini, essendo essi pesci pelagicìi : quindi i loro cadaveri si disfanno in mezzo alle on- de , abbandonando quelle sole parti scheletriche della condizione supe- riormente espressa. Che se i Picnodi fanno eccezione a tali regole, giova notare per ora, esser questo un fatto speciale che si avvera in ogni maniera di deposito o giacimento. Laonde è da ripetersene la cagione da condizioni speciali di questa genia di notanti, come in altro luogo sarà dichiarato. Intervengono nella serie dei fatti riportati in dimostrazione dello assunto, i due generi di Crostacei, che, se non si è caduto in errore, sono stali riconosciuti di quella famiglia, che la fauna attuale ne porge come inquilini costanti delle sabbie littorali e della melma. Le rare e quasi disfatte Nerinee, che in qualche strato insieme agl’it- tioliti si sono incontrate, e delle quali si à copia nella calcarea de’ no- Atti— Vol. II. — N.0 16. 4 Ei; stri appennini, e che anche specificamente convengono in una sola, come quella del Cairo, di Montecalvo, di Vitolano ec., per non citarne di località più lontane, costituiscono un fatto identico a quello dei pesci abitatori del fondo del mare. Esse cioè son quasi sempre stiacciate, com- penetrale dalla sostanza terrosa, e col nicchio testaceo distrutto: con- dizione quasi costante delle conchiglie racchiuse nella calcarea di sedi- mento primitivo. Ond’è a dedursi eh’esse dimorarono in fondo del mare per lungo tiempo prima di essere sepolte , e restare a secco. Tutto ciò contrariamente a quello che osservasi nei testacei delle formazioni re- centi, mioceniche e plioceniche, chè nell’ eocene qualche eccezione s'incontra. Laonde a me sembra doversi logicamente conchiudere, che quello spazio così circoscritto, composto da strati calcarei ad ittioliti , sopra- stanti alla calcarea compatta di Pietraroja, fosse stato un delta, nel quale confluirono le acque di un fiume torrente , il cui residuale rappresen- tante è il ruscello che scorre per l’attuale vallone dell’acqua calda, con- tro le acque del mare che lambivano lo stesso punto. E quindi la forma- zione degli strati medesimi ad ittioliti appartener deve ad una età di gran lunga posteriore a quella della roccia appennina di Pietraroja, del Mu- tria e del Matese. CAPITOLO VI. Descrizione delle nuove specie di pesci recentemente discoperte. GENERE ANDREIOPLEURA, n. Caratteri generici. Pinna dorsale remota dal capo, e prossima al peduncolo codale. P. anale anteriore alla dorsale. P. codale biforcuta. Costole robuste, lunghe, e riunite sulla linea ventrale, costituenti una carena: Apofisi, 0 false costole numerose, delicate, e lunghe. Apofisi supe- riori simili alle costole. Squame larghe, delicate, ed oscuramentle striate, con un piccolo rilievo marginale, Storia. — Sono oramai 13 anni da che, dagli scavi praticati in Pietraroja, ottenni il magnifico ittiolito, che forma il soggetto del presente articolo. Ma TR] poichè mutilato nella parte più interessante, qual'è il capo, mi limitai farne menzione nei Cenni intorno alle scoperte paleontologiche per l’anno 1855. (Rendiconto dell’Accademia Pontaniana.), entrando in lusinga di poterne in- contrare altro esemplare meglio conservato, o la parte staccata e mancante di questo individuo, con gli scavi degli anni successivi, onde ne sospesi la sua pubblicazione. Avendo fin quì cercato in vano di soddisfare a tal desiderio, n’esibisco ora l’immagine e la sua descrizione, per non lasciare obbliata questa interessante specie di genere sconosciuto per quanto io mi sappia. La generica denominazione impostagli esprime uno de’ più eminenti carat- teri che lo distinguono, la robustezza cioè delle sue costole, nome ici dal greco avdpmros forte, robusto; nàsvpa cavità toracica. L'altro carattere che si appalesa tostochè si dirige sopra esso lo sguardo è riposto nelle squame, assai larghe, lisce, e di apparente figura romboidale. Il complesso dei caratteri sensibili di tal pesce lo accostano agli ALECOIDEI, e per la presenza delle molteplici e delicate false costole, meglio che ad altri, sì stringe coi pesci delle tribù de’ CLUPEIDEI. ANDREIOPLEURA VETUSTISSIMA , N. Tav. II. (fig. ridotta a metà della grandezza reale). La lunghezza dello intero pesce qual’esso si trova è di 65 centimetri, misurando fino alla estremità dei lobi della pinna codale.La cavità toraco- addominale ne occupa quasi la metà; il resto appartiene alla coda non compresa la propria pinna. La pinna dorsale sorge a 13 centimetri dalla base della codale; essa è breve, triangolare, e composta di raggi ramificati, il cui numero non può determinarsi, essendo incompleta e spostata. L’anale sorge più innanzi, e si arresta poco dopo l’origine della dor- sale: essa è più lunga della dorsale; tagliata a squadra, e sì compone di 16 a 17 raggi ramosi. La codale è biforcuta, a lobi quasi uguali, ed è composta di raggi ra- mosi, come le precedenti. La colonna vertebrale si compone di vertebre numerose, il cui corpo è robusto, scanalato per lo lungo, e col margine articolare rilevato. Se ne contano 89, oltre le 5 richieste dalle costole anteriori che ne man- cano, e le cervicali aderenti al capo; quindi 39-+5+3=47. L'altezza del loro corpo è poco maggiore del proprio diametro. mt ia Robuste son pure le apofisi verticali, e molto larghe ; delle superiori se ne contano sette ad otto nella porzione spettante alla cavità toraco- addominale; e simili sono le trasversali ehe chiudono la cavità mede- sima con la loro congiunzione sulla linea mediana inferiore. Genere RHINOBATUS, Cuv. I Plagiostomi Rajidei àn lasciate poche reliquie fra gli strati calearei ad ittioliti.La storia paleontologica contava solamente lo Squaloraja polyspon- dyla, Ag., } Astrodermus platypterus, il Cyelobatis oligodactylus Lin., la Torpedo gigantea, Ag., e frammenti scheletrici del genere Myliobatis. Recentemente è vero si sono discoperti taluni altri pesci di questa famiglia nel caleare litografico di Cerin, come dal riportato Specchio com- parativo si rileva ; tali sono il Belemnobatis Sismondae e lo Spathobatis Bugesiacus : e forsi, continuando le ricerche, e moltiplicandosi gl’inve- sticatori più altri ne verranno in luce dal mondo antico. Fin quì però rimane vero essere scarsamente rappresentata la famiglia dei Rajidei. E tra noi è il primo esempio che ci rende la calcarea stratosa ad ittio- liti di Pietraroja, e l’unico del genere Rhinobatus. RINOBATUS OBTUSATUS , N. Tav. III. (metà della grandezza reale) Bello e grandioso individuo, mutilato soltanto della estrema coda, e da qualche porzione delle pinne appajate, che però non impediscono di ben riconoscerlo come intero. La sua lunghezza è di 73 centimetri, con- siderandovi la porzione mancante della estremità codale, che per un calcolo approssimativo credo potersi valutare di sei centimetri. La lun- ghezza del solo corpo, misurando dalla estremità del rostro alla pelvi, è di 40 centimetri; la sua larghezza è di centimetri 33 */,, fiangheggiato però com'è dalle pinne pettorali. Il capo è più largo che lungo. La cartilagine che ne costituisce il rostro à Ja lunghezza tripla della sua larghezza; la sua parte estrema è quasi troncata ed appena archeggiata. Le fosse nasali sono assai larghe, di figura ovale, senza potervi però riconoscere alcuna traccia della propria valvola; il margine esterno delle medesime oltrepassa di gran lunga la BR. qer' linea segnata dalle commessure della bocca. Larga è ben pure la bocca stessa; e la sua armatura dentaria, fatta come all’ordinario a modo di selciato, si compone. di denti piccoli, piatti, a base romboidale, e nel mezzo della corona vi corre un risalto trasversale crestiforme. Le pinne pettorali, abbracciando il capo, oltrepassano alquanto la linea trasversale che tangentalmente passa pel margine posteriore delle fosse nasali; ed i raggi anteriori fanno continuazione col margine ante- riore del capo. Si compie così una curva parabolica, la cui ampiezza corrisponde alla cintura toracica, ed il vertice alla parte media del ro- stro. Posteriormente indi restringonsi gradatamente, fino a che s'incon- trano con le pinne ventrali, lasciando fra loro una piccola scissura. Vi si contano 40 raggi ben distinti e biramosi, oltre quelli della parte po- steriore attenuata, che sì congiunge con le ventrali, i quali non ben si distinguono per la loro tenuità. Le pinne ventrali sono poco sviluppate, e relativamente alle pettorali sono assai piccole; ànno figura petaloidea, alquanto acute alla estremità; ed i loro raggi non si lasciano ben distinguere, eccetto alcuni della si- nistra dello spettatore , essendo l’altra appena adombrata. La coda è ben larga, avendo una lunghezza minore di quella del corpo, anche calcolandovi la porzione mancante. Essa è sormontata da una pinna verticale, la quale sorge ad un terzo della lunghezza della coda; se ne vede però con chiarezza lo estremo sporgente allo esterno del si- nistro lato. Dell’altra pinna, che aver dovrebbe più oltre verso l’estre- mo, come in tutte le specie congeneri, non apparisce vestigio alcuno, restando forse occultata dall’ampiezza della coda. Della pinna terminale nulla può dirsi, mancando affatto la parte estrema, come sul bel princi- pio fu detto. Il derme è ricoperto da minutissime granulazioni ossose, di forma ovale, e disposte a sghembo. Quelle che occupano i margini delle pinne, i] rostro, e la parte mediana della coda sono le più grosse di tutte; le altre divengono sempre più piccole a misura che si passa al mezzo del corpo, come si trovano rappresentate in B, ingrandite. La colonna vertebrale, o corda dorsale, quantunque cartilaginea, è sì ben conservata, che vi si discernono chiaramente gli anelli di cui si com- pone; e massimamente quelli che appartengono alla regione toraco-addo- minale anteriore. Quivi pure nettamente appariscono le apofisi trasver- sali, le quali da mano in mano si vanno sfumando. KE = Ben conservata e rilevata si trova la cintura toracica, talchè vi si distinguono le granulazioni della sua intima composizione, qual si trova nelle cartilagini delle specie viventi di tutti i pesci cartilaginosi. Questa specie si è ottenuta dagli seavi praticati nella state del 1864, come annunziato si trova nel Rendiconto della R. Accademia delle scienze fisiehe e matematiche, pel mese di settembre dello stesso anno. TINCA PRISCA, COS. Paleont. delle provincie napolitane—Appendice 1°, Tav. VI, fig. 4. Se non vado errato nel riconoscere nell’ittiolito efligiato e descritto nel sopracitato luogo una specie del genere Tinca, essa apparirebbe per Ta prima fiata nella serie de’ notanti della Fauna antica. Nè sarebbe strana cosa la presenza di un pesce di acqua dolce e lacustre in mezzo a quelli di acqua salata, dopo aver dimostrato che Rettili terrestri e fluviali, crostacei littorali, ed altre quisquiglie si trovano mescolate fra gli scisti calcarei di Pietraroja: sitcome non mancano esempî di tal fatta in parecchie altre località. Che se poi non fosse in realtà una Tinca quella da me per tale defi- nita, sarà sempre vero essere un Ciprinoideo, e quindi la mescolanza rimarrà sempre constatata. MALACOSTRACI GeNERE TRICHOCERUS, Cos. TRICHOCERUS MONTICELLIANUS, COS. Tav. IV, fig. 10. Sebbene la condizione in cuì trovasi il fossile non permette di ben fissarne i caratteri generici, non è perciò men vero, ch’esso non trova convenevole posto tra i generi ben conosciuti, almeno per quanto io ne sappia. Perciocchè, la forma e grandezza delle chele, e la struttura e deli- catezza delle antenne, dalle quali si è ricavato il generico nome, sono tali cose che ispirano confidenza a riguardare questo malacostrace di genere ignoto. 9 =. La sinistra chela, che sovrapposta alla parte cefalica, ne occulta del tutto ogni organo a questa appartenente, à la mano corta e larga, quasi quadrata, ed il pollice, corto ed acuto; l'articolo mobile non è molto chiaro per essere ben descritto. La chela sinistra à pel contrario il pollice lungo, dilatato, maggiormente nella sua estremità, dritto, ed alquanto archeggiato nel lato interno: il dito mobile è falciforme, guer- nito di un’unghia arcuata ed acuta: la superficie di questo dito è gra- nulata, come la si vede nella figura 10 è ingrandita. Piccoli, gracili e didattili sono i piedi del secondo pajo. Tali son pure quelli del terzo pajo, ma minori. I piedi del primo pajo sono occultati come il capo. Il corpo à lasciato di se debole ed irregolare impronta sopra la la- pide, quindi non può dirsi alcuna cosa di preciso intorno alla sua spe- cialità. Il suo insieme però e le poche appendici che vi appariscono attestano di essere organato come ogni altro congenere astacino. Note- vole è solo sull’anterior parte e nel mezzo di ciascuno articolo del to- race una spina acuta. Le sole antenne si lasciano distintamente osservare. Spicciano esse da una estuberanza frontale, a foggia di setola meno lunga del corpo. Si sompongono di anelli od articoli brevissimi ed alternanti, stando la lunghezza al proprio diametro ::4:3, negli uni, e::4:4 negli altri.I primi e maggiori sono ornati di punti impressi di svariata grandezza; i secondi son lisci, ed il diametro loro è pure alquanto minore di quello degli altri. La figura 10 a ne rappresenta alcuni sommamente ingranditi. Questo crostaceo trovavasi nella collezione del defunto Cav. Monli- celli, ove giaceva innominato, e soltanto indicata la località Pietraroja. Ora appartiene al Museo geologico della R. Università. Ò creduto perciò insignirlo del nome famigliare del suo primo possessore, il quale, se non fu cultore di paleontologia, ebbe il merito di raccogliere alcuni oggetti patrii di tale pertinenza. L’altra figura 12 della medesima Tav. IV, rappresenta un esemplare dell’Astyages effossus. Cos., già descritto nella III parte della nostrale Paleontologia. Esso è leggermente improntato sopra la lapide, spezial- mente la parte addominale, come quella ch'è meno consistente. Le due chele lo sono un poco meglio per la opposta ragione. Proviene ancor esso da Pietraroja, e fa parte dalla mia collezione. Nella medesima tavola, la figura 11 rappresenta un altro crostaceo —_ 32 molto imperfetto, ma che sembra appartenere alla medesima specie, od almeno a specie affine. Esso si presenta dalla faccia dorsale, lasciando ben distinguere i suoi anelli addominali coi proprî epimeri. Proviene dalla medesima località, ed appartiene alla mia collezione. DESCRIZIONE DEL TREMUOTO, COPIATA ALLA LETTERA DAL LIBRO DEI MATRIMONII dal 1609 in poi Nota di quelli, che sonosi congiunti in matrimonio dopo il terremoto, che fu a'5 di giugno 1688, ad hore 21 tanto forte, et terribile, che buttò per terra tutta la terra affatto, et la Chiesa in tempo ch'essendosi cantate le Vespere si cantava la compieta parata con l’assistenti, ch’era io D. Libera- tore Manzella Arciprete, D. Terentio Cusano che serviva per Diacono, et D. Thomaso Varrone che faceva il Subdiacono, et si era arrivato al Psal: In te Domine speravi, non confundar in aeternum, et gli altri Sacerdoti, ch' erano sette con un Clerico, che sono; D. Alfonso Alessandrello , D. Stephano Meglio, D. Giovanni Philippo, D. Bartholomeo Meglio, D. Pietro Venditto, D. France- sco Amato, D. Francesco Mansella, et il Chierico Pietro Carlo, cantavano dentro il Choro, ove fug- gimmo anche noi, ma con difficoltà grande per l'agitazione del terremoto, ch’io a gran pena entra- tovi mi fermai dietro la Custodia: per la Chiesa altro non si sentiva che rumore et sono di campane et campanelli, che sonavano da per se , commosse dal terremoto , et tutta la Chiesa hor chinarsi verso Oriente, hor verso Occidente con strepito di travi, et aprirsi et serrarsi le lamie, di maniera che mostrava il Cielo dall’apriture : finalmente cascò quella sì bella, et magnifica chiesa fatta con tante lamie, et pilastri tutti a cantoni lavorati, dove siverano eretti quattordici altari, et in quel giorno si era tutta parata con panni di seta per la festività della Santa Pentecoste, ch'era il dì se- guente, giorno memorabile , et da non ricordarsi senza lagrime; cascò il Campanile con quattro campane, due grosse, et due un poco più piccole, cascò parimente l’horologio, et tutti quelli poveretti, che si trovavano dentro la Chiesa sì maschi, come femmine ch’erano concorsi alle Vespere, furono sepolti dalla ruina di essa Chiesa, de’ quali pochissimi furono scavati vivi. Restò solo in piedi il Choro fatto a lamia; quale benchè due volte si aprì, et mostrò a noi l’aere, nulladimeno poi mira- colosamente si serrò, et questo tenemo per fermo che fu da Dio concesso per intercessione del glo- rioso santo Nicola, la cui statua nell’altare di esso Santo si trovò rivolta verso l’ Altare Maggiore, dove era il tabernacolo del SS. Sacramento, quando prima riguardava verso l’altare di S.Maria delle Gratie all’oriente estivo. Restò in piedi senza niuna lesione 1’ Altare Maggiore con la Custodia, do- v'era il Santissimo Sacramento dell’ Eucharestia, l’Altare di S. Nicola, l’Altare del SS. Rosario, l’Al- tare del nome d’ Iddio, la Sacrestia tutta intiera, dov'erano li calici, paramenta della Chiesa, et di Sacerdoti, l’ Altare di S. Antonio, di S. Maria del Carmine, le statue indorate, che stavano vicino l’altare di S. Maria delle Gratie. Ma l’altare sudetto fu in gran parte offeso, tutti questi altari sta- vano edificati alla parte settentrionale. Ma quelli che stavano alla parte meridionale , et australe andorno per terra. Dentro il Choro, conforme ho detto, scampammo la vita tutti noi Sacerdoti. Quando uscimmo da esso vedemmo la Chiesa tutta spianata, uscendo fuora di essa da noi si vidde tutta la Terra ridotta in una macerie di pietre, che nessuno di noi potea sapere dov'era stata la sua Casa. Se sentiano stridi, et lamenti di assaissimi poveretti, che stavano sepolti sotto la ruina di esse case, de’ quali se ne disterrorno, et cavorno molli vivi sì femine, come maschi, Tutto il numero, che MR “vi morsero , si contorno arrivare a cento sittanta duoi , de’ quali ne sono cento trenta femine tra. | grosse et piccole, et quaranduoi maschi similmente tra grossi, et Dicol» siccome sì può vedere nel libro de’ morti. Tali notizie si devono al Parroco D. Liberatore Manzella, le quali si trovano registrate nel libro ' de' Matrimonj, pag. 141. Nel libro de’ morti dello stesso anno si trovano due composizioni in verso latino ed italiano sul medesimo argomento. In quanto ai danni che il tremoto recò alla intera Diocesi Telesina , veggasi il Catalogo de’ Ve- scovi Telesini di D. Giovanni Rossi, in una nota apposta alla vita di Monsignor D. Gio. Battista de — Bellis. 3 Avvertasi da ultimo che si è conservata l'ortografia e la sintassi quale trovasi nel suo originale. li la FRITTA è se a > - Dl ù Si ) ; di ” a gt Lee A 14 i Hay "ate <' Ina aio A Ù mi È e) ni Pe. alal MI ire i Per » rt f $ sand ' (e se #0ST PE ili s7 TT"RI oltailt: si. E LE c î ‘ ao gi sue Tab. NE ascogbiit:£ al - LI ì $ - . . . - ì Ù DI = - . - n î - ' - - . . Pi a S. Calyo dis Tr. DÌ Calyo dis. | Lit. Dolfimo ii ARMA ani d” bel : à î î “| * = LI d Lit. Dolkno Lit. Delfe NES ATTI DELLA R. ACCADEMIA DELLE SCIENZE FISICHE E MATEMATICHE SULLO SVILUPPO DELLE FUNZIONI FRATTE RAZIONALI MEMORIA DEL SOCIO ORDINARIO N. TRUDI letta nella tornata del dì 11 aprile 1865 Nozioni generali. 1. Rappresentando con X(x) e #(4) funzioni intere e razionali, ci pro- poniamo di trovare il termine generale della scrie ricorrente in cui si sviluppa la frazione : (1) 3 î serie che può volersi ascendente o discendente , vale a dire che debba procedere o secondo le potenze crescenti della variabile, o secondo le potenze decrescenti. Il principio delle serie ricorrenti, o la divisione indefinita possono bastare per calcolare quanti termini si vogliono dello sviluppo; ed, in particolare, dalla divisione risulterà lo sviluppo ascendente o il discen- dente secondochè il dividendo ed il divisore siano ordinati o entrambi per le potenze crescenti della variabile, o entrambi per le potenze de- Ì crescenti. Ma questi mezzi sono insuflicienti per la ricerca del termine generale. 2. Noi ammetteremo per semplicità che la data frazione non contenga Atti — Vol. Il.—N.9 17 1 Mu - parte intera rispetto alla variabile; o, in altri termini, ammetleremo che il grado del numeratore A(#) sia inferiore a quello del denominatore #(@). Ciò fa che la serie sia regolare fin dal primo termine, il quale è sempre da tenersi conosciuto a priori, perchè in ogni caso è il quoziente che sì ottiene dividendo il primo termine del numeratore pel primo termine del denominatore. Adunque ritenendo che le due funzioni A(#) e g(@), siano le più generali del loro grado, potremo supporre: m_I ì (2) = ++, £°+ Se) tpxT m p(e)= pot px 0+ pal+... + 2 ì (o) ed allora il primo termine dello sviluppo ascendente sarà —, e lo svi- Ho ; . ; SERE 1 x luppo discendente avrà per primo termine <=! :s oltre pe’ due svi- m luppi adotteremo le forme seguenti : (2) = P, +P,r+P.,x°+...+P,2"+ etc: etc: IL ) (x (3) 10) _ 0, p!0:15000 (8055 Qu etc: etc: ele) x 2° x° x e la quistioue che forma il soggetto delle nostre ricerche sì riduce a tro- vare le espressioni de’coefficienti de’ due termini generali Pe” e Qa i vale a dire di P, coefficiente di 2° nello sviluppo ascendente, e di (), coef- ficiente di 2” nello sviluppo discendente. Queste espressioni sono evidentemente funzioni dell'indice n, numero essenzialmente intero e positivo, e converremo di rappresentare sì l'una che l’ altra con la no- tazione comune F(n). Laonde con questo simbolo intendiamo di espriì- mere di una maniera generale il coefficiente del termine generale dello sviluppo della data frazione, qualunque sia la maniera di sviluppo; ma in particolare converrà ritenere F(n)=P, ove trattisi dello sviluppo ascendente; ed F(n)=0, quando sia quistione dello sviluppo discen- dente. 3. Del rimanente bisogna osservare che le due maniere di sviluppo possono farsi dipendere l’una dall’altra, ed in modo semplicissimo. Per esempio, ammettendo che sappia trovarsi lo sviluppo discendente di qualunque funzione fratta razionale, basterebbe ciò solo per ottenere lo ss 1 n Ca iù Aaa “td ‘ira - Di “ Re ali sviluppo ascendente della data frazione. In fatti, mutando nella (2) la & sl (AE 3 3 : n=, € poi dividendo i due membri per #, risulta: :0b% Di 400 e quindi si vede che cai è cercare il coefficiente di 4° nello sviluppo (©) ascendente della frazione , quanto è cercare il coefficiente di « Mr) nello sviluppo discendente della frazione, 10] 0) che si forma dalla prima cangiandovi la « ini , e poi dividendola per x. bi i + ete: —(n33) Si conchiuderebbe nello stesso modo che lo sviluppo discendente può farsi dipendere dallo sviluppo ascendente; e per ciò non si ha che a mu- tare nella (3) la 2 in = e poi dividere i due membri per 2. Ciò non ostante crediamo che non sia superfluo di considerare diret- tamente e l'una e l’altra maniera di sviluppo. 4. Un'altra circostanza osservabile si è che lo sviluppo della frazione (1) si può far dipendere da quello della frazione più semplice : (4) Pei Lo sviluppo di questa frazione può certamente riguardarsi come un caso particolare del primo, poichè potrebbe dedursene supponendo che nella funzione A(x) la costante À, si riduca all’ unità, e vi si annullino tutte le altre. Ma, inversamente, posto che sia trovato direttamente quello della frazione (4), può subito dedursene quello della frazione (1), non avendosi che a moltiplicarlo per A(@). Siano p, e g, i coefficienti di x” * (ee LR e di @ ne’'due sviluppi ascendente e discendente della frazione (4); possiamo supporre che questi sviluppì siano della forma: —(n+1) = 1 Ì 3 (5) —= Po FPC+PAL +... +04... e_(€) (6 SRI O RR A e(x) © 10 x x Moltiplicandoli per A(@), i due prodotti debbono riprodurre gli analo- ghi sviluppi della frazione (1); e ne risulta: (7) Db. == Pit Apa At sso cla I ERO a (8) Q, = LA Gb ), In tI ua ,, dr+9 Diane ata a - dn % Ecco adunque come i valori di P_ e (Q dipendono di una maniera sem- plicissima da quelli p, e g,; il che ha molto interesse pel calcolo nume- rico, imperciocchè la ricerca degli ultimi è, come vedremo, general- mente assai più semplice di quella de’ primi. 5. Bisogna intanto riflettere che nello sviluppo discendente della fra- zione (4), rappresentato dalla formola (6), sono necessariamente nulli i primi m—1 termini, perchè questo sviluppo deve nel fatto cominciare col termine che ha per divisore x” (n° 2). Ora ciò vuol dire che la fun- zione g, è nulla per tutti gli m—1 valori dell'indice n da o ad m—2; di modo che si ha f,=9;="--+9,.,==0; e lo sviluppo si riduce ad: 1 3 (o USS n = dira dna edi e (2) x x x x Siffatte circostanze non hanno più luogo nello sviluppo ascendente della (4), ma si riproducono evidentemente in quello della frazione (9) Distinguendo con p; il coefliciente di #° in questo sviluppo, sì ha rc Po=P=Pa=-..=Po=0, e sarà quindi: m—_—I XL D e PP p , m+I r n+moei a marea ® +... 4° De pu Sopprimendo da’ due membri il fattore #”"* si ottiene: 1 ; Rage ; aa) Pat Pat + Par te +Pioa D+. e poichè il secondo membro deve coincidere col secondo membro della formola (5), si avrà i PurPnomx * Segue da ciò che per ottenere l’espressione dî p,, coefficiente della po- tenza 2” nello sviluppo ascendente della frazione mt sì può cercare l’espressione di p,, coefficiente della stessa potenza nello sviluppo somi- gliante della frazione e mutarvi lan in n+m_1. e() Avvertimento 6. Nel corso di queste ricerche occorrendo di rappresentare la deri- vata di un’ordine qualunque di una funzione f(@), ci varremo di qualsi- voglia delle notazioni ricevute, ma useremo quella degli accenti in un senso alquanto diverso dall’ ordinario, riserbandola esclusivamente a di- notare egualmente la derivata, però divisa pel prodotto de’ numeri na- turali da 4 fino all'ordine della derivazione. Adunque scrivendo f(x), intendiamo il quoziente che risulta dal dividere la derivata °° di f() pel prodotto 1.2.3...r; di modo che si avrà generalmente: î {0 (= = - al «er quindi in particolare: Rota. sig) dio _D'f(@) + la f'(@)= e la formola di Taylor diverrà in conseguenza: - f(c+h)=f(x)+hf'(2)+h°f"(x)+h°f"(x)+ etc: etc: Inoltre adotteremo il simbolo («); per indicare il coefficiente binomiale di rango i+ relativo all'esponente x; talchè sarà in generale: __&(«A)...(—7+A) (= 1.2...i e conseguentemente dela an @= 2 ‘(ele eto: RE I ui SR II Formole e teoremi fondamentali. 7. Siano a, db, c,... le radici distinte dell’ equazione #(2)=0, ed a,8,Y;... i loro gradi rispettivi di moltiplicità; decomponendo la data frazione (1) in frazioni parziali, potremo supporre: Mx) A, A; ga De; e), @—af Gp ea o : B, Bs_i (eb (ebete - |. fi rata (ec) (a—- 0) nti *oiamig VE + etc: etc ec e le costanti A;, B; saranno definite dalle formole: 1 . (a 1 . Mb (8) be osi oo Tani TSE etc: etc: Posto ciò, siccome lo sviluppo della frazione proposta equivale allasomma degli sviluppi analoghi di tutte le frazioni parziali, ne segue che i valori di P,e Q sono uguali il primo alla somma de’ coefficienti di ° ne’ loro sviluppi ascendenti, ed il secondo alla somma de’ coefficienti di a *” ne' loro sviluppi discendenti. Ora converremo di indicare con P,_, la somma de’ coefficienti di #”° negli sviluppi ascendenti delle sole « frazioni dovute alla radice a; con P, , la somma analoga per le 8 frazioni dovute alla radice d; e così per le altre. In questo modo P,,, P,,, P,. etc: dino- teranno le parti di P, provvenienti rispettivamente dalle radici a,b, c,etc:, parti che diremo elementi di P,, e si avrà: P,=P..atPastP,, ot etc; eto: Uniformemente scrivendo 0,.,, 0,,, 0,» etc: per rappresentare gli ele- menti di 0), dovuti alle radici a, è, c, ete:, avremo: Q,=Q,, + Qt, ,+ ete: ete: Pertanto è chiaro che la ricerca di P_e (, va ridotta a quella de’ loro ele- 297 menti; ed a tale oggetto proveggono le formole ed i teoremi che passiamo ad esporre. 8. Ed in primo luogo considereremo gli elementi di (,, perchè mani- festano caratteri alquanto più semplici. Ora l'elemento (,,, rappresenta, per ipotesi, la somma de’ coefficienti di a” negli sviluppi discendenti di tutte le « frazioni dovute alla radice a; da un’altra parte essendo in generale: io= (e—a)A,,; vediamo che nello sviluppo discendente di questa frazione la potenza x ha per coefficiente : eee e, 1.2.3...(n_r+41) ar? ma il fattore frazionario, scrivendo il numeratore in ordine inverso di- viene n(nA)...(n_-r+2)(n_r+41)...(r4+1)r _n(n_A)...(n—r+2) 1.2...(ed)r..(nr)mr4Hi) — 1.2...(1-1) dunque l’espressione del detto coefficiente si riduce ad: n(n_1)...(n—r+2) OA CS e Questa espressione, ponendovi r=1,2,83,...,a, dà i coefficienti di x” negli sviluppi discendenti di tutte le frazioni provvenienti dalla radice a; e perciò l’ elemento (),, sarà definito dalla formola: e nin—1)...(n-r+2) SS n—r+1 (9) LANRE ces 1 TONE (mA) sg AL D) la quale, mutatis mutandis, vale anche ad esprimere gli altri elementi 0,10, ete.; ed intanto possiamo rappresentare il valore di (, serivendo Q,=2% a patto che la novella somma sia estesa a tutte le radici distinte dell’ e- quazione #(2)=0. 9. Con un metodo presso a poco identico si possono determinare gli = We elementi di P,, e quindi la stessa P.. In fatti l'elemento P,_ risulta dalla somma de’ coefficienti di 2° negli sviluppi ascendenti di tutte le x frazioni dovute alla radice a. Ora essendo: Ag ; s\ AS RES A ag (a È, ad? è manifesto che nello sviluppo di questa frazione la potenza 2° ha per coefliciente : î (A) che sì riduce a: st(74A1)..(nA)n(n4A)...(r+n-A) A, _, 4.2... (A) (+4)... (a) ere le ca (3 N nr a pai RIO 12! ue. (nta * Li AR )( sto) —1 c (M+A)(n+2)..(n+rA)\ a} (0 P..=13 pale) eni (1 Do) a Esaminando i tre fattori che in ciascuna sono messi in evidenza sotto il dio = segno Y, si vedrà che nell’una e nell’altra il primo fattore è il coefficiente binomiale di rango » relativo all’esponente «1, ed il terzo è la derivata dell'ordine #«—r di nl In quanto al secondo fattore è chiaro che nella prima esso è la derivata dell'ordine r—A di a*, mentre nella seconda è la ‘l derivatadell’ordineistesso di-—. Dunque, per un teorema conosciuto, le (07 due sommatorie equivalgono rispettivamente alle derivate dell'ordine a—I1 I Sa) TR a . de’ due prodotti TO) Yo ate TO) Dx ri e perciò le due formole prece denti si traducono nelle altre più semplici: 4 PEA (4) 44 a XI n (14) carpa Dip om = p (19) piglia dr 0) ma 4,2..;(@24) (0) 11. Queste ultime formole conducono ad osservabili conseguenze. Considerando la prima, porremo: (13) f(a) =", e sl avrà: o, più semplicemente (n° 6) (14) I O Ciò premesso, dinotata con # una variabile, la (13) potrà mutarsi in: (15) f(0+4) e siccome: f(a+t)=f(a)+tf(+t"f'(a) +... +07 fa) +... risulta che il valore di (,, coincide col coefficiente di #*"* nello sviluppo in potenze ascendenti di £ di f(a+-t), o meglio del secondo membro della (15). Atti— Vol. II.—N.° 17. to Se Se poi si considera la formola (12), posto: i ° =" si avrebbe : e n) ? ed inoltre: ba, > (AH) —(n+er) , (16) f(a+t) E Li 9(a+4) (044%) ? e quindi si conchiuderebbe, come poc'anzi, che il valore di P,_ coincide col coefficiente di t** nello sviluppo ascendente del secondo membro della (16). Adunque, riassumendo queste conchiusioni, possiamo enunciare il seguente teorema: Data la frazione "O , sia (x—a)” un fattore multiplo di 4(x), e 6(x) il fattore complementare. Posto ciò, l'elemento di (, dovuto al primo fattore , ossia la parte che esso attribuisce al coefficiente di x” nello sviluppo di- scendente della data frazione, sarà uguale al coefficiente di 1 nello svi- luppo ascendente della funzione : I (a+t) (a+) (a+t). E l'elemento di P,, dovuto al detto fattore, o la parte che attribuisce al coef- ficiente di x° nello sviluppo ascendente della medesima frazione, preso col segno contrario, sarà ancora uguale al coefficiente di 1 nello sviluppo ascendente della funzione : M(a+t) 8(a+t) (ar). 12. Questo teorema si può tradurre in formole scrivendo: a M(a+t) — eo et att) , "i a(a-+d)! ) Matt P.,,,=— C0eff. t* in (a+ (a+) 9(14+t) a patto che le funzioni che figurano ne’ secondi membri s’intendano svi- == luppate secondo le potenze crescenti di f. Intanto in rapporto a questi sviluppi dobbiamo osservare che non è già che faccia d’ uopo di trovare i loro termini generali, ma solo i loro primi « termini, ch'è sempre age- vole di calcolare direttamente co’ mezzi ordinarii di moltiplicazione e di- visione. Questo calcolo si può regolare in varii modi; per esempio si può moltiplicare lo sviluppo della funzione A(a+t) per lo sviluppo dell'una o dell'altra potenza (a+t)", (a4+t)””, e dividere il prodotto per lo svi- luppo della funzione 6(a+t); oppure si può sviluppare il quoziente sato e moltiplicarlo per quel prodotto; od ancora si può dividere )(a+f) per 6(a+t), e moltiplicare il quoziente per la detta potenza, la quale nel calcolo numerico va sempre meglio impiegata in ultimo luogo, a causa dell’ esponente n, che vuol tenersi indeterminato. Però, comunque si operi, siccome il punto objettivo del calcolo è il coefficiente di #* *, si terrà presente che tanto gli sviluppi parziali delle funzioni X(a+t), 8(a+t), (a+), (a+), quanto lo sviluppo di un loro prodotto o quoziente, può limitarsi ai primi « termini, e quindi ar- restarsi al termine in #*, riuscendo inutili i termini di grado superio- re. In conseguenza, adottando pe’coefficienti binomiali la notazione già convenuta (n° 6), sarà lecito di scrivere Q, = coef.t°7 in e TA Lia dla 3 (at (0) +. FE IA() +(n),@ Î sen n at ‘| alr£ I 9(a)+t9(a)+... 4197 (a) (Mm) a+... +), Pui==caef.E% in (a) +0 (a) +. z .L- PA im ea e AE (A ata (ret Pg SEA a t+...+( Via 13. In particolare, sea=1, vale a dire se a è radice semplice, in cia- scuno de’ polinomii che figurano in queste formole non dovrà ritenersi che il solo primo termine; e perciò si ha in tal caso: NES. Leggio CORNER, POP nasa 6 (a) ovvero, tenendo presente che 6(a)=7'(a) (n° 10): ) (a) n P a > (a) ci (243) Di gici acini 414. Il teorema del n° 41 si può rendere più esplicito introducendo in > x = 19 = luogo della funzione 6 la stessa funzione iniziale #. Essendo @ radice multipla di grado « dell'equazione #(2)=0, per #=a si ha e perciò: Inoltre, siccome «(2)=(er—a)0(x), posto *«=a+t, risulta: e(a+tt=t"0(a+t); e ne segue che i polinomii #(a+t) e 6(a+-t) non differiscono che pel fattore #*, comune a’ termini del primo ; di modo che si avrà identi- camente: AHAHA AT. MHI (AH NA)... e quindi: FAZI), AE A) , AEIMM) .. AZIMA), È chiaro dopo ciò che gli sviluppi delle due funzioni : d(a+t) e (0+t) \(a+t) o(a+t) (a+t)” (a+t)" hanno i medesimi coeflicienti; però, mentre il primo ha solo potenze po- sitive di #, nel secondo i primi « termini sono affetti dalle potenze 1 1 e ; £ 3 4 4 — ; di guisa che il termine di rango «, che nel primo è ECA ’ Posi PICDOR É era DE x 1 5 a moltiplicato per #**, nel secondo lo è per " Altrettanto avviene negli sviluppi delle due funzioni: I (a+t) 0(a+t) > (a+t) att —(n+1) : e(a+6 | (a+? ed in conseguenza il teorema del n° 11 si modifica come segue: Data la frazione si, sia (x—a)* un fattore di u(x). Posto ciò, consi- p derando è due sviluppi discendente ed ascendente della frazione proposta , la parte attribuita da quel fattore al coefficiente di x", e quella attri- Taroza buita al coefficiente di x", presa col segno contrario, sono rispettivamente uguali al coefficiente di € negli sviluppi ascendenti delle due funzioni: ) (a+t) p(0+t) M(a+t) p(44+4) (a+t)" e (CRON 15. Il teorema così presentato palesa subito una proprietà, che è di molto interesse nelle attuali ricerche. Siano @ e d due distinte radici dell'equazione #(2#)=-0, e 0, e Q , i corrispondenti elementi di Q,; sarà: I (4+t) 1605) (att), rc rare ) (41+t) e(a+4) vat) 1 00 in Ora, posto che « e 8 siano i gradi di moltiplicità delle due radici, si ha ela+t)=t" {A M+fe®a) +}, (+= {PH +... }; e quindi si vede che le espressioni di 0, e (,, sono, in generale, fun- zioni dissimili delle radici e d; ma la cosa muta di aspetto se sono uguali i loro gradi di moltiplicità; vale a dire se a=. Allora in fatti abbiamo: pb+9=t {e +22 +...}; ed è manifesto che in tal caso le espressioni di Q,,,e 0, si mutano l’una nell'altra mutando a in 8; o viceversa. È poi ben chiaro che ha luogo la stessa proprietà a riguardo delle espressioni di P,_ e P_,; e quindi ri- sulta il teorema che segue: Nello sviluppo discendente o ascendente della frazione at le parti del coefficiente dix "0 dix", dovute aduedistinteradici dell'equazione p(x)=0, sono funzioni simili delle stesse radici, quando sono uguali i loro gradi di moltiplicità. 16. Si è già osservato che i valori di (},,, e P,_ si possono ottenere divi- dendo A(a+t) per 0(a+t), e cercando il coefficiente di #*"* nel prodotto del quoziente per la potenza (a+-t)" o per l’altra (a4+t)T”. Ora è noto che i coeflicienti de’ primi « termini di quel quoziente equivalgono ai nu- meratori delle a frazioni parziali di noe dovute al fattore (2r—a)* di #(x), vale a dire alle quantità designate con A, A,;...,A —(n+1) e quindi a_1) — 14 — risulta il seguente teorema, che porge ad un tempo lo sviluppo in serie della data frazione, e la sua decomposizione in frazioni parziali. Data la frazione nel, sia (x—a)" un fattore di p(x), e 60(x) il fattore complementare. Dividendo M(a+t) per 0(a+-t) è coefficienti de’primi x ter- mini del quoziente saranno per ordine i numeratori delle a frazioni par- ziali della data frazione, aventi per denominatori le potenze decrescenti (xa) (a) Inoltre, se il quoziente si moltiplica per la potenza (a+t)" 0 (a+t)Y®®, il coefficiente di 1 esprimerà la parte attribuita dal fattore (x—a)" al coefficiente di x" nello sviluppo discendente della frazione proposta , 0 a quello di x° nel suo sviluppo ascendente. Adunque, secondo questo teorema, il valore di 0, , sarà il coefficiente di #* nello sviluppo del prodotto: [AYA ,t+A,t+...+A, at] X X [a 4) a °t+ (n) a 0 +...+(M) at] ed il valore di P,., sarà pure il coefficiente di #* * nello sviluppo dell’ al- tro prodotto : [AL+A:t+A,t°+...+A,_t]X X [a +(—n-A),a°°t+(—n—-1),a°#+...+(n—1),_t°]at®, e sì ha in conseguenza (17) Q, = [Ma At(M) A+) A+. AMA], (18) P, =—[(n_1),_A+(n_1),_Ax0+...+(—n1) Az 07 ]a Egli è facile a riconoscere che queste espressioni di (),, e P, , coincidono con quelle che risultano rispettivamente dalle formole (9) e (10); ma esse acquistano maggiore importanza pel significato che ricevono dal teo- rema attuale. Se) III Osservazioni sul calcolo delle costanti che entrano nelle formole precedenti. 17. Per le applicazioni delle formole fin quì stabilite crediamo di aggiungere alcune osservazioni relative al calcolo delle costanti A,, A . A, _;- Sì è già detto che i valori di queste quantità equivalgono JGGai , talchè si ha. 0(a+t) PRE MMI a' coefficienti de’ primi « termini del quoziente IENE. 4A... $ OL et A TFAM+...+A tO... avendo per semplicità soppresso la lettera a sotto le caratteristiche di funzioni À e 6. Ma quindi sì ottengono le « equazioni lineari : ) =AJ 2A Ao Ar A PESO (a-I)__ (a_1) —2) —3) )(@ A, +A,0@ EA ge +... tA,_;8 . le quali danno facilmente l'uno dopo l’altro i valori delle « costanti. Intanto il valore di una costante qualunque si può esprimere imme- diatamente con una formola convenientissima al calcolo numerico. In fatti, risolvendo le equazioni per determinanti, si ha dapprima: Ar= | 0 0 0 Ario 0 5 0’ () 0 DINO REA E o” 9’ 0 A 1 DI gle) g(r_2) gl-3) } 9 DCant) o) glr3) g(r-®) Rio! ©) —_ {ee ma, se sì ponga: = 0’ (7) 0 ’ g' DLE A 0 0 GU 91 ERI 00 gli-3) g(i-®) gli®) lag gl) gli) gli) na OUSROZ e si sviluppi il primo determinante secondo gli elementi dell’ ultima verticale, si avrà evidentemente: r) “y(r_1) A, (r_2) à ’ A, (19) AA ARR e call) Questa formola, nella quale si ha A,=1, porge i valori di tutte le co- stanti ponendovi successivamente r=0, 1, 2, etc; e si ottiene in tal guisa: A, ATA 5 gta A, : dà ga A A A (1) I 2 A, Marra nai etc: etc: etc: Bisogna inoltre osservare che i determinanti i quali entrano in que- ste formole, attesa la loro forma speciale, possono essere rapidamente calcolati, ed in diverse maniere. Ma nella pratica giova far dipendere questi calcoli dalla formola seguente: A,=0"A,_,—00"A,_+-0°0"A_,—0°0"A, +... 4 (A)T000A, ; formola cui subito sì perviene sviluppando il determinante A, secondo DEN |, ge gli elementi della prima verbale: Ponendovi i=1, 2, 3, ete: risultano le formole A,=9 A,=GA,— 09" A,=0A,—GG"A,+-9°9" A,=0"A,—00"A,-+G"07A_—6°6"" A,=0A,—00"A,+0"07A_—d0°0""A_+4+-0%67 etc: eee” €10 ete: le quali definiscono con molta semplicità l'uno dopo l’altro i valori di tutte le quantità A,, A,, A,, ete.; e si avrebbe ancora esplicitamente: SZ A_=0"" 60" A,=0"° — 2966" _4-6%6" A,=9"°—369'°9"+-6°(29’9" 6°?) — g°6r I A,=0""—460"°0"__86°(9"°0!_1_6'6"°) — 25° (o'6"m4_9"0") + 0%9" etc: etc: etc: etc: ma pel calcolo numerico sono da preferirsi le formole che precedono. 18. È stato osservato che lo sviluppo della frazione SPA può in ogni e (00) caso farsi dipendere da quello della frazione . Ora per le frazioni di 1 e(%) questa forma le espressioni delle costanti A_ divengono semplicissime. Allora, infatti, essendo Mr), si ha A=1, X=0, X°20, ete:; quindi la formola generale (19) sì riduce ad: r A, a e ne risulta: sh > , A,= — ’ Aspen 8 a aaa dea La semplicità di queste formole conferma la a di far di- (2) (e) na) Atti — Vol. II.—N.° 17 3 | pendere nelle applicazioni lo sviluppo di — da quello di — ; ed in- = TR tanto in rapporto all’ultima frazione le espressioni di @, e P_ saranno de- finite da: DEE A i =i Ar aaa |). carpe gr 0+.+(AY° Mm) ro a IC SS (21) A KI 2K-1 An+&) gl IC - A, A Pan — [AP AYA), 19. Ne'easì più comuni, come sono quelli di a=1, 2, 8, etc, queste formole si tradueono nelle seguenti: n si n i n (fu e a au i A, An+13 1 An+1) 1 —{n+1) 3 » 0' È: O - = [7 Maja = e] i u=9, A A Ep TIA 0 Sue (p, et [l- n Alzata 4 ps] ar = [F-+a0] (A / A - d 2 n—_ CE [7 M, tm) 7a | u Li n(n_4) 1 9 DI GF: a90St. [ore = IP, =—|l —n 1, -- { — n 1) -a+(—n_A), 5) a°| a l=® (n+1)(n+2) 1 0 0°—60" 1 ms) \ a ea E così di seguito. 20. Aggiungeremo ora alcune osservazioni riguardo al calcolo delle quantità figurate da 6, 0’, 6”, ete:, le quali esprimono i valori che pren- dono per #=a la funzione 6(x) e le sue successive derivate, divise per 1,1.2,1.2.8, etc:, ed equivalgono ai coefficienti dello sviluppo di Cie 6(a+t); 8) dinotando inoltre il quoziente della funzione #() divisa pel suo fattore multiplo (2—a)", di modo che: , pla) =(2_a)"0(2) . Questa formola, mutando la 2 in a+-t diviene: vfa+t)=t"0(a+t), e dimostra che gli sviluppi delle due funzioni (a+) e 6(a4-+) hanno i medesimi coefficienti, fatta astrazione nel primo da’ primi « termini, che sono nulli (n° 14). Adunque, per avere questi coefficienti, è indifferente che si sviluppi luna o l’altra funzione; ma avuto riguardo alla sempli- cità del calcolo, sarà da preferire il primo sviluppo, se il fattore (#—a)” sì trovi implicito nella funzione «(x); e converrà preferire il secondo, se questa funzione si abbia nella forma (@—a)" 6(2). 21. In diverse applicazioni la funzione 4(2) è data come un prodotto di più fattori. In questi casi sarebbe scegliere una cattiva via se si comin- ciasse dallo effettuare il prodotto; ma invece bisogna, in generale, pri- ma sviluppare 1 fattori secondo le potenze crescenti di £, mutando in cia- scuno la 2 in 4+f, e poscia moltiplicarli tra loro; non perdendo di vista che qualunque sviluppo vuol’essere limitato al termine in #°*, supposto già separato il fattore t*. Un esempio servirà meglio a dichiarare il pro- cedimento per tutti i casi. Supponiamo: e(e)=(e Ae —A1A)(e°-A)(e°-A4). In questo esempio può subito porsi in evidenza la natura delle radici del- l'equazione 2 (x) =0, perchè la funzione si trasforma evidentemente in: p(e)=(e A) (2°+e+4) (e'+2°+2°+e+A1)(2°41); e ne segue che l'equazione ha una radice quadrupla razionale uguale ad 1; ed inoltre due radici doppie, che sono quelle dell'equazione 4x+14=0; e sette radici semplici, quattro appartenenti all’ equa- c'4-2°+e°+a+1=0, e tre all'altra #°+1=0, una delle quali è an- cora razionale ed uguale a —1. Considerando dapprima la radice quadrupla 1, essendo «=4, sarà: e(1+4)=#40(14+t); e trattasi di calcolare i valori delle qualtro quantità 6, 0’, 0”, 6”, e per- lo — 20— ciò i soli primi quattro termini dello sviluppo di 6(1+-t). Ora, cam- biando immediatamente la 2 in 1+-{ nella forma originaria della data funzione, sì ha: p(44+1)=[(1+0—1}[1+0°—1][A+)"—1][A+0°4]; ma sviluppando i fattori, ciascuno diverrà divisibile per £; e però sepa- rando questo divisore, e limitando gli sviluppi a'termini in #°, verrà: u(14+t)=t*[(B+3t+t°)(5+10t4-10t°+5t")(6+15t+20f+15t°)+-....].. e sarà in conseguenza: 9(1+1t)=5(3+3t+t°)(14-2t+20°+t°)(64+15t+-206°+151°)+-.... In fine, sviluppando il prodotto, senza mai tener conto de’ termini di grado superiore al terzo, si ottiene con calcolo semplicissimo : 9(41+ t};=>5[18+-99t+273t°+28616°+-....]; e quindi in rapporto alla radice quadrupla 1 risulta: 0=5.18 3010 = 91991 VESZIIA M_A Passando a considerare le radici doppie, vale a dire le radici dell’ e- quazione 2°#+x+1=9, se s’ indica con a una di queste radici, sarà: e(a+)=L 0(a+Y) ; e qui trattasi di calcolare i primi due termini dello sviluppo di 6(a+t). Mutando nella data funzione la 2 in a+t, abbiamo : p(a+t)= [(a+t)A] [(a+6"A][(a+4)"A] [(a4+t°A] Ora, prima di sviluppare i fattori osserveremo che, essendo a°"+a+1=0, e quindi a'4+-a°+a=0, se si prenda la differenza di queste due equa- zioni, verrà a°=1; e sarà di seguito a‘=a, a'=a°,a°=1, etc:; di modo che la ipotesi di a radice dell'equazione x°4+-2+1A=0 mena alla conse- suenza che dagli esponenti delle potenze di a è lecito di sopprimere tutti multipli di 3; ed è così per esempio che si avrebbe a''=a’=a‘=a. Ciò premesso, essendo a'=1 ed a°=1, è manifesto che, se si svilup | Line SIE (ES pano i quattro fattori, il terzo ed il quarto diverranno divisibili per £. Adunque messo da parte questo divisore, e limitando gli sviluppi a'ter- mini di primo grado in f, si avrà: u(a+t)=t"[((a—1)+t)(3a°+3at)((a"—1)+5a')(60°+45a*)+....]; e quindi, riducendo gli esponenti di a col principio dichiarato, risulterà: 0(a+t)=9a"[((a—1)+t)(a+t)((a°—1)+5at)(2a+5t)]+.... A questo punto svilupperemo il prodotto; e però, limitando sempre il calcolo a' termini di 1° grado in #, e continuando a ridurre gli esponenti di a, verrà: 0(a+t)=—9[(2a°—4a+2)+(17a°+9a—26)t+-...] e sarà in conseguenza: o=— 9(2a°4a+2) ; ov—=—9(17a°+9a—26) . Queste due espressioni possono ridursi al 1° grado mediante l’equazione a+a+1=0; e così aggiungendo rispettivamente ad esse le quantità nulle (2a°+2a+-2) e 9(17a°+17a+A17), si avrà in fine: o=9.6a _, 0=9(804+43). In quanto alle radici semplici per ciascuna si tratta sempre di cal- colare la sola quantità 0. Ora, in generale, questa quantità si può otte- nere con una regola semplicissima. In fatti per ogni radiee semplice dell’ equazione u(x)=0 si ha 6=%'", e quindi è chiaro che, per avere il valore di 6 basta porre la radice che si considera invece di @ in tutti i fattori della funzione #(@), ad eccezione di quello dal quale la radice trae origine, sostituendo poi a questo fattore il valore che prende la sua derivata per la stessa radice. Così nell’ esempio proposto, se si dinota con d una delle quattro ra- dici dell'equazione c‘+x°+@°+x+1=0, siccome queste radici dipen» dono dal fattore #'—1, si ha immediatamenle : 0=50*(b—1A)(b°-4)(b°). Ma questa espressione, stante l'equazione b'4+-b0°4-0°+b441A=0, può es- sere ridotta a grado inferiore al 4°; e la riduzione si farà molto più fa- cilmente osservando che d è una radice dell'equazione binomia e°= 1; e che perciò dagli esponenti delle potenze di # è lecito di sopprimere tutt'i multipli di ©. Quindi si ottiene immediatamente : o=—5(20°b’+b-2). Parimenti , chiamando e una delle tre radici semplici dell'equazione X+1=0, la quale trae origine dal fattore #°—4, avremo: o=6e"(c-A)(e'-A)(°A) . (Questa espressione , essendo c'+1=0, è riducibile a grado inferiore al 8°. Inoltre essendo e radice delle equazioni binomie @#°+1=0 ed x°—A4A=0, segue dalla seconda che dagli esponenti delle potenze di e si possono sopprimere i multipli di 6; e, dalla prima, che è anche lecito di sopprimerne i multipli di 3, purchè si cambii il segno alla potenza ridotta, quando il multiplo soppresso è di ordine dispari. In questo modo il valore di 0 sì riduce a: 0—42(2e°c+A). IV Metodo pel calcolo effettivo de' coefficienti dei termini generali. 22. Abbiamo fin quì diverse espressioni dell'elemento di Q, 0 P, do- vuto a qualunque radice dell'equazione #(2)=0; ed in ogni caso la somma di tutti gli elementi darà l’espressione istessa di () o di P_. Però queste espressioni, dipendendo dalle singole radici, sarebbero poco utili nelle applicazioni, se non si avessero de' mezzi agevoli da tradurle in numeri; ma ora ci proponiamo di mostrare che i loro valori sì possono facilmente ottenere per mezzo delle somme delle potenze simili delle radici di una o più equazioni. Questa ricerca è fondata sulla seguente conosciuta proposizione (*). « Ogni funzione fratta razionale di una radice di una equazione è equi- « valente ad una determinata funzione intera della stessa radice, di (@) V SerneT, Cours d’Algeb. Sup. (2° éd.) pag. 38, e la nota in fine della presente memoria. eg e mn "af , I - ME (A « grado inferiore, e generalmente inferiore di uno, a quello dell’ equa- zione. Dinotiamo con a una radice dell'equazione: f(c)=k,.+k,£+k,x°+...+ka"=0, e siano 9(a) e +(a) funzioni intere e razionali. In virtù del principio ri- cordato la funzione fratta co si potrà trasformare in una funzione intera di a di grado r—1, e quindi sarà lecito di supporre: PSA A'a+A"a°+...+ATVa Y(a Per determinare le costanti A°, A', etc. sì osserverà che questa egua- glianza, o l’altra: 2(a)=(A°+A"a+A"a°+...A"a"*)4(a) deve sussistere se in luogo di a si ponga qualunque altra radice del- l'equazione f(2)=0; e perciò l’ultima equazione in a sarà verificata da r valori. Ora questa equazione è di grado superiore ad "1; ma bi- sogna riflettere che, mediante l’ equazione : f(aà=k+ka+k,a°+...+ka"=0 x le potenze a”, a”*, etc: si possono esprimere in funzione delle potenze di grado minore di r; di modo che la detta equazione si potrà ridurre al grado r—4, e conseguentemente alla forma: K,+K,a+K,a+...+K_,a =0, nella quale i coefficienti sono funzioni date lineari delle r costanti A°, A", ..-, AT”. Intanto questa equazione di grado r—1, dovendo essere soddisfatta da r valori di a, è necessariamente identica; e da ciò risul- tano le r equazioni lineari K—0 , K-=0 , K,-0,...,K_,--0, r—1 le quali determinano completamente le r costanti. E da osservare che il ragionamento più non regge se il valore di a, er che si suppone radice dell'equazione f(2)=0, annulla il denominatore 4(a) della data frazione. Dunque, perchè la trasformazione sia possibile, sirichiede che questo denominatore non sia annullato da alcuna di quelle radici; e ciò vuol dire, in altri termini, che le due funzioni f(@) e 4(2) debbono essere prime fra loro. 23. Tornando al soggetto delle nostre ricerche per considerare la qui- stione in tutta la sua generalità ammetteremo che la funzione g(@) si possa risolvere in più fattori razionali primi tra loro, e supporremo: p(0) =XEXPXY.... dove a, £., y, etc: figurano numeri interi e positivi, ed X_, X,, X_, etc. funzioni intere qualunque, delle quali dinoteremo rispeltivamente i gradi con a', d', c', etc. Inoltre, ritenute disuguali le radici delle equazioni X=0, X.=0, X=0, eto: chiameremo a, a,, a,; ete: quelle della prima; b, b,, b,, etc: quelle della seconda; e così di seguito. Ciò premesso osserveremo che le quantità designate con @, 4,, 4,,...., mentre per ipotesi sono radici semplici dell'equazione X,=0, sono poi anche radici dell’ equazione #(2)=0, ma tutte multiple di grado a; e perciò le espressioni degli elementi corrispondenti di F (2) (V.il n°2) saranno funzioni simili delle stesse radici. Ne risulta che la somma di questi elementi è una funzione simmetrica delle radici dell'equazione X=0, e sarà quindi esprimibile razionalmente per mezzo de’ suoi coeffi- cienti. Per brevità distingueremo siffatta somma col nome di componente della funzione F(n) relativa al fattore X*, e la rappresenteremo con W ; ed uniformemente dinoteremo con W, la componente relativa al fat- tore XÉ; con W, quella relativa ad XY, etc: etc: E chiaro intanto che la funzione F (n) equivale alla somma di tutte le sue componenti, di modo che si ha: F (n) =W+W,+W.+ i — zW, Così la ricerca di quella funzione sì riduce interamente alla ricerca delle sue componenti; ed è però che passeremo ad esporre un metodo me- diante il quale le loro espressioni possono agevolmente ottenersi tra- dotte in somme di potenze simili delle radici delle equazioni X =0, X,=0, etc: ail — 29.— CALCOLO DELLE COMPONENTI DI () . 24. Considerando la componente W_, che peripotesi è somma degli ele- menti di (), dovuti alle radici dell'equazione X.=0, in virtù della for- mola (17) avremo: We=S (Mc At (MA dt... +(MA N) dia o X_-1 estendendo la somma a tutte le suddette radici; ma se si ponga: V= (n), A+ (M),_,A,0+ ..+ (1) A a \ 0°x-I 7 verrà più concisamente: WES, Ora l’espressione di questa somma si può ottenere di una maniera molto semplice nel modo seguente. Si osservi innanzi tutto che la quantità rappresentata da V è una data funzione razionale di n e di a, però in- tera e di grado «—1 rispetto ad n, ma fratta rispetto ad a, tale essendo la natura delle quantità figurate da A_, A,, etc: (n° 17). Quindi, siccome a è radice dell'equazione X=0, che sì è supposta di grado a’, la V si potrà trasformare in una determinata funzione intera di @, di grado a'—A (n° 22), e porre: (22) V=Af+Ala+Ala"+,..+A{# Pg, dove i coefficienti sono indipendenti da a, ma funzioni di n, intere e di grado «—4. Una volta ottenuta questa trasformata la quistione è riso- luta; per essa in fatti l’espressione di W, diviene : —(2+ n—%4+2 n_4+3 «-I) —X+a! WS Ae Arg PAD); ed essendosi già osservato (n° 23) che le espressioni degli elementi di (), relativi alle radici a, @,, @,, ».-, sono funzioni simili delle stesse radici, si vede che per aver la somma basta mutare le diverse potenze di a in somme di potenze simili delle radici dell'equazione X =0, di gradi rispet- Atti -—- Vol II.— N.0 17 4 tivamente uguali a quelli delle potenze; e perciò scrivendo s' per indi- care la somma delle potenze r”° di queste radici, risulterà : 7 (a) ’ _(a) (ar (1) (23) W.=Atst PASSO, DL AREA h5n nîn-a-2 Ecco adunque un'espressione razionale della componente W,, alla quale ne’ casi particolari si applica facilmente il calcolo numerico; ed il pro- cesso per ottenerla si può compendiare in questa regola: Si trasformi la V in funzione intera di a; sì moltiplichi la trasformata per a”*", e nel prodotto si sostituisca ad ogni potenza a" la somma corrispondente S°°. Mediante questa regola, convenientemente estesa alle altre compo- nenti, si avrebbe, mutatis mutandis: (0) |. n_f+5 ? Wi Bts0p3 + BO ++ Bi Us E fa. 5 n_y-1 etc: etc: etc: etc: e però, essendo così trovate le espressioni di tutte le componenti della funzione (),, questa funzione resta con ciò completamente determinata. 25. L'espressione di W, data nella formola (23) consiste di un nu- mero di termini uguale ad a’, e per conseguenza uguale al grado della funzione X_. In questi termini gl’indici delle s formano una serie di nu- meri naturali che comincia da n—4+1; ma questa circostanza non è as- soluta, e la detta serie può farsi cominciare da qualunque altro numero, perchè nella espressione Va" ** il fattore V, che va trasformato in fun- zione intera di a, si può modificare moltiplicandolo per una potenza qua- lunque di a, e dividendo nello stesso tempo per questa potenza l’altro fattore. Così, dinotato con » un numero qualsivoglia intero, positivo, o negativo, sarà lecito di scrivere: 7 7 n—a+r+1 , W.=X-7d ; quindi, invece di trasformare la funzione V, si trasformerà la funzione a' ; Su Ar ; È -, e la serie degl’indici comincerà dal numero n—a+r+1. Per esem- (6) = eni pio, volendo che questa serie cominci da n, si prenderà r=a—A; ed al- lora operando la trasformazione: Tr e (a'-1) a"-1I ga A +. AI "a l’espressione di W, prenderà la forma: (24) W.=Aîs(+ A180 + Als, +. +ASTOS nid-1 * Attualmente i valori de’coefficienti A", A", etc: sono diversi da quelli di prima; ma sono tuttavia funzioni intere di n, di grado «—1. 26. Il principio, sul quale è fondata l’ultima trasformazione, è utile sopra tutto allorquando la funzione fratta di a, rappresentata da V, si trovasse moltiplicata per una potenza di a, di esponente positivo, o ne- gativo, ma indeterminato, circostanza la quale potrebbe rendere imba- razzante la sua trasformazione in funzione intera. In fatti, per togliere la difficoltà, nella espressione del prodotto Va”** basta di separare quella potenza dal fattore V, ed aggregarla all’altro fattore a°**; ed al- lora la funzione fratta di a da trasformarsi in funzione intera sarà per lo appunto ciò che diviene la V dopo la soppressione della detta potenza. 27. Abbiamo già veduto che nelle formole precedenti le espressioni de'coefficienti A°, A, etc: sono funzioni intere di n, di grado *—1. Ora è questo un fatto interessante, dal quale vedremo derivare un'altra os- servabile soluzione della quistione dello sviluppo in serie delle funzioni fratte razionali; ma per ora ci limitiamo ad osservare che le dette espres- sioni debbono essere indipendenti da » nel caso di x=1, vale a dire quando il fattore XY della funzione #(x), cui si rapporta la componente W.,, è semplicemente della forma X_. In questo caso diviene inutile l’in- dice n apposto ai simboli degl’indicati coefficienti; ed intanto l’espres- sione di W, data dalla (23) o dalla (24) si riduce a: (25) W.,=A°st)+A's + AS +... PAS) n+a V 9° Snia'-z Del resto nella ipotesi attualela determinazione de’ coeflicienti A°, A', etc., * — ita ossia la trasformazione (22), diviene molto più agevole, perchè quando a=/ si ha semplicemente (n° 13) (a) WEeysKa'; "entt8) e tutto si riduce ad operare la trasformazione della funzione V= ner 28. Un altro caso meritevole di attenzione si ha quando la funzione #(x) è della forma: e(e)=X0 il che esige che le radici dell'equazione u(x)=0 debbono essere tutte multiple di uno stesso grado di moltiplicità. In questo caso la funzione (, si riduce all’ unica sua componente W ; e perciò risulta : OW-. Ora, siccome nella ipotesi presente le somme delle potenze simili delle radici si rapportano all’unica equazione X=0, nel simbolo adoperato a tale uopo, s°’, diviene inutile l'indice superiore; e si avrà in conse- guenza: (26) O. —Acs — PAR A e RE Da, oVVero : (27) Q,= Ars A Sa e PASO Sini secondo che la determinazione de’ coefficienti si voglia far dipendere 3 : Lé dalla trasformazione della funzione V, o dell'altra gr E quando &=4; o, in altri termini, quando le radici dell'equazione a(x)=0 sono tutte semplici, di guisa che: si avrà semplicemente: (28) QAS sc AT a 29. Bisogna intanto osservare che le trasformazioni cui dà luogo la pre- cai ° — 29 — sente ricerca saranno nelle applicazioni assai più semplici se lo sviluppo Fa) si faccia dipendere da quello di a (004) In questo caso ì calcoli 's(e) or ora prescritti dovranno istituirsi me ra (20) da cui: 2 f LI A 4-1 A, Ci n—u+1 W=x [ME Mat + (1) meta |a e quindi per la funzione fratta di a rappresentata da V ritenere la fun- zione molto più semplice e più esplicita: es = va To a+... «P(A)* (n), i desi Siccome in questa funzione le espressioni di A,, A,, etc: sono intere rispetto ad a, è chiaro che per ottenere la equivalente funzione intera, . 4 2 a 41 basta trovare la funzione intera equivalente alla frazione 7, dalla quale possono immediatamente dedursi quelle equivalenti alle diverse potenze della frazione medesima (V. la nota in fine). Calcolo delle componenti di P.. 30. Prendendo ancora a considerare la componente W, per la for- mola (18) si avrà: W=E—{(nA)_A,+(n-A1),_A,a+...+(-nA)A__,0°*}a 19, la somma doyendo estendersi a tutte le radici dell'equazione X,=0; e se si ponga: U=—{(-n_1),_ A,+(-n-1),_A,0+...+(nA) A, 0°}, sarà più brevemente: 3A W,=ZUa®®. Qui la U, al pari della V del caso precedente, è una data funzione di n ed a; intera e di grado x«—1 rispetto ad n; fratta rispetto ad 4; e però, — hac stante l'equazione X =0, potrà essere trasformata in una determinata funzione intera di a, di grado a'—1; sicchè, supponendo: U=A°%@a 3 Aia ACI risulterà; T (a 4 (a) (e'-1) (6 (29) MR, Seo $_; ina) sso Bia) Ù n°-HLniz_d Questa espressione di W,, nella quale i coefficienti A°, A’, etc: sono sempre funzioni intere di n di grado x—1 si ottiene evidentemente con una regola uniforme a quella enunciata nell'altro caso; vale a dire: Si trasformerà la U in funzione intera di a; si moltiplicherà la trasformata per a”; e nel prodotto ad ogni potenza a sì sostituirà la somma corri- spondente s°, Per mezzo di questa regola si possono adunque ottenere le espressioni di tutte le componenti della funzione P_; e con ciò que- sta funzione resta completamente determinata. i 31. È ora ben chiaro che le diverse osservazioni fatte a riguardo delle componenti di (), si estendono convenientemente a quelle di P_. Così può notarsi che la formola (29) consiste di un numero di termini eguale ad a', grado della funzione X : formola in cui gl’indici delle s (fatta astrazione dal segno) costituiscono una serie di numeri naturali, che comincia da n+a—a'+1, ma che può farsi cominciare da qualunque numero negativo. Volendo che cominci da —x si scriverà: U 4% 7% A —\n+a I), n TTT E: gi 3 x ’ . U = x e, trasformando il fattore e» Verrà: n (30) W= At FALSO ++ AC 80 in è I coefficienti A°, A', etc: diversi da’ primi, sono, come negli altri casì , funzioni intere di n, di grado a—1. 32. Cessano questi coeflicienti di dipendere da n nel solo caso dia=l1; a Yi — aa la determinazione della componente diviene molto più semplice, perchè si ha (n° 18) Pomo ) (a) -n+1); = rg" DE ea)” In questo modo gl’indici delle s cominceranno da —(n—a'42), e si avrà: e la quistione si riduce a trasformare la funzione fratta U=— » —2) gle MAR et -+A° Da) * Ma volendo che gl’indici comincino da —n si scriverebbe: pt AIA (0) |; a'-2 —(n+a'-1) , W=X PIO ci È i a 3 e quindi, tthdo la funzione Snia di -\BHAVIA: (a) (81) W.=A°SLA'S) pt PAC - 38. Anche nel caso attuale, se le radici dell’ equazione #(2)=0 sono tutte multiple di uno stesso grado, e quindi la funzione (x) della forma: e(e)=X7 si ha P,=W,; vale a dire sarà: ; A P,= A; 8_(ma-a:1) A, 8_(nra-d+2) “te +Af CESSO ’ se i coefficienti si fanno dipendere dalla trasformazione della funzione U; e sarà poi: (82) PA St AS) +. +ACDe 8 (prat) 3 se si vogliano far dipendere da quella dell’ altra funzione e x 34. E finalmente, se nella stessa ipotesi si abbia di più a=1; 0, in A altri termini, se le radici dell'equazione #(#)=0 siano tra loro tutte disuguali, ed in conseguenza: Ri p(e)=X, , si avrà semplicemente: Di d° è tate Siate) ei 8_(n+2) ; OVVEero : (33) MIAO , (a'—1) P'=A" 8032 A SEO OR sa secondo chè i coeflicienti si vogliano far dipendere dalla trasformazione della funzione U= — SO , 0 dell'altra U a*=— Ia) a'-2 E 85. Se lo sviluppo di 55 si voglia far dipendere da quello di — , il d'a I p(e che torna sempre vantaggioso, allora bisogna far capo dalla formola: M== A A s >_[(-n4),_ 7A) + +H(AY(-nA) e ritenere: U=— (nt, do sug A X-1I KI n° daga, A A, (A) (AAT a? | ; e qui le trasformazioni delle funzioni fratte in funzioni intere dipende- ranno, come nel primo caso da quella della frazione -- ESEMPII DI SVILUPPI Esempio I. 36. Per un primo esempio ci proporremo lo sviluppo della frazione: Age 4 e(@) dot 2e,0+ 0° dove supporremo disuguali le radici dell'equazione #(2)=0, E cercan- do dapprima l’espressione di (,, dinotata con 4 una delle radìci , si avrà (n° 28) la somma dovendo estendersi a tutte le radici. Per trovare questa somma ino bisogna trasformare il fattore fratto in funzione intera di 4, e ciò me- diante l'equazione: potQe,4+p,0°=0 ; ma ora la trasformata può subito aversi indipendentemente da metodi generali; perchè, se sì ponga per compendio : M=pîf—pofta » la detta equazione si potrà mettere prima nella forma (u-+g,0)°=M, e poi nell'altra: 1 1 nre a AE 10) 3 ed il secondo membro è per lo appunto la trasformata intera del primo. Adunque, chiamando s, la somma delle potenze r”° delle radici dell’equa- zione #(2)=0, si avrà immediatamente: Q, = 2M (2,8,+ Ba8n+1) . In quanto alla espressione di P, si avrebbe : 1 ant) = 2ut #30) 1 ea) E A e quindi per le siesse formole di poc'anzi risulta: 1 P,=— pg (PaSathSn) cia 37. Nel caso particolare della frazione 1 1-2xcoso+x? siccome a=g=1, = — 0080, e quindi M=—sen°® ed s_=s,, si ha: Q "7 2sen» "TZseno Atti— Vol. II.—N.0 17. 5 (COSO S,—-8,.3) - (Ss, COS 8,3) » * = ee Ma le radici di 1—2xcose+°=0 mostrano che s=2 cosr@; dunque le ultime espressioni divengono: 41 sen? w n [coso cos nuw-—cos(n+4): | = [cos na—cose cos(n+4)- | ; sen? w e poichè i fattori binomii equivalgono il primo a senwsenno, ed il se- condo a senesen(n-+1)@, così verrà semplicemente: senno ve sen(n+41)% n sen ea Dopo ciò, se si trattasse dello sviluppo della frazione : I t,L 41—2x coso +2?” si avrebbe immediatamente (n° 4): 41 Ca i senno+), sen(n+1)o DE P el. sen(n+4)a+), senno .| - Esempio II. 38. Siano po) f1:---» p, quantità disuguali, e cerchiamo lo sviluppo della frazione: Eos i = A e(e) (1-2,0+2°)(4—20,0+2?)....(1--20,0+%) XX, .66X, Dinotata con W, la componente di (), relativa al fattore X., si ha (n° 28): ed intanto, se s'indica con a una delle due radici dell'equazione X,=0, sarà (n° 27): estendendo la somma alle due radici. Da un’altra parte abbiamo : p'(a)=2(a—p)X,X,...X_ XX, Iii * bene inteso che sia posta a per x in tutti i fattori X,, X,, etc: ma tolta ERO: -(9R da ciascuno la quantità nulla 1—2,4-+a°, e messo per compendio: Ri=(p:po)(Ppa) lip; (P) » verrà più semplicemente: e'(a)=2"*R;a' (ap); e si avrà in conseguenza: SO - 1 wees.s=eey-=_-==Ne == WiszaR Irap) Ria ner : Aa s & : Resta ora a trasformare la frazione 3 in funzione intera di a; ma (2 poichè la trasformazione dipende dall’equazione 1—2p,a4+a°=0, la quale, posto: M=p-1, può ridursi alla forma (a—g,)’=M,, così si ha immediatamente: e quindi: ed in fine: © => TRAM 1 SO ian f;8 Sole In quanto allo sviluppo ascendente si avrebbe: dove, tenendo presenti le formole precedenti: 1 4 LA; {n+1) __ i -(n+r41) ; W,=% e (a I VL Rael p;)@ = ee ed effettuando la somma: 1 W,= 2"*R.M, (8; Pena SRG 3) ) sicchè risulta: 1 iR.M è (i) 1 P,=7a (est 37 st) da DM > 89. Supponiamo per un caso particolare che si tratti della frazione: 1 (1-2x coso, +2°)(1—2xcosw,+x°)...(1-2x coso, +x°) Essendo in questo caso p,=c0s@;, si ottiene, come nel primo esempio, M=—sen°@,, st =2cosm®,; e quindi le espressioni di (, e P, di- vengono: x = —Y —__ [coso cos(n—r)oT—cos(n—r+1 ».] : Q 2 snai ; 008 de ( oi]: 1 [cos (n+r)0— coso, cos(n+r+41) ©] : Mo : R,sen° ©, ma le quantità in parentesi equivalgono rispettivamente a sen@ sen(n—7)@,, e sen@ sen(n+r+41)@,; dunque per gli sviluppi della frazione proposta si hanno le formole semplicissime: A) 1 r 1 sen(n—r)o, p_ 1 1 sen(n+r+1) sf x, R, seno, 1 EQ SS Se Esempio IIl. 40. Per un terzo esempio cercheremo lo sviluppo della frazione: isa 1 (e) pr+3e,0+3a 04,005” supponendo ancora disuguali le radici dell'equazione #(2)=0. Quindi, delta a una delle radici, si ha: 4 1 =—Y--- a" =Y —__—__- "€, USI ZIA) la somma dovendo estendersi a tutte le radici ; e per trovarla bisogna — 37 — che il fattore frazionario sia trasformato in funzione intera di a, valen- dosi dell'equazione: pot Be,0+3g,0°+p,a°=0 . Ora, operando la trasformazione col metodo già esposto (n° 22), fatto per compendio: A°= popoli +3 Atp, > A'=pi—Tp,pyp3+6u2 A"=pa— ptt; M= Gp pop +Bpi pa — dota — Apres POHS > sì ottiene : 1 ne + (A°+A'a+22,A"a°) ; py+2n,0+p,0° M ed in conseguenza risulta : Q slde(gp; A's.t+2A"8 TRAP A 3M ngi nrI 13 ma) hi Per lo sviluppo ascendente si avrebbe: 1 i a-l® 1 —(n+1) (07 =— =} = px t2p,0+p30° Elo È quindi per le stesse formole di poc’ anzi: al o à Ma2\ ,7-(1+3) . P,=—gy2(A SIA a+22,A a”) a > e perciò: 1 0 , " P,=— zi [A'suaytAs+ MA" n] Esempio IV. 44. Crediamo opportuno di richiamare l'attenzione de’ giovani studiosi sopra un esempio considerato dall’ egregio Geometra Francese signor Eugenio Catalan nel suo stimabilissimo libro sulle serie, pubblicato a Parigi nel 1860: esempio che forma il soggetto de’ numeri 129 e 130 a pag. 76 e 77. Trattandosi di un libro la di cui lettura torna utilissima agli studiosi, ci è sembrato necessario di rettificare alcune idee poco — 38 — esatte, che ivi si trovano espresse; ma dichiariamo ad un tempo che queste inesattezze sono, senza dubbio , da attribuirsi a sconcerti di stampa avvenuti in quelle pagine, i quali avranno alterato il concetto dell'Autore. Trattasi per tanto dello sviluppo ascendente della funzione 1 meri 5 . . . . . . . en e quindi si vede che questo sviluppo potrebbe subito farsi di- pendere da quello dell’esempio precedente; ma preferiamo di occuparcene direttamente, e però supporremo: dl+a—x° 2 n Ting ret rat etae +... +Px +. ene lo ar du . . Cangiando « in — (V. il n° 8), € poi divedendo i due membri per @, ri- sulta: SICA da i 20 P, i pad a ata ga) ed allora la quistione è ridotta a trovare l’espressione di P, coefficiente 2 Ho +LX—- 1 . x ——_;. Poichè x+x°1 l'equazione 2°+@°—1=0 ha le radici disuguali, se s' indica con a una di esse, avremo immediatamente (numeri 27 e 28) di «°* nello sviluppo discendente della funzione La +04, n Rao gni (i - la somma dovendo estendersi alle tre radici; e più non resta che a tra- sformare il fattore frazionario sotto il segno Y in funzione intera di a, mediante l’ equazione a'+a-41=0. Si può agevolare la trasformazione di quel fattore, moltiplicandone i due termini per a, e poscia sostituendo ad a° il valore1—a?, che ne dà l’ul- tima equazione. Si ottiene in siffatta guisa +04 1—-a dar 422 358 e sì ha in conseguenza: — 80 Operando ora la trasformazione col metodo già prescritto (n° 22), si ot- tiene: 1250 1 - 2 À Sgt gal Soaa quindi : 1 3a)” P,=55 2(4_60+5a°)a ; e da ultimo, prendendo la somma, si avrà: 1 P,=53 (#8168nx+-98n.2) 7 formola in cuì s, dinota la somma delle potenze r"% delle radici dell’ e- quazione 2°'+2°—1=0. Se si calcolano i valori di s, per r=0, 1, 2, etc: sì trova: ses, dis = 2,8, = se4,,s==208,==das =9, = —1, ete: In virtù di questi valori si ottiene: Pt; P0npi==ky7P=2, P===2 Di,Pi,Bb__3, P=4, BP—=3, ete: e si ha perciò: 4+x—x° "i 140.e—x°+4+2xe 24° +x°3e'+4x°+ etc. La quistione adunque è completamente risoluta; ma frattanto nel nu- mero 180 del libro del signor Catalan si legge quanto segue: « Dans « l’exemple I (che riguarda lo sviluppo di a) il a été facile de « determiner le terme général du développement de la fraction, parce « que l’on connaissait, sous forme finie les facteurs du dènominateur. « Mais, si l’on se proposait d’assigner le terme général de la suite 1, «0, —41,2,—2,83,—9, 7, —10,45, on serait ramené à la résolution « de l’équation irreductible 2°—x—A=0. La question peut done étre re- « gardée comme a peu près insoluble ». Così, secondo questa conchiusione, sarebbe generalmente impossibile di esprimere il termine generale dello sviluppo in serie di una funzione —, i) — fratta razionale, allorchè i fattori lineari del suo denominatore non si possono esprimere sotto forma finita; cosa che non è affatto vera. Ora è appunto contro questa proposizione, così recisamente affermata, che in- tendiamo di prevenire i giovani studiosi; e, giova di ripeterlo, per noi non è dubbio che il concetto dell’Autore sia stato travisato da dissesti di stampa, da lui non avvertiti, come lo provano altri errori, che si ri- scontrano nello stesso luogo. In effetti in una nota a piè della pag. 77, che ha il suo richiamo dopo le parole, poc'anzi citate . .. a peu près inso- luble , sì legge: « Cependant, si l’on appelle a, è, c les trois racine de « l’équation #°—&-—4=0, on trouve, par un calcul que nous suppri- « Mons: ia pb "= p9a” 845% post: Questa espressione, sotto forma più concisa, equivale a: dla , pray === È E 31729" i ma possiamo subito riconoscere la sua inesattezza, perchè, dinotando a una radice dell'equazione 14+-x—°=0, pe’ numeri 82 e 83 dev'essere invece: pos at — (+1) i STE od ancora: d+a—a P,= 3 ca a—3da e siccome 14-a—a°=0, e quindi 14-a=a°, se nel numeratore del fattore frazionario si ponga a° in luogo di 1+-a, si avrà sotto forma più semplice: a—a? Pai ga espressione la quale non può coincidere con quella data del sig. Catalan. Nè questo è tutto. Col principio delle serie ricorrenti il signor Catalan calcola alcuni dei primi termini dello sviluppo della frazione proposta, e trova: 1+a— nin PA 0°+-20 204 3a 5a 4 To" A00°+ ete. ; e—-x ma non si ha che a confrontare questo sviluppo con quello da noi dato A più sopra, per riconoscerlo erroneo, coincidendo essi solo fino al ter- mine affetto dalla potenza 2°. Qui però l'errore è cagionato da inavver- tenza, dappoichè essendo il denominatore della data frazione di 3° grado, P È) ‘ per la teoria delle serie ricorrenti bisogna calcolare direttamente i primi tre termini dello sviluppo; e, mentre questi tre termini sono 1,0.x,—°, ppo; il signor Catalan prende invece 1,— 2,2 naturalmente risultare inesatto. Esempio V. 42. In questo esempio prenderemo a considerare la frazione: 1 1 "R (x = CS k Ti o) “x ® x S _ x°; e quindi lo sviluppo dovea ma vogliamo prima esaminare il caso di «=2. In questa ipotesi, dino- tata con a una radice dell'equazione X=0, si ha (n'19 e 28): avendo messo: Ora, per determinare 6 e 0', nella funzione #(€) muteremo subito la x ina+t (n°21); allora, essendo fot 24,4+-4,0°*=0, si avrà dapprima: p(at4t)=t°{2(2,+p,a)+p,t}®; ed in seguito: 0(a+t)={2p,+r,a)+p,t}*. Indi, sviluppando il quadrato, si ottiene : 0=4(1,+p,0)" , e si ha perciò: 1 1 Wesla= == al (#14+-p,0)? Atti — Vol. II.— N.0 17 0=4p, (#,+4,0) > IE Resta a trasformare la V in funzione intera di @; il che si riduce a tr 4 bara * (2+-pz0)" 6 a- LIA . È 1 EVA sformare la 2° e 8° potenza della frazione 25 e così (V. Ra pio, e la nota I) risulta: V= aa (in polu,a +0"). Avremo adunque: Q,= = p3 [bn _p,(1,a +4,0)] a"; ed in fine, prendendo la somma, verrà: 1 Q.= Ye [bus (2,8,+ #.8,3)] 7 Questa formola contiene le tre somme 8,_,, 5, 8,,,; ma stante la rela- zione: box t 2a 8,428, =0 ? che ha luogo tra esse ed i coefficienti dell'equazione X=0, potrà ridursi a contenerne solamente due. Se si elimina s,,, si avrebbe la formola che si sarebbe trovata direttamente riducendo la funzione V al 1° grado. Per lo sviluppo ascendente si farebbe capo dalla formola: PS ina —{n+2) ; e si troverebbe: P,= 4M? ca [N (+1) E ay TE 2 (2,8 1 Sn te:8..)] A Anche questa formola può ridursi a contenere due delle tre somme , tenendo presente la relazione : RoS{m at 22,8_(na)t Ba8 n e 0 ” 43. Il metodo tenuto per «=2 si estende ad « qualunque; ma pel caso generale preferiamo di far dipendere la ricerca dal teorema del | AL —_413- i n° 11. Secondo questo.teorema l'elemento Q,_ di Q, coincide col cocffì- ciente di £°* nello sviluppo di : (a+t)° 0(a4t) ma si ha per le formole precedenti: 0a+t)={2(2,A4-w20) +21} %; adunque il valore di (, sarà uguale al coefficiente di #* * nello svilup- po del prodotto {2(p,+e,0)+p,t} *(a+6)"; e perciò, se sì ponga: M= 1 (MM). a (2); (n), (2), p,0 (i les) (130)" (n) (a), (4,0) sia rr ME RUI an e I sì avrà: Que =Ma rs ” da che poi segue: Q, = > Viaggi I ; la somma dovendo estendersi alle radici dell'equazione bot 2,04 p,a°=0 . Per compiere la ricerca non resta che a prendere la somma; e per ciù bisogna trasformare la V in funzione intera di 4; ma, ridotta la quistio- ne a questo punto, quello che rimane è puramente affare di scrittura, perchè la V è un aggregato di frazioni, che hanno per denominatori po- | tenze di #,4+-w,0; e sono già conosciute le funzioni intere equivalenti a tutte le potenze della frazione | n (nota I). In quanto alla espressione di P, si parlirebbe dal principio che l’ele- mento P,, coincide col coefficiente di ** nello sviluppo della frazione : (SO) 00+1) e perciò nello sviluppo del prodotto: — (22,40) + pt) (a+; laonde, posto : 1 | nA)._{- 4), (-n_41), (2), (-nA),_.(-2),(w,0) 2° (a +20) Diu, + ra)" 2° (2, +-p, 0)? (NA) (A, (pa) sicha: ed in seguito : n Pi MUat; la somma dovendo sempre estendersi alle radici dell'equazione pot t0+p,a°=0 # Per compiere poi la ricerca si procederà interamente, come a riguardo di Q, Per concretare questa soluzione con un caso particolare supporremo a=3. In questa ipotesi le espressioni di V ed U divengono: 2 41 i pd ; 4 di : i 3a" - ; U= [H+ at] e quindi essendo: OE fo nea mutando le frazioni nelle equivalenti funzioni intere, e poi prendendo le somme, risultano le due formole 41 3 2 . = rie [(0A)(0,8,,+0,8,,) Bro, + pei(U,8,+028, | ? 1 Para [(+4)(n+2)a,s, PILE 38 n.9) nia HUMn+A)#,8_,,.0) 3 tw Bî (a,8_ an t-28,) ] ° (liascuna di queste formole contiene quattro somme di potenze di ra- = bs > dici; ma sì l’una che l’altra può ridursi a contenerne solamente due; perchè, sussistendo le due coppie di relazioni: MoSao+- 22,8, 14-28 =0 > it Srt2 lt bai Srna =0 ? Ba fasy E 28 eyt #35 0 BS {nat 204,8 (ny 280 » si possono da ciascuna eliminar due somme. Se si eliminano dalla pri- ma s,., ed s,, e dalla seconda s__,, ed s_, si perverrebbe alle formole che si sarebbero trovate direttamente, se le funzioni V ed U, oltre a trasformarsi in funzioni intere di a, si fossero ancora ridotte al 1° grado. 44. L'esempio del quale ci siamo occupati comprende come caso par- ticolare lo sviluppo della frazione (*): 1 (1—2xcosa+x°)* ” per la quale si ha ay=p,=1, g=—c0s®, s=s_=2cosie, ed M=—-sen*e. Quando «=2, per la sola condizione di ,g,=g,=1, le espressioni di (, e P, divengono: = prfre e] eg] ma quindi tenendo conto delle altre condizioni , ed osservaado che s.+#,$,=2|c08(n44)0—cossacosna}——2senasenno , st 4,8,=2{cosna—cosacos(nt4)a}= 2senosen(niA)@, sì ottengono le formole semplicissime: sti Mc da] Pasi) sen'w sen? 2 sen'& Pull] sen? $ Q=3 (") Intorno allo sviluppo di questa frazione vedi la nota XI del Trattato della risoluzione delle equazioni numeriche di Lagrange; ed il n° 1120 del Tratlato di calcolo differenziale ed integrale di Lacroix, vol. 3°. Aggiungiamo a tal riguardo che col metodo di Lagrange non è possibile di ottenere l’espressione di P, nella forma così compatta come risulta dal nostro procedimento; ed anche nel caso più semplice di a—? non si vede facilmente come l'espressione data da Lagrange si riduca a quella da noi data qui sopra. PACE Nel caso di a=38 sì ha dapprima: 1 ò Q, = 9'M? È (n_A) (S.-1+P18,-2) =» BNS,_t sp (81r+#18)] > —1 3 2 DI AE { ms = oto [(a+4) (n+ ) (s nR-2 P38n63) < 3 (+1) Sn 2 M (5, #,8,.)] LU e siccome: Sign aaa =——2senosen(n—2)e [cos(n—1)w — cosw cos(n—-2)w [ Sat 8, cos(n+1)w — coso ctosno ]=—2seno senno 2senosentn+3)v 2 D S,.0 + 8,3 =2[c08(n+2)o — cosocos(n+3)o 2[ S, +8, =2[cosno — coswcos(n+1)o]= 2senosen(n +4) così risultano le formole: pm gienne 3 i e ne E I "9% {seno sen sen* © 1 2)w ( D) Pie amp ES Je DECENNI sen nil 2 sen? w i sen sen Ni Altra soluzione della quistione. 45. Procedendo co' metodi esposti alla ricerca delle funzioni (), e P, abbiamo potuto definire completamente la loro forma in termini delle somme delle potenze simili delle radici di una o più equazioni, vale a dire o della sola equazione #(@)=0, o delle equazioni in cui questa per avventura si può decomporre. Ma, le forme una volta conosciute, si com- prende che debba essere possibile di determinare le stesse funzioni col principio de’ coefficienti indeterminati, indipendentemente dalle trasfor- mazioni che ci guidarono a scovrire le loro forme; ed è per tal via che si perviene ad un altro metodo estremamente semplice per risolvere la proposta quistione. + SRI. nea dar ; s 7 RE. Limitandoci a considerare lo sviluppo di ——, porremo, come al n° 2 & (©) p(€) =pot 0 + pol4... 4,0"; e per chiarezza distingueremo tre casi, secondochè l'equazione (x) =0 ha disuguali le radici; o le ba tutte multiple di uno stesso grado; o ha diverse classi di radici multiple. Sviluppo discendente 46. Caso I. L'equazione g(x)=0 ha disuguali le radici. In questo caso per la formola (28) sarà: (3 1) ia A°s.tA's, Rn AE im È A CE ? dove le somme s, si rapportano alle radici di #(2)=0, mentre i coeffi- cienti A°, A', ..., A” sono delle costanti, indipendenti cioè da n. Così ’ )’ ’ P la ricerca di g, si riduce appunto a determinare queste m costanti; ed è chiaro che perciò basta conoscere i valori di g, corrispondenti ad m va- lori di n. Ma trattandosi dello sviluppo discendente di % si ha x > 1 TED, 0 (n° 9) ; ed è inoltre da E (n°2); adunque la formola (34), ponendovi successivamente n=0,1,2,...,m—1, conduce al seguente sistema di m equazioni lineari: O =A°s, +Afs, +A"s, +... +AM8,a NI s I +A's, +A"s, sini: REA n 0 == A°s, gt ACSREOSSSE ua rue CT —=A°s,xt+A's, +A’s b3 m_-1) 1) Sa m_2 ptc mot per mezzo delle quali restano definiti i valori delle m costanti. Intanto dovendo queste equazioni coesistere con la (34), posto per compendio: M = So $, Ci Soi Sr Sg s I] ° Sn Sn SA Sam Re 1 So Si “ Sor Sh i um S; Sg Sm Sho Sm-1 S2.,m-3 Sn $,, FI % Sn +1 la quale determina il valore di g, senza bisogno di alcuna trasformazio- ne; ed in tal modo la quistione sembra ridotta a quel grado maggiore di semplicità di cui poteva essere suscettibile. 47. Rimanendo tuttavia disuguali le radici dell'equazione g(a)=0, se la funzione 4() sia un prodotto di più fattori razionali X,,X},...,X, la ricerca di q, potrà farsi dipendere da quella delle sue componenti W., Wi, ..:,W,, le quali si determineranno con lo stesso metodo tenuto qui sopra. In fatti indicando, come per lo innanzi a’, d',...,l'i gradi di X,, X,;...,X,, le espressioni delle componenti saranno della forma (n°27): 1) W.,=A°s0 + A's +... + ATYSO n+ar—I W,= Bis OR W= Lee n+l'-1 dove i sistemi di coefficienti sono delle costanti indipendenti da n, e la quistione si riduce a determinare i loro valori. Ora queste costanti sono al numero di a'+b'+...4-l'=m; e si ha d'altra parte: qa W+W,+...+W,; e perciò, siccome sono nulli i valori di g, corrispondenti ad n=0, 1, 5 1 ; È i; 30h 2,....m—2,esi hag, ,=—, si vede che 1 valori delle costanti sì determinano precisamente come nel caso precedente. 48. Supponiamo per esempio: n a 41 pio) XX (o+29)(1+2) | In questo caso le componenti di g, saranno due W,, W,, l’una corrispon- — 49 - dito al fattore X=1—x-+2°, l'altra ad X=41+-25; ed essendo a'=2 e b'=4, si avrà: bi è. W.= A°SO PASSO, W,= B's) + B's) +B"s)+B"s, Dopo ciò, dovendo essere g=W.+W,, sarà: * (35) gr=A°s0 4 ASSO 4 B° 50 1 B's LB") + Bmg. + e più non resta che determinare le sei costanti A°, A', B°, B', B", B”. A tal’effetto si daranno ad n i valori successivi 0, 1, 2, 3, 4, 5, pe’ quali Te l=9=9==91=70 e g:=1; ed in tal modo si otterranno sei equa- zioni, che danno i valori delle costanti. - Ma ora, per la natura dell'esempio, è anche facile di avere i valori numerici di s° , s? per qualsivoglia valore di r; il che deriva da ciò che X, ed X, sono i fattori irriduttibili de’ binomii1—x", 1-25, e quindi le funzioni sf? , 5° esprimono rispettivamente le somme delle potenze r°sime delle radici primitive delle equazioni binomie 1—x°—0, 1—2"=0. Per tanto segue dalla teoria di queste funzioni, da noi esposta in altra oc- casione : I. Che la somma sf? non ha che quattro valori distinti, cioè: s©= 2,serè divisibile per 6 sa ——2, se r è divisibile per 3, senza esserlo per 2 8 =—4, se r è divisibile per 2, senza esserlo per 3 sé= 1, serè primo con 6. II. E che tre sono i valori distinti di s© , cioè : s®©— 4,serè divisibile per $ » S'=—4, se rè divisibile per 4, senza esserlo per 8 s= 0, se r non è divisibile per 4. Atti— Vol. II.—N.° 17. _ Ha È chiaro che in tal guisa sono perfettamente determinati i valori nume- rici di s? ed s!, qualunque sia il valore di r; ed è così che sì avrebbe: sA, 0A, 2, AA, 0 Ae SPA, S)=-0, s)—=0, s)—-0, sP—=_&4, ete:ete: Dopo queste considerazioni la formola (35), ponendovi successiva- mente n=0,1,2,3,4,5, condurrà subito al sistema di equazioni : O— 2A°+ A'+4B° O=,7A°%- A’ C4p la q=— aA°-94° ag” O=—2A°— A'—4B' Ò0—— A°+ A'4B° A= 0 A°-+2A/44B" dalle quali sì ricava immediatamente : COO, DE | | I di Î | a I | | [es] | ° ta à ITS A°= e si avrà in conseguenza: I ana greta, De Be (36) d=3 (2 “ns (2) de (sp+ sa 2.) . Cercando per esempio il millesimo termine dello sviluppo, vale a dire : il valore di g,,,, sarà: D339 =i(2s 8353 — 57) —] (Mie SL.) : ma 2, ze Rd; dungne è x 10 = aa ossia (S9) Dso0 = — Si . 1a er e °° | li Le 49. Caso II. Le radici di a(a)=0 sono tutte multiple di grado x. In questa ipotesi #(#) è della forma X7, e si avrà (n° 28): q, — A°s.+A/s at e Als È è ava 1? le somme s, rapportandosi alle radici di X=0, ed a' dinotando il grado di X,, di guisa che m=-aa'. Attualmente tutte le quantità Al sono fun- zioni intere di n di grado x—1, (n° 27) sicchè l’espressione di ciascuna è della forma: (n), 2 a—_1I AV =@,,,+-d,,,N+@G, Mt... +, N°, dove gli « coeflicienti a, ,, @ -» 0, ,, Sono costanti indipendenti da n. Adunque il numero delle costanti contenute nella espressione di g, risulta uguale ad «a', vale a dire uguale ad m, grado di 2(@), e lem equazioni lineari, che le determinano, si otterranno ponendovi succes- sivamente n=0,1,2,...,m—4, e tenendo presente che g,=0, a nr 50. Supponiamo per esempio che si tratti di sviluppare Taxsoi q,=0, "st dra ® 0, Je al (c°-+x*—4)? ’ peremwia(g)—X—=(a-e'_1), a, 03,02, m=ova'=6. Ed essendo a'=3, si ha dapprima: q,= A°s, + A} Ss, A/8,2 - n°ntI Inoltre, essendo «=2, A”, Aj, A” saranno funzioni lineari di n, e si potrà supporre: gq,=(a+bn)s,+(c+dn)s,.,+(€+fM)8,.,- Per determinare le sei costanti a, 6, c,d, e, fsi daranno ad n ì valori successivi 0, 1,2,3,4,5, e siccome s=3, s=—1, s.=1, s.=2, se=—9, s=4, s=—2, s=—1, si otterranno le seguenti equazioni: ES SÙ — € + e O=— (a+ d)+ (c+ d)+-2(e+ f) O0= (a+20)+2(c+2d)—3(e+9f) O= 2(0+30)—3(c+3d)+4(e+3/) ==—3(a+40)+4(c+4d)—2(e+4f) 4= 4(a+50)—2(c+5d)— (c+5f). se Risolvendo queste equazioni sì trova: 'a=— 52 ; Doe 23°c=—106 s 23d= 2 29° e= 50 s Q2f=—1 e quindi risulta : n / 2 3 va q= Di (28,t 28,1 Sn .) — gg? 265,+- 538, 255.2) : 51. Caso III. L'equazione u(2)=0 ha diverse classi di radici multiple. La funzione (2) sarà generalmente della forma X* X°...X”; e però, supposto che W,, W,, ..., W. siano le componenti di g, relative ai fat- tori Xf, N, Sla PACI SIANO: ; (37) q,=W+W,t...+W, ed inoltre: 7 (ci ’ la) 1-1) WIE A SAAS A n I fb) 7 __ D(65)_(0) 5) (b'-1) (0) W bis Bi Sh te B, Sh I SI PIDOO sua B} S,-b'-1 etc: etc: ete: A? , B?, ete. essendo funzioni intere di n di grado x—4, e quindi n n della forma —I (r) 2 Ù. AV=4,, 0,400 4. P@zg gh (r) 2 pr BI BIRRE tb etc: etc: ete: dove i coefficienti a, ,, b, ., etc: sono costanti, che più non dipendono da n. Osserviamo che le costanti contenute nelle espressioni di W_, W,, etc. sono rispettivamente in numero di xa’, fd’, ete.; ma questi numeri indicano per ordine i gradi di X, X°, ete.; dunque il numero totale delle costanti contenute nella espressione di g, sarà, come ne’ casì pre- cedenti, uguale ad m, grado di #(x); e perciò i loro valori si otterranno dalla formola (37) ponendovi successivamente n=0,41, 2,...,m—4, e tenendo presente che q,=0, q,=0,...) 9,00) ia: Im oe = So. 52. Procedimenti analoghi si possono stabilire per lo sviluppo ascen- Sala | 2 SEA eo : 3 dente di —— ; ma siccome i primi m termini non sarebbero immediata- (2) mente conosciuti, eviteremo questo ostacolo facendo dipendere il detto sviluppo da quello di — (n° 5), pel quale tornano ad esser nulli i primi PL simo . D'altra parte : 4 ha per coefficiente Po m-—A1 termini, ed il termine m è già osservato che questi due sviluppi si deducono subito l’uno dall’al- tro, in guisa che chiamando p, e p' i coefficienti di 2° nel primo e nel secondo sviluppo, si ha: Pa="Pn muI * Adunque, invece di p, coefficiente di x" nello sviluppo ascendente di m_—I 1 È i 1 3 IE a e cercheremo p' coefficiente di x” nello sviluppo somigliante di o n n È P (LL Ma, così essendo, è facile di vedere che tutto ciò che si è detto per la ricerca di g, si applica parola a parola a quella di p;, col solo divario di doversi mutare ,, in #,, € cangiarsi il segno agl’indici delle s, come segue dalle formole stabilite ne’ numeri da 30 a 33. Intanto, per evitare gl’indici negativi, converremo di rappresentare con o, la somma delle potenze positive di grado r delle inverse delle radici di quelle medesime equazioni, cui si rapportano le somme s,, di guisa che si avrà general- mente: ed allora ecco i risultamenti che si ottengono nella presente ipotesi. vo. Caso I. L'equazione p(x)=0 non ha radici multiple. Dinotando 0, la somma delle potenze di grado r delle radici di a(2)=0, sarà: IR SPRIT(A:) , (m_1) 2 p,= À o,tÀ acari p 54. Gioverà di osservare che, se la funzione w(«) è di forma reci- proca, nelle formole precedenti sarà lecito di cangiare il simbolo o in s, perchè allora o,==s_,==s,. Così in questa ipotesi la quantità figurata da N equivale a quella che nel n° 46 fu dinotata con M; masi ha di più Bo=Pni dunque sarà pure g,=9,; e perciò: quando la funzione p.(x) è —(2+1) di forma reciproca il coefficiente di x nello sviluppo discendente di — pe (ce) ; ma ciò del m_I coincide col coefficiente di x" nello sviluppo ascendente di e () resto risulta immediatamente a priori da ciò che si è detto nel n° 5. vo. Se la funzione #(@) sia della forma X,, X,,..., X,, la ricerca di p,, sì farà dipendere, come nel n° 47, dalle componenti W,, W,,...,W,, le di cui espressioni sono ciò che divengono quelle ivi riportate, mutan- dovi il simbolo s in c. E siccome le costanti, che vi si contengono, sono al numero di a'+bd'-+...+'=m, e si ha d'altra parte: pi W+Wt.4+W,, è evidente che queste costanti si determinano precisamente con lo stesso metodo allora indicato. Supponiamo per esempio che si tratti dello sviluppo ascendente della - . L’e- (1-x+x°)(1+x*) spressione di p’ si otterrebbe dal secondo membro della formola (36), medesima frazione considerata nel detto n° 48, == cangiandovi solo il simbolo s in 6; ma poichè le funzioni X=1—x+2° ed X,=1-+ * sono entrambe di forma reciproca, si vede che anche que- sto cangiamento è è inutile. In seguito per avere il valore di p, basterà mutare nella furmola i$tessa laninn+m_-A1;=n+9; e così sì avrà: . : 1 gle) gl) sb) (0) (1) Pi7g Sh5 SEE P- Sa, ante Sa o Ma essendo: GE = so. ’ SE; = Sol (AIR (a (i (b) Ss; i Sn i ti Sn, Gli Sne2 ORI, (b SON sO) ’ verrà in fine più semplicemente g(2) "b) (6) (a ta Luszia n + SP +0 NESG +25.) » Se si domanda, per esempio, il millesimo termine dello sviluppo, vale a dire se n=999, sì ANTCOno: (b (b) : h) a) a ° TISSS (+ O* Ln +e) — 3(s0+201) 5 st) =0, g00) Mi ; <(0) =0, (©) R222 BERO (a) S999 1000 T00x' $999 JE) Sx00x , e siccome: risulterà Pol. 56. Caso II. Le radici di p(@)=0 sono tutte multiple di grado a. Valga per questo caso quanto si è detto nel n° 49, purchè si cangi da per tutto q3n:pi sin Gezio i : : : : ; 1 Poniamo ad esempio che si tratti dello sviluppo di _—_, . Le d+a-x°f formole dalle quali deriva il valore di p/ saranno le medesime del n° 50, salvo il cangiamento di s in o. Intanto bisogna osservare che ora le som- me g, si rapportano alle radici dell'equazione 2°’+x°—1=0, la stessa cui si rapportavano nel luogo cilato le somme Die perciò sì ha senza più: 406 Pi 93 (2 53) wa +(0- GT) +(n- o) af Attualmente, se piaccia di avere l’espressione di p,, non si avrà che En amutarelaninn+m_—A=n+6—1=n+-3. Per questo cangiamento s'introducono nella formola le tre somme 6,.;; 0,.6, 0,7) 1e quali si pos- sono facilmente esprimere in funzione delle somme di grado più basso 0,, 6.1, 5.2; € ciò mercò la relazione o,—0,.,—0,..=0, la quale ha luogo tra le somme delle potenze simili delle radici dell'equazione &°+2°—A1A=0, ed i suoi coefficienti. Per tanto si trova in siffatta guisa : n+5 n n+I po — ° n+6 On+1 O,42 eg anna 7 e così sì ottiene: a! 3(: sl 54 99 =) j a +3], 9,2 + — jo , P, 93 Y 23 n 23 O %x \ ] 23 n+2 Se sì cerca per esempio il 20” termine, per cui n=49, si troverà dapprima; e quindi Pr, =—146 a 57. Caso III. L'equazione u(x)=0 ha diverse classi di radici multiple. Supposto #(2)=X" X?...X*, ed inoltre: p,=W+W,+...+W,, la quistione sarà risoluta dalle medesime formole del n° 51, salvo il can- giamento di s in o. È poi manifesto che il numero delle costanti, che en- trano nelle espressioni delle componenti W,, W,,..., W,, è sempre eguale ad m, grado di #(@); e le equazioni che le determinano si otter- ranno dalla formola precedente dando ad n i valori successivi 0,1,..., 1 rari 0, Po n= 1epetqualissihafaneoratpi=0; pi0,.... pi =0 pi,= IT 2 MI Atti — Vol. I.—N.° 17 8 = 0S — OSSERVAZIONE Il metodo di sviluppo delle funzioni fratte razionali risultante dalla seconda soluzione è suscettibile di un perfezionamento considerevole, nel caso in cui l'equazione #(2)=0 ammette radici uguali; vale a dire quando la funzione 7(@) è della forma Xf o € il che rientra nel caso consideralo a’ numeri 51 e 57. Si è veduto che questo metodo riduce la quistione alla determinazione simultanea delle componenti W.,W,,..., Wir; ma si comprende che la risoluzione sarebbe grande- mente agevolata quando queste componenti potessero determinarsi ad una ad una, cioè indipendentemente l’ una dall’ altra. Ora non solo è possibile di ottenere separatamente l’espressione di ogni componente come nella prima soluzione; ma sotto questo aspetto la ricerca diviene assai più semplice. Però , dipendendo questa novella risoluzione da principi di altra natura, ci limitiamo attualmente ad accennarla, ri- serbandoci di tornare in altra occasione su tale argomento. 0) INCFOTEASTE Sulla ricerca della funzione intera equivalente ad una funzione atta razionale di una radice di un'equazione. Le ricerche, delle quali ci siamo occupati, sono principalmente fon- date sulla trasformazione di una funzione fratta razionale di una radice di una equazione in una funzione intera della stessa radice. Il metodo indicato a tale uopo nel n° 22 è semplice abbastanza per adottarsi in pra- tica; ma crediamo opportuno di esporne un altro molto più semplice, che non obbliga, come quello, ad introdurre coefficienti indeterminati, e che mena direttamente e prontamente alla trasformata. Bisogna premeltere che ogni funzione intera di una radice di un’equa- zione , di grado eguale o superiore a quello della equazione istessa , si può ridurre ad un’altra di grado inferiore. Sia a una radice dell’ equa- zione di grado r: F(x)=k,X0+k,e+...+k,_,€+k,=0 e s'indichi con f(a) una funzione intera di a, di grado non inferiore ad r. Essendo F(a)=0, è chiaro che, mediante questa relazione si può espri- mere il valore della potenza a’, e di ogni altra potenza di grado più alto, in funzione delle potenze di gradi più piccoli di r; ed allora sostituendo le loro espressioni nella funzione f(a), la medesima sarà ridotta ad un grado inferiore ad r, e generalmente al grado r—1. Ma questa riduzio- ne, la quale a tal modo sarebbe lunga e fastidiosa, può essere operata di una maniera semplicissima, bastando perciò di dividere /(a) per F (a); ed il residuo, che in generale è funzione di a, di grado inferiore ad r, sarà la funzione ridotta equivalente ad /(a). In effetti chiamando (} il quoziente, e 6(a) il residuo, si ha: f(a)=QF(a)+0(a) ; ma F(a)=0; dunque risulta f(a)=0(a). È utile di avvertire che, se sia data una funzione f(a) di gradur—1, = 602 ed occorra di calcolare il sistema delle funzioni ridotte a grado inferiore a quello dell'equazione F(a)=0, equivalenti rispettivamente ai prodotti di f(a) per le potenze successive a, a°, a°,..., 0", questo sistema di m funzioni si può ottenere mediante una sola divisione, bastando perciò di dividere per F(a) il solo prodotto di grado più elevato f(a). a”, e conti- nuare la divisione fino al residuo di grado r—4. Indicando le funzioni ridotte con f.(a), f.(a), f.(@);-.., fa(@), è evidente che i successivi m residui della mentovata divisione coincidono rispettivamente con le se- guenti espressioni: fa)\a" >; fio)-at-, (ed a) e quindi si vede che le funzioni richieste si ottengono tutte ad un tempo ne’ detti residui, sgombrati ordinatamente de’ fattori a”*, a” ?,...,0, @°. Ciò premesso, essendo sempre a radice dell'equazione F(a)=0, pas- 2(a) seremo a cercare la funzione intera di a equivalente alla frazione Ha) Da dove ora con $(a) e 4 (a) intendiamo funzioni intere di gradi inferiori ad 7, potendo sempre ridurvisi ove fussero di grado più alto. Posto: liberando da fratti si ha l'equazione (1) up(a)=9(a) e la quistione si riduce a determinare il valore di w in funzione inte- ra di a. A tale effetto moltiplicheremo l'equazione (1) per le potenze succes- Tr_E sive a°, 4, 0°,..., 0°, ed avremo il sistema di r equazioni : uy(a) =p(a) ug(a)a =p(a)a (Il) us(a)a? =o(a)a° uv(aa =9(a)a' 7 Indi ridurremo i due membri di ciascuna a grado inferiore a quello di ehe F(a); il che si ottiene con due sole divisioni, dividendo cioè per F (a) i due prodotti y(a)a"* e g(a)a; ed in tal guisa, indicando per com- pendio le ridotte de’ secondi membri con $(a), @,(a), g.(a),...,9_,(a), le equazioni superiori prenderanno la forma: (xa! +Ba7? +...+%a +e )u=p(a) (III) (a +00 +...4+d,0 +5, )u=p9,(a) (2,07% +B,a°° +...+d,@ +e, )u=9,(0) (2,30 4+B_ 0 ++ 20+5,_)U=9,(0) . Queste 7 equazioni, che diremo equazioni ausiliari per la determinazione della incognita v, conducono immediatamente ad esprimere il valore di u come una funzione intera di a; non dovendo che eliminarsi le r—41 potenze di a, che figurano ne’ coeflicienti di w, riguardate come inco- gnite a primo grado. È chiaro che l'equazione risultante è lineare ri- spetto ad w; e mentre il coefficiente di questa incognita è indipendente da a, il termine indipendente da w è una funzione intera di a, la quale inoltre è di grado inferiore a quello di F(a); e generalmente di grado r-A. In somma per la eliminazione delle dette potenze si ottiene un'e- quazione della forma: Mu=h,0 +h,a %+...+h r-1 ? dove i coefficienti M, kh, 4, ,..., f_, sono quantità date, che non dipen- dono da a; e dalla quale risulta senza più il valore di v espresso come una funzione intera di a, che in generale è di grado r-41. Sì potrebbe subito raggiungere l’espressione di questa funzione intera di a per mezzo di determinanti. In fatti messo per compendio: Ma (74 B 7 . d € Ch B, Vi a Spia Cz Bs Vr ‘ dea Sx — 62 — segue dal sistema (III) == Le I Pi Ù I bi d, 9,(0) n 23 POR fr O,-3 9,-1(4) Il valore che risulta per v dall’ esposto procedimento , essendo una funzione intera di a, di grado inferiore a quello dell'equazione F(a)=0, è necessariamente unico e determinato. Osserveremo intanto che le ri- duzioni a doversi operare sulle equazioni (II) col mezzo della detta equa- zione potrebbero benissimo limitarsi ai soli coefficienti di w, lasciando come si trovano i secondi membri; e quindi, seguendo in tutto il resto lo stesso metodo di poc'anzi, si perverrebbe ancora ad esprimere il va- lore di wu come una funzione intera di a. Questa nuova espressione di «, essendo di grado superiore ad r—1, è, nella forma, diversa dalla pre- cedente; ma, ridotta al grado conveniente col mezzo della solita divi= sione per F(a), dovrà coincidere con la stessa espressione di prima. Se si tratta di trasformare la frazione Ta) | le equazioni ausiliari di- Y vengono semplicemente: 2 (a +Ba"° +...4+0a +e )u=1 2 (07° +B,a7° +...+0,04 +e, )u=a x (20° +B,07® +...+0,4 +e, )u=a . . . . è . . . . I {Si (230 + B, 04. +, 0+8,_)U I e quindi sì avrebbe: 1 7, 6 di pa le 7 ’ M ì i STIME Ir o @ 2 do Ba Va d, a nn AI Bia Vrzx o Je a” rappresentando M lo stesso determinante considerato più sopra. | per TA Del rimanente bisogna osservare che la trasformazione della frazione 1 ria) a) PUÒ farsi immediatamente dipendere da quella — Ta) tutto riducen- di a moltiplicare per g(a) la trasformata intera equivalente all'ultima frazione. Per applicare ad un esempio i procedimenti esposti cercheremo l’ e- spressione intera di « equivalente alla frazione : __ g(a) _a'+30a'—5a°'+11a°—-2a—41 — sa) a'+a'—2a?+T7a—2 2 nella ipotesi che a debba verificare l'equazione di 8° grado: F(a)—a'—2a°+3a—41=0. Dividendo i due termini della frazione per F(a), si hanno i due residui a-—3a-+1 ed a'—a-+1, e la frazione si riduce ad: a Ia PA pr e === asse, donde, liberando da’ fratti, si ha la prima delle equazioni ausiliari: (a—a+41)u=a°—3a+1. Dovendo farsi sparire dal coefficiente di u le due potenze a°, ed a, sono necessarie altre due equazioni, le quali sì ottengono moltiplicando la prima per a°, e poi riducendo i due membri con dividerli per F (a). Le tre equazioni ausiliari saranno così le seguenti: (a— a +1)u= a°—3a+1 (a-—2a+41)u=— a° —2a+1 ( —2a+1)u=—4a°+4a-4; e più non resta che ad eliminare da’ coefficienti di u le due potenze a? ed a; il che può farsi in varii modi. Per esempio, eliminando a? tra i coef- ficienti di u delle due prime equazioni, si avrebbe: au=2a°—a; ed ora eliminando a tra ì coefficienti di u di questa equazione e della terza, verrà: u=20-1. Merita di essere avvertito che spesso si può giungere al valore di «, — (fu — senza impiegare tutte le equazioni ausiliari. Così nell’ esempio attuale potevano bastare le sole due prime; perchè, deducendosi da esse l’equa- zione au=2a°—a, questa porge senza più il valore di w col dividere i due membri per a. Anzi la terza essa sola poteva essere sufficiente, dap- poichè è riducibile alla forma: Ca—-1)u=(2a—41)?, e riproduce il già trovato valore di «, dividendola per 2a—1. Se la trasformazione della data frazione volesse farsi dipendere da quella di: 1 1 1 DV= > 1) (i ata? 2a+Ta—2 a‘-—a+1° le equazioni ausiliari per la determinazione di v sarebbero : 4 (a—-2a+4)v=a (a-a+4)v I ( —2a+41)v=a'; quindi, eliminando da’ coefficienti di v le potenze a° ed a, si troverebbe: v=0°-2a+2; e perciò moltiplicando per a°—3a+-1, verrebbe: IS ada alera i — e = PT =(0°-3a+4)(a°-2a+2), vale a dire, effettuando il prodotto : u= a'—ba'+ da'—8a+2 . Questa espressione di u non coincide con quella trovata più sopra; ma ri» ducendola al debito grado col dividerla per F(a), si ritorna ad u=24A. Occorrendo di calcolare le funzioni intere equivalenti alle potenze sue- » £ i 1 È pe cessive di una frazione della forma TONE è già necessario di trasfor- y mare direttamente le sue diverse potenze; ma basta trasformare soltanto la data frazione, e quindi elevare la trasformata alle indicate potenze, Bere. ES Del rimanente nelle applicazioni è preferibile il seguente procedimento. Trovata la trasformata di Ha) si eleverà a quadrato e si avrà quella di y Tor indi si moltiplicherà questa trasformata per quella di sE legs (a v N! A Da a avrà la trasformata di Ho | ; di nuovo, AEREA quest’ultima sem- pre per la trasformata di-— - 3 sì avrà quella di TE I° così continuando si otterranno le trasformate delle potenze di gradi più alti. V'ha de’ casi in cui riesce agevole di porre in evidenza la legge ond’è composta la trasformata di qualunque potenza di una data frazione. Nel n° 36 è occorso di trasformare la frazione ai nella ipotesi che « I ‘2 fosse radice dell'equazione: pot 2,04 +p,0°=0 . Si è ivi osservato che a questa equazione si può dar la forma: (IV) («+ p,0°=M , ov'è messo per compendio: PUaDI M=pi—pbs; sa quindi risulta: 1 (V) = (#4+-h:0) è pr+e@ M e nel secondo membro si ha la trasformata intera della frazione propo- sta. È ora facilissima cosa di ottenere la trasformata di qualsivoglia po- tenza della stessa frazione. In effetti sia r un numero qualunque intero e positivo; si avrà dalla (IV): (+ 0)"=M ; ed in seguito: (VI) TORTE (pt pag)" M' Inoltre, moltiplicando tra loro le equazioni (V) e (VI), membro a mem- bro, risulta: (VII) 1 1 per a = qa (ta) è e quindi si vede che la trasformata intera di qualsivoglia potenza della in frazione —!— è data dall'una o dall'altra delle formole INT RettVIDE Bxt-ha Vogliamo da ultimo far osservare che la trasformazione della frazione 2(0) #(a) comun divisore ai polinomii 4(a) ed F(a), come può vedersi nell’algebra del SERRET nel luogo citato in nota a piè di pagina al n° 22. Noi però non crediamo di dover insistere su questo metodo, essendo assai poco opportuno pel calcolo numerico. potrebbe essere operata applicando il procedimento del massimo NIOCEAZIOR Sulle somme delle potenze simili delle radici delle equazioni. Sarebbe quasi superfluo di arrestarci sulle somme delle potenze simili delle radici delle equazioni algebriche; nulla essendo più comune della loro teoria e delle loro proprietà; ma siccome si tratta di elementi es- senziali nelle ricerche di cui ci siamo occupati, crediamo opportuno di richiamare qualcuna delle formole o de’ metodi per ottenere i loro va- lori numerici. E dapprima, posta l'equazione di grado m: m—I F(a)=x"+a,x"+...+0,_;X+0a,=0, m nella quale il primo termine ha per coefficiente l’unità, rammenteremo che il valore di s, può essere direttamente calcolato col mezzo della nota formola di WARING: I a a s=rX(A)fN(A)t dove la somma figurata dal Y deve estendersi ai sistemi di valori interi e positivi (incluso il zero), che verificano l'equazione indeterminata: et 2a,+3,+...+M,3=f; e dove è messo per compendio: Efes ++, € . Ma geo: Questa formola è inconcludente nel caso dir=0; ma si sa che in questa ipotesi si ha s=M. Il valore di s, può ancora farsi dipendere dalle somme di gradi infe- riori ad r; a qual’effetto si hanno in pronto le formole ben conosciute di NEWTON: sta,=0 s,+a,st 2a,=0 Ss alr AS t A, t 34, = 0 e m Shaka US A38,m9 tt ses UE Sgt Mn Ù e per qualunque valore di r maggiore di m: St AS, US, t ze Str A,n-18r —m+ la GUSTA è. 0 24 Si sa del resto che i valori di s;; $;; 8») ete. sono i coefficienti dello sviluppo discendente della frazione: F'(x) ma" +(m_A)a,xe"°+...+@,_: So. St, 85 ni ==_=e—_—fi == TT = san Aaa F (x) L'+a,x° +...+4,, Ci x € : sviluppo che può ottenersi mediante la divisione ordinaria. Questa for- mola intanto, mutandovi la x in 0 e poi dividendo i due membri per a, diviene: i È i i F° È )_m +(m_A)a,c+...+ 0,0” == ="Saro dr sica, =Eesteleein 2 nu 0 I 2 s ri xF(3) 1+a,cx+0,x°+...+0,£ quindi si vede che i valori delle somme s;, 5, 8, etc: sono i coefficienti F'(: dello sviluppo ascendente della frazione a e si ha per tal modo un F LC metodo comodissimo per calcolare le dette somme col mezzo della di- visione. Ma per lo stesso oggetto troviamo indicato dal chiarissimo Professore BELLAVITIS un procedimento molto più semplice e rapido: procedimento immediatamente dichiarato dalle formole di NewTON. Supponiamo che sì tratti di calcolare le somme delle potenze simili delle radici dell’e- = 69 quazione di 5° grado scritta nella parte superiore del quadro seguente: ax —3r'+2x°+5x°4e-2=0 = 3] 3 se o|_- 9 4 ss Miolilanda voro s=— 2748 40° ‘15 ss=— 72 841 — 12 25 —42 —40 s.=—106 216 — 54 — 30 —20 — 6 ss=— 53 318 —144 —135 24 —40 ss = 298 159 —212 —360 108 12 etc: etc: etc: etc: Si comincerà dal moltiplicare ordinatamente i coefficienti dell'equazione, da quello del 2° termine, pe’ numeri successivi 1, 2, 3, 4, etc:, ed i pro- dotti si scriveranno in altrettante righe orizzontali, ma per modo da pro- cedere diagonalmente, scendendo da sinistra verso la dritta; e così nel- l'esempio si hanno i numeri —3,4,15,—-16,—10, che sono gli ultimi a dritta delle prime cinque righe orizzontali. Fissali questi numeri, ecco come si trovano 1 valori di s,, s,, s,, ete. Nella prima riga orizzontale, a sinistra del numero che già vi si trova scritto, sì ripeterà lo stesso nume- ro, ma col segno contrario, e si ha così +3, valore di s,. Indi si mol- tiplicherà questo valore di s, pe’ coefficienti dell'equazione, sempre a co- minciare da quello del secondo termine, ed i prodotti si andranno si- tuando per ordine nelle linee seguenti, immediatamente al di sotto dei primi numeri segnati nel quadro, in guisa da procedersi sempre diago- nalmente da sinistra a dritta. Per tal modo la seconda riga è completata co’ due numeri — 9 e 4; la somma algebrica di questi due numeri, presa col segno contrario, darà +5 per valore di s,. Operando con questo va- lore di s, come si è fatto con quelle di s,, la terza riga si troverà com- pletata co' tre numeri —15, 6, 15, e la loro somma algebrica, presa sempre col segno contrario, darà +6 per valore di s,. Nella stessa ma- niera sì passerà ai valori di s,, s,, ete.; ed è manifesto che in tal guisa sì ha un metodo semplice e rapidissimo pel calcolo delle quantità s,. Wal IL N° 18 ATTI DELLA R. ACCADEMIA DELLE SCIENZE FISICHE E MATEMATICHE SULLE FORME GEOMETRICHE DI SECONDA SPECIE MEMORIA DEL SOCIO ORDINARIO G. BATTAGLINI letta nella tornata del dì 2 maggio 1865. In una Nota sulle forme geometriche di 2° specie (sistemi di rette e di piani concorrenti in un punto, di rette e di punti giacenti in un piano inserita nel Rendiconto dell’Accademia, Febbrajo 1865, sono state stabi- lite le relazioni metriche fondamentali di quelle forme, sostituendo al sistema di rette e di piani concorrenti in un punto il sistema di punti e di archi di circoli massimi che esso determina sopra una superficie sfe- rica che ha per centro quel punto, e deducendone le relazioni corrispon- denti ai sistemi di rette e di punti giacenti in un piano, col supporre il centro di quella superficie sferica all'infinito. Fondandoci sulle formole indicate nella suddetta Nota, ci proponiamo di discutere in questa Me- moria la dipendenza equianarmonica tra le forme geometriche di 2° spe- cie, dipendenza cioè nella quale ad ogui punto e ad ogni arco in uno dei si- stemi corrisponde un punto ed un arco, 0 viceversa un arco ed un punto nel- l’altro sistema. Distingueremo i sistemi in omografici ed eterografici, secondo che i loro elementi corrispondenti nella dipendenza equianarmonica sono dellastes- sa, o di diversa natura: indicando sempre i punti dei sistemi con lettere minuscole, e gli archi con lettere maiuscole, dalle formole e dagli enun- ciati delle proprietà per i sistemi omografici, con soli cambiamenti nella grandezza delle lettere, e col mutare tra loro le parole punto ed arco, si potranno dedurre le formole e gli enunciati per i sistemi eterografici. 1. Siano (s,,$,) ed (s', $') due sistemi (omografici)in dipendenza equia- Atti — Vol. Il.— N° 18 1 SE narmonica; (abe, ABC), ed (abc, ABC)' due terne omologhe; e, f,g punti appartenenti rispettivamente agli archi A, B, C, ed E, F, G archi con- dotti rispettivamente per i punti a, d, c; infine dinotino w, v, w, U,V,W quantità costanti; si avranno le relazioni senb,e, senb'e' ui senc,f, . senc'ff ___sena,g, sena'g' _ sene,c, sene'c' senf,a,° senfo'” © seng,b, sengb'’ (4) senB,E, senB'E' senC,F, senC'F@ senA,G, senA'G' W > senE,C, core senF,4, senFA' —'’ senG,B,' senG'B'_ ed osservando che supposto il triplo rapporto (efg abc), ==E4, o pure (EFG, ABC), —+1, deve essere ancora (efg.zabe)' = o pure (EFG;ABG'==E1, sarà uw=UVW=1, e quindi in generale si avrà (2) (efg , abc) =(efg , abc) , (EFG, ABC),= (EFG, ABC), adunque nei sistemi di 2° specie in dipendenza equianarmoniea, il triplo rap- porto fra due terne di elementi in uno dei due sistemi è equale al triplo rap- porto fra le terne omologhe nell altro. Se m, n sono due punti qualunque ed M, N due archi qualunque sarà (mn,bc),, = (mn,bc)' , (mn,ca), = (mn,ca) , (mn,ab), = (mn,ab)' , (3) (MN,BC),= (MN,BC), (MN,CA),=(MN,CA), (MN,AB),=(MN,AB), e se (m, n), (p, 9) sono due eoppie di punti appartenenti ad un arco SL, ed (M, N), (P, Q) due coppie di archi condotti per un punto ®, sarà (4) (mn, pg), =(mn, pg), (MN,PQ),=(MN,PQ); per queste eguaglianze tra rapporti anarmonici i due sistemi (s,, $,) ed (s',5') sono detti in dipendenza equianarmonica. Poniamo per brevità di serittura senwA sen» B sen»C —_—_ 2% ——— = = senaA ” sen bB Y» sen cC Z, senQa senQb senQe senAa È’ senBb ©’ senCeo —gZ- e siano ancora w, v, w, U, V, W, quantità costanti; l’equazioni (1) da- ranno SEAT! PRICE ARR ISA HEISTTO 17 MERONE 1 TESE MERE MESE AIIIO RABBIT) DS A XV Za VE VIZI, VS ZU, VV: MZ; (9) ed osservando che, supposto il punto e appartenere all’arco Q, si ha la condizione xcXsenaA+yYsenbB+zZsencC=0, sì troveranno tra le costanti le relazioni RENI pa , Ti VECAIA pr 7 y, usu=vv' we, CZ e u,senb,c, __ v.senc,a;. _ w,sena,b, U' sen B'C' V'sen C'A' W'senA'B' U,senB,C, _V,senC,A, _W,senA,B, u' senb'e' v'senc'a' w'sena'd' Risulta dalla forma dell’equazioni (3) che ad un sistema di punti, o di archi, di un certo ordine, appartenente ad (s,,.$,) corrisponderà in (s',$') un sistema di punti o di archi del medesimo ordine; se dunque in uno dei sistemi, dipendenti tra loro per mezzo delle relazioni (5), più punti appartengono ad uno stesso arco, o più archi passano per uno stesso pun- . to, avverrà lo stesso per i punti e gli archi corrispondenti dell'altro si- stema; così resta dimostrata la possibilità della costruzione dei sistemi in dipendenza equianarmonica, ammessa sin quì ipoteticamente. Essendo date quattro coppie arbitrarie di punti o di archi omologhi, la dipendenza equianarmonica fra i due sistemi è del tutto determinata, purchè tre dei punti dati non appartengano ad uno stesso arco, o pure tre degli archi dati non concorrano in uno stesso punto; ogni altra cop- pia di elementi omologhi si costruirà facilmente con la considerazione che due gruppi omologhi di quattro punti, appartenenti in ciascun siste- ma ad un medesimo arco, e due gruppi omologhi di quattro archi, con- dotti in ciascun sistema per un medesimo punto, sono tra loro equianar- “monici. 2. Indicando con (i,, I,) ed (j', J') i sistemi di 2° ordine immaginarii all'infinito di (s,,.$,) e di (s',,8'), siano rispettivamente (i', 1") ed (j,,4,) i sistemi omologhi di (è,,7,) e di (j',J') in (s',8") ed in (s,,S,); la terna coniugata comune rispetto ad (i,, j,), 0 ciò che torna lo stesso rispetto * = ar i ad (I,,7,), sarà reale ed ortogonale al pari di quella che è coniugata co- mune rispetto ad (#’, j') o pure (/', J') e tali terne saranno omologhe tra loro; adunque in due sistemi di 2° specie in dipendenza equianarmonica vi sono sempre due terne omologhe ortogonali. Queste terne si diranno le terne principali omotoghe, e si diranno rispettivamente i loro punti ed i loro archi i centri e gli assi dei sistemi. In ciò che segue supporremo per semplicità ehela posizione diun punto e, 0 di un arco &}, di (s,, $,) sia riferita ad una terna (ade , ABC), che ha per omologa in (s', $') una terna ortogonale, e similmenté la posi- zione di un punto e' o di un arco QY' di (s', 5°) sia riferita ad una terna (abe, ABC)' che ha per omologa in (s,,$,) un’altra terna ortogonale: si avrà allora i,=(0°+y°+2°+2yzcosbe+2zxcosca+2xrycosab),=0 , j=(2°+0°9+- 29) =0, j=(£°+4°+2°+2yzcosbe+2zxcosca +2xy cosab) =0 , i=(v’r°+0vy+w°z°)=0, . ed indicando con r un’incognita, per determinare ì centri dei sistemi sì avranno le equazioni c(1—ru°)+ ycosab + zcosac =0, (1) acosba +y(1—rv)+ zceosbe =0, rcosca + ycoscb +z(4-rw)=0, nelle quali (come anche nelle seguenti) si porrà a tutte le lettere l’in- dice o l'apice, secondo che si tratti del primo o del secondo sistema. Ponendo per brevità =cosabcosac—(1—ru°)cosbe , e=(4--rv°)1—rw?)—cos?be , m=coshc cosba—(1—rv°)cosca , f=(1—rw°1—ru®)—cos°ca, n =coscacoschb —(1-rw°)cosab, g=(1—ru°)1-rv°)—cos°ab, l’equazioni (1) daranno le relazioni ey-ne=0, ez—ma=0; fe-y=0, fe-ny=0; ge-mz=0, gy-4z=0, ’—=fg, m°=ge, n°=ef; lmn=efg; le=mn, mf=nl, ng=lm, 9 le=my=nz , cosabcosac cosbecosba coscacosch (3) iene m n Pu ci BR , L'equazione (3) che determina r si ottiene immediatamente da (1) espressa col determinante 4—ru", cosab, cosac (3) i cosba, i1—rv, cosbe |= cosca, cosco, Ai—rw° (1—ru°)(1—rv°1—rw°)—cos°be(1—ru°)—cos°cal(1—rv°)—cos'ab(1—rwî) +2cosbecoscacosab=0 : per ciascuna radice di questa equazione, le equazioni (2) determineranno. un centro del sistema. L'equazione (3), che è di 3° grado, ha tutte e tre le radici reali, e sup- ponendo che al variare di r da —x% a + s'incontrino successivamente i valori p+34 senabsenaccosBC , senbesenbacosCA — __senca sencb cos AB u? cosbe e 7 5al v*cosca è w®cosab quelle radici saranno comprese rispettivamente negl’intervalli (8, 7), î (7, 2), (a, B). È Allorchè a=8=y=p due valori di r sono eguali a p, ed i valori di ©, Y, 3, corrispondenti a questa radice doppia di (3) saranno legati dalla sola equazione (4) Bicrggrnt og i - =0; cosbe.' cosca cosab Ù il tal caso tutt’i punti dell'arco Q rappresentato dall’equazione (4) sono centri del sistema: (s,,$,) ed (s',S') si diranno allorain dipendenza equia- narmonica circolare. La terza radice di (3), alla quale corrisponde il polo @ di £2, sarà poi data dall’ equazione 1 4 1 ass ‘ u v w Finalmente allorchè si hanno le condizioni = 4 cosbe=cosca=cosab=0 , u_—rv—=w=- , p l'equazione (3) ha tutte e tre le radici eguali a p, ed ogni punto può con- siderarsi come centro del sistema; (s,,$,) ed (s’,S') sono allora sistemi eguali. NUO Mg THE Allorchè si conosce uno dei centri, per esempio c, per determinare gli altri due si supporrà cosac=cosbe=0; si avranno così le relazioni (5) x(1—-ru)+ycosab=0, acosba+y(4—rv)=0, z=0, i valori di r essendo dati dall’ equazione (6) (1—ru°)A4—rv°)—cos'ab=0. Se invece dei centri dei sistemi si volessero determinare i loro assi , basterebbe cambiare in tutte le formole precedenti le lettere minuscole nelle maiuscole. 8. Considerando le coppie di punti omologhi appartenenti a due archi omologhi £,, Q', tra esse ve ne saranno due (m,, m'), (n,, n') tali che le coppie (m,; 2,), (m', n') siano principali, vale a dire tali che gli archi m,i,, m'n' siano quadranti; m ed n saranno i punti coniugati armonici rispetto alle due coppie (immaginarie) dei punti d’intersezione di £X con i ej, ovvero saranno i punti doppii dell’involuzione simmetrica costi- tuita dalle coppie dei punti d’intersezione di € con i sistemi di 2° ordine circoscritti al quadrangolo 6, che ha per vertici i punti comuni ad ie]. Se £ coincide con uno dei lati di 6, la coppia principale (m, n) risulterà indeterminata. Diremo archi ciclici di (s, S) le coppie dei lati opposti di 6, ed omoci- clici con (8, S) i sistemi di 2° ordine circoscritti a 6; si avrà dunque la proprietà: In due sistemi di 2° specie, in dipendenza equianarmonica , le coppie principali omologhe di punti, appartenenti a due archi omologhi, sono costituite dai punti che bisegano, internamente ed esternamente, le parti di quegli archi comprese fra due archi ciclici, ovvero sono costituite dai punti doppii delle involuzioni simmetriche determinate dalle coppie dei punti d'in- tersezione di quegli archi omologhi con i sistemi di 2° ordine omociclici con i sistemi equianarmonici proposti; se poi gli archi omologhi che si conside- rano coincidono con due archi ciclici, le coppie principali omologhe, corri- spondenti ad essi, sono indeterminate , ovvero due coppie omologhe qualun- que di punti, appartenenti a quei due archi ciclici omologhi, comprendono tra loro angoli equali. Similmente considerando le coppie di archi omologhi condotti per due punti omologhi @,, @', tra esse ve ne saranno due (M,,M'), (N,, N°) tali che le coppie (M,, N,), (M',N') siano principali, vale a dire tali che gli angoli M,N,, M'N' siano retti; M,N saranno gli archi coniugati armo- nici rispetto alle due coppie (immaginarie) degli archi condotti da @ tan- genti ad I ed J, ovvero saranno gli archi doppii dell’involuzione simme- MIS Se trica costituita dalle coppie degli archi condotti da @ tangenti ai sistemi di 2° ordine inscritti nel quadrilatero ®, che ha per lati gli archi tangenti comuni di / ed J. Se @ coincide con uno dei vertici di ®, la coppia prin- cipale (M, N) risullerà indeterminata. Diremo punti focali di (s, S) le coppie dei vertici opposti di ©, ed omo- focali con (s, $) i sistemi di 2° ordine inscritti in ©; si avrà dunque la proprietà: In due sistemi di seconda specie, in dipendenza equianarmonica, le coppie principali omologhe di archi, condotti per due punti omologhi, sono costituite dagli archi che bisegano, internamente ed esternamente, gli an- goli (sferici) sotto i quali da quei punti appariscono due punti focali, ovvero sono costituite dagli archi doppii delle involuzioni simmetriche determinate dalle coppie degli archi condotti da quei punti omologhi, tangenti ai sistemi di 2° ordine omofocali con i sistemi equianarmonici proposti; se poi i punti omologhi che si considerano coincidono con due punti focali, le coppie prin- cipali omologhe, corrispondenti ad essi, sono indeterminate, ovvero due cop- pie omologhe qualunque di archi, condotti per quei due nunti focali omologhi, comprendono tra loro angoli eguali. Essendo e, ed @' due punti omologhi qualunque, Q, ed Q' gli archi che hanno per poli quei punti, 0' ed 0, gli archi omologhi di QI, ed Q', saranno 2,0,, ed 0'0' punti omologhi che con ®; ed @’ formano due coppie principali omologhe di punti. Similmente essendo A, ed Q' due archi omologhi qualunque, @, ed e'iloro poli, o' ed 0, i punti omologhi di @, ed e', saranno @,9, ed 0'®' archi omologhi che con S, ed Q' formano due coppie principali omologhe di archi. 4. Supponiamo che (abe, ABC), ed (abe, ABC)' siano le terne princi- pali omologhe dei due sistemi (s,, $,) ed (s', S') si avrà i, =X+-yr+-25=0 I,=X+Y2+Z?=0, iaun+v’y’+ wa =0, P=UX°4+VY4+WZ°=0, n j,.=utet+viyit+wazi=0, J,=U:X2+ V?Y2+-W?Z2=0, j=a"+y"+2°20, SENNA Z°=0, uu'=vv'=w', PIEVI MW", dò calo ian Fe MW. oW_WwwW' & dv wu I vertici del quadrangolo 6 saranno determinati dall’ equazioni ASTE e le coppie degli archi ciclici saranno rispettivamente rappresentate dal- l’equazioni y z i z° x x y° Ti par=gg vw w—u? (9) == 0) Saggi ue sicchè una sola di queste coppie sarà reale, e le altre due saranno im- maginarie. Similmente i lati del quadrilatero © saranno determinati dall’equazioni plana DE 2 Ve Wa ag USV e le coppie dei punti focali saranno rispettivamente rappresentate dal- l’equazioni ve Yp= \ 75 po ve i xe Ma wi gs Uva i Vive va wa ei (3) laonde una sola di tali coppie sarà reale, e le altre due saranno imma- ginarie. Indicando con x, 8,y tre costanti, la dipendenza tra i sistemi (s,;$,) ed (s',5'), riferiti alle loro terne principali omologhe, sarà espressa per mezzo delle relazioni 14, seno A, seno, B,. seno, GC... . ... Senna”. seno'b' sen Q'c' (4) Seno N'È seno B'’ sena,G, °° REDS senQ,a, seno b, senQ,c, Se il valore di y è compreso tra quelli di « e #8 gli archi ciclici reali passeranno per e, ed indicandoli con H e K, essi saranno dati dall’ una o l’altra dell’ equazioni tan A,H,=tanK,4,= AE le tanB-K-=tanHiBr- VEE - (9) tan A'H'=tanK'A'= VE - Si 4 K'=tanH B'= - ps cada È i punti focali reali apparterranno a C, ed indicandolìi con h e k, essi sa- ranno dati dall'una o l’ altra dell’equazioni - (dA EE 2 g° tana, h,=tank,a,= 5 =sy5 1 ,.' tanbik,=tanh,b= È o 3 (6) LA Y 2 Jia tana'h'=tank'a' = nl tanb'k'=tan h!'b' = FR ER, Do Se a8=y", l'angolo compreso fra i due archi ciclici reali, ed anche l'arco compreso fra i due punti focali reali, avrà la stessa grandezza nel- l’uno e nell'altro sistema. Allorchè si conoscono le coppie di archi ciclici (H,, H'), e(K,, X') una coppia di archi omologhi (£2,, £2') si costruisce facilmente , osservando che i due lati della terna H,K,@, che comprendono l’angolo H,K, sono eguali ai due lati della terna H'K'O' che comprendono l'angolo H'K'. Similmente conoscendo le coppie di punti focali (A,, 4') e (k,, #'), una coppia di punti omologhi (®,, #') si costruisce osservando che i due an- goli della terna 4,k,@, adiacenti al lato h,k, sono eguali ai due angoli della terna h'%'o' adiacenti al lato h'#'. Siano ©, ed e' punti omologhi appartenenti agli archi Q, ed Q'; tra gli archi omologhi condotti per quei punti, siccome è noto, ve ne sa- ranno due P,, P' per i quali gli angoli Q,P, ed Q'P' sono eguali e di- retti per lo stesso verso, e due altri Q,, Q' per i quali gli angoli Q,0, ed Q'0' sono eguali e diretti per verso contrario; per una simile ragione a ciascuna coppia degli archi (Q,, £Y'), (P., P'), (0,0) apparterrà ri- spettivamente una coppia di punti (0,,0'), (p,.p'), (9,9) tali che gli ar- chi #,0, ed ‘0’, @,p, ed @'p', @,q, ed è'g' siano rispettivamente eguali e di- retti per lo stesso verso, ed un’altra coppia di punti (che indiecheremo con le stesse lettere 0,p,9) tali che gli archi @,0, ed 0'0', @,p, ed è'p', @,9, ed e'q' siano eguali e diretti in verso contrario; adunque in due sistemi di 2° specie in dipendenza equianarmonica, a partire da due punti omologhi (@,,0') e da due archi omologhi (OQ,, ') condotti per essi, si possono co- IESIESIN struire (in due modi) due terne omologhe (@,0,p,,©'0'p') eguali e dirette per lo stesso verso, e due altre terne omologhe (anche in due modi) (@,0,9,,0'0'g') equali e dirette in verso contrario. Queste terne si diranno le terne eguali dei due sistemi, corrispondenti ai punti (®,,%') ed agli archi (Q,, 0). Osservazione. Allorchè i sistemi in dipendenza equianarmonica sono eterografici, al quadrangolo 9, al quadrilatero @, ai centri, agli assi, agli archi ciclici, ai punti focali, ed ai sistemi di 2° ordine di punti e di ‘archi omociclici o omofocali in uno dei sistemi proposti, corrisponde- ranno rispettivamente il quadrilatero ©, il quadrangolo 6, gli assi, ì cen- tri, i punti focali, gli archi ciclici, ed i sistemi di 2° ordine di archi e di punti omofocali o omociclici nell'altro sistema; i due sistemi ammette- ranno ancora terne eguali corrispondenti a coppie di elementi omologhi (0,0) (Q,,0'). 5. In generale i due sistemi (s, ,$,) ed (s', $') hanno una sola coppia di Atti— Vol. II.—N.9 13. : , 2 Sei Li terne principali omologhe; se nelle formole (1) del numero precedente sì suppongano però eguali tra loro, per ciascun sistema, due tra le costanti u?, v°, w?, del pari che le corrispondenti tra U?, V?, W?, vi saranno in- finite terne principali omologhe, le quali avranno tulte un punto ed un arco di comune, in tal caso due coppie di archi ciclici coincideranno in un medesimo arco, e due coppie di punti focali coincideranno in un me- desimo punto: supponendo per esempio uf=?v e quindi u°=v"?, sarà anche U°=V? ed U°—V"?; le terne prineipali omologhe avranno di co- mune e, e C, in (s,,8,), c'e C' in (s',S'), e saranno gli archi cielici coin- cidenti, ed i punti focali coincidenti, rappresentati rispettivamente da z=0 e da Z=0; la terza coppia (immaginaria) di archi ciclici, 0 pure la terza coppia (immaginaria) di punti focali essendo rappresentata da c:y=*+V41, 0 pure da XXY=+V_4, essa coinciderà con la cop- pia degli archi immaginarii all’infinito corrispondenti al punto c, 0 pure con la coppia dei punti immaginarii all'infinito corrispondenti all’arco C.1 punti omologhi @,,' percorreranno poi C,, l' e gli archi omologhi Q,,Q' gireranno intorno a c, e e', per lo stesso verso, o in verso con- trario, secondo che nell’ equazioni u==%,, w==+v, U=xV,, U==+V' si prendano i segni superiori, o pure i segni inferiori; questo è il caso della dipendenza equianarmonica circolare. Allorchè si hanno le condizioni unu, vieni we Re 00 (una qualunque delle quali dà per conseguenza le altre tre) le terne prin- cipali omologhe, gli archi ciclici, ed i punti focali sono del tutto indeter- minati; due terne omologhe qualunque saranno eguali, e saranno dirette per lo stesso verso, o per verso contrario secondo che nell’ equazioni ud — Wi MOL MN NIN Sa si prendano i segni superiori 0 pure i segni inferiori; questo è il caso dell’eguaglianza dei sistemi, sia essa di sopraposizione o pure di sim- metria. Se il primo o pure il secondo dei due sistemi (s,,$,) (s', 8') si riduce ad un sistema di punti e di rette giacenti in un piano, per questo siste- ma i o pure j sarà la retta (doppia) all'infinito, ed Yo J sarà la coppia dei punti ciclici immaginarii all'infinito di quel piano; uno degli assi e due coppie di rette cicliche coincideranno con la retta all'infinito, e due e” ak punti focali saranno gli stessi punti ciclici immaginari all'infinito. Sup- poniamo per esempio che (s,,$,) sia un sistema di punti e di rette gia- centi in un piano, e che C, sia il lato della terna principale posta all’in- finito ; indicando con e y due costanti, la dipendenza equianarmonica tra (s,,$,) (s',S') sarà espressa per mezzo delle relazioni F, sen w' A' B senw' B' t) ua —_———_ (02) ===») rosa sro! la rimanente coppia di rette cicliche di (s,, 5,) con la coppia omologa di archi ciclici di (s', 8°) saranno date dall’ equazioni vÀ, pate v'A' cn 1_elgze n RA I VA I w,B, v senw' B' e le rimanenti coppie di punti focali, appartenenti rispettivamente ad A e B, saranno rappresentate dall’ equazioni Va, Y oca VAZTE , tano'B'=+ oA=tEVe-#, DO rali li di queste coppie è reale la prima o la seconda, secondo che « è minore o maggiore di y; se poi 4 è eguale a y le due coppie di punti focali coin- cidono con i centri c, e c' dei sistemi. Supponiame ora che (s,,$,) ed (s',S') siano tutti e due sistemi di punti e di rette giacenti in un piano: in tal caso un asse di (s,,$,) sarà la retta 4, che ha per omologa in (s',S') la retta A' all'infinito, ed un asse di (s', S') sarà la retta B' che ha per omologa in (s,,.$,) la retta B, all'infinito; B, ed A' sono due altri assi dei sistemi, ed i rimanenti assi C, e C' saranno due rette perpendicolari rispettivamente ad A, e B'. In- dicando con # e y due costanti, la dipendenza equianarmonica dei si- stemi sarà espressa dall’ equazioni ai IS Pi VI LES: ; in (s,,$,) una coppia di rette cicliche coincide con A, un'altra con B, e la terza è costituita dalle due rette @,A,==% parallele ad A,; ed in (s', 8°) una coppia di rette cicliche coincide con A' un’altra con B', e * i, la terza è costituita dalle due rette @'B'==+y parallele a B': due punti focali in ciascun sistema coincidono con i punti ciclici all’ infinito dello stesso sistema, e due altri con i punti che in quel sistema eorrispondono ai punti ciclici all'infinito dell’altro; queste coppie di punti focali sono determinate rispettivamente sopra A, ed A', e sopra B' e B, dall’equazioni Ceva 4; o=+taVA, 2° =—+V_1; dI ov ia finalmente le rimanenti coppie omologhe di punti foeali appartengono a C, e C', e sono determinate dall’equazioni @,A,=+v, 0'B'=+w. I sistemi di punti e di rette in un piano ed in dipendenza equianarmo- nica danno luogo ad aleuni casi particolari nolevehi. Essendo (abe, ABC), ed (abe, ABC)' due terne omologhe qualunque, «,f,y quantità costanti, si avranno in generale le relazioni (È A È Si ©,B, SR (- Ara lA b'B' Ora se le rette all’ infinito dei sistemi sono rette omologhe, sarà a=£=y, e sì avrà tra due aree omologhe qualunque e, ed #' la relazione e, 030,6, 2,60, 2,0, abc, LI QUE obra © logi Mae! * — —_ 1a (i questa dipendenza tra (s,,$,) ed (s',,5') dicesi proporzionalità (affinità), e si cambia in equivalenza allorchè le aree di due terne omologhe (e quindi due aree omologhe qualunque) sono tra loro equivalenti. Se poi i punti ciclici all’infinito dei sistemi sono punti omologhi, oltre delle condizioni a=£=y si avranno quelle ehe esprimono la simiglianza dei triangoli a,b,c, ed a'b'e'; poichè in tal caso due figure omologhe qua- lunque appartenenti ad (s 5) ed (s',$') sono simili, la dipendenza tra questi sistemi dicesi similitudine; questa poi diventa eguaglianza allorchè due terne omologhe (e quindi due figure omologhe qualunque) sono tra loro eguali. Indicando con (A,,B,) ed (A', B') le coppie principali omologhe appar- tenenti a due punti omologhi qualunque, e con 4 e v quantità costanti, la proporzionalità dei sistemi sarà espressa dall’equazioni wi, U 6) "Be A w'A* Pv u' ? guppir si — 13 — per l'equivalenza sarà uv, =#'', per la similitudine u,y'=v,w' e per l’e- guaglianza finalmente si avrà wy,=p', y,.=”'. Per i punti A,B, ed 4'B' si possono condurre in ciascun sistema due rette cicliche rappresentate rispettivamente dall’equazioni a la DARE A, Fi Pa gracozalo w'A! u' ESE esse sono parallele in ciascun sistema a due rette fisse, del pari che le rette A e B. Nei sistemi proporzionali o equivalenti non vi sono punti focali (a di- stanza finita); nei sistemi simili non vi sono rette cicliche (a distanza fi- nita), ma ogni punto è focale; nei sistemi eguali poi ogni retta è cicli- ca, ed ogni punto è focale. 6. Passiamo ora ad esaminare il caso in cui due sistemi in dipendenza equianarmonica appartengono ad una stessa forma geometrica. Supponiamo che 1 sistemi (s,,$,) ed (s', S') (omografici) in dipendenza equianarmonica appartengano ad una stessa superficie sferica. Gli archi omologhi condotti per due punti omologhi @, , @' costituiscono con i loro punti d’intersezione un sistema di 2° ordine di punti (5, @) al quale ap- partengono @, ed @'; tutti questi sistemi (0, @) hanno tre punti comuni e,f,g ciascuno dei quali considerato come appartenente ad uno dei si- stemi s,,s' coincide col suo omologo nell’ altro. Similmente gli archi che congiungono i punti omologhi appartenenti a due archi omologhi A, Q' costituiscono un sistema di 2° ordine di archi (2, ) al quale appartengono Q, ed Q'; tutti questi sistemi (3, ) hanno tre archi co- muni E, F,G, ciascuno dei quali considerato come appartenente ad uno dei sistemi S, , 8" coincide col suo omologo nell’altro. I punti e, f, g e gli archi E, F, G costiluiscono una stessa terna (efg, EFG); essi si dicono i punti e gli archi doppii dei sistemi (s,,$,), (s',,8'). Dei punti e degli ar- chi doppii uno è sempre reale; gli altri due possono essere immaginarii. Conoscendo uno dei punti doppii, per esempio g, se si tirano per esso due archi omologhi Q,, Q', gli archi che congiungono i loro punti omo- loghi concorreranno in un punto dell’ arco doppio G, il quale resta così determinato considerando due coppie di archi omologhi (Q,,02'); gli archi doppii dei due sistemi equianarmonici di 1° specie costituiti dagli archi &,, Q2' saranno gli archi doppii £ ed F di $, ed S'.Similmente cono- scendo uno degli archi doppii, per esempio G, se si prendono in esso due punti omologhi @,, @/, i punti di concorso degli archi omologhi condotti _—_d4_ per essi apparterranno ad un arco che passa per il punto g, il quale re- sta così determinato considerando due coppie di punti omologhi @,, @'; i punti doppii dei due sistemi equianarmonici di 1° specie costituiti dai punti e,,%' saranno i punti doppii e ed f di s, ed s'. Siano (abe, ABC), ed (abe, ABC)' due terne omologhe; essendo in ge- nerale K: senwA sen»B NM seno(i = = == senaA”’ y sen bB sencC° senwvQ=rsenaL+ysenbQ+zsenc2 , e per la dipendenza equianarmonica o'=rU,d, d y=tY: > 2'=tr si troverà facilmente che i punti doppii saranno determinati rispetto alla terna (abe, ABC), da due qualunque dell’equazioni r,(sena,A'—ru,sena'A')+y,senb,A'+z,senc,A'=0, (1) x,sena,B'+y,(senb,B'—rwv,senb'B')+z,senc,B'=0, er, seno, l'+y,senb,C'+z,(senc,C'—rw,senc'C)=0, sostituendo successivamente in esse per r, le radici dell’ equazione di 3° grado i sena,A'—r,u,sena'A', senb,A', senc,A' | (2) sena,B', senb,B'—r,v, senb'B', sen c;B' | = LL sena,C', senb,C', senc,C'—r,w,senc'C' Supponiamo che si annullino i determinanti minori di (2) vale a dire che si abbiano le condizioni sena,B'senb,C'senc,A'=sena,C'senb,A'senc, B'=9, 6 6, sena,A' = = : senb ic ( ti senb,C' sen Tp) ZA ; senc A'sena,(' u,sena'A' 0) = —_(sencl— 4; )=r w,sen nat ; sena,B'senb,A' a sì potrà porre L,senb,C'senc,B' M, N, x e e emTmTetAOEO)] IZ: z-\A\eA@U0V' 2. 6, senb,d' sene A’ © L, __M,senc,A'sena,0' _ N, nea sena,B' 0, seno. 2 L, M, _N,sena,B'senb,A'| = % sena, 0’ senb,(' 0 ” I I; | 0S e supponendo inoltre r,=,+-9, l'equazione (2) darà per è, due valori eguali a zero, ed il terzo espresso da t ;rà M, N, =I_}+ 4a tct:: Rc Alu, sena/ A Liv senb'B' vw. isence'l' Pel valore p della radice doppia di (2) le tre equazioni (1) si ridurranno alla sola (3) L,X,+ My,+Naz,=0 ? tutt'i punti dell'arco G rappresentato dall’ equazione (3) saranno quindi punti doppii dei sistemi s,,s'. Pel valore poi p,+-9, della terza radice di (2) le equazioni (1) daranno y,senb,B, z,senc,C, z,senc,C, a,sena,A, x,sena,A, _y,senb, Bb, (4) ” sena'B, sena'C, °° senb'C, — senb'A, ’ senc'A, senc'B, ed il punto g rappresentato da queste equazioni (di cui una qualunque è conseguenza delle altre due) sarà un altro punto doppio di s,, s'. Nel caso esaminato i sistemi (s,,.$,) ed (s', $') hanno dunque per punti doppii g e tutti punti di G, e quindi per archi doppii G e tutti gli archi che passano per g; l'arco condotto per due punti omologhi @, , @' passerà sempre per 9g, ed il punto d'incontro di due archi omologhi Q,, Q' si troverà sempre in G. I sistemi in dipendenza equianarmonica si diranno in tal caso prospettici (omologici); g sarà il centro e G l’asse di prospettiva (centro ed asse di omologia). Supponiamo ora che si annullino i diversi elementi del determinan- te (2); allora le terne (ade , ABC), ed (abe, ABC)' coincideranno tra loro, Di 1 è e sarà inoltre u,=v,=w,= Di ; l'equazione (2) avrà tutte e tre le ra- dici eguali a p,, e per questo valore di r, l’equazioni (1) essendo soddi- sfatte identicamente, potrà considerarsi ogni punto come punto doppio di $,,8', e quindi ogni arco come arco doppio di $,, 8"; i due sistemi sono in tal caso coincidenti o identici. Supponendo che nelle terne (abe, ABC), ed (abc, ABC)' i due punti e,,e' coincidano col punto doppio g, ed i due archi C,,C' coincidano coll’arco doppio G, gli altri due punti doppii e, f saranno determinati da una qualunque dell’equazioni E / n U / PES c,(sena b'—r,u sena'b')+y,senb, b'=0, r,sena,d'+y,(senb,a'—r,v,senb'a')=0, — do i valori di r, essendo dati dall’ equazione di 2° grado (sena_b'—r,u,sena'b'\senb,a'—r,v, senb'a')—sena,a' senb,b'=0 . Se nelle formole precedenti si scambiano tra loro l'indice e l'apice, la determinazione dei punti doppii si farà rispetto alla terna (abc, ABC)’, e se si scambiano tra loro le lettere minuscole e le maiuscole si avranno le formole per determinare direttamente gli archi doppii. 7. La dipendenza equianarmonica tra i sistemi (s,,$,) ed (s',8°), ri- feriti alla terna (efg, EFG) dei loro elementi doppii, sia espressa dall’ e- quazioni - . DIO . . UA . (AO Vi dall atte . . CY, a MRS WET AZIO YO API Koi YA CR NIONZE SIM ZE SOIN MII I essendo MW = D'WWT USV UO U )/A TS as Vie Vyyro A w' essa potrà esprimersi ancora con l’equazioni seno E seno, F_seno,G 6 senQ'e senQ'f senQ'g —— o ° A ce) a) Ao cer senv'E seno'F seno'G Va sen9a,e' senQ,f sen9Q,g° in cui «, @, y dinotano quantità costanti. . Può accadere che la coppia (e, f) o (E, F) sia principale, o pure che sia principale la terna (ef, EFG). Se (e, f) è la coppia immaginaria al- l'infinito corrispondente all'arco G, i punti omologhi su quest’arco for- meranno sistemi eguali e rivolti per lo stesso verso; similmente se (E, F) è la coppia immaginaria all'infinito corrispondente al punto g, gli archi omologhi condotti per questo punto formeranno sistemi eguali e rivolti per lo stesso verso; se poi si verificano tutte e due le condizioni prece- denti (nel qual caso la terna (efy, EFG) è principale) i sistemi totali (s,19,) ed (s',8') saranno eguali e rivolti per lo stesso verso, purchè per una sola coppia di punti omologhi (@,, @') o pure di archi omologhi (Q,,0), si abbia seno, G=seno' G, 0 pure senQ,g=send'g. Allorchè si ha x=—£, le coppie di punti omologhi (®,,@') apparte- nente a G saranno in involuzione, del pari che le coppie di archi omo- loghi (Q,,Q') condotti per 9; i sistemi (s,, $,) ed (s', S') si diranno al- — 17 - lora in involuzione parziale, relativa ad un punto e ad un arco doppio ; questa involuzione sarà simmetrica o pure ortogonale pel punto doppio g, e per l'arco doppio G, secondo che per quel punto, o per quell’arco, (E, F) o (e,f) è la coppia principale, o pure quella degli elementi im- maginarii all'infinito; se queste circostanze si verificano insieme per g e G, la terna (efg, EFG) sarà principale. Sia in secondo luogo «=#; i sistemi (s,, $,) ed (s',8') saranno in tal caso prospettici, essendo g e G il centro e l’asse di prospettiva; la prospet- tiva si dirà ortogonale quando g è il polo di G. Sia ora a=8=—y; i sistemi saranno ancora prospettici, ma oltre a ciò le coppie qualunque (,,@') di punti omologhi formeranno sull'arco che li congiunge un’involuzione, che ha per punti doppii g ed QG, e similmente le coppie qualunque (Q,, Q') di archi omologhi forme- ranno intorno al loro punto ® di concorso un’involuzione, che ha per ar- chi doppii G ed @g; si diranno perciò (s,, $,) ed (s', S') sistemi in invo- luzione (totale); l’involuzione sarà simmetrica allorchè g è il polo di G, e saranno g e G il centro e l’asse di simmetria ; in tal caso i sistemi sono eguali e diretti in verso contrario, o sia sono eguali per simmetria. Finalmente allorchè a=8=y i sistemi sono coincidenti o identici. Si possono considerare ancora altri casi particolari della dipendenza >. equianarmonica, corrispondenti alla coincidenza dei punti e degli archi doppii. Se e ed f coincidono in un punto 0, e quindi E èd F coincidono in un arco 0, indicando con (0,,0') e (9,,9') coppie di punti omologhi apparte- nenti rispettivamente ad 0 e G, con (0,,0') e (G,, G') coppie di archi omologhi condotti rispettivamente per 0 e g, e con w e y due costanti, si avranno per esprimere la dipendenza equianarmonica le equazioni sen0,0. sen 0,G seno'o seno'g . sen0'0* sen0'G_" — seno,0 seno,g (3) senG0 senG,6G' sengo seng 9” e === sen0G,sen 0G' senog,sen 0g’ Se rimanendo fissi E ed F, l’arco G passa per g, indicando con (e, ,e') ed (f.,f') coppie di punti omologhi appartenenti rispettivamente ad £ ed F, si avranno le relazioni sene,e' senf,f (4) CLS SALE senge, senge sengf,sengf' Atti — Vol II.— N.0 18 3 e n in tal caso i sistemi sono prospettici; il centro di prospettiva è 7, e l’asse di prospettiva G (che passa per g) è determinato dall’equazione senGE sen GF li y Similmente se rimanendo fissi e ed f, il punto g cade in G, indicando con (E,, E') ed (F,,F°) coppie di archi omologhi condotti rispettivamente ‘per e ed f, si avranno le relazioni senE,E' senF,F' (5 “ur RP — LU > TIT IFPI, == o, = 0) senGE,senGE' senGF,senGE” i i sistemi sono prospettici; l’asse di prospettiva è G, ed il centro di pro- senge sengf > È facile modificare le formole ed i risultati precedenti allorchè (8,,$,) ed (s', S') sono sistemi di punti e di rette giacenti in un medesimo pia- no. Quando le rette all infinito nei due sistemi sono rette omologhe, una delle rette doppie G cade all’ infinito; indicando con (A,,B,) ed (A',B') le coppie principali omologhe corrispondenti a due punti omo- loghi qualunque, e con 4 e y quantità costanti, il punto doppio g sarà dato dall’intersezione delle due rette ca Le J a o : Se ora (A,,B,) ed (A', B') dinotino le rette parallele alle preeedenti, e condotte per g, le rette doppie E ed N saranno le due rette @ deter- tandA, po’ tanoB' tan QA' ESTA tanoB, Allorehè i sistemi sono simili e diretti per lo stesso verso, (E, F) sarà la coppia immaginaria all'infinito corrispondente al punto g.; se poi i st stemi sono simili e diretti in verso eontrario, £ ed F saranno le bise- ganti interne ed esterne degli angoli A, A', B, B'. 8. Cerchiamo ora di determinare rispetto ad (efg, EFG) la posizione dei centri, degli assi, degli archi ciclici e dei punti focali di (s,,$,) ed (s', 8°). In generale gli archi ciclici saranno le coppie dei lati opposti del quadrangolo che ha per vertici i punti comuni ai due sistemi di 2° or- dine dati dall’ equazioni spettiva g (che cade in G) è determinato dall’equazione minate dall’ equazione c°+y°+2°+2yzcosfg+2zxcosge +2xycosef=0 ,, (1) wr +v°y°+w0°2°+2vwyzcosfg+Quvuzecosge - Quvaeycosef=0 , — 49= ed i centri saranno determinati da due qualunque dell’equazioni e(4—ru)+y (1_ruv)cosef+z4—ruw)coseg=0, @ . «(1—rvu)cosfe+y(1 —rv°)+z(1—rvw)cosfg=0 , 2(1_rwu)eosge+y(1—rwv)cos gf+z(i—rw°)=0, ponendo successivamente in esse per r le radici dell'equazione (tru), (A—ruv)cosef, (1—ruw coseg (3) (Arvu)cosfe, (1—rv°), (1—rvw)cosfg, |—=0. (1—rwu)cosge, (1—rww)cosgf, (1—rw°) Cambiando le lettere minuscole in maiuscole si avranno le formole analoghe per determinare i punti focali, e gli assi, e si parlerà del 1° 0 del 2° sistema secondo che alle lettere si porrà l'indice 0 l'apice. Le formole precedenti si semplificano alquanto allorchè (e,f)o(E,F) è coppia principale, e maggiormente allorchè è principale la terna (efg EFG), nel qual caso i punti e gli archi di questa terna sono i cen- tri e gli assi comuni ai due sistemi. Se (e,/) o pure (E, F) è la coppia immaginaria all'infinito corrispondente all'arco G, o pure al punto g, G sarà un arco ciclico, o pure g sarà un punto focale; verificandosi insieme queste due circostanze, i sistemi saranno in dipendenza equianarmonica circolare, vale a dire essi avranno infinite terne principali omologhe, che hanno di comune g e G, e coincideranno con quel punto i due punti fo- cali reali, e con quell’arco i due archi ciclici reali ; se inoltre i sistemi sono eguali e rivolti per lo stesso verso, ogni areo è ciclico, ed ogni punto è focale. Le stesse proprietà si hanno allorchè i sistemi sono in involuzione parziale (simmetrica o ortogonale) relativa a G, a g, 0 a tutti e due questi elementi insieme; solamente in quest’ultimo caso i sistemi potranno es- sere eguali e rivolti per verso contrario, o per lo stesso verso, secondo che l'involuzione è simmetrica o ortogonale. Supponiamo ora che i due sistemi siano prospettici, essendo g e G il centro e l’asse di prospettiva. Si potrà supporre GF un angolo retto, e gf un quadrante; un arco ciclico coinciderà con G, ed un punto focale v è So ° 7 con g; ponendo u=»v=-, l’altro arco ciclico reale Q passerà per f, e Da E ci . sarà determinato nel 1° e nel 2° sistema dall’equazioni senQ sen 9'E + (4) Pins A Gal cosge = TE 3 seno, G 2a senQ'G Qu * age e l’altro punto focale reale @ apparterrà ad F, e sarà determinato nel 4° e nel 2° sistema dall’ equazioni (i % fi r SEEEAS ca COSROE n schegge 12500 seno'g 2y Se la prospettiva è ortogonale , i sistemi avranno infinite terne prin- cipali omologhe, che hanno di comune g e G; i due punti focali reali coincideranno con g, ed i due archi ciclici reali con G. Se i sistemi prospeltici sono inoltre in involuzione, coincideranno con gede,econGed E, i due punti focali reali, ed i due archi ciclici reali; e finalmente se l’involuzione è simmetrica, i sistemi essendo eguali e rivolti per verso contrario, ogni punto è focale, ed ogni arco è ciclico. Allorchè (5,, $,) ed ($', $') sono sistemi di punti e di rette giacenti in uno stesso piano, sarà facile in tutt'i casi la determinazione delle terne principali omologhe, delle rette cicliche, e dei punti focali; quando i sistemi sono prospettici le rette A, e B', che in ciascun sistema corri- spondono rispettivamente alla retta all’infinito dell'altro, saranno paral- lele all’asse di prospettiva, e a distanze eguali ed opposte rispettivamente da quest’asse e dal centro di prospettiva; nel 1° o pure nel 2° sistema poi l’asse di prospettiva con l’altra retta ciclica, ed il centro di prospettiva con l’altro punto focale, saranno a distanze eguali ed opposte da A, o pure da B'. i Risulta evidentemente dalle cose dette che essendo dati due sistemi (5,18,) ed (8, 8°) in dipendenza equianarmonica, su due sfere di raggio 1 ma di centri diversi, si possono far coincidere le due sfere in modo che i sistemi risultino in involuzione parziale simmetrica o ortogonale, o pure in prospettiva, e ciò facendo coincidere convenientemente tra loro due punti focali, o due archi ciclici omologhi; se 1 sistemi ammettono infinite terne principali omologhe, che hanno tutte un punto ed un arco di comune, l’involuzione sarà relativa ad un punto e ad un arco insieme, e la prospettiva sarà ortogonale; la prospettiva finalmente sarà in invo- luzione allorchè l'angolo compreso fra i due archi ciclici reali, 0 ciù che torna in tal caso lo stesso , l'arco compreso fra i due punti focali reali, ha la stessa grandezza nell’uno e nell'altro sistema. 9. Ogni sistema di 2° ordine (6, ©) costiluito dai punti d'incontro degli archi omologhi condotti per due punti omologhi @,, @' è circoscritto alla terna (e,f,g), viceversa ogni sistema di 2° ordine 6 circoscritto ad (e, f,4) può considerarsi come un sistema (6,@), essendo @, 0 @' il punto BIS, PS comune (oltre di e, f,9) a 9, considerato come appartenente ad s' 0 ad s,, ed al sistema omologo in s, o in s'; supponendo o rappresentato dall’ e- quazione lyz+mze+nay=0, il punto ® sarà dato dalle formole u(v—w)xex _v(u_—uy _ wlu—v)z l m NI n Tra i sistemi 6 ve ne sono quattro che hanno un doppio contatto col sistema di 2° ordine (î,j) immaginarto all'infinito; gli archi che congiun- gono i due punti comuni ad (i, j) e o sono i lati £ del quadrilatero che ha per vertici i punti che bisegano internamente ed esternamente gli archi /9, ge, ef; il punto armonico rispetto a o di A, è nello stesso tempo il polo 0 di £Y; con & coincidono due archi ciclici di 0, e con 0 due punti focali. Similmente ogni sistema di 2° ordine (3, Q) costituito dagli archi che congiungono i punti omologhi appartenenti a due archi omologhi Q,, Q' è inscritto nella terna (E, F, G); viceversa ogni sistema di 2° ordine % inscritto in (E, F, G) può considerarsi come un sistema (®, Q), essendo Q, 0 Q' l'arco comune (oltre di E, F, G) a 3, consi- derato come appartenente ad S' o ad S, ed al sistema omologo in $, 0 in S'; supponendo % rappresentato dall’equazione LYZ+MZX+NXY=0, l'arco Q sarà dato dalle formole UV-WX. VW-U)F_ WU-NZ (E ATI RIOT PSR DOO Tra i sistemi ® ve ne sono anche quattro che hanno un doppio con- tatto col sistema di 2° ordine (I, J) immaginario all’ infinito ; i punti d'incontro dei due archi comuni ad (1, J) e X sono i vertici @ del qua- drangolo che ha per lati gli archi che bisegano, internamente ed ester- namente, gli angoli FG, GE, EF; l'arco armonico di @ rispetto a $ è nello stesso tempo î' arco 0 che ha per polo e; con @ coincidono due punti focali di 3, e con 0 due archi ciclici. Siano ora (6,, ®,) e (0, 3') due sistemi omologhi di 2° ordine di punti e di archi; se (e, f, g) appartiene a 0,, (E, F, G) appartiene a &,, 99 — dx — o finalmente (efg, EFG) è una terna coniugata rispetto a (6,, ,), ap- parterrà ancora (e,f,g) a 0', (E,F,G) a 2', 0 pure sarà la terna (efg, EFG) coniugata rispetto a (o', 2'). Se (0,, 2,) è un sistema omociclico, o pure omofocale con (s,, $,), sarà anche (5’, 3') un sistema omociclico, o pure omofocale con (s', S'). In generale 6, e o' coincideranno tra loro solamente allorchè si ridu- cano alle coppie di archi (F, G), (G,E), (E, F), e ®,, 2' eoincideranno tra loro allorchè si riducano alle coppie di punti (f.9), (9), (e, f); però se sì ha la condizione w°=wv, e quindi anche l’altra W°*—=UYV, ogni sistema (0,, 2,) che passa per (e, f) e tocea (E, F) coineiderà col suo omologo (0', ='); se poi si hanno le relazioni u=v=—w, e quindi anche le altre U=V=-— W, quella eoincidenza avrà luogo per ogni sistema di 2° ordine (5, 2) pel quale g e G sono elementi armonici tra loro; finalmente se u=v=%, e quindi anche U=Y=W, ogni sistema di 2° ordine in (s,, $,) coinciderà col suo omologo in (s', S'). I punti omologhi @,, ©' tali che gli archi che li congiungono passino per un dato punto 0, costituiseono due sistemi omologhi di 2° ordine (5,0), (0',0); i punti in cui 6, e a' incontrano due archi omologhi Q,, Q' sono ì punti in cui questi arehi sono ineontrati dagli archi del sistema di 2° ordine (3, Q.) che passano per 0; 6, e o' passano entrambi per 0, e ciascuno di essi passa rispettivamente pel punto che in s, 0 in s' corri- sponde al punto o considerato come appartenente ad s' o ad s,. Similmente gli archi omologhi Q,, Q' tali che î loro punti d'incontro appartengano ad un dato arco 0, costituiscono due sistemì omologhi di 2° ordine (3,,0), (3',0); gli archi di 2, e 2' che passano per due punti omologhi «,, ®' sono gli archi eondotti da questi punti ai punti del si- stema di 2° ordine (5, @) appartenenti ad 0; £, e 2' toccano entrambi 0, e ciaseuno di essì tocca rispettivamente l’areo che in $, o in $S' corrì- sponde all’areo 0 considerato come appartenente ad S' o ad S$,. 10. Supponiamo ora che alla stessa forma geometrica appartengano due sistemi eterografici in dipendenza equianarmoniea. Indichiamo eon ($,, s,) ed (8°, s') i sistemi costituiti dagli archi Q,,Q' e dai punti @,, @' che corrispondono rispettivamente al punto @, ed all'arco considerati come appartenenti al 2° o al 1° dei due sistemi eterografici proposti, e dinotiamo con {s,$) il sistema dei punti @ e degli archi Q. I punti @ per i quali passano gli archi omologhi Q,, Q' costì- tuiscono uno stesso sistema s di 2° ordine, e similmente gli archi Q sui quali si trovano i punti omologhi @,, @ costituiscono ancora uno — 23 — stesso sistema % di 2° ordine. Gli archi di ® condotti per un punto @ di o sono i due archi Q, ed £2' che corrispondono ad @, ed i punti di o appartenenti ad un arco di X sono i due punti @,, e’ che corrispondono ad Q. Se poi i due archi di ® condotti per un punto arbitrario © incon- trano o nelle coppie di punti (m,, m'), (n,, #') in modo che m,m', n,n' siano gli archi di S' che corrispondono ai punti m,, n, considerati in s, e quindi siano m'm,, n'n, gli archi di $, che corrispondono ai punti m',n' di s, saranno mn, ed m'n' gli archi A, ed Q' corrispondenti al punto @; similmente se per i due punli di o appartenenti ad un arco arbitrario Q passano le coppie di archi di ® (M,, MM"), (N,, N°) in modo che M,M', N,N' siano i punti di s' che corrispondono aglì archi M,, N, considerati in $, e quindi M'M,, N'N, siano i punti di s, che corrispondono agli archi M', N' di $, saranno M,N, ed M'N' i punti @, ed @' corrispondenti all’arco Q. Nel caso particolare che @ sia un punto di 3, i due archi corrispon- denti £2, ed Q' saranno gli archi che toccano c nei suoi punti d’incon- tro con l'arco tangente di ® in @; e se £Y è un arco tangente di c, i due punti corrispondenti @, ed e' saranno i punti di contatto di ® con gli archi tangenti condotti pel punto di contatto di o con £. I due sistemi di 2° ordine o e ® hanno tra loro un doppio contatto; ciascuno dei due punti comuni e 0 f di o e X, considerato in s, ha per archi omologhi in $, ed in S' l'arco tangente comune o £ di 6 e 3 in quel punto, come ciascuno dei due archi comuni £ o F di 3 e 0, consi- derato in S, ha per punti omologhi in s, ed in s'il punto di contatto comune f 0 e di 3 e s su quell’arco; e finalmente il punto d'incontro g di E ed ha per archi omologhi nei due sistemi $, ed S' l’arco G che passa per e ed f, o pure viceversa G ha per punti omologhi nei due si- stemi s, ed s' il punto g. Si diranno e, f, g ì punti dpi ed E, PF, G gli archi doppii dei sistemi eterografiei. Essendo 0 l’arco che ha per polo @, ed o il polo dell’arco Q, gli archi 0, Q,, £Y' apparterranno a tre sistemi omografici ®, $,, $', ed i punti 0, ©,, e' apparterranno a tre altri sistemi omografici 0, s, s'; gli archi doppii di @ ed S,, edi punti doppiì di 8 ed s, costituiranno una stessa terna (efg, EFG), e similmente gli archi doppii di © ed $', ed i punti doppii di 6 ed s' costituiranno un’ altra terna (efy, EFG)': le due terne (efq, EFG), ed (efg, EFG)' sono polari tra loro, ed i punti di ciascuna eon gli archi “ae dell’altra, o viceversa, saranno elementi omologhi dei sistemi eterografici proposti; si diranno perciò quelle due terne le terne polari dei medesimi sistemi. sac. Sri 11. Siano (abc, ABC), ed (abe,ABC)' le terne che in (s,,$,) ed in (s',8") corrispondono alla terna (ABC,abc) di ($,s); ponendo in generale, come al solito, pote: senvA —__senoB 19! senoC £, sen9da x, senQ ,, senaQc "7 senah'!7 senbB' 7 senc0’ © — senda' — senBb' © — senCe si avrà, per la dipendenza equianarmonica, indicando con w,v,w, U, V, W quantità costanti, A:YridZi tu, sviy iz Ani de Zi clava) no cy IU LEVE WEZz ge A Osservando che si ha generalmente senwAsenDa = senoBsen9bd — senw(G sen e senmnQ = pi sen Aa sen Bb sen Cc sì troverà e ANTA OI senQ,a sen® b u,csencA,+v,ysencB,+w,zsench, a senQ,c e quindi (1) u,(csenaA,+ysenbA,+zsencA,) v,(esenaB,+ysenbB,+zsencC,) senQ'a senQ'b __w,(csenaC,+ysenbC,+zsencG,) senQ'c Segue da ciò che l'equazione di o sarà u,e°senaA,+yz(w,senbC,+v, sencB,) (2) +v,y° senbB,_+-zx(u, sencA,+w, sena(C,) +w,2°sencC,+xy(v, senaB,+u, sendA,)=0 , e pel punto doppio g si avrà x dat Y z v,sencB—w,senbl, w,senaC,—u,sencA, u,senbA,—v,senaB, Cambiando tra loro in (1), (2), (3) le lettere minuscole e le maiuscole si avranno le formole per determinare, rispetto ad (abc, ABC), @, ed @' 9, per mezzo di Q, e per determinare 3 e l'arco doppio G. Si potranno poi in tutte queste formole scambiare tra loro l'indice e l'apice, e con ciò si otterranno alcune relazioni tra le costanti w, v, w, U, V, We gli ele- menti delle terne (ABC, ade), (abe, ABC),, (abe, ABC). Se la terna (a,d,c) appartiene a 0, (A,B,C), ed (A,B,C)' apparter- ranno a %, e se (A, B, C) appartiene a 3, (a,b,c), ed (a,b,c)' apparter- ranno a 6; se (a,b,c) è una terna coniugata rispetto a c, gli archi che congiungono le coppie di punti (a, AA,), (0, BB), (c, CC,), 0 pure (a, AA'), (6, BB"), (c,CC') passeranno per uno stesso punto, ed i punti d’ incontro delle coppie di archi (A, , 4,4), (B,, b,b), (C,, 6,6), 0 pure (A',a'a), (B', b'b), (C',c'e) apparterranno ad uno stesso arco; similmente se (A,B,C) è una terna coniugata rispetto a X, i punti d'incontro delle coppie di archi (A,aa,), (B,bb,), (C,cc,), o pure (A,aa'), (B,bb'), (C,ce') apparterranno ad uno stesso arco, e gli archi che congiungono le coppie di punti (a,,A,A), (5,,B,B), (c,,C,C), 0 pure (a',A'A), (0',B'B), (c',C'C) passeranno per uno stesso punto. Consideriamo i due determinanti Va a u,senaà, , v,senaB, , w,senaG, U,senAa,, V,sen Ab, , W,senAc, u,senbA, , v,senbB,, w,senbG,| , |U,senBa,,V,senBb,, W,senBe, »4 ’ u,sencA,, v,sencB,, w,sencC, U,senCa,, V,senCb,, W,senCc, | x . se uno di essi è simmetrico, l’altro lo sarà parimenti; c e % costitui- ranno uno stesso sistema di 2° ordine (c, 3) di punti e di archi, coin- cideranno insieme £,, Y' con l'arco armonico di @, ed @, , @' col punto armonico di @ rispetto a (o, ®), ed infine la terna (abe, ABC) sarà in prospettiva con la sua omologa; in tal caso i sistemi eterografici in dipendenza equianarmonica si diranno in involuzione. Se poi il primo, o pure il secondo, dei suddetti determinanti è gobbo simmetrico, 6 0 pure >, sarà indeterminato, Q, ed Q' coincideranno con l’arco che congiunge e con un punto fisso 0, 0 pure @, ed o’ coin- cideranno col punto d'incontro di € con un arco fisso 0; l'arco omo- logo di 0, ed il punto omologo di 0 saranno poi del tutto indeterminati. 12. Riferendo i sistemi (s, S), ($,:5,)» (S', s') alla medesima terna (efg, EFG) degli elementi doppii, la loro dipendenza equianarmonica sarà espressa dall’equazioni PAR SOY ABRIIOTO RIO ORC DIE AIAR, BD GABER MRO Hc RO 16 IO ceglie eZ a eat: WZ, 26 — essendo u,senfF __ va SeneE v'seneE u' senfF U,senfF . V,seneE W, V'seneE VU senfF Tw! ’ U,v =Vu =Ww ; È = Ul = 00M w' o pure, indicando con a, 8, y quantità costanti, dall’equazioni senvE senvF senoG senv'E seno'F_seno'G - fd » RITO ——: x + . s . . e TAO = €" Pil sen Q,f senQ,e senQ,g senQf senQe senQg senwF senwE senwG (2) ir —_ sen eE : —9— sen° fF : ——- seneEsenfF senQ'e - senQ'f senQ'g seno F ep. seno E 2 fF: MAM AIR, * eE: — senQe sen Qf senQg Le equazioni di c, considerato come sistema di punti o di archi, sa- ranno xcy(AseneE+asenfF)+z° di; gG=0., | 7 (3) È 4XY = seneE senfF+Z°(8seneE+asenfF)sengG=0, 7 j L e quelle di 3, considerato come sistema di archi o di punti, saranno Ù XY(fseneE+asenfF)+Z"ysengG=0, ) 4xyysen eE senfF+-2°(SseneE+-asenfF)sengG=0 . I sistemi (s,,,$,) ed (s', S') sono in dipendenza equianarmonica espressa dall’equazioni . seno, E seno,F seno, G senQd'e senQ'fo senQ'g senw'E° seno'F seno'G'' senQ,e' senQ,f senQ,g (9) ed 1 diversi casi particolari di questa dipendenza danno quelli che cor- rispondono ai sistemi eterografici proposti. I due casi più notevoli si hanno: 1° allorchè fseneE=— asenfF; allora (s,,$,) ed (s', S') sono in involuzione totale, 5 secondo che si considera come sistema di punti o di archi si riduce all’ arco G preso due volte, o pure alla coppia di ::6°seneE : a°sen*fF : aBseneEsenfE , —_ 27 - punti (e,f); e 2 secondo che si considera come sistema di archi o di punti si riduce al punto g preso due volte, o pure alla coppia di archi (E, F); gli archi Q, ed Q' corrispondenti al punto @ passano pel punto d'incontro di G con #9, e sono coniugati armonici rispetto a questi due archi, come i punti ©, ed e' corrispondenti all'arco £Y appartengono al- l arco che congiunge g con QG, e sono coniugati armonici rispetto a questi due punti: 2° allorchè si ha fseneE=asenffF; allora (8,,$,) ed (s', S') sono sistemi identici, s e ® si riducono ad un solo sistema di 2° ordine (5,2), ed i sistemi eterografici sono in involuzione. Non ci tratteniamo sull’ipotesi dei valori nulli o infiniti di a, 8.0 y, nè su quella della coincidenza di due elementi doppii. Se in (s,$) un sistema di 2° ordine passa per (e, f) e tocca (E, F), i sistemi omologhi in ($,,s,) ed in ($',s') coincideranno in uno stesso sistema di 2° ordine che passa anehe per (e,f) e tocca (E,F); se poi si considera l’uno o l’altro dei due sistemi di 2° ordine di punti e di ar- chi rappresentati dall’equazioni Di Sia g +2xy VaBseneEsenfF + 2° sengG=0, Y (6) +2XYVeafseneE senffF +Z° 7 sengG=0, eiascuno di essì considerato in (s,$) coinciderà col suo omologo in (S,,5,) ed in (S',s'). Supponiamo i sistemi eterografici in involuzione, e riferiamoli alla ter- na ortogonale (abc, ABC), coniugata comune rispetto a (5,2) ed al si- stema di 2° ordine immaginario all'infinito. I sistemi o e X di punti e di archi saranno rappresentati da equazioni della forma (7) rn Mi nd, e la dipendenza equianarmonica tra i sistemi eterografici (s, $) ed ($, s) sarà espressa dalle relazioni I FE . (8) AP: dea; cogozi: u v DI Ad ogni arco eiclico in uno dei sistemi corrisponde un punto focale nell'altro, che è il punto armonico di quell’arco rispetto a (6,2), e vi- - Og ceversa ; le coppie degli archi ciclici e dei punti focali corrispondenti sono rappresentate rispettivamente dall’equazioni 23 AZILE abisaiegd he pid Mele Lo > xy espe zena v (9) (°—-2°)2+(°—25)x®=0; sesti Amel Vi rà Sn î Ì > y2 3? ’ pio i Pasta ; E PETRA dA (2 i, )a +(& ca )y sa > 2 4 u? = > Se due tra le quantità À, 4, v sono eguali, coincideranno due coppie di archi ciclici in un solo arco A, B o C, e due coppie di punti focali in un solo punto a, d 0 c; l'involuzione dei sistemi si dirà allora circolare: se poi À, 4 e v sono tutte e tre eguali tra loro, gli archi ciclici ed i punti focali saranno del tutto indeterminati ; in tal caso ogni punto in un si- stema è il polo del suo arco omologo nell’altro, l’ involuzione perciò si dirà allora ortogonale. Se due sistemi eterografici appartengono a due superficie sferiche di raggio 1, ma di centri diversi, si possono sempre far coincidere le due superficie sferiche in modo che i sistemi siano in involuzione, c ciò fa- cendo coincidere convenientemente tra loro le terne principali omolo- ghe dei due sistemi; se vi sono infinite terne principali omologhe, che in ciascun sistema hanno un punto ed un arco di comune , vale a dire se la dipendenza equianarmonica è circolare, l’involuzione risulterà an- che circolare; e finalmente se i sistemi sono eguali, vale a dire se l’arco compreso fra due punti qualunque in uno dei sistemi è eguale a quello che misura l'angolo compreso dagli archi omologhi nell’altro, l’involu- zione sarà ortogonale. Vol. II. N49. ATTI DELLA R. ACCADEMIA DELLE SCIENZE FISICHE E MATEMATICHE SULLE INVOLUZIONI DEI DIVERSI ORDINI NEI SISTEMI DI 2° SPECIE MEMORIA DEL SOCIO ORDINAR10 G. BATTAGLINI letta nell’adunanza del dì 4 luglio 1865. Allorchè in due sistemi di 1° o di 2° specie in dipendenza equianar- monica ed appartenenti ad una stessa forma geometrica si considerano gli elementi omologhi consecutivi di un dato elemento, se due di essi coincidano tra loro, i due sistemi saranno in involuzione di un certo or- dine. La discussione delle involuzioni dei diversi ordini nei sistemi di 1° specie forma l'oggetto di una Memoria già pubblicata nel 1° Volume degli Atti dell’Accademia; con questo scritto vengo ora ad estendere gli stessi principil ai sistemi di 2° specie. Per darsi facilmente ragione delle formole e dei risultati seguenti giova consultare, oltre della suddetta Memoria, l’altra sulle forme geometriche di 2° specie, precedentemente presentata all'Accademia, come anche la Nota sullo stesso argomento inserita nel Rendiconto. | 41. Siano in due sistemi omografici di 2° specie, in dipendenza equia- narmonica, appartenenti ad una stessa forma geometrica (sistemi di punti e di archi appartenenti ad una stessa superficie sferica ) i punti ©, @,....@,e gli archi Q,, Q,....Q. omologhi rispettivamente de’ punti do, ©, -.-.@;,, degli archi Q,, Q,....0., passando dal primo sistema nelsecondo, e similmente siano @_,,@_,....0_,edQ_,,Q,....Q_omo- loghi rispettivamente di @,, @_,....@_., e di Qi, QA_,....9,, pas- sando dal secondo sistema nel primo; due qualunque di questi elementi ©u,©, ed L,,, si potranno considerare come punti ed archi omologhi Atti — Vol. II.— N° 19 1 _— 2- vi in due sistemi in dipendenza equianarmonica; le coppie (0,;@,),(AQ,,2) o pure (®,,@_.), (A, _.) sì diranno appartenenti a due sistemi equia- narmonici consecutivi d'ordine i, 0 pure —i; le coppie (0,,0,) ed (Q,,Q,) apparterranno quindi a due sistemi consecutivi d’ ordine y— y. Sia (efg, EFG) la terna degli elementi doppii dei sistemi equianar- monici proposti; indicando con &, £, y quantità costanti si avranno le relazioni (7) senEv, . senFo, — senGo, ZZZ i i1a:B8:7, senE»_, senFo,, senGo,, (1) seneQ, , senfo,, seng9, , . 205, sene9, senf9, seng®Q, e quindi, qualunque sia il segno di i, sarà senEv, senFo, senGo, : : se% 9 39 Ù » senE», senFo, senGo, (1) sene9, senfo, sengQ,, ; ; 3-07 seneQ, senfo, sengQ, i, 3 ARIE A i x i a ; Si suppongano per ora le quantità (5) , (1) > (5) diverse dall’uni- 7 % tà; non potrà coincidere ©, con ©, ed Q, con Q, se non quando coincide ©, con uno dei punti e, f, g ed O, con uno degli archi E, F, G; adun- que due sistemi equianarmonici consecutivi d'ordine qualunque hanno sem- pre gli stessi clementi doppii. (2) e ni 7 Due tra le quantità -, I si possono supporre insieme minori o mag- 7 TRI R vali; reni B 7) DO ì SE: giori dell’ unità; supponendo 3 gi: Sb per è infinito coincideranno rispettivamente i punti @, ed @_, con e ed f, e gli archi Q, ed Q_ con 6 ” 5 7 Ju ; Fed E, e supponendo “> 1 e => coincideranno viceversa @, ed @ , 7 / (24 con fed e, Q, ed Q_conEed F; adunque nei sistemi equianarmonici con- secutivi due punti e due archi doppii reali sono limiti ai quali sì avvicinano rispettivamente i punti è gli archi omologhi consecutivi di un punto e di un arco qualunque, crescendo positivamente e negativamente l'indice che dinota ordine di quegli elementi omologhi. () Memoria sulle forme geometriche di 2° specie. DES 6 Se i due punti &, ed @_, ed i due archi Q, ed Q, sono coniugati (* rispetto al quadrilatero Q che ha per vertici i punti che bisegano inter- namente ed esternamente gli archi /9, ge, ef, o pure sono coniugati ri- spetto al quadrangolo q che ha per lati gli archi che bisegano interna- mente ed esternamente gli angoli FG, GE, EF, si troverà facilmente, per le formole (2), che gli elementi omologhi consecutivi d’ordini eguali e di segni contrarii (@.,@_.) di (@,,@_,)) (2,2 _)di(Q,Q _) saranno anche coniugati rispetto al quadrilatero Q, o pure coniugati rispetto al quadrangolo g. Questi elementi coniugati si diranno simmetrici rispetto ai bisettori degli archi, o pure degli angoli, della terna (efy, EFG). Considerando le coppie (@.,@_.) ed (Q,,Q ) dei punti e degli archi consecutivi di @, ed Q,, ssi avrà per l’ equazioni (2) 1 senEv.senE»_, senFo senFo_, senGo senGo_ sen Esso «i Sgen®Pola to sen Go; 0 (3) sene9 seneQ . senfo,senfo_, — seng9 seng9 . sen?e®, > sen? fa, ET sen go, ; segue da ciò (**) che le coppie di archi (e@ , e@_,), (f@.,f@_.), (90,192 _.), o pure le coppie di punti (EQ,, EQ _), (FO, FQ ), (GO, GL ), de- terminano rispettivamente con le coppie (F,G), (G, E), (E, F), o pure con le coppie (f,9), (90), (e,f), involuzioni di archi o di punti, in cui uno degli archi doppii è ee; fico: 9%, 0 pure uno dei punti doppii è EO,, FO, GO, ; in altri termini i punti @,, @_, sono coniugati rispetto al quadrilatero che ha per archi diagonali E, F, G e per uno dei suoi lati l'arco coniugaio armonico di @, rispetto alla terna (E, F, G), e si- milmente gli archi Q_,Q_ sono coniugali rispetto al quadrangolo che ha per punti diagonali e, f, g e per uno dei suoi vertici il punto coniu- gato armonico di Q, rispetto alla terna (e,,g). Si avrà dunque la pro- prietà: Nei sistemi equianarmonici consecutivi, l’ arco coniugato armonico di un punto , rispetto alla coppia degli archi che congiungono i suoi punti consecutivi di ordini equali e di segni contrarii con un punto doppio, è an- che coniugato armonico del punto proposto rispetto alla coppia degli archi doppii che passano per quel punto doppio; e similmente il punto coniugato armonico di un arco, rispetto alla coppia dei punti d'intersezione dei suoi (*) Nota sulle forme geometriche di 2* specie {) Nota citata. AE archi consecutivi di ordini eguali e di segni contrarti con un arco doppio , è anche coniugato armonico dell'arco proposto, rispetto alla coppia dei punti doppii che appartengono a quell’areo doppio. Se i punti doppii e ed f coincidono in un punto o, e quìndi gli archi doppii E ed F coincidono in un arco 0, indicando con (0,_,,0,) € (9,19) coppie di punti omologhi appartenenti rispettivamente ad 0 e G, con (0_,,0)) e (G,_,,G,) coppie di archi omologhi condotti rispettivamente per 0 e g, e con ge y due costanti, si avrà per la dipendenza equianar- monica dei sistemi proposti (*} senoo, . sengo, sen 00 = < sent&0_- : el = | ——_ y_ sen00,_, sengo,, | sen00, ’ senGO, . (4) 1 1 1 41 sengo ( — dg )=rasn0o(— 3-1 = ) tanog, tanog,, tan0G, tan0G _, e quindi sarà senoo. sengo;, __;_ _sen00, senGO, senoo, sengo, “ — sen00,’ senGO,’ (9) "ION 4 41 da) { Las ) == [ave taria ee PRO ip og. tanog, ep tan 0G, tan 0G, ) Se poi rimanendo fissi E ed F, l'arco G passa per g, 0 pure rimanendo fissi e ed fil punto g cade in G, indicando con (e_,,e,) ed (f_,,f) cop- pie di punti omologhi appartenenti rispettivamente ad E ed Y, o pure indicando con (E,,,E) ed (F_,,F) coppie di archi omologhi condotti rispettivamente per e ed f, si avrà 1 1 ME i 1 Sh tan ge, tange, , in tangf, tangfi_; i (6) o pure : 1 1 al 1 tan GE, tan que È tan GF, tanGF_ 4 I e quindi verrà 1 Lidi 1 ART tange,; tange, BE tangf, tangf, 1% 1 its 1 a uit tan GE, tanGE, ©’ ‘tan GF, tanGF, mot WI (7) Queste formole mostrano come le proprietà stabilite precedentemente () Memoria sulle forme geometriche di 2° specie. Bh del = 9g = sui sistemi equianarmonici consecutivi, definiti dalle relazioni (2), reg- gono ancora nei casi speciali corrispondenti alle relazioni (5) e (7). 2. Se nell’equazioni (2) del numero precedente si supponga, per un valore m di i, a"=— £”, le coppie dei punti omologhi consecutivi d’ or- dine m appartenenti a G saranno in involuzione, del pari che le coppie di archi omologhi consecutivi dello stesso ordine condotti per g: i si- stemì consecutivi sì diranno allora in involuzione parziale d'ordine 2m, relativa ad un punto e ad un arco doppio. Se g, è il punto medio dell’arco ef, e G, è l’arco che divide pes metà l'angolo EF, ponendo g,9,=8,, G,G=9®, essendo «= (cos Et5 PE +V As en etto ), (in cui 4 dinota un numero intero arbitrario, e il rapporto della cir- conferenza al diametro) si troverà, qualunque sia î, (*) 3 —_ tan9 taneg,=iang,f= ole pad” tano 2m (1) © imre=tan GEA MP: ALS (244) | tan Mm Sia in secondo luogo a" ="; due punti omologhi consecutivi d’or- dine m apparterranno ad un arco che passa per 9, e due archi omologhi consecutivi dello stesso ordine concorreranno in un punto di G; i si- stemì consecutivi si diranno allora in involuzione parziale d’ ordine m, relativa ad un punto e ad un arco doppio, o pure prospettici d'ordine m, essendo g e G il centro e l’asse di prospettiva. Ritenute le denomina- zioni precedenti, essendo in tal caso verrà —- tanò —- tano, (2) taneg,=tanggf=V—1——-, tanFG,=tanGE=VA——- LTT UT tanò — tani — m m Sia ora x" =—8"——y; i sistemi consecutivi saranno ancora prospettici (') Memoria sulle involuzioni dei diversi ordini. sg d'ordine m, ma oltre a ciò le coppie di punti omologhi consecutivi d'or- dine m formeranno sull'arco £ che li congiunge un’involuzione che ha ‘ per punti doppii g e QG, e similmente le coppie di archi omologhi con- seculivi d'ordine m formeranno intorno al loro punto di concorso e un’involuzione che ha per archi doppii G ed @g; si diranno perciò i si- stemi consecutivi in involuzione totale d’ ordine 2m. Indicando con o il punto in cui l'arco ge, incontra l'arco G si avrà evidentemente | sengo, = Sengo,, 4 senfo, & . seneo, seno, È seno, 0,; Y Esenfo,.; y° seneo,.;° (3) i sengo, » seng®, a senfo, È seneo, senwo; seno 1 senfo, r° seneo, 0 quindi supponendo che o, coincida con g,, e ponendo Dna LTT U.T a=7(c00 + VA sen a 6=1 (cos VT sen!) ; mo mm con 4 numero dispari, verrà . pr coso —T senz ___senzef €. m ur ) seneg,; seneg;+seng, fr Cogli sengo. - a (4) seno g. ‘ sen CA Similmente indicando con 0 l’arco condotto dal punto GQ al punto g. sì avrà senGo, senGaQ, , y_ seno. y. senEO, seno;0,° seno,_,0,, x senFO,, B' senEO,,° (3) senGQ, _senGa, gi. (senFo: vi sen EO; seno.0;° senQ;0,- © di isenF'0, «bi senE0) 0 quindi supponendo che 0, coincida con G,, si avrà . pr ; i così — (4) senGo. senGaQ, ( g' gf ) senz EF m + b_n ra a —T—°__ | seno.G, sen92,G, Va senEG,+senG,F coso, Le formole (2) e (4) adunque definiscono l’involuzione totale d’ or- dine 2m. Finalmente supponiamo che si abbia #"=8"=y"; due punti e due archi omologhi consecutivi d'ordine m coincideranno tra loro; i sistemi % ipa si diranno allora in involuzione totale d'ordine m, o pure identici d'ordine m. In tal caso dovranno verificarsi le formole (2) e (4), supponendo però che # sia un numero pari. Nel caso dell’ equazioni (5) del numero precedente se si suppone y=0, eu==+4,i sistemi o saranno identici di primo ordine, o pure due archi omologhi eonsecutivi d'ordine dispari concorreranno in un punto e di G e saranno coniugati armonici rispetto a G ed @9, e due punti omologhi consecutivi d’ordine dispari apparterranno ad un arco Q che passa per g, e saranno coniugali armonici rispettto a g ed QG. Fi- nalmente nel caso dell'equazione (7) del medesimo numero, supponendo au=0, e y=0, i sistemi saranno identici di primo ordine. Risulta dalle formole precedenti che per le involuzioni, parziali o to- tali, d’ordine superiore a 2, due punti e due archi doppii saranno sem- pre immaginarii, e potranno avere diverse posizioni in ciascun ordine (supponendo dati il punto e l’ arco doppio reali) per l’indeterminazione del numero g; inoltre se m=m,#,....,, le involuzioni relative al numero m comprenderanno quelle relative ai numeri m,,m,....,. 8. Se i sistemi equianarmoniei proposti sono in involuzione parziale d’ordine m>2, relativa al punto doppio g e all'arco doppio G, i punti o, e gli archi 0. costituiranno sistemi di 1° specie in involuzione d’ or- dine m, quindi i rapporti anarmonici (€,0,_10.0,,), (f10, 0,0,,,) 0 pure (E,0.,0.0,,),(F,0.,0.0,,)(*)che i punti doppii e ed f determinano con tre punti consecutivi qualunque 0._,,0,,0,, di G, o pure che gli archi doppii E ed F determinano con tre archi consecutivi qualunque 0._,,0,,0,, condotti per g, saranno eguali ad una radice immaginaria m° dell'unità positiva o negativa, secondo che l’ordine m dell’involu- zione è pari o dispari. i Se l'ordine dell’involuzione è un numero pari 2m, ed i sistemi non sono anche in involuzione parziale d'ordine m, gli archi che congiungono i punli @,, @,, con g saranno coniugati armonici rispetto alla coppia (E, F), ed i punti d'incontro degli archi Q,, Q, con G saranno coniu- gati armonici rispetto alla coppia (e, f). Nell’involuzione parziale d’ordine m, relativa a g e G, chiamando ciclo di punti o di archi il gruppo dei punti (0,;0,....0,) 0 degli archi (0,,0,....0 ), punti armonici dei diversi ordini di un arco € rispetto m () Memoria sulle involuzioni dei diversi ordini. == ad (0,,0,....0 ) i punti armonici (*) rispetto a questo eiclo del punto QG, ed archi armonici dei diversi ordini di un punto ® rispetto ad (0,,0,....0.)gli archi armonici rispetto a questo ciclo dell'arco eg, si avranno le proprietà: 1° In un'involuzione parziale d'ordine m, i punti o gli archi armonici d'ordine n 2. Essendo in tal caso (supposto 4 un numero pari) 7, un rs B ut ut =co8s-—+-V-Asen— , rag E = 5 m m Y) m m sarà «8=y°, e quindi verrà 1) senE».senFo, __senEn,senFa, sene9, senfQ, 3a sene9, senf9, sen? Go. sen"Go, ©° sen*g9, sen*g9, adunque i punti (©,,©,....@_)egli archi(Q,,A,....A ) che costitui- scono cicli della proposta involuzione, apparterranno ad un sistema di 2° ordine di punti o di archi; tutti questi sistemi, corrispondenti alle diverse posizioni di «, e di Q, banno tra loro un doppio contatto imma- (*) Memoria citata. tellidiatnn nt I I I I I 22) De ginario, i punti e gli archi di contatto essendo i punti e gli archi doppii immaginarii (e,f) ed (E, F) della involuzione. Indicando con @ ed Q uno qualunque degli elementi di un ciclo di punti o di archi di un’involuzione d'ordine m, e con @ ed Q. un ele- mento determinato di quel ciclo, si avrà sen" E» sen"Fa sen"Go sen” Ew. — sen” Fo, — sen" Go, sen"eQ — sen"fo sen"gQ sen"eQ. sen"fo, sen"goa.° Viceversa se m punti @, o m archi £X sono determinati da equazioni di questa forma, quei punti e quegli archi costituiranno cicli di un’invo- luzione d’ordine m. Se l'ordine dell’involuzione è un numero pari 2m, ed i sistemi non sono anche in involuzione d’ordine m, i punti @,,@ apparterranno ad un arco che passa per 9, e gli archi £Y, ,€_concorreranno in un punto di G. Chiamiamo due punti e', e" armonici l'uno dell'altro, di un certo ordine, rispetto al ciclo (&@,,@,....@ ) allorchè gli archi (immaginarii 0 reali) che li congiungono con ciascuno dei punti doppii e, fo g, sono armonici l’uno dell’altro, del dato ordine, rispetto al gruppo degli archi che congiungono i punti di quel ciclo con lo stesso punto doppio; e si- milmente chiamiamo due archi £Y', I" armonici l’uno dell'altro, di un certo ordine, rispetto al ciclo (Q,, Q,.... ) allorchè i loro punti d’ intersezione (immaginarii o reali) con ciascuno degli archi doppii E, Fo G sono armonici l'uno dell'altro, del dato ordine, rispetto al gruppo dei punti d’intersezione degli archi di quel ciclo con lo stesso arco doppio. Supposto m'+m"=m, se (2',0") ed (Q',Q") verificano rispettivamente l’ equazioni sen” Ew'sen” Eu" sen" Fo' sen” Fo" _ sen” Go' sen” Gs” sen” E. DET, sen” Fw. Ru sen” Gu. (2) sen" eo' sen" eo” — sen” fo'sen" fo” — sen" go’ sen" go” Tei ala iis, pds N = m sen” eQ. sen" fo. sen" g9Q. saranno (*) rispettivamente e” ed ©" armonici d'ordine m'" di 0' ed Q', {*) Memoria sulle involuzioni dei diversi ordini. Atti — Vol. II.— N° 19 2 —10— e viceversa @' ed Q' armonici d'ordine m' di e” ed Q" rispetto ai cicli (0,,10,---.0,) ed (Q,,9,....0,). Se @' ed a’ verificano ledere ip (2) e rimane fisso @' 0 pra 0°, le 1 posizioni del punto ®", o pure le m' posizioni del punto e', deter- Br rispettivamente dall’ equazioni sen” Ev" _ sen" Fo" _ sen" Go" sen" Eo' sen" Fo' __ sen" Go' sen" Ew' sen" Fo © sen" Go'° sen" Ei sen" Fo sen” Go! saranno rispettivamente i punti armonici d'ordine m" di e’, ed i punti armonici d'ordine m' di e rispetto ad (@,,,....@ ). Similmente se O ed Q' verificano l'equazione (2) e rimane fisso Q/ 0 ‘pure Q', le m” posizioni dell’arco £", o pure le m' posizioni dell'arco £' determinate rispettivamente dall’ equazioni sen"'eo” — sen" fo” “ sen" ga” : sen""eQ' sen" fo’ sen"' gQ' sen"'eo’ sen"'fo; sen" go % © sen"eoi sen" fo; sen" gQ. 2 saranno rispettivamente gli arehi armonici d'ordine m'” di O, e gli archi armonici d'ordine m' di Q rispetto ad (Q,, Q,....Q ). Adunque: In un'involuzione totale d'ordine m, î punti o gli archi armonici d'ordine n dall’apiee di un’apofisi mastoidea all’altra 112 Arco aure-frontalestinioni sal si Losaesi apiial 20000 Arco aure-oceipitale 0cniipia, senior, mem ed Sinielue (at290 Indice cefalieo! 0 CO; il d pila olb4got ara DIM A, 90M Indice verticale. . . . 099 Lp 101 4,88 Capacità interna del cranio in siente: cubici ityaso) sh 11797509 Angolo-facciale.. MoSupyiito SrImONonio Ri AO SdNMO SUI: dai Il eranio muliebre di Ceglie è parimenti dolicocefalo ortognato, e il suo angolo facciale ha l'apertura di 76 gradi. Elegantemente ovale è la forma della sua calvaria, leggermente inar- cata nel vertice, e discendente con dolce eurva tanto ne’ lati, quanto nelle regioni frontale ed occipitale. La fronte è alta , larga ed appena inclinata indietro nel suo terzo superiore; i seni frontali poco apparenti, e la glabella sporgente di qualche linea fuori il piano de’ medesimi. La radice del naso è delicata e lievemente depressa, le ossa nasali con- giunte insieme ad angolo poco meno che retto. Aperture orbitarie con margini tondeggianti; ossa malari delicate, leggermente inarcate ed alte 20 millim.; archi zigomatici poco prominenti. La mascella superiore è piuttosto angusta ; le fovee malari poco profonde, i denti piccoli, ben conservati ed impiantati verticalmente negli alveoli, tranne gli incisivi ed i canini che sono inclinati lievemente verso l'esterno. Il palato osseo piuttosto alto, e di figura che si approssima all’ ellissi. Piccole sono le apofisi mastoidee. Due ossa wormiane, quasi rotonde e del diametro di poco più di un centimetro, l’uno a destra, l’altro a sini» stra, sono collocate fra il temporale, l’occipitale e il parietale. La tube- rosità occipitale è poco sporgente, ma la linea dell’ occipite è bastante rilevata, benchè la spina occipitale esterna si mostri poco apparente. adi Il forame occipitale è ovale al pari della calvaria, e il suo piano incli- nato all’interno per 4 0 5 millimetri. La mascella inferiore è delicata ed a sua volta elegante. Ellittica è la sua forma; sottili e poco alte le branche orizzontali; le ascendenti anch'esse sottili e compresse; poco profonda la incisura semilunare, il condilo leggermente volto all’esterno. Il margine inferiore dell’intera mascella è tondeggiante, il mento poco prominente. I denti, che sono al numero di 14, sono quasi tutti esistenti ed impiantati verticalmente negli alveoli, tranne gli incisivi ed i canini che si volgono leggermente all’ e- sterno. Se la circonferenza orizzontale di questo cranio viene tagliata da due linee che si elevino perpendicolarmente da’ meati uditivi, si troverà di- visa in due metà perfettamente eguali fra di loro, e misurando la circon- ferenza del teschio 500 millimetri, 250 di essi appartengono alla metà anteriore , ed altrettanti alla metà posteriore. La capacità cubica del cranio è di centimetri 1409, 72, onde il peso del cervello contenuto nel medesimo può esser valutato a grammi 1466,10. Le misure metriche di questo cranio sono quelle indicate qui appresso: Circonferenza orizzontale... . . . . . millimetri 500 fingegiionte ocHiniialo do. Re Mpa ata 063-960 Porzione frontale 132—P. parietale 120—P. occipitale 113. Azcaziterauzicolafb a; imriallonet lado) è anpesva ilsun.o) 905 Argo jnferaastoldeBij=g oil biberon ti a lrotya] 988 Diametro antero-posteriore . . Me beep ig DIS Maggior diametro bi-laterale (D. aristide orali 13 196 Altezza verticale. ........... 127 Larghezza della fronte (fra le Toeò ca al di sopra delle orbite) . . . batta aortaerrrvnorar 8I Maggior larghezza della na ivo 34/0405 Larghezza della faccia fra i punti più distanti delle ossa alan. 109 Dalla inserzione delle ossa nasali sul frontale al margine alveo- lare superiore. 72 Dalla inserzione delle ossa TA sul frontale alla ato del MICRO ee e i n a 1 = pe Altezza delle orbite: . 00. RSS Siti tetra 8 Larbhezza dell'e'stesse’:’* 605,5, 0,0401020 (IAN oRo RO 38 Lunghézza della voltà*palatmmia! te 200 e02 00024 at Re IRA Larghezza della stessa, fra i suoi margini interni . . . . 4 Larghezza della base da un forame uditivo all’altro . . . 106 _ — — dall’apice di un apofisi mastoidea al- TRAE AP ASTRALE PR SUPE I RRZIOA MARTE SEPA LIE DIRT RIP TE RA RO Arco 'atl'estrontal'e: "9052372000 Ria FAO 1 QAR Arco aure-occipitale . . . . RI beltà 7 SCANIO Dalla punta del mento al margine Nicolae ata niare riali edi; — — — — all'angolo mascellare esterno . . . 84 — — — — all'apofisi mascellare. . . 125 Altezza della branca ascendente della mandibola dall’ PRINT esternoval'vondilo restate darai Larghezza della stessa, nella metà del SITO. CUTPO: tI, at da MAR Distanza fra i due angoli mascellari esterni . . . ... 98 Inditereelalito*SOuk 2690: ORTI D233 AAA RAEE OI Indice: verticale. aparte t0 g La eeN 71,94 Capacità interna del cranio in ee cab 1432 8300 A oS9: Angolo facciale. ® 4 *t0 029 70 0 LEA O ERA Il popolo Japigico, siecome abbiamo già innanzi veduto, è rappresen- tato dalle tradizioni e dalla storia come discendente di quelle stirpi pela- sgiche, le quali avevano, in tempi remotissimi, popolata tutta la Grecia. Antiche leggende ritenevano la schiatta ellenica affine a quella di co- loro che già pria d’essa avean tenuto in lor dominio la Grecia, e quindi gli Japigî, discendenza di que’ popoli antellenici, ebbero anch'essi con gli Elleni le medesime attenenze che certamente sussistevano tra Pelasgi e le popolazioni elleniche posteriori. I cranî che noi abbiamo testè esa- minati danno conferma a questa nostra opinione, imperciocchè se ci fac- ciamo a paragonarli con teschi greci di epoche meno remote vi trove- remo tali elementi di similitudine da renderci sempreppiù accertati , che la stirpe japigica non era punto diversa della greca, e che Japigî ed Elleni erano così stretti fra di loro, quanto all'origine, che ben si pos- sono considerare come diramazioni surte da un medesimo stipite origi- nario. LB La mia collezione non possiede che due soli antichi cranî greci pro- venienti entrambi da coloni ellenici stabiliti in Italia; ma io ho potuto estendere il confronto a due altri teschi greci parimenti antichi, avva- lendomi per uno di essi delle misure pubblicate dal dotto antropologo francese, signor Pruner-Bey, e per l'altro delle notizie fornitemi dalla cortesia del mio distinto amico, il Dottor J. B. Davis, uno degli illustri autori de’ Crania Britannica. Uno de’ miei teschi greci, ch'io debbo alla gentile amicizia del signor barone Salvatore Fenicia, fu tratto da un antico sepolcro di Ruvo, nella Peucezia. Nella tomba, nella quale fu trovato intero lo scheletro del cadavere che vi era stato deposto, sì rinvennero vasi in terra cotta con dipinti monocromi , rappresentanti figure rosse sopra un fondo nero, utensili di rame e candelabri di bronzo. L'epoca della tomba sembra es- sere anteriore al V° secolo di Roma, quando non ancora nell’ Apulia erasi estesa la dominazione latina. Ruvo, in latino Rudi, in greco Put, era colonia greca di Ripe, una delle dodici città dell’ Acaja, patria di Miscello, fondatore di Crotone. V'ha chi la crede di origine arcadica , indotto in questa opinione da molti idoletti di Pan, Dio dell’Arcadia,rinvenuti negli scavi ruvensi(1),ma la prima origine pare che non possa essere rivocata in dubbio, per- ciocchè i tipi di alcune medaglie di Ruvo, cioè la testa di Giove e l’a- quila posata sul fulmine, ed il fulmine alato chiaramente accennano alla città di Ripe, detta da Eschilo uepxuvias Puras (2), posta in vicinanza di Egio nel cui territorio era fama che Giove fosse stato nutrito dalla capra Olenia (8). Questo teschio virile, dolicocefalo, come i tre japigici sopra descritti, è mancante della mascella inferiore e dell’ apofisi zigomatica sinistra. Manca altresì di tutti i denti, e dallo stato degli alveoli dentarî, e dalla condizione delle suture e de’ forami mostra aver appartenuto ad un in- dividuo di oltre a’ 60 anni di età. Spesse e pesanti ne sono le ossa, ru- gose le superficie sulle quali si spandono le aponeurosi muscolari, molto rilevate le linee semieircolari e la spina occipitale. Due piccole ossa wormiane, l’uno a destra e l’altro a sinistra, s'interpongono fra l’osso (1) Jatta, Dell’antichissima città di Ruvo. Napoli, 1844, p. 55, 74. (2) Ap. Strab. VIH. (3) Corcia, Stor. cit. III. p. 511. : — 194 — occipitale e il parietale presso all’ estremità dell’ angolo inferiore-poste- riore di quest'ultimo. È osservabile in questo cranio la sinostosi della metà posteriore della sutura sagittale, da cui si ripete una notevole depressione ed una mag- giore strettezza in questa parte della calvaria, non meno che un allar- gamento più del consueto nella porzione inferiore dell’occipitale. Nel rimanente questo cranio ha belle forme; alta ne è la fronte e larga, poco rilevati i seni frontali, le ossa nasali congiunte insieme ad angolo quasi retto. Esso, nell'insieme, rassomiglia al cranio di Fasano con cui ha quasi identico l'indice cefalico, che nel primo è rappresentato da 75,84, nel secondo da 79. La sua capacità cubica si eleva a centimetri 1528,64, ond’ è inferiore di 268,41 centim. cubici a quella del cranio di Rugge (per verità eccezionale) e di 13,48 cent. cubici a quella del cranio di Fasano, ed è superiore di centim. 18,92 a quella del teschio femmineo di Ceglie.La massa contenuta nel cranio doveva essere del peso di 1589, 78 grammi, 24 grammi meno di quella contenuta nel teschio di Fasano, e 279,15 grammi di quella del teschio radicale. L’altro cranio greco da me posseduto mi fu donato dal fu conte di Si- racusa, ed era stato raccolto nell'antico sepolereto cumano che fu sco- perto nel 1856 nelle escavazioni intraprese in quella vetusta città sotto gli auspici di quel Mecenate delle lettere e delle arti. Cuma, siccome è noto, era la colonia greca più antica che sorgesse in Italia. Fondata da’ Calcidesi, di stirpe jonica, surse tosto a prosperoso stato, e prese il primo posto fra i missionarî della civiltà greca in Italia. Non allargò mai ad estesi limiti il suo territorio, ma trattando pacifi- camente con gli indigeni Campani, fondò di poi la città portuale di Di- cearchi (più tardi Puteoli), e quindi quelle di Partenope e di Neapoli. La Necropoli scoperta era presso una delle uscite della muraglia che Aristodemo Malaco avea fatto innalzare intorno a Cuma, e si trovò ricca soprattutto di vasi dipinti, che ora sono bellissimo ornamento del Museo Nazionale di Napoli (1). Iscrizioni greche arcaiche rinvenute in quel se- polcreto ne rivelano la sua antichità (2), e ci permettono di credere che i cadaveri ivi trovati appartenessero a’ discendenti di que’ vetusti coloni calcidesi che aveano fondata e popolata quella città. De’ cranî che vi fu- (1) Fiorelli, Notizia de’ vasi dipinti rinvenuti a Cuma nel MDCCCLYVI, posseduti da S.A. R.il Conte di Siracusa. Napoli, 1857, fol. con XVIII. tav. cromo-litograf. p. IV. (2) Minervini, Bullettino Archeol. napol. Nuova Serie Anno, VI, 1858. _ 25 — rono raccolti due furono deposti nel Museo Anatomico della R. Univer- sità di Napoli, ed un terzo, come dissi, venne nelle mie mani per dono cortese di S. A. R. il Conte di Siracusa. Il cranio che è in mia proprietà è intero e ben conservato, meno che nella porzione basilare dell’osso occipitale della quale è mancante. Nella mascella inferiore esistono tutti i denti, ma nella superiore mancano il 3°. e 4°. mascellare destro ed il terzo mascellare sinistro. Appartiene ad individuo maschile, la cui età sembra essere quella da’ 50 a’ 60 anni. È un bellissimo saggio del tipo greco, e tutto in esso mostra una per- fetta armonia in ogni sua parte. Una sinostosi prematura nella parle in- feriore della sutura sagittale ha dato origine in questo cranio, come in quello di Ruvo, ad una depressione in quella porzione della calvaria, la quale depressione rende più osservabile la tuberosità dell'osso occipitale. La fronte è alta, larga ed espansa lateralmente. Poco apparenti i seni frontali, che sono rilevati più nella glabella che sopra le orbite. Le ossa del naso s'impiantano sul frontale, formando appena una leggera depres- sione, e congiungendosi fra loro ad angolo quasi retto. Le ossa malari sono alte 26 millimetri, ed il loro margine inferiore si slarga alquanto verso l'esterno. Le fovee malari poco profonde, la volta palatina alta e di forma ellittica. La mascella inferiore piuttosto alta nel suo corpo, col mento un poco sporgente, e di forma che si avvicina alla ellittica. La branca ascendente è molto inclinata indietro, ma meno di quello che sia ne) cranio di Ceglie. Il teschio è dolicocefalo ortogonato. Il suo angolo facciale misura 83 gradi; nondimeno i denti anteriori della mascella superiore volgono al- quanto infuori, ma quelli della mandibola inferiore sono impiantati ver- ticalmente negli alveoli. La rassomiglianza di questo cranio con i tre japigici da me descritti è molto evidente : la stessa simmetria delle parti, la stessa dolcezza delle linee curve che ne circoscrivono la superficie, lo stesso indice cefalico (75), che segna tanto in esso e in quello di Ruvo, quanto ne’ tre japigici quasi il medesimo rapporto fra la lunghezza e la larghezza della calvaria. La capacità cubica del cranio è identica a quella del teschio di Ruvo, cioè misura 1528,64 centim. cubici, che rappresentano una massa ce- rebrale di 1589,78 grammi. Rispetto agli altri due antichi cranî greci, io non posso fornire altre particolarità, se non quelle che si desumono dalle misure che sì trove- Atti — Vol. II.— N.9 20 4 Malo, REI ranno nello specchio che aggiungo quì appresso; ma elleno sono pur tali, che fanno aperta quanto anche ad essi sieno somiglianti i nostrì eranì japigici. 3 Uno di questi cranî greci fu tratto da un'antica tomba presso Atene, l’altro da un sepolero dell'Isola di Rodi. Il teschio ateniese fa parte della splendida collezione craniologica del mio distinto amico, signor Dottor J. B. Davis, il quale, da me richiesto, si è compiaciuto inviarmene le misure. Il cranio dell’ Isola di Rodi si conserva nella Galleria antropo- logica del Jardin des Plantes di Parigi, donatovi dal distinto archeologo signor del Sauley, ed è stato descritto accuratamente dal signor Pru- ner-Bey nel vol. V° de’ Bulletins de la Sociétè d’ Anthropologie de Paris (1864). Non tacerò che fra i teschi greci antichi, come fra i moderni, hav- vene di quelli che si distinguono per la forma brachicefala, ed uno in effetti, antichissimo (probabilmente anteriore di V secoli all’e. v.), pro- veniente da Corfù se ne conserva nel Gabinetto anatomico dell’ Univer- sità di Pavia (Sala 2* N. 75), il cui indice cefalico è rappresentato da 83,02. Questa forma brachicefala incomincia a mostrarsi in Grecia dopo l’Acarnania, sulla sponda settentrionale del Golfo d’Arta, e su’ confini boreali della Tessalia, continuandosi dominante per tutto l’Epiro, l’Al- bania e le contrade slave che d'ogni intorno circondano la Grecia set- tentrionale. Il cranio dolicocefalo invece predomina fra i Tessali e in tutto il Continente e le Isole a mezzogiorno dell'Epiro e della Tessalia (1). lo non so se i confini de’ due tipi craniali nell’Ellade fossero stati in antico que’ medesimi che noi osserviamo a’ giorni d’ oggi, ma ho ragione di credere che il brachicefalismo avesse acquistato a' dì nostri, massime dopo la conquista mussulmana , maggiore impero che non avesse in- nanzi nel suolo della Grecia. Almeno l’Epiro, contrada pelasgica , non doveva essere stata povera di cranî dolicocefali, sebbene razze straniere {forse slave o scitiche) vi vivessero confuse con popoli ellenici. La stessa Albania, che ebbe colonie pelasgiche nel suo territorio , dovea contenere (1) Queste ed altre preziose notizie sull’ antropologia della Grecia io le debbo. alla gentile amicizia del prof. €. Zaviziano, uomo dottissimo , ed autore di un eccellente Trattato di Anatomia Umana e di molte altre opere importanti. A questo illustre uomo sono pure debitore di una serie di cranì greci moderni, che si cercano indarno nel'e più ricche collezioni antropologiche LI una parte di popolazione dolicocefala, ma la preponderanza del tipo indi- geno brachicefalo, e le ulteriori irruzioni di razze fornite di quella forma craniale hanno a poco a poco assorbito il tipo delicocefalo, e fatta quasi scomparire ogni traccia del medesimo fra le popolazioni illiriche ed epi- rotiche odierne. Lo stesso destino dell'Epiro è toccato alla maggior parte della Macedonia ove i Valacchi si sono sostituiti a’ Macedoni, ed una lingua slava all'antica lingua favellata dalle falangi di Alessandro. Nel- l'Epiro peraltro l'elemento greco è rimasto tuttora nella lingua che si favella sul Pindo, nella Molosside e nell’Amfilochia (Giannina ed Arta); ma nel Pindo stesso vivono alcune colonie slave (Grandi Valacchi e Bo- viani) che hanno introdotto elementi stranieri anche in que’ remoti e soli- tarì recessi della stirpe ellenica (1). Come oggi al settentriore della Grecia la predominanza del tipo bra- chicefalo è la pruova più evidente della presenza di razze straniere in quella parte dell’Ellade, così parimenti que’cranî brachicefali che pur s' incontrano nella Grecia antica, ci dimostrano che anche allora la stessa Ellade non era scevra di razze eterogenee; e che se fra coloro che i Greci chiamavan barbari vi erano di quelli, come i Pelasgi, ne’ quali scorreva il medesimo sangue nobilissimo degli Elleni, vi erano altresì di coloro che appartenevano ad altre razze, a quelle razze allofiliche o turaniane, che avevan tenuto in lor dominio l'Europa intera pria della venuta degli Indo-Europei. (Que'cranî brachicefali adunque rinvenuli nella Grecia antica son da ritenere appartenenti ad individui di stirpe non ellenica; imperciocchè dove poi furono veri Elleni i teschi sono stati e sono anche al presente, nella loro immensa maggioranza, doli- cocefali (2). Quanto a’ Pelasgi io non solo non li credo dissimili dagli altri Greci, ma li credo anzi uno de’rami primigenî degli Elleni che venne pria degli (1) Max Muller, Suggestions for the assistance of officers in learning the languages of the Seat of war in the east. London, 1854, p. 42-53-Ved. anche la bella Mappa etno- logica del Petermann che accompagna quest’ opera. (2) Il Retzius scrive nel suo « Coup d’oeil sur l état de l’Ethnologie au point de vue de la forme du crane osseua (trad. du suèdois par E. Claparède, 1860): « Pai introduit les Hellèénes dans mon énumération des dolichocéphales d’ Europe. Mes raisons pour cela ont deja été exposées ailleurs en 1847 (Oefversigt af Konyliska Vetensk. Acad. forhand- linger , 8 sept. 1847). Seulement, d’ après tous les faits que j'ai pu rassembler, la forme dolichocéphalique n'a jamais appartenue à la majorité de ja nation grecque, qui présente, au contraire des caractères de brachycéphales. == altri Greci ad occupare il territorio dell’Ellade tenuto innanzi, come ho detto, da un popolo turaniano brachicefalo. E se il lungo spazio di tempo in che essi erano vissuti divisi dalle altre schiatte greche avea potuto farlì divenire quasi stranieri agli stessiGreci,la facilitàcon cui le nuove migra- zioni elleniche sì stabilirono nella Grecia, e le credenze religiose, e gli stessi nomi delle divinità poco o nulla dissimili da quelli de’ Pelasgi ci offrono altri argomenti a convalidarela opinione,che PelasgiedElleni non formassero che una sola razza, quella razza nobilissima greca, che tanta parte prese, nell’evo antico, allo svolgimento della cultura dell’uma- nità. E dove invero furono Pelasgi il cranio era ed è tuttora (meno alcune eccezioni) dolicocefalo. Pelasgiche, come ci pare di aver dimostrato ; erano quelle genti venute dalla Grecia a popolare la Japigia, e i cranî che abbiamo studiati, appartenenti agli antichi Japigi, non sono che do- licocefali. Pelasgi erano gli abitanti dell'Arcadia e d’ altre parti del Pe- loponneso, ed in Morea ora domina il cranio dolicocefalo. Pelasgi furono in Tessalia, in Beozia, in Focide, in Eubea, in Estiotide e in molte delle Isole dell'Arcipelago e sulla costiera asiatica dell’ Ellesponto, e dappertutto,in coteste contrade, non predomina che il cranio dolicocefalo. Ma a far meglio conoscere il tipo japigico, e ravvisarne sempreppiù la somiglianza coll’ ellenico soccorrono alcuni antichi dipinti rinvenuti, non ha molti anni, in una nobilissima tomba gnatina, e conservati at- tualmente fra gli affreschi antichi nel Museo Nazionale di Napoli, sotto i N. 1-4. Il sepolcro in cui furono scoperti si componeva di tre stanze, di cui la sola che conteneva il cadavere dell’estinto era dipinta con af- freschi di buona esecuzione rappresentanti molte figure alte circa un me- tro, a piedi ed a cavallo, quasi tutte in abito guerriero, ed armi e frut- ta, quali il pomo granato, il melo cidonio ete., diversi uccelli ed una bella testa alata, forse di Mercurio, di grandezza oltre il naturale con lunghe chiome che discendono ondeggianti sugli omeri. Una iscrizione a grandi caratteri, in leltere messapiche, disposta orizzontalmente sulla parte superiore di quest'ultimo dipinto indica il nome dell’estinto, che se io bene interpreto il senso della iscrizione: AATLIHONA4 LIATORRIHI BOAANHI si traduce: Dasimius Pletorii Bullaei f., nome non infrequente nelle iscrizioni Mmes- | ut, di Cei - veni Dig sapiche, e che ci richiama alla mente una delle famiglie più illustri che aveano avuto maggior potenza ed autorità nell’Apulia (1). Parte dell’ultima parola di Dasimio, o Dasumio Bulleo (AAIHI) trovasi ripetuta sull'angolo sinistro di un altro dipinto della stessa tomba, il quale rappresenta un giovane scudiere imberbe che regge con la destra mano il freno di un cavallo, e con la sinistra stringe una frusta. È ve- stito di rosso chitone che non giunge oltre la metà delle cosce, porta sulle spalle un mantello di color giallo soppannato di azzurro, ed ha scoperto il capo, e nude le gambe ed i piedi. Nelle figure di questi dipinti si scorge quell’aria di parentela che si ravvisa fra gli individui di una medesima razza, e confrontate con tipi greci, presentano quella somiglianza direi quasi di famiglia che non sfugge all'occhio di alcuno. Io ho riprodotta nella tav. III2, la testa del giovane scudiero, e ciascuno può osservare ne’tratti delicati di quel volto i caratteri che son comuni alle più belle giovanili fisonomie el- leniche. Il profilo della fronte, del naso, delle labbra del mento e di tutto il viso, e il contorno intero della testa richiamano tosto al pen- siero i più bei tipi greci riprodotti in tanti capilavori della statuaria an- tica, e danno con ciò maggior conferma all'opinione per noi sostenuta, essere stata la Japigia popolata dalla stirpe Pelasgica, la quale prima della invasione dorica nel Peloponneso e della estensione del nome ellenico a tutta la Grecia, avea tenuto in suo dominio tanta parte dell’Ellade, ed avea propagato fra le rozze schiatte indigene i primi semi di quella cultura che raggiunse, ne’ secoli seguenti, nel bel suolo della Grecia il suo più alto svolgimento. Anch’oggi, nelle province di Capitanata, di Terra di Bari e di Terra d'Otranto le fisonomie degli indigeni, benchè miste di elementi sabel- lici, che vi fecero più tardi irruzione, non si discostano da quel tipo che fu proprio, negli antichi tempi, di quella contrada. Cranio dolicocefalo, mezzana statura, valida complessione, neri capelli, occhio nero e vi- vace da cui traspare la pronta mobilità dell'animo e la pacata mitezza del carattere. I contorni del volto morbidi e delicati, il viso quasi sem- pre ovale, la fronte alta e larga, il naso profilato e poco depresso nella sua radice com'è carattere quasi universale della stirpe greca. Pronto e vivo l’ingegno, fervida la fantasia, ardente, ma spesso impetuoso e tra- (1) Mommsen, Zscriz. Messapiche, p. 64-05. Unteritalianischen Dialekte, p. 72. K* dae smodante l’affetto; provvidi, laboriosi, leali, onesti, caldi nel sentimento dell’amicizià, ma non di rado incostanti ne’ propositi, e dominati da una quasi puerile vanità che ci ricorda anch'essa quella razza greca, dalla quale eglino traggono la origine. Lieto anzichè no è il temperamento , quasi mediano tra la burbanzosa serietà e la scurrile leggerezza. Dolce, eccentuato , armonioso il dialetto, tanto più grato all’oreechio, quanto più vicino al capo di Leuca. Ciò posto, ecco i corollarì che ei sembra poter dedurre da’ fatti che abbiamo esposti finora: 1°. Ne’vetusti tempi da varie parti della Grecia, della Creta e dell’ Il- lirico partirono coloni che vennero a porre stanza nel territorio dell’an- tica Japigia. Erano Pelasgi, e Elleno-barbari, che scaceiati da altri Greci, cercavano un asilo nelle vicine terre italiane, o avventurieri che per dissensioni intestine, o per vaghezza di miglior fortuna abbandonavano le patrie contrade. 2°. I Latini ed i Sanniti non conobbero la Japigia che molto tardi, e quando estesero în quella parte d'Italia la loro autorità, que’paesi erano grecizzati, e solo in un angolo remoto, nella Messapia, era rimasto vivo l'antico elemento elleno-barbaro, i} quale senza essere stato prima di- rozzato dalla cultura elleniea, fu assorbito direttamente dall’ elemento italico e latinizzato. 3°. Le genti che dalla vicina Grecia e paesi contermini erano venute a popolare la Japigia erano fornite dì eranio dolieocefalo , il quale pre- senta tutti i caratteri che lo rassomigliano all'antico eranio greco, e chiariscono |’ affinità originaria fra gli Elleni e le popolazioni di quella parte della nostra Penisola. 4°. Dove un tempo furono Pelasgi, anche al presente le popolazioni sono dolieocefale, così in Italia come nel Peloponneso ed in altre parti della Grecia, ove il sangue pelasgieo erasi accumulato in maggior pro- porzione che in verun’allra contrada. 5°. L’idioma che favellavasi nella Japigia, tultochè non aneora ben di- eiferato, si rivela propagine del grande albero Indo-Europeo, e sì ricon- giunge, per molti lati, più col greco che con le lingue che si parlavano in Italia. 6°. Anche i dipinti rinvenuti in tombe japigiehe confermano i risultati storici e le osservazioni anatomiche, e dimostrano anch’ essi la identità di origine tra la stirpe greca e i primi Ariani che popolarono la Japigia. —_ 931 — pr | T°. Nel territorio japigico, ora province di Capitanata, di Terra di Bari e di Terra d’ Otranto, la popolazione odierna ha conservato gran parte del tipo greco; e chi guardi bene addentro ne’ caratteri fisici e morali di quelle genti vi scorgerà analogie e similitudini che danno conferma al- l'opinione « essere stati gli antichi Japigi un ramo pelasgico , 0 elleno-bar- baro di Grecia tramutato , în remotissimi tempi, nel territorio sud-orientale della nostra Penisola ». MISURE DEI CRANÌ JAPIGICI confrontate con quelle di antichi cranì tanto di Grecia, quanto di Golonie greche in Italia. ove furono raccolti i cranî| SESSO Circonferenza orizzontale Arco intermastoìdeo " LARGHEZZA Cani Ss sa: del [Len] (S) (S) ° d LS — + di È © CS) cei CS) n = o|s|/g|£ Co = i Sa © Fi ‘3 Diametro antero-posteriore | Maggior diametro bi-parietale LARGHEZZA della fronte ® fra le linee] FACCIA fe) semi- sa semi pe circolari |P o) p_|rrr—_r—_| ——t a od fu N (©) N GO) > ®|\Z|Z|8|& i Comi a N N i Lal fi] d (5) circa 7 Dorsditer#aia ia 28 Sacren gato naz o 03 Coccisecs. fodera. ». 18 Totale. . . 56 Il corpo delle vertebre è ristretto nel mezzo, dilatato agli estremi, i quali, congiunti, costituiscono un grosso cordone. Le costole sono delicatissime. Le apofisi trasversali delle vertebre codali, sensibilmente estese sulle prime, si vanno restringendo da mano in mano, fino a sparire presso alla sesta. Gli arti anteriori son corti, in guisa che omero e radio insieme oltre- passano appena l’occipite; il dito più lungo della mano uguaglia la lun- ghezza del radio. Gli arti posteriori, distesi, e comprese le dita, superano la lunghezza della coda, ed anche quella del dorso. Le dita sono gracili e lunghe, talchè il maggiore di essi supera alquanto la lunghezza del femore, e maggiormente quella della tibia, Tav. c, fig. 2, ingrandita. Del capo si avvertono solo alcuni segni del suo contorno. Osservazione. È costante il trovarsi fra questi scisti tutti i rettili nello stato scheletrico; val quanto dire che i loro cadaveri àn dovuto soggior- nare tanto nell'acqua, fino a che cute e carni siansi putrefatte e disfatte. L’ossificazione della presente lucertola essendo completa, in modo che lo scheletro non à sofferta veruna slogatura, nè altra alterazione, allontana il sospetto ch’esser possa un piccolo o giovine di specie più grande. La storia paleontologica ci trasmette la notizia di 10 specie del genere Lacerta, tutte, meno una sola, ben constatate, e tutte dei terreni terziarî. Sarebbe questa nostra dunque la prima che si scuopre nei terreni di se- dimento primitivo, se come tale si conviene di riguardare la calcarea stratosa ad ittiohiti di Pietraroja. Non bisogna però obliare che la calcarea ad ittioliti che racchiude an- che i rettili è di un’epoca posteriore a quella di sedimento primitivo sulla quale riposa, e che costituisce l ossatura del monte. e re PESCI Genere HETEROLEPIS, n. Tav. I. Il corpo mutilato del pesce accenna ad una figura obbesa, perciocchè l'altezza sua di poco è minore della lunghezza, alla quale sembra man- care soltanto il capo ed il peduncolo codale con la propria pinna. L’arco descritto dal profilo dorsale, e l'opposto ventrale conducono rettamente a questa conseguenza. Sul bel mezzo del dorso sorge la propria pinna, che à figura cani lare o quasi tale; la sua altezza misura la quarta parte di quella del corpo, e si estende poco più di tanto; vi si contano 28 raggi ramifi- cati, eccetto il primo anteriore e più lungo di tutti; a questo precedono alcuni altri raggi gradatamente minori e poco validi, ma non fuleri nel senso dell’Agassiz, nè frangie. Alla dorsale si oppone quasi direttamente l’anale, della quale si tro- vano appena oscuri vestigi. Il corpo è rivestito di squame appartiene romboidali, fig. 2, per le reciproche intersezioni marginali; ma là dove alcune di esse sono intere o coi margini liberi, osservate con occhio armato d’acuta lente, si veg- gono di figura quasichè rotonda, con una punta ottusa sul mezzo del margine anteriore; e nella parte opposta radicale và un prolungamento, od unghielta, per la quale s'inserisce nella propria buccia cutanea; que- sta unghietta, stretta e lunga, dilatasi alquanto nella sua estremità, ac- quistando così la forma di spatola. La superficie è ornata di finissime strie concentriche, ed alcuni solchi, spiccando dal lato radicale a modo di raggi, le attraversano, giungendo fino al margine libero, fig. è Questa struttura di squame, se da una parte spetta ai pesci Canoidi, come per la solidità, l’unghietta e lo smalto; dall’ altra, come per le strie concentriche ed i solchi raggianti, si riferirebbe ai pesci Ctenoidei. Un tal pesce può considerarsi nondimeno come l’anello di congiunzione o di passaggio tra l’uno e l’altro ordine; anello che non manca in na- tura in qualsiasi classe di esseri, e che non permette quelle recise sepa- razioni che sogliono farsi in tutti i sistemi. cs Genere HISTIURUS HISTIURUS VENTRICOSUS, n. Tav. II, fig. 3-5. Differisce dall’Histurus elatus in ciò. 1° per gli aculei della carena addominale molto maggiori. 2° per le ossa innominate o pubiee costituite forsi da un fascetto di costole delicate, o da una lamina striata per lo lungo. 3° pel profilo del capo più dritto. 4° per la scissura boccale meno obliqua; le quali due ultime condi- . zioni rendono il rostro meno ottuso. o° finalmente per la grande convessità ed espansione della cavità ad- dominale. Il rimanente delle differenze è accidentale; come la pinna codale più completa; e così pure la pinna anale; mentre gl’interspinali superiori dell’anterior parte del dorso sono meno sensibili, e più disordinati. Sommamente probabile parmi, che fosse il sesso femineo del nostro H. Serioloides , Paleont. P. III, pag. 64, Tav. IX, fig.3, a A. SAUROPSIDIUM LAEVISSIMUM, COST. Tav. III, fig. 1-1'A, B, B. La citata figura rappresenta un individuo incompleto di tale specie, nel quale vi è da notare un fatto rimarchevole. Sulla regione gastrica trovasi un corpo rilevato a, d, d. In a, e A si 0s- serva una porzione di trachea, senza equivoco, chè non saprei riferirla ad altra parte organica. Dopo tredici anelli, decrescenti alquanto in dia- metro, essa si arresta bruscamente, come l’ è nella sua parte anteriore, sicchè sembra dimezzata in entrambe l’ estremità; ma essa è da ogni parte investita da qualche cosa, che sembra membrana, o carnosità. Questa posteriormente si prolunga, s'incurva, fa alcuni ripiegamenti, e sì distende sopra un altro corpo bianco, un poco convesso, ed a su- perficie levigata db, BB. e urea RISO, SE i I CRI ET PE E e e a = Se veramente, come a me sembra, è la prima una porzione di trachea, questo corpo liscio e ritondato sarebbe un ventriglio : ed il tutto conver- rebbe con tali parti proprie di un Fringuello. Sorgerebbe quindi la quistione, come mai parti organiche di uccello siansi trovate così isolate in seno delle acque, e sulla parte ventrale del pesce? Che siano tali, quali io è qualificato le parti esistenti sopra la lapide, non ripugna nè punto, nè poco; perciocchè la natura cartilaginea della trachea, ed i robusti muscoli carnosi del ventriglio, e più ancora la loro interna parte tendinea, àn potuto ben resistere alla forza dissolvente dell’acqua, anche salata, a mantenere fino ad un certo grado la loro convessità contro la forza comprimente della sovrapposta materia terrosa del sedimento successivo. Tutto il dippiù deve attribuirsi a semplice eventualità, che nulla oppone alla propria realità. Del resto io non pretendo che questa mia conghiettura abbia a tenersi come assolutamente vera, quantunque nulla si opponesse a farla rice- vere come tale; ma sarà sempre un fatto che porge materia di qualche discussione a chi ne fosse vago. Trovasi ancora sulla medesima lapide la impronta delle due valvole accoppiate di un Soleno, piccolo forse del Solen legumen del mare attuale, fig. e. Forse a taluno piacerebbe ravvisare in questo soleno il Solen papyra- ceus, Deshayes (Siliqua papyracea) del calcare grossolano di Mouchy; ma è da riflettere che, a prescindere dalle dimensioni, non avrebbe potuto lasciare così profonda impressione e tanto coricava, se la conchiglia stala fosse papiracea, come la Solemya == Ordine FILLOPEDÌI Genere BRANCHIPUS, Lmk. BRANCHIPUS GIGAS, n. Tav. III, fig. 2, a A. Ritengo sotto questa generica denominazione il frammento che vado a descrivere, mancando ogni altro elemento caratteristico per fondarvi un genere distinto, come probabilmente lo sarà. Il frammento consiste in una parte soltanto del corpo, la quale si presenta dal destro suo lato. Vi si veggono tre segmenti coi loro rispet- tivi piedi remiganti e gli assi filamentosi delle branchie , tutto ben di- stinto e completo. Innanzi a questi tre segmenti altri ne succedono (607), quale più, quale meno adombrato, e sempre crescenti nelle loro dimen- sioni: e nella posterior parte un altro ve ne à dimidiato, restando in- terrotto da un delicato strato della medesima lapide , bene espressa, e conservando per fino due delle appendici branchiali. I tre piedi remi- ganti completi e medîì portano cinque a sei appendici branchiali filifor- mi, più lunghe del piede stesso. Si avverte che i due laterali ànno l’ar- ticolo o piede men lungo del medio, essendo uguali e simili tra loro, e portano 5 appendici branchiali ciascuno; mentre l’intermedio è più lungo, ed à una forma più tortuosa, e porta 6 appendici branchiali. Alterneranno essi forse così? I tre articoli presi insieme misurano in lunghezza 16 millimetri, in guisa che, se il corpo intero dell'animale contenesse 11 anelli pedigeri, quanti se ne contano in ambe le specie note di tal genere, e della fauna vivente (Branchipus stagnalis e paludosus), sarebbe lungo 0,176. Il Branchipus stagnalis non è più lungo di 22 millimetri, dei quali il solo corpo ne abbraccia meno della metà: donde risulta che la nostra specie fossile era più che 17 fiate più grande della maggiore specie vi- vente. Per la quale ragione ò creduto imporgli l’addiettivo gigas, tale essendo a fronte di quelli già noti della fauna attuale. Ed è a questa grande sua dimensione d’attribuirsi lo aver lasciato di se una chiara impressione. Imperocchè , siccome è stato già per altri Re) avvertito, il non essersi trovato alcun vestigio di tali viventi nel mondo antico, logicamente si attribuisce alla loro somma mollezza. Ed in vero, quantunque la specie fossile di cui si è discorso fosse più che 17 fiate maggiore, e perciò più solida e consistente, pure non è lasciato che una debole traccia de’ pochi suoi articoli, talchè sfugirebbero essi all'occhio poco esperto, e spezialmente alla vista ordinaria. ECHINOBERMI Genere PYGURUS Tav. IV, fig. 2. Nella Memoria alla quale appartiene quest’Appendice, parlando della calcarea di cui è formata l'ossatura della montagna di Pietraroja, tra i fossili a sè proprî si è fatto cenno di un semplice vestigio di Echino, consistente in una porzione di ambulacro (1). Ora si è ottenuta una intera parte superiore della capsola, un poco stiacciata ne’ margini, nella quale si conservano quasi interi tutti gli ambulacri. Per i quali ambulacri, forma e disposizione loro, e per la sa- goma della capsola, credo potersi almeno definire con molta probabilità il genere cui appartiene: e dico probabilità perchè, ad eccezione di tali cose, i caratteri dipendenti dalla posizione della bocca e dell'ano, e di quanto altro accompagnar suole coteste aperture, non sono punto osser- vabili, non esistendo anzi affatto la metà inferiore della capsola ; tutta questa parte essendo occupata dalla calcarea spatica lamellosa, con im- pronte del Pecten, di cui quella roccia abbonda, come altrove è stato notato. Rimane ancor più indeterminata la specie, poichè non si trova sgom- bro del tutto il perimetro della capsola, e neppur l'emisfero suo nello stato normale, per riconoscerne la convessità e l'altezza. Solo il diametro approssimativamente può dirsi uguale a 7 centimetri. Per queste ragioni tutto non è concesso il descrivere minutamente gli ambulacri: la forma de’ pori, e quella dei tubercoli non è per alcun modo riconoscibile. (1) Mem. citata, pag. 9. —9— O La presenza non equivoca di questo genere di Echini non basta per- tanto a concorrere alla soluzione del problema, se quella calcarea spetta alla formazione giurassica o eretacea, essendochè del genere Pygurus sì sono trovate specie nell’uno e nell'altro terreno, e perfino nel ter- Tai ziario. ; MEANDRITIDES RETICULATA, N. Tav. IV, fig-1. A, B, C. Perchè nulla non curato ne andasse di quanto quegli strati ad ittioliti ci ànno fin quì svelato, verrò descrivendo una produzione , che non sa- prei dire se organica od inorganica si fosse. A prò di coloro che giudicar la volessero qual produzione accidentale : d’infiltrazioni calcaree, starebbe il non trovarsi nel regno organico alcun > tipo al quale sì potesse, almeno con molta probabilità e per analogia, riferire. A questo concetto si Sppone, che una infiltrazione così rilevata ed uniformemente costrutta, è inconcepibile che ingenerata si fosse fra - due strati calcarei, ancorchè fossero molli. Perciocchè tutto quel rilievo è costituito da un solido prismatico triedro, come una piccola porzione pi C. ingrandita lo dimostra; e le sue due faccie, oltre la base, sono net- e tamente ed uniformemente reticolate, nel modo che si vengono efligiate ed ingrandite in B. La qual produzione triedra, rivolgendosi in modo intrigato, abbraccia da quando in quando un nodulo emisferico, quasi che fosse una ghiandola, sopra la quale il reticolo si attenua e si disten- de. Che ciò possa avvenire fra due strati calcarei messi a contatto colle # loro superficie, 10 non posso persuadermi. Che si fosse poi ingenerata siffatta produzione sulla supercie dello strato inferiore , prima del deposito successivo,-osta la limitazione , l'uniformità del tessuto , l’intrigata circonvoluzione, ed il costante dia- metro, e la forma di tutto quello prolungato corpo triedro. Del resto, la natura è prodiga, le nostre conoscenze sono limitate; ed i giudizî che pronunziar possiamo, sono regolati dalle nozioni che possediamo. Ri- mettendo dunque la finale definizione della cosa, mi limilo a darne quella conoscenza che meglio mi sappia trasmettere. La fig.1. A, rappresenta al naturale e nelle dimenzioni reali la intera massa rilevata, sopra di un piano completamente levigato, ed avente per ispeziale suo appoggio una lamina delicatissima, omogenea a quella *Ù ge dello strato sul quale si trova ingenerata. Come si vede , tutto questo intrigato rilievo è formato da un delicato corpo prismatico, triangolare che va e riviene con cammino tortuosissimo ed inestrigabile, conser- vando sempre la sua forma prismatica, il reticolo sulle due faccie, e lo spigolo superiore, il quale, senza esser liscio, si lascia ben distinguere, per essere meno cavernoso o reticolato del rimanente: come ben sì vede nella figura C, che ne rappresenta ingrandita una porzione; ed in cui il taglio trasversale posteriore rappresenta con precisione la figura prisma- tica di tutti quei rilievi. Similmente la fig. B, rappresenta una porzione ingrandita di una delle due faccie, ove allo estremo posteriore vi sta il nucleo, 0 ghiandola quasi emisferica, più finamente ancor essa reticolata. Se tutto ciò esser potesse opera di deposito di acqua saturata di so- stanza terrosa, lo lascio al criterio di chi più ne sa. Spiegazione delle Tavole grandezza. . Gruppo di squame alquanto ingrandite. . Una di queste qual si vede al microscopio. . Lacerta brevicauda; grandezza nalurale. . Uno dei suoi piedi posteriori ingrandito. . Histiurus ventricosus, A, B le due opposte faccie di na- turale dimensione. — — fig. 4. Apparato boccale del medesimo, nella cui mandibola ap- pariscono due denti quasi incisivi. Tav. II. fig. 1. Porzione posteriore del Sauropsidium laevissimum, sul cui addome trovasi la parte estuberante a, è, è: in « una trachea; d, 6 forsi un gastreo di piccolo uccello. Tutte coteste parti si veggono ingrandite nella fig. 7', ed indicate con le medesime lettere majuscole. — fig. 2. Branchipus gigas—a di grandezza reale, e qual si vede sopra la lapide—A i soli segmenti ingrandilti. Prali < = "DD CS Co t9 »à Co 20 c'e Tav. II. fig. 3. Apparato dentario di Pycnodus. La frequenza di tali denti nella calcarea stratosa di Pietraroja è straordinaria: e le diverse grandezze o di- sposizioni mi ànno imposto di ritenerne quanti mai ne ò potuti ottenere. Di talchè nella mia collezione paleon- tologica se ne trovano più che cinquanta. Tutti vengono dallo stesso luogo, e constatano ch’essi appartengono agli ossi mascellari, e che si compongono di tre file per lato, come si trovano rappresentati nella figura citata; e come altri effigiati si sono nelle tavole che accompa- gnano le diverse parti della nostra paleontologia. fig. 4. Armatura dentaria della lingua, 0 Glossodus. Non meno frequenti son pure queste piastrine così coperte di denti piatti, e che io è riconosciute per l’osso linguale; e non già come spettante al faringe, che ne sarebbe la continuazione. E ne è poi ottenuta una del tutto isolata, qual’essa sì vede nella fig. 5 a, la cui fac- cia coperta di denti è convessa, e piana od un tantino concava la faccia opposta e nuda. La fig. 5 d la rappre- senta perciò di profilo. fig. 6. Altro simile apparato diverso pergrandezzac disposizione de’ denti. fig. 7. Porzione di colonna vertebrale di pesce, notevole per la figura e proporzione del corpo vertebrale, e spezialmente poi per le piccole apofisi spinose che ne adornano la parte suprema. fig. 8. Tre delle medesime vertebre ingrandite per meglio ve- derne la struttura. fig. 9. a, A. Altra porzione di colonna vertebrale, composta di vertebre bi-coniche, scanalate per lo lungo, e sormon- tate alle due estremità da una espansione crestiforme, trasversalmente striata; come si vede nella fig. A in- grandita. N. B.— Si sono effigiati questi pochi frammenti scheletrici, fra i tanti moltissimi che mi sono presentati nelle diverse escavazioni eseguite in Pietraroja, non solo per la singolarità di struttura, che certo indica ge- CAI (EIA 3 neri finora sconosciuti; e che si réendono perciò di qualche importanza per la scienza; ma per richiamare l’attenzione de’ posteri, i quali po- tranno far ricca messe proseguendo ad esplotare quegli scisti. Chi sarà vago di proseguire questi studì, e di svolgere i nostri terreni ad ittioliti, troverà in Pietraroja campo vastissimo da ricercare, e materiali nume- rosissimi per le proprie lucubrazioni. Pietraroja, come altrove si è detto, è per noi quello stesso ch'è Ve- stena nuova de’ Veronesi (1). Io non ò potuto estendere.come pensava gli sperimenti per insufficienza di mezzi proprìî, e mancanza di ausilî da quella parte che avrebbero pur dovuto concorrere. Gli scavi che io ò po- tuto eseguire in più anni, ben calcolati, si possono considerare come una semplice graffiatura, e nondimeno, consultando quanto si è descritto nella Paleontologia, nella Ittiologia fossile italiana, ed in questo luogo, si tro- verà sufficiente ragione per convenire che moltissimo ancor rimane da discuoprirvi, e quindi animarsi a proseguire l’intrapreso lavoro. Tav. IV. fig. 1. La Mceandritides reticulata — A il pezzo di roccia con la Meandritide di grandezza reale — B il reticolo delle sue faccie ingrandito — © una porzione della Meandritide parimente ingrandita. — fig. 2. Il Pygurus di grandezza reale. (1) Piacemi riferire quì un progetto, ch'io non è potuto realizzare, e che lasciava già come ricordo ai posteri, Era mio proponimento aprire lo scavo in un’aia almeno di 20 metri quadrati, e, togliendo completamente ad uno ad uno gli strati, mettere a giorno il successivo, in guisa che si potessero ot- tenere completi i fossili che ciascuno contiene, enumerarli e descriverli, In tal guisa, oltre lo schi- vare il frequente dispiacevole inconveniente di dover tagliare gl’individui che s'incontrano su i mar- gini, sì avrebbe anche la storia più precisa di ciò che in ciascuno strato è stato sepolto, dl \ d@ bas di do A i gi la n Tav. IL SE om ho / Nyiehs ao === NN SÒ. Calyo dis. : Dolfmo Lit Dolfino lit d.Calyo dis. ere IV av. i Lat, Join di Calyò diò Mar IL. N.° 23. ATTI DELLA R. ACCADEMIA DELLE SCIENZE FISICHE E MATEMATICHE SULLA PARTIZIONE DE NUMERI MEMORIA DEL SOCIO orDINARIO N. TRUDI letta nella tornata del dì 12 dicembre 1865 Oggetto della Memoria Tra i problemi che si rapportano alla partizione dei numeri uno dei più importanti si è quello di determinare in quante maniere un numero intero e positivo n si può comporre per mezzo di dati elementi x, #,...,À, numeri anch’ essi interi e positivi, ed ognun de’ quali può essere ripetuto più volte. Egli è chiaro che quel numero di maniere è lo stesso che il numero delle soluzioni della equazione indeterminata: at+ fut... +)z=n, in numeri interì e positivi, incluso il zero. Noi dinoteremo questo nu- mero con P,; ma se occorra di tenere in vista gli elementi della parti- zione, scriveremo P_(a, 8,...,4). Si sa che il valore di P, coincide col coefficiente di @" nello sviluppo ascendente della funzione: 41 AA...) È e quindi il problema si riduce a trovare una espressione analitica pel detto coefficiente che si presti con faciltà al calcolo numerico, poichè Atti— Vol.1HI.— N.0 23 1 SR _ trattasi di una quistione, cui sì richiamano importanti applicazioni. Ora è questa la quistione che formerà il soggetto delle presenti ricerche, e ne faremo conoscere due soluzioni; l'una che ci appartiene, e l’altra dovuta all’illustre Sylvester, annunciata dal medesimo senza dimostra- zione nel vol. 1° del Quartely Journal a pag. 141, e riprodotta nel vol. 8° degli Annali di Scienze Fisiche e Matematiche del Tortolini a pag. 12. Questa bella soluzione venne elegantemente dimostrata prima dal chia- rissimo Professore Brioschi, e poscia dal Professore Ballaglini; ma qui vedremo risultarla da un teorema generale sullo sviluppo delle funzioni fratte razionali da noi dato in una nota che sarà pubblicata nel Rendi- conto di questa Accademia. Però la soluzione del Sylvester meritava al- cuni essenziali complementi, che noi ci siamo studiati di raggiungere; ed oltre a ciò era necessario di ovviare ad una difficoltà materiale, la quale distruggeva tutto il pregio della soluzione. Essa in fatti obbliga quasi ad ogni passo a cercare le funzioni intere equivalenti a date fun- zioni fratte di radici di equazioni algebriche; e se queste trasformazioni avessero dovuto ripetersi da metodi generali, avremmo preferito di ab- bandonare il pensiero della ricerca. Ma fortunatamente esiste un prin- cipio che tronca di un tratto tutta la difficoltà, ed a tal punto da potersi ottenere all'istante e senza calcolo di sorta le trasformate intere delle funzioni fratte che avremo a considerare. (Questi perfezionamenti ridu- cono la soluzione del Sylvester a quel grado maggiore di semplicità, che era lecito di sperare, e la rendono attuabile in pratica anche ne’ casi più complessi. Intanto siccome queste ed altre nostre ricerche sono fondate sopra diverse proprietà delle equazioni binomie , conosciute in parte, ma poco comuni, e nuove in parte, per comodo de’ giovani studiosi ci siamo av- visati di riassumerle in apposita memoria, intitolata: Ricerche sulle equa- zioni binomie, ed alla quale bisogna richiamarsi nel presente rincontro. Tutiavolta, per non obbligare lettori più provetti di ricorrere a quella fonte, ci è sembrato opportuno di premettere una breve digressione in- torno a quelle equazioni, per ricordarvi rapidamente le proprietà che hanno più immediata relazione con l'argomento attuale, tralasciandone le dimostrazioni. e, ATREPI, Digressione sulle equazioni binomie Si Alcune proprietà delle radici primitive. I. Le radici primitive delle equazioni binomie, eccetto pel 1° e 2° grado, sono immaginarie ed in numero pari. L'equazione di 1° grado, 1—x=0, ha primitiva l’unica sua radice +1; e quella di 2° grado, 1—x°=0, ha tale la radice —1. Il. In generale l'equazione 1—"=0 ha tante radici primitive quanti sono i numeri inferiori ad n e primi con n. Quindi se il numero si risolva ne’ suoi fattori primi, e si supponga: dove n,, #,,..-,#, sono numeri primi disuguali, chiamando », il nu- mero delle dette radici primitive, si avrà: (4) n= —__ (a—A4)(n,1)...(M—A); ma, posto: ue__NT NT Nr ONTO r Mot Ts avremo più semplicemente n=(_-1)(n—-1)...(n_1). III. Una potenza di qualsivoglia radice dell'equazione 1—"=0 non cambia di valore, se al suo esponente si aggiunga o tolga un multiplo qualunque di n. Ma, oltre a ciò, se n è pari, e primitiva la radice, quel- x . ORANO = eg 40 . . . l'esponente potrà accrescersi 0 diminuirsì di -—, 0 di un multiplo di or- dine dispari di £ hè si cangi il segno all otenza ine 1Spari 13: purche Sl cangl1 segno a a nuova p n Così, se s'indica con gp una radice qualunque della delta equazione, si i avrà p"=p"”, dove i figura un numero intero, positivo o negativo. Ma, m+in=" se n è pari e primitiva la radice, sarà pure p"=—p"""?. IV. Se p è una radice primitiva dell'equazione 1—x"=0 sussisterà la seguente rimarchevole relazione : (A—p)(A-)(A—-0)..(1-"*)=n; V. E nella stessa ipotesi si avrà quest'altra non meno osservabile re- lazione: È x V-pA 3x (nti)a aa [++ 3 +e], 1—-p n dove a dinota un numero qualunque intero e positivo, che sì può sem- pre supporre minore di n, essendo lecito di sopprimere dagli esponenti delle potenze di p i multipli di n. VI. L'ultima formola si può rendere più semplice quando n è numero pari; ma perciò bisogna distinguere due casi, secondochè « è impari 0 pari. Se « è impari si ha: 1 id; x 2a s2 (3-1) icpalt FEE ] - E se « è pari sarà: 1 1fn /n n 2 {n (5-1) 13 detto e CITPSRPSTI (ASI, @ =15+(5+2)c+(5+4)? -(5+1 2): ii Per esempio, supponendo che gp sia radice primitiva dell’ equazione 1--g"=0, si avrebbe i 4 ip 1 dp? etc: etc: etc: = oggi p') 1 2 6 8 =— 19 (+7? +-9p‘+-11p°+-13p ) a s2° Fattori irriduttibili I. Il binomio 1—" ammette in ogni caso un divisore commensurabile, il quale eguagliato a zero ha per radici le sole radici primitive dell’ equa- zione 1—x"—=0. Questo special divisore del binomio, che suol chiamarsi fattore irriduttibile, perchè non è più oltre risolubile in fattori commen- surabili, è dunque una funzione intera e razionale di #, avente inoltre coefficienti interi; ed il suo grado coinciderà col numero delle radici pri- mitive dell'equazione 1—"=0, vale a dire col numero n, definito più sopra dalla formola (1). In ciò che segue rappresenteremo il fattore irri- duttibile del binomio 1—" col simbolo X,, e lo supporremo ordinato per le potenze ascendenti di #. Se n>2, questo fattore X sarà sempre di grado pari e di forma reciproca, ed avrà per termini estremi 1 ed .&°°. Per n=4 si ha X=41—-; e per n=2, sarà X==1+-2. II. Per trovare in generale l’espressione di X_, qualunque sia n, si ha la regola seguente dovuta a Cauchy: « Si sviluppi l’espressione di n, data dalla (1), e si avrà una serie di « numeri interi in numero pari, metà positivi, metà negativi. Indicando « ì primi con ©, p, g,... (e tra essi è il numero n=y n, n,...n,), ed i se- « condi con —h,—i,—k,..., l’espressione di X, sarà definita dalla « formola: (-e")(A4-22)(4—-2?).... STRANE) la quale va sempre ridotta a funzione intera con coefficienti interi. Così sì trova per esempio: X, 1-2x+2° = PETTO, x,=41_-0+2°—a'+0'—a°+20° x =d_-e+a' 4a" +0" X=1-0+x —2e ta’ 4ae-e po! X.=i1-e+te x +e ta a +a2°+0"° Xx.=1 a+ a tata teta pa 4a 240" XxX. =1+e—-a' 2a +2" etc: etc: etc: = III. Ma a questa regola aggiungeremo l'importante osservazione che il fattore irriduttibile di un binomio, il cui grado n è un numero della forma si nf s sa; può dedursi immediatamente da quello del bi- nomio di grado n'=n,n,...n,. Posto y= , l’espressione di X. si avrà da quella di X,, mutandovi la # in 2°. Sia per esempio n=360=2°.3°.5; sarà n'=2.3.0=30; v=12; quindi per ottenere l’espressione di X,,, basterà cangiare la 4 in 2’? in quella di X,,; € si ha per tal guisa: Xx co=d+0"f 00° tt n° 4a pa® ; Nella stessa maniera si troverebbe : Per n =122 e lea » n=18=2.3° 0, X.=41-2'4+0f » n=20=2".5 ’ x,,=41-r°+0'—a"+0° » n=24=9? 3: , x,,=41-x'+2° 3 n=28=2? 7 : x, =1-e'+a tata ata » n=836=2°.3° 53 x =1-r+2"° etc: etc: etc: etc: IV. E utile di tener presente che, se n è numero primo, si ha imme- diatamente: ia te pets outil ahi pRALTG E se n è potenza di un numero primo p, si avrà: 1-e° z ot (p-1)p L= -1+e+e +... 4900" d_-a° di modo che per le potenze di 2, 3, etc: si avrebbe: Xx,=1+0°, X,=1+0%, ete: ete: X,=14+0"+20", X,,=1+x°+2"", etc: etc: V. Il binomio 1—2" può essere trasformato nel prodotto dei fattori irriduttibili de’ binomii i di cui gradi sono tutt’i divisori del numero n, è iena i 1.5 compresa tra i divisori l’unità e lo stesso numero n. Vale a dire, indi- cando i divisori di n con m, m', m",...., si avrà: A-r—XXX_...; O più concisamente: i- sì avrà W,=SF(p), estendendo il X alle radici di X=0; o, che torna sat MES. |> ps allo stesso, alle radici primitive di 1—x"=0; e sarà poi P=SW,, qui il X rapportandosi a tutti i divisori disuguali de’ dati elementi. Ora queste conchiusioni costiluiscono appunto il teorema che trattavasi di dimostrare; imperciocchè le due funzioni serilte or ora in ultimo luogo coincidono rispettivamente con le funzioni (1) e (2). 2. Per evitare circollocuzioni distingueremo in ciascuna componente l'ordine e la base; la base è quel divisore di uno o più elementi che dà origine alla stessa componente; e l’ordine è il numero degli elementi che sono divisibili per la base. Fin qui la componente di base m è stata rap- presentata con W,,; ma questa notazione vuol’ essere completata con la introduzione dell'ordine; e però, se l'ordine sia dinotato da r, invece di W,,, adotteremo il simbolo V”?. Se la componente è di prim'ordine, per semplicità sopprimeremo l’indice superiore, e seriveremo V_ in luo- go di V*. 3. Risulta dal teorema precedente che il calcolo di P. si riduce al cal- colo delle sue componenti. Ora considerando in generale una componente qualunque V” definita dalla formola : V-F(p). osserveremo che per ottenere la sua espressione dovrà prima cercarsi quella di F (pg), coetfi- ciente di 7 nello sviluppo di (1) o di (2); e quindi prendere la somma XF(g); ma perciò sono indispensabili ulteriori dilucidazioni. Intanto, lasciando ora da banda la funzione algebrica (2), la quale rientra tra quelle considerate nella citata memoria sullo sviluppo delle funzioni fratte razionali, ove trovansi esposti i metodi e le formole per : 2 f pula; calcolare il termine del suo sviluppo affetto da 7 arresteremo a stu- diare la stessa ricerca in riguardo alla funzione trascendente (1), mirando a completare in ogni parte la soluzione del Sylvester. 4, Posto: nt e È OTTERRAI 3 3 3 i: la funzione (1) si cangia in @(f).p"; quindi, se il coefficiente di > nello sviluppo di @(t) si rappresenta con f(g), si avrà: F(@.=f(p)-0°; e sarà perciò: (5) Vi, Se ’ la somma dovendo estendersi alle radici primitive di 1—x"=0. Ora, * OE trovata che sia l’espressione di f(p), ecco il metodo a tenersi per prendere questa somma. Bisogna osservare che, l’espressione di f(p) è, in generale, una funzione fratta di p, la quale, stante l'equazione 1—g"=0, si può trasformare in una funzione intera, e però della forma: f()=Ap+ Bp + Be SL 3 dove A, B,...,L sono numeri dali, indipendenti da p; ed in tal modo la formola (5) diverrà: (1) hi N —n US =Y(Ap Rohe )e n ovvero, effettuando la moltiplicazione indicata: (2° MESSO (A+ Boe E e o) $ Dopo ciò, dinotata con S, la somma delle potenze di grado è delle radici primitive dell'equazione 1—x"=0, è palese che il valore della somma- toria è ciò che diviene il polinomio sottoposto al XY, cangiandovi le po- tenze p_©°, p_©%,.... nelle somme corrispondenti S_,,_)r Sunmpiei o meglio in $,__, S,_,re++» (art. 1°, $ 8°, I), e si avrà in conseguenza: VCS (AS, +BS,,t-..+LS,_) - 5. Mostreremo or ora che l’espressione di /(g).è in ogni caso una frazio- ne che ha per denominatore un prodotto di binomii, o un aggregato di frazioni ognuna delle quali ha per denominatore un sol binomio; e già sì è veduto con quanta faciltà si ottengono le funzioni intere equivalenti a siffatte frazioni. Così tutta la difficoltà si concentra nella ricerca della î È 4 5 E #1 stessa espressione di /(g), vale a dire nella ricerca del coefficiente di $ nello sviluppo ascendente della funzione (i); ed è pereiò che di questo sviluppo passeremo ad occuparci. 6. In ciò che segue per indicare la somma o il prodotto de’ valori che prende una funzione @(a) per un sistema di valori dati di a rappresentati da 4,,0,,0,,..., scriveremo semplicemente Y9 (a), o II9(a) talchè sarà: Xo(a=9(a,)+9(4,)+9(4,)+... ITp(a)=9(a,) Xp(a.) X p(a,)X... Ciò premesso, supponendo che tra gli elementi dati «, B,..,A4 ve ne elio. siano r divisibili, ed s non divisibili per m, dinoteremo i primi con d,,4,,::,4,, e gli altri con 8, b,,..,0,, ed allora, siccome ciascuna delle a a a . potenze pe‘, e °;..-.p"è uguale ad 1, si avrà dalla (4) bless e iis (n e at AZ ente) 0 più compendiosamente : né e Ide )XHi—pe”)' @0Î= od ancora sotto altra forma: (6) (t) __ mt—logIl(1—e")—logII(1—p°e e) ; Sviluppando i due logaritmi abbiamo (V. la nota in fine): B, az B, al } B. af si (Ge loe(1— e) — locat— - a è t — etc: og(1—e"“)=logat atto 77 TI eee Ù, bs log(l—-g'e*)=log(l-p8)— 21 ; i e t — etc: dove B,, B,, B,;... figurano i numeri Bernoulliani, ed U,, U,, U,;...i numeri ultra-Bernoulliani relativi alla base pg. Posto successivamente nella prima a,, @,;..,@, in luogo di a, e nella seconda bd, , d,,..,6, in luogo di d, e prendendo le somme, verrà: Ze BS 2 B, Za loe i1—-e)=loe{ — — t ogII(1—e-)=logt'ITa ni or “ui o “lele: XUb),_ X(U,39) 2 . "DA 9 té — etc: logIT(1—p'e-*)=log(1—p°) — Da queste due-formole si deduce: gi logHI(t—e-®) _ 1 sttt+ ptt pe + pat +...) tIl(a) logi —p'e®)_. 41 —(qt+gf+gt+at+...) pie (*) Imitando il chiarissimo Schlòmilch scriviamo generalmente 4? (k con apostrofe) per indicare il prodotto 1.2.3.,.%. 99 — avendo messo per brevità: L) E 4 B, 2 ji è B, 4 Bei 2a (7) p,n+-gX0 \P.=— 559 a ar o Pa=(-1)) (2) 2i FEAT LT Teco, (8) di: —X(U.b) ? di 2(Ud ) ad Piga Isa b° )a» 35 sg =—E 20,0, a Quindi la (6) sì cangia in ta )= 1 (Pt+ pt ++...) _(t+ qt+g,t +.) CEI #) ma se si faccia per compendio, e per simmetria: CPI ? Co-—Por_a sì avrà più semplicemente: Cna 41 (ct+c.t°+c,t'+c,t'+ 3 07 0ni=d i Ora alla esponenziale possiamo sostituire il prodotto: C; Ci Treni deo. - s.)(A+TR+E LÉ PE Ve a 0 ; il quale si sviluppa -nella forma: ATATPAC+...+A{+...; e così, da ultimo, per lo sviluppo della funzione @() si ottiene: 4 Z (1+A.L+A,!+...+A,f+...); (40) “0=Tanaa 3 ma resta a determinare i coefficienti. Osserveremo a tale effetto che ogni coefficiente è un aggregato di ler- €; 2 3 minidellaforma &t-°2 °°", vale a dire di termini ognun de’ quali è il E 00. ì ADE prodotto di potenze di alcune delle quantità c,,6,,C,,..., ciascuna di- visa pel prodotto de’ numeri consecutivi da 1 fino all’esponente della po- tenza; ma, fatta astrazione da questi divisori numerici, è chiaro che l’e- spressione di un coefficiente qualunque A; è la funzione isobarica di peso i formata con gli elementi c,, €,, €,,..,6,, in guisa che il suo valore si ha dalla formola: (11) A=Y estendendo il XY a tulte le soluzioni intere e positive, incluso il zero, dell'equazione indeterminata: (12) crt 22,+3z,+...+ig,=i. Se si ponga: (13) le—=Wenep 05, ed il X s’intenda esteso alle medesime soluzioni, in questa espressione di Csi ha per lo appunto la funzione isobarica di peso è relativa agli elementi €,, €,; €,,-.,6,, € da essa si avrà subito l’espressione di A, , ap- plicando i convenienti divisori numerici a’ singoli fattori di tutt'i suoi termini; vale a dire dividendo ogni potenza cf pel numero #=1.2.3...w. 1. Dobbiamo intanto aggiungere che i valori delle successive funzioni C,, C,, 0,, C,, ete: ete: si possono calcolare l'uno dopo l’altro di una maniera semplicissima, indipendentemente da soluzioni di equazioni in- determinate, e ciò mediante una regola che qui ci limitiamo ad enun- ciare, e che facilmente si dimostra. Scrivendo, in generale, È per di- notare ciò che diviene l’espressione di C. sopprimendone tutti i termini in cui figura qualche elemento con indice più piccolo di £, si ha: 2 3 z separi , CG,=e,G,,+c,C,,40,C+....+GG +e,; itI Si 2 se i impari ’ C,=c,G,_;+0,0,,+-6,G;,_+ see + C;_i Cpt 6; e CORI TE e queste formole conducono alla regola seguente per costruire la fun- zione C, mediante alcune delle consecutive funzioni, in ordine retrogrado, Eee gle I termini della serie G._,, G_,, G._,,-.-, arrestata a C, 0 Gi secondochè i è pari o impari, si moltiplichino uno ad uno pe’ termini corrispondenti della serie C,y Ca, C3,:++, 00 C;_1, escludendo però da C,_, tutti i termini in cui 2 2 figura c,; da C__, quelli in cui figurano c,, c,; da C,_, quelli in cui figurano C,3 C,, C,; € così di seguito. Addizionando i prodotti, ed aggiungendo alla somma l'elemento c., si avrà l’espressione di C;. Cominciando ad applicare questa regola da î=1, e tenendo presente che C,=1, si forma con la massima faciltà la serie delle espressioni di C,, C,, C,, ete: senz'altro fastidio che quello di scrivere i risultamenti: e così si ottiene : Cc, C,=c2+c, C,=ci+c,c,+€, C,=ci+cîc,+0,0,+03+c, (14) C,=cf+cic.+cîc,+c,(2+c,)+0,0,+c, C,= i+ cte,+-0;0,4-ci(c2+-0,) +0, (c,c,+c,)+c,(C:+c)+ci+-c, C,=ci+ cic,+-cie,+ci(ce+c,)+c7(c,c,+c,)+c,(c:+c,c,4+5+c)+ "a C3(C,C;+- 64300 etc: etc: etc: . etc: Da queste espressioni si passa immediatamente a quelle di A,,A,, A,,..., con l'apposizione de’ convenienti divisori numeri, per cui sì ha in fine: AG} cî A=g +0 3 Ci Re 5; +c,c,+c, di 2 4 1 Ci Ca (15) A,=ptg + 0,0:+3+% Ei lc c? ci As=pt+tzotgoto(+0)+00,+0, Ceci ca È I (6, A=gtpot50t a» c)+c, (c.e,+6,) +5t00+9+% of etc: etc: etc: etc: a 5 8. Messa così in evidenza la legge ond’è regolata la composizione delle espressioni delle quantità A, resta completamente determinato lo svi- luppo della funzione @(f) in potenze ascendenti della variabile f, già dato nella formola (10). Risulta per tanto da questa formola che nel detto svi- luppo il termine affetto dalla potenza #* ha per coefficiente: As "OT mir) o sotto forma più esplicita : 1 sE, (16) f()= dan X nen.) e ciò è quanto era necessario per compiere la risoluzione del problema che ci siamo proposti: risoluzione la quale si riassume nella seguente proposizione : Rappresenti P,, il numero delle maniere in cui un dato numero n, intero e positivo, si può comporre per mezzo di dati elementi, numeri anch'essi in- teri e positivi. IL valore di P, potrà riquardarsi come formato da tante parti distinte quanti sono î divisori disuguali de’ dati elementi, includendo tra i divisori l’unità e ciascuno elemento. Ciò premesso sia m uno de’ detti divi- sori, e siano a,, a,,...,a tutti gli elementi divisibili per m, e b,, b,,...,b, quelli che nol sono; allora, indicata con V” la parte, o componente di P.,, dovuta al detto divisore, il suo valore sarà definito dalla formola : NI 1 A - V ge - r-I n ha AE al ET e SE eg nella quale il X si estende a tutte le radici primitive dell'equazione 1-g"=0.. E sarà poi: dove il X si rapporta a tutt'ì divisori m, tra loro disuguali de' dati ele- menti. Rispetto al valore di A_, esso è dato, in generale, dalla formola (11), e più esplicitamente dalle formole (15). E per ciò che riguarda le quan- Atti — Vol. II.— N.° 23 4 la e tità e,, €, €s,---, esistenti in quelle formole, posto mente alle (9), (8) e (7), i loro valori si hanno dalle formole seguenti: i 1 B, c,=n+320+;; X(U, b ) >» E Tg "—- 220, b°) o ia 1 a B, 1 o ZU). = pyl+p2(08) (48) : x) ra È = CNIT —_ peri —) 6 IS 6 C5= ue U,b ) ? Cs 6 gal ta ZU, ) etc etc 2 etc etc dove i Y esprimono le somme de’ valori che prendono le funzioni sotto- poste, meltendovi successivamente, sia a=4,, 0,.-:0,, Sia b=b,,b,,-.,b,- . . . ° . . ni E dove inoltre i numeri ultra-Bernoulliani si rapportano alle base pg, talehè sì avrebbe: p x.(U ad = Le: 5 — bd 5 PE a ibra = = bi ch :] 19) {1-3 7) (1—p'2) (1_p*) ; 5 2h b 25 Si 2.0 uf BUE > PAARRLO > STE x (U,b )= bi (4 ba) ata bi (4 fa)? na +bî (A gb: :| etc: ete: i etc: etc: 9. Osservando la natura delle quantità da cui risulta l’espressione di A_,, Si fa palese che la medesima, e quindi anche quella di f(x) definita nella (16), è, com’erasi già annunciato (n° 5), una funzione fratta di p, avente per denominatore un prodotto di binomii della forma 1—'; la quale adunque è immediatamente trasformabile in funzione intera co’ principii precedentemente dichiarati. Per tanto nel calcolo effettivo della componente V”? data dalla formola generale (17), si comincerà dal cercare a pane le trasformate intere equivalenti alle due funzioni fratte VP ST NF RN RF ed A_,, e si moltiplicheranno tra loro. Indi il prodotto, cui possono, se così piaccia, farsi subire le semplifica- zioni e riduzioni segnalate nel $ 4° dell’art. I, si moltiplicherà per p_”; e finalmente ogni potenza g°’ si cangerà nella corrispondente S,, vale 21 — a dire nella somma delle potenze di grado i delle radici primitive dell’e- quazione 1—-p"—=0. Nella formola (17) si ha l’espressione la più generale delle componenti W/; ma questa espressione diviene assai più semplice ne’ seguenti tre casì: primo, se la base della componente è uguale ad 1; secondo, se è uguale a 2; terzo, se la componente è di 1° ordine. Ora questi casi meritano di es- sere specialmente considerati, perchè nel fatto son dessi ì più comuni in tutte le partizioni; ed è perciò che andremo brevemente ad esami- narli. 10. Caso I. Per le componenti che hanno la base uguale ad 1. Tn qua- lunque partizione si ritrova una componente V??, per cui m=; e poichè 1 è sempre un divisore comune a tutti gli elementi, in questo caso con- verrà ritenere b,=b,=..=b =0, e l'ordine r della componente coin- ciderà col numero totale de’ dati elementi a, ,@,,..,0,. Ora, siccome nella (17) il X va esteso alle radici primitive dell'equazione 1-x"=1—2=0, per cui si ha soltanto p=1, divien palese che nel caso presente l’espres- sione della componente si riduce a : (20) > Wi ira. i uaeizia. ma oltre a ciò è chiaro che dalle (18) debbono sparire le d, e con esse le U, di guisa che fiella serie delle c,, c,, c,,... si annullano tutte quelle ad indice dispari, ad eccezione della prima c, e si avrà poi: 3 B, B 194) Pe L ag I n 4 ae . (24) comn+3X4, fe gp a es pylo È Cia , etc: i valori attuali delle c,, €,, c,, cs... tornando ordinatamente uguali a quelli delle p,, p,, P,: Pys-»- dati dalle (7). In quanto al valore di A,_, lo si avrebbe generalmente dalla formola : E, £o €, ; G (È C, not (22) nei = 5 Ò x È) , ela estendendo il Y a tutte le soluzioni intere e positive dell'equazione : a+ 2,+45,t...+i,=i, il di cui primo membro si arresta al termine (i—1)s_, se é è dispari. =Sgg® Ma è manifesto che la sua espressione si può ottenere, come nel caso generale, costruendo la funzione isobarica di peso è: e poscia applicando i convenienti divisori numerici a’singoli fattori di tutti i suoi termini. È osservabile però che l’altuale espressione di € e ciò che diviene quella risultante dalla (13) sopprimendone tutti i termini in cui si trova qualche indice dispari diverso da 1 ; ed è così che dalle formole (14) si passa subito a quelle che convengono alla presente ipotesi, cioè : G_ C; = C,=c2+c, C,= ci+- 0,6; C,=ci-|pcietenro, (23) GC. =ct+eic-4+-c;(ca+c)) C,=cî4+-cic+-ci(4-c)4 + 0 #°G C,=c+cîc,+-ci(ca+c,)+-c,(c°+c,6,4-c,) C,=cf+cie,+ci(c2+c.)+cî(cz+c,c,+c,)+c5+c2c,+ c,c,+ +e, . . . . . . . . . . . . . . . Del rimanente la serie di queste espressioni si può calcolare direttamente con la stessa regola del n° 7. Ed oltre a ciò faremo osservare che, se è è un numero dispari, si ha semplicemente C.=c, C, ,. Applicando a’singoli fattori de’ termini delle precedenti espressioni i soliti divisori numerici, si ottengono i valori di A; convenienti al calcolo delle componenti V7°; e si ha per conseguenza : EE ce? A,=z +0 ce? A,=3z+00, ci. ci Ci (24) Apia i lie cì x rar 0), Coe ari cì SET p'etglg ot —_29— 11. Caso II. Per le NT che hanno la base uguale a 2. Una com- ponente V??, per cui m=2, si trova in tutte quelle partizioni nelle quali tra i dati elementi v'ha de’ stadi pari a,, 4,,..,0. Ora, siccome nella formola (17) il X si estende alle radici primitive di 1- a°—1—a°=0, e però alla sola p=—1, essendo b,, d,,..,0, numeri dispari, sarà b, b pi—0 2=,.,.=p5=—A1A 9 ì \ e la formola diverrà: (25) vo 5 z 3 - Lr Inoltre, siccome i numeri U, si rapportano alla base p =—I1, essendo che 5 figura un numero dispari, saranno nulli quelli ad indice pari, salvo il caso di i=0, per cui sì ha U og} € da ciò risulta che tra i termini della serie c,, €, ..-, definiti in generale dalla (18), deb- bono sparire tutti quelli a, indico cen eccetto il primo c,, la di cui espressione si riduce ad nA4-3 (20432). Ma vha di più che i numeri U, relativi alla base —1 si possono esprimere mediante i numeri B,, cui sono legati dalla relazione (Nota in fine): IO, | USA) Tar] iI di guisa che si avrà in generale : ARA t Bir 2 2h 21 a) Gay 2h) et+e"y2"]. Segue da queste osservazioni che nel calcolo della componente W!° le espressioni a doversi adottare per la quantità A. sono le stesse di quelle definite nel n° precedente; vale a dire quelle che risultano dalla (22) o dalle (24); ma rispetto a’ valori di c,, c,, €,, etc: si avrà: C- n+È [xa+xb] ao) Zi 2a Q_1)N0 | B, 2 = > + (26) o= +pifzat+0 —1x% |] B, = BT1)\ Spe o= —i[Le+e xv] cca 12. Caso Ill. Per le componenti di prim'ordine. Nelle componenti di que- sta specie la base m è divisore di un solo elemento a,. Ora essendo r=1, sarà A_,=A,==1; e la formola (17) diverrà semplicemente : 4 i tt (27 VI ua a, ZAP; 2)...(1_-p%) Qui dunque altro non resta che cercare la funzione intera equivalente alla frazione NS: moltiplicarla per pg” potenza p°' nella somma corrispondente S.. È chiaro che se i dati elementi sono tutti numeri primi, o anche primi tra loro, salvo la componente che ha per base l’unità, tutte le altre sono di prim'ordine. Del resto in qualunque partizione esistono generalmente più componenti di questa specie; e tale per lo meno è quella che ha per base il più grande degli elementi, il quale è divisore solo di se stesso. ‘ 15. A questo punto il problema che ci siamo proposti è completamente risoluto, ed è tolta alla quistione tutta la sua difficoltà. Aggiungiamo una tavola con diversi esempii di partizione, dove abbiamo iscritti i soli risultamenti; nè la loro deduzione ha bisogno di spiega ulteriore, poi- chè derivano immediatamente, e con procedimento uniforme, sia dalle formole stabilite dal n° 8 e seguenti, sia da’principii esposti nell'art. I. Tuttavolta ci è sembrato utile di sviluppare la intera soluzione per qual- cuno de’suddetti esempii in cui sì verificano tutti i casi che il problema può presentare; e ciò tanto per mostrare col fatto la semplicità de’ pro- cedimenti, quanto per dare un modello della condotta del calcolo in tali ricerche. Prenderemo adunque a considerare l’ esempio 5°, nel quale si cerca il valore di P_(1,2,3,6,8,10); che è quanto dire: trovare in quanti modi il numero n si può comporre per mezzo de’ sei elementi 1,2,3,6,8,10. 1 di- visori disuguali di questi elementi essendo in numero di otto, cioè 1, 2,3, 4,5, 6,8, 10, anche otto saranne le componenti di P_; ma sic- come la base 1 divide tutti i sei elementi; 2 ne divide quattro; 3 ne di- vide due; 4 anche due; e ciascuna delle rimanenti basi 4, 5, 6,8, 10 divide un solo elemento, così le otto componenti saranno rappresentate da VP, VS, VO, Var Var Ve, Vas Voi @ si avrà: , e poi cangiare ogni P,(1,2,3;6,8.40)=V"L VOLVO LV+- VA VV Vo CAS Calcolo di V°. Poichè la base è 1, si è nel caso del n° 410, da cui: 6) A, È Gi fps nr % 196 +) SA el= Za c Za' e a n A DA 30." Essendo attualmente a=1, 2, 3, 6, 8, 10, sarà Za=30, Xa?=214, 4 DEI 107 1549 Za'=15490; quindi e=n+15, ‘mio qa € perciò : vO_ n+15 (n+415)* 107 (+15)? 6499 AR TETEZO 8 oe CA mi Calcolo di Wi La base essendo 2, bisogna far capo dal n° 11, dal quale: 4) — A, Mati È Ve =(A4)°33 6.810” ae.(d+c,); 4 4 co,mn+z(Za+X0) > ©=—-gj (Za°+3%5 Ora abbiamo a=2, 6, 8, 10; 5=4, 3; quindi Za=26, Ya*=204, Zb=4, 26°=10; in seguito c=n+15, =— i e perciò: vO_ n+15 pet 39 AED 4 + yr(2) » . Calcolo di V, . Per questa componente bisogna tener presenti le rela- zioni p°=1; (1—p)(1—p°)=3; 14+-p+-p°=0; ed intanto si ha dal n° 8: ae Ap” 4 di Wise e A Z pippi) 33.62 3.6 » A,=e,=n+3Z0+20U) y Posto ciò, siccome a=3, 6, sarà Za=4. Inoltre, essendo b=1, 2,8, 10, sì avrà: p° p° DIRE o pia) Pe (41 +10.) xeu)=—(71-+2 = aa ma trasformando la funzione fratta come nell’ultimo esempio del $ 4°, art. I, si avrà successivamente : 4 atta X0U,)=3(42+410+441,°)=3(81—p) 3° Avremo aduque quindi: e, prendendo la somma, verrà: E cali 38]. Calcolo di V,, Vs, V,,V.: Vio- Queste cinque componenti, tutte del pri- m’'ordine, sono nel caso del n° 12. 1° In quanto a V, per cui p'=1, p=—1, (1--p)(1—-p9)(1—-p°)=4, sì ha: gl o” 1 DeL 1 gia 4 S es — — Pig I xr"= GS. sapiente 8 Ta 2° In quanto a V,, per cui p'=1 ed (1—p)(1—*)(1—g°)(1—p*)=-5 si ha: LOT e” 1 se RO ZE __ —___ 1--p°)(1- e) i Erra Re era era OT lic, ma il prodotto de’ due binomii Suaae a 2p—p°+#+p°_2p4; dunque: Me 2, A (28, Sn iii pei 2$,4 ‘L'espressione 42+-10p+-11p? si riduce a 31—p mediante la relazione 14+-p+92=0. Ora questa riduzione (e facciamo osservarlo in tesi generale) non è punto necessaria; ma è diretta unicamente ad avere risultamenti più semplici. Nel caso presente, impiegando la prima, si troverebbe : a _ 1 CLES gi Ci Il (1) Le <3.gi [+ T)S 3 S,+ 38. ] valore solo nella forma diverso da quello dato nel testo. In fatti S,, esprimendo in generale la som- ma delle potenze di grado i delle radici primitive dell'equazione 1—p"=0, esprimerà la stessa somma anche a riguardo delle radici di 1+p+p*?=0; quindi per teorie conosciute sussisterà la relazione Sp+Snxt Sn-2=0; ed allora, eliminando S,_s tra questa e l'equazione (1), si ritorna all’espres- sione di La data più sopra. di 3° In quanto a V,, essendo p°=1 ed (1—p)(1—°)...(1--p°)=6, si ha dapprima: ein n MITE SI gi 66 Di" V Ora si può trasformare la frazione, applicando la seconda formola del n° V del $ 1°, art. I; così, stante le relazioni p'’=-A ed 1—p+-p°=0, 1 : si trova che la detta frazione equivale ad 3 3(p+p° ); e ne risulta: ZA veggall+A) "= pts). 4° In quanto a V,, per cui p°=4, (1—g)(1—°)...(1—g)=8, si ha: _1 Bot 2 - AAA NA) 88 4-+ 0°)(1—0°)(1—0" pr ma l’espressione ie ds )(1_p)), sussistendo ancora la relazione g=—A, si riduce a 2p°; dunque: x 1 VEE, ni = 4 pp 8 o == 39 ie . 5° Da ultimo per V,,, essendo p'’=1 ed (1—p)(1—p?)...(1—p°)=10, sì ottiene: 1 pe: 1 SANA NA - Mai = 10 2 A-gA= AAA) = 10 1021-? Ap )(A-p )A—e )e ; ma il prodotto de’ quattro binomii, visto che p’=—, torna equivalente a 2(°+-g°); dunque in fine: Vappel)r= p- 4+S) () È quasi superfluo di avvertire che, nel sistema delle espressioni delle componenti relative ad una stessa partizione, la somma delle potenze simili di radici primitive, rappresentata generalmente da S;, cambia sempre di valore dall’una all’altra espressione; ma ciò che importa di tener presente si è che nella espressione di una componente qualunque rappresentata dal simbolo Mi ‘, ilgradodel- l'equazione binomia, cui sì rapportano le dette somme, è sempre eguale all'ordine m della com- ponente, vale a dire al numero m che figura come indice inferiore del simbolo. Atti — Vol. II.— N.° 23 ò MER Per considerare un caso particolare di questo esempio supporremo n=80; sarà: v(9) _ 4493899 i «Sarpi nbzta LS (2) 1 89 1 2 89 1 5 Varg [(80 G)Suz S»]=5-3: [(80 izle Ù il 1 2 al Vi = Gi Dro ga GORICA V 2 (28 1 4 4 Vi = pagi(Sot8,) = gi(94+8)= gagi(1_1)=0. Vis gran 01 a 1 1 1 V.= A SO e SE na +41)=0. E quindi, addizionando questi valori, risulta : P,(1,2,3,6,8,10)=492 . 14. Tra i casi particolari che può presentare il problema, di cui ci siamo occupati, merita di esser notato quello in cui gli elementi dati formano una serie di g numeri consecutivi 1, 2, 8,...,9. In questa ipo- tesi i loro divisori disuguali non sono altra cosa che gli stessi g numeri, e ne risulta una serie di g componenti aventi rispettivamente per basi i numeri medesimi. Ora è chiaro che le prime 3 componenti, se 9g è pari, ; 1 e ò | > 3 : o le prime dr onisò q è impari, sono di ordine superiore al primo; ma 2 tutte le altre sono di prim’ ordine. Faremo intanto osservare che di que- ste componenti di prim'ordine si possono dare le espressioni generali immediate in funzione di g; e, non sembrandoci superfluo di farne co- noscere alcune, andremo a sviluppare quelle delle due prime e delle due ultime. «e Per ciò che riguarda le prime due convien distinguere due ipotesi, secondochè g è impari o pari; ed allora si perviene alle seguenti con- chiusioni: Prima ipotesi — q numero impari. Posto: q=2u-1 saranno V, e V,,_, le due prime componenti di prim'ordine; ed i loro va- lori risulteranno definiti dalle formole : dl (29) n DE RAS 4+HIT (2+4) [ Di EIEE n+2 n+3 Sì dimostra la prima osservando che in virtù della (27) si ha: V Sa ca È p‘(A-o)(A-p9)...(A-p)X(t-p4")(A-pf"2)... (1-75) Ora, essendo 1—“—=0, si possono diminuire di x gli esponenti di p in tutt'i binomii che formano la seconda parte del denominatore, la quale in tal guisa diviene uguale alla prima parte; ma questa prima parte equi- vale a #; dunque risulta : E 3 > Pai a S, G: È & V,= Rispetto alla formola (29) si ha dapprima dalla (27) 1 ae V = —{—__ 2 e+éi ‘(LV —LCOIOT]OTOTOP eaT a Ap) AAA I Siccome 1—“*—=0, la prima parte del denominatore sarà uguale a #+4; e la seconda, diminuendo di 2+1 gli esponenti di p, diverrà (1-p)(1—p°)..(1-“?); ma si renderà uguale alla prima moltiplicando i due termini della frazione per (1—g“*)(1—“); e perciò: 1 V Sp St3 100 io E: a ale Quel n Pira) Le tre potenze p“*, p“, p°“* si possono ridurre a p_*; p*, g_*; ed in se- x IS - guito, moltiplicando per p-*, e poi prendendo la somma, si avrà la for- mola (29). Seconda ipotesi — q numero pari. Posto: q=2p-2, le due prime componenti di prim'ordine saranno ancora V, e V,,_,; ed i loro valori si avranno dalle formole : (30) V. = [8-8] (34) Net = yi (SS. — Dara È Sat Saar S,.«] le quali si dimostrano come le precedenti. In quanto alle due ultime componenti, le quali sono rappresentate da V,@ V,, i loro valori si hanno dalle formole: Cet — si [-+25+88, +. +0-95] =; (33) vv =5%: La dimostrazione dell'ultima segue immediatamente dalla formola (27). Rispetto alla (32) si ha dapprima :. Vu= app aaanea Ar: ma (art. I, $4, V): do 2 3 (+28 +3P°+...+(9-2)0°), dunque: 1 2 3° —2 —n , tas ga (0+2p +3p+...+(d—2)p° )e ; e prendendo la somma si perviene alla formola (32). Se g è un numero impari , l’ espressione di V,_, data da questa fobia (32) si può rendere alquanto più semplice. In fatti i in questa ipotesi es- sendo impari il numero de’termini del polinomio chiuso tra parentesi, i: A : % È —1 3 ed uguale a g—2, vi sarà il termine medio —_._ , il quale posto ta DE “atea 135 SUE per compendio ine, si muta in eS__.; ed il polinomio sì potrà seri- vere come segue , distribuito in tre parti: [SAS + +18. ] +sS +[(+9S__4+-(+29)S_ +. -4-(22-1)S 5] - Ora, siccome Ag "=—0, eqg—1=2s, gl’indici delle S nella seconda e terza parte si potranno accrescere di s, ma queste parti muteranno di segno (art. I, $ 8, I). Così la seconda parte diviene —sS _, e la terza si potrà mettere nella forma: —e[S_+S++S 1] —[S_+S ++ AS]; ma l’ultimo di questi due polinomii si elide con la prima parte; dunque restituendo ad s il suo valore, risulta: 1 34 v = gt IRA (34) ii [S+5+5+--+5.11 17 (Questa formola pertanto ha luogo solamente se g è numero impari; ed allora è da preferirsi alla (32), la quale è vera qualunque sia 9. 15. Formole analoghe si possono trovare se i dati elementi formano una serie di numeri consecutivi che comincia da 2. In questa ipotesi, supponendo dati ig—1 elementi 2,3,4,..,g, è chiaro che ne risulta sem- pre un sistema di g componenti aventi per basi i numeri 1, 2, 3,...,9; e qui pure, come nel caso precedente, saranno di ordine superiore le : o , è : 1 RE a prime 3 componenti, se q è pari, o le prime To, se qè impari; e tutte le rimanenti saranno del prim'ordine. Ora, distinguendo i due casi di 9 impari, e di g pari, si trovano agevolmente le formole seguenti: Cene © a — 38 — Prima ipotesi — q impari. Posto: | q=2p 1, le due prime componenti di prim'ordine saranno rappresentate da V,, e V_;; @sl avrà: IA (35) V.=t[S- Ste] (36) V..= LE ap(S 2848818] Seconda ipotesi — q pari. Posto: 4 i 2p = 2 E) si ottiene 1 (37) V=— #8-284801 1 3 (38) No == (2 +1)? (St 25,+ Sa Sr 2 Sn spo Da Per ciò che riguarda le due ultime componenti V,_, e V, si ha, qua- lunque sia g: 1 39 NAS se Aa (10) Vas (8-8). S 16. Ecco ora la tavola in cui sono raccolti i risultamenti per diverse partizioni: DA da e 1 3 EN): rist) e 1 749 2°; P.(1,2,39)=V4V.+V, " 8 3°; P.(1,2,3,9=V4+VOL-v+V, i 4 n+5 [(n+5)° 5 4 = {sa |153--7 We =($ 4-8 V\=sasal123 a] > Vi=g7(84+8) a. (Ar ATTI Vo alto) > =” 4° ; P(1,2,3,4,5)= VO LVOLV+V+YV, 4 Exa e _Af(n+8) 55(0+5) 417083 4 \}53 Sarai NES SA, 4° dd 2 5760 one (2) (—1)°/ i) - 1 Vi =gig gt Da ) Visa(Sa S..1) 4 Fosa S, (ae) 5° P28 45,0 VOLVO LYOEV.+V, o R+% n+3) 94 n+S) 9191 1 vo De eno] Mi: 60) l , Vegg(8-8) “lia za E, dig”. “so PO AE, (n+5) i) 461 SA pe s Ì ——- == 3S 4S pa dc) "ae «Ver (Et2 + scart; ns) (2) al 65 2 al Vasgll+7)S+38], vers (*) Questo esempio, come già si disse nella nota a pag. 17, è quello al quale il Sylvester ha appli- cato il suo teorema, sviluppando in parte il calcolo per ieoane le espressioni delle sei componenti. Ora secondo la nostra soluzione non vi è che la componente ve la quale possa richiedere un qual- che lavoro di pochissimo conto; mentre le espressioni delle alire cinque derivano immediatamente da formole generali, che non esigono sviluppi di sorta. Intanto per la ragione addotta in quella nota le espressioni superiori delle sei componenti non sono tutte di accordo con quelle date dal Sylvester; ed il divario si riscontra specialmente per le tre componenti ve » V4» Vs. Siccome la divergenza nasce da ciò che nella formola impiegata dal Syl- vester sì è tenniù il p invece del p_”, si comprende che questa diversità non poteva influire sulle espressioni delle componenti che hanno per base o 1 o 2; dappoichè per le prime essendo p=1 , si MAGI 6°; P,(4,2,3,4,5,6.=V' VOLVO LVAVA-VAV, al pe 35 (m+1A4)" 134419 (n-+14)° 1764635 VET ago 720 2 24,36.42 _ (47 [41977 A V:Sansol a — 6 c Vetro VOI [(n+16)8,+3(+2)8,_] Mt (A —SniSnatSns) 1 V,= 72 (S+S,x +5 —2 1 a mazii 49 S, 7°; P,(1,2,3,4,5,6,7,9)=V Lv VE LVOLVAVAV.AY, rea. = I E A v® nin LEE 47 (n+18)" 8789(n+18)? 17.103.269 «lor eee ve=sz[(1 Sata FS ia) ss] » Vs=108 108 (Busta) VO=5((0+49)8428,,] , vg (Et 488, ) Li; ha f'=p”"=1; e per le seconde, essendo p=—1, si ha p*=p7"=(—1)?; e da ciò poi segue che ì valori di 1; e ve sono quali esser debbono anche nella soluzione del Sylvester. In quanto al va- 1 î lore di Vs nella nostra soluzione si avrebbe, Vosgi ed in quella del Sylvester V=gre:; Sura è 7 : 1 ma è chiaro che dall’una e dall’altra risulta sempre Ve=3zzSn c (*) La componente Vy è in questo esempio la seconda di quelle del prim'ordine; e perciò, essendo q=8 numero pari, la sua espressione risulta dalla formola (34), da cui si avrebbe: n42 n+l 1 a Vo= gg (SaS — Spiate Sat Sas Snee Ma poichè le somme S;sirapportano alle radici primitive dell E tia PSN ’ Sns=S mp2, Sa,6=8,; € quindi questa espressione si riduce a quella del testo. —_ 41 = P.(2,9)=V VA, (ar ; ) ’ o vg , V.=g(S SO) k \ 8 5 2 SPINE EVEV, UR GS 1 Mali) 0°; P,(2,3,4,5)=V LV LV4VV, at (n+7)° 54 P.(2,3,4,5,60)=V VO LVOLVAVAY, tot e SRI aa? gn 0 Viaggi? pet - (*) Dalla formola (37) si avrebbe: ma essendo S,_x=— S,,z, risulta Vy= i Sì Atti— Vol. II.— N 23 E 12°; P,(2,3,4,5,6,=V +V LVO LV,4VAV+Y, O__N+E Pesca) 3) 139(0+5) bl 3 0) ‘bg Cane V.= 9 si n a ARP a 5; Vegg(t 8a) V= Sa [(n + I St Mi ; Visto (Sia 28,425,,—Sa) ve 1 => YO) (S-S..) 13° ; P,(4,3,4,5,6;7,9)=V' LV LVvE LVL VAVA-VA+Y, vo [e 3) x (n+È) oss18(n+$) 124907633 =" Te o 576.1680. w_(1°(n+7) ina 3) uu 4 V.,= 7 — 232.4.6.8 4.6.8 | > I: (S..-25,+ Ss) 1 109 34 1 ) y : == 56 [+ G ) S_(n _ I) 3 FTAVL = 08 (St Se Vi Fa[+208,—(n+ 205 Me RES R (*) Per Vs la formola (38) dà: 1 2 c c a e Vo = 216 (Br 28,4 Sasa + Sn+3 om to S ma, essendo Sn,e=—Sn_,3 Sns=="Snr Sars Sat» Snee= S, risulta l’espressione scritta nel lesto n+6 7 un. P,(1,3,6 2) vo, SANE; n+9 [(n+9)° v©_ "i [(+P)s4+1s 3 STEVE - (©) 15° oP,(6,3,4,6,8= VW y vi So NN (14141) 24 (n+44)? 757 le [ perte dina a) (n+44)° 753 12 apro 25 - 49 Vo =ggl(+ 2) (+7) Sa] 12) ALTI psl@+108+5,.] P,(1,2,3,5,7) suoni RL, a Faggi 9 720. Can, * = ISS 17°; P,(1,2,3,6,8,10)=V LV LV LV VaVaV+YV, vo n+15 (n+15)* 107 (n4+415)” SLI via “i a 1 —4.2.3.6.8.40 TR: Ce 12? CR n445r(n+45)° 39 1 —=(dfee la e) >) 1 89, 41 1 V=;g [(n+ sa De 38.=] , = gp (SES 1 We-= ° 2 Sis» 1 NE = 50 (St SE; 18°% P,(1,4,5,7,8,10,)=V' AV 4VAVI VA VV VV, * 1 pesi 5 (n+25)" | 33889 (n+25)° 25833253 :744.5.7.84045. 6 Ss «a opa ee > (41° [(n+25) 1 1 e = scgna ni; Vae-gS, VW 5:[(n+25)S.+S..] (E, ves | (51°+258n+920)S,446(n+25)S,_,+(14n+274)S,_,+(2n-35)5, | 5 42.5 55 n-I 1-2 => "NE e (BIEN ES 1 (s 7 == pala Agape sli += ( BN Oa [LTS gere, V ars 200 Ng tn == i 1 V.:=z(—1089,+405,_,4+410S,_,—4S,,+5S, —5S,—5S_,+10S,,). 90) (3) () 1 calcolo della componente V; esige le trasformate intere delle due espressioni : toga p Tp? 8p° ip* Ma Erepnero cad 490? 64p* 16p* PI PRE ESTESE Pasta PERS Ia lata vasta dove p è radice primitiva di 1—"=0; e questa ricerca è già compiuta nell'ultimo esempio del 64°, art I. NOTA Sugli sviluppi delle funzioni log(1—e<) e log(1—p’e”) e sul calcolo de’ numeri Bernoulliani ed ultra-Bernoulliani Questi sviluppi dipendono da quelli delle due funzioni > dr = dove « dinota una costante. Lo sviluppo della prima è ben conosciuto; e si ha: FER > et Dai GR =-—3+3La— Sn A la MET IR ne B,, B,, B,, etc: indicando, come all’ordinario, i numeri di Bernoulli. Posto ciò, essendo: —de= RI, 5 — e E-1 d.log(t_e)=; sostituendo al fattore frazionario il suo sviluppo, e poscia integrando, verrà: B, fiaba 5 6 2.2° 424 626 log(1—e*)=C+-log ga—3+: Per determinare la costante C scriveremo questa formola nel modo se- guente: = 5: GO _ x°— ete: TO 2 979 4h 676 i : : mec ed ora posto #=0, ed osservando che in questa ipotesi si ha “ars risulterà C==0); e conseguentemente: L B, 2 B, i __ Cnn RL SL 4 log(1—e)=logx otwg” pur 6:6 Cangiando in questa formola la @ in at, si ha lo sviluppo di log(l1—c *), com'è dato a pag. 21. => 401—= Men comune, ma non ignoto è lo sviluppo della funzione ue—A (V. Lacroix, Traitè de calcul etc: v. 3°, n° 977, ed una nostra memoria sugli sviluppi delle funzioni : i e su ‘i ultra- Ber sugli sviluppi delle funz CAP ed: u numeri ultra-Ber- noulliani). Supponendo : (1) RR ‘ii peer == LU, saga 293 1 ga Tae SPE si trova: 1 1 L $ L ne n° @ U etione. ir E ii TI AI gi 0 goti alata ma in generale un coefliciente qualunque U, è definito da una espressione della forma: 1 r U,= di pr (Atina + Bat SAI nella quale, scrivendo, com'è costume, (7), per dinotare l’ espressione (bA)(E_2). (er) a numerica i SORT ) A. =2°— (+4) A" An,5=3"— (n44),2°+(n41),1" A, =4— (n44),3°+(n41),2°—(n+1),1" A, =N'—(n44),(n-A1A)-+ (441), (N29)... +(AAYT'(n4A4),_ 1°. I coefficienti dello sviluppo della funzione = 7» o meglio le quantità U,, U,, U,, ete: sono evidentemente i valori che prendono per e=0 la funzione istessa e le sue successive derivate, talchè si ha in generale: 1 I=106 ) È 3 1—pe" a=0 Ora questi coefficienti, funzioni della costante #, cui può attribuirsi qualunque valore diverso da 1, sono quelli che nella citata memoria ab- e Po = ali. biamo chiamati numeri ulfra-Bernoulliani relativi alla dase @, distin- guendoli per ordini; l'ordine del numero U, essendo uguale all'ordine della derivata da cui trae origine. Posto per compendio: (2A, PA ae +A a +-+ A e, l'espressione di U_ diviene : Zal2) a . edè chiaro che la costruzione del valore di U_riducesi a quella della fun- zione intera 9 (4), e quindi a quella de’snoi coefficienti A_,A__,...A_, i di cuì valori sono già definiti dalle formole (3). Aggiungiamo intanto che la serie di questi coeflicienti presenta alcune osservabili proprietà, le quali valgono ad abbreviarne il calcolo; ma qui cì basta di rammen- tare che ciascuno de’termini estremi A_, ed A__è uguale all'unità, e che due termini qualunque equidistanti dagli estremi sono uguali tra loro; ond’è che si ha A_—=A__,A_=A ___- Segue da ciò che per costrui- î S = = = sie E È - re la funzione © (@) basta costruire i soli suoi primi — coefficienti, o i . n+H1 | e - 2 primi —, secondochè n è pari o impari. Ma oltre a ciò crediamo utile di esporre un metodo estremamente sem- plice mediante il quale i valori delle successive funzioni 6,(4), 9,(2), 6. (4), ele: si possono ottenere l'uno dopo l’altro di una maniera rapidis- sima, indipendente dalle formole (3). Considerando le due funzioni con- secutive: i è stato dimostrato nella citata memoria che i loro coefficienti sono le- gali dalle relazioni: p 2 2A... +(n_1)A ZA_ A; >= (n_2)A Zat_ A. (-4)A,,, =. ts8_I Cs 9°i (EE e ES z le quali si riassumono nella relazione generale: i dg = 1,r RA ? dappoichè se ne deducono tutte dando ad r ivalorisuccessivi1, 2,3,...,n, e tenendo presente che nel secondo membro è nullo l’ultimo termine per r=1, ed è nullo il primo per r=n. Adunque, supponendo cono- sciuli i valori numerici de’ coefficienti della funzione @_, (4), col mezzo delle formole precedenti si possono subito calcolare quelli della funzione © (2); ma lo stesso intento si raggiunge assai più semplicemente con la regola seguente, la quale riduce tutto il calcolo al quadro sotloposto. « I termini della serie A, A,.3--3A,_1,, SÌ moltiplichino uno ad uno per « i numeri naturali 1, 2,3,..,n—4, ed i prodotti si dispongano in una « prima linea orizzontale; indi in una seconda linea, al di sotto de’termini della prima, a cominciar però dal secondo termine, si ripetano in ordi- « ne inverso i termini della prima; e poi si formi una terza linea con le « somme de’ termini che nelle prime due linee si corrispondono vertical- « mente.I termini di questalerzalineasarannoivaloridiA_,, A 3A,» O I nn Ecco intanto il quadro in cui sì riassume tutto il procedimento: à 1 «AGE U ZA-CIA ’ Sana cea (M_2)A, 1, n_2) (ne14)A soa (n4)A:c ’ ai venti dA, ’ 2A rie ’ 1 PI: IN O IN Alta ; 5 9A ano i Di A A nr-I ? nh Cominciando ad applicare questa regola dalla funzione 9,(4)=%, sì otten- gono di una maniera rapidissima le funzioni consecutive 9,(4),9,(4), ete:; e quindi avendosi direttamente 9, (2)=1, per la serie completa di queste funzioni si trova : o, («)=1 o,()=e o, (1) =p+? o. (2) = + 4° + o, (2) =p+d1 +11 +0 g,(u) =u+ 282°+662°+ 260° 9, (1) =p+572°+3022°+3022'4+570"+ L° 9_(u)=p+1202°=1194 "+ 2416 1%+1191 2°+1201°+ 2° 9, (1) =p+2471°+42934°+15619 15415619 1"+ 4293 u°+ 247 "+" etc: etc: etc: etc: etc: etc: ga Merita attenzione il caso in cui i numeri ultra-Bernoulliani si rappor- tano alla base u=-—A4, essendo nulli quelli di ordine pari, eccetto l’or- dine zero, per cui si ha U=3;: Ma v'ha di più che in questa ipotesi 1 detti numeri sono legati ai numeri Bernoulliani mediante la relazione : 21 cala dalla quale si trae reciprocamente: 3 +14 } bE-(i) gaqÙ.; Ed ma nel caso attuale si ha U,= ai dunque risulta: LAN) B.,=(-1)? ——__9,(41). r ( ) (27!—-1)2"* 2,( ) Ora questa formola può farsi opportunamente servire al calcolo de’ nu- meri Bernoulliani, vista la faciltà grandissima con cui si calcolano i va- lori di @,(—1). Così si avrebbe per esempio: ma 9,(-1)=—1, 9,(-1)=2, o,(1)=—2%, g,(—1)=2*. 17, etc: —_, pr B Dda etc: ete: 1 ; : ——;, si può subito dedurne 1-pe quello di log(1—Ae7), dove À è una costante qualunque. In effetti si ha differenziando: Ottenuto lo sviluppo della funzione 1 d.l AD) Tar ——“@—@"@-@©>+vu TT —— 0g ( cu) da 1 si 5 il avendo fatto per brevità u=4”*. Sostituendo al fattore il suo svi- 1— pe luppo dato dalla formola (1), e poscia integrando verrà: x US U, 2 U 3 fi log(1—e lane filari amici) — ete: ma per 2=0 si ha C=log(1-A); dunque: « log(1—)e*)=log(1—))— e Dia — i x — ete: dove i numeri ultra-Bernoulliani U,, U,, U,;... si rapportano alla base a=4. Cambiando ora in questa formola la # in dé, e ponendovi inoltre )=p, si avrà come a pag. 24: Ubi bi gip: pr — it ete: log(1—e"e"")=zlog(t—)— d 3 e qui i numeri U,, U,, U,,... si rapportano alla base a=p", talchè sì ha dalle (2): 6 p pe 41-p p° L= ba (1—p E DE prep 2 (1—-p°)î % SE p+-4p +? ale (4—p°)f \AZ: RICE: | Atti ITER sci 1865 ni PRETE ibata i = = had Pa fo mor ì, x Meo K\ tica "4 Na ATTO via 9, no ET LEMON